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ISBN 978-88-04-72363-9
www.oscarmondadori.it
Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell’autore e hanno
lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive
o scomparse, è assolutamente casuale.
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La Nona Casa
Custodi del Sepolcro Sigillato, Casa della Lingua Cucita,
le Vestali Nere
Harrowhark Nonagesimus EREDE DELLA NONA CASA,
REVERENDA FIGLIA DEL DREARBURH
ACT ONE e
Gideon Nav SERVA DEBITRICE DELLA NONA CASA
La Prima Casa
Il Divino Necromante, Sovrano delle Nove Rigenerazioni,
il nostro Resurrettore, il Necrore Supremo
L’IMPERATORE
I SUOI LITTORI
E I CHIERICI DELLA CASA DI CANAAN
La Seconda Casa
La Forza dell’Imperatore, Casa dello Scudo Cremisi,
la Dimora dei Centurioni
Judith Deuteros EREDE DELLA SECONDA CASA,
CAPITANA DELLA COORTE
La Terza Casa
La Bocca dell’Imperatore, la Processione,
la Casa della Morte Splendente
Coronabeth Tridentarius EREDE DELLA TERZA CASA,
PRINCIPESSA EREDITARIA DI IDA
La Quarta Casa
La Speranza dell’Imperatore, la Spada dell’Imperatore
Isaac Tettares EREDE DELLA QUARTA CASA, BARONE DI TISIS
Jeannemary Chatur PRIMA PALADINA DELL’EREDE,
CAVALIERA DI TISIS
La Quinta Casa
Il Cuore dell’Imperatore, le Sentinelle del Fiume
Abigail Pent EREDE DELLA QUINTA CASA,
SIGNORA DELLA CORTE DI KONIORTOS
La Sesta Casa
La Ragione dell’Imperatore, i Guardiani Superiori
Palamedes Sextus EREDE DELLA SESTA CASA,
MASTRO GUARDIANO DELLA BIBLIOTECA
La Settima Casa
La Gioia dell’Imperatore, la Rosa Intatta
Dulcinea Septimus EREDE DELLA SETTIMA CASA,
DUCHESSA DI RHODES
L’Ottava Casa
I Custodi del Tomo, la Casa Misericordiosa
Silas Octakiseron EREDE DELL’OTTAVA CASA,
MAESTRO TEMPLARE DEL BIANCO CALICE
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Là fuori, la visuale sulla fetta di cielo della Nona era sgombra. Dove
l’atmosfera era pompata più spessa, il cielo era di un bianco denso,
che si assottigliava, azzurrandosi, nei punti in cui si faceva più rare-
fatta. La cintura scintillante di Dominicus lampeggiava benigna giù
per l’imboccatura del profondo tunnel verticale. Nell’oscurità, Gi-
deon esordì con una passeggiata di ricognizione lungo il perimetro
dello spiazzo, premendo con forza le mani contro la pietra fredda e
unta delle pareti della caverna. Fatto ciò, si impegnò a lungo e con
metodica precisione a calciare via ogni innocuo detrito e particella di
sporcizia o di roccia rimasti sul pavimento dissestato della pista d’at-
terraggio. Piantò il tacco d’acciaio del suo stivale malconcio nel suo-
lo compatto ma poi, constatando con soddisfazione che le possibili-
tà che qualcuno riuscisse ad aprirsi un varco scavando erano molto
remote, decise di lasciar perdere. Non ci fu centimetro di quell’enor-
me spazio vuoto che Gideon non si premurò di setacciare e, quando
le luci del generatore ripresero vita con un ronzio poco convinto, ri-
controllò altre due volte, aguzzando la vista. Si arrampicò fino all’in-
telaiatura reticolare dei riflettori e controllò anche quelli, accecata dal
bagliore, tastando alla cieca dietro agli alloggiamenti metallici. Non
trovò niente e ne ricavò un mesto conforto.
Si parcheggiò su una delle cataste di rottami devastati lì in mezzo. I
riflettori fornivano solo una smorta imitazione della luce vera, parto-
rendo tutt’intorno un’esplosione di ombre malformate. L’oscurità del-
la Nona era profonda e sfuggente; era fredda e livida. In quello scena-
rio, Gideon si premiò con una bustina di plastica piena di porridge.
Aveva un sapore orrendo, di un grigiore spettacolare.
Quella mattina era cominciata come ogni altra mattina della Nona
da che la Nona aveva avuto origine. Gideon fece un giro per il vasto
spiazzo d’atterraggio tanto per sgranchirsi un po’, scalciando sovrap-
pensiero un grumo disperso di pietrisco sul suo cammino. Scollandosi
il porridge dai molari con la punta della lingua, si avvicinò alla balau-
stra del livello e guardò giù nella caverna centrale in cerca di segnali
di movimento. Dopo un po’, udì lo scalpiccio ascendente degli schele-
tri che come automi andavano a zappare i porri gelati nei campi col-
tivati. Gideon li vedeva con l’occhio della mente: avorio sporco nella
penombra sulfurea, i picconi che tintinnavano a filo del terreno e gli
occhi, una moltitudine ondeggiante di capocchie di spillo scarlatte.
gato appartiene alla Nona. Il tuo cervello è una semplice spugna rag-
grinzita, ma anche quello è proprietà della Nona. Vieni qua e ti farò
gli occhi neri e ti spedirò all’altro mondo.»
Gideon arretrò, mantenendo le distanze. «Crux» commentò, «se
stai cercando di minacciarmi dovresti optare per: “Vieni qua, o…”.»
«Vieni qua e ti farò gli occhi neri e ti spedirò all’altro mondo» grac-
chiò il vecchio avanzando «e poi la mia Signora ha detto che sarai tu
ad andare da lei.»
Solo a quel punto i palmi di Gideon cominciarono a formicolare.
Alzò lo sguardo verso lo spaventapasseri che le torreggiava davanti e
che di rimando la squadrò col suo unico occhio, inquietante e male-
volo. Pareva che l’armatura vetusta gli si stesse decomponendo addos-
so. Anche se la pelle livida, tesa spasmodicamente sul cranio sembra-
va sul punto di creparsi, non dava l’impressione di curarsene. Gideon
sospettava che – anche se in lui non c’era neanche una scintilla di ne-
cromanzia – al momento della morte, Crux non avrebbe smesso di
esistere, ma sarebbe andato avanti, di pura cattiveria.
«Fammi pure gli occhi neri e spediscimi all’altro mondo» disse lei
scandendo bene le parole, «ma la tua Signora può andarsene all’in-
ferno quando le pare.»
Crux le sputò addosso. Disgustoso, ma pazienza. Afferrò il lungo
coltello che teneva legato alla spalla, in un fodero punteggiato di muf-
fa, e lo roteò, facendo balenare il filo sottile della lama: Gideon, però,
era già in piedi con il fodero parato davanti a sé a mo’ di scudo. Con
una mano stringeva l’impugnatura, con l’altra il fermo del fodero. Si
fronteggiavano, bloccati dall’impasse, lei del tutto immobile e il vec-
chio con quel suo respiro pesante e bagnaticcio.
Gideon disse: «Non sguainare, Crux. Non fare questo sbaglio. Non
con me».
«Con quella spada non sei brava neanche la metà di quanto cre-
di, Gideon Nav» rispose il Maresciallo del Drearburh. «Un giorno ti
scuoierò per condotta oltraggiosa. Un giorno useremo i tuoi pezzi
per farci la carta. Un giorno le sorelle del Sepolcro Sigillato faranno
spazzole coi tuoi peli e ci strofineranno l’altare. Un giorno le tue ossa
obbedienti spolvereranno tutti i luoghi che disdegni e col tuo gras-
so ci lucideremo la pietra. È stata suonata l’adunata, Nav, e ti ordino
di andarci. All’istante.»
* * *
* * *
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alla pista d’atterraggio, come una faretra svuotata. Solo con i guanti,
gli stivali, la camicia e i pantaloni, con quella testa di capelli neri ta-
gliati corti e la faccia accartocciata dalla rabbia, appariva per ciò che
era realmente: una ragazzina disperata, più giovane di Gideon, piut-
tosto esile e deboluccia.
«Senti, Nonagesimus» disse Gideon, profondamente destabilizzata
e ormai veramente in imbarazzo «tagliamo la testa al toro. Non far-
lo, di qualsiasi cosa si tratti. Lasciami partire.»
«Non puoi girare i tacchi e andartene così, come se niente fosse,
Nav» fece Harrowhark, con palpabile freddezza.
«Vuoi che ti saluti a calci in culo?»
«Taci» disse la Signora della Nona, aggiungendo un agghiaccian-
te: «Voglio modificare le condizioni. Un combattimento leale e…».
«…e me ne andrò in santa pace? Non sono mica così cretina…»
«No. Un combattimento leale e te ne potrai andare con il tuo con-
tratto» disse Harrow. «Se vinco io, verrai all’adunata e te ne andrai
subito dopo – con il contratto. Se perdo, te ne andrai subito – con il
contratto.» Raccolse il foglio da terra, tirò fuori dalla tasca una pen-
na stilografica e se la infilò fra le labbra per pungersi l’interno della
guancia, in profondità. Con la penna che grondava sangue – uno dei
suoi numeri per le grandi occasioni, pensò Gideon con freddezza –
firmò: “Pelleamena Novenarius, Reverenda Madre del Sepolcro Si-
gillato, Signora del Drearburh, Sovrana della Nona Casa”.
Gideon disse, sentendosi un’idiota: «Quella è la firma di tua madre».
«Non posso firmare col mio nome, rincoglionita che non sei al-
tro, rovinerebbe tutto il giochetto» disse Harrow. Da così vicino, Gi-
deon riusciva a vedere il reticolo rosso dei capillari che le si irraggia-
va, come un’esplosione, all’angolo degli occhi – l’alone rosato di chi
ha passato la notte in bianco. Le porse il contratto e Gideon lo affer-
rò con sfacciata voracità. Lo ripiegò, se lo cacciò nella camicia e lo in-
filò nella fascia. Harrow non sogghignò nemmeno. «Accetta di duel-
lare con me, Nav, di fronte al mio maresciallo e alla mia guardia. Un
combattimento leale.»
Più di ogni altra cosa, Harrowhark era una creatrice di schele-
tri e, in quello scatto d’orgoglio rabbioso, quello che le stava offren-
do era in realtà un combattimento sleale. Discepola purosangue del-
la Nona, si era privata di ogni appiglio decidendo di sfidarla a duello
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Gideon provò in tutti i modi a perdere i sensi
mentre le dita gelide e ossute di Crux le si serravano attorno a una
caviglia. Per poco non ci riuscì. Si svegliò un paio di volte per sbat-
tere le palpebre nella luce monotona che illuminava il montacarichi
per il fondo del pozzo principale e rimase vigile quando il maresciallo
la trascinò come un sacco di marciume lungo l’anello inferiore. Non
sentiva nulla: niente dolore, niente rabbia, niente delusione. Mentre
veniva trasportata di peso oltre la soglia del Drearburh, provò solo
una sensazione di distacco, di bizzarro stupore. Un fremito di vita la
percorse quando tentò un’ultima volta di fuggire, ma appena Crux
la vide agguantare i tappeti consunti sul lucido pavimento scuro, le
sferrò una pedata in testa. A quel punto svenne davvero per qualche
tempo e si svegliò soltanto quando venne issata su una delle panche
delle prime file. La panca era così fredda che la pelle ci si incollava
sopra e ogni respiro era una pugnalata ai polmoni.
Si riebbe, mezza congelata, udendo le preghiere. Nei rituali della
Nona non venivano pronunciate invocazioni. C’era solo il ticchettare
delle ossa – nocche, tutte intrecciate in cordini annodati, intagliate e
usurate – maneggiate dalle monache con le loro dita decrepite. Pre-
gavano con una tale destrezza da trasformare ogni celebrazione in un
costante brusio di schiocchi. La sala era lunga e stretta e Gideon era
stata scaricata proprio davanti all’altare. C’era molto buio: una chio-
stra di luci a gas costeggiava le navate, ma si accendeva sempre con-
trovoglia per splendere con un certo disappunto. Le arcate sopra di
loro erano state rivestite di polveri bioluminescenti che, a volte, flut-
tuavano giù nella navata in uno stillicidio di glitter verde pallido. Sche-
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letri silenziosi, con ancora addosso la polvere del lavoro nei campi,
sedevano muti nelle cappelle laterali. Gideon diede un’occhiata ap-
pannata alle sue spalle e constatò che nel tempio c’erano quasi esclu-
sivamente scheletri. Un festival degli scheletri. In quella chiesa, lun-
ga e profonda come un canale, c’erano un migliaio di posti ed erano
per metà occupati da scheletri, con persone in carne e ossa distribui-
te sporadicamente qua e là.
Queste sedevano in prevalenza nel transetto: suore velate e mo-
nache di clausura, teste rasate e capelli tagliati corti, gli abitanti mi-
seri e sparuti della Nona Casa. La maggior parte, ormai, era compo-
sta da sacerdoti del Sepolcro Sigillato; non c’erano più stati soldati
o chierici combattenti da quando Gideon era molto piccola. L’unica
superstite fra gli appartenenti a quell’ordine era Aiglamene, che ave-
va lasciato in una remota prima linea – chissà dove e quando – una
gamba e ogni speranza di andarsene da quel cazzo di posto. Il ticchet-
tio nel transetto era occasionalmente interrotto da un raschiante ac-
cesso di tosse grassa o dal rantolo secco di uno schiarimento di gola.
Sull’abside c’era una lunga panca ed è là che sedeva l’ultimo manipo-
lo dell’aristocrazia della Nona Casa: la Reverenda Figlia Harrowhark,
accomodata su un lato con fare modesto, il viso spennellato di pol-
vere fosforescente che le si era appiccicata ai rivoli di sangue che le
uscivano dal naso; le sue lugubri prozie; e i suoi genitori, il Signore e
la Signora della Casa, il Reverendo Padre e la Reverenda Madre. Que-
sti ultimi occupavano un posto di riguardo ai piedi dell’altare, rivolti
verso la congregazione. A Crux era stato accordato l’onore di sedere
su uno scranno in una delle uggiose cappelle, circondato da un mare
di candele – metà delle quali già spente. Accanto a lui sedeva l’unico
paladino della casa, Ortus, un trentacinquenne largo e triste, e, vici-
no a Ortus, c’era la sua illustre madre, una megera che rispondeva in
pieno agli standard della Nona e che continuava a tormentargli un
orecchio con un fazzoletto.
Gideon sbatté le palpebre in modo che la vista smettesse di trabal-
larle e si concentrò sull’abside. Erano ormai due anni buoni che nes-
suno riusciva ad attirarla con l’inganno nel Drearburh, inoltre era un
pezzo che non vedeva il Signore, la Signora e le orripilanti prozie. La
Beata Sorella Lachrimorta e la Beata Sorella Aisamorta erano inal-
terate. Sempre minuscole, con quelle facce severe ancora gocciolanti
ma a raccolta i candidati alla carica di Littore, gli eredi degli otto inde-
fessi che hanno prestato servizio negli ultimi diecimila anni: numero-
si fra loro ormai giacciono in attesa che i fiumi si gonfino nel giorno
in cui si risveglieranno al cospetto del loro Re, e i solitari Guardiani
restanti domandano che il loro numero venga rimpinguato e che il
loro Signore fra i Signori trovi otto nuovi vassalli.
«A tale scopo preghiamo la prima della vostra Casa e il suo paladi-
no di inginocchiarsi gloriosamente e di sottoporsi alla più alta fra le
prove, quella che li renderà ossa e articolazioni dell’Imperatore, i suoi
pugni e i suoi gesti…
«Otto, nelle nostre speranze, mediteranno e ascenderanno alla glo-
ria dell’Imperatore nel tempio della Prima Casa, otto nuovi Littori
uniti ai loro paladini; e se il Necrore Sommo li benedirà senza avva-
lersene, avranno facoltà di tornare alle loro dimore con tutti gli ono-
ri, con tamburi e squilli di tromba.
«Ai Suoi occhi, nessun doveroso dono sarà mai altrettanto perfet-
to e gradito».
Harrowhark abbassò il foglio e un lungo silenzio la avvolse; un si-
lenzio vero, senza neanche l’ombra di una nocca da preghiera che tic-
chettava o la mandibola di uno scheletro che cascava. La Nona sem-
brava completamente spiazzata. Si udì uno squittio sfiatato provenire
da una delle panche nel transetto alle spalle di Gideon – era uno dei
fedeli che aveva deciso di fare le cose in grande, procurandosi un
bell’attacco di cuore. Tutti quanti si distrassero. Le monache si pro-
digarono al meglio delle loro possibilità ma, pochi minuti dopo, fu
confermato che lo shock aveva ucciso uno degli eremiti e chi si tro-
vava nei paraggi celebrò la sua sacra buona sorte. Gideon non riuscì a
trattenere una risata mentre Harrowhark sospirava, palesemente in-
tenta a calcolare nella sua testa le conseguenze dell’evento sull’attua-
le popolazione della Nona.
«Mi rifiuto!»
Una seconda mano disturbò la tombale congregazione – era la ma-
dre di Ortus, in piedi con l’indice puntato e tremante, mentre con l’al-
tro braccio cingeva le spalle del figlio. Lui pareva annichilito. Lei aveva
l’aria di una che ben presto avrebbe emulato il devoto defunto nel-
la sua prematura dipartita, il viso paralizzato sotto la base di pitture
alabastrine e una patina lucida di sudore sul teschio dipinto di nero.
«Mio figlio… mio figlio» esclamò, con voce rotta e stridula, «il mio
adorato primogenito! Il pupillo di suo padre! La mia unica gioia?»
«Sorella Glaurica, per cortesia» disse Harrow, tediata.
La madre di Ortus lo stringeva ora con entrambe le braccia e pian-
geva a dirotto sulla sua spalla. Quelle che le appartenevano, invece,
tremavano paurosamente di autentico terrore. Lui sembrava afflitto
da un’uggiosa depressione. Lei continuò a parlare, tra un singhioz-
zo e l’altro: «Vi ho dato mio marito, Lord Noniusvianus. Vi ho dato
il mio sposo, Lord Noniusvianus. E ora voi mi chiedete anche mio fi-
glio? Volete mio figlio? Certo che no! E di certo non ora!».
«Dimentichi il tuo posto, Glaurica» sbottò Crux.
«So bene cosa c’è in serbo per i paladini, mio signore, conosco il
suo destino!»
«Sorella Glaurica» disse Harrowhark, «calmiamoci.»
«Lui è giovane» implorò la madre di Ortus, accennando a trascinar-
lo al sicuro nella cappella, rendendosi poi conto che Lord Noniusvia-
nus non sarebbe intervenuto per intercedere. «È giovane, non è di co-
stituzione robusta.»
«Alcuni affermerebbero il contrario» commentò Harrowhark
sottovoce.
Ma Ortus dichiarò, con i suoi grandi occhi foschi e un tono piatto
e sconsolato: «Io temo la morte… Harrowhark, mia Signora».
«Un paladino dovrebbe accogliere la morte con favore» disse Ai-
glamene, scandalizzata.
«Tuo padre ha accolto la morte senza battere ciglio» aggiunse Crux.
Di fronte a queste tenere dimostrazioni di solidarietà, sua madre
scoppiò in lacrime. La congregazione borbottava, esternando prin-
cipalmente la propria riprovazione e Gideon cominciò a ringalluz-
zirsi. Non era più il giorno peggiore della sua vita, ormai. Quello era
uno spettacolo di prim’ordine. Ortus, senza divincolarsi dalla sua
singhiozzante genitrice, le mugugnò che avrebbe fatto in modo che
qualcuno si prendesse cura di lei; le atroci prozie ricominciarono a
pregare, gracchiando un inno inarticolato; Crux si mise a ingiuriare
a gran voce la madre di Ortus; e Harrowhark se ne stette là, in mez-
zo al marasma, muta e sdegnosa come un monumento.
«… andatevene e pregate affinché vi venga indicata la via, o ve la do-
vrete vedere con me, vi caccerò da questo santuario» stava dicendo Crux.
loro capelli tagliati corti, e si interrogò sulla prima cosa che avrebbe
fatto una volta partita per Trentham. I singulti della scalognata ma-
dre di Ortus interruppero il ticchettio e le fantasticherie ben poco
realistiche di Gideon – c’era lei che faceva le flessioni di fronte a una
dozzina di alti ufficiali plaudenti. Vide Harrow che sussurrava qual-
cosa a Crux, indicando madre e figlio. Il suo viso era il ritratto esan-
gue della pazienza. Crux li scortò fuori dal santuario senza troppi ri-
guardi. Ortus col passo pesante, la madre di Ortus che si reggeva a
malapena in piedi per la disperazione. Gideon, al loro passaggio, sa-
lutò lo sfortunato paladino alzando i pollici: Ortus le rispose con un
sorriso breve e slavato.
A quel punto, l’adunata venne sciolta. La maggior parte della con-
gregazione restò lì per continuare a rendere lode alla propria sorte
propizia, ben sapendo che la Campana Secondariana si sarebbe co-
munque messa a suonare nel giro di un’oretta scarsa. A Gideon sareb-
be piaciuto balzare in piedi e precipitarsi all’istante alla sua navetta,
ma gli scheletri stavano defluendo in ranghi ordinati e serratissimi
lungo la navata centrale, a due a due, bloccando ogni altra possibi-
lità di spostamento con la loro smania di tornare nei campi ai loro
porri gelati e alle lampade riscaldate. Le rivoltanti prozie si ritira-
rono dietro all’inferriata che delimitava da un lato la claustrofobi-
ca cappella di famiglia, e Harrowhark ordinò alle docili mummie dei
suoi genitori di scomparire nel loro consueto nascondiglio – chissà
dove. Nella loro sfarzosa cella domestica, probabilmente, sbarran-
dosi pure la porta dietro. Gideon si stava massaggiando le dita slo-
gate quando la sua maestra di spada le si avvicinò, ondeggiando giù
per il corridoio centrale.
«Sta mentendo» fece Gideon con aria assente, tanto per salutar-
la. «In caso non te ne fossi già accorta. Non mantiene mai le sue pro-
messe. Neanche una volta.»
Aiglamene non le rispose, Gideon non si aspettava che lo facesse.
Si limitò a fermarsi lì, senza incontrare ancora lo sguardo della sua
allieva, con una mano piena di macchie color vinaccia che stringeva
saldamente l’impugnatura della spada. Alla fine, disse, burbera: «Sei
sempre stata carente in quanto a senso del dovere, Nav. Non puoi ne-
garlo. Non riusciresti a scrivere bene la parola impegno neanche se ti
ficcassi le letterine su per il culo».
* * *
Gideon non si era mai trovata alle prese con un cuore spezzato, pri-
ma. Non si era mai spinta abbastanza in là da farselo spezzare. Si in-
ginocchiò sul ghiaietto della pista d’atterraggio, le braccia strette at-
torno al corpo. Sui sassolini non restavano che le impronte fioche e
i segni arricciolati del passaggio della navetta. Un potente torpore si
impossessò di lei, un gelo profondo, un’insensibilità impenetrabile.
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«Cosa?»
Nel suo tono c’era qualcosa di concitato: una specie di preoccupa-
zione, qualcosa di nuovo.
«Le cose stanno cambiando. Prima credevo che stessimo aspet-
tando qualcosa… ma ora stiamo solo aspettando di morire, penso.»
Il cuore di Gideon sprofondò.
«Vuoi proprio che dica di sì.»
«Puoi anche dire di no, fai pure» disse la sua capitana. «La scelta è
tua… se non ti porterà con lei, con lei ci andrò io – e pure volentieri.
Ma lei lo sa… e anch’io lo so… e diavolo, penso che anche tu lo sap-
pia benissimo… se non te ne vai adesso, non riuscirai ad andartene
neanche da morta.»
«Cosa succede se accetto?»
Spezzando l’incantesimo, Aiglamene buttò con una spallata – e sen-
za troppi complimenti – la cassa fra le braccia di Gideon e si avviò
verso il passaggio che Harrow aveva lasciato aperto per loro. «Suc-
cede che dobbiamo spicciarci. Se devo trasformarti nella Nona pala-
dina, dovevo cominciare sei anni fa.»
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devo che saremmo finite sul Terzo o sul Quinto, o in una bella stazio-
ne spaziale, o qualcosa del genere. Non nell’ennesima caverna piena
di altri fanatici fuori di testa.»
«Perché mai un raduno di necromanti dovrebbe svolgersi su una
stazione spaziale?»
Ottima argomentazione. Se c’era una cosa che Gideon aveva capi-
to dei necromanti, era che avevano bisogno di energia. La thanergia
– il carburante della morte – abbondava dove qualcosa era morto o
stava morendo. Lo spazio profondo era un incubo per i necromanti,
perché là fuori nulla era mai stato vivo, quindi non esistevano poz-
zangheroni pieni di defunti che Harrow e quelli della sua risma pote-
vano risucchiare con una bella cannuccia. I valorosi uomini e donne
della Coorte accoglievano questo limite con divertita compassione:
non mandare mai un adepto a fare il lavoro di un soldato.
«Vostra grazia, vogliate osservare l’ultimo paragrafo» disse Har-
row dal divano. «Volgete le vostre ignoranti pupille alle righe cinque
e sei.» Malvolentieri, Gideon indirizzò le sue ignoranti pupille alle ri-
ghe cinque e sei. «Illustratemene le implicazioni.»
Gideon lasciò perdere le pitture e fece per abbandonarsi contro lo
schienale della sedia, ma poi ci ripensò e optò per le piastrelle fred-
de del pavimento. Una delle gambe aveva un che di instabile. «“Nien-
te servi. Niente attendenti, niente domestici.” Be’, saresti nella merda
fino al collo, altrimenti dovresti tirarti dietro Crux. Cioè, stai cercan-
do di dirmi che non ci sarà nessun altro a parte noi e qualche vecchio
ierofante decrepito?»
«L’implicazione» rispose la Reverenda Figlia «è proprio quella.»
«Ma per la miseria, allora! Ma lasciami vestire come mi pare e ri-
dammi il mio spadone.»
«Diecimila anni di tradizioni, Griddle.»
«Io non ce li ho diecimila anni di tradizioni, brutta stronza» dis-
se Gideon. «Ho dieci anni di addestramento con uno spadone a due
mani e una lieve allergia ai colori della pittura. Valgo molto meno, per
te, con una pizza al posto della faccia e uno stuzzicadenti.»
La Reverenda Figlia intrecciò le dita, girando i pollici in langui-
di cerchi. Non era in disaccordo con lei. «Diecimila anni di tradizio-
ni» disse lentamente «stabiliscono che la Nona Casa sia, a suo pia-
cendo, in grado di produrre – come minimo – un paladino dotato di
«Raccontarmi tutto quello che sai delle prove che affronteremo, con
chi saremo, che cosa dobbiamo aspettarci?»
«No, santo Dio!» esclamò Harrow. «Tutto quello che devi sapere
è che devi fare quello che ti dico io, o ti verserò della miscela d’osso
nella colazione e mi farò strada a pugni nelle tue interiora.»
Un’eventualità che, Gideon fu costretta ad ammetterlo, era asso-
lutamente plausibile.
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Dallo spazio, la Prima Casa splendeva come fuo-
co sull’acqua. Avvolta dalla foschia bianca della sua atmosfera, blu
come il cuore di una fiamma gassosa, inceneriva lo sguardo. C’era
un’abbondanza assurda d’acqua, che schiacciava tutto in una confla-
grazione del più azzurro fra gli azzurri. Visibili sin da lassù erano an-
che le catene fluttuanti di quadrati, rettangoli e ovali, che chiazzava-
no il blu di grigi e verdi, marroni e neri: le città e i templi sfasciati di
una casa a lungo defunta e, al contempo, impossibile da uccidere. Un
trono dormiente. Lontanissimo, il suo Re e Imperatore sedeva al pro-
prio posto e attendeva: una sentinella che proteggeva la sua dimora
senza potervi più rimettere piede. Il Signore della Prima Casa era il
Signore Imperituro, e non vi faceva ritorno da oltre novemila anni.
Gideon Nav pigiò la faccia contro l’oblò di plexiform della navetta e
guardò come se non potesse mai saziarsi di guardare, finché gli occhi
diventarono rossi e lacrimanti e grosse macchie da emicrania comin-
ciarono a danzarle al limitare del campo visivo. Tutti gli altri finestri-
ni erano chiusi ermeticamente ed erano rimasti così per la maggior
parte del tragitto, un viaggio rapido di circa un’ora. Avevano scoper-
to con una certa sorpresa che, dietro al divisorio di cortesia – anche
quello in plex – che Harrowhark aveva sollevato con freddezza ap-
pena si erano trovate a bordo, il pilota non c’era. La nave sarebbe sta-
ta pilotata da remoto, a costi esorbitanti. Nessuno era autorizzato ad
atterrare nella Prima Casa senza un invito esplicito. C’era un bottone
da premere, in caso si volesse parlare con il pilota esterno e, anche se
Gideon non vedeva l’ora di sentire una voce nuova, Harrow aveva ri-
chiuso il divisorio con un gesto chiaramente inappellabile.
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«Ma è impossibile…»
«Qualche guaio più avanti, nient’altro» disse lui, «e guai che ri-
guarderanno solo loro.»
Quando l’altro sacerdote se ne fu andato, Harrowhark commentò,
intransigente: «I gemelli sono un cattivo presagio».
Maestro ne sembrò divertito. «Sentire qualcuno affermare che un
cattivo presagio può arrivare dalla Bocca dell’Imperatore, affascinante!»
Dalla navetta che trasportava la Settima Casa si scatenò un cer-
to trambusto. Gli scheletri avevano spalancato il portello e qualcu-
no era uscito, barcollando. In doloroso slow-motion – sembrava che
il tempo, per farsi ammirare meglio, avesse deciso di rallentare fino
a ridursi a un raccapricciante strascichio – era svenuto, secco, fra le
braccia del sacerdote in attesa, un uomo anziano straordinariamen-
te impreparato a far fronte a quell’evento. Braccia e gambe comincia-
rono a tremargli. La figura stava scivolando verso il pavimento e ri-
schiava di rovinare a terra del tutto. Sul panciotto del prete c’era del
sangue scarlatto. Gridò.
Gideon non correva mai, se non era necessario, e Gideon ora si
mise a correre. Le gambe si mossero con la stessa prontezza della sua
pessima capacità di giudizio e, all’improvviso, si ritrovò a sorreggere
quella figura accartocciata e pendula, prendendola dalle braccia stre-
mate del sacerdote. Adagiò il suo fardello per terra, mentre lui bor-
bottava stupito. Al che, la punta gelida di una lama le trapassò delica-
tamente il cappuccio e le toccò la nuca, proprio alla base del cranio.
«Ehi» fece Gideon, tenendo la testa perfettamente immobile. «Le-
vala da lì.»
La spada non si mosse.
«Non è una minaccia» continuò lei. «Te lo sto solo dicendo. La-
sciale un po’ d’aria.»
Perché la persona accoccolata fra le braccia di Gideon sembrava
una lei. Era una creatura giovane e snella, con la bocca macchiata dal
rosso squillante del sangue. Il suo vestito era un’accozzaglia frivo-
la di trine verdi come la spuma del mare e, contrastando con quello
sfondo, il sangue che c’era finito sopra aveva un’aria ancora più allar-
mante. La pelle pareva trasparente – di una trasparenza orripilante,
le vene sulle mani e sulle tempie erano un agglomerato ben visibile
di diramazioni e steli color malva. Aprì gli occhi, sbattendo le palpe-
8
Furono invitate ad accomodarsi in un vasto
atrio: un ambiente cavernoso, un ambiente degno di un mausoleo
della Nona Casa, solo che la gloriosa rovina del soffitto a volta mac-
chiato lasciava filtrare una tale quantità di luce che Gideon per poco
non si ritrovò di nuovo mezza accecata. C’erano divani avvolgenti e
panche dai rivestimenti logori, con l’imbottitura di fuori, i braccioli
e gli schienali rotti e le coperture ricamate che restavano aggrappate
alle sedute come pelli di mummia, sbiadite dove la luce le aveva toc-
cate e umidicce dove non era arrivata.
In quella stanza era tutto bellissimo, ed era anche andato tutto
in malora. Non era come da loro, alla Nona, dove cose già brutte
erano ormai decrepite e usurate fino al midollo – la Nona dove-
va essere sempre stata un cadavere, e i cadaveri vanno in putrefa-
zione. La Prima Casa era stata abbandonata e tratteneva il fiato,
in attesa di essere utilizzata da qualcuno che non fosse il tempo. I
pavimenti erano di legno – se non di marmo venato d’oro o rive-
stiti da mosaici iridescenti con le tesserine incancrenite dagli anni
e dall’assenza di manutenzione – e due immani scalinate gemelle
si innalzavano verso il piano superiore, ricoperte di lunghi tappe-
ti divorati dalle tarme. I rampicanti facevano capolino in quantità
dove il vetro del soffitto si era crepato, diffondendosi in un intri-
co di radici ormai ingrigite e secche. I pilastri che svettavano per
sorreggere le vetrate lucenti erano foderati da uno spesso strato di
muschio, ancora vivo, ancora radioso, in un tripudio di arancio-
ni, verdi e marroni. Oscurava i ritratti sulle pareti a chiazze nere e
bronzee. Sormontava una vecchia fontana asciutta di marmo e ve-
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tro a tre livelli, con un po’ d’acqua ferma che stazionava ancora sul
fondo della vasca inferiore.
Harrowhark si rifiutò di sedersi. Gideon rimase in piedi accanto a
lei, sentendo l’aria calda e umida che le incollava alla pelle le pieghe
nere della veste. Nemmeno il paladino della Settima, Protesilaus, si
era seduto, notò, non finché la sua padrona ebbe dato un colpetto alla
sedia accanto alla sua. A quel punto, le obbedì, accomodandosi senza
esitazioni. Gli scheletri vestiti di bianco circolavano con vassoi carichi
di tè astringenti di un verde fumante – strane tazzine senza manico,
calde e lisce al tatto sembravano fatte di pietra ma erano più leviga-
te e sottili. Il Settimo paladino ne prese una ma non bevve. La sua pa-
drona cercò di bere, ma fu assalita da un piccolo accesso di tosse che
durò finché non riuscì a chiedere al suo paladino, a gesti, di darle una
pacca sulla schiena. Mentre gli altri necromanti e paladini bevevano,
manifestando un gradimento variabile, Harrowhark reggeva la tazza
come se fosse una lumaca viva. Gideon, che in vita sua non aveva mai
assaggiato una bevanda calda, ne buttò giù la metà in una sola sorsa-
ta. Si scottò fino in gola. Era più profumato che saporito e le lasciò un
retrogusto erboso sulle papille gustative cauterizzate. Un po’ della pit-
tura che aveva sulle labbra rimase sul bordo. Si strozzò con discrezio-
ne: la Reverenda Figlia le scoccò un’occhiata da far tremare le budella.
Tutti e tre i sacerdoti sedevano sul bordo della fontana, stringendo
fra le mani le tazze di tè ancora intatte. A meno che non ce ne fosse-
ro altri nascosti da qualche parte in un armadio, a Gideon sembra-
rono terribilmente soli. Il secondo, il sacerdote traballante, incurvò
le spalle esili mentre armeggiava con la cintura macchiata di sangue;
il terzo aveva un volto mite e una treccia brizzolata. Potevano essere
uomini o donne, o nessuna delle due cose. Tutti e tre indossavano i
medesimi indumenti, che li facevano somigliare a un trio di uccellini
bianchi con dei guinzagli arcobaleno ma, in qualche modo, Maestro
era l’unico dei tre che dava l’impressione di essere reale. Era entusia-
sta, interessato, vivace, vivo. La calma penitenziale dei suoi compa-
gni li faceva somigliare molto di più agli scheletri vestiti posizionati
ai lati della stanza: silenziosi e inamovibili, con un frammento di luce
rossa che danzava in ciascuna orbita.
Quando tutti si furono appollaiati sullo splendido mobilio in rovi-
na, intenti a terminare il proprio tè e a stringere in silenzio le tazze
* * *
Uno scheletro accompagnò Gideon e Harrow all’ala che era stata ri-
servata alla Nona. Vennero condotte nelle profondità della fortezza
della Prima, tra gruppi statuari in rovina, immersi nello splendido
decadimento della Casa di Canaan, il mastodontico e spettrale com-
plesso abitativo che si estendeva sbeccandosi attorno a loro. Supe-
rarono sale con soffitti a volta, immerse nella luce verdastra del sole
che filtrava attraverso uno spesso strato di alghe che ricoprivano le
vetrate. Superarono finestre rotte e finestre devastate dalla salsedi-
ne e dal vento, e archi fantasmatici che si aprivano su stanze feten-
ti, ammuffite fino all’inverosimile. Non si scambiarono neanche una
parola, zero.
Ma quando vennero scortate nelle loro stanze, dopo aver sceso di-
verse rampe di scale, Gideon guardò fuori dalla finestra, dove ora c’e-
93
«Anche perché non c’è nessuno con cui parlare» commentò Gi-
deon. Il messaggio proseguiva:
Non venire a cercarmi. Sto lavorando. Profilo basso e stai alla larga
dai casini. Ribadisco l’ordine di non parlare con nessuno.
Gideon esclamò a voce alta: «La morte dev’essere stata un vero sol-
lievo per i tuoi genitori».
Di nuovo in bagno, si cazzuolò in faccia dell’alabastro gelido. La
maschera delle monache proseguiva con grigi tenui e neri spalma-
ti sulle labbra, nelle cavità oculari e sulle guance. Gideon si confortò
trovando respingente il proprio riflesso nello specchio incrinato: un
teschio sorridente con un’incongrua zazzera rossa e un paio di brufo-
li. Tirò fuori gli occhiali da sole da una tasca della tonaca e li inforcò,
rebbe dovuta crepare dalla voglia di parlare. Ma si rese conto che non
le veniva in mente niente da dire, zero.
«Magnus il Quinto» le disse. «Sir Magnus Quinn, primo paladino
e siniscalco della Corte di Koniortos.»
Tre tavoli più in là, gli spregevoli adolescenti accolsero la sua auda-
cia con dei mormorii sommessi: persero ogni parvenza di morigerata
rispettabilità e si misero invece a cantilenare il suo nome in una specie
di lento lamento animalesco, un gutturale «Magnus! Maaagnus» che
lui ignorò. Gideon aveva esitato troppo a stringergli la mano e lui, per
quanto fosse animato dalle migliori intenzioni, scambiò la sua rilut-
tanza per un rifiuto. Ripiegò tamburellando sul tavolo con le nocche.
«Devi perdonarci» le disse. «Alla Quarta e alla Quinta i chierici
oscuri scarseggiano e i miei valorosi compagni della Quarta si sento-
no, ehm, un po’ spiazzati.»
(«Nooo, Magnus, non dire che siamo spiazzati» mugolò la ragaz-
zina fastidiosa, sottovoce. «Non ci nominare nemmeno, Magnus»
mugolò l’altro.)
Gideon scostò la seggiola per alzarsi in piedi, facendo un gran bac-
cano. Magnus Quinn, Magnus il Quinto, era troppo vecchio e troppo
ben educato per reagire in maniera stupida – trasalendo, per esem-
pio –, ma un po’ della reputazione che accompagnava la Nona Casa,
che Gideon aveva solo a malapena cominciato a intravedere, gli fece
sgranare gli occhi, seppur di poco. I suoi abiti erano sobri e di splendi-
da fattura; aveva un aspetto curato e raffinato, senza risultare intimi-
datorio. Odiò se stessa quando, in un angolino del suo cervello, sen-
tì risuonare la voce di Harrowhark, sommessa e concitata: “Noi non
diventeremo un’appendice della Terza o della Quinta Casa!”.
Gideon annuì con una certa goffaggine, e lui ne fu così sollevato
da risponderle stantuffando il mento in su e in giù per due volte pri-
ma di rendersi conto di quel che stava facendo. «Che la Nona possa
prosperare» le disse con fermezza. A quel punto, fece saettare la te-
sta con un movimento che intendeva inequivocabilmente comuni-
care “Andiamo! Leviamoci di torno!” – un messaggio che nemmeno
quei due pessimi adolescenti avrebbero potuto ignorare. Spinsero via
le ciotole, verso due scheletri curvi, lì in attesa, e se ne andarono in
punta di piedi, seguendo l’uomo più grande e lasciando da sola una
divertita Gideon.
Alla periferia del suo campo uditivo si affacciarono delle voci. Ar-
rivavano dalla sommità del pianerottolo che portava alle scale. Un
altro istinto tipico della Nona indusse Gideon ad appiattirsi sotto la
rampa: l’aveva già fatto un milione di volte per evitare il Maresciallo
del Drearburh, o Harrowhark, o una di quelle diamine di prozie ma-
ledette o gli adepti dell’ordine del Sepolcro Sigillato. Gideon non ave-
va idea di chi stesse evitando ora, ma li evitò comunque perché era la
cosa più semplice da fare. Una conversazione sommessa, arzigogola-
ta e stizzita fluttuò verso il basso.
«… panzane mistiche e fumose» stava dicendo qualcuno, «e avrei
anche la mezza idea di scrivere a vostro padre per lamentarmi di…»
«… di cosa» biascicò qualcun altro, «del trattamento ingiusto che
la Prima Casa ci sta riservando…?»
«… un rompicapo vago non è una competizione e, ora che ci pen-
so bene, l’idea che quel vecchio rimbambito non ne sappia niente è
veramente un’assurdità! Un caso geriatrico che scherza con i nostri
cervelli, o peggio, e questa è la mia teoria, che se ne sta lì in attesa di
scoprire chi cederà per…»
«Sempre il solito complottista» disse la seconda voce.
La prima voce era preoccupata. «Perché le navette sono sparite?
Perché questo posto è una tale discarica? A che serve tutta questa se-
gretezza? Perché il cibo fa così schifo? Quod erat demonstrandum, è
un complotto.»
Ci fu una pausa meditabonda.
«Il cibo, secondo me, non fa così schifo» disse una terza voce.
«Te lo dico io com’è il cibo» continuò la prima voce. «È roba da
quattro soldi, sbobba da cadetti della Coorte. Stanno aspettando, vo-
gliono scoprire chi sarà abbastanza scemo da abboccare. Chi ci ca-
scherà, capite. Be’, io no di sicuro.»
«A meno che» disse la seconda voce, ora che Gideon la sentiva bene,
somigliava molto alla terza voce in termini di modulazione e tono,
si differenziava solo per l’enfasi, «la sfida non sia di natura protocol-
lare: siamo noi a dover produrre una risposta valida a una domanda
necessariamente vaga, allo scopo di convalidare noi stessi. Dare un
significato all’insignificante. Et cetera.»
La prima voce assunse una sfumatura esasperata: «Oh, ma per ca-
rità di Dio».
perché in cinque minuti sarebbe risultato palese a tutti che sei una
cretina totale.»
Un altro ricciolo finì arrotolato attorno a un dito. «Oh, ma chiu-
di il becco, Ianthe.»
«Dovremmo festeggiare, se fossimo un po’ onesti con noi stessi»
proseguì la ragazza slavata, scaldandosi, «dato che una realtà già diffi-
cile da dissimulare – il fatto che sei una grossa ocona giuliva – sarebbe
venuta a galla a una tale velocità da infrangere la barriera del suono.»
Il ricciolo venne lasciato andare con un visibile sproing. «Ianthe,
non farmi arrabbiare.»
«Non arrabbiarti, te ne prego» disse sua sorella. «Sai bene che il
tuo cervello riesce a gestire una sola emozione alla volta.»
L’espressione del paladino si fece sgradevole.
«Sei risentita, Ianthe» le disse seccamente. «Perché non puoi met-
terti in mostra ad infinitum con i libri… e quindi sei invisibile, non
è così?»
Entrambe le ragazze gli si rivoltarono contro all’istante. La gemel-
la pallida si limitò a fissarlo, gli occhi ridotti a due fessure dalle ciglia
evanescenti, ma la gemella bella gli afferrò un orecchio tra pollice e
indice e glielo torse, spietata. Lui non era basso, ma lei lo sovrastava
di mezza testa – anzi, di una testa intera se contiamo i capelli. Al suo
fianco, la sorella osservava impassibile, anche se Gideon avrebbe po-
tuto giurare di averla vista sorridere impercettibilmente.
«Se le parli di nuovo in questo modo, Babs» disse la gemella dora-
ta, «ti distruggo. Implora il suo perdono.»
Lui era scioccato e sulla difensiva. «Andiamo, lo sapete che non
intendevo… l’ho fatto per te… ho risposto a quegli insulti per te…»
«Lei può insultarmi quanto le pare. La tua, invece, è insubordina-
zione. Dille che ti dispiace.»
«Principessa, vivo per servire…»
«Naberius!» esclamò, e lo tirò in avanti per l’orecchio, costringen-
dolo a seguirla come un animale trascinato per la cavezza. Sulle guan-
ce gli erano spuntate due sdegnose macchie di un rosso acceso. La ge-
mella bella gli strattonò leggermente l’orecchio, facendogli scuotere
la testa. «Devi strisciare, Babs. Alla svelta, anche. Forza.»
«Lascia perdere, Corona» disse all’improvviso l’altra ragazza. «Non
è il momento di cincischiare. Mollalo e proseguiamo.»
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Quei primi giorni alla Casa di Canaan si distri-
buirono, dilatati, come i grani di un rosario da preghiera. Erano com-
posti da grandi ore vuote, da pasti consumati in stanze sgombre, di
stranieri molto strani con cui ci si ritrovava da soli. Gideon non po-
teva nemmeno contare sulla familiarità dei morti. Gli scheletri della
Prima erano troppo bravi, troppo abili, troppo vigili – e Gideon non
si sentiva mai veramente a proprio agio da nessuna parte, a eccezio-
ne di quando si rinchiudeva per i suoi esercizi negli alloggi dall’illu-
minazione fioca che erano stati assegnati alla Nona.
Dopo essersi quasi del tutto tradita aveva passato due giorni inte-
ri in una clausura quasi completa, a far pratica con il suo stocco fin-
ché il sudore le aveva impiastricciato le pitture sul viso, trasforman-
dola in una beffarda maschera striata. Aveva piazzato uno sgabello
rugginoso in cima a un traballante mobile d’ebano e si era messa a
fare le trazioni alla sbarra di metallo che collegava le travi. Aveva fat-
to flessioni davanti alle finestre finché Dominicus non l’aveva scre-
ziata di una luce sanguigna, completando la sua corsa attorno a quel
pianeta acquoso.
Entrambe le sere era andata a letto indolenzita e furibonda per la
solitudine. Crux le aveva sempre detto che il picco massimo dell’insop-
portabilità lo raggiungeva dopo essere rimasta in isolamento. Scivolò
in un sonno profondo e nero, svegliandosi solo una volta, la seconda
notte, quando – prestissimo la mattina, con il chiarore esterno che
somigliava un po’ di più all’assenza di luce della Nona – Harrowhark
Nonagesimus si era richiusa la porta alle spalle, senza quasi fare ru-
more. Aveva aperto leggermente gli occhi quando la Reverenda Fi-
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più abile con lo stocco. Sono primo paladino solo perché la mia
adepta è anche mia moglie. Potremmo dire che me lo sono pro-
prio – ha, ha – maritato!»
Dall’altro lato della sala, Jeannemary si lasciò scappare un lungo la-
mento, simile a un rantolo agonizzante. La Principessa Corona scop-
piò a ridere di gusto; Magnus pareva fierissimo della propria uscita.
I visi degli altri due rimasero pazientemente neutri. Gideon si ripro-
mise di prendere nota della battuta, in modo da poterla utilizzare in
un secondo momento.
Corona accostò la testa luminosa a Gideon. Aveva un buon odore,
lo stesso profumo che Gideon immaginava dovesse avere il sapone.
«La Nona ci farà questo onore?» le mormorò vezzosa.
Donne molto più risolute di Gideon non avrebbero saputo dire di
no a una Corona Tridentarius così vicina e partecipe. Salì sulla peda-
na, in un rimbombo di stivali sulla pietra. L’uomo più vecchio davanti
a lei sgranò gli occhi quando si rese conto che non si sarebbe libera-
ta del mantello, del cappuccio e nemmeno degli occhiali. L’aria nella
stanza si fece elettrica, a eccezione del monotono sgrat, sgrat, sgrat
degli scheletri impegnati a rimuovere le ragnatele. Persino Jeanne-
mary si risollevò dalla sua posizione di premorte per guardare. Co-
rona si lasciò sfuggire un borbottio meravigliato quando Gideon sco-
stò il mantello, rivelando il guantone appeso alla cintura che scintillò
nera alla luce del sole. Se lo infilò.
«Noccoliere lamate?» commentò il paladino della Terza con since-
ro sbalordimento. «La Nona usa le noccoliere lamate?»
«Non tradizionalmente.»
Quella era la paladina con l’uniforme della Coorte, che aveva un
tono di voce rigido quanto il suo colletto. Naberius disse fingendo
noncuranza: «Non mi è mai passato per la mente di considerare le
noccoliere un’opzione plausibile».
«Hanno un’aria veramente perversa.» (Il tono di Corona era piut-
tosto arrapante, a Gideon toccò ammetterlo.)
Naberius sbuffò.
«Sono armi da rissa.»
La paladina della Coorte commentò: «Be’, staremo a vedere».
“Ecco la cosa strana del rimanere muti” pensò Gideon. “Tutti sem-
bravano parlare di te, invece che con te.” Solo il suo compagno desi-
gnato la stava guardando dritto negli occhi – per quanto fosse possi-
bile farlo con qualcuno che portava gli occhiali scuri.
«La Nona intende… ehm…» Magnus stava indicando generica-
mente il mantello di Gideon, i suoi occhiali, il cappuccio, gesto che
lei tradusse con un “Ti vuoi togliere quella roba?”. Quando scosse la
testa per rispondergli no, lui si strinse nelle spalle, dubbioso: «D’ac-
cordo!». E poi aggiunse, lasciandola un po’ perplessa: «Ben fatto».
Corona disse: «Arbitrerò io» e si misero in posizione. Ancora una
volta, Gideon si ritrovò giù, nelle profondità poco illuminate del Drear-
burh, nella tomba riempita di cemento di un salone militare. I duelli
fra paladini si sarebbero svolti proprio come Aiglamene le aveva spie-
gato che si sarebbero svolti, il che non differiva molto da quello che
succedeva a casa sua, solo con molte più cerimonie. Ci si dispone-
va uno di fronte all’altro, portando al petto il braccio non dominante
per mostrare qual era l’arma secondaria che si intendeva utilizzare:
Gideon accostò quindi alle clavicole i coltelli sul suo guanto, grossi
e neri. Magnus fece lo stesso con la propria lama: uno splendido pu-
gnale d’acciaio color avorio con il manico di cremosa pelle intrecciata.
«Al primo tocco» disse la loro arbitra, nascondendo a malapena il
crescente entusiasmo che provava. «Dalla clavicola al sacro, eccetto
le braccia. In guardia.»
Al primo tocco? Nel Drearburh valeva al tappeto, ma mancava il
tempo per rimuginarci troppo su: Magnus le sorrideva con l’entusia-
smo fanciullesco e pedagogico di un uomo che sta per giocare a palla
con un congiunto più giovane. Sotto a quella maschera convincente,
però, un’ombra di dubbio gli velava lo sguardo, una smorfia gli tirava le
labbra. Una sensazione si affacciò in Gideon: aveva un po’ paura di lei.
«Magnus il Quinto!» fece lui, e: «Ehm… vacci piano?»
Gideon guardò Corona e scosse la testa. La principessa necro-
mante di Ida era troppo ben educata per stare a discutere e troppo
sveglia per non capire, quindi disse, semplicemente: «Farò io le veci
di Gideon la Nona. Sette passi indietro – voltatevi – cominciate…».
Le quattro paia di occhi famelici che osservavano il combattimento,
sbiadirono sul fondale di un sogno, fra le righe che il cervello riempie
per sintetizzare un luogo, un tempo, un ricordo. Gideon Nav aveva
capito nel primo mezzo secondo che Magnus avrebbe perso: dopo-
diché, smise di pensare col cervello e cominciò a pensare con le brac-
cia, che poi erano anche il posto in cui risiedeva la parte migliore del-
la sua materia grigia.
Quello che accadde dopo fu come chiudere gli occhi in una stanza
calda e soffocante. Il primo affondo della Quinta Casa fu il torpore
pesante che le avvolse la nuca, scendendo giù fino alle dita dei piedi;
il secondo il ciondolio del cranio, senza peso, verso il petto. Gideon
portò la mano secondaria dietro la schiena e rammentò a se stessa:
“Smettila di bloccare tutti i colpi!” e non si prese nemmeno la briga
di parare. Deviò ogni affondo, lento come la melassa, senza intercet-
tarlo, indietreggiando di fronte al fendente di richiamo col pugnale,
come se si fossero messi d’accordo prima su dove Magnus avrebbe
attaccato: lui le fece pressione, cercando di forzarla, e lei gli scostò la
spada con grande delicatezza, accompagnandola con la sua, in con-
troparata. La punta dello stocco nero scintillò come un pezzo di car-
ta carezzato da una fiamma e si arrestò a mezzo centimetro dal suo
cuore. Lui si immobilizzò, con un movimento balbettante. Lei gli toc-
cò il petto con la punta della spada, piano.
Finì tutto in tre mosse. Una scossa aptica attraversò la mente di Gi-
deon destandola, e si ritrovò lì: con la spada ancora puntata al petto di
Magnus; Magnus con l’espressione bonaria ma atterrita di un uomo
colto di sorpresa nel bel mezzo di uno scherzo; quattro espressioni
altrettanto fisse e vuote. La bocca della loro avvenentissima arbitra
era addirittura un po’ spalancata, le labbra schiuse sui denti bianchi.
Rimase lì a bocca aperta finché non si ripigliò e…
«Vince la Nona?»
«Perbacco» commentò Magnus.
La sala espirò, collettivamente. Jeannemary disse: «Oh, cavolo». La
Seconda paladina della Coorte si raddrizzò di qualche centimetro sul-
la sedia e affondò il pollice con forza inaudita nella carne tenera sot-
to al mento, pensierosa. Gideon rinfoderò la spada un istante dopo
che Magnus ebbe rinfoderato la sua, restituendogli l’inchino con un
piccolo gap temporale, per poi voltargli le spalle. Il sudore si era tra-
sformato in adrenalina; l’adrenalina cantava dentro di lei come uno
splendido carburante incandescente, ma il suo cervello e il suo cuore
non avevano ancora assimilato il risultato. L’unica emozione che sta-
va provando era un sollievo a lenta saturazione. Aveva vinto. Aveva
vinto nonostante muoversi con addosso una tonaca e degli occhiali
129
Atmosfera.
Gideon!”. E automaticamente lei andava là. Della sua spada non si faceva
mai menzione: c’erano solo cuscini da spostare, la trama di un romanzo
rosa da raccontare, o – una sola volta – una donna apparentemente più
leggera di uno stocco da sollevare e da trasportare con grande attenzio-
ne su un’altra sdraio, lontano dal sole. Gideon non se la prendeva. Ave-
va la crescente sensazione che Dulcinea le stesse facendo un favore. Lady
Septimus, con delicatezza, le stava mostrando di non curarsi del fatto che
Gideon fosse Gideon la Nona, una seguace dell’ombra con la faccia dipin-
ta, una monaca (per quel che se ne sapeva) del Sepolcro Sigillato. O, se
anche se ne curava, lo percepiva come l’apice gioioso delle sue giornate.
«Non pensi mai a quanto sia buffo che tu sia qui con me?» le do-
mandò una volta Dulcinea mentre Gideon se ne stava là seduta, col
suo cappuccio nero, a reggerle una palla di lana per il lavoro a maglia.
Quando Gideon scosse la testa, disse: «No… e mi piace. Mando Pro-
tesilaus parecchio in giro. Gli do delle cose da fare: è quello che gli si
addice di più. Ma mi piace vederti, e farmi raccogliere le coperte e far-
mi servire. Credo di essere l’unica persona che, in tutta l’eternità, ab-
bia mai avuto un paladino della Nona Casa da far sgobbare – senza es-
sere la sua adepta. E mi piacerebbe risentire la tua voce… un giorno.»
Stai fresca.
Quella sfuggente mezza apparizione di Harrow Nonagesimus fu
tutto quello che Gideon vide di lei dopo il loro primissimo scambio.
Non rispuntò, né nella sala d’addestramento né negli alloggi della
Nona. Ogni mattina il suo cuscino era stropicciato in una maniera di-
versa e gli abiti neri si ammonticchiavano in disordine nel cesto della
biancheria che gli scheletri portavano via a intervalli regolari, ma la
sua sagoma non si parò mai davanti alla porta di Gideon.
Gideon tornò regolarmente in sala d’addestramento – così come
fecero i paladini della Quarta e della Quinta, e della Seconda e del-
la Terza – ma i paladini della Sesta e della Settima giravano al largo,
persino ora che era stata tirata a lucido e profumava di oli di semi.
Gli scheletri avevano orientato i loro sforzi alla pulizia dei pavimenti.
Una volta il massiccio paladino dell’Ottava era entrato quando c’era
anche lei ma appena si era accorto di Gideon si era inchinato educa-
tamente e si era eclissato.
Gideon preferiva ancora allenarsi per conto suo. Da tanti anni era
abituata a svegliarsi, a cacciare i piedi sotto qualche mobile e a fare
LABORATORI UNO-TRE
LABORATORI QUATTRO-SEI
LABORATORI SETTE-DIECI
SALA PRESSIONE
CONSERVAZIONE
OBITORIO
SALE STUDIO
STERILIZZAZIONE
«Salina?»
«Nah. Può rifornirsi da sola quando si sveglia.»
Gideon non riuscì a trattenersi. Per lei sarebbe stato gestibile tro-
vare Harrow con le gambe montate al contrario e il cranio scoppiato,
ma qui ci capiva meno della metà. «Di cosa state parlando?»
Palamedes si dondolava, accovacciato. Stava pizzicando il bordo
del bozzolo osseo, lo esaminava, piegandolo di qua e di là. «È da un
po’ che non mangia e non assume liquidi» disse. «Tutto qua. Dev’es-
sersi sforzata troppo, subendo un rapido crollo della pressione san-
guigna e del ritmo cardiaco. È probabile che sia svenuta, si sia sve-
gliata, abbia costruito questo. È incredibile, non riesco neanche a…
e poi si sia addormentata. È una superficie massiccia, uniforme, non
c’è da stupirsi che abbia perso i sensi. È normale per lei?»
«Riuscite a capire tutta quella roba con la necromanzia della Sesta?»
Sorprendentemente, sia lui che Camilla scoppiarono a ridere. Era-
no risatine roche, canine, e Camilla colse quell’opportunità per ar-
rotolare il cavetto e riporlo nel borsello, pulendo una delle estremità
dal sangue di Harrow. «Necromanzia medica» disse il suo protetto,
beffardo. «Per te dev’essere un ossimoro. No. Essere un necroman-
te aiuta, ma no. È scienza curativa. Da voi alla Nona non esiste? Non
rispondermi, stavo scherzando. Ora puoi spostarla.»
La Reverenda Figlia era molto leggera, scoprì Gideon quando
se la buttò in spalla (facendo trasalire sia Palamedes che Camil-
la). L’aria fuoriuscì dai polmoni di Harrow con un sibilo, e il boz-
zolo osseo si dissolse in una gragnuola di frammenti e sassolini
che si riversarono sul pavimento, picchiettandolo come grandine.
Quella fu la cosa che sembrò indispettire seriamente il necroman-
te della Sesta Casa. Imprecò a voce bassa e poi si sfilò di tasca un
righello – ebbene sì – e misurò uno dei frammenti che erano fini-
ti sul pavimento.
Gideon si aggiustò, in modo che il peso e la massa di Harrow fos-
sero distribuiti in maniera più equilibrata. Il suo cervello non era an-
cora abbastanza connesso per registrare quel peso, o per immagazzi-
narlo per dopo, quando avrebbe potuto arricchire di ulteriori dettagli
le fantasticherie che la vedevano scaraventare l’erede della Nona Casa
giù dalla piattaforma d’atterraggio. La sua necromante puzzava di su-
dore, sangue e vecchie ossa bruciate; il corsetto di costole pungolava
Gideon si era stufata di quella vaghezza. Non era più nel Drear-
burh, ora. «Cosa ve lo fa pensare?»
Il necromante della Sesta Casa avanzò e si fermò tra lei e la scalina-
ta. Era immerso nella luce diluita che si irradiava dall’alto e alle spal-
le di Gideon e che evidenziava la sua estrema magrezza – quel gene-
re di magrezza resa ancora più palese dall’informe tunica grigia e dai
pantaloni che gli aderivano troppo ai fianchi. Camilla stazionava alla
perfetta distanza di mezzo passo da lui – il mezzo passo che Aiglame-
ne aveva inculcato a Gideon – come se sospettasse anche dei gradini.
Le disse con freddezza: «Perché sono il più grande necromante
della mia generazione».
Il fagotto privo di conoscenza che penzolava dalla spalla di Gideon
borbottò: «Ma col cavolo».
«Ero sicuro che si sarebbe svegliata» disse Palamedes, non senza
una certa soddisfazione. «Be’, io vado. Come ti ho detto, liquidi e ri-
poso. Buona fortuna.»
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stai facendo fare la figura della buffona sleale. Quel che intendo è che
è colpa tua se non posso prendere sul serio il mio compito di guar-
dia del corpo. Quel che intendo è che tutta questa faccenda del sa-
cro dovere di fare esattamente quello che ti dico io bla bla bla e mer-
date del genere non ha la minima importanza se muori disidratata
dentro a un osso.»
«Non stavo per…»
«Lo standard minimo per un paladino» disse Gideon «è impedir-
ti di crepare in un osso.»
«Non c’era alcun…»
«No. Ora sei sintonizzata su Parla Gideon Nav. Io voglio andar-
mene da qui e tu vuoi diventare Littrice» proseguì. «Perché accada,
dobbiamo fare squadra. Se non vuoi che molli le pitture, lo stocco e
la storia di copertura, devi portarmi là sotto con te.»
«Griddle…»
«Parla Gideon Nav. Di sicuro, la Sesta ci considera due cazzone
patentate. Verrò là sotto insieme a te perché sono stufa di non fare
niente. Se mi tocca girovagare ancora un giorno col broncio, facendo
finta di essermi votata al silenzio, mi apro le vene addosso a Maestro.
Non andare laggiù da sola. Non morire in un osso. Io sono la vostra
creatura, o mia tenebrosa padrona. Io vi servo con una fedeltà gran-
de come una montagna, o mia crepuscolare Signora.»
Harrow spalancò gli occhi. «Piantala.»
«Sono la vostra spadaccina giurata, o mia dominatrice della notte.»
«D’accordo» disse Harrow controvoglia.
La bocca di Gideon stava per scandire le parole “o mia ossea im-
peratrice” ma poi si rese conto di quello che le era stato detto. Ora,
l’espressione sul viso della necromante era di completa rassegnazio-
ne: rassegnazione e sfinimento, ma c’era anche qualcos’altro – anche
se in prevalenza si trattava di rassegnazione. «Prendo atto della tua
argomentazione» le disse. «Mi trovo in disaccordo, ma riconosco un
margine d’errore. Va bene.»
Non sfidò la sorte facendo notare a Harrowhark che non aveva al-
cuna speranza di opporre un rifiuto; aveva la chiave, aveva il coltello
dalla parte del manico e aveva anche parecchio sangue in più. Tutto
quello che le disse fu quindi: «Okay. Ottimo. Bene».
«E farai meglio a smetterla con tutte queste scemenze della prin-
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state appese cose che erano poi state rimosse. Era una stanza spoglia
e vuota. Una delle pareti era completamente finestrata e permetteva
di vedere l’interno della sala successiva e, su quel muro, c’era una por-
ta caratterizzata da due elementi: uno, un cartello che recitava REA-
ZIONE, e due, una targhetta in cima con la scritta OCCUPATO. Ac-
canto a quest’ultima, splendeva smorta una lucetta verde, indicando
forse che Reazione non era occupata. Guardando dentro a Reazione
– una stanza squallida e anonima, caratterizzata soltanto da un paio
di ventole sul lato più lontano della pianta quadrata – constatò che il
pavimento era un merdaio totale di ossa triturate.
Anche sull’altra parete – piena di sostegni per libri portati via da
tempo immemore – c’era una porta, denominata in questo caso: VI-
SUALIZZAZIONE. La porta della Visualizzazione era dotata di una
spia come quella di Reazione, ma la lucina qui era rossa. Visualizza-
zione aveva a sua volta una finestrella di plex, imbrattata all’esterno
di vecchie impronte sanguinolente.
«Qualcuno se l’è spassata, qua dentro» commentò Gideon.
Harrow le lanciò un’occhiataccia, ma non pretese che il voto del si-
lenzio venisse rispettato. «Già» le disse. «Io.»
La sua paladina armeggiò con la porta denominata Reazione, ma
non si aprì. Non sembrava nemmeno che ci fosse una pulsantiera tra-
dizionale. Harrow disse: «Non si apre così, Nav. Seguimi e non toc-
care niente».
Gideon seguì Harrow e non toccò niente. L’autoporta della Visua-
lizzazione si aprì docilmente al loro passaggio, rivelando una stanzet-
ta sconfortante che pareva uno sgabuzzino con un vasto assortimen-
to di vetuste apparecchiature meccaniche, spente e defunte. Un unico
pannello sul soffitto crepitò e riprese vita, bianco e pallido. Non ri-
velò molto, a parte ulteriori ombre. Sulla lunga scrivania c’era anco-
ra quella che Gideon identificò come una vecchia cartellina ruggino-
sa, alla quale era ancora assicurato un pezzetto di carta praticamente
trasparente. Gideon cedette, finalmente, alla smania di toccare qual-
cosa e il foglietto si dissolse come cenere lasciandole una patina gri-
gia sui polpastrelli.
«Che schifo, cazzo» disse, pulendoseli addosso.
Harrow le ingiunse, severa: «Fai un po’ d’attenzione, impedita che
non sei altro. Qua dentro è tutto decrepito».
cromante. «So che vengono distrutti da una forza bruta. Non ho idea
di cosa sia e ho bisogno di tenere la mano sul nodo thanergico. I tuoi
bulbi oculari sono perfettamente funzionanti, hai un cervello capa-
ce, per quanto opinabile. Ti piazzerai là fuori e guarderai dalla fine-
strella. Chiaro?»
Non c’era nulla di discutibile in quel compito, il che spiegava il per-
ché Gideon si fosse automaticamente insospettita. Ma le disse: «Come
comandate, mia deplorevole regina» e oltrepassò la soglia della Vi-
sualizzazione. La sua adepta la seguì, frugandosi in tasca. Tirò fuori
una nocca intera, il che le parve rivelatorio. Harrow la buttò in terra
e, con un orripilante scricchiolio, si strutturò in uno scheletro mas-
siccio: gli rivolse un cenno impaziente del polso e lo scheletro si av-
viò a passo pesante verso Reazione piantandosi lì, in attesa. Harrow,
a quel punto, si rituffò dentro a Visualizzazione.
“Che cretinata” pensò Gideon. La porta della Visualizzazione si ri-
chiuse con un sibilo – visto che Harrow, presumibilmente, aveva po-
sato la mano sul piedistallo – e la porta di Reazione si spalancò: lo
scheletro avanzò, con i piedi ossuti che scricchiolavano su un tappeto
di ulteriori ossa. Una volta entrato, la porta si richiuse alle sue spalle
con un tonfo e la spia accanto a Occupato diventò rossa.
Quel che accadde dopo – di qualunque cosa si fosse trattato – ac-
cadde maledettamente in fretta. Le luci di Reazione si accesero e le
ventole cominciarono a vomitare sbuffi nebulosi, oscurando la parete
più lontana: il suo fiato umido appannò il vetro, tanto ci si era appiat-
tita contro. Dall’interno non arrivava alcun rumore, anche se non po-
tevano non essercene (doveva essere stato tutto insonorizzato), il che
non fece che rendere la faccenda ancora più assurda, quando qualco-
sa di enorme e deforme emerse rabbioso dalla foschia.
Era un costrutto osseo, fin lì ci si arrivava. Tendini grigi collegava-
no una dozzina di omeri stranamente malformati ad avambracci di
una brevità ripugnante. La cassa toracica era costituita da fasce ossee
spesse e nodose, foderate tutt’intorno da punte acuminate. Il teschio
– era un teschio? – era un gigantesco grumo di placche craniche. Due
grossi bagliori verdi, come occhi, ardevano nell’oscurità che racchiu-
deva. Aveva una quantità eccessiva di gambe e una spina dorsale che
pareva un pilastro portante, sbilanciato in avanti e sorretto da due
delle robuste braccia, irte di aculei tibiali. Le braccia esterne si im-
«Già.»
Harrow si massaggiò le tempie con una mano e disse: «Non bramo
a tal punto un nuovo paladino da voler riciclare te. No. Questa volta
ne manderò dentro tre e tu dovrai dirmi come si comporta con quel-
li, come reagisce, con precisione; non sono ancora convinta che non
si tratti di un test di multidestrezza…».
Lo scheletro successivo che spedì là dentro stringeva un mazzuo-
lo di falangi scricchiolanti in ciascun pugno ossuto. Gideon osservò
diligente la luce che diventava verde e i due scheletri identici all’al-
tro che Harrow fece sorgere – alla cieca – accanto al primo. Erano
esemplari modello della loro specie: foggia sublime, copie perfetta-
mente rispondenti alle specifiche, animati e reattivi. Ormai gli sche-
letri di Harrow erano quasi al livello dei servitori della Prima Casa.
Quando il costrutto eruttò dalla nebbia, si spostarono con ammire-
vole compostezza e fluidità, e vennero disintegrati in tre mosse. L’ul-
timo scheletro si lanciò in una deprimente corsetta in tondo prima
che il mostruoso costrutto sollevasse un braccio lamato e lo squar-
ciasse dal sacro alla spalla.
La seconda volta che Harrow apparve per ricevere il resoconto
colpo-su-colpo, le sanguinava una narice. La terza volta, entrambe
le narici. La quinta volta – col pavimento di Reazione già foderato
dai resti di venti scheletri – si stava asciugando il sangue dalle ciglia e
aveva le spalle cascanti. Aveva ascoltato ogni resoconto con aria pen-
sosa, lo sguardo assente, troppo distratta persino per punzecchiare
Gideon ma, questa volta, strinse i pugni e se li schiacciò sul cranio.
«Mia madre, mio padre e mia nonna messi insieme non saprebbero
fare quello che faccio io» disse piano, senza rivolgersi a Gideon. «Mia
madre, mio padre e mia nonna messi insieme… ormai li ho superati,
di gran lunga. Un costrutto o cinquanta, e lo rallentano, nient’altro…
per una mezz’ora intera.»
Si scrollò di dosso la frustrazione come un animale con la pelliccia
bagnata, rabbrividendo dalla testa ai piedi prima di tornare a fissa-
re il suo nero sguardo spento su Gideon. «Va bene» disse. «Va bene.
Ancora. Continua a guardare, Nav.»
Si trascinò fuori e la porta si richiuse sibilando alle sue spalle. La
sopportazione di Gideon Nav poteva arrivare fino a un certo punto.
Si levò la veste, la piegò e la appese a un gancio nell’anticamera. Si
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avessero mai desiderato altro che sentire un breve discorso. Uno dei
due adolescenti, stravaccato fuori dal campo visivo di Magnus, mimò
un cappio e ci infilò la testa.
«Ho pensato di, ehm» cominciò, «dire due parole per riunirci tut-
ti. Questa dev’essere la prima volta in parecchio tempo che le Case si
ritrovano insieme in questo modo. Siamo rinati insieme ma restia-
mo così distanti. Ho dunque pensato di evidenziare le nostre simila-
rità, invece delle nostre differenze.
«Che cos’hanno in comune Marta la Seconda, Naberius il Terzo,
Jeannemary la Quarta, Magnus il Quinto, Camilla la Sesta, Protesi-
laus il Settimo, Colum l’Ottavo e Gideon la Nona?»
Magnus sembrava soddisfattissimo di se stesso.
«Un articolo» disse.
Coronabeth scoppiò a ridere così forte che le toccò seppellire il
suo magnifico naso strombazzante in un fazzoletto. Qualcuno stava
spiegando la battuta al sacerdote brizzolato che, quando finalmente
afferrò, esclamò: «Oh, il e la!» il che scatenò nuovamente le risate di
Corona. Le Seconde, inumate in alte uniformi così inamidate che si
sarebbero potute piegare come fogli di carta, sfoggiarono i sorriset-
ti tipici di due persone che si erano già dovute sorbire in precedenza
parecchie cene formali alla Coorte.
L’apparizione di due scheletri oppressi da due enormi zuppiere di
cibo dissipò le ultime tensioni. Seguendo le istruzioni di Abigail, riem-
pirono le fondine di tutti con una minestra di cereali bianchi e spu-
mosi, bolliti in un brodo di cipolle con sopra una spolverata di fram-
mentini di noci tritate e minuscoli frutti rossi croccanti. L’odore era
ottimo. Era tutto caldo, piccante e buono, e già caldo aveva risposto
alle aspettative minime di Gideon riguardo ai pasti. Mangiò a testa
bassa, isolandosi, finché uno degli scheletri vestiti di bianco si avvi-
cinò per darle una seconda porzione.
A quel punto fu in grado di sintonizzarsi sulle conversazioni attor-
no a lei, che erano sopravvissute al primo traballante incontro con
il nemico ed erano ormai in pieno svolgimento: «… la parte sugosa
è fatta con la sarcotesta. Buona, vero? C’è un melo rosso che cresce
nella serra. Avete visto le serre…?».
«… in ottemperanza all’usanza Ottaviana, che vuole che il necro-
mante digiuni fino al tramonto, il che include anche…»
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Non con uno stocco. Avrebbe anche potuto buttare in terra sia il
guantone che la spada e farsi una corsetta, per quanto si stavano ri-
velando utili le sue armi. Gideon non era equipaggiata per la difesa e
le faceva male la testa. Il suo campo visivo era una foschia intermit-
tente di emicranie, puntini e scintille brillanti che andavano e veni-
vano. Un colpo titanico del costrutto piegò la sua guardia all’indietro,
fin sopra la testa e, a ben pensarci, si ritrovò a muoversi con il colpo
invece che contro.
«Tre secondi. Due.» Sembrava quasi un’implorazione.
Gideon si sentiva sempre più nauseata: sentiva qualcosa di unto
e caldo in fondo alla gola e la lingua le navigava nella saliva. Quan-
do guardò il costrutto, a quel punto fu come vederlo da dietro uno
strato di garza, come se ci vedesse doppio. Sentì un dolore affilato
in mezzo agli occhi mentre l’essere recuperava il suo centro di gra-
vità, e scattava…
«Lo vedo.»
Più tardi, Gideon avrebbe ripensato al tono di Harrow. C’era ben
poco trionfo: si trattava più che altro di ammirazione. Le si sfocò la
vista per poi risintonizzarsi all’improvviso sui dieci decimi, a colori.
Era tutto più brillante, definito e nitido, le luci più intense, le ombre
più fredde. Quando guardò il costrutto lo vide ardere come metal-
lo incandescente – auree pallide e quasi trasparenti gli avvolgeva-
no il corpo malformato. Crepitavano in diverse sfumature, visibili se
ti concentravi su una parte o sull’altra e, nell’ammirarle, Gideon per
poco non si fece spaccare una gamba.
«Nav» ulularono gli altoparlanti.
Gideon schivò in tuffo un affondo basso e poi rotolò via mentre il
costrutto la inseguiva, pestando con foga il punto in cui il suo piede
era stato. Urlò di rimando: «Dimmi cosa devo fare!».
«Colpisci, in quest’ordine! Radio laterale sinistro!»
Gideon si concentrò sul legamento sporgente e ispessito nella parte
alta del braccio sinistro e fu sorpresa di trovarci uno di quei bagliori,
simili a miraggi: vibrò un colpo e per poco non si sbilanciò. La lama
era penetrata come un coltello caldo nel grasso. La lunga lancia del
braccio mutante rimbalzò misera sul pavimento.
«Tibia, in basso a destra. Quadrante inferiore, vicino all’incavo»
disse Harrow.
vero contesto… Ecco, tutto quello che posso fare è ringraziare il Se-
polcro perché nessuno sa che non sei davvero una dei nostri. Se fossi
io a non saperlo, penserei che sei una specie di Matthias Nonius re-
divivo o qualcosa di altrettanto zuccheroso.»
«Harrow» disse Gideon, ritrovando la parola «non puoi dirmi del-
le cose del genere. Ho ancora un milione di motivi per avercela con
te. Ma è difficile occuparmi di quello e di una tua eventuale lesione
al cervello.»
«Sto solo dicendo che sei una spadaccina incredibile» replicò la ne-
cromante, brusca. «Resti comunque un essere umano riprovevole.»
«Okay, perfetto, grazie» disse Gideon. «Ma il danno ormai è fat-
to. E ora?»
Harrowhark sorrise. Anche il suo sorriso era insolito: c’era una
cospirazione sottesa, il che era normale, solo che questa volta Gi-
deon era invitata a farne parte. Gli occhi le brillavano come tizzo-
ni, pieni di pura complicità. Gideon non era certa di poter gestire
tutte le nuove espressioni che Harrow le aveva mostrato: aveva bi-
sogno di coricarsi.
«Abbiamo una chiave, Griddle» le disse, esultante. «Ora pensia-
mo alla porta.»
* * *
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«Portateli su» fu più facile a dirsi che a farsi. Ci
misero quasi un’ora a rimuovere i cadaveri, a stoccarli in tutta sicu-
rezza – c’era una cella frigorifera, e Palamedes acconsentì con rilut-
tanza a tumularli lì – e a far salire le Case, riunendole in sala da pran-
zo. Gli scheletri di Harrowhark erano in grado di salire una scaletta,
trasportando addirittura dei corpi insaccati, ma Colum l’Ottavo non
rispondeva né alle implorazioni, né alle minacce e nemmeno agli sti-
moli fisici. Era leggermente meno grigio di prima, ma dovette essere
sollevato di peso da Corona e Gideon. Alla vista di Colum, Maestro
gridò, inorridito. Portare lui là sopra era stata la cosa più difficile. Ora
stazionava all’estremità del tavolo con una scodella di erbe non me-
glio identificate che gli ribollivano sotto al mento, e il fumo che gli si
arricciolava attorno al viso e alle ciglia. In quel momento, chiunque
non fosse coricato sul pavimento della sala da pranzo, esposto nella
cella frigorifera o impegnato a inalare erbe, si era messo a sedere me-
stamente con una tazza di tè in mano. C’era una strana somiglianza
col loro primo giorno alla Casa di Canaan, in termini di diffidenza e
noia, solo che il bollettino delle vittime era più alto.
Le uniche che sembravano anche solo vagamente sane di mente
erano quelle della Seconda Casa. Saltò fuori che erano state loro ad
andare a chiamare Maestro e a farlo venire al portello d’accesso. Ora
se ne stavano lì sedute con la schiena dritta come un fuso, splendenti
nelle loro uniformi della Coorte adattate allo stile della Seconda, tut-
te scarlatte e bianche. Entrambe sfoggiavano la stessa acconciatura a
trecce tiratissime e una sovrabbondanza di passamanerie dorate, in-
sieme alla medesima espressione seriosa. Si distinguevano soltanto
200
Naberius disse: «E allora perché non sono mai venuti a cercare voi?
Vivete qui da anni».
Maestro rispose: «Anni e anni… e anni. No, non sono venuti a cer-
care i guardiani della Casa di Canaan… non ancora. Ma vivo nel ter-
rore che lo facciano. Credo che si siano tragicamente imbattuti in
Abigail e Magnus… non riesco neanche a concepire che il disastro
in cui sono incappati possa essere stato architettato da uno degli oc-
cupanti di questa stanza».
Il silenzio si diffuse ai quattro angoli della sala da pranzo. La Ca-
pitana Deuteros lo infranse commentando, intransigente: «Resta co-
munque un caso da destinare alle autorità competenti».
Maestro disse: «Non posso chiamarli e non lo farò. Le linee di co-
municazione extra-planetarie sono proibite, qui. Per pietà, Capitana
Deuteros, quale sarebbe mai il movente? Chi mai vorrebbe nuocere
alla Quinta Casa? Un brav’uomo e una brava donna».
La necromante giunse le dita guantate e si sporse in avanti. «Non
posso speculare sul movente o sull’intento» disse. «Non desidero af-
fatto che si tratti di un omicidio. Ma se non collaborerete con me, ho
motivazioni sufficienti a fermare questa competizione. Prenderò io
il comando, se voi non potete.»
Qualcuno sbatté con forza la tazza di tè sul tavolo. Era Corona-
beth che, anche con gli occhi violetti impastati dal sonno e i capelli
arruffati in ciocche dorate attorno al viso avrebbe comunque attira-
to un bel viavai di turisti, indipendentemente da dove si fosse posi-
zionata. «Non essere sciocca, Judith» le disse, impaziente. «Non hai
quel tipo di autorità.»
«Quando non esiste altro genere di autorità per tutelare la sicu-
rezza di una Casa, la Coorte ha la facoltà di prendere il comando…»
«In una zona di combattimento…»
«I Quinti sono morti. Mi assumo io l’autorità della Quinta. Dico
che serve un intervento militare, e ci serve subito. In qualità di uffi-
ciale della Coorte di grado più alto, è una decisione che spetta a me.»
«Un capitano della Coorte» disse Naberius «non supera per gra-
do un ufficiale della Terza.»
«Temo proprio di sì, Tern.»
«Principe Tern, se non ti dispiace» disse Ianthe.
«Judith!» esclamò Corona, più conciliante, tentando di prevenire
una guerra intestina tra le Case. «Siamo noi. Sei venuta a tutte le no-
stre feste di compleanno. Maestro ha ragione. Chi mai avrebbe voluto
uccidere Magnus e Abigail? Nessuno dei due avrebbe mai fatto male
a una mosca. Il portello è rimasto aperto, qualcosa è successo e, da là
sopra, c’è proprio un bel salto nel vuoto… non potrebbe essere anda-
ta così? Chi c’era là dentro? None, non eravate voi?»
Con evidente freddezza, Harrow disse: «Abbiamo richiuso il por-
tello, prima di addentrarci».
«Ne siete sicure?»
Gideon, che era quella che aveva girato la chiave, si sentì strana-
mente grata a Harrowhark, che non si disturbò neanche a guardare
dalla sua parte: «Ne sono certa» disse e basta.
«Quanti altri avevano le chiavi di quel portello, a parte la Nona?» chiese
Corona. «Noi non avevamo neanche idea che quel sotterraneo esistesse.»
«La Sesta» dissero Camilla e Palamedes all’unisono.
Dulcinea, sempre più piccola e stanca, disse: «Pro e io ne abbiamo
una» il che causò il sollevamento delle sopracciglia di Gideon fino
all’attaccatura dei capelli.
«Colum ha la copia ricevuta dall’Ottava Casa» disse una voce dal
pavimento.
Era Silas. Si era messo a sedere e si stava asciugando la faccia con
una pezza bianchissima di cambrì. Aveva un occhio rosso, lucente e
gonfio. Meticoloso, se lo tamponò tutt’intorno: Corona gli offrì ca-
vallerescamente il braccio, ma lui lo rifiutò, tirandosi in piedi e ap-
poggiandosi con fatica a una sedia. «La chiave ce l’ha lui» disse. «E,
dopo la festa, ho raccontato a Lady Pent dell’esistenza di un comples-
so sotto a questo livello.»
Fu Harrow a dire: «Perché?».
«Perché me l’ha domandato» disse lui, «e perché io non mento. E
perché non mi preme che la Nona Casa ascenda da sola al Littorato…
solo perché è riuscita a risolvere un indovinello infantile.»
Harrowhark si chiuse come una seggiola pieghevole e il suo tono
si fece cinereo: «Il vostro odio per noi è superstizione, Octakiseron».
«Ma davvero?» Piegò ordinatamente il fazzoletto sporco e se lo in-
filò nella cotta di maglia. «Chi c’era nel complesso quando Lady Pent
e Sir Magnus sono morti? Chi è arrivato, in maniera così opportuna,
per primo sulla scena del delitto per rinvenire i…»
* * *
209
* * *
Nel suo nido di coperte, con la luce che filtrava gialla e indesiderata
dalle fessure ai lati delle tende, Gideon era troppo stanca per spogliar-
si e quasi troppo stanca per dormire. Si girava e si dimenava e, men-
tre cercava una posizione comoda, si ricordò del biglietto appallot-
tolato che aveva in tasca. Nella luce fioca lo scartocciò e lo fissò, con
lo sguardo appannato, il cuscino ancora appiccicaticcio per la crema
che aveva usato per levarsi la pittura.
218
«Oh, non c’è dubbio che la prima a morire sarei dovuta essere io»
disse Dulcinea, ridacchiando con un certo nervosismo «ma una volta
che lo si accetta, non ci si bada più così tanto. Sarebbe stato così pre-
vedibile depennare me dalla lista. Salve, Gideon! Che bello rivederti.
Cioè, ci siamo viste ieri sera… ma hai capito cosa intendo. Oh, no…
ora ti sembrerò un’imbecille. Sei sempre votata al silenzio?»
Prima che quell’argomento di conversazione potesse essere affron-
tato, la cupa necromante incappucciata della Nona dichiarò, nel suo
tono più sepolcrale e minaccioso: «Abbiamo delle faccende da sbri-
gare qua sotto, Lady Septimus. Vogliate scusarci».
«Ma è proprio di questo che sono venuta a parlarvi» disse l’altra
necromante con grande trasporto. «Credo che noi quattro dovrem-
mo fare squadra.»
Gideon non riuscì a trattenere un esplosivo grugnito d’incredulità.
Forse non esistevano candidati più improbabili con cui Harrow si sa-
rebbe potuta alleare – Silas Octakiseron, magari, o Maestro, o il cor-
po esanime di Magnus Quinn. Anzi, Maestro sarebbe stato un pre-
tendente di gran lunga migliore. Ma gli occhioni sognanti di Dulcinea
erano puntati su Harrow. Le disse: «Ho già completato uno dei teo-
remi dei laboratori. Credo di essere sulla strada giusta per risolverne
un altro. Se collaborassimo, be’, avremmo una chiave nella metà del
tempo, lavorandoci solo qualche ora.»
«La collaborazione non è prevista.»
Dulcinea disse sorridendo: «Perché tutti la pensano così?».
Le due si squadrarono. Dulcinea, appoggiata alle stampelle metal-
liche, sembrava una bambola fragilissima. Harrow, incappucciata e
avvolta da chilometri di tessuto nero, uno spettro. Quando si abbassò
il cappuccio, la necromante più vecchia non si scompose, anche se le
stava deliberatamente offrendo uno spettacolo raggelante; la zazzera
nera, le pitture severe sulla faccia, gli spuntoni d’osso infilzati fino a
metà di entrambe le orecchie. Harrow disse freddamente: «La Nona
Casa cosa ci guadagnerebbe?».
«Ogni mia conoscenza della teoria e della dimostrazione… e il pri-
mo utilizzo della chiave» disse Dulcinea, eccitata.
«Generoso. E cosa ci guadagnerebbe la Settima?»
«La chiave, quando avrete finito. Vedete, non credo di essere fisi-
camente in grado di svolgere questa prova.»
do la pelle come carta. La sua adepta scosse la mano per aria come si
farebbe con una scottatura; le rughe si distesero gradualmente, e le
unghie si rinsaldarono.
«Dubito sia insormontabile» fece Harrow, dopo aver riguadagna-
to la sua compostezza.
«Molto ottimista! Che cosa usereste?»
«Una barriera corporale; legame epidermico, alta densità.»
«Provate.»
Harrowhark piegò le dita, lentamente. Gideon la guardò mentre
gli occhi, incorniciati da un fitto di robuste ciglia nere, le si riduce-
vano a due fessure d’ossidiana. Allungò di nuovo la mano oltre la li-
nea. Ci fu una breve esplosione di scintille azzurre; Harrow ritirò la
mano, stupefatta e furibonda. Le dita si erano raggrinzite in mon-
cherini nodosi; l’unghia del mignolo le era cascata del tutto. Gli orli
della manica erano smangiati e bucherellati come se fossero stati at-
taccati dalle tarme. Gideon si protese per l’incontenibile desiderio
di fare qualcosa, ma Harrow la trattenne con la mano sana, fissan-
do quella danneggiata che si stava piano piano rigenerando. Dulci-
nea la osservava con aria sollecita: Protesilaus incombeva nei pres-
si delle scale.
Harrow scosse il braccio e un braccialetto le scivolò sulla mano fe-
rita, bande di spugnoso materiale osseo le si avvolsero attorno alle
nocche prima di formare delle spesse placche scheletriche. Con quel
guantone, allungò di nuovo la mano. «Non funzionerà» commentò
Dulcinea, tutta fossette.
… Il guanto esplose in una miriade di frammenti d’osso. Quelli che
avevano superato la linea gialla si frammentarono ulteriormente, de-
gradando fino a polverizzarsi. Il guanto si disgregò in grossi tocchi,
dissolvendosi in sabbia fine prima ancora di toccare terra, e Harrow
ritirò di botto la mano, analizzandone per la terza volta l’aspetto mi-
serevole. Crollò a sedere sulla scala e una goccia di sudore sangui-
nolento le colò lungo la tempia mentre, lontana dalla barriera, la sua
mano si rilassava fino a tornare integra. Gideon avrebbe tanto volu-
to esclamare: “Ma cosa cazzo…?”.
«Sono due incantesimi sovrapposti» disse Dulcinea.
«Non possono esserci due incantesimi adiacenti. È impossibile.»
«Ma è vero. Sono davvero contigui, non solo intrecciati o congiun-
«Ma perché ci tieni tanto?» domandò Gideon. «So che non lo stai
facendo per Dulcinea.»
«Lascia che ti illustri chiaramente la faccenda. Non nutro alcun in-
teresse per le magagne di Septimus» disse Harrow. «La Settima Casa
non è nostra amica. Ti stai rendendo oltremodo ridicola con la tua
Dulcinea. E ancora meno mi piace il suo paladino…» («Ecco qua, un
bello sputo in faccia a Protesilaus, dal niente» fece Gideon.) «… ma
porterei a termine la prova che ha fatto inorridire Sextus. Non per ot-
tenere un vantaggio. Ma per insegnargli a guardare in faccia la real-
tà. Hai capito in che consiste la cosa?»
«Sì» disse Gideon. «Risucchierai la mia energia vitale per arrivare
a quella scatola che c’è dall’altra parte.»
«Un riassunto brutale, ma sì. Come sei arrivata a questa conclusione?»
«Perché Palamedes non lo farebbe» le disse, «ha perso completa-
mente la brocca per Camilla la Sesta. Okay.»
«Che cosa intendi con “okay”?»
«Intendo okay, lo faccio» disse Gideon, nonostante larga parte del
suo cervello stesse torcendo i capezzoli a quell’altra porzione di cer-
vello che aveva acconsentito. Masticò una scaglia umidiccia di pittura
da labbra, si levò gli occhiali da sole e se li ficcò in tasca. Ora poteva
guardare Harrow dritto negli occhi. «Preferisco essere la tua batteria
che sentirti frugare nella mia testa. Vuoi spremermi? Spremimi tutta.»
«In nessuna circostanza proverò mai il desiderio di spremerti»
disse la sua necromante, la bocca piegata in una smorfia sempre
più disperata. «Nav, tu non sai con esattezza a che cosa stai andan-
do incontro. Ti prosciugherò per arrivare dall’altra parte. Se, in un
qualunque momento, mi scaccerai, se ti rifiuterai di sottometterti,
io morirò. Non l’ho mai fatto prima. Il procedimento sarà imperfet-
to. Sarà… doloroso.»
«Come fai a saperlo?»
Harrowhark disse: «La Seconda Casa è celebre per una pratica simile,
al rovescio. Il talento del Secondo necromante consiste nel prosciuga-
re i nemici agonizzanti per rafforzare e rinvigorire il suo paladino…».
«Ganzissimo…»
«Pare che crepino tutti urlando» fece Harrow.
«Mi fa piacere sapere che anche quelli delle altre Case sono dei
mostri» disse Gideon.
«Nav.»
Le disse: «Lo farò comunque».
Harrowhark si masticò l’interno delle guance con tanta foga che
sembrò lì lì per bucarsele. Giunse i polpastrelli e serrò le palpebre.
Quando parlò di nuovo, cercò di rendere il suo tono calmo e norma-
le: «Perché?».
«Perché me l’hai chiesto, probabilmente.»
Le palpebre marcate si aprirono sfarfallando, rivelando delle mi-
nacciose iridi nere. «Non serviva altro, Griddle? Non avevi bisogno
d’altro? È questo l’intricato mistero che giace nelle profondità della
tua psiche?»
Gideon inforcò di nuovo gli occhiali, nascondendo i sentimenti die-
tro alle lenti scure. Si sorprese a rispondere: «Non ho mai voluto al-
tro» e per salvarsi la faccia, completò il quadro con «stracciapalle.»
Quando tornarono, Dulcinea era ancora seduta sulle scale e stava
parlando a voce molto bassa con il suo paladino, che si era accovac-
ciato e la ascoltava con il medesimo mutismo con cui un microfo-
no ascolterebbe il suo oratore. Quando si accorse che la coppia del-
la Nona Casa era riapparsa nella sala, cercò stentatamente di tirarsi
su – Protesilaus si alzò insieme a lei, offrendole un braccio per soste-
nersi – mentre Harrowhark diceva: «Tenteremo».
«Potete fare pratica, se volete» disse Dulcinea. «Non sarà sempli-
ce per voi.»
«Mi domando perché mai lo supponiate» disse Harrowhark.
Dulcinea sorrise, tutta fossette. «Non dovrei, vero?» le disse. «Be’,
come minimo posso prendermi cura di Gideon la Nona mentre voi
sarete laggiù.»
Gideon continuava a non capire perché qualcuno avrebbe dovuto
prendersi cura di lei. Si piazzò in fondo alle scale, sentendosi un’ap-
pendice inutile, la mano stretta sull’impugnatura della spada, come se
appellandosi alla pura forza di volontà potesse ancora usarla. Le sem-
brava cretino essere una prima paladina, quando non poteva fare altro
che fungere da grossa batteria. La sua necromante si fermò davanti a
lei con uno stupore quasi del tutto analogo, si sfregava le mani come
se non sapesse ancora bene cosa farci. Poi toccò Gideon sul lato del
collo, le dita guantate ferme sulla vena pulsante, e inspirò impaziente.
Non sentì niente, sulle prime. A parte Harrow che le toccava il col-
lo, che già di per sé era un viaggio di sola andata per Nessun Dove.
Ma era solo Harrow che le toccava il collo. Sentì il sangue pulsarle
nell’arteria. Si sentì deglutire, e quello che aveva deglutito le andò giù,
muovendosi contro il palmo di Harrow. Forse sentì una piccola fitta
– un brivido attorno al cranio, uno spasmo tattile – ma non si tratta-
va della stessa pressione e della scarica che ricordava da Reazione e
Visualizzazione. La sua adepta fece un passo indietro, pensosa, chiu-
dendo e aprendo le dita.
Poi si voltò e si tuffò oltre la barriera, e fu lì che Gideon sentì la sca-
rica. Cominciò nella mandibola: esplosioni di dolore che si propaga-
vano dalla mascella ai molari, l’elettricità che le scoppiava sul cuoio
capelluto. Era Harrow e camminava nella terra di nessuno; era Gi-
deon, il cranio scosso dai tremori, dietro alla linea. Si mise a sede-
re bruscamente sulle scale e non prestò attenzione a Dulcinea, che
si era protesa verso di lei prima di ritrarsi. Era come se Harrow aves-
se legato una corda a tutti i suoi recettori del dolore e la stesse calan-
do giù in un abisso profondo. Osservò debolmente la sua necroman-
te che avanzava, un passo lento e meticoloso dopo l’altro in mezzo a
quella vasta spianata metallica. Attorno a lei si era addensata un’in-
solita foschia. Gideon ci mise un po’ a rendersi conto che l’incanta-
mento stava divorando i neri paramenti ufficiali di Harrow, riducen-
doglieli in polvere attorno al corpo.
Un’altra saetta folgorante le trapassò la testa. La sua reazione istin-
tiva fu di respingerla, di opporre resistenza alla percezione di Har-
row – quella sensazione di pressione schiacciante – la sensazione di
perdita da trasfusione di sangue. Delle luci brillanti danzavano nel
suo campo visivo. Cadde sul fianco e percepì in maniera disgiunta la
presenza di Dulcinea, la sua testa posata sulla coscia smilza di Dul-
cinea, gli occhiali che le scivolavano giù dal naso e sferragliavano sul
gradino successivo. Guardò Harrow che camminava come se fosse
controvento, offuscata da particelle nere – e poi si ritrovò a espelle-
re copiose e orrende fontane di sangue. La vista le si offuscò di nuo-
vo, grigiastra, e il respirò le balbettò in gola.
«No» disse Dulcinea. «Oh, no, no, no. Stai sveglia.»
Gideon non riuscì a dire altro che «Blearrghhh», principalmen-
te perché c’era del sangue che le fuoriusciva con entusiasmo da ogni
buco della faccia. Poi, all’improvviso, smise: si era asciugato, rinsec-
Impiegò una quantità infinita di secondi per restare lì: per soc-
chiudere gli occhi. Quando riuscì ad aprirli, Gideon scoprì, preoc-
cupandosene vagamente, di essere cieca. Qualcosa di nero si stava
muovendo – ci mise qualche istante a rendersi conto che si muoveva
molto in fretta: stava correndo. Piuttosto allarmata, Gideon capì che
stava cominciando a morire. I colori le tremolarono davanti al viso.
Il mondo vorticò, poi vorticò nel senso opposto, turbinando senza
ragione. L’aria cessò di fluire. Sarebbe anche stato piacevole… solo
che era uno schifo.
Una nuova voce disse: «Gideon? …Gideon?».
Quando aprì di nuovo gli occhi, tutto, per un momento, fu di una
chiarezza e di una precisione sfolgoranti. Harrow Nonagesimus era
inginocchiata accanto a lei, nuda come il giorno in cui era venuta alla
luce. Aveva i capelli di un paio di centimetri più corti, le estremità delle
ciglia erano scomparse e – cosa ancor più agghiacciante – era del tut-
to spogliata dalle pitture facciali. Era come se qualcuno le avesse dato
una passata con una pezzuola calda. Senza pitture somigliava un po’
a un furetto, col mento appuntito, la mandibola affusolata, gli zigomi
alti e marcati e la fronte ampia. C’era un segnetto sul labbro superio-
re, in corrispondenza del solco, che conferiva a una bocca altrimen-
ti dura e indomita l’aspetto di un fiocco. Il mondo traballava, ma ac-
cadeva principalmente perché Harrow le stava scrollando una spalla.
«Ha-ha» disse Gideon, «è la prima volta che non mi chiami Grid-
dle.» E morì.
* * *
Be’, svenne. Ma quel che sentì somigliava un casino alla morte. Sve-
gliarsi fu un po’ come risorgere, come un guscio prosciugato che torna
alla vita dopo l’inverno, trasformandosi in un nuovo germoglio verde.
Un nuovo germoglio verde pieno di problemi. Il suo intero organismo
le pareva un nervo traumatizzato. Braccia magre ed esangui la culla-
vano; sollevò lo sguardo e trovò il viso tenero e sciupato di Dulcinea,
i cui occhi erano ancora del blu polveroso dei mirtilli. Quando si rese
conto che Gideon era sveglia, tornò a brillare, vivace.
«Piccolona mia» le disse, e la baciò senza imbarazzo sulla fronte.
Harrowhark era seduta sul pavimento freddo, dall’altro lato. Era av-
deon rimase in attesa di sapere «prima di» cosa, ma non c’era altro in
arrivo. Chiuse gli occhi e aspettò, ma li riaprì in preda al panico, ren-
dendosi conto di aver scordato quanto tempo era passato da quan-
do li aveva chiusi. Harrowhark era ancora lì seduta, con la medesima
espressione incuriosita stampata sulla faccia struccata. Non sembra-
va per niente lei.
«Riposati» le disse imperiosa.
Per la prima volta, Gideon le obbedì senza il minimo scrupolo.
Gnam.
240
Stava parlando con Maestro, seduto a uno dei lunghi tavoli luci-
dati. Accanto a lui c’era Palamedes, con davanti un pasto non anco-
ra consumato e un foglio così fitto di annotazioni che la carta si era
quasi bucata. Un po’ della tensione sfrigolante che circondava Ca-
milla sembrò acquietarsi, dopo aver raggiunto il punto di ebollizio-
ne. Camilla rilassò le spalle, appena un pochino.
Maestro disse in tono pacato: «Ah, ah, anche questo non è corret-
to. Il proprietario è Naberius il Terzo. Anche se viene custodita per
lui dalla Principessa Ianthe, è comunque sua. Una chiave per la Ter-
za Casa… una e una sola, temo.»
«Le chiavi della Quinta dovrebbero essere consegnate a me, allora.
Per Magnus non è un… non sarebbe stato un problema.»
«Magnus il Quinto ha chiesto una chiave per il complesso, e io non
so dove sia» fece Maestro.
Ustionata dalla brillante luce arancione del sole al tramonto che fil-
trava dalle grandi finestre del soffitto, Corona pareva un re annientato
dal dolore: lo splendido mento era sollevato, le spalle buttate all’indie-
tro con aria di sfida, la bocca tesa e impietosa come il vetro. Gli occhi
violetti sembravano reduci da un pianto, forse di rabbia.
Palamedes si alzò, rumoreggiando con la sedia. Si rivolse con cor-
tesia a quella visione: «Principessa, se lo desiderate, posso scortavi
giù al complesso seduta stante».
Gideon riuscì a sentire Camilla che sibilava sottovoce: «Ma col
cazzo».
Altre sedie strisciarono sul pavimento piastrellato. Gideon non si
era accorta del duo della Seconda Casa al tavolo più lontano: stavano
bevendo del caffè caldo e, come di consueto, parevano appena usci-
te, belle lustre, dalle pagine di una rivista militare. La Capitana Deu-
teros disse: «Mi sorprende che il Guardiano della Sesta Casa sia così
incline a infrangere i patti. Avete detto voi stesso che non si tratta di
un problema risolvibile collettivamente».
«E avevo ragione, Capitana» disse Palamedes, «ma qui si tratta di
qualcosa di innocuo.»
Coronabeth aveva attraversato la sala per avvicinarsi a Palamedes e,
nonostante lui fosse alto, lo sovrastava comunque di una mezza testa
abbondante, considerando anche i capelli. Camilla aveva circumnavi-
gato la stanza per fermarsi dietro al suo necromante, a mezzo passo
254
per dare di matto, sono tre giorni che sto così. La tenerezza cucciole-
sca delle guance paffute contribuiva soltanto a farlo apparire anco-
ra più agghiacciante.
Gideon inclinò il capo. «Jeanne ti vuole» ripeté il ragazzo. «Qual-
cuno è morto. Devi venire con me.»
Per un istante, Gideon sperò che si trattasse di un tentativo favo-
losamente inopportuno di attirare l’attenzione, ma Isaac le aveva già
voltato le spalle, gli occhi scuri come pietre. Non le restò altra scel-
ta che seguirlo.
Isaac la accompagnò lungo la derelitta sala grande e poi giù per la
rampa che conduceva al vestibolo dal quale si accedeva direttamen-
te alla sala dei duelli, sobbalzando alla vista di ogni scheletro cinto di
bianco che incrociava il loro cammino. La tappezzeria era ancora sal-
damente al suo posto, la porta sempre nascosta. Aprì con una spallata
l’altra porta – doveva aver preso una bella botta al gomito, che diavo-
lo – e approdò nella stanza, dove le luci elettriche rischiaravano quella
che, in precedenza, era stata una fossa lercia e puzzolente. Ora era un
quadrato d’acqua splendente. Gideon aveva visto gli scheletri srotolare
voluminosi tubi di gomma verso la sala della vasca e li aveva visti ad-
dirittura riversare gradualmente nella cavità un liquido che sapeva di
mare, ma il risultato finale era straordinario. Le piastrelle rilucevano di
spruzzi mentre Naberius il Terzo e Coronabeth – entrambi con canot-
tiere leggere e pantaloncini – facevano le vasche su e giù per la piscina.
Già il bagno le era sembrato pazzesco, ma quella roba la sconvol-
se sul serio. Gideon non aveva mai visto nessuno nuotare. Entrambi
i corpi fendevano il liquido con bracciate efficienti ed esperte: si con-
centrò sulle lunghe braccia dorate di Corona Tridentarius che solca-
vano l’acqua, propellendola mentre raggiungeva il bordo e lo allonta-
nava con una spinta energica dei piedi. Oltre le porte a vetri della sala
d’addestramento, Colum l’Ottavo era seduto su una panca a lucidare
il suo scudo con un panno soffice mentre la Luogotenente Dyas era
piegata in un affondo perfetto, che ripeté ancora e ancora.
Isaac puntò dritto verso l’acqua. Si piazzò in corrispondenza del-
la traiettoria che la Principessa di Ida stava seguendo, mulinando
nell’acqua. Lei rallentò il ritmo e galleggiò verso il bordo della pisci-
na, scrollandosi via l’acqua dalle orecchie, perplessa. I capelli bagna-
ti erano di una plumbea sfumatura ambrata.
* * *
264
«Io ho pensato che fosse l’uomo più noioso mai esistito» propose la
sua gemella, languida, mentre si puliva le mani. Corona sobbalzò. «E
non era nemmeno la classica palla al piede della Settima Casa; non ci
ha inflitto manco una poesia minimalista sulle formazioni nuvolose.»
«Vedetela così: forse non esiste un movente» disse Jeannemary
Chatur, che si era rifiutata di rinfoderare la spada. Lei e Isaac si era-
no disposti quasi schiena contro schiena, come se, insieme, potesse-
ro respingere tutti gli assalitori. «Vedetela così: hanno aperto il por-
tello e sono scesi, proprio come Magnus e Abigail, e ora lui è morto
e lei sta per tirare le cuoia.»
«La Quarta non riesce proprio a lasciar perdere questa folle teo-
ria sui mostri…»
«Non è folle» disse Maestro a Naberius, «oh, no, non è folle per
niente.»
La Capitana Deuteros, che aveva preso appunti sul suo blocchetto,
si appoggiò allo schienale della sedia e mollò la matita. «Vorrei pro-
porre una mens rea più umana. Sì, la Duchessa Septimus e il suo pa-
ladino si sono addentrati nel complesso. Avevano delle chiavi?»
«Sì» disse una voce sulla porta.
Gideon non aveva notato la sagoma candeggiata, con la lunga cotta
di maglia, di Silas Octakiseron allontanarsi, ma l’aveva notata fare ri-
torno. Rientrò nella sala mensa dal lato della cucina, pallido e impas-
sibile, il viso affilato caratterizzato dalla consueta spietatezza, libero
dai normali moti emotivi umani. «Sì» ribadì. «O meglio, le aveva.»
«Che cosa diavolo avete fatto» disse Palamedes a voce bassa.
«La vostra aggressività è inopportuna e immotivata» fece Silas.
«Sono andato a trovarla. Sentivo il peso di una certa responsabilità.
Sono stato io a domandare soddisfazione e Fratello Asht era pron-
to a sfidare a duello il suo paladino scomparso. Non volevo che fra
noi corresse cattivo sangue. Non provo altro che pietà per la Settima
Casa, Guardiano Sextus.»
«Non avete risposto alla mia domanda.»
Silas si frugò in tasca e sollevò la mano per mostrarne il contenu-
to. Era uno degli anelli di ferro, da cui penzolavano due chiavi: una
grigia e una di un bianco familiare.
«Se il suo paladino è caduto vittima di un tiro mancino» disse, nel
suo tono insolitamente profondo «allora il colpevole non ne ricaverà
275
«Non lo è.»
«Allora…»
Harrowhark disse, nell’esatto tono sepolcrale del Maresciallo Crux:
«Che la morte colga per primi avvoltoi e saccheggiatori».
Incapace di trattenersi oltre, anche Jeannemary saltò sul tavolo:
reggeva di fronte a sé lo stocco splendente della Quarta Casa. Il pu-
gnale blu e argentato, con la sua splendida lavorazione, le stazionava
appeso al fianco in maniera piuttosto professionale. Nonostante gli
occhi gonfi e segnati e i capelli arruffati dimostrassero che negli ulti-
mi giorni non aveva dormito più di una manciata di ore, trasmetteva
una prontezza intimidatoria. Gideon stava arrivando alla conclusione
che, nonostante una ghiandola pituitaria che faceva gli straordinari,
la reputazione dei Chatur non fosse priva di fondamento, dopotutto.
«Se volete prendervela con lei, ve la state prendendo anche con la
Quarta Casa» esclamò. «Per la lealtà, e l’Imperatore!»
Naberius Tern rinfoderò la spada e il suo elegante coltello splen-
dente, roteando gli occhi con una tale enfasi che per poco non gli ca-
scarono all’indietro nelle cavità sinusali. Fece un sonoro sospirone e
saltò giù dal tavolo, scostandosi quello stupido ricciolo dalla fronte
con un leggiadro scuotimento del capo.
«Era meglio se restavo a casa e mi sposavo» disse, risentito.
«Come se qualcuno te l’avesse chiesto» ribatté Ianthe.
«Se avete finito» disse Silas Octakiseron con la sua profonda e ti-
rannica cortesia servile, «Fratello Asht e io andremo a cercare Prote-
silaus il Settimo. In fin dei conti, è ancora disperso.»
«Un’attività che in qualche modo comporterà anche l’utilizzo di
quelle chiavi su porte che non siete mai riusciti ad aprire per conto
vostro» commentò Palamedes. «Che coincidenza.»
«Non nutro più il benché minimo interesse di conversare con voi»
disse Silas. «Il Guardiano della Sesta Casa non è altro che il prodot-
to incompleto di un incrocio tra consanguinei che è riuscito a supe-
rare un esame. La vostra compagna è una cagna rabbiosa, e dubito
della legittimità della sua pretesa al titolo di primo paladino. Non mi
prenderò nemmeno il disturbo di insultarla. Godetevi la protezione
della setta occulta, finché dura; mi dispiace che si sia giunti a questo.
Fratello Asht, ce ne andiamo.»
Quando si separarono, lo fecero con le maniere riluttanti di chi vol-
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anche l’altra sera, quindi, se il fattore decisivo è quello, siete già bel-
li che fottuti.»
«Non parli come mi ero immaginato che parlassi» disse Isaac.
Tutti e tre scesero giù per la fredda e scura scaletta a pioli, fino alle
luci fluorescenti e all’immobilità cadaverica del pianerottolo. Gideon
andò per prima. Gli altri due rimasero un pochino indietro, affasci-
nati dai rimasugli sanguinolenti – sempre meno freschi – che ancora
decoravano la griglia alla base. Fu costretta a guidarli giù per il tun-
nel che conduceva alla sala radiale, fino alla lavagna decrepita e alle
targhette sopra al dedalo di corridoi.
Si voltò: Jeannemary e Isaac non l’avevano raggiunta. Jeannemary
si era fermata sulla porta, ci si era appiattita contro, di schiena, e os-
servava quegli strani e anacronistici tunnel d’acciaio coi loro pannel-
li metallici e l’illuminazione a LED.
«Mi è sembrato di sentire un rumore» disse, con gli occhi che guiz-
zavano di qua e di là.
«Da dove?»
Non rispose. Isaac, che si era rintanato nell’ombra dove lo stipite
della porta incontrava la parete, disse: «Nona, perché nei corpi di Ma-
gnus e Abigail sono stati trovati dei frammenti d’osso?».
«Non lo so. È un’ottima domanda.»
«All’inizio pensavo che fossero stati gli scheletri» disse, in un mor-
morio infossato, il che contribuì a dare un senso al perché lui e la sua
paladina sobbalzassero in modo irrazionale ogni volta che un servi-
tore osseo del posto si avvicinava ticchettando. «C’è qualcosa di inna-
turale nei costrutti che ci sono di sopra… è come se ti ascoltassero…»
Gideon si voltò dalla loro parte. Si erano appiccicati alle due pa-
reti del corridoio, non osavano avventurarsi nello spazio più aperto,
le pupille dilatate come se fossero imbottiti di adrenalina. La squa-
drarono, entrambi: la giovane paladina con gli occhi castani resi fan-
gosi dall’oscurità, il giovane necromante con gli occhi nocciola scu-
ro e il mascara da ragno. L’aria pressurizzata proveniente da qualche
ventola di raffreddamento uscì sibilando da una bocchetta, facendo
scricchiolare il soffitto.
«Forza, non state lì nascosti» disse Gideon, impaziente. «Trovia-
mo questo tizio. Non dovrebbe essere molto complicato, è enorme.»
Nessuno dei due voleva farsi convincere a uscire. La baldanza sem-
* * *
SOGNI D’ORO
299
si i miei geni… io! I miei geni non potrebbero essere peggiori di così
– anche se la mia discendenza potrebbe sempre produrre della poe-
sia, in futuro.»
«Non capisco.»
La donna di fronte a lei cambiò posizione, sollevando la mano per
scostarsi dalla fronte qualche ciocca color cerbiatto. Ci mise un po’
a risponderle. Poi le disse: «Quando non ce l’hai in una forma trop-
po pesante – quando puoi vivere fino ai cinquanta, magari – quan-
do il tuo corpo muore gradualmente, dall’interno all’esterno, quando
le tue cellule sanguigne ti mangiano viva, perennemente… che gran
necromante che diventi, Gideon la Nona. Un generatore ambulan-
te di thanergia. Se trovassero un qualche modo di cristallizzarti alla
fase in cui sei quasi tutta cancro e solo una frazioncina di donna, lo
farebbero! Ma non possono. Si dice che la mia Casa ami la bellez-
za – la amavano e la amano – e c’è una certa bellezza in una morte
splendida… nel consumarsi… mezzi morti, mezzi vivi, nel massimo
fulgore del tuo regale potere».
Il vento fischiò, esile e solitario, contro la finestra. Dulcinea cer-
cò a fatica di sollevarsi sui gomiti prima che Gideon potesse fermar-
la, e le domandò: «Ho l’aspetto di una che ha raggiunto il picco del
suo regale potere?».
Di fronte a una domanda del genere sarebbero venuti i sudori fred-
di a chiunque. «Ehm…»
«Se mi dici una bugia ti mummifico.»
«Sembri un secchio dell’immondizia.»
Dulcinea si rimise giù, ridacchiando nervosa. «Gideon» proseguì,
«ho detto alla tua necromante che non voglio morire. Ed è vero… ma
sto morendo da diecimila anni, da come la percepisco io. Più che altro,
non mi andava di morire da sola. Non volevo che mi nascondessero
da qualche parte. È orribile essere relegati via e sparire… la Settima
mi avrebbe rinchiusa in una bellissima tomba senza mai più nomi-
narmi. Non volevo dar loro questa soddisfazione. Allora sono venuta
qui, quando l’Imperatore ha chiesto di me… perché lo desideravo…
anche se sapevo bene che sarei venuta qua a morire.»
Gideon disse: «Ma io non voglio che tu muoia» e si rese conto, un
secondo dopo aver finito la frase, di averlo detto ad alta voce.
Chiuse pollice e indice attorno alla sua mano. Il blu profondo dei
suoi occhi era luminoso – troppo luminoso; era una lucentezza ba-
gnata, calda e brillante – e Gideon prese quelle dita tra le sue, con
grande cautela. Le sembrava che anche la più leggera delle pressioni
avrebbe ridotto Dulcinea in polvere, come le ossa più antiche con-
servate nel reliquiario della Nona Casa. Sentiva il cuore indolenzito
e tenero; il cervello indolenzito e secco.
«Non è nei miei piani, sai?» le disse Dulcinea, anche se ora la sua
voce si era fatta più flebile, come acqua versata nel latte. Chiuse gli
occhi con un sospiro ghiaioso. «Probabilmente vivrò per sempre…
mio malgrado. Che ne è stato di una carne, una fine?»
«Ho già sentito queste parole» disse Gideon, senza avere idea di
dove le avesse lette. «Cosa significano?»
L’altra sgranò gli occhi blu.
«Non ti suonano familiari?»
«Dovrebbero?»
«Be’» cominciò Dulcinea con calma, «avresti dovuto recitarle alla
tua Reverenda Figlia il giorno in cui hai prestato giuramento, votan-
doti di servirla come sua paladina, e lei avrebbe dovuto ripeterle a
te… ma tu non hai mai fatto niente del genere, vero? Non sei sta-
ta addestrata secondo la tradizione della Casa del Sepolcro Sigillato,
e non somigli per niente a una monaca della Nona Casa. E combat-
ti come… non saprei. Non sono nemmeno sicura che tu sia cresciu-
ta nella Nona Casa.»
Gideon appoggiò il capo alla testiera del letto e rimase lì, per un po’.
Quando aveva pensato a quel momento, si era aspettata di sprofonda-
re nel panico. Le scorte di panico erano esaurite. Era stanca, e basta.
«Sgamata» disse. «Sono stufa di fingere, quindi sì. Ci hai preso, qua-
si su tutto. Sai già che sono la paladina più fasulla che abbia mai pro-
vato a spacciarsi per paladina. Il vero paladino soffriva di ipertiroidi-
smo cronico ed era anche un cazzo moscio totale. Sono due mesi che
faccio finta di ottemperare ai suoi doveri. Sono una paladina farloc-
ca. E non potrei cavarmela peggio di così.»
Il sorriso che ricevette in risposta era privo di fossette. Era strana-
mente tenero – Dulcinea dimostrava sempre una strana tenerezza nei
suoi confronti – come se condividessero da sempre chissà quale suc-
culento segreto. «Ti sbagli» le disse. «Se proprio vuoi sapere come la
penso… penso che tu sia una paladina degna di un Littore. Vorrei ve-
* * *
Da quel momento in poi, Gideon non riuscì più a scacciare gli incubi.
Costringeva il suo subconscio a sprofondare in una sequenza di mo-
vimenti oculari randomici che non implicassero il suo risveglio in un
bagno di sudore freddo ma, come parecchie altre cose nella sua vita,
ora, anche quello aveva perso in prestanza e reattività. Era instupidi-
ta dalla mole dei suoi fallimenti, esposta al fuoco di fila del suo cer-
vello. Gideon non doveva fare altro che chiudere gli occhi per assi-
stere al suo personalissimo carosello casuale di merdate.
Magnus Quinn, che non aveva ancora finito di bere il suo tè mattu-
tino, trafitto fino a ritrovarsi con il petto ridotto a una massa di pez-
zi di carne fumante, perché lei non era riuscita a muovere la lingua
per urlargli: “Girati, guardati le spalle”…
… un calderone ribollente con dentro delle granaglie profumate e
il corpo silenzioso di Abigail Pent in posizione fetale, che affonda-
va sotto la superficie prima che le dita scorticate di Gideon potesse-
ro ripescarla…
… Isaac Tettares che beveva da una borraccia piena d’acido che non
era riuscita a strappargli dalle mani febbrili e tremolanti…
309
«No. È sensazionalistica.»
«Ma non impossibile. Sentite. Le prove e le sfide – le teorie che rac-
chiudono – non sono poi così eterogenee. Amalgama neurale. Trasfe-
rimento di energia. Come abbiamo visto nell’esperimento del campo
entropico, sifonaggio continuativo. È stupefacente, a livello di teoriz-
zazione magica. Nessuno ha spinto il potere necromantico fino a que-
sto limite: è insostenibile. Se lo scopo è far sfoggio dell’ampio spettro
del potere Littorio… be’, ci sono riusciti. Ho visto il test di scrematu-
ra, e se anche quel golem scheletrico autorigenerante fosse stata l’u-
nica roba là sotto, lo stesso passerei le notti in bianco. Non ho idea
di come diavolo abbiano fatto a farlo.»
«Io lo so» disse Harrow, «e se i miei calcoli sono esatti sarò in gra-
do di replicarlo. Ma tutto questo è molto più che insostenibile, Sextus.
Le cose che ci hanno mostrato sarebbero potentissime – e schiude-
rebbero una profondità indicibile di abilità necromantiche – se fos-
sero replicabili. Tutti questi esperimenti richiedono un flusso conti-
nuo di thanergia. Hanno nascosto quella fonte da qualche parte nel
complesso, ed è quello il vero tesoro.»
«Ah. La vostra teoria della porta segreta. Molto nonesca.»
Lei si stizzì. «È una semplice analisi delle aree e degli spazi. Com-
preso il complesso, abbiamo accesso a circa il trenta per cento della
torre. È una prova oggettiva, Sextus, ecco cos’è. Il vostro megateorema
invece è basato sulla supposizione e sul vostro cosiddetto “istinto”.»
«Grazie! Comunque non mi piace che così tanti incantesimi riguar-
dino il controllo puro» disse Palamedes.
«Non siate sciocco. La necromanzia è controllo.»
Palamedes inforcò di nuovo gli occhiali. «Forse» le disse. «Cer-
ti giorni non lo so più. Sentite, Nonagesimus. Tutti questi teoremi ci
insegnano qualcosa. Io sono convinto che facciano parte di un insie-
me onnicomprensivo; come la lavagna del complesso, ve la ricordate?
È finito. Voi credete che ci stiano fornendo indizi – imbeccate – per
arrivare a chissà quale occulta consapevolezza nascosta chissà dove,
fino a questa fantomatica fonte di energia. Io vedo le tessere di un
puzzle; voi vedete dei segnali direzionali. Ora, magari avete ragione
voi e dobbiamo seguire le molliche di pane che ci porteranno a qual-
che favoloso tesoro. Ma se ho ragione io… se il Littorato non è altro
che la sintesi, all’incirca, di otto teoremi individuali…»
ti. Quando la Sesta Casa chiuse la porta, notarono con un mesto di-
vertimento che, oltre alle barriere di Palamedes, ci avevano anche in-
chiodato sopra cinque lucchetti e rinforzato la porta in modo che non
potesse essere divelta dai cardini. Sentire Camilla che faceva scattare
tutte quelle serrature fu piacevole come ascoltare un’orchestra. I due
necromanti si misero alla testa – le lunghe mantelle li facevano so-
migliare a due tetri uccellacci grigi – con Gideon e Camilla al segui-
to, mantenendosi al canonico mezzo passo di distanza.
Camilla la Sesta raddrizzò le spalle. La corta frangetta scura le si
scostò dalla fronte quando accennò a voltarsi verso Gideon. Fu rapi-
da e inespressiva, ma a Gideon non serviva altro.
«Chiedimi come sto e mi metto a urlare» le disse.
«Come stai?» disse Camilla, che era una gran rompicoglioni.
«Hai smascherato il mio bluff e ti serbo rancore» le disse Gideon.
«Senti, però. Cos’è che usi davvero, cioè, quando non fingi che lo stoc-
co sia la tua arma d’elezione? Due lame corte, lunghe uguali, o una
spada e il manganello?»
I suoi occhi sagaci si assottigliarono. «Dov’è che ho sbagliato?» le
domandò, alla fine.
«Hai sguainato lo stocco e il coltello contemporaneamente. E sei
ambidestra. Colpisci sempre come se entrambe le tue lame abbiano
il filo. In più, sul letto hai sei spade e un bastone.»
«Avrei dovuto riordinare quel casino» ammise Camilla. «Due lame.
Doppio filo.»
«Perché? Voglio dire, è una figata, ma perché?»
L’altra paladina si massaggiò allegramente il gomito, flettendo le
dita come se volesse accertarsi che non si manifestassero dolori col-
laterali. Sembrava ci stesse riflettendo su, poi a un tratto se ne uscì
con un’improvvisa conclusione. «Mi sono candidata al posto di primo
paladino del Guardiano quando avevo dodici anni» le disse. «Sono
stata accettata. Avevo già esaminato prima le statistiche sulle armi.
Avevo deciso che due lame corte assicuravano maggiori applicazio-
ni pratiche. Ho imparato a usare lo stocco» – stava minimizzando –
«ma quando arriverà il momento di combattere per davvero, com-
batterò con le due lame.»
Prima che Gideon potesse venire a patti con le inquietanti impli-
cazioni del fatto che il momento in cui avrebbero combattuto sul se-
rio non era ancora arrivato, Camilla le mollò una gomitata: «Perché
ti comporti come se tu e lui steste litigando?».
«Nooo» fece Gideon garrula, proseguendo con un: «graaazie.»
«Perché non state litigando.» Pausa. «Lo capiresti, se steste litigando.»
«Non è che puoi…? Ma che ne so! Puoi dirgli che se vuole che gli
presenti Dulcinea lo posso fare? Puoi dirgli che non sto cercando di
rovinargli la piazza?»
«L’ultima cosa di cui ha bisogno il Guardiano» disse Camilla «è di
essere presentato a Lady Septimus.»
«Allora puoi dirgli, magari, di piantarla di comportarsi come se
cent’anni fa avesse letto in un libro i sentimenti di tutti? Perché sa-
rebbe bellissimo, veramente» fece Gideon.
Senza aggiungere un’altra parola, Camilla si spostò per incollarsi al
suo adepto, che si era fermato davanti a un grande quadro con la cornice
dorata: la doratura era diventata prevalentemente marrone – dove non
era già nera – e anche il dipinto era così sbiadito che somigliava più che
altro a un alone di caffè. Era un’immagine bizzarra: una spianata di rocce
polverose, squassata da un enorme canyon che la divideva al centro, un
fiume color seppia che serpeggiava verso un nulla scrostato, sul fondo.
«Questa l’ho registrata parecchio tempo fa» disse Harrow.
«Diamo un’altra occhiata.»
Palamedes e Camilla si appoggiarono gli angoli del dipinto sulle
spalle, sollevandolo da un fermo invisibile. Sembrava molto leggero.
La grande porta Littoria che c’era dietro – con le sue colonne nere e i
teschi cornuti intagliati, le sue figure cesellate e la pietra tetra – non
era granché ben nascosta. In ogni suo aspetto, era una copia presso-
ché esatta dell’altra porta Littoria che Gideon aveva visto. Ma Har-
row trattenne il respiro.
Si avvicinò alla serratura, e poi Gideon capì il perché: era stata
riempita con della roba grigia, dura e catramosa, come uno stucco
o del cemento. Qualcuno aveva deliberatamente manomesso la top-
pa. Parte dello stucco era stato scalpellato via in basso, staccandosi
in grossi frammenti, ma per il resto pareva di una solidità sconfor-
tante. Non c’era modo di liberarsi di quello schifo senza significati-
vi sforzi ingegneristici.
«Sesto» disse la sua necromante, «non era in queste condizioni, la
prima notte che abbiamo passato alla Casa di Canaan.»
a stiracchiare di una spanna piena quella roba – che però poi si rup-
pe, si ricompattò e si ricompose come un’esplosione al contrario. Ci
provò ancora. E ancora, e un’altra volta ancora.
La pittura sulla fronte di Harrow era imperlata di sudore sanguino-
lento. Scorreva a rivoletti grigio-rosati. Le luccicava attorno a entram-
be le narici. Prima di capire che cosa stesse facendo, Gideon scoprì
di essersi spostata al fianco della sua necromante: celando quel che
stava facendo allo sguardo impassibile di Sextus, arrotolò una delle
lunghe maniche della mantella della Nona e mosse le labbra prima
ancora del cervello. «Ricarica le batterie» le bisbigliò.
Era la prima cosa che Gideon le diceva da quando Harrow aveva
lasciato gli alloggi della Sesta Casa, irritata da quel che le era sem-
brato il più sprezzante dei disappunti, somigliando più a uno sdegno-
so corvo nero che a una ragazza. La sua adepta spalancò un solo oc-
chio nero e minaccioso.
«Prego?»
«Ho detto: “Salta su, fiorellino”. Forza. Sai già cosa fare.»
«È palese che io non lo sappia, e non dirmi mai più: “Salta su,
fiorellino”.»
«Te lo ripeto: sifonami.»
«Nav…»
«I Sesti ci stanno guardando» disse Gideon, brutalmente.
Quell’ultima osservazione – una dichiarazione più simile a una
mazzata che a una stilettata – ridusse Harrowhark al silenzio. La sua
espressione si fece risentita, in una maniera che la sua paladina non
avrebbe potuto capire, o che avrebbe potuto decifrare solo come l’o-
dio costernato di chi – ancora una volta – sarebbe stato costretto a
servirsi della sua paladina, una tizia che aveva combinato dei casi-
ni così conclamati da fornire all’universo intero una nuova definizio-
ne di combinare casini. Tutto quel che le disse fu: «Non serve che ti
tiri su la manica, babbea che non sei altro» e a quel punto subentrò
la sensazione del sifonaggio, lisciviante e contorta.
Fu orribile come la prima volta, ma senza dubbio più breve rispet-
to alla lunga e agghiacciante passeggiata di Harrow da un capo all’al-
tro della sala dell’Avulsione; e ora Gideon sapeva anche cosa aspet-
tarsi. Il dolore rientrava nella familiare tipologia del terrificante. Non
urlò, anche se quello, probabilmente, sarebbe stato più dignitoso: cer-
ferto di dare una sbirciata alle chiavi che aveva già. Ma sospetto che
per voi non ci fosse bisogno di rendere l’affare più allettante.» Har-
row non reagì, anche se Gideon avrebbe scommesso che, in qualche
ignobile cripta del suo cervello, si stava scatenando una tempesta di
ingiurie. «L’Ottava ne aveva una, e ora se ne sono procurate altre due
con l’inganno – quelle di Dulcinea. Ma ne resta ancora una libera.»
«La Terza?» suggerì Harrow.
«Macché. Cam li ha sentiti parlare questa mattina: non hanno nien-
te. E non ce l’ha la Seconda, a meno che non mi abbiano mentito dopo
il duello – stiamo sempre parlando della Seconda. Guardatevi le spal-
le. La Seconda sta ancora cercando il modo di chiudere baracca, la
Terza non ama arrivare ultima e l’Ottava si prenderebbe tutto, a ogni
costo.» Si accigliò. «È sulla Terza che sono indeciso. Non so qual è la
gemella da cui dovrei guardarmi.»
«Quella grossa» disse Harrow, senza esitazioni. Gideon era piut-
tosto certa che le gemelle fossero grosse uguali, e si stupì nel costa-
tare che persino lo sguardo da anatomista di Harrowhark Nonagesi-
mus non era immune alla radiosità emanata dalla Principessa Corona.
«Sono entrambe necromanti mediocri, ma la grossa è quella che co-
manda. Lei dice io; la sorella dice noi.»
«Un’ottima argomentazione, davvero. Ma continuo a non esserne
certo. Vediamoci domani sera per cominciare il nostro scambio di
teoremi, Nona. Devo riflettere.»
«La chiave mancante» disse Harrow.
«La chiave mancante.»
Dopo un breve scambio di saluti, entrambi i componenti della Sesta
Casa, ammantati dal loro grigio scialbo, girarono i tacchi e si avviarono
– finché, con acuto disappunto di Gideon, Palamedes non si voltò. Per
tutto il tempo aveva evitato di incrociare il suo sguardo, forse assecon-
dando il fatto che anche lui stava evitando il suo, ma ora la fissò dritto
in faccia. Lei inghiottì l’urgenza di dirgli: “Mi dispiace, non ti odio per
niente, è solo che in questo momento odio un po’ me stessa”. Invece si
voltò freddamente da un’altra parte, l’esatto contrario del chiedere scusa.
«Tienila d’occhio, Nav» disse Palamedes in fretta. E poi si girò per
raggiungere Camilla.
«Sta diventando presuntuoso» disse la Reverenda Figlia, osservan-
do le loro schiene che si facevano sempre più piccole.
323
«Le ho detto» ribadì Colum lentamente «“Te lo giuro sul mio ono-
re”. Cosa significa per te?»
Gideon rimase assolutamente immobile, come un animale lega-
to, ma lasciò che il suo sguardo si spostasse di lato, verso la porta.
Con un movimento repentino sarebbe riuscita a prendere la spada
e a levare le tende da lì prima che quella terrificante soap opera zio-
nipote culminasse con loro due che la suonavano come un gong, ma
avrebbe anche potuto ricordare loro della sua esistenza e che quella
discussione intima poteva essere rimandata a un secondo momento.
Silas, inquieto, si era risistemato sulla sedia, e stava dicendo: «Non
mi metterò a dissezionare parole e significati con te come un ciarla-
tano, Fratello. Lasciamo la semiotica alla Sesta. I loro sofisti non ve-
dono l’ora di dimostrarci che sopra, scritto in un altro modo, è uguale
a sotto. Se un giuramento infranto ti addolora, saprò guidarti nell’e-
spiazione, più tardi, ma per ora…».
«Sono il tuo paladino» disse il suo paladino. Il che interruppe Si-
las a metà del discorso. «Ho la mia spada, ho il mio onore. Tutto il
resto appartiene a te.»
«Anche la tua spada appartiene a me» disse Silas. Stringeva i brac-
cioli della sedia, ma il suo tono era calmo, piatto e, in realtà, anche so-
lidale. «Non occorre che tu faccia niente. Se il tuo onore deve rimane-
re intatto, posso procurarmi la tua spada senza dovertela chiedere.»
Sollevò la mano e la manica di lino bianco scivolò giù, scoprendo
una pallida polsiera di maglia metallica. A Gideon tornò in mente la
stanza impregnata di sangue dove giacevano Abigail e Magnus, e si
ricordò di come il colore si era ritirato da quell’ambiente come una
tintura rapida per tessuti. Sapeva che quello era il capolinea, e il suo
sguardo saettò di lato, spostandosi dalla porta a Colum, che… la sta-
va fissando.
I loro sguardi si incrociarono per un incandescente secondo. Quell’u-
nico secondo le parve così eterno, una pausa così prolungata che i
suoi nervi già sovrastimolati per poco non fecero ping, come un ela-
stico, catapultandola dritto dritto dall’altra parte della stanza. Poi Co-
lum sembrò prendere una decisione.
«Tanto tempo fa, tutto quello che dicevo era vangelo, per te» dis-
se, in un tono molto insolito. «Pensavo che fosse peggio di adesso…
ma mi sbagliavo.»
Lei prese la spada. Era parecchio in debito con lui, adesso, il che
era uno schifo.
«Al nostro prossimo incontro» le disse a denti stretti, monolitico
e impassibile come quando era arrivata. «Uno di noi due dovrà mo-
rire, temo.»
«Già» commentò Gideon. Disse: «già» invece di: «mi dispiace».
Colum le raccolse il guanto e le porse anche quello. «Vattene da
qui» le disse, più come un avvertimento che come un ordine.
Si allontanò di nuovo da lei. Gideon provò l’acuta tentazione di por-
tarlo via con sé, lontano da Silas, che restava seduto, immobile e pal-
lido, nella sua grande stanza bianca, ma si rese conto che era impro-
babile che potesse succedere. Pensò anche di sventolare di straforo
il dito medio in direzione di Silas, una volta che Colum le avesse gi-
rato le spalle, ma arrivò alla conclusione che, di tanto in tanto, vales-
se la pena mantenere la posizione di superiorità morale guadagnata.
Mentre si allontanava, si preparò a sentire un improvviso scoppio
di voci rabbiose, di grida, di recriminazioni, magari pure un urlo di
dolore. Ma non ci fu altro che il silenzio.
333
* * *
no proprio come Corona aveva affondato i denti nel braccio del suo
paladino. Si ammaccò l’alluce, ma non ci badò.
L’anta del guardaroba era socchiusa. Gideon ci si fiondò, spalancan-
dola con violenza, anche se non aveva la minima inclinazione a cu-
cire i polsini di tutte le camicie di Harrowhark, come avrebbe potuto
fare un tempo. Si era quasi aspettata che dei guardiani ossei le sra-
dicassero entrambe le braccia dalle articolazioni, ma non c’era nien-
te. Non c’era alcuna sorveglianza. Non c’era nulla che potesse impe-
dirle di farlo. Chissà perché, la cosa la fece uscire di testa. Schiaffò da
un lato tutto quell’arcobaleno di indumenti neri: i pantaloni metico-
losamente rammendati, le camicette ben stirate, i paramenti formali
della Reverenda Figlia appesi a un gancio in una sacca a reticella. Se
li avesse guardati troppo a lungo le sarebbe mancato il fiato, quindi
si costrinse, con grande impegno, a non farlo.
C’era una scatola sul fondo dell’armadio – una scatola polimerica
da quattro soldi, ammaccata. Era infilata sotto a un paio di stivali di
Harrowhark. Non l’avrebbe notata se non fosse stato per quello sbri-
gativo tentativo di nasconderla coi sopracitati stivali e un mantello
sbrindellatissimo. I lati erano lunghi all’incirca quanto un avambrac-
cio. Un improvviso sfinimento riguardo a tutto quello che Harrow
aveva messo sotto chiave in vita sua la spinse a tirarla fuori, senza
quasi rendersene conto. Sollevò il coperchio butterato con i pollici –
si aspettava diari, o ossa da preghiera, o biancheria intima o litogra-
fie della madre di Harrow.
Con le dita intorpidite, Gideon estrasse la testa mozzata di Prote-
silaus il Settimo.
338
* * *
Harrowhark aveva odiato Gideon dal primo istante in cui il suo sguar-
do l’aveva sfiorata, come tutti, d’altronde. La differenza era che, per
quanto la maggior parte delle persone ignorasse la piccola Gideon
Nav come si farebbe con una merdina a cui sono spuntate le gam-
be, la minuscola Harrow aveva individuato in lei l’oggetto della sua
tormentosa fascinazione – una preda, una rivale e un pubblico, con-
centrati in un’unica entità. E anche se Gideon detestava le monache,
detestava il Sepolcro Sigillato e detestava le macabre prozie, e più di
chiunque altro detestava Crux, bramava le attenzioni della Reveren-
da Figlia. Erano le uniche due bambine in una Casa che, a eccezione
loro, non aveva altro da fare che incancrenirsi.
Tutti si comportavano come se l’Imperatore in persona avesse re-
suscitato Harrowhark solo per portar loro gioia: era nata sana e inte-
gra, una necromante prodigiosa, una perfetta suorina penitente. Sa-
liva già all’ambone e recitava preghiere, mentre Gideon pregava a sua
volta, disperatamente, per poter un giorno arruolarsi come militare,
era stato un suo desiderio sin da quando Aiglamene – l’unica persona
che Gideon non odiava proprio sempre – le aveva rivelato che quella
possibilità esisteva. La capitana aveva cominciato a raccontarle storie
della Coorte da quando Gideon aveva all’incirca tre anni.
Quello fu probabilmente il periodo più felice della loro relazione.
Allora si scontravano con una tale sistematicità da trascorrere insie-
* * *
propizie, loro finiscono sempre per essere nel giusto. Senti, Nav. Hai
fatto la spia alla tua nemesi d’infanzia per metterla nei guai. Non hai
ucciso i suoi genitori e lei non dovrebbe odiarti come se l’avessi fatto
davvero, e tu non dovresti odiarti come se l’avessi fatto.»
La stava sbirciando da dietro gli occhiali. «Ehi» obiettò lei debol-
mente, «non ho mai detto che mi odio.»
Goffo, e anche un po’ brusco, le prese la mano. Gliela strinse. Era-
no entrambi in ovvio imbarazzo, ma Gideon non lo lasciò andare
– nemmeno quando si mise a frugare nella tasca del mantello con
l’altra mano, e nemmeno quando gli porse il pezzo di velina accar-
tocciata che la destabilizzava ormai da parecchio tempo.
Lui lo aprì e lesse senza palesare reazioni. Lei gli strinse ancora la
mano come per sancire un giuramento, o una minaccia.
«Arriva da un laboratorio Littorio» le disse alla fine. «Vero?»
«Già» ammise lei. «È… voglio dire… è autentico?»
Lui la guardò. «Ha quasi diecimila anni, se è quello che intendi.»
«Be’, io no» disse. «Quindi… ma che cazzo è?»
«La domanda definitiva» concordò lui, tornando a concentrarsi sulla
velina. «Posso prenderlo in prestito? Vorrei esaminarlo come si deve.»
«Non mostrarlo a nessun altro» disse Gideon, senza capirne dav-
vero il motivo. C’era qualcosa, nel fatto che il suo nome fosse scritto
su quell’antico pezzo di spazzatura, che le pareva pericoloso quanto
una granata. «Non sto scherzando. Deve rimanere tra noi.»
«Te lo giuro sulla mia paladina» disse lui.
«Non puoi farlo vedere neanche a lei…»
Vennero interrotti da sei colpi brevi alla porta, seguiti da sei lun-
ghi. Entrambi scattarono in piedi per smantellare l’intricato reticolo
di lucchetti. Camilla entrò e, insieme a lei, dritta e calma, c’era Har-
row. Per un folle istante, Gideon si convinse che lei e Camilla si stes-
sero tenendo per mano e che, quel giorno, c’era stata un’immensa
impennata di palpeggiamenti intercasa fra mani, ma poi si rese con-
to che erano ammanettate insieme. Camilla non era fessa, anche se
il come fosse riuscita ad ammanettare Harrow sarebbe stato un rac-
conto dell’orrore da destinare a un altro giorno.
Gideon non la guardò, e Harrow non guardò Gideon. Gideon por-
tò lentamente la mano alla spada, ma per niente. Harrow stava fis-
sando Palamedes.
* * *
te. Silas era in piedi sulla porta, Colum dietro di lui e se qualcuno
avesse voluto eliminarli tutti, in quell’istante, sarebbe bastato chiu-
dere la porta e lasciare che la brillantina di Naberius Tern li asfis-
siasse dal primo all’ultimo. Sembrava strano che quello fosse ciò che
restava di tutti loro.
La necromante della Settima Casa era sorretta da un agglomera-
to di cuscini paffuti e appariva calma e trasparente. Le spalle erano
scosse da ogni respiro stridulo, ma i capelli erano acconciati alla per-
fezione e la camicia da notte era di una vezzosità da incubo. Teneva
in grembo la scatola che conteneva la testa di Protesilaus e, quando
la tirò delicatamente fuori – del tutto intatta, come se fosse anco-
ra vivo – si udirono svariate inspirazioni brusche. Non da parte sua.
«Il mio povero ragazzo» disse Dulcinea, sincera. «Ora non riuscirò
più a rimetterlo insieme. Chi è stato a farlo a pezzi? È un disastro.»
Palamedes giunse le punte delle dita e si sporse in avanti, con gra-
ve determinazione.
«Lady Septimus, Duchessa di Rhodes» le disse, con grande forma-
lità, «vi sottopongo, di fronte a tutti i presenti, il fatto che quest’uomo
era morto prima ancora del vostro arrivo, via navetta, alla Prima Casa,
e che appariva vivo solo grazie a un potente sortilegio corporale.»
Seguì un immediato brusio, che non si placò nemmeno di fronte ai
suoi gesti impazienti di fate silenzio e agli occhiali che vennero spin-
ti con foga su per il naso. Tra i mormorii collettivi, la cadenza stra-
scicata e acida di Ianthe Tridentarius fu la più sonora: «Be’, è l’unica
roba interessante che è riuscita a fare».
Quasi altrettanto veemente fu la Capitana Deuteros: «Impossibi-
le. È stato con noi per settimane».
«Non è affatto impossibile» disse Dulcinea. Era rimasta a fissare,
serissima, gli occhi torbidi di Protesilaus, come se stesse cercando
qualcosa, per poi riappoggiarsi la testa in grembo. «Sono anni, anni
e anni che la Settima Casa perfeziona l’arte del cadavere illusorio. È
solo che… non è del tutto consentito.»
«È sacrilego» commentò Silas, categorico.
«Lo stesso può dirsi del sifonaggio dell’anima, figlio mio» gli disse
lei, con un tono di deliberata dolcezza celestiale. «E non è sacrilego:
è assolutamente utile e innocuo; ma non quando lo si fa così, seguen-
do i più antichi metodi, tutto qua. I Settimi non sono solo mummi-
ficatori e paralizzatori di anime. Sì, Pro era morto ancora prima che
atterrassimo.»
Gideon disse, categorica almeno quanto Silas: «Perché?».
I giganteschi occhioni blu fiordaliso si posarono su Gideon come
se fosse l’unica persona nella stanza. Non contenevano la minima
derisione, in quel caso Gideon si sarebbe probabilmente messa a ur-
lare. All’improvviso, la necromante morente sembrò vecchia come
non mai; non era una faccenda di rughe, ma riguardava la totale di-
gnità e la calma con cui se ne stava seduta lì, nella serenità più totale.
«Questa competizione ha colto di sorpresa la mia Casa» disse, bal-
danzosa. «Lasciate che vi racconti la storia. Gideon la Nona, Dulci-
nea Septimus non avrebbe mai dovuto essere qui… avrebbero prefe-
rito che rimanesse a riposo a casa sua, per spremerle altri sei mesi. È
un’antica usanza della Casa. Ma non c’era un altro erede necromanti-
co. E c’era un ottimo primo paladino… quindi, anche se solo un brut-
to raffreddore separava l’erede necromantica da un completo collas-
so polmonare… si ritenne che lui sarebbe riuscito a controbilanciare.
Ma poi ha avuto un incidente.»
Dulcinea scompigliò i capelli spenti della testa mozzata con la pun-
ta delle dita, poi li appiattì di nuovo, come se fossero quelli di una
bambola. «Per ipotesi. Se voi foste la Settima Casa, e il vostro destino
ora dipendesse da due salme, una che respira un pochino più dell’al-
tra, non prendereste in considerazione anche voi qualcosa di invero-
simile? Imboccando, per dire, la via del cadavere illusorio, nella spe-
ranza che nessuno noti che la vostra Casa è già clinicamente morta?
Mi dispiace di avervi ingannato, ma non mi pento di essere venuta.»
«I conti non tornano.»
Harrow era rigida come il cemento, gli occhi grandissimi, cupi e –
nonostante solo Gideon potesse intuirlo – anche molto agitati. «L’in-
cantesimo a cui vi riferite non è alla portata di un necromante co-
mune, Septimus. Impossibile per un necromante nel pieno delle sue
forze, figuriamoci per una donna morente.»
«Una donna morente è la necromante perfetta» disse Ianthe.
«Quanto vorrei poter sradicare questa convinzione. Almeno per
gli ultimi dieci minuti» disse Palamedes. «Tecnicamente, il fatto che
il processo di avvicinamento alla morte potenzi la tua necromanzia è
viziato considerevolmente dal fatto che non puoi fartene un bel nien-
gli occhi e la bocca. «Oggi non sarà di certo il giorno in cui ci met-
teremo a usare i corpi degli altri. Ma nemmeno domani, o mai. Non
siamo dei barbari.»
«Prepotenza pura» commentò sua sorella senza rivolgersi a nes-
suno in particolare. «Certa gente farebbe di tutto per metterti i pie-
di… in testa.»
La ignorarono tutti, persino Gideon, che si sorprese a tremare come
una foglia. Harrowhark si limitò a ribattere: «Le ossa nella fornace re-
stano comunque mie, per l’identificazione».
«Potete adoperare l’obitorio come desiderate» disse la capitana, in
tono liquidatorio. «Ma i corpi non sono di vostra proprietà, Reveren-
da Figlia. Lo stesso vale per il Guardiano, e vale anche per tutti gli al-
tri. Sono stata chiara, o devo ripeterlo?»
«Intesi» disse Palamedes.
«Intesi» disse la Reverenda Figlia, con l’aria di una che non aveva
inteso affatto e nemmeno era intenzionata a farlo.
Silas non se n’era ancora andato.
«In questo caso» disse, «il dovere mi obbliga a vegliare sull’obitorio,
semmai la Nona dimenticasse le norme che definiscono il vilipendio
di cadavere. Prenderò io i resti. Potrete trovarmi là.»
La Capitana Deuteros non roteò neanche gli occhi. Fece cenno alla
sua luogotenente, che gli consegnò la scatola: Silas la prese, con una
lieve smorfia, e la passò a suo nipote. Accaparratisi il macabro cari-
co, finalmente si voltarono e se ne andarono. La Terza aveva già co-
minciato a battibeccare…
«Aveva un’aria strana, l’ho sempre detto io» fece il paladino.
«Non hai mai detto niente del genere» disse la prima gemella.
«Ma mai e poi mai, proprio» disse la seconda gemella.
«Scusatemi tanto, invece sì…»
Nel bel mezzo di quel bisticcio intestino, la Capitana Deuteros si
schiarì la gola. «Qualcun altro vuole approfittare di quest’opportuni-
tà per dichiarare di essere già morto, o di essere un costrutto di car-
ne… o qualche altra entità rilevante? Nessuno?»
Con grande delicatezza, Palamedes stava pulendo la bocca di Dul-
cinea con un panno bianco. Le posò una mano sul collo. Lei era im-
mobile. Il suo viso aveva ora la tenue sfumatura azzurrino-candida
del latte della Casa di Canaan e, per un momento, Gideon si aspettò
354
calmo, misurato e sincero come mai era stato. «Solo la mia famiglia
ne è al corrente. E persino noi non potevamo mai discuterne, a meno
che – è una regola che ha stabilito mia madre – non ci trovassimo
immersi in acqua salata. Avevamo un’apposita vasca cerimoniale, na-
scosta dal resto della Casa. Era fredda e profonda e ho detestato ogni
istante che ho passato là dentro. Ma mia madre è morta, e penso – se
davvero sto per tradire il più sacro fra i patti di fiducia della mia fami-
glia – di aver almeno il dovere di preservare, intatta, la sua regola.»
Gideon sbatté le ciglia.
«Oh, cazzo» le disse. «Fai sul serio. Per davvero. Ci siamo.»
«Ci siamo» concordò Harrowhark.
Gideon si passò entrambe le mani fra i capelli e rivoletti d’acqua
le scivolarono giù per la nuca, fino al colletto fradicio. Alla fine, tut-
to quello che riuscì a chiederle fu: «Perché?».
«Le ragioni sono innumerevoli» disse la necromante. Le sue pit-
ture si stavano squagliando nell’acqua; somigliava al ritratto grigia-
stro di uno scheletro sciolto. «All’inizio intendevo rendertene parte-
cipe, almeno in parte. Una versione edulcorata. Ma poi hai rovistato
nel mio armadio… se ti avessi riferito i miei sospetti a proposito del
fantoccio di carne di Septimus il primo giorno, nulla di tutto questo
sarebbe mai accaduto.»
«Il primo giorno?»
«Griddle» disse Harrow, «non ho manovrato i miei genitori come
dei burattini per cinque anni senza imparare niente.»
A quel punto la rabbia si fece strada in Gideon insieme a un altro
paio di litri d’acqua salata. «Ma perché diavolo non me l’hai detto,
quando l’hai ucciso?»
«Non l’ho ucciso io» disse Harrowhark, seccamente. «È stato qual-
cun altro: una lama gli ha trapassato il cuore, per quel che ho potuto
constatare, anche se ho avuto solo un paio di minuti a disposizione
per osservarlo prima di dover scappare. È stato necessario forzare il
teorema solo a un livello molto basilare perché si disfacesse. Ho pre-
so la testa e me ne sono andata quando mi è sembrato di sentir ar-
rivare qualcuno. È successo la notte successiva alla sfida del campo
entropico.»
«No, mostro che non sei altro» le disse Gideon, freddamente. «Quel
che intendo è perché non mi hai detto che l’avevi ucciso, prima di
«Sì che si può» disse Harrow. «Se possiedi le risorse e se sei dispo-
sto a pagare il prezzo che comporta utilizzarle.»
A Gideon si rizzò la peluria – bagnata – sulla nuca.
«Harrow» le disse, lentamente, «con risorse, intendi…»
«Duecento bambini» disse Harrowhark, sfibrata. «Dalle sei setti-
mane ai diciotto anni di età. Era necessario che morissero più o meno
simultaneamente, perché funzionasse. Le mie prozie hanno dosato
gli organofosfati dopo settimane di calcoli. La nostra Casa li ha pom-
pati attraverso l’impianto di condizionamento.»
Da qualche parte, sotto la piscina, un filtro emetteva un brusio ri-
succhiante, mentre riciclava i liquidi fuoriusciti. «Gli infanti da soli
hanno generato abbastanza thanergia da spazzare via l’intero piane-
ta. Con i bebè va sempre così… per qualche motivo.»
Gideon non riusciva neanche ad ascoltarla. Strinse le ginocchia al
petto e si lasciò affondare, solo per un secondo. L’acqua le sommer-
se la testa e le si insinuò tra i capelli. Le orecchie si misero a ronza-
re, per poi stapparsi. Quando si spinse di nuovo in superficie, il bat-
tito del suo cuore, che le pulsava contro le ossa del cranio, fu come
un’esplosione.
«Di’ qualcosa» disse Harrowhark.
«Bello schifo» fece Gideon con distacco. «Blah. Pessimo. Che cosa
devo dire? Che cosa cazzo posso dire di una cosa del genere?»
«Mi ha permesso di nascere» disse la necromante. «Ed ero… io.
E sono sempre stata conscia, sin da piccolissima, di come ero sta-
ta creata. Io sono esattamente duecento figli e figlie della mia Casa,
Griddle… io sono l’intera generazione della Nona. Sono venuta al
mondo come necromante alle spese del futuro del Drearburh… per-
ché senza di me non c’è futuro.»
A Gideon si rivoltò lo stomaco, ma il suo cervello ebbe la meglio
sulla nausea.
«Perché lasciar perdere me, però?» le domandò. «Hanno ucciso il
resto della Casa, ma mi hanno esclusa dalla lista?»
Ci fu una pausa.
«Non l’abbiamo fatto» disse Harrow.
«Che cosa?»
«Eri destinata a morire, Griddle, insieme a tutti gli altri. Hai ina-
lato gas nervino per dieci minuti abbondanti. Le mie prozie sono di-
un velo, giù per le spalle, i capelli erano un nero caschetto bagnato che
le aderiva al cranio, la pelle riluceva del grigiore verdino delle onde.
Tutta la pittura si era dissolta e Harrowhark le apparve esile e mal-
concia, non più grande di Jeannemary Chatur.
«Ma lo rifarei» disse il crimine di guerra. «Lo rifarei, se dovessi. I
miei genitori l’hanno fatto perché non esisteva un altro modo, e nean-
che lo sapevano. Nella loro discendenza di sangue doveva esserci un
necromante, Nav… perché solo un necromante può aprire il Sepol-
cro Sigillato. Solo un potente necromante può scostare la pietra… e
ho scoperto che solo il necromante perfetto può oltrepassare quelle
barriere e sopravvivere, e può accostarsi al sarcofago.»
Le dita dei piedi di Gideon fecero presa e si alzò, con l’acqua che
le arrivava al petto e la pelle d’oca per il freddo. «E le preghiere sulla
tomba che deve restare chiusa per sempre e la roccia che non deve
mai essere spostata che fine hanno fatto?»
«Nemmeno i miei genitori sono riusciti a capirlo, ed è per quello
che sono morti» disse Harrowhark. «È per quello che, quando hanno
saputo che l’avevo fatto – che avevo scostato la pietra e che ero en-
trata nel monumento e che avevo visto dov’è sepolto il corpo – han-
no pensato che avessi tradito Dio. Lo scopo del Sepolcro Sigillato è
di dare dimora all’unico vero nemico del Re Imperituro, Nav, un’en-
tità più vecchia del tempo, il costo della Resurrezione; la bestia che
Egli è riuscito a sconfiggere una volta ma che non si può sconfiggere
di nuovo. L’abisso della Prima. La morte del Signore. Ci ha affidato
la tomba perché la custodissimo, e confidava nel fatto che chi aveva
costruito la tomba, una miriade fa, ci si murasse dentro col cadave-
re e morisse lì. Ma non l’abbiamo fatto. Ed è così che la Nona Casa
ha avuto origine.»
A Gideon tornarono in mente le parole di Silas Octakiseron: “l’Ot-
tava Casa ricorda che la Nona non era destinata a vivere”.
«Mi stai dicendo che quando avevi dieci anni – dieci anni – hai
scassinato il lucchetto del sepolcro, ti sei infilata in una tomba decre-
pita e sei riuscita a superare dei malvagi incantesimi vecchissimi per
guardare una cosa morta nonostante i tuoi genitori ti avessero detto
che avresti scatenato l’apocalisse?»
«Sì» fece Harrowhark.
«Perché?»
plasma. Il nero, attorno, si fece più nero del fondo del Drearburh. Si
lanciò in avanti, facendosi largo nell’acqua, afferrò la camicia di Gi-
deon e la strinse nei pugni, scrollandola con una violenza di cui Gi-
deon mai l’avrebbe ritenuta muscolarmente capace. Aveva il viso li-
vido d’odio: il suo disprezzo era un mortaio, era combustione pura.
«Sei tu che ti scusi con me?» urlò. «Adesso ti vieni a scusare con
me? Mi vieni a dire che ti dispiace, quando ho passato tutta la mia
vita a distruggerti? Sei il mio capro espiatorio! Ti ho fatto del male
perché per me era un sollievo! Esisto solo perché i miei genitori han-
no ammazzato tutti gli altri e ti hanno relegata a un’esistenza abiet-
ta e miserabile, e avrebbero ucciso anche te senza pensarci due vol-
te, cazzo! Per tutta la tua vita non ho fatto altro che cercare di farti
rimpiangere di non essere morta, solo perché… quella che rimpian-
geva di non essere morta ero io! Ti ho mangiata viva, e adesso hai il
coraggio di dirmi che ti dispiace?»
Le labbra di Harrowhark erano rigate di saliva. Boccheggiava, in
cerca di aria.
«Ho cercato di demolirti, Gideon Nav! La Nona Casa ti ha avvele-
nata, ti abbiamo calpestata… ti ho trascinata in questo mattatoio per
farmi da schiava… e tu ti rifiuti di morire, e mi compatisci! Abbatti-
mi. Hai vinto tu. Ho vissuto la mia intera vita schifosa alla tua mercé,
soltanto tua, e solo Dio sa se non merito di morire per mano tua. Sei
la mia unica amica. Io, senza di te, non sono niente.»
Gideon contrasse le spalle per sostenere il peso di quello che sta-
va per fare. Si sbarazzò di diciotto anni trascorsi a vivere nell’oscuri-
tà con un mucchio di monache spregevoli. Il suo compito, alla fine, si
dimostrò sorprendentemente semplice: prese fra le braccia Harrow
Nonagesimus e la tenne stretta, forte, a lungo, come un grido. Fini-
rono entrambe sott’acqua, e il mondo si fece buio e salato. La Reve-
renda Figlia si abbandonò, calma e immobile, come sarebbe stato na-
turale durante un annegamento rituale, ma quando si rese conto di
essere stata abbracciata, si dimenò come se qualcuno le stesse strap-
pando le unghie dai polpastrelli. Gideon non mollò la presa. Dopo
più di una boccata d’acqua salata, finirono rannicchiate, insieme, in
un angolo della vasca buia, ingarbugliate nelle maniche bagnate del-
le rispettive camicie. Gideon prese Harrow per i capelli e scostò la
testa che le aveva appoggiato sulla spalla, la osservò, inventariando
* * *
* * *
serabile tra gli ordini monastici della Casa. Non che per Ortus faces-
se una qualche differenza. Avevamo pagato il pilota.»
«Allora…»
«Crux ha affermato» disse Harrow lentamente «che la navetta era
guasta e che era esplosa in viaggio.»
«E tu gli hai creduto?»
Un’altra pausa. Harrow disse: «No.» E poi: «Più di ogni altra cosa,
Nav… non poteva sopportare quella che considerava una slealtà».
Allora era stata la subdola e fosca vendetta di Crux nei confron-
ti della sua stessa Casa – il suo zelante desiderio di cauterizzare ogni
segnale d’insurrezione – che aveva costretto il fantasma di Glaurica a
fare ritorno al suo pianeta d’origine. Non glielo disse. Silas Octakise-
ron sapeva più di quanto avrebbe dovuto, ma se Harrow l’avesse sco-
perto adesso, si sarebbe precipitata giù per il corridoio in camicia da
notte con un sacco pieno d’ossa d’emergenza e un’espressione molto
determinata. «Che coglione» disse invece. «Io non sono mai stata lea-
le, nemmeno per un giorno in vita mia, e ti ho comunque vista nuda.»
«Ora dormi, Gideon.»
E lei si addormentò… e, per una volta, non sognò un bel niente.
369
nico modo per entrare, sia per me che per te, è sconfiggere Colum
l’Ottavo in un duello ufficiale…»
«Posso farlo fuori, Colum» disse Camilla.
«Anch’io sono piuttosto sicura di poter far fuori Colum» aggiun-
se Gideon.
«…e poi contare sul fatto che Octakiseron ce la consegni. Cosa che
non farà» concluse Palamedes, trionfante. «Reverenda Figlia, sai bene
quanto me che non sarà un’inezia come il fair play a impedire all’Ot-
tava Casa di ottemperare al sacro dovere di fare quel che pare a loro.»
Harrow sembrava combattuta. «Non è una serratura comune. Non
possiamo metterci qua e scassinarla con un ossicino, Sextus.»
«No, certo che no. Te l’ho detto. Lady Septimus mi ha passato la
chiave, l’ho tenuta in mano. Sono un adepto della Sesta. È come se
mi avesse dato il permesso di creare un calco in silicone di quel ma-
ledetto affare. Riesco a ricordare ogni dettaglio di quella chiave, fino
al livello più microscopico. Ma che cosa posso fare da solo, scolpirne
una con un pezzo di legno?»
Harrow sospirò. Poi si frugò in tasca e tirò fuori un nodulino
d’osso, tenendolo nel palmo della mano destra. «D’accordo» disse.
«Descrivimela.»
Palamedes la fissò.
«Spicciati» lo incalzò. «Non starò qui ad aspettare che la Secon-
da ci trovi.»
«Era… voglio dire, aveva l’aspetto di una chiave» le disse. «Aveva
un lungo fusto e un po’ di dentellature. Non posso… non è che posso
descrivere una struttura molecolare come se fosse un vestito.»
«Allora com’è che dovrei fare a replicarla, di preciso?» domandò
Harrow. «Non è che posso… oh. No.»
«Hai completato Visualizzazione e Reazione, giusto? Per forza, hai
conquistato la chiave. Stessa faccenda. Io penserò alla chiave, e tu la
vedrai attraverso i miei occhi.»
«Sextus» disse Harrow, incupendosi.
«Aspetta, aspetta» si intromise Gideon, incuriosita. «Gli leggerai
la mente?»
«No» dissero entrambi i necromanti all’istante. Poi Palamedes ag-
giunse: «Be’, tecnicamente sì, più o meno.»
«No» disse Harrow. «Ti ricorderai la prova del costrutto, Nav. Non
CINQUECENTO IN CINQUANTA
È FINITO!
383
Palamedes. Posò la mano sulla ferita. Infilò le dita nel buco senza nep-
pure fare una smorfia e le lasciò lì per qualche secondo. «Ed è stato
rimosso il… no, il rene c’è ancora. Cam, qua dentro c’era qualcosa.»
«Lente d’ingrandimento?»
«Non serve. Era di metallo… Camilla, è rimasto lì per un po’… la
carne ci si era richiusa attorno. È possibile che… cazzo!»
Gli occupanti della stanza sobbalzarono. Ma Palamedes non era
stato morsicato – solo nell’animo, forse. Fissava un punto remoto, con
un’espressione inorridita. Sembrava uno che avesse appena ricevuto
una fetta di torta al cioccolato e, dopo due bocconi, ci avesse trova-
to dentro mezzo ragno.
«Le mie tempistiche erano sbagliate» sussurrò, tra sé e sé. E poi, an-
cora più piano: «Nonagesimus. Le mie tempistiche erano sbagliate».
«Con parole tue, Sextus.»
«Perché non ho esaminato Abigail prima…? La Quinta è scesa giù
nel complesso… devono aver portato a termine una prova. La sera
della cena. Pent non era fessa. Sono stati colti di sorpresa in cima alla
scala, mentre se ne andavano. C’era qualcosa, nascosto dentro di lei,
in modo da non essere individuato… Dio solo sa perché l’ha fatto, o
perché chiunque altro l’abbia fatto… otto centimetri di lunghezza,
metallo, fusto, denti…»
«Una chiave» disse Silas.
«Ma è una follia» commentò Gideon.
«Qualcuno voleva assolutamente nascondere quella chiave… forse
proprio Lady Pent» disse Palamedes. Finalmente, ritirò la mano dalle
sue interiora e andò a sciacquarsela al lavandino, cosa che a Gideon
parve assai civile. «O forse è stata la persona che l’ha uccisa. C’è una
stanza in cui hanno cercato in ogni modo di non farci entrare. Octa-
kiseron, non si tratta di una profanazione gratuita, qualcuno stava
aprendo un forziere.»
Silas disse, calmo: «Quelle stanze valgono davvero un peccato così
grave?».
Harrow lo squadrò.
«Vi siete impadronito delle due chiavi della Settima Casa» lo apo-
strofò, «ne avete conquistata una completando una prova e non vi
siete preso neanche la briga di aprire le porte?»
«Ho conquistato la prima chiave per capire con che cosa doveva-
387
CI HAI MENTITO
che poi è un po’ la mia virtù e la mia rovina. Detesto essere così bra-
va nel mio lavoro… ma tu, Nona, tu te ne sei accorta, vero? Piccolo
goblin schifoso. Un pochino, almeno?»
Lo schifoso piccolo goblin della Nona la fissò, serrando le labbra.
Si era scostata da Gideon per gravitare verso la lastra del teorema e,
senza la minima vergogna, si era messa ad analizzarlo.
«Sapevi del cadavere illusorio» disse Harrow. «Sapevi quanto fos-
se impossibile.»
«See-ee-e. Sapevo che il trasferimento energetico non quadrava.
Nessuna delle firme thanergiche di questo edificio quadra… ma poi
mi sono resa conto di quello che volevano farci capire. Quello che gli
antichi Littori stavano cercando di dirci. Vedete, il mio campo è sem-
pre stato quello del trasferimento energetico… trasferimenti energe-
tici su vasta scala. Teoria della resurrezione. Ho studiato quello che è
successo quando il Signore, il nostro Dio Misericordioso, ha preso le
nostre Case morte e morenti e le ha riportate in vita, anni e anni fa…
il prezzo che avrebbe dovuto pagare. Quale contrappasso, l’anima di
un pianeta? Cosa succede quando muore un pianeta?»
«Sei un’occultista» disse Palamedes. «Sei una maga liminale. Cre-
devo fossi un’animafiliaca.»
«Quello è solo per fare scena» disse Ianthe. «Quel che mi interes-
sa è lo spazio tra la vita e la morte… lo spazio tra liberazione e oblio.
Quello che c’è dall’altra parte del fiume. La dislocazione… dove va a
finire l’anima quando la sballottiamo… dove dimorano le cose che ci
divorano.»
Harrow disse: «Lo fai sembrare molto più interessante di quel che è».
«Ma piantala, tu con le tue ossa» disse Ianthe. Tossì e rise ancora,
nervosa. Chiuse gli occhi e lasciò cascare all’improvviso la testa all’in-
dietro. Quando li riaprì, pupilla e iride erano scomparsi, lasciando
solo il terrificante bianco del bulbo oculare. Sussultarono tutti quan-
do Ianthe urlò. Serrò le palpebre e scosse il capo, come un sonaglio, e
quando le riaprì aveva il fiatone per lo sforzo, come se avesse appena
fatto una gara di corsa. Gideon rimase lì a bocca spalancata.
Gli occhi, nessuno dei due, erano più del loro colore originale. Sia
la pupilla che l’iride erano una mescolanza di marrone, violetto e az-
zurro. Ianthe chiuse gli occhi per la terza volta e, quando le ciglia
pallide si schiusero, erano tornati entrambi al loro insipido ametista.
ne ubriaca del capo di cui aveva sofferto anche prima. Quando si in-
debolì, Colum approfittò del vantaggio. Lei si riscosse, ma lui alzò il
piede e le scalciò via di mano la spada che andò a sbattere contro la
parete, dove aveva sostato in precedenza Palamedes, e cascò lì con
un tintinnio miserabile, ormai fuori dalla portata di Ianthe. Colum
sollevò l’arma.
La Principessa della Terza Casa portò una mano alla bocca; stac-
cò un pezzo di carne dal palmo e glielo sputò, come un missile. Ian-
the sparì sotto a una tenda rigonfia e untuosa – cellulosa, carnosa,
rivestita lungo tutta la superficie da bolle di un giallo neon dalla sot-
tile patina rosata. Colum rimbalzò contro quella roba come se si fos-
se schiantato contro un muro di mattoni. Finì a culo all’aria, rotolan-
do, riuscendo a puntellarsi e a rimettersi in piedi solo all’ultimo. Si
rimise in posizione, col fiato grosso. Dove prima c’era una necroman-
te, ora c’era una cupola semitrasparente di pelle e grasso sottocuta-
neo: uno spettacolo assurdo. Senza il minimo ribrezzo, Colum caricò
di nuovo, colpendola con lo scudo e producendo un orrendo squirk
umidiccio. Era gommosa: gli rimbalzò contro. Le sferrò un potentis-
simo fendente con la spada, dall’alto verso il basso: la bolla di carne
si strappò e sanguinò, ma non cedette.
Gideon portò la mano alla spada, pronta a sguainarla, e si infilò il
guanto. Delle dita sottili le strinsero il polso. Quando si voltò, Har-
row era lì, con le labbra contratte.
«Non ti avvicinare» le disse. «Non la toccare. Non sognarti nem-
meno di toccarla.»
Gideon si guardò attorno in cerca della Sesta Casa: trovò solo Ca-
milla, le spade nel fodero, il viso impassibile. I presenti erano inten-
ti a osservare con un certo imbarazzo, trattenendo silenziosi il fia-
to mentre Colum girava intorno a quel ripugnante scudo di carne,
colpendolo di taglio per testarne la resistenza e affondandoci den-
tro la lama con foga, sbuffando quando la pelle non cedeva. Poi Si-
las chiuse gli occhi e proclamò, sereno: «Sta al necromante combat-
tere il necromante».
Colum sollevò il braccio per sferrare uno splendido colpo diago-
nale, poi si bloccò come se l’avessero punto. Si ritirò, tenendo la spa-
da e il piccolo scudo pronti, e digrignò i denti. Ora Gideon sapeva
che cosa significava farsi risucchiare e avrebbe giurato su Dio di po-
402
«Ma lei… lei non l’ha mai nemmeno nominato» disse stupidamente.
«No» disse Camilla.
«Ma lei… voglio dire, ho passato parecchio tempo con lei e…»
«Sì» fece Camilla.
«Oddio» disse Gideon. «E lui è stato così gentile. Oh mio Dio. Ma
perché cazzo non mi ha detto niente? Io non… cioè, io non ho mai
davvero… voglio dire, lei e io non…»
«Le ha chiesto di sposarlo un anno fa» disse Camilla, spietata, ora
che qualche argine era crollato, «in modo che potesse trascorrere il
tempo che le restava insieme a qualcuno che avesse a cuore il suo be-
nessere. Lei ha rifiutato, ma non perché lui non le piacesse. Non che
le Regole Imperiali che governano i matrimoni fra necromanti al di
fuori delle loro Case si fossero allentate, poi. Dopodiché, le lettere si
sono diradate. E quando è arrivato qua, lei l’aveva ormai superata. Mi
ha detto che era contento di vederla passare del tempo con qualcu-
no che la facesse ridere.»
Quel giorno erano morte cinque persone; era strano constatare
quanto le piccole cose si ingigantissero, al confronto. La tragedia ave-
va saturato le ossa in via di fossilizzazione e i cuori statici della Casa
di Canaan, ma c’era anche una tragedia più profonda nei fili imper-
fetti che sorreggevano le loro vite. Un bambino di otto anni che scri-
veva lettere d’amore a un’adolescente malata terminale. Una ragazza
che si innamorava dello splendido cadavere che avrebbe dovuto sor-
vegliare, essendo stata concepita per quell’unico scopo. Una trova-
tella che inseguiva l’approvazione di una Casa indispettita dalla sua
immunità a un gas ammazza-orfanelli.
Gideon si coricò sul pavimento, a faccia in giù, e si fece venire una
crisi isterica.
La sua necromante stava commentando: «Ma non ha alcun senso».
«Zero» disse Camilla, grave, «ma va così da quando conosco
entrambi.»
«No» disse Harrow. «Quel che intendo è che Dulcinea Septimus
mi ha parlato due volte di Palamedes Sextus, ma come se fosse un
estraneo. Mi ha detto che non lo conosceva affatto, dopo che aveva
respinto la sua proposta per la prova di sifonaggio.»
Gideon, sempre a faccia in giù sul pavimento polveroso, mugolò:
«Voglio morire».
sti… quindi tendi a voler prendere sul serio i sentimenti degli altri, al
contrario di come vengono considerati i tuoi.»
Palamedes disse: «Ci sono due cose che voglio sapere».
«Anche più di due, se vuoi. Ho tutta la giornata libera.»
«Non me ne servono più di due» fece lui, calmo. «La prima è: per-
ché la Quinta?»
Ci fu una pausa perplessa. «La Quinta?»
«La Nona e l’Ottava casa rappresentavano un pericolo ben più pa-
lese e imminente» disse lui. «La Nona per la manifesta abilità di Har-
row, l’Ottava per la facilità con cui avrebbero potuto smascherarti: un
qualsiasi passo falso avrebbe fatto capire a un necromante dell’Ot-
tava che non eri chi dicevi di essere. Per accertarsene gli sarebbe ba-
stato sifonarti. Continuo ancora a domandarmi perché io sono anco-
ra in piedi… se mi è concessa quest’arroganza. Ma è stata la Quinta
Casa a spaventarti.»
«Io non…»
«Non mentirmi, per favore.»
Dulcinea disse: «Non ho mai mentito, a nessuno di voi».
«Allora… perché?»
Un minuscolo sospiro svolazzante, come una farfalla che si posa.
Gideon la sentì dire: «Be’, pensaci bene. Abigail Pent era esperta nel
conversare con i morti. Non va bene. Non è insormontabile, ma è un
problema. Ma per quanto ciò rappresentasse un fattore, non era la
vera motivazione… per lei era un hobby».
«Un hobby?»
«Non pensavo che a nessuno importasse qualcosa del passato più
remoto… ma Pent nutriva un malsano interesse per la storia. Era in-
teressatissima a tutte le anticaglie che stava scoprendo in bibliote-
ca, nelle stanze. Lettere, appunti… fotografie… l’archeologia di una
vita umana.»
«Abigail Pent sarà anche stata una necromante, ma era anche una
storica… celebre, oserei aggiungere. Non hai fatto i compiti.»
«Oh, mi sto flagellando, credimi. Avrei dovuto ripulire questo posto,
prima di ogni altra cosa. Ma mi sono lasciata prendere dalla nostalgia.»
«Capisco.»
«Diamine, sono felice che tu non l’abbia fatto. Non ho compreso la
tua padronanza dell’anima dell’oggetto. Psicometria della Sesta.» Ci
che accadesse… non così, in ogni caso. Poi lei e io abbiamo discusso…
siamo molto simili. Non solo nell’aspetto, anche se nel nostro caso
era vero… occhi a parte, la Settima Casa è tremendamente prevedi-
bile in fatto di apparenze… ma la nostra malattia… era molto mala-
ta, malata quanto me, quando sono arrivata qui la prima volta. Forse
sarebbe riuscita a sopravvivere nelle settimane iniziali della sua per-
manenza, Sextus, o forse no.»
Lui commentò: «Allora tutta la storia di Protesilaus e della Setti-
ma Casa era una bugia».
«Non mi stai ascoltando. Non ho mai mentito» disse la voce. «Ho
detto che si trattava di un’ipotesi, e tutti vi siete detti d’accordo.»
«Sottigliezze semantiche.»
«Avresti dovuto fare più attenzione. Ma non ho mai mentito. Ven-
go davvero dalla Settima Casa… ed è stato un incidente. Comunque
lei e io abbiamo parlato. Era una personcina dolcissima. Avrei dav-
vero voluto fare qualcosa per lei… e dopo l’ho custodita il più a lun-
go possibile… finché qualcuno non ha eliminato il mio paladino. A
quel punto sono stata costretta a sbarazzarmi di lei, alla svelta… la
fornace era l’unica opzione. Non guardarmi così. Non sono un mo-
stro. Septimus era già morta, quando la navetta è atterrata a Cana-
an… non ha nemmeno sofferto.»
Ci fu una pausa molto lunga. Il tono di Palamedes non tradì nulla
quando disse: «Be’, è già qualcosa, almeno. Ora toccherà a tutti noi,
immagino».
«Sì, ma la questione non ha mai riguardato nessuno di voi» dis-
se la donna nella stanza insieme a lui. «Non personalmente. Sape-
vo che, se fossi riuscita a rovinare i suoi piani per i Littori, ucciden-
do gli eredi e i paladini di tutte e otto le altre Case, l’avrei costretto a
fare ritorno nel sistema, ma in una maniera sufficientemente sotti-
le da non spingerlo a portare con sé i consiglieri restanti. Se mi fossi
presentata ad armi spianate, lui sarebbe arrivato in assetto da guer-
ra e avrebbe spedito i Littori a sbrigare il lavoro sporco, come sem-
pre. In questo modo lo attirerò sulle basi di una falsa sensazione di…
semi-sicurezza, immagino. E non si prenderà nemmeno la briga di
varcare il confine del feudo di Dominicus. Si piazzerà lì bello como-
do, fuori dal sistema, tentando di scoprire che cosa sta succedendo,
proprio dove ho bisogno che stia. Darò al Re Imperituro, al Necrore
non troppo preoccupata. «Oh, ci vorrà ben più di questo. Sai cosa
sono… e sai cosa sono in grado di fare.»
«Sì» disse Palamedes. «E so anche che devi aver studiato la fis-
sione thanergica radicale, quindi avrai ben presente che cosa succe-
de quando un necromante disperde la sua intera riserva di thanergia
molto, molto in fretta.»
«Che cosa?» disse la donna.
Lui alzò la voce: «Gideon!» esclamò. «Di’ a Camilla…»
Si bloccò.
«Oh, non importa. Sa già che cosa fare.»
La camera dell’inferma esplose in una palla di fuoco bianca, e i
vincoli che immobilizzavano Gideon si spezzarono. Andò a sbatte-
re violentemente contro il muro e piroettò, come un’ubriaca, pri-
ma di essere scagliata giù per il corridoio mentre Palamedes Sex-
tus inceneriva tutto. Non c’era calore, ma Gideon si allontanò come
un fulmine da quella morte gelida e bianca senza lanciare nemme-
no un’occhiata alle sue spalle, come se le fiamme le stessero già di-
vorando i talloni. Ci fu un altro immane CRRR-RRR-RRRAC e un
boom. Il soffitto tremò, facendole precipitare sulla testa una casca-
ta di polvere d’intonaco mentre si buttava contro a una porta. Cor-
se a perdifiato giù per i lunghi corridoi, superando antichi ritratti
e statue sbriciolate, il tesoro custodito dalla tomba che era la Casa
di Canaan, gli ingranaggi di quella merdosa macchina fragile che si
sgretolavano mentre Palamedes Sextus si trasformava in una stella
sterminatrice di dèi.
Gideon cadde in ginocchio nell’atrio, davanti alla fontana prosciu-
gata con il suo scheletro arido e i suoi asciugamani umidicci. Appog-
giò la fronte sul bordo di marmo della fontana, scavandosi un solco
nella pelle, senza smettere di ascoltare il rombo della distruzione die-
tro di lei. Si schiacciò contro il bordo, come se il mero contatto con
una superficie potesse darle la possibilità di scendere dalla giostra. Per
quanto tempo restò lì – per quanto tempo ci si appoggiò, per quanto
rimase raggomitolata – non riuscì a capirlo. Aveva la bocca irrigidita
dalla voglia di piangere, ma gli occhi le rimasero asciutti come il sale.
Anni dopo – molte vite dopo – individuò del movimento sulla so-
glia dell’atrio che aveva superato di gran carriera. Gideon girò il capo.
Del vapore bianco si riversò fuori dall’apertura. In mezzo alla fo-
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riaceo. Gli scheletri vennero proiettati per aria come macabre bam-
bole di pezza e frammenti d’osso rimbalzarono su ogni superficie.
Cytherea la Prima riemerse da quel bordello tossendosi sul dorso del-
la mano, un po’ sgualcita ma del tutto illesa.
Dal buco uscì una lunga zampa eccessivamente articolata, poi un’al-
tra. E un’altra. Un traforo d’ossa, una rete, un ricamo – lunghi tenta-
coli di denti, un corpo fatto a nido, un costrutto così grosso da ridur-
re le budella di chiunque in una borsa frigo. L’immane costrutto che
aveva ucciso Isaac Tettares riempì lo spazio alle spalle della sua pa-
drona, stiracchiandosi ed espandendosi, polverizzando una parete e
una scalinata mentre sorgeva. Il tuo testone osseo oscillava e incom-
beva sopra di loro come una maschera, con le sue ripugnanti labbra
sbozzate e gli occhi chiusi.
Ora, però, quella retriva apparizione si trovava al cospetto della
sua naturale predatrice, la Reverenda Figlia della Nona Casa. Men-
tre ulteriori scheletri si dimenavano e ascendevano, arrampicandosi
sui commilitoni caduti, Gideon si alzò, si ripulì e trovò Harrow ferma
davanti al costrutto in una pozza di pulviscolo osseo, con lo sguar-
do fiammeggiante e una punta di gioiosa anticipazione. Senza nean-
che pensarci, il proprio corpo la portò nella posizione predestinata:
di fronte alla sua necromante, la spada sguainata.
«È stato quell’affare a uccidere Isaac» disse Gideon, concitata. L’im-
menso costrutto stava ancora cercando di tirar fuori una zampa dal
pavimento, il che sarebbe pure potuto risultare comico se non fosse
stato così tremendo.
«Sextus…?»
«Morto.»
Harrow increspò brevemente le labra. «Un necromante non può
abbattere quella cosa da solo, Griddle. È osso rigenerante.»
«Io non scappo, Harrow?»
«Ma certo che non scapperemo» disse Harrowhark sprezzante.
«Un necromante da solo, ho detto. Io ho te. Scateneremo l’inferno.»
«Harrow, Dulcinea è un Littore, uno vero…»
«Allora siamo spacciate, Nav, ma prima scateneremo l’inferno» dis-
se Harrow. Gideon le lanciò un’occhiata da sopra la spalla, e vide il
sorriso della Reverenda Figlia. Del sudore sanguigno le colava dall’o-
recchio sinistro, ma il suo sorriso era persistente, dolce e bellissimo.
Gideon si ritrovò a ricambiarlo con una forza tale da sentir male alla
mascella.
La sua adepta le disse: «Te lo terrò alla larga. Nav, mostra a tutti
cosa sa fare la Nona Casa».
Gideon alzò la spada. Il costrutto si divincolò dalle ultime barriere
di muratura e legno marcio che lo intrappolavano e si parò di fronte
a loro, flettendosi come una farfalla.
«Le ossa sono la nostra specialità, figlio di troia» disse.
Le sue braccia erano di nuovo complete. La sua compagna più ama-
ta e vera – la sua spada a due mani, semplice, disadorna e perfetta –
frantumò tentacoli e denti come un martello pneumatico. Filamenti
d’osso urticanti incontrarono la sua lama, disintegrandosi in vapo-
re grigiastro mentre lei difendeva la sua posizione e li demoliva con
gli ampi fendenti arcuati del buon vecchio acciaio della Nona Casa.
Con Harrow lì, tutto era diventato improvvisamente facile, e il suo
orrore del mostro si tramutò in una feroce gioia vendicativa. Lunghi
anni di conflitto avevano lasciato a entrambe la consapevolezza di
ogni mossa dell’altra – ogni parabola descritta dalla spada, ogni sca-
pola fremente. Nessuna breccia nelle reciproche difese sarebbe rima-
sta sguarnita. Non avevano mai combattuto fianco a fianco, ma ave-
vano sempre combattuto, e potevano lavorare insieme o compensarsi
senza doverci pensare neanche un istante.
Gideon fece pressione per guadagnare terreno. Si aprì un varco, un
passo cauto dopo l’altro, verso il centro del costrutto. Un tentacolo le
saettò verso la gamba; lo mozzò con una rasoiata discendente e schivò,
danzando, una frustata rigida di molari che le mirava dritta al cuore.
Dietro di lei, fu Harrow a occuparsene: il tentacolo tremolò, riducen-
dosi ai suoi elementi fondamentali, poi diventò una polvere di den-
ti che si depositò in una colla che appiccicava fra loro i filamenti fre-
menti – più si dibattevano per liberarsi, più si spezzavano. Quel che
sfuggiva a Harrow veniva abbattuto da Gideon. Si avventò sugli acu-
lei accecata dalla furia, nella repentina convinzione che se continuava
a colpire, a colpire e a colpire – con abbastanza precisione, abbastan-
za forza e abbastanza perizia – sarebbe riuscita a riscrivere il tem-
po, a salvare Isaac e Jeannemary, a salvare Abigail, a salvare Magnus.
Ma le dimensioni di quell’affare sfidavano ogni comprensione, e cia-
scun colpo creava altre schegge. Harrow stava provvedendo, in qual-
che modo le stava facendo scudo; l’aria era una grandine di particelle
affilate che avrebbero dovuto sbrindellarle la pelle, ma nessuna, all’ap-
parenza, sembrava raggiungerla. Ciononostante, quella nebbia di tru-
cioli pungenti e rimbalzanti rendeva difficile vedere il bersaglio. Con
la coda dell’occhio, scorse Camilla che sfrecciava in una tempesta di
denti, spine e bargigli ossei con entrambi i pugnali incrociati sul pet-
to – ma poi la perse di vista e Camilla svanì.
Gideon si fece faticosamente strada in un velame di friabili spunto-
ni ossei. Ora erano sotto alla massa principale del costrutto. Altri sei
scheletri presero vita e formarono un perimetro – erano pilastri pri-
vi di gambe, conficcati nel pavimento, con le grosse braccia corazza-
te e le spalle nodose del costrutto nella stanza di Risposta. Afferraro-
no lunghe porzioni dei filamenti del costrutto e, nello spazio protetto
alle loro spalle, Harrow intrecciò le dita e le ripiegò, sfilandosi falan-
gi dalle maniche e appallottolando quei mozziconi tremolanti tra le
mani, come fossero creta. Gideon era occupata a recidere i tentacoli
avventurosi che erano riusciti a superare la loro barriera di scheletri
e strisciavano verso la sua necromante, e si era accorta solo di sfug-
gita dell’esile rosario di nocche che Harrow si stava arrotolando at-
torno al braccio. Poi Harrow lo scagliò verso l’alto come una frusta
mandandolo a conficcarsi proprio nella parte mediana del mostro,
dove si piantò in profondità.
Gridò a Gideon: «Al riparo!».
Due degli scheletri-pilastro, che ancora stringevano degli ammas-
si di ossa aggrovigliate, si piegarono per creare un passaggio. Gideon
si tirò giù il cappuccio per proteggere la pelle nuda del viso mentre si
infilava nel pertugio e barcollava dall’altra parte, lontana da quell’in-
cubo di fibule e tibie scheggiate. Ma prima ancora che potesse rigua-
dagnare completamente l’equilibrio, Cytherea la Prima uscì dal suo
nascondiglio e le piombò addosso.
Era di una bellezza straordinaria e assolutamente terrificante: inte-
gra, illesa, intoccata da tutto quello che le era capitato. Le ferite provo-
cate dall’ultimo incantesimo di Palamedes sembravano essere scom-
parse, come se non fossero mai esistite. Era come se non fosse neanche
fatta di carne. Un ricordo balenò nel suo stordimento adrenalinico:
“Ho l’aspetto di una che ha raggiunto il picco del suo regale potere?”.
Lo stocco della Littrice guizzò come una zanna, come un nastro.
Gideon spazzò via quello stupido affarino del cazzo con il suo spado-
ne e sfruttò la forza cinetica per un fendente alto. Cytherea sollevò la
mano libera, afferrò la pesante lama e la bloccò lì. Un minuscolo ri-
gagnolo scarlatto le scorreva giù dall’attaccatura del pollice lungo il
polso esile. Alle loro spalle, il costrutto tremò, ondeggiò e si dimenò,
cercando di resistere a chissà che diavolo gli stava facendo Harrow, e
Cytherea guardò Gideon dritto negli occhi.
«Sul serio» le disse, con calore. «Sei stata magnifica. Saresti stata una
paladina coi fiocchi per la tua suorina… ti avrei quasi voluta per me.»
«Col cazzo che ti potevi permettere una come me» disse Gideon.
Fece un passo indietro e strattonò la spada tirando verso l’alto
anche il braccio di Cytherea, si riaccostò fulminea e falciò le gam-
be della Littrice con un calcio. Cytherea perse l’appoggio e stra-
mazzò sui detriti ossei disseminati sul pavimento dell’atrio. Tossì
e strizzò l’occhio a Gideon, mentre le ossa sparpagliate si solleva-
vano e si richiudevano attorno a lei come un’onda, facendola spa-
rire alla sua vista.
Dall’alto arrivò un tremendo lamento smorzato – un muggito a
bocca chiusa. Il costrutto stava ululando. Cercò di avanzare, ma ogni
suo movimento veniva continuamente bloccato a metà strada, come
se fosse inchiodato per terra. I tentacoli si dimenavano sul terreno,
schiaffeggiandolo e sollevando nubi rigonfie di poltiglia di legno e
frammenti di tappeto. La cosa si diede un’ultima spinta piena di fru-
strazione e perse l’equilibrio, rovinando sul pavimento proprio nel
punto in cui si era trovata la sua necromante. La fontana si frantumò
sotto al suo peso con un baccano agonizzante. Gideon aveva il cuore
in gola: ma eccola là, una polverosa sagoma nera emerse dal disastro,
le corde di denti che aveva usato per strattonare a terra la creatura
avvolgevano i polsi di Harrow e un manipolo di scheletri schiaffeg-
giavano i tentacoli per tenerglieli alla larga.
Gideon avanzò alla cieca verso di lei, lottando per aprirsi un var-
co, mozzando filamenti e catene di ossa strascicate. Il costrutto con-
tinuava ad accanirsi su Harrow, le zampe che mulinavano per trova-
re un punto d’appoggio mentre il pavimento rimbombava e tremava
sotto al suo peso, becchi d’osso affilati che si abbattevano sulla sua
adepta. Harrow fu costretta a scindere la sua attenzione, da una par-
te lo respingeva e dall’altra teneva in pugno le redini che schiacciava-
* * *
vano su di loro. Gideon era ferma dietro a una cancellata di ferro che,
un tempo, doveva aver protetto un confine erbaceo, anche se i suoi
spuntoni piegati e curvi non servivano più a niente ormai – al massimo
ti ci potevi buttare sopra per uscire di scena con un ultimo vaffanculo.
Camilla era rintanata in un angolo, anche se ora era di nuovo in pie-
di – probabilmente il suo ultimo vaffanculo era quello – ma il braccio
ferito penzolava, inutile. Aveva perso tantissimo sangue. Il suo viso
aveva assunto una pallida sfumatura olivastra.
«Nona» disse la Sesta, impaziente. «Vattene da qui. Prendi la tua
necromante. Vai.»
«Col cazzo» disse Gideon. «Comincia il secondo round.» Ci pensò
su. «Aspetta. O è il terzo? Continuo a perdere il conto.»
Cytherea la Prima si stava scrollando via le macchie di sangue dal
vestito improvvisato, il sangue veniva assorbito dalle sue dita come
se obbedisse al mero tocco dei polpastrelli. Volteggiò leggiadra nel-
la loro porzione di cortile e rivolse a Gideon un sorriso da Dulcinea:
fossette, sguardo acceso, come se solo loro due fossero al corrente di
qualcosa di super splendido che nessun altro sapeva.
«Eccolo lì, lo spadone» commentò ammirata.
«Vuoi dargli un occhio più da vicino?» ribatté Gideon.
La Littrice piegò il braccio dietro la schiena, languida; si mise in
posizione, col peso sul piede posteriore, la spada splendente in pu-
gno – virava al verde, come l’acqua stagnante o le perle. «Non puoi
farcela, Gideon della Nona, lo sai anche tu» disse. «Sei molto corag-
giosa… un po’ come un’altra Gideon che conoscevo. Ma tu hai gli oc-
chi più belli.»
«Verrò anche dalla Nona Casa» disse Gideon, «ma se non la pian-
ti di dirmi queste merdate criptiche, scoprirai quanto riesci a rigene-
rarti se ti taglio in diciotto pezzi.»
«Invoca pietà» disse Cytherea. La fossetta era ancora lì. «Per favo-
re. Non sai nemmeno quello che rappresenti per me… non morirai
qui, Gideon. E se mi chiedi di lasciarti vivere, forse non dovrai mori-
re affatto. Ti ho già risparmiata prima.»
Qualcosa le si accese nelle profondità della gabbia toracica.
«Jeannemary Chatur non ha implorato pietà. Magnus non ha chie-
sto pietà. O Isaac. O Abigail. Scommetto che Palamedes non ha nem-
meno preso in considerazione la possibilità di implorare pietà.»
poggiata di piatto sulla spalla buona. Altri due giganti morti si stava-
no già ricomponendo. Harrow non se lo poteva permettere, pensò
debolmente; Harrow non lo poteva proprio sostenere.
«Impari in fretta!» esclamò la Littrice, e sembrava sinceramente
ammirata. «Ma temo tu abbia ancora molta strada da fare.»
Cytherea artigliò le dita verso il mastodontico squarcio nel fianco
della torre. Dall’interno arrivò un grido, seguito dal tremendo frago-
re di qualcosa di spezzato, strappato, frantumato. Quando l’orrido
costrutto dalle molte gambe eruppe dalla breccia, non era grosso e
pieno di gambe come prima. Si era squarciato per liberarsi dai cep-
pi di Harrow e, nel farlo, si era lasciato alle spalle quasi tutto se stes-
so. Non era che l’ombra miserabile della sua mole originaria. In con-
fronto a qualcosa di normale, però, restava un orrore di moncherini
vorticanti e tentacoli, che si stavano allungando e inspessendo, ri-
crescendo davanti ai loro occhi. Era stato immobilizzato e ora era
dimezzato, ma poteva comunque rigenerarsi. La gigantesca faccia
inespressiva splendeva bianca alla luce del pomeriggio – in equili-
brio precario su un tronco troppo piccolo per la maschera che por-
tava – e strisciò fuori, con i vetri rotti che gli precipitavano lungo i
fianchi come gocce d’acqua. Depositò il corpo menomato sulla ter-
razza come una palla di radici bianche, ondeggiando su due zampe,
un ragno sbocconcellato.
Non era giusto. Cytherea aveva avuto ragione, sin da principio: non
c’era niente che potessero fare. Persino mezzo distrutto, i tentacoli
setolosi e i bargigli si innalzavano a centinaia verso il cielo. Barcollò
e si orientò nella loro direzione – e non c’era un posto dove rifugiar-
si, non lo potevano schivare, non potevano scappare.
La Littrice disse: «Nessuna di voi ha imparato come morire con
grazia… io l’ho imparato più di diecimila anni fa».
«Io non ho ancora finito» disse la necromante di Gideon mezza
morta.
Harrow giunse le mani. L’ultima cosa che Gideon vide furono i fram-
menti dei suoi servitori eterni che rimbalzavano verso di loro, saltel-
lando a mezz’aria e sulle lastre di pietra, formando un guscio duro
sopra lei, Camilla e Harrow, mentre tutti quei tentacoli le assaliva-
no all’unisono. Il rumore era assordante: WHAM-WHAM-WHAM-
WHAMWHAMWHAMWHAMWHAMWHAMWHAM, finché
«Zero.»
Harrow la ignorò. «… ma non dovrete fare altro che sopravvivere
alla caduta. Sappiamo che hanno chiamato le navi. Vattene dal pia-
neta più presto che puoi. Io la distrarrò il più a lungo possibile: non
devi fare altro che restare viva.»
«Harrow» fece Gideon. «È un piano stupido e sei stupida anche
tu. No.»
La Reverenda Figlia allungò la mano e afferrò Gideon per la cami-
cia. Aveva gli occhi bui e velati dal dolore e dalla nausea; odorava di
sudore, di paura e di tipo nove tonnellate di ossa. Si asciugò di nuo-
vo la faccia con la manica e disse: «Griddle, mi hai fatto una promes-
sa. Hai accettato di tornare alla Nona. Hai accettato di fare il tuo do-
vere per il Sepolcro Sigillato…».
«Non farmi questo.»
«Ti devo la tua vita» disse Harrowhark. «Ti devo tutto.»
Harrow le lasciò la camicia e si afflosciò sul pavimento. La pit-
tura era completamente scomparsa. Tirava su col naso e i copiosi
rivoletti di sangue che le scendevano dalle narici le andavano con-
tinuamente di traverso. Gideon sistemò la testa fradicia e scura in
modo che la sua necromante non crepasse anzitempo, soffocando
nel suo stesso muco sanguinolento, e cercò disperatamente di esco-
gitare un piano.
WHAM. Uno dei tentacoli crepò lo scudo: la luce del giorno filtrò
dall’esterno. Alla luce, Harrow aveva un aspetto addirittura peggiore.
Camilla disse, sicura: «Fatemi uscire. Posso distrarlo».
«Piantala una buona volta, Hect» disse Gideon, senza distogliere
lo sguardo dalla sua necromante – pareva dolorosamente serena, an-
che se le sanguinavano persino le sopracciglia. «Non ho intenzione
di farmi perseguitare dal culo marcio di Palamedes Sextus redivivo.
Mi racconterebbe roba medica per il resto della vita, solo perché ho
permesso che ti disintegrassero.»
«L’altro piano non funzionerà» disse Camilla, assennata. «Se po-
tessimo tenerla a bada e aspettare a riva, sì. Ma non possiamo.»
Harrow sospirò, stirandosi sul pavimento.
«Allora la distrarremo il più a lungo possibile» disse.
La crepa si ricucì con una lentezza penosa e tremebonda. Harrow
scoprì i denti per lo sforzo. Sprofondarono nuovamente nell’oscuri-
«Gideon la Nona, primo fiore della mia Casa» disse roca, «sei la
più valorosa paladina che mai siamo riusciti a produrre. Sei il no-
stro trionfo. La migliore fra tutti noi. È stato un onore essere la tua
necromante.»
Le bastava. Gideon la Nona si alzò in piedi così in fretta che per
poco non diede una craniata al soffitto dello scudo osseo. Il suo brac-
cio si lamentò forte e chiaro; lo ignorò. Si mise a fare avanti e indietro
– Harrow la osservava con solo un’ombra di preoccupazione – stu-
diando lo spazio angusto in cui erano confinate. Le foglie morte. Le
lastre di pietra spaccate. Camilla… Camilla ricambiò il suo sguardo,
ma tornò presto a dedicarsi ad altro. Non poteva fare una cosa del
genere a Camilla. Gli sbuffi polverosi di ossa alla deriva. Gli spunto-
ni di ferro della cancellata.
«Ma sì, vaffanculo» disse. «Vi tiro fuori da qui.»
«Griddle…»
Gideon zoppicò fino alle aiuole polverose. WHAM-WHAM-
WHAM… Non aveva molto tempo, ma in ogni caso avrebbe avuto a
disposizione un’unica possibilità. Si liberò a fatica della mantella nera
e pensò anche di levarsi la camicia, in un attacco di panico menta-
le, ma decise che non ce n’era bisogno. Si sfilò i guanti dai palmi ba-
gnati e arrossati e si arrotolò le maniche, senza motivo, a parte il te-
nere occupate le mani tremanti. Cercò di dare alla sua voce il tono
più calmo possibile: in un certo senso, era calma. Non era mai stata
così calma in vita sua. Era solo il suo corpo ad avere paura.
«Va bene» disse. «Adesso capisco. Capisco davvero, sul serio,
completamente.»
Harrowhark si era puntellata sui gomiti e la osservava, gli occhi
neri opachi e morbidi. «Nav» le disse Harrow, con una dolcezza che
non le aveva mai sentito esternare. «Non riuscirò a resistere anco-
ra per molto.»
WHAM-WHAM-WHAM!
«Non so come tu stia facendo a resistere neanche adesso» disse Gi-
deon, arretrando. Lanciò un’occhiata nella direzione verso cui stava
arretrando e poi tornò a soffermarsi sulla sua necromante.
Inspirò, tremula. Harrow la stava squadrando con una delle sue clas-
siche espressioni di vago compatimento nonagesimusiano, come se
Gideon avesse finalmente perso il controllo delle sue facoltà e stesse
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* * *
Epilogo
Harrowhark Nonagesimus rinvenne in un can-
dido nido sterile. Era coricata su una barella, avvolta in una coperta
termica scricchiolante. Voltò il capo; vicino a lei c’era un oblò e, ol-
tre l’oblò, c’erano le nere profondità vellutate dello spazio. Stelle fred-
de splendevano in lontananza come diamanti, e le trovò molto belle.
Se fosse stato possibile morire di desolazione, sarebbe morta lì, sul
colpo: per come stavano le cose, non poteva fare altro che restare di-
stesa su quella lettiga a contemplare le macerie fumanti del suo cuore.
Le lampade erano state abbassate e creavano un irritante bagliore
rassicurante che riempiva la piccola stanza di una morbida radiosità
benevola. Rischiaravano la sua barella, le pareti bianche, le piastrel-
le bianche del pavimento di una pulizia dolorosa. La luce più inten-
sa della camera proveniva da un’alta lampada da lettura, piazzata
nell’angolo accanto a una sedia di metallo. Lì seduto c’era un uomo.
Sul bracciolo della sedia c’era un tablet e teneva fra le mani un bloc-
chetto di veline – di tanto in tanto lo scartabellava e prendeva qual-
che appunto. Portava abiti semplici. Aveva i capelli tagliati corti che,
alla luce, risultavano di un anonimo castano scuro.
L’uomo doveva essersi accorto del suo risveglio, perché sollevò lo
sguardo dalle veline e dal tablet per portarlo su di lei, mettendo tutto
da parte per alzarsi in piedi. Le si avvicinò, e vide che aveva le sclere
nere come lo spazio. Le iridi erano scure, di un’iridescenza plumbea
– una membrana oleosa, di una profonda sfumatura arcobaleno, cer-
chiata di bianco. Le pupille erano dello stesso nero lucente della sclera.
Harrow non seppe mai stabilire con precisione come fece a capi-
re chi era, lo sapeva e basta. Scostò la coperta termica scrocchiante
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Vorrei esprimere la mia più sentita riconoscenza alla mia agente, Jen-
nifer Jackson, sia per il suo entusiasmo che per l’indefesso lavoro a
beneficio di Gideon la Nona. Estendo i miei ringraziamenti anche al
mio incredibile editor, Carl Engle-Laird; non so da dove cominciare
per riassumere tutto quello che ha fatto per me e per questo roman-
zo. Posso solo dire che, se per me si è trattato di uno sforzo di auten-
tica passione, lui ha centuplicato sforzi e passione. Grazie per essere
stato un sostenitore della Sesta Casa fino alla fine, Carl.
Un ringraziamento speciale per lo staff di Tor.com: Irene Gal-
lo, Mordicai Knode, Katharine Duckett, Ruoxi Chen, e tutti gli altri
membri della squadra. Vi sono profondamente grata per il duro la-
voro e il sostegno durante il processo di editing e di pubblicazione.
Vorrei anche sottolineare il contributo di Lissa Harris, che mi
ha istruita sull’utilizzo dello stocco, della mano secondaria e del-
la Zweihänder per tutto il romanzo. Tutto quello che di buono, vero
e bello troverete qui sull’arte della spada è merito suo; ogni errore o
stupidaggine dipende da me, probabilmente perché ho ignorato i suoi
consigli. Le sono grata per la pazienza, l’arguzia e la conoscenza, ma
coglierei l’occasione per ricordarle che nell’insalata di patate non ci
vogliono le uova sode. In guardia.
Un grazie speciale anche a Clemency Pleming e Megan Smith, le
mie amiche e prime lettrici, il cui sostegno implica che io ora sia in
possesso di un grembiule da cucina con ricamato sopra il peggior
meme cancellato dal manoscritto. Il loro senso dell’umorismo e la
loro vicinanza mi hanno mantenuta sana di mente – in più, ora ho
un grembiule.
Sono anche grata agli eccellenti insegnanti che mi hanno seguita
alla Clarion nel 2010 e ci tengo a ringraziare in maniera particolare