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Le fotografie fanno parte della collezione privata dell’autore, dell’archivio storico e fotografico del
geom. Giuseppe Santoro e del prof. Antonio Di Gregorio.
 
 
Giuseppe Toscano
 
 
 
 
IL SAPORE DEL PANE
 
Storia dimenticata delle lotte contadine nel Sud
 
 
 
 
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Copyright © 2014
Giuseppe Toscano
Tutti i diritti riservati
 
 
“Ai contadini della mia terra.”
 
 
 
 
 

Presentazione
 
 
 
 
 
In questo racconto, Giuseppe Toscano ci parla di una generazione vissuta
nel periodo post-bellico nell’Agro Falerno, non dissimile dai luoghi
limitrofi, laddove i problemi di sopravvivenza erano gli stessi.
Un libro scritto con il cuore e quindi limpido come l’acqua che nasce
dalle fonti alpestri, candido e soffice come fiocchi di neve che ricoprono i
monti e la pianura.
I profumi che esso dona sono quelli del mirto, dell’albicocca, del ciliegio,
del sole e della luna.
Ma l’interprete del racconto è l’uomo in senso lato.
Preciso: l’uomo che soffre, gioisce e con tenacia riesce a vincere un
terreno con mezzi rudimentali, un terreno arido ed indomabile, ma che egli
ama nonostante le avversità, poiché esso rappresenta l’unica fonte di
sopravvivenza e sostegno per lui e la sua famiglia.
Buona lettura,
 
Luca Toscano
 
 

Prefazione
 
 
 
 
Una cosa che l’autore dovrebbe chiedersi quando si accinge a scrivere è se
la sua fatica abbia un motivo di essere. In una nazione dove gli scrittori
sono in numero soverchiante rispetto ai lettori, sarebbe onesto limitare il
novero delle offerte, proponendosi solo quando si è in grado di offrire una
creazione artistica di pregio reale.
Giuseppe Toscano, da fine pedagogo qual è, questa domanda se l’è posta
certamente, perché il testo che ci accingiamo a leggere ha tutti i requisiti
che uno scritto deve possedere per sperare di essere stampato e, soprattutto,
letto. Deve avere una propria anima, capace di appassionare il lettore, deve
scampare le trappole di banalità e retorica (ahi, troppe letture ci mortificano
con dettati insignificanti ed espressioni tronfie e roboanti, e questo deleterio
vezzo non incoraggia certo i lettori a recarsi nelle librerie), deve possedere
una sua magia, quella magia che solo una perfetta padronanza e bontà della
materia trattata assicura. L’autore deve amare la sua storia, crederci, avere
l’esigenza insopprimibile di condividerla, in punta di piedi, con chi ne sarà
giudice, forse amante. Sicuramente boia, se non ne trarrà un nutrimento per
l’anima. Sì, perché il lettore non ha nessun dovere di indulgenza verso colui
che lo tradisce offrendo alla sua fame un pane cattivo.
Assolutamente non tradisce questo libro: per l’interesse insito nel detto e
per la mano sicura e innamorata di chi lo ha vergato.
Precedute da un minuzioso, ma mai pedissequo, excursus su usi e
costumi della seconda metà del Novecento in un paese di un sud martoriato
dalle ferite della guerra, sono le vicende di un gruppo di contadini, quasi
tutti poveri braccianti, senza terra e senza speranze, senza futuro, che,
attraverso aspre e coraggiose lotte, vollero inventarsi un domani, scrollarsi
dalle spalle ricurve il peso di secoli trascorsi tra umiliazioni e ingiustizie.
Questi uomini miseri e nobili, senza istruzione, senza armi, se non quella
inesorabile della disperazione, seppero conquistare una dignità e una
speranza, riposte in un pezzo di terra – quella terra sempre lavorata, ma mai
per se stessi – strappata a proprietari biechi e insaziabili, latifondisti che non
sapevano amare nessuna terra, nemmeno quella che, pur senza le loro
fatiche, li rendeva ricchi e sprezzanti verso chi moriva di fame e angherie,
chi soffriva ogni giorno nel vedere i propri figli avviliti intorno a una tavola
troppo spesso desolatamente vuota.
Da queste inenarrabili frustrazioni nacquero le lotte contadine a Falciano
del Massico, teatro dei fatti narrati, e tanti altre parti d’Italia, soprattutto del
Meridione.
L’autore esplora un fatto storico di assoluta importanza che, per motivi
quasi imperscrutabili, ma certamente non onesti, è stato volutamente
rimosso e occultato dagli annali del territorio.
Una vicenda che, finalmente, si illumina di un’aura che ci piace definire
mistica, di un riverbero di concreto eroismo, quello degli ultimi che sanno
lottare per riscattarsi, forse l’eroismo più l’alto che un uomo, se tale vuole
essere, può esprimere.
Se questo racconto fosse scritto male (e non lo è!), se l’indagine storica
condotta fosse carente (e non lo è!), ugualmente Toscano meriterebbe la
gratitudine del lettore, almeno per aver iconizzato, ponendo sotto un vivido
raggio di luce, una storia che merita un riconoscimento ufficiale, una storia
che onora degnamente chi ne fu protagonista e che dona orgoglio e
commozione alle generazioni attuali che, dal sangue di quegli impavidi,
discendono.
L’Autore, e risulterà chiaro anche ai lettori più sprovveduti, intinge la sua
penna nell’inchiostro dell’amore: per la sua terra amatissima e martoriata,
per chi lottò per averla, per ogni persona che sa sollevare la schiena e farsi
uomo.
 Un amore, come si diceva all’inizio, scevro da retorica e coup de théâtre,
facili artifici impiegati per impressionare il lettore meno esigente.
E così deve essere quando si possiede una vocazione alla scrittura e una
necessità del dire, una simbiosi appassionata con ciò che si sta scrivendo.
Così deve essere per poter offrire un dono prezioso a chi sfoglierà le sue
pagine.
Se Toscano fosse stato un giovane in quegli anni, si sarebbe visto in
prima fila a fianco dei coraggiosi del tempo. Di tali uomini è figlio, ma ne
sarebbe stato sicuro sodale e fratello…
 
Nicola Aurilio
 
 

Introduzione alla lettura del libro


 
 
 
 
 
Il libro che stai per leggere, caro lettore, appartiene ad un genere letterario
alquanto difficile da definire.
Qualcuno potrà considerarlo una specie di romanzo, senza una storia di
personaggi che possono colpire la fantasia per far sognare o divertire i
lettori incauti, altri possono considerarlo un insieme di vari racconti
popolari o di vita di un paese del Sud Italia, appena dopo la Seconda Guerra
Mondiale, senza un nesso logico di appartenenza, altri un inutile sforzo
fatto per far rivivere alcuni momenti di vita di contadini e salariati che
occuparono le terre incolte, sia demaniali che del latifondo esistente, ma che
oggi può interessare alle poche persone ancora viventi, che sono state gli
eroi, come si dirà, nel libro di un periodo che nessuno più ricorda o non
vuole ricordare e non si sa il perché.
Non è nemmeno un manuale di storia, perché gli manca l’organicità, il
taglio didattico e la consequenzialità degli avvenimenti.
La categoria di questo libro a cui si potrebbe far riferimento, per
accontentare qualcuno che vuole per forza etichettare anche l’aria che
respira, è quella della memoria, che riscopre attraverso le testimonianze dei
sopravvissuti il passato di un paese, il vissuto di un popolo, il dramma della
povertà e dell’indigenza, il desiderio di riscattarsi dalla sottomissione e dai
soprusi, l’avventura e le pene per la ricerca di un pezzo di terra da coltivare
e la fuga dalla stessa terra per la cui conquista si rischiò, persino la vita.
È anche il raccontare la vicenda umana di personaggi che erano contadini
e braccianti per la maggior parte, eppure seppero vivacizzare con le loro
azioni un paese di per sé amorfo per portarlo a riprendersi ciò che aveva
sempre avuto come massima aspirazione, ma che per tanti anni non aveva
potuto ottenere: la libertà di poter decidere e la speranza in una terra che ora
poteva essere sua.
La protagonista presente in ogni pagina di questo libro è questa terra
tanto amata e desiderata, ma incolta ed abbandonata, che genera intorno a
sé storie di uomini e avvenimenti che si unificano e trovano un motivo di
essere nel momento in cui essa trova una nuova dignità nelle lotte contadine
che portarono alla sua conquista da parte di chi lottò per averla, e vinse.
Terra che vivrà, poi, un periodo di delusione, perché gli uomini che
avevano tanto bramato di averla poi l’abbandonarono, incantati ed attratti
dalle grandi città industriali del Nord Italia e dai vari paesi stranieri europei
che promettevano lauti guadagni, ma anche abbrutimento, sottomissione e
delusioni.
La cornice che racchiude tutto il racconto è la presenza di un popolo
silenzioso che, attraverso le sue abitudini, le sue tradizioni e le sue speranze
offre un segno di vitalità ancestrale che nei nostri giorni si è persa.
Questo libro, dunque, è la storia di questa terra, di questo paese, di quegli
uomini e di quelle donne che si ricordano nello sviluppo della narrazione, e
di nessun altro.
L’idea e la volontà di scrivere ciò che, appresso, viene esposto nei vari
capitoli di questo libro è scaturita da due interviste che furono fatte a
Giovanni Canzano e Michele Manica, nel lontano 1985, appena dopo la
tornata elettorale per l’elezione del sindaco del paese e per il rinnovo del
Consiglio Comunale.
Questi due personaggi, a modo loro e secondo le proprie convinzioni e
militanza politica, vollero raccontarmi, con due lunghissime interviste, la
loro storia vissuta come dirigente del Partito Comunista Italiano e come
esponente della Cisl, e la storia, come loro l’organizzarono e la vissero,
delle occupazioni delle terre incolte demaniali, e parallelamente l’attuazione
della Legge di Riforma Agraria del 1950.
Durante le due interviste, che in generale coincidono nel racconto dei
fatti accaduti, ma con sfumature profonde dal punto di vista di azione e
interpretazione politica, ho potuto notare una convinta partecipazione al
racconto dei fatti, quasi li rivivessero attraverso le loro parole, un
rammarico profondo perché di tutta quell’esperienza drammatica, ma
positiva, sicuramente esaltante, ormai se ne stava perdendo la memoria e
vedevo nei loro occhi la richiesta di fare qualcosa perché ciò non accadesse.
Si è voluto riprendere queste due interviste e si è voluto procedere ad un
riscontro del loro contenuto per validarlo attraverso un lavoro di ricerca di
persone ancora viventi che parteciparono e determinarono quegli eventi,
persone che erano vissute a fianco dei personaggi che vengono narrati, i
documenti originali che sono stati, a fatica, ritrovati e concessi alla
consultazione ed altro, come una visita accurata a tutti i luoghi che vengono
indicati nella narrazione.
È stata anche fatta una ricerca di fotografie del tempo, che possono essere
di supporto alla migliore comprensione delle descrizioni fatte, dei costumi e
delle abitudini del periodo che viene narrato.
Circa 80 persone, varie volte, sono state sentite, ed il loro racconto è stato
registrato e salvato per conservarlo a futura memoria. Il tempo impiegato di
registrazione è di circa 48 ore.
Da tutto è venuta fuori una narrazione che per ben capirla richiede uno
sforzo ideale per recuperare, chiudendo gli occhi, la memoria di quel
tempo.
Questo libro viene affidato allo studio delle giovani generazioni per poter
recuperare la consapevolezza di un tempo difficile, triste e faticoso, ma
ancorato al sogno di un futuro di speranza, e per non dimenticarlo e non
perdere gli ideali in cui quei contadini e salariati credevano
È una storia in cui vive un intero paese: Falciano del Massico, il nostro
paese.
 
L’Autore
 
 
 
 
 

Un paese: usi e tradizioni del tempo


 
 

Una terra da riscoprire


 
 
 
 
 
Mi sono trovato una mattina di mezza primavera su una di quelle stradine di
campagna che si inerpicano sulle colline che fanno da contrafforte al Monte
Massico e che digradano verso l’inizio della pianura campana.
Quella parte che guarda verso il Monte Somma, sul fondo, e, ai lati, è
quasi abbracciata dai contrafforti delle montagne del Matese.
Ero solo con una bambina e guardavo questa grande distesa di terra che si
allunga verso il Sud, e pensavo. Guardavo i vari colori dipinti nella distesa
dai tanti alberi a diversa coltura, che sembravano scrivere nel tempo la vita
pulsante di una terra e di una moltitudine di persone. Persone che avevano,
nei vari momenti, con la voglia di vivere, amato questa terra, facendone un
luogo, nel tempo e nello spazio, dove la stessa vita desiderava ritornare per
dare la speranza al futuro delle giovani generazioni e soprattutto dignità ai
suoi abitanti.
Mi domandavo anche come potevo ricordare questa terra alla mia piccola
nipotina che, ogni tanto, nella sua vivacità e con il suo chiacchiericcio mi
chiedeva perché vi erano tanti fiori e tanti alberi con colori variopinti per le
strade che si vedono uscendo da casa sua e nelle stradine nei dintorni del
paese dove la portavo a passaggio.
Questa bambina, ancora oggi, mi ricorda i profumi della primavera che si
avvertono andando a spasso per le stradine della montagna ed i viottoli che
portano nei vari campi o poderi, il profumo intenso del rosmarino e del
finocchietto selvatico, come i frutti rossi e neri e le bacche pendenti dai vari
alberelli di mirto, di corbezzolo e di sambuco.
Oltre all’osservazione di una bambina che sapeva sognare nel vedere una
primavera che si avvicinava alla sua esplosione, vi sono tanti progetti o
azioni che si realizzano con l’intelligenza ed il lavoro di tutti quelli che
amano la loro terra, la curano e ne sono gelosi come se fosse la propria
madre, di cui non possano fare a meno, anche quando sono costretti ad
allontanarsi per seguire le varie fortune che la vita può offrire ad ognuno.
È una terra felice ed ingrata nello stesso tempo.
È una terra che ti vuole bene come una donna innamorata pazza di te.
Ti dona tutta se stessa, ma ti tradisce appena ti distrai, perché ti vuole
tutto per sé.
Il suo humus, anche nei luoghi che poi narreremo, destinati a pascolo o
abbandonati, è pieno di quella vita che vuole conquistarsi un posto al sole e
che, appena viene rivoltato da una vanga, oggi con un trattore, subito ti
offre l’occasione di ricavare da essa il necessario per vivere e prosperare.
Non avevano torto i patrizi romani al tempo di Cesare ed Augusto a
scegliere questi luoghi per costruire le loro magnifiche ville in quanto
questa terra, oltre al clima dolce ed affascinante per la sua sensualità,
offriva frutti appetitosi e ricercati.
È una terra fatta per i disperati e per quelli che vanno sempre alla ricerca
della propria identità, perché in essa si trovano le risposte che per millenni
l’uomo si è posto.
L’origine stessa di ognuno di noi si trova scritta in questa terra difficile da
domare e da coltivare, ma in cui, quando l’affronti con il sacrificio e
l’amore, ritrovi te stesso con le tue speranze e le tue, a volte, illusioni.
Una terra che ti prende tutto e ti avvinghia e non ti lascia andar via,
perché se te ne vai via significa che l’hai tradita, che non hai capito il suo
messaggio scritto nei solchi profumati del primo maggese e disperato nella
calura estiva, quando le sue crepe, che si aprono, sembrano chiedere al cielo
un po’ di pioggia per dissetarsi, ed in cui puoi distendere il tuo braccio fino
al gomito, quasi per sentire il suo abbraccio e il suo desiderio di essere
curata ed accarezzata.
Essa aspetta con animo impaziente di incontrare, ad ogni alternarsi delle
stagioni, chi ama curarla per offrire, dopo un lungo travaglio di sofferta
partecipazione al sudore di intere famiglie, quei frutti che significano
sopravvivenza e vita per tutti.
Ti accoglie nell’avvicinarsi della primavera con i suoi odori e con i suoi
colori.
Bastano i primi tepori primaverili di metà marzo per vedere nei campi un
rigoglio di tanti variopinti fiorellini, che spuntano al momento giusto dalle
erbe rimaste dormienti per tutto l’inverno umido e freddo, per non
disturbare le varie colture e gli animaletti in letargo.
Vedi lungo le strade il riccio che si affanna per raggiungere la sponda
opposta della via e vivaci scoiattoli e donnole che si arrampicano sui rami
in fiore della primavera incipiente.
Le grandi chiazze di fiori di pesco, di melo e di albicocco che allietano i
primi tepori primaverili, cullati dalla lieve brezza che fa dimenticare le forti
e violenti folate di vento del mese di dicembre e di gennaio.
È la natura di una terra che si risveglia, come a omaggiare, con un
sentimento profondo di partecipazione, i cultori antichi di questi campi e
che gli dice che è giunto il tempo di prenderla per mano e accompagnarla
fino alla maturazione dei suoi frutti.
È la festa della terra di questo luogo felice, che ripaga i momenti amari e
duri del lavoro che ogni contadino deve affrontare nei momenti della calura
per dissodarla sotto il sole cocente, che comincia dalla tarda primavera e si
protrae sino alle prime giornate di settembre.
Poi questa terra, dopo il periodo di esaltazione che culmina con la festa
del suo vino rosso ed asprigno, forte e robusto come sono i crinali del
monte Massico su cui cresce la sua vite, se ne va in letargo aspettando
giorni migliori per riaprire nuovamente il suo ciclo di vita.
La vita del contadino di questi luoghi la segue come un cane fedele
nell’andare delle stagioni scandite dai frutti che essa produce e il lavoro
incessante che chiede a tutti.
Ogni abitante del territorio, abbiente o meno, ha segnato sul volto e nella
sua vita i colori di questa terra.
Si annulla ogni distinzione di appartenenza: tutti mostrano sul proprio
volto i segni di questa terra, anche se i mirabolanti ritrovati cosmetici
promettono di mitigare le offese recate dalla fatica sulla pelle di chi è nato
in queste terre e cresciuto tra le sue zolle.
Su ogni volto si legge la propria storia, che non è personale ma collettiva,
forgiata dalla lunga vicinanza, se non dall’assoluta appartenenza, al colore
brullo rossiccio di questa terra.
Si vedono le ruvide incavature dei volti che stanno a significare il lungo
lavoro e le estenuanti fatiche e quasi aspettano il sudore ristoratore che
scende dalla fronte per incanalarsi tra i suoi segni profondi ed antichi, come
la storia di questi contadini, lasciati sulle facce e nel profondo dei loro
cuori.
 
Il lungo camminare nell’alba di ogni giorno per raggiungere il luogo di
lavoro e di sofferenza, dove è in attesa la terra fumante della primavera o
arida e dura nel tempo caldo dell’estate, rimarca la sofferenza quotidiana di
ricerca di una risposta a una vita dedicata interamente a questa terra amata
sino allo spasimo, perché costituisce la vita e la speranza di tutta la
famiglia.
Le donne che si avviano dalla piazza del paese, ancora con gli occhi
appannati dal sonno, perché la giornata di lavoro è finita a tarda sera con il
governo della cucina dopo il frugale pasto della sera con la famiglia, ma
hanno ancora recuperato lo spirito e la forza di domandarsi, mentre il sole si
affaccia timidamente all’orizzonte, quale e come sarà la giornata che
trascorreranno in comunione con quella terra che devono dissodare e
mettere a coltura per ricavarne il pezzo di pane quotidiano.
Eppure vanno felici, perché sarà un giorno faticoso, che non finisce mai,
ma pure foriero di speranza per il loro lavoro, umile e utile, fondamentale
perché la terra dia il grano ed altro con cui vivere in modo dignitoso.
Gli uomini che avanzano spavaldi, come antichi cavalieri, con i vestiti
sempre uguali, si avviano indomabili verso la terra che li aspetta per iniziare
un dialogo muto nelle prime brume del mattino con i campi. Questa terra,
sino alla tarda giornata, sembra pregarli di attendere ancora un po’ per il
ritorno a casa, perché il sole si è attardato a raccogliere gli squisiti frutti
maturati al caldo sole del Sud.
Il ritorno a casa offre un minimo ristoro che li ritempra appena della dura
fatica del giorno di lavoro, ma già si pensa al domani.
È un ritorno felice per il giorno trascorso con la terra che si è amata e,
all’avvicinarsi al paese, qualche canzone della tradizione aleggia nell’aria,
quasi a lenire la loro stanchezza, nella sera profumata di primavera o piena
di calura estiva mitigata da un vento leggero e rinfrescante.
Si accendono le rare luci, mentre fuori si sente il respiro della sera.
È la storia di questa terra e di questi uomini che si racconterà nelle
presenti pagine. Una storia che, attraverso episodi minimi di amore e di
eroismo, vuole raccontare la vita che si perpetua nei volti di chi oggi appena
ricorda o ha già dimenticato.
 
 

Il paese e suoi abitanti


 
 
 
 
 
Sfogliare, oggi, la pagine di un album di fotografie che riproducono l’intero
paese alla fine degli anni 40 ed inizio degli anni 50, è come ritornare ad una
preistoria della memoria di un’epoca in cui provare a immergersi per
immaginare una realtà sconosciuta agli uomini contemporanei, ma che è
esistita con le sue passioni, le vittorie e le sconfitte che tutti incontriamo sul
nostro cammino.
Osservare con occhio più attento ciò che ancora esiste del passato, volare
con le ali della fantasia, entrare nelle case, camminare per i vicoli,
incontrare le persone e tutte le altre cose concernenti la vita di un paese che
è come avvolto in una nuvola e che con sforzo si lascia intravedere, ma che
è pronto a mostrarsi a chi vorrà seguire questa storia e a chi sarà capace di
immaginare la vita che pulsava nelle case di chi ormai, non le abita più.
Sarà come vedere un film scritto nella fantasia di ciascuno di noi e poi,
singolarmente, immergersi in tale immaginario come personaggio discreto
ma interessato al vivere di ieri, che allora era un vivere pieno e che trovava
in questi luoghi, poveri ma solidali, una risposta alle fatiche e alle speranze.
Il paese non era quello che oggi si vede.
Ridotto, minimo, si sviluppava nel senso longitudinale Est Ovest
allungandosi con un grumo di case verso la parte alta, quasi a volersi
aggrappare alle pareti delle varie colline e chiedere ad esse una protezione
naturale da eventi e da uomini.
Il centro di tutto erano le due piazze su cui si affacciavano altrettante
chiese, mentre i vicoli che si diramavano intorno e lungo la stradina interna,
lastricata di pietre vulcaniche nere, erano come delle vene rossastre che si
allungavano sino a scomparire nella vicina campagna.
Le strade sinuose, e quasi ansimanti per il loro svilupparsi in salite
improvvise ed in discese impreviste, simboleggiavano in modo semplice e,
al contempo, contorto il senso dell’orientamento della vita di chi, stanco e
provato dal duro lavoro di una terra difficile ma prodiga, doveva
faticosamente percorrerle per il ritorno a casa, dopo una giornata trascorsa
sotto il sole cocente o sotto le piogge incessanti di fine novembre.
Le case si affacciavano ai lati di queste strade strette e contorte quasi a
farsi compagne di avventura ed amiche di vecchia data, e che mai avrebbero
lasciato nessuno, se non con la morte o l’abbandono dei propri abitanti.
Era un fiorire di archi che invitavano ad entrare nelle varie corti che
prendevano i nomi dalle famiglie che vi risiedevano, il cui ricordo è rimasto
ancora oggi, ed in esse si apriva un borgo nel paese con le proprie forme di
vita e di comportamento, semplici ma rigorose, in cui la famiglia che per
prima l’aveva iniziato, ed i suoi discendenti, indicavano per il
mantenimento della tranquillità e del rispetto reciproco.
Ogni corte era un mondo a parte, che si differenziava dal resto del paese
sviluppatosi lungo la strada e le altre corti, per un senso non scritto ma reale
e permeato di solidarietà contadina, che portava ognuno a partecipare alla
vita di tutti e a difendersi nei confronti di ingerenze estranee.
Alcune di esse erano autosufficienti nei servizi di vita comune: avevano
uno o più forni per attendere alla cottura del pane settimanale o mensile che
ogni famiglia, secondo i propri bisogni, preparava.
L’accensione del forno era come l’annunzio di una festa, in quanto i suoi
abitanti venivano quasi sempre invitati a cuocervi qualche piccolo tegame
contenente del cibo.
La sacralità del pane consentiva la partecipazione di tutti, ed il suo aroma
era il dono offerto ai vicini per insaporire le cose minime ospitate nel forno.
Il rito del pane, in queste corti, era un rito di attesa soprattutto nei
momenti più solenni durante l’anno, come le feste liturgiche di Natale e di
Pasqua e la festa delle feste, quella dei patroni delle due frazioni, San Rocco
e la Madonna del Rosario.
Di grande importanza era la vita comunitaria di corte, ove tutto girava
intorno a un senso profondo di solidarietà e di vita comune, anche se
qualche dissapore ogni tanto si verificava.
La maggior parte delle volte, però, questa comunione portava momenti di
gioia e di felicità, come accadeva per la nascita di un bambino o un
matrimonio tra due giovani cresciuti nello stesso contesto.
I vicini partecipavano alla festa, soprattutto quando vi era un matrimonio
con un membro esterno ad essa.
Si vedevano per il vicolo persone portare canestri pieni del corredo della
giovane sposa che entrava, con il matrimonio, nella vita di corte o carri
trainati da animali, variamente infiorettati, pieni di un corredo raffinato in
mostra per dimostrare, oltre alla bellezza della ragazza, anche i sacrifici
che, pur in una povertà evidente, la famiglia aveva realizzato per la felicità
della figlia.
C’era un canestro molto particolare curato e coperto da un cuscino con la
federa ricamata.
Questo cuscino copriva il regalo che la promessa sposa portava alla sua
futura suocera e di solito era sempre un capo di vestiario utile come una
camicetta o una vestaglia.
La suocera ricompensava questo pensiero con qualche oggettino in oro
che la sposa doveva appuntare sul suo vestito nel giorno delle nozze.
Posta in bella vista sul carretto che esibiva ben visibile tutte le
componenti del corredo, c’era una gallina ornata e starnazzante che era il
dono al conduttore da parte della famiglia della sposa.
Il suo corredo era valutato in base al numero dei capi di indumenti e
corredo necessari per la vita quotidiana.
A volte un matrimonio non giungeva alla sua naturale conclusione perché
non erano rispettati gli accordi riguardo alla quantità e qualità del corredo.
Bastava la mancanza di un materasso o guanciale, magari dimenticato in
qualche cassetto, a causare la rottura dei patti.
Non era una giustificazione la povertà che non permetteva di fare di più.
Spesso il matrimonio, con assenso o non della famiglie, avveniva lo
stesso con una fuga concordata, che poi sfociava in qualche tragicommedia
tipicamente da corte.
Per un periodo i giovani sposi dovevano vivere appartati e senza l’aiuto
di una delle due famiglie di origine, l’altra invece doveva essere d’accordo
e sostenerli perché altrimenti nulla si faceva.
Poi, con la nascita di un bambino o una festa di ricorrenza, le cose si
appianavano e tutto ritornava alla vita normale e si ristabilivano i rapporti
famigliari.
La coppia di giovani che giungeva al matrimonio nel rispetto dei costumi
e delle abitudini consolidate dalla tradizione rappresentava invece un
momento culminante della vita di corte, poiché era il rinnovo della vita
nella speranza di una nuova famiglia che veniva a rendere più forte ed
attivo un mondo in cui la solidarietà doveva essere determinante.
Il viaggio di nozze in quel periodo consisteva nell’andare da un parente
residente in qualche paese vicino e delle volte, per ripagare l’ospitalità,
aiutarlo nel duro lavoro della terra.
Ci si ritirava a casa, spesso con una nuova vita nel grembo della sposa, ed
era festa grande per il futuro componente della famiglia.
Entrare con la fantasia in un’abitazione e vedere la sua organizzazione è
come tuffarsi in un passato perduto in cui, con un pizzico di
immaginazione, si fanno vivi i personaggi di allora ed è ripercorrere la
storia di un intero paese e la storia personale di tutti.
La porta era di legno povero e con serratura che i vari mastri ferrai
preparavano con grande impegno, perché pensavano che nelle loro mani
risiedeva la garanzia di difesa contro gente malintenzionata, non del paese,
che poteva portare via quelle cose minime ma necessarie per la vita di ogni
giorno.
Il pavimento era in terra battuta, rare volte in cemento.
Quello in mattonelle fu una conquista, dopo che la presente storia si
chiuse.
Eravamo già, ormai, agli inizi degli anni Sessanta.
Suppellettili molto minimali e povere.
Un tavolo con 4 o 6 sedie in legno o con intrecci di saggina, una
matrella, cassone ligneo per impastare la farina, con i suoi complementi, un
matrone come madia e come posto dove conservare il pane ed il resto del
cibo che rimaneva dalla sera precedente, un contenitore dove riporre i
poveri tegami e soprattutto quella particolare pignatta capiente in cui si
mettevano a cuocere fagioli, ceci o minestra, un boccale di terracotta, il
“pizzi papero”, dove si versava il vino o l’acqua per la tavola, pochi
bicchieri in vetro e povere posate, a volte, di legno.
Se si guardava in alto, verso il fondo della casa, a secondo della stagione,
si potevano notare pezzi di maiale e le collane di salcicce, appese ad
essiccare o la ‘nnoglia (una specie di salciccia con cotiche e carne di scarso
pregio).
I servizi igienici erano in comune, fuori, in un luogo appartato.
La pulizia personale si compendiava nello sciacquarsi in una tinozza di
acqua calda vicino a un braciere al centro della casa.
Ogni famiglia, quando poteva e secondo le possibilità del momento,
allevava il proprio maiale e qualche capra o pecora, e una parte della casa
serviva anche come rifugio notturno per gli animali, ad essi si
accompagnavano spesso galline e qualche gallo, utile anche come sveglia al
mattino.
Per le famiglie, il maiale costituiva la provvista a cui ricorrere nei
momenti di bisogno, durante le magre giornate invernali, per sostentare le
persone della casa.
Si poteva anche vedere qualche cesta o sporta di saggina contenente un
po’ di verdura raccolta nei campi e portata in casa per preparare il pranzo o
la cena dei poveri, quasi sempre una minestra con fagioli o ceci.
Questo era il cibo ordinario per tutti.
Il luogo di raccolta, nelle lunghe giornate invernali, era un accogliente
camino che accompagnava con la sua lenta fiamma le serate al lume di una
incerta candela.
Intorno a questo camino si potevano ascoltare le favole ed i racconti delle
sagge nonne, che erano le custodi delle tradizioni della famiglia.
I racconti erano di fantasia e dovevano tener svegli tutti per il loro
interesse di trama ma, contemporaneamente, dovevano aprire le porte al
sonno, come la favola dell’Uccello Grifone.
Si dormiva nello stesso letto, su di un materasso fatto di foglie di
granturco e raramente di lana, nelle rigide notti dell’inverno, mentre
d’estate qualcuno di troppo trascorreva la sua notte al riparo sotto la tettoia
della casa.
Ogni casa, anche la più povera, viveva la festa del Natale, con i
preparativi per realizzare qualche dolce semplice e di tradizione, come gli
struffoli. il cui profumo riempiva i vicoli stretti del paese.
Per Pasqua si preparavano le pastiere e, chi poteva, le confezionava con
un impasto di tagliolini, strisce sottilissime di pasta, uova ed aromi, mentre
per i più poveri l’impasto era di riso.
I profumi della Pasqua erano quelli della primavera: semplici ed
inebrianti.
L’aria stessa era allegra e la natura con i suoi fiori e odori la celebrava.
Per il paese giravano persone che portavano sulla testa cesti coperti con
dentro qualche cibaria approntata per la festa che veniva donata a quelli
che, per scelta e nel ricordo di un caro defunto, evitavano le pratiche allegre
dei preparativi della festa.
Era un modo perché tutti in quel giorno fossero felici o semplicemente
meno soli.
Un mondo ormai del passato e di ricordi che rimangono in chi in parte li
ha vissuti e li narra ai nipoti, come la saggezza dei vecchi adagi delle nonne
intorno al focolare.
C’erano anche altri momenti dell’anno in cui tutto il popolo, secondo le
possibilità di ognuno, imbandiva la tavola con altre vivande ricche per
allora, ma usuali nei nostri giorni, ed era la festa del paese, che celebrava
tutto il lavoro di un anno e rappresentava un momento di sana euforia e di
liberazione per dimenticare, almeno in quei giorni, i sudori, le privazioni e i
sacrifici sostenuti in dodici mesi.
In quei momenti la solidarietà contadina appariva nella sua originalità e
nella sua essenzialità.
Nessuno veniva abbandonato, tutti dovevano avere una piccola parte di
quelle cose che erano di tutti, e si pensava, allora, soprattutto a coloro che,
per qualche lutto famigliare, evitavano di manifestare esternamente la
propria partecipazione a tali momenti di gioia collettiva.
Allora parenti e amici pensavano a loro.
Lungo la stradina, in pietra di basalto, che si distendeva da Est ad Ovest,
in senso longitudinale, si affacciavano povere casupole addossate le una alle
altre, per meglio usufruire degli spazi che, seppur angusti, bastavano per
sfruttare vicendevolmente i muri dei vicini, e a volte si aprivano degli archi
che introducevano nei vicoletti interni in cui si sviluppava una vita di
relazione diversa ma più aperta della vita di corte.
Era un aggregato, microscopico ma vivo, che replicava in modo
essenziale quello che era il senso della comunità che esprimeva l’intero
paese, quasi indipendente dal resto, anche se legato a quelle che erano le
ricorrenze sentite da tutto il borgo.
I vicoli avevano una certa indipendenza perché quasi autosufficienti nei
servizi essenziali.
Una propria fontana a cui attingere l’acqua, i forni per la panificazione,
aree per il gioco dei ragazzi che vivevano nelle stesse strade, il proprio sarto
ed anche il proprio modo di procurarsi il necessario per vivere.
C’era una certa rivalità di appartenenza
Come quella che esisteva, ed esiste ancora tutt’oggi, tra le due frazioni
che compongono il paese.
Questo senso di rivalità era sentito soprattutto dai ragazzi che
scimmiottavano battaglie con spade di legno ed altri strumenti infantili,
difendendo la loro appartenenza sopra un ponticello di corso Oriente, ora
scomparso, che divideva idealmente le due frazioni.
Rivalità del genere si riscontravano un poco in tutti i paesi, sembrava
quasi un dovere per quei ragazzi difendere vigorosamente, ma senza
cattiveria, i loro luoghi come se fossero le loro piccole patrie.
Oltre ai vicoli che ancora conservano l’antico nome, in quel periodo
esistevano varie zone, individuabili anche oggi, poste a divisione ideale di
etnie differenti, che si identificavano in toponomastici di fantasia, o
riferimenti mitici o storici nei quali le persone di una certa età continuano a
identificarsi.
Spesso l’appartenenza ad una di queste zone significava l’esclusione
dalle altre.
Chi ne soffriva di più erano i giovani innamorati che, per potersi
incontrare, dovevano trovare vari espedienti o sperare nelle coperture di
parenti ed amici per riuscire a vedersi al chiarore galeotto della luna, oltre le
siepi che delimitavano il paese o sotto un arco semibuio, della tortuosa
stradina, al riparo di una pioggia scrosciante.
Questo era il paese di allora e il modo di vivere, semplice ma intenso, che
stimolava in ognuno la necessità di trovare un’identità attraverso l’amore
per la propria terra madre e realizzare i propri sogni.
Erano tempi diversi, tempi di umili eroismi e di sacrifici veri.
È un passato che potrebbe essere anche il presente.
Qualcuno potrebbe chiedere il perché non si parla in questa storia
raccontata di un’altra piccola parte di paese che si era sviluppata o si stava
sviluppando lungo corso Oriente o lungo altre direttrici.
Tale angolo del paese era generalmente la zona in cui le abitazioni, e si
possono osservare anche ai giorni nostri, mostravano, anche se poche, i
segni di una discreta opulenza che contrastava la povertà dell’altra parte del
paese e, quindi, non aveva l’esigenza di un riscatto immediato, anche
rabbioso, come poi è risultato l’avvenimento dell’occupazione delle terre
incolte.
Esistevano masserie sparse nei terreni viciniori al paese, ma anche esse
possono poco testimoniare, con la loro presenza, i fatti di allora, perché
nell’immaginario rappresentavano il luogo dove vi era abbondanza e
ricchezza, che contrastavano con la povertà dei negletti contadini che ivi
prestavano, a poche lire, la loro opera.
I fatti e gli episodi che verranno riportati, pur se alcuni sbiaditi nella
memoria di qualche testimonianza, rappresentano il culmine di un percorso
di speranza per molti contadini che non avevano ancora perso il significato
di amore per una terra che solo loro potevano far risorgere e fruttare.
Profusero tutte le loro forze e corsero rischi di ogni sorta per realizzare
questo sogno.
 
 
Panorama di Falciano del Massico visto da strada panoramica del Monte Massico.
 
 
Il Monte Massico visto dal Lago di Falciano del Massico.
I mestieri e le feste
 
 
 
 
 
Nel periodo della storia qui raccontata, il lavoro non era solo una necessità
ma conferiva soprattutto un senso di appartenenza.
Non si poteva essere cittadini di questa zona della Campania senza avere
un pezzo di terra dove andare a lavorare, perché non era ammissibile, allora
e non oggi, trascorrere una giornata al sole senza straziarsi le mani,
stringendole intorno al manico di una zappa o di una vanga.
Anche i ragazzi, e soprattutto le ragazze, seguivano le proprie madri nel
lavoro, per aprire il solchi dove gettare i semi, oppure trapiantare le piantine
appena nate o, con una zappetta più piccola, estirpare la gramigna o altre
erbe infestanti che proliferavano intorno alle piantine che avevano appena
attecchito.
Come vedremo più avanti, i ragazzi seguivano le proprie madri nel
raccogliere le spighe di grano rimaste sul terreno dopo la mietitura, e la
maggior parte delle volte il prodotto che se ne ricavava veniva diviso a metà
con il padrone della terra.
Erano tempi diversi, tempi di fatica e di sudore, e i ragazzi di allora,
uomini maturi nei nostri giorni, ancora ricordano quella fatica, quel sudore,
con una dolce nostalgia.
Avevano la speranza di migliorare, con il lavoro, la terra occupata dai
loro genitori e si proponevano di crearsi un futuro con il frutto delle fatiche
che vedevano concretizzarsi nei prodotti donati da una terra difficile, ma
sempre amata.
La terra sembrava comprendere tali sentimenti e premiava con
un’abbondanza tale da attirare gente da altre zone, i “forestieri”, che prima
fittarono i terreni e poi li comprarono, trasformando e migliorando le
antiche culture e facendo così la loro fortuna.
Il parroco della parrocchia di Falciano Selice, durante un’omelia, in un
periodo successivo a quello del racconto, vedendo il suo popolo scemare e
diminuire per le continue fughe verso il Nord dell’Italia o verso i paesi
dell’Europa, lo rimproverava dicendo: “I vostri figli se ne vanno via dal
paese per andare giustamente a guadagnare il loro vivere e conquistare un
benessere che certamente qui non avrebbero avuto subito, ma lasciano la
loro terra, che è anche la loro madre e che sicuramente non avrebbe fatto
mancare il necessario a nessuno.
Ora è venuta gente da altri paesi che ha comprato la nostra terra, l’ha
coltivata e trasformata e sono praticamente diventati i nuovi signori del
paese”.
Chi diceva queste parole era anche lui un forestiero, veniva dall’isola
d’Ischia, ma amava questa terra ed i suoi fedeli.
Figlio di poveri contadini, sapeva cosa significava rinnegare le proprie
origini.
Questo rimprovero aveva del vero, ma non poteva arrestare
l’emigrazione verso luoghi che, in quel periodo, rappresentavano quasi per
tutti un Eldorado sognato e creato dalle prime immagini che un nuovo
strumento di comunicazione, la televisione, presentava, facendo galoppare,
prospettando sogni di una vita facile e prospera, l’immaginazione dei poveri
contadini che, pur con sacrifici e privazioni, non avevano avuto la forza e la
fortuna di dominare un elemento, la propria terra.
Una terra così aspra da fiaccare il desiderio di restare.
Era il sogno del facile guadagno offerto dal lavoro alla catena di
montaggio o di altro che, apparentemente, significava la libertà di gestire
meglio la propria vita, ma, nella realtà, trasformava tutti in schiavi di un
sistema che prendeva di ognuno la parte migliore e più intima, forse la
stessa anima.
Comunque l’arrivo di questa nuova linfa di persone e di idee, che ben si
amalgamarono con il resto dell’intero paese, fu anche una risorsa e si ebbe
un’offerta di lavoro più costante e più organizzata, per quelli che restarono
rinunciando ai sogni ed all’immaginazione di un mondo nuovo, e non
tradirono la propria terra.
Nel periodo appena precedente alla storia che stiamo raccontando, il
paese vide arrivare intere famiglie che si trasferirono dal basso Lazio, le
ultime propaggini a sud della Ciociaria, soprattutto dalla zona intorno a
Ventosa e a Castelforte, in provincia di Frosinone, per cercare zone più
ricche di un materiale, la saggina o “stramma”, con cui fabbricare i loro
manufatti oppure, secondo alcune testimonianze, per la forza della
disperazione di non poter più stare nei loro paesi, durante il Secondo
Conflitto Mondiale, a causa dell’occupazione dell’esercito tedesco di quelle
zone, considerate, dal punto di vista militare, ad alto rischio in quanto vi
passava la famosa “Linea Gustav”, con epicentro Cassino.
Comunque, secondo l’opinione dei residenti, ambedue le motivazioni
giustificarono la presenza di tali famiglie “strammare” nel paese.
Esse si integrarono rapidamente con la popolazione locale, anche se
nell’animo di qualcuno del paese rimase sempre un sentimento di distacco
verso qualcuno degli immigrati per necessità.
Per fortuna tali episodi furono piuttosto rari.
Questo distacco, che non era un rifiuto, si vedeva soprattutto nel loro
modo di comportarsi e di agire. Infatti, la maggior parte dei nuovi residenti
raggruppò le proprie famiglie in zone del paese o in vicoli che, dalla loro
presenza, presero il nome, come il “vicolo degli strammari”.
Era un modo per tutelare l’appartenenza e il proprio clan, ma non fu un
rifiuto verso gli altri.
Erano persone laboriose, disponibili ed affabili, e anche inventive nelle
loro produzioni.
Avevano trovato in questi luoghi, sui primi crinali delle collinette che
preludono l’ascesa al Monte Massico, la materia prima del loro lavoro e
della loro piccola industria artigianale: era la saggina, che nel dialetto del
paese si chiama ancora oggi “stramma”.
Si poteva vedere, sino alla fine degli anni ottanta, la maggior parte delle
persone abili a tagliare la saggina salire le colline della montagna,
accompagnati anche dai loro figli, con degli strumenti curvi ed affilati, i
“sarricci”, scegliere i cespugli di saggina più rigogliosa, tagliare con
delicatezza tale erba e, a spalla, rare volte con l’aiuto di qualche asino,
portarla giù a casa, depositarla fuori della porta al sole, facendola essiccare,
per poi batterla con lo scopo di renderla più resistente alla trazione e duttile
all’intreccio della “iettola”.
La loro abilità si manifestava nell’intersecare la saggina in trecce varie, a
seconda del prodotto che si voleva creare, per poi passare alla composizione
delle varie forme consone a rivestire i recipienti per renderli resistenti e
duraturi in modo da poter accogliere il grano ed altri legumi che si
producevano.
Si creavano anche le “sporte” che, sistemate sulla groppa dell’asino,
formavano due sacche laterali in cui porre tutto ciò che si voleva, per
poterlo trasportare più agevolmente.
Famose sono state le produzioni delle scope di saggina di varia foggia e
grandezza, e tutto il paese approfittava di queste ramazze anche perché il
loro prezzo, a volte, aveva come corrispettivo un pezzo di pane e qualche
litro di vino o di olio, o altri prodotti naturali contadini.
A volte qualcuno usufruiva della bontà di questa gente senza nemmeno
ripagare il loro lavoro e i loro prodotti con un grazie.
Questa gente accolta, come si diceva sopra, con grande apertura ed
affabilità, divenne presto gente che, dal paese, esportava nei paesi vicini e
anche oltre la Campania il loro prodotto, anzi alcuni trascorrevano periodi
in paesi viciniori per preparare, produrre e vendere i loro manufatti,
portando sempre appresso la materia prima che molto abbondava sulle
colline del Massico.
I loro prodotti esportabili più richiesti erano i tappetini rotondi da mettere
davanti all’ingresso delle abitazioni e le tipiche stuoie per impagliare le
sedie.
Un tempo la “stramma” era una materia abbondante in questi luoghi ed
ottima come resistenza e costava solo la fatica di salire in collina e tagliarla:
così produceva lavoro e pane per tante famiglie.
Essi partivano, portandosi appresso le trecce di saggina, le “iettole” già
preparate, e quando le esaurivano ritornavano presso le loro famiglie felici e
soddisfatti del guadagno ottenuto, gratificati dalla loro stessa onestà e
laboriosità, che li induceva a tornare in quei luoghi, negli anni successivi,
attesi da coloro che avevano usufruito dei loro lavori.
Anche di questo piccolo universo di gente e di attività oggi si è perso il
ricordo.
Il paese così strutturato aveva una sua vita interna basata su un’effettiva
autonomia nei rapporti interpersonali e di gruppo, e nelle proprie attività,
pur fra tante difficoltà quotidiane.
Il luogo era permeato di una profonda solidarietà tra i suoi abitanti che si
manifestava soprattutto attraverso la presenza sul territorio, pur piccolo e
circoscritto, di un artigianato che pervadeva tutto il suo tessuto connettivo.
Sembra strano oggi, ma, nel periodo esaminato da questo racconto, il
paese dal punto di vista artigianale era autosufficiente, anzi le sue attività
migliori erano attese anche dai paesi vicini.
Un esempio vale per tutti.
Nel periodo della trebbiatura, la zona contava alcuni meccanici,
altamente specializzati per i macchinari di allora, che garantivano, con il
loro pronto intervento e la loro costante disponibilità, il loro regolare lavoro
riparando i guasti alle trebbie in modo rapido, così da produrre in tempo il
grano da stivare nelle dispense in tempi non eccessivi e far lavorare i
contadini, bisognosi del salario percepito per il loro lavoro.
 
Si narra dell’abilità di un mastro fabbro-ferraio che risolveva ogni tipo di
problema meccanico quando una trebbiatrice si fermava o si inceppavano
altri macchinari. Le sue mani callose erano come magiche nell’eliminare gli
inconvenienti, anche i più estremi, tanto che la gente lo definiva “colui che
sa fare anche gli occhi alla Madonna”.
In quel periodo si contavano circa cinque fabbri, di ottima preparazione,
che neanche si facevano troppa concorrenza perché il lavoro non mancava a
nessuno. Fabbricavano artigianalmente aratri, vomeri, zappe, zappette, falci
e quant’altro occorreva ai contadini, che erano soddisfatti per la correttezza
e la fattura egregia dei tanti arnesi e per la perfezione e l’egregia curvatura
delle zappe e delle falci.
Veramente fu un aiuto essenziale per i contadini di allora avere degli
arnesi ben temperati e ben preparati per affrontare e dissodare una terra
difficile e faticosa.
Possiamo dire, e ciò è stato confermato da molti che hanno indagato in
tal senso, che i fabbri del paese, con il loro lavoro e la loro applicazione nel
produrre strumenti funzionali al lavoro della terra, sono stati tra gli artefici
della rinascita dell’agricoltura della piana in quel periodo.
Poi vennero le macchine a sostituire in tutto o in parte gli strumenti
preparati dai fabbri e si perse così una tradizione artigianale che in altri
luoghi d’Italia è ancora viva.
L’artigiano per eccellenza più ricercato nel paese era il falegname.
Ve ne erano pochi e molto impegnati, ognuno per la sua parte e la propria
predisposizione cercava, pur nella povertà del tempo, di preparare ciò che di
più era richiesto per una casa e funzionale per tutta la famiglia.
Erano poche le botteghe, ma ben posizionate nella geografia del paese
perché potessero essere dei punti di riferimento precisi e, con macchinari
ancora rudimentali, retaggio della guerra appena terminata, producevano
ciò che tutte le povere famiglie necessitavano avere per poter soddisfare le
esigenze di vita.
Se si va ancora oggi in una casa in cui sono vissuti i personaggi di quel
periodo, e che animeranno la nostra storia, sicuramente si troverà una bella
cristalliera di stile proprio del paese con la sue ante ed i suoi battenti
disegnati a fantasia. In tali mobili figuravano vetri discretamente istoriati,
con disegni che riproponevano qualche frutto della terra che i vetrai, in quel
periodo, riproducevano, conferendo maggior grazia al mobile che doveva
essere al centro dell’attenzione nella casa.
Entrando nelle case subito appariva, come se attendesse gli ospiti per
dargli il benvenuto, la bella e lucida cristalliera.
I cristalli al suo interno erano estremamente rari, sostituiti da bicchieri di
vetro, alcune tazzine, qualche bottiglia di rosolio o di liquore Strega e, al
piano sotto, una serie di piatti che venivano utilizzati solo nei periodi di
festa.
Il piatto di maggiore importanza, riposto nel piano basso della
cristalliera, era quello detto “sfratta tavola”, un ampio vassoio usato
durante la festa per portare le vivande in tavola.
I piatti per gli usi di ogni giorno erano poveri manufatti di creta o stagno,
più raramente in rame, adoperati sia per preparare le portate, sia per fungere
da supporto nel quale tutti mangiavano.
Non si andava tanto per il sottile in quel tempo, l’importante era avere
ogni sera qualche cosa di caldo da mangiare ed un pezzo di pane da spartire
in famiglia.
Altro oggetto funzionale, necessario ed immancabile, era la “matrella”.
Si trattava di un contenitore semplice ma indispensabile, composto da
cinque tavole con una, la più grande, come fondo, due laterali più lunghe e
due più corte in testa e ai piedi.
Era il mobile che serviva a cernere la farina, impastare e preparare i
“pezzi” di pane e le “cocce”, pagnotte di forma oblunga, da cuocere nei
forni posti nelle corti o costruiti in comune in qualche parte dei vicoli.
In quei tempi non esistevano frigoriferi o ghiacciaie nelle modeste
abitazioni dei contadini del nostro paese, ma c’era un altro mobile, nella
figura simile alla “matrella, chiuso dalla parte superiore con un’anta.
Questo mobile si chiamava “matrone”.
Serviva per conservare il pane e quel poco di eventuale residuo di cena o
di pranzo per essere servito successivamente.
Il falegname di allora era abile ad inventare anche i vari strumenti o
posate che potevano servire per la famiglia.
Qualcuno era anche specializzato a preparare le botti per il vino, ma per
questi manufatti ci si rivolgeva fuori dal paese, però nelle necessità
impellenti anche i falegnami locali si impegnavano a dare un aiuto ai
contadini, pur se non era il loro mestiere principale.
I falegnami migliori erano detti “mastri” per la valentia della loro arte e
si facevano valere nel produrre porte e finestre.
Il risultato di tale impegno lo si può vedere ancora oggi andando a spasso
nell’interno del paese.
Si possono ammirare le porte e le finestre realizzate tanti anni fa che, a
onta di certe fragili manufatti odierni, chiudono ancora bene. E spesso si
tratta di infissi di abitazioni che sono state abbandonate a una lenta ma
inesorabile distruzione.
È un malinconico vedere quando si passa davanti a queste abitazioni e la
fantasia ci fa immaginare le famiglie che le abitavano e che, con i loro
sguardi muti, sembrano rimproverarci per lo stato di incuria in cui versano
le case che un giorno erano piene di vita.
Pur nella povertà di una vita vissuta tra stenti e privazioni, può sembrare
quasi assurdo, oggi, a noi abituati ad un altro genere di vita, che un paese
potesse avere tanti sarti e tante sarte che preparavano i nuovi vestiti almeno
una volta l’anno.
Se qualcuno dei lettori ha l’occasione di vedere qualche fotografia di quel
tempo, la guardi con attenzione, con amore, e non la butti via, si potranno
notare l’inventiva e la preparazione degli antichi artigiani del paese, di cui
stiamo così ampiamente parlando, nel preparare i semplici vestiti, quelli
delle feste e quelli per i matrimoni.
Una sarta ancora vivente e ormai quasi centenaria ha rivisto una foto di
circa sessant’anni fa e ha riconosciuto il vestito della sposa confezionato
nella sua casa-sartoria.
Si è emozionata ricordando non solo la ragazza che commissionò il
vestito da sposa, ma anche tutto il contesto del suo piccolo laboratorio che,
poi, è un pezzo di storia del paese.
Ha ricordato le sue discepole, ragazze che andavano ad imparare il
mestiere e che erano affidate a lei, che ne rispondeva in tutto ai loro
genitori.
Ha ricordato il lungo e faticoso lavoro del ricamo di lenzuola, federe,
bordi delle camiciole ed altro da approntare per il giorno dell’invio del
corredo della donna a casa dello sposo, per essere messo bene in mostra, e
tanti altri fatti di vita quotidiana che accadevano in una piccola stanza di
una sarta e, per le più fortunate, dalla primavera in poi, in un cortile o ai
bordi di un vicolo.
La sarta era anche la depositaria della moda minimale in quel periodo del
paese, per ragazze e donne di una certa età, che pendevano dalle labbra
delle sarte perché esse erano le uniche che, potendo uscire dal paese per
andare ad ordinare le stoffe, insieme alle famiglie interessate, per gli abiti
da sposa da confezionare, avevano la possibilità di conoscere, riportare e
spiegare quali forme di abiti si trovavano esposti nelle vetrine o venivano
indossati dalle ragazze e signore della vicina Santa Maria Capua Vetere.
Nel paese il primo abito che si confezionava secondo i nuovi modelli
riportati su carta o a memoria era un po’ il vestito che tutti volevano che
fosse cucito da una sarta o un sarto per fare sfoggio dell’invidiabile novità.
Era il vestito da avere per la festa del paese.
Il lavoro dei sarti e, per un paese così piccolo ve ne erano abbastanza, era
più semplice in quanto i modelli erano sempre gli stessi, ciò che distingueva
la confezione degli abiti era la manifattura che cambiava di sarto in sarto, a
seconda del loro gusto e abilità.
C’era il sarto popolare a buon prezzo e quello più raffinato per chi poteva
spendere qualche lira in più, che permetteva di essere più eleganti a coloro
che ne vestivano le sue creazioni.
Ma tutti i sarti avevano sempre l’accortezza ed amabilità, dono antico
delle generazioni passate, di non mettere mai in difficoltà i propri clienti ed
anche il sarto più raffinato non disdegnava di tagliare e cucire un pantalone
di “pelle di diavolo” per il povero contadino, ed erano in molti che avevano
tanta difficoltà persino a farsi cucire un pantalone con tale stoffa.
Si racconta che un pantalone di “pelle di diavolo” fu cucito talmente bene
che una mamma, che non poteva comprarne uno nuovo per la Prima
Comunione del figlio, di notte lavò per bene tale pantalone e lo stirò con
una perfezione tale che il pantalone sembrasse nuovo ma soprattutto di una
stoffa diversa.
Era la magia di donne da leggenda.
Quelle donne che erano le nostre madri.
Vi erano altri mestieri, come i barbieri, i calzolai, “gli scarpari”, che
completavano il panorama dei servizi essenziali per un microcosmo come il
nostro paese.
Operavano spesso in bottegucce ricavate degli anfratti lunghe le strade
interne del paese, dove tutti potevano accedere e fermarsi per trascorre un
po’ della loro giornata, accompagnando il lavoro del calzolaio e, magari,
spettegolando su pregi e difetti dei propri compaesani.
Il taglio dei capelli era uguale per tutti e si veniva regolarmente
profumati di brillantina; le scarpe erano formate da una morbida tomaia di
vitello e, per farle durare più a lungo, venivano rinforzate con ribattini di
ferro, le “centrelle”, sotto la suola.
Nel paese vi erano periodi ed avvenimenti che venivano attesi con ansia
durante l’anno come le Feste dei Santi Patroni delle due frazioni, le festività
di Natale e di Pasqua, i matrimoni e prime comunioni e cresime.
Erano feste, alcune estemporanee, altre programmate, e ognuna di esse
esprimeva la sua particolarità nel modo di vestirsi, di curare l’aspetto
esteriore e di preparare la casa per l’accoglienza di tutta la famiglia nelle
feste di ricorrenza religiosa o tutti gli ospiti per la festa come il matrimonio,
che era quella più importante per la famiglia che ne era protagonista.
Ogni festa si caratterizzava in modo specifico sul rituale nel preparare il
pranzo ed i prodotti che si potevano usare solo in quel periodo e solo per
tale ricorrenza, pur essendoci portate di base fisse e quindi presenti in ogni
ricorrenza.
Il Natale era tale se a tavola si portava come dolce un bel piatto di gustosi
“struffoli” e se si accompagnava con il vino qualche tarallo “auciato”, il cui
impasto era fatto con farina e chicchi di finocchietto, di cui le colline vicine
al paese sono ancora oggi ricche.
La Pasqua si avvertiva già dalla settimana prima nelle stradine tortuose
del paese attraverso gli odori che uscivano dalle case. La pastiera era il
dolce immancabile su ogni tavola, soprattutto la pastiera fatta con i
“tagliolini” o con il riso.
Vi era anche il pane, guarnito con un uovo al centro se si trattava di un
pane ampio e rotondo, e se era un “cocoro”, cioè una specie di ciambella
con almeno tre uova che rappresentavano la Trinità. Queste uova, con la
cottura, si sollevavano a simboleggiare la Resurrezione.
Tale pane non poteva mancare sulla tavola di Pasqua, come non poteva
mancare la benedizione del capo famiglia, fatta con l’aspersione dell’acqua
benedetta presa nel giovedì Santo e con un ramoscello di ulivo conservato
dalla precedente domenica delle Palme.
E certo non poteva mancare un buon bicchiere di vino, che era l’ottimo
vino locale, forte e ricco dei sapori dei luoghi in cui la sua vite era
cresciuta: il millenario Falerno.
Diverso era il pranzo di nozze e bisogna, al giorno d’oggi, solo
immaginarselo perché anche questa tradizione è scomparsa, a favore di
interminabili e costosi pranzi nei ristoranti che mai potranno eguagliare la
convivialità e la poesia dei primitivi banchetti.
Ci può essere di aiuto qualche vecchia fotografia sfuggita, chi sa come,
all’abbandono e la distruzione di qualche bruto insensibile alle cose che
caratterizzano il tempo della vita dei loro padri.
Per fortuna esistono anche anime buone che sanno conservare e
apprezzare quello che resta di un tempo che non è l’oggi, ma che, in ogni
caso, conserva la poesia delle nostre radici.
Mettiamo da parte la malinconia e immaginiamo ed immergiamoci sia
nella fase preparatoria del pranzo matrimoniale e sia in quella della sua
effettiva realizzazione.
Determinante era la scelta del cuoco, quasi sempre una donna che, pur
eseguendo i desideri delle famiglie degli sposi, doveva consigliare il tipo di
pranzo da preparare e le relative derrate da comperare, indicare il luogo più
propizio dove imbandire la tavola, generalmente il cortile di casa,
consigliare i colori delle tovaglie da stendere sui tavoli e i relativi tovaglioli
e che le sedie fossero comode e in quantità sufficiente per i commensali.
La vera fase preparatoria iniziava nei due giorni precedenti al
matrimonio.
I genitori degli sposi dovevano comprare, secondo il numero degli
invitati, quantità necessarie di carne e altro per poter soddisfare le esigenze
degli ospiti.
C’erano i tacchini, i “pinti”, che si andavano a comprare il venerdì al
mercato di Carinola o in qualche masseria insieme ai capponi, alle grosse e
grasse “papere” ed altre specie di volatili stagionali.
Tutti dovevano essere spennati a regola e posti in grossi tegami “ruoti”
per il forno della sera prima del giorno del matrimonio.
Intanto con la carne bovina si preparava il ragù ben denso e succulento
che avrebbe deliziato il palato degli astanti, che lo avrebbero gustato con un
robusto piatto di maccheroni mezzi ziti.
Si preparavano, sempre il giorno precedente il banchetto, le verdure e gli
antipasti e un piatto che non poteva mancare assolutamente era il famoso
“rinforzo”, composto con un misto di sottaceti vari, olive e peperoni di
diversi colori e diversi gusti, come le piccanti “bofunelle”. Il tutto veniva
arricchito con le alici, che ne “rinforzavano” il gusto.
Il rinforzo servito su un piatto ovale, “sperlonga”, diventava, a seconda
del gradimento dei commensali, il piatto di giudizio sulla bontà del pranzo.
Tutto ciò che si preparava veniva servito su di un piatto che aveva un
nome particolare e cioè lo “sfratta tavolo”.
Particolare cura veniva riservata al vino, che doveva accompagnare il
pranzo ed era il vino paesano, di cui abbiamo parlato sopra, e cioè il
Falerno, che doveva essere “fresco di cantina” al punto giusto per risultare
bevibile senza ubriacare… ma questo nobile vino, ricco di ogni virtù,
spesso falliva questo obiettivo e i rustici contadini finivano più che brilli!
 Tutto doveva essere terminato e pronto per il sabato sera, perché dopo la
cena, al chiarore della luna, già arrivavano sotto il balcone della sposa, nel
cortile di casa, i suonatori della “serenata” che, con le loro canzoni e le loro
macchiette, anticipavano la festa del matrimonio del giorno dopo.
La serenata terminava solo quando i genitori della sposa e lei stessa
uscivano nel cortile ed invitavano i suonatori ad entrare in casa ed
assaggiare le prelibatezze preparate per loro, per gli amici presenti ed anche
per qualche imboscato di turno.
Il giorno dopo era il giorno del matrimonio, un giorno di gioia e di festa,
da conservare per sempre nell’album della memoria.
Le altre feste religiose o di ricorrenza, pur essendo molto sentite, non
avevano lo stesso fascino e le stesse emozioni suscitate dalla conclusione
(ma è meglio dire inizio) naturale di un amore e la nascita di una nuova
famiglia.
Curatrice del malocchio
Strammara che impaglia una damigiana
Gli aratri trainati da buoi o somari
Un matrimonio degli anni 50
Un gruppo di falcianesi degli anni 50 ad una gita
Bambine degli anni 50 che giocano a “campana”
 
 

 
 

Le masserie, i caporali, il lavoro


 
 
 
 
 
Se si guarda dall’alto l’intero territorio della storia che stiamo raccontando,
si possono vedere, distanti dall’abitato e quasi in posizione strategica di
difesa dello stesso, vari punti isolati, posti per la maggior parte a sud dello
stesso nucleo abitato, delimitandone il perimetro e digradando sempre di
più verso la piana, che trova un proprio e naturale confine con il fiume
Volturno.
Questi punti visti da un obiettivo aerofotografico, ma esistenti realmente
sul territorio, sono dei casali o masserie, così chiamati nel gergo locale.
Analizzare e descrivere questi insediamenti è essenziale per la nostra
storia perché la loro presenza si intreccia e chiarisce, a volte, sia gli episodi
vari di occupazione delle terre incolte, sia l’organizzazione del lavoro dei
contadini.
Le fatiche dei contadini presso tali masserie erano necessarie per la loro
sopravvivenza in quanto le forze lavoro disponibili famigliari poco
soddisfacevano l’esigenza di conduzione di una quasi azienda di dimensioni
rispettabili per quel tempo.
Il momento storico di cui parleremo riguarda il periodo in cui le masserie
già erano una realtà consolidata e costituivano i punti di riferimento per tutti
i contadini che vedevano nei padroni di queste masserie l’unica opportunità
per la loro sopravvivenza.
Le masserie erano per i braccianti l’unica fonte di salario che, seppur
minimo, garantiva la sopravvivenza delle loro famiglie. E loro stessi erano
indispensabili per la conduzione e la prosperità di queste realtà bisognose
del loro lavoro.
Le masserie rappresentavano il sistema meno indolore di ciò che la
frantumazione del latifondismo aveva comportato in terra di lavoro.
La conduzione di queste varie estensioni di terreni, affidata a persone
capaci di gestire le varie fasi della lavorazione dei terreni e la successiva
raccolta dei prodotti, assicurava, se non altro, l’indispensabile per una vita
dura, ma pur sempre relativamente prospera.
Questa delega, a volte non riscontrabile in forma scritta ma affermata e
confermata nella tradizione di uomini d’onore, era data a persone di fiducia,
ai “massari”, che erano alle dirette dipendenze degli effettivi padroni del
latifondo a cui dovevano, nel tempo, rendicontare sul loro mandato ed
inviare il ricavato dello sfruttamento dei terreni sia in rendita che in prodotti
ai diretti proprietari.
La maggior parte delle volte i diritti su queste terre derivavano dai diritti
feudali legati ai titoli che i vari conti della zona avevano, a volte,
inconsapevolmente ricevuto.
Con il tempo e soprattutto coi mutamenti avvenuti dopo, con il
cambiamento politico che questi territori subirono ed il passaggio dal
regime borbonico a quello unitario italiano, si allentò la presenza dei diretti
proprietari e si rafforzò quella dei cosiddetti “massari”, che divennero,
anche dal punto di vista legale, padroni dei terreni che erano stati loro
affidati, in quanto gli stessi massari comprarono queste terre con il ricavato
del loro lavoro, sollevando i vecchi padroni da pesi dovuti a tasse e a debiti
accumulati.
C’è qualche voce, forse solo leggenda, che alcune volte i “massari”
comprarono anche la vita dei vecchi signori delle loro terre.
Le masserie si formarono già alla loro origine come avamposto della
proprietà del latifondo, ma con il trascorre del tempo e con i cambiamenti di
epoca avvenuti si trasformarono per quello che veramente poi saranno per
la nostra storia.
Un luogo posto al centro o ad un lato dell’intera proprietà che, con la
propria autonomia, doveva provvedere allo sfruttamento del terreno
circostante.
La masseria era una grossa costruzione, in un caso molto conosciuto in
paese chiamato anche “casone”, generalmente con la facciata rivolta al
tramonto e con la compartimentazione dei luoghi e delle stanze che
dovevano essere funzionali allo svolgimento della vita quotidiana.
Ogni masseria che si rispettasse aveva davanti, in terra battuta e poi in
cemento, un’aia molto vasta che serviva per la trebbiatura del grano, la
spoglio dei fagioli, del granturco, l’esposizione al sole dei vari prodotti per
la conservazione ed era anche necessaria perché il suo spazio fosse
disponibile per essere usato a seconda delle necessità.
Serviva anche a fine trebbiatura del grano per il grande e famoso pranzo
di fine trebbiatura.
Aveva anche il proprio portico per entrare nelle zone padronali, mentre a
fianco aveva le stalle per gli animali.
Non potevano mancare ai lati, vicino alle stalle, dei covoni di fieno e di
erba, i “metali”, che servivano alla formazione del letto per gli animali ed al
loro foraggiamento.
Si potevano vedere girare nell’aia ed intorno alla masseria varie specie di
animali da cortile che servivano, oltre a rallegrare l’ambiente, anche a
diventare carne utile per l’esigenza della masseria.
Questi animali da cortile, soprattutto galline e volatili simili, erano molto
richiesti per imbandire il pranzo delle feste o dei matrimoni perché sani e
soprattutto perché la loro carne era soda e saporita
Intorno alla masseria c’erano vari alberi da frutta che servivano per
assicurare alla famiglia fabbisogno di vitamine e a tutti coloro che
aiutavano con il loro lavoro nella conduzione della stessa.
Eventuali eccedenze venivano destinate alla vendita.
Le stanze padronali del piano terra erano locali essenziali che ricalcavano
le abitazioni esistenti nel paese, con suppellettili minime e con gli strumenti
per la produzione del pane e la conservazione dei cibi.
Vi era il tavolo con sedie sufficienti per l’intera famiglia e per qualche
contadino, invitato a tavola, che era stabile in masseria per accudire i vari
animali da stalla.
Non poteva mancare il forno per il pane e il pozzo per l’acqua.
Il resto di ciò che occorreva si andava a cercarlo nel paese vicino.
La vita dei padroni della masseria era vissuta anche da parte loro con
sacrifici e privazioni, soprattutto nelle stagioni di magra, quando per tutti
scarseggiava il necessario per sopravvivere, oppure nei momenti, e ce ne
sono stati, quando varie malattie decimavano il loro bestiame ed i loro
maiali, su cui fondavano le speranze di un guadagno maggiore.
Andando più a sud del paese, dove il terreno è più umido ed a volte
anche paludoso, accanto alla masseria padronale c’era la “pagliara”, una
costruzione rudimentale ma resistente alle intemperie.
Queste pagliare servivano per il ricovero delle bufale e per la produzione
del formaggio tipico di queste zone: la mozzarella.
Non si vuole in queste pagine fare la storia di questo formaggio o
spiegare i metodi e le caratteristiche di tale prodotto, ma esisteva ed esiste
anche oggi in paese il mestiere del “mozzarellaro”, cioè di chi produce le
mozzarelle e si rende, quindi necessario, per l’economia della storia che
stiamo raccontando, farne qualche cenno.
Per veder nascere le mozzarelle bisognava alzarsi presto alle ore 3,30 del
mattino, quando ancora, sia d’estate che d’inverno, i galli sono a riposo,
perché verso quell’ora si fa la cagliata.
Il latte si porta tra i 38-39 gradi, si fa l’innesto con il caglio di vitello,
bastano 20 centilitri per 5 quintali di latte, e poi si rompe la cagliata con lo
spino, un bastone con gli anelli di acciaio.
Si lascia maturare, si riaccorpa la pasta, si fa asciugare.
Dopo questo passaggio si butta il tutto nella “capece”, un grande tino, si
cuoce in acqua a 90 gradi per venti minuti.
La figura fondamentale, a questo punto del processo della nascita della
mozzarella, è il “casaro curatino” o mozzarellaro nel nostro caso, che
conosce i momenti giusti, anzi il momento giusto per rompere la cagliata.
Prende la pasta, l’annusa, la palpa, la tira.
Se la pasta si allunga sino ad un metro circa, allora è pronta.
Se sbaglia il momento, se la fila troppo tardi, la pasta diventa “marcia”
ed è da buttare.
Un’altra caratteristica della lavorazione è che la pasta si deve allungare e
non spezzare.
Questi vecchi artigiani della mozzarella sapevano quando arrivava il
momento della filatura della pasta, non avevano bisogno come oggi di fare i
controlli dei Ph dell’acidità totale.
Una volta filata la pasta si costruiva la “palla” o, su richiesta, la
“treccia”.
Le mozzarelle dovevano avere una forma perfettamente sferica.
Mani maschili avvolgevano e stringevano la pasta, poi mani femminili la
mettevano nelle vasche di salsetta fatta con acqua di cottura e sale.
Il tempo intercorrente da quando il latte arrivava nel primo tino del caglio
al deposito della mozzarella nella salsetta non doveva superare le quattro
ore e mezza circa.
Questo prodotto che ha dell’eccellenza connaturata è un prodotto fragile
ed i nostri vecchi casari consigliavano di mangiarla, se fatta di mattina, la
sera, o al massimo il giorno dopo, per assaporare il suo gusto vellutato e
godere della sua squisita bontà.
Era magnifico vedere questa mozzarella portata dalla pagliara avvolta in
un involucro di erbe e arbusti resistenti e che formava nell’insieme il
famoso “mazzo di mozzarella”.
Quando Wolfgang Goethe vide, durante il suo viaggio in Italia, nel 1787
le prime bufale negli acquitrini delle nostre terre, rimase un po’ spaventato
perché “avevano aspetto di ippopotami dagli occhi iniettati di sangue… e
mi spaventavano con il loro sguardo truce”.
Quando, però, il grande poeta romantico tedesco assaggiò la mozzarella,
ed anche la carne di bufala, ne rimase entusiasta e consigliò ai suoi
conterranei di venire nei nostri luoghi per ammirare lo spettacolo di questo
animale che produce un latte ed una carne squisiti.
I padroni di queste terre e di queste masserie avevano un intermediario
che permetteva loro di avere la mano d’opera di continuo e che potevano
utilizzare per tutto l’avvicendarsi delle stagioni per curare il terreno e
raccoglierne il prodotto.
Questo personaggio che aveva nelle sue mani e nella sua discrezionalità
la scelta delle persone da avviare ogni giorno al lavoro si identificava nella
figura del “caporale”.
Per evitare facili illazioni e considerazioni fuorvianti, si deve subito
allontanare dalla nostra considerazione che tali personaggi fossero gli
epigoni di un fenomeno negativo che si era sviluppato prima, durante e
dopo in altre zone e soprattutto in altre regioni meridionali che va sotto il
nome del “caporalato”.
Essi, nel territorio del nostro racconto, svolgevano un mestiere di
semplice intermediazione di ricerca ed accompagnamento della
manodopera sostituendo la presenza del padrone e del signore delle terre,
assumendosi anche le responsabilità del buon esito del lavoro che dovevano
effettuare le persone che portavano sui terreni per lavorarli o per raccogliere
i prodotti di stagione.
Ciò presupponeva che il caporale avesse nozioni sufficienti sui tipi di
lavoro che i sottoposti dovevano svolgere e dirigesse personalmente le
operazioni per cui le persone erano state scelte.
Non di rado essi intervenivano con sollecitazioni e rimbrotti per
stimolare le proprie forze lavoro a ben fare le cose onde evitare la “brutta
figura” con il padrone del terreno.
E scandiva anche il tempo del riposo per mangiare ed il tempo della fine
della giornata.
Ogni lavoratore, al sabato, aveva da parte del caporale la paga del suo
lavoro effettuato durante la settimana.
Nel paese della nostra storia ci sono state molte figure di caporali e tutti
sono ancora oggi ricordati con una certa riconoscenza.
A volte, quando la stagione era poco promettente ed il raccolto era
scarso, anche i padroni potevano avere problemi di liquidità; il caporale, per
tenere con sé le persone su cui poteva far affidamento per i lavori,
anticipava di tasca propria il salario ai suoi dipendenti.
E di questo vi è una testimonianza collettiva quando morì un caporale.
Il parroco che officiò il servizio funebre, meravigliandosi della presenza
di tanta gente sia a messa che nella piazza, domandò a qualcuno presente il
perché di tanta gente.
Gli fu risposto che chi era morto era stato un caporale che aveva fatto
lavorare nel corso degli anni tanta gente del paese e se non ci fosse stato lui
sicuramente molta gente non avrebbe avuto il necessario per vivere.
Diciamo anche che i caporali non è che fossero dei benefattori del
popolo, anche loro avevano il proprio tornaconto, i loro guadagni ed i loro
privilegi, ma dalle testimonianze raccolte tutti hanno manifestato
riconoscenza e rispetto per l’opera che questi personaggi hanno svolto per
aiutare, a modo loro, le persone che avevano bisogno di lavoro per poter
sopravvivere.
Il lavoro era tanto importante nel periodo della nostra storia che le
bambine e i bambini verso gli otto-dodici anni erano già avviati al lavoro
come aiutanti dei loro genitori, dai quali dovevano apprendere il lavoro che,
poi, da soli avrebbero dovuto fare.
È necessario anche sottolineare che i caporali avevano l’importanza e la
responsabilità di controllo di questi apprendisti lavoratori della terra ed il
loro intervento nei confronti di questi minorenni era quello di insegnare loro
anche con qualche sgridata e qualche minaccia indiretta nei confronti dei
genitori presenti che il giorno dopo, se continuavano a non ascoltarli, non
sarebbero venuti a lavorare con i “grandi”.
Il loro intervento non voleva sostituire le intemerate dei genitori presenti,
ma era uno stimolo maggiore e più autoritario ad educare i ragazzini ancora
acerbi ad acquistare un’abitudine ed un abito di vita per superare i dolori e
le difficoltà della fatica nel lavoro duro della terra.
Portare bambini e ragazzini ad eseguire quasi gli stessi lavori dei genitori
e con costo di manodopera minore per il padrone oggi potrebbe figurarsi
come un reato, e cioè quello di sfruttamento di minori in lavori duri e
pesanti, ma allora era un’esigenza famigliare che tutti lavorassero per
sopravvivere ed era un privilegio che un caporale acconsentisse ai genitori
di portare questi ragazzini minorenni con loro, perché era quasi assicurargli
il lavoro negli anni futuri.
Alcuni ragazzini, sempre di età minorile, a causa della profonda povertà
che allora si palpava anche nell’aria, venivano affidati con contratto tra
galantuomini, consistente in una stretta di mano, ad essere al servizio del
padrone della masseria nella cura degli animali per l’intero anno con il
pagamento del compenso al termine dell’anno, generalmente in natura
come grano e fagioli.
 Questi ragazzini erano destinati nell’interno della masseria alla cura ed
al pascolo dei maiali e delle pecore, che erano sempre numerosi, e, poiché
dovevano dormire nelle stalle con loro, erano anche guardiani, anche se
giovanissimi e con poche difese per gli stessi animali.
Questa loro presenza non evitava i frequenti furti di animali.
Come spesso accade, il sonno prevaleva sul compito di difendere gli
animali dai furti.
  I bambini del periodo frequentavano poco la scuola, non crescevano
insieme e non giocavano nelle piazze e per i vicoli, crescevano insieme agli
animali a loro affidati e la loro educazione era da autodidatti, e quindi
approssimativa.
Molte famiglie, se si offriva loro l’occasione, vista l’inclinazione agli
studi dei loro ragazzi, non disdegnavano di affidare i loro figli alla cura e
all’educazione di seminari o ordini religiosi.
Molti ragazzi andarono a studiare presso queste istituzioni cattoliche,
pochi restarono per proseguire negli studi di teologia per divenire preti.
Un lavoro un po’ particolare, ma necessario per molti e redditizio per chi
lo faceva, era il mestiere del “porcaro levriero”.
Ci si domanda se fosse necessaria questa figura intermedia ed autonoma
per allevare i maiali per gli altri oltre ai suoi.
Questo lavoro di ingrassare i maiali per altri dietro ricompensa può
identificarsi con la figura del lavoratore autonomo odierno che lavora ad un
progetto sperando che vada a buon fine e dia degli ottimi risultati di resa.
E si poteva anche verificare la concorrenza tra i personaggi del periodo,
ma sempre le dispute e le discussioni si risolvevano nella spartizione degli
animali da ingrassare e a quel punto entrava in gioco la preparazione
dell’individuo nella ricerca delle ghiande migliori e dei pastoni più nutrienti
per l’ingrasso.
Il loro biglietto da visita era la voce che si spargeva per il paese sulla
bontà della carne dei maiali affidati a loro per l’ingrasso.
A volte le famiglie più povere affidavano a queste persone i loro figli
perché li aiutassero nella gestione degli animali e la ricompensa per loro era
un maialino che lo stesso figlio cresceva assieme agli altri per l’ingrasso.
Non bisogna credere che la vita ed i tempi di allora fossero idilliaci e
romantici, era una vita dura, faticosa ed umiliante e, a volte, di discrimine,
che quasi relegava queste persone in un mondo solo di servizio e non di
partecipazione alla vita del paese.
Ci si alzava prima dell’alba.
Ci si sciacquava la faccia, vestendosi sempre con gli stessi abiti rattoppati
variamente, le donne e le bambine con l’onnipresente fazzoletto che
raccoglieva i capelli e gli uomini con il cappello o la coppola; si prendeva
con sé una magra colazione preparata nella notte precedente ed avvolta in
un tovagliolo caratteristico a quadretti, poi, ancora assonnati, con i loro
strumenti di lavoro, si recavano nel luogo di incontro con il caporale, Piazza
San Pietro o Piazza Limata, e si avviavano, a piedi, verso le terre che
dovevano essere dissodate o dove si dovevano raccogliere i prodotti già
arrivati a maturazione.
Il cammino era lungo, generalmente durava circa un’ora, giunti a
destinazione il caporale o il padrone stabiliva il lavoro da fare e distribuiva i
compiti che ogni lavoratore doveva osservare ed eseguire.
Veniva scelto il “capo in testa”, che era punto di riferimento e guida nel
lavoro di tutto il gruppo.
Intanto era sorto il sole ed il lavoro poteva iniziare e si giungeva alla
prima sosta, che veniva effettuata intorno alle 9,00 per poter soddisfare
qualche bisogno e mangiare una parte di ciò che era chiuso nel tovagliolo a
quadri, la “nverta”.
Questo largo tovagliolo quadrettato racchiudeva un po’ la storia di ogni
persona in quel periodo.
Conteneva un recipiente basso, rotondo, “tubo”, con dentro ciò che
ognuno poteva preparare la notte precedente.
Dominavano sempre i buoni e saporiti broccoli di diversi colori, dal
verde meno intenso a quello più intenso, fritti in padella oppure lessi, varie
verdure di stagione lesse e immancabili erano le alici, per cui tre potevano
essere poche e cinque potevano essere troppe.
Quando si aprivano questi recipienti, e quasi tutti contenevano le stesse
cose, si avvertiva un odore inebriante che si diffondeva intorno ed invitava
a mangiare con desiderio e gusto.
Chi poteva accompagnava a ciò qualche pezzo di formaggio e nei periodi
più felici qualche pezzo di salciccia sotto sugna e soprattutto la mortadella,
che risolse, con il suo arrivo, tanti problemi.
La mortadella in quel periodo era la carne dei poveri.
Immancabile era il pane e se delle volte era un po’ duro si rendeva
mangiabile inzuppandolo nell’olio del recipiente o mettendo sulla fetta di
pane uno strato ben corposo di broccoli che, con il condimento che
contenevano, ammorbidivano il pane.
Spesso la sera precedente ci si metteva d’accordo, quando si poteva, di
portare ognuno del mangiare differente in modo da variare il pasto che si
faceva sempre insieme ed in comune, mettendosi in circolo, distendendo
per terra il solito tovagliolo a quadri e su di esso ognuno presentava a tutti
ciò che aveva preparato e si iniziava il pasto insieme.
Tutto era di tutti, come il duro lavoro che accumulava ognuno nella fatica
di ogni giorno.
Anche l’acqua era in condivisione con la presenza di un recipiente di
creta, la “ngella” e il “ciciniello”, che durante la calura estiva era messo
all’ombra e rendeva l’acqua più fresca e bevibile.
Si lavorava con ritmo e con impegno rispettando i tempi e le modalità
che venivano dettate dai caporali o dai padroni e molte volte si verificavano
degli episodi di altruismo e di aiuto tra i lavoratori e lavoratrici che, per non
far sfigurare i propri compagni di lavoro, senza farsi notare ed in silenzio,
aiutavano quelli più lenti, non per volontà ma per qualche motivo legato
alla salute o a motivi di dispiaceri famigliari, in modo da portare avanti il
lavoro anche dei meno capaci.
Talora i caporali si accorgevano di questi atti di generosità e qualcuno,
come le testimonianze confermano, ha incitato lui stesso ad aiutare la
persona che in quel momento aveva delle difficoltà sul lavoro per far in
modo che il padrone della terra vedesse che ciò che si era stato stabilito di
fare in quella giornata fosse fatto.
Nei nostri giorni, credo, che sia raro questo profondo senso di altruismo
che allora legava nella fatica e nel lavoro queste persone.
Non si vuole in questa storia raccontare nelle minuzie i lavori che
venivano fatti, le difficoltà che dovevano essere affrontate e superate e, a
volte, anche le malattie che si contraevano, soprattutto quelle polmonari, ma
si vuole solamente ricordare ciò che è stato raccontato e testimoniato sulla
durezza connaturata a questi lavori che ad alcuni, soprattutto nei giorni non
buoni e non felici, sembrava che il sole non tramontasse mai.
Eppure una volta dato il segno di interruzione dei lavori e preparandosi a
ritornare nelle proprie case, dove la famiglia e i figli più piccoli attendevano
il ritorno dei propri genitori e dei fratelli più grandi, ritornava il senso di
soddisfazione e di letizia per il giorno trascorso
Il sudore sui volti bruciati dal sole era stato asciugato, ci si era rinfrescati
dalla calura ed i primi refoli di vento rendevano la giornata, pur nella sua
fase finale, più accettabile.
Ci si incamminava verso casa mentre il sole incominciava a scendere
dietro Monte Massico e si doveva giungere sul ponte di un torrentello, la
“Forma”, quando il sole iniziava a nascondersi dietro la stessa montagna, e
se eventualmente si era camminato in fretta ed il sole sembrava fare lo
scherzo di ritardare a nascondersi dietro il monte, allora si diceva che il sole
si era fermato, stanco anche lui, a “raccogliere le cicorie” e per questo
motivo, pur stanco, non voleva andare via senza salutare la terra che aveva
illuminato durante tutta la giornata.
Allora si poteva sentire dal paese, mentre ci si avvicinava, intonare con
l’ultimo fiato che si aveva ancora disponibile le varie canzoni che variavano
a secondo della stagione e del lavoro che era stato fatto durante la giornata.
Queste canzoni accompagnavano tutti sino alle porte del paese ed era
quasi un saluto all’alba del giorno dopo, quando ancora una volta ci si
alzava, ancora stanchi ed assonnati, per iniziare un altro duro giorno di
lavoro.
Ormai era sera fonda, incominciavano ad illuminarsi le povere case con il
lume di qualche candela e si sentiva nell’aria gli aromi della cena.
Non passava molto e le candele si spegnevano e si chiudevano le porte
delle case. Era notte: il silenzio ed il sonno erano i signori del paese.
Una masseria degli anni 50
Operai della masseria il Casone anni 50
 
Mietitura del grano anni 50 Il Casone
Falciano anni 50
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

La storia e gli uomini


 
 
 
 
Nelle pagine precedenti si è tentato di riprodurre e presentare una
fotografia, si spera non sbiadita e commemorativa, di un paese appena
uscito dal secondo conflitto mondiale e che si affacciava in un nuovo
periodo di vita, che poi sarebbe stato per tutti gli italiani il periodo della
rinascita e della ricostruzione di un’intera nazione che doveva, per riflesso,
essere anche la rinascita e la ricostruzione del paese attore della nostra
storia.
I fatti e gli avvenimenti che si ricorderanno in queste pagine e quelli che
sono stati ricordati in quelle precedenti cercheranno di individuare i nodi e
gli ostacoli che impedirono di respirare a pieni polmoni la ventata di libertà
conquistata e dei diritti e dei doveri che la rinascita dell’Italia allora
proclamava attraverso la Costituzione e le nuove leggi che i primi governi
di unità nazionale, sulla spinta del Comitato di Liberazione Nazionale,
approvavano per la resurrezione di una nazione uscita distrutta dal secondo
conflitto mondiale.
Poiché i fatti e gli episodi che verranno esaminati faranno riferimento ad
un periodo di storia d’Italia ben preciso e delimitato, sicuramente il lettore
potrà trovare difficoltà nel condividerli in quanto ancora qualcuno di questi
resta, almeno in parte, controverso.
 Nel leggere questa storia ci si potrà identificare, oppure non condividerla
in pieno, con l’interpretazione che a quei fatti, dopo oltre cinquant’anni, si
tenta di dare e spiegare.
È un po’ la storia di sempre quando si mette mano al racconto di fatti ed
episodi che non sono inequivocabilmente catalogati nel tempo e ancora
suscitano sentimenti ed emozioni che accompagnano la crescita morale ed
umana degli stessi personaggi.
La finalità di questo racconto è solamente quella di ricordare, ancora
oggi, ciò che è stato per questo paese il periodo storico che va dal 1944 al
1964.
Una parte dell’Italia, e cioè il Nord, intraprendeva la strada
dell’industrializzazione e la gestione delle sue ricchezze attraverso le
imprese che sorsero sotto la spinta dei primi capitali investiti in Italia da
parte di industriali stranieri, stimolati e seguiti dalle grandi famiglie di
industriali nazionali che poi, per un certo periodo, hanno determinato anche
la vita politica e sociale del Paese.
Il Sud era ancora una volta impoverito ed abbandonato al suo destino di
cenerentola della vita politica e sociale in quanto gli interventi e gli
investimenti di capitali erano distribuiti non secondo la necessità del
territorio, ma seguendo criteri di convenienza politica e interessi personali o
di famiglie, che poi determinarono quegli episodi che ancora oggi, e si
ricorda ciò con grande amarezza, sono l’emblema del malcostume e della
corruzione: mafia, camorra, ndrangheta, sacra corona unita ed altro.
L’interesse della nostra storia sarà per quelle persone che continuarono a
soffrire dove erano nate perché vollero restare abbarbicate alla loro terra e
tentare di difenderla attraverso l’occupazione perché producesse il
necessario per la propria sopravvivenza e per tentare le prime forme
associative, onde tutelare il proprio lavoro ed i propri diritti.
Per questo motivo si seguirà con interesse, sperando di riuscire nel
tentativo, tutto ciò che si svilupperà dal 1944 sino al 1964, sia dal punto di
vista di provvedimenti del Governo della nazione e sia come interventi
spiccioli e spesso raffazzonati, paurosi ed a volte minacciosi, dei governi
locali sui problemi che sorsero e si svilupparono con gli episodi
dell’occupazione delle terre incolte da parte dei contadini ed in particolare
quelli che si verificarono nel territorio di Carinola.
È anche necessario farsi una domanda e dare subito un chiarimento:
come fu possibile tutto ciò se tutta l’Italia andava, pur nell’euforia del
momento derivante dalle novità che si intravedevano e si prospettavano,
verso un periodo migliore fatto di sviluppo economico e sociale e quindi
verso la realizzazione di un sogno di ricchezza diffusa, mentre nel Sud e,
specialmente nel territorio che a noi interessa, poco si vide e quel poco fu,
ancora una volta, svilito dall’arroganza della classe dei proprietari terrieri
protesa a restringere ancor di più il cerchio di servitù che soffocava i
contadini ed i salariati che, senza il duro lavoro della terra, l’unico che
sapevano fare, erano costretti a emigrare per assicurare una speranza di
sopravvivenza alle loro famiglie?
Un esempio vale per tutti.
In questo periodo viveva un ricco e grande proprietario, sia di terre che di
animali da pascolo, che in concorrenza con i caporali che assistevano
l’avviamento dei contadini al lavoro, mandava nelle due piazze del paese e
nei luoghi strategici delle strade il suo banditore che, con grancassa e
trombetta, annunziava l’offerta di un giorno di lavoro presso tale signore
con l’avviso “Chi vuol lavorare da… si presentasse direttamente domani
mattina alle 6”, ma non dichiarava il compenso che avrebbero avuto i
lavoratori per tale giornata di lavoro.
La novità che si vuol far emergere da questo esempio è che se la giornata
di lavoro valeva 1000 lire, questo signore ne offriva 500!
Sicuramente per il contadino era una giornata di lavoro assicurata ma
questo signorotto prendeva, viste le impellenti necessità di tutti, per la gola i
poveri contadini e ciò accadeva nel periodo invernale e soprattutto nei duri
mesi di gennaio e febbraio.
Le persone capivano l’inganno del messaggio del banditore e per una
settimana o quindici giorni non si presentavano, ma la resistenza non poteva
essere ad oltranza perché, come afferma un testimone, si vedevano, in quel
periodo, nelle due piazze del paese, uomini che, spinti dal bisogno, si
contentavano di fare qualsiasi cosa, anche per pochi spiccioli, pur di portare
a casa un tozzo di pane per sfamare la famiglia.
E così più della dignità poteva la fame, ed a testa bassa si presentavano
da questo padrone per fare un lavoro duro ed umiliante nello stesso tempo.
Questo proprietario terriero lo si doveva chiamare “padrone” altrimenti
non rispondeva nemmeno al saluto.
Tranne qualche rarissima eccezione, questa era la condizione dei
lavoratori della terra in quel periodo nel territorio preso in considerazione.
Una rarissima occasione di filantropia, che vari testimoni hanno
confermato, piace riportarla perché la stessa conferma l’esistenza, benché
rara, di persone che conservavano rispetto e pietas verso gli altri.
Al tempo del padrone che pretendeva di essere appellato con questo titolo
per degnare di un suo sguardo la “plebe”, vi era una gentilissima signora di
origini altolocate che, avendo una considerevole proprietà terriera, aveva
bisogno dei contadini per lavorarla.
La mattina sul presto, prima che l’alba annunciasse il nuovo giorno, le
donne che si recavano sul terreno della signora per lavorare passavano
prima dalla sua casa, un imponente palazzo con un largo cortile e con un
camino ampio che riscaldava la casa durante l’inverno e dove era sempre
acceso il fuoco.
Intorno a questo fuoco queste contadine mettevano i loro grossi “pignati”
pieni di fagioli e questi venivano affidati alla signora per la loro cottura.
La testimonianza di molte persone conferma questo episodio e lo
completa affermando che la signora provvedeva anche al condimento dei
fagioli oltre la cottura, cercando di ricordare i gusti dei suoi contadini, e i
passanti lungo il vicolo stretto che porta dalla piazza in Via Vellaria
potevano sentire profumi che oggi non ci sono più.
Come si affrontò in Italia, nel secondo dopoguerra, la sempre e più
costante richiesta di spezzettare il latifondo, di abolire l’iniquo diritto di
possedere troppa terra abbandonandola a destino di pascolo mentre saliva la
richiesta sempre più pressante dalla parte dei più poveri, i contadini, di
avere un pezzo di terra per poterlo coltivare?
Una richiesta dettata dal bisogno di dare un pasto e un futuro migliore e
per iniziare un cammino di autonomia e di indipendenza fatto di dignità e
non più di schiavitù.
Il problema poteva sembrare di facile soluzione confidando nella
convinzione che i grandi proprietari terrieri avessero capito che una certa
epoca era stata spazzata via da un grande conflitto mondiale che aveva
portato, non solo a parole, ma anche con i fatti, una ventata di libertà e di
certezza dei diritti legati alla persona umana che proprio
nell’emancipazione dei contadini trovavano una sicura realizzazione. Ma
questi signorotti non potevano e non volevano capire.
Una più equa ripartizione della ricchezza era stato l’asse portante
dell’azione degli uomini della Resistenza che, attraverso il C.L.N.
nazionale, tramite i loro militanti, inculcavano nelle popolazioni,
rendendole consapevoli, che un uomo vero deve conquistare, con azioni
decise, i suoi diritti, perché nessuno di quanti li hanno sempre calpestati
glieli riconoscerà, se non costretto.
Una volta liberata l’Italia, si dovevano cancellare con metodi democratici
accompagnati da provvedimenti legislativi tutti i soprusi derivanti dallo
sfruttamento della classe più debole della popolazione italiana, i contadini
al Sud e gli operai al Nord.
Si doveva respirare un’aria nuova, cambiare atteggiamenti e convinzioni
per dare la certezza alle popolazioni che avevano subito più fortemente i
danni e le sciagure di un ventennio di privazioni e di sottomissione e di una
guerra che non avevano voluto ma che fu loro imposta.
L’uomo che cercò di interpretare tale disegno, possiamo dire anche un
sogno come vedremo in seguito, non poteva essere che un uomo del Sud
che, nominato nel secondo Governo Badoglio ministro dell’Agricoltura e
delle Foreste, mise mano al problema in modo profondo e radicale.
Il suo sogno era quello di assegnare ai contadini terreni non sfruttati in
modo equo e corretto e fare in modo che loro si organizzassero in forme
associative per creare un mutuo interesse nello stare insieme che
permettesse di lavorare meglio il terreno e, quindi, trarne una produzione
che doveva diventare il volano per la rinascita del Mezzogiorno.
Questo era il sogno dell’avvocato Fausto Gullo, ministro dell’Agricoltura
e Foreste dal 1944 sino al 1946, poi ministro della Giustizia dal 1946 al
1947.
La storia politica di quest’uomo è molto significativa, come la sua
caparbietà e la sua insistenza, caratteristiche che lo portarono ad ottenere
dei risultati politici che apparvero in quel periodo, e ancor oggi, nel terzo
millennio, lungimiranti e nello stesso tempo decisivi per il futuro del nostro
Paese.
Come vedremo, i provvedimenti legislativi che propose e che fece
approvare, benché così radicali, erano giusti, equilibrati e, possiamo anche
dire, ovvi, ma terminata l’esperienza del Governo di Unità Nazionale, non
essendo più ministro, i suoi provvedimenti, con il ministro democristiano
Antonio Segni del primo Governo De Gasperi, vennero profondamente
modificati e la reazione da parte dei contadini e le loro associazioni fu
quella delle occupazioni delle terre incolte in molte regioni dell’Italia
meridionale.
Fausto Gullo era nato a Catanzaro il 16/06/1877, si laureò in
Giurisprudenza all’Università di Napoli nel 1909 con tesi in Diritto Civile
sull’ipoteca costituita sui fondi altrui.
Fu un uomo laico e illuminato riformista e si avvicinò al Socialismo
affascinato da un uomo illustre come Antonio Labriola.
Nel 1914 si candidò nel Partito Socialista come Consigliere Provinciale
di Cosenza e fu eletto sconfiggendo, pur giovane e privo di esperienza di
elezioni, il liberale Luigi Tancredi navigato uomo politico calabrese.
In questa campagna elettorale mise al centro dei suoi incontri e dei suoi
comizi la denuncia delle condizioni di sfruttamento del Mezzogiorno e delle
classi meno abbienti.
Come si vede, fin da giovane avvocato e neofita in politica, aveva già
individuato i suoi interessi oggettivi in favore dei meno abbienti che
difenderà a denti stretti una volta nominato ministro dell’Agricoltura e delle
Foreste.
La sua carriera politica non si fermò a Cosenza.
Successivamente si iscrisse al P.C.d.I. e poi al P.C.I.
Fu deputato alla Costituente e successivamente eletto alla Camera dei
Deputati dal 1948 al 1972.
Durante il periodo del fascismo venne anche confinato, come tutti gli
esponenti politici del periodo contrari al regime.
  Tutti i provvedimenti che elaborò e fece approvare hanno un
denominatore: quello di mettere i contadini in condizione paritaria con i
padroni delle terre e di calmierare in favore dei primi i contratti di
mezzadria.
Per meglio capire è necessario elencare brevemente i provvedimenti che
ci interessano in modo particolare.
1- Concessione ai contadini dei terreni altrimenti non sfruttati (r.d.l. del
03/06/1944 n. 146)
2- Ridistribuzioni dei terreni non sfruttati ai contadini in modo equo e
corretto (d.l.l. del 19/10/1944 n. 284)
3- Concessione delle terre incolte a cooperative o a contadini inquadrati in
altri enti (questo decreto modificò il precedente decreto Visocchi ed
incentivò l’organizzazione dei contadini e l’occupazione delle terre
incolte)
4- Eliminazione delle intermediazioni nei rapporti agrari permettendo ai
sub-affittuari di sostituirsi agli affittuari in tutti i rapporti giuridici nei
confronti dei proprietari (d.l.l. del 05/04//1945).
Il Decreto Legislativo Luogotenenziale del 19/10/1944 con le
disposizioni per la concessione ai contadini delle terre incolte fu pubblicato
nella Gazzetta Ufficiale, serie speciale, del 04/11/1944 n.77.
Si riportano come memoria per i fatti che si narreranno in seguito gli
articoli che alla nostra storia interessano.
Art. 1 – Le associazioni dei contadini regolarmente costituite in
cooperative o in altri enti possono ottenere la concessione dei terreni di
proprietà private o di enti pubblici che risultano non coltivati o
insufficientemente coltivati in relazione alla loro qualità, alle condizioni
agricole del luogo e alle esigenze culturali dell’azienda in relazione con le
necessità della produzione agricola nazionale.
Art. 5 – …la durata della concessione non può oltrepassare i quattro anni
agrari…
Art. 7 – …i proprietari delle terre hanno il diritto di reclamare la terra se i
contadini violano le condizioni alle quali era stata concessa…
Bisogna subito dire che l’art 7 e la clausola riportata furono ampiamente
usati appena le sinistre non furono più al Governo con il primo Governo De
Gasperi e con il ministro Antonio Segni.
Si scatenò una vasta offensiva legale nei confronti delle cooperative dei
contadini appoggiata dal Governo e dai magistrati di allora che, per
rassicurare le elitès ed i grandi proprietari terrieri meridionali, spinse il
Governo a mitigare i diritti sanciti dalla Legge Gullo, con l’appoggio dei
tribunali e la poca imparzialità dei giudici.
Si tentò una quasi restaurazione.
Ma la grande mobilitazione del 24/10/1949 portò nelle piazze migliaia di
contadini, che reclamarono con forza i loro diritti a coltivare le terre,
provocando anche qualche disordine sino a spingere il ministro Mario
Scelba a far intervenire i suoi reparti di Celere.
A Melissa, in Calabria, ci fu l’episodio più grave con la morte dei
dimostranti Francesco Zito, Giovanni Zito e Angelina Manca.
Il ministro Gullo spinse la sua attenzione sulla creazione delle
cooperative tra contadini o a formare associazioni simili perché lui stesso,
nel commentare la sua legge, affermava: “… organizzarsi in cooperative
significa creare un’azione collettiva, significa non smobilitare i contadini
meridionali, ma incoraggiarli ad intrecciare le strategie famigliari con
l’azione collettiva, a superare il fatalismo e l’isolamento”.
L’introduzione e l’attivazione della Legge Gullo provocò entusiasmo tra i
contadini, che cercarono in vario modo di organizzarsi, attraverso l’aiuto
dei partiti, delle organizzazioni appena nate, dei sindacati e di associazioni
di diverso orientamento politico.
Il Partito Comunista Italiano fu quello più attivo, anzi divenne il
protagonista, attraverso la C.G.I.L., di azioni che incisero profondamente
nella vita di tanti uomini e donne del Sud contadino.
Il punto fondamentale per fare applicare la Legge Gullo era quello di
formare una cooperativa di contadini oppure scegliere gli enti esistenti o
che si formavano per essere ivi inquadrati.
Si scelse per volontà politica e su indicazione delle forze politiche e
sociali aderenti al C.L.N. di sollecitare, sostenere ed assistere i contadini
nelle formazioni di cooperative locali che poi dovevano confluire, come fu,
nella Lega Nazionale delle Cooperative.
Dagli anni 1945 al 1949 vi fu un fiorire di cooperative in modo
spontaneo e sull’onda della grande aspettativa che la Legge Gullo
prometteva.
Tanto fu l’interesse e la presenza dello spirito cooperativistico che il
Ministero del Lavoro costituì la Direzione Generale della Cooperazione con
compiti di tutela e controllo della cooperazione.
Cosa prevedeva il Codice Civile vigente in quel periodo sulle
cooperative?
Il codice così recitava: “Una Società Cooperativa è costituita per gestire
in comune un’impresa che si prefigge lo scopo di fornire innanzitutto agli
stessi soci quei beni o servizi per il conseguimento dei quali la cooperativa
è sorta”.
Per costituire una cooperativa servivano minimo 9 soci, invece da 3 a 8
per una piccola cooperativa.
Queste norme furono cambiate nel 2001.
Con la riforma del Diritto Societario si è abolita la piccola cooperativa ed
oggi una cooperativa può essere costituita con numero minimo di 3 soci.
L’importanza dello spirito e dell’azione cooperativistica è previsto in
modo chiaro dall’art.15 della Costituzione Repubblicana che riconosce la
funzione sociale delle cooperative ed il loro carattere di mutualità senza fini
di speculazione privata.
Risulta evidente che i partiti politici del periodo cercarono di
egemonizzare questo momento di grande interesse politico ed economico
creando dipartimenti, associazioni ed anche cooperative sotto la propria
egida per averne un tornaconto politico dal punto di vista elettorale.
È anche da sottolineare e ricordare che i contadini, pur sotto le tante sigle
o appartenenza alle varie cooperative formate dai diversi sindacati, al
momento della chiamata alla lotta per la difesa dei loro diritti si trovarono
sempre uniti.
Un piccolo esempio si ebbe nel piccolo paese di questa storia.
Furono create due cooperative: Il Popolo e Terra Nuova, l’una ad
indirizzo cattolico democristiano e l’altra di indirizzo ed ispirazione
comunista, ma nel momento della decisione dell’occupazione delle terre
incolte fecero forza unica e dimostrarono saggezza e lungimiranza a non
dividersi anche quando le autorità e i padroni terrieri cercarono con inganni
e lusinghe di rompere questo patto d’azione.
Di ciò parleremo in un momento successivo.
Una domanda a questo punto si rende necessaria e si cercherà di
rispondere con qualche meditata riflessione che trova un avallo nelle varie
testimonianze che sono state raccolte in proposito.
Ma nel paese di questa storia esistevano i partiti politici, si tenevano le
elezioni per eleggere il sindaco, i notabili del paese si interessavano del
fenomeno che si presentava ai loro occhi, e cioè il risveglio dal lungo sonno
della servitù padronale dei contadini che, con coraggio e spregio della loro
incolumità fisica e anche penale, si organizzarono per andare ad occupare le
terre incolte dei padroni terrieri che ancora allora avevano i loro forti
agganci con la politica, la magistratura e le Forze dell’Ordine?
Cosa fecero e come si comportarono di fronte a tale fenomeno di portata,
possiamo affermarlo senza ombra di dubbio, rivoluzionaria perché il
movimento nacque con una certa spontaneità in un paese troppo a lungo
sottomesso ai padroni e, senza tema di smentita, ai loro soprusi
paternalistici?
Questo paese, ai giorni nostri comune autonomo, fino all’anno 1964, era
una frazione del Comune di Carinola e tutte le discussioni e le decisioni
venivano prese fuori dal paese e, delle volte, era anche abbastanza difficile
per gli eletti in Consiglio Comunale recarsi dal paese nel comune
capoluogo, sia perché non si possedeva nemmeno una bicicletta o il calesse
con il cavallo, e sia per l’impervietà della strada che conduceva a Carinola.
Da testimonianze si è anche accertato che qualche consigliere comunale
ebbe paura di qualche imboscata che poteva subire nel tratto di strada che
dall’attuale cimitero, inoltrandosi tra costoni e seracchi, si trasformava in un
sentiero accidentato e rasentando un torrentaccio portava ad affrontare la
dura salita che porta vicino al Duomo e di lì nella Piazza centrale di
Carinola.
Tale tragitto veniva utilizzato per comodità e per brevità.
Ma di fronte alle minacce che qualche consigliere della frazione subiva,
molte riunioni del Consiglio Comunale venivano disertate e quindi
mancavano in quel consesso le voci di rappresentanza della popolazione
della frazione.
La maggior parte delle volte poté più la paura che l’orgoglio e la fede
nelle idee politiche.
Questi fatti accaddero spesso soprattutto nel periodo delle votazioni dei
bilanci e nel periodo della nascita del Comitato per l’Autonomia del
Comune di Falciano sino al Decreto del Presidente della Repubblica
istitutivo dell’Autonomia del Comune di Falciano del Massico.
Sempre per dare una risposta sufficientemente plausibile ed accettabile
del perché, sembra strano e poco credibile per chi vuole esaminare con
coscienza storica tale periodo, di un fatto così noto come l’occupazione
delle terre incolte nel territorio di Carinola, nessuno ne ha memoria e, se ne
ha, è troppo vaga e labile.
Eppure una parte dei territori occupati era parte integrante dei beni
demaniali dello stesso Comune, come il terreno denominato Carabottoli, e
sino al 1972 ed oltre ancora alcuni assegnatari di quei terreni si recavano
all’esattoria del Comune di Carinola a pagare il canone annuale sino a
giungere al mese di marzo del 1980, quando si intimava al conduttore del
lotto n.19 Del Duca Antonio, da parte dell’allora sindaco di Carinola,
Gioacchino Loffredo, di rilasciare il terreno per pubblica utilità.
Quale fu la pubblica utilità invocata dal sindaco?
Non è stato dato modo di saperlo.
Il terreno è ancora lì, a tutt’oggi.
Bisogna anche considerare che si era usciti da un periodo, la Seconda
Guerra Mondiale ed il relativo e drammatico dopo guerra, in cui ci si
doveva organizzare e fare il punto su come era stata la vita e le condizioni
durante il periodo del fascismo e durante la guerra, riprendere, anche se
gradatamente, tutte le attività e per la gioventù di allora ricominciare, per
chi poteva, gli studi interrotti durante il conflitto o cambiarne gli indirizzi
per avere un diploma o qualche cosa di equivalente da spendere nei giorni
della ricostruzione.
Ma la maggior parte della popolazione del paese contadina era e
contadina rimase, con l’aggravante che se prima aveva di che mangiare, ora
si doveva preoccupare di come fare per procurarsi un lavoro ed un pezzo di
pane quotidiano.
Sappiamo anche che la guerra ed i disastri conseguenti non sono uguali
per tutti, anzi nei primi tempi si acuisce, per i più poveri ed i più deboli
come per i contadini di questo paese, e chi gestisce questo stato di profonda
necessità e miseria è chi è stato appena sfiorato dalla guerra o chi, con le
sue proprietà terriere, pur se con i limiti naturali imposti dai fatti bellici, ha
continuato a produrre un bene di prima necessità come il grano ed altri
prodotti subito spendibili e, al contempo, scarsamente reperibili.
Le condizioni di lavoro erano di quelle più degradanti che si possono
oggi immaginare e si dipendeva, per il lavoro, quasi condizionando la stessa
vita del paese, dalla furbizia e dallo sfruttamento che adottavano i vari
proprietari terrieri.
Ci fu qualche eccezione che tutti ricordano, ma fu una rarità che è
rimasta nella storia del nostro paese e che ancora oggi viene citata con
riconoscenza.
In questa situazione di dura necessità bastava che una persona
propugnasse che era giunto il momento in cui tutti i contadini avevano
diritto a un pezzo di terra incolta per riscattarsi da questa servitù ed a
possedere il minimo necessario per mettere il pane a tavola, nel rispetto
della legge voluta da Gullo.
E tutti si impegnarono con coraggio e determinazione, anche rischiando
penalmente, subendo ritorsioni, come infatti ci furono, pur di occupare un
pezzo di terra che poteva offrire l’indispensabile per vivere.
E così fu.
Bandiere diverse guidarono i contadini, ma la volontà della storica
conquista fu unica ed ineluttabile e tutti soffrirono e gioirono nello stesso
modo e negli stessi giorni.
Per l’autenticità della nostra storia dobbiamo allontanare subito il dubbio
del settarismo politico da parte di chi scrive, ma dire in modo chiaro ed
inequivocabile che la bandiera sotto cui i più volenterosi ed audaci si
raccolsero fu la bandiera rossa del Partito Comunista Italiano, guidato in
quel periodo da Giovanni Canzano ed Antonio Del Duca.
Interessa, invece, a questo punto della narrazione riprendere il discorso
sospeso verso la metà del presente capitolo ed esaminare e analizzare le
testimonianze ed i documenti.
Documenti difficili da reperire, anche per una dubbiosa fiducia da parte
di chi li possiede nei confronti di chi li ha cercati.
Occorre, perciò, verificare le risposte politiche e sociali che vennero a
supportare, a fiancheggiare, a sostenere questo atto di presa di coscienza da
parte dei poveri contadini di allora, anche se la Legge Gullo apriva la strada
alla concessione delle terre incolte.
Per contrastare la portata quasi rivoluzionaria della Legge Gullo
approvata, i proprietari minacciavano tramite i loro guardiani, armati sino ai
denti, capaci di riprendere di notte quello che si era conquistato di giorno,
ma, tutto sommato, non ostacolarono eccessivamente con metodi violenti le
occupazioni di queste terre, cosa che da atto quasi simbolico si tramutò in
atto giuridico, come la Legge Gullo prevedeva.
Qual era la situazione politica dal 1946 al 1964 nella gestione
dell’amministrazione del Comune di Carinola?
Perché parlare del Comune di Carinola e non direttamente del paese
protagonista di questa storia?
Il Comune di Carinola, oltre ad avere la competenza politica,
amministrativa su tutto il territorio, era anche titolare di terre demaniali,
come la terra di Carabottoli, che fu la prima a essere occupata.
Carinola venne liberata dall’oppressione dell’esercito tedesco nel 1943 e
gli Alleati nominarono un galantuomo, l’ing. Mattia Manera, come
Commissario straordinario.
Era un ingegnere navale e convinto antifascista, sino a rinunziare alla sua
professione sotto il regime fascista.
Si giunse alle prime elezioni libere del Consiglio Comunale nel 1946.
Parteciparono tre gruppi politici riuniti in tre liste: gruppo politico
Democrazia Cristiana, gruppo politico Partito Liberale ed Uomo qualunque,
gruppo politico Partito Socialista, Partito Comunista, Partito Repubblicano
Italiano.
Un nutrito gruppo di candidati, come in tutte le elezioni comunali sino a
quelle del 1964, anno dell’autonomia, fu espresso dal paese della nostra
storia in tutte e tre le liste, ma pochi riuscirono ad essere designati eletti, in
quanto per la legge elettorale di allora i quattro quinti spettavano alla lista
vincitrice con il maggior numero di voti riportato, ed il quinto degli eletti
alla lista giunta seconda.
Si votò il 27 ottobre 1946.
I consiglieri comunali eletti nella seconda lista furono 24 con 2358 voti
in testa di lista, la prima lista ebbe 6 consiglieri comunali eletti con 1369
voti.
La terza lista non ebbe nessun eletto con 399 voti in testa di lista.
Venne eletto sindaco il geom. Giuseppe Santoro di Falciano, paese della
nostra storia, esponente del Partito Liberale, un galantuomo, come persona,
ma difensore degli interessi dei proprietari terrieri e dei benestanti di quel
periodo.
Fu un sindaco che è ancora ricordato per il suo amore per le tradizioni
culturali del suo paese di origine e l’interesse per l’archeologia e l’enologia,
ma non si interessò, se non per un caso testimoniato, della grave situazione
che si venne a creare sul territorio durante l’occupazione delle terre incolte.
Non poteva essere diversamente, era stato eletto dai proprietari delle terre
e li doveva difendere, almeno con il silenzio.
Le successive elezioni si tennero il 1952.
Furono presentati tre gruppi politici, rappresentati dalle liste: Scudo
Crociato con scritta Libertas (D.C., Indipendenti e M.S.I.); Squilla tenuta in
mano (P.C.I. ed Indipendenti di Sinistra); Bandiera e Stella con Corona
(dissidenti D.C., Indipendenti di Sinistra, Partito Nazionale Monarchico,
M.S.I. e Partito Liberale).
Si votò il 25 maggio del 1952.
La lista indipendente con Bandiera e Stella con Corona vinse ottenendo
20 consiglieri comunali con voti 3578, la lista Scudo Crociato con scritta
Libertas arrivando seconda ebbe 7 consiglieri comunali con voti 2355, la
Lista Squilla tenuta in mano ebbe 3 consiglieri comunali con voti 919.
Fu scelto sindaco, ancora una volta, il geom. Giuseppe Santoro perché
ebbe 1116 voti di preferenza, il più votato di tutti, ma ci fu un episodio che
vale la pena raccontare per completezza e per dimostrare che gli interessi
dei politici di allora, come oggi, spesso erano altri e diversi dagli interessi
del popolo che amministravano.
Venne eletto come indipendente nella lista Bandiera e Stella con Corona
il socialdemocratico professore Antonio Zannini di San Donato di Carinola
che, avendo impostato la sua campagna elettorale sul rinnovamento degli
uomini e della politica di allora, pose la sua candidatura a sindaco e riuscì a
coagulare intorno alla sua persona 15 consiglieri comunali, di cui 7
democristiani, 3 comunisti e 5 consiglieri della lista Bandiera e Stella con
Corona.
Ma non fu eletto Sindaco perché la sera precedente giunsero a Carinola
Giorgio Napolitano, attuale Presidente della Repubblica, allora Segretario
Provinciale del P.C.I. di Caserta, ed il senatore Iodice, che intimarono ai
consiglieri del P.C.I. ed ad altri di rispettare i patti e votare nuovamente il
geom. Giuseppe Santoro a sindaco del Comune di Carinola.
Questo episodio sta a significare che il famigerato centralismo
democratico funzionava allora alla perfezione e che anche personaggi come
Napolitano poca fiducia avevano in persone che già da allora desideravano
uscire fuori dagli schemi per rinnovare la vita politica.
Il consigliere comunista Francesco Sciorio di Nocelleto, altra frazione del
Comune di Carinola, per la rabbia si tolse il cappello e lo gettò per terra
imprecando «allora la nostra parola non vale niente.»
Il sindaco Santoro governò, anzi lo fecero governare, senza infamia senza
lode, ma durante i cinque anni della sua sindacatura ci furono continue crisi
e quasi tutte furono rattoppate con accordi di piccolo cabotaggio che non
onorano i loro protagonisti.
Si ritornò al voto nel 1956.
Furono presentate 5 liste: Tromba (Partito Comunista Italiano); Scudo
Crociato (Democrazia Cristiana); Sole Nascente (P.S.D.I.); Fiamma Stella e
Corona; Bandiera P.L.I.
Vinse la tornata elettorale lo Scudo Crociato con 2528 voti ottenendo 11
consiglieri comunali, la lista Bandiera P.L.I. ebbe 1930 voti con l’elezione
di 8 consiglieri, la lista Fiamma Stella e Corona risultò terza con 1404 e 6
consiglieri, la lista Tromba risultò quarta con 709 voti eleggendo 3
consiglieri, la lista Sole Nascente P.S.D.I. risultò quinta con voti 625 e due
consiglieri eletti.
Ancora una volta il gom. Giuseppe Santoro ebbe più voti di tutti
ottenendo 822 preferenze e venne eletto sindaco, ma dopo una crisi politica
dovette lasciare la carica.
Si cambiò, finalmente, e venne eletto il notaio dottor Vittorio Ronza.
Ma la vita da sindaco del dottor Ronza fu difficile e piena di imprevisti,
sino ad essere sfiduciato, ed il Comune di Carinola venne affidato al dottor
Orabona, Commissario Prefettizio, sino alle elezioni del 1960.
Si arrivò così alla tornata elettorale del 1960.
Furono presentate 5 liste: Falce e Martello P.C.I. Sole Nascente P.S.D.I.;
Indipendenti Cattolici; Scudo Crociato D.C.; Bandiera Italiana P.L.I.
Vinse lo Scudo Crociato con 2650 voti ed 11 consiglieri eletti, al secondo
posto si posizionò Bandiera Italiana P.L.I. con voti 1585 e 7 consiglieri, al
terzo posto si posizionarono gli Indipendenti Cattolici con 1410 voti e 6
consiglieri, al quanto posto giunse Sole Nascente P.S.D.I. con 825 voti e 3
consiglieri eletti, e per ultima la lista Falce e Martello P.C.I. con 791 voti e
3 consiglieri eletti.
Anche in questa tornata elettorale il geom. Giuseppe Santoro raccolse il
maggior consenso di preferenze con 719.
Sino al 1964 Carinola ebbe tre sindaci: il primo fu il geom. Giuseppe
Santoro, il secondo fu il notaio dott. Vittorio Ronza, che dopo una crisi
politica violenta fu sostituito il 14 ottobre del 1963 da Ferdinando Maina,
che amministrò il Comune di Carinola sino al 14 marzo 1966.
Si è voluta fare questa lunga digressione sulle competizioni elettorali che
vanno dal 1946 al 1966 per offrire una quadro significativo della vita
politica che si svolgeva in quel periodo nel territorio del Comune di
Carinola.
Ma il dato politico che più interessa all’economia della nostra storia è che
tutte le varie amministrazioni che si sono avvicendate alla guida del
Comune ed i vari uomini politici che le hanno guidate sembra che non si
siano accorti che nel territorio di loro competenza ed appartenenza si era
concretizzato un fatto storico che avrebbe cambiato la storia della zona.
Pare che sui diversi episodi che si sono succeduti nell’occupazione delle
terre incolte sia calato quasi un velo di oblio rimovendo quell’avvenimento
dalla coscienza della gente.
Qualcuno degli intervistati l’ha voluto ridurre, volutamente, ad una
bravata di qualche visionario comunista di allora che doveva, per non essere
da meno di altri suoi compagni che avevano guidato le occupazioni delle
terre in altre regioni d’Italia, fare un’azione dimostrativa, ma senza una
reale convinzione e di poca valenza.
Ma la storia che si racconterà offrirà i motivi per dire, attraverso fatti e
testimonianze, che tale giudizio è ingeneroso e mendace.
Il “Pignato” con i fagioli in cottura
 
Parco di Tozza
I ragazzi del “Lampione”
 
 

 
 
 
 
 
 

Gli uomini e la politica


 
 
 
 
 
In questo capitolo saranno affrontati argomenti di un’importanza
straordinaria per la nostra storia.
Essi si intersecano tra di loro, si accavallano come volessero diventare
unici, si distinguono per acquistare la loro indipendenza e la loro libertà, si
combattono nel segno dell’autonomia delle decisioni e si uniscono nel
momento di bisogno della popolazione che richiede con insistenza il
riconoscimento politico della propria esistenza.
Questo può sembrare strano in un paese in cui si parla spesso troppo ed
invano, ma è giusto e sacrosanto chiedere a chi è stato eletto di governare il
proprio paese con dignità, passione e soprattutto dedizione in un momento
in cui ad autonomia avvenuta per essere Comune indipendente, si trattò di
difenderla da chi, anche da personaggi dello stesso paese, per privilegi
ottenuti e per contrasti meschini e velleitari, voleva che gli abitanti di
questo paese ripiombassero nel buio e nell’oblio come satellite della sempre
rifiutata dipendenza dal Comune di Carinola.
È difficile fare oggi una riflessione sugli accadimenti di quel breve ed
intenso momento politico e sociale che tutto il paese attraversò nel bene e
nel male, ma bisogna assolutamente farlo per riportare un po’ d’ordine nelle
idee e nei fatti di chi cerca, ancora oggi, di minimizzare gli avvenimenti
accaduti, di denigrare le decisioni prese allora per il bene del paese e di
gettare le proprie colpe odierne o appena passate sui padri che ormai non ci
sono più, ma che hanno dato tutto se stessi per permettere agli stessi figli,
detrattori di oggi, di essere fieri dell’operato di persone semplici ma forti
nelle loro idee.
Si devono affrontare anche delle scelte motivate e non di parte per
mettere a fuoco tutte le dinamiche che hanno caratterizzato tale periodo del
nostro racconto in quanto i personaggi che hanno animato la storia del
paese in quel periodo hanno avuto ognuno una sua particolare personalità e
motivazione nell’affrontare e risolvere le questioni impellenti e necessarie
per una vita di un Comune autonomo che allora si formava.
Nemmeno si può assolutamente ipotizzare che, pur nella concitazione e
nella gioia di un’autonomia raggiunta, si spegnesse in tutti i personaggi che
l’avevano animata nei primi momenti della creazione del Comitato per
l’Autonomia quel senso di rivalità politica e personale che era stato non
represso, ma solo frenato, perché in quei momenti era necessaria un’unità
forte e visibile che doveva esprimere la compattezza e convinzione che le
azioni che si dovevano attuare dovevano essere decisive.
Di riflesso, il popolo ha seguito in modo generoso questo sforzo che gli
uomini dell’autonomia hanno manifestato con le loro azioni.
La partecipazione alle azioni dimostrative registrarono allora anche un
profondo senso di rivendicazione di scelta di libertà nei confronti del
Comune di Carinola che, ostinatamente, si opponeva con cavilli e con
motivazioni poco convincenti, affermando che l’autonomia avrebbe portato
disagio ed emarginazione per il nascente Comune.
Si diceva allora nella piazza del comune capoluogo che non era
necessario che Falciano fosse comune autonomo perché, essendo la
frazione più numerosa come abitanti, avrebbe avuto sempre il suo sindaco
ed avrebbe sempre determinato le scelte politiche per l’intero territorio.
Una considerazione evidentemente peregrina perché, lo diciamo per
completezza, niente garantisce che ciò avvenga (del resto cozzerebbe con i
principi di democrazia che vigono in una Repubblica), in quanto vari
interessi clientelari o parentali fanno in modo, come in effetti spesso
avviene, che una considerevole quantità di voti si spostino verso candidati
di altre frazioni, quindi l’affermazione che il sindaco di Carinola sarebbe
stato comunque di Falciano era una cosciente e squallida menzogna.
Ma ciò che più fa meraviglia è che qualche notabile del nostro paese
aveva sposato tale diceria perché già sapeva in partenza che non avrebbe
potuto essere protagonista in prima persona dell’autonomia.
Furono i primi sconfitti.
Tutti gli altri attori di quella stagione impiegarono ogni loro energia
perché l’autonomia fosse piena e completa, superando le varie traversie,
dispetti e ricorsi alle autorità di controllo, e tutti si comportarono secondo il
loro carattere ed i propri interessi.
Questi uomini, oggi, non ci possono rispondere perché sono scomparsi.
Bisognerebbe scomodare un certo personaggio, ma anche lui è passato a
miglior vita, e non può attuare le sue presunte arti magiche.
Era, questa persona, molto famosa in quel periodo in paese ed ebbe a che
fare molto con i morti. A lui tutti si rivolgevano per parlare con i loro cari
estinti, era chiamato “scetamuorte”.
Se fosse ancora vivo si potrebbe utilizzare la sua arte per poter meglio
analizzare e descrivere gli avvenimenti ed i personaggi di allora.
Questo non è possibile.
Racconteremo i personaggi più significativi per la nostra storia, i fatti e
gli avvenimenti così come si sono presentati a noi attraverso le carte che,
con difficoltà e diffidenza, sono state messe a disposizione e le
testimonianze di coloro che hanno ricercato nella loro memoria il filo rosso
del ricordo.
Per non procurare risentimenti in nessuno e per non creare confusione
nella mente di chi legge questa storia, è necessario che da subito i lettori
abbandonino pensieri strani o artefatti che possano essere di ostacolo alla
corretta analisi che ognuno deve fare sui fatti e sugli avvenimenti che
verranno trattati.
Si cercherà di essere lealmente obiettivi nella narrazione di un periodo
pur breve nel tempo, ma duraturo per gli effetti che avrà sulla popolazione
del paese, perché ognuno possa vedere in essi uno specchio fedele e non
immaginario o epico di fatti ed avvenimenti che solamente persone con una
passione civile, quali furono gli attori di questa storia, potevano realizzare e
concretizzare per un paese piccolo, come era allora il nostro, ma desideroso
di avere una propria autonomia in tutti i sensi nella gestione della propria
vita e delle proprie risorse economiche.
Quando si iniziò a parlare di autonomia di Falciano dal Comune di
Carinola?
Nel 1947 si creò il primo Comitato promotore dell’Autonomia composto
dalle stesse persone che saranno ricordate in modo particolare in seguito e
fu inviata alle autorità competenti, il Ministero degli Interni ed agli uffici
periferici, la prima richiesta di autonomia per Falciano
Il sindaco di allora del Comune di Carinola era il geom. Giuseppe
Santoro, che si interessò in merito e conseguentemente convocò il Consiglio
Comunale del 17/01/1948 con, all’ordine del giorno: Autonomia Falciano.
Il risultato di questa delibera fu: 15 consiglieri comunali contro e 10
consiglieri comunali favorevoli, quindi il parere fu sfavorevole
Di questa prima richiesta di autonomia c’è solo un vago ricordo e
qualche appunto nei documenti di archivio del sindaco geom. Giuseppe
Santoro.
Questo primo tentativo, in cui quasi nessuno credeva e privo di una forte
convinzione politica, fu un aborto, ma servì anche a rafforzare la
preparazione dei componenti del futuro comitato, che imparò molto
dall’insuccesso.
Una richiesta di autonomia, oltre al rispetto delle indicazioni della legge
istitutiva e dei requisiti secondo l’art. 33 della Legge Comunale e
Provinciale T.U. 3 marzo 1934 n.383, doveva essere seguita e fatta propria
da sostenitori politici che a livello romano hanno il potere di far decidere in
merito.
Perché ci si volle staccare amministrativamente dal Comune di Carinola?
Non si può dare una risposta univoca a questo interrogativo, molte sono
le risposte che si possono formulare o solo ipotizzare.
I documenti ufficiali e le carte ritrovate non dicono molto, se non sintesi
di scarne notizie che si possono leggere se chi le possiede le mette a
disposizione di chi è interessato ad approfondire i fatti.
Eppure quegli scarni documenti e quelle carte la dicono lunga sul
travaglio e sulla drammaticità, a volte, delle decisioni che furono prese ed
attuate.
Se potessimo ritornare indietro e riavvolgere il nastro della nostra storia
per rivederla e ci fosse data la possibilità di domandare ad un cittadino
qualsiasi, di quel tempo, del nostro paese, del perché ci si voleva staccare
dal Comune di Carinola, ci avrebbe sicuramente risposto che i residenti
nella nostra frazione possedevano un’estensione di terreno di quasi un terzo
di tutto il Comune di Carinola e lo stesso Comune capoluogo non poteva
sfruttare il suo territorio ed i suoi abitanti a pro dell’intero territorio
carinolese.
Come si può osservare, il comune cittadino di allora non rivestiva il
discorso dell’autonomia del mantello nobile della politica, anche perché
sino a quel periodo, e con certezza negli anni precedenti, chi aveva
governato il Comune di Carinola era stato un suo concittadino, il geom.
Giuseppe Santoro.
Ma il distacco di una frazione dal proprio Comune non può essere fatta
solo per i motivi che sopra si adducono, questi motivi possono essere anche
importanti, ma si devono sempre rispettare delle precise indicazioni che le
autorità competenti richiedono e aspettare i tempi necessari per la
concessione dell’autonomia bramata.
Questo non basta, oppure, se basta, si possono, artatamente, creare
cavilli, ricorsi, ripicche ed altro che dilatano talmente i tempi, per cui di
quell’autonomia ne parleremmo ancora oggi come di una conquista da
perseguire.
Ciò che fece muovere tutto ed accelerare i tempi fu il grande interesse
che dimostrarono potenti politici a livello nazionale, chi più e chi meno, e di
tutti i colori politici, per questo piccolo paese, perché videro negli uomini
che propugnavano l’autonomia la voglia, la forza, la preparazione e l’onestà
per intraprendere un’avventura bella, dura e combattiva per la nascita di un
Comune autonomo.
Non tutto fu rose e fiori.
Vivremo nel raccontare la nostra storia anche periodi di sofferenza, di
difficoltà, di drammi vissuti e di polemiche infinite.
Si giunse persino, e questo non fa troppo onore ad alcuni cittadini di
questo paese perché fu una vigliaccata, a ricorrere contro l’autonomia per
ragioni più ascrivibili a ripicche personali che per altro, mentre il ricorso
presentato dal Comune di Carinola era più obiettivo e finalizzato alla
risistemazione dei confini del territorio.
Questo fu un periodo buio e triste per tutti che va sotto il nome di
“Comune fantasma”.
Sui i giornali di quel periodo uscivano articoli in cui si dileggiava con
ironia “andiamo a nascere ed a sposarci in questo comune fantasma in
modo che nessuno possa trovarci perché non esistiamo e quindi ad atti
nulli”.
Infatti si ipotizzava che tutti gli atti prodotti in quel periodo non fossero
validi perché il Comune era inesistente.
Ma non fu così.
È necessario, a questo punto, inserire nel nostro racconto la storia di un
paese della Provincia di Cosenza, Lauropoli, che, vista la pubblicazione
sulla Gazzetta Ufficiale della raggiunta autonomia del Comune di Falciano
del Massico, attraverso il Presidente del Comitato organizzatore della
propria autonomia, prof. Giuseppe Raimondi, scrisse al Presidente del
Comitato Organizzatore della Autonomia di Falciano del Massico, prof.
Antonio Di Gregorio, chiedendo aiuto e suggerimenti.
Il prof. Antonio Di Gregorio, uomo libero e di spiccato senso
democratico e poco incline a tenere per sé i segreti di una conquista
dell’intero paese, rispose al suo collega e questa risposta venne riportata ai
cittadini di Lauropoli da parte del comitato del posto con l’affissione di un
manifesto il cui contenuto si riporta appresso:
 
“Amici, concittadini,
ecco quanto ci risponde ad una nostra lettera il Presidente del Comitato
pro-Autonomia di una ex frazione del casertano, eretta in Comune
Autonomo con Decreto del Presidente della Repubblica in data 01 Luglio
1964.
Egr. Sig.re Giuseppe Raimondi
Comitato “Pro-Autonomia Lauropoli
Lauropoli di Cosenza
 
Gent.mo Sig.re Raimondi,
a nome mio personale e del Comitato che ho avuto il piacere di
presiedere e dirigere nella non facile impresa tendente ad ottenere
l’autonomia del mio paese, Le formulo i più vivi ringraziamenti per
l’apprezzamento espresso con lusinghiere parole sull’esito della nostra
battaglia.
Mi fa piacere che anche Lauropoli tenda a divenire autonoma: Le dico
sinceramente che non vi è cosa più bella nella vita amministrativa di
reggersi e governarsi da sé.
Comunque, nell’augurarLe che presto anche Lei e i Suoi amici possano
gustare questa gioia, Le fornisco le richieste delucidazioni in merito:
Documentazione occorrente (omissis)
Passi da seguire (omissis)
Per ottenere tutto questo, ripeto, occorre moltissimo impegno da parte
del Presidente del Comitato e di tutto il Comitato.
Bisogna saper sfruttare l’opera dei Parlamentari della zona, della
Prefettura e il Ministero degli Interni.
Insomma, la pratica deve essere seguita passo passo fino in fondo.
Con la speranza di essere stato chiaro e preciso, di essere onorato della
cittadinanza lauropolitana, in un giorno non molto lontano, formulo a Lei
personalmente, al Comitato Promotore e a tutti i cittadini di Lauropoli i
miei più vivi e cordiali auguri.
f.to Prof. Antonio Di Gregorio
Presidente del Comitato
Pro-Autonomia di Falciano del Massico-Caserta
Falciano del Massico 3 ottobre 1964
N.B.) Sarò sempre lieto ed onorato di sapermi a Vostra completa
disposizione.
Grazie”.
 
In questa lettera-risposta del prof. Antonio Di Gregorio, Presidente
promotore per l’Autonomia del nostro paese, al suo omonimo professore
Giuseppe Raimondi di Lauropoli, c’è tutta la storia di quel periodo riassunta
in delle frasi e locuzioni che hanno dietro di loro un periodo intenso di
impegno, di sacrifici, di discussioni interminabili, di viaggi fatti in
solitudine o in gruppo a Roma per interessare i vari rappresentati politici ed
istituzionali al problema e soprattutto di battaglie interne al proprio gruppo
o tra gruppi che rappresentavano ognuno interessi personali e generali e per
appropriarsi, infine, il diritto di primogenitura dell’idea e della successiva
concretizzazione dell’autonomia.
Ma i fatti ed avvenimenti, provati da documenti e da ricordi, riportano e
ripristinano, oggi, il senso della verità, mettendo al loro posto le tante
storielle o dicerie inventate e raccontate in piazza o nei caffè del tempo
perduto ad uso personale dai vari contendenti di allora.
Anche questi sono degli sconfitti.
Verso la metà del mese di maggio dell’anno 1957, dopo un periodo di
incontri e di discussioni sulle modalità da seguire per la prima
convocazione di tutti i segretari o rappresentanti dei partiti politici presenti
in paese, giunse a tutti l’invito a riunirsi ufficialmente ed alla luce del sole
per porre le basi politiche e fare i primi passi per la richiesta dell’autonomia
del paese e relativo distacco dal Comune di Carinola, di cui era una
popolosa frazione.
Si riporta il contenuto dell’invito della prima convocazione dei segretari
dei partiti:
Democrazia Cristiana Falciano Capo
Democrazia Cristiana Falciano Selice
Partito Liberale Italiano
Movimento Sociale Italiano
Partito Socialista Democratico Italiano
Partito Comunista Italiano
Partito Nazionale Monarchico
Domenica 9 c.m. alle ore 18.00 nella sezione Coltivatori Diretti di Falciano
Selice si terrà una riunione per discutere sul tema:”Falciano Comune
autonomo”.
La Direzione del Partito cui la presente è diretta è pregata di inviare i
propri rappresentanti.
“Il Comitato” Antonio Di Gregorio.
 
Questo invito, che a prima vista sembra scarno ed insignificante, dietro di
sé ha una storia travagliata per la sua preparazione e soprattutto per chi
doveva prepararlo e inviarlo, perché questa scelta poteva già significare che
chi si prendeva la responsabilità ed il coraggio di esporsi come il
sollecitatore di tale iniziativa sarebbe stato, poi, chi si sarebbe assunto la
paternità dell’idea e della sua realizzazione.
Questo pensiero frullava nella testa di tutti, ma nessuno lo manifestava
per non tagliarsi l’erba sotto i piedi e così si incominciò a giocare al gatto
ed al topo per poter prendere in contropiede i propri amici e avversari, per
coglierli alla sprovvista e metterli in un cantuccio, così da poterli piegare ai
propri fini.
Tutti erano convinti che fosse giunto il momento nella storia del paese di
rischiare in prima persona per portare più libertà politica ad un luogo che
per anni era dipeso da un altro Comune, ma tutti singolarmente volevano
essere protagonisti in prima persona per poi proporre il proprio nome come
candidato sindaco alle elezioni comunali, che sarebbero state indette subito
dopo come conseguenza dell’autonomia.
E questo gioco, di cui si parlava prima, aveva fatto ritardare nel tempo la
maturazione dell’idea dell’autonomia, ma quanto poi vi fu e si diede seguito
si delegò alle segreterie dei partiti la scelta della persona che avrebbe
condotto il comitato nascente.
Chi manualmente preparò l’invito e lo consegnò agli interessati fu il prof.
Antonio Di Gregorio, allora segretario delle Democrazia Cristiana di
Falciano Selice e Presidente della Coltivatori Diretti.
Possiamo immaginare l’attesa che si propagò alla notizia della
convocazione e soprattutto i vari discorsi e le varie ipotesi che si
formulavano nelle due piazze e sia nei fumosi bar dove, tra un giro di carte
e la bevuta di un caffè o di una birra, si pronosticavano cose diverse da
come poi sarebbero accadute.
Tutti immaginavano che la riunione sarebbe stata burrascosa con grida,
minacce e qualche alzata di sedie, ma non fu così, perché i convocati
dimostrarono un alto grado di saggezza, tanto da evitare sceneggiate
improduttive alla causa e, pur nella tensione insita nella riunione, si riuscì
ad effettuare la seduta e a prendere le decisioni successive.
Leggiamo insieme il verbale di quella storica seduta.
 
L’anno millenovecentocinquantasette il giorno 9 del mese di Giugno alle
ore diciotto e trenta nella sezione dei Coltivatori Diretti di Falciano Selice
si sono riuniti i rappresentanti dei Partiti Politici:
1 Democrazia Cristiana (Ins. Antonio Di Gregorio)
2 Movimento Sociale Italiano (Sig. Carlo Cerrito)
3 Partito Comunista Italiano (Sig. Canzano Giovanni)
4 Partito Liberale Italiano (Geom. Giuseppe Santoro)
5 Partito Socialista Democratico Italiano (Sig. Stanziale Gelasio), allo
scopo di costituire un Comitato il quale possa rendersi promotore della
Autonomia comunale di Falciano.
Sono rimasti quindi d’accordo di far bandire l’invito a tutti coloro che
volessero far parte del Comitato esecutivo per detta Autonomia. Il giorno
per detto bando viene fissata per domenica 16 c.m. alle ore 9.00.
Seguono le firme: Antonio Di Gregorio, Cerrito Carlo, Giovanni
Canzano, Santoro Giuseppe, Stanziale Gelasio.
Falciano di Carinola 9 Giugno 1957
 
Come si vede dal verbale, il Partito Nazionale Monarchico ufficialmente
disertò la riunione e non appoggiò le richieste successive per l’autonomia.
La seconda riunione si tenne il giorno 20 di giugno e non il giorno 16 per
una questione di opportunità legata ad una maggiore partecipazione degli
interessati alla formazione del comitato, in modo che non ci fossero
successive recriminazioni di aver affrettate le date per eliminare qualcuno
degli interessati.
Leggiamo il verbale stilato in quella seduta con le firme di tutti coloro
che aderirono a formare il Comitato.
 
“L’anno 1957 il giorno 20 Giugno alle ore 20.00 e nella sede dei
Coltivatori Diretti si è costituito il Comitato per la erezione della frazione
di Falciano in comune autonomo, formato dai sottoscritti sig.: Gaudiosi
Giuseppe, Zannini Salvatore, illeggibile Giovanni, Stellati Giovanni,
Canzano Giovanni, Genuino Antonio, Di Pasquale Antonio, Antonio Di
Gregorio, Michele Zannini, Carmine Manica, Capuano Raffaele, Giuliano
Fabozio, Pietro Vezzoso, Santoro Giuseppe, Stanziale Antonio, Verrillo
Michele, Capuano Luigi, Cerrito Carlo, Prata Andrea, Santoro Antonio,
Zannini Pasquale, Manica Pasquale, Broccoli Pasquale”.
 
Venne eletto, non esiste un verbale, ma vi sono degli appunti in coda allo
stesso verbale di cui sopra, subito un comitato ristretto con il suo presidente
e cassiere.
Furono eletti, si pensa all’unanimità: ins. Antonio Di Gregorio, dott.
Gaudiosi Giuseppe, geom. Santoro Giuseppe, dott. Giovanni Stellati, avv.
Salvatore Zannini, sig. Stanziale Gelasio e sig. Andrea Prata.
Fu eletto Presidente il prof. Antonio Di Gregorio e nella carica di cassiere
Andrea Prata.
Furono raccolti i primi fondi per il funzionamento e le prime spese che il
comitato doveva sostenere.
Tutti versarono, secondo le proprie possibilità, la propria quota e si
raggiunse la cifra di Lire 15.000, che fu consegnata al cassiere.
Si stabilì anche che il comitato fosse aperto a tutti coloro che volevano
iscriversi versando una quota di Lire 1.000.
Si è voluto riportare nella sua interezza questa fase iniziale, che segna i
primi passi che dovevano portare all’autonomia, per manifestare da queste
pagine a questi cittadini del nostro paese profonda ammirazione e
riconoscenza per il coraggio ed il profondo amore che hanno avuto per
rendere il paese autonomo.
Essi misero da parte le loro appartenenze politiche, i loro interessi, i
propri sentimenti, le proprie aspirazioni di affermarsi e di rivincita sugli
avversari di sempre, per un unico ideale, quello dell’autonomia, e per
acquistare una libertà democratica fondamentale che è quella di
autogovernarsi.
Furono dei galantuomini e si deve essere riconoscenti a questi uomini che
hanno lasciato un segno nella storia di questo piccolo ma grande, come
ideale, paese.
La vita del comitato, dopo questa prima fase, possiamo dire, eroica, ebbe
degli scossoni e dei mutamenti sino all’ottenimento dell’autonomia, sia per
tutte le fasi burocratiche che si dovettero seguire e sia per i nuovi entrati che
portavano con loro non l’entusiasmo della prima ora, ma erano spinti dalla
brama di trovare un vantaggioso posizionamento politico per la prima
elezione, come poi sarebbe avvenuto nel 1964 ad autonomia concessa.
Il 28 del mese di novembre 1958 fu inviata al Ministero degli Interni la
domanda di richiesta, scritta su carta da bollo di lire 200, di essere Comune
autonomo dal Comune di Carinola con tutte le carte e documentazioni
necessarie di rito e previste dall’art. 33 della Legge Comunale e Provinciale
T.U. 3 marzo 1934 n. 383.
Ci furono altre entrate nel comitato sia nel 1959 e sia nel 1960 e in
quest’anno venne rinnovato il gruppo dirigente con l’elezione di:
Prof. Di Gregorio Antonio – Presidente
Sig. Orologiaio Vincenzo – Vice Presidente
Sig. Simeoli Vito – Cassiere
Sig. Gallo Gaetano – Segretario
Sig. Verrengia Giuseppe – Revisore
Sig. Paragliola Antonio – Revisore
Furono nei due anni raccolti ancora dei fondi per circa Lire 99.000, che
servirono al sostenimento delle spese per la collazione dei documenti da
inviare alle autorità di competenza.
Iniziò in tal modo il lungo viaggio e la lunga avventura che portò alla
data fatidica del 1 luglio del 1964, quando venne pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale il Decreto del Presidente della Repubblica n. 673 che dichiarava
Falciano Comune autonomo e la nuova denominazione fu Falciano del
Massico.
Si tralasciano per il momento tutti i fatti e gli avvenimenti che
costellarono questo periodo di attesa, e cioè dal 1960 al 1964, ma è
necessario per la completezza della storia rileggere con attenzione una
relazione che fu preparata ed inviata dal prof. Antonio Di Gregorio e del
comitato all’ingegnere capo del Genio Civile di Caserta.
Questa relazione, una volta vistata, doveva essere allegata, come lo fu, a
tutta la pratica di richiesta dell’autonomia.
In questa bozza di relazione, che per fortuna ci è rimasta e che è stata
messa a disposizione del racconto da parte dei figli del prof. Antonio Di
Gregorio, Mario e Marisa Di Gregorio, possiamo vivere e palpare la
profonda sensibilità che ebbero quegli uomini in quel momento nel
presentare il proprio paese con il suo territorio con semplicità, amore ed un
profondo senso di poesia nel descriverlo.
Eravamo nel mese di settembre del 1960 e non ancora lo spirito genuino
dell’autonomia aveva abbandonato i promotori per far posto,
successivamente, ai desideri di potere e di comando piuttosto smodati e
certo riprovevoli del periodo successivo,
Leggiamo insieme questa relazione.
 
“La consistenza territoriale del comune di Carinola è di Ha 10281 are 80
e cent. 42, dei quali Ha 4200 circa amministrativamente dovrebbero andare
a formare il territorio dell’erigendo Comune di Falciano del Massico.
La tratta di superficie indicata nella cartina topografica annessa alla
pratica è di varia natura: è montuosa, collinare e pianeggiante.
La montuosa comprende tutto l’ex demanio feudale e cioè moggia 2103
passi 3 e passatelli 24, pari ad Ha 745 are 131 e cent. 70.
Tale superficie è compresa tra i canali denominati S. Martino, Ceraso,
La Pizza, Lo Separo, S. Angelo, S. Maria e Le Mandre.
È di natura boscosa con legname di varie specie. Vi predomina il leccio
che cresce spontaneo e rigoglioso nei canali suddetti. Vi abbonda il mirto
che si raccoglie durante la stagione propizia e si esporta per industrie
conciarie e la strama che costituisce uno economico ed abbondante
materiale per la fabbricazione delle stuoie e del crine vegetale.
La parte collinare è ricca di olivi e di viti che ricordano, nel prodotto, il
forte e generoso Falerno.
Nella parte pianeggiante si coltivano cereali di ottima qualità, prodotti
ortofrutticoli, tabacco e fino a Cappella Reale ed ai confini del Comune di
Mondragone signoreggia la coltivazione del pioppo (populus albus) e nel
sottosuolo i famosi “cannellini”, appetiti e ricercati su tutti i mercati sia
allo stato verde (spigolini) che allo stato secco.
Naturalmente poiché le solanacee attecchiscono e vegetano con rigoglio
tutto speciale, anche il pomodoro costituisce una coltura molto praticata sì
che i prodotti della nostra terra varcano perfino gli oceani messi in scatola
da diverse ditte industriali, come Cirio ed altre.
Mentre la parte montuosa costituisce, naturalmente, una ricchezza per il
bosco di alto fusto che anno per anno si va formando e presenta un
sottobosco nel quale i cittadini del luogo potrebbero esercitare l’uso civico
nella raccolta di legna e del pascolo, la parte collinare è quella
pianeggiante costituisce, indubbiamente, il benessere della popolazione
residente in quanto costituisce la ricchezza vera e propria della zona.
E se ai prodotti della terra si aggiungono le industrie zootecniche ed i
prodotti della pesca forniti dal lago locale, si ha un quadro esatto di quello
che costituisce la consistenza patrimoniale dei beni esistenti sul territorio
da assegnare a Falciano del Massico.
 
Infatti non è da sottovalutare questo piccolo lago, un tempo esteso per
Ha 14 – are 17 – cent. 20, oggi di dimensioni più modeste per le continue e
costanti colmate degli affluenti. In esso albergano anguille di un sapore
tutto particolare, tinche e cefali, che allevati razionalmente potrebbero
offrire un apporto non indifferente all’economia locale.
Economia che viene integrata ed arricchita dalle varie industrie esistenti
in loco, dalla industria estrattiva del calcare a quella del tufo,
dall’industria della fabbricazione del crine vegetale a quella delle stuoie e
delle scope, annesse naturalmente ad una fiorente industria autotrasporti.
Dall’industria olearia a quella molitoria industrie tutte unite ai prodotti
del suolo danno mezzi di vita sufficienti alla funzionalità del nuovo
Comune, che se amministrato con criteri di sana ed onesta amministrazione
potrebbe diventare uno dei più fiorenti e ricchi comuni della provincia di
Caserta.
I Confini
Il territorio da distaccare per la erezione del nuovo comune, parte dalla
dorsale Tre Croci, scende lungo il canale della Piantagione, tocca il Ponte
del Matese, sulla provinciale Falciano-Carinola, prosegue lungo la
provinciale fino al Cimitero “S. Lorenzo”, scende per la strada dietro al
Cimitero, si congiunge con la strada vicinale delle Pagliare e di qui al
rivolo “Fontanelle”, con linea arcuata arriva alla masseria “Provitola”, si
immette sul Rio Roda sino alla masseria “Limata”, continua verso Sud
lungo la strada che congiunge la provinciale Cancello-Sparanise,
attraversando Fosso Riccio ed il vecchio Savone. A questo punto si
prolunga lungo la strada interpoderale fino alla masseria “Saraceni”,
dopo la quale va ad incontrare il confine di Francolise e Cancello Arnone,
toccando la sponda destra dell’Agnena dopo aver attraversato Fosso
Nuovo.
Detto territorio a contorno irregolare è compreso tra i punti Nord-est-
est.
A Sud confina con il sopracitato comune di Cancello Arnone.
A Sud Ovest con il Comune di Mondragone, confini esistenti e ben
delimitati, fino a raggiungere a Nord Est (illeggibile).
Tutti i confini non sono affatto arbitrari ma rappresentano il naturale
sfogo della popolazione di questo centro rurale che fin dai tempi remoti, ha
lavorato e sudato per dissodare e rendere fertile queste terre, un tempo
dominio del bufalo e della malaria.
In queste zone i nostri padri hanno curvato la schiena da mane a sera
sotto la sferza canicolare tra miasmi che logoravano la loro fibra, paghi
solo di strappare alla natura inclemente un pugno di grano, che servisse a
sfamare la famiglia.
Ora che dette zone rappresentano quanto di più moderno si possa
immaginare nel sistema di conduzione terriera, non vorremmo essere
allontanati dopo tanti duri sacrifici”.
 
È un documento, pur dovendo accompagnare degli elaborati tecnici,
pieno di tanti particolari di una terra che era entrata profondamente nel
cuore dell’estensore da essere ancora oggi una fonte di ricchezza storica, se
non di profonda poesia.
Il fine della storia che stiamo raccontando è sempre quello di evidenziare
ed esaltare la storia di una terra che, abbandonata ed incolta, viene occupata
da poveri contadini del secondo dopoguerra, e questa relazione ritrovata tra
le carte del primo sindaco dell’autonomia, prof. Antonio Di Gregorio, è una
degna cornice a quell’avvenimento perché esalta il valore di questa terra ed
i sacrifici fatti dai nostri padri. “hanno curvato la schiena da mane a sera…
hanno lavorato e sudato” per dissodarla e renderla fertile.
Tralasciando i nudi dati tecnici contenuti nella relazione, ciò che esalta i
nostri sentimenti nel leggerla sono i toni, le emozioni, i colori, la sobrietà
delle descrizioni, il senso di vivacità e di gioia di essere nati in questa terra
ed abitare in questo paese.
Sembra un’implorazione l’accorata chiusa finale della relazione che,
rivolgendosi a chi doveva concedere l’autonomia quasi implorando, chiede
“non vorremmo essere allontanati dopo tanti duri sacrifici da questa terra”.
Credo anche che chi in alto loco lesse tale relazione si convinse
maggiormente che tale autonomia si doveva concedere.
E l’autonomia venne concessa con Decreto del Presidente della
Repubblica n. 673 con data 1 luglio 1964.
Quando il Presidente del comitato, prof. Antonio Di Gregorio, ebbe la
comunicazione e la certezza della concessa autonomia, non trattenne il suo
entusiasmo, pur essendo di carattere severo e riservato, tanto da ordinare, a
sue spese, i fuochi d’artificio per illuminare il cielo del suo e del nostro
paese di colori pittoreschi con i fuochi d’artificio che indicavano la gioia di
tutti e la speranza di una rinascita immediata dopo un periodo di torpore e
di rassegnazione trascorso come frazione del Comune di Carinola.
Sempre lo stesso Presidente, ancora una volta abbandonando il suo senso
di riservatezza e di severità, telefonò alla sua famiglia, che era in vacanza
sulla penisola sorrentina, affermando la sua gioia per la grande conquista
raggiunta, quasi volendo ricompensarla del tanto tempo sottratto alla sua
cura e confortarla dei tanti dispiaceri e dissapori legati al suo profondo e
convinto impegno per raggiungere il grande traguardo di rendere il suo
paese autonomo amministrativamente.
Si stampò subito un manifestino da 10x15 da distribuire con
immediatezza nelle piazze e lungo le strade con questo contenuto:
Comitato “Pro-Autonomia” di Falciano”
FALCIANESI:
Da oggi Falciano non si chiamerà
più Falciano di Carinola, ma Falciano
del Massico.
Viva Falciano e i Falcianesi!
Il Comitato.
Negli anni precedenti al 1964, quando il professore Antonio Di Gregorio
era consigliere di minoranza al Comune di Carinola, molte volte veniva
zittito sia dai suoi amici di partito che dai consiglieri di maggioranza perché
le sue proposte miravano sempre ad evidenziare la necessità dello sviluppo
economico e sociale del suo luogo di appartenenza con argomentazioni di
profondo senso pratico e politico.
Nessuno lo voleva ascoltare.
E pur nel trambusto delle sedute del Consiglio Comunale di Carinola,
negli ultimi anni, non aveva timore di dire, ma con tono civile e rispettoso
delle idee altrui «… eppure io farò tutto il possibile e metterò tutto il mio
impegno per rendere Falciano Comune autonomo da Carinola.»
Ed è lui che volle in modo forte, profondo e convinto l’autonomia, e
spronò gli altri a seguirlo con lo stesso spirito, lo stesso entusiasmo e la
stessa convinzione.
Fu un momento magico per tutti, ma durò il giro di un solo sole.
Credo che se non ci fosse stato questo grande personaggio a sostenere
caparbiamente e ricercare tutte le strade per giungere al fine ultimo
dell’autonomia del suo e nostro paese ancora oggi saremmo legati al
Comune di Carinola, come Lauropoli, ancora oggi, è una frazione di
Cassano allo Ionio
Ora possiamo ben immaginare quali furono le azioni messe in campo ed i
vari personaggi che si mossero superando gli steccati, diremmo attualmente,
ideologici di partito e di interessi personali e trovare un’unità di intenti per
rendere efficace ed unitaria l’azione politica che si doveva mettere in
campo, tesa a raggiungere il risultato prefissato dell’autonomia
amministrativa del paese.
E questo fu fatto.
Fu un lavoro duro e faticoso per tutti, ma la raggiunta autonomia li
ricompensò.
Restano nel ricordo e nella storia per sempre.
 
Prof. Antonio Di Gregorio – Primo sindaco di Falciano del Massico
 
Gli eletti consiglieri comunali e sindaco alla 1ª consultazione elettorale
del 1964
 
Casa comunale di Falciano del Massico
 

 
 
 

Le elezioni comunali del 1964 – I duellanti


 
 
 
 
 
Dopo l’euforia per la raggiunta autonomia, incominciarono ad apparire, sin
dal giorno successivo a quella data storica, le prime crepe nei rapporti
soprattutto personali tra tutti i personaggi guida che avevano portato per
mano il popolo alla conquista dell’autonomia amministrativa.
Ad un osservatore attento che vuole riportare nell’alveo della veridicità le
situazioni che furono create ad arte da parte dei personaggi interessati nel
periodo che va dal 1 luglio del 1964 sino alla data di indizione delle prime
elezioni comunali, tenutesi nel mese di novembre dello stesso anno, non
sfuggono i fatti e gli avvenimenti che man mano che si svilupparono
corrosero e consumarono anche quel tenue filo di rispetto e di stima
personale tra gli stessi promotori dell’autonomia.
Era in ballo, fra i duellanti più in vista e più motivati, la carica più
importante per governare un paese e soprattutto essere il primo sindaco
dell’avvenuta e sospirata sutonomia.
Iniziava per Falciano una nuova era e si incominciava a scriverne la
storia in modo diretto ed immediato ed ognuno voleva lasciare la sua
impronta, voleva figurare nelle pagine della sua storia, secondo il proprio
desiderio e comodità, anzi voleva, secondo i personaggi che si proposero,
condurre il paese in un’avventura senza sbocchi e senza una prospettiva di
progresso da far rimpiangere il periodo trascorso come frazione di Carinola
e ripiombare, ancora una volta, nell’arretratezza e nella sudditanza,
sconfitte e rinnegate apertamente dalla raggiunta autonomia.
Ciò che è stato precedentemente affermato trova un riscontro effettivo
nelle prime sedute del nuovo Consiglio Comunale appena eletto, in cui un
consigliere comunale espressamente dichiara, durante la trattazione
dell’argomento spinoso ed interessante qual era in quel momento il
prolungamento del Corso Garibaldi, ai presenti in Consiglio Comunale una
speciale nostalgia per l’azione amministrativa del Comune di Carinola, di
“cui noi personalmente ci onoravamo far parte”.
Già l’uso del “noi”, che era fuori luogo perché voleva dire, pur usando il
plurale maiestatis, solo se stesso, ciò che fa ancora più specie è che questo
consigliere era uno dei primi firmatari e capo di un partito che aveva
promosso il Comitato Promotore dell’Autonomia e che quindi, almeno se lo
fece allora in piena coscienza, doveva avere l’accortezza e la prudenza di
tenerselo per sé e non provocare reazioni furibonde in un Consiglio
Comunale di per se stesso difficile.
Ma fu subito molto chiaro, fin dai primi giorni di luglio del 1964, il
campo dei partecipanti.
Tutti avevano le carte in regola, si parla soprattutto degli aspiranti storici
alla carica di sindaco, cioè, spieghiamo meglio e con più chiarezza, tutti
avevano partecipato, chi più e chi meno, a tutta la travagliata vicenda per la
conquista dell’autonomia, ma non tutti erano convinti che solamente uno di
loro potesse essere eletto sindaco e non tutti erano convinti che ognuno si
dovesse sforzare di ricercare tra di loro la persona che, per preparazione e
carisma, meglio potesse interpretare la novità di guidare un paese appena
uscito da un periodo difficile e buio, come era stato quello appena trascorso
come frazione di un comune di cui Falciano era la parte più popolosa e più
ricca.
Questa mancata convinzione, dovuta anche a quel senso di supponenza e
di onnipotenza che alcuni personaggi manifestavano anche con il loro
atteggiamento arrogante ed intimidatorio, fece sì che nel primo anno di
autonomia, il Comune non vivesse una vita tranquilla e pacifica, ma
travagliata e, a volte, anche drammatica.
Questo fu un prezzo che questo nuovo Comune, ma soprattutto i suoi
abitanti, dovettero pagare.
Si deve anche affermare che il primo sindaco che sarebbe stato eletto
doveva già aver acquisito tutti gli anticorpi necessari già nel periodo
preparatorio alla campagna elettorale per superare le prove e gli ostacoli che
avrebbe sicuramente incontrato.
A chi scrive piace immaginare di trovarsi di fronte dei duellanti che non
badano all’arma usata e non rispettano le regole del classico duello, ma
ognuno, a modo suo, prepara la propria battaglia e le sue strategie e sceglie
l’arma che vuole desiderando in cuor suo di eliminare i propri avversari il
prima possibile,
Fu un duello senza tregua e, a volte, anche piratesco e subdolo quello che
portò alla scomparsa di personaggi che avevano dominato la vita politica in
Falciano quando ancora era frazione di Carinola.
La maggior parte dei candidati aveva avuto esperienze di amministratore
nei vari periodi precedenti, quando il paese era ancora frazione, ed ognuno
di loro aveva anche governato con responsabilità di assessore o di delegato
del sindaco, ma la maggior parte aveva vissuto una vita abbastanza grama
di opposizione al gruppo dominante a Carinola anche se, a volte, qualche
briciola caduta dal tavolo di chi comandava in quel Comune veniva
distribuita anche agli oppositori, soprattutto nei momenti in cui si dovevano
approvare atti ostici ed indigeribili alla stessa maggioranza.
Era consuetudine, in tali momenti, pur di evitare una crisi politica
dell’amministrazione e la venuta del Commissario prefettizio e, quindi,
nuove elezioni, coinvolgere qualche rappresentante della minoranza
disponibile, diciamo anche voglioso di dimostrare ai suoi elettori di aver
ottenuto per loro qualche piccola concessione, quella di offrire un aiuto per
l’approvazione di tali atti.
Generalmente questo è uno stratagemma che viene sempre usato quando
una maggioranza non trova un accordo politico nel proprio interno e serve
come messaggio ai riottosi ed ai dissidenti delusi per farli rientrare nelle
righe in quanto i loro voti non sono determinanti alla vita
dell’amministrazione perché ci sono sempre questi cosiddetti “responsabili”
che all’uopo risolvono le crisi.
Si cercò, prima di scendere in campo aperto, un accordo onorevole tra le
parti che rappresentavano i vari partiti ed orientamenti politici.
Il primo proposto fu quello di non effettuare subito le elezioni e di
cercare di rimandarle di un paio d’anni, visto che si aveva un Commissario
prefettizio che svolgeva bene i suoi compiti e che era stimato da tutti e che
costava poco e soprattutto per preparare un po’ tutti ad un evento che
avrebbe sicuramente rotto quell’idillio che si era realizzato tra le varie parti
pur di arrivare alla sperata autonomia.
Il secondo fu quello che, se si dovevano per forza e necessità effettuare le
elezioni comunali, occorreva formare una lista unica con il simbolo di
quattro braccia che, incrociandosi, legavano quattro mani, quasi a sancire
anche visivamente lo spirito che aveva sostenuto e vivacizzato tutto il
periodo di preparazione e di lotte per raggiungere l’autonomia.
Nessuno dei due accordi andò bene a tutti e gioco forza si passò alla
convocazione dei comizi elettorali e quindi alle elezioni comunali
Così i nostri affrontarono la formazione delle loro liste e la campagna
elettorale avendo un retroterra di vita politica vissuta in un ambiente ben
diverso da quello in cui, ora, realmente si cimentavano per governare.
L’esperienza politica ed amministrativa di quasi tutti i candidati era
scarsa, se non nulla, ma ognuno si sforzava di dimostrare la propria volontà
di mettersi a disposizione della collettività per migliorare le condizioni
misere di un Comune appena nato.
Il problema che ebbero quasi tutti fu quello di coagulare intorno alla
propria persona, come candidato a sindaco, un gruppo di appoggio e di
sostegno per la formazione della lista da presentare e la successiva
campagna elettorale, che si preannunziava dura e combattiva e che avrebbe
segnato uno spartiacque tra i contendenti che non si sarebbe mai eliminato.
Ognuno dei candidati si preoccupò di scegliere come propri compagni di
strada persone servili e disponibili e senza alcuna velleità di surrogare il
proprio referente proposto alla sindacatura.
È anche chiaro che ogni candidato, per legare a sé ulteriormente il
proprio gruppo, prometteva le varie e piccole, se non misere, prebende che
un Comune appena nato poteva offrire, anche se tutti i personaggi di
secondo livello aspiravano alla Presidenza dell’E.C.A., ente di distribuzione
di assistenza materiale per i poveri del paese, unico centro di potere
discrezionale che tutti, senza esclusione di nessuno, hanno usato, a modo
loro, durante il loro mandato.
Era uno strumento amministrativo nobile nel suo intento, ma fu usato per
ricattare o ricompensare i propri avversari e gli amici politici. Uno
strumento gestito in modo disumano e abominevole.
Si cercò di avere nella propria lista persone che appartenessero a famiglie
molto numerose, in modo da crearsi un vasto elettorato clientelare e, al
contempo, strappare voti agli avversari.
E questo fu un lavoro da certosini e capillare, attuato passando al vaglio
tutte le famiglie collegate, vigilando attentamente per controllare che le
stesse non tradissero nel segreto dell’urna.
Alcuni ipotizzarono anche vari stratagemmi per il controllo effettivo
della scheda elettorale, votata con segni o piegature non riscontrabili da
parte degli scrutatori e del Presidente di Seggio per decretare la nullità della
scheda stessa, e che però consentissero di conoscere perfettamente
l’opinione espressa da un determinato elettore.
Non bisogna dimenticare che i rappresentanti del seggio elettorale erano
cittadini che dovevano essere scelti a sorteggio, ma questo sorteggio era
stato sempre guidato ed ognuno dei candidati aveva sempre avuto un
proprio rappresentante in ogni seggio.
Le promesse che venivano fatte agli elettori, pur di attirarli ed averne il
voto, erano legate soprattutto alla soddisfazione di piccoli favoritismi nella
vita di ogni giorno e le grandi promesse connesse a questioni urbanistiche,
quali il Piano di Costruzione e asfaltatura delle strade, o questioni di
illuminazione pubblica e di approvvigionamento dell’acqua pubblica.
Nelle liste, in certi casi, furono inseriti nomi di candidati a consiglieri
scelti per rompere quelli che erano gli equilibri di indirizzo di voto che
avevano le varie famiglie, in quanto, puntando sull’affidabilità del
candidato, questi doveva essere di stimolo e di interesse, oltre che di
orgoglio per la stessa famiglia, affinché attraverso lui si affermasse il
candidato a sindaco. Insomma, ogni stratagemma, non sempre nobile, venne
adottato pur di prevalere su gli avversari.
Tutti cercarono di delegare ai famigerati peones il lavoro sporco di
ricerca dei voti, soprattutto dei titubanti e di coloro che volevano essere
avvicinati, pregati e ricompensati con qualche piacere o promesse future
che spesso non diventavano concrete.
Ma un altro fatto, che fu poi determinante, fu quello da parte del
candidato sindaco e capo lista di legare in modo aperto e palese la propria
candidatura a degli interessi reali che si espressero attraverso dei personaggi
presenti nel paese con le proprie risorse economiche ed i possedimenti di
molteplici proprietà terriere, ma che non si esposero al giudizio degli
elettori, pur condizionando molte persone che ruotavano nella loro orbita
nella scelta della lista da votare.
A tutte queste manovre venne dato un cappello politico nobile in
apparenza, ma che, analizzato in profondità, si rivelava meschino e basato
su interessi personali.
Quali erano le forze politiche che scesero in campo, e chi furono i
duellanti?.
Ciò che seguirà è un’analisi fatta su testimonianze di persone di un’età
non più giovane che hanno cercato nel ricordo della loro memoria di
riandare a un tempo ormai lontano e ricercare fatti ed avvenimenti ad essi
correlati, per ricostruire nel modo più fedele possibile quel periodo della
loro vita e del loro paese.
A tutti costoro va la riconoscenza di chi estende queste pagine e di tutte
le persone che leggeranno questa storia vissuta: senza di loro tutto sarebbe
stato perduto e raccontato non nella sua essenzialità e veridicità.
Il settore più popoloso di aspiranti alla carica era quello della Democrazia
Cristiana, con due aspiranti a candidato sindaco, il professore Antonio Di
Gregorio ed il dottore Giovanni Stellati, il primo abitante in Falciano Selice
e segretario della relativa sezione della Democrazia Cristiana, ed il secondo
abitante in Falciano Capo.
Erano due personaggi ben diversi tra loro, sia come carattere che come
personalità.
Il professore Di Gregorio era un maestro elementare, ma sarà sempre in
questo testo chiamato professore, titolo che veniva concesso dai
compaesani a tutti gli insegnanti, il quale aveva maturato la sua entrata in
politica fondando nel 1948 il partito della Democrazia Cristiana a Falciano,
ed essendone il primo segretario, volle, con spirito sincero democratico,
aprire una sezione del partito a Falciano Capo. Il primo segretario eletto di
questa sezione fu Vincenzo Orologiaio, mentre il professore Antonio Di
Gregorio rimase segretario a Falciano Selice.
Aveva avuto esperienza di insegnamento nelle scuole di Letino e poi in
quelle di Falciano.
Si era formato le ossa di combattente politico come consigliere comunale
del Comune di Carinola.
In quel Consiglio Comunale, dove pur non eletto in modo diretto, entrò
vincendo il ricorso per incompatibilità di un consigliere comunale eletto
nella sua lista, rappresentò, anche se quell’amministrazione era guidata da
uomini dello stesso suo partito, una minoranza critica e delle volte anche
rischiosa per le sue denunce politiche contro atti e operati poco chiari della
stessa amministrazione.,
Andava quasi sempre al Consiglio Comunale di Carinola in bicicletta e fu
minacciato di fare attenzione perché non sarebbe più ritornato a casa.
Non disertò nessuna seduta del Consiglio Comunale.
Fu il più convinto e tenace sostenitore delle necessità che Falciano avesse
la sua autonomia e lottò con tutte le sue forze perché ciò avvenisse
Aveva, però, un suo modo di fare che apparentemente poteva sembrare
scostante e puntiglioso, ma chi lo ha conosciuto bene ha sempre avvertito in
lui una profonda umanità e disponibilità.
Ancora oggi lo si ricorda come un uomo onesto, tenace e incorruttibile.
Certamente con i suoi amici politici e con gli avversari ebbe un
atteggiamento inflessibile e poco incline a compromessi o ad accordi sotto
banco.
Il professore Antonio Di Gregorio ebbe molti amici e compagni in questa
sua prima avventura, per i quali fu la guida politica.
Ne ricordiamo alcuni che veramente furono i principali artefici della
vittoria a sindaco del professore Antonio Di Gregorio.
Una mente di spicco della campagna elettorale fu il dottore Giuseppe
Gaudiosi, titolare della farmacia del paese, che con l’intelligenza che tutti
gli hanno sempre riconosciuto e la conoscenza delle persone che dovevano
per forza frequentare l’unica farmacia del paese per curarsi, collaborò in
modo fattivo ed attivo con il professore Antonio Di Gregorio.
Non scelse di candidarsi perché dopo l’esperienza della candidatura del
1952 a consigliere comunale al Comune di Carinola, dove fu eletto con voti
153, considerò chiuso il suo impegno diretto in politica, rimanendo sempre
una figura di riferimento, anche in seguito, per tanti compaesani.
Fu un entusiasta sostenitore della necessità che Falciano avesse la sua
autonomia amministrativa.
Un altro compagno di viaggio fu Vincenzo Orologiaio, primo segretario
del Circolo della Democrazia Cristiana a Falciano Capo e primo tesserato
del paese.
Fu il braccio attivo della campagna elettorale perché deluso ed arrabbiato
dal voltafaccia del Comitato di Caserta, che aveva dato il simbolo al dottore
Giovanni Stellati, il quale aveva escluso dalla sua lista quasi tutti i
democristiani e quelli che erano stati i fautori dell’autonomia del Comune.
Uomo attivo, che non lasciava nulla di intentato pur di raggiungere i
risultati che si prefiggeva.
Durante la campagna elettorale adottò il principio di raggiungere tutti gli
elettori andando casa per casa, anche da chi sapeva che non avrebbe votato
per la sua lista, il Grappolo d’Uva, che sosteneva la candidatura a sindaco
del professore Antonio Di Gregorio.
Il suo attivismo terminò il giorno prima dello scrutinio, quando si ritirò a
lavorare in campagna vicino al suo caro ed amato Lago di Falciano, e le
notizie dei risultati le seppe tramite Carletto Iannelli, che andò dove lui si
trovava e gli comunicò la sua elezione a consigliere comunale.
Era un uomo generosissimo e di una profonda bontà umana e se la sua
auto, che oggi non c’è più, potesse raccontare i tanti viaggi fatti per
trasportare le persone per i vari bisogni, si dovrebbe scrivere un racconto a
parte.
Fu vice-sindaco ed assessore anziano e la sua casa in qualsiasi momento
era aperta nel ricevere le persone ed aiutarle, per quanto poteva, anche nei
giorni in cui il Comune era chiuso.
Si è voluto, in questo racconto, ricordare queste due persone, tra le tante,
perché esse rappresentarono, in modo significativo, i punti di riferimento e
di forza politica e morale che allora si era coagulato intorno al professore
Antonio Di Gregorio.
Il dottore Giovanni Stellati era un medico conosciuto e stimato da tutti ed
affermato come professionista, disponibile nei confronti di tutti.
Politicamente si formò candidandosi come consigliere comunale al
Comune di Carinola nella lista degli Indipendenti Cattolici nel 1960.
Fu eletto con 350 voti di preferenza e gli venne affidata dal sindaco la
carica di assessore.
Un fatto accadde, che gettò un po’ di ombra sulla figura di questo
affermato professionista, che qui vogliamo riportare per onestà di cronaca.
Quando venne discusso in Consiglio Comunale di Carinola il punto
all’ordine del giorno, “Istanza separazione delle frazioni Falciano Capo e
Selice per costituirsi in Comune autonomo”, il dottore Stellati uscì dall’aula
perché chiamato con urgenza dai famigliari di un suo paziente che era in fin
di vita e non fu presente alla votazione e l’estensore del verbale non
l’annotò.
Era il 4 luglio del 1962.
Questo fatto venne ricordato varie volte dai balconi del paese durante la
campagna elettorale da parte degli altri candidati a sindaco, provocando
polemiche ed accuse.
Fu uno dei promotori firmatari del Comitato per l’Autonomia, ma il suo
impegno fu solo di sostegno all’operato degli altri.
Il problema che subito si pose per la compilazione della lista della
Democrazia Cristiana fu quello a chi concedere l’uso del relativo simbolo:
al professore Antonio Di Gregorio, fondatore del partito a Falciano e varie
volte candidato consigliere comunale sotto sempre lo stesso simbolo, o
cambiare rotta e concedere il simbolo al dottore Giovanni Stellati, iscritto al
partito, ma candidatosi con la lista degli Indipendenti Cattolici al Comune
di Carinola.
Dopo vari incontri, discussioni e litigi che divisero gli stessi iscritti e
simpatizzanti della Democrazia Cristiana, non si raggiunse nessun risultato,
se non quello di rimandare il tutto alla Direzione Provinciale della
Democrazia Cristiana di Caserta.
La Direzione del partito non si sa con quali motivazioni scelse di far
utilizzare il simbolo del partito al dottore Giovanni Stellati, lasciando nello
sconforto gli iscritti del partito del paese e lo stesso professore Antonio Di
Gregorio.
L’accaduto coinvolse anche personaggi politici già affermati a livello
nazionale, ma la Direzione di Caserta fu inamovibile e gli stessi personaggi
consigliarono al professore Antonio Di Gregorio di formare una sua lista e,
in caso di vittoria alle elezioni, il simbolo del partito sarebbe ritornato a lui.
Questo episodio lasciò una traccia di astio tra i due contendenti e fu il
leit-motiv di tutta la campagna elettorale.
Così il dottore Giovanni Stellati compilò e presentò la sua lista sotto il
simbolo della Democrazia Cristiana, mentre il professore Antonio Di
Gregorio incominciò a sondare se esistevano delle possibilità per la
formazione di una lista civica alleandosi con il signor Gelasio Stanziale,
esponente di spicco del Partito Socialdemocratico di Falciano.
Gelasio Stanziale, allievo politico del professore Antonio Zannini di San
Donato di Carinola, fu per molti anni, sia durante il periodo in cui fu
consigliere comunale al Comune di Carinola, sia negli anni successivi, un
esponente di spicco e di spessore politico nella direzione della politica, in
generale, a Falciano.
Era la persona che con il suo modo di fare e di agire poteva rappresentate
l’ago della bilancia per una vittoria del professore Antonio Di Gregorio.
Uomo di una vivissima intelligenza, tale da capire al volo i problemi e le
persone, capace di promesse a volte irrealizzabili ma puntiglioso nel
raggiungere i risultati che si proponeva superando difficoltà invalicabili.
Aveva una sorta di magia e di affabulazione che pochi uomini politici del
paese hanno avuto e per questo motivo era molto temuto ed invidiato e, a
volte, anche molto combattuto.
Ma riuscì a superare tutti gli ostacoli e ne uscì sempre vincitore.
Aveva avuto la fortuna dalla parte sua perché incontrò nel momento più
opportuno e più giusto della sua vita un personaggio politico come l’On.
Lagnese di Vitulazio (Caserta) che, confidando nelle spiccate qualità
intuitive del personaggio, lo chiamò nella sua segreteria politica e per
Gelasio Stanziale si aprirono molte strade della politica, che lo portarono
anche a dare del tu a personaggi come il Presidente Giuseppe Saragat, il
ministro Tremelloni e altri.
Comunque ebbe esperienza politica diretta candidandosi nel 1960 come
consigliere comunale al Comune di Carinola per il Partito
Socialdemocratico e fu eletto con 326 voti.
Anche lui fu uno dei promotori per l’autonomia e partecipò alla sua
realizzazione, dando il proprio contributo di sostegno sincero al presidente
del comitato, professore Antonio Di Gregorio.
Vi furono vari incontri tra il Di Gregorio e lo Stanziale e da questi
incontri ne uscì un accordo per la governabilità del nuovo Comune che
portò alla formulazione di una lista civica, quella del “Grappolo d’Uva”.
Chiaramente si parlò pure di spartizione di posti e di rappresentanze nel
seno della Giunta e negli altri enti comunali, si parlò di fedeltà ai principi
che avevano fatto nascere questa lista civica e si parlò e si raggiunsero
accordi sulle prime decisioni, che dovevano essere prese sia nel campo
sociale che nel regolare, con un piano di fabbricazione, le richieste di nuove
costruzioni sia a monte e sia a valle del paese.
Il patto fu stretto e la lista fu compilata con la presenza maggioritaria
degli uomini del professore Antonio Di Gregorio.
Particolarità di questa lista era che a capo lista c’era il nome di Antonio
Di Gregorio, mentre Gelasio Stanziale la chiudeva, un messaggio chiaro a
tutti: il futuro sindaco doveva sempre riconoscere nelle sue scelte il peso
politico di un personaggio che con i suoi voti ne aveva determinato
l’elezione
Una volta che la lista avesse vinto, il professore Di Gregorio sarebbe
stato il sindaco del Comune di Falciano del Massico.
Il Partito Comunista, forte a Falciano con circa 300 iscritti, scelse di non
presentare una propria lista e di sostenere la lista “Grappolo d’Uva”, in
cambio ebbe i voti per il suo candidato al Consiglio Provinciale di Caserta,
Paolo Broccoli.
E così fu, Paolo Broccoli venne votato da quasi tutti i falcianesi,
sconfiggendo il più quotato candidato della D.C. Michele Accinni,
Presidente provinciale del C.O.N.I., e fu eletto nel Consiglio Provinciale di
Caserta e da questo momento iniziò la sua ascesa politica, che lo porterà ad
essere eletto in Parlamento.
Vi fu anche una terza lista e la sua formazione ebbe dei momenti di
scontro tra gli stessi promotori, che si presentavano in alternativa sia alla
lista della Democrazia Cristiana del dottore Giovanni Stellati e sia nei
confronti della lista Grappolo d’Uva dell’accoppiata Di Gregorio-Stanziale.
Appariva molto chiaramente che questa terza lista dovesse rappresentare
l’arco politico ancora scoperto, che era quello della destra, e fu anche subito
chiaro che la guida nella formazione di questa lista sarebbe stata il signor
Carlo Cerrito, coadiuvato dal signore Raffaele Capuano e dall’avvocato
Salvatore Zannini.
Si pensò che da soli con la lista di destra M.S.I. Fiamma Tricolore non
avrebbero potuto vincere le elezioni, considerata la forte l’alleanza che
sosteneva la lista Grappolo d’Uva ed in parte anche la lista della
Democrazia Cristiana.
Si cercò un’alleanza con il geometra Giuseppe Santoro, rappresentante
del Partito Liberale e varie volte dal 1946 in poi sindaco del Comune di
Carinola.
Vi furono dei problemi di fondo che si dovevano risolvere per far in
modo che la lista prendesse piede e diventasse una seria antagonista, visti i
personaggi che si muovevano all’interno della corazzata formata dal duo Di
Gregorio-Stanziale.
La discussione accesa fu su chi dei due, Carlo Cerrito o Giuseppe
Santoro, dovesse fare il sindaco nell’eventualità di una futura vittoria.
Si trovò un mezzo accordo, dopo vari incontri e discussioni molto accese,
che non convinse nessuno dei pretendenti, e cioè: i primi due anni e mezzo
sarebbe stato sindaco Antimo Verrillo e i due anni e mezzo successivi Carlo
Cerrito.
Questa scelta di strategia non piacque molto alle persone più legate alla
tradizione delle destra falcianese, ma fu digerita perché intravedevano la
possibilità che nell’elezione successiva, se avessero vinto in questa, essendo
sindaco Carlo Cerrito negli ultimi due anni e mezzo, questo poteva essere di
traino per una vittoria dell’M.S.I. Fiamma Tricolore senza coalizzarsi con
nessuno.
L’ostacolo successivo da superare fu quello del simbolo sotto cui
presentarsi, se con il simbolo M.S.I. Fiamma Tricolore o sotto quello di una
lista civica da inventare.
Si cercò di mediare, vista la ferrea opposizione dei più convinti della
destra falcianese che se la lista si doveva fare il simbolo, non poteva essere
che quello del M.S.I. Fiamma Tricolore, mentre la posizione più possibilista
del gruppo, riunita intorno al geometra Santoro ed altri, credeva necessario
usare un simbolo di lista civica per non connotare di un colore troppo
politico di destra la stessa lista.
La trattativa fallì e non se ne fece nulla perché l’ala più dura dell’M.S.I.
Fiamma Tricolore impose al geometra Giuseppe Santoro ed alle persone del
suo seguito che volevano candidarsi, nel rispetto dell’accordo stabilito con
l’avvicendamento dei due personaggi ad essere sindaci del paese, di
accettare la candidatura sotto il loro simbolo del partito di destra.
Il geometra Giuseppe Santoro, con i suoi, abbandonò la riunione
amareggiato, dispiaciuto e deluso ed il suo impegno terminò, dando ai suoi
la possibilità di candidarsi in tutte le liste che si stavano formando.
Lui scelse, a questo punto, di far votare la lista “Grappolo d’Uva”.
Fu così allestita la terza lista M.S.I. Fiamma Tricolore con Carlo Cerrito
capolista e candidato a sindaco.
Cerrito, che si ispirava alla Destra Sociale, era una figura ben conosciuta
e stimata nel paese in quanto era sempre stato presente sul territorio e la sua
disponibilità nei confronti dei compaesani si era sempre manifestata
nell’aiuto spicciolo nel risolvere, quando poteva, i piccoli problemi
quotidiani dei richiedenti.
Ma era anche una persona che non faceva sconto nell’affermare la sua
fede politica per l’M.S.I. e soprattutto l’ammirazione quasi sacra per il duce
Mussolini.
Infatti, quando si dovette mettere su una squadra di calcio per avere il
finanziamento per la realizzazione del campo sportivo del Comune appena
autonomo, formò la squadra di calcio con il nome di Fiamma Falciano e le
divise erano nere.
Aveva avuto esperienze di consigliere comunale nel Comune di Carinola
e fu eletto nelle elezioni del 1952 con 387 preferenze sempre come
rappresentante dell’M.S.I. in una lista sotto il simbolo Scudo Crociato con
scritta Libertas.
Partecipò alle elezioni comunali successive del 1956 e fu eletto
consigliere comunale con 599 voti sotto il simbolo Fiamma Stella e Corona
e si presentò alle elezioni comunali, sempre per il Comune di Carinola, nel
1960 venendo eletto consigliere con voti 437 sotto il simbolo del partito
degli Indipendenti Cattolici, ma sempre come rappresentante dell’M.S.I.
Era un convinto sostenitore delle sue idee, ma anche una persona che non
lesinava di esporsi nel realizzare ciò che voleva.
Questo suo carattere combattivo lo dimostrò subito nei vari consigli
comunali che si tennero nel primo anno dopo le elezioni della raggiunta
autonomia.
Anche lui fece parte del gruppo originario e spese le sue energie politiche
per ottenere l’autonomia del Comune di Falciano.
Personaggio di spicco della lista che sosteneva Carlo Cerrito fu Raffaele
Capuano, fondatore del Circolo del Movimento Sociale Italiano, ancora
oggi esistente nello stesso luogo di allora in Piazza San Pietro di Falciano
Capo.
Era stato un personaggio di rilievo nella Milizia Fascista e godeva, anche
nel dopo guerra, di grande rispetto nel paese da parte di tutti, in quanto,
essendo collocatore al Comune di Carinola, aveva le opportunità di aiutare
le persone in difficoltà e non fece mai distinzione di appartenenza politica.
Questo personaggio, che ancora tutti oggi ricordano, pur avendo
sopportato il confine da parte degli Alleati a Padula, dove era in attesa di
fucilazione perché appartenente alla Milizia Fascista, ma che in quel suo
incarico non aveva nociuto mai ad alcuno, dimostrò sempre la sua onestà
nel difendere i deboli ed i bisognosi sacrificando, a volte, il bene della sua
famiglia.
Era fascista e orgoglioso di esserlo, e da fascista morì.
Grande oratore quale era, attirava la gente ed i suoi comizi in piazza
ebbero l’efficacia necessaria, insieme all’impegno di altri suoi amici, per
avere nel risultato elettorale il riconoscimento per la lista del M.S.I. di
rappresentare la minoranza riuscendo a scalzare la lista della Democrazia
Cristiana del dottore Giovanni Stellati.
È necessario, per completare il quadro degli esponenti politici più
eminenti del periodo, per l’M.S.I. ricordare l’avvocato Salvatore Zannini,
uomo importante e rappresentativo in quel periodo che, da persona schietta
e sincera, creò intorno al candidato sindaco Carlo Cerrito un senso di
autorevolezza e di apertura verso le persone restie a votare per quella lista.
L’avvocato Salvatore Zannini ebbe una sola esperienza di vita
amministrativa, candidandosi nella lista della Democrazia Cristiana nel
1946, e fu eletto consigliere comunale al Comune di Carinola con voti
1655.
Del periodo trascorso come consigliere comunale non ne parlava spesso
perché rimase perplesso e critico nei confronti della gestione politica del
sindaco Giuseppe Santoro, che basava il suo modo di far politica molto
sulla gestione più personale, senza una visione ampia della politica
amministrativa.
La sua idea della politica derivava dalla considerazione che la stessa
doveva generare nuove visioni e aprire nuovi spazi per tutti e non limitarla
alla sola classe più abbiente.
Rimase anche molto colpito dalla complessità di rappresentanza della
Democrazia Cristiana di allora e dai potenti locali che ne gestivano le
operazioni pur di poter detenere, tutti i costi, il potere di comandare, però
appiattendone il messaggio originario e le tensioni ideali dei suoi fondatori.
Era uno spirito libero ed autonomo che vedeva nella figura e nelle parole
di Almirante uno stimolo ad impegnarsi per il sostegno alla candidatura di
Carlo Cerrito a sindaco.
È ancora oggi ricordato per il suo comportamento onesto e compiuto di
intellettuale che non stava contro per partito preso, non disposto a
intrupparsi in qualsiasi formazione pur di poter entrare in qualche comoda
maggioranza o in un’opposizione becera e fasulla, ma ha sempre scelto,
senza mai perdere le sue capacità di pensiero libero, da persona libera che
non si fa contaminare.
Amava visceralmente il suo paese e partecipò attivamente a tutte le fasi
per giungere all’autonomia, che considerava un traguardo raggiunto da tutti
e senza primogenitura di alcuno.
Professionista generoso e rigoroso, è stato un punto fisso di riferimento
per tutti i giovani avvocati del comprensorio di Carinola ed anche di fuori.
Si è volutamente tratteggiare le figure di queste persone, che allora erano
politicamente insieme o contro, perché si possa capire meglio ciò che
sarebbe stata la vita politica e sociale a Falciano appena dopo le prime
elezioni che si tennero nel novembre del 1964.
La raggiunta autonomia e le successive elezioni, come si affermava in
un’altra parte di questo scritto, trasformò la vita sociale del paese creando
delle situazioni che raramente trovarono dopo e negli anni successivi una
composizione.
Il solco tracciato di differenze rimase e, anzi, con il trascorrere del tempo,
si fece più profondo.
Tutte le testimonianze raccolte parlano di comizi elettorali molto accesi,
di accuse vicendevoli dai vari balconi e dei vari oratori contro i propri
avversari politici, ma tutto rientrò nella normale dialettica politica di una
campagna elettorale, la prima, di un Comune appena nato.
A questo punto piace riportare la testimonianza di una persona che si
andò a confessare da un sacerdote, il quale, nel segreto della confessione,
gli consigliò di votare bene e non sbagliare.
La risposta di questa persona, nella sua semplicità, fu quella che avrebbe
votato “la bella Fiamma Tricolore”.
Il sacerdote lo rimproverò e addirittura, come si racconta, non volle
dargli l’assoluzione.
Il fatto si seppe e divenne un caso che molti oratori dai balconi cercarono
di strumentalizzare a proprio vantaggio.
Ma chi ne soffrì di più fu il sacerdote, che subì brutali attacchi personali
in pubblico e rimproveri da parte del suo vescovo.
Il giorno del voto, per andare ad esprimere la propria scelta politica,
ognuno doveva passare, anzi fendere, due ali di candidati di tutte le liste,
schierati fuori che scrutavano i passanti e lanciavano con gli occhi segni di
ammiccamento o larvate minacce per ricordare gli impegni che l’elettore
aveva preso verso una certa lista.
Ma ogni elettore è geloso del proprio voto, come ogni persona è gelosa
della propria anima; ognuno votò chi volle e come volle.
Fu un’attesa piena di tensione, ma i risultati furono chiari e, senza ombra
di dubbio, indicarono nel “Grappolo d’Uva” la lista vincitrice ed il
professore Antonio Di Gregorio primo sindaco di Falciano del Massico,
Comune autonomo
La lista della Democrazia Cristiana del dottore Giovanni Stellati non
superò i 250 voti, fallendo in modo totale: fu un aborto e tale rimase.
La lista M.S.I. Fiamma Tricolore ebbe un buon risultato e rappresentò la
minoranza in seno al Consiglio Comunale.
Il giorno otto del mese di dicembre venne convocato il Consiglio
Comunale da parte del Commissario prefettizio Leonardo Sortini, con
all’ordine del giorno “Esame della condizione degli eletti” e di conseguenza
la proclamazione degli eletti stessi e l’insediamento del primo Consiglio
Comunale di Falciano Comune autonomo.
È lo stesso professore Antonio Di Gregorio, consigliere eletto con il
maggior numero di voti, a presiedere il Consiglio Comunale.
Iniziò comunicando le risultanze delle recenti elezioni comunali, svoltesi
il 22 novembre del 1964, e la proclamazione avvenuta dei nuovi consiglieri
comunali, i quali avevano riportato i seguenti consensi: 1) Di Gregorio
Antonio voti 987 – 2) Baldi Teobaldo voti 985 – 3) Toscano Salvatore voti
984 – 4) Stanziale Gelasio voti 983 – 5) Sciaudone Giovanni voti 982 – 6)
De Stasio Francesco voti 981 – 7) Rosselli Giacomo voti 979 – 8) Manica
Carmine voti 979 – 9) Orologiaio Vincenzo voti 979 – 10) Matano Antonio
voti 979 – 11) Lombrano Salvatore voti 979 – 12) Manica Angelo voti 977
– 13) Paolella Giuseppe voti 977 – 14) De Stasio Giovanni voti 977 – 15)
Nicoletta Giuseppe voti 972 – 16) Migliozzi Angelo voti 868 – 17) Cerrito
Carlo voti 701 – 18) Capuano Raffaele voti 690 – 19) Verrengia Pasquale
688 – 20) Di Rienzo Gennaro voti 685.
Terminato questa procedura, il Consiglio Comunale deliberò
all’unanimità di insediare il nuovo consiglio eletto, come detto, con
votazione popolare del 22 novembre 1964.
Si passò inoltre alla convalida degli eletti ad unanimità dei voti, espressi
per alzata di mano.
La seconda delibera ebbe per oggetto “Elezione del sindaco”.
I consiglieri presenti e votanti erano 20, 16 rappresentavano la
maggioranza e 4 la minoranza.
Votarono per il professore Antonio Di Gregorio 15 consiglieri e 5 furono
le schede bianche.
Il professore Antonio Di Gregorio fu eletto sindaco, ma non lo votarono
tutti gli eletti della sua lista, uno di loro votò scheda bianca, un campanello
di allarme sia per il lavoro che il nuovo sindaco doveva affrontare, sia per la
tenuta politica dell’amministrazione appena iniziata.
Questa nube minacciosa caratterizzò poi la vita dell’amministrazione.
A conclusione della seduta venne eletta la Giunta Comunale.
Furono eletti assessori effettivi: Orologiaio Vincenzo con voti 16, Baldi
Teobaldo con voti 16, Toscano Salvatore con voti 16, Sciaudone Giovanni
con voti 16.
Furono eletti assessori supplenti: Manica Angelo con voti 16, Matano
Antonio con voti 16.
Venne eletto assessore anziano Vincenzo Orologiaio.
La minoranza in questa elezione della Giunta votò scheda bianca.
Il 17 del mese di dicembre 1964 il prof. Antonio Di Gregorio prestò
giuramento nella mani del Prefetto Carlo Benigni a Caserta.
Si sono riportati nella loro interezza tutti i risultati dell’elezione a sindaco
e della elezione della Giunta per dire che l’amministrazione appena eletta
aveva già nel sua seno il germe velenoso che sempre si genera negli animi
di chi concepisce la politica un perenne ricatto, soprattutto quando una
maggioranza è frutto di una coalizione che sta insieme con poca
convinzione. Non tanto per servire il proprio paese, ma per i propri interessi
personali e di bottega.
Ingresso strada per “Carabottoli”
Ingresso “Parco di Tozza” oggi
 
 

 
 
 

Le lotte contadine
 

Le terre della speranza


 
 
 
 
 
Prima parte
 
Durante tutto il periodo di ricerca sia di documenti utili allo sviluppo del
racconto dell’occupazione delle terre incolte nel territorio del Comune di
Carinola e sia negli incontri di testimonianza e di riflessione sui fatti che
sono accaduti nel periodo che va dal 1949 sin verso il 1964, molte e
diversificate sono state le opinioni e le certezze consolidate su questi stessi
fatti.
Vi sono ancora delle persone, che dovrebbero essere di traino per
conservare la memoria degli avvenimenti di una storia che è la loro stessa
storia, che alla domanda cosa fosse stato per loro l’atto di coraggio
dimostrato da tanti salariati e contadini del proprio paese nell’aver occupato
le terre incolte del territorio del loro Comune e come loro emotivamente
giudicano oggi tale avvenimento, e se considerano necessario ricordare tale
fase, quasi epica, di riscossa dei salariati e dei contadini del paese per
rinnovarne la memoria nelle giovani generazioni, hanno risposto in modo
sfuggente e, spesso, evasivo.
Alcune di queste risposte, che in seguito si riportano, offendono il ricordo
di tante persone che soffrirono la fame riuscendo a strappare un pezzo di
quella terra, terra bagnata dal proprio sudore e che, fino ad allora, aveva
prodotto ricchezza per pochi ed arroganti signori, per farla propria.
Offendono anche la storia degli stessi padri che li hanno educati al rispetto
della verità e dell’onore, categorie che al giorno d’oggi poco vengono
professate da queste persone.
Sembra, per alcuni, ma è sembrata certezza per chi ha sentito certe
affermazioni, che i fatti che verranno narrati siano un prodotto di pretto
gusto folcloristico, quasi che fossero avvenuti da soli perché era la moda di
allora andare ad occupare le terre incolte sotto la guida di qualche bandiera,
non citano la bandiera rossa del P.C.I. perché ancora oggi per loro i
comunisti mangiano i bambini, ma una bandiera generica, e guidati da
qualche esagitato capo popolo.
Per queste persone ci voleva il morto, come accadde in tante parti del
Sud d’Italia, perché l’avvenimento farsesco di quasi scampagnata di
pasquetta avesse quel rilievo tragico degno di qualche loro attenzione.
Ma così non fu.
Altri esprimono un’idea abbastanza peregrina in tempi in cui domina un
rigurgito destroide che cerca di giustificare tutto sotto l’etichetta della
debolezza di un potere non ancora consolidato ed ancora non capace di
controllare un movimento di contadini, immaginario allora, che affrontava
il dramma della sopravvivenza dei nostri padri che, con la lotta contro
l’egoismo e le servitù dai signori e dai fattori, riscattavano la loro dignità
nel nome della libertà.
Questi affermano, in modo irrealistico e di parte, che questo
avvenimento, realizzatosi nel territorio del carinolese, essendo stato
preparato e guidato da persone che in quel periodo appartenevano ad un
partito e ad una confederazione sindacale, il P.C.I. e la Federterra,
antagonisti dei partiti che allora governavano l’Italia, dunque avendo questo
tipo di etichetta politica, oggi è meglio non parlarne perché chi scrive tali
note servirebbe troppo alla causa della sinistra nella zona quando tutto, in
quei luoghi, oggi, volge a destra, un po’ come nel periodo di cui si parla.
Chi leggerà queste vicende di vita vissuta della povera gente di questo
paese deve avere la mente libera da condizionamenti e giudicare senza i
paraocchi , per poter rivivere quei momenti tormentati e drammatici della
conquista di un spicchio di libertà da parte di quegli uomini che ritrovarono
dignità e progresso in quel pezzo di terra da coltivare, da tante generazioni
sognato e mai ottenuto.
Non è una storia di sinistra, ma è il dramma vissuto nella sofferenza ed
anche nella paura di minacce, ritorsioni, denunce, fermi da parte delle Forze
dell’Ordine, da quelle povere persone, per la maggior parte non più tra noi,
che ancora reclamano un riconoscimento per le loro battaglie di giustizia. Il
nostro tentativo è di dare una, sia pur flebile, voce a coloro che ci hanno
lasciato un’eredità morale che merita rispetto e non l’oblio nel quale
qualcuno li vorrebbe confinare.
Per fortuna ci sono anche reazioni positive e di riconoscenza da parte di
molti che, al solo sentire che si ricorda il periodo della propria prima
giovinezza, vissuta negli anni che vanno dal 1949 all’anno 1964, sono
rimasti increduli e meravigliati e commossi.
Hanno avuto un sussulto di gioia ed i loro occhi si sono accesi di una
nuova luce di speranza perché, come ultimi testimoni di quel periodo, ormai
rimosso dalla mente dell’intera collettività paesana, desiderano ricordare
quella stagione bella e terribile, che costituisce un pezzo della loro vita e di
quella del proprio paese. Per i pochi che ancora vivono e per quelli che non
ci sono più, si sente il dovere morale di una testimonianza che li consegni al
ricordo dei loro figli.
Hanno voluto essere con le loro memorie la coscienza che è mancata a
due intere generazioni distratte e, forse, disamorate di questa storia vissuta
dai loro padri…
Il loro racconto è stato un racconto appassionato, partecipato, attivo nella
propria gestualità, pieno di passaggi umorali e sentimentali, accompagnati,
a volte, da occhi umidi di lacrime nel ricordare le persone scomparse che
sono state compagni fedeli in quei momenti difficili, ma fautori di libertà.
Noi vogliamo registrare in questo racconto spirito e sentimenti che hanno
guidato questa gente ed è solo questo che ci interessa, nell’assoluta
veridicità dei fatti di storia vissuta e registrata che verranno narrati.
È con onestà di giudizio che si deve leggere la storia che si sta narrando
perché rappresenta lo specchio profondo e particolare delle condizioni che
la maggior parte della gente del paese ha sopportato e sofferto, ma non si è
mai ribellata nei confronti di nessuno perché consapevole della propria poca
forza di rottura nei confronti della società di allora che, pur di prevalere,
fiaccava l’anima e il corpo degli inermi contadini.
Solo il desiderio, la speranza e la certezza di avere un pezzo di terra tutto
per sé, per poter sfamare la propria famiglia, risvegliò in questi salariati e
contadini la volontà di riscattare, anche con la forza, tanti anni trascorsi in
una sottomissione miserevole ai loro atavici padroni.
La stessa classe padronale rimase attonita e sorpresa e passò a varie
ritorsioni e vendette.
Le risposte furono abbastanza chiare ed emblematiche.
Un iscritto al P.C.I., che poi divenne il segretario politico della sezione di
Falciano, fu costretto, dai padroni di allora, se voleva andare a lavorare nei
loro campi, a manifestare pubblicamente la propria sottomissione alle idee
di quel tal padrone, a montare, all’altezza dell’incrocio tra Corso Oriente e
Via Abate Cesare a Monte e a Valle, in pieno giorno, un banner elettorale
con il quale si invitavano i falcianesi a votare il Partito Liberale.
Questa sottomissione non avvenne, l’interessato mandò a dire a quel tal
padrone che la sua anima già l’aveva venduta per una giusta causa e l’aveva
venduta anche bene.
Acquistò, invece, agli occhi della gente del paese rispetto e stima ed
ancora oggi si ricorda.
Altri salariati e contadini subirono molti ricatti e vessazioni, ma nessuno
li fermò.
Sicuramente i fatti che si svilupparono dal 1949 in poi con l’occupazione
delle terre incolte rappresentarono un grosso scossone di innovazione dei
comportamenti individuali e collettivi, perché con essi si cercò di
concretizzare la speranza di acquisto di quella libertà e una dignità di
uomini e di donne che era stata sopita, ma mai completamente distrutta.
Ciò rompeva la cortina miserevole di menzogne che i grandi proprietari
terrieri, organizzati anche sotto le bandiere dei partiti conservatori del
tempo, diffondevano cercando di denigrare e indebolire le posizioni di
persone e gruppi politici che volevano realizzare il sogno di uno Stato
autenticamente democratico, uscito da un’infamante ed infausta guerra.
Persone che, spinte degli ideali della Resistenza, si sforzavano di trovare
una prima attuazione alle richieste di lavorare le terre abbandonate per
incuria dai grandi latifondisti. Queste richieste trovarono impulso e
determinazione attraverso una legge dello Stato, la Legge Gullo.
Se la Legge Gullo ed i suoi decreti applicativi fossero stati rispettati, oggi
noi non saremo qui a scrivere e narrare la storia di quel periodo perché, su
questo argomento, la storia sarebbe una storia diversa e più giusta.
Il più debole della catena, il contadino ed il salariato, avrebbe avuto le
opportunità di un riscatto civile e morale in confronto ai padroni delle terre,
i quali avevano sempre dominato sfruttando l’ignoranza e la povertà atavica
di queste persone. Una povertà difficile da scrollarsi dalle spalle piegate da
tanti anni di servitù e sottomissione.
La fame ha sempre frustrato il desiderio di ribellarsi al potere della classe
dei grandi proprietari terrieri, perché la necessità di portare, pena
l’indigenza e la morte, un tozzo di pane a casa per sfamare la famiglia,
quasi sempre numerosa, era una condizione frenante, quasi invincibile.
Mancava la consapevolezza necessaria che facesse scattare il senso di
orgoglio in questi salariati e contadini per poter aprire i loro occhi sullo
stato delle cose, attraverso una presa di coscienza che li portasse a capire
che non era più il tempo di indugiare, ma quello di rischiare, anche la vita,
per la sopravvivenza della propria famiglia.
Lo Stato, con il suo egoismo conservatore, come spesso accade nei
grandi rivolgimenti della storia, mise su di un piatto d’oro il movente che
tanti miseri della terra aspettavano per prendersi l’indispensabile per
sopravvivere. Ciò avvenne con il disattendere ciò che era stato lungamente
atteso e, in parte, concretizzato con l’impegno di Gullo nella formulazione
della legge che innovava e rafforzava un qualche senso di giustizia sociale,
mettendo in risalto una società ancorata sulla sopraffazione delle classi più
misere.
Lo Stato non volle assecondare le richieste di chi chiedeva scelte di
civiltà e di giustizia sociale, anzi, attraverso i vari ministri, soprattutto
Antonio Segni, futuro Presidente della Repubblica e grande proprietario
terriero in Sardegna, si preoccupò di minimizzare la portata della ventata
tesa a conquistare, da parte di tanti diseredati salariati e contadini, quello
che serviva per sfamare i propri figli. Il restare sordi alle sacrosante pretese
fu così ottuso da provocare una reazione che si può definire di vocazione
rivoluzionaria.
Lo Stato non si fece scrupolo di ricorrere ai servigi della Mafia e ad altre
cosche malavitose, nelle diverse regioni di cui tentiamo di analizzare i fatti
accaduti. Un esempio, davvero poco edificante nella storia della nostra
Repubblica, lo diede il potente ministro Mario Scelba, che impiegò le forze
di polizia in feroci e sanguinose repressioni, indegne di una democrazia
vera{1}.
Alla fine lo Stato ne uscì sconfitto.
Questo racconto ha una necessità suppletiva di spiegazione e di
approfondimento prima di giungere alla fase finale dell’occupazione delle
terre demaniali dei Carabottoli da parte dei contadini e dei salariati del
carinolese ed in modo specifico di quelli di Falciano.
Bisogna tenere ben presente la distinzione tra il fatto epocale
dell’occupazione delle terre incolte, anno 1949, e la Riforma Agraria
appena successiva del 1950.
Il primo avvenimento trova la sua realizzazione nell’anno 1949 sino ai
primi mesi del 1950 e fu un evento storico che coinvolse la parte più povera
del proletariato, che sfidò lo Stato inadempiente nell’applicazione delle sue
leggi, mentre con la Riforma Agraria fu lo Stato che si fece promotore del
tentativo di abolire il latifondo privato e la conservazione della piccola
proprietà.
Gli avvenimenti sembrano similari, ma sono sostanzialmente differenti e
diversi sono anche i fini che sottintendono alla loro realizzazione ed i mezzi
che vengono usati per il loro raggiungimento.
Si può, forzando un poco la storia, affermare che il primo fatto trova la
sua spiegazione nella rivolta della plebe a Roma contro la prepotenza e la
ricchezza terriera dei patrizi romani, mentre il secondo avvenimento può
riferirsi all’opera legislativa delle leggi Licinie-Sestie (anno 372 a.C.) e la
legge Sempronia (anno 133 a.C.), che compendiò la proposta riformatrice
dei Tribuni della famiglia dei Gracchi e la Legge di Cesare (anno 50 a.C.).
Questo riferimento a ciò che accadde a Roma nel periodo del
consolidamento del suo potere in Italia e nel mondo conosciuto e
conquistato di allora è esemplificativo in quanto anche nei periodi storici
successivi, sino a giungere ai tempi della storia che stiamo raccontando, pur
cambiando tempi e personaggi, i fatti e gli avvenimenti sono sempre stati
improntati al rispetto della tradizione.
I contenuti e le dinamiche degli avvenimenti del periodo di Roma
anticipano di secoli ciò che accadde nel periodo di questa narrazione.
Si ripete, in modo similare, la storia di oltre duemila anni prima!
La plebe, durante il periodo repubblicano, ebbe a Roma una funzione
importante come portatrice di ricchezze prodotte nel commercio e
nell’artigianato e nella coltivazione delle piccole proprietà terriere, ma era
esclusa all’accesso del possesso dell’ager publicus (più semplicemente
demanio pubblico, per capirci) e delle terre conquistate dall’esercito
romano.
Essa lottò attraverso varie secessioni, sino ad occupare simbolicamente i
luoghi perché gli fosse riconosciuto questo diritto, ed i potenti di Roma
dovettero piegarsi a tale richiesta per impedire lo sgretolarsi del sistema
politico, legato alle classi sociali, della Repubblica e dell’Impero di Roma.
Le lotte furono dure e frequenti per molti anni, sino a giungere alla
formulazione delle leggi sopra menzionate che disciplinarono in modo
complesso, ma comprensivo, le concessioni delle terre alla plebe.
Tutto sembrava essere risolto, ma la ferrea opposizione dei ricchi romani
e dei senatori in tutti e tre gli interventi legislativi fatti, con le loro clientele
e le loro bande organizzate, annullò ciò che di buono Roma voleva attuare.
Basta leggere i punti più salienti per convincersi che Roma ed i suoi
legislatori avevano con lungimiranza individuato il nocciolo del problema:
quello di dare la terra a chi la coltiva e di smantellare il sistema del
latifondo.
Il fine era quello di governare meglio il territorio.
La legge Licinie-Sestie, in sintesi, prevedeva:
1) Lo Stato doveva provvedere all’assegnazione delle terre dell’ager
publicus ai cittadini meno abbienti (plebei e non schiavi).
2) L’assegnazione delle terre non doveva superare 500 iugeri a famiglia.
3) Determinazione del carico del bestiame pascolante che si doveva
possedere.
4) Divieto di uso degli schiavi per la coltivazione delle terre assegnate,
sino a dimostrare l’esaurimento della disponibilità dei lavoratori liberi per
poterli usare.
La legge Sempronia tentò di salvaguardare il lavoratore elevando i
proletari a possessori o a proprietari, espellendo dalle terre gli occupanti
illegittimi.
Ai proprietari legittimi o possessori venivano dati 500 iugeri di terra, con
la possibilità di aumento per chi aveva una prole numerosa.
Una volta effettuata l’operazione di assegnazione, la terra che risultava
non assegnata veniva concessa ai cittadini poveri, purché non schiavi.
Il proprietario o possessore doveva pagare per le terre che gli venivano
assegnate un canone o un tributo, a discrezione del magistrato che
l’assegnava.
Queste leggi subirono molte modifiche sino a Cesare, che cercò di far
attuare le due leggi precedentemente narrate raccogliendole in un suo
compendio.
Ma anche Cesare non riuscì a gestire al meglio l’assegnazione delle terre
dell’ager publicus e delle terre conquistate dalle sue legioni.
Anche allora, come per la nostra storia, i potentati e la corruzione
svilirono la portata rivoluzionaria delle leggi di Roma.
A questo punto è necessario chiarire meglio l’urgenza che ebbero i
legislatori italiani, nel secondo dopoguerra, di affrontare il problema del
latifondo, che divenne un punto fondamentale da risolvere attraverso il suo
spezzettamento e la successiva concessione ai soggetti richiedenti per la
costituzione delle proprietà contadine.
Quindi non si deve confondere l’impegno del Governo attraverso la
Legge di Riforma Agraria, che presuppone altre procedure, che presto
narreremo, per le concessioni delle terre del latifondo privato e
l’applicazione dei decreti Gullo, che avevano come discriminante che le
proprietà da distribuire ai contadini ed ai salariati fossero terreni demaniali,
e quindi sottoposti alla discrezione ed al governo dei politici locali.
Il latifondo privato trovò una soluzione possibile anche per la
disponibilità dei grandi proprietari, l’intervento dei consorzi e le molte
facilitazioni e i sussidi creditizi sia per i vecchi proprietari e sia per i
beneficiari e nuovi proprietari.
Ben diverso fu il problema delle terre demaniali e molte furono le
resistenze da parte degli enti possessori del diritto, che ostacolarono con
tutti i mezzi possibili la distribuzione delle terre, sino a giungere allo
scontro sul terreno stesso, attraverso l’occupazione fisica dei luoghi e la
reazione immediata delle Forze dell’Ordine per ristabilire la legalità del
possesso e le comminazioni delle relative conseguenze penali per gli
occupanti.
Lo scontro non fu mai pacifico ed in alcune zone d’Italia si contarono
anche dei morti.
Per fortuna e, soprattutto, per l’intelligenza che dimostrarono gli
organizzatori dell’occupazione delle terre demaniali nel territorio del
Comune di Carinola, ciò non accadde.
L’applicazione della Legge di Riforma Agraria varata nel 1950 e
l’occupazione delle terre incolte demaniali nella piana del carinolese,
iniziate nel gennaio del 1949, pur intersecandosi, come avvenimenti tra di
loro, hanno una vita autonoma ed hanno bisogno di essere trattati
singolarmente per poterne giudicare sino in fondo la loro portata storica e
l’innovazione ed il cambiamento che portarono nella vita e nelle abitudini
dell’intero paese della nostra storia.
Il paese e la gente, dopo questi fatti, non furono più quelli di prima.
Ci si svegliò da un lungo letargo incominciando ad assaporare il vento
della libertà e dei diritti, che da tanti secoli venivano inibiti e nascosti sotto
il mantello dell’ignoranza e della sottomissione.
Tutte le persone del paese aventi ormai una età molto avanzata, che sono
state incontrate per sentire dalla loro voce il proprio vissuto in quel periodo
in cui si attuarono, o si tentò di attuare, le disposizioni introdotte dalla
Legge di Riforma Agraria, ricordano che i terreni interessati avevano ed
hanno un nome molto noto ancora oggi.
Gli appezzamenti di terreno che si estendono a sud-est del paese e che si
prolungano fin dopo la stazione ferroviaria, comprendendo anche l’intero
territorio che confina con i comuni di Cancello Arnone, Mondragone e San
Andrea del Pizzone, erano chiamati Torre Vecchia, Parco di Tozza, la
Ngogna e la Ngognetella, Pantano, Cemice, i Carabottoli, terreno
demaniale, ed altri nomi che ricorderemo durante il racconto.
La maggior parte, se non tutta, di questi terreni, esclusi i terreni
demaniali, erano di proprietà del conte Giovan Battista Capece Galeota di
Vitulazio, paese distante dai luoghi della narrazione non più di mezz’ora in
automobile.
Soffermarsi per descrivere la figura di questo nobile personaggio è
importante in quanto, pur nel suo ruolo di discendente di una grande e
nobile famiglia, quella dei Capece, in quel tempo rappresentò un’aspettativa
di speranza per tutti i contadini della zona che aspiravano ad avere un pezzo
di terra per alleviare la loro miseria.
Era uno degli otto figli del conte Francesco di Paola Capece Galeota e
aveva ereditato le terre ricordate affidandole nella gestione ordinaria al cav.
Giuliano di Marcianise, che aveva un suo rappresentante nel paese nella
persona di Pasquale Stanziale, padre di quel Gelasio Stanziale che portò alla
vittoria a primo sindaco di Falciano il professore Antonio Di Gregorio.
Questa grande estensione di terreno venne, da parte del cav. Giuliano,
divisa in due lotti, denominati uno “La Pagliaia”, destinato al pascolo degli
animali e relativa mungitura, e l’altro “La Ngogna”, adibito a terreno da
coltivare.
Il conte Giovan Battista Capece Galeota, essendo un personaggio
pubblico impegnato molto nelle sue molteplici attività, non poteva seguire
con cura i fatti e gli avvenimenti che accadevano in questa sua proprietà.
Comunque esiste la testimonianza di un suo intervento personale per la
restituzione di una concessione fatta non secondo le regole stabilite, cioè
quella di concedere le terre incolte ai contadini poveri con famiglia
numerosa e che non avessero altra terra da coltivare.
Questo nobile personaggio aveva una concezione del vivere molto
umana, semplice nel suo svolgimento e rispettosa della realtà, che
oggettivamente si sottoponeva al suo giudizio.
Da aristocratico quale era, poteva anche trattare i suoi dipendenti ed i
suoi fattori in modo autorevole e padronale, ma il suo carattere lo portava
ad amare e stimare i contadini propri conterranei che lavoravano alle sue
dipendenze e tra loro c’era un’encomiabile intesa anche nell’uso dello
stretto dialetto casertano per farsi capire meglio.
Quando gli riferivano delle malefatte di alcuni contadini, il conte cercava
sempre di minimizzare l’accaduto, e se c’era insistenza da parte di chi
riferiva l’accaduto, rispondeva sempre «hai fatto bene a dirmelo, d’ora in
poi starò più attento.»
Oppure, anche di fronte a fatti di una certa gravità, soleva dire «è una
brava persona, anche se non ha voglia di lavorare.»
Questo profondo senso di umanità era dettato dalla sua sincera onestà di
uomo perbene.
Sino a quando la salute glielo permise, fu amministratore dei beni rustici
di San Gennaro, depositario della chiave del Tesoro di San Gennaro, e
deputato al Miracolo di San Gennaro, oltre che delegato a sventolare il
fazzoletto dall’altare della Cattedrale di Napoli per annunziare l’avvenuto
scioglimento del sangue del Santo.
Aveva ricoperto anche altre cariche pubbliche molto onerose, ma non
aveva voluto mai nessun compenso, nemmeno da parte dei suoi contadini,
che cercavano di manifestare la propria riconoscenza per ciò che faceva per
loro.
Pur dovendo vendere le sue proprietà, rispettò gli obblighi che ne
derivavano nei confronti dei suoi dipendenti nel pagamento di ciò che era
dovuto, sia allo Stato che a loro stessi.
Era anche, il signor conte, un uomo che amava la vita, lo sport, il mare e
le lunghe passeggiate in montagna.
Conobbe in età non più giovanile una dolcissima e bella ragazza che
abitava a Napoli, di fronte al suo Villino Monteforte, in Viale Principessa
Elena, ora Viale Gramsci.
Si trattava di Adalgisa Ideale, una signora contessa raffinata nei modi,
colta e amante di tutto ciò che è sapere e conservatrice di ricordi
indimenticabili.
Ho avuto la fortuna di poter incontrare e dialogare con questa elegante e
ammaliante signora. Entrò a far parte della famiglia Capece Galeota, casato
di alta aristocrazia, per la sua avvenenza e per amore verso lo sport, per la
natura affine che li legava, anche se erano di formazione culturale diversa.
Il conte la sposò nel 1965 e fu un matrimonio felice, infatti ancora oggi la
contessa Adalgisa ricorda con tenerezza il periodo di vita trascorso con il
conte.
Il conte Giovan Battista Capece Galeota morì nell’anno 2000.
Si è voluto ricordare la figura di questo aristocratico discendente di
un’antica casata nobiliare, che affonda le sue origini nel 1200 d. C., perché
fu un uomo giusto ed illuminato in quanto affrontò lo spezzettamento e la
fine del suo vasto latifondo nella zona del carinolese con saggezza e con
una visione conciliativa con i contadini richiedenti, anche alcuni
rappresentanti in loco adottarono sistemi e comportamenti che spinsero lo
stesso conte ad affrontare in prima persona alcune situazioni, risolvendole
sempre in favore dei contadini meno abbienti.
Qualcuno potrebbe obiettare che di riforma agraria se n’era parlato anche
durante il ventennio fascista, ma questa è una falsa convinzione perché uno
Stato che aveva il suo fondamento politico nelle corporazioni non poteva
sostenere delle leggi che mettevano in crisi la sua stessa sopravvivenza.
Un merito del ventennio fascista, che va sotto il nome altisonante di
“colonizzazione”, è quello di aver prosciugato le paludi Pontine, di aver
trasformato tutto il territorio ricavato, di aver messo mano al recupero del
territorio del basso Volturno e del Tavoliere delle Puglie e preso delle
iniziative sulla trasformazione, sporadica e mal riuscita, del latifondo
siciliano con l’esproprio di ampie superfici, che furono quotizzate ed
assegnate a famiglie di lavoratori agricoli compiacenti con il regime.
Il nodo vero del problema incominciò ad essere affrontato nel 1944,
quando nel Comitato di Liberazione Nazionale si stabilì che la nuova
nazione doveva reggersi su una proprietà diffusa dei terreni da parte dei
suoi cittadini e si doveva abolire il latifondo, perché portatore di ingiustizie
e di sottomissioni ai grandi latifondisti, che sfruttavano sistematicamente la
miseria della povera gente dei campi.
Il Governo della nuova Italia emanò un Decreto Legislativo il 24
dicembre del 1947, n. 1744, con il quale si prefiggeva di completare le
bonifiche delle terre, iniziate durante il ventennio fascista, imponendo ai
proprietari le migliorie fondiarie da apportare.
Uno strumento necessario fu la creazione dei consorzi, che elaborarono i
piani di recupero e di esproprio dei terreni non migliorati per mancanza di
fondi o di interesse dei proprietari.
I terreni, così individuati, dovevano essere ceduti per la costituzione della
proprietà da distribuire successivamente ai contadini.
Il decreto successivo, quello del 24 febbraio del 1948 n. 114, completa un
quadro di per sé molto complesso, recando numerose agevolazioni
creditizie e fiscali nella compravendita dei terreni e nella concessione
enfiteutica dei fondi rustici quando l’enfiteuta o il contraente fosse un
coltivatore diretto ed il fondo possedeva le necessarie caratteristiche per la
costituzione di efficienti proprietà contadine.
Questo decreto legislativo fu di fondamentale importanza per la fine del
latifondo e, se è molto comprensibile il concetto di compravendita del
terreno in modo diretto tra il proprietario e il contadino acquirente, c’è
bisogno, però, di una riflessione suppletiva per la comprensibilità della
concessione di tali terreni, quelli non migliorati ed in gestione dei consorzi,
in enfiteusi, in quanto questa forma di possesso giuridico fu molto usata dai
contadini poco abbienti che non avevano i mezzi necessari per comprarsi il
terreno.
L’enfiteusi è un diritto reale su un fondo altrui che attribuisce al titolare
(enfiteuta) gli stessi diritti che avrebbe il proprietario (concedente) sui frutti,
sul tesoro e sulle utilizzazioni del sottosuolo.
Il diritto di enfiteuta si estende anche alle accessioni (art. 959 cc).
Ricevuto il terreno con il contratto di enfiteuta, l’interessato aveva ed ha
degli obblighi che, se non rispettati, fanno decadere questo negozio
giuridico.
L’enfiteuta deve versare il canone periodico al concedente, in danaro o in
prodotti naturali, deve migliorare il fondo, deve pagare le imposte e gli altri
pesi che gravano sul fondo assegnato, salvo le leggi speciali o il titolo
costitutivo che dispongono diversamente.
L’enfiteusi temporanea non può superare i 20 anni.
Vi sono altre disposizioni e attuazioni che lasciamo alla libertà del
lettore, se ha voglia di indagare ulteriormente ed approfondire il contenuto
della riforma dal punto di vista giuridico, peraltro molto interessante.
Si è volutamente parlato in modo più approfondito sugli aspetti politici e
giuridici della Legge di Riforma Agraria perché il fine del racconto della
nostra storia è quello che i lettori abbiano la chiarezza di visione dei due
avvenimenti storici, occupazione delle terre incolte demaniali ed
applicazione della Legge di Riforma Agraria, che furono quasi
contemporanei e, a volte, si soprapposero, ma che nel loro spirito e nella
loro azione erano nettamente distinti e con un messaggio alle generazioni
future diverso.
Per l’attuazione della Legge di Riforma Agraria è lo Stato che diventa
attore di riforma e stimola i latifondisti a spezzettare le proprietà in tanti
lotti per concederli a contadini di per sé già organizzati e con concessione di
prestiti ed agevolazioni varie, ed i grandi proprietari terrieri trovarono, dal
loro canto, anche per loro vantaggi rilevanti nell’aderire liberamente, poiché
ne ebbero benefici che altrimenti avrebbero perso.
Per l’occupazione delle terre incolte del demanio dello Stato il problema
fu nettamente diverso.
Contadini e salariati, che non erano organizzati e con famiglie numerose
da sfamare, non possedevano nulla, se non le braccia per la lavorare la terra,
e quindi, non potendo sperare di avere quel pezzo di terra tanto sognato, si
organizzarono in modo vario con le leghe contadine ed andarono ad
occupare le terre che erano dello Stato, le terre demaniali.
Lo Stato fu sordo e padrigno in quanto, pur essendo le Leggi Gullo leggi
dello Stato, a livello locale la resistenza da parte dei detentori del potere
politico fu accanita e persecutoria, sino ad utilizzare in modo massiccio
imponenti Forze dell’Ordine e, talvolta, ricorrendo anche alla criminalità
locale organizzata per lo sgombero dei terreni occupati{2}.
Vi furono scontri duri e violenti che lasciarono sul terreno vittime
innocenti, che oggi ricordiamo con commozione, perché la loro morte ed il
sangue versato crearono le condizioni per un riscatto e varie conquiste che,
altrimenti, non si sarebbero mai concretizzate.
Già al tempo della conquista da parte di Garibaldi del Sud dell’Italia, per
annetterlo poi al Piemonte e formare un’Italia unita, i cosiddetti “coloni”
siciliani erano stati spinti ad occupare le terre e proprietà della ricca nobiltà
siciliana nel nome della libertà e di una giustizia distributiva.
L’episodio di Bronte, un paese alle falde dell’Etna, fu esemplificativo e
spiega la strategia che Garibaldi attuò per smantellare, anche se con pochi
risultati, la casta che reggeva il latifondismo siciliano.
I contadini servivano a Garibaldi come forza d’urto per sconfiggere
l’esercito borbonico e per istaurare la sua dittatura nel Sud, ma trascorsi i
primi entusiasmi, interveniva sempre qualche suo luogotenente, e nel caso
di Bronte il suo fedele Nino Bixio, a fare il lavoro sporco sparando sugli
occupanti dei terreni per riportare l’ordine e l’applicazione di quel patto
segreto e nascosto ai molti di una alleanza segreta tra i grandi proprietari e
lo Stato che stava nascendo e che trovava in Garibaldi il suo attuatore.
I contadini siciliani dovettero sperimentare sulla loro pelle, ancora una
volta come accade sempre nei cambiamenti epocali, che prima o poi chi
detiene il potere economico può fermare e cambiare il corso della storia,
opponendosi con la forza al rinnovamento della Nazione.
La promessa di Garibaldi di dare le terre ai contadini fu un’amara
illusione per tutti.
L’atteggiamento tenuto allora da Garibaldi, che rappresentava il nuovo
Stato al Sud d’Italia, fu tenuto presente, anche a distanza di anni, dai
contadini e salariati del secondo dopo guerra, che manifestarono sempre
diffidenza nei confronti del potere politico, che pur aveva confezionato
buone leggi sulla divisione ed attribuzione delle terre incolte del latifondo,
ma ne ostacolò in modo massiccio la reale attuazione.
Questo spiega il perché dell’occupazione fisica delle terre, anche quando
il latifondista dichiarava pubblicamente che non ostacolava l’applicazione
dell’attuazione delle leggi appena emanate.
Ma i tempi erano diversi, perché contadini e salariati si trovarono uniti ed
organizzati nelle leghe dei contadini, sotto la guida di persone preparate
politicamente a tale compito.
Il 1949 e gli anni successivi rappresentano gli anni della grande
occupazione dei latifondi del Sud, del Centro e del Nord.
Fu un’epopea contadina e le battaglie, decisive e terribili, esaltarono di
una luce d’eroismo coloro che le sostenevano.
Si verificarono avvenimenti dolorosi e di morte per colpa delle Forze
dell’Ordine sotto la guida del ministro Scelba, che usò forze non
istituzionali ed accordi con i “gabellotti” dei campieri che, per dissuadere
ed allontanare i contadini dalle terre occupate, minacciavano ed uccidevano
coperti da una impunità omertosa da parte dello Stato. Furono fatti che
lasciarono un’ombra sinistra sull’operato di chi, scientemente, li determinò
e incoraggiò{3}.
L’episodio di Portella della Ginestra del 16 maggio del 1947 è
esemplificativo.
I contadini si recarono nella distesa del pianoro per festeggiare il 1
maggio ed occupare simbolicamente le terre del latifondo di un ricco
proprietario, il quale fece intervenire la Mafia con Salvatore Giuliano per
punire quei diseredati contadini che, spinti dalla fame, si erano arrogati il
diritto di occupare la sua terra.
Salvatore Giuliano non andò per il sottile, ordinò di sparare sul corteo e
vi furono parecchi morti e feriti.
Lo Stato non rispose a questo eccidio, anzi accusò, come sempre
accadeva e può accadere nei nostri giorni, i facinorosi comunisti che
avevano organizzato la manifestazione, e la colpa era loro se era
degenerata.
Il sindacalista Placido Rizzotto, segretario della Camera del Lavoro di
Corleone, venne assassinato nel 1948 dal mafioso Luciano Liggio.
Salvatore Carnevale, sindacalista siciliano, fu ucciso dalla Mafia a
Sciarra.
Questi assassini dovevano servire come monito ai siciliani che si
battevano per il rinnovamento e la libertà, diritti che si volevano negare a
quelle genti.
La storia di questi episodi dolorosi e ributtanti, riletta in epoca più
recente e senza paraocchi a condizionarne l’interpretazione, può svelare
tanti misteri sulle connivenze che si ebbero (e che sembra, in alcuni casi,
esistano ancora oggi) tra Stato e malavita, organizzata e non.
Eppure le lotte in Sicilia non si fermarono, anzi ripresero con maggiore
intensità.
Anche in altre regioni come Calabria, Campania, Marche, zona del
Fucino, nel cattolico Veneto e nell’Emilia Romagna si verificarono e
realizzarono momenti gloriosi di occupazione delle terre incolte, con le
stesse caratteristiche degli episodi accaduti in Sicilia.
Tutti questi fatti concorsero al riscatto della classe più povera, quella di
sempre, dei contadini. Contadini spesso analfabeti, poverissimi, stremati da
lavori disumani che, però, seppero scrivere pagine gloriose di conquiste
sociali, delle quali ancor oggi ne beneficiamo. Il loro esempio non sia mai
dimenticato, perché senza quegli inenarrabili sacrifici, il nostro presente
sarebbe molto più buio.
A questo punto il nostro orizzonte si deve restringere al luogo
protagonista della nostra storia, per raccontare i fatti e le testimonianze di
una pagina di storia che i contadini di questa terra scrissero e che, per
incuria e poca passione, rischiava di essere definitivamente cancellata dalla
memoria e dal ricordo delle future generazioni.
Gli studenti universitari e di scuole inferiori del Comune di Falciano (in
un numero tale da poter essere considerato un campione significativo),
intervistati sull’argomento dell’occupazione da parte dei loro nonni e
familiari delle terre incolte, sono caduti dalle nuvole ed hanno ascoltato e
seguito con interesse e partecipazione il racconto loro proposto,
meravigliandosi e preoccupandosi che fosse trascorso tanto tempo e che il
velo nero dell’oblio e della dimenticanza stesse definitivamente cancellando
dalla storia del loro paese un avvenimento memorabile ed eroico.
Infatti quei contadini, uomini e donne, furono degli eroi.
Essi hanno superato, per il valore della loro azione, le barriere del tempo
per rimanere fissati nel ricordo e nella memoria di tutti.
 
 
 
Giovanni Canzano, segretario del P.C.I. di Falciano del Massico ed organizzatore dell’occupazione
delle terre incolte
Antonio Del Duca, segretario del P.C.I. di Falciano del Massico e Presidente della Cooperativa Terra
Nostra
Michele Manica, responsabile della CISL a Falciano del Massico e Presidente della Cooperativa Il
Popolo
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Seconda parte
 
Non intendiamo scrivere la storia del sindacalismo che si sviluppò nel
territorio in quel periodo, né l’antagonismo che si sviluppò tra il cosiddetto
sindacalismo bianco ed il sindacalismo rosso, che successivamente ha avuto
importanti esponenti a livello locale, assurti poi ad occupare cariche
importanti in quello nazionale, né lo scontro e l’interesse che la Democrazia
Cristiana con la Cisl e le Acli ed il Partito Comunista Italiano attraverso la
Federterra e poi la Cgil ebbero nel dirigere i propri iscritti durante tutte le
fasi che più avanti narreremo.
Interessa soprattutto narrare e raccontare, evitando la trappola di una
facile enfasi, la storia dei pochi uomini del paese che capirono l’importanza
del momento e l’opportunità che la storia gli offriva per riscattare un intero
paese contadino da servitù e sottomissione, che affondavano le proprie
radici nei secoli.
Costoro capirono che l’occupazione delle terre incolte dei latifondisti e
del demanio dello Stato per loro era una conseguenza dovuta alla
condizione di essere nati contadini, quelli che avevano con il proprio sudore
dissodato quelle terre per i loro padroni, ricavandone niente, se non
umiliazioni e disprezzo.
Capirono che questo loro atto di forza e di sfida contro i latifondisti, i
loro scherani, e lo Stato, prospettava la conquista di quella libertà ed
indipendenza che poteva permettere loro di guardare a fronte alta quelli che
fino a ieri erano stati i loro sfruttatori e passargli davanti salutandoli da
buoni ed educati cittadini e non più con il servile “a ssignoria padrone”.
Seppero coniugare insieme il desiderio di tutti i contadini di avere
finalmente un pezzo di terra e di riacquistare la dignità che gli era stata
sottratta di uomini liberi.
Questi uomini, miseri e affamati, rozzi e analfabeti, non parvero subito
agli occhi dei latifondisti un reale pericolo, essi infatti non temettero di
perdere una parte dei loro averi e del loro potere.
Si sbagliavano, perché quelle genti, facendo parte delle classi più povere,
possedevano una molla inesorabile che spingeva a rischiare anche la fame.
  Eppure sapevano che, in caso di fallimento, sarebbero stati angariati
ancora di più e avrebbero subito ritorsioni pesantissime, fino a perdere quel
misero tozzo di pane che finora erano comunque riusciti a guadagnarsi. Ma
non potevano fallire, perché vi era in palio l’avvenire dei loro figli,
altrimenti condannati a vivere in modo indegno e gramo.
Alcuni contadini provarono certamente il dubbio di non riuscire a
concretizzare le loro aspettative, ma si batterono, e questo dubbio dalla
consapevolezza di sapere di possedere scarse risorse culturali, forse troppe
esigue per guidare un evento di tale portata, rimase sempre in loro, anche
dopo l’esito positivo dell’evento.
Pochi, tra i trascinatori, avevano studiato sino alla quinta classe, gli altri
erano analfabeti. Come rompere uno status quo in vigore da secoli?
Effettivamente rischiavano di perdere quel poco e miserevole lavoro che
svolgevano presso i “signori padroni” e lasciare la famiglia sul lastrico
perché le ritorsioni dei latifondisti sconfitti sarebbero state immediate e
brutali.
Per loro fortuna gli scettici e paurosi erano una minoranza.
Le autorità costituite, come sempre accade, erano, di fatto, schierate con
chi, dall’alto della propria ricchezza, deteneva appoggi e conoscenza e
quindi in grado di compensare adeguatamente coloro che li proteggevano.
  In linea di massima, l’atteggiamento di chi deteneva il potere fu di
ostilità verso quella piccola schiera di uomini che si sacrificavano per un
intero paese, al fine di riscattarlo dalla servitù.
La chiesa locale vedeva in questi poveri e miseri personaggi la
reincarnazione non certo di Cristo, ma quella del diavolo, perché essi erano
guidati da uomini che si rifacevano ad un ideale politico, quello del Partito
Comunista Italiano, da combattere aspramente, anche perché i comunisti
erano stati scomunicati da Pio XII e per questo motivo le nobili cause che
guidarono tale avvenimento vennero interpretate come un fine politico di
sovvertimento dello Stato e della democrazia in Italia.
  Eppure, proprio Cristo, il più luminoso rivoluzionario della storia
dell’umanità, Cristo, la fiaccola che ogni credente dovrebbe impugnare,
aveva parlato di fratellanza, di pane da dividere con il povero, di amore.
Aveva insegnato che la ricchezza, la sopraffazione, il potere che non mira al
bene comune, la superbia, erano le armi dell’esercito di Satana.
Il 13 novembre del 1947 giunse a Falciano un giovane prete di 27 anni di
Barano d’Ischia, nominato parroco della Chiesa di San Rocco e Martino da
parte del vescovo di Sessa Aurunca il 01 gennaio del 1948.
Era un giovane prete formato alla Facoltà Teologica di S. Luigi a Napoli,
uomo dotto, preparato e soprattutto portato a un apostolato ricco di
contenuti morali e di vita vissuta al servizio della gente.
È stato per la frazione di Falciano Selice il parroco per antonomasia
perché, come spesso affermava, egli aveva sposato la sua chiesa di Falciano
Selice e l’ha sempre difesa e tutelata come una sua sposa, soprattutto nei
momenti più drammatici.
Per le sue profonde tematiche che cercava di spiegare spesso ai poveri
contadini, come erano i parrocchiani a lui affidati, non riuscì subito a far
capire la sua opera pastorale di cambiamento.
All’inizio del suo apostolato dovette superare ostacoli per altri
insormontabili, ma lui ci riuscì ed impose sempre le sue scelte, come nel
drammatico scontro con l’associazione della Madonna del Carmine e nei
frequenti diverbi con la potentissima Congrega dei fratelli del Sacro Monte
dei Morti della sua parrocchia.
Dopo gli scontri e le ovvie polemiche, il parroco ritornava sempre il
parroco, anzi l’affetto e il rispetto da parte del popolo per lui diventava
sempre più sincero e radicato.
Pensò alla rinascita del paese, con la progettazione e realizzazione di un
asilo infantile, all’avanguardia nel 1953, e la costruzione della nuova chiesa
nel 1963.
Era figlio di contadini e si trovò ad esercitare la funzione di pastore di
anime nel pieno dello sviluppo dell’occupazione delle terre incolte e, dalle
testimonianze che si hanno, egli, pur condividendo che la terra abbandonata
e di demanio pubblico dovesse essere data a chi la lavorava per poterne
ricavare il necessario per vivere, comunque non si espose mai a sostenere
apertamente tale lotta per motivi ideologici, per lui insuperabili, perché il
Partito Comunista guidava tale lotta e per lui i comunisti erano stati
scomunicati da Pio XII e l’acqua santa non poteva far combutta con il
diavolo.
Seguì con attenzione tutte le fasi del movimento ed il rimprovero, fatto
una domenica ai suoi parrocchiani di aver abbandonato le loro terre per
andare a lavorare nelle fabbriche del Nord ed all’estero, nacque dall’amara
constatazione che i sacrifici, le privazioni, il duro lavoro e le sofferenze dei
padri, che avevano tanto sognato di avere un fazzoletto di terra per lavorala,
era stato vano.
I politici locali di allora, che detenevano il potere, con il sindaco
Giuseppe Santoro in testa, non mossero ciglio e si posero in attesa degli
eventi, anzi con il loro silenzio e la loro accidia speravano che i fatti
precipitassero in sommossa o altro per intervenire e far pesare la loro
condanna.
L’amministrazione comunale di Carinola in quel periodo era di destra e
conservatrice, i suoi consiglieri ed assessori erano quasi tutti ricchi
proprietari terrieri e dovevano, e volevano, tutelare e difendere per primi i
loro interessi.
I poveri diavoli che organizzarono le occupazioni delle terre incolte e
tutti i contadini che li seguirono furono lasciati soli, anzi intimoriti da
minacce costanti di ritorsioni.
Ma non ebbero paura di quella solitudine e di quelle intimidazioni,
perché animati dalla fede di riscatto della propria libertà.
E vinsero, tutto sopportando stoicamente.
Il luogo dove si svolsero le riunioni, gli incontri con i personaggi politici
e sindacali del momento e dove si programmò la preparazione per
l’occupazione delle terre incolte fu la sezione del Partito Comunista Italiano
che, in quel periodo, aveva la sua sede non lontano da Via Arco, un vicolo
che si affaccia con il suo arco, da qui il nome della stradina, lungo la
tortuosa Via Falerno.
L’ubicazione della sezione del Partito Comunista era in un posto
strategico in quanto nello spazio di pochi metri si realizzava un condensato
di vita vissuta.
Accanto alla sezione c’era la bottega di Enrichetto Stodo, compagno
calzolaio e comunista di ferro.
La sua bottega, spesso, era anche il luogo in cui vedersi durante le
giornate di pioggia, quando poche persone si muovevano per andare nella
sezione del P.C.I. e per risparmiare l’energia elettrica si approfittava della
sua ospitalità raccontandosi le storie quotidiane di un paese sonnolento
durante il periodo invernale.
Si affrontavano anche i problemi spiccioli di politica locale e di
informazione e commento su ciò che si leggeva su qualche giornale ormai
vecchio di giorni, o commentando le scarne notizie che si ascoltavano dalla
radio di Valentino Stodo, un commerciante di stoffa che aveva anche lui il
negozio lì vicino.
Era anche il luogo, la bottega di Enrichetto Stodo, dove era accettata la
presenza dei ragazzi del Lampione, luogo dove si raccontavano le storie
immaginarie della vita del paese, si parlava e si chiacchierava sulla bellezza
delle ragazze che passavano lunga la strada, e le storie dei vari e stravaganti
personaggi che con le loro avventure, vere o false, popolavano la fantasia di
adulti e ragazzi.
Era una bottega viva ed era anche lo specchio dell’intero paese che
usciva intorpidito dalla guerra e desiderava uno spiraglio di novità e di
spensieratezza per allontanare i fantasmi che ancora condizionavano il
vivere di tutti i giorni.
Mastro Enrichetto, così lo ricordano ancora oggi, aveva un carattere
gioviale e scherzoso, per lui tutto si poteva ridurre, anche episodi a volte
difficili da interpretare e da spiegare, ad una battuta condita da una buona
risata con gli amici.
Anche durante le discussioni serie per i loro contenuti che si tenevano
nell’austerità ufficiale della sede del P.C.I. era capace, con le sue parole
pervase di bonomia e semplicità, di allentare le tensioni e portare un senso
di realismo pratico nelle decisioni che poi si prendevano.
Fu anche lui uno dei protagonisti dell’occupazione delle terre incolte.
Guidò, insieme agli altri, il corteo che da Piazza Limata si incamminò per
Via Direttissima per giungere nei luoghi delle terre da occupare al canto di
Bandiera Rossa e dell’Internazionale socialista.
È necessario fare una digressione, perché il luogo che si vuole qui
ricordare è stato appena sfiorato con un cenno in precedenza, per portare a
conoscenza e spiegare a chi legge questi racconti o storie il detto che era
sulla bocca di tutti in quel periodo: “chi non passa per il Lampione e non è
giudicato, o muore ucciso o muore scannato”.
Questo detto può sembrare un po’ truculento, ma racchiude una storia
che è interessante narrare a margine del presente racconto.
Oggi se qualcuno cerca questo lampione non lo trova più, perché la
voglia di trasformare tutto e distruggere ciò che ricorda il passato in questo
paese è diventato una costante mania, ma esiste ancora, come era al tempo
del nostro racconto, il luogo dove era appeso questo lampione.
Venendo da Via Abate Cesare a Monte, il lampione era posto all’angolo
di Via Cesare Battisti, Via Falerno e la stessa Via Abate Cesare.
Era un luogo da cui si doveva passare quasi per necessità in quel periodo
per recarsi in quei pochi negozi che stavano lungo Via Falerno, quasi
ombelico del mondo per l’intero paese, ed andare, seguendo la tortuosità
ansimante della strada, sino all’altra frazione del paese denominata Capo.
Lo spazio sotto il lampione era un punto di incontri, di attese, di
discussioni, di patti da rispettare, di scorribande da fare nei giardini a
vigneto della zona e di altro, era un luogo di vita.
Era un punto effettivo di riferimento di tutti i ragazzi adolescenti e delle
persone adulte del vicinato perché gli uni ascoltavano i consigli che
potevano avere da persone che già avevano vissuto una parte della loro vita,
e gli altri si divertivano nel sentire il racconto delle marachelle e le
innocenti imprese notturne degli altri.
Chi aveva più di 50 anni era rispettato dalla ragazzaglia del lampione
quale persona che sapeva elargire la propria saggezza attraverso consigli,
rimproveri e, a volte, con punizioni appropriate.
Gli scapestrati, ma innocui giovani, del lampione avevano il culto delle
persone sagge, e rispetto per i loro consigli e le loro decisioni.
Sotto la luce del lampione, di sera, si decideva l’ora e dove andare a fare
razzia di ciliegie, fichi, noci, uva ed altra frutta e generalmente il luogo
preferito era il cosiddetto “giardino del signore” di proprietà dei De Stasio,
ora questo “giardino” non c’è più, ci sono villette e case costruite spesso in
un modo pacchiano e disordinato.
Sotto la luce del lampione ci si spartiva l’innocente refurtiva sempre,
però approfittando che non ci fossero le persone sagge di cui prima si
parlava, ma il giorno dopo queste, informate in qualche modo, non
lesinavano il solito, solenne, rimprovero.
Con bonomia e affetto ci permettiamo di citare qualche nome, a distanza
di tanto tempo, dei componenti della “teppa del Lampione”: Luca ed Egidio
Toscano, Beniamino Verrillo, Raffaele Del Duca, Angelo Buonamano,
Francesco detto il romano, Giuseppe Guttoriello e Giovanni Cioffi.
Il lampione era per tutti gli abitanti del posto un punto di riferimento
preciso di incontri anche notturni e sotto la sua luce si stringevano patti,
amicizie ed iniziavano amori che poi sono durati nel tempo.
A pochi metri del lampione, all’inizio di Via Falerno, sulla destra, angolo
Via Cesare Battisti, per chi sale c’era la bottega di abbigliamento di
Valentino Stodo, che possedeva, e pochi in quel periodo avevano questa
possibilità, una radio che diventava polo di attrazione dei giovani del
lampione per l’ascolto degli arrivi delle tappe del Giro d’Italia e per sentire
canzoni e Sorella Radio, trasmissione molto seguita nel paese.
A pochi metri da Valentino Stodo, su Via Cesare Battisti nelle vicinanza
del portone di entrata nel Cortile dei Toscano, Giuseppe Paolella aveva
aperto un negozietto di generi alimentari e gli affari gli andavano bene,
tanto da suscitare l’invidia di Valentino Stodo che, alla vendita di materiale
di merceria e di tessuti, aggiunse anche lui quella di generi alimentari.
Questo portò a rompere gli equilibri di vivibilità in quel tratto di strada
perché gli stessi avventori non sapevano dove andare a spendere i pochi
soldi che avevano per non scontentare nessuno dei due.
Allora scelsero di andare altrove, con gravi perdite per entrambi i
commercianti che, alla fine, furono costretti alla chiusura dei loro negozi.
Famosi e ricorrenti erano i dispetti che si facevano sino a comprarsi tutti
e due lo stesso disco che mettevano alternativamente e che i passanti
ascoltavano e commentavano con sarcasmo ed ironia.
Il disco conteneva una canzone un po’ scaramantica e liberatoria per chi
in quel momento la eseguiva, il cui ritornello recitava “sciò, sciò
cicciuettola!”.
Dopo la chiusura del Paolella, il negozio di Valentino Stodo continuò
ancora a essere un punto di attrazione e di passaggio durante il giorno di
tutti i giovinastri del lampione per ammirare la bellezza della figlia di
Valentino Stodo, Felicetta.
Tutti hanno amato in cuor loro questa ragazza inavvicinabile nel tempo
della giovinezza sognata, peccato che la morte, improvvisamente, la portò
via all’affetto dei suoi cari e al cuore di tanti giovani d’allora.
Sempre sulla destra di chi sale per Via Falerno c’era il professore
Caldarone, che aveva una piccola scuola privata dove educava i birbantelli
e qualche adulto della zona e li preparava all’esame di Licenza Elementare.
Di fronte vi stava il portone della famiglia Vellone ed a livello delle aule
della scuola c’erano le stanze da letto delle figlie dei Vellone.
Quando le ragazze andavano nelle loro stanze per spogliarsi ed andare a
letto, i ragazzi del professore, che erano seduti nei banchi di fronte nell’altra
parte della strada, quasi presagendo il momento eccitante della svestizione,
oggi diremo dello spogliarello, lasciavano i banchi e si precipitavano
ansimando e guaendo alle finestre per vedere la bellezza di queste ragazze,
per poi ritornare, una volta spenta la luce nelle stanze, confusi al loro
faticoso studio.
Ripetendosi spesso questo episodio, la mamma delle ragazze Vellone
richiamò il Calderone perché tenesse sotto controllo i propri alunni, ma il
professore candidamente rispose alla mamma che protestava per la privacy
violata «ma se avete fatte così belle le vostre figlie è colpa vostra, non certo
dei ragazzi che le guardano.»
Completava questo tratto di strada che va dal lampione alla curva della
prima vera salita una piccola bettola chiamata “Pagliarella”, luogo di
ristoro, di gioco e di riposo, dove il vino e la birra allietavano coloro che se
lo potevano permettere.
Sempre vicino a via Arco e lungo via Falerno si trovava la bottega di un
sarto abbastanza conosciuto e amato dagli abitanti della contrada e del
paese.
Era un sarto un po’ sordastro ed aveva, a volte, difficoltà a capire e a farsi
capire da chi gli era vicino, ma era attento e scrupoloso nel suo mestiere.
La sua bottega era frequentata da tutti e, in particolare, da chi aveva poco
da offrirgli in cambio di una cucitura di pantaloni o di altro.
Il suo nome era Pasquale Bucciaglia, ma tutti lo chiamavano, non si sa
per quale motivo, “Stracchellino”. Comunista convinto e sostenitore delle
iniziative che si prendevano nella vicina sezione del P.C.I.
Lo si poteva vedere, lui sordo ed un po’ brillo, durante le feste del paese,
davanti al palco su cui la banda musicale suonava i pezzi delle varie opere,
seguire tutto il concerto ripetendo i movimenti delle braccia del maestro e
muovendosi a pendolo, accompagnato dalle note delle varie sinfonie con un
avanti ed indietro continuo, mentre tutti si aspettavano che primo o dopo
cadesse. Ma è stata sempre un’attesa delusa
I presenti erano più attirati da questo spettacolo che dalle note del
concerto.
Ricordandolo nella nostra storia, piace anche fare un cenno dei suoi
amici: Giuseppe Passaretti, detto “Ditone”, famoso chitarrista, Valentino
Feola, amabile e virtuoso fisarmonicista, e Alfredo Guttoriello,
appassionato suonatore di mandolino.
Le loro serenate sotto le finestre degli innamorati erano una delizia, uno
spettacolo che oggi, purtroppo, non esiste più.
Il microcosmo di vita e fatti che si sono riportati generavano e
producevano, senza essere sollecitati, ma spontaneamente, anche momenti
di divertimento e di spensieratezza quando, durante la calde serate estive,
un vecchio grammofono con il grosso trombone irradiava nell’aria e sotto il
lampione i suoni dei balli del tempo, invitando tutti ad uscire in strada dai
vicoli vicini per ballare.
Erano quelle le occasioni di incontro tra i giovani del luogo ed il sorgere
delle prime chiacchiere che la gente adulta e pettegola imbastiva sulle
coppie che si formavano e che quasi mai si concretizzarono con un legame
serio e duraturo.
È la fotografia di questa parte del paese che diventa viva ed interessante
con il passare del tempo perché proprio in questo posto e lungo questa
strada si sviluppò e si radicò la consapevolezza che, per il riscatto dei
contadini locali, bisognava occupare le terre incolte, anche rischiando la
propria vita.
Al numero civico di Via Falerno 11 c’era la sezione del Partito
Comunista Italiano, posta in modo strategico in un angolo che dominava
tutta la strada che va dall’inizio di Via Falerno sino alla vera prima salita
che porta verso le scuole elementari.
La scelta di questa ubicazione era importante e opportuna in quel
periodo, in quanto tutta la vita della frazione di Selice si concentrava lungo
quella strada e la sezione rappresentava un punto di riferimento e di
incontro anche per chi non professava apertamente l’ideologia comunista.
Era una modesta stanza con sedie e qualche tavolo, con uno scaffale dove
erano depositati i materiali di propaganda e, al muro, in bella evidenza,
erano appesi i ritratti di Stalin, Togliatti e Gramsci; appoggiata vicino al
muro, con l’asta, la bandiera rossa con falce e martello, simbolo
dell’Unione Sovietica.
Fu anche comprato un televisore con i contributi spontanei dei compagni
e la sezione divenne anche luogo di incontro dei ragazzi del lampione e di
altri non comunisti che avevano la piena libertà di accedere in sezione per la
visione dei primi spettacoli, sceneggiati e film che venivano trasmessi.
Il custode di tale apparecchio e del suo uso era Mastro Enrichetto.
Una riflessione sulla bandiera rossa, allora presente in sezione, è
necessaria per ben capire l’importanza che ebbe questo simbolo nella nostra
storia.
Oggi scomparsa, o tenuta ben nascosta, come se fosse di proprietà
personale di qualche vecchio compagno comunista, fu il simbolo di tante
battaglie, come quella dello sciopero davanti alla Prefettura di Caserta per
l’abolizione del famoso “librettone”, un’infame legge che, per evitare
imbrogli da parte dei padroni terrieri, obbligava i contadini a fornirsi di una
specie di registro sul quale annotare le giornate lavorate man mano e con la
firma del datore di lavoro, quasi fossero i contadini gli evasori e non i
padroni.
Ebbene questa bandiera era contesa per portarla nelle manifestazioni da
molte persone, ma soprattutto da parte di Raffaele Del Duca e da Arturo
Pomobello, nipote di Mastro Enrichetto
La bandiera era stata cucita dalla moglie di Giovanni Canzano,
Giovannina, che riuscì ad assemblarla con tre pezzi di stoffa rossa ma alla
vista sembrava un solo pezzo, con un fiocco bianco che ne chiudeva la
punta a freccia di materiale leggero e di color rame, mentre l’asta era
maneggevole e di color nero.
Fu la bandiera che aprì il corteo della gente che andò ad occupare le terre
incolte e fu sempre presente nelle varie fasi, fino a diventarne il simbolo più
amato.
In questa stanza, presa in fitto da Arcangelo Di Rienzo, si svolgeva la
vita degli aderenti al Partito Comunista, là si intavolano i famosi e lunghi
“dibattiti” sulle direttive che il partito impartiva attraverso i suoi
rappresentanti locali per tener vivo l’interesse su tutto ciò che accedeva a
livello nazionale ed internazionale, specie in Unione Sovietica.
In questa stanza si sono prese anche tutte le decisioni e studiate tutte le
strategie per organizzare l’occupazione delle terre incolte alla presenza di
personaggi importanti per la storia della democrazia in Italia, come l’attuale
Presidente della Repubblica Italiana Giorgio Napolitano, allora responsabile
della Segreteria del Partito in Provincia di Caserta.
Chi accompagnava nei frequenti viaggi Giorgio Napolitano, con la sua
Moto Guzzi, era il deputato Vincenzo Raucci, che era molto legato ai
personaggi della nostra storia.
Con una punta di amarezza, espressa ancora oggi da qualche vecchio e
ferreo compagno rimasto in vita e che ricorda i fasti del passato della
sezione, quando questa venne chiusa per sfratto da parte del padrone, finì
nel paese la presenza seria di chi portava nel cuore gli ideali del
comunismo, in quanto il partito venne affidato ai giovani di allora, che
sfruttarono per loro conto il lavoro, i sacrifici e le sofferenze dei loro
predecessori.
Se ci fosse data l’opportunità, ma non è possibile, se non attraverso un
grosso sforzo della nostra fantasia, di aprire la porta di quella sezione del
Partito Comunista, vedremo presenti i personaggi che vivono, con noi, una
seconda vita nella storia che stiamo raccontando, anche se non furono i soli,
ma sicuramente furono tra gli artefici e i realizzatori di quel grande
avvenimento di riscatto e di libertà dei contadini del paese.
Antonio Del Duca, negli anni del nostro racconto, aveva circa 37 anni
perché nato nel 1913 ed è stato sempre, sino alla sua morte, avvenuta nel
1978, un punto di riferimento importante per l’esistenza della sezione del
Partito Comunista Italiano nel paese e di guida per tutti coloro che
condividevano con lui gli ideali propagandati dal partito.
Fu il primo ed unico Presidente della Cooperativa Terra Nostra, istituita,
secondo la Legge Gullo, per partecipare alla divisione ed attribuzione ai
contadini nullatenenti del paese delle terre demaniali dello Stato gestite dal
Comune di Carinola, e si interessò sino alla morte della gestione della stessa
e di tutti i problemi che sorsero dopo l’attribuzione delle terre.
Andava lui in persona, accompagnato in motocicletta dal figlio Raffaele,
a pagare presso la Tesoreria del comune di Carinola, all’ing. Vingione,
dirigente della stessa, i fitti di tutti gli assegnatari del paese ed a volte, per
evitare la brutta figura che avrebbe fatto nel non pagare i fitti di qualche
compagno in difficoltà economica, ci rimetteva in proprio pur di rispettare
le scadenze stabilite dai contratti.
Scherzosamente, da parte di tutti i compagni comunisti del paese, era
chiamato “mbruoglio”, non perché il suo metodo era di truffare la gente, ma
perché abile a risolvere ogni problema che sorgeva, sapendo trovare le
parole e i rimedi adatti.
Chi era in realtà quest’uomo?
La sua famiglia era comunista convinta, ma lui sapeva coniugare il suo
amore verso le idee comuniste con una certa predisposizione all’ascolto ed
al dialogo con tutti.
Aveva anche il dono, particolarmente importante in quel periodo in cui
trionfava l’analfabetismo, di sapere scrivere in un modo facile, fluente ed
accattivante.
Tutti leggevano di buon grato i suoi scritti perché in essi trovavano il
senso sincero dei sentimenti di un uomo che credeva fermamente in quello
che pensava e scriveva.
Apparteneva ad una famiglia composta da quattro figli maschi, tutti
ormai morti, e da una figlia femmina, ancora oggi vivente.
Erano contadini e molti di loro specializzati nell’uso della falce, sempre
uniti nel condividere tra di loro il poco lavoro esistente in quel periodo.
Per il suo modo di comportarsi veniva considerato una persona
esemplare.
Egli, pur vivendo in periodi di estrema povertà, se aveva qualche
spicciolo in tasca e per strada incontrava un contadino più povero di lui,
non mancava di dargli quei pochi soldi, utili per alleviare le magre
condizioni in cui il poveretto versava.
Era un uomo generoso. che aveva trovato nella moglie Teresa Di Marco,
di origine aquilana, una compagna che assecondava e sosteneva questo suo
senso altruistico.
Non ebbe la gioia di un avere un figlio dalla sua amabile moglie, mentre
tutti gli altri fratelli e sorelle ne ebbero in abbondanza, e allora decise di
prendere con sé il piccolo Raffaele, il figlio del fratello Pasquale.
Fu un adozione fatta con il cuore e mai ufficializzata con sentenza di
tribunale.
La mamma di Raffaele, Giulia, quando lo partorì, ebbe dei gravi
problemi di salute e fu ricoverata all’Ospedale Cardarelli di Napoli, quindi
affidò il figlio ad Antonio e a Teresa in modo che, pur nella povertà di
allora, potesse avere un luogo dove crescere e delle persone affettuose a cui
legarsi e da loro ricevere affetto generoso.
Questo tacito patto di sentimenti fu confermato al ritorno della madre di
Raffaele dall’ospedale, che disse in modo chiaro ad Antonio e Teresa che
Raffaele, che gli era stato dato in un momento tragico della sua vita, poteva
restare per sempre con loro.
E la nuova famiglia così composta visse nell’affetto ed amore reciproco,
tanto che fino a 17 anni Raffaele dormiva nel letto insieme con la madre ed
il padre adottivo.
Antonio Del Duca fu in prima linea per l’occupazione delle terre incolte,
nel ruolo di braccio destro di Giovanni Canzano, un personaggio che
incontreremo appresso, ed insieme crearono un duo che tenne duro anche
nei momenti più difficili delle scelte che vennero fatte, ed insieme furono
anche arrestati a Caserta durante lo sciopero per l’abolizione del famoso
“librettone”.
Nel paese consideravano Antonio un accanito difensore contro le
ingiustizie e il baluardo della loro difesa quando i ricchi proprietari terrieri
del paese manifestavano la loro prepotenza ed arroganza contro i deboli
contadini.
Ebbe dei gravi problemi di salute allo stomaco e problemi di digestione:
era solito portare con sé il bicarbonato che lo aiutava nell’alleviare i dolori
della malattia e, nonostante queste sofferenze, la mattina si alzava per
andare a lavorare portandosi come compagno l’immancabile scatolino
pieno di bicarbonato.
Viveva con intensità la vita di sezione e di partito, fu anche segretario
della sezione, dopo che Giovanni Canzano emigrò nel Nord Italia, ed in
quella sede ha manifestato sempre disponibilità e preparazione per risolvere
i piccoli e grandi problemi che si presentavano alla sua attenzione.
Persona stimata dai maggiori ed importanti politici del partito della zona,
come l’on. Vincenzo Raucci, Rendine, Antonio Bellocchio, Orabona e lo
stesso Giorgio Napolitano, attuale Presidente della Repubblica, che è stato
anche suo ospite a casa nei vari periodi in cui ne era necessaria la presenza
nel paese.
Una sera, mentre Raffaele Del Duca, figlio di cuore di Antonio, stava
giocando con la sua nipotina, vide il padre che avvertiva un forte dolore al
fianco che faceva presagire qualcosa molto grave.
Si rivolse al compagno medico Dario Russo ed al compagno onorevole
Vincenzo Raucci e così Antonio venne ricoverato all’Ospedale Palasciano
di Capua, dove il dottore Dario Russo gli diagnosticò un tumore già in fase
avanzata allo stomaco.
La notizia del suo ricovero all’Ospedale di Capua venne riferita alla
dirigenza del partito a Caserta e corsero al suo capezzale Rendine e
Bellocchio, mentre Giorgio Napolitano volle essere costantemente
informato sul decorso della malattia per via telefono.
Ma non c’era nulla da fare, la malattia era giunta alla fase finale.
Il dottor Russo, dopo aver fatto la diagnosi, intubò Antonio e chiamò la
Croce Azzurra per poterlo trasferire, ancora vivente ma in coma, al paese
consigliando i famigliari di togliere il tubo che aiutava la respirazione alle
porte del paese in modo che potesse morire nella tranquillità dei suoi amati
luoghi.
Così fu fatto.
Ai funerali fu massiccia la presenza della gente umile del paese ed anche
di qualche persona che lui aveva combattuto con le armi della buona
politica e del rispetto per il riscatto dei contadini di cui faceva parte e che
voleva affrancare dal sopruso e dall’abbrutimento.
Il parroco del paese, don Dionigi Baldino, pur essendo un anticomunista,
ufficiò il rito e l’accompagnò con le sue preghiere.
Ora quest’uomo, un eroe per la nostra storia, dorme in pace nel cimitero
del paese insieme con tanti altri personaggi che hanno vissuto con lui una
pagina bella di storia, per il riscatto dei contadini dalla prepotenza dei ricchi
padroni e dalla cecità dei governanti nazionali e locali di allora.
Giovanni Canzano era il Segretario della Sezione del Partito Comunista
del paese, e al tempo a cui ci riferiamo aveva circa 30 anni, fu il
personaggio che convogliò tutta la sua azione politica nella realizzazione
delle occupazioni delle terre incolte da parte dei contadini del paese.
Non fu solo, gli furono sempre vicini Antonio Del Duca e l’immancabile
aiuto e sostegno politico a livello provinciale del partito del compagno
Corrado Graziadei di Sparanise.
Se qualche estraneo del paese lo avesse incontrato per strada o nel suo
negozio di sarto, vista la sua conformazione fisica, non avrebbe pensato che
dentro quella persona ci fosse uno spirito tanto battagliero, caratteristica che
manifestava nei momenti cruciali e difficili della sua vita di dirigente del
partito del paese.
Era un convinto comunista e voleva che si realizzasse anche nel piccolo
paese dove viveva quella giustizia sociale di cui tanto si parlava ma che
poco o nulla veniva applicata.
La sua presenza, sino al suo trasferimento per motivi di lavoro al Nord
Italia, a Calolziocorte, in provincia di Lecco, avvenuto nei primi anni
Sessanta, fu di stimolo a mai abbassare la guardia contro le ingiustizie che
in quel periodo si attuavano senza scrupoli.
Pur essendo un sarto raffinato e frequentato da persone che
appartenevano ad un certo censo, sposò con razionalità ed entusiasmo le
lotte che i contadini, da lui guidati, intrapresero e realizzarono nel paese e
nella zona del carinolese.
Era un ottimo e convincente oratore.
Tutte le persone del paese con una certa età e di qualsiasi appartenenza
politica ancora oggi ricordano gli affascinanti discorsi che Giovanni teneva
dal balcone del bar di Tanos e, quando ciò non gli veniva concesso, usciva
fuori dalla sua bottega, che si affacciava sulla strada che fronteggia Piazza
Limata, con il suo banchetto e lo posizionava vicino alla Cappella della
Pietà e da quel posto, anche se poco adatto per diffondere le sue idee,
riusciva ugualmente a farsi ascoltare da molte persone.
Tutti seguivano con reale interesse la voce critica e appassionata di
Giovanni Canzano: quelli che ne condividevano le idee libertarie, e coloro
che le osteggiavano, perché ognuno aveva rispetto per questo personaggio
fiero e coraggioso, leale e altruista. Eppure era il periodo buio dei Comitati
Civici, che presentavano gli appartenenti al Partito Comunista Italiano
come i senza Dio e scomunicati, che sarebbero andati direttamente
all’inferno. Malgrado ciò, tutti aspettavano sui problemi che allora si
dibattevano sia a livello locale che a livello nazionale di ascoltare
l’opinione di Giovanni Canzano.
Il suo discorso era diretto e senza fronzoli, mai offensivo e sempre nel
rispetto delle persone, anche nei confronti di quelle che apertamente non
condividevano il suo credo politico. Autentica la sua capacità di intrecciare
le grandi questioni nazionali a quelle locali con esempi convincenti.
Durante gli incontri avuti con i testimoni ancora in vita, è stato riferito
che se in quel momento Giovanni Canzano avesse chiesto ai presenti di fare
ciò che aveva sviluppato e proposto nel suo discorso, i contadini e le
persone, anche della borghesia locale, lo avrebbero, almeno al momento,
seguito, tanta era la sua forza di convinzione.
Ma, come quasi sempre avviene, i contadini e le persone presenti in
piazza ad ascoltare Giovanni Canzano, abbandonando la piazza e ritornando
nelle loro case, presto perdevano l’entusiasmo così ampiamente
manifestato.
Il suo ragionare affascinava e ciò incuteva in tutti gli abitanti del paese e
dei dirigenti politici della provincia un rispetto per la persona che si
tramutava anche in manifestazioni di simpatia.
Il suo acerrimo nemico, tale più per dovere che per convinzione, era il
Comandante della Stazione dei Carabinieri, il Maresciallo Tauro, che ha
sempre sottolineato la correttezza del comportamento di Giovanni Canzano,
sia durante i comizi tenuti nei vari luoghi del paese, sia durante le epiche
giornate delle occupazioni delle terre incolte e confidava, sconsolato, spesso
a qualche amico e confidente: «il mio più grande desiderio è quello di
mettere le manette a Giovanni Canzano, ma non trovo un appiglio per
farlo.»
Fu così, perché Giovanni Canzano era un comunista che rispettava le
leggi e si muoveva, aiutato dai consigli di Antonio Del Duca e degli altri
compagni, all’interno delle stesse senza violarle.
Fu il primo segretario politico della sezione del Partito Comunista
Italiano del paese e lui scelse di aprire la sezione in Via Falerno 11, perché
zona strategica e di passaggio.
Curò in modo particolare l’organizzazione del partito che tentava di
radicarsi in un paese quasi tutto monarchico e di tendenza destroide, dove
forte era la presenza del Partito della Fiamma Tricolore, come ricordato in
altre parti di questa narrazione.
Riuscì ad avere nel periodo delle occupazioni delle terre incolte circa 300
iscritti al Partito Comunista, aiutato in questo lavoro lungo e faticoso da
persone che avevano, come lui, sposato i principi del comunismo, ma
soprattutto avevano il desiderio di combattere con le armi della democrazia
e del confronto i soprusi dei padroni di allora che attuavano nei confronti di
una massa di persone che ancora credeva che solamente con la
sottomissione alle loro angherie potessero sbarcare il lunario quotidiano
fatto di stenti, di privazioni e di fame.
Ebbe come compagni di lotta democratica tutta la famiglia Del Duca, con
Antonio Del Duca suo confidente e braccio destro nella gestione del partito,
e persone come Enrichetto Stodo, Fiore D’Agostino, Antonio Balasco,
Antonio Di Pasquale, Giuseppe Miccoli, Salvatore Di Pasquale, Luigi
Cielsereno, Emilio Ferdinandi, Pasquale Migliozzi ed altri che, con
dedizione ed entusiasmo, sostennero la sua azione politica sempre più
pressante nei confronti di coloro, politici o non, che, profittando di comode
posizioni di potere, acquisite in modo inspiegabile, tentavano di portare il
paese nel vicolo cieco dell’impotenza e dell’oscurantismo.
Per questo motivo Giovanni puntò molto sulla comunicazione e su una
sezione aperta a tutti, dove chiunque poteva trovare la persona che potesse
accogliere le richieste di ogni genere dei bisognosi e sperare in una
soluzione ai problemi che si presentavano.
Quando si trasferì nel Nord Italia, lasciò la sezione del partito nelle mani
di Antonio Del Duca con 80 iscritti, un miracolo in un periodo di
transizione e di stasi politica, e senza debiti da pagare.
Da povero aveva iniziato la sua attività politica e da povero partì per il
Nord Italia, emigrante in cerca di lavoro.
La sua azione organizzativa e di guida all’occupazione delle terre incolte
l’affronteremo in un capitolo a parte.
È un obbligo a questo punto della narrazione della storia di Giovanni
Canzano accennare il suo attaccamento ed il suo amore nei confronti della
sua famiglia.
Non era nato nel paese, proveniva da Teano, ed aveva sposato
Giovannina Buonamano, una giovane che proveniva da una famiglia di
artigiani di modesta condizione, ma serena ed espansiva.
Dal matrimonio nacquero tre figli, Amalia, Domenico, detto Mimì, e
Adele, che ancora oggi ricordano i loro genitori con profondo affetto e con
filiale nostalgia, per non aver vissuto tutto il tempo dovuto con loro.
Ricordano la bontà e l’affetto dei loro genitori, che si manifestava
soprattutto nei momenti dell’intimità della famiglia, con la cura attenta di
non lasciare nulla di intentato per far felice loro che erano dei bambini
poveri che non dovevano avere difficoltà nei confronti di quelli ricchi delle
famiglie dei maggiorenti.
Era un comunista, non ateo, ma neanche si poteva definire cattolico,
lasciò che i suoi figli frequentassero la parrocchia del paese e consentì loro
di partecipare a tutte le attività come il catechismo e prendere,
successivamente, i sacramenti della Comunione e della Cresima.
Giovanni fu un esempio di comunista che non solo non mangiava i
bambini, ma che addirittura vedeva in essi il futuro del paese e la speranza
che, se fossero stati bene educati al vivere insieme ed al rispetto
vicendevole, sicuramente avrebbero migliorato il clima sociale del paese e
condotto una vita più umana.
Importante era per lui che tutti i bambini ed i ragazzi avessero una cultura
e frequentassero le scuole, perché pensava che il cambiamento della società
borghese del paese potesse avvenire solamente se si conosceva la storia che
aveva prodotto certi fatti ed avvenimenti e da questi trarre il desiderio di
cambiamento.
Questo amore per la cultura, oltre al suo corretto e piacevole modo di
interloquire con la gente, lo dimostrava anche nel suo mestiere di sarto.
Ancora oggi si può vedere il gusto per il disegno, il tratteggio delle
cuciture, l’eleganza del taglio e la perfezione delle rifiniture in qualche
vestito che confezionò e soprattutto in quello cucito per Beniamino Verrillo
per il giorno delle sue nozze.
I vestiti di classe per i paesani erano fatti da lui; anche i fascisti, nemici
politici dichiarati, venivano da lui per farsi confezionare i loro vestiti.
Anche la signora Giovannina, pure lei sarta, adoperava lo stesso criterio
di raffinatezza di Giovanni e riusciva ad anticipare la moda corrente per le
giovani del paese con le bellissime “scamiciate”, le gonne “a campana” ed i
primi tailleur.
I figli ricordano ancora oggi di aver vissuto in una famiglia felice, perché
avevano genitori che li hanno seguiti ed aiutati in tutti i momenti, belli o
brutti, della loro vita.
Dopo alcuni anni trascorsi a Calolziocorte, in provincia di Lecco,
Giovanni Canzano fu costretto a ritornare al suo paese in quanto fu colto da
un infarto e gli fu consigliato che il luogo dove risiedeva non era adatto al
suo nuovo stato di ammalato.
Nel dicembre del 1966 ritornò con tutta la famiglia.
Non era più come prima il paese, perché nel 1964 aveva ottenuto la sua
autonomia amministrativa ed il partito aveva subito dei mutamenti profondi
passando nelle mani dei giovani di allora.
Si avventurò in altre esperienze e fu anche eletto nel Consiglio Comunale
del paese, ma i tempi erano cambiati ed i compagni di strada del 1949,
delusi della nuova gestione del Partito Comunista Italiano in loco, pur
restando di sinistra e votando comunista, persero il loro entusiasmo,
presaghi, come poi avvenne, che chi lo gestiva con nuove idee e meno
ideali lo avrebbe portato all’annientamento.
Giovanni Canzano era reputato, e in affetti lo era, un rivoluzionario per il
bene della sua gente, ma mai un sovversivo.
Il 26 giugno del 1990 Giovanni terminò la sua parabola terrena.
Il paese rimase attonito e smarrito perché aveva perso una voce forte e
critica nei confronti di ogni ingiustizia e soperchieria, operando sempre da
paladino della difesa dei diritti dei più deboli e bisognosi, nel nome di un
comunismo ideale che poteva vivere solamente con lui e uomini come lui.
Infatti oggi non esiste più.
Il popolo partecipò numeroso ai suoi funerali ed il parroco, don Dionigi
Baldino, pur essendo un anticomunista, ufficiò i riti sacri e gli diede la sua
benedizione.
Giovanni Canzano fu per la storia di Falciano il promotore e maggiore
eroe dell’affrancamento dalle angherie subite dai poveri. Ora riposa nel
cimitero del paese, accanto agli altri coraggiosi attori dell’occupazione delle
terre incolte.
A questo punto incontriamo una donna che ha suscitato in chi scrive
molta curiosità ed interesse, perché protagonista di una storia eccezionale.
  Riteniamo che meriti ammirazione perché dimostrò coraggio e
convinzione nel momento in cui il popolo dell’occupazione delle terre
incolte ebbe bisogno di qualcuno che portasse ben spiegata ed al vento della
speranza la famosa bandiera rossa della sezione del Partito Comunista.
Questa donna, orgogliosa e battagliera, non se lo fece ripetere due volte
da Giovanni Canzano, prese con entusiasmo e senza timore la bandiera e si
mise in testa al corteo guidandolo sino al luogo dove, a difesa delle
proprietà da occupare, erano schierate le Forze dell’Ordine, comandate dal
Maresciallo Tauro, che rimase talmente spiazzato nel vedere questa donna
portare la bandiera simbolo dell’occupazione delle terre al posto
dell’organizzatore Giovanni Canzano che, per un tale atto, l’avrebbe
volentieri arrestato!
Questi sono i fatti che, narrati da Giovanni Canzano, hanno spinto chi
scrive queste note a ricerche difficili e prove certe per assicurare validità
storica e autenticità alla narrazione.
Riguardo all’intervista fatta a Giovanni Canzano, poco prima della sua
morte, resta ora, purtroppo, solo la parte scritta e non quella registrata sul
nastro.
Giovanni rispose alle varie domande con calma e senza alcun
tentennamento, ricordando bene che la bandiera rossa venne affidata a
quella donna perché lui non poteva portarla in testa al corteo perché era
stato avvisato dal Maresciallo Tauro che, se quella mattina si fosse fatto
sorprendere a guidare il corteo degli occupanti, ne avrebbe, a termini di
legge, ordinato l’arresto.
Giovanni Canzano, con le modalità che vedremo in seguito, fu presente
all’occupazione delle terre incolte, ma non fu arrestato perché la bandiera
rossa, simbolo dell’occupazione, la portava Argentina Pisaturo, da tutti del
paese conosciuta con il nome di Giovannina e non fu arrestata perché gli
zelanti tutori dell’ordine ritennero che prendersela con una donna li avrebbe
posti in cattiva luce presso i cittadini del luogo. Così si limitarono a fermare
alcuni degli occupanti, che furono solo identificati e diffidati.
Perché Giovanni Canzano scelse proprio questa donna a cui affidare un
simbolo quasi sacro per gli occupanti delle terre incolte?
Questa donna era rimasta vedova in giovane età e con figli da far
campare e per loro praticò i mestieri più umili a servizio di qualche ricco
del paese, sino ad essere ritenuta una delle loro amanti.
Alla nostra storia non interessa la vita privata di Giovannina Pisaturo,
interessa, invece, far conoscere attraverso il racconto la personalità e la
grandezza e profondità di animo che aveva nel risolvere le difficoltà proprie
e delle persone che si affidavano a lei.
Faceva di tutto: era l’infermiera del paese a cui tutti si rivolgevano,
panificava per chi non poteva, aiutava a nascere i bambini in assenza di
un’ostetrica comunale, faceva il bucato alle persone ammalate e bisognevoli
senza ricavarne una lira di guadagno. Per assicurare il pane quotidiano ai
suoi figli, prestava servizio presso qualche ricco signore del paese.
Era altruista per natura e godeva nell’aiutare la gente assillata da
problemi e bisogni, per lei significava dare un lume di speranza, una
consolazione, una piccola luce dove imperavano miseria e sopraffazione.
Si metteva persino contro i suoi ricchi padroni quando bisognava
difendere i diritti dei poveri e della sua famiglia e spesso riusciva a
convinceva questi signori a rispettarli e mantenere le promesse fatte.
Questo suo modo di agire era noto nel paese e tutti la stimavano in modo
sincero e profondo.
Amica della moglie di Giovanni Canzano, Giovannina, ne frequentava
con assiduità la casa e le confidenze erano frequenti tra di loro e stimava e
condivideva l’azione politica di Giovanni nei confronti di chi umiliava
quotidianamente i poveri contadini del paese.
Anche lei era rimasta incantata dal parlare di Giovanni Canzano che le
spiegava la necessità di un riscatto dei miseri contadini del paese, attraverso
un atto molto forte, come quello di occupare con la forza le terre incolte.
Giovannina Pisaturo si convinse che anche lei doveva fare qualcosa per
sostenere e realizzare questa epica iniziativa e per questo motivo accettò
con entusiasmo e aria di sfida la richiesta di Giovanni di sostituirsi a lui e
portare la bandiera rossa della conquista.
Mi piace immaginarla con la sua faccia fiera e piena di orgoglio portare
la bandiera e incitare i contadini che la seguivano a prendere coraggio per
allontanare da loro lo spettro della paura e del ripensamento.
Come Marianne guidò ed incitò la folla di Parigi alla Rivoluzione, così,
inconsapevolmente, anche Giovannina fu icona della riscossa per un intero
paese.
Non si sa per quale motivo questo episodio è stato quasi rimosso dalla
memoria di chi aveva il dovere di ricordare per tutte le donne del paese.
Anche lei non c’è più e ora riposa nello stesso cimitero dove trovarono
posto tanti altri coraggiosi personaggi della nostra storia.
È giusto riconoscere che se il Partito Comunista ed i suoi dirigenti furono
il cuore della riscossa dei contadini e dell’occupazione delle terre incolte,
anche cattolici ed altri, organizzati in vario modo e sotto le diverse
bandiere, capirono l’importanza dell’avvenimento che stravolgeva la vita di
un paese sonnolento, sempre vissuto nel segno della rassegnazione e della
sottomissione.
Giovanni Verrengia, un falegname che aveva la sua bottega nel centro del
paese, cattolico e responsabile delle ACLI, non potendo apertamente
sostenere l’azione delle occupazioni delle terre, cercò di convincere
Giovanni Canzano che anche loro sostenevano con convinzione la
rivoluzionaria azione, ma erano costretti a non schierarsi apertamente,
sebbene fosse insieme ai suoi assistiti, che aiutava costantemente nel
disbrigo dei problemi quotidiani, assai favorevole verso le conquiste che si
volevano raggiungere e, in qualche modo, avrebbero partecipato alle lotte
dei contadini.
Giovanni Canzano, uomo di un acume politico non comune, rispose che
ciò che si stava attuando era una lotta di tutti i lavoratori della terra, che non
potevano essere divisi da alcunché, ma procedere uniti e compatti per poter
attenere i risultati sperati.
A questo punto Giovanni Verrengia convinse Michele Manica, futuro
Presidente della Cooperativa “Il Popolo”, una persona di esperienza perché
era stato a suo tempo uno dei caporali che aveva aiutato tanti contadini del
paese bisognosi di lavoro, a concertare con Giovanni Canzano la presenza
dei loro contadini, pochi per la verità, a partecipare anche loro
all’occupazione delle terre incolte.
Questo accordo rappresentò, forse, un primo esempio di compromesso tra
comunisti, la grande maggioranza, e cattolici, una piccola rappresentanza,
che su una questione vitale per la gente contadina non guardarono
l’appartenenza politica delle persone.
Così anche i cattolici furono guidati dalla bandiera rossa che portava
Giovannina Pisaturo.
Su questo Giovanni Canzano non trattò.
 
 

La lotta per la terra


 
 
 
 
 
Andare oggi nei luoghi dell’occupazione delle terre incolte e quelle di
proprietà dei grandi latifondisti del carinolese è compiere un pellegrinaggio
della memoria in luoghi che sono stati protagonisti di una storia di nobili
ideali e coraggio, che significò per gli uomini di quel periodo una libertà e
un riscatto inimmaginabili dopo secoli di sottomissione ai grandi proprietari
e di abbrutimento delle loro anime.
Quelle terre mantengono i loro nomi originari, che i contadini non
vollero mutare in omaggio ai loro antenati che le avevano coltivate,
contribuendo sì all’arricchimento dei padroni, ma ricavandone anche un
pezzo di pane per i loro figli. Quei nomi facevano parte della storia
personale e collettiva di ognuno.
A volte, nel giro di poche ore, dopo secoli di immobilismo e
appartenenza continuativa, quelle terre cambiarono padrone.
Sovente grandi estensioni di terreno e i titoli ad esse legati furono donati
a donne di mondo di quel periodo, per compensarle dei favori prestati in
alcove signorili e principesche durante notti trascorse in follie e vizi.
Le tante storie legate a queste terre ed ai loro signori potrebbero essere
oggetto di una ricerca particolare di costume e di vita di fine Ottocento
inizio Novecento, ma per l’economia del nostro racconto rimandiamo ad
altro tempo l’esame di questa realtà variegata e complessa, che portò
all’estinzione di un pezzo di un mondo che ormai vive solo in scadenti
romanzi d’appendice.
Ora queste terre conservano scarse attrattive per chi le visita.
Dove fiorivano coltivazioni di grande varietà di alberi da frutto, dove
venivano coltivati grano, fagioli, ortaggi e mille altri varietà di vegetali,
creando scorci di colori vivi e diversi, esistono quasi unicamente pascoli per
la produzione del foraggio destinato all’allevamento delle bufale.
Quindi molte sono le aziende casearie presenti e proprio questa presenza
intensa riduce i guadagni dei singoli impegnati nel settore ormai a rischio,
proprio per tale saturazione, di non ricavare più il necessario per vivere.
Ovvio che il rimedio sarebbe quello di tornare a una diversificazione di
prodotti, cosa molto fattibile vista la feracità dei terreni.
L’importante produzione del latte di bufala, il cosiddetto “oro bianco”,
avrebbe certamente rappresentato grandi opportunità per il territorio e le
giovani generazioni, con un indotto di rilievo per l’intero cosmo contadino.
Poteva, ma ciò si è realizzato solo in minima parte per la rapacità di tanti
elementi malavitosi che, approfittando dei bassi costi dei terreni e, spesso,
con minacce neanche tante larvate, ne sono diventati i reali proprietari,
permettendone lo sfruttamento per pratiche criminali, basta vedere cosa è
avvenuto con la faccenda della “terra dei fuochi”, dalle quali trarre un
lucroso introito a scapito di chi lavora duramente per vivere e, oggi, ha
difficoltà a vendere i magnifici prodotti dei loro campi.
Come accadde nel 1949, così anche negli anni a noi vicini le popolazioni
si sono ribellate, sempre per affermare il rispetto della libertà e della
giustizia, ed hanno evitato la trasformazione di intere zone di queste terre in
discariche a cielo aperto.
Per chi va da San Andrea del Pizzone a Cappella Reale incontra sulla sua
sinistra la statua di una madonnina fatta venire dalla Turchia e posta lì, nel
1998, come ricordo e monito, dopo mesi di manifestazioni, di presidio della
zona e di notti insonni trascorse nel timore e nella paura di un attacco
mafioso camorristico per trasformare l’intera zona dei Carabottoli in una
maxi discarica.
Questa disonesta manovra, progettata con l’appoggio di gran parte dei
politici locali, abortì per la ferrea contestazione di masse di cittadini che
videro nell’impianto la fine dei loro campi, guadagni e salute. La
determinazione dei cittadini fu talmente dura che i biechi ideatori del
progetto dovettero rinunciarvi. Così questo territorio, per il momento, è
stato salvato.
Ancora una volta i diseredati, i contadini, i poveri, non permisero, come
avvenne nel 1949, che le loro terre fossero distrutte per interessi
personalistici di pochi delinquenti.
Anche queste persone, che lottarono per non far avvelenare tante terre,
devono essere considerate come figure di assoluto coraggio e lungimiranza,
e identificarli come “popolo dei Carabottoli”, al pari degli uomini e delle
donne che occuparono quelle terre per farle rivivere.
Non sembra priva di realtà, anche a distanza di anni, la convinzione che
questa dura lotta contro la discarica fu possibile perché nelle vene dei
contestatori scorreva ancora qualche goccia del sangue dei loro padri, che a
sprezzo di immani pericoli, e sfidando il potere costituito, seppero battersi
fino alla vittoria, che gli consentì l’occupazione di tante terre che erano
possedute da pochi “signori”.
Il ricordo di questi fatti suscita, in chi ha ancora voglia di amare e non
abbandonare questi luoghi, un grato senso di rispetto per quelle generazioni
che ne hanno difeso l’integrità e la bellezza.
Per questi motivi ogni zolla di queste terre deve essere per tutti memoria
delle nostre origini, ricordandoci, anche nei giorni assolati d’estate, quando
questa terra si apre in fessure profonde nell’attesa della pioggia che le
donerà nuova vita, che il sudore dei nostri padri ed i loro sacrifici l’hanno
resa sacra per noi e per i nostri figli.
I fatti che ricorderemo hanno una datazione certa e non sono soggetti a
nessuna variante di interpretazione, in quanto fanno già parte della storia
dell’intero popolo italiano, ma sono anche fatti particolari che appartengono
a dei contadini di una paese e di un territorio, quello del carinolese, che
nella vicenda dell’occupazione delle terre incolte hanno mostrato coerenza
e determinazione nel loro intento, tanto da superare le difficoltà, le fatiche, i
pericoli e tutti gli ostacoli che quei contadini trovarono sulla loro strada,
allora viottoli polverosi ed accidentati.
Anche solo per raggiungere i terreni che, pur appartenendo al Comune di
Carinola, erano lontanissimi, bisognava fare un atto di fede in se stessi
perché non era facile raggiungere tali luoghi, costellati di zone paludose ed
impervie, tanto da meritarsi una denominazione assai esplicativa:
“Pantano”.
Oggi, anche se le stradine interpoderali che portano alle terre e ai vari
parchi sono agibili e polverose, sicuramente non lo erano, per il fango e vari
altri pericoli, specialmente durante il periodo delle piogge.
Non era stata ancora effettuata la deviazione del fiume Savone e la
canalizzazione di tutte le acque che coprivano la maggior parte delle terre e
gli acquitrini erano la caratteristica paesaggistica dominante, insieme alla
presenza di bufale, animali prevalenti in tutta la zona.
Testimoni oculari che hanno lavorato alla deviazione del Savone nel letto
attuale ricordano che, dopo aver raccolto la sabbia dal letto prosciugato del
fiume, che con il suo corso dalla montagna scendeva a Ciamprisco
attraversando varie e tortuose colline a monte, lasciarono delle vaste pozze
di acqua per dissetare gli animali che ivi pascolavano.
Queste pozze di acqua lasciate lì senza controllo e manutenzione si
allargarono nel tempo, sino a trasformare parte di quelle terre in acquitrini,
che genericamente vennero denominate Pantano.
Bisogna, però, anche rilevare che queste ampie pozze di acqua, per la
loro durata nel tempo, erano necessarie nel periodo di calura estiva perché,
in mancanza di pioggia, essendo il terreno di natura argillosa, riusciva a
trattenere l’acqua indispensabile per la sopravvivenza del bestiame.
La natura consentiva il facile utilizzo di questi terreni per la destinazione
a pascolo, ma quando gli stessi vennero assegnati agli occupanti ed agli
assegnatari, ci fu bisogno di enormi fatiche per dissodarli e adibirli a
cultura.
Ma, alla fine, la tenacia degli occupanti riuscì a domare la natura ostile e
anche questa battaglia venne vinta.
I prodotti che se ne ricavarono, di prima qualità e abbondanti,
ricompensarono i grandi sacrifici sostenuti da tanti infaticabili lavoratori.
I Carabottoli, adesso territorio appartenente al Comune di Carinola, era
quello più lontano e più difficile da raggiungere dal paese, allora come oggi.
Le difficoltà che si incontrano ora durante il lungo e faticoso cammino
sono risibili a confronto di quelle che incontravano i contadini di quel
tempo, perché le strade di accesso ai tratturi, oggi strade interpoderali,
avevano un percorso tortuoso e difficoltoso, in quanto i viottoli dovevano
toccare vari terreni e quindi seguire una linea di concomitanza con i tanti
fossati pieni di acqua che servivano allora come raccolta dell’acqua piovana
e dell’acqua di drenaggio dei campi, abbondante poiché il terreno era ed è
argilloso e trattiene poco la pioggia.
Le strade di accesso erano dissestate e polverose e, durante il periodo
invernale, fangose e piene di pozzanghere, mentre i tratturi di accesso erano
segnati da canne ed arbusti ai lati che coprivano, a volte impedivano, la
visione di ciò che si poteva incontrare qualche metro oltre una curva.
In certi tratti si doveva camminare in fila indiana per non cadere nei fossi
di scolo che chiudevano i tratturi.
Dopo circa un paio di ore di cammino si arrivava ad un punto del
percorso conosciuto da tutti con il nome di Limata, dove vi era una chiesa
in onore di Sant’Anna, oggi un rudere abbandonato per incuria anche dai
pochi abitanti che sono rimasti in quel luogo, ma in tempi più favorevoli
questa chiesa era una parrocchia sotto il nome di Sant’Andrea Apostolo, e
Limata era un borgo popolato, tanto che ogni anno il vescovo di Carinola,
quando questa cittadina era diocesi, trascorreva una settimana di ferie nel
mese di agosto in tale luogo, ritenuto abbastanza salubre.
Ancora oggi su certe cartine geografiche viene segnalato questo luogo,
anche se ormai la presenza abitativa è legata solo ad alcune fattorie sparse
nei dintorni, ma come luogo di aggregazione e di vita è ridotto ai minimi
termini.
Eppure, nel periodo della nostra storia, giungere a Limata significava
aver fatto più della metà della strada per imboccare un altro tratturo, oggi
inspiegabilmente chiuso, che portava sulla strada stradale che da
Sant’Andrea del Pizzone va verso la rotonda di Cappella Reale.
Si oltrepassava la strada provinciale e ci si immetteva sul tratturo che
portava, dopo circa una mezzora, ai Carabottoli.
Abbiamo rifatto lo stesso tragitto in auto ed abbiamo avuto difficoltà
enormi, con la paura di danneggiare la macchina, ma siamo rimasti appagati
di aver percorso, anche se con mezzi moderni e certo più comodi, la lunga
strada che percorsero i contadini per andare ad occupare quelle terre.
Con un mezzo moderno, come l’auto, abbiamo impiegato circa due ore
ad andare e altrettante al ritorno, un tempo rilevante ma certamente molto
meno di quello impiegato dai poveri contadini che andarono ad occupare i
Carabottoli. Ciò per capire, almeno sommariamente, gli immani sacrifici
compiuti da quelle infaticabili persone
Anche se esula molto dalla nostra storia, vogliamo citare che questi
luoghi furono scelti come set di un film, da parte del regista napoletano
Luigi Capuano, nel 1947 per ambientarvi una storia alquanto
strappalacrime, un drammone popolare in auge in quel periodo, ed anche il
titolo, “Legge di Sangue”, sintetizza il genere, che ben si addice all’asperità
del luogo ed alla rudezza dei personaggi che si muovono in questo film.
Una storia dove impera la legge del branco, quella narrata da Capuano:
un rude maschio che, seguendo il suo istinto, lotta aspramente per
assicurarsi la supremazia sul rivale che, sconfitto, deve allontanarsi, mentre
la bellissima Rosa, fidanzata di Antonio, cavallante, lontano dalla fattoria
per servizio militare, viene sedotta da Alberto, figlio del fattore.
Ritornato alla fattoria, Antonio sfida Alberto in un duello rusticano
all’ultimo sangue, che si conclude con il solo ferimento di Alberto.
Il drammone termina con un finale piuttosto anomalo: Rosa sceglie il
vinto Alberto ed Antonio fugge dalla fattoria.
Il racconto è accompagnato da immagini dei luoghi che evidenziano tutta
l’asprezza di una terra desolata e drammatica che rende duro il linguaggio e
i sentimenti dei personaggi, un linguaggio adatto a una pellicola piuttosto
drammatica, ma prevedibile.
Dopo questo primo film, il regista ne girò un altro, a un chilometro di
distanza, nei dintorni del Lago di Carinola, nel 1951. Era il suo settimo
lavoro, con il titolo “Gli innocenti pagano”, ma ciò non interessa per
l’economia di questa narrazione.
L’estensione del terreno dei Carabottoli, come bene demaniale del
Comune di Carinola, è di ha 34.40,03, pari a circa 102 moggia di terreno
della misura locale, divisa in quattro parchi, di cui tre che vanno dalla
provinciale sino al fiume Agnena, ed il quarto che si estende dopo lo stesso
fiume.
Questa terra argillosa, cretosa e piena di ciottoli, si trasformava nella
stagione invernale in una palude, e durante l’estate vi si aprivano crepe in
cui poteva entrare il braccio di una persona; per i contadini, che prima
l’occuparono e poi ne divennero gli affittuari, fu un terreno maledetto, ma
comunque lo coltivarono, producendo grano e piccole fave adatte
all’alimentazione degli animali.
Occorreva un duro lavoro in quei luoghi per avere una scarsa rendita,
tanto che furono indicati così: “è una terra in cui si fanno fatiche da morte”.
Le minute fave ottenute in quei terreni erano molto richieste come
mangime per gli animali e si sviluppò per un certo periodo un discreto
commercio.
I contadini, pur di vendere questo prodotto, si affidavano ad un
intermediario del paese, un certo Pietro Verrengia, chiamato volgarmente “u
turzu”, che requisiva l’intera produzione pagandola a prezzo da fame e poi
lo rivendeva ai compratori di altre zone ricavandone dieci volte il prezzo
pagato ai contadini.
Costeggiando lo scalo ferroviario di Falciano, Mondragone, Carinola, si
entra in una vasta estensione di terreno denominata Parco di Tozza, che sarà
soggetto dell’applicazione della Riforma Agraria del 1951.
Anche questa zona fu occupata da parte dei contadini, pur essendo
proprietà privata, perché considerato latifondo improduttivo in quanto
destinato al pascolo delle bufale.
Il terreno ha caratteristiche similari ai Carabottoli, ma è leggermente più
alto e con pochi fossati ed acquitrini, rilevabili soprattutto appena dopo il
ponte ferroviario che attraversa il parco nella parte sud est.
Questa zona particolare del parco andava sotto il nome dei “lavaroni”.
Dalle testimonianze di chi ha lavorato queste terre, si ricava che quella
del parco era terra fertile e migliore di molte altre, ma anche questi campi
avevano bisogno di enorme lavoro e tanta attenzione perché il sudore che
richiedevano non fosse opera vana.
L’estensione di questo terreno è di circa 104 moggia ed è lontano dal
paese circa sei chilometri, si raggiunge con una buona ora di cammino
all’andare perché tutta discesa e di circa un’ora e mezza per rientrare al
paese a causa della pendenza avversa.
La terza zona interessata, pur essendo proprietà dell’Ente Cappabianca,
era gestita da un latifondista, è quella che sotto il nome di Torre Vecchia
prende tutta la parte nord del terreno che rasenta la strada provinciale per
Mondragone e che ha come punto di individuazione ed epicentro la rotonda
di Cappella Reale.
Torre Vecchia è un terreno molto più friabile e facile da lavorare, e quindi
ebbe una buona rivalutazione quando venne messo a cultura dai contadini
che lo occuparono. Oggi è destinato al pascolo, soprattutto sfruttato dalle
aziende casearie nella trasformazione del latte di bufala.
Per andare a piedi a Torre Vecchia si impiega lo stesso tempo che occorre
per recarsi al Parco di Tozza.
L’intera estensione, di circa 84 ettari, è ben visibile ed individuabile
proprio posizionandosi vicino ad un rudere della cappella che i re borbonici,
cattolicissimi, avevano fatto costruire per assolvere l’obbligo dell’ascolto
della Santa Messa nelle domeniche, quando si trovavano con il loro seguito
a caccia nella zona.
Questa cappella, che fu in seguito insignita del titolo di Cappella Reale,
era curata in modo particolare al tempo dei re borbonici; oggi, invece, è un
rudere, ricettacolo di varia umanità in dispregio di ciò che ha significato per
la storia e la spiritualità di questi luoghi.
Essa ha avuto attenzioni e cura finché è vissuto Andrea Verrillo, “Zi
Ndriuccio”, padre dell’avvocato Antimo “Ninuccio” Verrillo. Dopo la sua
morte è andata man mano in rovina, e quasi più nulla resta dei fasti di un
tempo.
È lecito porsi una domanda a questo punto del racconto: a chi poteva
interessare l’occupazione di queste terre incolte ed abbandonate e, per
giunta, distanti dal paese e dai paesi viciniori? Seguendo un filo logico e
guardando ciò che accadeva in tutta Italia, in quel periodo si può avere una
comprensione dei fatti.
Una prima risposta è che l’occupazione delle terre incolte demaniali e
delle terre incolte dei latifondisti rappresentò una manifestazione palese di
forza da parte delle forze politiche di sinistra, e cioè del Partito Comunista e
della Federterra, per affermare un diritto sancito dalla Legge Gullo e
successivamente dalla Legge di Riforma Agraria, leggi che trovarono una
forte resistenza nei politici locali, interessati a che il demanio pubblico
rimanesse abbandonato ed incolto alla loro mercé e quella dei grandi
proprietari terrieri, che attraverso i loro scherani, i famigerati “fattori”
luogotenenti, a volte spietati e vendicativi, ostacolarono fortemente
l’attuazione di leggi dello Stato.
Questo rappresentò, ed il Partito Comunista di allora ne aveva bisogno,
un momento di conflitto politico che trovava forza ed ispirazione dal
desiderio, non solo ideale e sentimentale, di rompere in modo definitivo
un’egemonia dei poteri forti che non avevano ancora capito e digerito che
c’era stato un conflitto mondiale, la Resistenza, la Liberazione e la
legittimazione di forze politiche in antitesi con il loro modo di vivere e di
pensare.
I comunisti e tutte le forze di sinistra si assunsero il compito rigenerativo
di guidare, dove e quando non poteva essere pacificamente attuata la
distribuzione delle terre incolte e l’applicazione della Legge di Riforma
Agraria, l’occupazione con la forza.
Nei luoghi della nostra storia chi organizzò con convinzione e ne attuò
l’occupazione fu il Partito Comunista del paese che, attraverso i suoi
dirigenti, creò una rete di interconnessione di interessi tra i contadini, anche
se alcuni di essi non erano iscritti e simpatizzanti, ma che ugualmente
aderirono e sostennero le iniziative che furono messe in campo, anche a
rischio della propria incolumità.
Questo fu fondamentale per la riuscita dell’occupazione delle terre
incolte: un grande partito dei lavoratori che sosteneva con convinzione
contadini di qualsiasi appartenenza politica, coscienti che era giunto il
momento della storia in cui sarebbero stati protagonisti.
E i protagonisti furono i giovani, figli della guerra e della fame, che
desideravano avere qualche cosa di proprio per poter sopravvivere e
formarsi una famiglia.
Essi furono affascinati dalla novità e dalla bontà dell’azione da fare, ed
allora con entusiasmo e spavalderia sposarono l’idea, per riscattarsi, senza
stare troppo a cavillare sulle conseguenze negative che potevano derivare
dal loro operato.
La generosità del loro contributo, appassionato e coraggioso, fu
determinante per la riuscita dell’impresa.
Quei giovani avevano dai diciotto ai ventiquattro anni e, con spirito
diverso dai loro padri, andarono ad affrontare con entusiasmo l’occupazione
perché corrispondeva al desiderio di avere qualche moggio sul quale
seminare non solo ciò che ne avrebbe garantito la sopravvivenza ma,
soprattutto, la speranza di un domani migliore.
Fu, insomma, una risposta improrogabile di riscatto e di rinascita per una
nuova vita da conquistare.
Essi sapevano di andare incontro a pericolose disavventure, ma lo spirito
di assicurarsi un domani degno li portava ad affrontare ogni disagio senza
tentennare.
Non si portarono armi, che pur avevano, ritenendo che fosse una
conquista da ottenere con il sudore e la fatica, non con il sangue loro e di
chi si opponeva.
Occupare quelle terre era per i giovani una necessità per sopravvivere. Si
mangiava solo se si aveva un po’ di terra che consentisse di mettere a tavola
un qualche cibo, magari un pugno di fave o fagioli e un pezzo di pane.
Queste persone credettero nel futuro per uscire da un mondo di fame e
seppero conquistarselo.
Gli ultra cinquantenni, più timorosi, non li seguirono perché, avendo
famiglia e figli, paventavano quello che poteva succedere alle loro mogli e i
propri figli se fossero stati arrestati.
Apriamo ancora una volta, con la magia della fantasia, la porta della
sezione del Partito Comunista e cerchiamo di immaginare, capire e sentire
le voci dei protagonisti che prepararono il grande giorno in cui andarono ad
occupare le terre incolte.
Il periodo di preparazione durò un paio di mesi, e non tutto fu facile: vi
erano divergenze di vedute su come operare, remore per conseguenze di un
atto che sapevano definitivo. O se ne usciva vittoriosi, oppure sarebbero
stati più angariati di prima. Vollero e riuscirono a vincere.
Le poche testimonianze che è stato possibile raccogliere, dato che la
maggior parte dei protagonisti ormai non c’è più, offrono all’attenzione di
chi le ha raccolte un racconto quasi epico di quei pochi mesi che
cambiarono la vita di un paese ancora sotto l’effetto paralizzante di un
asservimento ai poteri che allora esistevano.
Per avere una visione completa di un avvenimento popolare complesso
come fu quello dell’occupazione delle terre incolte, nel falcianese e nelle
terre confinanti, di proprietà dei latifondisti del tempo, bisogna, ancora una
volta, riaprire con l’immaginazione la porta della sezione del Partito
Comunista di Via Falerno 11 di Falciano e rivivere, attraverso le
testimonianze spontaneamente rese, i momenti di incontro, di discussioni,
di dibattito sulle direttive che venivano impartite, di studio delle strategie da
adottare per sviare l’attenzione della forza pubblica rappresentata dai
Carabinieri comandati dal Maresciallo Tauro, di divisioni dei compiti che
ognuno doveva svolgere. Avere tutti la ferma convinzione che ciò che stava
per essere messo in campo era l’attuazione, non più prorogabile, di un
sogno che si realizzava se uniti sapevano lottare contro il padrone ed i
signori del momento.
Ci furono degli incontri preparatori tra i personaggi che abbiamo già
incontrato, mantenuti segreti per evitare di far perdere all’avvenimento il
senso della sorpresa e per non allertare preventivamente i contrari e dargli
modo di organizzare una reazione che poteva portare a scontri sanguinosi.
La possibilità concreta di uno scontro violento tra i manifestanti e gli
oppositori all’occupazione delle terre incolte non era una fantasia perché,
come è stato testimoniato, in qualche fienile, in qualche pagliaio, sopra
qualche aia di masseria, si potevano trovare ben nascoste armi che non
erano state consegnate alle autorità. Eravamo alla fine dell’anno 1948 ed
inizio del successivo.
La prima preoccupazione del gruppo dirigente della sezione, aiutato
soprattutto dalla presenza di esponenti politici di una certa caratura
democratica come Graziano Graziadei di Sparanise, che aveva un filo
diretto con Giovanni Canzano, fu quella di dire in modo chiaro che
l’occupazione delle terre incolte doveva essere pacifica e democratica e si
dovevano usare i mezzi, pochi e poveri, che i contadini avevano e cioè la
loro numerosa presenza e la forte volontà di rischiare una denuncia o un
fermo da parte delle autorità di polizia senza opporre resistenza e,
soprattutto, di non portare armi, da fuoco o da taglio, ma solamente gli
strumenti del loro lavoro, perché una volta occupata la terra, subito si
doveva incominciare a rivoltarla.
Si cercò anche di discutere se creare un sicuro coordinamento tra le
sezioni dei vari paesi che componevano la mappa territoriale di
appartenenza al Comune di Carinola, per evitare contrasti deleteri in seno a
chi era più interessato e più sollecito e partecipe a tale tipo di iniziativa.
Su questo argomento i segretari e i direttivi della sezioni del partito delle
varie frazioni del Comune di Carinola mettevano a repentaglio la propria
reputazione e fiducia negli iscritti che, in caso di fallimento, li avrebbero
giudicati incapaci di organizzare l’avvenimento e inadatti a dirigere un così
importante movimento popolare.
Ci fu un po’ di resistenza nell’accettare un coordinamento tra le varie
sezioni del partito presenti sul territorio, ma alla fine prevalse un opportuno
e sano centralismo democratico, imposto dalla Direzione Provinciale per
mezzo di Graziano Graziadei e di Vincenzo Raucci, deputati e responsabili
in zona del partito, consci che era necessario unire le forze per creare più
partecipazione e, soprattutto, più interesse ed entusiasmo nei contadini, che
nell’unità del partito vedevano una garanzia certa di riuscita dell’azione
rischiosa che dovevano affrontare.
Si accettò, dopo una lunga e difficile discussione, e non senza rammarico,
con la presenza in sezione di Raucci, di creare un coordinamento con la
sezione del partito di Nocelleto con a capo Salvatore Sciorio, ed insieme
studiare e preparare i momenti e le azioni da effettuare per passare
all’occupazione delle terre incolte del demanio nella località Carabottoli.
L’accordo, benedetto dalla Direzione Provinciale del partito, lasciava
comunque un’ampia libertà decisionale alle sezioni, sul luogo, i momenti
opportuni e le iniziative particolari a seconda delle esigenze che si
presentavano.
Un altro punto che venne affrontato fu quello della partecipazione dei
dirigenti locali del partito e di quelli provinciali.
Anche questa decisione fu travagliata in quanto la maggior parte dei
presenti nella sezione del partito in Via Falerno voleva che i dirigenti non si
esponessero in prima persona, perché facilmente individuabili da parte delle
Forze dell’Ordine e che potevano facilmente, quindi, essere fermati ed
arrestati.
Però la volontà di guidare i contadini nell’occupazione delle terre incolte
e quelle dei latifondisti era tanto forte e sentita da parte di tutti che spinse i
dirigenti, sia locali che provinciali, a chiedere ai compagni presenti di
soprassedere a tale remora, perché essi avrebbero partecipato in prima fila,
pur sapendo il rischio che avrebbero corso.
Si studiò così uno stratagemma in base al quale i dirigenti del partito del
paese avrebbero partecipato all’occupazione stando nelle retrovie del corteo
che si sarebbe formato, mentre i dirigenti provinciali avrebbero
autonomamente raggiunto le terre da occupare, per aggregarsi al corteo o ai
vari gruppi che si sarebbero composti lungo il percorso.
Si raggiunse anche l’intesa che, se si fossero presentati contadini guidati
da altri rappresentanti di partiti o associazioni, sarebbero stati accolti con
entusiasmo perché uniti avrebbero dimostrato che l’azione in atto era sentita
da tutti, ed il desiderio e la speranza di avere un pezzo di terra per poter
sopravvivere era una necessità comune e non imposta solo da un partito
che, da sempre, faceva della lotta contro il latifondo di qualsiasi genere una
lotta politica.
Quest’ultima decisione portò molti esponenti di altri movimenti, non di
sinistra, a convincere i loro aderenti ad aderire senza preconcetti a questa
forte azione politica di massa che avrebbe cambiato la vita del paese.
La decisione presa portava a compimento un accordo di azione unitaria
dopo i lunghi contatti e le lunghe discussioni, certo infarcite di ideologia di
appartenenza, tra Giovanni Canzano, Antonio Del Duca, dirigenti del
Partito Comunista, e Michele Manica e Giovanni Verrengia, rappresentati
dei cattolici di Falciano.
Un punto restò fermo: tutti i partecipanti all’azione delle occupazioni
delle terre incolte dovevano, però, essere guidati da una sola bandiera,
quella rossa con falce e martello del Partito Comunista.
A onorare l’accordo raggiunto con gli esponenti del movimento cattolico,
le trattative svoltesi, durante e dopo il periodo delle occupazioni, intorno ai
tavoli della Prefettura e di altri luoghi preposti, sull’effettiva attribuzione
delle terre incolte e del latifondo esistente ai contadini richiedenti, non
incontrarono difficoltà. Infatti non fu di ostacolo l’appartenenza politica,
perché Giovanni Canzano soleva ripetere che i contadini erano tutti
proletari, ed il proletariato è unico e non ammette distinzioni di
appartenenza.
Un altro problema, e non fu l’ultimo, da affrontare fu quello di studiare
una strategia da attuare per fare in modo che gli occupanti potessero
raggiungere le terre da occupare senza essere fermati dalle Forze
dell’Ordine e soprattutto dai Carabinieri guidati dal Maresciallo Tauro.
Tutti gli intervistati a tale proposito hanno confermato che il Maresciallo
Tauro della Stazione dei Carabinieri di Falciano aveva una partita aperta
con Giovanni Canzano e con tutto il movimento comunista, che aveva
messo solide radici in questo piccolo paese, cosa che il Maresciallo non
gradiva e trovava inspiegabile.
La nascita a Falciano del Partito Comunista, con l’apertura della sezione
in Via Falerno, fu una specie di sfida lanciata da parte dei militanti
comunisti della prima ora nei confronti della piccola borghesia terriera e di
quei pochi, per la verità, che agivano in nome di ideali democratici, nei
quali poco credevano, se non per opportunismo. Si deve sapere che
l’economia del paese era detenuta quasi interamente da chi spesso era stato
ex servitore, palese o nascosto, del regime fascista e poi di quello
democristiano.
Questo fatto aveva sconvolto la tranquilla gestione della Stazione dei
Carabinieri ed aveva tolto un po’ di sonno al Maresciallo Tauro che, pur
avendo un’acuta intelligenza nel capire gli avvenimenti che si sviluppavano
sotto i suoi occhi, non era riuscito ad ostacolare la nascita del Partito
Comunista e l’apertura della sezione.
I suoi emissari, sguinzagliati in vario modo per informarlo sugli
avvenimenti, non seppero analizzare bene i movimenti dei vari personaggi e
riportargli l’esattezza della situazione, tanto che egli stesso, con ovvia
sorpresa, ricevette l’invito per l’inaugurazione della sezione del Partito
Comunista!.
Fu una sconfitta per il Maresciallo Tauro, che l’attribuì alla sottile
intelligenza di Giovanni Canzano.
Da quel giorno ripeteva a chiunque lo interpellava su tale argomento che
“il suo sogno era quello di mettere un giorno le manette al Canzano”.
  Si doveva, dunque, viste queste premesse, tenere all’oscuro le Forze
dell’Ordine da ogni decisione che si prendeva e da ogni movimento che si
preparava, in modo tale da giocare sulla sorpresa.
Ma qualcosa trapelò e il Maresciallo Tauro, uomo caparbio, sebbene non
ottusamente vendicativo, invitò Giovanni Canzano in caserma, lo ammonì a
non organizzare alcun corteo per andare ad occupare le terre incolte e di
non guidare i manifestanti, in quanto l’avrebbe arrestato insieme agli altri
uomini del partito.
Giovanni Canzano promise che, insieme ai dirigenti del partito, non
avrebbe guidato la manifestazione di cui parlava il Maresciallo, anche
perché i contadini autonomamente avevano organizzato tutto.
Mai una promessa fu non rispettata come quella che fece Giovanni
Canzano al Maresciallo Tauro.
 Si affrontò anche un aspetto giuridico, non di poco conto, per far sì che
le terre occupate, dopo i primi momenti di sbandamento che avrebbero di
certo avuto le varie istituzioni pubbliche che le gestivano per conto dello
Stato, potessero poi passare giuridicamente anche nel possesso reale dei
contadini occupanti.
La Legge Gullo ed i vari decreti emanati, di cui abbiamo parlato
precedentemente, presupponevano che tali terre incolte venissero date ai
contadini che fossero iscritti alle cooperative o inquadrati in altre
associazioni, ed era necessario, quindi, anche per i contadini locali creare
una cooperativa o utilizzare il nome di qualcuna già esistente sul territorio
nella quale iscriversi per avere poi quel pezzo di terra da lavorare.
I cattolici, organizzati da Michele Manica e Giovanni Verrengia,
utilizzarono una cooperativa già presente a livello di zona, sebbene inattiva,
che era denominata “Il Popolo” e di cui lo stesso Michele Manica fu eletto
presidente; mentre i comunisti, attraverso l’intervento di Graziano
Graziadei e di Vincenzo Raucci, crearono una cooperativa ex novo proprio
per i contadini di Falciano col nome di “Nuova Terra” e fu eletto presidente
un convinto sostenitore dell’occupazione delle terre incolte, Antonio Del
Duca.
Altro, e non ultimo problema, fu quello di poter rinunciare alla presenza
in testa del corteo degli occupanti della bandiera rossa con falce e martello,
che la signora Giovannina Buonamano, moglie di Giovanni Canzano, aveva
confezionato in un modo magnifico, riuscendo a non far apparire le cuciture
che univano i tre pezzi che la componevano.
La bandiera doveva esserci poiché possedeva una sicura carica di
sacralità per gli iscritti al Partito Comunista del paese. Doveva innalzarla
una persona che ne fosse degna e che rappresentasse per tutti i dimostranti
un simbolo e un esempio di riscatto e che fosse accettata soprattutto dai
compagni che avevano tanto lottato perché il momento dell’occupazione
delle terre incolte si realizzasse.
Giovanni Canzano, in un’intervista concessa a chi ha raccolto queste
storie e le sta narrando, alla domanda su chi cadde la scelta per portare
davanti al corteo la bandiera rossa, non ebbe tentennamenti o dubbi a dire
che Giovannina (Argentina il suo vero nome) Pisaturo venne scelta perché
significava per tutto il paese ed il movimento il simbolo della sofferenza di
una vita travagliata e difficile, come quella di tutti i contadini locali che, nel
silenzio e nella dedizione alla propria famiglia e a tutti i sofferenti ed i
bisognosi del luogo, costituiva il simbolo del riscatto e conquista di quella
libertà e dignità propria di tutte le donne del paese, volontà indomabile,
anche se erano abbrutite dalla dura fatica e dalle sottomissioni ai padroni
del periodo.
Portare quella bandiera rossa ne aumentava la forza e l’aggiungeva a
quella di chi la seguiva.
Ai dirigenti del movimento si presentavano diverse opzioni e opportunità
di impadronirsi di terreni tenuti incolti e, quindi, nella condizione di poter
essere occupati, in base alle leggi recenti. Erano tutti raggruppati a sud
ovest del paese, nella zona denominata Pantano, un nome che ne connotava
l’abbandono e le difficoltà per raggiungerla, una zona quasi inaccessibile e
ben protetta dai fattori dei grandi proprietari terrieri che, con i loro
sottoposti, difendevano queste terre, oltre che con la loro minacciosa
presenza, anche con le armi, pur di tenere lontano i temerari che si
avventuravano per quei luoghi.
Questa torva presenza si fece sentire anche dopo che le terre furono
occupate e, in seguito, quando la Riforma Agraria era in piena attuazione,
perché pensavano di poter condizionare la presenza dei nuovi affittuari, e,
poi proprietari, col timore e, così, indurli ad accettare minimi compensi e a
sottostare al volere degli antichi padroni per un pezzo di pane.
Ai riottosi allagavano le entrate nelle loro terre e distruggevano i raccolti
con le immissioni di animali da pascolo.
Questa situazione non fu sopportata per molto perché i contadini,
attraverso le loro cooperative, scelsero dei guardiani che, per loro prestanza
fisica e per il nome che si erano fatti nelle varie azioni di contrasto ai
malavitosi, riportarono una certa tranquillità in quei poveri e miserabili
contadini che finalmente avevano un pezzo di terra da coltivare.
Don Alfredo Perretta, di Sant’Andrea del Pizzone, un uomo che incuteva
timore e terrore al solo vederlo perché alto, tarchiato con peso di circa 150
chili e con espressione truce, fu scelto da Antonio Del Duca, Presidente
della Cooperativa Nuova Terra, per la difesa dei terreni assegnati ai
contadini ai Carabottoli.
Era un uomo dal fare sbrigativo e poco disponibile al colloquio, capace di
incutere un sacro terrore ai delinquenti della zona che avevano la sfortuna
di incontrarlo sul loro cammino. Il capanno che si era costruito sul luogo si
vedeva da lontano e aveva un aspetto diverso dagli altri, in quanto era
munito di un comignolo che indicava il suo stare stabile sul posto.
Come tutti i personaggi della sua fama l’accompagnava una donna,
Eletropia Gemma, che ne era l’amante.
La presenza di don Andrea pacificò per un certo periodo il territorio e di
delinquenti inviati per distruggere i raccolti dei contadini se ne videro
pochi, e quei pochi che furono sorpresi a farlo dissuasero gli altri ad andare
in quella zona.
Secondo i discorsi che erano stati fatti e le indicazioni che venivano
comunicate attraverso la presenza dei vari dirigenti provinciali, le terre che
dovevano essere occupate sia per il loro valore simbolico e sia perché
veramente incolte erano il parco di Torre Vecchia, quello di Tozza e i
Carabottoli.
Si stabilì anche un’equa spartizione di questa terre tra le frazioni che
componevano in quel periodo il Comune di Carinola, ed ai contadini di
Falciano e di Casanova, un paesino vicino, spettò l’occupazione di Torre
Vecchia e del Parco di Tozza, mentre ai contadini di Carinola, Nocelleto e
Casale di Carinola, a cui si accodarono quelli del Comune di Francolise,
spettò l’occupazione dei Carabottoli, terreno demaniale.
Questa divisione, decisa a tavolino dai dirigenti provinciali, non fu
rispettata pienamente, in quanto si verificarono azioni individuali che
rispondevano al desiderio di soddisfare antichi sentimenti di rivalsa nei
confronti dei fattori e dei loro guardiani, integrati da spirito di avventura e
di sfida che portò un gruppo di persone ad occupare un’altra zona, non
prevista, come la Ngogna e, per tale azione, furono processati dal Pretore di
Carinola dopo essere stati individuati e schedati.
Ironia della sorte, questi quattro o cinque giovani contadini di Falciano,
insieme con altri di Nocelleto, erano stati sorpresi sul ciglio della strada,
dove c’era un muretto in terrapieno, e pur non avendo ancora raggiunto il
terreno da occupare, furono sorpresi dai Carabinieri. Gli fu chiesto quali
erano le loro intenzioni e questi, candidamente, esternarono i loro propositi,
cosa che consentì di denunciarli all’autorità giudiziaria come sovversivi
comunisti!
Il processo davanti al Pretore di Carinola si trasformò in una farsa, infatti
l’accusa fu derubricata a semplici spettatori dell’atto di occupazione di
quelle terre. Gli sprovveduti ebbero anche la diaria da testimoni, ma rimase
l’iscrizione al casellario giudiziario che provocò ad alcuni di loro, sino a
quando non ci fu la cancellazione, il rifiuto della concessione del passaporto
per l’espatrio.
La preparazione al grande avvenimento ebbe un prologo che era un
riflesso dei vari movimenti e dei vari scioperi che nell’anno 1949 si
organizzavano in tutta la penisola da parte delle leghe contadine e da parte
del Partito Comunista Italiano per l’attuazione della Legge Gullo e la
distribuzione ai contadini delle terre incolte.
Fu una manifestazione piuttosto dimostrativa, ma che raccolse molti
consensi perché molti contadini sfilarono sotto le bandiere della Lega dei
contadini o Federterra e sotto quella del Partito Comunista.
Vi fu il comizio conclusivo di Graziano Graziadei e di Giovanni Canzano
in Piazza Limata e tutto sembrò, in apparenza, finire lì.
Di questo avvenimento abbiamo una testimone ancora vivente, la signora
Caterina Pagliaro in De Lillo, che rimprovera sempre il fratello minore
Emilio, rampognando «che ha troppo la lingua lunga perché quando è nato
sono passati i comunisti per Falciano.»
Era il 15 gennaio del 1949.
L’organizzazione vera e propria dell’occupazione delle terre incolte
venne preparata nei mesi successivi e trovò la sua conclusione nel mese di
novembre del 1949.
Le fasi preparatorie furono molteplici, ma in questo racconto si seguirà
soprattutto la testimonianza di Giovanni Canzano, ed in parte quella di
Michele Manica.
Il ricordo di Giovanni Canzano è molto particolareggiato e, si avverte,
dettato dal cuore, in un momento in cui, eravamo nel 1985, sentiva
un’enorme amarezza nel constatare che tanti sforzi e tanti entusiasmi degli
anni delle lotte, da lui vissuti alla guida del movimento, avevano prodotto
nell’animo dei suoi compaesani poco o nulla, poiché la maggior parte degli
assegnatari delle terre concesse dopo l’occupazione le avevano abbandonate
per l’effimera chimera dell’emigrazione in Germania e in altri remoti paesi.
Nel paese erano rimasti, ormai, pochi di quei forsennati idealisti, e anche
loro avevano perso molto di quello spirito di avventura e di speranza che li
aveva fatti vivere un periodo eroico e pericoloso, aveva prodotto un
risultato di eccezionale e quasi irraggiungibile conquista: avere un pezzo di
terra propria per sfamare la famiglia.
Il raffinato sarto Giovanni Canzano aveva guidato quel movimento di
disperati, battendosi per loro e con loro fino a realizzate le ardue speranze.
Eppure, quando confidava a chi scrive questa storia, manifestava
un’evidente frustrazione per un disegno realizzato, ma spazzato via dal
soffio violento del vento del cambiamento degli obiettivi nelle menti dei
contadini che vedevano nel lavoro all’estero un nuovo eldorado.
Questi contadini, che si trasformarono in metalmeccanici improvvisati,
con il loro lavoro nei paesi stranieri, ottennero una discreta ricchezza ma, in
molti casi, a prezzo della loro dignità e libertà.
Si apriva così un nuovo ciclo di sfruttamento e di abbrutimento, contro il
quale avevano coraggiosamente lottato. Il Canzano, con il suo
temperamento fiero e indipendente, si spense senza capire la logica di quel
ritorno volontario a una condizione servile. Ma forse una logica non vi era.
Nel mese di settembre del 1949, dopo incontri avvenuti preso la sede di
Federterra e del Partito Comunista a Caserta, giunsero a Falciano due
esponenti del partito, Antonio Raucci e Graziano Graziadei, che portarono
le disposizioni stabilite a livello provinciale per realizzare in modo concreto
la grande conquista dell’occupazione delle terre incolte nel territorio di
competenza degli aderenti del movimento di Falciano e di quello di
Casanova, poco distante.
Le disposizioni erano abbastanza precise: gli organizzatori del luogo
dovevano di mattino presto adunare tutti gli aderenti al movimento e
portarli nelle terre indicate, gli stessi responsabili latori delle direttive si
sarebbero fatti trovare sul posto per verificare lo svolgimento di tutta
l’operazione e per essere testimoni di eventuali violenze da parte delle
Forze dell’Ordine.
Il giorno stabilito, ormai non lontano, sarebbe stato comunicato 24 ore
prima, in modo che l’azione prevista cogliesse di sorpresa gli oppositori e le
stesse Forze dell’Ordine. Così anche i fattori dei grandi proprietari ed i loro
tirapiedi, gente facile all’uso delle armi, che potevano preparare imboscate
o ostacolare in altri modi i contadini in corteo, fossero presi di sorpresa.
Fu un passaparola tra tutte le persone che avevano partecipato alle
riunioni preparatorie, fu informato del contenuto delle disposizioni avute il
rappresentante dei contadini cattolici, Michele Manica.
A tutti venne chiesto di mantenere il massimo riserbo sull’argomento.
Ma non fu così.
Il Maresciallo Tauro, non si sa da quale fonte o spiata, venne a
conoscenza che era in preparazione tale avvenimento, ed approfittò della
presenza nel paese dei due personaggi, cioè Graziadei e Raucci, per
convocare insieme a loro in caserma anche Giovanni Canzano, onde avere
notizie più dirette sui fatti che si preparavano e conoscere la data esatta
nella quale sarebbero avvenuti.
Le risposte fornite al Maresciallo Tauro furono evasive, poiché sia
Raucci che Graziadei affermarono di essere a Falciano per un lavoro di
routine di visita alla sezione del Partito Comunista e di incontro con i
dirigenti del partito, come era sempre avvento nei periodi precedenti.
Il Maresciallo, che non era uno sprovveduto, dall’alto della sua
pluriennale esperienza, capì che i tre non avrebbero mai svelato i piani sulla
manifestazione in programma e dovette limitarsi a diffidare i tre complici a
non organizzare la manifestazione che gli era stata riferita, altrimenti
avrebbe proceduto al loro arresto come sobillatori.
I tre lasciarono la caserma dei Carabinieri e si diressero in sezione, dove
erano attesi da una sala gremita di persone desiderose di sapere perché
erano stati convocati in caserma e il resoconto del loro incontro con il
Maresciallo Tauro.
Quella sera stessa si stabilì che Raucci, Graziadei ed altri esponenti del
partito e di Federterra si sarebbero fatti trovare sul posto e che Giovanni
Canzano, Antonio Del Duca ed altri responsabili, per evitare l’arresto da
parte del Maresciallo Tauro, andassero a Casale di Carinola per condurre i
manifestanti del luogo ad occupare, insieme ai contadini degli altri borghi,
le terre prefissate. I casalesi dovevano occupare le stesse terre dei
manifestanti di Falciano e Casanova e, non essendo stati diffidati,
risultavano i più idonei a dirigere l’intera operazione.
Fu scelta accuratamente la zona prima da occupare.
Essa venne individuata nella zona denominata Torre Vecchia, un vasto
parco di oltre 300 moggia di terreno che si trova sulla sinistra di chi, da
Santo Ianni, percorre la strada che si immette sulla provinciale Sant’Andrea
del Pizzone-Mondragone e che ha, alla punta sud del triangolo, la nota
chiesetta, ora dissacrata e tristemente abbandonata, che porta il nome di
Cappella Reale, già ampiamente descritta nelle pagine precedenti.
Si scelse tale grande parco perché, pur essendo lontano dal paese, era
facilmente raggiungibile essendo servito da una strada abbastanza comoda,
anche se sconnessa e polverosa.
Inoltre il parco era idealmente al centro di altre terre che vennero
occupate successivamente. Esse furono: a ovest della strada il Parco di
Tozza e a sud est i Carabottoli, a nord vi era il parco della Ngogna ed altri
appezzamenti di terreno, che facevano da corona a queste quattro grandi
estensioni incolte.
Questa vasta estensione di terreno, allora destinata al pascolo, ha una sua
storia particolare che porterà, dopo il periodo dell’occupazione delle terre,
ad essere, per l’applicazione della Riforma Agraria, il terreno che
innescherà forti contenziosi tra l’ente proprietario e le cooperative
assegnatarie.
La proprietà di tale terreno era dell’Ente Cappabianca, gestito dalle
proprietà dell’Opera Pia Asilo Ciechi e Sordomuti “Gaetano Cappabianca”,
con sede a Santa Maria Capua Vetere, ed il Presidente dell’ente nel periodo
considerato era Giovan Giuseppe Fossataro, Presidente anche della Banca
di Sconto e Conti Correnti di Santa Maria Capua Vetere.
Questa banca, sorta in forma di Società in Accomandata Semplice nel
1904, operativa dal primo del mese di settembre del 1904 e dall’1 di di
gennaio del 1909, fu trasformata in società in nome collettivo.
Lo scopo della nascita di questo istituto bancario fu quello di essere un
valido supporto locale per aiutare il risorgere dell’economia agricola e,
soprattutto, nell’aiutare con i suoi prestiti gli investimenti che in quel
periodo si effettuavano per la produzione della canapa e delle opere di
idraulica e di risanamento che si erano intraprese nel territorio circostante.
Nel secondo dopoguerra l’istituto acquisisce la personalità giuridica di un
vero istituto bancario ed incomincia ad avere nel proprio portafoglio clienti
la gestione di svariate ricchezze di enti, come quello Cappabianca, che ne
fanno la fortuna.
Si può opinare che il suo Presidente Fossataro, essendo anche il
Presidente dell’Ente Cappabianca, potesse determinare gli sviluppi degli
avvenimenti del periodo, insieme ad Antonio Auriemma, che era il
rappresentante dei soci dell’ente.
Da una testimonianza degna di fede, quella del Presidente della
Cooperativa dei contadini cattolici “Il Popolo”, Michele Manica, sappiamo
che, benché Fossataro avesse fortemente innato il senso degli affari, era
anche un uomo leale e pragmatico e cercò nelle trattative, successive alle
occupazioni delle terre, con i rappresentanti delle cooperative vari punti
d’incontro per realizzare un accordo onorevole sull’individuazione dei
terreni da dare e le relative assegnazioni.
Inoltre, lo stesso Presidente Fossataro era proprietario di un’estensione di
terreno sita lungo il tratturo che porta ai Carabottoli, terreno fertilissimo,
nota con il nome Cemice.
Anche questo terreno venne messo in discussione, perché incolto, e
venne assegnato, come afferma la nostra testimonianza, a tavolino alle
cooperative, che poi lo divisero in eque parti tra i loro soci.
Infatti Cemice, pur estendendosi lungo il tratturo interno che porta ai
Carabottoli, non venne occupata, tutte le altre terre sì.
Verso la metà del mese di novembre del 1949, un giorno di pieno
autunno e piovigginoso, i rappresentanti dei contadini di Falciano, con
Giovanni Canzano in testa, di prima mattina, in sella alle loro bici e con
gran dispendio di energie per la pioggia che ostacolava il loro andare, si
recarono a Casale di Carinola per unirsi, dirigere e accompagnare il gruppo
degli occupanti casalesi che dovevano recarsi nella stessa zona destinata
agli occupanti falcianesi. L’azione doveva essere realizzata proprio quel
giorno.
Ma il piano di Giovanni Canzano e dei suoi compagni fallì perché,
giungendo a Casale di Carinola, dopo tanta fatica e pioggia presa durante il
tragitto, trovarono la piazza deserta. I contadini e i loro capi, visto il ritardo
del gruppo di Falciano, per trovarsi puntuali sul luogo di incontro stabilito
erano già partiti senza attendere i compagni di Falciano.
Il contrattempo non fece perdere d’animo Giovanni Canzano ed i suoi
compagni, che subito tornarono indietro con le loro bici e con altrettanta
fatica rientrarono a Falciano e riferirono ad Antonio Del Duca ed agli altri
che si doveva partire immediatamente per evitare che i contadini di Casale e
i loro rappresentanti arrivassero da soli nel luogo dell’appuntamento.
I più attivi della sezione del Partito Comunista, in testa Antonio Del
Duca, inviarono un loro compagno, anch’esso con una bici, a Casanova,
paese distante tre o quattro chilometri, ad avvisare i contadini, che stavano
aspettando nel largo davanti all’orologio, di affrettarsi per raggiungere
quelli già presenti in Piazza Limata a Falciano Selice per potersi
congiungere ai contadini di Casale, che erano già sul posto.
Nel giro di un’ora, Piazza Limata si riempì di contadini con i loro
strumenti di lavoro e Giovanni Canzano e Antonio Del Duca,
alternativamente, intrattennero i presenti con i loro discorsi e con le
raccomandazioni di non cadere nella trappola delle provocazioni che
avrebbero subito lungo il percorso e sul luogo dell’occupazione delle terre
da parte di emissari mandati dai proprietari e dai loro fattori e, soprattutto,
da parte delle Forze dell’Ordine.
Bisognava non rispondere con la violenza a qualsiasi insulto e seguire le
indicazioni degli organizzatori provinciali.
Tutto era pronto in Piazza Limata, il corteo si era quasi formato con in
testa Giovanni Canzano, Antonio Del Duca, Mastro Enrichetto Stodo e tutte
le altre persone della sezione del Partito Comunista, e non poteva mancare
con la sua tromba Francesco De Lillo, un personaggio conosciuto da tutti
per il suo coraggio, essendo stato un acerrimo antifascista, perseguitato fino
a subire violenze per le sue idee contro il regime.
Il suono della sua tromba accompagnò lungo tutto il cammino il corteo:
le note di Bandiera Rossa e dell’Internazionale, alternate con canzoni
popolari dei contadini del paese, diedero ai contestatori animo e coraggio.
Si rincuorarono tutti quando spuntò sulle Crocelle il gruppo che arrivava
da Casanova e che cantava, per farsi sentire da Piazza Limata, un ritornello
da loro inventato: “u pignatu cu la cuperchia e Torre Vecchia ce l’emma
piglià”.
A questo punto tutti i contadini che attendevano il gruppo di Casanova in
Piazza Limata seppero il luogo che sarebbe stato occupato per primo, e lo
venne a sapere, attraverso un suo personale osservatore, anche il
Maresciallo Tauro, che già si era incamminato con due carabinieri verso
un’altra direzione, il Parco di Tozza, e fu costretto a ritornare per incrociare
il corteo che era quasi giunto al bivio della Masseria d’Aceti.
Composto il corteo al suono della tromba di De Lillo, e con la bandiera
rossa nelle mani di Giovannina Pisaturo davanti alle numerose donne in
prima fila, ognuno si mosse al seguito di Giovanni Canzano e Antonio Del
Duca, e a passo abbastanza svelto imboccarono Via Direttissima, strada che
li avrebbe portati a scrivere una pagina di storia nuova.
I pensieri che affollarono le menti di quei disperati contadini durante il
tragitto, non breve, che li doveva portare a Torre Vecchia erano pensieri di
esaltazione, speranza e, nello stesso tempo, di timore.
I rischi che correvano erano grandi, ma la posta in gioco era troppo
importante e spinse ognuno a sentire profondamente che quel giorno era per
loro un giorno da vivere senza incertezze e paure. Era il giorno del riscatto
di un popolo che aveva sofferto troppo a lungo il giogo della sopraffazione
e della prepotenza. Era giunto il sospirato momento del riscatto e nessun
costo era troppo alto da pagare per raggiungere la meta.
Le discussioni tra i partecipanti avevano un unico tema, che tutti li
accomunava: quello di credere che alla fine della giornata si potesse
realizzare il sogno di ognuno di avere un pezzo di terra, senza dover subire
violenze e di non essere spinti a compierle contro chi avrebbe resistito alla
loro occupazione.
Immaginavano di trovare i guardaspalle che avevano visto quando si
recavano al lavoro presso i fattori dei grandi latifondisti proprietari, e che,
forse, li aspettavano con le armi in pugno. Ma ormai nessuno poteva e
voleva tornare indietro.
Speravano, in caso di qualche scaramuccia, di risolverla pacificamente
col dialogo, facendo capire a bravi di manzoniana memoria, ringhiosi e
prezzolati, che anche loro erano figli di povera gente, sfruttati e costretti
dalla miseria a scagliarsi contro i loro fratelli.
  Intanto Canzano, e gli altri che guidavano il corteo, continuavano a
ricordare a tutti, in ogni occasione, di usare gli strumenti che portavano per
iniziare a dissodare il terreno solo per tale fine, e non come arma di risposta
alle provocazioni che avrebbero subito.
Le donne che aprivano il corteo, tra il canto di Bandiera Rossa e
dell’Internazionale, sollecitavano De Lillo ad accompagnare con la sua
tromba le canzoni che intonavano a gola spiegata nelle campagne tutti i
giorni per stemperare la loro fatica e per dimenticare i problemi della vita
quotidiana.
Per rendere più allegro e vivace l’avvicinamento al luogo
dell’occupazione, cantavano i loro inni, a risposta reciproca e con tonalità
differenti, tali da attirare l’attenzione dell’intero gruppo che, nel sentirle,
aveva l’impressione di trovarsi sul posto di lavoro e non in un corteo pieno
di incognite.
Qualcuno, più allegro e più spiritoso, per sollevare gli animi di tutti dai
timori e dalle preoccupazioni, intratteneva ad alta voce quelli vicini e quelli
lontani con battute salaci e piccanti su fatti ed avvenimenti della vita di un
piccolo paese dove ognuno già sa tutto degli altri.
Nel corteo si poteva scorgere anche la presenza di qualche bambino, al
giorno d’oggi settantenne, che ancora ricorda con commozione quei
momenti e che fu impiegato per la misurazione del terreno di proprietà da
occupare.
Il corteo proseguiva per la sua strada e non ci si aspettava che, all’altezza
della Masseria D’Aceti, c’era il nemico di sempre di Giovanni Canzano, il
Maresciallo Tauro, che attendeva per fermare il corteo e soprattutto per
attuare il suo sospirato sogno di arrestare, con l’accusa di sobillatore,
Canzano ed i suoi compagni.
Quando la testa del corteo vide in lontananza il Maresciallo Tauro ed i
due carabinieri che, appoggiati alle loro bici, li aspettavano all’incrocio,
punto strategico per le Forze dell’Ordine per bloccarli, avvisò gli
organizzatori. L’intenzione del Maresciallo Tauro e dei carabinieri era di
non far dividere il corteo ed impedire, quindi, che questi potessero dirigersi
autonomamente a Torre Vecchia, al Parco di Tozza, alla Ngnona e
Carabottoli.
Giovanni Canzano venne avvisato dai suoi compagni di retrocedere dalla
posizioni di testa del corteo e di confondersi nel centro del gruppo, in
mezzo alle circa 300 persone presenti.
Tutti loro lo avrebbero difeso e tutelato e, facendogli barriera, ne
avrebbero favorito un’eventuale fuga.
Ovviamente il Maresciallo ed i carabinieri non poterono intervenire sul
corteo perché questo manifestava su una libera strada, tra l’altro in quella
mattinata per nulla trafficata, e quindi nessuno poteva accampare una
richiesta di intervento per intralcio al traffico o eventuale resistenze alla
forza pubblica. Però poteva agire nei confronti di Canzano e soci in quanto
diffidati ad organizzare e dirigere una manifestazione di protesta.
Il corteo si avvicinava al bivio ed il Maresciallo Tauro, con i due
carabinieri al seguito, incominciò a risalire il corteo sino ad incrociare
Giovanni Canzano e gli organizzatori della manifestazione.
Il centro del corteo capì a volo l’intenzione del Maresciallo di arrestare
Giovanni Canzano e gli altri diffidati.
  Mentre una parte del gruppo continuò a camminare, una ventina di
manifestanti si fermò a difesa di Canzano, così come gli altri capi della
manifestazione, quasi a lanciare il monito alle Forze dell’Ordine che
un’azione forte, come l’arresto per reprimere la libertà degli organizzatori
dell’occupazione delle terre incolte, non sarebbe stato tollerato.
Anche in questa situazione di grave crisi e di scontro, che poteva avere
conseguenze drammatiche, persino di sangue, Giovanni Canzano ed i suoi
compagni dimostrarono sangue freddo e preparazione politica, non
opponendo resistenza ad un eventuale arresto, anzi con calma dissero
chiaramente al Maresciallo Tauro che ormai erano giunti in un punto del
percorso che non gli consentiva più di tornare indietro, che non potevano
essere arrestati perché non guidavano il corteo e, se ciò avveniva, dovevano
arrestare tutti gli altri, cosa ovviamente impossibile e non giustificabile.
Dissero chiaramente che la promessa fatta, durante la convocazione in
caserma dei giorni precedenti, di non organizzare il corteo non l’avrebbero
mai rispettata perché non potevano deludere l’attesa di tanti contadini e il
diritto di avere per sé un pezzo di terra.
 Se rischi vi erano, li avrebbero corsi: troppo importante era la posta in
palio per i tanti diseredati che li seguivano.
Promisero che la manifestazione avrebbe avuto uno svolgimento
pacifico, che nessuno dei partecipanti aveva armi addosso, se non gli
strumenti per dissodare il terreno che avrebbero occupato, e che, al ritorno,
sarebbero andati in caserma per gli eventuali provvedimenti che il
Maresciallo, se ci fossero stati atti sanzionabili nel loro comportamento,
avrebbe preso.
Il Maresciallo Tauro per fortuna capì, vista la determinazione delle tante
persone che erano intorno a Canzano e compagni. Capì che non era quello il
momento di forzare i tempi con un arresto e che un comportamento più
morbido avrebbe ottenuto effetti positivi e pacificatori.
Rispose a tutti i presenti che avrebbe seguito, con i due militari, lo
svolgimento della manifestazione e ad un solo cenno di violenza da parte
dei manifestanti avrebbe ritenuto loro responsabili e avrebbe quindi
arrestato Giovanni Canzano quale capo dell’organizzazione.
Dopo la partenza da Piazza Limata del corteo principale, aderirono altri
giovani contadini di Falciano Capo, con l’intenzione di partecipare
all’occupazione delle terre incolte, sollecitati dai propri parenti a tentare
quest’avventura che poteva essere un’occasione unica per guadagnare un
proprio pezzo di terra.
Il corteo principale era molto lontano ed allora Mario Verrillo, insieme ad
Angelo Stodo e Antonio Marrapese, passarono da Angelo Di Pasquale e lo
invogliarono ad andare con loro perché stavano occupando le terre a Torre
Vecchia.
Questo gruppo di persone fu dirottato verso la Ngogna, al di là della
strada provinciale Sant’Andrea del Pizzone-Mondragone, dove doveva
aspettarli il sindacalista Antonio Pignataro.
Ma questo sparuto gruppo non mise mai piede sui terreni della Ngogna
perché fu fermato dai Carabinieri, identificato e poi, come abbiamo
raccontato in precedenza, processato come “sobillatori comunisti” dal
Pretore di Carinola. Gli altri potenziali occupanti che erano insieme
scapparono via con Pignataro, sottraendosi alle manette.
Il corteo principale proseguì, sollecitato dal suono della tromba di De
Lillo che intonava le galvanizzanti canzoni care al corteo, verso Torre
Vecchia, dove erano in attesa Graziano Graziadei, Antonio Raucci ed altri
dirigenti del Partito Comunista della zona e di Federterra.
C’era anche l’Avvocato Gagliardi di Capua, che aveva avuto l’incarico
dagli organizzatori provinciali di guidare la fase finale dell’occupazione,
suddividendo in gruppi i vari cortei che erano giunti da Casale di Carinola,
Nocelleto, Francolise e Sant’Andrea del Pizzone e, poi, di smistarli sia al
Parco di Tozza e sia ai Carabottoli, in modo che l’occupazione delle terre
incolte fosse uniforme e completa.
Quando tutti i cortei si congiunsero sotto lo sventolio di tante bandiere
rosse ed al canto di Bandiera Rossa e dell’Internazionale, apparve subito
agli occhi degli organizzatori che le energie spese per la realizzazione
dell’evento ed i rischi corsi venivano ampiamente compensati da una
presenza numerosa ed entusiasta di partecipanti.
Nelle testimonianze raccolte abbiamo ravvisato un senso di stupore e di
soddisfazione, perché nessuno credeva che tanti contadini aderissero per
intraprendere un’azione così rischiosa e piena di incognite, perché non
avrebbero avuto tutele in caso di fallimento.
Ogni timore, invece, fu superato dalla speranza di ottenere, finalmente,
quella dignità e sicurezza che sempre avevano sognato.
Non fu facile per l’avvocato Gagliardi organizzare i gruppi ma, alla fine,
ci riuscì e, mentre un folto gruppo rimase ai bordi della strada vicino a
Torre Vecchia, gli altri due si diressero al Parco di Tozza ed ai Carabottoli.
A Torre Vecchia subito i contadini entrarono nel parco e con i loro arnesi
incominciarono a capovolgere la crosta del terreno, in precedenza destinato
a pascolo. Quelli che si diressero nella parte del parco che era in gestione di
Antonio Noviello, futuro sindaco di Castel Volturno, trovarono il figlio di
questi che, cacciata la pistola, minacciò di sparargli con l’intenzione di
dissuaderli a proseguire.
L’intimidazione fu inutile. Gli occupanti lo travolsero e continuarono il
loro lavoro.
Durante la giornata ci fu un rafforzamento delle Forze dell’Ordine per
cercare di far recedere i contadini dalla loro azione, ed un carabiniere cercò
di strappare la bandiera rossa dalle mani di Pasqualina Pisaturo, ma
Giovanni Canzano fu più lesto del carabiniere a prendere la bandiera e
tenersela con sé.
Questo portò una certa tensione tra i militari ed il gruppo presente a Torre
Vecchia, dove era presente Giovanni Canzano, e dopo varie trattative,
considerato che gli animi si erano riscaldati abbastanza, il Maresciallo
Tauro, che non abbandonava mai Giovanni Canzano e lo seguiva passo
passo per prenderlo in fallo ed arrestarlo, diede ordine agli occupanti di
liberare i terreni occupati altrimenti dopo cinque minuti avrebbe fatto
sparare su di loro.
Giovanni Canzano pensò, sebbene dubitasse che i carabinieri avrebbero
sparato sui contadini, che resistere era controproducente, quindi convinse i
presenti ad abbandonare il terreno e a risalire sul ciglio della strada per
attendere il gruppo dei Carabottoli e quello del Parco di Tozza e ritornare in
paese.
Erano quasi le cinque del pomeriggio, il sole stava calando dietro Monte
Massico. Terminava un giorno da ricordare nella storia del minuscolo paese
del Sud, allora come oggi, appena un puntino sulle carte geografiche.
Il gruppo che si diresse ad occupare i Carabottoli era guidato da Antonio
Del Duca ed atteso sul luogo dagli altri occupanti, che provenivano dalle
varie zone vicine, e alcuni rappresentanti di Federterra, tra cui Nino
Bellocchio, che poi sarà presente nell’attribuzione dei lotti di terreno ai
contadini.
Questo gruppo, e altri, trovarono forti resistenze da parte dei guardiani
posti dai latifondisti a difendere il terreno dei Carabottoli e, anche se questo
luogo era un terreno demaniale, furono minacciati in un modo pesante da
parte di quei loschi figuri, pronti a fare fuoco con le armi in loro possesso.
La determinazione della forza d’urto della moltitudine degli occupanti e
la presenza delle Forze dell’Ordine convinsero i guardiani a nascondere le
armi e allontanarsi, permettendo alla gente di occuparlo e cominciare a
rivoltare la terra da destinare successivamente alle coltivazioni.
Il gruppo guidato da Antonio Del Duca fu avvisato, all’ora del tramonto,
di dirigersi a Torre Vecchia per poter rientrare nel paese con gli altri gruppi.
Il terzo gruppo fu quello che andò ad occupare il Parco di Tozza sotto la
guida di Enrichetto Stodo, anche lui valido suonatore di tromba.
Faceva parte del gruppo il giovane Gelasio Stanziale che,
contravvenendo alle richieste del padre Antonio, il rappresentante del
cavaliere Giuliano, fac totum del conte Capece, che voleva non partecipasse
a tale iniziativa, ebbe il coraggio e l’ardire di sfidare suo padre e unirsi agli
altri e, in base alle testimonianze, fu colui che incominciò a “stendere la
lenza” per delimitare il terreno da affidare ai contadini presenti in gestione.
Questo suo entusiasmo per l’avvenimento ed il desiderio di essere un
protagonista di un fatto importante come l’occupazione delle terre incolte fu
di stimolo negli anni successivi ad impegnarsi in un’attività politica che lo
vedrà, come si legge in un’altra parte di questa storia, protagonista assoluto
nel bene e nel male della politica di Falciano.
Enrichetto, su segnalazione di un compagno, mentre il sole era al
tramonto, riunì il gruppo per dirigersi al bivio della Masseria di Santi Ianni
e congiungersi con il gruppo di Canzano e di Del Duca.
Tutti uniti, sotto la bandiera rossa ed al canto dell’Internazionale e altri
motivi popolari, ritornarono in paese, presso la sezione del Partito
Comunista di Via Falerno, con Graziadei e Raucci, per fare il punto sulla
giornata e stabilire la linea d’azione da seguire nei giorni successivi.
Nell’assemblea tenuta quella sera in sezione intervenne anche Luciana
Viviani, figlia del commediografo Raffaele, che ricopriva l’incarico
affidatogli dal Partito Comunista a livello regionale di coordinatrice delle
occupazioni delle terre incolte, la quale, alla presenza di Graziadei e
Raucci, face il resoconto della giornata, giudicandola storica per il
movimento contadino campano, ed invitò tutti i presenti ad avvertire chi era
ritornato a casa dalla famiglia che l’occupazione delle terre doveva
continuare ogni giorno, sino a che non si fosse raggiunto un accordo, sia
con i latifondisti proprietari dei terreni e sia con il Comune di Carinola, per
la concessione delle terre incolte demaniali.
  Giovanni Canzano mantenne la parola con il Maresciallo Tauro e con
Antonio Del Duca e altri due compagni, dopo l’assemblea tenuta nella
sezione, si presentò in caserma per sentire cosa avesse da dirgli in merito
alla manifestazione della giornata.
  Per circa 40 giorni si continuò a gruppi ad occupare le stesse terre in
modo da far capire ai latifondisti ed alle autorità del territorio che il
movimento non mollava e che si doveva scendere a patti per porre termine
ad una situazione che poteva sfociare in fatti luttuosi, visti i rapporti
oltremodo tesi che si erano creati tra i contadini occupanti e gli scherani dei
latifondisti e altri.
Il Prefetto di Caserta, constatato che il movimento dei contadini era
irriducibile, e volendo evitare che la faccenda si trasformasse in una lotta
spietata e senza esclusione di colpi tra contadini che occupavano, scherani
che minacciavano in continuazione di morte i contadini e Forze dell’Ordine
impegnate notte e giorno per evitare qualsiasi contatto, sentito il ministro
degli Interni, convocò le parti interessate. Chiamò i proprietari terrieri e i
sindacalisti, che rappresentavano gli occupanti delle terre, per iniziare a
discutere sull’applicazione della Legge Gullo e, contemporaneamente, della
Legge di Riforma Agraria in Campania, che portava all’esproprio delle terre
del latifondo che, in parte, i contadini avevano già occupato.
  Il Maresciallo, come affermano le testimonianze raccolte, redarguì
ancora una volta Canzano ed i presenti, esortandoli a non esasperare una
situazione che poteva sfociare in cose molto gravi, ammonendoli che se ciò
fosse avvenuto e sarebbero risultati coinvolti, avrebbe dovuto arrestarli.
Era il 18 novembre del 1949, un giorno diverso dagli altri e da ricordare
alla memoria delle future generazioni.
Questo avvenimento di grande importanza storica per il movimento
contadino di Falciano fu benissimo sintetizzato da Graziano Graziadei
quando scrisse in proposito: “I contadini si sono finalmente mossi e sanno
quello che vogliono: essi sono decisi a conquistarsi un nuovo ordinamento
della proprietà fondiaria e, quel che è più sorprendente, hanno visto che ciò
è possibile”.
 
 
 
Preparazione del pane
Il pane appena sfornato
Il forno di una corte
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Il sogno realizzato
 
 
 
 
 
Si è tentato, nel capitolo precedente, con i documenti e le testimonianze
raccolte, di analizzare attraverso il racconto tutte le dinamiche, i fatti, gli
avvenimenti e le persone che segnarono un momento storico di una
popolazione e di un territorio che trovò nell’occupazione delle terre incolte,
sia demaniali che dei latifondisti, un proprio riscatto e una sua rinascita per
diventare, questa era la convinzione degli uomini di allora attori della
grande sfida contro i poteri forti, padroni di un pezzo di terra e acquistare la
dignità di uomini non più sottoposti al sopruso ed al ricatto della grande
proprietà terriera.
L’azione collettiva organizzata e l’occupazione fisica dei terreni incolti
però non bastava da sola a dare la certezza che i fondi occupati diventassero
effettivamente proprietà dei contadini. Ci voleva ben altro perché la ventata
rivoluzionaria che aveva portato a prendere con la forza le terre incolte ne
assicurasse un possesso definitivo. Era necessario presidiarlo giorno e notte.
  Se si fosse verificato un abbassamento della tensione, un rilassamento
nel perseguire lo scopo, sarebbe stato alto il rischio di perdere ciò che si era
conquistato a prezzo della propria incolumità e sfidando apertamente lo
Stato e le autorità periferiche. Occorreva trovare nella politica e nelle
organizzazioni sindacali, allora in vita, l’appoggio irrinunciabile alle loro
richieste, insistere sulla giustizia sociale di queste, far capire che i tempi
erano maturi per mettere mano ad una grande riforma della proprietà
fondiaria in Italia e principalmente nel Sud d’Italia.
Ciò non era facile per le dure resistenze incontrate, tante e difficili da
smantellare, perché legate agli interessi di parte di chi non voleva rinunciare
al controllo di un grande affare, come la gestione dei beni demaniali e le
entrate di ingenti proventi derivanti dalla gestione del grande latifondo
terriero destinato a pascolo.
Nelle zone del Comune di Carinola, che allora comprendeva anche
Falciano, i terreni furono occupati da contadini convinti che seppero
resistere alle minacce, a volte anche di morte, da parte dei luogotenenti dei
gestori dei terreni e che tennero duro, per quasi 45 giorni, recandosi ogni
mattina, prima del sorgere del sole, dalle loro case a dissodare quei terreni
che consideravano già propri. A nulla valse la strategia degli appostamenti
delle Forze dell’Ordine di trovarsi prima dei contadini sul luogo per poterli
respingere quando giungevano.
Si verificava sempre il contrario: erano i contadini ad arrivare sempre
primi sul posto, dimostrando la ferrea volontà di non desistere, consci che
dietro di loro c’era un grande partito, quale il Partito Comunista Italiano, la
Federterra ed il sindacato della Cisl, che sostenevano, a modo loro e
secondo le indicazioni che ricevevano dagli organismi centrali, tali lotte e
che prima o dopo l’avrebbero spuntata.
Bisogna anche ricordare che questi avvenimenti ebbero grande risonanza
nel Parlamento con varie interrogazioni ed interpellanze che spingevano
sempre più il Governo a dare disposizioni alle varie Prefetture per
monitorare la situazione, stimolando le varie amministrazioni locali,
detentrici di terreni demaniali, ad attribuirli ai richiedenti con l’applicazione
della Legge Gullo.
Intanto il Parlamento, per evitare un depauperamento dei terreni
demaniali ed il loro controllo da parte della politica locale, portò in
approvazione la Legge di Riforma Agraria il 12 maggio 1950 con il n. 230.
Erano passati solo sei mesi dall’occupazione delle terre nel territorio del
carinolese e il mondo sembrava girare nel modo giusto per la povera gente,
che aveva sempre subito e sempre chinato la testa alla volontà dei propri
padroni.
Veramente si stava scrivendo una nuova pagina di storia per quegli
uomini dalla faccia solcata dai segni del sudore e della fatica.
La Legge di Riforma Agraria del maggio 1950 e la sua attuazione pratica
si intrecciarono con l’attuazione dell’attribuzione delle terre incolte, ma
portarono una novità di vitale importanza per i contadini: il diritto di
proprietà sulla terra assegnata dopo 30 anni di possesso ed il pagamento
puntuale delle rate di riscatto stabilite al momento della firma dell’atto.
Questa novità attuò, per la prima volta in Italia, la nascita della piccola
proprietà contadina con tutte le implicazioni e difficoltà legate alla diretta
gestione dei nuovi proprietari, non preparati a risolvere i problemi e le
difficoltà che la burocrazia statale pose in campo per disciplinare l’acquisto
e la conduzione degli stessi terreni.
Un problema per tutti i contadini, ignari delle trappole burocratiche, fu
quello di non rendersi conto che avevano firmato un atto di proprietà con il
“patto di riservato dominio”, clausola che impediva la reale disponibilità dei
terreni per l’eventuale vendita. Per avere questo diritto occorreva saldare
per tempo le rate pattuite, e si trattava di un periodo di 30 anni!
I terreni individuati, per renderli subito disponibili, vennero espropriati
per pubblica utilità in modo da permettere alla O.N.C. (Opera Nazionale
Combattenti) l’utilizzazione degli stessi per poterli assegnare agli aventi
diritto.
Vennero in questo modo approntati i piani generali di esproprio e quelli
particolareggiati, in modo da avere una mappatura reale dell’esistente ed
escludere a priori quei terreni che, pur potendo entrare nei detti piani, erano
stati affidati con regolare contratto ai coltivatori diretti.
Successivamente vennero anche esclusi dall’assegnazione, pur entrando
nel piano degli espropri, terreni, e non pochi, che erano parte integrante di
aziende modello o perché alienati in precedenza o oggetto di atti di
donazione o sottoposti a vincoli diversi, come terreni destinati alla
sperimentazione agraria ed accorpati agli istituti professionali agrari e alle
varie facoltà universitarie ad indirizzo agrario.
La legge prevedeva che i terreni, prima di essere assegnati, dovevano
essere resi idonei alla coltivazione e si coniò un vocabolo nuovo: quello
della “trasformazione” del terreno.
Il mezzo previsto per realizzare la trasformazione dei terreni da assegnare
era che quelli espropriati dovevano obbligatoriamente far parte dei vari
Consorzi di Bonifica, come previsto dal Regio Decreto 215/1933, e questi
consorzi, una volta istituiti, provvedessero a sostenere con contributi, per la
bonifica integrale dei terreni, i vari enti di riforma istituiti nelle varie
regioni per le opere di idraulica da effettuare e per il miglioramento
fondiario.
Il prezzo dei terreni individuati ed espropriati veniva determinato
secondo un valore tabellare determinato dagli uffici imposte e l’indennità di
esproprio veniva corrisposta ai proprietari dei terreni in titoli di debito
pubblico al tasso del 5% redimibile in 25 anni.
Per i latifondisti non fu un buon affare.
Dopo questi passaggi obbligatori i terreni espropriati venivano trasferiti
in proprietà all’O.N.C. e in seguito assegnati a lavoratori manuali della
terra, cioè a contadini e braccianti agricoli.
Questi non dovevano essere proprietari di altri terreni o enfiteuti di fondi
rustici o tali che limitassero l’impegno della manodopera di famiglia.
Gli ispettori provinciali dell’agricoltura, competenti per territorio,
dovevano provvedere all’accertamento di tali requisiti e verificare
l’efficienza lavorativa degli assegnatari attraverso un metodo rigoroso,
scientifico quasi, ma privo di valutazione, che tenesse conto di fattori più
umani, dando valori numerici al concetto di unità lavorativa.
Un esempio per tutti: lavoro di uomo adulto 1.0 U. L., lavoro di donna
adulta 0,8 U. L., lavoro di un ragazzo 0,5 U. L.
Chi legge tragga il proprio giudizio su tale procedura…
Una volta accertati i requisiti, l’ente procedeva all’assegnazione del
terreno ai richiedenti attraverso un atto notarile che prevedeva in modo
inequivocabile e per tutti la clausola “la vendita viene effettuata con patto di
riservato dominio e la proprietà si trasferisce nella sua pienezza dopo il
versamento dell’ultima rata della somma pattuita”.
Le rate annuali avevano una durata di anni 30 e dovevano essere
posticipate.
Veniva anche imposto all’assegnatario un periodo di prova di conduzione
dei terreni assegnati per 3 anni, ed il termine prova, se non si concludeva
con un giudizio positivo da parte degli ispettori, invalidava l’atto di
concessione.
Il terreno non poteva essere alienato se non dopo l’espletamento di tutte
le condizioni riportate in atto, e cioè dopo 30 anni.
Non era ammesso il riscatto anticipato dei terreni.
Per curiosità si riporta la formula che veniva usata per la determinazione
del prezzo da pagare da parte degli assegnatari.
Q. amm = s. (qn-1)/(r. qn)
S = danaro da ammortizzare
R = 3,5% tasso di interesse
Q = 1+r
N = 30 anni (durata del mutuo).
Per meglio capire l’importanza della Legge di Riforma Agraria si
riportano dati che, per la loro semplicità, risultano significativi.
In tutta Italia dovevano essere espropriati 819.000 Ha ma, per i motivi
detti in precedenza, ne furono espropriati realmente 673.000 ha, mentre
89.00 ha furono acquistati direttamente dagli enti riforma e, quindi, quelli
da assegnare complessivamente furono 762.000 ha.
Effettivamente, però, in tutta Italia furono assegnati 617.000 ha ed in
Campania solo 15.000 ha, pari a 2,40%, la maggior parte in Terra di
Lavoro.
Quest’ultimo dato è significativo e spiega ancora una volta la forte
resistenza dei latifondisti protetti e difesi in vario modo dal mondo politico
di allora, che cercò di svilire e ostacolare apertamente l’applicazione degli
espropri per pubblica necessità, usando qualsiasi mezzo per dimostrare che i
terreni individuati da espropriare rispondevano a quelle eccezioni che la
legge contemplava e che sono state appena riportate.
Anche se vi sono riserve sulla bontà e l’efficienza della Legge di Riforma
Agraria, essa rappresenta comunque un primo serio tentativo di creare le
piccole proprietà fondiarie e ridurre lo strapotere dei latifondisti in Italia.
Quando le occupazioni delle terre incolte della zona presa in
considerazione terminarono, eravamo già verso la fine del mese di gennaio
del 1950.
Ora i contadini non partivano più organizzati in cortei guidati dai
responsabili politici e sindacali locali ad occupare le terre, essi rimasero da
soli e, perciò, maggiormente esposti a continue angherie e minacce nel
presidiare il terreno occupato e a coltivarlo.
Questa decisione, supportata anche dal Partito Comunista, da Federterra e
dalla Cisl, convinse gli attori interessati, cioè i proprietari dei terreni di
Torre Vecchia e Cemice, a muoversi insieme alle autorità, come il Prefetto,
e aprire un tavolo di incontro tra le parti. Ciò per risolvere un grosso
problema che poteva creare tensioni e gravi incidenti tra i contadini che non
andavano via e i fattori con i loro guardiani che gestivano i terreni per conto
dei vecchi proprietari.
Il problema non era semplice da risolvere in quanto i rappresentanti delle
proprietà terriere cercarono di giocare al ribasso, soprattutto facendo
proposte e offrendo la disponibilità ad assegnare altri terreni, pur essi
incolti, distanti dal paese e difficili da raggiungere, per evitare
l’assegnazione dei terreni occupati in quanto vi erano forti pressioni da
parte dei fattori che avevano trasformato questi terreni quasi in un feudo
personale.
Verso la metà del mese di maggio del 1950, il giorno 20, le parti
interessate, i rappresentanti dei proprietari dei latifondi e le organizzazioni
dei contadini furono urgentemente convocate alle ore 23.00 circa presso
l’Ente Cappabianca in Santa Maria Capua Vetere, proprietario dei terreni di
Torre Vecchia ed altri limitrofi, per iniziare un discorso risolutivo sul tema
dell’attribuzione delle terre del parco in fitto alle cooperative dei contadini,
promotrici delle azioni di occupazione delle stesse terre.
Il viaggio dei responsabili delle cooperative, fatto di notte e con la paura
che questa convocazione potesse essere una trappola per farli fuori
addirittura fisicamente e quindi tagliare la testa al movimento che si era
creato e radicato nel paese, fu un viaggio, si può affermare, da incubo e
pieno di paura.
Ma non partirono da soli perché anche persone del paese, non interessate
direttamente, e che nei giorni dell’occupazione avevano quasi deriso
l’azione realizzata nei confronti dei ricchi proprietari terrieri, convennero
che questo sparuto e timoroso gruppo di persone che si recava a Santa
Maria Capua Vetere, obbligato a transitare per luoghi e strade in cui
malavitosi e camorristi erano padroni assoluti, aveva bisogno della presenza
di un gruppo di difesa che potesse garantirne l’incolumità, anche a costo di
usare le armi. I rappresentanti dei contadini, in nome dei loro interessi e
degli ideali che li sostenevano, sarebbero comunque andati, con o senza
protezione. La determinazione di questi uomini spinse i compaesani a fare
da scudo.
La notizia della presenza di persone nel gruppo votate a tutto pur di
garantire l’incolumità dei delegati alle trattative giunse a chi poteva
decidere una tale rappresaglia, consigliandogli di recedere da azioni
violente. Ciò permise ai nostri eroi di raggiungere sani e salvi l’Ente
Cappabianca dove erano attesi.
Le testimonianze delle persone che erano parte della delegazione, anche
nell’incontro successivo non hanno saputo trovare una spiegazione valida
del perché fu scelto come luogo di riunione l’Ente Cappabianca di Santa
Maria Capua Vetere e, soprattutto, un orario così assurdo per affrontare una
questione di vitale importanza per contadini e latifondisti.
Ad aspettare il gruppo, nell’antico palazzo di proprietà dell’Ente
Cappabianca, c’era il Presidente dell’ente e Presidente anche della Banca di
Conto e di Sconto Fossataro, il rappresentante dei soci Auriemma, un
rappresentante del Prefetto di Caserta e quelli della Federterra e della Cisl.
 
 
Dopo i convenevoli di rito, il Presidente Fossataro, pur esprimendo il suo
profondo disappunto per l’occupazione dei terreni di Torre Vecchia con la
forza, propose ai presenti che l’ente, per mettere fine ad un contenzioso e ad
altre azioni e manifestazioni, era disponibile ad offrire subito del terreno
che si trovava vicino al campo d’aviazione di Capua.
Questa proposta era una trappola. Fossataro era un uomo abile ed astuto e
cercava di sviare l’attenzione delle richieste sui terreni di Torre Vecchia e di
Cemice, di sua diretta proprietà, in modo che, se i presenti avessero rifiutato
tale offerta, magari perché i terreni erano molto lontano dal paese e difficili
da raggiungere con i mezzi che allora esistevano, avrebbe chiuso la partita
rinfacciando di aver rifiutato un’offerta ragionevole. In caso di rifiuto
definitivo, l’ente si sentiva sciolto da qualsiasi impegno preso con le
autorità.
I rappresentanti di Federterra, con Giovanni Canzano ed Antonio Del
Duca, dichiararono che un’offerta simile il Presidente Fossataro se la poteva
tenere per sé. Rappresentava solo un’estrema provocazione ed un’offesa per
tutti i contadini che volevano la terra da loro occupata e non altro e quindi
dichiararono di abbandonare la trattativa continuando la lotta con altre
manifestazioni di occupazione, sino a garantirsi ciò che si erano guadagnati
sul campo.
L’intervento del Presidente della Cooperativa “Il Popolo”, rispondente
alla Cisl, Michele Manica, che non aveva partecipato di persona alle
occupazioni delle terre, ma aveva mandato i suoi contadini insieme a quelli
organizzati dal Partito Comunista e da Federterra, disse, in modo molto
chiaro, che se l’ente non avesse rispettato l’impegno di dare in affitto i
terreni di Torre Vecchia e di Cemice, anche la sua sigla sindacale avrebbe
abbandonato la riunione ed avrebbe partecipato, con i comunisti, alle
manifestazioni di protesta ed alle future occupazioni delle terre.
Questo fu un colpo allo stomaco per Fossataro, che sperava, visto il clima
che allora si viveva di contrapposizioni forti tra comunisti e democristiani,
di rompere i due movimenti, metterli contro e far saltare le trattative.
Il Presidente Fossataro fece chiamare il gruppo di Federterra e del Partito
Comunista, che già stavano fuori dalla porta per andare via, e riaprì le
trattative.
Si arrivò ad un compromesso, accettato da tutti.
Del terreno di Torre Vecchia vennero offerti 32 moggi in fitto, da dividere
sul posto tra 32 famiglie appartenenti alle due cooperative Nuova Terra e Il
Popolo, e 70 moggi del terreno di Cemice e delle Salicelle da attribuire,
secondo le necessità dei contadini, alle due cooperative, ma tale operazione
si doveva concretizzare nella sede del Partito Comunista di Falciano.
Fu anche ufficializzato che la Federterra, attraverso il suo dirigente
Dugnano, avrebbe sostituito i rappresentanti dei contadini del carinolese
nello sviluppo delle trattative e la successiva concessione delle terre in fitto.
Si affrontarono, con l’aiuto del dottore Pitolo dell’Ispettorato Agrario, i
corrispettivi di fitto che i contadini assegnatari dovevano versare,
quantizzando per ogni moggio di terreno 4 tomoli di grano, detraendo il
30% per le migliorie agrarie che dovevano essere effettuate.
Il contratto di fitto fu vantaggioso per i contadini ed essi si sentirono
obbligati ad effettuare quelle piccole migliorie agrarie che, poi, cambiarono
il volto dell’intera zona.
La riunione si sciolse alle prime luci dell’alba seguente, con l’impegno di
rivedersi nella sede del Partito Comunista di Falciano il sabato successivo,
il giorno 27, alle ore 10.00.
Tutti furono presenti all’appuntamento del sabato 27 del mese di maggio
1950 nella sede del Partito Comunista di Falciano in Via Falerno, e vennero
assegnati i primi 50 moggi di Cemice, divisi tra le due cooperative che
rappresentavano tutti i contadini della zona del carinolese e le stesse, poi,
con identiche modalità, distribuirono i terreni ai loro soci.
Il sistema impiegato per l’assegnazione dei terreni fu quello di
confezionare tanti cartellini quanto erano i terreni, già divisi e numerati, e
altrettanti con il nome dei richiedenti.
I cartellini vennero posti in due cappelli diversi.
I presidenti delle due cooperative, alternativamente, estraevano il
cartellino dal cappello dei terreni che veniva abbinato a quello estratto dal
cappello contenente i nominativi.
Non tutti i richiedenti furono accontentati perché le richieste erano
superiori al terreno reso disponibile quel giorno; il resto, gli altri 20 moggi
di Cemice e delle Salicelle, venne assegnato sul posto sette giorni dopo,
come pure i 32 moggi di Torre Vecchia.
Il metodo usato per l’attribuzione dei terreni fu sempre lo stesso.
Il tanto coraggio dimostrato da dei poveri contadini veniva finalmente
ripagato in modo tangibile, ora potevano coltivare un pezzo di terra, per se
stessi e per le proprie famiglie.
Si apriva una nuova e più propizia era, e fu festa per tutti.
I terreni del Parco di Tozza, occupati dai manifestanti in precedenza,
vennero considerati nel piano della Legge di Riforma Agraria per la
Campania, da espropriare, per essere assegnati con regolare atto di vendita
ai contadini. Una parte andò agli stessi che li avevano occupati, in modo da
creare quelle piccole unità di proprietà agricole come era nello spirito e nel
rispetto della legge.
I 115 moggi di terreno del Parco di Santo Spirito, una grande fetta del
Parco di Tozza, furono divisi in parti di circa 3 moggi e assegnati, nel giro
di 3 anni, ai circa 30 richiedenti aventi diritto, che si dovettero accollare,
oltre al pagamento annuale del mutuo trentennale, tutte le imposizioni
attuative riportate nell’atto di acquisto. Su di essi gravò anche il
miglioramento fondiario, come la creazione delle strade interpoderali di
accesso.
Il resto di questo terreno era stato venduto precedentemente dai vecchi
proprietari e non entrò a far parte del pacchetto di esproprio.
Questa fu un’ulteriore vittoria dei contadini e dei salariati della zona,
aiutati anche dalla desistenza dei vecchi proprietari a ostacolare, come
fecero altri latifondisti, l’attuazione dell’esproprio. Questa remissività dei
“signori” subita obtorto collo permise di accelerare la concessione dell’uso
dei terreni agli assegnatari.
L’assegnazione dei terreni dei Carabottoli, terreno demaniale e gestito
dal Comune di Carinola, ebbe un percorso molto difficile e gli ostacoli
messi in campo dai politici che gestivano il Comune di Carinola, in accordo
con i loro referenti a livello locale e nazionale, causarono un notevole
ritardo per giungere ad effettuare e portare al termine le procedure
necessarie per mettere la parola fine ad un tira e molla che sarebbe potuto
durare all’infinito.
Ciò che frenava tutto era la preoccupazione degli amministratori del
Comune di Carinola, preoccupati che il frazionamento dei terreni, e la
successiva assegnazione in fitto agli aventi diritto nell’applicazione della
Legge Gullo, avrebbe portato un minore introito per il Comune. Tal cosa
avrebbe causato effetti negativi nel ripianamento dei bilanci, con la
prospettiva di chiusure in negativo.
Questa preoccupazione, oggi, a noi appare fuor di luogo e solo dettata da
interessi egoistici, se non addirittura affaristici.
Chiudere i bilanci consuntivi comunali in negativo, sino all’entrata
dell’Italia in Europa, era un esercizio abitudinario degli amministratori di
tutt’Italia, ed in special modo dei comuni del Sud della Penisola. Nei rari
casi di presentazione dei loro bilanci in pareggio reale, gli amministratori
erano ritenuti inefficienti ed incapaci!
Per il Comune di Carinola, la preoccupazione di non poter ripianare i
bilanci, dovuta al fatto di dare in affitto ai contadini richiedenti i terreni dei
Carabottoli, era solo una giustificazione di comodo e col fine ben preciso di
far rimanere le cose come erano. I politici di allora preferivano tutelare gli
interessi degli affittuari, latifondisti di fatto e non di diritto, che
condizionavano i vari rappresentanti del Consiglio Comunale di Carinola,
lo stesso sindaco e la Giunta.
Si giustificava affermando che erano in divenire vari progetti, proposti e
mai realizzati, di insediamenti industriali e persino di un aeroporto
internazionale. Col passare degli anni si scoprì il vero interesse di tali
politici e, come abbiamo amaramente verificato, pensarono di costruire in
quei luoghi una mega discarica, che avrebbe portato, a loro dire, ricchezza
per tutti, e non, come sarebbe avvenuto, la distruzione dell’economia
agricola della zona, una delle poche risorse ancora presenti sul territorio,
per non parlare della salute pubblica.
La fantasia, esercitata da anni di continue collusioni con i maggiorenti
dell’epoca, di amministratori e politici di allora, a livello locale e nazionale,
arrivò sino a promettere, dopo l’assegnazione dei terreni ai contadini, che se
lo avessero lasciato libero senza alcuna procedura, avrebbero avuto in
cambio posti di lavoro per l’intera famiglia presso i fantomatici impianti
che presto si sarebbero realizzati in loco.
Ma i contadini, benché sprovveduti, non caddero nell’inganno.
Un esempio per capire meglio.
Siamo nel 1980, ben lontano dalla storia qui raccontata, ed ancora la
favola di qualche cosa di grandioso frullava nella testa degli amministratori
del Comune di Carinola, tanto da spingere il sindaco di allora, magg.
Gioacchino Loffredo, su autorizzazione della sua Giunta e tramite
l’avvocato Valerio Gaglione, a notificare ad Antonio Del Duca, affittuario e
Presidente della Cooperativa Nuova Terra, il rilascio del terreno in fitto ai
Carabottoli per pubblica utilità.
Si riportano le motivazioni: “il Comune di Carinola ha urgente necessità
di disporre di detto fondo totalmente libero da persone e cose stante
l’urgenza di realizzare opere indilazionabili aventi carattere di pubblica
utilità, dal momento che a tale scopo è stata destinata l’intera area”.
La maggior parte degli affittuari, stanchi per il duro lavoro che tali terreni
richiedevano e stremati da sollecitazioni ed imposizioni che giornalmente
ricevevano da parte degli amministratori del Comune di Carinola, ma
soprattutto la dilagante emigrazione che spinse molti degli assegnatari a
cercar miglior fortuna in Svizzera o in Germania, lasciarono i terreni,
perdendo le conquiste ottenute dai loro coraggiosi padri con rischi e
sacrifici enormi.
Oggi chi va ai Carabottoli ha la prova provata sia dell’inganno perpetrato
nei confronti di quei poveri e diseredati contadini, sia dei sogni e delle
chimere industriali che affollavano le menti di tutte quelle persone che,
direttamente e indirettamente, amministravano il Comune di Carinola.
I Carabottoli, tranne qualche miglioria apportata dai contadini di allora, è
rimasto il terreno di sempre: un terreno destinato al pascolo e poco al
seminativo.
I Carabottoli vennero anch’essi assegnati, pur con le tante resistenze che
dovettero rientrare nel momento in cui intervenne il sindacato Federterra e
il Partito Comunista a richiedere l’applicazione della Legge Gullo. Per quel
terreno demaniale ed incolto intervenne in modo perentorio anche la Cisl,
nella persona del suo segretario di zona, sig. Lillo, di Sessa Aurunca, che
minacciò che se non si fosse passato subito all’assegnazione dei lotti di
terra ai richiedenti attraverso le loro cooperative, anche il suo sindacato si
sarebbe unito alla Federterra, in modo deciso, per l’occupazione con la
forza dei terreni di Carabottoli a tempo indeterminato.
Politicamente gli amministratori del Comune di Carinola si sentirono
scoperti e a malincuore dovettero cedere, pena non avere più benefici e
vantaggi che venivano sicuramente assicurati dal sindacato democristiano.
Vennero richieste alle due cooperative, Nuova Terra ed Il Popolo,
l’elenco dei loro soci e ad ognuno fu mandata una lettera di convocazione
per presentarsi in sede onde verificare l’esistenza delle caratteristiche
richieste per l’assegnazione delle terre incolte.
Tutte le operazioni, lunghe e laboriose, vennero svolte alla costante
presenza dei presidenti delle due cooperative e dei sindacati Cisl e
Federterra.
Il terreno venne diviso in 4 parchi e ai contadini richiedenti di Falciano
ne vennero attribuite 51 moggia, quasi tutte del quarto parco, al di là del rio
Agnena.
I nuclei familiari con cui fu stipulato il contratto, cioè tutti i richiedenti di
Falciano, senza distinzioni di appartenenza politica o sindacale, furono 38.
Si stabilì anche un fitto annuo da pagare, che era di lire 18.000 per ogni
moggio di terreno.
Il fitto doveva essere pagato dagli interessati presso la Tesoreria del
Comune di Carinola.
La Cooperativa Nuova Terra si impegnò, con il suo Presidente Antonio
Del Duca, a raccogliere dai suoi soci i canoni da pagare annualmente, anche
per tranquillizzare gli amministratori di Carinola su un introito certo
annuale e per meglio tutelare il contratto degli stessi soci.
Da testimonianze acquisite molte volte, il Presidente della Cooperativa di
Nuova Terra, per evitare di presentarsi con qualche fitto inevaso alla
Tesoreria del Comune, anticipava di propria tasca la somma necessaria e, a
volte, le somme anticipate non venivano recuperate.
Questi episodi, anche se rari, significano che i contadini di difficoltà,
allora come oggi, ne avevano perché la produzione di ciò che seminavano
era aleatoria, legata alla bontà o meno delle stagioni.
L’occupazione delle terre incolte tuttavia portò in quel periodo un
beneficio enorme ed inatteso, un centinaio di famiglie di contadini di
Falciano realizzò il suo sogno: avere un po’ di terra per potersi sfamare.
Michele Manica, Presidente della Cooperativa Il Popolo, ebbe assegnati
due moggi di terreno a Cemice e li rifiutò perché era un caporale, portava le
persone a lavorare per gli altri, ed il suo sogno era solo quello di aiutare gli
altri ad avere un pezzo di terra.
A Giovanni Canzano la sorte destinò il fitto di una quota di terreno dei
Carabottoli, ma rinunciò anche lui perché era un sarto ed un rivoluzionario
convinto, che credeva nella lotta per la giustizia e la libertà e che la terra
doveva essere lavorata da chi sapeva farlo.
Antonio Del Duca ebbe in fitto, come Presidente della Cooperativa
Nuova Terra, un pezzo di terreno dei Carabottoli, era un contadino come i
suoi fratelli, con i quali divideva ciò che possedeva e non poteva rinunciare
a quella terra, ma dedicò il resto della sua vita ad aiutare i soci della sua
cooperativa, organizzandoli nel lavoro e raccogliendo i fitti da portare e
versare nelle casse del Comune di Carinola.
Ancora oggi suo figlio, Raffaele Del Duca, ricorda i suoi viaggi in
motocicletta, insieme al padre Antonio, quando l’accompagnava a Carinola
a versare i fitti dei soci della cooperativa.
Sognare per un bambino non costa niente, perché sicuramente un angelo
buono, se i suoi sogni sono buoni, li realizza. Sognare per un adulto, e
soprattutto per un contadino, può costare una vita intera di sacrifici, di
rinunzie, di sofferenze, di delusioni e di fatica, ma se si realizza questo
sogno significa che ancora una speranza accompagna il mondo che,
apparentemente, può sembrare distratto e senza futuro.
La storia che si è raccontata in queste pagine è quella di un sogno di tanti
stremati contadini che seppero, però, sognare e lottare per un ideale alto e
nobile, a sprezzo di ogni pericolo. Questi uomini, uomini veri, lasciano ad
ognuno di noi un’eredità morale incalcolabile e, purtroppo, spesso ignorata.
In un mondo che ha smarrito i suoi valori fondamentali, forse non è più
possibile rifarsi all’insegnamento di speranza lasciato dai padri.
Contadini e salariati nel 1949, guidati da Giovanni Canzano, Antonio Del
Duca, Enrichetto Stodo ed altri, andarono ad occupare le terre incolte e
quelle dei latifondisti, con convinzione ferma e la speranza irrinunciabile di
rompere in modo definitivo il monopolio di poche famiglie. Famiglie forti
del potere ricevuto da possesso, gestione e controllo dei latifondi, con
l’appoggio delle leggi in vigore e quello di politici corrotti e protervi.
Conveniva un po’ a tutti tenere a terreno improduttivo, come prigioniere di
chissà quale guerra, tante terre fertili. Questi contadini, pur privi quasi
sempre di istruzione, capirono che la conquista di quelle terre li avrebbe
affrancati da una miseria perpetua. Capirono che l’unica speranza era quella
di reclamarle e che, solo loro, con l’esperienza accumulata in secoli di
lavoro agrario, potevano trarne frutti tali da assicurare il pane ai loro figli e,
cosa ancor più irrinunciabile, dignità, fierezza, orgoglio. Questa la molla
che li spinse a rischiare la vita, perché la loro vita, così com’era, non aveva
senso: dovevano conquistarsi il futuro.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Corso del Re e le sue “Basole”
La corte dei Toscano
Via Falerno – Sede del P.C.I. degli anni 50
Un vicolo di Falciano del Massico
 
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Il chicco di grano è vita


 
 
 
 
 
In queste pagine si tenta di descrivere, con l’aiuto di testimonianze delle
persone ancora in vita, come, nel paese preso a soggetto, nel corso degli
anni non si è dimenticata la tradizione di “fare” il pane, elemento essenziale
delle povere e delle ricche mense di milioni di persone.
Il pane veniva preparato in tutte le case del paese. Era una tradizione e un
bisogno per irrobustire le tavole del tempo, piuttosto povere di cibo. Oggi è
una pratica praticamente ignota dalle giovani generazioni, ma ancora viva
nelle menti dei più anziani. Loro ricordano il profumo eccezionale che si
diffondeva per le vie del paese, un aroma senza eguali per bontà e
delicatezza. Percorrendo le nostre strade sembra ancora di sentirlo come
quando, bambini, smaniavamo nell’attesa della cottura, sperando il prima
possibile di averne una pagnottella, magari con uno scarso companatico,
che poteva essere un’acciuga salata, un pezzettino di salciccia, un filo
d’olio, poveri alimenti che a noi sembravano delizie inarrivabili. La fame li
rendeva ineguagliabili, ma forse lo erano davvero.
Coloro che passavano dove il pane era stato appena sfornato avvertivano
nel loro cuore un’aria di festa, le loro narici ne pregustavano il sapore e la
mente la gioia che in tavola ci sarebbe stato da mangiare. Erano sensazioni
che si ripetevano in ogni corte o strada del paese.
Alla base di questa euforia vi era la considerazione, dopo sofferenze e
privazioni, che la loro terra non era avara con nessuno, e ricompensava tutti
con il grano nato dal suo grembo, provvedendo così alla sopravvivenza dei
propri figli.
Era una gioia di riconoscenza verso la madre terra, che trasformava il
sudore dei suoi figli nel miracolo del pane.
Il terreno che scende dalle colline e si distende lungo il tratto di territorio
che giunge sino ed oltre il fiume Savone da tempo ha cambiato la sua
fisionomia. Dove prima si coltivava il grano ora allignano coltivazioni a
frutteti, importate da contadini non indigeni e che, per un certo periodo, e
oggi solo in parte, hanno costituito fonte di ricchezza per i nuovi coltivatori
e, in piccola parte, anche per gli abitanti locali proprietari di terreni.
Il cambio di destinazione, da terra adibita alla produzione di grano e
cereali a quella di alberi da frutta, non ha seguito quasi mai criteri di
razionalità, cosa che ha portato, in alcune annate, un prodotto così scarso da
produrre un reddito nullo, bassissimo. Il danno più grave è quello di aver
trasformato abitudini e comportamenti, causando il quasi totale
annullamento della vocazione primaria dei terreni che, per secoli,
spontaneamente offrivano agli abitanti del paese il necessario per
sopravvivere ed anche la dignità di essere artefici del loro vivere
quotidiano.
Questa riflessione non vuole significare un’accusa nei confronti di
nessuno, ma il cambio di coltivazione fu così repentino da creare illusioni in
quelle persone che furono i pionieri di questo cambiamento, perché si
sperava che ciò avrebbe generato un cambiamento positivo nell’economia
del paese con l’allargarsi del numero di persone che, con questa
innovazione, avrebbe avuto più opportunità per avere una vita più dignitosa
e meno sottomessa. Fu una pia illusione.
Da testimonianze e da un’analisi del fenomeno risulta che lo sviluppo
produttivo dell’agricoltura del territorio non allargò la cerchia di persone
che si affrancarono e divennero più autonome e libere, anzi questo
fenomeno, avendo creato nuovi signori e padroni, costrinse maggiormente
alla sottomissione di lavori molto faticosi e senza quella ricompensa
sperata.
Si creò un nuovo ceto di persone ricche e danarose che spostò il
baricentro della vita del paese verso la campagna, costruendo sui terreni
acquistati con i proventi ricavati dalla vendita dei loro prodotti altre terre
sino ad allora in fitto. Vissero spesso la loro vita lontano dal paese, in case
edificate altrove, quasi a significare che loro erano venuti solo per sfruttare
una terra fertile ma che poco amavano. Di rado familiarizzarono con gli
abitanti dal paese, forse consci che non potevano instaurare rapporti veri
con persone che subivano i loro sfruttamenti. Nemmeno furono capaci di
investire per ottenere dalla fertile terra dove erano giunti un prodotto più
selezionato e quindi maggiormente richiesto dai mercati.
Quando anche i piccoli proprietari terrieri del paese si accorsero dei primi
facili guadagni attraverso la trasformazione dei terreni agricoli in frutteti,
fecero a gara per trasformare le antiche colture in quelle importate,
distruggendo moltissime varietà vegetali autoctone di alto valore e
ineguagliabile sapore. Fu un vero crimine. Alla fine, quello che davvero
ottennero fu di avere un surplus di prodotto, troppo spesso finito al macero
pubblico, tra truffe e furfanterie continue.
Parecchie colline vennero livellate, con criminale scempio dell’ambiente,
per impiantare nuovi, e spesso inutili, frutteti. Ancora oggi le nostre
ubertose colline mostrano le ferite di quelle scriteriate offese.
Quella facile corsa a una ricchezza che si rivelò solo un miraggio
all’inizio portò un discreto guadagno, ma presto si tramutò in illusioni e
delusioni, delle quali ancora oggi il paese soffre. Certo, tornare indietro non
si può, non si possono sanare le ferite inferte a un territorio gravemente
compromesso ma, almeno, bisogna cercare di salvare quello che è ancora
integro.
Ritornando ai giorni di questa storia, il paese era ben diverso di quello di
oggi e nei luoghi in cui poi sono state tracciate strade e costruite case allora
cresceva ancora il grano e le vigne producevano l’ottimo Falerno.
Era il paese del grano, come in molte realtà meridionali, perché questo
cereale era quello che maggiormente contribuiva a sfamare la popolazione.
L’abbondanza o la scarsità del raccolto determinava il tenore di vita delle
genti.
Le testimonianze affermano che anche i debiti contratti durante il corso
dell’anno da parte di chi produceva il grano venivano saldati con tale
prodotto. Molti coltivatori e signori delle masserie stabilivano patti con tutti
coloro che offrivano i loro servizi per la produzione del grano, tipo fabbri,
meccanici e gli stessi contadini, con un contratto, stipulato sulla parola,
denominato “staglio” che, in base al servizio prestato, veniva compensato
con un tot di “tomoli” di grano.
Per dare la misura dello “staglio” bisogna ricordare che ogni tomolo di
grano equivaleva a circa 50 chilogrammi di grano.
Un favorevole “staglio” con pagamento in grano risolveva, a volte, il
fabbisogno di farina e pane per l’intero anno.
Il grano e la sua produzione abbondante, dovuta anche ad una terra
generosa, creava lavoro e prosperità per tutti.
Ognuno lavorava in questo settore, dal bovaro che guidava i buoi nel tiro
dell’aratro che apriva la terra fumante nel tardo autunno, a chi seminava nei
solchi il grano, a chi ne curava la crescita delle piantine con la sarchiatura e
pulitura, a chi lo tagliava, agli addetti alle macchine che lo mietevano, agli
operai e braccianti che ne curavano, con l’aiuto delle macchine, la pulitura e
la stivatura in grandi “sportoni” che venivano confezionati da artigiani di
quella stramma che cresceva abbondante sulla montagna, e che era un
elemento indispensabile per la preparazione di tali contenitori e assicurava
lavoro a una categoria di lavoratori, generalmente arrivati dal basso Lazio.
Esistono ancora foto sbiadite che testimoniano la fierezza e la serenità di
persone schierate vicino ad una trebbiatrice sopra l’aia di una masseria, che
evidenzia in modo semplice e, ci verrebbe da dire, poetico, quale era il
mondo che girava intorno alla produzione del grano.
Piace anche immaginare, per un paese ancora poco aperto
all’innovazione, la perplessità all’arrivo della prima mietitrice, che
sostituiva il taglio del grano con la falce e la formazione dei covoni che,
prima, venivano portati sull’aia con lavoro manuale.
È doveroso ricordare i falciatori del paese, famosi nella zona, perché,
chiamati nel momento in cui la mietitrice doveva iniziare il suo lavoro,
erano i soli capaci di aprire i cosiddetti “andi” della macchina.
Sentire nella notte il rumore del trattore che tirava la trebbiatrice per
portarla nel luogo dove si doveva raccogliere il grano rallegrava il cuore di
tutti, perché comunicava che il grano nuovo stava arrivando e questo voleva
dire che per un altro anno il pane sarebbe stato sulle povere tavole del
paese.
In ogni masseria la festa di chiusura della trebbiatura era un
appuntamento immancabile, dove il conduttore della masseria coglieva
l’occasione per mostrare la sua ricchezza e la sua gioia, organizzando un
grande pranzo di chiusura sull’aia per gli operai. Per il conduttore della
trebbiatrice e dei meccanici che, inevitabilmente, venivano chiamati per
riparare i guasti delle macchina, si apriva il piano terra della masseria, dove
veniva preparato il tavolo intorno al quale sedevano i signori delle masseria
insieme al conduttore della trebbiatrice e al meccanico invitato di turno.
Il pranzo era lungo, ricco e succulento, confortato da vino fresco e forte
delle cantine del padrone, i canti all’imbrunire chiudevano la fine della
trebbiatura del grano.
Non va dimenticata l’opera delle spigolatrici, generalmente delle
fanciulle che, insieme alle loro madri, con il permesso del padrone del
campo, andavano a raccogliere le spighe rimaste sul terreno dopo il
passaggio dei falciatori o delle mietitrici.
Questa antica tradizione popolare era sfruttata dai più poveri per mettere
insieme un poco di grano da poter macinare, da integrare a quello che,
faticosamente e con tanti sacrifici, erano riusciti a comprare per l’intero
anno.
In quel periodo la disponibilità di grano era sufficiente a soddisfare le
esigenze del paese, anzi durante le stagioni più favorevoli si riusciva a
venderne le eccedenze, e questo commercio aiutò notevolmente alcuni
proprietari terrieri e commercianti a rimpolpare le loro finanze.
La gente del paese viveva del proprio lavoro e, con quello che ne
ricavava, doveva provvedere all’acquisto del grano o della farina per
procurare il pane per la famiglia.
I contadini stabilivano accordi con i datori di lavoro che producevano il
grano per avere la ricompensa delle fatiche in denaro o, in alternativa, col
grano. Erano questi i contadini più fortunati, perché con il grano in casa
negli “sportoni” assolvevano le necessità della famiglia e le bocche da
sfamare, con un certo agio.
Il grano che veniva prodotto in quel periodo nelle campagne era della
varietà “rosiello”, di colore rossastro e con spiga grossa, il “grano virgilio”,
di prima qualità, il “grano maggiaiolo ed il “grano saraolla”, di colore
scuro, che, mischiato a quello di altri tipi, rendeva il pane più saporito.
La maggior parte delle persone comprava la farina già macinata e pronta
per l’uso al mulino.
Esistevano in quel periodo, alla periferia di Falciano, tre mulini, quello
dei Santoro o del “Casone” dove Enrico, conosciuto e benvoluto da tutti,
esercitava il mestiere di molitore di grano, ed il Mulino del Lago,
appartenente a Sebastiano Razza, ben conosciuto in paese. Più distante,
vicino al cavalcavia della strada della stazione, zona di Pioppara, vi era un
altro mulino, quello di don Giovanni Prata, condotto dal molitore
Alessandro Di Tofano
Tutti e tre i mulini sono stati cancellati dal tempo. Il primo, quello del
“Casone” o dei Santoro, è stato trasformato in una dependance della villa
dell’attuale proprietario, quello del lago e quello di Prata sono ridotti a
ruderi abbandonati, pieni di ratti e serpenti.
Nel periodo considerato questi tre mulini erano il fulcro della vita del
paese, perché erano luoghi in cui tutti si recavano, soprattutto il primo, per
avere la materia prima per fare il pane ed avere la molitura migliore e la
farina più fine.
Tenere il grano in casa comportava il rischio che gli insetti o altri agenti
potessero guastarlo, quindi era necessario governarlo girandolo di continuo
negli “sportoni”. Questa pratica evitava che l’umidità lo rendesse
inservibile, ma non sempre il risultato era garantito. Quindi era più facile
comprare direttamente la farina, anche se aveva un costo maggiore.
La farina comprata era quella rimasta al mugnaio da chi andava a
macinare il grano, come ricompensa del lavoro della molitura.
Era una farina fresca e controllata che rendeva bene quando veniva
trasformata in pane.
La farina che veniva portata dal mulino in casa era considerata come
qualcosa di sacro e l’avvicinarsi del momento della sua cernita era un
momento di grande importanza, perché il futuro pane nascesse da mani
pulite e in un luogo altrettanto terso. Tutta l’operazione si svolgeva con la
massima cura e accortezza.
Alcune famiglie sono riuscite a trasmettere un rispetto sacrale verso il
pane, alimento principe e, a volte, unico, di quelle mense sempre troppo
scarse. Quasi tutte le massaie segnavano i pezzi di pane da infornare
incidendovi una croce, a testimoniare la riconoscenza verso il buon Dio che
aveva permesso la crescita.
La gratitudine verso il Signore si esprimeva anche con una rispettosa
castità, praticata durante la notte che precedeva, da parte di chi doveva
cernere e lavorare la farina per fare il pane.
Quando il pane non soddisfaceva il gusto né il tatto, la cattiva riuscita si
imputava a qualcuno che, troppo ardente, non aveva rispettato il tacito
obbligo di castità.
Questa tradizione ancora oggi viene rigorosamente rispettata da quelle
poche e ormai vecchie massaie che ancora preparano il pane come nei
tempi andati.
In ogni casa, ricca o povera che fosse, per fare il pane bisognava avere gli
attrezzi indispensabili per ogni fase della preparazione, fino al momento in
cui andava nel forno.
La solidarietà dei vicini, spesso, metteva a disposizione di chi ne aveva
bisogno gli attrezzi che eventualmente mancavano, perché il pane, elemento
sacro per ogni famiglia, meritava assoluto rispetto e amore in ogni fase del
suo processo. Solo se veniva preparato con devozione poteva essere
davvero buono.
Nelle case di quei tempi non mancava mai il “matrone”, una specie di
cassapanca rialzata, vuota al suo interno, con una copertura che serviva a
conservare bene le pagnotte di ogni giorno e anche qualche vivanda
avanzata dalla cena o dal pranzo.
Tale mobile veniva utilizzato anche per impastare il pane nel suo interno.
Il “matrone” venne abbandonato nei tempi successivi, sostituito da una
“matrella”, una tavola lunga non più di un metro e mezzo con bordi alti e
che, una volta svolte le sue funzioni, veniva ripulita con la “rattatoia”,
avvolta in un panno di lino ed appesa in un punto asciutto della casa.
Intanto nel “matrone”, in un angolo, veniva conservato il “criscito”, il
lievito madre per il pane.
Le operazioni per la cernita della farina venivano fatte con un poco di
anticipo, per avere il tempo necessario per fare il pane e infornarlo in
mattinata, prima che si andasse a lavorare, oppure durante le prime ore della
mattina per chi quel giorno restava a casa.
Per cernere la farina si aveva bisogno di una” cernitoia”, due assi lunghi
meno di un metro che poggiavano su due sostegni, dove si poteva
agevolmente muovere il setaccio avanti e indietro. L’operazione, svolta con
maestria, serviva a dividere il grosso della “vrenna” o crusca dalla farina.
Di solito la farina veniva sottoposta due volte alla cernita, per depurarla
dalla cosiddetta “ardita”, la parte più fine della crusca, in modo che il pane
risultasse più bianco e appetitoso.
Le famiglie povere, invece, cernevano una sola volta la farina per
ricavarne più pane, e poco importava se fosse meno bianco, l’importante era
averne qualche pezzo in più da consumare.
Per una famiglia di quel periodo, quasi sempre molto numerosa, spesso
composta da otto e più persone, per avere il pane bastante una settimana, o
dieci giorni, era necessario cernere circa 25 chilogrammi di farina.
Veniva preparato il “matrone”, o la “matrella”, pulendo con un raschietto
la “rattatoia”, eventuali residui formatisi sul fondo, perché la farina doveva
essere lavorata in un luogo del tutto igienicamente.
Fatta la cernita, venivano preparate due cumuli, di circa 12 chili di farina,
lasciandovi una cavità in mezzo, detta “fonte”, in cui venivano effettuate le
operazioni di innesto del “criscito”, o lievito madre, con la farina,
prendendo da tutti e due i mucchi, gradualmente, la farina necessaria
affinché l’impasto risultasse omogeneo.
Il “criscito” usato, prima di essere posto nella “fonte”, veniva allungato
con acqua tiepida per renderlo quasi fluido. Si aggiungeva il sale occorrente
per fare in modo che il pane non fosse scipito, di solito una trentina di
grammi per ogni chilo di farina.
Questa operazione veniva fatta ad occhio, senza l’uso di bilancia,
semplicemente usando il palmo della mano come misura di unità di peso.
Dopo aver mescolato la poltiglia del “criscito” sciolto e salato in acqua,
con la farina, il composto veniva lavorato a braccia nude, sino a che tutta la
farina veniva assorbita nell’impasto, formando una massa di pasta dalla
vaga forma sferica.
Da questo momento iniziava la fase di “ammassatura” della forma di
pasta, che veniva rivoltata varie volte e con i pugni chiusi. Chi si occupava
di “ammassare” cercava di rivoltare per bene l’interno della massa, per
evitare che si creassero dei grumi di farina non lavorata.
Per meglio penetrare con i pugni chiusi all’interno della pasta, si
immergevano le mani in acqua tiepida, ciò le rendeva più refrattarie
all’attaccarsi della pasta fra le dita.
Quando la pasta era perfettamente amalgamata, diventava di un bianco
candido e malleabile al tocco della mano. Se l’operazione era ben svolta
non lasciava segni quando veniva toccata e, comprimendola, riprendeva
subito il suo soffice aspetto. Quasi sempre era la mamma a fare il pane, a
volte aiutata dai figli. Infine si passava a preparare le forme di pane in modo
che potessero “sorie”, cioè lievitare, al punto giusto per essere infornato.
La prima preoccupazione nel preparare il pane, prima di iniziare a
dividere la pasta per ottenere le varie forme, era quella di approntare il
“criscito”, conservando un poco di pasta fresca per avere il lievito per la
prossima “fatta” di pane. Sovente, il criscito veniva scambiato con i vicini
di casa, in modo da averlo sempre fresco.
Le forme di pane venivano poste sopra tavole di circa due metri, il cui
fondo veniva coperto da un panno bianco che serviva da divisione tra le
varie forme.
Le forme più grosse e rotonde erano dette “pezzi di pane”, era il pane che
doveva durare più a lungo e pesava, una volta cotto, circa due chilogrammi,
Erano di circa un chilo, invece, le “cocce”, un pane allungato, praticamente
un filone, che veniva consumato per primo.
Per contentare i bambini, si preparavano delle piccole pagnottelle,
chiamate “cuccetelle” e, durante i periodi estivi, anche i “cocheri”, una
specie di ciambella con un foro al centro, che veniva affettata e infornata di
nuovo. Lo scopo era quello di ottenere le croccanti “freselle”
Secondo alcuni testimoni, il pezzo di pane rotondo era più comodo ai
contadini perché da ogni lato della sua circonferenza si potevano ricavare i
“cantuozzi” che, scavati dalla mollica, che poi faceva da copertura,
venivano riempiti di companatico e potevano facilmente essere portati dai
contadini come pranzo sul luogo di lavoro.
La “coccia”, croccante e saporita, di solito veniva consumata per prima e
si prestava per ricavarne fette piccole, da dare ai bambini come colazione da
portare a scuola.
L’impasto che lievitava veniva spesso controllato sino a quando la
panificatrice riteneva che il pane era “sorto” e pronto per il forno. Stabilire
il momento giusto per la cottura era un compito delicato, ma che le nostre
madri assolvevano benissimo in base alla loro esperienza. Sbagliare questo
“momento” significava compromettere l’intera “fatta” di pane, danno
rilevante per le povere famiglie.
Il passaggio successivo era la preparazione del forno, che doveva essere
riscaldato al punto giusto. Né troppo, né poco.
La preparazione aveva bisogno di una cura particolare in quanto la buona
riuscita della cottura dipendeva dall’efficienza del forno e del modo in cui
veniva preparato.
Nel giorno precedente si preparavano le fascine da ardere per portare il
forno alla temperatura adatta a cuocere il pane.
Nei tempi della nostra storia si potevano vedere scendere dalla vicina
montagna donne con sulla testa le fascine di legna e frasche, raccolte
soprattutto nello “ncuotto”, cioè posti in cui vi era legna, residuo di qualche
incendio, durante il periodo estivo. Qualche volta quelle donne furono
multate dai vigili mandati a proposito, perché tale legna non poteva essere
portata via. Anche in queste minime faccende le autorità dimostravano
spesso l’ottusità di chi ha potere: non capivano che l’asportazione di avanzi
vegetali (furto nella loro mente) assicurava una pulitura dei luoghi a costo
zero.
Oltre a questa legna di risulta si raccoglievano anche i rami delle “ricine”
ed i “rosielli”, e il loro scoppiettio nei forni si sentiva fuori dal vicolo o
dalle corti.
Famiglie che possedevano alberi di ulivo serbavano i rami residui della
potatura per bruciarli nel forno del pane e l’aroma sprigionato dalla
combustione di questi rami conferiva un odore ancor più gradevole al pane.
Quando non era disponibile legno pregiato, si ricorreva un poco a tutto,
compresi gli steli essiccati dei lupini, i cosiddetti “zarraconi”. Tutto era
utile e utilizzato. Inconsciamente, allora, si aveva una sensibilità ecologica
molto superiore a quella dei comportamenti attuali.
Ci si accorgeva che il forno era “arrivato” osservando i due cerchi di
ferro che ne sorreggevano l’apertura, oppure la coloritura assunta dai
mattoni all’interno del forno.
Quando la tonalità del cerchio appariva di un biancastro dorato, allora il
forno era “arrivato” e si poteva procedere alla pulitura del suo pavimento,
liberandolo da residui di carbone…
Questo rito aveva una sua importanza e un senso quasi mistico perché
assurgeva a simbolo della prosperità che, almeno quel giorno, regnava nella
casa.
Non possedendo arnesi più moderni, la povera gente puliva il forno con
un fascio di rametti di sambuco, legato al vertice di una pertica, che
consentiva di spazzare il pavimento del forno. Lo scoppiettio del sambuco
appena raccolto si sentiva da lontano, accompagnato da un odore acre di
bruciato, comunque piacevole.
L’arbusto di sambuco era a disposizione di tutti perché cresceva
abbondante lungo le siepi, i “cantoni”, o al limitare dei fossi, che in quel
periodo abbondavano tra e dentro i campi.
Erano anche usati fasci di erba chiamati “ammunnarielli”, formati da
foglie di carciofo, o altre erbe, al posto di quelli di sambuco.
In seguito si adottarono mazzi di “strama”, che cresceva, ieri come oggi,
libera sulla montagna, mentre nelle case delle persone più abbienti la
pulitura del forno avveniva rigorosamente con una scopa di saggina.
La brace rimasta dalla legna bruciata veniva accantonato ad un lato, fuori
dall’imboccatura del forno, per fare posto al pane da infornare.
Quando le “tavole” con sopra il pane ancora coperto da panni bianchi
venivano portate presso il forno, la massaia che lo aveva impastato eseguiva
il segno della croce, come auspicio che tutto andasse bene e per ringraziare
Dio del dono concesso. Subito dopo raccoglieva le varie forme di pane sulla
“panara”, una pala rotondeggiante di lamiera o legno. Si usava anche una
pala rettangolare più piccola, la “panarella”. Prima di depositare il pane sul
letto del formo, veniva incisa con un coltello una croce, quindi ancora un
segno beneaugurante, a simboleggiare il misticismo che albergava
nell’animo di quelle povere genti.
Fare il pane ed accendere il forno, benché pratica ricorrente, era sempre
una piccola festa per tutto il vicinato, unito da un principio di solidarietà
non scritta, ma insita in tutta la gente. Ciò induceva ad avvisare i vicini,
invitandoli a cuocere nel forno qualcosa che loro potevano preparare come
pizze, “calascioni”, tortiere, polli o altre cose. Insieme al pane venivano
cotte anche queste leccornie dei vicini.
Si chiudeva il forno, dopo aver effettuato le abituali operazioni, come la
rotazione della brace nell’interno, effettuata con il “frucone”, una lunga
pertica, e la raccolta della brace con il “rotariello”, quindi si provvedeva a
chiudere la bocca del forno con un coperchio in lamiera, perché il calore
interno non si disperdesse.
Per accontentare qualche bambino presente, a cui era stato dato qualche
residuo di pasta rimasto attaccato ai panni che coprivano il pane appena
infornato, gli si permetteva di cuocerlo sulla brace distesa davanti al
coperchio del forno. Con questa minuscola “pizzella” lo si rendeva felice.
Su questa brace, spesso, si sistemava qualche vivanda come carne o
pesce, sopra una “ratiglia”, o griglia, e l’aroma che ne esalava deliziava
astanti e viandanti.
Se c’era da fare le “freselle”, a metà cottura di tiravano fuori i “cocheri”,
si “spaccavano” in due verticalmente e si infornavano di nuovo perché
tostassero.
Di tanto in tanto si apriva il forno per verificare la cottura del pane e con
una pertica appuntita, il “frucone”, si spostava, “scazzecava”, per non farlo
attaccare al pavimento del forno. A fine cottura si tirava fuori una
“coccetella”, distribuendone un pezzo ai presenti, soprattutto ai bambini,
ansiosi di provare come era venuto il pane.
In un vicolo, vicino a un forno, c’era un frantoio per l’olio e, nei periodi
in cui il frantoio era aperto, chi lo conduceva chiamava i bambini presenti
per versargli un poco d’olio sul pane ancora fumante. Vivanda di semplicità
estrema, ma che aveva il sapore incommensurabile della prima gioventù.
Il giorno della cottura del pane, gli odori si percepivano in tutto il
vicinato e da questi effluvi si traevano le previsioni dell’intera stagione. Se
erano buoni e gradevoli sarebbe stato un periodo di ricchezza e la terra
avrebbe donato frutti copiosi.
Dopo due ore che il pane era stato a cuocere nel forno, veniva sfornato
per la gioia degli adulti e l’entusiasmo goloso dei bambini, perché in quel
pane fresco e fumante c’era la speranza che tutti e sempre avrebbero avuto
da mangiare, cosa che allora non era scontata.
Il pane veniva sfornato e subito scosso per liberarlo da eventuale cenere
che vi era rimasta attaccata, poi veniva pulito con pezze di stoffa e posto
nella “matrella”, coperto con un panno intonso sino al suo raffreddarsi.
Dopo si riponeva in un luogo appartato, per essere portato in tavola durante
i pasti.
Mentre le “freselle” venivano conservate nei “fornigli”, larghi canestri di
vimini che, lasciando circolare l’aria, impedivano che inumidissero.
Per un paio di giorni il profumo del pane confortava la vita di tutta la
famiglia e il suo odore restava addosso quando si usciva di casa.
In tempi di maggiore miseria, varie famiglie non avevano i mezzi per
comprare la farina e ricorrevano a quella meno costosa di granturco che,
comunque, assicurava un cibo, seppure inferiore al pane di grano, che
evitava la sofferenza della fame.
Il senso di solidarietà del vicinato e, particolarmente, quello della corte,
portava spesso a uno scambio, fatto per umana comprensione e
disponibilità, di pane di grano con quello di granturco perché, come afferma
una signora di quel tempo, il proprio figlio non poteva portare quando
andava “fora” a lavorare sempre il pane di granturco, poiché dopo un paio
di giorni “si metteva scuorno” nel mostrare ai compagni di lavoro di non
poter mangiare il buon pane di grano.
L’esperienza di dover mangiare pane di granturco, nel nostro paese, è
capitata a quasi tutti durante il secondo conflitto mondiale, quando i campi
fertili della pianura non potevano essere coltivati per la presenza delle varie
truppe di occupazione, mentre il granturco era facilmente coltivabile anche
in piccoli spazi.
Un testimone afferma che durante il periodo della presenza delle truppe
tedesche accampate nella località del paese denominata “Piantagione”,
andò a fare rimostranze al comando perché i soldati lasciassero libero il
campo dove doveva seminare il grano.
La risposta fu inumana: il malcapitato venne preso e messo su di un
camion che lo portò a lavorare lontano dal paese, forse in Germania o
nell’Italia del Nord. Al paese ritornò dopo un anno.
Per questo sacro pane, appena dopo la fine della Seconda Guerra
Mondiale, si lottò, da noi e altrove. Persone fiere e povere prodigarono le
loro energie migliori perché un sogno si avverasse e non riuscì a fermarle
l’alto rischio di essere perseguite dalle leggi di allora.
 
 

La fuga
 
 
 
 
 
Chi vive a Falciano da sempre prova una grande gioia nel rivedere, a
scadenza annuale, durante i mese di luglio e agosto, i suoi ormai vecchi
parenti e gli amici d’infanzia che ritornano per trascorrere un periodo di
riposo nei luoghi dove sono nati. Luoghi abbandonati per una vita
immaginata migliore e che, spesso, non è stata tale. La ricerca di un
eldorado che non esiste, la frustrazione di un’esistenza lontana dalle proprie
radici, questo il prezzo troppe volte pagato.
Queste sofferenze, la malinconia di vivere un altrove che non è il loro,
accresce la brama di ogni, sia pur breve, ritorno. Ritrovare volti che fanno
parte di una storia comune, riavvolgere la pellicola del tempo, spostandola
all’indietro, illudersi che niente sia cambiato, questo è lo scopo più intimo
di questi viaggi verso il proprio paese. Il paese dove fiorivano i sogni della
giovinezza ormai lontana, i primi teneri amori, la casa della madre,
costituiscono ricordi che niente può cancellare, ricordi che fanno vacillare
la fede in quell’agiatezza economica di qualcuno – ma ad un prezzo troppo
alto – emigrando in Svizzera, Germania, in ogni parte del mondo. Come
sarebbe bello rinunciare a tutto e tornare quei fanciulli di un tempo remoto,
quando si era ancora capaci di sognare. Un conforto, seppure velato di
malinconia, si riceve da quei pochi trascorsi dove è rimasto il cuore, dove
ancora si svolge la festa di metà agosto, più bella, più propria di quelle,
spesso più ricche, viste in paesi lontani. Per questo si torna vecchi, malati,
stanchi: è un’esigenza dell’anima che non si può soffocare.
È l’eterna storia di chi per necessità, o per avventura, è andato via e
ritorna nel proprio paese, dove vorrebbe rimanere per sempre ma deve
andare via, ancora una volta, perché ha impiantato la sua vita e la sua
famiglia altrove.
Nei giorni depressi del dopoguerra, la gente del luogo aveva lottato per
migliorare le proprie condizioni di vita, riuscendo, tramite la sua parte più
povera, contadini e salariati, a guadagnarsi quel pezzo di terra tanto
sognato. Dopo, e sembra quasi una vendetta della storia, tutto è stato
perduto e si è tornati, come ha affermato una testimonianza, ancora a
“morire di fatica” per coltivare quella terra tanto desiderata.
Si diede ascolto a ciò che veniva riferito, e enfatizzato, da chi aveva
tentato di cambiare la sua vita scegliendo di partire all’avventura,
inseguendo il sogno di costruirsi un’esistenza meno grama lontano dalla
propria terra. Sogno che quasi sempre si era trasformato in una sconfitta.
Il decennio che va dal 1950 al 1960, in cui il Nord Italia aveva necessità
di braccia per le sue industrie, calamitò frotte di persone semplici e povere
desiderose di conquistarsi una vita migliore.
Questi poveri partirono per il Nord, credendo di trovarvi un’agiatezza che
non avevano mai conosciuto.
Per questa illusione sopportarono la pena di staccarsi dagli affetti di
sempre, dai luoghi che li avevano visti crescere e diventare uomini.
Affrontarono il disprezzo e la cattiveria di coloro che li avevano chiamati e
sfruttati, spesso trattati in modo disumano da chi avrebbe dovuto essergli
grato perché, non possiamo tacerlo, fu proprio con il lavoro di tanti
meridionali che le regioni industriali aumentarono la loro ricchezza. I
“terroni”, schiavi in un tempo a noi così vicino, lavoravano ancora una
volta al soldo, sempre lesinato, di chi non ebbe scrupoli a usarli come bestie
da fatiche, senza concedergli nemmeno quel minimo rispetto dovuto a ogni
essere.
Queste braccia mercenarie vennero chiamate in vari paesi stranieri, come
la Germania e la Svizzera, che avevano bisogno di lavoratori a buon
mercato per svolgere le attività più umili e faticose.
Era l’emigrazione di massa che dal Sud dell’Italia saliva al Nord e
sbordava nelle nazioni più vicine, che attiravano i nostri contadini e
braccianti alla ricerca di un nuovo eldorado che prometteva lavoro per tutti
e forti guadagni.
Il lavoro sì, ma umiliante, che provocava negli animi di tutti anche un
senso di ribellione perché rappresentava una perdita della propria libertà di
uomini.
Non esistevano orari e momenti di riposo, si lavorava sempre e
dovunque, fino allo sfinimento, controllati e additati con dispregio dai
lavoratori locali e dalle stesse popolazioni.
Le nazioni straniere e le città industriali avevano però bisogno continuo
di questa manodopera, per governare le loro stalle, per far produrre i loro
terreni, per costruire case e alberghi e per far funzionare e progredire il loro
apparato industriale.
Erano odiati ma necessari, sia al Nord d’Italia, dove li chiamavano
“terroni”, sia in Germania, Svizzera, Austria e Francia, dove li appellavano
“spaghetti o maccheroni”. La diffidenza non si scostava molto dal razzismo
e, quando qualche bel ragazzo del Sud Italia intratteneva rapporti
sentimentali con fanciulle del luogo, veniva minacciato, persino con
aggressioni fisiche.
I nostri emigranti, quasi sempre contadini e braccianti avvezzi ai lavori
più duri, portavano all’estero le loro mani piene di calli e i loro volti dalla
pelle cotta dal sole, elementi che li diversificano e rendevano facilmente
riconoscibili dai locali. Approfittando del disperato bisogno di guadagnare
di questi poveri stranieri, li impiegavano nei lavori più umili e faticosi, fatti
di molti doveri e rari diritti.
I loro salari, quasi interamente inviati a casa, assicuravano una vita meno
stenta ai congiunti rimasti in patria, questa necessità li spingeva a
sopportare di tutto.
L’Italia stessa aveva bisogno delle rimesse degli immigrati per garantire
allo Stato un afflusso di valuta pregiata che ne rimpolpasse le magre casse.
Avere un lavoro tutto sommato ben pagato, anche se lontano dalla propria
terra, permetteva di sostenere le loro famiglie e alimentava la speranza di
tornare un giorno con una somma che permettesse di costruirsi una casa e
acquistare un pezzo di terra. Magari impiantare un’attività, come quelle
viste nei luoghi di lavoro. Questo sogno spinse tanti uomini, prima da soli e
poi con tutta la famiglia, a partire per tante destinazioni ignote a loro, ma
quasi conosciute attraverso le parole di chi vi era già stato e che decantava
la bellezza dei luoghi e la facilità di guadagnare come non era possibile in
patria.
Quello che non sapevano, e scoprirono sulla loro pelle questi moderni
cercatori d’oro, era che affrontavano a una vita dove i guadagni sarebbero
costati fatiche dure e umilianti, sudore, lacrime, degradazione. Lo avrebbero
capito presto, ma era già troppo tardi per tornare indietro.
Il primo impatto scioccante l’ebbero nel vedere che la gente del luogo,
nel vederli arrivare con le tristemente note valige di cartone, legate da corde
o qualche cintura, e con grossi fagotti in cui erano avvolti miseri vestiti, li
guardavano con disprezzo e sorrisi ironici, quasi a dire che essi erano esseri
inferiori, servi sgraditi ma necessari. Braccia per arricchire maggiormente il
loro paese, e mai fratelli più sfortunati.
La cruda realtà si presentò subito ai loro occhi: era molto difficile trovare
un luogo per andare a dormire, un tetto per riposare dopo l’estenuante
lavoro, un desco decente per sedersi intorno ad un tavolo, insieme ad altri
sventurati, per consumare un povero pasto, condito da troppa malinconia.
Molte testimonianze sono concordi nel riferire che veniva loro negato,
specialmente nei primi anni di forte immigrazione, di avere una casa dove
poter congiungersi con la propria famiglia.
Le uniche disponibili erano case vecchie, praticamente in rovina, situate
in squallide periferie, oppure, per chi lavorava nelle fattorie, vicine alle
stalle.
Era una situazione drammatica per tutti.
Agli immigrati, appena arrivati, un temporaneo sollievo lo offrivano i
cosiddetti luoghi di passaggio, messi su dai lavoratori giunti in precedenza,
una specie di catena di solidarietà. Attraverso il passa parola e le varie
conoscenze, si utilizzavano come luoghi di rifugio per chi non aveva dove
alloggiare.
Erano piccole costruzioni in lamiera che servivano per costudire gli
oggetti di lavoro dei muratori e situate vicino ai cantieri di costruzioni.
Catapecchie che hanno visto passare masse di uomini la cui unica ricchezza
era, forse, la speranza.
  Questa catena di solidarietà, nata spontaneamente, faceva in modo che
nessuno si sentisse completamente solo, trattato come un essere inferiore
persino alle bestie. Almeno tra conterranei questo spirito di fratellanza era
vivo e mitigò assai tante ore di scoramento, la nostalgia di un lontano
ritorno al proprio paese. Forse gli italiani non si sono mai sentiti fratelli
come quando si incontravano all’estero.
Nelle grandi città del Nord Italia e nei principali luoghi di vasta parte
dell’Europa si erano creati dei gruppi, tra i primi giunti all’estero, che si
spesero molto nell’aiutare chi veniva dopo di loro, cercandogli luoghi di
fortuna dove alloggiare.
Questo clima di solidarietà frenò l’impulso di un ritorno immediato e
spinse i più a stringere i denti e rimanere per non sentire l’onta del
fallimento totale dell’aleatoria impresa. Senza deludere chi li aspettava e
sperava che una vita migliore potesse nascere da quell’avventura.
Furono anni di duro lavoro e di forti umiliazioni che portarono la
maggioranza di essi, dopo aver messo da parte un modesto capitale, a
ritornare nel paese da cui erano partiti. Gli altri rimasero richiamando la
propria famiglia oppure creandosela sposando persone del luogo, spesso
compatrioti.
Alcuni sono restati definitivamente e quelli che sono tornati al paese lo
hanno ritrovato quasi come l’avevano lasciato. Un paese che ancora
conserva la memoria della sua storia.
Il ritorno per tutti fu amaro e difficile, anche se quasi tutti provvidero a
sistemare le proprie case o a costruirsene una nuova con il ricavato delle
loro fatiche. Quasi nessuno ritrovò quello per cui avevano combattuto e
sofferto nel passato, cioè la terra da coltivare, perché, per motivi diversi, i
campi erano passati a nuovi padroni, venuti a causa di un’immigrazione
locale, soprattutto dall’hinterland napoletano. Lavoratori infaticabili,
efficienti e produttivi.
Così trovarono altri contadini e agricoltori che, venuti dalle città più a
sud della Campania, tipo Giugliano e Parete, avevano prima preso in fitto i
terreni lasciati liberi e poi li avevano comprati. Importarono nuove tecniche
agrarie, in zona non praticate fino ad allora, soprattutto estese piantagioni di
frutteti che, assicurando una resa maggiore, fecero la loro fortuna.
La maggior parte degli emigranti si trovarono, ancora una volta, senza
terreno da coltivare, che i loro genitori, animati da rabbia e disperazione,
dalla molla di una povertà insopportabile, avevano conquistato proprio per
quei figli che, affascinati da rapidi e utopistici guadagni, per molti mai
ottenuti, li avevano abbandonati alla mercé dei nuovi padroni.
Questi emigranti di ritorno sono sempre rimasti dei contadini nel
profondo del cuore e nei comportamenti, ma senza la terra.
Un esempio indicativo.
Quasi tutti i terreni del Parco di Tozza, che erano stati assegnati dall’Ente
Riforma a contadini e salariati che avevano lottato rischiando la propria
incolumità, una volta riscattati, vale a dire il giorno che potevano dirli
davvero propri, sono stati venduti o svenduti a poche persone, creando
ancora tanti piccoli latifondisti locali.
Sembra una storia incredibile, ma è la reale storia di queste terre.
È lecito domandarsi, come avvenuto durante le tante interviste, quale fu
la reazione di chi ritornava da emigrato all’estero in paese per godersi
qualche giorno di riposo e ritrovare i volti del passato.
L’accoglienza di parenti e compaesani era, come sempre, calorosa ed
affettuosa nei confronti di chi ritornava nel proprio paese, ma molti
notarono in questi emigranti alcuni piccoli cambiamenti, che portarono
gradualmente i residenti a essere meno partecipi e desiderosi di intrattenersi
con coloro che li avevano lasciati. Vi fu, in effetti, una larvata esclusione di
quelli che tornavano dalla vita dei residenti.
L’accoglienza meno entusiasta di un tempo verso chi era stato assente
derivava in gran parte dagli atteggiamenti acquisiti dagli emigranti che,
forse per darsi un tono meno provinciale, ma sicuramente più ridicolo e
falso, imitavano i comportamenti delle popolazioni straniere, snaturando
così la loro ancestrale vocazione contadina.
Anche il modo di parlare aveva acquisito cadenze e toni estranei, non
accettati dai vecchi e tradizionalisti paesani.
Questi atteggiamenti pacchiani, con una notevole e amara vena di ironia,
venivano irrisi dai vecchi del paese, che certo non lesinavano i loro salaci
sfottò.
Capitò anche qualche vivace alterco quando i residenti rimasti in loco si
mostrarono insofferenti agli esotismi importati, basati soprattutto su un
modo di parlare di persone che, sino all’anno prima, parlavano solo il
dialetto locale. La pretesa di questi ad atteggiarsi a persone evolute – e non
lo erano! – appariva come un gesto profanatorio verso la terra madre che li
aveva generati figli comuni.
I “villeggianti” si vedevano girare per strada con vestiti sgargianti, troppo
colorati per non apparire ridicoli, scarpe lucide e dalle fogge improbabili
ostentate particolarmente la domenica, durante il via vai della messa delle
11, oppure a sera, dopo cena, girando per le strade del paese con
l’intenzione di mostrare una ricchezza e una modernità che, in realtà, non
possedevano.
Il modo per ostentare il loro benessere parve quasi uno schiaffo a quelli
che erano rimasti troppo attaccati alle radici per lasciare il paese, andando
incontro a un’avventura dall’esito incerto e che, in qualche modo, sembrava
offendere la memoria dei padri.
Si prefiguravano, questi vecchi abitanti, il ritorno definitivo di coloro
che, una volta che non fossero stati più utili alle esigenze dei padroni,
sarebbero stati ricacciati alle loro case, espulsi come corpi estranei, perché
come tali venivano percepiti da chi non li aveva mai effettivamente
accettati.
Ritornare in paese dopo anni, pur con una discreta pensione, era un mesto
ritorno alle origini, perché non era più possibile ricostruire i legami e gli
affetti del passato. I compagni della gioventù, quelli che avevano comuni
sogni e interessi, o non esistevano più o erano cambiati, comunque
indisponibili a ripristinare la comunità di vicinanza di un tempo finito per
sempre.
Molti ricordano ancora varie spavalderie di cafoni arricchiti, magari solo
nel loro immaginario, che non avevano il senso della misura nel manifestare
agli altri il loro, più che altro presunto, benessere economico.
Ci fu qualcuno, ma, come affermano varie testimonianze, questo era un
deprecabile atteggiamento di quasi tutti coloro che ritornavano dalle città in
cui erano emigrati, che si presentava nei vari negozi, pochi allora, o nei bar
e dai barbieri e, per pagare il servigio avuto, mostravano con ostentazione
agli allibiti presenti le banconote da 50 mila lire perché, come affermavano,
non possedevano biglietti di taglio più piccolo.
Si potevano vedere, nei bar dove andavano, soprattutto per esibire la loro
condizione di nuovi ricchi, offrire da bere ai presenti, che ben accettavano
l’invito, e tentare di dialogare con loro raccontando, tra un bicchiere di birra
ed un tiro di sigaretta straniera, la loro vita di città, infiorettandola di
fantasie ed esagerazioni che, se per una volta trovavano ascoltatori attenti,
dopo venivano lasciati soli.
Questi atteggiamenti di supposta superiorità che rasentavano la
strafottenza indisponevano la gente del paese, che aveva fatto una libera
scelta nel restare a vivere nelle terre dei padri. Non si erano fatti lusingare
dalle prospettive di mirabolanti ricchezze in paesi lontani e, in fondo, erano
fieri di aver preferito una vita più grama, forse, ma anche di minor
soggezione a padroni protervi.
Capivano anche il coraggio di chi, con qualche valigia di cartone,
riempita più di sogni che di certezza, era andato all’avventura, sperando di
assicurarsi un avvenire migliore. Capivano, ma non potevano e non
volevano seguirli.
Quelli che erano rimasti avvertivano un muto rimprovero da parte di chi
era emigrato, stanco di dissodare una terra dura per averne poi un raccolto
che bastava appena a sfamarli, quasi a censurare l’attaccamento ad un
mondo che stava cambiando, un mondo migliore che loro cocciutamente
fingevano che non esistesse. No, non capivano, gli emigrati, questa
ostinazione a rifiutare le magie del progresso che portava i loro padri a
girare la faccia dall’altra parte.
Padri che avevano lottano strenuamente per guadagnarsi un fazzoletto di
terra, sostenendo enormi sacrifici per raggiungere scarsi risultati. Perché
rompersi la schiena su quelle zolle, spesso avare, quando ogni bene era a
portata di mano altrove? Un bene che, lo ammettevano, richiedeva di
rinunciare alle fierezza di un tempo, al sogno di liberarsi delle catene dei
padroni, ma che assicurava una prosperità mai conosciuta in precedenza.
Per questo non capivano i vecchi che sedevano davanti agli usci e li
guardavano, a volte, con una venatura di disprezzo.
Si è tentato di narrare i momenti di commozione e orgoglio di una storia,
quella della nostra terra, avvicinandosi con rispetto estremo a volti e
sentimenti di persone vere. Persone realmente esistite che, con il loro
coraggio, con amore immenso, con fatiche disumane, hanno dissodato le
zolle dove posano il passo i loro figli. Una terra che sa essere generosa e
spietata, una terra che deve essere soprattutto amata per dispensare i suoi
frutti. I contadini che si batterono fino allo stremo per farla propria seppero
amarla. Come una madre, come si si ama la speranza che dona luce al
domani e ne fecero, da aspra e incolta che era, campi fertili e ricchi. Essa
donò pane ai suoi figli, donò l’affrancamento da secoli di sottomissione
servile, donò – soprattutto – l’orgoglio di essere uomini che non dovevano
più chinare il capo di fronte a chi li affamava. Non potevano non amarla e,
infatti, la difesero con ogni energia, poi, uno alla volta, tornarono ad essa.
Per sempre.
A questi uomini, rozzi, schietti, fieri, va il nostro pensiero e ci piace
illuderci di vederli ancora, con le zappe e la schiena curva, i volti cotti dal
sole e raggrinziti dal vento, assorti a scrutare il cielo sperando nella sua
benignità, commossi nel veder spuntare i germogli del nuovo grano,
ingentiliti dalla poesia degli alberi in fiore, una poesia che non sapevano
esprimere, ma che ugualmente inteneriva i lori cuori. Questi uomini sono
gli eroi della piccola storia che, con umiltà e passione, abbiamo voluto
narrare.
Essa è un piccolo dono di riconoscenza ai nostri padri.
Un saggio vecchio del paese amava aprire una zolla della sua terra e
aspirarne l’odore.
Per lui era il sapore del pane.
Ringraziamenti
 
 
 
Si ringraziano tutti coloro che hanno avvalorato attraverso la loro
testimonianza la veridicità del racconto ed in modo particolare:
Del Duca Raffaele, Rea Bambina, Migliozzi Sebastiano, Stanziale
Gelasio, Verrengia Maria Giovanna, Palazzo Gennaro e Novelli Margherita,
Pagliaro Caterina, Toscano Egidio, Verrillo Andrea e Verrillo Mario,
Marrafino Carlo e Caruso Iolanda, Tierno Salvatore, Canzano Adele e
Canzano Domenico, Lungo Rosa, Zannini Antonio (San Donato di
Carinola), Gaudiosi Orsolina, Stanziale Mattia, Orologiaio Rita e
Orologiaio Antero, Di Gregorio Marisa, Di Gregorio Mario, Zannini Carlo,
Sciaudone Mario, Capuano Rosa, Petrarca Angelo, Proietti Maddalena
(Casanova di Carinola), contessa Adalgisa Ideale Capece Galeota
(Vitulazio), Loffredo Maria Carmina, Verrengia Francesco (figlio di
Argentina Pisaturo), Vellone Giovannina, Toscano Luca, Torrico Pasquale,
Capuano Antonio, Maria Marrapese (moglie sindaco Santoro Giuseppe) e
Santoro Antimo, Passaretti Francesco, Abate Filippo, Verrengia Marco e
Verrengia Agostino, Paolella Giuseppe, Cerrito Giuseppe, Iannelli Vincenzo
(Enzo), Filomena Leone, Giuseppe Manica, D’Agostino Francesco, Maria
Zannini, Vincenzina Croce, Marrafino Antonio e Attilia Roma, Pasquale
Iannelli ed Isabella Zannini.
 
Si ringraziano per la loro collaborazione:
Consulente storico: prof. Mario Sciaudone
Critico letterario: Mario Aurilio
Archivio storico e fotografico del geom. Giuseppe Santoro
Archivio storico e fotografico del prof. Antonio Di Gregorio
Intervista del 1985 fatta a Giovanni Canzano e Michele Manica
Atti deliberativi del Comune di Carinola e di Falciano del Massico
Consulenza tecnica ed informatica Giuseppe De Cristofaro.
 
Bibliografia
 
 
 
 
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S. Valentini – Una Sinistra da rifare – Il balzo del Mezzogiorno 1943 –
1993
R. Villari, La crisi del blocco agrario in Toscana e il Mezzogiorno
U. Zannini – Giuseppe Guadagno, San Martino e San Bernardo, Ist. Graf.
Edit. Ital.,1997
 
1949 – I fatti di Melissa
Fiano Romano – Storia del paese
La Piazza del Sapere, Feltrinelli, 2013
La Voce – Rivista
San Nicola La Strada, Eccidio di Melissa
.
 
 
 
 
 
Indice
 
 
Il sapore del pane
Storia dimenticata delle lotte contadine nel Sud
 
 
Presentazione 7
Prefazione 9
Introduzione alla lettura del libro 13
 
 
Un paese: usi e tradizioni del tempo
 
Una terra da riscoprire 19
Il paese e suoi abitanti 24
I mestieri e le feste 33
Le masserie, i caporali, il lavoro 49
La storia e gli uomini 62
Gli uomini e la politica 80
Le elezioni comunali del 1964 – I duellanti 99
 
 
Le lotte contadine
 
Le terre della speranza 121
La lotta per la terra 164
Il sogno realizzato 198
Il chicco di grano è vita 216
La fuga 230
 
Ringraziamenti 239
Bibliografia 241
{1}
ANPI – Fotostorie, Occupazioni delle terre, un’epopea contadina.
G. Moltalbano, La repressione del movimento contadino in Sicilia (1944-1950).
{2}
ANPI – Fotostorie, Occupazioni delle terre, un’epopea contadina.
G. Moltalbano, La repressione del movimento contadino in Sicilia (1944-1950).
{3}
ANPI – Fotostorie, Occupazioni delle terre, un’epopea contadina.
G. Moltalbano, La repressione del movimento contadino in Sicilia (1944-1950).

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