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Morto Virginio Rognoni, ministro Dc negli anni di

piombo

diGiovanni Bianconi

Aveva 98 anni: subentrò al Viminale a Francesco Cossiga, che si era dimesso dopo il tragico
epilogo del sequestro Moro nel 1978

È morto questa notte, nella sua casa di Pavia, Virginio Rognoni, ex ministro della Dc, uno dei
politici italiani più conosciuti della seconda metà del Novecento. Rognoni, che aveva compiuto 98
anni lo scorso 5 agosto, si è spento nel sonno. Era stato anche docente alla facoltà di
Giurisprudenza dell’Università di Pavia. Fu ministro dell’Interno negli anni di piombo (dal 1978
al 1983) e, successivamente, di ministro della Giustizia e della Difesa. Dopo la fine dell’esperienza
della DC, aveva aderito prima al Partito Popolare e poi al Pd. È stato vicepresidente del Consiglio
Superiore della Magistratura dal 2002 al 2006. Qui sotto, il ricordo di Giovanni Bianconi .
È stato il ministro dell’Interno del dopo-Moro, entrato al Viminale in sostituzione di Francesco
Cossiga che si dimise all’indomani del ritrovamento del cadavere del presidente della Democrazia
cristiana rapito e assassinato dalle Brigate rosse.

Accadde nella primavera del 1978, Virginio Rognoni era deputato della Dc già da dieci anni, e da
due era vice-presidente della Camera. Da allora ha legato il proprio nome alla battaglia contro il
terrorismo, e poi ad altre emergenze connesse alla sicurezza e all’amministrazione della giustizia
in Italia.

Dopo il suo ingresso al Viminale, le prime mosse e soprattutto il ritorno del generale Carlo
Alberto dalla Chiesa alla guida del Nucleo antiterrorismo dei carabinieri diedero il via a una
nuova stagione di contrasto ai gruppi della lotta armata, che comunque continuarono a colpire; per
cinque anni, fino al 1983 quando lasciò l’incarico, il ministro dell’Interno fu quasi totalmente
coinvolto da quel tipo di emergenza, dividendosi tra funerali di Stato e il varo di misure e
provvedimenti in grado di replicare al fuoco dei terroristi.

A nuovi, pesanti perdite inferte alle istituzioni dalle Br e altre organizzazioni (come la strage di
piazza Nicosia, gli omicidi di Guido Rossa, Emilio Alessandrini, Vittorio Bachelet e molti altri
ancora) lo Stato cominciò a rispondere con arresti e scoperte: il covo di via Monte Nevoso a
Milano con la prima scoperta delle «carte di Moro», il pentimento di Patrizio Peci che aprì la
strada a retate dalle quali ogni volta uscivano altri terroristi disposti a collaborare con gli inquirenti
e svelare nuovi segreti, fino alla cattura di tutti i principali capi brigatisti.

Nel frattempo si trovò a fronteggiare lo scandalo della P2, con l’inquinamento delle stesse
istituzioni finite sotto attacco, e nuovi rigurgiti di terrorismo neo-fascista, compresa la strage di
Bologna del 2 agosto 1980.

Ma mentre conduceva queste battaglie, dal Viminale Rognoni dovette affrontare anche un’altra
emergenza criminale, sul momento sottovalutata o comunque non totalmente compresa
dall’opinione pubblica nazionale: quella della mafia che tra il 1980 e il 1983, oltre a scatenare la
guerra intestina tra clan palermitani e corleonesi, decise di aggredire anch’essa le istituzioni in
Sicilia, con i cosiddetti «delitti politici»: dal presidente della Regione Piersanti Mattarella al
procuratore di Palermo Gaetano Costa, dal deputato comunista Pio la Torre allo stesso dalla
Chiesa, nominato prefetto del capoluogo siciliano appena quattro mesi prima.

Fu una guerra condotta con maggiori difficoltà dal ministro Rognoni rispetto a quella contro il
terrorismo, perché lo Stato nel suo complesso non seppe (o non volle) rispondere con la stessa
determinazione mostrata nei confronti della criminalità politica. E il ministro dell’Interno, in quel
periodo e negli anni a seguire, si trovò più volte a dover spiegare le incomprensioni e a volte
persino le omissioni che accompagnarono gli allarmi lanciati su questo fronte, prima che venissero
assassinati, da Mattarella e dalla Chiesa. Coinvolgendo lo stesso Rognoni.

Terminata l’esperienza al Viminale, nel 1986 passò al ministero della Giustizia, trovandosi ad


affrontare le prime incomprensioni tra esecutivo e magistratura, per poi diventare, ministro della
Difesa tra il 1990 e il 1992, nella stagione che segnò il tramonto della cosiddetta Prima Repubblica.
Nel 1994, al termine dell’ultima legislatura in cui la Dc era presente con il vecchio nome e il
vecchio simbolo, concluse la sua esperienza di parlamentare, per uscire dalla scena pubblica. Fino
al momento in cui vi fu richiamato nel 2002, come componente del Consiglio superiore della
magistratura.

E lì visse una seconda stagione da protagonista quando - nel pieno del governo Berlusconi e dello
scontro tra la maggioranza parlamentare che lo sosteneva e i giudici - fu scelto dalla componente
togata del Csm che lo votò in blocco come vice-presidente dell’organo di autogoverno, in
contrapposizione all’altro «laico» indicato dal centro-destra.

Rognoni divenne così, per quattro intensi anni, il riferimento dei magistrati nel conflitto quasi
permanente con Berlusconi e il berlusconismo. Era la stagione delle «leggi ad personam» e delle
riforme anti-toghe, nella quale l’ex ministro già anziano si ritrovò a vivere una sorta di seconda
giovinezza, a difesa dell’autonomia e indipendenza di pm e giudici, che la consideravano a rischio
per via delle iniziative del premier-imputato che aveva scelto di difendersi non solo nelle aule di
giustizia.

Terminata anche quell’esperienza, Virginio Rognoni è tornato nella sua Pavia, dove non ha smesso
di essere testimone e osservatore attento delle evoluzioni della politica e delle istituzioni che ha
frequentato per gran parte della sua lunga esistenza.
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