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Le fotografie fanno parte della collezione privata dell’autore, dell’archivio storico e fotografico del
geom. Giuseppe Santoro e del prof. Antonio Di Gregorio.
Giuseppe Toscano
IL SAPORE DEL PANE
Storia dimenticata delle lotte contadine nel Sud
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Copyright © 2014
Giuseppe Toscano
Tutti i diritti riservati
“Ai contadini della mia terra.”
Presentazione
In questo racconto, Giuseppe Toscano ci parla di una generazione vissuta
nel periodo post-bellico nell’Agro Falerno, non dissimile dai luoghi
limitrofi, laddove i problemi di sopravvivenza erano gli stessi.
Un libro scritto con il cuore e quindi limpido come l’acqua che nasce
dalle fonti alpestri, candido e soffice come fiocchi di neve che ricoprono i
monti e la pianura.
I profumi che esso dona sono quelli del mirto, dell’albicocca, del ciliegio,
del sole e della luna.
Ma l’interprete del racconto è l’uomo in senso lato.
Preciso: l’uomo che soffre, gioisce e con tenacia riesce a vincere un
terreno con mezzi rudimentali, un terreno arido ed indomabile, ma che egli
ama nonostante le avversità, poiché esso rappresenta l’unica fonte di
sopravvivenza e sostegno per lui e la sua famiglia.
Buona lettura,
Luca Toscano
Prefazione
Una cosa che l’autore dovrebbe chiedersi quando si accinge a scrivere è se
la sua fatica abbia un motivo di essere. In una nazione dove gli scrittori
sono in numero soverchiante rispetto ai lettori, sarebbe onesto limitare il
novero delle offerte, proponendosi solo quando si è in grado di offrire una
creazione artistica di pregio reale.
Giuseppe Toscano, da fine pedagogo qual è, questa domanda se l’è posta
certamente, perché il testo che ci accingiamo a leggere ha tutti i requisiti
che uno scritto deve possedere per sperare di essere stampato e, soprattutto,
letto. Deve avere una propria anima, capace di appassionare il lettore, deve
scampare le trappole di banalità e retorica (ahi, troppe letture ci mortificano
con dettati insignificanti ed espressioni tronfie e roboanti, e questo deleterio
vezzo non incoraggia certo i lettori a recarsi nelle librerie), deve possedere
una sua magia, quella magia che solo una perfetta padronanza e bontà della
materia trattata assicura. L’autore deve amare la sua storia, crederci, avere
l’esigenza insopprimibile di condividerla, in punta di piedi, con chi ne sarà
giudice, forse amante. Sicuramente boia, se non ne trarrà un nutrimento per
l’anima. Sì, perché il lettore non ha nessun dovere di indulgenza verso colui
che lo tradisce offrendo alla sua fame un pane cattivo.
Assolutamente non tradisce questo libro: per l’interesse insito nel detto e
per la mano sicura e innamorata di chi lo ha vergato.
Precedute da un minuzioso, ma mai pedissequo, excursus su usi e
costumi della seconda metà del Novecento in un paese di un sud martoriato
dalle ferite della guerra, sono le vicende di un gruppo di contadini, quasi
tutti poveri braccianti, senza terra e senza speranze, senza futuro, che,
attraverso aspre e coraggiose lotte, vollero inventarsi un domani, scrollarsi
dalle spalle ricurve il peso di secoli trascorsi tra umiliazioni e ingiustizie.
Questi uomini miseri e nobili, senza istruzione, senza armi, se non quella
inesorabile della disperazione, seppero conquistare una dignità e una
speranza, riposte in un pezzo di terra – quella terra sempre lavorata, ma mai
per se stessi – strappata a proprietari biechi e insaziabili, latifondisti che non
sapevano amare nessuna terra, nemmeno quella che, pur senza le loro
fatiche, li rendeva ricchi e sprezzanti verso chi moriva di fame e angherie,
chi soffriva ogni giorno nel vedere i propri figli avviliti intorno a una tavola
troppo spesso desolatamente vuota.
Da queste inenarrabili frustrazioni nacquero le lotte contadine a Falciano
del Massico, teatro dei fatti narrati, e tanti altre parti d’Italia, soprattutto del
Meridione.
L’autore esplora un fatto storico di assoluta importanza che, per motivi
quasi imperscrutabili, ma certamente non onesti, è stato volutamente
rimosso e occultato dagli annali del territorio.
Una vicenda che, finalmente, si illumina di un’aura che ci piace definire
mistica, di un riverbero di concreto eroismo, quello degli ultimi che sanno
lottare per riscattarsi, forse l’eroismo più l’alto che un uomo, se tale vuole
essere, può esprimere.
Se questo racconto fosse scritto male (e non lo è!), se l’indagine storica
condotta fosse carente (e non lo è!), ugualmente Toscano meriterebbe la
gratitudine del lettore, almeno per aver iconizzato, ponendo sotto un vivido
raggio di luce, una storia che merita un riconoscimento ufficiale, una storia
che onora degnamente chi ne fu protagonista e che dona orgoglio e
commozione alle generazioni attuali che, dal sangue di quegli impavidi,
discendono.
L’Autore, e risulterà chiaro anche ai lettori più sprovveduti, intinge la sua
penna nell’inchiostro dell’amore: per la sua terra amatissima e martoriata,
per chi lottò per averla, per ogni persona che sa sollevare la schiena e farsi
uomo.
Un amore, come si diceva all’inizio, scevro da retorica e coup de théâtre,
facili artifici impiegati per impressionare il lettore meno esigente.
E così deve essere quando si possiede una vocazione alla scrittura e una
necessità del dire, una simbiosi appassionata con ciò che si sta scrivendo.
Così deve essere per poter offrire un dono prezioso a chi sfoglierà le sue
pagine.
Se Toscano fosse stato un giovane in quegli anni, si sarebbe visto in
prima fila a fianco dei coraggiosi del tempo. Di tali uomini è figlio, ma ne
sarebbe stato sicuro sodale e fratello…
Nicola Aurilio
Le lotte contadine
Seconda parte
Non intendiamo scrivere la storia del sindacalismo che si sviluppò nel
territorio in quel periodo, né l’antagonismo che si sviluppò tra il cosiddetto
sindacalismo bianco ed il sindacalismo rosso, che successivamente ha avuto
importanti esponenti a livello locale, assurti poi ad occupare cariche
importanti in quello nazionale, né lo scontro e l’interesse che la Democrazia
Cristiana con la Cisl e le Acli ed il Partito Comunista Italiano attraverso la
Federterra e poi la Cgil ebbero nel dirigere i propri iscritti durante tutte le
fasi che più avanti narreremo.
Interessa soprattutto narrare e raccontare, evitando la trappola di una
facile enfasi, la storia dei pochi uomini del paese che capirono l’importanza
del momento e l’opportunità che la storia gli offriva per riscattare un intero
paese contadino da servitù e sottomissione, che affondavano le proprie
radici nei secoli.
Costoro capirono che l’occupazione delle terre incolte dei latifondisti e
del demanio dello Stato per loro era una conseguenza dovuta alla
condizione di essere nati contadini, quelli che avevano con il proprio sudore
dissodato quelle terre per i loro padroni, ricavandone niente, se non
umiliazioni e disprezzo.
Capirono che questo loro atto di forza e di sfida contro i latifondisti, i
loro scherani, e lo Stato, prospettava la conquista di quella libertà ed
indipendenza che poteva permettere loro di guardare a fronte alta quelli che
fino a ieri erano stati i loro sfruttatori e passargli davanti salutandoli da
buoni ed educati cittadini e non più con il servile “a ssignoria padrone”.
Seppero coniugare insieme il desiderio di tutti i contadini di avere
finalmente un pezzo di terra e di riacquistare la dignità che gli era stata
sottratta di uomini liberi.
Questi uomini, miseri e affamati, rozzi e analfabeti, non parvero subito
agli occhi dei latifondisti un reale pericolo, essi infatti non temettero di
perdere una parte dei loro averi e del loro potere.
Si sbagliavano, perché quelle genti, facendo parte delle classi più povere,
possedevano una molla inesorabile che spingeva a rischiare anche la fame.
Eppure sapevano che, in caso di fallimento, sarebbero stati angariati
ancora di più e avrebbero subito ritorsioni pesantissime, fino a perdere quel
misero tozzo di pane che finora erano comunque riusciti a guadagnarsi. Ma
non potevano fallire, perché vi era in palio l’avvenire dei loro figli,
altrimenti condannati a vivere in modo indegno e gramo.
Alcuni contadini provarono certamente il dubbio di non riuscire a
concretizzare le loro aspettative, ma si batterono, e questo dubbio dalla
consapevolezza di sapere di possedere scarse risorse culturali, forse troppe
esigue per guidare un evento di tale portata, rimase sempre in loro, anche
dopo l’esito positivo dell’evento.
Pochi, tra i trascinatori, avevano studiato sino alla quinta classe, gli altri
erano analfabeti. Come rompere uno status quo in vigore da secoli?
Effettivamente rischiavano di perdere quel poco e miserevole lavoro che
svolgevano presso i “signori padroni” e lasciare la famiglia sul lastrico
perché le ritorsioni dei latifondisti sconfitti sarebbero state immediate e
brutali.
Per loro fortuna gli scettici e paurosi erano una minoranza.
Le autorità costituite, come sempre accade, erano, di fatto, schierate con
chi, dall’alto della propria ricchezza, deteneva appoggi e conoscenza e
quindi in grado di compensare adeguatamente coloro che li proteggevano.
In linea di massima, l’atteggiamento di chi deteneva il potere fu di
ostilità verso quella piccola schiera di uomini che si sacrificavano per un
intero paese, al fine di riscattarlo dalla servitù.
La chiesa locale vedeva in questi poveri e miseri personaggi la
reincarnazione non certo di Cristo, ma quella del diavolo, perché essi erano
guidati da uomini che si rifacevano ad un ideale politico, quello del Partito
Comunista Italiano, da combattere aspramente, anche perché i comunisti
erano stati scomunicati da Pio XII e per questo motivo le nobili cause che
guidarono tale avvenimento vennero interpretate come un fine politico di
sovvertimento dello Stato e della democrazia in Italia.
Eppure, proprio Cristo, il più luminoso rivoluzionario della storia
dell’umanità, Cristo, la fiaccola che ogni credente dovrebbe impugnare,
aveva parlato di fratellanza, di pane da dividere con il povero, di amore.
Aveva insegnato che la ricchezza, la sopraffazione, il potere che non mira al
bene comune, la superbia, erano le armi dell’esercito di Satana.
Il 13 novembre del 1947 giunse a Falciano un giovane prete di 27 anni di
Barano d’Ischia, nominato parroco della Chiesa di San Rocco e Martino da
parte del vescovo di Sessa Aurunca il 01 gennaio del 1948.
Era un giovane prete formato alla Facoltà Teologica di S. Luigi a Napoli,
uomo dotto, preparato e soprattutto portato a un apostolato ricco di
contenuti morali e di vita vissuta al servizio della gente.
È stato per la frazione di Falciano Selice il parroco per antonomasia
perché, come spesso affermava, egli aveva sposato la sua chiesa di Falciano
Selice e l’ha sempre difesa e tutelata come una sua sposa, soprattutto nei
momenti più drammatici.
Per le sue profonde tematiche che cercava di spiegare spesso ai poveri
contadini, come erano i parrocchiani a lui affidati, non riuscì subito a far
capire la sua opera pastorale di cambiamento.
All’inizio del suo apostolato dovette superare ostacoli per altri
insormontabili, ma lui ci riuscì ed impose sempre le sue scelte, come nel
drammatico scontro con l’associazione della Madonna del Carmine e nei
frequenti diverbi con la potentissima Congrega dei fratelli del Sacro Monte
dei Morti della sua parrocchia.
Dopo gli scontri e le ovvie polemiche, il parroco ritornava sempre il
parroco, anzi l’affetto e il rispetto da parte del popolo per lui diventava
sempre più sincero e radicato.
Pensò alla rinascita del paese, con la progettazione e realizzazione di un
asilo infantile, all’avanguardia nel 1953, e la costruzione della nuova chiesa
nel 1963.
Era figlio di contadini e si trovò ad esercitare la funzione di pastore di
anime nel pieno dello sviluppo dell’occupazione delle terre incolte e, dalle
testimonianze che si hanno, egli, pur condividendo che la terra abbandonata
e di demanio pubblico dovesse essere data a chi la lavorava per poterne
ricavare il necessario per vivere, comunque non si espose mai a sostenere
apertamente tale lotta per motivi ideologici, per lui insuperabili, perché il
Partito Comunista guidava tale lotta e per lui i comunisti erano stati
scomunicati da Pio XII e l’acqua santa non poteva far combutta con il
diavolo.
Seguì con attenzione tutte le fasi del movimento ed il rimprovero, fatto
una domenica ai suoi parrocchiani di aver abbandonato le loro terre per
andare a lavorare nelle fabbriche del Nord ed all’estero, nacque dall’amara
constatazione che i sacrifici, le privazioni, il duro lavoro e le sofferenze dei
padri, che avevano tanto sognato di avere un fazzoletto di terra per lavorala,
era stato vano.
I politici locali di allora, che detenevano il potere, con il sindaco
Giuseppe Santoro in testa, non mossero ciglio e si posero in attesa degli
eventi, anzi con il loro silenzio e la loro accidia speravano che i fatti
precipitassero in sommossa o altro per intervenire e far pesare la loro
condanna.
L’amministrazione comunale di Carinola in quel periodo era di destra e
conservatrice, i suoi consiglieri ed assessori erano quasi tutti ricchi
proprietari terrieri e dovevano, e volevano, tutelare e difendere per primi i
loro interessi.
I poveri diavoli che organizzarono le occupazioni delle terre incolte e
tutti i contadini che li seguirono furono lasciati soli, anzi intimoriti da
minacce costanti di ritorsioni.
Ma non ebbero paura di quella solitudine e di quelle intimidazioni,
perché animati dalla fede di riscatto della propria libertà.
E vinsero, tutto sopportando stoicamente.
Il luogo dove si svolsero le riunioni, gli incontri con i personaggi politici
e sindacali del momento e dove si programmò la preparazione per
l’occupazione delle terre incolte fu la sezione del Partito Comunista Italiano
che, in quel periodo, aveva la sua sede non lontano da Via Arco, un vicolo
che si affaccia con il suo arco, da qui il nome della stradina, lungo la
tortuosa Via Falerno.
L’ubicazione della sezione del Partito Comunista era in un posto
strategico in quanto nello spazio di pochi metri si realizzava un condensato
di vita vissuta.
Accanto alla sezione c’era la bottega di Enrichetto Stodo, compagno
calzolaio e comunista di ferro.
La sua bottega, spesso, era anche il luogo in cui vedersi durante le
giornate di pioggia, quando poche persone si muovevano per andare nella
sezione del P.C.I. e per risparmiare l’energia elettrica si approfittava della
sua ospitalità raccontandosi le storie quotidiane di un paese sonnolento
durante il periodo invernale.
Si affrontavano anche i problemi spiccioli di politica locale e di
informazione e commento su ciò che si leggeva su qualche giornale ormai
vecchio di giorni, o commentando le scarne notizie che si ascoltavano dalla
radio di Valentino Stodo, un commerciante di stoffa che aveva anche lui il
negozio lì vicino.
Era anche il luogo, la bottega di Enrichetto Stodo, dove era accettata la
presenza dei ragazzi del Lampione, luogo dove si raccontavano le storie
immaginarie della vita del paese, si parlava e si chiacchierava sulla bellezza
delle ragazze che passavano lunga la strada, e le storie dei vari e stravaganti
personaggi che con le loro avventure, vere o false, popolavano la fantasia di
adulti e ragazzi.
Era una bottega viva ed era anche lo specchio dell’intero paese che
usciva intorpidito dalla guerra e desiderava uno spiraglio di novità e di
spensieratezza per allontanare i fantasmi che ancora condizionavano il
vivere di tutti i giorni.
Mastro Enrichetto, così lo ricordano ancora oggi, aveva un carattere
gioviale e scherzoso, per lui tutto si poteva ridurre, anche episodi a volte
difficili da interpretare e da spiegare, ad una battuta condita da una buona
risata con gli amici.
Anche durante le discussioni serie per i loro contenuti che si tenevano
nell’austerità ufficiale della sede del P.C.I. era capace, con le sue parole
pervase di bonomia e semplicità, di allentare le tensioni e portare un senso
di realismo pratico nelle decisioni che poi si prendevano.
Fu anche lui uno dei protagonisti dell’occupazione delle terre incolte.
Guidò, insieme agli altri, il corteo che da Piazza Limata si incamminò per
Via Direttissima per giungere nei luoghi delle terre da occupare al canto di
Bandiera Rossa e dell’Internazionale socialista.
È necessario fare una digressione, perché il luogo che si vuole qui
ricordare è stato appena sfiorato con un cenno in precedenza, per portare a
conoscenza e spiegare a chi legge questi racconti o storie il detto che era
sulla bocca di tutti in quel periodo: “chi non passa per il Lampione e non è
giudicato, o muore ucciso o muore scannato”.
Questo detto può sembrare un po’ truculento, ma racchiude una storia
che è interessante narrare a margine del presente racconto.
Oggi se qualcuno cerca questo lampione non lo trova più, perché la
voglia di trasformare tutto e distruggere ciò che ricorda il passato in questo
paese è diventato una costante mania, ma esiste ancora, come era al tempo
del nostro racconto, il luogo dove era appeso questo lampione.
Venendo da Via Abate Cesare a Monte, il lampione era posto all’angolo
di Via Cesare Battisti, Via Falerno e la stessa Via Abate Cesare.
Era un luogo da cui si doveva passare quasi per necessità in quel periodo
per recarsi in quei pochi negozi che stavano lungo Via Falerno, quasi
ombelico del mondo per l’intero paese, ed andare, seguendo la tortuosità
ansimante della strada, sino all’altra frazione del paese denominata Capo.
Lo spazio sotto il lampione era un punto di incontri, di attese, di
discussioni, di patti da rispettare, di scorribande da fare nei giardini a
vigneto della zona e di altro, era un luogo di vita.
Era un punto effettivo di riferimento di tutti i ragazzi adolescenti e delle
persone adulte del vicinato perché gli uni ascoltavano i consigli che
potevano avere da persone che già avevano vissuto una parte della loro vita,
e gli altri si divertivano nel sentire il racconto delle marachelle e le
innocenti imprese notturne degli altri.
Chi aveva più di 50 anni era rispettato dalla ragazzaglia del lampione
quale persona che sapeva elargire la propria saggezza attraverso consigli,
rimproveri e, a volte, con punizioni appropriate.
Gli scapestrati, ma innocui giovani, del lampione avevano il culto delle
persone sagge, e rispetto per i loro consigli e le loro decisioni.
Sotto la luce del lampione, di sera, si decideva l’ora e dove andare a fare
razzia di ciliegie, fichi, noci, uva ed altra frutta e generalmente il luogo
preferito era il cosiddetto “giardino del signore” di proprietà dei De Stasio,
ora questo “giardino” non c’è più, ci sono villette e case costruite spesso in
un modo pacchiano e disordinato.
Sotto la luce del lampione ci si spartiva l’innocente refurtiva sempre,
però approfittando che non ci fossero le persone sagge di cui prima si
parlava, ma il giorno dopo queste, informate in qualche modo, non
lesinavano il solito, solenne, rimprovero.
Con bonomia e affetto ci permettiamo di citare qualche nome, a distanza
di tanto tempo, dei componenti della “teppa del Lampione”: Luca ed Egidio
Toscano, Beniamino Verrillo, Raffaele Del Duca, Angelo Buonamano,
Francesco detto il romano, Giuseppe Guttoriello e Giovanni Cioffi.
Il lampione era per tutti gli abitanti del posto un punto di riferimento
preciso di incontri anche notturni e sotto la sua luce si stringevano patti,
amicizie ed iniziavano amori che poi sono durati nel tempo.
A pochi metri del lampione, all’inizio di Via Falerno, sulla destra, angolo
Via Cesare Battisti, per chi sale c’era la bottega di abbigliamento di
Valentino Stodo, che possedeva, e pochi in quel periodo avevano questa
possibilità, una radio che diventava polo di attrazione dei giovani del
lampione per l’ascolto degli arrivi delle tappe del Giro d’Italia e per sentire
canzoni e Sorella Radio, trasmissione molto seguita nel paese.
A pochi metri da Valentino Stodo, su Via Cesare Battisti nelle vicinanza
del portone di entrata nel Cortile dei Toscano, Giuseppe Paolella aveva
aperto un negozietto di generi alimentari e gli affari gli andavano bene,
tanto da suscitare l’invidia di Valentino Stodo che, alla vendita di materiale
di merceria e di tessuti, aggiunse anche lui quella di generi alimentari.
Questo portò a rompere gli equilibri di vivibilità in quel tratto di strada
perché gli stessi avventori non sapevano dove andare a spendere i pochi
soldi che avevano per non scontentare nessuno dei due.
Allora scelsero di andare altrove, con gravi perdite per entrambi i
commercianti che, alla fine, furono costretti alla chiusura dei loro negozi.
Famosi e ricorrenti erano i dispetti che si facevano sino a comprarsi tutti
e due lo stesso disco che mettevano alternativamente e che i passanti
ascoltavano e commentavano con sarcasmo ed ironia.
Il disco conteneva una canzone un po’ scaramantica e liberatoria per chi
in quel momento la eseguiva, il cui ritornello recitava “sciò, sciò
cicciuettola!”.
Dopo la chiusura del Paolella, il negozio di Valentino Stodo continuò
ancora a essere un punto di attrazione e di passaggio durante il giorno di
tutti i giovinastri del lampione per ammirare la bellezza della figlia di
Valentino Stodo, Felicetta.
Tutti hanno amato in cuor loro questa ragazza inavvicinabile nel tempo
della giovinezza sognata, peccato che la morte, improvvisamente, la portò
via all’affetto dei suoi cari e al cuore di tanti giovani d’allora.
Sempre sulla destra di chi sale per Via Falerno c’era il professore
Caldarone, che aveva una piccola scuola privata dove educava i birbantelli
e qualche adulto della zona e li preparava all’esame di Licenza Elementare.
Di fronte vi stava il portone della famiglia Vellone ed a livello delle aule
della scuola c’erano le stanze da letto delle figlie dei Vellone.
Quando le ragazze andavano nelle loro stanze per spogliarsi ed andare a
letto, i ragazzi del professore, che erano seduti nei banchi di fronte nell’altra
parte della strada, quasi presagendo il momento eccitante della svestizione,
oggi diremo dello spogliarello, lasciavano i banchi e si precipitavano
ansimando e guaendo alle finestre per vedere la bellezza di queste ragazze,
per poi ritornare, una volta spenta la luce nelle stanze, confusi al loro
faticoso studio.
Ripetendosi spesso questo episodio, la mamma delle ragazze Vellone
richiamò il Calderone perché tenesse sotto controllo i propri alunni, ma il
professore candidamente rispose alla mamma che protestava per la privacy
violata «ma se avete fatte così belle le vostre figlie è colpa vostra, non certo
dei ragazzi che le guardano.»
Completava questo tratto di strada che va dal lampione alla curva della
prima vera salita una piccola bettola chiamata “Pagliarella”, luogo di
ristoro, di gioco e di riposo, dove il vino e la birra allietavano coloro che se
lo potevano permettere.
Sempre vicino a via Arco e lungo via Falerno si trovava la bottega di un
sarto abbastanza conosciuto e amato dagli abitanti della contrada e del
paese.
Era un sarto un po’ sordastro ed aveva, a volte, difficoltà a capire e a farsi
capire da chi gli era vicino, ma era attento e scrupoloso nel suo mestiere.
La sua bottega era frequentata da tutti e, in particolare, da chi aveva poco
da offrirgli in cambio di una cucitura di pantaloni o di altro.
Il suo nome era Pasquale Bucciaglia, ma tutti lo chiamavano, non si sa
per quale motivo, “Stracchellino”. Comunista convinto e sostenitore delle
iniziative che si prendevano nella vicina sezione del P.C.I.
Lo si poteva vedere, lui sordo ed un po’ brillo, durante le feste del paese,
davanti al palco su cui la banda musicale suonava i pezzi delle varie opere,
seguire tutto il concerto ripetendo i movimenti delle braccia del maestro e
muovendosi a pendolo, accompagnato dalle note delle varie sinfonie con un
avanti ed indietro continuo, mentre tutti si aspettavano che primo o dopo
cadesse. Ma è stata sempre un’attesa delusa
I presenti erano più attirati da questo spettacolo che dalle note del
concerto.
Ricordandolo nella nostra storia, piace anche fare un cenno dei suoi
amici: Giuseppe Passaretti, detto “Ditone”, famoso chitarrista, Valentino
Feola, amabile e virtuoso fisarmonicista, e Alfredo Guttoriello,
appassionato suonatore di mandolino.
Le loro serenate sotto le finestre degli innamorati erano una delizia, uno
spettacolo che oggi, purtroppo, non esiste più.
Il microcosmo di vita e fatti che si sono riportati generavano e
producevano, senza essere sollecitati, ma spontaneamente, anche momenti
di divertimento e di spensieratezza quando, durante la calde serate estive,
un vecchio grammofono con il grosso trombone irradiava nell’aria e sotto il
lampione i suoni dei balli del tempo, invitando tutti ad uscire in strada dai
vicoli vicini per ballare.
Erano quelle le occasioni di incontro tra i giovani del luogo ed il sorgere
delle prime chiacchiere che la gente adulta e pettegola imbastiva sulle
coppie che si formavano e che quasi mai si concretizzarono con un legame
serio e duraturo.
È la fotografia di questa parte del paese che diventa viva ed interessante
con il passare del tempo perché proprio in questo posto e lungo questa
strada si sviluppò e si radicò la consapevolezza che, per il riscatto dei
contadini locali, bisognava occupare le terre incolte, anche rischiando la
propria vita.
Al numero civico di Via Falerno 11 c’era la sezione del Partito
Comunista Italiano, posta in modo strategico in un angolo che dominava
tutta la strada che va dall’inizio di Via Falerno sino alla vera prima salita
che porta verso le scuole elementari.
La scelta di questa ubicazione era importante e opportuna in quel
periodo, in quanto tutta la vita della frazione di Selice si concentrava lungo
quella strada e la sezione rappresentava un punto di riferimento e di
incontro anche per chi non professava apertamente l’ideologia comunista.
Era una modesta stanza con sedie e qualche tavolo, con uno scaffale dove
erano depositati i materiali di propaganda e, al muro, in bella evidenza,
erano appesi i ritratti di Stalin, Togliatti e Gramsci; appoggiata vicino al
muro, con l’asta, la bandiera rossa con falce e martello, simbolo
dell’Unione Sovietica.
Fu anche comprato un televisore con i contributi spontanei dei compagni
e la sezione divenne anche luogo di incontro dei ragazzi del lampione e di
altri non comunisti che avevano la piena libertà di accedere in sezione per la
visione dei primi spettacoli, sceneggiati e film che venivano trasmessi.
Il custode di tale apparecchio e del suo uso era Mastro Enrichetto.
Una riflessione sulla bandiera rossa, allora presente in sezione, è
necessaria per ben capire l’importanza che ebbe questo simbolo nella nostra
storia.
Oggi scomparsa, o tenuta ben nascosta, come se fosse di proprietà
personale di qualche vecchio compagno comunista, fu il simbolo di tante
battaglie, come quella dello sciopero davanti alla Prefettura di Caserta per
l’abolizione del famoso “librettone”, un’infame legge che, per evitare
imbrogli da parte dei padroni terrieri, obbligava i contadini a fornirsi di una
specie di registro sul quale annotare le giornate lavorate man mano e con la
firma del datore di lavoro, quasi fossero i contadini gli evasori e non i
padroni.
Ebbene questa bandiera era contesa per portarla nelle manifestazioni da
molte persone, ma soprattutto da parte di Raffaele Del Duca e da Arturo
Pomobello, nipote di Mastro Enrichetto
La bandiera era stata cucita dalla moglie di Giovanni Canzano,
Giovannina, che riuscì ad assemblarla con tre pezzi di stoffa rossa ma alla
vista sembrava un solo pezzo, con un fiocco bianco che ne chiudeva la
punta a freccia di materiale leggero e di color rame, mentre l’asta era
maneggevole e di color nero.
Fu la bandiera che aprì il corteo della gente che andò ad occupare le terre
incolte e fu sempre presente nelle varie fasi, fino a diventarne il simbolo più
amato.
In questa stanza, presa in fitto da Arcangelo Di Rienzo, si svolgeva la
vita degli aderenti al Partito Comunista, là si intavolano i famosi e lunghi
“dibattiti” sulle direttive che il partito impartiva attraverso i suoi
rappresentanti locali per tener vivo l’interesse su tutto ciò che accedeva a
livello nazionale ed internazionale, specie in Unione Sovietica.
In questa stanza si sono prese anche tutte le decisioni e studiate tutte le
strategie per organizzare l’occupazione delle terre incolte alla presenza di
personaggi importanti per la storia della democrazia in Italia, come l’attuale
Presidente della Repubblica Italiana Giorgio Napolitano, allora responsabile
della Segreteria del Partito in Provincia di Caserta.
Chi accompagnava nei frequenti viaggi Giorgio Napolitano, con la sua
Moto Guzzi, era il deputato Vincenzo Raucci, che era molto legato ai
personaggi della nostra storia.
Con una punta di amarezza, espressa ancora oggi da qualche vecchio e
ferreo compagno rimasto in vita e che ricorda i fasti del passato della
sezione, quando questa venne chiusa per sfratto da parte del padrone, finì
nel paese la presenza seria di chi portava nel cuore gli ideali del
comunismo, in quanto il partito venne affidato ai giovani di allora, che
sfruttarono per loro conto il lavoro, i sacrifici e le sofferenze dei loro
predecessori.
Se ci fosse data l’opportunità, ma non è possibile, se non attraverso un
grosso sforzo della nostra fantasia, di aprire la porta di quella sezione del
Partito Comunista, vedremo presenti i personaggi che vivono, con noi, una
seconda vita nella storia che stiamo raccontando, anche se non furono i soli,
ma sicuramente furono tra gli artefici e i realizzatori di quel grande
avvenimento di riscatto e di libertà dei contadini del paese.
Antonio Del Duca, negli anni del nostro racconto, aveva circa 37 anni
perché nato nel 1913 ed è stato sempre, sino alla sua morte, avvenuta nel
1978, un punto di riferimento importante per l’esistenza della sezione del
Partito Comunista Italiano nel paese e di guida per tutti coloro che
condividevano con lui gli ideali propagandati dal partito.
Fu il primo ed unico Presidente della Cooperativa Terra Nostra, istituita,
secondo la Legge Gullo, per partecipare alla divisione ed attribuzione ai
contadini nullatenenti del paese delle terre demaniali dello Stato gestite dal
Comune di Carinola, e si interessò sino alla morte della gestione della stessa
e di tutti i problemi che sorsero dopo l’attribuzione delle terre.
Andava lui in persona, accompagnato in motocicletta dal figlio Raffaele,
a pagare presso la Tesoreria del comune di Carinola, all’ing. Vingione,
dirigente della stessa, i fitti di tutti gli assegnatari del paese ed a volte, per
evitare la brutta figura che avrebbe fatto nel non pagare i fitti di qualche
compagno in difficoltà economica, ci rimetteva in proprio pur di rispettare
le scadenze stabilite dai contratti.
Scherzosamente, da parte di tutti i compagni comunisti del paese, era
chiamato “mbruoglio”, non perché il suo metodo era di truffare la gente, ma
perché abile a risolvere ogni problema che sorgeva, sapendo trovare le
parole e i rimedi adatti.
Chi era in realtà quest’uomo?
La sua famiglia era comunista convinta, ma lui sapeva coniugare il suo
amore verso le idee comuniste con una certa predisposizione all’ascolto ed
al dialogo con tutti.
Aveva anche il dono, particolarmente importante in quel periodo in cui
trionfava l’analfabetismo, di sapere scrivere in un modo facile, fluente ed
accattivante.
Tutti leggevano di buon grato i suoi scritti perché in essi trovavano il
senso sincero dei sentimenti di un uomo che credeva fermamente in quello
che pensava e scriveva.
Apparteneva ad una famiglia composta da quattro figli maschi, tutti
ormai morti, e da una figlia femmina, ancora oggi vivente.
Erano contadini e molti di loro specializzati nell’uso della falce, sempre
uniti nel condividere tra di loro il poco lavoro esistente in quel periodo.
Per il suo modo di comportarsi veniva considerato una persona
esemplare.
Egli, pur vivendo in periodi di estrema povertà, se aveva qualche
spicciolo in tasca e per strada incontrava un contadino più povero di lui,
non mancava di dargli quei pochi soldi, utili per alleviare le magre
condizioni in cui il poveretto versava.
Era un uomo generoso. che aveva trovato nella moglie Teresa Di Marco,
di origine aquilana, una compagna che assecondava e sosteneva questo suo
senso altruistico.
Non ebbe la gioia di un avere un figlio dalla sua amabile moglie, mentre
tutti gli altri fratelli e sorelle ne ebbero in abbondanza, e allora decise di
prendere con sé il piccolo Raffaele, il figlio del fratello Pasquale.
Fu un adozione fatta con il cuore e mai ufficializzata con sentenza di
tribunale.
La mamma di Raffaele, Giulia, quando lo partorì, ebbe dei gravi
problemi di salute e fu ricoverata all’Ospedale Cardarelli di Napoli, quindi
affidò il figlio ad Antonio e a Teresa in modo che, pur nella povertà di
allora, potesse avere un luogo dove crescere e delle persone affettuose a cui
legarsi e da loro ricevere affetto generoso.
Questo tacito patto di sentimenti fu confermato al ritorno della madre di
Raffaele dall’ospedale, che disse in modo chiaro ad Antonio e Teresa che
Raffaele, che gli era stato dato in un momento tragico della sua vita, poteva
restare per sempre con loro.
E la nuova famiglia così composta visse nell’affetto ed amore reciproco,
tanto che fino a 17 anni Raffaele dormiva nel letto insieme con la madre ed
il padre adottivo.
Antonio Del Duca fu in prima linea per l’occupazione delle terre incolte,
nel ruolo di braccio destro di Giovanni Canzano, un personaggio che
incontreremo appresso, ed insieme crearono un duo che tenne duro anche
nei momenti più difficili delle scelte che vennero fatte, ed insieme furono
anche arrestati a Caserta durante lo sciopero per l’abolizione del famoso
“librettone”.
Nel paese consideravano Antonio un accanito difensore contro le
ingiustizie e il baluardo della loro difesa quando i ricchi proprietari terrieri
del paese manifestavano la loro prepotenza ed arroganza contro i deboli
contadini.
Ebbe dei gravi problemi di salute allo stomaco e problemi di digestione:
era solito portare con sé il bicarbonato che lo aiutava nell’alleviare i dolori
della malattia e, nonostante queste sofferenze, la mattina si alzava per
andare a lavorare portandosi come compagno l’immancabile scatolino
pieno di bicarbonato.
Viveva con intensità la vita di sezione e di partito, fu anche segretario
della sezione, dopo che Giovanni Canzano emigrò nel Nord Italia, ed in
quella sede ha manifestato sempre disponibilità e preparazione per risolvere
i piccoli e grandi problemi che si presentavano alla sua attenzione.
Persona stimata dai maggiori ed importanti politici del partito della zona,
come l’on. Vincenzo Raucci, Rendine, Antonio Bellocchio, Orabona e lo
stesso Giorgio Napolitano, attuale Presidente della Repubblica, che è stato
anche suo ospite a casa nei vari periodi in cui ne era necessaria la presenza
nel paese.
Una sera, mentre Raffaele Del Duca, figlio di cuore di Antonio, stava
giocando con la sua nipotina, vide il padre che avvertiva un forte dolore al
fianco che faceva presagire qualcosa molto grave.
Si rivolse al compagno medico Dario Russo ed al compagno onorevole
Vincenzo Raucci e così Antonio venne ricoverato all’Ospedale Palasciano
di Capua, dove il dottore Dario Russo gli diagnosticò un tumore già in fase
avanzata allo stomaco.
La notizia del suo ricovero all’Ospedale di Capua venne riferita alla
dirigenza del partito a Caserta e corsero al suo capezzale Rendine e
Bellocchio, mentre Giorgio Napolitano volle essere costantemente
informato sul decorso della malattia per via telefono.
Ma non c’era nulla da fare, la malattia era giunta alla fase finale.
Il dottor Russo, dopo aver fatto la diagnosi, intubò Antonio e chiamò la
Croce Azzurra per poterlo trasferire, ancora vivente ma in coma, al paese
consigliando i famigliari di togliere il tubo che aiutava la respirazione alle
porte del paese in modo che potesse morire nella tranquillità dei suoi amati
luoghi.
Così fu fatto.
Ai funerali fu massiccia la presenza della gente umile del paese ed anche
di qualche persona che lui aveva combattuto con le armi della buona
politica e del rispetto per il riscatto dei contadini di cui faceva parte e che
voleva affrancare dal sopruso e dall’abbrutimento.
Il parroco del paese, don Dionigi Baldino, pur essendo un anticomunista,
ufficiò il rito e l’accompagnò con le sue preghiere.
Ora quest’uomo, un eroe per la nostra storia, dorme in pace nel cimitero
del paese insieme con tanti altri personaggi che hanno vissuto con lui una
pagina bella di storia, per il riscatto dei contadini dalla prepotenza dei ricchi
padroni e dalla cecità dei governanti nazionali e locali di allora.
Giovanni Canzano era il Segretario della Sezione del Partito Comunista
del paese, e al tempo a cui ci riferiamo aveva circa 30 anni, fu il
personaggio che convogliò tutta la sua azione politica nella realizzazione
delle occupazioni delle terre incolte da parte dei contadini del paese.
Non fu solo, gli furono sempre vicini Antonio Del Duca e l’immancabile
aiuto e sostegno politico a livello provinciale del partito del compagno
Corrado Graziadei di Sparanise.
Se qualche estraneo del paese lo avesse incontrato per strada o nel suo
negozio di sarto, vista la sua conformazione fisica, non avrebbe pensato che
dentro quella persona ci fosse uno spirito tanto battagliero, caratteristica che
manifestava nei momenti cruciali e difficili della sua vita di dirigente del
partito del paese.
Era un convinto comunista e voleva che si realizzasse anche nel piccolo
paese dove viveva quella giustizia sociale di cui tanto si parlava ma che
poco o nulla veniva applicata.
La sua presenza, sino al suo trasferimento per motivi di lavoro al Nord
Italia, a Calolziocorte, in provincia di Lecco, avvenuto nei primi anni
Sessanta, fu di stimolo a mai abbassare la guardia contro le ingiustizie che
in quel periodo si attuavano senza scrupoli.
Pur essendo un sarto raffinato e frequentato da persone che
appartenevano ad un certo censo, sposò con razionalità ed entusiasmo le
lotte che i contadini, da lui guidati, intrapresero e realizzarono nel paese e
nella zona del carinolese.
Era un ottimo e convincente oratore.
Tutte le persone del paese con una certa età e di qualsiasi appartenenza
politica ancora oggi ricordano gli affascinanti discorsi che Giovanni teneva
dal balcone del bar di Tanos e, quando ciò non gli veniva concesso, usciva
fuori dalla sua bottega, che si affacciava sulla strada che fronteggia Piazza
Limata, con il suo banchetto e lo posizionava vicino alla Cappella della
Pietà e da quel posto, anche se poco adatto per diffondere le sue idee,
riusciva ugualmente a farsi ascoltare da molte persone.
Tutti seguivano con reale interesse la voce critica e appassionata di
Giovanni Canzano: quelli che ne condividevano le idee libertarie, e coloro
che le osteggiavano, perché ognuno aveva rispetto per questo personaggio
fiero e coraggioso, leale e altruista. Eppure era il periodo buio dei Comitati
Civici, che presentavano gli appartenenti al Partito Comunista Italiano
come i senza Dio e scomunicati, che sarebbero andati direttamente
all’inferno. Malgrado ciò, tutti aspettavano sui problemi che allora si
dibattevano sia a livello locale che a livello nazionale di ascoltare
l’opinione di Giovanni Canzano.
Il suo discorso era diretto e senza fronzoli, mai offensivo e sempre nel
rispetto delle persone, anche nei confronti di quelle che apertamente non
condividevano il suo credo politico. Autentica la sua capacità di intrecciare
le grandi questioni nazionali a quelle locali con esempi convincenti.
Durante gli incontri avuti con i testimoni ancora in vita, è stato riferito
che se in quel momento Giovanni Canzano avesse chiesto ai presenti di fare
ciò che aveva sviluppato e proposto nel suo discorso, i contadini e le
persone, anche della borghesia locale, lo avrebbero, almeno al momento,
seguito, tanta era la sua forza di convinzione.
Ma, come quasi sempre avviene, i contadini e le persone presenti in
piazza ad ascoltare Giovanni Canzano, abbandonando la piazza e ritornando
nelle loro case, presto perdevano l’entusiasmo così ampiamente
manifestato.
Il suo ragionare affascinava e ciò incuteva in tutti gli abitanti del paese e
dei dirigenti politici della provincia un rispetto per la persona che si
tramutava anche in manifestazioni di simpatia.
Il suo acerrimo nemico, tale più per dovere che per convinzione, era il
Comandante della Stazione dei Carabinieri, il Maresciallo Tauro, che ha
sempre sottolineato la correttezza del comportamento di Giovanni Canzano,
sia durante i comizi tenuti nei vari luoghi del paese, sia durante le epiche
giornate delle occupazioni delle terre incolte e confidava, sconsolato, spesso
a qualche amico e confidente: «il mio più grande desiderio è quello di
mettere le manette a Giovanni Canzano, ma non trovo un appiglio per
farlo.»
Fu così, perché Giovanni Canzano era un comunista che rispettava le
leggi e si muoveva, aiutato dai consigli di Antonio Del Duca e degli altri
compagni, all’interno delle stesse senza violarle.
Fu il primo segretario politico della sezione del Partito Comunista
Italiano del paese e lui scelse di aprire la sezione in Via Falerno 11, perché
zona strategica e di passaggio.
Curò in modo particolare l’organizzazione del partito che tentava di
radicarsi in un paese quasi tutto monarchico e di tendenza destroide, dove
forte era la presenza del Partito della Fiamma Tricolore, come ricordato in
altre parti di questa narrazione.
Riuscì ad avere nel periodo delle occupazioni delle terre incolte circa 300
iscritti al Partito Comunista, aiutato in questo lavoro lungo e faticoso da
persone che avevano, come lui, sposato i principi del comunismo, ma
soprattutto avevano il desiderio di combattere con le armi della democrazia
e del confronto i soprusi dei padroni di allora che attuavano nei confronti di
una massa di persone che ancora credeva che solamente con la
sottomissione alle loro angherie potessero sbarcare il lunario quotidiano
fatto di stenti, di privazioni e di fame.
Ebbe come compagni di lotta democratica tutta la famiglia Del Duca, con
Antonio Del Duca suo confidente e braccio destro nella gestione del partito,
e persone come Enrichetto Stodo, Fiore D’Agostino, Antonio Balasco,
Antonio Di Pasquale, Giuseppe Miccoli, Salvatore Di Pasquale, Luigi
Cielsereno, Emilio Ferdinandi, Pasquale Migliozzi ed altri che, con
dedizione ed entusiasmo, sostennero la sua azione politica sempre più
pressante nei confronti di coloro, politici o non, che, profittando di comode
posizioni di potere, acquisite in modo inspiegabile, tentavano di portare il
paese nel vicolo cieco dell’impotenza e dell’oscurantismo.
Per questo motivo Giovanni puntò molto sulla comunicazione e su una
sezione aperta a tutti, dove chiunque poteva trovare la persona che potesse
accogliere le richieste di ogni genere dei bisognosi e sperare in una
soluzione ai problemi che si presentavano.
Quando si trasferì nel Nord Italia, lasciò la sezione del partito nelle mani
di Antonio Del Duca con 80 iscritti, un miracolo in un periodo di
transizione e di stasi politica, e senza debiti da pagare.
Da povero aveva iniziato la sua attività politica e da povero partì per il
Nord Italia, emigrante in cerca di lavoro.
La sua azione organizzativa e di guida all’occupazione delle terre incolte
l’affronteremo in un capitolo a parte.
È un obbligo a questo punto della narrazione della storia di Giovanni
Canzano accennare il suo attaccamento ed il suo amore nei confronti della
sua famiglia.
Non era nato nel paese, proveniva da Teano, ed aveva sposato
Giovannina Buonamano, una giovane che proveniva da una famiglia di
artigiani di modesta condizione, ma serena ed espansiva.
Dal matrimonio nacquero tre figli, Amalia, Domenico, detto Mimì, e
Adele, che ancora oggi ricordano i loro genitori con profondo affetto e con
filiale nostalgia, per non aver vissuto tutto il tempo dovuto con loro.
Ricordano la bontà e l’affetto dei loro genitori, che si manifestava
soprattutto nei momenti dell’intimità della famiglia, con la cura attenta di
non lasciare nulla di intentato per far felice loro che erano dei bambini
poveri che non dovevano avere difficoltà nei confronti di quelli ricchi delle
famiglie dei maggiorenti.
Era un comunista, non ateo, ma neanche si poteva definire cattolico,
lasciò che i suoi figli frequentassero la parrocchia del paese e consentì loro
di partecipare a tutte le attività come il catechismo e prendere,
successivamente, i sacramenti della Comunione e della Cresima.
Giovanni fu un esempio di comunista che non solo non mangiava i
bambini, ma che addirittura vedeva in essi il futuro del paese e la speranza
che, se fossero stati bene educati al vivere insieme ed al rispetto
vicendevole, sicuramente avrebbero migliorato il clima sociale del paese e
condotto una vita più umana.
Importante era per lui che tutti i bambini ed i ragazzi avessero una cultura
e frequentassero le scuole, perché pensava che il cambiamento della società
borghese del paese potesse avvenire solamente se si conosceva la storia che
aveva prodotto certi fatti ed avvenimenti e da questi trarre il desiderio di
cambiamento.
Questo amore per la cultura, oltre al suo corretto e piacevole modo di
interloquire con la gente, lo dimostrava anche nel suo mestiere di sarto.
Ancora oggi si può vedere il gusto per il disegno, il tratteggio delle
cuciture, l’eleganza del taglio e la perfezione delle rifiniture in qualche
vestito che confezionò e soprattutto in quello cucito per Beniamino Verrillo
per il giorno delle sue nozze.
I vestiti di classe per i paesani erano fatti da lui; anche i fascisti, nemici
politici dichiarati, venivano da lui per farsi confezionare i loro vestiti.
Anche la signora Giovannina, pure lei sarta, adoperava lo stesso criterio
di raffinatezza di Giovanni e riusciva ad anticipare la moda corrente per le
giovani del paese con le bellissime “scamiciate”, le gonne “a campana” ed i
primi tailleur.
I figli ricordano ancora oggi di aver vissuto in una famiglia felice, perché
avevano genitori che li hanno seguiti ed aiutati in tutti i momenti, belli o
brutti, della loro vita.
Dopo alcuni anni trascorsi a Calolziocorte, in provincia di Lecco,
Giovanni Canzano fu costretto a ritornare al suo paese in quanto fu colto da
un infarto e gli fu consigliato che il luogo dove risiedeva non era adatto al
suo nuovo stato di ammalato.
Nel dicembre del 1966 ritornò con tutta la famiglia.
Non era più come prima il paese, perché nel 1964 aveva ottenuto la sua
autonomia amministrativa ed il partito aveva subito dei mutamenti profondi
passando nelle mani dei giovani di allora.
Si avventurò in altre esperienze e fu anche eletto nel Consiglio Comunale
del paese, ma i tempi erano cambiati ed i compagni di strada del 1949,
delusi della nuova gestione del Partito Comunista Italiano in loco, pur
restando di sinistra e votando comunista, persero il loro entusiasmo,
presaghi, come poi avvenne, che chi lo gestiva con nuove idee e meno
ideali lo avrebbe portato all’annientamento.
Giovanni Canzano era reputato, e in affetti lo era, un rivoluzionario per il
bene della sua gente, ma mai un sovversivo.
Il 26 giugno del 1990 Giovanni terminò la sua parabola terrena.
Il paese rimase attonito e smarrito perché aveva perso una voce forte e
critica nei confronti di ogni ingiustizia e soperchieria, operando sempre da
paladino della difesa dei diritti dei più deboli e bisognosi, nel nome di un
comunismo ideale che poteva vivere solamente con lui e uomini come lui.
Infatti oggi non esiste più.
Il popolo partecipò numeroso ai suoi funerali ed il parroco, don Dionigi
Baldino, pur essendo un anticomunista, ufficiò i riti sacri e gli diede la sua
benedizione.
Giovanni Canzano fu per la storia di Falciano il promotore e maggiore
eroe dell’affrancamento dalle angherie subite dai poveri. Ora riposa nel
cimitero del paese, accanto agli altri coraggiosi attori dell’occupazione delle
terre incolte.
A questo punto incontriamo una donna che ha suscitato in chi scrive
molta curiosità ed interesse, perché protagonista di una storia eccezionale.
Riteniamo che meriti ammirazione perché dimostrò coraggio e
convinzione nel momento in cui il popolo dell’occupazione delle terre
incolte ebbe bisogno di qualcuno che portasse ben spiegata ed al vento della
speranza la famosa bandiera rossa della sezione del Partito Comunista.
Questa donna, orgogliosa e battagliera, non se lo fece ripetere due volte
da Giovanni Canzano, prese con entusiasmo e senza timore la bandiera e si
mise in testa al corteo guidandolo sino al luogo dove, a difesa delle
proprietà da occupare, erano schierate le Forze dell’Ordine, comandate dal
Maresciallo Tauro, che rimase talmente spiazzato nel vedere questa donna
portare la bandiera simbolo dell’occupazione delle terre al posto
dell’organizzatore Giovanni Canzano che, per un tale atto, l’avrebbe
volentieri arrestato!
Questi sono i fatti che, narrati da Giovanni Canzano, hanno spinto chi
scrive queste note a ricerche difficili e prove certe per assicurare validità
storica e autenticità alla narrazione.
Riguardo all’intervista fatta a Giovanni Canzano, poco prima della sua
morte, resta ora, purtroppo, solo la parte scritta e non quella registrata sul
nastro.
Giovanni rispose alle varie domande con calma e senza alcun
tentennamento, ricordando bene che la bandiera rossa venne affidata a
quella donna perché lui non poteva portarla in testa al corteo perché era
stato avvisato dal Maresciallo Tauro che, se quella mattina si fosse fatto
sorprendere a guidare il corteo degli occupanti, ne avrebbe, a termini di
legge, ordinato l’arresto.
Giovanni Canzano, con le modalità che vedremo in seguito, fu presente
all’occupazione delle terre incolte, ma non fu arrestato perché la bandiera
rossa, simbolo dell’occupazione, la portava Argentina Pisaturo, da tutti del
paese conosciuta con il nome di Giovannina e non fu arrestata perché gli
zelanti tutori dell’ordine ritennero che prendersela con una donna li avrebbe
posti in cattiva luce presso i cittadini del luogo. Così si limitarono a fermare
alcuni degli occupanti, che furono solo identificati e diffidati.
Perché Giovanni Canzano scelse proprio questa donna a cui affidare un
simbolo quasi sacro per gli occupanti delle terre incolte?
Questa donna era rimasta vedova in giovane età e con figli da far
campare e per loro praticò i mestieri più umili a servizio di qualche ricco
del paese, sino ad essere ritenuta una delle loro amanti.
Alla nostra storia non interessa la vita privata di Giovannina Pisaturo,
interessa, invece, far conoscere attraverso il racconto la personalità e la
grandezza e profondità di animo che aveva nel risolvere le difficoltà proprie
e delle persone che si affidavano a lei.
Faceva di tutto: era l’infermiera del paese a cui tutti si rivolgevano,
panificava per chi non poteva, aiutava a nascere i bambini in assenza di
un’ostetrica comunale, faceva il bucato alle persone ammalate e bisognevoli
senza ricavarne una lira di guadagno. Per assicurare il pane quotidiano ai
suoi figli, prestava servizio presso qualche ricco signore del paese.
Era altruista per natura e godeva nell’aiutare la gente assillata da
problemi e bisogni, per lei significava dare un lume di speranza, una
consolazione, una piccola luce dove imperavano miseria e sopraffazione.
Si metteva persino contro i suoi ricchi padroni quando bisognava
difendere i diritti dei poveri e della sua famiglia e spesso riusciva a
convinceva questi signori a rispettarli e mantenere le promesse fatte.
Questo suo modo di agire era noto nel paese e tutti la stimavano in modo
sincero e profondo.
Amica della moglie di Giovanni Canzano, Giovannina, ne frequentava
con assiduità la casa e le confidenze erano frequenti tra di loro e stimava e
condivideva l’azione politica di Giovanni nei confronti di chi umiliava
quotidianamente i poveri contadini del paese.
Anche lei era rimasta incantata dal parlare di Giovanni Canzano che le
spiegava la necessità di un riscatto dei miseri contadini del paese, attraverso
un atto molto forte, come quello di occupare con la forza le terre incolte.
Giovannina Pisaturo si convinse che anche lei doveva fare qualcosa per
sostenere e realizzare questa epica iniziativa e per questo motivo accettò
con entusiasmo e aria di sfida la richiesta di Giovanni di sostituirsi a lui e
portare la bandiera rossa della conquista.
Mi piace immaginarla con la sua faccia fiera e piena di orgoglio portare
la bandiera e incitare i contadini che la seguivano a prendere coraggio per
allontanare da loro lo spettro della paura e del ripensamento.
Come Marianne guidò ed incitò la folla di Parigi alla Rivoluzione, così,
inconsapevolmente, anche Giovannina fu icona della riscossa per un intero
paese.
Non si sa per quale motivo questo episodio è stato quasi rimosso dalla
memoria di chi aveva il dovere di ricordare per tutte le donne del paese.
Anche lei non c’è più e ora riposa nello stesso cimitero dove trovarono
posto tanti altri coraggiosi personaggi della nostra storia.
È giusto riconoscere che se il Partito Comunista ed i suoi dirigenti furono
il cuore della riscossa dei contadini e dell’occupazione delle terre incolte,
anche cattolici ed altri, organizzati in vario modo e sotto le diverse
bandiere, capirono l’importanza dell’avvenimento che stravolgeva la vita di
un paese sonnolento, sempre vissuto nel segno della rassegnazione e della
sottomissione.
Giovanni Verrengia, un falegname che aveva la sua bottega nel centro del
paese, cattolico e responsabile delle ACLI, non potendo apertamente
sostenere l’azione delle occupazioni delle terre, cercò di convincere
Giovanni Canzano che anche loro sostenevano con convinzione la
rivoluzionaria azione, ma erano costretti a non schierarsi apertamente,
sebbene fosse insieme ai suoi assistiti, che aiutava costantemente nel
disbrigo dei problemi quotidiani, assai favorevole verso le conquiste che si
volevano raggiungere e, in qualche modo, avrebbero partecipato alle lotte
dei contadini.
Giovanni Canzano, uomo di un acume politico non comune, rispose che
ciò che si stava attuando era una lotta di tutti i lavoratori della terra, che non
potevano essere divisi da alcunché, ma procedere uniti e compatti per poter
attenere i risultati sperati.
A questo punto Giovanni Verrengia convinse Michele Manica, futuro
Presidente della Cooperativa “Il Popolo”, una persona di esperienza perché
era stato a suo tempo uno dei caporali che aveva aiutato tanti contadini del
paese bisognosi di lavoro, a concertare con Giovanni Canzano la presenza
dei loro contadini, pochi per la verità, a partecipare anche loro
all’occupazione delle terre incolte.
Questo accordo rappresentò, forse, un primo esempio di compromesso tra
comunisti, la grande maggioranza, e cattolici, una piccola rappresentanza,
che su una questione vitale per la gente contadina non guardarono
l’appartenenza politica delle persone.
Così anche i cattolici furono guidati dalla bandiera rossa che portava
Giovannina Pisaturo.
Su questo Giovanni Canzano non trattò.
Il sogno realizzato
Si è tentato, nel capitolo precedente, con i documenti e le testimonianze
raccolte, di analizzare attraverso il racconto tutte le dinamiche, i fatti, gli
avvenimenti e le persone che segnarono un momento storico di una
popolazione e di un territorio che trovò nell’occupazione delle terre incolte,
sia demaniali che dei latifondisti, un proprio riscatto e una sua rinascita per
diventare, questa era la convinzione degli uomini di allora attori della
grande sfida contro i poteri forti, padroni di un pezzo di terra e acquistare la
dignità di uomini non più sottoposti al sopruso ed al ricatto della grande
proprietà terriera.
L’azione collettiva organizzata e l’occupazione fisica dei terreni incolti
però non bastava da sola a dare la certezza che i fondi occupati diventassero
effettivamente proprietà dei contadini. Ci voleva ben altro perché la ventata
rivoluzionaria che aveva portato a prendere con la forza le terre incolte ne
assicurasse un possesso definitivo. Era necessario presidiarlo giorno e notte.
Se si fosse verificato un abbassamento della tensione, un rilassamento
nel perseguire lo scopo, sarebbe stato alto il rischio di perdere ciò che si era
conquistato a prezzo della propria incolumità e sfidando apertamente lo
Stato e le autorità periferiche. Occorreva trovare nella politica e nelle
organizzazioni sindacali, allora in vita, l’appoggio irrinunciabile alle loro
richieste, insistere sulla giustizia sociale di queste, far capire che i tempi
erano maturi per mettere mano ad una grande riforma della proprietà
fondiaria in Italia e principalmente nel Sud d’Italia.
Ciò non era facile per le dure resistenze incontrate, tante e difficili da
smantellare, perché legate agli interessi di parte di chi non voleva rinunciare
al controllo di un grande affare, come la gestione dei beni demaniali e le
entrate di ingenti proventi derivanti dalla gestione del grande latifondo
terriero destinato a pascolo.
Nelle zone del Comune di Carinola, che allora comprendeva anche
Falciano, i terreni furono occupati da contadini convinti che seppero
resistere alle minacce, a volte anche di morte, da parte dei luogotenenti dei
gestori dei terreni e che tennero duro, per quasi 45 giorni, recandosi ogni
mattina, prima del sorgere del sole, dalle loro case a dissodare quei terreni
che consideravano già propri. A nulla valse la strategia degli appostamenti
delle Forze dell’Ordine di trovarsi prima dei contadini sul luogo per poterli
respingere quando giungevano.
Si verificava sempre il contrario: erano i contadini ad arrivare sempre
primi sul posto, dimostrando la ferrea volontà di non desistere, consci che
dietro di loro c’era un grande partito, quale il Partito Comunista Italiano, la
Federterra ed il sindacato della Cisl, che sostenevano, a modo loro e
secondo le indicazioni che ricevevano dagli organismi centrali, tali lotte e
che prima o dopo l’avrebbero spuntata.
Bisogna anche ricordare che questi avvenimenti ebbero grande risonanza
nel Parlamento con varie interrogazioni ed interpellanze che spingevano
sempre più il Governo a dare disposizioni alle varie Prefetture per
monitorare la situazione, stimolando le varie amministrazioni locali,
detentrici di terreni demaniali, ad attribuirli ai richiedenti con l’applicazione
della Legge Gullo.
Intanto il Parlamento, per evitare un depauperamento dei terreni
demaniali ed il loro controllo da parte della politica locale, portò in
approvazione la Legge di Riforma Agraria il 12 maggio 1950 con il n. 230.
Erano passati solo sei mesi dall’occupazione delle terre nel territorio del
carinolese e il mondo sembrava girare nel modo giusto per la povera gente,
che aveva sempre subito e sempre chinato la testa alla volontà dei propri
padroni.
Veramente si stava scrivendo una nuova pagina di storia per quegli
uomini dalla faccia solcata dai segni del sudore e della fatica.
La Legge di Riforma Agraria del maggio 1950 e la sua attuazione pratica
si intrecciarono con l’attuazione dell’attribuzione delle terre incolte, ma
portarono una novità di vitale importanza per i contadini: il diritto di
proprietà sulla terra assegnata dopo 30 anni di possesso ed il pagamento
puntuale delle rate di riscatto stabilite al momento della firma dell’atto.
Questa novità attuò, per la prima volta in Italia, la nascita della piccola
proprietà contadina con tutte le implicazioni e difficoltà legate alla diretta
gestione dei nuovi proprietari, non preparati a risolvere i problemi e le
difficoltà che la burocrazia statale pose in campo per disciplinare l’acquisto
e la conduzione degli stessi terreni.
Un problema per tutti i contadini, ignari delle trappole burocratiche, fu
quello di non rendersi conto che avevano firmato un atto di proprietà con il
“patto di riservato dominio”, clausola che impediva la reale disponibilità dei
terreni per l’eventuale vendita. Per avere questo diritto occorreva saldare
per tempo le rate pattuite, e si trattava di un periodo di 30 anni!
I terreni individuati, per renderli subito disponibili, vennero espropriati
per pubblica utilità in modo da permettere alla O.N.C. (Opera Nazionale
Combattenti) l’utilizzazione degli stessi per poterli assegnare agli aventi
diritto.
Vennero in questo modo approntati i piani generali di esproprio e quelli
particolareggiati, in modo da avere una mappatura reale dell’esistente ed
escludere a priori quei terreni che, pur potendo entrare nei detti piani, erano
stati affidati con regolare contratto ai coltivatori diretti.
Successivamente vennero anche esclusi dall’assegnazione, pur entrando
nel piano degli espropri, terreni, e non pochi, che erano parte integrante di
aziende modello o perché alienati in precedenza o oggetto di atti di
donazione o sottoposti a vincoli diversi, come terreni destinati alla
sperimentazione agraria ed accorpati agli istituti professionali agrari e alle
varie facoltà universitarie ad indirizzo agrario.
La legge prevedeva che i terreni, prima di essere assegnati, dovevano
essere resi idonei alla coltivazione e si coniò un vocabolo nuovo: quello
della “trasformazione” del terreno.
Il mezzo previsto per realizzare la trasformazione dei terreni da assegnare
era che quelli espropriati dovevano obbligatoriamente far parte dei vari
Consorzi di Bonifica, come previsto dal Regio Decreto 215/1933, e questi
consorzi, una volta istituiti, provvedessero a sostenere con contributi, per la
bonifica integrale dei terreni, i vari enti di riforma istituiti nelle varie
regioni per le opere di idraulica da effettuare e per il miglioramento
fondiario.
Il prezzo dei terreni individuati ed espropriati veniva determinato
secondo un valore tabellare determinato dagli uffici imposte e l’indennità di
esproprio veniva corrisposta ai proprietari dei terreni in titoli di debito
pubblico al tasso del 5% redimibile in 25 anni.
Per i latifondisti non fu un buon affare.
Dopo questi passaggi obbligatori i terreni espropriati venivano trasferiti
in proprietà all’O.N.C. e in seguito assegnati a lavoratori manuali della
terra, cioè a contadini e braccianti agricoli.
Questi non dovevano essere proprietari di altri terreni o enfiteuti di fondi
rustici o tali che limitassero l’impegno della manodopera di famiglia.
Gli ispettori provinciali dell’agricoltura, competenti per territorio,
dovevano provvedere all’accertamento di tali requisiti e verificare
l’efficienza lavorativa degli assegnatari attraverso un metodo rigoroso,
scientifico quasi, ma privo di valutazione, che tenesse conto di fattori più
umani, dando valori numerici al concetto di unità lavorativa.
Un esempio per tutti: lavoro di uomo adulto 1.0 U. L., lavoro di donna
adulta 0,8 U. L., lavoro di un ragazzo 0,5 U. L.
Chi legge tragga il proprio giudizio su tale procedura…
Una volta accertati i requisiti, l’ente procedeva all’assegnazione del
terreno ai richiedenti attraverso un atto notarile che prevedeva in modo
inequivocabile e per tutti la clausola “la vendita viene effettuata con patto di
riservato dominio e la proprietà si trasferisce nella sua pienezza dopo il
versamento dell’ultima rata della somma pattuita”.
Le rate annuali avevano una durata di anni 30 e dovevano essere
posticipate.
Veniva anche imposto all’assegnatario un periodo di prova di conduzione
dei terreni assegnati per 3 anni, ed il termine prova, se non si concludeva
con un giudizio positivo da parte degli ispettori, invalidava l’atto di
concessione.
Il terreno non poteva essere alienato se non dopo l’espletamento di tutte
le condizioni riportate in atto, e cioè dopo 30 anni.
Non era ammesso il riscatto anticipato dei terreni.
Per curiosità si riporta la formula che veniva usata per la determinazione
del prezzo da pagare da parte degli assegnatari.
Q. amm = s. (qn-1)/(r. qn)
S = danaro da ammortizzare
R = 3,5% tasso di interesse
Q = 1+r
N = 30 anni (durata del mutuo).
Per meglio capire l’importanza della Legge di Riforma Agraria si
riportano dati che, per la loro semplicità, risultano significativi.
In tutta Italia dovevano essere espropriati 819.000 Ha ma, per i motivi
detti in precedenza, ne furono espropriati realmente 673.000 ha, mentre
89.00 ha furono acquistati direttamente dagli enti riforma e, quindi, quelli
da assegnare complessivamente furono 762.000 ha.
Effettivamente, però, in tutta Italia furono assegnati 617.000 ha ed in
Campania solo 15.000 ha, pari a 2,40%, la maggior parte in Terra di
Lavoro.
Quest’ultimo dato è significativo e spiega ancora una volta la forte
resistenza dei latifondisti protetti e difesi in vario modo dal mondo politico
di allora, che cercò di svilire e ostacolare apertamente l’applicazione degli
espropri per pubblica necessità, usando qualsiasi mezzo per dimostrare che i
terreni individuati da espropriare rispondevano a quelle eccezioni che la
legge contemplava e che sono state appena riportate.
Anche se vi sono riserve sulla bontà e l’efficienza della Legge di Riforma
Agraria, essa rappresenta comunque un primo serio tentativo di creare le
piccole proprietà fondiarie e ridurre lo strapotere dei latifondisti in Italia.
Quando le occupazioni delle terre incolte della zona presa in
considerazione terminarono, eravamo già verso la fine del mese di gennaio
del 1950.
Ora i contadini non partivano più organizzati in cortei guidati dai
responsabili politici e sindacali locali ad occupare le terre, essi rimasero da
soli e, perciò, maggiormente esposti a continue angherie e minacce nel
presidiare il terreno occupato e a coltivarlo.
Questa decisione, supportata anche dal Partito Comunista, da Federterra e
dalla Cisl, convinse gli attori interessati, cioè i proprietari dei terreni di
Torre Vecchia e Cemice, a muoversi insieme alle autorità, come il Prefetto,
e aprire un tavolo di incontro tra le parti. Ciò per risolvere un grosso
problema che poteva creare tensioni e gravi incidenti tra i contadini che non
andavano via e i fattori con i loro guardiani che gestivano i terreni per conto
dei vecchi proprietari.
Il problema non era semplice da risolvere in quanto i rappresentanti delle
proprietà terriere cercarono di giocare al ribasso, soprattutto facendo
proposte e offrendo la disponibilità ad assegnare altri terreni, pur essi
incolti, distanti dal paese e difficili da raggiungere, per evitare
l’assegnazione dei terreni occupati in quanto vi erano forti pressioni da
parte dei fattori che avevano trasformato questi terreni quasi in un feudo
personale.
Verso la metà del mese di maggio del 1950, il giorno 20, le parti
interessate, i rappresentanti dei proprietari dei latifondi e le organizzazioni
dei contadini furono urgentemente convocate alle ore 23.00 circa presso
l’Ente Cappabianca in Santa Maria Capua Vetere, proprietario dei terreni di
Torre Vecchia ed altri limitrofi, per iniziare un discorso risolutivo sul tema
dell’attribuzione delle terre del parco in fitto alle cooperative dei contadini,
promotrici delle azioni di occupazione delle stesse terre.
Il viaggio dei responsabili delle cooperative, fatto di notte e con la paura
che questa convocazione potesse essere una trappola per farli fuori
addirittura fisicamente e quindi tagliare la testa al movimento che si era
creato e radicato nel paese, fu un viaggio, si può affermare, da incubo e
pieno di paura.
Ma non partirono da soli perché anche persone del paese, non interessate
direttamente, e che nei giorni dell’occupazione avevano quasi deriso
l’azione realizzata nei confronti dei ricchi proprietari terrieri, convennero
che questo sparuto e timoroso gruppo di persone che si recava a Santa
Maria Capua Vetere, obbligato a transitare per luoghi e strade in cui
malavitosi e camorristi erano padroni assoluti, aveva bisogno della presenza
di un gruppo di difesa che potesse garantirne l’incolumità, anche a costo di
usare le armi. I rappresentanti dei contadini, in nome dei loro interessi e
degli ideali che li sostenevano, sarebbero comunque andati, con o senza
protezione. La determinazione di questi uomini spinse i compaesani a fare
da scudo.
La notizia della presenza di persone nel gruppo votate a tutto pur di
garantire l’incolumità dei delegati alle trattative giunse a chi poteva
decidere una tale rappresaglia, consigliandogli di recedere da azioni
violente. Ciò permise ai nostri eroi di raggiungere sani e salvi l’Ente
Cappabianca dove erano attesi.
Le testimonianze delle persone che erano parte della delegazione, anche
nell’incontro successivo non hanno saputo trovare una spiegazione valida
del perché fu scelto come luogo di riunione l’Ente Cappabianca di Santa
Maria Capua Vetere e, soprattutto, un orario così assurdo per affrontare una
questione di vitale importanza per contadini e latifondisti.
Ad aspettare il gruppo, nell’antico palazzo di proprietà dell’Ente
Cappabianca, c’era il Presidente dell’ente e Presidente anche della Banca di
Conto e di Sconto Fossataro, il rappresentante dei soci Auriemma, un
rappresentante del Prefetto di Caserta e quelli della Federterra e della Cisl.
Dopo i convenevoli di rito, il Presidente Fossataro, pur esprimendo il suo
profondo disappunto per l’occupazione dei terreni di Torre Vecchia con la
forza, propose ai presenti che l’ente, per mettere fine ad un contenzioso e ad
altre azioni e manifestazioni, era disponibile ad offrire subito del terreno
che si trovava vicino al campo d’aviazione di Capua.
Questa proposta era una trappola. Fossataro era un uomo abile ed astuto e
cercava di sviare l’attenzione delle richieste sui terreni di Torre Vecchia e di
Cemice, di sua diretta proprietà, in modo che, se i presenti avessero rifiutato
tale offerta, magari perché i terreni erano molto lontano dal paese e difficili
da raggiungere con i mezzi che allora esistevano, avrebbe chiuso la partita
rinfacciando di aver rifiutato un’offerta ragionevole. In caso di rifiuto
definitivo, l’ente si sentiva sciolto da qualsiasi impegno preso con le
autorità.
I rappresentanti di Federterra, con Giovanni Canzano ed Antonio Del
Duca, dichiararono che un’offerta simile il Presidente Fossataro se la poteva
tenere per sé. Rappresentava solo un’estrema provocazione ed un’offesa per
tutti i contadini che volevano la terra da loro occupata e non altro e quindi
dichiararono di abbandonare la trattativa continuando la lotta con altre
manifestazioni di occupazione, sino a garantirsi ciò che si erano guadagnati
sul campo.
L’intervento del Presidente della Cooperativa “Il Popolo”, rispondente
alla Cisl, Michele Manica, che non aveva partecipato di persona alle
occupazioni delle terre, ma aveva mandato i suoi contadini insieme a quelli
organizzati dal Partito Comunista e da Federterra, disse, in modo molto
chiaro, che se l’ente non avesse rispettato l’impegno di dare in affitto i
terreni di Torre Vecchia e di Cemice, anche la sua sigla sindacale avrebbe
abbandonato la riunione ed avrebbe partecipato, con i comunisti, alle
manifestazioni di protesta ed alle future occupazioni delle terre.
Questo fu un colpo allo stomaco per Fossataro, che sperava, visto il clima
che allora si viveva di contrapposizioni forti tra comunisti e democristiani,
di rompere i due movimenti, metterli contro e far saltare le trattative.
Il Presidente Fossataro fece chiamare il gruppo di Federterra e del Partito
Comunista, che già stavano fuori dalla porta per andare via, e riaprì le
trattative.
Si arrivò ad un compromesso, accettato da tutti.
Del terreno di Torre Vecchia vennero offerti 32 moggi in fitto, da dividere
sul posto tra 32 famiglie appartenenti alle due cooperative Nuova Terra e Il
Popolo, e 70 moggi del terreno di Cemice e delle Salicelle da attribuire,
secondo le necessità dei contadini, alle due cooperative, ma tale operazione
si doveva concretizzare nella sede del Partito Comunista di Falciano.
Fu anche ufficializzato che la Federterra, attraverso il suo dirigente
Dugnano, avrebbe sostituito i rappresentanti dei contadini del carinolese
nello sviluppo delle trattative e la successiva concessione delle terre in fitto.
Si affrontarono, con l’aiuto del dottore Pitolo dell’Ispettorato Agrario, i
corrispettivi di fitto che i contadini assegnatari dovevano versare,
quantizzando per ogni moggio di terreno 4 tomoli di grano, detraendo il
30% per le migliorie agrarie che dovevano essere effettuate.
Il contratto di fitto fu vantaggioso per i contadini ed essi si sentirono
obbligati ad effettuare quelle piccole migliorie agrarie che, poi, cambiarono
il volto dell’intera zona.
La riunione si sciolse alle prime luci dell’alba seguente, con l’impegno di
rivedersi nella sede del Partito Comunista di Falciano il sabato successivo,
il giorno 27, alle ore 10.00.
Tutti furono presenti all’appuntamento del sabato 27 del mese di maggio
1950 nella sede del Partito Comunista di Falciano in Via Falerno, e vennero
assegnati i primi 50 moggi di Cemice, divisi tra le due cooperative che
rappresentavano tutti i contadini della zona del carinolese e le stesse, poi,
con identiche modalità, distribuirono i terreni ai loro soci.
Il sistema impiegato per l’assegnazione dei terreni fu quello di
confezionare tanti cartellini quanto erano i terreni, già divisi e numerati, e
altrettanti con il nome dei richiedenti.
I cartellini vennero posti in due cappelli diversi.
I presidenti delle due cooperative, alternativamente, estraevano il
cartellino dal cappello dei terreni che veniva abbinato a quello estratto dal
cappello contenente i nominativi.
Non tutti i richiedenti furono accontentati perché le richieste erano
superiori al terreno reso disponibile quel giorno; il resto, gli altri 20 moggi
di Cemice e delle Salicelle, venne assegnato sul posto sette giorni dopo,
come pure i 32 moggi di Torre Vecchia.
Il metodo usato per l’attribuzione dei terreni fu sempre lo stesso.
Il tanto coraggio dimostrato da dei poveri contadini veniva finalmente
ripagato in modo tangibile, ora potevano coltivare un pezzo di terra, per se
stessi e per le proprie famiglie.
Si apriva una nuova e più propizia era, e fu festa per tutti.
I terreni del Parco di Tozza, occupati dai manifestanti in precedenza,
vennero considerati nel piano della Legge di Riforma Agraria per la
Campania, da espropriare, per essere assegnati con regolare atto di vendita
ai contadini. Una parte andò agli stessi che li avevano occupati, in modo da
creare quelle piccole unità di proprietà agricole come era nello spirito e nel
rispetto della legge.
I 115 moggi di terreno del Parco di Santo Spirito, una grande fetta del
Parco di Tozza, furono divisi in parti di circa 3 moggi e assegnati, nel giro
di 3 anni, ai circa 30 richiedenti aventi diritto, che si dovettero accollare,
oltre al pagamento annuale del mutuo trentennale, tutte le imposizioni
attuative riportate nell’atto di acquisto. Su di essi gravò anche il
miglioramento fondiario, come la creazione delle strade interpoderali di
accesso.
Il resto di questo terreno era stato venduto precedentemente dai vecchi
proprietari e non entrò a far parte del pacchetto di esproprio.
Questa fu un’ulteriore vittoria dei contadini e dei salariati della zona,
aiutati anche dalla desistenza dei vecchi proprietari a ostacolare, come
fecero altri latifondisti, l’attuazione dell’esproprio. Questa remissività dei
“signori” subita obtorto collo permise di accelerare la concessione dell’uso
dei terreni agli assegnatari.
L’assegnazione dei terreni dei Carabottoli, terreno demaniale e gestito
dal Comune di Carinola, ebbe un percorso molto difficile e gli ostacoli
messi in campo dai politici che gestivano il Comune di Carinola, in accordo
con i loro referenti a livello locale e nazionale, causarono un notevole
ritardo per giungere ad effettuare e portare al termine le procedure
necessarie per mettere la parola fine ad un tira e molla che sarebbe potuto
durare all’infinito.
Ciò che frenava tutto era la preoccupazione degli amministratori del
Comune di Carinola, preoccupati che il frazionamento dei terreni, e la
successiva assegnazione in fitto agli aventi diritto nell’applicazione della
Legge Gullo, avrebbe portato un minore introito per il Comune. Tal cosa
avrebbe causato effetti negativi nel ripianamento dei bilanci, con la
prospettiva di chiusure in negativo.
Questa preoccupazione, oggi, a noi appare fuor di luogo e solo dettata da
interessi egoistici, se non addirittura affaristici.
Chiudere i bilanci consuntivi comunali in negativo, sino all’entrata
dell’Italia in Europa, era un esercizio abitudinario degli amministratori di
tutt’Italia, ed in special modo dei comuni del Sud della Penisola. Nei rari
casi di presentazione dei loro bilanci in pareggio reale, gli amministratori
erano ritenuti inefficienti ed incapaci!
Per il Comune di Carinola, la preoccupazione di non poter ripianare i
bilanci, dovuta al fatto di dare in affitto ai contadini richiedenti i terreni dei
Carabottoli, era solo una giustificazione di comodo e col fine ben preciso di
far rimanere le cose come erano. I politici di allora preferivano tutelare gli
interessi degli affittuari, latifondisti di fatto e non di diritto, che
condizionavano i vari rappresentanti del Consiglio Comunale di Carinola,
lo stesso sindaco e la Giunta.
Si giustificava affermando che erano in divenire vari progetti, proposti e
mai realizzati, di insediamenti industriali e persino di un aeroporto
internazionale. Col passare degli anni si scoprì il vero interesse di tali
politici e, come abbiamo amaramente verificato, pensarono di costruire in
quei luoghi una mega discarica, che avrebbe portato, a loro dire, ricchezza
per tutti, e non, come sarebbe avvenuto, la distruzione dell’economia
agricola della zona, una delle poche risorse ancora presenti sul territorio,
per non parlare della salute pubblica.
La fantasia, esercitata da anni di continue collusioni con i maggiorenti
dell’epoca, di amministratori e politici di allora, a livello locale e nazionale,
arrivò sino a promettere, dopo l’assegnazione dei terreni ai contadini, che se
lo avessero lasciato libero senza alcuna procedura, avrebbero avuto in
cambio posti di lavoro per l’intera famiglia presso i fantomatici impianti
che presto si sarebbero realizzati in loco.
Ma i contadini, benché sprovveduti, non caddero nell’inganno.
Un esempio per capire meglio.
Siamo nel 1980, ben lontano dalla storia qui raccontata, ed ancora la
favola di qualche cosa di grandioso frullava nella testa degli amministratori
del Comune di Carinola, tanto da spingere il sindaco di allora, magg.
Gioacchino Loffredo, su autorizzazione della sua Giunta e tramite
l’avvocato Valerio Gaglione, a notificare ad Antonio Del Duca, affittuario e
Presidente della Cooperativa Nuova Terra, il rilascio del terreno in fitto ai
Carabottoli per pubblica utilità.
Si riportano le motivazioni: “il Comune di Carinola ha urgente necessità
di disporre di detto fondo totalmente libero da persone e cose stante
l’urgenza di realizzare opere indilazionabili aventi carattere di pubblica
utilità, dal momento che a tale scopo è stata destinata l’intera area”.
La maggior parte degli affittuari, stanchi per il duro lavoro che tali terreni
richiedevano e stremati da sollecitazioni ed imposizioni che giornalmente
ricevevano da parte degli amministratori del Comune di Carinola, ma
soprattutto la dilagante emigrazione che spinse molti degli assegnatari a
cercar miglior fortuna in Svizzera o in Germania, lasciarono i terreni,
perdendo le conquiste ottenute dai loro coraggiosi padri con rischi e
sacrifici enormi.
Oggi chi va ai Carabottoli ha la prova provata sia dell’inganno perpetrato
nei confronti di quei poveri e diseredati contadini, sia dei sogni e delle
chimere industriali che affollavano le menti di tutte quelle persone che,
direttamente e indirettamente, amministravano il Comune di Carinola.
I Carabottoli, tranne qualche miglioria apportata dai contadini di allora, è
rimasto il terreno di sempre: un terreno destinato al pascolo e poco al
seminativo.
I Carabottoli vennero anch’essi assegnati, pur con le tante resistenze che
dovettero rientrare nel momento in cui intervenne il sindacato Federterra e
il Partito Comunista a richiedere l’applicazione della Legge Gullo. Per quel
terreno demaniale ed incolto intervenne in modo perentorio anche la Cisl,
nella persona del suo segretario di zona, sig. Lillo, di Sessa Aurunca, che
minacciò che se non si fosse passato subito all’assegnazione dei lotti di
terra ai richiedenti attraverso le loro cooperative, anche il suo sindacato si
sarebbe unito alla Federterra, in modo deciso, per l’occupazione con la
forza dei terreni di Carabottoli a tempo indeterminato.
Politicamente gli amministratori del Comune di Carinola si sentirono
scoperti e a malincuore dovettero cedere, pena non avere più benefici e
vantaggi che venivano sicuramente assicurati dal sindacato democristiano.
Vennero richieste alle due cooperative, Nuova Terra ed Il Popolo,
l’elenco dei loro soci e ad ognuno fu mandata una lettera di convocazione
per presentarsi in sede onde verificare l’esistenza delle caratteristiche
richieste per l’assegnazione delle terre incolte.
Tutte le operazioni, lunghe e laboriose, vennero svolte alla costante
presenza dei presidenti delle due cooperative e dei sindacati Cisl e
Federterra.
Il terreno venne diviso in 4 parchi e ai contadini richiedenti di Falciano
ne vennero attribuite 51 moggia, quasi tutte del quarto parco, al di là del rio
Agnena.
I nuclei familiari con cui fu stipulato il contratto, cioè tutti i richiedenti di
Falciano, senza distinzioni di appartenenza politica o sindacale, furono 38.
Si stabilì anche un fitto annuo da pagare, che era di lire 18.000 per ogni
moggio di terreno.
Il fitto doveva essere pagato dagli interessati presso la Tesoreria del
Comune di Carinola.
La Cooperativa Nuova Terra si impegnò, con il suo Presidente Antonio
Del Duca, a raccogliere dai suoi soci i canoni da pagare annualmente, anche
per tranquillizzare gli amministratori di Carinola su un introito certo
annuale e per meglio tutelare il contratto degli stessi soci.
Da testimonianze acquisite molte volte, il Presidente della Cooperativa di
Nuova Terra, per evitare di presentarsi con qualche fitto inevaso alla
Tesoreria del Comune, anticipava di propria tasca la somma necessaria e, a
volte, le somme anticipate non venivano recuperate.
Questi episodi, anche se rari, significano che i contadini di difficoltà,
allora come oggi, ne avevano perché la produzione di ciò che seminavano
era aleatoria, legata alla bontà o meno delle stagioni.
L’occupazione delle terre incolte tuttavia portò in quel periodo un
beneficio enorme ed inatteso, un centinaio di famiglie di contadini di
Falciano realizzò il suo sogno: avere un po’ di terra per potersi sfamare.
Michele Manica, Presidente della Cooperativa Il Popolo, ebbe assegnati
due moggi di terreno a Cemice e li rifiutò perché era un caporale, portava le
persone a lavorare per gli altri, ed il suo sogno era solo quello di aiutare gli
altri ad avere un pezzo di terra.
A Giovanni Canzano la sorte destinò il fitto di una quota di terreno dei
Carabottoli, ma rinunciò anche lui perché era un sarto ed un rivoluzionario
convinto, che credeva nella lotta per la giustizia e la libertà e che la terra
doveva essere lavorata da chi sapeva farlo.
Antonio Del Duca ebbe in fitto, come Presidente della Cooperativa
Nuova Terra, un pezzo di terreno dei Carabottoli, era un contadino come i
suoi fratelli, con i quali divideva ciò che possedeva e non poteva rinunciare
a quella terra, ma dedicò il resto della sua vita ad aiutare i soci della sua
cooperativa, organizzandoli nel lavoro e raccogliendo i fitti da portare e
versare nelle casse del Comune di Carinola.
Ancora oggi suo figlio, Raffaele Del Duca, ricorda i suoi viaggi in
motocicletta, insieme al padre Antonio, quando l’accompagnava a Carinola
a versare i fitti dei soci della cooperativa.
Sognare per un bambino non costa niente, perché sicuramente un angelo
buono, se i suoi sogni sono buoni, li realizza. Sognare per un adulto, e
soprattutto per un contadino, può costare una vita intera di sacrifici, di
rinunzie, di sofferenze, di delusioni e di fatica, ma se si realizza questo
sogno significa che ancora una speranza accompagna il mondo che,
apparentemente, può sembrare distratto e senza futuro.
La storia che si è raccontata in queste pagine è quella di un sogno di tanti
stremati contadini che seppero, però, sognare e lottare per un ideale alto e
nobile, a sprezzo di ogni pericolo. Questi uomini, uomini veri, lasciano ad
ognuno di noi un’eredità morale incalcolabile e, purtroppo, spesso ignorata.
In un mondo che ha smarrito i suoi valori fondamentali, forse non è più
possibile rifarsi all’insegnamento di speranza lasciato dai padri.
Contadini e salariati nel 1949, guidati da Giovanni Canzano, Antonio Del
Duca, Enrichetto Stodo ed altri, andarono ad occupare le terre incolte e
quelle dei latifondisti, con convinzione ferma e la speranza irrinunciabile di
rompere in modo definitivo il monopolio di poche famiglie. Famiglie forti
del potere ricevuto da possesso, gestione e controllo dei latifondi, con
l’appoggio delle leggi in vigore e quello di politici corrotti e protervi.
Conveniva un po’ a tutti tenere a terreno improduttivo, come prigioniere di
chissà quale guerra, tante terre fertili. Questi contadini, pur privi quasi
sempre di istruzione, capirono che la conquista di quelle terre li avrebbe
affrancati da una miseria perpetua. Capirono che l’unica speranza era quella
di reclamarle e che, solo loro, con l’esperienza accumulata in secoli di
lavoro agrario, potevano trarne frutti tali da assicurare il pane ai loro figli e,
cosa ancor più irrinunciabile, dignità, fierezza, orgoglio. Questa la molla
che li spinse a rischiare la vita, perché la loro vita, così com’era, non aveva
senso: dovevano conquistarsi il futuro.
Corso del Re e le sue “Basole”
La corte dei Toscano
Via Falerno – Sede del P.C.I. degli anni 50
Un vicolo di Falciano del Massico
La fuga
Chi vive a Falciano da sempre prova una grande gioia nel rivedere, a
scadenza annuale, durante i mese di luglio e agosto, i suoi ormai vecchi
parenti e gli amici d’infanzia che ritornano per trascorrere un periodo di
riposo nei luoghi dove sono nati. Luoghi abbandonati per una vita
immaginata migliore e che, spesso, non è stata tale. La ricerca di un
eldorado che non esiste, la frustrazione di un’esistenza lontana dalle proprie
radici, questo il prezzo troppe volte pagato.
Queste sofferenze, la malinconia di vivere un altrove che non è il loro,
accresce la brama di ogni, sia pur breve, ritorno. Ritrovare volti che fanno
parte di una storia comune, riavvolgere la pellicola del tempo, spostandola
all’indietro, illudersi che niente sia cambiato, questo è lo scopo più intimo
di questi viaggi verso il proprio paese. Il paese dove fiorivano i sogni della
giovinezza ormai lontana, i primi teneri amori, la casa della madre,
costituiscono ricordi che niente può cancellare, ricordi che fanno vacillare
la fede in quell’agiatezza economica di qualcuno – ma ad un prezzo troppo
alto – emigrando in Svizzera, Germania, in ogni parte del mondo. Come
sarebbe bello rinunciare a tutto e tornare quei fanciulli di un tempo remoto,
quando si era ancora capaci di sognare. Un conforto, seppure velato di
malinconia, si riceve da quei pochi trascorsi dove è rimasto il cuore, dove
ancora si svolge la festa di metà agosto, più bella, più propria di quelle,
spesso più ricche, viste in paesi lontani. Per questo si torna vecchi, malati,
stanchi: è un’esigenza dell’anima che non si può soffocare.
È l’eterna storia di chi per necessità, o per avventura, è andato via e
ritorna nel proprio paese, dove vorrebbe rimanere per sempre ma deve
andare via, ancora una volta, perché ha impiantato la sua vita e la sua
famiglia altrove.
Nei giorni depressi del dopoguerra, la gente del luogo aveva lottato per
migliorare le proprie condizioni di vita, riuscendo, tramite la sua parte più
povera, contadini e salariati, a guadagnarsi quel pezzo di terra tanto
sognato. Dopo, e sembra quasi una vendetta della storia, tutto è stato
perduto e si è tornati, come ha affermato una testimonianza, ancora a
“morire di fatica” per coltivare quella terra tanto desiderata.
Si diede ascolto a ciò che veniva riferito, e enfatizzato, da chi aveva
tentato di cambiare la sua vita scegliendo di partire all’avventura,
inseguendo il sogno di costruirsi un’esistenza meno grama lontano dalla
propria terra. Sogno che quasi sempre si era trasformato in una sconfitta.
Il decennio che va dal 1950 al 1960, in cui il Nord Italia aveva necessità
di braccia per le sue industrie, calamitò frotte di persone semplici e povere
desiderose di conquistarsi una vita migliore.
Questi poveri partirono per il Nord, credendo di trovarvi un’agiatezza che
non avevano mai conosciuto.
Per questa illusione sopportarono la pena di staccarsi dagli affetti di
sempre, dai luoghi che li avevano visti crescere e diventare uomini.
Affrontarono il disprezzo e la cattiveria di coloro che li avevano chiamati e
sfruttati, spesso trattati in modo disumano da chi avrebbe dovuto essergli
grato perché, non possiamo tacerlo, fu proprio con il lavoro di tanti
meridionali che le regioni industriali aumentarono la loro ricchezza. I
“terroni”, schiavi in un tempo a noi così vicino, lavoravano ancora una
volta al soldo, sempre lesinato, di chi non ebbe scrupoli a usarli come bestie
da fatiche, senza concedergli nemmeno quel minimo rispetto dovuto a ogni
essere.
Queste braccia mercenarie vennero chiamate in vari paesi stranieri, come
la Germania e la Svizzera, che avevano bisogno di lavoratori a buon
mercato per svolgere le attività più umili e faticose.
Era l’emigrazione di massa che dal Sud dell’Italia saliva al Nord e
sbordava nelle nazioni più vicine, che attiravano i nostri contadini e
braccianti alla ricerca di un nuovo eldorado che prometteva lavoro per tutti
e forti guadagni.
Il lavoro sì, ma umiliante, che provocava negli animi di tutti anche un
senso di ribellione perché rappresentava una perdita della propria libertà di
uomini.
Non esistevano orari e momenti di riposo, si lavorava sempre e
dovunque, fino allo sfinimento, controllati e additati con dispregio dai
lavoratori locali e dalle stesse popolazioni.
Le nazioni straniere e le città industriali avevano però bisogno continuo
di questa manodopera, per governare le loro stalle, per far produrre i loro
terreni, per costruire case e alberghi e per far funzionare e progredire il loro
apparato industriale.
Erano odiati ma necessari, sia al Nord d’Italia, dove li chiamavano
“terroni”, sia in Germania, Svizzera, Austria e Francia, dove li appellavano
“spaghetti o maccheroni”. La diffidenza non si scostava molto dal razzismo
e, quando qualche bel ragazzo del Sud Italia intratteneva rapporti
sentimentali con fanciulle del luogo, veniva minacciato, persino con
aggressioni fisiche.
I nostri emigranti, quasi sempre contadini e braccianti avvezzi ai lavori
più duri, portavano all’estero le loro mani piene di calli e i loro volti dalla
pelle cotta dal sole, elementi che li diversificano e rendevano facilmente
riconoscibili dai locali. Approfittando del disperato bisogno di guadagnare
di questi poveri stranieri, li impiegavano nei lavori più umili e faticosi, fatti
di molti doveri e rari diritti.
I loro salari, quasi interamente inviati a casa, assicuravano una vita meno
stenta ai congiunti rimasti in patria, questa necessità li spingeva a
sopportare di tutto.
L’Italia stessa aveva bisogno delle rimesse degli immigrati per garantire
allo Stato un afflusso di valuta pregiata che ne rimpolpasse le magre casse.
Avere un lavoro tutto sommato ben pagato, anche se lontano dalla propria
terra, permetteva di sostenere le loro famiglie e alimentava la speranza di
tornare un giorno con una somma che permettesse di costruirsi una casa e
acquistare un pezzo di terra. Magari impiantare un’attività, come quelle
viste nei luoghi di lavoro. Questo sogno spinse tanti uomini, prima da soli e
poi con tutta la famiglia, a partire per tante destinazioni ignote a loro, ma
quasi conosciute attraverso le parole di chi vi era già stato e che decantava
la bellezza dei luoghi e la facilità di guadagnare come non era possibile in
patria.
Quello che non sapevano, e scoprirono sulla loro pelle questi moderni
cercatori d’oro, era che affrontavano a una vita dove i guadagni sarebbero
costati fatiche dure e umilianti, sudore, lacrime, degradazione. Lo avrebbero
capito presto, ma era già troppo tardi per tornare indietro.
Il primo impatto scioccante l’ebbero nel vedere che la gente del luogo,
nel vederli arrivare con le tristemente note valige di cartone, legate da corde
o qualche cintura, e con grossi fagotti in cui erano avvolti miseri vestiti, li
guardavano con disprezzo e sorrisi ironici, quasi a dire che essi erano esseri
inferiori, servi sgraditi ma necessari. Braccia per arricchire maggiormente il
loro paese, e mai fratelli più sfortunati.
La cruda realtà si presentò subito ai loro occhi: era molto difficile trovare
un luogo per andare a dormire, un tetto per riposare dopo l’estenuante
lavoro, un desco decente per sedersi intorno ad un tavolo, insieme ad altri
sventurati, per consumare un povero pasto, condito da troppa malinconia.
Molte testimonianze sono concordi nel riferire che veniva loro negato,
specialmente nei primi anni di forte immigrazione, di avere una casa dove
poter congiungersi con la propria famiglia.
Le uniche disponibili erano case vecchie, praticamente in rovina, situate
in squallide periferie, oppure, per chi lavorava nelle fattorie, vicine alle
stalle.
Era una situazione drammatica per tutti.
Agli immigrati, appena arrivati, un temporaneo sollievo lo offrivano i
cosiddetti luoghi di passaggio, messi su dai lavoratori giunti in precedenza,
una specie di catena di solidarietà. Attraverso il passa parola e le varie
conoscenze, si utilizzavano come luoghi di rifugio per chi non aveva dove
alloggiare.
Erano piccole costruzioni in lamiera che servivano per costudire gli
oggetti di lavoro dei muratori e situate vicino ai cantieri di costruzioni.
Catapecchie che hanno visto passare masse di uomini la cui unica ricchezza
era, forse, la speranza.
Questa catena di solidarietà, nata spontaneamente, faceva in modo che
nessuno si sentisse completamente solo, trattato come un essere inferiore
persino alle bestie. Almeno tra conterranei questo spirito di fratellanza era
vivo e mitigò assai tante ore di scoramento, la nostalgia di un lontano
ritorno al proprio paese. Forse gli italiani non si sono mai sentiti fratelli
come quando si incontravano all’estero.
Nelle grandi città del Nord Italia e nei principali luoghi di vasta parte
dell’Europa si erano creati dei gruppi, tra i primi giunti all’estero, che si
spesero molto nell’aiutare chi veniva dopo di loro, cercandogli luoghi di
fortuna dove alloggiare.
Questo clima di solidarietà frenò l’impulso di un ritorno immediato e
spinse i più a stringere i denti e rimanere per non sentire l’onta del
fallimento totale dell’aleatoria impresa. Senza deludere chi li aspettava e
sperava che una vita migliore potesse nascere da quell’avventura.
Furono anni di duro lavoro e di forti umiliazioni che portarono la
maggioranza di essi, dopo aver messo da parte un modesto capitale, a
ritornare nel paese da cui erano partiti. Gli altri rimasero richiamando la
propria famiglia oppure creandosela sposando persone del luogo, spesso
compatrioti.
Alcuni sono restati definitivamente e quelli che sono tornati al paese lo
hanno ritrovato quasi come l’avevano lasciato. Un paese che ancora
conserva la memoria della sua storia.
Il ritorno per tutti fu amaro e difficile, anche se quasi tutti provvidero a
sistemare le proprie case o a costruirsene una nuova con il ricavato delle
loro fatiche. Quasi nessuno ritrovò quello per cui avevano combattuto e
sofferto nel passato, cioè la terra da coltivare, perché, per motivi diversi, i
campi erano passati a nuovi padroni, venuti a causa di un’immigrazione
locale, soprattutto dall’hinterland napoletano. Lavoratori infaticabili,
efficienti e produttivi.
Così trovarono altri contadini e agricoltori che, venuti dalle città più a
sud della Campania, tipo Giugliano e Parete, avevano prima preso in fitto i
terreni lasciati liberi e poi li avevano comprati. Importarono nuove tecniche
agrarie, in zona non praticate fino ad allora, soprattutto estese piantagioni di
frutteti che, assicurando una resa maggiore, fecero la loro fortuna.
La maggior parte degli emigranti si trovarono, ancora una volta, senza
terreno da coltivare, che i loro genitori, animati da rabbia e disperazione,
dalla molla di una povertà insopportabile, avevano conquistato proprio per
quei figli che, affascinati da rapidi e utopistici guadagni, per molti mai
ottenuti, li avevano abbandonati alla mercé dei nuovi padroni.
Questi emigranti di ritorno sono sempre rimasti dei contadini nel
profondo del cuore e nei comportamenti, ma senza la terra.
Un esempio indicativo.
Quasi tutti i terreni del Parco di Tozza, che erano stati assegnati dall’Ente
Riforma a contadini e salariati che avevano lottato rischiando la propria
incolumità, una volta riscattati, vale a dire il giorno che potevano dirli
davvero propri, sono stati venduti o svenduti a poche persone, creando
ancora tanti piccoli latifondisti locali.
Sembra una storia incredibile, ma è la reale storia di queste terre.
È lecito domandarsi, come avvenuto durante le tante interviste, quale fu
la reazione di chi ritornava da emigrato all’estero in paese per godersi
qualche giorno di riposo e ritrovare i volti del passato.
L’accoglienza di parenti e compaesani era, come sempre, calorosa ed
affettuosa nei confronti di chi ritornava nel proprio paese, ma molti
notarono in questi emigranti alcuni piccoli cambiamenti, che portarono
gradualmente i residenti a essere meno partecipi e desiderosi di intrattenersi
con coloro che li avevano lasciati. Vi fu, in effetti, una larvata esclusione di
quelli che tornavano dalla vita dei residenti.
L’accoglienza meno entusiasta di un tempo verso chi era stato assente
derivava in gran parte dagli atteggiamenti acquisiti dagli emigranti che,
forse per darsi un tono meno provinciale, ma sicuramente più ridicolo e
falso, imitavano i comportamenti delle popolazioni straniere, snaturando
così la loro ancestrale vocazione contadina.
Anche il modo di parlare aveva acquisito cadenze e toni estranei, non
accettati dai vecchi e tradizionalisti paesani.
Questi atteggiamenti pacchiani, con una notevole e amara vena di ironia,
venivano irrisi dai vecchi del paese, che certo non lesinavano i loro salaci
sfottò.
Capitò anche qualche vivace alterco quando i residenti rimasti in loco si
mostrarono insofferenti agli esotismi importati, basati soprattutto su un
modo di parlare di persone che, sino all’anno prima, parlavano solo il
dialetto locale. La pretesa di questi ad atteggiarsi a persone evolute – e non
lo erano! – appariva come un gesto profanatorio verso la terra madre che li
aveva generati figli comuni.
I “villeggianti” si vedevano girare per strada con vestiti sgargianti, troppo
colorati per non apparire ridicoli, scarpe lucide e dalle fogge improbabili
ostentate particolarmente la domenica, durante il via vai della messa delle
11, oppure a sera, dopo cena, girando per le strade del paese con
l’intenzione di mostrare una ricchezza e una modernità che, in realtà, non
possedevano.
Il modo per ostentare il loro benessere parve quasi uno schiaffo a quelli
che erano rimasti troppo attaccati alle radici per lasciare il paese, andando
incontro a un’avventura dall’esito incerto e che, in qualche modo, sembrava
offendere la memoria dei padri.
Si prefiguravano, questi vecchi abitanti, il ritorno definitivo di coloro
che, una volta che non fossero stati più utili alle esigenze dei padroni,
sarebbero stati ricacciati alle loro case, espulsi come corpi estranei, perché
come tali venivano percepiti da chi non li aveva mai effettivamente
accettati.
Ritornare in paese dopo anni, pur con una discreta pensione, era un mesto
ritorno alle origini, perché non era più possibile ricostruire i legami e gli
affetti del passato. I compagni della gioventù, quelli che avevano comuni
sogni e interessi, o non esistevano più o erano cambiati, comunque
indisponibili a ripristinare la comunità di vicinanza di un tempo finito per
sempre.
Molti ricordano ancora varie spavalderie di cafoni arricchiti, magari solo
nel loro immaginario, che non avevano il senso della misura nel manifestare
agli altri il loro, più che altro presunto, benessere economico.
Ci fu qualcuno, ma, come affermano varie testimonianze, questo era un
deprecabile atteggiamento di quasi tutti coloro che ritornavano dalle città in
cui erano emigrati, che si presentava nei vari negozi, pochi allora, o nei bar
e dai barbieri e, per pagare il servigio avuto, mostravano con ostentazione
agli allibiti presenti le banconote da 50 mila lire perché, come affermavano,
non possedevano biglietti di taglio più piccolo.
Si potevano vedere, nei bar dove andavano, soprattutto per esibire la loro
condizione di nuovi ricchi, offrire da bere ai presenti, che ben accettavano
l’invito, e tentare di dialogare con loro raccontando, tra un bicchiere di birra
ed un tiro di sigaretta straniera, la loro vita di città, infiorettandola di
fantasie ed esagerazioni che, se per una volta trovavano ascoltatori attenti,
dopo venivano lasciati soli.
Questi atteggiamenti di supposta superiorità che rasentavano la
strafottenza indisponevano la gente del paese, che aveva fatto una libera
scelta nel restare a vivere nelle terre dei padri. Non si erano fatti lusingare
dalle prospettive di mirabolanti ricchezze in paesi lontani e, in fondo, erano
fieri di aver preferito una vita più grama, forse, ma anche di minor
soggezione a padroni protervi.
Capivano anche il coraggio di chi, con qualche valigia di cartone,
riempita più di sogni che di certezza, era andato all’avventura, sperando di
assicurarsi un avvenire migliore. Capivano, ma non potevano e non
volevano seguirli.
Quelli che erano rimasti avvertivano un muto rimprovero da parte di chi
era emigrato, stanco di dissodare una terra dura per averne poi un raccolto
che bastava appena a sfamarli, quasi a censurare l’attaccamento ad un
mondo che stava cambiando, un mondo migliore che loro cocciutamente
fingevano che non esistesse. No, non capivano, gli emigrati, questa
ostinazione a rifiutare le magie del progresso che portava i loro padri a
girare la faccia dall’altra parte.
Padri che avevano lottano strenuamente per guadagnarsi un fazzoletto di
terra, sostenendo enormi sacrifici per raggiungere scarsi risultati. Perché
rompersi la schiena su quelle zolle, spesso avare, quando ogni bene era a
portata di mano altrove? Un bene che, lo ammettevano, richiedeva di
rinunciare alle fierezza di un tempo, al sogno di liberarsi delle catene dei
padroni, ma che assicurava una prosperità mai conosciuta in precedenza.
Per questo non capivano i vecchi che sedevano davanti agli usci e li
guardavano, a volte, con una venatura di disprezzo.
Si è tentato di narrare i momenti di commozione e orgoglio di una storia,
quella della nostra terra, avvicinandosi con rispetto estremo a volti e
sentimenti di persone vere. Persone realmente esistite che, con il loro
coraggio, con amore immenso, con fatiche disumane, hanno dissodato le
zolle dove posano il passo i loro figli. Una terra che sa essere generosa e
spietata, una terra che deve essere soprattutto amata per dispensare i suoi
frutti. I contadini che si batterono fino allo stremo per farla propria seppero
amarla. Come una madre, come si si ama la speranza che dona luce al
domani e ne fecero, da aspra e incolta che era, campi fertili e ricchi. Essa
donò pane ai suoi figli, donò l’affrancamento da secoli di sottomissione
servile, donò – soprattutto – l’orgoglio di essere uomini che non dovevano
più chinare il capo di fronte a chi li affamava. Non potevano non amarla e,
infatti, la difesero con ogni energia, poi, uno alla volta, tornarono ad essa.
Per sempre.
A questi uomini, rozzi, schietti, fieri, va il nostro pensiero e ci piace
illuderci di vederli ancora, con le zappe e la schiena curva, i volti cotti dal
sole e raggrinziti dal vento, assorti a scrutare il cielo sperando nella sua
benignità, commossi nel veder spuntare i germogli del nuovo grano,
ingentiliti dalla poesia degli alberi in fiore, una poesia che non sapevano
esprimere, ma che ugualmente inteneriva i lori cuori. Questi uomini sono
gli eroi della piccola storia che, con umiltà e passione, abbiamo voluto
narrare.
Essa è un piccolo dono di riconoscenza ai nostri padri.
Un saggio vecchio del paese amava aprire una zolla della sua terra e
aspirarne l’odore.
Per lui era il sapore del pane.
Ringraziamenti
Si ringraziano tutti coloro che hanno avvalorato attraverso la loro
testimonianza la veridicità del racconto ed in modo particolare:
Del Duca Raffaele, Rea Bambina, Migliozzi Sebastiano, Stanziale
Gelasio, Verrengia Maria Giovanna, Palazzo Gennaro e Novelli Margherita,
Pagliaro Caterina, Toscano Egidio, Verrillo Andrea e Verrillo Mario,
Marrafino Carlo e Caruso Iolanda, Tierno Salvatore, Canzano Adele e
Canzano Domenico, Lungo Rosa, Zannini Antonio (San Donato di
Carinola), Gaudiosi Orsolina, Stanziale Mattia, Orologiaio Rita e
Orologiaio Antero, Di Gregorio Marisa, Di Gregorio Mario, Zannini Carlo,
Sciaudone Mario, Capuano Rosa, Petrarca Angelo, Proietti Maddalena
(Casanova di Carinola), contessa Adalgisa Ideale Capece Galeota
(Vitulazio), Loffredo Maria Carmina, Verrengia Francesco (figlio di
Argentina Pisaturo), Vellone Giovannina, Toscano Luca, Torrico Pasquale,
Capuano Antonio, Maria Marrapese (moglie sindaco Santoro Giuseppe) e
Santoro Antimo, Passaretti Francesco, Abate Filippo, Verrengia Marco e
Verrengia Agostino, Paolella Giuseppe, Cerrito Giuseppe, Iannelli Vincenzo
(Enzo), Filomena Leone, Giuseppe Manica, D’Agostino Francesco, Maria
Zannini, Vincenzina Croce, Marrafino Antonio e Attilia Roma, Pasquale
Iannelli ed Isabella Zannini.
Si ringraziano per la loro collaborazione:
Consulente storico: prof. Mario Sciaudone
Critico letterario: Mario Aurilio
Archivio storico e fotografico del geom. Giuseppe Santoro
Archivio storico e fotografico del prof. Antonio Di Gregorio
Intervista del 1985 fatta a Giovanni Canzano e Michele Manica
Atti deliberativi del Comune di Carinola e di Falciano del Massico
Consulenza tecnica ed informatica Giuseppe De Cristofaro.
Bibliografia
AA. VV., Falciano del Massico… su questa pietra…, 1995
AA. VV., Mondragone – Storia-Folklore-Proverbi-Dialetti, 1980
ANPI – Fotostorie, Occupazioni delle terre, un’epopea contadina
P. Broccoli, Una Provincia meridionale tra miracolo e crisi, Caramanica
1996
L. Bussotti, Studi sul Mezzogiorno repubblicano: storia politica ed analisi
sociologica, Rubbettino
G. Capobianco, La questione Meridionale, Edizione Spartaco, 2004
G. Capobianco, Le vecchie inchieste del P.C.I. sul Meridione
G. Moltalbano, La repressione del movimento contadino in Sicilia (1944-
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Centro Studi Pio La Torre, Biografia di Pio La Torre – La Terra a tutti
S. Cocozzello, Una pagina di storia dell’Alta Irpinia
R. De Rosa, Morire di terra. Cinquant’anni fra le lotte contadine nel Sud,
Lacaita
Can L. De Stasio, Alle origini di Falciano del Massico – Appunti 1975
Can L. De Stasio, Scritti-Raccolta, ed. E.PRO.CA, 1998
Can L. De Stasio, S. Martino Eremita del Monte Massico, 1974
P. Iorio, Ricerca storica su “Le donne nella rinascita democratica di Terra di
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E. Sereni, La questione Agraria nella rinascita nazionale, Einaudi
L. Trezzi, Il movimento e l’organizzazione delle Cooperative, Treccani
S. Valentini – Una Sinistra da rifare – Il balzo del Mezzogiorno 1943 –
1993
R. Villari, La crisi del blocco agrario in Toscana e il Mezzogiorno
U. Zannini – Giuseppe Guadagno, San Martino e San Bernardo, Ist. Graf.
Edit. Ital.,1997
1949 – I fatti di Melissa
Fiano Romano – Storia del paese
La Piazza del Sapere, Feltrinelli, 2013
La Voce – Rivista
San Nicola La Strada, Eccidio di Melissa
.
Indice
Il sapore del pane
Storia dimenticata delle lotte contadine nel Sud
Presentazione 7
Prefazione 9
Introduzione alla lettura del libro 13
Un paese: usi e tradizioni del tempo
Una terra da riscoprire 19
Il paese e suoi abitanti 24
I mestieri e le feste 33
Le masserie, i caporali, il lavoro 49
La storia e gli uomini 62
Gli uomini e la politica 80
Le elezioni comunali del 1964 – I duellanti 99
Le lotte contadine
Le terre della speranza 121
La lotta per la terra 164
Il sogno realizzato 198
Il chicco di grano è vita 216
La fuga 230
Ringraziamenti 239
Bibliografia 241
{1}
ANPI – Fotostorie, Occupazioni delle terre, un’epopea contadina.
G. Moltalbano, La repressione del movimento contadino in Sicilia (1944-1950).
{2}
ANPI – Fotostorie, Occupazioni delle terre, un’epopea contadina.
G. Moltalbano, La repressione del movimento contadino in Sicilia (1944-1950).
{3}
ANPI – Fotostorie, Occupazioni delle terre, un’epopea contadina.
G. Moltalbano, La repressione del movimento contadino in Sicilia (1944-1950).