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Saggi è la collana dello Iuav che dà a voce alle

elaborazioni teoriche dei propri studiosi attraverso


traduzioni, raccolte di saggi, specifici studi monografici
in cui prevale la parola scritta sull’immagine.
SAGGI IUAV 06
collana edita dall’Università Iuav di Venezia

Comitato scientifico
Fernanda De Maio (coordinatore)
Silvana Annicchiarico
Jean Lucien Bonillo
Luca Ortelli
Josep Parcerisa Bundò
Francesco Trovato

ISBN 978-88-6242-448-6

Prima edizione

© Iuav
© Filippo De Dominicis
© LetteraVentidue Edizioni

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96100 Siracusa, Italia

www.letteraventidue.com
Filippo De Dominicis

IL PROGETTO
DEL MONDO
Doxiadis, città e futuro. 1955-65
Ogni volta che, grazie a una nuova avanzata di forze
storiche e alla liberazione di nuove energie, nuove terre
e nuovi mari fanno il loro ingresso nell’orizzonte della
coscienza collettiva umana, mutano anche gli spazi
dell’esistenza storica.

Nascono allora nuovi parametri e nuove dimensioni


dell’attività storico-politica, nuove scienze, nuovi
ordinamenti, una nuova vita di popoli o rinati. Questo
ampliamento può essere talmente profondo e sorprendente
da comportare il mutamento non solo delle misure e dei
parametri, non solo dell’orizzonte esterno degli uomini, ma
anche della struttura del concetto stesso di spazio.

Allora si può parlare di una rivoluzione spaziale.

(Carl Schmitt, Terra e mare)


Indice
08 Doxiadis e l’architettura del mondo
Prefazione di Alberto Ferlenga
16 Nostra Patria è il mondo intero
Introduzione di Benno Albrecht
22 Antefatto: Doxiadis in Grecia
30 Nuovo ordine
30 Decolonizzazione e modernizzazione
34 La sfida dello sviluppo tecnico
37 La fine delle ideologie
50 Progetto e sviluppo
50 Progetto e sviluppo
56 Professione e networking
63 «Sviluppo a ogni costo»
74 La città del futuro
74 Sviluppo e insediamento tra scienza e managerialità
81 Tentativi di modellizzazione
91 Dynapolis
100 Crescita e controllo
102 The City of the Future
116 Evoluzione e infrastruttura
116 Un’attenzione inedita
121 Una prospettiva evolutiva: Fathy
130 Dynapolis in Africa
134 Verso un progetto continentale: l’All-Africa plan
148 Verso la città-mondo
148 Un’alternativa per la città del futuro
153 Terra incognita
163 Tyrwhitt: «A meno di non essere completamente marxisti…»
170 Le forme di Ecumenopolis e la Asian Highway
195 Riferimenti bibliografici
Doxiadis e l’architettura
del mondo
Prefazione di Alberto Ferlenga

Destroying the values created by nature and Man is today our


most characteristic action in building human settlements1.

Nel 1967, dalla torre dell’isola-fortezza di Bourtzi, in Grecia,


Konstantinos Doxiadis scrive l’introduzione alla prima edizione
del suo libro Ekistics dedicato alla sistematizzazione di una
“scienza degli insediamenti umani”, l’ekistica appunto, che
già aveva delineato nel 1943, al tempo della sua militanza nella
resistenza contro l’occupazione del suo paese. L’architetto che
dal centro del golfo di Nauplia fa i conti con la realtà molteplice
delle città del mondo ricorda Darley, l’alter ego di Lawrence
Durrell in Justine, che da un’isola dell’Egeo ripercorre le diverse
realtà dell’Alessandria che ha vissuto.
Il libro che raccoglie le idee di Doxiadis ha avuto varie
stesure, la prima risale al 1964 ma solo quattro anni dopo
l’iperattivo architetto e urbanista greco sarà in possesso
dell’apparato di ridisegni urbani in grado di sostenerne, in
modo per lui soddisfacente, l’impianto teorico. All’uscita del
libro, alle spalle dell’autore c’è una carriera professionale già
affermata e favorita da contatti ben radicati con l’establishment

8
politico e culturale statunitense. In epoca di Guerra fredda
Doxiadis è il titolare di quello che può essere considerato il
primo studio di urbanistica globale (Doxiadis Associates) che
ha per committenti stati o istituzioni internazionali e disegnerà
i piani per città come Islamabad, Baghdad, Accra, Miami,
Detroit, Rio de Janeiro, Lagos, Karachi, Khartoum, Teheran,
Riyadh e molte altre. Le sue attività sono supportate da varie
strutture collaterali. Vi è il Center of Ekistics di Atene, con la
sua azione di ricerca e formazione, la rivista Ekistics, attiva dal
1957, i Delos Symposia, che coinvolgono in approfondimenti
multidisciplinari sui temi dell’insediamento umano studiosi
dalle più diverse provenienze: dagli architetti Kenzo Tange,
Buckminster Fuller e Fumihiko Maki a Jonas Salk, scopritore del
primo vaccino contro la poliomielite, dall’antropologa Margaret
Mead agli storici Sigfried Giedion e Arnold Toynbee, dal biologo
Conrad Hal Waddington al geografo Jean Gottmann. Pochi anni
prima dell’uscita di Ekistics, Doxiadis vive anche la straordinaria
esperienza del progetto per Islamabad, capitale del nuovo
Pakistan e, a tutti gli effetti, terza capitale del moderno, dopo
Chandigarh e Brasilia, concepita come una città “crescente”,
fatta di piccole città nella città e di infrastrutture viabilistiche
differenziate per i diversi usi.
Ekistics, dunque, sistematizza anni di esperienze dirette e di
ricerche. Suo obiettivo è fornire strumenti utili a superare lo
stato di crisi in cui versano gli agglomerati urbani di ogni genere
e evitare il rischio di una catastrofe derivante dal sommarsi degli
effetti congiunti di uno sviluppo incontrollato e di una rottura
dell’equilibrio con la natura.
Sull’onda di questo pericolo, Doxiadis ritiene che la messa
a punto di una scienza specifica basata sullo studio delle
città, delle loro premesse storiche e delle loro implicazioni
contemporanee costituisca l’unica possibilità di contrastare il
disastro annunciato ed attribuire un nuovo ruolo ad architetti

9
Filippo De Dominicis

e urbanisti. L’obiettivo è dare forma sopportabile alla città


del futuro che viene immaginata, nella sua fase ultima, come
Ecumenopolis, rete continua di nodi urbani e connessioni
infrastrutturali estesa per l’intera superficie terrestre.
Nell’introduzione del 1967 Doxiadis rivela anche i suoi
principali riferimenti: Dimitris Pikionis, primo tra tutti, il
suo maestro degli anni dell’Università Tecnica di Atene, a cui
deve la comprensione del «valore estetico dei nostri territori»;
Lewis Mumford, i cui libri lo hanno aiutato «a comprendere la
complessità degli insediamenti umani», Arnold Toynbee, con
cui discute «i processi di evoluzione della storia e i capitoli
dedicati alle antiche città»2.
Sebbene non nominati nell’introduzione, bisognerebbe però
aggiungere tra i debiti importanti del libro anche Il Tramonto
dell’Occidente, di Oswald Spengler, fondamentale per molti
architetti del secolo, in cui viene immaginata, come fase finale
dell’evoluzione urbana, Cosmopolis, la città-mondo, così simile
alla Ecumenopolis di Doxiadis. E ancora, sarebbero da citare gli
studi degli anni Cinquanta sulla Megalopolis americana di Jean
Gottmann, o quelli, precedenti, di Patrick Geddes sulla valley
section, analisi ante litteram del rapporto tra un insediamento e il
proprio contesto geografico.
È poi lo stesso Doxiadis a dichiarare come, al di là dei debiti
culturali, gran parte della spinta verso nuovi studi gli derivi dalla
dolorosa esperienza vissuta nei paesi distrutti dalla guerra e
dalla vista dei profughi abbandonati a sé stessi, dopo migrazioni
epocali come la Mikrasiatikí katastrofí greca o la partition indo-
pakistana quando: «realizzai che, basandomi sui miei studi di
architettura, ingegneria e planning ero impotente nell’aiutarli
per conquistare una nuova vita»3.
Ma al di là delle influenze dirette esercitate su di lui da maestri
o eventi Doxiadis è stato soprattutto un abile raccoglitore di
idee maturate in svariati ambiti che utilizzerà nel tentativo

10
Doxiadis e l’architettura del mondo

senza precedenti di dar vita ad una scienza non compresa tra


quelle ufficiali. Per chi legge dall’Italia il suo tentativo, salta agli
occhi l’analogia – metodologica e non solo – con quello quasi
contemporaneo di Aldo Rossi in L’architettura della città (1966),
visto dal suo autore come il “frammento di una compiuta teoria
urbana” e concepito in origine come manuale di urbanistica.
Come Rossi, non a caso evocato nell’introduzione alla
prima monografia sull’architetto greco, Doxiadis crede «che
l’architettura non possa esaurirsi nell’edificio in sé, perché si
trasformerebbe in architettura di interni o decorazione, ma
dovrebbe essere connessa in modo positivo con il proprio
contesto»4. Molte altre sono le assonanze tra i due, incluso
l’interesse a definire un nuovo ruolo “sociale” per l’architetto
e pur non essendo documentata la conoscenza diretta dei
rispettivi contributi è indicativo che la rivista Ekistics sia
presente nell’archivio della Casabella di Ernesto Nathan Rogers
nel periodo in cui Rossi vi lavora come giovane editor.
Ma tornando a Doxiadis, in questa sua opera di costruzione
di una nuova scienza e di una nuova cultura, vi è un aspetto che
lo distacca da altri studiosi della sua epoca. La percezione, cioè,
che quella delle città sia ormai una questione globale. Nel suo
caso, tuttavia, non si tratta solo di intuizioni ascrivibili al campo
delle utopie o delle previsioni ad effetto. La sua lettura si basa
su analisi precise, appoggiate a ricerche sul campo e supportate
dall’uso dei primi calcolatori elettronici, e il punto di vista
universale gli permetterà di mettere a fuoco, prima di altri,
le priorità emergenti sullo scenario complessivo del mondo:
energia, ambiente, trasporti, cibo, acqua, clima. L’accumulo di
conoscenza su questi temi avviene attraverso i continui viaggi,
i progetti, la collaborazione con organizzazioni internazionali
come le Nazioni Unite e università come Harvard, le ricerche
sulla città del futuro finanziate da fondazioni americane come
la Ford Foundation. In questo lavoro di analisi globale si

11
Filippo De Dominicis

Doxiadis Associates con Hassan Fathy, Centro di una comunità nella regione
di Mussayib, Iraq, in “Ekistics”, vol. 6, n. 36 (ottobre 1958), p. 178, per gentile
concessione dell’Athens Center of Ekistics.

12
Doxiadis e l’architettura del mondo

avvarrà di una rete estesissima e variegata di relazioni, di uno


staff numeroso in grado di praticare contemporaneamente i
terreni della ricerca, della formazione e del progetto, ma anche
di collaboratori “speciali” come Hassan Fathy, egiziano, tra
i più importanti architetti del Novecento, e Jackie Tyrwhitt,
inglese, urbanista ed ex segretaria dei CIAM. I due studiosi gli
porteranno la ricchezza di punti di vista – l’uno più tradizionale
e l’altro più innovativo – apparentemente distanti tra loro, ma
che lo aiuteranno nell’ambizioso tentativo di fondere i percorsi
di due differenti aspetti della modernità. Alla base delle sue
riflessioni rimarrà sempre, come termine di paragone, la città
greca, che aveva iniziato a studiare nel 1935 con la sua tesi di
dottorato a Berlino, pubblicata in tedesco nel 1937 e poi nel 1972
tradotta in inglese da Tyrwhitt con il titolo Architectural Space
in Ancient Greece5.
Per queste sue caratteristiche, e per l’essersi mosso con
preveggenza in un’epoca di passaggio, la sua vicenda è ancora
oggi una miniera inesplorata di idee e strumenti per chi sia
interessato allo studio delle dinamiche urbane. Malgrado
ciò, pochi oggi ne ricordano il contributo. Notissimo nel suo
tempo, in cui esercita un vero e proprio ruolo di opinion leader,
anticipando figure di architetti globali che solo più tardi avremmo
conosciuto, Doxiadis è stato, poi, pressoché dimenticato o
addirittura guardato con sospetto perché considerato, da
alcuni, come un agente dell’imperialismo americano impegnato
su temi di frontiera e favorito dalla nazionalità greca.
Certo, il cripticismo di molti suoi scritti, i rapporti con i
centri del potere USA, e il meccanicismo delle sue teorizzazioni
non hanno aiutato la divulgazione del suo enorme lavoro
dopo la sua morte, avvenuta nel 1975, così come il progressivo
affermarsi di un alone da setta attorno al gruppo ekistico. Se
però, sfrondando la parte datata e propagandistica delle sue
riflessioni, andiamo al fondo di esse, ne esce un contributo

13
Filippo De Dominicis

tanto più importante in quanto concentrato su problemi che le


città avrebbero conosciuto in modo evidente solo in un tempo
molto più vicino a noi, alle soglie del nuovo millennio.
Indubbiamente Doxiadis è stato, infine, un grande
comunicatore – come attestano i suoi molti libri, la sua rivista,
la familiarità con i media, l’uso spettacolare degli eventi – e,
potremmo dire, anche un antesignano in questo campo, almeno
per quanto riguarda gli architetti. Dalle sue molteplici attività
esce la consapevolezza del ruolo nuovo della comunicazione
nel mondo globale. Lo dimostrano le “liturgie” dei simposi
di Delo che riprendono e amplificano quelle dei vecchi CIAM
razionalisti (il viaggio in nave, la firma collettiva di una carta
di intenti, ecc.), e la collaborazione con grandi comunicatori e
studiosi della comunicazione come Sigfried Giedion e Marshall
Mc Luhan, entrambi frequentatori degli incontri ekistici.
Filippo De Dominicis affronta in questo libro, in modo
particolare, la dimensione globale del progetto e della ricerca in
Doxiadis. Per l’Italia si tratta del primo contributo approfondito
ed aggiornato sull’architetto greco, ma ha un interesse ben
più ampio considerando la frammentarietà e la parzialità
degli studi internazionali recenti su questa figura anomala
della scena architettonica del novecento. Il racconto di De
Dominicis, frutto dell’analisi delle molte testimonianze lasciate
da Doxiadis e di approfondite ricerche d’archivio, ci rivela, con
considerazioni ben documentate, un aspetto fondamentale
della figura del grande planner, mettendo in evidenza l’utilità
del suo lavoro in un’epoca in cui molte delle sue previsioni si
sono avverate. Allo stesso tempo, questo ampio saggio aggiunge
un tassello importante alla ricomposizione di un quadro della
cultura architettonica del Novecento più completo e complesso
di come per molti decenni ci sia stato descritto.

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Doxiadis e l’architettura del mondo

Note

1. Doxiadis Konstantinos Apostolos, Ekistics: An Introduction to the Science of


Human Settlements, Oxford University Press, Londra-New York, 1968, p. 7.
2. Ivi, p. xxix. Le traduzioni sono dell’autore.
3. Ivi, pp. 1-4.
4. Kyrtsis Alexandros-Andreas (a cura di), Constantinos A. Doxiadis: texts, desi-
gn, drawings, settlements, Ikaros, Atene, 2005.
5. Doxiadis Konstantinos Apostolos, Architecture Space in Ancient Greece, The
MIT Press, Cambridge, 1972 (ed. originale: Doxiadis Konstantinos Apostolos,
Raumordnung im griechischen Städtebau, Tesi di dottorato, Università di Berli-
no-Charlottenburg, 1937).

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Nostra Patria
è il mondo intero
Introduzione di Benno Albrecht

La Nostra Patria è il mondo intero1 è un ideale tanto antico e


stoico, quanto attuale e cosmopolita, e la riflessione sul pensie-
ro di Konstantinos Doxiadis riguarda proprio la realizzazione
tecnica di questo ideale, dalle molte facce e dalle molte storie.
Bisogna, ed è imprescindibile per progettisti e architetti, veri-
ficare la possibilità tecnica e tentare di comprendere, di deli-
neare, uno sviluppo futuro, oggi facilmente intuibile, quello
dell’aumento esponenziale dell’urbanizzazione nel mondo, del
formarsi del mondo-città. Il progresso tecnico, d’informazione,
di gittata e velocità dei trasporti, ha inaridito il concetto stes-
so di città, demolendo la vecchia scala e gerarchia di valori che
determinavano i bisogni materiali, simbolici, e la continuità e
l’unità di spazio e tempo propria della vita in città2. Il nuovo am-
biente a cui oggi siamo abituati non è campagna né è città, e non
integra i reciproci vantaggi storici ma anzi ne enfatizza i rispet-
tivi disagi. La soluzione del problema, degli sprechi e dell’ineffi-
cienza dell’insediamento diffuso a scala globale non può basarsi
sulle cause stesse di questo problema: l’uso indiscriminato della
tecnologia, lo spreco delle risorse non rinnovabili, la concen-
trazione delle informazioni, l’inadeguatezza dei trasporti. La
messa in sicurezza degli insediamenti umani è una impresa al

16
limite del possibile, che Spengler aveva già dato per tramontata,
«per ultimo sorge dunque la città mondiale (Weltstadt) simbolo
enorme, e ricettacolo, dello spirito divenuto completamente li-
bero, centro nel quale infine si raccoglie senza residuo tutta l’e-
voluzione della storia mondiale: sono le poche città gigantesche
di tutte le civilizzazioni mature, le quali tendono a disprezzare e
svalorizzare in termini di “provincia” tutto il paesaggio materno
delle corrispondenti civiltà»3.
A questo ineluttabile declino cosmopolita, senza una dimo-
ra, bisogna con disincanto opporsi, infatti per Alexander Mit-
scherlich, «è questo ciò che si richiede agli urbanisti: di creare
un ambiente che abbia i presupposti ecologici per poter diven-
tare patria»4.
Eugenio Turri, geografo, è stato fiducioso della possibilità
del controllo dei grandi numeri e della grande dimensione, «al
fine di eliminare la città-mondo e costruire un mondo-città nel
quale però siano restaurati i valori sui quali la città si fondava in
quanto laboratorio di civilizzazione. Probabilmente il più gran-
de compito che spetta agli uomini del prossimo millennio è di
restaurare la città, di risolvere i problemi della città degradata
di oggi, di trovare nuovi e più soddisfacenti adattamenti ai vio-
lenti urti provocati dalla storia di questi ultimi secoli»5.
Questa è ancora la sfida di oggi, per questo è necessario
dedicarsi allo studio ed al racconto dei complessi esperimenti
oltre-urbani di Doxiadis.
È una sfida di ricerca comune che deriva dalla mostra alla
Triennale di Milano L’architettura del mondo – da cui discende
anche il titolo del libro di De Dominicis – dove, con Alberto Fer-
lenga e Marco Biraghi, avevamo introdotto il dibattito proget-
tuale della grandissima scala6. Gli studi condotti allo Iuav da De
Dominicis si erano poi concentrati sugli sviluppi e sulle rica-
dute dei progetti a scala continentale, specialmente in Africa.
Ora è possibile raccogliere i frutti in questo testo che ha anche

17
Filippo De Dominicis

un valore come metodo per l’avanzamento della ricerca, per la


sedimentazione costante e continua del sapere, e che permette
di intravvedere nuove future applicazioni progettuali.
Il sogno tecnocratico atlantico, di cui Doxiadis è parte e
protagonista, avrebbe dovuto rendere il possibile controllo
progettuale dell’ambiente fisico globale e avrebbe favorito il su-
peramento delle diseguaglianze sociali, razziali, economiche e
fisiche.
L’intuizione di Doxiadis è che bisogna sgombrare il campo
da ogni regressione anti-urbana e dis-urbana7 ed affrontare ap-
pieno i problemi legati alla dimensione della urbanizzazione
planetaria. Il classico testo di Morton e Lucia White è chiaro:
«la campagna deserta (wilderness), la fattoria isolata, la pianta-
gione, il villaggio autonomo (self-contained) del New England,
la comunità indipendente, appartengono al passato. Il mondo
intero è, oggi, città, e non vi è possibilità di evasione dall’urba-
nesimo, neppure in altri spazi»8.
La lettura di Doxiadis è corretta, e più che mai attuale per
Dematteis: «la megalopoli sarebbe solamente la parte a più
elevata densità di un unico sistema a rete planetario di livello
metropolitano (Ecumenopolis di Doxiadis)»9. Infatti anche la
sola figurazione del problema è ovviamente molto complessa:
«tuttavia in questa fine di millennio sta capitando qualcos’al-
tro, che è difficile far rientrare nel modello originario di città
occidentale. L’espandersi della città sull’intero territorio si ac-
compagna infatti a una crescita esponenziale delle relazioni di
lungo raggio che ogni città intrattiene con molte altre, indipen-
dentemente dalla distanza fisica che le separa. In altre parole:
l’Ecumenopolis di Doxiadis non è solo una catena di relazioni
che si estende per contiguità a tutto il pianeta, ma è anche una
rete iperconnessa, in cui ogni “nodo” è virtualmente prossimo a
ogni altro, in uno spazio non più euclideo»10.
È facile intuire le critiche che furono mosse all’intuizione

18
Nostra Patria è il mondo intero

di Doxiadis proprio da Lewis Mumford. La critica è sconta-


ta perché per Mumford la strada è completamente opposta,
micro-urbana: «prima che l’uomo moderno riesca ad assumersi
il controllo di quelle forze che ora minacciamo la sua stessa esi-
stenza, deve riconquistare la padronanza di sé stesso. E qui è la
prima missione della città del futuro: creare una struttura visi-
bile, regionale e civica intesa a mettere a proprio agio con il suo
io più profondo e legata a immagini di solidarietà»11. Il risvolto è
molto polemico, «ma è in un certo senso altrettanto allarman-
te scoprire che un urbanista esperto come il dottor Doxiadis
considera la formazione di un simile nonsenso urbanoide come
l’unico modo possibile di affrontare questa minaccia. Questo fa-
talismo non ha alcune base scientifica, e non c’è ragione alcune
di accettare questa proposta»12.
Mumford prosegue tagliente e drastico, «concependo que-
sta unità urbanoide planetaria, a dispetto dei principi ecologici,
ma senza dubbio in conformità con la sua personale concezione
dell’ekistica, il dottor Doxiadis non ha fatto in realtà altro che
combinare in un’unica fantasia da megalomane i due incubi an-
titetici della nostra epoca: la congestione totale e la dispersione
totale - che è un altro modo per dire lo “sterminio totale”. Le
sue premesse statistiche sono patentemente infondate, le sue
deduzioni ingiustificate e la sua soluzione è assurda. Ma verosi-
milmente questo incubo pazzesco può svolgere l’unica funzione
utile di tutti gli incubi: prima di diventare troppo realistico ci
può svegliare»13.
Da una parte vi sono le critiche all’ipotesi di un universo ur-
banizzato e dall’altra la possibilità di un cosmopolitismo me-
todologico e progettuale: «nella città-mondo esistono la vio-
lenza, l’esclusione, i ghetti, i giovani e meno giovani, le diverse
generazioni, gli immigrati, i clandestini: in una parola tutta la
complessità e la disuguaglianza presenti nel mondo. In certo
senso, la mondo-città è l’ideale, l’ideologia del sistema della

19
Filippo De Dominicis

globalizzazione, l’idea che un domani tutto potrà circolare agil-


mente. La città-mondo incarna al contrario tutte le contraddi-
zioni e le tensioni storiche generate da questo sistema: non è
vero infatti, che gli uomini circolino così facilmente. E la città è
il luogo in cui si canalizzano tutte queste tensioni»14.
Queste sono le domande su come potrà essere possibile il
controllo della mondo-città, dove le divisioni sono non moti-
vo di allerta ma una vera risorsa. La Terra e il “Mondo” sono
la “Patria” comune di tutte le genti, una patria complessa che
è oggi una cosmo-città, una “Cosmopolis” e, con tutte le sue
differenze, offre nuove possibilità di fuggire l’uniformità e sal-
vaguardare la diversità.

Note

1. Nostra Patria è il Mondo intero è il titolo di una canzone scritta dall'anarchi-


co italiano Pietro Gori nel 1895, lo stesso di Addio Lugano Bella, e dell’inno del
Primo Maggio. 
2. Sono temi già affrontati a suo tempo da Erwin Gutkind in: Gutkind Erwin
Anton, L'ambiente in espansione: la fine delle città, il sorgere delle comunità, Edizioni
di Comunità, Milano, 1955, pp. 22-23.
3. Spengler Oswald, Il tramonto dell’Occidente, lineamenti di una morfologia del-
la storia mondiale, traduzione di Julius Evola, Longanesi, Milano, 2008, p. 791.
Doxiadis aveva letto il testo di Spengler durante la sua permanenza a Berlino.
Vedi Doxiadis Archives 23735, C. & E. Doxiadis Foundation, Atene.
4. Mitscherlich Alexander, La città del futuro, MSugarCo Edizioni, Milano, 1979,
p. 51.

20
Nostra Patria è il mondo intero

5. Turri Eugenio, Dalla città-mondo al mondo-città, in Turri Eugenio (a cura di),


La civiltà urbana: l’uomo sulla terra, Istituto Geografico De Agostini, Novara,
1995, p. 27.
6. Vedi Ferlenga Alberto, Biraghi Marco, Albrecht Benno (a cura di), L'archi-
tettura del mondo: infrastrutture, mobilità, nuovi paesaggi, Editrice Compositori,
Bologna, 2012.
7. Vedi Tafuri Manfredo, Storia dell'ideologia antiurbana, Programma dei corsi di
Storia dell'Architettura 1a e 2a, Istituto Universitario di Architettura di Venezia,
anno accademico 1972/73.
8. White Morton, White Lucia, L’intellettuale americano contro la città americana,
in Rodwin Lloyd (a cura di), La metropoli del futuro, introduzione di Giancarlo
De Carlo, traduzione di Giuliana De Carlo, Marsilio Editori, Venezia, 1964, p.
184.
9. Dematteis Giuseppe, Modelli urbani a rete. Considerazioni preliminari, in Curti
Fausto, Drappi Lidia (a cura di), Gerarchie e reti di città. Tendenze e politiche, Fran-
co Angeli, Milano, 1990, pp. 27-48. La citazione è in Turri Eugenio, La megalopoli
padana, Marsilio, Padova, 2000, p. 293.
10. Dematteis Giuseppe, Non basta una forte identità la città vive solo se è un “nodo”,
in “Telèma”, n.15, inverno 1998-1999, http://www.fub.it/telema.
11. Mumford Lewis, La città nella storia; vol. III: Dalla corte alla città invisibile,
Milano, Bompiani, 1989, p. 708.
12. Mumford Lewis, The Urban Prospect, Harcourt, Brace & World, Inc, San
Diego-New York, 1968. Le citazioni sono estratte dall’edizione italiana:
Mumford Lewis, Il futuro della città, polis metropoli megalopoli necropoli, tradu-
zione di Anna Del Bo, Milano, Il Saggiatore, 1970, p. 157. Il pezzo fu pubblicato
originariamente in Mumford Lewis, The Future of the City: a five-part series: 3.
Megalopolis as Anti-City, in “Architectural Record”, dicembre 1962, pp. 101-108.
13. Ibidem.
14. Augé Marc, Tra i confini. Città, luoghi, integrazioni, Bruno Mondadori, Milano,
2007, p. 13. Simile concetto anche in Augé Marc, Per un'antropologia della mobili-
tà, Jaca Book, Milano, 2010, pp. 34-35.

21
Filippo De Dominicis

Antefatto:
Doxiadis in Grecia

Quando le forze alleate liberavano l’Attica, il 14 ottobre del


1

1944, Konstantinos Doxiadis era poco più che trentenne. Rico-


nosciuto come il vero artefice della ricostruzione greca, il gio-
vane Doxiadis aveva bruciato le tappe: nei successivi trent’anni,
come funzionario pubblico prima e come consulente indipen-
dente poi, avrebbe scalato i vertici del dibattito disciplinare
globale, meritandosi quel titolo di «indaffarato rimodellato-
re del mondo» che il settimanale Life gli avrebbe dedicato nel
1969, all’apice di una incredibile serie di successi professionali2.
Doxiadis aveva conseguito la laurea in patria, nel 1935. Trasfe-
ritosi a Berlino fra il 1935 e il 1936, avrebbe ottenuto un dot-
torato di ricerca discutendo una tesi sull’ordinamento spaziale
delle città della Grecia antica3. Richiamato in patria come capo
dell’ufficio di pianificazione ateniese, Doxiadis sarebbe presto
diventato l’uomo chiave della politica urbanistica nazionale.
Gli anni della guerra – trascorsi fra impegni militari e incarichi
amministrativi – avevano avuto un ruolo decisivo: nel 1939 era
stato nominato responsabile del dipartimento di pianificazione
urbana e regionale al Ministero dei lavori pubblici, ruolo che
avrebbe ricoperto fino al 1945; negli stessi anni si era arruolato
nel fronte di resistenza nazionale greco; subito dopo la guerra,

22
Antefatto: Doxiadis in Grecia

dal 1945 al 1948, sarebbe stato prima sottosegretario e poi di-


rettore generale del Ministero della ricostruzione: dal 1948 al
1951 coordinatore del programma di ricostruzione nazionale, e
in seguito sottosegretario al Ministero del coordinamento, inca-
ricato dell’attuazione dell’European Recovery Program. In qua-
lità di responsabile per la ricostruzione greca, avrebbe mosso i
primi passi nell’establishment internazionale, entrando in con-
tatto con le più influenti personalità del mondo politico ed im-
prenditoriale. Fra il 1945 e il 1947 avrebbe partecipato alla confe-
renza di pace di San Francisco (1945) e al primo convegno delle
Nazioni Unite sull’alloggio, la pianificazione e la ricostruzione
(1947); nel 1949, a Ginevra, sarebbe stato eletto coordinatore
del gruppo di lavoro ONU sulle politiche dell’abitazione4.
Raramente la ricostruzione di una intera nazione ha potu-
to identificarsi così plasticamente con l’azione di un singolo
uomo: da un lato, Doxiadis avrebbe fatto della Grecia uno sta-
to-laboratorio entro cui sperimentare, sul piano tattico e sul
piano strategico, tecniche per un mondo futuro; dall’altro, la
Grecia sarebbe stata per Doxiadis il terreno dove innestare, per
la prima volta ad una scala così vasta, un rinnovato approccio
disciplinare, ormai frammentato in una moltitudine di saperi
specialistici. «Abbiamo scoperto ogni stella, ma abbiamo perso
di vista il Cosmo»5, avrebbe scritto nel 1949 per ribadire un pen-
siero alla base di tutto il suo impegno professionale. La Grecia
avrebbe rappresentato per lui un’embrionale “Cosmopolis”, il
pretesto per ripensare, attraverso la pianificazione, l’avvicina-
mento dell’uomo ai problemi del mondo. Era questa la base di
un pensiero olistico e interdisciplinare che avrebbe preso corpo
durante il suo ritorno dal fronte.
Nell’aprile del 1941, al comando della colonna Efesto, Doxia-
dis si sarebbe reso conto della sfida immane che gli si poneva
dinanzi: tornando a piedi verso Atene e guardando al suo paese
distrutto, avrebbe capito che la questione non era più soltanto

23
Filippo De Dominicis

ricostruire gli insediamenti, ma riscrivere la stessa scienza che


presiedeva alla loro distribuzione e alla loro configurazione6. La
scienza degli insediamenti umani – che Doxiadis avrebbe ribat-
tezzato Ekistics – sarebbe stata la nuova tassonomia attraverso
cui programmare, pianificare e redistribuire l’intera popola-
zione terrestre, consentendone la progressiva reintegrazione
all’interno di una entità geografica e sociale superiore. L’ecu-
menismo di Doxiadis – che avrebbe trovato una propria forma
compiuta nella prefigurazione di un organismo urbano esteso al
mondo intero7 – aveva avuto origine proprio dalle macerie del
conflitto bellico: un pensiero pacifico, inclusivo e sintetico che
si sarebbe nutrito della integrazione e della relazione tra saperi
diversi.
L’idea di ricostruire il paese sotto il segno della scienza eki-
stica, tuttavia, era maturato ben prima che il conflitto avesse esi-
to. Già nel corso della sua permanenza al fronte, Doxiadis aveva
fatto circolare un opuscolo informativo clandestino, intitolato
Pianificazione regionale, pianificazione urbana e Ekistics (Chorota-
xia - Poleodomia - Architektoniki); contemporaneamente, come
capo del dipartimento di pianificazione urbana e regionale al
Ministero dei lavori pubblici, avrebbe preparato un documen-
to sullo stato della nazione. A fronte degli enormi danni subiti,
emergeva con estrema chiarezza la necessità di un nuovo asset-
to territoriale, che risultasse dall’operato congiunto di figure e
poteri sino a quel momento distinti. Dopo il 1945, con l’avvio
dei processi di ricostruzione nazionale, la visione multidiscipli-
nare di Doxiadis avrebbe acquistato un peso sempre maggiore;
insediatosi al Ministero, avrebbe proposto la costituzione di un
ente di stato per lo sviluppo della scienza ekistica, l’unica di-
sciplina in grado di fronteggiare, da sola, la sfida immane della
ricostruzione. Quale piattaforma di tecniche e competenze di-
verse, l’ekistica si configurava come un esercizio scientifico di
managerialità: da un lato, l’interesse verso un risultato unitario,

24
Antefatto: Doxiadis in Grecia

quel Cosmo di cui l’uomo aveva perso cognizione, richiedeva


un funzionamento coordinato, organico, quasi meccanizzato,
alla ricerca di quella sintesi di saperi che di Ekistics era il princi-
pio; dall’altro, la complessità di relazioni fra temi, discipline ed
expertise avrebbe suggerito il ricorso a un approccio sempre più
analitico, veicolato dall’utilizzo crescente di diagrammi, schemi
e griglie multilivello. Da questo scenario emergeva il primato di
una élite tecnica che potesse prevedere, istruire e governare il
processo di crescita della nazione, e questo indipendentemente
dalle alterne vicende politiche che avrebbero attraversato il pa-
ese. In ragione dell’avvento di una nuova era, infatti, le ragioni
etico-morali dovevano essere messe da parte: sarebbe stato il
progresso tecnico il motore delle riforme future, e la pianifica-
zione lo strumento capace di prevederne e indirizzarne il corso,
assecondando la natura dinamica dell’azione umana8.
Sotto questi auspici, il campo di manovra di Doxiadis si
presentava amplissimo, sia in termini di metodo - nell’orga-
nizzazione delle attività e delle mansioni ministeriali - sia in
termini di merito - nel riassetto del territorio nazionale, che
doveva essere interamente riconsiderato. Il primo schema di
rilocalizzazione degli insediamenti, redatto a metà del 1948,
era organizzato su tre livelli gerarchici: l’assetto ekistico della
nazione, la pianificazione dei centri urbani e la costruzione dei
nuclei residenziali. Il piano prevedeva la realizzazione di 230
nuovi centri abitati, mentre 561 centri esistenti sarebbero stati
oggetto di rilievo dettagliato. Su questa prima base conosciti-
va, Doxiadis avrebbe approntato un catalogo di soluzioni tipo,
unità permanenti caratterizzate da un alto grado di flessibili-
tà e da una massima uniformità costruttiva. L’adozione di un
doppio sistema – formato da un nucleo fisso, prefabbricato, e
da una porzione estendibile a uso delle esigenze familiari – ser-
viva anzitutto a contenere i costi; allo stesso tempo, tuttavia,
ribadiva la necessità di un approccio programmatico, lo stesso

25
Filippo De Dominicis

Doxiadis al lavoro sul


tetto del suo studio, in
“Life”, 61-15, 7 ottobre
1966.

26
Antefatto: Doxiadis in Grecia

che avrebbe contraddistinto il suo operato successivo durante


gli anni delle grandi consulenze internazionali. Similmente, le
attività del Ministero erano state interamente riorganizzate nel
segno di una nuova e più complessa managerialità: la redistri-
buzione razionale dei compiti, l’aggiornamento professionale e
la formazione continua, solo per citare alcune delle misure in-
trodotte con l’ingresso di Doxiadis, sarebbero diventate prero-
gative indispensabili per la costruzione di una classe di tecnici
autonoma e indipendente da ogni indirizzo politico9.
Molti dei progetti elaborati in seno al Ministero della rico-
struzione sarebbero rimasti incompiuti, con la guerra civile
che avrebbe dirottato gran parte degli aiuti statunitensi verso il
fronte anti-comunista. Se la drammatica condizione della Gre-
cia aveva consentito l’elaborazione di un pensiero progressista
e pacifista, l’evoluzione di questa stessa condizione, fra le prime
manifestazioni storiche della contrapposizione fra blocchi, non
ne aveva tuttavia permesso la realizzazione. Pur avendo trovato
in Grecia un primo terreno di sperimentazione, la prospettiva
ecumenica e post-politica di Doxiadis era destinata a sviluppar-
si e a maturare in terreni ben più vasti e fertili10. Nel 1952, di
ritorno dall’Australia, lo «straordinario dottor Doxiadis»11 sa-
rebbe riuscito a ricostruire in privato un’organizzazione simi-
le a quella che aveva contraddistinto i suoi anni al ministero,
ampliandone tuttavia le prospettive e le ambizioni. Il suo uffi-
cio, un intero edificio situato ai piedi del colle del Licabetto, era
spesso paragonato alla struttura di un calcolatore elettronico.
Dall’ottavo e ultimo piano, Doxiadis e i suoi più stretti collabo-
ratori avevano campo aperto sull’Acropoli. Dal settimo in giù si
susseguivano, nell’ordine, pianificatori, architetti, ingegneri tra-
sportisti e amministratori, cui si aggiungevano archeologi, car-
tografi, topografi, geologi, meteorologi, avvocati e psicologi im-
pegnati in attività di consulenza; tutti immersi in un flusso inin-
terrotto di istruttorie dattiloscritte, relazioni, circolari, disegni

27
Filippo De Dominicis

e mappe tematiche che attraversavano l’edificio, precipitando


dall’alto verso il basso e di lì risalendo di nuovo, verso l’ottavo
piano di Dinos Doxiadis. Alle richieste avanzate dagli organi-
smi transnazionali e dai giovani governi indipendenti, Doxiadis
Associates rispondeva con una rigorosa organizzazione mana-
geriale che investiva, allo stesso tempo, pratica professionale e
riflessione teorica. Dal 1958, l’ufficio sarebbe stato affiancato da
una scuola tecnica: ogni anno, quasi novecento studenti prove-
nienti dai quattro angoli del globo dovevano cimentarsi su pro-
getti in Siria, Iraq, Libano, Pakistan, Sudan, Ghana e Stati Uniti
– solo per citare i più ricorrenti – dando forma a quella rete di
insediamenti futuri che avrebbe presto abbracciato il pianeta. I
più meritevoli sarebbero stati assunti nell’ufficio, contribuendo
ad alimentare un think-tank multiculturale e interdisciplinare
dove l’Est incontrava l’Ovest: ad Atene, il mondo progettava il
mondo.
Questo libro indaga il progetto della città-mondo, il pensie-
ro dell’uomo che l’ha concepito, le condizioni storico-politiche
e i ragionamenti disciplinari che hanno accompagnato la sua
prefigurazione, descrivendo le radici e le ragioni che ne hanno
condizionato l’avvio e analizzando gli strumenti predisposti per
la sua concettualizzazione. Obiettivo dello studio è articolare
un discorso più ampio sull’influenza delle burocrazie nel di-
battito progettuale; il ruolo dei paesi in via di sviluppo; l’evo-
luzione dell’architetto come consulente globale; la dilatazione
planetaria della scala di progettazione, fra pratica professionale
e riflessione teorico-disciplinare. Sullo sfondo di un mondo che
si rendeva totalmente disponibile all’azione umana erano ne-
cessari, per la prima volta, strumenti di previsione e controllo.
Emergeva l’imperativo di un’azione urgente, coordinata e con-
tinuativa, per ristabilire un legame fra l’abitante e le forze che
determinavano il suo ambiente di vita. In gioco, per Doxiadis, vi
era la sopravvivenza stessa del genere umano.

28
Antefatto: Doxiadis in Grecia

Note

1. Questo studio è l’esito di una ricerca iniziata nel 2013 presso l’Università Iuav
di Venezia, sotto la responsabilità scientifica di Benno Albrecht, e proseguita
al Massachusetts Institute of Technology, Aga Khan Program for Islamic Ar-
chitecture, Cambridge, MA, nel 2016. La maggior parte dei materiali d’archivio
proviene da Doxiadis Archives, Constantinos and Emma Doxiadis Foundation,
Atene, senza il supporto del quale questo lavoro non sarebbe stato possibile.
2. Busy Remodeler of the World, in “Life”, vol.61, n.15, 7 ottobre 1969, pp. 55-62.
3. Doxiadis Konstantinos Apostolos, Architecture Space in Ancient Greece, The
MIT Press, Cambridge, 1972 (ed. originale: Doxiadis Konstantinos Apostolos,
Raumordnung im griechischen Städtebau, Tesi di dottorato, Università di Berli-
no-Charlottenburg, 1937).
4. Constantinos A. Doxiadis, in “Ekistics”, vol. 72, n. 430-435, gennaio-dicembre
2005, pp. 10-12.
5. Doxiadis Konstantinos Apostolos, The march of the people, Ikaros, Atene 1949,
p. 13. La traduzione è dell’autore. Il passo è citato anche in: Kakridis Andreas,
Rebuilding the Future: C.A. Doxiadis and the Greek Reconstruction Effort (1945-
1950), in “The Historical Revue/La Revue Historique”, vol. 10, 2013, p. 140.
6. Ivi, pp. 139.
7. Doxiadis Konstantinos Apostolos, Papaioannou John, Ecumenopolis. The Ine-
vitable City of the Future, Atene, 1974; vedi anche Doxiadis Konstantinos Aposto-
los, Ekistics: An Introduction to the Science of Human Settlements, Oxford Univer-
sity Press, Londra-New York, 1968.
8. Kakridis Andreas, op. cit., p. 144. Il bollettino Pianificazione regionale, Pianifi-
cazione urbana e Ekistics faceva parte della serie Kyklos Technicon pubblicato in
greco fra il 1942 e il 1943.
9. Kakridis, op. cit., p. 146. Vedi anche Theodosis Lefteris, Victory over Chaos?
Constantinos A. Doxiadis and Ekstics, 1945-1975, Tesi di dottorato Departamant
de Composiciò Arquitectònica, Escola Tècnica Superior d’Arquitectura de Bar-
celona, Universitat Politècnica de Catalunya, Barcellona, 2015; Pyla Panayiota,
Ekistics, Architecture and Environmental Policies. A Prehistory of Sustainable Deve-
lopment, Tesi di dottorato in Architecture: History and Theory of Architecture,
School of Architecture and Planning, Massachusetts Institute of Technology,
Cambridge, 2002.
10. Doxiadis Konstantinos Apostolos, Papaioannou John, op. cit.; vedi anche
Rand Christopher, Profiles: The Ekistic World, in “The New Yorker”, 11 maggio
1963, pp. 49-87.
11. Ehrenkrantz Ezra, Tanner Ogden, The remarkable Dr. Doxiadis, in “Archi-
tectural Forum”, 114-6, maggio 1961, pp. 112-116.

29
Filippo De Dominicis

Nuovo ordine

Decolonizzazione e modernizzazione

Con il conflitto in Corea (1950-1953) la Guerra fredda rag-


giungeva una delle sue fasi più acute. Da un lato, era chiaro
a molti che il fronte si stava spostando verso la periferia del
mondo, in quei territori che avevano da poco conquistato l’in-
dipendenza dal dominio coloniale. Dall’altro, soprattutto negli
ambienti progressisti dell’establishment statunitense, ci si co-
minciava a chiedere se il mezzo militare fosse davvero l’unico
strumento per combattere una guerra che, se intrapresa con
tutti i mezzi bellici a disposizione, avrebbe messo a repenta-
glio la sopravvivenza stessa del pianeta. Al termine della con-
flitto coreano, alcuni autorevoli esponenti del MIT Center for
International Studies (CIS) – un centro studi strategico nato
per formare «imprenditori delle scienze sociali» in funzione
antisovietica1 – iniziavano a nutrire i primi dubbi, spostando
l’attenzione su chiavi alternative quali aiuto alla crescita e allo
sviluppo economico: era quello il terreno dove gli Stati Uniti
avrebbero potuto esprimere al meglio la loro forza, dispiegando
tutta la loro potenza industriale, e quello sarebbe stato il nuovo
campo di battaglia globale. Non si trattava di un’ipotesi nuova.

30
Nuovo ordine

Già Harry Truman2, nel suo discorso di insediamento del 19493,


aveva sollevato la necessità di lanciare un vasto programma glo-
bale, affinché il mondo intero, e i paesi meno sviluppati in par-
ticolare, potessero trarre beneficio dal progresso scientifico e
industriale americano.
Gli argomenti avanzati da Truman e amplificati dal conflitto
coreano erano indubbiamente riferibili al nuovo ordine mon-
diale che la conferenza di Bretton Woods aveva sancito nel lu-
glio del 19444, a conflitto mondiale ancora in corso. Per evitare
situazioni di crisi come negli anni Trenta, i paesi riuniti a Bret-
ton Woods riconobbero agli Stati Uniti, e al dollaro, un ruolo
primario: attraverso la mediazione di enti sovranazionali come
l’International Monetary Fund (IMF) e l’International Bank for
Reconstruction and Development (IBRD), l’America sarebbe
diventato il prestatore globale, garante di un mercato libero
in continua crescita. Mentre tutte le materie prime avrebbero
avuto il loro corrispettivo in dollari, ogni valuta nazionale be-
neficiava un tasso di cambio praticamente fisso. Bretton Woods
aveva riservato all’economia industriale americana una base di
mercato senza precedenti, nonché una possibilità di accesso
quasi illimitato alle risorse provenienti dal mondo post-colo-
niale. Il mercato alimentato dai prestiti statunitensi diventava
il motore di una crescita che non poteva più riguardare soltanto
l’Europa e la sua ricostruzione.
Su queste premesse sarebbe nata la teoria della modernizza-
zione post-bellica, un concetto che, aprendo a nuove concettua-
lizzazioni, riassumeva tre elementi chiave della posizione poli-
tica statunitense: decolonizzazione, caccia alle risorse e antico-
munismo5. Le origini profonde della teoria della modernizza-
zione affondavano nel progressivo smantellamento del vecchio
ordine coloniale: le tensioni rivoluzionarie che attraversavano
la periferia del mondo, dal Maghreb al Sud-est Asiatico, costi-
tuivano un fattore di rischio estremamente alto ed esigevano,

31
Filippo De Dominicis

soprattutto all’alba della Guerra fredda, una risposta immedia-


ta. Alimentati dalle promesse contenute nella Carta atlantica
e nella dichiarazione di San Francisco6, i fermenti nazionalisti
anticoloniali avevano costretto l’Europa a un generale ripensa-
mento delle proprie strategie politiche: fra il 1947 e il 1948 l’In-
ghilterra aveva riconosciuto l’indipendenza a India e Pakistan,
acconsentendo alla partizione dell’Unione Indiana, e ritirato le
proprie truppe da Birmania e Ceylon7. Tuttavia, il processo si
dimostrava tutt’altro che lineare: nei fatti, né il vecchio conti-
nente né il nuovo mondo americano – che dell’Europa aveva
sostenuto la ricostruzione – avrebbero potuto intraprendere
un percorso di crescita senza le risorse che il mondo coloniale
aveva garantito loro. Né avrebbero potuto lasciare nelle mani
dell’antagonista sovietico quel consistente pezzo di mondo che
si stava sottraendo al loro controllo attraverso azioni di prote-
sta e di rivolta. La decolonizzazione imponeva al mondo atlanti-
co la necessità di uno strumento di controllo alternativo.
Spinti da un duplice timore – da un lato la perdita del con-
trollo sulle risorse, dall’altro l’appeal che l’ideologia comunista
avrebbe potuto suscitare nelle élite anticoloniali – gli Stati Uniti
si aprivano a una posizione intermedia che, rifiutando il domi-
nio politico, avrebbe tracciato la strada per le future politiche
di controllo basate sul global development. In sostanza, gli Stati
Uniti avrebbero preso le distanze da ogni tipo di imperialismo
formale preferendo esercitare la propria influenza politica su
un piano a loro più congeniale, quello dell’aiuto ai paesi meno
sviluppati, in una prospettiva di dipendenza tecnica ed econo-
mica8. Tutto ciò, naturalmente, era pianificato in funzione anti-
sovietica. Una simile politica di sviluppo comportava un cambio
di paradigma: non si trattava più di governare il pianeta attra-
verso lo strumento politico, quanto di studiarne e analizzarne
i meccanismi9 per riorganizzarne l’assetto ed esercitarvi un’in-
fluenza multilaterale, più articolata. Era questa una prospettiva

32
Nuovo ordine

inedita, che stabiliva nuovi obiettivi, nuovi attori e nuove cate-


gorie di analisi. Il primo esito di questo cambiamento fu la co-
stituzione di un nuovo ordine geopolitico. Indotti dall’ansia di
contrastare la minaccia comunista e dalla necessità di costruire
un’alternativa al dominio coloniale, gli Stati Uniti iniziavano a
guardare al nuovo mondo indipendente come a un solo grande
blocco, federato in nome di un unico ideale: al di là dei parti-
colarismi e delle specificità nazionali, infatti, il denominatore
comune che avrebbe messo insieme India, Libano, Birmania e
Ghana era il bisogno vitale di modernizzazione. Riunire l’intero
mondo post-coloniale sotto gli auspici della modernizzazione
diventava il modo per mettere in comunicazione le potenzialità
statunitensi e le necessità dei nuovi stati10. Benché strumentale
all’implementazione di un disegno politico, una tale semplifica-
zione logica non era così lontana dalla realtà: i giovani governi
dell’Asia sudorientale e dell’Africa si sarebbero ben presto resi
conto che crescita economica e modernizzazione rappresenta-
vano le condizioni essenziali per una sovranità stabile11; da par
suo, l’America aveva già plasmato tutti gli strumenti istituzio-
nali, ideologici ed economici per mostrarsi disponibile e forni-
re l’appoggio di cui le new nations avevano disperato bisogno.
Nei fatti, il mondo post-coloniale diventava un indistinto cam-
po di azione verso cui dirigere sforzi economici, investimenti e
aiuti tecnici. Il passo verso la costituzione di un nuovo ordine
mondiale fu breve e, per molti aspetti, inevitabile: ai due bloc-
chi, quello liberal democratico statunitense e quello comunista
sovietico, se ne aggiungeva un terzo, risultato della dissoluzio-
ne post-coloniale. Il Terzo mondo – che con la conferenza di
Bandung12 del 1955 aveva ratificato la propria esistenza politica
manifestando la volontà di non allineamento rispetto alle due
superpotenze – ospitava il 54% dell’allora popolazione mondia-
le. Si trattava di un numero enorme di persone cui era necessa-
rio fornire, attraverso crescita economica e modernizzazione,

33
Filippo De Dominicis

un’alternativa alla minaccia comunista sempre più incombente.


Attraverso gli aiuti economici allo sviluppo, l’immenso serba-
toio di risorse custodito dal Terzo mondo sarebbe stato defini-
tivamente sottratto al controllo sovietico e impiegato nella co-
struzione di una nuova egemonia democratica. Come avrebbe
ribadito Max Millikan13, direttore del Center for International
Studies del MIT, la partecipazione statunitense al suo sviluppo
era il solo strumento per estendere al mondo i principi di stabi-
lità e liberalità propri del pensiero atlantico14.

La sfida dello sviluppo tecnico

In questa sorta di piano Marshall globale15, un ruolo es-


senziale lo avrebbero giocato i centri di ricerca universitari e
le grandi fondazioni private. Pur partendo da una posizione di
rilievo, infatti, l’amministrazione centrale dello stato non era
l’unico attore coinvolto: sull’onda delle raccomandazioni for-
nite dalla commissione Randall16 e del motto trade not aid, la
prima presidenza Eisenhowher17 aveva preferito intraprendere
azioni di politica estera dando priorità assoluta all’impulso pri-
vato. Questo avrebbe consentito la nascita di un’azione paralle-
la, multilaterale e diversificata, soprattutto su iniziativa di parti
di società civile e istituzioni in contrasto con l’idea della com-
missione Randall: se appariva chiaro, da un lato, che gli stati del
Terzo mondo erano sulla strada della modernità, dall’altro era
necessario capire quale sarebbe stato il motore che ce li avrebbe
portati. Una posizione chiara era già stata espressa dalle Na-
zioni Unite18: secondo gli esperti riuniti in assemblea nel 1951, i
governi locali avrebbero dovuto essere istruiti nella formazione
di capitale e di istituzioni con l’obiettivo di implementare for-
me alternative e decentrate di pianificazione: «una cosa era, in
Europa, ricostruire quello che già c’era; un’altra era costruire in

34
Nuovo ordine

Asia qualcosa che non c’era mai stato, e con l’handicap di un sa-
pere tecnico insufficiente»19. Nelle parole degli esperti delle Na-
zioni Unite, il progresso sarebbe potuto avvenire solo se le con-
dizioni atmosferiche fossero state realmente favorevoli. In altre
parole, le popolazioni delle nuove nazioni indipendenti avreb-
bero dovuto desiderare il progresso, mentre le loro istituzioni
sociali, economiche e politiche avrebbero dovuto accoglierlo e
renderlo possibile20. Un simile processo implicava l’ipotesi di
una trasformazione profonda che avrebbe agito non solo sulla
condizione economica ma sulla stessa struttura mentale delle
società post-coloniali: attraverso l’assistenza sul piano tecnico
ed educativo, queste avrebbero potuto finalmente disporre di
quella attitudine scientifica che segnava il pensiero occidentale
e ne consentiva, in ultima istanza, l’avanzamento. La moder-
nizzazione del Terzo mondo significava, quindi, non solo di-
sponibilità e prestito di denaro, ma soprattutto esportazione e
circolazione di know-how e conoscenza. Rispetto al nuovo ordi-
ne geopolitico post-coloniale, quella che si stava gradualmente
affermando era una forma di governo indiretto che il mondo at-
lantico avrebbe esercitato innanzitutto sul piano del controllo
tecnico: che si trattasse di produzione dei beni o di organizza-
zione dello spazio, l’aiuto allo sviluppo dei paesi terzi si tradu-
ceva in una embrionale quanto sistematica pratica di soft power.
A guidarne le sorti sarebbero stati centri di potere alternativi
dalla controversa connotazione politica: l’obiettivo era plasma-
re un sistema capace di confrontarsi con una terra incognita che,
al netto delle semplificazioni di ordine ideologico, doveva esse-
re opportunamente preparata alle politiche di modernizzazione
– ancora nel 1961, il rappresentante speciale della World Bank
in Africa ammetteva di sapere poco o nulla di un continente
che sarebbe presto diventato uno dei crocevia dello sviluppo
globale21. Perché si potessero formulare azioni e piani di svilup-
po adeguati, quindi, i territori post-coloniali dovevano essere

35
Filippo De Dominicis

indagati e manipolati nella loro struttura profonda, anche a co-


sto di modificarne in maniera indelebile la struttura culturale.
In altre parole, era necessario che le scienze sociali, economiche
e territoriali precedessero l’azione politica, avviando forme di
controllo alternative fondate sull’intelligence, la formazione e
l’elaborazione strategica di informazioni. Le chiavi per accedere
a quell’immenso patrimonio di fatti e dati che il nuovo mondo
indipendente custodiva sarebbero stati i programmi di ricerca
avviati da centri come CIS e Harvard Advisory Group, e da cha-
rities private quali Carnagie, Rockefeller e Ford. Grazie a questo
incredibile supporto, gli scienziati del mondo atlantico – non
solo economisti e sociologi ma anche antropologi, pianificatori
e architetti – avrebbero avuto la possibilità di intervenire mate-
rialmente sul campo, spesso contribuendo a estendere i limiti
concettuali e operativi delle proprie discipline. Centri di ricer-
ca e istituzioni accademiche sarebbero diventati i gangli di un
processo strategico articolato su un doppio registro: da un lato
acquisizione di informazioni, dall’altro implementazione e dif-
fusione globale di programmi di sviluppo. Il loro ruolo, tuttavia,
si dimostrava particolarmente controverso, soprattutto rispet-
to all’indipendenza politica dei programmi di ricerca proposti.
Il CIS – per citare uno dei centri più noti e influenti – nasceva
in risposta ad uno stato di “crisi internazionale” e aveva come
obiettivo la formulazione di ricerche e strategie dal carattere
espressamente politico22: non è un caso che alle riunioni del CIS
partecipassero rappresentanti della Central Intelligence Agency
(CIA), del Tesoro e della Segreteria di stato, e che il primo me-
morandum firmato Millikan e Rostow abbia circolato a lungo
nelle stanze dell’amministrazione Eisenhower, indirizzandone
sostanzialmente l’agenda. Nonostante i protagonisti rivendicas-
sero l’autonomia da ogni indirizzo politico, il quadro si rivelava
essere ben più complesso: molti dei nuovi dirigenti – nella mag-
gior parte dei casi ex newdealers – erano confluiti negli organi e

36
Nuovo ordine

nei centri di ricerca dopo aver ricoperto cariche di rilievo politi-


co, mentre altri avrebbero occupato quadri e ruoli non seconda-
ri nelle amministrazioni successive23; inoltre, molti degli studi
erano effettivamente commissionati da istituzioni e agenzie go-
vernative. Nelle intenzioni dei membri dei vari gruppi, tuttavia,
la politica appariva come lo sfondo di un’attività intellettuale
indipendente: la ricerca avrebbe soltanto potuto «approfondire,
ampliare e più in generale estendere la capacità decisionale dei
policy maker, senza mai fornire loro risposte»24. Questa frase,
attribuita a Millikan, riassumeva tutta l’ambiguità dell’operato
degli scienziati sociali, per alcuni aspetti subordinato e per al-
tri autonomo, ma comunque precedente e prioritario rispetto
all’azione politica. La modernizzazione invocata dagli scienziati
politici, sociali ed economici corrispondeva quindi al primato
di un pensiero progressista, basato sulle possibilità di controllo
globale garantite dal sapere tecnico. Erano quelli, in sostanza, i
veri valori che gli Stati Uniti avrebbero dovuto esportare, ben
prima di ogni ideologia politica.

La fine delle ideologie

Quel che si stava realizzando tra la fine degli anni Cinquan-


ta e l’alba degli anni Sessanta era un generale ribaltamento di
senso e prospettiva, che interessava le radici del rapporto fra
ricerca scientifica e ideologia. Forse proprio in virtù della sua
urgenza storica, la modernizzazione indicava la strada per nuo-
vi posizionamenti teorici: la produzione di conoscenza era di-
ventata, nei fatti, uno strumento essenziale per istruire e ren-
dere l’azione politica operativa – e quindi possibile. In altre pa-
role, la teoria della modernizzazione aveva stabilito il primato
dell’ordine tecnico rispetto all’ideologia politica. Gli scienziati
e i pianificatori economico-sociali erano sempre più coinvolti

37
Filippo De Dominicis

Plastico del piano per


Islamabad, in “Life”, 61-
15, 7 ottobre 1966.

38
Nuovo ordine

in programmi di studio federali e privati; teoria dei giochi, ci-


bernetica e decision theory, solo per citare alcune fra le discipline
più note, avrebbero plasmato l’analisi e la manipolazione dei
movimenti rivoluzionari, configurato le azioni di contrasto e ri-
definito la propaganda, indirizzando, in sostanza, tutte le azioni
di intelligence rivolte alla comprensione e alla strutturazione
dei processi di sviluppo. Nella prospettiva di scienziati come
Edward Shils25 – già coinvolti nella costruzione e nell’applica-
zione del discorso sulla modernizzazione – lo sguardo sistemi-
co e olistico delle scienze sociali ed economiche intercettava
l’intero spettro delle azioni e degli ambienti umani, e rendeva
la modernizzazione non tanto una costruzione intellettuale o
una pura volontà politica, quanto una condizione primaria, fon-
damentalmente valida e inevitabile, attraverso cui riconfigurare
il mondo e il suo progresso. Del resto, come aveva già notato
Truman nel Point Four Program del 1949, erano conoscenza e
tecnica quelle risorse inesauribili che gli Stati Uniti dovevano
mettere a disposizione del mondo, quei combustibili del «nuo-
vo, vasto programma»26 che avrebbe garantito lo sviluppo di un
mondo pacificato sotto l’egida del progresso e della disponibi-
lità condivisa di materie prime. Il ruolo che tecnica e ricerca
scientifica si stavano gradualmente ritagliando era destinato a
mettere in discussione la necessità stessa dell’ideologia: il rin-
novato primato della conoscenza smentiva, infatti, ogni forma
di fede e di impegno che andasse al di là di una pragmatica atti-
tudine al problem-solving27. Si configurava quindi una sostanziale
subordinazione dell’indirizzo politico alla tecnica che lo avreb-
be reso possibile. Negli Stati Uniti, questo nuovo ordinamento
sarebbe stato alla base di un discorso più ampio, teso a legitti-
mare il discorso sulla modernizzazione sciogliendone, almeno
apparentemente, gli equivoci.
Il discorso sul tramonto dell’ideologia era emerso in Euro-
pa negli anni immediatamente successivi la fine della Seconda

39
Filippo De Dominicis

Guerra Mondiale. Nasceva come una forma di progressismo


moderato, pronto a discutere i fanatismi dei modelli e delle uto-
pie novecentesche: attraverso l’esercizio costante del dubbio,
le élite avrebbero lanciato la sfida ai profeti della redenzione e
dell’emancipazione. In America questo discorso sarà recepito
e accolto solo nella prima metà degli anni Cinquanta, quando
Edward Shils, già citato professore di sociologia all’Università
di Chicago e allievo di Louis Wirth28, avrebbe decretato il ter-
mine della battaglia ideologica fra mondo atlantico e blocco co-
munista. Sulla scorta delle riflessioni maturate all’interno del
Congress for Cultural Freedom29, una cerchia di intellettuali
anticomunisti nata nel 1950 e finanziata da Ford e Rockefeller,
Shils sosteneva che la condizione democratica fosse l’unica ca-
pace di provvedere al benessere e alla libertà dei suoi cittadini.
In altre parole, Shils avrebbe intravisto nello stato democratico
l’unica struttura munita degli strumenti tecnici e sociali per or-
ganizzare un mondo libero30. Nel quadro del pensiero atlantico
di metà anni Cinquanta, il discorso sulla fine delle ideologie na-
sceva come una delle chiavi per legittimare il liberalismo eco-
nomico americano e le sue ambizioni di crescita: venendo meno
ogni attrito di carattere ideologico, infatti, l’assorbimento – o
l’imposizione – della pratica liberista su scala globale sarebbe
stata la sola strada “tecnicamente” capace di condurre a un
mondo democratico e prospero, nonché l’unico nodo intorno
a cui costruire il più ampio consenso possibile, proprio sotto
gli auspici di ricchezza e libertà che prometteva. Il sistema di
governo che il liberalismo implicava, quello democratico, era
in grado di rappresentare tutti i segmenti di una società libera.
D’altra parte, il sistema liberista aveva reagito alla fine del con-
flitto mondiale dimostrando tutta la propria natura espansiva:
incapace di autoregolarsi e di restare confinato entro i limiti
delle economie nazionali, per rigenerarsi aveva bisogno, al con-
trario, di una guida sicura e di un supporto sempre più esteso.

40
Nuovo ordine

Perché gli Stati Uniti potessero effettivamente erigersi a guar-


diani del nuovo ordine mondiale, era necessario che il capitale
potesse continuare a formarsi e a espandersi anche nelle aree
più remote del pianeta, per guadagnare quell’equilibrio armoni-
co che le istituzioni di Bretton Woods erano preposte a control-
lare. In ultima analisi, il discorso sulla fine delle ideologie ren-
deva la modernizzazione e l’industrializzazione dei paesi meno
sviluppati dell’Asia e dell’Africa un fatto naturale e inevitabile,
che avrebbe garantito per la sovranità eliminando, allo stesso
tempo, ogni residuo di resistenza politica legato ai movimenti
rivoluzionari indipendentisti. L’aiuto tecnico verso i paesi terzi
costituiva una valvola di sicurezza per l’iniziativa a capitale pri-
vato e, allo stesso tempo, un modo per intercettare, soddisfare
e ridurre infine al silenzio la domanda politica del nuovo mon-
do indipendente. Un pianeta modernizzato e industrializzato
sarebbe cresciuto in maniera armonica, seguendo le leggi del
capitale mediate dal controllo governativo31.
Il discorso sulla fine delle ideologie, quindi, finì col tradurre
la teoria della modernizzazione in qualcosa di più di una sem-
plice ipotesi di scuola: agli occhi gli scienziati americani, la mo-
dernità diventava un tema storicamente inevitabile, una forma
di nuova ideologia in grado di coniugare le conquiste del mondo
atlantico con le ambizioni del Terzo mondo. Il soft power che sa-
rebbe emerso – una tecnocrazia nata dal primato delle scienze
sociali, economiche e territoriali, e guidata da centri di ricerca
e fondazioni – doveva rivolgersi ai paesi del nuovo mondo in-
dipendente, il vero terreno dove espandere la logica capitalista
e costruire le condizioni per un ordine planetario, finalmente
pacificato sotto l’egida del libero sviluppo. Di fronte alla cre-
scita economica, i nazionalismi che animavano lo spirito delle
new nations si sarebbero presto placati fino a spegnersi, persuasi
dall’idea di una sovranità politica possibile solo attraverso l’in-
dustrializzazione e la modernizzazione. Prima che indipendenti,

41
Filippo De Dominicis

Doxiadis Associates, Fasi preliminari del community development nella regione di


Mussayib, in“Ekistics”, vol. 6, n. 36 (ottobre 1958), p. 151, per gentile concessione
dell’Athens Center of Ekistics.

42
Nuovo ordine

i paesi del Terzo mondo avrebbero dovuto essere moderni: nel-


la prospettiva statunitense, infatti, la modernità era la vera – e
la sola – condizione per l’indipendenza politica. Del resto, ci si
chiedeva nei circoli intellettuali liberali, non era stata proprio
l’America la prima new nation a emanciparsi, la prima nuova
nazione capace di garantirsi la sovranità politica attraverso il
libero mercato32? Di questo messaggio, gli americani sarebbero
stati missionari globali: avrebbero offerto ai paesi terzi un kit di
sviluppo per uscire dallo stato di rivolta ed evolvere verso mo-
delli di società libera. In altre parole, gli Stati Uniti erano pronti
a diffondere – o a clonare – sé stessi e le proprie conquiste, in
osservanza al discorso di Harry Truman.
Dal canto loro, nella seconda metà degli anni Cinquan-
ta, i leader dei giovani paesi asiatici e africani avevano inizia-
to a scorgere nel progresso la chiave della sovranità post-co-
loniale. Nei nuovi paesi terzi, l’idea di crescita costante era
alla base di un consenso sociale che sarebbe andato ben al di
là della lotta politica e dell’antagonismo fra i blocchi. Quel-
le che dal mondo atlantico furono presto ribattezzate società
tradizionali si mostravano, infatti, particolarmente sensibili
all’avanzamento tecnologico, soprattutto rispetto alla libertà
di azione che questo avanzamento prometteva e alle forme di
sovranità che l’attitudine cooperativa proposta dal mondo oc-
cidentale avrebbe consentito, diametralmente opposte a quelle
offerte dalla controparte sovietica. L’enfasi era tale che molti
scienziati statunitensi, specialmente antropologi, iniziarono a
interrogarsi sull’impatto psicologico e sociale della moderniz-
zazione, e sulla possibilità di eventuali processi degenerativi
che avrebbe potuto innescare. In The Passing of Traditional So-
ciety, Daniel Lerner33 certificava il legame diretto fra la diffusio-
ne di nuove tecnologie, soprattutto nella comunicazione, e la
disgregazione delle strutture sociali tradizionali, ipotizzando
la nascita di nuove forme di comportamento e di associazione.

43
Filippo De Dominicis

Margaret Mead34, antropologa americana che avrebbe più tardi


lavorato con Doxiadis, ampliava la prospettiva, chiedendosi in
che modo l’introduzione di mezzi tecnologici avrebbe potuto
interferire con la trasformazione generalizzata delle società
post-coloniali. Erano queste le premesse di una manipolazione
profonda che sarebbe andata ben al di là del dato politico e che,
nelle parole dello stesso Kwame Nkrumah35, primo presidente
del Ghana indipendente, richiedeva «la mobilitazione totale di
tutte le risorse disponibili»36. Pur dichiarandosi politicamente
non-allineati, i leader dei paesi del Terzo mondo erano sempre
più consapevoli del fatto che, da sola, la legittimazione politica
non si sarebbe mai potuta avverare, a meno di un intervento
strutturale che riconfigurasse tutti gli strumenti tecnici, eco-
nomici e sociali necessari alla sopravvivenza stessa degli stati
sovrani. Di questa missione, architetti e pianificatori sarebbero
stati protagonisti, contribuendo in maniera decisiva a dar forma
e a configurare quel nuovo ordine politico globale che la Guer-
ra fredda stava plasmando. Tra questi, Konstantinos Doxiadis
avrebbe giocato un ruolo di primissimo piano: raramente la tra-
iettoria teorico-professionale di un progettista avrebbe potuto
ricalcare in modo così fedele lo svolgimento del corso storico-i-
deologico del pianeta. Del resto, il pianeta Terra sarebbe stato
il suo orizzonte progettuale ultimo: già artefice della ricostru-
zione del proprio paese, lo “straordinario dottor Doxiadis” era
pronto a diventare “l’indaffarato rimodellatore” di un mondo in
cerca di rinnovati paradigmi spaziali.

44
Nuovo ordine

Note

1. Il Center for International Studies del Massachusetts Institute of Techno-


logy era stato fondato nel 1951 per approfondire temi e questioni che emerge-
vano dal conflitto fra blocchi. L’espressione «social science entrepreneurs» è
attribuita a Max Millikan (1913-1969), professore di economia a Yale e al MIT,
fondatore e primo direttore del centro fra il 1952 e il 1969, nonché vicediretto-
re dell’Office of Research and Reports alla Central Intelligence Agency (CIA)
fra il 1951 e il 1952.
2. Harry S. Truman (1884-1972) è stato il 33esimo presidente degli Stati Uniti
d’America. Senatore dello stato del Missouri fra il 1935 e il 1945, fu nominato
Vicepresidente all’inizio del quarto mandato di Franklin D. Roosevelt, a cui
successe dopo la sua morte, nell’aprile del 1945. Nel 1948 fu rieletto e nel 1953,
alla scadenza del mandato, rinunciò alla candidatura.
3. Con il nome Point Four Program si indica un programma di assistenza tec-
nica globale annunciato dal presidente Harry Truman durante il suo discorso
inaugurale del 20 gennaio 1949. A differenza del piano Marshall, il Point Four
non si configurava come un programma di aiuti economici. Era piuttosto un
grande piano per condividere i traguardi scientifici e il know-how america-
no con quelle che lo stesso Truman definiva nazioni sottosviluppate, vitti-
me del malessere, dell’inadeguatezza alimentare, di un’economia primitiva e
stagnante.
4. Con l’espressione conferenza di Bretton Woods si intende un insieme di ac-
cordi internazionali a carattere economico-finanziario stipulati nell’omonima
località del New Hampshire, negli Stati Uniti, fra il 1 e il 22 luglio del 1944. A
Bretton Woods si erano riuniti 730 rappresentanti dei paesi del mondo atlan-
tico che uscivano vincitori dalla Seconda Guerra Mondiale, più l’Unione So-
vietica che non ratificò gli accordi, con l’obiettivo di stabilire un nuovo ordine
economico-commerciale di scala globale. Vedi: Steil Benn, The Battle of Bretton
Woods: John Maynard Keynes, Harry Dexter White and the Making of a New World
Order, Princeton University Press, Londra, 2013; ed. it. La battaglia di Bretton
Woods: John Maynard Keynes, Harry Dexter White e la nascita di un nuovo ordine
mondiale, a cura di Ada Becchi, Donzelli Editore, Roma, 2015.
5. Vedi Gilman Nils, Mandarins of the Future. Modernization Theory and Cold
War in America, John Hopkins University Press, Baltimora-Londra, 2007, pp.
32-33.
6. Vedi Latham Michael, The Right Kind of Revolution. Modernization, Develop-
ment and U.S. Foreign Policy from the Cold War to the Present, Cornell Univer-
sity Press, Ithaca-Londra, 2011, p. 29. La dichiarazione di San Francisco del
1945, atto fondativo delle Nazioni Unite, affermava la necessità che le potenze

45
Filippo De Dominicis

coloniali facessero passi in avanti per l’indipendenza delle aree sottoposte a


controllo politico, conformemente con le circostanze particolari di ciascun
territorio.
7. Ivi, pp. 25-32.
8. Gilman Nils, op. cit., p. 44.
9. Lo scienziato politico Dankwart Rustow (1924-1996), docente a Prince-
ton, Columbia e Harvard, aveva colto la radice della questione, delineando
così la nuova politica di espansione atlantica: «fino a poco tempo fa l’uomo
occidentale governava il mondo. Ora lo studia» (traduzione dell’autore). Su
questa prospettiva di studio si sarebbe poi costruita la grande categoria inter-
pretativa delle new nations, unificata sotto gli auspici della modernizzazione
e indifferente alle specificità locali. Vedi Rustow Dankwart, New Horizons for
Comparative Politics, in “World Politics”, vol. 9, n. 4, 1957, p. 430, citato anche
in Gilman Nils, op. cit., p. 34.
10. L’argomentazione, particolarmente efficace, è riferita a Edward Shils
(1910-1995), sociologo americano di cui si parlerà in dettaglio più avanti. Vedi
Gilman Nils, op. cit., p. 60.
11. Vedi Latham Michael, op. cit., pp. 65-68.
12. Alla conferenza di Bandung - dal nome dell’omonima città dell’Indonesia
in cui l’incontro ebbe luogo, nell’aprile del 1955 – avevano preso parte i lea-
der politici di 29 stati indipendenti di Asia e Africa, con l’obiettivo di contra-
stare ogni forma di colonialismo e promuovere la cooperazione economica
fra i paesi che avevano da poco conquistato l’indipendenza. La conferenza
avrebbe rappresentato un passaggio cruciale nella formazione del movimento
dei paesi non allineati. In ragione dell’indirizzo politico stabilito dall’ammini-
strazione Eisenhower, gli Stati Uniti non furono ufficialmente rappresentati.
I resoconti forniti da Adam Clayton Powell (1908-1972), tuttavia, fornirono
a Eisenhower le ragioni di un necessario cambio di rotta. Clayton Powell era
stato inviato a Bandung dai giornali Ebony e Jet.
13. Su Max Millikan, vedi nota n.1.
14. Il passo, proveniente dall’archivio privato Max Millikan, è citato in Gilman
Nils, op. cit., p. 43.
15. Il direttore dell’European Reconstruction Program (ERP) Paul G.Hoffman
(1891-1974) fu nominato direttore del trustee della Ford Foundation nel 1950,
restando in carica fino al 1954. L’espressione «piano Marshall globale» è presa
in prestito dallo storico americano Robert A. McCaughey, che ne fa uso in
riferimento all’azione della Ford Foundation. Vedi McCaughey Robert, Inter-
national Studies and American Enterprise: A Chapter in the Enclosure of American
Learning, Columbia University Press, New York, 1984, p. 147.
16. La Commission on Foreign Economic Policy, nota anche come commissione

46
Nuovo ordine

Randall dal nome del suo presidente, fu istituita dall’amministrazione Ei-


senhower nell’agosto del 1953, restando attiva fino al mese di aprile dell’an-
no seguente. Per i rapporti fra la Commissione Randall, le politiche estere di
modernizzazione e le ambiguità delle posizioni assunte dell’amministrazione
Eisenhower, vedi Ekbladh David, The Great American Mission. Modernization
and the Construction of an American World Order, Princeton University Press,
Princeton-Oxford, 2010, p. 157.
17. Dwight D. Eisenhower (1890-1969) è stato un generale e un politico statu-
nitense, 34esimo presidente degli Stati Uniti d’America.
18. Report of a Group of Experts Appointed by the Secretary-General of the United
Nations, Measures for the Economic Development of Under-developed Countries,
United Nations, New York, 1951. Citato in Ekbladh David, op. cit, p. 157.
19. L’espressione è attribuita a Harold Stassen (1907-2001), direttore dello US
Foreign Operations Administration sotto la presidenza Eisenhower, citata in
Ekbladh David, op. cit., pp. 155-156. Nella fattispecie, Stassen si riferisce alla
difficoltà di applicazione del Point Four Program di Harry Truman.
20. Vedi Ekbladh David, op. cit., p. 158.
21. Oliver Robert, Interview with Leonard Rist, Oral History Research Office, Colum-
bia University, 19 luglio 1961, p. 61, in The World Bank IFC Archives, New York.
22. Il CIS nasce per contrastare le interferenze sovietiche nel programma ra-
dio VOA (Voice of America). Il progetto, un intervento di natura puramente
tecnica richiesto dal sottosegretario di stato John Webb all’allora rettore del
MIT James Killian, fu inizialmente nominato TROY. In seguito ai primi suc-
cessi, nel 1952, TROY si trasformò in un vero e proprio centro studi dal ca-
rattere interdisciplinare. Gli studi promossi dal CIS si muovevano lungo due
linee di indirizzo programmatico: da un lato l’analisi delle politiche sovietiche
e cinesi, occasionalmente finanziate dalla CIA, dall’altro lo studio delle stra-
tegie di modernizzazione nel mondo post-coloniale, supportate dal denaro di
charities private come Ford e Rockefeller. Sull’operato del CIS (talora indicato
anche come CENIS) vedi Ekbladh David, op. cit., pp. 173-175, e soprattutto Gil-
man Nils, op. cit., pp. 156-174.
23. L’intreccio fra ruoli politici e incarichi nelle fondazioni private è estrema-
mente vasto. Paul Hoffman, già citato, è nominato direttore del trustee della
Ford Foundation dopo essere stato a capo del piano ERP. Dean Rusk (1909-
1994), ex sottosegretario di stato nell’amministrazione Truman, è a capo della
Rockefeller Foundation dal 1952 e, dal 1961, segretario di stato. Walt Rostow
(1916-2003), professore di storia economica al MIT e all’Università del Texas,
nonché tra i fondatori del CIS insieme a Millikan, sarà consigliere per la si-
curezza nazionale durante la presidenza di Lyndon Johnson, fra il 1966 e il
1969. Il pensiero di Rostow sarà cruciale nella definizione della teoria della

47
Filippo De Dominicis

modernizzazione: vedi Rostow Walt, Stages of Economic Growth. A non-commu-


nist manifesto, Cambridge University Press, Cambridge-Londra, 1960.
24. Millikan Max, Inquiry and Policy: The Relation of Knowledge to Action, in Ler-
ner Daniel (a cura di), The Human Meaning of Social Sciences, Meridian Books,
New York, 1959, p. 160.
25. Edward Shils (1910-1995) è stato un sociologo statunitense, professore
all’Università di Chicago. In contatto con molti sociologi europei protagoni-
sti del dibattito disciplinare del secondo dopoguerra, è stato il primo ad aver
introdotto il concetto di “fine delle ideologie” nel circolo degli intellettuali
statunitensi, nel 1954. Vedi Gilman Nils, op. cit., p. 58.
26. Nel discorso, Truman utilizzò l’espressione «bold new program». La tra-
duzione è dell’autore. Vedi Truman Harry, Inaugural address, in “Department
of State Bulletin”, 30 gennaio 1949, p. 123.
27. Vedi Gilman Nils, op. cit., p. 56. Si fa riferimento alla definizione del termi-
ne ideologia data dal sociologo francese Raymond Aron (1905-1983). Aron, ol-
tre che docente al Collège de France e alla Sorbona, fu anche visiting professor
a Harvard e all’Università di Chicago, invitato da Edward Shils.
28. Louis Wirth (1897-1952) è stato un sociologo urbano statunitense di origi-
ne tedesca, fra i più importanti rappresentanti della scuola di Chicago insieme
a Robert Park e Ernest Burgess, suoi supervisori accademici.
29. Vedi Scott-Smith Giles, The Congress for Cutural Freedom, the End of Ideolo-
gy and the 1955 Conference: ‘Defining the Parameters of Discourse’, in “Journal of
Contemporary History”, vol. 37, n. 3, 2002, pp. 437-455.
30. Gilman Nils, op. cit., p. 58.
31. Ivi, p. 38.
32. Si fa riferimento al pensiero di Seymour Martin Lipset (1922-2006), socio-
logo americano. Vedi Lipset Seymour Martin, The First New Nation. The United
States in Historical and Comparative Perspective, Basic Books, New York, 1963.
33. Daniel T. Lerner (1917-1980) è stato un sociologo, psicologo e accademi-
co statunitense, membro del CIS al MIT. Vedi Lerner Daniel, The Passing of
Traditional Societies, Free Press, New York, 1958; Ekbladh David, op. cit., p. 173;
Gilman Nils, op. cit., pp. 171-174.
34. Margaret Mead (1901-1978) è stata un’antropologa e accademica statuni-
tense, laureata e dottore di ricerca a Columbia University, New York. Vedi
Mead Margaret, Cultural Patterns and Technical Change, UNESCO, Parigi, 1953.
Margaret Mead sarà fra i principali sostenitori del pensiero ekistico di Kon-
stantinos Doxiadis, partecipando con continuità alle riunioni di Delo, a caval-
lo degli anni Sessanta e Settanta. Mead avrà anche un ruolo decisivo nell’orga-
nizzazione del primo convegno HABITAT delle Nazioni Unite, che si sarebbe
tenuto a Vancouver, Canada, nel 1976.

48
Nuovo ordine

35. Kwame Nkrumah (1909-1972) è stato il primo ministro del Ghana indi-
pendente dal 1957 al 1966, anno in cui è stato deposto dal National Liberation
Council. Fra i principali sostenitori e ispiratori del Panafricanismo post-bel-
lico, Nkrumah aveva trascorso dieci anni negli Stati Uniti, fra il 1935 e il 1945,
laureandosi in filosofia alla University of Pennsylvania. Tornato in patria, en-
trerà nei quadri dell’amministrazione coloniale, diventando primo ministro
della Gold Coast, carica che ricoprirà dal 1952 al 1957.
36. Latham Michael, op. cit., pp. 83-89.

49
Filippo De Dominicis

Progetto e sviluppo

Il Congress for Cultural Freedom

Del movimento intellettuale che avrebbe condotto al tra-


monto delle ideologie, Konstantinos Doxiadis era parte atti-
va: da un lato intrattenendo contatti continui con alcuni degli
esponenti più autorevoli dell’establishment atlantico; dall’altro
condividendo le premesse di un discorso di cui sarebbe stato,
comunque, voce originale e inedita. Nel 1945, in qualità di mi-
nistro della ricostruzione, Doxiadis era stato membro della de-
legazione greca alla conferenza di San Francisco, un incontro
fra i 44 paesi alleati che, di fatto, aveva sancito la nascita delle
Nazioni Unite. Dieci anni più tardi, nel 1955, sarebbe stato l’uni-
co architetto presente al quarto incontro del Congress for Cul-
tural Freedom (CCF), un circolo di scienziati sociali, scrittori,
filosofi, ma anche fisici, musicisti e storici di ogni provenien-
za, impegnati nella diffusione del pensiero liberaldemocratico
statunitense1.
Sin dal 1950, anno della sua istituzione, il Congress for Cul-
tural Freedom aveva organizzato incontri e riunioni periodici
con l’obiettivo di alimentare e divulgare il messaggio anticomu-
nista, specialmente in Europa. Con la morte di Stalin nel 1953,

50
Progetto e sviluppo

tuttavia, il Congress avrebbe cercato di ampliare la prospettiva


di indagine: muovendo verso un’interpretazione più generale
dei fenomeni politici, sociali ed economici, il CCF tentava una
strada più costruttiva, alternativa alla semplice e spesso ineffi-
cace opposizione anticomunista che ne aveva finora caratteriz-
zato l’operato. Sebbene non del tutto allineato con le posizioni
istituzionali – come accadeva, del resto, per molte altre orga-
nizzazioni – il CCF era destinato a diventare un vero e proprio
strumento della politica estera statunitense: un crocevia di sa-
pere e potere la cui azione, finanziata da donors quali Rocke-
feller e Ford e appoggiata da agenzie governative come la CIA,
avrebbe impresso una svolta decisiva al discorso sulla legitti-
mazione e la mondializzazione dei valori americani. Se il CIS
aveva spostato il fuoco del dibattito politico verso l’assistenza
tecnica, mediando fra istanze di commercio libero poste della
Commissione Randall – trade not aid – e l’approccio multilate-
rale del Point Four, il CCF, allo stesso modo, avrebbe coalizzato
posizioni apparentemente distanti sotto l’egida di una concet-
tualizzazione nuova: da un lato, coloro che ritenevano priorita-
ria la difesa della società capitalista contro una minaccia, quella
sovietica, che richiedeva la creazione di un fronte comune oltre
le classiche distinzioni fra progressisti e conservatori; dall’altro,
quelli che invocavano la nascita di una società priva di classi, in
cui corpi di «ingegneri della cooperazione»2 avrebbero agito per
regolare gli squilibri e le instabilità del libero mercato, forti di
una apparente inesauribilità delle risorse. Entrambe le posizio-
ni guardavano all’ideologia politica come a un concetto ormai
inessenziale, che si trattasse di procedere in senso progressista
o conservatore. In un quadro simile, la sola e unica dialettica
che si stabiliva riguardava il modo stesso di intendere questa
generale ambizione di produttività e crescita, alternativamente
considerata quale spreco o abbondanza. Al di là di questa sfuma-
tura, l’idea di combinare una costante crescita economica con

51
Filippo De Dominicis

Il contributo presentato da Doxiadis a Milano (frontespizio), in Doxiadis Konstantinos


Apostolos, Economic progress in underdeveloped countries and the rivalry of
democratic and communist methods, Milano, 1955, in Doxiadis Archives 6872,
© Constantinos & Emma Doxiadis Foundation, Atene.

52
Progetto e sviluppo

un certo egualitarismo sociale – due ambizioni garantite dalla


natura espansiva del capitale e dalla trazione tecnico-scientifi-
ca dell’azione politica – sembrava essere una valida alternativa
all’ideologia marxista, capace allo stesso tempo di superare le
posizioni conservatrici dei campioni del laissez-faire e la vena
socialista dei più accaniti newdealers3. Nei suoi primi cinque
anni di vita, il CCF aveva istruito e alimentato il dibattito sulla
fine dell’ideologia, dando sostanza intellettuale alle ambizioni
di modernizzazione e sviluppo tecnico che l’America intende-
va estendere al mondo, e di cui l’amministrazione Eisenhower
sembrava sempre più consapevole. A Milano, dove nel 1955 si
sarebbe tenuto il quarto incontro del CCF dopo Berlino, Ambu-
go e Parigi, l’anticomunismo era diventato il presupposto su cui
fondare una nuova idea di società, per integrare libera iniziativa
e indirizzi di stato. Il nome stesso dell’incontro – The Future
of Freedom – parlava di un avvenire in cui la libertà non poteva
più essere messa in discussione, perché legata a un progresso e
a un benessere diffusi e “tecnicamente” inevitabili, finalmente
svincolati da ogni sovrastruttura ideologica.
Konstantinos Doxiadis era l’unico architetto presente fra i
140 delegati invitati. L’intervento di Doxiadis era perfettamente
in linea con l’agenda dell’incontro: intitolato Progresso economi-
co nei paesi sottosviluppati e la rivalità fra il metodo democratico
e quello comunista4, il suo contributo avrebbe offerto una inte-
ressante seppur embrionale prospettiva di indagine sulle con-
seguenze – e le possibilità – che una tale ambizione di cresci-
ta avrebbe determinato sul piano dell’ordinamento spaziale.
Doxiadis ammetteva, come del resto i suoi colleghi sociologi,
la sostanziale indifferenza dello strumento politico rispetto alla
necessità primaria della crescita economica. Al di là di quello
che sembrava un dato acquisito, Doxiadis tentava di spingersi
oltre, focalizzando il proprio interesse su un particolare pezzo
di mondo che, pur relegato nella terza sessione del convegno,

53
Filippo De Dominicis

appariva estremamente rilevante nella concettualizzazione dei


temi promossi dal CCF. Nelle formulazioni elaborate dai teorici
della fine dell’ideologia, infatti, i paesi del Terzo mondo occu-
pavano un posto di primo piano. Sia Edward Shils che Daniel
Bell5, entrambi presenti all’incontro di Milano, si interrogavano
sul tramonto delle ideologie proprio in relazione alle differenze
strutturali fra stati industrializzati e new nations post-coloniali
che il concetto di modernizzazione aveva reso evidenti. Lo stes-
so Shils aveva già sottolineato come l’idea di modernizzazione
avesse unito i traguardi del mondo occidentale e le ambizioni
dei giovani stati indipendenti. A Milano, tuttavia, emersero
nuove complessità. Non casualmente, sia Shils che Bell avreb-
bero ulteriormente specificato il concetto di fine dell’ideologia,
il primo facendo seguire alla locuzione un punto di domanda
– la fine dell’ideologia6? –, il secondo associando il fenomeno
al solo mondo occidentale, il quale aveva posto fine alla bat-
taglia ideologica conquistando l’emancipazione industriale7.
Fu proprio grazie all’associazione prodotta da Bell che il fuoco
del discorso si sarebbe spostato sul Terzo mondo: i nuovi stati
dell’Africa e dell’Asia, infatti, vivevano ancora una condizione
di transizione, divisi com’erano tra la fede nella rivoluzione che
aveva portato all’indipendenza e l’ambizione a una crescita che
ne avrebbe certificato la sopravvivenza. Questa ambizione, che
molti dei leader africani e asiatici avevano già espresso, rappre-
sentava la questione cruciale intorno a cui si sarebbe giocata la
partita di una sovranità solida e duratura: il mondo occidentale
era pronto a costruire una nuova identità fra stabilità governa-
tiva e modernizzazione, con i residui delle tensioni ideologiche
che si sarebbero dissolti attraverso l’aiuto allo sviluppo e l’im-
portazione del know-how tecnico. Secondo Bell, tuttavia, questo
non significava che le ideologie fossero prive di ragion d’esse-
re. Di contro, alle manifestazioni ideologiche che attraversava-
no il nuovo mondo post-coloniale doveva essere riconosciuto

54
Progetto e sviluppo

un ruolo centrale: nel Terzo mondo, l’ideologia era ancora un


sentimento vitale che doveva essere tenuto in altissima consi-
derazione, poiché avrebbe costituito il motore di una consape-
volezza nuova. Nei fatti, questa consapevolezza nuova stava già
emergendo: in India, il fallimento del secondo piano di sviluppo
quinquennale avrebbe indotto il segretario di Nehru a collabo-
rare fattivamente con il CIS, mentre la Ford Foundation inizia-
va a erogare fondi per l’implementazione di studi a carattere
sociale, economico e territoriale8; per la stessa ragione, Kwame
Nkrumah, presidente del Ghana, aveva espressamente richiesto
l’aiuto tecnico degli Stati Uniti, «per costruire in una genera-
zione quello che il mondo occidentale aveva realizzato in più di
trecento anni»9 e varare un grande piano di sviluppo centrato
sullo sbarramento del fiume Volta10.
Seymour Martin Lipset, anch’egli presente a Milano, avreb-
be portato gli argomenti di Bell a estreme conseguenze. Nella
prospettiva di Lipset, era proprio il radicalismo espresso dai
nuovi paesi indipendenti la condizione necessaria per avviare
le trasformazioni profonde che la modernizzazione richiede-
va e, allo stesso tempo, prometteva11. Sarebbero stati gli stes-
si governi, come le vicende di India e Ghana testimoniavano,
a sollecitare quell’assistenza tecnica necessaria a rendere la
propria posizione più solida. In sostanza, sosteneva Lipset, era
opportuno lasciare agli apparati governativi un ampio spazio
di manovra, soprattutto in una fase di transizione come quella
che il Terzo mondo stava attraversando, senza permettere che
la libera iniziativa imprenditoriale prendesse immediatamente
il sopravvento e si sostituisse all’azione statale. Solo in questo
modo – sperimentando cioè il peso della propria ideologia po-
litica e agendo di conseguenza –, le nuove nazioni avrebbero
guadagnato piena consapevolezza della necessità democratica
e dei valori di modernità che la democrazia occidentale incar-
nava, affrancandosi definitivamente dal riferimento sovietico.

55
Filippo De Dominicis

Al di là delle sfumature e delle implicazioni politiche che ne


sarebbero derivate, il quadro intellettuale si presentava estre-
mamente articolato. Da soli, Shils, Bell e Lipset riassumevano
l’intero spettro delle posizioni che il discorso sul tramonto delle
ideologie racchiudeva, da quelle più conservatrici a quelle più
progressiste. Doxiadis, quale unico esponente delle discipline
legate all’architettura e alla pianificazione, sarebbe stato il por-
tavoce di un pensiero trasversale, restituendo la complessità di
un dibattito incardinato su due punti essenziali: da un lato, il
ruolo dei paesi meno sviluppati; dall’altro, le azioni necessarie
per dar forma allo sviluppo. In altre parole, Doxiadis avrebbe
delineato protagonisti e figure di un nuovo ordine spaziale, in-
dicando il tracciato di una strada che, dal 1953, aveva già comin-
ciato a intraprendere.

Professione e networking

Doxiadis iniziò a riavviare contatti con gli esponenti dell’e-


stablishment progressista atlantico a partire dal 1953, anno del
suo ritorno dall’Australia12. La maggior parte di essi Doxiadis li
aveva incrociati nella seconda metà degli anni Quaranta, men-
tre operava in Grecia come ministro della ricostruzione13. In
quel periodo, gran parte di quell’élite ricopriva incarichi a ca-
rattere istituzionale nel quadro dell’amministrazione Truman.
Con l’elezione di Eisenhower e l’abbandono delle politiche del
Point Four, e con il fronte che si spostava sempre di più verso la
periferia del mondo, il mondo progressista avrebbe iniziato ad
operare su un piano diverso, aprendo a un’azione multilaterale
attraverso ruoli nelle fondazioni private e nelle agenzie specia-
lizzate degli organismi transnazionali.
In questo mondo, Doxiadis dimostrava di sapersi muovere
con una certa disinvoltura. Fra i contatti maturati, l’allora

56
Progetto e sviluppo

quarantenne architetto greco poteva annoverare nomi impor-


tanti: nella sua agenda figuravano funzionari, diplomatici, tecni-
ci e manager come Jacob Leslie Crane14, architetto consulente
tecnico delle Nazioni Unite, Paul Hoffman, ex responsabile
dell’European Cooperation Administration e presidente della
Ford Foundation, e Jaqueline Tyrwhitt15, protagonista della ri-
costruzione inglese nonché membro dei CIAM da poco coinvol-
ta nelle attività delle Nazioni Unite16. Doxiadis avrebbe incon-
trato Tyrwhitt la prima volta nel gennaio del 1954, in occasione
dello UN Regional Seminar on Housing and Community Impro-
vement, a Delhi. In quella circostanza, Doxiadis presentò una
relazione sull’autocostruzione (self-help) in aree rurali e si di-
mostrò particolarmente brillante agli occhi di Tyrwhitt, che lo
definì «uno dei migliori» tra i presenti17. I due si sarebbero di
nuovo incrociati a Londra, nel mese di agosto dell’anno seguen-
te, quando Jaqueline Tyrwhitt aveva già ottenuto la cattedra di
urban design a Harvard e Doxiadis stava muovendo i primi passi
nei paesi in via di sviluppo insieme all’Harvard Advisory Group
(HAG). Nel meeting di Londra, Doxiadis aveva convinto Jaque-
line Tyrwhitt a curare un bollettino di informazione destinato
ai professionisti attivi nei paesi in via di sviluppo. Il Tropical
Housing and Planning Monthly Bullettin, il cui primo numero sa-
rebbe comparso già nell’ottobre del 1955, avrebbe dato grande
risalto ai programmi di community planning e self-help housing
implementati dalle Nazioni Unite, facilitando la circolazione di
materiali e documenti altrimenti difficili da reperire18. Era que-
sto l’embrione di un sodalizio professionale e intellettuale che
avrebbe portato Tyrwhitt a collaborare con Doxiadis fino alla
morte di lui, nel 1975. Dopo l’incontro di Londra, la prima occa-
sione utile sarebbe stata la visita di lei presso lo studio di Doxia-
dis nella primavera del 1956. Ad Atene, Tyrwhitt avrebbe con-
sultato e revisionato i sette volumi del lavoro per l’Iraqi Deve-
lopment Board, da poco iniziato19. L’incarico per il programma

57
Filippo De Dominicis

Il contributo presentato da Doxiadis alla conferenza delle Nazioni Unite di San


Francisco (frontespizio), in Doxiadis Konstantinos Apostolos, To architects and all who
are interested in physical planning for the reconstruction of the world in the United
Nations, Atene, 12 ottobre 1945, in Doxiadis Archives 8353, © Constantinos & Emma
Doxiadis Foundation, Atene.

58
Progetto e sviluppo

iracheno sull’edilizia residenziale Doxiadis lo aveva ottenuto


nel 1955, grazie alla mediazione dell’amico e collega statuniten-
se Jacob Crane20. I due avevano alle spalle un lungo sodalizio:
entrambi avevano evidenziato la necessità di un approccio glo-
bale al problema dell’insediamento già dalla conferenza di San
Francisco, nel 1945, occasione in cui si erano incontrati per la
prima volta; entrambi, quindi, guardavano all’habitat umano
come a uno degli elementi chiave per lanciare quel processo di
esportazione tecnica su base globale cui gli Stati Uniti e l’intero
mondo atlantico ambivano. La questione dell’insediamento
avrebbe dovuto rappresentare la base per l’avvio di nuove forme
di cooperazione fra stati, lo strumento per stabilire un continuo
scambio di conoscenze, materiali e risorse nella prospettiva di
una soluzione condivisa a un problema comune: una “ricostru-
zione del mondo” da compiersi attraverso politiche coordinate
di scala transnazionale21. Ritiratosi dall’Housing and Home Fi-
nance Agency nel 1955, Crane avrebbe firmato un contratto di
consulenza con Doxiadis Associates. E proprio grazie all’opera
di mediazione offerta da Crane, Doxiadis riuscì a ottenere le pri-
me grosse commesse mediorientali, prima in Iraq e poi in Liba-
no. Nell’arco di pochi anni, il Medio Oriente sarebbe diventato
il vero core business dell’attività di Doxiadis. «D sta per Doxiadis
e development»22, un motto particolarmente felice che circolava
nei rotocalchi specializzati, era il segno di un’identificazione
che si sarebbe concretizzata attraverso due modalità operative
distinte: da un lato, i contatti diretti con i governi nazionali,
come in occasione dell’incarico in Iraq; dall’altro, le consulenze
prestate ai grandi organi transnazionali, che in quegli stessi anni
iniziavano a radicare la loro azione attraverso piani di sostegno
e aiuto allo sviluppo: ben prima dell’incarico iracheno, infatti,
Doxiadis aveva viaggiato in Siria e Giordania per conto della
World Bank occupandosi di insediamenti, servizi sociali e turi-
smo23. Erano state proprio le organizzazioni internazionali e le

59
Filippo De Dominicis

fondazioni statunitensi, peraltro, a consentire a Doxiadis di


muovere i primi passi nei paesi in via di sviluppo, non in Medio
Oriente ma in Pakistan, dove l’architetto greco era approdato
nell’ottobre del 1954 come membro dell’HAG24. La consulenza
per la redazione del primo piano quinquennale del Pakistan era
stata finanziata dalla Ford Foundation, che aveva stanziato 450
mila dollari per l’assistenza alla formazione del National Plan-
ning Board: molto probabilmente, fu proprio in quella circo-
stanza che Doxiadis aveva potuto riallacciare i contatti con i
funzionari della grande fondazione statunitense, fino all’anno
precedente diretta dall’ex direttore dell’European Cooperation
Administration, Paul Hoffman25. Sin dall’inizio degli anni Cin-
quanta, anno in cui Hoffman prendeva il timone dell’organizza-
zione, la Ford Foundation aveva intrapreso una forte politica di
espansione, sfidando “il pericolo alla democrazia” che il mondo
si apprestava ad attraversare26. La decisa svolta internazionali-
sta impressa dalla presidenza Hoffman nasceva in ottemperan-
za al Point Four di Truman: con l’obiettivo di salvaguardare la
democrazia e la pace mondiale – un’identificazione aderente al
pensiero progressista statunitense –, la Ford Foundation avreb-
be condotto una lotta senza quartiere contro povertà e miseria,
unanimemente considerate fra le cause più probabili di un nuo-
vo possibile conflitto bellico. L’impegno della Ford nelle que-
stioni globali era stato così improvviso e profondo che molti,
nei nuovi uffici di Pasadena, iniziarono a pensare che attraverso
la fondazione si potesse arrivare a governare il mondo27. Nel
1951, la Ford aveva destinato quasi un terzo delle sue risorse
all’Overseas Development Program e ai programmi di training e
ricerca internazionale28. Al di là delle sfumature relative agli
obiettivi e agli indirizzi stabiliti dai vari comitati direttivi, si
trattava di un impegno sostanziale che avrebbe condotto la fon-
dazione a intraprendere numerose missioni esplorative, soprat-
tutto in Medio Oriente, nel Subcontinente Indiano e nel Sud-est

60
Progetto e sviluppo

Asiatico, e a stabilire propri rappresentanti permanenti in India,


Birmania e Indonesia. Specialmente nei primi anni, l’attività di
pianificazione avrebbe guardato con estrema attenzione alle
aree rurali, favorendo lo sviluppo di tecniche per la razionaliz-
zazione delle coltivazioni e degli insediamenti. Simili ambiti di
intervento, sempre più urgenti per fronteggiare l’incremento
demografico in atto, richiedevano un avanzato know-how tecni-
co di cui i singoli stati non potevano disporre. La Ford Founda-
tion, da parte sua, si impegnava a erogare finanziamenti per pro-
getti su base nazionale, sovvenzionando le missioni degli esper-
ti statunitensi ed europei che avrebbero prestato l’assistenza
tecnica necessaria. La predilezione per lo sviluppo rurale avreb-
be presto lasciato il posto ad una riflessione più ampia, di cui lo
stesso Doxiadis sarebbe stato promotore. Con il primo piano
quinquennale del Pakistan, cui l’architetto greco partecipava
come esperto in materia di pianificazione insieme a economisti
del calibro di Edward Mason29 e David Bell30, l’attenzione si sa-
rebbe spostata su temi legati al reinsediamento urbano e allo
sviluppo industriale, questioni fino a quel momento escluse
dall’attività della fondazione31. Erano questi i primi segnali di
un’inversione di rotta che avrebbe contraddistinto gli anni a ve-
nire, un cambio di paradigma su cui Doxiadis – che a questa in-
versione aveva contribuito – avrebbe costruito la base di una
collaborazione controversa ma stabile: la città e il suo habitat
sarebbero presto diventati il terreno privilegiato dove progetta-
re il futuro del mondo, secondo quelle ambiziose strategie di
community development che Doxiadis si apprestava a definire e
mettere in pratica32.
Fra il 1953 e il 1955 Doxiadis avrebbe intessuto una trama
particolarmente densa di relazioni professionali, che include-
va colleghi architetti e pianificatori, dirigenti d’azienda, acca-
demici, ex o futuri capi di gabinetto delle amministrazioni fe-
derali, in massima parte statunitensi e tutti più o meno parte

61
Filippo De Dominicis

di quell’ambiente intellettuale non governativo, sia di destra


che di sinistra, che il discorso sulla fine delle ideologie stava
plasmando. Una simile attività di networking avrebbe consenti-
to a Doxiadis di articolare la pratica professionale su più piani
– spesso paralleli, talora incrociati – e di estendere la propria
azione ben al di là del suo quartier generale ateniese: un insieme
di occasioni che spaziava dagli incarichi professionali in forma
autonoma alle consulenze per conto di centri di ricerca e orga-
nizzazioni transnazionali – queste spesso associate a finanzia-
menti provenienti dalle grandi fondazioni – e che si configurava
come il risultato di una costante attività lobbistica.
Era questo un modo di procedere che ben si inquadrava nelle
logiche multilaterali connesse all’avvio dei processi di moder-
nizzazione. A differenza di altri tecnici architetti coinvolti e sin
dal principio della propria attività, Doxiadis non si presentava
come il semplice esecutore delle politiche di esportazione del
know-how di cui le fondazioni e i centri di ricerca statunitensi
erano i promotori. Il quadro era più complesso, per due ordini
di motivi: primo fra tutti, Doxiadis non offriva solamente ser-
vizi tecnici, ma agiva come vero e proprio coalition builder in
grado di mettere in comunicazione domanda e offerta, che si
trattasse di governi nazionali o organi transnazionali, program-
mi strategici o piani di dettaglio33; in secondo luogo, il pensiero
che Doxiadis avrebbe formulato in quegli anni si articolava in
modo tale da recepire, influenzare e, infine, orientare le stesse
posizioni espresse dai diversi soggetti “politici” in campo: da un
lato le amministrazioni dei nuovi paesi indipendenti, dall’altro
le istituzioni non governative del mondo statunitense, HAG,
Ford e Rockefeller, di cui stava diventando fondamentale inter-
locutore. In altre parole, il discorso sullo sviluppo che Doxiadis
avrebbe posto all’attenzione dei membri del Congress, nel 1955,
non aderiva né si identificava in maniera univoca alla posizione
di questo o quell’attore. Al contrario, sapeva configurarsi come

62
Progetto e sviluppo

strumento flessibile, in grado di accogliere e prefigurare sia le


istanze di modernizzazione promosse dal pensiero statuniten-
se, sia le necessità di crescita manifestate dai singoli governi
nazionali, che avrebbero visto in Doxiadis l’uomo capace di dar
forma alle proprie ambizioni.
A costruire questo profilo polimorfo, capace di adattarsi in
maniera quasi sartoriale alle diverse occasioni o ai diversi inter-
locutori in gioco, avrebbe provveduto lo stesso Doxiadis. Pre-
sentando la propria struttura come una vera e propria organiz-
zazione capace di dialogare su diversi fronti, Doxiadis giocava
la propria partita su più tavoli, senza mai tuttavia rinunciare a
quell’indipendenza critica che gli avrebbe consentito di ante-
porre i propri obiettivi professionali – primo fra tutti lo svilup-
po della città del futuro – a qualunque tipo di strumentalizza-
zione. Lo spazio della riflessione sull’architettura e la pianifica-
zione, quindi, sarebbe diventato quel terreno comune entro cui
far convergere, in modo del tutto nuovo, una disinvolta pratica
professionale, di stampo imprenditoriale-manageriale, e una
rinnovata visione politica, marcatamente post-ideologica.

«Sviluppo a ogni costo»

Con l’incontro del Congress for Cultural Freedom del 1955,


Doxiadis aveva avuto la possibilità di esprimere, per la prima
volta in maniera compiuta dopo il 1945, la propria posizione
su modernizzazione e sviluppo. Su questa base di riflessione,
e sulla scorta delle esperienze di networking professionale che
stava maturando in quegli anni, l’architetto greco avrebbe final-
mente potuto dar forma al proprio pensiero sull’architettura e
la città, espressione del nuovo ordine globale e post-ideologico
che il mondo atlantico ambiva a costruire. Per raggiungere que-
sto obiettivo, Doxiadis avrebbe recepito le istanze provenienti

63
Filippo De Dominicis

dagli scienziati sociali e dagli economisti, formulando una ri-


flessione teorica che, ribadendo alcuni degli elementi cardine
del discorso sulla modernizzazione, già lasciava intravedere le
potenzialità globali di una pianificazione dettata dalla crescita
economica e dal progresso tecnico, due fenomeni in atto non
più negoziabili34.
L’ipotesi delineata da Doxiadis, che emergeva da alcune ar-
gomentazioni comuni a scienziati sociali ed economisti, appro-
fondiva la relazione fra l’assetto politico-economico post-bel-
lico e il suo ordinamento spaziale, individuando nel progresso
tecnico la chiave di uno scenario globale rinnovato, sia nelle
forme sia negli attori che a questo scenario avrebbero dato for-
ma. Doxiadis sarebbe stato il primo a mettere in relazione l’ir-
reversibilità e la necessità del progresso con le manifestazioni
di ordine spaziale che stavano via via affiorando. Se la consape-
volezza dello squilibrio fra paesi occidentali e mondo post-co-
loniale sembrava ormai acquisita, e se lo sviluppo come rimedio
a questo squilibrio una vulgata comune, meno indagate erano le
ragioni per cui un simile contrasto emergeva in maniera sempre
più visibile. Per rispondere a questa domanda, Doxiadis avrebbe
guardato alla nuova condizione geografica che il mondo stava
plasmando: aree geograficamente remote che uscivano dal loro
isolamento entrando in contatto stabile con parti di mondo tec-
nologicamente più avanzate; isole sperdute dell’Oceano Paci-
fico e valli sperdute dell’Asia centrale raggiunte da infrastrut-
ture e linee di comunicazione35. Si trattava di un fenomeno di
progressiva interconnessione sempre più esteso e sempre più
veloce; un fenomeno capace di innescare un corto circuito che
avrebbe interessato, in maniera ugualmente decisiva, sia i pae-
si occidentali che i nuovi stati indipendenti del Terzo mondo:
mentre i primi vi avrebbero individuato il mezzo per accedere
a qualunque tipo di materia prima, i secondi ne avrebbero ap-
prezzato l’utilità acquisendo consapevolezza del progresso e dei

64
Progetto e sviluppo

suoi benefici. Nella prospettiva di Doxiadis, lo sviluppo emer-


geva quindi come fenomeno globale e irreversibile proprio nel
momento in cui le differenze di potenziale fra le diverse aree del
pianeta acquistavano evidenza geografica. In questo senso, lo
sviluppo doveva essere progettato; in altre parole, allo sviluppo
bisognava dare un volto, e l’architetto greco si candidava a es-
sere l’uomo in grado di fornirglielo, a ogni costo e a prescindere
dal pensiero politico che ne avrebbe sostenuto il corso36.
A fronte di un fenomeno considerato irreversibile e ormai in
atto, Doxiadis avrebbe invocato una necessità nuova, spostando
il fuoco del discorso su geografie e forme della modernizzazio-
ne, e interrogandosi su tre questioni fondative: la configurazio-
ne spaziale che il pianeta avrebbe dovuto assumere, gli attori
che di questo sviluppo sarebbero stati artefici, le strategie ope-
rative che dovevano essere avviate, ossia le azioni da intrapren-
dersi affinché il processo di crescita potesse avere luogo alle
scale che gli erano proprie. Sviluppando questi tre argomenti,
Doxiadis si proponeva di conciliare le posizioni più estreme del
pensiero post-ideologico, gettando le basi per una traiettoria
progettuale tanto innovativa quanto controversa. Una traietto-
ria che a Milano, nel 1955, avrebbe trovato la sua prima embrio-
nale formulazione: orizzonte e guida del pensiero progettuale
doveva essere una strategia di cooperazione globale, un piano
di civilizzazione tecnica incardinato sull’educazione e la forma-
zione di una classe di esperti che avrebbe dovuto, nel corso de-
gli anni, regolare lo sviluppo, sopire i nazionalismi, far circolare
il capitale e determinare una evoluzione della coscienza poli-
tica. Tuttavia, si domandava Doxiadis, com’era possibile azio-
nare le leve della crescita, e rendere effettivo questo orizzonte
sovraordinato all’assetto politico e federato sotto l’egida dello
sviluppo tecnico cui il pensiero post-ideologico ambiva? Come
era possibile, in altri termini, mobilizzare i fattori – capitale e
forza lavoro – che dello sviluppo erano il motore? E infine, chi

65
Filippo De Dominicis

ne avrebbe guidato le sorti? Così articolata, la questione apri-


va a uno scenario multilivello che Doxiadis avrebbe affrontato
partendo da una critica alle politiche in corso. Le strategie di
modernizzazione promosse dal mondo occidentale, infatti, ri-
sultavano da fermenti nazionalisti profondamente ideologizza-
ti e, nonostante una discreta riuscita, non erano più giudicate
sufficienti a garantire quell’orizzonte globale vagheggiato dalle
classi progressiste, soprattutto in ragione della loro natura po-
litica e di un ambito di intervento spesso circoscritto alle sole
aree rurali. Al contrario, la nuova logica di intervento auspicata
da Doxiadis guardava da un lato al pieno coinvolgimento del
singolo individuo, il solo capace di garantire la massima liber-
tà di azione e l’entusiasmo necessari; e dall’altro all’estensione
delle strategie di sviluppo al mondo urbano, un terreno rimasto
fino a quel momento escluso dalle politiche di modernizzazione
promosse dal mondo atlantico37. Mentre la graduale riduzione
dell’impegno governativo costituiva uno dei nodi più contro-
versi ma comunque consolidati del pensiero post-ideologico,
l’attenzione nei confronti dell’ambiente urbano rappresentava
un aspetto inedito, oscurato dell’interesse quasi esclusivo riser-
vato allo sviluppo delle campagne. Nella prospettiva di Doxia-
dis, invece, la città doveva diventare il luogo dove poter mobili-
tare la massima quantità di capitale e di forza lavoro qualificata;
il core di una progettualità su vasta scala che, incorporando il
mondo della produzione – compreso quello rurale – avrebbe at-
tirato gli investimenti stranieri e aperto a un mondo libero fatto
di iniziative imprenditoriali dal carattere multilaterale. Questo
scenario apriva a un’ulteriore questione, cruciale, che Doxiadis
avrebbe affrontato con particolare scrupolo: a essere in gioco,
in questa circostanza, era la sua stessa condizione di tecnico
professionista impegnato negli aiuti allo sviluppo. Quali sareb-
bero stati gli attori capaci di rendere questo processo effettivo,
e quali i leader che ne avrebbero guidato l’implementazione?

66
Progetto e sviluppo

Con uno stato sempre meno coinvolto, la regia doveva essere


affidata a quella classe di esperti la cui azione avrebbe progres-
sivamente integrato, se non sostituito, l’iniziativa pubblica; una
élite, questa, che lo stesso Doxiadis si sarebbe impegnato ad
allevare attraverso programmi formativi ambiziosi, in grado di
coprire tutti gli ambiti dell’educazione tecnica, ossia tutti quei
campi del sapere che, a detta dell’architetto greco, avrebbero
potuto tradursi in norme e regolamenti. I futuri global experts,
operando per conto di organi transnazionali, grandi corporates
e organizzazioni per l’aiuto allo sviluppo, avrebbero recepito le
istanze dei governi locali e dei cittadini – essenzialmente pro-
gresso e crescita economica, con conseguente mobilitazione
della forza lavoro – mediandole con le necessità di investimen-
to e di capitale che ogni processo di crescita richiedeva38. Era
loro compito, avrebbe concluso Doxiadis, capire a quale ritmo
doveva procedere la crescita, e in che momento si sarebbe do-
vuto raggiungere quell’orizzonte di equilibrio planetario cui lo
sviluppo ambiva. In questa ipotesi, gli esperti globali avrebbero
avuto tra le mani uno sterminato potere di gestione e di con-
trollo: erano loro i medium che avrebbero deciso quale tecnica
impiegare, loro che avrebbero trasferito le competenze tecniche
da un paese all’altro, pianificando lo sviluppo e dando seguito
agli investimenti promossi dalle istituzioni e dalle imprese del
mondo occidentale.
Come fenomeno di transfer tecnico fra aree geografiche
distinte, la pianificazione dello sviluppo si configurava quindi
come un processo naturalmente globale: con la crescente inter-
connessione infrastrutturale già in atto, il progresso tecnico era
destinato a costituirsi come fenomeno planetario indifferente
ai confini nazionali, di cui chiunque avrebbe potuto apprezzare
i benefici sin dalle sue prime manifestazioni. La scala globale
della pianificazione, intesa da Doxiadis come premessa di ogni
possibile discorso progettuale, coincideva con lo spazio di una

67
Filippo De Dominicis

nuova dimensione teorica che, mentre abbracciava aspetti di


carattere politico e geografico, ambiva a ridefinire gli stessi mar-
gini della disciplina architettonica: l’insediamento umano, in
tutte le sue articolazioni, sarebbe stato la sede più naturale dei
processi di modernizzazione nonché il cuore di uno scenario
planetario sempre più infrastrutturato, in cui i confini e le poli-
tiche nazionali avrebbero gradualmente perso di senso e ruolo.
Orizzonte planetario della progettazione, attenzione all’am-
biente umano e ruolo attivo degli esperti sarebbero diventati i
tre cardini su cui Doxiadis avrebbe impostato il proprio pensie-
ro disciplinare, i paradigmi di un modello di ricerca teorica in
grado di dar forma alla fitta rete di riflessioni e di relazioni di
cui egli era principio attivo. Su queste basi, Doxiadis era pronto
a proporsi quale controverso rimodellatore di un pianeta che il
mondo atlantico aveva deciso di modernizzare a qualunque co-
sto: lo avrebbe fatto a partire dalla città, luogo d’elezione da cui
muovere per rifondare la scienza stessa dell’abitare. Nella con-
dizione di crisi resa evidente dalla Guerra fredda, erano neces-
sarie nuove logiche per occupare il pianeta; serviva progettare la
strada perché il progresso potesse estendersi attraverso il glo-
bo; era infine necessario stabilire i centri di quel nuovo ordine
mondiale che la tecnica avrebbe inevitabilmente predisposto.
Doxiadis sarebbe stato interprete di questi bisogni, elaborando
una strategia di sviluppo urbano che avrebbe avuto inizio pro-
prio dai paesi in via di sviluppo, quei paesi che, in una lettera al
cugino e futuro partner Dimitris Iatridis, Doxiadis considerava
ancora appartenenti ad un’epoca preistorica e che, per forza di
cose, dovevano essere adattati alla moderna società tecnologi-
ca che la storia stava consegnando al mondo39. In quei paesi,
scriveva Doxiadis al cugino nel 1956, si potevano creare ex novo
intere comunità umane, regolamentandone i meccanismi socia-
li e ponendo le basi per un nuovo ambiente fisico, ordinato e
controllato secondo le logiche del progresso40.

68
Progetto e sviluppo

Note

1. Molto probabilmente, Doxiadis fu invitato all’incontro di Milano dal musi-


cista Nicolas Nabokov (1903-1979), incontrato ad Atene nel 1954. Nabokov era
segretario generale nonché uno dei membri più influenti del Congress. Vedi
Theodosis Lefteris, Victory over Chaos? Constantinos Doxiadis and Ekistics 1945-
1975, Tesi di dottorato, Departamant de Composiciò Arquitectònica, Escola
Tècnica Superior d’Arquitectura de Barcelona, Universitat Politècnica de Ca-
talunya, Barcellona, 2015, p. 78.
2. Scott-Smith Giles, The Congress for Cultural Freedom, the End of Ideology and
the 1955 Milan Conference: ‘Defining the Parameters of the Discourse’, in “Journal
of Contemporary History”, vol.37, n.3, 2002, p. 440.
3. Ivi, p. 443.
4. Economic progress in underdeveloped countries and the rivalry of democratic and
communist methods è il titolo originale dell’intervento. La traduzione riporta-
ta è dell’autore. Vedi Doxiadis Konstantinos Apostolos, Economic progress in
underdeveloped countries and the rivalry of democratic and communist methods,
Milano, 1955, in Doxiadis Archives 6872, C.&E. Doxiadis Foundation, Atene.
5. Daniel Bell (1919-2011) è stato un sociologo statunitense, docente a Harvard
e fra i più attivi animatori del dibattito sulla fine delle ideologie, tema su cui
avrebbe discusso la propria tesi di dottorato presso la Columbia University
nel 1960.
6. Vedi Gilman Nils, Mandarins of the Future. Modernization Theory and Cold
War in America, John Hopkins University Press, Baltimora-Londra, 2007, p.
60. Vedi anche Shils Edward, The End of Ideology?, in “Encounter”, vol.5, n.5,
pp. 52-58, citato in Gilman Nils, op. cit., p. 285.
7. Vedi Gilman Nils, op. cit., p. 60. Vedi anche Bell Daniel, The End of Ideology:
on the Exhaustion of Political Ideas in the 1950s, Free Press, New York, 1960, p.
403.
8. Vedi Latham Michael, The Right Kind of Revolution. Modernization, Develop-
ment and U.S. Foreign Policy from the Cold War to the Present, Cornell University
Press, Ithaca-Londra, 2011, pp. 68-75.
9. La citazione è da Latham Michael, op. cit., p. 84. Per le vicende politiche fra
Ghana e Stati Uniti, ivi, pp. 83-89
10. Sul Volta River Project e le sue vicende progettuali, iniziate già in perio-
do coloniale, vedi d’Auria Viviana, De Meulder Bruno, Unsettling Landscapes:
The Volta River Project. New Settlements between Tradition and Transition, in
“OASE”, n. 82, 2010, pp.115-138. Vedi anche: d’Auria Viviana, Da spazio conteso
a paesaggio plurale? Formazione e (ri)costruzione di un territorio: il Volta River
Project in Ghana, in Albrecht Benno (a cura di), Africa Big Change Big Chance,

69
Filippo De Dominicis

Editrice Compositori, Bologna, 2014, pp. 70-75. Tra la fine degli anni ’50 e l’ini-
zio degli anni ’60, Doxiadis sarà coinvolto nel processo progettuale, lavorando
al piano per la nuova città portuale di Tema e alla pianificazione della regione
di Akosombo. Entrambi gli schemi erano legati al piano per lo sfruttamento
dei giacimenti di bauxite attraverso lo sbarramento del fiume Volta, comple-
tato nel 1965.
11. Vedi Gilman Nils, op. cit., pp. 61-62.
12. Sulla permanenza di Doxiadis in Australia, vedi Kyrtsis Alexandros-Andre-
as (a cura di), Constantinos A. Doxiadis: texts, design, drawings, settlements, Ika-
ros, Atene, 2005, pp. 355-357. Nell’ultimo periodo del suo soggiorno in Austra-
lia, dove non gli era stato riconosciuto il titolo di architetto, Doxiadis aprirà
una fattoria a Miles Platting Road, Roachdale, Queensland, scrivendo anche
un piccolo manuale per la coltivazione dei pomodori. Vedi: Doxiadis Archives
28288, C.&E. Doxiadis Foundation, Atene.
13. Kakridis Andreas, Rebuilding the Future: C.A. Doxiadis and the Greek Recon-
struction Effort (1945-1950), in “The Historical Revue/La Revue Historique”,
vol. 10, 2013, pp. 135-160.
14. Jacob L.Crane (1892-1988) è stato un pianificatore americano. Laureato in
ingegneria in Michigan e in urbanistica a Harvard, Crane prestò servizio pres-
so un gran numero di agenzie governative (tra cui Tennessee Valley Authority
e Federal Housing Administration), viaggiando per il mondo ed elaborando
più di 60 progetti fra piani e schemi normativi. La letteratura su Crane è piut-
tosto esigua. Parte del suo archivio personale è custodito presso la Cornell
University Library: Jacob Leslie Crane Papers, Collection number 2646, Di-
vision of Rare and Manuscript Collection, Cornell University Library, Ithaca,
NY.
15. Jaqueline Tyrwhitt (1905-1983) è stata un architetto e accademico sudafri-
cano, nata a Pretoria da genitori inglesi. Tra le più influenti personalità della
disciplina architettonica del dopoguerra, Tyrwhitt è stata segretaria dei CIAM
e coordinatrice del gruppo MARS. Impegnata nelle vicende della ricostruzione
post-bellica inglese, ha iniziato a collaborare stabilmente con le Nazioni Unite
dal 1953. Inoltre, è stata docente all’Università di Toronto e all’Harvard Gra-
duate School of Design. All’attività accademica ha accompagnato un impegno
costante nella pubblicistica e nella divulgazione dell’architettura, lavorando
su testi di Lewis Mumford e Patrick Geddes. Per un quadro completo della sua
poliedrica attività, vedi: Shoshkes Ellen, Jaqueline Tyrwhitt: A Transnational
Life in Urban Planning and Design, Ashgate Publishing, Farnham, 2013; Zanotto
Paola, Jaqueline Tyrwhitt, riscoperta di un attore in una emergente età contempo-
ranea, in Eccheli Maria Grazia, Tamborrino Mina (a cura di), DonnArchitettura.
Pensieri, idee, forme al femminile, Franco Angeli, Milano, 2014, pp. 88-93.

70
Progetto e sviluppo

16. Notevole è la corrispondenza maturata da Doxiadis dopo il suo ritorno


dall’Australia, in Doxiadis Archives 24344 e 24345, C.&E. Doxiadis Foundation,
Atene. Oltre ai nomi citati, Doxiadis aveva contatti estesi sia con i funzionari
dei bureau governativi statunitensi, sia con i rappresentanti delle fondazioni.
Vedi Theodosis Lefteris, op. cit., pp. 61-117.
17. Shoshkes Ellen, op.cit., p. 160. Il titolo dell’intervento di Doxiadis era Types
and densities of housing accommodation, presentato nella seconda sessione del
29 gennaio 1954, coordinata dallo stesso Doxiadis e intitolata Methods of Pre-
paring Housing and Community Improvement Programs. Vedi: Doxiadis Kon-
stantinos Apostolos, Types and densities of housing accommodation, in “United
Nations Regional Seminar on Housing and Community Improvement”, New
Delhi, 1954, in Doxiadis Archives 36030, C.&E. Doxiadis Foundation, Atene.
18. Shoshkes Ellen, op. cit., pp. 183-184. Vedi anche la corrispondenza fra Doxia-
dis e Tyrwhitt: Doxiadis Konstantinos Apostolos, lettera a Jaqueline Tyrwhitt
(C-G 14), 6 settembre 1956; Doxiadis Konstantinos Apostolos, lettera a Jaqueli-
ne Tyrwhitt (C-G 42), 26 novembre 1956; Doxiadis Konstantinos Apostolos, let-
tera a Jaqueline Tyrwhitt (C-G 63), 4 gennaio 1957, in Doxiadis Archives 19248,
C&E Doxiadis Foundation, Atene.
19. Ivi, pp. 184-185.
20. Sui rapporti fra Doxiadis e Crane, una prima analisi è in Theodosis Lefte-
ris, op. cit., pp. 110-116.
21. Su questo aspetto, le posizioni di Doxiadis e Crane erano simili. Entram-
bi, in occasioni diverse, furono tra i primi a evocare la nascita di un organo
interno alle Nazioni Unite specificamente dedicato alle politiche dell’habitat.
Per quanto riguarda la posizione di Doxiadis espressa alla conferenza di San
Francisco del 1945, vedi Doxiadis Konstantinos Apostolos, To architects and all
who are interested in physical planning for the reconstruction of the world in the
United Nations, Atene, 12 ottobre 1945, in Doxiadis Archives 8353, C.&E. Doxia-
dis Foundation, Atene. La posizione di Crane è invece riportata in Theodosis
Lefteris, op. cit., p. 113.
22. Per un inquadramento generale sull’operato di Doxiadis Associates in Me-
dio Oriente, vedi Theodosis Lefteris, op. cit., pp. 98-103; e soprattutto, Pyla
Panayiota, Ekistics, Architecture and Environmental Policies. A Prehistory of Su-
stainable Development, Tesi di dottorato in Architecture: History and Theory of
Architecture, School of Architecture and Planning, Massachusetts Institute of
Technology, Cambridge, 2002, pp. 57-74.
23. Doxiadis aveva effettuato una missione in Siria per conto dell’Internatio-
nal Bank for Reconstruction and Development (IBRD, conosciuta anche come
World Bank) nel febbraio-marzo 1954. Oltre a un diario di viaggio scritto dal-
lo stesso Doxiadis, l’ufficio produsse tre rapporti, il primo su insediamenti e

71
Filippo De Dominicis

servizi sociali, il secondo su turismo, problemi e questioni per lo sviluppo, il


terzo sulla natura degli investimenti economici, tutti scritti nel luglio-agosto
1954. Vedi: Doxiadis Konstantinos Apostolos, Diaries from the Syria Trip (Fe-
bruary-March 1954), in Doxiadis Archives 24356, C.&E. Doxiadis Foundation,
Atene.
24. Vedi Theodosis Lefteris, op. cit., p. 98. Per un approfondimento degli aspet-
ti di pianificazione territoriale curati da Doxiadis in Pakistan vedi Planning
Board. The first five-year plan, in “Tropical Housing and Planning Monthly Bul-
letin”, vol.1, n.10, 1956, pp. 9-15.
25. The Ford Foundation 1954 annual report. To advance human welfare, The Ford
Foundation, New York, 1954, p. 67; The Ford Foundation 1955 annual report. To
advance human welfare, The Ford Foundation, New York, 1955, pp. 98-101. I
rapporti annuali della Ford Foundation costituiscono la testimonianza più af-
fidabile per valutare evoluzione, dimensione e impatti degli investimenti della
fondazione, soprattutto nei paesi del Terzo mondo, cui è dedicata una sezione
speciale denominata Overseas Development Program.
26. Sutton Francis X., The Ford Foundation: the Early Years, in “Daedalus”,
vol.116, n.1, 1987, pp. 41-91.
27. Ivi, pp. 53-76.
28. Ivi, p. 67. Nel 1951, nonostante l’Overseas Development Program non
fosse ancora parte della struttura ufficiale della fondazione, i finanziamen-
ti per «l’allentamento della tensione nelle aree sottosviluppate del pianeta»
ammontavano ai due terzi dei fondi stanziati per l’Area I, quella destinata «al
controllo e alla pianificazione della pace»; vedi note 25 e 26.
29. Edward S. Mason (1899-1992) è stato un economista statunitense, preside
della Scuola di Pubblica Amministrazione all’Università di Harvard dal 1947 al
1958. Consulente per le Nazioni Unite e la World Bank, ha legato il suo nome
all’Harvard Development Advisory Service – dal 1974 Harvard Institute for In-
ternational Development – di cui è stato il fondatore.
30. David Bell (1919-2000) è stato un funzionario e un uomo politico statu-
nitense, membro dell’ufficio di budget sotto la presidenza di Harry Truman e
direttore dello stesso ufficio durante l’amministrazione Kennedy.
31. Vedi Sutton Francis X., The Ford Foundation’s Urban Overseas Programs:
Changes and Continuities, lezione al Rockefeller Archive Center, Sleepy Hollow,
25-26 settembre 2000.
32. Vedi la lettera di Doxiadis indirizzata a Laird Archer, funzionario dell’In-
ternational Bank for Reconstruction and Development, nel 1954. Doxiadis
Konstantinos Apostolos, lettera a Laird Archer, s.d., in Doxiadis Archives 24345,
C.&E. Doxiadis Foundation, Atene.
33. L’espressione «coalition builder» è presa in prestito da Bromley Ray,

72
Progetto e sviluppo

Towards Global Human Settlements: Constantinos Doxiadis as Entrepreneur, Coa-


lition-Builder and Visionary, in Volait Mercedes, Nasr Joe (a cura di), Urbanism:
Imported or Exported?, John Wiley and Sons, Hoboken, 2003, pp. 316-340.
34. Doxiadis Konstantinos Apostolos, Economic progress..., cit.
35. Ivi, p. 2.
36. Ivi, p. 13. Nel manoscritto, Doxiadis fa uso dell’espressione «development
at all costs», riferendosi ai bisogni economici dei neonati paesi del Terzo mon-
do che dovevano esser soddisfatti ad ogni costo.
37. Ivi., p. 8.
38. Ivi., p. 5.
39. Doxiadis avrebbe contattato il cugino sociologo Dimitris Iatridis, che
aveva conseguito un Dottorato di ricerca in scienze sociali negli Stati Uniti e
lavorava al Child Study Center di Philadelphia come vicedirettore, per coin-
volgerlo nelle campagne di raccolta dati dei progetti iracheni. Vedi in parti-
colare Doxiadis Konstantinos Apostolos, lettera a Dimitris Iatridis (C-G 40),
26 novembre 1956; Doxiadis Konstantinos Apostolos, lettera a Dimitris Iatridis
(C-G 53), 19 dicembre 1956, entrambe in Doxiadis Archives 19248, C&E Doxia-
dis Foundation, Atene.
40. Doxiadis Konstantinos Apostolos, lettera a Dimitris Iatridis (C-G 53) …, cit.

73
Filippo De Dominicis

La città del futuro

Sviluppo e insediamento tra scienza e managerialità

A metà degli anni Cinquanta, Konstantinos Doxiadis si pre-


sentava come una personalità del tutto inedita nel panorama ar-
chitettonico mondiale. Interlocutore privilegiato dell’establish-
ment progressista e voce originale nel dibattito culturale che
stava emergendo, l’architetto greco avrebbe incorporato nella
disciplina architettonica quei propositi di sviluppo e progresso
che l’Occidente tentava di estendere alla scala globale. Un ruolo
controverso, reso ancora più problematico dalla straordinaria
autonarrazione che lo stesso Doxiadis si sarebbe meticolosa-
mente costruito nel corso degli anni a venire attraverso le fre-
quenti apparizioni su rotocalchi non specialistici come Life, The
New York Times, The New Yorker e The Observer1: al di là della di-
chiarata equidistanza fra Est e Ovest, che avrebbe esposto come
paradigma costante della propria azione, Doxiadis si presentava
al mondo come un efficiente westerner, privo di colori politici
ma capace di sintetizzare l’organizzazione professionale del
nord con la sensibilità mediterranea; un professionista non alli-
neato e libero dallo stigma imperialista, in grado di intercettare
e comprendere meglio di altri gli standard del sud del pianeta,

74
La città del futuro

attento al destino del mondo come alle specificità locali; un con-


sultant che avrebbe offerto servizi rapidi e a basso costo, anali-
tici e allo stesso tempo operativi2. A differenza di altri profes-
sionisti suoi colleghi, d’altro canto, Doxiadis era sinceramente
convinto del ruolo che l’architettura avrebbe dovuto ritagliarsi,
soprattutto nel quadro dei programmi di ricostruzione e svilup-
po che il mondo atlantico post-bellico stava avviando. Si tratta-
va di un concetto enfatizzato già nel 1945, durante la conferenza
di San Francisco, cui Doxiadis aveva partecipato come membro
della delegazione greca: lo sfruttamento delle risorse e l’impie-
go della forza lavoro, per rivelarsi davvero sostenibili, avrebbero
dovuto essere accompagnate da adeguate politiche di housing e
facilities3. Queste, a loro volta, dovevano necessariamente esten-
dersi alla scala globale – per evitare che i paesi muniti dei mezzi
tecnici necessari potessero prevalere su quelli che degli stessi
mezzi erano sprovvisti –, offrendo all’architetto uno spazio di
manovra sempre più esteso. In altre parole, secondo Doxiadis,
l’architetto avrebbe risposto alle domande di un cliente inedito,
il mondo, presentandosi come l’artefice di un rinnovato assetto
fisico e sociale.
Da lì a pochi anni, Doxiadis sarebbe stato fra i pochi proget-
tisti, probabilmente il solo, sicuramente il primo, in grado di
pensare e agire alla scala planetaria. Per rendere effettiva e ope-
rativa la propria visione di sviluppo, tuttavia, Doxiadis avrebbe
dovuto spingersi ben oltre i limiti convenzionali della disciplina
architettonica, modellando un pensiero capace di abbracciare
tutte le manifestazioni dell’abitare fino a configurarsi come un
vero e proprio sistema tassonomico. Attraverso questa tassono-
mia, contemporaneamente descrittiva e prescrittiva4, Doxiadis
si proponeva non solo di indagare le ragioni profonde dell’in-
sediamento umano sulla Terra, in qualunque luogo e in ogni
stadio, ma di trasformarle in vista di una nuova pianificazione
sociale, auspicata quanto necessaria. Allo stesso tempo, avrebbe

75
Filippo De Dominicis

sostituito il tradizionale approccio al design con un atteggiamen-


to spiccatamente manageriale5: alla ricerca di quel nuovo equi-
librio attraverso cui sanare le disuguaglianze che affliggevano il
pianeta, il modello gestionale calibrato da Doxiadis si sarebbe
rivelato un formidabile strumento di controllo, soprattutto in
relazione ai dettami disciplinari impartiti ai global experts che
lavoravano nel suo ufficio o agivano per suo conto in giro per il
mondo. Era, quello di Doxiadis, un modello fatto di impressio-
nanti quantità di dati e di complessi sistemi interpretativi – ma-
trici, griglie e diagrammi –, nel tentativo estremo di coniugare
gli imperativi dello sviluppo con un ripensamento profondo del
fare architettura6, che avrebbe interessato in egual misura la te-
oria, la professione e la formazione.
Per Doxiadis, la pianificazione nasceva come uno strumento
scientifico di modellazione sociale, il mezzo attraverso cui dar
forma e conformarsi al destino inevitabile – la crescita – che la
storia stava riservando al genere umano. L’adesione al paradig-
ma post-ideologico rendeva praticamente irrilevante l’analisi
delle specifiche condizioni storico-culturali, secondo quella lo-
gica di superamento delle società e dei modelli comportamen-
tali tradizionali che già circolava negli ambienti progressisti
del mondo atlantico7. Il principio teorico di un simile atteggia-
mento, già evidenziato a San Francisco prima e a Milano poi,
risiedeva nel considerare l’orizzonte del progresso un traguardo
non più negoziabile, e lo sviluppo un processo lineare – o incre-
mentale – che avrebbe interessato, in misure e momenti diversi,
tutte le aree del pianeta; un processo che già aveva portato un
numero impressionante di gruppi socialmente esclusi a stabilir-
si in agglomerati urbani sempre più densi e sempre più estesi.
Di fronte a un fenomeno di portata simile e rispetto allo sce-
nario di intercomunicabilità globale che il secondo dopoguerra
aveva configurato8, non esistevano quindi specificità culturali
che avrebbero potuto orientare il processo di sviluppo su una

76
La città del futuro

Doxiadis Associates, Pattern ekistico per la regione di Mussayib, Iraq, in “Ekistics”,


vol. 6, n. 36 (ottobre 1958), p. 158, per gentile concessione dell’Athens Center of
Ekistics

77
Filippo De Dominicis

strada diversa da quella che il progresso dettato dal mondo pro-


gressista stava tracciando, ma solo diversi stadi di un cammino
comune già scritto, rivolto all’industrializzazione e alla cresci-
ta9. Era questo un presupposto essenziale di ordine quantitati-
vo che Doxiadis avrebbe ribadito in ogni occasione: lo sviluppo
doveva essere perseguito a ogni costo affinché le diverse aree
del mondo, ciascuna in una fase diversa di questo cammino, po-
tessero finalmente allinearsi ed equilibrarsi in una prospettiva
di modernità, prosperità e pace globale. Il discorso progettuale
che ne sarebbe derivato guardava alla scienza quale paradigma
di ordinamento sociale che avrebbe riorganizzato un mondo i
cui punti si stavano sempre più avvicinando: proprio attraver-
so Ekistics10, la nuova scienza degli insediamenti umani che egli
stesso elaborava in quegli anni, Doxiadis si apprestava a mo-
dellare quello strumento flessibile e universalmente applicabile
con cui da un lato legittimare il ruolo centrale dell’insediamento
umano nei processi di modernizzazione, e dall’altro estendere
il processo e il controllo progettuale a tutte le scale, le fasi e gli
ambiti dell’abitare. Se la densità di popolazione aumentava dra-
sticamente e a una velocità sempre maggiore, e se la superficie
terrestre disponibile risultava sempre più ridotta, abitare diven-
tava uno degli aspetti chiave nel discorso sullo sviluppo globale.
L’ekistica era la risposta agli squilibri in atto e alle trasformazio-
ni in corso: una misura necessaria che identificasse gli scarti tra
le diverse fasi che ogni area del pianeta stava attraversando; uno
sguardo unificante che, riflettendo la prospettiva comparativa
impostata dal pensiero post-ideologico, potesse comprendere
l’articolazione di tutti i tipi di insediamento umano, descriverne
l’anatomia e dettare le azioni per la loro configurazione futu-
ra11. In altre parole, attraverso la scienza ekistica si proiettavano
le specificità storico-culturali contro un quadro tassonomico e
normativo che avrebbe assorbito le diversità e avrebbe indivi-
duato, allo stesso tempo, quegli elementi necessari a ricondurre

78
La città del futuro

ogni operazione progettuale entro il sentiero della produzione


e della crescita12.
Questo significava che a una fase di analisi articolata e appro-
fondita avrebbe corrisposto una strategia di sviluppo attuabile
su scala transnazionale e altamente ripetitiva. Benché Doxiadis
invocasse soluzioni diverse per ciascuna situazione, ogni azione
progettuale doveva tendere al medesimo obiettivo, seppur con
intensità diverse a seconda di quanto arretrato o avanzato fos-
se lo stadio di sviluppo dell’area interessata dall’intervento. Le
singole specificità erano quindi tenute in considerazione come
generico quadro di insieme dove far coesistere, sul medesimo
piano, insediamento e crescita, in modo che i due termini aves-
sero potuto identificarsi fra loro quanto più possibile. Ne sareb-
be risultato un modello standardizzato in funzione di parame-
tri fissi quali il tasso di crescita della popolazione, il costo dei
suoli, il salario degli abitanti, le distanze percorribili a piedi o
in automobile, il volume degli scambi; e organizzato sui diversi
livelli di aggregazione che l’insediamento umano, in tutte le sue
forme e le sue scale, poteva esprimere. Il paradigma scientifico
invocato da Doxiadis comportava la valutazione preliminare di
tutti gli aspetti economici e sociali necessari a rendere il piano
un reale strumento di sviluppo: prima di ideare la casa in sé,
quindi, era necessario capire se fosse più conveniente costruire
un’abitazione intera per una sola famiglia o predisporne dieci
porzioni per dieci famiglie; prima di decidere quale tecnica co-
struttiva impiegare, bisognava interrogarsi su quale industria si
sarebbe potuta sviluppare, o su quale settore ne avrebbe potu-
to beneficiare; prima di stabilire la dimensione delle parcelle,
era indispensabile interrogarsi sulle modalità di acquisizione
dei terreni e sul potere d’acquisto dei proprietari; prima di lo-
calizzare un nuovo insediamento, si sarebbero dovuti deter-
minare i flussi commerciali per garantirne la sopravvivenza e
la crescita13. Simili valutazioni di carattere relazionale, mirate

79
Filippo De Dominicis

a innescare gli elementi dinamici delle trasformazioni future,


erano sovraordinate a ogni considerazione di carattere stori-
co-culturale: le impressioni e le annotazioni trascritte nei diari
di viaggio che precedevano il progetto, pur enfatizzando valori,
caratteri e permanenze dei singoli luoghi, sarebbero state spes-
so derubricate quali evidenze dello stato di crisi profonda in cui
versavano l’habitat e la produzione, specialmente nei paesi del
Terzo mondo14. La necessità dello sviluppo, infatti, andava di
pari passo con la certificazione di una crisi che riguardava l’ha-
bitat, la sua pianificazione e il ruolo dell’architetto, una figura
che doveva confrontarsi non più con «templi per gli dei, palazzi
per i re o castelli per i signori feudali»15 ma con abitazioni e città
per centinaia di migliaia di persone. Fra il 1955 e il 1959, Doxiadis
avrebbe maturato consapevolezza di uno scenario ormai radi-
calmente mutato, sia negli aspetti qualitativi che in quelli quan-
titativi: l’incremento della popolazione, il progresso tecnico e il
contatto con territori fino a quel momento estranei «ai ristretti
limiti del mondo occidentale»16 annunciavano nuove dimen-
sioni e nuove scale, ed esigevano la sperimentazione di nuovi
sistemi di previsione e controllo. Chiamato a intercettare nuo-
ve domande, il professionista architetto avrebbe dovuto riorga-
nizzare la propria attività sulla base di un approccio scientifico,
affinché la disciplina del progetto rivestisse un ruolo sempre più
determinante nello sviluppo del mondo. Il progetto di architet-
tura avrebbe dovuto riguardare tutti e, per questa ragione, allar-
gava il proprio raggio d’azione, entrando in gioco sin dalle fasi
embrionali della pianificazione e intersecando, in molti punti, lo
spazio di manovra di altre discipline, prime fra tutte le scienze
sociali. A fronte della problematizzazione di carattere scienti-
fico avviata da Doxiadis, il ruolo del progetto e del progettista
erano pronti a una mutazione radicale, quasi genetica: se il pro-
getto, ampliato nella scala e negli ambiti, assumeva sempre più
le sembianze del programma e del modello – sistemi risultanti

80
La città del futuro

dall’applicazione di alcuni parametri fissi, in un dato momento e


in un certo spazio –, il progettista diventava il manager incarica-
to di sovrintendere il processo di gestione e manipolazione dei
dati, lasciando a tecnici dalle competenze via via più specialisti-
che il compito di attuarne le fasi. A porsi in maniera eclatante,
dunque, era la questione dell’accesso alle informazioni per ge-
stire e implementare i piani, ai vari livelli: la volontà di controllo
espressa da questo nuovo avvicinamento scientifico richiede-
va la raccolta e la condivisione di una mole impressionante di
dati, nonché la loro archiviazione in un database condiviso. A
chi sarebbe stato riservato questo accesso, e con quali modali-
tà? Pur assumendo la presunta neutralità politica del pensiero
di Doxiadis, simili input erano ancora espressione di un modo
westerner di procedere. In che misura potevano essere trasferi-
ti dai global experts occidentali ai leader locali, che ambivano a
costruire un efficiente sistema moderno ma soffrivano di una
mancanza strutturale di figure capaci di realizzarlo? Quali nuo-
ve gerarchie e stratificazioni avrebbero imposto?

Tentativi di modellizzazione

La consulenza per l’Iraqi Development Board sarebbe stato


il primo incarico importante ottenuto da Konstantinos Doxia-
dis in un paese in via di sviluppo, immediatamente dopo le con-
sulenze prestate in Pakistan e Siria per conto dell’Harvard Advi-
sory Group e della World Bank17. L’Iraq era una pedina fonda-
mentale della battaglia anticomunista in Medio Oriente: dall’i-
nizio degli anni Cinquanta, infatti, il governo iracheno aveva
ricevuto l’appoggio incondizionato del mondo occidentale. L’o-
biettivo era non ripetere quanto accaduto in Egitto, che con l’a-
scesa al potere di Nasser aveva assunto posizioni marcatamente
filosovietiche. Per i propositi di modernizzazione espressi dal

81
Filippo De Dominicis

Doxiadis Associates, Masterplan per Khartoum, 1959, in “DA Bulletin”, n. 4, agosto


1959, Doxiadis Archives 35409, © Constantinos & Emma Doxiadis Foundation, Atene.

82
La città del futuro

83
Filippo De Dominicis

Doxiadis Associates, Studi per i piani di Nejef e Kufa, in “Ekistics”, vol. 7, n. 39


(gennaio 1959), p. 93, per gentile concessione dell’Athens Center of Ekistics.

84
La città del futuro

board per lo sviluppo nazionale, Doxiadis era la persona giusta


al momento giusto: nello scacchiere politico, la sua posizione
era chiara e ben consolidata; mentre altrettanto nota era la sua
reputazione di progettista equidistante, in grado di combinare
vocazione transnazionale e sensibilità verso le specificità locali.
Pur vicino all’agenda delle istituzioni internazionali, Doxiadis si
mostrava infatti particolarmente attento nel considerare propri
clienti “le persone comuni”, al di là del loro colore politico18:
una narrazione, questa, particolarmente invitante per l’Iraqi
Development Board, che apprezzava l’idea di costruire le pro-
prie ambizioni di modernizzazione su un dettato neutrale e
apolitico, per celare, allo stesso tempo, sia le inquietudini anti-
comuniste che le eventuali prospettive di alleanza atlantica. Fra
il 1955 e il 1958 – anno in cui il governo hashemita sarebbe stato
rovesciato da un colpo di stato militare – Doxiadis avrebbe ela-
borato piani per quattro centri urbani a nord e a sud di Baghdad
– Amara, Nejef, Kufa, Kirkuk –, un vasto schema regionale per la
regione di Mussayb e un progetto di espansione della stessa ca-
pitale nazionale, Baghdad19. A prescindere dalle singolarità di
ciascun caso, tutti gli studi si sviluppavano secondo una linea
comune: all’analisi dei dati disponibili, infatti, seguiva la formu-
lazione del problema e la risoluzione progettuale, quest’ultima
sempre accompagnata da schemi che ne evidenziavano i princi-
pi e gli elementi chiave. Un iter analitico più o meno compara-
bile che riconduceva ogni singola condizione territoriale entro
il medesimo obiettivo, quello di un habitat che favorisse la cre-
azione e lo sviluppo di nuove comunità umane: che si trattasse
di centri isolati come Amara, o gemelli come Nejef o Kufa, le
riflessioni prodotte erano costantemente rivolte all’individua-
zione dei fattori di crescita. Le analisi sullo sviluppo urbano,
sulla distribuzione dei redditi, sulla densità e sulla dimensione
dei lotti, qualunque risultato o problema evidenziassero, erano
strumentali alla predisposizione di un assetto territoriale

85
Filippo De Dominicis

sistemico che doveva abbracciare l’intero spettro delle condi-


zioni insediative e che avrebbe combinato, in una indissolubile
gerarchia di scale, le forme e le funzioni dell’abitare. I primi pia-
ni per Nejef e Kufa e, in misura minore, quelli per Amara e Kir-
kuk, sarebbero stati il banco di prova per sperimentazioni suc-
cessive ben più complesse. In Iraq Doxiadis avrebbe posto le
basi di un assetto territoriale costruito sull’aggregazione di uni-
tà comunitarie e funzionali sempre più ampie, imponendo una
configurazione standardizzata su una griglia ortogonale di in-
frastrutture e settori abitativo-produttivi che, se da un lato in-
cardinava la città futura a criteri costanti, legati alla crescita in-
crementale del nucleo urbano e al suo inserimento in un quadro
scalare più ampio, dall’altro era in grado di confrontarsi con si-
tuazioni fra loro molto diverse. Era questa la manifestazione di
un nuovo ordine, che rifletteva logiche di produzione industria-
le spesso indifferenti al luogo per cui il singolo piano era pensa-
to, e rispondeva alla crisi della pianificazione sovrapponendosi
in maniera indifferenziata ai nuclei esistenti, spesso giudicati
troppo caotici e incapaci di reagire con gli imperativi dello svi-
luppo. Questo non significava che di ogni centro preso in esame
fosse trascurato o ignorato il carattere: al contrario, i caratteri
dei singoli insediamenti erano sottoposti a valutazione rigoro-
sa, vagliati e problematizzati, per capire se e quanto fossero
davvero compatibili con il paradigma della crescita, ossia con il
vero obiettivo sovraordinato a ogni tipo di operazione proget-
tuale. A Nejef e Kufa la vocazione religiosa dei due insediamenti
gemelli sarebbe stato il pretesto per invertire la naturale ten-
denza al congestionamento e innescare un processo di sviluppo
inquadrato in un ordine superiore, indirizzando la crescita ver-
so una terza direzione, giudicata preferenziale20. A Khartoum,
per cui Doxiadis Associates avrebbe elaborato un piano di mas-
sima nel 1958, la strategia di espansione sarebbe stata determi-
nata partendo dalla confluenza dei due rami del Nilo, e la

86
La città del futuro

storica tripartizione della città un carattere da ripensare quanto


prima per garantire al meglio la riorganizzazione e lo sviluppo
del territorio21. Nel piano per Islamabad, nuova capitale del Pa-
kistan, il medesimo ruolo guida lo avrebbero giocato la topogra-
fia, la presenza della città storica di Rawalpindi e le infrastruttu-
re esistenti22. Al di là dei singoli elementi relativi a ciascun caso,
quanto emergeva dalle prime sperimentazioni era il tentativo di
stabilire un modello di crescita fisica cui avrebbe corrisposto
una rimodellazione profonda dell’ordine sociale: un modello
fondato su gradi crescenti di complessità funzionale equivalenti
ad altrettanti livelli di aggregazione comunitaria. Già nel piano
per Nejef e Kufa, il tassello base di questa struttura incrementa-
le sarebbe stato individuato nella dimensione intermedia del
settore residenziale. Qui, in un rettangolo di circa 900 per 600
metri, avrebbero trovato spazio circa 500 case, con all’interno
servizi di prima necessità come parchi, servizi pubblici di pros-
simità, scuole primarie e secondarie. Due o tre di questi settori
avrebbero costituito un’unità di ordine superiore, che avrebbe
incluso servizi di maggiore importanza23. La logica incrementale
e comunitaria incorporata nei primi piani iracheni, che avrebbe
trovato consacrazione definitiva nel masterplan per Baghdad,
sarebbe diventata la cifra progettuale di tutte le esperienze suc-
cessive, da Khartoum a Islamabad, nonché il germe della prima
modellizzazione teorica elaborata da Doxiadis all’inizio degli
anni Sessanta. Una simile concatenazione di forma e funzione
su base trans-scalare nasceva dalla necessità di rispondere allo
scenario multilivello che lo sviluppo stava aprendo, soprattutto
nei paesi del Terzo mondo: se ridefinire il quadro sociale signi-
ficava guidare le nuove popolazioni indipendenti verso compor-
tamenti western-oriented, finalizzati alla modernizzazione attra-
verso produzione e al consumo, progettare lo sviluppo voleva
dire non soltanto costruire le condizioni socio-economiche af-
finché questo si verificasse, ma soprattutto identificare le

87
Filippo De Dominicis

Doxiadis Associates, Masterplan per Khartoum, strategia e obiettivi, 1959, in “DA


Bulletin”, n. 4, agosto 1959, Doxiadis Archives 35409, © Constantinos & Emma
Doxiadis Foundation, Atene.

88
La città del futuro

89
Filippo De Dominicis

coordinate spazio-temporali future entro cui la crescita doveva


realizzarsi. In altri termini, l’organizzazione gerarchica e incre-
mentale stabilita da Doxiadis costituiva un tentativo estremo di
controllare gli spazi e stadi dello sviluppo, in una prospettiva di
lungo periodo che potesse condurre a quell’equilibrio planeta-
rio vagheggiato dai teorici post-ideologici. La vera sfida consi-
steva «nel costruire oggi progettando il domani»24, un domani il
cui orizzonte, seppur estremamente distante, doveva apparire il
più possibile chiaro, regolamentato e libero da interferenze. La
regola del progetto, quindi, sarebbe stata dettata innanzitutto
dal tempo, e non più soltanto dallo spazio25. Per questa ragione,
i piani elaborati da Doxiadis erano tecnicamente non-finiti, pur
essendo meticolosamente determinati in tutti i loro aspetti,
nella misura in cui non ambivano tanto a modellare una forma
definita quanto piuttosto a specificare le regole e le modalità di
crescita verso un orizzonte futuro equilibrato e stabile. Il grado
di non finitezza riguardava la totalità delle scale di progetto, dal
nucleo domestico al layout territoriale: un aspetto, questo, che
garantiva all’insediamento umano un ruolo centrale nel proces-
so di sviluppo, di cui sarebbe stato allo stesso modo risultato e
motore ulteriore. L’obiettivo era, infatti, innescare un meccani-
smo progettuale capace di autoriprodursi nel corso del tempo
secondo una direzione ben definita: mentre l’incremento eco-
nomico avrebbe fatto il suo corso, il sistema insediativo elabo-
rato da Doxiadis sarebbe cresciuto conseguentemente. Non
solo: ordinata sui modi di produzione e consumo occidentali, la
crescita urbana diventava la condizione essenziale per accoglie-
re nuova forza lavoro e attirare capitali, aprendo a nuove e ulte-
riori possibilità di sviluppo.

90
La città del futuro

Dynapolis

Gli schemi per le città dell’Iraq, culminati con il masterplan


per il settore occidentale di Baghdad, avrebbero rappresentato
la premessa per un discorso più ampio e al tempo stesso ap-
profondito. Le riflessioni progettuali, proseguite con i piani per
Khartoum e Islamabad, avrebbero raggiunto livelli di perfezio-
namento tali da assumere carattere modellistico. Con il training
progettuale che si faceva sempre più intenso, la città che Doxia-
dis aveva iniziato a immaginare dal 1955 assumeva contorni via
via più definiti, sia da un punto di vista dei suoi caratteri – for-
mali e funzionali –, sia rispetto alla congruenza teorica con le
premesse di carattere politico stabilite fin dalla conferenza di
Milano. Per rappresentare al meglio questo nuovo orizzonte in-
sediativo, Doxiadis avrebbe coniato un neologismo piuttosto si-
gnificativo, Dynapolis, presentato per la prima volta ad un con-
gresso a Varsavia alla fine del 195926 e formulato in maniera più
compiuta qualche mese dopo, nel marzo del 1960, in occasione
di una lezione tenuta presso il forum degli architetti di Oslo27.
Con l’ideazione di Dynapolis, le sperimentazioni progettuali
prodotte fra il 1955 e il 1959 si traducevano nella forma diagram-
matica di un modello dinamico, ripetibile e gerarchizzato. In al-
tri termini, Dynapolis riassumeva tutti i paradigmi elaborati per
coniugare sviluppo e insediamento umano, e rendere la crescita
un orizzonte concreto ed effettivo. Ma in cosa consisteva, nei
fatti, Dynapolis? Dynapolis era anzitutto un modello di città.
Non solo: Dynapolis era il modello per la città del futuro – città
del futuro era proprio il sottotitolo presente in entrambi i do-
cumenti che avrebbero accompagnato gli interventi di Doxiadis
–, un modello dinamico che incorporava le regole della cresci-
ta nella propria struttura profonda. Doxiadis avrebbe rivolto la
propria attenzione alla città poiché era lì che si sarebbe gioca-
ta la partita dello sviluppo, e lì che l’incremento demografico

91
Filippo De Dominicis

Doxiadis Associates, La
struttura di una comunità
di classe IV, in DOX-OA
13, 30 novembre 1959,
p.145, Doxiadis Archives
35881, © Constantinos
& Emma Doxiadis
Foundation, Atene.

92
La città del futuro

avrebbe esercitato la sua massima pressione: con un tasso di


crescita della popolazione tre volte superiore a quello medio
nazionale28, l’ambiente urbano diventava non solo la sede, ma
il punto di partenza più naturale per ogni discorso su sviluppo
e insediamento; un argomento, questo, che se da un lato legit-
timava le posizioni già espresse a Milano – uno sviluppo che si
sarebbe fatto strada attraverso i confini nazionali –, dall’altro
rendeva secondario ogni tipo di impegno settoriale limitato al
solo mondo rurale. A fronte di una tale problematizzazione –
rappresentare la crescita, individuarne la sede e costruire un
modello insediativo che ne incorporasse le dinamiche –, l’ap-
proccio teorico di Doxiadis si proponeva un obiettivo ulterio-
re: Dynapolis doveva essere configurata per confrontarsi con
la scala transnazionale e incrementale della crescita, assecon-
dandone la traiettoria e, al tempo stesso, alimentandone la por-
tata. Questa ambizione significava essenzialmente due cose: in
primo luogo, il modello Dynapolis sarebbe stato plasmato sulle
condizioni e sulle necessità del nuovo mondo indipendente, un
mondo che a detta di Kwame Nkrumah – una figura in quell’e-
poca particolarmente influente – avrebbe dovuto attraversare
gli stadi della crescita con una accelerazione dieci volte supe-
riore rispetto a quella del mondo occidentale29. In ragione di
una necessità simile, quindi, Dynapolis avrebbe risposto a una
logica formale progressiva, in grado di fronteggiare tassi di in-
cremento demografico mai visti prima, e di svilupparsi secondo
una traiettoria di tipo parabolico, più o meno corrispondente
alle previsioni di sviluppo fornite dagli economisti classici30.
In sostanza, Dynapolis doveva governare lo spazio della città
ma soprattutto regolarne il tempo, guidando i comportamenti
dei cittadini verso lo sviluppo. Immersi in un ambiente urbano
plasmato sulle regole del progresso, i nuovi abitanti avrebbero
assorbito i dettami della modernizzazione, dell’industrializza-
zione, della costruzione in serie razionalizzata sui paradigmi

93
Filippo De Dominicis

Doxiadis Associates,
Planimetria di una
comunità di classe IV a
Khartoum; fase finale, in
DOX-OA 13, 30 novembre
1959, p.167, Doxiadis
Archives 35881, ©
Constantinos & Emma
Doxiadis Foundation,
Atene.

94
La città del futuro

95
Filippo De Dominicis

Konstantinos Apostolos Doxiadis, La gerarchia delle comunità insediate, 1960, in


R-GA 185, 15 febbraio 1960, p. 51, Doxiadis Archives 2529, © Constantinos & Emma
Doxiadis Foundation, Atene

96
La città del futuro

occidentali; e, una volta stabilitisi in città, fornito quella forza


lavoro e quella base per attrarre i capitali strumentali allo svi-
luppo. In questo modo si sarebbe superata la logica di accer-
chiamento e di esclusione dettata dall’inurbamento caotico e
dalla crescita dei centri satellite, rendendo finalmente possibile
l’accesso alla città sia in termini economici che materiali31. Era
necessario, dunque, immaginare un sistema che ripensasse l’in-
tera struttura comunitaria attraverso forme e funzioni altamen-
te gerarchizzate, e che consentisse di mettersi alle spalle quella
condizione di crisi generata da una sostanziale disfunzionalità
della disciplina del progetto. Questa gerarchia, che costituiva
la radice profonda della struttura urbana, si sarebbe attestata
su un elemento base di scala intermedia, un settore definito da
Doxiadis «comunità di classe IV». Nella comunità di classe IV
erano ospitate dalle sei alle dieci mila persone, riunite intorno
a un certo numero di servizi fra cui una scuola secondaria, un
centro commerciale, uno o più edifici religiosi, tutti raggiungi-
bili a piedi. Ognuno di questi settori-tipo risultava dell’aggrega-
zione di più comunità di livello inferiore – le comunità di clas-
se III, sub-settori di circa duemila abitanti ciascuno, dotati di
scuole elementari e playgrounds. Allo stesso modo, ogni aggre-
gato di classe III nasceva dall’unione di comunità più piccole,
quartieri di classe II; e ogni aggregato di classe II dall’iterazione
di raggruppamenti ancor più minuti, corrispondenti a cluster
domestici da un centinaio di persone l’uno. La singola casa era
una sorta di comunità zero. Naturalmente, la scala gerarchica
andava oltre la comunità di classe IV: più comunità di livello IV
avrebbero dato vita a una comunità di livello V, e così via fino
alla comunità di classe VII. Quest’ultima, che poteva ospitare
fino a sette milioni di persone, corrispondeva alla Dynapolis
vera e propria, lo stadio di aggregazione finale con tutte le fun-
zioni e le forme proprie della città32. Attraverso questa gerarchia
di scale, Doxiadis avrebbe determinato una sorta di anatomia

97
Filippo De Dominicis

dell’insediamento, corrispondente a un principio incrementale


di comunità via via più grandi e funzionalmente complesse. La
stessa logica incrementale che governava questa struttura pro-
fonda sarebbe poi stata trasferita sul piano dell’indirizzo forma-
le: una configurazione legata alla crescita progressiva del nucleo
urbano lungo un asse privilegiato, a partire da un fuoco, con set-
tori urbani via via più grandi e densità variabili. Questo livello
– macroscopico – determinava non solo gli aspetti specifici del
singolo centro – l’orditura infrastrutturale, la localizzazione dei
distretti amministrativi, commerciali, industriali e agricoli di
grado superiore, la distribuzione della popolazione in funzione
del reddito, la dimensione delle singole parcelle insediative e la
densità –, ma soprattutto le possibilità e le direzioni di svilup-
po verso insediamenti di ordine superiore, di VIII, IX, X classe.
Il risultato effettivo si traduceva in uno schema organizzato su
una griglia ortogonale di infrastrutture e settori che si sovrap-
ponevano all’ordine geografico, spesso riscrivendone le forme33.
Entro questo schema doveva modularsi quella struttura multi-
scalare di aggregazione comunitaria strumentale alla configu-
razione dell’insediamento, il cui assetto definitivo, per effetto
di continue trasformazioni, avrebbe coinciso con il consegui-
mento di un presunto equilibrio ultimo, finalmente stabile. In
termini teorici, Dynapolis si presentava come un programma
di regole che, impostato su base gerarchica, avrebbe innescato
meccanismi di autoriproduzione ed estensione potenzialmente
infiniti.
Per determinare la modalità operative della crescita, gli as-
sunti teorici di carattere generale erano seguiti da parametri di
ordine scientifico, essenzialmente legati alla fattibilità econo-
mica di ciascun piano. Nel programma impostato da Doxiadis, lo
studio meticoloso dei costi delle parcelle e delle opere connesse
alla loro edificazione diventava un passaggio cruciale proprio
per stabilire le basi della corrispondenza fra habitat e sviluppo34.

98
La città del futuro

Questo perché ciascun nucleo avrebbe dovuto generare, in sé, le


condizioni della propria crescita, ricorrendo il meno possibile a
sovvenzioni esterne di carattere governativo: sarebbe stata pre-
rogativa degli stessi abitanti investire nella propria casa – con-
formemente al reddito e attraverso sistemi mutuali di self-help –,
nella certezza che la città e il fatto di risiedervi avrebbero for-
nito, di per sé, la base economica per la piena realizzazione del
nucleo domestico, e che lo sviluppo dei nuclei edilizi avrebbe
determinato un incremento del valore delle singole proprietà,
arricchendo la base fondiaria35. A partire da questo assunto, gran
parte dello sforzo progettuale era dunque rivolto a determina-
re la “configurazione ottimale” di ciascun elemento affinché il
meccanismo di crescita potesse svilupparsi senza alcun attri-
to o retroazione. Nelle modellizzazioni elaborate da Doxiadis,
questioni apparentemente interne alla disciplina architettonica
quali la forma della parcella, la dimensione della casa, il nume-
ro di lotti all’interno di un settore, sarebbero state vincolate a
requisiti ed effetti di carattere economico e sociale, diventando
oggetto di valutazioni particolarmente approfondite nella misu-
ra in cui avrebbero potuto determinare l’intera traiettoria dello
sviluppo urbano: variazioni minime nel rapporto fra profondità
e larghezza del lotto, amplificate dal meccanismo trans-scala-
re, risultavano infatti decisive per stabilire l’estensione futura
della città, i tempi di percorrenza per gli spostamenti pedonali
e carrabili, le sezioni stradali, il volume di traffico, il dimensio-
namento dei servizi commerciali e produttivi, e così via36. La ne-
cessità di una configurazione di base ottimale, corrispondente
all’avvio del programma, e la possibilità che una tale previsione
iniziale potesse avverarsi e riprodursi a scale sempre maggiori
conservando intatte le medesime proprietà iniziali, certifica-
vano una fiducia sconfinata sia nelle facoltà autoregolative del
libero mercato e del progresso, sia nelle capacità del designer di
poterne controllare il corso attraverso l’inclusione della crescita

99
Filippo De Dominicis

e del progresso all’interno di una rinnovata cornice progettuale.


Mentre il primo aspetto appariva un dato inequivocabile, il se-
condo rappresentava il vero terreno della sfida che Doxiadis era
pronto a intraprendere.

Crescita e controllo

Sperimentata nei piani per Baghdad, Khartoum e Islamabad,


e resa paradigmatica da un grande sforzo di modellizzazione
teorica, Dynapolis avrebbe aperto uno scenario inedito nel di-
scorso sulla città moderna. All’alba del 1960, Dynapolis emer-
geva quale traduzione spaziale degli argomenti esposti cinque
anni prima a Milano, come scenario predeterminato entro cui
«l’azione individuale avrebbe potuto svilupparsi liberamen-
te e naturalmente»37, e come struttura insediativa capace non
soltanto di crescere indipendentemente dai confini nazionali,
ma di concentrare in sé tutti le sfide e le contraddizioni poste
della pianificazione dello sviluppo, al di là delle visioni parziali
imposte dall’interesse per le aree rurali o dalla progettazione
su scala nazionale. Questo significava che la forma, la scala e
i limiti della città non erano più all’ordine del giorno38: Dyna-
polis era infatti materia a sviluppo costante e potenzialmente
infinito, secondo un tracciato di crescita prestabilito ma inarre-
stabile che ricalcava le proiezioni di sviluppo elaborate dai teo-
rici del liberismo economico. Di fronte alla «marea crescente”39
del progresso e della crescita, la risposta fornita da Doxiadis era
una e una soltanto: un organismo che, esprimendo in termini
di spazio le logiche e i valori del capitalismo classico, fosse in
grado di riprodurre sé stesso, senza sosta e in scala sempre mag-
giore, secondo un meccanismo iterativo variabile per intensità,
in funzione del gap che ciascun paese in via di sviluppo avrebbe
dovuto colmare. In questo modo, Doxiadis avrebbe superato sia

100
La città del futuro

la prassi dell’espansione per aree delimitate e funzionalmente


omogenee, sia la logica della forma urbana finita e conclusa, ca-
ratterizzata da porzioni morfologicamente riconoscibili. In que-
sto caso, l’omogeneità non avrebbe più dovuto risiedere nella
caratterizzazione funzionale o nell’articolazione tipologica, ma
nelle logiche di aggregazione – o segregazione – economica e so-
ciale indotte da una progettazione a così ampio spettro, mentre
lo sviluppo diventava la matrice di un quadro culturale futuro
cui adattarsi a ogni costo. Contro un simile scenario, la pianifi-
cazione urbana iniziava a configurarsi come un sottile esercizio
di soft power. Sperimentando e teorizzando la città del futuro,
infatti, Doxiadis non prestava più un semplice servizio tecnico.
Vi era qualcosa di più, e di diverso: con la formulazione di Dy-
napolis, lo studio ateniese ambiva a rimodulare e controllare il
codice genetico della crescita urbana, mettendolo nelle mani di
quei pochi che erano in possesso delle conoscenze necessarie a
decifrarne la struttura. Quale abile comunicatore e imprendito-
re di sé stesso, Doxiadis era riuscito nell’intento di far apparire
Dynapolis un modello aperto e flessibile che, in ragione della
sua impronta scientifica, avrebbe offerto un terreno di conver-
genza facilmente accessibile, comune a experts transnazionali e
inperts locali40 opportunamente preparati alle questioni poste
dallo sviluppo. Nei fatti, questo esplicito obiettivo di coopera-
zione celava aspetti più controversi: facendo leva sulla cronica
mancanza di tecnici locali in grado di operare in funzione dello
sviluppo, Doxiadis stava in realtà ponendo le basi per un siste-
ma chiuso, impermeabile a ogni tipo di interferenza esterna, sia
sul piano teorico della concezione che su quello pratico dell’im-
plementazione: se, negli esiti auspicati, Dynapolis si presentava
come l’espressione cristallina delle regole del libero mercato –
e come il terreno in cui questo avrebbe ulteriormente prospe-
rato –, nelle sue modalità di progettazione e implementazione
si configurava come la manifestazione di un sapere esclusivo,

101
Filippo De Dominicis

improntato su criteri tecnico-scientifici e modelli produttivi


marcatamente occidentali. Se gli inperts dovevano davvero gio-
care un ruolo attivo nella costruzione della Dynapolis del futu-
ro, la loro azione si sarebbe quindi dovuta allineare a paradigmi
lontani dagli standard locali. Messe da parte le specificità cul-
turali in nome di un progresso che avrebbe plasmato la società
e i suoi comportamenti futuri, Doxiadis Associates era pronto
non solo a immaginare la città globale degli anni a venire, con le
sue forme e le sue meccaniche; ma anche, e soprattutto, a forni-
re le conoscenze per quella classe di tecnici locali che, su scala
globale, avrebbero adattato e applicato i principi di crescita che
lo sviluppo stava dettando. All’attività teorica Doxiadis avreb-
be nuovamente accompagnato, quindi, una vasta campagna di
networking, questa volta incorporando, insieme alle alte sfere
dell’establishment internazionale, quei giovani studenti che, da
tutto il mondo, si affacciavano per la prima volta all’approfon-
dimento teorico e all’esercizio del progetto.

The City of the Future

A partire dal 1958, Doxiadis aveva deciso di affiancare allo


studio professionale una rete di organizzazioni no-profit dedica-
te alla ricerca e alla divulgazione di quanto ottenuto in termini
professionali e teorici41. Alla creazione della struttura madre,
l’Athens Technological Organization (ATO), avrebbe fatto se-
guito la costituzione di una sussidiaria più piccola, denominata
Athens Technological Institute (ATI) e dedicata alla formazio-
ne di professionisti e tecnici in urban development42. L’enfasi su
aspetti legati all’educazione era parte di una calcolata strate-
gia manageriale che ambiva dal un lato a formare e incorporare
nuove figure all’interno dell’ufficio, e dall’altro a estendere la
rete di relazioni e a diffondere l’operato dello studio ben oltre

102
La città del futuro

i limiti ristretti della pura pratica professionale. Al di là delle


molteplici ragioni esplicite – connesse a un interesse profondo
per gli aspetti teorici della disciplina e alla necessità di una loro
condivisione interna quanto più ampia possibile –, la costituzio-
ne delle due piattaforme avrebbe infatti consentito a Doxiadis
e soci di varcare la dimensione corporativa del lavoro di studio
e accedere ai fondi di ricerca messi a disposizione dalle grandi
fondazioni statunitensi, che proprio nella trasmissione e nella
circolazione dei saperi avevano identificato il core business della
loro attività. Il 19 gennaio 1960, mentre lo studio era impegnato
nella redazione del piano per Islamabad, l’Athens Technologi-
cal Institute inviava una richiesta di finanziamento indirizzata a
Waldemar Nielsen, direttore associato dell’International Affairs
Program della Ford Foundation43. Rispetto alle attività condot-
te dall’Overseas Development Program, essenzialmente rivolte
all’assistenza su questioni di carattere tecnico-pratico, i pro-
grammi avviati dalla sezione International Affairs erano carat-
terizzati da un approccio più speculativo, finalizzati com’erano
«al rafforzamento delle capacità statunitensi nel comprendere
e trattare temi legati al mondo non-Occidentale»44 attraverso il
finanziamento di programmi scientifici e di ricerca. Destinata-
rie dei fondi messi a disposizione dal programma erano istitu-
zioni a scopo educativo e formativo con sede fuori dagli Stati
Uniti, un profilo perfettamente rispondente con lo statuto delle
organizzazioni costituite da Doxiadis.
Con i fondi eventualmente ottenuti, l’Athens Technological
Institute avrebbe provveduto alla diffusione dei risultati delle
ricerche condotte durante le fasi di progettazione di Islamabad.
Gli studi per la nuova capitale del Pakistan, infatti, diventavano
sempre più corposi man mano che aumentavano le responsabi-
lità e i compiti dell’ufficio, che aveva iniziato a lavorare in ma-
niera continuativa al progetto dal febbraio del 1959. Incaricato
della redazione del masterplan definitivo nel settembre dello

103
Filippo De Dominicis

stesso anno, Doxiadis avrebbe intravisto nel piano per Islama-


bad l’occasione di tradurre in realtà il modello Dynapolis e i
principi di crescita della città del futuro. Il progetto di ricer-
ca presentato alla Ford Foundation avrebbe posto l’esperienza
della nuova capitale al centro di un vasto programma formativo
di scala globale. Cinque anni dopo le dichiarazioni esposte alla
conferenza di Milano, Doxiadis era pronto a lanciare una scuola
per quei global experts che avrebbero dovuto sondare il corso
dello sviluppo, guidandone la traiettoria e tracciandone il volto.
L’obiettivo dichiarato nel documento allegato alla domanda era
infatti quello di raccogliere e selezionare i materiali di proget-
to più rilevanti, «rendendoli disponibili per tutti coloro che, da
ogni parte del mondo, fossero interessati alla progettazione del-
la città del futuro»45, un riferimento chiaro, questo, all’applica-
zione e all’adattamento su scala globale dei principi di crescita
stabiliti con la nascita di Dynapolis. In questa missione inedita,
l’Athens Technological Institute sarebbe stato coadiuvato dalla
Graduate School of Ekistics (GSE), un programma di insegna-
mento specifico finalizzato alla diffusione dei principi scientifici
che Doxiadis stava elaborando nel corso di quegli anni e rivolto
a giovani professionisti provenienti dai quattro angoli del globo.
Nel momento in cui l’Athens Technological Institute presenta-
va domanda alla Ford, la GSE era già sufficientemente articola-
ta per supportare l’ambizione globale del suo fondatore46: nel
maggio del 1961, oltre che sulla sede di Atene, la scuola poteva
infatti contare su quattro corsi attivati in Venezuela, Colombia,
Indonesia e Ghana.
Mentre in Sudamerica e in Asia l’insegnamento della disci-
plina ekistica era associato ai dipartimenti di planning delle uni-
versità tecniche di Caracas, Cali e Bandung – quest’ultima fon-
data e avviata da Jacqueline Tyrwhitt47 su iniziativa delle Nazio-
ni Unite –, in Africa il programma si appoggiava al neonato In-
stitute of Community Planning, un’istituzione pre-accademica

104
La città del futuro

supportata dall’ONU che offriva corsi di pianificazione di du-


rata biennale48. Gli allievi candidati erano oggetto di un vero
e proprio lavoro di intelligence che riguardava gli aspetti più
reconditi del loro profilo psicologico-sociale: per ciascuno sa-
rebbe stato elaborato un dossier attraverso questionari e in-
terviste diretti non solo al singolo interessato ma anche ai suoi
parenti, ai precedenti insegnanti e persino al medico curante49.
L’obiettivo era testare non tanto la loro vocazione o la poten-
zialità professionale, quanto l’adattabilità ai principi stabiliti
dalla visione ekistica: una volta ammessi, gli allievi avrebbero
beneficiato di un ampio curriculum formativo unito a un inten-
so programma di training; tutti avrebbero trovato collocazione
in una delle sedi di Doxiadis Associates in qualità di stagisti,
mentre soltanto i più meritevoli sarebbero stati inquadrati sta-
bilmente come dipendenti. I corsi in ekistica, sociologia, demo-
grafia, economia, geografia, housing, trasporti, pianificazione,
architettura e paesaggio avrebbero plasmato figure in grado di
rispondere al motto dello «sviluppo a ogni costo» già lanciato
nel 1955. In questo modo, Doxiadis era pronto a saldare, in ma-
niera indissolubile e in una prospettiva globale, ricerca teorica e
pratica professionale con lo scopo di consegnare al mondo tutti
gli strumenti per progettare lo sviluppo e controllare la crescita
della nuova città del futuro. Per intraprendere una sfida simile,
Doxiadis aveva bisogno di un alleato importante, e il sostegno
della Ford Foundation si sarebbe presto rivelato decisivo: il 31
marzo del 1960, due mesi e mezzo dopo l’invio della domanda,
una lettera del segretario Joseph McDaniels avrebbe comuni-
cato all’ATI l’erogazione di fondi per 140 mila dollari, necessari
al reclutamento di otto esperti scelti su base multidisciplinare
e internazionale50. Vi era, tuttavia, una condizione da rispetta-
re: gli otto nuovi esperti avrebbero dovuto impegnarsi nella di-
vulgazione e nell’approfondimento di aspetti del planning non
immediatamente riconducibili a circostanze fisico-materiali.

105
Filippo De Dominicis

Pur concentrandosi sull’esperienza di Islamabad, infatti, gli


studi avrebbero dovuto guardare più ai processi che non agli
esiti della pianificazione, con l’obiettivo di produrre un quadro
interpretativo il più ampio e condiviso possibile51. L’enfasi do-
veva esser riposta su quegli aspetti che avrebbero consentito
di verificare, su un’ampia base, l’applicabilità e l’adattabilità dei
principi ekistici, nonché la loro capacità di incidere sullo svi-
luppo, la modellazione e il ridisegno del corpo sociale. Questo
perché – come avrebbe ammesso anni dopo uno dei funziona-
ri Ford impegnati nel programma di International Affairs – la
Ford Foundation non aveva alcuna intenzione di promuovere
in forma diretta la realizzazione delle nuove capitali del mondo
indipendente, associando la propria missione a scopi diversi da
quelli legati alla diffusione e alla circolazione di saperi speciali-
stici52. Simili condizioni avrebbero convinto l’Athens Technolo-
gical Institute a rivedere gran parte delle finalità e degli obiettivi
della ricerca: mentre nel titolo scompariva ogni riferimento al
progetto della capitale federale del Pakistan, l’orizzonte di stu-
dio sarebbe stato esteso a una più generica «formazione alla
pianificazione nelle aree meno sviluppate del pianeta»53. Nel
luglio 1960, dopo un incontro fra Doxiadis e lo stesso Nielsen
a New York, l’Athens Technological Institute decretava l’avvio
della ricerca, ufficialmente rinominata The City of the Future
(COF). Nei mesi successivi, nel quadro di una lunga fase istrut-
toria, il gruppo dirigente dell’ATI avrebbe concentrato i propri
sforzi nella composizione dell’organigramma e nella formazio-
ne della squadra di esperti associati, mentre i primi rapporti sa-
rebbero stati stilati e discussi fra il settembre e l’ottobre dello
stesso anno54. Il gruppo di lavoro iniziale, oltre a Doxiadis in
qualità di direttore, includeva il sociologo greco Dimitris Iatri-
dis – formatosi negli Stati Uniti – il geografo statunitense Ge-
rald Gutenschwager e l’architetto egiziano Hassan Fathy55, che
aveva già collaborato con Doxiadis Associates sia nel progetto

106
La città del futuro

per la regione di Mussayb, sia come docente presso la GSE, dal


settembre del 195956. Rispetto alla proposta inoltrata alla Ford
Foundation nel mese di gennaio, la relazione introduttiva sugli
ambiti e le finalità della ricerca – elaborata dallo stesso Doxia-
dis – presentava molti elementi di novità57. Primo fra tutti, un
aspetto che confermava la direzione auspicata dalla Ford duran-
te le fasi preliminari della ricerca: obiettivo principe di The City
of the Future, infatti, doveva essere l’elaborazione di un “model-
lo astratto e teorico” provvisto di tutte quelle proprietà neces-
sarie a configurarsi come fattore di crescita e progresso globali.
In altre parole, la ricerca aveva come scopo primario quello di
perfezionare il modello Dynapolis quale effettivo strumento
per interpretare e guidare lo sviluppo, testandone la validità
su scala globale. The City of the Future sarebbe stato sviluppato
congiuntamente dagli studenti ammessi ai programmi di studio
della GSE e dagli esperti coinvolti nella ricerca. Questi sarebbe-
ro stati inviati ai quattro angoli del mondo per raccogliere in-
formazioni e materiali sullo stato delle più città più importanti.
Ognuna di queste città, poi, sarebbe stata oggetto di un’inda-
gine multidisciplinare, con il contemporaneo approfondimento
di aspetti economici, geografici, demografici, sociali e architet-
tonici. L’idea di fondo era costruire scenari di sviluppo possibile
e registrare, per ciascun caso analizzato, modi, forme e tempi
della crescita futura, con lo scopo di comprendere in che modo
adattare e applicare il modello Dynapolis a quell’orizzonte pla-
netario che il progresso stava aprendo.
Con l’avvio del progetto COF, Dynapolis non si configurava
più come soluzione di natura tecnica offerta a quei paesi inca-
paci di risolvere i propri problemi di pianificazione e sviluppo.
Inserita all’interno di una ricerca di così ampia portata e asso-
ciata a un programma educativo di scala planetaria, Dynapolis
diventava uno strumento di intelligence e controllo globale, ben
al di là della dimensione ipoteticamente infinita che, per ragioni

107
Filippo De Dominicis

Doxiadis Konstantinos
Apostolos, Studi per una
comunità, in “Ekistics”,
vol. 12, n. 73 (novembre
1961), p. 330, per gentile
concessione dell’Athens
Center of Ekistics.

108
La città del futuro

strutturali, poteva materialmente raggiungere. In un certo sen-


so, il binomio Dynapolis-The City of the Future avrebbe permes-
so a Doxiadis di stabilire un’identità inscindibile fra sapere e
potere e, su questa base, un sistema doppiamente chiuso incar-
dinato su due aspetti chiave: da un lato il modello teorico, che
con le sue regole di crescita prestabilite si allineava alle logiche
di sviluppo imposte dal capitalismo classico, dimostrandosi ca-
pace di espandersi e autoregolarsi a prescindere dalle condizio-
ni circostanziali e senza che nessuna oscillazione o retroazione
– positiva o negativa – potesse alterarne il corso58; dall’altro, le
modalità di diffusione e implementazione, i cui automatismi
avrebbero determinato la possibilità di un controllo totale sul
codice genetico dello sviluppo urbano. Dopo aver costruito un
modello urbano dinamico e funzionale alle traiettorie incre-
mentali della crescita, Doxiadis sarebbe riuscito nell’intento di
rendere le sue modalità di attivazione e applicazione una que-
stione globale ma ad accesso limitato, o comunque subordinato
all’accettazione di un modello di sviluppo a trazione atlantica;
questo perché testare e mettere in pratica il modello sarebbe
stata prerogativa esclusiva di coloro che contribuivano alla sua
elaborazione, ossia degli stessi che avrebbero aderito ai para-
digmi di sviluppo atlantici e, di conseguenza, ai principi della
scienza ekistica, che su quei paradigmi si stava velocemente for-
mando. I materiali e i principi indagati dalla ricerca, quindi, sa-
rebbero stati a disposizione di tutti quei professionisti, tecnici e
funzionari interessati alla progettazione della città del futuro, a
patto che questi ultimi fossero pronti a far parte di quel sistema
chiuso e eterodiretto che Doxiadis aveva ideato e poteva con-
trollare. Non casualmente, Doxiadis avrebbe descritto l’esito del
progetto di ricerca come un «manuale di raccomandazioni per
la progettazione delle comunità umane», aggiornabile su base
continua e contrario a qualsiasi approccio “fai-da-te”: i nuovi
codici imposti dalla città del futuro sarebbero stati decifrati e

109
Filippo De Dominicis

Konstantinos Apostolos Doxiadis, Le forme della crescita di Dynapolis, 1960, in


R-GA 185, 15 febbraio 1960, p. 39, Doxiadis Archives 2529, © Constantinos & Emma
Doxiadis Foundation, Atene.

110
La città del futuro

messi in atto dagli stessi incaricati della loro scrittura, secondo


un sistema di conoscenza elitario che rifletteva un’altrettanta
codificata azione di progetto59.
Pur così meticolosamente concepita, tuttavia, la ricerca COF
presentava molti aspetti contrastanti. A metterli in luce sareb-
be stato Hassan Fahty, inviato in Africa per conto del progetto,
una volta tornato dalla sua missione. Il modello di crescita ela-
borato da Doxiadis, infatti, si disponeva come organicamente
rivolto alla trasformazione e allo sviluppo dell’ambiente umano.
La sua natura chiusa, tuttavia, non prevedeva possibilità di in-
terferenze, sia sul piano teorico che su quello dell’implementa-
zione: Dynapolis, infatti, era materia a espansione costante che
tendeva a autoriprodursi identicamente, secondo la medesima
logica. Paradossalmente, proprio trasformandosi e crescendo
continuamente, impediva ogni forma di cambiamento sistema-
tico; al contrario, costruiva le condizioni affinché il sistema si
consolidasse e si rafforzasse ulteriormente. Seppur associata
dal suo stesso ideatore a un organismo biologico, la città del fu-
turo che Doxiadis si apprestava a progettare era, in realtà, un si-
stema “tecnicamente” incapace di evolvere. Era, in altri termini,
un organismo privato della proprietà più rilevante: quella carica
evoluzionista che doveva presiedere alle possibilità – o necessi-
tà – di adattamento e morfogenesi, al di là dei codici prestabiliti
dal capitale e dal libero mercato. Un carattere, questo, di cui le
città di molte aree del pianeta – e l’Africa in primis – avevano
disperato bisogno per plasmare il proprio futuro.

111
Filippo De Dominicis

Note

1. Rand Christopher, The Ekistic World, in “The New Yorker”, 11 maggio 1963,
pp. 49-87; Manus Walter, The Man Who Thinks in Multitudes, in “The Obser-
ver”, 23 giugno 1968, s.p.
2. Pyla Panayiota, Ekistics, Architecture and Environmental Policies. A Prehistory
of Sustainable Development, Tesi di dottorato in Architecture: History and The-
ory of Architecture, School of Architecture and Planning, Massachusetts Insti-
tute of Technology, Cambridge, 2002, pp. 55; 57.
3. Doxiadis Konstantinos Apostolos, To architects and all who are interested in
physical planning for the reconstruction of the world in the United Nations, Atene,
12 ottobre 1945, in Doxiadis Archives 8353, C.&E. Doxiadis Foundation, Atene.
4. Doxiadis Konstantinos Apostolos, Ekistics, the Key to Housing in Developing
Areas, in “Ekistics”, n. 8, vol. 49, novembre 1959, pp. 316-331.
5. Pyla Panayiota, op. cit., p. 52-53.
6. Ibidem.
7. Lerner Daniel, The Passing of Traditional Societies, Free Press, New York,
1958.
8. Doxiadis Konstantinos Apostolos, Economic progress in underdeveloped coun-
tries and the rivalry of democratic and communist methods, Milano, 1955, p. 1, in
Doxiadis Archives 6872, C.&E. Doxiadis Foundation, Atene.
9. Ivi, p.3.
10. d’Auria Viviana, Taming an ‘Undisciplined Discipline’: Constantinos Doxiadis
and the Science of Human Settlements, in “OASE Journal for Architecture”, n.
95, 2017, pp. 8-21. Opportuno è anche citare la definizione di scienza ekistica
fornita da Jaqueline Tyrwhitt, qui riportata nella versione originale, nel 1957:
«ekistics embraces a rather wider field than that covered by the term “human
ecology”: the inter-relation of man and environment, including the system of
human settlements». Vedi Tyrwhitt Jaqueline, Editorial, in “Ekistics”, vol. 4, n.
25, ago-sett. 1957, s.p.
11. Doxiadis Konstantinos Apostolos, Notes on Ekistics (C-GA 160), 16 aprile
1957, in Doxiadis Archives 19248, C.&E. Doxiadis Foundation, Atene.
12. Doxiadis Konstantinos Apostolos, Ekistics, the Key …, cit., pp. 316-331.
13. Ibidem.
14. d’Auria Viviana, op. cit., p. 12.
15. Doxiadis Konstantinos Apostolos, The Rising Tide and the Planner, in “Eki-
stics”, vol. 7, n. 39, gennaio 1959, p. 6.
16. Ibidem.
17. I due lavori monografici su Konstantinos Doxiadis sono entrambi concordi
su questo punto. Cfr. Pyla Panayiota, Ekistics, Architecture and Environmental

112
La città del futuro

Policies…, cit.; Theodosis Lefteris, Victory over Chaos? Constantinos Doxiadis


and Ekistics 1945-1975, Tesi di dottorato, Departamant de Composiciò Arqui-
tectònica, Escola Tècnica Superior d’Arquitectura de Barcelona, Universitat
Politècnica de Catalunya, Barcellona, 2015.
18. Pyla Panayiota, Rebuilding Iraq 1955-1958. Modernist Housing, National Aspi-
rations and Global Ambitions, in “Docomomo”, n. 35, settembre 2006, p. 73.
Tolic Ines, Insediamenti di civiltà. L’Iraq Housing Program di Constantinos A.
Doxiadis fra tradizioni locali e modernità globale (1955-1959), in “Città e Storia”,
anno 14, n.1-2, gennaio-dicembre 2019, pp. 169-186.
19. Doxiadis Associates, A Regional Development Program for Greater Mussayib,
Iraq, 1958, in “Ekistics”, vol. 6, n. 36, ottobre 1958, pp. 149-186; Doxiadis As-
sociates, The Future of Kirkuk, in “Ekistics”, vol. 6, n. 38, dicembre 1958, pp.
348-372; Doxiadis Associates, The Future of the Cities of Nejef and Kufa, in “Eki-
stics”, vol. 7, n. 39, gennaio 1959, pp. 73-109; Doxiadis Associates, The Future of
Amara, in “Ekistics”, vol. 7, n. 40, febbraio 1959, pp. 176-200; Athens Center of
Ekistics, The National Program of Iraq, in “Ekistics”, vol. 7, n. 44, giugno 1959,
pp. 504-510; Pyla Panayiota, Back to the Future: Doxiadis’ Plans for Baghdad, in
“Journal of Planning History”, vol. 7, n. 1, febbraio 2008, pp. 3-19.
20. Doxiadis Associates, The Future of the Cities of Nejef and Kufa, cit., p. 97.
21. Doxiadis Associates, The Future of the Capital of the Sudan, in “DA Bulletin”
(numero monografico), n. 4, agosto 1959.
22. Doxiadis Associates, The Spirit of Islamabad, in “Ekistics”, vol. 12, n. 73,
novembre 1961, pp. 315-335; Doxiadis Associates, Islamabad. The New Capital of
Pakistan, in “DA Bulletin” (numero monografico), n. 64, marzo 1964.
23. Doxiadis Associates, The Future of the Cities of Nejef and Kufa, cit., p. 107.
24. Doxiadis Konstantinos Apostolos, The Rising Tide…, cit., p. 6.
25. Wigley Mark, Network Fever, in “Grey Room”, n. 4, estate 2001, pp. 82-122.
26. Doxiadis Konstantinos Apostolos, Dynapolis, the City of the Future, in “Eki-
stics”, vol. 9, n. 51, gennaio 1960, pp. 5-20.
27. Doxiadis Konstantinos Apostolos, Dynapolis, the City of the Future (R-GA
185), Atene, 15 febbraio 1960, in Doxiadis Archives 2529, C.&E. Doxiadis Foun-
dation, Atene.
28. Ivi, pp. 3; 17.
29. Latham Michael, The Right Kind of Revolution. Modernization, Development
and U.S. Foreign Policy from the Cold War to the Present, Cornell University
Press, Ithaca-Londra, 2011, p. 84.
30. Vedi i grafici e le tabelle pubblicate nel volume Doxiadis Konstantinos
Apostolos, Dynapolis… (R-GA 185), cit., pp. 3; 17.
31. La questione dell’inurbamento e dell’accesso ai servizi offerti dal nucleo
urbano è centrale nell’ideazione e nello sviluppo di Dynapolis. Vedi anche Pyla

113
Filippo De Dominicis

Panayiota, Ekistics, Architecture and Environmental Policies…, cit., pp. 55-74.


32. Doxiadis Konstantinos Apostolos, Dynapolis… (R-GA 185), cit., pp. 51-55.
33. Ivi, pp. 66-69, per i piani di Baghdad e Khartoum.
34. Doxiadis Associates, The Size and the Shape of Urban Plots, in “Ekistics”, vol.
9, n. 54, aprile 1960, pp. 289-303.
35. Un ragionamento simile Doxiadis lo avrebbe lanciato, per la prima volta,
con l’elaborazione del piano per Korangi, l’estensione della città di Karachi,
Pakistan, che, pur non rientrando fra gli esempi “classici” di Dynapolis, ne
anticipava e ne ricalcava le forme. Vedi Doxiadis Associates, The Development
of the Korangi Area, in “Ekistics”, vol. 9, n. 53, marzo 1960, pp. 207-235.
36. Doxiadis Associates, The Size and the Shape…, cit., pp. 294-298.
37. Doxiadis Konstantinos Apostolos, Dynapolis… (R-GA 185), cit., p. 28.
38. Ivi, pp. 30-35.
39. L’espressione «marea crescente» è mutuata dal titolo dell’articolo di
Doxiadis. Vedi Doxiadis Konstantinos Apostolos, The Rising Tide…, cit.
40. Il termine inpert era stato coniato dal Charles Abrams (1901-1970), avvoca-
to pianificatore e consulente ONU statunitense, per designare i tecnici locali
educati ai principi di pianificazione occidentale, in opposizione a expert. Vedi
Pyla Panayiota, Ekistics, Architecture and Environmental Policies…, cit., p. 57.
41. Vedi Bromley Ray, Towards Global Human Settlements: Constantinos Doxiadis
as Entrepreneur, Coalition-Builder and Visionary, in Volait Mercedes, Nasr Joe
(a cura di), Urbanism: Imported or Exported?, John Wiley and Sons, Hoboken,
2003, pp. 316-340.
42. Pyla Panayiota, Ekistics, Architecture and Environmental Policies…, cit., p. 37.
43. Athens Technological Institute, Request for a Ford Foundation Grant for an
Educational Project Related to the Federal Capital of Pakistan (C-EATI 499), 19
gennaio 1960, in Doxiadis Archives 17722, C.&E. Doxiadis Foundation, Atene.
44. Sutton Francis X., The Ford Foundation’s Development Program in Africa, in
“African Studies Bulletin”, vol. 3, n. 4, 1960, pp.1-7.
45. Doxiadis Konstantinos Apostolos, An analysis of the scope and the design of
the project (R-ERES 1), ATO-GSE – Research Project “The City of the Future”, 5
ottobre 1960, in Doxiadis Archives 18403, C.&E. Doxiadis Foundation, Atene.
46. Athens Center of Ekistics, New Schools on Ekistics, in “Ekistics”, vol. 11, n.
68, giugno 1961, pp. 459-468.
47. Shoshkes Ellen, Jaqueline Tyrwhitt: The United Nations and Planning Edu-
cation in Indonesia, in “OASE Journal for Architecture”, n. 95, 2017, pp. 73-84.
48. Inkoom Daniel B., Planning Education in Ghana, Case-study prepared for
Planning Sustainable Cities: Global Report on Human Settlements 2009, documen-
to inedito disponibile su: http://www.unhabitat.org/grhs/2009.
49. Vedi Doxiadis Konstantinos Apostolos, Technical Education (R-EATI 16),

114
La città del futuro

5 febbraio 1958, in Doxiadis Archives 17521, C.&E. Doxiadis Foundation, Ate-


ne. Il rapporto sull’educazione tecnica citato era stato allegato a una serie di
missive che Doxiadis aveva spedito, fra gli altri, a Jaqueline Tyrwhitt, George
Gant, Martin Meyerson e Hassan Fathy, per alimentare un primo confronto
sulle questioni relative alla costruzione di un programma formativo rivolto ai
futuri global experts.
50. Il progetto prevedeva l’assunzione di otto esperti di diversa nazionalità,
così distribuiti: 2-3 specialisti greci, 2-3 pakistani, 2-4 occidentali. In quanto a
competenze, era prevista l’assunzione di due storici, due pianificatori urbani
o economisti urbani, un architetto, uno scienziato sociale, un analista. Vedi
Athens Technological Institute, Request for a Ford Foundation…, cit.; McDaniels
Jr. Joseph, lettera a Evangelos Papanoustos, Managing Director, Athens Technolo-
gical Organization, 31 maggio 1960, in Doxiadis Archives 17722, C.&E. Doxiadis
Foundation, Atene.
51. McDaniel Jr. Joseph, lettera a Evangelos Papanoustos…, cit.
52. Sutton Francis X., The Ford Foundation’s Urban Overseas Programs: Changes
and Continuities, lezione al Rockefeller Archive Center, Sleepy Hollow, 25-26
settembre 2000.
53. The Ford Foundation Annual Report: 1960, The Ford Foundation, New York,
1960, p. 151.
54. Vedi i rapporti mensili del progetto: Doxiadis Associates, COF Monthly Re-
port (MR-COF 1-27), in Doxiadis Archives 19212, C.&E. Doxiadis Foundation,
Atene.
55. Hassan Fathy (1900-1989) è stato un architetto e urbanista egiziano. Lau-
reato nel 1928 presso l’Università Re Fuad del Cairo, prima di trasferirsi ad
Atene e iniziare la collaborazione con Doxiadis avrebbe progettato e costruito
il villaggio di Nuova Gourna, presso Luxor, fra il 1946 e il 1953. Al suo ritorno
in Egitto sarebbe stato impegnato in un’altra importante realizzazione di scala
urbana, il villaggio di New Baris, presso l’oasi di Kharga. Per una ricognizione
critica del suo lavoro, inclusa la collaborazione con Doxiadis Associates, vedi
Samar Damluji Salma, Bertini Viola, Hassan Fathy: Earth and Utopia, Lawrence
King, Londra, 2018.
56. Doxiadis Konstantinos Apostolos, Prof. Fathy and his program in the Ekistics
School (S-D 1745), 10 settembre 1959, in Doxiadis Archives 17907, C.&E. Doxia-
dis Foundation, Atene. La comunicazione di Doxiadis è indirizzata a John Pa-
paioannou e a Dimitris Iatridis.
57. Doxiadis Konstantinos Apostolos, An analysis …, cit.
58. Wilden Anthony, System and Structure. Essays in Communication and
Exchange, Tavistock Publication-Routledge, New York, 1972 p. 335.
59. Doxiadis Konstantinos Apostolos, An analysis …, cit.

115
Evoluzione e infrastruttura

Un’attenzione inedita

Il report istruttorio di The City of the Future, che analizza-


va scopi e ambiti della ricerca, era stato redatto dallo stesso
Doxiadis all’inizio dell’ottobre 1960. A questa relazione in-
troduttiva avrebbe seguito un secondo rapporto, organizzato
in forma di intervista a più voci, in cui gli esperti coinvolti –
Gutenschwager, Fathy e Iatridis – interrogavano Doxiadis sui
contenuti e sulla struttura del progetto1. Nel secondo report
si ribadivano alcuni dei punti chiave già affrontati, seppur in
forma più discorsiva, nel documento istruttorio: la struttura
multilivello della ricerca, destinata a politici e a tecnici; il ca-
rattere manualistico, impostato su obiettivi di lungo termine e
contenuti costantemente aggiornabili2; la formula innovativa,
che abbandonava le interpretazioni funzionalistiche della città
per concentrarsi sulle relazioni fra economie e forme dei nu-
clei urbani; la vocazione tassonomica, mirata a riorganizzare la
comprensione delle città del globo attraverso categorie imme-
diate, semplici e innovative quali dimensione, localizzazione e
tasso di crescita; la scala planetaria, tesa a riorganizzare le cit-
tà del mondo secondo una gerarchia di posizioni che avrebbe
previsto, come stato ultimo, centri di scala mondiale privi di

116
una sovranità politica specifica. Contro questi aspetti, restava
centrale la necessità di misurare la distanza fra la condizione
esistente e un possibile futuro scenario di sviluppo; in altre
parole, l’obiettivo principale restava l’esame del modello Dy-
napolis: da un lato la sua applicabilità locale, dall’altro la sua
capacità di adattamento su scala globale. Primo terreno di ve-
rifica sarebbe stato il continente africano, territorio verso cui
Doxiadis nutriva aspettative importanti. L’Africa, infatti, avreb-
be potuto condurre a grandi conferme o ad altrettanto grandi
ripensamenti: quell’Africa che, sostanzialmente sottopopolata,
soffriva la mancanza di grandi città, poteva essere il luogo dove
controllare e guidare la crescita urbana sin dalle prime fasi, su
un’estensione geografica mai vista. Gran parte della popola-
zione africana, sulla strada della piena indipendenza, avrebbe
infatti avuto accesso ai servizi urbani per la prima volta nella
sua storia. Di conseguenza, l’intero continente rappresentava
un test fondamentale per valutare, ed eventualmente registra-
re, la tenuta dei principi di crescita e modellazione comunitaria
stabiliti negli anni precedenti da Doxiadis Associates3. Appena
cinque giorni dopo la redazione del secondo rapporto, il 6 di-
cembre del 1960, l’Athens Technological Institute avrebbe in-
viato comunicazione della visita di Hassan Fathy a sedici rap-
presentanti dei nuovi stati dell’Africa indipendente, mentre il
giorno 10 dicembre lo stesso Fathy avrebbe lasciato Atene per
Il Cairo, città da cui avrebbe iniziato il proprio sopralluogo iti-
nerante attraverso le ventidue maggiori città del continente.
La priorità assegnata all’Africa non poggiava soltanto su ra-
gioni interne, di carattere teorico-speculativo. Vi erano, infatti,
motivazioni di ordine superiore che varcavano i limiti della pura
dimensione disciplinare e avrebbero proiettato il continente,
forse per la prima volta nella sua storia, al centro degli interessi
politici globali. Come spesso accadeva in quegli anni, l’azione
politica vera e propria era preceduta dall’attività multilaterale

117
Filippo De Dominicis

delle grandi fondazioni4: non casualmente, i primi passi nel con-


tinente africano li avrebbe mossi proprio la Ford Foundation,
che nel 1958 aveva avviato una prima serie di progetti destinati
alla formazione e all’educazione tecnico-scientifica. Di questo
nuovo interesse, che si sarebbe aggiunto all’impegno stabile
della fondazione nei paesi del Sud-est Asiatico, Doxiadis era a
conoscenza sin dal marzo del 1959: in una nota emessa da uno
degli associati dell’Overseas Development Program e posseduta
dall’ufficio, la Ford Foundation confermava la volontà di aprir-
si a un impegno sempre più massiccio in Africa5, specialmente
nell’ambito di programmi educativi legati a pianificazione eco-
nomica e community development. In ragione della condizione
particolare che il continente stava attraversando, tuttavia, la
stessa fondazione sarebbe stata costretta a rivedere le strategie
di implementazione che avevano caratterizzato il suo operato in
Sud-est Asiatico e Medio Oriente, sia in termini di metodo che
in termini di merito6. Lo specifico dello scenario africano, in-
fatti, presentava estese forme di «balkanizzazione» territoriale
che, per essere affrontate e in qualche modo superate, avrebbe-
ro richiesto una base d’azione ben più ampia di quella scala na-
zionale precedentemente assunta come quadro di riferimento7:
un’azione che, secondo la fondazione statunitense, si sarebbe
dovuta appoggiare sulle crescenti ambizioni federative espresse
dai giovani leader africani e che, grazie alla necessità sempre
più pressante di progetti di scala sovra-nazionale, avrebbe po-
tuto concretizzarsi in iniziative intra-territoriali in grado di rag-
giungere, senza particolari difficoltà, l’estensione continentale.
Le ambizioni della Ford Foundation rispecchiavano un sentire
condiviso: potenzialmente, l’Africa era infatti quel terreno dove
testare le politiche di modernizzazione e sviluppo alla scala più
ampia mai sperimentata. Per rendere possibile tutto ciò, era ne-
cessario che la politica atlantica concedesse ai leader dell’Africa
post-coloniale una sempre maggiore libertà di azione, facendo

118
Evoluzione e infrastruttura

maturare in loro la consapevolezza del ruolo decisivo che cre-


scita economica e sviluppo avrebbero potuto giocare nel con-
solidamento del potere sovrano. In che modo? La prima rispo-
sta risiedeva nell’avvio di progetti e iniziative che, agendo sulla
formazione e il training dei tecnici locali, avrebbero favorito
l’attivazione di modi e pratiche proprie dell’economia libera.
The City of the Future, che di questa istanza era espressione, non
avrebbe fatto eccezione, e il progetto sarebbe partito proprio
dal sopralluogo africano di Fathy.
L’architetto egiziano aveva grande familiarità con i temi e i
metodi sviluppati da Doxiadis, avendo già collaborato con l’uf-
ficio nei quattro anni precedenti il progetto8. La sua frequen-
tazione più recente risaliva al 1959, quando era stato coinvolto
come docente ai corsi sulla città del futuro offerti della Gradua-
te School of Ekistics9. L’itinerario della missione prevedeva una
copertura pressoché totale dello scudo continentale: dal Cairo,
Fathy avrebbe fatto rotta verso il Sudan e poi verso il Kenya,
fino in Tanzania. Di lì si sarebbe diretto verso ovest, visitan-
do Brazzaville e risalendo in seguito verso nord, alla volta di
Yaoundé, Fort-Lamy, Kano e Monrovia. Completato il survey in
West Africa, sarebbe volato in Maghreb e, di lì, di nuovo al Cairo.
Per ragioni di carattere logistico e burocratico, le visite a sud del
Cameroun sarebbero state cancellate per consentire più tappe
in Africa Occidentale. Il programma finale prevedeva un viaggio
di tre mesi attraverso ventidue città, poi ridotte a diciotto per
mancanza di collegamenti aerei: oltre al Cairo, punto di parten-
za e di arrivo, Fathy avrebbe visitato Khartoum, Douala, Lagos,
Kano, Porto Novo, Lomé, Ouagadougou, Bouake, Abidjan, Mon-
rovia, Conakry, Dakar, Marrakech, Tunisi e Tripoli, senza passa-
re da Juba – seconda città del Sudan – e da Fort-Lamy, capitale
del Chad10. Costretto a rivedere ulteriormente il programma
per ragioni di salute, l’architetto egiziano avrebbe avuto molti
problemi a mantenere contatti regolari con l’ufficio, mentre il

119
Filippo De Dominicis

L’itinerario di Hassan
Fathy in Africa (D-COF
7), 1960-61, in Doxiadis
Archives 25634, ©
Constantinos & Emma
Doxiadis Foundation,
Atene.

120
Evoluzione e infrastruttura

questionario preparato dallo studio per sistematizzare le infor-


mazioni provenienti dai sopralluoghi sarebbe sempre rimasto
in bianco. Nonostante gli inconvenienti di ordine logistico e i
tagli nel programma, Fathy avrebbe offerto un’interessante pro-
spettiva sulle contraddizioni che caratterizzavano l’impostazio-
ne della ricerca e l’idea di sviluppo ad essa sottesa, fornendo
una lettura alternativa che avrebbe trovato il suo punto di par-
tenza proprio nella peculiarità della condizione urbana africana.

Una prospettiva evolutiva: Fathy

Fathy era stato coinvolto nel progetto The City of the Future
sin dalle sue fasi istruttorie, articolando la propria proposta di
ricerca sia nell’intervista a più voci organizzata da Doxiadis in
risposta al suo report11, sia nei cinque working papers redatti pri-
ma della sua partenza per l’Africa12. Già prima della partenza, Fa-
thy aveva chiaro il ruolo cruciale che avrebbero giocato le città
dell’Africa e del Medio Oriente. I tratti che caratterizzavano il
loro sviluppo, infatti, apparivano perfettamente congruenti con
l’ambito della ricerca: attestati su tassi di crescita vertiginosi, i
centri africani e mediorientali stavano attraversando per primi
quei processi di trasformazione che della città del futuro erano
premessa e motore13. Per Fathy come per Doxiadis, quindi, i pae-
si del Terzo mondo rappresentavano un terreno di sperimenta-
zione prioritario per esprimere le ragioni stesse della ricerca.
Secondo Fathy, tuttavia, il progetto non poteva limitarsi a orga-
nizzare ordinatamente e produttivamente il processo di crescita
senza interrogarsi sugli aspetti qualitativi che questo avrebbe
inevitabilmente sollevato14. In altre parole, era necessario con-
centrarsi non tanto sulla gestione e il controllo dell’espansione
fisica in atto quanto sulla configurazione formale di quei fattori
che avevano polverizzato la monolitica organizzazione tribale

121
Filippo De Dominicis

Hassan Fathy, Il modello


Dynapolis applicato alla
città di Kano, Nigeria
(D-COF 8), 1961, in
Doxiadis Archives 19866,
© Constantinos & Emma
Doxiadis Foundation,
Atene.

122
Evoluzione e infrastruttura

generando, allo stesso tempo, una moltitudine di nuove gerar-


chie15. Il modello Dynapolis, secondo Fathy, aveva in sé tutti i
caratteri per confrontarsi con un problema simile, nella misura
in cui organizzava la crescita attraverso un sistema gerarchico
di tipo incrementale, fondato sulla reiterazione di un’unità base
di cui si doveva stabilire, di volta in volta, la configurazione ot-
timale. Nonostante ciò, le criticità sollevate dall’architetto egi-
ziano sarebbero emerse proprio di fronte alla necessità di far
convivere l’unità della struttura urbana con la pluralità delle
strutture sociali e fisiche che ne stavano definendo il corpo: fino
a che punto ci si poteva spingere nella definizione dimensionale
degli elementi che, ripetuti, avrebbero costituito il corpo della
città? Fino a che punto poteva giungere la stessa ripetizione
senza che la logica incrementale scadesse in una semplice giu-
stapposizione di parti, perdendo quel ruolo unificante per cui
era stata concepita? La questione posta da Fathy toccava la radi-
ce del problema e la finalità ultima del progetto di ricerca: men-
tre per Doxiadis la configurazione ottimale delle comunità inse-
diate era funzionale ad una crescita capace di procedere senza
attriti16, per Fathy la necessità di dare giusta forma e dimensio-
ne alle singole parti era intimamente legata alla definizione del
carattere delle parti stesse. Di fronte a persone che abitavano la
città per la prima volta, e questo era il caso degli inurbati dalle
campagne che affollavano i bordi di Khartoum e Baghdad, la
configurazione ottimale serviva a rendere tale una strada, un
quartiere, la stessa città. Era opportuno, avrebbe sottolineato
ancora Fathy nelle sue note preliminari, determinare quelle so-
glie sopra le quali o sotto le quali le parti perdevano le loro qua-
lità costitutive per acquisirne altre e trasformarsi, il raggio di
azione di ciascun livello di aggregazione affinché ognuno di
questi livelli mantenesse saldi i propri riferimenti psicologici,
sociali, culturali e fisici, in un orizzonte di senso e significato
compiuto17. Rispetto alla posizione ortodossa di Doxiadis, il

123
Filippo De Dominicis

Lettera di Hassan Fathy


a John Papaiannou, 11
febbraio 1961, in Doxiadis
Archives 17907, ©
Constantinos & Emma
Doxiadis Foundation,
Atene.

124
Evoluzione e infrastruttura

ragionamento di Fathy introduceva alcuni elementi di “distur-


bo” che avrebbero tentato di ricondurre il modello di sviluppo
nell’alveo più ampio delle finalità dell’esistenza umana: se era
vero che Dynapolis doveva presiedere all’inarrestabile dinamica
dello sviluppo, e se la crescita si configurava sempre più come
una sorta di destino inevitabile, era altrettanto vero che il radi-
camento continuava a essere, per l’architetto egiziano, uno dei
tratti determinanti dell’evoluzione e della civilizzazione uma-
na18. In ragione di un argomento simile, Fathy si domandava
quali fossero le forme di radicamento che la città del futuro
avrebbe proposto ai singoli individui e alle comunità, conside-
rando i diversi livelli di socialità che la contemporanea civiltà
delle cose proponeva loro. La risposta era nella terza dimensio-
ne, talvolta elusa anche negli esempi di Dynapolis meglio riusci-
ti19: compito dell’architettura e della città del futuro sarebbe sta-
to sì organizzare i pattern di crescita, assecondando la mobilità e
la flessibilità della vita urbana; ma soprattutto garantire agli abi-
tanti quel minimo grado di stabilità entro cui poter evolvere in
termini sociali e culturali20. Il sopralluogo attraverso il continen-
te africano e il contatto con realtà urbane prive di ogni configu-
razione qualitativa avrebbero portato le considerazioni di Fathy
a conseguenze estreme: pur considerato come unico orizzonte
progettuale possibile, il modello Dynapolis – nei suoi presuppo-
sti e obiettivi, ma anche nelle sue modalità applicative – sarebbe
stato sottoposto a una sottile revisione critica. In una lettera in-
viata da Abidjan l’11 febbraio 1961, Fathy avrebbe definito il mo-
dello Dynapolis come «qualcosa fatto appositamente per l’Africa
più che per ogni altro luogo»21, l’unico strumento per contrastare
lo stato di caos che contraddistingueva le città del continente.
Eppure, nella prospettiva di Fathy, l’obiettivo che Dynapolis
avrebbe dovuto perseguire sarebbe stato completamente diver-
so da quello delineato da Doxiadis. Vi era, infatti, un elemento di
fondo che distingueva le città africane da quelle del resto del

125
Filippo De Dominicis

globo, e che rendeva qualunque ragionamento sulla crescita e lo


sviluppo se non inefficace quantomeno prematuro. Quella evi-
denziata da Fathy era una condizione di apartness che si risolveva
nella mancanza di coesione o talora nella completa discontinuità
fra parti incapaci di stabilire ogni forma di relazione, sia di ordi-
ne fisico che culturale: brani di città che differivano per gerar-
chia sociale, etnia, lingua, costumi, tenore di vita, tenuti insieme
soltanto dalla necessità di scambiare servizi e denaro22. La totale
carenza di caratterizzazione qualitativa – la ragione che, secondo
Fathy, faceva di qualunque città dell’Africa un caso unico al mon-
do – avrebbe dunque imposto un ripensamento generale non
soltanto delle finalità del progetto ma delle stesse premesse teo-
riche che ne sostenevano e ne inquadravano la necessità. Come
era possibile stabilire un percorso di crescita se a mancare era,
anzitutto, una qualunque forma di organizzazione qualitativa-
mente rilevabile? Primo obiettivo dell’azione progettuale sareb-
be stato, dunque, quello di innescare un processo federativo che
portasse le parti a evolvere e dialogare fra loro, in vista del rag-
giungimento di una configurazione finale che fosse quanto più
possibile «armoniosa e stabile»23. In questo quadro, l’idea di svi-
luppo non era più l’obiettivo ma lo strumento per conseguire
uno scopo di ordine superiore: l’integrazione fra uomo e natura
in un tutto armonico e simbiotico, che Fathy identificava con la
finalità ultima dell’azione umana, sarebbe stato quell’orizzonte
in grado di guidare l’attività progettuale, mentre la crescita solo
uno dei modi per stabilizzare questo percorso24. Questo perché i
processi di inurbamento e urbanizzazione non potevano essere
considerati come il semplice esito di un «istinto aggregativo» o
di socialità, ma come una delle risposte più immediate a una
istanza evolutiva sovraordinata25. In altre parole, inurbamento e
urbanizzazione dovevano intendersi come fatti cruciali dell’agi-
re finalizzato dell’uomo, fatti funzionali a promuovere, nel lungo
termine, l’integrazione stabile tra società e universo26. Così

126
Evoluzione e infrastruttura

concepita, la città sarebbe stata parte in quel grande disegno di


sviluppo del genere umano che, includendo impulsi primari
come il matrimonio, la riproduzione e la protezione dei figli,
avrebbe definitivamente coinciso con il cammino dell’evoluzio-
ne27. Per questa ragione, era necessario interrogarsi – e questo
aspetto Fathy lo avrebbe sottolineato più volte – sulle ragioni
profonde che avevano portato la popolazione africana a concen-
trarsi in città e, più in generale, sui motivi per cui quel tipo di
città esisteva in quel modo, in quelle forme e in quel tempo28.
Rispetto a una prospettiva simile – che evocava aspetti del di-
scorso darwiniano sulla selezione naturale e la conservazione
della specie, ed era destinata ad articolarsi su scala globale –, la
città africana avrebbe potuto giocare un ruolo di innesco decisi-
vo. Per ritagliarsi questo ruolo, tuttavia, la città stessa doveva
intraprendere un processo di totale morfogenesi, senza il quale
qualunque ipotesi di crescita, espansione e sviluppo avrebbe
perso di senso.
Pur condividendo la condizione di trapasso che attraversava
la cultura urbana africana, e seppur concordi nell’attribuirgli un
peso specifico decisivo nella formulazione di nuove ipotesi per
il progetto della città, Fathy e Doxiadis muovevano su piani di-
vergenti. Le premesse teoriche che informavano il pensiero di
Fathy avrebbero infatti agito su un doppio livello, da un lato evi-
tando di associare il piano ai soli aspetti tecnici di ordine quan-
titativo, dall’altro consentendo di inquadrare le logiche di pro-
gettazione entro una cornice di significato più ampia. Dal canto
suo, l’architetto egiziano sarebbe riuscito a tratteggiare una vi-
sione nuova, pur restando entro i limiti delle ipotesi di ricerca
stabilite da Doxiadis Associates. In altri termini, Fathy non si sa-
rebbe mai sottratto all’obiettivo primario del progetto né avreb-
be perso di vista i suoi strumenti. Di questi strumenti, tuttavia,
avrebbe offerto un’interpretazione sofisticata e singolare, evi-
denziandone contraddizioni e forzature ma ammettendo, allo

127
Filippo De Dominicis

stesso tempo, la loro profonda necessità storica.


Se l’Africa era davvero il continente che, per primo, avreb-
be aperto una nuova era globale, la popolazione africana aveva
il diritto di prendere l’iniziativa e tracciarne il percorso in ra-
gione del contributo che la propria immaginazione e le proprie
facoltà creative avrebbero potuto offrire all’intero corso della
civilizzazione29. Sarebbe stato inutile o persino dannoso, del
resto, innestare soluzioni o strategie predeterminate che ave-
vano già dimostrato la loro inefficacia, conducendo il mondo
occidentale sull’orlo di una crisi di valori e di strumenti senza
precedenti. Fathy avrebbe costruito la sua prospettiva di inda-
gine proprio intorno a questo punto: rifiutando di considerare
la città del futuro come pura espressione tecnico-scientifica,
avrebbe tentato di piegare gli argomenti avanzati da Doxiadis
ad uno sguardo che guardava all’evoluzione più che alla cre-
scita. Allo stesso tempo, pur sforzandosi di identificare quegli
elementi che avrebbero potuto innescare la vagheggiata e ne-
cessaria morfogenesi, avrebbe comunque dovuto fare i conti
con una realtà che, non lontana dalla tabula rasa immaginata da
Doxiadis e soci30, aveva nella crescita vertiginosa e nell’assenza
di caratterizzazione qualitativa due dei suoi tratti più caratteri-
stici: da un lato, infatti, la città africana si presentava come una
materia instabile e incoerente, in grado di trasformarsi ad una
velocità e con modalità del tutto incontrollate, quasi al limite
dell’innaturale, eppure mai capace di raggiungere uno stato di
equilibrio sufficientemente stabile; dall’altro, questa velocità
estrema si traduceva in un’ “impermanenza” della forma che,
mentre privava la città di qualunque caratterizzazione di ordine
qualitativo-formale, costituiva di per sé l’unico elemento signi-
ficante. Proprio in ragione della natura contemporaneamente
dinamica e precaria della trasformazione, la realtà osservata da
Fathy era bisognosa di soluzioni immediate e, allo stesso tempo,
avida di una radicale impronta evolutiva, pur dovendo fare il

128
Evoluzione e infrastruttura

più possibile affidamento su «quel che aveva già in sé»; ovvero


su qualcosa che, per la sua stessa realtà precaria e mutevole,
non sembrava neppure in grado di provvedere al miglioramento
delle più elementari condizioni di vita. A fronte delle tante for-
ze che «attaccavano la città da ogni lato», la soluzione tratteg-
giata dall’architetto egiziano avrebbe combinato tensione spi-
rituale e pragmatismo, sottolineando sia l’urgenza della svolta
evoluzionista, sia l’impossibilità di accettarne i tempi lunghi31.
Per quanto la natura fosse ritenuta da Fathy motore e fine di
ogni trasformazione, lasciare che facesse il suo corso senza
interferenze sarebbe stata un’ambizione al limite della realtà.
Al contrario, in accordo con Doxiadis, considerava necessario
confrontarsi con la condizione storico-materiale in tutti i suoi
aspetti critici, forzando la mano e dettando i tempi: per que-
sto motivo, il processo di adattamento e di evoluzione doveva
essere inizialmente guidato e condotto attraverso un percorso
libero da errori, questi ultimi considerati troppo dispendiosi in
termini di tempo ed energie spese, almeno nella fase iniziale.
In questo primo stadio di accompagnamento, la popolazione
africana sarebbe stata incoraggiata a liberare il proprio spirito
di “immaginazione progettuale” e a tradurre l’impermanenza
in un principio di evoluzione adattiva e versatile che, non più
lineare, avrebbe preceduto e reso la crescita possibile. Di questo
processo dovevano essere responsabili gli esperti occidentali,
seppur in un’accezione radicalmente diversa da quella immagi-
nata da Doxiadis. Insieme alla popolazione, essi sarebbero stati
i protagonisti di un percorso ugualmente liberatorio, da numi
tutelari di un sistema chiuso a interpreti professionisti di un di-
segno evolutivo sinceramente rivolto alla trasformazione32. Un
disegno carente non tanto nell’intenzione – che sarebbe presto
deflagrata – quanto nella concreta capacità tecnica di portare a
compimento le soluzioni adottate33.

129
Filippo De Dominicis

Dynapolis in Africa

Nella prospettiva offerta da Fathy, Dynapolis avrebbe co-


munque giocato un ruolo decisivo. Nonostante le divergenze
che sarebbero gradualmente emerse nel corso della ricerca,
l’architetto egiziano restava comunque convinto che la città
del futuro fosse l’orizzonte cui l’essere umano doveva tendere
per varcare la soglia di una nuova era. Il sopralluogo attraverso
il continente africano, tuttavia, aveva svelato un nuovo spazio
di indagine, spostando il fuoco del ragionamento da un piano
quantitativo, manageriale, a uno qualitativo, più propriamente
legato alla disciplina del progetto e alle sue finalità. La questione
prioritaria, almeno in Africa, non era tanto capire come associa-
re città e sviluppo in una prospettiva di modellazione sociale e
di crescita globale, quanto interrogarsi sul modo in cui le singo-
le realtà in atto – di ordine economico, sociale, culturale o reli-
gioso – avrebbero potuto contribuire all’evoluzione degli stessi
processi insediativi, rendendoli parte di quel disegno universale
che avrebbe riconciliato uomo e natura in un tutto armonico e
omogeneo. Pur sottolineando l’importanza della descrizione e
del disvelamento dello specifico in atto, quindi, il ragionamento
elaborato da Fathy non avrebbe perso di vista quell’orizzonte
globale che The City of the Future aveva posto a guida della sua
indagine. Il contributo richiesto alla popolazione africana, in-
fatti, era uno, ma doveva guardare al mondo: sarebbe stato pos-
sibile individuare una e una sola specificità continentale tale da
rendere la città africana del futuro qualcosa di seminale per l’in-
tero genere umano? A questa domanda, Fathy avrebbe risposto
in maniera affermativa, a condizione che si compiesse, il prima
possibile, quella svolta evolutiva più volte vagheggiata. A garan-
tire il salto evolutivo sarebbe stata proprio Dynapolis34.
Dynapolis, nei fatti, si presentava come il solo strumento in
grado di gestire, e risolvere, i problemi che affliggevano la città

130
Evoluzione e infrastruttura

africana; ovvero l’unico modo per far convergere tutte le forze


presenti e future che agivano e avrebbero agito sull’organismo
urbano entro l’alveo di una configurazione minima che le con-
tenesse e, allo stesso tempo, consentisse loro di esprimersi e
svilupparsi entro un quadro unitario. Fathy avrebbe esaminato
l’effettiva validità del modello Dynapolis utilizzandolo in ma-
niera sperimentale e allo stesso tempo ortodossa. Ortodossa
perché, attraverso il suo utilizzo, ne avrebbe davvero verifica-
to l’applicabilità su ampio spettro, esattamente come era negli
obiettivi di The City of the Future. Sperimentale perché vi avreb-
be coniugato le proprietà prefigurative dell’analisi e quelle con-
figurative del progetto, per la prima volta riassunte in un uni-
co strumento. Applicata a situazioni esistenti, infatti, la griglia
Dynapolis – con la sua gerarchia scalare di settori comunitari
e di infrastrutture – avrebbe immediatamente svelato tutte le
discontinuità sociali e morfologiche che caratterizzavano la cit-
tà, dalle cesure nel tessuto alle forme di segregazione etnica ed
economica. Allo stesso tempo, avrebbe costruito veri e propri
scenari, individuando le azioni da intraprendere, i luoghi dove
intervenire e i tempi da rispettare, secondo quella prospettiva
di settorializzazione spaziale e cronologica che il modello aveva
stabilito quale propria regola progettuale. In questo senso Fathy
avrebbe fornito un’interpretazione profondamente innovativa
del modello Dynapolis, senza mai negarne i principi fondativi.
Tuttavia, ne avrebbe piegato gli obiettivi, rimodellandoli su una
realtà specifica ma potenzialmente globale – quella africana –,
e rispetto ad una finalità più ampia – lo sviluppo urbano come
parte del destino dell’essere umano – che di quella realtà era de-
bitrice. Durante il suo viaggio, l’architetto egiziano aveva appli-
cato Dynapolis su base comparativa, sovrapponendo la griglia
del modello al pattern di ciascuna delle città visitate. Attraverso
questa operazione, semplice ma rivoluzionaria, avrebbe reso
evidente e misurato «fino a che punto ogni città metteva la sua

131
Filippo De Dominicis

propria popolazione nella condizione di svilupparsi e realizzare


il destino del genere umano»35. In altri termini, Fathy sarebbe ri-
uscito a tradurre Dynapolis in un modello capace di visualizzare
aspetti qualitativi e, allo stesso tempo, produrre scenari configu-
rativi, secondo un’idea di sviluppo associato non più alla sempli-
ce crescita ma all’evoluzione del corpo urbano. Così concepita,
Dynapolis costituiva il quadro entro cui emendare gli squilibri
e stimolare la creatività e l’immaginazione del popolo africano,
facendo emergere un codice genetico continentale contro quel-
le forme di imitazione e standardizzazione che caratterizzava-
no sia l’edilizia spontanea sia quella pianificata, e verso un reale
miglioramento delle condizioni materiali dell’abitare. Secondo
questa logica, l’applicazione del modello avrebbe tenuto insie-
me e salvaguardato le singole specificità in una cornice evoluti-
va sempre più ampia e armonica: la cooperazione auspicata fra
i singoli settori urbani, disgregati e lacerati, si sarebbe gradual-
mente estesa alle aree rurali circostanti – aree da cui proveniva
gran parte di quella pressione demografica che soffocava la città
esistente – e alla regione36, fino al raggiungimento di una confi-
gurazione minima oltre la quale il modello Dynapolis avrebbe
dovuto essere rielaborato. L’obiettivo era garantire una relazione
flessibile – e quindi non necessariamente stabile – tra l’organi-
smo urbano e la sua regione: dalla trama di queste relazioni, mol-
tiplicate in funzione del numero dei centri, sarebbe emerso quel
pattern infrastrutturale che avrebbe coperto l’intero continente
e fornito supporto alla città africana del futuro. Questo doveva
realizzarsi non tanto per alimentare il flusso e la circolazione di
capitali, quanto per innescare uno sviluppo radicato nelle spe-
cificità temporali e spaziali del continente africano, riattivando
quei tratti caratterizzanti che ne avevano indirizzato lo sviluppo
nei secoli; e per plasmare, in altre parole, una nuova «Africa afri-
cana». Senza mettere a frutto le capacità della popolazione afri-
cana, infatti, non ci sarebbe stato alcun futuro per il continente37.

132
Evoluzione e infrastruttura

Il modello sperimentato da Fathy, costantemente soggetto


all’azione trasformativa di vincoli esterni, differiva in maniera
sostanziale dal sistema chiuso, illimitato e altamente conser-
vativo elaborato da Doxiadis. Considerare la presenza attiva di
fattori apparentemente contaminanti quali creatività e inven-
zione significava da un lato ammettere la possibilità di un di-
spositivo realmente aperto alle interferenze, dall’altro rendere
lo stesso dispositivo in grado di sollecitare quella trasformazio-
ne in senso qualitativo di cui la città africana aveva disperato
bisogno. Nel caso in cui le condizioni al contorno avessero ces-
sato – o modificato – la loro azione di spinta, o se, ad esempio,
nuovi mezzi di comunicazione avessero definitivamente reso il
quadro spazio-temporale corrente non più effettivo, Dynapolis
avrebbe definitivamente perso ogni efficacia. Perché se Dyna-
polis aderiva perfettamente alla condizione di instabilità e di
incoerenza che attraversava lo spettro urbano del continente in
quel momento, nulla lasciava presagire che una simile aderen-
za avrebbe potuto persistere una volta raggiunto quello stato
armonico e stabile con cui Fathy identificava la manifestazio-
ne ultima dello sviluppo. Nella prospettiva elaborata dall’ar-
chitetto egiziano, infatti, non vi era spazio per alcun percor-
so prestabilito e predeterminato, come nel caso dello schema
proposto da Doxiadis: all’idea di sviluppo a ogni costo sarebbe
subentrata una concezione più equilibrata, in cui le forze della
crescita avrebbero dovuto necessariamente combinarsi, in ogni
fase, con la presenza di fattori umani e ambientali, riferibili alla
singolarità di ciascun caso. Non casualmente, lo stesso Fathy
aveva intravisto nell’impermanenza della forma quel carattere
già in essere che, se opportunamente progettato, avrebbe me-
diato flessibilità, creatività e rapidità della crescita, restituen-
do alla città dinamica un’armonica continuità di parti fra loro
cooperanti.

133
Filippo De Dominicis

Verso un progetto continentale: l’All-Africa plan

La continuità cui Fathy guardava con più attenzione era quel-


la che si sarebbe dovuta stabilire fra la città del futuro e la cam-
pagna del futuro: un limite che era destinato a spostarsi sem-
pre più velocemente, soprattutto in considerazione del tasso di
urbanizzazione vertiginoso che caratterizzava la città africana.
Con l’avvento di Dynapolis, la città avrebbe smesso di crescere
in maniera concentrica per evolversi lungo alcune direttrici di
sviluppo giudicate preferenziali, inglobando i centri minori e
saldandosi, infine, con i centri di pari livello. Un simile scenario
apriva a un pattern di scala vasta altamente gerarchizzato, in cui
parti tra loro cooperanti avrebbero interagito su scala regionale
e transnazionale, ridisegnando i tradizionali rapporti di forza
fra centro e periferia. In questo quadro di sviluppo armonico,
ma a fronte di una condizione specifica altamente disomogenea
e discontinua, un ruolo determinante lo avrebbe giocato l’infra-
struttura, la spina dorsale di uno sviluppo che avrebbe condotto
l’Africa sulla soglia di una nuova era.
Fathy avrebbe lasciato il progetto COF alla scadenza del suo
contratto, il 7 novembre 1961, non prima di aver esposto i risul-
tati del proprio lavoro in una presentazione pubblica, tenutasi
ad Atene ed emblematicamente intitolata Dynapolis in Africa38.
Dopo aver sinteticamente ribadito le impressioni già emerse
durante i sopralluoghi, Fathy avrebbe concluso la sua lecture en-
fatizzando l’opportunità di una pianificazione che andasse ben
oltre i limiti imposti dall’organismo urbano: limiti che erano
destinati a essere continuamente riscritti, considerata la natura
dinamica del modello. Ma c’era qualcosa in più: la sostanziale
ripetitività della condizione urbana da un lato e l’entità delle
trasformazioni in atto dall’altro avrebbero suggerito l’appli-
cazione del modello su un’estensione continentale, una scala
del tutto inaspettata almeno in fase istruttoria. Sarebbe stata

134
Evoluzione e infrastruttura

la prima volta che, almeno in forma pubblica39, un organo in-


terno a Doxiadis Associates avrebbe ammesso l’ipotesi di una
pianificazione reale che andasse al di là della scala nazionale e
tentasse di riscrivere quei limiti politici rappresentati dai confi-
ni di stato. L’occasione per tradurre l’auspicio teorico in eserci-
zio progettuale non si sarebbe fatta attendere: dopo l’inizio del
progetto per il nuovo porto di Tema40, in Ghana, e dopo che nel
marzo del 1961 Doxiadis aveva manifestato l’interesse verso uno
studio dedicato all’Africa41, nel novembre dello stesso anno42
DA avrebbe prodotto un breve rapporto dal titolo Regional de-
velopment through transport in Africa. A first approach43. Lo studio
– destinato a diventare l’introduzione di un lavoro più esteso
e complesso, pubblicato l’anno seguente – non faceva propria-
mente parte del progetto COF; tuttavia, doveva essere conside-
rato come uno dei suoi primi risultati, suggerito – e revisionato
– dallo stesso Fathy pochi giorni prima del termine del suo con-
tratto44. Sia l’interesse per l’infrastruttura che l’estensione con-
tinentale, infatti, emergevano dalle riflessioni elaborate dall’ar-
chitetto egiziano durante i mesi del sopralluogo. D’altra parte,
il tema infrastrutturale si era già imposto all’attenzione delle
istituzioni transnazionali, essendo stato già affrontato e inqua-
drato, seppure ad una scala ridotta, appena un mese prima della
pubblicazione del report di Doxiadis. Nell’ottobre 1961, la neo-
nata United Nations Economic Commission for Africa (UNE-
CA) aveva infatti organizzato un incontro fra ministri e tecnici
dell’Africa occidentale con lo scopo di individuare le carenze in
materia di trasporti e predisporre una strategia che, facilitan-
do la circolazione di beni e persone, avrebbe dovuto incremen-
tare gli scambi e innescare nuovi processi di crescita45. Quello
dell’UNECA per l’infrastruttura era un interesse di lungo corso:
maturato all’inizio degli anni Cinquanta, nei primi anni delle
indipendenze sarebbe emerso come uno dei temi centrali della
sua agenda, soprattutto in ragione dell’incidenza dei trasporti

135
Filippo De Dominicis

Doxiadis Associates, Lo sviluppo regionale africano attraverso il trasporto. Studi


preliminari, in DOX-GA 2, 11 novembre 1961, p. 2, Doxiadis Archives 18731, ©
Constantinos & Emma Doxiadis Foundation, Atene.

136
Evoluzione e infrastruttura

nei processi di sviluppo economico46. Sulla scorta di questa enfasi


crescente, e grazie ai ragionamenti elaborati da Fathy, Doxiadis
avrebbe prodotto di sua propria iniziativa un grande piano infra-
strutturale che riprendeva la scala continentale del primo studio
istruttorio, ampliandone le riflessioni ed estendendole a una di-
mensione politica fino ad allora mai esplicitamente dichiarata47.
Con la redazione dell’Africa Transport Plan, Doxiadis avrebbe ri-
unito pratica professionale e indagine teorica in un manifesto di
natura politica che esprimeva, forse per la prima volta in forma
così compiuta, la natura multilaterale della sua azione: attitudi-
ne manageriale da un lato, e riflessione disciplinare dall’altro, si
sarebbero risolte in uno strumento potenzialmente in grado di
avverare tutte quelle istanze post-ideologiche esposte nel 1955 a
Milano. Il piano era rivolto ai leader dell’Africa post-coloniale e
proiettava il continente in una dimensione globale. Lo avrebbe
fatto agendo sulle ambizioni contraddittorie ma sincere dei mo-
vimenti nazionalisti che, nella speranza di consolidare la propria
posizione politico-economica, guardavano alla modernizzazione
come a uno strumento federativo in grado di rafforzare le sin-
gole realtà territoriali e di promuovere, allo stesso tempo, movi-
menti di unità e indipendenza di prospettiva continentale. Non a
caso indicato come All-Africa plan, il piano per i trasporti africa-
ni avrebbe dovuto rappresentare un orizzonte di unità possibile
fondato sulla libera circolazione di beni e persone.
Come era consuetudine ormai, Doxiadis avrebbe impostato
il discorso progettuale sulla stretta corrispondenza fra confi-
gurazione spaziale futura – tesa a sanare le discontinuità e gli
squilibri che caratterizzavano il continente – e sviluppo econo-
mico. Questa volta, tuttavia, il binomio insediamento-crescita
sarebbe andato ben oltre l’obiettivo del problem-solving di carat-
tere tecnico, costituendosi come il germe di un fatto ulteriore,
di natura politica, che guardava alla ridefinizione dei caratteri
profondi dell’intero continente. Attraverso la riscrittura della

137
Filippo De Dominicis

Doxiadis Associates, Verso un piano africano di trasporti, 1962, in “DA Bulletin”,


n. 63, febbraio 1964, Doxiadis Archives 35409, © Constantinos & Emma Doxiadis
Foundation, Atene.

138
Evoluzione e infrastruttura

trama infrastrutturale, infatti, non si sarebbe soltanto riequili-


brato l’assetto insediativo, né si sarebbe agito per rendere que-
sto nuovo assetto funzione esclusiva dello sviluppo. Nella pro-
posta progettuale, concepita da Fathy e formulata da Doxiadis,
vi era qualcosa di più profondo. Bilanciare i caratteri insediativi
a mezzo dell’infrastruttura avrebbe significato rovesciare una
configurazione cinquecentenaria che risaliva alle prime forme
di colonizzazione e si traduceva, nei fatti, in una totale estro-
versione dei fenomeni urbani, quasi tutti concentrati lungo una
stretta striscia di terra affacciata sugli oceani. A fronte di que-
sto outward-looking layout48 – espressione di un legame esclusivo
con le tante madrepatrie europee che avevano detenuto il con-
trollo del continente, già sottolineato da Fathy49 in uno dei suoi
primi rapporti di ritorno dal sopralluogo continentale –, Doxia-
dis avrebbe messo in atto un programma di totale inversione,
con l’obiettivo di proiettare l’Africa nel futuro e restituirgli la
propria ragion d’essere rovesciandola verso l’entroterra; un en-
troterra che, rispetto alle coste, mancava di qualunque supporto
necessario allo sviluppo. La trama trans-africana immaginata da
Doxiadis avrebbe riabilitato la cosiddetta landlocked area, ren-
dendola parte costitutiva di un blocco unitario e compatto che
invertiva l’antica espressione del potere coloniale e, allo stesso
tempo, gettava le basi per superare tutti gli ostacoli – primo fra
tutti la “balkanizzazione”50 territoriale – che si frapponevano
tra l’Africa e il suo sviluppo futuro. In questo senso, Doxiadis
avrebbe fatto coincidere il percorso verso lo sviluppo con un
processo di progressiva e sempre maggiore consapevolezza po-
litica, fornendo ai leader africani non tanto il mezzo per alimen-
tare la crescita economica – che costituiva, nei fatti, un obietti-
vo non più negoziabile – quanto, soprattutto, lo strumento che
li avrebbe affrancati dal passato coloniale51, proiettandoli diret-
tamente in quella dimensione di cooperazione transnazionale
in cui i confini di stato avrebbero giocato un ruolo via via più

139
Filippo De Dominicis

Doxiadis Associates,
Proposta per una rete
di trasporti africani
all’attenzione dell’UNECA
(D-COF 1298), s.d., in
Doxiadis Archives 25822,
© Constantinos & Emma
Doxiadis Foundation,
Atene.

140
Evoluzione e infrastruttura

marginale. A questa dimensione Doxiadis avrebbe fatto più vol-


te riferimento esplicito, rivolgendosi senza mezzi termini alle
azioni federative già intraprese dai gruppi intergovernativi che
lavoravano al progetto di unità africana52.
Così concepito, l’All-Africa plan si presentava come una di-
chiarazione di intenti che avrebbe svelato, senza fraintendi-
menti, quella prospettiva post-politica offerta dal tramonto
delle ideologie; una prospettiva che era possibile delineare sol-
tanto rendendo lo sviluppo strumentale al dissolvimento delle
tensioni politico-ideologiche. Il movimento panafricanista, che
pure emergeva dalle profonde instabilità ideologiche che per-
correvano i nazionalismi post-coloniali, poteva avverarsi solo
se proiettato in un quadro di mutua cooperazione allo sviluppo
come quello presentato dal piano; uno scenario in cui ogni pae-
se avrebbe impegnato e condiviso le proprie risorse e il proprio
know-how per pianificare e incrementare investimenti, consumi
e produzione, mettendo da parte rivendicazioni di carattere po-
litico in nome di un bene comune superiore. In questo senso,
Doxiadis avrebbe letteralmente intercettato il pensiero pana-
fricanista, rendendolo parte integrante – e strumentale? – del
suo disegno post-politico. Una rete infrastrutturale articolata
e transnazionale avrebbe reso la confederazione africana un’i-
potesi più che concreta, e avrebbe aperto la strada al raggiun-
gimento di un’unità sovraordinata, di base tecnico-scientifica,
fondata sulla libertà dell’azione individuale, sulla diffusione del
capitale su scala planetaria, e su quel progresso capace di farsi
strada attraverso i confini nazionali indipendentemente dalle
azioni e dalle volontà dei singoli governi: infrastruttura signifi-
cava infatti domanda sempre maggiore di energia, nuove instal-
lazioni industriali e ingenti capitali stranieri; significava, in altri
termini, poter tradurre l’instabilità politica in una coesistenza
pacifica ed equilibrata, fondata sugli investimenti, sul benessere
e, non ultimo, sul controllo tecnico. Trattandosi di un’occasione

141
Filippo De Dominicis

professionale autofinanziata e, di conseguenza, libera da vincoli


professionali troppo stringenti, l’Africa Transport Plan rappre-
sentava una delle testimonianza più interessanti di un pensiero
che, facendo della fine delle ideologie una nuova e altrettanto
potente ideologia, poteva agire sul piano teorico-disciplinare
come su quello professionale-relazionale, muovendosi attraver-
so questo scenario multilivello con estrema disinvoltura: per dif-
fondere i risultati del piano, Doxiadis avrebbe attivato molti dei
propri contatti oltreoceano, persuaso com’era del suo carattere
innovativo e degli aspetti promozionali connessi che ne sareb-
bero derivati. Nonostante il coinvolgimento dello Special United
Nations Fund for Development nella persona del suo direttore,
la mobilitazione diretta di un buon numero di capi di stato, e i
vari abboccamenti con World Bank, Ford Foundation e USAID53,
il progetto continentale sarebbe rimasto lettera morta. A nulla
sarebbe servito un ulteriore studio relativo alla localizzazione
della futura capitale panafricana, indirizzato a Kwame Nkrumah
e prodotto nella seconda metà del 196354.
D’altro canto, molti degli studi elaborati in seno al piano – e
molti dei temi emersi, l’infrastruttura prima fra tutti – avrebbero
costituto la base di un progetto teorico di portata ben più ampia
– Ecumenopolis –, un «modo alternativo di guardare alla città
del futuro»55 che avrebbe visto la luce ad Atene proprio durante
il sopralluogo di Hassan Fathy in Africa, nel gennaio del 1961.

Note

1. Doxiadis Konstantinos Apostolos, An analysis of the scope and the design of


the project (R-ERES 1), ATO-GSE – Research Project “The City of the Future”, 5
ottobre 1960, in Doxiadis Archives 18403, C.&E. Doxiadis Foundation, Atene;
Doxiadis Konstantinos Apostolos, Questions by Team Members and Answers by

142
Evoluzione e infrastruttura

D on the Project and its Contents (R-ERES 2), ATO-GSE – Research Project “The
City of the Future”, 6 dicembre 1960, in Doxiadis Archives 18403, C.&E. Doxia-
dis Foundation, Atene.
2. Nel documento R-ERES 2, Doxiadis utilizza il termine continuing, che deno-
ta il carattere di lungo termine, perdurante, della ricerca. Vedi: Doxiadis Kon-
stantinos Apostolos, Questions by Team Members and Answers by D…, cit., p. 2.
3. Doxiadis Konstantinos Apostolos, Questions by Team Members and Answers
by D…, cit., p.5. Nella risposta, Doxiadis si rivolge a Hassan Fathy, lo specialista
incaricato del sopralluogo africano.
4. L’attenzione politica statunitense verso i paesi dell’Africa sarebbe maturata
solo qualche anno più tardi, durante la campagna elettorale di J.F. Kennedy.
Da un punto di vista politico, infatti, gli Stati Uniti avevano sempre conside-
rato il continente africano come un’esclusiva prerogativa degli stati europei.
5. An analysis of the activities of the Ford Foundation given by Mr. George Gant, 17
marzo 1959, in Doxiadis Archives 17907. I progetti istruttori lanciati in Africa
da Ford erano definiti feeler project, e riguardavano essenzialmente le aree a
ex-dominazione britannica.
6. Sutton Francis X., The Ford Foundation. The Early Years, in “Daedalus”, vol.
116, n. 1, 1987, pp. 41-91.
7. Sutton Francis X., The Ford Foundation’s Development Program in Africa, in
“African Studies Bulletin”, vol. 3, n. 4, 1960, pp. 1-7.
8. Pyla Panayiota, Hassan Fathy Revisited. Postwar Discourses on Science, Deve-
lopment and Vernacular Architecture, in “Journal of Architectural Education”,
vol. 60, n. 3, 2007, pp. 28-39.
9. Doxiadis Konstantinos Apostolos, Prof. Fathy and his program in the Ekistics
school (S-D 1745), 10 settembre 1959, in Doxiadis Archives 17907, C.&E. Doxia-
dis Foundation, Atene. Il documento dattiloscritto, indirizzato a Dimitris Ia-
tridis, fa anche riferimento al futuro coinvolgimento di Lewis Mumford come
lecturer.
10. Fathy Hassan, Report on Towns Visited in North and West Africa – Intro-
duction, (R-ERES 15/14), ATO-GSE – Research Project “The City of the Future”,
20 aprile 1961, pp. 1-5, in Doxiadis Archives 18604, C.&E. Doxiadis Foundation,
Atene.
11. Doxiadis Konstantinos Apostolos, An analysis of the scope and the design of
the project… cit.; Doxiadis Konstantinos Apostolos, Questions by Team Members
and Answers by D…, cit.
12. Hassan Fathy redige i working paper fra la fine del mese di novembre e
l’inizio del mese di dicembre 1960, appena prima della sua partenza. I rap-
porti, identificati con codice S-ERES, includono documenti dattiloscritti fir-
mati da Fathy, Iatridis, Papaioannou, Bogdanou, Gutenschwager e, in seguito,

143
Filippo De Dominicis

Tyrwhitt. Doxiadis Archives 18420, C.&E. Doxiadis Foundation, Atene.


13. Fathy Hassan, Exchange of Views on the Research Project (S-ERES 2), ATO-G-
SE – Research Project “The City of the Future”, 12 ottobre 1960, pp. 1-2, in Doxia-
dis Archives 18420, C.&E. Doxiadis Foundation, Atene.
14. Fathy avrebbe scritto sul «sense of quality emerging from quantitative
change». Vedi Fathy Hassan, Outline of the Study of the Research Design (S-ERES
27), ATO-GSE – Research Project “The City of the Future”, 28 novembre 1960, p.
1, in Doxiadis Archives 18420, C.&E. Doxiadis Foundation, Atene.
15. Fathy Hassan, Proposed Subjects for Research (S-ERES 28), ATO-GSE – Rese-
arch Project “The City of the Future”, 29 novembre 1960, in Doxiadis Archives
18420, C.&E. Doxiadis Foundation, Atene.
16. Vedi Bogdanou Myrto, An Outline of the Theory of Dynapolis (S-ERES 22),
ATO-GSE – Research Project “The City of the Future”, 22 novembre 1960, in
Doxiadis Archives 18420, C.&E. Doxiadis Foundation, Atene. Myrto Bogda-
nou è segretaria del progetto COF, incaricata della redazione della struttura
generale della ricerca. Vedi anche Bogdanou Myrto, Gutenschwager Gerald,
Research Design – Draft 1 (S-ERES 21), ATO-GSE – Research Project “The City
of the Future”, 21 novembre 1960, in Doxiadis Archives 18420, C.&E. Doxiadis
Foundation, Atene.
17. Fathy Hassan, Proposed Subjects …, cit., p. 3. Vedi in particolare il capitolo
intitolato The right size in planning.
18. Fathy Hassan, Mobility and Fixity of Population in a City (S-ERES 31), ATO-G-
SE – Research Project “The City of the Future”, 1 dicembre 1960, p. 2, in Doxiadis
Archives 18420, C.&E. Doxiadis Foundation, Atene.
19. Fathy Hassan, Exchange of Views…, cit., p. 2. In particolare, Fathy fa riferi-
mento ai piani di Homs e Hama, redatti da Doxiadis Associates fra il 1958 e il
1959. Vedi Doxiadis Associates, The Future of Homs and Hama, in “DA Bulletin”
(numero monografico), n. 11, marzo 1960.
20. Fathy Hassan, Mobility and Fixity…, cit.
21. Fathy Hassan, lettera a John Papaioannou, 11 febbraio 1961, in Doxiadis Ar-
chives 17907, C.&E. Doxiadis Foundation, Atene.
22. Fathy Hassan, Report on Towns Visited in North and West Africa – Intro-
duction…, cit., p.5. Per rafforzare la sua ipotesi, Fathy fa riferimento al sopral-
luogo effettuato nella città di Kano, in Nigeria, per cui elaborerà uno schema
di Dynapolis. Vedi anche Fathy Hassan, A Suggested Matrix for Investigating
Ekistical Problems with Reference to Dynapolis (S-ERES 92), ATO-GSE – Resear-
ch Project “The City of the Future”, 3 agosto 1961, in Doxiadis Archives 18420,
C.&E. Doxiadis Foundation, Atene.
23. Fathy Hassan, Report on Towns Visited in North and West Africa – Intro-
duction …, cit., pp. 6-7.

144
Evoluzione e infrastruttura

24. Ivi, p. 11.


25. Ivi, p. 13.
26. Fathy Hassan, Report on Towns Visited in North and West Africa – Some Con-
clusions (R-ERES 15-14), ATO-GSE – Research Project “The City of the Future”,
2 luglio 1961, p. 7, in Doxiadis Archives 18604, C.&E. Doxiadis Foundation,
Atene.
27. Fathy Hassan, Report on Towns Visited in North and West Africa – Intro-
duction …, cit., p. 13.
28. Ivi, p. 12.
29. Ivi, p. 16.
30. Nella prima bozza di rapporto redatta al ritorno dal sopralluogo, Fathy fa
riferimento esplicito all’inesistenza di una città africana del passato, auspi-
cando una città del futuro che possa cominciare da zero. Con la scrittura dei
rapporti definitivi, la sua posizione si sarebbe fatta più articolata. Vedi Fathy
Hassan, African Cities – Preliminary Impressions (S-ERES 54), ATO-GSE – Rese-
arch Project “The City of the Future”, 24 marzo 1961, in Doxiadis Archives 18420,
C.&E. Doxiadis Foundation, Atene.
31. Fathy Hassan, Report on Towns Visited in North and West Africa – Introduction
…, cit., p. 18.
32. Per questa ragione, Fathy avrebbe visto con grande favore l’attivismo del
neoeletto presidente statunitense John Fitzgerald Kennedy. All’indomani del-
la sua elezione, infatti, Kennedy aveva lanciato una vasta campagna di recluta-
mento di esperti in ogni campo. L’obiettivo era inviarli nei paesi in via di svi-
luppo perché collaborassero, in prima persona, a progetti di assistenza tecni-
ca. Nella prospettiva di Fathy, l’aiuto europeo o statunitense nei confronti del
continente africano appariva indispensabile, ma doveva attestarsi su un piano
di pura consulenza professionale, libero da qualunque intrusione di carattere
commerciale o economico. Ogni tentativo, scriverà Fathy, di combinare la pia-
nificazione o una buona consulenza con la ricerca del profitto commerciale o
politico sarà destinato a fallire. Vedi Fathy Hassan, African Cities – Preliminary
Impressions..., cit., p. 5. Sutton Francis X., The Ford Foundation’s Development
Program in Africa…, cit., p. 2.
33. Vedi Sauvy Alfred, Trois mondes, une planète, in “L’Observateur”, vol. 118,
n. 14, 1952, s.p.
34. Fathy Hassan, Dynapolis in Africa, in “Ekistics”, vol. 12, n. 71, settembre
1961, pp. 206-208.
35. Fathy Hassan, Report on Towns Visited in North and West Africa – Intro-
duction …, cit., p.11. La frase è tradotta dall’autore. L’originale recita: «how far
they enable each citizen to promote human development towards the even-
tual fulfilment of man’s destiny».

145
Filippo De Dominicis

36. Non casualmente, visitando le città del Togo e dell’ex Dahomey, Fathy
si sarebbe chiesto perché non parlare di Dynaregion o Dynacountry quando
Dynapolis avrebbe oltrepassato i limiti dell’area urbana. Vedi Fathy Hassan,
Togoland and Dahomey (R-ERES 15/9), ATO-GSE – Research Project “The City of
the Future”, 28 giugno 1961, in Doxiadis Archives 18607, C.&E. Doxiadis Foun-
dation, Atene.
37. Fathy Hassan, Dynapolis in Africa, cit., p. 207. Nei suoi rapporti, Fathy tor-
nerà spesso sulla necessità di realizzare un’African Africa, contrapposta a quel-
la costruita dai colonizzatori europei.
38. Fathy Hassan, Dynapolis in Africa, cit., p. 208.
39. Il primo rapporto su Ecumenopolis, redatto da Doxiadis e Tyrwhitt nel
gennaio del 1961, durante la permanenza di Fathy in Africa, avrebbe precedu-
to la lecture dell’architetto egiziano solo di qualche mese. Trattandosi di un
documento classificato come confidential, non era destinato alla divulgazione.
Vedi Doxiadis Konstantinos Apostolos, Toward Ecumenopolis: a Different Ap-
proach to the Problem of “The City of the Future” (R-ERES 6), ATO-GSE – Resear-
ch Project “The City of the Future”, 25 gennaio 1961, in Doxiadis Archives 18607,
C.&E. Doxiadis Foundation, Atene.
40. In risposta alla dilatazione scalare di Dynapolis proposta da Fathy, Doxia-
dis avrebbe citato il nuovo progetto per la città portuale di Tema, a est di
Accra, che dilatava i principi della città del futuro ad ampie zone del retroter-
ra urbano. Vedi Doxiadis Konstantinos Apostolos, First remarks on the intro-
duction to the report on W.Africa (S-ERES 58), ATO-GSE – Research Project “The
City of the Future”, 17 aprile 1961, in Doxiadis Archives 18420, C.&E. Doxiadis
Foundation, Atene.
41. Doxiadis Konstantinos Apostolos, First remarks on the introduction…, cit.
42. Fathy avrebbe lasciato il progetto COF alla fine del mese di novembre 1961.
Athens Technological Institute – Athens Center of Ekistics, COF Monthly Re-
port (MR-COF 1-27), in Doxiadis Archives 19212, C.&E. Doxiadis Foundation,
Atene.
43. Doxiadis Associates, Regional Development Through Transport in Africa
(DOX-GA 2), 11 novembre 1961, in Doxiadis Archives 18731, C.&E. Doxiadis
Foundation, Atene.
44. Il documento di archivio DOX-GA 2 presenta note di revisione all’attenzio-
ne di Hassan Fathy, che si presume sia stato coinvolto nelle fasi istruttorie e
conclusive del lavoro. Vedi Doxiadis Associates, Regional Development Through
Transport in Africa…, cit., pp. 1-2.
45. UNECA, Report on the first session of the West-African Transport Conference
(held at Monrovia, Liberia, from 23 to 27 October 1961), 1961, in United Nations
Economic Commission for Africa (UNECA) Archives E/CN. 14/147; E/CN. 14/

146
Evoluzione e infrastruttura

TRANSP/ WP.24. Un report sintetico del meeting è stato anche pubblicato


nella rivista Ekistics: UNECA, Transport Problems in Relation to Economic De-
velopment in West Africa, in “Ekistics”, vol. 11, n. 68, giugno 1961, pp. 506-510.
46. Fra il dicembre del 1960 e il gennaio del 1961, in occasione dei suoi pri-
mi incontri, l’UNECA aveva infatti dedicato numerose sessioni di lavoro al
rapporto fra trasporti e sviluppo economico, specialmente in Africa occiden-
tale. Vedi: UNECA, Les transports et le développement économique en Afrique de
l’Ouest, 20 gennaio 1961, in United Nations Economic Commission for Africa
(UNECA) Archives E/CN. 14/63.
47. Doxiadis Associates, Toward an African Transport Plan (DOX-GA 3), 10
marzo 1962, in Doxiadis Archives 23285, C.&E. Doxiadis Foundation, Atene.
Una sintesi del piano è pubblicata anche in un numero monografico del DA
Bulletin del 1964. Vedi: Doxiadis Associates, Toward an African Transport Plan,
in “DA Bulletin” (numero monografico), n. 63, febbraio 1964.
48. Doxiadis Associates, Toward … (DOX-GA 3), cit., p. 77.
49. Fathy Hassan, African Cities…, cit., p. 2.
50. Sutton Francis X.,The Ford Foundation’s Development Program in Africa…,
cit., p. 2.
51. Non casualmente, Fathy avrebbe associato la nuova pianificazione ekistica
del continente alla localizzazione di nuove capitali politiche, svincolate dai
traffici costieri indotti dal sistema coloniale e rispondenti a logiche di ordine
geografico-amministrativo. Vedi Fathy Hassan, African Cities…, cit., p. 2.
52. In particolare, Doxiadis cita i gruppi di Monrovia e di Casablanca in nu-
merosi passaggi dello studio. Vedi Doxiadis Associates, Toward … (DOX-GA
3), cit.
53. Doxiadis Konstantinos Apostolos, African Transport Plan - Notes from pre-
vious contacts and discussions (S-D 5798), 3 aprile 1963; Doxiadis Konstantinos
Apostolos, African Transport Plan (S-D 6104), 11 maggio 1963; entrambi in
Doxiadis Archives 20065, C.&E. Doxiadis Foundation, Atene. I dattiloscritti
sono tutti indirizzati a J.Piperoglou.
54. Doxiadis Associates, A Panafrican Capital, (DOX-GA 8), 7 novembre 1963,
in Doxiadis Archives 23285, C.&E. Doxiadis Foundation, Atene. Vedi anche
Doxiadis Konstantinos Apostolos, Riflessioni sulla capitale dell’Africa (E-GA
313), 9 agosto 1963, in Doxiadis Archives 19948, C.&E. Doxiadis Foundation,
Atene. Nello studio per la capitale panafricana Doxiadis avrebbe fatto riferi-
mento esplicito alla liberazione degli stati africani e all’abbandono delle lotte
politiche, elencando nel dettaglio i nuovi criteri «oggettivi» che avrebbero do-
vuto guidare lo sviluppo. La traduzione del titolo e del documento originale,
in lingua greca, è di Vasiliki Petridou.
55. Doxiadis Konstantinos Apostolos, Toward Ecumenopolis…, cit., p.1.

147
Filippo De Dominicis

Verso la città-mondo

Un’alternativa per la città del futuro

All’indomani della partenza di Fathy per l’Africa, Doxiadis


e Piperoglou avrebbero intensificato i contatti con numerose
personalità di rilievo nel campo della pianificazione, dell’inge-
gneria, della sociologia, della geografia, dell’economia e della
storia per coinvolgerle nel team del progetto COF. Per tutto
il 1961, esperti di diversa nazionalità e provenienza avrebbero
fatto la spola fra Atene e il resto del mondo raccogliendo dati
e informazioni sulle città di Africa, Stati Uniti, Canada, Cen-
tro America, Colombia, Venezuela, India, Giappone, Europa
dell’est e Israele. All’inizio del 1962, la biblioteca a uso interno
della ricerca poteva contare su 1815 volumi, 430 rapporti, varie
riproduzioni in microfilm e abbonamenti a una quarantina di
periodici, fra riviste e giornali.
Al lavoro di raccolta dati si accompagnava un costante sfor-
zo di ricerca diretto a sviluppare alcuni temi specifici interni
alla disciplina architettonica, spesso indagati attraverso l’uso
di metodologie comparative. Studi sulle città di nuova fonda-
zione, analisi delle proposte per la città ideale, indagini sulla
densità e la distribuzione demografica nelle grandi città non

148
Verso la città-mondo

solo avrebbero tentato di ricondurre la questione della crescita


entro l’alveo degli studi morfologici, ma avrebbero fornito al di-
scorso teorico di Doxiadis quel pedigree che gli avrebbe consen-
tito, qualche anno più tardi, di proporsi quale erede dei defunti
CIAM1.
Come da obiettivi prestabiliti, l’attività della ricerca proce-
deva su più piani: attività sul campo, rielaborazione teorica e
sperimentazione progettuale, anche mediante incarichi profes-
sionali autocommissionati. Sovraordinato a questa azione mul-
tilaterale, l’obiettivo di costituire una classe di tecnici ed esperti
capaci di ideare, gestire e controllare i meccanismi e le forme
dello sviluppo. Ma se i meccanismi scalari erano oggetto di in-
dagine approfondita da più di cinque anni, le questioni relative
alla forma – e ai limiti – della città del futuro restavano ancora
una terra sostanzialmente incognita. Fathy, con il suo viaggio
in Africa, aveva sollevato questo tema per primo, individuando
nelle potenzialità configurative del modello Dynapolis un rime-
dio efficace alle instabilità morfologiche dell’organismo urbano
contemporaneo. Fathy si era spinto anche oltre, interrogandosi
sul destino della città una volta raggiunto quell’equilibrio sta-
bile e armonico cui il modello Dynapolis ambiva. A questa do-
manda l’architetto egiziano avrebbe risposto solo parzialmen-
te, fornendo tuttavia due chiavi di lettura essenziali: la prima
consisteva nella possibile estensione continentale del modello,
e in una sua auspicata applicazione teorica al layout territoria-
le dell’Africa occidentale. La seconda chiave, che avrebbe avuto
un immediato esito progettuale, era invece riferita ai modi con
cui rendere lo sviluppo un sistema evolutivo e flessibile, soprat-
tutto in relazione al limite fra città e non-città; e ai processi di
infrastrutturazione del pattern ekistico2. In altri termini, l’infra-
struttura sarebbe diventata quella trama cui sovrapporre pro-
cessi evolutivi sempre più ampi ed estesi, capace di supporta-
re sia la morfogenesi dell’insediamento sia il suo progressivo

149
Filippo De Dominicis

The City of the Future,


meeting del gruppo
di ricerca. Doxiadis si
rivolge a Tyrwhitt, di
spalle. Accanto a lei,
Fathy, 1961, in Doxiadis
Archives 33482, ©
Constantinos & Emma
Doxiadis Foundation,
Atene.

150
Verso la città-mondo

adattamento ai processi di crescita. Di queste interpretazioni la


ricerca avrebbe ampiamente beneficiato: Fathy era stato infatti
protagonista del progetto COF sin dalle sue prime fasi e du-
rante tutto il 1961, partecipando a discussioni e incontri prima
e dopo il suo viaggio in Africa ed esercitando un’influenza pro-
fonda al di là della insanabile distanza che separava il suo pen-
siero da quello di Doxiadis. Non casualmente, quindi, Doxiadis
avrebbe avvertito le medesime perplessità e gli stessi dubbi di
Fathy, manifestando la necessità di interrogarsi su un’alterna-
tiva metodologica possibile. Questo accadeva proprio mentre
l’architetto egiziano era in viaggio attraverso il continente afri-
cano. Sarebbe stata Jaqueline Tyrwhitt a stimolare Doxiadis su
queste nuove, ulteriori riflessioni, come in un ideale passaggio
di consegne fra i due grandi consulenti coinvolti nel proget-
to3. L’arrivo di Jaqueline Tyrwhitt ad Atene, all’inizio del 1961,
avrebbe infatti segnato una svolta capace di proiettare la ricer-
ca verso nuovi orizzonti, una svolta che avrebbe riscritto l’idea
stessa di città del futuro, riconfigurandone i termini, i modelli
e gli obiettivi. Al primo gennaio del 1961 – primo giorno di con-
tratto di Tyrwhitt – gli esperti coinvolti avevano già redatto più
di quaranta rapporti istruttori, mentre proseguiva quel diffuso
e minuzioso lavoro di raccolta dati che Fathy aveva avviato con
il sopralluogo africano e che, nel frattempo, si stava estenden-
do al mondo intero4. In tre giorni, dall’uno al quattro gennaio,
Tyrwhitt avrebbe letto e commentato tutta la documentazione
del progetto COF, inclusi i rapporti istruttori di Doxiadis, solle-
vando molte questioni di ordine formale e spaziale che la ricer-
ca aveva fino a quel momento trascurato5. Prima di collaborare
stabilmente con Doxiadis Associates, Tyrwhitt aveva maturato
esperienze di insegnamento, management e design in giro per
il mondo. Il punto di vista dell’architetto inglese di origini su-
dafricane, parte attiva dell’establishment architettonico globa-
le, avrebbe incoraggiato la ricerca a interrogarsi sull’esistenza

151
Filippo De Dominicis

stessa della città quale entità finita e misurabile; e a proiettare


il punto di vista del progetto contro un quadro temporale e spa-
ziale che della città del futuro avrebbe definito forma e misura.
Con Fathy impegnato a verificare in situ quelle regole e quelle
soglie oltre le quali Dynapolis avrebbe dovuto necessariamen-
te trasformarsi, Tyrwhitt si interrogava sull’effettiva ripetibili-
tà del modello urbano che il progetto intendeva sottoporre a
verifica. Il problema era capire come applicare la sequenza ge-
rarchica di comunità impostata con Dynapolis, e se questa se-
quenza avrebbe potuto estendersi universalmente e in maniera
indifferenziata rispetto ai fenomeni specifici che interessavano
ciascuna città. In caso di risposta affermativa – e i trend di cre-
scita tendevano a confermare questa ipotesi – quali sarebbero
state le implicazioni formali? Quali le conseguenze in termini di
design, in una prospettiva di lunga durata? Cosa sarebbe accadu-
to – continuava Tyrwhitt – se le previsioni stabilite dalla ricerca
si fossero realmente avverate? Come si sarebbe trasformata la
città del futuro? In che modo si sarebbe arrivati a quell’equili-
brio stabile e armonico che la crescita prometteva, e che for-
me avrebbe assunto un tale equilibrio? A questi interrogativi
Tyrwhitt avrebbe risposto tratteggiando una visione nuova: la
città del futuro doveva essere immaginata come serie illimitata
di regioni urbane, ciascuna provvista di una sua propria gerar-
chia e composta di elementi finiti e riconoscibili; una serie che,
agli occhi di Tyrwhitt, avrebbe dovuto estendersi fin nelle aree
rurali più remote del pianeta. Queste ultime sarebbero state
infatti incluse nel sistema quali esempi isolati di comunità di
II o III classe, vincolate e collegate a comunità urbanizzate di
ordine superiore. In questo modo, dalla più piccola comunità
agricola alla più grande megalopoli, tutti gli abitanti della Terra
avrebbero beneficiato di opportunità simili se non uguali. Con
gli argomenti avanzati da Fathy e Tyrwhitt, la ricerca si inoltra-
va per la prima volta all’interno di un territorio sostanzialmente

152
Verso la città-mondo

sconosciuto: non si trattava più infatti di indirizzare e formaliz-


zare trend di crescita in atto, ma di prevederne le conseguenze
spaziali, come se le previsioni che avevano avviato la riflessione
sulla città del futuro si fossero già concretizzate. Dynapolis non
sarebbe stata più soltanto sottoposta a verifica, ma piuttosto
criticata nella sua sostanza profonda: al di là del dimensiona-
mento delle singole comunità insediate e degli elementi che
avrebbero garantito loro riconoscibilità, quindi, The City of the
Future doveva interrogarsi su cosa sarebbe accaduto dopo Dy-
napolis, ovvero sul risultato formale che la crescita contempo-
ranea di molte città avrebbe prodotto: nella prospettiva di Ja-
queline Tyrwhitt, una sequenza infinita di isole urbane finite e
riconoscibili, innervate da grossi fasci infrastrutturali6.

Terra incognita

Alla fine del mese di gennaio del 1961, ad Atene, Doxiadis e


Tyrwhitt avrebbero messo nero su bianco una serie di ipotesi mi-
rate alla formulazione di un approccio diverso7. L’idea era quel-
la di immaginare la città del futuro nel suo stadio di equilibrio
ultimo, nell’ipotesi in cui lo sviluppo avesse fatto il suo corso e
un unico, grande organismo urbano abbracciato l’intero pianeta.
Pur mantenendo intatto l’obiettivo della ricerca, questo nuovo
approccio avrebbe rappresentato una svolta metodologica drasti-
ca, collocandosi agli antipodi dello schema adottato fino ad allo-
ra. Rispetto al modello Dynapolis, che proiettava i meccanismi di
crescita in futuro sempre più lontano, senza mai tuttavia espli-
citarne la forma finita, la nuova entità immaginata da Tyrwhitt
e Doxiadis doveva procedere all’inverso, identificandosi con la
prefigurazione ultima dell’insediamento come se questo, in un
futuro stimato a cento o centocinquanta anni, avesse già raggiun-
to il massimo grado possibile in estensione e densità. Una volta

153
Filippo De Dominicis

Ecumenopolis, alternativa “b” (D-COF 1581), s.d., in


Doxiadis Archives 26409, © Constantinos & Emma
Doxiadis Foundation, Atene.

154
Verso la città-mondo

155
Filippo De Dominicis

stabilito l’assetto finale dell’Ecumenopolis8 – questo era il nome


scelto da Doxiadis per designare il nuovo organismo-mondo – si
trattava quindi di fare un tragitto a ritroso, cercando di capire
come calibrare e articolare le fasi di sviluppo via via più prossi-
me all’oggi in funzione del carico massimo che il pianeta avrebbe
potuto sostenere. Pensare Ecumenopolis non significava altro
che individuare tutte le aree insediabili del mondo e costruire le
condizioni progettuali – di ordine fisico, demografico, politico ed
economico – affinché potessero essere realmente abitate e col-
legate fra loro. Era quindi necessario interrogarsi sui fattori che
avrebbero determinato le forme di questa entità urbana, di cui
bisognava identificare estensione geografica, popolazione e den-
sità per sottrarla alla natura. A differenza di Dynapolis, quindi,
Ecumenopolis doveva essere prestabilita nei suoi limiti, conside-
rato che la struttura profonda che ne governava l’articolazione
era la medesima: l’insediamento-mondo da venticinque miliardi
di persone corrispondeva infatti alla comunità umana più ampia
possibile, di classe XII, composta da sei o sette comunità di classe
inferiore (XI); ciascuna di queste sei o sette comunità XI sarebbe
stata poi ulteriormente suddivisa in una quarantina di comunità
di classe X, e via scendendo di scala fino alla comunità IV, la stes-
sa unità da sei a quindicimila abitanti che aveva costituito la base
di Dynapolis. Da questo momento in poi, tutti gli sforzi teorici di
Doxiadis si sarebbero concentrati nella costruzione di scenari per
stabilire i criteri e prefigurare la forma della città del futuro, que-
sta volta pensata come il risultato di un mondo definitivamente
federato sotto gli auspici del libero scambio e del progresso, e
non più come la struttura che ne avrebbe consentito e stimolato
il corso. Ecumenopolis, infatti, si sarebbe avverata soltanto con il
pieno e completo sviluppo del mondo, ovvero quando quel pro-
cesso di avanzamento tecnico parallelo che avrebbe dovuto inte-
ressare il pianeta nei centocinquant’anni a venire si fosse risolto
in un sostanziale allineamento fra tutte le parti.

156
Verso la città-mondo

In questa ipotesi, Ecumenopolis doveva inevitabilmente


configurarsi come una struttura continua in cui nessuna con-
dizione di isolamento sarebbe più stata ammessa, una struttura
di nodi e collegamenti a densità variabile che formalizzava una
visione di spazio totalmente antropizzato indifferente a suddi-
visioni e blocchi politici9. Se, nel 1955, l’ipotesi che ogni parte
del mondo abitato sarebbe stata accessibile – perché comunque
raggiungibile attraverso una linea di comunicazione o da un’in-
frastruttura di qualsiasi genere10 – era soltanto una convinzione,
con Ecumenopolis questa convinzione avrebbe assunto contor-
ni formali. Per descrivere le proprietà di Ecumenopolis, dipinta
nel 1962 come un «polipo che avrebbe avviluppato il pianeta»11,
Doxiadis avrebbe incorporato molti dei temi indagati da Fathy,
Tyrwhitt e soci nel corso di sopralluoghi e seminari. Unità ar-
monica del tutto, equilibrio tra forze urbane e rurali, rapporto
fra genere umano ed elemento naturale avrebbero rappresenta-
to lo sfondo intellettuale di una rete che doveva essere tessuta e
modellata attraverso fiumi, pianure, montagne, deserti, linee di
costa e che, per certi aspetti, costituiva quel destino ultimo a cui
l’uomo sarebbe andato incontro. Quale sarebbe stato il limite
fra costruito e non costruito? Quale il fascio centrale che avreb-
be innervato questa rete? A queste domande, Doxiadis avrebbe
risposto guardando sia ai risultati teorici conseguiti nel corso
della prima fase della ricerca, sia alle occasioni professionali di
progettazione che gli si sarebbero presentate di lì a breve.
Il documento completo su Ecumenopolis, intitolato Ecume-
nopolis, the settlement of the future, sarebbe stato redatto dal solo
Doxiadis alla fine di giugno 1961, sei mesi dopo i due rapporti
istruttori scritti a quattro mani con Jackie Tyrwhitt12. Se i primi
due documenti davano essenzialmente conto di un’inversio-
ne metodologica e della sua necessità, il manoscritto seguen-
te si sarebbe interrogato su tutte le possibili implicazioni che
una tale nuova prospettiva avrebbe potuto comportare, sia in

157
Filippo De Dominicis

termini di pensiero che in termini di design. Per la prima volta,


l’architetto greco si confrontava con una condizione globale ben
oltre gli aspetti analitici che avevano contraddistinto le prime
indagini del progetto COF: si trattava, ora, di proiettare le po-
tenzialità organizzative e progettuali di un pensiero su un piano
dimensionale e su una profondità temporale mai testati prima.
Dopo aver attraversato ben quattro ere ekistiche che lo avevano
condotto dal nomadismo alla città, il genere umano sembrava
pronto a compiere il passo definitivo verso una realtà nuova e
sconosciuta di cui si poteva presumere soltanto la dimensione,
mentre del tutto ignote apparivano le modalità e le forme con
cui questa realtà si sarebbe dovuta avverare13. Il momento cru-
ciale della riflessione, quindi, si spostava sul piano della pura
proiezione, con l’obiettivo di colmare quel vuoto di conoscenza
fra una crisi contemporanea ormai certificata e uno scenario fu-
turo tutto da decifrare: era necessario, innanzitutto, tracciare la
strada che l’umanità avrebbe percorso, stabilendo una tecnica
programmatica che, dopo aver individuato la direzione più pro-
babile, avrebbe guidato quella stessa umanità a intraprenderla
nella maniera più semplice e logica possibile. Come? Da un pun-
to di vista metodologico, la costruzione di uno scenario come
quello immaginato da Doxiadis comportava tre passaggi chiave:
definire i trend in atto e descriverne il corso futuro; individuare
le nuove possibili forze in gioco e la loro influenza; combinare,
infine, le risultanti tentando di orientarne l’indirizzo, nella fer-
ma convinzione che l’esito non avrebbe potuto essere altro che
un insediamento esteso all’intera superficie terrestre: d’altra
parte, il “programma” Ecumenopolis doveva essere sufficien-
temente flessibile per adattarsi alle trasformazioni future che
avrebbero interessato il pianeta, senza per questo venir meno al
suo obiettivo ultimo, ineludibile e per alcuni aspetti inevitabile,
ovvero “aiutare” il genere umano attraverso quel percorso che
lo avrebbe condotto a occupare la superficie terrestre con un

158
Verso la città-mondo

solo grande organismo insediativo. E perché questo fosse pos-


sibile, avrebbe sottolineato Doxiadis, bisognava partire da ogni
parte del mondo, acquisendo consapevolezza sia dei modi che
l’uomo aveva stabilito per abitare, sia di come le nuove forze in
gioco potevano condizionarne il futuro. Rispetto a una sfida del
genere, era necessario aprire nuove frontiere di ricerca; fron-
tiere che avrebbero messo in discussione non solo il planning
come unica disciplina in grado di organizzare lo spazio fisico,
ma la città stessa quale modello insediativo più avanzato e com-
piuto possibile: per questa ragione, cautelativamente, Doxiadis
immaginava Ecumenopolis non più come la città ma come il
generico settlement of the future, ammettendo l’ipotesi di un nuo-
vo organismo che con la città, fosse stata essa del passato o del
presente, avrebbe avuto poco o nulla a che fare.
Contro uno sfondo teorico-metodologico radicalmente mu-
tato – e come del resto già auspicato da Tyrwhitt appena entrata
in contatto con la ricerca –, Dynapolis avrebbe acquistato un
significato diverso. Quella che all’inizio di The City of the Future
era stata immaginata come la città di domani diventava, con la
nascita di Ecumenopolis, il modello per la città del presente.
Non era più sufficiente, infatti, stabilire le sole leggi di crescita:
per istruire il futuro bisognava dargli una forma, e questa forma
avrebbe potuto avverarsi soltanto in un quadro di lunga dura-
ta, stabile, che Dynapolis non era in grado di prefigurare. Ri-
collocata entro una prospettiva simile, Dynapolis avrebbe rap-
presentato soltanto lo stadio iniziale del processo; uno stadio
caratterizzato da un alto tasso di crescita, dettato da necessità
di ordine macroeconomico e plasticamente conformato sulle
dinamiche dello sviluppo contemporaneo: assorbire il maggior
numero possibile di inurbati, massimizzare lo sfruttamento del-
le risorse e istruire nuovi pattern di organizzazione fisica costi-
tuivano, infatti, sfide non più negoziabili, e Dynapolis rappre-
sentava lo strumento migliore per raccoglierle all’interno di un

159
Filippo De Dominicis

quadro sostanzialmente “urbano” quale era quello contempo-


raneo. Entro un tempo relativamente breve, tuttavia, Dynapolis
avrebbe dovuto fare i conti con l’intervento di nuove forze: pur
non mettendo in discussione il carattere intrinseco del modello
di crescita rappresentato da Dynapolis, il nuovo orizzonte spa-
ziale e temporale aperto da Ecumenopolis avrebbe dovuto da
un lato assorbire le retroazioni economiche e politiche che si
sarebbero prima o poi presentate, dall’altro confrontarsi con le
specificità geografiche che ogni pattern avrebbe incontrato nel
corso delle fasi di crescita più avanzate. A forza di svilupparsi
lungo il medesimo asse e secondo le medesime leggi di crescita,
infatti, Dynapolis sarebbe presto entrata in contatto con altre
Dynapolis. Cosa avrebbe comportato questo incontro? Un si-
mile interrogativo celava questioni profonde, e per rispondervi
Doxiadis avrebbe fatto ricorso a una concettualizzazione ine-
dita: Dynametropolis – questo era il nome scelto per definire
la risultante dalla collisione fra due o più Dynapolis – nasceva
infatti come un’entità nuova la cui natura andava ben oltre la
somma di nuclei ad alto tasso di crescita. In altri termini, Dyna-
metropolis era qualcosa in più di una semplice città14. Non solo:
col il suo nucleo policentrico di più Dynapolis, Dynametropolis
era la prova che la crescita non avrebbe potuto estendersi solo
linearmente, e che la città non avrebbe potuto riprodursi sen-
za attriti, sempre uguale a sé stessa: ciascun nucleo di crescita,
infatti, avrebbe dovuto fare i conti con la presenza di elementi
di disturbo, fossero essi altri nuclei o elementi naturali esterni
originariamente non incorporati nel sistema, e solo in questo
modo avrebbe potuto trasformarsi in quel corpo non-più-urb-
ano di cui lo stesso Doxiadis ammetteva la possibilità. Il cammi-
no che avrebbe condotto l’uomo da Dynapolis a Ecumenopolis
avrebbe assorbito le interferenze economiche e gli ostacoli fisici
in nome di un destino inevitabile. Si trattava di una fase tran-
sitoria lunga, stimata in circa 150 anni, che Doxiadis avrebbe

160
Verso la città-mondo

dettagliato in ogni suo momento chiave: lo stadio altamente


dinamico, in cui ogni nucleo si sarebbe configurato come Dy-
napolis, doveva chiudersi alle soglie del XX secolo; sarebbe poi
seguita una fase di assestamento, fino alla metà del XXI seco-
lo, con la formazione di Dynametropolis e l’abbandono di gran
parte delle vecchie città; ci sarebbero poi voluti altri cento anni
prima che Ecumenopolis acquistasse una configurazione defini-
tiva e stabile, come entità continua estesa su tutta la superficie
terrestre15. In quattro passaggi, quindi, si passava dall’underde-
veloped land all’insediamento totale. Ma quali sarebbero state le
aree destinate all’insediamento? Su quali parametri sarebbero
state scelte, localizzate e, in ultimo, formalizzate? Per scioglie-
re questi nodi Doxiadis avrebbe stabilito una corrispondenza
paradossale e diretta fra ragione insediativa e ragione produt-
tiva, arrivando a dimensionare Ecumenopolis proprio a parti-
re dalla terra non abitata necessaria al suo sostentamento. La
quota parte di superficie terrestre che l’uomo avrebbe dovuto
lasciare libera per la produzione e la coltivazione doveva esse-
re selezionata e dimensionata in base a fattori di pura redditi-
vità. Una volta quantificate e scelte le aree per la produzione,
all’insediamento sarebbe toccata la parte restante. La logica
che avrebbe diviso il mondo in aree costruite e non costruite,
quindi, doveva essere dettata da criteri squisitamente tecni-
co-economici: come l’insediamento avrebbe attraversato stati
e confini, così anche il carico produttivo e la sua localizzazione
dovevano stabilirsi su una base internazionale, in considerazio-
ne del fatto che l’umanità avrebbe presto potuto permettersi
il lusso di trasportare beni e merci attraverso i continenti. In
altre parole, la produzione mondiale del grano si sarebbe potu-
ta concentrare anche in un unico luogo, laddove le condizioni
fisico-climatiche fossero state sufficientemente favorevoli per
consentirlo, mentre le infrastrutture, sempre più veloci e meno
costose, avrebbero provveduto alla successiva distribuzione16.

161
Filippo De Dominicis

In nome di una assoluta razionalizzazione dell’itinerario pro-


gettuale e in ragione di una necessaria ottimizzazione delle ri-
sorse e degli spazi, quindi, Doxiadis avrebbe guardato alla tecni-
ca come a un fattore decisivo in grado di liberare produzione e
insediamento da ogni vincolo e influenza reciproca, sia in termi-
ni quantitativi – di mero fabbisogno – che in termini qualitativi,
di localizzazione. Era la tecnica a intervenire ogni qualvolta si
sarebbe dovuto registrare il bilancio tra incremento demogra-
fico e sostentamento: il progresso avrebbe consentito infatti di
conquistare sempre più spazio, sottraendolo alla produzione;
mentre lo spazio guadagnato sarebbe stato o sottoposto a tu-
tela o, se necessario, occupato da nuovi insediamenti, fino al
raggiungimento di quello stadio di equilibrio ideale in cui aree
costruite e libere si sarebbero fronteggiate senza residui e senza
tensioni, come senza attriti sarebbe stata la logica economica
sottostante. Così concepita, Ecumenopolis assumeva tratti di
ineluttabilità che la rendevano assimilabile al destino stesso
del genere umano; un destino che assegnava all’insediamento
un ruolo egemone il cui corso doveva essere prefigurato e, per
quanto possibile, guidato. E questa era la missione cui erano
preposti gli ekistician. Al documento preparato da Doxiadis sa-
rebbero seguiti commenti e osservazioni da parte degli esperti
coinvolti nel progetto: la discussione avviata nei mesi di luglio
e agosto 1961, animata da Tyrwhitt, Fathy e colleghi, avrebbe
coperto tutti i temi affrontati fino a quel momento, esplicitando
e sottoponendo a critica severa molti dei passaggi che Doxiadis,
oscillando sul sottile filo del paradosso che univa la razionalità
all’idealismo, non era riuscito a sciogliere.

162
Verso la città-mondo

Tyrwhitt: «A meno di non essere completamente


marxisti…»

Dopo aver letto che insediamento e produzione avrebbero


dovuto essere considerati come due fatti distinti e indipenden-
ti, Jacqueline Tyrwhitt aveva subito pensato a un refuso17. A
Tyrwhitt era stato chiesto per prima di leggere e commentare
il documento su Ecumenopolis. Dalla sua relazione, redatta nel
luglio del 1961, sarebbe emerso un atteggiamento di generale
condivisione e allo stesso tempo di cautela nei confronti di un’i-
dea di cui pochi mesi prima era stata fondamentale ispiratrice.
I passaggi contraddittori sollevati da Tyrwhitt, tuttavia, sareb-
bero stati molti, sia nel merito che nel metodo. Se era vero che
la città aveva abbracciato la campagna, non era vero che l’ave-
va distrutta: da questo assunto sarebbe partita la riflessione di
Tyrwhitt per ribadire, ancora una volta, la necessità di incor-
porare il discorso produttivo all’interno del fatto insediativo –
non apparivano elementi di incompatibilità tali da distinguerli
in maniera così netta –, e aprire una riflessione ponderata sulla
struttura più che sui fattori e sulle forze che avrebbero determi-
nato Ecumenopolis. Su questo ultimo punto si sarebbero diret-
te gran parte delle sue osservazioni, essenzialmente rivolte alla
necessità di definire nella maniera più chiara possibile lo spazio
per abitare e quello per produrre a prescindere dai trend di svi-
luppo e dalla loro previsione. «A meno di non definirsi comple-
tamente marxisti», avrebbe affermato Tyrwhitt con una certa
dose di ironia tipicamente britannica, «non dovremmo essere
così sicuri nella previsione delle tendenze economiche»18. Pur
ammettendo la ragionevole possibilità che molti degli accadi-
menti previsti potessero davvero realizzarsi, e pur assumendo
la capacità degli ekistician di controllare e agire su alcune delle
forze in gioco – almeno su quelle maggiormente prevedibili –,
Tyrwhitt restava infatti piuttosto ferma nell’ipotesi di offrire

163
Filippo De Dominicis

spazio all’inatteso. In caso contrario, affermava, si sarebbe tor-


nati a quei meccanismi che avevano contraddistinto il funzio-
namento dei primi insediamenti urbani, quando tutto era pre-
stabilito e nessun tipo di trasformazione era possibile senza
distruzioni o abbandoni19. Per lavorare con l’insediamento del
futuro e confrontarsi davvero con l’ignoto era dunque neces-
sario lasciare “porte aperte” all’imponderabile. Come? Da un
lato facendo in modo che il nuovo insediamento interagisse
con le aree produttive e le zone urbanizzate già esistenti, tra-
sformandole, senza che questo comportasse necessariamente il
loro abbandono, come invece auspicato da Doxiadis; dall’altro,
immaginando gerarchie talora incomplete, comunità non pie-
namente organizzate, soprattutto in ragione del fatto che l’ine-
vitabile interconnessione cui Doxiadis ambiva – e che doveva
materializzarsi attraverso una serrata concatenazione dei grup-
pi insediati – sembrava associarsi a una tendenza inversa, con il
contatto fisico avvicendato da forme di comunicazione sempre
più immateriali, attraverso segnali tv e radio20. Il punto centrale,
secondo Tyrwhitt, non era quindi capire se la città futura sareb-
be risultata dal prevalere di un fattore piuttosto che di un altro,
o dalla loro sintesi più o meno bilanciata; quanto determinare il
suo ambito di pertinenza e le relazioni nuove che avrebbe potu-
to stabilire, sia fra sé e il suo intorno produttivo che fra le stesse
comunità insediate al suo interno. Su questo aspetto, Tyrwhitt
era particolarmente critica: preoccupati di stabilire con la mag-
gior precisione possibile i fattori che avrebbero plasmato la cit-
tà del futuro, gli ekistici rinunciavano a determinarne la forma
nei modi e nei tempi che gli esseri umani tutti – e non gene-
rici “robot sociali” – avrebbero potuto sostenere. Nei summer
workshops dell’estate del 1961, Tyrwhitt sarebbe tornata sull’ar-
gomento, sottolineando la necessità di articolare una visione
totale che potesse includere tutti i tipi di uomo e tutti i tipi di
insediamento, così da rendere contemporanei tutti i tempi che

164
Verso la città-mondo

la storia aveva sovrapposto – e che il futuro avrebbe riservato21.


Le tracce del futuro dovevano cercarsi anzitutto nel presente e
nei suoi caratteri: erano i bisogni umani del presente – i bisogni
e le crisi di tutti gli esseri umani – a dover modellare Ecumeno-
polis, e su questo aspetto era necessario concentrare i propri
sforzi. E poiché erano proprio le condizioni presenti a rendere
Ecumenopolis un’ipotesi ormai certa, sarebbe stato vano inter-
rogarsi sulla possibilità di piegare a proprio piacimento le forze
che vi avrebbero condotto, o sulle ipotesi di governo – tra cui
una di total government 22 – che meglio avrebbero potuto soste-
nerne la realizzazione. Tanto valeva per Tyrwhitt studiare un
quadro analitico alternativo, centrato su questioni di tipo qua-
litativo e mirato all’individuazione di una sequenza di insedia-
menti – dal nomadico all’universale – che avesse potuto coprire
l’intero spettro delle modalità in cui uomo e ambiente avevano
– e avrebbero – interagito. Nella prospettiva di Tyrwhitt, quin-
di, sarebbe stato assurdo doversi insediare solo nei luoghi più
inospitali lasciando alle coltivazioni i suoli più produttivi, poi-
ché questo avrebbe significato negare l’affinità fra l’abitante e il
suo ambiente – che da sempre aveva rappresentato il principio
dell’insediamento – in nome di una massima capitalizzazione
tecnica; così come appariva critico, d’altra parte, lasciare che le
densità maggiori si concentrassero solo nei nuclei centrali degli
insediamenti, un atteggiamento che avrebbe coinciso con la le-
gittimazione di una logica prevalente e dominante, quella legata
al valore dei suoli e al capitale.
A differenza di Doxiadis, Tyrwhitt si dimostrava più incline
a una progettualità aperta, flessibile e inclusiva, che a una plu-
ralità di fattori e di forze avrebbe risposto con una pluralità di
forme e modelli appropriati, in ragione delle condizioni e dei
bisogni che il genere umano poteva esprimere. Non casualmen-
te, sarebbe stata proprio lei a introdurre nella ricerca studi e
approfondimenti su tutti quei sistemi insediativi che avevano

165
Filippo De Dominicis

Il grafico sinusoidale che descrive lo sviluppo verso Ecumenopolis, in T-ERES 23-27,


ATO-GSE – Research Project “The City of the Future”, 23, 24-27 luglio 1961, p. 65,
Doxiadis Archives 17391, © Constantinos & Emma Doxiadis Foundation, Atene.

166
Verso la città-mondo

avuto per scopo crescita e cambiamento – Tyrwhitt le avrebbe


definite utopias that allow for growth and change23, da Le Corbu-
sier a Tange a Sert – quasi a voler offrire a Ecumenopolis un oriz-
zonte di riferimenti formali che andassero al di là di Dynapolis
e dell’idea di sviluppo che essa sottintendeva: «abbiamo bisogno
di qualcos’altro, e non solo del modo più redditizio di far girare il
dollaro»24, avrebbe scritto Tyrwhitt nel luglio del 1961 ribadendo
la propria distanza da un modello che aveva nel legame fra uso
del suolo e capitale il suo principio esclusivo. Proprio in virtù
di questo legame, Dynapolis non poteva rappresentare da sola
la soluzione definitiva al problema della crescita urbana: seppur
eccezionale nella corrispondenza fra sviluppo e forma, un mo-
dello simile avrebbe avuto infatti bisogno di una “macchina po-
litica” che spingesse in maniera altrettanto eccezionale in quel-
la precisa direzione di crescita. Chi avrebbe avuto il potere – si
chiedeva ripetutamente Tyrwhitt – di innescare simili processi
di accrescimento, secondo ordini di grandezza che prevedevano
di centuplicare l’organismo urbano iniziale, senza soluzione di
continuità? Le critiche alla struttura di Dynapolis avrebbero im-
pegnato Tyrwhitt e gli altri consulenti per un tempo relativamen-
te lungo; del resto si trattava del modello che li riguardava più da
vicino, poiché era in Dynapolis che agivano quelle forze che di lì
ai centocinquant’anni a venire avrebbero modellato Ecumeno-
polis. Se Dynapolis doveva rappresentare l’espressione ottimale
dei contemporanei trend di crescita, non dovevano esserci equi-
voci sul significato che avrebbe dovuto esprimere. Un significato
che per Tyrwhitt doveva andare oltre la corrispondenza univoca
ed esclusiva fra città e capitale, dovendo potersi adattare, tra le
altre cose, a tutte quelle condizioni umane e fisiche che il pia-
neta offriva. Per Doxiadis, al contrario, Dynapolis rappresentava
un problema tutto sommato relativo, poiché costituiva soltanto
uno stadio di transizione che il genere umano avrebbe attraver-
sato in un tempo relativamente breve. Sarebbe stato compito di

167
Filippo De Dominicis

Dynametropolis e Dynamegalopolis esprimere quelle fasi di in-


stabilità che il geografo ed economista Richard Meier avrebbe
definito mediante un tracciato grafico oscillatorio – lumpy25 – in
cui fasi di crescita si alternavano a retroazioni e “rimbalzi”, con-
siderando anche l’azione vincolante degli elementi geografici e
naturali, che a quella scala così estesa avrebbero avuto un valore
“di soglia” non più trascurabile.
Per quanto apparentemente difficili da conciliare, le diver-
genze posizionali fra Tyrwhitt e Doxiadis agivano in realtà su
piani complementari, influenzandosi reciprocamente senza mai
compromettersi l’uno con l’altro: la volontà di design di Jaqueli-
ne Tyrwhitt si inseriva all’interno del quadro programmatico di
Doxiadis con l’intenzione di fornirgli da un lato un pedigree disci-
plinare, dall’altro quel set di elementi costanti e quell’insieme di
variabili che ne avrebbero determinato il pattern spaziale, senza
tuttavia comprometterne le ragioni fondative e gli obiettivi ulti-
mi. Su questi aspetti, infatti, restava un accordo pressoché totale:
la visione di Tyrwhitt era esclusivamente rivolta alla definizione
e all’organizzazione della forma, e attraversava tutte le scale del
progetto. In questo ambito poteva muoversi con assoluta disin-
voltura senza timore di entrare in conflitto con il programma
stabilito da Doxiadis. Con l’idea di stabilire su quali cardini Dy-
napolis prima ed Ecumenopolis poi si sarebbero sorrette, e con
l’obiettivo di fornire alla ricerca un modello che superasse la no-
zione di città per come era stata intesa fino ad allora, Tyrwhitt
avrebbe condiviso gli strumenti e i materiali maturati nel corso
dei suoi anni di insegnamento a Harvard, guardando ai corridoi
infrastrutturali, agli edifici pubblici e ai settori residenziali come
a quegli elementi capaci di produrre nuovi “diagrammi compo-
siti” di trame e relazioni talora complementari talora alternati-
ve26. Diagrammi che dovevano applicarsi indifferentemente sia
al macro che al microcosmo, il primo inteso come il «quadro di
riferimento concettuale, percepibile come sistema organizzativo

168
Verso la città-mondo

ma non necessariamente apparente»; il secondo quale ambito


relativo ad aspetti più prettamente fisici come la scala umana e
il “cuore” dell’insediamento. Dopo l’avvio della sua collaborazio-
ne con Doxiadis, Tyrwhitt si sarebbe definitivamente messa alle
spalle il tema del core, riservando al primo dei due cosmi – cui
ci si doveva riferire per «pianificare la crescita demografica del-
le prossime due generazioni» – un’attenzione quasi esclusiva27.
Il titolo della sesta conferenza di Urban Design a Harvard, nel
1962, sarebbe stato proprio The Inter-City Growth, a testimonian-
za di uno scambio reciproco particolarmente fertile: se i temi
sviluppati all’interno dell’ufficio ateniese si dimostravano ormai
capaci di orientare il corso del dibattito accademico, i risultati
prodotti dal workshop dell’ateneo americano si sarebbero rive-
lati ugualmente determinanti per il prosieguo della ricerca, da
un lato offrendo una singolare prefigurazione delle relazioni
spaziali che l’insediamento-mondo avrebbe stabilito al proprio
interno, dall’altro confermando quella immagine di isole urbane
innervate da grossi fasci infrastrutturali che Tyrwhitt aveva già
tratteggiato a valle dei primi commenti al progetto COF28. Tra
la fine del 1961 e l’inizio del 1962, la struttura di Ecumenopo-
lis avrebbe man mano cominciato a svelarsi, mentre il sodalizio
fra Tyrwhitt e Doxiadis era destinato a evolvere e a farsi sempre
più stretto. Con l’avvio degli incontri di Delo – originariamente
immaginati, proprio insieme a Tyrwhitt, come riunioni tecniche
per la pianificazione dei paesi in via di sviluppo – e la nascita del-
la World Society of Ekistics, il pensiero di Doxiadis si sarebbe av-
viato verso una definitiva formalizzazione, offrendo una visione
del mondo in cui l’Anthropos avrebbe conquistato una volta per
tutte il centro della scena. Non più la città ma il pianeta tutto,
con i suoi deserti, le sue montagne, le sue foreste e persino i suoi
mari, sarebbero stati oggetto di indagine, per un insediamento
umano capace di parlare, da pari, al total environment e di trasfor-
marsi, progressivamente, in entopia29.

169
Filippo De Dominicis

Le forme di Ecumenopolis e la Asian Highway

Già nel documento istruttorio redatto da Doxiadis e Tyrwhitt


nel gennaio 1961, l’Africa era stata dipinta come uno dei terre-
ni privilegiati dove innestare quelle politiche necessarie alla
transizione fra la città contemporanea e l’Ecumenopolis futura.
Nell’aprile del 1961, quando le riflessioni che avrebbero con-
dotto alla città-mondo erano nel pieno della loro maturazione,
Doxiadis aveva revisionato i resoconti di Fathy, da un lato sotto-
lineando la necessità di elaborare uno specifico studio dedicato
al continente africano, dall’altro percependo l’urgenza di forni-
re alle proprie prospettive “ecumeniche” una solida base di sca-
la regionale, una base che avrebbe trovato proprio in Africa la
sua ragion d’essere, più che altrove. «C’è la necessità di scrivere
un libro per lo sviluppo delle città africane – scriveva Doxiadis
– e la speranza che questo possa esser fatto nel quadro di The
City of Future. In caso contrario – continuava – sarà il nostro
ufficio a occuparsene»30, concludendo con una nota destinata al
programma operativo per il 1962 in cui avrebbero dovuto inclu-
dersi attività specifiche destinate allo sviluppo del continente,
poi concretizzatesi nell’All-Africa plan. Pur lontana dalla tabula
rasa immaginata a tavolino, infatti, l’Africa si dimostrava una
piattaforma capace di stimolare riflessioni inedite, concettual-
mente vicina a quell’underdeveloped land che di Ecumenopolis
era il principio. Con un rapporto fra città e campagna che muta-
va ad una velocità fuori dall’ordinario, e con un assetto privo di
qualunque connotazione qualitativa, l’intero continente aveva
tutte le caratteristiche per sperimentare l’orizzonte formale di
questa nuova entità globale. Insieme al Nord America, l’Africa
occidentale sarebbe stato infatti l’unico approfondimento di
scala regionale incluso nel volume in cui si riassumevano gli
esiti della ricerca COF, pubblicato nel 197431. Come suggerito da
Fathy e come ribadito dallo stesso Doxiadis, la ricerca avrebbe

170
Verso la città-mondo

proseguito nella sua indagine dedicando all’Africa occidentale


un numero molto consistente di mappe e disegni32. E lo avrebbe
fatto proprio a partire dai dati rielaborati durante la redazione
dell’All-Africa plan, nonché dalle indicazioni provenienti dalle
agende regionali di UNECA e World Bank; senza dimenticare
il progetto per l’area metropolitana di Accra-Tema, dove già si
stava esplorando, seppur in maniera non pienamente codificata,
quella condizione di Dynaregion-Dynametropolis preliminare
all’insediamento-mondo, in un paradossale ma costante corto
circuito fra realtà professionale e dimensione teorica.
Era convinzione del gruppo di ricerca, infatti, che l’Africa
occidentale costituisse da un lato la porzione più vasta e allo
stesso tempo omogenea dove testare un layout ekistico da cui
dedurre la forma di Ecumenopolis; e, dall’altro, il campo con
margini di manovra più ampi, soprattutto in considerazione
dell’estrema distanza fra la condizione in essere e un orizzon-
te di sviluppo armonico e maturo. Temi estremamente diversi
fra loro – migrazioni di lungo raggio, programmi educativi, vo-
lumi di scambio commerciali e trend demografici – sarebbero
stati rappresentati e, con enorme sforzo creativo, cartografa-
ti, per essere successivamente interpolati e sovrapposti con le
questioni più urgenti sollevate dagli organismi transnazionali:
uno scenario di grande complessità che avrebbe tuttavia riba-
dito il ruolo decisivo dell’infrastruttura. Fin dalle prime spe-
rimentazioni, infatti, sarebbero emersi tutti quegli aspetti che
avrebbero potuto ostacolare, se non addirittura impedire, sia
l’avvio di un processo di crescita bilanciato ed equilibrato sia,
di conseguenza, il raggiungimento di un ordine formalmente e
qualitativamente compiuto. In vista di Ecumenopolis, fattori di
disturbo quali l’enorme distanza fra le città esistenti, la ridotta
sfera di influenza economica e produttiva di ciascun centro e,
in ultimo, la carenza di connessioni fisiche adeguate, avrebbe-
ro dovuto essere immediatamente risolti e rimossi in favore di

171
Filippo De Dominicis

172
Verso la città-mondo

Ecumenopolis in Africa
occidentale (D-COF 1115),
s.d., in Doxiadis Archives
25822, © Constantinos
& Emma Doxiadis
Foundation, Atene.

173
Filippo De Dominicis

Lo studio per i trasporti


africani pubblicato
sull’UNESCO Courier, in
“The UNESCO Courier”
n. 19, gennaio 1966, p. 11.

174
Verso la città-mondo

Lo studio per l’autostrada


Trans-asiatica pubblicato
sull’UNESCO Courier, in
“The UNESCO Courier”
n. 16, giugno 1965, p. 12.

175
Filippo De Dominicis

un insieme provvisto di tutti quegli attributi, qualitativi e quan-


titativi, che avrebbero condotto l’Africa occidentale verso l’al-
lineamento economico e politico. Contro questo quadro, che
risentiva dell’eco degli argomenti avanzati da Fathy e Tyrwhitt,
la ricerca si sarebbe mossa secondo un doppio binario di azio-
ne, contemporaneamente quantitativo e qualitativo: da un lato
una nuova rete infrastrutturale, attestata sui centri esistenti
e tracciata sulla base delle rielaborazioni prodotte per l’All-A-
frica plan; dall’altro, un vasto processo di densificazione terri-
toriale – nuovi centri intermedi fra una città e l’altra – di cui
l’infrastruttura sarebbe stata premessa ineludibile. L’insieme
insediativo sarebbe stato organizzato su tre diversi livelli gerar-
chici – capitali, centri principali e centri regionali –, ciascuno
individuato da un grafo a maglie sempre più strette man mano
che si procedeva dai centri più importanti a quelli di gerarchia
inferiore. Una volta stabilita la rete di trasporti e l’orditura mul-
tilivello dell’insediamento, ci si sarebbe dovuti interrogare sul
modo in cui i due sistemi avrebbero interferito, nella misura
in cui l’infrastruttura poteva estendere il raggio di influenza di
ciascun centro o, viceversa, la dimensione di un centro poteva
incidere sul volume di traffico dell’infrastruttura. Ecumenopo-
lis sarebbe risultata dalla sovrapposizione e dall’integrazione
di queste trame, configurandosi come un insieme di corridoi a
sezione variabile e nodi collocati in corrispondenza dei centri
abitati. Nelle cartografie dell’Ecumenopolis africana, i confini
di stato si sarebbero dissolti nell’ordito di un continuum che
formalizzava, di fatto, un nuovo ordine geografico e politico in-
sieme: geografico perché ambiva a riorganizzare l’intero spazio
terrestre suddividendolo in due ambiti speculari e non comple-
mentari, uno totalmente antropizzato e l’altro completamente
naturale; politico poiché plasmando lo stesso spazio terrestre
come un terreno puramente economico, lo rendeva totalmente
compatibile alle logiche del mercato globale e del capitalismo,

176
Verso la città-mondo

e dunque tutt’altro che politicamente neutrale rispetto all’o-


rizzonte post-politico di cui quell’ordine si faceva messagge-
ro. Mentre l’idea di un nuovo ordine economico-politico aveva
origini lontane ed era già incorporato nel modello Dynapolis,
la prospettiva geografica costituiva invece un tratto di novità
specifico di quella svolta metodologica rappresentata da Ecu-
menopolis. L’ordine geografico aveva aperto a questioni forma-
li intorno alla struttura, all’estensione e al limite dell’insedia-
mento; questioni cui Doxiadis tentava di rispondere man mano
che la ricerca avanzava, facendo leva sull’appoggio fornito da
occasioni professionali di vastissima portata: se l’All-Africa plan
e le successive riflessioni confluite nel progetto COF sarebbero
stati la base per identificare la struttura portante della città del
futuro, il progetto per la nuova autostrada trans-asiatica avreb-
be offerto a Doxiadis la possibilità di interrogarsi sui suoi limiti
e, soprattutto, sulle modalità con cui determinarli.
Lo studio del tracciato per l’Asian Highway era stato com-
missionato a DA dallo United Nations Special Fund che, a sua
volta, aveva recepito la richiesta di collaborazione tecnica avan-
zata dall’UN Economic Commission for Asia and the Far East
(ECAFE)33. Si trattava di un servizio di consulenza preliminare
necessario a valutare la fattibilità del progetto nonché un suo
possibile finanziamento futuro. Pur non trattandosi di un tema
nuovo – la divisione trasporti e comunicazioni dell’ECAFE ave-
va infatti avviato studi preparatori molti anni prima – Doxia-
dis Associates avrebbe organizzato tutta la prima parte del suo
lavoro come se non fosse mai esistito alcun lavoro istruttorio
precedente, inquadrando il futuro tracciato autostradale nella
cornice più ampia di un ipotetico sviluppo continentale esteso
al grado più ampio34. In altri termini, si sarebbe concentrato su
un discorso a carattere generale, aprendo a tutti gli elementi
che avrebbero inciso sul progetto di un’autostrada continenta-
le senza, tuttavia, fare mai riferimento a condizioni di natura

177
Filippo De Dominicis

Doxiadis Associates, Studio per l’autostrada


Trans-asiatica. Foto di copertina del bollettino
informativo interno, in “DA Bulletin”, n. 65, aprile 1964,
Doxiadis Archives 35409, © Constantinos & Emma
Doxiadis Foundation, Atene.

178
Verso la città-mondo

fisico-topografica – aree desertiche, paludose, montane – o po-


litica – le volontà dei singoli governi. Tutti gli aspetti in gioco,
avrebbe scritto Doxiadis, sarebbero stati esaminati al netto di
qualsiasi interferenza fisico-politica, con l’obiettivo di valutare
la distanza fra le reali condizioni in essere, discusse nella secon-
da parte dello studio, e un ideale futuro di fattibilità a caratte-
re tecnico-economico, privo di ostacoli. Pur non dichiarandolo
esplicitamente, Doxiadis avrebbe applicato al progetto gli stes-
si principi guida esposti nella presentazione di Ecumenopolis
del gennaio 1961. Questo modo di procedere a priori include-
va, infatti, lo studio e la mappatura di tutti quegli elementi che
avrebbero consentito la stesura di un tracciato ideale, come se a
determinarlo fossero stati soltanto fattori di ordine geometrico,
economico e demografico. Da un simile scenario erano esclu-
si gli “ostacoli fisici”, in considerazione del fatto che la tecnica
avrebbe messo a disposizione tutti gli elementi per superarli più
o meno convenientemente. Per ciascuna delle categorie consi-
derate determinanti – distanza minima, densità della popola-
zione, dimensione e localizzazione dei centri urbani e delle città
capitali, tipologia di attività economica, reddito e produzione,
attrattività turistica –, Doxiadis avrebbe calcolato una linea di
gravità come risultante di un equilibrio ponderato, in funzio-
ne del peso geometrico, economico, geografico e demografico
di ciascuna area interessata dal progetto. Sovrapponendo le li-
nee di gravità riferite alle singole categorie di indagine, si sa-
rebbe ricavata una zona di allineamento ottimale, una sorta di
grande fuso di inviluppo entro cui i fattori analizzati dovevano
esprimersi nella loro intensità massima, mentre nei punti in cui
tre o più linee di gravità si intersecavano tra loro – uno nel sud
dell’Afghanistan, uno fra Dacca e Calcutta e uno in prossimità
dell’allora capitale della Birmania, Rangoon – si sarebbero indi-
viduati i nodi a più grande concentrazione di presenza e attività
umana.

179
Filippo De Dominicis

Nella seconda parte del rapporto, il problema sarebbe stato


esaminato da un’angolazione opposta, considerando quindi gli
studi già condotti, i tratti di strada esistenti, i budget previsti
dai singoli stati, e così via. L’obiettivo, puramente teorico, ri-
siedeva nel valutare la distanza fra un assetto futuro e quello in
essere, per capire quali mezzi tecnici ed economici dispiegare
affinché la tendenza virasse, quanto più possibile e quanto più
velocemente possibile, verso l’ideale. Nel frattempo, al muta-
re delle condizioni economiche e con l’avanzare del progresso
tecnico, le stesse linee di gravità ideali avrebbero riconfigurato
il loro andamento, secondo una traiettoria che doveva essere
registrata di volta in volta in funzione dei reali fattori di cre-
scita, opportunamente aggiornati, e della loro azione. La confi-
gurazione ottimale, dunque, sarebbe risultata da un equilibrio
tendenzioso tra the one best way, il miglior futuro possibile in
termini di crescita e progresso, e una condizione reale, in crisi,
su cui era necessario intervenire. Una condizione reale che, mo-
dificandosi nel tempo, avrebbe a sua volta indotto a ricalibrare
l’assetto ideale, secondo quel processo di retroazione tipico dei
sistemi complessi. Il global expert era chiamato a gestire questo
equilibrio attraverso l’elaborazione di strumenti dinamici, con
l’obiettivo di registrare le direzioni dello sviluppo e anticiparne
le configurazioni possibili. In questo senso, ogni studio o pro-
getto rivolto alla determinazione dell’insediamento futuro si
convertiva in un programma di assistenza continuativa, in linea
con quegli auspici di controllo permanente che erano alla base
della ricerca COF. Come Ecumenopolis, lo studio per l’Asian
Highway proiettava in un futuro lontano il massimo sviluppo
possibile, agendo a ritroso per guidare gli interventi nell’imme-
diato. Dell’ideale scenario finale, mobile e fluido nei contorni,
permaneva quel principio di ineluttabilità costitutivo. Il proces-
so che vi avrebbe condotto avrebbe richiesto schemi flessibili
– disponibili a riallineare la previsione ultima agli sviluppi che

180
Verso la città-mondo

il reale man mano avrebbe presentato – ma allo stesso tempo


orientati – perché necessari a finalizzare le trasformazioni ver-
so quel quadro di equilibrio globale derivante dalla crescita che
tutte le aree del pianeta avrebbero prima o poi raggiunto. Con
la maturazione del progetto COF e la contemporanea elabo-
razione di due piani di trasporto continentale – due piani che
avrebbero ridisegnato l’habitat dei due terzi della popolazione
globale – Doxiadis sembrava essere l’unico in grado di istruire
un processo simile. Vi si sarebbe dedicato senza sosta fino al
1975, anno della sua scomparsa.

***

Al di là delle ragioni e degli aspetti metodologici che ne


avevano contraddistinto il sorgere, la prefigurazione della cit-
tà-mondo riconsiderava in maniera profonda il rapporto che
l’uomo avrebbe stabilito con il proprio pianeta, che ne fosse
progettista o semplice inquilino.
Lo studio di fattibilità per la Asian Highway – che della cit-
tà-mondo costituiva lo scenario più compiuto, almeno in ter-
mini di definizione degli strumenti progettuali – avrebbe posto
una pietra miliare nella definizione dell’assetto di Ecumeno-
polis: se era vero che non ci sarebbe stato futuro senza acces-
sibilità, lo spazio servito dal tracciato dell’autostrada trans-a-
siatica avrebbe deformato lo spazio geografico, esaltandone
al massimo grado i valori topologici di relazione. La stessa ar-
chitettura che Doxiadis immaginava – e spesso rappresentava
in forma diagrammatica – altro non era che un piccolo guscio
semicircolare pieno di un intreccio di fili. Emanati da un picco-
lo foro, questi fili avrebbero legato ogni singolo guscio a entità
di ordine superiore: il quartiere, l’organismo urbano, il mon-
do. Che senso avrebbe avuto la misura in uno scenario tecni-
camente iperconnesso come quello dell’Ecumenopolis futura?

181
Filippo De Dominicis

Doxiadis Associates, Studio per l’autostrada Trans-asiatica. La zona di allineamento


ottimale e le linee di gravità, in Doxiadis Archives 35844, © Constantinos & Emma
Doxiadis Foundation, Atene.

182
Verso la città-mondo

183
Filippo De Dominicis

Vero era che superfici e distanze rappresentavano ancora ele-


menti fondativi dello scenario proposto, ma che importanza
avrebbero potuto conservare in quel percorso tendenzioso ver-
so il progresso in cui ci si sarebbe potuti presto spostare da un
punto all’altro del pianeta con razzi o aerei supersonici, sem-
pre che spostarsi avrebbe avuto ancora senso, visto che in ogni
punto del mondo sarebbero stati garantiti armonia e sviluppo?
Conformemente ai trend di progresso auspicati da Doxiadis,
infatti, la tecnica avrebbe prima o poi consentito di superare
qualunque ostacolo di tipo fisico in maniera agevole ed econo-
mica – gallerie e ponti di centinaia di chilometri sarebbero stati
ben più sostenibili di tortuose strade di montagna – così che
ogni assetto reale avrebbe teso, in un futuro prossimo, alla sua
configurazione ideale; a patto, però, che la stessa tecnica avesse
potuto agire su scala globale, ovvero a condizione che le politi-
che per massimizzarne gli effetti fossero stabilite su base trans-
nazionale. Le conseguenze di un pensiero simile si sarebbero
riversate sul dato sociale e geografico: che senso avrebbe avuto
coltivare il grano nel campo dietro casa – si chiedeva Doxiadis
– se trasportarlo via mare o via terra dall’unica area dove era
conveniente piantarlo sarebbe stato di gran lunga più semplice
ed economico?
In questa prospettiva, lo spazio terrestre avrebbe perso ogni
valore di resistenza, ridotto a una lastra equipotenziale ad attri-
to zero in cui gli unici valori determinanti sarebbero stati quelli
relativi all’attività antropica e alla sua diffusione su scala totale.
I percorsi, i nodi e i limiti della Ecumenopolis futura, quindi,
sarebbero stati tracciati a partire da pure questioni topologi-
co-relazionali che avrebbero piegato il dato fisico-naturale alle
azioni che l’uomo intraprendeva o avrebbe potuto intraprende-
re per renderlo abitabile, qualora ne avesse avuto necessità o
bisogno. Rispetto a uno scenario simile, in cui il progresso non
solo avrebbe attraversato i confini nazionali ma avrebbe potuto

184
Verso la città-mondo

piegare a proprio piacimento i limiti fisici del pianeta qualora


l’uomo avesse dovuto raggiungere quella specifica area, la na-
tura si sarebbe trasformata nel territorio dell’anti-economico, e
soltanto per questa ragione degna di essere mantenuta in vita.
Ecumenokepos35, l’alter ego di Ecumenopolis destinato a svago
e contemplazione, altro non era che un residuo, inaccessibile e
non conveniente, di un pianeta completamente umano. Il mon-
do di Doxiadis, in altri termini, era concepito come un disposi-
tivo a uso e consumo esclusivo di un uomo che, con la scienza
e le applicazioni derivate, avrebbe stabilito come e dove porre
i limiti del suo insediamento, o meglio della sua casa, conve-
nientemente con le proprie necessità di riproduzione, crescita
economica e aggregazione sociale. In un mondo il cui progetto
non poneva limiti all’azione dell’uomo, la questione posta da
Arnold Toynbee – l’uomo sarebbe stato vittima o padrone della
sua stessa creatura36? – sembrava non solo legittima, ma tecni-
camente obbligata, soprattutto perché Doxiadis, avendo previ-
sto il carattere inevitabile dello sviluppo, non aveva elaborato
nessuno strumento alternativo, ovvero nessuno strumento con
cui l’uomo potesse difendersi da sé stesso e dalle sue azioni.
Restava tuttavia la prefigurazione di un mondo iperconnesso
in cui l’architettura avrebbe assolto a una funzione nuova, stru-
mentale alla crescita e alla circolazione di conoscenza, uomini
e mezzi: come dispositivo dinamico in grado di adattarsi e di
orientare lo sviluppo, l’architettura della città del futuro avreb-
be abbandonato quel ruolo di contenitore formale-funzionale
per farsi essa stessa pattern di relazioni progressive fra loro vin-
colate, gerarchicamente stabilite nello spazio e nel tempo. In
primo luogo, quindi, il progetto della città del futuro diventava
programma in cui era il tempo, prima dello spazio, a dettare
le regole. Per immaginare la città del futuro nella sua ipotetica
forma compiuta, infatti, Doxiadis avrebbe infatti dovuto defini-
re le azioni da intraprendere – e gli stadi di sviluppo – fino alla

185
Filippo De Dominicis

prefigurazione di un assetto futuro, stabile e definitivo. Ogni


azione, quindi, aveva come orizzonte uno scenario ideale; uno
scenario che, registrando le trasformazioni del reale, era a sua
volta oggetto di cambiamenti e modificazioni progressive. Il pro-
gettista globale che Doxiadis intendeva plasmare doveva agire
su queste due leve, spostando pesi e costruendo nuovi equilibri,
vincolato dal rapporto fra le condizioni presenti e gli sviluppi
futuri che queste avrebbero potuto generare. In questo quadro,
il progetto non poteva essere altro che un dispositivo provvi-
sto di tutte le informazioni chiave – dati climatico-geografici,
demografici, economici – per indirizzare la trasformazione spa-
zio-temporale del pianeta: in altri termini, un database di azioni
e reazioni progressivamente aggiornato e aggiornabile, sia sul
piano reale che su quello ideale futuro. Per quanto flessibile e
dinamico, quindi, il progetto immaginato da Doxiadis mantene-
va un grado di permanenza estremamente elevato. Questa per-
manenza non era tanto legata ai caratteri formali o figurali che
il progetto doveva stabilire – che avrebbero perso ogni forma
di autonomia –, quanto all’esercizio continuo che del progetto
si sarebbe dovuto fare per aiutare l’essere umano nel cammino
verso uno sviluppo pieno e compiuto. In altre parole, il mondo
avrebbe vissuto in uno stato di progettazione perenne, sotto-
posto a trasformazione costante: il campo di azione fisica e so-
ciale dell’essere umano e il suo insediamento dovevano essere
infatti minuziosamente e continuamente pianificati affinché lo
sviluppo reale e un ipotetico assetto futuro – ideale – potessero
quanto più possibile coincidere, soprattutto considerando che,
rispetto a un esito giudicato inevitabile, il percorso da seguire
sarebbe stato quanto mai oscuro.
Una volta realizzata Ecumenopolis, l’uomo avrebbe portato
a compimento una rivoluzione spaziale senza precedenti. L’o-
biettivo, infatti, non era più soltanto immaginare nuovi tipi di
insediamento, ma riformulare la stessa logica che ne presiedeva

186
Verso la città-mondo

l’organizzazione attraverso un rinnovato e più articolato spazio


di indagine, in un tentativo estremo di corrispondenza tra or-
dine politico, ordine economico e ordine spaziale. Ne sarebbe
risultato un “secondo nuovo mondo” in cui entità preceden-
temente autonome avrebbero trovato nuova vita attraverso
processi di aggregazione superiore, come delle «Ur o Weimar
redivive37». In questo quadro, Ekistics emergeva come «tecnica
per governare le tecniche38» in grado di coniugare e coordina-
re diversi sistemi di sapere entro una prospettiva di rinnovato
sinecismo, stavolta esteso a livello globale. Costruire un’unica
struttura insediata, ad una scala così ampia, avrebbe significato
lasciarsi definitivamente alle spalle la formalizzazione tradizio-
nale della città e entrare in uno spazio nuovo. D’altra parte, que-
sto significava anche superare le disparità sociali e materiali che
ogni entità urbana – limitata e chiusa – portava con sé: eliminata
la città come radice della disuguaglianza – tutti sarebbero sta-
ti abitanti di Ecumenopolis, e tutti avrebbero avuto accesso ai
servizi che offriva –, Doxiadis avrebbe gradualmente ricondotto
l’uomo a una condizione primordiale, allo stesso tempo econo-
mica e domestica. Ecumenopolis, come orizzonte formalizzato
e “insediato”, sarebbe diventata l’unico strumento per esorciz-
zare la crescita e le trasformazioni che ne potevano derivare39.
In questa dimensione, l’unica sopportabile per il genere umano
futuro, non vi sarebbero stati più confini, più crisi, più distanze
da colmare. Merci e persone avrebbero potuto liberamente cir-
colare, mosse da quella differenza di potenziale fra le varie aree
del pianeta che gli esperti avevano saputo calibrare con sapien-
za scientifica. Ogni shell, ogni piccola architettura domestica,
avrebbe potuto innescare relazioni di scala sempre maggiore,
grazie all’azione di una tecnica capace di attivare network estesi
ma estremamente capillari. L’uomo si sarebbe appropriato del
pianeta, rendendolo completamente umano. Avrebbe raggiunto
ogni angolo se avesse avuto motivo, ricorrendo a quanto di più

187
Filippo De Dominicis

avanzato scienza e tecnica potevano offrirgli. Avrebbe tagliato


montagne, prosciugato paludi, reso fertili i deserti, qualora ne
avesse manifestato la necessità, piegando la geografia per fare
della Terra la sua casa. Paradossalmente, solo dissolvendosi con
il pianeta che lo ospitava, eliminando i limiti fisici e confinan-
do la natura vergine in poche aree inaccessibili – perché quelle
di straordinaria bellezza sarebbero state comunque a suo uso e
consumo, seppur contemplativo – l’uomo si sarebbe salvato da
un’estinzione certa, raggiungendo quella dimensione capace di
riconciliarlo non solo con sé stesso, ma con quel Cosmo che gli
aveva insegnato le leggi della Scienza. Era questo, del resto, il
destino inevitabile cui doveva fare ritorno.

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Verso la città-mondo

Note

1. Athens Technological Institute – Athens Center of Ekistics, COF Monthly Re-


port (MR-COF 1-27), in Doxiadis Archives 19212, C.&E. Doxiadis Foundation,
Atene. In particolare, si fa qui riferimento ai Delos Symposia, una serie di in-
contri promossi da Doxiadis cui avrebbero partecipato personalità di spicco del
mondo intellettuale e accademico del tempo: tra gli altri, l’antropologa ameri-
cana Margaret Mead, Barbara Ward, Buckminster Fuller, Marshall McLuhan,
l’ex segretario dei CIAM Sigfrid Geidion e, naturalmente, Jaqueline Tyrwhitt.
2. Fathy Hassan, Report on Towns Visited in North and West Africa – Some Con-
clusions (R-ERES 15-14), ATO-GSE – Research Project “The City of the Future”,
2 luglio 1961, in Doxiadis Archives 18604, C.&E. Doxiadis Foundation, Atene.
Vedi anche Fathy Hassan, C.O.F. – Contribution to the Final Report – General
Introduction (R-ERES 24-1), 17 luglio 1961, in Doxiadis Archives 18607, C.&E.
Doxiadis Foundation, Atene.
3. Jaqueline Tyrwhitt sarebbe entrata a tempo pieno nella ricerca dal 1° genna-
io 1961. Vedi Athens Technological Institute – Athens Center of Ekistics, COF
Monthly Report..., cit.
4. Per far fronte a quell’enorme impegno che il rilievo del mondo comportava,
Doxiadis avrebbe richiesto la collaborazione di numerosi esperti fra pianifica-
tori, economisti e geografi. Alcuni di essi – Matos e Gomez Mayorga – sareb-
bero entrati in pianta stabile nella ricerca. Altri, come Rege, sarebbero stati
integrati all’interno dell’ufficio. Vedi Athens Technological Institute – Athens
Center of Ekistics, COF Monthly Report..., cit.
5. Vedi la serie di documentazione interna codificata S-ERES. In particolare:
Tyrwhitt Jaqueline, Comments on COF Documents: in order of date (S-ERES 39),
ATO-GSE – Research Project “The City of the Future”, 4 gennaio 1961, in Doxiadis
Archives 18616, C.&E Doxiadis Foundation, Atene.
6. Il 18 gennaio 1961 Tyrwhitt già definiva la città del futuro come «an infini-
te extensibility of urbanized regions, each consisting of recognizable finite
components». Vedi, Tyrwhitt Jaqueline, Points which might be included under
headings of final report (S-ERES 44), 18 gennaio 1961, p. 1, in Doxiadis Archives
18616, C.&E Doxiadis Foundation, Atene.
7. Doxiadis Konstantinos Apostolos, Toward Ecumenopolis: a Different Appro-
ach to the Problem of “The City of the Future” (R-ERES 6), ATO-GSE – Research
Project “The City of the Future”, 25 gennaio 1961, in Doxiadis Archives 18607,
C.&E. Doxiadis Foundation, Atene. Vedi anche Doxiadis Konstantinos Aposto-
los, Trying to Define Ecumenopolis (R-ERES 7), ATO-GSE – Research Project “The
City of the Future”, 27 gennaio 1961, in Doxiadis Archives 18607, C.&E. Doxiadis
Foundation, Atene.

189
Filippo De Dominicis

8. Per una trattazione esaustiva di Ecumenopolis, anche rispetto all’attività


di Doxiadis dopo la sua formulazione fino al 1975, e ad altre entità teoriche
elaborate, vedi: Pyla Panayiota, Ekistics, Architecture and Environmental Policies.
A Prehistory of Sustainable Development, Tesi di dottorato in Architecture: Hi-
story and Theory of Architecture, School of Architecture and Planning, Mas-
sachusetts Institute of Technology, Cambridge, 2002, pp. 75-88.
9. Vedi l’interessante collegamento proposto da Pyla Panyiota, Ekistics, Archi-
tecture and Environmental Policies…, cit., p. 84, con le teorie di Walter Isard.
Walter Isard (1919-2010) è stato un economista statunitense, professore di
economia regionale al MIT fra il 1953 e il 1956 e in seguito direttore del Di-
partimento di economia regionale all’University of Pennsylvania fino al 1979.
Vedi Isard Walter, Location and Space Economy, Cambridge, 1956. Il manoscrit-
to di Isard sarà pubblicato nel 1972: Isard Walter, Location and Space Economy,
The MIT Press, Cambridge, 1972.
10. Doxiadis Konstantinos Apostolos, Economic progress in underdeveloped
countries and the rivalry of democratic and communist methods, Milano 1955, p. 2,
in Doxiadis Archives 6872, C.&E. Doxiadis Foundation, Atene.
11. Doxiadis Konstantinos Apostolos, Ekistics and Regional Science, in “Ekistics”,
vol. 14, n. 84, 1962, pp. 193-200. Il contributo era stato presentato al secondo
congresso europeo della Regional Science Association a Zurigo, nel 1962.
12. Doxiadis Konstantinos Apostolos, Ecumenopolis, “the Settlement of the Fu-
ture” (R-ERES 18), 23 giugno 1961, in Doxiadis Archives 2650, C.&E. Doxiadis
Foundation, Atene. Vedi anche Doxiadis Konstantinos Apostolos, Ecumenopo-
lis, “the Settlement of the Future” Working Files, 1958-1961, in Doxiadis Archives
17391, C.&E. Doxiadis Foundation, Atene. I documenti di lavoro contengono le
minute del rapporto R-ERES 18 e includono i commenti degli esperti coinvolti
nella discussione, fra gli altri J. Tyrwhitt, H. Fathy, M. Gomez-Mayorga, G.
Gutenschwager, D. Iatridis.
13. Non casualmente, per definire il “salto” verso Ecumenopolis, Doxia-
dis avrebbe intitolato il capitolo di introduzione al concetto di città-mondo
Towards the Unknown, seguito da un paragrafo dall’intestazione ancora più
eloquente: Looking into the Darkness. Doxiadis Konstantinos Apostolos, Ecu-
menopolis…, cit., p. 157.
14. Ivi, p. 140.
15. Ivi, p. 168.
16. Ivi, pp. 194-201.
17. Tyrwhitt Jaqueline, Comments on R-ERES 18: “Ecumenopolis: the Settlement
of the Future” (R-ERES 81), ATO-GSE – Research Project “The City of the Future”,
13 luglio 1961, p. 26, in Doxiadis Archives 18616, C.&E. Doxiadis Foundation,
Atene.

190
Verso la città-mondo

18. Ivi, p. 3. La traduzione è dell’autore. L’originale recita: «Unless we are com-


pletely Marxist it is not “quite safe” to predict economic trends».
19. Ibidem.
20. Tyrwhitt Jaqueline, Comments on R-ERES 18…, cit., p. 24. Tyrwhitt fa qui
riferimento alle ricerche condotte con Marshall McLuhan a Toronto, prodot-
te con finanziamenti Ford Foundation. Shoshkes Ellen, Jaqueline Tyrwhitt: A
Transnational Life in Urban Planning and Design, Ashgate Publishing, Farnham,
2013.
21. Qui Tyrwhitt avrebbe fatto riferimento al pensiero di Ezra Pound, citando
l’espressione «all times are contemporaneous». Vedi i rapporti interni T-E-
RES 23, 24, 25, 26, 27 redatti da Myrto Bogdanou, minute delle discussioni sul
documento R-ERES 18 del luglio 1961 fra gli esperti coinvolti nel progetto.
Bogdanou Myrto, Summer Discussions 1961 (T-ERES 23-27), ATO-GSE – Rese-
arch Project “The City of the Future”, 23, 24-27 luglio 1961, in Doxiadis Archives
34793, C.&E. Doxiadis Foundation, Atene.
22. L’espressione total government è usata dall’architetto e pianificatore mes-
sicano Gomez-Mayorga. Vedi Bogdanou Myrto, Summer Discussions…, cit., p.2.
23. Tyrwhitt Jaqueline, Utopias that Allow for Growth and Change (R-ERES 39),
ATO-GSE – Research Project “The City of the Future”, 8 gennaio 1962, in Doxia-
dis Archives 18682, C.&E. Doxiadis Foundation, Atene.
24. Tyrwhitt Jaqueline, The Institution as a Generator of Urban Form (R-ERES
85), ATO-GSE – Research Project “The City of the Future”, 21 luglio 1961, p. 1, in
Doxiadis Archives 18682, C.&E. Doxiadis Foundation, Atene.
25. Bogdanou Myrto, op. cit., p.65.
26. Shoshkes Ellen, op.cit., pp. 202-207.
27. Shoshkes Ellen, op.cit., p. 204. Vedi anche Tyrwhitt Jaqueline, Education for
Urban Design, in “Journal of Architectural Education”, vol. 17, n. 3, 1962, pp.
100-102. Per le vicende alla Harvard Graduate School of Design, vedi Alofsin
Anthony, The Struggle for Modernism: Architecture, Landscape Architecture and
City Planning at Harvard, W. W. Norton&Company, New York, 2002; Mumford
Eric, The CIAM Discourse on Urbanism, 1928-1960, The MIT Press, Cambridge,
2000; Mumford Eric, Defining Urban Design: CIAM Architects and the Formation
of a Discipline, 1937-69, Yale University Press, New Haven, 2009.
28. Harvard’s Sixth Urban Design Conference, Designing Inter-City Growth, in
“Ekistics”, vol. 14, n. 82, agosto-settembre 1962, pp. 85-95.
29. Doxiadis Konstantinos Apostolos, Ecology and Ekistics, Westview, Boulder,
1977, pubblicato postumo; Doxiadis Konstantinos Apostolos, Global Ecologi-
cal Balance (the human settlements that we need), discorso per il Tyler Ecology
Award, University of South California, settembre 1974.
30. Doxiadis Konstantinos Apostolos, First remarks on the introduction to the

191
Filippo De Dominicis

report on W. Africa (S-ERES 58), ATO-GSE – Research Project “The City of the
Future”, 17 aprile 1961, p. 2, in Doxiadis Archives 18682, C.&E. Doxiadis Foun-
dation, Atene.
31. Doxiadis Konstantinos Apostolos, Papaioannou John, Ecumenopolis. The
Inevitable City of the Future, Athens Center of Ekistics, Atene, 1974, pp. 374-375.
I due approfondimenti regionali sono inseriti nel paragrafo 41, intitolato The
Physical configuration of Ecumenopolis, e costituiscono gli unici disegni di det-
taglio di tutta la parte sesta del volume, quella effettivamente dedicata a Ecu-
menopolis. Il resto dell’apparato iconografico consiste in planisferi che danno
conto della città-mondo nella sua interezza, e in grafici e tabelle a corredo.
32. La ricerca COF si sarebbe dedicata a mappe e disegni di tutti i cinque
continenti, cercando di coprire quanto più possibile in maniera uniforme l’in-
tero pianeta. Le mappe dell’Africa occidentale, redatte fra il 1960 e il 1970,
costituiscono un patrimonio importante per comprendere il modo in cui
Ecumenopolis sarebbe stata tracciata, considerato il pedigree di molte delle
idee sottese alla loro redazione. Vedi disegni con codice: D-COF 1115, D-COF
1193, D-COF 1194, D-COF 1195, D-COF 1196, D-COF 1197, D-COF 1198, D-COF
1201, D-COF 1202, D-COF 1203, D-COF 1204, D-COF 1205, D-COF 1206,
D-COF 1207, D-COF 1208, D-COF 1209, D-COF 1210, D-COF 1211, D-COF
1212, D-COF 1213, D-COF 1214, D-COF 1229, D-COF 1241, D-COF 1242, D-COF
1243, D-COF 1244, D-COF 1295, D-COF 1296, D-COF 1297, D-COF 1298,
D-COF 1299, D-COF 1300, D-COF 1301, D-COF 1302, D-COF 1303, D-COF
1304, D-COF 1305, D-COF 1306, D-COF 1307, D-COF 1308, tutti in Doxiadis
Archives 25822, C.&E. Doxiadis Foundation, Atene.
33. Doxiadis aveva rapporti consolidati con lo United Nations Special Fund
già dai tempi dell’All-Africa plan, quando era entrato in contatto con il vicedi-
rettore Paul-Marc Henri per richiedere e ottenere un partenariato sul proget-
to. Vedi Doxiadis Konstantinos Apostolos, African Transport Plan - Notes from
previous contacts and discussions (S-D 5798), 3 aprile 1963; Doxiadis Konstanti-
nos Apostolos, African Transport Plan (S-D 6104), 11 maggio 1963; entrambi in
Doxiadis Archives 20065, C.&E. Doxiadis Foundation, Atene.
34. Vedi Doxiadis Associates, The Asian Highway (DOX-ASA 1), 31 dicembre
1963, in Doxiadis Archives 23292, C.&E. Doxiadis Foundation, Atene; Doxiadis
Associates, The Asian Highway, in “DA Bulletin” (numero monografico), n. 65,
aprile 1964. Vedi anche: Stylianopoulos Leonidas, The Asian Highway, in Ka-
zazi Giota (a cura di), Constantinos Doxiadis and his Work, Technical Chamber
of Greece, Atene, 2009, pp. 334-341. Leonidas Stylianopoulos era l’ingegnere
trasportista incaricato della supervisione del progetto, coinvolto anche nell’A-
frica Transport Plan.
35. Vedi Pyla Panayiota, Planetary Home and Garden: Ekistics and

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Verso la città-mondo

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ECA) Archives E/CN. 14/63.

206
ASF Università Iuav di Venezia COMUNICAZ IONE
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Venezia, 20 dicembre 2019 VERBALE DI SINTESI DEI LAVORI DEL COMITATO SCIENTIFICO
PER L’EDITORIA DI ATENEO / CALL FOR PUBLISHING 2019

Candidature pervenute per la II Call for publishing Iuav 2019


A seguito della Call for publishing 2019, aperta a docenti, ricercatori,
assegnisti, dottori di ricerca, inviata il 18 luglio 2019 con scadenza il 9
settembre 2019 sono pervenute 17 proposte editoriali, delle quali 14 di
dottori di ricerca, una di un docente associato, una di un docente a
contratto, una di un assegnista di ricerca.

1. Roberta Albiero
L’invenzione di un linguaggio. Franco Purini e il tema dell’origine
Il volume raccoglie 5 testi critici sull'opera di Purini, la lezione tenuta il
26/6/2019 ai Tolentini e la serie di disegni esposta in tale occasione.

2. Andrea Ambroso
Archetipi fragili. La costruzione nell’opera di Smiljan Radic.
tesi di dottorato in composizione architettonica discussa il 16 maggio 2019
relatore Carlo Magnani

3. Paolo Borin
La geometria come strumento totale.
Advanced digital modeling per lo studio dell’opera di Guarino Guarini
tesi di dottorato in Composizione architettonica discussa il 16 maggio 2019
relatore Agostino de Rosa

4. Marcantonio Bragadin
docente a contratto di Analisi matematica
Alcune considerazioni sulla compatibilità fra la Evoluzione e la
Termodinamica

5. Giulia Ciliberto
Studio, formulazione, materialità.
Le segnature pedagogiche del visual design
tesi di dottorato in Scienze del design discussa nel 2017
relatrice Emanuela Bonini Lessing

6. Filippo De Dominicis
La città del futuro: Constantinos Doxiadis e il progetto del mondo
l’autore è stato assegnista di ricerca ICAR 14 Iuav / Dipartimento di Culture
del Progetto fra il 2013 e il 2015
7. Andrea Facchetti
Verso un nuovo orientamento del design critico speculativo
Pratiche progettuali, produzione di conoscenza, articolazione dei conflitti
tesi di dottorato in Scienze del design discussa il 5 giugno 2017
relatrici Emanuela Bonini Lessing / Raimonda Riccini

8. Ferrari Margherita
Think Wood
tesi di dottorato in Tecnologia dell’architettura discussa nel 2019
relatrice MariaAntonia Barucco

9. Alberto Franchini
Il villaggio Matteotti di Giancarlo De Carlo. Storia del progetto e genealogia
dei temi
tesi di dottorato in Storia dell'architettura e della città discussa nel 2019
relatore Luka Skansi

10. Alioscia Mozzato


Le Corbusier e il meccanismo “informulable”. Il Palazzo dei Filatori ad
Ahmedabad
La proposta editoriale riprende e aggiorna il tema della tesi di dottorato
discussa nel 2013
relatori Eleonora Mantese / Luciano Semerani

11. Massimo Mucci


Experimental architecture e utopia: l’architettura di Lebbeus Woods tra
immaginazione figurativa e decostruttivismo linguistico
Il libro è il risultato delle ricerche svolte in occasione della tesi di dottorato
in Composizione architettonica

12. Piercarlo Palmarini


Sul montaggio in architettura. Il progetto di James Stirling per la Neue
Staatsgalerie di Stoccarda
tesi di dottorato in Composizione architettonica discussa il 17 maggio 2018
relatore Armando Dal Fabbro

13. Laura Scala


La costruzione dello spazio nelle sperimentazioni delle prime Avanguardie
russe: principi di una nuova figurazione
tesi di dottorato in Composizione architettonica discussa il 7 giugno 2017
relatori Luciano Semerani, Antonella Gallo
14. Stefano Tornieri
Una sola moltitudine. Arcaismo, anonimato e modernità
in Alexandre Alves Costa
tesi di dottorato in Composizione architettonica discussa il 18 marzo 2015
relatori Carlo Magnani, Jorge Figueira

15. Massimo Triches


Antoni Bonet Castellana. La misura per un'architettura mediterranea
tesi di dottorato in Composizione architettonica discussa nel 2016
relatore Armando dal Fabbro

16. Virgioli Paola


Un luogo d’angolo.
L’Illa Diagonal a Barcellona di Rafael Moneo e Manuel de Solà-Morales
tesi di dottorato in composizione architettonica discussa nel 2018
relatore Carlo Magnani

17. Remi Wacogne


La fabbrica del patrimonio umano.
Il caso della città giardino di Marghera
tesi di dottorato in Pianificazione territoriale
Organizzazione del lavoro di valutazione
I volumi pervenuti sono stati condivisi con i componenti del comitato
scientifico tramite una cartella in Google Drive.
Il lavoro di selezione delle proposte si è svolto per via telematica.
I componenti del comitato scientifico hanno potuto prendere visione dei
materiali caricati nello spazio condiviso.
Oltre a Fernanda De Maio, hanno preso parte al lavoro di valutazione e
selezione i seguenti componenti del Comitato scientifico:
Silvana Annicchiarico, Jean Lucien Bonillo, Luca Ortelli, Josep Parcerisa
Bundò, Francesco Trovato.

Nel tener conto dei criteri di valutazione espressi nel testo della call
(attinenza a tematiche strategiche di Ateneo, rilevanza e originalità del
tema proposto, innovatività nella articolazione e trattazione del tema), la
coordinatrice ha proposto al Comitato scientifico una scheda di valutazione
sintetica, articolata in giudizi ed eventuali commenti (vedi allegato).

Valutazione proposte editoriali


Il comitato scientifico ha rilevato con soddisfazione l’alta qualità delle
proposte pervenute. Sulla base dei criteri espressi, il comitato scientifico
ha selezionato i seguenti volumi come idonei alla pubblicazione nella
collana Iuav / LetteraVentidue:

Collana Saggi Giudizio del referee

La città del futuro: Constantinos Doxiadis significativo


e il progetto del mondo
Filippo De Dominicis

Studio, formulazione, materialità. significativo


Le segnature pedagogiche del visual design
Giulia Ciliberto

Collana Materiali Giudizio del referee

L’invenzione di un linguaggio. significativo


Franco Purini e il tema dell’origine, 1964 -1976
Roberta Albiero
La costruzione dello spazio nelle sperimentazioni eccellente
delle prime Avanguardie russe: principi di una
nuova figurazione
Laura Scala

Archetipi fragili. significativo


La costruzione nell’opera di Smiljan Radic.
Andrea Ambroso

Experimental architecture e utopia: significativo


l’architettura di Lebbeus Woods tra immaginazione
figurativa e decostruttivismo linguistico
Massimo Mucci

Procedure per la pubblicazione delle proposte approvate

Gli autori delle proposte accettate sono invitati a fissare con la delegata del
rettore per l’editoria di ateneo prof. ssa Fernanda De Maio un
appuntamento presso lo Iuav di Venezia, scrivendo a editoria@iuav.it, per
concordare eventuali modi e tempi di pubblicazione delle proposte.

Per quanto riguarda le norme redazionali e altre informazioni utili,


invitiamo gli autori a consultare le pagine web nella sezione “editoria” del
sito d’Ateneo:

http://www.iuav.it/Servizi-IU/servizi-ge1/pubblicare/pubblicare/FAQ-call-
e/Indicazioni-Lettera-Ventidue.pdf

http://www.iuav.it/Servizi-IU/servizi-ge1/pubblicare/pubblicare/FAQ-call-
e/index.htm

Segnaliamo infine che l’editore non accetterà dagli autori materiali che
non siano accompagnati da una liberatoria sui diritti d'autore per le
immagini e i testi da parte degli archivi consultati e degli
autori/architetti/designer stessi.

Il Comitato Scientifico per l’editoria Iuav – redazione Collana Iuav – editoria@iuav.it

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