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Traduzione di Francesca Crescentini

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© 2019 by Tamsyn Muir
This edition is published by arrangement with Donald Maass Literary Agency
and Donzelli Fietta Agency srls
Titolo originale dell’opera: Gideon the Ninth

© 2020 Mondadori Libri S.p.A., Milano

I edizione Oscar Fantastica ottobre 2020

ISBN 978-88-04-72363-9

Questo volume è stato stampato


presso ELCOGRAF S.p.A.
Stabilimento - Cles (TN)
Stampato in Italia. Printed in Italy

www.oscarmondadori.it

Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell’autore e hanno
lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive
o scomparse, è assolutamente casuale.

librimondadori.it

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dramatis personae
In ordine di apparizione delle Case

La Nona Casa
Custodi del Sepolcro Sigillato, Casa della Lingua Cucita,
le Vestali Nere
Harrowhark Nonagesimus  EREDE DELLA NONA CASA,
REVERENDA FIGLIA DEL DREARBURH

Pelleamena Novenarius  SUA MADRE, REVERENDA MADRE


DEL DREARBURH

Priamhark Noniusvianus  SUO PADRE, REVERENDO PADRE


DEL DREARBURH

Ortus Nigenad  PRIMO PALADINO DELL’EREDE


Crux  MARESCIALLO DELLA NONA CASA
Aiglamene  CAPITANA DELLA GUARDIA DELLA NONA
Sorella Lachrimorta  MONACA DEL SEPOLCRO SIGILLATO
Sorella Aisamorta  MONACA DEL SEPOLCRO SIGILLATO
Sorella Glaurica  MONACA DEL SEPOLCRO SIGILLATO
Svariati seguaci, fedeli e laici della Nona

ACT ONE e
Gideon Nav  SERVA DEBITRICE DELLA NONA CASA

La Prima Casa
Il Divino Necromante, Sovrano delle Nove Rigenerazioni,
il nostro Resurrettore, il Necrore Supremo
L’IMPERATORE
I SUOI LITTORI
E I CHIERICI DELLA CASA DI CANAAN

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ACT ONE
ACT ONE 8  /  DRAMATIS PERSONAE

La Seconda Casa
La Forza dell’Imperatore, Casa dello Scudo Cremisi,
la Dimora dei Centurioni
Judith Deuteros  EREDE DELLA SECONDA CASA,
CAPITANA DELLA COORTE

Marta Dyas  PRIMA PALADINA DELL’EREDE,


PRIMA LUOGOTENENTE DELLA COORTE

La Terza Casa
La Bocca dell’Imperatore, la Processione,
la Casa della Morte Splendente
Coronabeth Tridentarius  EREDE DELLA TERZA CASA,
PRINCIPESSA EREDITARIA DI IDA

Ianthe Tridentarius  EREDE DELLA TERZA CASA,


PRINCIPESSA DI IDA

Naberius Tern  PRIMO PALADINO DELLE EREDI,


PRINCIPE DI IDA

La Quarta Casa
La Speranza dell’Imperatore, la Spada dell’Imperatore
Isaac Tettares  EREDE DELLA QUARTA CASA, BARONE DI TISIS
Jeannemary Chatur  PRIMA PALADINA DELL’EREDE,
CAVALIERA DI TISIS

La Quinta Casa
Il Cuore dell’Imperatore, le Sentinelle del Fiume
Abigail Pent  EREDE DELLA QUINTA CASA,
SIGNORA DELLA CORTE DI KONIORTOS

Magnus Quinn  PRIMO PALADINO DELL’EREDE,


SINISCALCO DELLA CORTE DI KONIORTOS

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DRAMATIS PERSONAE / 9

La Sesta Casa
La Ragione dell’Imperatore, i Guardiani Superiori
Palamedes Sextus  EREDE DELLA SESTA CASA,
MASTRO GUARDIANO DELLA BIBLIOTECA

Camilla Hect  PRIMA PALADINA DELL’EREDE,


CONSIGLIERA DEL GUARDIANO DELLA BIBLIOTECA

La Settima Casa
La Gioia dell’Imperatore, la Rosa Intatta
Dulcinea Septimus  EREDE DELLA SETTIMA CASA,
DUCHESSA DI RHODES

Protesilaus Ebdoma  PRIMO PALADINO DELL’EREDE,


CAVALIERE DI RHODES

L’Ottava Casa
I Custodi del Tomo, la Casa Misericordiosa
Silas Octakiseron  EREDE DELL’OTTAVA CASA,
MAESTRO TEMPLARE DEL BIANCO CALICE

Colum Asht  PRIMO PALADINO DELL’EREDE,


TEMPLARE DEL BIANCO CALICE

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Due per la disciplina, del giudizio incurante;
Tre per una gemma o un sorriso smagliante;
Quattro per la lealtà, che guarda avanti;
Cinque per la tradizione e il dovuto ai defunti;
Sei per il vero, che la menzogna scalfisce;
Sette per la bellezza che sboccia e perisce;
Otto per la salvezza, che nessun prezzo rifiuta;
Nove per il Sepolcro e per ogni cosa perduta.

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ACTPRIMO
ATTO ONE

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Nell’Anno Miriadico di nostro Signore – il de-
cimillesimo anno del Re Imperituro, benevolo Principe della Morte! –
Gideon Nav prese la sua spada, le sue scarpe e le sue riviste zozze e fug-
gì dalla Nona Casa.
Non si mise a correre. Gideon non correva mai, se non era proprio
necessario. Nell’oscurità assoluta che precedeva l’alba, si lavò i den-
ti in tutta tranquillità, si buttò un po’ d’acqua in faccia e si prese ad-
dirittura la briga di spazzare la polvere dal pavimento della sua cella.
Si scrollò di dosso l’ingombrante abito nero talare e lo appese al gan-
cio. Lo faceva, ogni giorno, da più di un decennio e se la cavava an-
che al buio. In ogni caso, a equinozio così avanzato sarebbero passa-
ti mesi prima che il chiarore fosse riuscito ad arrivare di nuovo fin lì;
le stagioni si potevano distinguere dall’intensità del cigolio delle ven-
tole del riscaldamento. Si vestì dalla testa ai piedi di fibra polimeri-
ca sintetica. Si pettinò i capelli. A quel punto, fischiettando a denti
stretti, Gideon aprì il braccialetto di sicurezza e lo sistemò con cura
sul cuscino insieme alla chiave – rubata –, come un cioccolatino in
un albergo elegante.
Uscì dalla cella buttandosi lo zaino in spalla, e si concesse il tempo
di scendere di cinque piani fino alla nicchia anonima della madre, nel-
le catacombe. Sentimentalismo puro, visto che sua madre non stava
più lì da quando Gideon era piccola e non ci sarebbe di certo torna-
ta ora. Poi fu il momento di affrontare la lunga scarpinata nella dire-
zione opposta, ventidue piani senza che nemmeno una luce allevias-
se quel buio oleoso, fino alla biforcazione del pozzo e alla fossa dove
di lì a due ore la sarebbe venuta a prendere la navetta.

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Là fuori, la visuale sulla fetta di cielo della Nona era sgombra. Dove
l’atmosfera era pompata più spessa, il cielo era di un bianco denso,
che si assottigliava, azzurrandosi, nei punti in cui si faceva più rare-
fatta. La cintura scintillante di Dominicus lampeggiava benigna giù
per l’imboccatura del profondo tunnel verticale. Nell’oscurità, Gi-
deon esordì con una passeggiata di ricognizione lungo il perimetro
dello spiazzo, premendo con forza le mani contro la pietra fredda e
unta delle pareti della caverna. Fatto ciò, si impegnò a lungo e con
metodica precisione a calciare via ogni innocuo detrito e particella di
sporcizia o di roccia rimasti sul pavimento dissestato della pista d’at-
terraggio. Piantò il tacco d’acciaio del suo stivale malconcio nel suo-
lo compatto ma poi, constatando con soddisfazione che le possibili-
tà che qualcuno riuscisse ad aprirsi un varco scavando erano molto
remote, decise di lasciar perdere. Non ci fu centimetro di quell’enor-
me spazio vuoto che Gideon non si premurò di setacciare e, quando
le luci del generatore ripresero vita con un ronzio poco convinto, ri-
controllò altre due volte, aguzzando la vista. Si arrampicò fino all’in-
telaiatura reticolare dei riflettori e controllò anche quelli, accecata dal
bagliore, tastando alla cieca dietro agli alloggiamenti metallici. Non
trovò niente e ne ricavò un mesto conforto.
Si parcheggiò su una delle cataste di rottami devastati lì in mezzo. I
riflettori fornivano solo una smorta imitazione della luce vera, parto-
rendo tutt’intorno un’esplosione di ombre malformate. L’oscurità del-
la Nona era profonda e sfuggente; era fredda e livida. In quello scena-
rio, Gideon si premiò con una bustina di plastica piena di porridge.
Aveva un sapore orrendo, di un grigiore spettacolare.
Quella mattina era cominciata come ogni altra mattina della Nona
da che la Nona aveva avuto origine. Gideon fece un giro per il vasto
spiazzo d’atterraggio tanto per sgranchirsi un po’, scalciando sovrap-
pensiero un grumo disperso di pietrisco sul suo cammino. Scollandosi
il porridge dai molari con la punta della lingua, si avvicinò alla balau-
stra del livello e guardò giù nella caverna centrale in cerca di segnali
di movimento. Dopo un po’, udì lo scalpiccio ascendente degli schele-
tri che come automi andavano a zappare i porri gelati nei campi col-
tivati. Gideon li vedeva con l’occhio della mente: avorio sporco nella
penombra sulfurea, i picconi che tintinnavano a filo del terreno e gli
occhi, una moltitudine ondeggiante di capocchie di spillo scarlatte.

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Il rintocco stonato e polemico della Prima Campana riecheggiò,


annunciando l’inizio delle preghiere. Dal rumore sembrava, come al
solito, che qualcuno l’avesse scaraventata giù per una rampa di scale;
quella specie di BLA-BLANG… BLA-BLANG… BLA-BLANG che
l’aveva svegliata ogni mattina da quando ne aveva memoria. Ne ri-
sultò del trambusto. Gideon sbirciò giù, verso il fondo, dove le om-
bre si radunavano di fronte alle fredde porte bianche del Castello del
Drearburh, maestoso nella polvere, incastonato nella roccia, largo tre
corpi e alto sei. Due bracieri erano sistemati ai lati dell’entrata e ar-
devano perennemente, liberando un fumo grasso e schifoso. Le por-
te erano sormontate da minuscole figurine bianche in una moltitu-
dine di pose, nell’ordine di centinaia, migliaia, scolpite utilizzando
chissà quale strano trucco visto che sembrava sempre che ti fissas-
sero dritto negli occhi. Ogni volta che da bambina Gideon era stata
costretta a varcare quella soglia, si era messa a urlare come una con-
dannata a morte.
Fibrillazione ai livelli inferiori. La luce si era stabilizzata, garanten-
do una certa visibilità. I Nonari sarebbero usciti dalle loro celle dopo
le meditazioni mattutine, in vista delle orazioni, mentre le serve del
Drearburh si sarebbero occupate dei preparativi per la giornata. Nu-
merosi rituali tanto solenni quanto inutili sarebbero stati celebrati nei
recessi inferiori. Gideon buttò la bustina vuota del porridge oltre il
livello e si mise a sedere con lo spadone appoggiato sulle ginocchia.
Cominciò a pulirlo con uno straccetto: mancavano quaranta minuti.
All’improvviso, il tedio immutabile di una mattinata nella Nona
cambiò. La Prima Campana suonò di nuovo: BLANG… BLA-BLANG…
BLA-BLANG… Gideon inclinò il capo per ascoltare, le mani immo-
bili sulla spada. Venti rintocchi, poi si interruppe. Hmm… il segna-
le dell’adunata. Dopo un po’ tornò a farsi sentire lo scalpiccio degli
scheletri, che avevano diligentemente deposto zappa e piccone per
rispondere alla chiamata. Sciamavano giù di livello in livello in una
corrente angolare, interrotta qua e là da qualche figura zoppicante
in fruscianti paramenti neri. Gideon riprese la spada e lo straccio: un
simpatico tentativo, ma non gliel’avrebbero data a bere.
Non sollevò neanche lo sguardo quando dei passi pesanti e frago-
rosi riecheggiarono al suo livello – e nemmeno quando sentì lo sfer-
ragliare di un’armatura arrugginita e un rantolo altrettanto rugginoso.

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«Sono passati trenta minuti buoni da quando me lo sono tolto,


Crux» fece lei, continuando ad armeggiare. «Sembra quasi che tu vo-
glia che sparisca per sempre. Ohhh, cazzo, ma è proprio così!»
«Hai richiesto una navetta con l’inganno» gorgogliò il Maresciallo
del Drearburh, universalmente noto per essere più decrepito lui, da
vivo, di numerosi defunti veri e propri. Le si parò davanti sulla spia-
nata d’atterraggio e sbottò, indignato. «Hai falsificato dei documenti.
Hai rubato una chiave. Hai rimosso il tuo bracciale di sicurezza. Of-
fendi questa Casa, abusi dei suoi beni, rubi le sue provviste.»
«Dài, Crux, possiamo metterci d’accordo» lo blandì Gideon, rigi-
randosi la spada fra le mani ed esaminandola con aria critica in cer-
ca di ammaccature. «Tu odi me e io odio te. Lasciami andare senza
opporre resistenza e vai in pensione sereno. Trovati un hobby. Scri-
vi le tue memorie.»
«Tu offendi questa casa. Abusi dei suoi beni. Rubi le sue provvi-
ste.» Crux adorava i verbi.
«Puoi dire che la mia navetta è esplosa. E che sono morta – un gran
peccato, davvero. Chiudi un occhio, Crux, ti scongiuro. In cambio
posso darti un bel giornaletto osé. Quinta Casa – Tette in prima li-
nea.» Il maresciallo, lì per lì, si scoprì troppo inorridito per ribattere.
«D’accordo, d’accordo. Mi rimangio tutto. Tette in prima linea non è
nemmeno una vera pubblicazione.»
Crux avanzò come un ghiacciaio animato da pessime intenzioni.
Gideon ruzzolò all’indietro dalla sua seduta, mentre un pugno decre-
pito ci si abbatteva sopra. Lo schivò con una scivolata, in un turbine
di pulviscolo e ghiaia. Rinfoderò con destrezza la spada e se la strin-
se al petto come un bambino. Si lanciò all’indietro, fuori dalla por-
tata del suo stivale e di quelle enormi manone pallide. Crux avrà an-
che avuto un piede nella fossa, ma era pur sempre un fascio di nervi
con trenta nocche per pugno. Era vecchio, ma era comunque un caz-
zo di mostro.
«Andiamoci piano, maresciallo» gli disse, anche se era lei quella
che annaspava nella polvere. «Se vai avanti così rischi di divertirti.»
«Hai la lingua lunga per essere una serva, Nav» fece il marescial-
lo. «Un debito non dovrebbe chiacchierare così tanto. Ti detesto, ma
sei comunque merce e sei nel mio inventario. Ho segnato i tuoi pol-
moni come polmoni della Nona. Ho misurato il tuo fegato e il tuo fe-

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gato appartiene alla Nona. Il tuo cervello è una semplice spugna rag-
grinzita, ma anche quello è proprietà della Nona. Vieni qua e ti farò
gli occhi neri e ti spedirò all’altro mondo.»
Gideon arretrò, mantenendo le distanze. «Crux» commentò, «se
stai cercando di minacciarmi dovresti optare per: “Vieni qua, o…”.»
«Vieni qua e ti farò gli occhi neri e ti spedirò all’altro mondo» grac-
chiò il vecchio avanzando «e poi la mia Signora ha detto che sarai tu
ad andare da lei.»
Solo a quel punto i palmi di Gideon cominciarono a formicolare.
Alzò lo sguardo verso lo spaventapasseri che le torreggiava davanti e
che di rimando la squadrò col suo unico occhio, inquietante e male-
volo. Pareva che l’armatura vetusta gli si stesse decomponendo addos-
so. Anche se la pelle livida, tesa spasmodicamente sul cranio sembra-
va sul punto di creparsi, non dava l’impressione di curarsene. Gideon
sospettava che – anche se in lui non c’era neanche una scintilla di ne-
cromanzia – al momento della morte, Crux non avrebbe smesso di
esistere, ma sarebbe andato avanti, di pura cattiveria.
«Fammi pure gli occhi neri e spediscimi all’altro mondo» disse lei
scandendo bene le parole, «ma la tua Signora può andarsene all’in-
ferno quando le pare.»
Crux le sputò addosso. Disgustoso, ma pazienza. Afferrò il lungo
coltello che teneva legato alla spalla, in un fodero punteggiato di muf-
fa, e lo roteò, facendo balenare il filo sottile della lama: Gideon, però,
era già in piedi con il fodero parato davanti a sé a mo’ di scudo. Con
una mano stringeva l’impugnatura, con l’altra il fermo del fodero. Si
fronteggiavano, bloccati dall’impasse, lei del tutto immobile e il vec-
chio con quel suo respiro pesante e bagnaticcio.
Gideon disse: «Non sguainare, Crux. Non fare questo sbaglio. Non
con me».
«Con quella spada non sei brava neanche la metà di quanto cre-
di, Gideon Nav» rispose il Maresciallo del Drearburh. «Un giorno ti
scuoierò per condotta oltraggiosa. Un giorno useremo i tuoi pezzi
per farci la carta. Un giorno le sorelle del Sepolcro Sigillato faranno
spazzole coi tuoi peli e ci strofineranno l’altare. Un giorno le tue ossa
obbedienti spolvereranno tutti i luoghi che disdegni e col tuo gras-
so ci lucideremo la pietra. È stata suonata l’adunata, Nav, e ti ordino
di andarci. All’istante.»

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Gideon perse le staffe. «Vacci tu, vecchio cagnaccio morto. E a lei


farai meglio a dire che me ne sono già andata, cazzo.»
Con sua immensa sorpresa, Crux girò i tacchi e si avviò a passo pe-
sante verso il livello buio e scivoloso. Sferragliò e imprecò per tutto il
tragitto, mentre lei si ripeteva di aver già vinto ancor prima di essersi
svegliata quella mattina; si disse che Crux era un simbolo impoten-
te del loro dominio, un ultimo tentativo per metterla alla prova, per
stabilire se si sarebbe rivelata abbastanza stupida o abbastanza suc-
cube da fare ritorno dietro le sbarre gelide della sua prigione. Il cuo-
re grigio e putrido del Drearburh. Il cuore ancor più grigio e putri-
do della sua Signora.
Tirò fuori l’orologio dalla tasca per controllare l’ora: mancavano
ancora venti minuti, un quarto d’ora e rotti. Gideon era a casa, libe-
ra. Gideon se n’era andata. Niente e nessuno poteva più cambiare le
cose, ormai.

* * *

«Crux sta dicendo peste e corna di te a chiunque voglia starlo a senti-


re» disse una voce dall’entrata, a quindici minuti dalla partenza. «Ha
detto che hai snudato la tua arma. Ha detto che gli hai offerto degli
immondi materiali pornografici.»
I palmi di Gideon ricominciarono a pizzicare. Si era rimessa a se-
dere sul suo improbabile trono di roccia con l’orologio in equilibrio
sulle ginocchia, a osservare il minuscolo braccio meccanico che con-
tava i minuti. «Non sono così stupida, Aiglamene» fece lei. «Se mi-
nacciassi un ufficiale della Casa non andrei bene neanche come car-
ta da culo per la Coorte.»
«E la pornografia?»
«In effetti, gli ho offerto una formidabile opera di natura mamma-
ria, ma lui si è offeso» disse Gideon. «Un momento di rara perfezio-
ne. Ma alla Coorte quello non interesserà. Ti ho già parlato della Co-
orte? La Coorte, ce l’hai presente, no? Quante volte me ne sono già
andata per arruolarmi nella Coorte… trentatré?»
«Risparmiati le sceneggiate, piagnona» disse la sua maestra di spa-
da. «Sono al corrente delle tue aspirazioni.»
Aiglamene si trascinò nella luce fioca dello spiazzo d’atterraggio.

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GIDEON LA NONA  /  21

La capitana della guardia della Casa aveva la testa coperta di cicatri-


ci squagliate e una gamba mancante che era stata rimpiazzata grazie
al lavoro di un adepto dal discutibile talento ortopedico. La protesi
aveva una curvatura orrenda e la faceva somigliare a un edificio dal-
le fondamenta buttate insieme alla meno peggio. Era più giovane di
Crux – vale a dire un fossile – ma aveva una sua prontezza, una vita-
lità cristallina. Il maresciallo era un Nono da manuale ed era disgu-
stosamente marcio fino al midollo.
«Trentatré volte» ripeté Gideon, con un velo di stanchezza. Ricon-
trollò l’orologio: mancavano ancora quattordici minuti. «L’ultima vol-
ta mi ha bloccata sul montacarichi. La volta prima ha spento il riscal-
damento e mi sono ritrovata coi geloni su tre dita dei piedi. La volta
prima ancora mi ha avvelenato la roba da mangiare e ho cagato san-
gue per un mese. Serve che continui?»
La sua insegnante rimase impassibile. «Non ti è stato arrecato al-
cun torto. Non hai ottenuto il suo permesso.»
«Mi è consentito fare domanda per l’esercito, Capitana. Sono sot-
to contratto, non sono una schiava. Non ho alcuna utilità economi-
ca per lei, qui.»
«La questione è un’altra. Non hai scelto la giornata adatta per la-
sciare il nido.» Aiglamene inclinò il capo verso il basso. «Affari della
Casa, e sei desiderata di sotto.»
«È lei, un gesto patetico e disperato» commentò Gideon. «È la sua
ossessione… questo bisogno di mantenere il controllo. Non può più
farci niente. Righerò dritto. Chiuderò il becco. Ottempererò – puoi
pure metterlo per iscritto, parola per parola – ai miei doveri nei ri-
guardi della Nona Casa. Ma non cercare di farmi credere, Aiglame-
ne, che una volta messo piede là sotto non mi ficcheranno la testa in
un sacco e non passerò le prossime cinque settimane in una fossa,
con un trauma cranico.»
«Feto egoista che non sei altro, credi che la nostra Signora abbia
suonato l’adunata solo per te?»
«Guarda, lascia che ti spieghi come stanno le cose: la tua Si-
gnora darebbe fuoco al Sepolcro Sigillato pur di non farmi rivede-
re più il cielo» disse Gideon, alzando lo sguardo. «La tua Signora
si mangerebbe un neonato vivo pur di rinchiudermi per l’eterni-
tà. La tua Signora sommergerebbe le prozie di stronzi roventi, se

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solo servisse a rovinarmi la giornata. La tua Signora è la più spre-


gevole delle tr…»
Lo schiaffo che le mollò Aiglamene non aveva nulla della treme-
bonda indignazione che avrebbe potuto caratterizzare un ceffone di
Crux. Colpì Gideon con un semplice manrovescio, come si colpireb-
be una bestia che abbaia, tutto lì. Il cranio di Gideon si riempì di co-
stellazioni dolorose.
«Non scordare chi sei, Gideon Nav» disse perentoria la sua inse-
gnante. «Non sei una schiava, ma servirai la Nona Casa fino al gior-
no della tua morte… e anche oltre, e non peccherai di perfidia in mia
presenza. La campana è autentica. Ti presenterai all’adunata di tua
spontanea volontà o mi disonorerai?»
C’era stata un’epoca in cui Gideon si era spesa parecchio per evi-
tare di disonorare Aiglamene. In quel vuoto era semplice dimostrar-
si disonorevole, ma aveva un debole per la vecchia soldatessa. Nella
Nona Casa nessuno le aveva mai voluto bene e, di certo, Aiglame-
ne non gliene voleva. Anzi, al solo pensiero sarebbe schiattata dal ri-
dere – alla buon’ora. In lei, però, aveva trovato uno spiraglio di tol-
leranza, una volontà di allentare il guinzaglio per scoprire quel che
Gideon sarebbe riuscita a fare a briglia sciolta. Gideon adorava sta-
re a briglia sciolta. Aiglamene aveva convinto la Casa a mettere una
spada in mano a Gideon, per non sprecarla al servizio dell’altare o a
sgobbare nell’ossario. Aiglamene non mancava di fiducia. Gideon ab-
bassò lo sguardo e si pulì la bocca col dorso della mano, vide la sali-
va insanguinata e vide anche il suo spadone; amava così tanto quella
spada che se la sarebbe pure sposata, per la miseria.
Ma vide anche la lancetta che si spostava sul quadrante. Mancavano
dodici minuti. Non è rammollendosi che si sarebbe conquistata la liber-
tà. In barba al suo fragile marciume, la Nona era dura come l’acciaio.
«Penso proprio che ti disonorerò» ammise Gideon, serafica. «Sono
nata per questo, me lo sento. Sono infima per natura.»
La maestra di spada, con quella faccia da falco attempato e la sac-
coccia scavata dell’orbita, ricambiò il suo sguardo, cupa, ma Gideon
non smise di fissarla. Le cose si sarebbero dimostrate in qualche modo
più facili se solo Aiglamene l’avesse presa come Crux, ricoprendola
di insulti, ma si limitò a dirle: «Apprendi così in fretta, ma continui a
non capire. La colpa è mia, immagino. Più ti sforzi di combattere la

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Nona, Nav, più ti trascinerà in profondità; più forte li maledirai, più


forte ti faranno urlare.»
Con la schiena dritta come un fuso, Aiglamene si allontanò con
quella sua buffa andatura ondeggiante. Gideon sentì di non aver su-
perato l’esame. Ma non aveva importanza, si disse. Due andati, zero in
arrivo. Undici minuti all’atterraggio, le riferiva l’orologio, undici mi-
nuti e se ne sarebbe andata da lì. Nient’altro contava. Quella era l’u-
nica cosa che aveva avuto importanza da quando una Gideon molto
più giovane si era resa conto che, a meno di azioni drastiche, sareb-
be morta là sotto nell’oscurità.
E, peggio ancora, quello sarebbe stato solo l’inizio.

* * *

Nav era un cognome Nonario, ma Gideon non sapeva dov’era nata. Il


pianeta remoto e insensato su cui viveva ospitava sia la roccaforte della
Casa che una piccola prigione usata solo per i criminali le cui malefatte
erano troppo ripugnanti perché le loro rispettive Case li riabilitassero
sul suolo d’origine. Non aveva mai visto quel posto. La Nona Casa era
un enorme buco scavato verticalmente fino al nucleo del pianeta e la
prigione era una struttura a forma di bolla installata a mezza atmosfe-
ra, dove le condizioni di vita erano probabilmente molto più clementi.
Un giorno di diciotto anni prima, la madre di Gideon era preci-
pitata giù per il pozzo con un parafreno e una tuta malconcia, come
una specie di falena che fluttua lentamente verso il basso, nel buio. La
tuta era rimasta senza energia per un paio di minuti. All’atterraggio,
la donna era già cerebralmente morta. Tutta la potenza delle batterie
era stata risucchiata da un bio-contenitore collegato alla tuta, uno di
quelli che si usano per trasportare gli arti da trapiantare. E dentro al
contenitore c’era Gideon, nata il giorno prima.
Era un cavolo di mistero, ovviamente. Gideon aveva passato la vita
ad arrovellarsi sulle informazioni che aveva. La donna doveva esse-
re rimasta senza carburante un’ora prima dell’atterraggio; non le sa-
rebbe stato possibile contrastare la gravità con un tuffo da sopra il
pianeta, la sua tuta poco sofisticata sarebbe esplosa. La prigione, che
registrava ossessivamente ogni ingresso e ogni uscita, negò che po-
tesse trattarsi di un’evasa. Vennero mandate a chiamare alcune suo-

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re-adepte del Sepolcro Sigillato, quelle che conoscevano i segreti per


ingabbiare le anime. Persino loro – potenti veterane, esperte necro-
manti oscure della maestosa Nona Casa – non riuscirono a imbri-
gliare lo spirito della donna e a farle fare ritorno per dare spiegazioni.
Né il sangue giovane né quello antico la tentarono a tornare. Quando
le suore, stremate, la agganciarono a forza era ormai troppo andata,
come se la morte avesse rappresentato per la donna il catalizzatore ne-
cessario a scappare. Erano riuscite a tirarle fuori un’unica parola, ave-
va urlato: «Gideon! Gideon! Gideon!» tre volte, e si era volatilizzata.
La Nona – l’enigmatica e misteriosa Nona, la Casa della Lingua
Cucita, la Dimora dell’Anacoreta, la Casa dei Segreti Eretici – accolse
con stupore quell’infante che si era ritrovata per le mani, ma si mos-
se comunque con rapidità. Storicamente, la Nona aveva riempito i
suoi corridoi di penitenti provenienti da altre case, mistici e pellegri-
ni che consideravano la chiamata di quel tetro ordine più appetibile
di quanto non fossero i rispettivi diritti di nascita. Obbedendo alle
leggi antiquate che regolavano la circolazione dei supplici tra le otto
grandi casate, venne accolta come una minuscola servitrice a con-
tratto che non era della Nona ma era a essa legata dal debito: essere
allevata, quale debito più grande poteva mai esserci? Quale posizio-
ne più nobile di quella di vassalla del Drearburh poteva mai esiste-
re? Che l’infante cresca da postulante. Che la bambina venga educa-
ta da oblate. Le inserirono il chip, le assegnarono un cognome e la
ficcarono nella nursery. In quel momento, l’esigua Nona Casa pote-
va fregiarsi di duecento bambini, compresi tra l’infanzia e i dician-
nove anni d’età, e a Gideon venne assegnato il numero duecentouno.
Meno di due anni dopo, Gideon Nav era una degli ultimi tre bam-
bini superstiti: c’erano lei, un ragazzino molto più grande e l’erede in
fasce della Nona Casa, figlia del suo Signore e della sua Signora. A cin-
que anni, capirono che non era una necromante e, a otto, il sospetto
che non sarebbe mai diventata una monaca si fece fondato. Di sicu-
ro, raggiunti i dieci, era ormai chiaro che sapesse troppo e che non le
sarebbe mai stato consentito di andar via.
Raggiunti i diciotto, gli appelli di Gideon alla clemenza, i riferimenti
alle ricompense monetarie e agli imperativi dettati dalla morale, più
i piani abbozzati e i puri e semplici tentativi di fuga ammontavano a
ottantasei. Aveva cominciato a quattro anni.

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A soli cinque minuti dalla partenza, l’ottantaset-
tesimo piano di fuga di Gideon andò favolosamente a farsi benedire.
«Da quel che vedo, Griddle» esordì una voce perentoria dall’acces-
so al livello, «la tua geniale tattica non prevedeva altro che prenota-
re una navetta, pigliare la porta e andare.»
La Signora della Nona Casa era ferma al margine del pozzo, ghi-
gnante e di nero vestita. La Reverenda Figlia Harrowhark Nonage-
simus aveva praticamente saturato il mercato dei ghigni e degli in-
dumenti neri. Costituivano il cento per cento della sua personalità.
Gideon si meravigliava sempre del fatto che qualcuno che abitava l’u-
niverso da soli diciassette anni riuscisse a vestirsi di nero e a sogghi-
gnare con una tale antica sicumera.
Gideon disse: «Eh, che vuoi che ti dica. Sono una vera stratega».
La Reverenda Figlia avanzò, coi paramenti ricamati – e un po’ staz-
zonati – della Casa che strusciavano nella polvere. Aveva portato il
suo maresciallo, e pure Aiglamene. Alcune Sorelle erano rimaste alle
sue spalle, sull’anello interno, ed erano sprofondate in ginocchio: le
monache avevano il viso dipinto di un grigio alabastrino e dei moti-
vi neri disegnati sulle guance e sulle labbra, come i teschi dei morti.
Avvolte in abbondanti drappi di un nero rugginoso, somigliavano a
una platea di maschere a mezzo busto, vecchie e deprimenti.
«Spingersi fino a questo punto, che imbarazzo» disse la Signora della
Nona, buttando indietro il cappuccio. Il suo viso pallido e dipinto era
una macchia bianca in mezzo a tutto quel nero. Persino le mani era-
no guantate. «Non mi importa se scappi. Mi importa che tu lo faccia
così male. Leva quella mano dalla spada, ti stai umiliando da sola.»

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«Fra meno di dieci minuti arriverà una navetta che mi porterà a


Trentham, nella Seconda» fece Gideon, senza spostare la mano dal-
lo spadone. «Salirò. Chiuderò il portello. Vi farò ciao con la mano.
Non c’è assolutamente più niente che possiate fare per fermarmi.»
Harrow sollevò una mano guantata e si massaggiò le dita, pensie-
rosa. La luce le illuminava il viso pitturato, il mento spennellato di
nero e i capelli color corvo morto tagliati corti. «D’accordo. Analiz-
ziamo la faccenda, in nome della pura speculazione» disse. «Prima
obiezione: non so se lo sai, ma la Coorte non arruolerà mai una ser-
va non svincolata.»
«Ho falsificato la tua firma sul modulo di rilascio» disse Gideon.
«Ma basterà una mia parola e ti riporteranno qui in catene.»
«Non dirai nulla.»
Harrowhark si prese il polso tra pollice e indice e cominciò a fare
su e giù con la mano, adagio. «Una favoletta gradevole, ma con una
pessima caratterizzazione» commentò. «Quell’improvviso slancio di
misericordia da parte mia, perché mai?»
«Nell’istante esatto in cui mi impedirai di andarmene» fece Gideon,
la mano immobile sul fodero «nell’istante esatto in cui mi richiame-
rai qui, nel preciso momento in cui darai alla Coorte un pretesto o
chissà quale lista di capi d’imputazione farlocchi…»
«Alcune delle tue riviste sono veramente riprovevoli» ammise la
Signora.
«Quello sarà il momento esatto in cui mi metterò a cantare» dis-
se Gideon. «Canterò così forte e così a lungo che mi sentiranno fino
all’Ottava. Spiattellerò tutto. Sai quello che so. E gli dirò anche i nu-
meri. Mi riporteranno anche a casa in catene, va bene, ma tornerò
piegata in due dal ridere.»
Al che Harrowhark la smise di aggeggiarsi lo scafoide e fissò Gi-
deon. Poi rivolse un cenno piuttosto brusco al fan club geriatrico alle
sue spalle, disperdendolo: le Sorelle baciarono traballanti il pavimen-
to in uno scrocchiare di rosari e di legamenti rotulei poco lubrificati e
scomparvero nell’oscurità, giù per la rampa. Solo Crux e Aiglamene
restarono dov’erano. A quel punto, Harrow inclinò il capo come un
uccello perplesso e le rivolse un minuscolo sorriso sdegnoso.
«Che volgarità, che banalità» disse. «Efficace, ma così triviale. I
miei genitori avrebbero fatto meglio a soffocarti.»

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«Potrebbero provarci adesso, sarebbe divertente» disse Gideon,


impassibile.
«Lo faresti comunque, anche senza il minimo tornaconto perso-
nale» commentò la Signora. Persino lei pareva meravigliata. «Anche
se sai quello che dovresti patire. Anche se sai che cosa implichereb-
be. E tutto questo perché…?»
«Perché» disse Gideon, controllando di nuovo l’orologio «ti odio
con tutta me stessa, cazzo, perché sei una schifosa strega infernale.
Senza offesa.»
Ci fu una pausa.
«Oh, Griddle!» disse Harrow compassionevole, rompendo il si-
lenzio. «Io invece la maggior parte delle volte nemmeno mi ricor-
do che esisti.»
Si squadrarono. Le labbra di Gideon erano piegate in un impercet-
tibile sorrisetto sbilenco e, quando Harrowhark lo notò, la sua espres-
sione mutò in qualcosa di ancor più capriccioso e petulante. «Mi hai
trascinata in un vicolo cieco» disse, con un’aria di rancoroso stupo-
re. «Il tuo passaggio arriverà fra cinque minuti. Non dubito che tu sia
provvista di tutti i documenti e che siano in ordine. Avvalermi della
violenza in maniera arbitraria sarebbe peccato mortale. Non c’è pro-
prio nulla che io possa fare.»
Gideon non replicò. Harrow proseguì: «La chiamata per l’aduna-
ta è autentica, per la cronaca. Faccende cruciali per la Nona all’oriz-
zonte. Non ti va di dedicare una manciata di minuti all’ultima assem-
blea della tua Casa?».
«Oh no, ma neanche per idea» fece Gideon.
«Posso appellarmi al tuo profondo senso del dovere?»
«Zero» disse Gideon.
«Valeva la pena provare» ammise Harrow. Si tamburellò il mento
con l’indice, pensierosa. «Corruzione, che ne pensiamo?»
«Adesso sì che si ride» fece Gideon senza rivolgersi a nessuno in
particolare. «“Gideon, ecco qua un po’ di soldi. Potrai spenderli qua
da noi. Ecco, comprati qualche osso.” “Gideon, se torni non farò più
la stronza con te e sarò sempre gentile. Puoi prenderti la stanza di
Crux.” “Gideon, eccoti un letto pieno di gnocche aggrovigliate. Sono
monache di clausura, però… osteoporosi al novanta per cento.”»
Senza lesinare sulla teatralità, Harrowhark tirò fuori dalla tasca una

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pergamena nuova di zecca. Era carta – carta vera! – con l’intestazio-


ne ufficiale della Nona Casa in cima. Doveva aver svuotato i forzieri
per procurarsela. La peluria sulla nuca di Gideon si rizzò, mettendo-
la in allarme. Harrow avanzò e con un gesto plateale depositò la per-
gamena in un punto sicuro, equidistante da entrambe, per poi arre-
trare con le mani alzate, in segno di resa.
«Oppure» disse la Signora, mentre Gideon si chinava adagio a rac-
coglierla «si potrebbe parlare di un acquisto assolutamente autenti-
co di un tuo incarico nella Coorte. Non è una cosa che si può falsi-
ficare, Griddle, va firmata col sangue, quindi non cacciartela subito
nei pantaloni.»
Era un vero accordo vincolante della Nona, scritto con tutti i cri-
smi. Sanciva l’acquisto dell’incarico di luogotenente in seconda per
Gideon Nav, non soggetto a rivendita anche se il capitale si sarebbe
potuto liquidare qualora si fosse congedata con onore, garantendole
un addestramento completo da ufficiale. La consueta fetta cospicua
delle ricompense e dei territori eventualmente conquistati sarebbe
stata tributata alla sua Casa, ma il suo stato di servitù nei confron-
ti della Nona si sarebbe potuto ripagare in cinque anni a condizio-
ni vantaggiose, invece che in trenta. Era più che generoso. Harrow
si stava dando la zappa sui piedi. Si stava spavaldamente zappando
un piede mentre prendeva la mira per centrarsi pure l’altro. Avreb-
be perso ogni diritto su Gideon per sempre. Gideon diventò un bloc-
co di ghiaccio.
«Ci tengo, non puoi negarlo» fece Harrow.
«Tu non ci tieni affatto» disse Gideon. «Per noia saresti capace
di ordinare alle suore di sbranarsi tra di loro. Sei una psicopatica.»
Harrow replicò: «Se non lo vuoi, ridammelo. Posso riciclare la carta».
Piegare il contratto, farci un aeroplanino e rispedirlo da dove era
arrivato era l’unica alternativa ragionevole. Mancavano quattro mi-
nuti all’atterraggio della navetta, poi se ne sarebbe andata sgomman-
do da quel posto. Aveva già vinto, e quella era una vulnerabilità che
avrebbe messo in pericolo tutto quello per cui aveva lavorato – mesi
passati a lambiccarsi su come infiltrare il sistema automatico di ca-
lendarizzazione delle navette, mesi passati a coprire le proprie tracce,
a reperire i moduli giusti, a intercettare comunicazioni, ad aspettare
e a sudare. Era un tranello. E visto che era un tranello di Harrowhark

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Nonagesimus, non poteva che trattarsi di qualcosa di terribilmente


spregevole…
Gideon disse: «Okay. Che vuoi in cambio?».
«Ti voglio di sotto all’adunata.»
Non si curò di nascondere il proprio stupore. «Che cosa stai per
annunciare, Harrow?»
La Reverenda Figlia le rispose senza la minima traccia d’ironia.
«Quanto ti piacerebbe saperlo».
Un momento interminabile. Gideon si lasciò scappare un lungo so-
spiro a denti stretti e, con uno sforzo titanico, buttò a terra il foglio e
indietreggiò. «Macché» disse, osservando con interesse le sopracci-
glia nere della Signora che si aggrottavano impercettibilmente. «An-
drò per la mia strada. Non scenderò nel Drearburh per te. Che diavo-
lo, non scenderei nel Drearburh nemmeno se costringessi lo scheletro
di mia madre a farmi un balletto davanti.»
Harrow strinse a pugno le mani guantate e abbandonò la sua com-
postezza. «Per l’amor di Dio, Griddle! È l’offerta perfetta! Ti sto dando
tutto quello che hai sempre desiderato – tutto quello per cui non hai
fatto altro che piagnucolare incessantemente, senza nemmeno avere
la grazia o l’acume di capire perché non lo potevi ottenere! Minacci la
mia Casa, manchi di rispetto ai miei servitori, menti, inganni, trami
e rubi – lo sai fin troppo bene cosa hai fatto, e sai anche di non esse-
re altro che una disadattata, insignificante e disgustosa!»
«Detesto quando ti comporti come una suora che si è beccata una
palpata di culo» commentò Gideon, che si era sinceramente risenti-
ta solo per una delle voci di quell’elenco.
«Perfetto» ringhiò Harrowhark, che ora aveva l’aria di essere tor-
nata di ottimo umore. Si stava faticosamente liberando del suo lungo
manto ricamato e della cassa toracica umana, il cui biancore splendeva
in mezzo a tutto quel nero, che le avviluppava il busto. Crux si lasciò
scappare un’esclamazione costernata quando cominciò a slacciare i
gancetti d’argento che gliela assicuravano al petto, ma lei lo zittì con
un cenno brusco e se la levò di dosso. Gideon sapeva che cosa stava
facendo. Una grande ondata di pena mista a disgusto la investì men-
tre osservava Harrow che si toglieva i braccialetti d’osso, i denti che
portava al collo e le piccole borchie d’osso alle orecchie. Mollò tutta
quella roba fra le braccia di Crux, tornando a grandi falcate in mezzo

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alla pista d’atterraggio, come una faretra svuotata. Solo con i guanti,
gli stivali, la camicia e i pantaloni, con quella testa di capelli neri ta-
gliati corti e la faccia accartocciata dalla rabbia, appariva per ciò che
era realmente: una ragazzina disperata, più giovane di Gideon, piut-
tosto esile e deboluccia.
«Senti, Nonagesimus» disse Gideon, profondamente destabilizzata
e ormai veramente in imbarazzo «tagliamo la testa al toro. Non far-
lo, di qualsiasi cosa si tratti. Lasciami partire.»
«Non puoi girare i tacchi e andartene così, come se niente fosse,
Nav» fece Harrowhark, con palpabile freddezza.
«Vuoi che ti saluti a calci in culo?»
«Taci» disse la Signora della Nona, aggiungendo un agghiaccian-
te: «Voglio modificare le condizioni. Un combattimento leale e…».
«…e me ne andrò in santa pace? Non sono mica così cretina…»
«No. Un combattimento leale e te ne potrai andare con il tuo con-
tratto» disse Harrow. «Se vinco io, verrai all’adunata e te ne andrai
subito dopo – con il contratto. Se perdo, te ne andrai subito – con il
contratto.» Raccolse il foglio da terra, tirò fuori dalla tasca una pen-
na stilografica e se la infilò fra le labbra per pungersi l’interno della
guancia, in profondità. Con la penna che grondava sangue – uno dei
suoi numeri per le grandi occasioni, pensò Gideon con freddezza –
firmò: “Pelleamena Novenarius, Reverenda Madre del Sepolcro Si-
gillato, Signora del Drearburh, Sovrana della Nona Casa”.
Gideon disse, sentendosi un’idiota: «Quella è la firma di tua madre».
«Non posso firmare col mio nome, rincoglionita che non sei al-
tro, rovinerebbe tutto il giochetto» disse Harrow. Da così vicino, Gi-
deon riusciva a vedere il reticolo rosso dei capillari che le si irraggia-
va, come un’esplosione, all’angolo degli occhi – l’alone rosato di chi
ha passato la notte in bianco. Le porse il contratto e Gideon lo affer-
rò con sfacciata voracità. Lo ripiegò, se lo cacciò nella camicia e lo in-
filò nella fascia. Harrow non sogghignò nemmeno. «Accetta di duel-
lare con me, Nav, di fronte al mio maresciallo e alla mia guardia. Un
combattimento leale.»
Più di ogni altra cosa, Harrowhark era una creatrice di schele-
tri e, in quello scatto d’orgoglio rabbioso, quello che le stava offren-
do era in realtà un combattimento sleale. Discepola purosangue del-
la Nona, si era privata di ogni appiglio decidendo di sfidarla a duello

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senza nessun corpo da evocare e nemmeno uno straccio di bottone


d’osso a darle man forte. Gideon aveva visto Harrow in questo stato
solo un’altra volta ed era convinta che, con ogni probabilità, non l’a-
vrebbe mai più vista in quelle condizioni. Solo una stronza patentata
avrebbe acconsentito a un duello del genere, e Harrowhark lo sape-
va. Bisognava proprio essere dei pezzi di merda fatti e finiti. Il tutto
si sarebbe risolto in un increscioso sfoggio di crudeltà.
«Se perdo, vengo alla tua adunata e me ne vado col contratto» dis-
se Gideon.
«Sì.»
«Se vinco, me ne vado subito col contratto» disse Gideon.
Harrow aveva le labbra screziate di sangue. «Sì.»
In alto, il rombo di uno spostamento d’aria. Un faro si accese sopra
l’apertura del pozzo mentre la navetta, finalmente prossima all’atter-
raggio, si avvicinava allo squarcio nel mantello del pianeta. Gideon
controllò l’orologio. Due minuti. Senza esitare un istante, perquisì la
Reverenda Figlia dalla testa ai piedi: braccia, vita, gambe, una tasta-
ta rapida lungo gli stivali. Di fronte a quello spettacolo, Crux si lasciò
scappare un altro gemito di repulsione e disappunto. Harrow non disse
nulla – parlando gli avrebbe trasmesso uno sdegno assai minore. Ma
con la gentilezza non si va da nessuna parte. La Casa era dura come
l’acciaio. E l’acciaio andava colpito dove era più debole.
«L’avete sentita anche voi» disse a Crux e Aiglamene. Crux ricam-
biò la sua occhiata con tutto l’odio di una stella deflagrante: l’odio vuo-
to di una forza che si comprime verso l’interno, di un risentimento de-
formante che divora anche la luce. Aiglamene si rifiutò di incrociare il
suo sguardo. Bello schifo, ma pazienza. Gideon si mise a frugare nella
sua sacca in cerca dei guanti. «L’avete sentita. Mi siete testimoni. Me ne
andrò in entrambi i casi, ed è stata lei a proporre le condizioni. Un com-
battimento leale. Giuri su tua madre che sarà un combattimento leale?»
«Come osi, Nav…»
«Su tua madre. E sull’arena.»
«Giuro su mia madre. Non ho niente addosso. E sull’arena» sbottò
Harrow, il respiro rotto da singulti rabbiosi. Mentre Gideon si infilava
in fretta e furia i guanti polimerici, facendo scattare i pesanti fermagli
attorno ai polsi, il sorriso di Harrow mutò. «Dio santo, Griddle, non
potevi almeno metterti un po’ di cuoio? Non sono poi così brava.»

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Si allontanarono l’una dall’altra e Aiglamene finalmente si pronun-


ciò, sovrastando il frastuono crescente della navetta. «Gideon Nav,
riprenditi il tuo onore e dai un’arma alla tua signora.»
Gideon non riuscì a trattenersi: «È come chiedermi di… buttare
un osso a un randagio». «Nav?»
«Le ho già dato tutta la mia vita» disse Gideon, e sguainò lo spadone.
La spada, in realtà, era soltanto una formalità. Quel che Gideon
avrebbe dovuto fare era tirare su un piede – corredato di stivale – e
spedire Harrow a culo all’aria, abbastanza forte da impedire alla Si-
gnora della Nona di rialzarsi, ancora e ancora, fino all’estrema umi-
liazione. Una stivalata in pancia a Harrow e sarebbe tutto finito. In
caso di necessità, le si sarebbe pure seduta sopra. Nessuno nella Nona
Casa capiva cos’era la crudeltà – non fino in fondo – a parte la Reve-
renda Figlia; nessuno comprendeva la brutalità. Quella consapevolez-
za era stata risucchiata via da tutti loro, l’oscurità che si raccoglieva
nelle profondità delle catacombe infinite del Drearburh l’aveva fat-
ta evaporare. Aiglamene e Crux sarebbero stati costretti a decretar-
la vincitrice in un combattimento regolamentare e Gideon se ne sa-
rebbe andata da donna semilibera.
Quel che accadde, invece, fu che Harrowhark si sfilò i guanti. Aveva
le mani distrutte. Le dita erano incrostate di sporcizia e martoriate di
tagli suppuranti, lo sporco si era infilato anche nelle ferite e sotto le un-
ghie rovinate. Lasciò cadere i guanti e mulinò le dita in direzione di Gi-
deon, e a Gideon bastò una frazione di secondo per rendersi conto che
quello sporco era il terriccio della pista d’atterraggio e che era completa-
mente fottuta, da qualsiasi angolazione si volesse valutare la questione.
Caricò. Ma era troppo tardi. Accanto ai grumi di polvere e pietri-
sco che aveva scrupolosamente spazzato via col piede, gli scheletri
emersero di botto dal suolo compatto dove erano stati sepolti preci-
pitosamente. Le mani eruttarono da una serie di piccole fosse nel ter-
reno, perfette, con i pollici e le loro quattro dita; Gideon, instupidita,
le scalciò via e scartò di lato. Si mise a correre. Ma non servì a niente:
a ogni metro che faceva – a ogni cazzo di metro – c’erano delle ossa
che spuntavano dal suolo, afferrandole gli stivali, le caviglie, i calzo-
ni. Si scansò barcollando, cercando disperatamente il confine della
pista: ma non esisteva. Il fondo del pozzo ribolliva di dita e polsi che
oscillavano leggiadri, come sospinti dalla brezza.

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Gideon squadrò Harrow. Harrow aveva cominciato a sudare san-


gue e lo sguardo che le restituì era calmo, freddo e sicuro.
Si ributtò verso la Signora del Drearburh con un urlo scomposto,
facendo a pezzi nella corsa carpi e metacarpi, ma nemmeno quello
servì. Bastava un femore sepolto o una tibia nascosta perché gli sche-
letri si ricomponessero per Harrow nella loro perfetta integrità e, ogni
volta che Gideon faceva per avvicinarsi alla loro padrona, un’onda-
ta di ossa rianimate le si rovesciava addosso. Spedì Harrow con una
stivalata fra le braccia di due delle sue creazioni, che la trasportaro-
no senza sforzo al sicuro. Lo sguardo imperturbabile di Harrowhark
scomparve dietro a un turbine di esseri scarnificati, di femori e di ti-
bie che guizzavano a una velocità sovrannaturale. Gideon usò la spa-
da come una leva, in una cascata di frammenti di ossa e cartilagine.
Cercava di ottenere il massimo da ogni fendente, ma ce n’erano trop-
pi. Erano veramente troppi. Anche se li polverizzava in una pioggia di
ossicini, i rimpiazzi sorgevano comunque. Le si schiantavano addos-
so come palle di cannone, uno dopo l’altro, indipendentemente dal-
la direzione verso cui sceglieva di lanciarsi per sfuggire ai frutti del
macabro giardino seminato da Harrow.
Il rombo della navetta annullò il ticchettio delle ossa e zittì il san-
gue che le era affluito alle orecchie mentre dozzine di mani la immo-
bilizzavano. Il talento più spiccato di Harrowhark era sempre stato la
magnitudo, la capacità di creare un costrutto pienamente compiuto
da un misero osso del braccio o da un bacino. Con quello che a chiun-
que altro sarebbe a malapena bastato per un solo scheletro, lei riu-
sciva a creare un esercito e Gideon aveva sempre avuto una specie di
remotissimo sentore che proprio in quel modo ci avrebbe rimesso la
pelle: assassinata da una gangbang letale di scheletri. La moltitudine
si ritirò e ne scaturì uno stivale che la mandò al tappeto. Gli schele-
tri la immobilizzarono a terra mentre scalciava, sputando e sangui-
nando, nel tentativo di arrivare a Harrow: attorniata dai suoi lecca-
piedi ghignanti, meditabonda, serena. Harrowhark mollò un calcio
in faccia a Gideon.
Per qualche secondo tutto fu rosso, nero e bianco. Con il cranio
che le penzolava di lato, Gideon tossì e sputò un dente. Senza fiato,
continuò a dimenarsi per rimettersi in piedi. Lo stivale le schiacciava
la gola, premeva sempre più giù sempre più giù sempre più giù, sep-

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pellendola a forza nel pavimento coriaceo di terra battuta. L’atterrag-


gio della navetta sollevò un turbine di polvere pungente e spazzò via
diversi scheletri. Harrow li congedò e questi si afflosciarono in muc-
chietti immobili di materiale anatomico.
«Sei patetica, Griddle» disse la Signora della Nona. Dopo l’ondata
iniziale di adrenalina, i suoi scagnozzi cominciarono a perdere ossa:
si staccavano e cascavano inerti a terra, un braccio qua e una mandi-
bola là, in un traballante disfacimento. Si era sforzata parecchio. At-
torno a loro, a raggiera, c’era un cerchio fatto di buche smosse, sca-
vate nel terriccio compatto, delle minuscole miniere esplose. Harrow
era ferma in mezzo alle sue fosse con il viso accaldato e sanguinolen-
to e un’epistassi gocciolante. Si pulì la faccia con l’avambraccio, con
noncuranza.
«Patetica» ripeté, con la voce leggermente impastata di sangue.
«Alzo il volume. Organizzo un bello spettacolo. Tu ti prendi male.
Rendi sempre tutto così semplice. Mi è costato più disturbo e sudo-
re passare una notte intera a scavare.»
«Hai scavato» rantolò Gideon, decisamente intasata dalla polvere
e dal terriccio, «tutta la notte.»
«Ma certo. Questo pavimento è duro come il demonio, e c’era mol-
to spazio da coprire.»
«Una pazza squilibrata, ecco cosa sei» disse Gideon.
«Proclama, Crux» ordinò Harrowhark.
Fu con malcelatissima gioia che il suo maresciallo decretò: «Un
combattimento regolamentare. L’avversaria è al tappeto. La vittoria
va a Sua Signoria Nonagesimus».
Sua Signoria Nonagesimus si voltò verso i suoi due servitori e alzò
le braccia affinché la cappa accantonata in precedenza le venisse di
nuovo drappeggiata sulle spalle. Tossì e sputò un piccolo grumo di
sangue per terra, allontanando con un gesto della mano Crux, che le
ronzava attorno. Gideon alzò la testa e poi la lasciò ricadere pesan-
temente sul pavimento di terra battuta, disorientata. Aveva freddo.
Aiglamene ora la fissava con un’espressione che Gideon non riusciva
a decifrare. Solidarietà? Disappunto? Senso di colpa?
La navetta toccò terra con i carrelli d’ancoraggio, assicurandosi
saldamente al suolo. Gideon la guardò – le fiancate lucenti, le vento-
le fumanti dei motori – e cercò di tirarsi su sui gomiti. Non ci riuscì;

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le mancava ancora il fiato. Non riuscì neanche a sollevare un treme-


bondo dito medio da rivolgere alla vincitrice: si limitò a continuare a
fissare la navetta, il suo bagaglio, la sua spada.
«Gambe in spalla, Gideon» le disse Harrowhark sputandole un al-
tro grumo di sangue a due centimetri dalla faccia. «Capitana, vai a
riferire al pilota di mettersi comodo e di aspettare: verrà ricompen-
sato per il suo tempo.»
«E se dovesse domandare qualcosa a proposito della passeggera,
mia Signora?» che Dio benedica Aiglamene.
«È stata trattenuta. Che mi faccia la cortesia di attendere per un’o-
ra, diglielo… e scusati. I miei genitori hanno aspettato fin troppo, e
questa faccenda ha richiesto più tempo del previsto. Maresciallo, por-
tala giù al santuario…»

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ACT ONE

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Gideon provò in tutti i modi a perdere i sensi
mentre le dita gelide e ossute di Crux le si serravano attorno a una
caviglia. Per poco non ci riuscì. Si svegliò un paio di volte per sbat-
tere le palpebre nella luce monotona che illuminava il montacarichi
per il fondo del pozzo principale e rimase vigile quando il maresciallo
la trascinò come un sacco di marciume lungo l’anello inferiore. Non
sentiva nulla: niente dolore, niente rabbia, niente delusione. Mentre
veniva trasportata di peso oltre la soglia del Drearburh, provò solo
una sensazione di distacco, di bizzarro stupore. Un fremito di vita la
percorse quando tentò un’ultima volta di fuggire, ma appena Crux
la vide agguantare i tappeti consunti sul lucido pavimento scuro, le
sferrò una pedata in testa. A quel punto svenne davvero per qualche
tempo e si svegliò soltanto quando venne issata su una delle panche
delle prime file. La panca era così fredda che la pelle ci si incollava
sopra e ogni respiro era una pugnalata ai polmoni.
Si riebbe, mezza congelata, udendo le preghiere. Nei rituali della
Nona non venivano pronunciate invocazioni. C’era solo il ticchettare
delle ossa – nocche, tutte intrecciate in cordini annodati, intagliate e
usurate – maneggiate dalle monache con le loro dita decrepite. Pre-
gavano con una tale destrezza da trasformare ogni celebrazione in un
costante brusio di schiocchi. La sala era lunga e stretta e Gideon era
stata scaricata proprio davanti all’altare. C’era molto buio: una chio-
stra di luci a gas costeggiava le navate, ma si accendeva sempre con-
trovoglia per splendere con un certo disappunto. Le arcate sopra di
loro erano state rivestite di polveri bioluminescenti che, a volte, flut-
tuavano giù nella navata in uno stillicidio di glitter verde pallido. Sche-

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GIDEON LA NONA  /  37

letri silenziosi, con ancora addosso la polvere del lavoro nei campi,
sedevano muti nelle cappelle laterali. Gideon diede un’occhiata ap-
pannata alle sue spalle e constatò che nel tempio c’erano quasi esclu-
sivamente scheletri. Un festival degli scheletri. In quella chiesa, lun-
ga e profonda come un canale, c’erano un migliaio di posti ed erano
per metà occupati da scheletri, con persone in carne e ossa distribui-
te sporadicamente qua e là.
Queste sedevano in prevalenza nel transetto: suore velate e mo-
nache di clausura, teste rasate e capelli tagliati corti, gli abitanti mi-
seri e sparuti della Nona Casa. La maggior parte, ormai, era compo-
sta da sacerdoti del Sepolcro Sigillato; non c’erano più stati soldati
o chierici combattenti da quando Gideon era molto piccola. L’unica
superstite fra gli appartenenti a quell’ordine era Aiglamene, che ave-
va lasciato in una remota prima linea – chissà dove e quando – una
gamba e ogni speranza di andarsene da quel cazzo di posto. Il ticchet-
tio nel transetto era occasionalmente interrotto da un raschiante ac-
cesso di tosse grassa o dal rantolo secco di uno schiarimento di gola.
Sull’abside c’era una lunga panca ed è là che sedeva l’ultimo manipo-
lo dell’aristocrazia della Nona Casa: la Reverenda Figlia Harrowhark,
accomodata su un lato con fare modesto, il viso spennellato di pol-
vere fosforescente che le si era appiccicata ai rivoli di sangue che le
uscivano dal naso; le sue lugubri prozie; e i suoi genitori, il Signore e
la Signora della Casa, il Reverendo Padre e la Reverenda Madre. Que-
sti ultimi occupavano un posto di riguardo ai piedi dell’altare, rivolti
verso la congregazione. A Crux era stato accordato l’onore di sedere
su uno scranno in una delle uggiose cappelle, circondato da un mare
di candele – metà delle quali già spente. Accanto a lui sedeva l’unico
paladino della casa, Ortus, un trentacinquenne largo e triste, e, vici-
no a Ortus, c’era la sua illustre madre, una megera che rispondeva in
pieno agli standard della Nona e che continuava a tormentargli un
orecchio con un fazzoletto.
Gideon sbatté le palpebre in modo che la vista smettesse di trabal-
larle e si concentrò sull’abside. Erano ormai due anni buoni che nes-
suno riusciva ad attirarla con l’inganno nel Drearburh, inoltre era un
pezzo che non vedeva il Signore, la Signora e le orripilanti prozie. La
Beata Sorella Lachrimorta e la Beata Sorella Aisamorta erano inal-
terate. Sempre minuscole, con quelle facce severe ancora gocciolanti

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di pittura grigia e, dato che alla Nona di miracoli non se ne verifica-


vano, continuavano a essere cieche. Avevano delle bende nere legate
sul viso, con disegnati sopra due occhi bianchi spalancati. Entrambe
pregavano con due rosari, un cordino in ogni mano rugosa, e se ne
stavano lì a eseguire un ticchettante numero percussionistico a quat-
tro voci con quelle loro dita dalla destrezza sospetta.
Nemmeno Ortus era cambiato. Continuava a essere goffo e scon-
solato. Ormai da ere, il titolo di primo paladino della Nona Casa non
implicava più un particolare prestigio. I paladini delle altre Case po-
tevano anche essere tenuti in grande considerazione, potevano es-
sere uomini e donne di antico lignaggio o dotati di spiccati talenti
– che apparivano di frequente in veste di eroi nelle riviste meno pru-
riginose di Gideon – ma alla Nona tutti quanti sapevano benissimo
che venivi scelto per la quantità di ossa che riuscivi a spostare da qui
a lì. Ortus, in pratica, non era altro che un macabro mulo. Suo pa-
dre – il paladino del padre di Harrow – era stato un uomo enorme e
roccioso, devoto e dotato di una certa solennità, con la sua spada e
due gigantesche bisacce piene di fibule. Ma Ortus non era fatto della
medesima pasta. Accoppiarlo a Harrow era stato un po’ come butta-
re una ciambella a un cobra. Aiglamene, con ogni probabilità, aveva
scaricato le sue frustrazioni su Gideon, visto che Ortus era una tale
palla al piede. Era un ragazzo sensibile e sgradevole, con una madre
che gli dava il tormento: ogni volta che prendeva il raffreddore veni-
va infagottato e costretto a rimanere immobile finché non gli veni-
vano le piaghe da decubito.
Gideon si soffermò anche sul Signore e la Signora, anche se in tut-
ta onestà avrebbe preferito evitarlo. Pelleamena e Priamhark sede-
vano fianco a fianco – una mano guantata posata su un ginocchio e
l’altra unita a quella del partner – e pregavano simultaneamente con
un rosario di ossa intagliate. Drappi neri li avvolgevano dal collo alle
dita dei piedi e i loro visi erano quasi del tutto occultati dai cappucci
scuri: Gideon riusciva a scorgere i loro profili pallidi e cerei, striati di
polvere luminescente – l’impronta delle mani di Harrow era ancora
visibile su entrambi. Avevano gli occhi chiusi. La faccia di Pelleamena
era ancora pietrificata e bella, proprio come l’ultima volta che Gideon
l’aveva vista: le ali scure delle sopracciglia ancora risparmiate dall’in-
grigimento, il sottile reticolo di rughe accanto a ciascun occhio non

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appesantito da nuovi solchi. La linea della mascella di Priam era an-


cora ben definita, le spalle dritte, la fronte limpida e liscia. Non era-
no cambiati affatto; anzi, erano cambiati persino meno delle merdo-
se prozie. Perché? Perché erano morti da anni, tutti e due.
I loro volti mummificati non si arrendevano al tempo visto che
– come Gideon sapeva, e come sapevano anche il maresciallo, la ca-
pitana della guardia e nessun altro nell’intero universo – Harrowhark
li aveva congelati per l’eternità. Da studiosa meticolosissima e riser-
vata qual era, dopo aver scovato un libricino maligno e proibito negli
sconfinati archivi di libricini maligni e proibiti della Nona – a tutte le
altre Case sarebbe venuto un aneurisma collettivo se avessero scoper-
to che l’aveva anche solo aperto – aveva dedotto a caro prezzo chissà
quale tecnica dimenticata per preservare e manovrare i corpi. L’ese-
cuzione non era stata un granché – i suoi genitori erano a posto dalle
spalle in su, ma dalle spalle in giù erano messi male – anche se biso-
gnava considerare che, al tempo, Harrow aveva dieci anni.
Gideon ne aveva undici quando il Signore e la Signora della Nona
Casa incapparono, in gran segreto, in una morte repentina. Le circo-
stanze dell’accaduto erano un bel cazzo di casino: il modo in cui l’ave-
va scoperto, quello che aveva visto. Non si era rattristata. Avrebbe fat-
to lo stesso, anni prima, se si fosse ritrovata una figlia come Harrow.
«Ascoltate» disse la Reverenda Figlia della Nona, alzandosi in piedi.
Il Signore e la Signora in carica avrebbero dovuto officiare il sacro
rituale, ma non potevano, perché erano mortissimi. Harrowhark ave-
va aggirato la cosa con grande praticità, attribuendo loro il voto del
silenzio. Ogni anno aggiungeva qualcosa ai loro voti penitenziali –
il digiuno, la meditazione quotidiana, l’isolamento – in maniera così
meccanica e sfacciata che le pareva inevitabile che qualcuno, prima
o poi, avrebbe esclamato: “Aspetta un secondo, questa storia mi pare
proprio… UN GRAN MUCCHIO DI STRONZATE”, e sarebbe sta-
ta smascherata. Ma non era ancora accaduto. Crux la copriva, e lo
stesso valeva per Aiglamene, e il paladino del Signore aveva opportu-
namente deciso di morire lo stesso giorno in cui era morto Priam. E
così Gideon taceva, detestando ogni istante e serbando quest’ultimo
segreto nella speranza di poterlo utilizzare per estorcergli la libertà.
Tutti i rosari smisero di scrocchiettare. Le mani dei genitori di Har-
row si bloccarono all’unisono, in maniera innaturale. Gideon allun-

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gò le braccia sullo schienale della panca e incrociò le caviglie, augu-


randosi che la testa smettesse di ronzarle.
«La nobile Nona Casa vi raduna qui, oggi» disse Harrowhark, «per-
ché ci è stato elargito un dono di sconfinata importanza. Il nostro sa-
cro Imperatore – il Necrore Supremo, Sovrano delle Nove Rigenera-
zioni, il nostro Resurrettore – ci recapita una convocazione.»
Le chiappe si rimescolarono sulle sedie. Gli scheletri rimasero per-
fettamente immobili e vigili, ma un’ondata di eccitazione lagnosa in-
vestì la congregazione assortita della Nona. Si udirono flebili escla-
mazioni di gioia. Ci furono esternazioni di lode e gratitudine. Anche
se su quella lettera ci fosse stato disegnato un culo, si sarebbero co-
munque messi in tripla fila per baciare il margine del foglio.
«Condividerò con voi la missiva» disse Harrowhark, «perché nes-
suno ama la propria gente, i propri sacri fratelli e le proprie sacre so-
relle quanto la Nona Casa ama il suo popolo – i suoi devoti e i suoi
sacerdoti, i suoi figli e i suoi fedeli.» (A Gideon sembrò che Harrow
stesse calcando un po’ troppo la mano.) «La Reverenda Madre con-
cederà a sua figlia il permesso di leggere?»
Come poteva dire di no, con Harrow che la manovrava come un
burattino. Con un sorriso fioco, Pelleamena inclinò graziosamen-
te la testa come mai aveva fatto in vita sua: da viva si era sempre di-
mostrata fredda e distaccata come il ghiaccio sul fondo di una ca-
verna. «Con il magnanimo benestare di mia madre» fece Harrow, e
cominciò a leggere: «ALL’INDIRIZZO DELLA NONA CASA, DEL-
LA SUA REVERENDA SIGNORA PELLEAMENA HIGHT NO-
VENARIUS E DEL SUO REVERENDO SIGNORE PRIAM HIGHT
NONIUSVIANUS:
«Salutiamo la Nona Casa, benedicendone i sepolcri, i suoi pacifi-
ci defunti e la molteplicità dei suoi misteri.
«Nella Sua Celestiale Magnanimità, il Primo Risorto prega la vo-
stra casa di rendere onore all’amore dovuto al Creatore, come stabili-
to dal contratto di mutuo supporto stipulato nel giorno della Resurre-
zione, e richiede umilmente i primi frutti della vostra discendenza…
(«Qui c’è scritto il mio nome» disse Harrowhark, con falsa mode-
stia, e poi con minore entusiasmo, «e anche quello di Ortus.»)
«Perché bisognosi sono ora i Consiglieri Imperiali, benedetti e cari
al Re Imperituro sopra a ogni cosa, fedeli ed eterni! L’Imperatore chia-

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ma a raccolta i candidati alla carica di Littore, gli eredi degli otto inde-
fessi che hanno prestato servizio negli ultimi diecimila anni: numero-
si fra loro ormai giacciono in attesa che i fiumi si gonfino nel giorno
in cui si risveglieranno al cospetto del loro Re, e i solitari Guardiani
restanti domandano che il loro numero venga rimpinguato e che il
loro Signore fra i Signori trovi otto nuovi vassalli.
«A tale scopo preghiamo la prima della vostra Casa e il suo paladi-
no di inginocchiarsi gloriosamente e di sottoporsi alla più alta fra le
prove, quella che li renderà ossa e articolazioni dell’Imperatore, i suoi
pugni e i suoi gesti…
«Otto, nelle nostre speranze, mediteranno e ascenderanno alla glo-
ria dell’Imperatore nel tempio della Prima Casa, otto nuovi Littori
uniti ai loro paladini; e se il Necrore Sommo li benedirà senza avva-
lersene, avranno facoltà di tornare alle loro dimore con tutti gli ono-
ri, con tamburi e squilli di tromba.
«Ai Suoi occhi, nessun doveroso dono sarà mai altrettanto perfet-
to e gradito».
Harrowhark abbassò il foglio e un lungo silenzio la avvolse; un si-
lenzio vero, senza neanche l’ombra di una nocca da preghiera che tic-
chettava o la mandibola di uno scheletro che cascava. La Nona sem-
brava completamente spiazzata. Si udì uno squittio sfiatato provenire
da una delle panche nel transetto alle spalle di Gideon – era uno dei
fedeli che aveva deciso di fare le cose in grande, procurandosi un
bell’attacco di cuore. Tutti quanti si distrassero. Le monache si pro-
digarono al meglio delle loro possibilità ma, pochi minuti dopo, fu
confermato che lo shock aveva ucciso uno degli eremiti e chi si tro-
vava nei paraggi celebrò la sua sacra buona sorte. Gideon non riuscì a
trattenere una risata mentre Harrowhark sospirava, palesemente in-
tenta a calcolare nella sua testa le conseguenze dell’evento sull’attua-
le popolazione della Nona.
«Mi rifiuto!»
Una seconda mano disturbò la tombale congregazione – era la ma-
dre di Ortus, in piedi con l’indice puntato e tremante, mentre con l’al-
tro braccio cingeva le spalle del figlio. Lui pareva annichilito. Lei aveva
l’aria di una che ben presto avrebbe emulato il devoto defunto nel-
la sua prematura dipartita, il viso paralizzato sotto la base di pitture
alabastrine e una patina lucida di sudore sul teschio dipinto di nero.

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«Mio figlio… mio figlio» esclamò, con voce rotta e stridula, «il mio
adorato primogenito! Il pupillo di suo padre! La mia unica gioia?»
«Sorella Glaurica, per cortesia» disse Harrow, tediata.
La madre di Ortus lo stringeva ora con entrambe le braccia e pian-
geva a dirotto sulla sua spalla. Quelle che le appartenevano, invece,
tremavano paurosamente di autentico terrore. Lui sembrava afflitto
da un’uggiosa depressione. Lei continuò a parlare, tra un singhioz-
zo e l’altro: «Vi ho dato mio marito, Lord Noniusvianus. Vi ho dato
il mio sposo, Lord Noniusvianus. E ora voi mi chiedete anche mio fi-
glio? Volete mio figlio? Certo che no! E di certo non ora!».
«Dimentichi il tuo posto, Glaurica» sbottò Crux.
«So bene cosa c’è in serbo per i paladini, mio signore, conosco il
suo destino!»
«Sorella Glaurica» disse Harrowhark, «calmiamoci.»
«Lui è giovane» implorò la madre di Ortus, accennando a trascinar-
lo al sicuro nella cappella, rendendosi poi conto che Lord Noniusvia-
nus non sarebbe intervenuto per intercedere. «È giovane, non è di co-
stituzione robusta.»
«Alcuni affermerebbero il contrario» commentò Harrowhark
sottovoce.
Ma Ortus dichiarò, con i suoi grandi occhi foschi e un tono piatto
e sconsolato: «Io temo la morte… Harrowhark, mia Signora».
«Un paladino dovrebbe accogliere la morte con favore» disse Ai-
glamene, scandalizzata.
«Tuo padre ha accolto la morte senza battere ciglio» aggiunse Crux.
Di fronte a queste tenere dimostrazioni di solidarietà, sua madre
scoppiò in lacrime. La congregazione borbottava, esternando prin-
cipalmente la propria riprovazione e Gideon cominciò a ringalluz-
zirsi. Non era più il giorno peggiore della sua vita, ormai. Quello era
uno spettacolo di prim’ordine. Ortus, senza divincolarsi dalla sua
singhiozzante genitrice, le mugugnò che avrebbe fatto in modo che
qualcuno si prendesse cura di lei; le atroci prozie ricominciarono a
pregare, gracchiando un inno inarticolato; Crux si mise a ingiuriare
a gran voce la madre di Ortus; e Harrowhark se ne stette là, in mez-
zo al marasma, muta e sdegnosa come un monumento.
«… andatevene e pregate affinché vi venga indicata la via, o ve la do-
vrete vedere con me, vi caccerò da questo santuario» stava dicendo Crux.

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«… a questa casa ho dato tutto; ho pagato il prezzo più alto…»


«… Mortus che sposa un’immigrata dell’Ottavo, ed ecco qua il ri-
sultato. Megera indegna che non sei altro…»
Il sorriso di Gideon si allargò a tal punto che le labbra spaccate ri-
cominciarono a sanguinarle. In quel mare di crani di morti imper-
turbabili e di devoti turbati, gli occhi di Harrowhark incontrarono
i suoi e l’impassibilità di quella maschera sprezzante scivolò via; la
bocca si assottigliò. La folla rumoreggiava. Gideon fece l’occhiolino
a Harrowhark.
«Basta» sbottò la Reverenda Figlia, con la voce affilata come un ra-
soio. «Preghiamo.»
Il silenzio scese sull’assemblea, come i lenti fiocchi cadenti di pol-
vere fosforescente. I singhiozzi della madre di Ortus si smorzarono
in lacrime mute e tremebonde. Seppellì la faccia nel petto del figlio,
che la circondò col braccio pastoso. Piangeva anche lui, affondato nei
capelli di lei, senza emettere suono. L’inno delle orripilanti prozie ter-
minò con una nota acuta e vibrante che si disperse a mezz’aria, sen-
za attenuarsi; Harrow chinò il capo e così fecero i suoi genitori, di-
mostrando la loro simultanea obbedienza. Le prozie abbassarono la
testa verso il torace; Aiglamene e Crux le imitarono a ruota. Gideon
alzò lo sguardo verso il soffitto, accavallò le caviglie cambiando gam-
ba e scacciò con un battito di ciglia i detriti luminescenti che le era-
no finiti negli occhi.
«Prego per il sepolcro, che resti sigillato in eterno» recitò Har-
rowhark, con l’insolito fervore che dimostrava sempre nelle invoca-
zioni. «Prego per la roccia, che non venga mai scostata. Prego per
quel che è sepolto, che rimanga sepolto, inerte, in perpetuo riposo,
l’occhio chiuso e il cervello immoto. Prego che viva e prego che dor-
ma… Prego per il necessario all’Imperatore che tutto concede, il Re
Imperituro, le sue Virtù e i suoi uomini. Prego per la Seconda, la Ter-
za, la Quarta e la Quinta Casa; per la Sesta, la Settima e l’Ottava. Pre-
go per la Nona Casa e per la sua fertilità. Prego per i soldati e per gli
adepti lontani da casa e per tutte le regioni dell’Impero che vivono
nel tumulto e nell’inquietudine. Così sia.»
Pregarono tutti perché così fosse, in un gran sbatacchiare d’ossa.
Gideon non pregava da un pezzo. Lanciò un’occhiata ai teschi calvi
e lucenti degli scheletri radunati e alle teste dei fedeli della Nona, coi

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loro capelli tagliati corti, e si interrogò sulla prima cosa che avrebbe
fatto una volta partita per Trentham. I singulti della scalognata ma-
dre di Ortus interruppero il ticchettio e le fantasticherie ben poco
realistiche di Gideon – c’era lei che faceva le flessioni di fronte a una
dozzina di alti ufficiali plaudenti. Vide Harrow che sussurrava qual-
cosa a Crux, indicando madre e figlio. Il suo viso era il ritratto esan-
gue della pazienza. Crux li scortò fuori dal santuario senza troppi ri-
guardi. Ortus col passo pesante, la madre di Ortus che si reggeva a
malapena in piedi per la disperazione. Gideon, al loro passaggio, sa-
lutò lo sfortunato paladino alzando i pollici: Ortus le rispose con un
sorriso breve e slavato.
A quel punto, l’adunata venne sciolta. La maggior parte della con-
gregazione restò lì per continuare a rendere lode alla propria sorte
propizia, ben sapendo che la Campana Secondariana si sarebbe co-
munque messa a suonare nel giro di un’oretta scarsa. A Gideon sareb-
be piaciuto balzare in piedi e precipitarsi all’istante alla sua navetta,
ma gli scheletri stavano defluendo in ranghi ordinati e serratissimi
lungo la navata centrale, a due a due, bloccando ogni altra possibi-
lità di spostamento con la loro smania di tornare nei campi ai loro
porri gelati e alle lampade riscaldate. Le rivoltanti prozie si ritira-
rono dietro all’inferriata che delimitava da un lato la claustrofobi-
ca cappella di famiglia, e Harrowhark ordinò alle docili mummie dei
suoi genitori di scomparire nel loro consueto nascondiglio – chissà
dove. Nella loro sfarzosa cella domestica, probabilmente, sbarran-
dosi pure la porta dietro. Gideon si stava massaggiando le dita slo-
gate quando la sua maestra di spada le si avvicinò, ondeggiando giù
per il corridoio centrale.
«Sta mentendo» fece Gideon con aria assente, tanto per salutar-
la. «In caso non te ne fossi già accorta. Non mantiene mai le sue pro-
messe. Neanche una volta.»
Aiglamene non le rispose, Gideon non si aspettava che lo facesse.
Si limitò a fermarsi lì, senza incontrare ancora lo sguardo della sua
allieva, con una mano piena di macchie color vinaccia che stringeva
saldamente l’impugnatura della spada. Alla fine, disse, burbera: «Sei
sempre stata carente in quanto a senso del dovere, Nav. Non puoi ne-
garlo. Non riusciresti a scrivere bene la parola impegno neanche se ti
ficcassi le letterine su per il culo».

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«Non credo aiuterebbe, lasciatelo dire» commentò Gideon. «Sono


felice che non sia stata tu a insegnarmi a scrivere, santo Dio.»
«La miglior qualità per un soldato è la fedeltà. La lealtà. Null’al-
tro sopravvive.»
«Lo so» disse Gideon e, in via sperimentale, si alzò dalla panca. Si
reggeva in piedi senza problemi, ma le facevano male le costole; una
doveva essersi incrinata. E le facevano male le chiappe per essere stata
trascinata. Al calar della sera si sarebbe ritrovata piena di lividi gon-
fi e aveva bisogno che le riattaccassero un dente – ma non si sareb-
be rivolta a una delle monache, mai più. Alla Coorte avrebbe trovato
maghi ossei in abbondanza. «Lo so. Va bene. Non fraintendermi, Ca-
pitana. Ti prometto che piscerò fedeltà dalla mattina alla sera, quan-
do arriverò là. In me c’è un sacco di lealtà. Sono leale all’Imperatore
con ogni fibra del mio corpo. Fedeltà a pacchi.»
«Non capiresti cos’è la fedeltà neanche se te la…»
«Non infilarmi altra roba ipotetica su per il culo» disse Gideon.
«Non è mai di grande utilità.»
La vecchia sbilenca si sganciò un fodero dalla schiena e glielo por-
se stancamente. Era di Gideon. La spada vi era stata nuovamente ri-
posta, al sicuro. Aiglamene le buttò pure la sacca abbandonata. Era
il gesto più somigliante a delle scuse che poteva aspettarsi di riceve-
re. Quella donna non l’avrebbe mai toccata e lei non le avrebbe mai
rivolto una sola parola priva di spigoli affilati. Per una come la capi-
tana della guardia, però, quello era un gesto quasi tenero, e Gideon
non esitò ad accettarlo.
Dei passi determinati riecheggiarono lungo la navata, accompagna-
ti dal fruscio del pizzo antico sull’ossidiana lucida. A Gideon si an-
nodarono le budella, ma disse: «Come diavolo pensi di uscirne que-
sta volta, Nonagesimus?».
«In nessun modo» fece Harrow, cogliendola di sorpresa. La Reve-
renda Figlia buttò in fuori il mento angoloso e scaltro e, anche se ave-
va ancora una spessa bordatura sanguinolenta attorno a ciascuna na-
rice, con quegli occhi neri fiammeggianti aveva l’aria esaltata di una
perfida santa scheletrica. «Io ci vado. È la mia occasione per ottene-
re l’intercessione. Tu non puoi capire.»
«Non capisco, ma non potrebbe fregarmene di meno» disse Gideon.
«Tutti abbiamo le nostre occasioni, Nav. Tu hai avuto la tua.»

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Gideon avrebbe voluto ridurla all’incoscienza a suon di pugni, ma


invece disse, con allegria forzata: «Comunque, ho indovinato il tuo
trucchetto schifoso, cretina».
Aiglamene non la rimproverò – e anche quello poteva essere in-
terpretato come un gesto di scuse – si limitò a metterla in guardia
puntandole contro un dito. Harrow sollevò il mento, sinceramente
sorpresa, e il cappuccio cascò all’indietro, scoprendole i capelli scuri
tagliati corti. «Ma davvero» scandì lentamente. «Sul serio?»
«La firma di tua madre sul contratto. La trappola. Se vuoto il sac-
co» le disse, «la firma diventa nulla, no? È il prezzo del mio silenzio.
Bella trovata. Quando consegnerò quella roba dovrò tenere la bocca
chiusa, e tu lo sapevi.»
Harrowhark si voltò dall’altra parte, con noncuranza.
«A quello non ci avevo nemmeno pensato» fece. «Credevo che ti
riferissi alla navetta.»
Nella testa di Gideon suonò l’allarme, somigliava a una fragoro-
sa mescolanza tra la Prima e la Seconda Campana. Sentì il calore
defluirle dalla faccia e, in un istante, si ritrovò lontana dalla panca.
Arretrava lungo il corridoio laterale, pronta a girare i tacchi. Il viso
di Harrowhark era il ritratto studiato dell’innocenza, dell’indifferen-
za perfetta. Accorgendosi dell’espressione di Gideon, Aiglamene ave-
va portato la mano alla spada, frapponendosi tra le due con un ton-
fo ammonitore della gamba.
Gideon disse, a fatica: «Che-cosa-c’entra-la-navetta?»
«Oh, Ortus e sua madre l’hanno rubata» fece Harrowhark. «Se ne
sono già andati, di sicuro. Lei ha ancora dei parenti all’Ottava, ed è
convinta che li accoglieranno.» Vedendo la sua faccia, Harrow scop-
piò a ridere. «Con te è tutto così facile, Griddle. Come sempre.»

* * *

Gideon non si era mai trovata alle prese con un cuore spezzato, pri-
ma. Non si era mai spinta abbastanza in là da farselo spezzare. Si in-
ginocchiò sul ghiaietto della pista d’atterraggio, le braccia strette at-
torno al corpo. Sui sassolini non restavano che le impronte fioche e
i segni arricciolati del passaggio della navetta. Un potente torpore si
impossessò di lei, un gelo profondo, un’insensibilità impenetrabile.

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Il cuore le batteva nel petto con un dolore immenso e regolare. Ogni


pulsazione sembrava una parentesi tra l’imperturbabilità e una col-
tellata. Per qualche istante era sveglia, animata da un fuoco a lenta
combustione, come quello delle miniere, un fuoco che non si spegne
mai e sgretola ogni cosa dall’interno; il resto del tempo, invece, era
come se fosse da un’altra parte.
Dietro di lei c’era la Signora della Nona Casa, che la osservava sen-
za compiacimento.
«Mi è giunta voce del tuo piano solo la settimana scorsa» ammise.
Gideon non replicò.
«Una settimana prima» proseguì Harrow. «Non avrei mai scoper-
to nulla, se non mi fosse arrivata la convocazione. Non hai sbagliato
niente. Mi hanno detto che potevo spedire la mia risposta con la na-
vetta che avevo già prenotato, se ci tenevo a metterla nero su bianco.
Devo dartene atto: non avresti potuto prevederlo, in nessun modo. Po-
tevo mandare tutto a rotoli anche prima, ma ho voluto aspettare fino
all’ultimo per fare la mia mossa. Volevo aspettare… l’esatto momento
in cui ti saresti convinta di averla fatta franca… per portarti via tutto.»
«Perché?» fu tutto quello che Gideon riuscì a chiederle.
L’espressione della ragazza era identica a quella del giorno in cui
Gideon aveva trovato i suoi genitori che penzolavano dal soffitto del-
la loro cella. Era vuota, candida, immobile.
«Perché ti odio con tutta me stessa, cazzo» disse Harrowhark.
«Senza offesa.»

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Sarebbe stato più armonioso, forse, se tutte le
delusioni e i dolori accumulati da Gideon dalla nascita in poi avesse-
ro utilizzato quel momento come catalizzatore; se, traboccante di una
determinazione rinnovata e bellicosa, si fosse equipaggiata – laggiù
nell’oscurità – per riconquistare la libertà con rigenerata ambizione.
Ma non accadde. Le venne la depressione. Rimase coricata nella sua
cella, spiluccando la vita come se si trattasse di un pasto che non in-
tendeva consumare. Non toccò la spada. Non uscì a correre attorno
ai campi coltivati, fantasticando su come dovessero svolgersi le gior-
nate di una recluta della Coorte. Rubò una cassa della crema nutrien-
te che aggiungevano ai porridge e alle zuppe destinati ai fedeli della
Nona e, quando le veniva fame, se ne spremeva un po’ in bocca men-
tre sfogliava fiaccamente una rivista. Poi tornava a stendersi sul letto
o ad accartocciare il corpo a furia di addominali, per ammazzare il
tempo. Crux le aveva rimesso il braccialetto di sicurezza alla caviglia,
che sferragliava quando Gideon si muoveva – spesso senza neanche
prendersi il disturbo di accendere la luce – cigolando nell’oscurità.
Una settimana di riposo fu tutto quello che ottenne. Poi spuntò la
Reverenda Figlia, come faceva ogni stramaledetta volta, e si fermò da-
vanti alla porta chiusa della sua cella. Gideon sapeva che era lì per-
ché le ombre di fronte alla finestrella erano cambiate, e anche perché
non poteva trattarsi di nessun altro. La salutò con un «Vaffanculo»
e passò alle flessioni.
«Smettila di tenere il muso, Griddle.»
«Ma ficcati un cazzo in gola.»
«Ho del lavoro per te» disse Harrowhark.

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Gideon si bloccò con le braccia alla loro massima estensione, fis-


sando il pavimento freddo sotto di lei, senza vederlo veramente, col
sudore che le si gelava sulla schiena.
La costola le faceva ancora male quando respirava, il ceppo le pesa-
va sulla caviglia, una delle monache le aveva rimesso a posto il dente
con una martellata troppo forte e tutte le volte che starnutiva sentiva
un male dell’Imperatore. «Nonagesimus» le disse lentamente, «l’uni-
co lavoro che farei per te è tenerti ferma la spada mentre ti ci butti so-
pra. L’unico lavoro che farei per te è pigliarti a calci in culo così forte
da riaprire il Sepolcro Sigillato, con tanto di parata che viene fuori per
cantarti “Lallallero! Un culo sfasciato!”. L’unico lavoro che farei per te è
guardarti mentre ti tuffi in carpiato nel Drearburh dall’ultimo livello.»
«Sono tre lavori» commentò Harrowhark.
«Datti fuoco, Nonagesimus.»
Sentì armeggiare, da fuori; il raschiare leggero del fermaglio di un
orecchino che veniva sfilato e poi introdotto nella cella attraverso il
reticolo della finestrella. Troppo tardi, Gideon si alzò precipitosamen-
te per ributtarlo fuori, come si farebbe con una granata; ma la perli-
na dell’orecchino di Harrow era già atterrata nella sua cella e, da quel
minuscolo frammento di osso scaturirono omero, radio e ulna. Una
mano scheletrica tastò in giro alla cieca, afferrò la chiave nella ser-
ratura e la girò, nonostante il colpo vibrato dallo stivale di Gideon,
che la frantumò in minuscole schegge, trasformando tutto in polve-
re, orecchino compreso. Harrowhark Nonagesimus spalancò la porta,
incorniciata dalla fioca illuminazione elettrica del livello: il suo fac-
cino pungente le risultò gradito quanto una ginocchiata nell’inguine.
«Se vuoi fare qualcosa di interessante, vieni con me» le ordinò. «Se
vuoi crogiolarti nelle tue riserve di autocommiserazione dalla sor-
prendente vastità, tagliati la gola e risparmiami le spese per il vitto.»
«Oh, cavolo! Così mi potrò unire ai tuoi vecchi per lo spettacolo
delle marionette?»
«Che gran dolore patirebbe il mondo, dovendo rinunciare al tuo
sarcasmo» disse Harrowhark, piatta. «Prendi la veste. Andiamo giù
nelle catacombe.»
Era quasi gratificante, rimuginò Gideon mentre combatteva con le
pieghe nere della sua tonaca monacale, che l’erede della Nona Casa
si rifiutasse di camminare con lei sul lato interno del livello: cammi-

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nava, invece, rasente al muro, mantenendosi dietro a Gideon a mez-


zo passo di distanza, tenendole d’occhio mani e spada. Quasi gratifi-
cante, ma non del tutto. Harrow riusciva a rendere offensivo persino
un eccesso di cautela. Dopo parecchi giorni passati soltanto con una
piccola lampada da lettura, la luce fredda del pozzo della Nona le tra-
figgeva gli occhi: Gideon sbatté le palpebre, miope, mentre il monta-
carichi le trasportava giù sferragliando, verso le porte del Drearburh.
«Non stiamo andando al tempio interno, vigliacca che non sei al-
tro» disse Harrow mentre Gideon arretrava. «Andiamo al monu-
mento. Vieni.»
Gli ascensori che scendevano nelle fetide viscere del Drearburh era-
no delle trappole mortali. E quelli che avrebbero usato ora, giù fino
alle cripte, erano particolarmente malandati. Quello su cui attualmen-
te si trovavano era una piattaforma aperta di metallo ossigenato tutto
scricchiolante, incastrata dietro a una porta di ferro che Harrow aprì
con un chip a chiave che portava attorno al collo. Mentre scendeva-
no, l’aria che veniva loro incontro dalle profondità era così fredda che
a Gideon cominciarono a lacrimare gli occhi; si calò il cappuccio del
mantello sulla fronte e cacciò le mani nelle maniche. Il meccanismo
centrale sepolto che rendeva possibile l’esistenza della loro fossa sul
pianeta intonava la sua canzone sommessa e piagnucolosa, riempien-
do la tromba dell’ascensore e affievolendosi man mano che si spinge-
vano sempre più giù nella roccia. L’oscurità era fittissima.
Una luce cruda e intensa inondò il pianerottolo e le due uscirono
in un labirinto di gabbioni pieni di generatori ronzanti che nessuno
sapeva azionare. Le macchine stazionavano solitarie nelle loro gelide
nicchie, tra le ghirlande di carta crespa nera dei devoti della Nona da
tempo defunti, costringendo Gideon e Harrow a passarci in mezzo a
un braccio di distanza l’una dall’altra. La caverna si restringeva in un
corridoio e il corridoio terminava con una porta bitorzoluta; Harrow
la aprì con una spinta e fece strada in una sala oblunga di nicchie in-
golfate di ossa, copie mediocri di maschere funerarie, fagotti fascia-
ti e reperti tombali pesantemente antichi.
Sobbarcandosi il compito di saccheggiare quanti più fagotti avvol-
tolati possibili, Aiglamene si era inginocchiata accanto a una delle nic-
chie. Invece della tonaca della Nona, indossava un paio di guanti e una
giacca di lana spessa, che le conferiva le sembianze di un marshmal-

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low infilzato da quattro stecchini di lunghezze diverse. Aveva un’e-


spressione particolarmente ingrugnata, da esaurimento post-batta-
glia, mentre rovistava in mezzo a un centinaio di spade in variegato
stato di decomposizione con accanto un cesto pieno di pugnali e un
mucchietto di noccoliere lamate. Alcuni erano arrugginiti in manie-
ra infernale, altri arrugginiti in maniera infernale solo per metà. Sta-
va esaminando una spada, strofinando mestamente lo strato di detri-
ti che si era accumulato sulla lama.
«È un piano destinato alla rovina» disse loro, senza alzare lo sguardo.
«Buone nuove, Capitana?» domandò Harrowhark.
«Sono tutti reperti archeologici, mia Signora.»
«Che disgrazia. Ortus cosa prediligeva di recente?»
«In tutta sincerità» disse Aiglamene, «Ortus prediligeva la mam-
ma e un libro di poesie tristi. Suo padre l’aveva addestrato a combat-
tere con spada e brocchiero, ma dopo la sua morte…» Proseguì con
una scricchiolante alzata di spalle. «Anche all’apice delle sue abili-
tà, era uno schermidore scarsissimo. Non ha preso da suo padre. Io
l’avrei addestrato con spada e polvere da sparo, ma mi ha detto che
aveva il catarro.»
«Ma avrà sicuramente avuto una buona spada.»
«Dio santo, no» fece Aiglamene. «Era una lega oleosa densa, con
la punta di gomma. Più leggera del cervello di Nav.» («Non offendia-
mo!» esclamò Gideon). «No, mia Signora. Sto cercando una lama di
foggia paragonabile a quella della sua bisnonna. E un pugnale, o una
noccoliera.»
«Polvere» disse Harrowhark, decisa «o catena.»
«Un pugnale, ritengo, mia Signora» ripeté la sua capitana, con più
deferenza e gentilezza di quanto Gideon sospettasse la vecchia fos-
se fornita. «Pugnale o noccoliera. Già arrangiarsi col coltello sarà di
una difficoltà quasi insormontabile. Si combatte nella mischia. Una
catena a distanza ravvicinata rappresenterebbe più un pericolo per
se stessi che per gli altri.»
Gideon aveva deciso già da un pezzo che quello non era un buon po-
sto dove stare e che i piani che andavano delineandosi lì non erano di
suo gradimento. Cominciò ad arretrare pian piano, verso l’entrata, muo-
vendosi nella maniera più furtiva possibile. Ma Harrow si materializzò
all’improvviso, schiacciata tra due pilastri con le braccia sollevate sopra

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la testa: i lunghi drappi del mantello nero le penzolavano lungo le brac-


cia, facendola somigliare a una barriera stradale a forma di pipistrel-
lo. «Oh, no… Nav» disse con calma. «Non puoi, sei in debito con me.»
«In debito con te…»
«Certo, come no» disse Harrowhark. «Il mio paladino è scappa-
to sulla tua navetta.»
Il pugno di Gideon saettò verso il nasino a punta di Harrow. La
ragazza lo schivò traballando – più per caso che per espressa volon-
tà – e, con un mezzo inciampo, girò attorno al pilastro, scrollando-
si la polvere di dosso. La squadrò. «Se vuoi ricominciare con questa
solfa, ecco qua…» le disse.
Si chinò e tirò su una delle spade dismesse. Vedere Harrow che
cercava di sollevarla con tutta la potenza dei suoi, tipo, tre muscoli
si rivelò piuttosto spassoso, per lo meno. Gideon la prese mentre la
necromante, massaggiandosi forsennatamente i polsi, le disse: «Pro-
va quella.»
Gideon sfoderò lo spadino e lo esaminò. Lunghi listelli neri di me-
tallo contorto formavano un’elsa a cesto malridotta. Il sigillo sul po-
molo, straordinariamente usurato, raffigurava il Sepolcro avvolto dalle
catene, il simbolo della Nona. La lama stessa era dentellata e crepata.
«Il tetano. Ecco l’unico modo per ammazzare qualcuno con quest’af-
fare» commentò lei. «Comunque, come farete a riprendervi Ortus?»
Possibile che Harrow le fosse sembrata preoccupata, per un istan-
te? «Non lo faremo proprio.»
«Aiglamene è troppo vecchia.»
«Ed è per questo che tu, Griddle» disse la Signora, «dovrai subentra-
re ufficialmente come prima paladina della Nona Casa. Mi accompa-
gnerai alla Prima Casa durante i miei studi per conquistare il Littora-
to. Sarai la mia guardia personale e la mia leale e diligente compagna.
onorando la sacra nomea di questa Casa e della sua gente.»
Quando Gideon smise di sganasciarsi, picchiando la mano sul pi-
lastro gelido contro cui si era accasciata, fu costretta a fare dei gran
respiri profondi per non scoppiare di nuovo a ridere. La smorfia di
tormento sul volto profondamente segnato di Aiglamene si era ac-
centuata, trasformandola nel ritratto di un’assediata. «Ahhh» riuscì a
dire, asciugandosi le lacrime. «Oh, cavolo. Datemi un secondo. Okay,
col cazzo che lo faccio, Nonagesimus.»

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Harrow sbucò da dietro il pilastro e marciò verso Gideon, le mani


ancora giunte. Il suo viso conservava la stessa espressione estatica al
calor bianco che aveva anche il giorno in cui aveva annunciato a Gi-
deon che avrebbe lasciato il pianeta: una risolutezza incrollabile che
somigliava quasi alla gioia. Le si fermò di fronte e la guardò, liberan-
do la testa scura dal cappuccio e riducendo gli occhi a fessure sotti-
li. «Andiamo, Nav» le disse, in tono acceso. «Questa è la tua possi-
bilità. È la tua occasione per conquistare la gloria. Seguimi in questa
faccenda e potrai andare ovunque. I paladini delle Case possono far-
si assegnare il posto che vogliono nella Coorte. Fallo per me e non
solo ti darò la libertà, ma ti libererò con una fortuna, un contratto,
con tutto quello che vuoi.»
Lo trovò irritante. «Io non ti appartengo.»
«Oh, Griddle, invece sì» disse Harrowhark. «Sei legata al Sepol-
cro Sigillato… e, in fin dei conti, il Sepolcro Sigillato sono io. I Con-
siglieri nominati entreranno a far parte della Prima Casa, Nav; i loro
nomi saranno ricordati dalla storia come quelli dei nuovi santi Im-
periali. Prima d’ora non era mai accaduto nulla di simile, e potrebbe
non accadere mai più. Nav, diventerò Littrice.»
«Ciao, sono la donna che ha aiutato quella fascista di Harrowhark
Nonagesimus a salire al potere» disse Gideon a nessuno in particola-
re. «Sì, ora l’universo fa schifo. Lo sapevo già, quando ho accettato. E
mi ha anche tradito, alla fine, e ora il mio cadavere verrà sparato nel
sole.» Harrow si era avvicinata troppo e Gideon fece quello che in pas-
sato non aveva mai fatto: sollevò la spada arrugginita, portando la pun-
ta scoperta all’altezza della fronte dell’altra ragazza. La necromante non
fece una piega, si limitò soltanto ad atteggiare la bocca tinta di nero in
un derisorio broncio stupito. «Non-mi-fiderò-mai-di-te. Le tue pro-
messe non valgono niente. Non hai nulla da darmi. So che cosa faresti,
se ne avessi anche solo mezza possibilità.»
Gli occhi scuri di Harrow erano puntati in quelli di Gideon, ol-
tre la lama rivolta al suo cranio. «Oh, ma allora ho ferito i tuoi sen-
timenti» fece lei.
Gideon continuò a mantenere la lama perfettamente orizzontale.
«Ho frignato per giorni.»
«Non sarà di certo l’ultima volta che ti faccio piangere.»
La voce gracchiante di Aiglamene si intromise: «Metti giù quell’ag-

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geggio, che diavolo. Non sopporto di vedertelo impugnare in quel


modo». E aggiunse, con somma sorpresa di Gideon: «Valuta l’offer-
ta, Nav».
Gideon sbirciò oltre la spalla di Harrow, abbassò la lama e buttò
quell’arnese miserabile, senza manco il fodero, nella nicchia più vi-
cina. «Capitana, per favore, non vorrai davvero sostenere quest’idea
di merda.»
«È l’idea migliore che abbiamo, Nav» disse la sua insegnante. «La
nostra Signora lascerà il pianeta. Né più né meno. Puoi restare qui
– nella Casa che detesti – o puoi andare a conquistarti la libertà –
servendo la Casa che detesti. È la tua opportunità per andartene, per
guadagnarti la libertà in maniera legittima.»
Harrowhark aprì la bocca per dire qualcosa ma, continuando a sor-
prendere Gideon, Aiglamene la zittì con un cenno. Le spade schifose
vennero riposte con cura e l’anziana donna distese la gamba piegata,
fece leva con quella buona contro la parete della catacomba e spin-
se con forza per tirarsi in piedi in un clangore di cotte di maglia e di
malattie ossee. «Non te ne frega niente della Nona. Va benissimo. Ma
questa è un’opportunità per mettere alla prova te stessa.»
«Non aiuterò Nonagesimus a diventare Littrice. Mi scuoierà e mi
trasformerà in un paio di stivali.»
«Ho disapprovato i tuoi tentativi di fuga» disse Aiglamene. «Era-
no grossolani e inefficaci. Ma» si rivolse all’altra ragazza «con tutto
il dovuto rispetto, mia Signora, le avete reso la vita fin troppo diffici-
le. Odio questo piano. Se avessi dieci anni di meno, vi implorerei di
acconsentire a portarmi con voi. Ma visto che non intendete impe-
gnarvi per lei, dovrò farlo io.»
«Devi proprio?» disse Harrow. C’era una bizzarra delicatezza nel
suo tono. Gli occhi neri scrutavano la capitana della sua guardia in
cerca di qualcosa che pareva non riuscissero a trovare.
«Devo» disse Aiglamene. «Lascerete me e Crux alla guida del-
la Casa. Se mi impegno a favore della libertà di Gideon Nav e non le
sarà concessa, allora – e chiedo il vostro perdono per la mia ingrati-
tudine – finirei per tradire me stessa, che sono la vostra servitrice e
sono stata la servitrice di vostra madre.»
Harrowhark non disse niente. La sua espressione si fece rarefatta e
pensierosa. Ma non fregò Gideon: di solito, quell’aria accompagnava le

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macchinazioni del cervello di Harrow, intento a escogitare chissà qua-


le sconvolgente nefandezza. Ma Gideon non riusciva a riflettere con
lucidità. Un’orrenda ondata di calore scarlatto le stava risalendo lun-
go il collo e sapeva che, se non fosse intervenuta, le sarebbe arrivata
dritta alle guance, quindi si tirò il cappuccio sulla testa e non disse una
parola – non riusciva nemmeno a guardare la sua maestra di spada.
«Se sarete soddisfatta di lei, dovrete lasciarla andare» disse Aigla-
mene con fermezza.
«Ma certo.»
«Con tutte le generose garanzie della Nona.»
«Oh, se ce la farà potrà avere tutto quello che vuole» disse
­Harrowhark, tranquilla, troppo tranquilla. «Sprizzerà gloria da ogni
orifizio. Potrà fare o essere tutto quello che le pare, preferibilmente
sul lato opposto della galassia rispetto a dove mi troverò io.»
«Allora vi ringrazio per la vostra magnanimità e il vostro garbo, e
considererò chiusa la questione» affermò Aiglamene.
«Ma come chiusa. Non ho ancora accettato di fare un cazzo di niente.»
Entrambe ignorarono Gideon. «Tornando al problema originario»
disse l’anziana donna, accovacciandosi di nuovo – e dolorosamen-
te – in mezzo a spade e pugnali, «Nav non ha avuto l’addestramento
di Ortus, né per quanto riguarda il contegno e neppure a livello di
erudizione generale. Il suo addestramento verte, invece, sullo spa-
done da fanteria pesante.»
«Lasciamo perdere il primo; le sue carenze mentali possono esse-
re compensate. È il secondo aspetto che mi preme. Quanto può es-
sere difficile per uno spadaccino normale passare da un’arma a due
mani allo stocco da paladino?»
«Per uno spadaccino normale? Raggiungere il livello del primo pa-
ladino di una Casa? Ci vogliono degli anni. Per Nav? Tre mesi…» (qua,
Gideon schiattò brevemente d’orgoglio; e resuscitò soltanto a causa
del crescente orrore di quanto seguì) «… e potrebbe eguagliare il più
infido tra i paladini incapaci.»
«Oh, sciocchezze!» disse Harrow, languida. «Lei è un genio. Con
le giuste motivazioni, Griddle potrebbe gestire due spade per mano e
un’altra in bocca. Mentre noi eravamo impegnate a sviluppare un po’ di
buonsenso, lei ha studiato l’arte della lama. Non ho ragione, Griddle?»
«Non ho acconsentito a un beato cazzo» disse Gideon. «E non me

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ne frega niente di quanto sono ganzi i paladini, io li odio quegli spa-


dini. Tutto quel saltellare di qua e di là mi sfinisce. Uno spadone a due
mani, invece… ecco, quella sì che è una spada da guerrieri.»
«Non dissento» disse la sua insegnante, «ma il campione di una
Casa – con l’addestramento opportuno – è un’entità assolutamente
temibile. Ho visto il primo paladino della Seconda Casa combattere,
in gioventù, e Dio santo! Non l’ho mai dimenticato.»
Harrow ora camminava in tondo, descrivendo cerchi sempre più
piccoli. «Ma si potrebbe arrivare a un punto in cui sarebbe possibi-
le, magari, farla passare per un paladino credibile e addestrato del-
la Nona Casa?»
«La reputazione del primo paladino della Nona non è più quella
di una volta, ma già dai tempi di Matthias Nonius» disse Aiglamene.
«E sono passati mille anni. Le aspettative sono molto basse. Perfino
così, dovremmo ritenerci fortunate.»
Gideon si scostò dal pilastro, scrocchiò le nocche e si stiracchiò i
muscoli infreddoliti. Fece roteare il collo, si sgranchì le spalle e si di-
stricò dalla veste.
«Vivo per giornate come questa, con tutti quanti che stanno lì con
le mani in mano a discutere di quanto io faccia schifo a fare quello
che faccio – certo, feriscono anche un po’ i miei sentimenti» com-
mentò lei, riprendendo la spada che aveva gettato via come spazzatu-
ra. La soppesò, percependo quella che per lei era una leggerezza in-
concepibile, e assunse una posizione che le pareva plausibile. «Come
mi vedi, Capitana?»
La sua insegnante emise un suono gutturale a metà tra il disgusto
e la desolazione. «Che cosa stai facendo con quell’altra mano?» Gi-
deon si aggiustò. «No! Oh, Signore. Mettila giù finché non ti avrò in-
segnato formalmente come fare.»
«La spada e la polvere» esclamò Harrowhark, con insistenza.
«La spada e il guanto, mia Signora» disse Aiglamene. «Sto ridu-
cendo le mie aspettative in modo sostanziale.»
Gideon disse: «Non ho ancora accettato di fare un bel niente, ma
manco lontanamente».
La Reverenda Figlia le si avvicinò, facendosi strada tra le spade scar-
tate. Si fermò quando raggiunse il pilastro contro il quale Gideon si
era appiattita, d’istinto. Si squadrarono a vicenda per un lungo istan-

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te, finché il gelo assoluto del monumento non fece involontariamen-


te battere i denti a Gideon e, a quel punto, la bocca di Harrow si pie-
gò in una fugace espressione d’indulgenza. «Pensavo che saresti stata
contenta, visto che ho bisogno di te» ammise. «Visto che ti ho mo-
strato il mio cuoricino giovane e vulnerabile.»
«Sul tuo cuore inviterei cinquemila chiodi a far festa» fece Gideon.
«Non è un “no”. Aiuta Aiglamene a trovarti una spada, Griddle. La-
scerò la porta aperta.» E con quell’ordine languido e imperioso, se ne
andò, lasciando Gideon a sbattere la nuca contro la pietra glaciale del
pilastro e a masticarsi l’interno della guancia.
Restare lì da sola con la sua insegnante di scherma era quasi peg-
gio. Un imbarazzante silenzio polare si era espanso fra loro mentre
la vecchia frugava, scorbutica, nel mucchio, sollevando ogni stocco
alla luce e scollando dalle impugnature fettucce di pelle putrefatta.
«Insomma, è una pessima idea, ma è pur sempre una possibilità»
disse Aiglamene all’improvviso. «Prendere o lasciare.»
«Pensavo avessi detto che era la nostra miglior opzione.»
«È così, per sua Signoria Harrowhark. Tu sei la miglior spadaccina
che la Nona Casa abbia prodotto… in assoluto, forse. Ma non ne ho
la certezza. Io non ho mai visto Nonius combattere.»
«Già, saresti stata… cosa? Una neonata, tipo» fece Gideon, con un
ardente mal di cuore.
«Chiudi il becco o te lo chiudo io.»
Le spade sferragliarono in una cassa rivestita di cuoio mentre Ai-
glamene ne selezionava un paio lì nelle vicinanze, buttandoci dentro
anche qualche noccoliera lamata. La cassa scricchiolava e la vecchia,
sporgendosi in avanti, scricchiolò anche lei, piena di dolorosa dignità.
Si appoggiò sul ginocchio mezzo buono per alzarsi in piedi. Gideon
fece per avvicinarsi, istintivamente, ma bastò uno sguardo dall’occhio
ancora funzionante della donna per spingerla a fingere di essere arri-
vata lì solo per infilarsi di nuovo la tunica. Aiglamene si issò la cassa
in spalla, ricacciando a pedate nella nicchia le armi scartate e strap-
pando dalla presa fiacca di Gideon lo spadino inservibile.
Si fermò, con le dita che stringevano l’elsa, il viso cascante perso
nei suoi pensieri. Una battaglia titanica si stava svolgendo, all’appa-
renza, nelle profondità della sua testa. Una compagine ebbe il soprav-
vento e disse, burbera: «Nav. Un avvertimento».

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«Cosa?»
Nel suo tono c’era qualcosa di concitato: una specie di preoccupa-
zione, qualcosa di nuovo.
«Le cose stanno cambiando. Prima credevo che stessimo aspet-
tando qualcosa… ma ora stiamo solo aspettando di morire, penso.»
Il cuore di Gideon sprofondò.
«Vuoi proprio che dica di sì.»
«Puoi anche dire di no, fai pure» disse la sua capitana. «La scelta è
tua… se non ti porterà con lei, con lei ci andrò io – e pure volentieri.
Ma lei lo sa… e anch’io lo so… e diavolo, penso che anche tu lo sap-
pia benissimo… se non te ne vai adesso, non riuscirai ad andartene
neanche da morta.»
«Cosa succede se accetto?»
Spezzando l’incantesimo, Aiglamene buttò con una spallata – e sen-
za troppi complimenti – la cassa fra le braccia di Gideon e si avviò
verso il passaggio che Harrow aveva lasciato aperto per loro. «Suc-
cede che dobbiamo spicciarci. Se devo trasformarti nella Nona pala-
dina, dovevo cominciare sei anni fa.»

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La seconda lettera che fu loro recapitata da par-
te del Re Risorto, il benevolo Imperatore, si rivelò un po’ meno pro-
lissa della prima.
Si erano rifugiate nella biblioteca personale di Nonagesimus, una
sala ad arcate di pietra ingombra di mensole cariche dei libri ammuf-
fiti e trascurati che Harrowhark non aveva studiato e di quelli meno
ammuffiti e trascurati che invece aveva studiato. Gideon era seduta
vicino a un grande tavolo traballante, fra imponenti montagne di pa-
gine ricoperte di annotazioni necromantiche, per la maggior parte
nella grafia contorta e impaziente di Harrow. Reggeva la lettera da-
vanti a sé con una mano; con l’altra, si stava dipingendo controvo-
glia la faccia, usando una spugnetta di tessuto e un vasetto di tinta
d’alabastro. Si sentiva di una giovinezza insensata. Il colore aveva un
odore freddo e acido. Riuscire a cacciare quella maledetta roba nel-
le pieghe attorno al naso significava passare una giornata intera a ri-
succhiare grumi di pittura dalle narici. Harrow era stravaccata su un
divano, in mezzo a broccati sbrindellati e mantelli abbandonati, con
le gambe secche fasciate di nero incrociate alle caviglie. Nella testa
di Gideon, aveva l’aspetto di un bastoncino malvagio.
Gideon rilesse la lettera e poi la rilesse altre due volte, prima di
controllarsi la faccia in uno specchietto crepato. Favolosa. Fighissi-
ma. «Lo so che hai detto “Prima Casa” tipo tre volte» disse, «ma cre-
devo fosse una metafora.»
«Pensavo ti avrebbe infuso un po’ di senso dell’avventura.»
«Ma neanche per idea» fece Gideon, bagnando di nuovo la spu-
gnetta. «Mi vuoi portare su un pianeta dove non vive nessuno. Cre-

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devo che saremmo finite sul Terzo o sul Quinto, o in una bella stazio-
ne spaziale, o qualcosa del genere. Non nell’ennesima caverna piena
di altri fanatici fuori di testa.»
«Perché mai un raduno di necromanti dovrebbe svolgersi su una
stazione spaziale?»
Ottima argomentazione. Se c’era una cosa che Gideon aveva capi-
to dei necromanti, era che avevano bisogno di energia. La thanergia
– il carburante della morte – abbondava dove qualcosa era morto o
stava morendo. Lo spazio profondo era un incubo per i necromanti,
perché là fuori nulla era mai stato vivo, quindi non esistevano poz-
zangheroni pieni di defunti che Harrow e quelli della sua risma pote-
vano risucchiare con una bella cannuccia. I valorosi uomini e donne
della Coorte accoglievano questo limite con divertita compassione:
non mandare mai un adepto a fare il lavoro di un soldato.
«Vostra grazia, vogliate osservare l’ultimo paragrafo» disse Har-
row dal divano. «Volgete le vostre ignoranti pupille alle righe cinque
e sei.» Malvolentieri, Gideon indirizzò le sue ignoranti pupille alle ri-
ghe cinque e sei. «Illustratemene le implicazioni.»
Gideon lasciò perdere le pitture e fece per abbandonarsi contro lo
schienale della sedia, ma poi ci ripensò e optò per le piastrelle fred-
de del pavimento. Una delle gambe aveva un che di instabile. «“Nien-
te servi. Niente attendenti, niente domestici.” Be’, saresti nella merda
fino al collo, altrimenti dovresti tirarti dietro Crux. Cioè, stai cercan-
do di dirmi che non ci sarà nessun altro a parte noi e qualche vecchio
ierofante decrepito?»
«L’implicazione» rispose la Reverenda Figlia «è proprio quella.»
«Ma per la miseria, allora! Ma lasciami vestire come mi pare e ri-
dammi il mio spadone.»
«Diecimila anni di tradizioni, Griddle.»
«Io non ce li ho diecimila anni di tradizioni, brutta stronza» dis-
se Gideon. «Ho dieci anni di addestramento con uno spadone a due
mani e una lieve allergia ai colori della pittura. Valgo molto meno, per
te, con una pizza al posto della faccia e uno stuzzicadenti.»
La Reverenda Figlia intrecciò le dita, girando i pollici in langui-
di cerchi. Non era in disaccordo con lei. «Diecimila anni di tradizio-
ni» disse lentamente «stabiliscono che la Nona Casa sia, a suo pia-
cendo, in grado di produrre – come minimo – un paladino dotato di

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una spada idonea, di un addestramento idoneo e di un atteggiamen-


to idoneo. Insinuare che la Nona Casa non sia riuscita a adeguarsi,
con i suoi tempi e modi, nemmeno a queste aspettative equivale alla
resa. Me la caverei meglio da sola che portando te o chi per te. Ma so
come fingere; posso procurarti la spada. Posso provvedere a un’infa-
rinatura di addestramento. Purtroppo non posso rimediare neanche
lontanamente al tuo atteggiamento. Due su tre continua a non esse-
re tre. La truffa si regge sulla tua capacità di tenere la bocca chiusa e
sull’ottemperanza ai requisiti minimi, Griddle.»
«Così nessuno capirà che siamo in bancarotta, quasi estinti e che
i tuoi genitori si sono ammazzati.»
«Così nessuno si approfitterà della nostra carenza di risorse con-
venzionali» disse Harrow, lanciando a Gideon un’occhiata che saltava
a piè pari gli ammonimenti per passare direttamente all’ostruzionismo.
«Così nessuno capirà che la Casa è minacciata. Così nessuno capirà
che i miei genitori non sono più in grado di badare ai nostri interessi.»
Gideon piegò il foglio a metà e ancora a metà. Se lo strofinò tra le
dita per il puro e raro piacere di sentire il rumore della carta stropic-
ciata, poi lo lasciò cadere sul tavolo e si ripulì le unghie dalla pittura.
Non aveva bisogno di dire o di fare nulla, a parte permettere al silen-
zio di riempire lo spazio tra loro.
«Non diventeremo un’appendice della Terza o della Quinta casa»
continuò la necromante di fronte a lei. «Ci siamo capite, Griddle?
Se farai anche solo una cosa che potrà lasciar intendere che siamo
a gambe all’aria, se avrò anche il semplice sentore che tu stia per…»
Harrow, a questo punto, si strinse nelle spalle, con una certa sereni-
tà. «Ti ucciderò.»
«Chiaro. Ma non puoi mantenere il segreto per sempre.»
«Quando sarò Littrice cambierà tutto» disse Harrowhark. «Sarò
nelle condizioni di sistemare le cose senza timore di rappresaglie. Per
come siamo messi ora, il nostro vantaggio consiste nel fatto che nes-
suno sa niente di niente. Ho già ricevuto tre comunicazioni distin-
te da altre tre Case per sapere se andrò – e non sanno neanche come
mi chiamo.»
«E che diavolo gli dirai?»
«Niente, idiota!» disse Harrow. «Questa è la Nona Casa, Griddle.
Ci comporteremo di conseguenza.»

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Gideon si esaminò la faccia e mise giù pittura e spugnetta. Ci com-


porteremo di conseguenza significava che, ogni volta che da piccola
aveva cercato di parlare con uno straniero, era stata trascinata via di
peso; ci comporteremo di conseguenza significava che la Casa era ri-
masta chiusa ai pellegrini per cinque anni. Ci comporteremo di conse-
guenza le aveva instillato il segreto terrore che, dieci anni dopo, tut-
ti quanti sarebbero diventati scheletri e qualche esploratore avrebbe
trovato Ortus a leggere poesie accanto al suo corpo e a quello di Har-
row, con le dita ancora strette attorno alle reciproche gole. Ci compor-
teremo di conseguenza, per Gideon, implicava essere elusive, astruse
e super ossessionate da tomi di ogni genere.
«Non permetterò che la gente ci faccia domande. E tu dovrai avere
un aspetto consono al ruolo. Dammi qua» le ordinò Harrow, e tolse
di mano a Gideon il matitone nero di carboncino. Cercò di costrin-
gere Gideon ad alzare la testa, afferrandole il mento con le dita, ma
Gideon, per tutta risposta, la morsicò. Guardare Harrow che impre-
cava furibonda, scrollava la mano e si sfilava il guanto azzannato le
provocò una gioia elementare, come vedere la luce del sole o consu-
mare un buon pasto.
Harrow cominciò ad armeggiare, lugubre, con uno dei suoi orec-
chini d’osso. A quel punto, anche se con estrema riluttanza, come
un animale che non vuole prendere una medicina, Gideon sollevò il
viso per farsi dipingere. Harrow impugnò il nero e lo passò sotto agli
occhi di Gideon – senza una gran delicatezza, lasciandole presagire
un’emozionante pugnalata alla cornea. «Non voglio vestirmi di nuo-
vo come una cazzo di suora. L’ho già fatto a sufficienza quando ave-
vo dieci anni» disse Gideon.
«Tutti quanti si vestiranno esattamente come devono vestirsi» ri-
spose Harrow, «e se la Nona Casa non si conformerà – la Casa meno
propensa a un comportamento simile, poi – allora la gente ci esami-
nerà con molta più attenzione di quanto dovrebbe. Se avrai l’aspet-
to giusto, magari non ti faranno domande insidiose. Potrebbero non
scoprire che la prima paladina della Nona Casa è una zotica illette-
rata. Tieni la bocca chiusa.»
Gideon tenne la bocca chiusa e, quando Harrow terminò, disse:
«Mi oppongo a illetterata.»
«I giornalacci con le donnine non sono letteratura, Nav.»

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«Li leggo per gli articoli.»


Quando, in qualità di giovane e recalcitrante adepta del Sepol-
cro Sigillato, Gideon si era dipinta la faccia a testa di morto, ave-
va optato per il minimo indispensabile richiesto dal protocollo: oc-
chi cerchiati di scuro, qualche ombreggiatura attorno al naso, una
riga nera sbilenca sulle labbra. Non appena Harrowhark le lasciò
uno spiraglio di specchio sbeccato, scoprì di avere addosso le pittu-
re degli antichi e traballanti necromanti della Casa: quei saggi spet-
trali e inquietanti che non davano mai l’impressione di morire, li-
mitandosi a scomparire nelle lunghe gallerie di libri e bare sotto al
Drearburh. L’aveva conciata per le feste. Sembrava un teschio con
le orbite nere, una dentatura arcigna e delle grosse cavità oscure sui
due lati della mascella.
Gideon commentò, lagnosa: «Sembro una deficiente».
«Voglio che tu appaia al mio cospetto così, ogni giorno, fino al gior-
no della nostra partenza» disse Harrowhark, appoggiandosi al tavo-
lo per osservare il suo lavoro. «Non ti raperò a zero – anche se hai
dei capelli ridicoli – perché so che non ti raseresti la testa quotidia-
namente. Impara le pitture. Mettiti la tonaca.»
«E… sto aspettando» disse Gideon. «Hai presente, no? La frega-
tura. Se mi lasciassi fare di testa mia, mi metterei la mia corazza e
userei la mia spada – sei un’imbecille se credi che riuscirò a com-
battere come si deve con una tonaca addosso – e potrei paladina-
re così bene da rispedirli a casa uno per uno. Potrei paladinare fin-
ché non decideranno di farti Consigliere Imperiale il primo giorno
e di mettere le mie foto sexy su un calendario. Dov’è quella e, No-
nagesimus?»
«Non c’è nessun e» disse Harrow, e si scostò dalla sedia di Gideon
per ributtarsi di nuovo sul divano. «Se fosse solo una questione di ot-
tenere quello che voglio, non mi prenderei neanche la briga di por-
tarti. Ti caccerei in nove scatole diverse e spedirei una scatola a ogni
Casa, tenendo da parte la nona per Crux, per confortarlo durante la
vecchiaia. Avrò successo anche con te al seguito e nessuno scoprirà
mai che nella Nona Casa c’era qualcosa che non andava. Dipingiti la
faccia. Esercitati con lo stocco. Sei congedata.»
«Ma non è il momento di condividere un po’ di informazioni?»
disse Gideon, alzandosi in piedi e stiracchiando i muscoli irrigiditi.

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«Raccontarmi tutto quello che sai delle prove che affronteremo, con
chi saremo, che cosa dobbiamo aspettarci?»
«No, santo Dio!» esclamò Harrow. «Tutto quello che devi sapere
è che devi fare quello che ti dico io, o ti verserò della miscela d’osso
nella colazione e mi farò strada a pugni nelle tue interiora.»
Un’eventualità che, Gideon fu costretta ad ammetterlo, era asso-
lutamente plausibile.

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Se Gideon aveva temuto di dover trascorrere i tre
mesi successivi a stretto contatto con la Reverenda Figlia, si era sbaglia-
ta di grosso. Passava sei ore al giorno a imparare dove mettere i piedi
mentre brandiva una spada con una mano sola, dove tenere il brac-
cio inutilizzato e (per come la vedeva lei) inutile, come trasformarsi
all’improvviso in un bersaglio laterale e spostarsi sempre con lo stes-
so cavolo di piede. Al termine di ogni estenuante lezione, Aiglamene
la metteva alla prova in combattimento e la disarmava in tre mosse.
«Para, accidenti a te, para!» era il ritornello quotidiano. «Non è
il tuo spadone, Nav, bloccami un altro colpo e te lo faccio ingoiare!»
I pochi giorni, all’inizio, in cui aveva tralasciato di dipingersi, Crux
si era materializzato e aveva spento il riscaldamento della sua cel-
la: lei era andata a raggomitolarsi fuori, sul suo livello, strepitante di
freddo, intorpidita e quasi morta. A quel punto, aveva iniziato a far-
si quelle pitture del cazzo. Era quasi peggio della sua vita pre-pala-
dinato, ma la piccola soddisfazione è che poteva allenarsi invece che
partecipare alla preghiera e, soddisfazione ancor più grande, non si
imbatteva quasi mai in Crux e Harrow. L’erede della Casa aveva or-
dinato al suo maresciallo di svolgere una qualche attività segreta giù
nelle viscere del Drearburh, dove i fratelli e le sorelle della Nona, cur-
vi e scricchiolanti, lavoravano ora dopo ora per portare a termine il
compito repellente che Harrowhark aveva affidato loro, di qualun-
que cosa si trattasse.
Per quanto riguardava la Signora della Nona in persona, invece, si
rinchiudeva in biblioteca e non ne usciva più. Molto di rado veniva
ad assistere all’addestramento di Gideon, faceva commenti sulla to-

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tale assenza di progressi, costringeva Gideon a levarsi la pittura dal-


la faccia e le ordinava di rifarsela da capo. Un giorno, lei e Aiglamene
la costrinsero a camminare dietro a Harrow su e giù per i livelli, fin-
ché Gideon non perse quasi le staffe per l’impazienza.
L’unico (dubbio) vantaggio era che, di tanto in tanto, riusciva a
captare spezzoni di conversazioni, mentre se ne stava immobile, con
la schiena dritta e la mano sull’impugnatura della spada, lo sguardo
puntato da qualche parte, sopra la spalla di Harrow. Gideon brama-
va informazioni, ma quegli scambi non erano mai molto illuminan-
ti. Il giorno che ne ricavò di più fu quando Harrow, troppo sbrigativa
per modulare il suo tono, disse chiaro e tondo: «Ma si tratta chiara-
mente di una competizione, Capitana, anche se la formulazione…».
«Be’, la Terza Casa sarà ovviamente quella meglio equipaggiata…»
«E quelli della Seconda avranno passato metà della loro vita al fron-
te e saranno coperti di onorificenze della Coorte. Non conta. I sol-
dati, i politici e i monaci non mi interessano. È di una Casa più gri-
gia che mi preoccupo.»
Aiglamene disse qualcosa che Gideon non riuscì a cogliere. Har-
row le rispose con una risata secca e dura.
«Tutti possono imparare a combattere. Quasi nessuno impara a
pensare.»
Ma per lo più Harrow si teneva in disparte coi suoi libri e i suoi stu-
di di necromanzia, facendosi sempre più secca e macilenta, più cru-
dele e meschina. Gideon crollava a letto ogni sera e si addormenta-
va ancora prima di potersi occupare dei piedi coperti di vesciche o di
massaggiarsi il corpo dolorante. Certi giorni, quando si era compor-
tata molto bene, Aiglamene le permetteva di allenarsi con lo spado-
ne, cosa che andava considerata come una forma di svago.
La settimana che le separava dalla partenza prefissata arrivò tut-
ta d’un colpo, come il risveglio brusco da un sogno inquietante che si
riesce a malapena a ricordare. Il maresciallo del Drearburh riapparve
come una malattia cronica e si piazzò alle spalle di Gideon, intenta a
riempire il suo baule con tutta la roba dismessa di Ortus che era sta-
to possibile riconvertire in tre diversi indumenti della misura di Gi-
deon. Quelle tuniche riciclate erano uguali ai suoi soliti vestiti, arci-
gni e neri, solo che erano fatti meglio ed erano ancora più arcigni e più
neri. Passò una quantità di tempo non trascurabile a fissare i listelli sul

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fondo del baule in modo da poterci infilare di soppiatto il suo adora-


to spadone, imballandolo come un prezioso articolo di contrabbando.
Aiglamene aveva trovato e riforgiato la spada appartenuta alla non-
na della nonna di Ortus e l’aveva consegnata a una Gideon impassi-
bile. La lama era di metallo nero, con guardia e impugnatura sempli-
ci e altrettanto nere, al contrario dei grovigli intricati di zanne e cavi
che adornavano alcune delle altre armi giù al monumento. «Oh, ma
questa qua è pallosa» aveva commentato Gideon, delusa. «Ne vole-
vo una con un teschio che vomita un altro teschietto più piccolo, con
degli altri teschi sparati tutt’intorno. Elegante, però. Hai presente?»
Ricevette anche delle noccoliere: erano ancor meno elaborate. Os-
sidiana e acciaio fissati su fasce spesse e pesanti. Sul dorso del guan-
tone c’erano tre lame nere, dall’incastonatura rigida. «Per l’amor del
cielo, però, usala solo per parare» disse la sua insegnante.
«Sono confusa. Mi hai fatto allenare senza niente in mano.»
«Gideon» disse la sua maestra, «dopo aver passato undici settimane
bestiali a addestrarti, a pestarti a sangue, a guardarti barcollare come
un neonato gonfio, sei miracolosamente arrivata al livello di un pala-
dino scarso, uno di quelli negati, proprio.» (Quello era un gran com-
plimento.) «Ma ti scomponi appena cominci a ragionare troppo sulla
mano secondaria. Usa il guanto per bilanciarti. Sfrutta diverse alter-
native se qualcuno riesce a penetrare la tua guardia – ancora meglio,
però, non permettere a nessuno di penetrare la tua guardia. Conti-
nua a muoverti. Sii fluida. Ricordati che le tue mani ora sono sorelle,
non gemelle; una esegue l’azione primaria e l’altra supporta la mos-
sa. Prega che non ti guardino combattere troppo da vicino. E pian-
tala di bloccare ogni colpo.»
L’ultimo giorno, l’intera Nona Casa riempì l’anello della pista d’at-
terraggio, ma avanzava ancora del posto: fu triste osservarli mentre
baciavano e ribaciavano l’orlo di Harrowhark, emozionati. Si ingi-
nocchiarono tutti a pregare insieme alle orride prozie mentre la Re-
verenda Figlia li guardava, ritta in piedi, serena ed esangue come gli
scheletri che si industriavano ai livelli superiori.
Gideon aveva notato l’assenza degli ex Reverendi Padre e Madre,
ma non si era addentrata in ulteriori considerazioni. Era troppo im-
pegnata a pensare ai suoi vestiti ruvidi di seconda mano, allo stocco
che portava al fianco e alla pittura sulla faccia, ormai diventata una

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seconda pelle. Ma provò comunque un moto di sorpresa quando Har-


row disse: «Fratelli e sorelle, ascoltate. Mia madre e mio padre non
saranno con voi. Mio padre ha sigillato il passaggio che conduce alla
tomba che per sempre deve restare chiusa e insieme a mia madre ha
deciso di proseguire la penitenza dietro a quel muro, fino al mio ri-
torno. Il maresciallo agirà in qualità di mio vassallo, e la mia capita-
na assumerà la carica di marescialla».
Come a testimoniare il tempismo teatrale di Harrow, la Campa-
na Secondariana cominciò a suonare. Dall’imboccatura del pozzo, la
navetta iniziò la sua manovra d’atterraggio, oscurando la luce ancora
più flebile dell’equinozio. Per la prima volta in assoluto, Gideon non
provò quel senso schiacciante di timore e sospetto: una puntina di
eccitazione le si annidò invece nello stomaco. Secondo round. Via.
Harrowhark abbracciò con lo sguardo la gente della Nona. Così fece
Gideon. C’erano tutti, un assortimento di monache e fratelli; vecchi
pellegrini e sudditi incanutiti; adepti e mistici di ogni genere dai visi
foschi, severi e impassibili, uomini e donne infelici e sprecati, la po-
polazione grigia e monotona su cui la vita di Gideon si era sempre
basata e che non le aveva mai concesso un singolo momento di so-
lidarietà o gentilezza. Il volto di Harrow era acceso dall’emozione e
dal fervore. Gideon avrebbe potuto giurare di aver visto delle lacrime
nei suoi occhi, solo che un liquido del genere non esisteva in natura:
Harrow era una mummia rinsecchita fatta d’odio puro.
«Siete la mia amata Casa» disse. «Ovunque io vada, il mio cuore
resterà sempre sepolto qui, avete la mia parola.»
Sembrava che ci credesse davvero.
Harrow attaccò: «Prego per il sepolcro, che resti sigillato in eter-
no…» e Gideon si ritrovò a recitarla senza indugi, perché era l’unica
preghiera che conosceva. Sopportò le parole, pronunciandole come
se non fossero altro che suoni privi di significato. Si fermò quan-
do Harrowhark si fermò, a mani giunte, e disse: «Prego per il nostro
successo a beneficio della Casa; prego per i Littori, devoti Consiglie-
ri dell’Imperatore; prego di risultare gradita ai suoi occhi. Prego per
la nostra paladina…»
A questo punto, Gideon si soffermò sul suo occhio scuro, cerchia-
to di nero, e immaginò che la frase, nella sua mente, terminasse con:
“… affinché crepi, soffocata nel suo stesso vomito”.

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«E così sia» concluse la Signora della Nona Casa.


Il ticchettio di quell’assortimento di ossa da preghiera per poco non
sovrastò il clangore della navetta, intenta ad attraccare. Gideon si vol-
tò, non intendeva prodursi in alcun genere di arrivederci; ma poi scor-
se Aiglamene, la mano rattrappita in un saluto rigido, e si rese conto
per la prima volta che forse non l’avrebbe rivista mai più. Con l’aiuto
del cielo, non sarebbe mai più tornata. Per un istante, tutto le sembrò
di un’incertezza frastornante. La Casa perdurava nella sua grandio-
sa e repellente maestà perché si era sempre lì a guardarla; perdura-
va perché la si osservava perseverare, immutata e nera, sotto ai pro-
pri occhi. L’idea di lasciarla gliela fece apparire così fragile da potersi
sgretolare nell’esatto istante in cui le avrebbe voltato le spalle. Har-
rowhark si girò verso la navetta e Gideon si accorse, con un sussulto
sgradito, che stava piangendo: la pittura era rigata di lacrime.
Poi, però, quella stessa idea diventò qualcosa di magnifico. Nell’i-
stante stesso in cui le avrebbe voltato le spalle, la Casa sarebbe morta.
Nell’istante stesso in cui Gideon se ne sarebbe andata, sarebbe scom-
parso tutto, come un sogno di un orrore inconcepibile. Sfondò men-
talmente le pareti dell’enorme pozzo ombroso e seppellì il Drearburh
sotto la roccia e, per non saper né leggere né scrivere, fece esplode-
re Crux come un sacco dell’immondizia pieno di zuppa. Ma salutò
Aiglamene con una risolutezza e un entusiasmo degni di un solda-
to al suo primo giorno di servizio e fu felice quando la sua insegnan-
te roteò gli occhi.
Si addentrarono nella navetta e l’ingranaggio fece scendere il por-
tellone, che si chiuse con un gradevole e definitivo whunk. Si avvi-
cinò a Harrow: Harrow, che si stava tamponando gli occhi con im-
mane solennità. La necromante sobbalzò.
Gideon le sussurrò, roca: «Vuoi il mio fazzoletto, per caso?».
«Voglio vederti morire.»
«Forse, Nonagesimus» le disse con profonda soddisfazione, «for-
se. Ma di sicuro non succederà qui, cazzo.»

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ACT ONE

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Dallo spazio, la Prima Casa splendeva come fuo-
co sull’acqua. Avvolta dalla foschia bianca della sua atmosfera, blu
come il cuore di una fiamma gassosa, inceneriva lo sguardo. C’era
un’abbondanza assurda d’acqua, che schiacciava tutto in una confla-
grazione del più azzurro fra gli azzurri. Visibili sin da lassù erano an-
che le catene fluttuanti di quadrati, rettangoli e ovali, che chiazzava-
no il blu di grigi e verdi, marroni e neri: le città e i templi sfasciati di
una casa a lungo defunta e, al contempo, impossibile da uccidere. Un
trono dormiente. Lontanissimo, il suo Re e Imperatore sedeva al pro-
prio posto e attendeva: una sentinella che proteggeva la sua dimora
senza potervi più rimettere piede. Il Signore della Prima Casa era il
Signore Imperituro, e non vi faceva ritorno da oltre novemila anni.
Gideon Nav pigiò la faccia contro l’oblò di plexiform della navetta e
guardò come se non potesse mai saziarsi di guardare, finché gli occhi
diventarono rossi e lacrimanti e grosse macchie da emicrania comin-
ciarono a danzarle al limitare del campo visivo. Tutti gli altri finestri-
ni erano chiusi ermeticamente ed erano rimasti così per la maggior
parte del tragitto, un viaggio rapido di circa un’ora. Avevano scoper-
to con una certa sorpresa che, dietro al divisorio di cortesia – anche
quello in plex – che Harrowhark aveva sollevato con freddezza ap-
pena si erano trovate a bordo, il pilota non c’era. La nave sarebbe sta-
ta pilotata da remoto, a costi esorbitanti. Nessuno era autorizzato ad
atterrare nella Prima Casa senza un invito esplicito. C’era un bottone
da premere, in caso si volesse parlare con il pilota esterno e, anche se
Gideon non vedeva l’ora di sentire una voce nuova, Harrow aveva ri-
chiuso il divisorio con un gesto chiaramente inappellabile.

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GIDEON LA NONA  /  71

Sembrava sfibrata ed esausta, persino vulnerabile. Per tutta la du-


rata del viaggio aveva stretto fra le mani le nocche da preghiera fa-
cendole scrocchiare le une contro le altre, di malumore. Nei fumetti
di Gideon, gli adepti della Coorte si sedevano sempre su una fode-
ra piena di terra sepolcrale per mitigare gli effetti dello spazio pro-
fondo e il distacco dalla fonte del loro potere; Harrowhark non si era
appellata a quel placebo, ci avrebbe giurato. Gideon si era trastulla-
ta con l’idea di prenderla a calci in culo su e giù per la navetta – era
il momento perfetto. Ma alla fine, la prospettiva di arrivare con una
necromante coi gomiti girati al contrario avrebbe suscitato un ovvio
imbarazzo – e la vita di Harrow era stata risparmiata. Le fantastiche-
rie a base di calci in culo, però, si erano placate non appena l’avvici-
namento alla Prima Casa aveva riempito l’oblò di riflessi luminosi,
di una luce che si riversava nel vano passeggeri a fiotti poderosi; Gi-
deon era stata costretta a distogliere lo sguardo, mezza orba e sen-
za fiato. Harrow si stava sistemando sugli occhi una fettuccia di velo
nero, calma e indifferente come se quello che c’era fuori dal finestri-
no fosse il cielo malinconico della Nona.
Gideon si schermò gli occhi con la mano e guardò ancora, in-
ghiottendo la sua porzione del fulgore esplosivo che c’era all’esterno:
il nero vellutato dello spazio, con le innumerevoli capocchie di spil-
lo delle stelle; la Prima, un cerchio incandescente di blu arroventato,
striato da un bianco abbacinante; in più, gli scafi di altre sette navet-
te, allineate in orbita. Quando Gideon le vide, fece un fischio basso.
Per un’abitante della sepolcrale Nona Casa era stupefacente che tut-
ta quella roba non si limitasse a conflagrare e ad accartocciarsi tra le
fiamme. C’erano altre Case le cui sedi erano collocate su pianeti più
vicini alla stella attiva di Dominicus – la Settima e la Sesta, per esem-
pio – ma per come Gideon riusciva a immaginarsele, erano delle pal-
le di fuoco al cento per cento.
Era incredibile. Era strabiliante. Aveva voglia di vomitare. Le pa-
reva di una follia bovina che l’unica reazione di Harrowhark fosse
stata quella di tirare su la barriera di plexiform e di tenere schiaccia-
to il pulsante di comunicazione per domandare: «Quanto dobbiamo
attendere?».
La voce del navigatore gracchiò di rimando: «Stiamo convalidan-
do l’autorizzazione all’atterraggio, Vostra Grazia».

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Harrow non ringraziò. «Quanto ci vorrà?»


«In questo momento stanno scansionando il vostro velivolo, Vo-
stra Grazia, ci muoveremo non appena riceveremo conferma che vi
è consentito lasciare l’orbita.»
La Reverenda Figlia sprofondò nella sua poltroncina, cacciandosi
gli ossicini da preghiera in una piega della veste. Con una certa rilut-
tanza, Gideon incrociò il suo sguardo. L’espressione sul viso dell’altra
ragazza non era disinteressata o distratta, come aveva creduto; nono-
stante lo strato di velo, si rese conto che Harrow era quasi annichi-
lita dalla concentrazione. La bocca stretta in una piega tesa, la mac-
chia di pittura nera sul labbro inferiore morsicata fino a sanguinare.
Meno di cinque minuti dopo, i propulsori ripresero vita crepitan-
do e la navetta uscì lentamente dall’orbita. Accanto a loro, in fila, set-
te altre navi andavano alla deriva lateralmente, scivolando nell’atmo-
sfera come una cascata di tessere del domino. Harrow ricacciò la testa
sotto al cappuccio e si pizzicò l’attaccatura del naso, commentando
con una sfumatura a metà tra il compiacimento e il dolore: «Questo
pianeta è incredibile».
«È bellissimo.»
«È una tomba» fece Harrowhark.
La navetta si staccò dall’orbita, ammantata da uno scintillio lumi-
noso. Il riverbero non rendeva visibile nient’altro che il cielo, ma il
cielo della Prima Casa era del medesimo azzurro improbabile e ridi-
colo dell’acqua. Trovarsi all’esterno del pianeta era come vivere in un
caleidoscopio. Beccheggiarono traballando per un lungo istante – un
fischio, mentre le sacche d’aria dell’atmosfera densa facevano urlare
i motori, seguito da uno scossone, quando il velivolo si ripressurizzò
per compensare – e poi la navetta diventò un proiettile lanciato con
la fionda, un guscio in accelerazione. Il chiarore era insopportabile.
Gideon ebbe l’impressione che centinaia di pinnacoli si stessero in-
nalzando, soffocati da roba verde che emergeva dalle acque azzurre
e turchesi, ma poi fu costretta a chiudere gli occhi e a girarsi dall’al-
tra parte. Si premette il tessuto della veste ricamata della Nona sulla
faccia e non poté fare altro che respirare dal naso.
«Idiota.» La voce di Harrowhark era lontana e piena di adrenalina
tenuta malamente a bada. «Ecco. Prendi il velo.»
Gideon continuava ad asciugarsi gli occhi. «Sto benissimo.»

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GIDEON LA NONA  /  73

«Ti ho detto di mettertelo. Non voglio che diventi cieca appena


aprono il portello.»
«Sono equipaggiata, tesoro mio.»
«Le robe che riesci a dire, ogni tanto, io non lo so…»
Il chiarore cambiò, stroboscopico, e la navetta iniziò a rallentare.
La luce schiarì, si intensificò, brillò. Harrowhark si lanciò sulla para-
tia del finestrino e la chiuse di scatto; lei e Gideon rimasero in piedi a
fissarsi, ferme al centro del vano passeggeri. Gideon si rese conto che
Harrow stava tremando; il sudore minacciava di squagliarle la pittura
e le aveva incollato delle piccole ciocche, nere come la pece, al grigio
pallido della fronte. Gideon si accorse, con un sussulto, che anche lei
era sudata e tremante. Si scambiarono una folle occhiata inquisitoria
e poi cominciarono a tamponarsi la faccia con l’interno delle maniche.
«Incappucciati» sibilò Harrowhark, «nascondi quei capelli ridicoli.»
«I capelli ridicoli li avrà quella carcassa mummificata di tua madre.»
«Griddle, ormai siamo entrate nell’atmosfera del pianeta e mi ab-
bandonerò con gioia alla violenza.»
Ci fu un conclusivo clunk tonante. Immobilità assoluta. Le chiusure
esterne vennero sganciate da una forza altrettanto esterna e, mentre
la luce splendeva ai bordi del portellone, Gideon strizzò l’occhio alla
sua compagna, sempre più agitata. Le disse, sottovoce: «Non potevo
non farti ammirare… questi» e inforcò un paio di occhiali che aveva
dissotterrato a casa. Erano degli occhiali da sole vetusti di vetro affu-
micato, con la montatura nera sottile e grosse lenti specchiate. Se li
sistemò sul naso e l’espressione di orripilata incredulità prodotta da
Harrow si velò di grigio. Fu l’ultima cosa che vide, e poi entrò la luce.
A quel punto, l’esterno della Prima Casa si spalancò di fronte a loro,
una folata di aria tiepida scompigliò loro le vesti e asciugò il sudore sui
loro visi. Harrow, preoccupata, scomparve ancora prima dell’arresto
definitivo del portellone traballante: Sua Signoria Harrowhark Nona-
gesimus, Reverenda Figlia della Nona Casa, prese il suo posto e uscì
sulla rampa d’attracco. Contando cinque respiri profondi per misura-
re il tempo, Gideon Nav, Paladina della Nona Casa, la seguì, pregando
che quella spada poco familiare non le si impigliasse nei paramenti.
Si ritrovarono sull’enorme piattaforma metallica di quella che non
poteva che essere la struttura più incredibile mai costruita dalla Pri-
ma Casa. Sarebbe potuta benissimo essere la struttura più incredi-

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bile mai costruita da chiunque. Gideon non aveva grandi termini di


paragone. Alle loro spalle si innalzava un palazzo, una fortezza scin-
tillante di pietra bianca. Si allargava sulla superficie dell’acqua come
un’isola. Non si riusciva a superarla con lo sguardo e si scorgeva a ma-
lapena quel che c’era attorno. Si ritirava in terrazzamenti che doveva-
no essere stati occupati, un tempo, da giardini favolosi. Si impennava
in torri aggraziate che facevano male agli occhi, tanto erano affuso-
late e armoniose. Era un monumento alla ricchezza e alla bellezza.
Per lo meno, nella sua epoca d’oro doveva essere stato un monu-
mento alla ricchezza e alla bellezza. Attualmente, era un castello as-
sassinato. Molte delle sue torri bianche e splendenti si erano sgretolate
ed erano crollate in porzioni miserabili. Una vegetazione giunglesca
era sorta dal mare e si era avvolta attorno alla base dell’edificio, in
una mescolanza di viscidume verde e robusti rampicanti. I giardini
erano opache volte grigie di alberi e piante defunte. Si erano impos-
sessati delle finestre, delle terrazze e delle balaustre, si erano aggrap-
pati lì e lì erano schiattati; buona parte della facciata era ricoperta
da una coltre di materia scaduta, dotata di una nebulosa riservatez-
za. Le venature dorate splendevano smorte sulle bianche pareti sudi-
cie. Anche l’area di atterraggio doveva essere stata sfarzosa, nella sua
era, una gigantesca pista che avrebbe potuto ospitare cento navi con-
temporaneamente; ora, il novantadue per cento degli alloggiamen-
ti era abbandonato e lercio. Il metallo era incrostato dal sale che ar-
rivava dall’acqua, lo stesso che stava assalendo ora il naso di Gideon:
un odore denso e caratteristico, soverchiante e selvaggio. Quel posto
sembrava un cadavere sbocconcellato. Per la miseria, però! Che car-
cassa meravigliosa.
La pista brulicava di attività. Cinque altre navi erano atterrate ed
erano ora intente a espellere il proprio contenuto. Ma per quello non
ci sarebbe stato tempo: qualcuno stava arrivando ad accoglierle.
A Harrowhark non interessavano gli ambasciatori. Era scesa come
un vascello nero a vele spiegate, una sagoma scheletrica coperta da
strati e strati di drappi color della notte, con lo strascico del mantello
di pizzo che si allargava alle sue spalle; adorna d’ossa, dipinta come
una donna morta, gli occhi celati da una benda di velo nero. Si ingi-
nocchiò a cinque passi dal portello della navetta e cominciò a sgrana-
re preghiere con il suo rosario di nocche, producendo un monotono

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clic-clac. Si va in scena. Gideon si avvicinò a larghe falcate e si ingi-


nocchiò accanto a Harrow sul metallo intiepidito dal sole della pista
d’atterraggio, con le vesti che le si gonfiavano attorno, abbracciando
il caos in corso con un’occhiata imperscrutabile, scurita dalle lenti. Il
ticchettare degli ossicini la fece quasi sentire normale.
«Sia lode alla Signora della Nona Casa» gorgheggiò allegramente
una voce, portando il conteggio totale delle persone che erano sta-
te felici di vedere Harrow a tre. «Sia lode al suo paladino. Oh, salu-
ti, omaggi! Sia lode alla prole del lontanissimo e ombroso gioiello del
nostro Impero! Che-giornata-gaia.»
Un ometto anziano si parò loro di fronte. Era piccolo ed esile, in
una maniera che ricordò a Gideon i più vecchi della Nona Casa, solo
che lui era meno curvo e godeva della più sfacciata buona salute che
Gideon avesse mai riscontrato in una persona della sua età. Era come
un’antica quercia nodosa ancora coperta di foglie. Era calvo, aveva
una barbetta ordinata e un cerchietto d’oro al sopracciglio. Indossa-
va una tunica bianca senza cappuccio lunga abbastanza da lambirgli
i polpacci e una mantellina di lana bianca pettinata. Attorno alla vita
portava una splendida cintura: era fatta di una roba dorata tutta scin-
tillante, ricamata con una moltitudine di gioielli colorati che traccia-
vano forme e motivi intricati. Sembravano fiori o florilegi, o entram-
be le cose. Sembrava un oggetto fabbricato un migliaio di anni prima
e conservato con amorosa perfezione. Tutto quello che lo riguarda-
va era senza tempo, immacolato.
Harrowhark mise in tasca il rosario. «Sia lode alla Prima Casa» in-
tonò. «Sia lode al Re Imperituro.»
«Sia lode al Signore del Fiume» trillò il piccolo sacerdote. «E benve-
nuta in questa casa! Che la Nona Signora, la Reverenda Figlia, sia be-
nedetta! È trascorsa quasi un’intera miriade da quando la Nona ha fat-
to visita alla Prima Casa! Ma il vostro paladino non è Ortus Nigenad.»
Una minuscola pausa. «Ortus Nigenad si è congedato dal suo in-
carico» disse Harrow, dalle profondità del suo cappuccio. «Gideon
Nav ha preso il suo posto in qualità di prima paladina. Io sono Sua
Signoria Harrowhark Nonagesimus.»
«Il mio benvenuto, allora, a Sua Signoria Nonagesimus e a Gideon
la Nona. Una volta terminate le vostre preghiere» disse il sacerdoti-
no con effervescenza, «verrete ricevuta con ogni onore ed entrerete

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nel sacrario. Io sono un guardiano della Prima Casa e un servitore del


Sommo Necrore, e potete chiamarmi Maestro; non per la mia meri-
tevole erudizione ma perché faccio le veci del misericordioso Dio Ol-
tre la Morte e vivo nella speranza che anche voi, un giorno, possiate
chiamarlo Maestro. E che, un giorno, possiate anche chiamarlo Pa-
drone, affinché io possa chiamare voi Harrowhark la Prima! Andate
in pace, vostra Signoria Nonagesimus; vai in pace, Gideon la Nona.»
Gideon la Nona, che avrebbe pagato dei bei soldi per essere chiama-
ta in qualsiasi altro modo, si alzò insieme alla sua padrona. Si scam-
biarono un’occhiata che, persino attraverso uno strato di veli e uno di
vetro affumicato, risultò di un’ostilità violentissima, ma c’era troppa
carne al fuoco per mandarsi al diavolo a smorfie. Gideon scorse altre
figure in bianco che andavano e venivano tra le navette uscendo da
una serie di portoni spalancati, ma ci mise un istante a rendersi con-
to che erano scheletri vestiti di bianco, con delle candide fusciacche
in vita. Usavano dei lunghi pali di metallo per azionare i meccanismi
che mantenevano le navette saldamente ancorate ai loro fermi, con
la strana unitarietà serrata con cui i morti lavoravano sempre. E poi
c’erano anche dei vivi, in attesa a coppie, che spostavano il peso da
un piede all’altro, a disagio, accanto alle loro navi. Non aveva mai vi-
sto così tante persone diverse – così tante persone non della Nona –
e provò quasi un senso di stordimento, ma non abbastanza da non
riuscire a individuare un dettaglio fuori posto.
«Ci sono solo sei navette» disse Gideon.
Harrowhark le lanciò un’occhiataccia per aver parlato senza essere
stata interpellata, ma Maestro, il sacerdotino, sghignazzò soddisfatto.
«Oh, che occhio! Molto bene! Già, c’è una discrepanza» disse. «E
non apprezziamo molto le discrepanze. Questa è terra santa. Potrem-
mo essere considerati fin troppo cauti, ma conserviamo la sacralità di
questa Casa per Nostro Signore l’Imperatore… non riceviamo molti
visitatori, come potrete ben immaginare! Non si tratta di un gran in-
ghippo» aggiunse e, con aria confidenziale: «Si tratta della Terza Casa
e della Settima Casa. Ma non importa, non importa. Sono certo che
riceveranno il nulla osta da un momento all’altro. Avevamo bisogno
di un chiarimento. Un’incongruenza, in entrambi i casi».
«Incongruenza» ripeté Harrowhark, rigirandosi la parola in boc-
ca come se fosse una caramella.

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GIDEON LA NONA  /  77

«Sì, la Terza Casa vuole, ovviamente, forzare le restrizioni… ovvio,


c’era da aspettarselo. E la Settima Casa… be’, è risaputo che… guar-
date, stanno atterrando.»
La maggior parte degli altri eredi e paladini aveva abbandonato le
navette lasciando gli scheletri a scaricare i bagagli. Le ultime due navi
scesero a terra avvitandosi lentamente e generando una nuova folata
di vento caldo che falciò tutti quanti mentre si arrestavano, leggere. Gli
scheletri coi pali erano già lì ad accoglierle, insieme ad altri sacerdoti
viventi, uno per ogni navetta in arrivo. Erano vivi e in buona salute, e
indossavano paramenti identici a quelli di Maestro. Con loro i sacer-
doti totali arrivavano a tre, il che fece riflettere Gideon sul perché la
Nona attirasse sempre così tanta attenzione geriatrica. Le due nuove
navette avevano entrambe toccato terra accanto a quella della Nona:
la Settima era la più prossima ma anche la Terza era abbastanza vicina
da lasciar scorgere chi o cosa ci fosse dentro, quando l’abitacolo si aprì.
Con immenso interesse Gideon osservò emergere tre sagome. Il
primo era un ragazzo piuttosto imbronciato. Sembrava un tipo raf-
finato, uno da gel nei capelli. Alla cintura della giubba abbottonata
portava uno stocco arzigogolato. Il paladino. Le altre due erano ra-
gazze giovani, entrambe bionde, anche se le somiglianze finivano lì:
una era alta e statuaria, con un sorriso di un bianco stellare e una vo-
luminosa chioma di riccioli dorati e splendenti. L’altra pareva più pic-
cola, inconsistente, con una tenda di capelli del colore anemico del
burro in scatola e un ghigno altrettanto esangue. A dire il vero, erano
alte uguali, si rese conto Gideon; il suo cervello aveva semplicemen-
te ritenuto quella constatazione troppo stupida per darle credito al
primo colpo. Era come se la seconda ragazza fosse l’ombra denutrita
della prima, o la prima il suo luminoso riflesso. Il tizio, invece, sem-
brava un po’ uno stronzetto e basta.
Gideon allungò il collo per guardare finché un sacerdote in abito
bianco con un’altra cintura colorata in vita si staccò dal trio e si av-
vicinò a passo svelto. Toccò la spalla di Maestro e, preoccupato, si
mise a mormorargli qualcosa in spezzoni semiudibili: «… sono stati
irremovibili… il sostegno della casata… nata nell’esatto momento…
sia l’adepta che…»
Maestro lo liquidò con un gesto condiscendente della mano e una
risata ansante: «Che vuoi farci, che vuoi farci?».

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«Ma è impossibile…»
«Qualche guaio più avanti, nient’altro» disse lui, «e guai che ri-
guarderanno solo loro.»
Quando l’altro sacerdote se ne fu andato, Harrowhark commentò,
intransigente: «I gemelli sono un cattivo presagio».
Maestro ne sembrò divertito. «Sentire qualcuno affermare che un
cattivo presagio può arrivare dalla Bocca dell’Imperatore, affascinante!»
Dalla navetta che trasportava la Settima Casa si scatenò un cer-
to trambusto. Gli scheletri avevano spalancato il portello e qualcu-
no era uscito, barcollando. In doloroso slow-motion – sembrava che
il tempo, per farsi ammirare meglio, avesse deciso di rallentare fino
a ridursi a un raccapricciante strascichio – era svenuto, secco, fra le
braccia del sacerdote in attesa, un uomo anziano straordinariamen-
te impreparato a far fronte a quell’evento. Braccia e gambe comincia-
rono a tremargli. La figura stava scivolando verso il pavimento e ri-
schiava di rovinare a terra del tutto. Sul panciotto del prete c’era del
sangue scarlatto. Gridò.
Gideon non correva mai, se non era necessario, e Gideon ora si
mise a correre. Le gambe si mossero con la stessa prontezza della sua
pessima capacità di giudizio e, all’improvviso, si ritrovò a sorreggere
quella figura accartocciata e pendula, prendendola dalle braccia stre-
mate del sacerdote. Adagiò il suo fardello per terra, mentre lui bor-
bottava stupito. Al che, la punta gelida di una lama le trapassò delica-
tamente il cappuccio e le toccò la nuca, proprio alla base del cranio.
«Ehi» fece Gideon, tenendo la testa perfettamente immobile. «Le-
vala da lì.»
La spada non si mosse.
«Non è una minaccia» continuò lei. «Te lo sto solo dicendo. La-
sciale un po’ d’aria.»
Perché la persona accoccolata fra le braccia di Gideon sembrava
una lei. Era una creatura giovane e snella, con la bocca macchiata dal
rosso squillante del sangue. Il suo vestito era un’accozzaglia frivo-
la di trine verdi come la spuma del mare e, contrastando con quello
sfondo, il sangue che c’era finito sopra aveva un’aria ancora più allar-
mante. La pelle pareva trasparente – di una trasparenza orripilante,
le vene sulle mani e sulle tempie erano un agglomerato ben visibile
di diramazioni e steli color malva. Aprì gli occhi, sbattendo le palpe-

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GIDEON LA NONA  /  79

bre: erano azzurri e giganteschi, con vellutate ciglia castane. La ra-


gazza tossì e rigurgitò un grumo, rovinando il quadretto. Poi sgranò
gli occhioni blu, costernata.
«Protesilaus» disse la ragazza, «riposo.» Visto che la spada non si
era mossa di un centimetro, tossì ancora e disse, abbattuta: «Ritira-
ti, pasticcione che non sei altro. Per colpa tua passeremo dei guai».
Gideon sentì la pressione della lama allontanarsi dal suo collo e
fece un respiro profondo. Non durò molto, però; il peso di una mano
guantata rimpiazzò la lama, nel medesimo punto, una mano che gra-
vava su di lei come se la sua proprietaria non vedesse l’ora di sbricio-
larle a pugni l’osso occipitale. Quella mano poteva appartenere solo
a una persona. Gideon si preparò a essere scaraventata di testa nel
cesso, ma la voce di Harrowhark emerse come se l’avessero appena
ripescata dalle profondità di un ossario.
«Il vostro paladino» disse pacata la Nona Signora «ha minaccia-
to la mia paladina.»
Mentre Gideon, con discrezione, crepava per lo shock – e a te-
nerla ancorata a questa vita erano solo gli strani lividi che andava-
no formandosi all’attaccatura della sua colonna vertebrale –, l’altra
ragazza proruppe in un pietoso accesso di tosse. «Mi dispiace mol-
tissimo!» esclamò. «È iperprotettivo, tutto lì… Non era proprio sua
intenzione… Oddio, ma voi siete vestali nere… Oddio, ma sei la pa-
ladina della Nona!»
La ragazza in braccio a Gideon si coprì il viso. Sembrava scossa dai
singhiozzi, ma poi constatarono che si trattava di gorgoglii divertiti.
«Ecco qua, Pro. L’hai combinata grossa!» sussultò. «Potrebbero chie-
derci soddisfazione, ora. E finiresti a fare il centrotavola in un mau-
soleo! Mia Signora o Mio Signore della Nona, vi prego di accettare le
mie più sentite scuse. È stato avventato, e io sono stata una sciocca.»
«Ma no, dai» disse Gideon, «siete svenuta.»
«Tende a capitarmi, in effetti» ammise lei, e si abbandonò a un’al-
tra risata birichina. Sembrava che non le fosse mai accaduto nulla di
più bello. Si sventolò con le mani, come se avesse le caldane. «Oddio,
sono stata salvata da una mistica tenebrosa! Mi dispiace tanto! Gra-
zie! Finiremo nei libri di storia.»
Ora che lo spauracchio della violenza era svanito, il sacerdote, con
una certa difficoltà, si inginocchiò. Slacciò la splendida fusciacca ca-

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leidoscopica che portava in vita ed esitò, di fronte alla ragazza. Lei


annuì, imperiosa, e lui cominciò a pulirle il sangue dalla bocca, con
reverenza. Più che preoccupato per tutto quel casino sembrava… Gi-
deon non lo sapeva. Scoraggiato? Sconcertato?
«Ah, Duchessa Septimus» le disse, con una vocetta impostata e se-
nile «è davvero a uno stadio così avanzato, dunque?»
«Già, così pare.»
«Oh, Mia Signora» affermò, tristemente. «Non sareste dovuta
venire.»
Lei gli rivolse un sorriso fulmineo e smagliante, i denti bordati di
scarlatto. «Ma non è bellissimo che io l’abbia fatto?» disse lei, e sol-
levò lo sguardo verso Gideon, puntandolo poi su Harrow. Giunse le
mani. «Protesilaus, aiutami ad alzarmi, così potremo porgere le no-
stre scuse. Non riesco a credere di aver veramente visto in faccia del-
le vere fanciulle del sepolcro.»
Grosse braccia robuste oscurarono il campo visivo di Gideon e
la ragazza che teneva in grembo venne sollevata da un agglomera-
to di tendini alto un metro e ottanta. L’uomo che le aveva puntato
la spada al collo era di una voluminosità disturbante. Aveva dei bi-
cipiti sconvolgenti. Non pareva in salute; sembrava un sacco pieno
di limoni. Era un tipo severo e massiccio, con la pelle che richiama-
va l’insolita sfumatura traslucida di quella della ragazza. Lì al sole
sembrava cereo – forse a causa del sudore – e si era issato la ragaz-
za in spalla, come se fosse una neonata o un tappeto. Gideon lo ana-
lizzò. Era riccamente abbigliato, ma era come se i suoi vestiti aves-
sero visto giorni migliori: un lungo mantello di un verde slavato, un
kilt con la cintura, stivali. Aveva una catena cesellata arrotolata at-
torno al braccio e un grosso stocco con l’impugnatura a gabbia gli
penzolava lungo il fianco. Fissava Gideon con aria assente. “Sei ma-
stodontico” pensò lei, “ma sei goffo nei movimenti. Scommetto che
potrei sconfiggerti.”
La mano che le serrava la nuca si rilassò lievemente. Gideon non si
beccò neanche una bottarella in testa, il che prometteva male. Qua-
lunque fosse la punizione che Harrow le avrebbe inflitto, sarebbe sta-
ta inflitta più tardi, in privato e senza pietà. Aveva combinato un casi-
no, ma non riusciva proprio a pentirsene; mentre Gideon si dava una
ripulita e si rimetteva in piedi, la Signora della Settima Casa sorrise.

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GIDEON LA NONA  /  81

Il suo viso infantile rendeva difficile attribuirle un’età. Poteva avere


diciassette anni come trentasette.
«Che cosa posso fare per guadagnarmi il vostro perdono?» chiese.
«Sono passati cinque minuti e la mia Casa è già riuscita a insultare la
Nona, finirò per fare la figura della cafona.»
«Tenete la vostra spada alla larga dalla mia paladina» disse Har-
row, sepolcrale.
«L’hai sentita, Pro» disse la ragazza. «Non puoi sguainare la spa-
da così, quando ti gira.»
Protesilaus non si degnò di risponderle, continuava a fissare Gi-
deon. Nel silenzio imbarazzato che ne risultò, la ragazza aggiunse:
«Ma ora posso ringraziarvi per l’aiuto. Sono Lady Dulcinea Septi-
mus, duchessa del Castello di Rhodes; e questo è il mio primo pala-
dino, Protesilaus il Settimo. La Settima Casa vi ringrazia per la vo-
stra solerte assistenza.»
In barba a questa presentazione affabile, forse addirittura vezzosa,
la Signora di Gideon chinò a malapena il capo incappucciato senza
che il suo sguardo velato lasciasse trasparire alcunché. Fu con glacia-
le disprezzo che rispose: «La Nona Casa augura buona salute a Lady
Septimus e maggior cautela a Protesilaus il Settimo». Girò i tacchi e
si allontanò, in un turbine di vesti nere.
Gideon fu obbligata a girare a sua volta i tacchi e a seguirla. Non era
così scema da restare lì. Prima di andarsene, però, incrociò lo sguar-
do di Lady Dulcinea. Non le pareva atterrita o scandalizzata, sem-
brava invece che l’offesa arrecata alla Nona Casa si fosse tramutata
nel punto più alto della sua esistenza. Gideon avrebbe potuto giura-
re di essere stata addirittura lusingata con una maliziosa strizzatina
d’occhio. Lasciarono il sacerdote della Prima Casa alle sue preoccu-
pazioni, aveva le sopracciglia aggrottate e stava ripiegando la sua cin-
ta, ormai incrostata di sangue.
Avevano provocato un gran trambusto. Gli sguardi curiosi degli
altri adepti e dei loro paladini rimasero incollati ai manti neri del-
la Nona. Gideon constatò, con fastidio, che anche l’attenzione della
gemella esangue della Terza era concentrata sia su di lei che su Har-
rowhark, occhi pallidi che le trapassavano come cecchini, la bocca
squisitamente immobile. C’era qualcosa in quello sguardo che Gi-
deon detestò a pelle e non smise di ricambiarlo finché la testa palli-

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da non si voltò. L’espressione di Maestro, d’altro canto, be’… quella


sì che era difficile da interpretare. In sintesi, aveva un che di malin-
conico e di rassegnato e non proferì parola a proposito di quello che
aveva fatto Gideon. «Un difetto del sangue si tramanda nella Setti-
ma Casa regnante» fu tutto quello che disse. «Risparmia quasi tutti i
portatori del gene… ma per alcuni è fatale.»
Harrowhark domandò: «Maestro, Lady Septimus ha ricevuto quel-
la diagnosi, dunque?».
«Dulcinea Septimus non sarebbe dovuta arrivare ai venticinque
anni» disse il piccolo sacerdote. «Seguitemi, seguitemi… Ora siamo
tutti qui, e abbiamo già sperimentato emozioni in abbondanza. Che
giornata, che giornata! Di sicuro non mancheranno gli argomenti di
discussione, non è così?»
Venticinque, rimuginò Gideon con distacco, ignorando il guizzo
malevolo sotto al velo di Harrow, che lasciava presagire che sì, ci sa-
rebbe stato parecchio di cui discutere più tardi e le cose non si sareb-
bero messe bene per Gideon. Venticinque anni, mentre Harrowhark
sarebbe campata in eterno, probabilmente. Si avviarono obbedien-
ti seguendo la scia del sacerdote. A Gideon tornò in mente quella le-
ziosa strizzatina d’occhio e si sentì terribilmente triste.

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ACT ONE

8
Furono invitate ad accomodarsi in un vasto
atrio: un ambiente cavernoso, un ambiente degno di un mausoleo
della Nona Casa, solo che la gloriosa rovina del soffitto a volta mac-
chiato lasciava filtrare una tale quantità di luce che Gideon per poco
non si ritrovò di nuovo mezza accecata. C’erano divani avvolgenti e
panche dai rivestimenti logori, con l’imbottitura di fuori, i braccioli
e gli schienali rotti e le coperture ricamate che restavano aggrappate
alle sedute come pelli di mummia, sbiadite dove la luce le aveva toc-
cate e umidicce dove non era arrivata.
In quella stanza era tutto bellissimo, ed era anche andato tutto
in malora. Non era come da loro, alla Nona, dove cose già brutte
erano ormai decrepite e usurate fino al midollo – la Nona dove-
va essere sempre stata un cadavere, e i cadaveri vanno in putrefa-
zione. La Prima Casa era stata abbandonata e tratteneva il fiato,
in attesa di essere utilizzata da qualcuno che non fosse il tempo. I
pavimenti erano di legno – se non di marmo venato d’oro o rive-
stiti da mosaici iridescenti con le tesserine incancrenite dagli anni
e dall’assenza di manutenzione – e due immani scalinate gemelle
si innalzavano verso il piano superiore, ricoperte di lunghi tappe-
ti divorati dalle tarme. I rampicanti facevano capolino in quantità
dove il vetro del soffitto si era crepato, diffondendosi in un intri-
co di radici ormai ingrigite e secche. I pilastri che svettavano per
sorreggere le vetrate lucenti erano foderati da uno spesso strato di
muschio, ancora vivo, ancora radioso, in un tripudio di arancio-
ni, verdi e marroni. Oscurava i ritratti sulle pareti a chiazze nere e
bronzee. Sormontava una vecchia fontana asciutta di marmo e ve-

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tro a tre livelli, con un po’ d’acqua ferma che stazionava ancora sul
fondo della vasca inferiore.
Harrowhark si rifiutò di sedersi. Gideon rimase in piedi accanto a
lei, sentendo l’aria calda e umida che le incollava alla pelle le pieghe
nere della veste. Nemmeno il paladino della Settima, Protesilaus, si
era seduto, notò, non finché la sua padrona ebbe dato un colpetto alla
sedia accanto alla sua. A quel punto, le obbedì, accomodandosi senza
esitazioni. Gli scheletri vestiti di bianco circolavano con vassoi carichi
di tè astringenti di un verde fumante – strane tazzine senza manico,
calde e lisce al tatto sembravano fatte di pietra ma erano più leviga-
te e sottili. Il Settimo paladino ne prese una ma non bevve. La sua pa-
drona cercò di bere, ma fu assalita da un piccolo accesso di tosse che
durò finché non riuscì a chiedere al suo paladino, a gesti, di darle una
pacca sulla schiena. Mentre gli altri necromanti e paladini bevevano,
manifestando un gradimento variabile, Harrowhark reggeva la tazza
come se fosse una lumaca viva. Gideon, che in vita sua non aveva mai
assaggiato una bevanda calda, ne buttò giù la metà in una sola sorsa-
ta. Si scottò fino in gola. Era più profumato che saporito e le lasciò un
retrogusto erboso sulle papille gustative cauterizzate. Un po’ della pit-
tura che aveva sulle labbra rimase sul bordo. Si strozzò con discrezio-
ne: la Reverenda Figlia le scoccò un’occhiata da far tremare le budella.
Tutti e tre i sacerdoti sedevano sul bordo della fontana, stringendo
fra le mani le tazze di tè ancora intatte. A meno che non ce ne fosse-
ro altri nascosti da qualche parte in un armadio, a Gideon sembra-
rono terribilmente soli. Il secondo, il sacerdote traballante, incurvò
le spalle esili mentre armeggiava con la cintura macchiata di sangue;
il terzo aveva un volto mite e una treccia brizzolata. Potevano essere
uomini o donne, o nessuna delle due cose. Tutti e tre indossavano i
medesimi indumenti, che li facevano somigliare a un trio di uccellini
bianchi con dei guinzagli arcobaleno ma, in qualche modo, Maestro
era l’unico dei tre che dava l’impressione di essere reale. Era entusia-
sta, interessato, vivace, vivo. La calma penitenziale dei suoi compa-
gni li faceva somigliare molto di più agli scheletri vestiti posizionati
ai lati della stanza: silenziosi e inamovibili, con un frammento di luce
rossa che danzava in ciascuna orbita.
Quando tutti si furono appollaiati sullo splendido mobilio in rovi-
na, intenti a terminare il proprio tè e a stringere in silenzio le tazze

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con la goffaggine tipica di chi non sa dove metterle, treccia brizzo-


lata parlò con una vocetta pallida: «Preghiamo per il sovrano di quel
che fu distrutto, ricordando l’abbondanza della sua clemenza, del suo
potere e del suo amore.»
Gideon e Harrowhark rimasero in silenzio durante l’orazione che
seguì: «Che il Re Imperituro, rapitore della morte, flagello della mor-
te, vendicatore della morte, vegli sulle Nove Case e oda la loro grati-
tudine. Che l’interezza dell’esistente si affidi a lui. Che le genti al di là
del fiume si votino, fin oltre la tomba, al divino padrone, primo fra i
necromanti. Si renda grazie alla Nonupla Resurrezione. Si renda gra-
zie al Littore e alla sua divina investitura. Perché Lui è Imperatore ed
è diventato Dio: lui è Dio ed è diventato Imperatore».
Questa Gideon non l’aveva mai sentita. Alla Nona esisteva una sola
preghiera. Tutte le altre celebrazioni erano basate sul botta e rispo-
sta o sulle meditazioni con annessa sgranatura di nocche. La mag-
gioranza dei presenti se la mitragliò dall’inizio alla fine come se l’a-
vessero recitata sin dalla culla, ma non tutti. L’imponente ammasso
di carne, Protesilaus, aveva continuato a guardare dritto davanti a sé
senza neanche muovere la bocca, le labbra immote come quelle del-
la gemella pallida della Terza. Gli altri si erano uniti senza tentenna-
menti, anche se con fervore disomogeneo. Dopo che l’ultima parola
si fu persa nel silenzio, Maestro disse: «E forse le devote del Sepolcro
Sigillato ci onoreranno con la loro intercessione?».
Le teste di tutti si girarono dalla loro parte. Gideon si bloccò. La
Reverenda Figlia mantenne una perfetta compostezza, mollò la sua
tazza in mano a Gideon e, di fronte a quel mare di volti – alcuni cu-
riosi, alcuni annoiati e uno (quello di Dulcinea) entusiasta – attaccò:
«Prego per il sepolcro, che resti sigillato in eterno. Prego per la roc-
cia, che non venga mai scostata…»
Gideon sapeva, a un livello molto elementare, che la religione pro-
fessata nelle oscure viscere del Drearburh non era precisamente la stes-
sa religione che si praticava nelle altre Case. Ma averne la conferma
fu comunque una discreta fonte di shock. A giudicare dall’espressione
di alcune di quelle facce – stupefatte, impassibili, afflitte da una du-
ratura sofferenza o, almeno in un caso, apertamente ostili – nemme-
no gli altri ci avevano mai avuto a che fare in maniera diretta. Quan-
do Harrow finì, i tre sacerdoti sembravano discretamente in visibilio.

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«Proprio come è sempre stato» sospirò rapito il piccolo sacerdote


curvo, alla faccia di quell’intollerabile lagna funebre.
«La continuità è una cosa meravigliosa» commentò treccia briz-
zolata, dimostrandosi tedioso da matti.
Maestro disse: «Ora posso darvi il benvenuto alla Casa di Canaan.
Qualcuno può portarmi lo scrigno?».
Un silenzio spigoloso si concentrò su uno scheletro con la tonaca
che trasportava un bauletto fatto di legno. Non era più largo di un li-
bro e non era più profondo di due libri impilati uno sull’altro, stimò
Gideon, che era convinta che tutti i libri avessero grossomodo le stes-
se dimensioni. Maestro lo aprì con disinvoltura e annunciò: «Mar-
ta la Seconda?».
Una ragazza scurissima scattò sull’attenti. Il suo saluto fu preciso
quanto la sua impeccabile uniforme della Coorte e, al cenno di Mae-
stro, marciò verso di lui con un’andatura talmente inamidata da riva-
leggiare con il cravattino da ufficiale che portava – scarlatto e bian-
co come la neve. Come se le stesse elargendo chissà quale gioiello,
Maestro le consegnò un banalissimo anello di ferro che aveva tirato
fuori dallo scrigno. Il diametro era all’incirca quello tracciato dal cer-
chio tra pollice e indice. Lei, comunque, non rimase lì imbambolata
né esitò, bisognava dargliene atto. Lo prese e basta, si rimise sull’at-
tenti e tornò a sedersi.
Maestro esclamò: «Naberius il Terzo!» e, a quel punto, seguì una
sfilata piuttosto noiosa di primi paladini dagli atteggiamenti più dispa-
rati che andavano là a prendersi il loro misterioso cerchietto di ferro.
Alcuni fecero il saluto militare, prendendo a esempio la Seconda. Al-
tri, incluso quel bestione di Protesilaus, non si disturbarono affatto.
Man mano che i nomi venivano chiamati, Gideon era sempre più
tesa. Quando, giunto al termine dell’appello, Maestro disse: «Gideon
la Nona». Gideon rimase delusa dalla banalità dell’oggetto. Non era
un anello di ferro perfetto, come aveva pensato, ma una fettuccia che
si ripiegava su se stessa. Si chiudeva per mezzo di un buco ricavato
in una delle estremità e di una piegatura a novanta gradi dall’altra, in
modo che si potesse aprire facendo semplicemente passare l’uncino
attraverso il buco. Al tatto, il metallo era pesante, granuloso. Quando
tornò al suo posto, se lo tenne ben stretto, come una bambina, sapen-
do che Harrow non vedeva l’ora di strapparglielo di mano.

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Nessuno domandò che cosa fosse, il che a Gideon parve un’idio-


zia fatta e finita. Era a tanto così dal farlo lei, quando Maestro disse:
«E ora, la dottrina della Prima Casa e il dolore del Re Imperituro».
Tutti tornarono a concentrarsi parecchio.
«Non vi dirò quello che già sapete» proseguì il sacerdotino. «Inten-
do solo ampliare il contesto. I Littori non nascono immortali. È stata
concessa loro la vita eterna, ma non è la stessa cosa, affatto. Sedici di
loro sono arrivati qui una miriade fa, otto saggi e gli otto che, più tar-
di, sarebbero stati conosciuti come i primi paladini, ed è da qui che è
iniziata la loro ascensione. Questi otto necromanti sono stati i primi,
per rango, dopo il Signore della Resurrezione; hanno diffuso il suo cre-
do nell’oscurità dello spazio, arrivando dove altri non si sarebbero mai
potuti spingere. Ciascuno di loro, da solo, è più potente di nove Coorti
messe insieme. Ma persino i divini Littori possono lasciarci, nonostante
il loro potere e nonostante le loro spade… ed è quello che è accaduto,
negli ultimi diecimila anni. La disperazione dell’Imperatore si è affie-
volita, col tempo. Ed è solamente ora, arrivati al crepuscolo dell’ottet-
to originario, che ha ascoltato i suoi ultimi Littori implorare rinforzi.»
Il sacerdotino prese la sua tazza di tè e, con un colpetto del polso, fece
roteare il liquido al suo interno. «Siete stati nominati per cimentarvi in
una sfida terrificante: rimpiazzarli» disse, «e non vi è certezza alcuna.
Se ascenderete al rango di Littore, o se tenterete e fallirete, il Magna-
nimo Signore sarà comunque consapevole di aver richiesto uno sfor-
zo titanico. Siete gli onorevoli eredi e custodi delle otto Case. Imma-
ni doveri vi attendono. Se non vi scoprirete galassie, non sarà poi così
male scoprirvi stelle, e nemmeno sapere che l’Imperatore sarà ben con-
scio che, entrambi, avrete tentato di affrontare questo grande cimento.
«O tutti e tre» aggiunse allegramente il piccolo sacerdote, rivolgen-
do un cenno del capo alle gemelle e a quella pippa inversa del loro
paladino, non senza un guizzo di divertimento, «nel vostro caso spe-
cifico. Paladini, se il vostro adepto si rivelerà carente, avrete fallito!
Se voi non vi rivelerete all’altezza, il vostro adepto avrà fallito! E se
a non essere all’altezza sarà uno solo di voi o entrambi, allora non vi
chiederemo di rovinarvi la vita nel nome di un obiettivo impossibile.
Non sarete costretti, se non potrete continuare – a causa di un falli-
mento singolo o mutuale – o se deciderete di non proseguire oltre.»
Scrutò i visi che componevano l’assemblea, lo fece con una certa

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vaghezza, come se li stesse vedendo per la prima volta. Gideon riu-


sciva a sentire Harrowhark che si masticava l’interno della guancia,
le dita strette sul suo rosario d’osso.
Maestro disse: «Non si tratta di un pellegrinaggio, in cui la vostra
sicurezza sarà garantita. Verrete sottoposti a prove, probabilmente
pericolose. Lavorerete duro, soffrirete. Devo essere franco: potreste
addirittura morire… ma non c’è motivo di non sperare che, giunti al
termine di tutto questo, non mi troverò di fronte a otto nuovi Litto-
ri, uniti ai loro paladini, eredi di una gioia e di un potere che celebria-
mo da diecimila anni».
Quest’ultima affermazione sprofondò come una manciata di sabbia
nell’acqua. Persino Gideon percepì un brividino sulla nuca.
Proseguì: «Passiamo alle questioni pratiche.
«Soddisferemo ogni vostra esigenza. Vi verranno assegnate delle
stanze e i servitori si occuperanno di voi. C’è spazio in abbondanza.
Qualsiasi ambiente non già destinato ad altri potrà essere utilizzato
a vostro piacimento per i vostri studi o come salotto, avrete accesso
a tutti gli spazi comuni e potrete utilizzare tutti i libri. Qui viviamo
come penitenti: cibo frugale, niente lettere, niente visitatori. Non do-
vrete mai servirvi delle reti di comunicazione. In questo luogo non è
permesso. Ora che vi trovate qui, dovete capire che ci resterete fin-
ché non vi manderemo a casa o finché non avrete successo. Speria-
mo di tenervi abbastanza occupati da non farvi sentire soli o annoiati.
«Per quanto concerne la vostra istruzione qui, quanto segue è quel-
lo che la Prima Casa si aspetta da voi.»
L’intera sala inspirò all’unisono – per lo meno, lo fecero tutti i necro-
manti, accompagnati da una buona frazione dei loro paladini. Le nocche
di Harrow sbiancarono. Gideon avrebbe tanto voluto sedersi o schiacciare
un pisolino furtivo. Erano tutti impazienti di ricevere il syllabus ufficiale
– a lei, invece, lo studio faceva venir voglia di morire. Si sarebbe dovuta
sorbire una tiritera sulla colazione che ci sarebbe stata tutte le mattine
a una certa ora, e poi avrebbero fatto lezione con i sacerdoti per un’ora,
poi Analisi Scheletrica, Storia del Sangue, e Studi Tombali, e una specie
di pausa pranzo, tipo, e alla fine Ossa al quadrato col Dottor Scheletros-
so. Il meglio che poteva sperare era Spade, Spade II e, magari, Spade III.
«Vi chiediamo» cominciò Maestro «di non aprire mai una porta
chiusa, a meno di non aver ricevuto l’autorizzazione.»

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Tutti restarono in attesa. Non successe nulla. Guardarono il sa-


cerdotino e lui li fissò di rimando perfettamente a suo agio, le mani
posate sulle cosce fasciate di bianco, un sorriso accennato. Un chio-
do schizzò fuori con un ping da una cornice marcia, da qualche par-
te dietro l’angolo.
«Ho terminato» disse Maestro, con solerzia.
Gideon vide la luce spegnersi in ogni occhio che si era messo a
brillare per Ossa al quadrato col Dottor Scheletrosso. Qualcuno si
avventurò, con una certa timidezza: «Quale sarà dunque l’addestra-
mento per conseguire il Littorato?».
Il piccolo sacerdote li squadrò di nuovo. «Be’, io non lo so» disse.
Le sue parole li attraversarono come una saetta. L’aria stessa sur-
gelò. Non solo l’emozione per Ossa al quadrato col Dottor Schele-
trosso perì, ma finì sepolta nelle viscere di una qualche catacomba
dimenticata. Servì un’unica occhiata al contegno sincero e gentile di
Maestro per confermare che no, non li stava prendendo in giro. Era-
no confusi, oltraggiati e basiti.
«Sarete voi ad ascendere a Littori» disse, «non io. Sono sicuro che
il percorso vi apparirà chiaro senza bisogno di ricevere input da noi.
Chi siamo noi per insegnare qualcosa ai più vicini al Re Imperituro?»
E aggiunse, sorridendo: «Benvenuti alla Casa di Canaan!».

* * *

Uno scheletro accompagnò Gideon e Harrow all’ala che era stata ri-
servata alla Nona. Vennero condotte nelle profondità della fortezza
della Prima, tra gruppi statuari in rovina, immersi nello splendido
decadimento della Casa di Canaan, il mastodontico e spettrale com-
plesso abitativo che si estendeva sbeccandosi attorno a loro. Supe-
rarono sale con soffitti a volta, immerse nella luce verdastra del sole
che filtrava attraverso uno spesso strato di alghe che ricoprivano le
vetrate. Superarono finestre rotte e finestre devastate dalla salsedi-
ne e dal vento, e archi fantasmatici che si aprivano su stanze feten-
ti, ammuffite fino all’inverosimile. Non si scambiarono neanche una
parola, zero.
Ma quando vennero scortate nelle loro stanze, dopo aver sceso di-
verse rampe di scale, Gideon guardò fuori dalla finestra, dove ora c’e-

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rano soltanto grumi indistinti d’oscurità, e disse, senza rifletterci su:


«Le luci sono rotte».
Harrow si voltò a guardarla per la prima volta da quando avevano
lasciato la navetta, gli occhi che splendevano come scarabei dietro al
velo, la bocca contratta come il buco del culo di un gatto.
«Griddle» le disse, «questo pianeta ruota molto più in fretta del no-
stro.» E, visto che l’espressione di Gideon restava perplessa: «È not-
te, rimbambita».
Non si dissero altro.
Stranamente, la scomparsa della luce mise addosso a Gideon una
gran stanchezza. La luce c’era stata, e a quello non si poteva sfuggi-
re, anche se la massima luminosità del Drearburh era più buia della
più buia fra le ombre della Prima. Scoprirono che la loro ala era su
un livello inferiore, proprio sotto allo spazioporto; dalle enormi fi-
nestre entravano luci che producevano grosse ombre blu, proietta-
te dai montanti di ferro che sostenevano la pista d’atterraggio sopra
di loro. Ancora più giù, in lontananza, ruggiva il mare invisibile. C’e-
ra un letto per Harrow – un’immensa piattaforma con tendaggi piu-
mati e sbrindellati – e un letto per Gideon, piazzato ai piedi del let-
to di Harrowhark, faccenda alla quale non avrebbe potuto obiettare
con più veemenza. Si sistemò con un mucchio di coperte e di cusci-
ni umidi davanti a una mastodontica finestra nella stanza accanto e
mollò Harrow in camera da letto. Aveva un’espressione incarognatis-
sima e pensieri probabilmente ancora più oscuri. Gideon era troppo
stanca anche solo per lavarsi la faccia o svestirsi come si deve. Lo sfi-
nimento si era propagato dalle dita dei piedi, impennandosi verso i
polpacci e congelandole il tratto finale della spina dorsale.
Mentre guardava fuori dalla finestra, nell’oscurità bluastra della
notte che seguiva al giorno, udì un potentissimo stridore sopra di lei:
il fragoroso strascichio vellutato del metallo sul metallo, un raschiare
ritmico. Gideon osservò, paralizzata, una di quelle inestimabili navet-
te che crollava, immensa e silenziosa, sulla piattaforma d’atterraggio:
franò come un suicida e parve rimanere sospesa a mezz’aria, grigia e
splendente. Poi scomparve alla vista. Alla sua sinistra, un’altra; anco-
ra più in là, un’altra. Lo stridore cessò. Uno scalpiccio di passi sche-
letrici scemò in lontananza.
Gideon si addormentò.

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ATTO
ACTSECONDO
ONE

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Gideon si svegliò sotto a un soffitto che non le
era familiare, con la lingua lanuginosa. C’era anche un elettrizzan-
te tanfo di muffa.
La luce, che sfolgorava a rasoiate rosse trapassandole persino le
palpebre, la fece ripigliare di botto. Per un lungo istante restò distesa
nel suo nido di vecchie coperte a guardarsi attorno.
Gli alloggi destinati alla Nona avevano soffitti bassi e vaste stanze
avvolgenti, che andavano magnificamente in malora al cospetto di fi-
nestre titaniche che si aprivano dal pavimento al soffitto. Il molo che
sovrastava i loro quartieri proiettava una lunga ombra, all’esterno,
raffreddando e schermando la luce, che scintillava serena rimbalzan-
do sui lampadari, coi loro festoni di cristalli neri. Sarebbe stato uno
spettacolo ovattato e pacificante per una persona che ci fosse abitua-
ta, ma per Gideon, nella sua prima Prima mattina, era come guarda-
re un mal di testa. Qualcuno, tanto tempo addietro, aveva lussuosa-
mente allestito quegli appartamenti con i colori delle pietre preziose
morte: rubini scuri, zaffiri scuri, smeraldi scuri. Le porte erano po-
sizionate più in alto rispetto agli ambienti principali e ci si arrivava
imboccando delle ripide scale di pietra. Anche la ramazza più scalo-
gnata, lì dentro, surclassava i cimeli più preziosi della Nona. Gideon
apprezzò in maniera particolare il lungo tavolino al centro del loro
salotto, con gli intarsi di vetro nero.
La prima cosa che fece fu ruzzolare fuori e cercare la sua spada.
Aiglamene aveva passato metà del loro addestramento a convince-
re Gideon a cercare l’impugnatura dello stocco invece di quella del
suo spadone. Era arrivata al punto di dormire con quell’aggeggio in

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mano per cercare di abituarcisi. Tra lei e il cestone trovò un bigliet-


to stropicciato:

Non parlare con nessuno.

«Anche perché non c’è nessuno con cui parlare» commentò Gi-
deon. Il messaggio proseguiva:

L’anello l’ho preso io.

«Harrow» ululò Gideon, impotente, cacciandosi le mani in tasca.


L’anello era sparito. Non si poteva commettere errore più grave – o
più stupido – di permettere a Harrowhark Nonagesimus di avvici-
narsi a te quando ti trovavi in una qualsiasi condizione di vulnera-
bilità; forse avrebbe dovuto piazzare una trappola esplosiva davanti
alla porta. Come poi se dell’anello gliene fosse fregato qualcosa. Era
la solita storia che si ripeteva sempre: Harrow considerava le pro-
prietà di Gideon come proprietà comuni. Cercò di tirarsi su di mo-
rale pensando che, per lo meno, Harrow non era nei paraggi, un pen-
siero che avrebbe tirato su di morale chiunque.
Gideon si sbarazzò della tonaca e si contorse per levarsi anche i
pantaloni e la camicia. Non c’era fodera interna che il sudore non
avesse reso calda e umida. Aprì varie porte finché non trovò il bagno
più grande che avesse mai visto. Era talmente enorme che ci si poteva
passeggiare dentro. Allungò le braccia da ambo i lati senza comunque
riuscire a toccare le pareti di pietra scivolosa che splendeva come il
carbone dove i muri erano ancora integri e si faceva opaca e sfregia-
ta dove non lo erano più. Non era poi così male far finta di essere un
primo paladino. Il pavimento era di lastre di marmo, la cui lucentez-
za era solo parzialmente offuscata da qualche sporadica macchia di
muffa nera. C’era un catino con dei rubinetti, che Gideon aveva iden-
tificato come lavandino solo perché aveva letto un casino di fumetti,
e una grande fossa delle dimensioni di una persona scavata nel pavi-
mento alla quale non sapeva proprio come approcciarsi. I detersori
sonici erano collocati, col loro delicato bagliore, su entrambi i lati di
un vano rettangolare con una strana bocchetta.
Gideon tirò una levetta vicino al rubinetto. L’acqua sgorgò dalla

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bocchetta, e Gideon strillò, si allontanò barcollando e in un battiba-


leno spense tutto. Durante la sua ricognizione identificò anche una
rubiconda saponetta vicino al lavandino (ma alla Nona il sapone ve-
niva fatto col grasso umano, quindi no grazie) e un flacone di gel an-
tibat. Alla fine optò per un lavaggio sonico, usando il gel per grattar-
si via dalla faccia la pittura impastata. Di nuovo pulita, con i vestiti e
la tonaca freschi di ripassata sonica, cominciò a sentirsi meglio con
se stessa, finché non scorse un altro bigliettino incastrato frettolosa-
mente nell’autoporta:

Sistemati la faccia, idiota.

Un altro messaggio la attendeva in cima alla scatola dei colori, che


un servitore scheletrico aveva gentilmente collocato su uno dei mo-
bili meno precari:

Non venire a cercarmi. Sto lavorando. Profilo basso e stai alla larga
dai casini. Ribadisco l’ordine di non parlare con nessuno.

Un altro bigliettino vi era stato tardivamente appiccicato sotto:

Per essere chiara, con la parola “nessuno” mi riferisco a una


qualsiasi persona viva o morta.

E ce n’era un altro, dentro alla scatola:

Dipingiti la faccia come si deve.

Gideon esclamò a voce alta: «La morte dev’essere stata un vero sol-
lievo per i tuoi genitori».
Di nuovo in bagno, si cazzuolò in faccia dell’alabastro gelido. La
maschera delle monache proseguiva con grigi tenui e neri spalma-
ti sulle labbra, nelle cavità oculari e sulle guance. Gideon si confortò
trovando respingente il proprio riflesso nello specchio incrinato: un
teschio sorridente con un’incongrua zazzera rossa e un paio di brufo-
li. Tirò fuori gli occhiali da sole da una tasca della tonaca e li inforcò,

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completando perfettamente il quadretto – se l’effetto finale da rag-


giungere doveva essere “orrendo” ce l’aveva fatta.
Sentendosi leggermente meglio disposta verso la vita, con lo stocco
che le ondeggiava sul fianco, la Nona paladina marciò giù per i cor-
ridoi distrutti della Casa di Canaan. C’era un silenzio piacevole. Per-
cepì i rumori lontani dei luoghi abitati – passi, il mormorio indistin-
to dell’autoraffreddamento, l’inconfondibile tramestio dei piedi ossuti
sui tappeti sbrindellati – e ritrovò la strada fino all’atrio principale.
Da lì, seguì il suo naso.
Il suo naso la condusse a una sala calda col soffitto di vetro e arne-
si moderni piazzati alla bell’e meglio su antiche ricchezze, fuori po-
sto in mezzo agli arazzi e alle filigrane annerite. Tra le travi erano
state stese delle reti per tenere fuori gli uccelli, perché la volta di ve-
tro era tempestata di buchi in cui sarebbe passata pure una persona.
Rannicchiata accanto a una fontanella di cemento vecchio, con l’ac-
qua fresca che gorgogliava dalla parete, c’era una tanica filtrante. C’e-
rano anche numerosi tavoloni usurati – assi di legno rinfrescate con
l’antibat e provviste di gambe che parevano provenire da otto diver-
si tavoli immolati allo scopo. In quel posto c’erano almeno cinquanta
posti a sedere. La luce del mattino filtrava giù in deflagrazioni di un
giallo elettrico, facendosi verde dove entrava in contatto con le pian-
te vive e marrone in corrispondenza di quelle defunte – fu felice di
essersi messa gli occhiali.
La sala era semivuota, ma qualcuno degli altri stava ancora finen-
do di mangiare. Gideon si piazzò a tre tavoli di distanza e li spiò sen-
za ritegno. C’era un uomo seduto accanto a una coppia di adolescenti
agghiaccianti: più giovani di Gideon, ancora invischiati in una batta-
glia persa contro la pubertà. Il ragazzino portava una tunica corta blu
navy e la ragazza aveva una faretra ingioiellata sulla schiena. Quando
Gideon era entrata avevano sollevato lo sguardo verso l’accolita del-
la Nona con palese interesse, misto a una certa soggezione. L’uomo
nelle vicinanze dell’orripilante duo aveva i capelli ricci, un viso gio-
viale e gentile, degli abiti dal taglio squisito e uno splendido stocco
lavorato al fianco. Gideon valutò che dovesse aver superato i trenta
da un pezzo. Ebbe il fegato di alzare una mano per rivolgerle un salu-
to titubante. Prima che potesse rispondere in qualunque modo, uno
scheletro le piazzò davanti, sul tavolo, una ciotola fumante di zuppa

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verde acido e un imponente tozzo di pane lardellato, e a tenerla oc-


cupata ci pensò il cibo.
Quelli erano scheletri sofisticati. Il suo fece ritorno con una taz-
za di tè caldo su un vassoio e, prima di ritirarsi, aspettò che la pren-
desse. Gideon pensò che la loro ottima padronanza motoria avreb-
be suscitato l’invidia di qualsiasi necromante. Si spostavano anche
in perfetta sincronia, con consapevolezza. Poteva vantare una cer-
ta esperienza in questo campo. Non era possibile soggiornare nella
Nona Casa senza accumulare un malsano bagaglio di conoscenze su-
gli scheletri. Avrebbe potuto sostituire in scioltezza il Dottor Sche-
letrosso senza bisogno di applicare un solo teorema. La formidabi-
le quantità di complessi comandi programmati che ogni scheletro
eseguiva avrebbe richiesto a tutti i più anziani e nodosi necroman-
ti del Sepolcro Sigillato mesi e mesi per essere messa a punto. Gi-
deon ne era impressionata, ma aveva anche troppa fame per badarci.
Gli sgradevoli adolescenti si erano messi a parlottare tra loro, lan-
ciando occhiate a Gideon, lanciandosi occhiate a vicenda e poi tor-
nando a bisbigliare. L’uomo più grande, dotato di buonsenso, si sporse
verso di loro per impartire un tonificante rimprovero. La piantaro-
no con una certa riluttanza, limitandosi a guardare di tanto in tanto
dalla sua parte, nascosti dietro alle loro zuppe col pane, non sapen-
do che ormai lei era fisicamente immune alla cosa. Alla Nona, le era
toccato consumare ogni singolo pasto sotto l’occhio incredibilmen-
te fosco di Crux, capace di trasformare in cenere il porridge che le fi-
niva in bocca.
Un servitore osseo vestito di bianco, lì in attesa, la liberò di sco-
della e piatto ancor prima che avesse finito. Si stava tranquillamen-
te rimescolando il tè tra i denti, cercando di non berci insieme anche
mezzo litro di pittura per il viso, quando una mano le si parò davan-
ti alla faccia.
La mano apparteneva all’uomo adulto dall’aria gentile. Da vicino
notò che aveva la mascella ben definita, un’espressione di allegria ter-
minale e occhi gradevoli. Con sua grande sorpresa, Gideon si scoprì
timida e, con sorpresa ancora maggiore, scoprì che il diktat di Har-
row, che le vietava di parlare, era un sollievo. Maledizione… Gideon
Nav, che bramava un contatto di qualunque tipo con chiunque non
possedesse messali oscuri o uno stadio avanzato di osteoporosi, sa-

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rebbe dovuta crepare dalla voglia di parlare. Ma si rese conto che non
le veniva in mente niente da dire, zero.
«Magnus il Quinto» le disse. «Sir Magnus Quinn, primo paladino
e siniscalco della Corte di Koniortos.»
Tre tavoli più in là, gli spregevoli adolescenti accolsero la sua auda-
cia con dei mormorii sommessi: persero ogni parvenza di morigerata
rispettabilità e si misero invece a cantilenare il suo nome in una specie
di lento lamento animalesco, un gutturale «Magnus! Maaagnus» che
lui ignorò. Gideon aveva esitato troppo a stringergli la mano e lui, per
quanto fosse animato dalle migliori intenzioni, scambiò la sua rilut-
tanza per un rifiuto. Ripiegò tamburellando sul tavolo con le nocche.
«Devi perdonarci» le disse. «Alla Quarta e alla Quinta i chierici
oscuri scarseggiano e i miei valorosi compagni della Quarta si sento-
no, ehm, un po’ spiazzati.»
(«Nooo, Magnus, non dire che siamo spiazzati» mugolò la ragaz-
zina fastidiosa, sottovoce. «Non ci nominare nemmeno, Magnus»
mugolò l’altro.)
Gideon scostò la seggiola per alzarsi in piedi, facendo un gran bac-
cano. Magnus Quinn, Magnus il Quinto, era troppo vecchio e troppo
ben educato per reagire in maniera stupida – trasalendo, per esem-
pio –, ma un po’ della reputazione che accompagnava la Nona Casa,
che Gideon aveva solo a malapena cominciato a intravedere, gli fece
sgranare gli occhi, seppur di poco. I suoi abiti erano sobri e di splendi-
da fattura; aveva un aspetto curato e raffinato, senza risultare intimi-
datorio. Odiò se stessa quando, in un angolino del suo cervello, sen-
tì risuonare la voce di Harrowhark, sommessa e concitata: “Noi non
diventeremo un’appendice della Terza o della Quinta Casa!”.
Gideon annuì con una certa goffaggine, e lui ne fu così sollevato
da risponderle stantuffando il mento in su e in giù per due volte pri-
ma di rendersi conto di quel che stava facendo. «Che la Nona possa
prosperare» le disse con fermezza. A quel punto, fece saettare la te-
sta con un movimento che intendeva inequivocabilmente comuni-
care “Andiamo! Leviamoci di torno!” – un messaggio che nemmeno
quei due pessimi adolescenti avrebbero potuto ignorare. Spinsero via
le ciotole, verso due scheletri curvi, lì in attesa, e se ne andarono in
punta di piedi, seguendo l’uomo più grande e lasciando da sola una
divertita Gideon.

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Rimase ferma là in piedi finché le loro voci non scomparvero del


tutto («Sul serio, ragazzi» sentì dire a Magnus, severo, «chiunque pen-
serebbe che siete cresciuti in una stalla…») prima di risistemarsi gli
occhiali da sole sul naso e di alzare i tacchi, cacciando le mani nelle
tasche della sua veste e incamminandosi nella direzione opposta ri-
spetto a Magnus e a quei due mocciosi di merda della Quarta Casa.
Imboccò una breve rampa di scale e scese. Gideon non aveva un po-
sto dove andare né una parte da recitare, non aveva ordini né obiet-
tivi: con la veste che le ondeggiava sulle caviglie e la luce che si face-
va gradualmente sempre più forte, decise di vagabondare.
La Casa di Canaan era un alveare di stanze e corridoi, di corti-
li che si aprivano all’improvviso e di rampe che sgocciolavano verso
una tenebra senza luce per poi terminare in pesanti porte rugginose
sormontate da timpani – porte che avevano tutta l’aria di produrre
un inevitabile clang, indipendentemente da quanto adagio si cercas-
se di chiuderle. Più di una volta, Gideon girò un angolo per ritrovarsi
su un pianerottolo che pensava di essersi lasciata alle spalle chilome-
tri e chilometri prima. Una volta si fermò fuori su una terrazza di-
roccata ad ammirare i colossali pilastri rugginosi che si sollevavano
come un anello attorno alla torre. Il mare, da un lato, era puntellato
di piattaforme di cemento che parevano pietre emerse da un guado.
Bagnate e geometriche nell’acqua, mummificate dalle alghe: il mare
aveva sommerso altre strutture molto, molto tempo prima. Aveva-
no l’aspetto di teste squadrate con lunghi capelli appiccicosi, che oc-
chieggiavano sospette fra un’onda e l’altra. Stare all’aperto la stordì,
quindi tornò dentro.
C’erano porte – una moltitudine di porte – un magazzino di por-
te vero e proprio: ante di armadi, autoporte di metallo, porte con le
inferriate che conducevano a corridoi male illuminati, porte alte la
metà di lei e prive di maniglie, porte mezze marce che, attraverso la
loro nudità, permettevano l’osservazione voyeuristica di stanze che
non erano più in grado di schermare. Tutte quelle porte dovevano es-
sere state magnifiche, persino quelle che celavano un semplice ripo-
stiglio per le scope. Chiunque avesse vissuto nella Prima Casa ave-
va un tempo vissuto circondato dalla bellezza. I soffitti erano ancora
alti e graziosi, gli stucchi persistevano nella loro gradevolezza orna-
mentale; ma tutto quanto scricchiolava e, a un certo punto, il piede

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di Gideon sfondò di netto una porzione particolarmente molle del


tavolato del pavimento e restò sospeso nel vuoto sottostante. Era una
trappola mortale.
Scese una rampetta di scale di metallo contorto. La casa dava spes-
so l’impressione di scindersi in diversi livelli senza permetterle mai di
arrivare molto lontano. Nessuna scala, però, l’aveva ancora condotta
così in basso e così al buio. Portava a un vestibolo piastrellato dove
le luci crepitavano sconsolate, rifiutando di accendersi fino in fondo;
Gideon aprì con una spinta due enormi porte gementi che la condus-
sero a una sala riecheggiante che le infiammò le narici. C’era un tan-
fo pesantissimo di sostanze chimiche e il grosso dell’odore arrivava
da una vasta vasca lercia, perfettamente rettangolare, che dominava
il centro dell’ambiente. Delimitata da mattonelle smunte, quella va-
sca se la giocava alla grande con le parti più sporche e vecchie della
Nona Casa. Delle scalette metalliche permettevano di scendere nel-
la fossa, ma perché mai qualcuno avrebbe dovuto farlo.
Gideon abbandonò la vasca e sbirciò attraverso una sudicia dop-
pia porta a vetri. Dall’altra parte, nella stanza, una figura curva e in-
cappucciata ricambiò il suo sguardo e lei, d’istinto, portò la mano
allo stocco: la figura curva, svelta, fece altrettanto con un movimen-
to identico al suo.
“Complimentoni, testa di cazzo!” pensò Gideon, raddrizzando la
schiena. “È uno specchio.”
Era uno specchio immenso, che copriva per intero la parete più
lontana. Avvicinò il viso ancora di più alla porta a vetri. Il pavimen-
to della sala successiva era lastricato, le pietre ormai lisciate da anni
e anni di passi. C’era un lavabo rugginoso con un rubinetto sul quale
era rimasto appoggiato – chissà da quanto tempo – un asciugamano
non più gradito e decaduto fino a ridursi a una cascata di filamenti
ragneschi. Spade corrose erano fissate a pannelli altrettanto corrosi
sul muro. Da una finestra più in alto, lassù da qualche parte, i raggi
del sole illuminavano torrenti dorati di polvere. Gideon avrebbe ado-
rato una sala per l’addestramento come quella, nel suo momento di
massimo fulgore, ma ora non avrebbe toccato quelle lame arruggini-
te neanche per tutto l’oro del mondo.
Tornata nel vestibolo con le luci singhiozzanti, notò un’altra porta,
addossata alla rampa di scale. Non l’aveva vista prima perché la carta

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da parati la copriva quasi interamente, ma uno degli angoli si era sol-


levato, suggerendo la presenza del telaio sottostante; Gideon provò a
muovere la maniglia, tirò, la aprì e sbirciò dentro. Un lungo corridoio
piastrellato ricambiò il suo sguardo, niente finestre, una successione di
luci quadrate sul soffitto che presero vita ronzando con un clac… clac…
clac… illuminando il percorso fino a una gigantesca porta all’estremità
opposta, completamente fuori contesto. Affiancata da pilastri massicci
e rinforzata da imponenti supporti di pietra, l’effetto complessivo non
era di sicuro amichevole. La porta, in sé, era costituita da fascioni di
roccia nera, racchiusa in una cornice smussata dello stesso materiale.
Un bizzarro bassorilievo, fissato su un pannello ammuffito, era scol-
pito sopra l’architrave. Gli stivali di Gideon riecheggiarono sulle mat-
tonelle di pietra splendente mentre si avvicinava per guardare meglio.
Sul bassorilievo c’erano cinque cerchiolini collegati tra loro da linee, in
un motivo che Gideon non riconobbe. Sotto c’era una solida trave di
pietra con un festone orizzontale di foglie intarsiate che andavano da
un’estremità all’altra. All’apice di ogni festone c’era il teschio scolpito di
un animale con delle lunghe corna, che si incurvavano verso l’interno
ad angolazioni minacciose fin quasi a toccarsi. Delle colonne sottili si
innalzavano per sostenere questi bizzarri stendardi di pietra e, avvol-
ta attorno a ciascuna colonna, c’era una cosa che pareva scolpita per
sembrare fremente e viva, una cosa grassa e strisciante, pulsante e ani-
malesca. Gideon si allungò per toccare il marmo finemente cesellato
e percepì delle minuscole scaglie sovrapposte, la giuntura in cui le in-
crespature della pancia si ripiegavano su loro stesse. Era molto freddo.
Niente maniglia, niente batacchio, niente pomelli: solo una toppa
scura, per una chiave con denti lunghi come il pollice di Gideon. Sbir-
ciò dal buco della serratura e vide… un bel cazzo di niente. Com’e-
ra prevedibile, ogni tentativo di spingere, forzare, frugare a ditate e
schiacciare si dimostrò vano. Era chiusa, che diavolo.
“Curioso” pensò Gideon.
Tornò nel piccolo vestibolo claustrofobico e, per pura perversio-
ne personale, risistemò la tappezzeria in modo che la porta tornas-
se a essere completamente coperta. Nell’ombra, l’effetto era ottimo.
Nessuno l’avrebbe scoperta tanto presto. Era una cosa stupida, degna
della Nona e delle sue manie di segretezza, fatta per pura abitudine,
e Gideon detestò la sensazione di conforto che ne ricavò.

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Alla periferia del suo campo uditivo si affacciarono delle voci. Ar-
rivavano dalla sommità del pianerottolo che portava alle scale. Un
altro istinto tipico della Nona indusse Gideon ad appiattirsi sotto la
rampa: l’aveva già fatto un milione di volte per evitare il Maresciallo
del Drearburh, o Harrowhark, o una di quelle diamine di prozie ma-
ledette o gli adepti dell’ordine del Sepolcro Sigillato. Gideon non ave-
va idea di chi stesse evitando ora, ma li evitò comunque perché era la
cosa più semplice da fare. Una conversazione sommessa, arzigogola-
ta e stizzita fluttuò verso il basso.
«… panzane mistiche e fumose» stava dicendo qualcuno, «e avrei
anche la mezza idea di scrivere a vostro padre per lamentarmi di…»
«… di cosa» biascicò qualcun altro, «del trattamento ingiusto che
la Prima Casa ci sta riservando…?»
«… un rompicapo vago non è una competizione e, ora che ci pen-
so bene, l’idea che quel vecchio rimbambito non ne sappia niente è
veramente un’assurdità! Un caso geriatrico che scherza con i nostri
cervelli, o peggio, e questa è la mia teoria, che se ne sta lì in attesa di
scoprire chi cederà per…»
«Sempre il solito complottista» disse la seconda voce.
La prima voce era preoccupata. «Perché le navette sono sparite?
Perché questo posto è una tale discarica? A che serve tutta questa se-
gretezza? Perché il cibo fa così schifo? Quod erat demonstrandum, è
un complotto.»
Ci fu una pausa meditabonda.
«Il cibo, secondo me, non fa così schifo» disse una terza voce.
«Te lo dico io com’è il cibo» continuò la prima voce. «È roba da
quattro soldi, sbobba da cadetti della Coorte. Stanno aspettando, vo-
gliono scoprire chi sarà abbastanza scemo da abboccare. Chi ci ca-
scherà, capite. Be’, io no di sicuro.»
«A meno che» disse la seconda voce, ora che Gideon la sentiva bene,
somigliava molto alla terza voce in termini di modulazione e tono,
si differenziava solo per l’enfasi, «la sfida non sia di natura protocol-
lare: siamo noi a dover produrre una risposta valida a una domanda
necessariamente vaga, allo scopo di convalidare noi stessi. Dare un
significato all’insignificante. Et cetera.»
La prima voce assunse una sfumatura esasperata: «Oh, ma per ca-
rità di Dio».

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Trapestio. Movimenti. Dei passi riecheggiarono sulle scale: stava-


no scendendo.
«Mi domando dove quell’ometto buffo abbia nascosto le navette»
fantasticò la terza voce.
La seconda: «Le avrà scaraventate giù dal molo, immagino».
«Sarebbe da pazzi» disse la prima, «quegli affari costano una
fortuna.»
Ai piedi della rampa, nell’ombra profonda, Gideon riuscì per la pri-
ma volta a scorgere con chiarezza gli interlocutori. Le strane rampol-
le-gemelle della Terza Casa si stavano guardando intorno, scortate
dal loro paladino imbronciato, tutto vaporoso. Vedendoli così da vi-
cino, Gideon ne fu più che mai impressionata. La gemella d’oro della
Terza era, probabilmente, la persona più bella che avesse mai visto in
vita sua. Era alta e regale, con un nonsoché di radioso e farfalleggian-
te – aveva la blusa cacciata alla meno peggio nei calzoni, a loro vol-
ta cacciati alla meno peggio negli stivali, ma era un tripudio di topa-
zi, luccichii e lustro. I necromanti sfoggiavano le loro vesti così come
i paladini sfoggiavano i loro stocchi, ma lei non aveva le braccia in-
filate nelle maniche della tunica, che era impalpabile e trasparente,
striata d’oro, e le fluttuava attorno come un paio d’ali. Portava alme-
no cinque anelli per mano e i suoi orecchini avrebbero messo in sog-
gezione anche un lampadario di cristallo, ma quella sovrabbondan-
za di ornamenti le conferiva un’aria di selvaggia innocenza, come se
si fosse messa tutti i pezzi più carini del suo portagioie e poi si fosse
scordata di toglierseli. Il sudore le aveva incollato alla fronte i capel-
li burrosi e continuava ad arrotolarsi un ricciolo attorno al dito, la-
sciandolo poi andare senza la minima civetteria.
La seconda gemella, invece era… era come se la prima fosse stata
fatta a pezzi e poi ricomposta senza il minimo estro. Portava una tu-
nica dello stesso tessuto e del medesimo colore, ma addosso a lei pa-
reva un bellissimo sudario su una mummia. Il paladino aveva un sac-
co di capelli, il volto aquilino e una giubbetta vanesia.
«Quel che penso io» stava dicendo la gemella radiosa «è che è mol-
to meglio fare così che ficcarci tutti in una stanza a giocare a Chi è il
miglior necromante? O ancora peggio, caricarci di vecchie pergame-
ne e costringerci a tradurre rituali per ore e ore.»
«Sì, sarebbe stato spiacevole» concordò placida la sorella, «anche

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perché in cinque minuti sarebbe risultato palese a tutti che sei una
cretina totale.»
Un altro ricciolo finì arrotolato attorno a un dito. «Oh, ma chiu-
di il becco, Ianthe.»
«Dovremmo festeggiare, se fossimo un po’ onesti con noi stessi»
proseguì la ragazza slavata, scaldandosi, «dato che una realtà già diffi-
cile da dissimulare – il fatto che sei una grossa ocona giuliva – sarebbe
venuta a galla a una tale velocità da infrangere la barriera del suono.»
Il ricciolo venne lasciato andare con un visibile sproing. «Ianthe,
non farmi arrabbiare.»
«Non arrabbiarti, te ne prego» disse sua sorella. «Sai bene che il
tuo cervello riesce a gestire una sola emozione alla volta.»
L’espressione del paladino si fece sgradevole.
«Sei risentita, Ianthe» le disse seccamente. «Perché non puoi met-
terti in mostra ad infinitum con i libri… e quindi sei invisibile, non
è così?»
Entrambe le ragazze gli si rivoltarono contro all’istante. La gemel-
la pallida si limitò a fissarlo, gli occhi ridotti a due fessure dalle ciglia
evanescenti, ma la gemella bella gli afferrò un orecchio tra pollice e
indice e glielo torse, spietata. Lui non era basso, ma lei lo sovrastava
di mezza testa – anzi, di una testa intera se contiamo i capelli. Al suo
fianco, la sorella osservava impassibile, anche se Gideon avrebbe po-
tuto giurare di averla vista sorridere impercettibilmente.
«Se le parli di nuovo in questo modo, Babs» disse la gemella dora-
ta, «ti distruggo. Implora il suo perdono.»
Lui era scioccato e sulla difensiva. «Andiamo, lo sapete che non
intendevo… l’ho fatto per te… ho risposto a quegli insulti per te…»
«Lei può insultarmi quanto le pare. La tua, invece, è insubordina-
zione. Dille che ti dispiace.»
«Principessa, vivo per servire…»
«Naberius!» esclamò, e lo tirò in avanti per l’orecchio, costringen-
dolo a seguirla come un animale trascinato per la cavezza. Sulle guan-
ce gli erano spuntate due sdegnose macchie di un rosso acceso. La ge-
mella bella gli strattonò leggermente l’orecchio, facendogli scuotere
la testa. «Devi strisciare, Babs. Alla svelta, anche. Forza.»
«Lascia perdere, Corona» disse all’improvviso l’altra ragazza. «Non
è il momento di cincischiare. Mollalo e proseguiamo.»

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La gemella luminosa – Corona – esitò, ma poi liberò l’orecchio del-


lo sfortunato paladino. Lui se lo massaggiò come un forsennato. Gi-
deon riusciva solo a vedergli la nuca, ma il suo sguardo continuava a
seguire la ragazza che, in pratica, l’aveva ridotto a un cagnaccio basto-
nato. L’atteggiamento arrogante della testa e delle spalle si era ormai
sgonfiato. Di punto in bianco, impetuosa, Corona lo cinse col brac-
cio e lo sospinse in avanti, assestandogli sull’altro orecchio un buffet-
to che lui, tutto imbronciato, cercò di scansare, per poi traghettarlo
verso la porta che conduceva alla sala con il vascone. La gemella pal-
lida tenne la porta aperta per entrambi.
Mentre i due proseguivano, meravigliandosi della puzza, la gemella
pallida si immobilizzò. Non li seguì. Invece guardò dritto nell’oscuri-
tà, verso le ombre impenetrabili che circondavano la rampa. Gideon
sapeva di essere completamente nascosta, incappucciata e invisibi-
le, ma si appiattì comunque contro il muro: il più lontano possibile
da quello sguardo pallido e slavato, che era ora puntato, con scorag-
giante precisione, proprio su di lei.
«Non imboccherei questa strada, non è saggio» disse piano tra sé.
«Eviterei di attirare l’attenzione della necromante della Terza Casa.»
La gemella pallida superò la soglia e si richiuse la porta alle spal-
le. Gideon restò sola.

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Harrowhark non apparve per il pasto di mez-
zogiorno. Gideon, ancora poco avvezza al concetto di pasto di mezzo-
giorno e ancora meno all’idea di mezzogiorno, si presentò un’ora pri-
ma del resto della comitiva. O l’appetito degli altri era già governato da
un appropriato ritmo circadiano o erano troppo devoti alla Casa e ben
educati per non seguirne uno. Gideon si mise a sedere nella sala calda
e pulita dove aveva fatto colazione e ricevette una porzione di pallida
carne bianca accompagnata da un mucchio di foglie. Era un bene che
fosse da sola. Non aveva idea di cosa farci. Mangiò la carne con la for-
chetta – il coltello non serviva; era così tenera che si sfaldava appena
la toccavi – e mangiò le foglie con le dita, una alla volta. Si rese con-
to a metà dell’opera che doveva probabilmente trattarsi di un’insalata.
Le verdure crude, alla Nona, avevano le sembianze di pietosi tumuli di
porri nevosi grattugiati, affogati in quanta più salsa nera salata fosse-
ro fisicamente in grado di assorbire. Si rimpinzò di pane, che era vera-
mente molto buono, e se ne ficcò un po’ nella tasca della veste per dopo.
Uno scheletro le aveva portato il pranzo; un altro scheletro ave-
va sparecchiato, con la medesima precisione puntigliosa dimostrata
dagli altri. Niente trucchi da quattro soldi, notò. Nessuno aveva spil-
loni infilzati nelle articolazioni per tenerle insieme più facilmente, o
tendini grumosi appiccicati qua e là. Macché, chiunque fosse stato a
rianimarli era dotato di un talento straordinario. Sospettava si trat-
tasse di Maestro. Harrow non l’avrebbe mandata giù. La Nona Casa
avrebbe dovuto monopolizzare il mercato delle ricostruzioni impec-
cabili e qua c’era un intero plotone creato, in tutta probabilità, da un
ometto che batteva le manine senza alcun intento ironico.

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GIDEON LA NONA  /  107

Gideon aveva appena finito di scrollarsi le briciole di dosso e sta-


va per alzarsi e andarsene quando entrarono altri due candidati. Ap-
pena videro Gideon, si fermarono di botto – cosa che fece anche lei.
Uno dei due era un ragazzino smorto col viso affilato come un col-
tello. Portava una tuta bianca antisettica e una cotta di maglia così
leggera che l’avresti potuta tagliare con una forchetta. Gli scendeva
giù come un kilt, il che era strano: i necromanti, di solito, non indos-
savano armature di quel tipo, ma lui era decisamente il necromante.
Aveva il fisico da necromante. Della seta slavata gli fluttuava attorno
alle spalle smilze e dava l’impressione di essere il genere di maschio
con cui la morte si sarebbe potuta trastullare. Era altero e aveva un
nonsoché di ascetico, e il suo compagno – più vecchio, decisamente
più grande anche di Gideon – aveva l’aria di uno perennemente in-
carognito. Era di sicuro più robusto, bulboso, vestito di pellami tin-
ti e screpolati, che parevano aver subito un utilizzo assiduo. Almeno
una delle dita della mano sinistra era ridotta a un moncherino rivol-
tante, cosa che Gideon ammirò molto.
Il motivo per cui loro si fossero fermati di colpo non le era chiaro.
Lei si era immobilizzata perché il necromante la stava fissando con
un’espressione di aperta ostilità. La guardava come se si fosse final-
mente trovato faccia a faccia con l’assassina di un amatissimo ani-
male domestico.
Gideon aveva passato troppo tempo nelle profondità del Drearburh
per non sapere quando, per metterla giù scientificamente, era il mo-
mento di levarsi di torno. Non era la prima volta che la squadravano
così. Sorella Lachrimorta la guardava così praticamente sempre, e So-
rella Lachrimorta era cieca. L’unica differenza, rispetto al modo in cui
la guardava Crux, era che Crux aveva anche trovato il modo di inserirci
una completa assenza di sorpresa, come se fosse già riuscita a delude-
re anche le sue più infime aspettative. E sapeva anche che, tantissimo
tempo prima – un tempo ripiegato dolorosamente in un angolino del-
la sua amigdala – pure la Reverenda Madre e il Reverendo Padre l’ave-
vano guardata così, anche se nel loro caso alla diffidenza si aggiungeva
un sussulto fobico: la guardavano come si guarda un verme inatteso.
«Per cortesia, occupati della cultista oscura» disse il ragazzino pal-
lido. Aveva la voce più profonda, ruvida e tirannica che le fosse mai
capitato di sentire in vita sua.

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108  /  TA MSY N MUIR

«Sì, Zio» disse il tizio più grosso.


Gideon non vedeva l’ora di battersi. Non desiderava altro che
quell’uomo con la faccia arrabbiata e tutta quella pelle bollita addos-
so sguainasse la spada. Aveva un’ossatura robusta ed era segnato dal-
la testa ai piedi, sgualcito, di una ruvidezza giallognola e brunastra.
Accanto al suo necromante biancovestito, quasi elegante, sembrava
impolverato e feroce. Grazie a Dio. Voleva un combattimento san-
guinoso. Voleva combattere finché non fosse stato necessario chia-
mare gli esperti ossisti per riattaccare i piedi a qualcuno. Sapeva che
c’era un prezzo da pagare – svegliarsi mummificata in un mucchio di
bigliettini rabbiosi, o magari morire – ma non le importava più. Gi-
deon stava misurando, con l’occhio della mente, la distanza tra il suo
stocco e le clavicole del paladino avversario.
La deluse visceralmente vederlo fermarsi a qualche passo di distan-
za, giungere le mani e farle un inchino. Era cortese, ma non remissi-
vo. Rispetto al suo necromante, aveva una voce più leggera e un po’
arrochita, come se soffrisse di raffreddore da una vita intera o aves-
se una tosse da fumatore.
«Mio zio non può mangiare in presenza della vostra razza» disse.
«Per cortesia, lasciaci.»
Gideon aveva un milione di domande da fargli. Tipo: “La vostra raz-
za?”. E: “Perché hai un baby-zio color maionese?”. E: “La ‘vostra razza’
comprende tutte le persone che non sono nipoti di qualcuno e han-
no ancora il dito medio?”. Ma non disse nulla. Lo squadrò per qual-
che istante; lui ricambiò lo sguardo – dal suo viso non traspariva un
odio comparabile, ma c’era una prepotenza sopita che sembrava tra-
passarla da parte a parte. Se si fosse trattato di Crux, l’avrebbe man-
dato a cagare. Date le circostanze, annuì e se ne andò, con la mente
occupata da un turbine di indignazione.
Quell’intera faccenda la stava facendo sentire una cogliona. Ave-
va desiderato unirsi alla Coorte perché, da un lato, ne aveva fin sopra
i capelli di tutto il tempo che aveva trascorso da sola, al buio; vole-
va far parte di qualcosa di più grande, qualcosa di diverso dalla de-
menza senile generalizzata che la circondava, o dal matrimonio con
un porro surgelato. Che cos’era, ora? Uno spettro indesiderato che
infestava i corridoi senza un necro da seguire – il fatto di non avere
nemmeno Harrow era un vero schiaffo, e le bruciava –, sempre sola,

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ma con un’illuminazione migliore. Aveva coltivato la piccola illusio-


ne di potersi dimostrare utile durante le prove per il Littorato, non
solo per spiare conversazioni o rovinare colazioni. Persino Spada II
si sarebbe dimostrato un dolce sollievo da quell’indolenza. Fu in que-
sto stato d’animo, colmo di spericolato disappunto, che si fece stra-
da a caso in un assortimento di anticamere vuote e buie, su per una
rampa di scale umide di mattoni; e, all’improvviso, si ritrovò fuori, in
una serra terrazzata.
Il sole splendeva attraverso una volta di vetro, o di una specie di
plex trasparente. Si poteva definire serra solo nell’accezione più tri-
ste del termine. Ovunque la Prima Casa facesse crescere le sue foglie
commestibili, non era lì che succedeva. Ogni sostegno metallico era
incrostato da uno spesso strato di sale. I vasi erano pieni di roba ver-
de, cespugliosa e stentata, con lunghi steli e boccioli penduli, schia-
riti dalla densa luce bianca che arrivava dall’alto. Strane fragranze si
sollevavano come calore tutt’attorno, odori pungenti, odori insoliti.
Nulla di quello che cresceva alla Nona aveva un vero aroma: non il
muschio, non le spore nelle caverne e nemmeno le verdure rinsecchi-
te coltivate nei campi. Il plex terminava in una vera area all’aria aper-
ta dove il vento arruffava le foglie rugose di alberi altrettanto rugosi
e là – sotto a una tenda nel sole ondeggiante, con il medesimo aspet-
to di uno di quei boccioli penduli dal lungo stelo – c’era Dulcinea.
Era completamente sola. La sua montagna umana non era in vi-
sta. Distesa su una sdraio, aveva un’aria fragile e stanca: linee sotti-
li le incorniciavano gli angoli degli occhi e della bocca e portava uno
stupido cappello all’ultima moda. Aveva addosso qualcosa di leggero
e attillato sul quale non aveva ancora scaracchiato sangue. Sembra-
va addormentata e Gideon, non per la prima volta, provò una fitta di
pietà; cercò di tornare sui propri passi, ma era troppo tardi.
«Non te ne andare» disse la figura, aprendo gli occhi in uno sfarfal-
lio di ciglia. «Mi sembrava. Salve, Gideon la Nona! Puoi venire a rad-
drizzarmi lo schienale? Lo farei da sola, ma sai già che non sto bene e
ci sono giorni in cui penso proprio di non riuscire a cavarmela. Pos-
so implorarti di farmi questa cortesia?»
Sulla fronte traslucida, sotto a quel cappello frivolo, c’era un cospi-
cuo velo di sudore – accompagnato da un discreto affanno. Gideon
si avvicinò alla sdraio e armeggiò con le chiusure, provando un’istan-

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tanea sensazione di castrazione di fronte a quanto fosse difficile far


funzionare un semplice meccanismo. Lady Septimus, passiva, rima-
se in attesa che Gideon la sbloccasse, sorridendole coi suoi grandi oc-
chioni color genziana.
«Grazie» le disse, quando si fu tirata su. Liberò i riccioli umidi, co-
lor cerbiatto, da quello stupido cappello e se lo posò in grembo. Poi
si rivolse a Gideon con un’aria quasi cospiratoria. «So che stai facen-
do penitenza e che non puoi parlare, quindi non c’è bisogno che cer-
chi di spiegarmelo a gesti.»
Le sopracciglia di Gideon saettarono oltre la montatura degli oc-
chiali da sole prima che potesse fermarle. «Oh, già» disse la ragaz-
za, tutta fossette. «Non sei la prima monaca della Nona che incon-
tro. Ho pensato spesso a quanto dev’essere difficile essere una sorella
o un fratello del Sepolcro Sigillato. A dire la verità, anch’io sognavo
di diventarlo… quando ero giovane. Mi sembrava un modo così ro-
mantico di morire. Avrò avuto tredici anni o giù di lì… vedi, sapevo
già che sarei morta. Non volevo che nessuno mi guardasse, e la Nona
Casa era così lontana. Credevo di poter stare per conto mio per un
po’ e poi spirare meravigliosamente, da sola, in una veste nera, men-
tre tutti pregavano attorno a me, solenni. Ma poi ho saputo delle pit-
ture che dovete portare» aggiunse, con apprensione, «e non è un’e-
stetica che mi si addice. Non puoi adagiarti nella tua cella e spegnerti
magnificamente con quel trucco in faccia… Questa vale come con-
versazione? Sto infrangendo il tuo voto? Scuoti la testa per dire no e
annuisci per dire sì.»
«Bene!» esclamò, quando Gideon, muta, fece segno di no con la te-
sta, completamente risucchiata da quella folle risacca gorgogliante.
«Adoro gli ascoltatori prigionieri. So che lo stai facendo solo perché
ti dispiace per me. E sembri proprio una ragazzina perbene. Perdo-
nami» aggiunse frettolosa, «non sei una bambina. Ma mi sento così
vecchia, in questo momento. Hai visto la coppia della Quarta Casa?
Infanti. Hanno contribuito a farmi sentire decrepita. Domani potrei
sentirmi giovane, ma oggi è una pessima giornata… e mi sento una
storpia. Togliti gli occhiali, per favore, Gideon la Nona. Mi piacereb-
be vedere i tuoi occhi.»
Di fronte all’accostamento tra Gideon e il concetto di obbedienza
in parecchi si sarebbero ribaltati dalle risate, continuando a sghignaz-

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GIDEON LA NONA  /  111

zare e a grugnire per un bel pezzo. Ma Gideon si scoprì impotente


di fronte a quella richiesta straordinaria; era inerme di fronte a quel-
le braccia sottili e al sorriso in boccio della donna-bambina davanti a
lei; si ritrovò particolarmente disarmata di fronte alla parola storpia.
Si levò gli occhiali dal naso e presentò, cortese, il viso all’ispezione.
E venne ispezionata, a fondo e all’istante. Lo sguardo dell’altra si
fece acuto e determinato e, per un momento, su quel viso non ci fu
altro che operosità. C’era qualcosa di repentino e freddo nell’azzur-
ro di quegli occhi, un’intelligenza radicata, una palese profondità e
ampiezza percettiva non soggetta a vergogne. Le guance di Gideon
si infiammarono, nonostante i rimproveri mentali che si stava rivol-
gendo: “Calmati, Nav, rallenta”.
«Oh, peculiare» disse Dulcinea a bassa voce, più a se stessa che
a Gideon. «Lipocromia… recessiva. Mi piace studiare gli occhi del-
le persone» le spiegò all’improvviso, sorridendo. «Possono dirci così
tanto. Non sono riuscita a capire molto da quelli della tua Reveren-
da Figlia… ma i tuoi occhi sono delle monete d’oro. Ti sto mettendo
in imbarazzo? Sono un po’ troppo inquietante?»
Quando Gideon scosse il capo – no – lei si appoggiò meglio sullo
schienale, appoggiando la testa all’indietro e sventolandosi con quel
cappello sbarazzino. «Bene» le disse, soddisfatta. «Siamo già messe
abbastanza male così, bloccate in questa vecchia stamberga derelit-
ta, senza che mi ci metta pure io a spaventarti. Non la trovi favolosa-
mente abbandonata? Immagina i fantasmi di tutti quelli che devono
averci vissuto… lavorato… vogliono ancora essere richiamati, se solo
capissimo come fare. La Settima non se la cava bene con i fantasmi,
sai. Li offendiamo. Li preoccupiamo. L’antica discrepanza tra corpo
e spirito. Ci occupiamo eccessivamente del corpo… cristallizzando-
lo nel tempo… intrappolandolo in maniera innaturale. L’opposto del-
la vostra Casa, Gideon la Nona, non credi? Voi prendete le cose vuo-
te e le usate per costruire… Noi blocchiamo la lancetta dell’orologio,
per fare in modo che l’ultimo secondo non scocchi mai.»
Tutta questa roba era così fuori dalla portata di Gideon che, in pra-
tica, fluttuava da qualche parte nello spazio, ma la trovò comunque
confortante, in qualche modo. Solo Harrowhark, in vita sua, aveva
tenuto Gideon così sulla corda, ma lei le dava spiegazioni di rado e,
quando lo faceva, era come se si rivolgesse a un bambino molto stu-

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pido. Dulcinea aveva i modi sognanti e fiduciosi di qualcuno che, no-


nostante andasse in giro a spiattellare stronzate di prima qualità, ave-
va la certezza che tu stessi capendo tutto quello che diceva. In più,
mentre parlava sorrideva apertamente e con grazia, sbattendo le ci-
glia su e giù.
Ipnotizzata, Gideon non poté fare altro che restarsene lì a guarda-
re – con la bocca piena di denti – la necromante dagli occhi azzur-
ri che le posava una mano esile e affusolata sul braccio; la pelle le si
contrasse, assottigliandosi su ogni metacarpo, le ossa dei polsi diven-
tarono corde annodate. «Alzati, fallo per me» disse Dulcinea. «Ac-
contentami. Lo fanno in tanti… ma vorrei che lo facessi anche tu.»
Gideon si scostò e si alzò in piedi. La luce del sole le lambiva l’or-
lo della veste in macchie rugginose. Dulcinea disse: «Sguaina la tua
spada, Gideon la Nona».
Percependo la liscia impugnatura nera sotto al nido scuro del para-
nocche, Gideon sguainò. Le sembrava di aver sguainato quell’aggeggio
maledetto un milione di volte – così tante che la voce di Aiglamene
aveva ormai preso alloggio in maniera perpetua nella sua testa, tan-
to per reggerle la messinscena. “Sguaina. Appoggiati sul piede destro.
Braccio piegato, non molle, lama rivolta al volto o al petto dell’avver-
sario. Stai proteggendo il lato esterno del tuo corpo, Nav, sei sul pie-
de destro e non hai il peso buttato in avanti come una cazzo di loco-
motiva – sei centrata, puoi spostarti avanti e indietro come desideri.”
Il metallo della lama del suo stocco, lontano dalla sua nera dimora
nel Drearburh, scintillava incolore e opaco, in una lunga e affusolata
assenza di tonalità. Gideon, non senza rancore, prese atto della sua
bellezza – somigliava a uno spillo, a un nastro d’ebano. “Mano secon-
daria, sollevata, alta.” Si rilassò, tenendo la posizione, in un trionfo di
memorie corporee che la sua insegnante le aveva inculcato a forza, e
le tornò la voglia di combattere.
«Oh, molto bene!» disse Dulcinea, e applaudì come una bambi-
na davanti a un fuoco d’artificio. «Perfetta… il ritratto di Nonius. La
gente dice che tutti i paladini della Nona sono buoni solo a spostare
di qua e di là dei sacchi pieni di ossa. Prima di incontrarti immagina-
vo che potessi essere un tizio rinsecchito con un giogo sulla schiena
e due cesti zeppi di cartilagini… già ridotto a un mezzo scheletro.»
Era un’affermazione bigotta, arrogante e del tutto veritiera. Gideon

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allentò la presa sulla spada e ammorbidì la posizione, rimettendo-


si a proprio agio – e vide che la ragazza emaciata, infagottata nella
sdraio, aveva smesso di giocherellare col suo cappello fru fru. Aveva
la bocca incurvata in un sorrisetto interrogativo e i suoi occhi le ri-
velarono che aveva fatto due più due e ne aveva ricavato un quattro
assai inequivocabile.
«Gideon la Nona» disse Dulcinea, lentamente «sei abituata a una
spada più pesante?»
Gideon abbassò lo sguardo. Squadrò lo stocco, puntato verso il
cielo come una freccia nera, e la mano secondaria. La teneva a cop-
pa, pronta a stringersi attorno a quello che avrebbe dovuto essere il
proseguimento di un’impugnatura ma che ora era solo il pomolo, nel
modo in cui si doveva brandire un cazzo di spadone.
Lo rinfoderò all’istante, lasciandolo scivolare nel suo alloggiamen-
to con un sussurro ferroso e compresso. Un sudore freddo le si pro-
pagò sotto i vestiti. Gli occhi vivaci e l’espressione sul volto di Dulci-
nea lasciavano trasparire solo una curiosità birichina ma, per Gideon,
quella equivaleva alla Campana Secondariana che rimproverava un
bambino in ritardo di dieci minuti per le orazioni. Per un attimo, fu
certa che parecchia roba stupida stesse per verificarsi. Per poco non
confessò tutto a Dulcinea, sotto al suo sguardo mite, color denim:
per poco non aprì la bocca per implorare con tutto il cuore la pietà
di quella donna.
Fu in quel momento di acutissima idiozia che apparve Protesilaus,
salvandole le chiappe con il solo ausilio delle sue grandi dimensio-
ni e dell’attenzione nulla che riservò alla sua presenza. Si piazzò lì in
piedi, con quei capelli fangosi e la pelle spenta, bloccando il raggio di
sole che screziava le mani della sua adepta e le disse con un vocione
cavernoso e monotono: «È chiusa».
Non c’era tempo di capire a cosa si riferisse. Mentre lo sguardo di
Dulcinea guizzava tra il suo paladino e la paladina della Nona, Gideon
colse al volo l’opportunità di voltarsi e… non correre via, non proprio.
Piuttosto, scivolare con estrema rapidità in una direzione qualsiasi,
via da lì. C’erano delle crepe nel plex e il vento entrava, caldo e sala-
to, scompigliandole le vesti e il cappuccio. Era quasi riuscita a scap-
pare quando Dulcinea la chiamò: «Gideon la Nona?».
Accennò a girarsi verso di loro, con gli occhiali scuri appollaia-

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ti sulle sopracciglia. Protesilaus il Settimo la fissò con lo sguardo va-


cuo di una persona che, anche se il muro fosse parzialmente crollato,
proiettandola dritto in mare, sarebbe rimasto lì a osservare il tutto con
immutato disinteresse. La sua adepta, però, la fissava con nostalgia.
Quell’occhiata fece indugiare Gideon sulla soglia, all’ombra dell’arco,
accarezzata dalla brezza che arrivava dall’acqua.
Dulcinea disse: «Spero di poter parlare di nuovo con te, presto».
“Col cazzo!” pensò Gideon, facendo due gradini alla volta, alla cie-
ca. Lei no, non lo sperava affatto. Le aveva già detto anche troppo, e
senza pronunciare una sola parola.

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ACT ONE

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Quei primi giorni alla Casa di Canaan si distri-
buirono, dilatati, come i grani di un rosario da preghiera. Erano com-
posti da grandi ore vuote, da pasti consumati in stanze sgombre, di
stranieri molto strani con cui ci si ritrovava da soli. Gideon non po-
teva nemmeno contare sulla familiarità dei morti. Gli scheletri della
Prima erano troppo bravi, troppo abili, troppo vigili – e Gideon non
si sentiva mai veramente a proprio agio da nessuna parte, a eccezio-
ne di quando si rinchiudeva per i suoi esercizi negli alloggi dall’illu-
minazione fioca che erano stati assegnati alla Nona.
Dopo essersi quasi del tutto tradita aveva passato due giorni inte-
ri in una clausura quasi completa, a far pratica con il suo stocco fin-
ché il sudore le aveva impiastricciato le pitture sul viso, trasforman-
dola in una beffarda maschera striata. Aveva piazzato uno sgabello
rugginoso in cima a un traballante mobile d’ebano e si era messa a
fare le trazioni alla sbarra di metallo che collegava le travi. Aveva fat-
to flessioni davanti alle finestre finché Dominicus non l’aveva scre-
ziata di una luce sanguigna, completando la sua corsa attorno a quel
pianeta acquoso.
Entrambe le sere era andata a letto indolenzita e furibonda per la
solitudine. Crux le aveva sempre detto che il picco massimo dell’insop-
portabilità lo raggiungeva dopo essere rimasta in isolamento. Scivolò
in un sonno profondo e nero, svegliandosi solo una volta, la seconda
notte, quando – prestissimo la mattina, con il chiarore esterno che
somigliava un po’ di più all’assenza di luce della Nona – Harrowhark
Nonagesimus si era richiusa la porta alle spalle, senza quasi fare ru-
more. Aveva aperto leggermente gli occhi quando la Reverenda Fi-

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glia si era fermata davanti al suo giaciglio improvvisato. Poi la sago-


ma scura si era spostata in camera da letto, avvolta nelle sue vesti.
Non c’erano stati altri suoni; la mattina, quando Gideon si era sve-
gliata, Harrowhark era scomparsa di nuovo. Non le aveva nemmeno
lasciato un bigliettino scortese.
Fu in questo stato di abbandono che la paladina della Nona Casa, a
secco di proteine e di attenzioni, consumò due colazioni, con gli oc-
chiali scuri che le scivolavano giù per il naso mentre sorbiva l’ennesi-
ma ciotola di zuppa. Avrebbe ammazzato qualcuno pur di vedere un
paio di monache macilente trotterellare in giro, e si ritrovò dunque
in un una condizione di vulnerabilità al cento per cento quando sol-
levò lo sguardo e vide una delle gemelle della Terza Casa che entrava
a grandi falcate nella sala, come una leonessa. Era quella bella; ave-
va le maniche del vestito impalpabile arrotolate sulle spalle dorate e i
capelli legati all’indietro in una nuvola fulva. Guardò Gideon con l’e-
spressione di una granata d’artiglieria sospesa a mezz’aria.
«La Nona!» esclamò.
Le si avvicinò. Gideon si era alzata in piedi, memore dell’occhiata
pallida dell’altra gemella incazzata, ma quel che si ritrovò davanti fu
una mano ingioiellata, tesa nella sua direzione. «Lady Coronabeth Tri-
dentarius» le fu riferito, «Principessa di Ida, erede della Terza Casa.»
Gideon non sapeva cosa fare con quella mano che le era stata of-
ferta a dita aperte e palmo all’insù. Posò le dita sulle sue, nella speran-
za di poterle stringere brevemente e levarsi dai piedi, ma Coronabeth
Tridentarius, Principessa di Ida, gliele afferrò e le baciò maliziosa-
mente le nocche. Il suo scintillante sorriso esprimeva bene la soddi-
sfazione che provava per la temerarietà dimostrata; aveva gli occhi
di un violetto profondo e liquido, e parlava con la disinvolta sfaccia-
taggine di chi si aspetta che ogni suo comando – salta! – venga ac-
colto con entusiasmo.
«Ho organizzato dei duelli tra i paladini di tutte le Case» disse.
«La mia speranza è che anche la Nona voglia accogliere il mio invi-
to. Lo farà?»
Se solo Gideon non si fosse sentita così sola, se solo Gideon non
fosse stata così abituata ad avere una compagna d’allenamento – an-
che se la sua, ormai, era molto più abituata a combattere con i reu-
matismi –, se solo Coronabeth Tridentarius non fosse stata così in-

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credibilmente figa. Valutò stancamente tutti questi se solo, mentre la


necromante della Terza Casa la guidava giù per una scaletta stretta e
angusta che le risultò subito familiare – era una di quelle che aveva
già esplorato – e poi lungo il vestibolo buio e piastrellato con le luci
tremolanti, fino alla sala con la fossa che puzzava di chimico.
La stanza, ora, brulicava di attività. Nella fossa c’erano tre schele-
tri armati di moci pelosi e secchi, che lavavano via la fanghiglia; un
quarto strofinava via la sporcizia dalle doppie porte a vetri che por-
tavano alla sala con lo specchio. Al tanfo della decomposizione si so-
vrapponeva ora il tanfo egualmente invadente dei tensioattivi e della
cera. Il tempo continuava a stritolare quel posto nella sua morsa, ma
nella luce calda del primo mattino, due figure danzavano sulla peda-
na di pietra della sala specchiata. L’incalzante clangore metallico del-
le spade saturava lo spazio fino alle travi del soffitto.
Uno scheletro nell’angolo ficcò una lunga asta in un conglomera-
to di ragnatele, scatenando rovesci di polvere; un gruppetto sedeva lì
nei paraggi, a guardare il combattimento. Riconobbe il paladino del-
la Terza anche se non portava quel suo giacchino arrogante. L’aveva
appeso a un gancio e si era messo a pulire la spada con un’estenuante
indolenza. Non poteva nemmeno sbagliarsi sulla paladina della Se-
conda, con la sua abbacinante tenuta bianca da ufficiale della Coorte
e la giubba a contrasto, di un rosso acceso. Guardava i due al centro:
Magnus e l’abominevole teenager femmina erano in maniche di ca-
micia e si fronteggiavano sulla pedana di pietra, le spade e i pugna-
li che proiettavano riflessi gialli sulle pareti. Tutti quanti sollevarono
lo sguardo quando la Principessa di Ida apparve in tutto il suo fulgo-
re, perché non si poteva fare altrimenti.
«Sir Magnus, hai visto che colpaccio?» esclamò, indicando Gideon.
La cosa non produsse quel rispettoso brusio generalizzato che Gi-
deon aveva ovviamente sperato. La paladina con l’uniforme si mise
sull’attenti, ma il suo sguardo restò freddo e inespressivo. La ragazzi-
na della Quarta si fermò, spostò il peso sui talloni e lanciò un fischio
sonoro, pieno di rapito raccapriccio. Il paladino della Terza alzò le so-
pracciglia, costernato, come se la sua necromante avesse trascinato
una lebbrosa al loro cospetto. Solo Magnus le rivolse un sorriso affa-
bile, anche se un po’ perplesso.
«Principessa Corona, ero certo che sareste riuscita ad acciuffa-

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re Gideon la Nona!» le disse e poi, alla sua intollerabile adolescente:


«Ecco qua, cara mia. ‘Sono Jeannemary la Quarta e ti faccio un culo
così!’. Ora potrai duellare con qualcun altro e smetterla di tormenta-
re tutti quanti con questa storia.»
(«Nooooo, Magnus, non tirarmi in mezzo» sibilò l’intollerabile
adolescente.)
«Io mi vergognerei ad ammettere una cosa del genere» disse il Ter-
zo paladino, in modo assai eloquente.
Quella sventurata di Jeannemary la Quarta si fece rossa in faccia.
Si alzò per dire qualcosa di ovviamente poco saggio, ma il suo com-
pagno di allenamento le diede una pacca sulla schiena, con un sor-
riso inscalfibile.
«Ti vergogneresti, Principe Naberius? Di perdere da una Cha-
tur?» disse di tutto cuore. «Santo cielo, no. Una famiglia di paladi-
ni, dai tempi della Resurrezione. Se fossi io a sconfiggerla… quello sì
che sarebbe imbarazzante. La conosco da quando era una bambina e
lei lo sa benissimo che sono un buono a nulla. Dovevi vederla quan-
do aveva cinque anni…»
(«Magnus, non parlare di me a cinque anni.»)
«Ah, lascia che ti racconti questa storia…»
(«Magnus, non raccontare quella storia a nessuno.»)
«Mi ha sfidato a duello durante un ricevimento, sosteneva che io l’a-
vessi insultata, se non sbaglio era per via di alcuni cuscini che dovevo
sistemarle sotto il sedere. In tutta sincerità, sarebbe riuscita a batter-
mi se come arma secondaria non avesse usato un coltello da pane…»
Disgustata oltre ogni immaginazione, una provatissima Jeanne-
mary lanciò un urlo animalesco e scappò sulle panche dall’altro lato
della sala, lontanissima dagli altri. Ora che non li stava più guardan-
do, Magnus rivolse a Naberius un’occhiata di sincero biasimo. Il pa-
ladino della Terza arrossì e si girò dall’altra parte.
«Voglio vedere un duello» disse la Principessa Corona. «Forza –
Gideon la Nona, giusto? – perché non provi con Sir Magnus? Dice
che è negato, ma non bisogna dargli retta. La Quinta Casa produce
sempre ottimi paladini, è risaputo.»
Magnus chinò il capo.
«Accetterei di buon grado e voi, principessa, siete gentile» dis-
se lui, «ma non sono diventato primo paladino perché sono il

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più abile con lo stocco. Sono primo paladino solo perché la mia
adepta è anche mia moglie. Potremmo dire che me lo sono pro-
prio – ha, ha – maritato!»
Dall’altro lato della sala, Jeannemary si lasciò scappare un lungo la-
mento, simile a un rantolo agonizzante. La Principessa Corona scop-
piò a ridere di gusto; Magnus pareva fierissimo della propria uscita.
I visi degli altri due rimasero pazientemente neutri. Gideon si ripro-
mise di prendere nota della battuta, in modo da poterla utilizzare in
un secondo momento.
Corona accostò la testa luminosa a Gideon. Aveva un buon odore,
lo stesso profumo che Gideon immaginava dovesse avere il sapone.
«La Nona ci farà questo onore?» le mormorò vezzosa.
Donne molto più risolute di Gideon non avrebbero saputo dire di
no a una Corona Tridentarius così vicina e partecipe. Salì sulla peda-
na, in un rimbombo di stivali sulla pietra. L’uomo più vecchio davanti
a lei sgranò gli occhi quando si rese conto che non si sarebbe libera-
ta del mantello, del cappuccio e nemmeno degli occhiali. L’aria nella
stanza si fece elettrica, a eccezione del monotono sgrat, sgrat, sgrat
degli scheletri impegnati a rimuovere le ragnatele. Persino Jeanne-
mary si risollevò dalla sua posizione di premorte per guardare. Co-
rona si lasciò sfuggire un borbottio meravigliato quando Gideon sco-
stò il mantello, rivelando il guantone appeso alla cintura che scintillò
nera alla luce del sole. Se lo infilò.
«Noccoliere lamate?» commentò il paladino della Terza con since-
ro sbalordimento. «La Nona usa le noccoliere lamate?»
«Non tradizionalmente.»
Quella era la paladina con l’uniforme della Coorte, che aveva un
tono di voce rigido quanto il suo colletto. Naberius disse fingendo
noncuranza: «Non mi è mai passato per la mente di considerare le
noccoliere un’opzione plausibile».
«Hanno un’aria veramente perversa.» (Il tono di Corona era piut-
tosto arrapante, a Gideon toccò ammetterlo.)
Naberius sbuffò.
«Sono armi da rissa.»
La paladina della Coorte commentò: «Be’, staremo a vedere».
“Ecco la cosa strana del rimanere muti” pensò Gideon. “Tutti sem-
bravano parlare di te, invece che con te.” Solo il suo compagno desi-

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gnato la stava guardando dritto negli occhi – per quanto fosse possi-
bile farlo con qualcuno che portava gli occhiali scuri.
«La Nona intende… ehm…» Magnus stava indicando generica-
mente il mantello di Gideon, i suoi occhiali, il cappuccio, gesto che
lei tradusse con un “Ti vuoi togliere quella roba?”. Quando scosse la
testa per rispondergli no, lui si strinse nelle spalle, dubbioso: «D’ac-
cordo!». E poi aggiunse, lasciandola un po’ perplessa: «Ben fatto».
Corona disse: «Arbitrerò io» e si misero in posizione. Ancora una
volta, Gideon si ritrovò giù, nelle profondità poco illuminate del Drear-
burh, nella tomba riempita di cemento di un salone militare. I duelli
fra paladini si sarebbero svolti proprio come Aiglamene le aveva spie-
gato che si sarebbero svolti, il che non differiva molto da quello che
succedeva a casa sua, solo con molte più cerimonie. Ci si dispone-
va uno di fronte all’altro, portando al petto il braccio non dominante
per mostrare qual era l’arma secondaria che si intendeva utilizzare:
Gideon accostò quindi alle clavicole i coltelli sul suo guanto, grossi
e neri. Magnus fece lo stesso con la propria lama: uno splendido pu-
gnale d’acciaio color avorio con il manico di cremosa pelle intrecciata.
«Al primo tocco» disse la loro arbitra, nascondendo a malapena il
crescente entusiasmo che provava. «Dalla clavicola al sacro, eccetto
le braccia. In guardia.»
Al primo tocco? Nel Drearburh valeva al tappeto, ma mancava il
tempo per rimuginarci troppo su: Magnus le sorrideva con l’entusia-
smo fanciullesco e pedagogico di un uomo che sta per giocare a palla
con un congiunto più giovane. Sotto a quella maschera convincente,
però, un’ombra di dubbio gli velava lo sguardo, una smorfia gli tirava le
labbra. Una sensazione si affacciò in Gideon: aveva un po’ paura di lei.
«Magnus il Quinto!» fece lui, e: «Ehm… vacci piano?»
Gideon guardò Corona e scosse la testa. La principessa necro-
mante di Ida era troppo ben educata per stare a discutere e troppo
sveglia per non capire, quindi disse, semplicemente: «Farò io le veci
di Gideon la Nona. Sette passi indietro – voltatevi – cominciate…».
Le quattro paia di occhi famelici che osservavano il combattimento,
sbiadirono sul fondale di un sogno, fra le righe che il cervello riempie
per sintetizzare un luogo, un tempo, un ricordo. Gideon Nav aveva
capito nel primo mezzo secondo che Magnus avrebbe perso: dopo-
diché, smise di pensare col cervello e cominciò a pensare con le brac-

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cia, che poi erano anche il posto in cui risiedeva la parte migliore del-
la sua materia grigia.
Quello che accadde dopo fu come chiudere gli occhi in una stanza
calda e soffocante. Il primo affondo della Quinta Casa fu il torpore
pesante che le avvolse la nuca, scendendo giù fino alle dita dei piedi;
il secondo il ciondolio del cranio, senza peso, verso il petto. Gideon
portò la mano secondaria dietro la schiena e rammentò a se stessa:
“Smettila di bloccare tutti i colpi!” e non si prese nemmeno la briga
di parare. Deviò ogni affondo, lento come la melassa, senza intercet-
tarlo, indietreggiando di fronte al fendente di richiamo col pugnale,
come se si fossero messi d’accordo prima su dove Magnus avrebbe
attaccato: lui le fece pressione, cercando di forzarla, e lei gli scostò la
spada con grande delicatezza, accompagnandola con la sua, in con-
troparata. La punta dello stocco nero scintillò come un pezzo di car-
ta carezzato da una fiamma e si arrestò a mezzo centimetro dal suo
cuore. Lui si immobilizzò, con un movimento balbettante. Lei gli toc-
cò il petto con la punta della spada, piano.
Finì tutto in tre mosse. Una scossa aptica attraversò la mente di Gi-
deon destandola, e si ritrovò lì: con la spada ancora puntata al petto di
Magnus; Magnus con l’espressione bonaria ma atterrita di un uomo
colto di sorpresa nel bel mezzo di uno scherzo; quattro espressioni
altrettanto fisse e vuote. La bocca della loro avvenentissima arbitra
era addirittura un po’ spalancata, le labbra schiuse sui denti bianchi.
Rimase lì a bocca aperta finché non si ripigliò e…
«Vince la Nona?»
«Perbacco» commentò Magnus.
La sala espirò, collettivamente. Jeannemary disse: «Oh, cavolo». La
Seconda paladina della Coorte si raddrizzò di qualche centimetro sul-
la sedia e affondò il pollice con forza inaudita nella carne tenera sot-
to al mento, pensierosa. Gideon rinfoderò la spada un istante dopo
che Magnus ebbe rinfoderato la sua, restituendogli l’inchino con un
piccolo gap temporale, per poi voltargli le spalle. Il sudore si era tra-
sformato in adrenalina; l’adrenalina cantava dentro di lei come uno
splendido carburante incandescente, ma il suo cervello e il suo cuore
non avevano ancora assimilato il risultato. L’unica emozione che sta-
va provando era un sollievo a lenta saturazione. Aveva vinto. Aveva
vinto nonostante muoversi con addosso una tonaca e degli occhiali

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da sole fosse una stupidaggine. L’onore di Aiglamene sarebbe rima-


sto intatto per un altro giorno e il culo di Gideon non avrebbe spiri-
tualmente ricevuto pedate.
Le conversazioni si sviluppavano attorno a lei, senza includerla.
Un po’ lagnoso: «Non sono così fuori forma, vero?».
(«Magnus! Maaagnus. Tre mosse, Magnus.»)
«Sto diventando vecchio? Io e Abigail dovremmo divorziare?»
«Non l’ho neanche vista muoversi.» Corona aveva il fiato corto.
«Dio santo, se è veloce.»
Visto che era il più prossimo a lei, la prima occhiata di Gideon dopo
il combattimento cadde sul paladino leccatissimo della Terza, Nabe-
rius: sguardo inquieto e sorriso indispettito. Aveva gli occhi azzurri
ma, da quella breve distanza, si accorse che erano screziati, qua e là,
di un marrone insipido che le ricordò dell’acqua untuosa.
«Il prossimo sono io» disse Naberius.
«Non essere ingordo» gli disse bonaria la sua principessa, con un
filo di noncuranza. «La Nona ha appena combattuto. Perché non fai
un testa a testa con Jeannemary?»
Ma era chiaro che non volesse dedicarsi a nessun testa a testa con
Jeannemary e, a giudicare dalla faccia di quest’ultima, nemmeno lei
era granché propensa all’idea. Naberius buttò indietro le spalle e si
arrotolò le maniche della splendida camicia di cotone fino ai gomiti
senza distogliere lo sguardo da Gideon. «Non sei nemmeno sudata,
vero?» le disse. «Macché, sei pronta per ricominciare. Veditela con me.»
«Oh, Babs.»
«Andiamo.» Si rivolse a Corona con un tono molto più morbido,
persuasivo e gradevole. «Lascia che la Terza mostri di cosa è capace,
mia Signora. So che preferisci guardare i tuoi.» Nella sua voce c’era
una cadenza peculiare, una specie di tendenza snob ad allungare le
vocali. «Lasciamelo fare. Così Dyas potrà ammirarmi ancora un po’.»
(Accanto a lui, la paladina della Coorte a cui ovviamente si riferiva
quel Dyas alzò le sopracciglia precisamente di un ottavo di centime-
tro per esternare quanta voglia avesse di ammirarlo ancora un po’.)
«La Nona?»
Il cuore di Gideon sfarfallava ancora nel petto. Alzò le spalle, assu-
mendo un atteggiamento che i confratelli del Sepolcro Sigillato avreb-
bero riconosciuto all’istante come il segnale dell’imminente verificarsi

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di un’iniziativa particolarmente sciocca da parte sua, ma che Coro-


na scambiò per un gesto d’assenso e disse al suo paladino con un’in-
dulgenza canzonatoria: «Ecco qua, mio caro, vai a divertirti, allora».
Lui era raggiante, pareva che gli avessero appena comprato un paio
di scarpe nuove. Gideon pensò: “Merda”.
La paladina della Coorte, Dyas, stava dicendo: «Vostra Altezza. L’a-
depta non dovrebbe officiare per il proprio paladino».
«Oh, pfff! Che sarà mai, Luogotenente… per una volta.»
«Non potete definirvi un arbitro imparziale, Principessa» le sta-
va dicendo Magnus.
«Stupidaggini: sono più severa con lui di chiunque altro. Al primo
tocco: in guardia?»
In un batter d’occhio, si ritrovò faccia a faccia con un altro paladi-
no. Aveva un picchiettio nelle orecchie, e si rese conto che si trattava
del battito del suo cuore. Il vetro delle lame sul suo guanto era nero,
freddo e setoso, e quella sensazione penetrò oltre lo strato della veste
e della camicia. Le sembrava che la lingua, in bocca, le si fosse inspes-
sita. Non era così sovraccaricata da quando a un suo addestramen-
to avevano preso parte Crux, una balestra automatica a ripetizione e
due scheletri armati di machete. Il pugnale secondario della Terza era
magnificamente cesellato, proprio come i capelli del paladino: argento
lavorato e il viola dell’Impero, le braccia dell’impugnatura si incurva-
vano per poi convergere verso l’interno. Risvegliarono qualcosa nella
sua memoria che tuttavia non riuscì ad accedere al fascicolo giusto.
La lama era sottile e brillante e si allargava un po’ in punta. Era così
impegnata ad analizzarlo che sentì a malapena Naberius che esclama-
va: «Naberius il Terzo».
E molto, molto piano, solo per lei: «I paladini della Nona non sono
altro che valigie per i necro. Chi sei tu?».
Era un bene che si fosse già esercitata a stare zitta, perché una tra-
dizionale Nav-reazione avrebbe previsto l’impiego di una a caso tra
le numerosissime rispostacce grezzissime a sua disposizione. Si infa-
stidì di fronte al disprezzo con cui la sua bocca aveva scandito Nona;
se la prese per quel valigie; e anche quei capelli la offendevano. Ma
Coronabeth gorgheggiò: «Parlo a nome di Gideon la Nona!» ed ec-
coli al quinto… sesto… settimo passo.
Le restò solo un istante per valutare Naberius. Era più basso di lei

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di un paio di centimetri, con una corporatura spremuta all’inverosi-


mile per approssimarsi alla perfezione del muscolo asciutto. Aveva le
spalle strette e delle braccia lunghe lunghe – il che cominciò a farle
sospettare che non fosse un semplice stronzo che si metteva il burro-
cacao, ma uno stronzo che si metteva il burrocacao e poteva arriva-
re parecchio lontano con gli affondi. Aveva una postura impeccabile:
ancor più impeccabile di quella della sua insegnante, la cui colon-
na vertebrale si era praticamente cementata sull’attenti. L’attaccatu-
ra dell’elsa del suo stocco era un intreccio intricato di fili d’argento e
la lama di una lucentezza perfetta, così come la linea che congiunge-
va la punta alla spalla: la sua posizione di guardia le parve cascante e
scazzata, il suo guanto lamato era nero, brutale, ben poco chirurgico.
L’atteggiamento schifato della sua bocca le comunicò che era abitua-
to a far sentire la gente in quel modo, ma anche che si metteva sen-
za ombra di dubbio il burrocacao. Il suo cuore accelerò, rallentò, ri-
partì, in un’aritmia impaziente.
«Cominciate!» annunciò Corona.
Nei primi dieci secondi, Gideon capì che sarebbe uscita sconfitta
dal duello con la Terza Casa. E impiegò venti secondi per arrivare a
una conclusione fondamentale a proposito della Terza Casa: predi-
ligeva la pulizia. Ogni guizzo della spada era un capolavoro di tecni-
ca. Combatteva come un orologio: ineludibile, spietato, perfetto, con
assoluta economia di movimento. La prima volta che la spada nera
della Nona entrò in azione, quella di lui la scostò descrivendo con la
lama un semplice arco semicircolare – annoiato, supponente, preci-
so –, disegnando una traiettoria che avrebbe fatto venire le lacrime
agli occhi a un esperto. Avanzava e si ritraeva seguendo linee che pa-
revano uscite da un manuale e che i suoi piedi seguivano alla lettera.
“Smettila di bloccare tutti i colpi” le disse il cervello. Il suo brac-
cio ignorò il cervello e volarono scintille, mentre la spada di Nabe-
rius collideva con il vetro di ossidiana di una lama della noccoliera;
la forza del fendente riverberò lungo il braccio di Gideon, facendo-
le vibrare la spina dorsale. La sua spada saettò in avanti, descrivendo
quella che sapeva essere una stoccata perfetta, indirizzata con forza
decisa vero il fianco di lui; udì un shnk! unticcio, e poi un altro colpo
si fece strada, come un terremoto, su per il suo gomito, fino alla base
del cranio. La lama che aveva scambiato per uno stiletto si era sepa-

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rata in tre parti, intrappolando con disinvoltura la sua: un pugnale a


tridente. Era di un’ovvietà disarmante: sarebbe stato meglio propor-
gli di prendersi a calci in culo da sola per non fargli perdere tempo.
Naberius le rivolse un lieve sorriso.
Era il combattimento più irritante che le fosse mai capitato. Lui
non era veloce quanto lei, ma non portava una tonaca e, in ogni caso,
non aveva bisogno di essere veloce quanto lei. Gli bastava tenerla a un
braccio di distanza, e in quello era un maestro. Quella stupidaggine
del primo tocco la faceva incazzare. Se avesse brandito il suo spado-
ne si sarebbe semplicemente fatta strada a sfondoni, come un mat-
tone che spacca una finestra. Ma aveva uno spillo in una mano e una
manciata di vetro nero nell’altra, e le toccava saltellare di qua e di là
come se lui la stesse minacciando con una boccetta di veleno; in più,
era probabile che facesse il paladino dal giorno in cui era nato. Di tan-
to in tanto, poteva anche limitarsi a stare completamente immobi-
le, completamente tediato, reggendo la spada con una postura per-
fetta, come se stesse facendo dressage. La luce le bersagliava la testa
e le vesti. Non riusciva a credere di essere in balia di uno che aveva
mangiato tutti i manuali per paladini che c’erano, dando venticinque
masticate solerti a ogni boccone.
Naberius si baloccò con lei, languido – uno dei suoi trucchetti con-
sisteva nel far uscire la spada come l’artiglio di un gatto, all’improv-
viso, per por ritirarsi con un mezzo passo ben calibrato – e la teneva
a distanza di guardia, senza farla mai entrare nel suo spazio. Prose-
guì con la litania della “parata; attacco rapido per guadagnare spa-
zio; pressione alla spada con la mano secondaria” finché lei non ne
ebbe fin sopra i capelli.
Gideon fece scorrere la spada giù, lungo la sua – un nero privo di
luce sull’argento – con uno stridore acuto, ma lui la scostò e la al-
lontanò con un movimento circolare. Affondò di nuovo, tenendosi
alta, e si ritrovò la porzione superiore della spada intrappolata ordi-
natamente nella forchetta di quel maledetto pugnale tridentato: lui
usò quella leva per spingerla giù… giù… e lei si accorse che la spada
di lui stava scivolando in avanti, lungo il suo braccio, verso l’incavo
del gomito. Aiglamene le aveva insegnato ad anticipare un fendente
mortale. Scattò di lato all’istante, lasciando che le si schiacciasse ad-
dosso e imprecando mentalmente: in un vero combattimento sareb-

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be riuscito ad affettarle il petto e la spalla, ma in entrambi i casi non


l’avrebbe uccisa. E non poteva toccarla di punta, ma solo di piatto.
Era ancora in pista.
In quell’istante, però, gli riuscì qualcosa di perfetto, probabilmen-
te registrato in qualche merdoso libro di scherma del Settimo sti-
le col nome di Due corvi bevono l’acqua o Il ragazzo strangola l’oca.
Le rivoltò la spada verso il basso con il coltello tridentato, fece scat-
tare in avanti il polso della mano che reggeva l’arma e, con un guiz-
zo le fece cadere di mano la lama nera dalla Nona che tintinnò sulla
pietra smangiata e restò immobile. Jeannemary, sullo sfondo, si la-
sciò scappare un singulto. Il cuore le batteva come i grani snoccio-
lati di un rosario.
Naberius si ricompose dopo l’affondo e le rivolse un altro dei suoi
sorrisetti irritanti.
«Intercetti troppo» le disse.
Smise di sorridere quando Gideon, con un abile movimento rota-
torio, liberò il braccio dominante dalla spada di lui, si tuffò in avan-
ti e gli mollò un cazzotto al plesso solare. L’aria gli uscì sibilando dai
polmoni come se fosse finito in una camera di equilibrio spalancata.
Naberius si accartocciò all’indietro, e lei scostò di lato la mantella per
colpirlo con lo stivale appena sotto al ginocchio: barcollò, boccheg-
giò e cadde. Lei si tuffò a riprendere la spada e arretrò per ripristi-
nare la distanza, mentre lui si dimenava come una bestia caduta che
cercava di rimettersi in piedi. Gideon si rimise in posizione, sollevò
la spada e gliela posò sulla clavicola.
«La vittoria va al Terzo» disse Coronabeth, facendola sobbalzare.
La sua spada venne spinta via con un colpo di mano; Naberius, fu-
ribondo e traballante, riuscì finalmente a rialzarsi.
«Babs» gli domandò concitata la sua principessa, «stai bene?»
Lui era scosso da una tosse gutturale. Il viso gli era diventato di un
rosso scuro e vellutato, mentre rinfoderava la spada e faceva pressio-
ne sul pugnale, innescando chissà quale meccanismo che con uno
snockt fece rientrare al loro posto le lame laterali. Quando fu il mo-
mento, le rivolse un inchino incredibilmente sdegnoso. Gideon ri-
pose anche lei la spada nel fodero e, con una certa confusione, si in-
chinò di rimando; lui buttò la testa indietro, sprezzante, e tossì di
nuovo – il che, insomma, rovinò un po’ l’effetto.

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«Non è l’erede di Nonius o di chissà chi, questa qua è buona solo


per rissare» commentò lui con rauco disprezzo. «Devi sapere, idio-
ta, che quando ti disarmo il duello è finito. E ti inchini, chiaro? Non
vai avanti.»
La paladina con l’uniforme immacolata della Coorte disse: «Hai
abbassato la guardia, Tern».
«Il duello è finito nell’istante in cui le ho tolto la spada?»
«Sì» fece lei, «tecnicamente.»
«Tecnicamente?» Si fece ancora più paonazzo. «I tecnicismi sono
tutto! E per te, Luogotenente, è Principe Tern! A che gioco stai gio-
cando, Dyas? L’ho tenuta in pugno dall’inizio alla fine e ho vinto. È la
fanatica che ha infranto le regole. Ammettilo.»
«Sì» disse Dyas, che era passata a una posizione di riposo, con le
braccia dietro la schiena, più consona a una parata militare che a un
incontro sportivo informale. Aveva una voce melliflua e composta.
«Hai vinto l’incontro. La Nona è la duellante meno abile. Quel che
penso io, però, è che sia una combattente migliore: si è battuta per
vincere. Ma, Nona» le disse, «ha ragione lui. Intercetti troppo.»
Il paladino della Terza pareva a tanto così da una reazione violen-
ta: gli occhi gli pulsavano fuori dalle orbite per il risentimento. Sem-
brava sul punto di voler sguainare la spada e domandare una rivinci-
ta. Si placò solo quando un braccio dorato gli circondò le spalle e la
sua necromante lo attirò a sé in un mezzo abbraccio. Si sottopose a
un arruffamento di capelli. Corona disse: «La Terza ha mostrato di
che pasta è fatta, Babs: non mi interessa altro».
«È stata una vittoria convincente.» Il tono era quello di un bam-
bino stizzito.
«Sei stato splendido. Se anche Ianthe ti avesse visto!»
Jeannemary si era alzata in piedi. Era marroncina, una creatura gio-
vane che somigliava molto a un mattone, aveva notato Gideon, pare-
va tutta angoli; aveva lo sguardo acceso e, con voce penetrante, dis-
se: «È così che vorrei combattere anch’io. Non voglio sprecare tutto
il mio tempo a fare duelli da esibizione. Io voglio combattere come
un vero paladino, come se ne andasse della mia vita».
L’espressione di Naberius tornò a rannuvolarsi. Il suo sguardo in-
contrò brevemente quello di Gideon, collocandosi da qualche parte
oltre l’ostilità: era il disprezzo per un animale che aveva commesso

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l’indelicatezza di cagare in un angolo. Ma prima che volassero altre


parole, Magnus tossì sommessamente nel pugno.
«Forse» disse, «dovremmo fare degli esercizi, o lavorare in coppia,
o dedicarci a qualcosa che mi rimetta un po’ in forma. Che ne pen-
sate? Il duello sarà anche il piatto forte nell’allenamento di un com-
battente, ma non ci vuole anche un po’, insomma, di contorno? Pa-
tate, verdure…»
(«Magnus. Le patate sono una verdura, Magnus.»)
Gideon scese dalla pedana, sfilandosi il guantone e liberando le dita
dai lacci. Chissà cos’avrebbe pensato Aiglamene di quel duello, si do-
mandò; le sarebbe quasi piaciuto rivedere quel disarmo. Naberius la
guardava come se gli avesse pisciato sulla sua giacca migliore, altri-
menti avrebbe chiesto lumi direttamente a lui. Aveva molte più ana-
logie con un gioco di prestigio che con la forza bruta e doveva am-
mettere di non aver neanche lontanamente pensato a una tattica di
difesa, il che era stupido perché…
Una specie di sesto senso le fece sollevare lo sguardo, oltre lo sche-
letro industrioso ancora impegnato a strofinare la porta a vetri, e la
fossa dove era in corso l’eliminazione di secoli di residui chimici. Nel
varco che precedeva la stanza piastrellata, c’era una figura con un
mantello: un teschio dipinto, un velo calato fino al collo, un cappuc-
cio che oscurava il viso. Gideon si fermò in mezzo alla sala d’adde-
stramento e, per un istante capace di mutilare minuti interi, lei e Har-
rowhark si fissarono. Poi la Reverenda Figlia si voltò di scatto e sparì
nel vestibolo tremolante, in un teatrale vortice nero.

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«È splendido averti qua con noi» disse Maestro
una mattina. «La Nona si sta adattando così bene, davvero eccellen-
te! È splendido che tutte le Case siano qui, amalgamate?»
Maestro era un cazzo di comico nato. Sedeva spesso con Gideon,
se gli capitava di beccarla a tavola per i pasti sul tardi – non si faceva
mai vedere a colazione; lei sospettava che la facesse molto più presto di
chiunque altro alla Casa di Canaan – con un gioviale “Trovo che i voti
di silenzio siano così riposanti!”. Costanti interrogativi venivano ancora
formulati a proposito di Maestro e dei sacerdoti della Casa di Canaan,
certi con condiscendenza, altri più scocciati, tutti quanti caratterizzati
da vari livelli di disperazione. Lui, implacabile, continuava a ignorarli.
«Apprezzo molto tutto questo trambusto» disse Maestro. (Nella
sala c’erano solo lui e Gideon.)
Alla fine della settimana, Gideon aveva incontrato quasi tutti gli
adepti e i loro paladini. Il che non aveva contribuito ad abbattere bar-
riere o a formare nuove amicizie. Quasi tutti la tenevano a debita di-
stanza nei corridoi semibui della Casa di Canaan – solo Coronabeth
la salutava spensierata, a seconda di come le girava (e Coronabeth ten-
deva a essere capricciosa), e si poteva sempre contare su Magnus per
un cordiale “Buongiorno! Ehm, il tempo è bellissimo!” oppure “Buo-
nasera! Il tempo è ancora ottimo!”. I suoi sforzi erano patetici. Ma la
maggioranza di loro continuava a considerarla un essere che si po-
teva uccidere solo a mezzanotte con un paletto conficcato nel cuore,
un mostro semiaddomesticato, tenuto a malapena al guinzaglio. Na-
berius Tern, poi, era lì lì per procurarsi una ferita labiale, a giudicare
dalla veemenza con cui di solito le ringhiava contro.

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Ma restando in silenzio a osservare, si raccoglievano parecchie in-


formazioni. Quelle della Seconda Casa si comportavano come solda-
ti mandati in licenza contro la loro volontà. Quelli della Terza orbita-
vano attorno a Corona come due pezzi di ghiaccio vicino a una stella
dorata. I Quarti si rifugiavano tra le gonnelle della Quinta come due
anatroccoli – e saltò fuori che la Quinta necromante era una trenta-
cinquenne acqua e sapone con un paio di occhiali spessi e un sorriso
mite, che sarebbe stata molto più credibile nel ruolo della moglie di
un fattore. Quelli della Sesta e della Settima erano perennemente as-
senti, dei fantasmi. Vedeva di rado la coppia zio inquietante-nipote
inquietante dell’Ottava, ma vederli di rado era già più che sufficien-
te: il necromante dell’Ottava pregava con fervore intensissimo prima
di ogni pasto e, se li incrociava in corridoio, si appiattivano contro il
muro opposto come se fosse contagiosa.
Piccola curiosità. Il percorso che portava agli alloggi della Nona – il
corridoio che conduceva alla loro porta e tutt’intorno alla porta, come
una macabra ghirlanda – era ora foderato di ossa. Colonne vertebrali
incorniciavano il telaio della porta; dita ossute penzolavano dall’alto
attaccate a sottili cavetti quasi invisibili. Quando passava qualcuno,
lo spostamento d’aria produceva un ticchettio mesto. Aveva lascia-
to un bigliettino a Harrowhark sul cuscino praticamente inutilizzato:

CHE MI DICI DEI TESCHI?

e in risposta aveva ricevuto solo un conciso:

Atmosfera.

Be’, grazie a quell’atmosfera persino Magnus il Quinto esitava un


po’ prima di dirle “Buongiorno”, quindi l’atmosfera poteva pure an-
dare a farsi fottere.
Per quel che poteva saperne Gideon, Dulcinea Septimus passava il
cento per cento del suo tempo sulle terrazze a leggere romanzi d’amore,
in una felicità perfetta. Se intendeva intimidire la concorrenza, lo stava
facendo con una certa eleganza. Era anche molto difficile evitarla. Ba-
stava che la paladina designata della Nona passasse davanti a un’arcata
affacciata sull’esterno per sentire una vocina flebile chiamare: “Gideon,

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Gideon!”. E automaticamente lei andava là. Della sua spada non si faceva
mai menzione: c’erano solo cuscini da spostare, la trama di un romanzo
rosa da raccontare, o – una sola volta – una donna apparentemente più
leggera di uno stocco da sollevare e da trasportare con grande attenzio-
ne su un’altra sdraio, lontano dal sole. Gideon non se la prendeva. Ave-
va la crescente sensazione che Dulcinea le stesse facendo un favore. Lady
Septimus, con delicatezza, le stava mostrando di non curarsi del fatto che
Gideon fosse Gideon la Nona, una seguace dell’ombra con la faccia dipin-
ta, una monaca (per quel che se ne sapeva) del Sepolcro Sigillato. O, se
anche se ne curava, lo percepiva come l’apice gioioso delle sue giornate.
«Non pensi mai a quanto sia buffo che tu sia qui con me?» le do-
mandò una volta Dulcinea mentre Gideon se ne stava là seduta, col
suo cappuccio nero, a reggerle una palla di lana per il lavoro a maglia.
Quando Gideon scosse la testa, disse: «No… e mi piace. Mando Pro-
tesilaus parecchio in giro. Gli do delle cose da fare: è quello che gli si
addice di più. Ma mi piace vederti, e farmi raccogliere le coperte e far-
mi servire. Credo di essere l’unica persona che, in tutta l’eternità, ab-
bia mai avuto un paladino della Nona Casa da far sgobbare – senza es-
sere la sua adepta. E mi piacerebbe risentire la tua voce… un giorno.»
Stai fresca.
Quella sfuggente mezza apparizione di Harrow Nonagesimus fu
tutto quello che Gideon vide di lei dopo il loro primissimo scambio.
Non rispuntò, né nella sala d’addestramento né negli alloggi della
Nona. Ogni mattina il suo cuscino era stropicciato in una maniera di-
versa e gli abiti neri si ammonticchiavano in disordine nel cesto della
biancheria che gli scheletri portavano via a intervalli regolari, ma la
sua sagoma non si parò mai davanti alla porta di Gideon.
Gideon tornò regolarmente in sala d’addestramento – così come
fecero i paladini della Quarta e della Quinta, e della Seconda e del-
la Terza – ma i paladini della Sesta e della Settima giravano al largo,
persino ora che era stata tirata a lucido e profumava di oli di semi.
Gli scheletri avevano orientato i loro sforzi alla pulizia dei pavimenti.
Una volta il massiccio paladino dell’Ottava era entrato quando c’era
anche lei ma appena si era accorto di Gideon si era inchinato educa-
tamente e si era eclissato.
Gideon preferiva ancora allenarsi per conto suo. Da tanti anni era
abituata a svegliarsi, a cacciare i piedi sotto qualche mobile e a fare

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addominali fino a contarne a centinaia per poi passare alle flessioni:


cento normali e cento battendo le mani. E la verticale a testa in giù
con i piedi per aria. Si appoggiava sui palmi delle mani con le gam-
be distese, verificando fino a che punto riusciva ad allungare gli al-
luci. Per guadagnarsi l’autorizzazione medica ad arruolarsi nella Co-
orte non serviva fare nemmeno la metà di quello che aveva fatto lei,
ma Gideon aveva riversato tutta la sua esistenza nel grande tritacar-
ne della speranza di poter, un giorno, piombare a Trentham ed essere
spedita al fronte, al seguito di una legione di necromanti. Un incari-
co da addetta alla sicurezza su uno dei pianeti principali non face-
va per lei. Non voleva nemmeno finire in un avamposto remoto o su
un mondo vuoto, o in una qualche città straniera a fare da babysit-
ter a chissà quale governatore della Terza. Gideon voleva una nave
da guerra, essere sempre in prima linea, e un bel distintivo splenden-
te, grosso così, con scritto sopra FORZE D’INVASIONE DEL PAE-
SE X, per conquistare la riserva iniziale di thanergia senza la quale
nemmeno il miglior necromante della Nona Casa sarebbe stato capa-
ce di combinare una beneamata mazza. La prima linea della Coorte
era una via preferenziale per la gloria. Nei suoi fumetti, i necroman-
ti baciavano i palmi guantati dei loro commilitoni delle prime linee,
ringraziandoli dal profondo per tutto quello che avevano fatto. Nei
fumetti nessuno degli eletti aveva una malattia cardiaca e parecchie
fra loro erano dotate di un décolleté necromantescamente inusuale.
Tutto questo si era svolto nell’immaginazione di Gideon che nel
corso di innumerevoli notti solitarie spesso si era concessa voli pin-
darici anche più articolati in cui Harrowhark, a galassie e galassie di
distanza, apriva una busta e apprendeva che Gideon Nav si era gua-
dagnata un mucchio di medaglie e un’enorme fetta del bottino per il
ruolo che aveva ricoperto nell’attacco iniziale, una battaglia in cui si
era dimostrata sia valorosissima che molto figa. Harrow avrebbe ar-
ricciato la bocca e sarebbe stata costretta a bofonchiare: “A quanto
pare, Griddle dopotutto ci sapeva fare con la spada”. Questa specifi-
ca fantasia era arrivata a superare il centinaio di repliche.
Alla Nona avrebbe concluso la giornata con una corsa attorno ai
campi coltivati, con le lampade fotochimiche che si smorzavano, ar-
rivate al termine del loro ciclo. Avrebbe corso nella sottile nebbioli-
na umida che veniva sparata a intervalli regolari per bagnare il terre-

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no. La nebbiolina era acqua di recupero e aveva un sentore urico. Per


lei era l’odore che annunciava l’ora di coricarsi. Ora c’erano l’odore
del legno vecchio, il puzzo sulfureo del mare, dell’acqua sulla pietra.
Ma nemmeno Gideon poteva allenarsi tutto il tempo. Si divertiva a
esplorare il gigantesco e sinuoso complesso della Casa di Canaan, spes-
so perdendosi del tutto. Che si potesse esplorare fino a un certo pun-
to fu la sua prima scoperta. Giù dovevano esserci piani su piani, cen-
tinaia di metri di costruzione ma, man mano che si scendeva, gli ***
ATTENZIONE *** stampati su nastri di plastica gialli o dipinti con lo
spray su pesanti porte blindate non facevano che aumentare. Si riusci-
va ad arrivare solo a una cinquantina di metri di profondità dal livel-
lo dell’attracco prima che ogni strada venisse sbarrata. E anche a sali-
re, dopo un centinaio di metri a un certo punto ci si bloccava: c’era un
ascensore rotto su cui poter montare e c’era una scalinata che saliva
verso la torre e che si diramava in due direzioni. A sinistra, in un reti-
colo di corridoi imbiancati dove succulente piante in vaso crescevano
lascive in lunghi rampicanti, dormivano Maestro e gli altri due sacerdo-
ti della Casa di Canaan. Non aveva ancora provato ad andare a destra.
Dopo due giorni silenziosi e piatti di esplorazioni e squat, Gideon
non avrebbe potuto dire di annoiarsi. Che cavolo, ci voleva ben altro
per annoiare un’abitante della Nona Casa. Era la mancanza di cam-
biamenti a livello microscopico a insospettirla: una mattina si rese
conto che le pieghe del letto di Harrow e lo strato superiore dei ve-
stiti neri nel cestone della biancheria erano immutati da più di venti-
quattro ore. Due notti erano trascorse senza che Harrow avesse dor-
mito negli alloggi della Nona o si fosse cambiata gli abiti sporchi, o
ritoccata le pitture. Gideon elucubrò:

1. H arrow era impossibilitata a tornare a casa per varie mo-


tivazioni, per esempio:
(a) era morta;
(b) era oltremodo ferita;
(c) era impegnata.
2. Harrow aveva scelto di vivere altrove, lasciando a Gideon
la libertà di poggiare le scarpe sul suo letto e di frugare in-
discriminatamente fra le sue cose.
3. Harrow era scappata.

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La 3 si poteva scartare. Se Harrow fosse stata quel tipo, l’infanzia di


Gideon sarebbe filata molto più liscia, maledizione. La 2 offriva pro-
spettive interessanti, dal momento che Gideon non vedeva l’ora di
mettere le scarpe sul letto di Harrow e di ficcanasare indiscriminata-
mente nelle sue cose ma, visto che tutta la sua roba era ancora lì, non
pareva molto plausibile. Con ventiquattr’ore a disposizione per in-
frangere la barriera ossea, Gideon si sarebbe introdotta nel guarda-
roba di Harrow per abbottonarle tutte le camicette, facendo in modo
che ogni bottone andasse a finire nell’asola più in alto rispetto a quel-
la in cui si sarebbe dovuto infilare. Era un evento ineluttabile, che la
Reverenda Figlia non avrebbe mai permesso.
Il che lasciava la 1. Il punto (c) si basava sul fatto che Harrow fosse
così occupata a fare qualunque cosa stesse facendo da dimenticarsi
di tornare – anche se, dati i precedenti ragionamenti e la massiccia
disponibilità di bottoni da manomettere, l’ipotesi decadeva in par-
tenza. Il punto (a) verteva sull’incidente o sull’omicidio più opportu-
ni al mondo – e, se si fosse trattato davvero di omicidio, che fare se
l’omicida in questione si fosse rivelato, tipo, strano, rendendo il con-
seguente matrimonio con Gideon un po’ imbarazzante? Forse avreb-
bero potuto semplicemente scambiarsi un braccialetto dell’amicizia.
In fin dei conti, il punto (b) esercitava la maggior attrazione. L’oc-
corrente per le pitture era tutto lì. Non aveva mai visto la faccia di
Harrowhark Nonagesimus al naturale. Con un gran risentimento nel
cuore e una grande spossatezza nell’animo, Gideon si buttò addosso
la veste e si imbarcò in una lunga e sconsolata giornata di ricerche.
Harrow non era nell’atrio centrale, nella sala da pranzo e nemme-
no nel vascone sempre più pulito, pieno di scheletri industriosi che
spazzavano di qua e di là. Magnus il Quinto se ne stava lì in piedi a
osservarli con un’espressione accigliata di sincero stupore, accanto
alla sua adepta dalla lucida chioma trigonometrica. Riuscì a salutar-
la con un: «Ehm… Nona! Spero tu ti stia godendo la… sala!» prima
che lei la abbandonasse, schizzando via come un fulmine.
Harrow non era sulla lunga e assolata piattaforma d’atterraggio. Il
bianco del cemento friggeva gli occhi nella luce oppressiva del mat-
tino. Gideon la perlustrò palmo a palmo – fermandosi vicino agli at-
tracchi magnetici malridotti, ascoltando l’acqua ribollire, molto più
in basso, dove le navette riposavano da qualche parte. Harrow non

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era sulla terrazza dove Dulcinea Septimus si fermava spesso a legge-


re e non c’era neanche Dulcinea Septimus, anche se diversi romanzi
attendevano sotto a una sdraio, abbandonati. All’ora di pranzo aveva
ormai coperto l’intera ala orientale, fino alla gloriosa scalinata vec-
chia e marcia alla sinistra dell’atrio, che terminava in una porta con
una targa cesellata di fresco che recitava OTTAVA CASA, dalla qua-
le si ritrasse in tempo record. Gideon tornò in sala da pranzo, rimu-
ginò davanti a pane e formaggio e decise di lasciar perdere.
Avrebbe abbandonato Harrow, lasciandola alle sue gambe rotte
– entrambe – e al suo bacino frantumato. Trovarla era una missio-
ne incredibilmente inutile, in un’area incredibilmente vasta e com-
plessa in cui si sarebbe potuto stare a cercare tutti i giorni per setti-
mane senza esaurire nemmeno un piano. Era una cosa stupida che
la faceva sentire stupida. E la colpa era di Nonagesimus, delle sue
manie di controllo e della segretezza che caratterizzava ogni aspetto
della sua miserabile vita spettrale. Non avrebbe ringraziato Gideon
nemmeno se il suo culo piatto fosse finito a mollo in una pozza di
lava colata, soprattutto perché Gideon avrebbe celebrato, religiosa-
mente, ogni anniversario del giorno in cui Harrow si era distrutta le
chiappe nel magma. Decise di lavarsene le mani, dell’intera faccenda.
Dopo aver ingurgitato il cibo e bevuto mezza caraffa d’acqua in ra-
pida successione, Gideon si arrese e riprese le ricerche. Presa da un
ghiribizzo, batté contro le porte dell’ascensore che non funzionava,
accorgendosi poi che il vicino uscio di legno gonfiato dall’acqua si po-
teva aprire facendo un po’ di forza. Scoprì una scalinata angusta e la
seguì, scendendo, finché sbucò in un corridoio che aveva esplorato
una volta sola. Era un condotto largo e dal soffitto basso, con un na-
stro che strillava *** ATTENZIONE *** su ogni porta e superficie. In
fondo, però, c’era una porta da cui la gente era chiaramente passata:
il nastro si era spezzato e penzolava inerte su entrambi i lati. La porta
conduceva a un altro corridoio, interrotto a metà strada da un enor-
me telone vecchio che qualcuno aveva assicurato alle travi in modo
che fungesse da barriera improvvisata. Gideon passò sotto al telo-
ne, girò a destra e spalancò una stretta porticina di ferro che dava su
una terrazza.
Era già stata lì, una volta. Una buona metà della balconata si era sbri-
ciolata finendo in mare. La prima volta che Gideon l’aveva vista, l’in-

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sieme le era apparso così precario da scatenare in lei un conseguente


attacco di acrofobia, facendola battere rapidamente in ritirata verso
un luogo meno folle. Il cielo le era sembrato troppo vasto, l’orizzon-
te troppo aperto, la terrazza troppo simile a una conclamata trappola
mortale. La piattaforma d’atterraggio incombeva da sopra, così come
gli ampi finestroni opachi dove alloggiava la Nona. Guardare in su
andava bene. Guardare in giù, ancora a centinaia e centinaia di metri
sopra il livello del mare, le faceva venire voglia di rimettere il pranzo.
Sostenuta dalla consapevolezza che l’unica differenza tra il pozzo
del Drearburh e il terrazzamento malridotto era il fatto che uno fosse
cintato e l’altro no, si avventurò nuovamente là sopra. L’urlo del ven-
to la appiattì contro la parete della torre. Era diroccata solo all’estre-
mità più lontana, mentre la porzione più vicina al corpo della Casa di
Canaan sembrava intatta. Paratie di pietra e giardini estinti e aridi si
estendevano a perdita d’occhio, curvando verso l’altro lato, segnati da
graticci e lunghi appezzamenti di terreno coltivabile ma spoglio. Gi-
deon imboccò quel sentiero. Non era del tutto sgombro – alcune delle
voluminose strutture squadrate di pietra erano collassate e le macerie
non erano mai state ripulite, e non si poteva certo dire che il numero
di strutture rimaste fosse sufficiente a distrarre l’occhio dal terrazza-
mento smangiato, che era in parte precipitato, andando incontro alla
sua debacle – ma, se la si prendeva abbastanza larga, c’era una scala a
chiocciola di ferro battuto e mattoni aggrappata al corpo della torre.
C’era anche da dire che salirci era un vero dito in culo, visto che, più
ti arrampicavi, più terrazza morta vedevi – il mare strideva di sotto,
mutevole nei colori, quel giorno era di un grigio-azzurro profondo
che il vento crestava di bianco – ma Gideon si riaggiustò gli occhiali
da sole, inspirò a fondo col naso e salì. Si infilò nella prima autoporta
che vide, ma le toccò picchiarci sopra per cinque volte buone prima
che si aprisse silenziosamente, garantendole l’accesso. Gideon si ac-
cartocciò dentro e si appoggiò alla parete mentre la porta si richiu-
deva, rancorosa. Si concesse un minuto per riprendersi.
Faceva buio. Si ritrovò in una lunga sala che terminava con una
svolta a sinistra. C’era un gran silenzio e un gran freddo. Il pavimen-
to era di tesserine pallide, color crema e nere, posizionate in un mo-
tivo stellato che si ripeteva fino in fondo all’ambiente; le tessere più
chiare sembravano fluttuare, luminose, mentre quelle più scure si fon-

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devano con le ombre. Grandi pannelli di vetro fumé erano incasella-


ti nelle pareti, illuminati da lampade giallo scuro: i candelieri sorreg-
gevano i residui sciolti di ceri mummificati. Era uno spazio ampio e
oscuro, con un nonsoché che ricordava il tempio interno del Drear-
burh, solo che c’erano meno ossa. Anzi, in pratica non c’erano quasi
decorazioni. La sala pareva stranamente rimpicciolita, più piccola di
quanto sarebbe dovuta essere, contratta verso l’interno. Il pavimen-
to era splendido e lo stesso valeva per le porte – erano di legno in-
tarsiato con quadrettini di vetro fumé, incastonati con precisione in
cornici metalliche. In fondo, dove il corridoio svoltava a sinistra, c’e-
ra un’unica statua. Una volta doveva aver raffigurato una persona,
ma testa e braccia erano state mozzate, lasciando soltanto un torso
con dei moncherini imploranti. Gideon ci mise un po’ a capire di es-
sere in una specie di atrio comune, e che quelle porte erano ascenso-
ri: ciascuna era sormontata da uno schermo spento che doveva, un
tempo, aver mostrato il numero di piano.
Gideon ripose gli occhiali da sole in una tasca della veste. Echi som-
messi carambolavano sulle pareti, su e giù, per poi svanire. Voci che
fluttuavano verso l’alto. Le scale all’angolo dell’atrio conducevano in
basso a due piani ravvicinati. Il pianerottolo era visibile e Gideon sce-
se di soppiatto a passi cauti e silenziosi.
I mormorii indeterminati si condensarono in suoni…
«… impossibile, Guardiano.»
«Sciocchezze.»
«Improbabile, Guardiano.»
«Garantito. In ogni caso… relativo a cosa, esattamente?»
Seguirono dei movimenti. Due voci: la prima era forse femmini-
le, la seconda forse maschile. Gideon si arrischiò a scendere di un al-
tro gradino.
«Sei letture» continuò la seconda voce. «Nove, dalla più vecchia.
La più recente è sulla cinquantina, circa. Enfatizzo il circa. Ma la roba
vecchia che c’è qua è veramente molto vecchia.»
«Il limite massimo per la cristalloscopia è diecimila, Guardiano.»
Sì, era la voce di una donna, non fra quelle che Gideon aveva già sen-
tito: bassa e calma, esplicitava l’ovvio.
«Il punto è qua, e tu sei laggiù. Novemila. Cinquanta, circa. Edificio.»
«Ah.»

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«Fiat lux! Se vuoi parlare di improbabilità, parliamo di questo»


– un raschiare di pietra su pietra – «che ha tremila anni e rotti più
di questo.» Un clunk pesante.
«Inspiegabile, Guardiano.»
«Ma certo che no. Come tutto quello che c’è in questo ridicolo con-
glomerato di gas raffreddati, è perfettamente spiegabile. La spiega-
zione va solo trovata.»
«Indubbiamente, Guardiano.»
«Piantala. Ho bisogno che mi ascolti, non che ti lambicchi il cer-
vello per trovare negazioni desuete. O questo intero edificio è stato
assemblato coi pezzi di scarto trovati in una discarica, o mi vengo-
no sistematicamente propinate delle menzogne a livello molecolare.»
«Magari l’edificio è timido.»
«Brutta storia, per l’edificio. No, qua c’è qualcosa di sbagliato. C’è
un trucco. Ti ricordi i miei esami del quarto ciclo?»
«Quando i Maestri hanno spento l’intero nucleo?»
«No, quello è successo nel terzo ciclo. Nel quarto ciclo hanno dis-
seminato per il nucleo qualche migliaio di documenti fasulli. Roba
splendida, eccelsa, addirittura coi marcatori temporali – e tutta quan-
ta palesemente sbagliata. Idiozie. Nessuno avrebbe mai potuto crede-
re anche a una sola parola. Perché prendersi tanto disturbo, allora?»
«Ricordo di averti sentito dire che erano “una manica di stronzi”.
«Be’… sì. Insomma, sì, in sostanza. Volevano inculcarci una lezio-
ne particolarmente antipatica, vale a dire che non si può contare su
niente, perché tutto può mentirti.»
«Le spade» disse la donna con una punta di soddisfazione «non
mentono.»
Il necromante – perché sì, Gideon stava ascoltando un cazzo di ne-
cromante, non ne era mai stata così sicura in vita sua – sbuffò. «No,
ma non dicono nemmeno la verità.»
Ormai era quasi arrivata ai piedi della scala e riusciva a vedere l’am-
biente sottostante. L’unica fonte di luce arrivava dal centro; le pare-
ti erano striate da lunghe ombre, ma sembravano fatte di comunis-
simo cemento frazionato in più punti da segmenti penduli di nastro
segnaletico. Al centro, illuminato da una torcia, c’era un enorme por-
tello chiuso di metallo, del tipo che Gideon associava ai bunker o ai
rifugi d’emergenza.

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Rannicchiato accanto al portello c’era un ragazzo allampanato, de-


nutrito: era avvolto in un mantello grigio e la luce gli rimbalzava su-
gli occhiali che gli scivolavano giù per il naso. In piedi accanto a lui,
con in mano un voluminoso frammento di scultura mutilata e la tor-
cia, c’era una figura alta, altrettanto ammantata di grigio. Appesa al
fianco si intravedeva la sagoma di un fodero. Aveva i capelli indefi-
nitamente scuri, tagliati di netto all’altezza del mento. Era irrequieta
come un uccello, spostava il peso da un piede all’altro, faceva scattare
i gomiti, oscillava sui talloni. Il ragazzo aveva appoggiato una mano
sull’angolo pesante del portello, ci incombeva sopra come un veggen-
te con un ammasso di intestini rituali, stagliandosi bizzarro nella pe-
nombra. Stava usando una torcia tascabile per ispezionare il punto in
cui il bordo del pavimento incontrava il metallo del telaio del portello.
Erano entrambi lerci. Avevano gli orli incrostati di polvere. Mac-
chie strambe e ancora umide striavano mani e indumenti. Sembrava-
no reduci da una lotta in qualche catacomba dimenticata della Nona.
Gideon si era avvicinata troppo: persino nell’oscurità, col cappuc-
cio e il mantello, li aveva innervositi entrambi. Il giovane con gli oc-
chiali sollevò il mento, scandagliando alla cieca la scalinata: a quel
cambio repentino di focalizzazione, la ragazza con la spada si voltò
di scatto e vide Gideon sulla rampa.
Con ogni probabilità, una penitente del Sepolcro Sigillato nella se-
mioscurità, ammantata di nero e dipinta come un teschio non dove-
va essere uno spettacolo rassicurante. La paladina assottigliò le pal-
pebre sotto al cappuccio, smise di dimenarsi e rimase perfettamente
immobile; poi entrò in azione, esplosiva. Lasciò cadere il pezzo di
scultura con un clonk, sguainò la spada dal fodero sdrucito e, prima
ancora che il frammento rimbalzasse, avanzò. Gideon, con i neuro-
ni in fiamme, sguainò a sua volta. Fece scivolare la mano nel guan-
tone d’ebano – la ragazza col mantello grigio lasciò cadere la torcia e
spianò un coltello da una cinghia che le passava sulla spalla, con un
sibilo liquido – e le lame si incrociarono sopra le loro teste, mentre
l’altra paladina spiccava un balzo e il clangore del metallo sul metal-
lo rimbombava per tutta la sala.
Porca merda. Quella era una guerriera, non solo un paladino. Gi-
deon si ritrovò, all’improvviso, a combattere per la propria vita: era
elettrizzata. Le sue difese vacillavano, un colpo fulmineo dopo l’altro

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si abbatteva su di lei come una pressa idraulica industriale, il coltel-


lo corto nella mano secondaria mirava alle lame della guardia di Gi-
deon. Persino col vantaggio della posizione sopraelevata fu costretta
a risalire le scale al contrario. Combattevano ravvicinate in uno spa-
zio angusto, e Gideon era alle strette. Levò di mezzo l’arma seconda-
ria della ragazza, mandandola a schiantarsi contro il muro, in un tur-
bine di tesserine di vetro smosse. La sua avversaria si abbassò come
se le avessero sparato, si accovacciò, recuperò il coltello calciandose-
lo in mano e tornò giù per le scale con una rovesciata. Mentre l’altra
si rimetteva in piedi, Gideon scese a sua volta come una necrosanta
vendicatrice: sferrò un fendente a tutto braccio che, con uno spado-
ne e la giusta distanza, le avrebbe polverizzato la lama, solo per il gu-
sto di vedere la sua compagna schivare, sbuffando a denti stretti per
lo sforzo. Il suo stocco incrociò il pugnale dell’altra paladina e conti-
nuò a fare pressione, mentre entrambe sostenevano il colpo con tut-
to il loro peso. Gli occhi della paladina in grigio esprimevano solo
una moderata sorpresa.
«Camilla!» Registrò solo vagamente il richiamo. Gideon era più
forte; il braccio della ragazza era sul punto di cedere: sollevò la spa-
da per infastidire il braccio in parata di Gideon, infilzando la polsie-
ra d’ebano del guantone lamato, mentre il piccolo fascio della torcia
saettava come ubriaco da una faccia all’altra, trasformando le loro pu-
pille in grossi pozzi neri… «Camilla la Sesta, basta così!»
Camilla alzò il gomito, facendo scivolare la spada lungo quella di
Gideon e spingendola via con un colpetto dell’impugnatura. Momen-
taneamente scombussolata, Gideon arretrò verso le scale e si ricom-
pose; la paladina in grigio si ritirò a sua volta, tenendo alta la spada
e bassa la mano di richiamo. Il necromante, anche lui in grigio, era
in piedi, fermo; l’oscurità del piccolo ambiente era interrotta da ba-
gliori ardenti, come se percorsa da un’onda di calore. Gideon allun-
gò il braccio…
… e barcollò all’indietro. Una morsa di panico le strizzò il cuore,
come nel bel mezzo di un infarto. La sua mano parve rinsecchirsi at-
torno all’impugnatura della spada: la pelle si squagliava sotto ai suoi
occhi, le dita si annerivano e la pelle si accartocciava, come se stes-
se bruciando. Chiuse il pugno e lo strinse al petto, scoprendo che era
tornato sano e intatto, ma non avanzò. Non era poi così boccalona.

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Si scostò dal sigillo necromantesco e rinfoderò la spada, alzando le


mani nel gesto universale del cessate il fuoco! Il necromante in gri-
gio, con il braccio che reggeva la torcia disteso davanti a sé, espirò e
si tamponò il sudore rosato dal viso.
«È l’altra» disse seccamente, come se non avesse appena evocato
un’enorme barriera thanergica e non si fosse fatto una sudatina san-
guinolenta. Che si trattasse solo di una sudatina di poco conto la lasciò
di stucco: l’intero spazio di fronte a lei splendeva come la superficie
oleosa di una bolla, coprendo tre corpi in altezza e tre in larghezza.
«Non vogliamo provocare incidenti tra le Case – anche se offrireb-
bero di sicuro uno spunto di riflessione a quei capoccioni politicanti
delle nostre parti, alla Sesta. Vale anche per te». Qui si rivolse a Gi-
deon, un po’ più formale: «Ti porgo le mie scuse, la mia paladina ti
ha coinvolta in un duello non programmato, Nonaria. Ma non posso
biasimarla per aver sguainato di fronte a una persona che si aggira-
va di soppiatto, vestita di nero dalla testa ai piedi. Di questo non mi
scuserò, cerca di capirmi».
Gideon si tolse il guantone lamato e se lo riappese alla cintura, va-
lutando la scena che aveva di fronte. Sia la paladina che il necroman-
te erano fermi accanto alla massa nera del portello, nella penombra
le vesti viravano al carbone e, alla luce fioca del corridoio, i capelli
e gli occhi di entrambi avevano assunto una sfumatura incolore. La
piccola torcia venne spenta alla svelta, facendo sprofondare tutto in
un’ulteriore oscurità. Avrebbe tanto voluto poter parlare, esordendo
con: “Come hai fatto a fare quella rovesciata?”, ma il necro la inter-
ruppe: «Sei qui per Nonagesimus, vero?».
Il vuoto stupore sul volto di Gideon fu forse scambiato per qual-
cos’altro. Le pitture in faccia erano un’ottima maschera. Il necroman-
te si sfregò le mani in un improvviso moto di frenetica vivacità e in-
trecciò energicamente le dita. «Dando per scontato che sia ancora…
be’. L’hai più vista da l’altroieri notte?»
Gideon scosse la testa, facendo segno di no con una tale enfasi che
si stupì di non aver fatto scivolare giù il cappuccio. La paladina era gi-
rata verso di lui, inespressiva, in attesa. Il giovane giunse le dita pri-
ma di arrivare a una decisione sconosciuta.
«Be’, il tempo stringe» tagliò corto. Si levò dal naso lungo gli oc-
chiali spessi da secchione e li scrollò, come per sbrogliarli da qualco-

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sa. «Anche la scorsa notte è rimasta là sotto e, se ho ragione, non è


mai riemersa. C’è il suo sangue lì giù sul pavimento.» Visto che i ne-
cromanti conducevano vite orrende, aggiunse: «Per chiarire. Il suo
sangue intravenoso. Il suo sangue intravenoso».
Dopo quel chiarimento, a Gideon Nav accadde qualcosa di mol-
to strano. Aveva già esaurito i neuroni, il cortisolo e l’adrenalina e,
ora, il suo corpo cominciò a muoversi prima ancora del cervello o del
cuore; superò il ragazzo e diede uno strattone così forte al portello
che per poco non si spezzò i polsi, maledizione. Quell’affare era più
chiuso del culo di Crux. Di fronte a quell’imbarazzante slancio, il ra-
gazzo fece un gran sospiro e lanciò la sua borsa con la zip a Camilla,
che la afferrò al volo.
«Paladini» commentò lui.
Camilla disse: «Io non ti avrei lasciato da solo per ventisette ore.»
«Certo che no. Sarei morto. Senti, sempliciotta, non si aprirà» dis-
se a Gideon, portando lo sguardo all’altezza del suo, come un uomo
che livella una lama. «La tua chiave ce l’ha lei.»
Da vicino il necromante aveva un aspetto ordinario e scarno, a ec-
cezione degli occhi. La montatura degli occhiali era equipaggiata con
lenti di uno spessore degno di un viaggio spaziale e, lì dietro, gli oc-
chi erano di un grigio prodigioso e fulgente: immacolati, limpidi, lu-
minosi e regolari. Aveva gli occhi di una persona bellissima, intrap-
polati in una faccia da stronzo cronico.
Gideon si avventò di nuovo sul portello, come se prodursi nell’a-
zione più inutile dell’universo potesse accattivarle le simpatie di una
porta sigillata. Lui restò a guardarla, sospirando con crescente fra-
gore e scoramento. «Siete proprio delle campionesse, tu e Nonage-
simus. Aspetta – Cam, per favore, un perimetro – Nona, ascoltami.
Là sotto siamo ben oltre la soglia del congelamento. Il che vuol dire
che il sangue rimane liquido per un’ora, facciamo un’ora e mezza. Il
suo non si è scheletrizzato completamente. Mi segui? Potrebbe averlo
versato di proposito – lei è un’ossea, però, non si sottoporrà a un ri-
tuale di sangue…– benissimo, non mi stai ascoltando. Non stai nem-
meno facendo finta di ascoltarmi.»
Gideon aveva smesso di prestargli attenzione all’incirca verso li-
quido e ora si stava preparando a tirare facendo forza coi piedi: sta-
va schiacciando il bordo con un piede, assimilando alla lontana una

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parola su cinque. Sangue. Scheletrizzato. Ossea. Il necro alzò la voce:


«Camilla, ci sono prove che se ne sia andata mentre…».
Camilla era sulle scale.
«No, Guardiano.»
Si rivolse a Gideon, burbero: «È possibile che sia ancora là sotto».
«Allora muovi il culo e aiutami» disse Gideon Nav.
Lui non si allarmò e non parve sorpreso. Anzi, le spalle irrigidite si
rilassarono in maniera impercettibile, passando da frattura trauma-
tica da buco nero a pressione sul fondo dell’oceano. Le sembrò quasi
sollevato quando le rispose: «Certo».
Un oggetto tintinnante veleggiò a mezz’aria, più visibile in qualità
di suono e movimento che di “cosa”. Il necromante non riuscì ad af-
ferrarlo: l’oggetto lo colpì energicamente sulle mani affusolate e an-
naspanti. Gideon riconobbe il cerchietto di ferro che le era stato con-
segnato il primo giorno alla Casa di Canaan. Lui le si chinò accanto
– sapeva di polvere e muffa – e, nel mentre, Gideon si accorse che
nell’anello era stata infilata una lunga chiave, che penzolava disordi-
nata e tintinnante. C’era anche una chiave più piccola, dall’altro lato,
dorata e splendente. Aveva un fusto dagli intagli elaborati e profon-
de fenditure, invece del gambo dentellato. Un portachiavi? Avevano
ricevuto un portachiavi?
Infilata nella toppa, la prima chiave aprì il portello con uno schioc-
co basso e netto e, insieme, il ragazzo e Gideon lo spalancarono. Ri-
velò una scala a pioli di metallo che scendeva giù in un buco incredi-
bilmente oscuro: la luce occhieggiava sul fondo, esplicitando un fatto
molto confortante: sarebbe bastato uno scivolone per rompersi l’os-
so del collo. E pure le chiappe.
Un indice le si materializzò davanti, come la punta di una lancia:
era di Camilla. La Sesta paladina aveva riconquistato la torcia e, nel
bagliore, Gideon constatò che aveva gli occhi molto più scuri di quel-
li del suo necromante: quelli di lui somigliavano alla pietra o all’acqua
limpida, mentre quelli di lei avevano la tinta opaca e incomprensi-
bile di una zolla di terra della Nona Casa, né grigia né marrone. «Tu
vai per prima, Nona» le disse. «Poi Palamedes. Io vi copro le spalle.»
Ci mise un minuto buono per scendere giù per quel lungo tubo
claustrofobico, con gli occhi puntati sui pioli della scala, le vesti infi-
late tra le ginocchia e la spada che sferragliava contro il metallo per

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tutto il percorso. Una volta arrivata in fondo, Gideon rimase oltre-


modo stupefatta.
Sotto a quel portellone si celava un’installazione rétro. Un tunnel
esagonale, rivestito di polverose pannellature perforate, si apriva da-
vanti a loro. Il soffitto era, di base, una griglia che lasciava filtrare il
pompaggio dei raffreddatori d’aria. Il pavimento era coperto da al-
tre griglie che sotto lasciavano intravedere i compressori. Le luci era-
no delle semplici lampadine elettriche di squillante plastica bianca.
C’erano tubature scoperte. Gli archi di supporto erano costituiti da
tozzi sostegni da esterno. Questa rapsodia di grigi e neri sterili si in-
terrompeva all’arco più prossimo a loro dove, sospinto dalla brezza
secca del condizionatore d’aria, oscillava un agglomerato di vecchie
ossa. Era inghirlandato da decrepite pergamene da preghiera e rap-
presentava l’unico tocco umano, normale.
«Seguimi» disse il giovane chiamato Palamedes.
Avanzò, con l’orlo lercio che sibilava sulle piastrelle zozze. Quel po-
sto fagocitava i rumori. Gli echi non esistevano: venivano schiaccia-
ti e assorbiti dalla pannellatura. Con un clangore stonato si sposta-
rono tutti e tre lungo il tunnel, finché non arrivarono a una grande
sala nonagonale, con passaggi che si irradiavano come bronchi. Scrit-
te incise nel metallo erano state collocate accanto a ogni passaggio:

LABORATORI UNO-TRE
LABORATORI QUATTRO-SEI
LABORATORI SETTE-DIECI
SALA PRESSIONE
CONSERVAZIONE
OBITORIO
SALE STUDIO
STERILIZZAZIONE

I pozzetti luminosi sovrastanti sbiancavano la pannellatura; le luci


che arrivavano dal basso – delle piccole spie lampeggianti collegate
a voluminosi macchinari che si estendevano per metri sotto alle gri-
glie, nelle immense profondità ai loro piedi – conferivano al pavi-
mento una sfumatura verdolina. I muri erano spogli, a eccezione di
una gigantesca lavagna di plastica bordata di metallo su cui era stato

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stampato un programma che non veniva aggiornato da molto, mol-


to, molto tempo. Le linee si erano impastate; la lavagna era macchia-
ta. Qua e là sopravvivevano frammenti insignificanti di testo: il ton-
do di quella che poteva essere stata una O o una C; l’arco di una M;
una curva interrotta da un segmento che poteva aver rappresentato
una G o una Q. In uno degli angoli inferiori, però, aleggiava il fanta-
sma di un messaggio, che una volta era stato vergato a spessi tratti di
inchiostro nero. Era sbiadito ma ancora piuttosto chiaro:
“È finito!”
L’atmosfera, là sotto, era opprimente. L’aria era così asciutta da
far prudere gli occhi e la bocca. Camilla aveva una mano posata sul-
la spada e Palamedes continuava a sfregare le sue, di mani, spostan-
do il peso da un piede all’altro mentre completava la sua lenta e lun-
ga perlustrazione a trecentosessanta gradi della stanza. Rispondendo
a chissà quale stimolo – o all’assenza di uno stimolo – fece rotta, de-
ciso, verso la Sterilizzazione. Gideon lo seguì.
Il pavimento del breve passaggio che conduceva alla Sterilizzazio-
ne era pannellato, invece che rivestito di griglie. Era coperto di resi-
dui polverosi, una specie di sale che frusciava sotto ai piedi e si ac-
cumulava a mucchietti. Le dune, se urtate col piede, si dissolvevano
come un’esalazione.
Di punto in bianco, ecco il sangue. Palamedes si sfilò la piccola tor-
cia dalla tasca e il liquido rosseggiò brillante sotto al fascio di luce.
Del sangue era stato versato, in discreta quantità, e poi sparso abbon-
dantemente fino all’altra estremità dell’ambiente, lasciando una lunga
scia scura di poltiglia indurita. Schizzi più circoscritti si erano asciu-
gati sulle pareti circostanti.
Le doppie porte al termine del corridoio – un pesante portellone a
tenuta stagna, di metallo, con una finestrella di vetro collocata al cen-
tro così sudicia da non consentire di vedere niente – si poteva apri-
re con una pulsantiera, anch’essa imbrattata di sangue secco, già sec-
co o in procinto di diventarlo. Gideon pigiò così forte che le porte si
spalancarono come se le avesse spaventate.
La prima sala della Sterilizzazione si presentò ai loro occhi come
un labirinto di cubicoli bianchi, immenso e dal soffitto basso: c’erano
lunghi tavoli d’acciaio piazzati sotto ai soffioni – simili a funghi me-
tallici capovolti – e nicchie anguste in cui una persona poteva stare

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in piedi. Era grande almeno quanto l’atrio lussuoso e diroccato del-


la Casa di Canaan. Le luci ronzavano sopra le loro teste. Un pannel-
lo sulla parete lampeggiava furiosamente nel tentativo di risvegliare
un meccanismo interno – somigliava a uno schermo – ma, alla fine,
optò per una soluzione migliore. Si spense e la stanza fu di nuovo in-
ghiottita dalla tenebra. Gideon era a caccia di una pista con la stessa
frenesia scervellata e prodigiosa di un cane, doveva trovare…
Gli schizzi di sangue la guidarono fino a un grosso ammasso bitor-
zoluto in uno dei cubicoli. Aveva l’aspetto di un bozzolo ed era gran-
de all’incirca come una persona – una persona non particolarmente
alta, per lo meno. Prima che Palamedes e Camilla potessero fermar-
la, Gideon si avvicinò e gli assestò una poderosa pedata. Una cascata
di materia ossea si riversò fuori dal cubicolo e, all’infrangersi dell’in-
cantesimo, si assottigliò in uno stillicidio di ceneri crematorie di un
grigio oleoso. Raggomitolata all’interno – le mani insanguinate, la pit-
tura sbavata, la pelle sottostante del medesimo grigio unto delle ce-
neri – c’era Harrowhark Nonagesimus.
Gideon, che aveva trascorso la mattinata a pianificare la selvaggia
e spensierata danza di gioia con la quale avrebbe salutato la compar-
sa del cadavere di Harrow, si voltò verso Camilla e Palamedes.
«Ora ci penso io» disse.
Ignorandola, Palamedes si accostò alla crisalide ossea frantumata e
ne ispezionò l’orrido contenuto. Scostò un lembo della veste di Har-
row, poi il colletto della camicia e, superando tre giri di collane d’os-
sicini, scoprì un angolo di pelle nuda – brrr – e le premette due dita
sul collo; le avvicinò una mano alla bocca. «Cam» disse seccamente.
Lei si inginocchiò accanto a lui. Ripescò un borsello che teneva chis-
sà dove nella maglia e tirò fuori, tra tutte le cose possibili, un cavo.
L’isolante esterno era stato rimosso dalle estremità, scoprendo le due
affilate codine metalliche. Ne usò una per infilzarsi l’incavo carno-
so tra pollice e indice. Spillò del sangue. L’altra estremità venne piaz-
zata nel punto, sul collo di Harrow, precedentemente occupato dal-
le dita di Palamedes.
Seguì una concitata conversazione, serrata e totalmente indecifrabile:
«Alto coefficiente di dilatazione. Perdita di sangue non dovuta a
ferite esterne. Ipovolemia. Respirazione a posto. In tutta onestà: si
tratta più che altro di disidratazione».

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«Salina?»
«Nah. Può rifornirsi da sola quando si sveglia.»
Gideon non riuscì a trattenersi. Per lei sarebbe stato gestibile tro-
vare Harrow con le gambe montate al contrario e il cranio scoppiato,
ma qui ci capiva meno della metà. «Di cosa state parlando?»
Palamedes si dondolava, accovacciato. Stava pizzicando il bordo
del bozzolo osseo, lo esaminava, piegandolo di qua e di là. «È da un
po’ che non mangia e non assume liquidi» disse. «Tutto qua. Dev’es-
sersi sforzata troppo, subendo un rapido crollo della pressione san-
guigna e del ritmo cardiaco. È probabile che sia svenuta, si sia sve-
gliata, abbia costruito questo. È incredibile, non riesco neanche a…
e poi si sia addormentata. È una superficie massiccia, uniforme, non
c’è da stupirsi che abbia perso i sensi. È normale per lei?»
«Riuscite a capire tutta quella roba con la necromanzia della Sesta?»
Sorprendentemente, sia lui che Camilla scoppiarono a ridere. Era-
no risatine roche, canine, e Camilla colse quell’opportunità per ar-
rotolare il cavetto e riporlo nel borsello, pulendo una delle estremità
dal sangue di Harrow. «Necromanzia medica» disse il suo protetto,
beffardo. «Per te dev’essere un ossimoro. No. Essere un necroman-
te aiuta, ma no. È scienza curativa. Da voi alla Nona non esiste? Non
rispondermi, stavo scherzando. Ora puoi spostarla.»
La Reverenda Figlia era molto leggera, scoprì Gideon quando
se la buttò in spalla (facendo trasalire sia Palamedes che Camil-
la). L’aria fuoriuscì dai polmoni di Harrow con un sibilo, e il boz-
zolo osseo si dissolse in una gragnuola di frammenti e sassolini
che si riversarono sul pavimento, picchiettandolo come grandine.
Quella fu la cosa che sembrò indispettire seriamente il necroman-
te della Sesta Casa. Imprecò a voce bassa e poi si sfilò di tasca un
righello – ebbene sì – e misurò uno dei frammenti che erano fini-
ti sul pavimento.
Gideon si aggiustò, in modo che il peso e la massa di Harrow fos-
sero distribuiti in maniera più equilibrata. Il suo cervello non era an-
cora abbastanza connesso per registrare quel peso, o per immagazzi-
narlo per dopo, quando avrebbe potuto arricchire di ulteriori dettagli
le fantasticherie che la vedevano scaraventare l’erede della Nona Casa
giù dalla piattaforma d’atterraggio. La sua necromante puzzava di su-
dore, sangue e vecchie ossa bruciate; il corsetto di costole pungolava

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dolorosamente le spalle di Gideon. Salire per una scala a pioli imbul-


lonata al muro con un corpo sul groppone era molto più difficile che
scenderla per conto proprio, maledizione. Palamedes salì per primo,
poi andò lei, lottando a ogni piolo con il suo increscioso carico; Ca-
milla la seguì e, al termine della scalata, a Gideon facevano male le
mandibole per il troppo digrignare.
Quando arrivarono in cima, la paladina della Sesta prese Harrow
per le spalle, in modo che Gideon potesse uscire – carino da parte
sua. Forse lo fece solo perché volevano sbrigarsi a chiudere quel gros-
so portellone metallico, facendo girare la chiave nella toppa con un
clic appagante. Si mise a sedere vicino alla figura priva di sensi, mas-
saggiandosi prima un’articolazione della spalla e poi l’altra.
Palamedes si stava mettendo la sacca con la cerniera a tracolla, e
disse: «Quando si sveglia dalle cibo e acqua. Al resto ci penserà lei.
Forse. Ha bisogno di otto ore di sonno, in un letto, non in biblioteca.
Quando ti chiederà come faccio a sapere che era in biblioteca, riferi-
scile che Cam dice che scrocchia, quando cammina».
Gideon si piegò per riprendersi il suo fardello, facendo oscillare il
corpo silenzioso e insensibile di Harrow in modo che andasse a oc-
cuparle l’altra spalla. Si fermò ai piedi delle scale, misurando men-
talmente la distanza da coprire. Il corridoio, poi la terrazza, le ram-
pe a zig-zag, fino a fare ritorno agli alloggi della Nona Casa. Lungo la
strada c’erano un sacco di spigoli coi quali avrebbe potuto procurare
un trauma cranico a Harrow.
«Vi devo un favore» disse.
Fu Camilla a risponderle con il suo tono calmo, dall’insolita pro-
fondità: «L’ha fatto gratis». Era la prima volta che guardava Gideon
senza l’aggressività piatta e trattenuta di un muro perimetrale, e non
le dispiaceva.
Palamedes disse: «Sottoscrivo quello che ti ha detto Cam. Però sen-
ti, lasciati dare un consiglio».
Lei aspettò, mentre lui congiungeva i polpastrelli. La sua paladina
lo guardava fisso, rigida, in attesa. Alla fine, disse: «Là sotto è incre-
dibilmente pericoloso, Nona. Smettetela di dividere le vostre forze».
«Pericoloso in che modo?»
«Se solo lo sapessi» fece Palamedes, «sarebbe molto meno perico-
loso, maledizione.»

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Gideon si era stufata di quella vaghezza. Non era più nel Drear-
burh, ora. «Cosa ve lo fa pensare?»
Il necromante della Sesta Casa avanzò e si fermò tra lei e la scalina-
ta. Era immerso nella luce diluita che si irradiava dall’alto e alle spal-
le di Gideon e che evidenziava la sua estrema magrezza – quel gene-
re di magrezza resa ancora più palese dall’informe tunica grigia e dai
pantaloni che gli aderivano troppo ai fianchi. Camilla stazionava alla
perfetta distanza di mezzo passo da lui – il mezzo passo che Aiglame-
ne aveva inculcato a Gideon – come se sospettasse anche dei gradini.
Le disse con freddezza: «Perché sono il più grande necromante
della mia generazione».
Il fagotto privo di conoscenza che penzolava dalla spalla di Gideon
borbottò: «Ma col cavolo».
«Ero sicuro che si sarebbe svegliata» disse Palamedes, non senza
una certa soddisfazione. «Be’, io vado. Come ti ho detto, liquidi e ri-
poso. Buona fortuna.»

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O Harrowhark perse nuovamente i sensi, aven-
do utilizzato le ultime energie residue per insultare Palamedes, o era
semplicemente così stronza di suo da riuscire a insultarlo anche nel
sonno. O magari si stava fingendo morta. A Gideon non interessava.
La sua necromante rimase pesante e immobile per tutto il percorso
fino alle loro stanze. Nessuno le vide lungo il tragitto, cosa di cui fu
grata, e fu ancor più grata, alla fine, di poter scaricare il suo fardello
inerte e fasciato di nero sul letto.
Nell’oscurità di quello strano complesso di laboratori, le era sem-
brato che Nonagesimus avesse un aspetto di merda. Nella conforte-
vole penombra dei loro alloggi, le parve messa ancora peggio. La li-
berò dal cappuccio e dal velo, scoprendo le labbra tagliate e le pitture
screpolate che, su una tempia, si stavano staccando in grossi riccioli
marroncini. Il velo le era scivolato via durante la salita su per la sca-
la. Gideon vide che aveva le narici cerchiate di uno strato spesso di
sangue nero, che le incrostava anche l’attaccatura dei capelli. Non c’e-
rano altre tracce di sangue sul resto dei suoi abiti o delle vesti, solo
aloni di sudore. Gideon la esaminò in cerca di ferite rimanendo trau-
matizzata dall’esperienza.
Andò in bagno e riempì un bicchiere con l’acqua del rubinetto. Lo la-
sciò vicino a Harrow, ma poi esitò. Molto. Com’è che doveva reidratarla?
Doveva inumidirle la bocca, o roba del genere? Doveva lavarle via dalle
narici quelle zanne di sangue rappreso? Gideon, indecisa, si sgranchì due
volte ciascuna spalla, poi prese il bicchiere d’acqua e si avvicinò a Harrow.
«Se mi tocchi un’altra volta ti ammazzo» disse Harrow, con la gola
scorticata, senza aprire gli occhi. «Non scherzo.»

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Gideon ritirò le dita, come se le avesse passate su una fiamma, ed


espirò.
«In bocca al lupo, Madame» le disse. «Sembri tutta mummia e
niente arrosto.»
Harrow non si mosse. Aveva un livido che le faceva capolino da
dietro l’orecchio, già di un viola acceso. «Non dico che non ne soffri-
rei, Griddle» mormorò lei. «Dico solo che tu moriresti.»
Gideon si appoggiò pesantemente al comodino e buttò giù una lun-
ga sorsata maligna dal bicchiere d’acqua di Harrow. Si sentiva rigida e
cigolante, il sudore le si era asciugato addosso, sotto l’abito. Le prude-
va e la faceva rabbrividire. Si tirò giù il cappuccio e si scrollò di dos-
so la veste, sentendosi come una bambina a corto di sonno. «“Gra-
zie, Gideon”» disse ad alta voce. «“Ero proprio nei pasticci, ma mi hai
salvata, contro ogni ragionevole aspettativa, visto che sono una co-
gliona che è andata a incastrarsi in un osso dentro a uno scantinato.”
Quello, stavi facendo? Senza di me, per tutto questo tempo? Cazzeg-
giavi in una cantina?»
Le labbra della sua adepta si ritirarono, scoprendo fettine di un rosa
tumefatto in mezzo al grigio. «Sì» disse lei. «Sì, stavo cazzeggiando
in cantina. Non c’era bisogno di coinvolgerti. Hai fatto esattamente
quello che temevo avresti fatto, vale a dire rimuovermi da una situa-
zione dalla quale non avevo bisogno di essere rimossa.»
«Non avevo bisogno di…? Fammi capire, stavi schiacciando un pi-
solino di tua spontanea volontà?»
«Stavo recuperando le…»
«I miei coglioni stavi recuperando.»
Harrow aprì gli occhi. Alzò la voce incrinata dalla tensione: «La Se-
sta Casa, Griddle! Ma lo sai quanto è difficile tenere testa a Palamedes
Sextus? Non ti avevo detto di tenere chiusa quella boccaccia pneu-
matica? Me la sarei cavata benissimo, ero svenuta, stavo riposando.»
«E io come avrei dovuto fare a saperlo?» disse Gideon, grave. «Non
ne avevo idea. Voglio delle risposte, e le voglio ieri.»
Il bianco degli occhi di Harrow era arrossato e infiammato, forse
perché si era riposata troppo poco ed era svenuta troppo spesso. Li
richiuse e la sua testa tornò a sprofondare, pesante, sul letto. I capel-
li, di un nero mortifero, erano sparpagliati sul cuscino in lisce cioc-
che aggrovigliate. Sembrava piatta e stanca.

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«Non intendo imbarcarmi in questa conversazione con te» le dis-


se alla fine.
«E invece sì» ribatté Gideon. «Mi sono ripresa il mio portachiavi
e, se mai vorrai cazzeggiare di nuovo in quello scantinato, ti toccherà
fare una fatica del diavolo per tornarci.»
La bocca della necromante si contrasse in una linea risentita che,
ovviamente, avrebbe dovuto esprimere una volontà ferrea ma finì solo
per evidenziare la quantità di croste che aveva sulle labbra. «A quel-
lo si può facilmente rimediare. Non puoi stare sveglia per sempre.»
«Smettila di bluffare, Nonagesimus! Smettila di comportarti come
se fossi io quella che ha combinato un casino! Non mi hai detto più
di venti parole da quando siamo arrivate qui, mi hai tenuta comple-
tamente all’oscuro, ma ho fatto comunque ogni singola cosa che mi
hai chiesto di fare, che cazzo, tutto – va bene, sono venuta a cercar-
ti, quindi quasi tutto – ma ho tenuto le orecchie basse e non ho at-
taccato briga. Quindi, se mai ti riuscisse di essere anche solo un dieci
per cento meno velenosa con me, lo troverei veramente splendido.»
Tra loro scese il silenzio. La volontà ferrea stampata su quella boc-
ca screpolata sembrò vacillare impercettibilmente. Gideon aggiunse:
«E non tirare la corda con me. I posti in cui sarei disposta a infilarmi
quest’aggeggio per tenerlo al sicuro ti sbalordirebbero».
«Che vomito» mormorò Harrow. «Dammi l’acqua, Griddle.»
Riuscì a malapena a berla. Tirò su la testa per dare un paio di sor-
setti singhiozzanti, poi si distese di nuovo e le ciglia tornarono ad ab-
bassarsi, insieme alle palpebre. Per qualche istante, Gideon pensò che
si fosse riaddormentata, ma poi Harrow si scosse e disse in tono piat-
to: «Mollare un pugno a tradimento al Terzo paladino non lo defini-
rei proprio tenere le orecchie basse».
«Disapprovi?»
«Cosa? Macché» disse Harrow, inaspettatamente. «Dovevi com-
pletare l’opera. D’altro canto, però, gingillarsi con la Settima Casa è
da ingenui o da stupidi… o entrambe le cose. Quale aspetto di Non
parlare con nessuno ti è poco chiaro…»
«Dulcinea Septimus sta morendo» disse Gideon. «Non mi assillare.»
Harrow commentò: «Ha scelto un posto interessante per morire».
«Che cosa stai facendo, dove lo stai facendo, perché lo stai facen-
do? Comincia a parlare, Reverenda Figlia.»

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GIDEON LA NONA  /  153

Si squadrarono a vicenda, con la medesima cocciutaggine da mulo.


Harrow aveva bevuto un altro sorso d’acqua e se lo stava rigirando
lentamente nelle guance, persa all’apparenza in profonde riflessio-
ni. Gideon si era rimessa a sedere sul cassettone lievemente sbilen-
co, in attesa. La bocca della sua necromante era ancora contratta in
una smorfia acida che avrebbe intimorito anche un limone, ma le do-
mandò, brusca: «Qual è l’unica regola che ha specificato il sacerdote,
il primo giorno che siamo arrivate?».
«Non sei molto brava a giocare a Stronza, ora sono io quella che fa
le domande, vero?» disse Gideon.
«Sto andando a parare da qualche parte. Rispondimi.»
Gideon si risentì per quel rispondimi, ma ripercorse rancorosamente
con la mente una sequenza di mobili marcescenti, rompicoglioni vari
e tè astringenti. «Maestro?» disse. «Uhm… quella storia delle porte.
Non dovevamo oltrepassare nessuna porta chiusa.»
«Più nello specifico, non dovevamo varcare nessuna porta chiu-
sa senza il permesso. Quel vecchio è una spina nel fianco, ma ci sta-
va dando un indizio: guarda qui.»
L’argomento sembrò ringalluzzire Harrow. Si agitò debolmente
nel tentativo di mettersi a sedere ma, prima che il cuore di calce-
struzzo di Gideon potesse ammorbidirsi, si spazientì e si sfilò dal-
la manica due schegge spezzate d’osso. Harrow le pigiò contro uno
degli umidi sostegni del letto a baldacchino e ne scaturirono due
braccia scheletriche che la tirarono su. La sollevarono fino a siste-
marla perpendicolarmente alla testiera, mentre una cascata di pol-
vere precipitava dagli enormi tendaggi. Harrow starnutì stizzita, e
la metà era sangue.
Si mise a frugare nelle vesti e ne ricavò un libricino tozzo, rilega-
to con della roba annerita e crepata, dall’orrida sfumatura aranciata
della pelle umana conciata. Il libricino sarà stato spesso mille pagi-
ne, forse un milione. «Luce» ordinò, e Gideon le accostò la lampada.
«Bene. Guarda qua.»
Harrow fece scorrere le pagine con le dita rognose finché non ar-
rivò alla metà del taccuino tozzo, mostrandole tre insiemi di dia-
grammi angolosi. Sembravano composti da numerosi quadrati so-
vrapposti, con linee che spuntavano a inclinazioni strane e appunti
e cifre scarabocchiati vicino alle righe. La calligrafia era piccola e

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ragnesca: i quadrati labirintici e innumerevoli. Gideon si rese con-


to, dopo un istante, di trovarsi di fronte a un disegno architettoni-
co, il disegno della struttura della Casa di Canaan. Era pieno di se-
gni a forma di croce.
«Ho suddiviso la Casa di Canaan nei tre livelli più significativi, ma
l’accuratezza non è totale. Il piano centrale è più che altro un mez-
zanino che consente l’accesso al piano superiore e a quello inferiore.
Le terrazze sono delle ulteriori sezioni a tutti gli effetti, ma non sono
importanti per quello che sto identificando qui. Ogni X indica una
porta. Il conteggio attuale è di settecentosettantacinque e, Griddle,
solo sei sono chiuse. Le prime duecento porte che ho individuato…»
«Hai passato tutto questo tempo a contare delle porte?»
«Il rigore è indispensabile, Nav.»
«Il rigor… mortis, più che altro» fece Gideon, che dava per sconta-
to che le freddure facessero automaticamente ridere.
«Le prime duecento porte che ho identificato» ripeté Harrow a
denti stretti «includono il portello d’accesso all’area inferiore del-
la Casa di Canaan. Seguendo il mio metodo, sono partita dal basso
e, da un punto di partenza statico, sono salita il più possibile. Qui ci
sono due punti di chiusura, l’X22 e l’X155. X155 è il portello, X22 è
un’altra porta. Per entrambi, sono andata da Maestro e gli ho chiesto
il permesso di entrare. Ha acconsentito a farmi passare dal portello,
a patto che potessi rimediare un posto sicuro per la chiave, ma mi ha
detto che la X22 non gli apparteneva e che, in coscienza, non poteva
concedermi il suo permesso. Per tutto il tempo, mi ha fatto l’occhio-
lino con un tale impegno che pensavo gli fosse venuta un’ischemia.»
Nonostante tutto, Gideon cominciava a interessarsi. «Okay. E poi?»
«Poi, la mattina, ho recuperato il portachiavi» disse Harrow.
«Frena, frena. Il mio portachiavi, per correttezza. Ma mettiamo
bene in chiaro le cose, la prima notte hai contato duecento porte?»
«Cominciare in anticipo» disse la sua necromante «è l’unico van-
taggio che possiamo reclamare per scelta. Il mio altro vantaggio è la
forza lavoro. In questo caso, sono piuttosto certa che Sextus abbia ini-
ziato solo un paio d’ore dopo di me, e quegli zeloti dell’Ottava Casa
non troppo più tardi di lui.»
Tutto questo lasciava intendere molto della psiche di Harrowhark
Nonagesimus, qualcosa di Palamedes Sextus e un pochino anche

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dello zio-maionese, ma Gideon non ebbe il tempo di interromperla.


Harrow proseguì: «E non sono certa della Terza, affatto. Ma lascia-
mo perdere. Comunque, ho passato la maggior parte del mio tempo
giù nel complesso, al portello d’accesso. Qui.»
Un’altra pagina secca e scricchiolante venne girata. Questa era
striata di fluidi innominabili e piena di macchie marroni, che pote-
vano essere tè come sangue. Il diagramma era molto meno dettaglia-
to rispetto ai tre dei livelli superiori. Con un tratto marcato di mati-
ta, Harrow aveva disegnato un reticolo di punti interrogativi, e alcuni
degli ambienti erano solo schizzi nebulosi, invece che i labirinti per-
fetti delle mappe iniziali.
C’erano denominazioni familiari: dal LABORATORIO UNO fino
al LABORATORIO DIECI. SALA PRESSIONE. CONSERVAZIONE.
OBIT, dalla SALA STUDIO UNO alla SALA STUDIO CINQUE. E
STERILIZZAZIONE, ma anche: SALA CONTROLLO?, PANNEL-
LO? e SMALTIMENTO? Era tutto tracciato con ordine, i corridoi
erano della stessa larghezza e le porte collocate dove ci si aspettava
che fossero. Quella mappa ricordò a Gideon le parti più antiche del-
la Nona Casa, quei posti isolati, in profondità, sotto ai più moderni
corridoietti aggrovigliati e alle pareti sbilenche con le feritoie.
«È molto vecchio» disse un’assorta Harrow più a se stessa che a
Gideon. «Considerevolmente più vecchio del resto della Casa di Ca-
naan. Epoca pre-Resurrezione – o fatto in modo che sembri pre-Re-
surrezione, il che è altrettanto curioso. So che Sextus è ossessionato
dalla datazione della struttura ma, come al solito, si è impantanato
nei particolari. Quel che importa è la funzione.»
«A che serviva, allora?»
Harrow rispose: «Se lo sapessi, sarei già Littrice».
«Sai chi lo usava?»
«Questa è una domanda assai migliore, Nav.»
«E perché» disse Gideon «eri là sotto col culo sfasciato, nascosta
in un osso?»
La Reverenda Figlia fece un gran sospiro, seguito da un attacco di
tosse – ben le stava. «Chiunque abbia abbandonato il complesso, si è
anche lasciato alle spalle la maggior parte del suo lavoro, intatto. Niente
teoremi o manuali, a meno che non siano stati rimossi – e dubito che
Maestro li abbia rimossi – ma, come ho scoperto, è possibile far par-

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tire degli… esperimenti. Modelli teoretici di cui anche loro si stavano


servendo. La maggior parte delle sale là sotto serviva alla preparazio-
ne di qualcosa, e sono state lasciate in uno stato tale da permettere a
chiunque ci capiti di replicare le condizioni di partenza. Qualcuno ha
lasciato delle sfide là sotto, per qualunque necromante abbastanza ta-
lentuoso da comprendere quel che stavano cercando di fare.»
«Smettila di fare la misteriosa, Nonagesimus. Cosa intendi con
sfide?»
«Intendo che» disse Harrowhark «ho perso centosessantatré sche-
letri contro un singolo costrutto di laboratorio.»
«Ma che…»
«Non mi è possibile vedere che cosa distrugga gli scheletri che evo-
co – di qualunque cosa si tratti» fu la sincera risposta. «Non ho ancora
capito come equipaggiarli adeguatamente. Se i sacerdoti hanno trova-
to il modo di progettare uno scheletro assemblato della stessa tipologia
di quelli che utilizzano come servitori – santo Dio, Nav, hai visto il la-
voro osseo che hanno fatto su quelli? – allora ci riuscirò di sicuro, ma
non ho ancora trovato il modo di smembrarne uno fra quelli in dota-
zione alla Prima Casa, e limitandomi a guardare non posso fare abba-
stanza. Non fraintendiamoci, ci riuscirò. Ogni giorno mi ci avvicino
un po’ di più. Mi hai trovata quando avevo esaurito le energie, tutto lì.»
«Ma a che diavolo serve tutto questo?»
«Come ho ripetuto fino alla nausea, Griddle, sto ancora lavorando
alla teoria. In ogni caso torniamo a esaminare la mappa.»
La necromante si fece pensierosa, fissava il taccuino da dietro le
palpebre gonfie. Ancora parzialmente stupefatta, Gideon si accostò
e, ignorando la stupida cupezza mistica della sua adepta, girò le pa-
gine fino a tornare alla planimetria dei tre livelli della Casa di Cana-
an. Alcune fra le porte segnate con la X erano cerchiate con un trat-
to nervoso di inchiostro nero e marcate con simboli contorti che non
le dicevano niente. Sembravano distribuiti sporadicamente per tutto
l’edificio della Prima Casa, celati o nascosti.
Gideon girò un’altra pagina. C’era lo schizzo a matita del teschio
di un animale con delle lunghe corna. Le corna si curvavano verso
l’interno, con le punte che parevano sul punto di toccarsi. Le orbite
erano voragini profonde di grafite nera. Venne percorsa dalla scossa
elettrica di un’illuminazione.

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«L’ho già visto prima» disse.


Harrow si rianimò. Socchiuse le palpebre. «Dove?»
«Aspetta. Fammi guardare di nuovo la mappa.» Gideon tornò in-
dietro e trovò l’atrio; tracciò col dito il percorso tortuoso da lì fino
al corridoio e alla rampa che conduceva all’arena dei paladini. Trovò
la scalinata e la inchiodò con l’unghia del pollice: «Questa non l’hai
beccata, sono molto più avanti di te, Nonagesimus. Qua c’è un corri-
doio nascosto, con una porta chiusa».
«Ne sei certa?» Ora Harrow era sveglissima e vigile. Quando Gi-
deon le rispose di sì annuendo, si frugò nelle vesti, tirò fuori un lun-
go spillone di ferro e se lo piantò in bocca. Gideon trasalì. Le ossa sul-
la testiera del letto la issarono senza troppe cerimonie a un angolo di
novanta gradi e, brandendo quell’arma, con una delle estremità luci-
da di sangue scarlatto, le disse: «Fammi vedere, Nav».
Traboccante di fierezza, Gideon posò il dito accanto all’enorme
porta di pietra nera che aveva nascosto dietro la tappezzeria. Har-
row segnò il punto con una croce rossa sanguinolenta e soffiò sull’in-
chiostro: si scheletrizzò all’istante, diventando di un secco marrone
terroso. X-203. La necromante non riuscì a nascondere un sorriso di
trionfo. La bocca si stiracchiò, facendole sanguinare le labbra spac-
cate. Uno spettacolo d’incomparabile raccapriccio. «Se non ti sbagli»
le disse, «e se io non mi sbaglio… be’.»
Esausta per lo sforzo, Harrow richiuse il quadernetto e lo ripose
nella veste. Si abbandonò nell’abbraccio polveroso delle ossa e le giun-
ture dei polsi scrocchiarono nell’adagiarla sul tessuto scuro e scivolo-
so della trapunta. Si allungò alla cieca verso l’acqua e se ne rovesciò
addosso là metà, mentre beveva a grandi sorsate avide. Mollò il bic-
chiere vuoto sul letto accanto a lei, e poi chiuse gli occhi. Gideon si
sorprese a stringere lo stocco sottile che portava al fianco, soppesan-
do la gabbia dell’impugnatura.
«Potevi morire, oggi» le disse in tono vago.
Per parecchio tempo, la ragazza sul letto rimase in silenzio, supi-
na. Il petto si alzava e si abbassava lievemente, con regolarità, come
se dormisse. Poi senza aprire gli occhi Harrow le disse: «E tu potre-
sti provare a darmi il colpo di grazia proprio adesso, se volessi. For-
se la spunteresti anche».
«Sta’ zitta» disse Gideon, secca e cupa. «Quel che intendo è che mi

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stai facendo fare la figura della buffona sleale. Quel che intendo è che
è colpa tua se non posso prendere sul serio il mio compito di guar-
dia del corpo. Quel che intendo è che tutta questa faccenda del sa-
cro dovere di fare esattamente quello che ti dico io bla bla bla e mer-
date del genere non ha la minima importanza se muori disidratata
dentro a un osso.»
«Non stavo per…»
«Lo standard minimo per un paladino» disse Gideon «è impedir-
ti di crepare in un osso.»
«Non c’era alcun…»
«No. Ora sei sintonizzata su Parla Gideon Nav. Io voglio andar-
mene da qui e tu vuoi diventare Littrice» proseguì. «Perché accada,
dobbiamo fare squadra. Se non vuoi che molli le pitture, lo stocco e
la storia di copertura, devi portarmi là sotto con te.»
«Griddle…»
«Parla Gideon Nav. Di sicuro, la Sesta ci considera due cazzone
patentate. Verrò là sotto insieme a te perché sono stufa di non fare
niente. Se mi tocca girovagare ancora un giorno col broncio, facendo
finta di essermi votata al silenzio, mi apro le vene addosso a Maestro.
Non andare laggiù da sola. Non morire in un osso. Io sono la vostra
creatura, o mia tenebrosa padrona. Io vi servo con una fedeltà gran-
de come una montagna, o mia crepuscolare Signora.»
Harrow spalancò gli occhi. «Piantala.»
«Sono la vostra spadaccina giurata, o mia dominatrice della notte.»
«D’accordo» disse Harrow controvoglia.
La bocca di Gideon stava per scandire le parole “o mia ossea im-
peratrice” ma poi si rese conto di quello che le era stato detto. Ora,
l’espressione sul viso della necromante era di completa rassegnazio-
ne: rassegnazione e sfinimento, ma c’era anche qualcos’altro – anche
se in prevalenza si trattava di rassegnazione. «Prendo atto della tua
argomentazione» le disse. «Mi trovo in disaccordo, ma riconosco un
margine d’errore. Va bene.»
Non sfidò la sorte facendo notare a Harrowhark che non aveva al-
cuna speranza di opporre un rifiuto; aveva la chiave, aveva il coltello
dalla parte del manico e aveva anche parecchio sangue in più. Tutto
quello che le disse fu quindi: «Okay. Ottimo. Bene».
«E farai meglio a smetterla con tutte queste scemenze della prin-

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cipessa del crepuscolo» fece Harrow, «perché potrebbe cominciare a


piacermi. Aiutarmi sarà di una noia penosa, Nav. Ho bisogno di pa-
zienza. Ho bisogno di obbedienza. Ho bisogno di sapere che ti com-
porterai come se essermi devota fosse il tuo nuovo passatempo pre-
ferito, anche se la cosa fa venire a entrambe un travaso di bile.»
Gideon, stordita dal successo ottenuto, accavallò le gambe e si stra-
vaccò sul mobile, assumendo una posa trionfante. «Dai. Quanto po-
trà mai essere orribile?»
Harrow arricciò le labbra. Scoprì i denti, leggermente macchiati
di un rosino sanguinolento. Sorrise di nuovo, più lentamente, ma in
maniera altrettanto terribile e strana.
«Laggiù risiede la summa di ogni trasgressione necromantica» dis-
se, col tono cantilenoso di una bambina che recita una poesia. «L’u-
lulato ineffabile di diecimila milioni di fantasmi famelici che percepi-
ranno il riecheggiare di ogni tuo passo come una profanazione. Non
si accontenterebbero nemmeno di smembrarti. Lo spazio dietro a
quella porta è profondamente maledetto, in modi che non posso de-
scriverti e che in nessun modo saresti in grado di comprendere; po-
tresti andare incontro a una morte violenta, o potresti semplicemen-
te perdere la tua anima.»
Gideon roteò gli occhi con una tale veemenza che rischiò di tor-
cersi il nervo ottico.
«Piantala. Non siamo più in cappella.»
Ma Harrow ribatté: «Non è farina del mio sacco, Griddle. Ti sto
ripetendo esattamente – parola per parola – quello che Maestro ha
detto a me».
«Maestro ti ha detto che il complesso è imballato di fantasmi e che
potresti crepare?»
«Corretto.»
«Che sorpresa, o mia fosca sovrana!» disse Gideon. «Fantasmi e
potresti crepare è il mio secondo nome.»

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Quella concessione da parte di Harrowhark non
rese la convivenza più piacevole, neanche un po’. La mattina successi-
va, prestissimo, in barba a qualsiasi logica o buonsenso, Harrow co-
strinse Gideon a infilarsi la veste e a dipingersi come ogni mattina da
quando erano arrivate alla Casa di Canaan: si spazientiva di fronte a
quelle che Gideon considerava delle necessità vitali, come fare cola-
zione e sgraffignare il pranzo. Gideon vinse la battaglia per la cola-
zione, ma perse il diritto a guardarsi in cagnesco allo specchio men-
tre si punteggiava gli zigomi con la pittura nera.
Obbedendo al volere di Harrow, la Nona Casa si spostava per i cor-
ridoi grigi e silenziosi come una coppia di spie. Ci furono numero-
se occasioni in cui la necromante si fermò all’ombra di una soglia e
aspettò lì per cinque minuti buoni prima di consentire a entrambe di
proseguire, sgattaiolando furtivamente giù per le scalinate malridotte
verso le viscere della Prima. Incontrarono solo una persona lungo il
percorso: nella luce che precedeva l’alba, Harrow e Gideon si appiat-
tirono sotto a un’arcata buia e osservarono una figura con un libro in
mano che attraversava una sala polverosa, muta e spettrale, dissemi-
nata di sedie sbilenche. Dato che aveva passato tutta la vita nel buco
più buio del pianeta più buio nella parte più buia del sistema, Gideon
riuscì a distinguere il profilo eziolato della gemella repellente della
Terza, Ianthe. Quando scomparve alla vista Harrow rimase ferma, in
silenziosa attesa, molto più a lungo di quanto Gideon avesse ritenuto
necessario, prima di autorizzarla a proseguire con un cenno.
Arrivarono al portello d’accesso del pozzetto deprimente senza
intoppi, anche se là, in effetti, faceva abbastanza buio da costringe-

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re Gideon a ricacciarsi gli occhiali in tasca e Harrow ad abbassare il


velo. Harrow respirava col naso, impaziente, mentre Gideon infilava
la chiave nella toppa. Poi si precipitò giù nel buco come se la stessero
inseguendo. Scesero giù per la lunga scaletta gelida e, una volta arri-
vate in fondo, Harrow si scrollò la polvere di dosso.
«Bene» fu la prima cosa che disse da quando avevano lasciato le
loro stanze. «Siamo sole, ne sono relativamente certa. Vieni.»
Seguendo i passi lesti della sua adepta, con lo stocco che le rimbal-
zava sul fianco, Gideon constatò con un certo interesse che non sareb-
bero arrivate all’area di Sterilizzazione attraverso il labirinto di cuni-
coli. Passarono, invece, per un corridoio lungo e ampio, che ronzava
tranquillo al suono delle luci elettriche, finché, dopo un paio di svol-
te, arrivarono a una porta etichettata come LABORATORIO DUE.
Harrow la aprì con una spinta.
Si ritrovarono in una piccola anticamera grande come un armadio.
Sulle pareti c’erano dei ganci – a uno era appeso quello che Gideon
scambiò per il brandello parzialmente decomposto di una brutta tap-
pezzeria, per poi rendersi conto che si trattava dei resti di un camice
abbandonato. Sulla porta di fronte a loro c’era una cartelletta deva-
stata, infilata dietro a un pezzo di plex, con un pallido titoletto sca-
rabocchiato in una grafia malferma e sbiadita: 1-2. TRASFERENZA/
SPULATURA. BANCA DATI.
Sopra alla porta sterile di metallo c’era un teschio incorniciato – una
visione molto più familiare – che probabilmente, una volta, doveva es-
sere stato dipinto di rosso, ma ora era di un marrone catramoso. A un
certo punto, aveva perso la mandibola e apparentemente anche tutti i
denti davanti. Harrow incastrò con meticolosità dei minuscoli fram-
menti di falange tutt’attorno all’intelaiatura. Attraversare una barrie-
ra ossea di Nonagesimus – invece che esserne respinta – era un’espe-
rienza insolita, ma Gideon non ebbe il tempo di godersela: Harrow
spalancò la porta e condusse Gideon nell’altra stanza.
Questo ambiente – più ampio, più affusolato – dava la netta impres-
sione di essere stato saccheggiato. Era fiancheggiato da ampie scriva-
nie metalliche e le pareti erano tempestate di prese elettriche vuote.
C’erano scaffali su scaffali che, un tempo, dovevano aver contenuto
libri, fascicoli e documenti, ma ora ospitavano soltanto un casino di
polvere; sui muri c’erano delle aree scolorite, dove dovevano essere

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state appese cose che erano poi state rimosse. Era una stanza spoglia
e vuota. Una delle pareti era completamente finestrata e permetteva
di vedere l’interno della sala successiva e, su quel muro, c’era una por-
ta caratterizzata da due elementi: uno, un cartello che recitava REA-
ZIONE, e due, una targhetta in cima con la scritta OCCUPATO. Ac-
canto a quest’ultima, splendeva smorta una lucetta verde, indicando
forse che Reazione non era occupata. Guardando dentro a Reazione
– una stanza squallida e anonima, caratterizzata soltanto da un paio
di ventole sul lato più lontano della pianta quadrata – constatò che il
pavimento era un merdaio totale di ossa triturate.
Anche sull’altra parete – piena di sostegni per libri portati via da
tempo immemore – c’era una porta, denominata in questo caso: VI-
SUALIZZAZIONE. La porta della Visualizzazione era dotata di una
spia come quella di Reazione, ma la lucina qui era rossa. Visualizza-
zione aveva a sua volta una finestrella di plex, imbrattata all’esterno
di vecchie impronte sanguinolente.
«Qualcuno se l’è spassata, qua dentro» commentò Gideon.
Harrow le lanciò un’occhiataccia, ma non pretese che il voto del si-
lenzio venisse rispettato. «Già» le disse. «Io.»
La sua paladina armeggiò con la porta denominata Reazione, ma
non si aprì. Non sembrava nemmeno che ci fosse una pulsantiera tra-
dizionale. Harrow disse: «Non si apre così, Nav. Seguimi e non toc-
care niente».
Gideon seguì Harrow e non toccò niente. L’autoporta della Visua-
lizzazione si aprì docilmente al loro passaggio, rivelando una stanzet-
ta sconfortante che pareva uno sgabuzzino con un vasto assortimen-
to di vetuste apparecchiature meccaniche, spente e defunte. Un unico
pannello sul soffitto crepitò e riprese vita, bianco e pallido. Non ri-
velò molto, a parte ulteriori ombre. Sulla lunga scrivania c’era anco-
ra quella che Gideon identificò come una vecchia cartellina ruggino-
sa, alla quale era ancora assicurato un pezzetto di carta praticamente
trasparente. Gideon cedette, finalmente, alla smania di toccare qual-
cosa e il foglietto si dissolse come cenere lasciandole una patina gri-
gia sui polpastrelli.
«Che schifo, cazzo» disse, pulendoseli addosso.
Harrow le ingiunse, severa: «Fai un po’ d’attenzione, impedita che
non sei altro. Qua dentro è tutto decrepito».

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Al centro della stanza c’era un alto piedistallo di metallo con in cima


una strana lastra piatta di vetro riflettente – bellissima, punteggiata di
un nero bicromatico. La necromante ammantata di nero, con la fron-
te dipinta aggrottata per la concentrazione, passò la mano sulla som-
mità del vetro: la sua vicinanza lo fece ronzare, spedendo una cascata
saltellante di tremule scintille verdi giù dal piedistallo. Harrow si levò
il guanto e posò le dita affusolate direttamente sul vetro. Accaddero
due cose: il vetro si avvolse attorno alla sua mano come una gabbia
e la porta della Visualizzazione si chiuse con un pesante whunk. Gi-
deon ci si buttò contro, spingendo, ma non si riaprì.
«Che succede adesso?»
Harrow disse: «Guarda dalla finestrella».
Dalla finestrella bisunta Gideon vide che Reazione si era aperta.
Harrow proseguì, mestamente: «Per quel che ne so, la porta si chiude
reagendo a peso e movimento. Non ho testato con precisione l’am-
montare del peso, ma si aggira sui trenta chili in movimento. Finora,
ho spedito novanta chili di materia ossea in quella stanza.»
Quel che Harrow riusciva a fare con la punta dell’osso dell’alluce
di chissà chi era stupefacente. Per Harrow, tre chili di materiale os-
seo potevano diventare qualunque cosa. Mille scheletri, compressi e
intrecciati dentro a Reazione. Mari di colonne vertebrali. Un edificio
di crani e coccigi. Gideon domandò soltanto: «Perché?».
Harrow rispose, rigida: «Ogni singolo costrutto che ho piazzato in
quella stanza è stato polverizzato».
«Da cosa?»
«Non lo so» fece lei. «Se tolgo la mano dal piedistallo, la porta si
apre e la stanza si riavvia. Non riesco a vederlo. Posso solo sentirlo.»
A quel sentirlo, i peli sulla nuca di Gideon si rizzarono. Si scrollò
di dosso il cappuccio. Harrow scosse il polso e lo scostò dalla lastra.
Il vetro ripiegato si staccò, diligente, dalla sua mano. La porta della
Visualizzazione si aprì con un altro whunk automatico, facendo fil-
trare la luce dalla sala anteriore.
Harrow si massaggiò una per una le articolazioni delle dita e disse,
questa volta con più brio: «Dunque, Griddle, ecco dove puoi entrare
in gioco tu, mio luminoso astro. Andrai là fuori e sarai i miei occhi».
«Cosa?»
«I miei scheletri non hanno fotorecettori, Nav» disse calma la ne-

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cromante. «So che vengono distrutti da una forza bruta. Non ho idea
di cosa sia e ho bisogno di tenere la mano sul nodo thanergico. I tuoi
bulbi oculari sono perfettamente funzionanti, hai un cervello capa-
ce, per quanto opinabile. Ti piazzerai là fuori e guarderai dalla fine-
strella. Chiaro?»
Non c’era nulla di discutibile in quel compito, il che spiegava il per-
ché Gideon si fosse automaticamente insospettita. Ma le disse: «Come
comandate, mia deplorevole regina» e oltrepassò la soglia della Vi-
sualizzazione. La sua adepta la seguì, frugandosi in tasca. Tirò fuori
una nocca intera, il che le parve rivelatorio. Harrow la buttò in terra
e, con un orripilante scricchiolio, si strutturò in uno scheletro mas-
siccio: gli rivolse un cenno impaziente del polso e lo scheletro si av-
viò a passo pesante verso Reazione piantandosi lì, in attesa. Harrow,
a quel punto, si rituffò dentro a Visualizzazione.
“Che cretinata” pensò Gideon. La porta della Visualizzazione si ri-
chiuse con un sibilo – visto che Harrow, presumibilmente, aveva po-
sato la mano sul piedistallo – e la porta di Reazione si spalancò: lo
scheletro avanzò, con i piedi ossuti che scricchiolavano su un tappeto
di ulteriori ossa. Una volta entrato, la porta si richiuse alle sue spalle
con un tonfo e la spia accanto a Occupato diventò rossa.
Quel che accadde dopo – di qualunque cosa si fosse trattato – ac-
cadde maledettamente in fretta. Le luci di Reazione si accesero e le
ventole cominciarono a vomitare sbuffi nebulosi, oscurando la parete
più lontana: il suo fiato umido appannò il vetro, tanto ci si era appiat-
tita contro. Dall’interno non arrivava alcun rumore, anche se non po-
tevano non essercene (doveva essere stato tutto insonorizzato), il che
non fece che rendere la faccenda ancora più assurda, quando qualco-
sa di enorme e deforme emerse rabbioso dalla foschia.
Era un costrutto osseo, fin lì ci si arrivava. Tendini grigi collegava-
no una dozzina di omeri stranamente malformati ad avambracci di
una brevità ripugnante. La cassa toracica era costituita da fasce ossee
spesse e nodose, foderate tutt’intorno da punte acuminate. Il teschio
– era un teschio? – era un gigantesco grumo di placche craniche. Due
grossi bagliori verdi, come occhi, ardevano nell’oscurità che racchiu-
deva. Aveva una quantità eccessiva di gambe e una spina dorsale che
pareva un pilastro portante, sbilanciato in avanti e sorretto da due
delle robuste braccia, irte di aculei tibiali. Le braccia esterne si im-

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pennavano all’indietro e Gideon riuscì a constatare che di mani non


ce n’erano: solo lunghe lame affusolate, ciascuna plasmata a partire
da un radio affilato, pronte a scattare come la coda di uno scorpione.
Quell’ammasso di ossa si lanciò alla carica, lo scheletro di Harrow ri-
mase pazientemente in attesa, il costrutto ci piombò sopra come una
pietanza calda e lo disintegrò al secondo colpo.
Il costrutto girò l’orrida testa verso la finestrella, piantò gli ardenti
occhi verdi su Gideon e si immobilizzò. Poi si lanciò verso di lei, acce-
lerando, ma la spia Occupato diventò verde: una specie di sirena emi-
se un basso e dolente parp e il costrutto si disgregò. Non si trasfor-
mò in ossa, ma in una specie di brodaglia che colò verso una piccola
grata al centro della stanza, che lo risucchiò. Non ne rimase traccia,
così come sparì la nebbiolina. La porta della Visualizzazione si spa-
lancò e Harrow trovò la sua paladina a bocca aperta.
Ci mise un po’ a spiegarle. Harrow la controinterrogò sulle misure
e ogni risposta sembrò disgustarla. Prima che Gideon potesse fini-
re, Harrow si era già messa a fare avanti e indietro, con le vesti che le
sciabordavano attorno alle caviglie come una spuma nera.
«Ma perché io non posso vederlo?» si imbufalì. «Vogliono mettere
alla prova l’autonomia dello scheletro o vogliono testare le mie capa-
cità di controllo? Quanta altra multidestrezza si aspettano?»
«Mettici me, là dentro» disse Gideon.
Harrow si fermò di botto e le sopracciglia le decollarono fino all’at-
taccatura dei capelli. Armeggiò col velo attorno al collo e poi disse
lentamente: «Perché?».
Gideon aveva ormai capito che quel che le sarebbe servita era una
risposta super intelligente; qualcosa con cui avrebbe potuto stupi-
re la Reverenda Figlia grazie alla sua astuzia e al suo intuito mecca-
nico. Una risposta necromantesca, accompagnata da qualche oscu-
ra interpretazione magica di quel che aveva appena visto. Ma il suo
cervello aveva visto solo quell’essere e aveva già i palmi zuppi di quel
sudore che si palesa quando hai paura ma fremi anche per l’eccita-
zione. Quindi, le disse: «Le braccia somigliano un po’ a delle spade.
Voglio combatterci».
«Vuoi combatterci.»
«Sì.»
«Perché somigliano… un po’ a delle spade.»

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«Già.»
Harrow si massaggiò le tempie con una mano e disse: «Non bramo
a tal punto un nuovo paladino da voler riciclare te. No. Questa volta
ne manderò dentro tre e tu dovrai dirmi come si comporta con quel-
li, come reagisce, con precisione; non sono ancora convinta che non
si tratti di un test di multidestrezza…».
Lo scheletro successivo che spedì là dentro stringeva un mazzuo-
lo di falangi scricchiolanti in ciascun pugno ossuto. Gideon osservò
diligente la luce che diventava verde e i due scheletri identici all’al-
tro che Harrow fece sorgere – alla cieca – accanto al primo. Erano
esemplari modello della loro specie: foggia sublime, copie perfetta-
mente rispondenti alle specifiche, animati e reattivi. Ormai gli sche-
letri di Harrow erano quasi al livello dei servitori della Prima Casa.
Quando il costrutto eruttò dalla nebbia, si spostarono con ammire-
vole compostezza e fluidità, e vennero disintegrati in tre mosse. L’ul-
timo scheletro si lanciò in una deprimente corsetta in tondo prima
che il mostruoso costrutto sollevasse un braccio lamato e lo squar-
ciasse dal sacro alla spalla.
La seconda volta che Harrow apparve per ricevere il resoconto
colpo-su-colpo, le sanguinava una narice. La terza volta, entrambe
le narici. La quinta volta – col pavimento di Reazione già foderato
dai resti di venti scheletri – si stava asciugando il sangue dalle ciglia e
aveva le spalle cascanti. Aveva ascoltato ogni resoconto con aria pen-
sosa, lo sguardo assente, troppo distratta persino per punzecchiare
Gideon ma, questa volta, strinse i pugni e se li schiacciò sul cranio.
«Mia madre, mio padre e mia nonna messi insieme non saprebbero
fare quello che faccio io» disse piano, senza rivolgersi a Gideon. «Mia
madre, mio padre e mia nonna messi insieme… ormai li ho superati,
di gran lunga. Un costrutto o cinquanta, e lo rallentano, nient’altro…
per una mezz’ora intera.»
Si scrollò di dosso la frustrazione come un animale con la pelliccia
bagnata, rabbrividendo dalla testa ai piedi prima di tornare a fissa-
re il suo nero sguardo spento su Gideon. «Va bene» disse. «Va bene.
Ancora. Continua a guardare, Nav.»
Si trascinò fuori e la porta si richiuse sibilando alle sue spalle. La
sopportazione di Gideon Nav poteva arrivare fino a un certo punto.
Si levò la veste, la piegò e la appese a un gancio nell’anticamera. Si

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fermò accanto a uno scheletro con le braccia talmente piene di fram-


menti ossei e di pezzi di tibia che li perdeva per strada, come bricio-
le di pane. Non fu difficile rimanergli al fianco, educatamente, finché
la porta non si aprì, poi gli fece lo sgambetto e lo scavalcò. Sfoderò la
spada con un sibilo argentino, allacciandosi il guanto sulla mano si-
nistra con le fettucce assicurate all’ossidiana. Dietro di lei, la porta di
Reazione si richiuse con un tonfo.
«Harrow» disse, «se volevi un paladino che si poteva rimpiazzare
con qualche scheletro, dovevi tenerti Ortus.»
Dagli altoparlanti sistemati in ogni angolo, Harrow urlò. Non era
un suono che denotava irritazione, o nemmeno uno strillo di sorpre-
sa, se era per quello: trasmetteva più che altro dolore; Gideon sen-
tì le gambe farsi un po’ molli. Barcollò, si rimise dritta, scosse la te-
sta per scacciare il breve capogiro. Sollevò la spada a un’angolazione
perfetta e aspettò.
«Ma che?» La necromante sembrava quasi stupefatta. «Ma che…
sul serio?»
Le ventole sputarono enormi esalazioni nebulose. Ora che era nel-
la stanza, Gideon si rese conto che immettevano nell’aria anche con-
densa e liquido, roba dall’odore stantio; era da quella nuvola che il
costrutto stava sorgendo: un’orrenda gamba dopo l’altra, le placche
larghe delle pelvi, il tronco spesso della colonna vertebrale, fino ai
puntini di luce verde che roteavano, inquisitori, per poi stabilizzarsi
su Gideon. Spostò il peso. Da Visualizzazione, Harrow sbuffò come
una locomotiva, facendo quasi finire a culo all’aria la sua paladina.
L’aria si spostò. Il costrutto la incalzò e lei riuscì per un pelo a deflet-
tere con la nuda lama nera della spada due sonori fendenti dell’altro.
Harrow si lasciò scappare un grido, come se avesse toccato una fiam-
ma con la mano.
«Nonagesimus!»
C’erano delle buone notizie e delle cattive notizie, ponderò Gideon.
Le buone notizie: i colpi che le piovevano addosso non erano così pe-
santi come ci si sarebbe aspettati da qualcosa di così immenso. Erano
forti e veloci, ma non più energici della mano di Naberius Tern bensì
più leggeri, a causa dell’assenza di muscoli. La materia ossea non pe-
sava mai quanto il sangue e la carne, il che era uno dei problemi del-
la pura magia costruttiva.

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La cattiva notizia: non poteva fargli un cazzo di niente. Il suo stoc-


co riusciva a malapena a parare i colpi. Riponeva qualche esigua spe-
ranza nelle lame di ossidiana del suo tirapugni – con un manrovescio
ben piazzato era riuscita a staccargli un pezzo di braccio, tranciando-
gli via l’estremità di uno spuntone – ma poi le toccò constatare, con
un nauseante peso sullo stomaco, che lo spuntone stava ricrescendo.
«Nonagesimus» le urlò di nuovo tra un assalto e l’altro, «questa
merda si sta rigenerando!»
Dagli altoparlanti non arrivò nulla. Gideon si domandò se Harrow
riuscisse a sentirla. Balzò di lato mentre il costrutto si buttava in avan-
ti, menando sciabolate – andò a sbattere contro una pila di ossa che
si erano accumulate durante i precedenti fallimenti di Harrow. Un
frammento schizzò via come un proiettile e beccò di striscio il brac-
cio di Gideon. Dagli altoparlanti, la ragazza strillò di nuovo.
«Nonagesimus!» esclamò, ormai allarmata. Il costrutto si dibatte-
va nel suo nido di vittime, ma poi riuscì a rialzarsi. «Hey, Harrow!»
Gli altoparlanti gracchiarono. «Smettila di pensare!»
«Cosa?»
«Non riesco… è troppo… maledizione!»
Stava per chiedere a Harrow di levare la mano da quel cazzo di pie-
distallo, ma venne caricata di nuovo da un tornado di lame. Il costrut-
to avanzò appoggiandosi a mani e piedi come un predatore sbilenco.
Gideon caricò a sua volta e ficcò la spada dritto nella membrana in-
traossea di un braccio che si stava abbattendo su di lei, pronto a trafig-
gerla. Il braccio e il costrutto si agitarono, indipendenti l’uno dall’altro,
e con la mano secondaria gli mollò un gran pugno al bacino. In un’e-
splosione di schegge ossee, mezzo ilio si staccò. Il mostro cadde e si di-
menò, cercando di rialzarsi, mentre le pelvi e l’estremità di un femore
si saldavano insieme con ributtante rapidità. Gideon arretrò in fretta
e furia, liberando la spada e pulendosi via robaccia ossea dalla faccia.
Un respiro affannoso filtrò dagli altoparlanti crepitanti. «Nav. Chiu-
di un occhio.»
Le avrebbe chiesto lumi dopo sul perché doveva farlo, ma lo fece. Ab-
bassò una palpebra e il senso della profondità si dissolse. Si allontanò
dal costrutto che strisciava inutilmente in tondo, menomato. Per un
istante la vista tornò a centrarsi e, ondeggiando come un’ubriaca, riu-
scì a scorgere qualcosa agli angoli del suo campo percettivo: una sorta

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di miraggio periferico, un sussurro di luce che si spostava in un modo


mai osservato prima. Pareva uno strato di gel che si sovrapponeva alla
realtà. Si avvolse attorno a diverse porzioni del costrutto come se ne
fosse attratto, come la limatura di ferro con un magnete. Sbatté la pal-
pebra con decisione. Dagli altoparlanti, arrivarono nuovi ansiti.
«D’accordo» fece la voce di Harrow, «d’accordo, d’accordo…»
Il costrutto si risollevò, recuperando il proprio centro di gravità.
Il cuore martellava nel petto di Gideon. Gli altoparlanti sibilarono di
nuovo. Harrow disse: «Che cos’ha sopra?».
«Che cosa? Le braccia?»
«Non vedo» disse Harrow, «è sfocato…»
Gideon fu costretta ad aprire entrambi gli occhi. Non poteva evi-
tarlo. Parò il primo montante che il costrutto le sferrò mentre si pre-
cipitava verso di lei, ma riuscì a beccarle in pieno una spalla con il
successivo. Lo colpì coi coltelli, mollandogli un altro manrovescio
– il braccio appuntito si spezzò, rimbalzò via e andò a finire contro
il muro – ma fu costretta ad arretrare, accucciandosi e schiuman-
do di dolore – temeva che la spalla le fosse uscita del tutto. Gli alto-
parlanti ulularono. Il costrutto si impennò, sfoderando tutte le sue
lame, e… si disintegrò.
Diventò liquido e sgocciolò verso la grata al centro della stanza,
sotto gli occhi di Gideon. La porta di Reazione si aprì e, dopo esser-
si rapidamente sincerata delle condizioni della spalla, Gideon si ri-
mise in piedi massaggiandosi i muscoli mentre varcava la soglia che
si richiuse. Visualizzazione si spalancò e si ritrovò faccia a faccia con
Harrow, tremante e pallida come la morte.
«Ma che diavolo…» disse Gideon «era quella roba?»
«È il test.» Le labbra di Harrow erano rosate, dove si era smangia-
ta via la pittura. Sembrava deglutire a fatica e fissava la sua paladina
senza vederla. Disse, incerta: «Il test sei tu.»
«Uhm…»
«Frontale, parietale, temporale, occipitale, ippocampo: li ho com-
battuti tutti, dentro di te» le disse. «Non sono preparata per gesti-
re uno spirito vivente ancora collegato a un sistema nervoso. Fai un
gran baccano. Ci ho messo cinque minuti solo per abbassare il volu-
me e riuscire a vedere qualcosa. E il dolore è molto peggiore rispet-
to al feedback che arriva dagli scheletri – il tuo spirito mi ha fatto di-

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ventare sorda! Tutto il tuo corpo fa rumore quando combatti! Il tuo


lobo temporale – Dio santo – ho un gran mal di testa!»
L’intero discorso era incoerente, ma la presa di coscienza finale
fu umiliante. Una vampata incandescente si arrampicò su per il col-
lo di Gideon. «Puoi controllare il mio corpo» disse. «Puoi leggere i
miei pensieri.»
«No. Neanche lontanamente.» Ne fu sollevata, finché Harrow non
proseguì con: «Se solo potessi. Nell’istante in cui riesco a gestire an-
che solo uno dei tuoi sensi, vengo sopraffatta da un altro».
«Sei bandita dai miei lobi e dal mio ippocampo. Non ti voglio là
dentro a spostare di qua e di là i mobili.»
Forse anche in Harrow c’era un minuscolo briciolino di compren-
sione. Non le rispose con un’orrida risata o con un oscuro detto della
Nona: si limitò a sventolare una mano. «Non farti venire un aneuri-
sma, Nav. Non posso leggerti nel pensiero – e non lo farò – non pos-
so controllare il tuo corpo o guardare i tuoi ricordi più intimi. Non
ne ho le capacità e nemmeno il desiderio.»
«Lo dico per il tuo bene, mica per il mio» fece Gideon. «Una vol-
ta, quando avevo dodici anni, ho cercato di immaginarmi le chiap-
pe di Crux.»
Harrow la ignorò. «Spulatura» disse. «Che stupida che sono. Vuo-
le che separi il grano dalla pula, o il segnale dall’interferenza di fon-
do, se preferisci. Ma perché? Perché non posso farlo da sola e basta?»
Barcollò leggermente tamponandosi con una manica la linea rosata
che le attraversava la faccia. Le sue pitture rituali avevano un aspet-
to distintamente seppiato, ma in qualche modo Gideon la trovò esul-
tante, colma di una cupa soddisfazione.
«Ora so come superare questa prova» le disse meditabonda. «E
ce la faremo, se riesco a far funzionare la connessione e a rivaluta-
re quello che so della teoria della possessione, ce la posso fare. Capi-
re su che cosa bisognava lavorare era la vera battaglia, e adesso lo so.
Ma prima, Griddle, temo proprio di dover svenire.»
E si accartocciò con eleganza sul pavimento. Per puro sentimen-
talismo, Gideon si sorprese ad allungare una gamba per prenderla al
volo. Finì per tirare una pedatina sulla spalla alla sua necromante, ma
pensò che, dopotutto, contava il pensiero.

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«Me la caverei molto meglio con lo spadone, che
diavolo» disse Gideon.
Un paio d’ore più tardi, Harrowhark si era svegliata dal suo pisoli-
no sul pavimento e aveva seguito la sua paladina nei loro alloggi. Era
prontissima a fare un nuovo tentativo all’istante, ma a Gideon era ba-
stato darle un’occhiata – gli occhi tendevano a incrociarsi leggermen-
te e le tremavano le mani – per cassare il piano. Ora erano tornate nel
loro salone dalle pannellature scure, con la luce di mezzogiorno che
filtrava dalle persiane in bianche lamate roventi. Gideon ingurgitava
del pane e Harrow spiluccava le croste. La necromante si era sveglia-
ta più scorbutica del solito, il che fece sperare Gideon che tutto quel-
lo che era capitato laggiù fosse soltanto un moto di follia passeggero.
«Mozione respinta» disse Harrowhark. «Non ce l’hai» – super, si-
gnificava che Harrow non era riuscita a ispezionare con successo tut-
ta la sua roba – «e, cosa ancor più importante, dovresti farne a meno.
In ogni caso non mi è mai piaciuto quell’affare maledetto, mi è sem-
pre sembrato che ce l’avesse con me. Se ti serve uno spadone a due
mani ogni volta che il gioco si fa duro, non vali niente come paladina.»
«Continuo a non capire com’è che dovrebbe funzionare questa
prova.»
La Reverenda Figlia per una volta prese in considerazione la sua
affermazione. «D’accordo. Lascia che…hmm. Sai già che un costrut-
to osseo è animato da un teorema necromantico.»
«Ma dai! Credevo che bastasse pensare super forte alle ossa per
farle apparire.»
Ignorandola, Harrow proseguì: «Questo specifico costrutto è ani-

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mato da teoremi multipli, tutti intrecciati insieme, in un certo sen-


so. Gli permette di fare cose che un normale costrutto non potreb-
be mai fare».
«Tipo rigenerarsi.»
«Sì. Per distruggerlo bisogna disfare l’arazzo, Nav, tirando di volta
in volta un filo – in ordine – finché l’intreccio non cederà. Ci mette-
rei dieci secondi, se solo ce l’avessi a un braccio di distanza.»
«Hmm» fece Gideon, cominciando con riluttanza ad afferrare.
«Quindi dovrò sbrogliarlo io, per te.»
«Solo con la mia assistenza. Non sei una necromante. Non puoi ve-
dere le scie thanergiche. Devo trovare i punti deboli, ma dovrò farlo
attraverso i tuoi occhi, e la faccenda è resa infinitamente più diffici-
le dal fatto che agiti una spada di qua e di là tutto il tempo mentre il
tuo cervello mi urla contro.»
Gideon aprì la bocca per dire: “Il mio cervello ti urla sempre con-
tro”, ma venne interrotta da un colpo deciso alla porta. La necroman-
te si paralizzò come se fossero sotto attacco, ma la bussata fu seguita
da uno scoppio di risolini isterici e gutturali, di una tipologia che Gi-
deon aveva già sentito prima. Il suono scemò lungo il corridoio, ac-
compagnato dai passi concitati di due adolescenti semiterrorizzati.
Jeannemary e comesichiama avevano fatto scivolare qualcosa sotto
la porta e poi se l’erano svignata.
Andò a vedere di cosa si trattava. Era una busta, pesante, carta vera,
di un marrone cremoso. «Reverenda Figlia Harrowhark Nonagesimus»
lesse ad alta voce. «Gideon la Nona. I fan ci scrivono.»
«Dammela. Potrebbe essere una trappola.»
Gideon la ignorò, visto che era piuttosto probabile che Harrow
avrebbe lanciato quella roba fuori dalla finestra senza degnarla di
uno sguardo. Ignorò anche il broncetto acido di Harrow e tirò fuori
un foglio di velina – assai meno notevole della busta, ma chi a parte
l’Imperatore userebbe mai della carta vera per una lettera – e ne les-
se a voce alta il contenuto.

LADY ABIGAIL PENT E SIR MAGNUS QUINN


IN OCCASIONE DEI FESTEGGIAMENTI
PER IL LORO UNDICESIMO ANNIVERSARIO DI MATRIMONIO
PORGONO I LORO OMAGGI ALL’EREDE

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E ALLA PRIMA PALADINA DELLA NONA CASA


E RICHIEDONO L’ONORE DELLE LORO COMPAGNIE QUESTA SERA.
LA CENA VERRÀ SERVITA ALLE ORE SETTE.

Sotto, in una calligrafia frettolosa ma comunque splendidamente


vergata, c’era un altro appunto:

Non lasciatevi scoraggiare dalla formulazione, Abigail ha


un debole per gli inviti pomposi, a casa me ne arriva uno
anche per fare colazione. Non si tratterà di un evento for-
male – tutt’altro – e sarei profondamente felice se entram-
be riteneste opportuno partecipare. Penserò io al dolce e
posso assicurarvi che cucino molto meglio di come duello.
M.

Harrow disse: «No».


«Io ci voglio andare» fece Gideon.
«Sembra di un’insulsaggine sconfinata.»
«Voglio mangiare il dolce.»
«Mi sento di osservare» disse Harrow, tamburellando il piano con
le dita «che nel corso di un’unica cena, la morte dei rampolli di mol-
teplici Case potrebbe diventare realtà grazie a una coppia scaltra e a
una fialetta di veleno. A quel punto – all’improvviso – il primato del-
la Quinta Casa sarebbe definitivamente consolidato. E solo perché a
te andava un dolcetto.»
«Questo è un invito formale per la Nona Casa, non solo per te e
per me» disse Gideon, con un po’ più di acume, «e visto che il no-
stro tradizionalismo è scolpito nella pietra, non dovremmo alme-
no fare un’apparizione piccola piccola? Non andare sarebbe scorte-
se. Potremmo dedurre moltissimo da chi non ci va – e ci andranno
tutti, per educazione. Politica. Diplomazia. Il tuo dolce lo mangio io,
se non lo vuoi.»
La necromante si abbandonò alle sue elucubrazioni. «Ci farà ritar-
dare sul completamento della prova» si lamentò alla fine, «e spreche-
remo una serata durante la quale Sextus potrà guadagnare terreno e
superarci a suo piacimento.»
«Scommetto che ci sarà anche Palamedes. Possiamo pensare alla

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prova subito dopo. E sarò bravissima. Sarò silenziosa, malinconica e


molto nonesca. Uno spettacolo che ti stupirà e ti ispirerà.»
«Nav, sei una vacca.»
Ma voleva dire che ci sarebbero andate. Gideon si mise a riflettere
sulla sua inaspettata vittoria mentre si specchiava, contando svoglia-
tamente i brufoli che stavano sbocciando a causa degli strati sovrap-
posti di pittura monacale. L’atmosfera era rilassata, in un modo stra-
no, gravido d’attesa, come quella volta che aveva preso un sedativo
e sapeva che una suora sarebbe venuta a strapparle le tonsille. Sia lei
che Nonagesimus stavano aspettando un’operazione. Non aveva mai
pensato di vedere una Harrow così malleabile, né che sarebbe pas-
sato così tanto tempo senza che Harrow le affondasse gli artigli nel-
la carne, dov’era più tenera. Forse le prove da Littore stavano produ-
cendo un effetto rasserenante su di lei.
No, non bisognava sperarci troppo. Harrowhark era compiaciuta
perché le cose stavano andando per il verso di Harrowhark: il poter
fare a modo suo la ingolosiva ma, appena il luccichio si fosse spen-
to, i coltelli sarebbero spuntati di nuovo. Gideon non poteva fidarsi
di lei. C’era sempre qualche spigolo. C’era sempre qualche ceppo che
scattava per intrappolarti prima ancora che potessi accorgertene, e lo
scoprivi soltanto quando lei faceva girare la chiave. Ma a quel punto…
Quella sera, vedere Harrow così in agitazione fu spassoso. Indossò
le sue migliori vesti della Nona – che erano anche le più senescenti –
e diventò uno scopettino nero e secco inghiottito da strati e strati di
pizzo color notte del Sepolcro Sigillato. Trafficò davanti allo specchio
con dei lunghi orecchini d’osso e si ridipinse la faccia due volte. Gi-
deon si rese conto, non senza una discreta quantità di divertimento
e curiosità, che Harrowhark era molto spaventata. Si fece sempre più
suscettibile man mano che la cena si avvicinava, passando da langui-
de pose di noia simulata – con tanto di libro – ad arricciarsi, con le
spalle che toccavano le ginocchia. Harrow continuava a fissare l’oro-
logio e, se fosse dipeso da lei, si sarebbe presentata con venti minu-
ti d’anticipo. Gideon, che si era limitata a infilarsi una veste pulita e i
suoi occhiali fumé notò che la sua necromante era così scombusso-
lata da non aver posto il veto manco su quelli.
Di che diavolo aveva paura? Fin da bambina alla Nona aveva offi-
ciato funzioni tetre e ultrapaludate, una dopo l’altra, tra regole arzigo-

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golate e rigidi cerimoniali. E ora era un fascio di nervi. Forse perché le


era stato impedito di rispondere alle sue oscure esigenze necromante-
sche, sotto a quel pozzetto d’accesso. Alla fine Gideon e Harrowhark
fecero il loro ingresso, splendidamente abbigliate nei loro paramenti
del Sepolcro Sigillato e dipinte come teschi viventi. Sembravano pro-
prio due gran rincoglionite. Il vasto assortimento dell’armamentario
osseo di Harrow la faceva scrocchiare a ogni passo.
«Siete venute!» esclamò Magnus Quinn quando le vide; era troppo
ben educato per squadrare con troppa insistenza quei due orripilan-
ti esemplari in libertà del corpo ecclesiastico del Drearburh. «Sono
così felice che abbiate deciso di indossare i vostri, ehm, nobili cenci;
ero sicuro che sarei stato l’unico in ghingheri e che mi sarebbe toc-
cato sedermi tutto lustro in mezzo a voialtri, sentendomi un po’ un
idiota. Reverenda Figlia» disse, e rivolse a Harrow un inchino pro-
fondo. «Vi ringrazio per essere venuta.»
Anche lui era elegantissimo. Portava un completo con un lungo so-
prabito marrone chiaro che gli doveva essere costato più di quanto la
Nona Casa custodisse nei suoi forzieri. La Nona era messa bene in fat-
to di decrepiti tesori merdosi, ma un po’ scarsina sul fronte delle di-
sponibilità liquide. In un tono più basso e gelido di quello che Harrow
impiegava di solito, gli rispose: «Benediciamo il paladino della Quinta.
Congratulazioni per l’undicesimo anniversario del vostro sposalizio».
Sposalizio. Ma Magnus disse: «Altroché! Sì! Grazie! Era ieri, in real-
tà. Me lo sono ricordato per una fortuita coincidenza, mentre Abi-
gail se n’è dimenticata e, per stizza, si è messa in testa di prepararmi
la cena. Le ho suggerito di permettere a tutti quanti di beneficiarne.
Entrate, vi prego. Lasciate che vi presenti».
La sala da pranzo dell’atrio aveva l’aspetto consueto, ma c’erano
delle festose aggiunte. I tovaglioli erano stati tutti piegati con gran-
de perizia e svariate tovaglie solo parzialmente ingiallite erano sta-
te tirate fuori dalle profondità di qualche ripostiglio. Per ogni lucido
piatto bianco c’erano dei cartellini segnaposto dalle diciture assolu-
tamente impeccabili. Vennero entrambe accompagnate alla piccola
cucina e presentate alla Quinta necromante – un po’ stressata – che
Gideon aveva visto solo di sfuggita: dimostrò di possedere le mede-
sime maniere rilassate e spontanee di Magnus, quelle che puoi solo
sviluppare quando arrivi da una casa come la Quinta. Guardò Gi-

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deon dritta negli occhi e le strinse la mano con fermezza. Al contra-


rio di Magnus, aveva anche l’atteggiamento che talvolta sviluppano
alcuni necromanti o bibliotecari che hanno passato gli ultimi quin-
dici anni a lavorare su incantesimi defunti, senza più badare un gran-
ché ai vivi: il suo sguardo era fin troppo intenso. Ma con addosso quel
grembiule era quasi impossibile sentirsi in soggezione. Gli impecca-
bili convenevoli che si scambiò con quella iena immusonita di Har-
row vennero interrotti dalla comparsa, sull’uscio, dei due disgustosi
teenager, che si erano messi circa un milione di orecchini a testa. La
Nona fece ritorno in salone.
Fu una strana serata. Harrow, in pratica, vibrava per la tensione.
Maestro, perennemente estasiato di vederle per motivazioni che Gi-
deon non sarebbe mai riuscita a capire, le intrappolò subito in un an-
golo. Lui e gli altri sacerdoti erano già lì, con un’espressione gioiosa
da festa di compleanno: dal canto suo, Maestro splendeva con l’in-
tensità che di solito caratterizzava le stelle agonizzanti.
«Cosa ne pensate di Lady Abigail?» disse lui. «Si racconta che sia
una necromante di straordinario acume – non propriamente nel vo-
stro stesso campo, Reverenda Figlia, ma comunque talentuosa nell’e-
vocazione e nel dialogo con gli spiriti. Ho risposto con destrezza a
parecchie domande che mi ha posto a proposito della Casa di Cana-
an. Spero che lei e Magnus il Quinto siano buoni cuochi! Noi della
Prima abbiamo accolto con trepidazione questo ritrovo. I sacerdoti
che conducono uno stile di vita senza pretese non possono non emo-
zionarsi per il cibo. Per l’austera Nona la situazione dev’essere simi-
le, ovviamente.»
L’austera Nona, impersonificata della sua adepta, replicò: «Prefe-
riamo vivere con semplicità».
«Ma certo, ma certo» disse Maestro, la cui attenzione si era già spo-
stata sui pettegolezzi più triviali. I suoi vivaci occhi azzurri avevano
scandagliato la sala in cerca di altri oggetti d’interesse e, dopo averli
localizzati, ci si era accostato con aria confidenziale. «Già, e là c’è la
giovane Jeannemary la Quarta con Isaac Tettares. Molto bellini, en-
trambi. Isaac ha l’aria di uno che ha studiato troppo.» (Isaac, il necro-
mante adolescente con i capelli tinti di fresco d’arancione, aveva più
l’aria di uno che pativa un eccesso d’attività della ghiandola pituita-
ria). «È il protegé di Pent, naturalmente. Ho sentito che la Quinta si

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GIDEON LA NONA  /  177

prodiga in maniera speciale per la Quarta… un prodigarsi egemoni-


co, alcuni commenterebbero. Dev’essere difficile, visto che sono en-
trambi così giovani. Ma sembrano andare tutti molto d’accordo…»
«Come fate a saperlo?»
«Reverenda Figlia» rispose il sacerdote, sorridendo, «vi perdete pa-
recchie cose importanti, trascorrendo tutto il vostro tempo in manie-
ra così proficua giù nell’oscurità. Gideon la Nona, invece, lei potreb-
be raccontarvi molto se solo non fosse legata al suo ammirevole voto
del silenzio. Una tale penitenza mi fa sfigurare.»
Al che, Maestro rivolse a Gideon una maliziosa strizzatina d’oc-
chio, che roba tremenda.
Trambusto sulla porta. La Terza e la Sesta Casa erano arrivate in
contemporanea e quella falena scialba di Palamedes non poteva che
far apparire Coronabeth Tridentarius ancora più aurea e sfavillante,
una vera farfalla dorata. Si squadrarono come combattenti. Maestro
disse: «E ora, l’evento clou!».
Saltò fuori che, per la Quinta, il tableau dei posti rappresentava l’a-
pice dello spasso più sfrenato. Questa presa di coscienza provocò una
distinta virata verso il tragico della maschera accuratamente control-
lata di Harrow. Furono separate e Gideon si ritrovò gomito a gomi-
to con Palamedes e la ripugnante paladina adolescente della Quar-
ta, che pareva rimpiangere tutto quello che aveva mai contribuito a
condurla a quel momento. Dulcinea, di fronte, mandò due baci con
la mano a Gideon prima ancora che Gideon fosse riuscita a sedersi.
Per lo meno, Harrow non se la stava passando meglio. L’avevano piaz-
zata dall’altra parte della tavolata, in diagonale rispetto allo zio-maio-
nese, che pareva ancor più disgustato di Jeannemary la Quarta. Davan-
ti c’era Ianthe e, sull’altra diagonale, per completare una delle peggiori
disposizioni della storia, Protesilaus; alla sinistra di Harrow era stato
piazzato Naberius Tern, che stava portando avanti un lungo dialogo
con Ianthe avvalendosi esclusivamente dei movimenti delle soprac-
ciglia. Mentre Harrow ribolliva d’odio, Gideon cominciò a divertirsi.
Magnus prese il cucchiaio e fece tintinnare un bicchiere d’acqua.
La conversazione generale, già stentata in partenza, si bloccò con
uno spasmo.
«Prima di cominciare» disse, «un breve discorso.»
I tre sacerdoti si scambiarono un’occhiata, come se in vita loro non

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avessero mai desiderato altro che sentire un breve discorso. Uno dei
due adolescenti, stravaccato fuori dal campo visivo di Magnus, mimò
un cappio e ci infilò la testa.
«Ho pensato di, ehm» cominciò, «dire due parole per riunirci tut-
ti. Questa dev’essere la prima volta in parecchio tempo che le Case si
ritrovano insieme in questo modo. Siamo rinati insieme ma restia-
mo così distanti. Ho dunque pensato di evidenziare le nostre simila-
rità, invece delle nostre differenze.
«Che cos’hanno in comune Marta la Seconda, Naberius il Terzo,
Jeannemary la Quarta, Magnus il Quinto, Camilla la Sesta, Protesi-
laus il Settimo, Colum l’Ottavo e Gideon la Nona?»
Magnus sembrava soddisfattissimo di se stesso.
«Un articolo» disse.
Coronabeth scoppiò a ridere così forte che le toccò seppellire il
suo magnifico naso strombazzante in un fazzoletto. Qualcuno stava
spiegando la battuta al sacerdote brizzolato che, quando finalmente
afferrò, esclamò: «Oh, il e la!» il che scatenò nuovamente le risate di
Corona. Le Seconde, inumate in alte uniformi così inamidate che si
sarebbero potute piegare come fogli di carta, sfoggiarono i sorriset-
ti tipici di due persone che si erano già dovute sorbire in precedenza
parecchie cene formali alla Coorte.
L’apparizione di due scheletri oppressi da due enormi zuppiere di
cibo dissipò le ultime tensioni. Seguendo le istruzioni di Abigail, riem-
pirono le fondine di tutti con una minestra di cereali bianchi e spu-
mosi, bolliti in un brodo di cipolle con sopra una spolverata di fram-
mentini di noci tritate e minuscoli frutti rossi croccanti. L’odore era
ottimo. Era tutto caldo, piccante e buono, e già caldo aveva risposto
alle aspettative minime di Gideon riguardo ai pasti. Mangiò a testa
bassa, isolandosi, finché uno degli scheletri vestiti di bianco si avvi-
cinò per darle una seconda porzione.
A quel punto fu in grado di sintonizzarsi sulle conversazioni attor-
no a lei, che erano sopravvissute al primo traballante incontro con
il nemico ed erano ormai in pieno svolgimento: «… la parte sugosa
è fatta con la sarcotesta. Buona, vero? C’è un melo rosso che cresce
nella serra. Avete visto le serre…?».
«… in ottemperanza all’usanza Ottaviana, che vuole che il necro-
mante digiuni fino al tramonto, il che include anche…»

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«… che non è servito ad aggiustare l’acceleratore, cosa che le ha


impedito di tornare al sistema in tempo, e io ho passato i primi nove
mesi sommerso dalla polvere di casa…»
«… domanda interessante» stava dicendo Palamedes, alla destra di
Gideon. «Potremmo dire che Mastro si riferisce all’erudizione, mentre
Guardiano si riferisce al compito, ed è per quello che il rango di Ma-
stro Guardiano è più elevato. Va inteso con l’accezione di supervisore
e, se vogliamo vederla nell’altro modo, ci dà anche un’idea di prigio-
ne. Sapete come si chiamano i meccanismi interni di un lucchetto…?»
Lì di fronte, Dulcinea bisbigliò ad Abigail: «È un vero peccato».
«Grazie. L’abbiamo digerita; non era il nostro destino, tutto lì» dis-
se la necromante, un po’ sostenuta. «Mio fratello minore è il prossi-
mo in linea di successione. Se la caverà bene. Avrò più tempo per as-
semblare il manoscritto, con quel manoscritto sono sposata da più
tempo che con Magnus.»
«Tenete a mente che io sono il genere di caso umano che va sfode-
rato alle feste per far sentire meglio gli altri» disse sorridendo Dul-
cinea, ignorando le educate proteste della Quinta, che sosteneva il
contrario «comunque, mi farebbe piacere se mi spiegaste il vostro la-
voro, ma dovrete far finta che io abbia cinque anni e cominciare da lì.»
«Se non riesco a spiegarlo con chiarezza, allora la colpa è mia, non
vostra. Non è così complesso. Pochissimo è sopravvissuto del perio-
do post-Resurrezione, pre-sovranità e pre-Coorte, se escludiamo le
cronache di seconda mano. Abbiamo trascrizioni della Sesta, anche
se continuano a tenersi gli originali.»
«Sono custoditi in una teca piena di elio in modo che sopravviva-
no alla morte termica di Dominicus, Lady Pent» disse Palamedes.
«I vostri Mastri non mi hanno nemmeno dato il permesso di guar-
darli dal vetro.»
«La luce è letale per la carta» disse lui. «Desolato. Niente di per-
sonale. Accumulare documenti Littori non rientra nei nostri interes-
si più pressanti.»
«Le copie sono buone, per lo meno – e passo il mio tempo a stu-
diare quelle. Redigendo il commentario, ovviamente. Ma essere qui,
per me, è quasi più importante rispetto alla prospettiva di servire
l’Imperatore. La Casa di Canaan è il santo Graal! Quello che sap-
piamo a proposito dei Littori è tremendamente antisettico. Ho ad-

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dirittura trovato quelle che ritengo siano delle comunicazioni de-


criptate tra…»
Nonostante Dulcinea Septimus si stesse impegnando nel suo batti-
to di ciglia da “Quello che stai facendo e dicendo è affascinantissimo
per la sottoscritta, Dulcinea Septimus”, Gideon sapeva riconoscere
una conversazione noiosa quando ne sentiva una. Sorbì cauta qual-
che sorso di vino violetto, leggermente gommoso, e cercò di non tos-
sire mentre tornava a concentrarsi sulla sua personalissima e ombro-
sa marchesa delle ossa: Harrow piluccava il cibo, schiacciata a panino
tra i rocciosi paladini della Settima e della Seconda. Di tanto in tanto
si rivolgeva seccamente a Protesilaus, che ci pensava su per una ses-
santina di secondi prima di fornirle risposte talmente piatte e laco-
niche da far brillare Harrow, in confronto.
Lo zio-maionese stava parlando con la gemella anemica, la sua pro-
babile futura moglie. «Sono stata estratta… chirurgicamente» Ianthe
stava raccontando con calma, le lunghe dita che giocherellavano con
il gambo del calice. «Mia sorella è più vecchia di me di alcuni minuti.»
Il giovane zio vestito di bianco non stava mangiando. Aveva manda-
to giù qualche sorso contegnoso di vino, ma passava la maggior par-
te del tempo a guardarsi attorno, con le mani appoggiate l’una sull’al-
tra. Aveva la postura di un righello. «I vostri genitori» disse con il suo
tono sorprendentemente sonoro e profondo «hanno corso il rischio
di un intervento?»
«Sì. Vedete, Corona aveva bloccato la mia fonte di ossigeno.»
«Un’opportunità sprecata, mi verrebbe da pensare.»
«Non vivo in una realtà parallela. La nascita di Corona aveva posi-
zionato il mio potenziale di sopravvivenza attorno allo zero spaccato.»
«Non l’ha fatto apposta, bada bene» biascicò il suo paladino dall’al-
tro lato del tavolo. Aveva dei capelli talmente perfetti che Gideon non
riusciva a smettere di guardarli, ipnotizzata, nella speranza che una
qualche porzione del soffitto si sgretolasse e glieli spiaccicasse.
Ianthe si finse scioccata. «Cielo, Babs, anche tu fai parte di questa
conversazione?»
«Era solo per dire, Principessa, che non devi essere sempre così
severa con lei…»
«E tu non dovresti contraddirmi in pubblico, eppure… eppure…»
Naberius lanciò un’occhiata assolutamente palese verso l’altra estre-

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mità del tavolo, ma Coronabeth era impegnata con Magnus: in tutta


probabilità si stavano scambiando nuove battute, pensò Gideon. Le
disse: «Smettila di fare la frignona».
«Ripeto, Babs, fai parte di questa conversazione?»
«No, grazie a Dio» disse mestamente lo scalognato Babs e tor-
nò a occuparsi del suo precedente interlocutore: il nerboruto nipote
paladino, che si stava stolidamente riempiendo di nuovo la ciotola.
Non sembrava elettrizzato dalla prospettiva di aver ripreso posses-
so dell’attenzione assoluta della Terza. Accanto allo smagliante Na-
berius Tern, pareva più cencioso e logoro che mai. «Allora, Ottavo…
vedi, ecco perché ti sbagli a proposito del brocchiero…»
A Gideon sarebbe piaciuto sapere che cosa c’era che non andava
col brocchiero, ma, quando si allungò per riprendere il bicchiere, si
sentì tirare la manica. Era l’adolescente sgradevole che sedeva vicino
a lei, sull’altro lato. La fissava con un’espressione particolarmente fe-
roce, enfatizzata da una quantità quasi nonesca di trucco nero. Jean-
nemary la Quarta storse la bocca come se si aspettasse un’iniezione,
tutte le angolosità della sua faccia rese ancor più angolose dalla fero-
cia, i suoi triliardi di orecchini che trillavano.
«Sto per farti una domanda strana» esordì Jeannemary.
Gideon abbassò il braccio e girò il capo, perplessa. La ragazzina
sbiancò leggermente e a Gideon quasi dispiacque per lei: i cappuc-
ci, le pitture e le tonache del clero che la circondavano, a quella età,
avevano fatto andare di traverso la cena anche a lei. Ma la teenager
ficcò il suo orrendo coraggio là dove andava ficcato, espirò forte tra i
denti ed esclamò, a tono bassissimo: «Nona… ma quanto sono gran-
di i tuoi bicipiti?».
Gideon fu costretta a supinare e flettere il braccio, risponden-
do al capriccio di una ragazzina adolescente e solo molto tempo
dopo (o così le parve), le loro ciotole furono sostituite e le nuo-
ve riempite con una combinazione di creme, frutta e, prevalente-
mente, zucchero; la Quinta si era data da fare, era evidente. Gi-
deon ne mangiò tre porzioni e Magnus, senza prendersi la briga di
nascondere il suo divertimento, ne spinse una quarta verso di lei.
Magnus, senza ombra di dubbio, cucinava meglio di come duella-
va. Prima di arrivare alla Casa di Canaan, Gideon aveva considera-
to il saziarsi un mesto procedimento a base di pappette, cucchiaio

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e bocca. Andava portato a termine allo scopo di massimizzare le


possibilità, in un secondo momento, di non farsi prendere a calci
in culo da Aiglamene in una qualche stanza male illuminata. Era
una delle prime volte in cui si era sentita piena, satolla e, in tutta
sincerità, contenta di esserlo.
Dopo arrivò un vassoio del solito tè caldo ed erboso per sciacqua-
re la bocca e le varie Case si alzarono in piedi, con le tazze roventi in
mano a osservare gli scheletri che sparecchiavano.
Gideon si guardò attorno in cerca di Harrow. Con tutta la gente che
c’era, la sua necromante si era accomodata in un angolo con Maestro:
gli stava parlando a bassa voce e lui, a intermittenza, annuiva o scuo-
teva la testa, con un’aria per una volta più pensosa che buontempona
e i pollici infilati nella sua meravigliosa fascia arcobaleno.
Qualcuno toccò la mano di Gideon, molto adagio, come per pau-
ra di spaventarla. Era Dulcinea, che si era rifugiata in una poltronci-
na; stava muovendo i fianchi in maniera un po’ goffa sul duro sedile
di legno, erano gli scattini inquieti a cui Gideon sospettava ricorres-
se quando era dolorante. Sembrava stanca e più vecchia del solito,
ma la sua bocca rosea era ancora molto rosea, e gli occhi accesi da
un divertimento illecito.
«I tuoi bicipiti sono enormi» le disse, «o immensi? Nona, fai una
crocetta sulla casella corretta, per favore.»
Gideon si sincerò che la sua necromante non potesse vederla e poi
fece un gestaccio. Dulcinea rise con la sua risata argentina, ma che in
qualche modo a Gideon parve sonnolenta, sommessa. Indicò sere-
namente un cantuccio libero accanto a lei e Gideon, diligente, si ab-
bassò, piegandosi sulle ginocchia. Dulcinea respirava in maniera leg-
germente più affannosa. Portava un abito evanescente, color spuma
marina e Gideon riusciva a vedere le costole che si spandevano, sot-
to, come quelle di un animale sconvolto. I suoi riccioli setosi, color
nocciola, acconciati con cura, le ricadevano sparsi sulle spalle.
«Mi è piaciuta questa cena» disse Lady Septimus, con profondo
appagamento. «È stata utile. Guarda i bambini.»
E Gideon guardò. Isaac e Jeannemary erano in piedi vicino al tavo-
lo, Jeannemary si era tirata su le maniche, scoprendo i bicipiti. Era-
no i muscoli di una quattordicenne atletica e determinata, vale a dire
non ancora scolpiti ma ricchi di potenzialità; il suo degno compare,

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l’adolescente coi capelli flosci, li stava misurando a spanne, esaspe-


rato, mentre conversavano bisbigliando:
(«Te l’ho detto.»
«I tuoi vanno benissimo.»
«Isaac.»
«Cioè, non è mica una gara di bicipiti, no?»
«Non ho mai sentito una cretinata del genere»).
I sibili proseguirono. Abigail, immersa poco lontano in una conversa-
zione con una della Seconda, allungò una mano per dare una pacchetta
di rimprovero a Isaac sulla spalla senza neanche girarsi o smettere di
parlare. L’adepto della Quarta fece una smorfia: la sua paladina aveva
un’espressione dura e risentita stampata in faccia, da te-l’avevo-detto.
Dulcinea mormorò: «Oh, Gideon la Nona, le Case sono così mal
disposte… piene di sospetti dopo un’intera miriade di anni pacifici.
Per che cosa competono? Per il favore dell’Imperatore? In che cosa
dovrebbe consistere? Che cosa mai potrebbero desiderare? Come se
non avessero già banchettato sui nostri bottini della Coorte… il più
delle volte. Ultimamente ci sto riflettendo molto e l’unica conclusio-
ne a cui sono arrivata è…».
Si interruppe. Riempirono la pausa significativa che ne seguì con
il loro silenzio e rimasero ad ascoltare, attorno a loro, le chiacchie-
re del dopocena più o meno civili e lo scalpiccio degli scheletri cari-
chi di coltelli e forchette sporchi. In mezzo a quel rumore di fondo
spuntò Palamedes che, stranezza fra le stranezze, reggeva un vassoio
con una tazza di tè colma che offrì alla debole signora della Settima,
la quale lo squadrò con schietto interesse.
«Vi ringrazio infinitamente, Mastro Guardiano» gli disse.
Se lei lo osservava con interesse, lui la guardava con… be’. Rimase
a fissare quel vestito sottile e impalpabile, le articolazioni gonfie delle
dita, i riccioli e la linea della mascella finché Gideon non si sentì ma-
ledettamente in imbarazzo a trovarsi anche solo vicino a un’espres-
sione del genere. Era una curiosità molto intensa e focalizzata – non
c’era nemmeno un briciolo di malizia, non proprio, ma era uno sguar-
do che staccava la pelle e trapassava la carne. I suoi occhi somigliava-
no a una lastra lucida di pietra grigia; Gideon non sapeva se sarebbe
riuscita a conservare la completa compostezza di Dulcinea nel caso
fosse stata sottoposta a uno scrutinio del genere.

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Palamedes disse con un filo di voce: «Sempre al vostro servizio,


Lady Septimus».
Poi le rivolse un piccolo inchino preciso, da cameriere, si sistemò
gli occhiali da vista e girò bruscamente i tacchi. “Però!” pensò Gideon,
guardandolo mentre scivolava di nuovo tra la folla. Che diavolo! Poi
si ricordò che la Sesta provava una fascinazione un po’ inquietante
per la scienza medica e, probabilmente, considerava le malattie cro-
niche attraenti quanto un paio di pantaloncini corti e attillati, e poi
pensò di nuovo: “Però, che diavolo!”.
Dulcinea sorseggiava placida il suo tè. Gideon la fissava, aspettan-
do quella chiusura del discorso che non era mai arrivata. Alla fine,
la Settima distolse lo sguardo dal piccolo assembramento degli ere-
di della Case e dei loro primi paladini e disse: «La mia conclusione?
Credo che… oh, ecco la tua necromante!».
Harrow si era staccata da Maestro e si stava avvicinando a Gideon
come un pezzo di ferro a un magnete. Rivolse a Dulcinea la più sbri-
gativa delle occhiate; Dulcinea, dal canto suo, le sorrise con l’intento
di trasmetterle un’infinita dolcezza che però Gideon interpretò come
un’espressione di pura astuzia animale; per Gideon invece neanche
una parola, solo un cenno del mento appuntito, da sotto in su. Gi-
deon si alzò di scatto e cercò di ignorare le sopracciglia della Setti-
ma che si inarcavano nella loro direzione, cosa che, per fortuna, la
sua necromante non notò. Harrowhark era troppo impegnata ad ab-
bandonare la sala come una furia, con l’abito che si gonfiava alle sue
spalle in una maniera che Gideon sospettava fosse il risultato di un
certo allenamento. Sentì Magnus il Quinto esclamare timidamente:
«Sono felice che siate venute, None!». Ma Harrow non perse tempo
a salutare, il che urtò un po’ i sentimenti di Gideon, visto che Ma-
gnus era così gentile.
«Rallenta, testa di legno» sibilò, quando pensò di essere ormai fuo-
ri dalla portata delle orecchie altrui. «Cos’è, c’è un incendio?»
«No, non ancora almeno» Harrow le parve senza fiato.
«Ho mangiato l’equivalente del mio peso. Non farmi sboccare.»
«Come ti ho già fatto notare in precedenza, sei una vacca. Spiccia-
ti. Non abbiamo molto tempo.»
«Che cosa?» Ci fu un momento di tregua mentre Harrow spalanca-
va una delle porticine delle rampe di sicurezza laterali. Il sole era tra-

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montato e le luci dei generatori diffondevano un bagliore verdolino,


triste e sconfortante: gli scheletri, impegnati con la cena, non aveva-
no evidentemente acceso le candele. «Che cosa intendi?»
«Quel che intendo è che dobbiamo recuperare il tempo perso.»
«Hey, ripeto, in base a cosa?»
Harrow tenne aperta la porta con una mano ossuta. L’espressione
del suo viso era risoluta. «Abigail Pent ha chiesto a quel bacchetto-
ne miscredente dell’Ottava se sapeva qualcosa di un accesso ai livelli
inferiori, ecco in base a cosa» disse. «E lui le ha detto di sì. Pent non
è stupida, abbiamo per le mani un’altra rivale conclamata. Per l’amor
del cielo, spicciati, Griddle, abbiamo al massimo cinque ore prima di
ritrovarcela in laboratorio.»

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Gideon Nav teneva la spada parallela al corpo, il
vetro nero oleoso del guantone lamato vicino al petto, e si morsicò la
lingua fino a farla sanguinare. Come tendevano a fare la maggior par-
te delle lingue morsicate, le faceva un male bastardo. Dagli altopar-
lanti, Harrow inspirò. Di fronte a lei, ancora zuppo del tanfo bollen-
te delle ossa polverizzate, il costrutto aprì la bocca in un urlo muto.
Erano tornate a Reazione, e avevano già fallito una volta.
Non che l’incapacità necromantica di Harrow di farsi strada nel suo
cranio a colpi di scalpello dipendesse da una qualche forma di rilut-
tanza da parte di Gideon – il che sarebbe stato del tutto comprensi-
bile, cazzo – che di suo si stava impegnando al massimo. Il cibo l’a-
veva resa sonnolenta ed era ancora indolenzita dalla mattina, il che
costringeva Harrowhark ad aprirsi un varco in mezzo a molta più
roba. Gideon fu costretta, per la prima volta in vita sua, a spezzare
una minuscola lancia a favore della sua necromante: Harrow non le
urlò dietro ma, semplicemente, sprofondò sempre di più in un pan-
tano di frustrazione e odio per se stessa – e la rabbia biliosa che si in-
fliggeva non faceva che montare.
Il costrutto caricò come un ariete pneumatico, Gideon si levò di
mezzo con un balzo e, alla faccia dei suoi dolori, lasciò in terra la
metà della pelle di un ginocchio. Aveva ancora la bocca piena di san-
gue quando fece per gridare: «Har…».
«Quasi» gracchiò l’altoparlante.
«… row, lascia solo che gli molli una tranvata…»
«Non ancora. Quasi. Il morso alla lingua è servito. Bene. Tienilo
a bada ancora un secondo, Nav! Ce la faresti anche a occhi chiusi!»

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Non con uno stocco. Avrebbe anche potuto buttare in terra sia il
guantone che la spada e farsi una corsetta, per quanto si stavano ri-
velando utili le sue armi. Gideon non era equipaggiata per la difesa e
le faceva male la testa. Il suo campo visivo era una foschia intermit-
tente di emicranie, puntini e scintille brillanti che andavano e veni-
vano. Un colpo titanico del costrutto piegò la sua guardia all’indietro,
fin sopra la testa e, a ben pensarci, si ritrovò a muoversi con il colpo
invece che contro.
«Tre secondi. Due.» Sembrava quasi un’implorazione.
Gideon si sentiva sempre più nauseata: sentiva qualcosa di unto
e caldo in fondo alla gola e la lingua le navigava nella saliva. Quan-
do guardò il costrutto, a quel punto fu come vederlo da dietro uno
strato di garza, come se ci vedesse doppio. Sentì un dolore affilato
in mezzo agli occhi mentre l’essere recuperava il suo centro di gra-
vità, e scattava…
«Lo vedo.»
Più tardi, Gideon avrebbe ripensato al tono di Harrow. C’era ben
poco trionfo: si trattava più che altro di ammirazione. Le si sfocò la
vista per poi risintonizzarsi all’improvviso sui dieci decimi, a colori.
Era tutto più brillante, definito e nitido, le luci più intense, le ombre
più fredde. Quando guardò il costrutto lo vide ardere come metal-
lo incandescente – auree pallide e quasi trasparenti gli avvolgeva-
no il corpo malformato. Crepitavano in diverse sfumature, visibili se
ti concentravi su una parte o sull’altra e, nell’ammirarle, Gideon per
poco non si fece spaccare una gamba.
«Nav» ulularono gli altoparlanti.
Gideon schivò in tuffo un affondo basso e poi rotolò via mentre il
costrutto la inseguiva, pestando con foga il punto in cui il suo piede
era stato. Urlò di rimando: «Dimmi cosa devo fare!».
«Colpisci, in quest’ordine! Radio laterale sinistro!»
Gideon si concentrò sul legamento sporgente e ispessito nella parte
alta del braccio sinistro e fu sorpresa di trovarci uno di quei bagliori,
simili a miraggi: vibrò un colpo e per poco non si sbilanciò. La lama
era penetrata come un coltello caldo nel grasso. La lunga lancia del
braccio mutante rimbalzò misera sul pavimento.
«Tibia, in basso a destra. Quadrante inferiore, vicino all’incavo»
disse Harrow.

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Ora sì che riusciva a malapena a tenere a bada l’orgoglio. «Non col-


pirlo da nessun’altra parte.»
Più facile a dirsi che a farsi. Gideon fu costretta a giocare ad ac-
chiapparella, districandosi tra le lame residue del costrutto, prima di
lasciar perdere lo stocco e assestargli una stivalata. Non fu compli-
cato: anche quel punto, proprio come il radio, brillava come un faro.
Lo colpì in pieno e la gamba del costrutto si frantumò – la creatura
barcollò di lato, cercando di compensare, ma la gamba non comin-
ciò a rigenerarsi.
Il successivo fu facile. Lato della mandibola. Diciottesima costola.
Smembrò il costrutto, neutralizzandone i meccanismi invisibili del-
la movimentazione che, da mostro qual era stato, lo trasformarono
in un patetico puttanaio di mandibole balbettanti. Sembrava il pri-
mo esperimento di magia ossea di un ragazzino che non aveva nean-
che buttato un occhio all’atlante di anatomia. Quando, finalmente,
la Reverenda Figlia disse: «Sterno» Gideon era già là – una fettina di
sterno splendeva come la fiamma di una candela, Gideon caricò il
pugno guantato e lo colpì, polverizzandolo. Il costrutto collassò. Gi-
deon per un attimo fu presa dalle vertigini ma poi si riprese. Il mon-
do tornò a ravvivarsi, nitido.
Tutto quello che rimaneva del mostro era un grosso pezzo della
pelvi, che si stava lentamente atomizzando, riducendosi a sabbia. Ci
fu un piacevole bip e la porta di Reazione si aprì con un sibilo – e re-
stò aperta, lasciando entrare una Harrow così fradicia di sudore che
il cappuccio le si era appiccicato alla fronte. Gideon era distratta dal
bacino: si stava dissolvendo in sabbia, rivelando una lucente scatola
nera. Lo schermo color piombo scandì 15 per cento; 26 per cento; 80
per cento, finché il coperchio si aprì con un clic sommesso, rivelan-
do una ben poco interessante… chiave.
Harrow si lasciò scappare un gridolino e si tuffò, ma Gideon fu più
rapida. La prese, aprì il portachiavi che ora teneva nella camicia e fece
passare l’anello nel buco elaborato, a forma di quadrifoglio, nell’im-
pugnatura. Ora c’erano due chiavi che ci penzolavano trionfalmente:
la chiave del portello superiore e il loro nuovo trofeo. Rimasero en-
trambe ad ammirarle per un lungo istante. La nuova chiave era toz-
za e robusta, tinta di uno scarlatto succoso e ricco.
Gideon si ritrovò a dire: «Ho visto… delle luci, mentre combatte-

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vo. Sovrapposte. Dei punti luminosi, dove mi hai detto di colpire, un


alone splendente. È a quello che ti riferivi, con firma thanergica?».
Si aspettava uno sprezzante “Mai al mondo potrai comprendere
gli oscuri misteri che solo il mio occhio adorno di mascara può scor-
gere” e non era preparata al sincero stupore di Harrow. Sotto ai co-
spicui rivoli di sangue e alla pittura sbavata, aveva un’aria completa-
mente spiazzata. «Vuoi dire» scandì lentamente la sua adepta «che
nella struttura dello scheletro c’erano delle cose… delle luci mecca-
niche, magari? Segmenti colorati?»
«No, c’erano solo delle… macchie di luce ondeggianti. Non riusci-
vo a vederle molto bene» disse lei. «Le ho viste solo alla fine, quan-
do c’eri tu che aggeggiavi.»
«Questo non è possibile.»
«Non sto mentendo.»
«No, dico solo che… non dovrebbe essere possibile» fece Harrow.
Le sue sopracciglia scure erano aggrottate così profondamente che
parevano in rotta di collisione. «Credevo di sapere in che cosa consi-
stesse l’esperimento, ma… be’. Non posso avanzare ipotesi.»
Gideon, riponendo le chiavi al sicuro nella fascia e strizzando gli
occhi per il gelo, si preparò a ribattere; ma, quando risollevò lo sguar-
do, si accorse che Harrowhark stava guardando lei, dritto negli oc-
chi. Mento immobile. Harrow ti fissava sempre con quell’aggressivi-
tà. Aveva il viso umido per lo sforzo e nel bianco di ciascun occhio,
agli angoli, c’erano supernove rosse di capillari rotti, ma gli iridi nero
pece erano puntati sulla sua paladina. L’espressione sul suo viso le era
completamente aliena. Harrowhark Nonagesimus la stava osservan-
do con genuina ammirazione.
«Per la grazia dell’Imperatore, Griddle» le disse, burbera, «sei un
fenomeno con quella spada.»
Per qualche motivo, il sangue abbandonò completamente le guance
di Gideon. La rotazione planetaria si disassò. Scintille lucenti esplo-
sero nel suo campo visivo. Si ritrovò a rispondere, con grande intel-
ligenza: «Mmf».
«Mi sono trovata nella posizione privilegiata di sentirti combat-
tere» proseguì Harrow, torcendosi le dita, nervosa. «E ci ho messo
un bel pezzo a capire che cosa stavi facendo. E ancora di più per ap-
prezzarlo. Ma non credo di averti mai davvero osservata, non in un

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vero contesto… Ecco, tutto quello che posso fare è ringraziare il Se-
polcro perché nessuno sa che non sei davvero una dei nostri. Se fossi
io a non saperlo, penserei che sei una specie di Matthias Nonius re-
divivo o qualcosa di altrettanto zuccheroso.»
«Harrow» disse Gideon, ritrovando la parola «non puoi dirmi del-
le cose del genere. Ho ancora un milione di motivi per avercela con
te. Ma è difficile occuparmi di quello e di una tua eventuale lesione
al cervello.»
«Sto solo dicendo che sei una spadaccina incredibile» replicò la ne-
cromante, brusca. «Resti comunque un essere umano riprovevole.»
«Okay, perfetto, grazie» disse Gideon. «Ma il danno ormai è fat-
to. E ora?»
Harrowhark sorrise. Anche il suo sorriso era insolito: c’era una
cospirazione sottesa, il che era normale, solo che questa volta Gi-
deon era invitata a farne parte. Gli occhi le brillavano come tizzo-
ni, pieni di pura complicità. Gideon non era certa di poter gestire
tutte le nuove espressioni che Harrow le aveva mostrato: aveva bi-
sogno di coricarsi.
«Abbiamo una chiave, Griddle» le disse, esultante. «Ora pensia-
mo alla porta.»

* * *

Gideon non pensò a niente in particolare quando lasciarono 1-2.


TRASFERENZA/SPULATURA. BANCA DATI, a parte che era feli-
ce; carica di adrenalina e di aspettative. Aveva mangiato bene. Aveva
vinto. Il mondo le sembrava meno ostile e maligno. Lei e Harrow se
ne andarono condividendo un silenzio amichevole, camminando en-
trambe con una certa spavalderia, anche se di nuovo consapevoli del
freddo e del buio. Si affrettarono lungo i corridoi, con Harrowhark
in testa e Gideon dietro, a mezzo passo di distanza.
Non c’era nessuno, a parte loro, che potesse far scattare i senso-
ri di movimento, e le lampade si rianimarono con un ritmico whum-
pk… whumpk… whumpk illuminando il percorso verso la sala centra-
le con i suoi cunicoli bronchiali e poi giù per il breve passaggio verso
la scaletta che conduceva al portello d’accesso. All’inizio della sala,
Harrowhark si bloccò in modo talmente brusco che Gideon andò a

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sbatterle contro, in un groviglio di vesti e spada. Si era immobilizza-


ta, e non contrastò il capitombolo della sua paladina.
Lì per lì, seguendo la traiettoria dello sguardo di Harrow fino ai pie-
di della scaletta, Gideon non riuscì a credere ai propri occhi. Il suo
cervello, in un attimo, fornì tutte le informazioni che le sue budella
si rifiutavano di concepire, e poi fu lei a rimanere impietrita, gelata,
mentre Harrow si precipitava a inginocchiarsi accanto al mucchio di
panni bagnati al termine della scala.
Non erano panni fradici. Erano due persone, così orrendamente an-
nodate nei reciproci arti spezzati che sembrava fossero morte strin-
gendosi in un abbraccio. Non era andata così, ovvio: era solo il modo
in cui i loro arti ribaltati si erano disposti in una morte disordinata.
Della bile bollente le risalì in bocca, appiccicandole la lingua. Di-
stolse lo sguardo dal sangue e dalle ossa scoperte e lo concentrò, va-
cuo, sul fodero vuoto e molliccio che giaceva accanto a un’anca bagna-
ta e demolita: lì vicino c’era la spada, incastrata di punta nella griglia
del pavimento. L’illuminazione verde che arrivava dal basso conferi-
va all’acciaio avorio un bagliore appiccicoso color lime. Prima di al-
zarsi in piedi, la necromante di Gideon, senza scomporsi, scostò di
lato il cadavere che c’era in cima, scoprendo quel che restava di en-
trambi i volti.
L’aveva capito ancora prima che Harrow lo facesse rotolare di lato.
Davanti a loro giaceva la mesta carcassa contorta di Magnus Quinn,
annodata alla mesta carcassa contorta di Abigail Pent.

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ATTO
ACTTERZO
ONE

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Alle prime luci del MATTINO, dopo ore e ore di ten-
tativi, persino Palamedes fu costretto ad ammettere la sconfitta. Non
lo espresse a parole ma, alla fine, la sua mano cessò di muovere il pen-
narellone che aveva usato per disegnare venti diversi diagrammi so-
vrapposti attorno ai corpi della Quinta, e non cercò più di richiamarli.
Sei necromanti avevano provato a rievocarli, singolarmente o insie-
me, simultaneamente o a turni. Gideon si era accovacciata in un ango-
lo ed era rimasta a guardare la processione. All’inizio, un gruppetto si
era aperto le vene nella speranza di indurre in tentazione i fantasmi alle
prese coi primi morsi della fame. Quella fase si concluse solo quando
gli adolescenti, pazzi di rabbia per l’inadeguatezza del sangue di Isaac
– e solo del suo –, cominciarono a pugnalare il braccio di Jeannemary.
Si urlarono in faccia senza proferire verbo, stringendo le cinture so-
pra ai rispettivi gomiti per far spuntare meglio le vene, finché Camilla
strappò loro di mano i coltelli e cominciò a distribuire fasciature gom-
mate. A quel punto, si abbracciarono, si inginocchiarono e piansero.
Harrow non si svenò. Camminava lungo il perimetro come uno
spettro, misurando i passi in modo che Palamedes potesse usarli per
disegnare. Barcollava leggermente e Gideon sapeva bene che era sfi-
nita. Nemmeno Coronabeth versò il suo sangue: si limitò ad avvici-
narsi alle operazioni per scostare a Ianthe i capelli dalla faccia, o per
prendere un coltellino dalle borse della gemella per sostituire quello
che stava usando sua sorella. Erano arrivate entrambe direttamente
dal letto senza prendersi la briga di vestirsi e, di conseguenza, indos-
savano delle camicie da notte di un’inconsistenza strabiliante, l’unico
conforto di quella notte. L’aria era piena di gesso, inchiostro e sangue
e della luce potente delle torce elettriche che la Sesta aveva rimediato.

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La Sesta si era dimostrata dolorosamente utile. Palamedes, con una


veste da camera malandata, aveva sistemato le luci e segnato la scala
con pezzetti di nastro adesivo, in punti misteriosi. Aveva macchiato
di rosa le vecchie pantofole sciatte camminando in silenzio attorno ai
corpi e, quando si era avvicinato troppo al braccio di Abigail, le aveva
detto: «Vogliate scusarmi». Resse la lampada per Camilla, che dise-
gnò l’intera deprecabile scena su un grosso foglio di velina bianca, dal
lato, dall’alto e da in piedi. Palamedes si era appena sbarazzato della
veste da camera sbrindellata – rivelando un pigiama a tutina – quan-
do Dulcinea arrivò fluttuando con addosso solo una maglietta corta e
dei pantaloni troppo larghi per lei. Le avvolse la vestaglia attorno alle
spalle senza che nessuno gliel’avesse suggerito. Poi si rimise al lavoro.
I maghi e i loro guardiani gravitavano attorno ai cadaveri come in
un quadro. Libri vennero tirati fuori dalle tasche o dalle fodere dei
soprabiti – vennero letti e poi abbandonati. Qualcuno si avventura-
va, faceva il suo lavoro, se ne andava, veniva rimpiazzato, tornava, si
tratteneva ancora, se ne andava, man mano che apparivano ulteriori
abitanti della Casa di Canaan. Harrowhark aveva lavorato per quasi
due ore prima di svenire all’improvviso in una pozza di sangue in via
di congelamento, al che Gideon l’aveva rimossa dalla scena: quando si
era svegliata aveva fatto da spalla alla Sesta, con grande fastidio – mal-
celato – di Camilla, che sembrava considerare ogni incursione nello
spazio personale di Palamedes come un probabile tentativo d’assassi-
nio. Dal canto suo, Palamedes si rivolgeva a Harrow a bassa voce, un
po’ brusco, come se fosse una collega che conosceva da tutta la vita.
Le principesse della Terza si davano da fare come musiciste che non
potevano esimersi dal tornare sul palco per il bis: incantesimo, riti-
rata, ancora, ancora. Stavano in ginocchio fianco a fianco, tenendo-
si per mano e, per quanto Ianthe si fosse presa gioco dell’intelletto di
sua sorella, Corona non aveva fatto una piega. Era Ianthe quella fra-
dicia di sangue e sudore. A un certo punto, fece segno a Naberius di
avvicinarsi e, in un raptus che per poco non fece rimettere la cena a
Gideon (di nuovo), lo mangiò: gli strappò con un morso un ciuffo di
capelli, gli masticò un’unghia, gli affondò gli incisivi nel palmo della
mano. Lui si sottopose a tutto ciò senza un lamento. Poi Ianthe abbas-
sò il capo e tornò al lavoro, con le mani che le sfrigolavano di scintille
come il fuoco su una spada appena forgiata, sputando di tanto in tan-

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to un capello vagante. Per riprendersi, Gideon fu costretta a soffer-


marsi con una certa intensità su quelle camicine da notte striminzite.
Anche l’orrido Isaac si affaccendava, ma a Gideon non piaceva guar-
darlo. Singhiozzava con tutta quella faccia da adolescente triste, con
la bocca, gli occhi, il naso. Dulcinea si protese come se volesse parte-
cipare, ma Protesilaus la trattenne con una mano inesorabile quanto
carnosa. Il carosello di necromante dopo necromante continuò, fin-
ché non rimase che Palamedes; poi si afflosciò come se gli avessero
tagliato i fili, cercò a tastoni la bottiglia d’acqua che Camilla gli ave-
va allungato e bevve a grandi sorsate.
«Sto scendendo» annunciò una voce dalla cima della rampa.
Dalla scaletta arrivò il paladino scialbo e scontroso dell’Ottava Casa,
vestito di pelle e con la spada al fianco; aiutò suo zio, che era bianco,
argenteo e acceso dal disgusto, ad approdare giù. L’adepto dell’Otta-
va si arrotolò meticolosamente le maniche alabastrine e circumna-
vigò i cadaveri, riflettendo e leccandosi le dita come se dovesse gira-
re una pagina.
«Cercherò di trovarli» disse, in quel suo strano tono basso e dolente.
Harrow ribatté: «Non sprecate il vostro tempo, Octakiseron. Sono
andati».
L’Ottavo necromante inclinò il capo. I capelli che gli ricadevano
sulle spalle erano di quel bizzarro bianco cinereo che rimane quan-
do il fuoco si spegne; una fascia glieli teneva all’indietro, lontano dal
viso affilato e ascetico.
«Mi perdonerete» disse, «se non accetto consigli sugli spiriti da
una fattucchiera delle ossa.»
Harrow si chiuse a riccio. «Ve lo concedo» gli rispose.
«Bene. Ora non occorre conversare ulteriormente» disse l’Ottavo
necromante. «Fratello Colum.»
«Sono pronto, Fratello Silas» disse all’istante il nipote, pieno di ci-
catrici, e si avvicinò al parente più giovane, fin quasi a toccarlo.
Per un istante, Gideon pensò che si sarebbero messi a pregare da-
vanti ai corpi. O che volessero condividere un momento di emotivi-
tà. Erano vicini a sufficienza da potersi abbracciare. Ma non fecero
nulla del genere: il necromante posò la mano sulla spalla robusta di
Colum – ci si appese, tipo – e chiuse gli occhi.
Per un istante non parve accadere nulla. Poi Gideon vide Colum

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l’Ottavo sbiancare come se l’avessero spennellato con una tintura da


quattro soldi: qualcosa lo stava vampirizzando, come l’ombra nottur-
na vampirizza ogni sfumatura, orribile e ancora più palese nella luce
inclemente delle torce elettriche e dell’illuminazione del pavimento.
Mentre lui sbiadiva, il pallido Silas sfolgorava. Splendeva di un bagliore
radioso, di un bianco iridescente. L’aria cominciò a sapere di fulmine.
Qualcuno lì accanto disse piano: «Ma allora è vero», mentre qual-
cun altro chiedeva: «Ma cosa sta facendo?».
Fu Harrow a commentare, senza rancore ma anche senza gioia:
«Silas Octakiseron è un sifonatore d’anime».
A quel punto, Colum l’Ottavo sembrava in scala di grigi. Era an-
cora in piedi, ma il suo respiro si era fatto più debole. Per contrasto,
l’adepto dell’Ottava avava messo su uno spettacolo pirotecnico, ma
non stava succedendo molto altro. Il solco fra le sopracciglia spettra-
li del ragazzo si accentuò; giunse le mani e le sue labbra cominciaro-
no a muoversi, mute.
Gideon sentì uno strattone interiore, come una coperta che ti viene
strappata via quando stai già congelando. Somigliava un po’ alla sen-
sazione che aveva provato dentro a Reazione (quand’era stato, mille
anni prima?) – qualcosa dentro di lei che veniva pungolato, nel pun-
to più tenero. Ma non era proprio così, perché faceva un male cane.
Era come se le fosse venuto un mal di testa dentro ai denti. Le lampa-
de emisero un gurk asmatico e si affievolirono come se qualcosa stes-
se risucchiando le batterie e, quando Gideon, con la vista annebbia-
ta, si guardò le mani, erano di un grigio che andava intensificandosi.
C’era qualcosa di azzurrino che splendeva dentro al cadavere di
Abigail Pent e, in maniera repentina e orrenda, il corpo sussultò. I
margini del mondo si fecero più pesanti e neri e Gideon si sentì gela-
re fino al midollo. Qualcuno urlò e lei riconobbe la voce di Dulcinea.
Il corpo di Abigail fu scosso da un tremito. Silas aprì la bocca ed
emise un suono gutturale, come un uomo che aveva mangiato del fer-
ro rovente – una delle torce esplose – e, con la coda dell’occhio, Gi-
deon lo vide allungare le braccia. Gideon si fece strada a fatica fra la
folla dalle labbra grigie e guardando Dulcinea collassare come al ral-
lentatore, si protese verso la sagoma accartocciata con la grossa ve-
ste da camera. Gideon si buttò il braccio di Dulcinea sulla spalla e
raddrizzò il corpo inerte. Batteva i denti così forte che Gideon ebbe

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paura si potesse masticare l’interno delle guance. Protesilaus avanzò


e non si disturbò nemmeno a sguainare la spada: si limitò a mollare
un pugno in faccia a Silas.
Dulcinea strillò, fra le braccia di Gideon, un debole e acuto: «Pro!»
ma era troppo tardi. L’Ottavo necromante andò al tappeto come un
sacco di patate e si contorse sul pavimento. Ora Protesilaus sfoderò la
spada con un oleoso clic metallico: le luci crepitarono e poi ripresero
vita, brillanti. Il gelo si ritirò, come se qualcuno avesse chiuso fuori dal-
la porta l’ululare del vento. Strano ma vero, Colum l’Ottavo non reagì.
Si limitò ad aspettare, grigio, accanto a Protesilaus, come fosse fatto di
cemento. Protesilaus incombeva sullo zio abbattuto di Colum, la spa-
da pronta. Parevano entrambi due sculture sbozzate di esseri umani.
«Figlioli!» esclamò una voce dalla cima del portello. «Figlioli,
fermatevi!»
Era Maestro. Aveva sceso i primi pioli della scala, ma non dava l’im-
pressione di poter tollerare un altro gradino. Per la prima volta da quan-
do Gideon l’aveva incontrato, le sembrò reale, vecchio e fragile: il suo
atteggiamento sereno e quel buonumore francamente impenetrabile
erano stati rimpiazzati da un terrore sconfinato. Aveva gli occhi fuori
dalle orbite e si aggrappava alla cima della scaletta come se fosse una
zattera di salvataggio. «Non dovete!» disse. «Là dentro non si può svuo-
tare nessuno, a meno che non lo si voglia trasformare in un nido per
qualcos’altro! Portate di sopra Abigail e Magnus il Quinto, alla svelta!»
Palamedes disse: «Maestro, dovremmo lasciare i corpi dove si tro-
vano se vogliamo capire cosa è successo».
«Io non oso» esclamò lui di rimando. «E non oserei tornare là sot-
to per spostarli. Dovete portarli su. Usate delle lettighe – o la magia,
Reverenda Figlia, usate degli scheletri – usate qualsiasi cosa. Ma do-
vete tirarli fuori di lì immediatamente, e risalire insieme a loro.»
Forse erano ancora tutti prosciugati da quello che era appena ac-
caduto; forse dipendeva dal fatto che fossero le prime ore dell’alba
e che tutti erano molto stanchi. Si percepiva un’esitazione intorpidi-
ta, palpabile. Fu una sorpresa quando Camilla alzò la voce per dire:
«Maestro. C’è un’investigazione in corso. Siamo al sicuro qua sotto».
«Vi sbagliate di grosso» disse Maestro. «I poveri Abigail e Magnus
sono già morti. Non posso garantire la sicurezza di chi tra voi deci-
derà di rimanere laggiù per un altro minuto.»

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ACT ONE

18
«Portateli su» fu più facile a dirsi che a farsi. Ci
misero quasi un’ora a rimuovere i cadaveri, a stoccarli in tutta sicu-
rezza – c’era una cella frigorifera, e Palamedes acconsentì con rilut-
tanza a tumularli lì – e a far salire le Case, riunendole in sala da pran-
zo. Gli scheletri di Harrowhark erano in grado di salire una scaletta,
trasportando addirittura dei corpi insaccati, ma Colum l’Ottavo non
rispondeva né alle implorazioni, né alle minacce e nemmeno agli sti-
moli fisici. Era leggermente meno grigio di prima, ma dovette essere
sollevato di peso da Corona e Gideon. Alla vista di Colum, Maestro
gridò, inorridito. Portare lui là sopra era stata la cosa più difficile. Ora
stazionava all’estremità del tavolo con una scodella di erbe non me-
glio identificate che gli ribollivano sotto al mento, e il fumo che gli si
arricciolava attorno al viso e alle ciglia. In quel momento, chiunque
non fosse coricato sul pavimento della sala da pranzo, esposto nella
cella frigorifera o impegnato a inalare erbe, si era messo a sedere me-
stamente con una tazza di tè in mano. C’era una strana somiglianza
col loro primo giorno alla Casa di Canaan, in termini di diffidenza e
noia, solo che il bollettino delle vittime era più alto.
Le uniche che sembravano anche solo vagamente sane di mente
erano quelle della Seconda Casa. Saltò fuori che erano state loro ad
andare a chiamare Maestro e a farlo venire al portello d’accesso. Ora
se ne stavano lì sedute con la schiena dritta come un fuso, splendenti
nelle loro uniformi della Coorte adattate allo stile della Seconda, tut-
te scarlatte e bianche. Entrambe sfoggiavano la stessa acconciatura a
trecce tiratissime e una sovrabbondanza di passamanerie dorate, in-
sieme alla medesima espressione seriosa. Si distinguevano soltanto

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perché una portava lo stocco e l’altra aveva il colletto pieno di mo-


strine. Maestro si era accomodato a una certa distanza da loro, la sua
palese paura era stata rimpiazzata da una tristezza profonda e stan-
ca. Si era seduto vicino alla piccola stufetta ansimante che scacciava
il gelo mattutino, mentre gli altri due sacerdoti della Casa di Canaan,
avvolti nei loro scialli, riempivano le tazze a tutti.
La necromante della Seconda Casa si schiarì la gola.
«Maestro» disse, con tono sapiente e assertivo. «Vorrei ribadire
che la miglior strategia d’azione è informare la Coorte e far arrivare
rinforzi militari.»
«E io ribadirò, Capitana Deuteros» le rispose amaramente, «che
non possiamo. È una regola sacra.»
«Dovete comprendere che non si tratta di una questione negozia-
bile. La Quinta Casa dev’essere informata. Proprio loro, fra tutte le
Case, non potranno che domandare che le indagini partano all’istante.»
«Un’indagine per omicidio» aggiunse Jeannemary, che non aveva
toccato il suo tè.
«Omicidio» disse Maestro, «oh, omicidio… non possiamo presu-
mere che si sia trattato di un omicidio.»
Un brusio cominciò a diffondersi per la sala. La Seconda paladi-
na disse, con un po’ di foga in più: «State insinuando che si sia trat-
tato di un incidente?».
«Se fosse andata così ne sarei molto sorpreso, Luogotenente Dyas»
disse Maestro. «Non nel caso di Magnus e Lady Abigail. Un’esperta
necromante e il suo paladino, nonché due adulti in tutto e per tutto
responsabili. Non credo si sia trattato di una sfortunata disavventu-
ra. Penso siano stati uccisi.»
«Allora…»
«Gli omicidi vengono commessi dai viventi» disse Maestro. «Sono
stati trovati all’ingresso del complesso… non posso neanche comin-
ciare a spiegarvi la gravità della minaccia che quel luogo rappresen-
ta per la sicurezza collettiva. Non mi sforzerò nemmeno di tenerve-
lo segreto, ora. A chiunque mi abbia chiesto il permesso di entrare in
quel posto ho detto che la conseguenza ultima sarebbe stata la mor-
te. Non l’ho detto in senso figurato. Ho detto a tutti voi che stavate
per mettere piede nel posto più pericoloso del sistema di Dominicus,
e con cognizione di causa. Qui ci sono dei mostri.»

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Naberius disse: «E allora perché non sono mai venuti a cercare voi?
Vivete qui da anni».
Maestro rispose: «Anni e anni… e anni. No, non sono venuti a cer-
care i guardiani della Casa di Canaan… non ancora. Ma vivo nel ter-
rore che lo facciano. Credo che si siano tragicamente imbattuti in
Abigail e Magnus… non riesco neanche a concepire che il disastro
in cui sono incappati possa essere stato architettato da uno degli oc-
cupanti di questa stanza».
Il silenzio si diffuse ai quattro angoli della sala da pranzo. La Ca-
pitana Deuteros lo infranse commentando, intransigente: «Resta co-
munque un caso da destinare alle autorità competenti».
Maestro disse: «Non posso chiamarli e non lo farò. Le linee di co-
municazione extra-planetarie sono proibite, qui. Per pietà, Capitana
Deuteros, quale sarebbe mai il movente? Chi mai vorrebbe nuocere
alla Quinta Casa? Un brav’uomo e una brava donna».
La necromante giunse le dita guantate e si sporse in avanti. «Non
posso speculare sul movente o sull’intento» disse. «Non desidero af-
fatto che si tratti di un omicidio. Ma se non collaborerete con me, ho
motivazioni sufficienti a fermare questa competizione. Prenderò io
il comando, se voi non potete.»
Qualcuno sbatté con forza la tazza di tè sul tavolo. Era Corona-
beth che, anche con gli occhi violetti impastati dal sonno e i capelli
arruffati in ciocche dorate attorno al viso avrebbe comunque attira-
to un bel viavai di turisti, indipendentemente da dove si fosse posi-
zionata. «Non essere sciocca, Judith» le disse, impaziente. «Non hai
quel tipo di autorità.»
«Quando non esiste altro genere di autorità per tutelare la sicu-
rezza di una Casa, la Coorte ha la facoltà di prendere il comando…»
«In una zona di combattimento…»
«I Quinti sono morti. Mi assumo io l’autorità della Quinta. Dico
che serve un intervento militare, e ci serve subito. In qualità di uffi-
ciale della Coorte di grado più alto, è una decisione che spetta a me.»
«Un capitano della Coorte» disse Naberius «non supera per gra-
do un ufficiale della Terza.»
«Temo proprio di sì, Tern.»
«Principe Tern, se non ti dispiace» disse Ianthe.
«Judith!» esclamò Corona, più conciliante, tentando di prevenire

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GIDEON LA NONA  /  203

una guerra intestina tra le Case. «Siamo noi. Sei venuta a tutte le no-
stre feste di compleanno. Maestro ha ragione. Chi mai avrebbe voluto
uccidere Magnus e Abigail? Nessuno dei due avrebbe mai fatto male
a una mosca. Il portello è rimasto aperto, qualcosa è successo e, da là
sopra, c’è proprio un bel salto nel vuoto… non potrebbe essere anda-
ta così? Chi c’era là dentro? None, non eravate voi?»
Con evidente freddezza, Harrow disse: «Abbiamo richiuso il por-
tello, prima di addentrarci».
«Ne siete sicure?»
Gideon, che era quella che aveva girato la chiave, si sentì strana-
mente grata a Harrowhark, che non si disturbò neanche a guardare
dalla sua parte: «Ne sono certa» disse e basta.
«Quanti altri avevano le chiavi di quel portello, a parte la Nona?» chiese
Corona. «Noi non avevamo neanche idea che quel sotterraneo esistesse.»
«La Sesta» dissero Camilla e Palamedes all’unisono.
Dulcinea, sempre più piccola e stanca, disse: «Pro e io ne abbiamo
una» il che causò il sollevamento delle sopracciglia di Gideon fino
all’attaccatura dei capelli.
«Colum ha la copia ricevuta dall’Ottava Casa» disse una voce dal
pavimento.
Era Silas. Si era messo a sedere e si stava asciugando la faccia con
una pezza bianchissima di cambrì. Aveva un occhio rosso, lucente e
gonfio. Meticoloso, se lo tamponò tutt’intorno: Corona gli offrì ca-
vallerescamente il braccio, ma lui lo rifiutò, tirandosi in piedi e ap-
poggiandosi con fatica a una sedia. «La chiave ce l’ha lui» disse. «E,
dopo la festa, ho raccontato a Lady Pent dell’esistenza di un comples-
so sotto a questo livello.»
Fu Harrow a dire: «Perché?».
«Perché me l’ha domandato» disse lui, «e perché io non mento. E
perché non mi preme che la Nona Casa ascenda da sola al Littorato…
solo perché è riuscita a risolvere un indovinello infantile.»
Harrowhark si chiuse come una seggiola pieghevole e il suo tono
si fece cinereo: «Il vostro odio per noi è superstizione, Octakiseron».
«Ma davvero?» Piegò ordinatamente il fazzoletto sporco e se lo in-
filò nella cotta di maglia. «Chi c’era nel complesso quando Lady Pent
e Sir Magnus sono morti? Chi è arrivato, in maniera così opportuna,
per primo sulla scena del delitto per rinvenire i…»

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204  /  TA MSY N MUIR

«Avete già un occhio nero, omaggiatovi dalla Settima Casa» disse


Harrow, «e mi pare bramiate un effetto simmetrico.»
«È stata la Settima, dunque?» L’Ottavo necromante non sembra-
va granché contrariato. «Capisco… è accaduto così in fretta che non
ne avevo la certezza.»
Gideon pensava che Dulcinea si fosse riaddormentata, tanto era
inerte e molle fra le braccia di Protesilaus, ma aprì gli occhioni blu e
alzò il capo con un certo sforzo. «Maestro Silas» disse, roca «la Set-
tima Casa implora il perdono della clemente Ottava. Concedetece-
lo… sarebbe un tale motivo d’imbarazzo per la Casa. Pro reagisce più
in fretta di me. Non duellereste mai con me, no?»
«Mai» disse Silas, dolcemente. «Sarebbe una crudeltà. Colum af-
fronterà il paladino della Settima.»
Gideon si sorprese a serrare i pugni mentre Dulcinea, esalando un
respiro profondo e traballante, disse con un filo di voce: «Oh, ma vi
prego…».
«Smettetela, subito» disse Coronabeth. «Questa è una follia.»
La garrula farfalla dorata era scomparsa. Si alzò in piedi, le mani
sui fianchi, fredda e ambrata. La sua voce squillò come una trom-
ba. «Dobbiamo fare un patto» disse. «Non possiamo uscire da que-
sta stanza sospettandoci a vicenda. Siamo chiamati a lavorare per un
potere superiore. Sapevamo che sarebbe stato pericoloso – l’abbia-
mo accettato – e non posso credere che qui ci sia davvero qualcuno
che voleva fare del male a Magnus e Abigail. Abbiamo bisogno di fi-
darci gli uni degli altri, o tutto questo si trasformerà in una follia.»
Anche la Capitana della Seconda si alzò in piedi. I suoi occhi scuri
e intensi si soffermarono a turno su ciascuno di loro prima di bloc-
carsi su Maestro.
«Allora che cosa dovremmo presumere, a rigor di logica?» disse.
«Che, come ci ha riferito Maestro, esiste una forza malevola e ostru-
zionista in seno alla Prima Casa? Spiriti vendicativi o mostri nati da
qualche atto necromantesco?»
Il tremendo necromante adolescente si alzò. Aveva gli occhi in-
fiammati e rossi, i pugni sporchi di sangue. Il dolore sordo dipinto
sul suo volto era quello di un animale sofferente: sentendolo parlare
ci si poteva aspettare solo un latrato agonizzante.
Invece disse: «Se c’è un mostro dobbiamo dargli la caccia. Se c’è

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un’infestazione dobbiamo bandirla. Un’entità – di qualunque cosa si


tratti – forte abbastanza da uccidere Abigail e Magnus non può es-
sere ignorata». E poi, con più foga: «Non posso tornare a casa finché
chi ha ucciso Abigail e Magnus non sarà morto».
Jeannemary disse, all’istante: «Sto con Isaac. Dobbiamo dargli la
caccia».
«No» disse Palamedes.
Si era tolto gli occhiali per pulirli, alitando prima su una lente e
poi sull’altra. Quando finì di risistemarseli sul naso adunco, tutti gli
sguardi erano ormai puntati su di lui. Camilla era appollaiata sul ta-
volo, come un corvo dal mantello grigio, in agguato sulla sua spalla.
«No» ripeté lui. «Procederemo scientificamente. Non possiamo dare
nulla per scontato finché non ci saremo fatti un’idea più precisa di
come sono morti. Con il permesso di tutti, esaminerò i corpi; chiun-
que voglia unirsi a me è libero di farlo. Una volta accertati i fatti potre-
mo stabilire una linea d’azione ma, fino a quel momento, non saltere-
mo alle conclusioni. Niente mostri, niente omicidi, niente incidenti.»
Coronabeth commentò, con calore: «Amen!».
«Obbligato, Principessa. Siamo tutti a conoscenza dell’esistenza
del complesso, ormai» proseguì lui. «Il che, immagino, darà segui-
to a una libera esplorazione. Dovremo rimanere tutti all’erta per in-
dividuare pericoli insoliti, e concordare sul fatto che le informazio-
ni sono i migliori doni che possiamo scambiarci gli uni con gli altri.»
Harrowhark disse: «Io non ho intenzione di collaborare».
«Non sarete tenuta a farlo, Reverenda Figlia. Ma avvisare i vostri
colleghi se credete che ci sia qualcosa fuori posto non è ortogonale
rispetto all’esperimento Littorio» disse Palamedes, spostando indie-
tro la sedia. «Exempli gratia, un’orda di spettri vendicatori.»
«C’è un ultimo tema… le chiavi» disse Maestro.
Tutti, procurandosi probabilmente uno strappo al collo, si voltaro-
no verso di lui. Si aspettavano una chiusura del discorso, ma niente. A
quel punto, seguirono la traiettoria del suo sguardo che si era fissato
sulla Principessa Ianthe, nella sua camiciola da notte aderente, i capel-
li pallidi che le ricascavano sulle spalle esangui in due trecce precise,
gli occhi che parevano due violette dializzate. Pure lei lo squadrava.
«Anch’io ne possiedo una» disse, senza fare un plissé.
«Cosa?»

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Lei non si scompose. «Non fare l’amante respinto, Babs.»


«Non ci hai detto neanche una parola, che diavolo?»
«E tu non hai tenuto d’occhio il tuo portachiavi.»
«Ianthe Tridentarius» disse il suo paladino, «sei… sei una… Coro-
na, perché non me l’hai detto tu?»
Corona lo bloccò, posandogli una mano affusolata sulla spalla. Os-
servava la sua gemella, che si guardava attorno serafica. «Perché non
lo sapevo» gli disse, con dolcezza, facendo strisciare la sedia mentre
si alzava. «Non lo sapevo nemmeno io, Babs. Ora vado a letto – cre-
do – sono un po’ troppo agitata.»
Educatamente, anche Palamedes si alzò in piedi. «Cam e io vor-
remmo dare un’occhiata ai cadaveri» disse. «La Capitana Deuteros
e la Luogotenente Dyas vogliono accompagnarci? Immagino di sì.»
«Sì» disse Judith. «Mi piacerebbe esaminarli meglio.»
«Cam, cominciate ad avviarvi» disse Palamedes. «Devo scambia-
re ancora due parole.»
A quel punto, l’assembramento si sciolse. Il sacerdote brizzolato sta-
va parlando a voce bassissima con Isaac, che sprofondò nella sua sedia
con le spalle che sussultavano. La Terza se ne andò con la prossimità
sfasata e le mascelle contratte di tre persone che stanno per imbarcar-
si in un’enorme zuffa. Dulcinea sussurrò qualcosa al suo paladino e,
con grande sorpresa di Gideon, entrambi seguirono il gruppo diretto
alla cella frigorifera. Forse non doveva sorprendersene troppo. In fat-
to di morbosità, Dulcinea Septimus era in grado di superare la Nona.
Saltò fuori che era con Harrow che Palamedes voleva scambiare an-
cora due parole; la tirò per una manica e la portò nell’angolo più lon-
tano della stanza, e lei lo seguì senza cavillare. Gideon rimase da sola
a osservare Maestro accostarsi a Silas – pallido come un cencio – che
nel frattempo si era inginocchiato accanto al suo paladino. Le labbra
si muovevano in una preghiera silenziosa. Colum, ora, era comple-
tamente grigiastro e il suo sguardo era quello a un milione di chilo-
metri di un uomo in catalessi. Silas non sembrava preoccupato. Prese
una manona coriacea tra le sue e continuò a parlargli sottovoce – Gi-
deon riuscì a cogliere qualche parola: «Ti comando di fare ritorno».
Maestro stava dicendo: «Dovrà combattere duramente per torna-
re, Maestro Octakiseron… più duramente di quanto aveva previsto,
forse. È abituato al viaggio?».

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«Fratello Colum ha combattuto battaglie peggiori e in climi più


rigidi» disse Silas, calmo. «È tornato da me attraverso fantasmi ben
più bizzarri. Non ha mai permesso che il suo corpo si corrompesse
– nemmeno una volta – né mai lo permetterà.» Poi tornò a dedicar-
si al mantra: «Ti comando… Ti comando…».
Per chissà quale ragione, quell’immagine a Gideon restò impressa:
il mago di maionese e quel suo nerboruto nipote, di gran lunga più
vecchio di lui, con quello sguardo vuoto… e Maestro che li osserva-
va con l’aria di uno che si è accaparrato un biglietto in prima fila per
un intervento odontoiatrico clandestino. Anche Gideon non riusci-
va a staccare gli occhi da loro, affascinata da un atto che non poteva
comprendere, finché una mano non le strinse il polso.
Era Jeannemary Chatur, gli occhi cerchiati di rosso, appiccicosi e
chiazzati, i capelli crespi. Non c’erano più segni di titubanza in lei,
ormai, a parte una ferocia selvaggia che le incorniciava gli occhi, fis-
si su Gideon.
«Nona» le disse con voce roca, «se sai qualcosa, dimmelo adesso.
Se… se tu sai qualcosa, qualsiasi cosa, io lo devo… Per noi erano trop-
po importanti, quindi se sai…»
Gideon si sentì tristissima. Posò una mano sulla spalla della pessi-
ma teenager, e Jeannemary sobbalzò. Scosse il capo per dirle di no, e
quando gli occhioni della giovane – le ciglia incrostate del trucco della
sera prima, gli iridi di un castano scuro come l’inchiostro – si riempi-
rono di lacrime che cercò disperatamente di trattenere, Gideon perse
ogni capacità di gestire la faccenda. Carezzò la testa dell’altra paladi-
na, trovandola umida e ricciuta come quella di un cagnolino triste, e
le disse: «Mi dispiace. Mi dispiace tantissimo».
«Ti credo» disse Jeannemary con la voce impastata, senza appa-
rentemente dare peso al fatto che la Nona avesse parlato. «A Magnus
piaci… piacevi… non avrebbe mai permesso che accadesse qualcosa
ad Abigail» aggiunse in fretta. «Odiava le altezze. Non avrebbe mai
corso il rischio di cadere di sotto. Ed era una maga spiritista. Se sono
stati dei fantasmi, perché non è riuscita a…»
Accanto a loro, Colum emise un colpo di tosse così cavernoso ed
esplosivo che sia Jeannemary che Gideon fecero un salto. Rovesciò
gli occhi e rantolò fra acuti singhiozzi. Il suo adepto si limitò a com-
mentare: «Quindici minuti. Stai diventando lento» e nient’altro.

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* * *

A Gideon sarebbe piaciuto che Jeannemary finisse la frase, ma Har-


row si avvicinò zoppicando, con un’espressione che non lasciava pre-
sagire nulla di buono. Aveva il cipiglio distaccato e pronunciato di chi
cerca di sbrogliare dei lacci da scarpe dannatamente ingarbugliati. Gi-
deon osservò la paladina della Quarta che se ne andava con le spal-
le curve e la mano serrata sull’impugnatura dello stocco, e si accodò
a Harrow, tenendosi a mezzo passo di distanza.
«Stai bene?»
«Sono stufa di questa gente» disse Harrowhark, tuffandosi in un
cunicolo, lontano dalla sala centrale. «Sono stufa della loro lentezza…
stufa marcia. Non posso star qui ad aspettare che uno di loro colga
le implicazioni di tutto quello che ci è stato riferito» – anche Gideon
non vedeva l’ora di cogliere queste implicazioni, ma non le sembra-
va probabile che sarebbe accaduto nell’immediato – «perché, quan-
do ci arriveranno, noi saremo già in abbondante vantaggio. Abbia-
mo una porta da aprire.»
«Sì, domani mattina dopo minimo otto ore di sonno» suggerì Gi-
deon senza molte speranze.
«Uno splendido tentativo di buttarla in commedia, in tempi così
duri» disse Harrowhark. «Andiamo.»

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La chiave conquistata a così caro prezzo dal co-
strutto, lasciava trapelare pochissimo, a parte il suo colore insolito.
Era grossa; il fusto era lungo quanto il dito medio di Gideon e l’impu-
gnatura a forma di quadrifoglio era di una pesantezza appagante, ma
non recava alcuna utile targhetta con scritto, per esempio, PRIMO
PIANO. La cosa non sembrò tangere Harrowhark. Tirò fuori il tac-
cuino macchiato e scrutò le sue mappe, nascosta in un anfratto buio
e obbligando la sua paladina a montare la guardia. Considerando che
in giro c’erano esattamente zero persone, le sembrò una cretinata.
A ben pensarci, però, l’idea che potessero anche non esserci zero
persone in giro – che ci fosse qualcosa di orripilante che infestava
la Casa di Canaan, qualcosa che aveva ucciso Abigail e Magnus per
un’apparente inezia – be’, Gideon non riuscì a restare lì piantata con
la stessa tranquillità del giorno prima. La Prima Casa non era più uno
splendido guscio vuoto, divorato dall’erosione del tempo. Ora somi-
gliava di più ai labirinti sbarrati nelle profondità della Nona Casa, te-
nuti sigillati nel caso in cui qualcosa si inquietasse. Quando era pic-
cola, un suo incubo ricorrente era rimanere bloccata dal lato sbagliato
del Sepolcro Sigillato. Soprattutto dopo quello che aveva fatto Harrow.
«Guarda» disse Harrowhark.
Non esistevano omicidi, dispiaceri o tristezze in grado di scalfire
Harrowhark Nonagesimus. I suoi occhi esausti fiammeggiavano. Pa-
recchia pittura si era scrostata o si era sciolta per il sudore, quando an-
cora erano giù nel complesso. Il lato sinistro della mandibola, ormai,
non era altro che pelle tinta di grigio. Si intravedeva un barlume della
sua umanità. Aveva un faccino stranamente appuntito, con le soprac-

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ciglia svettanti e angolosità ovunque, più una bocca sbilenca e mali-


gna. Disse in tono irascibile: «Guarda la chiave, cogliona, non me».
La cogliona guardò la chiave, ma le fece comunque il dito me-
dio. Harrow la stava analizzando, tenendola capovolta. In fondo, alle
estremità della dentellatura, era stata praticata una minuscola inci-
sione nel metallo. C’erano una serie di puntini uniti da un trattino e
da due semicerchi.
«È il simbolo sulla mia porta» disse Gideon.
«Intendi la… X-203?»
«Già, intendo quella lì, se proprio vuoi usare una lingua aliena» fece
Gideon. «È senza dubbio il simbolo sulla mia porta.»
Harrow si mise quasi a tremare dall’impazienza. Ci misero un po’ a
coprire di soppiatto il percorso tortuoso che dall’atrio portava al corri-
doio che terminava nell’anticamera collegata all’arena; lei era paranoi-
ca, e la sua paranoia aveva contagiato Gideon. Avevano atteso prima di
girare ogni angolo, ferme e in ascolto per capire se qualcuno le aves-
se seguite. Quando raggiunsero il piccolo vestibolo asfittico e vi sgat-
taiolarono dentro, lo stomaco di Gideon bramava ormai la colazione.
Eppure, quando si fermarono davanti all’enorme porta nera, aveva i
palmi viscidi per l’eccitazione. I teschi degli animali erano inquietanti e
inospitali, proprio come la prima volta; la pingue figura contorta attor-
cigliata attorno a ogni colonna risultò altrettanto inquietante e gelida.
Harrowhark posò le mani sulla traversa di pietra nera della porta quasi
con riverenza pigiando l’orecchio contro la pietra come se fosse possibi-
le sentire cosa stesse succedendo là dietro. Tastò col polpastrello il buco
della serratura, incassato in profondità, e si tirò il cappuccio sulla testa.
«Aprila» disse.
«Non vuoi farli tu gli onori di casa?»
«Il portachiavi è tuo» disse Harrow, inaspettatamente. «Faremo
tutto secondo le regole. Se Maestro ha ragione, qua in giro c’è qual-
cosa a cui sta parecchio a cuore l’etichetta. E rispettare l’etichetta non
ci costa niente. Il portachiavi appartiene a te… devo ammetterlo. E
la nostra ammissione dovrai essere tu a garantirla.» Allungò la chia-
ve a Gideon. «Ficcala nel buco, Gideon.»
«Me lo dicono sempre» fece Gideon, e prese il portachiavi dalle
dita guantate di Harrow. Non si tirò su il cappuccio, ma si risistemò
sul naso gli occhiali: ora che si era acclimatata e le servivano davve-

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ro solo per la luce di mezzogiorno, erano tuttavia diventati una spe-


cie di conforto. Tamburellò sull’intelaiatura smussata di pietra opaca
e poi fece scivolare la chiave rossa di Reazione nella toppa.
Ci entrava. La serratura si aprì con uno scatto, fluida, come se fos-
se stata mantenuta ben oliata per gli ultimi diecimila anni. Senza il
minimo scricchiolio o cigolio dei cardini, la porta si spalancò verso
l’interno con una spinta. Gideon staccò lo spadino dalla cintura, si
infilò il guanto lamato sulla mano sinistra e si immerse nell’oscurità.
E per oscurità si intende il buio più totale. Non osò proseguire ol-
tre in quell’immobilità quieta e torva. La sua necromante entrò e ri-
chiuse la porta immensa, scaraventandole in un silenzio ancora più
profondo. Rimasero ferme nella stanza ad annusarne l’età: la polve-
re, le sostanze chimiche che aleggiavano nell’aria. Si riusciva quasi a
fiutare l’oscurità.
La voce di Harrow, quasi un sussurro: «Fai luce, Nav».
«Cosa?»
«Una torcia, l’avrai portata.»
«Non ero al corrente di dover fornire anche questo servigio» dis-
se Gideon.
Seguì un’imprecazione soffocata. Percepì Harrow che si girava ver-
so la porta, misurandone la larghezza con le mani e cercando a tasto-
ni una lanterna nei pressi dell’intelaiatura: qualcosa trovò e, dalla pa-
rete, sentì arrivare un sonoro clic. Le luci elettriche presero vita sopra
le loro teste, donando alla stanza buia e solitaria una nitidezza affilata.
Che cosa si era aspettata? Gideon non lo sapeva. Rimase ferma,
ben piantata a terra, e lo stesso fece Harrow; per un lungo istante, si
limitarono a riempirsi gli occhi.
Era uno studio, lasciato cristallizzato da qualcuno che, un bel gior-
no, si era alzato e non era mai più tornato nel posto in cui doveva aver
lavorato per anni. Era un alloggio lungo, squadrato e spazioso, privo di
finestre ma splendidamente illuminato. Una lunga fila di lampade elet-
triche evidenziava i punti più importanti nella geografia dell’ambiente.
Un’estremità della stanza era occupata da un laboratorio: tavoli di me-
tallo lucidato pieni di macchie e mensole su mensole di appunti in tac-
cuini rilegati in pelle o in raccoglitori ad anelli. Il grosso lavandino d’ac-
ciaio e la spazzola avevano un’aria strana, fra quelle mura intarsiate di
ossa. C’era ancora un pentolino pieno di gessi per disegnare diagram-

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mi e anche le fiaschette di sangue conservato erano ancora piene, di un


rosso acceso. Sopra a un tavolo, attaccati con le puntine, c’erano fasci di
veline sovrapposte, scurite da grafici e modelli: su uno dei fogli c’era lo
schizzo di una chimera molto familiare – una moltitudine di braccia,
una cassa toracica corazzata, il cranio tozzo. C’erano attrezzi tempe-
stati di pietre preziose. C’erano spatole di resina epossidica, squagliate
da chissà quale esperimento. Sul muro c’era l’ingrandimento di un’im-
magine – una litografia o una fotografia polimerica – che ritraeva un
gruppo di persone riunite attorno a un tavolo. Tutti i loro visi erano sta-
ti cancellati con uno scarabocchio di pennarello nero a punta spessa.
Harrowark si era già spostata verso il laboratorio. Non aveva an-
cora preso fiato. Le sarebbe toccato farlo, pensò Gideon vagamente,
se non voleva stramazzare a terra. La sala era stata divisa in tre aree
principali – c’era il laboratorio, poi un ampio spazio da cui i mobili
erano stati spostati, rivelando il nudo pavimento di pietra. Sulla pare-
te c’era una rastrelliera per le spade e sulla rastrelliera delle spade c’e-
rano ancora due stocchi solitari, che brillavano come se fossero stati
affilati e molati un’ora prima. Era un’arena d’addestramento. Appog-
giato al muro, c’era un orrendo assortimento di ceppi e forme metal-
liche oblunghe. Gideon ci mise un bel po’ a capire che stava osser-
vando della cazzo di roba antichissima: erano delle carabine a massa
battente. Le aveva viste solo in foto.
Infine la terza parte della stanza era una piattaforma rialzata con
una scalinata di legno lucido. Il legno, lì, non era così degradato come
nel resto della Casa di Canaan – la stanza sigillata e priva di luce do-
veva averlo preservato, oppure era stato cristallizzato nel tempo in
chissà quale altra maniera. Quando le luci si erano accese a Gideon
si erano drizzati i peli sulla nuca e non erano ancora tornati al loro
posto, come se la sua intrusione avesse potuto indurre il tempo a fare
ritorno per reclamare il suo tesoro funebre. Si ritrovò a salire le scale
e a osservare una scena di una dolce banalità domestica: una libreria,
un tavolino basso, una poltrona molle e due letti. Sul tavolino c’era-
no una teiera e due tazze, abbandonate per sempre.
I due letti erano vicini – stendendosi, si sarebbe potuto allungare il
braccio e toccare chiunque stesse dormendo nell’altro, a patto di avere
un braccio bello lungo – e a separarli c’era solo un comodino. Come
per quella grottesca culla attaccata all’estremità del gigantesco letto a

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baldacchino nella stanza di Harrow, le due persone lì erano abbastan-


za vicine da potersi svegliare, nel caso una avesse starnutito. Sul co-
modino c’era un’altra lampada e dei detriti che quella gente non ave-
va mai levato di mezzo. Un orologio vecchissimo. Un bicchiere vuoto.
Un braccialetto di cristallo senza chiusura, sottile come un filamento.
Un piatto unto, pieno di roba grigia che pareva cenere. Gideon capì
che non erano residui crematori e, quando li toccò, un odore pene-
trante le rimase attaccato alle dita. I cuscini erano stati sprimacciati
sulle brandine di legno e i letti rifatti. Sotto a uno dei due, qualcuno
aveva lasciato un paio di pantofole estremamente consunte e, vici-
no al comodino, un foglio di velina appallottolato. Gideon lo prese.
Harrow lanciò un grido di trionfo. Gideon voltò le spalle ai letti e
si mise la velina in tasca, poi si allungò verso la ringhiera della scala
per capire cos’avesse rallegrato tanto la sua necromante. Era accanto
al tavolo da lavoro e fissava due grandi lastre di pietra che erano sta-
te saldate al piano, attraversate da filamenti di un verde pallido che
splendevano al tocco di Harrow. La calligrafia era minuscola e con-
torta e i diagrammi di un’astrusità assolutamente impenetrabile. Har-
row aveva già tirato fuori il suo quaderno.
«È il teorema della sala della prova» esclamò. «È la metodologia
completa per la trasferenza, per l’utilizzo di un’anima vivente. C’è l’in-
tero esperimento.»
«Ed è una roba super eccitante da necromanti?»
«Sì, Nav, è una roba super eccitante da necromanti. Lo devo copia-
re, non posso sollevare la lastra. Chiunque abbia fatto una cosa del
genere era un genio…»
Gideon lasciò che Harrow se la spassasse e aprì il primo cassetto
del comodino. Là dentro, offensivi nella loro banalità, c’erano tre ma-
tite, l’osso del dito di una mano, una pietra ruvida da affilatura – le
ossa e la cote stavano alimentando i suoi sospetti su chi potesse aver
vissuto lì – e un vecchio sigillo consumato. Esaminò il sigillo per un
po’: era l’emblema bianco e scarlatto della Seconda Casa.
Si mise a sedere con cautela su uno dei letti e il materasso sfonda-
to cigolò. Tirò fuori dalla tasca la velina accartocciata e cominciò ad
aprirla. Era soltanto un angolino appallottolato di un foglio strappa-
to nell’era del molto tempo fa.
«Ho finito» disse Harrow, da giù. «Dimmi quel che c’è di rilevante.»

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Gideon si infilò di nuovo il pezzo di velina in tasca e passò rapidamente


in rassegna gli altri cassetti. Un calzino spaiato. Uno scalpello. Una cera-
ta. Una scatolina di latta senza niente dentro a parte un remoto aroma di
mentine. Era roba che si sarebbe potuta trovare nei cassetti dei ­comodini
di chiunque – anche se, a ben pensarci, non proprio di chiunque ma di
una specifica tipologia di duo. Scese le scale e si sistemò gli occhiali sul-
la testa. «Qua ci vivevano un necromante e il suo paladino» disse.
«Sono arrivata alla medesima conclusione» rispose Harrowhark,
risistemando le sue carte. Avvicinò uno dei suoi diagrammi a quel-
lo inciso sulla tavoletta di pietra per verificarne l’accuratezza. «Ecco.
Vieni qua a vedere.»
La calligrafia sghemba di Harrow era pessima almeno quanto l’in-
cisione sulla tavoletta. Alla fine di una lunga lista di annotazioni di
un tedio sopraffino, spiccava una frase:

Nella speranza di approdare a una comprensione degna del Littorato.


Ogni gloria e amore al Necrore Supremo.

La Nona necromante disse: «Quella sì che è una postilla utile».


«Già, e ci aiuta anche il fatto che di sopra ci siano due letti e un
casino di spade» disse Gideon. «Vivevano fianco a fianco. Studiava-
no strani teoremi Littoriali. In uno dei cassetti c’è un sigillo vecchis-
simo della Seconda Casa.»
Si concessero entrambe ancora un po’ di tempo per girovagare per
la stanza. Harrow sfogliò i quaderni e aguzzò la vista per scandagliar-
ne il contenuto. Gideon prese un altro libro e lesse a fatica il messag-
gio sbiadito sul risguardo, scritto a inchiostro nero un’eternità prima
e congelato nel tempo:

UNA CARNE, UNA FINE.


G. & P.

Passarono al setaccio i rimasugli delle vite di due estranei; in un ba-


rattolo dimenticato, Gideon trovò due spazzolini da denti obsoleti.
Erano elettrici, con testine rotanti e bottoni da schiacciare.
«Questi non sono solo veramente vecchi, sono di una super vec-
chiaia assolutamente incredibile» disse.

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«Sì» disse Harrow. «Sextus potrebbe dirci quanto sono vecchi, ma


non ho alcuna intenzione di domandarglielo. È stato fatto qualcosa
per preservare questa stanza. Non si è deteriorata andando incontro
a una morte naturale. Probabilmente siamo le prime persone che ci
mettono piede da quando gli occupanti precedenti se ne sono andati.»
Non sembrava una camera da letto vera e propria; somigliava di
più a un posto dove passare la notte mentre si faceva dell’altro. Più un
laboratorio che un alloggio. Gideon si ritrovò ad analizzare la foto-­
litografia, coi gomiti appoggiati sul mobile. Studiava quei corpi sen-
za volto riuniti ordinatamente sulle loro seggiole. Un arcobaleno di
braccia e vesti; mani a bassa risoluzione che stringevano ginocchia a
bassa risoluzione. Le mani, senza i volti, davano un’impressione so-
lenne, quasi ansiosa.
«Tutto quel che so» disse Harrow a un certo punto «è che hanno
creato il teorema e che sono i responsabili dell’esperimento lì di sot-
to. Vorrei saperne di più. Desidero saperne di più… ma non so altro.
Studierò l’incantamento, Griddle, e lo imparerò e, a quel punto, avrò
fatto un passo in più verso la conoscenza. Non possiamo patire lo
stesso destino di Quinn e Pent.»
Gideon tutto d’un tratto si stupì di quanto quell’accenno le aves-
se fatto male.
«È morto per davvero» disse ad alta voce.
«Sì. Ma mi agiterei di più se la sua condizione mutasse all’improv-
viso» disse Harrow. «Era un estraneo, Nav. Perché te la sei presa tan-
to a cuore?»
«È stato gentile con me» si sorprese a rispondere. Era molto stan-
ca. Aveva provato a darsi una svegliata facendo stretching, abbassan-
dosi per toccare le dita dei piedi e sentire il sangue che le affluiva alla
testa. «Proprio perché era un estraneo, credo… non era obbligato a
curarsi di me, a trovare del tempo per me o a ricordarsi il mio nome,
ma l’ha fatto. Che diavolo, tu mi tratti molto più da estranea di quan-
to abbia fatto Magnus Quinn, e ti conosco da tutta la vita. Comun-
que, non mi va di parlarne.»
La mano di Harrow, sbucciata e sguantata e macchiata di inchiostro
fino alle cuticole, le apparve davanti. Gideon si ritrovò con la spalla
spostata all’indietro, in modo da dover guardare Harrow dritta in fac-
cia. La necromante la fissava con un’intensità stranamente selvaggia:

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la bocca era una riga consumata dall’indecisione, la fronte corrugata


come se volesse trasformare il suo intero viso in una ruga con la sola
forza del pensiero. Aveva ancora del sangue secco sulle sopracciglia,
il che era un vero schifo.
«Non posso più accettare» le disse piano «di essere un’estranea
per te.»
«Calma, calma, calma» fece Gideon, col sudore che le pizzica-
va d’un tratto la nuca «sì che puoi, una volta mi hai detto di scavar-
mi una tomba di ghiaccio. Fermati prima che le cose prendano una
strana piega.»
«La morte di Quinn dimostra che questo non è un gioco» disse
Harrow, inumidendosi con la lingua le labbra cineree. «Gli esperi-
menti servono a separare il grano dalla pula e saranno di una peri-
colosità inaudita. Noi siamo tutti i figli e le figlie di cui la Nona Casa
dispone, Nav.»
«Io non sono il figlio o la figlia di nessuno» disse Gideon con fer-
mezza, senza la minima traccia di panico.
«Ho bisogno che tu ti fidi di me.»
«E io ho bisogno che tu sia degna della mia fiducia.»
Nella densa penombra della stanza osservò la ragazza ammantata di
nero che aveva di fronte. Stava lottando contro qualcosa che le tene-
va intrappolate come una rete; una cosa che si era solidificata tra loro
come un arto fratturato malamente, spezzato numerose volte per poi
guarire deforme e orrido. Gideon riconobbe all’improvviso quell’in-
sieme di distorsioni: la corda che la teneva legata a Harrow e alle sbar-
re della Nona Casa. Si fissarono con un senso di panico condiviso.
Harrow alla fine disse: «In che modo posso guadagnarmi la tua
fiducia?».
«Facciamoci otto ore di sonno e non parlarmi mai più in questo
modo, maledizione» rispose Gideon, e la sua necromante si rilassò, in
maniera infinitesimale. I suoi occhi erano di un nero così assoluto che
si faceva fatica a distinguere la pupilla; la bocca era esile, pungente e
titubante. Si ricordò di quando Harrow aveva nove anni e lei era en-
trata proprio nel momento sbagliato. Si ricordò della bocca di quella
Harrow di nove anni che si spalancava leggermente. C’era qualcosa
di peculiare nel viso di Harrow, quando non era scolpito nella paca-
ta maschera religiosa della Reverenda Figlia: aveva qualcosa di sotti-

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le, disperato e giovanissimo, qualcosa che non differiva troppo dalla


disperazione di Jeannemary.
«Otto e mezzo» disse Harrow, «se domani mattina ricomincia-
mo subito.»
«Affare fatto.»
«Affare fatto.»
Diverse ore dopo, Gideon si rigirò nel letto, gelata dalla consape-
volezza che Harrow non aveva promesso di non parlarle più a quel
modo. Un altro po’ di quelle stronzate e sarebbero diventate amiche.
Al loro ritorno, i corridoi erano più solitari che mai – più vuoti, in
qualche modo, come se, con la prematura dipartita della Quinta, la
Casa di Canaan fosse riuscita a espellere quel poco di anima che ave-
va. C’era un’unica eccezione. Uno scalpiccio sommesso indusse en-
trambe ad appiattirsi in un’alcova, osservando a occhi sgranati la luce
sottile e grigiastra che precedeva il mattino: con passo quasi del tutto
silenzioso, gli adolescenti della Quarta sfilarono loro davanti, attra-
versando rapidamente una sala vuota e derelitta, diretti verso chis-
sà quale missione. Jeannemary era in testa con la spada sguainata e
il suo necromante la seguiva, barcollante, il capo chino, il cappuccio
blu a coprirgli i capelli, l’aria di un penitente. Scomparvero dopo un
secondo. Gideon si ritrovò a pensare: “Povere carognette”.

* * *

Nel suo nido di coperte, con la luce che filtrava gialla e indesiderata
dalle fessure ai lati delle tende, Gideon era troppo stanca per spogliar-
si e quasi troppo stanca per dormire. Si girava e si dimenava e, men-
tre cercava una posizione comoda, si ricordò del biglietto appallot-
tolato che aveva in tasca. Nella luce fioca lo scartocciò e lo fissò, con
lo sguardo appannato, il cuscino ancora appiccicaticcio per la crema
che aveva usato per levarsi la pittura.

rò sappiamo tutti che la triste + difficile realt


è che rimarrà incompiuto fin
alla fine. Lui non può rimediare alle mie carenze qu
avore porgi a Gideon le mie congratulazioni, comun

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Nove malaugurate ore più tardi, Gideon e Har-
row si stavano avventurando giù per la lunga e fredda serie di pioli
della scaletta del complesso, l’aria ancora impregnata dal sangue della
notte precedente. Visto che era stata svegliata solo trentacinque mi-
nuti prima (Harrow mentiva sempre), Gideon si stava calando nell’o-
scurità con la netta sensazione di essere ancora addormentata: era da
qualche parte in un sogno, un sogno che aveva fatto tanto tempo pri-
ma e che all’improvviso riusciva a ricordare. Aveva buttato giù mec-
canicamente la tazza di tè in fase di raffreddamento e la ciotola di
porridge pseudocongelato che Harrow le aveva portato quella mat-
tina – Harrow che si occupava della sua colazione era un concetto
talmente spiacevole che non aveva abbastanza spazio nel cranio per
processarlo – e ora il tutto le stazionava nello stomaco come piom-
bo. Il foglietto accartocciato era stato ficcato frettolosamente in fon-
do alla tasca di Gideon.
Tutto le sembrava oscuro, strano e sbagliato, compresa la masche-
ra ancora in via di asciugatura che la sua adepta le aveva dipinto sul-
la faccia. Gideon non aveva emesso neanche un mormorio di dissen-
so di fronte a questa intrusione, limitandosi a buttare il porridge in
bocca a cucchiaiate. La prova definitiva di quanto Harrow fosse Har-
row? Nessuno dei legnosi segnali di sottomissione di Gideon sembra-
va averla anche solo minimamente turbata.
«Che diavolo dovremmo fare lì sotto?» le domandò lamentosa,
mentre Harrow la guidava verso l’atrio ombroso e la rampa per il
portello. In bocca, la sua stessa voce le suonò strana: «Altri omi-
ni d’osso?».

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«Ne dubito» aveva detto Harrow brusca, senza voltarsi. «Quella


era una delle prove. Non avrebbe senso rifare la stessa cosa in quel-
la successiva.»
«Quella successiva?»
«Per l’amor del cielo, Griddle, fai attenzione. La chiave del portel-
lo è solo il primo passo – la prova di riscaldamento, se preferisci.»
«Quella non era una prova» obiettò Gideon, superando una stri-
scia tesa di nastro giallo. «L’hai chiesta a Maestro, tutto lì.»
«Sì e, come abbiamo scoperto, alcuni fra i nostri cosiddetti riva-
li non sono riusciti a superare nemmeno quel patetico ostacolo. La
chiave del portello garantisce l’accesso al complesso, che contiene
una serie di ambienti predisposti a riprodurre specifici esperimenti
necromantici. Chiunque riesca a svolgere un esperimento arrivando
alle conclusioni prestabilite – come abbiamo fatto noi smantellando
quel costrutto – ottiene una ricompensa.»
«Una chiave.»
«Fino a prova contraria.»
«E poi la chiave… cosa fa? Ti fa entrare in una stanza dove puoi sba-
vare sui venerandi taccuini dell’illustre messer necromante?»
Harrow non si girò, ma Gideon sapeva per istinto che stava alzando
gli occhi al cielo. «Lo studio della Seconda Casa conteneva una spie-
gazione completa e perfetta del teorema che è stato utilizzato per ar-
ticolare il costrutto. Avendo studiato quel teorema, un qualsiasi ne-
cromante mediamente competente sarebbe in grado di replicarne gli
effetti. Io ora possiedo le competenze richieste per cavalcare un’altra
anima vivente. E ho forse trovato ancor più interessante quello che
ho imparato dal teorema che sostiene il costrutto.»
«Come creare dei grossissimi bestioni merdosi con delle ossa.» Gi-
deon preferì non riflettere su quel cavalcare un’altra anima vivente.
Al che, Harrow si fermò – quasi in cima alla scala – e finalmente
si voltò. «Nav» le disse. «Io li sapevo già fare dei bestioni con le ossa.
Ma adesso posso fare in modo che si rigenerino.»
Il risultato a cui nessuno al mondo – ma proprio nessuno – anelava.
Ora erano entrambe arrivate ai piedi della scaletta e fissavano le
sagome angolose sul pavimento. Qualcuno aveva immortalato la di-
scesa di Abigail e Magnus con del nastro adesivo meticolosamente
posizionato: aveva un’aria ancora più assurda visto che il sangue non

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era stato ripulito. Pozze dall’aria accusatoria giacevano scheletrizza-


te sul pavimento.
«Sextus» disse Harrow, che si era chinata accanto a lei. «La Sesta,
sempre troppo infatuata del corpo.»
Gideon non replicò. Harrow proseguì: «Investigare la scena del de-
litto ha un’utilità a dir poco dubbia, in confronto alla scoperta dei mo-
venti dei vivi. In confronto al perché, chiedersi chi abbia ucciso Pent
e Quinn è quasi trascurabile».
«“Chi”» disse una voce, «o “cosa”. Adoro l’idea di un cosa.»
Sagomata dalla luce verdognola della griglia, Dulcinea Septimus
apparve zoppicando. Le lampade sulfuree la facevano sembrare tra-
sparente. Si appoggiava con grande difficoltà a un paio di stampelle;
i riccioli folti erano raccolti in un ciuffo in cima alla testa, scopren-
do un collo che sembrava pronto a spezzarsi per una folata di vento
appena più energica. Dietro di lei incombeva Protesilaus che, nell’o-
scurità, pareva un manichino con gli addominali.
Accanto a Gideon, Harrowhark si irrigidì impercettibilmente.
«Fantasmi e mostri» continuò entusiasta la signora della Settima,
«residui e morti… morti tormentati. L’idea che qua ci sia ancora qual-
cuno, furioso… o che qualcosa sia rimasto in agguato da un’eternità.
Forse è per questo che trovo l’idea così confortante… il fatto che mi-
gliaia di anni dopo la tua scomparsa… si possa vivere davvero. Il fat-
to che la tua eco sia più forte della tua voce.»
Harrow disse: «Gli spiriti arrivano rispondendo a un invito. Non
possono sostenersi da soli».
«E se uno ci fosse riuscito?» esclamò Dulcinea. «Sarebbe molto più
interessante di un normale omicidio.»
Questa volta le None non risposero. Dulcinea avanzò, premen-
do gli avambracci nei poggiagomiti delle sue due stecche di metallo
e sbattendo le morbide ciglia castane. Gideon notò che aveva ancora
l’aria stanca: le vene le affioravano sulle tempie, le mani sulle stam-
pelle le tremavano un pochino. Era avvolta in una veste di un qual-
che tessuto azzurro pallido, con dei ricami floreali, ma tremava co-
munque per il freddo.
«Saluti, Nona! Siete stata coraggiosa a spingervi quaggiù dopo le
parole di Maestro.»
«Si potrebbe dire lo stesso di voi» fece Harrow.

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«Oh, non c’è dubbio che la prima a morire sarei dovuta essere io»
disse Dulcinea, ridacchiando con un certo nervosismo «ma una volta
che lo si accetta, non ci si bada più così tanto. Sarebbe stato così pre-
vedibile depennare me dalla lista. Salve, Gideon! Che bello rivederti.
Cioè, ci siamo viste ieri sera… ma hai capito cosa intendo. Oh, no…
ora ti sembrerò un’imbecille. Sei sempre votata al silenzio?»
Prima che quell’argomento di conversazione potesse essere affron-
tato, la cupa necromante incappucciata della Nona dichiarò, nel suo
tono più sepolcrale e minaccioso: «Abbiamo delle faccende da sbri-
gare qua sotto, Lady Septimus. Vogliate scusarci».
«Ma è proprio di questo che sono venuta a parlarvi» disse l’altra
necromante con grande trasporto. «Credo che noi quattro dovrem-
mo fare squadra.»
Gideon non riuscì a trattenere un esplosivo grugnito d’incredulità.
Forse non esistevano candidati più improbabili con cui Harrow si sa-
rebbe potuta alleare – Silas Octakiseron, magari, o Maestro, o il cor-
po esanime di Magnus Quinn. Anzi, Maestro sarebbe stato un pre-
tendente di gran lunga migliore. Ma gli occhioni sognanti di Dulcinea
erano puntati su Harrow. Le disse: «Ho già completato uno dei teo-
remi dei laboratori. Credo di essere sulla strada giusta per risolverne
un altro. Se collaborassimo, be’, avremmo una chiave nella metà del
tempo, lavorandoci solo qualche ora.»
«La collaborazione non è prevista.»
Dulcinea disse sorridendo: «Perché tutti la pensano così?».
Le due si squadrarono. Dulcinea, appoggiata alle stampelle metal-
liche, sembrava una bambola fragilissima. Harrow, incappucciata e
avvolta da chilometri di tessuto nero, uno spettro. Quando si abbassò
il cappuccio, la necromante più vecchia non si scompose, anche se le
stava deliberatamente offrendo uno spettacolo raggelante; la zazzera
nera, le pitture severe sulla faccia, gli spuntoni d’osso infilzati fino a
metà di entrambe le orecchie. Harrow disse freddamente: «La Nona
Casa cosa ci guadagnerebbe?».
«Ogni mia conoscenza della teoria e della dimostrazione… e il pri-
mo utilizzo della chiave» disse Dulcinea, eccitata.
«Generoso. E cosa ci guadagnerebbe la Settima?»
«La chiave, quando avrete finito. Vedete, non credo di essere fisi-
camente in grado di svolgere questa prova.»

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«Si tratta di stupidità, allora, non di generosità. Mi avete appena di-


chiarato di non poterla completare. Nulla impedirebbe alla mia Casa
di portarla a termine senza di voi.»
«Ci ho messo parecchio a interpretare i parametri teoretici» dis-
se Dulcinea, «quindi non posso che augurarvi buona fortuna. Perché
starò anche morendo, ma il mio cervello non ha niente che non va.»
Harrow si calò di nuovo il cappuccio sulla testa, tornando alla sua
condizione di spettro, di nube fumosa. Superò la fragile necromante
della Settima, che la seguì con l’espressione incalzante e in qualche
modo famelica che Dulcinea riservava alle ombrose monache della
Nona – per il fruscio delle loro vesti nere che strisciavano sul pavi-
mento metallico, con la luce verde che si rifletteva sul tessuto scuro.
Harrowhark si voltò e disse, secca: «Allora? Vogliamo procedere
o no, Lady Septimus?».
«Oh, grazie. Grazie» disse Dulcinea.
Gideon era allibita. I troppi shock delle ultime ventiquattr’ore ave-
vano bloccato ogni suo processo mentale. Mentre Dulcinea zoppica-
va lungo il corridoio, con le stampelle che producevano un clangore
disarmonico sulle griglie e Protesilaus che aleggiava alle sue spalle, a
mezzo passo di distanza, come se desiderasse disperatamente pren-
derla di peso e portarla in braccio, Gideon allungò il passo per rag-
giungere la sua necromante.
La trovò che imprecava fra sé e sé. Harrow pronunciò parecchi
cazzo di qua e cazzo di là prima di borbottare: «Grazie a Dio l’abbia-
mo beccata prima noi».
«Non credevo che avresti mai voluto aiutare qualcuno» disse Gi-
deon, con rancorosa ammirazione.
«Quanto sei tarda» sibilò Harrow. «Se non avessimo accettato, l’a-
vrebbe fatto quell’anima pia di Sextus, e la chiave se la sarebbe pre-
sa lui.»
«Ah, ooops… errore mio» fece Gideon. «Per un istante ho credu-
to che non fossi una stronza totale.»
Seguirono la coppia male assortita della Settima Casa allo snodo
polveroso del complesso, con la sua pannellatura altrettanto polverosa
e le sue lavagne plastificate che splendevano tristi sotto le grosse lam-
pade bianche. Dulcinea svoltò bruscamente giù per il corridoietto de-
nominato LABORATORIO SETTE-DIECI, un tunnel identico a quello

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che avevano imboccato per LABORATORIO UNO-TRE. Questa vol-


ta gli scricchiolii e gli antichi lamenti della costruzione parevano an-
cora più forti e i loro passi non fecero che aggiungersi alla cacofonia.
Superati i primi laboratori, nel mezzo del passaggio la griglia sul pa-
vimento era stata sfondata e giaceva sui tubi sibilanti, spaccata esatta-
mente nel mezzo. Protesilaus sollevò la sua adepta e la trasportò ol-
tre la voragine come un giunco leggerissimo. Gideon superò il buco
con un salto e poi si voltò a guardare la sua necromante che tenten-
nava sul bordo, bloccata. Senza sapere il perché – Harrow si sarebbe
potuta costruire un ponte di ossa quando le pareva – Gideon afferrò
una ringhiera, si sporse in avanti e le offrì la mano. Il perché Harrow
la accettò fu un mistero ancora più grande. Dopo essere stata aiutata
ad attraversare, Harrow passò qualche istante a scrollarsi la polvere
di dosso, facendo una gran scena e borbottando roba inarticolata. Poi
si allontanò per raggiungere – fra tutti – Protesilaus, con l’apparente
obiettivo di coinvolgerlo in una conversazione. Dulcinea, che ci ave-
va messo un po’ a risistemarsi le stampelle, prese invece Gideon sot-
tobraccio indicando con un cenno del capo la vasta estensione della
schiena del suo paladino.
«Colum l’Ottavo sta facendo i preparativi per sfidarlo, domani»
disse a Gideon, sottovoce. «Avrei preferito che Maestro Silas si limi-
tasse a combattere con me. Ormai ben poco può nuocermi… sareb-
be stata una sensazione interessante, ecco cosa intendo.»
Gideon rispose serrando la presa sul braccio languido intreccia-
to al suo. Dulcinea sospirò, producendo un suono simile all’aria che
attraversa una spugna fischiante. (Com’erano morbidi i suoi capel-
li così da vicino, constatò debolmente Gideon.) «Lo so. Sono stata
un’idiota a lasciare che capitasse. Ma gli Ottavi sono così suscettibi-
li, a modo loro… è anche vero che Protesilaus è stato cattivo, imper-
donabile. Non potevano lasciar correre un tale insulto. Mi sono la-
sciata sopraffare dai miei peggiori istinti… e ho strillato, ecco tutto.»
La necromante riccioluta si fermò per tossire, come se il semplice
ricordo del suo strillo fosse sufficiente a farla travolgere dagli spasmi.
D’istinto, Gideon le mise un braccio attorno alle spalle, sorreggendo-
la in modo che le stampelle non le scappassero e si ritrovò a fissare
un punto in basso, dove la camicetta di Dulcinea incontrava le cla-
vicole sporgenti. La catenina sottile che portava al collo sorreggeva

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un fardello assai meno delicato, che le penzolava dentro la camiciola:


Gideon lo vide solo per un secondo, ma capì all’istante di che cosa si
trattava. Il portachiavi era agganciato alla catenina, e sul portachiavi
c’erano due chiavi: la chiave seghettata del portello e una spessa chia-
ve grigia con una dentellatura poco appariscente, del tipo che si use-
rebbe per chiudere un armadietto.
Si costrinse a guardare altrove. Ormai erano arrivate all’estremità
del corridoio, che terminava con una porta etichettata come LABO-
RATORIO OTTO. Divincolandosi dal braccio di Gideon, Dulcinea
la aprì rivelando una piccola anticamera che rivaleggiava in squallo-
re con quella del LABORATORIO DUE. C’erano ganci sulle pareti
e un mucchio di vecchie scatole di latta contorte, come quelle che si
utilizzano per trasportare i fascicoli, tutte ammaccate e vuote. Qual-
cuno aveva avuto il tempo e la voglia di affiggere sopra la porta un
meraviglioso fregio di denti umani disposti a forma di spirale che si
allargava: al centro, le piccole pale ordinate degli incisivi, incastona-
te fra le arcate dei canini e circondate, tutt’intorno, dalle lunghe radi-
ci dei molari, curve come zanne. A caratteri nitidi, la targhetta sulla
porta dichiarava: 14-8: DIVERSIONE. CAMERA PROCEDURALE.
Sotto alla scritta ordinata, una mano più arzigogolata aveva aggiun-
to, a inchiostro più tenue: AVULSIONE!
«Eccoci qua» disse Dulcinea. «Prima di proseguire, datemi un po’
del vostro sangue, per cortesia. Ho fortificato questo posto in lun-
go e in largo e temo proprio che non riuscireste a entrare senza dar-
mi la scossa.»
Quella piccola concessione alla paranoia fece rilassare le spalle di
Harrow in modo impercettibile. Gideon la guardò e Harrowhark an-
nuì. Nell’anticamera fosca e polverosa allungarono entrambe una
mano per l’incisione: la necromante della Settima inclinò il capo, la-
sciando che gli splendidi boccoli castani le ricascassero sulle spalle,
e prelevò del sangue dai pollici e dagli anulari. Poi si spalmò il san-
gue sul palmo e sputò delicatamente un grumo di saliva che Gideon
notò essere rossastra; posò la mano esile sulla porta.
«Non è una barriera di contenimento» spiegò Dulcinea, «ma non
è nemmeno esclusivamente fisica. La barriera mi avverte se l’imma-
teriale tenta di penetrare… se c’è qualcosa che si è manifestato, inten-
do, se ha varcato il confine. Non li voglio fermare» aggiunse, quan-

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do Harrowhark cominciò a gingillarsi con un frammento d’osso che


si era sfilata dalla tasca. «Voglio vedere cosa sta cercando di coglierci
di sorpresa… voglio scoprire che aspetto ha. Andiamo.»
Invece dello spazio ordinatamente compartimentato che aveva co-
stituito il Laboratorio Due, con le sue stanze di Visualizzazione e Rea-
zione e i suoi rigorosi scaffali vuoti, nel Laboratorio Otto c’era una
grata immensa. Un reticolo di spesso acciaio nero divideva la prima
porzione della sala dalla seconda, che – sbirciando tra i buchi – si ri-
velò essere un ambiente lungo e stretto con un soffitto claustrofobi-
co. Sembrava di entrare nell’imboccatura di un tubo. La porta con-
duceva a una piattaforma di metallo puntellata da dei sostegni e a
una breve rampa di scale che conduceva giù, verso lo spazio sbarra-
to dalla grata gigantesca. La Settima necromante si avvicinò alla pa-
rete e pigiò un interruttore e, con un basso gemito vibrante, la grata
cominciò a riavvolgersi verso il soffitto.
Dopo la rimozione della grata, l’ambiente parve enormemente gri-
gio e vuoto. Solo due elementi interrompevano la vasta monotonia
del metallo grigio e della luce bianca: in fondo, all’altra estremità della
sala, c’era un plinto metallico, sormontato da una teca che sembrava
fatta di vetro o plex; ai piedi delle scale, a circa un metro di distanza
dalla base, c’era una linea a strisce gialle e nere che era stata dipinta
in orizzontale e si estendeva da una parete all’altra.
Un buon centinaio di metri separava la striscia dal plinto: una bel-
la camminata. L’apparente semplicità della cosa fece capire a Gideon
che si sarebbe trattato, in realtà, di una gran rottura di coglioni.
La sua adepta, però, stava già fluttuando giù per le scale, bloccan-
dosi prima della linea striata di giallo e nero come se si trattasse del
limitare di un incendio. Dulcinea la seguì, appoggiandosi ancora di
più sulle stampelle mentre ciondolava giù per la rampa. Protesilaus
arrivò per ultimo.
«Se allunghi la mano» disse, «capirai… ecco.» Harrow lanciò uno
strillo di dolore. Aveva allungato le dita oltre la linea e ora si stava
sfilando il guanto per constatare i danni. Gideon era già stata vitti-
ma di quello spettacolo prima, grazie a Palamedes Sextus, ma la vi-
sta era comunque inquietante. Le punte delle dita di Harrowhark si
erano rinsecchite: le unghie si erano spaccate orrendamente e sem-
brava che i liquidi fossero stati risucchiati fuori a forza, increspan-

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do la pelle come carta. La sua adepta scosse la mano per aria come si
farebbe con una scottatura; le rughe si distesero gradualmente, e le
unghie si rinsaldarono.
«Dubito sia insormontabile» fece Harrow, dopo aver riguadagna-
to la sua compostezza.
«Molto ottimista! Che cosa usereste?»
«Una barriera corporale; legame epidermico, alta densità.»
«Provate.»
Harrowhark piegò le dita, lentamente. Gideon la guardò mentre
gli occhi, incorniciati da un fitto di robuste ciglia nere, le si riduce-
vano a due fessure d’ossidiana. Allungò di nuovo la mano oltre la li-
nea. Ci fu una breve esplosione di scintille azzurre; Harrow ritirò la
mano, stupefatta e furibonda. Le dita si erano raggrinzite in mon-
cherini nodosi; l’unghia del mignolo le era cascata del tutto. Gli orli
della manica erano smangiati e bucherellati come se fossero stati at-
taccati dalle tarme. Gideon si protese per l’incontenibile desiderio
di fare qualcosa, ma Harrow la trattenne con la mano sana, fissan-
do quella danneggiata che si stava piano piano rigenerando. Dulci-
nea la osservava con aria sollecita: Protesilaus incombeva nei pres-
si delle scale.
Harrow scosse il braccio e un braccialetto le scivolò sulla mano fe-
rita, bande di spugnoso materiale osseo le si avvolsero attorno alle
nocche prima di formare delle spesse placche scheletriche. Con quel
guantone, allungò di nuovo la mano. «Non funzionerà» commentò
Dulcinea, tutta fossette.
… Il guanto esplose in una miriade di frammenti d’osso. Quelli che
avevano superato la linea gialla si frammentarono ulteriormente, de-
gradando fino a polverizzarsi. Il guanto si disgregò in grossi tocchi,
dissolvendosi in sabbia fine prima ancora di toccare terra, e Harrow
ritirò di botto la mano, analizzandone per la terza volta l’aspetto mi-
serevole. Crollò a sedere sulla scala e una goccia di sudore sangui-
nolento le colò lungo la tempia mentre, lontana dalla barriera, la sua
mano si rilassava fino a tornare integra. Gideon avrebbe tanto volu-
to esclamare: “Ma cosa cazzo…?”.
«Sono due incantesimi sovrapposti» disse Dulcinea.
«Non possono esserci due incantesimi adiacenti. È impossibile.»
«Ma è vero. Sono davvero contigui, non solo intrecciati o congiun-

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ti. Un lavoro davvero sublime. Le persone che l’hanno creato dove-


vano essere dei geni.»
«Una metà, allora, è senescenza…»
«E l’altra metà è un campo entropico» disse Dulcinea con semplicità.
Gideon seguì lo sguardo di Harrow correre lungo la distesa di me-
tallo ondulato con il suo debole bagliore, fino al plinto che splendeva
all’altra estremità come un faro. Harrow risucchiò una guancia e se
la morsicò – era sempre il sintomo di una furiosa riflessione, consta-
tò Gideon – continuando ad aprire e chiudere le dita come se fosse
ancora preoccupata per la loro integrità. Si cavò di tasca una vecchia
nocca color avorio e la passò a Gideon. «Lancia» le ordinò.
Gideon, docile, lanciò. Un ottimo lancio – la nocca colpì il campo in
alto e viaggiò per circa mezzo metro prima di frazionarsi in una piog-
gia di particelle grigie. Lo sguardo di Harrow era fisso sulle schegge
in via di dissoluzione: ne scaturirono altri piccoli spilli e speroni os-
sei che si raggrinzirono, morendo ancora prima di nascere – ne sal-
tò fuori un altro mentre Harrow stringeva il pugno – e poi più nien-
te. Non era rimasto neanche un osso.
Dulcinea espirò, ammirata: «È di una rapidità impressionante».
«Allora» commentò l’adepta della Nona Casa, «è, e non lo dico a
cuor leggero, impossibile. È la trappola mortale più efficiente che io
abbia mai visto. La senescenza decompone qualsiasi cosa prima che
possa arrivare dall’altra parte, e il campo entropico, Dio solo sa come
faccia a reggere, disperde ogni tentativo magico di controllare la velo-
cità del decadimento. Ma perché l’intera stanza non è collassata? Le
pareti dovrebbero essere ridotte a un cumulo di polvere.»
«Il campo e i rivestimenti sono separati da pochi micrometri – for-
se la Nona potrebbe creare un costrutto molto molto piccinino da in-
trodurre in quella fessura» disse la Settima, speranzosa.
Harrow rispose, con un tono da abisso oceanico: «La Nona Casa
non ha ancora impiegato le sue arti su costrutti… piccinini».
«Prima che me lo domandiate, non è nemmeno un rompicapo che
richiede del pensiero laterale» disse Dulcinea. «Non si può passare
dal pavimento perché è di acciaio massiccio e non si può passare dal
soffitto perché anche quello è di acciaio compatto, e non ci sono al-
tre vie d’accesso. Palamedes Sextus ha anche stimato che si potrebbe
camminare forse per tre secondi, prima di morire.»

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Harrow si fece attentissima, all’improvviso. «Sextus l’ha visto?»


«Ho chiesto a lui per primo» disse Dulcinea, «e quando gli ho par-
lato del metodo, mi ha risposto che non avrebbe mai fatto una cosa
del genere. Mi è sembrata un’affermazione affascinante. Mi piacereb-
be conoscerlo meglio.»
E con quello si guadagnò ogni atomo dell’attenzione di Harrowhark
Nonagesimus. Dulcinea passò con noncuranza le stampelle a Prote-
silaus, una alla volta, e lui le afferrò al volo senza neanche pensarci –
fico, Gideon fu costretta ad ammetterlo. Si mise a sedere senza trop-
pa grazia sulle scale, abbastanza vicino a Harrow, e disse: «Un modo
per farlo c’è… ma lui si è opposto. Mi dispiace di non averlo ammesso
prima… ma voi eravate la mia seconda scelta. Se le vestali nere non
sono disposte a oltrepassare questa linea, non credo che nessun al-
tro lo farà. E io non posso, perché non sono fisicamente in grado di
camminare fin là senza assistenza. Se svenissi o mi venisse uno sva-
rione a metà strada, significherebbe morte certa».
«E che cosa sarebbe» disse Harrow con un tono che lasciava pre-
sagire guai «questa cosa che persino Palamedes Sextus si è rifiuta-
to di fare?»
«Sifonaggio» disse Dulcinea.
La faccia di Harrow si trasformò, di scatto, in una persiana chiusa.
«E non lo farò nemmeno io» le disse.
«Non intendo il sifonaggio dell’anima… non proprio. Quando
Maestro Octakiseron sifona il suo paladino, spedisce la sua anima
da qualche altra parte e poi sfrutta lo spazio che questa si è lasciata
alle spalle. Il potere che fluisce per occupare quello spazio continua
a riempirlo, finché entrambi sopravvivono. Voi non dovrete manda-
re nessuno da nessuna parte. Ma il campo entropico prosciugherà le
vostre riserve di thanergia appena supererete la linea, quindi avre-
te bisogno di attingere a una fonte di energia collocata su questo lato
della linea, dove il campo non può toccarla. Capite?»
«Non trattatemi con condiscendenza, Lady Septimus. Certo che
capisco. Comprendere il problema non è nemmeno lontanamente pa-
ragonabile all’implementazione di una soluzione. Dovevate proporlo
a Octakiseron e alla sua vena umana.»
«Avrei potuto, forse» disse Dulcinea con candore, «se Pro non gli
avesse fatto un occhio nero.»

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«Quindi, tecnicamente» disse Harrow, acida come una batteria


«siamo la vostra terza scelta.»
«Be’, Abigail Pent era una maga spiritista assai talentuosa» disse Dul-
cinea, ma tagliò corto quando si accorse dell’espressione di Harrow.
«Mi dispiace! Vi sto punzecchiando! No, non credo che l’avrei chie-
sto all’Ottava Casa, Reverenda Figlia. C’è qualcosa di freddo, pallido
e inflessibile negli Ottavi. Ce l’avrebbero fatta in scioltezza, credo… e
forse il punto è proprio quello. E ora Abigail Pent è morta. Che cosa
dovrei fare? Se foste voi a domandarlo a Sextus per me, credete che
acconsentirebbe? Sembrate conoscerlo meglio di me.»
Harrow si alzò dalla scala. Dulcinea si era sporta verso di lei, con
quel bocciolo di viso tra le mani, assorbendo ogni suo movimento
con la solita espressione di innocenza studiata, e Harrow non sem-
brava essersene manco accorta. Gideon stava amministrando senti-
menti complicati, ora che non si trovava più al centro dell’attenzio-
ne della Settima.
Con uno svolazzo di vesti inchiostrate, Harrowhark voltò le spal-
le alla rampa. Più che squadrarla, trapassò Dulcinea con lo sguardo.
«Presumiamo che io accetti la vostra ipotesi» disse. «Per conservare
sufficiente thanergia per le mie barriere all’interno del campo, avrei
bisogno di stabilire un punto di sifonaggio al suo esterno. La fonte
più plausibile di thanergia sareste… voi.»
«Non si può spostare la thanergia in quel modo, da un posto all’altro»
disse la Settima, con una cortesia guardinga. «Deve trattarsi di vita per
morte… o morte per una specie di vita, come fanno i Secondi. Dovre-
ste prendere la mia thalergia…» alzò una mano malandata lasciando
che le tornasse fluttuando vicino al viso, come un aeroplanino di car-
ta alla deriva. «Io? Riuscirei a farvi percorrere magari… dieci metri.»
«Ci aggiorniamo» disse Harrowhark.
Harrow prese Gideon per il braccio e, in pratica, la trascinò su per
le scale, fuori nell’anticamera e poi nel corridoio. Il rumore della por-
ta che sbatteva dietro di loro riecheggiò lungo il condotto. Gideon
si ritrovò a fissare una Harrowhark Nonagesimus carica a pallettoni,
col cappuccio tirato indietro per rivelare due occhi di un nero splen-
dente, in mezzo al bianco viso dipinto.
«“Avulsione”» disse con amarezza. «Ma certo. Nav, dovrò poter
contare ancora una volta sulla tua fiducia.»

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«Ma perché ci tieni tanto?» domandò Gideon. «So che non lo stai
facendo per Dulcinea.»
«Lascia che ti illustri chiaramente la faccenda. Non nutro alcun in-
teresse per le magagne di Septimus» disse Harrow. «La Settima Casa
non è nostra amica. Ti stai rendendo oltremodo ridicola con la tua
Dulcinea. E ancora meno mi piace il suo paladino…» («Ecco qua, un
bello sputo in faccia a Protesilaus, dal niente» fece Gideon.) «… ma
porterei a termine la prova che ha fatto inorridire Sextus. Non per ot-
tenere un vantaggio. Ma per insegnargli a guardare in faccia la real-
tà. Hai capito in che consiste la cosa?»
«Sì» disse Gideon. «Risucchierai la mia energia vitale per arrivare
a quella scatola che c’è dall’altra parte.»
«Un riassunto brutale, ma sì. Come sei arrivata a questa conclusione?»
«Perché Palamedes non lo farebbe» le disse, «ha perso completa-
mente la brocca per Camilla la Sesta. Okay.»
«Che cosa intendi con “okay”?»
«Intendo okay, lo faccio» disse Gideon, nonostante larga parte del
suo cervello stesse torcendo i capezzoli a quell’altra porzione di cer-
vello che aveva acconsentito. Masticò una scaglia umidiccia di pittura
da labbra, si levò gli occhiali da sole e se li ficcò in tasca. Ora poteva
guardare Harrow dritto negli occhi. «Preferisco essere la tua batteria
che sentirti frugare nella mia testa. Vuoi spremermi? Spremimi tutta.»
«In nessuna circostanza proverò mai il desiderio di spremerti»
disse la sua necromante, la bocca piegata in una smorfia sempre
più disperata. «Nav, tu non sai con esattezza a che cosa stai andan-
do incontro. Ti prosciugherò per arrivare dall’altra parte. Se, in un
qualunque momento, mi scaccerai, se ti rifiuterai di sottometterti,
io morirò. Non l’ho mai fatto prima. Il procedimento sarà imperfet-
to. Sarà… doloroso.»
«Come fai a saperlo?»
Harrowhark disse: «La Seconda Casa è celebre per una pratica simile,
al rovescio. Il talento del Secondo necromante consiste nel prosciuga-
re i nemici agonizzanti per rafforzare e rinvigorire il suo paladino…».
«Ganzissimo…»
«Pare che crepino tutti urlando» fece Harrow.
«Mi fa piacere sapere che anche quelli delle altre Case sono dei
mostri» disse Gideon.

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«Nav.»
Le disse: «Lo farò comunque».
Harrowhark si masticò l’interno delle guance con tanta foga che
sembrò lì lì per bucarsele. Giunse i polpastrelli e serrò le palpebre.
Quando parlò di nuovo, cercò di rendere il suo tono calmo e norma-
le: «Perché?».
«Perché me l’hai chiesto, probabilmente.»
Le palpebre marcate si aprirono sfarfallando, rivelando delle mi-
nacciose iridi nere. «Non serviva altro, Griddle? Non avevi bisogno
d’altro? È questo l’intricato mistero che giace nelle profondità della
tua psiche?»
Gideon inforcò di nuovo gli occhiali, nascondendo i sentimenti die-
tro alle lenti scure. Si sorprese a rispondere: «Non ho mai voluto al-
tro» e per salvarsi la faccia, completò il quadro con «stracciapalle.»
Quando tornarono, Dulcinea era ancora seduta sulle scale e stava
parlando a voce molto bassa con il suo paladino, che si era accovac-
ciato e la ascoltava con il medesimo mutismo con cui un microfo-
no ascolterebbe il suo oratore. Quando si accorse che la coppia del-
la Nona Casa era riapparsa nella sala, cercò stentatamente di tirarsi
su – Protesilaus si alzò insieme a lei, offrendole un braccio per soste-
nersi – mentre Harrowhark diceva: «Tenteremo».
«Potete fare pratica, se volete» disse Dulcinea. «Non sarà sempli-
ce per voi.»
«Mi domando perché mai lo supponiate» disse Harrowhark.
Dulcinea sorrise, tutta fossette. «Non dovrei, vero?» le disse. «Be’,
come minimo posso prendermi cura di Gideon la Nona mentre voi
sarete laggiù.»
Gideon continuava a non capire perché qualcuno avrebbe dovuto
prendersi cura di lei. Si piazzò in fondo alle scale, sentendosi un’ap-
pendice inutile, la mano stretta sull’impugnatura della spada, come se
appellandosi alla pura forza di volontà potesse ancora usarla. Le sem-
brava cretino essere una prima paladina, quando non poteva fare altro
che fungere da grossa batteria. La sua necromante si fermò davanti a
lei con uno stupore quasi del tutto analogo, si sfregava le mani come
se non sapesse ancora bene cosa farci. Poi toccò Gideon sul lato del
collo, le dita guantate ferme sulla vena pulsante, e inspirò impaziente.
Non sentì niente, sulle prime. A parte Harrow che le toccava il col-

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lo, che già di per sé era un viaggio di sola andata per Nessun Dove.
Ma era solo Harrow che le toccava il collo. Sentì il sangue pulsarle
nell’arteria. Si sentì deglutire, e quello che aveva deglutito le andò giù,
muovendosi contro il palmo di Harrow. Forse sentì una piccola fitta
– un brivido attorno al cranio, uno spasmo tattile – ma non si tratta-
va della stessa pressione e della scarica che ricordava da Reazione e
Visualizzazione. La sua adepta fece un passo indietro, pensosa, chiu-
dendo e aprendo le dita.
Poi si voltò e si tuffò oltre la barriera, e fu lì che Gideon sentì la sca-
rica. Cominciò nella mandibola: esplosioni di dolore che si propaga-
vano dalla mascella ai molari, l’elettricità che le scoppiava sul cuoio
capelluto. Era Harrow e camminava nella terra di nessuno; era Gi-
deon, il cranio scosso dai tremori, dietro alla linea. Si mise a sede-
re bruscamente sulle scale e non prestò attenzione a Dulcinea, che
si era protesa verso di lei prima di ritrarsi. Era come se Harrow aves-
se legato una corda a tutti i suoi recettori del dolore e la stesse calan-
do giù in un abisso profondo. Osservò debolmente la sua necroman-
te che avanzava, un passo lento e meticoloso dopo l’altro in mezzo a
quella vasta spianata metallica. Attorno a lei si era addensata un’in-
solita foschia. Gideon ci mise un po’ a rendersi conto che l’incanta-
mento stava divorando i neri paramenti ufficiali di Harrow, riducen-
doglieli in polvere attorno al corpo.
Un’altra saetta folgorante le trapassò la testa. La sua reazione istin-
tiva fu di respingerla, di opporre resistenza alla percezione di Har-
row – quella sensazione di pressione schiacciante – la sensazione di
perdita da trasfusione di sangue. Delle luci brillanti danzavano nel
suo campo visivo. Cadde sul fianco e percepì in maniera disgiunta la
presenza di Dulcinea, la sua testa posata sulla coscia smilza di Dul-
cinea, gli occhiali che le scivolavano giù dal naso e sferragliavano sul
gradino successivo. Guardò Harrow che camminava come se fosse
controvento, offuscata da particelle nere – e poi si ritrovò a espelle-
re copiose e orrende fontane di sangue. La vista le si offuscò di nuo-
vo, grigiastra, e il respirò le balbettò in gola.
«No» disse Dulcinea. «Oh, no, no, no. Stai sveglia.»
Gideon non riuscì a dire altro che «Blearrghhh», principalmen-
te perché c’era del sangue che le fuoriusciva con entusiasmo da ogni
buco della faccia. Poi, all’improvviso, smise: si era asciugato, rinsec-

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chito, lasciandola con la lingua disidratata e arida. Il dolore migrò al


cuore e glielo massaggiò, elettrificandole il braccio sinistro e le dita
della mano sinistra, la gamba sinistra e le dita del piede sinistro. Era
oltre la sofferenza. Era come se qualcuno le stesse risucchiando le
interiora con una cannuccia enorme. Con la vista ormai affievolita
scorse Harrowhark che se ne andava; non era più avvolta dai fram-
menti ma delineata da una forte luce gialla che sfarfallava e le divo-
rava i talloni e le spalle. Le lacrime affiorarono spontanee agli occhi
di Gideon e sparirono, gommose. Tutto divenne indistinto, grigio e
dorato, e poi solo grigio.
«Oh, Gideon» stava dicendo qualcuno, «povera piccolina.»
Il dolore le scese lungo la gamba destra, poi nelle dita del piede
destro, e poi su a zig-zag per la spina dorsale. Conati a vuoto. Quel-
la pressione c’era ancora – la pressione di Harrow – e la consapevo-
lezza che, se l’avesse contrastata, se solo l’avesse spazzata via, cazzo,
sarebbe scomparsa. Ne fu penosamente tentata. Gideon stava speri-
mentando quel genere di dolore in cui la coscienza scompare e resta
solo quel che c’è di animalesco: scalciò, gridò come un’idiota, sgroppò
e si lamentò. Scrollarsi Harrowhark di dosso, o scivolare nel sonno,
tutto pur di trovare sollievo. Se solo avesse percepito di dover prova-
re a mantenere quella connessione, l’avrebbe già persa da un pezzo;
Gideon era semplicemente sopraffatta dalla forza con cui desiderava
respingerla, per non finire rannicchiata in un angolo a urlare. Stava
urlando? Oh, merda, stava urlando.
«Va tutto bene» stava dicendo qualcuno, oltre il rumore di fon-
do. «Stai bene. Gideon, Gideon… sei così giovane. Non buttarti via.
Sai, non ne vale la pena… per niente di tutto questo ne vale la pena.
È una crudeltà. È una tale crudeltà. Sei così giovane… energica… e
viva. Gideon, tu vai benissimo, così come sei… ricordatelo, e non la-
sciare che ti facciano più una cosa del genere. Mi dispiace. Prendia-
mo così tanto. Mi dispiace davvero.»
Più tardi si sarebbe ricordata ogni parola, forte e chiaro.
Le stavano tamponando la faccia e la fronte. Il tatto non risponde-
va. Aveva perso il controllo degli arti, e ciascuno si dimenava in ma-
niera indipendente dagli altri, un agglomerato turbolento di nervi e
panico. Le stavano accarezzando i capelli, dolcemente, e lei non vo-
leva che glieli toccassero, ma aveva il terrore che se avessero smesso

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si sarebbe buttata nel campo, ruzzolando, e si sarebbe dissolta pur di


fuggire. Si aggrappò al suono delle parole per non impazzire.
«È arrivata fino in fondo» disse la voce. «È arrivata alla scatola… hai
trovato la trappola, Reverenda Figlia? Perché c’è una trappola, vero?
Gideon, ti metterò una mano sulla bocca. Lei ha bisogno di pensa-
re.» Una mano le si posò sulla bocca e Gideon la morsicò. «Ahi, sei
proprio selvatica. Eccola… forse credevano che, se fosse stato trop-
po facile prenderla, qualcuno avrebbe completato l’esperimento in
un’altra maniera. Dev’essere a prova di imbecille, Gideon… io lo so.
Vorrei avercela fatta io. Vorrei esserci io lassù. Ha aperto la scato-
la… mi chiedo… sì, ha capito! Temevo potesse rompere la chiave…»
Raggomitolata su quel grembo esile, Gideon riuscì a rispondere
appena con rantoli, gorgoglii o schiamazzi, smorzati soltanto da una
mano piuttosto smilza. «Brava ragazza» stava dicendo la voce. «Oh,
che brava. L’ha presa, Gideon! E io sono qua con te… Gideon dagli
occhi dorati. Mi dispiace tanto. È tutta colpa mia… mi dispiace tanto.
Resta con me» disse la voce facendosi più pressante, «resta con me.»
Gideon si rese conto all’improvviso di avere molto freddo. Era cam-
biato qualcosa. Inspirare, ogni volta, si era fatto più difficile. «È in-
ciampata» disse la voce, distaccata, e Gideon forzò: non per oppor-
si alla connessione, ma per tuffarcisi dentro. Il dolore che ne seguì fu
così intenso che temette di pisciarsi addosso, ma quel picco di gelo si
attenuò. «Si è alzata… Gideon, Gideon, è in piedi. Ancora un pochi-
no. Tesoro, stai bene. Povera piccolina…»
Ora Gideon aveva paura. Il suo corpo era pervaso da quella sensa-
zione di molle ubriachezza che precede lo svenimento ed era molto
difficile rimanere coscienti. Tre secondi prima di morire, aveva calco-
lato Palamedes. Qualsiasi cosa, a parte Harrow che oltrepassava quel-
la barriera, avrebbe reso la lotta vana. La mano le toccò la faccia, la
bocca, le sopracciglia, le carezzò le tempie. Come se riuscisse a leg-
gerle i pensieri sul viso, la voce sussurrò: «Non farlo. Morire è molto
semplice, Gideon la Nona… basta lasciare che accada. È molto peggio
quando non succede. Ma coraggio, pulcina. Non ora, non ancora».
Era come se tutta la pressione che le tappava le orecchie si stesse
liberando. Quella voce lontana e musicale le disse: «Gideon, magnifi-
ca creatura, continua così… nutrila… ce l’ha quasi fatta. Gideon? Gi-
deon, occhi aperti. Resta qui. Resta con me».

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Impiegò una quantità infinita di secondi per restare lì: per soc-
chiudere gli occhi. Quando riuscì ad aprirli, Gideon scoprì, preoc-
cupandosene vagamente, di essere cieca. Qualcosa di nero si stava
muovendo – ci mise qualche istante a rendersi conto che si muoveva
molto in fretta: stava correndo. Piuttosto allarmata, Gideon capì che
stava cominciando a morire. I colori le tremolarono davanti al viso.
Il mondo vorticò, poi vorticò nel senso opposto, turbinando senza
ragione. L’aria cessò di fluire. Sarebbe anche stato piacevole… solo
che era uno schifo.
Una nuova voce disse: «Gideon? …Gideon?».
Quando aprì di nuovo gli occhi, tutto, per un momento, fu di una
chiarezza e di una precisione sfolgoranti. Harrow Nonagesimus era
inginocchiata accanto a lei, nuda come il giorno in cui era venuta alla
luce. Aveva i capelli di un paio di centimetri più corti, le estremità delle
ciglia erano scomparse e – cosa ancor più agghiacciante – era del tut-
to spogliata dalle pitture facciali. Era come se qualcuno le avesse dato
una passata con una pezzuola calda. Senza pitture somigliava un po’
a un furetto, col mento appuntito, la mandibola affusolata, gli zigomi
alti e marcati e la fronte ampia. C’era un segnetto sul labbro superio-
re, in corrispondenza del solco, che conferiva a una bocca altrimen-
ti dura e indomita l’aspetto di un fiocco. Il mondo traballava, ma ac-
cadeva principalmente perché Harrow le stava scrollando una spalla.
«Ha-ha» disse Gideon, «è la prima volta che non mi chiami Grid-
dle.» E morì.

* * *

Be’, svenne. Ma quel che sentì somigliava un casino alla morte. Sve-
gliarsi fu un po’ come risorgere, come un guscio prosciugato che torna
alla vita dopo l’inverno, trasformandosi in un nuovo germoglio verde.
Un nuovo germoglio verde pieno di problemi. Il suo intero organismo
le pareva un nervo traumatizzato. Braccia magre ed esangui la culla-
vano; sollevò lo sguardo e trovò il viso tenero e sciupato di Dulcinea,
i cui occhi erano ancora del blu polveroso dei mirtilli. Quando si rese
conto che Gideon era sveglia, tornò a brillare, vivace.
«Piccolona mia» le disse, e la baciò senza imbarazzo sulla fronte.
Harrowhark era seduta sul pavimento freddo, dall’altro lato. Era av-

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volta nel mantello di Gideon e da una gelida dignità. Persino le bor-


chie d’osso che portava alle orecchie erano scomparse, lasciando dei
buchetti nel posto in cui sarebbero dovute essere. «Lady Septimus»
disse, «giù le mani dalla mia paladina. Nav, riesci ad alzarti?»
«Oh, Reverenda Figlia, no… concedetele un minuto» la implorò
Dulcinea. «Pro, aiutala… non lasciare che si alzi da sola.»
«Non voglio che il vostro paladino la tocchi» disse Harrow. Gi-
deon avrebbe voluto dirle: “Nonagesimus, piantala con la sceneggia-
ta da sacra vestale del nero pipistrello”, ma si rese conto di non riusci-
re a pronunciare nulla. La bocca pareva una spugna asciutta. La sua
adepta frugò nelle tasche del mantello e ne ricavò alcuni frammenti
d’osso e in Gideon si insinuò l’orrida consapevolezza che ce li avesse
ficcati lei, come riserva. «Ripeto… giù le mani.»
Dulcinea ignorò completamente Harrow. «Sei stata incredibile»
disse a Gideon, «stupefacente.»
«Lady Septimus» ribadì l’altra necromante, «non ve lo chiederò
una terza volta.»
Il meglio che riuscì a fare Gideon fu rivolgere nella direzione di
Dulcinea una debolissima alzata di pollici. Dulcinea si districò da lei,
il che era un vero peccato; emanava tepore e quella sala era più fred-
da delle tette di dieci suore. Si allungò un’ultima volta per accarezza-
re la fronte di Gideon. Le sussurrò maliziosa: «Bei capelli».
Harrow disse: «Septimus».
Dulcinea si trascinò sulle scale. Gideon rimase a guardare con un fle-
bile interesse Harrow che inspirava e faceva scrocchiare le nocche: sen-
za la minima riluttanza, la sua necromante si chinò e si buttò un brac-
cio di Gideon sulle spalle esili. Prima che Gideon riuscisse anche solo a
pensare Oh cazzo, Harrowhark, con le ginocchia che tremavano, l’ave-
va tirata in piedi di peso. Ci fu un momentaccio in cui le venne voglia
di vomitare, un buon momento in cui riuscì a trattenersi e un altro mo-
mentaccio in cui si rese conto di averlo evitato solo perché non poteva.
La Signora della Settima stava dicendo: «Revenda Figlia… vi sono
tremendamente grata per quello che avete fatto. Sono desolata per
le conseguenze».
«Non dovete. È stata una decisione d’affari. Riceverete la vostra
chiave quando avrò finito.»
«Ma Gideon…»

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GIDEON LA NONA  /  237

«La questione non vi riguarda.»


Dulcinea posò le mani in grembo e inclinò il capo. «Capisco» dis-
se sorridendo con una certa mortificazione.
Harrow, scalza, sbuffò tra sé e sé mentre tentava di issare Gideon
su per la rampetta di scale, fermandosi a riprendere fiato sull’ultimo
gradino. Gideon poteva solo guardare, costringendosi a riguadagna-
re pienamente coscienza, stupefatta dall’insensibilità del suo corpo.
Non poteva fare altro, se non voleva liquefarsi nella presa di Harrow.
In cima alle scale si fermarono, e la Reverenda Figlia si voltò, con
un’occhiata indagatrice.
Di punto in bianco, disse: «Perché volevate diventare Littrice?».
Gideon mormorò: «Harrow, non è che puoi chiedere a una perso-
na perché vuole fare il Littore, così» ma venne beatamente ignorata.
L’altra donna si era appoggiata al braccio di Protesilaus. Sembra-
va afflitta da una tristezza straordinaria – rammaricata, persino – e
quando incrociò lo sguardo di Gideon, un piccolo sorriso le incre-
spò gli angoli della bocca, ma poi scomparve di nuovo. Alla fine, ri-
spose: «Non volevo morire».
La via del ritorno, attraverso l’anticamera gelida fino al corridoio,
fu tremenda: Gideon fu costretta a staccarsi da Harrow per riposarsi
con la guancia incollata al rivestimento di metallo freddo della por-
ta. La sua necromante aspettò con insolita pazienza che ritrovasse
una vaga parvenza di consapevolezza, e poi proseguirono traballanti
– Gideon come un’ubriaca, Harrow, a piedi nudi, che cercava di evi-
tare la griglia.
«Potevi anche non fare la stronza» riuscì a dire, roca. «Mi piace, lei.»
«A me non piace» disse Harrowhark. «E non mi piace il suo
paladino.»
«È un normalissimo omone, continuo a non capire perché dobbia-
mo scaldarci tanto. Hai preso la chiave?»
La chiave apparve nell’altra mano di Harrow. Splendeva, nel suo
argenteo biancore, ed era semplice e austera, con un unico anello a
fungere da testa e tre sobrie dentellature lungo il fusto. «Bella» fece
Gideon. Si frugò in una delle tasche interne e tirò fuori il portachia-
vi; la chiave scivolò accanto a quella del portello e alla chiave rossa
di Reazione con un disordinato tintinnio musicale. Poi Gideon disse:
«Mi dispiace che ti si siano squagliati i vestiti».

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«Nav» disse Harrow lentamente, con la determinazione di chi sta


per mettersi a urlare «stai zitta. Non sei… non sei… del tutto a po-
sto. Ho sottostimato il tempo che mi sarebbe servito. Il campo era
diabolico, molto peggio di quanto descritto da Septimus. Prima che
capissi che dovevo ricalibrarmi in corsa mi aveva già risucchiato i li-
quidi dalle palle degli occhi.»
«Ma a quel punto ti aveva mangiato pure le mutande» fece Gideon.
«Nav.»
«Ho appena attraversato un’esperienza di pre-morte» le disse, «la-
scia che mi goda il momento.»
Gideon, successivamente, non riuscì a spiegarsi come avessero fat-
to ad arrivare in cima alla scaletta a pioli: con una strana precisione
sognante Harrowhark la sostenne e di prepotenza la trascinò giù per
i lunghi corridoi tortuosi della Casa di Canaan, fino agli alloggi oc-
cupati dalla Nona Casa, senza manco avvalersi di un briciolo di ma-
gia e indossando soltanto un voluminoso mantello nero. Di tanto in
tanto si domandava se, in effetti, non avesse tirato le cuoia per davve-
ro e se quello non fosse il suo aldilà: vagare per saloni vuoti con Har-
rowhark Nonagesimus, seminuda e costernata, che non aveva altra
scelta se non quella di trattarla con delicatezza, maneggiandola come
se, da un momento all’altro, potesse esplodere in un mucchio di frat-
taglie fradicie e sbrindellate.
Lasciò addirittura che Harrowhark la accompagnasse alle coperte
che costituivano il suo letto. Gideon, troppo esausta, riuscì soltan-
to a coricarsi e a starnutire per tre volte in rapida successione, ogni
starnuto fu come un gong emicranioso che le riecheggiava fra le ca-
vità sinusali e le ossa del cranio.
«Smettila di guardarmi così» ordinò alla fine a Harrow, imbrattan-
do di moccio sanguinolento il fazzoletto. «Sono viva.»
«Ci è mancato poco» disse Harrow a mentre fredda, «e la cosa non
sembra nemmeno tangerti. Non attribuire un prezzo così esiguo alla
tua vita, Griddle. Che tu perda l’istinto di conservazione non rien-
tra nei miei interessi, affatto. A cosa servono questi teoremi?» sbottò
all’improvviso. «Che cosa ne abbiamo ricavato? Qual era l’obiettivo?
Me ne sarei dovuta andare, come Sextus, ma io non posso permet-
termelo! Devo diventare Littrice adesso, prima di…»
Spiluccava le parole come si farebbe con la carne su un osso. Gi-

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deon rimase in attesa di sapere «prima di» cosa, ma non c’era altro in
arrivo. Chiuse gli occhi e aspettò, ma li riaprì in preda al panico, ren-
dendosi conto di aver scordato quanto tempo era passato da quan-
do li aveva chiusi. Harrowhark era ancora lì seduta, con la medesima
espressione incuriosita stampata sulla faccia struccata. Non sembra-
va per niente lei.
«Riposati» le disse imperiosa.
Per la prima volta, Gideon le obbedì senza il minimo scrupolo.

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Quando Gideon più tardi si svegliò Dominicus
aveva inondato la stanza della luce aranciata della sera. Aveva i cram-
pi per la fame. Rigirandosi nel letto, venne assalita da una serie di bi-
gliettini dal crescente grado di aggressività.

Ho preso le chiavi e sono andata a esaminare il nuovo laboratorio.


NON venire a cercarmi.

Era una palese ingiustizia, anche se le delizie che si celavano dietro


agli usci sigillati dei Littori potevano essere veramente apprezzate solo
da qualcuno che sguazzasse nei teoremi necromantici, ma comunque:

NON uscire dai nostri alloggi. Chiederò a Sextus di visitarti.

Si era rivolta a Palamedes di sua spontanea volontà? Harrow dove-


va essersi presa un bello spavento. Gideon si controllò istintivamen-
te il polso per accertarsi di non essere ancora morta.

NON andare da nessuna parte. Ti ho lasciato un po’ di pane in un


cassetto.

Gnam.

“Da nessuna parte” in questo caso indica il lasciare gli alloggi


per andare in qualsiasi altro punto della Casa di Canaan, cosa
che non sei autorizzata a fare.

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«Non mangerò di certo della roba schifosa da un cassetto» disse Gi-


deon, e rotolò giù dal letto.
Stava da schifo, come se non avesse dormito per giorni e giorni,
poi si ricordò che in effetti era così, a eccezione della notte prece-
dente. Si sentiva debole come un gattino. Le servirono tutte le sue
forze per arrivare in bagno, sciacquarsi quella pittura oscena dalla
faccia e bere dal rubinetto come un animale. Lo specchio le restituì
l’immagine di una ragazza malconcia il cui sangue, probabilmente,
ricordava il succo di frutta, anemica fin sopra alle orecchie. Si rav-
viò i capelli con le dita e pensò a Dulcinea, arrossendo pesantemen-
te, chissà perché.
L’acqua fu corroborante. Il pane nel cassetto – che divorò fameli-
ca, come uno spettro – no. Gideon si frugò nelle tasche, nel caso ci
avesse lasciato qualcosa dentro – una mela, qualche noce – e sobbal-
zò, sorpresa, quando ritrovò il bigliettino, domandandosi poi perché
si fosse spaventata. La sua memoria recuperò il passo di ritardo che
la separava dalla piena comprensione: il pezzetto di velina era anco-
ra lì, anche se quel pezzo di velina era sempre stato lì, il che implica-
va un’orrenda eventualità.
Bussarono alla porta. Perplessa, senza pitture e affamata, andò
ad aprire. Perplessa, provatissima e impaziente, Camilla la Sesta la
squadrò.
Sospirò, palesemente già stufa delle cazzate di Gideon, e sollevò
una mano piegando tre dita. «Quante sono?» le domandò.
Gideon sbatté le palpebre. «Quante sono quelle piegate o quan-
te sono quelle che mi stai facendo vedere? Ma vale anche il pollice?»
«La vista è a posto» disse Camilla tra sé e sé, ritirando la mano.
Entrò nella stanza sgomitando, come se fosse un suo diritto, e con
un tonfo depositò una borsa pesante sul pavimento, inginocchiando-
si per frugarci dentro. «Anche il linguaggio. Dove siamo? Perché sia-
mo venuti qui? Come ti chiami?»
«Come si chiama tua madre» disse Gideon. «Perché sei qua?»
La compatta paladina in grigio della Sesta non sollevò neanche lo
sguardo per risponderle. Era interessante guardarla alla luce: i bei ca-
pelli di un castano pietroso erano tagliati di netto appena sotto il men-
to, conferendole il vago aspetto di un paio di forbici affilate. Guardò
Gideon da sotto in su senza mostrare particolari turbamenti. «La tua

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necromante ha parlato col mio necromante» disse. «Secondo il mio


necromante dovresti essere un cadavere. Respiri?»
«Sì?»
«Sangue? Quando pisci?»
«Senti, ho sempre sognato di poter fare una conversazione del ge-
nere» disse Gideon, «ma sto bene. Har… La mia necromante ha esa-
gerato.» (E questo, per lo meno, sembrò scalfire Camilla. Il suo sguar-
do si ammorbidì, comprensivo. Era la comprensione di chi ha a che
fare con un necromante altrettanto soggetto a reazioni esagerate.)
«Ho solo fame. Ti sembro o non ti sembro a postissimo?»
«Lo sei» disse Camilla, che aveva tirato fuori dalla borsa un ag-
geggio di vetro bulboso dall’aria francamente disturbante. «È pro-
prio quello che mi preoccupa. Il Guardiano dice che dovresti esse-
re in coma. Apri.»
Il bulbo, per fortuna, andava messo in bocca. Un altro andava in-
filato sotto l’ascella. Gideon si sottopose al trattamento perché aveva
già combattuto prima con Camilla la Sesta e nutriva nei suoi confron-
ti un sano timore. L’altra paladina le esaminò le dita dei piedi, i pol-
pastrelli e l’interno delle orecchie. Quel che rilevò – pulsazioni com-
prese, registrandole con puntiglio – venne annotato in un taccuino
voluminoso con un mozzicone di matita. Camilla scandagliò diligen-
te i numeri e poi scosse la testa.
«Stai bene» disse. «Non dovresti. Ma stai bene.»
Gideon disse, schietta: «Perché Sextus non ha voluto fare
l’incantesimo?».
Gli attrezzi vennero puliti e riposti nella borsa. Per un istante, l’altra
paladina non rispose. Poi scostò una ciocca di capelli da quel viso me-
sto e tondo, da dipinto, e disse: «Il Guardiano ha fatto i calcoli. Lui e io
saremmo riusciti a completare le prova, ma… ad alcune condizioni».
«Condizioni tipo?»
«Danni cerebrali permanenti per me» disse sinteticamente Camil-
la, «se lui non fosse riuscito a capire subito come fare.»
«Io sto bene, però.»
«Ma chissà il tuo cervello.»
«La prenderò come una battuta molto sagace. E ho riso, che sia mes-
so agli atti» fece Gideon. «Ma Septimus ha detto che l’Ottava avreb-
be potuto farcela senza problemi.»

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«L’Ottava non addestra paladini» disse Camilla, ancor più asciutta


di prima. «L’Ottava alleva batterie. Abbinamenti genetici per i necro-
manti. Ha avuto accesso al suo paladino sin dall’infanzia. È probabile
che l’Ottavo abbia il cervello danneggiato. Ma non è del suo cervel-
lo che hanno bisogno. E Lady Septimus… è troppo incline a credere
nelle favole. Come sempre.»
Forse era il discorso più lungo che mai le era capitato di sentir pro-
nunciare da Camilla, e Gideon era interessatissima. «Siete amiche,
voi due?»
Le rispose con un’occhiata che no, a livello letterale non l’avrebbe
mummificata, ma che sarebbe comunque riuscita a risucchiare tutti i li-
quidi corporei di chi fosse finito sulla sua traiettoria. Camilla disse: «Lady
Septimus e io non siamo mai state presentate. Senti, devi mangiare».
Saltò fuori che si trattava di un invito. Camilla – palesemente abi-
tuata a fungere da paladina tuttofare – la aiutò ad allacciarsi lo stoc-
co e rimase in attesa mentre Gideon si applicava una quantità fran-
camente trascurabile di pittura sulla faccia. Non avrebbe superato
neanche l’ispezione di una monaca glaucomica in una stanza con le
lampadine spaccate, ma poteva bastare. Non fu costretta ad appog-
giarsi al braccio di Camilla, ma di tanto in tanto riceveva una brusca
spallata che la aiutava a stare in piedi dritta. Mantennero un mutuo
e piacevole silenzio, mentre il tramonto straripava da tutte le fine-
stre e le fessure della Prima Casa, creando pozzanghere rosse e aran-
cioni al loro cospetto.
Di tanto in tanto, uno scheletro dalla cintura bianca tagliava loro la
strada con una camminata fluida, facendo ondeggiare le braccia. Ogni
volta che una sagoma ossuta sbucava da dietro un angolo o superava
ticchettando una soglia, le dita di Camilla stringevano l’impugnatu-
ra dello stocco come puro riflesso condizionato, notò Gideon. Quan-
do si fermarono sulla soglia della sala da pranzo, la Sesta paladina si
bloccò come un averlotto in agguato: delle voci filtravano dall’interno.
«… la Principessa Ianthe ne ha una. Non è la stessa cosa, per nien-
te» stava dicendo qualcuno.
Una figura alta e dorata era in piedi vicino ai tavoli, i capelli co-
lor zafferano spettinati e il sonno negli occhi. Dalle condizioni degli
abiti, si sarebbe detto che ci avesse dormito dentro. Coronabeth, co-
munque, restava magnifica.

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Stava parlando con Maestro, seduto a uno dei lunghi tavoli luci-
dati. Accanto a lui c’era Palamedes, con davanti un pasto non anco-
ra consumato e un foglio così fitto di annotazioni che la carta si era
quasi bucata. Un po’ della tensione sfrigolante che circondava Ca-
milla sembrò acquietarsi, dopo aver raggiunto il punto di ebollizio-
ne. Camilla rilassò le spalle, appena un pochino.
Maestro disse in tono pacato: «Ah, ah, anche questo non è corret-
to. Il proprietario è Naberius il Terzo. Anche se viene custodita per
lui dalla Principessa Ianthe, è comunque sua. Una chiave per la Ter-
za Casa… una e una sola, temo.»
«Le chiavi della Quinta dovrebbero essere consegnate a me, allora.
Per Magnus non è un… non sarebbe stato un problema.»
«Magnus il Quinto ha chiesto una chiave per il complesso, e io non
so dove sia» fece Maestro.
Ustionata dalla brillante luce arancione del sole al tramonto che fil-
trava dalle grandi finestre del soffitto, Corona pareva un re annientato
dal dolore: lo splendido mento era sollevato, le spalle buttate all’indie-
tro con aria di sfida, la bocca tesa e impietosa come il vetro. Gli occhi
violetti sembravano reduci da un pianto, forse di rabbia.
Palamedes si alzò, rumoreggiando con la sedia. Si rivolse con cor-
tesia a quella visione: «Principessa, se lo desiderate, posso scortavi
giù al complesso seduta stante».
Gideon riuscì a sentire Camilla che sibilava sottovoce: «Ma col
cazzo».
Altre sedie strisciarono sul pavimento piastrellato. Gideon non si
era accorta del duo della Seconda Casa al tavolo più lontano: stavano
bevendo del caffè caldo e, come di consueto, parevano appena usci-
te, belle lustre, dalle pagine di una rivista militare. La Capitana Deu-
teros disse: «Mi sorprende che il Guardiano della Sesta Casa sia così
incline a infrangere i patti. Avete detto voi stesso che non si tratta di
un problema risolvibile collettivamente».
«E avevo ragione, Capitana» disse Palamedes, «ma qui si tratta di
qualcosa di innocuo.»
Coronabeth aveva attraversato la sala per avvicinarsi a Palamedes e,
nonostante lui fosse alto, lo sovrastava comunque di una mezza testa
abbondante, considerando anche i capelli. Camilla aveva circumnavi-
gato la stanza per fermarsi dietro al suo necromante, a mezzo passo

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di distanza, mentre Gideon vacillava inerme nelle retrovie. La guer-


ra, però, non occupava i pensieri della Terza. Corona non stava sor-
ridendo, ma la linea della sua bocca era bella, franca e sollecita. Gli
posò una mano sulla spalla. «Fallo per me» gli disse, «e la Terza Casa
dovrà un favore alla Sesta. Aiutami a ottenere le stesse chiavi che ha
mia sorella… e la Terza Casa si inginocchierà al cospetto della Sesta.»
La Capitana Deuteros commentò, gelida: «Innocuo».
«Principessa» disse Palamedes, costretto a sbattere le palpebre su-
gli occhi grigi, estremamente tremuli, per fronteggiare quell’assalto
«non posso. Quel che chiedete è impossibile.»
«Sono seria. Ricchezze, gratifiche militari, materiali per la ricerca»
disse a Palamedes invadendo il suo spazio personale. Gideon, a quel
punto, provava della vera ammirazione per il Sesto – lei, nelle mede-
sime circostanze, si sarebbe messa a iperventilare e sarebbe svenuta.
«La generosa gratitudine della Terza sarà consona ai vostri desideri.»
«Corona. Questa è corruzione gerarchica. La Seconda non lo tol-
lererà, e la Sesta è troppo saggia per accettarlo.»
«Oh, ma chiudi il becco, Judith» le disse. «La tua Casa distribuireb-
be mazzette a destra e a sinistra, se solo avesse dei soldi.»
Judith rispose scandendo: «State insultando la Seconda».
«Non provare a gettarmi il guanto» fece Corona, «Naberius lo
prenderebbe come un regalo di compleanno anticipato. Sesto, cre-
dimi, sono sincera.»
«Non che io non desideri quello che mi state offrendo. È che sta-
te chiedendo l’impossibile» disse Palamedes, con una punta di im-
pazienza in più. «Non potete prendere le chiavi che ha vostra sorella.
Ogni chiave è unica. In tutta franchezza, ne restano solo una o due in
tutta la Casa di Canaan che non sono già state reclamate.»
La sala sprofondò nel silenzio. Le espressioni meticolosamente con-
trollate delle Seconde si congelarono. Corona restò immobile. Anche
la faccia di Gideon doveva aver fatto qualcosa, perché lo smilzo ne-
cromante della Sesta guardò lei, poi guardò le Seconde, e aggiunse:
«Ve ne sarete già rese conto».
Gideon si domandò perché non se ne fosse già resa conto: si do-
mandò perché avesse dato per scontato che… che magari le chiavi
erano infinite, o abbastanza per un mazzo completo per ciascuno. Si
mise a sedere con malagrazia sulla sedia più vicina al tavolo più vi-

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cino, contando a mente le chiavi – la chiave rossa e la chiave bianca


che lei e Harrow avevano conquistato, con l’ultima che di diritto ap-
parteneva per metà a Dulcinea. Dopo un’altra occhiata alle facce cir-
costanti, Palamedes disse con una maggiore irritazione: «Ve ne sare-
te per forza rese conto».
La mano dorata non aveva abbandonato la sua spalla, mentre quel-
la di lui era infilata nella camicia, stretta a pugno. «Ma questo signi-
fica… significa che la sfida deve essere collettiva» fece Corona, con
uno squisito cipiglio. «Se tutti riceviamo solo una tessera del puzzle,
rifiutarsi di condividere la conoscenza implica che nessuno lo possa
risolvere. Dobbiamo mettere tutto in comune, o nessuno di noi di-
venterà mai Littore. Dev’essere così, non è vero, Maestro?»
Maestro sedeva con le mani avvolte attorno alla tazza di te, come
se si stesse godendo il tepore mentre inspirava i riccioli di vapore pro-
fumato. «Non c’è nessuna legge» disse.
«Che proibisca le alleanze?»
«No» disse Maestro. «Quel che intendo è che non c’è nessuna leg-
ge. Potete unire le forze. Potete dirvi qualunque cosa. Potete non dir-
vi niente. Potete mettere in comune tutte le chiavi e le conoscenze.
Non vi ho dato nessuna regola, e non ne esistono altre. Certe cose vi
conduranno rapidamente lungo la strada per il Littorato. Certe cose
renderanno la strada più difficile da percorrere.»
«Siamo comunque soggetti alla legge Imperiale» disse Marta la
Seconda.
«Tutti noi dobbiamo sottostare alla legge Imperiale» concordò la
sua necromante, il cui volto tradiva ora un’ombra di dubbio. «Le re-
gole esistono. Come ho affermato in precedenza, la Prima Casa rien-
tra nella giurisdizione della Coorte.»
«Come vi sia venuta quest’idea…» disse Maestro con asprez-
za – era la prima volta che Gideon lo sentiva esternare anche solo
un minimo moto di biasimo – «io non lo so proprio. Ci troviamo
in uno spazio sacro. La legge Imperiale si basa sulle ingiunzioni
dell’Imperatore, e qui l’Imperatore è l’unica legge. Niente ingiun-
zioni, niente interpretazioni. Vi ho trasmesso la sua regola. Non
ne esistono altre.»
«Ma le leggi naturali… le leggi contro l’omicidio e il furto. Che cosa
ci impedirà di rubarci vicendevolmente le chiavi per mezzo di intimi-

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dazioni, ricatti o inganni? Che cosa potrà impedire a qualcuno di at-


tendere che un altro necromante e il suo paladino raccolgano un nu-
mero sufficiente di chiavi prima di sottrargliele con la forza?»
Maestro disse: «Niente».
Coronabeth aveva finalmente tolto la mano dalla spalla di Palame-
des. Lanciò un’occhiata alla Seconda Casa – una cupa presa di co-
scienza stava prendendo forma sul viso della Capitana Deuteros, men-
tre la Luogotenente Dyas era imperscrutabile come sempre – e poi
guardò Palamedes, che aveva la stessa espressione di un soldato che
ha appena ricevuto una convocazione al fronte. Impercettibilmente,
i suoi occhi e la sua bocca levarono gli scudi.
Corona esclamò: «Ianthe lo deve sapere» e si precipitò fuori dal-
la sala. La sua uscita di scena fu un po’ come un’eclissi: il sole serale
sembrò raffreddarsi e, quando lei scomparve, le fioche luci elettriche
presero vita, tremolando.
Con un gesto di una banalità quasi imperdonabile, uno scheletro
con la cintura bianca spuntò dalla cucina con due piatti fumanti di
tuberi e carne pallida al vapore. Uno dei due fu depositato davanti a
Gideon, che si ricordò di essere famelica. Ignorò il coltello e la for-
chetta che lo scheletro aveva sistemato con precisione ai due lati del
piatto, con il medesimo riguardo di chiunque fosse stato provvisto di
anima, e cominciò a cacciarsi il cibo in bocca con le mani.
Maestro stringeva ancora la tazza, con un’espressione più irrevo-
cabile che tribolata: troppo serafico per essere preoccupato, ma co-
munque pensieroso, un po’ desolato.
«Maestro» disse Palamedes, «quand’è che Magnus il Quinto vi ha
chiesto la chiave per il complesso?»
«Dunque, la sera che è morto» disse Maestro, «lui e la piccola Jean-
nemary. Dopo cena. Ma lei non ha preso la sua. Magnus mi ha chiesto
di tenerla… per sicurezza. Lei non era contenta. Pensavo che, forse,
la Quarta sarebbe venuta a chiedermela oggi. A ben pensarci, però…
se solo potessi fare qualcosa per impedire a entrambi quei fanciulli
di scendere in quel posto, lo farei.»
Sollevò lo sguardo verso il lucernario e l’oscurità che si faceva più
profonda, con i riccioli di fumo della tazza che si assottigliavano lenti.
«Oh, Imperatore delle Nove Case» disse alla notte, «Necrore Su-
premo, Dio fattosi uomo e uomo fattosi Dio: ti abbiamo amato, in

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queste lunghe giornate. I sedici si sono consegnati liberamente a te.


Signore, fa che non accada nulla di quanto già non avevi previsto.»
Seguì uno sbatacchiare di piatti. Erano le Seconde, che, invece di
rimettersi a sedere, stavano radunando le loro posate e accostando le
sedie al tavolo. Se ne andarono, immerse in un silenzio teso, in fila,
senza neanche un’occhiata a chiunque fosse rimasto. Camilla si mise
a sedere di fronte a Gideon e lo scheletro le piazzò davanti il secondo
piatto. Lei usò coltello e forchetta, ma senza una particolare eleganza.
Il necromante della Sesta si stava strofinando le tempie. La sua pa-
ladina lo fissò e lui, sbrigativo, mangiò un paio di bocconi di carne e
verdura. Poi la smise di fingere e mise giù la forchetta.
«Cam» disse. «Nona. Quando avete finito, venite con me.»
Gideon non ci mise molto a finire – in ogni caso, non si era preoc-
cupata un granché di masticare. Guardò con occhi appannati il piat-
to di Camilla la Sesta; Camilla, che aveva quasi finito la sua porzione,
roteò gli occhi e spinse i rimasugli verso Gideon. Un gesto che, per
il resto dell’eternità, le rese Camilla molto cara. Poi entrambe segui-
rono un ingobbito Palamedes, che inforcò la porta da cui le Secon-
de erano uscite e proseguì giù per un corridoio e una breve rampa di
scale, poi girò la maniglia a timone di una porta di ferro con la fine-
strella di vetro bordata da uno spesso strato di ghiaccio.
Era lì che i sacerdoti a quanto pare conservavano qualsiasi cosa
fosse deperibile. File di pesci surgelati dallo sguardo allarmato, con
scaglie e code intatte, penzolavano come bucato steso sulle funi so-
spese sopra alle credenze d’acciaio – e la realtà di quel che aveva
mangiato fino a quel punto riempì Gideon di stupore. Altri tipi di
carne più strana erano ammonticchiati in una serie di nicchie a un
lato della stanza, le date di scadenza annotate con una scrittura fili-
forme. Un ventilatore spazzava lo spazio con un’aria fredda che ac-
cartocciava le dita dei piedi e Gideon si avvolse a doppio giro nel
suo mantello. Dei barili erano allineati lungo le altre pareti: verdu-
re fresche, evidentemente appena raccolte per essere tagliate quella
sera, giacevano su una tavola di granito. Uno scheletro stava ripo-
nendo in una cassa delle forme di chissà quale cerea sostanza bian-
ca, avvolte in un panno. Una porta conduceva fuori dal frigorifero,
si aprì, ed emersero le Seconde. Non parevano contente di vedere
i nuovi arrivati.

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La Capitana Deuteros disse in tono grave: «Siete uno sciocco,


Sextus».
«Non me lo merito» disse Palamedes. «Siete voi che non avete tro-
vato nulla… per la seconda volta.»
«La Sesta Casa può accomodarsi e riuscire là dove la Seconda ha
fallito.» Si sistemò i guanti già perfetti, elevandoli a un’immacolata
assenza di pieghe ancor più assoluta, e fiocchi di ghiaccio le si de-
positarono sulla capigliatura intrecciata. «La collettività ha bisogno
che questa faccenda si chiuda» disse. «Ha bisogno di qualcuno che
possa prendere il comando, farla finita e rimandare tutti a casa in un
pezzo solo. Volete prendere in considerazione la possibilità di lavo-
rare con me?»
«No» disse Palamedes.
«Non vi corromperò con merci e servizi. Vi sto chiedendo di sce-
gliere la stabilità.»
«Non posso essere corrotto con merci e servizi» disse Palamedes,
«ma non posso nemmeno lasciarmi corrompere con banalità mora-
leggianti. La mia coscienza non mi permette di aiutare nessuno che
si sia imbarcato in quello in cui ci siamo imbarcati tutti quanti.»
«Voi non capite…»
Palamedes rispose, feroce: «Capitana, che Dio vi aiuti, quando ca-
pirete. La mia unica consolazione è che non riuscirete a buttarmi nes-
suna responsabilità sulle spalle».
La necromante della Coorte chiuse gli occhi e sembrò contare len-
tamente fino a cinque. Poi disse: «Le minacce velate e i capricci non
mi interessano. Mi rispondereste con sincerità, se vi chiedessi quan-
te chiavi avete?».
«Sarei uno stupido a rispondervi» disse lui, «ma posso dirvi che
ne ho di meno di quante pensiate. Non sono l’unico che è venuto qui
col desiderio di diventare Littore, Capitana. Diamine, siete stata trop-
po lenta ad afferrarlo.»
Le dita della Luogotenente Dyas si serrarono adagio e intenzional-
mente sull’impugnatura del suo efficiente stocco. La mano di Camil-
la era già sul suo; l’altra sull’elsa disadorna del pugnale, che teneva al
fianco sinistro. Gideon, che aveva appena mangiato una cena e un
quarto, si sentiva incredibilmente poco preparata ad affrontare quel
che stava per succedere, di qualunque cosa si trattasse. Fu sollevata

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quando la necromante della Seconda disse: «Lascia perdere. Il dado


è tratto» ed entrambe le donne si allontanarono.
Palamedes condusse le altre due paladine oltre una porta anoni-
ma che si apriva su una stanza anonima dietro alla dispensa refrige-
rata. A un’estremità dell’ambiente c’erano grossi scaffali, impilati uno
sull’altro; alcuni tavoli con le ruote – la cui gomma si stava sfogliando
in grosse strisce – erano parcheggiati in un angolo. Erano tavoli alti e
lunghi abbastanza per accogliere una persona coricata. Era la camera
mortuaria, anche se Gideon proprio non riusciva a immaginare una
camera mortuaria più impersonale e spoglia di quella.
Gideon disse: «Da quanto sai delle chiavi?».
«Da un po’» disse Palamedes, artigliando la parte inferiore della
copertura di uno scaffale dell’obitorio. «La tua Nonagesimus me l’ha
confermato dopo che i Quinti sono stati uccisi. Sì, so che lo sapeva-
te sin dall’inizio.»
Oh, splendido! Harrowhark aveva coinvolto Palamedes Sextus in
uno scambio di informazioni che non includeva Gideon. Provò rab-
bia, poi si sentì defraudata, poi si arrabbiò di nuovo. Era come avere
caldo e freddo allo stesso tempo. Senza curarsi minimamente di lei,
il Sesto necromante proseguì: «Dicevo sul serio, però. Restano po-
che chiavi preziose. E, a partire da adesso, i cavoli si faranno amaris-
simi per tutti. Cam, hai portato la scatola?».
Gideon disse: «Ma cosa intendi?».
Camilla aveva depositato la grossa borsa vicino al suo necroman-
te, che si mise a ravanarci dentro con una mano, mentre con l’altra
estraeva una mensola. I binari ben oliati produssero senza intoppi
un cadavere coperto da un sottile lenzuolo bianco, che fece la sua
comparsa a piedi in avanti. Palamedes tirò su il lenzuolo dai piedi
fino all’addome e cominciò a palpare con attenzione le gambe, sot-
to ai vestiti. Era Magnus, e non era migliorato dall’ultima volta che
Gideon l’aveva visto. Rimpianse ancora una volta di aver mangiato
una cena e un quarto.
«Mettiamola così» disse lui a un certo punto, palpando un fian-
co. «Finora ho dato per scontato che tutti si stessero comportando
in maniera estremamente civile. Se il metodo iniziale per ottenere le
chiavi implicava intelligenza e duro lavoro, il cammino che ci atten-
de consisterà o in quello a cui abbiamo appena assistito – grossolani

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tentativi d’alleanza – o peggio. Perché credi che l’Ottava abbia attac-


cato briga con la Settima?»
«Perché lui è un bacchettone e uno schifoso fenomeno da barac-
cone» sentenziò Gideon.
«Intrigante descrizione» disse Palamedes, «ma nonostante lui sia
davvero un bacchettone e un fenomeno da baraccone schifoso, Dul-
cinea Septimus ha due chiavi. Silas l’ha presa di mira.»
La faccenda stava diventando surreale: strani calcoli matematici di
cui lei non aveva nemmeno tenuto conto. Ma era ancora abbastan-
za Nona da tenere a freno la lingua. Invece disse: «Senza offesa, ma
che diavolo stai facendo?».
Aveva spremuto una punta di gelatina da un tubetto che Camilla
gli aveva passato. La stava spalmando, per assurdo che fosse, sul cer-
chietto d’oro opaco che costituiva la fede nuziale di Magnus Quinn.
Con un po’ di grasso tracciò due segni al di sopra e al di sotto dell’a-
nello di metallo e poi ci sospese sopra una mano, come se volesse pro-
teggere una fiamma. Palamedes chiuse gli occhi e – dopo una pausa
pregna – delle volute di vapore cominciarono a materializzarsi attor-
no alle sue nocche.
All’improvviso, borbottò scocciato tra sé e sé e allontanò la mano.
Questa volta il grasso finì sotto all’anello e cominciò a sfilarlo da quel
triste dito defunto.
«Mi serve più contatto» disse alla sua paladina. «Questo ha toccato
il portachiavi, ma c’è troppa interferenza.» E poi, a Gideon: «La no-
stra reputazione non ci precede, vedo. La thanergia non si attacca so-
lamente al corpo, Nona. La psicometria può rilevare la thanergia trat-
tenuta dagli oggetti – a patto di arrivarci presto e in presenza di una
forte associazione. Dammi le forbici, devo prendere un po’ di tasche».
«Ma che cosa…»
«Il portachiavi di Quinn» disse Palamedes, come se lei gli avesse
fatto una domanda di un’ovvietà disarmante. «Ieri non hanno trova-
to nulla sui cadaveri. La Seconda li ha ispezionati, ma loro non pos-
sono contare sulle mie capacità.»
«Può darsi. O si sono prese le prove» disse cupa la paladina, ma il
suo adepto ribatté: «Non è nel loro stile. Comunque, se io non riu-
scirò a trovare niente, dopo l’esame di ieri, non ce la faranno nem-
meno loro».

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«Non fare il gradasso, Guardiano.»


«Affatto. Ma ne sono piuttosto certo, ecco qua.»
Gideon disse: «Ma… un attimo. Magnus aveva appena preso la sua
chiave del complesso, la sera che… insomma. Non era neanche ar-
rivato a uno dei laboratori delle prove. Aveva soltanto la chiave del
complesso. Chi è che gliel’avrebbe presa?».
«È precisamente quello che voglio sapere» disse Palamedes. La-
sciò cadere la fede nuziale in una piccola bisaccia stinta che Camilla
gli stava tenendo aperta, e poi prese un paio di forbicine e cominciò
a tagliuzzare i pantaloni del morto. «Il tuo voto di silenzio è di una
volatilità molto opportuna, Nona, te ne sono grato.»
«È saltato fuori che anche il mio desiderio di espiazione è molto
volatile. Hey, dovresti parlare con Nonagesimus.»
«Se volessi parlare con Nonagesimus, parlerei con Nonagesimus»
disse lui, «o parlerei con un muro di mattoni, perché – in tutta sin-
cerità – la tua necromante è un cliché ambulante della Nona Casa.
Tu sei un po’ meno peggio, almeno.»
Palamedes la squadrò da sotto in su. Aveva degli occhi veramente
straordinari: sembravano pietra grigia, grezza, o un’atmosfera tem-
pestosa. Si schiarì la gola e disse: «Cosa saresti disposta a fare per
Lady Septimus?».
Gideon fu grata di portare la pittura; l’aveva sbilanciata, il suo equi-
librio si era fatto incerto. Gli disse: «Uhm… è stata gentile con me.
Perché ti interessa Lady Septimus?».
«È stata gentile con me» fece Palamedes. Si scambiarono uno sguar-
do di comune sfinimento e sospettoso imbarazzo, mentre cercavano
di aggirare qualcosa di tremendo e infantile. «L’Ottava è determina-
ta e anche pericolosa.»
«Però Protesilaus il Settimo è una presenza ingombrante. Non è sola.»
Camilla intervenne: «Quel tizio è poco più di un facchino. Non ha
mai la mano sulla spada. Il suo primo istinto è quello di prenderti a
pugni, e si muove come un sonnambulo».
«Tieni gli occhi aperti, però» disse Palamedes. «Non scordarti di lei.»
Le forbici fecero zic zic zic e dei quadratini di tessuto andarono a
finire in un altro sacchettino di lino. Con più riguardo di quanto se
ne sarebbe aspettata da lui – cioè, aveva appena sottoposto un cada-
vere a un massaggio invasivo e gli aveva rubato i gioielli – Palamedes

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risistemò con premura il lenzuolo sull’addome e sulle gambe di Ma-


gnus il Quinto. Poi, con un certo trasporto, disse: «Faremo luce su
questa faccenda, se ci darai ancora un po’ di tempo» e Gideon si rese
conto che stava parlando col defunto e, all’improvviso, sentì il biso-
gno di ascoltare una delle battutacce della Quinta, solo perché si sa-
rebbe trattato di un corroborante ritorno allo status quo.
Se ne doveva andare – aveva già la mano sulla porta – ma qualco-
sa la spinse a voltarsi di nuovo per chiedere: «Che cosa gli è succes-
so, Sextus?».
«Traumi violenti alla testa e al corpo» disse. Per un istante parve
esitare, poi la squadrò con quegli occhi affilati come raggi laser. «Quel
che so è che non si è trattato di una semplice caduta.»
La sua paladina gli disse, in tono sommesso ma ammonitore:
«Guardiano».
«Che ce ne facciamo del silenzio, ormai?» le disse lui. E poi, a Gi-
deon: «Le loro ferite contenevano frammenti ossei infinitesimali. I
frammenti non erano omogenei: erano campioni provenienti da di-
verse e numerose fonti ossee, il che è indicativo di…».
Di cosa fosse indicativo venne interrotto da un flebile rumore che
proveniva da dietro la porta. Il rumore degli scheletri che rassettava-
no si era interrotto da un pezzo: quello era il rumore del maniglione
della porta che veniva fatto girare, con circospezione. Gideon spalan-
cò la cella figorifera, e Camilla fece irruzione sguainando l’arma se-
condaria: un orlo si stava dileguando dalla porta con il maniglione a
timone della ghiacciaia, che era stata lasciata frettolosamente aperta.
Gideon e Palamedes rimasero fermi a osservare la porta che cigolava
mesta, all’aria gelida. L’orlo era ricamato di blu e i piedi mulinanti di
una misura compatibile a quella di un teenager schifoso.
«Poveri ragazzini scemi» fece Gideon, dall’alto dei suoi quattro
anni in più.
«Ne sei sicura?» disse Palamedes, sorprendendola. «Io no. Mi chie-
do spesso quanto pericolosi siano in realtà.»

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La sera, Harrowhark non era ancora tornata. Gi-
deon si tenne occupata con gli allenamenti – aveva un po’ di eserci-
zio da recuperare –, osteggiata dai muscoli indolenziti che avrebbero
preferito tirare i remi in barca dopo le prime cento flessioni. Dedicò
parecchio tempo alle ripetizioni in solitaria – la litania automatica di
impugnatura e guardia, di cambi di mano con gli occhi puntati fuori
dalla finestra, verso il nero incombente della notte – e poi, dato che
era piuttosto certa che Harrow non sarebbe riapparsa, tirò fuori lo spa-
done e rifece tutto da capo. Tenere due mani sull’elsa era esattamen-
te quel che Aiglamene le aveva ordinato di evitare, ma la sensazione
era così piacevole che, una volta finito, era felice come una bambina.
Harrow non tornò proprio. Gideon ormai ci aveva fatto l’abitudine.
Colta da un improvviso coraggio sperimentale, riempì la bizzarra va-
sca che c’era in bagno con il liquido del rubinetto caldo. Quando nulla
saltò fuori per aggredirla, Gideon ci si sedette dentro con l’acqua che
le arrivava al mento. Incredibile – la sensazione più strana mai pro-
vata in vita sua; era come se a sostenerla ci fosse una corrente tiepi-
da, come se stesse bollendo lentamente – e si preoccupò, in maniera
irrazionale, che l’acqua potesse filtrarle all’interno e nuocerle. Tutto
il trucco si dissolse e rimase a galleggiare nell’acqua in lunghe scaglie
sporche. Quando aggiunse il sapone nell’acqua, degli aloni unti e iri-
descenti brillarono sulla superficie. Alla fine – visto che nutriva dei
sospetti su quanto quella roba fosse effettivamente in grado di puli-
re – andò a piazzarsi nel sonico per una ventina di secondi. In ogni
caso, era profumatissima. I capelli asciutti le stavano dritti in testa e
si dovette sforzare parecchio per riappiattirli.

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Il bagno produsse un effetto soporifero. Per la prima volta da quan-


do era arrivata alla Casa di Canaan, Gideon fu sinceramente felice di
coricarsi nel suo nido, tirare fuori una rivista e stare lì per mezz’ora
senza fare niente. Nove ore – prive di sogni – dopo, si svegliò con le
pagine incollate alla faccia da una sottile patina di bava.
«Ffppp» disse, staccandosele dalla faccia. «Harrow?»
Saltò fuori che Harrow era nella stanza accanto, raggomitolata a
letto con i cuscini sulla testa e le braccia che spuntavano fuori. I ve-
stiti sporchi erano stati buttati alla meno peggio vicino all’anta del
guardaroba. Vederla colmò Gideon di una sensazione che le toccò
ammettere essere di sollievo.
Disse: «Svegliati, chiappe storte. Voglio gridarti un po’ di cose a pro-
posito delle chiavi». Ma i suoi ordini non sortirono l’effetto sperato.
«La chiave bianca è ora in possesso della tua adorata Septimus,
come concordato» ringhiò Harrow, coprendosi la testa con le coper-
te. «Adesso vattene, evapora.»
«Non mi basta. Nonagesimus.»
Harrow strisciò ancor più in profondità tra le coperte, come un
grosso serpente malevolo, e si rifiutò di alzarsi. Insistere era inutile.
Il che permise a Gideon di vestirsi in relativa pace e tranquillità, di
dipingersi senza incorrere in critiche e di lasciare i loro alloggi per-
vasa da un’insolita benevolenza nei confronti del mondo.
In un punto imprecisato della lunga scalinata curva che conduce-
va all’atrio, si rese conto che la stavano seguendo. Una macchia peri-
ferica si annidava dietro le porte, fermandosi quando si fermava lei,
muovendosi quando anche lei era in movimento. Le tavole ammuffi-
te del pavimento le scricchiolavano umidicce sotto ai piedi. Alla fine,
Gideon si voltò di scatto, la spada sguainata in una lunga traiettoria
fluida e il guanto già mezzo assicurato alle dita, e si trovò davanti il
giovane volto scombinato di Isaac.
«Fermati» le disse. «Jeanne ti vuole.»
Aveva un aspetto orribile. Le mani lerce, l’orlo metallico del man-
tello ricamato era macchiato e, strada facendo, aveva perso almeno
tre orecchini. In precedenza si era industriato per pettinarsi i capel-
li all’insù, in una specie di cresta aviaria schiarita, ma ora erano tut-
ti mosci e arruffati. La bocca e gli occhi parevano svuotati e le pu-
pille erano dilatate da una quantità di cortisolo che comunicava: sto

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per dare di matto, sono tre giorni che sto così. La tenerezza cucciole-
sca delle guance paffute contribuiva soltanto a farlo apparire anco-
ra più agghiacciante.
Gideon inclinò il capo. «Jeanne ti vuole» ripeté il ragazzo. «Qual-
cuno è morto. Devi venire con me.»
Per un istante, Gideon sperò che si trattasse di un tentativo favo-
losamente inopportuno di attirare l’attenzione, ma Isaac le aveva già
voltato le spalle, gli occhi scuri come pietre. Non le restò altra scel-
ta che seguirlo.
Isaac la accompagnò lungo la derelitta sala grande e poi giù per la
rampa che conduceva al vestibolo dal quale si accedeva direttamen-
te alla sala dei duelli, sobbalzando alla vista di ogni scheletro cinto di
bianco che incrociava il loro cammino. La tappezzeria era ancora sal-
damente al suo posto, la porta sempre nascosta. Aprì con una spallata
l’altra porta – doveva aver preso una bella botta al gomito, che diavo-
lo – e approdò nella stanza, dove le luci elettriche rischiaravano quella
che, in precedenza, era stata una fossa lercia e puzzolente. Ora era un
quadrato d’acqua splendente. Gideon aveva visto gli scheletri srotolare
voluminosi tubi di gomma verso la sala della vasca e li aveva visti ad-
dirittura riversare gradualmente nella cavità un liquido che sapeva di
mare, ma il risultato finale era straordinario. Le piastrelle rilucevano di
spruzzi mentre Naberius il Terzo e Coronabeth – entrambi con canot-
tiere leggere e pantaloncini – facevano le vasche su e giù per la piscina.
Già il bagno le era sembrato pazzesco, ma quella roba la sconvol-
se sul serio. Gideon non aveva mai visto nessuno nuotare. Entrambi
i corpi fendevano il liquido con bracciate efficienti ed esperte: si con-
centrò sulle lunghe braccia dorate di Corona Tridentarius che solca-
vano l’acqua, propellendola mentre raggiungeva il bordo e lo allonta-
nava con una spinta energica dei piedi. Oltre le porte a vetri della sala
d’addestramento, Colum l’Ottavo era seduto su una panca a lucidare
il suo scudo con un panno soffice mentre la Luogotenente Dyas era
piegata in un affondo perfetto, che ripeté ancora e ancora.
Isaac puntò dritto verso l’acqua. Si piazzò in corrispondenza del-
la traiettoria che la Principessa di Ida stava seguendo, mulinando
nell’acqua. Lei rallentò il ritmo e galleggiò verso il bordo della pisci-
na, scrollandosi via l’acqua dalle orecchie, perplessa. I capelli bagna-
ti erano di una plumbea sfumatura ambrata.

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«Principessa Corona» le disse, «qualcuno è morto.»


Il bel viso della Principessa di Ida produsse la medesima espressio-
ne che quello di Gideon avrebbe voluto produrre, e cioè: Che cosa???
«Che cosa???» esclamò.
«Jeanne ha chiesto di voi» le disse senza alcuna inflessione.
«Espressamente.»
Anche Naberius aveva finito la sua vasca e si era spostato nell’ac-
qua per raggiungerli. La sua maglia da nuoto era molto più attilla-
ta di quella di Coronabeth e i suoi cinquantasette muscoli addomi-
nali ci guizzavano sotto in maniera ragguardevole. Si sgranchì in
modo prolungato e piuttosto invadente, ma la piantò quando si ac-
corse che nessuno lo stava guardando. «C’è un problema?» chiese,
un po’ stizzito.
«Dovete spicciarvi» disse Isaac. «Le ho promesso che l’avrei lascia-
ta lì da sola per non più di cinque minuti. È coi resti.»
«Isaac, frena…» Corona si era issata fuori dall’acqua in un fulmi-
neo turbine di pelle dorata e gambe eccessivamente lunghe, e Gideon
rivolse al Sepolcro Sigillato la sua prima e unica preghiera davvero
sentita di ringraziamento e letizia. Corona si avvolse in un asciuga-
mano bianco, continuando a sgocciolare febbrilmente. «Chi è mor-
to? Isaac Tettares, che cosa significa?»
«Significa che c’è un morto» disse Isaac tagliando corto. «Se non
verrete, sparirò da qui entro i prossimi dieci secondi. Non lascio Jean-
ne da sola.»
Corona scattò verso la sala d’addestramento, facendo capolino dal-
la porta con la testa gocciolante. Il suo paladino, che si stava avvol-
gendo corpo e cranio nel proprio set di asciugamani personalizzato,
cacciò i piedi bagnati nelle scarpe. Coronabeth non si prese il distur-
bo. A tallonarla c’erano la Luogotenente Dyas, la cui unica conces-
sione all’abbigliamento sportivo consisteva nello slacciare l’ultimo
bottone della giubba militare e, a breve distanza, l’arruffata consun-
zione di Colum l’Ottavo.
Il perplesso manipolo venne condotto all’esterno su un’altra ampia
terrazza, anche se questa non era stata costruita badando all’esteti-
ca. Non erano molto lontani dal limitare della piattaforma d’attracco.
Quel posto probabilmente un tempo condivideva la medesima fun-
zione – c’era spazio per suppergiù una navetta – ma ora era al ser-

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vizio di un’enorme ciminiera d’acciaio, un tubo metallico che si sta-


gliava verso l’alto come l’asta di una bandiera. Era rivestita di mattoni
e rinforzata qua e là da grosse lastre di pietra, in giro c’erano anche
secchi di vecchia vegetazione e stracci luridi. Questi ultimi avevano
l’aria di essere stati impiegati per pulire la piscina: erano smeraldini
per il verderame e neri dove non erano verdi. La ciminiera era dota-
ta di un’immensa grata metallica, alta circa due metri, attraverso la
quale si poteva spalare l’immondizia. La grata era aperta e il conte-
nuto, all’interno, ancora lievemente fumante.
Isaac si fermò di fronte all’inceneritore, accanto a Jeannemary la
Quarta. Isaac aveva un’aria impassibile e morta, come se quello che
stava accadendo dentro di lui avesse costruito una crosta spessa,
come un vulcano; Jeannemary pareva un cavo elettrico difettoso. Si
riuscivano a vedere pure le scintille. A spada sguainata, faceva avanti
e indietro tra l’inceneritore e il bordo, voltandosi di scatto di tanto in
tanto come se ci fosse qualcuno pronto ad attaccarla alle spalle. Gi-
deon cominciava ad ammirare la sua istintiva prontezza animalesca.
Quando vide la banda di idioti che il suo necromante le aveva porta-
to, ne fu intensamente disgustata.
«Io volevo la Nona e la Principessa Coronabeth» disse. La voce le
si incrinò.
«Ci sono venuti dietro anche gli altri» ribatté Isaac. «Non volevo
lasciarti… non volevo che rimanessi da sola.»
Senza badare ai piedi nudi e ai vestiti fradici, Corona marciò ver-
so l’adolescente malridotta. «Via la spada, Paladina Chatur» le dis-
se con gentilezza. «Va tutto bene.» (Corona, bisogna dargliene atto,
riuscì a farle abbassare la spada e a fargliela riporre nel fodero, an-
che se Jeannemary non levò la mano dal pomolo.) «Cos’è successo?
Cos’hai trovato?»
La Quarta disse, amara: «Il corpo».
Tutti si radunarono attorno a lei. Con una vecchia beola, Jeanne-
mary scostò la grata ancora fumante in modo che potessero intrave-
dere l’interno: al termine di un breve scivolo, con le braci di un rosso
fuligginoso ancora accese, c’era un mucchio di ceneri.
La paladina della Seconda prese un attizzatoio di ferro, posato vi-
cino all’inceneritore, e tastò il mucchietto. Le ceneri erano morbide
e uniformi, di un bianco polveroso, con i tocchi ancora rossi che si

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sfaldavano al contatto. Ci fu una pausa colma d’attesa quando ficcò


l’attizzatoio negli angoli più lontani del grosso vano, per poi ritirarlo.
«È solo cenere» disse la Luogotenente Dyas.
«Lì dentro è stato bruciato un corpo» fece Jeannemary.
Colum l’Ottavo si era impadronito di un rastrello scassato e lo sta-
va utilizzando per trascinare verso di loro un po’ di quella roba. Al-
lungò la mano nell’aria ribollente e afferrò una manciata di ceneri
calde, dimostrando che o badava molto poco al dolore fisico o aveva
una poker face da manuale. Le tirò su per esaminarle: quel che era sta-
to bruciato – di qualunque cosa si trattasse – si era ridotto a una so-
stanza sabbiosa di un bianco grigiastro che lasciò una patina di gras-
so sui palmi giallognoli dell’Ottavo.
Il necromante adolescente stava dicendo, in tono monocorde: «So
riconoscere dei residui umani di cremazione quando li vedo. Voi no,
Principessa?».
Corona esitò. La Seconda si intromise: «E se avessero bruciato del-
le ossa? Uno dei servitori potrebbe essersi smembrato».
«Potrebbe essere… andate a chiedere» brontolò Colum l’Ottavo,
sconvolgendo Gideon per la limpida sensatezza del suggerimento.
Isaac non sembrò aver sentito: «Quelli sono grasso e carne sciol-
ta, non ossa secche.»
«Non l’hanno fatto… I Quinti sono sempre…?»
«Magnus e Abigail sono ancora dove dovrebbero essere» disse
Jeannemary aggressiva, «in obitorio. Qualcuno è stato ucciso e bru-
ciato nell’inceneritore.»
Aveva dei lunghi graffi sul viso. Se possibile, era ancora più sporca
della sua controparte e, in quel momento, sembrava una bestia selva-
tica. I riccioli le si erano increspati in un’aureola di un castano scuro
– generosamente imbrattata di sangue e di qualcos’altro di discutibi-
le – e il fumo acre le stava facendo lacrimare gli occhi. Nessuno po-
teva ritenerla una testimone attendibile.
Specialmente non Naberius. Incrociò le braccia, rabbrividì nel sole
mattutino e scandì: «Sono storie di fantasmi, tesoro. State perdendo
la testa, tutti e due».
«Chiudi il…»
«Non sono il tuo tesoro, testa di cazzo…»
«Principessa, diteglielo voi; ditegli che quelli sono resti…»

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«Babs, stai zitto e sistemati i capelli» disse Corona. «Non liquidia-


mo la faccenda così su due piedi.»
Come al solito, lui parve ferito, e si strofinò i capelli umidi con l’a-
sciugamano. «Chi è che liquida?» fece lui. «Io non sto liquidando
niente. Sto solo dicendo che non ha senso. Non abbiamo di certo bi-
sogno che la Quarta Casa si metta a fare fuoco e fiamme. Qualcu-
no sparisce e supponiamo subito che stia schiacciando un pisolino
nell’inceneritore.»
«Stai reagendo» disse la seconda Paladina «in maniera sorpren-
dentemente blasé.»
«Spero che nell’inceneritore ci finisca tu» disse Jeannemary. «Spe-
ro che quello che ha ucciso Magnus e Abigail – e anche chi abbiamo
appena trovato – venga a cercare te. Vorrei proprio vedere la faccia
che farai. Che aspetto avrai quando troveremo te, Principe Naberius?»
Gideon si precipitò in mezzo a loro prima che Naberius potesse
saltare addosso alla teenager dall’occhio umido, cosparsa di cenere.
Lei si mise a fissare la fornace. Il paladino dell’Ottava stava ancora
ravanando qua e là, anche se – per quel che poteva vedere lei – biso-
gnava ammettere che non c’era niente da trovare: qualsiasi cosa fos-
se stata bruciata là dentro era stata bruciata fino a ridursi a un un-
tuoso pulviscolo maleodorante. Particelle di cenere fluttuarono dalla
grata verso l’alto come coriandoli in via di disgregazione, macchian-
do di fuliggine le loro facce.
«Serve uno stregone osseo» disse Colum, deponendo l’attizzatoio.
«Io torno indietro.»
Naberius, che continuava a fissare Jeannemary in cagnesco, si di-
strasse: «Devi prepararti per il duello con la Settima? La principessa
e io possiamo arbitrare, naturalmente».
«Sì» fece l’altro senza eccessivo entusiasmo.
«Vengo anch’io. Sarà interessante vedere che combina il paladino;
non ha proprio nulla a che spartire con la sua padrona, vero? Non
l’ho nemmeno mai incontrato in torneo…»
Con l’uscita di scena dei paladini della Terza e dell’Ottava – l’Ot-
tavo aveva tutta l’aria di uno a cui sarebbe tanto piaciuto diventare
sordo – se ne andò anche la Seconda: con più discrezione e pulendo-
si le mani con il fazzoletto scarlatto. Restarono solo gli adolescenti,
Gideon e Corona. Coronabeth osservava le ceneri fumanti, la canot-

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tiera e i pantaloncini gonfiati dal vento, splendidi riccioli dorati che


sfuggivano, asciutti, alla massa umida della chioma. Sembrava tribo-
lata, il che rattristò Gideon, ma era anche bagnata fino all’osso, il che
infuse a Gideon un gran bisogno di coricarsi.
«Continuo a vedere delle cose» disse il necromante adolescente, ca-
tatonico. Si voltarono a guardarlo. «Con la coda dell’occhio… quan-
do scende la notte. Continuo a svegliarmi e a sentire qualcosa che si
muove… o qualcuno fermo fuori dalla nostra porta.»
Si interruppe. Jeannemary gli mise il braccio attorno alle spalle e
posò la fronte marroncina, striata di sudore, sulla sua. Sospirarono
all’unisono. Il conforto che si stavano scambiando l’un l’altra era il ge-
nere di conforto doloroso e privato che intercorreva tra necroman-
te e paladino, e Gideon vi assistette con imbarazzo. Solo in quel mo-
mento li percepì, all’improvviso, come adulti. Sembravano esauriti,
sembravano denti consumati dall’uso, ingrigiti dalla scomparsa del-
la loro insopportabile vitalità e gioventù.
La paladina della Quarta Casa sollevò lo sguardo verso Gideon e
Corona.
«Volevo voi due perché a Magnus piacevate entrambe» disse. «Per
mettervi in guardia. Non dite che non vi avevo avvertite.»
Poi accompagnò via Isaac, lui aveva l’aria di un predatore in atte-
sa mentre lei sembrava dinamite. Lo scortò fino alla porta deformata
dalla salsedine. Gideon rimase sola con Coronabeth. La principessa
stava chiudendo l’enorme grata dell’inceneritore, facendo scorrere il
chiavistello per sbarrarla. Restarono entrambe a osservarla, in silen-
zio: sembrava grande abbastanza da farci passare una persona, but-
tandola in mezzo a quelle che – una volta acceso il forno – sarebbe-
ro state fiamme dirompenti. Delle nuvole transitarono sopra di loro,
facendo sprofondare l’abbagliante splendore di prima in una relati-
va oscurità. Erano nuvole gonfie e bluastre, il che implicava – come
Gideon aveva appreso – che sarebbero presto esplose in un acquaz-
zone. Riusciva ad assaporarlo nell’aria, le lavava via il pizzicorio del
fumo dalla lingua. Una volta scoppiato, sarebbe stato un tempora-
le implacabile.
«Non si tratta solo di una sceneggiata della Quarta Casa» disse Co-
rona. «Non credo che questa volta stiano facendo gli sbruffoni. Sia-
mo davvero nei guai, penso… guai seri.»

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262  /  TA MSY N MUIR

In quella penombra improvvisa, Gideon si levò gli occhiali e an-


nuì. Il cappuccio le scivolò giù, ammassandosi in pieghe pesanti sulle
spalle. Lo sguardo squisito della necromante della Terza si posò su di
lei e la sua espressione dolente si tramutò in un sorriso radioso, tal-
mente grande da incresparle gli angoli degli occhi violetti.
«Gideon la Nona!» esclamò, bandendo ogni cordoglio. «Ma sei
una rossa!»

* * *

La pioggia si scatenò più tardi nel pomeriggio. Le gocce sferzavano le


finestre come pallottole e gli scheletri servitori si precipitavano qua e
là armati di secchi, raccogliendo il grosso dei rivoli gelidi e tamponan-
do le pozzanghere con delle stuoie. Evidentemente, era un fenomeno
così comune per la Casa di Canaan che la loro reazione era automa-
tica. Gideon ormai si era abituata alla pioggia, ma la prima volta non
era riuscita a capacitarsene. Il ticchettio costante l’aveva fatta impaz-
zire per una notte intera e non aveva idea di come la gente che con-
viveva con il tempo atmosferico potesse sopportarlo. Ora invece era
soltanto una borbottante distrazione.
Sentendo il rombo del temporale e presa da un’improvvisa paranoia
era tornata indietro a controllare Harrowhark. Si era convinta di aver
sognato le braccia che spuntavano dalla coperta, gli spuntoni corti dei
capelli scuri che si intravedevano sotto al cuscino, o magari la Reve-
renda Figlia aveva tramutato in realtà i sogni di gioventù di Gideon,
passando la notte nell’inceneritore, ma Harrow non si era nemmeno
svegliata. Gideon mangiò vicino a uno scheletro servitore impegnato
a posizionare con perizia un secchio sul tavolo, nel quale precipitava-
no voluminosi goccioloni caduti dalle finestre, ploing… ploing… ploing.
L’angoscia numinosa del mattino non l’aveva ancora davvero ab-
bandonata. Fu quasi un sollievo vedere l’ombra di Camilla Hect che
si allungava sulla sua ciotola di zuppa e crostini al burro. Il cappuc-
cio grigio di Camilla era fradicio di pioggia.
«Il duello è stato annullato» le disse, a mo’ di saluto. «La Settima
non si è presentata e non sono nei loro alloggi. Andiamo.»
Andarono. Gideon aveva il cuore che le martellava nelle orecchie.
Lo stocco le sbatteva sulla gamba con la stessa persistenza della piog-

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gia che colpiva le pareti della Casa di Canaan. Istintivamente, Gideon


fece strada lungo una sequela di anticamere buie e sconfortanti con le
maniglie delle porte viscide di pioggia, uscendo poi nella tempesta: la
serra dove Dulcinea amava stendersi. Là dentro faceva un caldo afo-
so e instupidente: era come addentrarsi fra le mascelle di un animale
affannato. La pioggia scivolava sul plex formando velature che oscu-
ravano il cielo. Oltre l’uscio della serra – sotto a una tenda che il tem-
porale aveva ribaltato da un pezzo – c’era Dulcinea.
Era spalmata sul pavimento di pietra bagnata. Le stampelle giace-
vano al suo fianco, una per lato, come se le fossero scivolate di mano.
Le interiora di Gideon si rimescolarono, i polmoni le finirono nei reni
che le finirono nell’intestino, e poi ritornarono al loro posto come ela-
stici tesi, twang. Fu Camilla la prima a inginocchiarsi vicino a lei e a
rovesciarla sulla schiena. Aveva un livido sulla tempia e i vestiti com-
pletamente fradici, come se fosse rimasta lì per ore. Il colorito vira-
va a un bluastro terribile.
Dulcinea fu scossa da un accesso di tosse immane, lacerante, or-
rendo, una bava rosata le schiumò in bocca. Il petto sussultò. Non era
un bello spettacolo, ma Gideon lo accolse a braccia aperte.
«Non è più tornato» disse disperata, e svenne.

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Protesilaus il Settimo era scomparso. Dulcinea
Septimus era in condizioni critiche. Abbandonata al proprio destino
quando il suo paladino non aveva fatto ritorno, e poi minacciata dalla
pioggia, aveva cercato di spostarsi a piedi da sola ed era scivolata: ora era
confinata a letto con dei panni caldi sul petto e non poteva essere d’aiuto
a nessuno. Maestro la trasferì in una delle stanzette nell’ala dei sacerdoti e
furono costretti a stenderla sul fianco, in modo che, ogni volta che le ve-
niva da soffocare, il contenuto dei polmoni potesse defluirle dalla bocca
e finire in una bacinella. I due anonimi colleghi di Maestro si fermarono
con lei, rimpiazzando la bacinella e mettendo a bollire teiere rumorose.
Nessuno degli altri – la Seconda Casa coi suoi bottoni d’ottone;
le gemelle della Terza e il loro paladino (nuovamente vaporoso); gli
adolescenti della Quarta e i loro occhi a succhiello; i Quinti, addor-
mentati per sempre in obitorio; i Sesti in grigio e gli Ottavi così male
assortiti; e la Nona Casa, con Harrow visibilmente scossa, labbra cu-
cite e vesti pulite – mancava all’appello.
Le ceneri della fornace erano state spalate fuori e analizzate. La con-
ferma che si trattasse di resti umani non fu illuminante. I necromanti
superstiti si erano radunati attorno alla ciotola che le conteneva e ci si
erano fiondati sopra come se si trattasse di una zuppiera di noccioli-
ne a una festa. Solo Coronabeth non si era degnata di cacciare le dita
in quel mucchio di schifezze sbriciolate.
«Sono molto più vecchie di quel che dovrebbero essere» disse Ian-
the Tridentarius, pacifica e beata, concedendo a Protesilaus il primo
barlume di speranza. «Fosse per me, direi che appartengono a un ca-
davere stecchito da almeno tre mesi.»

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«Vi sbagliate di circa otto settimane» disse Palamedes, aggrottando


la fronte. «Si tratterebbe comunque di una pre-datazione significativa.»
«Be’, in ogni caso non è lui. È morto qualcun altro? Maestro?»
«Non celebriamo un funerale da molto tempo» disse Maestro, con
una certa pignoleria. «In ogni caso, non li avremmo di certo affida-
ti all’inceneritore.»
«Interessante, questo utilizzo del plurale.»
Sui palmi di Ianthe c’erano due piccoli frammenti. Uno era palese-
mente un pezzo di dente. Chissà perché, quel particolare odontoia-
trico spinse Harrow a soffermarsi sui palmi di Ianthe, poi su Ianthe,
poi di nuovo sui palmi di Ianthe come se entrambi, all’improvviso,
fossero le cose più affascinanti dell’universo. Gideon colse quell’im-
provvisa concentrazione adamantina: Harrowhark stava rivalutan-
do una minaccia.
Ianthe disse svogliatamente: «Vedete? Là dentro ci sono almeno
due persone».
«Ma la segnatura temporale è coerente per la totalità dei resti…»
Mise entrambi i frammenti fra le mani di Palamedes. «Buon com-
pleanno» gli disse. «Devono essere morti nello stesso momento.»
La Capitana Deuteros commentò, brusca: «L’inceneritore è una
trappola. Sono curiosa come chiunque altro di scoprire cosa c’era là
dentro, ma resta il fatto che non si tratta di Protesilaus, come è evi-
dente. Dov’è, allora?».
«Ho mandato i servi a cercarlo» disse il sacerdote della Prima Casa.
«Perlustreranno ogni nicchia e ogni fessura, a eccezione delle vostre
stanze… che vi chiedo di perquisire in autonomia, nella bizzarra pos-
sibilità che Protesilaus il Settimo si trovi lì. Non mi avventurerò nel
complesso e non lo faranno nemmeno i miei servitori. Se volete andare
laggiù, dovrete andarci per conto vostro. E ci sarebbe anche l’esterno
della torre, ma se ha lasciato la torre… l’acqua lì è parecchio profonda.»
Corona girò la seggiola e si sedette a cavalcioni, incrociando le ca-
viglie snelle sul davanti. Gideon notò che lei e Ianthe non si erano
ancora del tutto riappacificate in seguito al litigio che doveva essersi
consumato tra loro; sedevano vicine, ma l’angolazione dei loro cor-
pi era divergente. Corona scosse di nuovo il capo, come se volesse li-
berarsi da una ragnatela. «Dev’essere vivo. Non esiste un movente.
Era… voglio dire, tutte le volte che l’ho incontrato, ho pensato che…»

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«Io ho pensato che fosse l’uomo più noioso mai esistito» propose la
sua gemella, languida, mentre si puliva le mani. Corona sobbalzò. «E
non era nemmeno la classica palla al piede della Settima Casa; non ci
ha inflitto manco una poesia minimalista sulle formazioni nuvolose.»
«Vedetela così: forse non esiste un movente» disse Jeannemary
Chatur, che si era rifiutata di rinfoderare la spada. Lei e Isaac si era-
no disposti quasi schiena contro schiena, come se, insieme, potesse-
ro respingere tutti gli assalitori. «Vedetela così: hanno aperto il por-
tello e sono scesi, proprio come Magnus e Abigail, e ora lui è morto
e lei sta per tirare le cuoia.»
«La Quarta non riesce proprio a lasciar perdere questa folle teo-
ria sui mostri…»
«Non è folle» disse Maestro a Naberius, «oh, no, non è folle per
niente.»
La Capitana Deuteros, che aveva preso appunti sul suo blocchetto,
si appoggiò allo schienale della sedia e mollò la matita. «Vorrei pro-
porre una mens rea più umana. Sì, la Duchessa Septimus e il suo pa-
ladino si sono addentrati nel complesso. Avevano delle chiavi?»
«Sì» disse una voce sulla porta.
Gideon non aveva notato la sagoma candeggiata, con la lunga cotta
di maglia, di Silas Octakiseron allontanarsi, ma l’aveva notata fare ri-
torno. Rientrò nella sala mensa dal lato della cucina, pallido e impas-
sibile, il viso affilato caratterizzato dalla consueta spietatezza, libero
dai normali moti emotivi umani. «Sì» ribadì. «O meglio, le aveva.»
«Che cosa diavolo avete fatto» disse Palamedes a voce bassa.
«La vostra aggressività è inopportuna e immotivata» fece Silas.
«Sono andato a trovarla. Sentivo il peso di una certa responsabilità.
Sono stato io a domandare soddisfazione e Fratello Asht era pron-
to a sfidare a duello il suo paladino scomparso. Non volevo che fra
noi corresse cattivo sangue. Non provo altro che pietà per la Settima
Casa, Guardiano Sextus.»
«Non avete risposto alla mia domanda.»
Silas si frugò in tasca e sollevò la mano per mostrarne il contenu-
to. Era uno degli anelli di ferro, da cui penzolavano due chiavi: una
grigia e una di un bianco familiare.
«Se il suo paladino è caduto vittima di un tiro mancino» disse, nel
suo tono insolitamente profondo «allora il colpevole non ne ricaverà

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la minima gioia. L’ho trovata cosciente, che stringeva queste. Me le


ha consegnate affinché le tenessi al sicuro.»
«Un atto estremamente equivoco» disse la Capitana Deuteros.
«Consegnatele a me, ora, come dimostrazione di buona fede, Mae-
stro Silas. Se non vi dispiace.»
«In coscienza, non posso farlo, finché non conoscerò il fato di Pro-
tesilaus il Settimo. Chiunque potrebbe essere colpevole, qui. Fratel-
lo Asht. Tieni.» Il ragazzo con la lunga cotta di maglia lanciò l’anello
al suo paladino, che lo afferrò al volo sfilando poi dalla tasca il pro-
prio pesante portachiavi. Gideon notò che attaccate al suo c’erano la
chiave del complesso e un’altra chiave, di ferro battuto nero con degli
svolazzi. Colum l’Ottavo assicurò insieme i due anelli con un clic as-
sai definitivo. «Le terrò io finché non arriverà il momento in cui vor-
rà che gliele restituisca. A giudicare dalla nostra conversazione, po-
trebbe non arrivare mai.»
L’affermazione fu accolta da un breve silenzio.
«Brutto bastardo insensibile» urlò Naberius, «sei andato là e hai
costretto una ragazza mezza morta a darti le sue chiavi.»
Jeannemary disse: «Ti dispiace solo di non averci pensato prima tu».
«Chatur, se dici un’altra cazzo di parola farò in modo di non farti
superare la pubertà…»
«Tieni a freno la lingua, Principe Tern» disse la Capitana Deute-
ros. «Ho gatte ben peggiori da pelare e non ho intenzione di stare qui
a sentirvi maltrattare una bambina.»
Si alzò in piedi. Li squadrò tutti, con l’espressione di una donna che
era approdata a una decisione irrevocabile.
«I nodi sono venuti al pettine. Questa razzia di chiavi non può con-
tinuare. Vi ho già detto prima che la Seconda Casa se ne assumerà
la responsabilità se nessun altro se la sente. A cominciare da ora.»
Lo smilzo necromante con i paramenti immacolati dell’Ottava si
era adagiato su una sedia procuratagli da suo nipote, e se ne stava lì
seduto con la schiena dritta e l’aria assorta.
«Mi state dunque sfidando, Capitana?» disse tristemente.
«Voi aspettate.» L’adepta della Seconda sollevò il mento in dire-
zione di Palamedes, che era rimasto seduto sorreggendosi la mascel-
la con le dita. Trapassava le pareti con lo sguardo, come se trovas-
se quella discordia di un cattivo gusto così intenso da poterne solo

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prendere le distanze. «Guardiano, la Sesta è la Ragione dell’Impera-


tore. Ve l’ho già chiesto prima e ve lo chiederò anche ora: consegna-
temi le chiavi che avete conquistato, le terrò al sicuro.»
La Sesta, la Ragione dell’Imperatore, strabuzzò gli occhi.
«Con tutto il rispetto» disse lui, «andate a quel paese.»
«Sia messo agli atti che sono stata costretta a sfidarvi» disse la
Luogotenente Dyas, sfilandosi un guanto bianco. Lo gettò sul tavolo,
guardando Palamedes dritto negli occhi. «Duelleremo. Io scelgo l’o-
ra, voi sceglierete il posto. L’ora è adesso.»
«Sfidare la Sesta a duello?» squittì Jeannemary. «Ma è scorretto!»
Scoppiò un conclamato finimondo. Maestro si alzò con un’espres-
sione curiosa e rassegnata in volto. «Non voglio saperne niente» dis-
se, come se potesse servire a fermare qualcuno, e uscì dalla sala. Nel
vuoto lasciato dalla sua scomparsa, Corona sbatté entrambe le mani
sul tavolo: «Judith, codarda che non sei altro, prenditela con qualcu-
no della tua stazza…».
«Ecco che succede… non è così?» Lo spregevole necromante adole-
scente era imbambolato, immobile: il suo tono era interrogativo, non
rabbioso. «Ecco cosa succede senza Magnus e Abigail.»
«Sì, sono sicura che Magnus il Quinto ci avrebbe recapitato un se-
vero recapito scritto…»
«Ianthe! Non sei d’aiuto! Sesti, non dovete accettare! La Terza rap-
presenterà la Sesta in questo frangente, se loro acconsentiranno. Babs,
in guardia.»
La voce della sorella gemella era sottile e soffice come seta: «Non
sfoderare quella spada, Naberius».
«Ianthe, ma-cosa-pensi-di-fare.»
«Voglio vedere come va a finire» disse con una flebile alzata di
spalle, ignorando l’ira che montava nel tono della gemella. «Ahimè,
ho un pessimo carattere e uno sconvolgente deficit dell’attenzione.»
«Be’, Babs, grazie a Dio, ha troppo buonsenso per darti retta. Babs?»
La mano di Naberius esitava sull’impugnatura della spada. Non si
era gettato nella mischia come gli era stato proposto e nemmeno ave-
va preso le parti della gemella al comando. Fissava la sua ombra pal-
lida, le nocche bianche, la mano immobile, con un risentimento che
rasentava l’odio. Il sorriso di Corona si incrinò. «Babs?»
Nel mentre, Palamedes aveva spostato il peso della testa prima su

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una mano e poi sull’altra, strofinandosi la faccia lunga con le dita. Si


era tolto gli occhiali e stava tamburellando sul tavolo con la montatu-
ra spessa. Il suo sguardo grigio-chiodo non aveva mai lasciato Judith
Deuteros, che lo ricambiava con un’occhiata risoluta come il cemento.
«Arrendetevi, Guardiano» disse la Capitana. «Siete un brav’uomo.
Non sottoponete la vostra paladina a una prova del genere.»
Palamedes sembrò riscuotersi tutto d’un colpo, facendo stride-
re orrendamente le gambe della seggiola sul pavimento piastrellato
mentre la spostava all’indietro, allontanandola dal bordo del tavolo.
«No, si farà» disse di punto in bianco. «Qui.»
La Capitana disse: «Sesto, siete pazzo. Lasciatele un po’ di dignità.»
Non si alzò neanche in piedi; fece cenno alla sua paladina con l’in-
dice adunco. Invece di irrigidirsi per la trepidazione, come sarebbe
potuto capitare a Gideon, Camilla si era rilassata. Si scostò la fran-
gia scura dalla fronte, si scrollò di dosso il cappuccio e il mantello,
si sgranchì il collo in avanti e all’indietro come una ballerina che fa
riscaldamento.
«Oh, ma è proprio quella la mia intenzione» disse lui. «Cam?»
Camilla Hect montò sul tavolone con un volteggio slanciato. Sot-
to al mantello portava una lunga camicia grigia e delle braghe grigie
e, più che a una paladina, somigliava a una bibliotecaria fuori servi-
zio. Il suo pubblico sembrò comunque colpito, a eccezione della Luo-
gotenente Dyas, che balzò sul tavolo all’estremità opposta, facendolo
scricchiolare rabbiosamente per l’impatto. Dyas non si era disturba-
ta a levarsi la giubba. Sfilò dal fodero sul fianco il coltello multiuso
d’osso e lo tenne lì in bella mostra. Con la mano dominante snudò la
spada dall’elsa disadorna, lucidata fino alle lacrime.
La Sesta la squadrò per un istante, come se non avesse idea di qua-
le fosse il protocollo, e poi sguainò contemporaneamente entrambe
le armi, in un modo che solleticò il cervello di Gideon. La spada sem-
brava avere almeno un milione di anni, come quella di Gideon. Era
la prima volta che la vedeva alla luce: dava l’impressione di non esse-
re stata progettata per assorbire un colpo pieno; la lama era leggera
e fine come un filo di ragnatela. A giudicare dalla mano secondaria,
sembrava che l’intera Casa di Camilla fosse andata a frugare dietro al
divano in cerca di un’arma. Avevano rimediato una roba che somi-
gliava di più a un lungo coltello da caccia o a un taglierino che a un

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pugnale da duello: spesso, corposo, guardia a baffi con un unico lato


affilato. L’effetto complessivo era tristemente dilettantesco.
Coronabeth, splendida e abbattuta, si era fatta largo per avvicinar-
si al tavolo, posizionandosi nello spazio che separava le due. Interro-
gò Judith e Palamedes: «Dalla clavicola all’inguine…?».
«Dallo ioide in giù, disarmo consentito, clemenza del necroman-
te» disse la necromante della Seconda, serena. Coronabeth inspirò a
denti stretti. «Sextus. Accetti i termini?»
«Non ho idea di cosa significhino» disse Palamedes.
Gideon si avvicinò, sporgendosi per ascoltare i sussurri concitati di
Corona: «Guardiano, vuol dire che può colpire la tua paladina ovun-
que dal collo in giù, e il duello finisce solo quando lo dici tu. Si sta
comportando da vera mascalzona e non mi dispiace neanche un po’ di
averle tirato giù i pantaloni davanti a tutti quando avevamo otto anni».
«Non dovreste dispiacervene affatto.»
«Non permetterle di umiliarvi» disse la Principessa. «Se la sta
prendendo con voi perché non potete difendervi, come un bulletto
che prende a calci un cane. Si è data ampi margini per fare parecchio
male alla tua paladina, e lo farà, solo per mettere paura a Octakise-
ron e Nonagesimus – senza offesa, Nona.»
Il Guardiano della Sesta tamburellò il piede sul pavimento. Disse:
«Quindi mi state dicendo che la sua paladina può fare più o meno quel
che le pare alla mia, con l’unico obiettivo di farmi strillare mammina?».
«Sì!»
Dall’altro lato del tavolo, la Capitana Deuteros disse, inflessibile:
«Abbiamo aspettato abbastanza. Resa o combattimento. Corona, se
insistete nel voler arbitrare, arbitrate».
Quegli occhi squisiti sarebbero riusciti a convincere un masso a ro-
tolare in salita, ma non trovarono terreno fertile in Palamedes. Co-
rona tuonò con riluttanza: «Fino alla richiesta di clemenza. Dallo io-
ide in giù. Il collo non fa eccezione. Punta, lama, ricasso, secondaria.
Presentazione».
«Marta la Seconda» dichiarò la Luogotenente Dyas.
Camilla non si presentò. Abbassò lo sguardo sul suo necromante
e disse: «Guardiano?».
«Non puoi colpirla alla testa» le disse. «Credo. Decido io quando
avrai finito.»

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«Dimmi solo come devo gestirla.» Camilla alzò la voce: «Camilla la


Sesta».
Gideon era tornata indietro, vicino alla sua necromante. Tutti gli
altri occupanti della sala avevano un’aria solenne. Per un istante Gi-
deon credette che i Quarti si stessero tenendo per mano, ma poi si
rese conto che Isaac stava trattenendo Jeannemary: la mano stretta
attorno al polso come una tenaglia, lo sdegno dipinto sul viso di lei.
C’erano anche facce tetre e fameliche – la pallida Ianthe, e Naberius
che si inumidiva le labbra – e poi c’erano gli Ottavi, che riempivano
pregando le loro caselline del bingo.
Harrowhark sembrava più tesa e disinteressata di una corda per le
impiccagioni, ma qualcosa nell’espressione di Gideon doveva aver cat-
turato la sua attenzione: passò da distante a perplessa, approdando
addirittura a qualcosa che rasentava l’infastidito. Gideon non poteva
biasimarla. L’atmosfera generale era quella di un pubblico scontento
in attesa di un’esecuzione, ma lei stava tentando – senza riuscirci –
di sopprimere un ghigno di selvaggia trepidazione.
Corona stava dicendo: «Due passi indietro, non potete voltarvi,
maledizione! Ѐ difficilissimo su un tavolo…»
«Cam» disse Palamedes. «Facciamo le cose in grande.»
Gideon fu costretta a darne atto a Dyas; la Seconda ci aveva mes-
so molto meno di Gideon, quando aveva combattuto con Naberius
Tern, a capire di essere nei guai. La Luogotenente Marta Dyas era in
tutto e per tutto una duellante sveglia ed efficiente: non le interessa-
vano le infiorettature o mettersi in mostra ed era all’apice della sua
prestanza fisica. Al contrario del Terzo, era una soldatessa, molto più
abituata a combattere con avversari che non si comportavano seguen-
do un copione di mosse da duello canonizzate. Si era addestrata per
tutta la vita con il fronte come obiettivo, insieme a veterani e reclute
assetate di sangue. Il braccio che reggeva la spada era ben bilancia-
to e sciolto, la sua postura ordinata ma non impalata. Era incredibil-
mente reattiva, preparata a ogni trucchetto che l’avversario avrebbe
potuto scatenarle contro.
Camilla la investì come un uragano. Avanzò esplosiva, con la spada
spianata e il coltellaccio da macellaio stretto al corpo, levando di mez-
zo la guardia frettolosa della luogotenente e scansando un affondo fuori
tempo del pugnale. Aprì un lungo squarcio rosso sulla giubba e sulla ca-

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micia di un bianco immacolato di Dyas, la martellò sulle nocche con l’el-


sa della spada e, a scanso di equivoci, le mollò un calcione al ginocchio.
Il calcio fu l’unico errore di Cam. Per il dolore, ogni neurone che
Dyas aveva in corpo strillò, imbottito di adrenalina. Uno come Na-
berius sarebbe finito a pancia all’aria sul tavolo per lo shock, belando
e cagandosi addosso, probabilmente. Ma la Seconda non perse la te-
sta: barcollò, metabolizzando il dolore, mantenne la posizione e alzò
la lama, parando un altro fendente sferrato da Camilla col coltello.
Arretrò per tirare il fiato – Camilla la torturava con una gragnuola
di colpi per penetrare di nuovo la sua guardia – finché non le rimase
più spazio per muoversi: dopotutto, stavano combattendo su un ta-
volo. Il piede di Camilla scattò verso la mano secondaria dell’avver-
saria e il pugnale cadde sul pavimento, con un clangore metallico. La
Seconda, con una schivata francamente splendida e una reazione per-
fetta, colse l’unica opportunità che aveva e affondò.
Dyas era disperata, e Dyas veniva dalla Seconda Casa. Cam com-
batteva come una fiamma, ma lasciava troppi spiragli aperti. L’affondo
di Dyas sarebbe riuscito a trapassare un guerriero meno abile proprio
sotto la clavicola. Beccò Camilla Hect più in basso, sull’avambraccio
destro – era quasi riuscita a scansarlo, ma le penetrò nella carne che
confinava con l’ulna. Si lasciò scappare un ringhio. Mollò lo stocco,
fine come una ragnatela, afferrò il polso di Marta e le diede uno strat-
tone. Il braccio si slogò con un vivace stoc.
La Luogotenente Dyas non urlò – non proprio, ma ci arrivò molto
vicino. Trottolò fino al bordo del tavolo. Senza mollarle il polso, Ca-
milla la aggirò, le calciò le gambe quasi con sufficienza e la mandò a
finire a faccia in giù sulle tavole di legno, con un tonfo. Camilla tor-
reggiava sull’avversaria, le schiacciò la nuca con un piede e le immo-
bilizzò il braccio slogato a un’angolazione che dava l’impressione di
essere parecchio scomoda. Dyas emise un penoso rantolo strozzato
e Judith Deuteros sbottò: «Clemenza!».
«Richiesta accolta, la vittoria va alla Sesta» disse Coronabeth in
fretta, come se accelerare la frase avrebbe potuto far finire il tutto
più alla svelta.
Scese il silenzio, interrotto soltanto dai respiri affannosi di Camil-
la e dai singulti minuti e piuttosto stupefatti della luogotenente. Al
che, Jeannemary commentò: «Porco cane».

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Entrambe le paladine stavano perdendo sangue. Sgocciolava dalla


ferita di Camilla, dove la spada l’aveva colpita, e inzuppava la cami-
cia della Luogotenente Dyas, che ne perdeva anche dal naso. Era del-
lo stesso colore del fazzoletto che aveva al collo. Teneva le palpebre
serrate ermeticamente. Palamedes si era già spostato vicino al tavo-
lo e, con un altro rumore intollerabile, risistemò il braccio di Marta
nel suo alloggiamento. Questa volta lei urlò per davvero. La Capita-
na Deuteros rimase a guardare, il volto assolutamente impassibile.
«Le vostre chiavi» disse lui.
«Non ho…»
«La vostra chiave del complesso, allora. Consegnatemela.»
«Avete già una copia identica.»
Palamedes la aggredì con una furia repentina che fece sobbalzare
tutti, persino Gideon. «Allora la butterò fuori da una cazzo di fine-
stra» tuonò lui. «Due brave paladine ferite, la vostra e la mia, e tut-
to questo perché la Seconda ha provato a prendersela col più debo-
le della comitiva.» Puntò l’indice sulla giubba impeccabile di Judith
con l’intento di impalarla; lei non fece una piega. «Non avete idea di
quante chiavi abbiamo! E non avete idea di quante chiavi abbiano gli
altri, se è per quello, perché non avete prestato uno straccio di atten-
zione a niente da quando le navette sono atterrate! Ve la siete presa
con noi perché i Sesti non sono guerrieri. Avreste potuto sfidare Gi-
deon la Nona o Colum l’Ottavo. Avete scelto Camilla perché vi servi-
va una vittoria rapida, e non l’avete neanche mai vista in azione pri-
ma, avete semplicemente dato per scontato di poterla sconfiggere. E
io non posso sopportarle, le persone che danno le cose per scontate.»
«Avevo un valido motivo» disse la Seconda, caparbia.
«Non mi interessa» ribatté Palamedes. «Non è buffo che, fra tutte le
Case, ci abbia pensato la Seconda a mandare tutto all’aria? Avete ap-
piccicato un bersaglio sulla schiena di chiunque possieda una chiave.
Ora sarà un tutti contro tutti: è colpa vostra, e la pagherete.»
«Per l’amor di Dio, Guardiano, avete frainteso le mie intenzioni…»
«Datemi la vostra chiave, Capitana!» ruggì il rampollo della Sesta.
«O la Seconda manca anche di lealtà, oltre che di cervello?»
«Ecco» disse la Luogotenente Dyas. Si era pulita il grosso del san-
gue dalla bocca e dal naso, anche se la sua camicia, un tempo bianca,
era scarlatta e fradicia. Si frugò nella tasca della giubba con il braccio

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illeso e gli porse un portachiavi, arricchito da un’unica chiave. Pala-


medes le rivolse un secco cenno del capo, glielo strappò di mano e
voltò le spalle a entrambe. Camilla era seduta sul bordo del tavolo, la
mano premuta sulla ferita e il sangue che le defluiva copioso tra le dita.
«Non mi ha preso l’osso» disse.
«Ricordati che stai usando lo stocco, per cortesia.»
«Non per giustificarmi, ma diavolo se era veloce…»
Una voce li interruppe. «Sfido la Sesta per il possesso delle loro
chiavi. Spetta a me decidere il quando, e il quando è ora.»

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Tutte le teste si voltarono in direzione della voce,
a eccezione di quelle di Ianthe Tridentarius, che restò stravaccata sul-
la sedia con un sopracciglio inarcato, e di Naberius Tern, che aveva
lanciato la sfida. Il paladino della Terza montò sul tavolo con un bal-
zo abbagliante e rimase là sopra, dritto in piedi, mentre Judith Deu-
teros aiutava con grande circospezione la sua paladina a scendere, si-
stemandola in uno dei posti vuoti. Naberius li squadrò tutti dall’alto
in basso con un ghigno crudele e quello stupido ricciolo che riusciva
sempre a far penzolare proprio in mezzo alla fronte.
«No che non lo farai» disse Coronabeth, flebile.
«E invece sì» disse Ianthe, alzandosi. «Ti serve una chiave del com-
plesso, no? Ecco qua la nostra opportunità. Sospetto che non ce ne
verranno concesse di migliori.»
Un’espressione di triste allarmismo si fece strada sul viso di Judith
Deuteros. Teneva entrambe le mani premute sul taglio sanguinante sul
petto della sua paladina, e aveva interrotto le operazioni per puro sdegno.
«Non ne avete motivo» disse lei.
«Nemmeno voi, se vogliamo proprio essere sinceri. Sextus aveva
perfettamente ragione.»
«Se volete farmi fare la parte della cattiva, accomodatevi» disse la
Capitana. «Sto cercando di salvare le nostre vite. Voi vi state arren-
dendo al caos. Ci sono delle regole, Terzo.»
«Al contrario» disse Ianthe, «voi avete ampiamente dimostrato
che non esistono regole di alcun tipo. C’è solo la gara… e come la
affrontiamo.»
Quando si accorse dell’espressione sconvolta della sorella – Coro-

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na si collocava, in quel momento, oltre la furia e la vergogna, e ave-


va perso ogni atomo di compostezza – si limitò solo a dirle, con de-
licatezza: «Lo sto facendo per te, mia cara, non fare la schizzinosa.
Questa potrebbe essere la nostra unica occasione. Non devi prender-
la così male, tesoro, che altro puoi fare?»
Il viso di Corona cambiò: il conflitto cedette il passo alla spossatez-
za ma, al tempo stesso, in lei si percepiva anche uno strano sollievo.
Pur digrignando i denti, prese una ciocca della lunga chioma bion-
do avorio di sua sorella e avvicinò il capo al suo. «Io non posso fare
niente» disse, e Gideon capì che l’avevano perduta, in qualche modo.
«Allora facciamolo insieme. Ho bisogno di te.»
«Anch’io ho bisogno di te» le fece eco la gemella, in maniera un
po’ patetica.
Camilla si rimise in piedi. Aveva preso il fazzoletto di Palamedes
e si era fasciata il braccio, ma lo teneva in una strana posizione e il
sangue faceva già capolino. Palamedes tremava talmente tanto per la
paura o per la rabbia che sembrava sul punto di uscire dalla sua stes-
sa pelle. «D’accordo» disse lei, laconica «secondo round.»
Gideon, però, era pervasa da una potente emozione: era stufa di sor-
birsi tutte quelle stronzate. Sguainò la spada. Si infilò il guanto e strin-
se i legacci sul polso con i denti. E si voltò a guardare Harrowhark, che
all’apparenza stava riemergendo da una passeggera depressione per fron-
teggiare un soverchiante sentimento tutto suo: oh, no… ci risiamo. Gi-
deon intimò mentalmente alla sua necromante di tapparsi la bocca con
una manciata di nocche ossute e di fare, per la prima volta in vita sua
– per la prima vera volta –, quello che Gideon aveva bisogno che facesse.
E Harrowhark rispose alla chiamata, sorgendo come una stella
vespertina.
«La Nona Casa rappresenterà la Sesta Casa» disse, con un tono fred-
do e annoiato, come se quella decisione fosse sempre stata nei suoi
programmi. Gideon voleva mettersi a cantare. Gideon voleva solle-
varla di peso e farla ballare su e giù per il corridoio. Non riuscì a trat-
tenere un sorrisone, così spaventosamente poco Nonario, e Naberius
Tern – che era passato dalla cattiveria smargiassa a una cautela preoc-
cupata – dovette faticare per mantenere il suo ghigno.
Ianthe si limitò a dar cenni di velato divertimento. «La trama si in-
fittisce. Da quando la Nona è così amica della Sesta?»

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«Non lo è.»
«Allora…»
Harrowhark disse, nell’esatto tono sepolcrale del Maresciallo Crux:
«Che la morte colga per primi avvoltoi e saccheggiatori».
Incapace di trattenersi oltre, anche Jeannemary saltò sul tavolo:
reggeva di fronte a sé lo stocco splendente della Quarta Casa. Il pu-
gnale blu e argentato, con la sua splendida lavorazione, le stazionava
appeso al fianco in maniera piuttosto professionale. Nonostante gli
occhi gonfi e segnati e i capelli arruffati dimostrassero che negli ulti-
mi giorni non aveva dormito più di una manciata di ore, trasmetteva
una prontezza intimidatoria. Gideon stava arrivando alla conclusione
che, nonostante una ghiandola pituitaria che faceva gli straordinari,
la reputazione dei Chatur non fosse priva di fondamento, dopotutto.
«Se volete prendervela con lei, ve la state prendendo anche con la
Quarta Casa» esclamò. «Per la lealtà, e l’Imperatore!»
Naberius Tern rinfoderò la spada e il suo elegante coltello splen-
dente, roteando gli occhi con una tale enfasi che per poco non gli ca-
scarono all’indietro nelle cavità sinusali. Fece un sonoro sospirone e
saltò giù dal tavolo, scostandosi quello stupido ricciolo dalla fronte
con un leggiadro scuotimento del capo.
«Era meglio se restavo a casa e mi sposavo» disse, risentito.
«Come se qualcuno te l’avesse chiesto» ribatté Ianthe.
«Se avete finito» disse Silas Octakiseron con la sua profonda e ti-
rannica cortesia servile, «Fratello Asht e io andremo a cercare Prote-
silaus il Settimo. In fin dei conti, è ancora disperso.»
«Un’attività che in qualche modo comporterà anche l’utilizzo di
quelle chiavi su porte che non siete mai riusciti ad aprire per conto
vostro» commentò Palamedes. «Che coincidenza.»
«Non nutro più il benché minimo interesse di conversare con voi»
disse Silas. «Il Guardiano della Sesta Casa non è altro che il prodot-
to incompleto di un incrocio tra consanguinei che è riuscito a supe-
rare un esame. La vostra compagna è una cagna rabbiosa, e dubito
della legittimità della sua pretesa al titolo di primo paladino. Non mi
prenderò nemmeno il disturbo di insultarla. Godetevi la protezione
della setta occulta, finché dura; mi dispiace che si sia giunti a questo.
Fratello Asht, ce ne andiamo.»
Quando si separarono, lo fecero con le maniere riluttanti di chi vol-

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ta le spalle ai propri nemici. Il Maestro dell’Ottava uscì di scena col


suo paladino come una legione che si ritira da un campo di battaglia.
La Seconda – con la paladina traballante sorretta dal braccio della
sua capitana – dava ancora di più questa impressione. Le tre Case ri-
manenti si squadrarono.
Palamedes si accostò a Harrowhark, con le mani insanguinate e gli
occhi luminosi un po’ spiritati. Si era tolto gli occhiali e sulle lenti c’e-
rano delle ditate rosse e untuose.
«Resta una sola chiave» le disse.
Harrow si accigliò. «Una sola da conquistare?»
«No, sono già state reclamate tutte. Ho completato tutte le prove a
eccezione di quella a cui mi sono rifiutato di prestarmi.»
Il cipiglio di Harrow si fece impercettibilmente più pronunciato,
ma Gideon stava mettendo insieme i pezzi. Come pareva stesse fa-
cendo anche Isaac, il necromante adolescente. «Se c’è solo una chia-
ve per tipo» disse lentamente, «che cosa succede quando fai una pro-
va che qualcun altro ha già completato?»
Palamedes si strinse nelle spalle. «Niente. Cioè, puoi fare la prova,
ma alla fine non ottieni nulla.»
Jeannemary disse: «Quindi è solo una gran perdita di tempo». E
Gideon non riuscì a immaginare come si sarebbe sentita dopo la sala
dell’Avulsione, se il plinto all’altra estremità fosse stato vuoto.
«Più o meno. La prova in sé è comunque… istruttiva. Ti costrin-
ge a concepire le cose in una maniera nuova. Giusto, Nonagesimus?»
«Le prove, finora» disse Harrow con una certa cautela, «mi hanno spin-
ta a prendere in considerazione diverse… possibilità fuori dall’ordinario.»
«D’accordo. Ma è come se… pensa se qualcuno ti mostrasse un nuo-
vo colpo con la spada, o quel che ti pare, ma poi nessuno ti desse mai
la possibilità di metterti seduto a leggere come funziona. Potresti far-
tene un’idea, ma non riusciresti mai davvero a impararlo. Mi seguite?»
Jeannemary, Gideon e Camilla lo fissarono.
«Cosa c’è?» disse lui.
«La Sesta impara sui libri come si combatte con la spada?» disse
Jeannemary, inorridita.
«No» intervenne Camilla, «è solo che il Guardiano non visita la
Guglia degli Spadaccini da quando aveva cinque anni… e quella vol-
ta lì si era perso…»

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«Va bene, va bene!» Palamedes alzò le mani. Reggeva ancora gli


occhiali macchiati di sangue. «Si tratta di un paragone inappropria-
to, mi è chiaro, ma…»
«Una prova da concepire unicamente come esercizio necromanti-
co» disse Harrow con calma «suggerisce molte cose ma non ne rive-
la nessuna. Solo il teorema che sta alla base può svelare il mistero.»
«E i teoremi sono custoditi dietro alle porte chiuse» disse Isaac,
meditabondo, «non è così? Servono le chiavi per quelle porte, o sei
fregato.»
L’attenzione generale si spostò sui due merdosi adolescenti. Ri-
cambiarono entrambi l’occhiata, non senza una punta di vergogna
– erano un ammasso di dolore, capelli arruffati e orecchini borchiati.
«Sappiamo delle porte» disse Jeannemary. «Abbiamo visto le porte…
e la gente ci entra, in quelle stanze… insomma, che altro potevamo
fare?» aggiunse, un po’ sulla difensiva. «Se non fossimo stati dietro
a tutti, l’avrebbe fatto quella serpe di Ianthe Tridentarius. E non c’è
nessuno che lei non stia pedinando. Credetemi.»
(«E stare dietro si differenzia da pedinare in che modo?»
«Perché la Quarta non pedina, magari?»)
«Nulla vi impediva di ottenere la vostra chiave del complesso» fece
Palamedes.
Isaac disse, svuotato: «Abigail ci aveva detto di… aspettare lei».
Gideon non sapeva quanto la Sesta sapesse delle chiavi che aveva-
no accumulato fino a quel momento, o quello che avevano scoperto
sui laboratori e sugli studi, o quanto erano al corrente dei teoremi.
Palamedes annuì, pensieroso. «Be’, siete giunti alle giuste conclusioni.
Dietro alle porte ci sono degli studi, e tutti e otto – ce ne sono otto,
ovviamente, uno per Casa – contengono appunti sul teorema corri-
spondente. Dobbiamo presumere che tutti e otto i teoremi si combi-
nino in una sorta di, ehm…»
«Megateorema» ipotizzò Isaac che, alla fin fine, aveva tipo tredi-
ci anni.
«Megateorema» concordò lui. «La chiave dei segreti del Littorato.»
Il cervello di Jeannemary Chatur si era ovviamente messo in moto,
superando a fatica la confusione e gli ormoni della pubertà per appro-
dare a una sorta di conclusione lentamente plasmatasi. «Un attimo.
Riavvolgi, Sesta Casa» gli chiese. «Cosa intendi con una sola chiave?»

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Palamedes tamburellò le dita sul tavolo. «Be’. Perdonatemi per la


spiegazione, Nona, so che avete già tenuto traccia delle chiavi…» (“Ha!
Ha! Ha!” pensò Gideon. Non aveva fatto niente del genere.) «… ma non
riuscivo proprio a capire quante chiavi avesse Lady Septimus. Sapevo
che ne aveva almeno una, ma quando Octakiseron l’ha convinta a ce-
dergliele…» – ed enfatizzò quel convinta con uno scorno che pesava
quanto un macigno e che per poco non sfondò il pavimento – «ci ha
accidentalmente svelato la sua mano. Ne aveva due. Il che significa
che ne resta una che non avevo contato, e dobbiamo rintracciarla.»
«Dobbiamo trovare il paladino della Settima» aggiunse Camilla.
Lui annuì. «Sì, e dobbiamo anche capire chi diavolo c’è in quell’in-
ceneritore. Ianthe Tridentarius aveva ragione: non che mi piaccia am-
metterlo ma là dentro c’è più di una persona.»
Isaac disse: «È mio dovere scoprire chi ha ucciso Magnus e Abi-
gail, sopra ogni altra cosa».
«Avete ragione, Barone Tettares» disse Palamedes con calore, «ma
credetemi, penso che rispondere a queste tre domande ci aiuterebbe
considerevolmente a risolvere l’enigma. Nona, Protesilaus era anco-
ra giù nel complesso… almeno fino a ieri notte.»
Harrow gli rivolse un’occhiata neutra. «Come fate a saperlo?»
«L’abbiamo visto entrare» dissero i Quarti all’unisono. E Isaac ag-
giunse: «Dopo aver origliato voi e la Sesta».
«Buon pro vi faccia. Ma quadra, comunque. Lady Septimus ha detto
Non è tornato e, quando abbiamo visto il loro anello, poco fa, c’erano
solo le chiavi delle prove, niente chiave del portello. Deve averla data
a lui in modo che potesse accedere al complesso per conto proprio,
anche se continuo a non capire il perché. Potrei scommetterci l’intera
sezione di scienze fisiologiche della mia biblioteca che è ancora là sot-
to. È impossibile che qualcuno l’abbia portato su senza essere visto.»
«Allora dobbiamo andare laggiù a controllare» disse Jeannemary,
con visibile impazienza per quella la carenza d’azione. «Andiamo?»
«Non partiamo in… Quarta» disse Palamedes. «Dovremmo sepa-
rarci. Stiamo combattendo una battaglia su un duplice fronte. In tut-
ta franchezza… non vorrei lasciare Lady Septimus sguarnita, senza
paladino, con solo la Prima Casa a vegliarla.»
Harrowhark disse: «Le sue chiavi sono andate. Che attrattiva do-
vrebbe rappresentare?».

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Camilla disse: «La vulnerabilità».


«Sì. Non può trattarsi solo di un gioco di chiavi, Nonagesimus. Per-
ché Magnus Quinn e Abigail Pent sono morti, quando non avevano
altro che una chiave del complesso e il loro buon cuore? Perché Pro-
tesilaus è scomparso, quando anche lui al massimo avrà avuto una
sola chiave del complesso? È ancora là sotto? Chi è morto prima an-
cora che iniziasse la competizione? E poi c’è il problema delle altre
Case. Non so come la pensiate voi, Reverenda Figlia, ma finché Cam
non sarà guarita, ho in programma di farmela addosso a ripetizione.»
Isaac si lasciò scappare un risolino stridulo, un po’ da sfigato. Ca-
milla ribatté con uno scontroso: «Guardiano, è solo la mano destra…».
«Ma sentitela! È solo la mano destra. La mia mano destra, se pro-
prio vogliamo. Dio santo, Cam, non ho mai preso uno spavento del
genere in vita mia.»
Harrowhark ignorò quel botta e risposta tra paladino e necroman-
te e si schiarì la gola, in maniera eloquente. «Septimus ha bisogno di
sorveglianza. Il suo paladino va trovato. Che cosa suggerite?»
«La Quarta Casa resterà con Lady Dulcinea» disse Palamedes, si-
stemandosi di nuovo gli occhiali sul naso lungo. «Gideon la Nona ri-
marrà con loro, come rinforzo. Voi, io e Camilla andremo giù al com-
plesso per tentare di localizzare Protesilaus.»
Più di uno sguardo stupefatto saettò nella sua direzione: persino
la sua paladina lo fissò come se avesse mandato il buonsenso in va-
canza, e Harrow si calò dolorosamente il cappuccio, come se volesse
liberarsi di un fardello. «Sextus» disse, come se si stesse rivolgendo
a un bambino molto stupido «la vostra paladina è ferita. Potrei ucci-
dervi entrambi e prendervi le chiavi… o prendervi le chiavi e basta,
il che sarebbe peggio. Perché volete mettervi deliberatamente in una
posizione simile?»
«Perché sto riponendo la mia fiducia in voi» disse Palamedes. «Sì,
nonostante voi siate una nera anacoreta, leale solamente alle numi-
nose forze del Sepolcro Sigillato. Se aveste voluto prendermi le chia-
vi attaccandovi a qualche cavillo, mi avreste già sfidato a duello da un
pezzo. Non mi fido di Silas Octakiseron e non mi fido di Ianthe Triden-
tarius, ma mi fido della Reverenda Figlia Harrowhark Nonagesimus.»
Sotto alla pittura, Gideon riuscì a constatare che Harrow aveva
cambiato colore svariate volte, durante quel discorsetto. Era passata

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dall’essere uno scheletro piuttosto cinereo a uno scheletro di un ver-


dognolo improbabile. Per uno sconosciuto, si sarebbe trattato sempli-
cemente di una maschera nera della Nona Casa che da cupo mistero
si riconfigurava su criptico mistero, senza lasciar trapelare nulla, ma
per Gideon fu come ammirare uno spettacolo di fuochi d’artificio.
La sua necromante disse, scontrosa: «D’accordo. Ma sorvegliere-
mo noi la Settima Casa. Non ho intenzione di calarmi giù per quella
scaletta con la vostra paladina invalida».
Palamedes dichiarò: «D’accordo. Dopo tutto è possibile che ci sia
un modo migliore di impiegare i nostri talenti. Quarti, per voi va bene
andare con Gideon la Nona? Mi rendo conto di aver presupposto che
le motivazioni di tutti siano allineate – ma quel che posso fare è as-
sicurarvi che è davvero così. Perlustrate il complesso e, che troviate
o meno Protesilaus, tornate da noi, e vedremo come muoverci. En-
trate e uscite».
L’intorpidito necromante adolescente lanciò un’occhiata alla sua
intorpidita paladina. Jeannemary disse all’istante: «Andremo con la
Nona. È una a posto. Le storie che circolano sulla Nona Casa mi sem-
brano tutte cazzate, comunque».
È una a posto? Il cuore di Gideon si gonfiò, nonostante nutrisse dei
sospetti – tutti estremamente meschini – sul perché la sua necroman-
te non avesse voluto lasciarla a vegliare su Dulcinea Septimus. L’a-
depto della Sesta Casa si risistemò di nuovo gli occhiali e disse: «Mi
dispiace, Nona paladina, avrei dovuto chiedere la tua opinione a pro-
posito di tutta questa faccenda».
Lei stirò le articolazioni alla base del collo mentre soppesava la do-
manda, si stiracchiò i legamenti e scrocchiò le nocche. Lui la incal-
zò: «Opinioni?».
Gideon disse: «Lo sapevi che il tuo nome di battesimo contiene la
parola “salame”?».
Gli orripilanti adolescenti la fissarono sgranando così tanto gli oc-
chi da poterci far marciare dentro un plotone di scheletri.
«Ma… ma tu parli?» disse Isaac.
«Anche se ci si augurerebbe il contrario» fece Camilla.
Le si riaprì la ferita. Palamedes si frugò in tasca e nelle maniche
della tunica in cerca di altri fazzoletti con cui tamponarla. Mentre
i Quarti si imbarcarono in una concitata conversazione sussurrata

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– o almeno così presumevano loro – Harrow si avvicinò a Gideon


e le consegnò con riluttanza il grande anello di metallo da cui pen-
zolavano le loro chiavi, schiacciandosi contro di lei in modo da non
farle vedere a Palamedes.
«Fai in modo di riportarmele. In caso contrario, strozzatici» le bi-
sbigliò. «E non dormire sugli allori, coi Quarti. Non si lavora mai coi
bambini, Griddle, le loro cortecce prefrontali non sono pienamente
sviluppate. Ora…»
Gideon prese Harrowhark tra le braccia. La sollevò da terra di ap-
pena un paio di centimetri e la strinse in un gigantesco abbraccio,
prima che sia lei che Harrow potessero capire che cosa stava succe-
dendo. La sua necromante le sembrò leggerissima, come un sacco di
ossicini d’uccello. Aveva sempre pensato – quando si era presa il di-
sturbo di pensarci – che Harrow sarebbe stata fredda, visto che tut-
to era freddo, alla Nona. No, Harrow Nonagesimus era di un’incan-
descenza febbrile. Be’, non si può mica elaborare una tale quantità di
pensieri agghiaccianti senza generare energia. Aspetta un attimo, ma
che cosa diavolo stava facendo.
«Grazie per avermi sostenuta, mia megerina crepuscolare» disse
Gideon, rimettendola giù. Harrow non aveva opposto resistenza, ma
si era afflosciata, come una preda che si finge morta. Aveva il medesi-
mo sguardo remotissimo e annebbiato, e la respirazione bloccata. Gi-
deon desiderò a scoppio ritardato che qualcuno la facesse esplodere,
ma rammentò a se stessa di comportarsi con disinvoltura. «Mi ha fatto
piacere, mia tenebrosa regina. È stato bello. Hai fatto una cosa bella.»
Harrow, completamente senza parole, alla fine ne uscì in maniera
piuttosto patetica con un: «Non rendiamo tutto così strano, Nav!» e
si allontanò in fretta per raggiungere Palamedes.
Jeannemary apparve accanto a Gideon, con una certa timidezza.
Isaac le orbitava attorno, come una specie di parassita: era impegnato
a raccoglierle i ricci in una treccia ordinata, con un fiocco blu sbrin-
dellato. Le disse: «Siete abbinate da molto tempo, voi due?»
(«Non puoi mica chiedere una roba del genere, così di punto in
bianco» le sibilò il suo necromante. «È una cosa imbarazzante da
chiedere.»
«Stai zitto! Era solo una domanda!»)
Gideon rimase a osservare la treccia che cresceva e Palamedes che

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spremeva il ripugnante contenuto azzurro di un contagocce sulla fe-


rita di Camilla – e Camilla che, con sublime imprevedibilità, gli mol-
lava una ginocchiata sulla coscia. Harrowhark era vicino a loro, se ne
stava sulle sue, sforzandosi deliberatamente di non guardare Gideon,
la testa nascosta nelle profondità del suo secondo cappuccio prefe-
rito. Ancora non capiva cosa era necessario che facesse o pensasse o
dicesse: il vero significato del dovere che legava un paladino a un ne-
cromante, un necromante a un paladino.
«Da un’eternità, mi pare» le disse, sincera. Gideon si sfilò gli occhia-
li scuri dalla tasca e se li mise. E si sentì meglio. «Forza. Andiamo.»

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Nonostante avessero ormai appurato che Gi-
deon era dotata di corde vocali funzionanti e della volontà di servir-
sene, il viaggio giù fino al complesso trascorse in silenzio. Ogni ge-
nere di tragitto verso le profondità della Prima Casa metteva i due
adolescenti in massimo allarme: erano così paranoici che avrebbe-
ro potuto essere ammessi nell’oscuro grembo della sospettosa Nona.
Entrambi sobbalzavano di fronte a ogni ombra e osservavano il via-
vai di scheletri scricchiolanti con null’altro che odio e disperazione.
Non amavano la terrazza aperta con le onde che ruggivano molto più
in basso, né il freddo corridoio di marmo, né la scalinata di marmo
che conduceva giù alla saletta anonima con il portello del comples-
so. Parlarono soltanto quando Gideon infilò la chiave del sotterra-
neo nella toppa e la fece girare con un secco clic. Ci pensò Jeanne-
mary, ed era preoccupata.
«Noi continuiamo a non avere una chiave» disse. «Forse noi… for-
se non dovremmo essere qui.»
«Abigail è morta, e lei il permesso ce l’aveva» disse cupamente la
sua controparte. «A chi vuoi che importi?»
«Sto solo dicendo che…»
«Io sono stata laggiù senza permesso» fece Gideon, mentre cer-
cava di rendere più agevole l’apertura del portello aiutandosi con lo
stivale. L’aria gelida sibilò fuori come un fantasma prigioniero. «Una
volta la Sesta mi ha fatto entrare senza che avessi una chiave, e re-
spiro ancora.»
Jeannemary non sembrava né troppo rincuorata né troppo con-
vinta. Lei allora aggiunse: «Senti, mettiamola così: siete stati là sotto

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anche l’altra sera, quindi, se il fattore decisivo è quello, siete già bel-
li che fottuti.»
«Non parli come mi ero immaginato che parlassi» disse Isaac.
Tutti e tre scesero giù per la fredda e scura scaletta a pioli, fino alle
luci fluorescenti e all’immobilità cadaverica del pianerottolo. Gideon
andò per prima. Gli altri due rimasero un pochino indietro, affasci-
nati dai rimasugli sanguinolenti – sempre meno freschi – che ancora
decoravano la griglia alla base. Fu costretta a guidarli giù per il tun-
nel che conduceva alla sala radiale, fino alla lavagna decrepita e alle
targhette sopra al dedalo di corridoi.
Si voltò: Jeannemary e Isaac non l’avevano raggiunta. Jeannemary
si era fermata sulla porta, ci si era appiattita contro, di schiena, e os-
servava quegli strani e anacronistici tunnel d’acciaio coi loro pannel-
li metallici e l’illuminazione a LED.
«Mi è sembrato di sentire un rumore» disse, con gli occhi che guiz-
zavano di qua e di là.
«Da dove?»
Non rispose. Isaac, che si era rintanato nell’ombra dove lo stipite
della porta incontrava la parete, disse: «Nona, perché nei corpi di Ma-
gnus e Abigail sono stati trovati dei frammenti d’osso?».
«Non lo so. È un’ottima domanda.»
«All’inizio pensavo che fossero stati gli scheletri» disse, in un mor-
morio infossato, il che contribuì a dare un senso al perché lui e la sua
paladina sobbalzassero in modo irrazionale ogni volta che un servi-
tore osseo del posto si avvicinava ticchettando. «C’è qualcosa di inna-
turale nei costrutti che ci sono di sopra… è come se ti ascoltassero…»
Gideon si voltò dalla loro parte. Si erano appiccicati alle due pa-
reti del corridoio, non osavano avventurarsi nello spazio più aperto,
le pupille dilatate come se fossero imbottiti di adrenalina. La squa-
drarono, entrambi: la giovane paladina con gli occhi castani resi fan-
gosi dall’oscurità, il giovane necromante con gli occhi nocciola scu-
ro e il mascara da ragno. L’aria pressurizzata proveniente da qualche
ventola di raffreddamento uscì sibilando da una bocchetta, facendo
scricchiolare il soffitto.
«Forza, non state lì nascosti» disse Gideon, impaziente. «Trovia-
mo questo tizio. Non dovrebbe essere molto complicato, è enorme.»
Nessuno dei due voleva farsi convincere a uscire. La baldanza sem-

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brava averli abbandonati. Si addossarono l’uno all’altra, coi volti seri e


tesi. Isaac alzò una mano e delle flebili fiammelle spettrali gli appar-
vero sulla punta delle dita – di un verdino bluastro, emanavano un
bagliorino stentato che non era molto d’aiuto a rischiarare quel che
avevano attorno. Insistette per creare una barriera su ogni singola so-
glia radiale spalmando il sangue e la saliva della sua paladina attorno
all’imboccatura di ogni corridoio. Era nervoso e irascibile e il proce-
dimento di applicazione di quel viscidume adolescenziale su tutte le
uscite fu lungo. «Le sue barriere sono ottime» continuava a ripetere
Jeannemary, sulla difensiva.
«Credevo che i Quarti fossero un po’ più per buttarsi nella mischia
e fare un gran casino» commentò Gideon, scandagliando con atten-
zione ogni ombra.
«È stupido farsi ammazzare se non può essere d’aiuto» ribatté
­Isaac, tracciando forme curiose sullo stipite di una porta col pollice.
«La Quarta non è carne da macello. Se siamo i primi a sbarcare, dob-
biamo restare vivi… le barriere sono la prima cosa che ho imparato.
Quando partiremo in missione, il prossimo anno, ce le faremo cica-
trizzare sulla schiena.»
Il prossimo anno. Gideon era tormentata dall’impazienza, ma dedi-
cò comunque un paio di secondi ad assimilare il fatto che i due goffi
teenager che aveva davanti se la sarebbero vista coi nemici dell’Im-
pero a quindici e rotti anni. Per quanto dagli otto anni in poi avesse
desiderato trovarsi in prima linea, all’improvviso non le sembrò più
un’idea così grandiosa.
«Volevamo andare già quest’anno» disse la paladina, afflitta «ma a
Isaac sono venuti gli orecchioni la settimana prima della convocazione.»
Il ricordo degli orecchioni di Isaac li gettò entrambi nello sconforto,
ma almeno diluì il loro terrore. Alla fine, Gideon si ritrovò a guidar-
li lungo il corridoio denominato STERILIZZAZIONE, il posto in cui
aveva trovato Harrow la prima volta. Le loro tre paia di piedi solleva-
rono gigantesche nuvole di polvere bianca, che risplendeva variopinta
alla luce necromantica di Isaac, depositandosi poi in spruzzi silenziosi
sulle graticole della pavimentazione, fino a dissolversi nel nulla sotto i
loro passi. Le porte si spalancarono con un gemito, rivelando il deda-
lo di cubicoli di acciaio inossidabile. La ventilazione gemeva solidale,
sferragliando così tanto che i due adolescenti digrignarono i molari.

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Il sangue vecchio di Harrow era ancora lì, ma Protesilaus no. Si se-


pararono per ispezionare il labirinto di tavoli di metallo, controllan-
doli anche sotto per capire se si fosse coricato lì per schiacciare un
pisolino veloce, o qualcosa di altrettanto probabile; scandagliarono
file e file di cubicoli metallici, tutti deserti. Lo chiamarono al grido
di «Ehilà!» e «Protesilaus!» con le pareti che restituivano il debole ri-
verbero delle loro voci. Quando l’eco si attenuò, sentirono il rumore
strisciante dell’aria che fluiva tra i denti metallici delle ventole. «C’è
qualcosa qui» disse Isaac.
Rimasero tutti in ascolto. Gideon non riusciva a sentire altro che
il suono di vecchi macchinari che funzionavano con la medesima fa-
tica con cui avevano funzionato per migliaia di anni, tenuti in vita da
meccanismi perfetti e da un orologio necromantesco. Non erano di-
versi dai rumori di fondo della Nona Casa. Disse: «Non sento niente.»
«Non si tratta solo di sentire» fece Isaac, aggrottando la fronte «è
più… una sensazione. C’è del movimento qui.»
Jeannemary disse: «Un’altra Casa?».
«No.»
«Barriere?»
«Nulla.»
Jeannemary perlustrò la sala con lo stocco sguainato e lo stiletto
stretto in pugno. Gideon, poco avvezza al lavoro di squadra, temeva
che, se l’avesse spaventata per sbaglio, sarebbe finita con l’arma se-
condaria della Quarta piantata nello stomaco. Isaac disse: «Sono sta-
ti portati dei corpi, qua dentro… tanto tempo fa. Un sacco di mate-
ria ossea. La Prima mi ha sempre dato la sensazione di un cimitero,
ma questo è peggio. Non me lo sto inventando».
«Ti credo» disse Gideon. «Certa roba che ho visto qua sotto ti fareb-
be marcire le palpebre. Non so che cosa diavolo stessero sperimentan-
do, ma non mi piace. L’unico lato positivo è che tutto è ben sigillato.»
«Io non… ne sarei così sicuro» disse l’adepto. Il sudore gli imper-
lava la fronte.
Jeannemary disse: «Qua non c’è. Andiamo da un’altra parte».
Abbandonarono il luminoso ambiente antisettico della Steriliz-
zazione. Le luci si spensero con il loro ritmico boom, boom, boom
quando Gideon pigiò sulla pulsantiera ancora imbrattata dalle volu-
te del sangue di Harrow, e i tre si riversarono in corridoio. Ora il su-

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dore colava apertamente lungo le tempie di Isaac. La sua paladina lo


circondò con un braccio, e lui seppellì il viso bagnato e incandescen-
te nella sua spalla. Ancora una volta, Gideon la trovò una cosa diffi-
cile da guardare.
«Schiodiamo» disse Jeannemary.
Quando girarono l’angolo, dove il corridoio della Sterilizzazione
si innestava sull’arteria principale, il boom, boom, boom ritmico del-
le lampade che si spegnevano li raggiunse. Le luci nella griglia sotto
di loro tremolarono e si estinsero, così come il debole bagliore ema-
nato dai pannelli sulle loro teste e l’illuminazione potente che peri-
metrava la grande sala quadrata più avanti. Rimasero in un’oscurità
assoluta, e ogni nervo che Gideon aveva in corpo si mise a gorgheg-
giare di paura. Si levò gli occhiali per cercare di abituarsi.
Il necromante era a tanto così dall’iperventilare. La sua paladina
continuava a ripetergli, con una calma inquietante: «Le tue barriere
reggono. Sono solo le luci. Non sfasare».
«Le barriere…»
«Reggono. Sei bravo con le barriere. Non c’è nessuno qua sotto.»
Una delle luci a sensori di movimento si riaccese laboriosamente
alle loro spalle, poco più giù lungo il passaggio. Un pannello del sof-
fitto irradiò sul rivestimento metallico laterale un rincuorante baglio-
re bianco. Era imbrattato con parole che qualche secondo prima non
c’erano, scritte con un sangue così fresco e rosso che ancora sgoccio-
lava impercettibilmente:

MORTE ALLA QUARTA CASA

Le luci sfarfallarono e si spensero. Dopo l’assenza di sonno – dopo


giorni di minacce, dolore e panico che avrebbero mandato al tappe-
to un uomo col doppio dei suoi anni – Isaac perse completamen-
te la brocca. Con uno strillo strozzato, divampò avvolto da un alone
­verde-azzurro. Jeannemary urlò: «Isaac, dietro di me…», ma lui sfri-
golava di luce, troppo intensa da guardare, un sole e non più una per-
sona. Gideon lo sentì scappare nella stanza davanti a loro, accecata
da quell’aurora che correva.
Quando lo sguardo le si snebbiò, Gideon si trovò di fronte il co-
strutto scheletrico più grande che avesse mai visto. Acceso dalla luce

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bluetta di Isaac, riempiva tutto lo spazio: un’allucinazione di ossa am-


massate. Era di gran lunga più grosso di quello che c’era in Reazione,
più grosso di qualunque cosa fosse stata registrata nei libri di storia
della Nona. Si era assemblato da solo nella stanza, apparentemente
dal nulla, visto che non sarebbe mai riuscito a passare da una delle
porte. All’improvviso, era lì e basta, come un incubo – un vertigino-
so colosso accovacciato; un’assurdità di ossa che si condensavano in
lunghe zampe da aracnide, che lo sorreggevano, temibili e aggrazia-
te; uno strascico di tentacoli da medusa costituiti da milioni e milio-
ni di dentini, incastonati gli uni negli altri come un puzzle. Scrollò i
filamenti, poi li irrigidì tutti insieme, con un rumore che somigliava
allo schiocco di una frusta. Era ovunque. E ce n’era troppo.
Si ritrasse da Isaac Tettares, che si era piantato a gambe larghe e
urlava, senza emettere suono, di terrore e rabbia. Aveva spalancato
le braccia come per stringere qualcuno e, tra lui e il costrutto che in-
vadeva la stanza, l’aria era satura di sodio esplosivo. Si era creato una
specie di risucchio, come se Isaac stesse cercando di trascinare qual-
cosa fuori da quella recalcitrante creatura. Punti di impatto di un blu
brillante apparvero addosso all’essere e la massa di ossa ed energia co-
minciò a perdere forma, avanzando verso Isaac con pezzettini sche-
letrici che impattavano sulla griglia come gocce di pioggia.
Gideon si riscosse dalla sua confusione, sguainò la spada e si mise
a correre. Con la mano guantata afferrò il tentacolo più vicino e tirò,
poi ne colpì un altro con un manrovescio corazzato, si imbatté in un
frammento nudo di stinco e gli mollò un pugno con tutta la forza che
aveva. Uno dei tentacoli di denti le si arrotolò attorno alla caviglia,
ma lei riuscì a fare leva e, con un pestone, lo ridusse a una corona di
molari. Gideon si voltò e vide che un altro filamento aveva buttato
a terra Jeannemary, che mulinava furiosamente piedi e lame. Ovun-
que si voltasse, c’era del costrutto: ovunque la luce di Isaac arrivasse,
c’era quel tumore di ossa e denti.
Gideon urlò, anche se la sua voce risultò attutita da un milio-
ne di miliardi di quelle cazzo di ossa: «Scappate! Non combattete,
SCAPPATE…».
Ma quell’affare gigantesco invase la griglia con qualche altra doz-
zina di viticci sinuosi, tendendoli in lunghi cavi affilati. Il fuoco
­verde-azzurro di Isaac atterrò su un gigantesco fusto osseo, un te-

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schio magnificamente conficcato nell’unico nucleo coerente di quella


cosa: il simulacro di una faccia, con gli occhi e le labbra chiuse, come
fossilizzate in una preghiera perenne. La vasta maschera incombeva
su di loro dal soffitto, affaticata dalla trazione di Isaac. Uno dei ten-
tacoli cedette e venne risucchiato dal vortice che la Quarta Casa sta-
va alimentando così valorosamente. Lo spirito che lo abitava si stava
dissolvendo, l’arto si spaccò in pezzettini indipendenti, uno solo fra
le centinaia che restavano.
Isaac non si fermò e non fuggì. Cazzo, fu una delle cose più corag-
giose e stupide che Gideon avesse mai visto. Il costrutto vacillò, ri-
trovò i suoi appoggi e inclinò il grosso cranio, meditabondo. I lunghi
pinnacoli di denti fluttuavano sopra al necromante, ondeggiando e
deformandosi di tanto in tanto, come se stessero per essere risucchia-
ti dal suo vortice impetuoso. Poi, almeno una cinquantina di quegli
affari trapassarono Isaac da parte e parte.
Fuoco blu e sangue annaffiarono la stanza. Gideon rinfoderò la spa-
da, incassò le spalle, tirò su un braccio per proteggersi gli occhi e partì
a razzo. Era come correre in mezzo a un terremoto. Mille frammenti
ossei le fecero a brandelli gli abiti e le graffiarono ogni centimetro di
pelle scoperta. Non ci badò minimamente, ma precipitò su Jeanne-
mary Chatur come la vendetta dell’Imperatore. Jeannemary non aveva
alcuna intenzione di fermarsi: stava assalendo il suo nemico imbatti-
bile come se l’opzione di darsi alla fuga non fosse mai esistita. Sem-
brò accorgersi a malapena che Gideon l’aveva presa, agitava gambe
e braccia, la gola lacerata da un lungo grido che Gideon riuscì a tra-
durre solo successivamente: «Lealtà! Lealtà! Lealtà!».
Come fece ad arrivare in fondo a quel corridoio, con la ragazzi-
na stretta al petto e lunghi viticci scheletrici che le inseguivano stri-
sciando dalla sala centrale, non avrebbe proprio saputo spiegarlo. Il
fatto che si fosse arrampicata su per la scaletta con Jeannemary ag-
grappata addosso, che scalciava e urlava, era ancora più improbabi-
le. Buttò in terra la paladina – dubitava che la ragazzina se ne fosse
anche solo accorta – chiuse di scatto il portello e girò la chiave con
una tale concitazione che ammaccò il metallo.
Jeannemary si rivoltò sulle gelide piastrelle nere e vomitò. Si tirò su,
appoggiandosi sulle braccia e sulle gambe fustigate dalle ossa, taglia-
te e contuse, traballò e cominciò a tremare. Si abbandonò di nuovo

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sulle ginocchia e urlò come un fischietto. Gideon la prese in braccio


di nuovo – l’adolescente annientata dal dolore si dimenò e la morsi-
cò – e si allontanò trotterellando dal portello.
Jeannemary continuò a scalciare tra le sue braccia. «Mettimi giù»
pianse. «Lasciami tornare là. Ha bisogno di me. Potrebbe essere an-
cora vivo.»
«Assolutamente no, fidati» disse Gideon.
Jeannemary la Quarta urlò di nuovo. «Voglio morire» dichiarò dopo.
«Ti è andata male.»
Per lo meno, però, smise di scalciare. Le miriadi di tagli che Gideon
aveva in faccia e sulle mani cominciarono a pizzicare seriamente, ma
non ci badò. Fuori la notte era ancora nera come la pece e il vento ulula-
va sul fianco della Casa di Canaan; Gideon trasportò Jeannemary all’in-
terno e giù per la lunga scalinata marcescente, ma poi, quando si trat-
tò di capire cosa fare dopo, tabula rasa totale. La paladina della Quarta
Casa non riusciva neanche a stare in piedi: era ridotta ai minuscoli
singhiozzi increduli di qualcuno a cui è stato spezzato il cuore per l’e-
ternità. Era la seconda volta che Gideon sentiva Jeannemary piangere
per davvero, e la seconda volta fu di gran lunga peggiore della prima.
Doveva portarla al sicuro. Gideon voleva il suo spadone e voleva
Harrow. C’erano gli alloggi della Nona – ma le barriere ossee pote-
vano essere infrante, persino quelle di Harrow. Avrebbe potuto mar-
ciare dritto dagli altri, che stavano sorvegliando Dulcinea – ma era
un lungo viaggio da fare con un carico catatonico. E se si fosse im-
battuta in un avido Naberius o in uno zelante Colum… sempre me-
glio loro che quel che c’era là sotto, nel complesso, nell’oscurità. La
mano di Gideon stringeva ancora l’anello con la chiave del portel-
lo che aveva appena girato freneticamente, e la chiave rossa… e una
lampadina si accese.
Jeannemary non le domandò dove stessero andando. Gideon cor-
se giù per la scalinata putrida della Casa di Canaan, lungo i silenziosi
corridoi notturni e giù per il piccolo passaggio in salita che conduce-
va all’anticamera della sala di addestramento. Scostò la tappezzeria e
si fiondò giù per il corridoio fino alla grande porta nera che Harrow
aveva battezzato X-203. La porta e la serratura erano così nere, nel
mezzo della notte, e lei resa così incerta dalla paura che, per un este-
nuante minuto, sembrò non riuscire a individuare la toppa. Ma poi

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la trovò, fece scivolare la chiave rossa nella sua dimora e spalancò la


porta sullo studio così a lungo abbandonato.
La fila di faretti si accese, rischiarando i lindi ripiani laminati del
laboratorio e la scala di legno ancora lucido che portava al salottino.
Si richiuse la porta alle spalle e fece scattare la serratura a una veloci-
tà che avrebbe potuto infrangere la barriera del suono. Gideon por-
tò Jeannemary su per le scale – per metà sorreggendola e per metà
trasportandola di peso – e la mise giù nella poltrona molliccia, che
rispose sibilando a quell’improvviso utilizzo. La derelitta adolescente
si raggomitolò in posizione fetale, sanguinando tra i singhiozzi. Gi-
deon si allontanò come un fulmine e scandagliò la stanza, doman-
dandosi se sarebbe riuscita a portare giù le grosse librerie di legno
per utilizzarle come barricate.
«Dove siamo?» domandò la Quarta a un certo punto, affranta.
«È una delle stanze delle chiavi. Siamo al sicuro, qui. Sono l’unica
che ha la chiave.»
«E se butta giù la porta?»
Gideon la rassicurò: «Ma stai scherzando? Quella porta è di fer-
ro, spessa una spanna».
La cosa non confortò e nemmeno soddisfò Jeannemary, che con
ogni probabilità doveva essersi accorta, dallo sguardo di Gideon, che
si trattava soltanto di una trovata improvvisata, ma il suo pianto si af-
fievolì… a intervalli di cinque secondi un altro singulto la squassava,
ma aveva sostituito le lacrime con una serie di inspirazioni isteriche.
Poi le disse: «Non è giusto» e riattaccò a pieni polmoni con un’altra
crisi di pianto.
Gideon si era spostata vicino alle vecchie carabine, chiedendosi
con un certo spavento se funzionassero ancora. Chi poteva dirlo? Le
spade erano ancora tutte affilate. «No. Non lo è.»
«Tu n-non capisci.» La paladina combatteva per riprendere il con-
trollo, gli occhi selvaggi erano fradici di odio e disperazione. Rabbri-
vidì così tanto che cominciò a vibrare. «Isaac è cauto. Non è un inco-
sciente. Non è uno… lui non… è sempre stato così attento, non avrebbe
dovuto… quando eravamo piccoli lo odiavo, era tutto il contrario di
quello che avrei voluto…»
Si abbandonò di nuovo al pianto. Quando ci riuscì, le disse: «Non
è giusto! Perché è diventato stupido proprio adesso?».

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Non c’era assolutamente nulla che Gideon potesse dirle. Le servi-


va più potenza di fuoco, altro che librerie e anticaglie. Quello di cui
aveva disperatamente bisogno era Harrow Nonagesimus – per lei,
un gigantesco agglomerato di ossa avrebbe rappresentato più un’oc-
casione di spasso che una mostruosità infernale, e le serviva anche il
suo spadone. Ma non poteva abbandonare Jeannemary e, in quel mo-
mento, Jeannemary era un peso.
Si stropicciò la faccia sanguinante con le mani, demolendo la pittu-
ra e cercando di riordinare i pensieri, finendo per decidersi su: «Sen-
ti. Resteremo qui finché non sarai in condizioni di combattere… non
provare a dirmi che ce la fai, sei esausta, sei sconvolta e sembri un
mucchio di vomito fumante. Prenditi una mezz’ora e stenditi, io vado
a cercarti un po’ d’acqua».
Servì uno sforzo titanico per far coricare Jeannemary su uno dei
materassi polverosi di quei letti scricchiolanti, e uno sforzo anco-
ra maggiore per convincerla a bere anche il più minuscolo sorsetto
dell’acqua che uscì dal rubinetto del laboratorio – i tubi sferraglia-
rono per la sorpresa di venire di nuovo utilizzati – da una tazzina di
metallo che, in tutta probabilità, non veniva toccata da labbra uma-
ne da quando la Nona Casa era in fasce. La recalcitrante adolescen-
te bevve un po’, posò la testa sul vecchio cuscino spugnoso e le spal-
le continuarono a sussultarle per un bel pezzo. Gideon si sistemò
nella poltrona troppo imbottita e tenne lo stocco a portata di mano,
sul ginocchio.
«Che cos’era quella cosa?»
Gideon sobbalzò; si era persa in un miasma di fantasticherie, e la
voce di Jeannemary era arrochita dalle lacrime e dal cuscino.
«Non lo so» le disse. «Tutto quello che so è che gli farò il culo.»
Un altro istante di silenzio. Poi: «È la prima volta che Isaac e io ce
ne andiamo per davvero dalla Casa… Volevo che ci iscrivesse alle li-
ste per il fronte già anni fa, ma Abigail ha detto di no… e nemmeno
lui l’ha voluto fare… cioè, ha tre fratelli e quattro sorelle più piccoli a
cui badare. Voglio dire… aveva».
Sembrava sul punto di scoppiare di nuovo a piangere. Gideon dis-
se: «Ed è un… numero notevole?».
«Servono rimpiazzi, se sei della Quarta Casa» disse Jeannemary,
tirando su col naso. «Io ho cinque sorelle. La tua famiglia è grande?»

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«Non siamo tanto da famiglie grandi, alla Nona. Io credo di esse-


re orfana.»
«Be’, anche quello è piuttosto comune nella Quarta Casa» disse
la paladina. «Mia madre è saltata su una mina durante la spedizio-
ne dei Pionieri, anche se non si sarebbe dovuta trovare su un piane-
ta post-coloniale oltre l’orlo. Il papà di Isaac è partito per una visita
di stato su un pianeta prigioniero ed è stato spazzato via da un’esplo-
sione dei ribelli.»
Dopodiché, non ci fu più niente, nemmeno le lacrime. Dopo pochi
minuti, Gideon non fu sorpresa di constatare che la povera ragazzina
insanguinata aveva pianto così tanto da perdere i sensi. Non la svegliò.
L’avrebbe svegliata a tempo debito, e forse anche un breve riposino le
avrebbe giovato. L’adolescenza faceva schifo, e faceva ancora più schi-
fo essere un’adolescente il cui migliore amico era appena schiattato in
una maniera orripilante, anche se eri abituata a madri che saltano sul-
le granate e a padri che esplodono. Nella Nona Casa, per lo meno, si
moriva prevalentemente di polmonite esacerbata dalla senilità.
Gideon appoggiò la testa sullo schienale paffuto della poltrona. Non
l’avrebbe mai creduto possibile, ma – osservando l’alzarsi e l’abbas-
sarsi ritmico del respiro di Jeannemary, un confortante e ritmico su
e giù, le righe di lacrime che si asciugavano sulle guance della teena-
ger assopita – sprofondò subito nel sonno.

* * *

Non doveva essere passato molto tempo. Quindici minuti al massi-


mo. Si svegliò di soprassalto presa da quell’acuto senso inconscio di
panico di chi si rende conto di non potersi permettere di scivolare
in una conclamata fase REM, ridestandosi con uno spasmo aptico.
La spada le ruzzolò giù dalle ginocchia, sferragliando sul pavimento.
L’unico suono che poteva averla svegliata era un caparbio sgocciolio
che pensò provenisse dal rubinetto.
Gideon non capì quel che stava guardando, quando si svegliò – e
quando si stropicciò gli occhi per guardare meglio, continuò a non
capire.
Jeannemary era ancora coricata a pancia in su nel vecchio lettino,
con braccia e gambe distese, come se avesse scalciato via coperte e

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lenzuola durante un brutto sogno: il che poteva andare benissimo,


solo che a inchiodarle entrambe le spalle al materasso c’erano delle
gigantesche lance d’osso. Altre due le trapassavano le cosce. Una era
infilzata al centro esatto della gabbia toracica. Quei giavellotti d’osso
erano penetrati nel corpo di Jeannemary producendo un alone rosso
che le aveva inzuppato i vestiti, filtrando tra le coperte.
«No» disse Gideon, meditabonda, «no, no, no, no, no.»
Gli occhi di Jeannemary erano leggermente aperti. Schizzi di san-
gue le imbrattavano i riccioli, e c’era anche del sangue impiastriccia-
to sulla testiera. Lo sguardo di Gideon si sollevò per seguire le mac-
chie. Sul muro, in un setoso rosso bagnato, c’era scritto:

SOGNI D’ORO

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ACT
ATTO ONE
QUARTO

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Fianco a fianco, gli adolescenti della Quarta ven-
nero adagiati per il loro inquieto riposo nell’obitorio, accanto agli adul-
ti che avevano così definitivamente fallito nel prendersi cura di loro.
Qualcuno (in che modo? Era un mistero) aveva preso il corpo freddo
dalle braccia di Gideon (che aveva estratto le lance da quei fori tre-
mendi e aveva riportato indietro Jeannemary?) e tantissime persone
le avevano rivolto tantissime parole, nessuna delle quali era riusci-
ta a far breccia nella sua memoria a breve termine. Con l’occhio del-
la mente aveva visto anche Maestro, che pregava sulle spoglie disfat-
te di Isaac Tettares, e da qualche parte c’erano anche Harrowhark e
Palamedes, che estraeva un frammento di chissà che cosa dal cada-
vere di Jeannemary la Quarta con un paio di pinzette. Erano imma-
gini confuse e prive di contesto, come in un sogno.
Ma una cosa se la ricordava: Harrowhark che le diceva «idiota che
non sei altro… imbecille… stupida che non sei altro», con tutto l’an-
tico disprezzo della nursery della Nona Casa che riemergeva, fresco
come se fossero ancora là. Harrow l’architetta, che incedeva per i cor-
ridoi del Drearburh. Harrow la nemesi, spalleggiata da Crux. Per cosa
in particolare Harrow la stesse rimproverando non era chiaro, ma in-
dipendentemente dal motivo, se lo meritava. Gideon si era sottopo-
sta al resto della tirata della sua necromante tenendosi la testa fra le
mani. E poi Harrowhark aveva stretto i pugni, aveva sbuffato forte
dal naso, e se n’era andata.
L’unica cosa che le era sembrata sensata era stata finire nella stan-
za imbiancata dove tenevano Dulcinea, seduta da sola in poltrona, e
là si era grattugiata gli occhi con un’ora di pianto. Qualcuno le ave-

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va pulito i tagli con una roba vermiglia, catramosa e puzzolente, e


ogni volta che un granello errante di sale le toccava le ferite sentiva
un male del diavolo e un odore sgradevole. Si compatì, e compatirsi
non faceva che annacquarle ancora di più gli occhi.
Dulcinea Septimus era la persona giusta a cui offrire un tale spet-
tacolo. Non le aveva detto: “Starai meglio” perché a Dulcinea man-
cava la capacità polmonare per soffermarsi sui luoghi comuni; si li-
mitava a star seduta, sorretta da tipo quindici cuscini, con la mano
esile e incandescente posata nel palmo di Gideon. Aveva aspettato
che Gideon smettesse di sbattere forsennatamente le palpebre e poi
aveva detto: «Non c’era nulla che tu potessi fare.»
«Col cazzo che non c’era niente che avrei potuto fare» disse Gi-
deon. «Ho pensato a tutto quello che avrei dovuto fare. Ci sono tipo
cinquanta cose che avrei potuto fare e non ho fatto.»
Dulcinea le rivolse un sorriso sbilenco. Aveva un aspetto tremen-
do. Mancavano poche ore all’alba e la luce mattutina le tingeva di gri-
gio i riccioli color biscotto e la pelle sbiadita. Le sottili venuzze verdi
sul collo e sui polsi sembravano terribilmente prominenti, come se
la maggior parte della sua epidermide si fosse già squagliata. Quan-
do respirava, il rumore era quello di un condizionatore d’aria pieno
di crema pasticcera. Aveva le guance accese, di una brillantezza er-
rabonda da scoria rovente.
«Oh, avrei potuto… avrei dovuto…» le disse. «A furia di avrei po-
tuto e di avrei dovuto bisognerebbe tornare indietro alla settimana
scorsa… e così via, fino al grembo materno. Io avrei potuto tenermi
qui Pro, o sarei dovuta andare con lui. Posso tornare indietro e far
succedere le cose alla perfezione, se penso a quello che avrei potuto
o avrei dovuto fare. Ma non l’ho fatto… e nemmeno tu l’hai fatto…
ed è così che stanno le cose.»
«Non lo posso sopportare» disse Gideon con sincerità. «È una tale
marea di cazzate.»
«La vita è una tragedia» disse Dulcinea. «Chi muore ci lascia qui,
senza la possibilità di cambiare un bel niente. È la totale mancanza di
controllo… una volta che qualcuno muore, il suo spirito è libero per
l’eternità, anche quando proviamo ad afferrarlo, a intrappolarlo o a
usare l’energia che crea. Oh, so bene che a volte ritornano… o pos-
siamo richiamarli, alla maniera della Quinta… ma persino quell’ec-

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cezione alla regola dimostra la loro superiorità su di noi. Vengono


soltanto quando li imploriamo. Una volta che qualcuno muore, non
possiamo più trattenerlo, grazie a Dio! – a eccezione di una persona,
ma lui è molto lontano da qui, penso. Gideon, non dispiacerti per i
morti. Sono convinta che la morte debba essere un trionfo assoluto.»
Gideon non riusciva ad accettarlo. Jennemary era morta come un
cane mentre Gideon schiacciava un pisolino, e Isaac era stato ridot-
to a un grosso colabrodo adolescente; voleva dispiacersi per loro per
l’eternità. Ma prima che potesse dar seguito a queste conclusioni, un
attacco di tosse che riempì all’incirca due fazzoletti e mezzo aggre-
dì Dulcinea. Il contenuto di quei fazzoletti spinse Gideon a invidiare
i morti, per non parlare di Dulcinea.
«Troveremo il tuo paladino» le disse, cercando di apparire risoluta
e fallendo in maniera così spettacolare da stabilire un nuovo record.
«Voglio solo sapere cos’è successo» fece Dulcinea con amarez-
za. «Quella è sempre la parte peggiore… non sapere cos’è successo.»
Gideon non era certa di poter accettare neppure quello. Vivere sen-
za sapere esattamente quello che era successo, in una traballante fo-
schia rosso-violacea, l’avrebbe riempita di devota gratitudine. Ma è
anche vero che la sua mente continuava a scuoiarsi da sola al pensiero
di Magnus e Abigail, là sotto al buio, da soli – al pensiero del quando
e del come; si chiedeva se Magnus avesse o meno guardato sua mo-
glie che veniva assassinata così come Jeannemary era stata costretta
a guardare Isaac. Pensò: “È stupido che un paladino debba veder mo-
rire il suo necromante”.
Gideon si sentì bollente, vuota e desiderosa di combattere. Disse,
senza crederci davvero: «Se vuoi che Silas Octakiseron ti ridia le chia-
vi, posso cercarlo io per te».
La tosse si trasformò in una risata gorgogliante. «No» disse Dul-
cinea. «Gliele ho cedute liberamente, di mia spontanea volontà. Che
cosa dovrei farmene ormai?»
Gideon domandò senza giri di parole: «Ma perché hai scelto di
prendere parte a tutta questa faccenda?».
«Intendi, nonostante io stia morendo?» Dulcinea le rivolse un sor-
riso friabile, ma accompagnato da una fossetta. «Non si tratta di un
ostacolo assoluto. La Settima Casa ritiene che le mie condizioni sia-
no un vantaggio. Volevano addirittura che mi sposassi e trasmettes-

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si i miei geni… io! I miei geni non potrebbero essere peggiori di così
– anche se la mia discendenza potrebbe sempre produrre della poe-
sia, in futuro.»
«Non capisco.»
La donna di fronte a lei cambiò posizione, sollevando la mano per
scostarsi dalla fronte qualche ciocca color cerbiatto. Ci mise un po’
a risponderle. Poi le disse: «Quando non ce l’hai in una forma trop-
po pesante – quando puoi vivere fino ai cinquanta, magari – quan-
do il tuo corpo muore gradualmente, dall’interno all’esterno, quando
le tue cellule sanguigne ti mangiano viva, perennemente… che gran
necromante che diventi, Gideon la Nona. Un generatore ambulan-
te di thanergia. Se trovassero un qualche modo di cristallizzarti alla
fase in cui sei quasi tutta cancro e solo una frazioncina di donna, lo
farebbero! Ma non possono. Si dice che la mia Casa ami la bellez-
za – la amavano e la amano – e c’è una certa bellezza in una morte
splendida… nel consumarsi… mezzi morti, mezzi vivi, nel massimo
fulgore del tuo regale potere».
Il vento fischiò, esile e solitario, contro la finestra. Dulcinea cer-
cò a fatica di sollevarsi sui gomiti prima che Gideon potesse fermar-
la, e le domandò: «Ho l’aspetto di una che ha raggiunto il picco del
suo regale potere?».
Di fronte a una domanda del genere sarebbero venuti i sudori fred-
di a chiunque. «Ehm…»
«Se mi dici una bugia ti mummifico.»
«Sembri un secchio dell’immondizia.»
Dulcinea si rimise giù, ridacchiando nervosa. «Gideon» proseguì,
«ho detto alla tua necromante che non voglio morire. Ed è vero… ma
sto morendo da diecimila anni, da come la percepisco io. Più che altro,
non mi andava di morire da sola. Non volevo che mi nascondessero
da qualche parte. È orribile essere relegati via e sparire… la Settima
mi avrebbe rinchiusa in una bellissima tomba senza mai più nomi-
narmi. Non volevo dar loro questa soddisfazione. Allora sono venuta
qui, quando l’Imperatore ha chiesto di me… perché lo desideravo…
anche se sapevo bene che sarei venuta qua a morire.»
Gideon disse: «Ma io non voglio che tu muoia» e si rese conto, un
secondo dopo aver finito la frase, di averlo detto ad alta voce.
Chiuse pollice e indice attorno alla sua mano. Il blu profondo dei

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suoi occhi era luminoso – troppo luminoso; era una lucentezza ba-
gnata, calda e brillante – e Gideon prese quelle dita tra le sue, con
grande cautela. Le sembrava che anche la più leggera delle pressioni
avrebbe ridotto Dulcinea in polvere, come le ossa più antiche con-
servate nel reliquiario della Nona Casa. Sentiva il cuore indolenzito
e tenero; il cervello indolenzito e secco.
«Non è nei miei piani, sai?» le disse Dulcinea, anche se ora la sua
voce si era fatta più flebile, come acqua versata nel latte. Chiuse gli
occhi con un sospiro ghiaioso. «Probabilmente vivrò per sempre…
mio malgrado. Che ne è stato di una carne, una fine?»
«Ho già sentito queste parole» disse Gideon, senza avere idea di
dove le avesse lette. «Cosa significano?»
L’altra sgranò gli occhi blu.
«Non ti suonano familiari?»
«Dovrebbero?»
«Be’» cominciò Dulcinea con calma, «avresti dovuto recitarle alla
tua Reverenda Figlia il giorno in cui hai prestato giuramento, votan-
doti di servirla come sua paladina, e lei avrebbe dovuto ripeterle a
te… ma tu non hai mai fatto niente del genere, vero? Non sei sta-
ta addestrata secondo la tradizione della Casa del Sepolcro Sigillato,
e non somigli per niente a una monaca della Nona Casa. E combat-
ti come… non saprei. Non sono nemmeno sicura che tu sia cresciu-
ta nella Nona Casa.»
Gideon appoggiò il capo alla testiera del letto e rimase lì, per un po’.
Quando aveva pensato a quel momento, si era aspettata di sprofonda-
re nel panico. Le scorte di panico erano esaurite. Era stanca, e basta.
«Sgamata» disse. «Sono stufa di fingere, quindi sì. Ci hai preso, qua-
si su tutto. Sai già che sono la paladina più fasulla che abbia mai pro-
vato a spacciarsi per paladina. Il vero paladino soffriva di ipertiroidi-
smo cronico ed era anche un cazzo moscio totale. Sono due mesi che
faccio finta di ottemperare ai suoi doveri. Sono una paladina farloc-
ca. E non potrei cavarmela peggio di così.»
Il sorriso che ricevette in risposta era privo di fossette. Era strana-
mente tenero – Dulcinea dimostrava sempre una strana tenerezza nei
suoi confronti – come se condividessero da sempre chissà quale suc-
culento segreto. «Ti sbagli» le disse. «Se proprio vuoi sapere come la
penso… penso che tu sia una paladina degna di un Littore. Vorrei ve-

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derti, vorrei vedere che cosa diventerai. Mi domando se la Reveren-


da Figlia abbia davvero compreso cos’ha per le mani.»
Si scambiarono un’occhiata, e Gideon sentì di aver sostenuto quel-
lo sguardo di un blu chimico troppo a lungo. La mano di Dulcinea era
incandescente, sulla sua. Ora l’antico panico della confessione sembrò
riaffiorare – l’adrenalina, in fondo alle sue viscere, stava riguadagnan-
do terreno – e, proprio in quel momento così opportuno, la porta si
spalancò. Palamedes Sextus entrò con quel suo borsone nero pieno
di merdate assurde, si sistemò gli occhiali e soppesò per qualche se-
condo di troppo il livello di prossimità delle loro mani.
Nel suo tono c’era qualcosa di tragicamente discreto, distaccato e
poco Palamedesiano quando disse: «Sono venuto a vedere come sta-
vate, tutte e due. È un brutto momento?».
«No, anche se io schiodo… è ufficiale» disse Gideon, ritirando di
scatto la mano. Erano tutti incazzati con lei, il che era fantastico, an-
che se non era possibile che fossero più incazzati di lei. Si alzò in pie-
di e roteò il collo finché tutte le giunture scattarono e scrocchiarono
ansiose e fu sollevata di scoprire che aveva ancora la spada allaccia-
ta al fianco. Squadrò Palamedes sentendosi polverosissima e colpe-
vole. «Torno ai miei alloggi. No, sto bene, piantala. Grazie per l’un-
guento, ha proprio un magico odore di piscio.»
«Per l’amor di Dio, Nona» disse Palamedes spazientito, «rimettiti
a sedere. Devi riposare.»
«Prova un po’ a fare mente locale su quell’altro pisolino che mi sono
goduta poco tempo fa. Eh, già. No, grazie.»
«Non è nemmeno un unguento, è un balsamo medicamentoso. Vor-
rei ricordarti che Cam ha estratto venti schegge ossee dalla tua per-
sona e ha detto che ne restavano almeno un’altra dozzina…»
«Può tirarmele fuori Nonagesimus… o magari no» aggiunse Gi-
deon, agitandosi un po’. «Potrei lasciarle lì dove sono, finché non avrò
finito di far ammazzare tutti quanti, giusto?»
«Nona…»
Si concesse di piantare in asso il Guardiano della Sesta, sbandando
lungo il corridoio come una bomba. Era all’incirca la maniera meno
dignitosa di concludere una conversazione perfettamente normale,
ma era anche stato assai soddisfacente e le aveva permesso di levar-
si di torno con una rapidità da record. Gideon barcollò giù per il cor-

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ridoio levandosi della sporcizia arancione da sotto le unghie, e fu in


questo iroso stato d’animo che per poco non andò a sbattere contro
Silas Octakiseron e la sua tenuta candida e antibatterica dell’Ottava
Casa. Colum l’Ottavo lo affiancò automaticamente, apparendo più
giallognolo che mai, anche se era vestito dello stesso colore.
«Sono morti, dunque» disse suo zio, a mo’ di saluto.
L’unica cosa che impedì a Gideon di mettersi a ululare come un
animale fu il sollievo donatole dal fatto che, finalmente, avrebbe avu-
to la possibilità di prendere uno dei piedi di Octakiseron e di infilar-
glielo così a fondo su per il culo che si sarebbe potuto fare i gargari-
smi col calcagno.
«Avevano dei nomi, stronzo pusillanime color dente che non sei
altro» gli disse, «e se vuoi farne un caso nazionale, sappi che solo pe-
standoti un po’ potrei migliorare il mio umore.»
Colum sgranò gli occhi. Il suo necromante no.
«Avevo sentito dire che ti eri messa a parlare» fece lui. «Mi pare
un peccato. Risparmia la tua malacreanza per qualcun altro, Gideon
Nav. Non nutro il minimo interesse per gli sproloqui di una serva spa-
ventata della Nona Casa.»
«Com’è che mi hai chiamata?»
«Serva» disse Silas. «Schiava. Sguattera.»
«Che cosa vuoi che me ne faccia di un mucchio di sinonimi, figlio
di puttana, sembri una nuvola viscida, ecco cosa sembri» fece Gideon.
«Mi hai chiamata Gideon Nav.»
«Ilota» proseguì il necromante dell’Ottava Casa, spassandosela col
dizionario. Colum fissava Gideon, strabuzzando gli occhi per l’incre-
dulità. «Trovatella. Non ti sto insultando, ti sto semplicemente defi-
nendo per quello che sei. Il rimpiazzo di Ortus Nigenad, egli stesso
un patetico rappresentante di una fetida Casa di traditori e mistici.»
Il cervello di Gideon inchiodò: la riportò al Drearburh, seduta con
un labbro gonfio e dei tremendi segnacci di frizione sui polsi. Le gri-
da dei fedeli, ormai esigui. Luci verdi nell’oscurità polverosa. L’odo-
re grasso dell’incenso. Una donna che piange. Qualcuno che le ruba
la navetta con cui sarebbe dovuta fuggire, un milione di anni prima.
Due qualcuno. Uno triste, l’altra ancora più triste, immigrati a loro
volta nella Nona Casa.
Ha ancora dei parenti all’Ottava…

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«Hai parlato con Sorella Glaurica» gli disse, piano.


«Ho parlato con Glaurica al suo ritorno alla casa materna» disse
Silas. «E ora vorrei parlare con te.»
«Con me. La serva. La schiava. O un’altra di quelle cinque paro-
le che hai usato.»
«Sì» disse il ragazzo, «perché sei cresciuta servendo un’assassi-
na, in una tribù di assassini. Tu sei, più di ogni altra cosa, una vitti-
ma della Nona Casa.»
E con quello, impedì all’ossicino nell’anima di Gideon di spezzarsi;
le impedì di caricare e di agguantare con tutte e due le mani lo splen-
dido lino e la gelida cotta di maglia che componevano la sua tenuta
– quello e il fatto che non avesse ancora incrociato le armi in manie-
ra conclamata con Colum l’Ottavo e che non avesse una particolare
fretta di sottoporsi a quell’emozionante esperienza. Avanzò. Silas non
si scansò, ma distolse leggermente il viso da lei, come se gli fosse ar-
rivata una folata d’alito cattivo. Aveva gli occhi di un castano deciso,
incorniciati da allarmanti ciglia folte e bianchicce.
«Non far finta di sapere cosa mi è successo laggiù» lo apostrofò.
«Glaurica manco sapeva che ero viva, e le volte che se lo ricordava
non gliene fregava comunque niente di me, e a te non sarebbe mai
venuta a raccontare qualcosa sull’argomento. Non sai niente di me e
non sai niente della Nona Casa.»
«Ti sbagli su entrambi i fronti» disse Silas, rivolgendosi a un pun-
to sopra la sua spalla.
«Dimostramelo.»
«Sei invitata a prendere un tè con me e Fratello Asht.»
Si stropicciò entrambi gli occhi con i pugni lerci ed evitò per un
pelo di incollarsene uno con quel tremendo unguento aranciato
– era così disgustoso che, a quanto pareva, aveva costretto le scheg-
ge a schizzarle fuori dal corpo, piuttosto che stazionargli troppo vici-
no. Per un istante, l’odore le annebbiò le cornee. «Scusami, non credo
di aver sentito bene» gli disse, «perché mi sembra che tu abbia det-
to: “Vieni a prendere un tè con me e Fratello Asht”, una delle cose più
stupide che io abbia mai sentito, ma in assoluto.»
«Sei invitata a prendere un tè con me e Fratello Asht» ribadì Silas,
con quella tipologia di pazienza caparbia che suggeriva la reiterazio-
ne di un mantra all’interno del suo cranio pallido. «Non porterai la

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figlia del Sepolcro Sigillato, ma porterai la tua persona, e sarai pron-


ta ad ascoltare. Nessun prezzo. Nessun secondo fine nascosto. È solo
un invito, a diventare più di quello che sei ora.»
«Che sarebbe…?»
Silas disse: «Uno strumento dei tuoi oppressori. Il lucchetto sul-
le tue stesse catene».
Non riuscì a tollerare oltre, dato che già aveva dovuto superare quel-
la lunga nottata, subendo svariate tribolazioni emotive, tra le quali un
omicidio sovrannaturale e delle futili scaramucce interpersonali. Gi-
deon si buttò il mantello sulle spalle, si ficcò la mano libera in tasca e si
avviò lungo il corridoio, alla larga da zii e nipoti di qualunque genere.
La voce del necromante la inseguì: «Verrai e ascolterai quel che ho
da dirti? Sii risoluta».
«Leccamela, latticino» disse Gideon, e girò l’angolo malferma.
Sentì Colum che commentava: «Credo si tratti di un sì», ma non il
mormorio che ricevette in risposta.

* * *

Da quel momento in poi, Gideon non riuscì più a scacciare gli incubi.
Costringeva il suo subconscio a sprofondare in una sequenza di mo-
vimenti oculari randomici che non implicassero il suo risveglio in un
bagno di sudore freddo ma, come parecchie altre cose nella sua vita,
ora, anche quello aveva perso in prestanza e reattività. Era instupidi-
ta dalla mole dei suoi fallimenti, esposta al fuoco di fila del suo cer-
vello. Gideon non doveva fare altro che chiudere gli occhi per assi-
stere al suo personalissimo carosello casuale di merdate.
Magnus Quinn, che non aveva ancora finito di bere il suo tè mattu-
tino, trafitto fino a ritrovarsi con il petto ridotto a una massa di pez-
zi di carne fumante, perché lei non era riuscita a muovere la lingua
per urlargli: “Girati, guardati le spalle”…
… un calderone ribollente con dentro delle granaglie profumate e
il corpo silenzioso di Abigail Pent in posizione fetale, che affonda-
va sotto la superficie prima che le dita scorticate di Gideon potesse-
ro ripescarla…
… Isaac Tettares che beveva da una borraccia piena d’acido che non
era riuscita a strappargli dalle mani febbrili e tremolanti…

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… Jeannemary Chatur, le cui braccia e gambe smembrate conti-


nuavano a materializzarsi mentre Gideon rifaceva un letto che, man
mano che scostava le coperte, diventava sempre più appiccicoso, ba-
gnato e ingombro di pezzi aggrovigliati di Jeannemary; e…
… e il vecchio sogno di sua madre. Ora era viva, sovrapposta alla
sua vita come non era mai accaduto nella realtà, urlava: “Gideon-Gi-
deon-Gideon!” mentre, sotto gli occhi di Gideon, le megere della Nona
le separavano meticolosamente la calotta cranica dal resto della testa
con un bel crack sonoro e croccante.
E Harrow, che le diceva di svegliarsi. Quello era successo una volta
sola: la Nona necromante era seduta nell’oscurità, avvolta in una tra-
punta ammuffita come se portasse un mantello, il viso nudo, sgom-
bro e spogliato dal suo affresco monocromo da teschio. Quasi all’i-
stante Gideon era precipitata nuovamente in un sonno inquieto. Non
era mai riuscita a capire se fosse stata lei a materializzare quel sogno
– Harrowhark non stava esplodendo, gli intestini non le uscivano a
fiotti dalle orecchie, come fossero rubinetti, e non le stava nemmeno
cascando la pelle di dosso, scorticandola fino al grasso sottocutaneo –
ma aveva guardato Gideon, gli occhi come pezzi di carbone, con un’e-
spressione di pietà assoluta. C’era qualcosa di estremamente stanco e
tenero nel modo in cui Harrow Nonagesimus l’aveva guardata in quel
momento, qualcosa che si sarebbe potuto definire comprensione, se
solo non avesse lasciato trasparire tutto quell’esausto cinismo.
«Sono solo io» le aveva detto impaziente. «Rimettiti a dormire.»
Tutti gli indizi propendevano per l’allucinazione.
A quel punto, Gideon non poté fare altro che dormire, perché le
conseguenze che avrebbe comportato un risveglio erano troppo or-
rende. Da quel momento in poi, però, dormì sempre con la spada, e
il guanto posato sul petto come un cuore pesante d’ossidiana.

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«Trattiamo» disse Palamedes Sextus. Harrow
e Gideon sedevano negli appartamenti della Sesta Casa, il che era già
di per sé un’esperienza di un’assurdità totale. La Sesta era stata allog-
giata in una serie di stanze ariose ai pieni alti, incastonate nella cur-
va descritta dal torrione centrale. Le loro finestre si spalancavano su
un’ampia veduta del mare o, almeno, così avrebbero fatto se i Sesti
non le avessero coperte con tendoni impenetrabili. L’intera Sesta Casa
era ammassata sulle calotte polari di un pianeta così vicino a Domini-
cus che l’esposizione al lato illuminato avrebbe squagliato in un istan-
te l’intera Casa. Le vaste biblioteche erano collocate in una stazione
che sembrava una voluminosa torta di latta, progettata per far fron-
te al perenne calvario di dover mantenere le cose né troppo calde né
troppo fredde, il che implicava un’assenza completa e assoluta di fi-
nestre. Palamedes e Camilla avevano replicato quell’effetto anche là
dentro al meglio delle loro possibilità – la conseguenza era una stan-
za col ricircolo d’aria e la luminosità di un ripostiglio.
Il fatto che quasi ogni centimetro quadrato fosse coperto di car-
ta velina non era d’aiuto: gli scarabocchi di Palamedes erano appic-
cicati come una tappezzeria su ogni superficie spoglia. Erano attac-
cati ai tavoli. Si ammassavano sopra lo specchio. Vari libroni erano
ammucchiati in pile compatte e traballanti sui braccioli di ogni pol-
trona, come se nessuno ci si fosse mai seduto senza portare con sé
un nuovo volume. Sbirciando dalla porta socchiusa della camera da
letto, Gideon aveva intravisto un nido buio dove un’enorme lavagna
bianca fronteggiava l’antico letto a baldacchino scricchiolante, rifat-
to con molta cura. Non c’era neppure da domandarsi se Camilla oc-

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cupasse o meno l’orribile brandina piazzata ai piedi del letto, come si


converrebbe a un paladino. Il misero giaciglio traballava sotto al peso
di un assortimento di armi e latte di lucido per metalli.
«Non rivedrò la mia posizione» disse Harrow. Lei e Palamedes se-
devano ai capi opposti di un tavolo sgombrato alla meno peggio da
libri e appunti: penne disperse rotolavano sulla superficie alla mini-
ma vibrazione. «Le chiavi le tengo io. Entriamo insieme. Avrete un’o-
ra a disposizione.»
«Un’ora non è nemmeno lontanamente sufficiente per…»
«Siete lento.»
«Siete paranoica.»
«Al momento, sono… viva» disse Harrowhark, e Gideon si rabbuiò.
Palamedes si era tolto gli occhiali dopo una decina di minuti dall’i-
nizio della conversazione, e ora se li stava pulendo col davanti della
tunica. Sembrava un gesto più aggressivo che difensivo: i suoi occhi,
liberi da quei fondi di vetro, erano di un grigio sbalorditivo. Feriva-
no praticamente solo Gideon, che stava facendo tutto il possibile per
evitare il suo sguardo. «È vero. La stanza in sé e per sé mi interessa,
e dovrebbe interessare anche voi» le disse.
«Siete eccessivamente forense.»
«A voi manca la visione d’insieme. Mollate l’osso, Nonagesimus. Una
chiave in cambio di una chiave. È lo scambio più logico e più elegante,
in questo frangente. Il vostro rifiuto è un semplice segnale di supersti-
zione e paranoia, condito da un pizzico di… grandissime fanfalucche.»
Per un istante, la rabbia e i rimorsi di Gideon vennero spazzati via
da: “Le hai veramente appena detto grandissime fanfalucche?”.
I necromanti avevano assunto una simmetrica postura ingobbita:
gomiti ossuti sul tavolo e mento posato sulle mani giunte. Si fissavano,
impassibili. Dietro alla sedia di Palamedes, Camilla aveva l’espressio-
ne vitrea di una che aveva tirato le cuoia una decina di minuti prima.
Aveva il braccio bendato ma non immobilizzato e pareva aver rigua-
dagnato una completa capacità di movimento. Gideon ondeggiava alle
spalle di Harrow, tormentandosi le unghie e osservando i foglietti di
carta, coperti di una scrittura che somigliava di più alla crittografia. La
sua necromante si appoggiò allo schienale e disse in tono sepolcrale:
«Siete ancora convinto della vostra idea del… megateorema, allora».
«Sì. Voi no?»

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«No. È sensazionalistica.»
«Ma non impossibile. Sentite. Le prove e le sfide – le teorie che rac-
chiudono – non sono poi così eterogenee. Amalgama neurale. Trasfe-
rimento di energia. Come abbiamo visto nell’esperimento del campo
entropico, sifonaggio continuativo. È stupefacente, a livello di teoriz-
zazione magica. Nessuno ha spinto il potere necromantico fino a que-
sto limite: è insostenibile. Se lo scopo è far sfoggio dell’ampio spettro
del potere Littorio… be’, ci sono riusciti. Ho visto il test di scrematu-
ra, e se anche quel golem scheletrico autorigenerante fosse stata l’u-
nica roba là sotto, lo stesso passerei le notti in bianco. Non ho idea
di come diavolo abbiano fatto a farlo.»
«Io lo so» disse Harrow, «e se i miei calcoli sono esatti sarò in gra-
do di replicarlo. Ma tutto questo è molto più che insostenibile, Sextus.
Le cose che ci hanno mostrato sarebbero potentissime – e schiude-
rebbero una profondità indicibile di abilità necromantiche – se fos-
sero replicabili. Tutti questi esperimenti richiedono un flusso conti-
nuo di thanergia. Hanno nascosto quella fonte da qualche parte nel
complesso, ed è quello il vero tesoro.»
«Ah. La vostra teoria della porta segreta. Molto nonesca.»
Lei si stizzì. «È una semplice analisi delle aree e degli spazi. Com-
preso il complesso, abbiamo accesso a circa il trenta per cento della
torre. È una prova oggettiva, Sextus, ecco cos’è. Il vostro megateorema
invece è basato sulla supposizione e sul vostro cosiddetto “istinto”.»
«Grazie! Comunque non mi piace che così tanti incantesimi riguar-
dino il controllo puro» disse Palamedes.
«Non siate sciocco. La necromanzia è controllo.»
Palamedes inforcò di nuovo gli occhiali. «Forse» le disse. «Cer-
ti giorni non lo so più. Sentite, Nonagesimus. Tutti questi teoremi ci
insegnano qualcosa. Io sono convinto che facciano parte di un insie-
me onnicomprensivo; come la lavagna del complesso, ve la ricordate?
È finito. Voi credete che ci stiano fornendo indizi – imbeccate – per
arrivare a chissà quale occulta consapevolezza nascosta chissà dove,
fino a questa fantomatica fonte di energia. Io vedo le tessere di un
puzzle; voi vedete dei segnali direzionali. Ora, magari avete ragione
voi e dobbiamo seguire le molliche di pane che ci porteranno a qual-
che favoloso tesoro. Ma se ho ragione io… se il Littorato non è altro
che la sintesi, all’incirca, di otto teoremi individuali…»

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Harrow rimase zitta. Ci fu una lunga pausa, e Gideon si convinse


che Palamedes si fosse perso nei suoi pensieri. Ma poi disse secca-
mente: «Allora è sbagliato. C’è un errore nella logica alla base. L’inte-
ra faccenda è un terribile errore».
A quel punto la sua necromante disse: «Lasciate che delle faccen-
de criptiche se ne occupi la Nona. Quale errore, Sextus?».
«Vi passerò gli appunti rilevanti se mi aiuterete a scassinare una
serratura» rispose Palamedes.
La cosa bastò a farla riflettere. «Voglio i vostri appunti su tutti i
teoremi che avete visto. Che serratura?»
«Aggiungiamoci anche una copia della vostra mappa…»
«Ho una mappa?» osservò Harrowhark, generica, rivolgendosi
all’aria. «Santo cielo. Si tratta, a dir tanto, di una supposizione priva
di fondamento.»
«Non sono un idiota, Reverenda Figlia. Una serratura Littoria:
quella che corrisponde alla chiave della Sesta Casa. La chiave grigia.
Quella attualmente in possesso di Silas Octakiseron. Di conseguen-
za: va scassinata.»
«È impossibile. Come?»
«Non lo scopriremo finché non ci proviamo. Se funziona, vi gua-
dagnerete ogni appunto su ogni teorema che ho letto, in cambio dei
vostri, della vostra collaborazione e della mappa. Ci state?»
Ci fu una pausa pregna. Come tutti avevano già capito sin dall’i-
nizio, la necromante di Gideon fu costretta ad ammettere che sì, ci
stava. Si alzò in piedi: la sedia dietro di lei traballò pericolosamen-
te, e Gideon la raddrizzò con un piede. «Almeno mostratemi la por-
ta a cui vi riferite» gli ordinò. «Mi pare che la Sesta Casa stia spre-
mendo la mia Casa per ottenere il più possibile, è una sensazione
spregevole.»
«La maggior parte delle persone lo riterrebbe un accordo genero-
so» le fece notare Sextus, la cui sedia era stata scostata dalla solerte
Camilla, «ma vi devo un favore per aver preso le nostre parti quando
la Terza Casa ci ha sfidato. Non che non saremmo riusciti a sconfig-
gerli, ma ci sarebbe costato di più di quanto fossi intenzionato a ri-
schiare. E questo è quanto concerne la parte appiccicaticcia e senti-
mentale. Seguitemi e ci occuperemo dei fatti più concreti.»
Si trascinarono tutte quante dietro di lui alla volta dei fatti concre-

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ti. Quando la Sesta Casa chiuse la porta, notarono con un mesto di-
vertimento che, oltre alle barriere di Palamedes, ci avevano anche in-
chiodato sopra cinque lucchetti e rinforzato la porta in modo che non
potesse essere divelta dai cardini. Sentire Camilla che faceva scattare
tutte quelle serrature fu piacevole come ascoltare un’orchestra. I due
necromanti si misero alla testa – le lunghe mantelle li facevano so-
migliare a due tetri uccellacci grigi – con Gideon e Camilla al segui-
to, mantenendosi al canonico mezzo passo di distanza.
Camilla la Sesta raddrizzò le spalle. La corta frangetta scura le si
scostò dalla fronte quando accennò a voltarsi verso Gideon. Fu rapi-
da e inespressiva, ma a Gideon non serviva altro.
«Chiedimi come sto e mi metto a urlare» le disse.
«Come stai?» disse Camilla, che era una gran rompicoglioni.
«Hai smascherato il mio bluff e ti serbo rancore» le disse Gideon.
«Senti, però. Cos’è che usi davvero, cioè, quando non fingi che lo stoc-
co sia la tua arma d’elezione? Due lame corte, lunghe uguali, o una
spada e il manganello?»
I suoi occhi sagaci si assottigliarono. «Dov’è che ho sbagliato?» le
domandò, alla fine.
«Hai sguainato lo stocco e il coltello contemporaneamente. E sei
ambidestra. Colpisci sempre come se entrambe le tue lame abbiano
il filo. In più, sul letto hai sei spade e un bastone.»
«Avrei dovuto riordinare quel casino» ammise Camilla. «Due lame.
Doppio filo.»
«Perché? Voglio dire, è una figata, ma perché?»
L’altra paladina si massaggiò allegramente il gomito, flettendo le
dita come se volesse accertarsi che non si manifestassero dolori col-
laterali. Sembrava ci stesse riflettendo su, poi a un tratto se ne uscì
con un’improvvisa conclusione. «Mi sono candidata al posto di primo
paladino del Guardiano quando avevo dodici anni» le disse. «Sono
stata accettata. Avevo già esaminato prima le statistiche sulle armi.
Avevo deciso che due lame corte assicuravano maggiori applicazio-
ni pratiche. Ho imparato a usare lo stocco» – stava minimizzando –
«ma quando arriverà il momento di combattere per davvero, com-
batterò con le due lame.»
Prima che Gideon potesse venire a patti con le inquietanti impli-
cazioni del fatto che il momento in cui avrebbero combattuto sul se-

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rio non era ancora arrivato, Camilla le mollò una gomitata: «Perché
ti comporti come se tu e lui steste litigando?».
«Nooo» fece Gideon garrula, proseguendo con un: «graaazie.»
«Perché non state litigando.» Pausa. «Lo capiresti, se steste litigando.»
«Non è che puoi…? Ma che ne so! Puoi dirgli che se vuole che gli
presenti Dulcinea lo posso fare? Puoi dirgli che non sto cercando di
rovinargli la piazza?»
«L’ultima cosa di cui ha bisogno il Guardiano» disse Camilla «è di
essere presentato a Lady Septimus.»
«Allora puoi dirgli, magari, di piantarla di comportarsi come se
cent’anni fa avesse letto in un libro i sentimenti di tutti? Perché sa-
rebbe bellissimo, veramente» fece Gideon.
Senza aggiungere un’altra parola, Camilla si spostò per incollarsi al
suo adepto, che si era fermato davanti a un grande quadro con la cornice
dorata: la doratura era diventata prevalentemente marrone – dove non
era già nera – e anche il dipinto era così sbiadito che somigliava più che
altro a un alone di caffè. Era un’immagine bizzarra: una spianata di rocce
polverose, squassata da un enorme canyon che la divideva al centro, un
fiume color seppia che serpeggiava verso un nulla scrostato, sul fondo.
«Questa l’ho registrata parecchio tempo fa» disse Harrow.
«Diamo un’altra occhiata.»
Palamedes e Camilla si appoggiarono gli angoli del dipinto sulle
spalle, sollevandolo da un fermo invisibile. Sembrava molto leggero.
La grande porta Littoria che c’era dietro – con le sue colonne nere e i
teschi cornuti intagliati, le sue figure cesellate e la pietra tetra – non
era granché ben nascosta. In ogni suo aspetto, era una copia presso-
ché esatta dell’altra porta Littoria che Gideon aveva visto. Ma Har-
row trattenne il respiro.
Si avvicinò alla serratura, e poi Gideon capì il perché: era stata
riempita con della roba grigia, dura e catramosa, come uno stucco
o del cemento. Qualcuno aveva deliberatamente manomesso la top-
pa. Parte dello stucco era stato scalpellato via in basso, staccandosi
in grossi frammenti, ma per il resto pareva di una solidità sconfor-
tante. Non c’era modo di liberarsi di quello schifo senza significati-
vi sforzi ingegneristici.
«Sesto» disse la sua necromante, «non era in queste condizioni, la
prima notte che abbiamo passato alla Casa di Canaan.»

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«Non riesco ancora a credere che abbiate registrato ogni porta di


questo posto la prima sera» disse Palamedes, con uno dei suoi sorri-
si un po’ asciutti, «al contrario di me. All’inizio non avevo capito che
il lucchetto era stato manomesso. Credevo di avere le traveggole.»
Harrow si stava già sfilando i guanti con i denti, piegando le lun-
ghe dita nervose come un chirurgo. Posò il polpastrello del pollice
sulla sostanza, aggrottò così tanto le sopracciglia che il solco in mez-
zo avrebbe potuto trattenere una matita, e imprecò sottovoce. But-
tò i guanti a Gideon – e Gideon li afferrò prontamente – e schiacciò
il materiale tra pollice e indice. «Questa» disse con calma «è cene-
re rigenerante.»
«Ossa perpetue, il che spiega perché risulti indatabile…»
«Lo stesso materiale del costrutto della Trasferenza.»
«In quel caso…»
«Chiunque abbia installato questa cosa possiede un livello di abi-
lità equivalente a chi ha creato il costrutto» disse Harrow. «Rimuo-
verlo da lì richiederebbe più potere di quanto ne possieda la maggior
parte degli specialisti ossei messi insieme.»
«Non vi ho portata qui per rimuoverlo» disse Sextus. «Vi ho portata
qui solo per confermarlo, cosa che avete splendidamente fatto, grazie.»
«Scusatemi tanto. Non ho mai detto di non poterlo rimuovere.»
Un sopracciglio si sollevò oltre la montatura spessa degli occhiali.
«Non crederete davvero di…?»
Fu l’antica Harrowhark a rispondergli, quella che incedeva per i
corridoi polverosi della Nona Casa come se sotto ai piedi non avesse
altro che seta violetta da sbriciolare. «Sextus» gli disse, senza infles-
sione. «Non ci riuscite? Sono in imbarazzo per voi.»
Posò la mano sull’agglomerato di materia ossea saldato sulla serra-
tura. Poi la ritirò, e – con l’autosimilarità della gomma da masticare o
della colla – la sostanza si spostò all’indietro seguendo la sua mano,
una ragnatela appiccicosa lunga all’incirca un dito. Il punto da cui ori-
ginava stava vibrando follemente, mentre una goccia di sudore appar-
ve sulla tempia di Harrow. Palamedes Sextus trattenne il respiro… e
poi il composto tornò di scatto al suo posto, come plastica flessibi-
le, impastandosi scontrosamente in un grumo inamovibile. Harrow
fece un altro tentativo. Le sue dita continuavano a flettersi impoten-
ti avanti e indietro… lei voltò il capo di lato e chiuse gli occhi. Riuscì

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a stiracchiare di una spanna piena quella roba – che però poi si rup-
pe, si ricompattò e si ricompose come un’esplosione al contrario. Ci
provò ancora. E ancora, e un’altra volta ancora.
La pittura sulla fronte di Harrow era imperlata di sudore sanguino-
lento. Scorreva a rivoletti grigio-rosati. Le luccicava attorno a entram-
be le narici. Prima di capire che cosa stesse facendo, Gideon scoprì
di essersi spostata al fianco della sua necromante: celando quel che
stava facendo allo sguardo impassibile di Sextus, arrotolò una delle
lunghe maniche della mantella della Nona e mosse le labbra prima
ancora del cervello. «Ricarica le batterie» le bisbigliò.
Era la prima cosa che Gideon le diceva da quando Harrow aveva
lasciato gli alloggi della Sesta Casa, irritata da quel che le era sem-
brato il più sprezzante dei disappunti, somigliando più a uno sdegno-
so corvo nero che a una ragazza. La sua adepta spalancò un solo oc-
chio nero e minaccioso.
«Prego?»
«Ho detto: “Salta su, fiorellino”. Forza. Sai già cosa fare.»
«È palese che io non lo sappia, e non dirmi mai più: “Salta su,
fiorellino”.»
«Te lo ripeto: sifonami.»
«Nav…»
«I Sesti ci stanno guardando» disse Gideon, brutalmente.
Quell’ultima osservazione – una dichiarazione più simile a una
mazzata che a una stilettata – ridusse Harrowhark al silenzio. La sua
espressione si fece risentita, in una maniera che la sua paladina non
avrebbe potuto capire, o che avrebbe potuto decifrare solo come l’o-
dio costernato di chi – ancora una volta – sarebbe stato costretto a
servirsi della sua paladina, una tizia che aveva combinato dei casi-
ni così conclamati da fornire all’universo intero una nuova definizio-
ne di combinare casini. Tutto quel che le disse fu: «Non serve che ti
tiri su la manica, babbea che non sei altro» e a quel punto subentrò
la sensazione del sifonaggio, lisciviante e contorta.
Fu orribile come la prima volta, ma senza dubbio più breve rispet-
to alla lunga e agghiacciante passeggiata di Harrow da un capo all’al-
tro della sala dell’Avulsione; e ora Gideon sapeva anche cosa aspet-
tarsi. Il dolore rientrava nella familiare tipologia del terrificante. Non
urlò, anche se quello, probabilmente, sarebbe stato più dignitoso: cer-

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cò invece di limitarsi a una serie di sospiri e grugniti, mentre la sua


necromante estraeva da lei qualcosa che le stava scartavetrando l’a-
nima. Il sangue le bollì nelle vene, poi si congelò di botto, grattugian-
dole le interiora a ogni battito del cuore.
Harrowhark artigliò le dita, e tirò. Al termine di un istante lun-
ghissimo, stringeva una sfera inerte di cenere e ossa compattate, gri-
gie e butterate, ridotte all’obbedienza. La serratura era libera e puli-
ta come se l’ostruzione non fosse mai esistita. La coppia della Sesta
le stava fissando. Dopo un po’, Palamedes si chinò per sbirciare dal
buco della serratura, ormai sgombro.
«Non abituatevi a usarla così, Nonagesimus» le disse, un certo di-
sappunto si era fatto strada nel suo tono. «Non si tratta né di una teo-
ria positiva né di una morale positiva.»
Fu Gideon a rispondergli: «Cominciate a somigliare un po’ trop-
po a Silas Octakiseron».
«Ahia» disse Palamedes, sincero. Poi si tirò su. «Be’. È sparito, nel
bene o nel male. Forse avremmo dovuto lasciarlo dov’era, ma voglio
innervosirlo – o innervosirli – insomma. Persino una forza sovran-
naturale è vulnerabile.» Posò le dita sulla serratura. «Hai nascosto an-
che l’ultima chiave?» domandò a bassa voce. «O ci stai sfidando a una
gara di velocità? Be’, ti conviene spicciarti, testa di cazzo.»
Camilla si schiarì la gola, forse perché il suo necromante stava par-
lando con una porta. Lui lasciò cadere la mano. «Vi devo un altro fa-
vore, Nona» disse alla necromante con la faccia teschiata. «Vincete
una domanda gratis.»
«Non è un granché piacevole che vi poniate come depositario di
ogni sorta di conoscenza, Sextus.»
«Non mi “pongo” affatto.»
«Quante chiavi restano in gioco?»
Palamedes all’improvviso sogghignò. Per un curioso atto alchemi-
co, le ossa sporgenti del suo viso piuttosto banale si erano trasfor-
mate in qualcosa di magnetico: erano diventate quasi belle, invece
di configurarsi come l’incontro di due mandibole e un mento. «Noi
ne abbiamo tre» le disse. «Voi ne avete due – o, almeno, ne avevate
due, finché non ne avete data una a Lady Septimus, facendo segui-
to all’accordo che aveva proposto per primo a me. In ogni caso avre-
ste dovuto contrattare per ricevere qualcosa in più – a me aveva of-

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ferto di dare una sbirciata alle chiavi che aveva già. Ma sospetto che
per voi non ci fosse bisogno di rendere l’affare più allettante.» Har-
row non reagì, anche se Gideon avrebbe scommesso che, in qualche
ignobile cripta del suo cervello, si stava scatenando una tempesta di
ingiurie. «L’Ottava ne aveva una, e ora se ne sono procurate altre due
con l’inganno – quelle di Dulcinea. Ma ne resta ancora una libera.»
«La Terza?» suggerì Harrow.
«Macché. Cam li ha sentiti parlare questa mattina: non hanno nien-
te. E non ce l’ha la Seconda, a meno che non mi abbiano mentito dopo
il duello – stiamo sempre parlando della Seconda. Guardatevi le spal-
le. La Seconda sta ancora cercando il modo di chiudere baracca, la
Terza non ama arrivare ultima e l’Ottava si prenderebbe tutto, a ogni
costo.» Si accigliò. «È sulla Terza che sono indeciso. Non so qual è la
gemella da cui dovrei guardarmi.»
«Quella grossa» disse Harrow, senza esitazioni. Gideon era piut-
tosto certa che le gemelle fossero grosse uguali, e si stupì nel costa-
tare che persino lo sguardo da anatomista di Harrowhark Nonagesi-
mus non era immune alla radiosità emanata dalla Principessa Corona.
«Sono entrambe necromanti mediocri, ma la grossa è quella che co-
manda. Lei dice io; la sorella dice noi.»
«Un’ottima argomentazione, davvero. Ma continuo a non esserne
certo. Vediamoci domani sera per cominciare il nostro scambio di
teoremi, Nona. Devo riflettere.»
«La chiave mancante» disse Harrow.
«La chiave mancante.»
Dopo un breve scambio di saluti, entrambi i componenti della Sesta
Casa, ammantati dal loro grigio scialbo, girarono i tacchi e si avviarono
– finché, con acuto disappunto di Gideon, Palamedes non si voltò. Per
tutto il tempo aveva evitato di incrociare il suo sguardo, forse assecon-
dando il fatto che anche lui stava evitando il suo, ma ora la fissò dritto
in faccia. Lei inghiottì l’urgenza di dirgli: “Mi dispiace, non ti odio per
niente, è solo che in questo momento odio un po’ me stessa”. Invece si
voltò freddamente da un’altra parte, l’esatto contrario del chiedere scusa.
«Tienila d’occhio, Nav» disse Palamedes in fretta. E poi si girò per
raggiungere Camilla.
«Sta diventando presuntuoso» disse la Reverenda Figlia, osservan-
do le loro schiene che si facevano sempre più piccole.

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«Credo che non stesse parlando di te.»


Un silenzio lungo e strascicato scese su di loro, elastico e recalci-
trante quanto la cenere e i frammenti d’osso raggrumati sulla serra-
tura. «Splendida osservazione» disse Harrow. «A proposito! Ti proi-
bisco ufficialmente di vedere Lady Septimus.»
«Stiamo veramente affrontando l’argomento? Vuoi davvero affron-
tare quest’argomento?»
Il volto di Harrow si appuntì in un’espressione di pazienza esaspe-
rata. «Dammi retta. Dulcinea Septimus è pericolosa.»
«Sei fuori. Dulcinea Septimus non riesce neanche a soffiarsi il naso.
La stai prendendo in una maniera assurda e io sono stufa.»
«Non ti sei nemmeno mai chiesta come abbia fatto a procurarsi
una chiave… e quella assurda sarei io?»
«Non lo so» disse Gideon, sinceramente esasperata da quella fac-
cenda. «Non lo so! Magari è perché, tutte le volte che si parla di lei, ti
allinei senza alcuna fatica alla definizione di gelosa e viscida?»
«Se guardassi nel dizionario scopriresti che la parola giusta è invi-
diosa, e io faccio proprio fatica a invidiare una…»
«No, sei gelosa, al cento per cento» disse Gideon, spietata, «e lo
dico perché reagisci sempre così quando ti sembra che io le stia de-
dicando il mio tempo.»
Ci fu una pausa orrenda.
«Sono stata troppo permissiva» disse la sua necromante, ignorando
con fermezza quell’ultima affermazione come se si trattasse di una caca-
ta che Gideon aveva appena sganciato in mezzo al corridoio. Si riprese i
guanti che Gideon, a disagio, stringeva tra le mani e se li infilò di nuovo.
«Mi sono crogiolata nell’apatia mentre tu ti aggrappavi a ogni fenomeno
da baraccone della Casa di Canaan.» («Tu non puoi proprio permetterti
di dare del fenomeno da baraccone a nessuno» disse Gideon.) «Ma fini-
sce qui. Ora abbiamo meno da nascondere e molto di più da perdere.»
«Lei non ha nessuno. Se quella cosa se la prenderà con lei sarà una
condanna a morte.»
«Sì. Ora non ha più un paladino» disse Harrow. «Non è una que-
stione di se. È una questione di quando. Lascia che i morti reclami-
no i morti. Non vuoi credere a quello che ti dico, anche se ti ho già
dimostrato la mia affidabilità? Perfetto. Ma ti vieto comunque di an-
dare al suo capezzale.»

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«No» disse Gideon. «Nah. Macché. Zero. Non è da me.»


«Non sei la sua guardia del corpo.»
«Non ho neanche mai giurato di essere la tua, però» disse Gideon.
«Non sul serio.»
«E invece sì» sbottò Harrowhark. «Hai accettato il ruolo di primo
paladino. Hai accettato di votarti ai doveri di un paladino. Il fatto che
tu ne abbia frainteso le implicazioni non ti solleva nemmeno un po’
dai tuoi reali doveri…»
«Ho promesso di combattere per te. Tu mi hai promesso la libertà.
È molto probabile che io non la ottenga mai, e lo so bene, che diami-
ne. Qua stiamo crepando tutti! C’è qualcosa che ci dà la caccia! L’u-
nica cosa che posso fare, finché ci riesco, è cercare di tenere in vita
quante più persone possibili, nella speranza che ci si inventi qualco-
sa! Sei tu, sacco ignorante di bulbi oculari che non sei altro, che non
capisci cos’è un paladino, Harrow, prendi tutto quello che posso dar-
ti e basta…»
«Il melodramma, Gideon, non è mai stato il tuo forte» disse la
sua adepta, piatta. «Non ti sei mai lamentata delle nostre preceden-
ti transazioni.»
«Transazioni un cazzo. Che fine ha fatto “Ho bisogno che tu ti fidi
di me, ma ora ti guarderò storto e mi comporterò come se mi avessi
spaccato il naso solo perché mi hai abbracciata una volta”?»
Un respiro trattenuto. «Non prenderti gioco di…»
«Prendermi gioco di te? Dovrei prenderti a calci in culo!»
«Ti sto facendo una richiesta ragionevole» disse Harrowhark, che
si era tolta e rimessa i guanti tre volte e ora si stava analizzando le
unghie come se fosse annoiata. L’unico motivo per cui Gideon non
aveva ancora provato a gonfiarla erano le ciglia che le fremevano di
rabbia – e anche perché aveva una gran paura che, se solo avesse ini-
ziato, non sarebbe più riuscita a fermarsi. «Ti sto chiedendo di fare
un passo indietro e di riportare la Nona in cima alle tue priorità, du-
rante – come tu stessa l’hai definito – questo momento pericoloso.»
«Le mie priorità sono chiarissime.»
«Nulla di quello che hai fatto negli ultimi due giorni sembrereb-
be suggerirlo.»
Gideon si raggelò. «Vaffanculo. Vaffanculo, vaffanculo, vaffancu-
lo. Non volevo che Jeannemary morisse.»

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«Per l’amor di Dio, non intendevo…»


«Vai a farti fottere» ribadì Gideon, per enfatizzare ulteriormente.
Scoppiò a ridere con quella spaventosa tonalità stridula che non ave-
va nulla a che vedere con il divertimento. «Fottiti. Noi non ci meri-
tiamo di essere ancora in piedi – te ne sei già resa conto? Ti sei resa
conto che tutta questa faccenda ha a che fare con l’unione tra necro-
mante e paladino, dall’inizio alla fine? Noi due dovremmo essere già
stecchite. Se ci stanno valutando sulla solidità di quello… siamo due
cadaveri che camminano. Magnus il Quinto era un paladino miglio-
re di me. Jeannemary la Quarta era dieci volte la paladina che sono
io. Loro dovrebbero essere vivi e noi due dovremmo essere mangime
per batteri. Due bei sacchi di algor mortis. Noi siamo vive per pura
fortuna, e Jeannemary no… e tu ti stai comportando come se lasciar
morire Dulcinea fosse l’unica cosa che ti separa dal Littorato…»
«Smettila di bearti al suono della tua stessa voce, Nav, e ascoltami…»
«Harrow, io ti odio» disse Gideon. «Non ho mai smesso di odiarti.
Ti odierò per sempre, e tu odierai per sempre me. Non dimenticar-
telo. Non che io ci riesca, mai.»
La bocca di Harrow si contorse a tal punto che la si sarebbe potu-
ta scambiare per un nodo da marinaio. Chiuse gli occhi per un atti-
mo e ricacciò le mani nei guanti. A quel punto la tensione si sarebbe
dovuta smorzare, ma non accadde: come se avesse raggiunto il pun-
to d’ebollizione, si gonfiò, lucida e incandescente. Gideon si accorse
di aver deglutito sei volte in dieci secondi e che l’interno del suo to-
race era diventato asciutto e acceso. La sua necromante disse, senza
inflessione: «Griddle, hai torto».
«Come…»
«Niente mi separa dal Littorato» disse Harrowhark, «e tu non fai
parte dell’equazione. Non lasciarti incantare dalle idee della Sesta.
Le prove non hanno nulla a che vedere con chissà quale sottotesto,
francamente rivoltante, pieno di sentimentalismo e obbedienza; stan-
no mettendo alla prova me e me soltanto. Alla fine, né io né la Nona
avremo più bisogno di te, per questa pantomima. Puoi odiarmi fin-
ché ti pare; continuo a non ricordarmi neanche che esisti, la maggior
parte delle volte.»
Voltò le spalle a Gideon. Non se ne andò, ma rimase ferma lì per
un istante, concedendosi la semplice arroganza di mostrarle la schie-

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na – o di concederle, con una spada nel fodero, un accesso per diret-


tissima alla parte posteriore della sua cassa toracica. Harrow disse:
«Ti vieto di vedere Septimus. Prima tira le cuoia, meglio è. Se fossi al
suo posto… mi sarei già buttata giù dalla finestra.»
«Se vuoi avvicinarti a una finestra, anche subito, al lavoro sporco
ci penserò io» disse Gideon.
«Oh, ma vai a fare un pisolo» sbottò Harrowhark.
Gideon per poco non le mise le mani addosso, e forse avrebbe do-
vuto farlo.
«Se non hai bisogno di me, sollevami dall’incarico e riassegnami
alla Settima Casa» le disse, molto piano e con grande calma, come se
stesse leggendo a una funzione. «Preferisco servire Dulcinea moren-
te che la Reverenda Figlia viva e vegeta.»
Harrowhark si girò per andarsene, leggera e, anzi, disinvolta, come
se lei e Gideon avessero concluso una conversazione a proposito del
tempo. Ma poi inclinò il capo verso Gideon, lievemente, e il fram-
mento di espressione che Gideon riuscì a intravedere era affannoso
e asfittico quanto un colpo al plesso solare.
«Quando sarai sollevata dai miei servigi, Nav» disse la sua necro-
mante, «te lo farò sapere.» E se ne andò.
Gideon decise, in quello stesso istante, il proprio tradimento.

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28
Mezz’ora dopo, Gideon Nav era davanti alla por-
ta degli alloggi dell’Ottava Casa, di fronte a un Colum l’Ottavo estre-
mamente stranito. Nei nebulosi recessi rossicci della sua mente, quel
gesto proditorio era la cosa giusta da fare, anche se non era ancora
riuscita a decidere bene il perché.
«Tuo zio voleva vedermi» gli disse. «Eccomi qua, dunque.»
Il paladino la squadrò. Era ovvio che l’avesse interrotto nel bel mez-
zo di una qualche attività domestica, cosa che si sarebbe dimostrata
assai divertente in qualunque altro momento. Gli impeccabili spallac-
ci di pelle bianca e maglia metallica erano scomparsi; Colum portava
un paio di pantaloni alla zuava bianchi e una camiciola un po’ spor-
ca e stringeva in mano un pannetto super unto. La sciatteria del pan-
no e della camiciola apparivano ancor più squallidi se accostati allo
scintillante biancore dei pantaloni dell’Ottava. Non si era mai ritro-
vata da sola con Colum l’Ottavo prima. Lontano dall’ombra di suo zio
appariva altrettanto chiazzato e scolorito, come se soffrisse di un’in-
fiammazione al fegato; aveva il solito colorito giallognolo-brunastro
simile a quello dei capelli, il che gli conferiva un aspetto uniforme.
Gideon si rese conto, non senza sorpresa, che probabilmente era un
po’ più giovane di Magnus. Aveva un’aria consunta, di seconda mano.
«Sei venuta da sola?» le chiese, con quel suo tono perennemente roco.
«Se fossi venuta con la mia necromante, te ne saresti accorto.»
«Sì» disse Colum. Pareva sul punto di aggiungere qualcosa, ma poi
ci ripensò. Disse, invece: «Spada e secondaria, per favore».
«Cosa? Io non mi disarmo…»
«Senti» le disse, «sarei un idiota a non fartelo fare. Cerca di capirmi.»

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«Non faceva parte degli accordi…»


«Qua non c’è niente che possa farti del male» disse Colum. «Te lo
giuro sul mio onore. Quindi… procediamo.»
Non c’era niente di gradevole in quell’uomo asciutto dallo sguardo
afflitto, ma aveva un che di sincero, ed era anche possibile che facesse
il lavoro peggiore nella storia del mondo. Gideon non si fidava di lui.
Ma gli porse lo stocco, gli consegnò il guanto e lo seguì malvolentieri.
La foschia rossa si stava diradando un pochino, e ora Gideon si sta-
va pentendo della rabbia che da Harrow l’aveva condotta a Maestro
e, grazie alle indicazioni di Maestro, alle stanze che ospitavano l’Ot-
tava Casa. Erano stati sistemati in spaziose e amene camere squadra-
te dagli alti soffitti; quali fossero i mobili che gli erano stati forniti sa-
rebbe rimasto un mistero, perché se ne erano sbarazzati. Lo spazio
era pulito da far schifo. Era stupefacente vedere un tale lindore nella
Casa di Canaan; qualcuno gli aveva addirittura procurato una latta
di cera per i mobili e le tavole di legno sotto i piedi di Gideon ema-
navano un profumo oleoso e fresco. Avevano tenuto una scrivania e
una sedia, e un tavolo con due sgabelli, fine della storia. Il tavolo era
coperto da un drappo bianco. C’era un libro sulla scrivania. Il resto
era immacolato e spoglio.
L’unica macchia di colore era un enorme ritratto dell’Imperatore,
nel filone iconografico del Padrone Magnanimo, con un’espressione
di pacifica beatitudine. Era posizionato dalla parte opposta rispetto
al tavolo, in modo che chiunque vi si fosse messo a sedere se lo sa-
rebbe ritrovato come inevitabile commensale. In un angolo c’era una
cassa di metallo lucidato e, sopra, in equilibrio precario su un muc-
chietto di pesetti, c’era lo scudo da pugno di Colum.
La spada e il guanto di Gideon furono sistemati con cura accanto
alla porta, cosa che le fece piacere. Colum sparì in un’altra stanza.
Riapparve qualche minuto dopo con Silas al traino, spogliato della
sua uniforme perpetua di seta color cornea e cotta biancargentea,
con il lungo mantello che fluttuava come un paio d’ali. Gideon do-
veva averlo interrotto durante le sue abluzioni, perché aveva i ca-
pelli color gesso bagnati e arruffati come se li avesse appena strofi-
nati con un asciugamano. Le parvero di una lunghezza frivola e si
rese conto di averglieli visti solo raccolti. Prese la sedia della scri-
vania e si accomodò, mentre il suo paladino tirò fuori una spazzo-

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la da chissà dove e si mise a ravviargli le sottili ciocche bianche an-


cora umide.
Silas dava l’impressione di aver dormito male negli ultimi tempi.
Le ombre che gli cerchiavano gli occhi rendevano il mento, affilato e
implacabile, ancor più affilato e implacabile.
«Devi sapere che non tollererei mai e poi mai la presenza di una
mistica oscura in un santuario dell’Ottava» le disse, «a meno che non
lo ritenessi di vasta utilità morale.»
«Grazie» disse Gideon. «Posso sedermi?»
«Ti è permesso.»
«Datemi un istante» disse Colum. «Finisco qui e poi preparo il tè.»
Gideon scostò uno sgabello dal tavolo, facendo stridere voluta-
mente le gambe posteriori contro il legno splendente. Il necroman-
te chiuse gli occhi come se il suono lo stesse ferendo. «Non ho mai
fatto parte della congregazione del Sepolcro Sigillato» gli disse, met-
tendosi a sedere. «Se avessi parlato con Sorella Glaurica lo sapresti.»
Dopo avergli spazzolato i capelli nel modo in cui gli era gradito,
Colum cominciò a dividerglieli in ciocche sulla nuca con i denti del
pettine. Silas ignorò le operazioni come se fossero qualcosa di così
abituale da non risultare degne d’attenzione. Gideon ringraziò il cie-
lo, ancora una volta, di non essere stata costretta a sottoporsi al tra-
dizionale percorso d’addestramento di un paladino.
«Un sasso non deve giurare di essere un sasso» disse Silas stanca-
mente. «Tu sei quello che sei. Levati il cappuccio. Per favore.»
Quel per favore era secondo cugino di un ripensamento. Gideon
abbassò il cappuccio un po’ controvoglia, lasciando che le ricadesse
sulle spalle. Si sentì strana, lì a capo scoperto. Lo sguardo di Silas non
era puntato sul suo viso, ora completamente esposto, ma sui suoi ca-
pelli, che avevano il disperato bisogno di una spuntatina.
«Chissà da dove vieni, mi domando» commentò lui. «Tua madre
aveva i capelli del medesimo fenotipo. Insolito… forse era della Terza.»
Gideon deglutì.
«Evita» gli disse. «Evita di fare commenti criptici su mia… mia ma-
dre. Non sai un accidenti di lei, o di me, e riuscirai solo a farmi in-
cazzare. E quando sono incazzata, me ne vado. Sono stata chiara?»
«Cristallina» disse il necromante dell’Ottava. «Ma mi fraintendi.
Questo non è un interrogatorio. Ero più interessato alla storia di tua

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madre di quanto fossi interessato a te, quando abbiamo interrogato


Glaurica. Tu sei stata un’aggiunta accidentale. Glaurica ha confuso
l’erroneo con l’utile. Ma i fantasmi lo fanno sempre.»
«I fantasmi?»
«I redivivi, tanto per essere chiari» disse Silas. «Quegli spiriti rari e
caparbi che inseguono i viventi prima del trapasso, spontaneamente,
aggrappandosi ai frammenti delle loro vite precedenti. Sono rimasto
sorpreso che una donna come Glaurica abbia compiuto questa tran-
sizione. Non è durata molto.»
Le sue vertebre non si trasformarono in ghiaccio, ma affermare
che non si fossero raffreddate in maniera considerevole sarebbe sta-
ta una bugia.
«Glaurica è morta?»
Silas bevve un esasperante sorso d’acqua. La pallida colonna del-
la sua trachea si mosse. «Sono morti durante il viaggio di ritorno al
loro pianeta» disse, asciugandosi la bocca. «La navetta è esplosa. Biz-
zarro, dato che si trattava di una navetta della Coorte in perfette con-
dizioni, con un pilota esperto. Era la navetta che avevi intenzione di
requisire, o mi sbaglio?»
Ortus non avrebbe mai più potuto far rimare malinconia con oh,
mia caduca follia. Gideon non confermò e non negò. «Non conosco
tutta la storia» ammise Silas. «Non ne ho bisogno. Non sono qua per
sciorinarti tutti i segreti della tua vita e spaventarti al punto di farti
confessare qualcosa. Sono qui per parlare dei bambini. Da quanti è
composta la tua generazione, Gideon la Nona? Non gli infanti. Parlo
dei tuoi pari, dei tuoi coetanei.»
Non gli infanti. Forse Glaurica aveva custodito qualche segreto, do-
potutto. O – più probabile – il suo spirito aveva deciso di tornare a esi-
stere stridendo solo per lamentarsi delle uniche due cose che avevano
ricoperto per lei un’importanza capitale: quel tristone moscio di suo
figlio, e le sacre ossa di quel tristone defunto di suo marito. Gideon
tenne a freno la lingua. Silas la incalzò: «Tu? La Reverenda Figlia?».
«Cosa vuoi, un censimento?»
«Voglio che tu rifletta sul perché tu e Harrowhark Nonagesimus
rappresentiate, ora, un’intera generazione» le disse, e si sporse in
avanti, appoggiandosi sui gomiti. Il suo sguardo si era fatto molto in-
tenso. Suo nipote gli stava ancora intrecciando i capelli, il che contri-

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buiva solo in parte a smorzarne l’effetto. «Voglio che tu rifletta sulla


morte di duecento bambini, quando solo tu e lei siete sopravvissute.»
«Okay, senti, questa storia è assurda» disse Gideon. «Hai proprio
scelto la roba sbagliata per inchiodare Harrow. Ma se vuoi darle del-
la tiranna depravata, parliamone pure, sono tutta orecchi. Ma so già
dell’influenza. Lei non era nemmeno nata, al tempo. Io avrò avuto,
quanto, un anno, quindi non posso essere stata io. C’era un batterio
nella ventilazione del nido e dell’ala scolastica, e ha fatto fuori tut-
ti gli alunni e uno degli insegnanti prima che si capisse che cos’era.»
Era una spiegazione che per lei aveva sempre avuto perfettamen-
te senso: non solo i figli della Nona, già di loro, erano insolitamente
malaticci e malmessi – la Nona Casa sembrava far presa solo sui più
pallidi, difettosi e disturbati – ma in mezzo a così tanto malevolo de-
cadimento nessuno avrebbe mai notato un problema di ventilazione
finché non fosse stato troppo tardi. Tra sé e sé aveva sempre sospet-
tato di essere sopravvissuta perché gli altri bambini la evitavano. I più
giovani erano morti per primi, insieme ai più grandi che si occupava-
no dei più giovani, finché non era rimasto più nessuno dai dicianno-
ve anni in giù. Un’intera generazione di santi novizi. Harrow era sta-
ta l’unica a nascere in un mare di minuscole tombe.
«Un batterio nella ventilazione non uccide adolescenti immunoef-
ficienti» disse Silas.
«Perché non hai mai visto un adolescente della Nona Casa.»
«Un batterio nella ventilazione» ribadì Silas, «non uccide adole-
scenti immunoefficienti.»
Non aveva alcun senso. Lui non sapeva che Harrow era stata l’ulti-
ma bambina a nascere. La Nona Casa era stata vigile riguardo alla sua
popolazione decrescente per generazioni. Far fuori qualunque bam-
bino, per non parlare del suo ultimo raccolto di suore e cenobiti, sa-
rebbe stato un orripilante spreco di risorse. L’influenza alla nursery
era stata un cataclisma, un’estinzione di massa. «Non capisco» disse
Gideon. «Stai cercando di farmi credere che il Reverendo Padre e la
Reverenda Madre abbiano ammazzato svariate centinaia di figli loro?»
Non le rispose. Bevve un altro lungo sorso d’acqua. Colum ave-
va finito la treccia e gliela fissò, perfezionando la consueta silhouet-
te severa del capo pallido del Maestro, dopodiché vuotò alcune pre-
cise cucchiaiatine di tè nero in una caraffa, lasciandolo in infusione

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a freddo. Poi si mise a sedere su uno sgabello un po’ in disparte ri-


spetto al tavolo, vicino alla porta, rivolgendosi alla finestra come un
vero paranoico. Il paladino prese una pila di roba da rammendare e
cominciò a cucire, con nervosi punti di filo bianco, un paio di panta-
loni altrettanto bianchi. Per l’Ottava Casa le macchie dovevano esse-
re un vero martirio, pensò lei.
«La Nona Casa è la Casa delle promesse infrante» disse Silas. «L’Ot-
tava Casa ricorda che non era destinata a vivere. Avevano un unico
compito – una pietra con cui sbarrare una tomba; un unico atto di
custodia, per vivere e morire in collettiva beatitudine – e invece han-
no fondato un culto. Una Casa di mistici che hanno finito per ado-
rare una cosa terribile. Il Reverendo Padre e la Reverenda Madre in
carica sono il seme guasto di un raccolto furtivo. Non so perché l’Im-
peratore abbia tollerato quell’ombra di una vera Casa. Quell’irrisio-
ne del suo nome. Una Casa che tiene accese le lucerne per una tom-
ba destinata a sprofondare nell’oscurità è una Casa che ucciderebbe
duecento bambini. Una Casa che ucciderebbe una donna e suo figlio
solo perché hanno cercato di andarsene è una Casa che ucciderebbe
duecento bambini.»
Gideon si sentiva sporca e inquieta. «Mi serve una motivazione
migliore, oltre al fatto che la Nona Casa fa schifo» gli disse. «Perché?
Perché uccidere duecento ragazzini? E cosa ancor più importante,
perché duecento ragazzini e non me o Harrow?»
Silas la guardò da dietro le dita intrecciate.
«Dimmelo tu, Gideon la Nona» le disse. «Sei tu quella che ha cer-
cato di scappare con una navetta in cui hanno piazzato una bomba.»
Gideon rimase in silenzio.
«Non credo che nessun erede della Reverenda Madre e del Reve-
rendo Padre dovrebbe diventare Littore» disse Silas, pacato. «Una fos-
sa a cielo aperto come la Nona Casa non dovrebbe produrre un suo
redivivo. Anzi, non sono nemmeno certo che tra noi ci sia qualcuno
che dovrebbe diventare Littore. Da quando il potere è sinonimo di
bontà, o l’intelligenza di verità? Nemmeno io ambisco più ad ascen-
dere, Gideon. Ti ho riferito quello che so, e immagino capirai perché
ora devo ordinarti di consegnarmi le tue chiavi.»
La colonna vertebrale la fece drizzare sulla sedia. Le dita color pol-
vere si fermarono a mezz’aria sulla cucitura sbiancata.

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«Ecco cosa c’era sotto» disse Gideon, quasi delusa.


«Ho la coscienza pulita. Non chiedo altro che il bene di tutte le Case.»
«E se ti dico di no?»
«Allora dovrò sfidarti per averle.»
«La mia spada…»
«Il duello potrebbe risultare difficoltoso, senza» disse Silas Octa-
kiseron, tranquillo e rassegnato al suo trionfo.
Gideon non poté fare a meno di lanciare un’occhiata a Colum,
aspettandosi quasi di trovarlo con la spada già in pugno e un sorriso
mesto stampato in faccia. Ma si era alzato in piedi, facendo cadere il
rammendo sul pavimento, il viso contratto come un pugno e le spal-
le così rigide che ogni tendine pareva filo interdentale che gli trapas-
sava le articolazioni delle clavicole. Gli occhi castani erano minaccio-
si, ma non stavano guardando lei.
«Maestro» disse, e tacque. Poi: «Le ho assicurato che qui non ci
sarebbe stata violenza».
Lo sguardo di Silas non si scollò mai da quello di Gideon, quindi
nessuno dei due vide l’espressione del paladino. «Non c’è peccato in
quello, Fratello Asht.»
«Io…»
«Promettere qualcosa alla Nona è come somministrare una me-
dicina alla sabbia» disse il necromante. «Affonda senza lasciare
traccia e non produce alcun beneficio. Lei lo sa tanto quanto gli al-
tri – anzi, forse meglio di tanti. Il cuore della Nona è arido, il cuo-
re della Nona è nero.»
Gideon aprì la bocca per ribattere a tono: “Be’, vaffanculo pure a
te, allora!” ma Colum la anticipò, con sua immane sorpresa. «Non è
del cuore della Nona che mi preoccupo, Zio.»
«Fratello Asht» disse Silas, assai carezzevole, «il tuo cuore è puro.»
«Col passare dei giorni, qui, ne sono sempre meno sicuro» dis-
se Colum.
«Condivido le tue sensazioni, ma…»
«Le ho detto: “Te lo giuro sul mio onore”.»
«Non sprecheremo alcuna verità per dei bugiardi» disse Silas. Il
suo tono era sempre incolore, ma più risoluto, ora, come acqua che
ghiaccia: era un monito, non una rassicurazione. «E nemmeno pro-
messe per i dannati.»

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«Le ho detto» ribadì Colum lentamente «“Te lo giuro sul mio ono-
re”. Cosa significa per te?»
Gideon rimase assolutamente immobile, come un animale lega-
to, ma lasciò che il suo sguardo si spostasse di lato, verso la porta.
Con un movimento repentino sarebbe riuscita a prendere la spada
e a levare le tende da lì prima che quella terrificante soap opera zio-­
nipote culminasse con loro due che la suonavano come un gong, ma
avrebbe anche potuto ricordare loro della sua esistenza e che quella
discussione intima poteva essere rimandata a un secondo momento.
Silas, inquieto, si era risistemato sulla sedia, e stava dicendo: «Non
mi metterò a dissezionare parole e significati con te come un ciarla-
tano, Fratello. Lasciamo la semiotica alla Sesta. I loro sofisti non ve-
dono l’ora di dimostrarci che sopra, scritto in un altro modo, è uguale
a sotto. Se un giuramento infranto ti addolora, saprò guidarti nell’e-
spiazione, più tardi, ma per ora…».
«Sono il tuo paladino» disse il suo paladino. Il che interruppe Si-
las a metà del discorso. «Ho la mia spada, ho il mio onore. Tutto il
resto appartiene a te.»
«Anche la tua spada appartiene a me» disse Silas. Stringeva i brac-
cioli della sedia, ma il suo tono era calmo, piatto e, in realtà, anche so-
lidale. «Non occorre che tu faccia niente. Se il tuo onore deve rimane-
re intatto, posso procurarmi la tua spada senza dovertela chiedere.»
Sollevò la mano e la manica di lino bianco scivolò giù, scoprendo
una pallida polsiera di maglia metallica. A Gideon tornò in mente la
stanza impregnata di sangue dove giacevano Abigail e Magnus, e si
ricordò di come il colore si era ritirato da quell’ambiente come una
tintura rapida per tessuti. Sapeva che quello era il capolinea, e il suo
sguardo saettò di lato, spostandosi dalla porta a Colum, che… la sta-
va fissando.
I loro sguardi si incrociarono per un incandescente secondo. Quell’u-
nico secondo le parve così eterno, una pausa così prolungata che i
suoi nervi già sovrastimolati per poco non fecero ping, come un ela-
stico, catapultandola dritto dritto dall’altra parte della stanza. Poi Co-
lum sembrò prendere una decisione.
«Tanto tempo fa, tutto quello che dicevo era vangelo, per te» dis-
se, in un tono molto insolito. «Pensavo che fosse peggio di adesso…
ma mi sbagliavo.»

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La mano vacillò. Silas voltò il capo di scatto per guardare l’uomo


più vecchio. Era la prima volta che distoglieva la sua attenzione da
Gideon da quando aveva messo piede nella stanza. «Ti invito a ram-
mentare chi sei» gli disse, brusco.
«Mi ricordo benissimo chi sono» ribatté Colum. «Ma tu no. Una
volta lo sapevi, però. Quando tu e io abbiamo cominciato, quando
non avevi ancora dodici anni. Quando pensavi che io sapessi tutto.»
Le dita di Silas si ripiegarono, lievemente, prima di protendersi di
nuovo come per rafforzare chissà quale imperativo interiore. «Non
è il momento.»
Colum disse: «Rispettavo il bambino. Ma a volte non riesco a sop-
portare l’uomo, Si».
La voce di Silas sprofondò in un sussurro mortifero: «Hai presta-
to giuramento…».
«Giuramento? Dieci anni di addestramento, prima ancora che tu
nascessi. Un giuramento? Tre fratelli con gruppi sanguigni diver-
si, perché non potevamo prevedere quale sarebbe stato il tuo e di
quale di noi avresti avuto bisogno. Dieci anni di antigeni, anticorpi
e attese… per te. Il giuramento sono io. Sono stato progettato per
diventare un uomo che non sceglie a suo piacimento i suoi princi-
pi morali?»
La sua voce si era alzata fino a riempire la stanza. Silas Octakise-
ron la accolse restando perfettamente bianco e immobile. Colum ri-
volse un cenno imperioso del mento a Gideon, e lei notò di sfuggita
che si trattava di un’altra versione del mento elfico e forchettiforme
di Silas. Si era voltato e si stava dirigendo alla porta. Gideon, com-
pletamente spiazzata, percepì però – con una reazione cerebrale au-
tomatica, da roditore – una possibilità di fuga. Si alzò dalla sedia e lo
seguì. Silas restò dov’era.
Quando Colum arrivò alla spada, la prese e Gideon, per un secon-
do, temette che potesse avvalersi di una qualche scappatoia religiosa
e ammazzarla con la sua stessa arma. Fu indegno di lei. Quando Co-
lum le porse la spada, tenendola in orizzontale con una mano, fu un
gesto da paladino a paladino. La sua espressione, ora, era perfetta-
mente calma, come se la rabbia non fosse mai emersa: forse non era
accaduto. E i suoi occhi erano gli occhi di un uomo che si era appe-
na annodato il cappio da solo.

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Lei prese la spada. Era parecchio in debito con lui, adesso, il che
era uno schifo.
«Al nostro prossimo incontro» le disse a denti stretti, monolitico
e impassibile come quando era arrivata. «Uno di noi due dovrà mo-
rire, temo.»
«Già» commentò Gideon. Disse: «già» invece di: «mi dispiace».
Colum le raccolse il guanto e le porse anche quello. «Vattene da
qui» le disse, più come un avvertimento che come un ordine.
Si allontanò di nuovo da lei. Gideon provò l’acuta tentazione di por-
tarlo via con sé, lontano da Silas, che restava seduto, immobile e pal-
lido, nella sua grande stanza bianca, ma si rese conto che era impro-
babile che potesse succedere. Pensò anche di sventolare di straforo
il dito medio in direzione di Silas, una volta che Colum le avesse gi-
rato le spalle, ma arrivò alla conclusione che, di tanto in tanto, vales-
se la pena mantenere la posizione di superiorità morale guadagnata.
Mentre si allontanava, si preparò a sentire un improvviso scoppio
di voci rabbiose, di grida, di recriminazioni, magari pure un urlo di
dolore. Ma non ci fu altro che il silenzio.

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In una nube di stordimento, Gideon vagò per le sale
della Casa di Canaan, senza la minima intenzione di tornare a casa.
Percorse i corridoi abbandonati e si rese vagamente conto di non
sentire più l’odore della muffa, l’aveva annusato così a lungo che era
diventato indistinguibile dall’aria che la circondava. Si fermò all’om-
bra fredda di soglie putrefatte, accarezzando coi polpastrelli i pon-
fi porosi e le schegge del legno vecchissimo. I servitori scheletrici si
affaccendavano attorno a lei, reggendo ceste o annaffiatoi decrepiti,
e quando guardò fuori da una finestra striata di sporcizia ne vide un
paio fermi sui bastioni, illuminati dalla luce bianca del sole, che reg-
gevano lunghe pertiche oltre la murata. Il suo cervello la classificò
come un’attività perfettamente sensata. Le loro dita antiche risplen-
devano sui mulinelli e, mentre li osservava, uno di loro strattonò un
pesce guizzante e scalmanato, proiettandolo all’apice del suo viaggio
estremo tra l’oceano e le sue falangi. Il costrutto lo ripose con cura
in un secchio.
Gideon attraversò il grande atrio con la fontana asciutta ed enigma-
tica, e si imbatté in Maestro. Era seduto davanti alla fontana, su una
poltroncina con un cuscino tagliato. Pregava, o pensava, o entrambe
le cose. Teneva chino il capo lucido, ma le rivolse un sorriso stanco.
«Quanto odio l’acqua» le disse, come se fosse un discorso che ave-
vano già affrontato prima e che ora stava semplicemente riprenden-
do. «Non mi dispiace che si sia asciugata. Stagni… fiumi… cascate…
li disprezzo tutti. Quanto vorrei che non avessero riempito la piscina,
giù di sotto. È un prodigio terrificante, gliel’avevo detto.»
«Ma siete circondati dal mare» disse Gideon.

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«Sì» commentò Maestro quasi preso alla sprovvista, «è proprio


una fregatura.»
Gideon rise – era una risata un po’ isterica – e lui la imitò, ma gli
occhi gli si riempirono di lacrime.
«Povera piccola» disse lui, «siamo tutti così dispiaciuti. Non avrem-
mo mai voluto che accadesse, nessuno di noi. Quella povera piccola.»
Gideon sarebbe potuta essere la piccola in questione; oppure no.
In entrambi i casi, non poteva fregargliene di meno. Si ritrovò ben
presto a girovagare nei pressi del vestibolo angusto e costeggiò la
piscina dalle increspature delicate che Maestro tanto detestava: il
basso soffitto imbiancato, le piastrelle col loro tenue bagliore. Ol-
tre le porte a vetri, spalancate sul pavimento della sala d’addestra-
mento dove i paladini si allenavano nella loro arte, giacevano degli
asciugamani dimenticati e quella che si rivelò essere, senza ombra
di dubbio, la giubba leziosa di Naberius. Nella sala d’addestramen-
to c’era Corona.
Aveva la splendida chioma dorata raccolta in ciocche sudate in cima
alla testa, e si era spogliata fino a restare in camiciola e calzoncini
– Gideon era troppo intontita per apprezzarli davvero, ma non troppo
intontita per evitare di sbirciare. I suoi lunghi arti fulvi erano chiaz-
zati qua e là da polvere di gesso, e stringeva uno stocco e un coltello.
Era ferma in una classica posa da combattimento, il braccio che de-
scriveva un arco lento e controllato nel bel mezzo della sequenza di
affondo, mezzo passo, affondo col coltello, ritirata, e lo sforzo le aveva
arrossato generosamente il viso. La sua tunica da necromante giace-
va abbandonata da una parte, in un mucchietto inconsistente, e Gi-
deon rimase a guardarla, affascinata, dalla porta aperta.
Coronabeth si girò verso di lei. La sua postura era buona: aveva de-
gli occhi molto belli, somigliavano a delle ametiste.
«Hai mai visto una necromante con una spada in mano?» le do-
mandò gaia.
«No» disse Gideon, «ho sempre pensato che avessero le braccia
troppo mollicce.»
La principessa della Terza scoppiò a ridere. Il colorito sulle sue
guance era fin troppo roseo e rovente. «Mia sorella è così» le disse.
«Non riesce a tenere sollevate le braccia abbastanza a lungo da farsi
una treccia. Lo sai, Nona? Mi sarebbe sempre piaciuto sfidarti.» Glie-

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lo disse a bassa voce, con un intenso affanno, rovinando tutto con


un’aggiunta: «Babs ha detto che è stato incredibile».
Quella, forse, fu la dichiarazione peggiore in una giornata così ric-
ca di dichiarazioni tremende che ormai si ammassavano le une sulle
altre come gli spettatori di un duello. Da principio, Gideon avrebbe
adorato sentire Corona rivolgersi a lei con l’intensità di quel sommes-
so affanno, magari dicendole: “I tuoi bicipiti… voto undici su dieci”
ma in quel momento voleva che nessuno le rivolgesse più la parola.
«Sarei molto felice di non dover mai più combattere con Naberius»
le disse. «È una faccia di merda.»
Corona si abbandonò a una risata piena e trillante. Poi tutta alle-
gra le disse: «Prima o poi potresti doverlo fare. Ma io non sono lui».
Scattò. Gideon sguainò, perché nonostante il lungo e monotono
rumore bianco prodotto dal suo cervello, il suo sistema nervoso era
ancora pieno di adrenalina. Infilò la mano nel guantone e incrociò
cautamente la Terza spada splendente di Corona – restò sorpresa
della forza che sosteneva il colpo, dall’energia frenetica nello sguar-
do della ragazza. Gideon spinse verso il basso, scostando di forza la
lama di Corona, e Corona si mosse con lei, facendo scivolare all’in-
giù la lama, assecondando la pressione e disimpegnandosi con un bel
gioco di gambe. Insistette, e fu solo con una parata frettolosa che Gi-
deon riuscì a tenere a bada la principessa.
Corona aveva il fiatone. Per un istante, Gideon pensò che si trattas-
se della debolezza dei necromanti che veniva a galla – i polmoni già
schiacciati dallo sforzo – ma si rese conto che Corona, in realtà, era
su di giri, e anche molto nervosa. Era tornata a somigliare alla rega-
le Corona di un tempo e quell’involucro mascherava un’imbottitura
pesantemente danneggiata. Durò solo un attimo. Lanciò un’improv-
visa occhiata furtiva e violetta sopra la spalla di Gideon, si irrigidì e
arretrò e, dalla soglia, si udì un’inspirazione.
«Mettila giù» abbaiò Naberius Tern.
“Ma manco morta, che cazzo” pensò Gideon, ma lui si tenne a di-
stanza, fuori dal suo raggio d’azione, slanciandosi per afferrare con
forza l’avambraccio di Corona. Aveva gli occhi fuori dalle orbite, in
allarme. Indossava solo una maglia intima e la sua collezione di mu-
scoli scolpiti e sinuosi stava esercitando tutto il suo peso sulla princi-
pessa. Lei si afflosciò, recalcitrante, come una bambina sorpresa con

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la mano in un vaso pieno di lecca lecca. Lui la circondò col braccio.


«Non puoi» le stava dicendo, e Gideon si rese conto che anche lui era
straordinariamente terrorizzato. «Non puoi.»
Corona si arrese emettendo un suono pieno di rabbia incoerente
e improduttiva, attutito dal braccio di Naberius. Non si trattava, per
fortuna, di lacrime. Disse qualcosa che Gideon non riuscì a cogliere,
e Naberius le rispose: «No, a lei non lo dirò. Non puoi fare una cosa
del genere, tesoro, non ora».
Per la seconda volta quel giorno, Gideon fluttuò via da uno sce-
nario che la escludeva completamente, qualcosa in cui non aveva in-
tenzione di intromettersi. Rinfoderò lo stocco, col salmastro che le
solleticava il naso, e si allontanò, tornando sui suoi passi, prima che
Naberius decidesse che, intanto che c’erano, avrebbe pure potuto
sfidarla per le sue chiavi. Quando gli scoccò un’occhiata da sopra le
spalle, però, capì che aveva completamente rimosso la sua presen-
za: stringeva Corona, tenendole il braccio di traverso sulle clavico-
le, come una sbarra, e lei l’aveva morso, forse per calmare i suoi fo-
schi malumori.
Gideon non voleva più saperne niente. Di niente. Gideon andò a casa.

* * *

I suoi piedi la trasportarono, pesanti e riluttanti, fino alla soglia in-


ghirlandata d’ossa degli alloggi della Nona: diede uno sprezzante spin-
tone alla porta e la spalancò. Dentro non pareva esserci nessuno. La
porta della camera da letto principale era chiusa, ma Gideon aprì an-
che quella, senza nemmeno bussare.
Non c’era nessuno neanche lì. Con le tende tirate, la stanza di Har-
row era buia e immobile, il letto dominava il centro della stanza come
una grossa ombra imponente. Le lenzuola erano sfatte e stropicciate.
Sul materasso si riusciva a distinguere la conchetta, a forma di feto
raggomitolato, in cui Harrow dormiva. C’erano delle penne in bili-
co sul comodino chiazzato di muffa e, sui cassettoni, libri impilati
su altri libri meno utili. Tutta la stanza sapeva di Harrow: vecchi veli
del Sepolcro Sigillato e sali conservanti, inchiostro, l’odore flebile del
suo sudore. I sali tendevano a prevalere. Aggirandosi alla cieca per la
stanza, Gideon mollò un calcione a un angolo del letto a baldacchi-

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no proprio come Corona aveva affondato i denti nel braccio del suo
paladino. Si ammaccò l’alluce, ma non ci badò.
L’anta del guardaroba era socchiusa. Gideon ci si fiondò, spalancan-
dola con violenza, anche se non aveva la minima inclinazione a cu-
cire i polsini di tutte le camicie di Harrowhark, come avrebbe potuto
fare un tempo. Si era quasi aspettata che dei guardiani ossei le sra-
dicassero entrambe le braccia dalle articolazioni, ma non c’era nien-
te. Non c’era alcuna sorveglianza. Non c’era nulla che potesse impe-
dirle di farlo. Chissà perché, la cosa la fece uscire di testa. Schiaffò da
un lato tutto quell’arcobaleno di indumenti neri: i pantaloni metico-
losamente rammendati, le camicette ben stirate, i paramenti formali
della Reverenda Figlia appesi a un gancio in una sacca a reticella. Se
li avesse guardati troppo a lungo le sarebbe mancato il fiato, quindi
si costrinse, con grande impegno, a non farlo.
C’era una scatola sul fondo dell’armadio – una scatola polimerica
da quattro soldi, ammaccata. Era infilata sotto a un paio di stivali di
Harrowhark. Non l’avrebbe notata se non fosse stato per quello sbri-
gativo tentativo di nasconderla coi sopracitati stivali e un mantello
sbrindellatissimo. I lati erano lunghi all’incirca quanto un avambrac-
cio. Un improvviso sfinimento riguardo a tutto quello che Harrow
aveva messo sotto chiave in vita sua la spinse a tirarla fuori, senza
quasi rendersene conto. Sollevò il coperchio butterato con i pollici –
si aspettava diari, o ossa da preghiera, o biancheria intima o litogra-
fie della madre di Harrow.
Con le dita intorpidite, Gideon estrasse la testa mozzata di Prote-
silaus il Settimo.

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Nel salotto della Sesta rivestito di carta velina,
Gideon sedeva con lo sguardo fisso su una tazza di tè fumante. L’in-
gente quantità di latte in polvere che conteneva l’aveva reso grigio, e
Gideon era già alla terza tazza. Il pensiero che ci avessero messo den-
tro delle medicine o dei tranquillanti o chissà cos’altro l’aveva terro-
rizzata: quando si era rifiutata di inghiottirlo, sia il necromante che
la paladina avevano buttato giù qualche sorso per dimostrarle che
non era stato adulterato – le loro espressioni lasciavano chiaramen-
te intendere idiota. Era stato Palamedes ad attendere pazientemente
al suo fianco mentre vomitava in abbondanza nel bagno della Sesta.
Ora era là seduta, smunta e vuota, su un materassino spugno-
so che avevano adibito a poltrona. La testa di Protesilaus troneggia-
va, coi suoi occhi vitrei, sul tavolo. Aveva lo stesso aspetto che aveva
avuto da viva: era come se, una volta separata dal tronco, fosse stata
proiettata in una specie di stato di conservazione perpetua, in modo
da mantenersi noiosa per l’eternità. Dimostrava la medesima vivaci-
tà di quando l’aveva incontrato. Palamedes stava esaminando il lu-
core bianchiccio della colonna vertebrale alla base del collo per tipo
la milionesima volta.
Camilla aveva cacciato in mano a Gideon una tazza di tè caldo, si
era allacciata due spade sulla schiena ed era scomparsa. Era successo
tutto ancora prima che Gideon riuscisse a protestare e ora era rima-
sta da sola con Palamedes, il suo reperto e un’emicrania a grappolo. Le
cose stavano succedendo… in quantità eccessiva. Bevve una sorsata
rovente, si rigirò il tè fra i denti e deglutì meccanicamente. «È mia.»
«È la quinta volta che lo dici.»

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«Non sto scherzando. Qualsiasi cosa accada – qualsiasi cosa suc-


ceda – dovete lasciarlo fare a me. Dovete.»
«Gideon…»
«Cosa faccio» gli disse, quasi con noncuranza, «se l’assassina è lei?»
L’interesse per la colonna vertebrale non stava diminuendo. Pala-
medes si era fatto scivolare gli occhiali giù per il lungo naso spigoloso
e reggeva la testa al contrario, come se stesse svuotando un salvada-
naio. Aveva addirittura puntato una lucina nel naso, nelle orecchie e
nell’orribile deformità della gola. «Non lo so» le disse. «Cosa puoi fare?»
«Tu cosa faresti se scoprissi che Camilla è un’assassina?»
«La aiuterei a seppellire il corpo» disse Palamedes con prontezza.
«Sextus.»
«Sul serio. Se Camilla volesse qualcuno morto» disse, «non mi in-
trometterei, ben lungi da me. Tutto quello che potrei fare, a quel pun-
to, sarebbe assistere al massacro e cercare uno straccio. Una carne,
una fine… e via così.»
«Oggi tutti non fanno che parlarmi di carni e di fini» disse Gideon
con un velo di tristezza.
«C’è dell’ironia, da qualche parte. Sei sicura che non ci fosse nient’al-
tro, assieme alla testa? Materia ossea, unghie, tessuti…?»
«Ho controllato. Non sono una rimbambita totale, Palamedes.»
«Mi fido di Camilla. Confido nel fatto che le sue motivazioni, nel
caso volesse porre fine alla vita di qualcuno, sarebbero logiche, mo-
rali e, probabilmente, anche a mio beneficio» disse lui, sollevando
una palpebra fragile dal bulbo oculare. «Il tuo problema, in questo
caso, è che sospetti che Harrow abbia ucciso gente per molto meno.»
«Non ha ucciso lei i Quarti o i Quinti.»
«Congetture… ma prendiamole per buone.»
«Okay, senti» disse Gideon, posando la tazza vuota accanto al ma-
terasso. «Uhm. L’impressione che ti sarai fatto ora è che la mia rela-
zione con lei sia molto più “tesa” di quanto ti saresti potuto aspetta-
re.» («Ma non mi dire» borbottò Palamedes.) «Resta il fatto che la
conosco da quando è nata. E credevo di sapere a quali estremi pote-
va spingersi, perché posso dirtelo pure gratis, si è già spinta a estre-
mi particolarmente pesanti e merdosi, e immagino che per quanto
riguarda me si sia spinta ancora più merdosamente in là, ma il pun-
to è proprio quello… sono io, Sextus. Sono sempre io. Crescendo, mi

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ha quasi ammazzata una mezza dozzina di volte, ma ho sempre sa-


puto il perché.»
Palamedes si tolse gli occhiali. La piantò, finalmente, di molestare
la testa e si tirò su, allontanandosi dal tavolo; poi si mise a sedere sul
materasso, vicino a Gideon, raccogliendo le ginocchia secche al pet-
to. «Okay. Perché?» le domandò, senza tanti giri di parole.
«Perché ho ucciso i suoi genitori» disse Gideon.
Lui non replicò. Si limitò ad aspettare e, nello spazio di quell’at-
tesa, lei raccontò. E gli parlò dell’inizio – di com’era nata, di com’era
cresciuta e di come era arrivata a diventare la prima paladina della
Nona Casa – e gli rivelò il segreto che aveva custodito per sette lun-
ghi anni tremendi.

* * *

Harrowhark aveva odiato Gideon dal primo istante in cui il suo sguar-
do l’aveva sfiorata, come tutti, d’altronde. La differenza era che, per
quanto la maggior parte delle persone ignorasse la piccola Gideon
Nav come si farebbe con una merdina a cui sono spuntate le gam-
be, la minuscola Harrow aveva individuato in lei l’oggetto della sua
tormentosa fascinazione – una preda, una rivale e un pubblico, con-
centrati in un’unica entità. E anche se Gideon detestava le monache,
detestava il Sepolcro Sigillato e detestava le macabre prozie, e più di
chiunque altro detestava Crux, bramava le attenzioni della Reveren-
da Figlia. Erano le uniche due bambine in una Casa che, a eccezione
loro, non aveva altro da fare che incancrenirsi.
Tutti si comportavano come se l’Imperatore in persona avesse re-
suscitato Harrowhark solo per portar loro gioia: era nata sana e inte-
gra, una necromante prodigiosa, una perfetta suorina penitente. Sa-
liva già all’ambone e recitava preghiere, mentre Gideon pregava a sua
volta, disperatamente, per poter un giorno arruolarsi come militare,
era stato un suo desiderio sin da quando Aiglamene – l’unica persona
che Gideon non odiava proprio sempre – le aveva rivelato che quella
possibilità esisteva. La capitana aveva cominciato a raccontarle storie
della Coorte da quando Gideon aveva all’incirca tre anni.
Quello fu probabilmente il periodo più felice della loro relazione.
Allora si scontravano con una tale sistematicità da trascorrere insie-

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me la maggior parte del tempo. I loro litigi erano sanguinosi – e Har-


row non veniva punita, mentre Gideon sì. Predisponevano trappo-
le elaborate, assedi e attacchi, e crebbero fianco a fianco, anche se, in
generale, tentando di ferirsi gravemente a vicenda.
Harrow, raggiunti i dieci anni, traboccava già di segreti. Si era stu-
fata degli antichi tomi, si era stufata delle ossa che aveva saputo evo-
care ancor prima che le crescesse una dentatura completa ed era stu-
fa di costringere Gideon a superare forche caudine di scheletri. Alla
fine, si era concentrata sull’unica cosa che le era davvero proibita: la
Porta Sigillata diventò l’ossessione di Harrow.
Non c’era una chiave per la Porta Sigillata. Forse non era mai esi-
stita una chiave per la Porta Sigillata. Non si apriva e basta. Quel che
c’era oltre la soglia avrebbe ucciso l’intruso ancor prima di riuscire
ad aprirla abbastanza da infilarcisi, e quel che c’era dopo – quello che
precedeva la tomba – gli avrebbe fatto rimpiangere di non essere già
morto, con abbondante anticipo rispetto al suo ultimo respiro. Ba-
stava anche solo menzionare quel che c’era là dentro per far crollare
le suore in ginocchio. Fugace gioia nell’esistenza di Gideon fu il fatto
che l’ingiustamente beatificata Harrowhark Nonagesimus avesse de-
ciso di scrollarsi di dosso la sua santità e di aprirla, lasciando che Gi-
deon fosse testimone dell’atto.
Tra tutti coloro che trovavano repellente Gideon Nav, spiccavano
in maniera particolare i genitori di Harrow. Erano dei freddi e infelici
necromanti della Nona Casa, della tipologia che Silas Octakiseron ri-
teneva popolasse universalmente il Drearburh: neri di cuore, poteri e
aspetto. Una volta aveva toccato il lembo delle vesti di Priamhark No-
niusvianus: lui l’aveva immobilizzata con delle mani scheletriche e fru-
stata fino a farla ululare. Fu solo per un’estrema disperazione perver-
sa che corse dritto da loro a spiattellare tutto: per rispondere a chissà
quale incomprensibile desiderio di dimostrare la sua lealtà alla Casa,
per far finire Harrow nella merda fino al collo, per farsi dare la pacca
sulla spalla che sapeva di aver meritato per aver preservato l’integri-
tà e lo spirito della Casa – le stesse precise qualità di cui la accusava-
no senza sosta di essere carente. Non provò nemmeno un pizzico di
dubbio o di colpevolezza. Solo qualche ora prima, aveva lottato con
Harrow in mezzo alla sporcizia, e Harrow l’aveva graffiata fino a ri-
trovarsi sotto le unghie una buona metà della faccia di Gideon.

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Quindi era andata a riferirglielo. E loro l’avevano ascoltata. Non


avevano detto una parola, né di lode né di censura, ma erano stati a
sentirla. Avevano convocato Harrow. E avevano ordinato a Gideon
di uscire. Era rimasta ad aspettare fuori dalle grandi porte scure dei
loro alloggi per parecchio tempo, perché non le avevano detto di an-
darsene ma solo di uscire dalla stanza, e anche perché era un vomite-
vole rifiuto di bambina che voleva godersi l’unica occasione che mai
avrebbe avuto di sentire Harrowhark messa alla graticola. Ma aspettò
un’ora intera senza sentire un accidenti di niente, figuriamoci le urla di
Harrowhark, confinata a prestare servizio all’ossario fino ai trent’anni.
E poi Gideon non riuscì più ad aspettare. Spalancò la porta ed en-
trò… e trovò Pelleamena e Priamhark che penzolavano dalle travi,
violacei e defunti. Mortus il Nono, il loro gigantesco e melodramma-
tico paladino, ondeggiava accanto a loro da un’altra trave, che scric-
chiolava sorreggendo la sua massa. E sorprese Harrowhark, che strin-
geva delle corde inutilizzate in mezzo alle sedie che i suoi genitori
avevano scalciato via, con gli occhi che sembravano tizzoni spenti.
Harrow l’aveva squadrata. Lei aveva squadrato Harrow. E nulla era
più andato per il verso giusto, mai più.

* * *

«Avevo undici anni» disse Gideon. «Ed eccomi qua, a piagnucolar-


ci ancora su.»
Palamedes non commentò. Era rimasto lì seduto e basta, ad ascoltar-
la con solennità, come se gli avesse illustrato un nuovo tipo di rivolu-
zionario teorema necromantico. Ben lontana dal sentirsi redenta dalla
sua confessione improvvisata, Gideon si sentiva anzitutto il contrario:
sporca e infangata, tremendamente vulnerabile, come se si fosse sbot-
tonata il petto e gli avesse concesso di dare una lunga occhiata a quello
che aveva sotto le costole. Era un sacco di spazzatura, dal collo all’om-
belico. Era imbottita di muffa secca e polverosa. Se la portava dentro
da quando aveva undici anni, con la consapevolezza che, finché fosse
rimasta legata alla Nona Casa, non sarebbe mai riuscita a farla sparire.
Gideon fece un lungo respiro, e poi un altro.
«Harrow vuole diventare Littrice» disse. «Farebbe qualsiasi cosa
pur di diventare Littrice. Avrebbe ammazzato senza problemi il pa-

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ladino di Dulcinea se avesse pensato che la cosa poteva aiutarla a di-


ventare Littrice. Non le importa nient’altro. Ora lo so. In questi ulti-
mi giorni, certe volte ho pensato che…»
Gideon non finì la frase, ma avrebbe voluto dire: “Non fosse più la
sua unica priorità”.
Palamedes le disse con molta delicatezza: «Non dovresti aver bi-
sogno di sentirmi dire che un’undicenne non è responsabile del sui-
cidio di tre adulti fatti e finiti».
«Ma certo che sono responsabile» disse Gideon, disgustata. «Sono
stata io a farlo succedere.»
«Sì» disse Palamedes. «Se non avessi raccontato della porta ai ge-
nitori di Harrow, non avrebbero preso la decisione di porre fine alle
loro vite. L’hai causato, è incontestabile. Ma quello di causa è di per
sé un concetto vuoto. Scegliere di alzarsi al mattino, scegliere una co-
lazione calda al posto di una fredda, scegliere di metterci trenta se-
condi in meno o in più per fare qualcosa sono scelte che causano ogni
genere di accadimento. Ma non te ne rendono responsabile. Eccoti
una confessione: ho ucciso Magnus e Abigail.»
Gideon sgranò gli occhi.
«Se appena sbarcato dalla navetta» disse spensierato il pluriomicida
improvvisamente confesso, «avessi afferrato il pugnale di Cam e l’a-
vessi ficcato in gola a Maestro, forse la competizione per il Littorato
non sarebbe mai iniziata. Ci sarebbe stata una sollevazione. Sarebbe
arrivata la Coorte e io sarei stato portato via, e tutti gli altri sarebbero
stati rispediti a casa loro, al sicuro. Visto che non ho ucciso Maestro,
la competizione è partita e, visto che la competizione è partita, Ma-
gnus Quinn e Abigail Pent sono morti. Quindi: sono stato io. È col-
pa mia. Ti chiedo soltanto di farmi trovare in cella qualche penna e
un po’ di veline, in modo da poter cominciare la mia autobiografia.»
Gideon sbatté le palpebre un altro paio di volte. «No, frena un at-
timo. È una stupidaggine, non sono la stessa cosa.»
«Non vedo perché no» disse il necromante. «Abbiamo entrambi
preso delle decisioni che hanno prodotto eventi infausti.»
Lei si massaggiò l’attaccatura del naso. «Octakiseron ha detto che
voialtri vi divertite a incasinare il significato delle parole.»
«L’Ottava Casa ritiene che ci sia un giusto e che ci sia uno sbaglia-
to» disse stancamente Palamedes, «e grazie a una serie di coincidenze

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propizie, loro finiscono sempre per essere nel giusto. Senti, Nav. Hai
fatto la spia alla tua nemesi d’infanzia per metterla nei guai. Non hai
ucciso i suoi genitori e lei non dovrebbe odiarti come se l’avessi fatto
davvero, e tu non dovresti odiarti come se l’avessi fatto.»
La stava sbirciando da dietro gli occhiali. «Ehi» obiettò lei debol-
mente, «non ho mai detto che mi odio.»
Goffo, e anche un po’ brusco, le prese la mano. Gliela strinse. Era-
no entrambi in ovvio imbarazzo, ma Gideon non lo lasciò andare
– nemmeno quando si mise a frugare nella tasca del mantello con
l’altra mano, e nemmeno quando gli porse il pezzo di velina accar-
tocciata che la destabilizzava ormai da parecchio tempo.
Lui lo aprì e lesse senza palesare reazioni. Lei gli strinse ancora la
mano come per sancire un giuramento, o una minaccia.
«Arriva da un laboratorio Littorio» le disse alla fine. «Vero?»
«Già» ammise lei. «È… voglio dire… è autentico?»
Lui la guardò. «Ha quasi diecimila anni, se è quello che intendi.»
«Be’, io no» disse. «Quindi… ma che cazzo è?»
«La domanda definitiva» concordò lui, tornando a concentrarsi sulla
velina. «Posso prenderlo in prestito? Vorrei esaminarlo come si deve.»
«Non mostrarlo a nessun altro» disse Gideon, senza capirne dav-
vero il motivo. C’era qualcosa, nel fatto che il suo nome fosse scritto
su quell’antico pezzo di spazzatura, che le pareva pericoloso quanto
una granata. «Non sto scherzando. Deve rimanere tra noi.»
«Te lo giuro sulla mia paladina» disse lui.
«Non puoi farlo vedere neanche a lei…»
Vennero interrotti da sei colpi brevi alla porta, seguiti da sei lun-
ghi. Entrambi scattarono in piedi per smantellare l’intricato reticolo
di lucchetti. Camilla entrò e, insieme a lei, dritta e calma, c’era Har-
row. Per un folle istante, Gideon si convinse che lei e Camilla si stes-
sero tenendo per mano e che, quel giorno, c’era stata un’immensa
impennata di palpeggiamenti intercasa fra mani, ma poi si rese con-
to che erano ammanettate insieme. Camilla non era fessa, anche se
il come fosse riuscita ad ammanettare Harrow sarebbe stato un rac-
conto dell’orrore da destinare a un altro giorno.
Gideon non la guardò, e Harrow non guardò Gideon. Gideon por-
tò lentamente la mano alla spada, ma per niente. Harrow stava fis-
sando Palamedes.

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Si aspettava praticamente di tutto, ma non si aspettava che lui le


dicesse…
«Nonagesimus, perché non me l’avete detto?»
«Non mi fidavo di voi» gli rispose, con semplicità. «In origine, la
mia teoria era che foste stato voi. Septimus da sola non sarebbe sta-
ta in grado e non mi sembrava troppo azzardato ipotizzare che ste-
ste lavorando insieme.»
«Mi crederete se vi dico che non è così?»
«Sì» gli disse, «perché se foste così bravo avreste già ucciso la mia
paladina. Non intendevo neanche fargli del male, Sextus, la testa è
cascata appena l’ho spinto.»
Cosa?
«Allora si va» disse Palamedes. «Raduniamo tutti. Parliamo con
lei. Ho chiuso con le conversazioni al buio, o con chi dubita delle
mie intenzioni.»
Gideon commentò, inerme: «Che qualcuno mi illumini, sono solo
una povera paladina» ma nessuno le prestò il benché minimo strac-
cio di attenzione, che diamine, anche se la sua mano era minaccio-
samente posata sulla spada. Harrow la stava ignorando in favore di
Palamedes, e stava dicendo: «Non ero certa che avreste accettato di
spingervi così in là, nemmeno per la verità».
Palamedes la squadrò con un’espressione grigia e rarefatta quanto
l’oceano fuori dalla finestra.
«Allora non mi conosci, Harrowhark.»

* * *

Si ammassarono tutti nella stanzetta d’ospedale di Dulcinea: c’erano


loro e il sacerdote coi capelli sale e pepe che nel frattempo era usci-
to alla chetichella, come se vederli rocciosamente allineati nella ca-
mera l’avesse terrorizzato. L’intera gang si era presentata alla festa.
Palamedes aveva convocato tutti i sopravvissuti e, considerando l’in-
teresse generalizzato a uccidersi a vicenda, il solo fatto che si fosse-
ro presi la briga di venire era già un mezzo miracolo. La Seconda si
piazzò contro la parete, le giubbe molto meno stropicciate dei loro
visi; Ianthe e Coronabeth, scocciate, si erano sedute in un groviglio
reciproco di ginocchia, con il paladino alle loro spalle, poco distan-

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te. Silas era in piedi sulla porta, Colum dietro di lui e se qualcuno
avesse voluto eliminarli tutti, in quell’istante, sarebbe bastato chiu-
dere la porta e lasciare che la brillantina di Naberius Tern li asfis-
siasse dal primo all’ultimo. Sembrava strano che quello fosse ciò che
restava di tutti loro.
La necromante della Settima Casa era sorretta da un agglomera-
to di cuscini paffuti e appariva calma e trasparente. Le spalle erano
scosse da ogni respiro stridulo, ma i capelli erano acconciati alla per-
fezione e la camicia da notte era di una vezzosità da incubo. Teneva
in grembo la scatola che conteneva la testa di Protesilaus e, quando
la tirò delicatamente fuori – del tutto intatta, come se fosse anco-
ra vivo – si udirono svariate inspirazioni brusche. Non da parte sua.
«Il mio povero ragazzo» disse Dulcinea, sincera. «Ora non riuscirò
più a rimetterlo insieme. Chi è stato a farlo a pezzi? È un disastro.»
Palamedes giunse le punte delle dita e si sporse in avanti, con gra-
ve determinazione.
«Lady Septimus, Duchessa di Rhodes» le disse, con grande forma-
lità, «vi sottopongo, di fronte a tutti i presenti, il fatto che quest’uomo
era morto prima ancora del vostro arrivo, via navetta, alla Prima Casa,
e che appariva vivo solo grazie a un potente sortilegio corporale.»
Seguì un immediato brusio, che non si placò nemmeno di fronte ai
suoi gesti impazienti di fate silenzio e agli occhiali che vennero spin-
ti con foga su per il naso. Tra i mormorii collettivi, la cadenza stra-
scicata e acida di Ianthe Tridentarius fu la più sonora: «Be’, è l’unica
roba interessante che è riuscita a fare».
Quasi altrettanto veemente fu la Capitana Deuteros: «Impossibi-
le. È stato con noi per settimane».
«Non è affatto impossibile» disse Dulcinea. Era rimasta a fissare,
serissima, gli occhi torbidi di Protesilaus, come se stesse cercando
qualcosa, per poi riappoggiarsi la testa in grembo. «Sono anni, anni
e anni che la Settima Casa perfeziona l’arte del cadavere illusorio. È
solo che… non è del tutto consentito.»
«È sacrilego» commentò Silas, categorico.
«Lo stesso può dirsi del sifonaggio dell’anima, figlio mio» gli disse
lei, con un tono di deliberata dolcezza celestiale. «E non è sacrilego:
è assolutamente utile e innocuo; ma non quando lo si fa così, seguen-
do i più antichi metodi, tutto qua. I Settimi non sono solo mummi-

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ficatori e paralizzatori di anime. Sì, Pro era morto ancora prima che
atterrassimo.»
Gideon disse, categorica almeno quanto Silas: «Perché?».
I giganteschi occhioni blu fiordaliso si posarono su Gideon come
se fosse l’unica persona nella stanza. Non contenevano la minima
derisione, in quel caso Gideon si sarebbe probabilmente messa a ur-
lare. All’improvviso, la necromante morente sembrò vecchia come
non mai; non era una faccenda di rughe, ma riguardava la totale di-
gnità e la calma con cui se ne stava seduta lì, nella serenità più totale.
«Questa competizione ha colto di sorpresa la mia Casa» disse, bal-
danzosa. «Lasciate che vi racconti la storia. Gideon la Nona, Dulci-
nea Septimus non avrebbe mai dovuto essere qui… avrebbero prefe-
rito che rimanesse a riposo a casa sua, per spremerle altri sei mesi. È
un’antica usanza della Casa. Ma non c’era un altro erede necromanti-
co. E c’era un ottimo primo paladino… quindi, anche se solo un brut-
to raffreddore separava l’erede necromantica da un completo collas-
so polmonare… si ritenne che lui sarebbe riuscito a controbilanciare.
Ma poi ha avuto un incidente.»
Dulcinea scompigliò i capelli spenti della testa mozzata con la pun-
ta delle dita, poi li appiattì di nuovo, come se fossero quelli di una
bambola. «Per ipotesi. Se voi foste la Settima Casa, e il vostro destino
ora dipendesse da due salme, una che respira un pochino più dell’al-
tra, non prendereste in considerazione anche voi qualcosa di invero-
simile? Imboccando, per dire, la via del cadavere illusorio, nella spe-
ranza che nessuno noti che la vostra Casa è già clinicamente morta?
Mi dispiace di avervi ingannato, ma non mi pento di essere venuta.»
«I conti non tornano.»
Harrow era rigida come il cemento, gli occhi grandissimi, cupi e –
nonostante solo Gideon potesse intuirlo – anche molto agitati. «L’in-
cantesimo a cui vi riferite non è alla portata di un necromante co-
mune, Septimus. Impossibile per un necromante nel pieno delle sue
forze, figuriamoci per una donna morente.»
«Una donna morente è la necromante perfetta» disse Ianthe.
«Quanto vorrei poter sradicare questa convinzione. Almeno per
gli ultimi dieci minuti» disse Palamedes. «Tecnicamente, il fatto che
il processo di avvicinamento alla morte potenzi la tua necromanzia è
viziato considerevolmente dal fatto che non puoi fartene un bel nien-

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te. Avrai anche la possibilità di accedere a una personalissima scor-


ta di thanergia, ma dal momento che tutti i tuoi organi stanno smet-
tendo di funzionare…»
«Non è possibile» insisté Harrow, le parole le uscirono di bocca
dure e concise.
«Sembrate saperla lunga in materia. Be’, lascerò che siate voi stessa
a valutare: non sarebbe possibile se tutti i reggenti della Settima Casa»
disse Dulcinea con calma, «adepti della morte perfetta – un segreto
mistico della Settima Casa, un segreto che custodiamo da un’eterni-
tà – lavorassero insieme?»
«Forse all’inizio, ma…»
«Re Imperituro!» esclamò Silas, con supremo disgusto. «Si tratta
di una cospirazione.»
«Oh, ma piantiamola» disse Dulcinea. «So tutto di voi e della vo-
stra Casa, Maestro Silas Octakiseron… l’Imperatore in persona non
si è mai preso il disturbo di esprimere un parere avverso alla pratica
del cadavere illusorio, ma ha dichiarato invece che il sifonaggio è la
cosa più pericolosa mai concepita da una delle Case, e che andrebbe
fatta solo con il sifonatore in manette.»
«Ciò non mitiga la punizione destinata a chi compie una trasgres-
sione necromantesca…»
«Non mi interessa applicare la sacra giustizia alla lettera» disse a
brutto muso la Capitana Deuteros. «So che quella è una prerogativa
dell’Ottava Casa. Allo stesso tempo, però, Maestro Octakiseron, ora
non ce lo possiamo permettere.»
«Una donna che si è resa complice di questo genere di magia» dis-
se Silas, «potrebbe essersi resa complice di qualunque cosa.»
La donna che si era resa complice di quel genere di magia e che,
dunque, avrebbe potuto rendersi complice di qualunque cosa aprì la
bocca per controbattere, ma venne invece squassata da un accesso di
tosse che sembrò partirle dalle dita dei piedi. Inarcò la spina dorsale;
belò e poi cominciò a morire per umidiccia asfissia. La faccia le di-
ventò così grigia che, per un istante, Gideon si convinse che l’Ottava
Casa le stesse facendo qualcosa, ma invece della sua anima risucchia-
ta all’esterno si trattava piuttosto di un blocco di catarro. Palamedes
andò a soccorrerla, accompagnato da Camilla. Lui la girò sul fianco
e lei le cacciò le dita in bocca, con un movimento orribile e compli-

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cato. La testa che teneva in grembo rotolò via e fu afferrata soltanto


grazie ai riflessi fulminei della Principessa Ianthe, che la resse con le
mani a coppa come se fosse una farfalla esotica.
«Che cosa volete, Octakiseron?» disse la capitana alla luce di tut-
to ciò, impassibile. «Il confinamento in questa stanza? Una condan-
na a morte? Entrambi appaiono insolitamente semplici da mettere in
pratica, in questo caso.»
«Comprendo il vostro punto di vista» disse Silas. «Ma non lo con-
divido. Mi congedo, Signora. Nulla di tutto questo mi preme più.»
L’uscita di scena venne interrotta dal suo paladino, più marronci-
no e smunto che mai, fermo tra lui e la porta. Colum non sembrava
essersi veramente accorto del tentativo di congedarsi del suo necro-
mante. «La fornace» disse bruscamente. «Se abbiamo la sua testa,
che cosa c’è nella fornace?»
Dulcinea, grigia e scossa dagli spasmi, riuscì a malapena a pronun-
ciare: «Che cos’avete trovato nella for-for-for…», prima che Palamedes
le mollasse una pacca sulla schiena e, a quel punto, le facesse espelle-
re con un colpo di tosse quel che somigliava molto a un ammasso di
rametti sanguinolenti. La Terza si girò dall’altra parte.
La Capitana Deuteros non lo fece: forse aveva visto di peggio. Ri-
volse un cenno alla sua luogotenente, che senza troppe cerimonie
aveva rimosso la testa dallo sguardo affascinato di Ianthe e la stava
riponendo nella scatola come se fosse un pasto indesiderato. La capi-
tana si avvicinò a Harrow e Gideon, e domandò: «Chi l’ha trovato?».
«Io» disse Harrow, evitando con disinvoltura di fornire dettagli sul
come. «Ho preso la testa perché non avevo la possibilità, nell’imme-
diatezza, di trasferire il corpo. Il corpo è successivamente scomparso,
grazie a forze sconosciute, anche se nutro i miei sospetti. Il teschio è
mio per diritto di ritrovamento…»
«Nona, la testa finirà in obitorio, dove è destinata a rimanere» dis-
se la capitana. «Non ci sono diritti sulle carogne in caso di omicidio,
e oggi non sarà di sicuro il giorno in cui consentirò alla vostra Casa
di prendere ossa che non le appartengono.»
«Concordo con Judith» disse Corona. Si era scansata la gemella
dalla coscia e non aveva una splendida cera. Aveva un aspetto inso-
litamente stanco e provato, nonostante riuscisse a mascherarlo gra-
zie alla dolcezza meditabonda dei solchetti lievi che le incorniciavano

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gli occhi e la bocca. «Oggi non sarà di certo il giorno in cui ci met-
teremo a usare i corpi degli altri. Ma nemmeno domani, o mai. Non
siamo dei barbari.»
«Prepotenza pura» commentò sua sorella senza rivolgersi a nes-
suno in particolare. «Certa gente farebbe di tutto per metterti i pie-
di… in testa.»
La ignorarono tutti, persino Gideon, che si sorprese a tremare come
una foglia. Harrowhark si limitò a ribattere: «Le ossa nella fornace re-
stano comunque mie, per l’identificazione».
«Potete adoperare l’obitorio come desiderate» disse la capitana, in
tono liquidatorio. «Ma i corpi non sono di vostra proprietà, Reveren-
da Figlia. Lo stesso vale per il Guardiano, e vale anche per tutti gli al-
tri. Sono stata chiara, o devo ripeterlo?»
«Intesi» disse Palamedes.
«Intesi» disse la Reverenda Figlia, con l’aria di una che non aveva
inteso affatto e nemmeno era intenzionata a farlo.
Silas non se n’era ancora andato.
«In questo caso» disse, «il dovere mi obbliga a vegliare sull’obitorio,
semmai la Nona dimenticasse le norme che definiscono il vilipendio
di cadavere. Prenderò io i resti. Potrete trovarmi là.»
La Capitana Deuteros non roteò neanche gli occhi. Fece cenno alla
sua luogotenente, che gli consegnò la scatola: Silas la prese, con una
lieve smorfia, e la passò a suo nipote. Accaparratisi il macabro cari-
co, finalmente si voltarono e se ne andarono. La Terza aveva già co-
minciato a battibeccare…
«Aveva un’aria strana, l’ho sempre detto io» fece il paladino.
«Non hai mai detto niente del genere» disse la prima gemella.
«Ma mai e poi mai, proprio» disse la seconda gemella.
«Scusatemi tanto, invece sì…»
Nel bel mezzo di quel bisticcio intestino, la Capitana Deuteros si
schiarì la gola. «Qualcun altro vuole approfittare di quest’opportuni-
tà per dichiarare di essere già morto, o di essere un costrutto di car-
ne… o qualche altra entità rilevante? Nessuno?»
Con grande delicatezza, Palamedes stava pulendo la bocca di Dul-
cinea con un panno bianco. Le posò una mano sul collo. Lei era im-
mobile. Il suo viso aveva ora la tenue sfumatura azzurrino-candida
del latte della Casa di Canaan e, per un momento, Gideon si aspettò

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che Palamedes inserisse Dulcinea in maniera esplicita nella lista dei


già morti. Decidere di andarsene davanti a un pubblico, con la piega
fatta e con i suoi miserabili segreti rivelati sarebbe stato da lei. Ora
sapeva che Dulcinea era sempre stata sola e che aveva portato il peso
di una farsa ancor più grande di quella di Gideon, ben conscia che le
possibilità non fossero a suo favore. La necromante morente, però,
risucchiò l’aria in un improvviso respiro rantolante e tutto il suo cor-
po venne sollevato da uno spasmo, come un palloncino che scoppia.
Il cuore di Gideon ricominciò a battere. Prima che potesse muoversi,
Palamedes era già là e, con una terribile tenerezza – come se in quel-
la stanza o nel mondo intero ci fossero solo loro due – baciò il dor-
so della mano di Dulcinea.
Gideon distolse lo sguardo, arrossendo di una vergogna che decise
di non sviscerare, e notò Maestro sulla porta, con le mani giunte sulla
sgargiante fusciacca color arcobaleno. Nessuno l’aveva sentito entrare.
«Magari più tardi, Lady Judith» disse lui.
Lei ribatté: «Dovete mettervi in contatto con la Settima Casa e fare
in modo che venga rimpatriata. È fuori questione, sia dal punto di vi-
sta morale che legale, lasciarla qui così. Sono stata chiara?».
«Non posso» disse Maestro. «Nella Casa di Canaan c’è sempre stato
un unico canale di comunicazione, mia Signora… e non posso usar-
lo per chiamare la sua Casa. Non ho potuto chiamare la Quinta, né
la Quarta, e ora nemmeno la Settima. Fa parte del sacro silenzio che
manteniamo. Tutto questo avrà una conclusione, e i conti verranno
regolati… ma Lady Septimus resterà con noi fino alla fine.»
L’adepta della Seconda si immobilizzò di botto. Per un istante, Gi-
deon pensò che avrebbe perso le staffe – per quanto ben abbottonate
potessero essere. Ma inclinò il capo bruno e disse: «Luogotenente?».
«Pronta» disse Marta la Seconda, e uscirono entrambe a passo di
marcia come se fossero in formazione da parata. Non si girarono nem-
meno a guardare il resto degli occupanti della stanza.
Maestro osservò il quadro che aveva davanti: il letto, il sangue, la
Terza. Palamedes, con le dita ancora intrecciate a quelle di Dulcinea
e Dulcinea priva di sensi.
«Quanto tempo resta a Lady Septimus?» domandò. «Non riesco
più a stabilirlo.»
«Giorni. Settimane, se siamo fortunati» disse Palamedes, schietto.

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Sul letto, Dulcinea emise un minuscolo singulto, una specie di miscu-


glio tra una risatina e un sospiro affranto. «A patto di lasciare le fine-
stre aperte e di tenerle sgombre le vie respiratorie. Respirare l’aria di
ricircolo a Rhodes deve averle tolto una decina d’anni di vita, proba-
bilmente. È rimasta in bilico sull’orlo del precipizio senza imbocca-
re né l’una né l’altra direzione – questa donna ha la resistenza di una
macchina a vapore – e tutto quello che possiamo fare è gestire la sua
sofferenza e capire se deciderà o meno di superarla.»
Harrow gli disse, piano: «Il disfacimento dell’impianto corporeo
del paladino avrebbe dovuto ucciderla. Il suo organismo deve aver
subito uno shock incredibile».
«Dividerlo tra una molteplicità di evocatori può aver diluito il
feedback.»
«Non funziona così, ma neanche alla lontana» disse Ianthe.
«Oh, Dio santo, ecco qua l’esperta» commentò Naberius.
«Babs» disse la sorella di Ianthe in fretta e furia, «ti è venuta fame.
Andiamo a cercare qualcosa da mangiare.»
Gideon osservò la sua necromante che fissava Ianthe Tridentarius.
Ianthe non se ne accorse, o fece finta di non accorgersene; le sue pu-
pille erano pallide, violette e calme come sempre, ma Harrowhark
tremava come un vermiciattolo accanto a una papera morta. Mentre
la Terza si trasferì fuori – rumorosa come se stesse lasciando un tea-
tro dopo lo spettacolo e non la camera di un’ammalata – lo sguardo
di Harrow la seguì. Gideon esclamò: «Hey, Palamedes. Ti serve qual-
cuno che resti qua con lei?».
«Ci penserò io» disse Maestro, prima che Palamedes potesse ri-
battere. «Sposterò il mio letto qui. Non la lascerò più sola. Ogni volta
che dovrò allontanarmi dalla mia postazione, uno degli altri sacerdo-
ti mi sostituirà. È il minimo che io possa fare… non ho paura, e non
ho nemmeno un modo migliore con cui impiegare il mio tempo. Al
contrario di voi… temo.»
Gideon si concesse un’occhiata nostalgica a Dulcinea, che in quali-
tà di cadavere illusorio se la cavava molto meglio di quanto mai aves-
se fatto quel marmittone del suo paladino defunto: distesa sul letto, il
colorito quasi trasparente, il mento striato di muco sanguinolento se-
misecco. Voleva aiutarla, ma con la coda dell’occhio vide Harrow var-
care la soglia e spostarsi in corridoio – stava seguendo con lo sguardo

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i Terzi, in via di allontanamento –, al che si fece forza e disse: «Al-


lora noi andiamo. Puoi… farcelo sapere, nel caso cambi qualcosa?».
«Vi farò chiamare» disse Maestro con gentilezza.
«A posto. Palamedes…»
Lui la fissò. Si era tolto gli occhiali e li stava pulendo con uno dei
suoi innumerevoli fazzoletti.
«Nona» le disse, «se fosse davvero capace di tutto pur di diventa-
re Littrice, non credi che ci sarebbe già riuscita? Se volesse davve-
ro veder bruciare il mondo, non saremmo già tutti quanti arrosto?»
«Smettila di fare così il complimentoso con lei. Ma… grazie» dis-
se Gideon, e si precipitò fuori in corridoio, da Harrow.

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In corridoio, la sua necromante era intenta a os-
servare in lontananza, giù per il vestibolo, gli orli delle vesti dei Terzi
che si facevano sempre più piccoli: le sopracciglia aggrottate le ave-
vano scavato un solco nelle pitture. Gideon avrebbe voluto… avrebbe
voluto fare un sacco di cose; ma Harrow non lasciò il minimo spira-
glio alle azioni che aveva pianificato e non le offrì nessuna delle ri-
sposte che stava cercando. Si limitò a girarsi, in un frusciare di pa-
landrane scure, e a dirle: «Seguimi».
Gideon si era preparata in anticipo una scarica di vaffanculo così
lunga e tonante da proiettare Harrow dritta sul patibolo; ma poi Har-
row aggiunse: «Per favore».
Quel per favore convinse Gideon a seguirla in silenzio. Si era all’in-
circa aspettata che Harrow esordisse con un “Che cosa stavi facen-
do nel mio armadio?” al che Gideon l’avrebbe scrollata fino a far tic-
chettare tutti i denti di cui disponeva – sia quelli ficcati nel cranio
che quelli che teneva in tasca. Harrowhark fece i gradini a due a due,
con le travi che scricchiolavano dal panico, mentre entrambe scen-
devano per la maestosa scalinata che portava all’atrio: da lì, un cor-
ridoio, un altro, una svolta a sinistra e poi giù per la rampa che con-
duceva alla sala d’addestramento. Harrow ignorò la tappezzeria che
le avrebbe condotte al passaggio nascosto e al laboratorio Littorio
saccheggiato dov’era morta Jeannemary e spalancò, invece, le gran-
di porte scure della piscina.
Una volta lì, si cavò di tasca due nocche sudicie e le buttò a ter-
ra. Da ciascuna sorse uno scheletro cospicuo. Si piazzarono davan-
ti alla porta, a braccetto, e la tennero chiusa. Harrow seminò un’al-

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tra manciata di frammenti che parevano granaglie sbiadite; sorsero


altri scheletri, creando ed espandendo l’osso come se ne ribollissero
fuori. Si sistemarono come un perimetro lungo i lati della stanza, fa-
cendo aderire le nodose colonne vertebrali alle vecchie piastrelle di
ceramica e mettendosi sull’attenti. Rimasero lì, spalla contro spalla,
come guardie del corpo o inquietanti chaperon.
Harrow si voltò verso Gideon. Aveva lo sguardo nero e inesorabi-
le di un collasso gravitazionale.
«È arrivato il momento…»
Fece un respiro profondo; e poi slacciò i fermagli dei suoi manti,
che le scivolarono giù dalle spalle esili raccogliendosi come pozzan-
ghere sul pavimento, attorno alle sue caviglie.
«… di raccontarti tutto» le disse.
«Oh, Signore ti ringrazio» disse Gideon, isterica, profondamente
imbarazzata dall’accelerazione che aveva subito il suo battito cardiaco.
«Chiudi il becco ed entra in piscina.»
La cosa la spiazzò a tal punto che non si disturbò a discutere, o a la-
mentarsi, o nemmeno a tentennare. Gideon si sbottonò il mantello e
il cappuccio e si levò le scarpe, si sbarazzò dello stocco e della cintura
a cui teneva allacciato il guantone. Harrow pareva pronta ad affron-
tare le ondine verdastre con i pantaloni e la camicia, quindi Gideon
ne dedusse un “Oh, pace, chi se ne frega” e si tuffò quasi completa-
mente vestita. Ci saltò dentro temeraria: un maremoto esplose verso
l’esterno al suo passaggio, tempestando di goccioline i rivestimenti
laterali di pietra della piscina, sbatacchiando e schiumando. La sensa-
zione inopportuna e disdicevole dell’acqua che le inzuppava la bian-
cheria intima la investì tutto d’un colpo. Gideon tossicchiò e cacciò la
testa sotto, sputando poi una sorsata di liquido caldo come il sangue.
Dopo un attimo di riflessione, entrò anche Harrow: superò il bor-
do con noncuranza, sprofondando sott’acqua come un lindo coltello
nero. Scomparve sotto la superficie e poi riemerse, boccheggiando e
gorgogliando in un modo che rovinò del tutto quell’ingresso trionfa-
le. Si piazzò di fronte a Gideon, mantenendosi a galla e agitando un
po’ le braccia prima di riuscire a toccare il fondo con i piedi.
«Siamo qua dentro per un motivo?»
Le loro voci riecheggiavano.
«La Nona Casa ha un segreto, Nav» disse Harrow. Il suo tono era

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calmo, misurato e sincero come mai era stato. «Solo la mia famiglia
ne è al corrente. E persino noi non potevamo mai discuterne, a meno
che – è una regola che ha stabilito mia madre – non ci trovassimo
immersi in acqua salata. Avevamo un’apposita vasca cerimoniale, na-
scosta dal resto della Casa. Era fredda e profonda e ho detestato ogni
istante che ho passato là dentro. Ma mia madre è morta, e penso – se
davvero sto per tradire il più sacro fra i patti di fiducia della mia fami-
glia – di aver almeno il dovere di preservare, intatta, la sua regola.»
Gideon sbatté le ciglia.
«Oh, cazzo» le disse. «Fai sul serio. Per davvero. Ci siamo.»
«Ci siamo» concordò Harrowhark.
Gideon si passò entrambe le mani fra i capelli e rivoletti d’acqua
le scivolarono giù per la nuca, fino al colletto fradicio. Alla fine, tut-
to quello che riuscì a chiederle fu: «Perché?».
«Le ragioni sono innumerevoli» disse la necromante. Le sue pit-
ture si stavano squagliando nell’acqua; somigliava al ritratto grigia-
stro di uno scheletro sciolto. «All’inizio intendevo rendertene parte-
cipe, almeno in parte. Una versione edulcorata. Ma poi hai rovistato
nel mio armadio… se ti avessi riferito i miei sospetti a proposito del
fantoccio di carne di Septimus il primo giorno, nulla di tutto questo
sarebbe mai accaduto.»
«Il primo giorno?»
«Griddle» disse Harrow, «non ho manovrato i miei genitori come
dei burattini per cinque anni senza imparare niente.»
A quel punto la rabbia si fece strada in Gideon insieme a un altro
paio di litri d’acqua salata. «Ma perché diavolo non me l’hai detto,
quando l’hai ucciso?»
«Non l’ho ucciso io» disse Harrowhark, seccamente. «È stato qual-
cun altro: una lama gli ha trapassato il cuore, per quel che ho potuto
constatare, anche se ho avuto solo un paio di minuti a disposizione
per osservarlo prima di dover scappare. È stato necessario forzare il
teorema solo a un livello molto basilare perché si disfacesse. Ho pre-
so la testa e me ne sono andata quando mi è sembrato di sentir ar-
rivare qualcuno. È successo la notte successiva alla sfida del campo
entropico.»
«No, mostro che non sei altro» le disse Gideon, freddamente. «Quel
che intendo è perché non mi hai detto che l’avevi ucciso, prima di

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spedire Jeannemary Chatur e il suo necromante giù nel complesso a


cercare un tizio che stava già in una scatola nel tuo armadio? Perché
non ti sei fermata un secondo a pensare, che ne so: “Ma magari non
mandiamo due bambini laggiù a farsi maciullare da una creatura gi-
gante fatta di ossa”.»
Harrow espirò.
«Mi sono fatta prendere dal panico» le disse. «In quel momento ero
convinta di aver spedito te in un vicolo cieco e che il vero pericolo fos-
sero Sextus e Septimus; uno dei due avrebbe potuto tenderti un’imbo-
scata e l’unica soluzione ragionevole era che fossi io a occuparmi di
entrambi. Al tempo mi era anche sembrata una soluzione elegante.»
«Nonagesimus, non dovevi fare altro che prendere tempo, dirmi
che stavi sfasando. Dovevi spiegarmi che il paladino di Dulcinea era
un uomo-fantoccio…»
«Avevo ragione di credere» disse Harrow, «che ti saresti fidata più
di lei che di me.»
Quella risposta indusse il viso di Gideon a contorcersi, producendo
la sua migliore espressione da ma che cazzo, mi stai prendendo per il
culo? Di fronte a lei, Harrow si passò i pollici sulla fronte, rimuoven-
do un’altra cospicua porzione di scheletro.
«Credevo che fossi compromessa» proseguì con un certo astio. «Ho
pensato che tu avresti pensato che avevo smantellato il fantoccio per
pura cattiveria e che saresti andata subito a dirlo alla Settima. Vole-
vo fare abbastanza ricerca da poterti presentare delle prove inequi-
vocabili. Non avevo idea di quali sarebbero state le conseguenze per
la Quarta Casa. La Nona ha contratto con loro un debito sanguinoso
e il prezzo da pagare è rovinoso, per me. Io… io non volevo farti del
male, Griddle! Non volevo turbare il tuo… equilibrio.»
«Harrow» disse Gideon, «se il mio cuore avesse i coglioni tu lo
prenderesti a calci.»
«Non volevo alienarti ancora di più di quanto non avessi già fatto.
E poi ho avuto l’impressione che… avessimo raggiunto un terreno co-
mune» disse Harrow, più impacciata di come Gideon non l’avesse mai
vista. Era come se stesse saccheggiando tutti i cassetti del suo cervel-
lo nel tentativo di trovare le parole giuste da indossare. «Il nostro…
noi… era tutto troppo fragile per metterlo a repentaglio. E poi…»
Troppo fragile per metterlo a repentaglio. «Harrow» disse Gideon di

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nuovo, più piano, «se io non fossi andata da Palamedes – e ci è man-


cato poco che non ci andassi, da Palamedes – ti avrei aspettata nei no-
stri alloggi, con la spada sguainata, e ti sarei saltata addosso. Ero as-
solutamente convinta che ci fossi tu, dietro a tutta questa storia. Che
avessi ucciso Jeannemary e Isaac. Magnus e Abigail.»
«Non… io non li ho… non sono stata io» disse Harrow, «e… lo so.»
«Mi avresti ammazzata.»
«O viceversa.»
Rimase zitta, per la sorpresa. Le ondine si infrangevano delicata-
mente contro i bordi piastrellati della piscina. Gideon si diede la spin-
ta sul fondo e dondolò i piedi, su e giù, galleggiando con la camicia
gonfia d’acqua.
«Okay» disse a un certo punto. «Domande. Chi è stato a uccide-
re tutti quanti?»
«Nav.»
«Sul serio. Che cosa sta succedendo? La Casa di Canaan è infe-
stata, o che altro? Che cosa… chi ha ucciso la Quarta e la Quinta?»
Anche la sua necromante staccò i piedi dal fondo e fluttuò, per un
istante, con l’acqua salata fino al mento. Socchiuse le palpebre, me-
ditabonda. «Non saprei dirtelo» le rispose. «Mi dispiace. Non è una
pista d’indagine promettente. Dei redivivi ci stanno dando la caccia,
o fa tutto parte della competizione, o uno – o più di uno – fra noi sta
eliminando gli altri. Gli omicidi della Quarta e della Quinta potreb-
bero essere collegati, o no. I frammenti rinvenuti nelle ferite di tutti
non corrispondono, ovviamente – ma sono convinta che la loro stes-
sa struttura microscopica ci indichi una tipologia comune di costrut-
to necromantico, nonostante quanto sostenga Sextus a proposito del-
la risonanza topologica e della teoria archetipica dello scheletro…»
«Harrow, non costringermi ad annegarmi.»
«La mia conclusione: se gli omicidi sono collegati e se dietro al co-
strutto che hai visto c’è un adepto, invece che un’entità rediviva o il
complesso stesso… allora dev’essere uno di noi» disse Harrow. «Sia-
mo gli unici esseri viventi della Casa di Canaan. Il che significa che
la lista dei sospetti non può che comprendere i Tridentarii; Sextus;
Octakiseron; le Seconde; o me. E non escluderei nemmeno Maestro
e i sacerdoti. Septimus ha una specie di alibi…»
«Sì, l’essere praticamente morta» disse Gideon.

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Harrowhark proseguì, con un certo rancore: «L’ho declassata, per


certi versi. A rigor di logica, considerando abilità, cervello, e la faci-
lità con cui i due elementi possono essere combinati al servizio di un
fine, sono Palamedes Sextus e la sua paladina.» Gideon aprì la bocca
per protestare ma lei scosse la testa. «No, mi rendo conto che nes-
suno dei due abbia, come la metteresti tu, un cazzo di movente. Una
conclusione logica vale molto poco se non posso contare su tutte le
informazioni. Poi ci sono Maestro – e i laboratori Littoriali – e le re-
gole. Che senso hanno quei teoremi? Che cosa li alimenta? Perché la
quarta Paladina è stata ammazzata, mentre tu sei stata risparmiata?»
Erano tutte domande che anche Gideon aveva privatamente posto
molte volte alle ore piccole della notte, da quando Jeannemary era mor-
ta. Si abbandonò nell’acqua, immergendo le spalle finché il freddo non
le lambì il retro delle orecchie e mettendosi a fissare l’unica barra fluore-
scente appesa sopra la piscina. Il suo corpo fluttuava, senza peso, in una
pozza di luce gialla. Avrebbe potuto chiedere a Harrow qualsiasi cosa:
poteva domandarle della bomba che aveva tolto la vita a Ortus Nigenad
invece che a lei, o poteva chiederle della sua intera esistenza, del perché
si fosse verificata e per quale motivo. Invece, si ritrovò a domandarle:
«Che cosa sai del patogeno nell’impianto di aerazione che ha fatto fuori
tutti i bambini… è successo quando ero piccola, prima che tu nascessi».
Un silenzio terribile. Durò per un tempo così lungo che si chie-
se se Harrow, nel frattempo, si fosse affogata di soppiatto, finché…
«Non è successo prima che io nascessi» disse l’altra ragazza, con
un tono molto dissimile dal consueto. «O per lo meno, non sei stata
abbastanza precisa. È capitato ancora prima del mio concepimento.»
«Sei di una precisione malsana.»
«È importante. Mia madre aveva bisogno di portare a termine una
gravidanza, e il bambino doveva essere un necromante per prendere
il suo posto, ricoprendo il ruolo di vero erede del Sepolcro Sigillato.
Ma essendo entrambi necromanti, il processo si era rivelato doppia-
mente difficoltoso per loro. Non avevano neanche lontanamente ac-
cesso alle tecnologie di terapia fetale delle altre Case. Aveva già fatto
dei tentativi, fallendo. Stava diventando vecchia. Aveva un’unica pos-
sibilità, e non poteva permettersi di affidarsi al caso.»
Gideon disse: «Ma non si può controllare se hai concepito un ne-
cromante o no».

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«Sì che si può» disse Harrow. «Se possiedi le risorse e se sei dispo-
sto a pagare il prezzo che comporta utilizzarle.»
A Gideon si rizzò la peluria – bagnata – sulla nuca.
«Harrow» le disse, lentamente, «con risorse, intendi…»
«Duecento bambini» disse Harrowhark, sfibrata. «Dalle sei setti-
mane ai diciotto anni di età. Era necessario che morissero più o meno
simultaneamente, perché funzionasse. Le mie prozie hanno dosato
gli organofosfati dopo settimane di calcoli. La nostra Casa li ha pom-
pati attraverso l’impianto di condizionamento.»
Da qualche parte, sotto la piscina, un filtro emetteva un brusio ri-
succhiante, mentre riciclava i liquidi fuoriusciti. «Gli infanti da soli
hanno generato abbastanza thanergia da spazzare via l’intero piane-
ta. Con i bebè va sempre così… per qualche motivo.»
Gideon non riusciva neanche ad ascoltarla. Strinse le ginocchia al
petto e si lasciò affondare, solo per un secondo. L’acqua le sommer-
se la testa e le si insinuò tra i capelli. Le orecchie si misero a ronza-
re, per poi stapparsi. Quando si spinse di nuovo in superficie, il bat-
tito del suo cuore, che le pulsava contro le ossa del cranio, fu come
un’esplosione.
«Di’ qualcosa» disse Harrowhark.
«Bello schifo» fece Gideon con distacco. «Blah. Pessimo. Che cosa
devo dire? Che cosa cazzo posso dire di una cosa del genere?»
«Mi ha permesso di nascere» disse la necromante. «Ed ero… io.
E sono sempre stata conscia, sin da piccolissima, di come ero sta-
ta creata. Io sono esattamente duecento figli e figlie della mia Casa,
­Griddle… io sono l’intera generazione della Nona. Sono venuta al
mondo come necromante alle spese del futuro del Drearburh… per-
ché senza di me non c’è futuro.»
A Gideon si rivoltò lo stomaco, ma il suo cervello ebbe la meglio
sulla nausea.
«Perché lasciar perdere me, però?» le domandò. «Hanno ucciso il
resto della Casa, ma mi hanno esclusa dalla lista?»
Ci fu una pausa.
«Non l’abbiamo fatto» disse Harrow.
«Che cosa?»
«Eri destinata a morire, Griddle, insieme a tutti gli altri. Hai ina-
lato gas nervino per dieci minuti abbondanti. Le mie prozie sono di-

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ventate cieche solo liberandolo, ma non ha avuto il minimo effetto


su di te, anche se eri a due brandine di distanza dalla ventola. Non
sei morta e basta. I miei genitori sono rimasti terrorizzati da te per
il resto delle loro vite.»
I Reverendi Padre e Madre non l’avevano trovata innaturale a cau-
sa delle sue origini: la trovavano innaturale perché non era morta.
E tutte le monache, tutti i sacerdoti e tutti gli anacoreti del chiostro
avevano seguito il loro esempio, non conoscendone il motivo – non
sapendo che Gideon era solo un animaletto schiacciato e sventurato
che il giorno dopo era ancora vivo.
Il mondo vorticò mentre Harrow si avvicinava, fluttuando. Le riaf-
fiorò alla mente lo sguardo fermo di Pelleamena – il modo in cui tra-
passava e superava Gideon acquistò una nuova prospettiva, viran-
do dalla superbia allo sgomento. Il modo stentoreo in cui Priamhark
tratteneva il fiato, vedendola, era un’inspirazione data dall’orrore, non
dalla ripugnanza. Una bambina piccola che, per due adulti, era il ri-
cordo ambulante del giorno in cui avevano deciso di ipotecare il futu-
ro della loro Casa. Non c’era da stupirsi se aveva detestato così tanto
le immani porte scure del Drearburh: dietro a quella soglia vagava-
no gli spettri svuotati e logori di un mucchio di bambini il cui unico
peccato nella vita era stato quello di poter fungere da ottime batte-
rie. «E credi di esserne degna?» le domandò, senza tanti giri di parole.
Accanto a lei, Harrow non si scompose. «Se diventassi Littrice» le
disse, meditabonda, «e se rifondassi la mia Casa – se la rendessi di
nuovo grande, più grande di quanto sia mai stata, e se ne giustificas-
si l’esistenza agli occhi di Dio l’Imperatore – se trasformassi la mia
intera esistenza in un monumento a coloro che sono morti per assi-
curarsi che io vivessi una vita con il potere di…»
Gideon aspettò.
«Ma certo che non ne sono degna» disse Harrow, sprezzante. «Sono
un abominio. L’universo dovrebbe mettersi a urlare ogni volta che
appoggio un piede per terra. Per il peccato necromantico commesso
dai miei genitori avrebbero già dovuto spararci nel nucleo di Domi-
nicus. Se una qualsiasi delle altre Case venisse a sapere quello che ab-
biamo fatto, ci spazzerebbero via dall’orbita senza pensarci due vol-
te. Io sono un crimine di guerra.»
Si alzò in piedi. Gideon osservò l’acqua salata che le scivolava, come

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un velo, giù per le spalle, i capelli erano un nero caschetto bagnato che
le aderiva al cranio, la pelle riluceva del grigiore verdino delle onde.
Tutta la pittura si era dissolta e Harrowhark le apparve esile e mal-
concia, non più grande di Jeannemary Chatur.
«Ma lo rifarei» disse il crimine di guerra. «Lo rifarei, se dovessi. I
miei genitori l’hanno fatto perché non esisteva un altro modo, e nean-
che lo sapevano. Nella loro discendenza di sangue doveva esserci un
necromante, Nav… perché solo un necromante può aprire il Sepol-
cro Sigillato. Solo un potente necromante può scostare la pietra… e
ho scoperto che solo il necromante perfetto può oltrepassare quelle
barriere e sopravvivere, e può accostarsi al sarcofago.»
Le dita dei piedi di Gideon fecero presa e si alzò, con l’acqua che
le arrivava al petto e la pelle d’oca per il freddo. «E le preghiere sulla
tomba che deve restare chiusa per sempre e la roccia che non deve
mai essere spostata che fine hanno fatto?»
«Nemmeno i miei genitori sono riusciti a capirlo, ed è per quello
che sono morti» disse Harrowhark. «È per quello che, quando hanno
saputo che l’avevo fatto – che avevo scostato la pietra e che ero en-
trata nel monumento e che avevo visto dov’è sepolto il corpo – han-
no pensato che avessi tradito Dio. Lo scopo del Sepolcro Sigillato è
di dare dimora all’unico vero nemico del Re Imperituro, Nav, un’en-
tità più vecchia del tempo, il costo della Resurrezione; la bestia che
Egli è riuscito a sconfiggere una volta ma che non si può sconfiggere
di nuovo. L’abisso della Prima. La morte del Signore. Ci ha affidato
la tomba perché la custodissimo, e confidava nel fatto che chi aveva
costruito la tomba, una miriade fa, ci si murasse dentro col cadave-
re e morisse lì. Ma non l’abbiamo fatto. Ed è così che la Nona Casa
ha avuto origine.»
A Gideon tornarono in mente le parole di Silas Octakiseron: “l’Ot-
tava Casa ricorda che la Nona non era destinata a vivere”.
«Mi stai dicendo che quando avevi dieci anni – dieci anni – hai
scassinato il lucchetto del sepolcro, ti sei infilata in una tomba decre-
pita e sei riuscita a superare dei malvagi incantesimi vecchissimi per
guardare una cosa morta nonostante i tuoi genitori ti avessero detto
che avresti scatenato l’apocalisse?»
«Sì» fece Harrowhark.
«Perché?»

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Ci fu un’altra pausa, e Harrow abbassò lo sguardo sull’acqua. Ri-


schiarate da quel bagliore elettrico, le sue pupille avevano lo stesso
colore dell’iride.
«Ero stufa di essere duecento cadaveri» disse con semplicità. «Ero
grande abbastanza da capire quanto fossi mostruosa. Avevo deciso
di andare a vedere la tomba… e se avessi scoperto che non ne vale-
va la pena, sarei andata su per le scale… per tutti i livelli della Nona
Casa… avrei aperto un portello dell’aerazione e mi sarei messa a cam-
minare… e camminare.»
Sollevò lo sguardo, sostenendo quello di Gideon.
«Ma invece sei tornata» disse Gideon. «Ho riferito alla Reveren-
da Madre e al Reverendo Padre quello che ti avevo visto fare. Ho uc-
ciso i tuoi genitori.»
«Cosa? I miei genitori hanno ucciso i miei genitori. Fidati, lo so»
disse Harrow, seccamente. «Pensavano fosse l’unica cosa onorevole
che potessero fare.»
«Credo che i tuoi genitori abbiano avuto paura e si siano vergogna-
ti per un casino di tempo.»
«Non dico di non aver dato la colpa a te. L’ho fatto… era molto più
facile. A lungo sono rimasta convinta che avrei potuto salvarli, spie-
gandoglielo. Parlando con loro e con Mortus il Nono. Quando sei en-
trata, quando hai visto quello che hai visto… quando hai visto quello
che non ero riuscita a fare. Mia madre e mio padre non erano arrab-
biati, Nav. Sono sempre stati molto buoni con me. Hanno annodato
i loro cappi e poi mi hanno aiutato ad annodare il mio. Li ho guarda-
ti mentre aiutavano Mortus a salire sulla sedia. Mortus non ha nem-
meno obiettato… mai, come sempre…»
«Ma io non potevo. Dopo tutto quello che mi ero convinta di do-
ver fare. Mi sono costretta a guardare i miei genitori che… non sono
riuscita a rispettare nemmeno la più piccola aspettativa che la mia
Casa aveva riposto in me. Nemmeno allora. Non sei l’unica che non
è stata capace di morire.»
Le increspature, piccole e silenziose, lambivano i loro abiti e la
loro pelle.
«Harrow» disse Gideon, con un groppo in gola. «Harrow, che ca-
volo. Mi dispiace tantissimo.»
Harrow sgranò gli occhi, all’improvviso. Il bianco divampò come

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plasma. Il nero, attorno, si fece più nero del fondo del Drearburh. Si
lanciò in avanti, facendosi largo nell’acqua, afferrò la camicia di Gi-
deon e la strinse nei pugni, scrollandola con una violenza di cui Gi-
deon mai l’avrebbe ritenuta muscolarmente capace. Aveva il viso li-
vido d’odio: il suo disprezzo era un mortaio, era combustione pura.
«Sei tu che ti scusi con me?» urlò. «Adesso ti vieni a scusare con
me? Mi vieni a dire che ti dispiace, quando ho passato tutta la mia
vita a distruggerti? Sei il mio capro espiatorio! Ti ho fatto del male
perché per me era un sollievo! Esisto solo perché i miei genitori han-
no ammazzato tutti gli altri e ti hanno relegata a un’esistenza abiet-
ta e miserabile, e avrebbero ucciso anche te senza pensarci due vol-
te, cazzo! Per tutta la tua vita non ho fatto altro che cercare di farti
rimpiangere di non essere morta, solo perché… quella che rimpian-
geva di non essere morta ero io! Ti ho mangiata viva, e adesso hai il
coraggio di dirmi che ti dispiace?»
Le labbra di Harrowhark erano rigate di saliva. Boccheggiava, in
cerca di aria.
«Ho cercato di demolirti, Gideon Nav! La Nona Casa ti ha avvele-
nata, ti abbiamo calpestata… ti ho trascinata in questo mattatoio per
farmi da schiava… e tu ti rifiuti di morire, e mi compatisci! Abbatti-
mi. Hai vinto tu. Ho vissuto la mia intera vita schifosa alla tua mercé,
soltanto tua, e solo Dio sa se non merito di morire per mano tua. Sei
la mia unica amica. Io, senza di te, non sono niente.»
Gideon contrasse le spalle per sostenere il peso di quello che sta-
va per fare. Si sbarazzò di diciotto anni trascorsi a vivere nell’oscuri-
tà con un mucchio di monache spregevoli. Il suo compito, alla fine, si
dimostrò sorprendentemente semplice: prese fra le braccia Harrow
Nonagesimus e la tenne stretta, forte, a lungo, come un grido. Fini-
rono entrambe sott’acqua, e il mondo si fece buio e salato. La Reve-
renda Figlia si abbandonò, calma e immobile, come sarebbe stato na-
turale durante un annegamento rituale, ma quando si rese conto di
essere stata abbracciata, si dimenò come se qualcuno le stesse strap-
pando le unghie dai polpastrelli. Gideon non mollò la presa. Dopo
più di una boccata d’acqua salata, finirono rannicchiate, insieme, in
un angolo della vasca buia, ingarbugliate nelle maniche bagnate del-
le rispettive camicie. Gideon prese Harrow per i capelli e scostò la
testa che le aveva appoggiato sulla spalla, la osservò, inventariando

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ogni dettaglio: la faccina sprezzante dall’ossatura aguzza, le nere so-


pracciglia addolorate, la curva esangue delle labbra. Esaminò l’an-
golatura sdegnosa della mascella, il panico negli occhi, uno stellato
senza luce. Posò le labbra nel punto in cui il naso di Harrow interse-
cava l’osso che copriva i seni paranasali, e il suono che Harrow emi-
se le imbarazzò entrambe.
«Troppe parole» disse Gideon, cospiratoria. «Che ne dici di: “Una
carne, una fine”, brutta stronza.»
La necromante della Nona Casa arrossì fin quasi a diventare nera.
Gideon le inclinò la testa all’insù e la fissò dritto negli occhi. «Dil-
lo, sfigata.»
«Una carne… una fine» ripeté Harrow impacciata, e poi non riu-
scì a dire altro.

* * *

Dopo molto, molto tempo – o almeno così tanto sembrava esserne


passato – la sua adepta disse: «Gideon, mi devi promettere una cosa.»
Gideon si strofinò la tempia con il pollice e scostò una ciocca ar-
ruffata di capelli color dell’ombra; Harrow rabbrividì. «Pensavo che
questa faccenda riguardasse me e tutte le concessioni che mi avre-
sti elargito strisciando. Ma mi hai chiamata Gideon: quindi, spara.»
Harrow disse: «Nell’eventualità della mia morte… Gideon, se qual-
cosa finirà per avere la meglio su di me… ho bisogno che tu mi so-
pravviva. Ho bisogno che tu torni alla Nona Casa per proteggere
il Sepolcro Sigillato. Se io muoio, ho bisogno che i tuoi doveri non
muoiano con me.»
«Che mossa del cazzo, dai» disse Gideon, in tono di rimprovero.
«Lo so» fece Harrow. «Lo so.»
«Harrow, ma che cosa diavolo c’è là dentro, per chiedermi una
cosa del genere?»
La sua adepta chiuse le palpebre pesanti.
«Dietro a quelle porte c’è solo la roccia» le disse. «La roccia e la
tomba, circondata dall’acqua. Non ti tedierò con la magia, i sigil-
li, le barriere o gli sbarramenti; ti basti sapere che per fare sei pas-
si, là dentro, ci ho messo un anno… sei passi che, al tempo, mi han-
no quasi uccisa. Sulle porte c’è una barriera sanguigna che risponde

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soltanto al Divino Necromante, ma sapevo che doveva esserci una


scorciatoia, un punto di ingresso per un guardiano devoto e sincero
del sepolcro. L’acqua è salata ed è profonda, si muove assecondan-
do una marea che non dovrebbe esistere. Il sepolcro, in sé e per sé,
è piccolo, e la tomba…»
Spalancò gli occhi. Un minuscolo sorriso stupefatto le increspò le
labbra. Il sorriso trasformò il suo viso in un’afflizione di bellezza che
Gideon, fino a quel momento, era riuscita a ignorare.
«La tomba è pietra e ghiaccio, Nav, un ghiaccio che non si scio-
glie mai e una pietra ancora più fredda… e dentro, nell’oscurità, c’è
una ragazza.»
«Una che?»
«Una ragazza, cretina con gli occhi gialli che non sei altro» disse
Harrowhark. La voce le si ridusse a un sussurro, e il cranio diventò
un peso morto tra le mani di Gideon. «Dentro al Sepolcro Sigillato
c’è il cadavere di una ragazza.
«L’hanno incastonata nel ghiaccio… è completamente congelata…
e le hanno posato una spada sul petto. Stringe la lama con le mani. Ha
delle catene ai polsi, che escono dalla fossa e sprofondano dentro a
dei buchi su entrambi i lati della tomba, e alle caviglie ha delle catene
disposte allo stesso modo, e ha anche delle catene attorno al collo…
«Nav, quando ho visto la sua faccia ho deciso di voler vivere. Ho
deciso di vivere per sempre, nel caso si risvegli.»
Il tono era quello di una persona persa in un lungo sogno. Trapas-
sò Gideon con lo sguardo, senza vederla, e Gideon scostò delicata-
mente le mani dalla mandibola di Harrow. Si lasciò andare di nuovo
nell’acqua, sostenuta dalla salsedine, con gli occhi che cominciavano
a bruciarle. Rimasero entrambe a fluttuare lì, condividendo un silen-
zio amichevole, finché non si tirarono su e si misero a sedere, gron-
danti, sul bordo della piscina. Avevano i capelli incrostati di sale. Gi-
deon si allungò per prendere la mano di Harrow.
Rimasero sedute lì, bagnate fradicie e a disagio, le dita intreccia-
te nella penombra, la piscina che lambiva, interminabile, le piastrel-
le fredde che la circondavano. Gli scheletri stavano ritti, perfetti e si-
lenziosi nei loro ranghi, senza tradire la loro presenza neanche con
uno scricchiolio delle ossa sulle ossa. Il cervello di Gideon vorticava
e si infrangeva su se stesso come le ondine che avevano appena la-

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sciato, l’acqua che si rimescolava inquieta da una parte e poi dall’al-


tra, fino ad approdare a una conclusione definitiva.
Accorciò leggermente la distanza tra loro, finché non riuscì a vede-
re le goccioline che scivolavano giù per il collo di Harrow, sul collet-
to fradicio. Sapeva di cenere, nonostante i litri e i litri di acqua salata
che l’avevano sommersa. Mentre si avvicinava, Harrow si immobi-
lizzò, deglutendo, con gli occhi che si spalancavano, neri: guardò Gi-
deon senza inspirare, la bocca pietrificata, le mani ferme, una sago-
ma umana perfetta, scolpita nell’osso.
«Ho un’ultima domanda per te, Reverenda Figlia» disse Gideon.
Harrow rispose, con una certa esitazione: «Nav?».
Gideon si avvicinò ancora.
«Ti sei veramente presa una cotta per una tizia stramba surgela-
ta in una tomba?»
Uno degli scheletri la rispedì in acqua con una pedata.

* * *

Per il resto della serata furono guardinghe, incapaci di perdersi re-


ciprocamente d’occhio per più di un minuto, come se la distanza
potesse di nuovo compromettere tutto quanto – si parlarono come
non avevano mai avuto l’opportunità di parlarsi, ma parlarono di
cazzate, non parlarono di niente, solo per sentire le fluttuazioni
delle reciproche voci. Quella sera, Gideon riportò tutte le sue co-
perte alla ben poco edificante brandina da paladino ai piedi del let-
to di Harrow.
Quando furono entrambe coricate a letto, nel tepore dell’oscurità,
il corpo di Harrow perpendicolare a quello di Gideon, Gideon dis-
se: «Hai cercato di uccidermi, quando eravamo ancora alla Nona?».
Harrow restò in silenzio, palesemente colta di sorpresa. Gideon in-
sistette: «La navetta. Quella che ha rubato Glaurica».
«Cosa? No» disse Harrow. «Se fossi salita su quella navetta, saresti
arrivata sana e salva a Trentham. Lo giuro sul Sepolcro.»
«Ma… Ortus… Sorella Glaurica…»
Ci fu una pausa. La sua necromante disse: «Era previsto che ci ve-
nissero riportati dopo ventiquattro ore, disonorati… Ortus sarebbe
stato dichiarato inadatto a ricoprire la sua carica e relegato al più mi-

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serabile tra gli ordini monastici della Casa. Non che per Ortus faces-
se una qualche differenza. Avevamo pagato il pilota.»
«Allora…»
«Crux ha affermato» disse Harrow lentamente «che la navetta era
guasta e che era esplosa in viaggio.»
«E tu gli hai creduto?»
Un’altra pausa. Harrow disse: «No.» E poi: «Più di ogni altra cosa,
Nav… non poteva sopportare quella che considerava una slealtà».
Allora era stata la subdola e fosca vendetta di Crux nei confron-
ti della sua stessa Casa – il suo zelante desiderio di cauterizzare ogni
segnale d’insurrezione – che aveva costretto il fantasma di Glaurica a
fare ritorno al suo pianeta d’origine. Non glielo disse. Silas Octakise-
ron sapeva più di quanto avrebbe dovuto, ma se Harrow l’avesse sco-
perto adesso, si sarebbe precipitata giù per il corridoio in camicia da
notte con un sacco pieno d’ossa d’emergenza e un’espressione molto
determinata. «Che coglione» disse invece. «Io non sono mai stata lea-
le, nemmeno per un giorno in vita mia, e ti ho comunque vista nuda.»
«Ora dormi, Gideon.»
E lei si addormentò… e, per una volta, non sognò un bel niente.

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«State barando» disse Harrowhark, minacciosa.
«Ci stiamo semplicemente ingegnando» fece Palamedes.
Erano davanti alla porta di un laboratorio che Gideon non aveva
mai visto. Ma non perché fosse stato nascosto, era soltanto in una
posizione molto scomoda, nel punto più alto della torre a cui si po-
tesse accedere: aveva richiesto la salita di molte più scale di quante
le ginocchia di Gideon trovassero auspicabile. Era collocato, in bel-
la vista, alla fine di un corridoio terrazzato, le cui finestre spaccate
lasciavano filtrare la luce del sole. Il terrazzamento in questione era
così visibilmente sul punto di disintegrarsi che Gideon aveva fatto del
suo meglio per restare appiccicata al muro interno, nel caso il pavi-
mento avesse deciso all’improvviso di collassare lungo il fianco del-
la Casa di Canaan.
Questa porta Littoria era identica alle altre – cavità orbitali di os-
sidiana spalancate, ricavate cesellando ossa temporali anch’esse di os-
sidiana: pilastri neri e niente maniglia, e un simbolo intarsiato, com-
posto da tre anelli uniti da una linea, per differenziarla dalle altre due
porte che Gideon aveva visto.
«Non abbiamo la chiave» stava dicendo Harrow. «Non si apre una
porta chiusa chiedendo permesso.»
Palamedes sventolò una mano con noncuranza. «Ho completato
questa prova. Abbiamo diritto a una chiave. È la stessa cosa, in pratica.»
«Non è affatto la stessa cosa.»
«Senti. Se stiamo tenendo traccia di tutto, cosa che sto facendo, la
chiave di questa stanza appartiene, al momento, a Silas Octakiseron.
Ce l’aveva Lady Septimus, e lui gliel’ha presa. Il che significa che l’u-

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nico modo per entrare, sia per me che per te, è sconfiggere Colum
l’Ottavo in un duello ufficiale…»
«Posso farlo fuori, Colum» disse Camilla.
«Anch’io sono piuttosto sicura di poter far fuori Colum» aggiun-
se Gideon.
«…e poi contare sul fatto che Octakiseron ce la consegni. Cosa che
non farà» concluse Palamedes, trionfante. «Reverenda Figlia, sai bene
quanto me che non sarà un’inezia come il fair play a impedire all’Ot-
tava Casa di ottemperare al sacro dovere di fare quel che pare a loro.»
Harrow sembrava combattuta. «Non è una serratura comune. Non
possiamo metterci qua e scassinarla con un ossicino, Sextus.»
«No, certo che no. Te l’ho detto. Lady Septimus mi ha passato la
chiave, l’ho tenuta in mano. Sono un adepto della Sesta. È come se
mi avesse dato il permesso di creare un calco in silicone di quel ma-
ledetto affare. Riesco a ricordare ogni dettaglio di quella chiave, fino
al livello più microscopico. Ma che cosa posso fare da solo, scolpirne
una con un pezzo di legno?»
Harrow sospirò. Poi si frugò in tasca e tirò fuori un nodulino
d’osso, tenendolo nel palmo della mano destra. «D’accordo» disse.
«Descrivimela.»
Palamedes la fissò.
«Spicciati» lo incalzò. «Non starò qui ad aspettare che la Secon-
da ci trovi.»
«Era… voglio dire, aveva l’aspetto di una chiave» le disse. «Aveva
un lungo fusto e un po’ di dentellature. Non posso… non è che posso
descrivere una struttura molecolare come se fosse un vestito.»
«Allora com’è che dovrei fare a replicarla, di preciso?» domandò
Harrow. «Non è che posso… oh. No.»
«Hai completato Visualizzazione e Reazione, giusto? Per forza, hai
conquistato la chiave. Stessa faccenda. Io penserò alla chiave, e tu la
vedrai attraverso i miei occhi.»
«Sextus» disse Harrow, incupendosi.
«Aspetta, aspetta» si intromise Gideon, incuriosita. «Gli leggerai
la mente?»
«No» dissero entrambi i necromanti all’istante. Poi Palamedes ag-
giunse: «Be’, tecnicamente sì, più o meno.»
«No» disse Harrow. «Ti ricorderai la prova del costrutto, Nav. Non

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ti ho letto nel pensiero. Somiglia di più al prendere in prestito delle


percezioni.» Tornò a rivolgersi a Palamedes. «Sextus, è già stato or-
ribile a sufficienza quando l’ho fatto con la mia paladina. Dovrai fo-
calizzarti sulla chiave con la massima concentrazione. Se ti distrai…»
«Lui non si distrae» disse Camilla, come se si trattasse di una dif-
ficoltà che avevano già affrontato in passato.
Palamedes chiuse gli occhi. Harrow si morse le labbra, come una
furia, e poi chiuse anche i suoi.
Per trenta secondi buoni non successe niente. Gideon moriva dal-
la voglia di fare una battuta, solo per scuoterli un po’, ma poi il picco-
lo grumo di materia sul palmo della mano di Harrow si contorse. Si
piegò e cominciò ad allungarsi, formando una barretta cilindrica sot-
tile e affusolata. Trascorse qualche altro secondo, e uno spuntonci-
no d’osso sbucò lentamente nei pressi di un’estremità. E poi un altro.
Gideon provò una sincera ammirazione. Per tutto il tempo in cui
Harrow l’aveva tormentata, a casa al Drearburh, aveva soltanto usato
le ossa come semi e inneschi – cucendole insieme per tendere corde
in cui farla inciampare, braccia pronte ad afferrarla, gambe scalcianti,
crani mordaci. Qui c’era qualcosa di nuovo. Stava usando l’osso come
se fosse creta – una materia che poteva plasmare non solo per creare
un mucchio di forme predeterminate, ma anche per fare qualcosa che
non era mai esistito prima. E pareva anche che le stesse dando del filo
da torcere: aveva le sopracciglia aggrottate e le prime flebili tracce di
sudore sanguinolento le splendevano sulla gola esile.
«Concentrati, Sextus» ringhiò la sua necromante. L’oggetto sul suo
palmo, ora, era chiaramente una chiave: Gideon riuscì a distingue-
re tre dentellature distinte, che si arrotolavano e si flettevano man
mano che Harrow completava i dettagli più minuti. La chiave tre-
molò per tutta la sua lunghezza e, per un attimo, sembrò sul punto
di balzarle via di mano e precipitare sul pavimento, ma poi si immo-
bilizzò, all’improvviso. Harrow aprì gli occhi, sbatté le palpebre e la
scrutò sospettosa.
«Non funzionerà» disse. «Non mi sono mai dovuta confrontare
con qualcosa di così piccolo.»
«Lo dicono tutte» mormorò Gideon, sottovoce.
Anche Palamedes aprì gli occhi, e si abbandonò a un lungo sospi-
ro di apparente sollievo.

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«Andrà benissimo» le disse, poco convinto. «Forza. Proviamola.»


Si avvicinò alla grande porta di pietra nera, seguito da Harrow, da
entrambe le paladine e da cinque scheletri che Harrow si era catego-
ricamente rifiutata di non evocare mentre salivano. Prese la chiave
fresca di tornitura, la esaminò, la ficcò nella toppa e la girò con de-
cisione verso sinistra.
Il meccanismo fece clic.
«Oh, santo Dio» disse Harrow.
Sextus si passò convulsamente una mano fra i capelli. «Bene» dis-
se. «No, non pensavo che sarebbe successo davvero. Un lavoro esem-
plare, Reverenda Figlia» e le rivolse un piccolo inchino di scherno.
«Sì» disse Harrow. «Congratulazioni anche a te, Guardiano.»
Spalancò la porta, rivelando un’oscurità totale. Harrow si avvicinò
a Gideon e sussurrò: «Se qualcosa dovesse muoversi…».
«Seee, lo so. Lascia che si butti su Camilla.»
Gideon non sapeva come gestire questa nuova Harrowhark iper-
protettiva, questa ragazza dall’espressione tormentata. Continuava a
guardare Gideon con gli occhi strabuzzati, come se le fosse stato af-
fidato un uovo da tenere al sicuro, mentre tutt’intorno non c’erano
altro che serpenti cacciatori di uova. Ma ora avanzò, fiera, allargan-
do le braccia e aprendo i palmi, un gesto che, per un necromante, era
minaccioso quanto quello di un paladino che sguaina la spada, e si
addentrò nel buio. Palamedes la seguì, tastando il muro alla cieca per
qualche istante per poi trovare l’interruttore della luce.
Gideon entrò nel laboratorio e osservò Camilla che chiudeva scru-
polosamente la porta alle loro spalle. Quel laboratorio Littorio era un
grande spazio aperto in cui pareva fosse esplosa una bomba. C’era-
no tre lunghi tavoli ingombri di attrezzi vecchi e in disuso, macchie di
funghi rugginosi – per quello che si intuiva –, ampolle abbandonate,
penne scariche. Il pavimento, sotto ai loro piedi, era di moquette pe-
losa e in un angolo c’era un groviglio orripilante e viscido, che Gideon
ipotizzò composto di sacchi a pelo. In un altro angolo, c’era una sbarra
decrepita per le trazioni, piegata nel mezzo, accanto a un asciugama-
no appeso lì una miriade prima. Ovunque c’erano pezzi di carta e ve-
stiti abbandonati, come se qualcuno avesse lasciato quel posto in fret-
ta e furia o fosse stato, semplicemente, un sudicione incredibile. Delle
lampade splendevano, incandescenti, su quell’accozzaglia decomposta.

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«Hmm» disse Camilla, neutra, e Gideon ne dedusse all’istante che


di sicuro sistemava le sue calze e quelle di Palamedes dividendole per
colore e tipologia.
Harrowark e Palamedes si fecero strada in mezzo al casino, verso i
tavoli. Palamedes stava commentando, nel suo tono didattico: «Non
che io non sia riuscito a completare questa prova in tempo per il pran-
zo, ma avevo un netto vantaggio. Era una prova psicometrica. Tanto
per cominciare la difficoltà principale è stata capire qual era l’obiet-
tivo della sfida: è stata creata da qualcuno che aveva un senso dell’u-
morismo contorto. C’era solo una stanza con un tavolo, una scatola
chiusa e un molare. Uno solo.»
«Ricostruzione?»
«Non tutti riescono a far spuntare un corpo intero da un mola-
re, Reverenda Figlia. Comunque, devo essere rimasto ad analizzare
quel dente per due ore. So tutto quello che c’è da sapere su quel den-
te. Secondo superiore, carenza vitaminica, maschio, morto sui ses-
santa, igiene orale scrupolosa, mai allontanatosi dal pianeta. È mor-
to in questa stessa torre.»
Entrambi stavano rovistando tra i fogli lasciati sulla scrivania: Pa-
lamedes li disponeva forensicamente in pile organizzate rispetto al
punto in cui erano stati ritrovati. Si aggiustò gli occhiali e continuò:
«Poi è intervenuta Camilla, perché, maledizione, non stavo usando
il cervello».
Camilla sbuffò. Stava vagabondando nei pressi della sbarra incro-
stata di ruggine per le trazioni, mentre Gideon aveva trovato asilo vi-
cino alla montagnola consunta dei sacchi a pelo, che prese immotiva-
tamente a calci. Harrow disse, con una certa impazienza: «Veniamo
al dunque, Sextus».
«Avevo tracciato il dente. Non mi diceva niente: nessun collega-
mento spirituale a nessuna parte dell’edificio. Era un buco nero. Era
come se il corpo da cui proveniva non fosse mai stato vivo. Nessun
residuo fantasmatico, niente. Devi capire che è impossibile, signifi-
cava che lo spirito era stato interamente rimosso, in qualche modo.
Allora ho optato per un’indagine alla vecchia maniera.»
Sbirciò sotto una cartellina trasparente abbandonata. «Sono anda-
to di sopra a cercare lo scheletro a cui mancava un molare superiore.
Si è rifiutato di scendere con me, ma mi ha permesso di fare un cal-

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co della sua clavicola. La clavicola! Qualcuno mi stava prendendo in


giro. Comunque, potrai ben immaginare la mia reazione quando l’ho
usata per aprire la cassettina e l’ho trovata vuota.»
Gideon sollevò lo sguardo dalla scatolina di cartone che aveva tro-
vato: era piena di quelle linguette metalliche rotonde che si trovano
sulle lattine pressurizzate delle bibite. Quando la agitò, tintinnò sto-
nata. «I costrutti? I servitori ossei, tipo?»
«Giusta la seconda, sbagliata la prima» commentò Camilla, laconica.
«Sono il contrario di quello che Lady Septimus definisce cadave-
re illusorio» disse Palamedes. «Sembrano aver conservato la maggior
parte delle loro facoltà. Il mio è stato molto gentile, anche se ha di-
menticato come scrivere. Gli scheletri non sono rianimazioni, Nona,
sono redivivi: sono spiriti che abitano un guscio fisico. Difettano solo
della capacità dei veri redivivi di muoversi liberamente lungo un col-
legamento thanergico. Il cadavere illusorio è il rimasuglio di un’ani-
ma attaccata a un corpo perfetto e incorruttibile – quella dovrebbe
essere l’idea, almeno – mentre quello che battezzerò cadavere obbro-
brioso è uno spirito completamente intatto, attaccato in via perma-
nente a un corpo in via di decomposizione. Non che quelle ossa non
siano state splendidamente conservate.»
Harrowhark sbatté un raccoglitore ad anelli sulla panca.
«Sono un’idiota» esclamò stizzita. «Lo sapevo, si muovevano trop-
po bene per essere dei costrutti – per quanto mi sia sforzata di imi-
tarne la fattura. Ma avrei giurato che… è impossibile, però. Avrebbe-
ro bisogno di qualcuno che li controlli.»
«Esatto: loro stessi» disse Palamedes. «Si alimentano da soli, in auto-
nomia. Il che demolisce ogni riga di teoria thanergica che io abbia mai
appreso. I vecchi parrucconi di casa nostra si scuoierebbero i piedi pur
di passare mezz’ora da soli con uno di loro. Resta però ancora da spiega-
re perché sulle ossa non ci sia alcuna firma energetica. Comunque, que-
sto è il laboratorio del Littore che li ha creati – e qua c’è la loro teoria.»
In maniera assai simile a quello nell’altro laboratorio, il teorema
era inciso su una grossa lastra inamovibile in un angolino polveroso,
coperto da fogli sparsi di velina. Entrambe le paladine si avvicinaro-
no e tutti insieme analizzarono i diagrammi scolpiti. Il laboratorio si
fece molto silenzioso e la luce delle lampade evidenziava torrenti di
polvere così densi da poter essere leccati.

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Appoggiato sul bordo della lastra saldata al tavolo, c’era un den-


te. Palamedes lo prese. Era un premolare, con lunghe radici orripi-
lanti: il tempo l’aveva fatto diventare marroncino. Lo passò a Har-
row, che lo dispiegò come solo una maga ossea avrebbe saputo fare
– e in una maniera che provocava sempre a Gideon un gran dolore
alla mandibola. Lo trasformò in un lungo nastro di smalto, un’aran-
cia con la pelle sbucciata e poi appiattita, un oggetto a tre dimensio-
ni reso bidimensionale.
Scritto sul dente, a caratteri piccolissimi, lessero:

CINQUECENTO IN CINQUANTA
È FINITO!

Harrowhark tirò fuori il suo spesso taccuino nero e cominciò a sca-


rabocchiarci dentro delle annotazioni, ma Palamedes aveva improv-
visamente perso interesse nella lastra del teorema. Fissava invece le
pareti, aprendo alcuni raccoglitori ad anelli che lei aveva scartato. Si
fermò davanti a una lavagna di sughero sbiadita, irta di puntine, tutte
quante con dei pezzi di filo attaccati. Gideon si piazzò accanto a lui.
«Guarda qua» le disse.
Su tutta la superficie della lavagna c’erano macchie fatte di punti-
ne color arcobaleno. Formavano piccoli agglomerati, e Gideon notò
che al centro di ogni agglomerato c’era una puntina bianca; i grup-
petti più numerosi erano quelli più contenuti, con tre puntine fissa-
te attorno a un’unica puntina bianca. Altri ne avevano cinque o sei.
C’erano altre due spirali separate di puntine, ciascuna composta da
svariate dozzine, e poi una enorme macchia di puntine: più di cento,
in un arcobaleno di tinte, che si accalcavano attorno a quella bianca.
«Il problema della necromanzia» disse Palamedes «è che le azioni,
in sé e per sé, non sono difficili da compiere… se vengono comprese.
Ma sostenere qualsiasi cosa… siamo cannoni di vetro. Il nostro eser-
cito sopravvive perché disponiamo di centinaia di migliaia di uomini
e donne in assetto pesante, con delle spade giganti.»
«Ci sarà sempre nuova thanergia di cui nutrirsi, Sextus» disse Har-
rowhark con distacco, facendo saettare gli occhi di qua e di là men-
tre copiava. «Dammi anche solo una morte e posso marciarci per
dieci minuti.»

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«Sì, ma è proprio quello il problema, no? Dieci minuti, poi te ne


servirà ancora. La thanergia è transitoria. La minaccia più grande per
un necromante, in tutta onestà, è il necromante stesso. La mia inte-
ra Casa per una fonte affidabile di nutrimento…»
«Guardiano» disse Camilla, di punto in bianco.
Aveva aperto un raccoglitore pieno di pagine disordinate. Dentro
c’era un assortimento di vecchie litografie su velina, di quelle in bian-
co e nero. Sulla primissima pagina c’era un biglietto scolorito che do-
veva una volta essere stato giallo ma le cui parole, concise e stringa-
te, erano ancora leggibili:

SELEZIONE INDIPENDENTE CONFERMATA


OPZIONE MIGLIORE
CHIEDERE A E.J.G.
TUA, ANASTASIA.
P.S. RIDAMMI LE MIE PINZE, MI SERVONO

Camilla sfogliò il quadernone. Erano fotografie sbrigative, di bassa


qualità, istantanee dalle spalle in su di uomini e donne che guardava-
no nell’obiettivo con gli occhi socchiusi, come se detestassero la luce:
la maggior parte di loro aveva un’aria molto seria e solenne, come se
stessero posando per una foto segnaletica. Sulle foto di alcuni c’erano
delle spunte. Camilla girò le pagine col pollice, e si bloccarono tutti.
La sovraesposizione non poteva nascondere il ritratto a mezzobu-
sto dell’uomo che tutti conoscevano come Maestro, l’azzurro acceso
degli occhi lì reso con un seppia scarico. Sorrideva, da un’eternità pri-
ma. Non sembrava più vecchio o giovane di un solo giorno. La sua fo-
tografia, inoltre, era stata cerchiata con un tratto di pennarello nero.
«Sextus» esordì Harrow con aria sinistra.
«Non me ne sono accorto» disse Palamedes. Dal canto suo, pare-
va quasi affascinato. «Nona, non me ne sono proprio accorto. Un al-
tro cadavere illusorio?»
«Ma allora chi è che lo controlla? Qua ci siamo soltanto noi, Sextus.»
«Vorrei ben sperarlo. Potrebbe essere indipendente? Ma come…»
Lo sguardo di Palamedes tornò a posarsi sulla lavagna. Si levò gli
occhiali e aguzzò gli occhi grigi, color lastra. Contava, tra sé e sé. Gi-
deon lo accompagnò sportivamente fino a raggiungere il centinaio,

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finché un rumore sgradevolissimo li fece sussultare, distogliendoli da


qualsivoglia operazione aritmetica mentale.
Era una sirena elettronica. Da qualche parte all’interno – e all’e-
sterno – della stanza, ululava: “BRRRAAARRP… BRRRAAARRP…
BRRRAAARRP…”.
A seguire, stranamente, la voce di una donna, dalla serenità irragio-
nevole. “Questo è un allarme antincendio. Dirigersi cortesemente ai
punti di raduno designati, seguire il personale antincendio.” E poi la si-
rena, di nuovo: “BRRRAAARRP… BRRRAAARRP… BRRRAAARRP…”
e la medesima cantilena registrata: “Questo è un allarme antincen-
dio. Dirigersi cortesemente…”.
Si scambiarono un’occhiata. Poi, tutti e quattro, si fiondarono ver-
so l’uscita. Palamedes non si fermò neanche a chiudere la porta alle
loro spalle.
La Sesta e la Nona casa sapevano che con gli incendi non c’era af-
fatto da scherzare, e si mossero come chi aveva imparato che l’allar-
me antincendio poteva essere l’ultima cosa che mai avrebbero sen-
tito, l’ultima cosa che la loro intera Casa avrebbe mai sentito. Ma
c’era qualcosa di insolito. Non c’era odore di fumo, non si percepi-
va calore latente: quando arrivarono tutti nell’atrio, l’unico partico-
lare insolito che notarono fu uno degli scheletri, che era cascato in
quella schifosa fontana asciutta, a pelle d’orso, con il suo carico di
asciugamani.
Camilla si guardò attorno, vigile, e si spostò verso la sala da pranzo.
Lì sentirono un persistente pssshhhtt che Gideon non riuscì a iden-
tificare finché non raggiunsero la cucina – c’era un cattivo odore e
del vapore bianco – e fu lì che si rese conto che si trattava di un ru-
binetto dell’impianto antincendio, di un tipo super vecchio. Si am-
massarono tutti all’ingresso della cucina tenendosi fuori dalla porta-
ta della pioggerella.
Tutti gli scheletri erano spariti. Al loro posto, mucchietti scom-
posti di ossa e fasce. Una padella con del pesce fumava su un fornel-
lo acceso: Gideon entrò, scalciò via un omero e armeggiò con le ma-
nopole finché il fuoco non si spense. Il lavandino era pieno di ossa,
un teschio fluttuava in una pentola di zuppa verde molto familiare: il
rubinetto era stato lasciato aperto e il lavabo stava per strabordare.
Una pila di ossa si era mischiata alla buccia delle patate. Gideon ar-

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retrò mettendosi al riparo dall’acqua e rimase a osservare. Si accor-


se solo vagamente di Harrowhark, che le stava asciugando sdegno-
samente la testa bagnata con un fazzoletto.
L’impianto si spense. Camilla si inginocchiò e, in mezzo a tutto
quello sgocciolare e gorgogliare, toccò una delle falangi cadute sulle
piastrelle, che si dissolse in cenere, come un sospiro.
Palamedes andò a chiudere il rubinetto, come un sonnambulo. Le
ossa nel lavandino galleggiavano delicate nei pressi di una padella. Lui
e Harrow si scambiarono un’occhiata e dissero: «Merda.»
Con un remotissimo sibilo liquido del metallo contro il fodero,
Camilla sguainò le sue spade. Gideon non aveva ancora avuto l’op-
portunità di esaminare le due spade corte di Camilla: somigliava-
no più a due pugnali molto lunghi, lievemente incurvati all’estremi-
tà, del tutto funzionali. Splendevano, intonsi e incandescenti, sotto
alle luci flosce della cucina; Camilla marciò di nuovo verso l’ingres-
so della sala da pranzo.
«Ci separiamo?» disse lei.
«Col cazzo» fece Gideon.
Harrow disse: «Non perdiamo tempo. Da Septimus» e Gideon
avrebbe voluto baciarla.
Non sembrava esserci nessun altro nei lunghi corridoi riecheggian-
ti della Casa di Canaan, ora più lunghi e riecheggianti che mai. Su-
perarono un altro scheletro, bloccato da una forza invisibile mentre
trasportava una cesta. Rovinando a terra, il peso della cesta gli aveva
ridotto il bacino in polvere granulosa. Quando arrivarono alla stanza
di Dulcinea, per un istante nettissimo, Gideon non seppe cosa diavo-
lo aspettarsi; ma la trovarono che si sforzava stentatamente di tirarsi
su, pallida come un cencio e con gli occhi spalancati. Di fronte a lei
c’era il sacerdote brizzolato, seduto sulla sedia con lo schienale alto.
Sembrava pacifico e addormentato.
«Non sono stata io» ansimò Dulcinea, non senza una certa
agitazione.
Camilla si slanciò in avanti. Il mento del sacerdote vestito di bianco
si era afflosciato, verso il petto, e la treccia era infilata sotto al men-
to. Quando Camilla gli tastò il collo con le dita, il sacerdote si inclinò
graziosamente di lato, molle e pesante, finché la Sesta paladina non
lo raddrizzò, puntellandolo in modo che non rotolasse giù dalla sedia.

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«Morto stecchito» disse Harrowhark, «anche se, per la precisione,


si dà il caso che sia così da molto, molto tempo.»
Palamedes si voltò verso Dulcinea, che aveva rinunciato a dimenarsi
e sgomitare, e giaceva distesa sui cuscini, annaspando per lo sforzo. Le
scostò delicatamente i capelli dalla fronte e disse: «Dov’è Maestro?».
«Se n’è andato un’oretta fa» disse Dulcinea, inerme, con lo sguardo
che guizzava da lui al resto del gruppo. «Ha detto che voleva chiude-
re una porta. Che cosa sta succedendo? Perché il sacerdote è morto?
Dov’è andato Maestro?»
Palamedes le carezzò la mano. «Non ne ho idea. Ed è questa la par-
te interessante.»
«Dulcinea» disse Gideon, «te la caverai se resti qua da sola?»
Dulcinea sogghignò. Aveva la lingua scarlatta di sangue. Le vene
sulle palpebre erano così scure e prominenti che l’azzurro dei suoi oc-
chi somigliava più al violetto limpido di un cielo senza luna.
«Che cosa possono farmi, ormai?» le rispose candidamente.
Non potevano neanche ingiungerle di non far entrare nessuno: il
semplice gesto di mettersi seduta sembrava sfiancarla. La lasciaro-
no lì, con la sola compagnia del sacerdote morto e si avviarono ver-
so un’ala in cui Gideon non era mai stata: il corridoio caldo e afoso,
fiancheggiato da piante verdi e fibrose d’ogni genere, nell’ala dove vi-
vevano i sacerdoti e Maestro.
Era un passaggio gradevole e ben imbiancato, completamente alie-
no rispetto al resto della Casa di Canaan. La luce rimbalzava sulle pa-
reti, filtrando dalle finestre pulite e ben tenute. Non ci fu bisogno di
bussare alle porte e di gridare per individuare il fulcro dell’azione; al
termine del corridoio c’era una vera e propria catasta di ossa e fasce e
il corpo rinsecchito dell’altro sacerdote. Era crollato di faccia, a brac-
cia spalancate, quasi fosse inciampato mentre correva.
Le ossa erano impilate davanti a una porta chiusa, come se aves-
sero cercato di entrare. Palamedes si mise alla testa del gruppo, fa-
cendosi largo in mezzo a quel disastro scrocchiante. Gideon portò la
mano all’elsa della spada e Palamedes spalancò la porta.
Dentro, la Capitana Deuteros alzò stancamente lo sguardo. Era
seduta rivolta alla porta. Il braccio sinistro, appassito e accartoccia-
to, le penzolava inerme lungo il fianco. Gideon non voleva guardar-
lo. Sembrava che l’avessero lasciato in una palude per mille anni e poi

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gliel’avessero riattaccato. Il braccio destro era ripiegato sullo stoma-


co. C’era un’enorme chiazza rossa che si allargava sul bianco perfetto
della giubba, la mano destra era serrata, come se stesse per sguainare,
sull’enorme frammento d’osso che le avevano piantato nella pancia.
Maestro giaceva immobile al suo fianco. Aveva uno stocco affonda-
to nel petto e un pugnale che gli trapassava il collo. Non c’era sangue
attorno alle lame, solo abbondanti schizzi che gli chiazzavano le ma-
niche e la fascia. Gideon si guardò attorno in cerca della luogotenen-
te, la trovò, e distolse di nuovo lo sguardo. Non serviva soffermarsi a
lungo per capire che Dyas era morta. Tanto per cominciare, sembra-
va che il suo scheletro e il suo corpo avessero cercato di divorziare.
«Non ha voluto sentire ragioni» disse Judith Deuteros, in tono mi-
surato. «È diventato aggressivo quando ho cercato di immobilizzarlo.
Gli incantesimi vincolanti si sono dimostrati… inutili. Marta ha usato
la forza per inabilitarlo. È stato lui a far degenerare la situazione… le
ha cavato un occhio, dunque non ho potuto fare altro che reagire…
questo… nulla di tutto questo sarebbe dovuto accadere.»
Due soldatesse professioniste della Coorte, di cui una necroman-
te e una prima paladina; e tutto quel casino per un anziano tizio so-
vrannaturale. Palamedes si inginocchiò vicino alla capitana, ma lei lo
spinse via bruscamente con la punta dello stivale.
«Fai qualcosa per lei» gli disse.
«Capitana» disse Camilla, «la Luogotenente Dyas è morta.»
«Allora non toccatela. Abbiamo fatto quello che dovevamo fare.»
Lo sguardo di Gideon fu attirato da un macchinario nell’angolo. Non
l’aveva notato perché aveva un’aria di una normalità ridicola, ma non
era affatto normale, non per la Casa di Canaan. Era una trasmittente
elettrica, con cuffie e microfono. L’antenna era sistemata fuori dalla
finestra e splendeva, debole e azzurrina, nella luce del pomeriggio.
«Capitana» disse Palamedes, «cos’è che siete venute a fare?»
La Seconda necromante si risistemò, grugnì per il dolore, chiuse
gli occhi. Inspirò, e una goccia di sudore le scivolò lungo la tempia.
«A salvare le nostre vite» disse lei. «Ho mandato l’SOS. Stanno ar-
rivando i rinforzi, Guardiano… spetta a voi, ora, fare in modo che
nessun altro muoia… ha detto che avevo tradito l’Imperatore… ha
detto che ho messo l’Imperatore in pericolo… io, che sono al servi-
zio dell’Imperatore da quando ho sei anni.»

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Il mento della Capitana Deuteros stava scivolando verso il basso.


Lo risollevò con un certo sforzo. «Non era umano» disse. «Non ave-
vo mai visto niente come lui. Marta l’ha soppresso… Marta… dite a
tutti che ha vendicato la Quarta e la Quinta.»
Palamedes aveva ignorato il calcio e si stava avvicinando di nuovo.
La Seconda gli appoggiò uno stivale sulla spalla, per metterlo in guar-
dia. Le disse: «Capitana, da morta non servirai a nessuno».
«Non essere più utile a nessuno sarà un privilegio per me» disse la
capitana. «Abbiamo risolto il problema che nessun altro tra voi po-
teva sistemare… abbiamo fatto quello che dovevamo fare… e a ca-
rissimo prezzo.»
Harrow torreggiava sul cadavere silenzioso e bucherellato di Mae-
stro. Si rannicchiò al suo fianco come un corvo dalla coda lunga. Gi-
deon non riuscì a fare altro che appiattirsi contro il muro e annusare
il sangue, sentendosi assurdamente vuota. La sua necromante disse:
«Non avete sistemato niente».
«Harrow» disse Palamedes, ammonendola.
«Quest’uomo era un guscio che conteneva un centinaio di anime»
disse Harrow. La Capitana spalancò gli occhi, e li tenne aperti. «Era
un’entità di una potenza incredibile, ma era un prototipo. Dubito che
prima di quest’oggi avesse mai ucciso qualcuno. Mi sorprenderebbe
molto se nelle morti della Quarta e della Quinta Casa ci fosse il suo
zampino, visto che è stato creato all’unico scopo di proteggere que-
sto posto. C’è qualcosa di ben più pericoloso di un vecchio esperi-
mento che si aggira nella Prima Casa, e lui avrebbe potuto aiutarci
a scoprire di cosa si trattava. Ma ora morirai anche tu, e non saprai
mai come finisce la storia.»
Il bianco degli occhi di Judith era bianchissimo, l’espressione stu-
diatamente impietosa diventò, all’improvviso, il ritratto dell’esitazione.
Il suo sguardo si spostò, con molto meno rimorso di quanto Gideon
avrebbe mai potuto esprimere, sulla sua paladina; poi tornò a concen-
trarsi su di loro, tra il furioso e l’implorante. Palamedes si avvicinò.
«Non posso salvarti» le disse. «Non posso nemmeno alleviare le
tue sofferenze. Un’équipe di medici preparati potrebbe fare entram-
be le cose. Quanto è lontana la Seconda? Quanto dobbiamo aspetta-
re i rinforzi della Coorte?»
«La Seconda non verrà» disse la Capitana Deuteros.

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Fece un sorriso, tirato e amaro. «Non si può comunicare col re-


sto del sistema» disse con voce roca. «Non mentiva. Non c’è modo
di raggiungere le Case… ho contattato l’Ammiraglia Imperiale, Sesto.
Sta arrivando l’Imperatore… il Re Imperituro.»
Accanto a Harrow, Maestro gorgogliò.
«Lo state riportando… nel luogo… a cui non deve fare ritorno» dis-
se il cadavere, con un filo di fiato, esile e acuto, che serpeggiava attor-
no alla lama piantata nelle corde vocali. Tutto il suo corpo fremeva.
Gli occhi morti non avevano più quella lucentezza ubriaca, la lingua
strisciava. La spina dorsale si inarcò. «Oh, Signore… Signore… Si-
gnore, uno di loro è tornato…»
La sua voce si spense. Il corpo crollò sul pavimento. Il silenzio che
seguì al suo riassestamento fu immenso e nauseabondo.
Palamedes disse: «Judith…».
«Dammi la spada di Marta» gli disse lei.
Per Deuteros lo stocco era troppo pesante da reggere. Camilla lo
sistemò sulle ginocchia della necromante, e le dita di Judith si serra-
rono sull’arma. L’acciaio dell’elsa brillava nella sua mano. Strinse fin-
ché le nocche non le diventarono bianche.
«Lasciati almeno portare via di qui» disse Gideon, che la conside-
rava una stanza veramente merdosa in cui morire.
«No» le disse. «Se lui tornerà di nuovo in vita, sarò pronta. E ora
non posso lasciarla… nessuno dovrebbe mai essere costretto a veder
morire il proprio paladino.»
Nell’ultimo sguardo che Gideon le rivolse, la Capitana Judith Deu-
teros era seduta in poltrona, con la schiena più dritta che poteva e il
sangue che fluiva dalla tremenda ferita all’addome. La lasciarono lì,
a testa alta, il viso che non tradiva alcuna espressione.

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Era come se quelli dell’Ottava Casa avessero la ca-
pacità di apparire sempre quando meno avevi bisogno di vederli. Ora
avanzavano lungo il corridoio bianco su cui si affacciava la stanza di
Dulcinea mentre il resto del gruppo stava facendo ritorno da lei. L’in-
tonaco sembrava zozzo e sporco in confronto alle loro tenute impec-
cabili. Gideon stava per sguainare la spada; ma si stavano avvicinan-
do per necessità e non per attaccare briga.
«La Terza Casa ha profanato un corpo» disse Silas Octakiseron,
a mo’ di saluto. «I servitori sono tutti distrutti. Dove sono la Secon-
da e la Settima?»
Harrow disse: «Morte. Inabili. Idem per Maestro».
«Il che ci lascia in netta minoranza» commentò il necroman-
te dell’Ottava Casa. Nelle vene non gli scorreva di certo il latte del-
la gentilezza umana, era poco ma sicuro. Non era nemmeno dotato
del nettare insapore e sciapo dell’empatia fasulla. «Sentite. La Terza
ha aperto Lady Pent…»
Palamedes disse: «Abigail?» e Harrow fece: «Aperto?».
«Fratello Asht ha visto uscire la Terza dall’obitorio, questa matti-
na, ma è da allora che non li incrociamo più» disse Silas. «Non sono
nei loro alloggi e il portello del complesso è chiuso. Siamo obbligati
a unire le forze. Abigail Pent è stata manomessa e aperta.»
«Per cortesia, approfondiamo un po’ quell’aperta, perché la mia
immaginazione è migliore delle tue capacità descrittive e qua non è
che io me la stia proprio spassando» disse Gideon.
L’Ottavo paladino disse, grave: «Venite a vedere».
Non poteva trattarsi di un’imboscata. Erano una Casa contro due.

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Per una volta, poi, Silas Octakiseron pareva sinceramente allarmato.


Gideon rimase in fondo al gruppo con Harrowhark, mentre la tetra
processione percorreva di nuovo il corridoio fino all’atrio, facendo-
si strada verso la sala da pranzo e la camera mortuaria improvvisa-
ta vicino alla cucina.
Harrow borbottò a bassa voce, in modo che solo Gideon potesse
sentirla: «Le Seconde, una morta e l’altra moribonda. Maestro mor-
to, e i redivivi con lui…».
«Maestro ha attaccato le Seconde. Perché sei così sicura che non
abbia ucciso anche gli altri?»
«Perché Maestro aveva paura della Casa di Canaan e, più di tutto,
del complesso» disse Harrow. «Dovrei tornare là a controllare, ma so-
spetto che per lui fosse impossibile scendere la scala. Anche lui era
un costrutto. Ma Maestro era il prototipo di cosa? Griddle, al primo
segnale di pericolo…»
«Si fila via a razzo» fece Gideon.
«Stavo per dire: “Sguaina la spada”» concluse Harrow.
L’obitorio era triste, freddo e quieto. L’ansia che avvolgeva il resto
della Casa di Canaan non l’aveva toccato. Stava per riempirsi in ma-
niera insostenibile: i due adolescenti erano ancora al sicuro, ben ripo-
sti nei loro gelidi vani metallici, e anche Protesilaus era al suo posto,
anche se era solo una testa senza corpo. Visto che ficcarlo là dentro
tutto intero sarebbe stato un problema, si trattava probabilmente di
una velata benedizione. Anche Magnus era disteso sulla sua tavola,
un po’ troppo alto per stare comodo: ma sua moglie…
Il corpo di Abigail era abbandonato lì, fuori dalla sua nicchia. Era
ancora fredda, pallida e morta. La camicia era arrotolata e le scopriva
le costole. Senza particolare eleganza, era stato utilizzato un coltel-
lo per squarciarle il lato destro dell’addome. Lì c’era un grosso buco
esangue delle dimensioni di un pugno.
Entrambi i componenti della Sesta Casa, sempre caratterizzati dal-
la loro sconveniente curiosità, si precipitarono ad analizzare la feri-
ta. Camilla accese la sua torcia tascabile. Harrow si piazzò accanto
a loro mentre Gideon rimase a osservare gli Ottavi. Silas pareva ce-
reo e a disagio quanto Abigail; il suo paladino era più impassibile che
mai, e non ricambiò l’occhiata di Gideon.
«Il taglio è stato praticato con il pugnale a tridente di Tern» disse

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GIDEON LA NONA  /  385

Palamedes. Posò la mano sulla ferita. Infilò le dita nel buco senza nep-
pure fare una smorfia e le lasciò lì per qualche secondo. «Ed è stato
rimosso il… no, il rene c’è ancora. Cam, qua dentro c’era qualcosa.»
«Lente d’ingrandimento?»
«Non serve. Era di metallo… Camilla, è rimasto lì per un po’… la
carne ci si era richiusa attorno. È possibile che… cazzo!»
Gli occupanti della stanza sobbalzarono. Ma Palamedes non era
stato morsicato – solo nell’animo, forse. Fissava un punto remoto, con
un’espressione inorridita. Sembrava uno che avesse appena ricevuto
una fetta di torta al cioccolato e, dopo due bocconi, ci avesse trova-
to dentro mezzo ragno.
«Le mie tempistiche erano sbagliate» sussurrò, tra sé e sé. E poi, an-
cora più piano: «Nonagesimus. Le mie tempistiche erano sbagliate».
«Con parole tue, Sextus.»
«Perché non ho esaminato Abigail prima…? La Quinta è scesa giù
nel complesso… devono aver portato a termine una prova. La sera
della cena. Pent non era fessa. Sono stati colti di sorpresa in cima alla
scala, mentre se ne andavano. C’era qualcosa, nascosto dentro di lei,
in modo da non essere individuato… Dio solo sa perché l’ha fatto, o
perché chiunque altro l’abbia fatto… otto centimetri di lunghezza,
metallo, fusto, denti…»
«Una chiave» disse Silas.
«Ma è una follia» commentò Gideon.
«Qualcuno voleva assolutamente nascondere quella chiave… forse
proprio Lady Pent» disse Palamedes. Finalmente, ritirò la mano dalle
sue interiora e andò a sciacquarsela al lavandino, cosa che a Gideon
parve assai civile. «O forse è stata la persona che l’ha uccisa. C’è una
stanza in cui hanno cercato in ogni modo di non farci entrare. Octa-
kiseron, non si tratta di una profanazione gratuita, qualcuno stava
aprendo un forziere.»
Silas disse, calmo: «Quelle stanze valgono davvero un peccato così
grave?».
Harrow lo squadrò.
«Vi siete impadronito delle due chiavi della Settima Casa» lo apo-
strofò, «ne avete conquistata una completando una prova e non vi
siete preso neanche la briga di aprire le porte?»
«Ho conquistato la prima chiave per capire con che cosa doveva-

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mo misurarci e ho preso in custodia le altre due per impedire che ve-


nissero utilizzate illecitamente» disse Silas. «Io odio questa Casa. Di-
sprezzo il fatto che un tempio sacro sia stato ridotto a un labirinto e
a un rompicapo. Ho preso le chiavi in modo che non poteste averle
voi. Né la Sesta, né la Terza.»
Palamedes si asciugò le mani su uno strofinaccio e si risistemò gli
occhiali sul naso. Il suo fiato li aveva appannati, in quel posto fred-
do e tranquillo.
«Maestro Octakiseron» gli disse, «siete un serpente meschino e, a
livello intellettuale, un asino fatto e finito, ma almeno siete coeren-
te. Io so qual è la porta corrispondente, e lo sa anche la Nona. E dob-
biamo presumere che lo sappia anche la Terza. So dove andare a cer-
carli e voglio scoprire cos’hanno trovato…»
«Prima che sia troppo tardi» disse Harrow.
Si avvicinò alle scaffalature dei corpi e aprì un ultimo ripiano di cui
Gideon si era completamente scordata. Era il mucchietto deprimen-
te di osso e residui di cremazione che avevano trovato nella forna-
ce. I frammenti più grossi dei cadaveri non superavano le dimensio-
ni di un’unghia. Sorprendendo ancora una volta Gideon, fu Colum a
piazzarsi di fronte a Harrow, indicando le ossa e le ceneri quasi con
impazienza.
«Questo» le disse. «Per metà. È il Settimo paladino.»
«Ero giunta alla stessa conclusione» commentò Harrow. «Non
c’è il cranio. E la data di morte può avere senso solo se si tratta di
Protesilaus.»
«L’altra metà è qualcun altro» disse Silas.
«Per loro non possiamo fare ancora niente» disse Palamedes. «I
vivi devono avere la precedenza… se vogliamo continuare a vivere
anche noi.»
Come saltò fuori in seguito, aveva torto.

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Un sestetto attraversava i corridoi fiochi della
Casa di Canaan: tre necromanti, tre paladini. Di tanto in tanto si im-
battevano nel corpo abbattuto di un servitore scheletrico, immobile,
il sorriso vuoto rivolto al soffitto, le catene che lo legavano a quella
torre finalmente spezzate. Gideon trovava stranamente angoscian-
te la vista di quei mucchietti e di quelle catastine. Si aggiravano lì da
diecimila anni, forse, e dopo un attimo di tragedia e panico era tutto
finito. I sacerdoti della Prima Casa erano andati. Magari era un sol-
lievo, o magari si trattava di un sacrilegio.
Gideon si domandò come si sarebbe sentita dopo un’intera miria-
de: annoiata a morte, forse. Desiderosa di fare qualsiasi altra cosa o
di essere chiunque altro. Avrebbe già fatto tutto quello che c’era da
fare ed era possibile che sarebbe riuscita a immaginare anche quel-
lo che non aveva visto.
Seguirono la mappa di Harrow fino al corridoio della porta Litto-
ria bloccata. Sulla serratura c’erano ancora i segni lasciati dell’osso ri-
generante che avevano rimosso facendo una fatica bastarda. Il qua-
dro desolato con il canyon secco era stato portato via e, ora, tutti e
tre i necromanti erano fermi e zitti di fronte ai maestosi pilastri neri
e al bizzarro bassorilievo che li sovrastava. Silas disse: «Non perce-
pisco barriere».
Harrow commentò: «È una trappola».
«O trascuratezza» disse Palamedes.
«O non gliene fregava un cazzo, gente» disse Gideon, «visto che la
chiave è ancora nella toppa.»
Era la terza porta che aprivano senza avere la benché minima idea

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di cosa si celasse dall’altra parte. Una luce gialla inondò il corridoio,


e dentro…
Gli altri due laboratori che Gideon aveva visto erano delle caverne.
Erano ambienti pratici in cui si lavorava, si dormiva, ci si allenava e si
mangiava, accoglienti nel migliore dei casi, tetri nel peggiore, labora-
tori nel vero senso della parola. Quella stanza era un’altra cosa. Una
volta doveva essere stata luminosa e arieggiata. Il pavimento era di
legno laccato e le pareti erano ricoperte da grandi pannellature bian-
che. I pannelli erano stati amabilmente decorati, parecchio tempo pri-
ma, con un vorticoso assortimento di graziosità: alberi dalla cortec-
cia bianca carichi di germogli di un fucsia tenue, che costeggiavano
stagni arancioni, e nuvole dorate adorne di uccelli in volo. Nella stan-
za il mobilio scarseggiava: qualche scrivania ampia con vasi pieni di
matite e libri; una lastra di marmo lucidato con un ventaglio ordina-
to di coltelli e forbici; quello che somigliava a un vetusto congelato-
re a pozzetto; dei materassini arrotolati e delle coperte ricamate, che
stavano andando in malora in un armadietto aperto.
Ma tutto questo era irrilevante. Tre cose attirarono all’istante l’at-
tenzione di Gideon.
Su uno degli affreschi così vezzosamente dipinti, della vernice fre-
sca sfigurava gli alberi carichi di germogli. Là sopra, sulla parete, let-
tere nere alte trenta centimetri dichiaravano:

CI HAI MENTITO

Qualcuno stava piangendo, nel modo rallentato e monotono di chi


piange già da ore e non sa come fermarsi.
E c’era Ianthe, seduta al centro della stanza, in attesa. Era appog-
giata a un antico cuscino cascante, come una regina. Conformando-
si a una moda sempre più diffusa, le pallide vesti dorate erano chiaz-
zate di sangue e sui capelli gialli, altrettanto pallidi, ce n’era dell’altro.
Il forte tremito che la scuoteva era praticamente una vibrazione, e
aveva le pupille così dilatate che in mezzo ci sarebbe potuta passa-
re una navetta.
«Salve, amici miei» disse.
La fonte del pianto diventò più chiara quando si addentrarono nel-
la stanza. Vicino alla lastra di marmo c’era Coronabeth, rannicchiata,

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le braccia che cingevano le ginocchia. Si dondolava avanti e indietro.


Accanto a lei, per terra…
«Sì» fece Ianthe. «Il mio paladino è morto, e l’ho ucciso io. Per cor-
tesia, non fraintendetemi, non si tratta di una confessione.»
Naberius Tern giaceva scomposto sul pavimento. Aveva l’espres-
sione di uno a cui era appena capitata la cosa più sorprendente della
sua vita. I bulbi oculari avevano un che di troppo bianco, ma per il re-
sto sembrava del tutto reale, perfettamente vivo, perfettamente pet-
tinato. Aveva ancora le labbra leggermente socchiuse, come se fosse
sul punto di chiedere spiegazioni, incollerito.
Rimasero pietrificati. Solo Palamedes ebbe la prontezza di spiri-
to di muoversi: non calcolò affatto Ianthe e si portò dove giaceva il
paladino, lungo disteso e in via di irrigidimento. Sul bavero c’erano
degli schizzi di sangue e un grosso taglio gli attraversava la camicia
squarciata. Era stato trafitto da dietro. Palamedes si abbassò, fece una
smorfia e chiuse gli occhi sgranati dell’uomo.
«Ha ragione. È andato» commentò.
Al che Silas e Colum si riscossero. Colum sguainò. Ma Ianthe, di
punto in bianco, emise una secca risata acutissima – una risata con
troppi spigoli.
«Ottavo! Metti via quella spada» disse. «Oh, Ottavi. Non vi farò
del male.»
Ianthe si portò improvvisamente le ginocchia al petto e mugolò:
era il lamento basso e querulo, quasi comico, di chi sta soffrendo di
mal di stomaco.
«Non me l’ero immaginato così» disse dopo, battendo i denti. «Ve
lo sto solo dicendo. Ho vinto.»
Gideon disse, adagio: «Principessa. Qua nessuno parla il pazzese».
«Che nomignolo spiacevole» disse Ianthe, e sbadigliò. Prima che
finisse, i denti cominciarono a batterle di nuovo, e si morse la lingua,
ululò e sputò per terra. Un minuscolo ricciolo di fumo si sollevò dal
grumo di sangue e saliva. Lo osservarono tutti quanti.
«Devo ammetterlo, mi rode» proseguì lei, pensierosa. «Mi ero pre-
parata tutto un discorso… volevo vantarmi un po’, capite? Perché non
ho avuto bisogno di nessuna delle vostre chiavi, e non mi è servito
nemmeno uno dei vostri segreti. Sono sempre stata migliore di tut-
ti quanti voi… e nessuno se n’è accorto… nessuno se ne accorge mai,

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che poi è un po’ la mia virtù e la mia rovina. Detesto essere così bra-
va nel mio lavoro… ma tu, Nona, tu te ne sei accorta, vero? Piccolo
goblin schifoso. Un pochino, almeno?»
Lo schifoso piccolo goblin della Nona la fissò, serrando le labbra.
Si era scostata da Gideon per gravitare verso la lastra del teorema e,
senza la minima vergogna, si era messa ad analizzarlo.
«Sapevi del cadavere illusorio» disse Harrow. «Sapevi quanto fos-
se impossibile.»
«See-ee-e. Sapevo che il trasferimento energetico non quadrava.
Nessuna delle firme thanergiche di questo edificio quadra… ma poi
mi sono resa conto di quello che volevano farci capire. Quello che gli
antichi Littori stavano cercando di dirci. Vedete, il mio campo è sem-
pre stato quello del trasferimento energetico… trasferimenti energe-
tici su vasta scala. Teoria della resurrezione. Ho studiato quello che è
successo quando il Signore, il nostro Dio Misericordioso, ha preso le
nostre Case morte e morenti e le ha riportate in vita, anni e anni fa…
il prezzo che avrebbe dovuto pagare. Quale contrappasso, l’anima di
un pianeta? Cosa succede quando muore un pianeta?»
«Sei un’occultista» disse Palamedes. «Sei una maga liminale. Cre-
devo fossi un’animafiliaca.»
«Quello è solo per fare scena» disse Ianthe. «Quel che mi interes-
sa è lo spazio tra la vita e la morte… lo spazio tra liberazione e oblio.
Quello che c’è dall’altra parte del fiume. La dislocazione… dove va a
finire l’anima quando la sballottiamo… dove dimorano le cose che ci
divorano.»
Harrow disse: «Lo fai sembrare molto più interessante di quel che è».
«Ma piantala, tu con le tue ossa» disse Ianthe. Tossì e rise ancora,
nervosa. Chiuse gli occhi e lasciò cascare all’improvviso la testa all’in-
dietro. Quando li riaprì, pupilla e iride erano scomparsi, lasciando
solo il terrificante bianco del bulbo oculare. Sussultarono tutti quan-
do Ianthe urlò. Serrò le palpebre e scosse il capo, come un sonaglio, e
quando le riaprì aveva il fiatone per lo sforzo, come se avesse appena
fatto una gara di corsa. Gideon rimase lì a bocca spalancata.
Gli occhi, nessuno dei due, erano più del loro colore originale. Sia
la pupilla che l’iride erano una mescolanza di marrone, violetto e az-
zurro. Ianthe chiuse gli occhi per la terza volta e, quando le ciglia
pallide si schiusero, erano tornati entrambi al loro insipido ametista.

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Palamedes si era spostato verso la parete alle spalle di Ianthe, af-


fiancandola. Lei non si disturbò a voltarsi, né gli badò. Si limitò a rag-
gomitolarsi su se stessa. Dietro a Sextus, le parole CI HAI MENTI-
TO incombevano nella loro vastità.
«Punto primo» disse, cantilenando, «preserva l’anima: con memoria
e intelletto intatti. Punto secondo, analizzala: comprendine la strut-
tura e la forma. Punto terzo, asportala e assorbila: spostala dentro di
te senza consumarla durante il processo.»
«Oh, cazzo» disse Harrow, a voce bassissima. Era tornata al fianco
di Gideon, cacciandosi il taccuino in tasca. «Il megateorema.»
«Punto quarto, bloccala: in modo che non si deteriori. Non ero
certissima di questa parte, ma ho trovato un metodo proprio qua,
in questa stanza. Punto quinto, incorporala: fai in modo che l’ani-
ma diventi parte di te senza lasciarti sopraffare. Punto sesto, consu-
ma la carne: non tutta quanta, basterà una goccia di sangue per an-
corarti. Punto settimo, la ricostruzione: fai lavorare insieme spirito e
carne come facevano prima, ma in un corpo nuovo. E poi, come ul-
tima cosa, collega i cavi e lascia fluire l’energia. Per te, Ottavo, que-
sto pezzo sarà una passeggiata… sospetto sia stato il contributo del-
la tua Casa.»
Palamedes disse: «Principessa. Non hai mai avuto neanche una
chiave. Non hai mai visto nessuna stanza, a parte questa».
«Come accennavo» disse Ianthe, «sono molto, molto brava e, inol-
tre, non manco di buonsenso. Se riesci a vedertela con le sale delle
prove, non hai bisogno degli appunti… non se sei la miglior necro-
mante mai prodotta dalla Terza Casa. Non è così, Corona? Tesoro,
smettila di piangere, ti farai venire un gran mal di testa.»
«Sono arrivato alla tua stessa conclusione» disse Palamedes, ma il
suo tono era freddo e inflessibile. «E l’ho scartata, trovandola obbro-
briosa. Obbrobriosa e banale.»
«Obbrobriosa e banale sono i miei secondi nomi» disse la gemel-
la pallida. «Sextus, dolce santarellino della Sesta. Usa quel tuo cer-
vellone muscoloso. Non sto parlando di calcolo avanzato. Diecimila
anni fa il Re Imperituro aveva sedici accoliti, e poi ne rimasero otto.
Chi erano i paladini fedeli ai Littori? Dove sono finiti?»
Palamedes aprì la bocca come se volesse rispondere alla doman-
da; ma era andato a sbattere contro qualcosa, sulla parete di fondo,

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e si era immobilizzato. Gideon non lo considerava un tipo capace di


star fermo. Era una creatura fatta di movimenti repentini e dita che si
aggrovigliavano. Camilla lo osservava con palese sospetto; stava pas-
sando il pollice sul bordo di una delle lettere di vernice nera, ma il re-
sto del suo corpo era rigido. Sembrava che qualcuno l’avesse spento,
schiacciando un bottone.
Ma Silas stava dicendo: «Nulla di tutto ciò spiega perché avete uc-
ciso Naberius Tern».
Ianthe inclinò il capo di lato, come un’ubriaca, e lo squadrò. Il vio-
la dei suoi occhi era quello di un fiore secco; la bocca aveva il colore
e la morbidezza della roccia.
«Allora non stavi ascoltando. Io non ho ucciso Naberius Tern. Io
ho mangiato Naberius Tern» gli disse con indifferenza. «Gli ho infil-
zato il cuore con la spada per tenere l’anima al suo posto. Poi l’ho in-
globata nel mio corpo. Ho derubato la Morte stessa… ho bevuto l’es-
senza del suo spirito immortale. E ora lo brucerò, e lo brucerò, e lo
brucerò e lui non morirà mai davvero. Ho assorbito Naberius Tern…
sono più della somma della sua metà e della mia.»
Chinò di nuovo il capo verso il petto. Le scappò un singulto che
somigliava un po’ a un singhiozzo e un po’ a una risata. Nel farlo di-
ventò sfocata e indistinta – come se stesse uscendo dai margini, qual-
cosa di irreale. A Gideon si era già accapponata la pelle da un pezzo,
ma ora la pelle stava cercando proprio di darsela a gambe.
Palamedes disse, con un tono che pareva arrivare da una distanza
di diecimila anni: «Principessa, qualsiasi cosa pensi di essere riusci-
ta a fare, non l’hai fatta».
«Ah, no?» disse Ianthe.
Poi si alzò in piedi, ma Gideon non la vide muoversi. Ianthe si ri-
solidificò tutta d’un colpo, facendosi ora più reale di qualunque al-
tra cosa avesse intorno. La stanza sbiadì nell’insignificanza. Splende-
va dall’interno, come se avesse ingoiato una manciata di lampadine.
«Vuoi continuare a negarlo, persino adesso?» disse. «Dio santo, tutto
ha perfettamente senso. Addirittura gli stocchi… spade leggere, leg-
gere abbastanza da essere impugnate da un principiante… un necro-
mante. Ogni prova… fusione, controllo, legame, utilizzo… utilizza-
re chi? Ti sei accorto di non poter completare da solo nessuna delle
prove? No che non te ne sei accorto, eppure era il più grande cam-

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panello d’allarme. Ho dovuto ri-ingegnerizzare tutta la faccenda, an-


dando a ritroso, e solo guardando… e tutto da sola.»
Silas sembrò piuttosto normale quando si voltò e si rivolse alla ra-
gazza che singhiozzava monotona vicino alla lastra: «Principessa Co-
ronabeth. Sta dicendo la verità? E avete cercato di fermarla a un certo
punto? O, da necromante, avete capito quale atto stava commettendo?».
«Povera Corona!» esclamò Ianthe. «Non prendertela con lei, pa-
tetica controfigurucola pallida di un essere umano. Che cosa poteva
fare? Non sapete che mia sorella ha un orribile, triste segreto? Tutti
la guardano e vedono quello che vogliono vedere… bellezza e potere.
Capelli incredibili. La figlia perfetta di una Casa indomita.»
La Principessa di Ida non sembrava aver registrato che qualcuno
stava parlando con lei. Sua sorella proseguì: «Sono tutti ciechi. Co-
rona? Una necromante nata? C’è tanta necromanzia in lei quanta ce
n’era in Babs. Ma Papà voleva un set coordinato. E noi non voleva-
mo che nulla ci separasse… così abbiamo cominciato a mentire. È
da quando ho sei anni che mi tocca essere due necromanti. Affina la
concentrazione, credetemi. No… Corona non avrebbe potuto impe-
dirmi di diventare Littrice.»
Palamedes pronunciò un confuso: «Non può essere vero».
«Ma certo che è vero, allocco, l’Imperatore in persona ha contri-
buito a escogitarlo.»
«Quindi il Littorato è questo» disse Silas. Pareva mogio, quasi intimo-
rito, perso nei suoi pensieri. Gideon credette – solo per un istante – di
aver visto deglutire Colum Asht, le sue pupille che si dilatavano, imper-
cettibilmente. «Camminare coi morti per l’eternità… un potere immen-
so, che si ricicla dentro di te, originato dal sacrificio supremo… trasfor-
mare noi stessi in una tomba.»
«Lo capisci, vero?» disse Ianthe.
«Sì» fece Silas.
Colum chiuse gli occhi e restò immobile.
«Sì» ripeté Silas. «Capisco la fallibilità… e la fallibilità è una cosa
terribile da capire. Capisco che se l’Imperatore, Re Imperituro, venis-
se ora da me e mi chiedesse perché non sono un Littore, cadrei in gi-
nocchio e implorerei il suo perdono, per chiunque fra noi che, mes-
so alla prova, avesse fallito. Che io possa essere bruciato un atomo
alla volta nel buco più silenzioso nella regione più buia dello spazio,

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Signore… Principe Clemente… se mai contemplerò la possibilità di


tradire il patto che mi lega a lui e a te.»
Colum aprì di nuovo gli occhi.
«Silas…» cominciò.
«Ti perdonerò, prima o poi, Colum» disse suo zio a denti stretti,
«per aver dato per scontato che avrei potuto cader preda di questa
tentazione. Mi credi?»
«Voglio crederci» disse suo nipote, con fervore, con lo sguardo
perso in lontananza e il dito mancante che indugiava sul bordo dello
scudo. «Che Dio mi aiuti, voglio crederci.»
Ianthe disse, sprezzante: «Ma falla finita, lo risucchieresti fino all’ul-
tima goccia per conservare la tua virtù. Qua è la stessa cosa, solo più
umana».
«Non rivolgetevi più a me» disse Silas. «Vi dichiaro colpevole d’e-
resia, Ianthe Tridentarius. Vi condanno a morte. Visto che il vostro
paladino non è più fra noi, sarete voi a prendere il suo posto: riconci-
liatevi con la vostra Casa e con il vostro Imperatore, perché giuro sul
Re Imperituro che in questa vita non troverete più pace, da nessuna
parte, in nessun mondo che deciderete di visitare. Fratello Asht…»
Harrow disse: «Octakiseron, fermati. Non è il momento.»
«Purificherò tutto ciò che ci circonda, Nona, per impedire alle
Case di scoprire fino a che punto abbiamo degradato noi stessi» dis-
se Silas. Il suo paladino sfoderò la spada e fece scivolare le dita callo-
se e troncate sull’impugnatura dello scudo: si era piazzato davanti a
loro con un’espressione che somigliava troppo a un profondo sollie-
vo perché Gideon riuscisse davvero a decifrarla. Il suo adepto disse:
«Colum l’Ottavo. Senza pietà».
«Qualcuno lo fermi» disse Ianthe. «Sesta. Nona. Non voglio spar-
gimenti di sangue. Cioè, non voglio spargere altro sangue.»
Harrow disse: «Octakiseron, imbecille, ma non vedi che…», men-
tre Camilla esclamava: «State tutti indietro…».
Ma Colum Asht non arretrò. Si gettò su Ianthe come un lupo sull’o-
vile. Era incredibilmente veloce, per un uomo così grosso e all’appa-
renza malridotto, e la colpì con una forza cinetica tale che, in teoria,
sarebbe dovuta volare contro la parete come un panino spiaccicato.
Il suo braccio era saldo e sicuro; la sua mano e la sua spada non mo-
stravano segni di esitazione.

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Ma nemmeno Ianthe esitò. Gideon aveva visto la splendida spada


della Terza Casa abbandonata in una pozza di sangue accanto al cor-
po del suo paladino: ora, all’improvviso, era fra le mani della sua prin-
cipessa necromante che intercettò l’altra lama con una parata piatta
– respingendo quel fendente titanico come se Ianthe non fosse più
bassa di una testa e pesasse un terzo di lui – e ristabilì le distanze con
precisione perfetta e sicura.
Fu con un movimento di Naberius Tern che Ianthe ripiegò un brac-
cio dietro la schiena, e anche i passi perfetti e precisi erano quelli di
Naberius Tern. Era di una stranezza unica vedere le mosse di Nabe-
rius Tern dispiegarsi nel corpo di Ianthe Tridentarius – ma eccole
lì, riprodotte anche nel modo in cui teneva sollevato il capo. Colum
si proiettò in avanti per riguadagnare vantaggio, un fendente verti-
cale dall’alto, mirando alle clavicole scoperte. Lei schivò il suo colpo
con sufficienza fanciullesca e contrattaccò. Colum la arginò a stento.
Fu solo allora che Gideon afferrò davvero quello che aveva fatto
Ianthe. Lo spettacolo assurdo di una necromante con una spada in
mano – un fantasma che combatte indossando la tuta di carne del-
la sua adepta – trasformò in realtà la morte di Naberius, che era sì
morto, ma dentro a Ianthe. Non le aveva insegnato a combattere: era
lui che combatteva. Ecco il contrattacco istantaneo di Naberius; ecco
l’eccelsa parata di Naberius, lo scarto minimo che bastava a levare
di mezzo lo scudo di Colum. In condizioni normali, Gideon avreb-
be osservato affascinata il paladino dell’Ottava all’opera – era legge-
ro come una piuma, ma i suoi colpi pesavano come il piombo – ma il
suo sguardo era calamitato da Ianthe, solo da Ianthe, che si muove-
va come Naberius più di quanto lo stesso Naberius avesse mai fatto,
agile e flessuosa, sovrumana come un fuoco fatuo.
Ma c’era una fregatura. La spada della Terza Casa doveva pesa-
re almeno un chilo, e la memoria muscolare di Naberius non pote-
va aver tenuto precisamente in considerazione le braccia di Ianthe.
Una qualche forma di energia doveva aver compensato la sua cor-
poratura – il gomito le si sarebbe dovuto chiudere come una porta –
ma, per quanto Ianthe si impegnasse, la sua forza era insufficiente a
brandire quell’affare, anche se solo di una minima frazione. Sudava.
C’era un solco che segnava quella fronte dalla calma sovrannatura-
le, un’increspatura agli angoli degli occhi, quella leggera oscillazio-

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ne ubriaca del capo di cui aveva sofferto anche prima. Quando si in-
debolì, Colum approfittò del vantaggio. Lei si riscosse, ma lui alzò il
piede e le scalciò via di mano la spada che andò a sbattere contro la
parete, dove aveva sostato in precedenza Palamedes, e cascò lì con
un tintinnio miserabile, ormai fuori dalla portata di Ianthe. Colum
sollevò l’arma.
La Principessa della Terza Casa portò una mano alla bocca; stac-
cò un pezzo di carne dal palmo e glielo sputò, come un missile. Ian-
the sparì sotto a una tenda rigonfia e untuosa – cellulosa, carnosa,
rivestita lungo tutta la superficie da bolle di un giallo neon dalla sot-
tile patina rosata. Colum rimbalzò contro quella roba come se si fos-
se schiantato contro un muro di mattoni. Finì a culo all’aria, rotolan-
do, riuscendo a puntellarsi e a rimettersi in piedi solo all’ultimo. Si
rimise in posizione, col fiato grosso. Dove prima c’era una necroman-
te, ora c’era una cupola semitrasparente di pelle e grasso sottocuta-
neo: uno spettacolo assurdo. Senza il minimo ribrezzo, Colum caricò
di nuovo, colpendola con lo scudo e producendo un orrendo squirk
umidiccio. Era gommosa: gli rimbalzò contro. Le sferrò un potentis-
simo fendente con la spada, dall’alto verso il basso: la bolla di carne
si strappò e sanguinò, ma non cedette.
Gideon portò la mano alla spada, pronta a sguainarla, e si infilò il
guanto. Delle dita sottili le strinsero il polso. Quando si voltò, Har-
row era lì, con le labbra contratte.
«Non ti avvicinare» le disse. «Non la toccare. Non sognarti nem-
meno di toccarla.»
Gideon si guardò attorno in cerca della Sesta Casa: trovò solo Ca-
milla, le spade nel fodero, il viso impassibile. I presenti erano inten-
ti a osservare con un certo imbarazzo, trattenendo silenziosi il fia-
to mentre Colum girava intorno a quel ripugnante scudo di carne,
colpendolo di taglio per testarne la resistenza e affondandoci den-
tro la lama con foga, sbuffando quando la pelle non cedeva. Poi Si-
las chiuse gli occhi e proclamò, sereno: «Sta al necromante combat-
tere il necromante».
Colum sollevò il braccio per sferrare uno splendido colpo diago-
nale, poi si bloccò come se l’avessero punto. Si ritirò, tenendo la spa-
da e il piccolo scudo pronti, e digrignò i denti. Ora Gideon sapeva
che cosa significava farsi risucchiare e avrebbe giurato su Dio di po-

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ter scorgere una nebbiolina nell’aria. Riuscì a percepire il gelo, men-


tre il necromante cominciava a sifonare.
«Smettila di respingermi» disse Silas, senza aprire gli occhi.
Colum disse, rabbioso: «Non farlo. Non annullarmi. Non questa
volta.»
«Fratello Asht» disse il suo necromante, «se non riesci ad avere
fede, almeno obbedisci, per l’amor del cielo.»
Colum emise un suono gutturale. Sotto al muro di carne striato di
giallo si riusciva a intravedere la sagoma di Ianthe. Silas si avvicinò
con passo leggero – scariche di elettricità gli solcavano la pelle e le
mani, arcuandosi – e posò i palmi sullo scudo.
La pelle si corrugò attorno alle sue dita e, per un istante, Gideon
credette che stesse funzionando. Poi la pelle gli risucchiò le mani ver-
so l’interno, increspandosi, irta di zanne mordaci. Lo scudo lo mor-
sicò selvaggiamente e i polsi di Silas si macchiarono di sangue. Urlò,
e poi chiuse gli occhi, il calore si irradiava da lui a ondate; Colum di-
ventò sempre più grigio, sempre più immobile, e Silas serrò i pugni.
Lo scudo fece pop, come un brufolo o un bulbo oculare, e si afflo-
sciò a terra in striscioline sfilacciate e grumi tremolanti. Silas fu qua-
si sorpreso di trovarsi di fronte Ianthe, che si stringeva la testa fra le
mani con le nocche livide. Quando Ianthe sollevò lo sguardo, i suoi
occhi erano selvaggi e bianchi, e il grido che emise avrebbe richiesto
molte più corde vocali di quelle che possedeva.
Silas le si avvicinò con il calor bianco dell’omicidio tra le mani. Ian-
the lo schivò e si tuffò sotto a uno dei lembi ancora ribollenti di quel-
lo che era stato il suo scudo. Si intrufolò sotto la pelle con un tonfo
acquoso, proiettando sul pavimento delle goccioline di grasso caldo e
giallo. La pelle si ricoprì di vescicole e si raggrinzì come se fosse sta-
ta bruciata, e poi si squagliò in una pozzanghera viscosa, senza che
di Ianthe rimanesse traccia.
Silas si inginocchiò accanto alla pozza, e – con la cotta di maglia
che cominciava a deformarsi e a cedere sulla perfetta tunica bianca –
ci tuffò dentro una mano. Colum fece un verso, come se gli avesse-
ro mollato un pugno nello stomaco. Una mano sanguinolenta emer-
se dalla pozzanghera, afferrò Silas per la spalla e lo trascinò dentro.
Il soffitto si squarciò come una nube temporalesca e un torrente di
pioggia insanguinata e oleosa precipitò su di loro. Gideon e Harrow,

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con un conato, si calarono i cappucci sulla testa. Due sagome preci-


pitarono giù, sporche di sangue e plasma. Ianthe atterrò in piedi e,
con grazia, si scrollò di dosso quella fetida brodaglia rossa. Era pra-
ticamente illesa, mentre Silas si schiantò violentemente al suolo. Sul
viso di Ianthe c’era un vago alone rosso, come il segno lasciato da uno
schiaffo; Ianthe si toccò la guancia e questo scomparve.
Silas si mise in ginocchio a fatica e giunse le mani. La sensazione
di risucchio stappò entrambe le orecchie di Gideon. Vide il suo po-
tere avvolgersi attorno a Ianthe, che scoppiò in una risata incredula.
Respirava affannata, quasi in iperventilazione.
«Octakiseron» disse Ianthe, «sono più veloce io a creare che tu ad
assorbire.»
«Sta cercando di prosciugarla» mormorò Harrow, ipnotizzata. «Ma
si sta sbilanciando… deve riportare indietro Colum, o…»
Colum – cinereo, ubriaco nei movimenti, insensibile – aveva alzato
la spada e si stava avvicinando inesorabilmente a Ianthe. Le sferrò un
manrovescio in faccia con lo scudo, come per metterla alla prova. La
testa di Ianthe tornò di scatto a raddrizzarsi – sembrava più stupita e
sorpresa che ferita o dolorante. Respirava ormai a singulti. Si ricom-
pose come se nulla fosse, e il paladino affondò con la spada. Lei sollevò
un braccio e afferrò la lama splendente come se niente fosse. Aveva la
mano insanguinata, ma era il sangue stesso a opporre resistenza, respin-
gendo serenamente la spada come un assortimento di dita aggiuntive.
Silas giunse le mani, e la pressione per poco non fece vomitare Gi-
deon. Colum strattonò la spada – il sangue si frantumò come schegge
di vetro – e Ianthe barcollò, anche se nessuno l’aveva toccata. Men-
tre Ianthe si scostava da Colum, il sangue sul pavimento, sulle pare-
ti e sul soffitto si asciugò, bruciando come se non fosse mai esisti-
to. Aveva ancora gli occhi di quell’orrendo bianco vuoto, e si teneva
la testa tra le mani, scrollandola come se volesse riportare il cervel-
lo nella posizione giusta.
«Non puoi farmi questo, smettila!» sibilava. «Basta!»
Colum si voltò e, con uno splendido movimento fluido, le sferrò un
colpo diagonale alla schiena. Era una ferita superficiale. Ianthe non
sembrò nemmeno accorgersene. Il sangue le inzuppò la graziosa ve-
ste gialla e lo squarcio rivelò la ferita che si stava rimarginando da
sola, fino a chiudersi. «Ascoltami» stava dicendo, «Babs, ascoltami.»

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Silas sbatté i pugni a terra. A Ianthe si mozzò il fiato. La bocca e


la pelle le si raggrinzirono, ritirandosi: si bloccò, impacciata, rigida,
gli occhi sgranati per la sorpresa. I rimasugli di sangue si sollevarono
dal pavimento in pallide volute di fumo, fluttuando verso l’alto tut-
to intorno a loro. Per un istante tutto si candeggiò, pulito, facendosi
di un biancore luminoso. Al centro di quel pandemonio c’era Ianthe,
ferma e curva in una posizione innaturale. Un sudore sanguinolento
sgocciolava quieto dal naso e dalle orecchie di Silas.
Gideon sentì Harrow sobbalzare…
Le scialbe iridi violette di Ianthe erano tornate, così come le pu-
pille, anche se forse un po’ più pallide di prima. Stava invecchiando a
vista d’occhio. La pelle le si disfaceva addosso come carta filamento-
sa. Ma non stava fissando Silas, che la teneva immobilizzata come se
le stesse davvero stringendo il cranio tra le mani. Stava fissando, in-
credula, Colum l’Ottavo.
«Be’, adesso sì che sei fottuto» annunciò.
Gli occhi di Colum l’Ottavo erano di un nero liquido, com’erano
stati, prima, quelli di Ianthe col loro bianco squagliato. Non si muo-
veva più come un essere umano. L’economia di movimento del guer-
riero; le traiettorie ampie e gradevoli di chi si è addestrato con la spa-
da per una vita intera; l’agile gioco di gambe. Spariti. Ora si muoveva
come se dentro di lui ci fossero sei persone, e nessuna di quelle sei
persone si era mai trovata prima dentro a un essere umano. Tirò su
col naso. Inclinò il capo di lato… e continuò a inclinarlo. Con un crac
terrificante, girò la testa di centottanta gradi per osservare, impassi-
bile, quello che c’era dietro di lui.
Una delle lampade fischiò, esplose e si spense in una cascata di scin-
tille. L’aria era freddissima. Il fiato di Gideon usciva in gelide volute
bianche nell’oscurità improvvisa, mentre le luci sopravvissute face-
vano del loro meglio per penetrare il buio. Colum si leccò le labbra
con la lingua grigia.
Dei frammenti d’osso rimbalzarono per terra. Harrowhark li aveva
lanciati descrivendo un lungo arco sopra le loro teste, finendo pro-
prio ai piedi di Colum. Degli spuntoni eruttarono dal pavimento, ac-
cerchiando Colum e imprigionandolo. Colum, con indifferenza, sol-
levò lo stivale bianco e li abbatté. Si dissolsero in una nube calcificata
di polvere color dente.

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Silas, quasi ridotto a un feto, sollevò lo sguardo dal pavimento.


Brillava ancora come una perla colpita da un raggio di sole, ma ave-
va perso la concentrazione. Ianthe, sdegnosa, si scrollò di dosso il
suo incantesimo, la carne si rimpolpò, il viso riprese colore. Si grat-
tò. C’erano delle luci sotto la pelle di Colum l’Ottavo: cose che spin-
gevano e strisciavano sotto ai suoi muscoli mentre camminava con
passo pesante, oscillando di qua e di là.
Silas si pulì il sangue dal naso e dalla bocca e disse, calmo: «Fratel-
lo Asht, ascolta le parole del sovrano della tua Casa».
Colum avanzò.
«Torna indietro» disse Silas, senza scomporsi. «Ti comando di fare
ritorno. Ti comando di fare ritorno. Colum… io ti comando di fare
ritorno. Ti comando di fare ritorno. Ti comando, ti comando, ti co-
mando, ti comando… Colum…»
La cosa che abitava Colum sollevò la spada di Colum e trapassò la
gola di Silas Octakiseron.
Gideon scattò. Sentì il grido ammonitore di Harrow, ma non riu-
scì a trattenersi. Estrasse lo stocco dal fodero e si buttò su quella roba
grigia che indossava la pelle di una persona. Non era un paladino:
non bloccò l’arco descritto dalla sua spada con una parata. Si limi-
tò a mollarle una bordata con lo scudo di Colum, con una forza che
nessun essere umano avrebbe mai potuto possedere. Gideon barcol-
lò, per poco non cadde, e schivò un colpo di spada menato dall’alto
verso il basso senza la minima grazia. Approfittò del suo movimen-
to, si accostò, gli torse il braccio, schiacciandolo fra il suo corpo e la
spada, e gli spezzò il polso con un crac carnoso. La cosa spalancò la
bocca e spalancò gli occhi, a tanto così dalla sua faccia. I bulbi ocula-
ri erano spariti – i bulbi oculari di Colum erano spariti – e ora, nelle
orbite, c’erano delle bocche irte di denti, con delle linguette che si di-
menavano. La lingua nella bocca originaria si allungò all’infuori, ver-
so il basso, avvolgendosi attorno al collo di Gideon…
«Basta così» disse Ianthe.
Era apparsa alle spalle di quella cosa grigia che un tempo era sta-
ta Colum. Gli prese il collo deformato tra le mani, con calma e tran-
quillità, come se fosse un animale, e glielo girò. Il collo si ruppe. I pol-
pastrelli gli sprofondarono nella pelle; gli occhi-bocca stridettero e
la lingua che stringeva il collo di Gideon si ritirò, molle, mentre en-

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trambe le bocche si squagliavano in un liquido salmastro. Il corpo si


afflosciò sul pavimento…
… e riprese le sembianze di Colum, il volto sfigurato, la testa gira-
ta dalla parte sbagliata, abbandonato sul guscio sforacchiato del suo
giovane zio morto. Non c’era alcun sollievo in quel grosso corpo mal-
concio che cingeva il suo necromante in una macabra imitazione di
quello che erano state le loro vite. Nessuno dei due era più vestito
di bianco: erano macchiati dalla testa ai piedi di giallo, rosso e rosa.
Le luci ripresero a ronzare, meste. L’aria si alleggerì. In mezzo a tut-
to quel marciume c’era Ianthe, somigliava a una falena fatata. Tirò su
delicatamente l’orlo delle sue gonne e le scrollò. Il sangue e il muco
si staccarono come polvere.
La Principessa di Ida osservò il disastro che la circondava: poi si
diede uno schiaffetto, come si fa quando si vuole svegliare qualcuno.
«Ripigliati» si disse. «Per poco non perdevamo.»
Si voltò verso Gideon, Camilla e Harrow, e disse…
«In quest’edificio ci sono cose ben peggiori di me. Considerate-
lo un regalo.»
Poi fece un passo indietro, piazzandosi nella pozza di sangue di
Silas, e scomparve. Rimasero da soli nella stanza, in compagnia dei
corpi riversi di Silas Octakiseron, Colum Asht e Naberius Tern; più
il respiro sommesso e tragico di Coronabeth Tridentarius, che somi-
gliava a un mucchio di gioielli tritati.
Gideon si precipitò da lei, smaniando per muoversi, per allonta-
narsi dal centro della stanza e da quello che conteneva, per avvici-
narsi alla gemella abbandonata della Terza. Corona sollevò lo sguar-
do verso di lei, le bellissime ciglia piene di lacrime e gli occhi gonfi di
pianto. Si buttò tra le braccia di Gideon e singhiozzò in silenzio, com-
pletamente demolita. Gideon trovò confortante che in quella gabbia
di matti ci fosse ancora qualcuno umano a sufficienza per piangere.
«Sei a posto… cioè, stai bene?» disse Gideon.
Corona si ritrasse da Gideon e la fissò, i capelli appiccicati alla fron-
te dal sudore e dalle lacrime. «Ha preso Babs» disse. Era innegabile.
Ma poi Corona ricominciò a piangere, grandi goccioloni le zampil-
lavano dagli occhi, la voce roca per la disperazione e l’autocommise-
razione. «Ma chi se ne frega poi di Babs? Babs! Poteva prendersi me.»

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Abbandonarono la gemella solitaria a quel
suo dolore, amaro e alieno. Camilla, Harrow e Gideon uscirono in cor-
ridoio, sbigottite. Gideon stava ruotando l’articolazione della spalla
per assicurarsi che nulla fosse scrocchiato fuori posto, e Harrowhark si
stava staccando a schicchere dei grumi di materia indicibile dalle ma-
niche, quando Camilla esclamò: «Il Guardiano. Dov’è il Guardiano?».
«L’ho perso di vista durante il combattimento» disse Gideon. «Cre-
devo fosse dietro di te.»
Harrow rispose: «Era lì… e io ero vicino alla porta. C’era ancora,
un paio di minuti fa».
«L’ho perso di vista» fece Camilla. «Non lo perdo mai di vista.»
«Frena, frena» disse Gideon, in tono molto più rassicurante rispet-
to a come si sentiva davvero. «Sa il fatto suo. Probabilmente è anda-
to a controllare se Dulcinea sta bene. Harrow dice che ho un debole
per Dulcinea…» («Ce l’hai» disse Harrow, «un debole per Dulcinea»)
«… ma lui è seicento volte più smollacchioso di me, e continuo a non
spiegarmelo.»
Camilla la squadrò e si scostò la frangia scura dagli occhi. Nel suo
sguardo c’era qualcosa di più intransigente dell’impazienza.
«Il Guardiano» disse «intrattiene una corrispondenza epistola-
re con Dulcinea Septimus da dodici anni. Ha un debole per lei. Uno
dei motivi per cui è diventato l’erede della Casa era per incontrarla
ad armi pari. Ha intrapreso lo studio della scienza medica puramen-
te a suo beneficio.»
Al che, tutti i fluidi contenuti nel corpo di Gideon si tramutarono
in piscio congelato.

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«Ma lei… lei non l’ha mai nemmeno nominato» disse stupidamente.
«No» disse Camilla.
«Ma lei… voglio dire, ho passato parecchio tempo con lei e…»
«Sì» fece Camilla.
«Oddio» disse Gideon. «E lui è stato così gentile. Oh mio Dio. Ma
perché cazzo non mi ha detto niente? Io non… cioè, io non ho mai
davvero… voglio dire, lei e io non…»
«Le ha chiesto di sposarlo un anno fa» disse Camilla, spietata, ora
che qualche argine era crollato, «in modo che potesse trascorrere il
tempo che le restava insieme a qualcuno che avesse a cuore il suo be-
nessere. Lei ha rifiutato, ma non perché lui non le piacesse. Non che
le Regole Imperiali che governano i matrimoni fra necromanti al di
fuori delle loro Case si fossero allentate, poi. Dopodiché, le lettere si
sono diradate. E quando è arrivato qua, lei l’aveva ormai superata. Mi
ha detto che era contento di vederla passare del tempo con qualcu-
no che la facesse ridere.»
Quel giorno erano morte cinque persone; era strano constatare
quanto le piccole cose si ingigantissero, al confronto. La tragedia ave-
va saturato le ossa in via di fossilizzazione e i cuori statici della Casa
di Canaan, ma c’era anche una tragedia più profonda nei fili imper-
fetti che sorreggevano le loro vite. Un bambino di otto anni che scri-
veva lettere d’amore a un’adolescente malata terminale. Una ragazza
che si innamorava dello splendido cadavere che avrebbe dovuto sor-
vegliare, essendo stata concepita per quell’unico scopo. Una trova-
tella che inseguiva l’approvazione di una Casa indispettita dalla sua
immunità a un gas ammazza-orfanelli.
Gideon si coricò sul pavimento, a faccia in giù, e si fece venire una
crisi isterica.
La sua necromante stava commentando: «Ma non ha alcun senso».
«Zero» disse Camilla, grave, «ma va così da quando conosco
entrambi.»
«No» disse Harrow. «Quel che intendo è che Dulcinea Septimus
mi ha parlato due volte di Palamedes Sextus, ma come se fosse un
estraneo. Mi ha detto che non lo conosceva affatto, dopo che aveva
respinto la sua proposta per la prova di sifonaggio.»
Gideon, sempre a faccia in giù sul pavimento polveroso, mugolò:
«Voglio morire».

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Un piede la pungolò, non senza una certa gentilezza. «Tirati su,


Griddle.»
«Perché sono nata così attraente?»
«Perché altrimenti tutti quanti ti avrebbero strangolata dopo cin-
que minuti» disse la sua necromante. Era concentrata su Camilla. «Ma
perché un voltafaccia del genere, se tutto è andato davvero come ce
l’hai descritto tu? Continuo a non capire.»
«Se solo lo sapessi» disse la Sesta paladina, inquieta, «la mia qua-
lità della vita, il mio sonno e il mio benessere ne uscirebbero miglio-
rati. Nona, alzati. Lui non ti odia. Non hai rovinato niente. Lui e lei
sono sempre stati molto più complicati di così. Non l’aveva nemme-
no mai incontrata di persona prima di arrivare qui.»
Gideon riemerse dalla sua posizione prona e balzò in piedi come
una molla. Il suo cuore era un mucchio di cenere secca, ma continua-
va a sembrarle importantissimo, per quanto ridicolo, che Palamedes
Sextus non ce l’avesse con lei: che lì, al termine di tutto il loro mon-
do, appena prima dell’intervento divino, tutti i piccoli inghippi delle
loro vicende personali venissero sbrogliati.
«Lo devo raggiungere» disse lei, «per favore, lasciateci un paio di
minuti da soli. Harrow, vai a prendermi lo spadone, è nel doppiofondo
del mio baule.» («Il tuo che?» esclamò Harrow, terrorizzata.) «Cam,
per favore, tienimela d’occhio, fammi questa cortesia enorme. Mi di-
spiace di essere una rovinafamiglie.»
Gideon si girò e partì a razzo. Sentì Harrow urlare: «Nav!» ma non
le badò. Lo stocco le rimbalzava goffamente sul fianco, il braccio le
scattava nell’articolazione e si sentiva ancora il collo strano, ma non
poteva fare altro che correre più forte che poteva verso il punto in cui
sapeva che avrebbe trovato i suoi due ultimi alleati viventi: la stanza
in cui Dulcinea Septimus giaceva, agonizzante.
Trovò il Guardiano fermo a metà del lungo corridoio, in piedi di
fronte alla porta chiusa della stanza di lei. L’orlo delle vesti grigie si-
bilava sul pavimento, e lui sembrava perso nei suoi pensieri. Gideon
inspirò e lui si accorse della sua presenza. Si levò gli occhiali, pulì le
lenti con la manica e si girò a guardarla, mentre se li risistemava sul
naso lungo.
Si squadrarono per quella che le parve un’eternità. Fece un passo
in avanti e aprì la bocca per dirgli: “Sextus, mi dispiace…”.

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Lui piegò le dita, come si farebbe con un foglio di carta. Il corpo


di Gideon si bloccò di botto, come se degli aculei d’acciaio le avesse-
ro trafitto mani e gambe. Gideon si sentì gelare. Cercò di parlare, ma
la lingua le si era appiccicata al palato e sentiva il sapore del sangue.
Provò a dibattersi – un insetto infilzato da uno spillo – e lui la fissò,
con una freddezza e un distacco che non gli appartenevano.
Palamedes contemplò il suo operato, e vide che era buono. Poi spa-
lancò la porta di Dulcinea. Gideon tentò di sbarazzarsi delle sue cate-
ne invisibili, ma sentiva le ossa rigide dentro di sé, come se fosse solo
una calza di carne che le rivestiva. Il cuore lottava contro la gabbia
toracica inflessibile, il terrore cominciò a serrarle la gola. Lui le sor-
rise, e quella strana alchimia lo rese bello, gli occhi grigi luminosi e
limpidi. Palamedes entrò nella stanza dell’inferma.
Non chiuse la porta. Dall’interno arrivarono dei suoni attutiti. Poi
sentì la sua voce, distintamente.
«Vorrei averti parlato sin dall’inizio.»
La voce di Dulcinea era più smorzata, ma udibile.
«E perché non l’hai fatto?»
«Avevo paura» disse lui, sincero. «Sono stato uno stupido. Ave-
vo il cuore spezzato, capisci? Quindi è stato più facile credere che le
cose tra noi fossero cambiate, tutto lì. Che Dulcinea Septimus stes-
se cercando di non urtare i miei sentimenti coccolando un bambino
ignorante che aveva cercato di salvarla da qualcosa non avrebbe mai
potuto comprendere, non bene quanto lei. Io tenevo a lei, e Camil-
la teneva a noi. Credevo che Dulcinea stesse cercando di salvarci en-
trambi dal dolore di vederla fallire, e morire, nella nostra impresa.»
Nella stanza scese il silenzio. Lui proseguì: «Quando tutto è comin-
ciato io avevo otto anni e tu… tu, Dulcinea ne avevi quindici. I miei
sentimenti erano profondi ma, per carità di Dio, capivo perfettamen-
te. Ero un neonato. Ciononostante, sono stato trattato con infinito
tatto e gentilezza. I miei sentimenti sono sempre stati presi terribil-
mente sul serio, e io sono stato trattato come qualcuno che sapeva di
cosa stava parlando. È comune, nella Settima Casa?».
Gideon riuscì a percepire un sorriso velato nella voce di Dulci-
nea. «Immagino di sì. Lasciano morire i giovani necromanti da mol-
to, molto tempo. Quando cresci e sei così tremendamente malato, ti
abitui al fatto che tutti prendano quelle decisioni per te… e lo dete-

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sti… quindi tendi a voler prendere sul serio i sentimenti degli altri, al
contrario di come vengono considerati i tuoi.»
Palamedes disse: «Ci sono due cose che voglio sapere».
«Anche più di due, se vuoi. Ho tutta la giornata libera.»
«Non me ne servono più di due» fece lui, calmo. «La prima è: per-
ché la Quinta?»
Ci fu una pausa perplessa. «La Quinta?»
«La Nona e l’Ottava casa rappresentavano un pericolo ben più pa-
lese e imminente» disse lui. «La Nona per la manifesta abilità di Har-
row, l’Ottava per la facilità con cui avrebbero potuto smascherarti: un
qualsiasi passo falso avrebbe fatto capire a un necromante dell’Ot-
tava che non eri chi dicevi di essere. Per accertarsene gli sarebbe ba-
stato sifonarti. Continuo ancora a domandarmi perché io sono anco-
ra in piedi… se mi è concessa quest’arroganza. Ma è stata la Quinta
Casa a spaventarti.»
«Io non…»
«Non mentirmi, per favore.»
Dulcinea disse: «Non ho mai mentito, a nessuno di voi».
«Allora… perché?»
Un minuscolo sospiro svolazzante, come una farfalla che si posa.
Gideon la sentì dire: «Be’, pensaci bene. Abigail Pent era esperta nel
conversare con i morti. Non va bene. Non è insormontabile, ma è un
problema. Ma per quanto ciò rappresentasse un fattore, non era la
vera motivazione… per lei era un hobby».
«Un hobby?»
«Non pensavo che a nessuno importasse qualcosa del passato più
remoto… ma Pent nutriva un malsano interesse per la storia. Era in-
teressatissima a tutte le anticaglie che stava scoprendo in bibliote-
ca, nelle stanze. Lettere, appunti… fotografie… l’archeologia di una
vita umana.»
«Abigail Pent sarà anche stata una necromante, ma era anche una
storica… celebre, oserei aggiungere. Non hai fatto i compiti.»
«Oh, mi sto flagellando, credimi. Avrei dovuto ripulire questo posto,
prima di ogni altra cosa. Ma mi sono lasciata prendere dalla nostalgia.»
«Capisco.»
«Diamine, sono felice che tu non l’abbia fatto. Non ho compreso la
tua padronanza dell’anima dell’oggetto. Psicometria della Sesta.» Ci

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fu un’improvvisa risata squillante. «Dovresti essere veramente felice


che io non l’abbia capito, credimi. Pent, già di suo, mi ha fatto pren-
dere un bello spavento.»
«E hai nascosto la chiave dentro di lei… perché?»
«Tempo» disse Dulcinea. «Non potevo permettermi che qualcu-
no scoprisse che ce l’avevo. Nasconderla nella sua carne ne ha celato
le tracce. Pensavo che l’avresti trovata prima, in tutta sincerità… ma
mi ha lasciato del margine per intoppare la serratura. Chi è riuscito
a sbloccarla? Ero sicura di averla resa assolutamente inutilizzabile.»
«È stata la Nona.»
«Sono estremamente ammirata» disse lei. «L’Imperatore adore-
rebbe impadronirsi di lei… ma grazie al cielo non succederà mai. Be’,
ecco un altro duro colpo per il mio ego. Se avessi pensato che il luc-
chetto sarebbe stato spezzato e la chiave trovata, avrei ripulito la stan-
za, non avrei lasciato tutto lì a disposizione… ma è proprio per quello
che ci siamo imbarcati in questa conversazione, ora, non è così? Hai
usato i tuoi trucchi psicometrici sul messaggio. Se non fossi entra-
to là dentro, non avresti mai saputo che c’ero stata anch’io. Sbaglio?»
«Forse» disse Palamedes. «Forse.»
«Qual è la seconda domanda?»
Gideon si dibatté di nuovo, ma venne riacciuffata all’istante, come
se l’aria che la circondava fosse colla. Era assolutamente impossibi-
litata a sbattere le palpebre e gli occhi erano un torrente di lacrime.
Riusciva a respirare, riusciva ad ascoltare, punto e basta. Il cervello
le traboccava di soavi vaffanculo.
Palamedes disse sommessamente: «Lei dov’è?».
Non ci fu risposta.
Disse: «Ripeto. Lei dov’è?».
«Credevo di aver raggiunto un accordo con lei» ammise con sem-
plicità Dulcinea. «Se solo mi avesse parlato di te… avrei potuto pren-
dere delle precauzioni aggiuntive.»
«Dimmi che cosa hai fatto di Dulcinea Septimus» disse Palamedes.
«Oh, è ancora qui» disse la persona che non era Dulcinea Septi-
mus, con noncuranza. «Ha risposto alla chiamata dell’Imperatore,
con tanto di paladino al seguito. Quel che è capitato a lui è stato un
incidente. Quando mi sono imbarcata sulla sua nave non ha voluto
sentire ragioni, e sono stata costretta a ucciderlo. Non era necessario

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che accadesse… non così, in ogni caso. Poi lei e io abbiamo discusso…
siamo molto simili. Non solo nell’aspetto, anche se nel nostro caso
era vero… occhi a parte, la Settima Casa è tremendamente prevedi-
bile in fatto di apparenze… ma la nostra malattia… era molto mala-
ta, malata quanto me, quando sono arrivata qui la prima volta. Forse
sarebbe riuscita a sopravvivere nelle settimane iniziali della sua per-
manenza, Sextus, o forse no.»
Lui commentò: «Allora tutta la storia di Protesilaus e della Setti-
ma Casa era una bugia».
«Non mi stai ascoltando. Non ho mai mentito» disse la voce. «Ho
detto che si trattava di un’ipotesi, e tutti vi siete detti d’accordo.»
«Sottigliezze semantiche.»
«Avresti dovuto fare più attenzione. Ma non ho mai mentito. Ven-
go davvero dalla Settima Casa… ed è stato un incidente. Comunque
lei e io abbiamo parlato. Era una personcina dolcissima. Avrei dav-
vero voluto fare qualcosa per lei… e dopo l’ho custodita il più a lun-
go possibile… finché qualcuno non ha eliminato il mio paladino. A
quel punto sono stata costretta a sbarazzarmi di lei, alla svelta… la
fornace era l’unica opzione. Non guardarmi così. Non sono un mo-
stro. Septimus era già morta, quando la navetta è atterrata a Cana-
an… non ha nemmeno sofferto.»
Ci fu una pausa molto lunga. Il tono di Palamedes non tradì nulla
quando disse: «Be’, è già qualcosa, almeno. Ora toccherà a tutti noi,
immagino».
«Sì, ma la questione non ha mai riguardato nessuno di voi» dis-
se la donna nella stanza insieme a lui. «Non personalmente. Sape-
vo che, se fossi riuscita a rovinare i suoi piani per i Littori, ucciden-
do gli eredi e i paladini di tutte e otto le altre Case, l’avrei costretto a
fare ritorno nel sistema, ma in una maniera sufficientemente sotti-
le da non spingerlo a portare con sé i consiglieri restanti. Se mi fossi
presentata ad armi spianate, lui sarebbe arrivato in assetto da guer-
ra e avrebbe spedito i Littori a sbrigare il lavoro sporco, come sem-
pre. In questo modo lo attirerò sulle basi di una falsa sensazione di…
semi-sicurezza, immagino. E non si prenderà nemmeno la briga di
varcare il confine del feudo di Dominicus. Si piazzerà lì bello como-
do, fuori dal sistema, tentando di scoprire che cosa sta succedendo,
proprio dove ho bisogno che stia. Darò al Re Imperituro, al Necrore

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Supremo, al Risurrettore, al mio signore e maestro, dei posti in pri-


ma fila mentre sbriciolo le sue Case, una alla volta. Voglio scopri-
re quante ne occorreranno prima che ceda e varchi il confine, prima
che veda che cosa arriverà al mio richiamo… e poi non dovrò più fare
nulla. Sarà troppo tardi.»
Una pausa.
«Perché mai uno dei Littori dell’Imperatore dovrebbe odiarlo?»
«Odiarlo?» La voce della ragazza che Gideon aveva conosciuto
come Dulcinea si alzò, decisa e veemente. «Odiarlo? Amo quell’uo-
mo da diecimila anni. Lo amavamo, tutti quanti noi. Lo veneravamo
come un re. Come un dio! Come un fratello.»
Il suo tono si abbassò, si fece molto normale e molto vecchio: «Non
so perché ti sto raccontando tutto questo… tu, che sei vivo da meno
di un battito di cuore, mentre io ho vissuto così a lungo da superare
il limite oltre il quale la vita perde di significato. Nessuno di voi di-
venterà Littore, e per questo dovete ringraziare la vostra buona stel-
la, Palamedes Sextus. Non è né vita né morte: è una sorta di via di
mezzo, e nessuno dovrebbe mai chiedervi di abbracciarla. Nemme-
no lui. Specialmente non lui».
«Non avrei mai potuto fare una cosa del genere a Camilla.»
«Allora sai com’è che succede. Ragazzo sveglio! Sapevo che l’avre-
ste capito tutti… prima o poi. Nemmeno io lo volevo fare… non lo
volevo fare affatto… ma stavo morendo. Loveday era la mia paladi-
na, lei e io ci siamo convinte che mi avrebbe permesso di vivere. In-
vece per tutto questo tempo mi sono semplicemente limitata a conti-
nuare a morire. No, tu non l’avresti fatto, e fai bene a non farlo. Non
si può fare una cosa simile all’anima di qualcuno. Maestro era quasi
diventato demente. Lo sai che cosa gli abbiamo fatto? Uso il noi, an-
che se lui non è stato il mio progetto… era un abominio. Prenditela
con la tua Casa! Non sarò mai grata abbastanza a quelle mammolet-
te della Seconda per averlo ucciso e aver chiamato aiuto. Lui era l’u-
nico, qui, che mi faceva paura. Non sarebbe riuscito a fermarmi, ma
avrebbe potuto rendere tutto molto più stupido.»
«Perché Maestro non ti ha riconosciuta?»
«Forse mi ha riconosciuta» disse la donna. Dal tono pareva stes-
se sorridendo. «Chi può sapere che cosa passava per la testa di quel
guazzabuglio di anime?»

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Ci fu un’altra pausa. Lei proseguì: «Ti stai dimostrando molto più


ragionevole di quel che credevo. Quando sei giovane, fai tutto quello
che ti viene in mente all’istante. Per esempio, io ho passato gli ultimi
trecento anni a riflettere su questa faccenda… ma ho dato per sconta-
to che avresti fatto qualche cretinata, una volta capito che era morta».
«Non sono il tipo che fa cretinate» disse Palamedes, tranquillo.
«Ho deciso di ucciderti nel momento esatto in cui ho capito che non
c’era più la possibilità di salvarla. Nient’altro.»
Lei scoppiò a ridere, una risata limpida e splendente come il ghiac-
cio. Venne troncata da un attacco di tosse – una tosse profonda e dal
suono malsano – ma continuò comunque a ridere, come se non le
importasse.
«Oh, lascia stare… lascia stare.»
«Mi serviva solo guadagnare tempo» disse lui, «dovevo agire len-
tamente, in modo che tu non te ne accorgessi… dovevo continuare
a farti parlare.»
Ci fu un altro scoppio di risa, anche questo intervallato da una po-
tente tosse grassa. Non seguirono altri risolini. Gli disse: «Mio giova-
ne Guardiano della Sesta Casa, che cosa hai combinato?».
«Ho annodato il cappio» disse Palamedes Sextus. «La corda me
l’hai data tu. Hai una forma grave di cancro sanguigno… proprio
come Dulcinea. Avanzato, così com’era il suo quando è morta. È
stazionario, perché il processo Littorio avvia un radicale rinnova-
mento cellulare al momento dell’assorbimento. Mentre tu chiacchie-
ravi, ho inventariato tutto ciò che in te è guasto… l’infezione pol-
monare batterica, i neoplasmi nella tua struttura scheletrica… e gli
ho dato una spintarella. Il dolore che ti ha afflitto nell’ultima miria-
de dev’essere stato considerevole. Ma spero che quel dolore non sia
nulla in confronto a quello che il tuo corpo sta per infliggerti ora,
Littrice. Morirai spremendoti i polmoni fuori dalle narici, fallen-
do proprio in prossimità del traguardo perché non hai potuto fare
a meno di cianciare sul perché hai ucciso degli innocenti, anche se
le tue motivazioni erano interessanti… questo è per la Quinta e per
la Quarta… per tutti quelli che sono morti, direttamente o indiret-
tamente, a causa tua… e, sul piano più personale, questo è per Dul-
cinea Septimus.»
La tosse non si arrestò. La Non-Dulcinea pareva impressionata, ma

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non troppo preoccupata. «Oh, ci vorrà ben più di questo. Sai cosa
sono… e sai cosa sono in grado di fare.»
«Sì» disse Palamedes. «E so anche che devi aver studiato la fis-
sione thanergica radicale, quindi avrai ben presente che cosa succe-
de quando un necromante disperde la sua intera riserva di thanergia
molto, molto in fretta.»
«Che cosa?» disse la donna.
Lui alzò la voce: «Gideon!» esclamò. «Di’ a Camilla…»
Si bloccò.
«Oh, non importa. Sa già che cosa fare.»
La camera dell’inferma esplose in una palla di fuoco bianca, e i
vincoli che immobilizzavano Gideon si spezzarono. Andò a sbatte-
re violentemente contro il muro e piroettò, come un’ubriaca, pri-
ma di essere scagliata giù per il corridoio mentre Palamedes Sex-
tus inceneriva tutto. Non c’era calore, ma Gideon si allontanò come
un fulmine da quella morte gelida e bianca senza lanciare nemme-
no un’occhiata alle sue spalle, come se le fiamme le stessero già di-
vorando i talloni. Ci fu un altro immane CRRR-RRR-RRRAC e un
boom. Il soffitto tremò, facendole precipitare sulla testa una casca-
ta di polvere d’intonaco mentre si buttava contro a una porta. Cor-
se a perdifiato giù per i lunghi corridoi, superando antichi ritratti
e statue sbriciolate, il tesoro custodito dalla tomba che era la Casa
di Canaan, gli ingranaggi di quella merdosa macchina fragile che si
sgretolavano mentre Palamedes Sextus si trasformava in una stella
sterminatrice di dèi.
Gideon cadde in ginocchio nell’atrio, davanti alla fontana prosciu-
gata con il suo scheletro arido e i suoi asciugamani umidicci. Appog-
giò la fronte sul bordo di marmo della fontana, scavandosi un solco
nella pelle, senza smettere di ascoltare il rombo della distruzione die-
tro di lei. Si schiacciò contro il bordo, come se il mero contatto con
una superficie potesse darle la possibilità di scendere dalla giostra. Per
quanto tempo restò lì – per quanto tempo ci si appoggiò, per quanto
rimase raggomitolata – non riuscì a capirlo. Aveva la bocca irrigidita
dalla voglia di piangere, ma gli occhi le rimasero asciutti come il sale.
Anni dopo – molte vite dopo – individuò del movimento sulla so-
glia dell’atrio che aveva superato di gran carriera. Gideon girò il capo.
Del vapore bianco si riversò fuori dall’apertura. In mezzo alla fo-

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schia c’era una donna: i riccioli color cerbiatto sfrigolavano malinco-


nici, ridotti a un niente, gli occhi azzurri avevano la profondità del-
la radiazione elettromagnetica. Enormi ferite esponevano le ossa e il
rosa squillante della carne delle braccia, del collo e delle gambe – e si
stavano ricucendo da sole, sotto lo sguardo di Gideon. Si era avvolta
nel lenzuolo bianco insanguinato che c’era sul suo letto, e se ne stava
lì dritta come un fuso, come se non ci fosse nulla di più semplice al
mondo. Il suo viso era vecchio – liscio e vecchio, più vecchio di tut-
to il marciume di Canaan messo insieme.
La donna per la quale Gideon si era presa una specie di cotta bran-
diva uno stocco splendente. Era scalza. Fece per superare la soglia fu-
mante ma si voltò dall’altra parte. Cominciò a tossire: scossa da uno
spasmo e dai conati, si aggrappò allo stipite. Con un fragoroso ululato
asfissiante, vomitò quella che somigliava alla quasi totalità di un pol-
mone – era punteggiato di bronchi malformati, con barbigli violacei
e tremolanti e unghie intere – che fece splat sul pavimento.
Grugnì, chiuse quei terrificanti occhi azzurri e si raddrizzò. Il san-
gue le gocciolava sul mento. Spalancò di nuovo gli occhi.
«Il mio nome è Cytherea la Prima» disse. «Littrice della Grande
Resurrezione, la settima santa al servizio del Re Imperituro. Io sono
una necromante e sono una paladina. Io sono la vendicatrice dei die-
ci miliardi. Sono tornata a casa per uccidere l’Imperatore e bruciare
le sue Case. E, Gideon la Nona…»
Si avvicinò a Gideon, sollevando la spada. E sorrise.
«Si comincia da te.»

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Camilla si abbatté sulla Littrice incombente
come la collera dell’Imperatore.
Le si gettò addosso dal fianco, coi due pugnali che lampeggiava-
no come luci segnaletiche nell’atrio illuminato dal sole. Dulcinea –
Cytherea – barcollò, improvvisò una parata, perse terreno. Aveva bi-
sogno di ristabilire le distanze per poter andare a segno con lo stocco,
ma Camilla non glielo permise; arretrava a ogni passo, mentre la pa-
ladina avanzava, attaccandola con una tale velocità e una tale fero-
cia che Gideon riusciva a malapena a distinguere i singoli colpi. Per
uno o due secondi le sembrò che Cytherea stesse parando i fenden-
ti a mani nude, ma poi si rese conto che una lancia ossea le era spun-
tata dalle nocche.
Camilla Hect, libera da ogni costrizione, era come luce che danza
sull’acqua. I suoi coltelli facevano breccia a ripetizione nella guardia
della Littrice, ancora e ancora. Cytherea li intercettava con destrez-
za, ma la rapidità e l’odio cristallino di Camilla erano tali da lasciarle
solo la speranza di poter parare quella tempesta di colpi; non poteva
nemmeno pensare di cominciare a contrastarli.
Ciò diede a Gideon il tempo di rimettersi in piedi, di preparare
la spada e di infilarsi il guanto, stringendo i legacci con i denti. Non
avrebbe mai dovuto dire a Camilla che il suo necromante era mor-
to e questa consapevolezza le fu di conforto. Stava già combattendo
come se le fosse scoppiato il cuore.
«Fermati» disse Cytherea. Camilla non la sentì. Superò la guardia
della Littrice e si ritrovò con la lama intrappolata in un groviglio di
spine che erano cresciute dallo spuntone osseo sulla mano seconda-

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ria. Le spine, flettendosi come serpenti, cominciarono ad avviluppar-


si oltre la sua guardia, coprendole la mano e il polso.
Perdendosi ben poco d’animo, avanzò di un passo e mollò una ca-
pocciata in faccia a Cytherea. Il cranio della Littrice si rovesciò all’in-
dietro, ma senza evidenti spargimenti di sangue. Scoppiò in una risata
densa e roca. Camilla si dimenò, ancora immobilizzata dall’agglome-
rato di ossa che le aggrovigliava la mano. Il pugnale le sfuggì dalle dita
insensibili, tintinnando sul pavimento. La pelle sembrò raggrinzirsi e
virare al grigiastro. E lei cominciò ad avvizzire.
Mentre Gideon sceglieva il miglior punto di ingresso per unirsi alla
zuffa, una pallida mano scheletrica apparve alle spalle di Cytherea e
le afferrò la faccia. Un’altra mano afferrò per il polso il braccio che
reggeva la spada. Dietro a Gideon, lo scheletro nella fontana comin-
ciò a muoversi. Harrowhark era in cima alla scalinata, la maschera
da teschio dipinta sul viso era dura e spietata come il mattino, i pal-
mi traboccanti di particelle bianche: le sparpagliò davanti a sé come
se stesse seminando un campo. Da ogni granulo d’osso scaturì uno
scheletro perfettamente formato, una gigantesca massa angolosa che
ribolliva e si accalcava sulle scale. Si misero in fila per assalire la Lit-
trice uno dopo l’altro. Un mare di ossa la sommerse.
Camilla si districò dal brulicante oceano soverchiante dei mor-
ti incoscienti di Harrow, stringendo con più sicurezza i coltelli con
le mani in via di guarigione – i muscoli delle braccia stavano visibil-
mente tornando alla loro forma originaria. Gideon avanzò, col cuo-
re in gola, pronta a prendere il posto di Camilla.
«Lascia stare!» le abbaiò la sua necromante. «Nav! Prendi!»
Altri sei scheletri sorsero, rispondendo alla sua chiamata. Stavano
slacciando qualcosa dalla schiena di Harrow – era lo spadone di Gi-
deon, splendente, pesante e affilato. Si sbottonò il fodero e lasciò ca-
dere lo stocco nero – si sfilò il guanto e lo buttò lì accanto, rivolgen-
do a entrambi una preghiera privata di ringraziamento per i servizi
resi – e afferrò al volo l’elsa della spada che precipitava verso di lei.
Serrò le dita sull’impugnatura e ne saggiò il peso, vecchio e familiare.
La montagna brulicante di scheletri esplose, così come il pavimen-
to. Mattoni, piastrelle e pezzi di legno falciarono l’atrio come schegge
di granata. Gideon si riparò dietro la fontana, Camilla si tuffò dietro
a un divano decrepito e Harrow si avvolse in un bianco bozzolo co-

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riaceo. Gli scheletri vennero proiettati per aria come macabre bam-
bole di pezza e frammenti d’osso rimbalzarono su ogni superficie.
Cytherea la Prima riemerse da quel bordello tossendosi sul dorso del-
la mano, un po’ sgualcita ma del tutto illesa.
Dal buco uscì una lunga zampa eccessivamente articolata, poi un’al-
tra. E un’altra. Un traforo d’ossa, una rete, un ricamo – lunghi tenta-
coli di denti, un corpo fatto a nido, un costrutto così grosso da ridur-
re le budella di chiunque in una borsa frigo. L’immane costrutto che
aveva ucciso Isaac Tettares riempì lo spazio alle spalle della sua pa-
drona, stiracchiandosi ed espandendosi, polverizzando una parete e
una scalinata mentre sorgeva. Il tuo testone osseo oscillava e incom-
beva sopra di loro come una maschera, con le sue ripugnanti labbra
sbozzate e gli occhi chiusi.
Ora, però, quella retriva apparizione si trovava al cospetto della
sua naturale predatrice, la Reverenda Figlia della Nona Casa. Men-
tre ulteriori scheletri si dimenavano e ascendevano, arrampicandosi
sui commilitoni caduti, Gideon si alzò, si ripulì e trovò Harrow ferma
davanti al costrutto in una pozza di pulviscolo osseo, con lo sguar-
do fiammeggiante e una punta di gioiosa anticipazione. Senza nean-
che pensarci, il proprio corpo la portò nella posizione predestinata:
di fronte alla sua necromante, la spada sguainata.
«È stato quell’affare a uccidere Isaac» disse Gideon, concitata. L’im-
menso costrutto stava ancora cercando di tirar fuori una zampa dal
pavimento, il che sarebbe pure potuto risultare comico se non fosse
stato così tremendo.
«Sextus…?»
«Morto.»
Harrow increspò brevemente le labra. «Un necromante non può
abbattere quella cosa da solo, Griddle. È osso rigenerante.»
«Io non scappo, Harrow?»
«Ma certo che non scapperemo» disse Harrowhark sprezzante.
«Un necromante da solo, ho detto. Io ho te. Scateneremo l’inferno.»
«Harrow, Dulcinea è un Littore, uno vero…»
«Allora siamo spacciate, Nav, ma prima scateneremo l’inferno» dis-
se Harrow. Gideon le lanciò un’occhiata da sopra la spalla, e vide il
sorriso della Reverenda Figlia. Del sudore sanguigno le colava dall’o-
recchio sinistro, ma il suo sorriso era persistente, dolce e bellissimo.

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Gideon si ritrovò a ricambiarlo con una forza tale da sentir male alla
mascella.
La sua adepta le disse: «Te lo terrò alla larga. Nav, mostra a tutti
cosa sa fare la Nona Casa».
Gideon alzò la spada. Il costrutto si divincolò dalle ultime barriere
di muratura e legno marcio che lo intrappolavano e si parò di fronte
a loro, flettendosi come una farfalla.
«Le ossa sono la nostra specialità, figlio di troia» disse.
Le sue braccia erano di nuovo complete. La sua compagna più ama-
ta e vera – la sua spada a due mani, semplice, disadorna e perfetta –
frantumò tentacoli e denti come un martello pneumatico. Filamenti
d’osso urticanti incontrarono la sua lama, disintegrandosi in vapo-
re grigiastro mentre lei difendeva la sua posizione e li demoliva con
gli ampi fendenti arcuati del buon vecchio acciaio della Nona Casa.
Con Harrow lì, tutto era diventato improvvisamente facile, e il suo
orrore del mostro si tramutò in una feroce gioia vendicativa. Lunghi
anni di conflitto avevano lasciato a entrambe la consapevolezza di
ogni mossa dell’altra – ogni parabola descritta dalla spada, ogni sca-
pola fremente. Nessuna breccia nelle reciproche difese sarebbe rima-
sta sguarnita. Non avevano mai combattuto fianco a fianco, ma ave-
vano sempre combattuto, e potevano lavorare insieme o compensarsi
senza doverci pensare neanche un istante.
Gideon fece pressione per guadagnare terreno. Si aprì un varco, un
passo cauto dopo l’altro, verso il centro del costrutto. Un tentacolo le
saettò verso la gamba; lo mozzò con una rasoiata discendente e schivò,
danzando, una frustata rigida di molari che le mirava dritta al cuore.
Dietro di lei, fu Harrow a occuparsene: il tentacolo tremolò, riducen-
dosi ai suoi elementi fondamentali, poi diventò una polvere di den-
ti che si depositò in una colla che appiccicava fra loro i filamenti fre-
menti – più si dibattevano per liberarsi, più si spezzavano. Quel che
sfuggiva a Harrow veniva abbattuto da Gideon. Si avventò sugli acu-
lei accecata dalla furia, nella repentina convinzione che se continuava
a colpire, a colpire e a colpire – con abbastanza precisione, abbastan-
za forza e abbastanza perizia – sarebbe riuscita a riscrivere il tem-
po, a salvare Isaac e Jeannemary, a salvare Abigail, a salvare Magnus.
Ma le dimensioni di quell’affare sfidavano ogni comprensione, e cia-
scun colpo creava altre schegge. Harrow stava provvedendo, in qual-

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che modo le stava facendo scudo; l’aria era una grandine di particelle
affilate che avrebbero dovuto sbrindellarle la pelle, ma nessuna, all’ap-
parenza, sembrava raggiungerla. Ciononostante, quella nebbia di tru-
cioli pungenti e rimbalzanti rendeva difficile vedere il bersaglio. Con
la coda dell’occhio, scorse Camilla che sfrecciava in una tempesta di
denti, spine e bargigli ossei con entrambi i pugnali incrociati sul pet-
to – ma poi la perse di vista e Camilla svanì.
Gideon si fece faticosamente strada in un velame di friabili spunto-
ni ossei. Ora erano sotto alla massa principale del costrutto. Altri sei
scheletri presero vita e formarono un perimetro – erano pilastri pri-
vi di gambe, conficcati nel pavimento, con le grosse braccia corazza-
te e le spalle nodose del costrutto nella stanza di Risposta. Afferraro-
no lunghe porzioni dei filamenti del costrutto e, nello spazio protetto
alle loro spalle, Harrow intrecciò le dita e le ripiegò, sfilandosi falan-
gi dalle maniche e appallottolando quei mozziconi tremolanti tra le
mani, come fossero creta. Gideon era occupata a recidere i tentacoli
avventurosi che erano riusciti a superare la loro barriera di scheletri
e strisciavano verso la sua necromante, e si era accorta solo di sfug-
gita dell’esile rosario di nocche che Harrow si stava arrotolando at-
torno al braccio. Poi Harrow lo scagliò verso l’alto come una frusta
mandandolo a conficcarsi proprio nella parte mediana del mostro,
dove si piantò in profondità.
Gridò a Gideon: «Al riparo!».
Due degli scheletri-pilastro, che ancora stringevano degli ammas-
si di ossa aggrovigliate, si piegarono per creare un passaggio. Gideon
si tirò giù il cappuccio per proteggere la pelle nuda del viso mentre si
infilava nel pertugio e barcollava dall’altra parte, lontana da quell’in-
cubo di fibule e tibie scheggiate. Ma prima ancora che potesse rigua-
dagnare completamente l’equilibrio, Cytherea la Prima uscì dal suo
nascondiglio e le piombò addosso.
Era di una bellezza straordinaria e assolutamente terrificante: inte-
gra, illesa, intoccata da tutto quello che le era capitato. Le ferite provo-
cate dall’ultimo incantesimo di Palamedes sembravano essere scom-
parse, come se non fossero mai esistite. Era come se non fosse neanche
fatta di carne. Un ricordo balenò nel suo stordimento adrenalinico:
“Ho l’aspetto di una che ha raggiunto il picco del suo regale potere?”.
Lo stocco della Littrice guizzò come una zanna, come un nastro.

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Gideon spazzò via quello stupido affarino del cazzo con il suo spado-
ne e sfruttò la forza cinetica per un fendente alto. Cytherea sollevò la
mano libera, afferrò la pesante lama e la bloccò lì. Un minuscolo ri-
gagnolo scarlatto le scorreva giù dall’attaccatura del pollice lungo il
polso esile. Alle loro spalle, il costrutto tremò, ondeggiò e si dimenò,
cercando di resistere a chissà che diavolo gli stava facendo Harrow, e
Cytherea guardò Gideon dritto negli occhi.
«Sul serio» le disse, con calore. «Sei stata magnifica. Saresti stata una
paladina coi fiocchi per la tua suorina… ti avrei quasi voluta per me.»
«Col cazzo che ti potevi permettere una come me» disse Gideon.
Fece un passo indietro e strattonò la spada tirando verso l’alto
anche il braccio di Cytherea, si riaccostò fulminea e falciò le gam-
be della Littrice con un calcio. Cytherea perse l’appoggio e stra-
mazzò sui detriti ossei disseminati sul pavimento dell’atrio. Tossì
e strizzò l’occhio a Gideon, mentre le ossa sparpagliate si solleva-
vano e si richiudevano attorno a lei come un’onda, facendola spa-
rire alla sua vista.
Dall’alto arrivò un tremendo lamento smorzato – un muggito a
bocca chiusa. Il costrutto stava ululando. Cercò di avanzare, ma ogni
suo movimento veniva continuamente bloccato a metà strada, come
se fosse inchiodato per terra. I tentacoli si dimenavano sul terreno,
schiaffeggiandolo e sollevando nubi rigonfie di poltiglia di legno e
frammenti di tappeto. La cosa si diede un’ultima spinta piena di fru-
strazione e perse l’equilibrio, rovinando sul pavimento proprio nel
punto in cui si era trovata la sua necromante. La fontana si frantumò
sotto al suo peso con un baccano agonizzante. Gideon aveva il cuore
in gola: ma eccola là, una polverosa sagoma nera emerse dal disastro,
le corde di denti che aveva usato per strattonare a terra la creatura
avvolgevano i polsi di Harrow e un manipolo di scheletri schiaffeg-
giavano i tentacoli per tenerglieli alla larga.
Gideon avanzò alla cieca verso di lei, lottando per aprirsi un var-
co, mozzando filamenti e catene di ossa strascicate. Il costrutto con-
tinuava ad accanirsi su Harrow, le zampe che mulinavano per trova-
re un punto d’appoggio mentre il pavimento rimbombava e tremava
sotto al suo peso, becchi d’osso affilati che si abbattevano sulla sua
adepta. Harrow fu costretta a scindere la sua attenzione, da una par-
te lo respingeva e dall’altra teneva in pugno le redini che schiacciava-

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no a terra il costrutto, la fronte lucida di sudore sanguinolento per la


fatica. Gideon arrivò appena in tempo per piazzarsi davanti alla sua
necromante e fare a brandelli un bargiglio rotante.
«Ho bisogno di entrarti dentro» urlò Harrow, sovrastando il
frastuono.
«Dài, potresti sforzarti un po’ di più» commentò Gideon.
La sua necromante disse: «Non posso fare altro per tenerlo fermo,
il colpo di grazia devi darglielo tu. Spaccagli le gambe – ti farò ve-
dere dove, con precisione – e poi potrò tenerlo buono per un po’».
«Veramente? E come?»
«Vedrai» disse Harrow, cupa. «Mi dispiace, Nav. Preparati.»
Il costrutto incatenato mugghiò. Il palo centrale che Harrow era in
qualche modo riuscita e conficcargli nel tronco si stava piegando pe-
ricolosamente. Gideon si rituffò in quel casino di giunture e cartilagi-
ni mulinando la spada davanti a lei e, proprio come nella sala di Rea-
zione, percepì un’altra presenza scivolarle nella coscienza come un
coltello in una vasca piena d’acqua. Le si annebbiò la vista e qualco-
sa le disse, dalle profondità della sua mente: “Sulla tua destra. All’al-
tezza degli occhi”.
Non era una voce, non proprio, ma era Harrowhark. Gideon virò
a destra, tenendo alta la spada. La prima zampa del costrutto incom-
beva di fronte a lei, una massa pesante d’osso impenetrabile, ma l’an-
golino della sua mente le disse: “Sbagliato. Un dito più in su. Infilza”.
Gideon ribilanciò la spada, stabilizzandone il pomolo con il palmo
della mano e la conficcò nel bersaglio. Lì l’osso era più sottile. Nel suo
campo visivo annebbiato sfolgorava una lucina intermittente, l’iden-
tica aura di luce che si era manifestata mille anni prima – centomi-
la anni prima, una miriade di miriadi fa – nella prima camera speri-
mentale. Estrasse la spada e la zampa traballò.
Una mezza dozzina di tentacoli la assalirono. Stavano per regalarle
un interessante assortimento di nuovi buchi da cui respirare, ma uno
scheletro uscì barcollando dall’oscurità e si beccò la maggior parte
dei colpi – un tentacolo gli spaccò in due il cranio, polverizzandogli
la mascella con un guizzo. Un altro scheletro si precipitò dove il suo
commilitone era caduto – ma questo superò Gideon, si accostò alla
ferita splendente che lei aveva aperto nella zampa del costrutto e fic-
cò il braccio nello squarcio.

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E poi si squagliò. A Gideon furono concessi un paio di secondi per


osservarlo sciogliersi in un iridescente ammasso osseo di un bianco-
re argenteo. In una nuvoletta sfrigolante di vapore mefitico, ricoprì
la ferita e la parte inferiore della zampa in una viscida colata magma-
tica di materia ossea bollente.
Distolse lo sguardo e scivolò sotto al torso ansimante della bestia,
scansando di poco un’altra manciata di tentacoli disperati, facendo-
si strada a fendenti nel groviglio umido che aveva formato, srotolan-
dosi e ricrescendo come le spire di una pianta affilata quanto un ra-
soio. La zampa più vicina a lei aveva trovato il modo di far leva sul
pavimento con un piede aggraziato, dalla corazza affilata, che somi-
gliava molto alla zampa di un aracnide e pareva sul punto di riuscire
a raddrizzare l’intera massa.
L’angolino della sua mente disse: “È sopra di te”. Gideon fece scivo-
lare le mani più in basso lungo l’impugnatura della spada, gli avam-
bracci messi in allarme dallo sforzo, la punta che oscillava con il mo-
vimento esitante della gamba, sopra di lei. L’angolino della sua mente
disse: “Ora”.
Si dimostrò più difficile dell’altro. Non aveva un gran margine per
fare leva. Gideon spinse la spada all’insù, afferrandola dal pomolo e
piantandola di nuovo nell’arto, mentre placche ossee si scheggiava-
no sopra di lei e fiocchi secchi di midollo fluttuavano giù come co-
riandoli. La zampa franò come un tendine reciso.
Un altro scheletro si materializzò al suo fianco e, mentre ritirava la
spada, si buttò nella fessura luminosa. Si dissolse a sua volta nel liqua-
me caldo e sgradevole che circolava nel corpo del costrutto e avvol-
geva il resto della zampa, sgocciolando sul pavimento e raffreddan-
dosi alla svelta. Il bagliore implacabile che emanava e la tormentosa
sensazione di trionfo represso che occupava l’angolino della mentre
di Gideon le fecero lacrimare gli occhi, e si ritrovò pervasa da uno
strano orgoglio, tutto suo. Per la miseria. Ossa perpetue. Harrow era
riuscita a farlo davvero.
Era troppo occupata ad ammirare la sua necromante per accorger-
si della nerboruta corda di vertebre che le aveva avviluppato il tron-
co, stringendo forte.
Il collegamento nella sua mente si fece intermittente e poi sparì
– il suo campo visivo tornò a definirsi, restituendole con merdosa

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chiarezza tutto quello che le stava succedendo. Prima che Gideon


potesse esclamare “MA CHE CAZZO” si ritrovò sollevata da ter-
ra, trasportata verso l’alto e poi scaraventata per aria con violenza.
Per un vertiginoso istante sorvolò il campo di battaglia. Veleggiò
oltre la gigantesca faccia a mascherone del costrutto osseo, lo spesso
rivestimento di materia ossea rigenerante che gli zampillava giù per
le zampe – in caduta libera, con una visione aerea di Camilla che dan-
zava in mezzo al caos puntando alla sagoma calma e fragile di Cythe-
rea la Prima, che osservava immobile la sua avanzata. Gideon cercò
di rigirarsi in volo – se solo fosse riuscita a schiantarsi contro una fi-
nestra invece che un muro.
Venne afferrata con una forza tale che i denti le dondolarono in
bocca. Un pilastro filiforme di braccia scheletriche era sorto da quel
pandemonio per bloccarla a mezz’aria, cento dita ossute le scavava-
no solchi sanguinolenti nella schiena – ma non si era spiaccicata con-
tro il muro, ed era quello che contava.
La colonna di braccia venne distrutta da un ampio colpo radente
sferrato da una delle innumerevoli fruste ossee del costrutto, e tor-
nò a precipitare verso il suolo. La gravità fu smorzata dalle mani, che
servizievoli si ammonticchiarono per attutire la sua caduta, portan-
dola da obitorio a terribile. Atterrò scompostamente vicino alla sua
necromante, il ginocchio fece crac.
«Ho superato mio padre» disse Harrow a nessuno in particolare,
con lo sguardo rivolto verso l’alto, perso nel niente ma acceso da un
trionfo selvaggio e galoppante. Erano entrambe coricate su un muc-
chio di piedi – o almeno così sembrava. «Ho superato mio padre e
mia nonna – ogni singolo necromante mai istruito dalla mia Casa –
ogni necromante che abbia mai toccato uno scheletro. Mi hai vista?
Hai ammirato quel che ho fatto, Griddle?»
Lo pronunciò con la voce arrochita, scoprendo il rosa sanguino-
lento dei denti. E poi Harrow svenne, con arroganza.

* * *

La polvere si stava diradando. Il costrutto non poteva più muover-


si. Emetteva brontolii bassi e lamentosi mentre si dimenava nel suo
mezzo sarcofago di cenere rigenerante: colpiva e martellava con i ten-

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tacoli i bozzoli d’osso che gli bloccavano le zampe posteriori, ma ap-


pena riusciva a scalfirla, quella roba non faceva altro che resuscitare.
Ora era così concentrato su se stesso da permettere a Gideon di tro-
vare la paladina della Sesta.
Camilla, da quanto aveva potuto constatare dall’alto, aveva raggiun-
to Cytherea la Prima. Con una mano stringeva i riccioli strinati della
Littrice, tirandole la testa all’indietro. Con l’altra mano teneva il col-
tello alla gola della donna più esile. Sarebbe potuta sembrare una po-
sizione di vantaggio, solo che la lama del pugnale vibrava, senza spo-
starsi. Il filo era a contatto con la carne pallida, ma non c’era sangue,
anche se Camilla sembrava metterci tutta l’energia che aveva. Qua-
lunque forza stesse tenendo a bada il coltello stava anche staccando
lentamente la pelle dalla mano della paladina della Sesta.
«Sei una brava ragazza» disse la Littrice. «Anch’io avevo una brava
ragazza come paladina… una volta. È morta per me. Che vuoi farci.»
Camilla non replicò. Aveva la faccia impiastricciata di sudore e
sangue. I capelli scuri, tagliati in un caschetto affilato, erano grigi di
polvere d’osso. Cytherea pareva vagamente divertita dalla lama, che
stazionava a un dito dalla sua giugulare. Biascicò: «E questo dovreb-
be uccidermi?».
«Dammi tempo» fece Camilla, digrignando i denti.
Cytherea prese in considerazione l’ipotesi. «Preferirei di no» rispose.
Gideon si accorse, al contrario di Camilla, del tentacolo d’osso che
si stava srotolando silenziosamente, sollevandosi dal disastro alle spal-
le della paladina. Terminava in una punta minacciosa, lunga come lo
stiletto di un duellante. Anche con un ginocchio in perfette condizio-
ni e nessun necro da trasportare, Gideon sarebbe stata troppo lonta-
na per salvarla. Il bargiglio si ritirò, come un pungiglione in agguato,
e Gideon urlò: «Cam!».
Forse fu merito del grido; forse fu merito dello strabiliante istin-
to di Camilla. La paladina della Sesta si piegò di lato, e l’uncino che
avrebbe dovuto trapassarle la spina dorsale le si piantò invece nella
spalla. Sgranò gli occhi per lo shock e il coltello le sfuggì dalla mano
mezza scorticata. Cytherea colse l’occasione per assestarle uno spin-
tone sprezzante, e Camilla cadde all’indietro, con l’osso affilato an-
cora conficcato nella carne.
Cytherea raccolse lo stocco. Presa dal panico, Gideon cominciò ad

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aprirsi un futile varco, a calcioni, in una giungla di ossa ingiallite, ma


spostare il peso sulla gamba ferita la fece barcollare e per poco non
cadde. Camilla stava cercando di liberarsi dall’arpione osseo, ma un
altro filamento le strisciava su per la coscia, intrappolandola per terra.
La Littrice torreggiava su di lei con la spada verde che brillava alla luce.
«Non puoi farmi del male» disse Cytherea, quasi con disperazio-
ne. «Niente può più nuocermi ormai, paladina.»
La spada lampeggiò. Gideon si dimenò in un reticolo di ossa che la
sua adepta avrebbe potuto spazzare via sbadigliando. Mentre la Lit-
trice portava indietro il braccio per un affondo pulito, dritto al cuore
di Camilla, una spanna di acciaio insanguinato le spuntò dalla pancia.
Camilla sollevò lo sguardo verso di lei, come se stesse cercando di
capire perché non era ancora diventato tutto nero. Una macchia ros-
sa si andava espandendo sul lenzuolo sottile. La Littrice non cambiò
espressione, ma girò leggermente il capo. Sulla sua spalla era quasi
accoccolata una testa pallida. Si sporgeva, come per assicurarsi che
la spada fosse andata a segno. Una chioma chiara e incolore penzo-
lava sulla clavicola di Cytherea come una cascata: la figura dietro di
lei sorrise.
«Hai cantato vittoria troppo presto, cariatide» disse Ianthe.
«Oh» fece Cytherea, «oh, cielo! Un baby Littore.»
Il costrutto era ben impantanato nella trappola che Harrowhark gli
aveva teso e, dietro di loro, Gideon sentì la sua massa che tentava di
spostarsi per vedere che cosa avesse arrecato dolore alla sua padro-
na, come un gigantesco teschio che si arrotolava nella sua ragnatela.
Era legato stretto, ma poteva ancora contare su una certa estensione,
e sollevò le spine per riequilibrare il combattimento.
Ianthe passò la mano libera sul sangue che colava giù per il fian-
co di Cytherea. Se ne buttò qualche goccia calda dietro la spalla e le
gocce rimasero sospese a mezz’aria, sfrigolando. Si agglomerarono
come il mercurio – poi si espansero, allargandosi e appiattendosi in
una pellicola trasparente e traslucida. Ianthe socchiuse gli occhi ac-
querellati e sollevò l’indice della mano libera. La pellicola si adden-
sò, formando un ampio disco acquoso di sangue che separava le due
Littrici dal costrutto.
Un tentacolo irto di spuntoni ossei mirò dritto alla testa di Ian-
the, colpì il disco traslucido e si dissolse. Gideon si levò di mezzo,

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facendosi scudo col corpo e trascinandosi in un angolo della sala, il


più lontano possibile dal costrutto. Non moriva dalla voglia di av-
vicinarsi alle Littrici avvinghiate, ma se giocava bene le sue carte,
poteva ancora sperare di portare Harrowhark e Camilla fuori da lì.
Un altro tentacolo, poi un altro ancora, si schiantarono contro il
disco di sangue ed evaporarono. Suo malgrado, Gideon si voltò a
guardare: il costrutto irrigidì una dozzina di filamenti, due dozzi-
ne, indirizzandoli come giavellotti alla sagoma minuta di Ianthe, e
a Gideon tornò in mente Isaac Tettares, impalato da cinquanta spi-
ne in un colpo solo.
Al passaggio di Gideon, la tenda di sangue di Ianthe si allargò ul-
teriormente, un’egida, uno scudo. Il costrutto la bersagliava dalla sua
postazione obbligata, con tutta la potenza di fuoco di cui dispone-
va: c’erano abbastanza lance da ridurre Ianthe a un paio di manciate
di carne macinata. Ciascuna, però, si smaterializzò in una nuvoletta
di vapore puzzolente.
I moncherini superstiti si ritirarono, confusi. Il costrutto ondeggiò
e le ossa, qua e là, si staccarono dalla sovrastruttura, capitombolan-
do giù per unirsi all’accozzaglia di detriti che già circondava le zam-
pe intrappolate. All’improvviso c’era un sacco di spazio in più; ferito
e immobilizzato, il costrutto sembrò ripiegarsi su se stesso, racco-
gliendo gli arti restanti come se volesse tenerli alla larga da Ianthe.
Gideon arrivò strisciando ai piedi delle scale, in tempo per veder
sorridere Cytherea. «Ho sempre voluto una sorellina» disse.
Si allontanò dalla spada di Ianthe con un orribile fruscio liquido.
Camilla si stava ancora dibattendo, cercando di liberarsi dallo spun-
tone conficcato nella spalla, e Cytherea la calpestò, schiacciandole la
clavicola con il medesimo riguardo che avrebbe riservato alle frange
di un tappeto. Quando si trovò a un paio di passi di distanza, si vol-
tò e si sistemò con la massima fluidità in una splendida posizione di
guardia. Continuava a tastarsi con le dita il sangue che le imbratta-
va l’addome, evidentemente stupita dalla sua stessa capacità di san-
guinare. Gideon avrebbe preferito vederla un po’ meno affascinata e
un po’ più morente, ma bisogna pur sempre accontentarsi di quel che
passa il convento.
L’altra Littrice, molto più recente dell’altra, sollevò la spada di Na-
berius e scalciò via un po’ di ossa per potersi muovere meglio.

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«Ho già provato a fare la sorella» disse Ianthe, spostandosi lateral-


mente in tondo, «e non sono per niente portata.»
«Ma ho così tanto da insegnarti» ribatté Cytherea.
Caricarono entrambe. Tanto tempo prima sarebbe stato veramente
fico poter ammirare lo spadaccino più spettacolare della Terza Casa
che si scontrava con un’antica e purissima guerriera della Settima,
ma Gideon si era accucciata accanto a Camilla e stava cercando di
stabilire se la propria rotula stesse o meno cercando di scivolare ver-
so qualche strano posto. Aveva appoggiato Harrowhark, ancora pri-
va di sensi, dietro un pilastro, su un mucchio di ossa dall’aria più sof-
fice degli altri, con lo spadone a tenerle compagnia e si augurava di
tutto cuore che la sua necromante si fosse svegliata. Afferrò la spal-
la di Camilla con una mano e lo spuntone d’osso scivoloso con l’al-
tra, disse: «Scusami» e tirò.
Camilla urlò. Gideon scagliò via l’aculeo insanguinato, le passò
un braccio sotto le ascelle e la sollevò. Camilla si morsicò la lingua
così forte che le zampillò del sangue dalla bocca, ma Gideon, spie-
tata, la trascinò via dalla zuffa in corso e la portò al riparo, accanto
a Harrowhark.
Gideon cominciò a ispezionarla per capire se gli intestini le fosse-
ro zampillati fuori – o chissà che altro – ma Camilla la afferrò per la
manica. Gideon si concentrò sul suo viso solenne e ostinato, e Ca-
milla domandò: «Lui ti ha detto qualcosa?».
Gideon esitò. «Mi ha detto di dirti che ti amava» le rispose.
«Cosa? No, non è vero.»
«Okay, no, scusa. Ha detto… ha detto che avresti saputo cosa fare.»
«Infatti» commentò Camilla con mesta soddisfazione, e si lasciò
cadere sulle ossa.
Gideon tornò a osservare il duello. Non somigliava affatto allo
scontro tra Ianthe e Silas. Ianthe aveva usato Silas come uno strac-
cio per pavimenti, mentre battibeccava, simultaneamente, con l’ani-
ma di Naberius. Lo scontro tra due Littori era un duello fuori scala
rispetto a quello fra due spadaccini mortali. Si muovevano a una ve-
locità quasi indistinguibile a occhio nudo e, ogni volta che le spade
cozzavano, possenti onde d’urto fatte di cenere, fumo e osso aeroso-
lizzato si propagavano verso l’esterno.
L’arioso atrio della Casa di Canaan era stato costruito per durare,

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ma non per sopportare una cosa del genere. Il pavimento si crepò,


inclinandosi pericolosamente verso il punto in cui il costrutto si era
trascinato – i tentacoli trapassavano le assi, cercando di districarsi in
una pioggia di legno marcio e ossa – e, col procedere del combatti-
mento tra Ianthe e Cytherea, svariate porzioni della sala esplosero al
loro passaggio, antiche travi e pilastri cedettero in un rombo di pie-
tra e legno in caduta libera. L’acqua salmastra della fontana inzuppò
il pavimento e cominciò a scorrere tra le crepe…
Crepe. Merda. Il pavimento si stava crepando. Tutto si stava cre-
pando. Gigantesche faglie separavano Gideon dalle porte. Ianthe
– con in bocca una ciocca di capelli incolori, che masticava come una
furia – sollevò la mano e una zampillante colonna di sangue nero e
arterioso eruttò verso l’alto, scaraventando Cytherea a sei metri d’al-
tezza e lasciandola poi precipitare. Cytherea si schiantò a terra scom-
postamente e, mentre si rialzava a fatica, Ianthe si avvicinò con una
mano accesa da una tagliente luce bianca e lampeggiante, e la colpì
con uno spaventoso gancio destro.
Un pugno del genere avrebbe fatto girare la ripugnante massa co-
razzata del Maresciallo Crux per tre volte come una trottola, lascian-
dolo riverso a terra a fissare passerotti scheletrici. Cytherea sfondò
una parete. La parete, già di suo, non se la stava passando benissimo
e con quell’ultimo insulto cedette del tutto, collassando con un rom-
bo impressionante di pietra e mattoni e spedendo una colata di vetri
frantumati verso il giardino pensile. La luce del sole filtrò all’inter-
no e l’odore del cemento caldo e del legno ammuffito appestò l’aria.
Il pavimento dissestato scricchiolò, minacciando di fare lo stesso.
Camilla, che aveva un fegato d’acciaio e la tolleranza al dolore di un
mattone, si alzò in piedi; Gideon prese Camilla sottobraccio – dal-
la parte della spada – prima che la Sesta paladina potesse protesta-
re, recuperò il fagotto d’ossicini d’uccello che era la sua necromante
e barcollò fuori con tutta la rapidità che quella processione di stor-
pie poteva plausibilmente permettersi. Non c’era nessun altro posto
dove andare, tutto lì.
Il vento salmastro spirava dal mare, caldo e vigoroso, filtrando
dai buchi nel vetro che proteggeva la spianata dove le piante marce-
scenti continuavano a seccarsi sui loro imponenti graticci. Noncu-
rante della situazione, Dominicus splendeva su di loro, cullato dal

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surreale cielo ceruleo della Prima. Gideon appoggiò Harrowhark


all’ombra di un muro scassato che non dava l’impressione di voler
crollare e schiacciarla nell’immediato. Camilla le collassò accanto,
con le spade incrociate sulle ginocchia. Almeno lì non c’erano così
tante ossa.
Ianthe scese una breve rampa di scale, la spada in pugno e i capel-
li bianco-giallastri sospinti dalla brezza. Foglie morte e rimasugli ve-
getali le fluttuavano attorno, infastiditi dalla parete sgretolata. Cythe-
rea si stava tirando su dai lastroni di pietra sui quali era precipitata
e, mentre Ianthe la attaccava di nuovo, risultò ovvio che fosse sulla
difensiva. Non era rapida quanto Ianthe; non era altrettanto reatti-
va. In un duello regolamentare avrebbe comunque impalato Gideon
in dieci secondi, ma contro un altro Littore le cose non sembravano
girarle per il verso giusto. Ianthe si faceva sempre più infida a ogni
colpo. Mentre il sangue di Cytherea sprizzava, Ianthe lo congelava a
mezz’aria – lo manipolava, lo tesseva in lunghi filamenti rossi che si
estendevano nello spazio che le separava e le conteneva. Ogni vol-
ta che Cytherea si feriva – e ora era ferita davvero, sanguinava come
una persona normale, non c’era più traccia della sua precedente in-
vulnerabilità – la ragnatela di sangue si faceva più grande e più com-
plessa, finché non si ritrovò a combattere in quella che somigliava a
una gabbia di nastri rossi e tesi.
Ma c’era di peggio. Gideon si accorse, con un misto di orrore e fa-
scinazione, che le ferite più vecchie – quelle che le aveva inflitto Pa-
lamedes facendo saltare in aria la sua stanza – si stavano riaprendo.
Strisce di pelle lungo le braccia della Littrice si erano annerite e ac-
cartocciate; un ampio squarcio disordinato le deturpava la coscia e
non era opera della lama di Ianthe. Persino la chioma boccolosa ave-
va ripreso a sfrigolare e a strinarsi.
«Ma che diavolo…?» protestò Gideon, più per dar fiato alle sue sen-
sazioni che nella speranza di ottenere una spiegazione.
«Non è guarita» disse Camilla debolmente, al suo fianco. Gideon si
voltò; l’altra paladina si era issata a sedere, appoggiata contro il muro,
e stava osservando il combattimento con occhi mesti e professionali.
Certo, i paladini che venivano da Case dotate di più di un necroman-
te vivente probabilmente vedevano combattere necromanti di con-
tinuo. «Ha solo ricoperto i danni con della pelle nuova… un rimedio

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superficiale, per nascondere le crepe. Per guarire davvero, le serve


della thalergia… della forza vitale… ed è rimasta a secco.»
«Oh, già» disse Gideon. «Sextus le ha fatto venire un turbo cancro.»
Camilla annuì, con immane soddisfazione. «Be’» commentò, «do-
vrebbe funzionare.»
La magia di Ianthe era efficiente e sottile quanto la padronanza di
Naberius della spada – ordinato e sdegnoso, pulito e troppo perfet-
to, mai un passo fuori posto o un istante di esitazione. Cytherea si
allontanò incespicando dalla sua assalitrice, e Ianthe fece scattare la
trappola. La gabbia di sangue si contrasse all’improvviso, si serrò, av-
viluppando la Littrice più vecchia come una rete. Cytherea si bloc-
cò, imprigionata. Non tentò nemmeno di liberarsi, gli occhi ridotti a
fessure. I capelli bruciati erano ormai lanugine. Faticava a respirare.
Le ferite erano tagli rossi freschi, e le stavano cedendo le ginocchia.
L’odore del sangue e delle foglie si era fatto opprimente.
Ianthe le si parò davanti, anche lei aveva il fiatone. Continuava a
scrollare il capo come se volesse schiarirsi la mente – continuava a
strofinarsi le tempie, nervosa – ma era splendente e trionfante, su-
data, sbruffona. «Stanca?» domandò.
Cytherea aprì gli occhi e tossì. «Non particolarmente» disse. «Ma
tu sei esausta.»
La delicata rete rossa si dissolse. Non le cascò nemmeno di dos-
so; sembrò quasi che l’avesse assorbita attraverso la pelle. Si raddriz-
zò, avanzò e prese Ianthe per la gola con la mano graziosa, dall’os-
satura sottile. Ianthe spalancò gli occhi e afferrò con le mani il polso
dell’altra donna.
«Sei proprio una bambina… tutte le tue mosse migliori all’inizio»
disse Cytherea.
Ianthe si dimenò. Un filamento di sangue si arricciolò a mezz’aria
attorno a lei, inutilmente, e poi si spiaccicò a terra. L’antica Littrice
disse: «Non sei completa, vero? Lo percepisco anch’io, spinge… non
è contento. La mia l’ha fatto volontariamente, e ho sentito male per
secoli. Se io sono una cariatide… tu sei carne fresca».
Serrò la presa sulla gola di Ianthe, e l’orrido risucchio, fino all’os-
so, del sifonaggio propagò un’onda gelida per tutto il terrazzamento
coperto. Gli alberi e i graticci tremarono. Gideon non aveva mai per-
cepito un sifonaggio spirituale del genere. Già scialba nella miglio-

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re delle ipotesi, ora Ianthe era smorta e incolore come un lenzuolo.


Gli occhi oscillavano avanti e indietro nelle orbite, finché non restò
più nemmeno un occhio da far oscillare: si dimenò e squittì, pupille
scomparse, iridi scomparse, come se Cytherea fosse in qualche modo
riuscita a risucchiarglieli dal cranio.
«No» guaì Ianthe, «no, no, no…»
La grossa ferita sulla coscia di Cytherea aveva cominciato a rimar-
ginarsi: lo stesso stava accadendo alle bruciature che le coprivano le
braccia e il collo. I capelli strinati le stavano ricrescendo – propagan-
dosi dal cranio a ondine di un castano pallido – e sospirò appagata,
scuotendo il capo.
«Okay» disse Camilla con un cauto tono neutro, «ora sta guarendo.»
La ferita sulla coscia si richiuse, lasciando la pelle liscia come ala-
bastro. Cytherea, sprezzante, lasciò andare Ianthe, che si afflosciò per
terra in un mucchietto stropicciato.
«Bene, sorellina» disse alla principessa della Terza, con le labbra
esangui, «non credere che io non ti ammiri. Sei diventata una Littri-
ce… e quindi ti concederò di vivere. Per un po’. Ma non ho bisogno
né delle tue braccia né delle tue gambe. Dunque…»
Schiacciò il polso di Ianthe con un piedino aggraziato, e Gideon si
alzò. La falce d’osso affilato le spuntò dalle nocche, una lunga lama da
macellaio di dimensioni malevole. Cytherea vibrò il colpo. Un fiotto
di sangue rosso e brillante sgorgò alla luce del sole e il braccio destro
di Ianthe si staccò appena sopra al gomito. Ianthe, troppo debole an-
che solo per gridare, emise un suono lamentoso.
A quel punto, Gideon si era già spostata di due passi e se n’era su-
bito pentita. Senza ombra di dubbio, la sua rotula era nel posto sba-
gliato. Saltellò sull’altra gamba, impugnando la spada con una mano
sola e tastandosi il ginocchio con l’altra, maledicendo il giorno in
cui le erano state date delle rotule. Cytherea si stava soffermando
sull’altro lato, sull’altro arto, misurando la distanza con lo spunto-
ne insanguinato…
«Abbassati» esclamò Camilla.
Camilla, in qualche modo, si era tirata su, appoggiandosi sul brac-
cio della spalla martoriata – quello nelle peggiori condizioni per fun-
gere da punto d’appoggio. Sollevò il braccio buono dietro la testa,
stringendo la lama di uno dei suoi pugnali. Gideon si abbassò. Il col-

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tello fischiò sopra il capo di Gideon in un lampeggio indistinto, con-


ficcandosi nella parte alta della schiena di Cytherea.
Questa volta Cytherea urlò. Si scostò barcollando dalla sagoma
prona di Ianthe, e Gideon vide a cosa aveva mirato Camilla: un boz-
zo, una soffice massa gonfia, proprio vicino alla scapola di Cytherea.
Sporgeva molto lievemente, ma una volta che la vedevi era impos-
sibile non notarla più – soprattutto se al centro esatto c’era pianta-
to un coltello. Cytherea portò una mano dietro la spalla, tastando-
si alla cieca in cerca del pugnale, l’appendice d’osso polverizzata. Lo
trovò e lo estrasse – dalla ferita sgorgò un ributtante fiotto di liqui-
do giallo e nero.
La Littrice si girò, tossendo pietosamente nell’incavo del gomito.
Poi osservò il coltello, pensosa. Voltò il capo e squadrò Camilla, Har-
row e Gideon. Sospirò, meditabonda, e si ravviò di nuovo i riccioli.
«Oh, no» commentò, «un gesto eroico.»
Buttò via il coltello e si inginocchiò con grazia accanto a Ianthe,
sollevò un braccio inerte – quello che era ancora attaccato al suo cor-
po – e finse di darle la mano, crudelmente derisoria. Per un tremen-
do istante, Gideon credette che le avrebbe staccato il braccio di netto,
e si domandò quanto lontano sarebbe riuscita a lanciare il suo spado-
ne – solo che no, il suo spadone non si sarebbe mai più separato dal-
le sue mani, grazie tante – ma Cytherea si stava limitando a sifonarla.
Percepì uno strattone alle budella mentre l’energia, risucchiata dalla
Littrice più giovane, passava alla più vecchia, ricucendo la grottesca
ferita provocata dal pugnale.
«Una Littrice inadeguata» commentò Cytherea, come se volesse
fornire a Gideon e Camilla un suggerimento infallibile su come ri-
muovere una macchia, «resta comunque una perfetta fonte d’ener-
gia… una batteria eterna.»
Si rialzò e si pulì la bocca col dorso della mano. Poi cominciò ad
avanzare verso Gideon: calma, quasi insolente nella sua scarsa ag-
gressività. In qualche modo, risultava più spaventosa così che se si
fosse lanciata in avanti con lo sguardo pieno d’odio e una risata folle.
Gideon si piazzò davanti a Camilla e al corpo privo di sensi della
sua adepta, con la spada sollevata. Erano sole in un’area secondaria del
cortile: un piccolo spazio non ancora sepolto dai detriti e arato dallo
scontro titanico tra due maghe immortali. Gli alberi secchi torreggia-

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vano su di loro. Gideon era ferma dietro a una cancellata di ferro che,
un tempo, doveva aver protetto un confine erbaceo, anche se i suoi
spuntoni piegati e curvi non servivano più a niente ormai – al massimo
ti ci potevi buttare sopra per uscire di scena con un ultimo vaffanculo.
Camilla era rintanata in un angolo, anche se ora era di nuovo in pie-
di – probabilmente il suo ultimo vaffanculo era quello – ma il braccio
ferito penzolava, inutile. Aveva perso tantissimo sangue. Il suo viso
aveva assunto una pallida sfumatura olivastra.
«Nona» disse la Sesta, impaziente. «Vattene da qui. Prendi la tua
necromante. Vai.»
«Col cazzo» disse Gideon. «Comincia il secondo round.» Ci pensò
su. «Aspetta. O è il terzo? Continuo a perdere il conto.»
Cytherea la Prima si stava scrollando via le macchie di sangue dal
vestito improvvisato, il sangue veniva assorbito dalle sue dita come
se obbedisse al mero tocco dei polpastrelli. Volteggiò leggiadra nel-
la loro porzione di cortile e rivolse a Gideon un sorriso da Dulcinea:
fossette, sguardo acceso, come se solo loro due fossero al corrente di
qualcosa di super splendido che nessun altro sapeva.
«Eccolo lì, lo spadone» commentò ammirata.
«Vuoi dargli un occhio più da vicino?» ribatté Gideon.
La Littrice piegò il braccio dietro la schiena, languida; si mise in
posizione, col peso sul piede posteriore, la spada splendente in pu-
gno – virava al verde, come l’acqua stagnante o le perle. «Non puoi
farcela, Gideon della Nona, lo sai anche tu» disse. «Sei molto corag-
giosa… un po’ come un’altra Gideon che conoscevo. Ma tu hai gli oc-
chi più belli.»
«Verrò anche dalla Nona Casa» disse Gideon, «ma se non la pian-
ti di dirmi queste merdate criptiche, scoprirai quanto riesci a rigene-
rarti se ti taglio in diciotto pezzi.»
«Invoca pietà» disse Cytherea. La fossetta era ancora lì. «Per favo-
re. Non sai nemmeno quello che rappresenti per me… non morirai
qui, Gideon. E se mi chiedi di lasciarti vivere, forse non dovrai mori-
re affatto. Ti ho già risparmiata prima.»
Qualcosa le si accese nelle profondità della gabbia toracica.
«Jeannemary Chatur non ha implorato pietà. Magnus non ha chie-
sto pietà. O Isaac. O Abigail. Scommetto che Palamedes non ha nem-
meno preso in considerazione la possibilità di implorare pietà.»

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«Ma certo che no» commentò la Littrice. «Era troppo occupato a


detonare.»
Gideon la Nona caricò. Cytherea mirò dritto al cuore, senza preli-
minari, ma questa era una Gideon che aveva cominciato l’addestra-
mento con lo spadone a due mani ancora prima di riuscire a reggere
quel maledetto arnese. Questa era una Gideon che aveva trascorso la
sua intera esistenza dietro all’elsa di uno spadone. Basta coi giochetti,
le schivate, i saltelli e gli spostamenti: c’erano lei, la sua spada e tut-
ta la potenza, la forza e la velocità che Aiglamene era stata in grado
di concretizzare in lei.
Intercettò l’affondo fluido e guizzante al cuore sferrato da Cythe-
rea con un colpo ascendente che spedì la punta dello stocco della Lit-
trice verso il cielo, e che avrebbe dovuto strapparglielo nettamente di
mano. Smise di pensare al dolore al ginocchio e tornò a essere la Gi-
deon Nav che non aveva mai lasciato il Drearburh, che combatteva
come se quello fosse il suo unico biglietto per abbandonare il piane-
ta. La Littrice tornò a danzarle attorno, pressandola e cercando di far
scivolare la spada sotto quella di Gideon, o di aggirarla. Gideon glie-
la buttò a terra, lo stocco grattò i lastroni di pietra con un tremendo
stridore. Cytherea si ritirò, graziosa, e Gideon spazzò via la sua guar-
dia e la incalzò con un mastodontico fendente diagonale, perfetto.
Avrebbe dovuto squartare la Littrice dalla spalla alla pancia. L’inten-
to era quello. Ma il filo della spada affondò nella clavicola di Cytherea
e rimbalzò, come se avesse provato a tagliare l’acciaio. Sulla pelle ri-
mase un vaghissimo segno rosa, e poi più niente. Il suo spadone aveva
fallito. Qualcosa, nel profondo di Gideon, si accasciò, arrendendosi.
Cytherea si avvicinò per finirla, la spada che lampeggiava come
un serpente, come una frusta, mentre Gideon si spostava con mezzo
secondo di ritardo nel punto in cui si sarebbe dovuta trovare. Si ri-
sparmiò un polmone impalato bloccando goffamente lo stocco con
il piatto della spada. La forza sacrilega della Littrice fece tremare lo
spadone all’impatto, e gli avambracci di Gideon tremarono allo stesso
modo. Imperterrita, Cytherea le prese di mira il braccio intorpidito
– affondò la punta nella carne tenera sopra al bicipite, arrivò all’osso
e frantumò qualcosa là dentro, in profondità. Gideon perse terreno e
arrancò per ristabilire le distanze, tenendo la spada sollevata in posi-
zione di guardia. La lama iniziava a penzolarle tra le mani, nonostan-

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te la determinazione che pulsava in ogni atomo del suo corpo. Cercò


di rievocare un po’ della vecchia e crudele cautela con cui Aiglame-
ne l’aveva spesso spedita nell’arena – osservò Cytherea con attenzio-
ne, schivò una finta, individuò un’apertura – si trasformò in acciaio
e si lanciò in avanti, dritta al cuore della sua avversaria.
Cytherea alzò la mano libera e afferrò la lama prima che le si con-
ficcasse nello sterno. La forza del colpo la costrinse a fare un passo in-
dietro, ma la sua mano esile e malconcia si avvolse attorno alla lama e
la bloccò con la stessa facilità con cui Naberius aveva bloccato il suo
stocco con quel merdoso trucchetto del pugnale a tridente, un secolo
prima nella sala d’addestramento. Gideon spinse. Il piede le scivolò,
cercando di far presa sul pavimento, il ginocchio in fiamme. Per lo
sforzo, il sangue cominciò a zampillarle dal braccio. Cytherea sospirò.
«Oh, sei stata splendida» disse la Littrice, «uno spettacolo unico.»
Schiaffeggiò via la spada di Gideon. E poi avanzò.
«Fatti da parte, stronza» disse Harrowhark Nonagesimus, dietro
di lei.
Cytherea si voltò a guardarla. La sagoma in nero, incappucciata di
nero, si avvicinava arrancando, un passo malfermo dopo l’altro, allon-
tanandosi dal riparo offerto dal muro della torre. Era affiancata dagli
scheletri – scheletri troppo immensi per aver mai vissuto all’interno
dell’untuoso involucro di carne di un essere reale. Ciascuno era alto
tre metri, con ulne grosse come tronchi d’albero e perfidi aculei os-
sei che protrudevano dalle braccia.
«Quanto mi piacerebbe che la Nona Casa facesse qualcosa di un
po’ più interessante degli scheletri» commentò Cytherea, pensosa.
Uno dei mostruosi costrutti si gettò su Cytherea, come se fosse una
bomba su cui suicidarsi. Il secondo lo seguì a grandi falcate. Cythe-
rea schivò con arroganza un enorme aculeo sull’avambraccio di uno
scheletro – ne infranse un altro con lo spadino – e lo spuntone, an-
cora prima di aver finito di sgretolarsi, si allungò e riacquistò la sua
forma. Harrow non si stava risparmiando con le ossa perpetue e, di
quel passo, sarebbe diventata un cadavere perpetuo.
Gideon rotolò via, afferrò la spada e strisciò. Il braccio trafitto la-
sciò, al suo passaggio, una scia rossa e scivolosa. Fu solo grazie agli
anni di addestramento con Aiglamene se ebbe il fegato di rialzarsi,
vacillante, al fianco della sua adepta, accecata dal sangue, la lama ap-

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poggiata di piatto sulla spalla buona. Altri due giganti morti si stava-
no già ricomponendo. Harrow non se lo poteva permettere, pensò
debolmente; Harrow non lo poteva proprio sostenere.
«Impari in fretta!» esclamò la Littrice, e sembrava sinceramente
ammirata. «Ma temo tu abbia ancora molta strada da fare.»
Cytherea artigliò le dita verso il mastodontico squarcio nel fianco
della torre. Dall’interno arrivò un grido, seguito dal tremendo frago-
re di qualcosa di spezzato, strappato, frantumato. Quando l’orrido
costrutto dalle molte gambe eruppe dalla breccia, non era grosso e
pieno di gambe come prima. Si era squarciato per liberarsi dai cep-
pi di Harrow e, nel farlo, si era lasciato alle spalle quasi tutto se stes-
so. Non era che l’ombra miserabile della sua mole originaria. In con-
fronto a qualcosa di normale, però, restava un orrore di moncherini
vorticanti e tentacoli, che si stavano allungando e inspessendo, ri-
crescendo davanti ai loro occhi. Era stato immobilizzato e ora era
dimezzato, ma poteva comunque rigenerarsi. La gigantesca faccia
inespressiva splendeva bianca alla luce del pomeriggio – in equili-
brio precario su un tronco troppo piccolo per la maschera che por-
tava – e strisciò fuori, con i vetri rotti che gli precipitavano lungo i
fianchi come gocce d’acqua. Depositò il corpo menomato sulla ter-
razza come una palla di radici bianche, ondeggiando su due zampe,
un ragno sbocconcellato.
Non era giusto. Cytherea aveva avuto ragione, sin da principio: non
c’era niente che potessero fare. Persino mezzo distrutto, i tentacoli
setolosi e i bargigli si innalzavano a centinaia verso il cielo. Barcollò
e si orientò nella loro direzione – e non c’era un posto dove rifugiar-
si, non lo potevano schivare, non potevano scappare.
La Littrice disse: «Nessuna di voi ha imparato come morire con
grazia… io l’ho imparato più di diecimila anni fa».
«Io non ho ancora finito» disse la necromante di Gideon mezza
morta.
Harrow giunse le mani. L’ultima cosa che Gideon vide furono i fram-
menti dei suoi servitori eterni che rimbalzavano verso di loro, saltel-
lando a mezz’aria e sulle lastre di pietra, formando un guscio duro
sopra lei, Camilla e Harrow, mentre tutti quei tentacoli le assaliva-
no all’unisono. Il rumore era assordante: WHAM-WHAM-WHAM-
WHAMWHAMWHAMWHAMWHAMWHAMWHAM, finché

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non si trasformò in un unico martello, un tonfo ritmato: WHAM…


WHAM… WHAM.
Il mondo vibrava attorno a loro. Tutto si era fatto all’improvviso
molto buio. Una tremula lucina gialla si accese e Gideon si rese con-
to che, per quanto improbabile fosse, Camilla era riuscita in qualche
modo a non perdere la sua torcia tascabile.
Erano chiuse là dentro con i graticci di ferro incurvati e i cespugli
rinsecchiti, morti da un’eternità. Il cielo, il mare e il resto del giardi-
no erano separati da loro da una conchiglia liscia di quel che somi-
gliava a osso massiccio e ininterrotto, come la calotta di un teschio.
Harrow si alzò, malferma, nella penombra, mentre la bestia cerca-
va di aprirle come noci – e squadrò Camilla e Gideon, col viso ormai
completamente insanguinato. Non era nemmeno sudore sanguigno:
era sangue puro. Sotto la pelle, le vene erano esplose come mine. Le
usciva dai pori. Aveva capito come creare ossa perpetue, aveva di-
strutto per metà un immane ragno morto del cazzo e ora aveva eret-
to un muro spesso quindici centimetri e lo stava tenendo insieme con
la sola forza di volontà.
La Reverenda Figlia della Nona Casa fece un sorriso, minuscolo e
trionfante. Poi crollò fra le braccia di Gideon.
Gideon incespicò, terrorizzata a morte e si inginocchiò a terra, ti-
randosi dietro Harrow come una bambola di pezza rotta. Si scordò
della sua spada e si scordò di tutto quanto, mentre cullava la sua adep-
ta esausta. Si scordò dei legamenti frantumati nel braccio buono, del
ginocchio incasinato, dei secchi di sangue che aveva perso, si scordò
di tutto ma non di quel piccolo sorriso vittorioso e fiammeggiante.
«Harrow, forza, sono qui» le disse, urlando per farsi sentire sopra
al tonante assalto del costrutto. «Sifona, maledizione.»
«Dopo quello che è successo all’Ottava?» La voce di Harrow era sor-
prendentemente ferma, considerando che pareva ridotta a un muc-
chio di ferite e stracci neri. «Mai più.»
«Non puoi tenere su questa merda per sempre, Harrow! Non po-
tevi sostenere questa merda neanche dieci minuti fa!»
«Non devo tenerla su per sempre» disse la necromante. Sputò me-
ditabonda un coagulo di sangue e si rigirò la lingua in bocca. «Ascolta-
mi. Prendi la Sesta, rannicchiatevi e vi sparo dall’altra parte del muro.
Le ossa galleggiano. C’è un bel salto per arrivare al mare…»

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«Zero.»
Harrow la ignorò. «… ma non dovrete fare altro che sopravvivere
alla caduta. Sappiamo che hanno chiamato le navi. Vattene dal pia-
neta più presto che puoi. Io la distrarrò il più a lungo possibile: non
devi fare altro che restare viva.»
«Harrow» fece Gideon. «È un piano stupido e sei stupida anche
tu. No.»
La Reverenda Figlia allungò la mano e afferrò Gideon per la cami-
cia. Aveva gli occhi bui e velati dal dolore e dalla nausea; odorava di
sudore, di paura e di tipo nove tonnellate di ossa. Si asciugò di nuo-
vo la faccia con la manica e disse: «Griddle, mi hai fatto una promes-
sa. Hai accettato di tornare alla Nona. Hai accettato di fare il tuo do-
vere per il Sepolcro Sigillato…».
«Non farmi questo.»
«Ti devo la tua vita» disse Harrowhark. «Ti devo tutto.»
Harrow le lasciò la camicia e si afflosciò sul pavimento. La pit-
tura era completamente scomparsa. Tirava su col naso e i copiosi
rivoletti di sangue che le scendevano dalle narici le andavano con-
tinuamente di traverso. Gideon sistemò la testa fradicia e scura in
modo che la sua necromante non crepasse anzitempo, soffocando
nel suo stesso muco sanguinolento, e cercò disperatamente di esco-
gitare un piano.
WHAM. Uno dei tentacoli crepò lo scudo: la luce del giorno filtrò
dall’esterno. Alla luce, Harrow aveva un aspetto addirittura peggiore.
Camilla disse, sicura: «Fatemi uscire. Posso distrarlo».
«Piantala una buona volta, Hect» disse Gideon, senza distogliere
lo sguardo dalla sua necromante – pareva dolorosamente serena, an-
che se le sanguinavano persino le sopracciglia. «Non ho intenzione
di farmi perseguitare dal culo marcio di Palamedes Sextus redivivo.
Mi racconterebbe roba medica per il resto della vita, solo perché ho
permesso che ti disintegrassero.»
«L’altro piano non funzionerà» disse Camilla, assennata. «Se po-
tessimo tenerla a bada e aspettare a riva, sì. Ma non possiamo.»
Harrow sospirò, stirandosi sul pavimento.
«Allora la distrarremo il più a lungo possibile» disse.
La crepa si ricucì con una lentezza penosa e tremebonda. Harrow
scoprì i denti per lo sforzo. Sprofondarono nuovamente nell’oscuri-

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tà e i rumori esterni cessarono, come se il costrutto stesse rifletten-


do sulla mossa successiva.
Camilla chiuse gli occhi e si rilassò. La lunga frangia scura le sci-
volò sul viso. Fu quello – Camilla in movimento e, ora, Camilla a ri-
poso – che fece dire alla vocina nella testa di Gideon, con stupore:
“Stiamo davvero per morire”.
Gideon abbassò lo sguardo sulla sua necromante. Aveva le palpe-
bre pesanti e l’espressione concentrata di chi sa che, una volta spez-
zata quella concentrazione, si addormenterà di botto. Harrow aveva
già perso conoscenza una volta: Gideon sapeva che, se avesse per-
messo a Harrow di inabissarsi di nuovo, era probabile che non ci sa-
rebbe stato un risveglio. Harrow si protese – la mano le tremava – e
diede un buffetto sulla guancia a Gideon.
«Nav» le disse, «sul serio mi hai perdonata?»
Confermato. Stavano per tirare le cuoia tutte quante.
«Ma certo, cretina.»
«Non me lo merito.»
«Forse no» disse Gideon, «ma la cosa non mi impedisce di perdo-
narti lo stesso. Harrow…»
«Sì?»
«Lo sai che non me ne frega un cazzo del Sepolcro Sigillato, giu-
sto? Lo sai che è solo a te che tengo» le disse con una concitazione da
spezzare il cuore. Non sapeva bene che cosa stava cercando di dir-
le, sapeva solo di doverglielo dire subito. Con un rumore tremendo e
vibrante, un tentacolo aveva ricominciato a picchiare sul loro riparo
scheggiato: WHAM. «Non sono portata per questa faccenda del do-
vere. Io sono solo… io. Non posso farcela senza di te. E non sono la
tua vera prima paladina, non avrei mai potuto esserlo.»
WHAM. WHAM. WHAM. La crepa, vessata, si riaprì. La luce del
sole filtrò, mentre i frammenti d’osso si dissolvevano in una cascata
di materia grigiastra. Teneva ancora, ma a Gideon non importava. Il
costrutto non esisteva: il riparo non esisteva. Persino Camilla, che si
era educatamente voltata dall’altra parte per esaminare qualcosa sul-
la parete opposta, non esisteva. C’erano solo lei e Harrow e lo stupi-
do faccino ingrugnato di Harrow, con i suoi zigomi affilati.
Harrow scoppiò a ridere. Era la prima volta che sentiva Harrow ri-
dere veramente. Il suono era piuttosto debole e spossato.

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«Gideon la Nona, primo fiore della mia Casa» disse roca, «sei la
più valorosa paladina che mai siamo riusciti a produrre. Sei il no-
stro trionfo. La migliore fra tutti noi. È stato un onore essere la tua
necromante.»
Le bastava. Gideon la Nona si alzò in piedi così in fretta che per
poco non diede una craniata al soffitto dello scudo osseo. Il suo brac-
cio si lamentò forte e chiaro; lo ignorò. Si mise a fare avanti e indietro
– Harrow la osservava con solo un’ombra di preoccupazione – stu-
diando lo spazio angusto in cui erano confinate. Le foglie morte. Le
lastre di pietra spaccate. Camilla… Camilla ricambiò il suo sguardo,
ma tornò presto a dedicarsi ad altro. Non poteva fare una cosa del
genere a Camilla. Gli sbuffi polverosi di ossa alla deriva. Gli spunto-
ni di ferro della cancellata.
«Ma sì, vaffanculo» disse. «Vi tiro fuori da qui.»
«Griddle…»
Gideon zoppicò fino alle aiuole polverose. WHAM-WHAM-
WHAM… Non aveva molto tempo, ma in ogni caso avrebbe avuto a
disposizione un’unica possibilità. Si liberò a fatica della mantella nera
e pensò anche di levarsi la camicia, in un attacco di panico menta-
le, ma decise che non ce n’era bisogno. Si sfilò i guanti dai palmi ba-
gnati e arrossati e si arrotolò le maniche, senza motivo, a parte il te-
nere occupate le mani tremanti. Cercò di dare alla sua voce il tono
più calmo possibile: in un certo senso, era calma. Non era mai stata
così calma in vita sua. Era solo il suo corpo ad avere paura.
«Va bene» disse. «Adesso capisco. Capisco davvero, sul serio,
completamente.»
Harrowhark si era puntellata sui gomiti e la osservava, gli occhi
neri opachi e morbidi. «Nav» le disse Harrow, con una dolcezza che
non le aveva mai sentito esternare. «Non riuscirò a resistere anco-
ra per molto.»
WHAM-WHAM-WHAM!
«Non so come tu stia facendo a resistere neanche adesso» disse Gi-
deon, arretrando. Lanciò un’occhiata nella direzione verso cui stava
arretrando e poi tornò a soffermarsi sulla sua necromante.
Inspirò, tremula. Harrow la stava squadrando con una delle sue clas-
siche espressioni di vago compatimento nonagesimusiano, come se
Gideon avesse finalmente perso il controllo delle sue facoltà e stesse

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per farsela addosso da un momento all’altro. Camilla la osservò con


un’espressione che non lasciava trapelare assolutamente niente. Ca-
milla la Sesta non era scema.
Disse: «Harrow, non posso mantenere la mia promessa, perché il
mio unico scopo sei tu. Lo capisci, vero? È questo l’obiettivo di un
paladino. Senza di te, non può esserci una me. Una carne, una fine.»
Una spossata ombra di sospetto attraversò il viso della sua necro-
mante. «Nav» le disse, «che cosa stai facendo?»
«La cosa più crudele che chiunque ti abbia mai fatto nella vita, cre-
dimi» disse Gideon. «Saprai cosa fare, e se non lo fai, quello che sto
per fare non servirà a nessuno.»
Gideon si voltò e aguzzò la vista, calibrando l’angolazione. Valutò
la distanza. Voltarsi indietro sarebbe stata la cosa peggiore al mon-
do, quindi evitò.
Mentalmente, si ritrovò all’improvviso davanti alle porte del Drear-
burh – aveva di nuovo quattro anni e urlava – e tutta la paura e l’odio
che provava svanirono. Il Drearburh era vuoto. Crux non esisteva.
Niente schifose prozie della malora. Non c’erano cadaveri inquieti,
sconosciuti tumulati, niente genitori morti. Anzi, il Drearburh era lei.
Lei era Gideon Nav, e Nav era un cognome della Nona. Prese tutta la
follia putrida, silente e sudicia di quel posto e le spalancò le porte. Le
mani non le tremavano più.
WHAM-WHAM-WHAM. La struttura si infossò e si crepò. Ora si
stavano spalancando grossi spiragli, lasciando entrare ampie lame di
luce solare. Percepì del movimento, alle sue spalle, ma fu più rapida.
«Per la Nona!» esclamò Gideon.
E si lasciò cadere in avanti, sugli spuntoni di ferro.

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ATTO
ACTQUINTO
ONE

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«Okay» disse Gideon. «Okay. Alzati.»
Harrowhark Nonagesimus si alzò.
«Brava!» commentò la sua paladina. «Puoi anche smetterla di ur-
lare, adesso. Quando vuoi. Così, per tua informazione. Ora… prima
di tutto assicurati che nessuno faccia secca Camilla… sono serissi-
ma, non voglio un abbonamento eterno a Le migliori secchionate di
Palamedes Sextus.»
«Gideon» disse Harrow, e poi, in maniera più sconnessa: «Gideon».
«Non c’è tempo» disse Gideon. Una ventata d’aria calda le investì
entrambe: scompigliò i capelli di Harrow, buttandoglieli davanti al
viso. «In avvicinamento.»
Lo scudo gemette, tremò e, alla fine, si infranse. L’antico costrutto
Littorio balzò in avanti, trionfante in tutta la sua scervellatezza. Har-
row lo vide per quel che era: un agglomerato spugnoso di ceneri ri-
generanti, e file di denti in quantità. In barba alla letale velocità che
aveva dimostrato prima, ora le sovrastava come se si spostasse nel-
lo sciroppo. Rabbrividì a mezz’aria, preparando un centinaio di lan-
ce bianche.
Gideon disse: «Spazzalo via».
E Harrow lo spazzò via. Fu di una semplicità stupefacente. Non
era nulla di più di uno scheletro animato – costruito peraltro sen-
za una particolare grazia. Era già monco per metà, visto che si era
smembrato da solo per liberarsi come un animale in trappola. La te-
sta era solo una placca chitinosa. Il tronco un tubo d’osso. I tentacoli
superstiti caddero come gocce di pioggia, paralizzati a metà del col-
po. L’osso rispose al loro comando e, insieme, spedirono quell’affare

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contro le vetrate incrinate del giardino terrazzato facendolo preci-


pitare – un’enorme cometa bianca, con una scia fremente di tenta-
coli – nell’oceano ribollente.
«La mia spada, eccola là» disse Gideon. «Prendila… prendila e
smettila di guardarmi, stronza. Non farlo. Non guardarmi, non ti
devi permettere.»
Harrow distolse il viso dalla cancellata di ferro e raccolse lo spado-
ne, con un grido: era troppo pesante, troppo innaturale. Gideon al-
lungò il braccio per stabilizzare la mano dominante di Harrow, cir-
condandola con l’altro braccio in una stretta bizzarra. Le sue dita si
chiusero su quelle di Harrow, ruvide e callose. Il peso notevole dell’ar-
ma fece comunque tendere dolorosamente i muscoli degli avambrac-
ci di Harrow, ma Gideon le afferrò il polso e, nonostante il patimen-
to, sollevarono insieme la spada.
«Hai degli spaghetti al posto delle braccia, cazzo» commentò Gi-
deon, piena di disapprovazione.
«Sono una necromante, Nav!»
«Be’, cara, spero che non ti dispiacerà passare la prossima miria-
de a tirare su pesi.»
Erano guancia contro guancia: il braccio di Gideon era intrecciato
a quello di Harrow, reggevano la spada, lasciando che la luce lampeg-
giasse sull’acciaio. Il terrazzamento si apriva davanti a loro, cosparso
di schegge di vetro disseminate dal costrutto che precipitavano con
la medesima lentezza leggera. Harrow si voltò a guardare Gideon, e
gli occhi di Gideon, come sempre, la allarmarono: quella profonda
sfumatura ambrata, l’allarmante doratura calda del tè fresco d’infu-
sione. Le strizzò l’occhio.
Harrow disse: «Non ci riesco».
«Ci sei già riuscita» disse Gideon. «È fatta. Mi hai mangiata e mi
hai ricostruita. Non possiamo più tornare a casa.»
«Non posso sopportarlo.»
«Butta giù» disse Gideon. «Sei già duecento figli e figlie morte del-
la tua Casa. Che sarà mai, una in più?»
Davanti a loro si parava Cytherea la Prima, anche se la presero in
considerazione solo tangenzialmente. Era ferma, con la spada ab-
bassata e si limitava a osservarle, gli occhi sgranati e azzurri come
la morte della luce. Il giardino si ridusse a lei e a quella sua maledet-

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ta spada verde. Le labbra dischiuse descrivevano una piccola O. Non


pareva nemmeno particolarmente agitata: era solo stupita, come se
loro fossero diventate un’aurora, un miraggio, un surreale scherzo
dei raggi solari.
«Adesso la pigliamo a randellate finché non escono le caramelle
dal naso» disse Gideon. «Oh, Nonagesimus, che cavolo, non piange-
re, non possiamo combattere se piangi.»
Harrow disse, con una certa fatica: «Non posso concepire un uni-
verso in cui tu non ci sei».
«Sì che puoi, è solo un po’ meno grandioso e fico» disse Gideon.
«Vaffanculo, Nav…»
«Harrowhark» disse Gideon la Nona. «Un giorno morirai e ti sot-
terreranno e, a quel punto, vedremo come risolverla. Per il momen-
to non posso dirti che te la caverai benissimo. Abbiamo fatto la cosa
giusta? Non sono in grado di dirtelo. Non sono in grado di dirti un
cazzo. In pratica, sono un’allucinazione prodotta dai meccanismi
chimici del tuo cervello che cerca di gestire il trauma devastante del
doversi congiungere con i miei meccanismi chimici. In ogni caso, io
non so una mazza di niente, Harrow, non ho mai saputo niente… a
parte una cosa.»
Sollevò il braccio di Harrow che stringeva l’impugnatura. Le sue
dita ruvide, forti e sicure, spostarono l’altra mano di Harrow al suo
posto, sopra al pomolo.
«Io conosco la spada» disse lei. «E ora, lo stesso vale per te.»
Gideon le mise in posizione: peso sul piede avanzato, ginocchio
leggermente piegato, fianco destro alleggerito. Inclinò l’elsa in modo
che la lama fosse rivolta verso l’alto, dritta davanti a loro in una linea
perfetta. Spostò in su la testa di Harrow e le corresse le anche.
Il tempo accelerò, si sfumò, muovendosi di fronte a loro in un lam-
peggio brillante. Ora la vecchia Littrice Cytherea – di una vecchiaia
demoralizzante, sembrava impossibile che fossero mai riuscite a ve-
derla in un altro modo – era ferma ai piedi delle scale. Lo sguardo,
di quel blu radioattivo, era quieto; la spada era pronta. Sorrideva con
le labbra esangui.
«Come ti senti, sorellina?» disse.
La bocca di Harrowhark rispose: «Pronta per il terzo… o il quar-
to round, temo di aver perso il conto».

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Incrociarono le spade. Lo stridore del metallo sul metallo riempì


come un urlo il giardino vuoto. Cytherea la Prima era stata Cythe-
rea la Prima per diecimila anni e la sua paladina, persino diecimila
anni prima, era già magnifica. Il tempo l’aveva resa ancora più per-
fetta di quanto un paladino mortale avrebbe mai potuto comprende-
re. In un combattimento regolamentare, avrebbero combattuto fino
all’impasse, probabilmente.
Ma non si trattava di un duello regolamentare. Mentre combatte-
vano – e combattere sembrava un sogno, come se si stessero addor-
mentando – notarono che Cytherea era composta da diverse parti.
Gli occhi erano stati presi da chissà dove, due punti blu nel fuoco di
qualcun altro. Dentro al petto ardeva un’altra conflagrazione, e que-
sta la stava mangiando viva: fumava e bruciava, pulsando oscura e
maligna nel punto che i suoi polmoni avrebbero dovuto occupare.
Si era gonfiata, nel suo corpo, ed era pronta a esplodere. La maggior
parte dell’energia di Cytherea era assorbita dal tentativo di tenerla a
bada. Harrow avrebbe potuto toccare quello che aveva fatto Palame-
des; dargli un colpetto, sottrarlo al controllo di Cytherea.
«Ecco» disse Gideon, nell’orecchio di Harrow, con un tono che ora
si era fatto più dolce. «Grazie, Palamedes.»
«Sextus era un portento» ammise Harrow.
«Che peccato che tu non l’abbia sposato. Avete entrambi un debo-
le per le vecchie pollastre morte.»
«Gideon…»
«Concentrati, Nonagesimus. Sai cosa fare.»
Cytherea la Prima vomitò un torrente di sangue nero. Ormai non
c’era più paura in lei. C’era solo un senso d’attesa, in rotta di collisio-
ne con un’eccitazione impanicata, come una bambina che aspetta la
sua festa di compleanno. Il peso delle braccia di Gideon sugli avam-
bracci di Harrow si stava facendo più effimero, più difficile da perce-
pire; il contatto con la guancia di Gideon, all’improvviso, non aveva
più sostanza del ricordo di una febbre passeggera. C’era la sua voce
nell’orecchio, ma era molto lontana.
Harrow piazzò la punta della spada a destra dello sterno di Cythe-
rea. Il mondo era rallentato e gelido.
«Una carne, una fine» disse Gideon, e ormai era solo un mormo-
rio, al limite estremo dell’udibile.

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Harrow disse: «Non lasciarmi».


«Come la terra destinata ad accoglierti morente, allo stesso modo
io morirò: e là sarò sepolta. Nostro Signore così ha fatto a me, e altro
ha aggiunto, se null’altro che la morte può separarmi da te» disse Gi-
deon. «Ci vediamo dall’altra parte, zuccherina.»

* * *

Harrowhark affondò la lama, trapassando la massa maligna nel petto


di Cytherea: si gonfiò e si liberò, lacerandola, un pozzo di tumori, un
cancro, e si impossessò di lei. La percorse come una fiamma che in-
contra l’olio, ribollendo visibilmente sotto la sua pelle, le vene, le ossa.
Pulsarono e cedettero. La pelle si strappò; il cuore si tese, si espanse
e, dopo diecimila anni di disonorato servizio, si spense.
Cytherea la Prima sospirò, non senza sollievo. Poi si afflosciò e morì.
La spada cadde a terra con un clangore formidabile. La brezza sco-
stò i capelli di Harrow, facendoglieli finire in bocca mentre tornava
indietro a precipizio e faceva forza sulle braccia della sua paladina,
tirando e tirando, per poterla liberare dallo spuntone e adagiarla sul-
la schiena. Poi rimase lì seduta per parecchio tempo. Accanto a lei,
Gideon la Nona giaceva sotto a un cielo azzurro e straniero, con un
sorriso minuscolo, tirato e risoluto.

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ACT ONE

Epilogo
Harrowhark Nonagesimus rinvenne in un can-
dido nido sterile. Era coricata su una barella, avvolta in una coperta
termica scricchiolante. Voltò il capo; vicino a lei c’era un oblò e, ol-
tre l’oblò, c’erano le nere profondità vellutate dello spazio. Stelle fred-
de splendevano in lontananza come diamanti, e le trovò molto belle.
Se fosse stato possibile morire di desolazione, sarebbe morta lì, sul
colpo: per come stavano le cose, non poteva fare altro che restare di-
stesa su quella lettiga a contemplare le macerie fumanti del suo cuore.
Le lampade erano state abbassate e creavano un irritante bagliore
rassicurante che riempiva la piccola stanza di una morbida radiosità
benevola. Rischiaravano la sua barella, le pareti bianche, le piastrel-
le bianche del pavimento di una pulizia dolorosa. La luce più inten-
sa della camera proveniva da un’alta lampada da lettura, piazzata
nell’angolo accanto a una sedia di metallo. Lì seduto c’era un uomo.
Sul bracciolo della sedia c’era un tablet e teneva fra le mani un bloc-
chetto di veline – di tanto in tanto lo scartabellava e prendeva qual-
che appunto. Portava abiti semplici. Aveva i capelli tagliati corti che,
alla luce, risultavano di un anonimo castano scuro.
L’uomo doveva essersi accorto del suo risveglio, perché sollevò lo
sguardo dalle veline e dal tablet per portarlo su di lei, mettendo tutto
da parte per alzarsi in piedi. Le si avvicinò, e vide che aveva le sclere
nere come lo spazio. Le iridi erano scure, di un’iridescenza plumbea
– una membrana oleosa, di una profonda sfumatura arcobaleno, cer-
chiata di bianco. Le pupille erano dello stesso nero lucente della sclera.
Harrow non seppe mai stabilire con precisione come fece a capi-
re chi era, lo sapeva e basta. Scostò la coperta termica scrocchiante

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– qualcuno le aveva messo addosso uno spiacevole camicione tur-


chese da ospedale – e scese dal letto, buttandosi senza ritegno ai pie-
di del Necromante Supremo; la Resurrezione; il Dio delle Nove Case;
l’Imperatore Imperituro.
Appoggiò la fronte sulle piastrelle gelide e linde.
«Vi scongiuro, mio Signore, annullate quello che ho fatto» gli dis-
se. «Non vi chiederò nient’altro, mai più, se solo mi restituirete la vita
di Gideon Nav.»
«Non posso» le disse. La sua voce era agrodolce, roca e infinita-
mente carezzevole. «Mi piacerebbe moltissimo. Ma ora quell’anima
è dentro di te. Se cercassi di tirarla fuori, anche la tua la seguirebbe e,
nel processo, le distruggerei entrambe. Quel che è fatto è fatto. Ora
dovrai conviverci.»
Si sentiva vuota. Ecco qual era l’aspetto più terribile: dentro di lei non
c’era altro che un nauseante e ribollente disprezzo per la sua Casa. Per-
sino il silenzio del suo spirito non riusciva a diluire l’odio che era fer-
mentato in lei sin dalla genesi della Nona Casa. Harrowhark si alzò dal
pavimento e fissò l’Imperatore dritto in quegli occhi oscuri e brillanti.
«Come osate chiedermi di conviverci, proprio voi?»
L’Imperatore non la ridusse a un mucchio di cenere, anche se a lei
sarebbe piaciuto parecchio. Invece, si massaggiò una tempia e sosten-
ne il suo sguardo, pacato e mite.
«Perché» le disse «l’Impero sta morendo.»
Lei non commentò.
«In circostanze di minor necessità, ti troveresti ancora ancora a
casa tua, nel Drearburh, a trascorrere comodamente una vita lunga
e tranquilla, senza preoccupazioni e senza nulla che possa nuocer-
ti, e la tua paladina sarebbe ancora viva. Ma là fuori ci sono cose che
nemmeno la morte può domare. Le combatto dai tempi della Resur-
rezione. Non posso combatterle da solo.»
Harrow disse: «Ma voi siete Dio».
E Dio disse: «E non basto».
Arretrò, mettendosi a sedere sul bordo del letto, tirandosi giù sulle
ginocchia l’orlo della camiciola da ospedale. Lui proseguì: «Non dove-
va andare così. La mia intenzione era che i nuovi Littori diventassero
Littori dopo averci riflettuto, dopo aver meditato e compreso since-
ramente il loro sacrificio: un atto di coraggio, non un atto nato dalla

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paura e dalla disperazione. Nessuno doveva perdere la vita, contro la


propria volontà, alla Casa di Canaan. Ma… Cytherea…».
L’Imperatore chiuse gli occhi. «Cytherea è colpa mia» disse. «Era
la migliore fra noi. La più leale, la più umana, la più resiliente. Quel-
la con la più spiccata propensione alla gentilezza. L’ho costretta a vi-
vere nella sofferenza per diecimila anni, perché sono stato egoista e
lei me l’ha permesso. Non disprezzarla, Harrow… te lo leggo negli
occhi. Quello che ha fatto è stato imperdonabile. Non riesco a com-
prenderlo. Ma quello che era… era una meraviglia.»
«Siete tremendamente clemente» disse Harrow, «visto e conside-
rato che era intenzionata a uccidervi, da quel che diceva.»
«Vorrei che l’avesse detto a me» commentò l’Imperatore con gra-
vità. «Se solo ci fossimo scontrati, io e lei, le cose si sarebbero messe
molto meglio per tutti quanti.»
Harrow rimase in silenzio. Lui pareva perso fra i suoi pensieri. Ma
poco dopo proseguì: «La maggior parte dei miei Littori sono stati
distrutti da una guerra che mi è sembrato meglio combattere lenta-
mente, per logoramento. Ho perso i miei Ministri. Non è stata solo
la morte. La solitudine dello spazio profondo incide su chiunque, e
i necrosanti l’hanno dovuta sopportare molto più a lungo di quan-
to sarebbe stato lecito chiedere a chiunque. Ecco perché volevo solo
qualcuno che avesse scoperto qual era il prezzo e fosse disposto a pa-
garlo, comprendendone a pieno le implicazioni».
Tutto questo non fece che scivolare addosso a Harrow. Si rese con-
to all’istante di essere un’idiota: stava ponendo le domande sbagliate
e stava ascoltando la storia sbagliata.
«Chi altro è sopravvissuto a parte me, mio Signore?»
«Ianthe Tridentarius» disse l’Imperatore, «meno un braccio.»
«La paladina della Sesta Casa era solo ferita quando l’ho lasciata»
disse Harrowhark. «Dov’è?»
«Non abbiamo individuato alcuna traccia dei lei, o del suo corpo»
disse l’Imperatore. «Nemmeno quelli della Capitana Deuteros di Tren-
tham o della Principessa Reale di Ida.»
«Cosa?»
«Tutte le Case ci faranno delle domande, questa sera» disse lui.
«Non posso certo biasimarle. Mi dispiace, Harrow, ma non siamo
riusciti a recuperare neanche la tua paladina.»

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Il suo cervello ne prese seccamente nota.


«Gideon non c’è più?»
«Tutti gli altri sono stati rintracciati» disse lui. «Ci siamo dovu-
ti accontentare dei resti parziali della Settima Casa e del Guardiano
della Sesta. Solo voi due siete state confermate come superstiti. Il fat-
to che io non possa nemmeno andare laggiù a cercare non ci aiuta.»
Harrow si sorprese a rispondere quasi disorientata: «Perché non
potete tornare là? Sembrava il fulcro del piano di Cytherea».
L’Imperatore disse: «Ho salvato quel mondo già una volta… ma
non per me».
Harrow schiacciò le gambe contro la costola fredda e metallica
della lettiga. Si aspettava di sentire qualcosa, ma niente. Percepiva
un vasto e mordace senso di vuoto, il che era per lo meno un pochi-
no meglio rispetto al nulla. Una vocina nelle profondità della sua te-
sta stava dicendo: “Qualcuno brucerà per questo”, ma si trattava sem-
pre e solo della sua.
L’Imperatore si appoggiò allo schienale della sedia e si squadra-
rono. Aveva una faccia di una banalità ridicola: mascella affusolata,
fronte alta, i capelli di uno spento castano plumbeo. Ma quegli occhi.
Le disse: «Sei diventata Littrice in circostanze avverse, lo capisco».
«Avverse è un eufemismo» fece Harrow.
«Non sei la prima» disse l’Imperatore. «Ma ascoltami. Farò oggi
quello che non ho fatto negli ultimi diecimila anni e rigenererò la tua
Casa.» (Come faceva a saperlo?) «Salvaguarderò la Nona. Mi assicu-
rerò che quello che è accaduto alla Casa di Canaan non accada mai
più. Ma voglio che tu venga con me. L’Impero ne guadagnerà un’al-
tra santa, e l’Impero ha bisogno di un’altra santa più che mai. Ho tre
maestri per te, e un intero universo a cui potrai aggrapparti… anco-
ra per un po’.»
Il Re Imperituro le aveva chiesto di seguirlo. Tutto quello che vo-
leva fare lei era restare da sola e piangere.
«Oppure puoi fare ritorno a casa» le disse. «Non ho dato per scon-
tato che avresti acconsentito. Non ti costringerò e non cercherò di
comprarti. Che tu mi segua o che tu scelga di restare nella tua dimo-
ra, manterrò il mio impegno verso la tua Casa.»
Harrow disse: «Non possiamo più tornare a casa».
L’oblò restituiva il suo riflesso indistinto, interrotto da remoti cam-

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pi spaziali punteggiati di stelle fittissime. Distolse lo sguardo. Se si


fosse vista allo specchio, probabilmente si sarebbe assalita da sola: se
si fosse vista allo specchio, avrebbe potuto trovare una traccia di Gi-
deon Nav, o peggio, forse non avrebbe trovato niente, non avrebbe
trovato niente di niente.
L’universo stava finendo, quindi. Bene. Per lo meno, se avesse fallito,
non si sarebbe mai più trovata vincolata a nessuno. Harrow si toccò
la guancia e constatò, sorpresa, che i polpastrelli erano bagnati e che
il Necrore Supremo aveva abbassato lo sguardo, cavallerescamente.
Gli disse: «Dovrò tornare, prima o poi».
«Lo so» disse l’Imperatore.
«Devo scoprire che ne è stato del corpo della mia paladina. Devo
sapere che cos’è successo agli altri.»
«Certamente.»
«Ma per ora» fece Harrow, «sarò la vostra Littrice, mio Signore, se
vorrete accettarmi.»
L’Imperatore disse: «Allora alzati, Harrowhark la Prima».

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Ringraziamenti

Vorrei esprimere la mia più sentita riconoscenza alla mia agente, Jen-
nifer Jackson, sia per il suo entusiasmo che per l’indefesso lavoro a
beneficio di Gideon la Nona. Estendo i miei ringraziamenti anche al
mio incredibile editor, Carl Engle-Laird; non so da dove cominciare
per riassumere tutto quello che ha fatto per me e per questo roman-
zo. Posso solo dire che, se per me si è trattato di uno sforzo di auten-
tica passione, lui ha centuplicato sforzi e passione. Grazie per essere
stato un sostenitore della Sesta Casa fino alla fine, Carl.
Un ringraziamento speciale per lo staff di Tor.com: Irene Gal-
lo, Mordicai Knode, Katharine Duckett, Ruoxi Chen, e tutti gli altri
membri della squadra. Vi sono profondamente grata per il duro la-
voro e il sostegno durante il processo di editing e di pubblicazione.
Vorrei anche sottolineare il contributo di Lissa Harris, che mi
ha istruita sull’utilizzo dello stocco, della mano secondaria e del-
la Zweihänder per tutto il romanzo. Tutto quello che di buono, vero
e bello troverete qui sull’arte della spada è merito suo; ogni errore o
stupidaggine dipende da me, probabilmente perché ho ignorato i suoi
consigli. Le sono grata per la pazienza, l’arguzia e la conoscenza, ma
coglierei l’occasione per ricordarle che nell’insalata di patate non ci
vogliono le uova sode. In guardia.
Un grazie speciale anche a Clemency Pleming e Megan Smith, le
mie amiche e prime lettrici, il cui sostegno implica che io ora sia in
possesso di un grembiule da cucina con ricamato sopra il peggior
meme cancellato dal manoscritto. Il loro senso dell’umorismo e la
loro vicinanza mi hanno mantenuta sana di mente – in più, ora ho
un grembiule.
Sono anche grata agli eccellenti insegnanti che mi hanno seguita
alla Clarion nel 2010 e ci tengo a ringraziare in maniera particolare

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Jeff e Ann VanderMeer, ben sapendo che Jeff non se la prenderà se
insisterò sugli anni di supporto, tifo ed entusiasmo che ho ricevuto
da Ann. L’aiuto che mi è arrivato dai miei compagni di corso, il cui
lavoro ho apprezzato, i cui consigli ho richiesto e del cui sconfinato
affetto ho sempre approfittato costantemente nel corso degli anni, si
è dimostrato impagabile. (Grazie, sfigati.) Per i servizi speciali resi a
questo romanzo vorrei ringraziare Kali Wallace, l’incarnazione viven-
te di nolite te bastardes carborundorum; John Chu, per la sua gen-
tilezza sincera; e Kai Ashante Wilson, che mi ha mollato la delica-
ta pedata nel sedere di cui avevo bisogno per spedire il manoscritto.
Diverse persone, in generale, hanno sostenuto me e questo roman-
zo. Sono grata per l’amore e il supporto dei miei amici e della mia fa-
miglia, in particolare di mio fratello, Andrew Muir, che crede nella
mia scrittura da quando avevo undici anni e pubblicavo fanfiction tur-
gide degli Animorph. L’appoggio che mi ha dato, in ogni strada della
mia vita, mi hanno resa quella che sono oggi. In più, grazie per aver
lasciato delle recensioni anonime assai critiche ai miei capolavori su
fanfiction.net, babbeo.
Infine, ma fondamentale, voglio riconoscere i contributi incessan-
ti di Matt Hosty, che ha pulito sangue, preparato tè e corretto bozze
con la pazienza di Griselda. Altri due libri e poi non menzionerò mai
più un osso, giuro su Dio.

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