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Il libro

Q uesta è una storia di sognatori, due spiriti liberi che il destino fa incontrare per
caso.
Sanem ha due sogni: diventare una scrittrice e uscire dai confini del suo
quartiere per volare alle Galapagos. Can ha un solo grande desiderio: essere libero dai
doveri che la famiglia gli impone e volare per il mondo come un albatros, per
fotografarne gli angoli più nascosti. Un incontro al buio, un bacio rubato sulla scia di un
profumo indimenticabile, cambierà per sempre il loro destino.
Sotto il cielo incantato di Istanbul, tra i suoi mille profumi e colori, Sanem e Can
saranno travolti dall’amore che provano l’uno per l’altra. Ma giochi di potere, bugie e
ricatti sembrano tenerli lontani e rovinare il loro sogno. Riusciranno a realizzare la loro
favola d’amore e volare, insieme, per sempre?

“L’albatros…
Se vivi alle Galapagos lo puoi vedere, vola alto e solitario sopra l’oceano. È
bellissimo. Trascorre quasi tutta la sua vita in volo. È maestoso e possente, con le
sue ali enormi. Fluttua a lungo nell’aria, senza batterle mai. Non ore o giorni:
vola per mesi. Si posa sulla terraferma solo per trovare una compagna e, una
volta che l’ha trovata, vive con lei, insieme, per sempre.
Volano e migrano per il resto della vita…”
Gli autori

DayDreamer – Le Ali del Sogno è una popolarissima serie televisiva turca trasmessa
in Italia con grande successo da Canale 5.
DAYDREAMER
Le Ali del Sogno
Daydreamer
Ci sei solo tu

C’era Istanbul. La città si estendeva davanti a loro e i loro sguardi volavano


sulla meraviglia.
«Can… è stupendo!»
«Sanem, ho visto tante città, ma Istanbul è la più bella di tutte. È la città
che amo. Chiudi gli occhi. Lei ti farà sentire la sua voce…»
Sanem li chiuse. Aveva la pelle d’oca.
«Che cosa senti?» chiese lui.
«Il rumore del mare. Il canto dei gabbiani. Il fruscio del vento. I traghetti.
Le risate dei bambini. Le onde. E poi…»
«Sono innamorato di te, Sanem. Ti rivedo in qualunque cosa io faccia, che
tu sia con me o meno. Vado a casa e tu sei lì. Guardo il mare e tu sei lì. Vado
al rifugio e tu sei lì. Corro nel bosco e tu sei lì. Guardo il cielo e tu sei lì. Ci
sei solo tu.»
Non voglio sposare Zebercet

Alcuni mesi prima…

Un tramonto di fuoco incombeva sul Mekong quando Can Divit, a bordo


della sua canoa, tagliò in diagonale la rapida e si abbandonò agli spruzzi
d’acqua.
Amava il rafting e lo praticava da anni, ma lì, in Cambogia, travolto da
quella spirale di bellezza che si distribuiva tra grandi spazi tranquilli, si
sentiva rigenerato dalla forza della natura.
“Che posto straordinario” pensò, pregustando la sua ultima serata sotto la
luna a chiacchierare con i pescatori davanti alle loro capanne, a mangiare
con loro pesce alla griglia, a respirare il profumo del curry.
Guadagnò la riva mentre il suo smartphone, abbandonato sul sedile
posteriore del fuoristrada a noleggio, squillava ripetutamente rompendo lo
scroscio ovattato del fiume. Era suo fratello Emre.
Can lo immaginò in giacca e cravatta nel giardino della loro villa di
Istanbul, davanti a un drink di quelli decorati con gli ombrellini di carta; era
un principino e aveva un debole per le cose naïf.
«Can, non rispondi mai al telefono!»
Fingeva di essere seccato o lo era davvero?
Can non si pose la domanda e preferì scherzarci su. «Questa volta ti ho
risposto!»
«Vabbè… A che ora arrivi dopodomani?»
Il volo per Istanbul! Per qualche ora, perso nelle rapide e nei silenziosi
paesaggi dell’Oriente, Can se ne era dimenticato.
«Il volo dovrebbe atterrare alle nove del mattino. Vi raggiungo
direttamente in ufficio.»
«Non c’era un volo prima?»
Can rise: amava stuzzicare il fratello. «Cosa c’è, Emre… non dirmi che ti
manco!»
Rise anche Emre. «Queste cose dovresti dirle alla tua fidanzata! No, sul
serio, ho bisogno che arrivi presto: devi provare lo smoking e le scarpe per
la serata.»
“Ah, giusto” pensò Can, “l’immancabile dress code.”
Sorrise specchiandosi nei finestrini della macchina schizzata di fango.
Anche lui, dopo l’incontro con il fiume, aveva gli anfibi sporchi, i capelli
umidi e i jeans completamente zuppi. Era senza maglietta e le gocce d’acqua
gli scivolavano sul petto, accarezzando il tatuaggio all’altezza del cuore: un
albatros in volo. Si sentiva incredibilmente bene lì, immerso nella natura
selvaggia.
Altro che smoking.
“Due giorni, sono solo due giorni” si disse.
Se lo ripeté poco più di ventiquattr’ore dopo, quando l’aereo toccò la
pista d’atterraggio della sua città, Istanbul.
In realtà Emre aveva ragione: se non fosse stato per l’anniversario dei
quarant’anni della Fikri Harika, l’agenzia pubblicitaria di famiglia, non
sarebbe mai tornato. O almeno, non così presto. Stava portando avanti un
progetto sul Sudest asiatico: fotografare i bambini, le loro scuole, le
biblioteche, le infrastrutture che avevano a disposizione. Raccontare al
mondo una storia che meritava di essere ascoltata.
Quella ricorrenza, però, aveva interrotto il suo lavoro: lo chiamava,
almeno per una sera, a essere il figlio maggiore che Aziz Divit avrebbe
voluto a capo dell’agenzia, anche se aveva dovuto rassegnarsi al fatto che
Can era e sarebbe sempre stato uno spirito libero.
I colori indimenticabili della Cambogia erano ancora vividi nei suoi
occhi quando, poco dopo, si vide inghiottire dalle vetrate dell’agenzia
pubblicitaria che sorgeva nel quartiere di Beşiktaş, una delle zone più
moderne della città.
Can era tornato. Quando entrò nella sala principale della sede, con il suo
stile hippy, le collanine collezionate durante i viaggi, gli occhiali da sole e i
jeans scoloriti, notò le ragazze arrossire e i ragazzi irrigidirsi. Per loro, e
per chiunque altro, non rappresentava solo il figlio del capo: Can Divit era
un fotografo di fama mondiale. I dipendenti seguivano i suoi scatti e le sue
mostre sui canali social, i suoi viaggi nei racconti di Aziz ed Emre. Era un
simbolo di bellezza, talento e libertà che incantava tutti, anche quelli che non
avrebbero mai voluto uno stile di vita senza radici.
Lo accolsero come se non lo vedessero da anni, anche se non tornava da
poco più di sei mesi. Qualcuno lo scrutava come se fosse un uccello esotico,
una specie da osservare con quel misto di ammirazione e curiosità: Can era
considerato fuori dagli schemi, un uomo con la febbre della scoperta,
allergico ai luoghi comuni, alle convenzioni.
«Can!»
Suo padre stava provando lo smoking quando lo vide nei corridoi. Corse
ad abbracciarlo e Can, per un istante, pensò che quel senso di famiglia e di
casa valesse più di una manciata di ore a Istanbul.
Con lui c’era Emre, il suo “fratello diverso”: capelli color sabbia, occhi
azzurri, completo da businessman, pochette di seta nel taschino, mocassini
scamosciati. Era cresciuto tra la Francia, l’Inghilterra e la Svizzera, dopo il
divorzio dei genitori, per tornare in Turchia una volta finita l’università e,
anche se avevano vissuto lontani, Can gli voleva bene e non perdeva
occasione per scherzare con lui.
«Guarda chi c’è» lo apostrofò indicando la sua mise curatissima. «La
sfilata a che ora inizia? Preparo la macchina fotografica.»
«Fai poco lo spiritoso, che a breve tocca anche a te. Il tuo smoking ti
aspetta.» Emre lo abbracciò. «Sono contento che sei qui.»
Lo era davvero, in un certo senso.
Emre non odiava Can, o meglio, non proprio: il suo malessere era un
miscuglio di tristezza, invidia e rabbia. Faceva di tutto per far funzionare
l’agenzia, lavorava duramente, spesso anche nel week-end, si impegnava
molto, ma ogni sforzo sembrava inutile.
Gli occhi di suo padre si accendevano solo davanti a Can, il figlio
preferito. Per esempio, anche in quel momento Aziz voleva stare da solo con
il maggiore.
«Proverai dopo il tuo abito per stasera, Can» gli stava dicendo. «Vieni,
beviamo un tè.»
Emre si disse di non darci troppo peso: “Non si vedono da tanto, è
normale che voglia stare con lui”. Si raccontava spesso queste storie per non
farsi prendere dalla rabbia, dal senso di ingiustizia, ma sapeva bene come
stavano le cose. Si stampò un piccolo sorriso sulla faccia mentre il padre e il
fratello chiudevano la porta di vetro e si sedevano sulle poltrone intorno alla
scrivania.
Una volta rimasti soli, Can notò l’espressione tesa del padre.
«Non ho dubbi sul fatto che la Cambogia ti sia piaciuta» cominciò, «ma
adesso ho qualcosa di urgente da dirti. Le cose qui non vanno molto bene.»
Can si stupì. La società di suo padre fatturava più delle altre concorrenti e
vantava un pacchetto di clienti importanti. I bilanci erano pubblici e
particolarmente gloriosi. Com’era possibile che le cose non andassero bene?
E da quanto, esattamente?
In quel momento, davanti alla persona di cui si fidava di più al mondo,
Aziz sciolse la maschera di serenità che aveva mostrato poco prima nei
corridoi e assunse un’aria grave.
«C’è una spia nei nostri uffici.»
«Una spia? Ma che dici, papà?»
A Can sembrò assurdo. Eppure sapeva che suo padre non avrebbe mai
scherzato su una cosa del genere.
«Nel senso che c’è qualcuno che cerca di sabotarci dall’interno
trasmettendo informazioni riservate. Per portarci via i clienti. Per
annientarci. Sono molto preoccupato, figlio mio.»
«E a chi le trasmette?»
«Ricordi Aylin, l’ex fidanzata di tuo fratello?»
Can annuì: come dimenticarla? Era stata il direttore creativo in agenzia,
prima che Aziz la licenziasse, certo che avesse sottratto dei soldi. Aylin era
una donna magnetica, con una sensualità lunare che aveva stravolto Emre:
altissima, pelle bianca, capelli neri, ciglia finte, rossetti violenti, sapeva
essere tanto conturbante quanto diabolica.
«Ha aperto un’agenzia concorrente» raccontò Aziz, «e ci sono state
troppe coincidenze negli ultimi mesi, Can. Troppe campagne soffiate
all’ultimo minuto. Troppi clienti svaniti nel nulla, senza neanche una parola.
Tu sai quali sono i valori della nostra agenzia. Non è da noi farci scappare
un cliente. È per forza qualcuno che ci sta danneggiando dall’interno. Ci
distruggono, Can.»
Can era allibito. E preoccupato. La barba grigiastra e i capelli sempre più
radi del padre svelavano un’aria stanca, tirata. Si sentì travolto dall’affetto,
dalla tenerezza per quell’uomo a cui doveva tutto. Sua madre lo aveva
abbandonato, portandosi via Emre, e Aziz era l’unica famiglia che aveva
conosciuto, per molto tempo. Provò una rabbia che riuscì a frenare, per il
bene di suo padre.
«Va bene, papà, adesso però calmati.»
«Devi restare qui. Mi serve aiuto. So che ti chiedo tanto.»
“Non tanto. Tantissimo” pensò Can.
«Figlio mio, io sto per partire per una crociera e non credo che Emre
possa gestire questa situazione da solo.»
Aziz non era un uomo che drammatizzava. O che imbottigliava tempeste in
un bicchiere d’acqua. Aveva equilibro. Era lucido e arguto. Gentile e
corretto. Gli aveva dato un’educazione attenta, illuminata, insegnandogli la
cosa più difficile per un genitore: pensare con la propria testa curandosi
sempre degli altri e del benessere collettivo. Gli aveva insegnato la lealtà.
Can aveva unito tutto questo al proprio istinto di libertà e aveva spiccato
il volo. “Due giorni” si era detto prima di arrivare, “non un minuto di più a
Istanbul.” Ora, però, c’era bisogno di lui.
«Ci penserò, papà.»
«Pensaci, ti prego.»

Can non sapeva che, dall’altra parte della città, in un quartiere che si
srotolava come un gomitolo tra una schiera di casette color pastello, piccole
botteghe di artigiani e supermercatini, un piccolo, divertente dramma privato
stava per cambiare per sempre la sua vita, e non solo.
Sanem Aydın aveva aperto prima del solito il minimarket di famiglia, a
pochi metri da casa. Aveva sfruttato il silenzio delle prime luci dell’alba per
dedicarsi alla stesura del suo romanzo. Per sognare in pace.
Ho due sogni. Il primo è diventare una scrittrice, l’altro è vivere alle
Galapagos. Dove si trovano? Se le ami lo sai, conosci le coordinate esatte.
Il mio sogno è stabilirmi lì e viverci per sempre. Sembro pazza, vero? Ma
cosa c’è di sbagliato nel sognare a occhi aperti? Ci protegge dai grandi
dolori della vita, e quando dico protegge intendo…
Si fermò, allertata dal rumore della porta. Alzò gli occhi e non si trovò
davanti un cliente mattiniero, come avrebbe potuto sperare, ma qualcun altro.
Un ragazzo di nome Muzaffer, ma che lei chiamava…
«Zebercet! Cosa fai qui?»
Zebercet era un vicino di casa degli Aydın dell’età di Sanem. Aveva un
sorriso obliquo che, quando esplodeva alla luce della luna, ricordava i
pagliacci assassini. Solo che lui non era spettrale e inquietante come loro,
ma solo sciocco e ridicolo. Orfano di padre, viveva con la madre in una
villetta in collina, con un giardino pieno di cespugli in fiore e un piccolo
frutteto. La mamma, Aysun, una donna dai capelli color carota ricoperta da
gioielli e vestiti costosi che ostentava in memoria del marito – il quale aveva
lasciato a lei e Muzaffer un piccolo tesoretto – era letteralmente la sua
ombra. Zebercet, più che innamorato di Sanem, ne era ossessionato.
«Stasera veniamo a cena da voi io e mammina!» annunciò con la sua
cantilena un po’ nasale e servendole un sorriso spiacevole, che esibiva i
denti macchiati. «È tutto deciso! Per chiedere la tua mano! Ti senti bene?»
Sanem trasalì.
«Vedo che non riesci a respirare per l’emozione! Pensi già al vestito da
sposa? Ma tranquilla, ti passerà!»
Le girava la testa. Si sentiva davvero male, ma non per la gioia: «Ma
cosa dici?».
«È tutto deciso!» ripeté lui. «Stasera, Sanem… stasera io e mammina…
stasera a casa dei tuoi.»
Sentiva frammenti di quella conversazione riecheggiare nel negozio, più
che frasi compiute. Parole che suonavano come la peggiore delle minacce.
Lanciò uno sguardo a Zebercet e chiarì subito le cose: «Non succederà
mai! Vieni qui in cassa, prendi il mio posto!».
«Va bene… ma, Sanem, tu dove vai?»
Si precipitò a casa come una furia.
Mevkibe era alle prese con il börek alle melanzane. L’aria di casa, nella
cucina luminosa degli Aydın, era pregna dell’aroma delle spezie, delle
verdure, delle piante officinali. Le tende a fiori, le scodelle arancio, le erbe
aromatiche davano quell’idea di casa accogliente.
Sanem irruppe sbattendo contro il tavolo e facendo cadere per la foga una
ciotola piena di pomodori.
«Cosa combini?» sbuffò sua madre. Era sempre la solita, Sanem.
Svampita e imbranata. Un impiastro senza rimedio. Così diversa dalla
sorella Leyla, perfetta in tutto.
«Mamma, io non voglio sposare Zebercet!»
«Muzaffer» la corresse Mevkibe meccanicamente, senza scomporsi e
concentrandosi sulle verdure. Dai suoi occhi color carbone usciva una
pioggia di scintille. Era rabbia? Forse esasperazione.
«Non voglio sposare Zebercet.»
«Sanem, dov’è l’altra scarpa?» Sua sorella Leyla aveva scelto le
sfumature del lilla quel giorno, e avrebbe voluto abbinare la sua camicia a
un paio di décolleté scamosciate, ma Sanem prendeva in prestito fin troppo
spesso gli accessori e i vestiti dal suo guardaroba, senza restituirli.
Leyla aveva due anni in più della sorella. Dopo la laurea in Pubbliche
relazioni, aveva cominciato a lavorare alla Fikri Harika come assistente del
direttore finanziario, Emre Divit, di cui era segretamente innamorata.
Occhi acquamarina, lunghi capelli biondo cenere, spendeva parte del suo
stipendio per abiti alla moda e accessori da donna in carriera. Sapeva
cucinare, aiutava in casa, era scrupolosa e responsabile.
Amava il suo capo perché era attento e gentile. Emre apparteneva a quella
crème di quasi-trentenni cresciuti in Europa, ben vestiti, appassionati di
locali alla moda, cibo biologico e auto fiammanti. Piaceva a molte, ma Leyla
in lui amava l’aria inquieta, quel qualcosa di irrisolto con cui sentiva, in
qualche modo, di potersi annodare alla perfezione, come se il loro posto
fosse insieme. Lui non sapeva della sua cotta o, forse, lo sospettava. A volte
lei si sentiva sciocca, quando sceglieva un vestito in un negozio pensando a
lui, o quando sperava notasse la sua spilla o il suo gloss.
Nessuno sapeva della sua infatuazione. Per i genitori lei era la figlia
d’oro e Sanem si sentiva quella di latta (ecco, magari non proprio latta
scadente; una bella latta, con i brillantini).
Leyla la guardava con aria interrogativa, aspettava ancora di capire che
fine avesse fatto la sua scarpa. Sanem non rispose alla sua domanda e ripeté:
«Non voglio sposare Zebercet».
Sua madre si voltò: «E invece lo sposerai. Hai i grilli in quella testa! Hai
studiato Agraria, benissimo, ma poi? Passi il tuo tempo a scrivere, a
sognare. Due mesi fa ti sei fatta licenziare perché hai rovesciato il caffè sulla
giacca del capo. La volta prima avevi perso dei documenti importanti. E io
dico: non ci sto! In questa casa non si sognano le Galapagos. Qui si lavora.
Oppure si sposa Zeberc… Muzaffer!».
«Io ce l’ho un lavoro. Al minimarket» protestò Sanem.
Nessuno le rispose.
Mevkibe si era già concentrata sulla figlia maggiore: «Leyla, sei
incantevole con quel color lavanda. Prova ad abbinare le scarpe beige, se
non trovi l’altra blu che ti ha perso tua sorella».
«Non voglio sposare Zebercet» continuò Sanem, ma nessuno le prestava
attenzione.
Vide suo padre entrare in cucina come una luce che stravolge una giornata
nera. Nihat era un uomo placido dai grandi occhi blu e l’espressione distesa.
Amava profondamente Leyla, ma Sanem… ritrovava tanto di lui in quella
ragazza. Riusciva a leggerle dentro.
«Non voglio sposare Zebercet» disse ancora una volta Sanem.
«Tira fuori la mia scarpa. Subito!» la minacciò Leyla.
Sanem, però, era concentrata sull’espressione del padre. Era sicura che
Nihat l’avrebbe rassicurata, abbracciata, che si sarebbe fatto una risata su
quella storia del matrimonio. E invece questa volta la deluse.
«Perché no?» chiese. «È un bravo ragazzo, educato. Lo conosciamo da
sempre. Per me non ci sono motivi per negare il mio consenso a questa
unione.»
«Rassegnati, sorella» fece eco Leyla. «Sei destinata a restare qui, a fare
la casalinga.»
«Non voglio sposare Zebercet!» Sanem si accorse di strillare con un tono
fastidioso.
«Si chiama Muzaffer» la corresse Nihat.
Smettila di ripetere che non vuoi sposarlo! Non ti ascoltano nemmeno!
Pensa invece a come uscire da questa situazione!
Si era svegliata la sua voce interiore o quella che lei chiamava “l’altra
Sanem”. Era un’altra se stessa, la sua coscienza, un alter ego che le indicava
la strada e – molto più spesso – la bacchettava quando si comportava in
modo inopportuno. Sanem ci litigava quasi ogni giorno, ma oggi aveva
bisogno di aiuto.
«Cosa devo fare?» le chiese ad alta voce, mentre usciva di casa
sconsolata.
Vide passare Ayhan, la sua amica del cuore, la sua “sorellina”, e la fermò
con un segno della mano. Erano inseparabili dai tempi delle elementari.
Ayhan e suo fratello Osman, il macellaio del quartiere, avevano perso i
genitori in un incidente stradale avvenuto dieci anni prima. Negli Aydın
avevano trovato il calore di una famiglia unita e vecchio stampo, capace di
grande affetto. Ayhan in Sanem aveva trovato una sorella; Osman in Leyla
avrebbe voluto trovare una fidanzata.
Quella mattina l’amica di Sanem sembrava in fibrillazione, i suoi occhi
scuri brillavano: «Sono così felice per te! Muzo si sposa! Sta gridando a
tutto il quartiere che stasera chiederà la mano a una ragazza. Così finalmente
la smetterà di tormentarti!».
Sanem sentì il suo cuore battere forte. Era un incubo? Sperava di
svegliarsi e riprendere la sua vita.
«Ayhan! Sono io quella ragazza!»
L’amica impallidì. «Ma cosa dici?»
Sanem le raccontò tutto, incluso l’ultimatum dei suoi genitori. «Vogliono
che trovi un lavoro, un lavoro vero. In ufficio, non al minimarket tre ore al
giorno. E io non so dove…»
«Aspetta aspetta!» Ayhan si distingueva per diverse cose: le camicie
colorate, le calze a righe, le onnipresenti Converse, ma soprattutto la sua
mente acuta. «Nell’agenzia di tua sorella non cercavano un tuttofare?
Proponiti! Anzi, fatti proporre dalla Regina di Ghiaccio!» Così Ayhan
chiamava Leyla, con cui era legata da un rapporto di cordiale antipatia.
Ecco, questa è una bella idea. L’altra Sanem era elettrizzata da quel
colpo di genio. E anche Sanem.
«Ayhan, ma certo! Bravissima!» batté forte le mani. «Perfetto! Risolto
tutto. Non sposo Zebercet!»
Tornò di corsa a casa, ma sulla porta, pronto a bussare, trovò un uomo del
quartiere, Halil. Indossava abiti scuri quasi quanto la sua espressione.
«Halil, buongiorno» lo salutò Sanem, «cosa fa qui?»
«Devo parlare con tuo padre. È una faccenda delicata. Mi fai entrare?»
“Delicata?!” pensò Sanem. Si preoccupò subito.
«In che senso, Halil? Mi dica cosa succede. Posso saperlo anche io?»
L’uomo non nascose il proprio imbarazzo davanti alla ragazza. Non era
mai bello parlare in certi termini di un padre… un padre indebitato.
«Ha un debito con me, Sanem. Quarantamila lire. Gli sto concedendo
proroghe su proroghe. Non so se il vostro negozio sta andando male, ma… io
non posso più aspettare. Mi fai entrare?»
Debito? Ma quale debito?
Sanem non poteva lasciar entrare quell’uomo in casa sua. Nihat soffriva
di diabete e di una cardiopatia. I medici che lo avevano in cura gli avevano
raccomandato di stare attento a qualunque forte emozione. Avrebbe potuto
agitarsi, stare male. Forse anche avere un infarto.
«Non può entrare» disse Sanem, e di fronte all’espressione corrucciata
dell’uomo si affrettò ad aggiungere: «Ci penserò io a ripagarla».
L’altra Sanem intanto era sgomenta: Sì, ma come? Che stai dicendo,
Sanem?
Lui alzò le spalle con aria dispiaciuta. «Va bene, ma non hai molto tempo:
una settimana, quarantamila lire. O chiamo l’ufficiale giudiziario.»
“Un debito.” Sanem non riusciva a smettere di pensarci, mentre rientrava
in casa. Quella mattina, al suo risveglio, una bolla di sapone era entrata dalla
sua finestra e aveva pensato che quella giornata sarebbe stata speciale.
Bellissima. Invece la felicità del suo mondo era precipitata in meno di due
ore.
C’erano nuvole nere all’orizzonte: Zebercet e la sua proposta di
matrimonio. E suo padre in una situazione terribile.
A venticinque anni Sanem Aydın aveva difficoltà a distinguere i sogni
dalle possibilità, le fantasie dalla vita reale. Pensava che quei raggi di sole
che splendevano nella sua testa avrebbe potuto afferrarli, farli propri.
Avrebbe potuto fare tutto quello che voleva e coronare il suo sogno di
cercare le tartarughe giganti alle Galapagos, creare essenze con i fiori,
scrivere, essere felice.
Invece la vita la stava portando da un’altra parte: liti, debiti, vita da
ufficio. Un mondo difficile, dove avrebbe dovuto annaspare. Un mondo dove
avrebbe potuto soccombere. Ma di certo anche un mondo in cui mai e poi
mai sarebbe stata la moglie di Zebercet.
In realtà Sanem non sapeva che la sua famiglia aveva architettato uno
scherzo. Non si sarebbero sognati di darla in sposa a Zebercet; volevano
solo che si spaventasse e prendesse in mano la sua vita una volta per tutte.
La sua disperazione fece divertire tutti.
I genitori risero a lungo per quel tormentone che aveva illuminato la
mattinata: “Non voglio sposare Zebercet”.
Anche Leyla rideva, almeno finché Sanem non tornò a casa e le fece la
sua proposta: «Presentami alla tua agenzia per quel ruolo da tuttofare».
“Sanem alla Fikri Harika?” Ecco, Leyla questo colpo di coda non se lo
sarebbe mai aspettato. Un colpo basso.
«Ma perché proprio alla Fikri Harika?» balbettò. «Non puoi… scusa, non
puoi mandare il curriculum da qualche altra parte?»
«E invece è una buona idea» commentò Nihat. «Leyla, accompagnerai tu
tua sorella al colloquio e le insegnerai a diventare una donna in carriera
come te.»
«Papino, proprio per questo non posso» provò a difendersi Leyla, «il mio
capo ha una considerazione altissima di me. E io gli porto Sanem!» Poi si
rivolse alla sorella: «Cosa farai? Rovescerai il caffè o perderai le chiavi,
stavolta?».
«Ma quale considerazione… se sei solo una segretaria!» sbottò Sanem.
«Basta, tutte e due» intervenne il padre. «Sanem, preparati subito. Leyla,
contiamo su di te.»
Ormai era deciso.
Non pensò, si limitò a vivere

Meno di un’ora dopo, Sanem oscillava su tacchi improbabili mentre seguiva


Leyla tra i corridoi della Fikri Harika. L’agenzia le ricordava una torre di
ghiaccio e le storie di regine cattive e città congelate che leggeva quando era
piccola, ma c’era una differenza: in quel quartiere moderno di Istanbul,
seguendo il tacchettare di Leyla, non scorgeva principesse dal vestito
luccicante ma un esercito di ragazze e ragazzi ipertecnologici, con
smartphone, tablet e grandi occhiali dalla montatura spessa. A ogni passo tra
vetrate splendenti come neve si chiedeva quale sarebbe stato il suo angolo lì
dentro, con chi avrebbe consumato il suo snack di metà mattina, cosa
avrebbe visto affacciandosi alla finestra.
Si sa, stava dicendo l’altra Sanem. Preferiresti essere altrove. Tra le
meraviglie della natura, sotto cieli blu. A decifrare il linguaggio dei fiori.
Per quello aveva studiato Agraria, dove aveva imparato tutto sulle piante
e sulla loro cura.
Era stata sua nonna a insegnarle i segreti, quando era ancora una bambina.
La domenica, prima di pranzo, si addentravano nei boschi al limitare della
spiaggia per cercare fiori e piante officinali con cui creare le essenze.
«I fiori, Sanem» le raccontava, «sono quella parte che è dentro di noi, che
non smette di cercare i colori. Anche se il mondo ci fa soffrire. Il fiore
sembra delicato, ma è forte. Il suo profumo travolge.»
Era vero, e lei ne era affascinata. Con la nonna aveva imparato a creare
acque profumate e oli essenziali e, da allora, la sua fragranza preferita
l’aveva sempre addosso: una crema al giglio dall’allure selvatica.
«Aspetta qui» le intimò Leyla, allontanandosi per andare a chiamare il
suo capo. Due minuti dopo tornò con il signor Emre e si spostarono nel suo
ufficio.
Emre era un ventisettenne biondo e abbronzato, come i modelli delle
pubblicità; Sanem notò le iniziali ricamate sul polsino della camicia quando
le tese la mano: «Sanem, è un vero piacere. Non ti serve alcun colloquio,
qui. La professionalità di Leyla basta per assicurarti un posto tra di noi».
Era amichevole, educato. Dava l’impressione di ascoltare veramente
quando una persona parlava, di partecipare ai suoi stati d’animo. Eppure
c’era qualcosa di strano in lui: Sanem sul suo viso scorse un’ombra strana.
«Grazie, signor Emre» disse Leyla, «per la fiducia in mia sorella.»
«Grazie» ripeté Sanem.
Lui fece un cenno del capo: «Grazie a te, Leyla, di essere così perfetta.
Mi porti la presentazione della D-Bank?».
«La D-Bank?» intervenne d’impulso Sanem. «Questo mese è apparsa in
alcune riviste di architettura, arredamento, e anche di moda.»
Emre alzò gli occhi, interessato, prendendo un periodico da una pila di
giornali e magazine. «Sai a che pagina si trova l’articolo in questa rivista?»
«Cinquantaquattro» rispose lei decisa.
«Sanem ha una prodigiosa memoria fotografica» si affrettò a spiegare
Leyla, «ricorda tutto, qualunque cosa. Anche dettagli insignificanti.»
«Complimenti, signorina» commentò un uomo sulla sessantina, mentre
entrava nella stanza. «Sono Aziz Divit, ho sentito l’ultima parte del discorso.
Sono sempre stato affascinato dai labirinti della memoria.»
Leyla la presentò: «Signor Divit, lei è Sanem, mia sorella. Inizia oggi
come tuttofare».
«Nel senso che farò le fotocopie e porterò i caffè» aggiunse Sanem.
Vide tutti spalancare gli occhi dallo stupore, mentre sua sorella assumeva
il colore vermiglio della poltrona: «Scusatela, scherza sempre!».
Aziz rise: «Vi aspettiamo stasera, signorine. Alla festa della Fikri Harika,
la serata di gala».
Sanem pensò che non aveva un vestito adatto ma, prima che potesse
rifiutare l’invito, sua sorella le lanciò un’occhiata inequivocabile, e così
disse solo: «Grazie mille».
Fu affidata a Cengiz, un ragazzo che qualche rivista di moda avrebbe
definito un hipster.
«Falla lavorare come un mulo» gli raccomandò Leyla. «E se commette
qualche errore, dillo ai capi.»
Cengiz, che tutti chiamavano CeyCey, aveva ventiquattro anni ed era uno
stagista del reparto creativo. Aveva folti baffi neri, indossava pantaloni con
le bretelle, una camicia verde con disegni di foglie e portava un piccolo
cerchio di caucciù al lobo.
«Fai tutto quello che ti dico o mi licenzieranno. E licenzieranno te»
furono le sue prime parole. Sembrava una pentola a pressione pronta a
scoppiare.
“Non male come inizio” pensò Sanem.
«Quindi in pratica siamo l’ultima ruota del carro?» chiese lei.
Lui fece un sorriso stralunato: «No. Siamo la ruota di scorta. Ma tutto
funziona grazie a noi! Se sbagli, sei fuori».
«Be’… benissimo!»
«E tu come conosci Leyla?»
«Sono il suo Mr. Hyde. Lei ovviamente è il Dr. Jekyll…» Sanem usava
spesso questa metafora letteraria per parlare di Leyla. Vide lo sguardo
preoccupato del ragazzo e si affrettò ad aggiungere: «Siamo sorelle».
CeyCey era un nevrotico che non poteva stare senza caffeina. Viveva ogni
istante di lavoro alla Fikri Harika come una questione di vita o di morte.
Aveva mille fobie, una delle quali per le donne altissime e glaciali (donne
come Aylin, avrebbe scoperto in seguito Sanem).
Ansioso, tachicardico, angosciato quanto creativo, solerte e fantasioso.
Proveniva da un piccolo villaggio di campagna e – aveva tenuto a
specificare alla sua nuova collega – disegnava e cuciva lui stesso i suoi
vestiti. Lavorava a stretto contatto con Güliz Yıldırım, giovane e
superpettegola segretaria dell’agenzia, e sotto la supervisione di Deren.
CeyCey prese sul serio quel ruolo di tutor improvvisato e illustrò alla
new entry l’organigramma.
«Il signor Aziz è il presidente» spiegò. «Poi ci sono Emre, suo figlio e
direttore finanziario, e la signora Deren, direttore creativo. Tutte le
campagne, le foto, gli slogan vengono approvati da lei. Ah, e poi c’è il
signor Can.»
«Il signor Can?» chiese Sanem. Quel nome le piaceva: era dolce,
scivoloso come la marmellata.
«È l’altro figlio del signor Aziz, un fotografo di fama mondiale. Ho visto
alcune delle sue foto e… non me ne intendo, ma penso siano stupende.
Diverse da tutto ciò che ho visto altrove. Ah, guarda! È qui, sta passando per
il corridoio!»
Sanem si girò, però non vide nessuno.
«Se n’è già andato, sarà per la prossima volta.»
«CeyCey!» una voce tagliente lo interruppe. «Sai dirmi chi è il nuovo
impiegato? E dov’è, soprattutto?»
Una donna sulla trentina, supermodaiola, era davanti a loro. Aveva un
caschetto color nocciola con la frangia, un viso da bambola e la pelle di
porcellana, come se passasse le sue giornate negli istituti di bellezza. Sanem
notò anche il rossetto intenso, che guidava lo sguardo del suo interlocutore
sulle labbra.
Era Deren, Deren Keskin, la responsabile del reparto creativo.
«Lei» rispose CeyCey, indicando Sanem.
Deren la squadrò con un’aria a metà tra la noia e il disgusto. Poi tornò a
guardare il ragazzo.
«CeyCey… con me! L’altra, vieni anche tu!»
Sanem non si mosse, CeyCey schioccò le dita: «Sta parlando con te!
Vieni! Muoviti!».
«Signora, io mi chiamo Sanem…»
Nessuno la sentì. Nonostante quel nuovo soprannome poco piacevole, la
prima giornata scivolò via veloce, con una lista di invitati da chiamare per
confermare la loro presenza alla festa di quella sera. CeyCey le procurò
anche un vestito nell’immenso e favoloso guardaroba per i servizi
fotografici. Un abito a sirena, bluette, e un paio di sandali dal tacco alto.
Si specchiò e quasi non si riconobbe. Ci pensò l’altra Sanem a riportarla
alla realtà.
Stai attenta a non rovinarlo!

Poche ore dopo, nel cuore di Istanbul, in uno dei quartieri più splendenti di
storia e meraviglia, nel teatro dove la Fikri Harika avrebbe festeggiato i
quarant’anni dell’agenzia, un Can in smoking dava una sbirciata veloce
all’orologio, in attesa della sua fidanzata Polen.
Da sempre era allergico alle convenzioni, ai dress code: che senso aveva
decidere come dovessero vestirsi gli invitati a una festa? Che festa era, se
non si era liberi neanche di arrivare con addosso quello che si voleva? E
poi, nei suoi innumerevoli viaggi, aveva visto persone vivere in condizioni
estreme, troppi bambini che non avevano indumenti per coprirsi d’inverno,
che trovavano il loro “guardaroba” nei cesti delle associazioni caritatevoli,
che giravano con ciabatte di plastica aggiustate con lo scotch e vecchie
maglie da calcio. Il dress code era qualcosa di assurdo, ridicolo e immorale.
Suo padre, però, aveva insistito: quella sera lo smoking era fondamentale,
così come le scarpe eleganti. Gli aveva riservato la loggia, il palco più bello
del teatro, per godersi la serata con Polen.
«Avete bisogno di stare da soli. Basta che date un’occhiata anche alla
presentazione, ogni tanto» aveva aggiunto facendogli l’occhiolino.
Can, però, era pensieroso. Stava con Polen Aksu da… non ricordava da
quanto. Erano cresciuti insieme e lei era una di quelle donne in grado di
catturare gli sguardi di tutti i presenti quando entrava in una stanza e la loro
completa attenzione quando iniziava a parlare. Era una scienziata, una fisica
in un corpo da modella.
Aziz avrebbe voluto Can come re di quel regno di spot pubblicitari e
Polen come sua regina. Lui però, a ventinove anni, non si decideva a
fermarsi: il mondo lo chiamava e doveva scoprirlo. Polen era fantastica, ma
Can non sapeva se tra loro le cose stessero andando per il verso giusto.
Quando era con lei stava bene, ma non aveva il batticuore e non sentiva le
farfalle nello stomaco da tempo.
Anche Sanem era arrivata alla festa, ma sua sorella faceva finta di non
conoscerla. Si guardava in giro annoiata nei pressi delle tartine al caviale,
l’ennesima fonte di stress per CeyCey che si era messo a urlare in preda al
panico: «Ma questo caviale sa di caviale? Sei sicura che sappia di caviale?
Mi licenzieranno!». Vedeva i colori degli abiti da sera delle donne
mescolarsi con gli smoking maschili. I gioielli che brillavano alle luci
soffuse del foyer. Le bollicine che guizzavano nei flûte. L’emozione di Emre,
inamidato nel suo abito scuro. L’orgoglio di Aziz, il patriarca.
Can nel suo ufficio aveva un poster di Betty Draper e gli piaceva
immaginarsi suo padre come la versione turca di Don Draper, il geniale
pubblicitario della serie americana “Mad Men”. Aziz era un punto di
riferimento per le agenzie pubblicitarie di tutta la Turchia: aveva preso
spunto dall’Occidente, ma mantenendo la propria anima turca e, dopo
quarant’anni, era famoso anche all’estero.
Sanem vide passare Leyla e le allungò un mini-tramezzino. «Hai fame?
Tieni, ho anche il tovagliolino…»
Leyla fece finta di non vederla.
Indispettita, Sanem alzò la voce: «Leyla, vuoi una tartina? Capisco non
sia un’insalata, ma è buonissima».
L’insalata era il piatto preferito di sua sorella e Sanem non riusciva
ancora, dopo tanti anni, a capire perché.
La maggiore le fece cenno di tacere. «Abbassa la voce! Non farmi fare
figuracce!»
Sanem non poté di fare a meno di notare che era bellissima, con
quell’abito blu: una vera Regina di Ghiaccio, anche se sapeva che quel
soprannome di Ayhan la faceva arrabbiare.
Lo notò con compiacimento anche Emre, che era consapevole di avere la
segretaria più bella, oltre che la più professionale, dell’agenzia. Il minore
dei Divit notò anche che Can, allo smoking, aveva abbinato una delle sue
collanine etniche, una cravatta texana e l’immancabile codino spettinato.
«Non ti smentisci mai» gli disse dandogli una pacca sulla spalla. «Anche
a una serata di gala sembri Mowgli uscito dalla giungla.»
«Ci sei già tu vestito da bambolotto» gli rispose Can strizzando l’occhio.
Una folata di piume fruscianti li interruppe. Can fece un passo indietro
per evitare quella mise così ingombrante e vide Emre impallidire: era
arrivata Aylin, avvolta in un abito color latte con un corpino guarnito da
piume.
Altissima, quasi androgina, Aylin Yüksel era stata licenziata diversi mesi
prima da Aziz, che era certo delle accuse che le aveva mosso: aveva rubato
dei soldi. E ora cercava anche di rubare i clienti.
Emre l’aveva lasciata poco dopo e ora sembrava visibilmente a disagio.
Le si avvicinò con discrezione. «Aylin…» parlava sottovoce, ignorando i
flash lampeggianti dei fotografi. «Cosa fai qui?»
«È una serata importante, non potevo mancare» rispose lei con un sorriso
malvagio, «anche perché ci sono tutti i maggiori clienti e io ho la mia
agenzia…»
«Ma i ladri non sono invitati» intervenne gelido Aziz, «ti prego di
andartene.»
Un gruppo di persone assisteva alla scena, sussurrandosi commenti
all’orecchio.
«Lei parla di ladri, signor Divit? Mi ha calunniato, rubato la carriera e
separata dal mio fidanzato.»
«Papà, stai calmo. Per favore.» Can fece scudo al padre con il suo corpo
e allontanò con gentilezza i fotografi. «Ragazzi, andate pure.»
Aziz aveva un colorito violaceo e temeva gli si alzasse la pressione.
«Vai via, Aylin.» Can notò il tono di voce inflessibile di Emre e gli fece
impressione, ricordando quanto fosse stato innamorato di lei. “È vero che le
cose cambiano” pensò.
«Che piacere vederti» rispose lei modulando il suo sarcasmo.
«Comunque volevo fare gli auguri a tutti. Suppongo sia il suo ultimo anno di
lavoro, Aziz.
«Aylin, esci» ripeté Emre.
Era apparsa di colpo e svanì di colpo, come una nuvola. Come la cattiva
dei cartoni animati.
Sanem, che si era spostata dall’altra parte del teatro, non la vide. E non
notò l’agitazione generale. Era triste, perché Leyla faceva finta di non
conoscerla, ma per fortuna c’era CeyCey.
«Mi sento un po’ a disagio» disse, «non conosco nessun altro, a parte te e
Güliz.»
«Non preoccuparti, Sanem. Tra poco prendiamo posto in sala. Noi
dipendenti siamo sopra, nel settore D.»
«Arrivo, allora… vado un attimo alla toilette.»
«CeyCey, non siamo al piano superiore» gli ricordò poco dopo Güliz
quando lo vide dirigersi verso le scale, «i dipendenti sono tutti in platea!»
CeyCey pensò di correre ad avvisare Sanem, ma non sarebbe entrato in un
bagno femminile: lo avrebbero licenziato subito se lo avesse fatto.
“Troverà la platea facilmente” pensò, e si affrettò a seguire gli altri
mentre le luci iniziavano a spegnersi.
Le vide spegnersi anche Sanem quando, disorientata, uscì dal bagno e si
diresse verso la scalinata di marmo. Era quasi buio. Provò a cercare la
strada con la luce del cellulare ma, salite le scale, non trovava il proprio
settore. “Ma era B o D?”
Sentì gli applausi e qualche jingle vintage. Attratta dallo slogan “Caviale
per la tua pelle”, uno dei primi spot della Fikri Harika per un sapone
vellutato (che la fece pensare a CeyCey e alla sua ossessione per le tartine),
entrò in un palco per vedere le immagini. Non sapeva di essere nella loggia.
Era un palco sontuoso, da cui vedeva tutta la sala. Si sentì in una capsula
magica, avvolta da una strana luce blu che le faceva sembrare le braccia
brillanti come se fosse sulla luna.
Non era mai stata in un palco a teatro: i suoi non erano abbastanza ricchi
per permettersi spettacoli del genere. Rimase colpita dall’atmosfera, dalla
visuale. Pensò che quello era un posto dove la sua fantasia avrebbe potuto
galoppare. Si abbandonò all’atmosfera, a quelle vibrazioni color mare.
Poi, però, successe qualcosa di imprevisto. Di molto imprevisto.
All’improvviso Sanem si trovò circondata da due braccia muscolose,
coperte da una giacca elegante. Era buio e la luce azzurrina le faceva solo
intravedere una pelle dorata.
Prima che potesse pensare, protestare o anche solo chiedersi cosa stesse
succedendo, aveva una bocca sulla sua.
Un bacio?
Sentiva solo l’altra Sanem, in un angolo della sua testa.
Sanem, stai davvero baciando un uomo? Completamente a caso?
Non aveva mai baciato nessuno. Non si era mai trovata stretta tra braccia
così sicure. E poi quelle labbra… morbide, delicate ma dal tocco deciso.
Sanem non pensò a niente, si limitò a vivere.
Provava a guardare, a capire, ma non vedeva niente. Era quasi buio e, di
fianco a loro, scorreva un carosello di spot pubblicitari. La luce blu illuminò
un paio di scarpe eleganti, lucidissime, da uomo. Sanem scorse anche il
profilo lussuoso dello smoking mentre una barba inedita si strofinava sulle
sue guance, sul mento.
“È così che ci si sente quando si bacia qualcuno?” si chiese. Come se si
galleggiasse tra le onde del Bosforo. Come se si volasse.
Non era preparata. Si chiese se lui…
Ma lui chi?
Era come un secondo giro di giostra, dopo che si era già provati e
inebriati dal primo.
È uno sconosciuto, Sanem!
Era uno sconosciuto. E quel bacio non aveva senso. Scioccata dal rumore
inedito del suo cuore, richiamata dalla realtà, Sanem spezzò l’incantesimo.
Doveva ascoltare la voce dell’altra Sanem che le stava dicendo di andare vi
da lì, così si allontanò da lui, cercò a tentoni la porta del palco e si ritrovò
di nuovo sulle scale. Era sconvolta. Così sconvolta da riconoscere
un’emozione che, finora, aveva letto solo tra le sue poesie e i suoi romanzi
preferiti. Scendendo le scale, incrociò una ragazza con un abito bianco e
luccicante, ma non fece caso a lei. Doveva trovare subito un riparo da quella
tempesta, un posto dove pensare a lui.

Rimasto solo nel palco reale, anche Can Divit era scioccato. Aveva visto di
tutto in giro per il mondo, ma mai gli era capitata una situazione come quella.
Aveva cercato la risposta ai suoi dubbi sulla sua relazione con Polen in un
bacio. Non si vedevano da almeno tre mesi: l’avrebbe presa tra le braccia.
“E poi… sarà quel che sarà” si era detto, sperando di provare qualcosa
di forte al contatto con la sua pelle.
Entrato nel palco l’aveva intravista, nell’oscurità, illuminata dalla luce
azzurra. Per un attimo aveva esitato, ma Can non si era fermato a valutare le
proprie perplessità.
Non aveva pensato a niente, si era avvicinato e l’aveva stretta, come un
principe azzurro dell’età contemporanea. Polen amava essere sorpresa con
un bacio e, nonostante tutti i dubbi, un po’ gli mancava. Quello sorpreso alla
fine era stato lui: non aveva sentito le note floreali del suo profumo, una
famosa fragranza francese, ma qualcosa di molto diverso. Un concentrato di
salvezza e libertà imbottigliato in una boccetta di fiori selvatici. Forse gigli.
Una scia che lo aveva chiamato ad aggredire quel momento fino all’ultima
goccia. Un richiamo selvatico alla Cambogia, all’Amazzonia, a tutto quello
che di bello il mondo gli aveva riservato e per cui si sentiva così grato.
Quel profumo lo turbò, gli tolse il fiato: gli era entrato in testa al primo
tocco. Lo avrebbe riconosciuto tra mille. E poi c’era lei. Una pelle delicata,
un abbraccio morbido, labbra colte di sorpresa. Can fece relativamente in
fretta a trarre la sua conclusione.
“Questa donna non è Polen.” Ma allora chi aveva baciato? Provò a
scoprirlo uscendo dal palco una manciata di secondi dopo la ragazza. Anche
Can Divit a volte rimaneva a bocca aperta. Poteva volare su una cascata,
giocare con un branco di leoni, ma quella situazione… era troppo difficile
da decodificare anche per lui.
Era stato il vestito da fiaba, lo smoking, a rendere possibile
l’impossibile?
Solo chi ti guarda con amore vede il tuo lato più luminoso

«Questo miele è irresistibile.»


«Lo vivo come un tradimento… non ci sposiamo più!»
La battuta brillante conquistò un mormorio di risate e un piccolo
applauso. I giochi di parole dell’agenzia Fikri Harika riscuotevano sempre
grande approvazione. Il famoso spot del miele girato negli anni Settanta, con
uno sciame di api in bianco e nero alternato a una coppia che litigava per
dolce gelosia, troneggiava sullo schermo del teatro quando Sanem entrò di
corsa in platea, parlando con CeyCey al telefono.
«Dove sei?» sussurrò.
«Silenzio!» gridò un uomo.
«Mi ha calpestato lo strascico! Stia attenta!» strillò una donna, mentre
Sanem cercava di infilarsi nella fila del collega. Voleva solo sedersi in
quella poltrona rossa e cominciare a sognare.
Il bacio l’aveva sconvolta. Non si era mai sentita così.
«Dov’eri finita?» chiese CeyCey. Ma lei fece un gesto vago con la mano:
«Mi ero persa».
“Sì, mi sono persa” pensò. Persa in quelle braccia, che l’avevano fatta
sentire al sicuro. Persa in quelle labbra cadute dal cielo, emerse dal nulla
dell’oscurità.
Persa in lui, lo sconosciuto.

Can era uscito dal palco e si era ritrovato davanti Polen in abito bianco e
sandali gioiello. Era favolosa, come sempre. Dopo lo spettacolo gli aveva
chiesto di bere qualcosa insieme: avevano solo poche ore prima che il suo
aereo la riportasse a Londra, dove lavorava.
«Vado a cambiarmi» rispose Can, «non posso uscire così.»
«E perché no?» lo aveva stuzzicato Polen «È la prima volta che ti vedo in
smoking, e capisco perché. Temi che le donne ti rapiscano? Che qualcuna
crei un ingorgo stradale? O addirittura provochi un incidente?»
«Ma cosa dici?» aveva risposto Can, che s’imbarazzava di fronte ai
complimenti. «Devo solo sfilarmi questo abito. Mi toglie il respiro.»
In realtà era qualcos’altro che gli aveva tolto il respiro, e lo sapeva. Non
aveva più dubbi sul fatto di non aver baciato la sua fidanzata ma un’altra
donna. Il suo profumo, l’essenza di giglio, gli si era insinuato in testa, nei
pensieri, nelle vene. In pochi minuti era diventato un chiodo fisso.
«Can!»
Appena fuori dal camerino, dove finalmente era riuscito a riappropriarsi
dei suoi panni – e di se stesso – Can sentì una voce che con urgenza lo stava
chiamando. Il timore che a cercarlo fosse l’ennesimo cliente con il quale
intrattenere una futile conversazione svanì nel momento in cui si ritrovò
davanti il suo amico del cuore, Metin.
Erano cresciuti insieme e, nonostante gli stili di vita diversi, erano
sempre rimasti in contatto. Metin, insieme a quel damerino stakanovista di
suo fratello, era stato l’angelo custode del signor Divit. Emre si occupava
della parte finanziaria della società e Metin ne era da anni il legale di
fiducia. Era grazie a loro che Can poteva girare per il mondo senza sentirsi
troppo in colpa per la sua assenza.
«Can, hai due minuti?»
«Certo Metin, dimmi tutto.»
Il volto dell’amico, tratti orientali e carnagione olivastra, tradiva una
preoccupazione che forse gli stava per raccontare.
«Possiamo parlare in privato?»
Si spostarono in un angolo del corridoio dove non passava nessuno.
«Sento il dovere di dirti una cosa molto importante, anche se
professionalmente non sarebbe giusto farlo.»
«Cosa? Metin, parla. Mi stai facendo preoccupare.»
«Tuo padre domani non parte per una crociera nel Mediterraneo…»
«In che senso? Dove andrà?»
«Can, io non so se posso dirtelo. Sono argomenti delicati.»
All’improvviso Can sentì l’ansia martellarlo. Cosa stava succedendo? E
cosa aveva suo padre da nascondere? Si rese conto di quanto fosse legato ad
Aziz e spaventato al pensiero che potesse succedergli qualcosa.
«Metin, per favore! Cosa succede a mio padre? Dimmelo! Lui sta bene?»
Metin deglutì e appoggiò una mano sulla spalla dell’amico.
«Il signor Divit ha una grave infezione ai polmoni, che è degenerata
nell’ultimo periodo. Nessuno lo sa e soprattutto lui non vuole farlo sapere a
te ed Emre. Domani partirà per Cuba e starà fuori diversi mesi per farsi
curare.»
«Che cosa? Un’infezione? A Cuba? Mio padre…»
Non voleva tornare. Doveva tornare. Aziz era la persona più cara che
aveva al mondo. Ed era malato.
«Non è una cosa grave. Can, guardami!»
«Metin, io non so cosa dire. Sono sconvolto.»
Lo era davvero. Aveva lasciato la Cambogia e in meno di ventiquattr’ore
gli avevano raccontato di una spia, aveva baciato una sconosciuta e il suo
amico gli aveva detto che suo padre non stava bene.
«Can, se la caverà. Guardami. Fidati di me. Guarirà. Ha solo bisogno di
tempo.»
«Io voglio andare con lui.»
«No, Can, ti prego. Fidati, non c’è una possibilità che non sia così.»
Can in quel momento, e per la prima volta in tanti anni, vacillò, ma il suo
amico del cuore era particolarmente preoccupato anche per un altro motivo:
la questione era delicata e riservata e doveva rispettare la richiesta
dell’avvocato.
«Mi metti in una brutta posizione, Metin, ma va bene» lo rassicurò Can.
«Mio padre non saprà che sono a conoscenza di quello che gli sta
succedendo. Anche se non so come fare a lasciarlo partire da solo in queste
condizioni. Vorrei andare con lui.»
«No» lo fermò Metin, «lui vuole che tu stia qui, e che ti occupi
dell’agenzia.»
Can rievocò il pensiero di poche ore prima: “Due giorni, sono solo due
giorni”. E invece non sarebbero stati due giorni. Forse neanche due mesi.
«E va bene, Metin. Mi fido di te… resterò.»
Era troppo preoccupato per suo padre per festeggiare, salutò così una
Polen come sempre comprensiva, che sarebbe ripartita di lì a poco e aveva
attraversato l’Europa solo per vedere un’infilata di spot pubblicitari, e
aspettò Aziz all’ingresso.
Proprio lì accanto, inconsapevole che l’uomo che aveva baciato era
vicino a lei, Sanem non alzava gli occhi da terra. Scrutava solo le scarpe di
tutti gli uomini che passavano: mocassini, Clarks, modelli lucidi, opachi,
polacchine stringate. La sua memoria era eccezionale, ma lei non riusciva a
trovare quelle… quelle che aveva intravisto poco prima.
“Potrei riconoscerle tra mille” pensò. Ma non le riconosceva perché non
c’erano.
Alzò gli occhi, proprio mentre Can si allontanava con suo padre in taxi, e
cercò una barba. Tutta l’aria però era punteggiata di barbe: accennate,
leggere, pronunciate, folte, corpose, ricce, scure, rosse…
“Dove sei?” pensò. “Chi sei?”
«Sanem» Leyla era accanto a lei e finalmente le rivolgeva la parola,
«chiamo un taxi, va bene?»
«Sì, certo!»
«Hai un’aria strana.» Era difficile sfuggire agli occhi blu e indagatori di
sua sorella.
«No!» si affrettò a risponderle. «Sono solo un po’ stanca.»
Sanem trascorse il viaggio verso casa a fissare lo sciogliersi delle luci di
Istanbul che si diradavano e perdevano colore, trasformandosi in una fila
ordinata di piccoli lampioni bianchi man mano che si avvicinavano al
quartiere. Mandò solo un rapido messaggio ad Ayhan: “Ho baciato un uomo,
dobbiamo parlare!” mentre quello sprazzo di Vie en rose le toglieva il fiato.
Se era questo l’amore, non ne avrebbe mai avuto abbastanza.

Più tardi, certa che non avrebbe mai potuto dormire, preferì trascorrere la
notte sul dondolo in giardino, con Lettere a Milena, di Franz Kafka, e la Via
Lattea sopra di lei.
“E nonostante tutto credo talvolta: se si può perire di felicità, ciò deve
capitare a me. E se uno destinato a morire può ritornare in vita grazie alla
felicità io rimarrò in vita.” Leggeva e si sentiva incredula, pensando
all’incontro di poco prima.
Rintoccavano le tre di notte e uno stormo di uccelli nerissimi tagliava il
cielo quando Sanem si accorse che suo padre Nihat si era seduto accanto a
lei. Il suo cuore non aveva rallentato e temeva che il genitore potesse
sentirne i battiti impazziti.
«Figlia mia, stai bene? Ho visto la luce della lampada e sono sceso a
controllare.»
Sanem si ricompose: «Papà, sto bene. Non riesco a dormire e sono venuta
qui a leggere».
La luce era debole e dorata, ma suo padre la scrutava attentamente. I suoi
occhi la osservavano in quella dolce notte di inizio estate.
«Guardo il tuo viso Sanem» disse, «ed è pieno di luce. È successo
qualcosa?»
«Papà, cosa te lo fa pensare?» chiese con cautela, cercando una
scappatoia. Nihat le leggeva dentro e in quel momento lei era troppo confusa
per accettare compagnia nei suoi pensieri.
Il padre sorrise. «Solo chi ti guarda con amore può vedere il tuo lato più
luminoso.»
Se questo è caffè, la prego di portarmi un po’ di tè; ma se questo
è tè, la prego di portarmi un po’ di caffè

Aziz Divit scelse un completo informale di lino beige per partire. Voleva che
i suoi figli pensassero che stesse bene, che stesse davvero andando in
vacanza.
«Ho proprio bisogno di una pausa» annunciò mentre saliva sulla barca.
Prima di salpare, abbracciò forte Can. «Conto su di te. Ti voglio bene.»
«Ti voglio bene anch’io, papà.» Can sentiva la paura premergli sul cuore.
Era preoccupatissimo per la salute di Aziz e per un attimo pensò di dirgli
che sapeva della sua malattia. Poi rinunciò: non poteva tradire Metin.
Quel commiato fu faticoso anche per Emre. Non fu facile guardare negli
occhi il fratello quando il padre, poco prima di partire, aveva comunicato
che sarebbe stato il maggiore a gestire l’agenzia in sua assenza, una persona
che in ufficio non c’era mai.
Emre aveva vissuto studiando, lavorando, rispettando le regole e
scoprendo poi che, in realtà, chi invece non le rispettava non solo viveva
meglio, ma era anche più apprezzato. Da quando si occupava del
dipartimento finanziario dell’agenzia di famiglia, non era mai arrivato in
ufficio un minuto dopo le otto. Controllava il budget e i bilanci
maniacalmente. Ascoltava i problemi di tutti, dalle segretarie agli account.
Aveva la passione per le belle macchine, la dolce vita, i locali trendy, ma
sapeva anche dimostrarsi ligio e rigoroso in ufficio, gentile con i dipendenti,
solerte con suo padre.
Eppure, Aziz aveva sempre preferito Can. Chissà, forse anche Aylin
avrebbe scelto Can, se lui l’avesse mai degnata di uno sguardo.
I due fratelli presero un aperitivo al porto, mentre guardavano la barca
del padre allontanarsi. Sfiorato dai raggi del sole, pensieroso e preoccupato,
Can confidò a Emre i dubbi sulla spia e su Aylin.
«Hai idea di chi possa essere a passare queste informazioni?»
A Emre si gelò il sangue nelle vene. «Can, in realtà io penso che papà stia
esagerando.»

Nessuno stava esagerando. La spia c’era davvero ed era proprio lui: Aylin
non era la sua “ex” fidanzata, aveva finto di lasciarla, ma in realtà stavano
ancora, segretamente, insieme. Anzi, Aylin viveva in un immobile dei Divit,
un piccolo loft con giardino, per il quale non pagava l’affitto. Ci pensava
Emre a gestire tutto, senza che la sua famiglia sospettasse di lui.
Ne era innamorato, quella donna era sicura di sé e sapeva colmare le sue
di insicurezze. Aveva un corpo mozzafiato e uno sguardo che, se si incrinava
la corteccia della sua glacialità, sapeva riservare momenti di dolcezza.
Anche per questo Emre era andato dal gioielliere di fiducia e le aveva
comprato un anello, il solitario più bello che avesse mai visto. Voleva
sposarla e dirlo a tutti.
Per amore, per paura, per rabbia, per frustrazione si era fatto trascinare
nel suo piano. Lei aveva aperto un’agenzia concorrente e voleva ridurre in
polvere la Fikri Harika, sottraendo tutti i clienti grazie allo spionaggio che
portava avanti lo stesso Emre e servendosi della sua assistente
inconsapevole, Leyla. Alla fine Emre sarebbe diventato socio di Aylin, il
sovrano di un regno pubblicitario concorrente, visto che nella sua, di
azienda, sarebbe stato l’eterno secondo. Si era fatto molti scrupoli prima di
assecondare la donna: al padre voleva bene e anche al fratello. Ma Aylin era
stata più forte e gli aveva anche fatto firmare il modulo costitutivo della sua
società in qualità di socio. Un documento-trappola che lo aveva già portato a
un punto di non ritorno. Ormai aveva tradito la Fikri Harika.
Can, però, in tutto questo avrebbe potuto rappresentare un ostacolo. Era
sveglio e intelligente ed Emre rischiava il passo falso.
Lo pensava anche Aylin, che aveva già fissato l’obiettivo: farlo ripartire.
«Can deve andare via, il prima possibile. In Cambogia o dove gli pare»
sentenziò a colazione la mattina successiva mentre beveva un sorso di un
infuso detox. Seguendo il suo sguardo, gli chiese se ne volesse un sorso.
«Contiene menta, cardo, sedano, aceto…»
«No, grazie» si schermì Emre. Doveva andare via subito: quella mattina
in ufficio ci sarebbe stato suo fratello. Gli aveva garantito che sarebbe
arrivato presto e non, come al solito, a mezzogiorno.
Anche Sanem quella mattina si era svegliata presto. Aprendo gli occhi si
era trovata davanti quelli scuri e curiosi di Ayhan, che, allertata dal
messaggio, si era precipitata in camera della sua sorellina. Voleva sapere
tutto sul bacio.
«Ho letto che hai baciato qualcuno! Me lo hai mandato tu quel messaggio
o era uno scherzo?»
Sanem era già sveglia e sognante. «Ayhan, Ayhan! Credo di essermi
innamorata…»
«E di chi?»
«Non lo so…»
Le raccontò tutto, raccomandandole di non parlarne con nessuno,
soprattutto con Leyla. La sua amica anche stavolta, dopo aver ascoltato
attentamente, elaborò un piano vincente: «Aveva la barba, no? Fai un elenco
di tutti gli uomini con la barba presenti in agenzia. Così restringi il campo».
«Certo! Come ho fatto a non pensarci subito? Sei un genio! Ma troviamo
un modo per chiamare quest’uomo… come lo chiamiamo?» gli occhi di
Sanem rotearono tra le mura della sua cameretta, la finestra, le tende
ricamate… e il poster al muro, raffigurante un albatros. Per lei era un
simbolo di libertà, rappresentava le Galapagos, il suo sogno, la natura, la
vita.
«Albatros» disse ispirata da quelle splendide ali. «Se vivi alle
Galapagos lo puoi vedere, vola alto e solitario sopra l’oceano. È bellissimo.
Trascorre quasi tutta la sua vita in volo. È maestoso e possente, con le sue
ali enormi. Fluttua a lungo nell’aria, senza batterle mai. Non ore o giorni:
vola per mesi. Si posa sulla terraferma solo per trovare una compagna e, una
volta che l’ha trovata, vive con lei, insieme, per sempre. Volano e migrano
per il resto della vita.»
«Che emozione!» gridò Ayhan. «Cercalo, Sanem! Trovalo! E chiamami
ogni minuto per aggiornarmi!»
«Assolutamente» promise Sanem.
Doveva cominciare subito. Arrivò in ufficio e prese il suo taccuino, dove
aveva già scritto l’intestazione: LISTA ALBATROS. Scandagliò i volti
assonnati dei colleghi, cercando di riconoscere la barba, le labbra,
prendendo nomi. E scattò qualche foto ai ragazzi, senza farsi vedere. O
almeno, provando a non farsi vedere. E se fosse stato un uomo anziano?
Sanem s’impose di non pensarci: no, non era possibile. L’albatros era un
uomo bellissimo, sensibile, puro. Passò un ragazzo con la barba e lo
fotografò al volo.
«Cosa stai combinando?» l’apostrofò Güliz, che stava prendendo il caffè
con CeyCey.
Sanem era stata già scoperta. «Niente! Faccio foto a uomini con la barba
per hobby. Quanti ce ne sono qui dentro?» Poi cambiò prontamente discorso:
«Non c’è del tè, qui? Vedo solo una distesa di caffè!».
«Tè?! Cos’hai, ottant’anni?» l’apostrofò CeyCey.
Güliz scoppiò a ridere. Era bruna, alta come Sanem, si vestiva sempre
con colori accesi. «Sanem, sei troppo forte!»
Poi riprese il suo discorso con il collega: «Il signor Aziz è partito. È in
crociera. E il nuovo capo sarà il signor Can».
«Ne sei sicura?» chiese lo stagista.
Güliz annuì e i suoi occhi brillarono: «Non arriva mai così presto in
ufficio».
«Il signor Can?» s’intromise Sanem. «Il girovago che se ne va per il
mondo a fotografare i leoni?»
“Uno che non è mai qui diventa il capo da un giorno all’altro?” si chiese.
“E come mai? Con quale titolo?”
Stai zitta, Sanem! tuonò l’altra se stessa. Mai parlare male dei capi. E
soprattutto mai parlarne male sul posto di lavoro!
Ma lei non le diede retta, era troppo presa dal suo monologo. Dalla sua
indignazione.
«Si degna di venire in ufficio una volta… ed è il capo? Bene,
complimenti! Che bella la meritocrazia! È anche il mio di capo e non so
nemmeno chi sia. Anzi, una cosa la so: è uno snob! Un presuntuoso! Quando
si annoia fa il selvaggio e quando è stanco viene qui e gioca a fare il capo.
Certo, smisto la posta e porto i caffè, ma questo non significa che devo
essere l’ultima a sapere le cose!»
«Stai zitta» sussurrò CeyCey.
Con orrore, Sanem notò lo sguardo terrorizzato (e anche un po’ divertito)
di Güliz.
Osò chiedere: «Lui è dietro di me?» ma sapeva che era lì, lo sentiva.
Brava Sanem! È il tuo primo giorno di lavoro e già fai la peggior gaffe
che potresti mai…
«Verrò licenziato» bisbigliò meccanicamente CeyCey.
Sanem si voltò e lo vide, vide Can Divit. La sua memoria fotografica le
confermò che lo aveva incrociato anche la sera prima: mentre prendeva il
taxi per tornare dalla festa, lui era al telefono a pochi passi da lei. Era stato
solo uno sguardo veloce, scivolato sui suoi anfibi e sui suoi pantaloni
sportivi. Aveva notato che lui aveva la barba ma non indossava né smoking
né scarpe eleganti.
Si prese un attimo per fissarlo e rimase a bocca aperta: non aveva mai
incontrato un uomo che la colpisse così, in modo naturale, neanche sulle
riviste. Aveva capelli di un castano intenso, ricco di sfumature luminose che
tendevano ai colori nocciola, cannella e caffè, che teneva raccolti in un
piccolo chignon spettinato, mentre qualche ciuffo ribelle gli scivolava sulla
fronte e la barba accompagnava le guance e il mento. “Era un calciatore,
forse un rugbista, un pugile?” si chiese Sanem. Non poté non notare i muscoli
sotto la maglietta leggera, anche se lei non era abituata a guardare gli uomini.
Era la prima volta che succedeva. La cosa più bella di Can, però, era il
taglio degli occhi, che gli dava quell’espressione malinconica in contrasto
con il fisico virile.
Non si accorse di sorridergli e arrossire.
Anche Can stava sorridendo. Si era trovato davanti una ragazza buffa
(ripensò alle parole ingenue su di lui che lei aveva pronunciato poco prima,
così lontane dai formalismi ossequiosi degli altri), naïf, acqua e sapone. Era
bellissima, ma di una bellezza diversa da quella sofisticata e rifinita di
Polen. Questa ragazza era bella, ma inconsapevolmente. Aveva capelli
castani lunghi fino alle spalle, grandi occhi scuri ed espressivi e un viso da
bambina. Portava uno smalto qualunque, neanche steso alla perfezione. E non
era truccata.
«Il tuo nome?» le chiese. La vide arrossire e la cosa lo divertì.
«Sanem» balbettò lei.
«O altrimenti puoi chiamarla… L’altra» aggiunse Güliz facendo un
occhiolino fuori luogo.
«Vi voglio tutti in riunione» annunciò Can. «Non c’è del tè qui? Vedo solo
caffè.»
Sanem sorrise di nuovo e sorrise ancora quando, poco dopo, Can si
lamentò dell’assenza del tè anche in riunione, davanti a tutti i dipendenti.
«Come può mancare il tè?» chiese. «Me lo spiegate? Posso avere una
tazza di tè o chiedo troppo?»
«Ma certo» squittì Deren. «Güliz, provvedi subito.»
«Ma qui non abbiamo…»
«Provvedi!»
«Anche io lo cercavo prima, ma non l’ho trovato!» s’intromise Sanem
alzando la mano.
Vide CeyCey che le faceva cenno di tacere e Deren che la fulminava.
Anche Leyla stava distogliendo lo sguardo.
“Ma che hanno? Cos’ho detto di così strano?” si chiese esasperata.
«Grazie Güliz, aspetto due tazze di tè» precisò Can. «Per me e Sanem.»
“E quindi c’è qualcuno che ama il tè quanto me” pensò Sanem. In un
pianeta di caffè-dipendenti, aveva trovato uno scampolo di affinità elettiva.
Il tè, così delicato, aromatico, intenso, una coccola per lo stomaco, un
momento di relax a cui Sanem non avrebbe mai rinunciato. Sorrise in
direzione di Can, ma lui era concentrato e aveva un’aria molto seria.
«Risolto il tè, passiamo oltre» disse. «Purtroppo abbiamo fondati motivi
di ritenere che qui tra noi ci sia una spia.»
Calò il silenzio tra i dipendenti. Qualcuno, per l’imbarazzo, guardava il
pavimento.
Can era in tensione durante quel discorso. Non voleva spaventare i
ragazzi, minacciarli. Ma suo padre era stato molto chiaro: il futuro
dell’agenzia (e dei loro posti di lavoro) era in pericolo e lui doveva
risolvere il problema. Ignorò gli sguardi spaventati e spiegò che qualcuno,
tra loro, stava distruggendo il duro lavoro che Aziz aveva portato avanti in
quarant’anni.
«Se qualcuno di voi è la spia, lo dica subito» concluse Can. «Altrimenti
potete andare.»
«Finalmente!» esclamò Sanem alzandosi con il suo cay di tè in mano.
La guardavano tutti; qualcuno rideva, qualcuno si guardava con aria di
intesa.
«Sanem! Seduta!» sibilò Leyla con le guance in fiamme.
«Ma ha detto lui che possiamo and…»
«Ssssst!»
Ancora quella assurda Sanem. Can si scoprì a sorridere di nuovo.
Rimasto solo, tornò alla questione della spia. Aveva pensato a un possibile
piano d’azione di notte, prima di mettersi a dormire sul materassino in
giardino: dopo la Cambogia, infatti, non riusciva più a riposarsi a letto, era
entrato troppo in contatto con la natura e cominciava a pensare che quel
processo di comunione con il mondo, quella trasformazione in lui fosse
irreversibile.
Decise di bloccare i server, criptando tutti i flussi di informazioni e
inibendo chiunque dall’entrare in possesso di dati sensibili. Progettò anche
nuove password.
«Solo io e te possiamo accedere» annunciò a Emre, e indicò Sanem. «E
quella ragazza. È nuova, non può essere la spia.»
«Ma Can, così non si può lavorare… cerca di ragionare. Papà è
paranoico.»
«Dici? Io dico invece che lo scopriremo dopo aver fatto controllare
tutto.»
Le prime indagini nel corso della mattina evidenziarono il computer di
Leyla, la segretaria di Emre, come quello da cui erano state trasmesse le
informazioni ad Aylin. Lei era sconvolta.
«Non c’entro niente!» balbettò con gli occhi pieni di lacrime. Gli altri la
fissavano in silenzio e si sentiva morire.
Con sgomento Emre vide suo fratello congedare Leyla, la sua Leyla, per
un periodo indeterminato, in attesa di capire di più. La ragazza stava per
piangere – Emre se ne rese conto – anche perché era completamente
innocente, e impotente. Ma si trattenne; raccolse le sue cose e si diresse
verso l’uscita, senza una parola.
Sanem la vide in tempo e corse subito da lei, insieme al suo capo. «Ma
cosa dicono? Non è possibile! Tu non hai fatto niente. E poi non si accusa
una persona senza prove. Ora andrò dal signor Can e…»
«Sanem!» Leyla la guardò negli occhi con aria severa. «Non fare niente, ti
prego. Vado a casa… risolveremo tutto.»
«Parlo io con mio fratello» le assicurò Emre. «Tornerai prestissimo, te lo
prometto.»
“Il mio primo giorno di lavoro e insulto il capo, scopro che c’è una spia e
mandano via mia sorella” pensò Sanem, costernata. Sentiva che era arrivata
al momento sbagliato, lì dentro, e si trovava coinvolta in queste cose
assurde. Spionaggio industriale? Non sapeva cosa fosse e non voleva
scoprirlo.
Intanto Deren era furiosa. Dalle narici sembravano uscirle lingue di
fuoco, come se fosse un drago. La questione della spia l’aveva innervosita e
agitata. Sanem pensò che era la versione senior di CeyCey, nevrotica allo
stesso modo ma anche dispotica e capricciosa.
Più tardi si sarebbe lamentata nel suo ufficio, alla presenza dello stagista
e della tuttofare, della necessità di installare l’occorrente per fare il tè.
«Provvedete subito, chiamate i fornitori! Subito! Da domani in questo
ufficio deve esserci tè ovunque. Can è un professionista. Il migliore» tuonò.
«Ma questa cosa è fuori luogo, adesso. “Se questo è caffè, la prego di
portarmi un po’ di tè; ma se questo è tè, la prego di portarmi un po’ di
caffè”» continuò imitando la voce di un immaginario collega incontentabile.
«Chi se ne importa del tè in questo momento! O del caffè. Anzi, senti un
po’… L’altra, ordinami un’insalata per pranzo. Senza olio e sale, grazie.
Senza carne o latticini. Senza altre verdure. Solo lattuga.»
Sanem era sconvolta per Leyla e non osò neanche ribattere, ma avrebbe
voluto ribadire a quella donna il proprio nome. Sanem, era così difficile da
imparare?
Lei in quel posto di schizzati non c’entrava nulla.
“Io me ne vado” pensò esasperata.
Avrebbe voluto seguire sua sorella, tornare a casa, ma… mentre stava
valutando la situazione, le squillò il telefono. Era Halil e aveva un tono di
voce inequivocabile.
«Come siamo messi con il debito? Sei sparita. Devo chiamare Nihat?»
«Sparita?» gridò Sanem. «Ci siamo parlati solo ieri. Non le ho mai detto
che avrei fatto apparire quarantamila lire dal nulla! Le ho detto che avrei
provveduto io. Non chiami mio padre per nessun motivo.»
«Non sono io a non fidarmi» ribatté lui. «È il mio socio… dice che
potresti…»
«Potrei cosa? Scappare? Sono qui a Istanbul» sbottò Sanem. Non si
accorse di aver alzato la voce e che quello che diceva in corridoio stava
rimbombando nell’ufficio di Emre Divit.
Emre stava parlando al telefono proprio con Aylin in quel momento. Gli
serviva una via d’uscita.
«Ha chiuso i server» le stava dicendo, «possiamo accedere solo io e
lui… e…»
Si bloccò sentendo le parole di Sanem, che era in corridoio «Aspetta un
attimo, Aylin.»
Quel profumo, il profumo

Sanem era ancora agitata per Halil quando vide Emre sporgersi dal suo
ufficio e farle un gesto. «Puoi venire qui?»
«Sì, signore.»
Aveva ancora in mano il telefono e notò che lui lo stava fissando.
«Mi scusi, era una telefonata personale. Non succederà più, e…»
Si accorse che stava pensando come CeyCey: “Sarò licenziata!”.
«Siediti.»
«Non mi licenzi!» gridò.
Ma cosa fai? Non puoi urlare con lui, è il capo! Sanem si vergognò, per
l’ennesima volta.
Emre però stava ridendo, stupito. «E perché mai dovrei licenziarti?»
Sanem arrossì. «Ero al telefono, rispondo in modo sbagliato… e prima, il
tè…»
Lui la guardò senza capire. «No, Sanem, vorrei parlarti di un’altra cosa.»
Lo interruppe. «Di Leyla? Le assicuro che non è una spia. È presuntuosa,
arrogante… (Ma che stai dicendo?)… ma è una persona leale.»
«Lo so. E non vorrei mai perderla. Mio fratello, colpendo lei, vuole
colpire me. E anche tu potresti rischiare.»
“Di perdere il lavoro?” si chiese Sanem, spaventata. Pensò ad Halil, a
suo padre, al debito.
«Io, signor Emre, non posso perdere questo lavoro, perché… perché…»
Emre la guardò negli occhi. «Lo so. Devi scusarmi, ma involontariamente
ho sentito la tua telefonata. Ho sentito che ti servono quarantamila lire per
aiutare i tuoi genitori.»
«Io…» Sanem si sentì nuovamente a disagio. Se Leyla avesse saputo che
aveva parlato con Emre del debito della sua famiglia… non osò pensare
come avrebbe reagito.
«Non è una cosa grave. Quarantamila lire» disse lui, «non sono così
poche, ma io posso aiutarti.» Senza battere ciglio, compilò un assegno e
glielo allungò. «Ecco qui.»
C’era un assegno con quarantamila lire, davanti a lei, letteralmente caduto
dal cielo, dagli occhi azzurri del signor Emre. Neanche negli spettacoli dei
prestigiatori succedevano cose simili.
«No, non posso accettare…»
«Prendili. Per tuo padre.»
«Le ho detto di no.»
«Non è un regalo, Sanem, ma solo un anticipo del tuo stipendio. Lavorerai
qui e mi ripagherai.»
“Non è una proposta così compromettente” pensò lei. Avrebbe ripagato il
prestito in qualche mese a quell’uomo gentile, educato. Sembrava davvero
legato a Leyla e lei era pronta a tutto per la sua famiglia.
«Grazie» balbettò. Lui le porse un documento da firmare, che attestava
l’anticipo.
«Farò quello che posso per Leyla.»
«Sì, la prego! Per lei il lavoro è tutto!»
«Devi aiutarmi, però. A fermare Can.»
«Fermare Can?!»
“Can Divit, l’uomo del tè? L’uomo sexy, con la barba, il codino…”
Sanem si ricompose.
«Esagera con questa storia della spia» tuonò Emre, «quando lui ha
progetti ben peggiori.» Abbassò la voce, controllando che nessuno lo
sentisse: «Vuole acquisire clienti per aumentare le quotazioni dell’agenzia e
venderla. Non gliene importa niente di stare qui».
“Ma cosa sta dicendo?” si chiese Sanem. Aveva guardato Can negli occhi
mentre avvisava i dipendenti della storia della spia, e gli era sembrato un
uomo sincero. Ora, però, suo fratello le stava dando quarantamila lire e le
diceva di stare in guardia da lui.
«Sanem, se mi aiuterai salveremo i dipendenti, oltre che l’agenzia»
concluse, guardandola in modo serio. «Ma ricordati di non dire niente a
nessuno, neanche a Leyla.» Intanto Emre si rendeva conto che non era così
facile convincere quella ragazza.
Sanem era a disagio e lo guardava con aria interrogativa. «Signore, io
sono troppo maldestra. Non posso aiutarla…»
«Puoi e devi. Per tutti noi.»
E lo fece. Passò al lato oscuro, senza neanche rendersi conto che era
oscuro. Quando una persona brillava di luce propria, come Sanem, aveva
difficoltà a concepire il male negli altri. A coglierlo. Era cristallina,
ingenua. Ed Emre alla fine riuscì a trascinarla dalla sua parte.
“Starò attenta” si disse. “Riporterò Leyla qui e non deluderò Emre!”
Più tardi, però, combinò un altro disastro. Portandogli il caffè inciampò
sul linoleum e glielo rovesciò sulla giacca; vedendo l’ampia macchia
marrone che si faceva largo sul suo vestito nuovo, Emre constatò di nuovo
quanto fosse svampita e imbranata quella ragazza.
Sanem si sentì morire. «Mi dispiace, signore!»
Intanto la sua voce interiore si scatenava: era scioccata.
Sanem, non ci posso credere! Hai rovesciato ancora il caffè sulla
giacca del capo, come nell’ultimo posto di lavoro da cui ti hanno
licenziato. Neanche impegnandoti avresti potuto fare meglio.
Lui fece un gesto con la mano: «Tranquilla, non fa niente.»
«Gliela porto subito in lavanderia.»
«Ti ringrazio… vai a quella all’angolo di questa via, che consegna a casa
il capo entro la giornata. Servizio express. E… un’altra cosa, dovrebbe
essere arrivato un corriere con una cartellina rossa. La porti qui?»
«L’ho presa e portata nell’ufficio del signor Can insieme alle altre
bianche che mi aveva chiesto» disse Sanem compiaciuta. “L’ho preceduto,
che brava! Leyla ha torto su di me: sono troppo avanti!”
Emre però si stava accigliando; teneva a bada a fatica un’improvvisa
ondata di collera.
«Che cosa hai fatto?»
«Mi dispiace!» esclamò Sanem. “Ma cos’ho fatto?”
Brava, disse la sua voce interiore. Ottimo come primo giorno! Dopo la
gaffe con Can, il caffè. E ora la cartellina.
Emre tremava, scosso dalla paura. Quei documenti, nella cartellina rossa,
contenevano l’atto costitutivo della società con Aylin. Doveva recuperarla,
subito.
«Devi recuperarla immediatamente. Immediatamente Sanem! E senza farti
scoprire! Al suo posto metti questa» gliene porse un’altra con pochi fogli che
aveva recuperato dalla stampante.
Cosa stava succedendo in quel posto? Tutte spie, tutti disperati, tutti
nevrotici. “Quante storie per una cartellina” pensò Sanem dopo la pausa
pranzo, mentre entrava nell’ufficio di Can con un tè. La scusa perfetta per
riportare le cose a posto. O meglio, la cartellina rossa a posto.
«Ecco il suo tè, signore. Da oggi sarò io a preoccuparmi che lo abbia tutti
i giorni. Non dovrà più bere caffè, stia tranquillo.»
Lo vide sorridere e sentì una stretta al cuore.
“Non fantasticare su di lui, è bello ma ha piani malvagi.”
«Grazie, Sanem. Vai pure. E… hai per caso mangiato un dolcetto? Hai un
segno di cacao sul viso.»
Lo aveva mangiato a pranzo. Era scesa in pasticceria, in effetti, ma non si
era accorta di quel terribile baffo. Ennesima figuraccia, ed ennesimo
sorrisetto sul viso di quell’uomo.
“Me ne vado via per sempre” pensò. Ma non poteva andarsene. Restò e
prese uno spray igienizzante che era rimasto sullo scaffale. «Signore, le
pulisco l’ufficio.»
Can sorrise di nuovo, colpito da quella ragazza. Sanem era goffa, ma nel
suo essere impacciata c’era qualcosa di estremamente elegante. Irresistibile.
Con il suo fare da bambina incantata ma orgogliosa, da Alice nel paese delle
meraviglie, Sanem senza saperlo gli stava regalando momenti di leggerezza.
Non aveva idea del fatto che in quel momento, però, nella testa di lei
frullavano idee cospiratorie.
“Come faccio a prendere la cartellina? Mi nascondo? Aspetto che lui
esca? Lo mando di là con una scusa? Fingo di stare male? Fingo un attacco
di panico? Fingo di avere le allucinazioni?”
Pensa dai, pensa, le raccomandava la sua voce interiore. I suoi progetti,
però, mentre disinfettava mensole pulitissime, furono spezzati dallo stesso
Can, che si alzò dalla scrivania, prese il casco della moto e le cartelle, tutte,
compresa quella rossa.
«Sanem, che cosa stai facendo?» le chiese. «Questo ufficio è a posto. È
pulito. Vai pure.»
«Ma lei… dove va?» farfugliò, rendendosi conto di quanto fosse
inopportuna quella domanda. Lui non si infastidì ma sorrise, di nuovo: «Ho
un appuntamento, poi vado a casa. Sempre che a te vada bene, Sanem».
«Ma certo! Vada p-pure!» balbettò lei, imponendosi di stare calma.
«Ho il tuo permesso?»
«Ma sì! Cioè, no!»
«No?»
«Non ha bisogno del mio permesso, signore.»
Arrossì di nuovo. Lo guardò disperata mentre prendeva il giubbetto
leggero e si allontanava per il corridoio, con la cartellina rossa in mano.
Chiamò Emre, che si allontanò da una riunione per risponderle.
«Non hai recuperato la cartellina?» le domandò con voce angosciata.
«Non è possibile!»
«Domani ci riprovo, glielo prometto.»
«Domani? No, domani no. Potrebbe essere troppo tardi. Devi andare a
casa nostra.»
«A casa sua?» Sanem sobbalzò. «Ma come… cioè, ma cosa c’è di così
importante in quella cartellina? Non può aspettare domani?» si bloccò,
rendendosi conto per la seconda volta di non poter fare quelle domande. Era
impertinente. Forse anche maleducata. Si vergognò, pensando che stava
facendo fare brutta figura ai suoi genitori. CeyCey avrebbe detto che
potevano licenziarla per molto meno.
«Mi scusi, signore» aggiunse, «sono molto agitata. Per Leyla.»
«Non preoccuparti» rispose lui, gentile e comprensivo come sempre. «Vai
a casa mia prima di cena. Can va a correre a quell’ora. Scavalca la
recinzione, è bassa, e vedrai che avrà lasciato aperta la veranda. Entrerai da
lì.»
«Non posso avere le chiavi?»
Senza chiavi era violazione di domicilio. O quasi.
«Non riesco a portartele. Ma stai tranquilla!»
“Non voglio” pensò lei. Ma gli disse di stare tranquillo, che avrebbe
portato a termine l’assurda missione: alla ricerca di una cartellina rossa in
giro per Istanbul.
Si avvicinava il tramonto di quella giornata di primavera quando arrivò
l’autobus che la portò alla villa dei Divit. Stile essenziale, colori chiari,
qualche oggetto di design sparso per la casa, una bella piscina, un barbecue:
era una splendida casa.
Ora doveva concentrarsi e recuperare la cartellina nel minor tempo
possibile.
Sanem sapeva nuotare nel Bosforo, sapeva arrampicarsi sugli alberi e
strisciare nei cunicoli. Aveva giocato tanto da bambina ed era molto agile.
Scavalcare la recinzione fu facile, entrare in casa Divit facilissimo perché,
come aveva detto Emre, la porta della veranda era aperta. Trovare la
cartellina rossa si rivelò meno semplice. Setacciò la cucina, persino il
frigorifero, la zona living, le mensole, il portariviste. Salì per le scale, dove
scoprì le camere da letto. Una di queste aveva un’enorme libreria che la
lasciò senza fiato. Trovò la cartellina su una scrivania e la sostituì
velocemente.
«È stato facile» disse all’altra se stessa.
Sì, ma ora non farti scoprire. Scappa!
Proprio quando aveva la mano sulla portafinestra della veranda, però, si
sentì afferrare per la manica della giacca da una mano decisa. Si voltò e
scoprì che era Can.
Can era a casa. E si era trovato lì quella ragazza.
Nessuno aveva mai lasciato senza parole Can Divit come Sanem Aydın.
Che cosa ci faceva a casa sua con quell’espressione spaventata? A colpirlo
però fu qualcos’altro, qualcosa che lo fece pensare a Marcel Proust e alle
sue madeleine, e che gli risvegliò quella memoria spontanea di cui aveva
letto, anni prima, quando si era appassionato alle pagine dell’opera dello
scrittore francese Alla ricerca del tempo perduto.
C’era un profumo, connesso a un ricordo recente. “Quel profumo. Il
profumo” si disse Can, esterrefatto. Il profumo che aveva sentito a teatro,
durante il bacio. Era incredibile, si sentiva come in quel momento: la realtà
descritta da Proust esisteva davvero.
E quindi… era lei la ragazza sconosciuta che lo aveva inebriato con
quell’aroma di gigli? La Cambogia gli aveva riservato tante cose inaspettate,
ma questa nuova Istanbul, con Sanem, superava qualunque cosa avesse
potuto vedere in giro. Ora però doveva capire perché si trovava lì.
«Cosa ci fai qui?» le chiese. La vide pallidissima, nervosa.
«Cerco una cosa» balbettò lei.
«Cosa?»
Sanem non sapeva cosa dire. Poi le venne un’idea. «Ho portato al volo in
tintoria la giacca del signor Emre, dopo averla macchiata con il caffè, e
gliel’hanno fatta recapitare a casa. Dentro però ho lasciato una cosa mia che
devo recuperare. Il signor Emre mi ha detto di venire qui.»
«Davvero?» chiese Can. Non poteva credere che suo fratello avesse detto
a una dipendente di andare a casa sua solo per recuperare un oggetto.
Il cuore di Sanem batteva fortissimo. “Morirò d’infarto” pensò. Ma la
storia della giacca non era male, costruita così in fretta e furia. «Sì, signore.»
«Seguimi, cerchiamo insieme questa giacca, il nostro collaboratore
domestico, Rifat, dovrebbe averla messa nel guardaroba di mio fratello.»
Lo seguì in camera, ricordandosi, mentre lui era voltato, di far scivolare
la cartellina incriminata in un grande vaso decorativo. Poi l’avrebbe
recuperata, con calma. Can aprì il gigantesco guardaroba di Emre –
sembrava il magazzino di una casa di moda, pieno di vestiti sartoriali
eleganti – e prese la prima giacca che vide. «È questa?»
Sanem deglutì nervosamente. «Sì.»
Can cercò nel taschino (“E se non c’è niente?” si chiedeva terrorizzata
Sanem) e con suo enorme stupore trovò un astuccio con dentro un anello
costosissimo. Anche Sanem sembrava accecata dalla luce del gioiello.
«È tuo?» le chiese lui confuso.
Silenzio.
«È questo che cercavi?»
«È l’anello più bello che abbia mai visto» commentò lei, assorta.
Sembrava fosse la prima volta che lo vedeva.
«Ma è tuo?» lo stupore di Can andava oltre quanto potesse esprimere. La
ragazza che aveva baciato era a casa sua e il suo anello di fidanzamento
nella giacca del fratello. Mille pensieri gli affollavano la mente, ma
soprattutto era sopraffatto da un senso di tristezza e inquietudine che lo
faceva sperare in una risposta negativa.
«Sì» disse Sanem. Menti bene, la esortò la sua voce interiore. Più
convinta.
Can era perplesso e la domanda venne spontanea: «Quindi tu… sei
fidanzata?»
Non rispose e la vide con gli occhi cercare una via di fuga.
«Ti ho fatto una domanda.»
«Sì» ripeté lei. «Da poco.»
“Sono proprio credibile” pensò, “fino a ieri non avevo neanche mai
baciato un uomo”.
Arrossì di nuovo. «Mi scusi. Devo andare. Il mio fid… il mio fidanzato
mi aspetta.»
«Ancora un attimo» disse Can dubbioso, ma Sanem si voltò e cominciò a
correre. Consapevole di essersi resa ridicola e, sentendosi ancora più
ridicola, corse giù dalle scale come se la inseguisse un killer.
Can si affacciò al balcone e con suo estremo stupore la vide schizzare in
giardino, ignorare l’ingresso principale e scavalcare il muretto. Sanem lo
notò affacciato a guardarla e, arrampicatasi sulla recinzione, scivolò
dall’altra parte troppo frettolosamente. Cadde sull’asfalto e si sbucciò un
ginocchio, che cominciò a sanguinare.
Can, vedendola, scese e la rincorse. Forse si era fatta male. Notò i
pantaloni già sporchi di sangue.
«Sanem! Ti sei fatta male?»
«No, no… sto benissimo! Vado, mi aspetta l’autobus!»
Noncurante della ferita, zoppicando, si allontanò. Quando fu a distanza,
chiamò Emre. «Ho sostituito la cartella. L’altra è in un vaso, l’ho infilata lì
per nasconderla. C’è stato un problema…»
«Quale problema?» chiese lui e Sanem gli raccontò di Can e dell’anello.
“Ci mancava solo questa” si disse Emre.
«Tienilo. Non possiamo farci scoprire.»
«Ma io non sono fidanzata!»
O meglio, per un motivo che non riusciva a definire, non voleva che lui,
Can, lo pensasse.
«Ci inventeremo qualcosa. Per il momento però tienilo tu.»
Sanem si avviò alla fermata del bus.
“Dai, alla fine è stata una buona giornata” rifletté. E, senza accorgersi,
provò un brivido ripensando al volto di Can che la scrutava sotto la luce
ghiacciata della cabina armadio.
Le ragazze di Istanbul non hanno mai fame

Nonostante la ferita alla gamba, Sanem riuscì a percorrere velocemente la


lunga discesa costellata da ville, tutte dall’architettura moderna come quella
dei Divit. Arrivata alla fine della strada optò per prendere un taxi invece del
bus: in borsa aveva un anello dal valore apparentemente inestimabile e non
voleva rischiare che glielo rubassero, aveva già un debito troppo alto e
pressante con il signor Emre. Arrivata nella sua Istanbul, sentì che mai come
quella sera era stata felice di ritrovarsi tra le casette dai colori pastello del
quartiere. Era stata una giornata di lavoro turbolenta conclusasi con
un’avventura all’Arsenio Lupin che era finita in maniera inaspettata e
dolorosa per la sua gamba. Mentre ammirava con occhi nuovi la strada in cui
era cresciuta, Ayhan, che dal piccolo giardino di casa l’aveva vista passare e
aveva notato la sua camminata tentennante, le andò incontro.
«Sanem che ci fai in giro a quest’ora ridotta così?» gli occhi guardinghi
dell’amica non poterono fare a meno di notare il ginocchio ferito, reso ancor
più evidente dai suoi pantaloni bianchi sporchi di terra e sangue.
«Se te lo dicessi non ci crederesti: mi sono infilata in un guaio enorme.
Guarda, guarda cosa ho qui» tirò fuori dalla borsa l’astuccio che conteneva
il maestoso anello. Ayhan fu abbagliata subito da quel diamante a goccia
gigantesco su una montatura dorata. Sembrava l’anello di una regina.
«Ma di chi è? Che ci fai con questa meraviglia?»
Prima che Sanem avesse il tempo di rispondere, Zebercet spuntò fuori dal
nulla insieme alla madre Aysun.
«Mammina, guarda! La mia fidanzata è appena tornata a casa dal lavoro.»
«Zebercet, io non sono e non sarò mai la tua fidanzata!» Sanem in quel
momento non era davvero in vena di ascoltare lo sragionare del suo vicino.
«Lo so che mia madre ti ha detto che ci avrebbe pensato, ma lo ha fatto solo
per tenere buona la tua, di madre!»
Le parole severe ma giuste di Sanem indispettirono Aysun che, per
difendere il figlio, prese la rincorsa per bussare a casa Aydın e far presente
il comportamento sgarbato della figlia.
«Sanem è una gran maleducata, come tutti voi!» urlò la donna appena
Mevkibe aprì la porta, scatenandone l’ira, che Nihat e Leyla, anche loro
corsi all’ingresso, cercarono di trattenere mentre Sanem, colpevole di tutto
quel trambusto, si infilò in casa e corse in camera sua senza che nessuno si
accorgesse della ferita. Voleva stare da sola, riempire le pagine del suo
diario e godersi finalmente un po’ di pace per poter pensare al suo albatros e
scrivere di lui: Diceva Orhan Pamuk, l’amore più bello è per colui che non
vediamo, ma senza gli occhi si vedono tante cose che ancora di più ci
fanno amare. Vedere non importa, ciò che resta è la tua voce, il ricordo di
un abbraccio, il tuo profumo. Così senza vederti mi sono innamorata e
aspetto che tu dia un volto a ciò che sogno.

Nel giardino della villa, Can continuava a rimuginare su quello che era
successo poco prima, mentre si cimentava in qualche tiro a canestro. Sanem
a casa sua, l’anello, la fuga insensata: “Quella ragazza è totalmente pazza. E
io l’ho baciata. Ed è fidanzata”.
Alla sola idea che Sanem fosse impegnata con un altro era infastidito,
preoccupato. Non si accorse che Emre intanto era tornato, fino a quando il
fratello non lo colpì con la palla da basket che, dopo l’ultimo centro, Can
non aveva ancora raccolto da terra.
«Ti vedo distratto» lo prese in giro Emre. «Oppure non hai più i riflessi
pronti di un tempo.»
Can rispose ritirandogli il pallone addosso, per poi tornare subito serio e
fargli la domanda che gli girava in testa ormai da ore.
«Emre, perché hai detto a Sanem di venire a casa nostra?»
Il suo tono era diventato ruvido, quasi risentito e il fratello, consapevole
di essere il responsabile, si mise subito sulla difensiva.
«Sanem è venuta da me disperata, mi ha detto che aveva lasciato qualcosa
di molto importante nella giacca che le avevo chiesto di portarmi in tintoria,
così non ci ho visto nulla di male nel dirle di andare a casa nostra. Non eri tu
che avevi detto che di lei ci potevamo fidare, perché è nuova?»
Emre si accorse che la sua spiegazione era stata più che plausibile, ma
volle aggiungere una sfumatura di (finta) inconsapevolezza alla recita per
renderla ancora più credibile: «A proposito, cosa c’era nella mia giacca di
tanto importante? Tu lo sai?».
«Un anello di fidanzamento, molto bello. Costoso.»
La voce velatamente malinconica con cui Can gli rispose insospettì Emre.
Non è che forse quella ragazza assurda gli piaceva?
A salvare il fratello fu la suoneria del suo cellulare: era l’account
dell’agenzia, che lo avvertiva che una nota compagnia aerea aveva indetto
una gara lampo per la sua prossima campagna pubblicitaria. La Fikri Harika,
come le altre concorrenti, aveva solo quarantotto ore per ideare una
presentazione convincente.
Emre ascoltò la conversazione e, mentre Can era sotto la doccia, recuperò
la cartellina rossa dal vaso e andò a casa di Aylin.
Sapeva che sarebbe stato un punto di non ritorno ma non poteva, e non
voleva, tornare indietro. Aziz, affidando l’agenzia a Can, si era spinto troppo
oltre. Emre bruciava di rabbia e i suoi sensi di colpa scivolavano
nell’autocompiacimento: per una volta, almeno una volta, stava reagendo.
Aylin intanto non aveva perso tempo e lo aspettava, spumante alla mano,
nel suo loft. Avrebbero festeggiato in gran segreto, quella sera, l’inizio della
fine della Fikri Harika.
«Potevi risparmiarti la scena al galà» le disse Emre. «Avresti potuto
compromettere tutto… con mio padre.»
«Volevo umiliarlo. È colpa sua se la mia vita è andata in pezzi. Mi ha
licenziato e ci ha impedito di sposarci. È una persona terribile.»
«Non parlare così di lui, Aylin!»
«Che c’è, Emre? Forse non mi vuoi più…?»
Lui sospirò. «Sì, ti voglio. Per questo rubo i clienti alla mia agenzia.»
«Non è più la tua agenzia, quella» precisò lei.
«A questo proposito, ho sentito che Can vuole partecipare alla gara per la
campagna di una compagnia aerea…»
Lo sguardo di Aylin era vitreo, da Crudelia De Mon. «Va fermato. A tutti i
costi. Quella Sanem di cui mi parlavi… usa lei. Deve farci sapere tutto
quello che succede, così la commessa la prendiamo noi.»
«Va bene, Aylin, ma… dobbiamo essere prudenti.»
«Mi piace che parli al plurale.» Prese la cartellina rossa che Emre aveva
recuperato dal vaso e ne estrasse i documenti della nuova agenzia. «Soci?»
Emre esitò solo un attimo. Poi firmò il suo patto con il diavolo contenuto
in quel plico, diventando a tutti gli effetti suo socio. L’atto costitutivo della
loro società era stato ufficializzato.

Poche cose come le sfide a tempo sapevano stimolare Can Divit, che la
mattina seguente si presentò alla Fikri Harika pieno di energie, tanto che
decise di abbandonare per un giorno la jeep e di andare al lavoro con la sua
Harley Davidson. La velocità lo aiutava a pensare. Da quando era tornato a
Istanbul si era sentito così vivo solo in un’altra occasione: il
bacio…“Sanem!”
La stessa Sanem che con passo svelto stava arrivando in ufficio e che
Emre stava aspettando sotto al portone dell’agenzia. Ti licenzierà, tuonò
l’altra se stessa.
«Signor Emre, mi scusi per ieri! Io non sono capace di fare queste cose,
gliel’avevo detto! Non mi licenzi!»
«Sanem, non ho nessuna intenzione di licenziarti! Ho recuperato la
cartellina dal vaso, per fortuna Can non l’ha neanche vista. Ora ho un altro
compito per te.»
«Un altro compito?! Ma signor Emre, io…»
«Sanem! Ti devo ricordare del nostro patto ogni giorno? Stammi a
sentire: devi fare in modo di scoprire e fotografare la campagna
pubblicitaria che Can sta preparando per la compagnia aerea.»
«Ma come faccio?»
«Non lo so. Trova tu una soluzione. È un cliente importante e devo
controllare quello che fa mio fratello. Ti ho spiegato quali sono le sue
intenzioni.»
«Va bene, signor Emre.» Sanem non poteva dire di no: aveva un debito da
estinguere importante e poi si era già affezionata ad alcuni colleghi. Non
voleva che per la malvagità del suo capo venissero licenziati. E con loro
Leyla. Prima di dare il via alla sua nuova missione, però, prese dalla
borsetta la scatolina. «Signor Emre… a proposito di ieri sera. Si riprenda
questo anello. Non ho dormito stanotte per la paura di perderlo.»
«Te l’ho già detto… tienilo tu! Can pensa che ti appartenga, che è un
oggetto a cui tieni molto. Quindi per ora sarà il tuo anello di fidanzamento.»
«Ma io non sono fidanzata!»
Emre rise: «Che importa? Basta che Can pensi che tu lo sia».
Sanem non immaginava niente di peggio, in quel momento, che tenere quel
gioiello, ma non disse nulla.

Mentre la vita di Sanem si stava trasformando in una matrioska di bugie,


quella di Leyla era decisamente fin troppo tranquilla.
Si era vestita da ufficio nell’evenienza che l’avessero richiamata per
tornare al suo posto, ed era uscita. Seduta fuori dal minimarket dei suoi,
stava aspettando di potersi godere un buon bicchiere di tè in compagnia di
suo padre quando Ayhan, di passaggio, vedendola così elegante e
malinconica, non aveva perso l’occasione per provocarla.
«Principessa Leyla, come va? Ma guardati… sai che ti ci vedo qui come
commessa dell’emporio? Conciata così faresti fare affari d’oro a Nihat.»
«Ayhan, e tu hai finalmente deciso cosa fare nella vita invece di vagare
nel nulla?»
«Cara Regina di Ghiaccio, io cammino e penso. Il mio cervello è sempre
in movimento e non vaga mai nel nulla. Anzi, visto che me lo chiedi, te lo
dico: ho intrapreso una nuova attività come mental coach.»
Leyla non nascose il suo sguardo sprezzante, ma Ayhan non si fece
scalfire. Aveva aperto il suo sito internet; era sicura di essere validissima
come problem solver, tanto da aver trovato già il primo cliente: Muzaffer,
reduce da una brutta delusione sentimentale.
Proprio nel bel mezzo del botta e risposta, Nihat apparve con il vassoio
del tè; a quel punto Ayhan sferrò il colpo finale: «Nihat, visto che Leyla è
una donna in carriera, in questo momento nullafacente, perché non ti fai dare
una mano al negozio? Lei è forte nel marketing, potrebbe dare una svecchiata
qui!».
Mentre Leyla cercava in tutti i modi una scusa per evitare l’inevitabile, il
grande entusiasmo manifestato da Nihat alla sola idea che una donna in
carriera come la figlia si occupasse del suo negozio la costrinse a cedere
alla dispettosa richiesta dell’amica di sua sorella.
«Sei proprio perfetta al minimarket!» cinguettò Ayhan mentre si versava
un po’di tè. «Vi saluto, buon lavoro!»
Leyla avrebbe preferito – disperatamente preferito – essere con Emre in
quel momento, nel suo ufficio sfavillante, a sistemare le piantine, a prendere
appuntamenti, o a ottenere una semplice attenzione da lui. Era una ragazza
posata, però, e suo padre non si accorse dell’ansia dietro quel sorriso di
circostanza.
«Comincio a controllare i libri contabili! I numeri sono il mio forte.» E lo
erano veramente, ma sfogliando le pagine si rese conto che in quei conti
nulla aveva senso. «Papà, i tuoi libri contabili sono un disastro! Qui c’è un
debito altissimo che devi ancora saldare!» esclamò non appena rimasero
soli.
«Tesoro, ma quello non è niente» mentì lui, «ho saldato da tempo quel
prestito ma, sai come sono fatto, ho dimenticato di cancellarlo.»
«Sei sicuro, papà?» Lui e Leyla avevano gli stessi occhi azzurri. Occhi
limpidi ma capaci di dissimulare per amore.
Scuri e incapaci di dissimulare invece erano gli occhi di Can che quella
mattina, appena le videro, non riuscirono a non notare le gambe di Sanem
lasciate scoperte da una gonnellina a ventaglio blu. La ferita della sera prima
era un brutto segno rosso.
«Sanem, vieni nel mio ufficio!» finse un tono deciso, mentre lei
chiacchierava con Güliz, a cui stava mostrando un foglio con su scritto
qualcosa di apparentemente molto importante.
In realtà Can era in parte divertito dal ricordo della sera prima, da quella
fuga senza senso, ma allo stesso tempo dispiaciuto di essere stato così duro e
di non aver avuto la prontezza di seguirla, fermarla e medicarla, scioccato
com’era per averla trovata in casa sua, ma soprattutto dalla notizia che fosse
fidanzata. Sapeva che Sanem si era fatta male, ma non pensava che la ferita
fosse tanto profonda.
«Signor Can, eccomi con il tè.»
Quando entrò nell’ufficio, le fece cenno di sedersi sul divano. Poi si
inginocchiò con in mano un batuffolo di cotone e disinfettante.
Lei trasalì. “Ma cosa sta facendo?”
«Signor Can, ma cosa sta facendo? Non ce n’è bisogno! Non è niente!»
Si vergognò di nuovo. Arrossì di nuovo.
Can le sorrise e iniziò a pulirle la ferita.
«Non mi pare che non sia niente. È un brutto taglio. Ho visto di peggio e
mi sono curato ferite molto più gravi durante i miei viaggi, ma anche questa
ha bisogno di cure. Brucia?»
«Un po’.»
Can iniziò a soffiare mentre continuava ad accarezzare con il batuffolo il
ginocchio di Sanem, tenendole ferma la gamba. Lei provò un brivido,
cercando di dissimularlo. E sotto i polpastrelli lui percepì la pelle d’oca.
Notò anche che aveva in mano un foglio, lo stesso che, insieme a Güliz,
stava guardando pochi minuti prima.
«Cos’è quel foglio, Sanem?»
«Niente di importante, signor Can.»
Quella risposta non lo convinse, ma fece finta di niente. Recuperò dalla
scrivania il cerotto che aveva preparato, lo applicò sul ginocchio di Sanem
e, mentre lei scrutava i suoi movimenti, riuscì a sfilarle di mano il pezzo di
carta che tanto lo incuriosiva. Lei non ebbe la prontezza di trattenerlo, era
ancora scossa dal brivido del suo tocco.
«Lista albatros» lesse Can.
«Me la ridia!»
«Sanem, che cos’è la lista albatros?»
«Niente, me la ridia per favore!» si alzò in piedi di scatto. “Ahi! La
gamba!”
«Non prima che tu mi dica cosa o, meglio, chi sono questi nomi sulla
lista. Sono i miei dipendenti!»
Sanem si avvicinò e tentò in tutti i modi di riprendersi il suo prezioso
elenco. Si accostò tanto che Can poté sentire di nuovo quel profumo.
“La bacerei un’altra volta. Qui. Ora.”
Non capiva cosa gli stesse succedendo. Sanem era irresistibile. Intanto lei
si era arresa a dirgli la verità. “Tanto una figura peggiore di quella di ieri
non posso farla” pensò.
«Sto cercando un uomo con la barba che era alla serata per i quarant’anni
dell’agenzia.» Can scorse la lista con attenzione. Mancava un nome: il suo.
«E perché io non sono nella lista? Ho la barba e quella sera ero lì.»
«Perché quella sera lei non portava lo smoking.»
Niente di meno vero. E Can capì il motivo per cui Sanem stesse cercando
quella persona. Voleva scoprire chi fosse l’uomo che aveva baciato al galà e
quell’uomo era lui. Stava per dirglielo, ma un pensiero e una constatazione
lo fermarono: “L’anello! È fidanzata! Ma…non lo sta indossando”.
«Sanem, perché non porti l’anello di fidanzamento?» le chiese guardando
le sue mani, che intanto avevano ripreso al volo il foglio.
«Ce l’ho in borsa» lo tirò fuori dall’astuccio e lo indossò. «I miei non
sanno ancora nulla di questa cosa e quindi non posso tenerlo in casa. Poi
esco e mi scordo sempre di metterlo. Vede, per ora il mio fidanzato e io ci
siamo solo fatti una promessa, ancora non ha chiesto la mano a mio padre.»
“Ci siamo solo fatti una promessa.” Non era stata quindi una proposta di
matrimonio ufficiale quella che il fidanzato di Sanem le aveva fatto e lei,
intanto, continuava a pensare al loro bacio. Nel cuore di Can si aprì un varco
di speranza anche grazie a una strana coincidenza.
Fin da quando era piccolo l’albatros era sempre stato il suo animale
guida. Lo aveva anche tatuato sul petto in uno dei suoi viaggi alle Galapagos.
Ne ammirava la possenza e la regalità: un uccello che vola per mesi e mesi
senza fermarsi mai, ma che quando di posa sulla terraferma e trova la sua
compagna resta con lei per sempre.
Il destino li stava spingendo l’uno contro l’altra?

La riunione per la pubblicità della compagnia aerea non era andata come
Can si aspettava. Deren, pur avendoci lavorato tanto nelle poche ore che
aveva avuto a disposizione, non era stata in grado di portare sul tavolo
un’idea vincente, ma comunque Can decise di scegliere una delle sue
proposte. La meno peggio.
Il tempo scorreva veloce e gli serviva qualcosa di concreto da presentare
al cliente. Avrebbe puntato sulla grafica, su immagini accattivanti e l’unica
persona che poteva aiutarlo in questo era Akif, che con le sue stampe aveva
sempre fatto miracoli. Akif, come Metin, era amico di Can dai tempi del
liceo. Insieme formavamo un trio di inseparabili e, anche se le loro vite
avevano preso strade diverse, non avevano mai smesso di esserci l’uno per
l’altro. La tipografia di Akif in passato aveva avuto gravi problemi
economici ma grazie alle commissioni dell’agenzia dei Divit si era ripresa.
Ripeteva sempre che se non fosse stato per la Fikri Harika non ce l’avrebbe
mai fatta. Can era sicuro che l’amico avrebbe fatto lo stesso per lui.
«Emre, io sto andando da Akif per la pubblicità della compagnia aerea.
Starò fuori probabilmente per il resto della giornata. Se hai bisogno di me mi
trovi sul cellulare.»
Il minore dei Divit ebbe un lampo di genio.
«Perché non porti con te Sanem, la nuova arrivata? Almeno così può darti
una mano.»
Can non capiva in cosa Sanem avrebbe potuto dargli una mano, ma l’idea
di passare il resto della giornata con lei…
«Va bene! Avvisala tu, dille che l’aspetto giù.»
Sanem era alle prese con il suo peggior nemico in agenzia: la stampante.
Non era proprio in grado di farla funzionare. Quelle che aveva utilizzato fino
ad allora non avevano tutti quei tasti, quelle lucine strane e quelle opzioni.
Emre arrivò alle sue spalle proprio mentre cercava di convincere quella
macchina infernale a collaborare. Ad alta voce le scappò un: «Muoviti!» e le
diede anche un colpo poco gentile.
«Sanem!»
«Signor Emre! Scusi, non stavo parlando da sola ma con la stampante. Mi
insegna a fare le fotocopie?»
Emre la guardò allibito. «Le fotocopie?!»
«Non riesco a farle, premo qui ma non succede niente. E si accende una
luce arancione.»
«Sanem, lascia perdere la stampante, ci penserà Güliz a fare le fotocopie.
Can ti sta aspettando giù, devi andare con lui in tipografia dove lavorerete
alle grafiche per la campagna della compagnia aerea. Mi raccomando, una
volta pronte scatta delle foto e mandamele immediatamente.»
Sanem sapeva che era inutile discutere: “Per quel debito, sempre quel
debito” e intanto prese il suo giubbino di jeans e scese sulla strada. Proprio
davanti all’ingresso dell’agenzia c’era il suo capo che la stava aspettando
sulla moto più grande che lei avesse mai visto. Era così sexy in giacca di
pelle… era qualcosa di mai visto.
«Non penserà che io salga su quella cosa.»
Can aprì il bauletto e prese un casco. «Ecco, tieni.»
«No, signor Can, io non salgo.»
«Non dirmi che non sei mai salita su una moto!»
«Ma certo che sì! Che domande mi fa? Che cose assurde dice?»
Troppa enfasi, Sanem! Non esagerare.
«Allora dovresti anche sapere come si allaccia un casco e questo non è il
modo corretto.»
Sanem non sapeva cosa dire. Salì e si attaccò alle maniglie laterali.
«Reggiti a me, Sanem. Abbiamo fretta e quelle maniglie non sono troppo
sicure.»
Gli circondò la vita con le braccia, stupita per il calore che emanava.
Stare lì, con lui, era come tornare a casa in una giornata di pioggia. Se solo
suo fratello non lo avesse dipinto come l’uomo peggiore del mondo…
Can sentiva sul collo il suo respiro, teso dall’emozione e dalla paura. Si
era reso conto subito, vedendola impacciata con la sua Harley, che quella
era la prima volta per lei su una moto. Le stava regalando sensazioni inedite
e in quell’istante ebbe l’impressione travolgente che il destino li avesse fatti
incontrare proprio perché lui le facesse vivere cose mai provate prima.
Stranamente era anche molto contento che uno dei suoi migliori amici
l’avrebbe conosciuta, sarebbe stato come mostrarle un pezzetto del suo
passato, un tassello dei tanti che componevano la sua vita. Senza rendersene
conto, stava cominciando a provare per quella ragazza qualcosa di
inaspettato, esattamente come lei.
«Allora, quando vi sposate?» Akif pose la domanda a Sanem con estrema
naturalezza mentre sorseggiava un tè bollente insieme ai suoi graditi ospiti.
Gli occhi con cui l’amico la guardava erano inequivocabili e l’anello che
portava al dito se lo sarebbe potuto permettere solo un Divit. Non poteva che
essere la sua nuova fidanzata.
«Be’, a dire il vero non ci ho pensato. Non vogliamo fare progetti, ma
forse un giorno… Mio padre dice sempre: “Solo chi ti guarda con amore può
vedere il tuo lato più luminoso” e io devo capire se Can è in grado di vedere
il mio o se è troppo preso dal suo ego per farlo» rispose Sanem con ironia
pungente. E Akif capì di aver equivocato tutto. Tranne gli occhi di Can.
«Scusa, Sanem, ho visto il tuo anello e ho pensato steste insieme.»
Akif poteva contare sulle dita di una mano le volte che aveva visto Can in
imbarazzo: quella era forse la seconda o la terza, in almeno vent’anni che lo
conosceva.
«Sanem lavora in agenzia» tagliò corto l’amico. «Siamo qui per delle
stampe e comunque, Akif, quando mi sposerò sarai il primo a saperlo,
promesso!»
«Temo dovrete aspettare che si liberino i macchinari» lo avvertì lo
stampatore, un po’ deluso. Peccato, non aveva mai sopportato Polen. «Vi
consiglio di fare un giro.»
Era una splendida giornata di primavera che preannunciava con il suo
calore l’arrivo dell’estate e Can e Sanem passeggiavano su un tratto del
lungomare distante solo pochi minuti dalla tipografia di Akif in modo che,
appena si fossero liberati i macchinari, sarebbero potuti tornare e portare a
termine il lavoro. Sanem camminava dietro al suo capo che era molto
silenzioso.
“Can Divit, da quando in qua sei così timido con le donne?” si chiese lui.
Scelse di rompere quel silenzio con la più banale delle domande.
«Prima di venire a lavorare alla Fikri Harika cosa facevi?»
«Ho fatto tanti piccoli lavoretti, ma più che altro davo una mano ai miei.
Loro hanno un minimarket, è l’unico del nostro quartiere» rispose con voce
orgogliosa. «Ah, e colleziono conchiglie, le raccolgo tutte le volte che ho
l’opportunità di andare in spiaggia!»
Ma cosa stai dicendo Sanem, cosa c’entrano ora le conchiglie? La sua
voce interiore mise un freno a quel monologo che, in realtà, Can trovava
adorabile.
«In realtà vorrei diventare una scrittrice» aggiunse lei.
Non era solo un sogno, ma anche la cosa che le veniva più naturale. Non
aveva un computer: scriveva a penna, su un quaderno dalla copertina rosa,
come quando aveva dodici anni. Spalancava la finestra, si lasciava
travolgere dalla magia di Istanbul, e lasciava andare la fantasia. Le parole
sembravano sbocciare da sole in lei, come dei germogli meravigliosi.
Sanem raccontava di quella sua passione e Can pensò che lei potesse
diventare qualunque cosa volesse. Mentre la brezza leggera le scompigliava
i capelli, non riusciva a toglierle gli occhi di dosso: sembrava una sirena, di
una bellezza abissale, ma diversa dalle altre. I pensieri di Can furono
interrotti da un rumore inequivocabile, il rumore dello stomaco di Sanem…
«Sanem… hai fame?» le domandò, sicuro che lei avrebbe negato
l’evidenza. Lei lo stupì.
«Sì, signor Can: sto morendo di fame!»
Can spalancò gli occhi.
«Perché mi guarda così, signore?»
«Che strano! Le donne di Istanbul non hanno mai fame.»
«Non hanno mai fame? Signor Can, ma lei che donne conosce!?!»
“Conosco molte donne, Sanem, ma nessuna è come te” avrebbe voluto
risponderle…
Trovarono posto in un bistrot all’aperto sulla spiaggia: sedie e tavoli di
plastica, piante grasse disseminate sui tavoli, cucina semplice ma gustosa.
«Ti piace qui?» le chiese Can, pensando che nessun luogo potesse essere
alla sua altezza. Lei era oltre qualunque cosa.
«Sì, signor Can. Guardi che menu! Che nomi strani, il balık-ekmek lo
chiamano “Tritone fritto!”»
“Neanche fosse una bambina” pensò Can intenerito.
Sanem scelse i piatti in base ai nomi che le piacevano di più, consapevole
che avrebbe mangiato qualsiasi cosa, sia per fame sia perché non era mai
stata di gusti difficili, e non si vergognò di assaggiare anche quello che stava
gustando lui, come faceva sempre con le amiche e a casa con Leyla.
Can, piacevolmente stupito, la lasciava fare, vedendo in quella curiosità
di assaporare anche ciò che era nel suo piatto senza chiedere il permesso un
gesto di improvvisa intimità. Polen non l’aveva mai fatto in anni di
relazione.
Sanem aveva l’enorme pregio di non aver paura di mostrarsi per quella
che era, dai gesti ai ragionamenti, che Can ascoltò con attenzione, intuendone
la profondità. Parlava di destino e di ordine delle cose, di necessità e
libertà, di responsabilità e sogni. Sanem era bella, dentro e fuori, ma se ne
fosse stata consapevole avrebbe rotto l’incanto.
Non camminava per il mondo: fluttuava, senza conoscere le proprie
risorse e senza sapere quanto fosse rara. Mentre la ascoltava parlare e
osservava il suo gesticolare armonioso, tra una foglia di insalata turca e un
boccone di pane, a Can cadeva l’occhio su quell’assurdo anello. Quel
gioiello era diventato per lui una sorta di ancora di salvezza che lo teneva
agganciato, per quanto possibile, alla realtà. Che limitava il suo desiderio di
corteggiarla divenuto quasi un bisogno, che lo aiutava a razionalizzare, a
frenare i sentimenti che già stavano nascendo prima che prendessero il largo.
«Com’è bello il mare» affermò all’improvviso Sanem, come se, pur
essendo nata e cresciuta a Istanbul, non lo avesse mai visto. Lei in quel
momento, agli occhi di Can, era anche meglio dell’immensità del mare con la
sua capacità di rendere inedito, come una prima volta, anche l’ovvio.
«Sì, è bello» le rispose Can, scoprendola persa nei suoi pensieri.
La vide tornare con gli occhi sul suo piatto, indicando un pezzo di pane:
«Se non lo finisce, signore, posso approfittarne?».

Era già trascorsa un’ora e Akif li aspettava. Quando tornarono in tipografia,


la notizia di un’interruzione di corrente ruppe l’incanto di quella giornata
quasi perfetta. Fortunatamente Can nei suoi viaggi aveva visto interi villaggi
in giro per il mondo con una vita normale anche in assenza di elettricità e
sapeva che mandare in stampa una pubblicità sarebbe stato possibile,
soprattutto in una tipografia come quella di Akif dove, ne era certo, da
qualche parte c’era ancora la vecchia pressa manuale appartenuta al padre.
Akif la recuperò da sotto un telo bianco e Can si mise subito al lavoro:
inchiostro, lastre, sudore. Ci sarebbero volute molte ore, ma sarebbe riuscito
a portare a termine il progetto, a non perdere la gara. E poi aveva Sanem al
suo fianco o almeno pensava che lei fosse lì, e non solo con il corpo, finché
non alzò la testa dalle stampe che stava faticosamente realizzando e la vide
intenta a scrivere al cellulare.
«Sanem, tutto bene?»
«Sì, signor Can. È solo che il mio fidanzato è preoccupato, gli sto
scrivendo un messaggio per tranquillizzarlo.» Non era vero. Con il telefono
in modalità silenziosa stava fotografando l’intera campagna e mandando le
immagini a Emre. Non era riuscita a inviargli tutto, ma il materiale era
sufficiente. Si ritenne soddisfatta e colpevole allo stesso tempo.
Focalizzato com’era sull’obiettivo di stampare tutto il più velocemente
possibile, Can non si era reso conto che ormai si era fatto tardi. Gli sarebbe
piaciuto che Sanem restasse con lui fino alla fine, avrebbe voluto concludere
con lei quella giornata, la loro giornata speciale, ma all’idea che la sua
mente fosse altrove, con il suo fidanzato, reagì d’istinto.
«Sanem, vai a casa, è tardi. Ti chiamo un taxi.»
«Ma signor Can, dobbiamo finire il progetto.»
«Non ti preoccupare, posso pensarci io.»
Can riuscì a stampare a mano la campagna che, nonostante l’allure vintage
delle immagini, ancora non lo convinceva: continuava a sembrargli banale,
sterile. Tornando verso casa sulla sua moto, cercò di indursi a pensare che i
suoi dubbi fossero frutto del perfezionismo che lo contraddistingueva, ma
l’aria fresca sul viso gli schiarì la mente in cui riaffiorarono le immagini di
Sanem e del tempo trascorso insieme. Ripensò alla sua lista, la lista albatros
ed ebbe un’illuminazione. Prese il telefono in mano e chiamò Akif.
«Non chiudere la tipografia. Sto tornando: mi è venuta in mente una nuova
idea per la pubblicità.»
Caduta in piscina?

L’indomani Sanem arrivò in ufficio indispettita. Non capiva perché il signor


Can l’avesse liquidata in quel modo. Non è che ti ha scoperta mentre
mandavi le foto al fratello? le suggerì l’altra se stessa, ma lei non volle
starla a sentire.
«Sanem!» la voce alterata di Emre che la chiamava era ormai una
costante dell’inizio di ogni sua giornata. «Vieni nel mio ufficio!»
Entrò nella stanza. “Neanche il tempo di prendere un tè in pace.”
«Mi dica, signor Emre…»
«Sanem, cos’hai combinato? Che foto mi hai mandato?»
«Le prime stampe della campagna signore. Poi suo fratello mi ha mandata
via, era tardi…»
«Sanem, le foto che mi hai mandato non erano quelle della campagna per
la compagnia aerea!»
«Ma io ero lì! Come è possibile?!»
Intanto da fuori arrivava un baccano infernale, un rumore di scomposta
felicità. I dipendenti della Fikri Harika stavano festeggiando. Emre e Sanem
andarono a vedere cosa stesse succedendo e un’eccitata Güliz corse da loro.
«Signor Emre, suo fratello è un genio! All’ultimo ha cambiato tutta la
presentazione per la campagna: ha paragonato l’aereo a un albatros,
l’uccello con le ali più grandi e forti che ci siano, può rimanere in volo ore e
ore senza stancarsi. E il cliente ne è entusiasta! Abbiamo vinto la gara e Can
ha organizzato una festa!»
Sanem ed Emre si guardarono per un attimo negli occhi mentre Güliz, che
non stava più nella pelle all’idea di partecipare a un party a villa Divit, era
già scappata via per consultarsi con le altre ragazze dell’agenzia su cosa
indossare. Emre fece mente locale e capì quello che era successo: Aylin, pur
essendo riuscita a ottenere per prima il colloquio con la compagnia grazie ai
suoi contatti, non aveva vinto la gara perché il suo progetto, ispirato alle foto
che Sanem le aveva mandato, non valeva nulla in confronto all’idea geniale
che Can, il grande creativo, aveva avuto all’ultimo secondo.
Al suo fianco, Sanem era altrettanto stupita, ma per altri motivi. Il capo si
era ispirato a lei, alla sua lista albatros, per realizzare il progetto della
vittoria. Si sentì felice, nonostante il fallimento con Emre.

Era la prima volta che Sanem tornava a villa Divit dopo la sera in cui era
stata colta in flagrante da Can. Una volta arrivata lì, si sentì estremamente
sola. Era un pesce fuor d’acqua in quella lussuosa villa, a una festa a bordo
piscina, un contesto informale e disinvolto che però rappresentava qualcosa
a cui non era abituata… E incredibilmente le mancava Leyla.
Si sedette su una sdraio. Can, che era intento a cuocere carne alla brace
per tutti, la vide da lontano. Sanem gli sembrò triste ma lui sapeva come
tirarla su. D’altronde, era quasi ora di cena.
«Ti stai annoiando?» la guardò con dolcezza e le porse un panino gigante.
«Tieni, ti ho portato questo.»
«Grazie, signor Can… qui non mangia nessuno e questo hamburger
sembra buonissimo!»
«Certo, ma non nasconderti dietro quel panino! Stai pensando al tuo
albatros?»
«Signor Can, non mi prenda in giro!»
«Perché lo cerchi se sei fidanzata?»
«Signor Can…» Sanem non voleva passare per una ragazza interessata a
più uomini. «Cos’ha capito? Io sto cercando l’albatros per fargliela pagare!»
Ma cosa dici? Pagare cosa? Era sorpresa dalle sue stesse parole. Lui la
confondeva.
«E perché hai chiamato albatros un uomo che ti irrita così tanto?»
«Perché quando studiavo ho letto che sono uccelli che volano molto in
alto, impossibili a volte da scorgere e io quest’uomo non l’ho visto. Ecco
perché!» Se ne andò seccata.
Can rimase immobile. “È proprio assurda” pensò.
Sola e pericolosamente vicina alla piscina, Sanem fu raggiunta da Emre.
«Dobbiamo parlare di quello che è successo.»
Lei d’istinto fece un passo indietro. “No, per carità. Due Divit uno dopo
l’altro è troppo!”
Proprio lì accadde l’impensabile. Sanem perse l’equilibrio, scivolò sulle
piastrelle bianche e finì in acqua completamente vestita. Per fortuna non se
ne accorse nessuno, a parte Emre: erano tutti presi dalla festa. Da perfetto
gentiluomo (nonostante tutto) le tese la mano per aiutarla a uscire; poi si
tolse la giacca e gliela mise sulle spalle. «Stai bene?»
Sanem annuì, sentendo le goccioline d’acqua sul viso.
«Vai in camera mia. Troverai un’asciugatrice. È al piano di sopra.»
Villa Divit era enorme e la memoria fotografica di Sanem in quel
momento di imbarazzo non l’aiutò ed entrò infreddolita nella prima stanza da
letto che trovò.
Cercò il bagno, indossò una maglietta pescata nell’armadio e mise i
vestiti ad asciugare. Nel frattempo Can, che era salito per fare una doccia e
togliersi di dosso l’odore del barbecue, se la vide comparire davanti e non
riusciva a credere ai propri occhi.
«Sanem, cosa ci fai qui in camera mia? Mezza nuda, poi!»
«Il signor Emre mi ha detto di andare in camera sua e io devo aver
confuso le stanze» gli rispose lei, imbarazzata dal ritrovarsi nella medesima
situazione di un paio di sere prima.
«Mio fratello ti ha detto di andare in camera sua mezza nuda?»
Can si infastidì per la sua stessa domanda. “Davvero ho insinuato che
Emre e Sanem siano amanti? Sono impazzito?” si chiese, ma Sanem non se
ne accorse, presa com’era a gestire tra sé e sé l’imbarazzo di quella
situazione.
«No. Non è così… In realtà non so com’è.» Sanem ormai farfugliava
parole a caso. «Ma quindi questa è la sua stanza?»
Lo vide innervosirsi.
«Sanem, voglio una spiegazione. Non posso trovarti sempre in giro per
casa mia: l’altra sera in salone e adesso qui… seminuda!»
Sanem sentì che stava arrossendo. Guardalo negli occhi, mostrati sicura
di te, nonostante tutto!
«Signor Can.» Guardalo negli occhi! «Sono caduta in piscina e il signor
Emre mi ha detto di andare in camera sua perché lì c’è l’asciugatrice. Ma
credo di aver sbagliato porta…»
“Caduta in piscina?!” Can scoppiò a ridere. «Sei caduta in piscina?»
«Sì, perché? Può succedere! La smetta di prendermi in giro.»
«Sì certo, e che sia successo proprio a te non mi stupisce…»
Sanem si sentì umiliata da quella risata. «Lei così mi offende, signor Can,
e mi fa una pressione psicologica che io non riesco a sopportare. Lei è
ovunque!»
Can non poteva credere alle parole che stava ascoltando e che volevano
far passare lui dalla parte del torto, ma al contempo era affascinato dalla
dignità di quella ragazza che, in una situazione del genere, tra il surreale e
l’esilarante, pretendeva comunque di essere presa sul serio.
«Sanem, sei tu che ti trovi in camera mia, non sono io che sono ovunque.
Sei tu che invadi i miei spazi, tocchi le mie cose, le indossi…» Can indicò la
maglietta bianca che Sanem aveva preso poco prima da una poltrona per
coprirsi. «Quella è mia.»
Fu il bip dell’asciugatrice a salvare Sanem dal dover cercare una risposta
che non la facesse apparire ancora più ridicola.
«Signor Can, i miei vestiti sono asciutti, se esce un attimo dalla sua stanza
li rimetto e vado via.»
«Ok, Sanem, ora esco, però voglio farti un’ultima domanda: perché non
indossi l’anello? Ho capito che i tuoi non lo sanno, ma loro adesso non sono
qui.»
Sperò che le dicesse… non sapeva neanche lui cosa sperare. Sperò che
fosse tutto uno scherzo. Una finta. Un complotto. Una follia. Ma vide Sanem
tirare fuori l’anello dalla borsa e metterlo all’anulare sinistro.
Can deglutì. Ormai era ossessionato da quel gioiello.
Il posto delle fragole è qui

Mentre a villa Divit fervevano i festeggiamenti, Aylin, dopo il fallimento del


suo piano, aveva trovato già un altro modo per minare la fama ritrovata della
Fikri Harika, che in seguito all’arrivo di Can era in procinto di tornare
nell’Olimpo delle agenzie pubblicitarie più influenti della Turchia. Aveva
saputo che una sua amica del liceo, la supermodella Arzu Tras, stava per
sottoscrivere un contratto proprio con la Fikri Harika. Arzu era all’apice
della sua carriera e l’accordo con la Fikri Harika avrebbe dato alla società
l’esclusiva di tutte le campagne pubblicitarie che l’avevano come volto,
chance che Aylin Yükselen avrebbe voluto per la sua, di società. E in ogni
caso mai per l’agenzia che sognava di vedere distrutta dai debiti.
Oltre che la bellezza da Venere dai lunghi capelli corvini, aiutata
(“incoraggiata”, piaceva dire al suo chirurgo) da più di qualche ritocchino,
Arzu aveva il grande pregio di essere puntuale, e quando Aylin l’aveva vista
scendere dalle scale di un bar del Nişantaşı non si era stupita del fatto che
avesse spaccato il minuto.
«Arzu, come sempre sei bellissima» esordì Aylin con un tono stranamente
sincero nel vederla avvicinarsi a lei con la sua falcata da passerella.
«Neanche tu sei male, Aylin» aveva risposto la supermodella,
incrociando le gambe. Aylin, guardandole, pensò a un fenicottero, erano
lunghissime. «Non ho moltissimo tempo, mi hai detto che era una cosa
urgente e sono corsa, anche perché mi dispiace per te. Ho saputo che non te
la stai passando bene. Sei stata cacciata dall’agenzia di Aziz Divit… o
sbaglio?»
Aylin sapeva mantenere la calma. In ogni circostanza. Esibì il suo sorriso
finto-divertito, anche se aveva notato il guizzo di compiacimento negli occhi
dell’altra.
«Quello che hai sentito sulla fine della mia collaborazione con Aziz sono
quasi tutte calunnie. Ora ho un’agenzia pubblicitaria tutta mia e…»
La modella fece un gesto con la mano. Parlò senza alcun sarcasmo.
«Aylin, ti fermo subito. Io sono Arzu Tras e non lavoro con piccole agenzie.
Mi dispiace, ma non accetterò l’offerta che mi stai sicuramente per fare, però
sappi che mi ha fatto molto piacere rivederti.»
Aylin sapeva che Arzu avrebbe reagito in quel modo, ma non si aspettava
che anticipasse addirittura le sue mosse e così, prima del previsto, tirò fuori
il suo asso dalla borsetta tempestata di pietre: davanti agli occhi increduli
della sua ex compagna di scuola, agitò una foto che la ritraeva quando era
un’adolescente in sovrappeso e il suo viso aveva ancora i lineamenti
naturali. Uno scatto amarcord che avrebbe fatto faville sui social.
Una smorfia di orrore si dipinse sul viso della ragazza e Aylin provò un
fremito di piacere: “Sei una poveretta! Ora la smetterai di fare l’arrogante”
pensò.
«Aylin! Ma cos’è questa foto? Perché l’hai conservata? Cosa diavolo è?»
strillò Arzu lasciandosi scappare una voce acutissima. Un gruppo di anziane
signore sedute al tavolo accanto si girò a guardarla.
«L’educazione…» borbottò una di loro. «Non ve lo hanno insegnato che
non si urla?»
«Ci scusi» si schermì Aylin regalando un altro dei suoi sorrisi. Poi si
rivolse alla ragazza: «Ma che domande fai, Arzu? Ce l’ho con me in ricordo
dei vecchi tempi… Certo, anche alla stampa farebbe piacere vedere com’eri
prima che sistemassi orecchie a sventola, naso, bocca, palpebre, zigomi…».
«Aylin, cosa vuoi?»
«Firma il contratto con me e questa foto sparirà. Al contrario, sarà
ovunque e regalerà un momento di estasi a tutte quelle ragazze naturalmente
belle che hai scavalcato e a tutte le persone che hai affossato e usato per
arrivare dove sei.»
«Sei una donna orribile, Aylin.»
«Perché ho nostalgia del passato? Sì, noi nostalgici non veniamo mai
capiti da nessuno…»
Qualche ora dopo Aylin beveva champagne da sola nella sua villa: Arzu
aveva firmato il contratto, retrocedendo con la Fikri Harika a un passo
dall’accordo.
Intanto Can, in ufficio, non riusciva a capire perché Arzu avesse deciso di
tirarsi indietro. La conosceva da anni: era una top model bellissima, spesso
superficiale, certo, che si annoiava facilmente e conversava a sbadigli e
monosillabi, ma non era una persona incoerente, o che veniva meno alla
parola data.
Mentre il capo era alla ricerca di una soluzione che riportasse Arzu e i
suoi sponsor alla Fikri Harika, Güliz tentava il colpo estremo: «Se vuole,
signor Can, posso farle io da modella».
«Güliz, ti prego… non è il momento. Per favore, chiamami Emre. E
prenotami subito una stanza all’hotel di Aǧva, dove alloggia Arzu. La sua
manager mi ha lasciato un nome che ho scritto qui su un post-it. Non posso
credere che Aylin ce l’abbia soffiata.»
«Quella ragazza non risponde al telefono da ore» provò a protestare
Deren. «Can, come farai?»
Emre raggiunse il fratello proprio mentre Sanem entrava con il tè. Era
preoccupato perché quella situazione sembrava degenerare di minuto in
minuto: Aylin non aveva limiti, non conosceva la paura. Se c’era un confine
oltre cui spingersi che gli altri potevano reputare pericoloso, immorale e
insensato, lei non aveva alcuna esitazione: si lanciava e lo frantumava in
mille pezzi.
«Emre, uno dei nostri informatici ha esaminato il computer di Leyla e ci
sono tracce di materiali e mail, ora cancellate dai server, inviate ad Aylin.»
A Emre si fermò il cuore mentre Can proseguiva.
«Il tecnico ha anche detto che conosce Leyla e non sarebbe capace di
un’operazione così complessa… parlaci tu, per favore. Prova a capire se c’è
dietro qualcuno. Io intanto vado da Arzu. Non esiste che firmi il contratto
con Aylin.»
“Pensa a qualcosa” si disse Emre, nel panico. L’incontro tra Can e la
modella andava sabotato.
«Can, fai bene a cercare Arzu e chiedere spiegazioni, però scusa…
perché non ti porti Sanem? Lei potrebbe aiutarti.»
«No, non posso» si schermì lei, «non le sarei utile, signore. E qui ho
molto da fare.»
Intercettò lo sguardo torvo di Emre e si affrettò a smentirsi: «Va bene,
andrò a…a… dove andiamo?».
«Aǧva» precisò Can. «Ti aspetto di sotto.»
«Aǧva?!»
Non c’era mai stata, ma ne aveva sentito parlare come di un luogo
splendido, con scogliere bianche e fiori di mille colori. Tuttavia in quel
momento Sanem pensava solo al fatto che si stava spingendo troppo oltre.
Che stava combattendo una battaglia in cui non credeva, che non la faceva
stare bene e che non voleva portare a termine. Ma Emre, con la sua gentile
prepotenza, la teneva sotto scacco. Le piantò quegli occhi inflessibili nei
suoi mentre prendeva la borsa.
«Mio fratello farà di tutto per riportarla da noi. Tu devi impedirlo. Can
non deve incontrare Arzu… o è la fine.»
«Io…» Sanem era esasperata: complottare, boicottare, cospirare… tutto
questo non era per lei. E poi, adesso, cosa avrebbe dovuto fare? Rincorrere
Can, mettersi tra lui e Arzu?
Era l’ultima cosa che avrebbe potuto immaginare, ma fece esattamente
così.
Can aveva dimenticato il giubbetto in ufficio e lei, con la scusa di
portarglielo, gli sottrasse la patente dal taschino. Era un gesto disperato, ne
era consapevole, ma non aveva idea di come fermare la corsa di quell’uomo
verso Aǧva.
Ora sei persino una ladra.
Can aveva un’auto d’epoca color panna quel giorno. Perfetta per una gita
al mare stile anni Sessanta, come una di quelle nostalgiche coppie sposate.
Con una differenza: loro non erano sposati e ad Aǧva non ci sarebbero mai
dovuti arrivare.
Lui si accorse al parcheggio sotterraneo di non avere il documento con sé.
«Torno in ufficio a cercarle la patente, signor Can?»
«No, Sanem, non abbiamo tempo. Guida tu, te la senti?»
Certo che se la sentiva. Avrebbe guidato a venti all’ora, sperando solo
che l’auto non si spegnesse, ma avrebbero corso il rischio.
Dieci minuti dopo erano sull’arteria principale che portava fuori dal
centro di Istanbul, assordati dai rumori dei clacson contro di loro. Sanem
stava intralciando il traffico con una velocità illegale e qualcuno le faceva
gesti inequivocabili.
«Che maleducati! Quello là mi ha fatto un gesto bruttissimo, signor
Can…»
«Sanem, stai andando troppo piano. È normale che ti suonino il clacson!
Rischiamo un incidente così.»
«Ma signor Can… mi fa paura andare più veloce!»
«Che stai dicendo, vai a venti all’ora… Sanem, basta che stai nella tua
corsia e tutto andrà bene. Spingi sul pedale, ti prego.»
«Lo farei, ma il pedale è rotto!»
«Ma che dici? Ehi Sanem, qui devi girare a destra!»
Sanem non sapeva più cosa fare per rallentarlo (“Per non sembrare
completamente pazza”) e intanto la sua voce interiore le ricordava che si era
imbarcata in una follia. Un’altra.
Non puoi ostacolare il loro incontro. Cosa pensi di inventarti ora?
«Gira a destra, Sanem.»
Lei tirò dritto. «Signor Can, conosco una scorciatoia…» Alla prima
occasione, uscì dall’autostrada e imboccò una strada sterrata, sperando di
rompere in fretta una ruota su quel sentiero dissestato.
«Sanem, dove stai and…»
«Si fidi, arriveremo in venti minuti.»
Entrò nel bosco che costeggiava la strada extraurbana e finalmente la
gomma si bucò. L’auto sbandò e fece mezzo giro su se stessa, finendo nel
cuore di una pozzanghera.
“Bene” pensò Sanem, “da qui non usciremo mai.”
«Brava, bella prova… pilota» commentò Can esasperato. Non riusciva
davvero a capirla, si comportava in modo troppo assurdo. Sembrava uno di
quei film di equivoci in cui alla fine, e solo alla fine, si chiarisce tutto. Ma in
questo caso, temeva lui, non si sarebbe risolto nulla.
«Che peccato, signor Can. Mi sa che per oggi Aǧva salta!»
«Sanem, spostati di lì. Passami il cric per favore, sostituisco la gomma.»
«Il cric? Ma io non so cosa sia…»
Non bastava Aylin, non bastava Arzu, non bastava Aǧva. Ci si metteva
anche Sanem: Can pensò che avrebbe preferito una multa a un altro minuto su
una macchina guidata da quella ragazza.
«Sali, guido io.» Poi notò le sue dita con lo smalto frutti di bosco. «Che
combinazione, anche oggi senza anello.»
“L’anello! Maledetto anello!”
Sanem finse un’aria svogliata. «Fa caldo… le dita mi si gonfiano e non
riesco a indossarlo» rispose. «Ripartiamo?»
Percorsero poche centinaia di metri quando la macchina sobbalzò, fece
uno scatto e si fermò completamente in un’altra pozza di fango. Dal cofano
usciva del fumo.
«Perfetto!» esclamò Can. Ci mancava solo quella. Erano in un bosco
(“Come ci siamo finiti? Eravamo in autostrada, com’è successo?” chiedeva a
se stesso, esterrefatto) e i telefoni non prendevano. Dovevano proseguire a
piedi, anche se l’obiettivo-Arzu, proiettato nella mente di Can, sembrava
dissolversi di minuto in minuto.
«Bella idea, le scarpe bianche» commentò, fissando le sneakers di
Sanem. «Con il fango avrai un effetto maculato che neanche sulle passerelle
di Parigi…»
Si addentrarono nel bosco, mentre strisce di sole filtravano tra le fronde
fitte. Per terra era uno slalom fra tane di animali, tronchi spezzati, foglie e
fango. Can afferrò Sanem un paio di volte, quando gli sembrò che stesse per
scivolare. A un certo punto la vide schizzare via, verso un cespuglio di fiori.
«Guardi!»
Sanem stessa era incredula: aveva trovato il giglio magico, il fiore con
cui creava la propria crema profumata. Era raro, bellissimo, prezioso.
«Sanem, ti sembra il momento di raccogliere fiori?»
«Mi dia solo un attimo… per un mazzetto. È il giglio magico…»
Can era interessato, nonostante tutto. «Si chiama così?»
«Creo una crema particolare con il suo estratto. Era una ricetta di mia
nonna.»
Can si avvicinò al cespuglio, guardò quel fiore, così sottile e delicato, e
riconobbe subito il profumo. Il profumo del bacio, il profumo di Sanem.
Lì, in un bosco, in un giorno d’estate, quel momento era tornato. Can
pensò che in nessun viaggio gli era mai capitato qualcosa di simile. La
guardò, vide i suoi occhi, due chicchi neri che brillavano, e il suo sorriso di
fronte al fiore, quel fiore che li aveva fatti conoscere. Riconoscere.
Arzu però, nel frattempo, rischiava di svanire come una bolla di sapone.
«Sanem, fai presto, per favore.»
Sanem ce l’aveva messa tutta per boicottare Can, ma alla fine arrivarono
ad Aǧva.
Era una cittadina sul mare, con scogliere bianche e frastagliate, un vento
fresco, rive di salici piangenti, cespugli di fiori sparsi sul litorale. L’hotel
era lussuoso, ma non pretenzioso, e aveva una terrazza particolare, con un
pavimento a scacchiera, completamente affacciata sulla baia.
Sanem, ti stai rendendo ridicola.
L’altra se stessa sembrava consigliarle di smetterla di comportarsi così,
ma lei non poteva: non poteva decidere cosa fare, era Emre che tesseva
quella tela senza senso, di azioni e reazioni disperate.
Erano arrivati all’hotel. Can chiese a Sanem di fare il check-in mentre lui
si sarebbe occupato di far recuperare la macchina. Quando lei diede al
receptionist il nome della prenotazione, però, vide materializzarsi dal nulla
una modella. O meglio, la modella.
«Can è qui!» strillò Arzu posando una rivista. Accanto a lei c’era una fila
di trolley, come se avesse alloggiato lì per un mese. «Mi scusi, ha detto Can
Divit?»
«No…» mormorò Sanem. Ma fu il facchino a intervenire: «Sì, Can Divit
è proprio qui!».
“Ma stai zitto!” pensò furibonda la ragazza, lanciandogli un’inutile
occhiata. “Fatti i fatti tuoi!”
«Oh mio Dio!» strillò Arzu, arrossendo. Aveva una cotta per lui da
sempre e Sanem provò un’ondata di fastidio, di rabbia nello stomaco. «Lei è
la sua assistente?»
«Sì, ma…»
«Mi dica subito dov’è. Subito!»
Sanem lanciò un’occhiata alla porta. «Arriverà tra qualche ora…»
“Pensa a qualcosa, falla sparire!”
«… ma lei si sente bene? Ha una pelle strana, è gialla! Guardi, guardi in
confronto alla mia! Vede che la mia è rosa e la sua gialla?»
Arzu impallidì e cercò con foga lo specchietto nella borsa.
«Lei chi è? Non dica sciocchezze» intervenne l’assistente della top
model, guardando seccata Sanem. «Arzu, sei splendida come sempre.»
Arzu, però, non sembrava convinta.
«Prenotami subito una pulizia del viso e qualche altro trattamento
rigenerante! Ma subito, immediatamente… se hanno appuntamenti con altre
persone, devono cancellarli» strillò. Poi si rivolse al receptionist: «Resto
altre tre notti, grazie. Devo incontrare Can Divit».
«Non c’è fretta, il signor Divit si ferma qui qualche giorno» annaspò
Sanem, mentre iniziava a girarle la testa. Troppo faticoso, tutto. E per colpa
di Emre.
La situazione stava precipitando. E Can sembrava decisissimo a trovare
la modella, come le ripeté poco dopo in camera. Sanem si sentì arrossire
quando realizzò di essere in una stanza da letto con lui. “Noi, e il mondo
fuori.”
«Sanem… scopri in che camera alloggia e chiamala!»
«Chi…?»
«Arzu, Sanem! Arzu! Siamo qui per questo, no? Dille che vorrei
parlarle.»
«Ma non credo che la riceverà mai…»
«Sanem, io e Arzu siamo amici da tempo. Puoi per favore fare quello che
ti chiedo? Saresti molto di aiuto. Grazie!»
Scomparve in bagno e Sanem si sedette al tavolino, esausta. Mentre
progettava la sua prossima mossa (“Fingere di stare male? Fingere un
problema alla Fikri Harika? Fingere che Arzu sia sparita, risucchiata in un
macchinario per la pulizia dei punti neri?”), se lo ritrovò di nuovo davanti.
Aveva addosso solo un piccolo asciugamano legato in vita.
Sanem spalancò la bocca e si arrabbiò con se stessa per quella reazione:
lei amava la poesia, non i muscoli. Ma quel Can, coperto da goccioline
d’acqua, con un albatros (“Un albatros!” pensò sbalordita) tatuato ad altezza
cuore, era uno spettacolo che mai si sarebbe aspettata da un semplice
sabotaggio ad Aǧva.
«C’è qualche problema, Sanem? Mi guardi in modo strano» notò lui.
«No, è che l’albatros…è impossibile» balbettò.
«Cosa c’è? Il mio tatuaggio?»
«Che coincidenza… io l’albatros… lei…il tatuaggio è abbastanza
insolito.»
«Sanem, l’ho fatto tanto tempo fa, non c’entra con la tua lista» disse Can.
«E ora, potresti chiamarmi Arzu? Hai scoperto in quale camera alloggia?»
Sanem si sentì messa alle strette e così, dopo aver confessato di non
sapere ancora dove fosse la modella, intanto che Can tornava in bagno per
vestirsi, finse di chiamare il receptionist dell’albergo.
Mentre metteva in scena a voce sostenuta una finta conversazione,
affacciandosi alla finestra vide una schiera di persone in fila per noleggiare
biciclette ed ebbe un’idea. «Signor Can!» gridò. «Dicono che Arzu ha
prenotato una bicicletta, è appena partita per un tour panoramico: potremmo
raggiungerla!»
Sanem non avrebbe mai immaginato che da una bugia potesse nascere
qualcosa di bello come una passeggiata su due ruote per le strade affacciate
sul mare che costeggiano Aǧva. Sapeva però che lì intorno c’era un
promontorio da cui si poteva ammirare la Roccia della sposa, ne aveva letto
qualche tempo prima su una rivista, e quando se lo ritrovò davanti non poté
fare a meno di fermarsi e raggiungere lo strapiombo sul mar Nero da cui
ammirare lo scoglio da vicino. Can, nel tentativo di seguire il percorso
turistico che gli era stato mostrato alla reception dell’hotel per incontrare
Arzu, senza saperlo l’aveva portata in un luogo che da tempo desiderava
visitare. Lo stupore di Sanem nel ritrovarsi lì fece quasi dimenticare a Can il
vero motivo di quell’escursione e, invece di sgridarla per l’ennesima perdita
di tempo che avrebbe potuto mettere a repentaglio il suo incontro con la
modella, scelse di scoprire il motivo di quella sosta inaspettata.
«Sanem, perché ci siamo fermati proprio qui?»
Senza che l’incanto le sfuggisse dagli occhi, Sanem gli raccontò la
leggenda dello scoglio, della sposa che tanto l’aveva commossa, di quella
fanciulla tramutatasi in roccia dopo che l’uomo che amava, e con il quale
avrebbe voluto scappare via contro il volere del padre, l’aveva
abbandonata. A ogni parola Sanem sembrava più commossa e, senza neanche
accorgersene, quasi a voler accarezzare la sposa di pietra si sporse troppo
dal dirupo a picco sul mare dal quale la stava ammirando e perse
l’equilibrio. In un attimo sentì le braccia di Can cingerle la vita, evitandole
una brutta caduta. Can e Sanem si ritrovarono occhi negli occhi, lei stretta tra
le braccia di lui. Non riuscirono a dire una parola, finché fu Can a rompere il
silenzio, forse troppo presto.
«Sanem, torniamo indietro, siamo stanchi.»
Proprio davanti all’ingresso dell’hotel trovarono una Arzu
particolarmente seccata. Anche lei aveva cercato Can per ore dopo che,
finito il trattamento viso, aveva avuto la conferma dall’hotel che il fotografo
era arrivato.
«Can, finalmente eccoti qui! Ti ho cercato dappertutto!»
«Ma come? Io ti ho cercato dappertutto!» Can si rivolse a Sanem, che si
finse interessata alla fioriera davanti alla hall. Intanto la modella abbracciò
il fotografo con uno slancio di entusiasmo che irritò Sanem. Aveva tentato
tutto il giorno di tenerli lontani e il non esserci riuscita le provocò immenso
fastidio. Chissà poi perché…
Sanem lo sapeva, ma non voleva formulare il pensiero: Arzu era
bellissima e, al netto delle macchinazioni di Emre, era lei a non volere che
incontrasse Can. I due però ormai si erano ricongiunti, e lei non avrebbe
potuto fare più niente. Portò una sciarpa ad Arzu. «Non ha freddo con solo
quei pantaloncini?»
«Grazie, sto benissimo» la modella le lanciò un’occhiata di fuoco. «Può
lasciarci, ora?»
Si chiusero sulla terrazza a parlare e Sanem poté solo spiarli dall’interno.
Pochi minuti dopo, Arzu era di nuovo in affari con la Fikri Harika.
Can era riuscito a convincerla a ritrattare il contratto con Aylin. Con un
colpo da maestro della comunicazione le aveva consigliato di postare lei
stessa su Instagram la foto della sua adolescenza di cui tanto si vergognava
con una frase “acchiappa like” perfetta: “Mi amo in tutte le mie forme, la
bellezza è per chi la sa vedere”. Un’idea che non solo avrebbe fruttato ad
Arzu migliaia di consensi, ma che l’aveva immediatamente convinta che
quell’uomo fosse la sua anima gemella..
Sanem non poteva sentirli: controllava dalla finestra quei pantaloncini-
fazzoletto e le lunghe gambe che si accavallavano e si scavallavano
nervosamente. A un certo punto, esasperata, attivò l’allarme antincendio.
Quel piano funzionò: bloccò la loro conversazione e scatenò il panico,
con un flusso di gente in accappatoio che si riversò terrorizzata in corridoio.
«Al fuoco!» gridò un uomo. «Aiuto!»
«Corra!» lo sollecitò Sanem. Quell’idea, purtroppo per lei, aveva
svuotato l’albergo, ma non era riuscita a impedire che Can e l’amica modella
si accordassero per cenare insieme.
«Sanem, tu non c’entri con quell’allarme antincendio, vero?» le chiese
poi Can, sospettoso. Sanem notò che reprimeva a fatica un sorriso.
«Ma signore, che domande mi fa?» rispose lei sgranando gli occhi. «Io
non fumo, non so neanche cosa sia un accendino, e preferisco gli incensi alle
candele. Come posso averci a che fare?»
Non le credeva, e faceva bene.
Sanem era turbata da lui e dal suo stesso fastidio nel vederlo con quella
ragazza. Decise di fare una passeggiata sul mare, per stare da sola a guardare
le nuvole. Era così confusa e frastornata. Can Divit era un re malvagio. Un
uomo di un’intelligenza crudele. I suoi occhi sembravano sinceri, ma lui era
un maestro nell’ammaliare le donne. Lo aveva fatto anche con lei, mettendo
in moto qualcosa di profondo. Di recondito. Non riusciva più a non stargli
vicino. A non creare un cordone protettivo intorno a lui, per allontanare tutti.
E l’albatros, però? E Leyla allontanata dall’ufficio? E i ragazzi
dell’agenzia che presto, stando ai racconti di Emre, sarebbero rimasti
senza lavoro? E la follia di Deren, e l’ansia di CeyCey? E il caffè, e il tè?
Troppo caos. Sanem sapeva chi fosse realmente Can, Emre gliel’aveva
spiegato e i fatti non facevano altro che confermarglielo, ma sentiva il
dovere di controllarlo a vista; o meglio, di controllarlo da vicino, da molto
vicino. Soprattutto da quando Arzu Tras gli girava intorno.
Sanem non era mai stata invidiosa di una donna, era un sentimento che non
le apparteneva, ma Arzu proprio non le piaceva. Sprofondata nel groviglio
delle congetture, non si rese conto che Can l’aveva raggiunta sulla spiaggia.
C’erano solo loro, gli altri bagnanti probabilmente erano già a cena. Il sole
era tramontato e l’aria aveva un colore tra il blu, il giallo e il rosa, le ultime
pennellate di luce che precedevano l’oscurità. Lui sorrideva.
«Ti va un piatto di pesce?»
«Ma come, non ha cenato con Arzu?»
Can fece un gesto vago con la mano: «Lei ha preso un centrifugato
proteico, io mi sono limitato a un caffè.»
«Signor Can, ci credo che è sempre agitato» disse Sanem sconcertata.
«Come si fa a cenare con un caffè? È quasi peggio di un…» si fermò.
«… di un frullato proteico?» suggerì lui.
«Non era un centrifugato?»
Sentivano la magia. La percepivano. Lì tra loro, prendendo in giro Arzu.
E anche poco dopo, in quella trattoria sul mare, dove il pesce si mangiava
con le mani.
«Sai una cosa?» le disse Can. «Credo potrei rimanere qui per sempre.»
«Qui a questo tavolo?»
Can rise. «Qui. Farei le mie foto, mangerei pesce… Non sono portato per
la vita di città.»
«Nemmeno io, signore. Non mi piace il traffico. Non mi piacciono i
vestiti alla moda… Perché ride?»
«Non conosco altre ragazze che non amano i vestiti alla moda!» disse
Can, e la guardò con una nuova luce negli occhi. «Come hai fatto, Sanem, a
rimanere così pura?»
Come aveva fatto? Non lo sapeva. Sanem era come era. E di certo non era
come Arzu.
Can aveva con Arzu un altro appuntamento pochi giorni dopo, per lo
shooting dedicato a una marca di lecca-lecca di cui la top model era
protagonista e lui il fotografo, su volere della divetta-influencer. Un set super
colorato era stato allestito per l’occasione a villa Divit, e Deren, fin dal
primo mattino, aveva mostrato segni di agitazione: «L’altra, devi essere a
disposizione di Arzu e fare tutto quello che ti chiede! È chiaro?»
«Mi chiamo San…» iniziò lei, ma poi rinunciò a dire il suo nome e,
rassegnata, si posizionò a lato del set, cercando di ignorare la voce stridula
della modella.
Arzu aveva cercato di provocare Can e aveva avuto atteggiamenti da
prima donna per tutto il giorno, ma Sanem non ci vide più quando, finita la
giornata lavorativa, dopo che tutti erano andati via, cominciò a rivolgere
palesi avance a Can.
“Calmati” si disse. Ma non si calmò.
Seccata, andò in cucina e, senza pensare troppo, preparò una delle sue
centrifughe detox – unica cosa di cui si nutriva Arzu – aggiungendoci il frutto
a cui sapeva che era allergica: la fragola.
«Sono allergica alle fragole!»
La memoria di Sanem non sbagliava, quella frase Arzu l’aveva detta
mentre guardava con disgusto (come guardava Sanem!) un incolpevole lecca-
lecca rosa. La vendetta di Sanem ebbe ben presto un effetto devastante sul
viso di Arzu: in pochi secondi le comparve una giungla di macchioline rosse.
Le sue urla spaventarono l’uomo tuttofare dei Divit, che chiese se ci fosse
bisogno di un’ambulanza. Ma Arzu, dopo essersi vista allo specchio, era
scappata alla velocità della luce. E Sanem non aveva fatto in tempo a
nascondere le prove.
«Sanem! Il posto delle fragole è qui! Mi spieghi perché sono sparse sul
tavolo?» Can indicò il frigorifero a Sanem.
La colpevolezza della ragazza era ovvia agli occhi del suo capo. «Perché
lo hai fatto? Perché hai dato delle fragole ad Arzu?»
Lei tacque, cercando una via di fuga. Se fosse stata allergica come Arzu,
avrebbe mangiato dieci fragole pur di scappare da lì. Le fortune, però,
capitano sempre agli altri.
«Sei forse gelosa di me?» proseguì Can.
Ecco che cos’era quell’emozione a cui Sanem non sapeva dare un nome:
non era invidiosa di Arzu, era gelosa di Can! Non l’aveva mai provata per
nessuno una cosa del genere e il motivo era semplice, non era mai stata
innamorata. Alla sola idea che potesse sentire qualcosa di così profondo per
la persona sbagliata, Sanem tentò di scappare dalle proprie emozioni, ma lui
non le permise di farlo e si mise davanti alla porta.
«Sanem, smettila di scappare da casa mia come una ladra.»
«Per favore, signor Can, si sposti. Devo andare.»
«Sanem, dimmi perché hai messo delle fragole nella centrifuga di Arzu se
sapevi che era allergica.»
«Ho messo solo un pezzettino di fragola, non pensavo avesse quella
reazione… e che reazione.» Sanem non poté trattenersi e scoppiò a ridere
ripensando al viso gonfio della rivale, ma Can non sembrava trovare
divertente quanto lei la cosa.
«Non ti ho chiesto quante fragole hai messo nella centrifuga, ma perché lo
hai fatto.»
«Io l’ho fatto per lei, quella donna è una sanguisuga, era chiaro che non ce
la facesse più a gestirla.»
«Sanem, sappi che io sono perfettamente in grado di gestire certe
situazioni. Ma come ti è venuto in mente di fare una cosa del genere? Io
proprio non ti capisco: un giorno cerchi di salvarmi da una top model, un
giorno affermi di essere fidanzata, un giorno cerchi il tuo albatros. Ma cosa
ti passa per la testa?»
«Signor Can, con tutto il rispetto…»
“Non ti bloccare adesso, attacca.”
«… a lei non deve interessare cosa mi passa nella testa. La mia vita
privata voglio che resti tale. Lei si limiti a fare il capo e sappia che io sono
una ragazza felicemente fidanzata.»
Il sorriso sul volto di Can si spense. La scrutò in silenzio, poi scosse la
testa.
«Va bene, Sanem. Da oggi in poi io sarò solo il tuo capo e parleremo solo
di lavoro.»

Da capo, Can sapeva anche prendersi le responsabilità dei propri errori.


Allontanare Leyla era stato uno sbaglio ed era arrivato il momento di
reintegrarla. Così, all’indomani dello shooting, decise di convocarla a villa
Divit dove lei, non senza un fremito di terrore, si presentò puntuale. Era
certa che sarebbe stata licenziata e così, per dissimulare la paura, aveva
indossato gli abiti più colorati che aveva trovato nell’armadio, il suo tailleur
fucsia “di sicurezza” era perfetto per un’occasione del genere. Il nero
l’avrebbe fatta apparire come una perdente. Arrivata a casa del signor Can,
lui si accorse che tremava e la guardò rassicurante.
«Leyla, come sai ho fatto controllare ogni computer dell’azienda e sono
tutti puliti. Solo con il tuo ci sono stati problemi. È da lì che è partita una
mail indirizzata ad Aylin con tutti i budget e i progetti dell’azienda. E… ho
verificato: il giorno in cui è partita quella mail ti eri presa un permesso, ma
di certo la spia è qualcuno che tu conosci e che ha libero accesso al tuo
computer.»
Leyla sospirò di sollievo: era salva, per fortuna, anche perché era
innocente. Gli promise che avrebbe trovato lei la spia, la persona che
indirettamente l’aveva danneggiata e umiliata.
Dopo il colloquio con Can, Leyla passò in ufficio. Sentiva il bisogno di
accarezzare la sua sedia di pelle, di sentire di nuovo l’odore così familiare
del deodorante per ambienti alla vaniglia della Fikri Harika, di bere il suo
amatissimo caffè dalla tazza che il padre le aveva regalato quando era stata
assunta e che da allora usava ogni mattina con fierezza, e di pensare che
avrebbe finalmente rivisto Emre, il suo amore impossibile che neanche nei
giorni di lontananza forzata era riuscita a togliersi per un attimo dalla testa.
Era stata così presa dalle sue preoccupazioni in quei giorni che il dramma
che Mevkibe e Nihat stavano vivendo era passato in secondo piano.
Purtroppo il debito di quarantamila lire del negozio non si era rivelato
essere una svista del padre, ma qualcosa di reale. Nihat si era sbagliato con i
conti e aveva chiesto l’anticipo di una fornitura che poi non era riuscito a
pagare. E, pur di non perdere l’onore, i suoi avevano deciso di cedere il
negozio allo strozzino di quartiere, Isan detto lo Sciacallo, che li aveva
costretti a svenderlo.
Il minimarket della famiglia Aydın non era il posto del cuore di Leyla, ma
si chiamava come lei. Era come se i suoi genitori le avessero dato lo stesso
nome del loro sogno di una vita. Fu terribile essere presente nel momento in
cui tutto si stava per dissolvere, e vedere Nihat consegnare la valigia piena
di soldi che Isan gli aveva dato al signor Halil, il loro fornitore, per
estinguere il debito.
Ma inaspettatamente successe qualcosa di assurdo. Vide i suoi litigare
con il creditore… che non voleva i soldi!
«Nihat, io non li voglio questi soldi!»
Leyla era allibita mentre vedeva il padre e la madre pregare il loro
creditore di prendere denaro che non voleva. Il tutto era davvero
inverosimile.
«Per favore Halil, prendi questi soldi, ho venduto il negozio. Non voglio
avere più debiti con te.»
«Ma perché hai venduto il negozio? Sanem non ti ha detto niente?»
“Sanem?” pensò Leyla. “Cosa c’entrava Sanem?”
Lo scoprì quella sera. Lo scoprirono anche i suoi genitori, dopo
l’interrogatorio alla figlia minore. Era stata Sanem a salvarli, chiedendo un
anticipo sul suo stipendio. Leyla si commosse e promise di fare a metà: «Lo
pagheremo insieme, sorellina».
«Che cosa ho fatto» osservò Nihat con gli occhi che brillavano, «per
meritare due figlie così splendide? Siete gioielli!»
Purtroppo però non recuperarono il minimarket. Non subito, almeno.
Ormai Nihat aveva venduto la propria attività allo Sciacallo, noto a tutti nel
quartiere. Un grande amico di Aysun.
E lui non voleva restituire il negozio, neanche dopo che il debito era stato
estinto. A meno che non lo avessero pagato il doppio!
«Sciacallo!» esclamò Sanem. «Ci parlo io!»
«No!» la fermò suo padre. «Non andate da lui, mai! Ci penseremo noi a
risolvere.»
Nihat, a modo suo e con le buone, cercò effettivamente di risolvere la
situazione, ma non ebbe alcun successo. Da uomo dal fare inguaribilmente
gentile qual era non poteva competere con un usuraio sperando di averla
vinta. Per questo Nihat, Mevkibe e le due figlie rimasero di stucco quando lo
Sciacallo in persona qualche mattina dopo bussò alla loro porta pronto a
restituire il minimarket al giusto prezzo. Solo Sanem, per un attimo, intravide
in quel piccolo miracolo di quartiere appena accaduto lo zampino di Can,
soprattutto quando quell’uomo losco le regalò uno dei suoi dolcetti preferiti
affermando che era “da parte di uno sconosciuto“, prima di sparire dalla vita
della sua famiglia definitivamente.
Il sospetto di Sanem era fondato, ma lei non indagò mai in merito,
convinta che fosse solo frutto di un suo ennesimo slancio di fantasia. Eppure
la realtà la fantasia l’aveva superata: era stato davvero Can a dare
silenziosamente agli Aydın l’aiuto di cui avevano bisogno. La mattina in cui
Leyla era tornata in ufficio, nell’androne del grattacielo della Fikri Harika,
Can aveva sentito le due sorelle parlare preoccupate.
«Leyla, come faranno mamma e papà senza il negozio?»
La voce scossa di Sanem lo aveva messo sull’attenti e, senza farsi vedere,
mentre le ragazze aspettavano l’ascensore, aveva continuato ad ascoltare la
discussione, rendendosi così conto che i loro genitori, per un debito,
avevano perso il minimarket e che, pur avendo recuperato i soldi, non
potevano ricomprarlo.
Pensò agli occhi pieni di sogni di Sanem, che non aveva mai visto così
tristi. Al suo sorriso; non voleva che si spegnesse. Era fidanzata, lo trattava
male, aveva quasi avvelenato Arzu, ma sentiva il bisogno di aiutarla, e così
si recò nel quartiere di Sanem a tarda sera.
Incrociò un uomo losco nel minimarket degli Aydın: non fu difficile
trovarlo, era l’unico della zona. Can intuì che quel tizio era lo Sciacallo, il
quale si lasciò facilmente intimorire da lui che, quando voleva, sapeva
essere minaccioso, soprattutto con uomini del genere, capaci di essere
arroganti solo con i più deboli.
«Cosa desidera?»
«Voglio che lei prenda le chiavi del negozio e le riporti ai legittimi
proprietari. Se lo fa, non mi vedrà più, altrimenti tornerò qui tutti i giorni e…
non sarà felice di rivedermi!» fece per uscire, ma poi tornò indietro. «Ah…
e porti uno di questi dolcetti alla figlia minore degli Aydın domani a
colazione, lei li adora.»
Ma non vedete che è un criceto?

Prendere dal frigorifero la sua bevanda proteica preferita, spostare l’agenda


dalla pochette alla borsa da giorno; recuperare le mini-trousse con rossetto e
cipria d’emergenza, abbassare le tapparelle elettriche in ogni stanza, chiavi
della macchina, chiavi di casa, chiavi della Fikri Harika. “Non hai
dimenticato qualcosa? Sicura?”… Sì, lo spray per l’alito. Eccolo, due
spruzzi veloci e via, verso nuove ansie.
Deren Keskin la mattina usciva di casa dopo aver già trangugiato almeno
due caffè: quello dell’alba, che le faceva compagnia mentre leggeva la posta
sul telefono, e quello dopo la corsetta mattutina che si imponeva di fare nel
parco vicino a casa, un caffè nero accompagnato da succo d’arancia e da due
fette di pane di segale con marmellata senza zucchero. Tutto quel caffè
poteva rovinarle l’alito e così, almeno tre volte al giorno, si ricordava di
utilizzare lo spray alla menta piperita. Arrivata in ufficio avrebbe bevuto un
altro caffè. E poi un altro, e un altro ancora. Era sempre agitata, ma quella
mattina in modo particolare.
Can le aveva mandato un messaggio molto presto avvisandola che la Fikri
Harika sarebbe stata in gara con altre quattro agenzie per aggiudicarsi la
commessa di un’importante agenzia cosmetica internazionale. Deren aveva
sfogliato un “Forbes” di qualche mese prima (era abbonata da quando aveva
quattordici anni) e aveva letto tutto su Fabbri, l’imprenditore italofrancese
che aveva fondato quell’impero della bellezza tra make-up, prodotti per la
cura della pelle e profumi.
Deren, che non si separava mai dal suo rossetto borgogna, già
immaginava il proprio nome accostato a evocative campagne beauty. Piccole
opere d’arte su cui avrebbe lavorato volentieri. E non le dispiaceva neanche
Fabbri, ritratto come un viveur affascinante e spregiudicato: aveva concluso
affari stellari, portando la sua compagnia a consolidarsi ed espandersi. Era
arguto sul lavoro, si basava sull’istinto per concludere le trattative ma –
come segnalavano nelle curiosità dell’articolo – era anche un maniaco
dell’ordine e un fobico dei germi. Glielo aveva detto Can, annunciandole che
i suoi collaboratori avrebbero svolto un’ispezione in tutte le agenzie
concorrenti, per verificare non solo i progetti ma anche la sede, le condizioni
di lavoro, il mood dei copywriter e dei grafici ma soprattutto la pulizia dei
locali.
“In pratica uno che si occupa di bellezza vuole che tutto splenda” aveva
scritto Can nel suo messaggio, “anche al di fuori dei suoi laboratori e delle
sue vetrine. Immagino come stiano i suoi di dipendenti, con un ossessivo-
compulsivo della pulizia sempre addosso.”
Bisognava quindi preparare l’agenzia per l’ispezione: quei vetri da cui
Deren spiava spesso Can dovevano brillare come diamanti. Sospirò mentre
saliva sulla sua utilitaria di lusso, una macchina tanto compatta quanto
costosa, che le avevano regalato i suoi genitori il primo giorno di lavoro.
Suo padre era andato all’università con Aziz: stavano sempre insieme. Di
comune accordo, i due amici avevano mandato i loro figli a studiare a
Londra. Deren aveva una cotta per Can da quando era alle elementari e lui, a
differenza degli altri figli maschi degli amici dei suoi, che giocavano tutto il
tempo a calcio ignorandola, la guardava negli occhi e le chiedeva con
gentilezza se voleva cimentarsi insieme a lui con un puzzle o un gioco in
scatola. Can era bellissimo già da bambino, ma non era quello il suo plus:
aveva una nobiltà d’animo che eclissava il suo aspetto esteriore. Deren lo
aveva visto spesso fare gesti che l’avevano colpita: per esempio, se vedeva
una signora anziana attraversare la strada, lui tornava indietro non solo per
aiutarla, ma anche per portarle le borse fino a casa; e la domenica, mentre gli
altri affollavano i bar per il brunch, Can frequentava un’associazione per
preparare pasti caldi ai senzatetto.
Era sempre stato pieno di risorse, viveva in modo pericoloso e favoloso.
Deren una volta era salita con lui in moto e aveva visto le stelle,
letteralmente; si era sentita lanciata nella Via Lattea. Aveva pensato che
sarebbe morta, a quella velocità, ma era stato uno dei momenti più belli
della sua vita. Lui guidava come il Maverick di Top Gun, ma aveva un cuore
da re. Deren ne era innamorata, ma lui non aveva mai fatto alcun passo e lei
non avrebbe mai osato dichiararsi. Dopo l’università era stata assunta alla
Fikri Harika: suo padre aveva insistito che facesse la gavetta come un
normale impiegato, e Deren aveva lavorato duramente. Aveva cancellato le
domeniche dai calendari. Era una vera workaholic, maniaca del lavoro.
Aveva bisogno dello stress per sentirsi viva. Dell’ansia che le attanagliava
lo stomaco. Era una dipendenza. Forse Can avrebbe potuto salvarla dalle sue
nevrosi. Ma non sembrava volerlo.
Deren si concentrò sull’ispezione: avrebbe dovuto dire a L’altra di
controllare tutto. C’era qualcosa in lei che la irritava, ma allo stesso tempo
la spaventava: era come se Deren non riuscisse a non farsi travolgere dalla
luce che quella ragazza emanava. Era magnetica. Anche per questo si era
rifiutata di imparare il suo nome. Forse si chiamava Leyla. No, Leyla era la
sorella.
Arrivata in ufficio, Deren chiese il terzo caffè della giornata a CeyCey,
che aveva trovato già in postazione a giocare nervosamente con i suoi baffi.
«Subito, signora» aveva risposto lui andando verso la zona cucina. Il
servilismo di quello stagista era fastidioso quanto l’atteggiamento svampito
della sua amica, L’altra.
Deren inghiottì il caffè, ignorando la gentile proposta di Güliz (“Signora,
le leggo il fondo?”; “Ma anche no” aveva pensato lei: “Chi vuol sapere
qualcosa sul futuro? La vita è già tremenda così”), e comunicò alla squadra
il brief, nonché la necessità di far risplendere quei corridoi, quelle vetrate,
quelle scrivanie.
«E fate sparire ogni oggetto di plastica» concluse, «questo ufficio da oggi
sarà plastic free.»
«Anche le bottiglie d’acqua?» chiese un’impiegata.
«Soprattutto le bottiglie d’acqua!»
«E noi in cosa beviamo, signora Deren? Nei bicchieri? Sono di plastica
anche quelli.»
«Sei pregata di disturbare qualcun altro con le tue domande.» Deren
provava un delirio di onnipotenza nel parlare come le icone dei film. Come
Miranda Priestly del Diavolo veste Prada.
«Quindi buttiamo via l’acqua?» fece eco un altro ragazzo. «Non è uno
spreco?»
«Datela ai fiori» rispose esasperata Deren. Un’altra domanda e non
avrebbe risposto più delle sue azioni. Guardò L’altra «L’altra, per favore, ci
occorre una sala relax, vai ad allestirla.»
“Una sala relax?” Ti ha forse presa per un’arredatrice di interni? Sanem
non nascose la sua espressione perplessa ma annuì. «Va bene signora, ma le
ricordo che il mio nome è Sanem.»
Deren la guardò con aria interrogativa. «Come scusa?»
Sanem però pensava già ad altro. Il signor Emre l’aveva convocata di
primissima mattina per darle l’ennesimo compito scomodo: sabotare
l’ispezione.
«Ma come devo fare?» Si era immediatamente agitata. Non aveva
esperienza di sabotaggi, all’esame di Agraria aveva parlato solo di fiori e
piante. «Io penso che sia meglio che cerchi qualcun altro.»
Emre era scoppiato a ridere. «Non scherzare, Sanem.»
«Ma cosa devo fare?»
«Non lo so, pensaci tu! Inventati qualcosa.» E poi il suo cellulare aveva
cominciato a squillare. «Perdonami, ne parliamo dopo.»
In pratica devi creare un’area relax e allo stesso tempo sabotare
l’ispezione: una situazione paradossale. L’altra Sanem parlava a
macchinetta nella sua testa, mentre lei preparava il tè per Can. A farla tacere
ci pensò Güliz.
«Che profumo» commentò, indicando la tazza, «un nuovo tè?»
«È una bustina che avevo a casa» confermò Sanem «contiene rosa e
gelsomino.»
I grandi occhi neri di Güliz brillavano. «Se te ne rimane un po’, posso
provarlo? Al signor Can piacerà tantissimo.»
Sanem sentì che arrossiva (di nuovo). Non devi arrossire. Güliz lo notò e
sorrise. «Ti piace, eh?»
«Chi?» Non devi arrossire. Torna pallida, ti prego.
«Il signor Can.»
«No Güliz, assolutamente no.»
«È bellissimo. Qui sono tutte innamorate di lui.»
«Io no Güliz, ti assicuro.» Non arrossire.
La segretaria fece un gesto con la mano come ad allontanare le assurde
parole di Sanem. «Tranquilla, lui è perfetto. E dovresti vedere la sua
fidanzata. Potrebbe lavorare come modella.»
«Fidanzata?! Sanem spalancò gli occhi e la mano con la tazza di tè tremò,
tanto da rovesciare qualche goccia.» Fidanzata?!
«Vive all’estero, si vedono pochissimo» proseguì Güliz come se qualcuno
glielo avesse chiesto. «Non è una storia romanticissima?»
Romanticissima. Sanem non si accorse che stava rovesciando la tazza di
tè nel lavandino.
«Ma che fai?» chiese Güliz. «Era per il signor Can!»
«Che m’importa del signor Can…»
«Come dici?»
Sanem doveva allontanarsi. «Scusa Güliz, devo fare una telefonata.»
Come era possibile che fosse fidanzato? L’aveva guardata, le aveva
sorriso alla luce della luna. Le aveva parlato di anima pura, di passioni, di
sogni. Ha flirtato con me, ma è fidanzato. In pratica l’aveva presa in giro.
Si sentì sopraffare da una rabbia incontrollabile mentre recuperava il
telefono e chiamava l’amica Ayhan. Avrebbe sabotato l’ispezione, eccome se
l’avrebbe fatto. Le era venuta un’idea diabolica.

Ayhan si trovava nella macelleria di suo fratello Osman, seduta dietro il


bancone a fissare la fila delle clienti che ogni giorno venivano a scegliere i
tagli di carne più pregiati. Vedeva gioielli scintillare, abiti da festa, ciglia
finte, unghie laccate, labbra rosse come rose e immancabili sorrisi
ammiccanti. Ormai più che un sospetto era una certezza: i buoni affari della
macelleria non dipendevano tanto dai prodotti quanto dal produttore, e dai
suoi occhi verdi. Suo fratello era un gentiluomo, intelligente, dolce e gentile,
ma con un buon sense of humor.
Lei e Sanem erano le persone più vicine a lui. E Ayhan, da sorella minore,
soffriva vedendolo sognare un futuro con Leyla impossibile da realizzare. La
Regina di Ghiaccio gli voleva bene come a un fratello e non lo avrebbe mai
degnato di uno sguardo. Troppo proletario per lei, si disse Ayhan con
sdegno, per l’ennesima volta, mentre il telefono cominciava a squillare. Era
Sanem.
Ayhan ascoltò l’amica parlare e spalancò gli occhi: «Vuoi che ti procuri
che cosa… un topo?!?»
Due donne si girarono a guardarla con il terrore negli occhi e poi
fissarono la vetrata che esponeva carne. Osman le lanciò un’occhiata severa.
Ma Ayhan non se ne accorse, come non si accorse di alzare la voce.
«Ti serve un topo? Ma io…»
Una cliente uscì dal negozio. Un’altra fece un passo indietro. Una terza,
sulla settantina, si rivolse a Osman: «Non servite carne di topo con il
cartello che dichiara manzo, vero?».
«Ma certo che no!» esclamò Osman accigliato. «Che domanda mi fa?»
«Scusi, ma la signorina diceva… e poi in televisione hanno parlato di una
macelleria che truffava i clienti dando carne di…»
«Qui è tutto certificato e sicuro, signora.» Osman guardò la sorella.
«Ayhan, esci di qui subito!»
Ayhan aveva altri pensieri al momento. Dove avrebbe recuperato un topo
in tre ore? Non lo sapeva. O forse sì. Lo avrebbe chiesto a Muzaffer, a
Muzo.
Sanem si fidava della sua amica. Aspettava il suo topo a domicilio,
crogiolandosi nell’immaginare la faccia di Can davanti alla tragedia
dell’ispezione.
“Imparerà a giocare con i sentimenti delle persone” pensò, “maleducato,
bugiardo, irrispettoso.”
Non sentì neanche che proprio il suo capo la stava chiamando
sporgendosi dal suo ufficio: «Sanem, scusa! Il mio tè? Arriva o devo
chiamare un corriere espresso?».
«Se lo faccia da solo il tè» sbottò lei.
«Prego?»
Ma che dici? Ma che fai? Sanem si fermò e pensò che un altro avrebbe
potuto licenziarla per quella risposta. E poi cosa avrebbe detto ai suoi? Alla
fine era ancora in debito con Emre e, rispondendo così a Can, l’avrebbero
mandata via e i suoi genitori avrebbero perso il negozio.
Si ricompose e lo fissò freddamente. «Scusi, signore, glielo porto.»
Beviti pure tutto il tè del mondo, pensò lei. Strafogati di tè. Annega pure
nel tè. Soffocati con il tè. Oggi ti passerà comunque la voglia di scherzare.
E si sentì felice pregustando l’immagine del topo che saltava sul completo
elegante dell’ispettore di Fabbri.
«Sanem, che cosa fai qui?» Era CeyCey, che l’aveva presa per il braccio
spezzando i suoi sogni di gloria. «Devi allestire la sala relax. Cosa aspetti?
La signora Deren mi licenzierà per davvero questa volta.»
«Sì, CeyCey, mi era uscito di mente.»
«Uscito di mente? Tu non stai bene. Non stai bene!»
«Calmati, CeyCey!»
«Come faccio a calmarmi, perderò il lavoro. Cosa dirò ai miei? Aiutami,
Sanem!»
«Andrà tutto bene» rispose lei, rendendosi conto che in realtà no, non
sarebbe andato tutto bene. Soprattutto per CeyCey. «Ora devo andare a fare
il tè al signor Can.»
«Certo… io perdo il lavoro e quello pensa a bere il tè» sbottò CeyCey.
«Poi vai subito nell’area relax. O meglio, nel magazzino vuoto. Lo trovi al
piano di sotto, di fianco agli ascensori.»
«Ma cosa devo fare?»
«E lo chiedi a me? Io non so nulla! So solo che ci licenzieranno!»
L’arredamento di interni non era la principale passione di Sanem, ma era
creativa e aveva fantasia. Indossò le cuffie e fece partire la sua musica
preferita, per ispirarsi. Si sentì prendere dall’euforia, anche se in fondo era
consapevole di quanto fosse tutto assurdo: da una parte stava
improvvisandosi designer per creare un’area relax, dall’altra aveva
convocato un topo per rovinare tutto. Convocato, proprio convocato, disse
l’altra se stessa. Come un candidato all’assunzione.
Uscì nel giardino sul retro del palazzo, dove i dipendenti andavano a
chiacchierare durante le pause, e colse qualche fiore che sistemò in un vaso
di vetro recuperato da Güliz. Nella sala dedicata agli shooting recuperò un
manichino che vestì con un abito di tulle; nello stesso posto trovò dei cuscini
fucsia e una scala di legno. Prese anche un velo di tulle e lo trasformò in una
tenda da campeggio. Perché no? Per fare un sonnellino dopo la tensione di
una gara. Quando ebbe finito era soddisfatta: quei fiori profumavano
d’immenso. Avrebbe voluto avere la sua Polaroid per immortalare quel
setting. Era un po’ hippy, un po’ contemporanea, un po’ selvaggia: una sala
relax per rilassarsi davvero, e non per stare composti. Aprendo un cassetto
aveva trovato una stampa pop di Andy Warhol e l’aveva appesa alla parete
con un po’ di nastro biadesivo. Peccato non avere una cornice.
«L’altra, ma che diavolo hai fatto?»
La voce stridula di Deren investì Sanem, che non si era neanche accorta
della sua presenza. Era con CeyCey che stava tremando vistosamente.
«Ha visto, signora? Le piace?» chiese Sanem senza fare a meno di notare
la sua espressione. Per assurdo, sembrava che Deren si trovasse davanti al
topo invece che alla nuova sala relax della Fikri Harika.
Deren taceva.
«Signora Deren?» provò CeyCey non senza esitazione. «Cosa ne dice?»
Silenzio.
«Signora?» ripeté Sanem.
Deren sospirò: «Dico che questa cosa non l’allestirei neanche nel cortile
di un pollaio. L’altra, non hai e non avrai mai idea dei livelli di questo posto.
Non capisci proprio, basta vedere cosa hai combinato. Svuotala e chiudi
questo posto a chiave. Diremo che non abbiamo una sala relax. Io adesso
torno su. Grazie per questo pasticcio».
«Non rimanerci male. Lei è fatta così» la consolò CeyCey quando Deren
fu andata via, ma Sanem, anche se sentiva le lacrime premere per uscire, non
tollerava la compassione.
«Tranquillo, non piaceva neanche a me.»
Rimasta sola, contattò Ayhan via messaggio per chiedere notizie del topo.
Avrebbero perso tutti la voglia di prenderla in giro, di umiliarla. La sua
amica era stata sorprendente: era sotto il palazzo dell’agenzia, con… lui. Ce
l’aveva fatta.
«Mi sono vestita da fattorino per entrare nel palazzo» le scrisse, «il topo
è in una scatola.»
«Ayhan, sei la numero uno!» rispose Sanem. «Dove l’hai trovato?»
«Ringrazia Muzo. L’ha recuperato lui!»
«Grazie a Zebercet, allora…» sospirò Sanem. «Liberalo pure sul piano
della Fikri. Il topo, dico, non Zebercet.»
Per Ayhan poche cose erano davvero impossibili. Anche per questo era
una mental coach. Cinque minuti dopo si era introdotta nel palazzo; altri tre
minuti dopo il topo vagava libero tra i corridoi, gli uffici e gli armadi dove
erano state nascoste le bottiglie di plastica.
L’ispezione era andata benissimo, la squadra di Fabbri aveva perlustrato
ogni angolo e si era complimentata.
«Peccato per l’area relax» aveva detto uno di loro a Can, «è importante
per i dipendenti.»
«Ci dispiace, c’è stato un inconveniente» aveva risposto lui, prendendo
da parte Deren e parlandole sottovoce. «Che è successo? Perché non c’è
l’area relax?»
«Non tocchiamo questo argomento» aveva squittito lei, «avevo dato
l’incarico alla sorella di Leyla, ma ha fatto un disastro. Le ho detto di
smontare tutto.»
Can sentì una stilettata al cuore pensando a Sanem trattata male da Deren.
“Non posso reagire così” si disse. “È troppo. E per una ragazza che conosco
a malapena.” In realtà per lei provava più di quanto osasse ammettere a se
stesso. E aveva paura che tutti lo vedessero e se ne accorgessero. L’istinto
portò Can a prendere l’ascensore e scendere in magazzino. La trovò lì, in
lacrime, mentre smontava una tenda di tulle.
«Sanem!»
Vederla soffrire lo fece stare male. Sentì una tenaglia allo stomaco e si
precipitò ad abbracciarla. Era una bambola di cristallo, così forte e così
fragile. La strinse d’impulso. «Sanem, non piangere, ti prego!»
Lei si asciugò gli occhi con il dorso della mano. Era orgogliosa. Aveva
un carattere fiero.
«Se ne vada» gli disse, «non fate altro che sminuirmi. Ma alla fine
vedrete…» s’interruppe. Stava per dirgli del topo. E non era il caso. Proprio
no. Per un secondo, solo per un secondo, pensò di abbandonarsi… Chiuse gli
occhi senza allontanare quelle braccia che le ricordavano qualcosa di
familiare. Erano casa. Erano libertà.
«Questo posto è perfetto» stava dicendo lui, con una dolcezza che le
procurò un brivido, «come te.»
Al piano di sopra intanto l’ispettore si stava complimentando con tutti e
Deren sperava che varcasse presto la porta.
«Peccato per l’area relax» ripeté, «bastava anche una stanza spoglia, per
un semplice break.»
“Meglio una stanza spoglia che quel pasticcio di colori e stili mescolati”
pensò Deren, ma per un momento si pentì di aver chiesto a quella ragazza di
smontare tutto. Esibì il suo sorriso più professionale: «Ce ne occuperemo, è
una promessa».
“Una piccola pecca non rovinerà un capolavoro” pensò, “non ci sono
agenzie come questa.” Tre dei quattro erano già fuori dalla porta e Deren
stava per rilassarsi pregustando il caffè quando un urlo spezzò l’aria in due,
facendola trasalire.
«Un topooooo!»
Sembrò che fosse stato il topo stesso a strillare. Era una voce acutissima.
“Ma come diavolo è possibile?” Deren si sentì in un episodio dei cartoni
animati, ma questo non era divertente. Guardandosi intorno si rese conto che
era stato CeyCey a gridare e che ovviamente aveva attirato l’attenzione degli
ispettori, ormai fuori dall’agenzia. Qualunque cosa sarebbe potuta passare
inosservata.
«Un topo?» ripeté costernato uno degli uomini di Fabbri. «Qui?»
Urla confuse si mescolarono allo strillo di CeyCey, che non si
affievoliva. I dipendenti cominciarono a correre fuori dall’open space o a
salire sulle sedie con espressioni di orrore. Deren seguiva i loro sguardi,
semiparalizzata, cercando di individuare l’animale. C’era un topo nella Fikri
Harika? Nell’agenzia pubblicitaria di Aziz Divit? “Sarai licenziata” si disse,
sentendosi CeyCey.
Fu uno degli uomini di Fabbri a localizzarlo. Lo indicò con la mano, tra il
panico generale. «Ma non vedete che è un criceto? È adorabile!»
Ti porto via

Sanem su un trattore. Sanem su un muletto. Sanem su un peschereccio. Sanem


su un autocarro. Can si stava ubriacando di lei con la sua macchina
fotografica e sentiva che, in qualche modo, non avrebbe potuto o dovuto
permettere al sole di tramontare su quella giornata.
Non guardò le anteprime dei suoi scatti, sicuro di essere riuscito,
affannandosi, a catturare almeno un raggio di quella luce che esplodeva in
mille pezzi quando Sanem si metteva davanti all’obiettivo. Era travolgente.
Era la modella della campagna di beneficenza dell’associazione di Metin,
il suo migliore amico, che supportava le pari opportunità nel mondo del
lavoro. Era stato proprio Metin, che aveva conosciuto Sanem lì in agenzia, a
suggerire lei per venire incontro al desiderio di Can: voleva una bella
ragazza, ma non una modella nel senso più classico del termine. Voleva
Sanem, l’amico lo aveva capito subito.
Metin le aveva chiesto di seguirlo per un compito speciale, prelevandola
dal lavoro, e quando lei era arrivata al capannone dove avrebbe avuto luogo
lo shooting, si era sorpresa a trovare Can con la macchina fotografica già
pronta. Sanem aveva realizzato cosa sarebbe successo e per un attimo pensò
di scavare un buco e lanciarsi dentro, allontanandosi da quel momento.
“Can Divit che scatta e io che poso? No!”
Sanem non sapeva se ce l’avrebbe fatta. A guardare l’obiettivo come una
modella, a non imbarazzarsi pensando che dietro quell’obiettivo c’era lui.
Avrebbe voluto andare via, ma Metin, prima di correre via, le aveva
accennato la causa. Non poteva lasciare lì Can senza modella, non sarebbe
stato corretto.
“Ci proverò” pensò, realizzando di non avere la minima idea di cosa fare
davanti a un obiettivo fotografico. Eppure lui sembrava avvolgerla con lo
sguardo, come a rassicurarla, come a volerle dire che doveva fidarsi e
sarebbe andato tutto bene.
Can sorrise, pensando all’amico e al suo modo di venirgli incontro con
quella modella fuori dagli schemi. Lui si era offerto di scattare le foto per la
sua campagna, ma a una condizione: nessuno avrebbe dovuto saperlo, non
voleva trarre pubblicità dall’aver abbracciato pro bono una causa per lui
importante come la parità tra sessi che riteneva fondamentale in tutte le
realtà, in primis quelle lavorative. Non sarebbe stato in linea con il suo
modo di essere. Aveva avuto l’idea delle Sanem operaie, escavatoriste,
muratrici, pescatrici, delle donne lavoratrici rappresentate dalle professioni
a contatto con la terra e con il cemento, con il mare e le reti.
Non vedeva che lei come modella di quelle foto segrete e Metin gli aveva
letto nel pensiero. Sotto gli ultimi raggi aranciati era spettacolare, su quel
peschereccio, in tuta gialla da palombaro. Poco prima era scivolata
dall’ultimo gradino del muletto – era così sbadata, Sanem – e gli era finita
tra le braccia, come una principessa caduta dal cielo e presa al volo. Con
quella delicatezza che lo distingueva dagli altri, Can l’aveva posata a terra
suggerendole di mettere via il suo anello, era molto costoso e avrebbe potuto
rovinarsi.
Quella mattina gli occhi rapaci di Güliz avevano individuato il solitario e
Sanem aveva dovuto confessare a tutti i colleghi di essere fidanzata
ufficialmente. “Da poco” aveva aggiunto. Can aveva visto la scena e non
smetteva di pensare che qualcosa non quadrava. La verità era che lei non
c’entrava niente con quell’anello così vistoso, appariscente. Sprezzante. Ma,
a quanto pareva, non c’entrava niente neanche con lui.
Era stato Metin a convincerla a partecipare come modella per la
pubblicità progresso. Le aveva spiegato che si trattava di un lavoro no-profit
e di un fotografo eccezionale, senza specificare che sarebbe stato proprio il
suo capo (in alternativa, lei avrebbe accettato? Can ne dubitava). L’avvocato
l’aveva prelevata dal lavoro e accompagnata in macchina nel capannone
dove Can aveva allestito una parte di set.
Vedendola arrivare, lui si era sentito come un ragazzino al primo
appuntamento. Lei era sorpresa, meravigliosamente sorpresa, e arrabbiata
allo stesso tempo. Si sentiva presa in giro e Sanem odiava essere presa in
giro. Avrebbe voluto andarsene. Ma poi lui l’aveva convinta. L’aveva vista
arrossire, abbassare gli occhi. Amava quei suoi comportamenti: la paura,
l’imbarazzo, la vergogna. Era così limpida.
«Rimarrò per le foto. Poi devo tornare in ufficio.»
«Con la tua memoria, Sanem, ti basta la metà del tempo degli altri per
finire il tuo lavoro» aveva risposto lui. «Ora, per favore, puoi toglierti i
vestiti?»
Lei aveva sgranato gli occhi, i suoi grandi occhi scuri. A Can veniva da
ridere per le espressioni spaventate e offese che lampeggiavano sul suo viso.
«Prego?»
«Sanem! Ma cosa hai capito?»
«Mi chiama un taxi, per favore? Io non toglierò proprio niente, neanche
questa bandana» aveva detto lei, indicando il fiocco che portava sempre
allacciato al polso. «Credo che abbia sbagliato persona.»
«Dai, Sanem» Can non smetteva di ridere, «devi indossare una tuta da
operaio, questo intendevo. C’è un camerino in fondo a destra.»
Sanem afferrò la tuta. «Ma sì, continui pure a prendersi gioco di me, se si
diverte…»
Scattarono per cinque ore consecutive. Can aveva perso ogni laccio
razionale e scattava, scattava immergendosi nella luce. L’aveva portata su
quel peschereccio in mezzo al mare dove il suo vecchio amico, che li
ospitava, aveva cucinato una pasta al ragù turco. Due piatti giganti,
ovviamente, ma lei non aveva battuto ciglio e aveva preso in mano la
forchetta. Si era dimostrata non solo fotogenica, ma anche disinibita davanti
all’obiettivo. Forse, pensò Can, perché non pensava alla posa, a come
avrebbe potuto uscire. Era lei in ogni scatto. E poi era divertente.
Raccontava barzellette, rideva delle sue stesse battute e di quelle di lui. Si
era macchiata di sugo ed era scoppiata a ridere. «Sono più i pasti in cui mi
sporco i vestiti che quelli in cui ne escono illesi.»
«Sai» disse lui d’impulso, «io rimarrei qui per sempre.»
Si accorse che quella frase l’aveva detta pochi giorni prima, e sempre a
lei. “C’è qualcosa in lei, qualcosa che mi attira come una calamita. Non
riesco a starle lontano. Non voglio starle lontano” pensò Can.
Fu il telefono a riportarlo alla realtà. Era suo fratello.
«Can, dove sei? Non ti sei dimenticato del party di Fabbri, vero? Ci sono
tutti i dipendenti di tutte le agenzie. Stasera verrà annunciata la vincitrice
della gara.»
«Party?» Can pensava convulsamente. Quale party? «Emre, io sono su un
peschereccio.»
Il fratello rise, come se avesse fatto una battuta: «Non scherzare. E non
pensare neanche per un secondo di non presentarti. Deren è già fin troppo
agitata, dopo la storia del topo».
«E qual è la novità?»
«Vieni qui subito. Ti mando la posizione. Hai mezz’ora. E ricordati il
dress code: abito scuro.»
Can lanciò uno sguardo a Sanem, immersa nel suo piatto di pasta.
«Dobbiamo andare» le disse.
Lei lo guardò con il viso illuminato dai riflessi del tramonto sul mare. «E
dove?»
«Al party» mormorò lui di malavoglia. Per un momento pensò di salpare
e andare via, su quella barchetta, solo loro due. L’avrebbe rapita,
l’avrebbe…
«Quello di Fabbri?» chiese Sanem. «Io non vengo, grazie per l’invito.»
«Non è un invito» precisò Can, «ci sono tutti.»
Si chiese se ci provasse gusto in quella parola: no. Quante volte avrebbe
dovuto sentirla?
«Non vengo» ripeté lei, «ho addosso una tuta da pescatore. Va bene
ignorare il dress code, ma…»
«Non preoccuparti» la interruppe Can, e si rivolse all’anziano
proprietario della barca: «Torniamo a terra, grazie. Perdonaci».
Aveva mandato un messaggio a una società con cui l’agenzia lavorava
spesso: sia lui che Sanem avevano bisogno di un restyling totale. In sette
minuti erano arrivati due camper con due team di parrucchieri e truccatori,
ad aspettarli al porto. Sanem era senza parole.
«Signore, posso almeno chiederle di venire alla festa per conto mio?» gli
chiese. Can pensò che un’altra al posto suo avrebbe fatto di tutto per
presentarsi con il capo a un evento importante. Annuì e si chiuse nel proprio
camper. Aveva scelto una giacca in stile militare, costellata di spille e ganci
di metallo, una t-shirt bianca e un paio di pantaloni scuri. Il dress code per
lui non era mai un’opzione.
Anche Emre non aveva dubbi e, quando lo vide arrivare all’elegante club
sul mare, non si trattenne: «Potevi metterti un vestito scuro per una volta».
«Emre, io fossi in te sarei contento del fatto che io sia venuto. E poi lo
smoking l’ho già messo alla festa dell’agenzia. Non succederà un’altra
volta.»
Era un posto troppo lussuoso. Can si guardò intorno e vide Deren in abito
acquamarina e Leyla in azzurro cielo a centellinare tartine mentre CeyCey
inghiottiva succo d’uva. Un bicchiere dopo l’altro. C’era anche Aylin, in
mise “sexy strega cattiva”, con un abito a sirena di pizzo nero, un gioco
vedo-non vedo che le lasciava la schiena scoperta. La sua agenzia aveva
buone probabilità di prendere la commessa.
Enzo Fabbri era alto, moro, fascinoso, sulla quarantina. Ed era in
smoking. “Strano, non lo avrei detto” pensò Can ironicamente. Altrettanto
poco stranamente stava fissando il suo, di look.
«Il dress code non è di suo gradimento?» lo apostrofò con un sorriso
tirato.
«Queste regole…» rispose Can cercando di trattenere quello che avrebbe
voluto dire.
«… sono superate?»
«… sono ridicole.»
Ecco, lo aveva detto. Fabbri lo guardò sconcertato mentre Emre e Deren,
che li avevano raggiunti, cercavano di cambiare discorso.
«Bella festa, Fabbri…» disse Emre. «E complimenti per come parla il
turco.»
«Sono italofrancese» rispose l’imprenditore, «ma mia nonna era turca.
Spero di farle onore.»
«Ma certo!» gridò Deren con troppa enfasi.
«Vorrei conoscervi tutti…» cominciò Fabbri, «ma siete tanti…
tantissimi!»
«Petit à petit…» chiosò Can, che parlava perfettamente francese, oltre
all’italiano. «Un po’ alla volta.»
Fabbri non lo stava già più ascoltando. Can seguì il suo sguardo e vide
che si allungava alla scaletta che portava alla piattaforma galleggiante del
party. In alto c’era Sanem in un abito di tulle color fragola. Una spuma
voluttuosa. “Forse ho esagerato” pensò Can. Lo aveva scelto velocemente
sul sito di una boutique e i ragazzi della società che avevano aiutato lui e
Sanem a essere presentabili per la festa erano andati a ritirarlo. Can sapeva
che quel vestito sarebbe stato perfetto per la sua “modella”. Non aveva
sbagliato. Aveva i capelli castani sciolti sulle spalle, un trucco semplice, una
passata di gloss, qualche brillantino intorno agli zigomi e quella nuvola rosa
addosso. L’abito era strutturato in un corpino aderente sormontato da una
girandola di veli pomposi che sfociavano nella gonna ampia e spettacolare,
da regina, con vari strati di balze. Sembrava un dolce di pasticceria.
Negli occhi di Fabbri brillarono due fiammelle. «Mi scusi, Can. Devo
ballare con quel bocconcino.»
Can si mise davanti a lui, ignorando lo sguardo preoccupato di Deren: «Io
non credo, signore».
«Scusi? Forse non ho capito. Non dovrei ballare?»
«È un’impiegata della Fikri Harika» cominciò Can, ma non sapeva come
proseguire.
Enzo sorrise malizioso. «E allora?» scansò Can, lo superò e si diresse
verso Sanem, appena arrivata alla festa. Sembrava Cenerentola.
Prima che lui la raggiungesse, ci aveva pensato qualcun altro a schizzare
da lei. Erano Leyla e CeyCey.
Lo stagista la salutò con un rapido abbraccio: «Tesoro stai benissimo» le
disse, «ma quanto costa questo vestito? È bello, ma fuori luogo. Sei troppo
vistosa Sanem, appariscente. Troppo».
«Ma che ne sa lei? Non sa come ci si comporta» sbuffò Leyla. «Sanem,
dove hai preso questo vestito? O meglio, dove hai preso i soldi per
comprarlo?»
A salvarla fu Enzo Fabbri, che si scusò e la prese tra le braccia. Sanem
notò il suo orecchino nero, un piccolo cerchio agganciato al lobo, e la sua
barba accennata. Avrebbe quasi potuto essere l’albatros.
«Perdoni l’irruenza italiana…» si schermì lui. «Ma devo ballare questa
canzone. Lei è una visione accecante.»
Sanem annuì mentre cercava Can lo sguardo. Era in giacca militare e
anfibi in mezzo a una schiera di principi in nero. Era lì, il suo Can, che
beveva spumante con aria scocciata. Lei avrebbe voluto tornare sul
peschereccio ed era certa che lui stava pensando la stessa cosa.
Si lasciò andare alla musica, fissando la luna che spuntava all’orizzonte.
Fabbri sembrava folgorato da lei, come da una visione. Ma non solo per la
sua bellezza.
«Signorina, la prego» le sussurrò all’orecchio, «mi parli del suo profumo.
Non ho mai sentito niente di simile.»
La canzone rispecchiava le note malinconiche degli occhi di Sanem, che
cercavano Can.
«È una canzone triste» disse Fabbri, come intuendo i suoi pensieri. «Parla
di una separazione.»
«Mi piacciono di più quelle allegre.»
«Mi parli del suo profumo… il mio è venduto in trentotto paesi del
mondo, ma il suo è… unico.»
«Trentanove paesi» lo corresse Sanem, che aveva letto velocemente la
scheda del potenziale cliente.
Fabbri la guardò sbalordito. «È più informata di me? E in effetti è vero.
Di recente si è aggiunto il Giappone. Complimenti per la memoria!»
«Mi scusi» Can si era materializzato alle spalle di Fabbri, indicando
Sanem. «Permette?»
Li aveva interrotti. Sanem sentì il suo cuore e anche quello di lui. Erano
così vicini…
Proprio in quel momento la canzone finì e l’imprenditore sorrise. «Can, il
destino non è dalla sua. La musica non vuole accompagnarla.»
«Va bene così» rispose Can.
«Aspetti, ne approfitto per chiederle un attimo di attenzione. Ho una cosa
importante da dire, a lei e agli altri.»
Sanem e Can si guardarono con aria interrogativa mentre Fabbri
guadagnava il centro della pista da ballo.
«Buonasera a tutti! Vi rubo solo qualche minuto per ringraziarvi di essere
qui questa sera e per annunciarvi finalmente che l’agenzia vincitrice della
campagna è… la Fikri Harika!»
Tutti esultarono di gioia, l’agenzia aveva ottenuto un risultato prestigioso
e questo provocò l’euforia di Deren che si gettò al collo di Fabbri
ringraziandolo.
«Teniamo molto alle donne, alle pari opportunità» proseguì Fabbri, «per
questo volevo concedere il progetto alla signora Aylin e alla sua agenzia. Poi
però ho saputo che Can Divit ha seguito gratis una campagna sul lavoro
femminile, e la cosa mi interessa molto.»
«E lei come lo sa?» lo interruppe Can infastidito.
«Can intende dire…» si affrettò a interromperlo Deren, «che sostiene
molte associazioni di beneficenza, ma non vuole che si sappia. Non cerca
quel tipo di pubblicità, non so se mi spiego.»
«Perfettamente» convenne Fabbri. «Signor Divit, complimenti. Anche a
lei, Emre.»
Sanem si sentì gli occhi puntati: la stavano guardando Can, Deren, Fabbri
ed Emre, che le fece un cenno: «Potete scusarci un attimo?».
Era furioso, un contrasto strano con il suo completo firmato e inamidato.
La guidò in disparte, al tavolino dei tramezzini. Lei lo seguì.
«Grazie Sanem, grazie mille» il sarcasmo era alle stelle.
Lei arrossì di nuovo. «Signor Emre, io ho cercato un topo. Ho sabotato
l’ispezione. Cosa avrei dovuto fare di più?»
«Forse non posare come modella per mio fratello.»
«E lei come lo sa?»
«Me lo ha detto Metin, ma avresti dovuto farlo tu.»
«Non sapevo neanche io che il fotografo sarebbe stato Can, fino a quando
non l’ho visto sul set!»
«Brava, ti sei fatta prendere in giro. A Can non importa niente delle
donne, del lavoro, della beneficenza. Svegliati, Sanem. Ha architettato tutto e
ha fatto dare questa informazione a Fabbri, sempre dal suo amico avvocato.
È un uomo meschino.»
Trasalì. Come poteva dire una cosa simile? Eppure sembrava così
convinto.
«Io le ho già detto che non so fare queste cose.»
Emre rise. «Cos’è che non sai fare, sentiamo!»
«Cospirare. Sabotare. Rubare. Non sono capace.»
«È lui che sta cospirando. E ci prende in giro. Sveglia, principessa! Non
basta un vestito per avere il lieto fine.»
Sanem trattenne le lacrime. Gli diede le spalle e si avviò verso l’uscita.
Non voleva stare un minuto di più in quel posto. Non si sentiva a suo agio e
gli sguardi le bucavano la pelle. Odiava i pettegolezzi, i giudizi. Non viveva
di sovrastrutture, non ne era capace. Forse sarebbe stata così per sempre,
una principessa addormentata. Avrebbe vissuto di gigli e conchiglie.
Avrebbe vissuto tutto quello che voleva, ma con la propria immaginazione.
Non le piaceva Emre. Non le piaceva Fabbri. E Can, Can aveva davvero
organizzato quegli scatti per prendersi un cliente?
Era quasi arrivata alla scala quando si sentì afferrare un braccio. Era
Fabbri – lo riconobbe dal profumo, una colonia ai fiori d’arancio – che la
bloccava lì, su quella piattaforma di lusso.
«Sanem, dove va?»
«Scusi, devo andare.»
«A quest’ora? Ma non esiste! Vorrei fare due chiacchiere con lei, vorrei
parlare di profumi.»
Non sarai tu, disse la sua voce interna. Non sarai la principessa che si
addentra nella foresta. Non sarai tu a rimanere qui con lui. Non sarai tu a
cercare il tuo lieto fine nel bosco.
«Mi dispiace, devo proprio andare.»
Poi accadde tutto in un istante, un frammento di tempo che Sanem avrebbe
riposto nel cuore. Che avrebbe ricordato anche dopo tanti anni.
Can. Can era lì. Incombeva. Spinse via Fabbri leggermente e le prese la
mano. Sanem sentì una scossa elettrica. Di nuovo. In cielo rimbombò il
rumore di un tuono. Non riusciva a parlare, era paralizzata. Fabbri aveva
spalancato la bocca dallo stupore. Dalla costernazione.
«Ti porto via» disse Can. Nient’altro.
Ti porto via.
Lei in quel momento non poteva pensare a niente. Gli strinse la mano e lo
seguì.
Insieme, tra gli sguardi scioccati, infidi e pettegoli, lasciarono la festa.
Colpa del vino

Salirono la scala che collegava la piattaforma galleggiante alla terraferma.


Si tenevano ancora per mano quando raggiunsero la jeep di Can,
parcheggiata proprio davanti all’accesso per il party. Sanem era frastornata:
le foto, Emre, Fabbri, il profumo, la festa, la faccia di Leyla, Can, ancora
Can, di nuovo Can, ma cominciò a rendersi conto di aver lasciato un evento
di lavoro insieme al signor Divit, come se fosse la sua…
Amante.
In quel momento non era in grado di pensarci… avrebbe affrontato la
cosa più tardi.
Lui era fiero, avvolto in quella giacca militare. E lei, lei era una
principessa pronta a scappare per le vie di Istanbul. Si chiese perché fosse
così attratta da un uomo tanto scorretto, meschino. Il signor Emre era stato
chiaro nella sua descrizione, ma Sanem stava scoprendo tutti i lati più
sensibili di quel re malvagio e si chiedeva come fosse possibile che le cose
stessero proprio in quel modo. Forse era solo un bravo attore. Allo stesso
tempo, però, si rendeva conto che, in quei varchi che lui aveva scavato nella
sua corazza, annientando la distanza che lei aveva messo tra loro, stava
lasciando scivolare il suo cuore. Forse non è troppo tardi per tirartene
fuori.
Lui le lanciò uno sguardo e sorrise, lei sentì un brivido. No, è tardi.
Tardissimo.
Era salita d’impulso in auto con Can – non poteva permettersi di essere
inseguita da Deren, da CeyCey o, peggio ancora, da Leyla – e lui, ingranando
la quarta, la stava portando chissà dove. La città scorreva accanto a loro in
un frullato di luci.
Chissà come aveva reagito Fabbri vedendoli andare via così. Anche a
questo avrebbe pensato dopo.
«Non hai…?» cominciò Can.
«… fame…?» completò la frase Sanem, senza nemmeno rendersene
conto.
Telepatia. Scoppiarono a ridere. Sanem pensò quanto fosse poco
romantico – o molto romantico – il fatto che entrambi spesso avessero quel
chiodo fisso. In quale romanzo i due protagonisti mangiavano a ogni
incontro? Gli eroi e le eroine di cui aveva tanto letto vivevano d’aria, del
loro amore. Loro no.
«Troppi finger food a quella festa» commentò Can. «E poi il
pinzimonio… ma si può considerare cibo?»
«Se non c’è il pinzimonio, non verrò ad altri party. Io glielo dico! Avverta
il catering» rispose Sanem divertita.
“Comunque ha ragione” pensò. Tutti quegli stuzzichini salutisti le avevano
fatto venire voglia di cibo vero. Forse Can conosceva un posto dove lo
cucinavano.
Lui le stava leggendo nel pensiero. E non era la prima volta: «Conosco un
posto dove cucinano una favolosa carne alla brace. Ti ci porto, è speciale
vedrai».
I loro telefoni squillarono, insieme. Li fissarono paralizzati. Squillarono
ripetutamente. Erano Deren, Leyla, CeyCey. Di nuovo Leyla al telefono di
Sanem. Emre a quello di Can. E poi ancora Deren.
Can rifiutò la chiamata e spense il telefono. «Problema risolto.»
Sanem non ci pensò troppo e spense anche il suo. In quel momento non
aveva voglia di parlare, di giustificarsi. Anche perché non avrebbe saputo
cosa dire.
L’autoradio suonava una canzone popolare turca. Sanem si abbandonò ai
suoi pensieri ed entrambi tacquero mentre la jeep sfrecciava via. Il posto
speciale di Can era fuori città, al limitare del bosco, in un quartiere
periferico abitato forse da contadini, forse da pendolari che prendevano il
bus tutti i giorni per lavorare in città, allettati dagli affitti bassi. C’era molto
verde e qualche steccato verniciato. Con suo immenso stupore Sanem scoprì
che una di quelle casette di legno apparteneva proprio a Can. Lui le aprì lo
sportello e la ragazza rimase incantata da quella che sembrava una baita in
miniatura: era piccola e spartana, immersa in un giardino con un tavolino e
due sedie, sempre di legno. C’erano fiori rampicanti, un piccolo orto con
qualche verdura. Guardando all’interno vide una stanza senza finestre, dei
pesi per la boxe, dei guantoni, una chitarra, vinili sparsi, una lattina di Red
Bull chiusa.
«La mia camera oscura» raccontò Can, indicando la stanza chiusa.
«Questo è praticamente il mio primo ufficio. Vengo qui a lavorare, a pensare,
a sviluppare le foto.»
Sanem si guardò intorno, stupita. Era un posto meraviglioso, così poco
lussuoso, così intimamente “caniano”. La sua gonna frusciava sull’erba e
fece fatica a passare dalla porticina a vetri.
Can le indicò una cassettiera: «Lì dentro dovresti trovare dei vestiti. Così
puoi stare comoda. Intanto io preparo il barbecue. Sempre se ti va, Sanem!
Altrimenti andiamo da un’altra parte».
Sanem pensò che quel posto era perfetto.
«No signore, restiamo qui. È… perfetto.»
Non avrebbe potuto sentirsi più a suo agio altrove. Non avrebbe voluto
essere in nessun altro luogo sulla terra, neanche alle Galapagos, in quel
momento. Un’istantanea di lei e Can con tre figli a preparare il pranzo da
servire in giardino le attraversò la mente, ma la allontanò subito.
«Ci porta la sua fidanzata, qui?» chiese ricordandosi di quel
fondamentale particolare.
Can sospirò. «Ci siamo lasciati. E lei non è il tipo che ama questi posti.»
“Lasciati?” Osò sperare di avere a che fare con quella decisione.
Dopo la serata di gala, Can aveva riflettuto seriamente sulla relazione con
Polen e aveva capito che, nonostante il grande affetto che li legava, la loro
storia non stava andando da nessuna parte. Così, con profondo dispiacere,
qualche giorno prima l’aveva chiamata per dirle ciò che provava e che
sarebbe stato meglio prendersi una pausa per riflettere. Polen aveva pianto
al telefono e l’aveva supplicato di ripensarci, ma alla fine si era resa conto
anche lei che la loro storia era cambiata.
«Mi dispiace» disse Sanem cercando di dissimulare il suo sollievo
mentre l’“altra se stessa” la provocava: Non sembra proprio che ti
dispiaccia!
«Signor Can, mi cambio i vestiti. Esca, per favore.»
Can non si mosse, la fissò divertito dal suo sguardo terrorizzato: «Dai
Sanem! Sto scherzando, ovvio che esco! Ti sembro il tipo che rimarrebbe?
Vado a tagliare un po’ di legna per cuocere la carne…»
Sanem chiuse la porta a chiave. Trovò una t-shirt oversize di Can – Una
t-shirt col suo profumo – un paio di bermuda che assicurò con una cintura,
un paio di calze di spugna da calciatore e ciabatte di plastica nera. Si sfilò i
metri di stoffa rosa, si infilò i vestiti e intravide la sua immagine nel piccolo
specchio a lato della cassettiera: sembrava uno sportivo che non ce l’aveva
fatta, con abiti di otto taglie più grandi. Dove aveva letto che il brutto era il
nuovo bello? Si appoggiò alla finestra senza accorgersene e lo sguardo,
dietro il vetro, raggiunse Can.
Aveva tolto la giacca, aveva indossato un paio di vecchi jeans strappati e
un paio di anfibi. Era chino su un tronco a spaccare la legna. La pelle dorata
dall’abbronzatura, muscoli tesi, il tatuaggio sul petto, i capelli che si
ribellavano al suo solito codino. Sanem deglutì. E si trovò a ruotare la testa
seguendo i suoi movimenti. Deglutì di nuovo e sentì un’ondata di fuoco
solcarle la pelle.
Ma cosa…
Il fotografo che spaccava la legna e la principessa-calciatrice. Era la cosa
più sexy che avesse mai visto o immaginato in vita sua. Non che si muovesse
a proprio agio tra cose e persone considerate sexy. Nei libri, forse. Nella
realtà non era mai successo. Se avesse dovuto descriverlo, avrebbe parlato
di elettricità. Continuò a spiarlo finché Can non ebbe finito di raccogliere
tutta la legna in una cesta e non si fu allontanato.
“Sanem, basta” si disse. “Non puoi proprio stare qui a…”
Si guardò intorno con ansia febbrile e trovò un giradischi. Brava Sanem,
metti la musica. Dimentica tutto con la musica. Si era svegliata anche
l’altra se stessa, che probabilmente come lei era rimasta folgorata dalla vista
di Can in blue jeans.
Can intanto respirava a pieni polmoni i profumi del bosco. Gli aghi di
pino, i lamponi, le erbe aromatiche. Non c’era un altro posto dove si sentiva
così. Il mondo era un libro di splendori da sfogliare, da scattare, ma quel
luogo, quella casetta di legno era qualcosa che non avrebbe trovato nelle sue
perlustrazioni tra angoli sperduti. Era così casa per lui, che non ne aveva mai
parlato con nessuno. Fino a quel giorno. Fino a Sanem. Non sapeva perché
l’avesse portata lì: forse era troppo presto, forse era troppo intimo. Gli era
venuto spontaneo e Can era uno che seguiva la scia delle proprie sensazioni.
Era così da sempre.
Tornò verso la casa e la vide. La sentì. Sanem aveva fatto partire un disco
e ballava, ballava e cantava sull’aia, schizzando sui sassolini intorno
all’uscio, girando intorno al tavolo. Aveva in mano una ciotola con delle
verdure che probabilmente aveva colto nell’orto, per preparare un’insalata
di accompagnamento. Indossava calze di spugna che le arrivavano al
polpaccio, una maglietta gigantesca e pantaloncini che s’intravedevano,
mentre i suoi capelli scuri le lambivano le spalle. Ballava, cantava, si
accendeva, si scatenava. In qualche club techno nordeuropeo sarebbe stata
applaudita, ma in quel momento era incredibilmente buffa. Buffa, tenera,
spontanea, divertente. Era autentica. Can si scoprì di nuovo a sorridere e si
nascose dietro le piante. Non voleva che lei lo vedesse e si fermasse. Era
così assurda, Sanem. Così straordinaria. Rimase lì a guardarla per un po’,
poi si dedicò alla brace e all’atmosfera sistemando qualche lampada a olio
per illuminare la tavola. Aveva preparato tutto in preda a un lieve stato di
agitazione, non gli era mai successo niente di simile e sapeva che era la
presenza di quella ragazza a dargli le vertigini. Sanem era lì con lui e voleva
che tutto fosse perfetto.
Can aprì una bottiglia di vino, chiedendole se l’avrebbe gradito.
«Sì, ogni tanto bevo vino» rispose la ragazza con un atteggiamento
disinvolto. Can intuì che non era proprio così. Le versò meno di metà
bicchiere e notò che aveva già abbassato le difese senza aver bevuto una
goccia. Sembrava rilassata, felice. Nonostante avessero lasciato la festa,
nonostante Leyla fosse arrabbiata ed Emre anche. Nonostante avessero già
cominciato a parlare di loro due.
Can si sentì vicino a lei: era una serata di inizio estate, una serata dolce e
incantata. I pensieri non potevano entrare in quei piatti, in quelle verdure
dell’orto, nei frutti di bosco, in quella Sanem sportiva e disinibita. Stava
bevendo il vino senza esitazione e Can si preoccupò. «Sicura che sei
abituata?»
Lei annuì. «Ma certo!»
La vide estasiata dalla carne. Chiudeva gli occhi per assaporare meglio la
cena. Can si riforniva da un macellaio di fiducia.
«C’è una parola per definire questa carne» disse Sanem, «ma non la dico
altrimenti mi prende in giro…»
«Qual è?» chiese lui. «Voglio saperla.»
Sanem chiuse gli occhi: «Bambinesca».
«Bambinesca?!»
«Sì, bambinesca. Mi ricorda i sapori della mia infanzia.»
I loro sguardi si incrociarono, Can provò un brivido e si concentrò sulla
carne, aveva paura che lei gli leggesse negli occhi. Che capisse che lui era
perso, perso in quel momento. Can si nutriva dei silenzi tra un boccone e
l’altro, per pensare. Era così autentica nelle cose, nei movimenti, nelle
parole e nelle domande che gli poneva.
«Signor Can, lei ha viaggiato tanto, qual è il posto più bello che ha
visto?»
«Tutti i luoghi del mondo hanno qualcosa di speciale. Ultimamente sogno
spesso il tramonto sul fiume Mekong, in Cambogia, credo che sia il più bello
che abbia mai visto, è di un arancione unico. Ho provato a fotografarlo ma
neanche i miei scatti gli hanno reso giustizia.»
Mentre gli chiedeva dei suoi viaggi, Can percepì negli occhi di Sanem
una curiosità pura, assolutamente priva di quell’invidia che invece aveva
avvertito da chi non aveva il coraggio di partire e vivere di niente. Di chi
rimaneva incastrato in una vita troppo normale. Lei lo ascoltava veramente.
«Mi versa ancora un po’ di vino, signor Can?» chiese Sanem allungando
il bicchiere vuoto.
«Sanem, non stai esagerando?»
Lei scosse la testa. Non osava guardare l’orologio. Sapeva che era tardi
ma avrebbe tanto voluto intrappolare quel momento e fermare il tempo.
«Sviluppo le foto di oggi» annunciò lui, «e poi ti riporto a casa.»
«Perfetto!» gridò Sanem. «Posso vederle?»
«Non ancora…» ma avrebbe voluto mostrargliele presto. «Aspettami
qui.»
Con fatica si staccò da lei e andò nella camera oscura. Si dedicò alle
foto, completamente travolto e sbalordito dal risultato. C’era Sanem
ovunque. Nell’obiettivo, nei suoi occhi. Forse già nel cuore. Quelle foto non
erano solo arte, e Can se ne rendeva conto appendendole ad asciugare. Era
tardissimo. Lasciò lì le prime foto sviluppate, in attesa di vederle alla prima
luce del sole.
Di là, in giardino, Sanem aveva in mano la bottiglia. “Fantastico” pensò
Can.
«Prendi le tue cose» le disse. «Ti porto a casa.»
Era tardi. Ma lei era brilla e aveva voglia di divertirsi.
«Eh no» si oppose avvicinandosi. “Troppo” pensò Can. «Tu mi hai
promesso un ballo. Alla festa!»
«Ah sì, certo. Però…»
Sanem aveva già fatto partire la musica. Can non osò pensare ai vicini,
ma per fortuna era in buoni rapporti con tutti e avrebbe trovato un modo per
scusarsi.
«Re malvagio! Vieni qui!»
«Re malvagio?! Ma che dici, Sanem?»
Gli si appoggiò addosso, a ritmo di musica, nascondendo il viso nel suo
petto. Sembrava completamente abbandonata a lui, e Can provò una strana
paura. Gli venne un’idea così, dal nulla.
«Sanem» le disse, «forse è arrivato il momento… di parlare.»
«Sì?» chiese lei guardandolo negli occhi. Can vedeva il suo sguardo
appannato, ma pensava lo stesse ascoltando.
«Ecco, Sanem…» si schiarì la voce. “Coraggio! Non è difficile!” pensò.
«Io, Sanem…»
Abbassò lo sguardo e vide che Sanem era completamente appoggiata a
lui, come su un cuscino.
«… Sanem, ecco, io sono l’albatros. Il tuo albatros. Sono io. Sanem?»
Si abbassò per guardarle il viso. Non lo aveva sentito. Si era
addormentata.
“Bravo Can!” si disse. “Tempismo perfetto.”
Eppure era bellissimo averla lì, a dormirgli addosso, senza che potesse
arrossire, ripararsi o fuggire. La prese delicatamente in braccio e la portò
dentro, sul divano. L’appoggiò, le prese un cuscino e una coperta. Le fece
una piccola carezza segreta, al chiaro di luna. E poi tornò nella sua camera
oscura. Aveva troppo da fare. Troppo da vedere.
Sviluppò come se non dovesse mai sorgere il sole. Sentiva i grilli in
giardino e avrebbe voluto guardare le stelle, ma non uscì fino all’alba.
Non appena sorse il sole le preparò un tè mentre aspettava che si
svegliasse.
Quando lei aprì gli occhi gli sorrise, come se fosse la cosa più naturale di
tutte.
«Buongiorno, Sanem…»
«Buongiorno…» allungò la mano verso il tè, sbadigliando. «Grazie, che
buono…»
Non se l’era ancora portato alla bocca quando schizzò seduta. «Oh no!!
Ma dove sono? Ma quanto ho dormito? Mia madre mi ucciderà.»
«Ti sei addormentata mentre ballavamo. Ieri notte.»
«Ieri notte…» gli occhi di lei si spalancarono. «Allora non è stato un
sogno?»
«Eh… no.»
Lei arrossì violentemente: «Signor Can. L’ho chiamata “re malvagio”? E
l’ho costretta a ballare?»
Can non represse una risata: «Non so come dirtelo ma sì, Sanem».
«Signore, non so cosa dire…» Sanem cercò di ricomporsi. «Mi perdoni.
Colpa del vino.»

Per Ayhan era stata una notte molto meno romantica. A mezzanotte Leyla era
piombata a casa loro e Osman non aveva potuto fare a meno di darle retta.
Anzi, no, pendeva letteralmente dalle sue labbra. Le aveva preparato anche
una tisana.
La Regina di Ghiaccio era preoccupata per Sanem, che non era tornata a
casa.
«Voi non capite» ripeteva Leyla, «ai miei ho detto che è qui. Ieri sera ha
lasciato una festa aziendale con il signor Can. E da allora è sparita! Hanno
mollato il cliente così, e hanno spento i telefoni.»
«Vieni qui, Leyla» disse Osman. «Siediti, bevi la tisana. Devi rilassarti.
Cosa avete fatto con il cliente? Si è arrabbiato?»
“Assurdo” pensò Ayhan, “perché deve farsi trattare così da questa?”
Leyla si prese la testa tra le mani. «La collaborazione è salva. CeyCey si
è inventato una bugia, che Sanem e il signor Divit sono fidanzati. Assurdo.»
“Neanche tanto” pensò Ayhan. Osman non staccava gli occhi dalla ragazza
di cui era innamorato.
«Leyla, non ti muovi da qui finché non sappiamo che tua sorella è sana e
salva» le disse.
«Grazie di cuore» rispose lei. E aspettò invano, per ore.
Ritrovò Sanem la mattina dopo in camera sua, in abito rosa, lo stesso con
cui aveva ammaliato Enzo Fabbri. Aveva un’espressione che spaventò Leyla.
Non l’aveva mai vista così.
«Sanem, dimmi subito dove sei stata. Con chi sei stata.»
«Leyla, calmati, sono stata a casa del signor Can.»
Sembrava fluttuare a tre metri da terra. Leyla sentì il cuore batterle forte.
Pensò a sua madre angosciata e poi cercò di cancellare l’immagine di
Mevkibe.
«Sanem…»
«Mi sono addormentata, Leyla. Tutto qui.»
La guardava con occhi innocenti. No, occhi diversi.
“Ne è innamorata” pensò la sorella maggiore. E sentì una fitta allo
stomaco, desiderando con tutta se stessa, anche solo per un attimo, la luce
che avevano gli occhi di Sanem.
Dimmi di andare e vado, dimmi di restare e resto

«Sanem, ho pensato a tutto io. Stai tranquilla!»


Che fortuna avere Ayhan nella propria vita! Sanem si guardò un attimo
allo specchio, davanti allo sguardo di approvazione della sua migliore
amica: camicia a quadretti, pantaloncini color ruggine, scarpe da tennis. Il
suo look sportivo era perfetto per il campus motivazionale organizzato da
Fabbri.
Con lui era più o meno tutto risolto. Il cliente era passato sopra
all’incidente diplomatico della festa grazie alla prontezza di CeyCey che, di
fronte al rischio di perdere la commessa per quello sgarbo, aveva raccontato
che Sanem e Can erano fidanzati e proprio quella sera avevano avuto una
brutta discussione.
«La loro fuga non ha nulla a che fare con lei» aveva specificato lo stagista
ostentando disinvoltura.
“Maledetto CeyCey” aveva pensato silenziosamente Aylin. Era pronta a
spodestare la Fikri Harika dopo l’affronto di Can, che aveva lasciato il party
senza neanche salutare. E invece quel mucchietto di ansia e nervi aveva
sistemato tutto, estraendo una carta vincente.
Anche Sanem era tesa. In quei giorni Emre le stava con il fiato sul collo,
come un avvoltoio. In ufficio non le dava tregua e l’aveva costretta a rubare
di nuovo.
«Per colpa di quella campagna per cui ti sei prestata come modella
andremo in rovina. Tu non conosci Can, non conosci i suoi piani. È
diabolico.»
Sanem stava iniziando a conoscerlo e non le sembrava la persona
terribile che Emre dipingeva.
«Non sono sicura di quello che dice. La prego, mi lasci fuori da questa
cosa.»
«Non costringermi a essere sgradevole e ricordarti del debito che hai con
me. Devi assolutamente recuperare le foto che ti ha scattato quel giorno. Ho
bisogno di vederle, Can non vuole mostrarle a nessuno.»
«Io non voglio farlo.»
Ma non aveva scelta: Emre era l’uomo che le aveva dato il denaro per
salvare il negozio dei suoi, aveva un debito. Inoltre, le aveva detto che la sua
era semplice curiosità, le foto gli servivano solo per tenere d’occhio Can.
S’intrufolò (Di nuovo qui, di nuovo di nascosto. Quanto durerà? chiese
l’altra se stessa) nell’ufficio di Can mentre lui era a pranzo e prese il plico
che conteneva le foto. Fu facile ma, dopo quello che era successo al rifugio,
si sentì come se lo stesse tradendo.
Poi era sorto un altro problema. Fabbri aveva organizzato due giorni di
team building con tutti i dipendenti delle agenzie e i loro fidanzati e lei
avrebbe dovuto costruire “un doppio doppio gioco”: avrebbe dovuto fingere
di stare con il ragazzo dell’anello agli occhi dei dipendenti dell’agenzia, e di
stare con Can agli occhi di Fabbri.
Un’impresa impossibile, ma non per Ayhan, che aveva convinto suo
fratello Osman a fingersi il ragazzo di Sanem e aveva anche recuperato la
lussuosa auto sportiva di Zebercet – o meglio, Muzaffer – che viveva
parcheggiata in garage perché l’amico e sua madre temevano che qualcuno la
urtasse o la rubasse.
Così Osman, con il suo look casual ma curato e la macchina dell’amico,
poteva quasi passare per un fidanzato benestante, uno di quelli che regalano
anelli vertiginosi.
«Non so se ce la faccio» balbettò Sanem scendendo dal bus della Fikri
Harika insieme al resto dei colleghi. «Troppe finzioni, troppi giochi.»
«Ma sì che ce la fai, sorellina» la rassicurò Leyla, che per l’occasione
era stata necessariamente informata sui fatti. Sanem le aveva raccontato
dell’anello, ma senza menzionare il patto con Emre. Le aveva detto di aver
letto su una rivista che le donne sposate fanno più carriera, pertanto si era
procurata un finto anello e aveva detto a tutti di essersi fidanzata.
Leyla si era arrabbiata moltissimo per quella rete di bugie, ma alla fine
aveva deciso di sostenerla nella sua recita, raccomandandosi, per il futuro,
di evitare guai.
Al campus, organizzato in una zona boschiva fuori città, c’erano proprio
tutti: i dipendenti della Fikri Harika con i fidanzati, quelli delle altre agenzie
e anche Aylin, che avrebbe collaborato a un progetto collaterale di Fabbri.
Alla prima attività della giornata, il tiro alla fune, Sanem e Leyla si
accorsero che Aylin era particolarmente agguerrita, come le sue stagiste.
Deren, infatti, per poco non si lussò una spalla a causa sua.
«CeyCey!» gridò. «Controlla che non mi avveleni a pranzo. Quella donna
è pazza!»
Can intanto era arrivato: la t-shirt bianca metteva in rilievo i muscoli del
torace, gli occhiali da sole gli davano quell’aria da enfant terrible che fece
girare a guardarlo molte ragazze già dal parcheggio. Lui, come sempre, non
aveva occhi che per Sanem, che era caduta a terra dopo la sconfitta al tiro
alla fune.
“Com’è possibile che anche in un posto affollato come questo io veda
solo lei?” si chiese tormentato, mentre le tendeva una mano per aiutarla a
rialzarsi.
Si perse per un attimo in quegli occhi così autentici, ma lo sguardo della
ragazza, vagamente terrorizzato, si spostò alle spalle del capo.
«Osman!» strillò. «Scusi, signor Can, è arrivato il mio ragazzo.»
Can si girò e lo riconobbe: era il proprietario di una splendida auto
sportiva che, pochi minuti prima, aveva parcheggiato accanto a lui. Aveva
capelli ricci e indossava una camicia color salvia.
«Finalmente, Osman!» cinguettò Sanem con voce affettata.
Can trattenne il respiro: era davvero fidanzata, allora. Osman, però,
sembrava una persona gentile e Can non sarebbe mai stato ostile, era troppo
corretto.
«Sono Can, piacere.»
Durante le attività sportive, scoprì che Osman giocava benissimo a
calcio, era forte nella corsa dei sacchi, faceva battute brillanti. Aveva tante
risorse, era normale che a Sanem piacesse.
La ragazza, intanto, era consapevole che la propria recita non fosse
credibile. Dopo rubabandiera, quando si accorse che il suo finto fidanzato,
incantato dagli occhi di sua sorella come da vent’anni a quella parte, si era
fatto soffiare il fazzoletto, prese Osman per un braccio e lo tirò dietro un
albero: «La smetti? Dobbiamo sembrare innamorati».
«Ma smettere di fare cosa?»
«Osman!» Sanem gli prese il viso e lo costrinse a guardarla negli occhi.
«Puoi fingere per un giorno di trovarmi irresistibile? Smettila di guardare
Leyla, ti prego!»
Osman le scoppiò a ridere in faccia. «Non credo di farcela a trovarti
irresistibile. Senza offesa!»
Sanem s’infuriò, ma la situazione peggiorò durante il pranzo. Era al
tavolo con Osman e Leyla, ma lui non le prestava la minima attenzione.
«Smettila di parlare con Leyla» gli sibilò Sanem all’orecchio, «mettimi un
braccio sulla spalla!»
Ayhan poteva trovare qualcun altro. Con Osman non avete possibilità di
essere verosimili come coppia, martellava intanto la sua voce interiore.
«Invece sì! Ci riusciremo! Vedrai» gridò Sanem all’altra se stessa.
«Riuscirete a fare cosa?» alzò gli occhi e vide il signor Emre, in elegante
polo scura.
«A vincere a pallavolo…» rispose prontamente lei. «Le presento Osman,
il mio fidanzato.»
«Benvenuto, è un piacere» Emre lo accolse con un sorriso tirato. «Sanem,
devo parlarti.»
Si spostarono in un angolo dietro il buffet dei dolci. I commensali erano
tutti ancora all’antipasto.
«Sanem, devi ridarmi l’anello. Non puoi tenerlo!»
Lei impallidì, non le aveva detto lui che doveva fingere di essere
fidanzata per reggergli il gioco?
«Ma non posso! C’è Osman e il signor Can… e arriverà Fabbri che pensa
che io stia col signor Can!»
«Sanem, non possiamo discutere. Non c’è tempo. Devi darmelo subito.»
Quell’uomo sarebbe stato la sua rovina. Ormai, però, era coinvolta.
«Non le do nulla se non mi spiega il perché.»
«Quello era l’anello di fidanzamento destinato ad Aylin, la mia fidanzata.
Stiamo ancora insieme, anche se la mia famiglia non lo sa. Se lei lo vede
addosso a te è la fine!»
Sanem spalancò gli occhi: quello era l’anello di Aylin? Di fidanzamento?
E lei lo aveva…
Sottratto. Preso. Usurpato. Rubato. A una dark lady dallo sguardo
spaventoso.
«Non ho parole» disse. «Come ha potuto coinvolgermi in una cosa
simile?»
Se lo sfilò e lo mise con rabbia nella mano di Emre. «Non posso più
aiutarla, non mi chieda altro.»
La situazione, al pranzo, precipitò del tutto quando arrivò Fabbri. Sanem
si alzò di scatto dal proprio tavolo, diede uno spintone a Deren e prese il suo
posto al tavolo con Can, che per l’italiano era il suo fidanzato. Il direttore
creativo quasi cadde a terra. «L’altra, io ti licenzio!»
Quando Fabbri le si avvicinò, Sanem nascose la mano per non
stringergliela e celare l’assenza dell’anello (l’anello di Aylin, seduta a
pochi metri da te. Occhio, Sanem!) «Ho mangiato le polpette con le mani.
Sono tutte unte» si giustificò, intercettando lo sguardo torvo di Deren, quello
spaventato di CeyCey e quello divertito di Can. «Ed eccomi qui, col mio
fidanzato Can!»
«Lei mi sorprende sempre, Sanem.»
Quando poi Fabbri si allontanò per fare una telefonata, mentre Deren
lanciava a Sanem occhiate di fuoco, Can si alzò, gettò il tovagliolo sulla
sedia e le si avvicinò. «Parliamo un attimo, Sanem. Vieni con me.»
Si spostarono dalla zona pranzo fino a raggiungere un muro di ortensie
rosa, blu e violette. Sanem ne rimase rapita. Can invece era esasperato.
«Non mi importa niente di Fabbri e di quello che crede lui» le disse.
«Non vivo per i soldi, Sanem. Ormai dovresti averlo capito. Smettiamola
con questa recita del fidanzamento.»
Non gli importa niente del cliente. E tu ti sei introdotta di nuovo nel suo
ufficio a rubare le foto.
Sanem si chiese quale fosse la verità. E se c’era una verità; forse c’era
quella di Emre e quella di Can. Forse bastava che si parlassero.
Per Can, Sanem era l’enigma più complicato che avesse mai incontrato.
Questo lo affascinava, ma lo faceva sentire sempre in pericolo. Avrebbe
voluto averla vicina e non si trattenne.
«Resta con me» aggiunse sottovoce, «ma solo se lo desideri.»
La vide scuotersi, arrossire, abbassare gli occhi. “Sto diventando pazzo”
pensò. “Un attimo credo che mi voglia e quello dopo…” La vide cercare un
punto di fuga tra i colori dei fiori, verso il cielo. E poi lo guardò con gli
stessi occhi della notte al rifugio. Le sue parole lo scossero.
«Dimmi di andare e vado, dimmi di restare e resto.»
Era lì, davanti a lui, inerme. Chiedeva se andare via o restare con lui.
“Resta” voleva dirle Can. Poi però il pensiero che fosse fidanzata tornò a
tormentarlo. Non poteva essere così scorretto, così squallido da portare via
la ragazza a un altro, seduto a pochi metri da loro. Non ci avrebbe neanche
provato.
Si ricompose e cercò di controllarsi: «Vai. Osman ti aspetta».
Sanem sentì le lacrime che arrivavano veloci, ma le rimandò indietro. Era
tutta colpa sua, alla fine.
Ne era consapevole, ma non immaginava il danno che di lì a poco
avrebbe procurato a Can.
Emre aveva fotografato tutta la campagna di cui Sanem era protagonista
per tenerla nel suo telefono e usarla come eventuale ispirazione in futuro. E
per soddisfare Aylin, che aveva chiesto di vederla.
Aylin, però, proprio al campus, prima di cena, mentre il suo uomo stava
facendo la doccia, avrebbe rubato tutto. Ogni singolo scatto. E non per
copiare le sue idee.
Per vendicarsi aveva pensato a qualcosa di molto peggio.
I peccati vanno lavati via con un bagnoschiuma al pepe rosa

Aylin alzò al cielo la sua tazza di caffè americano mentre il telegiornale dava
la notizia che stava aspettando: il famoso fotografo Can Divit era stato
accusato di plagio.
«L’idea della campagna pubblicitaria per le pari opportunità nel mondo
del lavoro del noto fotoreporter turco è identica a un progetto sullo stesso
tema, realizzato qualche anno fa da un anonimo blogger» spiegava il
conduttore e Aylin, stesa sul suo letto, sorrideva con fierezza senza farsi
vedere da Emre. Lui, accanto a lei, a sua volta aveva appena appreso la
notizia ed era sconvolto.
«Aylin, per caso tu c’entri qualcosa?»
«Ma assolutamente no!»
«Quelle foto erano nel mio telefono, Aylin!»
«Secondo te potrei fare una cosa così orribile e mentirti?»
Certo che poteva. E intanto ripercorreva, autocompiacendosi, il perfetto
piano che aveva architettato. La parte più difficile era stata prendere gli
scatti dei bozzetti della campagna proprio dal cellulare di Emre. Trovare un
grafico – ne conosceva fin troppi - che trasformasse il viso di Sanem in
quello di un’altra ragazza era stato facile. Più macchinoso invece era stato
agganciare un hacker che creasse dal nulla un blog realistico e pubblicasse
le immagini pre-datandole di almeno un anno. Ma per fortuna, a quello ci
aveva pensato il suo fedele collaboratore Hilmi, un mediocre e occhialuto
copywriter che aveva, come lei, un conto in sospeso con la Fikri Harika e
Aziz Divit. Hilmi era stato uno stagista dell’agenzia e Aylin lo ricordava
bene. Quando il suo contratto si era concluso, lo stesso Aziz aveva
provveduto a spiegargli i motivi per i quali non era portato per il mondo
della pubblicità. Distruggendo, non a torto, i suoi sogni e rendendolo allo
stesso tempo un perfetto alleato per una nemica dell’agenzia: Hilmi non
aveva alcuna vena creativa ma era dotato di astio da vendere e questo lo
rendeva un ottimo soldato.
L’unica cosa che in quel momento appannava i pensieri felici che stavano
facendo volare Aylin era il timore di come Emre avrebbe reagito nel
momento in cui avesse scoperto che era stata lei a distruggere la carriera del
fratello. Ma, d’altronde, era stato lui ad assecondarla, con la complicità
della soggiogabile Sanem, quando lei gli aveva chiesto di mostrarle in
anteprima le foto della campagna. E poco sarebbe importato, se le cose si
fossero messe male, che Emre non era a conoscenza delle sue vere
intenzioni. La realtà dei fatti e il contratto che gli aveva fatto firmare
avrebbero dimostrato che lui era suo complice. Suo socio. Con questa
consapevolezza Aylin si alzò dal letto e andò a farsi una doccia: “I peccati
vanno lavati via con un bagnoschiuma al pepe rosa” pensò. “E non ne rimane
traccia.”
Intanto Sanem aveva avuto una crisi, dopo il campus. Aveva parlato con
Osman, che si era accorto di come guardava il signor Can.
«Sanem, non perdere l’occasione di essere felice. Se non gli dici quello
che provi, rischi di pentirtene per tutta la vita.»
«Stai parlando di me o di te?» aveva chiesto lei, pensando a Leyla. E poi
aveva deciso.
“Gli dirò tutto. Gli dirò che… gli ho mentito, che non sono fidanzata. Che
voglio restare, anche se mi ha detto di andare.”
Non poteva più aspettare, doveva prendere in mano la situazione e dare
una svolta alla sua vita, così decise che si sarebbe presentata a casa sua la
mattina seguente.
Can era sul divano con il primo tè della giornata quando d’improvviso
sentì suonare il campanello. Aprì la porta a quella visita inaspettata.
«Sanem!»
L’accolse con un tono sorpreso, ma la sua espressione svelava molto di
più.
«Devo parlarle» disse lei, seguendolo in casa.
Lo smartphone vibrava senza sosta sul tavolo da pranzo, appena dietro di
lui. Can non fece in tempo a rispondere alla chiamata di Güliz quando anche
il telefono di casa cominciò a squillare. Era Deren e la sua voce era rotta.
«Can accendi la tv, metti il telegiornale. È importante.»
Sanem era con lui quando si sintonizzò sul notiziario. E quello che
sentirono sconvolse entrambi.

Poche ore dopo, decine di giornalisti erano ammassati all’ingresso del


grattacielo che ospitava gli ultramoderni uffici della Fikri Harika, mentre
Can era chiuso nella sua stanza dove si era catapultato senza dare corda alla
stampa, affamata di dichiarazioni esclusive.
Insieme a lui Metin ed Emre stavano cercando di capire cosa fosse
successo. Can aveva gli occhi fissi sullo schermo del computer e stava
scorrendo il blog incriminato.
«La situazione mi pare chiara. Questa campagna è uguale alla mia: stesso
stile, stesse immagini, stesso slogan» pensava ad alta voce. «Qualcuno deve
aver avuto accesso al mio progetto, lo ha copiato e lo ha messo online pre-
datandolo. Non è una cosa poi così complicata da fare per chi sa come
muoversi su internet.»
«Scopriremo chi è il responsabile e dimostreremo che quel progetto è
tuo.» Emre cercò di far sentire la propria vicinanza al fratello. Lo vedeva
impotente, per la prima volta. E questo ispirava il suo istinto protettivo. La
parte più recondita di sé, poi, era perfettamente consapevole che era tutta
colpa sua.
«Ci vorranno mesi per risalire al colpevole e per dimostrare la mia
innocenza. Ormai la mia reputazione è rovinata. Qualcuno è riuscito a
ottenere ciò che voleva.»
“Aylin!” Emre avrebbe voluto gridare il suo nome ad alta voce ma si
trattenne. Non voleva credere che fosse stata lei eppure, nella sua testa, la
cronologia di quello che era accaduto gli sembrava estremamente chiara.
Le sue riflessioni vennero messe in pausa dall’ingresso di Sanem e Deren
nella stanza. La prima porse un tè al suo capo, la seconda sembrava stesse
per piangere, avrebbe voluto abbracciare Can, ma non poteva.
«Can devi parlare con la stampa e con i clienti, altrimenti li perderemo»
disse la donna, tirando fuori a fatica la sua parte più professionale. «Non
puoi startene in silenzio, devi chiarire la situazione. Tu sei il volto
dell’agenzia, ci rappresenti e sei accusato di plagio.»
«Non ho l’obbligo di fare nulla, Deren. Lo dirò a voi una volta e per tutte:
non sono tenuto a spiegare niente a nessuno. Né ai nostri clienti né alla
stampa. Chi non vuole credermi se ne può anche andare.»
Deren non rimase stupita dalle parole di Can. Lo conosceva: non si
sarebbe mai giustificato per qualcosa che non aveva fatto.
«Can, io non riesco a capire» la direttrice creativa ora aveva un tono più
indulgente, «non hai voluto far vedere neanche a me quelle foto, chi può
averle rubate?»
«Sicuramente un dipendente» sentenziò Can. «Le stampe di quella
campagna erano nel mio ufficio. La cartella con tutte le foto che ho scattato a
Sanem sul mio computer.»
“Sanem. La tua ossessione. La donna che prendi e porti via chissà dove,
come non hai mai fatto con me” pensò Deren con un fremito di rabbia.
«Effettivamente qualche giorno fa L’altra… cioè, Sanem, era nel tuo
ufficio. Una strana coincidenza, non credi?»
Can non poté sopportare quell’accusa. “Sanem, la Sanem che si è
addormentata ballando tra le mie braccia? Impossibile” pensò.
«Deren, ma cosa stai dicendo? Che motivo avrebbe avuto di spiare tra le
mie cose? Restiamo lucidi, per favore. Sanem, piuttosto, tu hai notato
atteggiamenti sospetti di qualcuno in ufficio?» la guardò come se volesse
chiederle scusa da parte di Deren.
«Signor Can….» Sanem percepì il pallore del proprio viso. La sua testa
intanto non si dava pace ripensando a quando si era introdotta nell’ufficio di
Can per prendere gli scatti che la immortalavano mentre fingeva di saper
fare mille mestieri e gli appunti per la campagna.. Era stata obbligata da
Emre, di nuovo.
“Sono stata io a prendere le foto dal suo ufficio. Le ho date a suo fratello.
Non so poi cosa sia successo. Io non volevo farle del male… non le farei
mai del male” avrebbe voluto confessare Sanem, ma le parole le si
fermarono in gola. Lo sguardo rabbioso di Emre le ridusse in mille pezzi
pungenti come frammenti di vetro. Aveva la sensazione che una di quelle
schegge le avrebbe tagliato le corde vocali. Pensava di non essere in grado
di parlare, ma con uno sforzo immenso ci riuscì.
«No, signor Can, non ho notato atteggiamenti ambigui.»
Il fotografo sbatté un pugno sul tavolo. «Vorrei stare da solo. Vi prego,
uscite.»
Per il resto della giornata Emre rimase chiuso nel suo ufficio, senza
smettere di sorvegliare suo fratello con la coda dell’occhio attraverso le
vetrate: aveva lo sguardo fisso nel vuoto e giocherellava con i sassolini
antistress che aveva sempre con sé. Suo fratello Can, il viaggiatore solitario,
non gli era mai sembrato così solo. Disperato. Doveva scoprire a tutti i costi
cosa fosse successo, se davvero Aylin era stata tanto vile da sottrargli le
immagini e gli appunti della campagna che aveva fatto rubare a Sanem.
Aylin probabilmente si era impossessata degli scatti, quando lui… forse
al campus motivazionale… “Quando ero sotto la doccia!”
Questa volta l’aveva fatta grossa. Le cose dovevano cambiare. La
crociata di Aylin contro la Fikri Harika doveva finire lì. E anche la sua. I
suoi pensieri si spezzarono all’improvviso.
«È stato lei a mettere in rete le foto di Can?» Sanem irruppe come una
furia nella stanza di Emre, sovrappensiero, facendolo sussultare.
«Sanem, abbassa la voce. Potrebbero sentirti.» Davanti a sé aveva una
maschera di rabbia. Gli occhi della ragazza fiammeggiavano.
«Non mi interessa di chi ci può sentire. Che sappiano tutti quello che ha
fatto. Cosa mi ha costretta a fare inventando solo bugie! Can voleva più
clienti per vendere la società e mandare tutti a casa? Si ricorda come si è
comportato al party di Fabbri, il proprietario di una multinazionale? Non ha
esitato ad andare via senza neanche quasi parlarci. Mi dica, secondo lei si
comporta così una persona che vuole accalappiare collaborazioni
importanti?»
«Sanem, calmati!» Emre sapeva che lei avrebbe scoperto prima o poi il
suo gioco ma non pensava sarebbe accaduto così presto.
«Intendeva solo colpire suo fratello e mi ha coinvolto. Ora voglio
immediatamente sapere che cosa ha fatto con quelle foto. A chi le ha date?»
«Non le ho date a nessuno!» Emre per una volta le stava dicendo la
verità. «Can non mi ha fatto vedere quegli scatti. Ne parlava entusiasta. La
mia era solo curiosità.»
“Sì, ma quella di Aylin?” Emre non nominò la sua amante, consapevole
che Sanem non avrebbe creduto più a niente.
«Signor Emre… da questo momento non conti più sul mio appoggio.
Preferisco fare il più umile dei lavori che avere a che fare con un uomo
come lei.»
Sanem uscì dalla stanza. Il giovane Divit aveva perso un’alleata e ora
aveva come nemica una donna innamorata.
Dopo lo scontro con Emre, Sanem era fuori di sé. Nel tentativo di calmarsi
decise di prepararsi un tè e di portarne una tazza anche a Can, ma, proprio
mentre stava versando l’acqua nel çaydanlık elettrico dell’agenzia, vide
Metin: a passi lunghi e nervosi si dirigeva di nuovo verso l’ufficio del capo
che aveva lasciato meno di un’ora prima.
«Can, ho provato a chiamarti ma hai il telefono spento.» Metin aveva
chiuso alle sue spalle la porta trasparente, uno scudo che da tutto il giorno
proteggeva il migliore amico dal resto del mondo. Sanem si avvicinò
silenziosamente alla fortezza di cristallo del suo ex re malvagio – Sanem,
non è un re malvagio ma un principe gentile – nel tentativo di capire cosa
stesse succedendo. Notò l’aria grave di Metin e l’espressione di Can.
«Ci sono problemi dall’estero, l’International Photographers Association
ti ha sospeso. Il reportage in Cambogia non verrà pubblicato e neanche il
lavoro sui rifugiati. Molti altri progetti che avevi in cantiere saranno
momentaneamente sospesi, almeno fino alla fine dell’istruttoria.»
Sanem non riusciva a sentire chiaramente le parole dell’avvocato ma
percepì, quasi fisicamente, il dolore che in quel momento Can stava
provando. Era scritto sul suo viso. Ogni frase di Metin era una freccia dritta
nel petto per Can. “Nel suo petto e nel mio.”
Poi lui reagì. «Metin, ti rendi conto? Mi stanno portando via le uniche
cose che per me contano davvero al mondo. Qui c’è in gioco tutta la mia
vita!»
«Can, calmati» Emre, allertato dal tono di voce del fratello che
rimbombava per tutta l’agenzia, si era precipitato nel suo ufficio. «Non sei
solo. Sei a capo di una società. Apriranno un’istruttoria, oltre a Metin tutti i
nostri legali saranno a tua disposizione.»
“A capo di una società…” quelle parole risuonarono alle orecchie di Can
come una beffa. Se non avesse ceduto alla richiesta del padre, se non avesse
accettato di prendere il posto di Aziz alla Fikri Harika, non avrebbe
rischiato di perdere tutto.
«Emre, qui non stiamo parlando dell’azienda. Stiamo parlando della mia
vita! Io non volevo dirigere questa agenzia. È stato papà a chiedermelo, a
pregarmi di farlo!»
Can si rese conto che, senza volerlo, stava parlando a suo fratello con
aria minacciosa, come se, e per un istante ne fu davvero convinto, fosse lui il
colpevole di tutto, dal basso della sua inadeguatezza che aveva costretto
Aziz a chiedergli di prendere il suo posto. Prima che la sua rabbia
degenerasse, Can prese la giacca e se ne andò. Pentendosi immediatamente
dei suoi gesti e del pensiero che gli aveva attraversato la mente.
Tutti i ragazzi della Fikri Harika avevano assistito impotenti al terribile
spettacolo. Nessuno poteva far finta di niente. Vedere un uomo come Can
Divit in preda a quel violento sconforto era stato uno shock per ognuno di
loro. Deren si era chiusa nel suo ufficio in lacrime; essere una testimone
oculare del suo crollo emotivo faceva sentire più fragile anche lei. CeyCey
si era seduto in silenzio alla sua postazione, cercando conforto come sempre
nello sguardo allegro di Güliz, ma anche i suoi occhi erano lucidi. Sanem era
stata l’unica a non rimanere immobile. Si sentiva colpevole, ma non
accettava di essere impotente: doveva fare qualcosa. Doveva trovare un
modo per aiutare Can. Fece mente locale: le serviva qualcuno cha sapeva
muoversi su internet, una persona di fiducia. Ma chi conosceva? “Be’,
Ayhan!” Prese il telefono e la chiamò.
«Sanem!»
«Ayhan, meno male che mi hai risposto, ho bisogno del tuo aiuto, è
successa una cosa terribile!»
Era bello per Sanem sentire la sua voce. Voce di casa. Di famiglia.
S’impose di non piangere.
«Non so se hai visto il telegiornale, ma il signor Can è stato accusato di
plagio. Io devo scoprire la verità perché qualcuno ha copiato le sue foto e le
ha messe su un blog pre-datandole, ma non è un sito vero. Non può essere!
Tu sei brava con internet, il tuo sito di coaching l’hai fatto tutto da sola…
secondo te si può scoprire chi ha messo online quelle foto?»
«Sanem, calmati! Prendi fiato. La questione è complicata. Serve un
hacker, un esperto di dark web. Io non saprei da dove iniziare…»
«Cos’è il dark web?»
«Il lato oscuro di internet. È come se fosse un universo digitale a parte: è
lì che navigano quelli che clonano i dati delle persone, le carte di credito e
così via.»
Sanem implorò l’amica: «Ti prego Ayhan, aiutami».
«Ma sorellina, da sola non posso riuscirci!»
A quel punto a Sanem venne un’idea: se c’era una persona che poteva
aiutare Ayhan a salvare il buon nome della Fikri Harika, quella era CeyCey.
La paura di essere licenziato e di vedere l’agenzia fallire sotto i suoi occhi
sicuramente l’avrebbe spronato a cercare l’hacker.
«Ayhan, segnati questo numero di telefono: è del mio collega CeyCey.
Vedrai che in lui troverai il perfetto alleato per questa missione.»
Non sono di solito i principi che salvano le principesse
affrontando distese di rovi e draghi?

Can era sparito ormai da ore. Irreperibile. Introvabile. Per chi lo conosceva,
questa non era una novità. Era fatto così: fin da bambino doveva pensare in
solitudine ai problemi prima di affrontarli, quando era pronto, di petto, che
si trattasse di un brutto voto a scuola o di una punizione ricevuta dal padre
che reputava ingiusta. Era stato per questo che anni prima Aziz, al fine di
evitare che il figlio si rintanasse chissà dove, aveva deciso di fargli
costruire un nascondiglio su un albero del giardino della villa, dotato anche
di fornelletto da campeggio e scatolame di cibo vario.
Sanem non sapeva nulla della casa sull’albero, di cui nel giardino dei
Divit non c’era più traccia, ma immaginava dove poteva essersi nascosto
Can. Così, quando Metin le chiese aiuto per cercarlo, dicendole che
l’associazione dei fotografi, pur non riuscendo a contattarlo, aveva
predisposto un colloquio per chiarire la situazione con lui e dargli la
possibilità di difendersi dall’accusa di plagio, non aveva avuto dubbi:
avrebbe dovuto raggiungere Can al rifugio. Il rifugio del re malvagio che
non è mai stato malvagio, aggiunse l’altra Sanem.
E invece si sbagliava. Lui non era lì. E la voce interiore l’attaccava senza
fermarsi un attimo.
Sanem, dici tanto di conoscere bene il signor Can, ma non sai niente di
lui!
«Continuerò a cercare! Sono sicura che sia qui, da qualche parte. Dove
altro può essere?»
Ovunque, mia cara. Non vedi che si sta facendo buio? Dove credi di
andare?
Il sole stava effettivamente calando e la strada semi pedonale che
circondava il bosco si stava svuotando. Tutte le persone che si erano
regalate una giornata nella natura stavano andando verso l’uscita. Sanem era
l’unica che camminava controcorrente.
«Scusate, un’informazione» Sanem fermò d’improvviso una coppia, «per
caso avete incrociato un uomo alto, possente, con un tatuaggio sul petto…?»
Ma che descrizioni assurde fai?
«No signorina, ci dispiace. Stia attenta però che con il buio qui diventa
pericoloso. Conviene che inizi a incamminarsi verso l’uscita, il suo amico
sarà lì che l’aspetta!»
Vedi? È pericoloso. Lo dicono pure loro.
Ma era certa di aver visto qualcosa. Eccola! La macchina di Can! Lui
dev’essere da queste parti, nel bosco.
Sanem adorava i boschi. I pomeriggi trascorsi con la nonna a raccogliere
i fiori per creare nuove essenze erano tra i ricordi della sua infanzia che più
le erano cari, ma in un bosco da sola, al calar del sole, non ci era mai
entrata. Aveva paura: serpenti, animali feroci, lupi mannari. La sua testa
faceva l’elenco di tutte le spaventose creature, reali o meno, che avrebbe
potuto incontrare, ma sapeva bene che i suoi timori andavano superati per…
per amore? – Amore, Sanem. L’hai pensato. Ti ho sentita. Sei innamorata! –
o, meglio, per il bene del signor Can. Prese un ramo secco da terra e come
una spada sguainata lo teneva in mano.
Ma non sono di solito i principi che salvano le principesse affrontando
distese di rovi e draghi?
«Forse un tempo, cara altra Sanem. Oggi le principesse hanno un GPS per
andare ovunque, e i rovi li evitano» disse ad alta voce, e poi tentò di
scacciare l’altra onnipresente se stessa con un gesto della mano, come fosse
un fastidioso insetto. A un certo punto sentì una presenza dietro di lei.
Un orso?! Un lupo? Un serial killer?
«Chi c’è?» urlò.
«Sanem, sono io. Sono Can!» Sentendo la voce del capo, abbassò le
difese «Ma che ci fai qui? È pericoloso girare per i boschi a quest’ora.»
«Signor Can, io so perfettamente badare a me stessa. Pensi che ho messo
in fuga ben due serpenti. Proprio pochi secondi fa.»
Ma che dici?! Non è vero!
«Sanem, so benissimo che sai badare a te stessa ma… perché sei qui?»
Can ammorbidì i toni, guardando il viso di Sanem spaventato ma sempre
fiero, illuminato dalla luna.
«È tutto il giorno che l’associazione dei fotografi la cerca. Domani ha un
colloquio per… per chiarire la questione di quelle foto. Metin, Deren, Güliz
e anche suo fratello Emre hanno provato a chiamarla, ma lei era
irraggiungibile e quindi sono venuta io a cercarla. Ero certa fosse al
rifugio.»
Can rimase di sasso. Sanem aveva fatto tutto questo per lui, che era
scappato non solo per riflettere su come risolvere l’accusa di plagio, ma
anche per pensare a lei. Al fatto che bruciasse di gelosia per Osman. Al fatto
che lei era andata a casa sua, dopo il campus.
«Sanem ma stai tremando! Vieni qui, non ho il tè ma ho preparato una
tisana di tiglio» Can scansò l’immagine di Osman abbracciato a Sanem e
invitò la sua inaspettata ospite a sedersi vicino al fuoco che aveva acceso
davanti alla tenda, utile e fedele compagna di viaggio con cui aveva girato il
mondo.
«Grazie Signor Can, la tisana di tiglio deve essere buonissima.» Sanem si
accomodò e nel guardarsi intorno, stavolta senza timore di essere assalita da
animali selvatici, si soffermò sulle mani di lui che giocherellavano, come
sempre, con quelle che a lei sembravano delle semplici pietre: «Posso farle
una domanda?»
«Certo, Sanem.»
«Cosa sono quelle pietre con cui gioca sempre?»
Can sorrise e il suo sguardo intercettò un raggio di luna.
«Sono pietre lunari. Anni fa, nello Sri Lanka, caddi da una rupe per
scattare una foto e un’anziana del luogo mi curò e me le regalò. Come vedi,
una pietra è chiara e una è scura: rispecchiano i due lati della luna, ma anche
delle persone. Quello più chiaro è quello che tutti vedono; quello scuro è
quello più fragile e segreto. Solo chi ti guarda con amore vede il tuo lato più
luminoso.»
A Sanem venne da piangere, ricordando quella frase, la stessa frase che
le aveva detto suo padre, dopo il bacio a teatro, nella notte in cui lei non
sarebbe mai riuscita a dormire.
«Tutto bene, Sanem?» chiese Can.
«Sì… sì.»
«Sai, si dice che queste pietre proteggano i viaggiatori… e che siano un
ottimo antistress!»
Sanem controllò la sua commozione: lui l’aveva rapita, come la luce
della luna.
«Signor Can, si è fatto tardi. È ora di andare o mia madre mi ucciderà.»
O meglio, ci farà a pezzetti per poi impastarci come kofte!
«Sanem a quest’ora è pericoloso muoversi da qui. Finiamo la tisana e poi
andremo a letto.»
“A letto?!”
«A letto? Ma signor Can… cosa dice?» sussultò Sanem.
«Intendevo dire che tu puoi dormire nella tenda, io mi arrangerò qui
fuori.»
“Ahhhhh!”
«Ma… io ho paura. In tenda. Da sola… Sa, gli animali feroci…»
Lui sorrise di nuovo, ma Sanem percepì un’ombra di tristezza. La
faccenda della licenza fotografica lo aveva distrutto.
«Facciamo così. Ti metto qui fuori il sacco a pelo, così non sarai sola. Ci
sarò io a fare la guardia.»
Mentre Can sistemava il letto di Sanem per la notte, creando dal nulla una
comoda alcova con cuscini fatti di vestiti e coperte, lei mandò un messaggio
alla sorella, dicendo che avrebbe dormito da Ayhan. Ormai si era
specializzata nel dire bugie, le scongelava e le metteva nel microonde:
pronte in pochi minuti.
Si infilò nel sacco a pelo e vedendo Can così distante da lei, steso su una
piccola stuoia, non poté fare a meno di…
«Signor Can, appoggi almeno la testa qui vicino a me» e gli porse un lato
del suo cuscino.
«Non preoccuparti, non ho sonno.»
Se vi annoiate, potete contare le stelle.
«Se ci annoiamo, possiamo contare le stelle.»
Can sorrise, di nuovo.
«Stia tranquillo» gli disse Sanem. «Si risolverà tutto. Lei è un
professionista che il mondo non può permettersi di perdere neanche per un
giorno.»
«Grazie, Sanem» si alzò e le si avvicinò. Si sentì a casa.
«Si risolverà tutto» ripeté. Non ne era convinta, ma le piaceva dirlo. Lui
non rispose, ma si stese accanto a lei e accettò quel pezzetto di cuscino che
gli aveva offerto.
Contarono insieme le stelle. Era la prima volta che Sanem dormiva con un
uomo.
Eterni secondi

“Girare a destra tra duecento metri” la voce del navigatore avvertì Emre che
era quasi arrivato a destinazione. Con l’aiuto di Metin, era riuscito a trovare
l’indirizzo di chi aveva creato il blog su cui erano state pubblicate le foto
clone del servizio di Can. Il GPS lo aveva portato ai bordi della città, in una
delle zone più popolari e fatiscenti di Istanbul, tra vicoli tutti uguali che
avevano in comune anche l’intenso profumo di uova e spezie, tipico del
menemen che probabilmente, data l’ora, nelle case le famiglie stavano
gustando a colazione. Sceso dalla sua auto sportiva rosso rubino, che aveva
attratto l’attenzione di tutti i pochi passanti, Emre trovò un’inaspettata
sorpresa. Una figura per lui ben riconoscibile, fosse solo per l’originalità
dei vestiti che indossava, stava uscendo dal piccolo portone scorticato, che
un tempo doveva essere stato di un bel verde acceso, lo stesso in cui Emre
sarebbe dovuto entrare.
«CeyCey cosa ci fai qui?»
Lo stagista era in compagnia di una ragazza. Volto fiero e aria impettita,
vestita in uno stile hipster e colorato proprio come quello di CeyCey.
Indossava anche un paio di bretelle.
«Signor Emre! Sono qui in missione super segretissima! Ho trovato
l’hacker!»
Ayhan, al suono di quelle parole, gli diede una gomitata.
Emre capì che doveva conquistarne la fiducia.
«Piacere» le porse la mano. «Io sono Emre… Emre Divit. Il fratello di
Can e sono qui per il vostro stesso motivo. Avete scoperto qualcosa?»
Ayhan sapeva benissimo chi fosse Emre, Sanem le aveva parlato di lui
più volte, e si rifiutò di rispondere al gesto di cortesia. «Io sono Ayhan. La
migliore amica di Sanem.»
“Sanem.” In un attimo Emre ebbe tutto chiaro.
Il gelo tra Emre e Ayhan fu sciolto dalla voce squillante di CeyCey.
«Abbiamo trovato chi ha pubblicato le foto, ma il vero colpevole non è lui.
C’è stato un mandante e siamo riusciti a farci dare nome e indirizzo».
Ayhan e CeyCey, messi in contatto da Sanem, avevano fatto il loro lavoro
di investigazione la sera prima. Proprio mentre l’amica stava trascorrendo la
sua notte da sogno con Can, i due si erano incontrati la prima volta
all’ingresso del grattacielo della Fikri Harika e a creare immediata empatia
tra loro era stato un dettaglio che li accomunava:
«Che belle bretelle! Dove le compri?» era stata la prima cosa che
CeyCey aveva detto ad Ayhan, dopo essersi timidamente presentato.
«Le prendo all’emporio egiziano, le hanno di tutti i colori» le aveva
risposto lei, «e comunque anche le tue sono belle e in generale mi piace
molto il tuo look, è davvero stiloso!» Per CeyCey, che da quando era
bambino si cuciva da solo i vestiti, non esisteva complimento più gradito.
Finite le presentazioni, Ayhan e un timoroso CeyCey si erano incamminati
verso uno dei quartieri più pericolosi della città per incontrare un esperto di
dark web, un tale Falco Nero, che la stessa mental coach aveva trovato su
internet e che, a sorpresa – e nonostante le paure del suo compagno
d’avventura, terrorizzato all’idea di ritrovarsi davanti un pericoloso
criminale della rete – avevano scoperto essere un ragazzino di soli sedici
anni. Era stato lui a trovare l’indirizzo preciso dell’hacker che aveva creato
il blog con cui gli investigatori improvvisati erano riusciti a parlare poco
prima del fortuito incontro con Emre. In particolare Ayhan, con il suo fare
persuasivo e al netto di qualche studiata minaccia di chiamare la polizia, era
riuscita a farsi raccontare la verità: era stato un certo Hilmi a pagare
l’hacker, per rovinare la reputazione di Can Divit.
Ayhan era molto felice di aver portato a termine la missione con un
alleato come CeyCey, così simile a lei e così…“carino!”, ma l’incontro con
il fratello di Can, dopo le confidenze di Sanem sul suo conto, le aveva
rovinato la giornata.
«CeyCey! Ma non avevi detto che la missione era super segretissima!»
saltò su Ayhan.
«Ma lui è il mio capo. Il fratello di Can.»
«Non importa, tu sei qui perché Sanem ti ha chiesto di darmi una mano.
Sanem, capito? Nessun altro.» Ayhan lo minacciava con il suo indice, ma lo
faceva con una tale convinzione che CeyCey ne era terrorizzato, come se
avesse in mano un coltello affilato. Emre in un altro momento sarebbe
rimasto per ore a godersi la scena, quei due sembravano anime gemelle e già
battibeccavano come fidanzati, ma non c’era tempo. Decise quindi di puntare
sull’anello debole di quel duo di surreali 007. «CeyCey, potresti darmi per
favore l’indirizzo che avete recuperato? Sei stato bravissimo. Ma da adesso
in poi mi occuperò io della cosa.»
Davanti al complimento del boss, CeyCey cedette e diede al capo ciò che
gli aveva chiesto mentre Ayhan, senza farsi vedere, prese in mano il suo
telefono e scrisse a Sanem un messaggio. Quando Emre, risalito nella sua
lussuosa macchina si allontanò, lo sguardo arrabbiato di Ayhan fece sentire
CeyCey subito in colpa, come se l’avesse tradita.
Fin dal primo momento in cui l’aveva vista, anche se era successo solo
una manciata di ore prima, CeyCey aveva riconosciuto in lei qualcosa di
familiare, un’unicità rara che la rendeva la persona più simile a lui che
avesse mai incontrato. Ciò che sentiva ovviamente gli metteva ansia: era
qualcosa di doloroso e spettacolare come un colpo di fulmine in pieno cuore.

Nel frattempo Sanem, reduce dalla notte nel bosco, stava salendo su un taxi
diretto all’indirizzo che Ayhan le aveva mandato tramite il messaggio fugace
scritto pochi istanti prima, pronta ad affrontare chiunque si fosse trovata
davanti per difendere l’onore di Can che lei stessa, lasciandosi intrappolare
dai giochetti di Emre, aveva contribuito a scalfire giorno dopo giorno. Ma,
giunta a destinazione, Sanem vide arrivare Emre.
«Sanem, cosa ci fai qui?» Nel vederla, si stupì per un attimo, ma poi fece
mente locale ripensando all’incontro con CeyCey e… “Ayhan!”
«Sono qui per il signor Can, per alleviare il mio senso di colpa. Una mia
amica ha scoperto il nome di chi lo ha incastrato» rispose.
«Can ne sarà felice, sta arrivando anche lui. Gli ho appena mandato la
posizione.» Sanem non riusciva neanche a guardarlo.
«Con l’aiuto di Metin ho trovato il colpevole di questa storia e sono qui
per il tuo stesso motivo. Ho commesso tanti errori, troppi. E il più grave è
stato coinvolgerti in battaglie che non ti appartenevano e non avrebbero
dovuto appartenere neanche a me» proseguì Emre.
Sanem non credeva all’improvvisa redenzione di quell’uomo. Non la
convinceva e, senza dire niente, girò le spalle e andò dritta verso la sua
meta.
Un paio di occhi buoni dietro a occhiali grandi e spessi: questo Sanem si
era trovata davanti bussando alla porta che Ayhan le aveva segnalato come
quella del pericoloso mandante della rovina di Can. Era davvero lui Hilmi?
Una specie di orsacchiotto?
«Lei… lei è Hilmi?!?» Sanem non poteva crederci.
«Sì, sono io, lei chi è?
“Chi sono io?” Sanem si sentì ribollire. Chi sei tu? Diglielo chi sei!
«Sono la nemica dell’hacker che ha ingaggiato per distruggere la vita di
Can Divit!»
A quelle parole lo sguardo di Hilmi venne immediatamente offuscato da
un velo di paura. Cercò di chiudere la porta, ma Sanem fece resistenza e non
glielo permise. Hilmi corse dentro casa e si chiuse nella sua camera. Sanem
bussava instancabile mentre Emre la raggiunse.
«Ma che fine aveva fatto?»
«Dovevo parcheggiare la macchina.»
«Ah, faccia pure con comodo…» i pensieri di Sanem ormai non avevano
più filtri, ma Emre fece finta di nulla.
«Che succede?»
«L’ho trovato, è chiuso qui dentro. Si è chiuso a chiave.»
«Apra questa porta!» Emre fece come per sfondarla ma Sanem lo fermò.
Si placò.
«Hilmi, vogliamo solo parlare: perché ce l’ha con il signor Can?»
«Io non lo conosco neanche. Mi hanno obbligato. Sono stato obbligato…»
la voce del ragazzo era rotta dal pianto. Sanem provò un’improvvisa
solidarietà per lui. Non si sentiva migliore.
«Chi l’ha obbligata? Apra!» Hilmi eseguì l’ordine ed Emre, nel
trovarselo davanti, ebbe la sua epifania. Hilmi era “quell’Hilmi”, l’ex
stagista della Fikri Harika, l’assistente che qualche mese prima Aylin aveva
assunto nella propria agenzia.
«Sanem, basta. Sono stato io. L’ho obbligato io.» Emre non voleva che
Sanem scoprisse che era stata Aylin a escogitare tutto. Istinto di protezione?
Amore? Qualcosa di irrazionale dentro di lui lo portò a prendersi la colpa.
Con la fidanzata avrebbe fatto i conti dopo.
La vide arrossire di rabbia. Forse aveva sempre saputo che lui non era
limpido come professava, ma sentirselo dire così…
«Signor Emre, io lo sapevo che non voleva quelle foto solo per
“curiosità”. Che mi aveva mentito ancora. Lei è una persona orribile!»
«Chi ti ha mentito, Sanem?» la voce di Can. Il fotografo, una volta
arrivato all’ingresso spalancato dell’appartamento di Hilmi, era riuscito a
cogliere solo i frammenti finali di una discussione di cui era oggetto.
«Signor Can…» Sanem era finalmente pronta a dirgli tutto, anche a costo
di perderlo. Non poteva continuare con le bugie.
Emre la interruppe. «Lui ha mentito, lui è il colpevole» indicò Hilmi. «Ha
fatto falsificare le foto per farti accusare di plagio. Ora è finita. Chiamo la
polizia.»
Al solo sentir nominare la polizia, Hilmi decise di tentare il tutto e per
tutto e fuggire ma, senza volerlo, per liberarsi un varco, spintonò Sanem, che
sbatté con forza la testa su uno spigolo e cadde a terra priva di sensi. Riuscì
a correre via, inseguito da Emre.
Sanem riaprì gli occhi pochi minuti dopo e pensò alle Mille e una Notte,
alle storie delle principesse salvate in modo epico. Non aveva bisogno di un
uomo per salvarsi, ma lui era lì per lei. Can. Nei suoi occhi scuri e profondi
lesse terrore e poi, subito dopo, sollievo.
«Sanem, stai bene?» La voce era dolce come una ninna nanna e la sua
mano, ferma, vigorosa e delicata al contempo, teneva premuto sulla testa
della ragazza del ghiaccio trovato a casa di Hilmi.
«Sì, sto bene. Mi fa solo un po’male la testa.»
«Mi hai fatto preoccupare» Can la strinse forte e il dolore sparì per un
istante. «Ho avuto paura di perderti. E io non voglio perderti.»
Una lacrima le scese sul viso mentre il suo corpo era stretto nel protettivo
abbraccio di Can. Era una lacrima di commozione. Poi ne scese un’altra:
senso di colpa. E un’altra ancora, accompagnata da un pensiero: “Non mi
merito tutta questa attenzione, dopo quello che ti ho fatto”.
Can non riusciva a staccarsi da lei, ma quando vide Hilmi rientrare in
casa, tenuto stretto per un braccio da Emre che intanto l’aveva raggiunto e
bloccato, la rabbia che provava per quell’uomo lo offuscò. Non gli
importava cosa aveva fatto a lui. Sanem era ferita per colpa sua. Gli si
scaraventò addosso come una furia.
«Avresti potuto ucciderla! Ti rendi conto?!»
Emre cercò di calmare il fratello. «Can, calmati! Ora è tutto finito. È tutto
finito grazie a Sanem. È stata lei a trovarlo.»
Can guardò Sanem, ancora intontita. Lei, di nuovo, lo aveva salvato. Si
calmò. E poi interrogò Hilmi.
«Chi sei? Cosa vuoi da me? Perché vuoi distruggermi?»
«Io non volevo distruggere lei. Volevo distruggere la sua agenzia. Ho fatto
uno stage da voi e poi non sono stato assunto. Volevo vendicarmi.»
Emre ascoltava con attenzione le parole di Hilmi: il copione che gli
aveva dato da seguire, quando lo aveva rincorso poco prima, era perfetto. E
lui si era rivelato un grande attore, lo avrebbe ricompensato come meritava.
La polizia arrivò in pochi minuti. Hilmi venne arrestato, Can stava
parlando con gli agenti e Sanem, ancora dolorante, era seduta su un muretto
in attesa di essere accompagnata a casa, nel suo quartiere. Dove non era tutto
perfetto, ma almeno era autentico. Dove i fratelli e le sorelle litigavano e
facevano pace senza il bisogno di pugnalarsi alle spalle.
Emre si avvicinò e lei, d’istinto, si spostò. Non voleva avere più nulla a
che fare con quell’uomo. Perfido. Bugiardo. Sleale.
«Sanem, come ti senti?» le chiese. Sembrava realmente preoccupato.
«La testa mi fa un po’ male, ma mi fa più male non riuscire a capire
perché ce l’ha tanto con suo fratello.»
Lo sguardo di Emre si perse nei ricordi. Un viaggio nel tempo fatto di
tristi istantanee.
«È una storia lunga. Can è stato sempre il preferito di mio padre;
nonostante le sue fughe, la sua assenza. Io sono sempre venuto in secondo
piano. E ho lavorato tanto… per niente. Non puoi immaginare quanto sia
stato difficile per me vivere da eterno secondo.»
«Invidia? Lei ha fatto tutto questo per invidia?!» Sanem sapeva bene cosa
volesse dire essere eterni secondi. Anche Mevkibe e Nihat parlavano
sempre e solo di Leyla e della sua carriera. Vivevano per la primogenita.
Leyla l’intelligente. Leyla l’orgoglio di casa Aydın. Mai e poi mai, però, lei
avrebbe tentato di fare del male alla sorella per questo. Anzi, anche se non
glielo aveva mai detto, ne era orgogliosissima. Con difficoltà cercò di
comprendere Emre ed era certa che, se avesse parlato con Can, anche lui
avrebbe capito. Lo avrebbe perdonato. Can era forte, sensibile, gentile.
«Signor Emre» Sanem cercò di farlo ragionare, «lei deve parlare con
Can. Gli apra il suo cuore…»
«Tu non conosci Can così bene come credi» rispose lui. «Ha dei saldi
principi. Odia le bugie. Se sapesse quello che ho fatto, mi cancellerebbe
dalla sua vita. E cancellerebbe anche te.»
Sanem decise di non controbattere più. Non ne aveva le forze. Ora
doveva solo decidere: meglio continuare a vivere col peso delle bugie che
aveva detto o rivelare tutto a Can, distruggendo il rapporto tra lui e il
fratello?
Sanem scelse una terza opzione, la più difficile.
Chiedilo alla luna

Si alzò dal letto con la testa ancora dolorante. Neanche lo scorcio delle
Galapagos, con tanto di albatros in volo che Nihat aveva fatto dipingere sette
anni prima su una parete della sua stanza, quando la figlia era alle prese con
l’esame di maturità, riuscì a rasserenarla.
«Supera questa prova e vedrai che da qui in poi il tuo cammino sarà in
discesa e realizzerai i tuoi sogni» le aveva detto il padre.
Mentre svogliatamente cercava di trovare qualcosa da indossare, Sanem
non poteva smettere di ripensare alle ultime parole di Emre, che l’avevano
portata a prendere una decisione drastica: quella di licenziarsi.
E di non vedere più Can.
“Domani me ne andrò; domani lascerò la Fikri Harika e tornerò al
minimarket, o magari Zebercet mi prenderà come commessa nel suo nuovo
negozio di lingerie. Non vedrò più il signor Can, ma starò bene. Passerà.
Quello che provo per lui passerà” si era ripetuta, sola nel buio della sua
stanza, la sera prima. Questa era stata la sua scelta, per evitare Can, per
evitare di dover fare i conti con la realtà.
E per Sanem domani era già oggi. Scelse il look da ultimo giorno: gonna
giallo post-it e camicia a righe bianche e azzurre.
Complimenti! Così sì che sei intonata con la cancelleria dell’ufficio!
L’altra Sanem non sapeva quando era il momento di stare zitta, neanche
nell’ultimo giorno della sua nuova (vecchia!) vita.
Can, che non immaginava i pensieri di Sanem, quella mattina arrivò alla
Fikri Harika di ottimo umore: tutto si era risolto per il meglio, la sua
immagine era stata ripulita in poche ore. Da buon navigatore, aveva sempre
saputo che dopo la tempesta arriva il sereno. Prima o poi. Ma non pensava
tutto sarebbe successo così in fretta. Il coraggio di Sanem aveva riportato il
sole nelle sue giornate. Tutto quello che aveva fatto per lui andava oltre un
semplice sentimento di lealtà nei confronti di un capo; provava qualcosa,
ormai ne era certo. Come lo era di quello che lui provava per lei.
Da quando l’aveva incontrata la prima volta, o meglio, baciata, senza
neanche sapere chi fosse, la voglia di andare via da Istanbul era svanita.
Aveva lasciato il posto al desiderio di stare sempre accanto a quella ragazza
appassionata di cibo, conchiglie, letteratura. Appassionata di vita. La dolce
promessa di un destino diverso da quello che Can aveva sempre immaginato,
proprio come gli amori che arrivano e sconvolgono ogni piano.
Non poteva più aspettare: era arrivato il momento di dichiararsi. Di
combattere contro Osman ad armi pari, in modo leale. Di farsi avanti.
Appena la incrociò, la prese per mano e la portò all’angolo del tè. L’angolo
preferito di Sanem.
«Volevo ringraziarti» esordì, accorgendosi di balbettare.
«Signor Can, non deve ringraziare me. È stata la mia amica Ayhan a
trovare l’hacker, con CeyCey» rispose lei, lasciandogli la mano.
Tu hai solo aiutato suo fratello a rovinargli la vita.
«Ma sei stata tu a chiederle di indagare! Sanem, per anni ho vissuto e
viaggiato da solo, in compagnia della mia macchina fotografica, per cui ho
rinunciato a ogni cosa… e se non fosse venuta fuori la verità sul plagio io
non avrei mai più potuto farmi vedere in giro. Sarei andato via, sparito. Poi
sei arrivata tu… dopo tanto tempo, una persona nuova di cui fidarmi.»
Sanem cercò tutta la sua forza per tenersi ancora dentro la verità. Per Can,
per non distruggere il suo rapporto con Emre. E perché non aveva il coraggio
di deluderlo.
“Non sono una persona di cui fidarsi. Sono la colpevole di tutto.”
Lui si accorse che aveva qualcosa da dire. Da giorni, da quando si era
presentata a casa sua quella mattina dopo il campus.
«C’è qualcosa che vuoi dirmi, lo percepisco. Perché sei venuta da me,
l’altra mattina?»
«Non devo dirle proprio niente, signor Can. Ora mi scusi, ma devo
andare a lavorare.»

Can lasciò che Sanem si mettesse a lavorare, senza insistere ancora.


D’altronde, anche lui aveva da fare: nonostante la Fikri Harika avesse
rallentato, per ovvie ragioni, il flusso di lavoro per soli due giorni, gli
sembrava di avere mesi di questioni arretrate sulla scrivania. Grafiche da
controllare, progetti in entrata da visionare, la riunione imminente della
nuova campagna di Galina da far approvare a Remide, un’anziana ma ancora
inflessibile imprenditrice che collaborava con l’agenzia di Aziz da sempre.
La sua azienda, a conduzione familiare, dopo tanti anni di uova di galline
cresciute in allevamento non intensivo, si stava espandendo in via
pionieristica, esplorando l’universo dei prodotti salutari a chilometro zero:
bevande, snack, merende senza zucchero.
La Fikri Harika e Galina erano due realtà nate e cresciute
contemporaneamente: Can ancora si ricordava quando il padre lo portava
nella fattoria di Remide, che fin da piccolo chiamava zia, uno dei suoi luoghi
del cuore. Forse doveva proprio a quel posto il suo amore per la natura.
Qualche ora dopo, dato l’ok all’ennesimo progetto, Can decise di
prendersi una pausa, solo qualche minuto. Aveva proprio bisogno di un tè e,
mentre metteva l’acqua nel çaydanlık, sentì la voce di Sanem che, seduta sul
divanetto dello spazio relax stava confidando qualcosa a CeyCey. Parlava di
Osman, e Can non poté fare a meno di ascoltare.
«Io e Osman ci siamo lasciati, abbiamo capito che era un errore stare
insieme e che quello che ci legava era solo un grande affetto. Poi in questo
ultimo periodo sono successe tante cose… Al gala della Fikri Harika ho
baciato un uomo, il mio albatros, però poi mi sono innamorata di un altro. Un
ragazzo bellissimo, un principe gentile, che non potrò mai avere.»
«Sanem! Ma che stai dicendo: fidanzato, albatros, principe gentile. Tre
uomini!» CeyCey era sconvolto dalle parole dell’amica, mentre Can, a pochi
passi da loro, aveva avuto la sua conferma.
“È innamorata di me: sono io il principe gentile. E anche l’albatros. Ma
perché non ha il coraggio di dirmelo?” pensò mentre andava verso la sala
riunioni. Aveva smesso di origliare appena in tempo.
«CeyCey…»
«Sanem non voglio sapere più niente! Ti prego! Tre uomini! Hai
addirittura baciato un ragazzo mentre eri fidanzata!»
CeyCey si agitava troppo quando si trattava di segreti da celare, ma
Sanem doveva dirgli la verità. Almeno a lui.
«La verità è che non sono mai stata fidanzata. Era tutta una montatura. Un
giorno ti spiegherò, ma ti prego… per ora tieni questa cosa per te.»
Dopo aver confessato a CeyCey almeno uno dei suoi segreti, Sanem si
sentiva più libera. Poteva licenziarsi, eppure sapeva che non ci sarebbe
riuscita se Can l’avesse guardata come l’aveva guardata all’angolo del tè (e
al rifugio, nell’appartamento di Hilmi, nel bosco, in moto, ad Aǧva, nei
corridoi). Decise che le sue dimissioni sarebbero state a effetto immediato:
avrebbe avvertito con una chiamata a CeyCey l’indomani, direttamente da
casa, mentre nell’imminente futuro il suo unico obiettivo era quello di
rimanere lontana da Can, o non avrebbe potuto portare a termine la sua
decisione: “Chiudere tutto, non vederlo mai più”.
Doveva quindi evitarlo, doveva cercare un posto sicuro dove
nascondersi. L’archivio? No, tutti sapevano che amava andare lì per
concentrarsi. Si guardò intorno e tra uffici dalle mura trasparenti e zone co-
working a vista, la parte dei copywriter, che si trovava esattamente al lato
opposto rispetto all’ufficio dei capi, le sembrò la più sicura. Se si fosse
messa lì, le mezze mura che dividevano la zona dei copywriter da quella dei
grafici l’avrebbero coperta. Inoltre stare in mezzo agli scrittori, gli artisti
della parola, le sarebbe piaciuto. Trovò una sedia libera e, per dissimulare
di essersi posizionata in una parte dell’ufficio in cui la sua presenza era
pressoché inutile, cominciò a chiacchierare con tutti e a dare consigli non
richiesti. I creativi erano presi dalla nuova campagna per un marchio di uova
biologiche di Galina ma non riuscivano a trovare idee.
«Ascoltate questa proposta!» Sanem si sentiva ispirata, pochi minuti tra i
copywriter e già era entrata nel ruolo. «Si potrebbe realizzare un cartellone
con una gallina che vuole dare le dimissioni e che reclama i suoi diritti con
una frase tipo “stop agli allevamenti intensivi o mi licenzio!”.»
L’entusiasmo dei “colleghi” davanti alla sua idea, decisamente
autobiografica, la destabilizzò. Sarebbe stato davvero difficile abbandonare
quella realtà, ma ormai mancava poco alla fine della sua ultima giornata di
lavoro. Doveva solo portare dei documenti nella sala riunioni, e poi sarebbe
potuta andare a casa. Certo, al meeting c’era anche Can, ma sicuramente non
l’avrebbe degnata di uno sguardo, quello sguardo, sarebbe stato preso da
altro. Ne era certa.
Entrò nella stanza, faldoni di documenti alla mano, pronta. E Can invece
non solo la guardò, ma fece anche di più. «Sanem è vero che l’idea della
gallina che dà le dimissioni è tua?»
«Sì, signor Can, ma non è nulla di che.»
«E invece è ottima, ho scelto di usarla per la presentazione. Farai anche
tu parte del team del progetto insieme agli altri creativi, è arrivato il
momento che cominci a imparare come si progetta una pubblicità. Non vorrai
mica rimanere per tutta la vita un’assistente. O sbaglio?»
Non aveva sbagliato nulla, se non il tempismo. E, proprio mentre Sanem
stava cercando la risposta giusta, una signora dai capelli color ferro, vestita
di nero e con un bastone dal manico d’argento che rappresentava la testa di
una gallina (“Carino!” pensò Sanem) entrò nella sala riunioni.
«Zia Remide!» Can si alzò dalla sedia per abbracciarla e le cedette il suo
posto a capotavola.
«Can, è sempre bello vederti… come vedere tuo padre.»
Remide era una donna che in molti definivano arcigna per i suoi modi, ma
per lui aveva un debole. Lo vide invitare Sanem ad accomodarsi con una tale
dolcezza che accennò un sorriso tra sé e sé. Le bastò quel gesto per capire
che fra Can e quella ragazza c’era qualcosa, e questa sensazione le fu
confermata nei minuti successivi. Lui la ammirava incantato.
Remide conosceva bene suo “nipote” e mai l’aveva visto comportarsi
così con una donna. Dall’altra parte, però, percepì anche l’imbarazzo di
Sanem. Le sembrò che anche lei avesse interesse per lui, ma era come se
volesse sfuggirgli.
«Partiamo con la presentazione» disse Can.
Mentre Remide ascoltava, notò che il fotografo non toglieva mai gli occhi
di dosso a Sanem. Le sembrò quasi che l’avesse ispirato lei. L’idea che
avevano proposto, la gallina parlante, le parve geniale.
«Ragazzi, avete fatto un ottimo lavoro. Voglio che sappiate che investirò
tanto su questa campagna perché le vendite dei prodotti Galina si sono
abbassate e per questo vi chiedo di essere sinceri: avete tutti i dati alla
mano, perché secondo voi non vendiamo più come prima?»
Nessuno ebbe il coraggio di rispondere: la figura austera di Remide
incuteva timore a tutti, ma non a Sanem, che da esperta di Agraria disse la
sua, anche perché era preparata sulla società: fotocopiando i faldoni di
Galina, grazie alla sua memoria fotografica, ne aveva memorizzato tutti i
dati.
«Sono Sanem, signora. Secondo me…»
«Zitta!» le sibilò Deren, in evidente allarme. «Non sta a te!»
«Voglio sentirla» intervenne la signora. «Dica pure.»
«Signora Remide… se mi permette, il problema sta nell’abbattimento dei
costi di produzione della sua azienda…»
Sanem conquistò subito l’attenzione dell’imprenditrice. «Continui, mi
interessa il suo discorso.»
«Be’, prima lei dava mangiare alle sue galline anche erbe aromatiche,
adesso solo mangime qualunque e lo spazio in cui vivono, per incrementarne
la quantità, è stato ridotto: tutto questo ha reso le sue uova uguali alle altre,
ed ecco che le vendite sono scese. Provate solo a pensare: che direbbero le
galline di questo cambiamento se potessero parlare? Se ne andrebbero via!»
Eccola, la conferma. Era stata Sanem a inventare la pubblicità della
gallina parlante. Era una ragazza preparata, creativa e Remide comprese il
motivo dell’interesse di Can: si era innamorato e lei, da zia, doveva fare in
modo che stessero insieme.
«Sanem, c’è un posto che vorrei farti vedere. Ho bisogno del consiglio di
una persona sincera come te, ti farò contattare dalla mia segretaria.»
Sotto lo sguardo di disprezzo di Deren, Sanem era incredula. Non disse
che era il suo ultimo giorno. La stima di quella donna le rendeva ancor più
difficile l’idea di dover rinunciare alla Fikri Harika.
Ma ormai aveva deciso.

La prima mattina del rientro alla sua vecchia vita cominciò presto, con la
colazione in compagnia di Nihat. Il padre, anche se non lo dava a vedere, era
contento che la figlia avesse voglia di tornare al negozio. Lui e Mevkibe
avevano sbagliato nel forzarla ad andare a lavorare alla Fikri Harika, con la
minaccia di darla in sposa a Muzaffer. Che pazzia! Da quando aveva messo
piede in agenzia, Sanem non era più la stessa e lui lo sapeva. Sempre senza
equilibrio: o troppo triste o troppo felice.
Dal canto suo, Sanem, mentre sollevava le saracinesche del minimarket,
apriva la cassa, puliva gli scaffali e faceva l’inventario della settimana, si
ripeteva che quella vita non era poi così male. I lati positivi erano tanti,
primo tra tutti non sentire più Deren chiamarla “L’altra”.
Mentre si autoconvinceva che tutto sarebbe andato per il meglio, e che le
lacrime versate la sera prima alla sola idea di non rivedere più Can presto o
tardi si sarebbero esaurite, così come i suoi sentimenti per lui, arrivò il
primo cliente. Sanem era di spalle, intenta a sistemare il frigorifero delle
bibite e lui la colse di sorpresa.
«Mi scusi, signorina, vorrei qualcosa da bere» riconobbe la voce ma si
girò nella speranza che non fosse. E invece era.
Lui era lì, al minimarket di quartiere. In un giorno qualunque. Era così
surreale in mezzo ai barattoli, alle confezioni di cibo, alle bottiglie di
passata di pomodoro.
“Surreale ma bello”
«Signor Can! Che ci fa qui?»
«Sono venuto per riportarti in ufficio. Abbiamo tanto lavoro da fare.»
«No. Io non vengo. Ho dato le dimissioni. Ho telefonato prima a
CeyCey.»
«Sì lo so, ero al suo fianco mentre vi parlavate. Dai, andiamo.»
«Io non vengo.»
«Ok. Allora tornerò qui, finché non mi seguirai. Ogni giorno, se
necessario più volte al giorno.»
«Signor Can, non tornerò mai al lavoro» sbottò Sanem, scoprendo con
orrore che intanto lui aveva cominciato a sistemare i pacchi di biscotti, come
un commesso.
Le donne del quartiere, nel frattempo, si erano radunate davanti alla
vetrina, solo per guardarlo. Una fila mai vista si snodava dalla cassa alla via
di fronte al negozio.
“Vendiamo le stesse cose di ieri” pensò Sanem, “ma le vende qualcun
altro.”
C’era chi voleva il latte, chi la marmellata, chi si inventava qualcosa da
comprare pur di essere servita dal sorriso luminoso di Can-cassiere.
Grandi affari oggi! Quel trambusto finì solo quando una chiamata lo
costrinse a rientrare in ufficio.
«Tornerò» promise.
Tornò presto, fin troppo presto. Quella sera. Sanem era in camera sua con
Ayhan. Erano sedute sul letto, l’una di fronte all’altra. Gambe incrociate.
Sanem stava raccontando all’amica della mattinata trascorsa al negozio.
Insieme a Can. Fortunatamente lui se n’era andato, se fosse rimasto solo un
altro secondo…
«Quell’uomo ti ha proprio stregato, eh?» Ayhan comprendeva la
situazione. Non aveva mai provato qualcosa del genere, ma gli occhi
dell’amica li sapeva leggere bene.
«Per me lui sa che mi sono innamorata. L’ha capito e si sta prendendo
gioco di me.»
Ayhan era certa che Sanem stava mentendo a se stessa. Tutto quello che
Can aveva fatto per lei non era un gioco, ma la sostenne comunque nei suoi
pensieri negativi. Una storia d’amore tra quei due era ormai impossibile.
Troppe cose non dette. Troppe bugie. Troppi inganni.
«La penso come te» mentì. «Quell’uomo è solo un egocentrico. Se gli dici
che sei innamorata, ti metterà sulla lista delle sue conquiste per poi passare
alla prossima ragazza.»
I ragionamenti di Ayhan vennero interrotti dal suono del campanello di
casa Aydın. Sanem si affacciò; dalla sua stanza non poteva vedere chi era ma
aveva sentito il rumore di una macchina che si era fermata. Una jeep. La
jeep.
«È la macchina di Can. E ora cosa vuole? A quest’ora poi! Ayhan, ti
prego! Inventati qualcosa. Non farlo entrare.»
«Come faccio?»
«Di’ che non sto bene.»
Mentre l’amica correva all’ingresso al piano di sotto, sperando di
arrivare prima di Mevkibe, che sarebbe stata fin troppo cerimoniosa con il
capo della figlia, Sanem cercò un modo di scappare senza passare dalla
porta. Non poteva rivederlo. Non poteva permettergli di prenderla ancora in
giro.
Ma Sanem, tu sei proprio sicura che ti stia prendendo in giro? Magari
ha dei gusti discutibili e davvero è interessato a te…
Ignorò la sua voce interiore, aprì il cassettone delle lenzuola e cominciò a
legarne tre tra loro facendo nodi stretti. Si calò dalla finestra, come facevano
sempre lei e Leyla da piccole quando, rientrate a casa dopo il coprifuoco
severo di Nihat e Mevkibe, tornavano a giocare per le strade del quartiere
senza dire nulla. Non era più agile come allora, ma comunque arrivò a terra
sana e salva.
Ce l’aveva fatta.
Forse.
«Sanem?!»
“Oh no!” La voce alle sue spalle non si poteva confondere. Era stata
scoperta. Da lui.
«Signor Can!»
«Ma che stai facendo?» Era lì, allibito e impressionato dalla scena a cui
aveva assistito: “Si è calata dalla finestra per fuggire da me” pensò senza
ignorare una stilettata di dolore. Non andò via, nonostante questo.
«Sanem, sali in macchina, dobbiamo parlare. A proposito, tua madre è
una donna davvero gentile e credo di averle fatto un’ottima impressione.»
Era vero: a Mevkibe, arrivata alla porta d’ingresso prima di Ayhan, Can
era piaciuto molto. Gentile, educato e poi, cosa che non poteva sfuggire a
nessuno, bellissimo. Istintivamente si era fidata di lui.
Sanem intanto pensava che la sua fuga spericolata era fallita in pochi
minuti. Davanti allo sguardo tra l’interrogativo e lo scioccato di Can,
pensava di correre via, scappare, ma fu costretta a seguirlo. Non aveva
alternative.
Poco dopo, sul suo scoglio preferito, le stelle in cielo si confondevano
con le luci della città. Camminarono sul lungomare, mentre Can guardava il
viso di Sanem illuminato dal faro, consapevole del fatto che quel silenzio
precedeva il finale. Lo sapeva, lo temeva.
Parlò prima lei.
«Signor Can, perché lei mi cerca sempre?»
«Chiedilo alla luna, Sanem. Secondo te, perché?»
«Non lo so.»
«E tu invece perché mi cerchi sempre? Se ti porgo la mano la afferri, fai
chilometri per venirmi a cercare in un bosco di notte… perché?» Can
conosceva la risposta ma la doveva sentire da lei.
«Neanche io lo so.»
«Sanem, qui non si tratta di sapere, ma di sapersi ascoltare. La risposta è
dentro di te. Io la mia l’ho trovata. Io so perché ti cerco sempre e sono qui
per dirtelo. Ho sentito che parlavi con CeyCey, che tu e Osman vi siete
lasciati… io credo di sapere perché. Lo hai fatto per… noi?»
Gli occhi di Sanem si riempirono di lacrime.
Can sentì svegliarsi il proprio istinto di protezione. Avrebbe voluto
salvarla da quello che la faceva soffrire, anche se non capiva cosa fosse.
“Forse sono io…?”
«Perché piangi?»
“Perché ti ho mentito per settimane e ora non posso amarti. Non puoi
amarmi” avrebbe voluto rispondere Sanem, che in uno scatto cercò di
scappare da lui, ma soprattutto da quello che gli aveva fatto. Can la fermò
tenendola per il braccio.
«Signor Can, mi deve lasciare andare! Io non la voglio!» mentì.
Can sperava che gli stesse mentendo. «Sanem, quello che provo per te è
molto serio. Pensa bene a quello che stai facendo. Io starò alle tue parole.
Dimmi di andare e vado. Dimmi di restare e resto, ricordi? Se non vuoi, non
mi vedrai mai più.»
Silenzio. Le lacrime di Sanem si mescolarono con i bagliori sull’acqua
salata. Era tutto così dolce. Tutto così triste. Anche quella strana
determinazione che aveva in volto.
«Vada via.»
Can se ne andò, lasciando fluire il dolore di quel rifiuto assurdo nella sua
Istanbul notturna. Prima, però, si accorse di una striscia di stoffa colorata per
terra. A Sanem era caduta la bandana che teneva sempre al polso o tra i
capelli. La raccolse, convinto che sarebbe stata l’unica cosa che gli sarebbe
rimasta di lei.
L’avrebbe portata con sé ovunque. Lei non lo voleva, era stata
chiarissima, ma Can avrebbe fatto del male a se stesso rimuovendo quel
blocco di dolore e amore (“Amore? Sono innamorato?”): si era sentito vivo
dopo tanto tempo e questa era una cosa bella, a prescindere.
Anche se Sanem gli aveva detto di sparire per sempre. Can tornò a casa
alle prime luci dell’alba, dopo aver condiviso con il panorama di Istanbul,
con quelle luci sfavillanti, il suo momento lacerante, seduto sugli scogli. Che
fortuna avere una notte in cui soffrire. Che fortuna avere un cuore, anche se
faceva male. Una volta in cucina, si preparò un tè e notò sul tavolo Lettere a
Milena, uno dei suoi libri preferiti. Era anche tra i preferiti di Sanem, glielo
aveva detto lei durante quel pranzo al mare, prima di stampare la campagna
pubblicitaria per la compagnia aerea.
“Vuoi proprio farti del male” si disse mentre lo apriva, aiutato dal
segnalibro.

Talora ho l’impressione che abbiamo una camera con due porte, l’una di fronte all’altra, e
ognuno stringe la maniglia di una porta e basta un batter di ciglia dell’uno perché l’altro sia
già dietro la sua porta e basta che il primo dica una sola parola e il secondo ha già
certamente chiuso la porta dietro di sé e non si fa più vedere.

C’era Sanem in quelle righe. Sanem era ovunque.


Lei gli aveva detto di andarsene via. Aveva davvero pronunciato quelle
parole senza voltarsi indietro e Can pensò che era arrivato il momento di
ascoltarla. L’agenzia aveva recuperato clienti e credibilità in quei mesi. Il
suo dovere l’aveva fatto, il padre ne sarebbe stato fiero. Poteva cedere la
corona a Emre.
“Dimmi di andare e vado. Non mi vedrai mai più.”
Avrebbe al più presto mantenuto quella promessa. Lei non lo voleva. Non
c’era più motivo di lottare.
Se mi amassi, non andresti via. Se ti dicessi la verità, non potresti
amarmi

Anche Sanem avrebbe voluto soffrire tutta la notte davanti allo splendore di
Istanbul. Le luci sul mare sembravano capirla, avvolgerla. E a casa c’erano i
suoi genitori, Leyla, le loro espressioni preoccupate, a cui non avrebbe
potuto dare spiegazioni.
Tornata in camera sua, dopo un saluto veloce alla famiglia, provò a
dormire, ma non ci riusciva. Si sentiva svuotata, stanca, e le sembrava che
anche il più piccolo gesto, come sollevare una penna, fosse una fatica. Era
così che si stava quando si era innamorati? Quel malessere ovattato, un
dolore sordo, le aveva invaso anche il cuore, avvolgendola in una pellicola
trasparente, come quella da cucina, che le faceva percepire una realtà
offuscata. Era come se si muovesse sott’acqua, oscillando tra gli oggetti di
un mondo al rallentatore. Niente aveva più luce, senza Can.
Avrebbe voluto tornare alla vita del minimarket, ma non riusciva ad
alzarsi dal letto. Ayhan la trovò così a metà mattina, al buio, sotto una
coperta nonostante fuori facesse caldissimo.
Poco dopo, quando le squillò il telefono, la mental coach fu sorpresa
nello scoprire che a chiamarla era CeyCey, quel folle stagista della Fikri
Harika, il quale non riuscì a dissimulare un tremolio nella voce, quando lei
rispose.
«Ayhan… ciao Ayhan… è bello sentirti. Sanem ha spento il telefono» le
disse. «Mi aiuti a trovarla? Rischio la mia vita, lei mi ucciderà! Qui siamo
tutti intossicati.»
«CeyCey, ma che dici? Lei chi?»
«La signora Deren. Abbiamo mangiato carne avvelenata.»
Sconcertata, Ayhan passò il telefono alla sua migliore amica, scuotendo
un po’ la coperta per farla risalire dagli inferi del letto. Sanem prese il
telefono e riattaccò senza neanche parlare, ma CeyCey riprese subito a
chiamarla.
«Rispondi sorellina… o non la smetterà! Sono preoccupata, blatera cose
strane» disse Ayhan.
Sanem non fece in tempo a premere la cornetta verde, quando…
«Dove sei finita? Qui è successo un dramma. Una tragedia!»
«CeyCey, io non vengo più al lavoro.»
Lo stagista scoppiò in una risata senza senso, come se avesse appena
sentito qualcosa di veramente divertente. «Sanem, devi immediatamente fare
un report del faldone di Galina, quel dossier di trecento pagine. Ricordi? La
signora Deren ieri l’aveva affidato a te.»
«Sì, CeyCey, ma come ti ho detto io non vengo più.»
Un’altra risata folle, stralunata, disperata. «Sanem, ascoltami bene. Qui è
successo il peggio: sono stati tutti intossicati, dai copywriter ai grafici.
Hanno mangiato carne di pollo avariata di un cliente e qualcuno è andato
anche all’ospedale. Io non l’ho mangiata ma mi sembra di sentire i
sintomi…»
Sanem sussultò.
«Anche Can?»
«Cosa c’entra il signor Can? Sanem, non sto scherzando. Sai che mi piace
farlo, ma non sto scherzando adesso. Anche perché se scherzassi, non
scherzerei sulla mia vita.»
«Mi dispiace, CeyCey, ma come ti ho detto non…»
Sentì la voce stridula di Deren insinuarsi nel ricevitore, probabilmente
aveva strappato il telefono di mano al ragazzo: «Lo dico da una vita di
mangiare vegetariano, ma nessuno mi ascolta. È giusto che sia successo. Vi
sta bene, un’altra volta ci penserete prima di strafogarvi di pollo andato a
male! Senti, L’altra… Sanem… non possiamo perdere Galina solo perché
questi hanno un po’ di nausea e tu sei sparita. Devi produrre per stasera un
report di quel faldone; lo darei a qualcun altro, ma sono tutti a casa,
all’ospedale… o alla toilette».
«Signora Deren, io mi sono licenziata.»
«Cosa? Non ci si licenzia in questo modo, con una telefonata da un
cellulare… Senza parlare del fatto che sarebbe molto scorretto da parte tua,
come sempre: hai preso un impegno e non lo porti a termine. Non ti smentisci
mai.»
Quella voce si ramificava in tante stilettate che dilaniavano la testa di
Sanem. Dopotutto Deren aveva ragione.
«E va bene, signora… arrivo.»
«No no, Sanem. Il dossier non è qui, è a casa di Can. Vai lì a prenderlo,
portalo qui e mettiti subito al lavoro!»
“Casa di Can?” «No!» gridò Sanem. «Non posso andare lì, scusi.»
«Sanem» era di nuovo CeyCey, «ti prego di fare in fretta, perché qui è un
bruttissimo momento.»
«CeyCey, io non posso andare a casa del signor Can.»
«Di’ ad Ayhan che la chiamo più tardi! Ciao, a dopo!»
Ayhan le sfilò la coperta di dosso. «Sorellina, così mi fai preoccupare.
Sei sicura di non avere la febbre?»
Sanem sospirò. «No… non ho la febbre. Devo andare a casa sua…del
signor Can. Dopo che ieri sera gli ho detto di sparire per sempre.»
«Cerca di essere professionale» le consigliò l’amica. «Per qualunque
cosa, io ci sono.»
Non poteva essere. Le coincidenze a volte s’intromettevano nella realtà,
nel tessuto della vita quotidiana, come frecce scoccate con una mira perfetta.
E Sanem si sentiva già abbastanza trafitta.
Prese un paio di pantaloncini e una maglietta rossa dalla sedia, sperando
di non dover aspettare troppo l’autobus. Se avesse pensato un solo istante a
quello che stava facendo, si sarebbe buttata nel Bosforo, nuotando negli
abissi pur di non essere più ritrovata dal CeyCey versione destabilizzata
dall’intossicazione alimentare, da Can o da Deren, da nessuno di loro.
Quando arrivò a villa Divit e suonò il campanello, si vide aprire la porta
da Can in pantaloncini e canotta; in mano aveva un paio di guantoni da boxe
e sembrava nel mezzo di una sessione di allenamento. Era completamente
sbalordito, come se lei non fosse reale, ma una proiezione dei suoi pensieri.
«Sanem?»
«Sono qui per lavoro» disse, mettendo subito le mani avanti. «Serve un
report del faldone di Galina. Lo avevo promesso e non posso andare via
senza consegnarlo.»
«Va bene Sanem. Aspetta, te lo prendo subito.»
Rientrò e tornò poco dopo con un grande plico contenente tutte le
informazioni sull’azienda di Remide, dal fatturato alle campagne precedenti.
«Puoi lavorarci da casa, se non vuoi andare in agenzia» le disse.
«Grazie, ma non ho il computer.»
«Come non hai il computer?»
«Mai avuto, signor Can. Scrivo a penna… mi aiuta a tenermi allenata.»
“A penna” pensò lui, stupito. Glielo aveva già raccontato, ma non
pensava che dicesse seriamente. Sanem era oltre quanto si potesse pensare o
prevedere. Una ragazza d’altri tempi, ma allo stesso tempo fuori dagli
schemi.
«Senti» le disse d’impulso, «non devi lasciare il lavoro per me. Non mi
vedrai più, posso assicurartelo.»
“Cosa vuol dire?” si chiese Sanem, colpita dalla tristezza nei suoi occhi.
Erano quegli occhi a risucchiarla, a non farla dormire, a farla sentire
così… spossata. Probabilmente stava mettendo troppa energia nella lotta
contro se stessa e mandarlo via era l’ultima cosa che avrebbe voluto.
Cercò di apparire professionale, come aveva detto Ayhan, e gli tese la
mano. «Addio, signor Can.»
Lui l’afferrò, la tirò verso di sé e l’abbracciò forte. Sanem si sentì
sciogliere, scomparire come una goccia di miele in un cappuccino. Quelle
braccia, quel calore erano casa per lei e si stupì di sentirsi in questo modo,
addosso a un uomo che conosceva da così poco ma che già amava.
Capì che stava per piangere: doveva andarsene.
«Non so cosa ci sia in te… che mi fa stare così» mormorò lui. «Non mi
era mai successo.»
“Neanche a me” ammise a se stessa Sanem mentre radunava tutta la forza
che aveva per allontanarsi.
«Buona giornata, signore.»
In autobus finalmente ebbe la libertà di piangere, cercando la complicità
della città che scorreva al suo fianco e assolvendosi per quella tristezza che
le scoppiava dentro. “Sei forte” si disse, “puoi farcela ad andare avanti.
Presto non penserai più a lui.”
Doveva solo concentrarsi. Andare in agenzia a lavorare al dossier Galina
e tornare a casa.
Ma non fu così semplice, per lei non lo era mai.

Alla Fikri Harika fu accolta da un CeyCey paonazzo, terrorizzato dall’idea


di dare di stomaco. Era anche emetofobico?
«Sto per vomitare, secondo te? Vomiterò, sverrò e non me ne accorgerò?
Soffocherò nel vomito?»
«No!» esclamò Sanem, scioccata. «Ma che dici?»
«È il pollo, Sanem! Il pollo tossico, radioattivo. Sono tutti devastati.»
«Eccoti!» squittì Deren, che apparve dietro lo stagista. «Qui le cose
stanno precipitando. C’è una riunione con i clienti e sto riassegnando i ruoli
degli assenti.» Prese per la manica della giacca un ragazzo con gli occhiali:
«Tu, come ti chiami?».
«Mete.»
«Ecco, Mete, tu oggi sarai un copywriter. E tu Sibel una grafica.»
«Non so niente del reparto creativo!» protestò Mete, ma Deren fece un
gesto con la mano per invitarlo a tacere. «Muovetevi ragazzi! Dai, in
riunione!».
Poi guardò Sanem. «Non so dove pensi di essere, ma se credi che questo
sia un posto dove vai e torni come ti pare… hai capito male. Entro tre ore
voglio il riassunto di Galina, chiaro?»
Lo reclamò prima che fosse trascorso il tempo pattuito, quando, dopo
averla cercata ovunque, la trovò nell’archivio. Sanem si era nascosta lì per
lavorare in tranquillità.
«Questo è il tuo nuovo ufficio personale?» l’apostrofò con un’ondata di
malevolo sarcasmo. «Se ti fossi degnata di dirmi che eri qui, non ti avrei
cercato per tre quarti d’ora.»
«Deren, smettila.» Dietro di lei comparve Can e Sanem abbassò gli occhi.
Era troppo imbarazzante guardarlo dopo quell’abbraccio. Dopo quel nuovo
addio.
«Sanem… ha chiamato Remide, ci aspetta al luogo dell’appuntamento,
ricordi? Aveva detto che voleva mostrarti un posto.»
Sanem annuì. «Andiamo insieme?»
«No» rispose Can, «prendi la macchina aziendale e l’autista. Io vi
raggiungo.»
Una parte di lei un po’ ci sperava in un “sì”, di fare ancora della strada
insieme, ma sapeva che quantomeno sarebbe rimasto vivo in lei il ricordo di
quella corsa in Harley, e anche di quella a venti all’ora sull’auto d’epoca. O
di quando lui l’aveva portata via dalla festa di Fabbri, in jeep.
Cercava di tenere stretti quei momenti nel cuore, mentre l’autista la
portava all’appuntamento con la proprietaria di Galina davanti a un enorme
capannone, in una zona verde della città. Quando scese dall’auto, Sanem
vide che Can era già lì, con la signora Remide.
«Vi piace questo posto?» chiese l’imprenditrice. «Io lo trovo così
autentico!»
Can era sinceramente ammirato. «Remide, perché non mi hai mai portato
qui?»
Gli fece l’occhiolino. «Volevo fosse una sorpresa, e le sorprese mi piace
tenerle in serbo. Entriamo?»
Sanem fu colpita dai soffitti altissimi, da cui entravano fasci obliqui di
luce.
«Come te lo immagini?» chiese Remide. «Pensavo di fare un grande punto
vendita di cibo biologico. Ci stiamo lanciando su nuovi prodotti.»
«Biologico?» ripeté Sanem. «Sì… perché no?»
«Non mi sembri convinta.»
Remide pensò che un’altra ragazza l’avrebbe assecondata con un sacco di
moine. Lei no, era sincera e acuta, illuminata, fuori dagli schemi. Per questo
il suo parere le interessava molto.
«Ecco… io non conosco bene il biologico» disse Sanem, «però… sa, qui
ci starebbe molto bene il legno. Si potrebbero fare dei bancali, con cibo
anche non biologico ma sempre a chilometro zero da assaggiare.»
Remide agitò il bastone ed esordì: «Bellissima idea! Can, tu fai un po’ di
foto, va bene? E Sanem stendi un bel progetto, voglio che te ne occupi tu».
«Ma io…»
Sanem stava per dirle che non avrebbe più lavorato alla Fikri Harika, ma
la signora di Galina si stava già allontanando verso l’uscita, tenendo a
braccetto Can che l’aiutava a camminare sul pavimento scosceso. «Bella,
intelligente, autentica: non fartela scappare!»
Can cercò di nascondersi dietro un sorriso. «Remide, mi conosci troppo
bene. Ma lei…non mi vuole.»
«Non dire sciocchezze!» Remide si girò e si rivolse anche a Sanem:
«Finite il lavoro, io devo andare».
Uscì dal capannone e chiuse la porta a chiave, con un sorriso. Essere il
Cupido di Can le accendeva la giornata.
Can continuò a scattare e Sanem a prendere misure, appunti, annotazioni,
fino a sera. Il sole era tramontato, si capiva dal colore della luce che filtrava
dall’alto.
«Andiamo, ti riporto a casa» disse Can. Era l’ultima volta che l’avrebbe
vista e una parte di sé voleva che quell’addio fosse rapido. Ma, una volta
arrivato all’ingresso del capannone, si rese conto che la porta era chiusa a
chiave.
«Che sbadata! Il guardiano alle otto chiude tutto, non ve l’ho detto?» rise
Remide, chiamata da Can al telefono. «Contatto subito qualcuno che venga
ad aprire.»
«Come ha potuto non dircelo prima?» chiese Sanem, pensando ai suoi
genitori che l’aspettavano. Scrisse un messaggio a Leyla per avvisare del
ritardo, sperando di non essere accolta, una volta rincasata, da un plotone
d’inquisizione. «È praticamente buio, signor Can.»
«Non preoccuparti» lui aveva visto una lampada a olio, appesa a un
gancio in alto, «se ti prendo in braccio, riesci a raggiungerla?»
“In braccio? No, non posso” pensò Sanem.
«No… scusi ma mi fa molta paura arrampicarmi lì.»
«Ma se l’altra sera ti sei calata dalla finestra!»
Era vero. Sanem sospirò e salì sulle sue braccia, che la sollevarono fino
alla lampada. Quando la raggiunse, perse l’equilibrio e finì addosso a lui.
Così vicino, ancora vicino, troppo vicino. Ma il momento fu spezzato da un
fiotto di sangue, che proveniva dalla mano di Can.
«Che è successo? Si è fatto male?» chiese Sanem allarmata.
«Niente… prima devo essermi ferito toccando la lamiera.»
«Aspetti… in borsa dovrei avere la crema di centaurea. Fa miracoli,
guarisce tutte le ferite!»
“Non tutte” pensò Can, mentre lei recuperava il tubetto e gliela spalmava
delicatamente sulla ferita, che non aveva smesso di sanguinare.
«Ci vorrebbe qualcosa per fasciarla… ma non ho nulla» continuava
Sanem, concentrata sulla ferita. Era così dolce vederla lì, a occuparsi di lui.
«Ehm… io ho questa» Can estrasse la sua bandana dalla tasca. «Ti è
scivolata sugli scogli, e l’ho presa io.»
Sanem annuì nascondendo la commozione e gliela legò intorno alla ferita.
«Stia tranquillo.»
«Sono tranquillo.»
La guardò cercando di dirle in silenzio quello che pensava.
“È l’ultima sera” pensava Can.
“È l’ultima sera” pensava Sanem.
“Se mi amassi, non andresti via” avrebbe voluto dire Can.
“Se ti dicessi la verità, non potresti amarmi” avrebbe voluto rispondere
Sanem.
Proprio mentre legava la bandana intorno alla ferita, arrivò il guardiano
ad aprire la porta. Ormai erano scese le ombre della sera quando uscirono di
lì, liberi da quella languida prigione, per nulla pronti a un nuovo addio.
In macchina nessuno dei due parlava e Sanem si accorse di avere di
nuovo gli occhi lucidi. Era stata una favola, ma ormai era finita. Guardò Can,
vide che giocava con l’autoradio, cambiava stazione, cambiava canzone,
evitava il suo sguardo. Notò che anche i suoi occhi erano lucidi, ma non le
sembrò possibile che fosse per il loro ultimo momento.
“Can Divit che piange per me? No, sarà allergia alla polvere del
capannone.”
Sperò che quel tragitto non finisse mai. Avrebbero potuto stare in una
condizione di moto perpetuo e lei ne sarebbe stata felice, senza preoccuparsi
di dover uscire per forza dal limbo del tempo bloccato. Le sarebbe andato
benissimo rimanere in macchina con lui, anche senza parlare, anche senza
smettere di piangere. Bastava stare con lui.
Sei messa proprio male, Sanem!
Il quartiere cominciava ad apparire, con le prime case dall’intonaco
colorato. Gli steccati, le botteghe, i chioschi di cibo, ecco le ultime cose che
avrebbero visto insieme.
«Siamo arrivati» disse lui poco dopo. «Volevo ringraziarti per tutto,
Sanem. E ti ripeto, se vuoi tornare al lavoro, fallo senza problemi. Non
sprecare il tuo talento per… per…»
«Per lei?»
«Sì, per me. Io andrò via.»
«Via dove?» Sanem credeva di averlo pensato, ma lo disse. Lo urlò,
quasi.
Can spense il motore e sorrise, illuminato dai lampioni del quartiere.
«All’estero. Riprendo a scattare, riprendo a viaggiare. È quello il mio
mondo, anche se pensavo di aver trovato qualcosa di diverso.»
Le lacrime sgorgarono dagli occhi di Sanem, che si girò dall’altra parte
per non farsi vedere. «Non vada via, io tornerò al minimarket dei miei.»
«Non ti preoccupare.»
«È proprio necessario partire?»
Non le rispose, ma aprì il portaoggetti e prese un pacchettino rettangolare.
«Per te, Sanem. Un regalo d’addio.»
«Non doveva…» mormorò lei.
«Aprilo… spero che penserai a me, quando lo guarderai. Buonanotte,
Sanem. Non accontentarti mai di quello che ti capita nella vita. Sei molto
importante per me… e tu lo sai.»
Non poteva più stare lì. Un altro minuto e non avrebbe mai avuto la forza
di scendere dalla macchina. «Buonanotte» disse in un soffio, mentre correva
fuori dalla jeep senza guardarlo andare via. Aprì la porta e corse in camera
sua, dove aprì il pacchetto.
Conteneva una penna, un’antica piuma d’oca e un piccolo calamaio. Un
pensiero per lei, per le sue notti a scrivere.
E un bigliettino, una piccola pergamena arrotolata: “Non smettere di
scrivere, non smettere di sognare. C”.
“Can…” pensò Sanem, “ma cosa sto facendo?”
Stava lasciando partire per sempre l’uomo che amava. E tutto per colpa
delle sue bugie. Non potevano essere più forti di loro due, di quei momenti,
di quello che lei aveva provato. Non poteva finire così.
Il pensiero di Can imbarcato su un volo per chissà dove era
insopportabile.
“Non può partire. Non posso permetterglielo.”
Sanem sentiva di nuovo quel diluvio di lacrime spingerle dentro. Era stata
lei a dirgli di andarsene. Davanti al mare, pochi giorni prima. Non gli aveva
chiesto di restare.
“Dimmi di andare e vado, dimmi di restare e resto.”
Lui per lei sarebbe rimasto?
Sanem decise che lo doveva scoprire. Che doveva dichiarargli il suo
amore.
Si lanciò fuori dalla sua stanza, giù per le scale, dove incrociò Leyla che
non riuscì a evitare.
«Sanem, dove vai? Noi abbiamo cenato ma per te ho lasciato qualcosa.
Osman ci ha portato le kofte vegane!»
“Kofte senza carne? Ma anche no.” Sanem le odiava, piacevano solo a
sua sorella. E comunque in quel momento nulla avrebbe potuto fermarla.
«Avverti tu la mamma! Devo andare, avevo promesso ad Ayhan che
l’avrei aiutata a fare una cosa. Col computer.»
E prima che Leyla potesse ribattere con il suo “Ma che ne capisci tu di
computer?” corse via.

«Signorina, siamo arrivati!» Sanem stava ancora pensando a cosa avrebbe


detto a Can quando se lo sarebbe trovato davanti nel momento in cui gli
avrebbe aperto la porta, magari a petto nudo, con il suo albatros sul cuore in
bella vista, e intanto il taxi era già giunto a destinazione.
Attraversando il vialetto di villa Divit le tornò in mente quando era
fuggita di lì come una ladra.
Il cancelletto era aperto. Le luci erano accese, le vedeva attraverso le
vetrate che davano sul salone. Non è partito. È in casa o magari c’è solo
Emre. No, lui c’era. Lo sentiva. Suonò il campanello.
Le aprì una ragazza che sembrava una modella: shorts color turchese, top
bianco di pizzo, sandali tacco 12, impeccabile chignon. Gigantesco, per
contenere tutti i capelli.
“Avrà i capelli più lunghi di Leyla” pensò Sanem.
Era Polen, la (ex?) fidanzata di Can. Sanem si ricordò immediatamente di
lei: l’aveva vista al gala della Fikri Harika.
«Buonasera» disse. La sua voce era gentile, stupita.
«Buonasera, signora. Signorina…» Sanem era in serio imbarazzo oltre
che scioccata.
“Ma non si erano lasciati? Lui ha fatto il geloso, si è dichiarato a me.
Voleva portarmi via, chissà dove. È la prova che mi ha sempre preso in giro.
Lo sapevo e per fortuna mi sono salvata!” Finalmente riuscì a mettere da
parte per un attimo quel groviglio di pensieri e continuò: «Io lavoro per il
signor Can, sono qui perché devo dirgli una cosa ma è irreperibile. Credo
sia partito… doveva partire, ma a quanto vedo le sue valigie sono qui…».
Cercò di sembrare credibile, mentre con gli occhi, anche per evitare lo
sguardo di Polen, indicava la fila di trolley e valigie di lussuosi brand
francesi all’ingresso. Forse erano sinonimo di buone notizie: Can era ancora
a Istanbul?
«Irreperibile. Come al solito» Polen rise, in tono amichevole. «No, Can
non è partito, le valigie sono mie. Ma non restare sulla porta, entra.
Aspettalo qui con me, così mi fai un po’ di compagnia. Dovrebbe arrivare a
momenti.»
“Non si sono lasciati”.
Sanem era in seria difficoltà. Polen era a Istanbul, Can non era partito. Le
gigantesche valigie che aveva intravisto sembravano presagire una
permanenza di anni. Ma che stava succedendo?
«Vuoi qualcosa da bere?»
“È anche gentilissima! Non è possibile”
Mentre cercava le parole meno scortesi per rifiutare e per tentare di
scappare da quella situazione (Surreale? Dolorosa? Entrambe le cose?),
Sanem si ritrovò, senza neanche accorgersene, in cucina. Sul grande tavolo-
isola erano impiattate con minuzia pietanze meravigliose: tartare e verdure.
Polen aveva preparato a Can la cena più maestosa che avesse mai visto. E
in quel momento Sanem capì di essere la solita sognatrice. Come poteva
chiedere a lui di restare, per lei e con lei, quando l’alternativa era stare con
una donna come Polen? E comunque, alla fine, non era nemmeno partito. “Ma
per chi?”
Nel frattempo Can entrò in casa, ma Sanem quella domanda non
gliel’avrebbe mai posta.
La lunga strada verso Can

Polen Aksu non era una fidanzata gelosa. Non tanto per indole ma perché, di
solito, in un gruppo imprecisato di ragazze, era sempre lei quella più
ammirata. Nel modo assolutamente innocente, gentile e quasi ingenuo che
caratterizza le bellissime, non temeva le altre donne.
Quella mattina, però, si svegliò con la luna storta. Non aveva dormito
bene nelle lenzuola di cotone egiziano del suo fidanzato. E sapeva anche
perché: Can non era rimasto con lei. Due settimane prima l’aveva chiamata
dicendo di voler porre fine alla loro relazione.
«Non funziona» le aveva detto.
Lei era caduta dalle nuvole. Non era stata in grado di replicare, tanto era
il suo stupore: Can la stava lasciando davvero?
Quel giorno Polen non era riuscita a concentrarsi sul lavoro. Aveva visto
atomi dissolversi, sciogliersi davanti ai suoi occhi, mentre i suoi calcoli non
erano più tanto chiari. Si era presa il resto del giorno libero e si era fermata
a bere un cappuccino a Oxford Street, per schiarirsi le idee. Alla fine era
tornata a casa e aveva comprato un biglietto aereo per Istanbul.
Ora era lì. E avrebbe potuto risolvere tutto. Polen aveva fiducia nelle
proprie risorse, ma una sensazione spiacevole le attanagliava lo stomaco da
quando era scesa dall’aereo. Indossò un paio di pantaloncini color sabbia,
un top corto nero semitrasparente e gli immancabili sandali gioiello.
Raccolse di nuovo i lunghi capelli biondo cenere in uno chignon e scelse un
rossetto acceso.
Can era seduto in cucina, dove si era appena fatto un caffè.
«Buongiorno. Dormito bene?» la salutò lui, alzandosi. Era sempre stato
un signore, nonostante quello stile da hippy che Polen avrebbe trovato
ridicolo… in chiunque altro non fosse Can.
«Non molto, da sola nel tuo letto» rispose. E Can sembrò notare il suo
sguardo triste.
«Non dormo più in una stanza, da quando sono tornato. Gli spazi chiusi mi
mettono ansia.» La guardò negli occhi. «Parliamo un po’? È per questo che
sei venuta, no?»
Polen annuì. «Sì, ma per me non è cambiato niente. Ti amo, ti conosco
meglio di chiunque altro. Ne abbiamo passate tante insieme. È vero, viviamo
lontani, ma la nostra relazione ha sempre funzionato… Vuoi buttarti tutto alle
spalle così? Senza darmi un’altra possibilità?»
Lui abbassò lo sguardo.
«Sono felice di vederti, sinceramente» le disse, «ma questo non cambia le
cose. Mi dispiace davvero. Sei una persona meravigliosa. Tengo molto a te.»
Lei sentiva un rombo di tuono nelle orecchie. Aveva sentito mille volte
quella frase nei film ma pensava di volare troppo alto per rischiare di
incrociarla, prima o poi. Era la più bella. La più corteggiata. La più
intelligente. E, nonostante questo, Polen non si sbrodolava delle proprie
qualità. Non aveva bisogno di elencarle, di rassicurare se stessa. Dava
semplicemente tutto per scontato. Can, i suoi viaggi, loro due. Ora però le
cose stavano cambiando…
«Non funziona, Polen. È inutile continuare, ci faremmo del male. Sai
anche tu che con me non andrai da nessuna parte. Meriti di più.»
«C’è un’altra» lo interruppe lei.
«No… o meglio, non nel senso che pensi tu. Lei non mi vuole.»
Cosa? La costernazione di Polen andava oltre quanto potesse esprimere.
«Non ti vuole? Dimmi chi è. Tu la vuoi e lei non ti vuole?»
Can fece un gesto con la mano. «Non ha importanza chi è.»
«Una docente di Harvard? La fondatrice di un’associazione caritatevole?
Chi è, Can?»
Chi aveva potuto fare breccia in lui, allontanarlo da lei?
Si spostarono in giardino, Can fissava i riflessi sull’acqua della piscina.
Il suo sguardo era inafferrabile, come lui. E Polen era esterrefatta. Non
sapeva neanche se avrebbe voluto sentire una risposta spiattellata così, al
sole del mattino.
“La lunga strada verso Can” pensò amaramente. Poi intravide la propria
immagine nel riflesso della portafinestra, il proprio splendore nel vetro.
“Stai tranquilla, passerà” si disse, “non può rinunciare a una come te.”
Bisognava solo inghiottire quel rospo.
«Mi hai fatto male, Can. Ma sono certa che questa cotta sia una cosa
passeggera. Ti aspetterò.»
«Polen, io non credo che…»
«Posso cominciare ad aspettarti nel tuo ufficio. Mangiamo insieme?»
«Va bene…»
Lo vide in imbarazzo. Una parte di lei le diceva – no, le urlava – di fare i
bagagli e andarsene via, immediatamente. Era giovane, bella, stimata. Non
aveva senso spasimare per un uomo che non la voleva più… neanche se
quest’uomo era Can Divit. Ma non ce la faceva. Si sentiva inchiodata lì, a
bordo piscina. Pur di stare davanti a lui, pur di averlo vicino. “Sei messa
male” pensò, e si rese conto di aver dimenticato di spruzzarsi il profumo.

A qualche chilometro di distanza, intanto, Sanem Aydın era finalmente


serena. La colazione era stata turbolenta quella mattina: aveva sorpreso sua
madre a parlare con la foto di Leyla (anche lei parlava da sola? Anche lei
aveva una voce interiore?), che sarebbe stata lontana da Istanbul tre giorni
per un convegno, e Mevkibe l’aveva sgridata per la sera prima.
«Raccontami dove sei stata, piccola Sanem. Non mi arrabbierò» le aveva
assicurato, accarezzando il matterello. Non prometteva nulla di buono. Lei
allora le aveva raccontato la verità: era a casa di Can, e aveva incontrato la
sua fidanzata Polen. Bellissima e molto brava a cucinare la tartare di carne.
«Certo» aveva commentato Mevkibe, «te lo dico da sempre, un uomo va
preso per la gola! E tu non sai bollire un uovo. Anche se questa tartare… non
mi convince.»
Sanem, per evitare ulteriori commenti non richiesti della madre, decise di
fare un salto da Ayhan, che era intenta a piegare le lenzuola nel piccolo
giardino di casa. L’amica, conoscendola bene, si era accorta che era
insolitamente su di giri.
«Come mai tutta questa gioia, sorellina? Hai visto il signor Can, per
caso?»
«L’ho visto, l’ho visto…» cinguettò Sanem agitando il bucato ormai
asciutto, «insieme a Polen, la sua fidanzata!»
«Piano!» gridò Ayhan allarmata. «Rischi di strapparmi il lenzuolo così!»
Sanem non la ascoltava nemmeno. «È sempre stato fidanzato, capisci? Al
gala dell’azienda mentre io baciavo l’albatros, lui baciava Polen! Comunque
sto bene!»
«Ma cosa hai fatto quando li hai visti insieme?»
«Nulla! Lei mi ha offerto da bere, e quando lui è rientrato ho augurato
loro una buona serata. Era imbarazzatissimo… d’altronde, mi aveva detto
che si erano lasciati» rise forte.
Ayhan fece un passo indietro, recuperando il lenzuolo. «Sì, Sanem, ma
questa tua allegria isterica mi mette un po’ d’ansia.»
Sanem continuava a parlare da sola: «Tornerò al lavoro! Ormai è tutto a
posto. Tutto sistemato. Sono una nuova Sanem, e sono sicura che da qualche
parte, là fuori, c’è il mio albatros».
Decise di tornare alla Fikri Harika quella mattina stessa.
Quando entrò negli uffici dell’agenzia, si fermò davanti all’albero dei
desideri. Era un gioco, un abbellimento della Fikri Harika che aveva
coinvolto tutti i dipendenti: un albero con appesi dei foglietti colorati ai
rami. Sanem aveva sentito Güliz parlarne con una collega il giorno prima.
«Funziona così: prendi un foglietto, scrivi il tuo desiderio e lo appendi al
ramo con un pezzo di spago. Chissà, magari un giorno sarò un’attrice a
Hollywood.»
Güliz non pensava che i desideri fossero qualcosa di segreto. Perché
avrebbero dovuto?
Sanem si avvicinò all’albero e si diede della sciocca.
“Puoi davvero credere a una cosa simile?”
Can stava con Polen. Però… il suo sogno non poteva dissolversi così,
con una serata elegante a base di tartare. Sanem prese d’impulso un foglietto
e scrisse la lettera C in matita. Lo appese, controllando che nessuno la stesse
guardando. Sarebbe stato il suo segreto, suo e di quel ramo. Sarebbe rimasto
lì per sempre, perché ora lei doveva andare avanti. Senza Can.
Lui sarebbe rimasto solo un desiderio scritto in matita.
A interrompere i pensieri di Sanem furono CeyCey e Güliz, che si
aggiravano per gli uffici agitatissimi. CeyCey, in particolare, era paonazzo.
«La signora Deren oggi è fuori di testa!» gridò lo stagista, parlando a
raffica. «Ci sono fogli dappertutto, la gente sta svalvolando, ma lei dice che
non siamo abbastanza sotto pressione per tirare fuori il meglio dalla nostra
creatività. Dobbiamo ideare lo spot per la bevanda biologica di Galina, è il
comparto che gestisce Levant, il figlio della signora Remide, la titolare…
Poi urla a tutti di riassegnare i tuoi lavori, Sanem… visto che ti eri
licenziata. Ma tu non ti eri licenziata?»
«Sono tornata» commentò lei, «e vorrei un caffè.»
Perché no? Anche la sua voce interiore era d’accordo. Basta con i tè.
«Ma se non lo bevi mai!» reagì lo stagista allibito.
Güliz invece era entusiasta di quel cambiamento mattutino di Sanem. «Ora
bevi il caffè? Allora proviamo a leggerti il fondo! Ho scaricato
un’applicazione sul cellulare e a me ha predetto che diventerò un’attrice
famosa.»
«Davvero?»
«Dai, dai!» insisté la ragazza. «Proviamo! Copri la tazza e girala tre volte
sulla testa. Uno… due… tre! Adesso capovolgila!»
A Sanem batteva forte il cuore. «Quando possiamo guardare?»
«Deve prima raffreddarsi.»
«Non ho mai visto leggere i fondi con un’applicazione! Lo racconterò ad
Ayhan!»
«Ayhan! Ayhan chi? Ayhan cosa? Le dici cosa? Parli di caffè? Parli di
me? Ayhan cosa dice? Cosa dice del caffè? E di me?» CeyCey snocciolava
una trottola di parole.
Sanem guardò il suo viso paonazzo e sorrise: doveva essersi preso una
cotta per la sua migliore amica, quando era stato il suo alleato nella
“missione hacker”. E reagiva come sempre, con l’angoscia.
«Ecco qui!» Güliz guardò il fondo e lo scansionò. L’applicazione diede
subito il risultato.
«Guarderai dietro dove sei seduta, in tre tempi» lesse Sanem, «entrerà un
uomo vestito di blu, con la barba. È l’uomo della tua vita! Oddio,
l’albatros!»
«Oddio!» fece eco Güliz «Sanem, girati!»
Proprio in quel momento aveva oltrepassato la porta a vetri un giovane
uomo elegante, in completo blu chiaro, con una barba castano-rossiccia.
«Oddio!» gridò ancora Güliz.
Sanem spalancò la bocca fissando quel ragazzo. L’albatros. È lui! Gli
regalò un sorriso e lui rispose, un po’ sorpreso.
«Ma quello è il signor Levant!» disse CeyCey «Di Galina. Il figlio di
Remide.»
Levant si avvicinò a loro. «Piacere, signorina. Lei è…?»
«Sanem Aydın, tuttofare dell’agenzia. È un vero piacere…»
Subito dopo entrò Can, in giacca di jeans, occhiali da sole… e barba.
Puntava dritto verso di lei. Si avvicinò così tanto che Sanem sentì il profumo
della sua pelle.
«Tu non ti eri licenziata?»
«Vuole che me ne vada?»
«Vuoi che io voglia che tu te ne vada?»
«Vuole che io voglia che lei voglia che me ne vada?»
Can sorrise. «Sei sempre la più folle, Sanem. Cosa ci facevi ieri sera a
casa mia?»
Sanem si schermì con un altro sorriso. Troppe domande, la mattina presto.
Lei avrebbe voluto chiedergli cosa ci facesse Polen a casa sua, ma cosa
sarebbe cambiato?
«Credo di aver trovato l’albatros» sussurrò, indicando il signor Levant,
che si era spostato attraverso l’open space e salutava Emre.
«Che cosa?» Can sembrava sorpreso. E infastidito. Fissò Levant. «Ma
che dici? Non è lui l’albatros!»
Sanem lo ignorò. «Le porto un caffè, signore?»
«Un cosa? Un caffè? Perché?»
«È ora di cambiare! Basta con il tè.»

Polen quella mattina aveva deciso di lavorare alla Fikri Harika. Non era
tranquilla, lontano da Can. Aveva preso un taxi ed era andata in agenzia,
intercettando il sorriso tirato di Deren (aveva sempre saputo che era
innamorata del capo) e lo sguardo di ammirazione delle altre ragazze. Non
temeva nessuna di loro, ma c’era qualcosa che non le quadrava. E quel
qualcosa quadrò ancora meno quando entrò nell’ufficio di Can e lo trovò
molto vicino a Sanem. Sentì che stavano discutendo di tè, caffè e albatros e
Polen sentì quel qualcosa nell’aria.
“L’amore è nell’aria? Sbagliato. Azoto, ossigeno, argon e anidride
carbonica sono nell’aria” si disse, pensando a una citazione dalla sua serie
tv preferita.
Mentre pranzava con un’insalata alle arance che le aumentò l’acidità di
stomaco, pensò che non poteva sospettare di Sanem, una ragazzina svampita
che sceglieva i vestiti ai grandi magazzini. Eppure sorvegliò Can tutto il
giorno. Lui sembrava assorbito dallo shooting che avrebbe avuto luogo pochi
giorni dopo, in una radura vicino al mare, per la bevanda biologica di
Galina. Lei sapeva che ci avrebbe messo tutto se stesso, ma anche che non
aveva un grande amore per il cibo bio.
«Chilometro zero. Il sapore della terra…» le aveva detto qualche volta,
con ironia amara «Ho visto gente che darebbe qualunque cosa per una
merendina scaduta del discount. E qui se una cosa non è biologica non la
mangiamo.»
Arrivò presto la sera. Polen intercettò le prime ombre del tramonto che
lambivano la vetrata dell’ufficio di Can.
«Ti va di cenare in quel nuovo ristorante al porto?» gli chiese. «Mi hanno
riservato un tavolo. Sai che prenotare è difficilissimo. Ma io sono
conosciuta e…»
Lui alzò gli occhi dal pc e scrollò le spalle in modo indifferente,
interrompendola: «Perché no?».
Poco dopo erano fuori dall’agenzia, sul marciapiede di fronte al palazzo,
dove Sanem stava aspettando l’autobus. Nello stesso istante sfrecciò anche
la lucida auto scura di Levant. Polen lo conosceva bene, i loro genitori erano
amici da sempre. Lui accostò e abbassò il finestrino.
«Che bello vederti!» le disse. «Come stai?»
«Bene» mentì Polen, «scusa ma sono di fretta. Proviamo un ristorante
aperto da poco, io e Can.»
«Vediamoci prossimamente» rispose lui, «sono rimasto tutto il giorno in
agenzia con i creativi, non sapevo fossi qui.»
Polen notò lo sguardo dell’uomo spostarsi su Sanem che stava aspettando
il bus. Sembrava colpito da lei.
«Sanem, giusto? Ci siamo presentati stamattina. Vuole un passaggio? Tra
poco farà buio.»
«No» rispose Can.
Polen lo guardò sbalordita e lui si affrettò ad aggiungere: «Non
disturbarti. Sarai sfinito dopo una giornata alle prese con i creativi, Levant.
Sanem possiamo accompagnarla noi».
“Ma davvero?” pensò Polen seccata. “Ho appena detto che siamo di
fretta.”
Sanem, però, sembrava pensarla diversamente. «La ringrazio, accetto il
passaggio signor Levant.»
Si avvicinò all’auto di lui, senza smettere di guardare Can.
«No» ripeté Can, e Polen pensò di intervenire. La situazione le sembrava
assurda. «Tesoro, andiamo, o perderemo la prenotazione. Ti prego, Can.»
Lui scosse la testa e, di fronte all’aria interrogativa di Levant e beffarda
di Sanem, salì in macchina. Arrivarono al ristorante con dieci minuti di
ritardo, ma riuscirono a prendere uno dei tavoli migliori. Can non aprì bocca
durante tutta la cena, nonostante la bellezza del posto, il gusto del cibo, la
vista spettacolare. Finito di cenare riaccompagnò Polen a casa e le disse che
voleva stare da solo.
Si era comportato in modo strano per tutto il giorno e lei, che era già
preoccupata, vedendolo così entrò in allarme. «Can, qualcosa non va? Ti
prego, beviamo qualcosa. Chiacchieriamo un po’ in giardino.»
«No» rispose lui. «Perdonami, ma sono un po’ giù. Ho bisogno di stare da
solo.»
«Giù per cosa?» chiese Polen.
Can non disse nulla, prese le chiavi della macchina e si allontanò. «Non
aspettarmi sveglia.»
Polen provò a mettersi a letto, ma le girava la testa. Aveva bevuto troppo
champagne. Dormì qualche ora e poi si svegliò di colpo. Lui non c’era. Il
senso di malessere che l’accompagnava ormai l’aveva sopraffatta. Non
riusciva a calmarsi. Non riusciva a pensare. Dov’era Can? Non lo aveva mai
visto così e forse… “Forse è da lei! È con lei. Ma lei chi?”
Provò a chiamarlo ma aveva il telefono spento. D’istinto, chiamò Sanem
con cui si era scambiata il numero la sera prima. Le rispose al quarto
squillo, assonnata: «Signora Polen, tutto bene?».
«Non trovo Can. Non so dove sia. È andato via, sembrava molto strano…
sono preoccupata. Sanem, aiutami. Tu sai dove potrebbe essere?»
«Io? No» rispose Sanem.
Polen si chiese se avesse trascorso la serata con Levant. «Sanem, per
favore. Non ti chiamerei se non fossi davvero preoccupata.»
Lei fece una pausa di silenzio. «Va bene, signora. Vengo a recuperarla con
un taxi.»
Poco dopo erano sulla strada per chissà dove, inghiottite dalla notte. Era
buio, buio come mai prima d’ora. Sanem aveva dato un indirizzo al taxista,
che le aveva guidate fuori Istanbul. Sanem aveva un’espressione tesa,
illuminata dal riflesso degli abbaglianti.
«Dove stiamo andando?» le chiese Polen. «Tu sai dove può essere Can?»
«Al suo rifugio» rispose l’assistente, «proviamo lì.»
Rifugio? Quale rifugio? E perché quella ragazza sapeva dove si trovava?
«Can ha un rifugio?»
Sanem annuì, a disagio.
Arrivarono in una specie di periferia o bosco o bosco di periferia, Polen
non riusciva a capire dove fossero. C’era una piccola casa di legno e, dal
sedile posteriore dell’auto, Sanem le fece intendere che erano arrivate, che
lui era lì. La luce, da fuori, sembrava accesa. Capì di essere vicina alla
verità, ma preferì ignorarla. “La lunga strada verso Can” pensò di nuovo.
Scese dal taxi senza guardare in faccia la ragazza. Si addentrò nel
giardino, illuminato solo da un piccolo lampione. Trovò la porta semiaperta.
Dentro c’era Can, di spalle, davanti a una lampada a olio. Non poteva
vederla e non si accorse che era entrato qualcuno. Polen sgranò gli occhi; la
luce era sufficiente per vedere tutto. Era seduto davanti alle fotografie di
Sanem. Le sfogliava, le teneva delicatamente tra le dita, sul viso intanto gli
scendeva una lacrima.
Polen era sconvolta.
“Sanem! Ma sul serio?” pensò, sentendo una nuova contrazione allo
stomaco. Si chiese cosa ci facesse lì, in quel nuovo mondo di Can, fatto di
boschi e assistenti che si vestivano con i panni in offerta nei cesti del
discount. Sentì affiorare la Polen vanitosa e altezzosa. “Sei meglio di così”
si disse.
Decise di chiamarlo, di dirgli che era arrivata. Prima, però, doveva
mandare via il taxi con Sanem. Quell’espressione di quasi-condiscendenza
sul suo viso era intollerabile.
«Grazie, cara, di tutto. Ora me la cavo da sola. Vai pure a casa.»
«Sì, ma non gli dica che l’ho portata qui io. Nessuno sa di questo posto!»
Polen sentì salire un’ondata di collera. Fece un cenno all’autista e chiuse
la portiera a Sanem. Poi chiamò forte il nome del suo fidanzato, che si voltò
sorpreso, come se qualcuno avesse infranto un incantesimo.
«Scusa, Can, ero preoccupata.»
«È stata Sanem a portarti qui?» ribatté lui. «Come ha osato? È un posto
segreto! Non avrebbe dovuto rivelarlo a nessuno.» Poi notò l’espressione di
Polen. «Scusa, mi dispiace. È che non penso sia questo il posto per te.»
«E qual è il posto per me?» sbottò Polen, imponendosi di stare calma.
«Casa tua quando tu non ci sei?»
«Dov’è andata Sanem?»
“Ancora Sanem.” Era lei allora la donna di cui si era innamorato? Polen
non poteva crederci. Per un attimo pensò che sarebbero usciti gli amici con i
cotillon a dirle che era in una candid-camera ed era stato esilarante vederla
spaventarsi così per un’impiegata.
«È andata via in taxi.»
«Da sola?» chiese subito Can. Aveva la preoccupazione nella voce e
forse, intuì Polen, anche un’ombra di gelosia per Levant, che l’aveva
riaccompagnata a casa dopo il lavoro. Era troppo da sopportare tutto
insieme.
«Non ha dodici anni. Comunque io rimango qui con te, non mi fido a
lasciarti.»
O meglio, non poteva immaginare una notte a casa, mentre lui a pochi
chilometri sognava davanti alle foto di Sanem, in quel posto così assurdo,
così poco elegante.
«No» disse Can. «Polen, non voglio che tu rimanga qui. Non ci sono
comfort, non saresti a tuo agio. Torniamo a casa… insieme.»
Polen prese il telefono per chiamare un taxi. Non accennò con Can a
quello che aveva visto poco prima. A quello che gli aveva visto guardare.
Forse dovrei attendere quel momento, come il fiore

Orgatte era una bevanda biologica che il comparto più sperimentale di


Galina voleva spingere al massimo. Per quarantotto ore i creativi della Fikri
Harika avevano lavorato allo script dello spot e CeyCey si era occupato di
trovare e allestire il set in un bosco di conifere, nelle vicinanze di una
spiaggia suggestiva e selvaggia appena fuori Istanbul.
Can era arrivato sul set all’alba. Era agitatissimo al pensiero che Sanem
avesse trascorso la serata con Levant, dopo avere accettato il suo passaggio.
Aveva aiutato a preparare la location e aveva accolto il regista, un maestro
del videoclip tanto visionario quanto irascibile.
Poco dopo il sorgere del sole, erano arrivate Deren e Aylin. Anche Aylin
era stata coinvolta nell’affare di Orgatte, con grande disappunto di Deren.
Quello che era successo metteva di nuovo alla prova Can, il suo modo di
pensare, la sua correttezza. Aylin sapeva come muoversi per manipolarlo:
era andata a casa sua una sera, per confessargli di amare ancora Emre. E che
la sua agenzia era in bancarotta.
«La mia vita è finita, da quando lui non c’è più» si era giustificata. «So
che tra noi ci sono stati momenti di guerra, Can, ma vorrei solo stare
tranquilla con l’uomo che amo. Ora che la mia agenzia è in rovina, ho capito
cosa sia veramente importante.»
Sanem, adesso che la sua finta rottura con Osman era ufficiale, non aveva
più bisogno di quell’anello che aveva scelto Emre («Questo anello mi ha
rovinato la vita» gli aveva detto), e lui si era offerto di venderlo per aiutare
Aylin a pagare i propri debiti.
L’ex fidanzata aveva reagito con uno scatto di rabbia che non era riuscita
a dissimulare: avrebbe voluto una proposta di matrimonio, non la vendita del
suo anello di fidanzamento, scivolato nelle mani di Sanem. Ma Emre non
riusciva a perdonarla per aver architettato il plagio ai danni di Can; si era
allontanato, si stava disinnamorando e, probabilmente, l’ultima cosa che
voleva era sposarla.
Aylin si era sentita persa, ma le donne come lei sapevano trarre il
massimo anche da situazioni in apparenza disperate.
E così si era rivolta a Can, l’uomo che aveva tentato di distruggere.
Aveva passato alla Fikri Harika un cliente, in segno di pace, perché non
poteva sostenere i costi per la lavorazione della campagna, e in cambio
aveva chiesto “solo” di partecipare al lavoro per Galina. Can aveva esitato,
ma l’aveva vista sincera (ed era sincera: la paura di perdere Emre, in Aylin,
era reale; in qualche modo contorto lei lo amava).
E poi lui non riusciva proprio a colpire qualcuno già a terra, non ce
l’aveva mai fatta; dopo qualche incertezza, aveva acconsentito,
raccomandandole di comportarsi in modo corretto.
«Aylin, non permetterti mai più di portarci via un cliente.»
«Quella donna non esiste più» aveva mentito lei.
Can le aveva consigliato anche di dichiarare i propri sentimenti a Emre,
se lo amava davvero. Voleva che suo fratello fosse felice. “E almeno lei può
farsi ascoltare” aveva pensato. Con Sanem invece era tutto sempre molto
difficile.
Il boschetto per lo spot era davvero favoloso. Deren era fuori di sé per
l’arrivo di Aylin, la sua storica nemica, che a sua volta aveva dato a Güliz un
piccolo ruolo da attrice. Che fosse un tentativo per comprare la segretaria?
Güliz avrebbe dovuto solo servire la bevanda con un look in stile Hawaii,
ma era emozionatissima. Aveva anche creato una storia di vita immaginaria
per il personaggio, come aveva imparato a un corso di recitazione. Per
l’agitazione, poi, aveva dimenticato due volte la sua brevissima battuta.
Era tutto un gran caos. E Can non dormiva bene da tempo. La notte
precedente era andato al suo rifugio per pensare e riposare, ma Polen lo
aveva trovato (o meglio, Sanem l’aveva portata lì) e costretto a tornare a
casa con lei, dove non era riuscito a addormentarsi. E oggi dovevano girare
quello spot importantissimo, alla presenza dei responsabili del prodotto.
In tutto questo, l’attore sembrava stesse bevendo un bicchiere di fiele.
«Non può metterci più gusto?» chiese uno dei manager di Galina,
visibilmente offeso.
«Fai un’espressione felice, grazie!» trillò Deren rivolta all’attore. «Come
se bevessi qualcosa di buono!»
Intercettò lo sguardo allibito del cliente e si affrettò a precisare: «Cioè,
stai bevendo una cosa buonissima! Dai, mostralo a tutti!».
“Il biologico” pensò per l’ennesima volta Can, “proprio una gran cosa
questo biologico.”
CeyCey, in un impeto di iperattività, si lanciò sulla scena, stringendo una
bottiglia di Orgatte. «Guarda, bevi così!» e provò ad assumere una posa
sensuale, come negli spot della Coca-Cola anni Novanta. Un rivolo di
Orgatte gli scivolò sulla canottiera, mentre il regista urlava: «Ma chi è
quello? Se ne vada!».
«Ha un disturbo della personalità, maestro» si precipitò ad assicurare
Deren, rivolgendosi poi allo stagista: «CeyCey, sparisci!».
«Riprendiamo da capo» strillò il regista. «Alla ragazza tremava la mano.
Stai ferma, per favore!»
Can vide Sanem avvicinarsi a Güliz, per incoraggiarla. Indossava
pantaloncini e una maglia a righe, sembrava una ragazza delle scuole
superiori.
«Stai andando bene! Pensa di essere a casa tua, di servire la bevanda a un
amico!»
Güliz sudava sotto il trucco. «Non è facile, Sanem! Prova tu a portare
questo vassoio senza tremare. Ho troppa ansia.»
Al decimo ciak, l’attore ebbe un attacco di vomito. Con orrore di tutti,
una cascata giallognola fluttuò sulla sdraio e sull’erba della radura, mentre
un rivolo macchiava le scarpe di Deren. L’uomo si rifugiò tra le ortiche,
cercando di nascondersi, era pallidissimo e si sentiva svenire.
Deren era furibonda. Schiumava rabbia dalle narici. «L’ha scelto Aylin! È
un sabotaggio!»
La rivale scoppiò a ridere: «Ma che cosa dici? Questo lavoro interessa
più a me che a te».
“Ma cosa diavolo c’è in quella bevanda?” si chiese Can. La giornata
stava andando malissimo. E peggiorò quando vide i giovani cameraman
spalancare gli occhi e voltarsi nella stessa direzione. Uno di loro fece
cadere un cavalletto, che rotolò sull’erba. Era arrivata Polen sul set, con un
look da diva completamente fuori luogo in mezzo alla foresta: minigonna
plissettata, ombelico scoperto, top di tulle.
Can sperava sarebbe partita per Londra, ma lei lo aveva raggiunto anche
lì. Si voltò verso la troupe e gridò: «Pausa pranzo! Riprendiamo dopo».
Leyla aveva risolto il problema del catering all’ultimo minuto chiedendo
aiuto a Osman. Per l’occasione l’ex finto fidanzato di Sanem aveva
preparato un buffet di cibo sconfinato, in cui aveva incluso le kofte
vegetariane. Can aveva riso, pensando al controsenso: un macellaio che
cucinava senza carne? Il banchetto, però, era stato impeccabile. Osman
aveva coinvolto anche sua sorella Ayhan e lo storico spasimante di Sanem,
Zebercet, che si era fatto insultare dai cameraman perché, per portare delle
polpette alla ragazza come snack di metà mattina, era passato davanti alla
videocamera interrompendo le riprese.
In ogni caso, l’attore era fuori gioco. Lo aveva spiegato CeyCey,
raggiungendo una Deren fuori di sé e un’Aylin quasi divertita.
«Orgatte è biologica, fa bene» aveva detto, «ma forse ne ha bevuta
troppa. Un litro di biologico e non sai dove vai a finire…»
«In che senso?» aveva chiesto uno dei manager dell’azienda, che si era
avvicinato sentendo il ragazzo parlare a voce alta.
«Ma niente!» aveva squittito Deren. «Scherza! Ora risolviamo. Non
potete dargli della magnesia, del bicarbonato?»
«Sta male» aveva ripetuto CeyCey, «io temo sia il caso di trovare un altro
attore.»
«Ora? E chi?» la voce acuta di Deren perforò l’aria, quando tutti e tre si
voltarono verso Osman che stava trangugiando una bottiglia di Orgatte. Era
favoloso, era… sexy. Lo aveva notato anche Can, già quando lo aveva
incontrato per la prima volta al campus: eccola la nuova star delle bevande
salutiste. Con quei capelli ricci, gli occhi blu e il sorriso ammaliante
avrebbero convinto milioni di consumatrici.
Osman accettò, non senza qualche riserva. Sul set era arrivata anche
Leyla, insieme a Emre, e le brillarono gli occhi quando scoprì l’amico al
centro del set.
Sotto il suo sguardo attento, Osman improvvisò in modo sublime.
Sorseggiò quella bevanda come se ci fosse solo lei, a guardarlo. Ad
asciugargli le labbra con un tovagliolo di seta.
Anche il regista aveva cambiato umore; forse per le kofte di Osman, forse
per Osman stesso.
«Finalmente un ciak decente!» esclamò facendo partire un piccolo
applauso. Deren non lo aveva mai visto così compiaciuto, ed era quasi
preoccupata.
«Maestro, è davvero soddisfatto? Io l’avevo detto che quel tipo…»
«Ragazzo, passami i tuoi contatti. Non so se ti segue già un’agenzia, ma
lavoreremo ancora insieme.»
Finirono di girare nel primo pomeriggio. I clienti e il regista andarono via
e sul piccolo bosco scese un’atmosfera rilassata. Mentre si occupava di
elencare tutto quello che veniva smontato, Sanem si trovò davanti Can.
«Ciao, Sanem.»
«Buonasera, signore. Spero abbia dormito bene stanotte.»
Era arrabbiata. Non poteva sopportare il pensiero di lui nel suo rifugio –
nel loro rifugio – con Polen. Ma anche Can sembrava furioso.
«Bella serata con Levant?» la guardava ostile, atterrito, febbrile.
Sanem sentì un tuffo al cuore. Pensò di mentire e dire che si era trovata
bene, che avevano cenato in un ristorante e ammirato le stelle. Poi,
guardandolo negli occhi, disse solo: «Non ho accettato il passaggio. Ho fatto
solo finta».
«E perché?» insisteva Can, avvicinandosi a lei. Sanem sentiva il suo
cuore che iniziava a battere all’impazzata. La verità è che aveva fatto due
chiacchiere con il cliente, volgendo deliberatamente il discorso sul proprio
obiettivo, ovvero capire se fosse lui l’uomo che aveva baciato. Aveva
scoperto subito che non era l’albatros, perché portava la barba da poco e
non avrebbe potuto averla la sera della festa. In ogni caso, non avrebbe mai
accettato un passaggio da lui.
«Non lo avrei mai fatto.» Sanem cambiò discorso: «E lei con Polen?
Avete sistemato le cose?».
«Non abbiamo sistemato niente. È venuta qui, ma ci siamo lasciati. E tu,
Sanem, non avresti dovuto portarla al mio rifugio. Era un posto segreto…
solo tu ne eri a conoscenza. Perché ce l’hai portata? E perché eri a casa mia
l’altra sera?»
Troppe domande. Sanem aveva le risposte, ma non poteva dirgliele.
Preferì fare un passo indietro.
«Mi scusi. Ho finito qui e, se non c’è altro, farei una passeggiata per
raccogliere fiori.»
Vai via subito, Sanem. Sei cotta di lui. Ma devi andartene. Polen è qui
in giro. E tutti sanno che sono fidanzati. Non sarebbe corretto, da parte
tua.
«Vado a cogliere fiori» ripeté, «per il mio profumo. Cerco una violetta.»
«Vengo con te, Sanem» propose lui.
Sì! Sanem portalo con te! Cogliete violette insieme. Naufragate nelle
violette. Inebriatevi di violette. Perché no?
«Grazie, ma preferisco stare da sola.»
Lui la rincorse. «Aspetta, Sanem!»
«Mi lasci in pace, la prego!»
Si voltò e scese verso la spiaggia, senza guardarlo. Il litorale era
frastagliato di rocce come il suo cuore. Sapeva che non poteva, non voleva
girarsi. Poi non sarebbe più andata via. Sentiva quell’energia magnetica
avvolgerli. Sentiva il suo profumo che si mescolava a quello della pelle di
Can. Sentiva il suo sguardo triste addosso e avrebbe voluto cancellarglielo.
Portarlo alla salvezza. Avrebbe potuto farlo, ma non oggi.
Si addentrò sulla spiaggia, attraversando la macchia verde, cercando i
fiori. Ne vide uno lilla, affacciato sul mare, con la visuale completa sulla
spuma delle onde. Lo invidiò.
“Solo il fiore che viene raccolto nelle prime ore del mattino rilascia tutta
la sua fragranza” pensò. “Ogni cosa ha il suo momento. Forse dovrei essere
felice con la mia solitudine e attendere quel momento, come il fiore.”
Si guardò intorno: non c’era nessuno. E aveva bisogno di pace. Tolse le
scarpe, appoggiò il suo mazzolino per terra ed entrò vestita nell’acqua
salata. Lo faceva spesso, quando voleva schiarirsi le idee. Come se, per
schiarirle, dovesse bagnarle. Si sentì cullare dal mare, ne ascoltò il respiro
leggero. Chiuse gli occhi e li riaprì subito: tutto quello che riusciva a vedere
era il signor Can, con le sue collane, davanti a lei. Ma lui non era lì. O forse
sì?
Richiuse e riaprì gli occhi, incerta di quello che stava guardando. Il
signor Can era davvero davanti a lei. Era lì, nell’acqua. I vestiti erano
trasparenti e il suo corpo sotto la maglietta la lasciò di nuovo senza fiato.
Meglio non guardare, Sanem!
Non era possibile “non guardare”. Si faceva largo tra le onde basse
tagliandole con grazia, come un albatros. E si avvicinava.
Si avvicina!
Si avvicinava troppo.
Sanem fece per correre fuori dall’acqua, sul bagnasciuga, ma lui la
rincorse, come in uno di quegli sceneggiati strappalacrime che piacevano a
Mevkibe.
«Sanem! Anche nell’acqua devi scappare?»
«Lei non è reale! Lei non è qui» balbettò, sentendosi ridicola.
«Sanem…»
Lei gli sfuggì, lui la rincorse e alla fine la prese tra le braccia. Goccioline
salate scivolavano sulla barba, sui gioielli etnici, sulla maglietta trasparente.
Sanem avrebbe voluto andarsene, ma non poteva. Sentì un improvviso calore
e un senso di vertigini.
«Cosa stiamo facendo, signor Can? Le avevo detto che volevo stare da
sola.»
«Ti piace stare da sola?» chiese lui.
«Sì.»
«Anche a me» disse Can. E si avvicinò ancora di più. Sanem sentì le loro
labbra a un millimetro dallo sfiorarsi. «E se invece stessimo da soli
insieme?» concluse guardandola intensamente negli occhi.
Non aveva importanza dove stavano. O con chi, se da soli o in mezzo alla
gente. Sanem si stava nutrendo di quel momento, come un fiore sotto i raggi
del sole. Lui era miele, e luce, e vita.
Attenta Sanem! Se lo baci adesso, sei finita!
Can sorrideva e la guardava come se non esistesse altro al mondo.
Respirò acqua salata e fece per posare le labbra sulle sue, quando…
Un urlo spezzò il momento.
Era Deren, a pochi metri di distanza. «Can!»
Si allontanarono e Sanem si chiese cosa stesse succedendo. Era
frastornata e si rese conto che, se quella donna non fosse apparsa, si
sarebbero baciati. Lui non smetteva di guardarla e quegli occhi potevano
seguirla ovunque. Nessuna Deren avrebbe potuto rompere l’incantesimo.
Sanem notò lo sguardo di disappunto (no, di rabbia, orrore, disgusto)
della donna. Il suo rossetto vinaccia stonava incredibilmente davanti ai
riflessi chiari e naturali del mare.
«Che succede?» gridò Deren. «Sanem!»
Pensa, pensa. Inventati qualcosa, dai. Subito!
«Signora…»
Subito!
«… la caviglia! Ahi!!! Mi sono slogata una caviglia e il signor Can mi ha
soccorso!»
Deren la fissò incredula, e poi guardò Can. Ma pensava già ad altro. «Una
tragedia, Can! La scheda SD della fotocamera si è danneggiata. Abbiamo
perso tutto quello che abbiamo girato! Tutto, capisci? Tutto!» scoppiò a
piangere. «Dobbiamo rifare lo spot!»
«È per dopodomani, no?» chiese Can «Abbiamo tempo.»
«Ma che dici?» Deren si asciugò le lacrime, che il vento mescolò al
trucco. «Non tollero questa tua calma, Can. È insopportabile.»
Sanem s’inserì. «Ahi! Mi fa male la caviglia! Ma adesso sto meglio.
Cammino, dai!»
Deren urlò ancora: «Zitta! Vai subito a chiamare tutti i fornitori. Tutti.
Soprattutto i truccatori. Corri!».
«Deren, stai tranquilla» stava dicendo Can, come se parlasse a un
bambino. «Di’ a CeyCey di andare a prendere delle tende. Dormiremo qui e
domani mattina all’alba giriamo di nuovo. Con Osman.»
«Tende? Campeggio?» Deren strabuzzò gli occhi. «No Can, ti prego!
Odio il campeggio.»
«Vedi alternative? Vuoi convocare tutti stanotte alle quattro? Non è il
caso.»
«Ma…Can! Can, io… Vabbè, vada per le tende… non riesco neanche a
dire questa parola. Tende.»
I ragazzi accolsero la notizia con divertimento. Erano giovani,
spensierati, e una notte come quella era un’esperienza speciale. CeyCey
prese il furgone e andrò a comprare tutto, insieme ad Ayhan. I suoi sentimenti
per lei erano ormai esplosi come bengala nella notte e quando aveva
scoperto che era una mental coach, affinché potesse trovare scuse per
vederla, le aveva chiesto qualche consiglio per gestire lo stress: era così
alla moda, così matura, così risolutiva.
Tornati alla radura si misero al lavoro insieme agli altri ragazzi che, sotto
la direzione di Can, montarono tutto in tempo record.
Sanem intanto si cambiò i vestiti in una delle roulotte. Leyla aveva
avvisato i genitori del fuori programma e lei era stata felice di non doverli
chiamare. Da ore ormai aveva perso di vista Polen che, stando alle
informazioni di Güliz, era andata a casa perché non era abituata al
campeggio e preferiva dormire in un letto. Sanem, che amava la natura più di
ogni altra cosa, pensò che quella donna si stava perdendo uno dei grandi
piaceri della vita. Lei non vedeva l’ora di sdraiarsi nella sua tenda, a un
metro dal cielo, e pensare al signor Can. Lo stava vivendo troppo in fretta,
senza avere la possibilità di immaginarlo in silenzio, da sola. Si sentiva
inghiottita da una centrifuga che non riusciva (e non voleva) fermare. Era la
prima volta in vita sua che provava queste emozioni. Pensò che poteva
smettere di tirarsi indietro. Di avere paura. Almeno per una volta.
Mangiò qualche kofta avanzata dal catering con Osman e Ayhan. Era buio
e finalmente si era dissolta l’afa, il cielo respirava le sue mille stelle. Poco
prima Deren aveva urlato (di nuovo) perché un insetto era entrato nella sua
tenda e Can l’aveva accompagnato fuori, adagiandolo nell’erba e
tranquillizzando la ragazza. Sanem era lì e i loro sguardi si erano incrociati,
per poi perdersi di vista. Poco dopo lui l’aveva chiamata al telefono. Non
era mai successo prima.
«Volevo solo sentire la tua voce, Sanem.»
«È nella sua tenda, signor Can? Dove si trova?»
«No, Sanem, niente tenda stanotte… sai che mi piace l’aria aperta. Sono
in un posto vicino alla spiaggia di oggi… vedo un milione di stelle. Volevo
solo sentirti, prima di dormire, perché oggi… oggi è successo qualcosa, non
credi?»
Sì. Era successo qualcosa. Niente era più come prima, dopo quel
momento in acqua.
“Viviti qualcosa, nella tua vita” si disse Sanem. “Almeno una volta.”
Entrò nella tenda. Ayhan, che la condivideva con lei, era già nel suo sacco
a pelo, e la guardò sospettosa. «Che cosa è successo? Hai un’espressione
strana.»
«Oggi il signor Can mi ha raggiunto in spiaggia. Stavamo per baciarci.»
«Sanem!» I grandi occhi di Ayhan erano pieni di magia. Sembrava che la
vivesse anche lei, di luce riflessa, tanto quella emozione era forte. «Ma
come è successo?»
«Ti racconterò, sorellina. Adesso vado a cercarlo.»
«Sanem! Sei sicura? Non è pericoloso?»
«Non può essere qui fuori il pericolo, nella natura. Non può essere lui.
Non è un re malvagio.»
«Ma… sei sicura? Usa la torcia, almeno.» Ayhan le allungò la propria.
«Stai attenta, ti prego!»
Sanem mandò un bacio alla sua amica e si avventurò nella notte. Si
orientava perfettamente in mezzo ai boschi e trovò Can in una manciata di
minuti. Aveva costruito un’amaca sotto la luna. Sembrava un sogno, più
vivido di quelli notturni. Più palpabile. Sanem si nascose dietro un albero;
guardò il suo profilo, il suo codino alla luce della notte. Sentì il soave
tintinnare delle sue collane. Aveva gli occhi persi nella costellazione di
Orione.
Fece un passo e sentì franare un sasso. Lui si voltò, la vide. «Sanem!»
Aveva percorso la breve distanza tra loro in un istante. Era davanti a lei,
di nuovo, senza nessuno che li interrompesse. C’era la notte, dalla loro parte.
C’era la luna.
«Vado via» disse lei. Non poteva restare. «Volevo solo vederla un attimo.
E ci siamo visti, quindi adesso posso…»
«No» la fermò lui «Sanem, ti prego. Non te ne andare.»
Era così dolce. Sanem sentì il cuore scivolare via, attraverso le viscere
di quel momento. Non lo avrebbe mai dimenticato e ringraziò la vita per
averglielo dato.
«L’amaca dovrebbe resistere al nostro peso» mormorò Can, «sdraiati qui
con me un attimo.»
“Perché no?” si chiese Sanem. L’altra se stessa taceva, forse sopraffatta
come lei da quell’istante. Perché no?
«Perché no?» disse a voce alta «Ma solo cinque minuti.»
Sull’amaca, con il viso appoggiato al petto di Can, le sembrava di stare
tra le stelle. Sanem vide Orione sopra di loro. Si girò e vide lui che le
sorrideva. Non avrebbe provato a baciarla, quel momento era perfetto già
così. Tutto il firmamento era lì, con loro, complice di quell’amore
immaginato.
«Signor Can, conosce la storia di Orione?»
«No. Raccontamela tu.»
Sanem sorrise e gli indicò quei punti di luce.
«Artemide, che era nota per essere una grande tiratrice con l’arco, si
innamorò del cacciatore Orione, ma suo fratello Apollo non accettava che i
due stessero insieme. Era molto invidioso di Orione e così, con un tranello,
sfidò Artemide a tirare con l’arco una freccia in un punto preciso del mare
dove in realtà Orione era disteso di schiena a riposare. Così, senza saperlo,
Artemide centrò il cuore del suo amato e lo uccise. Affranta da ciò che
aveva fatto, lo caricò sul suo carro celeste e volò in cielo.»
«È triste» commentò Can, «ma bellissima.»
Orione l’aveva inglobata in quell’amaca dei sogni, ma si era fatto tardi.
«Devo andare» disse Sanem.
«Ti prego, resta.»
«Non posso…»
«Cinque minuti, solo cinque minuti.»
Sanem si addormentò e quando aprì gli occhi vide l’alba tagliata dal cielo
rosa, dai versi dei gabbiani.
Aveva dormito di nuovo con Can.
Se solo…

«Nihat, non senti un odore strano?» Mevkibe era davanti alla porta di casa e
fiutava. Fiutava guai.
«No, amore mio!»
Entrarono e si sfilarono le scarpe, riponendole ordinatamente sullo
scaffale.
«Sanem mi preoccupa» disse Mevkibe, «non so, è strana. Io penso si sia
innamorata. Sento odore di bruciato. Odore di guai.»
A interromperli fu un violento rumore, come di qualcosa che andava in
frantumi. In cucina.
«Nooo! Viene dalla cucina, Nihat!» urlò Mevkibe.
“Un ladro” pensò lui spaventato. “E adesso cosa faccio? Come lo
affronto?”
Attraversò il corridoio e spalancò la porta, facendo scudo alla moglie con
il suo corpo. “La difenderò, a costo di combattere. Di perdere il mio sangue.
Di morire” si disse cercando di scansare la paura.
Non si sarebbe mai aspettato lo spettacolo che si svelò davanti a loro.
Vide la bocca di sua moglie spalancarsi per lo stupore, mentre strabuzzava i
fiammeggianti occhi neri.
Sanem era in cucina. In cucina a cucinare. Forse per la prima volta da
quando era nata, se si escludeva la giornata di quei disastrosi baklava che
avevano causato un’intossicazione a tutta la famiglia, nel lontano 2008.
Aveva una furia strana negli occhi, una scodellina le era scivolata per
terra e si era rotta e quando li vide entrare, con le mani ancora infilate in un
assurdo impasto, strillò trionfante: «Kofte crude! Ci penso io a cucinare
oggi. Sto preparando le kofte».
Nihat controllò il viso di sua moglie, rimpiangendo l’assenza del ladro. A
Mevkibe stava salendo troppo la pressione, lo capiva dal colore del suo
volto. Sanem aveva ridotto la cucina a un campo minato: cipolle, cumino e
paprika erano ovunque. Ma proprio ovunque.
«Papà, ne vuoi una?» chiese Sanem allungandogli una pallina… o quella
che a lui sembrava una poltiglia di fango colorato.
«No!» squittì Nihat, rendendosi conto del tono troppo affettato. «Cioè,
sembrano deliziose, ma… ho già mangiato! A saperlo, avrei evitato di
riempirmi!»
Mevkibe avrebbe fatto qualunque cosa per non vedere la cucina in quello
stato. Tutti sapevano che quello era il suo regno e l’unica che poteva
permettersi di invaderlo era Leyla. Al momento però era più preoccupata da
qualcos’altro: da tempo sospettava che Sanem fosse innamorata del suo
capo, il signor Can. Aveva gli occhi a cuore, non c’erano dubbi. Lei lo aveva
intravisto qualche volta, era gentile… ed era bellissimo.
Fece cenno al marito di uscire in giardino e abbracciò la figlia. «La mia
piccola Sanem. Adesso cucini anche! Sei sempre stata così diversa dalle
altre bambine! Ricordati che tu puoi fare tutto, addirittura… puoi addirittura
fare le kofte, figlia mia!»
«Certo che posso! E adesso… devo amalgamarle… Ma non si
amalgamano. Non capisco…»
«Sanem…» provò a dire Mevkibe costernata, «non si fanno così le
kofte!»
«Ma sì, mamma! Basta aggiungere un po’ di piccante!»
Prima che la madre potesse fermarla, Sanem rovesciò a caso un po’ di
spezie nella ciotola. Mevkibe pregò che nessuno dovesse mai mangiare quel
piatto.
Non si era del tutto sbagliata sulla figlia. Sanem stava cucinando le kofte
per sfogare la rabbia e per impressionare Can Divit. Dopo la notte in
spiaggia sull’amaca, sotto la luna, aveva deciso: avrebbe lottato per
quell’uomo. Lui la guardava in un modo che le faceva sperare di essere
contraccambiata. Di essere amata.
Can e Polen l’avevano riaccompagnata a casa, dopo le riprese dello spot,
rifatte da capo per il guasto tecnico. In macchina la fidanzata del capo aveva
un atteggiamento supponente e fastidioso. La fissava, fissava i suoi vestiti. In
più, Sanem, nascosta dietro un albero del bosco, li aveva sentiti parlare
durante una pausa dello shooting.
«Can, qui parlano tutti di te e quella ragazza. Deren dice di avervi
sorpresi in riva al mare. Non ti chiedo spiegazioni, non sono gelosa di lei,
sarebbe quantomeno ridicolo. Però tu non puoi illudere una ragazza del
genere. Con la sua estrazione modesta, la sua cultura… potrebbe soffrire.
Fallo per lei» aveva detto Polen in tono quasi sprezzante.
Sanem si era allontanata furiosa, prima ancora di sentire la risposta di
Can. Non sapeva che lui aveva consigliato alla ragazza di non intromettersi.
«Polen, sei migliore di così. Molto meglio. Non conosci Sanem, perciò
parli in questo modo. Lei è speciale.»
«Non lo è affatto. Ma per te lo è, questo l’ho capito.»
«Mi dispiace, Polen, ma non posso mentirti. Non lo accetteresti, mi
odieresti. E odierei me stesso.»
Sanem non aveva sentito quelle parole, si era allontanata prima, cercando
di controllarsi. E poi aveva deciso di sfogare la sua furia nelle kofte.
Pensava che si sarebbe rilassata.
Le avrebbe portate a casa Divit per il compleanno di Polen: quella sera ci
sarebbe stata una piccola festa, proprio in suo onore. E lei, con le sue kofte,
avrebbe impressionato tutti.
Era insolitamente su di giri. L’altra Sanem non la lasciava in pace e le
segnalava le contraddizioni di quel colpo di testa, di quelle polpette
disgustose.
Sanem, perché continui a renderti ridicola? Non fanno altro che
prenderti in giro. Smettila con questi colpi di testa. E di fare kofte, per il
bene di tutti.
Lei non l’ascoltò. La spedizione segreta in camera di Leyla fruttò uno
splendido abito color latte e un paio di sandali dal tacco alto. Non ci sapeva
camminare, certo, ma se aveva imparato a fare così bene le kofte avrebbe
potuto superare qualunque ostacolo, no? Aveva raccolto i capelli, indossato
un paio di orecchini color giada e provato a mettere anche l’eyeliner.
«Sei bellissima, stasera» le disse Güliz con cui aveva diviso il taxi per
andare a villa Divit. Con quei tacchi Sanem non sarebbe arrivata viva
neanche alla fermata dell’autobus a poche centinaia di metri da casa sua.
«Molto elegante il tuo vestito, Güliz» rispose Sanem. Anche la segretaria
aveva scelto un abito bianco con le maniche a sbuffo, un po’ arricciate. «Mi
dispiace per CeyCey, che deve lavorare e si perderà il party…»
CeyCey era stato “sacrificato” dalla Fikri Harika per assentarsi dalla
festa di compleanno: doveva allestire un set pubblicitario nello stesso teatro
dove si era tenuto l’anniversario dell’agenzia.
«Anche a me» trillò Güliz, «il party dei Divit sarà un sogno… Il signor
Can per Polen non avrà badato a spese.»
«Be’, è normale, è il suo compleanno» rispose scocciata Sanem.
«Non solo! Si amano così tanto» gridò Güliz. I grandi occhi scuri le si
illuminarono…
“Ma cosa gliene importa?” si chiese Sanem. “Perché tanta emozione per
una coppia che non c’entra nulla con lei?”
«La signora Polen ha disfatto le valigie! Si trasferisce qui e va a vivere
con il signor Can. Probabilmente si sposeranno!» continuò la ragazza
sognante.
Sanem si sentì mancare il fiato. In quel taxi l’ossigeno era sparito di
colpo. Si soffocava.
«Ma… sei sicura?»
«Certo che sì! È tutto il giorno che l’autista porta scatole e pacchi da casa
della madre di Polen a casa del signor Can. In più ho cancellato
personalmente il volo della signora e le ho preso appuntamento per un
colloquio di lavoro. Mette radici, Sanem! A Istanbul e nel cuore del signor
Can.»
Sanem sentì il suo di cuore andare in mille pezzi. Si sentì svuotata. Era
tutto perduto. L’altra se stessa vibrava di rabbia. Di vergogna.
E tu che hai preparato le kofte! Mentre preparavi le polpette, Polen e
Can progettavano le nozze. Io ti avevo avvertito, Sanem. Te l’avevo detto.
«Güliz, io…»
Adesso scendi! Vattene via!
«… io me ne vado. Scusi, vorrei scendere. Può accostare?»
Quel party non l’avrebbe mai vista. Sarebbe andata ovunque, quella sera.
Ovunque ma non dai Divit.
«Ma come?» Güliz era confusa. «Sanem, perché? Ci divertiamo, dai! Ci
saranno tutti!»
Sanem si chiese perché quella ragazza non riuscisse a capire. Quello che
provava lo aveva scritto in faccia. Güliz non lo leggeva, però. O meglio, non
sapeva leggere nei suoi occhi. Fluttuava sulla superficie, non riusciva a
scendere sott’acqua. E non era una colpa, era solo fatta così.
«Ho pensato a CeyCey e non mi sento serena a lasciarlo da solo al teatro.
Ciao, Güliz» farfugliò.
Prima che la segretaria potesse replicare, Sanem scese dalla macchina. Il
taxista fortunatamente aveva già accostato sul ciglio della strada. Si ritrovò
tra la campagna e la città. Istanbul era davanti a lei: le mille luci della città
sembravano partecipare al suo dolore. Sanem pianse lacrime salate, odiando
se stessa con tutto il cuore.
Un’agitata Güliz arrivò alla festa in leggero ritardo. Era turbata per quella
reazione di Sanem, ma rimase abbagliata dall’allestimento: palloncini color
cipria, lanterne disposte sul perimetro della piscina, candele profumate e
fiori. Un party degno della classe di Polen.
«Güliz» l’apostrofò il signor Can. Aveva un bicchiere in mano ed era
visibilmente preoccupato. «Hai visto Sanem?»
«Signor Can! Sanem è andata via! È scesa dal taxi e ha raggiunto CeyCey
al teatro. Così, all’improvviso! Le ho detto che c’era molto da festeggiare, il
compleanno e il fatto che Polen vivrà con lei, ora. Ma lei ha preferito non
venire alla festa.»
La segretaria vide il capo impallidire.
«Cosa le hai detto?» sibilò Can. «Güliz, ma che hai fatto! Chi ti ha detto
che Polen viene a vivere qui?»
“Ma che hanno tutti?” si chiese lei. “Sono matti. Tutti quanti.” «Io
pensavo…» s’interruppe scorgendo l’espressione furiosa di lui.
«Brava, Güliz! Continua così! Parla sempre di tutti, racconta a caso cose
a cui sei arrivata con le tue brillanti capacità deduttive. Brava, bravissima!
Non ho parole.»
Güliz si spaventò; non lo aveva mai visto così arrabbiato. «Mi scusi
signore» balbettò, «non sapevo… Sistemo tutto io!»
«Ma che vuoi sistemare… lascia perdere. Goditi la festa.»
Can scorse Polen dall’altra parte della piscina; sembrava la copertina di
una rivista di moda. Lo aspettava per il brindisi, ma lui… lui aveva bisogno
di stare da solo.

Nel frattempo Sanem era arrivata al teatro. Nonostante il cuore in mille


pezzi, non poté non rimanere abbagliata dalla bellezza di quel posto che
ormai aveva nel cuore. L’architettura elegante dell’edificio, il foyer, la
lussuosa scalinata. Il respiro dello spettacolo, dei sogni. E… CeyCey.
«Un angelo!» strillò lo stagista trovandosela davanti. «Sono morto! Sono
nell’aldilà! Dimmi, angelo. Cosa devo fare? Sono stato buono, giuro!»
«Sono Sanem, CeyCey!» lo tranquillizzò lei, che riuscì a sorridere
nonostante il brutto momento. CeyCey era unico. «Sono solo vestita di
bianco!»
«Meno male!» gridò lui. «Pensavo di essere…»
«… morto?» Sanem completò la frase. «Tranquillo! Sono venuta qui per
darti una mano. Ma prima… scusami un attimo. Arrivo subito.»
Scese in platea, tra le poltrone. Proprio lì, a pochi passi da dove aveva
incontrato l’albatros.
“Piangerò un po’” si disse, “piangerò qui, da sola. Almeno venti minuti.
Forse trenta. Forse anche un’oretta. Poi basta, lo dimenticherò.”
Si sedette e lasciò fluire le lacrime, mentre da un proiettore partì un
fascio di stelline luminose che accesero le pareti. “Adesso anche le stelle” si
disse Sanem annegando nella luce.
Il mondo la spingeva a crederci… poteva davvero finire così? Con Can e
Polen sposati… e la strage delle sue kofte. Assurdamente, in quel momento,
le venne in mente di averle dimenticate in taxi. Chissà se il taxista le aveva
assaggiate.
Forse qualcuno passerà la notte al bagno.
Prese il cellulare e scrisse un messaggio al signor Can: “Se solo lei fosse
l’albatros…”
Sanem, sei impazzita? Ti prego, torna in te.
Rispose a voce alta all’altra se stessa: «No, non torno in me. Di’ quello
che vuoi, io non ti ascolto. Oggi posso stare male. Oggi devo stare male».
Can intanto, mentre Polen contava i suoi macaron e recuperava candeline
rosa insieme alle sue amiche, aveva lasciato la festa. Si era chiuso in camera
sua, seduto sul letto a riflettere, a pensare a lei, quando… lo schermo del suo
smartphone si illuminò. Era un messaggio di Sanem; il suo cuore si riempì di
dolcezza. Il messaggio diceva: “Se solo…”.
“Non c’è nessun se” pensò Can e sorrise. Pensava alla sua Sanem, al suo
cuore spezzato dalla superficialità di Güliz, e al sogno dell’albatros. Aveva
avuto un’idea, l’unica idea possibile. Cercò lo smoking indossato per la
festa della Fikri Harika e le scarpe coordinate: sarebbe andato da lei.
Intanto Sanem piangeva senza controllo tra le stelle luminose del teatro di
Istanbul quando sentì una mano sulla spalla; era CeyCey, visibilmente
preoccupato. Anzi, no: terrorizzato.
«Tu credi nelle favole?» gli chiese.
«No» balbettò lui, «solo ai film dell’orrore.»
“Questo lo è” pensò Sanem.
«Ti ricordi l’uomo di cui ti ho parlato? Il principe gentile? Lo amo
follemente» gli confessò, «con tutta me stessa. Ma lui non potrà mai
ricambiare. Ama un’altra, la sua fidanzata, e vuole sposarla. Questa è la vita,
CeyCey.»
«Sanem, mi dispiace» disse l’amico, «non immaginavo. Io non…»
«Scusami» un nuovo torrente di lacrime stava sgorgando dagli occhi di
Sanem. Pensò di salire le scale, di tornare su quel palco, di cercare il
ricordo dell’albatros, di riafferrare quel sogno impossibile. Con Can era
tutto perduto. L’albatros, però… lui era il suo principe. L’avrebbe ritrovato,
un giorno.
Salì le scale, proprio come quella sera, e si ritrovò sul palco dove quel
bacio l’aveva fatta innamorare. Poi Can Divit aveva confuso tutto, ma questa
ormai era una storia passata.
Rivisse quel bacio, quella sera. Le scarpe lucide, lo smoking. La barba. Il
tocco delle sue labbra.
Chiuse gli occhi e li riaprì. Sentì un rumore strano, un colpo, uno scatto.
Si erano spente tutte le luci, tranne per un piccolo faretto che l’avvolgeva in
un rosso cupo, come il sipario. C’era qualcuno?
«CeyCey… sei tu?»
Si voltò e lo vide. Can Divit, davanti a lei, in smoking. Elegantissimo.
Bellissimo. I suoi occhi brillavano come le stelline che si erano accese sulla
platea.
«Signor Can…!» Il cuore di Sanem sbatté nel petto. Rimbombava.
Tremava. Sussultava. Lui è qui. «Mi hai mandato un messaggio. Diceva: “Se
solo…”. Se solo cosa, Sanem? Cosa volevi dirmi?»
«Se solo…» sussurrò lei, sconvolta. L’emozione scolpiva il suo
balbettare. La memoria fotografica ricordava tutto, come se lo avesse vissuto
cinque minuti prima.
Abbassò gli occhi, vide le scarpe, quelle scarpe. Il respiro le si fermò.
Non poteva essere. Non può essere. Le mancò il respiro.
L’albatros?
Can Divit era l’albatros?
Can Divit era l’albatros.
“È un sogno…” si disse lei “Non può essere vero.” Non riuscì a pensare
altro. Lui la prese tra le braccia, con una delicatezza che la travolse. La
stravolse.
Can era l’albatros. E arrivò il suo bacio, il secondo bacio dopo quella
sera lontana, più intenso, vero, consapevole, sognato, desiderato. Un bacio
che trafisse Sanem.
«Signor Can, lei è l’albatros… Non sto sognando!»
Non smetteva di stringerla, come un tesoro prezioso, qualcosa che si ha
paura di rompere.
«Sei felice?»
«Se sono felice? Io sono così felice che non… che non…»
Aveva bisogno d’aria. Era così felice che le mancava il respiro. Era così
felice che doveva tornare alla realtà per essere sicura che fosse successo
davvero.
Non poteva dirlo. Non davanti a lui, non davanti a Istanbul

La mattina seguente risucchiò Sanem in un vortice. Le sembrava di essersi


seduta su una giostra che non poteva fermarsi, ma in realtà era lei che non
riusciva a farlo.
La sua confusione non era solo felicità: Sanem bruciava dalla paura, la
paura di perdere Can. Si era alleata con Emre, per soldi si era introdotta in
casa sua. Aveva rubato le sue foto, facendogli rischiare la cosa che lui
amava di più al mondo.
Lo amava per la sua purezza d’animo ed era stata la prima a mentirgli. E
poi c’erano altri problemi: stando a Güliz, Can stava per sposare Polen. Era
così? Doveva chiederglielo. Capire, chiarire. E districare i suoi sensi di
colpa.
Intanto al lavoro era il caos. Si preparavano tutti per lo shooting da girare
in teatro, con Osman come attore, e uno sciame di voci insistenti si chiedeva
che fine avesse fatto Can la sera prima, quando era scomparso dalla festa
della sua fidanzata.
CeyCey sembrava saperne qualcosa, tanto che era circondato da tutte le
ragazze dell’agenzia.
«Lo hai visto con lo smoking? A teatro?» gli stava chiedendo una giovane
account.
«Cosa ci faceva lì?» lo tempestò un’altra collega. «Devi dirmelo!»
«Non lo so!» gridò lo stagista, assediato dalle ragazze. «Non so niente. È
il vostro capo! Fatevi gli affari vostri! Lasciatemi in pace! Soffoco! Ho
l’asma!»
Leyla intercettò sua sorella mentre era di passaggio in uno degli open
space. «Sanem, dove sei finita ieri sera? Nessuno ti ha vista alla festa. E a
casa non c’eri. Ti hanno fatto male le kofte che hai cucinato?»
«No, sono andata ad aiutare CeyCey a teatro. Aveva bisogno di me. Ma tu
Leyla hai un’aria strana… stai bene?»
Sua sorella non stava affatto bene. Avere Aylin lì in agenzia la
innervosiva. In più, qualche sera prima, Emre l’aveva invitata a mangiare
un’insalata insieme, per poi bidonarla mentre lei lo stava già aspettando
fuori da casa. Lo aveva chiamato per avere sue notizie e aveva sentito la
voce di Aylin in sottofondo. Si era proprio dimenticato di lei. Leyla aveva
pianto per la vergogna, tutta la sera, sul mare. Non sapeva che Osman
l’aveva guardata da lontano, distrutto dal dolore nel vederla così, per un
uomo che non era lui. Un uomo che non la rispettava.
«Non molto. Ti dirò, ma non oggi, Sanem.»
La giornata andò peggiorando. CeyCey, pronto per andare sul set, aveva
dimenticato la macchina fotografica di Can. Sanem se ne accorse all’ultimo e
lo rincorse.
Corse tanto, corse troppo e urtò contro un impiegato, facendo scivolare a
terra l’oggetto che si ruppe in mille pezzi.
Era la macchina fotografica di Can, l’unica che utilizza.
Calò un gelo spettrale.
Deren urlò. Aylin sobbalzò. CeyCey osservò: «I pezzi sono ovunque,
come zombie».
Si scatenò il caos. Gli impiegati sembravano uno sciame di api che si
agitava nell’ufficio.
«Che succede qui?» chiese Can. «Perché non siete sul set?»
«Can, la tua macchina si è rotta!» gridò Deren, scoppiando a piangere in
una crisi isterica «È stata L’altra… Sanem l’ha rotta.»
«E allora?» sbuffò Can. «La riparo io. Ci penso io. Andate sul set.
Sanem, nel mio ufficio.»
Deren abbracciò in lacrime Sanem, che rimase allibita. Non pensava
fosse capace di gesti simili, visto che l’aveva appena infamata.
Probabilmente aveva i nervi a pezzi.
«L’altra… vai, povera derelitta. Neanche io ti posso salvare. Addio!»
«Addio, Sanem» disse CeyCey. «Mi licenzieranno perché siamo amici,
secondo te?»
Si avviarono tutti, mentre Can si chiuse in ufficio con Sanem.
«Signor Can…mi scusi per la macchina.»
«Sono Can, ricordi? Me lo hai promesso ieri sera.»
Glielo aveva chiesto dopo il bacio, con quel modo che aveva di parlare
solo a lei. Era presa di lui, persa in lui, ma per Can era la stessa cosa. Aveva
persino chiamato suo padre dopo il bacio per dirglielo, per gridargli la
propria felicità. Aziz, per quanto dispiaciuto per Polen, era stato felice di
sentire suo figlio così.
«Non ti preoccupare. Posso riparare in dieci minuti la macchina
fotografica, non è difficile» disse Can.
Sanem era sorpresa dalle sue mille abilità e dalla sua gentilezza, un altro
al posto suo avrebbe fatto una tragedia per quell’incidente.
«E poi… poi vorrei portarti in un posto.»
“Non ho un posto dove stare se non accanto a te” pensò lei. “Mi brucerò
come una falena vicino alla fiamma. Ma non posso stare senza di te.” Era
questo l’amore? Sanem lo avrebbe seguito ovunque: dall’altra parte del
mondo, in aperta campagna. Sulla luna, se lui avesse voluto andare lì.
In realtà non c’era niente di così poetico. Con sua estrema delusione,
stavano andando solo a villa Divit. Sanem non slacciò nemmeno la cintura di
sicurezza della jeep e Can colse al volo l’espressione, intuendo il suo
disagio.
«Sanem, scendi. Polen non c’è. Ci siamo lasciati. Quante volte devo
dirtelo? È andata via.»
«Ma Güliz…»
«Lascia stare Güliz, ti ha riferito informazioni sbagliate.»
«E quindi… è andata via?»
Can la vide illuminarsi come mai prima. “È bellissima” pensò. Poi gli
venne in mente Polen, che era ripartita dopo la festa. Era la festeggiata e il
suo fidanzato era finito chissà dove. A quel punto si era resa conto anche lei
che la situazione ormai era irrecuperabile.
«Ti voglio bene» le aveva detto Can, provato dallo sguardo triste della
sua ex ragazza. Gli dispiaceva davvero ma non poteva più stare con lei.
Sarebbe stato sleale; per lui c’era solo Sanem.
Entrarono in giardino, dove Can aveva allestito la propria sorpresa:
aveva chiamato un suo grande amico, uno chef, per preparare un pranzo
speciale per loro due. C’era un tavolino apparecchiato, traboccante di fiori e
frutta. Spuntavano snack, finger food, crostacei, nastri lilla legati intorno alle
sedie, candele… Sanem rimase senza parole. «Ma chi sei tu, Can Divit?»
Lui era l’uomo di cui si era innamorata. Così diverso da tutti. Così
sorprendente.
«Siediti. Voglio solo che stiamo tranquilli. Parliamo, mangiamo.
Parliamo. Mangiamo.»
Mangiarono e parlarono. Parlarono e mangiarono. Parlarono tantissimo.
L’amico cuoco aveva un’abilità particolare e Sanem apprezzò ogni portata:
era come se fosse la prima volta che assaggiava i calamari, che provava le
spezie. Can amava ogni suo sguardo innocente sul mondo. Lo faceva tornare
bambino, gli faceva pensare che, nella vita, oltre agli angoli di bellezza
sperduta, ci fosse anche qualcos’altro. Qualcosa che non si muoveva ma
rimaneva fermo. Come l’istantanea di lei, di quel momento.
Le raccontò della sua adolescenza in collegio, per superare la solitudine
dopo che la madre era partita con Emre. Del padre che era sempre assente
per lavoro o per la tristezza: era stato abbandonato dalla moglie, aveva
attraversato la depressione. Le raccontò di Emre, di quanto gli fosse mancato
durante quegli anni, di quanto fossero uniti da bambini e di quanto fosse stato
felice di ritrovarlo, anni dopo, in azienda.
«Tra noi c’è un legame fortissimo, anche se lui è cresciuto tra la Svizzera
e l’Europa» le disse.
Sanem provò una fitta al cuore, pensando che in realtà Emre non faceva
altro che ingannare suo fratello. E lei era stata sua complice. E lo era ancora,
dal momento che gli nascondeva la verità.
«Tutto bene?» le chiese Can.
«Sì» mentì Sanem. «Era tutto straordinario, ma non ho più fame.»
In realtà le si era chiuso lo stomaco, per il senso di colpa.
Sanem, devi dirgli tutto, insisteva l’altra se stessa.
Can però aveva in serbo qualcos’altro per lei. «Vieni con me. Ti porto in
un posto.»
«Un altro?» esclamò Sanem. Non si aspettava niente. Nessuno aveva mai
fatto tanto per lei.
Tornarono alla jeep.
“Di nuovo” pensò lei. “Io e lui, la jeep, Istanbul.” Ormai era una costante.
Una costante del loro amore.
Questo viaggio, però, fu breve. Sanem rimase così sbalordita dal posto,
da lui, da tutto, che tempo dopo si sarebbe chiesta se quel momento fosse
stato solo un sogno. Erano entrati da una porticina verde nel giardino segreto
di una grande casa circondata da una strada sterrata. La dimora era bianca,
un po’ decadente e un po’ pop, con vetrate colorate e un piccolo portico. Per
terra c’erano le prime foglie, le prime avvisaglie dell’autunno.
«Di chi è questa casa?» chiese lei, allarmata e affascinata.
Violazione di domicilio. Vi arresteranno. Vi chiuderanno in celle
separate. Senza cibo.
Can sorrise: «È mia. Ci ho vissuto gli anni della mia infanzia. Poi, dopo il
divorzio, mio padre ha preferito trasferirsi. Era troppo doloroso per lui stare
qui, c’erano troppi ricordi tra queste pareti. Eppure io ci vengo ancora, da
solo, per… per questo».
La prese per mano e Sanem non si ritrasse. Fibrillava di gioia, di
curiosità, di stupore. Arrivarono al limitare del prato antistante la villa, fino
a quello che più che una staccionata sembrava un parapetto.
«Guarda, Sanem.»
Lei guardò. C’era Istanbul. La città si estendeva davanti a loro e i loro
sguardi volavano sulla meraviglia.
«Can… è stupendo!»
«Sanem, ho visto tante città, ma Istanbul è la più bella di tutte. È la città
che amo. Chiudi gli occhi. Lei ti farà sentire la sua voce…»
Sanem li chiuse. Aveva la pelle d’oca.
«Che cosa senti?» chiese lui.
«Il rumore del mare. Il canto dei gabbiani. Il fruscio del vento. I traghetti.
Le risate dei bambini. Le onde. E poi…»
«Sono innamorato di te, Sanem…»
Lei spalancò gli occhi. Cosa ha detto? Che cosa? Can l’abbracciò e
continuò a parlare. A dire cose meravigliose, che la scioglievano. La
facevano volare.
«Ti rivedo in qualunque cosa io faccia, che tu sia con me o meno. Vado a
casa e tu sei lì. Guardo il mare e tu sei lì. Vado al rifugio e tu sei lì. Corro
nel bosco e tu sei lì. Guardo il cielo e tu sei lì. Ci sei solo tu.»
La felicità la travolse, ma non poteva prendersela. Non era sua, non ne
era degna. Sentì che una lacrima rotolava sulla guancia, mentre lui la teneva
stretta.
Ne era innamorata anche lei. “Ti amo anch’io” pensò. “Cosa credi? Cosa
credete tutti quanti?” Ma non poteva dirlo. Non davanti a lui, davanti a
Istanbul.
«Can» disse, «scusa. Ho bisogno di tempo per pensare.»
Lui la guardò stupito. Sembrava sconcertato. Non poteva non aver intuito
che anche lei… «Certo» rispose. «Aspetterò quanto vuoi. Fabbricherò del
tempo per te, pur di dartelo.»
Sanem non sapeva cosa fare; non poteva confessargli il proprio amore.
Non prima di aver parlato con Emre.
“Lo convincerò a dirgli la verità” pensò. “La diremo insieme. Sarà un
nuovo inizio.”
«Riportami a casa, Can» gli disse, «devo fare una cosa importante.»
Emre l’avrebbe capita. Era suo fratello, non poteva odiarlo così tanto.
Non era concepibile una cosa del genere. O meglio, non era concepibile per
Sanem, a cui non era mai capitato di sperare che qualcuno fallisse, o tessere
tele affinché questo succedesse. Non l’avrebbe augurato a nessuno,
tantomeno Leyla. Litigavano spesso, discutevano, e a volte Leyla la faceva
sentire una nullità. Ma Sanem avrebbe fatto tutto per lei.
Perché per Emre non era così? Perché non considerava neanche un
legame così forte come quello di sangue?
Quella sera, afflitta dai sensi di colpa, Sanem gli telefonò. Lui non era
sorpreso, perché Can, pochi minuti prima, davanti a un bicchiere di vino nel
patio, gli aveva confidato di essersi innamorato di lei. Della tuttofare, della
complice sua e di Aylin nel rovinargli la vita, della donna che ora poteva
rovinarla a loro.
A Emre era andata di traverso la cena. «Non dici seriamente.»
Purtroppo per lui, Can era serissimo. E poco dopo, quando lo chiamò
Sanem, Emre si spaventò a morte. Temeva ricatti, ultimatum. Lasciò suo
fratello con una scusa, prese la sua macchina sportiva e si diresse tra i colori
e i folklori del quartiere di Sanem che si trovava in compagnia di Osman e
Ayhan. Maledisse il momento in cui Leyla gliel’aveva presentata. Quella
ragazza aveva solo creato problemi.
Emre la intravide dalla vetrata e notò che stava piangendo mentre i due
amici cercavano di consolarla. Le scrisse un messaggio per dirle che era
arrivato e lei schizzò subito fuori, buttandosi sulle spalle una stola per
ripararsi dal vento.
«Parliamo in macchina» l’avvisò subito lui. «Sali.»
Era sconvolta. Piangeva. Gli disse che avrebbe voluto confessare tutto a
Can.
«Signor Emre, la prego» lo supplicò. «La prego. Il signor Can le vuole
bene, più di quanto immagina. Gli dica che l’ha sabotato per invidia, che
voleva rovinarlo perché soffre. Gli dica quello che prova, gli racconti
quanto sta male. Lui la perdonerà. E forse… un giorno perdonerà anche me.
Chiamiamolo ora e confessiamo tutto, insieme!»
Emre impallidì. Sanem era convintissima, era decisa. I suoi occhi
brillavano; era fiera, orgogliosa. Determinata a distruggere quel castello di
carta – una fortezza – che proteggeva Emre e Aylin. Lui si era pentito da
tempo di quello che aveva fatto, ma ora il suo terrore era più finalizzato a
tutelarsi che a distruggere suo fratello. Aveva capito che Can gli voleva
bene, non serviva che glielo dicesse Sanem. E si sentiva in colpa per averlo
fatto soffrire. Ma adesso era tardi per riparare.
«Ti sei innamorata di lui» le rispose, secco. «Ecco perché parli così. Non
sei razionale. Non capisci. Can è molto rigido, non tollera la slealtà. Non ci
perdonerà mai.»
Sanem pensò che, purtroppo, non aveva torto. La conferma era arrivata
qualche giorno prima, durante una riunione a villa Divit. Metin, il migliore
amico di Can, era stato eliminato dalla sua vita. A manovrare tutto, come una
burattinaia instancabile, era stata Aylin.
Con uno stratagemma, scambiando due ventiquattr’ore identiche e
servendosi del povero, inconsapevole CeyCey, aveva dato in mano a Can le
prove che Metin, da tempo, inviava i bilanci della Fikri Harika alla madre di
Can, Hüma. Non aveva scelta, perché la madre di Can era titolare di alcune
quote societarie.
Il figlio, però, era stato chiaro sul divieto assoluto di inviarle qualunque
materiale. E Metin lo aveva violato, tenendogli nascosta la cosa. La bugia
aveva mandato Can su tutte le furie, di fronte allo sguardo compiaciuto di
Aylin, che finalmente aveva separato il suo nemico da quell’angelo custode
che era il suo avvocato. Can era così accecato dall’inflessibilità che non si
rendeva conto di quanto quell’uomo fosse prezioso per lui.
«Non tollero queste cose, Metin» gli aveva detto. «Devi andartene subito.
Devi uscire dalla nostra vita e dalla Fikri Harika.»
Metin era una maschera di pallore. «Can, ma ti rendi conto di quello che
dici? Siamo amici da vent’anni.» Si vergognava di essere umiliato così,
davanti a un piccolo gruppo di dipendenti, a Emre, a Sanem. Se la prese con
Can e con il suo animo cristallino, che non poteva accettare neanche un
piccolo neo nelle persone che amava.
«Non puoi fare così» aveva provato a protestare, «tua madre è socia,
cosa avrei dovuto fare?»
«Parlarmene» disse Can, ferito.
A nulla erano valse le giustificazioni di Metin. Anche Akif più tardi
aveva provato a intervenire in difesa dell’amico, ma inutilmente. Sanem,
nervosissima, era scappata via con una scusa, rifugiandosi nella tranquillità
del lungomare. Se Can aveva reagito così per la questione di Metin, a lei
cosa avrebbe fatto?
Emre ora le ricordava questa scena, facendo appello alla sua paura.
«Forse con noi sarebbe diverso…» balbettò, poco convinta.
Non sarebbe stato diverso. Lui non li avrebbe mai perdonati.
«Non sarebbe diverso» Emre ripeté i suoi pensieri, «e lo sai.»
«Non posso pensare di mentire a lui.»
Eppure lo stava facendo, e da molto tempo.
«Sanem» mormorò il fratello di Can che ora era torvo, furioso, «svegliati.
Smettila di sognare.»
«Sognare è l’ultima cosa che mi rimane» sussurrò lei. Aprì lo sportello e
corse via, facendosi inghiottire dalla notte.
Non c’era soluzione, se non convincere Emre. Oppure sparire, eclissarsi,
dimenticarsi di Can. Era possibile per il suo cuore? Sanem era certa di no,
non ce l’avrebbe fatta. La rabbia la divorava e bruciava nel petto, ed era
rabbia contro se stessa.
Il giorno dopo al lavoro cercò di evitare Can in tutti i modi. Per fortuna
lui aveva appuntamenti con i clienti e uno shooting e lei aveva da fare con
CeyCey. Il giorno successivo andò allo stesso modo; cercò di parlare di
nuovo con Emre, ma il minore dei Divit era inamovibile. Non avrebbe mai
cambiato idea. Aveva troppa paura e, in parte, Sanem lo capiva.
Qualche sera dopo, però, di ritorno a casa dal lavoro, trovò Can nella sua
camera. Mevkibe lo aveva fatto entrare con mille ossequi e si era scusata:
doveva correre al minimarket a sostituire Nihat.
Sanem lo vide lì, seduto sul suo letto (È sul tuo letto, Sanem!) a sfogliare
le sue foto di albatros, a guardare le mini-boccette di profumo con la C
scritta sopra. Ormai da tempo creava profumi pensando a lui, li
imbottigliava pensando a lui, ma ancora non aveva trovato quello che lo
rappresentasse veramente.
Camera tua, una specie di santuario dedicato al tuo capo. Che bella
figura!
«Sei sorpresa?» la salutò.
«Cosa ci fai qui?» Sanem era a disagio. In quella stanza tutto parlava dei
suoi sentimenti.
Can aprì la mano; aveva un bigliettino piegato in due, lo stesso bigliettino
che lei aveva appeso in ufficio, sull’albero dei desideri, quando aveva
deciso di credere a quel gioco divertente, che aveva coinvolto tutti al lavoro.
Al suo interno c’era una lettera: C.
«Allora, a cosa devi pensare?» chiese lui. Era quasi scocciato. «Sanem,
non sto bene. Sono innamorato di te, te l’ho detto. Vedo bigliettini con la mia
iniziale. Qui dentro ogni cosa parla di noi.»
«Si sbaglia» protestò debolmente lei. «Queste cose non c’entrano nulla
con lei.»
Ora non puoi più nasconderti. Devi dirgli che lo ami e che gli hai
mentito.
Non ce la fece. «Dovrebbe andare ora… Cioè, dovresti andare. Per
favore. Ti ho chiesto del tempo per pensare, ti prego…»
Lui la guardò: era triste, esasperato, stanco. Sanem pensava che avrebbe
insistito e invece non ne aveva più la forza. «Va bene, Sanem. È chiaro che
non mi vuoi. Credo tu mi abbia solo preso in giro. Vado via… non mi vedrai
più, se non al lavoro.»
“No!” avrebbe voluto urlare Sanem. “Non ho vie d’uscita. Non ne ho”
pensò. Ed era tutta colpa sua.
Lo inseguì per le scale, cercando di fermarlo. «Can, aspetta. Ti prego!
Dove vai?»
«Raggiungo Deren, mi aveva proposto un drink.»
“Forse merita più attenzioni di quelle che le ho sempre dato” pensò Can.
«Deren?»
Raggiungere Deren, perché? Sanem si sentì destabilizzata. Forse
avevano una relazione? L’avevano avuta? L’avrebbero avuta?… Ma che
importava ora? Stava mandando tutto a rotoli, di nuovo.
«La prego, no! Non vada! Non andare…»
«Buona serata, Sanem.»
Sbatté la porta e lei sentì il colpo rimbombare nel suo cuore. Era finita
per sempre, e per colpa sua. Ripensò a ogni momento con lui e si sentì
morire. Lo aveva perso, lo avrebbe perso. Forse quella stessa sera tra Can e
Deren sarebbe successo qualcosa. A Sanem sembrava già di sentire la sua
voce acuta: «L’altra, la sai l’ultima? Io e Can ci siamo fidanzati. Ha
sbloccato il chakra del mio stomaco, dopo tante ansie».
Può finire così?

Can era teso, e non solo per il traffico di Istanbul. Raggiunse in tempo il
locale al porto dove la collega lo aspettava. Vide sul suo viso
un’espressione di felicità autentica, così lontana dalle sue smorfie durante il
lavoro, le sue facce impostate, il suo ossessivo controllarsi allo specchio.
Dopo un bicchiere di vino si era anche rilassata: parlava di università, di
amici, di genitori. Era tutto, per una volta, così normale. Fecero molto tardi
chiacchierando e sul viso di Deren si era accesa una speranza.
“Ma che cosa fai, la illudi?” si disse Can. “Lei non è Sanem. Non lo sarà
mai.”
Deren gli sorrideva dietro il suo rossetto borgogna. Era carina, nonostante
il nervosismo, meritava un uomo che l’amasse.
«Andiamo da qualche altra parte, Can?»
Lui sorrise e scosse la testa: «No. Scusami. Sono stanco…ed è
tardissimo. Sono quasi le due».
Lei non mascherò la delusione. Aspettava da così tanto tempo… «Magari
un’altra volta.»
Can l’accompagnò e poi tornò a casa. Non era Deren la soluzione. E
neanche Polen, Arzu o chiunque altra. Il suo cuore doveva guarire.
Dimenticare.
Entrò in giardino, deciso a trascorrere un’altra notte sotto le stelle. Loro
lo capivano, lo ascoltavano. Quello che vide gli tolse il fiato. No, non lo
avrebbe mai immaginato. Seduta al centro del prato c’era Sanem in abito
bianco, come una sposa. A casa sua, nel cuore della notte.
Can si avvicinò, senza credere ai propri occhi. Era così bella, brillava
sotto la luna, come la luna.
Pensò a un sogno, ma era tutto vero.
«Sanem, da quanto sei qui?»
«Da ore» rispose lei, un po’ imbronciata. «Dov’eri finito?»
Can pensò che l’amava anche per quello: lo faceva ridere.
«E perché sei qui…? Ma soprattutto perché mi hai mandato via, oggi?»
Lei lo stupì. Più di tutte le altre volte.
«Perché ti amo» rispose.
Can si sentì prendere dalla felicità. Non era mai stato così per una
ragazza. Mai prima d’ora.
«Perché scappi da me?»
«Perché ti amo troppo. Ti amo più di qualunque altra cosa.»
Sanem gli stava dicendo la verità. Proprio perché lo amava lo aveva
tenuto lontano, scegliendo di non stare con lui. Ora, però, avrebbe provato a
far venire tutto a galla: i suoi sentimenti e, forse, appena possibile, anche la
realtà dei fatti. Per Can sentire che anche lei lo amava non fu che la conferma
di un sentimento che il suo cuore aveva intuito dai primi istanti. Tra loro
c’era qualcosa di incredibile, era più che amore. Erano loro due, lo
sarebbero stati per sempre.
All’improvviso si accese l’impianto di irrigazione, che innaffiava l’erba
del giardino: in pochi secondi si ritrovarono abbracciati, completamente
bagnati. Felici come mai prima.
Stelle e stalle al Luna Park

Cominciò una nuova era. Un dolce capitolo completamente inedito nella vita
di Sanem. Lei e il signor Can – Can – erano innamorati e lei, giorno dopo
giorno, scopriva lati di sé che non conosceva: era tenera, era gelosa, era
appassionata. E poi aveva paura di perderlo, di vederlo dissolversi davanti
a lei come una bolla di sapone.
In quella notte romantica a casa sua, schizzati dagli idranti impazziti, lei
gli aveva detto una sorta di verità: «Tutto quello che ho fatto l’ho fatto
perché ti amo troppo».
Can meritava di conoscere la verità. Ma lei era troppo spaventata
dall’idea di perderlo per rovinare tutto proprio adesso che si erano
finalmente trovati. In più aveva fatto una promessa a Emre, e non la voleva
tradire. “Gli parlerò” si disse. Corrosa dai dubbi, intanto, procrastinava.
Nella lunga relazione con Polen, Can era stato sereno, ma in quei pochi
giorni con Sanem sfondò il muro del cielo. Voleva renderla felice e cercava
continuamente spunti per vederla sorridere: le cucinava la pasta (aveva
imparato tante ricette in Italia), la portava nei chioschetti di street food a
mangiare un panino davanti al mare, poche lire e tanto gusto, per vederla
entusiasmarsi più che in un ristorante di lusso. Le comprava un fiore e glielo
porgeva la mattina sulla scalinata della Fikri Harika. La chiamava con una
scusa sulla scala antincendio, dove nessuno avrebbe potuto vederli solo per
trascorrere qualche minuto con lei.
Sanem non voleva che gli altri in ufficio sapessero di loro.
«Aspettiamo un attimo» aveva chiesto a Can, che invece avrebbe voluto
urlare di loro due al mondo. Non sapeva che Sanem, prima, avrebbe dovuto
risolvere il debito con la sua coscienza.
Intanto, proprio nei giorni in cui Can e Sanem si dichiaravano il loro
amore, anche sul piano lavorativo c’era stato trambusto.
La Fikri Harika aveva indetto un concorso per la sceneggiatura dello spot
di un’auto, chiedendo ad aspiranti copywriter di inviare il loro script via
mail. Un angosciatissimo CeyCey si era rivolto all’amica Sanem perché la
casella della posta, dopo due settimane, era ancora completamente vuota.
«Mi licenzieranno!»
«Ma perché? Non è colpa tua se non arrivano candidature!»
«Sanem… mi avevi detto che ti piace scrivere. Non manderesti tu una
mail? Così ne arriverà almeno una… e sceglieremo quella! Con un nome
falso, si intende!»
Sanem esitò, ma l’idea la allettava. Scrivere era la cosa che le piaceva di
più al mondo. E poi non ci sarebbe stata la sua firma, sarebbe rimasta
nell’anonimato.
Si mise al computer di CeyCey, si isolò dal mondo e… si abbandonò alla
sua creatività. Scrisse come scriveva la sera, in camera sua, il proprio
diario.
Solo quando ebbe inviato il suo lavoro, che firmò con lo pseudonimo di
“DayDreamer”, si accorse che CeyCey, preso da un attacco di panico, in
realtà stava controllando da settimane una casella mail inattiva, e non quella
corretta.
La casella giusta era sommersa di messaggi, idee che Deren e Can
esaminarono attentamente per ore, per un intero pomeriggio a casa di lui.
Quello stesso pomeriggio, a villa Divit, Sanem rivelò a CeyCey che
l’uomo che amava era il signor Can.
«Sanem, vedo cose strane tra te e il signor Can. Sguardi. Non capisco
cosa…»
Lei ammise subito, facendogli cenno di tacere.
«Sì, CeyCey, l’albatros è il signor Can.»
Un segreto folle, che CeyCey non riusciva a tenere. Che lo destabilizzò.
Lo mandò in tilt.
«Sanem!!! Aiuto! Sanem, aiuto!» gridò il ragazzo. «L’albatros è il signor
Can?! L’albatros è il signor Can! Non posso tenere questo segreto! L’albatros
è il signor Can!»
Sanem, stupefatta, lo guardò roteare come una scheggia impazzita dalla
cucina alla zona living fino al giardino, dove andò a lanciarsi in piscina. Non
sapeva che CeyCey, in subacquea, aveva urlato quella frase, pur di non
tenerla per sé. Non sapeva che era ossessionato dai segreti, perché non
riusciva a mantenerli.
«CeyCey!» stava strillando intanto Deren. «Che cosa fai? Sei impazzito?»
Pensò ancora una volta che quel ragazzo avesse dei problemi; avrebbe
dovuto farsi vedere da uno specialista. Lo pensò con un misto di irritazione e
tenerezza.
Anche Can lo guardava sconcertato e Deren immaginò che stesse
pensando la stessa cosa. Poi però al capo cadde l’occhio su una delle mail:
«Guarda qui, Deren! Questa mi piace!».
Era una sceneggiatura ambientata negli anni Ottanta in un piccolo
quartiere, una cosa fresca e frizzante; l’idea piacque molto anche a Deren,
ma non avrebbe mai immaginato che l’autrice fosse… L’altra.
Lo scoprì il giorno dopo, quando Can contattò il mittente della mail al
telefono, senza immaginare di chi si trattasse. Sanem non pensava a una
conclusione simile e si fece prendere dal panico; quando vide lo smartphone
illuminarsi per la chiamata in entrata e sentì la voce di Can, che cercava
DayDreamer, cercò di camuffare la propria voce e si rifugiò sotto una
scrivania, per non farsi vedere al telefono nell’open space.
«Vengo da un piccolo paesino sul mare» disse con un accento
improbabile «Non posso venire lì. Non posso proprio… poi sono timida!
Timidissima!»
«Sanem!»
Alzò gli occhi e vide lo sguardo allibito del signor Can, che era al
telefono con… lei. La guardava dall’alto, mentre lei si riparava sotto la
scrivania per non svelare la propria identità.
«Ma quindi sei tu DayDreamer?» chiese lui, stupefatto.
«No!» gridò Sanem. «O meglio, sì.»
Era stata scoperta. Deren era incredula, i colleghi pure.
Mentre Can…
«Sapevo già che hai grandi capacità» le disse. «La tua idea per lo spot è
fresca, frizzante. Perfetta per un’agenzia come la nostra. Ha il tuo sguardo sul
mondo, rispecchia l’incanto.»
Can era sorpreso e felice: aveva scoperto che Sanem non era solo
intelligente e acuta, ma aveva anche una dote speciale come scrittrice. Il suo
sogno avrebbe potuto coronarsi.
I termini del concorso erano chiari: chi avesse vinto, sarebbe stato
chiamato per uno stage come copywriter alla Fikri Harika. E così Sanem
ebbe quel posto, convinta da un Can entusiasta, che le aveva proposto di
abbinare quella nuova attività di stagista a quella di ragazza tuttofare.
Confusa e felice. Ecco come si sentiva Sanem di fronte a quella nuova
strada, un sentiero lastricato di mattonelle dorate, di campagne pubblicitarie,
di adrenalina.
«Scrivere, sognare, è quello che ti rende speciale» le aveva detto Can.
«Non smettere mai di farlo. A me sono le immagini a dare felicità, a te le
parole. Non sarei me stesso se non scattassi foto e tu non saresti te stessa se
non scrivessi. Credo che questa storia dell’equivoco sulla casella di posta
elettronica sia un segno del destino, Sanem. Accetta lo stage e prova a farlo
seriamente, prova a scrivere per noi. Deren ti aiuterà, ti insegnerà i trucchi
della scrittura brillante e persuasiva.»

Deren era isterica, nevrotica, ma anche un’ottima produttrice di contenuti.


Sanem cominciò il suo nuovo lavoro senza sapere quanto sarebbe stato duro,
quante idee Deren (e Can stesso) le avrebbero cestinato. Era entusiasta, ma
si abbatteva facilmente. Sapeva che aveva molto da imparare, era contenta di
questa nuova sfida, ma anche bloccata dalla paura di fallire.
Intanto cercava la location adatta per lo spot dell’auto (il suo spot, che
aveva vinto la gara) in giro per Istanbul, vagando con Can. Girarono un po’,
ma alla fine la scelta era sempre stata sotto i loro occhi: il quartiere di
Sanem, la sua più grande fonte di ispirazione.
Vedeva Can innamorarsi di lei, ogni giorno di più. E lei si sentiva bolle
d’aria nello stomaco, per la paura di perderlo. Gli faceva una scenata di
gelosia per le altissime modelle russe convocate per lo spot («Queste donne
non rispecchiano le donne comuni, sono troppo alte!» aveva protestato,
chiedendo e ottenendo di essere lei, insieme a Deren, Ayhan e Aylin a
interpretare il breve video con capelli vaporosi e accessori sgargianti). Lui
si accendeva di ardore, di passione, di felicità. Lo vedeva ridere e sentiva di
amarlo follemente.
Can avrebbe voluto raccontare del loro amore a Mevkibe e Nihat, Sanem
non poteva pensare a qualcosa di più bello, ma lo fermò: non poteva, finché
lei… finché lei…
Finché non gli dici la verità!
Si sentiva felice e sporca, allo stesso tempo. Era una sensazione strana,
più complessa di quella che si provava sulle montagne russe. Non erano alti
e bassi i suoi, ma momenti di estasi incastrati a coni d’ombra.
Poi la situazione esplose; scoppiò letteralmente tra peluche, zucchero
filato e caroselli.

La Fikri Harika aveva organizzato un focus group al Luna Park per chiarire
una discussione che aveva acceso ancora di più il conflitto tra Deren e Aylin.
Can, sapendola ancora in difficoltà economiche aveva coinvolto anche lei in
questo progetto: meglio uno spot romantico o avventuroso, per un’imminente
campagna?
Deren era sicura che l’amore avrebbe vinto su tutto, mentre Aylin
propendeva per qualcosa di più adrenalinico. Per togliersi ogni dubbio,
avevano deciso di organizzare questa serata, con coppie di giovani fidanzati
come campione da analizzare.
«Pensa ad allestire» aveva detto Can a Sanem.
«Vuole anche lo zucchero filato, signor Can?» aveva scherzato lei.
«Se non c’è lo zucchero filato rosa, rigorosamente rosa, io vado via.»
Lei e CeyCey avevano contattato i fornitori e allestito i banchetti: il
tirassegno, la macchina pesca-peluche, il carretto dei gelati e, ovviamente,
un’immensa ruota panoramica. In base alle attrazioni – più divertenti e
interattive o più romantiche – avrebbero capito quale sarebbe stata l’idea
vincente. Deren e Aylin erano pronte a lottare all’ultimo sangue e a colpi di
zucchero filato.
La serata fu un successo. Le coppie si divertirono e i dipendenti pure.
Can cercava ogni scusa per stare da solo con Sanem, che raggiunse
mentre era salita a prendere appunti sulla ruota panoramica.
Sanem pensò che aveva desiderato mille volte un giro sulla ruota con
l’uomo dei suoi sogni, con l’albatros. E aveva negli occhi quella fresca
incredulità, quella sorpresa sincera di toccare la realizzazione di un pensiero
fino a quel momento solo immaginato.
Can le aveva preso anche lo zucchero filato e la imboccava a piccoli
bocconcini. «Te l’ho detto che se non ci fosse stato lo zucchero filato sarei
andato via.»
Sanem rise e poi si bloccò: «Cos’è questo rumore? Non ci stiamo
muovendo più».
«Ho fermato la ruota, Sanem. Ho detto al ragazzo sotto: “Ehi, lassù c’è la
donna che amo, blocca un po’ la ruota”. E lui ha detto: “Sì, certo!”.»
Sanem sentì il suo viso splendere. Non sarebbe stata più felice di quel
momento, lo sapeva. Vedere come la guardava la faceva sentire così… come
se fluttuasse tra le stelle.
In realtà sarebbero state stelle e stalle… al Luna Park. Ma lei non lo
sapeva ancora.
Alla serata aveva partecipato anche Emre insieme a Leyla, pronta a
seguirlo, anche se ormai aveva impacchettato il suo cuore, rassegnandosi
all’idea di considerare l’uomo solamente il suo capo, e niente di più.
Leyla lo vedeva nervoso da giorni, ma non sapeva per quale motivo. Non
sapeva che Emre stava male – male fisicamente, tanto che faceva fatica a
mangiare e dormire – per il decollo della relazione tra Can e Sanem. Li
aveva visti in cucina, mentre lui le preparava una pasta, ed era entrato subito
in allarme.
Aylin conosceva un solo modo per risolvere il problema alla radice.
«Bisogna separarli» aveva sentenziato.
Anche Aylin stava combattendo la propria battaglia e non solo con
Sanem: sarebbe diventata la signora Divit. Si era finalmente riappropriata
del famoso anello, restituito da Sanem e, durante una merenda alla villa dei
due fratelli, lo aveva fatto scivolare apposta fuori dalla borsetta, sul prato.
Can aveva spalancato gli occhi. «Ma quello non è l’anello di Sanem?
Perché ce l’hai tu?»
Aylin aveva finto di inventare una scusa, che poi però lei ed Emre
avrebbero dovuto “rendere credibile”, e c’era un modo solo per farlo. «Ah,
questo anello è mio. Emre l’ha comprato da Osman perché… sapeva che mi
piaceva molto, lo avevo notato subito. E mi ha chiesto di sposarlo.»
«Davvero?» Can era davvero sorpreso. Il fatto che suo fratello avesse
chiesto ad Aylin di sposarlo con l’anello che era appartenuto a Sanem era
assurdo. Ma da loro ci si poteva aspettare di tutto.
Emre intanto si era irrigidito, colto alla sprovvista da questa ennesima,
folle macchinazione. «Ehm… sì, sì, ad Aylin piaceva molto e così, dopo la
rottura tra Sanem e Osman, ho deciso di acquistarlo da lui.»
Aylin si era congratulata con se stessa per la sua storiella: ora Emre non
aveva altra scelta se non sposarla.
In più aveva visto Sanem spaventarsi a morte per l’ennesima bugia,
impallidire e fuggire via, con una scusa. E Can stupirsi, ma senza dubitare
più di tanto. “Ne avrà viste così tante in giro per il mondo…” aveva pensato
Aylin. Comprare l’anello da Osman era senza dubbio strano, ma Can non
vedeva il male negli altri. Proprio come Sanem.

Ora, davanti alla ruota, un angosciato Emre, che aveva raggiunto il Luna Park
perché aveva bisogno di parlare con Sanem e controllarne le mosse, pensava
che adesso avrebbe dovuto anche sposarla, quella donna, per rendere tutto
più credibile. Il suo amore per lei stava lentamente scemando: era folle,
spregiudicata, crudele.
Intanto la serata volgeva al termine. Can salutò tutti, dopo la raccolta dei
questionari. A vincere fu l’idea di Aylin: le coppie parlavano di esperienza
avventurosa e non romantica, come invece si augurava Deren.
Avevano avuto la loro risposta. Can invitò i dipendenti a godersi le
ultime ore di Luna Park e andò a caricare la propria macchina con alcuni
oggetti che aveva portato da casa per arricchire l’esperienza del focus group.
Emre colse l’occasione per agganciare Sanem, sotto la grande ruota.
«Sanem, scusa per l’anello» le disse. «E per l’ennesima bugia in cui ti
abbiamo coinvolto.»
Sanem sbottò: «Vorrei tornare indietro al primo giorno. Vorrei non averla
mai conosciuta. Ho mentito, ma credevo nella sua buona fede. Lei invece era
consapevole di tutto il male che ha fatto».
Emre l’aveva fermata con le migliori intenzioni, ma non sopportava che
quella ragazzina gli parlasse così: «Basta! Ci sono problemi tra me e Can
legati al nostro passato».
Sanem lo fissò con disprezzo. «Can non ha problemi. È lei che cova astio
e rancore.»
«Siamo nervosi. Parliamone in un altro momento. Pensiamo a un piano.»
«Piano?» gridò lei. «Ma quale piano?»
«Abbassa la voce, Sanem!» Emre si guardò intorno. Erano soli.
Sembravano soli, mentre tutti si aggiravano per le giostre e chiacchieravano.
«Non penso a nessun piano, signor Emre. Mi lasci in pace, lasci in pace
Can. Ci lasci essere felici.»
Emre non tollerava quel tono di superiorità. Lui bruciava di vergogna e
lei lo sottolineava.
«Fare finta che il problema non esiste non aiuterà a risolverlo.»
«E come dovrei risolverlo? L’ho allontanato tante volte, per colpa sua.
Gli ho mentito, guardandolo negli occhi.»
Sanem era fuori di sé. Avrebbe voluto dargli uno schiaffo. Ora stava con
Can, ma i rimorsi la corrodevano, ed era per colpa sua. Lui le aveva
distrutto l’unica possibilità di stare con Can, di starci in modo sincero, alla
luce del sole. E poi le parlava con un atteggiamento paternalistico (“A che
titolo?” si chiese indignata), mentre i suoi occhi erano pieni di fastidio.
«Forse, Sanem, dovresti lasciarlo. Non voglio che soffra, e soffrirà, lo
sappiamo entrambi.»
Lei sentì un tuffo al cuore. “Basta” pensò, “non posso farcela.” Ma la sua
voce interiore dava ragione al fratello traditore.
Sanem, Emre ha ragione. Non puoi mentirgli, sarebbe una storia finta.
Non merita questo.
In quel momento voleva solo che quell’uomo sparisse, gli avrebbe detto
qualunque cosa pur di vederlo allontanarsi.
«Ha ragione. Questa storia non ha futuro, seguirò il suo consiglio. Meglio
finirla qui.»
Emre sgranò gli occhi. «Ma come? Pensavo che tra voi ci fosse qualcosa
di serio.»
«Si sbaglia.»
Una lama invisibile trafisse il cuore di Can che, dietro i raggi di ferro
della ruota, aveva sentito una parte di quella conversazione. L’ultima parte.
La peggiore.
I pensieri saltavano come cavallette tra la testa e il cuore: Sanem voleva
lasciarlo.
Ma quella Sanem non esiste

Qualcosa in Can si era spezzato. Sanem se ne rese subito conto guardandolo


scendere dalla macchina, accostata bruscamente mentre lei stava uscendo dal
cancello del Luna Park.
Dopo il confronto tra lei ed Emre, era sparito. Sanem lo aveva notato ma,
inconsapevole del fatto che li avesse sentiti, pensava fosse andato in agenzia
a controllare i questionari del focus group, lontano dal caos e dalle luci
intermittenti delle giostre.
“È tornato per me” si disse. “Vorrà sicuramente riportarmi a casa, per
stare un po’ da soli.”
Non era così.
«Sanem!» La voce di Can era talmente diversa dal solito che lei quasi non
riconobbe il suo nome, pronunciato in quel modo. Anche la camminata non
era la stessa.
«Se c’è qualcosa che devi dirmi, devi farlo ora.»
Sanem era stupita da quell’atteggiamento improvvisamente distaccato
quando poco prima, sulla ruota, insieme avevano toccato il cielo.
«Ti ho sentita parlare con Emre. Sono stanco dei tuoi giochetti. Gli hai
detto che vuoi lasciarmi, che non avremo un futuro.»
Le lacrime iniziarono a rigare il viso di Sanem non appena ebbe la
consapevolezza di quello che stava accadendo. Dell’inevitabile “Se devi
lasciarmi fallo subito. Qui. Adesso. Dimmi ora in faccia che non mi ami più
e che è tutto finito”.
Li aveva sentiti. Era stata scoperta. E ora era in trappola.
«È così» Sanem non poteva più mentire.
Can sperava con tutte le sue forze che ci fosse una spiegazione a
quell’ammissione «Perché?» E la pretendeva.
Per Sanem invece era arrivato il momento della verità: «Ti ho detto solo
bugie. Da quando ti conosco non ho fatto altro che mentirti».
«Quali bugie? Parla!» Era stravolto dal dolore, illuminato dai lampioni.
Soffriva visibilmente. Meritava la verità.
«La notte che mi hai trovato a casa tua, quando ti ho detto di aver lasciato
qualcosa nella giacca di Emre, in realtà ero lì per rubare.» Sanem
singhiozzava, non riusciva a mettere in ordini i pensieri.
«Per rubare?» Can non poteva crederci. Chi aveva davanti? Dov’era
finita la Sanem che amava? In quel momento gli sembrava di non sentire
neanche più il suo profumo. «Mi stai prendendo in giro. Di nuovo.»
«No Can, è la verità. Io quella sera ti ho mentito e da allora non ho più
smesso. L’anello nella giacca di Emre non era mio. Io non sono mai stata
fidanzata. Io, Sanem, la donna che ami, sono solo una bugiarda.»
Sanem si sentì per un attimo liberata da un peso, ma gli occhi severi di
Can la stavano imprigionando di nuovo in quello che, da quel momento in
poi, sarebbe stato probabilmente un futuro senza il suo albatros. Can, intanto,
era come impietrito, ma provò comunque ad avvicinarlo. Era a pochi
centimetri da lui, ma non lo aveva mai sentito così distante. Al solo pensiero
di essere sfiorato da Sanem fece un passo indietro e alzò le mani. Si stava
difendendo.
«Aspetta un attimo, Sanem, non posso credere a quello che stai dicendo.
Hai rubato, hai mentito. Mi hai ingannato per settimane guardandomi negli
occhi. Che persona sei, Sanem? E, dimmi, che cosa volevi rubare da casa
mia?»
Sanem non poteva che dargli ragione. “Che persona sono?”
«Dovevo prendere una cartellina»
«E che c’era dentro di così importante? Non potevi semplicemente
chiedermela?»
«Tu non potevi sapere niente di quella cartellina, del suo contenuto»
Sanem ormai non riusciva più a trattenere la sua disperazione. «Io non so
cosa ci fosse lì dentro. Mi hanno solo chiesto di prenderla.»
«Così mi fai impazzire, Sanem. Chi ti ha chiesto di prenderla?»
Doveva dirlo. Non aveva più scelta. E confessò: «Il signor Emre».
«Emre? Lui ti ha detto: “Sanem, vai a casa mia e prendi una cartellina
rossa che Can non deve vedere”? E tu neanche sai di cosa si tratta?» Ogni
risposta di Sanem era per Can un nuovo punto interrogativo. Un dilemma da
risolvere.
«Sì, è andata così.»
Can non riusciva a trovare un filo logico in quello che gli aveva
raccontato la sua ragazza. O forse non voleva. Dichiarò finito
l’interrogatorio e senza neanche salutarla, mentre lei cercava disperatamente
di fermarlo, Can era già rientrato in macchina e corso via. Lasciandola da
sola. Inerme.
Per lui era arrivato il tempo delle risposte. Dalla jeep in corsa chiamò il
fratello: «Emre? Vediamoci a casa tra venti minuti. È urgente».

La YRT Holding era un’importante società con sedi in tutto il mondo, una
realtà che Aziz Divit per anni aveva corteggiato come pubblicitario,
partecipando a gare per ottenere l’opportunità di far fare alla Fikri Harika il
grande salto di qualità e renderla famosa a livello internazionale. Quando la
notizia che la YRT Holding era di nuovo alla ricerca di un’agenzia
pubblicitaria era arrivata alle orecchie di Emre, lui non aveva avuto dubbi:
l’opportunità di accaparrare quel cliente era l’ultima che aveva di mostrare
al padre le sue vere capacità. Di fargli capire che lasciare un giorno la
compagnia nelle sue mani, e non in quelle di Can, sarebbe stata la scelta
giusta. Non gli importava quanto gli sarebbe costato. Non gli importava se
per ottenere l’ingaggio avrebbe dovuto ripulire le casse della Fikri Harika
per pagare sottobanco una raccomandazione al direttore generale della YRT
Holding. I soldi sarebbero rientrati a breve. L’affaire che gli avrebbe
cambiato la vita, che l’avrebbe reso un eroe agli occhi del padre, si era
concluso in piena notte, in una strada buia e residenziale di uno dei più
moderni quartieri di Istanbul. Una valigetta piena di contanti data in mano
alla persona giusta e il gioco era fatto. Emre sentiva ancora l’adrenalina
mista a paura scorrergli nelle vene quando il telefono gli squillò. Era Can.
Aveva urgenza di parlargli e l’appuntamento era a casa.
Emre entrò nella villa, l’adrenalina aveva dato campo libero a una buona
dose di angoscia soprattutto dopo la telefonata in lacrime di Sanem in cui
ammetteva la sua confessione. La voce di Can al telefono sembrava scossa.
Scossa e arrabbiata. E lo era anche lui, quando entrò in casa sbattendo la
porta, pochi minuti dopo Emre. Era sconvolto dalla collera e dalla paura.
«Emre, siediti. Dobbiamo parlare.» Era un ordine.
Emre obbedì.
«È vero che hai mandato Sanem a rubare una cartellina a casa nostra?»
«Sì.» Can pensò che almeno su quello era stata sincera e andò avanti col
secondo interrogatorio della serata.
«Cosa c’era di così importante in quel fascicolo che io non potevo
vedere?»
«Dei documenti dell’agenzia che nostra madre mi aveva chiesto.» Emre
sapeva che il solo nominare Hüma avrebbe mandato Can su tutte le furie, ma
sapeva anche, ormai da anni, come reagire alle continue crociate del fratello
contro la donna che li aveva messi al mondo.
«Non è possibile! Prima Metin, ora tu. Non voglio che nostra madre
sappia niente della società. Della mia vita, è chiaro?!» la reazione di Can
aveva messo Emre nelle condizioni di immedesimarsi nel personaggio che
meglio lo rappresentava: il fratello minore spodestato. Il secondo, ma più
meritevole, erede al trono.
«Can, la mamma è proprietaria di una grossa quota della Fikri Harika e
ha il diritto di conoscerne la situazione finanziaria. È papà che ha voluto
così. Io ho lavorato sodo per la nostra agenzia mentre tu eri in giro per il
mondo e il fatto che nostro padre abbia scelto te per prendere il suo posto in
sua assenza non ti dà il diritto di escludermi e di obbligarmi a eseguire i tuoi
ordini!»
I toni erano infuocati. Can, in fondo, era conscio che il fratello aveva
ragione, ma la menzogna, l’aver agito alle sue spalle non poteva tollerarlo.
Non poteva neanche accettare che la madre, dopo che a pochi anni lo aveva
abbandonato scegliendo di portare con sé solo Emre, scomparendo dalla vita
sua e da quella di Aziz, potesse controllare il frutto del suo duro lavoro
all’agenzia. E, ancor meno, in quel momento della sua vita, poteva
sopportare che Sanem fosse stata messa in mezzo a tutto questo.
«Emre, ti sei approfittato di una ragazza ingenua. L’hai obbligata a rubare
a casa di sconosciuti. Dimmi: come hai fatto a convincerla?»
«L’ho convinta staccando un assegno da quarantamila lire.»
Più che la risposta, a Can diede fastidio il tono di ovvietà usato da Emre.
«Hai convinto Sanem con un assegno? Non è possibile!» Per Can era
troppo.
«Ne aveva bisogno, è iniziato tutto il primo giorno in cui è arrivata da
noi.»
“Il debito dei genitori! Ecco Sanem come lo ha ripagato, mentendomi!” la
rabbia di Can gli offuscò di nuovo la mente. Sanem gli aveva mentito per
soldi. Solo per soldi. Si sfogò di nuovo sul fratello.
«Emre, esci subito da questa casa. Non posso più vedere la tua faccia!»
Emre uscì dalla villa e tirò un sospiro di sollievo. Can non sapeva degli
affari con Aylin. Sicuramente non sapeva che lui c’entrava con le foto del
finto plagio che gli erano quasi costate la carriera, altrimenti avrebbe chiesto
anche di quelle. Le cose, tutto sommato, erano andate meno peggio del
previsto.
Can aveva ancora sul cuore il peso massiccio di tutto quello che aveva
scoperto. Durante la nottata insonne, si era nascosto anche da se stesso nel
rifugio, dove in un piccolo rogo aveva bruciato tutte le foto scattate a Sanem.
Immagine dopo immagine, i ricordi diventavano cenere ma solo davanti ai
suoi occhi: nella sua mente erano più vividi che mai.

L’indomani era arrivato in ufficio prestissimo. Sanem aveva tentato di


parlargli più volte e lui era riuscito faticosamente (lottando con la voglia di
abbracciarla, piangere, ritrovarla) a dirle di andare via.
«Non voglio vederti, non voglio parlarti. Per me torni a essere una
semplice dipendente. Per te io sono il signor Can.»
«Can, devi ascoltarmi!» voleva raccontargli tutto, togliersi quel peso dal
cuore.
«Non ho altro da dirti. Esci, sta arrivando Deren.»
Quella inoltre era una giornata importante. Il capo della YRT Holding,
Murat, aveva accettato un appuntamento in seguito al quale la Fikri Harika
avrebbe potuto varcare come agenzia i confini della Turchia e puntare anche
all’Europa. Can, senza dire nulla a Emre, ci aveva lavorato tanto ed era
riuscito, mostrando le ultime campagne a Murat, suo compagno di liceo, a
vincere l’appalto convincendolo dell’alta qualità del lavoro del suo team.
Entrato nell’ufficio di Can, Murat sembrava particolarmente nervoso e al
suo arrivo Emre corse a presentarsi, convinto che fosse lì per merito suo – o
meglio, dei soldi che aveva dato la sera prima al direttore generale della
società – senza sapere che anche il fratello si era mosso per ottenere
quell’ingaggio, in maniera decisamente più limpida di lui.
«Piacere, io sono Emre, il fratello di Can.» Murat esitò un attimo prima di
stringergli la mano, nell’aria c’era tensione, ma Emre non se ne accorse,
entusiasta com’era dall’essere a un passo dalla chiusura del contratto che gli
avrebbe fatto ottenere la tanto attesa pacca sulla spalla di Aziz. E forse
anche – finalmente! – la sua fiducia.
«Piacere, Murat.»
Emre era preso dalla foga di firmare. «È qui per il contratto, giusto? Le
do una penna…» disse con fierezza.
«Sì, in realtà ero qui per firmare un contratto, ma purtroppo è successo
qualcosa di molto spiacevole.» Emre trasalì. «Abbiamo scoperto che il
nostro direttore generale ha accettato soldi da diverse agenzie interessate a
lavorare con noi. Tra cui la vostra. Can» il Ceo della YRT Holding si rivolse,
sconfortato, all’amico, «tu sai quanto mi ci è voluto per diventare il capo.
Non mi aspettavo una cosa del genere da voi. Conosco Aziz, ha sempre
lavorato in maniera pulita. Conosco te e mi fido. Sono sicuro che non c’entri
in questa storia, che qualcuno ti ha incastrato, e per questo sono venuto a
parlartene di persona. La lista delle società che hanno cercato di corrompere
il nostro ex collaboratore è ormai pubblica. La stampa vi sarà addosso a
momenti.»
“Tra cui la vostra?!”
Ma cosa stava dicendo quell’uomo? Can non sapeva cosa pensare. La sua
agenzia avrebbe corrotto un direttore generale? Tutto, ma la corruzione no.
Non alla Fikri Harika. Non nell’agenzia di suo padre. Ringraziò Murat, lo
accompagnò alla porta garantendogli che avrebbe risolto la situazione e,
quando si girò, suo fratello era ancora lì. Lo conosceva bene e conosceva in
generale lo sguardo di chi è quasi fiero della sua colpevolezza. Di chi,
nonostante sia stato colto in flagrante nel bel mezzo di qualcosa di sbagliato,
comunque crede di essere nel giusto.
«Emre, sei stato tu?»
«Sì» rispose senza esitazioni. Non sarebbe servito a niente mentire
ancora.
La situazione precipitò velocemente e in agenzia si diffuse il panico.
«Signor Can, siamo tutti licenziati?» CeyCey continuava a chiedere
informazioni sul suo destino al capo ogni volta che lo incontrava per i
corridoi. Il peggior incubo era a un passo dall’avverarsi e l’espressione
incerta con il quale Can rispondeva alla sua domanda, sempre la stessa, non
lo rasserenava affatto.
La situazione era seria. La Fikri Harika stava perdendo tutti i clienti dopo
che la notizia della tentata corruzione era diventata di dominio pubblico. Le
casse erano vuote. I creditori bussavano alla porta, sentivano aria di
fallimento e volevano i loro soldi.
Can era ancora provato dalla terribile discussione della sera al Luna
Park, e dalla scoperta sui metodi scorretti di suo fratello.
«Quello che hai fatto è gravissimo, Emre» aveva detto Can al fratello.
«Riparerò io» aveva risposto lui, «mettiamo in vendita le quote
dell’agenzia, posso farlo con le mie.»
Can era scosso e non pensava che potesse essere così facile mettere tutto
a posto, ma in quel momento non aveva potuto far altro che mettersi a un
tavolo e ragionare, con lucidità, su come risolvere un problema che avrebbe
potuto polverizzare l’agenzia quarantennale di Aziz.
Deren lo aveva chiamato a ragionare, a valutare il tutto per tutto, insieme
a Emre, per salvare la Fikri Harika dalla possibile bancarotta. Poi avrebbe
pensato alle conseguenze, a capire come trattare suo fratello, che li aveva
fatti sprofondare nel baratro della corruzione. Adesso, però, andava trovata
una soluzione pratica.
Non c’era più neanche Metin, che in queste circostanze si dimostrava
sempre un acuto problem solver. Alla fine insieme avevano preso una
decisione. Durissima ma necessaria: vendere il venti per cento delle quote.
Il problema, ora, era solo trovare il giusto acquirente, ma l’unica società che
si era fatta avanti aveva posto condizioni inaccettabili che comprendevano il
licenziamento di molti dipendenti.
Erano spalle al muro, pronti a sgretolarsi lì, sotto la vergogna delle
bustarelle.
E Can era fuori di sé: ormai da giorni non dormiva e non mangiava, si
nutriva solo di whisky. Il suo mondo era andato in pezzi così, in una manciata
di ore. Emre e Sanem erano le persone che amava di più, insieme a suo
padre, e lo avevano pugnalato alle spalle. Per Can Divit questo non poteva
esistere, non nel sistema di valori con cui si approcciava al mondo.
Ripensò alle parole di Akif che, qualche giorno prima, aveva provato,
inutilmente, a salvare Metin. «Sei inflessibile, intollerante. Le persone non
sono o bianco o nero. Ci sono le sfumature, i chiaroscuri. Così tu, con il tuo
non accettare nulla, obblighi gli altri a mentirti, per paura dello scontro. Non
accetti niente, neanche il più piccolo compromesso. È dura starti vicino,
Can. Sei puro, ma in un modo che mette in difficoltà chi ti circonda.»
Ma Can non poteva andare contro se stesso, non poteva passare sopra a
quello che era successo. Anche se avesse voluto dimenticare, non ne sarebbe
stato in grado. L’immagine di Sanem era onnipresente nella sua testa, ma
ormai gli sembrava che la donna che amava fosse solo un costrutto, un
replicante dell’idea fasulla che lui si era coltivato nel cuore.
Era primo pomeriggio, quello avrebbe potuto essere l’ultimo giorno della
Fikri Harika, e lui era già al terzo bicchiere di whisky; mentre lo teneva in
mano, certo che non sarebbe stato l’ultimo, vide una lettera sulla scrivania.
Era per lui.
Sulla busta, al posto del nome del destinatario, c’era una C. La stessa
lettera che qualche giorno prima aveva visto scritta sulle boccette di
profumo in camera di Sanem, la stessa del bigliettino sull’albero dei
desideri. Offuscato dai fumi dell’alcol e dal dolore di quel ricordo, strappò
la lettera con la stessa rabbia con cui aveva strappato e bruciato le foto. Non
lesse mai quello che c’era scritto, non sapeva (non voleva sapere) che
Sanem aveva voluto aprirgli il suo cuore ed essere sincera con lui. Era
rimasta fino a tardi al lavoro, in archivio, facendo preoccupare i suoi
genitori. Aveva bisogno di buio, un’oscurità rischiarata solo dalla fioca luce
di un’abat-jour, e di solitudine per provare il tutto per tutto. Can non voleva
ascoltarla, non accettava che lei gli spiegasse quello che era successo, e così
aveva pensato di affidarsi alla carta per svelargli cosa portava nel cuore.

Una volta mi hai detto di non smettere mai di sognare e di scrivere e io voglio seguire
questo suggerimento. In particolare ora che scrivere è l’unico modo per parlarti. Su questi
fogli ho riportato tutto quello che è accaduto fin dal primo giorno. Se li leggerai scoprirai chi
sono. Sono la ragazza che ti ha mentito, la ragazza che ti ha fatto sospendere dall’ordine
dei fotografi e la spia che a lungo hai cercato in azienda. Ecco chi sono. So che non mi
perdonerai mai. A maggior ragione dopo che avrai letto questa lettera, ma vorrei che tu mi
ricordassi come la ragazza che ha voluto essere onesta anche se lo ha fatto tardi. E,
nonostante tutte le bugie, io ti chiedo di credere pure a questo: i miei sentimenti per te sono
reali. Quello che hai sentito tra le tante bugie è reale. Ogni momento trascorso insieme lo
serberò in eterno. Ti ho amato tanto Can Divit. Ti amo ancora e ti amerò per sempre.
“Quella Sanem non esiste” continuava a ripetersi Can, cercando di
distruggere l’immagine che ormai aveva nel cuore. Non avrebbe ascoltato, o
letto, neanche una parola. Qualunque cosa avesse detto, non le avrebbe
creduto. Aveva visto troppe persone, in vita sua, inventare giustificazioni
convincenti per coprire la loro falsità, i tradimenti, le macchinazioni.
E allora perché l’amava ancora? Se lo chiese anche quel giorno e non si
rispose, anche perché si era distratto con le voci che arrivavano dal piano
inferiore dell’agenzia, dove Enzo Fabbri, a sorpresa, aveva fatto il suo
ingresso. Can scese subito, pensando che sarebbe stato l’ennesimo cliente a
ritirarsi (e quello che lui avrebbe rimpianto di meno), ma l’imprenditore
italofrancese lo stupì.
«Ragazzi, signor Can. So che la Fikri Harika sta passando un momento
molto difficile, ma io sono estremamente legato a questa agenzia. Ho affidato
a voi la campagna del mio profumo, so come lavorate e non voglio perdervi.
Ho saputo anche che i fratelli Divit hanno messo in vendita una percentuale
dell’azienda di famiglia e io sono qui. Pronto ad acquistare delle quote con
la promessa che non metterò bocca su nulla.»
“Acquistarla?” pensò Can. “Ma perché?”
Intanto uno scroscio di applausi partì spontaneo da tutto il team della
Fikri Harika mentre Deren, come un fulmine, era corsa a stampare una copia
del contratto di acquisizione. Quell’occasione non andava persa e lo
sottolineò bisbigliando all’orecchio di Can, prima che dicesse qualcosa di
sbagliato: «So che Fabbri non ti piace, ma può salvarci tutti. La quota poi la
recupererai col tempo».
Can non era convinto. Non voleva. Non si fidava. E non aveva senso che
quell’uomo arrivasse lì, come un benefattore sbucato dal nulla, come
l’aiutante magico delle fiabe che non era.
Can ne percepiva da lontano l’anima viscida, lo sguardo poco sincero.
Anche gli occhi disperati di Deren, di CeyCey, degli altri, però, non
potevano essere ignorati. “Invidio chi scende così a compromessi” pensò.
Alla fine, vivevano meglio di lui.
«Va bene» disse. Non aveva altra scelta.
Firmarono poco dopo nel suo ufficio, per poi unirsi ai festeggiamenti dei
dipendenti, durante i quali Enzo riprese la parola. I suoi occhi erano fissi su
Sanem, che invece abbassava lo sguardo.
«Sono commosso per tutta questa gratitudine, ma non dovete ringraziare
me, bensì la vostra collega. La bellissima e talentuosa Sanem.»
“Sanem?!” si chiese Can. Cosa c’entrava San…
«L’ho contattata nei giorni scorsi perché volevo mi cedesse la formula del
suo profumo, quello che crea lei. L’essenza al giglio che non ho fatto a meno
di ammirare durante quella festa sulla piattaforma, ricordate?»
Can si sentì tradito. Trafitto. Il profumo no, era davvero troppo. La guardò
e notò il suo imbarazzo. Cosa aveva fatto? Si era venduta per salvare
l’agenzia dei Divit? Non aveva senso. Intanto Fabbri continuava a spiegare,
indicando la ragazza con gli occhi.
«In cambio le avrei dato un cospicuo compenso e un posto di rilievo nella
mia società, ma lei non ha accettato. Ha deciso di lavorare comunque per me
sulla sua fragranza in cambio della mia acquisizione delle azioni Fikri
Harika, per salvarvi dal collasso.»
Can rimase immobile mentre intorno a lui tutti ricominciarono con gli
applausi, stavolta dedicati a Sanem, eroina del giorno.
«Lei è mia amica!» ripeteva a tutti CeyCey, come un pappagallo euforico.
Can aveva ancora in mano la penna con cui aveva firmato il contratto.
Chiuse il pugno e la spezzò, incredulo, senza parole.
Sanem aveva davvero dato a Fabbri “quel” profumo?
Questa volta la cartellina era di un azzurro cielo

Sanem non aveva alcuna intenzione di dare a Fabbri “quel profumo”,


sarebbe stato come cedere a uno sconosciuto i frammenti dei suoi più bei
ricordi d’infanzia e della sua storia con Can. Gliene avrebbe dato uno
simile, molto simile, creato appositamente con note olfattive quasi identiche,
ma non quello. Questo suo piano ovviamente Fabbri non lo sapeva. Lui
l’aveva chiamata proprio nei giorni di rotta con Can, quando era distrutta dal
dolore. Le aveva fatto una proposta che nessun’altra, a suo dire, avrebbe
potuto rifiutare. Sanem, ferita dalla fine della sua storia e dal fatto che non
aveva saputo più nulla della lettera (era probabilissimo che lui l’avesse
strappata), lo aveva mandato via.
Qualche giorno dopo, quando aveva capito, sentendo per caso una
conversazione tra Deren e Can, che il fallimento dell’agenzia era ormai
inevitabile, aveva deciso di cedere, a modo suo, alla proposta
dell’imprenditore trasformandola in una possibilità di salvezza per la Fikri
Harika. Per Can.
Lui l’aveva aspettata su quella macchina glaciale e lussuosa. Lei era
salita e aveva concluso l’affare: «Le do il mio profumo. Oggi stesso lei
firmerà con l’agenzia».
Al momento della firma, però, non le era sfuggito lo sguardo di Can. Era
come se di quell’amore non fosse rimasto più nulla. Come se un vento freddo
avesse spazzato via tutto, senza lasciare tracce.
Dopo l’exploit di Fabbri, durante il quale tutti erano venuti a conoscenza
del loro accordo, Can era diventato ancora più freddo con lei. Anche quella
mattina, entrando in ufficio non la degnò di uno sguardo o un saluto, mentre
Fabbri non faceva altro che chiamarla.
Aveva fretta di iniziare la lavorazione del profumo e la sua voce, al
telefono, era sempre troppo maliziosa. Sanem non conosceva quel modo di
flirtare con gli uomini, ma aveva capito che lui avrebbe voluto ben altro
oltre alla sua essenza. Inoltre lei aveva fatto il grande errore di dirgli che il
fidanzamento tra lei e Can era stato rotto e Fabbri, ovviamente, voleva
approfittare di quel distacco come un avvoltoio.
Ma le sue attenzioni non erano l’unica cosa che impediva a Sanem di
lavorare anche a quei pochi progetti che l’agenzia aveva ancora in mano.
C‘era un altro pensiero che la tormentava da quando aveva visto Aylin
portare a Emre la stessa cartellina rossa che lei era stata costretta a rubare
mesi prima, l’origine di tutti i suoi guai. Ormai erano giorni che Sanem
fissava la porta dell’ufficio di Emre senza sapere cosa fare fino a che la sua
voce interiore non decise di spronarla.
Dopo quello che hai fatto, e quello che ti è costato, potresti almeno
scoprire cosa contiene questa maledetta cartellina.
Aveva bisogno di sapere quanto e in che modo il contenuto di quella
cartellina aveva danneggiato Can. Così, durante la pausa pranzo, con
l’agenzia semivuota, prese coraggio e lo fece. Entrò nell’ufficio di Emre e si
mise a cercarla.
Dai, sbrigati! Il capo potrebbe tornare! Qualcuno potrebbe vederti qui,
ti ricordo, le mura sono trasparenti! Maledette vetrate! Perché non si
usano più gli uffici con i muri bianchi? L’altra se stessa stava aggiungendo
altra ansia alla sua ansia. Finché…
«Eccola!» La cartellina era nelle mani di Sanem. La aprì e non credette ai
suoi occhi: dentro c’era l’atto costitutivo dell’agenzia di Aylin, secondo il
quale Emre era socio al cinquanta per cento. Quei due erano complici. Lo
erano sempre stati, ed era Emre a voler distruggere la Fikri Harika, non Can.
Ora non restava che smascherarli una volta per tutte.
Emre intanto era tornato dalla sua pausa pranzo, la prima che era riuscito
a godersi in quei giorni difficili durante i quali Aylin, invece di stargli
vicino, aveva deciso di complicargli la vita sventolandogli l’atto costitutivo
della loro società per ricordargli del potere che aveva su di lui. La
situazione peggiorò quando Can lo convocò in ufficio, non appena lo vide
rientrare.
«Emre, la faccio breve. Sei licenziato. Il nuovo assetto societario me lo
permette dopo che le tue azioni sono state acquistate da Fabbri.»
Emre rimase in silenzio. Era stato lui a decidere di mettere in vendita la
sua quota dopo quello che aveva fatto, ma non pensava che Can covasse
questa vendetta. Non era il tipo. Capì quanto lo aveva ferito. Tanto da
cambiarlo. Cercò di farlo ragionare. Invano.
«Libera l’ufficio entro oggi.»
Leyla, quando notò uscire Emre dalla stanza di Can, si accorse subito che
qualcosa non andava. Lo aveva osservato, con amore, per anni, e sapeva
leggere le sue espressioni.
«Signor Emre, va tutto bene?»
«No Leyla, mio fratello mi ha licenziato.»
«Licenziato?» Leyla piombò nella disperazione. Non avrebbe più potuto
vedere il suo capo. Avrebbe vissuto con un cuore in frantumi ancora più di
quello che le causava un amore non corrisposto. Emre spiegò la situazione
alla sua ormai ex segretaria e le chiese l’ultimo favore: svuotare la sua
stanza e fargli spedire tutto a casa. L’unica cosa che avrebbe portato via
personalmente dalla Fikri Harika era la prova che lui e Aylin fossero
complici, ma non era più lì. La cartellina rossa che per tanto tempo l’aveva
custodita era vuota.
In preda al panico, Emre uscì dall’ufficio e chiamò Aylin, ma lei sembrò
quasi divertita dalla situazione. D’altronde, non vedeva l’ora che Emre
lasciasse l’agenzia del padre per costruire un impero insieme a lei. Già
pregustava la reazione di Aziz.
Chiusa la telefonata con la fidanzata, Emre ricevette un’altra chiamata.
Era Sanem. Quel documento che poteva rovinarlo lo aveva lei e aveva
deciso di usarlo come arma di ricatto contro di colui, che le aveva rovinato
la vita.
«Se entro tre ore non dice tutta la verità a Can, sarò io a farlo.»
Sanem l’imbranata. Sanem la svampita. Sanem l’ingenua lo stava
mettendo in una situazione estrema.
L’allieva aveva superato il maestro.

Poche ore dopo, a casa Aydın, Mevkibe guardava le sue figlie (“i suoi
gioielli”, come le diceva spesso Nihat) sul divano. Ammirava lo stile
composto di Leyla e quello chiassoso di Sanem. Nessuna delle due, però,
parlava.
«Su, bambine. Ditemi quello che vi frulla in quelle testoline» continuava
a ripetere la mamma, mentre sgranocchiava i suoi semi preferiti, quando il
telefono della figlia maggiore squillò. Era il suo ex capo. Dovevano vedersi
con urgenza.
Emre aveva dato retta ad Aylin per l’ennesima volta. I suoi sentimenti per
lei erano sempre più deboli, quasi assenti, ma quando si trattava di strategie
era ancora la persona migliore a cui rivolgersi.
Fu Aylin, infatti, a consigliargli di farsi aiutare da Leyla per recuperare il
loro atto costitutivo. Sanem sicuramente lo aveva nascosto a casa, secondo
la spietata dark lady, e la segretaria dai grandi occhi azzurri sempre sognanti
era abbastanza innamorata del suo boss da mettersi anche contro la sorella.
Emre e Leyla si videro in un bar non lontano dal suo quartiere e lui le
ripeté alla perfezione le parole che Aylin gli aveva messo in bocca. Prima di
tutto le parlò del grande amore che Sanem provava per il fratello e poi le
spiegò cosa era successo, nella versione che gli era stata suggerita dalla sua
amante.
«Leyla, Sanem ha scoperto questo documento che dimostra che io e Aylin
siamo in società. L’ha preso dal mio ufficio per mostrarlo a Can nella
speranza che lui, per gratitudine, si riavvicini a lei. In realtà sono stato
costretto a firmare quell’atto. Aylin mi ha ricattato.» E poi, senza mentire né
seguire alcun copione, disse l’unica frase che poteva convincerla: «Tra me e
Aylin è finita, non provo più nulla per lei, ma devo riavere quelle carte o
sono rovinato. Non recupererò mai più il rapporto con Can né il mio posto in
agenzia».
Leyla rimase in silenzio, ascoltò. Provò a tirarsene fuori: «Signor Emre,
io non posso fare questo a mia sorella. Al signor Can».
«Leyla, ti prego.»
«Non posso.»
«Sei la mia unica possibilità.»
Non sapeva cosa fare. Alla fine decise che non poteva essere complice
della rovina di Emre e, tra mille incertezze, gli promise che ci avrebbe
provato. Per lui. Solo per lui. Lo amava. Era accecata da quella stessa
speranza, l’amore, la stessa cosa che, stando al racconto di Emre, aveva
spinto Sanem a prendere l’atto per mostrarlo a Can. Così Leyla entrò nella
stanza della sorella, frugò tra le sue cose e trovò quello che cercava, in una
cartellina, che questa volta era di un azzurro cielo. Prese solo i fogli e li
portò via di lì.
Si sentiva male per quello che stava facendo a Sanem, ma si trattava di
Emre. Per nessun altro sarebbe mai arrivata a tanto. “Forse non dovrei
neanche per lui” si disse. Ormai, però, era troppo tardi.
Sua sorella, dal canto suo, non avrebbe mai immaginato una cosa simile
da parte di Leyla. Intanto era arrivata l’ora X e Sanem chiamò Emre. Come
pensava, non aveva detto ancora nulla al fratello, ma lei non poteva più
aspettare. Prese la cartellina azzurra dove aveva riposto i documenti; uscì di
casa e andò a villa Divit. Al solo pensiero che, dopo quel gesto, Can si
sarebbe fidato ancora di lei, si sentiva sciogliere.
Magari non l’avrebbe perdonata, però l’avrebbe capita. Avrebbe
ricominciato a parlarle, a guardarla… Suonò alla porta. Lui aprì.
«Sanem, cosa ci fai qui? Devi confessarmi qualche altra bugia?» Il suo
astio la lasciò di stucco ma non si fece scoraggiare. Avrebbe risolto tutto. I
suoi occhi l’avrebbero guardata come prima, ne era certa.
«Can, sono qui per mostrarti una cosa.» Sanem tirò fuori la cartellina
azzurra e gliela porse. «Ecco, qui dentro c’è tutto. La spiegazione di tutte le
mie bugie. Anche se in realtà non dovrei essere io a dover dare delle
spiegazioni, ma il signor Emre.»
Can era nervoso. Ritrovarsi Sanem davanti lo mandava in tilt e la evitava
per questo. Era splendida nel suo abitino a fiori rosso, ma non poteva
cedere. Aprì la cartellina nella speranza di trovare davvero lì dentro delle
risposte alle quali potersi aggrappare per riaccoglierla nella sua vita. Ma la
cartellina era vuota.
«Sanem, qui dentro non c’è niente» sospirò deluso e scioccato. Pensò che
fosse uno scherzo e che ormai lei ci provasse quasi gusto a prenderlo in giro.
«Ma come è possibile? Era lì.»
«Cosa era qui, Sanem? Ti aspetti ancora che io ti creda?»
Non sapeva cosa rispondergli perché neanche lei capiva cosa fosse
successo. Vedi il lato positivo, non può andare peggio di così, provò a
consolarla la sua voce interiore.
Ma peggio di così andò, eccome. Dietro Can, direttamente dalla sua
camera da letto, spuntò Deren con indosso solo una maglietta. La stessa che
Sanem aveva indossato la sera al rifugio con Can, quando lui le aveva
cucinato carne alla brace. Anche Can notò la t-shirt e sentì il bisogno di
chiarire a Sanem la situazione.
«Deren è qui perché mi ha portato la cena, si è macchiata col vino e si è
dovuta cambiare. Ha preso lei la maglietta, una a caso.»
“Ma perché mi sto giustificando?” si chiedeva intanto.
«Sì, l’ho trovata sulla sedia!» Deren istintivamente confermò quello che
stava dicendo Can, ossia la verità, senza capire perché lui stesse dando a
L’altra tutte quelle spiegazioni.
In ogni caso, la missione di Sanem era stata un disastro. Aveva fatto una
figuraccia terribile e perso ancora di più, se possibile, credibilità agli occhi
di lui. Pensò che ormai era finita, che forse solo le poesie, i romanzi,
avrebbero potuto riempire quel vuoto carico di dolore che sentiva scavarsi
dentro.
Anche Can era sconvolto: l’aveva vista lì, a casa sua, così sicura di
quello che diceva. Ma le sue prove erano inesistenti: una cartellina azzurra
completamente vuota. Pensò che tutto quello che era stato di Sanem – i balli,
i baci, le notti –si era ormai ridotto a un codice binario, a due cartelle: una
rossa, una blu. Turbato, chiese a una Deren già irritata e offesa di tornare a
casa propria.
«Scusami, non mi sento bene.»
Era ormai tarda sera, quando Can e Sanem rimasero soli nelle loro stanze.
Aprirono la medesima pagina dello stesso libro di Cemal Süreya, e si
rividero nelle sue parole.

Nella tua voce cosa c’è, lo sai? Ci sono le parole non dette, forse saranno cose da nulla,
ma in quest’ora del giorno si stagliano come monumenti. Nella tua voce cosa c’è, lo sai? Ci
sono le parole che non sapevi dire.
Ti ho amato così tanto, proprio per come sei.
C’era un fiore, lì da qualche parte, come se fosse nato per correggere uno sbaglio.
Avevamo chiesto due tè, di cui uno chiaro, magari ti avessi amato solo per questo. Non ho
nulla se non questa strada che scorre, magari ti avessi amato solo per questo…
Festa a sorpresa, ma da parte di chi?

Aylin si stava dimostrando una burattinaia. L’atto costitutivo della sua


società era stato recuperato dalla principessina Leyla, così quando Sanem
era andata a casa di Can non era riuscita a consegnargli niente… se non una
cartellina vuota.
Mancava solo un passaggio per dividere completamente Can e Sanem, ma
aveva bisogno di Fabbri per metterlo in atto. Aylin, da esperta di ossessioni
d’amore, al campus motivazionale si era resa conto del modo in cui
l’imprenditore guardava Sanem. Non si capacitava del motivo, e d’altronde
non capiva neanche perché Can si fosse così legato a quella ragazzina, ma
anche Enzo ne era ammaliato.
D’altro canto, aveva notato anche che il fotografo aveva tirato fuori un
lato inaspettatamente geloso e possessivo nei confronti di Sanem durante il
party in cui Fabbri aveva solo osato invitarla a ballare: aveva reagito
strappandogliela letteralmente dalle braccia e portandola via. Unendo tutti i
tasselli, alla scoperta che il compleanno di Sanem era imminente, Aylin
arrivò al piano perfetto.
Avrebbe organizzato lei stessa una festa a sorpresa per Sanem da parte di
Fabbri, spacciandola come un’idea dello stesso imprenditore per un gala per
il rilancio della Fikri Harika, di cui era ormai socio. Intanto però Aylin
doveva far credere a Sanem che la festa a sorpresa per lei fosse stata
organizzata da Can e per questo le bastò solo una telefonata alla persona
giusta.
«Güliz, tesoro. Come stai? Come va la carriera di attrice?»
Era così patetica quella ragazza, davvero pensava di sfondare nel mondo
dello spettacolo?
«Eh, per il momento non si muove nulla, signora.»
«Abbi fede! Senti, ora sei al lavoro?»
«Sì, signora Aylin, sono al lavoro. Qui c’è molto trambusto, siamo tutti
emozionati per una festa che si terrà stasera.»
«Ah sì, ho saputo. La festa che Can ha organizzato per il compleanno di
Sanem!»
«Per il compleanno di Sanem!?! Ma noi avevamo capito che era una festa
per la rinascita della Fikri Harika.»
Aylin bluffò, le veniva meglio di qualunque altra cosa: «Güliz, hai
ragione, sono una sciocca! Deve essere una sorpresa per la piccola Sanem!
Mi raccomando, non dirlo a nessuno! Sono io che ho sbagliato! Ero convinta
che sapessi la verità».
«Non si preoccupi, signora Aylin. Non dirò niente a nessuno, sarò una
tomba.»
Güliz, e Aylin lo sapeva bene, non era in grado di tenere un segreto. Per
Sanem sarebbe stato il compleanno peggiore della sua vita.
Sanem invece, completamente ignara del piano ordito ai suoi danni, quel
giorno ritrovò il sorriso. Era al lavoro triste e piena di vergogna, dopo la
brutta figura della sera prima. Non capiva dove fosse finito il documento che
incastrava Emre.
A distoglierla dai suoi pensieri fu qualcosa di incredibile. La notizia che
il party di quella sera era stato organizzato per lei, appositamente per lei, da
Can, le era arrivata alle orecchie da CeyCey, che a sua volta l’aveva saputa
da Güliz.
“Una sorpresa?”
Lui era così freddo negli ultimi tempi: non aveva molto senso, ma Sanem
non pensò che non fosse vero. Neanche per un secondo.
Can forse voleva farsi perdonare per i giorni di silenzio. Per la cena con
Deren che, ormai ne era certa, doveva essere stata solo un appuntamento di
lavoro. Can era ancora innamorato e i segnali c’erano tutti.

Ignara di tutto, Mevkibe si era rivolta a lui, una persona che stimava ormai
da tempo, per chiedergli qualche consiglio, nell’ultima sua follia di
candidarsi come rappresentante di quartiere contro Aysun, la mamma di
Muzaffer. Il quartiere aveva bisogno di donne forti e Mevkibe aveva tante
idee per rivoluzionare il loro piccolo mondo.
Can non solo l’aveva ascoltata attentamente, ma le aveva promesso di
curarle gratis la campagna elettorale, creando dei manifesti per lei. L’aveva
aiutata, seguita, consigliata, anche perché aveva rispetto di quella signora
schietta e scoppiettante, e non avrebbe dovuto pagare lei le colpe di sua
figlia. Can sapeva essere leale e generoso anche in queste occasioni.
«Le mando un piccolo team a casa» le aveva proposto. «Così l’aiutano a
prepararsi a dovere.»
Sanem era felicissima di quel gesto, che aveva interpretato non solo come
gentilezza, ma anche come la brace di un amore che prima o poi sarebbe
riemerso dalle ceneri.
Mevkibe aveva vinto contro Aysun, per un solo voto, e la mattina del
compleanno di Sanem, il 17 ottobre, i dolci a colazione avevano un sapore
diverso. Vedendo gli occhi dei suoi genitori brillare di orgoglio e felicità, si
sentì amata e al sicuro. Stava tutto tornando al proprio posto.
Prima l’aiuto a Mevkibe, ora la festa a sorpresa. Can l’aveva proprio
perdonata.
Un po’ le dispiaceva che l’incanto di scoprire da sola la festa le fosse
stato rovinato da quei due adorabili pettegoli, ma si sentì felice, per la prima
volta dopo tanti giorni.
Mancavano ancora diverse ore al party a sorpresa, ma Sanem aveva
convocato in camera sua Ayhan, sorellina e consigliera, nella speranza di
trovare il vestito perfetto per la serata del suo compleanno. Una ricerca
quasi impossibile che finì quando un corriere bussò alla porta con in mano
una scatola proveniente da una delle boutique più “in” di Istanbul. Solo la
scatola, di cartone lussuoso e infiocchettato con un nastro di raso, la lasciò
senza parole.

Arrivò in leggero ritardo alla festa. Non era una ragazza che perdeva tempo
a imbellettarsi, ma quella sera doveva essere perfetta. Per lui, per Can. Per
rendere onore a quella scatola, a quel vestito.
Entrò nella sala con il vestitino blu, una nuvola preziosa di balze e tulle e
subito i suoi occhi lo cercarono e la portarono a lui. Doveva ringraziarlo,
forse lo avrebbe abbracciato.
La sua marcia verso l’uomo dei sogni, impeccabile in un abito scuro reso
unico e “suo” da spille tricolore (in realtà erano un’idea di Deren, un
omaggio alle origini italiane di Fabbri), però, fu fermata proprio
dall’imprenditore-salvatore dell’agenzia.
«Sanem, è bellissima. Non avevo dubbi che il vestito le sarebbe stato alla
perfezione.»
“Ma cosa dice? Quale vestito?”
Sanem non capiva cosa stesse succedendo. Fabbri continuava a parlare,
ma lei guardava Can, che era in silenzio, immobile. Cercava di parlargli con
lo sguardo, di trasmettergli i suoi pensieri.
“Portami via di qui, portami di nuovo lontano da quest’uomo, come quella
sera sul mare.”
Fu Enzo a chiarire la situazione, a lei e al resto della sala.
«Ho organizzato questa festa per Sanem, oggi è il suo compleanno.
Auguri, splendida Sanem!»
Una festa a sorpresa, ma da parte di chi? L’aveva organizzata Fabbri?
Non era possibile. Era stato Can… o forse no?
Sanem continuava a guardarlo. A chiedere aiuto ai suoi occhi inflessibili.
Non vedi che non ti vuole neanche guardare in faccia? Che festa
potrebbe aver organizzato?
Non aveva organizzato lui la festa. Il vestito non era un suo regalo. E lui
la guardava con… commiserazione? Disapprovazione? No, era distacco.
Indifferenza. Non l’aveva perdonata. Non l’amava più.
Sanem aveva tutti gli occhi degli invitati, volti conosciuti e non, puntati
addosso. Quando Fabbri le chiese di ballare, Can girò le spalle e se andò.
Sanem non poté più sopportare di essere lì. Era fuggito via, stavolta senza di
lei. Lo seguì.
«Can! Aspetta!» urlò ottenendo la sua attenzione. «Ti prego, ascoltami. Io
pensavo che avessi organizzato tu la festa. Che il vestito fosse un tuo
regalo…»
Can la bloccò: «Sanem, non mi importa. Non voglio più sentire una
parola. Per me da oggi in poi sei una dipendente qualunque, e per favore,
torna a darmi del “lei”».
“No, meglio il nulla che una qualunque!” pensò Sanem, e così decise di
rinunciare al suo principe.
«Signor Can, non si preoccupi, da questo momento non le darò più
fastidio. Non sarà più obbligato a vedermi. Non tornerò al lavoro.»
Pensava che sarebbe tornato indietro, che le avrebbe chiesto di restare.
“Dimmi di andare e vado, dimmi di restare e resto” pensò di nuovo, con
la morte nel cuore. Lui non si girò nemmeno. Non la fermò.
Qualcun altro, però, si stava interessando a lei.
Dopo averla vista in quelle condizioni alla festa, umiliata e attonita, Leyla
non riuscì a rimanere ancora per molto in quel salone barocco e decise di
raggiungerla. Tornò a casa, tentò di divincolarsi velocemente dalle domande
di Mevkibe, preoccupata per l’assurdo orario in cui era tornata la più
piccola delle sue bambine dalla festa di compleanno («È troppo presto! È
successo qualcosa?»), e la trovò a letto. In lacrime.
L’abbracciò come non faceva da tempo, con tutta la tenerezza di cui era
capace. Aveva fatto una cosa grave ma poteva riparare. Non l’avrebbe
tradita. Neanche per Emre.
Figlio unico

CeyCey trotterellava per l’ufficio nel tentativo di convincere i dipendenti a


sedersi e lavorare, ma tutti stavano in piedi, divisi in piccoli e rumorosi
gruppi, per spettegolare di quello che era successo la sera prima alla festa.
«Ci licenzieranno in massa se il signor Can non ci trova alle scrivanie!»
continuava a ripetere lo stagista, ma nessuno sembrava volerlo stare a
sentire. Il gossip del giorno era troppo succulento e le chiacchiere che ne
derivavano ancora di più. Quella maggiormente quotata era che Sanem fosse
l’amante di Fabbri, alcuni grafici avevano addirittura scommesso sul costo
del vestito che le aveva regalato. CeyCey non poteva mantenere l’ordine da
solo. Gli serviva una mano, ma quando si trattava di cronaca rosa non poteva
certo contrare su Güliz per rimettere in riga i colleghi.
Sanem non era al lavoro.
“Non è che è in ritardo perché ha passato la notte con Fabbri?” si chiese.
No, non era possibile. Decise di chiamarla. Solo lei poteva chiarire la
situazione e mettere a tacere, e al lavoro, tutti.
«Sanem!» gli rispose una voce rotta dal pianto. «Sanem, che succede?
Perché non sei qui in agenzia e soprattutto… perché stai piangendo?»
«CeyCey, non tornerò in ufficio. Mi sono licenziata!»
Il ragazzo ebbe un déjà-vu.
«Come ti sei licenziata? Di nuovo? Qui tutti sparlano di te, dicono che sei
l’amante di Fabbri, che il vestito che ti ha regalato è costato milioni! Ti
prego vieni, chiarisci tutto. Poni fine alle chiacchiere prima che ci licenzino
tutti!»
«Ma io non sono l’amante di Fabbri! Io ero convinta che quella di ieri
sera fosse una festa a sorpresa organizzata da Can, dal signor Can, per me.
Me lo hai detto tu!»
«Lo so, lo so. Mi dispiace per averti messo in una situazione così
imbarazzante, ma è stata Güliz a dirmi di Can, della festa. Sto diventando
pazzo! Se neanche le notizie che divulga Güliz sono vere… dove andremo a
finire, dove?!»
Mentre CeyCey cercava in un modo tutto suo di scusarsi con Sanem,
accucciato sul divanetto delle loro confessioni, non si accorse che Can era
arrivato in ufficio e, vedendolo, i suoi colleghi si erano finalmente messi al
lavoro. Non si rese nemmeno conto che Can era dietro di lui e aveva, di
nuovo, ascoltato ogni sua parola (e non era la prima volta che succedeva).
“Forse dovrei dire a CeyCey che il divanetto dietro al bar non è il posto
migliore per parlare in privato” pensò il fotografo, mentre si allontanava con
in mano un tè e nell’altra le sue pietre lunari con cui giocherellava con più
serenità del solito. Allora Sanem la sera prima gli aveva detto la verità.
Leyla intanto si era chiusa in ufficio. Era arrivato il momento di chiamare
Emre e dirgli che aveva cambiato idea. In tutti quegli anni al suo fianco non
gli aveva mai detto di no, aveva sempre eseguito i suoi ordini senza battere
ciglio e non solo perché era suo dovere farlo.
«Signor Emre…»
«Leyla! Come stai? Sei al lavoro?»
«Sì, signor Emre.»
«Hai con te quel documento? Dimmi quando ci possiamo vedere, posso
passare io a prenderlo sotto l’ufficio.»
«Signor Emre, non posso farlo. Non posso darglielo, sarebbe come
tradire Sanem. Mi dispiace.»
«Leyla, ma cosa vuol dire che non puoi darmelo?»
Al fianco di Emre, Aylin stava ascoltando la telefonata. Erano a casa
insieme, lui si era stabilito lì dopo essere stato licenziato da Can. Era stupita
che Leyla si stesse tirando indietro. Forse si era sbagliata, forse non era
innamorata come pensava (“Ma no, è impossibile”) o forse la lealtà che
provava per Sanem era più forte dei sentimenti per Emre. La cosa le sembrò
molto triste.
Leyla intanto aveva attaccato il telefono. Era convinta della sua scelta, ma
le lacrime che le scendevano sul viso dimostravano quanto fosse stato
doloroso per lei prenderla. Uscì dalla stanza per andare a ritoccarsi il trucco
alla toilette e, in quel momento, vide entrare sua sorella.
Sanem era tornata in ufficio.
Aveva in mano la lussuosa scatola in cui le era stato recapitato il vestito
di Fabbri e si stava dirigendo verso di lui, che ogni giorno passava in
agenzia con una scusa diversa, solo per vedere lei.
Ti ha coperto di ridicolo. Devi rimettere le cose a posto. Lui a posto.
La sua voce interiore in quel momento tifava per lei che, dopo la
telefonata di CeyCey, aveva deciso di mettere in chiaro una volta e per tutte
la situazione. Non voleva che gli (ex) colleghi sparlassero di lei e
mettessero in dubbio la sua professionalità, pensando che fosse l’amante del
nuovo capo. Non voleva che Can la ricordasse come una ragazza facile che
accetta le lusinghe di un certo tipo di uomini e così, nel bel mezzo
dell’ufficio, dimostrò chi era davvero Sanem Aydın.
«Signor Fabbri!» lo chiamò e lui si girò. Come il resto dell’ufficio.
«Sanem, se n’è andata via presto ieri. Va tutto bene?»
«No, per niente» lei gli mise in mano la scatola. «Questo è suo.»
«Sanem, io non capisco.»
«Lo prenda. Non lo voglio… ieri sera mi ha messo in imbarazzo.»
Fabbri avvampò, mentre tutti lo guardavano. Quella ragazza lo avrebbe
portato alla rovina.
«Ma Sanem, pensavo che la sorpresa fosse di suo gradimento» si
giustificò cercando un sorriso negli altri impiegati. Non arrivò. «Mi dispiace
se si è sentita a disagio, non accadrà mai più.»
«Lo spero. Certe sorprese non mi piacciono.»
Fabbri era spiazzato, ma anche colpito, nessuna donna lo aveva mai
trattato così. Non dopo certe attenzioni, ma Sanem era diversa e questo lo
stuzzicò ancora di più.
«Sanem le chiedo scusa. Davvero, pensavo gradisse le sorprese. È
evidente che io non la conosco bene ma sicuramente avremo tempo per
colmare le mie lacune e creare un bel rapporto di amicizia…»
Al solo pensiero di dover diventare amica di un uomo come Enzo Fabbri,
Sanem rabbrividì. «Signor Fabbri, voglio essere chiara, l’unico rapporto che
ci lega e ci legherà sarà sempre e solo professionale.»
Tutti i dipendenti della Fikri Harika si stavano godendo quello spettacolo,
sentendosi anche un po’ in colpa per aver fatto illazioni su Sanem. Anche
Can aveva avuto, fermo sulla porta del suo ufficio, un posto in prima fila e
anche lui si pentì di come l’aveva trattata la sera prima.
“Esiste ancora… la Sanem che amo io. Esiste, e sta per andarsene via.”
Erano due i motivi per i quali quella mattina era riuscita a raccogliere le
sue forze e presentarsi in ufficio, con l’aiuto dell’altra se stessa che si
sentiva umiliata quanto lei: il primo era ridare il vestito a Fabbri e far tacere
le malelingue, e il secondo licenziarsi, ma non come l’ultima volta.
Questa volta aveva scritto una lettera di dimissioni. E così si diresse con
passo fermo, lo stesso con cui si era presentata in agenzia in quella tarda
mattinata, nell’ufficio di Leyla per scrivere in tranquillità le sue dimissioni
che aveva preparato su un foglio di quaderno. Nel cercare la carta bianca tra
le scartoffie, però, trovò altro: l’atto costitutivo della società di Emre e
Aylin.
“Lo ha rubato Leyla? A me?”
In quello stesso momento la sorella si affacciò alla porta: «Sanem, sei
stata grande con il signor Fabbri!».
Lei si voltò e le mostrò quello che aveva scoperto.
«Leyla, perché hai tu questo documento?»
«Sanem, fammi spiegare. Ti prego.»
«Non c’è nulla da spiegare, Leyla. Sei proprio disposta a tutto pur di farti
apprezzare da Emre» si stava comportando come Can aveva fatto con lei. Se
ne rese conto, ma non aveva intenzione di ascoltare spiegazioni, voleva solo
andare via. Mise una firma veloce sulla brutta copia della lettera ed entrò,
per la prima volta senza neanche bussare, nella stanza di Can.
«È arrivato il tè?» chiese lui, prendendola in giro.
Ma Sanem non aveva nessuna voglia di scherzare. «No, signor Can,
queste sono le mie dimissioni.» Gli porse il foglio.
«Sanem, ma che dici?» Gli occhi di Can la guardavano come prima, ma
lei non se ne accorse. Evitava di incrociarli.
«Non ho più intenzione di lavorare per lei. Non mi ascolta. Non mi
crede.»
«Sanem, sei proprio sicura?»
«Sì.»
“Ma se mi dici di restare, resto” si voltò e uscì dalla stanza.
Can non sopportò di vederla andare via e la raggiunse. Le prese la mano.
Entrambi sentirono una scossa.
«Resta!» lo disse. «Devi restare, hai un debito con questa società. Lo
devi ripagare, inoltre potrebbe entrare un nuovo cliente, grosso. Abbiamo
bisogno di creativi.»
“Ho bisogno di te” gli sembrò che Sanem gli leggesse nel pensiero e le
sorrise.
«Va bene, signor Can. Allora rimarrò per ripagare il mio debito» gli
lasciò la mano, accennò anche lei un sorriso e professionalmente raggiunse il
tavolo dei copywriter.
Can con il cuore finalmente più sereno era intento a studiare il profilo di
un marchio sportivo molto famoso, la Compass Sport, che voleva
accaparrarsi come cliente, quando sentì bussare alla porta. Alzò la testa dal
computer e vide Leyla con dei fogli in mano. “Non è possibile, oggi è la resa
delle sorelle Aydın!”
«Leyla, per favore, non dirmi che vuoi tentare di licenziarti anche tu»
disse guardando i fogli che l’assistente aveva tra le mani.
«No, Signor Can, questi sono i documenti che Sanem voleva darle l’altra
sera, quando è venuta a casa sua. Era convinta che fossero in una cartellina
azzurra ma in realtà li aveva scordati nella sua camera… che è sempre in
disordine!»
Leyla passò i fogli al capo, nella speranza che la parziale verità che
aveva imbastito avesse senso perché, come Sanem, non era abituata a
mentire. Lui li guardò e in un attimo gli fu tutto chiaro. La drammatica verità.
Era Emre la spia. Emre il cospiratore. E Aylin, che era andata da lui a
chiedergli aiuto in nome dell’amore per suo fratello, lo aveva manovrato
ancora.
«Emre e Aylin sono stati sempre d’accordo e questo atto lo dimostra.
Sanem ha cercato di dirmelo, di spiegarmelo ma io non l’ho ascoltata e l’ho
lasciata andare via.»
Can prese la giacca e si allontanò, lasciando Leyla da sola alla ricerca
delle parole giuste da dirgli, e da dirsi, per giustificare quello che Emre
aveva fatto. «Aylin ha ricattato il signor Emre!»
Ma Can era già troppo lontano per poterla sentire; come una furia si era
diretto in garage a prendere la jeep. Doveva raggiungere Emre e sapeva
dove trovarlo: a casa della sua amante. E socia. Arrivò a destinazione in una
manciata di minuti. Bussò alla porta e se lo trovò davanti.
«Emre, ora mi spieghi come hai potuto fare questo a nostro padre. Come
hai potuto metterti in società con questa donna, con questa arrampicatrice
sociale con cui hai complottato alle spalle della tua famiglia trascinando in
mezzo anche persone innocenti» urlò al fratello non curandosi del fatto che
Aylin fosse proprio dietro di lui.
Emre vide negli occhi iniettati di sangue di Can la sua fine, ma tentò
comunque di prorogarla.
«Can, ti posso spiegare.» Era certo che Aylin avrebbe trovato un modo,
che avrebbero potuto insieme trovare un’altra scusa se solo il fratello li
avessi fatti parlare. Non fu così.
«Emre, Basta! Te lo dico una sola volta: io da oggi sono figlio unico.»
Ci sono qui io, non avere paura

Il giorno dopo, in ufficio, Sanem si rese conto che aveva fatto bene a
prendere la decisione di restare: l’agenzia aveva bisogno di copywriter, per
vincere la gara per la campagna della Compass Sport.
Portare di nuovo il tè a Can, partecipare alle riunioni creative le aveva
fatto fare un salto indietro nel tempo a qualche settimana prima e, anche se
non era felice come quando stava con Can, comunque il peggio sembrava
essere passato.
In realtà alla Fikri Harika il pericolo era sempre in agguato e si era ben
presto ripresentato nelle forme perfette di Gamze, la splendida account della
Compass Sport, nonché storica amica di Can. Gambe lunghissime, capelli
castani fluenti, occhi da cerbiatto e viso da bambola.
“Ma non è possibile” pensò Sanem irritata. “Tutte le amiche di Can sono
delle modelle, o quasi.”
Gamze era una Polen mora. Rispetto a lei, però, aveva una marcia in più,
per il cuore di Can: era una grande amante dell’avventura, degli sport
estremi, dei viaggi. Sanem aveva scoperto che in passato avevano girato
insieme l’Europa in camper. Aveva origliato mentre lui e Bambi – così
Sanem aveva soprannominato la sua nuova antagonista – chiacchieravano
nell’ufficio di Can, e per controllarli Sanem era… instancabile: continuava a
portare loro del tè.
Al termine di una faticosa giornata di lavoro in cui aveva passato il tempo
a spiare il capo e la bella ragazza della Compass Sport, Sanem era
tristissima. Aveva solo voglia di tornare a casa, aprire il suo diario e
sfogarsi.
Entrò in ascensore a testa bassa e non si accorse subito che lì dentro c’era
anche Can. La cosa la rese tanto nervosa che cominciò a premere tutti i tasti
per arrivare in fretta al piano terra.
Lui la guardava in quel modo tra l’esasperato e il divertito che era tanto
mancato a Sanem.
«Sanem, ti prego non giocare con l’ascensore. Scendiamo e basta, che ho
fretta! Devo andare a un concerto con Deren!»
«Deren, Gamze… tutte le occasioni sono buone per flirtare, eh, signor
Can!»
«Sanem, cosa stai dicendo? E soprattutto stai ferma con quei tasti!»
«Sto dicendo che lei non mi guarda neanche in faccia ma con chiunque
altra pianifica concerti, parla di viaggi…»
«Sanem…» Can si fece serio, ma i suoi occhi erano inequivocabilmente
quelli di un uomo innamorato. Follemente. «Io non ti guardo perché non ci
riesco. Perché se lo faccio poi non riesco a… non riesco….»
«Cosa non riesce?» Sanem gli si avvicinò, e di nuovo, dopo tanto tempo,
si sentì avvolta nella magia. La loro magia. Can si avvicinò alle sue labbra,
come per baciarla, ma in quel momento l’ascensore si fermò. Era bloccato.
«Perfetto» esclamò Can. «Te l’avevo detto di non toccare i tasti.»
«Si è fermato, signor Can?» strillò Sanem. «Oh no! Mia madre mi
ucciderà! Devo uscire! Devo trovare una via d’uscita? Una botola? Un
numero d’emergenza?»
I cellulari non avevano campo. Can si era già seduto sul pavimento e
rideva del suo panico.
«Ma quale botola, Sanem! Aspettiamo, qualcuno arriverà ad aprirci.»
Era sera, era tardi. Un pensiero terrificante (e meraviglioso) si faceva
strada in Sanem: “Trascorreremo qui la notte? Mia madre impazzirà!”.
Rimasero chiusi lì dentro per ore, mentre una Deren in lacrime fu
costretta ad andare da sola al concerto. Discussero, parlarono,
chiacchierarono, si chiarirono ancora fino a che, mentre erano seduti a terra,
Can decise di fare un passo verso Sanem «Ti devo chiedere scusa.»
«Lei a me? Per cosa?» Sanem si stupì.
«Non ti ho creduta, non ti ho lasciata parlare. So dell’atto della società,
di Leyla, della festa di compleanno, del piano di Aylin. So cosa è successo e
voglio lasciarmi tutto alle spalle» si avvicinò, voleva baciarla (“Di nuovo”
pensò Sanem “Succederà davvero questa volta, no?”), ma a un sospiro dalle
sue labbra qualcosa lo trattenne. Si fermò.
“Si è fermato… perché?” Lei non sentiva niente, se non il proprio cuore.
Non poteva perdonarla.
«Sanem io non ci riesco. Non posso fidarmi di te, non ce la faccio. Ma tu
sei molto preziosa per me. Ricominciamo tutto da capo… da amici.»
Amici?
“Amici?!”
Per una volta Sanem e la voce interiore erano perfettamente allineate: Can
era impazzito.
Rimase sconvolta ma, pur di stargli vicino, di poterlo guardare negli
occhi, l’amicizia era un amaro – amarissimo! – compromesso che poteva
accettare.
«Signor Can… cioè, Can. Questi giorni passati lontano da te sono stati
impossibili per me. Anche tu sei prezioso per me. Voglio essere tua amica.»
L’ascensore si mosse. Qualcuno li aveva trovati. Era l’addetto alla
sicurezza, per fortuna.
«Siamo salvi» gridò Sanem! Ma c’era un altro problema. A quell’ora non
poteva rientrare a casa, rischiava un attacco d’ira di Mevkibe. A risolvere il
problema fu Can, che si propose di ospitarla. Come amica, s’intende.
«Perché no?» commentò Sanem. Non era tanto spaventata dall’ira di
Mevkibe quanto agitata dal pensiero di stare un po’ con lui.
Due ore dopo era nella camera degli ospiti dei Divit, avvolta in una tuta
extralarge di Can (“Mi va larghissima, ma… è così bello averla addosso”).
Un messaggio ad Ayhan avrebbe risolto la questione Mevkibe, le avrebbe
chiesto di coprirla: ormai era diventata un’abitudine.
Erano le tre di notte. Sanem crollò non appena toccò quel letto comodo,
che sapeva di casa, di lui. Scivolò subito in un incubo terribile, in cui Can le
diceva che non voleva più vederla. Di nuovo. Si svegliò di colpo, urlando,
coperta di sudore, facendosi rassicurare dai numeri luminosi sulla sveglia
digitale che la riportò nel mondo reale.
La porta si aprì e lui entrò. Can era lì. In pantaloni di cotone e t-shirt era
ancora più bello. Era il Can della notte, il vero Can, autentico, appassionato,
dolce. L’abbracciò forte. «Cosa succede, Sanem? Ti ho sentito gridare.»
Averlo lì la fece sentire in uno stato di tranquillità, come su una nuvoletta
rosa.
«Un incubo…»
«Ci sono qui io, non avere paura.»
Per consolarla andò a prenderle il suo regalo di compleanno che non
aveva potuto, o meglio, voluto, consegnarle prima. Un ciondolo di ambra a
forma di goccia attaccato a una catenina in argento. Per farla riaddormentare,
Can le raccontò la storia di quella pietra.
«È un frammento di ambra di fuoco. Secondo la leggenda è una delle
lacrime di una dea che viveva nel mar Baltico che si innamorò di un umano,
un pescatore. Scapparono lontano, ma il dio del Tuono li trovò e li divise.
Così la dea cominciò a piangere lacrime di ambra affinché lui la potesse
ritrovare. Questo ciondolo mi è stato regalato da un’anziana signora con
l’augurio di potermi riunire con il mio amore, in qualunque posto del mondo.
Con me non ha funzionato, Sanem, ma mi auguro che funzioni per te. Buon
compleanno.»
Sanem guardò Can negli occhi. Gli avrebbe voluto dire che l’ambra di
fuoco aveva funzionato: il suo grande amore lo aveva a fianco. “Sono io il
tuo grande amore.”
E invece no. Ormai era solo un amico. Avrebbe voluto parlare ma sentì il
suo calore e preferì non dire niente. Si addormentò tra le sue braccia, e
poche ore dopo, quando aprì gli occhi, era ancora lì, sul suo petto. Can non
era riuscito ad andare via da quella stanza e aveva vegliato su Sanem tutta la
notte, pronto a difenderla dagli incubi. E forse anche dai draghi.
Sanem ne era sicura. Non avrebbe amato un altro uomo, nella sua vita.
C’era solo lui, ci sarebbe stato solo lui.

E quell’autunno sembrava partecipare al suo dolore: più che da foliage d’oro


e color rubino, da cieli azzurri e da passeggiate romantiche, si sentiva
circondata da nebbia, aria fredda e, in più, dalla frenesia di sua madre che,
grazie alla mini-campagna in cui l’aveva aiutata Can, era diventata
presidente dell’associazione di quartiere. Nihat era esasperato dai suoi
continui impegni sociali e Leyla, dopo un periodo di tristezza per aver
“tradito” il signor Emre, aveva recuperato anche un rapporto con lui e
soprattutto, smascherandolo, si era fatta perdonare da Sanem.
«Sei una ragazza con dei valori» le aveva detto Emre. «Non posso
avercela con te. Agisci in base a quello che ritieni giusto.»
Alla fine, quel momento le avvicinò; Sanem aveva capito che Leyla
amava Emre, che era persa dietro il suo cuore e, nonostante questo, l’aveva
salvata. Alla fine i fratelli Divit – problematici, contraddittori, complicati –
le avevano fatte riscoprire a vicenda, capendo quanto si volevano bene.
Can invece era concentrato solo sulla gara per Compass Sport. Lui era
uno sportivo vero, non di quelli che si scattano foto mentre scalano vette,
fingono di giocare a boxe con i guantoni o fanno rafting, ma di quelli
rigorosi, che amano la natura e si allenano duramente in palestra. Sentiva i
valori di quell’azienda molto vicini a sé, alla sua anima, e voleva vincere,
sapeva di meritarlo. Serviva solo uno slogan convincente, ma da Deren e la
squadra non erano arrivate idee così brillanti.
Aveva deciso quindi, visto che la Compass Sport era specializzata in
attrezzature da campeggio e da montagna, di portare i dipendenti e i loro
amici o fidanzati in una radura naturale, far provare a tutti i materiali,
organizzare una piccola caccia al tesoro e sperare che, così, lo slogan
uscisse da solo.
«Can, io ti odio» aveva commentato Deren, che non lo aveva ancora
perdonato per il concerto mancato. «Non sono mai stata in campeggio in
ventinove anni, e nel giro di tre mesi ci torno due volte!»
«Dai, Deren, magari scopri che ti piace e passi le prossime vacanze in
tenda, on the road» l’aveva presa in giro il capo.
Faceva freddo, ma non era un deterrente per Can, anzi. Avvolgersi in una
coperta, di sera, davanti alla tenda, era una delle cose che lo entusiasmavano
di più. In questo momento, però, aveva bisogno che i dipendenti si
concentrassero.
Aveva chiesto a un collaboratore di ideare dei giochi con i dispositivi
GPS dell’azienda. Sul posto, mentre copywriter, grafici, account e segretarie
impazzivano per montare le tende, erano arrivati anche Ayhan, che Sanem
aveva voluto al suo fianco nella speranza che lei e CeyCey si avvicinassero
una volta e per tutte; Gamze, invitata da Can come amica, esperta di natura e
stretta collaboratrice della Compass Sport. Pure Fabbri si presentò al
campeggio in quanto ormai proprietario di alcune quote della Fikri Harika,
anche se il motivo principale per cui aveva deciso di andare era legato a
Sanem, e soprattutto al loro accordo sul profumo, su cui l’imprenditore
voleva mettere le mani il più presto possibile.

Dopo l’ascensore, la dichiarazione di amicizia e la notte da Can, Sanem era


confusa.
Siete amici, le ripeteva in loop la sua voce interiore. Può uscire con chi
vuole.
“Sì, ma non Bambi” pensava lei, in preda alla rabbia. Non la sopportava.
Perché, un’altra la sopporteresti, accanto a lui?
Sanem dribblò Fabbri, che le si era avvicinato facendo il gesto
immaginario di spruzzarsi il profumo, come per chiederle notizie, e si
avvicinò all’ideatore della caccia al tesoro, che stava distribuendo i
dispositivi GPS. Assomigliavano a orologi supertecnologici.
«Addentratevi nel bosco, troverete delle bandierine. Chi ne conquista di
più, vince. Ma attenzione: non ci sono mappe. Le bandierine sono localizzate
solo dal GPS, che ha anche dei comandi vocali. Tutto chiaro?»
«Posso averne uno?» chiese Sanem, mentre sentiva la lamentela di
CeyCey.
«Posso cambiare voce? Questa mi fa paura, assomiglia a quella della
signora Aylin!» stava piagnucolando il ragazzo.
Sanem trovò Can dietro di sé. «Non prenderlo, non sei abituata. Può
essere pericoloso se non lo sai usare. Potresti perderti.»
“Come osa parlarmi così? Come a una bambina?” Sanem notò con la coda
dell’occhio la risatina di Bambi e si infuriò.
«Per tua informazione Can» ribatté, «sono bravissima a usare i GPS.»
Ma non è vero!
«Aspetta!» ripeté Can. Ma lei ormai era lontana, tra gli alberi e le foglie
umide.
Dieci minuti dopo si era persa. Aveva trovato solo fango, tane di animali
e pigne secche.
«Dirigersi a sud-ovest» ripeteva la voce simile a quella di Aylin.
«E dov’è sud-ovest?» rispose Sanem, come se il GPS potesse sentirla.
«Ti stai allontanando! Ti stai allontanando!»
«E dove vado?»
Sanem avvertì un sibilo (“Un serpente?”) e, terrorizzata, cominciò a
correre.

Fu Can a vincere il gioco; trovò decine di bandierine. Era stato fin troppo
facile per un uomo che aveva dormito mesi nella foresta pluviale e
conosceva i segreti del bosco, oltre a tutte le nuove tecnologie. Tornato al
campeggio, però, non aveva più visto Sanem. Si era persa?
Allarmato, notò che si stava facendo buio. Gli altri pensavano a sistemare
i trolley e i borsoni nelle tende e si arrabbiò con se stesso per aver lasciato
allontanare Sanem da sola.
Anche Gamze era preoccupata. «Can, non c’è da nessuna parte!
Dividiamoci e cerchiamola, tutti insieme.»
Can rimase colpito, come sempre, dal buon cuore di quella ragazza. Era
bella, colta, di buona famiglia: poteva essere più altezzosa e arrogante di
tante altre. E invece si dimostrava efficiente e concreta. Fu fiero di averla
come amica.
Chiamò tutti i dipendenti: «Usate le torce dei telefonini. Dobbiamo
trovarla. E non andate in giro da soli, è quasi buio».
“Sanem, dove sei?” Can sentiva l’agitazione aumentare di minuto in
minuto. Non temeva il bosco, l’oscurità, gli animali. Conosceva la natura, la
rispettava, sapeva che era amica dell’uomo. La possibilità, però, che la sua
Sanem (“La tua amica Sanem” precisò a se stesso) si poteva essere persa o
ferita lo destabilizzava. Spostò i rami con ansia febbrile, graffiandosi le dita.
«Sanem!» Perlustrava la zona e gridava il suo nome, giurando a se stesso
che quando l’avrebbe trovata non l’avrebbe mai più lasciata andare via.
E fu lui a trovarla. In una buca abbastanza profonda, semicoperta da
tronchi d’albero e foglie. Era svenuta e, dall’alto, Can vedeva il suo piumino
bianco come neve.
«La mia Sanem» sussurrò.
Fabbri lo aveva seguito ed era lì, accanto a lui: «Sanem!» fece eco.
«Cerco una corda!»
“Ma quale corda” pensò Can. Lanciò il suo piumino nella buca per tentare
di ammortizzare un’eventuale caduta e, dopo essersi calato tenendosi stretto
alla parete, saltò.
Sarebbe morto, per lei.
«Sanem!» la raggiunse e la strinse forte. Era ferita alla testa, ma aveva
anche aperto gli occhi.
«Can…»
«Sanem» ripeté lui. L’abbracciò ancora più forte «Ci sono qui io, non
avere paura. Stai bene?»
«Credo di sì.» Per fortuna aveva solo un graffio sulla fronte.
La coprì con la sua giacca, (“Deve aver preso molto freddo” si
preoccupò), la caricò delicatamente sulle spalle e si arrampicò sulle pareti
di terra, roccia e fango. Un’impresa che molti, tra cui lo stesso Fabbri,
avrebbero trovato impossibile, ma nulla lo era davvero, per lui.
Sanem si lasciò cullare da quella sensazione. Incubi, cadute, ferite…
erano miele nella sua testa, se poi c’era Can che si prendeva cura di lei. Era
così dolce…
Continuò a pensare a lui anche davanti alla sua tenda, dopo l’abbraccio di
Ayhan («Ero così preoccupata!») e l’offerta di tè corretto con un liquore di
Deren. «No, grazie, se bevo alcol mi addormento» si era schermita. «Ti
preparo una tisana» aveva allora proposto il Direttore Creativo. Strano che
fosse così gentile.
Si stavano preparando tutti per la notte con le bevande biologiche di
Galina e qualche sorso alcolico. C’era un bel clima, finché Emre, in elegante
cappotto scuro, piombò nel bosco.
Seguì Can con lo sguardo e vide che era fuori di sé. Emre lo aveva tradito
in ogni modo possibile, mentendo, corrompendo l’agenzia, diventando socio
di Aylin, nascondendo le prove. Non si faceva vedere da giorni in ufficio e
trovarlo lì, di notte, mandò il fratello su tutte le furie.
«E tu cosa ci fai qui?» gli gridò. «Non sei gradito. Vattene!»
«Non puoi trattarmi così» sibilò Emre, che si vergognava degli occhi
puntati addosso. Odiava le scenate, ma Can era fuori controllo.
«Vattene subito» gli ripeté.
«Non puoi mandarmi via dall’azienda… io ho le azioni della mamma.»
Al sentir nominare Hüma, Can perse ogni freno: «Che cosa? Come ti
permetti di coinvolgere nostra madre? Vattene via! Subito!».
Emre era stato umiliato di nuovo. Lo guardavano tutti con
disapprovazione. Commiserazione. «Non finisce qui» promise, prima di
ritirarsi. Ma non avrebbe avuto un solo alleato.
Can era troppo nervoso e agitato per rimanere lì. Lanciò a terra il legnetto
che voleva usare per alimentare il fuoco e si allontanò, inghiottito dalla
foresta.
Sanem lo seguì con lo sguardo mentre stava sorseggiando quella strana
tisana di Deren. “È biologica, ti fa bene!” aveva giurato la donna. In realtà
aveva preparato apposta un cocktail alcolico per farla dormire e metterla
fuori gioco. Per avere almeno una chance nella vita con Can.
“Ho già sonno” pensò Sanem. Si stava addormentando, ma non poteva
dormire. Non con Bambi, non con Deren in giro, due lupi affamati, rapaci
notturni assetati… di Can.
Prese la borraccia rosa che le aveva dato Deren e si diresse verso di lui.
Aveva un cerotto sul lato della fronte. La ferita le bruciava e la testa le
girava, ma non avrebbe lasciato andare Can. Non quella notte.
“Non è male questa roba” pensò continuando a bere, senza curarsi
dell’oscurità. “Ti dà coraggio.”
Fece un passo indietro e si scontrò con qualcuno. Con Can, che sbucò dal
buio.
«Sanem, cosa stai facendo?! Cosa fai con quella borraccia rosa?» le
chiese, allibito. Poi si arrabbiò: «Ancora da sola nel bosco! È pericoloso!
Non l’hai capito, dopo quello che è successo oggi?».
«Sì! Ci sono i lupi! E le donne pericolose» rispose lei, e scoppiò a
ridere.
«Cosa stai bevendo?»
«Una tisana! L’ha preparata la signora Deren!»
La guardò sconcertato e poi guardò la bevanda. «Ma è alcolica?»
Lei non smetteva di ridere: «Perché ti sei allontanato dal campeggio? Da
Bambi? Sai quel detto… “L’acqua dorme ma il nemico no”?».
«Quale detto? Sanem, tu hai bevuto. Stai esagerando.»
Si avvicinò e lo guardò con quegli occhi scuri, luccicanti. «Ti spiego
meglio il discorso. Tu sei mio!»
Lo baciò, appassionatamente. Delicatamente. Con tutto l’amore che
aveva.
Can era esterrefatto: aveva visto tante follie di Sanem, ma quella… le
batteva tutte. Sentire il tocco delle sue labbra però gli fece spiccare il volo.
E non si sarebbe staccato se lei…
“Se non fosse ubriaca.”
«Sanem…»
Lei si rese conto. «Scusi signor Can! Io non… scusi, credo sia colpa
dell’alcol.»
Di nuovo. Era tutto un déjà-vu, per Can. Lei, però, era così tenera. Era
irresistibile e sentiva di amarla profondamente. Gli ispirava dolcezza,
protezione.
«Non preoccuparti, è tutto ok. Ora però torna nella tua tenda.»
D’un tratto lei si illuminò. Era la torcia, era la luna o era proprio lei,
Sanem, che brillava?
«Trova te stesso!» esclamò. «Ho lo slogan! Ho lo slogan!»
Trova te stesso.
Era perfetto e… così autentico. “Sanem è davvero geniale” pensò Can
con orgoglio. Non si era innamorato di una qualunque. E, insieme a lei,
anche lui si stava “ritrovando”.
Fu allora che squillò il suo telefono, in piena notte. Rispose al secondo
squillo: era l’ospedale.
«Can Divit… suo fratello ha avuto un incidente.»
Ottocentomila dollari

Emre avrebbe potuto morire, ma per fortuna si era salvato. I medici furono
chiari con Can: c’era il cinquanta per cento di possibilità che il colpo gli
recidesse un’arteria, ma grazie al cielo non era stato così. Ora aveva bisogno
di riposo e tranquillità.
Sanem aveva accompagnato Can in ospedale, cercando di calmarlo
mentre si prendeva la testa tra le mani e si tormentava.
«L’ho mandato via, l’ho umiliato. Si sarà agitato e distratto mentre era
alla guida. È colpa mia.»
«Non è colpa tua!»
«Sanem, poteva morire. E l’ultima cosa che gli ho detto sarebbe stata
“Vattene”.»
«Ma è vivo. Lui è ancora qui. E potete parlarvi. Perdonarvi.»
«Non ce la faremo mai…»
«Sì, invece» Sanem gli prese la mano. «Tra fratelli c’è qualcosa di
speciale. Vedrai che vi ritroverete, e sarà più bello di prima.»
Lei sapeva sempre calmarlo. E farlo ragionare. Ora voleva solo vedere
Emre; il medico gli accordò il permesso di andare da lui, con una
raccomandazione: «Stia attento, non deve affaticarsi».
Mentre attraversava la corsia dell’ospedale, vide Aylin. Tacco alto,
trucco perfetto, era venuta a trovare l’uomo che aveva portato alla rovina.
Probabilmente l’aveva avvisata lui stesso.
«Esci immediatamente» l’avvertì Can, «non te lo ripeterò un’altra volta.
Non avvicinarti mai più a mio fratello. Non ti voglio in casa, in azienda e
nelle nostre vite. È un addio, Aylin.»
Niente spaventava Aylin, ma la calma rabbia di Can le suggerì di
allontanarsi da lì, subito. Tanto aveva già progettato, e messo in atto, la sua
nuova mossa.
Intanto lui entrò nella camera di Emre e lo trovò coperto di lividi, con il
braccio attaccato a una flebo. Era sveglio.
«Grazie al cielo sei salvo» gli disse con gli occhi lucidi. Voleva
abbracciarlo, ma aveva paura di fargli male. Scorse nei suoi occhi un lampo
di speranza.
«Sei venuto…» balbettò Emre. «Grazie. Mi dispiace…»
Can da tempo non lo riconosceva. Era un ragazzo spiritoso e sincero, ma
gli ultimi anni lo avevano trasformato. O forse era stata Aylin a cambiarlo.
«Pensa a rimetterti» gli sussurrò. «Mi occuperò io di te. Sei mio fratello,
sei tutto per me, per noi.»
Commossa, Sanem li lasciò da soli e andò a prendere un tè alle
macchinette per tutti.

L’incidente di Emre in maniera totalmente inaspettata e alquanto brusca


aveva riunito i fratelli Divit e in agenzia il loro rapporto ritrovato portò una
strana pace che da tempo non si respirava più. Forse era la quiete prima
della peggior tempesta, ma Sanem si lasciava cullare da quella serenità. Il
suo slogan aveva mandato in estasi Can, che l’aveva nominata coordinatore
del progetto, e per questo Deren, nonostante l’aurea tranquillità che
circondava la Fikri Harika, era fuori di sé.
«L’altra mi ha portato via tutto…» mormorava sconsolata, mentre cercava
di spiare le loro riunioni senza farsi vedere. Un paio di volte CeyCey la
notò, e lo rimise al suo posto: «È tutto perduto, CeyCey! Vai a prendermi
un’insalata… muoviti!».
Sanem lavorò duramente in agenzia, mentre Leyla trascorreva le giornate
a casa Divit, a fare da infermiera a Emre che nel frattempo era stato dimesso
dall’ospedale. Vedevano vecchi film, mangiavano, chiacchieravano. Pensò
che non era mai stata più felice, nonostante lo spavento per il suo capo.
Chissà se le avrebbe fatto posto anche nel suo cuore, oltre che su quel
divano…
Le giornate erano sempre più piovose; l’autunno avanzava e Can, la sera,
dopo le lunghe ore con Sanem e i creativi, era contento di tornare a casa e
chiacchierare con Emre. O a guardare la pioggia battere sui vetri. Lei aveva
ragione, come sempre: sarebbe stato un nuovo inizio.
La campagna lo aveva assorbito completamente. Lavorare con Sanem era
bellissimo, lei gli apriva la mente, con la sua fantasia fresca spalancava
porte verso nuovi orizzonti creativi, e Can ne era stimolato. Era
un’osservatrice e una sera, quando erano rimasti da soli a lavorare, si
accorse di una strana boule de neige su una mensola.
«È sempre stata qui, Can? Non l’avevo mai vista…»
Lui la guardò: era una piccola palla di neve, di bassa qualità, di quelle
che si vendono nei grossi bazar. Non sapeva come fosse arrivata lì dentro.
«Non so, ma non mi piace.»
«Neanche a me, Can… è terribile.»
Can chiamò Deren. Anche lei era ancora lì, con la scusa del lavoro si era
intrattenuta per controllarli. Il suo terrore era che si baciassero, si
fidanzassero mentre lavoravano alla campagna, e non era così lontana dalla
verità. «Portala via.»
“Adesso in pratica sono una segretaria” pensò infastidita, mentre
appoggiava l’oggetto nel suo ufficio. L’altra, Sanem, quella ragazza, le aveva
portato via tutto. Tra l’altro, non aveva mai visto una palla di neve così
brutta.
Can non si chiese da dove fosse venuta, almeno fino a qualche giorno
dopo, quando nel suo ufficio piombò Gamze, con aria preoccupata. Con lei
c’era una donna sui trentacinque, con voluminosi riccioli tra il rame e il
cannella e abiti sofisticati.
«Scusami, Can, se non ho preso un appuntamento» esordì l’amica,
sedendosi davanti a lui, «ma la questione è davvero importante. Intanto ti
presento Ceyda, la titolare di Compass Sport.»
«È un onore conoscerla» disse la donna. «La sua fama la precede, e le sue
fotografie sono fantastiche.»
Can si era agitato vedendo l’espressione di Gamze. «Cosa succede?»
Gamze glielo disse subito: un’agenzia concorrente aveva presentato un
progetto identico al loro, per accaparrarsi la gara. Lei però era stata con loro
in campeggio, aveva seguito tutta la lavorazione. Si era accorta del fatto che
qualcuno li aveva copiati. Anzi, sabotati.
«In altre parole, so che avete ideato voi questa campagna. Sono venuta
subito, con Ceyda, perché siete stati fortunati. C’ero io che ho visto tutto. Ma
volevo avvertirti, da amica, di stare attento. Avete una spia qui dentro.»
Can spalancò gli occhi, sconvolto. Una spia, di nuovo? Non era possibile.
Si sentì stanco, era faticoso combattere con un nemico così recidivo.
Instancabile.
Intanto Sanem, che era entrata a portare il tè, notò subito lo sguardo di
Ceyda verso Can.
“Un’altra donna, non ci credo. Basta!” Si era tranquillizzata da poco su
Bambi, dopo che Can le aveva spiegato che per lui era e sarebbe stata
sempre e solo un’amica, e già c’era una nuova minaccia dai capelli rossi
all’orizzonte.
Una chiacchierata con Can convinse Ceyda che era della sua agenzia, e di
nessun altro, la proprietà intellettuale della campagna. Scoprì che si
dedicava al volontariato, che sosteneva tante associazioni, che era convinto
che le popolazioni dei paesi in via di sviluppo andassero aiutate là, sul
posto, conoscendo le loro particolarità, le loro culture, e provando a
interfacciarsi con loro, invece che limitandosi a inviare somme di denaro per
scaricarsi la coscienza. Poi le aveva parlato di viaggi, di territori
inesplorati, di progetti artistici. Era un uomo unico. Ed era sexy come
nessuno. Lo avrebbe presto invitato a cena…
«La campagna è vostra» concluse. «Ma state attenti. Una spia qui
potrebbe danneggiare anche noi, oltre che voi.»
«Non preoccuparti, Ceyda» rispose Can, a cui l’imprenditrice aveva
chiesto subito di dare del tu. «Risolverò tutto.»
Ma non riusciva a capire cosa fosse successo. Qualcuno li controllava?
Un dipendente si faceva pagare per svelare i segreti ad Aylin? Qualcuno
faceva di nuovo spionaggio industriale?
Fu CeyCey ad arrivare alla verità.
«Se la campagna, diceva Gamze, è stata copiata parola per parola»
ragionò lo stagista, «ci deve essere una telecamera… verremo licenziati!»
Ed era così, la telecamera c’era. Nessuno avrebbe potuto sapere i dettagli
dei documenti prodotti da Sanem, se non lei e… Can.
«Ci stanno ascoltando anche adesso» strillava il ragazzo come una
scheggia impazzita. «Cerchiamola ovunque! Disinstalliamola!
Distruggiamola!»
Deren ebbe quasi un attacco di cuore quando seppe di essere vista e
ascoltata mentre Can non poteva crederci. “Non è possibile, di nuovo”
pensò. Ancora quella donna, e la sua folle instancabilità. Non se ne
sarebbero mai liberati.
L’addetto alla sicurezza confermò di aver visto (e mandato via) proprio la
signora Aylin durante la sera del campeggio. Era stata lei a introdursi e
posizionare chissà dove la telecamera, approfittando degli uffici vuoti, per
poi copiare la campagna e venderla alla concorrenza, in modo da rimanere
fuori da ogni sospetto.
Passarono tre giorni in cui gli uffici vennero setacciati accuratamente.
Non c’era nulla.
Sanem, nonostante l’ansia, era felice. Lei sapeva tutto, su quella
campagna, ma Can non aveva sospettato per un attimo che potesse venderla
ad altri. E, a un tratto, ebbe un’illuminazione.
“La boule de neige.”
La palla di neve nell’ufficio di Can. Ecco come ci era arrivata. Nessuno
l’aveva portata lì, nessuno ne avrebbe avuto motivo. Corse ad avvisare Can
e poi si ricordò che l’oggetto era finito nell’ufficio di Deren. Mentre andava
a cercarla lì, la sua memoria fotografica le venne di nuovo in aiuto. Due
giorni prima aveva visto il signor Emre, ancora convalescente, nell’ufficio
del direttore creativo. Si aiutava con un bastone a camminare e l’immagine si
era impressa nella mente di Sanem: aveva la boule de neige in mano,
nascosta dietro la schiena. Ma lei sapeva vivisezionare i ricordi, come uno
scanner, ed esaminarne ogni dettaglio. Lui aveva la boule de neige.
“E quindi… sta aiutando Aylin a farla sparire.”
Era scioccata al pensiero che Emre, dopo l’incidente, dopo la pace, dopo
le belle parole e l’amore di suo fratello, cospirasse ancora contro Can.
Un’ondata di rabbia la colpì, come se fosse in mezzo al mare.
Non si sbagliava.
Proprio due giorni prima Aylin, che seguiva immagini e audio dal suo
monitor, si era accorta di essere stata scoperta. Aveva visto Deren in preda a
una crisi di nervi nel proprio ufficio.
«Io ho bisogno di una spa. Di un trattamento antirughe. Dei fanghi. Di un
antiacido» aveva frignato. «Ci mancava la telecamera. I miei nervi sono
troppo delicati per questo.»
«Maledizione.» Aylin era troppo sofisticata per usare parole poco fini,
ma l’ennesimo fallimento l’aveva scossa. Quella nullità di Deren le aveva
fatto suonare un pericoloso campanello d’allarme. La telecamera andava
recuperata, e subito. Con una prova del genere, avrebbe rischiato un
processo penale, forse il carcere.
Per eliminare la palla di neve si servì di Emre, che aveva intrapreso quel
debole tentativo di cominciare una nuova vita. Purtroppo per lui, però, era
ancora ricattabile.
«Come sta la principessa Leyla?»
«Aylin, non chiamarmi più.»
«E invece mi sentirai ancora mio caro…»
L’ultimatum lo destabilizzò, ma Aylin era abituata a vedere le persone
destabilizzate. E si impossessava facilmente delle personalità fragili.
«O recuperi quella boule de neige o dirò che sei mio complice. E nessuno
ti crederà. Io non ho niente da perdere… e tu?»
Sanem realizzò la verità con tristezza. Vedeva Can così felice, adesso che
aveva recuperato il rapporto con il fratello. Non se la sentiva di distruggere
quel castello finto.
Non puoi neanche mentirgli. Non più.
“Affronterò Emre” si disse.
Mentre usciva, però, incrociò Enzo Fabbri nell’open space della Fikri
Harika. Avvolto nel suo abito sartoriale italiano, con cravatta cucita a mano
e una spruzzata di colonia di lusso, le sbarrò la strada come un falco.
«Sanem, buongiorno. Cercavo proprio lei…»
«Signor Fabbri, mi scusi, vado di fretta.»
«Eh no, Sanem. È spiacevolissimo doverglielo ricordare, ma io e lei
abbiamo fatto un patto: un profumo in cambio delle quote della Fikri Harika.
Sbaglio, Sanem?»
«No, è che sono stata impegnata con la gara della Compass Sport»
balbettò lei. «Gliene produrrò uno nuovo, favoloso. Molto meglio del mio.»
«Mmm» l’imprenditore schioccò la lingua contro i denti in un modo che
infastidì Sanem. Se prima se ne teneva lontana, ora lo detestava. Era falso,
suadente, pericoloso. «Non possiamo produrre una ricetta nuova. Ci
vorrebbe troppo tempo e io ho intenzione di proporre questo prodotto al
mercato al più presto.»
Sanem lo fissò: «E io cosa posso fare, scusi?».
Fabbri fece un passo verso di lei. Un gruppetto di impiegati li osservava
a poca distanza, ma Sanem ormai a questo era abituata. «Voglio
immediatamente il suo profumo. Non è una persona che non tiene fede ai
patti, vero?»
«No…» sussurrò lei. In realtà la sua idea era sempre stata quella di dare
a quell’uomo un altro profumo. Eccellente, certo. Ma non quello.
Sanem, stai attenta, la esortò l’altra se stessa. Fai promesse e non le
puoi mantenere.
Fabbri si appoggiò a un tavolino di passaggio ed estrasse dei documenti
dalla ventiquattr’ore. «Ecco qui. Firmi, per favore.»
Non sapeva cosa fare. Gli altri la fissavano e lui, con quella prepotenza
galante, non le lasciava via di scampo. Si era impegnata, ma… Non aveva
mai firmato nulla che dicesse che il profumo fosse lo stesso e non una
variante. E non voleva farlo di certo in quel momento.
«Cosa succede qui?»
La voce di Can rimbombò come un tuono. Aveva visto Fabbri vicino a
Sanem e il suo tono era aggressivo già solo per questo.
«Buongiorno, Can» disse Fabbri. «E complimenti per la campagna
Compass Sport. Avete fatto un ottimo lavoro… anzi, abbiamo! Devo
abituarmi a pensare al plurale.»
«Grazie!» strillò Deren. Can la fulminò.
«Vorrei solo che la signora firmasse questo pezzo di carta. Una pura
formalità» proseguì Fabbri.
«Questo è un contratto vero e proprio» lo interruppe Can. «La lasci
parlare con un nostro avvocato, prima.»
Fabbri era visibilmente seccato: «Cosa gliene importa, Can?».
«Mi importa tutto quello che riguarda Sanem.»
L’aria si stava surriscaldando. Deren fece qualche passo indietro,
appoggiandosi a CeyCey. Di nuovo si sentiva svenire. Quell’uomo, però,
incalzò: «Firmi, Sanem. Abbiamo un accordo. L’accordo che ha salvato voi,
e questo posto».
«Certo.» Can fece un altro passo verso di lui. Sanem si chiese se gli
avrebbe messo le mani addosso. No, non lo avrebbe mai fatto. Però…
«Sanem creerà un altro profumo.»
«No.» Di nuovo quello schiocco di lingua. Faceva venire i brividi. «Io
voglio quello.»
«Così non andiamo d’accordo, Fabbri.»
«A me non importa di andare d’accordo con lei. Voglio solo fare il mio
lavoro; voglio il profumo.»
Can era fuori di sé. «Non può obbligare Sanem a fare quello che non
vuole. Aspetti qui.»
Si allontanò, e Deren colse l’occasione per intervenire: «Un po’ di
tensione è normale nelle agenzie pubblicitarie. Ma stiamo allegri! Tutto si
risolve!».
Sul volto di Fabbri, però, era scesa un’ombra spaventosa. Era furioso,
come Can. Si sentiva umiliato, preso in giro. Sanem si accorse di avere la
pelle d’oca quando lo vide tornare, con un assegno in mano.
«Quattrocentomila dollari» disse ad alta voce, mentre lo compilava.
«Ecco qui quanto ha speso per il profumo.»
Il pianto spezzato di Deren ruppe la tensione: «Non farlo! Can, andremo
in bancarotta».
«Firmo il contratto» disse d’impulso Sanem, ma Can la fermò con un
gesto della mano.
Fabbri ora aveva un sorriso stralunato, diabolico.
«Quattrocentomila dollari li ho spesi solo per la quota di questa società»
rise. «Adesso voglio il doppio!»
Scese il gelo su tutto l’ufficio. Deren trasalì, Sanem afferrò la penna: «Mi
dia il documento».
Can rise, ma era una risata furiosa.
«Vuoi il doppio?» prese Fabbri per la giacca e lo scosse, mentre Deren e
gli altri cercavano di trattenerlo. «Vuoi il doppio?» ripeté alzando la voce.
Mollò la presa, strappò un altro assegno e compilò: ottocentomila dollari.
Lo sbatté in faccia a Fabbri, sotto gli sguardi attoniti di tutti. Anche di
Sanem.
Can non si sentiva un eroe. Non si sentiva vincente, in tutto questo. Voleva
solo quell’uomo disgustoso lontano da lì.
Fabbri se ne andò senza una parola, con ottocentomila dollari in mano.
Sanem, si accorse Can, era stupefatta.
«Perché lo hai fatto?»
Le fece cenno di seguirlo in un angolo, mentre cresceva il mormorio dei
dipendenti.
«Il tuo profumo è solo mio.»
Sembra molto tenace, ma in realtà è un fiore delicato

Il profumo di Sanem apparteneva a Can da sempre. Da prima che lui si


rendesse conto di esserne travolto.
Era stato quel profumo che gli aveva fatto scoprire l’amore al buio di un
teatro, nell’ultimo posto al mondo dove avrebbe voluto essere in quella sera
di maggio. E poi gliel’aveva fatto ritrovare, nel suo salotto, in una ragazza
che tentava di scappare fingendo di aver dimenticato un anello nella giacca
di suo fratello.
Non c’era niente al mondo che per Can valesse quanto quel profumo e
Sanem gli era grata per come l’aveva protetto. Per come aveva difeso il loro
passato e il loro futuro… da amici! Doveva ringraziarlo, e l’unico modo che
conosceva per farlo era regalargli (e regalarsi) un’essenza che fosse solo
sua. Un’essenza nuova in cui riconoscersi (e riconoscerlo) anche a occhi
chiusi. Anche al buio.
Erano mesi che Sanem stava lavorando a un profumo per Can. Aveva fatto
decine di prove, imbottigliate in una serie di boccette disposte sulla sua
scrivania e catalogate con la lettera C, che lui aveva notato subito quando
era entrato per la prima volta nella sua cameretta.
Tanti tentativi, nessuno che fosse all’altezza. Il profumo per Can doveva
avere una nota di cuore speciale. Proprio come quella del fiore che Sanem
aveva raccolto giorni prima durante il campeggio Compass Sport nei boschi,
e che era rimasto intatto anche dopo la sua caduta nel fosso.
«Oltre a me, Can ha salvato anche te» disse, mentre con delicatezza
apriva il fazzoletto di carta che lo conteneva. Parlare con i fiori era un’altra
delle sue peculiarità.
Deren era nell’ufficio di Can per gli ultimi dettagli della campagna
Compass Sport, vinta per un pelo e diventata ormai fondamentale data la
situazione finanziaria in cui si trovava in quel momento la Fikri Harika.
“Ottocentomila dollari per un profumo, ma che avrà di così speciale?”
Deren non riusciva ancora a capacitarsi di quello che aveva fatto Can, ma
stava cercando in tutti i modi di tenere per sé i suoi giudizi. Aveva capito
ormai che lui provava qualcosa per L’altra, ed era talmente offuscato dai
sentimenti che farlo ragionare sarebbe stato inutile.
«Signor Can, le ho portato il tè!» Sanem intanto, dopo aver annunciato il
suo ingresso bussando alla porta trasparente, era entrata nella stanza.
Non appena la vide, Deren sentì la necessità di uscire. Non riusciva a
tollerare la sua vicinanza. Fece un cenno di saluto e si congedò dall’amato
capo, con la scusa di dover appuntare le ultime decisioni prese in merito alla
pubblicità su cui stavano lavorando.
Can e Sanem rimasero soli. Era già successo tante volte ma nell’aria quel
giorno c’era qualcosa di diverso. Sanem gli si avvicinò.
Fermati ad almeno due passi da lui, Sanem! È la prima regola quando
si ha a che fare con un amico così affascinante le suggerì la sua voce
interiore. Lei l’ascoltò, ma fu Can a non mantenere le distanze di sicurezza.
«Sanem, grazie del tè.»
Erano vicinissimi, i loro nasi quasi si potevano sfiorare. Lui la fissava
negli occhi, senza più paura.
«Signor Can, io sono venuta anche per ringraziarla di quello che ha fatto
ieri. Mi ha difesa da Fabbri, ha salvato il mio profumo…»
«Sanem, quello è il nostro profumo» le chiarì. «È anche mio dalla sera in
cui ci siamo incontrati la prima volta. Ero alla deriva, non sapevo cosa fare
e tu sei stata la mia salvezza.»
Sanem si accorse solo allora di quanto fosse importante per Can. Non
sapeva cosa rispondergli e così agì: con gli occhi lucidi aprì lentamente il
suo zainetto e tirò fuori una scatola blu, tolse il coperchio e gli mostrò il
contenuto. Una boccetta di profumo e una piccola pergamena.
«Questo l’ho creato per lei… per te.»
La guardò sorpreso.
«Con un mix di gigli selvatici, come il tuo?»
«No, in realtà ho usato un solo fiore, senza nome e molto raro. È un tipo
di viola che cresce nelle profondità del sottobosco. Sembra molto tenace, ma
in realtà è delicato, e trovarlo è quasi un miracolo. Sono stata fortunata.»
Mentre parlava, Sanem aprì la boccetta e mise una goccia del profumo sul
suo polso, che passò sul collo di Can, per fargli sentire sulla pelle
quell’essenza preziosa. In cui lui si riconobbe subito.
«Come sei riuscita a trovare questo fiore così raro?» Can si avvicinò
sempre di più a Sanem, che ancora lo circondava con il braccio.
«Ne ho sentito il profumo, è stato come se mi stesse chiamando.» Come
stava facendo Can in quel momento, con i suoi occhi. Percepì il suo bisogno
di baciarla, di coronare quel momento. Anche lei lo voleva…
«Signor Can!» CeyCey entrò come un tornando nell’ufficio e sgretolò il
momento. Era consapevole di aver interrotto qualcosa. Quella sera, nel
bosco, mentre si aggirava insonne, aveva visto Sanem baciarlo. La cosa gli
aveva provocato uno choc; CeyCey si agitava sempre quando c’era in ballo
un segreto e rivederli così vicini lo mise ancora più in ansia. «Ehm,
scusatemi!» farfugliò prima di lasciarli nuovamente soli, ma ormai l’attimo
era perso.

“Quanto poteva essere dolce, profumata e attraente l’amicizia con Can…”


pensò Sanem mentre a passo svelto e sotto la pioggia attraversava il vialetto
di villa Divit decisa più che mai a parlare con Emre, ancora convalescente,
per dirgli che sapeva del suo coinvolgimento nella storia della boule de
neige. Can l’aveva difesa, stava rischiando di mandare l’agenzia in
bancarotta per il loro profumo e ora toccava a lei proteggerlo.
Quando la porta di casa suonò, Emre stava proprio pensando a come
uscire dall’ennesimo complotto architettato da Aylin contro il fratello.
L’incidente, la tenera vicinanza con Leyla e il perdono di Can avevano
nebulizzato ancora di più i sentimenti che provava per quella donna, ma non
era comunque riuscito a rinunciare all’uomo che diventava quando l’aveva
vicina: spietato e machiavellico.
«Sanem! Che ci fai qui?»
Fu stupito di ritrovarsela davanti e l’espressione della ragazza già
preannunciava che la sua non era una visita di cortesia, ma la invitò
comunque a entrare.
«Signor Emre…» Sanem accettò il suo invito ma decise, una volta varcata
la soglia, di andare dritta al punto, «so che c’entra qualcosa con la
telecamera inserita nella boule de neige e che sta ancora tramando contro suo
fratello.»
Vide lo sguardo di Emre oscurarsi, ma la conferma delle sue supposizioni
arrivò parallelamente alla sua reazione.
«Sanem! Devi farti gli affari tuoi!»
«Sono affari miei! Qui si tratta di Can e dell’azienda per cui lavoro.»
«Sanem! Non ti azzardare a dire una parola.»
Per la prima volta Emre ebbe timore di quella ragazza: non l’aveva mai
vista così sicura.
«Signor Emre, non è più nella posizione di darmi ordini.»
Mentre Sanem usciva a passo deciso dalla villa, dopo aver chiarito a
Emre che mai e poi mai avrebbe più ceduto ai suoi ricatti, il più giovane dei
Divit capì che c’era una sola cosa da fare: confessare a Can una non-verità
plausibile, che gli dimostrasse la sua innocenza e al contempo la sua
ritrovata lealtà. E così la sera stessa, mentre il fratello era sul divano a
controllare che il lavoro per la campagna Compass Sport procedesse al
meglio, Emre sbatté sul tavolo davanti a lui la boule de neige. Can alzò gli
occhi dal computer, guardò il soprammobile e poi Emre e finse di non
cogliere il nesso.
«E questo che vuol dire? Perché ce l’hai tu?» gli chiese.
«So che l’hai sempre pensato, ma ora ne abbiamo la conferma: è stata
Aylin a mettere la telecamera in ufficio. Sono riuscito a farglielo confessare
in cambio della promessa di non denunciarla. Me l’ha portata lei, contiene
tutte le riprese originali.»
Can tentò di mantenere la calma, ripensò a suo fratello, inerme, in un letto
di ospedale. Doveva imparare ad ascoltarlo.
«Tu non ne sapevi niente?»
«No, non c’entro nulla con questa storia. Per me puoi anche denunciare
Aylin, io non me la sento di non mantenere la parola data, ma l’ultima
decisione è tua. Hai tutte le prove a disposizione.» Emre sapeva di rischiare
grosso, ma era anche conscio che Can non era una persona vendicativa.
«Non mi interessa del destino di Aylin. Mi interessa solo che tu, d’ora in
poi, faccia squadra con me.»
Emre annuì e sorrise, fiero della sua perfetta mezza bugia.
Quando Sanem venne a sapere da Can quello che Emre la sera prima gli
aveva venduto come verità, lo vide così felice all’idea di aver ritrovato nel
fratello un alleato, che non riuscì a insistere nel proprio tentativo di
convincerlo che stesse ancora mentendo. Can aveva bisogno di fidarsi di lui.
Come lei aveva bisogno della fiducia di Leyla, che invece era ancora una
volta vittima del fascino di Emre, tanto da non voler neanche ascoltare il suo
sfogo.
«Sanem, devi smetterla di accusarlo. Dopo l’incidente è cambiato, ho
trascorso molto tempo con lui e, credimi, adesso è un’altra persona. Quanto
ancora devi fargli pagare i suoi errori?»
Sanem era preoccupata per la sorella: l’amore per Emre le annebbiava la
mente e, come in passato, anche in quel momento stava scegliendo di stare
dalla sua parte. D’altro canto, pensava, se due delle persone che amava di
più al mondo erano così convinte che Emre fosse diverso, forse era solo lei
che, dopo tutte le bugie che era stata costretta a coprire, lo considerava
ancora come una minaccia per la sua vita.
“E allora perché era così scosso quando sono andata da lui? Perché mi
parlava con fare minaccioso?” Sanem non sapeva darsi più una risposta e
decise che per il momento avrebbe messo tutte quelle domande in un cassetto
nascosto della sua mente. Voleva godersi il grande giorno dell’inaugurazione
della biblioteca di quartiere che Mevkibe aveva fatto aprire con l’aiuto di
Can in un palazzo in disuso della zona. Era stato lui ad aiutarla a dare il via
alla sua carriera da rappresentante di quartiere e promotrice della cultura e
aveva fatto anche una generosa donazione di libri, scaffali e tavoli per la
lettura. Un omaggio alla comunità ma soprattutto alla grande passione di
Sanem per la letteratura.
Can e Sanem partirono insieme dall’ufficio e lei durante il tragitto si era
sentita come Audrey Hepburn in Vacanze Romane. Il loro arrivo nel
quartiere non passò inosservato e le signore non poterono fare a meno di
fantasticare su quella che ai loro occhi sembrava essere una coppia di
amanti. La bellezza di lui, il sorriso e gli occhi luminosi di lei.
«Ecco perché la piccola Aydın non ha più sposato il nostro Muzu»
commentò ad alta voce una di loro, senza trattenere una risatina. «Aveva di
meglio tra le mani… molto meglio!»
Mevkibe, per quanto fosse impegnata nell’allestimento del buffet, non
poté fare a meno di sentire quello che stavano insinuando le amiche sulla
figlia. Sapeva che Can era un bravo ragazzo, glielo aveva dimostrato
aiutandola per la sua ascesa politica con affetto, ma conosceva anche la testa
tutta sogni di Sanem. Un uomo di mondo come Can poteva spezzarle il cuore.
«Ciao mamma!» le paure di Mevkibe furono elevate alla seconda quando
si accorse che Leyla si era fatta accompagnare all’inaugurazione da Emre, il
suo capo.
«Leyla, cuore mio» l’abbracciò e chiese spiegazioni all’orecchio. «Come
mai sei qui con lui?»
«Eravamo a un pranzo di lavoro» rispose la figlia maggiore. «Il signor
Emre era curioso di vedere il tuo capolavoro: la biblioteca!»
Leyla sapeva che accarezzando l’ego della madre l’avrebbe distratta dal
farle ancora domande, ed Emre, capendo al volo la sua tattica, resse il gioco
all’assistente.
«Buongiorno, signora Aydın. Guardando tutto quello che è riuscita a fare
qui ho capito Leyla da chi ha preso le sue doti organizzative. È una risorsa
preziosissima per la nostra azienda… ma con una madre così non poteva
essere altrimenti.»
Leyla sorrise a Emre, grata per quelle parole, mentre Melahat e le altre
pettegole del quartiere chiacchieravano di loro. Senza neanche sapere che
erano reduci da un pranzo insieme voluto da Emre, che piano piano stava
cominciando a provare qualcosa di più per Leyla. La sua bellezza candida lo
attirava, tanto che nel suo cuore non c’era quasi più spazio per l’amore
oscuro che fino a poco prima sentiva per Aylin.
Sanem, intanto, era già dentro la biblioteca ed era rimasta incantata dalla
quantità di libri che Can, intento a esplorarla con lei, aveva donato.
«Can, questo posto è meraviglioso! Grazie, senza di te mia madre non ce
l’avrebbe mai fatta!»
«Sanem, senza di te tutto questo non sarebbe mai potuto accadere. Non
avrei mai conosciuto questo mondo colorato. Grazie a te» la guardò
intensamente. «E grazie anche per la poesia che hai allegato al mio profumo:
“Il mio dono è semplice come un fiore senza nome. Quando penso a te i miei
occhi brillano. Mio caro, mi dici sempre che sono una poetessa, quindi ti
dedico queste parole: sarà la prima di molte poesie, ne scriverò una ogni
anno… quando arriverà l’inverno, dopo aver percorso un lungo cammino,
con la gioia dell’uccellino che migra verso sud, io ti scriverò anno dopo
anno. Per sempre, con il linguaggio unico dell’amore”.»
E meno male che per te è solo un amico! commentò l’altra Sanem nella
sua testa.
«L’hai imparata a memoria!» era stupita. «Sai, io vorrei riuscire a leggere
tutti i libri sull’amore mai scritti. Non penso mi basterebbe una vita intera.»
«No Sanem, non credo ti basterebbe, ma per leggere questo libro sono
sicuro che avrai tutto il tempo.» Prese dallo scaffale dietro di lei, dove
premeditatamente si era voluto fermare a dare un’occhiata, un volume.
«Questo parla delle Galapagos. Penso proprio che potrebbe interessarti.»
Sanem sfiorò la copertina, aprì il libro e trovò una dedica: “A Sanem, con
un amore da raccontare per un milione di anni. Il tuo compagno di viaggio,
C”.
Era talmente persa in quelle parole che non si accorse che la madre aveva
assistito a tutta la scena. “Quei due sono innamorati pazzi” pensò Mevkibe in
allarme. “Devo proteggere la mia piccola!”

Per Can trascorrere la sua pausa pranzo, che quel giorno era stata più lunga
del solito, tra i libri insieme a Sanem era stato speciale, ma doveva tornare
in ufficio, dove ad accoglierlo c’era una Deren particolarmente agitata.
«Can, finalmente sei tornato, eri irreperibile! Nel tuo ufficio ci sono i
legali di Fabbri, non so cosa vogliano, hanno solo detto che devono
parlarti.»
“Fabbri, ancora!” Senza dire una parola alla direttrice creativa, Can con
passo lungo entrò nel suo ufficio.
«Buonasera, signor Can. Siamo i legali di Enzo Fabbri. Il nostro cliente
ha deciso di non accettare la sua offerta. Non intende vendere le quote della
Fikri Harika. Rimarrà coinvolto nella vostra agenzia.»
Can non sapeva a che gioco Fabbri stesse giocando, ma doveva scoprirlo
subito. Senza neanche salutare i suoi sgraditi ospiti, scese in garage, prese la
jeep e si recò direttamente nella sede turca della multinazionale
dell’imprenditore, ma non lo trovò.
Venne fermato all’ingresso dall’addetta all’accoglienza che gli diede la
conferma che quell’uomo era solo un codardo: Fabbri era tornato in Italia.
Se Can lo avesse trovato, non avrebbe esitato a mettergli le mani
addosso.

CeyCey sentì sulla pelle come un vento gelido e nel frattempo le sue
orecchie intercettarono il ticchettio di un paio di tacchi a spillo. Non c’erano
dubbi: era Aylin in tutta la sua perfida magnificenza.
Deren, vedendola passare dal vetro dell’ufficio, uscì di corsa dalla
stanza, ed Emre fece lo stesso; fu lui a prendere in mano la situazione, nel
silenzio generale di tutti i dipendenti che erano rimasti immobili dinnanzi a
quella sgradita sorpresa.
«Aylin, cosa ci fai qui? Come ti permetti di presentarti nella nostra
agenzia dopo tutto quello che hai fatto?»
Il tono della sua voce era alto. “Teatrale” pensò Sanem che dall’angolo
dei copywriter, dove finalmente si era conquistata una postazione fissa,
aveva assistito a tutta la scena. Era tornata dalla biblioteca giusto in tempo.
«Emre caro, sono qui per parlare con il direttore e quindi non con te, ma
con tuo fratello» rispose Aylin al suo ex fidanzato, noncurante degli sguardi
dei presenti che incrociò a uno a uno.
Güliz la scrutava con ammirazione. Gli occhi azzurri di Leyla erano
puntati su Emre, che in quel momento era il suo eroe, e poi c’era Sanem, che
aveva azzardato un’occhiata di sfida. Anche Can era arrivato appena in
tempo, di ritorno dal non-incontro con Fabbri. Aylin si avvicinò proprio a lui
per dare il colpo di grazia.
«Can, stavo cercando proprio te. Avevo bisogno di parlarti in privato ma,
visto che tuo fratello ha deciso di dare spettacolo attirando l’attenzione di
tutti, a questo punto continuo io lo show. Enzo Fabbri mi ha dato l’incarico
di gestire la sua quota della Fikri Harika, questo vuol dire che è come se il
venti percento della società fosse mia. Sarò io a gestirne gli interessi. A
favore di Enzo, s’intende.»
Can ascoltò con attenzione; era fuori di sé, ma reagì con apparente
freddezza:
«Aylin, non sei la benvenuta, ti chiedo cortesemente di andare via. Sto
sistemando la situazione con Fabbri, riavrò le quote della società.»
«Can, Enzo non ha la minima intenzione di venderle. Non so cosa sia
successo, ma a quanto pare è deciso a tenersi stretta una parte di questa
società. A questo proposito, Güliz» Aylin si rivolse alla sua più grande fan,
«se possibile, preparami il mio vecchio ufficio.»
Can stava per esplodere, ma il fratello lo anticipò.
«Aylin, non credo che ci sia bisogno che tu abbia un ufficio qui dentro.
Risolveremo ogni cosa con Fabbri, ma fino ad allora puoi gestire i suoi
interessi anche altrove. Ti manderemo report settimanali.»
«Emre, ora andrò via, ma solo perché ho altro da fare. Domani tornerò,
perché Enzo mi ha esplicitamente chiesto di partecipare e controllare ogni
campagna, ogni pubblicità. Tornerò qui a fare il mio mestiere e a farlo nel
migliore dei modi.»
Aylin girò i tacchi e andò verso l’uscita, ma prima, alla fine della sua
ultima battuta, lei ed Emre si erano scambiati uno sguardo d’intesa
impercettibile a chiunque, ma non agli occhi di Sanem, che stava studiando i
loro movimenti. Quando Emre tornò nella sua stanza, lei lo seguì, senza però
dare nell’occhio, con passo calmo. Come se i cassetti in cui aveva riposto
tutti i suoi dubbi non si fossero già spalancati tutti.
«Signor Emre!»
«Sanem, entra pure.»
«Signor Emre sarò chiara con lei. Io non me la bevo: lei, Aylin e Fabbri
state complottando qualcosa contro Can. Contro l’agenzia.»
Emre si lasciò andare a una risata. Sanem aveva ragione: era stato lui a
suggerire a Fabbri di far gestire le quote della Fikri Harika ad Aylin. Era
l’alleata di cui aveva bisogno qualora Can gli si fosse rivoltato ancora
contro.
La guardò con occhi crudeli: era ansioso di annientarla.
«Sanem, tu non hai prove contro di me, ma se davvero sei convinta di
quello che dici facciamo un accordo. Se tu esci per sempre dalla vita di Can,
lavorativa e privata, io manderò via Aylin dall’azienda.»
No, un altro accordo no. Non lo fare. Sanem non ne aveva nessuna
intenzione, ma l’altra se stessa aveva paura potesse cedere per Can.
«Signor Emre, mai più stringerò un accordo con lei.»
Emre allora fece un passo indietro; era un peccato che non avesse
accettato. Farli separare sarebbe stato il passo più breve per allontanare il
fratello da Istanbul e dalla società.
«Sanem, vedi, il mio era un test e la tua risposta mi ha dato la conferma
che non ami mio fratello, ma per te è solo un capriccio. Altrimenti avesti
accettato il patto.»
«Signor Emre, lei non sa nulla dell’amore. Io sono follemente innamorata
di Can e per questo non me ne andrò. Gli resterò ancora più vicino, proprio
per difenderlo da lei.»
“Lui sembra molto tenace, ma in realtà è un fiore delicato” pensò, tuttavia
Emre non meritava di saperlo.
A come Amore

Mentre il lancio della campagna Compass Sport si avvicinava con


impressionante rapidità, un’altra verità si era fatta strada nella titolare
Ceyda: lei voleva Can. E non solo come pubblicitario.
Quel taglio degli occhi, dolce e malinconico, il modo che aveva di
guardare le persone, di guardare il mondo. Quel sorriso che esplodeva
illuminandolo. Ceyda, da quando si erano incontrati, non riusciva a pensare
ad altro.
Can era sempre gentilissimo, le aveva fatto anche delle foto per un book
personale e si era dimostrato professionale e impeccabile, ma questo non
significava che ricambiasse l’interesse. E poi c’era Sanem, quella ragazza
gli ronzava sempre intorno.
Eppure, secondo Emre – che avrebbe fatto qualunque cosa per separare
quei due – aveva buone possibilità di conquistarlo. E chi conosceva Can
meglio di lui? Su suo consiglio, si era iscritta alla stessa palestra del
fotografo.
Aveva scelto anche un regalo unico per Can, che custodiva a casa propria
da anni: una delle prime macchine fotografiche mai prodotte. Ci aveva
pensato un attimo prima di separarsene, ma sentiva di doverlo colpire in
qualche modo. Aprendo la scatola, gli occhi di lui si erano illuminati di
stupore, ma Ceyda non capiva se fosse per il dono o per un altro motivo.
«Non posso accettarlo, Ceyda. Vale troppo.»
«Devi. Voglio che l’abbia tu.»
«Non posso, davvero.»
«In cambio puoi farmi da personal trainer… vorrei migliorarmi in kick
boxing.» Emre le aveva detto che Can era il migliore in questa disciplina.
Il sorriso di Can non aveva prezzo. «Va bene, Ceyda. Sarà un onore.»
Quello che lui non aveva notato era la presenza fissa di qualcuno che
spiava dall’altra parte delle vetrate e cercava di origliare i suoi discorsi con
Ceyda.
C’era Deren, che si chiedeva perché quella donna fosse sempre lì in
ufficio. E c’era Sanem, che dopo l’accordo sull’amicizia non poteva
smettere di pensare a un tragico fatto: Can era single.
Libero di uscire, parlare, dare appuntamenti a chi volesse. Dalle modelle
a Ceyda, quella che lo seguiva come un’ombra. Non lo mollava un secondo.
Erano chiusi in ufficio da troppo tempo. Sanem decise di portare due tè,
anche se questa volta – a differenza della serata con Arzu – non aveva
fragole o altri alimenti per intossicare la sua rivale.
Sentì che si accordavano per una sessione di kick boxing in palestra, ma
poi…
«Sanem, grazie. Puoi andare» la salutò Can con un lampo divertito negli
occhi.
“Ma stiamo scherzando” pensò Sanem appoggiando distrattamente i cay
sulla scrivania. “Quale donna ha così poca dignità da iscriversi in una
palestra solo perché ci va quello che le piace?”
In realtà lei avrebbe fatto di peggio, e lo fece.
Rintracciò subito quella palestra, fece un giro di telefonate e, grazie alle
conoscenze di Osman, che ormai dopo i primi set della Fikri Harika stava
accumulando i lavori e le collaborazioni come modello e attore, due ore
dopo lei e Ayhan erano state assunte dalla struttura come donne delle pulizie.
«Sorellina, sei sicura di non esagerare?» chiese la sua amica, dubbiosa.
«Dobbiamo addirittura pulire un’intera palestra per spiare Can? Va bene che
ormai è quasi mio cognato, ma…»
«Ayhan, ti prego! Non ti chiedo mai niente!»
«Be’, Sanem…»
«Hai ragione, non è vero. Ti sto chiedendo tantissime cose ultimamente.
Ma questa è l’ultima, promesso!»
Intanto la loro responsabile, una donna di mezza età con un’espressione
accigliata, si era avvicinata per dare tutte le indicazioni: «Troverete le
divise nello spogliatoio. Dovete disinfettare alla perfezione tutti gli attrezzi
della sala macchine. E pulire il pavimento. Non deve rimanere un granello di
polvere».
«Certo, signora» trillò Ayhan. «Pulire è la nostra specialità. Puliamo
sempre, tutti i giorni, qualunque cosa!»
Sanem diede un colpetto all’amica. «Stai esagerando, dai!»
Per fortuna avevano estrema flessibilità sugli orari: potevano lavorare
quando volevano, bastava che fosse almeno un’ora al giorno e che la sala
risplendesse. Al termine dell’igienizzazione, era concesso addirittura
utilizzare la sala macchine per allenarsi.
“Tutti con questa fissa delle sale che risplendono” pensò seccata Sanem,
rievocando la follia dell’ispezione di Fabbri qualche mese prima.
Il giorno successivo in ufficio fu complicato. Can le aveva affidato, in
qualità di coordinatrice della campagna, il delicato compito di occuparsi dei
manifesti Compass Sport, unendo le foto ai claim e monitorando la
tipografia.
Lui con lei aveva sempre quella romantica nostalgia negli occhi, ma sul
lavoro si dimostrava preciso e severo. Non le avrebbe mai riservato un
trattamento di favore, in virtù di quella “amicizia”.
«Sanem, ti vedo distratta ultimamente. Ricordati che i manifesti sono
divisi per quartiere, in base al target. Vanno uniti immagini e slogan, a
seconda della tipologia. Posso fidarmi di te? O do tutto in mano a Deren?»
«Deren? No! Certo che no! Io sono affidabile e bravissima, signor Can.
Le dimostrerò che ho capacità straordinarie. E che è tutto sotto controllo.»
«Non devi dimostrare chissà cosa, devi assicurarti che i manifesti siano
stampati correttamente.»
Il lavoro era enorme, ma lei non poté seguirlo. All’ora di pranzo CeyCey
intercettò una telefonata di Emre che si accordava con Aylin, probabilmente
per cospirare.
Lo stagista era agitatissimo «Sanem, non coinvolgermi ti prego. I miei
nervi non reggono. Non mi coinvolgere in questa cosa.»
«Ha detto proprio Aylin?»
«Sì, ha detto Aylin. Ma…»
“È l’occasione” pensò Sanem “per inchiodarlo. Svelare a Can che non è
cambiato.”
«Seguiamolo!» Prese al volo il basco e la giacca, trascinando CeyCey per
un braccio. «Muoviti!»
Salirono su un taxi e lo stagista, pur destabilizzato e riluttante, realizzò un
sogno che aveva fin da bambino: «Signor taxista, segua quella macchina!».
«Signor taxista?» lo prese in giro Sanem, dal sedile posteriore. «Ma da
dove vieni?»
Emre s’incontrò con Aylin in un ristorante lussuoso del centro. Lei e
CeyCey si accomodarono a un tavolo da dove potevano vedere lui, ma non la
donna, che era di spalle.
«Mi sembra che Aylin abbia i capelli più corti e delle spalle diverse»
mormorò Sanem. «Sicuro che sia lei? Falle qualche foto. È incredibile che
quella donna sia qui con lui… Quante facce ha il signor Emre?»
«Però c’è un dato confortante» ribatté CeyCey. «Chi viene licenziato, può
sempre essere reintegrato. Una speranza a cui aggrapparci.»
Sanem lo guardò sconcertata. «Ma cosa dici, CeyCey? Ti sembra questo
il problema? Fai le foto! E togli gli occhiali da sole, siamo dentro un
ristorante!»
Sbirciò il suo telefono e vide la faccia di Emre trafitta dai dardi-cuori di
Cupido. «Ma cosa fai? Giochi con i filtri?»
«Dai, mi stavo divertendo!»
«CeyCey! Concentrati! Devi fotografare la donna! Aspetta che si giri, ora
è di spalle.»
Intanto aprirono il menu, Sanem si nascose dietro le pagine per spiare e
CeyCey ebbe un altro attacco di nervi. «Una Caesar Salad 85 lire? Un furto!
A meno che non sia Cesare in persona a cucinarla!»
«La Fikri Harika è in pericolo e tu guardi le 85 lire? Non ti capisco,
CeyCey!» Sanem era esasperata. «Alzati! Andiamo a fotografarla da
vicino!»
«Ma…»
«Vieni!»
Si alzò e lo trascinò per la manica, cercando di non dare nell’occhio. Si
posizionarono davanti al viso della donna e finsero di scattarsi un selfie.
«Ma quella… non è Aylin!» gridò Sanem controllando la foto.
«Io avevo sentito il suo nome!» gridò a sua volta CeyCey. «Andiamo via!
Il signor Emre potrebbe vederci.»
E infatti li intercettò, alzando gli occhi, proprio nel momento in cui,
sgomenta, Sanem si rendeva conto dell’abbaglio.
«CeyCey! Sanem!»
Lo stagista diventò prima bianco come un cencio, poi rosso come un
crostaceo. «Signor Emre! Che combinazione, anche lei qui? Ci hanno
consigliato questo posto. Si mangia benissimo!»
«Non lo metto in dubbio» rispose l’altro, con il tono di chi non credeva a
una sola parola. «Sono in riunione con la signora Aylin della Banca
cardinal.»
«Aylin… Banca cardinal» balbettò CeyCey, come un pappagallo
sconsolato. Avevano fatto un buco nell’acqua.
Tornati in ufficio, se la prese con Sanem: «Te l’avevo detto di non
coinvolgermi in queste cose!».
Lei stava per rispondergli, ma il signor Can la stava cercando: «Dov’eri
finita? I manifesti sono molto importanti, vorrei che ti dedicassi solo a
questo».
«Dov’eri finita?» ripeté Deren senza controllare il tono rabbioso «Ci
sono i manifesti da fare.»
«In tipografia» rispose veloce Sanem. «Mi metto subito al lavoro.»
Ma non lavorò. Dieci minuti dopo vide Can con la coda dell’occhio,
mentre – borsone della palestra in spalla – andava ad allenarsi. Stava
parlando al telefono.
«Ceyda, ci vediamo tra poco in palestra. Penso di farti fare un
allenamento intenso, ma senza esagerare.»
“Ceyda? Palestra?”
«CeyCey, devi fare tu il lavoro sui manifesti. Devo andare via subito.»
Lui spalancò gli occhi. «No, Sanem! Non posso! Devo fare altro, non
riesco…»
Sanem prese il telefono e scrisse subito un messaggio ad Ayhan: “In
palestra tra dieci minuti” – con tanto di emoticon di sapone e scopa. Era
pronta a disinfettare e a disinfestare la vita di Can da quella donna.
Poco dopo, le due amiche in divisa celeste lucidavano ogni attrezzo della
sala macchine, mentre Sanem cercava di spiare la situazione. Aveva
localizzato subito Ceyda in abbigliamento sportivo. Indossava dei pantaloni
attillati e lucidi, che mettevano in evidenza il suo fisico perfetto.
“Si allena benissimo da sola, non ha bisogno di Can. È una falsa.”
Si era svegliata anche l’altra se stessa: Non farti scoprire o sarà la
figuraccia peggiore della tua vita. Peggio di tutte quelle che già hai
collezionato e che ti aspettano nel futuro prossimo.
«Certo che non mi faccio scoprire» brontolò Sanem ad alta voce,
passando per la terza volta lo straccio sui comandi del tapis roulant.
«La smetti di pulire il tapis roulant?» l’apostrofò Ayhan. «Non brillerà
più di così.»
Era l’unico punto da cui Sanem aveva una visuale perfetta su Ceyda che
chiedeva a Can consigli per lo stretching di riscaldamento. O quasi.
Si spostò su un altro tapis roulant, dove un uomo stava correndo a
velocità elevata.
«Scenda» gli intimò.
«Cosa? Ma mi sto allenando!»
«Non vede che devo pulire? Se ne vada!»
«Non si può neanche correre in pace!» si lamentò lui, prendendo la sua
bottiglietta d’acqua.
«Sorellina, non so se in quanto donne delle pulizie possiamo parlare così
ai clienti…» sussurrò Ayhan.
«Io penso proprio di sì! Queste persone corrono, ma per andare dove?
Perdono l’autobus? Arrivano tardi al lavoro? Se si fermano un attimo non
succede niente. E poi ci vorrebbe più rispetto per le donne delle pulizie.»
Se non altro in quell’area potevano spiare Can senza essere viste. Almeno
fino al ritorno della loro responsabile.
«Cosa state facendo qui? È da mezz’ora che siete ai tapis roulant. Andate
subito a svuotare i cestini dei rifiuti! O forse devo farlo io?»
«Se lo fa lei, signora, ci fa un favore» rispose Sanem.
La donna la guardò costernata. «Ma che dici? Muoviti, subito! C’è
polvere ovunque, qui dentro!»
“Che schifo” pensò Ayhan poco dopo, mentre chiudeva il sacco della
spazzatura. “Sanem, per te farei qualsiasi cosa, ma tu te ne stai
approfittando.”
Come se le leggesse nel pensiero, l’amica le intimò di stare concentrata:
«Nasconditi dietro il bidone! Potrebbero vederci».
Era il secondo appostamento della giornata e non poteva in alcun modo
finire come il primo. Intanto, però, Can e Ceyda si erano spostati sul ring e
avevano indossato i guantoni. Sanem non aveva finito il suo lavoro, ma andò
comunque a cambiarsi nello spogliatoio e si preparò per una sessione di kick
boxing, con tanto di casco. Per fortuna c’era il sacco blu a coprirla.
Non farti vedere, Sanem!
«Ceyda, devi stare attenta alla difesa» spiegava intanto Can, «così sei
scoperta.»
«Fin troppo scoperta» mormorò Sanem guardando i suoi leggings e il top
sportivo, scollatissimo.
Per sfogare il nervoso cominciò a prendere a pugni il sacco,
all’impazzata.
Brava, fingi che sia Ceyda!
Finché il sacco non la colpì in pieno petto, facendola cadere a terra.
Non farti vedere, Sanem!
Venti interminabili minuti dopo, Ceyda avvisò Can che erano arrivati dei
giornalisti per intervistarlo: «Li ho convocati qui, per ottimizzare i tempi.
Vado ad accoglierli».
Mentre anche Can si allontanava per bere un sorso della sua bevanda
energetica all’arancia, Sanem sbucò fuori dal suo nascondiglio dietro il
sacco.
Quando lui tornò sul ring, la vide al centro. Stava imitando Ceyda, con
una vocina fastidiosa: «Mi aiuti Can? Sai, sono nuova in questo sport. Non
sono capace!».
Can rise, ma poi si costrinse a ricomporsi: «Si vede che sei una
principiante. Ma io non sono un allenatore e non ho tempo per queste cose».
«La signora Ceyda l’hai allenata, però!» Sanem agitò i pugni, invitando
Can a salire sul ring.
Lui si stava divertendo, ma continuò a nasconderlo: «Va bene, Sanem,
cinque minuti».
Non aveva ancora scavalcato gli elastici che delimitavano il campo
quando lei lo accolse con una tempesta di pugni.
«Imparo in fretta, guarda! Sono qui con la mia mental coach» indicò
Ayhan, che si era messa poco distante e si allenava con il vogatore, «e lei mi
dice di assecondare i miei istinti.»
«Sanem, calmati! Vuoi uccidermi?»
«Forse.»
«I manifesti della campagna?»
«Fatti, pronti, tutto fatto!» Per un attimo Sanem pensò a CeyCey e sperò
avesse finito. «Ti disturba che sono qui a interrompere l’appuntamento con
Ceyda?»
«Ceyda è una mia amica!»
«No, tu non hai altre amiche. Io sono la tua amica!»
Can fece un passo indietro, senza trattenere un sorriso. Era pazza, la più
pazza di tutte. L’unica che lo faceva ridere.
Intanto Sanem tirò un pugno a vuoto e perse l’equilibrio, inciampò su se
stessa e cadde, sopra di lui. Erano a un centimetro di distanza, viso contro
viso, in una situazione che accendeva l’aria.
“Baciami” penso lei, ma a interromperli furono i giornalisti, con Ceyda.
«Disturbiamo?»
L’intervista fu rapida, ma quei pochi minuti infastidirono Can. Volevano
sapere a tutti i costi della sua vita privata, di un possibile matrimonio.
«Mi considero uno spirito libero. La sola idea di sposarmi mi fa sentire
in trappola. Penso di escluderlo…»
Sanem trasalì e abbassò gli occhi.
«Esiste una donna che potrebbe farle cambiare idea?» chiese la
giornalista.
«Non posso dire di cercare qualcosa in particolare, sarebbe sbagliato.
Posso dire che l’energia che emana una donna è più importante del suo
aspetto. Cerco una donna vera, dinamica, che sia capace di ritrovare il suo
lato infantile. Con un carattere forte e che allo stesso tempo sia riflessiva,
comprensiva, dolce, delicata. E il profumo… il profumo è molto importante
per me. Deve essere speciale e quando lo respiro devo sentirmi come un
albatros che vola sui mari in tempesta, in alto, nel cielo sopra la costa, anche
se sono a casa.»
Posò gli occhi su Sanem, che sorrise. Lui l’amava. Ora ne era sicura.
“Saremo amici per sempre, ma lui mi ama. E con me sarà sempre dolce.”
Su quest’ultima cosa, però, cambiò idea poco dopo, quando lei e Can
rientrarono in ufficio. Le urla di Deren si sentivano fin da sotto l’edificio.
«I manifesti sono tutti sbagliati. Cosa è successo? Chi li ha fatti?»
Can raggiunse la collega. «Deren, calmati, ti prego. Ora risolviamo.»
«Ma cosa vuoi risolvere? Questi manifesti non sono del formato giusto!
Non corrispondono a quanto richiesto!» Deren si abbandonò allo sconforto:
«Tutto è perduto».
«Saremo licenziati» bisbigliò CeyCey.
«Li hanno fatti CeyCey e Sanem» proseguì Deren, «è colpa loro.»
«Non è così» la corresse Can. «Io avevo dato il compito a Sanem.
CeyCey non c’entra.»
Aveva usato un tono duro. Tutti guardarono Sanem e lei arrossì.
Sei proprio una stupida, disse l’altra se stessa. Avevi un lavoro
importante e hai passato la giornata a pedinare la gente. Hai fallito. È
solo colpa tua.
«Mi dispiace» disse.
«Le dispiace!» gridò Deren, sarcastica. Sembrava il ringhio di un
chihuahua, tanto la voce era acuta. «Te l’avevo detto di non affidare a lei il
lavoro, Can. È incapace, non si rende conto.»
«Smettila» tuonò Can.
«Io devo smetterla?»
«Sì, tu. È inutile infierire. Dobbiamo trovare una soluzione.»
La soluzione era lavorare tutta notte, tutti quanti.
«Ringraziate Sanem» incalzava Deren, rivolta ai dipendenti. «Avevate
programmi, stasera? Cancellateli. Grazie, Sanem.»
Nell’open space si levò un mormorio.
«Capisco siate stanchi» disse Can. «Mi dispiace. E penso sia meglio che
veniate tutti a casa mia. L’ambiente è più informale, vi aiuterà.»
C’era anche qualcuno che festeggiava silenziosamente per
quell’inconveniente, ed era Leyla. Con Emre le cose avevano preso
un’accelerata che la sua compostezza non riusciva a controllare. Andava a
prenderla a casa per portarla al lavoro, la invitava a pranzo, le faceva dei
piccoli regali. Sembrava mascherare con la gratitudine – per essersi presa
cura di lui quando stava male – un sentimento nascente, divampato dopo
l’addio ad Aylin. Spesso facevano tardi e parlavano vicini, alla luce di un
paio di abat-jour, quando fuori ormai era buio. Il disastro che aveva
combinato sua sorella con i manifesti poteva essere un’occasione per stare
un po’ insieme.

Poche ore dopo Sanem si sentiva ancora mortificata, ma aveva deciso di


concentrarsi sul lavoro. E il lavoro stava andando alla grande, anche se
ormai era sera.
Verso mezzanotte qualcuno suonò il campanello e, su invito di Can, andò
lei ad aprire la porta. Era sua madre, Mevkibe, con un vassoio di dolmas.
Poco prima l’aveva avvisata al telefono che lei e Leyla avrebbero fatto tardi,
ma la pettegola Melahat aveva instillato un dubbio in sua madre.
«Ho visto il signor Emre che riportava a casa Leyla. E il signor Can
chissà quante volte ha riaccompagnato Sanem. Per me le tue figlie stanno per
sposarsi… ma lo faranno senza dirtelo e lo saprai solo a cose fatte. Non sai
quante volte è successo. Proprio ieri il figlio del fruttivendolo…»
«Ma cosa dici, Melahat? Che sciocchezze!» aveva risposto in tono non
del tutto convinto.
«Non sono sciocchezze! Proprio ieri ho visto quella macchina lussuosa,
quella del signor Emre, passare alla fermata dell’autobus. Leyla ha preferito
salire con lui che su quel pullman affollato. Come darle torto?»
Mevkibe era entrata in allarme.
“Le mie figlie sposate con i Divit? E senza che io sappia nulla? Non
posso dormire con questo tarlo.”
Aveva chiamato un taxi e si era fatta portare a villa Divit. Lì trovò Leyla
chiusa in cucina con Emre e Sanem seduta accanto a Can. Se non altro
c’erano anche i loro colleghi.
«Ho portato un vassoio di dolmas…»
«Ma che gentile, Mevkibe!» esclamò Can. «Posso prenderne una? Le
adoro!»
«Grazie signora, ma noi adesso…» iniziò un’esterrefatta Deren, a cui
Mevkibe tappò la bocca con un dolma.
«Mangia cara, sei troppo magra!»
“Io non mangio queste cose! È matta?” avrebbe voluto urlare la ragazza,
ma aveva la bocca piena.
«È tardi» disse Mevkibe, «Leyla e Sanem, vi aspetto e torniamo
insieme.»
«Mammina, ci stai coprendo di ridicolo» le sussurrò Leyla all’orecchio.
«Siamo qui con tutti i dipendenti, dobbiamo lavorare.»
Mevkibe la ignorò; si sedette accanto a CeyCey, che le chiese una mano a
scegliere i colori per la testa dell’anatra, protagonista del manifesto della
Compass Sport a cui stava lavorando.
«Non preoccuparti, ti aiuto io! Io sceglierei il verde…verde come il
colore delle verdure che cuociono… hai presente, vero?»
Dall’altra parte della stanza, a un’irrisoria distanza di sicurezza, Can e
Sanem continuavano a lavorare, con i pc appiccicati, come se si
guardassero.
«Il carattere va bene. Controllo i margini e che i codici siano stati inseriti
correttamente.»
Lui la guardò; in quegli occhi c’era molto di più che la preoccupazione
per la campagna.
«Ti posso aiutare» si offrì, indicando la griglia alfanumerica. «Ecco qui.
A come Amore.»
«A come Amicizia» lo corresse Sanem.
«No, credo sia meglio… A come Amore. C come Cara. P come
Preziosa.»
«Fa caldo qui o indosso un maglione troppo pesante?» Sanem si sentiva
avvampare.
«Concentrati. Amore. Cara. Preziosa. E tre…»
«Tre come… come…?» si sporse, sperando ancora che la baciasse.
«Tre come 3, Sanem.»
Un ragazzo, una ragazza, una toilette

Quando entrava lei, qualunque stanza si accendeva. Era un generatore di


energia pura, un bagliore. Can pensò che aveva lastricato di stelle il suo
cuore, quando la vide arrivare al lancio della campagna per la Compass
Sport, che si sarebbe tenuto in un locale alla moda del centro.
Sanem indossava un lungo abito a sirena, blu notte, che riportò indietro le
lancette dell’orologio a quella sera, a quel bacio avvolto dalla luce turchina.
Aveva i capelli raccolti e il rossetto rosso vernice scriveva la sua
evoluzione, da bambina a raggiante donna in carriera. Al suo fianco c’era
Leyla in abitino verde smeraldo, con una ramificazione floreale di brillantini
sullo scollo a barchetta e piccoli orecchini di cristallo.
La musica elettronica di sottofondo, lo sfrecciare dei cocktail sui vassoi
dei camerieri, gli schermi, il brusio, le faville del momento: tutto si fermò,
come in un incantesimo, quando Can e Sanem incrociarono i loro sguardi. Fu
un istante e loro si crogiolarono nella fiaba. Poi tutto riprese come prima. O
meglio di prima.
«Sei molto bella» le disse Can. Incredibile l’incanto con cui, quando
c’era Sanem, le cose tornassero alla loro primordiale semplicità, anche gli
aggettivi.
«Anche tu» rispose lei, guardando il piccolo diluvio di collanine
sull’abito di contemporanea eleganza.
“Quel vestito è da catene di fast fashion” pensava Deren, sentendosi
macerare dall’invidia alla vista dello sguardo di Can, che all’apparire di
Sanem era diventato più languido. Come sempre, L’altra la superava senza
studio, senza pensiero, senza qualità evidenti. “Non è giusto. Io indosso un
capolavoro sartoriale sfavillante e non mi guarda nemmeno. Non esiste la
meritocrazia a questo mondo, non esiste!”
Anche Ceyda non fece nulla per nascondere la propria espressione
seccata. Non sopportava più quella ragazza, non ne tollerava la vista. Fosse
stato per lei, non avrebbe mai avuto nulla a che fare con la Compass Sport.
In realtà, proprio per la Compass Sport, Sanem era tesissima. Can le
aveva chiesto di tenere il discorso di presentazione della campagna e di
preparare delle slide in PowerPoint.
Per la prima volta, dopo averlo scritto e riscritto cercando di impararlo,
dubitava della propria memoria. Si era sfogata con Ayhan il giorno prima.
«Non mi ricordo una sola parola! Aiutami tu, che sei una mental coach!
Ho perso la memoria.»
«Non è successo niente alla tua memoria, Sanem! Sei solo molto agitata e
questo può influire sulla percezione. Non porti proprio il problema e
scrivilo in un file sul pc, che terrai davanti a te insieme alle slide al
momento della presentazione. Così se ti dimentichi qualche parola, sai che è
lì.»
Ayhan era un genio, come sempre. Sanem aveva afferrato quel consiglio
d’oro al volo, ma adesso si sentiva comunque nervosa all’idea di parlare in
pubblico con quel vestito da fata addosso.
Non sapeva che al party un’ombra in paillettes, proprio mentre lei
assaggiava le mini-tartine ai gamberetti, rimuoveva il contenuto delle slide e
il file del discorso dal pc, che era stato posizionato nell’angolo del palco
qualche ora prima dai tecnici, per accertarsi che i collegamenti audio e
video funzionassero.
Aylin non era solo determinata a sabotare quella presentazione. Voleva
ridurla in cenere.
Si aggirava come un turbine nero, fingendo di assaporare lo champagne,
distribuendo sorrisi accurati. Chiamò Emre in disparte con un cenno, anche
per staccarlo dalla conversazione con Leyla. Per staccarlo da Leyla.
«Questo gioco non mi piace più, Emre.»
«Aylin, a cosa ti riferisci?»
«A Leyla. Pensi non abbia notato come la guardi?»
«Aylin, non rovinare il piano con queste sciocchezze. Bisogna pensare a
Can, a Sanem. A far filare tutto liscio.»
Il piano di Aylin ed Emre era sabotare il discorso, naturalmente. E
distruggere tutto quello che si poteva distruggere.
Il piano di Ceyda invece era più basic, da romanzetto rosa: separare Can
da quella ragazza, Sanem. Aveva invitato il signor Mackinnon al lancio, un
artista che Can amava e seguiva da anni. Lo sfoggiò come un trofeo, per
mettersi in luce agli occhi del fotografo. «Can, il signor Mackinnon è qui. Le
presento Can Divit, titolare dell’agenzia pubblicitaria.»
«È un onore» disse lui emozionato, accennando a un piccolo inchino. «Le
presento Sanem Aydın, ideatrice della campagna.»
«È un vero piacere» fece eco Sanem.
“Sempre Sanem” pensò Ceyda esasperata. Liberarsene era impossibile.
Si voltò verso Can, come se la ragazza non esistesse.
«Il signor Mackinnon darà una festa dopo la presentazione. Non puoi
mancare.»
«Verrò anch’io» intervenne Sanem, e Ceyda, reprimendo un moto d’ira,
notò il sorriso sul volto del capo. E di Mackinnon.
Alla serata partecipava anche Ayhan accompagnata da un CeyCey in
versione notturna, con una giacca blu a pois senape, e sempre più estasiato
dalla ragazza; e forse, quella sera, l’ansia non gli avrebbe strozzato il
respiro e paralizzato i movimenti e le avrebbe chiesto di ballare.
Anche Sanem era in preda al panico, nonostante avesse il discorso scritto.
Parlare davanti a tanta gente la intimoriva, non si sentiva pronta.
Fu Can a rassicurarla, mentre tamburellava nervosamente le dita sul
bancone del bar e mentre notava con sgomento lo smalto leggermente
sbeccato su un’unghia. Era la prima volta che si sentiva così insicura, anche
sul proprio aspetto.
«Stai tranquilla» le disse il capo. Quel tono dolce la disarmava. «Sei
stata tu con la tua intelligenza e la tua passione a far nascere questo progetto.
E tutti sono interessati a quello che hai da dire.»
“Sono tutti interessati a quello che ho da dire” si ripeté Sanem poco dopo,
mentre saliva sul palco che era stato allestito in una zona della maxi-sala. Le
tremavano le gambe ma si disse di stare calma. Presto sarebbe scesa da lì e
si sarebbe goduta il party.
Attraversò lo schermo bianco su cui spiccava il logo Compass Sport, che
sovrastava il simbolo di una cima innevata, e prese il microfono. Il pc era
davanti a lei.
«Buonasera a tutti…» “Forza, tra dieci minuti sarà tutto finito” «… e
grazie per essere qui.»
Cercò l’icona della presentazione sul desktop e l’aprì. In due secondi il
doppio clic la portò sulle slide… completamente bianche. Vuote. Deserte.
Immacolate come quelle cime innevate.
“Ma cosa… cosa… cosa è successo?”
Sanem deglutì nervosamente. La presentazione era sparita. Scomparsa.
C’erano solo il logo della Fikri Harika, il logo Compass Sport, lo sfondo
di una valle verde. Ma niente presentazione, niente slide, niente di niente.
Anche il file del suo discorso era completamente scomparso, cancellato,
polverizzato nel nulla.
“E adesso cosa faccio?”
Il panico la colpiva a ondate allo stomaco, alla testa, alle braccia. Osò
guardare giù e scorse tanta gente (“Troppa gente! Che ci fanno tutti qui?”);
vide il volto preoccupato di Leyla, quello terrorizzato di CeyCey, quello
furioso di Deren, quello incredulo di Güliz. E vide Can, che con i suoi occhi
la rassicurava.
“Sei la mia Sanem, puoi farcela. Puoi farcela anche senza presentazione,
anche senza computer, senza palco, senza discorso.”
Si ricompose. Poteva improvvisare. Poteva farcela.
Nessuno conosceva meglio di lei quello slogan, il suo significato
profondo: era partito da una notte nel bosco, da una caduta, un bacio nel
buio, una tisana alcolica. Can lo sapeva, sapeva che quella sera nella natura
Sanem aveva ritrovato se stessa e il coraggio di dirgli cosa provava in quel
“Sei mio” sussurrato e potente. Sapeva che nessuno meglio di lei poteva
spiegarlo. Le fece cenno con la testa di andare avanti. Si fidava di Sanem,
delle sue capacità e fu il bisogno di non deluderlo, oltre che di non deludere
se stessa, a spronarla a continuare giocando proprio sul disagio del
momento, che poteva diventare la sua forza.
«E adesso… che disastro! Non può essere! Non è forse questo sgomento
che può dominarci, uomini, donne, poveri, ricchi, istruiti o meno? Lo
smarrimento è paura, insicurezza. Da qui parte la nostra campagna: dal
nostro essere fragili in questo caos che chiamiamo civiltà. Però noi non
siamo così. Noi siamo belli, siamo puri. Esattamente come Madre Natura…»
Trovò negli occhi orgogliosi di Leyla, in quelli lucidi di Ayhan e poi, di
nuovo, nello sguardo luminoso e fiero di Can la consapevolezza che ce la
stava facendo, anche senza l’aiuto della presentazione. Decise a quel punto
di lasciarsi andare, stavolta con il consenso silenzioso di coloro che
l’amavano, come aveva fatto in quella notte nel bosco.
«L’idea della Compass Sport, e quindi la nostra, è quella di ritrovare la
dimensione di autenticità e purezza che solo la Natura è in grado di
restituirci intatta, senza alcuna contaminazione. Questo è il desiderio della
Compass Sport e il senso della nostra campagna. Immergiti nella natura e
trova te stesso.»

Poco dopo, facendosi largo tra gli applausi, vide Can inchinarsi di fronte ai
complimenti degli azionisti della Compass Sport. Si tuffò tra le bollicine,
sentendosi leggera come una scia di luce, mentre surfava tra gli spazi
dell’evento, felice, brilla di soddisfazione, trascinata da quell’emozione mai
provata prima.
L’abbracciarono tutti: CeyCey, Leyla, Ayhan. Anche Deren. «Mi è scesa
una lacrima, per colpa tua mi sono rovinata il trucco!»
Quel discorso pieno di forza e passione aveva trafitto Aylin, che si
sentiva vibrare di collera. Notare la competenza altrui non faceva altro che
sbatterle in faccia la propria inadeguatezza. E Aylin preferiva tramare
nell’ombra che accettare la verità e prendere consapevolezza della propria
mediocrità.
Aveva perso la sua lucidità e si aggirava per la sala come un predatore
famelico, accecato dall’odore del sangue. Avrebbe voluto vedere quello di
Sanem, su cui si sarebbe avventata come un avvoltoio.
Fermò una cameriera e le allungò una banconota: «Vieni con me, ho un
compito da darti».
Ritrovò il sorriso pregustando il dolce sapore del suo piano, l’ennesimo,
per colpire Sanem.
Ceyda intanto aveva provato a portare via Can con sé, ma lui non era un
gioiello che si poteva riporre in una custodia. Era impalpabile, inafferrabile,
e, quando era quasi certa di averlo finalmente tra le mani, si dissolveva.
«C’è la festa…» aveva provato a insistere.
«Vengo dopo» era stata la risposta, «con Sanem e con tutti i ragazzi.»
Si era allontanato con uno dei tecnici delle luci e Ceyda si era rassegnata
ad andarsene via con Gamze, senza neanche cercare di nascondere la propria
frustrazione. “Ha vinto Sanem” le diceva una voce dentro di sé. Eppure non
ce la faceva a pensare di aver perso un uomo come Can, le faceva male.
Sanem si godeva ancora il momento di gloria, con Güliz, Ayhan e Leyla
intorno a lei. Gli occhi brillavano alla luce dello champagne, mentre
celebravano il successo della loro stella.
«Credo di non avertelo mai detto, ma sono fiera di te» mormorò una
commossa Leyla. Aveva grattato la superficie del ghiaccio e deposto la
corona. Era più bello starle vicino, da quando aveva cominciato ad aprirle il
suo cuore.
«Sei stata grande!» gridò Güliz «Spero di imparare da te, Sanem, sei così
intelligente!»
«Sei sempre stata la migliore» disse Ayhan. «Io lo avevo capito quando
avevamo solo cinque anni.»
“Non so se potrei essere più felice” pensò Sanem. Forse sì. Se solo… se
solo…
«Andiamo alla festa!» Güliz aveva il cuore a mille al pensiero di
scatenarsi in quel locale di lusso «Dai, preparatevi!»
Sanem si voltò per recuperare la sua pochette quando si scontrò con una
cameriera, la cameriera pagata da Aylin per rovesciarle del vino addosso. E
non solo.
«Mi scusi!» strillò la ragazza. «Sono mortificata! Non so come sia
successo!»
«Non è niente» si schermì Sanem, «stia tranquilla.»
La cameriera aveva un’espressione terrorizzata.
“Ne ho anche trovata una brava a recitare” pensò compiaciuta Aylin,
godendosi la scena da lontano. «Venga con me in bagno, troverò un prodotto
per togliere la macchia.»
«Non è necessario…»
«Mi creda, il vino lascia segni indelebili. Ci vorrà un attimo.»
Sanem pensò che non poteva sporcare quel vestito, era di Leyla. Seguì la
ragazza alla toilette, che si trovava in fondo a un lungo corridoio.
Entrò e aprì subito il rubinetto, cercando di sciacquare il velluto blu con
l’acqua.
«Torno subito» promise la cameriera. «Con un detergente. Toglieremo
quella macchia, glielo prometto!»
Uscì al volo e chiuse dentro Sanem a chiave. Un semplicissimo scherzo
che le era fruttato più della paga di quella serata a servire ricchi
pubblicitari.
Dieci minuti dopo, Sanem realizzò che era rimasta chiusa in bagno. Non
avrebbe mai concepito la follia machiavellica di Aylin e il suo piano
crudele; non riusciva a vedere quell’altro strato della realtà, volava troppo
alto per rendersi conto dei piani, degli intrighi, dei complotti. Questo non
faceva di lei un’ingenua, ma la ragazza straordinaria che aveva fatto
innamorare Can Divit.
Ma adesso come poteva uscire di lì?
Provò a forzare la porta, a buttarla giù con una spallata (“Nessuno lo
saprà mai, posso anche essere poco femminile”), a bussare, gridare,
chiamare aiuto. Si staccò persino una forcina dallo chignon per provare a
sbloccare la serratura, ma era tutto inutile.
Interrogò l’altra se stessa: «Tu hai qualche idea?».
No, Sanem, nessuna idea. Muoviti tu a pensare a qualcosa, perché
presto andranno via tutti e rimarrai chiusa qui tutta la notte.
Una notte nel bagno? Al pensiero Sanem rabbrividì, e non per la folata
gelida che era entrata dalla finestrella… la finestrella!
Alzò lo sguardo e vide un rettangolo di vetro con la maniglia. Avrebbe
potuto uscire da lì… era piccola, era in alto, ma un tentativo…
«Secondo te posso uscire da quella finestra?» chiese all’altra Sanem.
Io non lo farei.
Non aveva molte alternative. Vide che il fasciatoio era posto su un
tavolino abbastanza alto per salirci e raggiungere quella finestra… si
sarebbe calata giù, in qualche modo.
Venti minuti dopo la piccola folla di tulle, seta e paillettes dei dipendenti
e dei dirigenti della Fikri Harika si era riversata fuori dal locale e si
distribuiva su un taxi dopo l’altro, per raggiungere l’afterparty. Can si fece
strada tra i fremiti di eccitazione e i gridolini di entusiasmo; il successo e
l’alcol avevano dato alla testa un po’ a tutti, ma non vedeva Sanem e il suo
magnetico blue dress.
Chiese a Güliz dove fosse.
«In bagno» rispose la ragazza, «le hanno rovesciato del vino addosso. Ma
penso che a quest’ora sia già uscita e abbia preso un taxi…»
Can non si fidò e preferì controllare. La porta principale ormai era stata
chiusa, così fece il giro dal retro; gli pareva di ricordare che i bagni fossero
nell’ala est e seguì la linea d’aria per raggiungerli, sperando di trovare una
porta sul retro.
Mentre attraversava il giardino disseminato di pouf colorati con il logo
della Compass Sport, notò la luna piena.
“Che bella serata, per me e Sanem” pensò.
Quando alzò gli occhi per osservare meglio quella luce d’argento, però,
notò in lontananza qualcosa di imprevisto. Anzi, di completamente folle.
C’era Sanem, o meglio il busto di Sanem, che fluttuava a mezz’aria. Era
apparsa dal nulla, in cielo.
“Ho le allucinazioni” si disse Can e si avvicinò.
Era proprio Sanem, incastrata in una finestra.
Lo stupore di Can andava oltre quanto potesse esprimere; vedendola lì, si
fermò e dovette piegarsi mentre tratteneva le risate.
«Can!» L’urlo di felicità tagliò a metà l’aria. «Che bello che sei qui!»
«Sanem…»
Quanto era assurda… folle, incredibile, imprevedibile. Era la donna dei
suoi sogni.
«Che cosa ci fai lì? Sei… incastrata… in una finestra?»
«Sì! Sono rimasta chiusa in bagno!»
«Potevi chiamarmi al cellulare!»
«Il mio telefono ce l’ha Leyla! Le ho dato la mia borsa mentre quella
cameriera… ma, dobbiamo rimanere qui a parlare così, oppure…?»
Can trovò una panca e la utilizzò per salire, per avvicinarsi a lei. Eccoli
lì, illuminati dalla luna, come Romeo e Giulietta, solo che Sanem non era su
un balcone, ma intrappolata in una toilette nel centro di Istanbul.
«Come mai sei rimasta bloccata lì? Stavi scappando?»
«No! Io adoro incastrarmi nelle finestre dei bagni!»
«Va bene, chiamo qualcuno che apra la porta.»
Sanem spalancò gli occhi. «No, no, no! Nessuno deve vedermi così.
Ormai sono una persona famosa, devo mantenere un certo stile. E non posso
scendere da dove sono salita, il tavolo che avevo sotto di me è caduto… non
c’è più.»
Can scoppiò a ridere. «Dai, famosa, vediamo se riesco a tirarti fuori io.»
Si avvicinò ancora di più e la prese per le braccia. «Pronta?»
«Mi farà male?» chiese lei, spaventata.
«Non credo. Sto per tirare.»
Le stelle si godevano quello spettacolo: un uomo, in piena notte, estraeva
una donna dalla finestra. Era troppo. Can si lasciò andare a quella
sensazione e quando lei gli scivolò addosso, con l’abito strappato e
quell’odore acre di vino, pensò che avrebbe voluto averla sempre così,
accanto a sé.
Aveva perso fin troppo tempo. L’amava e si fidava di lei, più di chiunque
altro.
Quella grande bellezza non avrebbe potuto più trovarla, neanche
setacciando tutti i chiari di luna del mondo. Neanche in Cambogia, in
Amazzonia, alle Galapagos.
Era già tra le sue braccia, splendente e sognante, quando la baciò.
«Can…!» Esitò un attimo, scossa dalla meraviglia, e restituì il bacio.
Era il loro momento romantico. Un ragazzo, una ragazza, una notte, una
toilette.
«Non eravamo amici?» chiese Sanem.
«Questa storia dell’amicizia mi ha stancato» rispose Can. «Tu sei la mia
ragazza… se lo vuoi.»
Gli occhi di Sanem erano lucidi. Can intuì che aveva sperato tanto negli
ultimi mesi. Aveva cercato di migliorarsi. Aveva sofferto, aveva lavorato,
aveva voluto crescere per lui. Solo per lui, che era pronto a tutto, anche a
scalare le montagne della Compass Sport; avrebbe fatto vibrare il mondo,
avrebbe travolto la vita insieme a lei. Avrebbero preso il volo, insieme. E fu
così.
«Lo voglio.»
La storia di Can e Sanem continua…
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Daydreamer - Le ali del sogno


di AA.VV.
Day Dreamer © Gold su Licenza RTI – M ediaset
© 2020 M ondadori Libri S.p .A., M ilano
Ebook ISBN 9788835705956

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Indice

Copertina
L’immagine
Il libro
Gli autori
Frontespizio
Daydreamer
Ci sei solo tu
Non voglio sposare Zebercet
Non pensò, si limitò a vivere
Solo chi ti guarda con amore vede il tuo lato più luminoso
Se questo è caffè, la prego di portarmi un po’ di tè; ma se questo è tè, la prego di portarmi un po’ di
caffè
Quel profumo, il profumo
Le ragazze di Istanbul non hanno mai fame
Caduta in piscina?
Il posto delle fragole è qui
Ma non vedete che è un criceto?
Ti porto via
Colpa del vino
Dimmi di andare e vado, dimmi di restare e resto
I peccati vanno lavati via con un bagnoschiuma al pepe rosa
Non sono di solito i principi che salvano le principesse affrontando distese di rovi e draghi?
Eterni secondi
Chiedilo alla luna
Se mi amassi, non andresti via. Se ti dicessi la verità, non potresti amarmi
La lunga strada verso Can
Forse dovrei attendere quel momento, come il fiore
Se solo…
Non poteva dirlo. Non davanti a lui, non davanti a Istanbul
Stelle e stalle al Luna Park
Ma quella Sanem non esiste
Questa volta la cartellina era di un azzurro cielo
Festa a sorpresa, ma da parte di chi?
Figlio unico
Ci sono qui io, non avere paura
Ottocentomila dollari
Sembra molto tenace, ma in realtà è un fiore delicato
A come Amore
Un ragazzo, una ragazza, una toilette
Copyright

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