Ipotesi e ricerche
Carocci editore
QUADERNI DEL DIPARTIMENTO DI DISCIPLINE STORICHE /
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BOLOGNA
Il testo è disponibile sul sito Internet di Carocci editore
e sul sito Internet del Dipartimento di Discipline Storiche
dell’Università di Bologna:
http://www.dds.unibo.it
ISBN ---
Parte prima
Ipotesi
di Valerio Romitelli
. Quattro ipotesi
. Tre domande
. Risposte classiche
.. Il classismo
.. L’evoluzionismo
.. Definire, per conoscere quale sociale?
.. L’ideale dei tipi ideali
.. Il funzionalismo e i suoi paradossi
.. L’etnografia statunitense
INDICE
Parte seconda
Ricerche
Presentazione
INDICE
. Il campione
. I luoghi
. Le interviste
. Il questionario
. Una “benevola forma di egoismo”: cosa dicono i volontari del
volontariato
. Le proposte dei volontari
. Riconoscimento intellettuale, informazione e formazione
nel volontariato
. «Volontario è chi ha la volontà di fare questa esperienza,
con la consapevolezza di non essere un professionista»
. Introduzione
. L’obiettivo
. Presentazione e caratteristiche del luogo
. Presentazione del campione
INDICE
. Introduzione
. Descrizione del campione
. «Nel nostro mondo siamo importanti»
. «Lo stipendio non dà valore al nostro lavoro»
. «La cosa più importante è la gratificazione che si può rice-
vere dalle persone»
. «Fra colleghi ci vorrebbe più collaborazione, rapporto»
. La formazione: una chiave di lettura del turnover?
. Appendice
Parte prima
Ipotesi
di Valerio Romitelli
Quattro ipotesi
Le ricerche qui raccolte sono state compiute nell’arco degli ultimi cinque anni.
Esse non solo si sono svolte in luoghi, tra popolazioni e con soggetti tra loro di-
versi, ma sono anche avvenute seguendo impostazioni problematiche nonché
metodologie tra loro non del tutto omogenee. Tuttavia, il Leitmotiv c’è ed è sta-
to ben certo fin dal loro inizio, anche se si è venuto chiarendo e precisando
strada facendo. Con la pubblicazione di questa raccolta, i loro autori hanno an-
che deciso che fosse venuto il momento di provare a esplicitare le convinzioni
comuni che hanno ispirato le loro inchieste. A me che, bene o male, ho segui-
to da vicino ciascuno di questi lavori è spettato il compito di introdurli per pro-
vare a fare il punto sul senso da essi condiviso. A tale scopo propongo delle ipo-
tesi metodologiche che rispondono ad alcune delle più importanti questioni
presenti tra le scienze sociali. Dichiarando subito che la loro ispirazione viene
dall’antropologia di Sylvain Lazarus e dal GRAM (Groupe de Recherche de
l’Anthropologie de la Modernité) da lui diretto, riassumo tali ipotesi in questi
quattro enunciati:
. chiunque può pensare;
. per conoscere la realtà sociale occorre pensare il pensiero altrui;
. occorre sempre distinguere due realtà sociali: quella che è governata da un
qualche potere e quella che è resa possibile da chi potere non ha;
. per conoscere quest’ultima realtà la ricerca sociale può evitare ogni lin-
guaggio da specialisti, ovvero ogni metalinguaggio.
Questi enunciati saranno in seguito più estesamente spiegati. Ora, un bre-
ve commento di ciascuno.
. Dire che “chiunque può pensare” significa escludere che il pensiero sia ap-
pannaggio di chi può rivendicare titoli di sapere o di potere, da esperto o da re-
sponsabile autorizzato. “Chiunque” qui vuol dire anche “chi non è nessuno”,
chi non ha alcuna qualifica o competenza per prendere decisioni riguardo alla
propria condizione. Che anche in tale condizione di soggezione si possa sem-
pre pensare, che ciò effettivamente avvenga e che ciò costituisca un’abbon-
dantissima fetta della realtà sociale: tutti questi mi paiono dati incontestabili di
cui molte ricerche sociali ancora non tengono debito conto.
. Dire che “per conoscere la realtà sociale occorre pensare il pensiero altrui”
significa escludere che la realtà sociale sia sempre da ricercarsi “dietro” ciò che
VA L E R I O R O M I T E L L I
gli altri pensano, come una causa oggettiva o forza naturale che spingerebbe
dalle spalle ogni altro e che unicamente “io” ricercatore sociale sarei in grado
di vedere. Ogni ricercatore sociale è sempre inevitabilmente un “io”, un sog-
getto cartesiano, un soggetto di scienza, come lo chiamava Jacques Lacan. Ma
proprio per essere degno di questo nome non può non ammettere, come del
resto faceva a suo modo George H. Mead, riconosciuto padre dell’interazioni-
smo simbolico, che non c’è realtà sociale che non risulti dal rapporto col pen-
siero altrui.
. Questo terzo enunciato significa ammettere che in ogni realtà sociale (co-
me ad esempio una fabbrica o un servizio sociale) c’è sempre chi la governa
(manager o funzionari, ad esempio) e chi è governato (operai od operatori so-
ciali, ad esempio), ma significa anche che le questioni di governo non esauri-
scono tutto ciò che si può conoscere di tale realtà. Di più, che quest’ultima è
del tutto diversa per chi non la governa e invece ne fa esperienza senza dispor-
re di alcun potere né sapere come averne (come, appunto, operai od operato-
ri sociali). Se per conoscere la realtà sociale da governare occorre conoscere an-
zitutto le necessità di chi ha potere e sapere (politici, manager o funzionari), per
conoscere la realtà di chi non ha potere né sapere (che è il compito principale
delle nostre ricerche), occorre anzitutto pensare il pensiero di chi (operai od
operatori sociali) si rende possibile tale realtà. Tutto ciò implica, per esempio,
assumere in modo assai particolare l’obiettivo sempre più spesso fatto proprio
dalle scienze sociali di “fornire consigli per buone prassi di politica sociale”.
Come si vedrà, anche in alcune delle nostre inchieste ci si è posto il problema
di fornire tali “consigli”, ma non mettendosi dal punto di vista della governa-
bilità della situazione in cui l’inchiesta è stata condotta; bensì cercando di far
parlare il pensiero di chi è governato e lasciando a chi governa la responsabi-
lità di trarne le proprie conseguenze. Proprio perciò, al posto dei “consigli”,
che servono se rivolti a chi ha il potere di applicarli, preferiamo parlare di “pre-
scrizioni”, che valgono per chiunque.
. Proprio per poter pensare e far parlare il pensiero di altri, senza potere, né
sapere, viene proposto il quarto enunciato. Rinunciare a qualsiasi linguaggio da
esperto è, infatti, condizione necessaria per porsi sullo stesso piano di chiun-
que. Molte scienze sociali non ammettono questa possibilità. Sostengono che
ogni ricercatore sociale degno di questo nome è un esperto, e quindi non può
non parlare e pensare secondo un suo linguaggio diverso da quelli che incon-
tra, specie se senza alcuna specifica qualifica. Rispetto a ciò, io non dico che il
ricercatore sociale debba rimuovere il suo sapere, dico invece che può evitare
di fissare questo suo sapere in definizioni, discorsi, modelli che rendono il suo
linguaggio un linguaggio tecnico, da esperti, ossia un metalinguaggio: un lin-
guaggio che traduce, decodifica quello degli altri. Il pregiudizio secondo il qua-
. Q U AT T R O I P O T E S I
le ciò non sarebbe possibile si fonda sull’idea che tra il linguaggio scientifico e
quello comune la differenza sia insormontabile. Il che è certamente e necessa-
riamente vero nella maggioranza degli ambiti della conoscenza scientifica (so-
prattutto in tutti quelli matematizzati come ad esempio la fisica, la chimica e fi-
nanche la linguistica, l’economia politica o la sociologia fondata sulla statisti-
ca), ma può non esserlo nelle ricerche sociali di tipo etnografico riguardanti ciò
che chiamiamo il pensiero altrui. Qui sta una delle maggiori singolarità del no-
stro metodo: che si possa far scienza, cioè che si possa raggiungere una cono-
scenza sistematica, infinitamente trasmissibile, ripetibile in altre esperienze di
ricerca, pur mantenendosi in un linguaggio comune. Basilare a questo propo-
sito è tenere conto di un assunto già altrimenti noto, ma che nel Novecento gli
studi sul linguaggio, non ultimi quelli della grammatica generativa di Noam
Chomsky, hanno quanto mai confermato: che l’infinita varietà dei linguaggi
non esclude una loro omogeneità fondamentale; in altre parole, che il linguag-
gio per quanto sia complesso e differenziato a seconda dei suoi usi nelle diver-
se lingue, società ed esperienze possibili (da quelle più comuni a quelle artisti-
che, da quelle scientifiche a quelle politiche e così via) può sempre essere pen-
sato come un unico linguaggio.
È questa una delle considerazioni essenziali contenute in un saggio di
Clifford Geertz di una trentina di anni fa; un saggio, il quale arriva alla con-
clusione che sia possibile un’etnografia del pensiero: del pensiero ovunque, co-
munque e da chiunque possa essere elaborato.
Questo saggio mantiene l’idea che l’etnografia in quanto scienza debba in-
terpretare e tradurre a suo modo pensiero e linguaggio altrui. Io mi spingo in-
vece fino a sostenere che l’etnografo possa pensare e parlare come chiunque,
restando all’interno delle diversità e delle somiglianze che chiunque ha rispet-
to a chiunque altro, senza per questo dovere per forza derogare al suo compi-
to di far scienza. Per spiegare come ciò sia possibile non trovo nulla di meglio
che anticipare alcuni risultati delle nostre inchieste. Essi consistono soprat-
tutto nel far brillare di luce propria le parole dei nostri interpellati, ad esem-
pio, operai/operaie e operatori/operatrici sociali. Ebbene cosa dicono questi
soggetti?
Cito giusto una frase degli operai della Marcegaglia, fabbrica metalsiderur-
gica ravennate in un impetuoso sviluppo, in controtendenza rispetto all’anda-
mento della grande industria nazionale, ma tormentata da continui incidenti, al
punto da provocare un’inchiesta della magistratura che ha finito per far saltare
la direzione aziendale precedente all’attuale. La frase di questi operai che qui
porto ad esempio è “la sicurezza siamo noi!”. È, questo, un enunciato che per
me merita già di essere presentato come un enunciato di portata scientifica. Per
comprendere compiutamente in che senso, basta leggere il rapporto d’inchiesta
più sotto riportato. Ma per quel che ora più interessa è sufficiente anticipare al-
cune delle ampie e complesse implicazioni di tale enunciato. Anzitutto, dicen-
VA L E R I O R O M I T E L L I
do “la sicurezza siamo noi”, gli operai della Marcegaglia dicono che l’antidoto
fondamentale contro gli incidenti non sta né in una maggiore o migliore forma-
zione, né nel puro e semplice rispetto delle norme di sicurezza, né negli inter-
venti dell’Ispettorato del lavoro e neanche nel timore di inchieste giudiziarie.
Tutti questi aspetti, che pur gli operai ritengono importanti, a loro avviso, non
sono decisivi quanto loro stessi: quanto il fatto di essere loro stessi i primi de-
positari delle conoscenze che permettono di contenere gli incidenti. Il che, con-
trariamente a quanto potrebbe apparire a un primo sguardo superficiale, non è
affatto scontato, né privo di inedite conseguenze pratiche e teoriche. In effetti,
la situazione quale risulta dalle parole degli operai intervistati appare invilup-
pata in una sorta di circolo vizioso: tanto più la fabbrica si espande rapidamen-
te e recluta mano d’opera giovane e inesperta, quanto più quest’ultima è espo-
sta ai rischi d’incidente e quindi è indotta a lasciare rapidamente il posto di la-
voro. Risultato: ininterrotte emorragie tra gli operai delle conoscenze dirette, di
“prima mano” è proprio il caso di dire, dei macchinari e dei loro pericoli. Ecco
quindi l’importanza e la difficoltà di far fronte a tali emorragie: l’importanza di
assumere la frase “la sicurezza siamo noi” come una prescrizione a cercare dei
modi di far accumulare tra gli operai tali conoscenze di “prima mano”. Come
organizzare nuovi corsi di formazione o nuove modalità di affiancamento, come
rendere trasmissibili e tramandabili i consigli da operaio a operaio per far fron-
te al pericolo di incidenti sul lavoro: questi, alcuni dei fronti della sperimenta-
zione scientifica, etnografica, e non certo privi di effetti pragmatici e politici,
aperti dall’enunciato “la sicurezza siamo noi”. Né si può certo dubitare che tali
fronti siano del tutto privi del valore di universalità, di applicabilità in altri con-
testi, che è valore scientifico imprescindibile.
Note
. Chi voglia saperne di più può provare a leggere il certo non facile Anthropologie du nom,
(Paris ) di questo autore e la raccolta di saggi da lui curata per il n. di Éthnographie françai-
se, Paris . Se qui di seguito non si troveranno richiami espliciti a riguardo è perché di impli-
citi ve ne sono tanti che la loro esposizione avrebbe tremendamente appesantito il testo. Ma an-
che perché, se c’è una cosa che ho imparato da questa scuola, è che ogni ricercatore deve cercare
una propria via.
. Riferimento decisivo da questo punto di vista è tutta l’opera di Michel Foucault, ma in un
senso diametralmente opposto a quello prevalente (ad esempio anche in Hardt, Negri, Impero,
Milano ; Id., Moltitudine, Milano ) che privilegia la tematica della “biopolitica”. Che
questioni biologiche, politiche e anche quindi storiche e sociali possano essere trattate allo stesso
modo, con un unico approccio, è infatti un presupposto tipico da pensiero unico, a una dimen-
sione, per quanto si presenti “moltitudinario”. A proposito di Foucault, rimando al mio Potere
senza corpo e corpi senza potere: ricordando Foucault, in C. Pancino (a cura di), Corpi, Padova .
. Qui non tratterò di alcuna problematica che abbia al centro la psiche, ma ogni riferimen-
to a esso sarà sempre ispirato a questo grande maestro di psicoanalisi e a quanto ne ho appreso
dai suoi allievi, quali Alain Badiou (L’essere e l’evento, Meditazione , Genova ), Jean Clau-
de Milner (Périple structural, Paris ) o Marc Silver (L’etica della psicanalisi, Milano ).
. Q U AT T R O I P O T E S I
. Si vedano le inchieste sugli operai della Bonfiglioli, della Menarini, della Cesab e della
Marcegaglia qui riportate.
. Cfr. l’inchiesta sugli operatori della CADIAI qui riportata.
. Questo detto, “senza potere, né sapere”, che ritornerà più volte nelle prossime pagine, si
riferisce a popolazioni che non hanno i titoli istituzionali o economici, ma neanche le competen-
ze e le conoscenze, per decidere del destino altrui. Ciò non toglie che ciascun individuo di queste
popolazioni possa avere un suo potere, ad esempio come capofamiglia, o un suo sapere su qual-
siasi questione, tranne su quella di decidere per e di altri.
Questa ipotesi può contrariare l’opinione più diffusa della democrazia. Secondo tale opi-
nione infatti tra governati e governanti i regimi democratici frappongono dei dispositivi di rap-
presentanza grazie ai quali i primi partecipano delle scelte dei secondi. Il rito fondamentale at-
torno a cui gravita la partecipazione democratica è, come noto, l’elezione. La sua efficacia ha in
ogni caso non pochi limiti: di regola non riguarda tutte le situazioni dove c’è una direzione, ov-
vero un governo; avviene sempre solo in determinate scadenze; la sua ragione d’essere principa-
le, che consiste nella possibilità di revoca degli eletti dimostratisi non meritevoli del mandato ot-
tenuto, ben di rado si impone appropriatamente; tra le possibilità di scelta che offre non rientra
quella cruciale delle candidature, ma solo dei candidati; e così via. Per quanto valore si dia alla
partecipazione democratica, i suoi limiti restano dunque tali da lasciare sempre aperto il divario
sociale tra chi decide della sorte degli altri e chi no.
. Cfr. S. Lazarus, Anthropologie, cit. e Id., L’Éthnologie, cit.
. Per farsi un’idea di questo autore, cfr. la voce Linguaggio dell’Enciclopedia Einaudi, Tori-
no .
. C. Geertz, Il modo in cui oggi pensiamo: verso un’etnografia del pensiero moderno, in Id.,
Antropologia interpretativa, Bologna .
. Da qui viene l’idea di ipotizzare un’“etnografia del pensiero”.
Tre domande
Pensare, parlare, scrivere come chiunque, facendo rientrare l’intento della co-
noscenza scientifica tra le differenze che chiunque ha rispetto a chiunque altro:
questa è dunque l’ipotesi di fondo che l’etnografia del pensiero qui presentata
sottopone a sperimentazione.
A decidere dello stile di questo come dei successivi testi è stato dunque il
pensiero di coloro ai quali ci rivolgiamo. Li si possono suddividere in quattro
categorie.
– Gli esperti in scienze sociali, che si deve supporre ne sappiano infinita-
mente più di noi.
– I responsabili del governo dei luoghi dove, grazie al loro stesso aiuto, ab-
biamo condotto le nostre inchieste.
– I soggetti che sono stati da noi interpellati come “gente senza potere e sen-
za sapere”, per quanto da qualche parte essi ne abbiano sicuramente, che ci
hanno in vario modo confermato la nostra ipotesi di poter conoscere la realtà
sociale attraverso il loro pensiero.
– Infine, i soggetti che sono supposti saperne meno di noi e quindi volere ap-
prendere da noi: tutti gli interessati, studenti universitari compresi, a intra-
prendere ricerche sociali.
Ma non si tratta, o non si tratta solo, di quattro settori di un possibile pub-
blico per il nostro libro (di quelli che risultano per esempio dai sondaggi d’o-
pinione e dalle loro medie). Si tratta piuttosto dei quattro tipi di soggetti al cui
centro sta per me il cuore della realtà sociale. Una realtà che, come spiegherò
meglio più oltre, sta sempre all’incrocio di tre dimensioni: quella del “sapere”,
acquisito e da acquisire, quella del “potere”, del potere di governo, e quella di
“chi non può e non sa, ma che rende possibile il rinnovarsi del sociale stesso”.
Un incrocio, che, come sempre si deve, per non creare scontri, richiede di es-
sere sgombro da intralci, libero per i diversi attraversamenti, in questo caso, del
pensiero. Per cui qui non si propone alcuna dottrina generale, alcun discorso,
logica o dialettica per la composizione, la sintesi o, peggio, lo scontro di queste
diverse dimensioni, ma si tratta di alcune possibilità per farle confrontare la-
sciando a ognuna la propria autonomia di movimento.
VA L E R I O R O M I T E L L I
A tale scopo, la prima questione che mi sono posto è come spiegare quan-
to si sa o si deve sapere delle scienze sociali per capire in che rapporto rispetto
a esse si pongono le nostre ipotesi. In altri termini, quali sono gli antecedenti,
tra sociologi, antropologi ed etnografi, che il nostro approccio può rivendica-
re o respingere; quali le sue prossimità, quali le sue distanze, rispetto ai meto-
di della ricerca sociale già acquisti; quali i debiti di conoscenza che sono qui da
dichiarare, quali i crediti che sono da richiedere per nostro conto.
Per esporre tutto ciò in modo stringato e accessibile a qualunque lettore di
buona volontà mi sono risolto a passare in rassegna alcuni dei più noti approc-
ci delle scienze sociali, quasi fossero dei soggetti da intervistare.
Li ho dunque affrontati tramite una sorta di mini-questionario: ponendo
loro tre domande con le quali chiunque si interessi al sociale, da esperto o no,
prima o poi deve confrontarsi.
a) Cos’è la società?
b) A che scopo conoscerla?
c) Come conoscerla?
Con questo dispositivo a tre domande andrò a interpellare alcuni dei mag-
giori nomi, discorsi e passaggi che hanno punteggiato la storia delle scienze so-
ciali. Mia precisa intenzione è contrastare l’opinione, a un tempo accademica e
triviale, che queste discipline si sviluppino da loro stesse, come per partenoge-
nesi, come se i loro pulpiti siano sempre fissi in un mondo che gira loro attor-
no, mentre le diverse generazioni e le diverse comunità di “scienziati sociali” vi
si alternano. Al contrario, proverò a mostrare che sotto il nome di scienze so-
ciali ne sono successe di tutti i colori, sono circolate le più disparate risposte su
cos’è la società, come e perché studiarla. Il che non esime affatto dal cercare di
sapere di quali e quanti colori si è trattato. Ma obbliga anche ad ammettere,
proprio per rispetto alla scienza che non è se non sperimentale , che il modo
migliore di apprezzarli sta nell’usarli per nuove sperimentazioni. Perciò, tutte
le risposte di cui tratterò qui di seguito saranno direttamente commisurate alle
nostre ipotesi di ricerca.
Prima delle risposte, qualche chiarimento sul senso di questi tre interrogativi.
La prima domanda (a) riguarda l’oggettività del sociale: ciò che ci si trova
innanzi ogni volta che ci si pone una questione sociale. Ma è chiaro che questa
domanda ha senso solo se chi se la pone si chiama fuori dal sociale. Si tratta di
un punto di vista che si giustifica in nome di qualcosa che sociale non è: quin-
di o in nome della natura o in nome di uno spirito più o meno eterno, sia che
lo si voglia intendere in senso filosofico che in senso religioso. In effetti, per
quasi tutto l’Ottocento la conoscenza del sociale è stata condizionata o da filo-
sofie della storia, come quelle di Comte, Marx o Spencer, o da scoperte delle
scienze naturali, come la teoria dell’evoluzione di Darwin. Filosofie e scienze
che definivano cosa è la società, a priori, ancora prima di studiarla dall’interno.
La storia e l’evoluzione sono state così presentate come i sinonimi stessi di tut-
. TRE DOMANDE
VA L E R I O R O M I T E L L I
. TRE DOMANDE
sente di ogni realtà sociale può essere conosciuto, se se ne vuole avere una sua
conoscenza effettiva, “in presa diretta”: non a posteriori, non come rappresen-
tazione oggettiva di un presente già dato o, al contrario, a priori, come antici-
pazione di un qualche futuro più o meno prevedibile, ma nel suo stesso pre-
sentarsi, come si dice, “in tempo reale”, o, meglio, in contemporaneità rispet-
to a chi la studia.
Risposte ricorrenti
Veniamo ora ad alcune delle risposte più ricorrenti tra le scienze sociali.
Ma prima di tutto è opportuna qualche spiegazione delle ragioni per cui
qui l’origine di queste scienze viene fatta risalire a non prima della seconda
metà dell’Ottocento.
Molto spesso, quando si tratta della storia delle scienze sociali, le si fa risalire
anche a ben prima dell’Ottocento, a Rousseau, Montesquieu, Vico, se non addi-
rittura a Platone. La mia idea qui è invece che le questioni sociali di cui oggi si par-
la abbiano una qualche parentela diretta solo con quanto è accaduto in Europa
dopo il Quarantotto. È questo grande sommovimento di metà Ottocento che san-
cisce infatti quella che è una singolarità anche della realtà sociale del nostro tem-
po: la polarizzazione della (già esistente, ma antecedentemente più confusa e seg-
mentata) separazione tra le popolazioni che hanno potere e sapere e quelle che non
li hanno. Spopolamento delle campagne, affollamento delle città, esplosione de-
mografica, industrializzazione, espansione finanziaria, guerre coloniali, guerre
mondiali, alfabetizzazione generalizzata, proliferazione delle università, sviluppi
tecnologici, impoverimento di intere zone del pianeta e tanti altri macroscopici fe-
nomeni dell’ultimo secolo e mezzo si può dire che abbiano a che fare con questa
separazione. Ne sono dunque venuti infiniti mali, ma anche enormi perfeziona-
menti del potere e del sapere. E con essi alcuni indiscutibili vantaggi, come quel-
lo raggiunto negli anni Sessanta del Novecento, di riscattare l’umanità dal suo più
pressante problema dal Neolitico in avanti: dover lavorare per nutrirsi. A partire
da quegli anni, in alcuni dei paesi più ricchi, per raggiungere questo scopo, infat-
ti, è più che sufficiente l’attività del % della popolazione. Ma questo risultato è
restato e resta appannaggio solo di un numero esiguo di paesi, mentre nel resto
del mondo il problema della fame cresce e si complica quanto mai prima.
Da esso risulta evidente che la questione di fondo per le scienze sociali sta
sempre nella separazione tra chi può e sa e chi no, quale si è configurata a par-
tire dalla metà dell’Ottocento.
Mio intento non è di offrire un sunto più o meno enciclopedico di queste
ultime, come avviene nella maggior parte dei manuali a esse dedicati, ma di
chiarire le distanze e le prossimità delle nostre scelte metodologiche rispetto a
quelle già più affermate nelle scienze sociali. La varietà delle risposte che sono
venute da queste ultime alle tre domande poste più sopra è ovviamente infini-
VA L E R I O R O M I T E L L I
ta. Tuttavia vi si può individuare per così dire un minimo comune multiplo. Ov-
vero un insieme di risposte con cui ci si deve tutt’oggi confrontare se non si vo-
gliono dare delle risposte poco o nulla credibili. Ad esempio, se alla prima do-
manda rispondiamo che la società è influenzata da fattori astrologici, sicura-
mente non troveremo molti disposti a prenderci sul serio. Che il sociale sia
composto anzitutto da sagittari, pesci, gemelli e gli altri segni zodiacali non è
infatti mai stata una risposta utilizzata per la ricerca sociale. Così pure la rispo-
sta secondo la quale la società sia composta anzitutto da razze, malgrado sia sta-
ta parecchio discussa tra Ottocento e Novecento, oramai, specie dopo l’uso che
ne hanno fatto i nazisti contro gli ebrei, ha perduto ogni credibilità.
Insomma, l’obiettività nelle scienze sociali dipende essenzialmente dalla
credibilità delle questioni che si pongono e dalle risposte che si danno. Questa
credibilità varia nel tempo, ma non può non essere in una qualche continuità
con ciò che precedentemente è già stato creduto come obiettivo. Di qui la no-
stra esigenza, avanzando nuove ipotesi, di compararle con dei precedenti, sen-
za però pretendere di esserne né semplice continuazione, né rottura completa.
Le risposte alle tre domande più sopra poste possono essere raggruppate se-
condo diversi generi. Tra di essi distinguo quelli più tradizionali, classici, la cui
origine risale tra Ottocento e Novecento, e quelli più recenti.
Tra i generi più classici, ne individuo cinque che chiamo, rispettivamente:
classista, evoluzionista, definitorio, idealtipico e funzionalistico.
Quelli più recenti li riassumo sotto l’unica etichetta che chiamo la “svolta
linguistica” nelle scienze sociali.
Vediamo dunque che generi di risposte alle nostre tre domande si possono
ricavare da questi diversi orientamenti delle scienze sociali. Sottoponendo loro
questa sorta di mini-questionario, chiaramente si semplificheranno all’osso i ri-
sultati che potrebbero essere infinitamente più complessi. Ogni opera, ogni
saggio, ogni ricerca sociale degni di questo nome meritano un’attenzione tale
da rivelare un’infinità d’implicazioni ben più ricche di quelle che si possono ri-
cavare ponendo loro delle domande rudimentali. Ponendole, non cerco altro
che delle risposte paradigmatiche, utili a delineare uno sfondo di riferimenti a
tinte forti, in rapporto al quale risulti più netto possibile il profilo di quelle che
saranno le nostre risposte. È un po’ come rovistare alla svelta in un contenito-
re di attrezzi vecchi e nuovi senza badare molto alle loro fattezze e per vedere
cosa non ci serve e cosa invece si può utilizzare al momento.
Note
. A rigore, esiste anche un altro genere di scienza, che in un paese come l’Italia ha avuto
sviluppi del tutto rilevanti. Si tratta della Scientia theologica medioevale, che si è modernizzata
soprattutto in occasione della Controriforma tridentina e specie tramite l’elaborazione del pen-
siero giuridico dell’Inquisizione. Lo scontro tra questo modo di pensare la scienza e quello spe-
. TRE DOMANDE
rimentale ha il suo momento più famoso, mai abbastanza ricordato, nel processo e nella con-
danna di Galileo Galilei, il cui nome è sinonimo appunto del metodo e della ricerca sperimen-
tale. Come tra gli altri ha magistralmente dimostrato Italo Mereu in Storia dell’intolleranza in Eu-
ropa (Milano ), la scienza dell’Inquisizione ha influenzato tutta la storia del diritto penale eu-
ropeo. Non è esagerato riconoscere che questa influenza si sia estesa anche tra le scienze sociali
e più in generale in tutte quelle chiamate storiche e umanistiche. Primo sintomo ne è la tenden-
za, tutt’oggi riscontrabile nei saggi che le riguardano, a ripetere le cose, le ricerche, le teorie già
conosciute, anziché proporne esplicitamente di nuove; ovvero a presentare qualsiasi novità co-
me conseguenza necessaria di tradizioni già acquisite e autorevoli. Questa visione legittimista e
tradizionalista del sapere è giustificata in conformità al pensiero teologico che ritiene peccami-
nosa anche l’ambizione di scoprire qualcosa che non ricada sotto il Mistero Primo del Sommo
Ente e quindi si discosti da quello che hanno da sempre detto i suoi ministri in terra. Ma questa
visione timorata, al di fuori della cerchia dei suoi fedeli, può fare solo danni allo sviluppo delle
conoscenze. L’obbligo stesso accademicamente inevitabile di dovere riportare il proprio pensiero
come conseguenza del pensiero d’altri, non fa che torto ad entrambi. Un torto che è tanto più gran-
de quanto più la rassegna dei propri antecedenti pretende di avvicinarsi all’ideale richiesto del-
la completezza. Come se si ignorasse che l’enciclopedia di ogni sapere è infinita, quanto le pos-
sibilità del pensare, le quali, quando si tratta di conoscere l’ignoto, vanno non vincolate, ma li-
berate. La Chiesa qualche tempo fa ha riscattato Galileo dai torti inflittigli, l’università, specie
quella italiana che si è modernizzata sotto l’Inquisizione, non è mai stata così esplicita, meno che
mai nel campo delle scienze sociali.
. Sull’antifilosofia di Marx mi permetto di rimandare al mio Sulle origini e la fine della ri-
voluzione, Bologna .
. In proposito, quanto mai chiaro è A. Badiou, Il manifesto per la filosofia, Milano .
. Così, ad esempio, A. Izzo, Storia del pensiero sociologico, Bologna . D’altro canto, F. Cre-
spi, in Le vie della sociologia, Bologna , pp. -: «Se prendiamo [...] il termine sociologia nel
suo senso letterale più generico, come Logos riguardante il sociale, ossia come discorso sul sociale
[…], che sviluppa una conoscenza logica ovvero razionale del sociale, allora potremmo dire che la
sociologia, anche se in forme molto diverse tra loro, è sempre esistita. Ma se consideriamo invece
[…] il termine sociologia nel significato specifico che gli è stato attribuito nell’Ottocento, allora ta-
le termine indica la precisa volontà di sviluppare una conoscenza scientifica dei fenomeni sociali».
Questa volontà viene qui dunque distinta nettamente dal modo tradizionale, logico e discorsivo di
intendere la razionalità. Questione cruciale è decidere qual è il rapporto tra i due: di sviluppo, di
essenziale continuità, di differenziazione dialettica oppure di rottura, di discontinuità, di separa-
zione. Come si vedrà, è quest’ultimo il modo in cui si pongono le nostre ipotesi.
. P.-N. Giraud, L’inégalité du monde, Paris .
Risposte classiche
.
Il classismo
a) Alla prima domanda, “cosa è la società?”, il classismo (di cui Marx, per sua
stessa ammissione, non è l’unico, ma uno dei massimi teorici) dà una risposta
in nome della Storia, della Storia con la esse maiuscola, della storia universale.
Storia che è intesa come destino di tutta l’umanità, il cui presente è sempre da
pensarsi come un passaggio e una lotta tra il passato e il futuro. Nel classismo,
infatti, la società è composta da più classi sociali fondate su diversi interessi eco-
nomici, ma la loro divisione fondamentale è tra quelle che sono arroccate sul
passato e quelle che dischiudono l’avvenire. Il passato è essenzialmente la mil-
lenaria tradizione dello sfruttamento del lavoro altrui, l’avvenire invece è la pos-
sibilità di riscatto del lavoro da ogni sfruttamento.
I proletari del capitalismo moderno si trovano allora in una situazione pa-
radossale. A differenza degli schiavi e dei servi d’altri tempi, godono di libertà
di diritto, tra le quali quella di vendere la propria forza lavoro come qualunque
altra merce. Ma in fabbrica, dove contano esclusivamente per le loro braccia,
si ritrovano a essere sfruttati come schiavi e servi. Di qui, la necessità della pre-
sa di coscienza del loro essere storico: tanto schiacciati dal peso di un passato
di sfruttamento che non passa, quanto portatori di un futuro sociale senza pre-
cedenti, quel socialismo e/o comunismo dove non ci dovrebbero essere più
sfruttati o sfruttatori.
Oggi il classismo è superato, non esiste più, o almeno non esiste più nelle
sue forme originarie. Nella sua tradizione, che oggi sopravvive anche nelle ri-
cerche sociali oltre che tra qualche partito, sindacato e movimenti no o new glo-
bal, gli obiettivi del socialismo e del comunismo sono oramai del tutto decli-
nati. A essi si sono sostituiti quelli delle rivendicazioni e delle “conquiste de-
mocratiche” o dell’“antagonismo sociale”: le prime che sarebbero garantite dai
successi elettorali delle sinistre, il secondo dalle più svariate manifestazioni di
disobbedienza civile. Resta però sempre invariata, o quasi, la prospettiva stori-
cista, di un divenire storico universale, cui non si potrebbero opporre altri se
non conservatori, reazionari o quegli individualisti più o meno sovversivi o po-
tenti, contrari all’oggettiva necessità del progresso umano.
VA L E R I O R O M I T E L L I
. RISPOSTE CLASSICHE
VA L E R I O R O M I T E L L I
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L’evoluzionismo
a) Al momento di far uscire il primo volume del Capitale, Marx lo voleva de-
dicare a Darwin, massimo teorico dell’evoluzionismo: colui cui si doveva la
scoperta secondo la quale la specie umana, anziché avere origini misteriose e
divine, deriva da una specie evolutivamente meno sviluppata, quella delle
scimmie. La sua conclusione più nota, cui era giunto a seguito di vaste ricer-
che zoologiche e biologiche, è che gli organismi naturali siano destinati a pas-
sare da forme più semplici a forme più complesse e che questo passaggio av-
venga tramite una selezione dovuta alla lotta di ciascun organismo per la pro-
pria sopravvivenza. In ciò Marx vedeva una teoria del tutto compatibile con
la sua classista: la storia delle classi sociali, così come l’aveva concepita lui stes-
so, gli pareva del tutto accostabile all’evoluzione delle specie degli organismi
biologici di cui parlava Darwin. Questi però rifiutò che Il capitale gli fosse de-
dicato: la sua idea di specie di organismi biologici non coincideva con quella
di classe sociale così come la sua idea di lotta per la sopravvivenza non coin-
cideva con quella di lotta di classe.
Ciononostante, tra lo storicismo classista d’impronta marxista e l’evoluzio-
nismo di derivazione darwiniana le contaminazioni sono state assidue. In ge-
nerale, si può dire che esse si sono imposte soprattutto quando (come a caval-
lo tra Ottocento e Novecento, al tempo dei primi partiti socialisti, o al tempo
dei partiti comunisti e socialisti nel secondo dopoguerra) il primo si è associa-
to a una politica riformista, volta cioè a condizionare il potere di governo in fa-
vore delle questioni del lavoro. Mentre le distanze sono state maggiori ogni vol-
ta che il marxismo ha fatto venire fuori la sua anima rivoluzionaria, insurrezio-
nalista (come al tempo della rivoluzione bolscevica del o della rivoluzione
culturale maoista).
In ogni caso, la differenza tra lotta tra le classi sociali e lotta per la soprav-
vivenza degli organismi delle specie biologiche, semplificando all’estremo, può
essere chiarita così: mentre le classi si costituiscono nella lotta, gli organismi la
precedono; mentre le prime non esistono che separandosi, dividendosi tra lo-
ro, i secondi esistono trasformandosi per reazione difensiva nei confronti degli
altri. Nella seconda metà degli anni Sessanta, in Cina un dibattito simile venne
tematizzato dall’opposizione di due detti di sapore taoista: “l’uno si divide in
due” contro “il due si fonde in uno”. Ove quest’ultimo veniva attribuito ai rea-
. RISPOSTE CLASSICHE
VA L E R I O R O M I T E L L I
striale in nome di originari e rinnovati principi comunisti. Ma, oltre a ciò, Mor-
gan è da ricordare e da studiare soprattutto come importante padre fondatore
dell’antropologia scientifica. La sua opera infatti rappresentò a suo tempo
un’innovazione senza precedenti. La comparazione tra le nomenclature fami-
liari di centinaia di tribù dell’America settentrionale e dell’Asia meridionale,
che ne costituisce uno dei maggiori contributi, ha l’obiettivo, oggi non più di-
fendibile, di dimostrare una preistorica migrazione tra questi due continenti. Si
tratta di uno dei primi esempi d’analisi antropologica condotta non su sempli-
ci congetture, ma fondata su dati empirici e verificabili.
. RISPOSTE CLASSICHE
ciali ha avuto quindi anche lo scopo di far guadagnare loro una legittimità pub-
blica pari a quella già ottenuta da altre scienze, della natura, appunto.
È anche per il fatto che questa legittimità è oramai da tempo fuori discus-
sione che l’evoluzionismo oggi risulta antiquato.
VA L E R I O R O M I T E L L I
Il caso, dunque, la singolarità del singolo caso, come ciò che decide del-
l’importanza delle determinazioni generali, obiettivamente rilevabili, in quan-
to riscontrabili per comparazione con altri casi. È per simili assunti e per la lo-
ro messa in pratica nella ricerca che Boas viene considerato, e non di rado cri-
ticato, caposcuola di quel “relativismo” che avrebbe portato alla disseminazio-
ne delle scienze sociali in una molteplicità di “casi di studio” mai riconducibi-
li a un pensiero unico, e più precisamente a quella visione unitaria del divenire
umano che per tutto l’Ottocento era stata imposta dall’egemonia intellettuale
congiunta di evoluzionismo e storicismo classista.
Questo punto interessa direttamente le nostre stesse ipotesi.
Che nella realtà sociale ci sia del necessario, dell’oggettivo, ma che esso va-
da analizzato a partire dalla casualità delle scelte soggettive: questo, lo si è già
detto e lo si ridirà, rientra a pieno titolo tra le nostre ipotesi. La loro messa in
pratica può dunque sicuramente imparare dal relativismo inaugurato da Boas.
Se c’è invece un aspetto in cui questo insegnamento pare datato, sta proprio nel
suo evoluzionismo residuo, nel fatto di mantenersi spesso sul limite dei pro-
blemi e dei metodi evoluzionisti, senza distaccarsene del tutto.
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Definire, per conoscere quale sociale?
. RISPOSTE CLASSICHE
l’interno di forme individuali umane, animali e vegetali, quanto rispetto alla psi-
cologia, che studia la mente di cui ogni individuo è dotato.
Definire è mettere in cornice, stabilire un dentro e un fuori. Per Durkheim,
la sociologia può conoscere solo a condizione di operare preliminarmente que-
sta selezione tra i fatti che dipendono dall’individuo e i fatti che l’individuo su-
bisce, per dedicarsi esclusivamente a questi ultimi. Quindi, anche la sociologia
può pretendere di essere scienza solo se riesce a mettere a distanza ogni “pre-
nozione” che dipenda dal desiderio dell’individuo di darsi spiegazioni di tutto
ciò che lo circonda e, dunque, anche di quello che esclusivamente una scienza
ad hoc può spiegare.
Ma vi è anche una conseguenza maggiore del porre che la società è esclu-
sivamente ciò che la scienza può conoscerne. In diretta polemica contro il mo-
do univoco di pensare e conoscere la società, tipico dello storicismo classista,
Durkheim sosterrà infatti che «la società non esiste, ma esistono solo delle so-
cietà». Sarebbe a dire le società o i fatti sociali che la scienza, nel suo proce-
dere, arriva a conoscere e che quindi non può mai identificare a priori. D’altra
parte, che il sociale si imponga a più individui unitariamente obbliga a ricono-
scere che esso abbia una sua unità, sia pur relativa e fondata su una “solida-
rietà” delle sue parti. Di qui la nota distinzione tra la solidarietà “meccanica”,
che caratterizzerebbe le società più arcaiche, in cui le componenti (ad esempio
campagne e città) coesistono l’una distinta dall’altra, e quella “organica”, che
caratterizzerebbe invece le società moderne, industriali, dove ogni aspetto fi-
nisce per condizionare gli altri.
Una simile sociologia, il cui insegnamento universitario sarà una conquista
personale di Durkheim, avrà un seguito di allievi, a loro volta capiscuola, qua-
li M. Mauss e M. Halbwachs, nonché degli echi di lunga e ampia durata,
anche fuori della Francia e pure in discipline limitrofe, nel corso di buona par-
te del Novecento.
Essa rappresenta sicuramente uno dei tentativi più oggettivisti di definire
il sociale. La dimensione soggettiva è, infatti, completamente abolita, sia dal-
l’oggetto sociale, sia dalla figura stessa del sociologo, al quale è prescritto di ab-
bandonare ogni “prenozione” ottenuta in quanto individuo, fuori dalla sua
missione di ricercatore.
Come vedremo, pur non optando per questo genere di ricerche oggettivisti-
che, le nostre non le escludono, a condizione di includerle e rettificarle in un cam-
po problematico più vasto, dove la soggettività ha un suo spazio di tutto rilievo.
Che i fatti sociali abbiano una realtà, delle necessità ben definibili come oggetti-
ve e che l’individuo o gli individui vi contino poco o nulla: questi due assunti, in
particolare, saranno qui ripresi, sia pur ai margini delle nostre prospettive.
VA L E R I O R O M I T E L L I
Comte (non per nulla uno dei primi a fare della sociologia un concetto) è una
tradizione di origini tutte francesi. Come detto, Durkheim è colui che per pri-
mo realizza nel suo paese l’obiettivo di far ammettere una cattedra di sociolo-
gia nell’università. Tutto il rigore della sua dottrina sicuramente risponde all’e-
sigenza di un riconoscimento pubblico. Questo scopo era accompagnato e so-
stenuto da un altro: quello di offrire allo Stato, considerato centro della razio-
nalità sociale, un sapere adeguato ai tempi. Religione e socialismo sono i due
concorrenti coi quali questa sociologia deve fare i conti. Si ricordi che siamo a
cavallo tra Ottocento e Novecento, in un’epoca successiva al Secondo impero
di Napoleone III e alla catastrofe della Comune, in quella Terza repubblica fran-
cese, dove i cattolici sono maggioritari e il Partito socialista è uno dei più im-
portanti della Seconda internazionale. L’idea di Durkheim è che per far fronte
ai nuovi problemi sociali non bastino né gli individui, per quanto potenti e il-
luminati possano essere, né le chiese, né i partiti, ma neanche lo Stato stesso, in
quanto tale. Per lui la soluzione può venire solo se ogni dimensione sociale pro-
duttiva si organizzi al suo interno e nei rapporti con le altre, sotto la supervi-
sione dello Stato. Per questo crede in un avvenire delle corporazioni e che la
sociologia e la corporazione dei sociologi lo possano favorire. Inoltre, egli, di
famiglia rabbinica, è ateo. Crede che Dio non sia altro che l’immagine della so-
cietà venuta fuori da individui tanto profani da non cogliere la realtà sociale che
si cela nel sacro.
Corporativista, antindividualista, antisocialista, oltre che razionalista e
ateo: tanto è bastato per far passare Durkheim per autoritario, se non addirit-
tura totalitario. Ma basta leggere il suo appassionato intervento a favore di
quelli che, allora per la prima volta, vennero chiamati “gli intellettuali”, riuniti
attorno al J’accuse! di Zola e contro il razzismo scatenato dall’“affaire Drey-
fus”: vi si può trovare tutto quanto rende insostenibili simili critiche.
Del resto, con i suoi studi, come Le forme elementari della vita religiosa,
ha contribuito a strutturare l’interesse delle scienze sociali per popolazioni
senza potere né sapere, in via d’estinzione e ai margini del mondo più ricco e
potente.
In definitiva, si può dunque dire che la sociologia di Durkheim prescrive la
conoscenza di tre cose dalle evidenti implicazioni politiche:
– le oggettive necessità dello Stato, al di là di quel che dicono individui più o
meno potenti e illuminati, i partiti o le chiese;
– il sociale, soprattutto laddove il potere dello Stato non giunge;
– la religione e il socialismo come fatti sociali.
Il tutto senza evitare di scendere in campo contro il razzismo nel momen-
to in cui diviene una politica.
Nessuno di questi obiettivi è affatto criticabile. Semmai, sono oggi da di-
stinguere più in dettaglio e da disporre in uno spazio problematico diverso da
quello del discorso evoluzionista che li riunisce.
. RISPOSTE CLASSICHE
VA L E R I O R O M I T E L L I
tale governo. La comparazione con altri casi più o meno simili e la messa a
distanza delle prenozioni utilizzate dagli individui preposti a governare, in-
somma tutte le regole di metodo consigliate da Durkheim, si rivelano dun-
que ancora assai preziose. Il tutto, eventualmente, per arrivare alla conclu-
sione o che chi governa il sociale non ne sa abbastanza o che nelle sue deci-
sioni non utilizza le conoscenze disponibili. Conclusioni cui lo stesso
Durkheim a suo tempo era giunto.
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L’ideale dei tipi ideali
. RISPOSTE CLASSICHE
di essa tratterò più oltre, ora vanno menzionate le differenze dei contesti stori-
ci nazionali di questi padri fondatori della sociologia.
Tra Ottocento e Novecento, in effetti, la Germania intellettuale segue delle
vie quasi eguali e contrarie a quelle francesi. Vi primeggia un ritorno a Kant, a
vario titolo proposto da filosofi quali Dilthey e Windelband, il quale, in par-
ticolare, prescrive di tenere ben distinte scienze della natura e scienze dello spi-
rito, altrimenti dette scienze “nomotetiche” e “ideografiche”, queste ultime
comprendenti anche discipline come la storiografia e la sociologia. All’interno
di queste ultime primeggia la categoria dell’individualità, in più o meno larvata
polemica col materialismo storico. Se l’individuo torna infatti a essere conside-
rato il vero protagonista della società, invece delle classi, nella storia viene riva-
lutata l’importanza dell’evento unico, rispetto alle grandi tendenze oggettive.
Weber, in origine brillante economista, poi convertitosi alle scienze socia-
li, condivide queste scelte problematiche. Il sociologo per lui non ha alcun pul-
pito scientifico che lo pone al di sopra degli altri individui, non può non inter-
pretare come chiunque, e come chiunque non può sottrarsi ai rischi dell’arbi-
trio che tutti corrono interpretando. La sua sociologia sarà dunque “interpre-
tante”. Essa si guarda bene dal provare a spiegare la società in base a cause
del tutto oggettive (come in Durkheim), né completamente determinanti (co-
me nel classismo o nell’evoluzionismo), ma non per questo rinuncia a com-
prendere le cause dell’agire sociale. Alla domanda “cos’è la società?” qui si ri-
sponde con un’altra domanda su cosa v’è di razionale, di razionalmente inter-
pretabile nella società, considerata di per sé ben poco razionale e ben poco co-
noscibile. Poiché al servizio dello Stato, e come ogni altro intellettuale di pro-
fessione, il sociologo non deve farsi condizionare da qualche gruppo sociale
particolare o partito politico: deve puntare a svuotare la propria interpretazio-
ne da ogni valore, per renderla la più avalutativa, la più obiettiva possibile.
Per questo non deve rinunciare a trovare le cause dell’agire sociale, ma non de-
ve pretendere di trovarne di più di quelle sufficienti a comprendere il senso di
questo agire di per sé sempre anche insensato. Dal momento che per Weber la
realtà sociale resta sempre in parte insensata, inconoscibile, la sua domanda
cruciale è come se ne possa conoscere o meglio riconoscere (qui sta un punto
decisivo, come vedremo) il senso razionale, separandolo dall’irrazionalità.
I tipi ideali non sono allora che diverse ipotesi per distinguere questa ra-
zionalità e interpretarla a seconda dei concreti casi sociali da studiare. L’esem-
pio più noto di questa impostazione è L’etica protestante e lo spirito del capita-
lismo. Tale “etica” come tale “spirito”, infatti, anche se quest’opera non lo di-
chiara espressamente, sono da intendersi come due tipi ideali. Weber, infatti,
esaminando le diverse versioni della religione protestante (luteranesimo, calvi-
nismo, pietismo, metodismo, sette battiste, mennoniti, quaccheri) arriva a sele-
zionarne i caratteri etici che per lui hanno più “affinità elettive” con i caratteri
“spirituali” del capitalismo, anch’essi ricavati selezionando tra diversi modi
VA L E R I O R O M I T E L L I
. RISPOSTE CLASSICHE
pernicana che ha contraddetto l’evidenza della piattezza della terra per affer-
mare invece la sua rotondità, in tempi in cui era letteralmente inimmaginabile.
L’evidenza non è altro che una delle categorie utilizzate, e non sempre, dalle
scienze. Così pure il senso comune, che sull’evidenza si basa, rientra certo tra i
temi che le scienze sociali devono studiare (Geertz, ad esempio, dedica analisi
del tutto interessanti al suo variare in diverse realtà sociali) ma non è l’unico,
né tantomeno il decisivo. Lo stesso può dirsi in logica del principio di non con-
traddizione cui si rifà Weber per fondare il suo ideale di razionalità sulla non
contraddizione tra mezzi e fini. Fin da Platone, che non per nulla fondava la
sua filosofia sul concetto di Idee al plurale, la logica non è mai stata pensata a
senso unico come unica e obbligatoriamente non contraddittoria. Del resto, co-
me ha dimostrato il grande filosofo tedesco Heidegger, anche nella formula
più canonica del principio di non contraddizione, A=A, risalente ad Aristote-
le, il fatto stesso che il simbolo A debba essere ripetuto evoca una contraddit-
torietà irriducibile tra il primo e il secondo A. Quel che diceva Durkheim del-
la società, che non esiste, perché al posto suo esistono solo delle società, può
dirsi parimenti della logica, e dunque della razionalità, specie quella che si cer-
ca nella realtà sociale: che non esiste, perché al posto suo esistono più logiche,
ossia più razionalità tra loro essenzialmente diverse.
Ma anche da un punto di vista strettamente empirico, basato su ricerche
sociali (ad esempio le nostre), è del tutto evidente che esistono delle azioni so-
ciali per le quali il senso comune non vale, né hanno alcuna razionalità rispet-
to allo scopo, al valore o alla tradizione, senza per questo dovere essere consi-
derate irrazionali. Si tratta, ad esempio, di quel che accade in luoghi dove il la-
voro dal punto di vista del senso comune è impossibile e i lavoratori per ren-
derlo possibile non hanno altra risorsa che il loro pensiero; pensiero, che ha una
sua propria razionalità irriducibile a qualsiasi scopo, valore, tradizione.
In definitiva, il primato che Weber assegna all’evidenza di una logica non
contraddittoria è giustificato dall’intenzione dello stesso Weber di fare del sen-
so comune la matrice ideale della razionalità in campo sociale. L’intento polemi-
co è chiaramente verso quei gruppi sociali le cui intenzioni non rispettano il
senso comune. Mentre a essere favoriti sono i gruppi sociali che lo rispettano,
quali che siano i loro scopi, i valori e le tradizioni. Se dunque l’ideale è quello
puramente calcolatore della razionalità capitalista, esso, secondo Weber, può
far da ideale anche per altri gruppi sociali, quali quelli di tipo religioso e agra-
rio, nonché la stessa burocrazia statale.
Conclusione: non che la sociologia idealtipica sia semplicemente al servizio
del capitalismo, essa sostiene piuttosto una razionalizzazione di tutti i gruppi so-
ciali per accrescere il potere di chi già ne ha.
Per spiegare questa conclusione, consideriamo la definizione che dà Weber
del fondamento del potere, l’obbedienza: ha potere chi ottiene obbedienza da
altri. Anche qui, coerentemente, è questione di rapporti soggettivi tra indivi-
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dui e di non contraddizione: obbedire significa non contraddire. Per avere po-
tere, dice Weber, non basta far subire il proprio potere a un altro che vi sog-
giace passivamente, occorre che questi risponda attivamente al comando. Ma
perché ciò avvenga occorre che l’obbedienza sia fondata sulla condivisione del
senso del comando. Qui di nuovo la questione del senso comune, tra chi co-
manda e chi obbedisce. Questione che viene posta in termini di legittimazione,
dei diversi tipi di legittimazione (razionale, tradizionale, carismatico) di cui il
potere può godere. Ma l’essenziale resta che il potere sia fondato sul consen-
so, e ciò fino al punto di riscuotere obbedienza.
Ecco, dunque, di che si pone al servizio la sociologia idealtipica: di un po-
tere e di una razionalizzazione sociale così concepiti, che si misura sul consen-
so, ma si impone con comandi che richiedono obbedienza. Ciò evidentemente
per escludere realtà sociali senza potere, senza comandi e/o obbedienza, e per
questo stesso motivo ritenuti irrazionali.
A parte ogni altra considerazione sull’intensa attività scientifica, politologica
e politica di Weber, qui importa ricordare la sua convinzione che uno Stato come
quello tedesco del suo tempo non potesse non essere una potenza imperialistica.
Convinzione, questa, che lo ha portato anche a sostenere fino in fondo lo scate-
namento di quella Prima guerra mondiale tramite la quale la Germania ha tenta-
to per la prima volta di succedere alla declinante egemonia mondiale inglese.
c) Che nel potere la cosa più interessante da analizzare sia come si legittimi,
come trovi consenso e obbedienza: questa indicazione di metodo proposta da
Weber ha riscosso un successo straordinario tra le scienze sociali. Tutt’oggi so-
no infiniti gli studi orientati in questo senso. Si può anche notare come un mo-
vimento alternativo tra i più noti abbia scelto di chiamarsi dei “disobbedienti”,
formula in cui risuona un’eco sia pur invertita del metodo weberiano. Sono
possibili, però, altri modi di porsi rispetto a questo metodo. Anche se non è la
problematica del potere e del governo a essere al centro delle nostre ipotesi, es-
se la contemplano ai confini dei loro campi di ricerca. È da questa angolatura
che propongo qualche considerazione su ciò che trovo più criticabile in Weber,
per poi invece sottolineare cosa c’è sempre da imparare.
Criticabile è, anzitutto, che il suo ideale di razionalità sociale (come razio-
nalità del potere) si voglia unico e senza contraddizioni, come unico e senza con-
traddizioni si vuole il senso comune su cui si fonda la logica di questa raziona-
lità. Così infatti si condanna all’irrazionalità ogni realtà sociale senza potere e
fuori dal senso comune.
Criticabile è, in secondo luogo, il fatto di considerare il potere unicamente
in base al tipo di legittimità fondata sul consenso di cui può godere. Così infat-
ti si fa del potere una questione puramente soggettiva, di comando e obbe-
dienza, senza considerare le sue condizioni oggettive: ossia le condizioni che
rendono possibile qualsiasi potere, come la ricchezza o le posizioni istituziona-
. RISPOSTE CLASSICHE
VA L E R I O R O M I T E L L I
le offusca. La soggettività nel suo discorso è infatti sempre una soggettività as-
soggettata al senso comune, il quale è categoria in fin dei conti oggettiva, in
quanto risulta dalla media al ribasso di più soggettività. Inoltre, questa media
non è neanche, come in Durkheim, il semplice risultato di una comparazione,
ma è selezionata alla luce di un tipo ideale, il cui ideale è, come già criticato, il
dogma della non contraddizione, dell’identità senza resti. Cosicché in Weber,
alla fin fine, di vera soggettività sociale ce ne è solo una, quella della razionalità
avente a ideale la non contraddizione.
Per aprire invece la problematica della soggettività sociale in tutta la sua in-
finita vastità, mai riducibile a una tipologia, tantomeno se fondata su un unico
ideale, le nostre ricerche considerano ogni soggettività sociale nella sua singo-
larità contigua con altre soggettività: singolarità e contiguità che possono esse-
re studiate solo se al loro centro si pone non il senso comune, ma il pensiero, in
quanto attività intellettuale che rende possibili realtà sociali altrimenti impos-
sibili. Di qui anche il fatto che tra il ricercatore sociale e i soggetti da lui inter-
pellati il punto di incontro non è da vedersi garantito dal fatto che entrambi ri-
corrono all’interpretazione, all’interpretazione dello stesso senso comune, ma
è sempre da cercare e da trovare come faccia a faccia tra due pensieri diversi, l’u-
no volto a conoscere quella realtà sociale di cui l’altro fa esperienza diretta.
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Il funzionalismo e i suoi paradossi
. RISPOSTE CLASSICHE
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mente da necessità oggettive, esterne agli stessi rapporti sociali. Ogni distinzio-
ne tra l’“alto” e il “basso” del sociale, tra chi può e sa far funzionare una società
e chi non può e non sa, diventa superflua e ogni manifestazione di soggettività
sociale viene ricondotta a pura funzione dell’oggettività naturale. Il che signifi-
ca vedere e pensare la società come una “seconda natura”, per capire la quale
basta applicare con qualche rettifica le categorie valide per la prima. La biolo-
gia e l’evoluzionismo, quindi, di nuovo, come verità ultime del sociale.
Un altro grande ricercatore e maestro di questa scuola di pensiero, Rad-
cliffe-Brown, arriva in effetti a sostenere con ostinazione la possibilità di
un’“unica scienza naturale della società”. Essendo uno dei più attivi propa-
gandisti nel mondo dell’antropologia secondo il verbo funzionalista, accen-
tuandone il carattere naturalistico cercava di mantenere un senso unitario alle
svariate ricerche da lui promosse in Africa, Australia, Stati Uniti ed Europa.
A tale scopo, secondo lui si sarebbe dovuto «arrivare a una comparazione si-
stematica di un numero sufficiente di società di tipo sufficientemente diverso».
È la tesi sostenuta in un ciclo di conferenze tenute a Chicago nel da que-
sto grande ricercatore che, suo malgrado, venne riconosciuto come padre del-
lo struttural-funzionalismo.
Il che non impedisce che in Inghilterra il suo insegnamento abbia uno svi-
luppo del tutto divergente, grazie all’opera originale di un suo allievo etero-
dosso, Evans-Pritchard. Questi, assumendo in modo quanto mai rigoroso l’im-
perativo dell’induzione basata sull’osservazione diretta e su un preciso vaglio
critico degli elementi di ricerca, contesta l’inevitabile approssimazione di ogni
comparazione fondata su presupposti naturalistici tra realtà sociali diverse,
contribuendo così a orientare il funzionalismo su quel relativismo delle scien-
ze sociali di cui, come si è visto, Boas fu precursore.
. RISPOSTE CLASSICHE
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individui liberi tra pari che si autoregola naturalmente è certo un Leitmotiv del-
le loro indagini pionieristiche, rispettivamente tra popolazioni come quelle del-
le Isole Trobriand, delle Isole Andamane o dell’alto Nilo. Se essi lo trovano è
perché non cercavano altro: non cercavano altro, perché tra i loro presupposti
c’era la tradizione giuridica anglosassone or ora rievocata. In altre parole, ciò
che voglio contestare è il loro presunto empirismo, la loro idea di “lasciare che
i fatti parlino da soli”. I fatti non parlano mai se non tramite la voce o gli scrit-
ti di qualcuno che, specie se ricercatore sociale, deve rendersi quanto mai re-
sponsabile del senso delle sue parole e del suo pensiero. La pretesa di limitar-
si alla semplice induzione e alla percezione della realtà così com’è è sempre una
pretesa da “pensiero unico”, che aspira a escluderne ogni altro, quale appunto
il funzionalismo anglosassone che in effetti ha finito per dominare le scienze so-
ciali, come l’Impero britannico fino ai primi del Novecento aveva dominato il
mondo, per venire in seguito rilevato da quello statunitense. Il che non toglie
ne siano venute delle conoscenze immense su simili popolazioni dai costumi
tanto singolari, quanto in via d’estinzione; conoscenze che hanno fatto scuola
anche per ogni ricerca successiva sul campo. Ma credo si debba anche conve-
nire che per questi padri fondatori dell’antropologia e dell’etnografia funzio-
naliste il fascino maggiore di popolazioni come quelle trobriandesi, andamane
e nuer, sia proprio consistito nel fatto che esse non conoscevano la separazio-
ne tutta moderna tra chi può e sa e chi non può e non sa, tra i ricchi e i poveri.
È da qui che viene la vera passione di ricercatori come Malinowski, Radcliffe-
Brown e Evans-Pritchard nello studiare organizzazioni sociali strutturate in
clan familiari, tramite riti, magie e faide. Leggendo questi studi, infatti, non è
difficile cogliere in essi l’intenzione di dimostrare l’esistenza tutta reale e fun-
zionante di società senza leggi scritte, né istituzioni burocratiche, ma anche do-
ve nessuno può ritrovarsi estraniato dalle decisioni riguardanti la gestione del
potere. Molto significativo a questo proposito è il sottotitolo del saggio pub-
blicato nel da Evans-Pritchard sui nuer: Un’anarchia ordinata. Ciò che
interessa di questa popolazione è dunque il fatto che essa sia ordinata, che svol-
ga le sue funzioni, pur senza essere stratificata secondo gerarchie di potere. Co-
sì, in fondo, questo allievo di Radcliffe-Brown non faceva che portare alle estre-
me conseguenze quello che era stato un interesse di gioventù del suo stesso
maestro: Kropotkin, noto teorico dell’anarchismo.
In effetti, l’idea libertaria e anarchica può facilmente coniugarsi con la tra-
dizione liberale anglosassone. Medesimo è il presupposto secondo cui la vera
società non debba rispondere ai bisogni naturali degli individui. Medesimo è il
rifiuto della separazione moderna tra le popolazioni che hanno il potere di de-
cidere per il resto della società e questo stesso resto della società che il potere
lo può esclusivamente subire.
La paradossalità del funzionalismo sta dunque tutta qui: nel sostenere che
le funzioni sociali, quali sono analizzabili tra popolazioni senza leggi, né Stato,
. RISPOSTE CLASSICHE
nonché prive di profonde divisioni quanto alla gestione del potere, sono de-
terminate da necessità naturali le quali devono valere anche per società mo-
dernizzate dove esistono leggi, Stato e profonde divisioni attorno al potere. La
pretesa di un’unica scienza sociale funzionalista implica in effetti l’ipotesi quan-
to mai equivoca (libertaria? liberale? liberista?) secondo cui in ogni società le
funzioni sociali in fondo si svolgono e si possono conoscere indipendentemen-
te dal potere di governo che su di esse si esercita.
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. RISPOSTE CLASSICHE
non funzionanti. Una domanda, questa, che richiede anzitutto risposte politi-
che, contingenti o strategiche, governative o non governative, concertate o con-
flittuali, comunque mai definibili tramite un metodo o una teoria sociale, me-
no che mai funzionalisti. Concludo quindi su quella che è in fondo la prescri-
zione più evidente dello struttural-funzionalismo: l’integrazione. Il merito che
più spesso viene riconosciuto all’opera di Parsons è infatti di avere contribui-
to a concepire quello che è stato chiamato «il più importante e notevole espe-
rimento dopo le invasioni barbariche». Sarebbe a dire quell’amalgama di po-
polazioni diverse che gli USA hanno reso possibile, specie nel momento del lo-
ro presentarsi al mondo come potenza egemone. L’integrazione è in effetti og-
gi parola d’ordine obbligatoria dei governi di tutti i paesi più ricchi nei con-
fronti dell’immigrazione. Obbligo, questo, senza dubbio necessario, specie di
fronte alle ricorrenti tentazioni puramente discriminatorie, ma sicuramente in-
sufficiente e non unico, tantomeno esclusivo. L’integrazione delle nuove popo-
lazioni nelle funzioni sociali esistenti non può comunque essere accompagnata
dalla condanna come devianti o disgreganti di tutti e di tutto ciò che nell’inte-
grazione non rientra. Se ciò avviene, è perché chi ha il potere sulle funzioni so-
ciali le usa ignorando, deliberatamente o meno, le condizioni della vastissima
realtà sociale che non rientra, né rientrerà mai nell’integrazione. Un’ignoranza
che nei punti più equivoci dello struttural-funzionalismo può trovare i titoli per
presentarsi come dotta. Per questo la ripresa e la critica di questo metodo è
sempre importante, anche per la sperimentazione delle nostre ipotesi che han-
no altri campi d’applicazione.
.
L’etnografia statunitense
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Certo è che si tratta di andare tra la gente, senza considerarla del tutto ma-
nipolata o assoggettata al senso comune, per incontrarla laddove essa fa espe-
rienze decisive per la sua stessa vita, prendendo sul serio quel che dice e fa. Co-
se, tutte queste, su cui, grazie al metodo dell’etnografia americana, sono state
fatte infinite ricerche e prodotto un grandissimo patrimonio di conoscenze, co-
me appena accennato. Se non se ne vogliono seguire i canoni, è dunque tutto da
spiegare il perché. Ciò è ancora più importante in quanto le nostre ipotesi pos-
sono vantare dalla loro solo un modesto insieme di contributi. Tuttavia, come
cerco ora di mostrare, c’è più di una buona ragione per cercare un’alternativa a
questo metodo etnografico e per rinnovare altrimenti le ricerche sul terreno.
Parto dunque da quella che si può considerare la prescrizione più nota che
solitamente viene assunta da questo tipo di ricerche: procedere a un’“osserva-
zione partecipante” dei “comportamenti” e delle “percezioni” degli “attori so-
ciali” nella loro “vita quotidiana”.
Prescindo da tutte le argomentazioni filosofiche tra cui simili temi po-
trebbero far disperdere il discorso, per mantenerlo nel linguaggio più sempli-
ce e naturale.
Chiediamoci quale sia il piano su cui dovrebbe avvenire la “partecipazio-
ne” cui allude l’espressione “osservazione partecipante”. Si tratta in effetti di
una domanda decisiva, poiché con questa “partecipazione” il metodo che la ri-
vendica punta a superare, o quantomeno ad attenuare, quelle differenze ri-
spetto alla gente comune, che di solito sono invece mantenute dai ricercatori in
scienze sociali. Differenze che possono essere ricondotte essenzialmente a tre:
al fatto che il ricercatore è solitamente esterno ed estraneo alla realtà sociale
della gente; al fatto che il ricercatore, essendo un esperto in scienze sociali, è in
possesso di un sapere sconosciuto alla gente; al fatto che, infine, avendo fina-
lità scientifiche, il suo problema è conoscere in termini trasmissibili e riprodu-
cibili anche altrove, per altri ricercatori, quell’esperienza che invece la gente vi-
ve e conosce direttamente.
Ora, la partecipazione all’esperienza della gente, secondo questo meto-
do, è possibile sul piano delle sensazioni, delle percezioni, dei comporta-
menti o tutt’al più dell’uso di simboli. È essenziale che queste sensazioni,
percezioni, comportamenti o uso di simboli siano rispondenti a necessità,
per cogliere le quali lo stesso ricercatore non deve fare affidamento sul suo
bagaglio di conoscenze. Se così non fosse, anziché attenuare le differenze
con la gente, le accentuerebbe, reintroducendo la sua superiorità di esperto.
Decisiva è allora la categoria di “vita quotidiana”. Con essa si allude infatti
all’unità di tempo più naturale, il volgere del sole, di cui ognuno, esperto e
non esperto, ha esperienza costante e diretta. Il ricercatore può così parte-
cipare delle sensazioni, delle percezioni, dell’uso dei simboli della gente co-
mune, nella misura in cui si pone e la interpella sul piano delle necessità del-
la vita quotidiana.
VA L E R I O R O M I T E L L I
Ora, è proprio qui che c’è il problema. O meglio: è proprio qui che questo
metodo rivela il suo aspetto equivoco, di proporre una soluzione che non solo
lascia aperto, ma nasconde un problema cruciale.
Ogni ricerca sociale non è mai una cosa spontanea. I suoi tempi non sono
mai quelli del quotidiano. La sua durata, i suoi luoghi, le sue scadenze sono pre-
viste secondo un protocollo o un progetto per il quale il ricercatore deve aver
lavorato preventivamente e a cui è necessario lavorare anche a ricerca sul cam-
po conclusa. Da questo punto di vista, l’“osservazione partecipante” risulta una
formula troppo semplicistica, se non equivoca, in quanto sottace o comunque
trascura tutta una serie di operazioni decisive per la ricerca sociale. Tra di esse,
il fatto che il ricercatore, se vuol davvero capire la gente che interpella, non può
limitarsi a usare il suo sapere al ribasso, solo per lasciare spazio, dilatandoli o
acuendoli, ai suoi sensi. Tutto al contrario, egli deve attivare il più possibile le
sue conoscenze e le sue percezioni in funzione di una precisa attività intellet-
tuale. È infatti solo tramite il pensiero, che ogni ricerca sul campo può avven-
turarsi in quei campi altrimenti sconosciuti e inconoscibili, dai quali solamen-
te viene la sua legittimità scientifica.
Uno dei difetti maggiori del metodo etnologico dell’“osservazione par-
tecipante” sta dunque in questa omissione del pensiero, dell’intelligenza at-
tiva da parte del ricercatore come condizione decisiva per la riuscita della ri-
cerca stessa.
Ma suo difetto ancora maggiore è che, interpellando i soggetti sociali sul
terreno delle loro percezioni e comportamenti nella vita quotidiana, non li in-
terpella come esseri pensanti.
In effetti, secondo lo schema empiristico tipico della tradizione anglosas-
sone, la dimensione intellettuale si giustifica sempre solo come passiva e stru-
mentale, solo in quanto riceve sensazioni e serve a scopi pratici. La possibilità
che il pensiero, l’attività intellettuale modifichi le sensazioni e gli scopi pratici
è un’eventualità vista con sospetto, in quanto esposta al libero arbitrio e quin-
di a rischio d’errore. Ciò perché si continua a ritenere che l’unico soggetto pen-
sante possa essere l’individuo, cosicché più pensa a suo modo più rischia di far-
si idee personali diverse da quelle degli altri. Quegli altri, quella dimensione
collettiva, che quindi ha senso positivo solo se considerata nel modo più “na-
turale”, il più vicino possibile alle necessità della “vita quotidiana”. Ove, “na-
turale” deve suonare proprio come il contrario di “intellettuale” e il più vicino
possibile alla dimensione sensitiva, animale, dell’umanità.
Insomma, tutte le nostre ipotesi sul fatto che chiunque, la gente come sog-
getto collettivo, pensi e che questo pensiero possa essere fonte decisiva per co-
noscere la realtà sociale sono decisamente escluse da questo metodo. Ma, co-
me ho cercato di mostrare, non gli mancano i difetti che giustificano la ricerca
di alternative. Una, ma non la sola, è appunto fare del pensiero il terreno su cui
il ricercatore sociale deve porsi allo stesso livello della gente, per incontrarla.
. RISPOSTE CLASSICHE
Note
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Risposte più recenti
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scienza del linguaggio. Ad aprire questo percorso sta il Corso di linguistica ge-
nerale, costituito da note prese da allievi, durante i corsi tenuti tra il e il
e pubblicato postumo a Parigi nel , ma divenuto noto anche fuori del-
le cerchie dei linguisti solo negli anni Sessanta. In tale testo il suo autore, Fer-
dinand de Saussure, propone una grammatica comparativa fondata su una teo-
ria dei “fonemi” e dei rapporti tra il suono e la parola, tra il significante e il si-
gnificato. Così si arriva a formalizzare la matrice del sanscrito fino al punto di
potere produrre regole e parole prima del tutto sconosciute, ma con ogni pro-
babilità utilizzate dalle lingue indoeuropee di tempi oramai del tutto remoti e
neanche storicamente situabili. Un’impresa, questa della scienza del linguag-
gio, fondata essenzialmente su ricerche grammaticali, che ha continuato ad ave-
re svariati e proficui sviluppi nel corso del secolo. Tra di essi, campeggia il pro-
getto universalistico, nel corso degli anni Sessanta, della “grammatica genera-
tiva” di Noam Chomsky, il quale ha tentato di formalizzare un’unica matrice di
tutti i linguaggi possibili, nell’ambiziosissimo, e discutibile, intento di potere
così contribuire anche allo studio neuro-biologico delle funzioni cerebrali.
Senza entrare nel merito degli infiniti altri e straordinari sviluppi della lin-
guistica novecentesca, c’è un punto che qui interessa particolarmente. Il fatto
che questi sviluppi hanno tratto le loro maggiori risorse non dalla semantica o
dalla sintassi, ma dalla grammatica in rapporto con la fonetica. Di più: che le
prime e più importanti scoperte non hanno riguardato le regole dei rapporti
tra le parole e i loro significati, bensì la dimensione del “fonema”, ossia lad-
dove la parola è ancora a livello significante, prima di divenire un significato
tra i significati. In effetti, nelle ricerche sulle lingue indoeuropee, anche l’in-
novazione decisiva, costituita dall’individuazione di regole comuni a tali lin-
gue, è stata possibile solo grazie alla fissazione di corrispondenze fonetiche.
Intendendo con ciò quelle che, ad esempio, danno come risultato l’etimo in-
doeuropeo *pHater, il quale altro non è che il prodotto dalla comparazione tra
il latino pater, il greco πατήρ, il sanscrito pitar- e il germanico Vater. Decisi-
vo è capire che “dietro” questo etimo, come qualsiasi altro, non sta nulla, se
non la stessa operazione della grammatica comparativa che lo crea. In altri ter-
mini, perché un padre viene chiamato “padre”? O un cavallo, “cavallo”? So-
no domande destinate a restare comunque senza risposta. Ciò semplicemente
perché il rapporto tra il significante e il significato è di per sé insondabile, pu-
ramente casuale o, come dice lo stesso de Saussure, “arbitrario”. Il che com-
porta che tra fonetica e grammatica non si dà alcuna regola, quale invece si dà
nelle implicazioni sintattiche e semantiche della grammatica. Il significante,
dunque, come pura possibilità di incontro tra il semplice suono e il suono con
funzione di linguaggio. Sarà proprio da qui, da questa categoria del signifi-
cante, che nell’acme della “svolta linguistica”, dagli anni Cinquanta agli anni
Settanta, Jacques Lacan prenderà le mosse per rinnovare la problematica del-
l’inconscio della psicoanalisi di Freud.
. RISPOSTE PIÙ RECENTI
VA L E R I O R O M I T E L L I
guaggio in genere non segue alcuna punizione, salvo quelle, peraltro assai
modeste, che sono inflitte laddove, come nella scuola, l’uso scorretto della
grammatica è sanzionato. Così, la scelta stessa di una parola piuttosto che
un’altra resta sempre del tutto soggettiva, nell’ordine del possibile, ma al tem-
po stesso decide di come chi l’enuncia diventi soggetto d’enunciazione, ov-
vero decide della realizzazione delle possibilità intrinseche alla potenza si-
gnificante della parola.
Nulla, dunque, giustifica che la regola in senso linguistico, cioè grammatica-
le, possa venire assunta come modello di riferimento per individuare delle rego-
le sociali. Se le scienze sociali devono tenere conto delle scoperte prodotte dalle
scienze del linguaggio, non è affatto obbligatorio trarne l’idea che la realtà socia-
le sia da leggere come una sintassi, né tantomeno come una semantica vincolata.
Più giustificato è invece trarre insegnamenti dalla categoria del significan-
te per cercare come e quale realtà sociale venga resa possibile dall’uso sogget-
tivo di certe parole piuttosto che di altre.
Tornando al senso che la svolta linguistica ha avuto per le scienze sociali, si
può concludere che esso è stato assunto da esse in due direzioni. Da un lato,
quella dominante, che, curandosi anzitutto di regole sintattiche e di conse-
guenze semantiche, ha assunto il linguaggio come necessità del sociale, come
una sua funzione più o meno fondamentale. Dall’altro, quella che, più attenta
alle effettive novità apportate a tale svolta, ha assunto il linguaggio come risor-
sa, come miniera inesauribile di possibilità significanti e soggettive all’interno
del sociale.
Quest’ultima è la direzione entro cui si situano le nostre stesse ipotesi.
Ritorniamo ora alle nostre tre domande: a) cos’è la società? b) Perché stu-
diarla? c) Come studiarla? Se, pur nella loro rudimentale semplicità, esse han-
no una loro utilità per testare i paradigmi più classici delle scienze sociali, non
è più così in riferimento alla svolta linguistica. Per seguire, sia pur sempre a
grandi linee schematiche, come le scienze sociali abbiano affrontato tale svol-
ta dopo la metà del Novecento, occorre riformulare le domande. Invece di
chiedere loro cos’è la società, perché e come studiarla, è più appropriato por-
re loro domande come: che effetti ha il linguaggio sulla società? Perché e co-
me studiarli? Dovrebbe essere evidente infatti che, dal momento in cui il lin-
guaggio emerge come questione cruciale anche per il sociale, tutto quello che
è stato detto e scritto a suo riguardo, tutto il linguaggio che lo ha riguardato,
va rimesso in discussione. La questione diventa, quindi, come ripensare le
scienze del sociale, le loro finalità, i loro modi di ricercare, dopo la svolta lin-
guistica. L’alternativa di fondo è: o riconfermare l’essenziale di ciò che se ne
sapeva anche prima o cercare nuovi modi di sapere.
Come si vedrà, la prima soluzione sta essenzialmente nel considerare il lin-
guaggio in modo strumentale. Il che significa ritenere che, per dar spazio alla
. RISPOSTE PIÙ RECENTI
VA L E R I O R O M I T E L L I
so del Novecento abbiano prestato tanta attenzione alle questioni del linguag-
gio. L’importanza dei partiti e dei regimi partitici sarà particolarmente messa in
evidenza, ma attribuendo anche una rilevanza epocale all’evento Sessantotto
nei rapporti tra il linguaggio, il sociale e la politica.
Il capitolo si concluderà con una terza parte (c) nella quale verranno esa-
minati i problemi di metodo che si pongono con l’apertura delle scienze socia-
li verso il linguaggio naturale.
a
Il linguaggio come strumento
In generale si può dire che le scienze sociali hanno reagito alle nuove questioni
poste dalla svolta linguistica rettificando ad hoc risposte già date: date cioè quan-
do il linguaggio nelle scienze sociali era semplicemente usato come uno stru-
mento, senza metterlo in discussione. Così, il modo più semplice di affrontare
la svolta linguistica è consistito nello studiare gli effetti del linguaggio sul socia-
le, senza rimettere in discussione i modi già acquisiti di conoscere il sociale.
Sia pur in tutt’altra temperie e con ben altre conseguenze, anche il funzionali-
smo e lo struttural-funzionalismo d’area anglosassone propendono per soluzio-
ni meno diverse di quanto si può credere. Il linguaggio viene infatti da essi con-
siderato per lo più alla stregua di altre funzioni sociali; come esse, rispondente
alle necessità oggettive e naturali di ciascun individuo. Per studiare gli effetti del
linguaggio sulla società anche in quest’ottica non occorre ripensare la stessa so-
. RISPOSTE PIÙ RECENTI
si fonda in ultima analisi su tre semplici premesse. La prima […] è quella secondo cui
gli esseri umani agiscono nei confronti delle cose (oggetti fisici, altri esseri umani, isti-
tuzioni o idee guida come la libertà) sulla base dei significati che tali cose hanno per lo-
ro. […] La seconda premessa è che il significato di tali cose è derivato dall’interazione
sociale che il singolo ha con i suoi simili o sorge da essa. La terza premessa è che que-
sti significati sono elaborati e trasformati in un processo interpretativo messo in atto da
una persona nell’affrontare le cose in cui si imbatte.
Per quel che qui interessa, una delle novità maggiori dell’interazionismo simbo-
lico sta nel suo attribuire al linguaggio la capacità di creare la realtà sociale. Il che
parrebbe una vera e propria anticipazione della svolta linguistica. Ma non è esat-
tamente così. Infatti, in Mead l’affermazione della creatività del linguaggio non
si fonda su un’analisi dello stesso linguaggio, né ad esso viene assegnato un ri-
lievo problematico a sé stante. Quel che interessa sono solo i suoi effetti utili a
confermare e arricchire una visione del sociale fisiopsicologica e pragmatica.
Una visione cioè per la quale ogni possibilità di pensiero e d’azione soggettiva
conta solo se oggettivamente necessaria, funzionale a qualche finalità già data e
VA L E R I O R O M I T E L L I
a.. L’etnometodologia
. RISPOSTE PIÙ RECENTI
sta infatti che tale realtà possa essere ricondotta ai simboli del senso comune, e
quindi spiegata in base a necessità psicologiche, fisiologiche e macrostruttura-
li. Tesi centrale è, detta in termini semplificati, che la realtà delle situazioni so-
ciali organizzate è quella di cui rende conto chi agisce in tale situazione. Ogni
situazione è pensata come frame, cioè come cornice simbolica, di cui alcuni sim-
boli hanno capacità “indicali” cioè di essere indici di realtà. L’analisi di tali in-
dici può avvenire solo laddove si realizzino pratiche di organizzazione – come
ad esempio le procedure diagnostiche e terapeutiche di ospedali psichiatrici al-
le quali sono state dedicate pionieristiche ricerche etnometodologiche. L’uso
corrente del linguaggio, dove e come esso è effettivamente utilizzato, diviene
così fonte privilegiata della conoscenza sociale. Quindi pare ci si orienti deci-
samente verso la ricerca degli effetti del linguaggio sul sociale. Ma non è esat-
tamente così. Garfinkel, restando fedele alla problematica della “vita quotidia-
na”, è da essa che trae i suoi indici. L’etnometodologia non sfugge infatti al di-
fetto già riscontrato nell’etnologia in genere e che consiste nel non distinguere
tra i casi di studio di indubbio interesse, come appunto quelli degli ospedali
psichiatrici, e quelli decisamente frivoli rappresentati dalle più banali conver-
sazioni domestiche. Nel rivelarne i paradossi impliciti, nel portare fino alle
estreme conseguenze le loro inavvertite assurdità, Garfinkel e i suoi allievi era-
no convinti di poter scoprire qualcosa di molto importante: che, una volta ri-
velata la loro insensatezza, i modi di dire del senso comune rivelano degli indi-
ci reali delle situazioni sociali in cui sono utilizzati. Ma una tale convinzione in
fondo riposa su un assunto dell’interazionismo simbolico per nulla innovativo:
quello secondo cui l’uso dei simboli risponda sempre a ben precise necessità,
più che mai oggettive: quelle, appunto, della vita quotidiana.
Resta comunque interessante l’idea di Garfinkel secondo cui la realtà so-
ciale è conoscibile solo tramite indici, da trovare e analizzare nel linguaggio. Per
svilupparla al meglio, per trarre le sue conseguenze oltre la svolta linguistica,
occorre rinunciare alla convinzione, oramai superata, che al fondo della realtà
sociale ci sia un serbatoio di necessità naturali alle quali sono facilmente ricon-
ducibili gli indici del linguaggio. Una rinuncia, questa, cui si deve accompa-
gnare la sfida a pensare la realtà sociale come posta in gioco e arena di diverse
possibilità create nel linguaggio e indicate da esso. Come la ricerca può proce-
dere in questo senso lo si vedrà in seguito.
a
Il linguaggio strutturante
VA L E R I O R O M I T E L L I
. RISPOSTE PIÙ RECENTI
do di uno scendere nei recessi significanti del linguaggio per trovare i suoi con-
dizionamenti di lunga durata su vaste molteplicità di realtà sociali.
a.. L’Edipo
VA L E R I O R O M I T E L L I
nalmente accettate: insomma, occorre assumere fino in fondo l’idea che le pa-
role spesso contano più dei discorsi, lo si voglia o no.
In secondo luogo, ammettere l’esistenza nel sociale di strutture significan-
ti ripetitive, le quali comunque non si piegano facilmente a ogni loro uso di-
scorsivo, narrativo o comunicativo, non equivale affatto a sostenere che tali
strutture facciano ostacolo alle decisioni soggettive, a un uso singolare del lin-
guaggio; tutto al contrario, la lezione di Lévi-Strauss appena citata dimostra
proprio l’ambiguità costitutiva di ogni struttura significante, la sua sempre co-
stante apertura polisemica a diverse interpretazioni. Come dire, con una bat-
tuta: se tutti abbiamo a che fare con l’“Edipo”, ognuno ce l’ha a suo modo.
In terzo luogo, soppesiamo una differenza cruciale tra l’approccio struttu-
ralista e l’approccio funzionalista alla questione degli effetti sociali del linguag-
gio. Quest’ultimo approccio, come si è accennato, ammette certo che il lin-
guaggio può creare una realtà sociale, ma questa stessa viene concepita come
una variante della realtà oggettiva, esistente indipendentemente dal linguaggio
stesso. Ad esempio, l’etnologia all’americana sostiene sì che le pratiche sociali
più ordinarie producano la realtà della “vita quotidiana” in cui si svolgono, ma
ciò ha senso solo se si suppone che la realtà sociale, indipendentemente da quel
che se ne dice, sia oggettivamente la realtà della vita quotidiana. Sono quindi le
necessità di questa vita a verificare ciò che il linguaggio realizza; ovvero la sua
funzionalità; ovvero il suo essere strumento adeguato a scopi reali. Insomma, è
il fine oggettivo (la vita quotidiana) che giustifica il mezzo soggettivo (il lin-
guaggio). Lo strutturalismo dispone la questione in tutt’altro modo. Esso po-
stula che esista una potenzialità del linguaggio, come ad esempio quella evoca-
ta dal mito di Edipo, che persiste, che si ripete, indipendentemente dagli usi
che se ne fanno. Soggetti e fini qui sono esclusi. Concepire i processi storici e
sociali senza soggetto né fine è esattamente una prescrizione di Althusser, il
quale deve la sua grandezza proprio all’aver tentato di combinare marxismo e
strutturalismo. Si tratta dunque di un oggettivismo estremo, ma tutto incen-
trato sul linguaggio. Un linguaggio concepito sì come necessità inaggirabile, ma
dal senso costituzionalmente ambiguo, polisemico, mai univoco, sempre da de-
cidere in ogni situazione concreta.
È proprio qui che lo strutturalismo raggiunge i suoi limiti. Ciò per cui lo
strutturalismo è stato criticato, anche per vie interne, fino ad esaurirne le ca-
pacità propositive, è stato proprio il fatto di non confrontarsi mai con le possi-
bili realizzazioni concrete, soggettive, delle potenzialità del linguaggio. Non è
forse solo per caso che Parigi, già culla dello strutturalismo, lo sia anche stata
di un Sessantotto particolarmente intenso, il fatidico e infuocato “maggio”. In
ogni caso, tutto lo scatenamento di energie soggettive innescate da questo even-
to ha come fatto esplodere lo stesso strutturalismo. Dopo di che è venuta la
gran fama a livello d’opinione, ma anche scarse innovazioni a livello di ricer-
ca. L’eredità lasciata però persiste tutt’oggi. E sta nella rottura con ogni dia-
. RISPOSTE PIÙ RECENTI
lettica tra oggettività e soggettività, nell’avere aperto una prospettiva per la qua-
le non c’è oggettività sociale prima, dopo o comunque fuori del linguaggio.
Il che vuol dire, tanto per riprendere un esempio già evocato, che oggi la
realtà della fame nel mondo non dipende da necessità naturali, quali le caren-
ze globali di cibo o l’impossibilità materiale di fornire mezzi per sviluppare le
economie arretrate, ma da quel che è detto di questo fenomeno: basterebbe in-
fatti che i paesi ricchi proclamassero misure pertinenti perché il problema fos-
se risolto; e con quali misure potrebbe esserlo è sempre questione da discute-
re, quali che siano gli interessi difesi. A questo proposito lo strutturalismo in-
segna a non supporre alcuna evidenza di tali interessi e a fare attenzione a qua-
le linguaggio, a quali parole sono presentate a loro difesa. Questo nella con-
vinzione che non si possano distinguere i buoni e i cattivi interessi, se non a par-
tire da quel che si dice in loro nome. Se, ad ulteriore esempio, l’interesse che si
dice di difendere è quello dell’intera “umanità”, non si può non tenere conto
di tutte le critiche che gli strutturalisti hanno rivolto all’equivocità naturalisti-
ca di ogni terminologia “umanistica”.
VA L E R I O R O M I T E L L I
la quale questa divinità, fin dagli albori della cultura occidentale, abbia rap-
presentato il mito del tempo.
Il simbolo chiave è la falce con cui questa antica divinità greca appare sem-
pre raffigurata. Il suo movimento oscillante (il quale tra l’altro ricorda ai mo-
derni quello del pendolo) evoca esplicitamente il gesto della mietitura che si ri-
pete ogni anno nella stagione del raccolto. Ma evoca anche un taglio quant’al-
tro mai irreversibile e creatore: quello con cui Kronos castra il padre Urano, il
Cielo. Il sangue così sparso cade infatti nel mare, fecondandolo e facendo na-
scere Afrodite, dea della fecondità universale. Solo allora possono generarsi al-
tre divinità e in seguito anche gli uomini, fino a quel momento inesistenti. Il fat-
to è che i genitori di Kronos sono i due elementi primordiali, Gè, la terra, e Ura-
no, il Cielo. Tra loro copulavano, ma Urano ricacciava tutti i figli nel ventre di
Gè, finché essa, oberata di tanti feti, dota l’ultimo della falce con cui dare la ter-
ribile lezione al padre e liberare le sorelle e i fratelli già concepiti.
Crescendo Kronos, la storia si ripete, per poi subire una nuova repentina
interruzione. Egli si accoppia con una sorella, ma divora i figli, finché la stessa
sorella, ingannandolo, gli fa ingoiare una pietra al posto di Zeus, ultimo nato,
il quale può così divenire adulto. Nel frattempo, il pesante boccone fa vomita-
re Kronos, che rigetta così anche gli altri fratelli e sorelle di Zeus; questi allora
coglie l’occasione per uccidere il padre.
La terza parte del mito, sempre come ce la presenta Leach, costituisce una
specie di apoteosi di tutta la vicenda, in cui ripetizione e irreversibilità si com-
binano, dando luogo a una inversione generale del movimento. Il tema princi-
pale è il contrasto tra le due epoche, quella dominata da Kronos e quella do-
minata da Zeus. Nella prima regna l’abbondanza e la felicità: i campi danno i
raccolti senza essere coltivati, ogni sorta di conflitti è assente e tra i mortali, che
nascono dalla terra come piante, ci sono solo maschi. Nella seconda, invece, le
cose vanno in un modo che ci è più familiare: le donne esistono, i conflitti pu-
re (le due cose nel mito sono connesse) e i campi devono essere coltivati. Ma il
punto più interessante qui è la profezia di un ritorno del regno di Kronos, nel
frattempo relegato nei Campi Elisi, paese dei morti felici. Con tale ritorno tut-
to si ripete al contrario: gli uomini, invece di invecchiare, ringiovaniscono, i
morti rinascono dalle loro tombe e le donne (non servendo più!) cominciano
ad estinguersi.
Tutto il mito quindi contempla, oltre al prologo sulla coppia sterile forma-
ta da Cielo e Terra, tre fasi (quella di Kronos, quella di Zeus e infine quella del
ritorno di Kronos) con due interruzioni, di cui l’ultima porta alla ripetizione
della prima fase, ma in senso invertito. Il Tempo, dunque, come divinità del-
l’interruzione e del ritorno, dell’irreversibile e del ripetitivo.
Mito degli antichi greci, questo, ma anche nostro mito, che ritorna ancora
oggi quando si parla del tempo, se è vero che con questa parola ci riferiamo
sempre a due dimensioni irriducibili, quella della ripetizione e quella dell’in-
. RISPOSTE PIÙ RECENTI
a
Il linguaggio come risorsa
Pensare il linguaggio come una risorsa è diverso dal pensarlo sia come uno stru-
mento, sia come una struttura. Ora considero, infatti, una terza possibilità nel-
l’affrontare la svolta linguistica rispetto alle due appena esposte.
Quando si parla di una risorsa, si parla in effetti di una materia prima, non
per analizzarla anzitutto nella sua struttura interna e neanche in funzione di un
suo uso, ma per considerarne le potenzialità, la molteplicità dei suoi usi possibi-
li. Considerare il linguaggio come risorsa significa in effetti considerarne la mol-
teplicità degli usi possibili. Da questo punto di vista, sostenere che il sociale è co-
stituito anzitutto in termini linguistici significa sostenere che la sua realtà è costi-
tuita a partire dalle molteplici possibilità reali che si presentano nel linguaggio. È
esattamente questo il terreno di ricerca assunto dalle nostre ipotesi. Qui infatti ci
si spinge oltre la svolta linguistica delle scienze sociali, laddove queste si liberano
da ogni vincolo naturalistico. Quel vincolo che ancora restava in modo quanto
mai coercitivo nell’approccio funzionalistico, strumentale, del linguaggio e che
ancora si faceva sentire pure nell’approccio strutturalista.
Per vedere il tutto in altra ottica, ripensiamo alla tradizionale distinzione d’i-
spirazione evoluzionistica tra natura e cultura: tra di esse, si dice, sta il linguag-
gio che, facendo da interfaccia, mediando tra la prima e la seconda, dà forma al-
la società. Tutto sta allora nel modo in cui si concepisce questa supposta media-
zione, questo suo essere interfaccia del linguaggio rispetto a natura e cultura.
VA L E R I O R O M I T E L L I
. RISPOSTE PIÙ RECENTI
esempio, oggi nel mondo nessuna popolazione muore più di fame per cause na-
turali, perché manchi il cibo o le capacità di distribuirlo in qualunque luogo,
ma ciò può accadere solo perché nessuno che ne avrebbe il potere giunge a
prendere le “risoluzioni”, a dire le parole adeguate a contrastare simili cata-
strofi. Il che ovviamente non esclude che dietro a tali impossibilità vi siano dei
vincoli, delle necessità, ma sono sempre delle necessità, dei vincoli che si deci-
dono a livello del dire. Ad esempio, non c’è certo alcuna necessità naturale nel
fatto che i paesi più ricchi del mondo non concedano poco più o poco meno
dello ,% (gli USA solo qualcosa di più dello ,%!) del loro prodotto interno
lordo in aiuti a paesi poveri. Quasi tutti sanno che solo aumentando di po-
chissimo queste cifre il destino di molti paesi poveri potrebbe svoltare al me-
glio. Tuttavia, se ciò non avviene, è perché nessuno sa come convincere i go-
verni dei paesi ricchi. In essi dunque c’è un ostacolo, una necessità ben reale
nell’eludere le questioni degli aiuti. L’economia politica ci può spiegare fino a
che punto tale elusione sia giustificata per ragioni di mercato, concorrenziali, e
fino a che punto sia invece solo frutto di scelte politiche ispirate a pregiudizi o
paure ingiustificate. Lo strutturalismo può spiegare da quali miti, discorsi, im-
magini o simboli vengano simili paure e pregiudizi, nonché come si sono ri-
prodotti. Ma è solo assumendo il linguaggio come risorsa che si può pensare di
prestare seriamente attenzione ai più direttamente interessati: a quegli stessi
poveri che non hanno alcun potere nell’ottenere aiuti, né sicuramente sanno
come riuscirci, eppure si rendono possibile un’esistenza che dall’esterno, dal
punto di vista delle popolazioni più ricche e potenti, sembra talmente impos-
sibile da non essere neanche degna di attenzione, se non filantropica. Le loro
parole, il loro pensiero, se opportunamente interpellati, possono rivelare inve-
ce delle realtà sociali altrimenti sconosciute. E conoscerle tramite queste stesse
parole e questo stesso pensiero può avere anche un uso, una funzione pragma-
tica, politica, ad esempio precisando le richieste di aiuti.
In definitiva, studiare il linguaggio come risorsa significa studiare la realtà
sociale come un campo sul quale si affrontano, si scontrano ed eventualmente
si confrontano diverse possibilità soggettive identificabili a partire da quel che
è detto e pensato a proposito di tale realtà. A imporsi in modo evidente, di so-
lito sono gli enunciati di chi ha il potere di governo e che organizza un con-
senso, una circolazione di opinioni favorevoli a questi stessi enunciati. Qui l’a-
nalisi deve allora valutare in che misura il sapere disponibile su tale realtà giu-
stifica o meno le scelte dichiarate di chi governa e quindi anche il consenso
creato attorno a esse. Ma occorre ammettere che in ogni realtà sociale esistono
anche le altre risorse del linguaggio: quelle costituite da chi non ha potere di
governo, né conoscenze disponibili, e che rende possibile quantomeno una par-
te di tale realtà. Di solito, le popolazioni che non hanno parte né nel potere né
nel sapere sono chiamate popolazioni emarginate, proprio perché non decido-
no nulla rispetto al resto della società. Ma anche le loro parole e i loro modi di
VA L E R I O R O M I T E L L I
pensare possono essere considerati delle risorse e la loro marginalità trattata co-
me una zona di frontiera per nuove possibilità di tutto il sociale. Questo è in ef-
fetti l’obiettivo primo delle nostre ipotesi e delle nostre ricerche. E per questo
ci collochiamo sicuramente nella scia di chi considera che le scienze sociali deb-
bano assumere il linguaggio non tanto e non solo come uno strumento, non tan-
to e non solo come una struttura, ma anzitutto come risorsa.
. RISPOSTE PIÙ RECENTI
Dal che si deve concludere anche che, in un simile caso, un nativo d’Ame-
rica, potendo risparmiare le parole rispetto a uno che parla con una lingua in-
doeuropea, ragiona meglio e più velocemente di quest’ultimo? Se così fosse,
che dei “selvaggi” hanno un’intelligenza più agile ed efficace dei “civilizzati”,
non si dovrebbero forse rimettere in discussione gli stessi principi dell’evolu-
zionismo?
È per il fatto di non avere mai risolto tali dubbi che l’ipotesi Whorf legitti-
mata da Sapir ha goduto fama di essere “sovversiva e provocatoria”.
Il contenuto più preciso di tale ipotesi sta in ogni caso nel sostenere che il
pensiero dipende dalle categorie elaborate dal linguaggio. Dal che «Siamo […]
indotti a un nuovo principio di relatività, secondo cui differenti osservatori non
sono condotti dagli stessi fatti fisici alla stessa immagine dell’universo, a meno
che i loro retroterra linguistici non siano simili». Per capire il senso di questo
nuovo principio di relatività, che si richiama evidentemente a quello già fatto
valere da Einstein in fisica, è opportuno precisare rispetto a quale principio as-
soluto prenda le distanze. Ebbene, si tratta proprio della pretesa di qualsiasi
linguaggio di valere in assoluto, a priori, tanto per la natura tutta, quanto per la
molteplicità dei linguaggi. Contestare questa pretesa universalistica tradizio-
nale non significa però escludere che tra i diversi linguaggi e i modi di pensare
da essi condizionati ci possano essere dei nuovi incontri. Anzi, è proprio a que-
sto che le ricerche di Whorf si sono dedicate. Il limite di relatività che esse pon-
gono è di non supporre che tutto sia sempre pensabile in unico modo e quindi
con unico linguaggio. Tutto il nuovo problema sta dunque nel trovare come,
con quali approcci, su quali terreni problematici, far incontrare linguaggi e mo-
di di pensare diversi, tenendo conto del fatto che ci si trova sempre all’interno
di un pensiero e di un linguaggio, in rapporto ad altri pensieri e linguaggi.
Così intesa, questa ipotesi non è che un’anticipazione quanto mai radicale di
quella che ho chiamato la svolta linguistica. In effetti, se si postula il contrario del-
l’ipotesi suddetta, cioè che è il linguaggio a dipendere dal pensiero, significa che
si continua a trattare il linguaggio come uno strumento; che si continua cioè a ri-
durlo entro i limiti dell’impostazione evoluzionista, la quale, come si è visto, con-
sidera minimo il filtro che il linguaggio pone tra natura e cultura; per cui è sem-
pre alla prima che andranno ricondotte le necessità più profonde della seconda
e quindi anche di ogni forma di pensiero e di qualsiasi società.
Tutt’altre sono invece le conseguenze che si possono trarre dall’ipotesi se-
condo cui è dal linguaggio che dipende ogni pensiero. Una di queste conse-
guenze è, ad esempio, che quando un ricercatore sociale intende studiare una
popolazione deve partire dal linguaggio di questa stessa popolazione, senza an-
teporre pregiudizi sulle sue capacità di pensare, ma supponendo solo che ogni
parlare implica sempre un pensare. Si pone quindi il problema di come sia pos-
sibile un incontro scientificamente proficuo tra il ricercatore e la popolazione
da lui interpellata. Whorf, da linguista, lo cercava anzitutto sul piano della
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grammatica. Per chi cerca di conoscere la realtà sociale le cose devono quindi
andare altrimenti. Se il ricercatore resta fedele all’assunto che il pensiero di-
pende dal linguaggio, egli deve misurarsi con la difficoltà di fare una ricerca a
partire da un altro linguaggio che non è il suo. La soluzione più adottata, allo-
ra, è quella dell’interpretazione ai fini della traduzione: della traduzione del lin-
guaggio della popolazione studiata in quello del ricercatore che la studia. Que-
sta è comunque la soluzione “anti-anti-relativistica” proposta e praticata dal-
l’antropologia detta appunto “interpretativa” di Clifford Geertz.
Ma qui può insorgere un’obiezione. Il linguaggio che viene tradotto si può
dire infatti che venga ridotto a un linguaggio oggetto da parte del linguaggio in
cui viene tradotto e che in logica, quella di Tarski, ma anche in teoria lingui-
stica, quella di Louis Hjelmslev, viene detto metalinguaggio. Dal che insorgo-
no tutti i legittimi dubbi su quanto di un linguaggio ridotto a oggetto possa re-
stare nel metalinguaggio in cui è tradotto. Geertz, nel saggio in cui postula pos-
sibilità di un’etnografia del pensiero, coglie perfettamente il problema e ne cer-
ca una soluzione nel pensiero stesso, nonché nelle ricerche novecentesche di un
suo nucleo fondamentale originario (la psicoanalisi inaugurata da Freud e la
grammatica generativa di Chomsky sono portati ad esempio). È dunque da
questa facoltà essenziale del pensare che dipenderebbe la possibilità di incon-
tro, di interpretazione e di traduzione tra linguaggi diversi, proprio come av-
viene quando, anche tra gli individui più diversi, ci si riesce comunque a in-
tendere. Il paragone chiaramente ironico con cui Geertz pone diverse comu-
nità scientifiche sullo stesso piano di villaggi tribali ha proprio questo senso: di
ridimensionare il linguaggio da esperti delle scienze sociali, la loro presunta su-
periorità metalinguistica, banalizzandola e abbassandola allo stesso livello di
dialetti e convenzioni tradizionali.
Resta che in tal modo si rischia di ritornare a quella tradizionale idea del-
l’anteriorità del pensiero rispetto al linguaggio che viene superata dall’ipotesi Sa-
pir-Whorf, se assunta nelle sue conseguenze più radicali. In effetti, ricondurre,
come fa Geertz, la questione dell’incontro tra diversità di linguaggio e di pen-
siero a questione di traduzione e interpretazione, più che apportare chiarimen-
ti, non fa che aprire altre questioni, d’ordine filosofico ed ermeneutico, come il
libero arbitrio e l’impossibilità dell’individuo d’evitare l’errore. La domanda
su dove il ricercatore sociale possa trovare le risorse per pensare un pensiero di-
verso dal suo e per parlare un linguaggio diverso dal suo necessita di risposte più
operative. In ciò che dice Whorf, per quanto in modo ellittico e allusivo, c’è di
che trovarne. Si rifletta ad esempio sulla sua sentenza secondo cui «la parola è
quanto di meglio l’uomo sappia fare». La parola è qui chiaramente intesa co-
me vera potenza del linguaggio. Tutto sta allora nel decidere a quale aspetto del
linguaggio si dà la priorità: se alla potenza significante delle parole o invece alle
regole discorsive che esistono tra i significati delle parole. Solo in quest’ultimo
caso le questioni di interpretazione come traduzione diventano cruciali, perché
. RISPOSTE PIÙ RECENTI
solo in questo caso, per indagare la realtà sociale di una popolazione, bisogna
anzitutto tradurne il linguaggio nel metalinguaggio di chi fa l’indagine. Nell’al-
tro caso, in cui tutto è affidato alla potenza delle parole e delle loro concatena-
zioni significanti, non vi è alcuna differenza insormontabile tra il linguaggio di
chi fa l’indagine e quello di chi è interpellato dall’indagine.
Qui può valere a chiarimento una categoria proposta dall’Antropologia del
Nome, di Sylvain Lazarus: quella di “molteplicità omogenea”. Il linguaggio,
dunque, come molteplicità differenziata, infinitamente differenziata, ma fon-
damentalmente omogenea: originata e attivata dalla stessa risorsa, quella delle
parole, della capacità significante delle parole. Quanto possa essere potente
questa capacità lo si può cogliere pensando all’esempio della poesia: più preci-
samente, al caso in cui una poesia così intensa che non perde il proprio conte-
nuto artistico, pur passando tra lingue diverse. Ciò evidentemente può avveni-
re solo a condizione che il traduttore sappia intercettare l’ispirazione del poe-
ta, se ne faccia trasportare e si prenda le sue responsabilità nel renderla, anche
forzando, eventualmente, i rapporti tra i significati letterali delle parole. E non
si tratta di un esempio del tutto a caso. In effetti, ai fini della ricerca etnografi-
ca come la intendo, per conoscere la realtà sociale racchiusa in ciò che dicono
i soggetti incontrati, è molto più opportuno leggere e pensare i loro enunciati
come un testo poetico, ben più che come una narrazione. Da cercare è infatti
non la logica discorsiva, che tiene insieme i significati delle parole, non la coe-
renza o meno del rapporto tra presupposti e conclusioni, tra inizio e fine, ma
quanto danno da pensare le parole stesse, le frasi o i frammenti di discorsi, pre-
si in quanto tali, nella loro potenza significante. Come nel caso delle poesie, le
quali per essere apprezzate fino in fondo devono essere imparate a memoria, lo
stesso o quasi è consigliabile fare con i testi raccolti dalle interviste etnografi-
che: ripeterli e ripensarli, fino a che alcuni di loro possono tornare alla mente
senza essere letti. Quando si tenta così di pensare un pensiero, allo scopo di in-
contrare la realtà che sta tra le sue parole, la traduzione come l’interpretazione
risultano per quello che sono: questioni accessorie, pressoché tecniche.
Un semplice “sì” e le nozze sono fatte, cambiando la realtà, anche sociale, di lei
e di lui, dal momento in cui diventano moglie e marito. Il matrimonio è un clas-
sico esempio di performance. Termine che, come insegna Victor Turner, viene
dal francese arcaico parfournir e significa concludere, portare a termine. John
Austin è famoso per avere eretto atti simili a temi filosofici e logici di prima im-
portanza, contribuendo a suo modo a quella che ho chiamato la svolta lingui-
stica. Le sue categorie chiave sono appunto gli “enunciati constativi” e gli
“enunciati performatici”. Questi ultimi essendo appunto in grado di fare, di
portare a termine, di realizzare cose (un matrimonio ad esempio), mentre gli al-
VA L E R I O R O M I T E L L I
tri, i constativi, no. Roy Turner, per trattare del linguaggio come di una risor-
sa, è proprio a queste idee di Austin che si riferisce. Qui, linguaggio e realtà ten-
dono a confondersi, sia pur occasionalmente. In fondo, si sostiene che non sem-
pre il dire è fare, ma talvolta, quando la performance riesce, ovvero è “felice”,
secondo un termine caro ad Austin, sì. Ma ciò che decide di questa eventualità
non è tanto l’enunciato, quel che si dice, quanto rispetto a che cosa lo si dice,
rispetto a quale contesto, rispetto a quali convenzioni preesistenti. La realtà,
dunque, è sempre anzitutto una realtà convenzionale a cui, dicendo, si può ag-
giungere o togliere qualcosa. Il linguaggio come risorsa è così certo esaltato, fi-
no al punto di attribuirgli capacità d’agire realmente, ma le sue possibilità di
azione restano comunque quanto mai modeste, sempre entro una cornice di
convenzioni da rispettare, pena l’“infelicità”, degli enunciati, s’intende. Ne
consegue che la realtà sociale diventa quella che si può conoscere tramite ogni
sorta di conversazione, purché colta all’interno della “vita quotidiana”. Tanto
le chiacchiere domestiche più banali (ad esempio, quelle telefoniche) quanto le
discussioni più sofferte e problematiche (ad esempio che decidono le attività di
un ospedale psichiatrico o di un tribunale) sono messe tutte allo stesso livello
di interesse primario da questo tipo di approccio, che può essere ricondotto
all’“etnometodologia”. Sui pregi e i difetti che questa impostazione ha dal pun-
to di vista delle nostre ipotesi ho già scritto più sopra.
Ora mi interessa piuttosto mettere a confronto questa categoria degli enun-
ciati performativi con un’altra, d’altra impostazione e che pur riguarda sempre
le possibilità del linguaggio di dar luogo a effetti reali.
Si tratta degli “enunciati prescrittivi” così come sono presentati da Sylvain
Lazarus. La questione è dunque che differenza fa per la ricerca sociale ana-
lizzare il linguaggio come performance o analizzarlo invece come prescrizione.
Anzitutto, se inteso come performance, il linguaggio porta a termine, con-
clude, esaurisce una realtà (lo si è visto nell’esempio delle nozze concluse),
mentre non è così dal punto di vista della prescrizione. Da questo punto di vi-
sta, infatti, la realtà resta sempre distinta dal linguaggio. Ma ciò non per lascia-
re aperto lo spazio ad altri tipi di problematiche del reale (riguardanti per esem-
pio i bisogni naturali, gli interessi economici, di classe o la psicologia dei sog-
getti parlanti), bensì perché la realtà stessa è concepita come campo in cui coe-
sistono sempre più prescrizioni, di cui nessuna può mai essere completamente
realizzata. Così, da questo punto di vista, dal punto di vista prescrittivo, tutto
risulta possibile, nell’ordine del possibile, aperto su un ventaglio più o meno li-
mitato. Per analizzare questa molteplicità di possibili, la prima distinzione da
operare è quella tra le possibilità prescritte da chi ha potere di governo sulla
realtà sociale e invece le possibilità prescritte da chi, pur aderendo a tale realtà,
non vi ha alcun potere di decisione.
Ecco allora che anche le realtà sociali che più interessano le ricerche sul lin-
guaggio come prescrizione sono diverse da quelle che lo considerano come
. RISPOSTE PIÙ RECENTI
VA L E R I O R O M I T E L L I
a
Segni ovunque
. RISPOSTE PIÙ RECENTI
VA L E R I O R O M I T E L L I
Ma vi sono anche altri tipi di esperti del sociale più o meno influenzati dalla cor-
rente semiologica oggi declinante. La sua crescente influenza, a partire dalla fine
degli anni Sessanta, è stata infatti tale da attraversare praticamente ogni ambito
delle scienze sociali. Tra i suoi altri svariati effetti, uno mi pare qui degno di no-
. RISPOSTE PIÙ RECENTI
ta. Si tratta del rilancio alla grande della categoria di “sistema”. Vecchia catego-
ria filosofica, questa, celebrata dalla filosofia hegeliana. A far di tutto un sistema,
in questo caso, è lo Spirito Assoluto per cui, secondo la nota formula, “quel che
è reale è razionale, quel che è razionale è reale”. Insomma, poiché si suppone che
ovunque aleggi uno Spirito Assoluto che costituisce l’unità del Tutto, l’impor-
tante per la ragione è saper riconoscere la sua presenza in modo sistematico, poi-
ché solo così può avere un’efficacia reale. In tal senso, Hegel finiva per esaltare
lo Stato costituzionale tedesco, che al suo tempo faceva i primi passi, come in-
carnazione dello Spirito Assoluto, tale da rendere la società civile un sistema rea-
le e razionale. È da qui che poi Marx, e in seguito tutti i marxisti, prendono le
mosse per definire il loro nemico, sempre usando la parola “sistema”: il sistema
capitalista, che forse si può dire rappresenti l’uso della parola “sistema” di mag-
gior successo tra le scienze sociali. Invece dello Spirito Assoluto, qui a costituire
l’unità del sistema è l’“equivalente generale”, il denaro, di cui il comunismo si
supponeva avrebbe saputo fare a meno. Barthes, quando, negli anni Sessanta, tirò
fuori l’idea di considerare la moda come un sistema, sapeva certo di riutilizzare
in un modo nuovo e un po’ ironico quella stessa parola che i comunisti usavano
per criticare la società capitalista. L’unità del sistema semiotico è ovviamente da-
ta dal segno in quanto tale, il quale, come lo Spirito Assoluto per Hegel o il de-
naro per Marx, è ovunque, cosicché solo la sua conoscenza sistematica permette
di conoscere la realtà sociale. “Sistema” è stato quindi usato quasi come sinoni-
mo di quest’ultima, senza dover riferirsi all’hegelismo o al marxismo. Un’opera
di passaggio assai significativa è La società dello spettacolo di Guy Debord, che
nel coniuga una ripresa della visione hegelo-marxista coi temi emergenti del-
la semiotica, così da riutilizzare tutte le categorie della vecchia critica del capita-
lismo per denunciarne gli ultimi sviluppi come “spettacolarizzazione” della so-
cietà. Ma, a lato della scia semiologica, sono state possibili anche nuove teorizza-
zioni della realtà sociale come sistema. Una delle più note, anche in Italia, è quel-
la di Niklas Luhmann, che ha impresso una svolta alla tradizione tedesca hege-
lo-marxista mantenuta viva dalla scuola di Francoforte e da notevoli figure del
secondo dopoguerra, come Herbert Marcuse o Jürgen Habermas. Una svolta
che, per l’essenziale, si è realizzata tramite un ripensamento della classica cate-
goria di “sistema” in rapporto all’“ambiente”, il tutto con forti richiami alla bio-
logia, la quale si è così ritrovata a svolgere quel ruolo di scienza-modello già svol-
to tra Ottocento e Novecento, quando l’evoluzionismo dettava legge.
Inaggirabile vincolo posto dalla semiologia resta comunque che il centro
focale di ogni studio dei sistemi sociali stia in ciò che viene più spesso definito
“sistema delle comunicazioni di massa”. Da esso viene fatto dipendere tanto il
consenso di cui necessita la politica, a sua volta da intendersi come sistema, co-
me sistema politico, quanto l’opinione pubblica, ossia ciò che più conta di quel
che chiunque pensa. Da qui l’esaltazione del potere detenuto da parte del si-
stema delle comunicazioni di massa nel manipolare ogni forma di consenso e
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opinione. In effetti, una volta ammesso che tutto è segno, è chiaro che si è in-
dotti a riconoscere una potenza enorme ai mezzi che legano, che mettono i se-
gni in comunicazione tra loro: i tanto celebrati “mass media”. Cosicché, chi ac-
cetta di far suo l’universo semiologico diviene molto facilmente propenso a ri-
conoscere nella realtà sociale una sorta di “quarto potere” all’ennesima poten-
za, al cui vertice possono comparire figure come quella del “Grande fratello”,
quale se lo immaginava Orwell. Insomma, la semiologia, per quanto critica vo-
glia essere, con l’enfasi che pone sul potere dei media, finisce per accrescerne
il seguito. Facendo un brusco tuffo nell’attualità più prossima, trovo del tutto
sostenibile che in una figura come quella di un Berlusconi al governo ci sia an-
che da vedere una sorta di avveramento più o meno involontario di profezie se-
miotiche sul ruolo crescente dei “media” nel manipolare le masse ignoranti.
Dal punto di vista delle nostre ipotesi, le cose stanno del tutto diversamen-
te. Non che sia da negare il potere della comunicazione, da negare è piuttosto
che l’unico modo per conoscerlo stia nel pensarlo come sistema autosufficiente
o, secondo un termine più sofisticato, caro a Luhmann, “autopoietico”. Un’al-
tra possibilità sta nel pensare che tutto il potere della comunicazione risieda più
semplicemente in una ripetizione di alcune opinioni selezionate, le quali tanto
più sono diffuse e amplificate quanto più si degradano, perdono di senso, come
già nel secondo dopoguerra notavano Lazarsfeld e Merton. Così, si tratta di
capire che ogni potere di governo comporta certo una qualche forma di con-
senso e di capacità di manipolarlo, ma sempre solo entro un più o meno lungo
lasso di tempo, scaduto il quale, si pone comunque la questione di come rinno-
vare il consenso. Una questione, questa, che si pone anche per chiunque abbia
un grande potere sui mezzi di comunicazione. Sia pur solo per essere mantenu-
to, questo potere richiede dunque delle decisioni periodiche. Ed è proprio in
queste decisioni che sta la cosa più interessante da studiare nella gestione del
consenso e dei mezzi di comunicazione. Chiedersi perché una campagna d’opi-
nione piuttosto che un’altra, perché si propaga questo messaggio pubblico piut-
tosto che quell’altro, a volte può infatti rivelare svolte altrimenti impercettibili
nei giochi di potere. E per capire il senso di queste eventuali svolte, a nulla ser-
ve considerarle nella loro funzionalità sistematica, come se non servissero ad al-
tro che a oliare sempre lo stesso meccanismo. Da analizzare sono invece anzi-
tutto le conoscenze che hanno spinto alla decisione colui che l’ha presa. Solo co-
sì infatti tale decisione potrà venire analizzata, distinguendo in che misura essa
sia stata, al peggio, arbitraria e menzognera, o, al meglio, razionale e intelligibi-
le ai più, e quindi democratica. Insomma, occorre sempre distinguere tra con-
senso e consenso, tra comunicazione e comunicazione, tra svolta e svolta nella
loro gestione. E trattarli in blocco, come sistemi di segni o effetti sistematici del-
la potenza di mass media, non giova certo a tali distinzioni.
D’altra parte, l’approccio semiotico, col suo assunto secondo cui tutto è se-
gno, risulta decisamente incompatibile con le ipotesi stesse delle nostre inchie-
. RISPOSTE PIÙ RECENTI
ste. La prima di queste ipotesi, infatti, lo ricordo ancora una volta, sostiene che
chiunque, anche senza sapere e senza potere, può pensare, nonché che questo
pensiero può rientrare tra i temi più importanti delle ricerche sociali. Possibi-
lità, queste, che sono invece prive di ogni interesse per chi vede tutto ruotare at-
torno alle comunicazioni di massa e al potere di manipolare le opinioni. Le ri-
cerche possibili nei confronti delle popolazioni che non hanno questo potere so-
no allora solo quelle che le interpellano come campioni dai quali trarre “indici
di gradimento” o “di ascolto” o rozze dicotomie tra “favorevoli” e “contrari”.
Le loro parole insomma non contano nulla, se non come ripetizione, conferma
o diniego di discorsi elaborati da altri, più potenti in materia di comunicazione.
Ora, è chiaro che anche nelle nostre inchieste si tiene conto della ripetizione
delle opinioni, del consenso più o meno manipolato, degli effetti della comuni-
cazione di massa, fenomeni tutti sempre ben presenti nelle parole e nel pensiero
di chiunque, e dunque, a maggior ragione, di chi ha pochi mezzi propri o non ne
ha affatto. Ne teniamo conto, ma con due distinguo. Anzitutto, che il pensiero
dei nostri intervistati va cercato proprio laddove le loro parole dicono di più o di
meno rispetto ai discorsi e alle opinioni consensuali che circolano tra loro come
nel resto della società; il che significa fare attenzione anche ai lapsus, alle forza-
ture, agli equivoci, alle stranezze, alle scorrettezze, che sono riscontrabili in quan-
to i nostri interpellati dicono anche quando ripetono il già sentito. L’altro distin-
guo riguarda il fatto che, anche quando una popolazione pare particolarmente
passiva nel ripetere luoghi comuni, ciò non significa che la si debba ritenere com-
pletamente manipolata; a essere rilevante, in un caso simile, è analizzare in det-
taglio quali siano i luoghi comuni ripetuti, come sono ripetuti, perché proprio
quelli anziché altri. Decisiva, per orientare su tutte queste questioni, è la catego-
ria di “luogo”, cui si è già accennato e che considereremo meglio in seguito. De-
cisivo è che ogni popolazione sia interpellata in riferimento al luogo in cui vive,
lavora, apprende, a seconda del caso che interessa la ricerca.
La realtà sociale, per le nostre ipotesi di ricerca, non è che la realtà di luo-
ghi, per conoscere i quali non ci fidiamo in fondo che delle parole di chi vi è
governato.
Per concludere, alle categorie semiologiche di “segno”, “sistema” e “co-
municazione” le nostre ipotesi oppongono “parola”, “luogo” e “pensiero”.
a
Dalla comunicazione alle comunità
La semiologia, sul finire del XX secolo, ha perso non poco del suo fascino, un
tempo quasi irresistibile. Le sue teorizzazioni si sono oggi tanto più ridotte
quanto più diffusi e disparati sono stati i suoi successi tra le scienze sociali. L’e-
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. RISPOSTE PIÙ RECENTI
Nella tradizione biblica si tratta chiaramente di Dio, l’Ente da cui tutto di-
pende e che sta prima di ogni cosa, l’Uno. Ma un Uno, dato una volta per tut-
te e che di tutto dà la misura, è sempre obbligatorio quando si parla di comu-
nità. A differenza di quel che si intende normalmente per società e che evoca
comunque delle diversità di condizione tra chi ne fa parte, comunità significa
una popolazione unita attorno a una identità. Identità che vuol dire appunto
Uno, ovvero il contrario di qualsiasi differenza. L’identità di ogni comunità vie-
ne quindi sempre da un atto di fede, da un principio fideistico che esclude ogni
sua messa in discussione.
Ora, è del tutto incontestabile che dagli ultimi due decenni del secolo scor-
so fino a oggi il “comunitario” abbia ripreso quota. Nella realtà sociale in ef-
fetti circolano sempre più rivendicazioni di identità comunitaria. Al posto di
un donatore divino si mette la natura, così ecco che l’identità rivendicata può
essere sessuale, etnica o peggio razziale, oltre che religiosa. I principi attorno a
cui le comunità prendono corpo sono in ogni caso sempre naturalistici, mitici
o mistici, e si realizzano solo grazie ad atti di fede.
Victor Turner di questa grande svolta antropologica intervenuta col decli-
nare del XX secolo parla in questi termini: «Nelle coscienze moderne, cogni-
zione, idea, razionalità erano dominanti. Con la svolta postmoderna, la cogni-
zione non viene detronizzata, ma si colloca piuttosto sullo stesso piano della vo-
lizione e dell’affetto». Sarebbe dunque su questo “piano” intermedio tra il ra-
zionale e l’affettivo che ritornerebbe in auge il comunitario. Resta che alle scien-
ze sociali spetta sempre di fare ricerche razionali. E se la loro razionalità non è
mai una, e deve sempre rinnovarsi, è in ogni caso discutibile che la via miglio-
re sia quella postmoderna proposta da Turner. In effetti, il suo obiettivo di giun-
gere a un’“antropologia liberata” lo porta a cercare nell’arte, anziché nella
scienza, un modello di riferimento. Così, è dal teatro che egli trae espliciti
orientamenti per trattare le realtà sociali come “drammi” e performances. Ma il
fatto è che in tale ottica teatrale del sociale le identità comunitarie finiscono per
avere una parte del tutto reale.
Un altro modo di assumere, sia pur criticamente, i temi delle identità co-
munitarie lo si può trovare in Geertz. Egli infatti introduce il concetto di “po-
litiche di identità”. Queste consisterebbero nelle operazioni di “inclusione” ed
“esclusione” con cui in molte parti del mondo si starebbe ridisegnando la vec-
chia geografia basata su distinzioni nazionali oramai superate. Per spiegare ta-
li politiche, egli fa ricorso a un altro concetto, quello di “lealtà primordiali”, che
sarebbero forme di attaccamento a fatti come sangue, lingua, costume, fede, re-
sidenza, famiglia, sembianza fisica e così via. Fatti, questi, che verrebbero per-
cepiti dagli attori sociali come «dotati di una forza coercitiva ineffabile e schiac-
cianti in sé e per sé». Egli tiene, però, a sottolineare che la ricerca sociale non
deve assumere queste percezioni come dati del tutto affidabili, ma deve conte-
stualizzarli e relativizzarli nello spazio e nel tempo. Come dire che l’identità de-
VA L E R I O R O M I T E L L I
. RISPOSTE PIÙ RECENTI
realtà sociale. Si può forse dire che questo tipo di tematica, delle identità co-
munitarie, ha preso nelle scienze sociali il posto egemone già detenuto dalla se-
miologia. Dal prevalere dei problemi della comunicazione al prevalere di quel-
li delle comunità, dunque. Ma se questo passaggio è stato possibile, è perché
tra queste due tematiche c’è qualcosa di profondamente omologo. Il fatto di es-
sere, entrambi, due tipi di “pensiero unico”, di metodi e di problematiche “a
una dimensione”. Sia la categoria semiotica di segno, sia quella comunitaria
dell’identità non fanno infatti che rimettere insieme, rimescolare ciò che la ri-
cerca scientifica aveva già distinto e separato, aprendo nuovi e diversi orizzon-
ti al pensiero e alla conoscenza. Nel primo caso, il segno inteso semiologica-
mente, come si è già detto, rappresenta un ritorno a quanto stava prima di quel-
la distinzione tra significante e significato, distinzione dalla quale hanno preso
le mosse tra le più importanti scoperte linguistiche del Novecento. Nel secon-
do caso, la ripresa attuale dell’arcaica categoria della comunità rappresenta un
ritorno a quell’unità tra natura, cultura e società (alla Tönnies), che la svolta lin-
guistica nelle scienze sociali aveva già da decenni e decenni mandato definiti-
vamente in frantumi.
VA L E R I O R O M I T E L L I
Il successo in tali scienze dei temi identitari e comunitari significa già una
rinuncia a impostazioni sofisticate, ma solo per dar spazio alle opinioni più
circolanti.
Da questo punto di vista, a poco valgono tutti i tentativi di rendere meno
univoco e totalizzante il tema comunitario parlando di identità multiple. Fatto
sta che questa tematica delle identità multiple in molte ricerche sociali ha fini-
to per accompagnare, se non soppiantare, quella precedentemente più usuale
delle differenze sociali. In termini puramente accademici tutto può risolversi
riconoscendo una diversità di ambiti della ricerca. Il tema delle differenze so-
ciali può infatti apparire di competenza più della sociologia quantitativa, men-
tre il tema delle identità collettive tirerebbe in ballo aspetti più soggettivi, per
i quali sarebbero più adatte sociologia qualitativa, antropologia ed etnografia.
Ma al fondo c’è un problema quanto mai delicato, che riguarda il modo stesso
in cui le scienze sociali accettano di aprirsi alle questioni della soggettività. Ta-
li questioni infatti scontano una lunga quarantena tra queste scienze. Si può di-
re che tutti i loro approcci più importanti, tanto nell’Ottocento, quanto nel No-
vecento, hanno sempre considerato i soggetti sociali solo come accessori di que-
stioni oggettive: la soggettività, cioè, sempre, o quasi, intesa come puro assog-
gettamento a vincoli oggettivi, ai quali poco o nulla aggiunge o toglie. Ma a se-
guito della svolta linguistica, come si è visto, tale noncuranza non è più am-
missibile. Dal momento che al dire si riconosce la possibilità di produrre effet-
ti sociali del tutto reali, infatti, la questione di chi parla, di quali sono le condi-
zioni soggettive del suo dire non può più essere elusa.
Come pensare e conoscere chi parla a partire dal suo stesso parlare e nel
rapporto che questo parlare ha con la realtà sociale? Questa è sicuramente una
domanda di fondo e di frontiera per le scienze sociali d’oggi. Le risposte che
qui tentiamo si fondano sulla già più volte menzionata distinzione fondamen-
tale: quella tra chi può e chi non può sulla stessa realtà sociale; tra chi ha mez-
zi e capacità per condizionare lavoro, vita, esperienze di un’infinità d’altri e chi
invece no. È in base a questa distinzione che si può procedere ad analisi diffe-
renziate sui diversi rapporti soggettivi tra linguaggio e realtà. In altri termini,
così si fa diventare un’ipotesi di ricerca l’assunto, di per sé ben intuitivo, del di-
verso peso che le parole hanno nel sociale a seconda del potere che ha chi le
pronuncia. Procedendo da questo assunto di partenza, si ha il vantaggio di
mantenere la questione della soggettività sociale entro la prospettiva aperta dal-
la svolta linguistica tra le scienze sociali. In senso del tutto opposto va invece la
soluzione delle questioni soggettive in termini di identità. Per quanto all’inter-
no di una stessa soggettività collettiva se ne possano riconoscere di infinita-
mente molteplici, tra loro differenziate o, se si preferisce, “meticciate”, “ibri-
date”, secondo la greve terminologia di moda; per quanto si insista sui loro in-
trecci sessuali, etnici, religiosi, tradizionali o quant’altro, tali identità hanno
senso solo se ciascuna di esse si suppone fondata su degli elementi originari tan-
. RISPOSTE PIÙ RECENTI
to uniti da non potere mai essere distinti al loro interno, dunque senza con-
traddizioni: insomma, su delle sostanze naturali o mistiche, che possono certo
attirare l’immaginazione e la fede di chiunque, ma non del ricercatore sociale
edotto dalla svolta linguistica.
b
Scienze sociali e politica nel Novecento
VA L E R I O R O M I T E L L I
. RISPOSTE PIÙ RECENTI
che si sono realizzate politiche capaci di portare i loro paesi a quella grande vit-
toria sulla natura, qui già ricordata, per cui per nutrire tutta una popolazione
può bastare solo il lavoro di una sua infima parte.
Per seguire lo sviluppo novecentesco delle scienze sociali, nulla è più fuorvian-
te del pensarlo al di sopra o estraneo alla storia politica di questo secolo. I tipi
di regime in cui si sono trovate a operare le hanno infatti condizionate in mo-
do decisivo.
Laddove i regimi sono stati monopartitici, queste scienze o hanno accet-
tato di svilirsi in apologia di regime o sono state semplicemente tacitate, re-
presse, perseguitate, esiliate come, o anche più, di altre attività intellettuali.
Dal che il panorama d’insieme di tali scienze, tra gli anni Venti e Trenta, fini-
sce per ridursi a unica prospettiva, quella di lingua anglosassone, con l’unica
eccezione francese.
In particolare, la situazione delle scienze sociali in Italia ha uno sviluppo
con suoi tratti singolari. Se tra Ottocento e Novecento essa appariva punteg-
giata da opere di notevole portata (da quelle sociologiche, psicologiche, peda-
gogiche di Roberto Ardigò a quelle marxiste di Antonio Labriola, a quelle
di politologi come Mosca, Pareto e Michels), col trionfo della filosofia
neoidealistica di Croce e Gentile, si ha un punto di arresto che il monopartiti-
smo fascista rende irreversibile. Un qualche interesse per le ricerche sociali
sembra sopravvivere tramite le varie dottrine più o meno corporativistiche del
regime o vaste operazioni di raccolta del consenso intellettuale, quali quelle at-
tivate dallo stesso Gentile con la redazione dell’enciclopedia Treccani. Ma il
regime, monopolizzando una già ridotta ricerca sociale, ne ha scoraggiato ogni
possibilità di rinnovamento problematico e metodologico.
Una condizione di depressione, questa, che non si può dire venga comple-
tamente riscattata con la fondazione della Repubblica. Le scienze sociali del
nostro paese, infatti, pur sempre aggiornate su ricerche e dibattiti di altri pae-
si, non hanno mai prodotto studi che abbiano lasciato segni indelebili, tranne
l’eccezionale Ernesto De Martino, negli studi di etnografia del folklore, e la
già citata corrente dell’operaismo con tutti i suoi diversi aggiornamenti. Il fat-
to è che l’Italia dal monopolio del Partito fascista passa al quasi duopolio del-
la Democrazia cristiana e del Partito comunista italiano, che per molto tempo
sono stati i più sostenuti e foraggiati dalle rispettive superpotenze di riferi-
mento, Stati Uniti e Unione Sovietica. Contrariamente alla visione tutta nazio-
nalpopolare della storia repubblicana del nostro paese, anche parlando dello
sviluppo delle scienze sociali, sono ancora quasi tutti da censire gli enormi con-
dizionamenti internazionali subiti da questa penisola, geopoliticamente tanto
decisiva per tutto il lunghissimo secondo dopoguerra. Una sequenza storica,
VA L E R I O R O M I T E L L I
. RISPOSTE PIÙ RECENTI
Fatto sta che col XXI secolo si è voltato pagina rispetto alla storia politica del XX
secolo.
Tutti i partiti-Stato su scala planetaria non solo non godono più del presti-
gio e della vitalità di un tempo, ma si può dire che siano entrati addirittura in
una fase di decomposizione. I loro funerali sono stati celebrati in vario modo:
nei paesi comunisti, dove il partito era unico, il regime stesso è clamorosamen-
te crollato; in Italia, a spazzare via i partiti che occupavano lo Stato ha provve-
duto l’inchiesta del nota come “mani pulite”; negli USA, la cosa è avvenu-
ta col pateracchio delle penultime elezioni che, discreditando il sistema eletto-
rale, hanno discreditato anche il bipartitismo che ne è sempre stato emanazio-
ne, per cui ora la lobby della guerra non ha rivali nel trovare consensi; in In-
ghilterra, poi, si sa che Blair è socialista come la Thatcher; in Francia, infine,
Chirac, che ha potuto godere di una maggioranza schiacciante come mai, si può
dire sia leader di tutti i partiti e di nessuno in particolare. La lista potrebbe con-
tinuare, ovviamente con le dovute eccezioni (quella cinese in testa), che non
fanno tuttavia che confermare la regola generale: quella del disfacimento avan-
zato di ogni organizzazione dei regimi di partito, quale ha dominato buona par-
te del XX secolo. Così, oggi, nel XXI secolo, non è più questo il tipo di organiz-
zazione che unisce e/o divide tutti quelli che siedono in governi o in parlamenti,
né meno che mai quelli che sono i loro seguiti più o meno clientelari. Non ci
sono più né “basi”, né “vertici”, né rapporti sistematici tra i due. Culti, riti, sa-
cramenti, simboli, bandiere appaiono sempre più solo come anticaglie o rima-
sugli del passato. Il nome stesso “partito” è quasi del tutto desueto e sempre
meno gradito.
Un momento inizialmente scatenante di questo declino lo si può rintrac-
ciare nel fatidico Sessantotto. Evento sul quale le interpretazioni si sprecano e
che qui non saranno commentate, per venire subito al punto. Tra i tanti nodi
che vi vengono al pettine, ce n’è uno che qui interessa in particolare. Si tratta
della presa del potere della parola da parte di chiunque in qualunque luogo so-
ciale, di lavoro, di insegnamento. È da ciò, da questa esplosione del linguaggio,
che i fondamenti dei regimi partitici sono stati minati. L’intensità, la durata e i
modi di questa esplosione sono stati diversi a seconda dei paesi in cui è avve-
nuta. Ma la sua contemporaneità praticamente universale è indubbia. E al cuo-
re c’è la radicale contestazione di ogni competenza a parlare, di ogni qualifica
e privilegio nel poter dire invece di e su altri.
Per spiegarne le cause profonde, si può ricordare una cospicua serie di con-
dizioni storiche singolari che avevano cominciato a riunirsi in molti paesi ric-
chi e meno ricchi dal secondo dopoguerra: più scuola, più università, più mo-
bilità sociale, più servizi sociali, ma anche, come si è visto, più importanza al
linguaggio in quanto tale nelle ricerche sociali. Il tutto però sempre politica-
VA L E R I O R O M I T E L L I
. RISPOSTE PIÙ RECENTI
c
Questioni di metodo: discorsi o parole?
Conoscere le lingue dei “nativi” per parlare con loro, come loro, per porsi dal
loro punto di vista è sempre stato un obbligo inderogabile per tutti i maestri
dell’antropologia e dell’etnografia. Tale obbligo però diventa cruciale solo per
le ricerche sociali che portino alle estreme conseguenze la svolta linguistica.
Una delle maggiori questioni di metodo che si pone in questa prospettiva ri-
guarda la rimessa in discussione della pretesa delle scienze sociali di avere un
proprio linguaggio da esperti, un metalinguaggio capace di includere e tratta-
re il resto dei linguaggi come oggetti.
Ora, questa pretesa è quasi scontata dal momento che le scienze sociali si
vogliono scienze. In effetti, da Galileo in poi praticamente non c’è scienza spe-
rimentale che non abbia rinunciato al linguaggio corrente per assumere invece
dei metalinguaggi matematizzati. Il che non vuol dire un semplice ricorso tec-
nico ai calcoli matematici, ma l’assunzione delle matematiche come modelli di
pensiero e conoscenza. Così, per scienze come la fisica o la chimica tutto ciò
che chiunque può dire sulla natura può essere accolto o respinto a seconda che
sia o meno traducibile nelle loro formule. Formule che a loro volta non sono
traducibili in linguaggio comune, se non a prezzo di volgarizzazioni molto im-
poverenti, se non fuorvianti. Ciò perché i linguaggi scientifici come quelli del-
la chimica o della fisica hanno come destinazione di venire esposti a esperi-
menti “da laboratorio”, del tutto estranei al resto delle possibili esperienze.
Ora, le somiglianze con le scienze sociali non mancano. Ad esempio, ognuna
delle loro ricerche può certo venire considerata come un esperimento scientifico,
“da laboratorio”. Ciò che viene messo alla prova non è infatti una realtà sociale
pura e semplice, ma un suo frammento campionato, selezionato e isolato grazie a
conoscenze del sociale che sono non da tutti, bensì di competenza solo di esperti.
VA L E R I O R O M I T E L L I
. RISPOSTE PIÙ RECENTI
dalla coerenza o meno dei discorsi che la riguardano. Il che è quasi ovvio. Va
da sé che la coerenza o meno dei discorsi interessa le scienze sociali, oltre ad
avere diretti effetti sulla stessa realtà sociale. Nessun sapere che si rispetti, in-
fatti, può essere pensato e presentato senza un minimo di coerenza, così come
nessuno con responsabilità di governo nella società dovrebbe sentirsi esonera-
to dalla responsabilità di far discorsi con un minimo di coerenza. Ogni eserci-
zio del sapere e del potere ha sempre le sue necessità e, per parlarne senza trop-
pe omissioni, occorre evitare il più possibile di contraddirsi. Qui, dunque, sot-
to questo duplice aspetto, il rapporto tra linguaggio e realtà sociale non può
non essere analizzato senza considerare come e se il linguaggio si tenga insie-
me, abbia o meno coerenza.
Il punto è però che questo non è il solo aspetto del rapporto tra linguaggio
e realtà sociale, né quello che più interessa le nostre ricerche. A essere interpel-
lati da esse non sono esperti o governanti, ma gente che non può nulla, né sa co-
me ottenere potere, dal momento che fa un lavoro duro, cioè oggettivamente al
limite del possibile. Nelle interviste a tali soggetti, la coerenza o meno dei loro
discorsi ha poca o nulla importanza. La loro realtà sociale non la cerchiamo
prendendo come regola, come misura, il legame o meno tra le frasi che vengo-
no come risposte. La cerchiamo direttamente tra le parole, tra le frasi, suppo-
nendo che questo “tra” non designi nulla, se non una semplice possibilità signi-
ficante, e dunque senza alcun intrinseco significato. Realtà sociale è dunque ciò
verso cui parole e frasi degli intervistati tendono senza mai raggiungerla; il che
non toglie, ma anzi precisa, che frasi e parole degli intervistati sono l’unica fon-
te per la conoscenza della realtà sociale, in quanto luogo di una molteplicità di
prescrizioni diverse e a volte in conflitto tra loro. Insomma, nel dire degli inter-
vistati il ricercatore non deve trovare alcuna necessità, ma solo delle possibilità
di prescrizione sulla realtà sociale: possibilità, che sta allo stesso ricercatore pre-
sentare a suo modo, con tutte le responsabilità del caso.
Il dubbio accademico che in tal modo non vi sia alcuna garanzia di obiet-
tività della ricerca è in fondo un dubbio antisperimentale, legittimista: che va-
luta la ricerca stessa a partire dalla sua legittimità rispetto a canoni accademici
realistici, oggettivistici, i quali, per quanto godano ancora di una qualche cre-
dibilità istituzionale, da un punto di vista sperimentale, sono praticamente sca-
duti, desueti. In realtà, ciò che ha sempre deciso dell’obiettività di una ricerca
non è altro che la sua comparabilità col sapere esistente delle scienze sociali,
nonché la sua efficacia nell’offrire delle conoscenze utili alle decisioni politiche.
Da questo punto di vista, far ricerca su parole e frasi assunte in modo slegato e
frammentario non è meno giustificato del cercarvi una qualche coerenza o leg-
gerle tramite un qualche codice di lettura fissato a priori. Non è altro che que-
stione di scelta. A negare la possibilità di questa scelta possono essere solo me-
todologie a una dimensione e con una propensione egemonica, cioè meno che
mai legittime nel nostro tempo.
VA L E R I O R O M I T E L L I
Resta che le nostre ipotesi di fare ricerca sul rapporto tra linguaggio e realtà
sociale solamente localizzandolo, senza supporvi alcun legame, sono eccentri-
che rispetto a quasi tutte le maggiori tradizioni delle scienze sociali. Tutte le ca-
tegorie centrali di queste tradizioni, come “lotta tra le classi”, “evoluzione”,
“definizione”, “tipo ideale”, “funzione”, “struttura”, “sistema”, “vita quoti-
diana”, “performance”, “discorso”, non sono infatti che dei sinonimi della
realtà sociale, che garantiscono a priori un legame tra quest’ultima e il linguag-
gio. Studiare il sociale ha significato quasi sempre applicare nei più svariati mo-
di queste categorie. Secondo un marxista, essere obiettivo significava ricono-
scere in ogni società le divisioni e le lotte delle classi; secondo un evoluzionista,
riconoscervi e compararvi i diversi gradi di sviluppo; secondo un durkheimia-
no, distinguervi, per poi studiarlo, cosa fosse definibile come fatto sociale; se-
condo un weberiano, costruire un tipo ideale di agire sociale, per poi valutar-
ne l’approssimazione alla realtà; secondo un funzionalista, riconoscervi la fun-
zionalità e così via. Sono stati questi sinonimi dell’essenza della realtà sociale a
costituire l’abc dei metalinguaggi delle scienze sociali: dei linguaggi da esperti,
dei gerghi tecnici che hanno trattato il linguaggio naturale, corrente, come un
insieme di linguaggi-oggetto. Ma è del tutto degno di nota che le certezze su cui
si fondavano questi metalinguaggi erano comunque esogene, derivate da cam-
pi del sapere estranei alle stesse ricerche sociali. “Lotta di classe” è categoria
derivata essenzialmente dalla militanza intellettuale e politica dei marxisti;
“evoluzione”, “funzione” e “sistema” dalla biologia; “definizione” dalla filoso-
fia positivista e “tipo ideale” dalla filosofia neokantiana; “struttura”, “discor-
so” dalla linguistica; “performance”, oltre che dalla filosofia del linguaggio, dal
teatro.
Essere obiettivi, pur chiamandosi fuori da queste tradizioni, non significa
altro che ottenere dei risultati comparabili a quelli ottenuti da ricerche con-
dotte in nome di queste categorie. E se i linguaggi da essi organizzati si sono
presentati come linguaggi da esperti, non è detto che non si possa fare altri-
menti. È quanto prescrive la svolta linguistica assunta nelle sue ultime conse-
guenze. Ed è quanto le nostre ricerche tentano.
Note
. Tra la fine degli anni Quaranta e lungo tutti gli anni Sessanta vedono la luce svariate ope-
re filosofiche che fanno epoca e che hanno tutte al centro il tema del linguaggio: da Martin Hei-
degger (a partire dal con la Lettera sull’umanismo, Torino ), a Ludwig Wittgenstein (Ri-
cerche logiche [], Torino ); da John Austin (Come fare cose con le parole [], Genova
) a Richard Rorty (La svolta linguistica [], Milano ). Su tutto ciò, mio riferimento de-
cisivo qui, come altrove, resta Alain Badiou, di cui cfr. Logique, philosophie, “tournant langagier”,
in Court traité d’ontologie transitoire, Paris .
. Milner, Périple structural, cit., p. .
. Per tutte le questioni della scienza del linguaggio cfr. J. C. Milner, Introduction à la scien-
ce du language, Paris .
. RISPOSTE PIÙ RECENTI
. Ivi, p. .
. Cfr., ad esempio, E. Leach, La comunicazione non verbale (), Torino e, in parti-
colare, il modo in cui applica alle scienze sociali la distinzione tra “competenze” ed “esecuzione”
proposta da Chomsky per lo studio sintattico delle lingue parlate in Saggi linguistici, I-II (),
Torino .
. Cfr. Leach, voce “Anthropos”, cit.
. G. H. Mead, Mente, sé e società (), Firenze .
. H. Blumer, Symbolic interactionnism (), citato in Izzo, Storia del pensiero sociologico,
cit., p. .
. Ivi, p. .
. A. Garfinkel, Cos’è l’etnometodologia? (), in P. P. Giglioli, A. Dal Lago (a cura di),
Etnometodologia, Bologna .
. Ivi, p. .
. Ivi, p. .
. Ivi, p. .
. Non si può non ricordare la sua opera imprescindibile, Tristi tropici (), Milano .
. Cfr. Leach, Comunicazione non verbale, cit. e Id., Nuove vie dell’antropologia (), Mi-
lano .
. Cfr., ad esempio, C. Geertz, Antropologia e filosofia (), Bologna , pp. -.
. C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, Milano , p. .
. Ivi, p. .
. Ivi, p. .
. L. Althusser, Umanesimo e stalinismo (), Bari . Sulla figura di Louis Althusser,
cfr. S. Lazarus (a cura di), Politique et philosophie dans l’oeuvre de Louis Althusser, Paris .
. Da questo punto di vista è del tutto interessante notare come non pochi allievi di strut-
turalisti, quali Althusser, Lacan e Lévi-Strauss, si siano ritrovati protagonisti del Sessantotto fran-
cese. Cfr. N. Michel, Ô jeunesse! Ô vieillesse! Le mai mao, Paris .
. Milner, Le périple, cit., p. .
. Strutturalisti maggiori come Althusser, Foucault e Lacan fecero dell’“umanismo” uno dei
loro più costanti bersagli polemici. Cfr. A. Badiou, L’etica. Saggio sulla coscienza del Male (),
Parma .
. Tra gli altri, cfr. A. Schmidt, La negazione della storia. Strutturalismo e marxismo in Althus-
ser e Lévi-Strauss (), Padova .
. E. Leach, Due saggi sulla rappresentazione simbolica del tempo (), in Id., Nuove vie del-
l’antropologia, Milano .
. Cfr. di questo autore il cap. La Natura non esiste, in L’essere e l’evento, cit.
. P. Krugman, La deriva americana, Roma-Bari , p. .
. Cfr. il testo del Parole, enunciati e attività, in Giglioli, Dal Lago (a cura di), Etno-
metodologia, cit.
. E. Sapir, Il linguaggio. Introduzione alla linguistica (), Torino .
. B. L. Whorf, Linguaggio, pensiero e realtà (), Torino , p. .
. Ivi, cfr. l’introduzione di A. Mioni, Presenza e attualità di Whorf nella linguistica.
. B. L. Whorf, Scienza e linguistica, in Id., Linguaggio, pensiero e realtà, cit., p. .
. In Whorf non è estranea la prospettiva di una nuova visione cosmologica integrale. Nel-
la già citata conferenza e che avviene presso la società di teosofia per cui simpatizza egli parla di
un nuovo avanzamento che lo “spirito scientifico come totalità” è chiamato a fare, ma subito ag-
giunge che esso comporta «un completo allontanamento dalle tradizioni». E a tal scopo uno dei
passi più importanti che la scienza occidentale deve compiere per lui sta nel «riesame del retro-
terra linguistico del suo pensiero», ivi, p. .
. Che il confronto tra diversità sia una via obbligata è ribadito spesso da Whorf in affer-
mazioni come la seguente: le «strutture (del pensiero) sono complesse sistemazioni non percepi-
te del suo proprio linguaggio, che vengono prontamente in luce rilevabili con un confronto con
altre lingue», ivi, p. .
VA L E R I O R O M I T E L L I
. Cfr. il paragone dell’impostazione di Whorf con quella del contemporaneo Lévy-Bruhl
proposta da Barnard, Storia del pensiero antropologico, cit.
. Non per nulla uno dei suoi testi maggiori si intitola proprio Antropologia interpretativa (cit.).
. Cfr. Antimo Negri (a cura di), Novecento filosofico e scientifico, II, Milano .
. L. Hjelmslev, Essais linguistiques, Copenhagen .
. Geertz, Il modo in cui oggi pensiamo, cit.
. Cfr. CAP. , nota .
. Whorf, Linguaggio, pensiero e realtà, cit., p. .
. Considerazioni non troppo distanti, sia pur condotte in termini propriamente filosofici,
le si possono trovare in A. Badiou, Philosophie et poésie, in Conditions, Paris .
. V. Turner, Antropologia della performance (), Bologna, .
. R. Turner, Parole, enunciati e attività, in Giglioli, Dal Lago (a cura di), Etnometodologia, cit.
. In Lazarus, Anthropologie du nom, cit.
. In Antropologia della performance, cit., Victor Turner opera una distinzione tra «proces-
si di regolarizzazione» e «processi di aggiustamento situazionale» (pp. -), la quale, sia pur al-
la lontana, può essere accostabile alla nostra distinzione tra le prescrizioni che hanno il potere di
condizionare il resto della società e quelle che invece non fanno che rendere possibile l’esistenza
sociale di popolazioni senza potere. Inoltre, questo stesso autore insiste sul fatto che il contesto
sociale postmoderno risulta sempre più condizionato dal “fattore indeterminatezza” e dunque ir-
riducibile a ogni processo di regolarizzazione e aggiustamento situazionale, secondo il suo lessi-
co. Il che può anche apparire un autorevole antecedente dell’idea qui esposta che la realtà socia-
le è irriducibile a ogni prescrizione o insieme di prescrizioni, proprio perché ne costituisce l’are-
na e la posta in gioco. Resta comunque almeno un punto in cui le divergenze tra le nostre ipotesi
e quelle di Turner risultano chiare. È quando sostiene l’esigenza postmoderna di una “coscienza
multiprospettica” (p. ). A parte l’uso discutibile della categoria di “postmoderno”, ciò che tro-
vo non condivisibile è proprio la possibilità di pensare e di conoscere la realtà sociale da una pro-
spettiva che, volendosi pluralista, non si dà limiti. Nostra idea è infatti che ogni ricercatore, tro-
vandosi sempre dentro una realtà sociale, non può che studiare le prescrizioni di una popolazio-
ne rispetto alle altre presenti in quella stessa realtà. E ciò tenendo conto del fatto che la prima di-
stinzione da operare è sempre tra le popolazioni che hanno potere sul resto della società e quelle
che non lo hanno.
. Anche se un po’ troppo citato e anche malamente evocato, perché il suo riferimento non
dia adito a confusioni, il famoso “principio di indeterminatezza” del Nobel per la fisica W. Hei-
senberg (Lo sfondo filosofico della fisica moderna [], Palermo ) non può mancare di esse-
re annoverato tra le fonti ispiratrici delle nostre ipotesi.
. U. Eco, Trattato di semiotica generale, Milano .
. P. Fabbri, La svolta semiotica, Roma-Bari .
. Milner, Introduction à la science du language, cit., p. .
. Citato in Id., Le périple, cit., p. .
. R. Barthes, Elementi di semiologia (), Torino .
. Milner, Le périple, cit., p. .
. Giraud, L’inégalité du monde, cit.
. Milner, Le périple, cit., p. .
. G. Debord, La società dello spettacolo (), Bolsena (VT) .
. N. Luhmann, Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale (), Bologna .
. H. Marcuse, Eros e civiltà (), Torino ; Id., Ragione e rivoluzione (), Bologna
; Id., L’uomo a una dimensione (), Torino .
. J. Habermas, Agire comunicativo e logica delle scienze sociali (), Bologna ; Id.,
Prassi politica e teoria critica della società (), Bologna .
. P. F. Lazarsfeld, R. K. Merton, Mezzi di comunicazioni di massa, gusti popolari e azione so-
ciale organizzata, in M. Livolsi (a cura di), Comunicazioni e cultura di massa, Milano .
. È sintomatico che Eco, nel (Semiotica e filosofia del linguaggio, Milano ) tratti,
sia pur non senza ironia, della “morte del segno”.
. RISPOSTE PIÙ RECENTI
Le nostre risposte
Prima di passare alle nostre risposte, faccio il punto, con l’aggiunta di qualche
commento ulteriore a quanto finora sostenuto.
.
Il dualismo delle scienze sociali
La svolta linguistica, quale avviene nelle scienze sociali nel corso del Novecento,
significa che non è più possibile pensare che nella realtà sociale vi siano decisivi
condizionamenti naturali, ma che tutto o quasi dipende da quel che è detto a pro-
posito del sociale: anzitutto da quel che è detto da chi vi ha potere di condizio-
nare la vita altrui. Ora, il fatto è che in questo secolo chi ha avuto tale potere è sta-
to organizzato soprattutto da partiti che si sono presentati essenzialmente nella
forma scritta, dichiarata, discutibile, dei programmi, dei discorsi, delle parole d’or-
dine. Un linguaggio, questo, di cui i partiti sono vissuti, che è stato caratterizzato
dalla promessa secondo la quale prima o poi non sarebbe più esistito un sociale
emarginato e che presto o tardi tutto il sociale sarebbe stato integrato attorno al-
lo stesso modello di umanità: comunista, fascista, ariano o liberaldemocratico, per
non parlare di tutte le altre possibili variazioni e sfumature intermedie.
A partire dall’esplosione del Sessantotto e dal disseminarsi illimitato del po-
tere della parola, i partiti, con tutti i loro programmi e leggi per ridurre la pola-
rità tra governanti e governati, tra ricchi e poveri, tra chi ha potere e chi no, han-
no esaurito il loro ciclo d’esistenza. Tale polarità oggi, dunque, torna fuori più
che mai. Dei modi per nasconderla non mancano. Ad esempio, quello di ritirare
in ballo delle differenze naturali o religiose, come quelle evocate dalle identità co-
munitarie. Ma la natura di fronte alla società è oramai solo ambiente, sfondo di
una scena che è decisa altrimenti: anzitutto da quel che si dice che sia possibile
fare. Ed è quanto mai significativo che, quando l’opinione mediatica tratta d’am-
biente, lo faccia soprattutto in nome di una sua “difesa”: come se si trattasse di
fare il meno possibile, di lasciarlo al suo stato naturale, come se tutti, indipen-
dentemente dai propri status e ruoli, avessero pari responsabilità. Mentre è chia-
ro che lo stato dell’ambiente naturale non è altro che il risultato delle politiche di
VA L E R I O R O M I T E L L I
. LE NOSTRE RISPOSTE
ciologi, antropologi ed etnografi, è apparsa più che mai composta nel Nove-
cento, grazie anche alle diverse promesse partitiche convergenti nel far spera-
re in un mondo in cui le differenze di condizione tra esseri umani si sarebbero
in un modo o in un altro ridotte, se non addirittura estinte. L’attuale venir me-
no di tali promesse richiederebbe però che questo dualismo delle scienze so-
ciali, questo loro oscillare, di fatto, tra popolazioni di governanti e popolazio-
ni di governati, fosse finalmente riconosciuto anche di diritto. Il che per loro
non comporterebbe alcuna scissione metodologica o istituzionale, ma solo del-
le più chiare assunzioni di responsabilità quanto alla politica scientifica perse-
guita, se più in favore dei governanti o più in favore dei governati.
.
Prescrizioni per la ricerca
VA L E R I O R O M I T E L L I
. LE NOSTRE RISPOSTE
VA L E R I O R O M I T E L L I
. LE NOSTRE RISPOSTE
poveri, operai, lavoratori precari o senza lavoro a semplici cifre statistiche. Ma,
d’altra parte, oggi nessuno può pensare seriamente che queste siano delle po-
polazioni in più o meno rapida ascesa sociale o estinzione. Si allargano, allar-
gando sempre più i margini del sociale rispetto ai suoi centri decisionali.
Dunque, l’etnografo che oggi voglia studiare queste popolazioni, dette
marginali, si trova in una posizione assai nuova e singolare. Da un lato, la sua
scelta di ricerca può assomigliare a quella di quei primi etnografi che, contro
l’opinione pubblica del proprio tempo e sfidando ogni sorta di rischi, si av-
venturavano tra capanne sperdute nelle foreste per ergere a grande questione
scientifica il pensiero di semplici “selvaggi”; dall’altro, anziché a remoti e spa-
ruti villaggi, si trova di fronte a immense popolazioni ovunque in crescita, co-
me in crescita sono povertà, lavoro precario e mancanza di assistenza.
Punto di partenza è che tra queste popolazioni di governati comunque si
parla e quindi si pensa. E lo si fa non diversamente da come lo può fare ogni ri-
cercatore non troppo scolastico, non troppo chiuso nella sua presunzione di es-
sere uno scienziato o nella smania di rispettare riti e corpi accademici. Primo
passo da fare è quindi scommettere che tra le parole e il pensiero di chi dalla
ricerca è interpellato e le parole e il pensiero di chi la ricerca la fa ci possa es-
sere incontro. Un incontro come tutti quelli che chiunque può fare, ma con
qualcosa di un po’ speciale. Quel qualcosa che chi fa la ricerca deve riuscire a
metterci, col suo sapere: il fatto che l’incontro non si riduca a semplice scam-
bio di opinioni, a ulteriore mulinello nella circolazione delle comunicazioni. In
effetti, ammettere che un soggetto senza potere possa avere un suo pensiero
non deve far credere che tutto quel che esso dice sia frutto di pensiero. Occor-
re invece ammettere che esso, come chiunque, possa parlare, anche semplice-
mente ripetendo quel che ha sentito dire in giro. Anzi, è chiaro che questo se-
condo caso è sicuramente il più probabile, mentre è più difficile il precedente,
quello in cui si dà del pensiero in modo singolare. La scommessa è che solo in
quest’ultimo, nella sua singolarità, si trovino le tracce di quel che è la realtà so-
ciale per chi è governato. Presentarle come risultato scientifico, nonché come
prescrizione per le politiche sociali è dunque tra i nostri obiettivi ultimi.
Ma la realtà sociale di chi non può deciderne nulla, in generale, è identifi-
cabile solo se viene localizzata. Come il “villaggio” è una delle categorie del-
l’etnografia del “pensiero selvaggio”, così la nostra etnografia del pensiero ha
come prescrizione obbligatoria la localizzazione della realtà sociale. Fabbriche,
centri di assistenza, scuole sono tra i luoghi principali delle nostre inchieste.
Cosa sia o non sia un luogo è a volte problematico. Che un quartiere lo sia è
tutto da valutare. Così come invece un solo reparto di una fabbrica può esser-
lo. L’essenziale è capire se e fino a che punto il luogo è luogo che dà da pensare
a chi ne fa esperienza diretta. Decidere su questo punto è importante, perché
è proprio a proposito di questi luoghi che interpelliamo il pensiero dei sogget-
ti che ne fanno esperienza diretta.
VA L E R I O R O M I T E L L I
Importante è anche conoscere tutto quel che si può sapere a priori di questi
luoghi. Qual è la loro storia, come si situano rispetto al complesso industriale,
educativo, formativo o assistenziale in cui sono inseriti, quel che ne dicono le
cronache, i dirigenti o le opinioni circolanti intorno a essi. Ma tutte queste co-
noscenze da esperti, da raccogliere prima dell’incontro con gli intervistati, non
devono costituire gli argomenti cruciali dell’incontro stesso. Ciò accade, ad
esempio, se interpelliamo i nostri soggetti cercando di capire il grado della loro
coscienza rispetto alle conoscenze che noi già abbiamo. La distinzione tra co-
scienza e pensiero è qui decisiva. Ciò cui puntiamo è stimolare un pensiero, non
verificare delle coscienze. E per stimolare il pensiero occorre supporre che esso
ci possa dire qualcosa del tutto diverso da quel che si può sapere altrimenti, per
quanto scientifico possa essere. Per conoscere la realtà sociale di cui parla un
pensiero, occorre pensarlo, e per pensarlo occorre dargli spazio, lasciare che si
dispieghi in un suo spazio intellettuale. È solo trovando uno spazio intellettuale
proprio degli intervistati, ciò di cui discutono, su cui si confrontano, di cui par-
lano, che si può pensare e conoscere il loro pensiero dall’interno. A tale scopo,
tutte le conoscenze che si possono fare del luogo dell’incontro cogli intervistati,
prima dell’incontro stesso, devono servire solo come preliminari.
Tra i preliminari ci sono anche i contatti coi responsabili del governo del luo-
go, le direzioni. Decisivo è infatti che le interviste si svolgano sul luogo e durante
l’orario di lavoro. Per questo è decisiva anche la collaborazione con le direzioni,
alle quali si può assicurare che dai risultati della ricerca si potranno ricavare pre-
scrizioni utili ad avvicinare il governo del luogo a quanto pensano i governati. Per
campionare il gruppo di soggetti con cui svolgere le interviste, a parte altri detta-
gli più tecnici, il principio solitamente seguito sta nel non cercare di costruire una
media o un tipo ideale di interlocutore, il che supporrebbe una precisa conoscen-
za preliminare di tutta la popolazione interpellata, ma nell’evitare ogni eccesso di
caratteristiche particolari (ad esempio, di sesso, provenienza, età o mansioni). Poi-
ché l’essenziale sta nella riuscita degli incontri, la formulazione del questionario o
della guida per le interviste che avvengono durante tali incontri, è quanto mai de-
licata. Essa deve tenere presente questi limiti, ma varia completamente da luogo a
luogo. Il tipo di domande di cui è composto il questionario è comunque il più
aperto, il più generico possibile, proprio per lasciare la massima libertà di rifles-
sione all’intervistato, al quale peraltro va garantito il più assoluto anonimato. Non
va risparmiato alcuno sforzo, perché metodo e intenti della ricerca siano il più pos-
sibile chiari per tutti quelli che sono da essa interpellati. Gli incontri sono intervi-
ste faccia a faccia tra uno o più intervistatori e un intervistato. Il questionario è lo
stesso per tutte le interviste, ma su ogni risposta l’intervistatore è legittimato a ogni
sorta di rilancio per ottenere risposte più precise. Il magnetofono è sconsigliato,
per il clima da chiacchiera che permette, ma anche perché, registrando tutto, re-
gistra anche gli enunciati che l’intervistato non desidera siano registrati. E contra-
riare un intervistato non giova all’intervista così come la intendiamo. Viene prefe-
. LE NOSTRE RISPOSTE
Note
. Un terremoto devastante come quello di fine nel Sud-Est asiatico dimostra quanto, con-
trariamente all’immagine d’armonia perfetta e rassicurante che ne offre l’attuale opinione ecologi-
sta più scadente, la natura possa sempre essere anche crudelissima “matrigna”, secondo la nota
espressione di Leopardi, il poeta. Giustamente subito ci si chiede come si potrebbero difendere da
simili eventi le società di quei territori costieri, le quali ora sono non solo con popolazioni tragica-
mente falcidiate, ma addirittura strutturalmente disarticolate. Già Machiavelli alla fine del Principe,
prendendo ad esempio le alluvioni, sosteneva che quel che accade agli uomini è attribuibile per metà
alla “fortuna”, su cui niente si può, e per metà alla “virtù”, che dipende tutta dagli uomini. Il che
comporta il non accontentarsi di piangere la sfortuna dell’alluvione, ma il pensare anche a quanto si
poteva fare e non si è fatto per prevenire e contenere gli effetti di tale evento naturale. Ragionamento,
questo, in cui si può notare già una chiara critica contro ogni ricorso a necessità naturali per spie-
gare questioni sociali che invece dipendono anzitutto dalle “virtù” o meno di chi vi ha potere.
. È opportuno segnalare che molte delle indicazioni di metodo che seguono sono indiretta-
mente ispirate a Giraud, L’inégalité du monde, cit., ma anche a M. Foucault, soprattutto ai suoi
testi raccolti da Fontana e Pasquino in Microfisica del potere: interventi politici, Torino .
. Romitelli, Storie di politica e di potere, cit.
. Cfr. G. Agamben, Lo stato d’eccezione. Homo sacer, Torino , sia pur in una direzione
problematica diversa da qui.
. R. D. Putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane, Milano .
Parte seconda
Ricerche
Presentazione
I testi che seguono sono il risultato di inchieste svoltesi in tempi e modi diffe-
renti. Le discussioni e i lavori, che hanno portato alla loro raccolta e presenta-
zione, hanno contribuito alla recente costituzione del Gruppo di ricerca di et-
nografia del pensiero, cui tutti gli autori aderiscono, con la prospettiva di nuo-
vi progetti di indagine.
Pur nella loro relativa disomogeneità, dovuta sia alla diversa formazione
degli autori, sia ai diversi ambiti in cui le inchieste sono nate (alcune si sono
svolte nell’ambito di corsi universitari, altre in quello di tesi di laurea e di dot-
torato), questi lavori condividono esiti convergenti.
Presentiamo le inchieste in ordine cronologico rispetto alla loro realizza-
zione.
Più possibilità di vivere, del , costituisce un primo esperimento di coin-
volgimento di studenti universitari nella fase delle interviste ed è un’inchiesta
condotta tra gli utenti dell’Ufficio immigrati della CGIL di Bologna.
Nel , sempre nell’ambito di un corso universitario, si è svolta l’inchie-
sta Una scuola diversa dalle solite, tra ragazzi di - anni frequentanti il Nuo-
vo obbligo formativo, corsi di formazione professionale organizzati dalla Pro-
vincia di Bologna.
Una fabbrica da rifare – La qualità del lavoro e Anche al lavoro pensare, dire
quello che si pensa sono invece i risultati di inchieste condotte nell’ambito di due
tesi di dottorato presso l’Università di Paris. Sono state effettuate in grandi fab-
briche dell’Emilia-Romagna (la BredaMenarinibus, la Cesab e la Bonfiglioli) tra
i loro operai. Annesso al testo Anche al lavoro pensare, dire quello che si pensa,
col titolo Da operaio a operaio, è il sunto di un intervento tenuto in occasione
della discussione della tesi di dottorato da cui è tratto.
Una benevola forma di egoismo è l’estratto di un’inchiesta svolta per una te-
si di laurea, tra i volontari della Casa dei Risvegli, un’associazione che si occu-
pa dell’assistenza a pazienti in coma o in fase di risveglio.
Il senso della fabbrica, del , è frutto di un’inchiesta condotta per la Pro-
vincia di Ravenna tra gli operai della Marcegaglia S.p.a., una fabbrica assoluta-
mente in controtendenza in Italia: tra le grandi industrie non solo non è in cri-
si, ma è anzi in forte espansione. Qui si indaga la questione dell’immigrazione,
GRUPPO DI RICERCA DI ETNOGRAFIA DEL PENSIERO
per lo più dal sud verso il nord d’Italia. Grande fabbrica e migrazione interna:
temi che rimandano a un passato recente che continua a esistere, ma con nuo-
ve questioni problematiche.
Sarebbe il lavoro del futuro, dello stesso anno, è il risultato di un’inchiesta
condotta, nell’ambito di un corso universitario, tra i lavoratori della cooperati-
va sociale bolognese CADIAI, i quali si occupano di assistenza ad anziani e disa-
bili. I risultati di quest’inchiesta hanno avuto un primo utilizzo in alcune ore di
formazione svolte all’interno della cooperativa.
Tutte le inchieste sono state seguite da V. Romitelli.
Ringraziamo tutti gli intervistati, che volontariamente hanno accettato di partecipare al-
le nostre inchieste. Ringraziamo inoltre: Roberto Morgantini dello sportello per i lavo-
ratori stranieri della CGIL di Bologna; i tutor del NOF, Agnese Maio, Raffaele Rani, Ro-
berto Panzacchi, Gianni De Giuli, Samantha Mongiello; Antonella Migliorini e Sonia
Bianchini, responsabili della formazione per la Provincia di Bologna; tutti i volontari
della Casa dei Risvegli e della Croce rossa italiana; Riduttori Bonfiglioli S.p.a., in parti-
colare il dott. Bonvicini; BT Cesab S.p.a., in particolare il dott. Zanaboni; BredaMena-
rinibus S.p.a., in particolare il dott. Fiorillo; Roberto Bennati (FIOM Emilia-Romagna);
Emilio Pascale (Assindustria Bologna); Marcegaglia S.p.a., in particolare l’ing. Zanga-
glia e Simone D’Andrea, rispettivamente direttore dello stabilimento e responsabile
dell’Ufficio sicurezza all’epoca della ricerca, e Massimo dell’Ufficio sicurezza; Germa-
no Savorani, assessore alle politiche del lavoro e della formazione professionale per la
Provincia di Ravenna; Alberto Alberani, responsabile politiche sociali di Legacoop Bo-
logna; Rita Ghedini, presidente CADIAI; Franca Guglielmetti, responsabile ufficio
marketing CADIAI; Roberto Malaguti del servizio marketing e sviluppo CADIAI. Un par-
ticolare ringraziamento a Gianluca Borghi, assessore alle Politiche Sociali della Regio-
ne Emilia-Romagna, per il sostegno dato alle nostre ricerche.
Un grazie per la loro collaborazione al testo a Davide Baroncini, Brigitte Luggin,
Samuele Paganoni.
Più possibilità di vivere*
di Valerio Romitelli
La didattica, un’esperienza sul campo
Sul piano didattico occorre subito dire che, trattandosi di un corso di Metodo-
logia delle scienze sociali presso il Dams, gli studenti frequentanti non avevano
alcuna dimestichezza particolare con le questioni di tipo sociologico, antropo-
logico o etnologico. In effetti, si tratta di un insegnamento comune, fondamen-
tale, ma in fondo accessorio rispetto alle tematiche di musica, arte e spettacolo
che costituiscono il cuore di questa istituzione universitaria. Inatteso è stato
dunque l’entusiasmo col quale gli studenti hanno accolto la mia proposta di ten-
tare l’esercitazione di una ricerca sul campo, oltretutto su un tema come quello
dei lavoratori stranieri in Italia, che sicuramente ha ben poco di musicale, arti-
stico o spettacolare. Tuttavia, per una volta almeno, la mia scommessa è stata
proprio quella di puntare su una didattica intimamente legata a una ricerca su
un tema d’attualità. È il caso di spiegare alcune ragioni di fondo di tale scelta.
. Perché, nonostante tutto il gran parlare che si fa all’università del legame tra
didattica e ricerca, ben raramente si prova a sperimentare effettivamente questo
* Un’inchiesta sulle parole dei lavoratori stranieri condotta a Bologna da studenti uni-
versitari.
VA L E R I O R O M I T E L L I
Il metodo, la quadruplice dimensione soggettiva
Prendere sul serio le questioni di metodo nelle scienze sociali significa anzitutto
non scambiarle per semplici questioni di tecnica di ricerca. Ovvero non credere
che si tratti solo di mezzi e di misure, ma assumere che si tratta essenzialmente di
questioni di approccio: di come ci si pone di fronte a ciò che si vuole studiare.
La maggiore difficoltà di questo problema sta proprio nel porlo e nel farlo
accettare. Troppa cultura, da quella religiosa a quella marxista, passando anche
attraverso il pragmatismo all’anglosassone, alimenta la credenza che ci sia un
PIÙ POSSIBILITÀ DI VIVERE
unico modo di vedere il mondo. Il “pensiero unico” abita ancora nelle nostre
menti, anche se si presenta in svariati modi, come appunto quelli teologici, clas-
sisti o individualisti. Insegnare la metodologia delle scienze sociali per me si-
gnifica anzitutto prendere le distanze da ogni forma di “pensiero unico”.
Durante il corso, ho quindi particolarmente insistito sulla tesi che i metodi
d’approccio nelle scienze sociali possono essere infiniti, ma che l’essenziale è
deciderne uno, senza peraltro pretendere che sia l’unico e il migliore. E che a
tale scopo conviene distinguere il proprio, almeno da un altro possibile ap-
proccio contiguo.
Abbiamo così esaminato due possibili approcci alla questione dei lavora-
tori stranieri: in esteriorità o in interiorità; da un punto di vista oggettivo o da
un punto di vista soggettivo; in senso quantitativo o in senso qualitativo; in ter-
mini statistici e sociologici o in termini antropologici ed etnografici; osservan-
doli a distanza, come un determinato insieme di popolazione, o andando tra lo-
ro, per incontrare direttamente qualcuno di essi.
Il primo tipo di approccio è sicuramente obbligatorio per fornire delle co-
noscenze necessarie a funzionari di Stato, di partito, di sindacati o di qualun-
que altra istituzione che abbia il potere di condizionare l’esistenza di questi la-
voratori, come di qualsiasi altro soggetto senza potere. Ma come tutti i metodi
d’approccio, anche questo ha i suoi limiti: non offre alcuna conoscenza appro-
priata di quel che soggetti simili pensano e dei modi in cui rendono possibile
la loro vita. Conoscenza, questa, comunque degna di interesse, a meno di non
credere che ogni sapere conti solo se direttamente al servizio della gestione di
qualche potere. Il nome di Lévi-Strauss e le sue memorabili ricerche sul “pen-
siero selvaggio” sono stati qui citati a dimostrazione del fatto che nell’antropo-
logia, come nell’etnologia, ha trovato spazio questo tipo di conoscenza senza
alcuna diretta utilità per la gestione di poteri esistenti.
È quest’ultimo l’approccio che è stato assunto per la nostra ricerca, senza
peraltro pretendere che esso fosse sostitutivo dell’altro approccio oggettivo,
quantitativo, statistico, sociologico, in esteriorità. Non si è infatti trascurato di
passare in rassegna alcuni dei risultati più significativi apportati dalle maggiori
ricerche condotte in tal senso: il VII rapporto Caritas e il Primo e Secondo rap-
porto sull’integrazione dell’immigrazione, alcuni dei più importanti documen-
ti della Commissione della UE, i testi della legge Bossi-Fini, il libro bianco di
Biagi e Maroni.
Per configurare in modo operativo l’approccio della nostra ricerca, mi
sono avvalso degli insegnamenti desunti dalla singolarissima, pionieristica e
poco nota opera di Sylvain Lazarus. La sua antropologia, secondo una clas-
sica distinzione, può anche dirsi orientata in un senso radicalmente qualita-
tivo. Ma non vi è alcuna parentela con approcci come l’“osservazione parte-
cipante” o l’“interazionismo simbolico”. Si tratta di una problematica del
tutto sui generis.
VA L E R I O R O M I T E L L I
PIÙ POSSIBILITÀ DI VIVERE
Primo punto operativo per la nostra ricerca è stato quindi fissare una serie
di parole problematiche attorno alle quali configurare un questionario, che per-
mettesse di mantenere un minimo comun denominatore alla serie di interviste
con lavoratori stranieri condotte dagli studenti. “Immigrato”, “politica d’im-
migrazione”, “lavoro”, “diritti”, “paese” sono state alcune delle parole proble-
matiche che sono parse tra le più indicate a costituire il questionario.
Che diritti per i lavoratori stranieri? è stato il titolo generale assegnato alla
ricerca. Pur rendendoci conto della vastità di tale questione, del tutto spro-
porzionata rispetto alla limitata esercitazione di inchiesta con cui l’avremmo af-
frontata, si è deciso di mantenere questo titolo. Ciò in quanto esso permetteva
di offrire un orientamento generale, un orizzonte all’insieme delle interviste.
“Straniero” infatti significa comunque una differenza ben chiara, quantomeno
sul piano giuridico, rispetto a “cittadino”; e il nostro primo obiettivo era co-
noscere cosa i diretti interessati di questa differenza dicevano e pensavano. Te-
nendo nella massima considerazione i gradi più elevati di questa differenza:
quelli costituiti dai “senza documenti”, che l’opinione pubblica autoctona
troppo spesso ed equivocamente equipara a “clandestini”, “irregolari” o “ille-
gali”, mentre vengono di fatto legittimati dalla prevista e pur sempre insuffi-
ciente misura delle “sanatorie”.
VA L E R I O R O M I T E L L I
Ma non è finita. Le risposte di una o più interviste non sono che un materia-
le grezzo. Esibite in quanto tali non servono a nessuna inchiesta. Esse devo-
no essere scomposte e ricomposte per un rapporto finale dell’inchiesta. Se
nella/e intervista/e il ricercatore ha a che fare con singoli intervistati, quando
si tratta di fare un rapporto d’inchiesta che tenga conto dell’insieme delle in-
terviste, occorre dar la parola alle soggettività ritenute a diverso titolo più si-
gnificative. Ma questa significatività è chi fa il rapporto a configurarla, è lui a
doversene assumere la responsabilità. È sbagliato credere che il rapporto
d’inchiesta debba esprimere semplicemente, il più oggettivamente possibile,
quel che gli intervistati hanno detto. In questo tipo di ricerca si deve sempre
tenere presente che l’oggettività non è mai decisiva. Bisogna rendersi conto
che quando si fa il rapporto d’inchiesta entra in gioco una terza dimensione
soggettiva, rispetto alle due precedenti dell’intervistato e dell’intervistatore.
Tant’è che può accadere che lo stesso ricercatore sia un ottimo intervistato-
re, ma un pessimo relatore o viceversa. Il problema resta rispettare le diffe-
renti dimensioni soggettive: evitare che facendo il rapporto d’inchiesta si fi-
nisca per forzare e/o trascurare le parole risultate dalle interviste. Il rischio è
notevole, poiché il rapporto non può non presentarsi in una forma discorsi-
va più o meno logica, dialettica e comunicativa, mentre il suo obiettivo cru-
ciale deve restare quello di presentare la problematizzazione del reale quale
si dà attraverso le parole degli intervistati. Per contenere il rischio di sacrifi-
care tali parole a profitto del discorso che le riporta, non c’è che un modo: ri-
spettare il più rigorosamente possibile alla lettera gli enunciati delle risposte,
fare del rapporto una composizione i cui elementi costitutivi non sono che le
parole degli intervistati. Solo così si può tentare che il risultato finale sia il
PIÙ POSSIBILITÀ DI VIVERE
L’inchiesta, più possibilità di vivere
Venendo ai risultati del lavoro, vanno subito sottolineati, oltre la già menzio-
nata inesperienza degli studenti, i tempi assai stretti entro cui l’inchiesta ha do-
vuto essere prima da me proposta e illustrata, poi preparata assieme a tutti gli
interessati, quindi eseguita e alla fine rielaborata e presentata. Il tutto nell’arco
di tre mesi, tra marzo e maggio, che rappresenta l’effettiva durata di un corso
detto semestrale. Lungi dall’essere una vera e propria inchiesta, non si è mai
VA L E R I O R O M I T E L L I
preteso che fosse niente più che un’esercitazione di inchiesta. Interessante pro-
prio per questo, ma dai risultati cognitivi che possono essere apprezzati solo
come primo passo per ulteriori ricerche.
Per circoscrivere il campione da intervistare, si è preso contatto col Centro
lavoratori stranieri della CGIL di Bologna, coordinato da Roberto Morgantini.
Le interviste si sono svolte cogli utenti dello sportello di questo centro, al mo-
mento in cui vi si rivolgevano per chiedere informazioni. Gli operatori del cen-
tro hanno attivamente e discretamente collaborato per trovare soggetti dispo-
nibili a sottoporsi all’intervista. La maggiore cura quanto al campione è stata ri-
volta non tanto al fatto che esso fosse rappresentativo, quanto al fatto che esso
non fosse sovradeterminato da caratteristiche impreviste. Il risultato in effetti
ci è parso abbastanza soddisfacente. Sufficientemente vario e differenziato. Il
tutto, come richiesto dalla nostra scelta metodologica, stando unicamente e ri-
gorosamente a quanto i nostri intervistati ci hanno dichiarato.
Dopo aver scartato qualche intervista mal riuscita, gli intervistati sono risultati .
Essi si sono presentati prevalentemente come lavoratori in attività: , tra operaie
e operai, badanti, un muratore, un caporeparto, una barista, un giardiniere, un
artigiano, una mediatrice culturale, uno studente-operaio, uno studente-par-
cheggiatore e un artigiano ambulante; inoltre, in cerca di occupazione.
Più svariati sono i loro paesi d’origine: Tunisia, Albania, Ecuador, Colom-
bia, Repubblica Dominicana, Cile, Pakistan, Cuba, Polonia, Sri Lanka, Roma-
nia, Filippine, Bangladesh, Nigeria, con una forte prevalenza marocchina.
In maggioranza maschi (), ma con una consistente componente femmi-
nile (); di età tra i e i anni, tra i e i , e sempre tra i e i .
In hanno detto di abitare con famiglia o familiari (di cui donne e uo-
mini); in con amici (tra cui donne); in soli (sono: una barista cubana di
anni, in Italia da un anno e mezzo; un artigiano tunisino, di anni e da anni
in Italia; uno studente-lavoratore albanese di anni e da sei in Italia; un di-
soccupato marocchino di anni e da anni in Italia; una quarantasettenne po-
lacca, che rientra ogni mesi nel suo paese e che qui alloggia con l’anziana ita-
liana presso la quale lavora); i restanti dichiarano di abitare con un/a convi-
vente, nessuna/o con italiane/i.
Il livello d’istruzione è mediamente assai alto in rapporto all’occupazione
svolta. Tutti vantano titoli di studio superiori alla scuola elementare, e in (una
colf nigeriana di anni, una marocchina disoccupata di e un caporeparto
pakistano di anni) persino una laurea.
Quanto alla durata della loro presenza nel nostro paese, è varia, ma per lo
più non breve: , tra i e i anni; , tra e anni; , oltre anni; , meno
di un anno.
Le interviste, che erano introdotte da un preciso chiarimento quanto alla
natura universitaria dell’inchiesta, sono mediamente durate tra un’ora e un’o-
PIÙ POSSIBILITÀ DI VIVERE
VA L E R I O R O M I T E L L I
paese d’origine, si guadagna da vivere ora con la musica, ora vendendo “cose
indiane”; già passato per la Svizzera e la Germania, pensa di trasferirsi in Au-
stria, «ho amici anche lì», malgrado gli piaccia stare in Italia; vivere così, se-
condo le sue parole, gli «va bene, perché mi sento libero», anche se giudica ma-
le la politica d’immigrazione non solo in Italia, ma anche nel resto dell’Europa.
Il migrare qui, a questo giovane musicista e venditore ambulante, appare
dunque come una vera e propria scelta esistenziale. Ma va ripetuto che si trat-
ta del solo caso tra i nostri intervistati. Per la maggioranza degli altri inter-
vistati l’essere migrante è pensato come una condizione con cui dover comun-
que fare i conti, ma più o meno relativamente transitoria.
Chiarificanti a questo riguardo sono le parole di un operaio marocchino di
anni, residente con moglie e figlia da anni in Italia. Da un lato egli dice:
«dovete pensarci come rondini e farfalle che migrano da un territorio all’altro»; e
inoltre sostiene che «se mi cacciano non c’è problema». Enunciati, questi, che
attestano certo una soggettività particolarmente incline alla mobilità e alla fles-
sibilità. Tuttavia, essi sono compensati da altri di senso opposto. Dall’altro la-
to, lo stesso operaio sconsiglia ai “ragazzi” nelle sue “condizioni” di «venire in
Italia senza documenti», ricordando i momenti più difficili da lui stesso attra-
versati in tale situazione. Da notare che i disagi maggiori citati in proposito so-
no l’impossibilità di trovare casa, che lo costrinse a dormire in macchina. E non
ad esempio il lavoro. Egli rivendica inoltre di far parte di «una seconda genera-
zione di immigrati […] più preparata della prima, che ha lasciato agli italiani una
brutta immagine di sé». La condizione del migrante è quindi alla fin fine pre-
sentata come una condizione dovuta a una scelta soggettiva che richiede una
buona immagine e perciò anche “preparazione”.
Secondo una terminologia circolante tra i social forum, si potrebbe forse
etichettare questo operaio come un’“avanguardia” della “moltitudine in movi-
mento”, che prende coscienza dell’“esodo” mondiale dischiudente la prospet-
tiva di una globalizzazione dal basso antagonista a quella dell’Impero. Ma sa-
rebbe dire non troppo, ma troppo poco sulla singolarità di questa figura. Essa,
assieme alle altre dei nostri intervistati, va studiata, nel nostro approccio, non
per quello che rappresenta o riflette, né per legittimarla, ma per le possibilità
che ci offre di conoscere nuovi e differenti modi di pensare. E, per cogliere que-
sta novità e queste differenze, sicuramente l’ultima cosa da fare è tentare di
comprenderle dentro una visione totale, del mondo, della storia, dell’umanità,
quale quella implicata in categorie onnicomprensive come moltitudine, impe-
ro ecc. Così non si fa che riproporre un’ennesima versione di pensiero unico.
L’interesse dell’inchiesta, così com’è qui intesa, sta proprio nel dar la paro-
la agli intervistati, non nell’attribuire loro un discorso già noto, solo per artico-
larlo ulteriormente.
Ma sarebbe egualmente fare un torto al nostro operaio marocchino, come
agli altri intervistati, cucirgli addosso un’immagine assoggettata, del tutto de-
PIÙ POSSIBILITÀ DI VIVERE
terminata dalle circostanze oggettive, quale quelle che ricorrono in certi sinistri
ritratti giornalistici, ma purtroppo a volte anche “scientifici”, degli “immigrati
disperati”, la cui unica aspirazione dovrebbe essere quella di diventare un bra-
vo “cittadino normale”.
Il nostro operaio ha già un’idea tutta sua della politica. E questa sua idea
non lo predispone certo a sperare molto nella sua eventuale partecipazione da
cittadino alla “vita democratica”. Senza appello è la sua sentenza: «tante paro-
le e pochi fatti: questa è la politica». Ma non si tratta di una semplice espressio-
ne di disinteresse. Si tratta di una conclusione derivata da una precisa espe-
rienza di trattative avuta col Comune di Bologna. Il quale «si mostra disponibi-
le, ma poi non fa niente» (il contenzioso riguarda le condizioni di vita nel cen-
tro di accoglienza di via Stalingrado, dove il nostro operaio abita con la fami-
glia). Ma egli racconta anche della denuncia che ha rivolto a un capo che sul la-
voro è arrivato a prenderlo a calci.
Ecco dunque una figura soggettiva singolare, capace di scelte ben decise,
tanto più di libertà, quanto più deliberatamente prese in una condizione di
estrema precarietà.
Ma anche altri intervistati hanno mostrato simili tratti soggettivi.
VA L E R I O R O M I T E L L I
PIÙ POSSIBILITÀ DI VIVERE
Venendo ora al tema dei diritti, occorre un inciso. È già stato scritto più sopra
della evidente complessità della questione, che comunque non ha scoraggiato la
nostra inchiesta, non solo a inserire nel questionario delle domande su tale te-
ma, ma anche a porlo come titolo generale di tutta la ricerca. Ora pare oppor-
tuno chiarire in che senso e a che titolo abbiamo ritenuto di potere interpellare
a questo proposito i lavoratori stranieri. Essi sono certamente degli inesperti di
diritto sotto un doppio profilo: non solo in termini tecnici come qualsiasi altro
lavoratore, ma anche per il fatto stesso di essere stranieri, e quindi per avere una
dimestichezza nulla o assai limitata con giurisprudenza e leggi del nostro paese.
Nell’approccio che si è più sopra chiamato di tipo “coscienziale”, il compito del-
l’inchiesta a questo proposito è assai chiaro: sondare il livello di coscienza ovve-
ro conoscenza da parte del lavoratore straniero in merito ai diritti esistenti che
gli spettano. Compito chiaro, ma poco proficuo. Poco proficuo a causa dell’in-
contestabile incertezza che regna su tali diritti. E ciò almeno per quattro ordini
di questioni. In primo luogo, per il fatto che i nuovi fenomeni della migrazione
rivelano nuovi limiti alla stessa giurisprudenza dei paesi accoglienti, la quale si
trova così a doversi rinnovare sotto non pochi aspetti. In secondo luogo, per il
fatto che in Italia gli stessi diritti del lavoro sono quanto mai in discussione, una
discussione che, qualunque ne sarà l’esito politico, porterà a considerevoli cam-
biamenti. In terzo luogo, per il fatto che nella disputa sui diritti del lavoro in Ita-
lia non giocano solo le particolarità della situazione politica del nostro paese, ma
anche le grandi modificazioni del lavoro indotte dai processi di globalizzazione
rispetto ai quali ogni giurisprudenza nazionale si ritrova indebolita. In quarto
luogo, per il fatto che tra i tanti ritardi dell’unificazione europea spiccano pro-
prio le questioni dell’armonizzazione, sia dei diritti del lavoro, sia delle politiche
di immigrazione, entrambe ancora assai diverse tra gli Stati membri.
VA L E R I O R O M I T E L L I
PIÙ POSSIBILITÀ DI VIVERE
da di diritti, ma che essa non trova alcuna risposta politica? O, almeno, nessu-
na che essi pensano condivisibile?
Certo è che la politica d’immigrazione in Italia è molto mal giudicata.
In interviste prevalgono giudizi decisamente negativi. «Le leggi italiane
non si capiscono perché cambiano subito»; «lo Stato italiano non fa abbastanza»;
«non fa niente»; «la politica d’immigrazione italiana fa schifo, cambia da regione
a regione»; «la legge non ci aiuta». Questi, alcuni dei tanti pareri negativi che
abbiamo raccolto (rispettivamente da un operaio marocchino di anni, una
badante filippina di anni, un operaio marocchino di anni, un’operaia ma-
rocchina di anni e da un operaio marocchino di anni).
Solo intervistati hanno espresso apprezzamenti del tutto positivi (due
colf, una ventottenne nigeriana e una trentottenne colombiana; e due giovani
con meno di un anno di presenza nel nostro paese, un ambulante ecuadoregno
di anni e uno studente-operaio cinese di ). Mentre una disoccupata della
ristorazione Camst (laureata in lingue, marocchina di anni) è la sola in deci-
sa controtendenza a criticare la politica d’immigrazione italiana perché troppo
permissiva.
Anche l’Italia come paese d’accoglienza non gode di una buona immagine
tra i nostri intervistati. «È difficile vivere in Italia»; «il permesso di soggiorno do-
vrebbe equiparare i diritti di un cittadino non comunitario a quelli di un cittadi-
no italiano, ma nella realtà non è così»; «gli italiani devono conoscere i problemi
degli extracomunitari e non generalizzare senza cercare di capire»; «mi sento ma-
le, sono ignoranti gli italiani»; «c’è molta ignoranza in Italia». Questi i giudizi ri-
spettivamente di un operaio marocchino di anni, uno studente lavoratore al-
banese di anni, un’operaia marocchina di anni, un operaio tunisino di
anni e un’operaia nigeriana di anni.
Tra la maggioranza degli intervistati che criticano l’Italia e la sua politica
d’immigrazione, in citano come esempio più positivo la Francia o altri paesi
europei. «In Francia – dice ad esempio un operaio marocchino di anni – la
situazione è molto diversa. Sono abituati ad avere immigrati di altri paesi». Un
altro operaio marocchino di anni è ancora più netto: «in Francia ci sono più
di milioni di immigrati e stanno bene».
Si tratta, in tutti i casi (tranne quello di una badante rumena di anni), di
lavoratori il cui paese d’origine (Marocco, Algeria, Tunisia, Senegal) conosce
una tradizionale immigrazione verso la Francia. È quindi presumibile che tali
giudizi si basino su informazioni provenienti da parenti o amici.
In ogni caso, è chiaro che si tratta di comparazioni oggettivamente del tut-
to discutibili. Ma ciò non toglie, anzi avvalora, il loro significato soggettivo. Si-
gnificato che sta nell’ulteriore e più profonda conferma del fatto emerso fin dal-
la prima intervista commentata: che i lavoratori stranieri in Italia si pensano
particolarmente esposti all’arbitrio di autorità e istituzioni, che appaiono estre-
mamente imprevedibili, ora umilianti ora permissive, comunque, si può ag-
VA L E R I O R O M I T E L L I
PIÙ POSSIBILITÀ DI VIVERE
Immigrazione zero, un fallimento politico
VA L E R I O R O M I T E L L I
Note
. Roma .
. Della Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati e a cura di G. Zinco-
ne, editi a Bologna nel e .
. Nel corso, Brigitte Luggin, che lavora al Parlamento europeo, ha tenuto una relazione su
questi argomenti.
. Franca Tarozzi dell’associazione “Trame di terra” di Imola e Davide Baroncini della CGIL
sempre di Imola hanno tenuto delle relazioni a questo riguardo.
. Lazarus, Anthropologie du nom, cit.; Id., Anthropologie ouvrière et enquêtes d’usine: état
des lieux et problématique, in “Ethnologie française”, XXXI, .
. È un uso tutto mio di una celebre formula dello psicoanalista Jacques Lacan.
. Del resto il risultato cambia ben poco se si converte il discorso della “lotta di classe” in
quello oggi più in voga dell’“antagonismo tra moltitudine e impero”.
. Ad essa ha contribuito in modo decisivo Marta Alaimo.
. Oltre che il testo di riferimento obbligatorio (Hardt, Negri, Impero, cit.), a questo riguar-
do vanno sicuramente citati; S. Mezzadra, Diritto di fuga, Verona e il periodico “Posse. Fi-
losofia, politica, moltitudini”, /, .
. G. Zincone (a cura di), Secondo rapporto sull’integrazione degli immigrati in Italia, Il Mu-
lino, Bologna , p. .
. Ivi, p. .
. Commissione dell’UE, Comunicazione al Consiglio e al Parlamento europeo su una politica
comunitaria in materia di immigrazione, Bruxelles, novembre , COM (), .
Una scuola diversa dalle solite*
di Marta Alaimo e Valerio Romitelli
Ipotesi e problemi
Come nel avevamo condotto un’inchiesta sui fruitori dello sportello per la-
voratori stranieri della CGIL Bologna col concorso di studentesse e studenti che
frequentano il corso di Metodologia delle scienze sociali per la Facoltà di Let-
tere e Filosofia, quest’anno, avvalendoci anche del contributo di studentesse e
studenti di Lingue e Letterature straniere, abbiamo svolto un’inchiesta sulle ra-
gazze e i ragazzi che frequentano i corsi del NOF (Nuovo obbligo formativo).
Nel tentare di far sì che gli studenti universitari assumessero il metodo d’in-
chiesta da noi proposto, abbiamo incontrato un ostacolo maggiore. Per lo più
essi, infatti, spontaneamente erano portati a equivocare il nostro approccio. Per
diradare gli equivoci è stato quanto mai utile distinguere “pensiero” e “co-
scienza”, insistendo sul fatto che al centro della nostra ricerca è ciò che pensa
la gente, non ciò di cui ha coscienza. La questione può sembrare astratta, ma
ha delle conseguenze del tutto concrete, tanto nella conduzione delle intervi-
ste, quanto nella lettura dei suoi risultati, nonché nel momento in cui si tratta
di trarre le conclusioni di tutta l’inchiesta. In effetti, se la ricerca è impostata
secondo l’approccio che si può chiamare coscienziale, il ricercatore deve sup-
porre di sapere in partenza quale sia l’oggetto su cui misurare la coscienza de-
gli intervistati. Tale oggetto può essere costituito dai principi democratici, dai
diritti, da questo o quel tema culturale o dalla conflittualità sociale. E gli inter-
vistati possono essere interpellati per conoscere quale sia il loro livello di co-
scienza democratica, di coscienza dei diritti, di coscienza culturale o di co-
scienza della conflittualità sociale. Ma la sostanza non cambia: il ricercatore in
questo modo si pone comunque, anche al di là delle sue intenzioni, in una po-
sizione di superiorità. In effetti, coscienza vuol dire etimologicamente “con
scienza”: interrogare qualcuno per la coscienza che ha di questo o quel tema,
significa sempre giudicarlo per quel che sa.
* Inchiesta sul NOF condotta assieme a studenti della Facoltà di Lettere e Filosofia e Lingue
e Letterature straniere dell’Università di Bologna.
M A R TA A L A I M O , VA L E R I O R O M I T E L L I
Nel nostro metodo invece è del tutto decisivo indagare il pensiero, come
dice Geertz, «là dove lo si trova»; aggiungiamo noi: così come lo si trova, os-
sia nei diversi modi e forme in cui presenta, senza prevedere a priori il primato
di alcuna forma o contenuto della coscienza. E per far ciò è necessario porsi
sullo stesso piano dei soggetti che interpelliamo, nonché escludere qualsivoglia
oggettività su cui misurare la capacità a pensare. Il che ovviamente non esclu-
de la conoscenza di vincoli sociali oggettivi. Ma essi sono da conoscere solo per
individuare la singolarità del luogo su cui la ricerca viene condotta. Mentre il
focus della ricerca deve sempre attenersi solo all’incontro tra le due diverse sog-
gettività, quella di chi fa inchiesta e quella di coloro tra i quali l’inchiesta è con-
dotta, senza mai confonderle, scambiarle o sovrapporle. Un incontro che non
deve essere condizionato da altro se non dall’obiettivo del ricercatore di cono-
scere una realtà sociale così come viene soggettivamente pensata da chi ne ha
esperienza diretta.
Così dunque ci siamo sforzati di impostare gli incontri tra i nostri studenti
universitari e le ragazze e i ragazzi del NOF. Ragazze/i tra i e anni, che nel-
l’insieme, sia per esperienze di vita, sia per percorsi scolastici quantomeno ac-
cidentati, sicuramente risultano assai deboli rispetto a qualsiasi supposto livel-
lo di coscienza civica, culturale o conflittuale. Che il problema centrale della
nostra ricerca non fosse constatare forme e gradi di questa debolezza, né tan-
tomeno come porvi rimedio: questo, come detto, è stato l’osso più duro da far
digerire ai nostri studenti universitari. La loro maggiore difficoltà è stata infat-
ti proprio nell’interpellare le ragazze e i ragazzi del NOF, anzitutto per pensare
quello che essi pensavano. Ma dopo aver subito parecchi e severi richiami, qua-
li ad esempio: «In realtà loro, nelle interviste, stanno dimostrando di pensare
molto più di voi!», anche i ricercatori in erba del nostro corso hanno per lo più
apprezzato il metodo loro proposto.
Il NOF, questo sconosciuto
A noi, che non siamo esperti di istruzione o formazione, il NOF è apparso come
realtà quasi sconosciuta, incontrata casualmente, alla ricerca come eravamo di
un nuovo campo di indagine per far esercitare gli studenti del corso di Meto-
dologia delle scienze sociali. Comunque si tratta di una struttura generalmen-
te poco nota perché assolutamente nuova e attiva di fatto solo in Emilia-Ro-
magna, anche se il Nuovo obbligo formativo corrisponde a una normativa na-
zionale introdotta nel . Conoscendola più da vicino, grazie soprattutto al-
la fruttuosa collaborazione di coordinatori e tutor, ci siamo resi conto della sua
complessità.
In poche parole, sono corsi finanziati con fondi sociali europei per giovani
tra i quindici e i diciotto anni d’età che abbiano frequentato le scuole almeno
UNA SCUOLA DIVERSA DALLE SOLITE
per nove anni. L’amministrazione di questi fondi è delegata dalla Regione alla
Provincia, la quale accoglie e seleziona dei progetti di percorsi formativi che
poi vengono affidati a enti gestori. Tali percorsi sono normalmente della dura-
ta di / ore nell’arco di due anni. Una quota di ore in aula e in labora-
torio, con lezioni tenute da esperti incaricati di funzione docente, viene affian-
cata da una quota di ore di stage presso qualche azienda. Il tutto organizzato
da un coordinatore e gestito dalla figura del tutor, che segue l’insieme del per-
corso, oltre a tenere lezioni di orientamento sul tipo di professione cui si è av-
viati. L’obiettivo di chi si iscrive è infatti il raggiungimento di una qualifica pro-
fessionale e/o della certificazione di competenze. Per essere ammessi ai corsi,
nella fase d’iscrizione è previsto un colloquio informativo e orientativo.
Il NOF dunque non è propriamente una “scuola”, come di solito la si inten-
de, ma non è neanche semplicemente apprendistato: come la prima è gratuita e
rilascia qualifiche, come il secondo è un canale di formazione on the job. Inten-
to dichiarato è facilitare la transizione dei giovani dalle sedi scolastiche a quelle
lavorative, ossia di colmare quel vuoto che c’è tra il lavoro dopo la scuola del-
l’obbligo e la prosecuzione degli studi secondo un percorso più canonico come
liceo o scuola superiore e poi eventualmente università. Tutto l’insieme comun-
que concepito nel contesto del decentramento delle politiche di formazione e
impiego a enti locali più radicati nel territorio e più vicini alle imprese autocto-
ne. E in effetti nei percorsi NOF le imprese sono direttamente interpellate come
soggetti attivi nel rendere possibile per i ragazzi l’esperienza dello stage.
Una realtà complessa, dunque, nuova e singolare. Come sempre di fronte
a simili realtà, le prime tentazioni sono proprio di negarne l’originalità. Così è
stato anche nel nostro corso universitario, dove i partecipanti all’inchiesta, fin
dai suoi inizi, hanno accanitamente discusso sul giudizio d’insieme da dare al-
lo stesso NOF. I voti più negativi sono venuti da due parti: l’una sicuramente più
incline a discorsi di tipo sindacale e ispirata alla coscienza della conflittualità
sociale, l’altra più improntata a un linguaggio classicamente pedagogico. Nel
primo caso la critica principale rivolta al luogo su cui abbiamo fatto inchiesta
è stata radicale: lo si è infatti accusato di essere poco più che apprendistato non
pagato, ossia un regalo di giovane mano d’opera gratuita fatto dagli enti locali
alle imprese, le quali invece agli apprendisti propriamente detti devono co-
munque corrispondere una retribuzione. Da questo punto di vista i corsi di for-
mazione che nel NOF accompagnano gli stage sarebbero poco più che una co-
pertura al limite dell’ipocrisia, in considerazione anche del fatto che lo stesso
apprendistato retribuito contempla dei corsi di formazione. Nel secondo caso,
invece, più che di critiche, si è trattato di insistenti dubbi sulla capacità dello
stesso NOF a dare quell’istruzione polivalente e in termini di cultura generale
necessaria per degli adolescenti non ancora diciottenni. Come ben si vede, al
di là dei modi in cui sono stati presentati, si tratta di due ordini di problemi del
tutto o in parte non fittizi.
M A R TA A L A I M O , VA L E R I O R O M I T E L L I
Tuttavia, non sono stati questi a essere posti al centro della nostra inchie-
sta, la quale invece, come abbiamo sempre insistito a chiarire, ha riguardato i
modi in cui ragazze e ragazzi frequentanti il NOF ne parlano e cosa ne pensano.
Così, senza tacitare i dubbi e le critiche su questo luogo in quanto tale, abbia-
mo spinto i nostri ricercatori in erba a mettere alla prova i loro dubbi e le loro
critiche, confrontandoli con le parole e i pensieri di chi di questo luogo fa espe-
rienza diretta.
Chi, dove e come
I corsi su cui abbiamo condotto la nostra ricerca sono per meccanici, parruc-
chieri, aiuto acconciatori, estetiste, ciascuno frequentato da - allievi. Il primo,
di durata biennale, è gestito dalla Fondazione Aldini-Valeriani, presso l’Istituto
professionale Aldini-Valeriani di Bologna, e prevede la formazione a commercio,
manutenzione e riparazione di autoveicoli e motocicli, per un totale di . ore,
di cui di stage/tirocinio. I moduli didattici affrontati nel percorso sono Mec-
canica ed elettronica dei motori ( ore), Informatica ( ore), Inglese ( ore),
infine ore tra Comunicazione, Diritto del lavoro, Simulazione aziendale, Am-
biente e sicurezza e Ricerca attiva del lavoro. Gli altri percorsi di formazione ge-
stiti dall’ECIPAR di Bologna invece sono rispettivamente di . ore circa per par-
rucchieri ed estetiste (di cui di stage) e di ore (di cui di stage) per
quello di aiuto acconciatori. In particolare il percorso per estetiste, dove abbia-
mo avuto l’opportunità di condurre il maggior numero di interviste, contempla
materie come Anatomia, Chimica, Comunicazione, Lingua inglese, Informatica
e Diritto, con particolare attenzione al Diritto del lavoro.
In tutti questi corsi gli insegnanti, sia di pratica che di teoria, sono sele-
zionati liberamente e senza vincoli di graduatorie dall’ente gestore. Si tratta
di solito non semplicemente di insegnanti, ma di persone che già lavorano in
questi settori.
Quanto all’utente medio di questi corsi, in particolare i tutor degli aspiranti
meccanici, prima che iniziassimo le nostre interviste ce ne hanno dato un ri-
tratto pieno d’ombre: ragazzi rifiutati o ritiratisi dalla scuola, spesso con note-
voli difficoltà anche nella vita privata, che preferirebbero lavorare, ma, doven-
do assolvere l’obbligo formativo, vi si ritrovano senza esserne troppo convinti.
Cosicché, almeno buona parte del primo anno i tutor ci hanno raccontato di
averla passata anzitutto a convincere con ogni mezzo i ragazzi delle loro stesse
capacità di apprendimento.
Per appassionare al corso di inglese, ad esempio, si è ricorsi alla realizza-
zione in lingua di un cortometraggio di cui tutti, studenti e tutor, erano autori
e attori. Una volta redatto ogni singolo episodio, alla lezione successiva ciascu-
no recitava la propria parte. Questa originale soluzione è stata pensata e rea-
UNA SCUOLA DIVERSA DALLE SOLITE
lizzata dopo che la docente d’inglese si era ritirata, rinunciando all’incarico, del
tutto esaurita dalle resistenze non solo verbali incontrate in aula.
Solo un esempio, questo, di quanto può accadere al NOF, delle difficoltà di
questo luogo, ma anche delle possibilità inventive sicuramente tra le più ampie
godute da qualsiasi scuola.
Per quanto riguarda le ragazze, aspiranti estetiste, parrucchiere e aiuto ac-
conciatrici, ci è stato raccontato di alcuni loro gravi disagi familiari, dei loro fre-
quenti pregiudizi nei confronti di stranieri o, per converso, delle difficoltà per
le poche straniere di avere rapporti con le italiane, della spregiudicatezza con
cui molte hanno rapporti sessuali, con tutte le conseguenze del caso. Una tutor
ci ha detto di essersi dovuta più volte e in più casi recare a casa di alcune alun-
ne, che per vari motivi non volevano più frequentare la scuola, spingendole e
riuscendo infine a fare loro terminare il corso.
Fin dai primi nostri approcci alla realtà del NOF, ci è apparsa evidente la
centralità della figura del tutor, fondamentale non solo per gestire il rapporto
tra aula e laboratorio e tra questi e l’impresa dove avviene lo stage, ma per tut-
ta l’esperienza soggettiva che compie chi frequenta questi corsi.
Dopo questi primi approcci esteriori al tema centrale della nostra in-
chiesta, abbiamo proceduto alla stesura del questionario seguendo alcuni
modelli, adattandoli alle nostre esigenze, discutendone approfonditamente
cogli studenti universitari e consultandoci continuamente con i tutor. Le do-
mande erano trentuno, divise in tre gruppi. Il primo di carattere più gene-
rale, con informazioni biografiche, pur nell’assoluto rispetto dell’anonima-
to. Il secondo incentrato sul NOF: come i suoi frequentanti hanno saputo del-
l’esistenza di questa scuola, quanto sono soddisfatti della scelta compiuta, i
problemi e le incomprensioni, le aspettative deluse. Il terzo gruppo riguar-
dava invece la loro vita al di fuori del corso di formazione, le loro esperien-
ze personali.
Abbiamo incontrato le ragazze e i ragazzi nelle loro scuole in giorni pre-
stabiliti, in modo da non intralciare le loro attività didattiche e da lasciare il tem-
po ai tutor di spiegare di cosa si trattasse.
Gli incontri, una settantina, alla fin fine sono andati molto meglio del pre-
visto. Sono durati all’incirca un’ora, ma a volte anche di meno.
Le ragazze e i ragazzi del NOF si sono rivelati assai più interessanti e dalle
personalità complesse. Con alcuni di loro si è instaurata una buona intesa, che
ha permesso interviste piuttosto ricche.
Quanto alle studentesse e agli studenti universitari, nella maggior parte,
hanno dimostrato di appassionarsi a questa prima loro esperienza di intervi-
statori, fino a contendersi le ragazze e i ragazzi da intervistare.
Durante il corso di Metodologia delle scienze sociali, si sono in seguito te-
nute delle relazioni a commento dei risultati ottenuti dalle interviste, con di-
scussioni molto intense.
M A R TA A L A I M O , VA L E R I O R O M I T E L L I
Infine, in due occasioni, tra la fine di maggio e l’inizio di giugno sono
state tenute due sedute seminariali, prima alla Fondazione Aldini-Valeriani, poi
presso la sede dell’ECIPAR dove docenti, ricercatori, studentesse e studenti uni-
versitari, coordinatori, tutor e responsabili NOF hanno potuto discutere dei ri-
sultati di tutti i lavori dell’inchiesta.
I prossimi paragrafi ne daranno un’ultima sintesi.
A proposito dell’intervista, della provenienza e del lavoro
Ci piace cominciare con uno dei risultati che più ci hanno gratificato. Esso è
venuto dalle risposte all’ultima domanda di tutto il questionario, relativa al gra-
dimento dell’intervista: su circa una settantina di intervistati, se in dodici dico-
no che non serve a niente o solo ai ricercatori e otto circa non capiscono a co-
sa serve o non rispondono, i restanti quarantasei si dimostrano entusiasti. Que-
sti alcuni dei commenti più positivi: «Bellissimo non volevo più smettere»; «È
stata grande»; «Bella, sono delle domande belle, mi piace essere ascoltata e le do-
mande erano buone»; «È carina ’sta cosa delle domande, mai nessuno mi fa tut-
te queste domande! Fa bene qualche volta»; «Mi piace, mi sento importante»; «È
stata bella anche se è durata troppo poco».
In particolare, un’aspirante estetista di quindici anni dice: «Molto interes-
sante, è servita anche per sfogarmi. Ho detto cose che anche con le compagne non
ci diciamo». Enunciato che mette in luce l’interessante problema dei rapporti
tra compagne e compagni di classe su cui ci soffermeremo più avanti.
Altre risposte molto incoraggianti per la nostra ricerca sono le seguenti: «È
un buon metodo per capire e chiedere com’è il nostro corso»; «Spero che il risul-
tato di questa intervista venga trasmesso ad altri ragazzi».
Un meccanico, che in altre risposte non sembra soddisfatto della scelta del
NOF dice: «Serve a conoscere i ragazzi di questa scuola, a capire cosa vogliono dal-
la vita».
Ma la risposta più interessante e su cui avremo modo di tornare è quella di
una ragazza di sedici anni: «Penso che serva a qualcosa, per capire come sono fat-
ta io, per capire la gente che avete nel corso. Sicuramente è utile per raccogliere
opinioni diverse, vedere come va questo corso, perché se abbiamo delle buone idee
adesso, il corso può andare avanti anche in futuro».
Ma vediamo ora un po’ di dati quantitativi, che per comodità a volte sa-
ranno esposti in percentuali, anche se la limitatezza del campione li rende un
po’ artificiosi.
Abbiamo condotto settantuno interviste, incontrando ventidue meccanici,
tutti di sesso maschile, trentaquattro estetiste, tutte di sesso femminile e quindi-
ci, tra parrucchieri e aiuti acconciatori, di cui solo due maschi e il restante fem-
mine. Oltre alla distinzione del percorso scelto, si è verificata un’evidente divi-
UNA SCUOLA DIVERSA DALLE SOLITE
M A R TA A L A I M O , VA L E R I O R O M I T E L L I
UNA SCUOLA DIVERSA DALLE SOLITE
Per molte ragazze il NOF è il mezzo per raggiungere un sogno, a volte di-
chiaratamente infantile: «È stato sempre il mio sogno, mi piace fare la truccatri-
ce… era una decisione che avevo dentro di me»; «Mi sentivo pronta. Mi è sempre
piaciuto. È realizzare il mio sogno, diventare estetista»; «L’idea di fare la parruc-
chiera mi piaceva fin da piccola».
Meno convinte di queste sono le risposte dei ragazzi a proposito del loro
futuro lavoro. Anche se non manca la passione per gli scooter. Uno di loro, pe-
raltro reticente su molti argomenti, su questo non ha dubbi: «Per essere un buon
meccanico conta la passione!».
Ma sicuramente qui la decisone del percorso formativo è più incerta di
quella riscontrata tra le ragazze. Le opzioni per altri corsi NOF o per altre pro-
spettive di lavoro tra questi ragazzi sembrano restare più spesso aperte: «Ad an-
dare a lavorare, sarei stato forse più contento, sicuramente anche in fabbrica. Mi
accontento»; «Avrei voluto fare termotecnica, se non avessi passato il test, avrei
fatto quella. Sono sempre dei lavori dove si guadagna bene»; «Inizialmente avrei
voluto fare proprio questo corso. Ora sto pensando di fare un altro NOF, ma è so-
lo un pensiero».
C’è anche chi già rimpiange una ben altra strada: «Avrei voluto fare il pilo-
ta di moto».
Comunque, ancora più fantasiose sulle loro scelte di vita alternative alle attuali
sono le ragazze dei tre altri corsi: «All’inizio volevo fare l’hostess, perché mi pia-
ceva volare, e mi piace ancora adesso, ma mio padre mi ha detto che sono troppo
bassa e mi ha tolto la voglia»; «Informatica»; «L’architetto»; «Avrei voluto fare la
scuola di volo, ma non ho avuto occasione»; «Mi sarebbe piaciuto esser tanto ricca
da non dover lavorare»; «Avrei voluto fare l’insegnante di danza»; «Il mio sogno
nel cassetto? Bello, bellissimo però impossibile, il mio sogno è quello di fare il chi-
rurgo plastico, è il mio sogno irrealizzabile»; «Prima di venire qui avrei voluto fa-
re il turistico (lingue), ma mi piace anche l’estetista, anche se all’inizio lo reputavo
un bel lavoro, ma che non faceva per me»; «Il mio sogno è fare l’hostess, ma ho
una cugina che fa l’estetista e mi piace fare i massaggi».
Non manca chi voleva continuare la scuola: «Sicuramente l’intenzione era
quella di finire i precedenti studi, ma ho avuto delle difficoltà e ho scelto il NOF».
Tra i ragazzi sono più ricorrenti dei calcoli ben precisi sul valore di un per-
corso formativo piuttosto che un altro.
Per uno di essi «la qualifica che ti danno qui vale meno, meglio la quinta del-
le Aldini».
Un altro, con un po’ di rimpianto per il proprio insuccesso, concorda: «I
miei amici, con cui ero alle Aldini, sono stati promossi e stanno andando avanti
lì; secondo me è meglio che vadano avanti là invece che qua. Qui puoi andare a
lavorare solo fino a un certo punto, poi devi essere ingegnere... se hai la qualifica
alle Aldini salti qualche gradino».
M A R TA A L A I M O , VA L E R I O R O M I T E L L I
UNA SCUOLA DIVERSA DALLE SOLITE
Al NOF la teoria è strettamente collegata con la pratica
Un altro dato decisamente positivo della nostra inchiesta sta nel fatto che ra-
gazzi e ragazze da noi intervistati si dimostrano per lo più assai soddisfatti del-
la scelta del percorso formativo in cui sono inseriti: la rifarebbero e la consi-
glierebbero ad altri. Un dato che risalta maggiormente se confrontato coi bi-
lanci prevalentemente negativi che essi danno delle loro precedenti esperienze
scolastiche. Fallimenti di cui a volte non si sentono responsabili: «Mi piaceva la
moda, ma i proff. se ne fregavano. Non mi serviva a niente, ci andavo perché ci
andava la mia amica», ci racconta un’estetista in erba.
Un aspirante meccanico invece rievoca così il suo passato scolastico deci-
samente negativo: «Fino alla terza media ho imparato a leggere e a scrivere… e
a fare l’asino! Fino alla terza media cosa vuoi fare? Gli anni sono lunghi quando
ci sei dentro. Informazioni ne ho avute. Sono io che non mi interesso. Ero tutti i
giorni dal preside. Alla fine, ci ho preso anche il gelato insieme. Non portavo i
compiti, non ci andavo, così alla fine ho perso un anno».
Un altro ragazzo dei corsi alla Fondazione Aldini-Valeriani esprime così la
sua incomprensione per l’insegnamento scolastico tradizionale: «A me cosa mi
interessa di geografia? Se voglio andare in una città, ci vado!».
A proposito del NOF, tutt’altro è il tono prevalente: «Il corso è molto bel-
lo e fatto bene, l’ho consigliato e lo continuerò a consigliare»; «Sì, consiglierei
di venire qui, perché, nonostante tutto, se uno vuole imparare ci riesce»; «È un
posto bellissimo, dove ti aiutano se hai dei problemi tuoi, a casa. Ne puoi par-
lare con i tutor che ti danno una mano»; «È una bella scuola dove sanno inse-
gnare bene, e gli insegnanti sono bravi e comprensivi»; «È una scuola diversa
dalle solite».
Questi alcuni dei giudizi più entusiasti tra le iscritte ai corsi per estetiste,
parrucchiere e aiuto acconciatori.
Ma ancora una di esse trova “vaga” la scuola tradizionale rispetto a quella
ora frequentata: «L’ho scelta perché volevo fare una scuola che mi formasse sul
lavoro, non una scuola più vaga».
Un’altra apprezza il collegamento tra teoria e pratica, che esiste per lei so-
lo al NOF: «Mi insegna a saper collegare la teoria con la pratica, cosa che nei licei
manca. Al NOF la teoria è strettamente collegata con la pratica».
Infine, c’è chi tra queste ragazze dichiara che solo nel NOF ha trovato le mo-
tivazioni a studiare: «In una scuola normale sarei andata solo per fare fuga e di-
vertirmi, non per studiare, se fossi andata in un’altra scuola non mi sarebbe pia-
ciuto e non avrei studiato. Mi piace il lavoro, la scuola un po’ meno, ma mi devo
mettere nell’ottica che devo studiare».
Anche nelle parole degli aspiranti meccanici, ritorna il paragone con le
scuole tradizionali.
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C’è addirittura di chi si dice «fiero di aver fatto questa scuola!». Sottoli-
neando: «Non portiamo neanche lo zaino e i libri», segni, questi ultimi, per lui
tipici del più tradizionale Istituto Aldini-Valeriani, al quale peraltro egli stesso
dice poi di voler iscriversi in futuro. Un altro oppone libertà a fissità: «Come
scuola qui stai polleggiato. Sei libero. Se vai in una scuola superiore sei lì fisso».
Semplice, ma sempre positivo è il giudizio di un altro aspirante meccanico:
«Questa scuola almeno ti fa fare qualcosa». Un altro ragazzo ancora sottolinea
la prospettiva che gli apre il NOF: «Mi insegna la responsabilità di un lavoro, un
mestiere, il mio futuro».
Ma ovviamente non mancano le spine. Due ci paiono i maggiori problemi
sollevati dai nostri intervistati/e. Uno riguarda i rapporti non sempre dei mi-
gliori tra gli stessi compagni/e di corso. L’altro le ore del corso dedicate agli in-
segnamenti teorici e i rapporti cogli insegnanti che ne sono incaricati.
Sul primo problema abbiamo raccolto parecchi enunciati interessanti. Ec-
cone alcuni. «Non mi piacciono nemmeno le mie compagne – dice un’aspirante
estetista – tutte queste impiccione. Non essere capita e non essere ascoltata è il
problema. Io divento una bestia». Un’altra dello stesso corso: «Il problema più
grosso è stato l’inserimento con le altre ragazze, infatti al primo anno avevo pen-
sato di ritirarmi». Altre estetiste in erba parlano in tono simile dello stesso te-
ma: «Con le compagne? Male, malissimo, sono tutte molto strafottenti e imma-
ture»; «Con alcune non lego tanto perché abbiamo idee diverse»; «Non andare
d’accordo con le compagne, è un problema che non si riesce a risolvere, con alcu-
ne persone parli, con altre non riesci».
Qualcuna ha trovato la soluzione, ma solo prendendo le distanze: «Il pro-
blema era non andare d’accordo con alcune compagne, che magari prendono in gi-
ro. Non ci faccio più caso e così si è risolto da solo»; «Tra le compagne, ci sono
gruppetti. Qualcuna con cui lego di più, altre con cui ho meno feeling. Io sono una
ragazza aperta. Se vedo che qualcuno si interessa a me ci parlo, altrimenti la salu-
to e basta»; «Non c’è nessuno con cui non vado d’accordo; verso le persone trop-
po diverse da me c’è indifferenza, non abbiamo alcun rapporto»; «Ogni tanto
qualche lite, così! Non si può sempre andare d’accordo. Se c’è antipatia si cerca di
evitare».
Anche tra le future parrucchiere più di una si lamenta: «Mi danno fastidio
alcuni atteggiamenti dei miei compagni di classe»; «Mi danno fastidio la maggior
parte dei miei compagni di classe perché hanno atteggiamenti stupidi».
Tra i meccanici, uno ci racconta di avere avuto noie in classe: «Una volta,
perché uno mi rompeva le scatole, ne ho parlato con il tutor. Se loro non rompo-
no le balle a me, io non le rompo a loro».
Un altro parla di «rapporti tranquilli» coi suoi compagni, ma subito ag-
giunge: «non mi interessa più di tanto avere rapporti con loro».
Un altro ancora dice: «Lego con chi ha i miei stessi interessi, con gli altri è
soprattutto questione di distanza».
UNA SCUOLA DIVERSA DALLE SOLITE
M A R TA A L A I M O , VA L E R I O R O M I T E L L I
Il rapporto con gli insegnanti risulta più o meno problematico in ogni cor-
so. «Con i miei insegnanti ci sono stati dei disguidi perché non avevamo rappor-
to» riferisce una futura estetista. Un’altra pensa che gli insegnanti «sono abi-
tuati a classi di persone più grandi e non sono abituati a noi che abbiamo sedici
anni». Un’altra ancora si lamenta: «Quella di anatomia parla a busso; alzi la ma-
no e non ti caga neanche». Un meccanico sentenzia: «I professori non è che in-
segnano, ti dicono quello che sanno».
E così di seguito, frasi di scontento su questo argomento paiono accomu-
nare tutti i ragazzi e le ragazze da noi intervistati. «È un po’ difficile avere rap-
porti con gli insegnanti, perché molti dopo la lezione vanno via subito»; «La teo-
ria è molto noiosa, e i prof. te la fanno pesare»; «Lego poco con gli insegnanti per-
ché sono antipatici»; «Qui gli insegnanti sembrano appena usciti da scuola. Io non
ci arrivo forse; ma gli insegnanti leggono e basta. Questo non aiuta»; «Con gli in-
segnanti non c’è rapporto».
Tutt’altre sono invece le parole riservate alla figura dei tutor, che è sicura-
mente un elemento centrale tra i più innovativi di questo progetto di forma-
zione. In effetti, i ragazzi li considerano molto di più che insegnanti, e non so-
lo per problemi strettamente legati alla scuola. A loro si rivolgono infatti an-
che per questioni personali. Questo emerge da tutti e quattro i gruppi intervi-
stati, sia pur con qualche differenza. Tra le aspiranti parrucchiere e aiuto ac-
conciatori due ragazze sottolineano con forza l’importanza del loro rapporto
con la tutor: «Più di tutti nel corso, lego con la tutor, perché lei mi ascolta di
più»; «Sono stata quasi sospesa a scuola, ma l’ho risolta con il mio tutor poiché
mi ha perdonato».
Per quanto riguarda i meccanici, i pareri sono discordanti ed estremi; si
parla di rapporti conflittuali coi tutor, ma allo stesso tempo tutti gli intervista-
ti riconoscono loro un ruolo basilare: «I tutor non li sopporto!»; «Il rapporto con
i tutor non è come quello con i professori, li vedo più come amici»; «Mi danno fa-
stidio i tutor perché sono pesanti»; «Con i due tutor c’è un rapporto d’amore-odio.
Quando sono bravo e mi impegno scherziamo. Quando faccio l’asino litighiamo»;
«Puoi parlare un po’ con tutti, qui siamo tutti amici, vado meno d’accordo con i
tutor»; «Ho rischiato la sospensione dai corsi per atti vandalici e l’ho superata gra-
zie a un atto di bontà dei tutor».
Un ragazzo fa dei tutor la pietra di paragone tra la scuola tradizionale e
il NOF:
«Va molto bene, si può parlare in confidenza, cosa che nelle altre scuole non
succede, soprattutto con i tutor».
Le estetiste hanno invece un rapporto praticamente idilliaco con la loro re-
sponsabile, e dimostrano d’avere una grande fiducia in lei. «Con la tutor ci dia-
mo anche del tu e anche se le raccontiamo le nostre cose ci fidiamo». «Per i pro-
blemi della scuola ho parlato con la mia tutor. Ci ho messo tanto. Sono riuscita a
superare tutto, ma ero da sola e con la mia tutor». «Lego di più con alcune com-
UNA SCUOLA DIVERSA DALLE SOLITE
pagne e con la tutor con cui faccio battute». «Il NOF è un posto bellissimo, dove ti
aiutano. Se hai dei problemi, tuoi a casa, ne puoi parlare con la tutor che ti dà una
mano. Per qualsiasi problema puoi rivolgerti a lei».
Anche alla domanda su quale sia stata la difficoltà più importante incon-
trata nella vita, più di una di queste ragazze ricorda la tutor: «La difficoltà più
grossa l’ho risolta chiedendo aiuto alla tutor e alla mia famiglia, insomma a mia
madre»; «Con la tutor riesco a legare meglio: lei sa tutto di me anche al di fuori
della scuola».
E sempre la tutor, in altre risposte, sembra la figura risolutiva nel proble-
ma rivelatosi non trascurabile dei rapporti tra compagne e compagni di ognu-
no dei quattro corsi: «Ho litigato molto con una mia compagna di corso, perché
mi ero fatta il piercing all’ombelico e lei l’ha detto ai miei genitori che non vole-
vano. E poi si sono intromesse anche altre ragazze del corso. Per questo abbiamo
litigato molto. La tutor ha proposto di fare un’assemblea con tutta la classe per
parlare. E con l’assemblea è stato risolto questo problema»; «Il problema più gros-
so è stato l’inserimento con le altre ragazze; infatti al primo anno avevo pensato
di ritirarmi, perché all’interno di ogni classe si formano gruppetti e non riesci a
fare amicizia. L’ho risolto parlandone con la tutor e alla fine con qualche difficoltà
mi sono integrata»; «Il primo anno ero considerata una secchiona, ora lego con
tutte grazie alla tutor Samantha che ci ha fatto unire».
Ma anche su altri problemi l’intervento della tutor è considerato decisivo:
«Il mio problema più grande era la lingua perché i proff. non mi capivano e pen-
savano che mi rifiutassi d’apprendere, poi ho parlato con la tutor e ho risolto»;
«Al lavoro nello stage, mi hanno trattata male. Mi piace fare l’estetista, ma se con-
tinuavano a trattarmi male non ce la facevo più. Mi ha aiutata Samantha, la tu-
tor»; «All’inizio dell’anno c’erano problemi con le materie che non avevo mai fat-
to, ma la tutor mi ha aiutata».
Formazione e/o istruzione?
Da quanto precede risulta per tutti i ragazzi del NOF l’importanza della figura
dei tutor, i quali in effetti si trovano nell’intersezione di più insiemi problema-
tici. Da quello che hanno detto le ragazze e i ragazzi direttamente interessati se
ne possono enucleare almeno cinque: . i rapporti tra le lezioni teoriche in au-
la e quelle pratiche nei laboratori; . i rapporti tra i corsi nelle sedi preposte e
gli stage presso le aziende; . i rapporti non di rado contrastanti tra lo stesso
percorso formativo e le condizioni diremmo proprio esistenziali (familiari, abi-
tative, adolescenziali ecc.) di allieve e allievi; . i rapporti tra lo stesso percorso
formativo e i modi in cui i suoi fruitori e fuitrici pensano il proprio avvenire; .
i rapporti tra gli stessi compagni di corso che non sempre si risolvono da soli.
Ci parrebbe comunque sbagliato pensare che sia sufficiente sommare tutte que-
M A R TA A L A I M O , VA L E R I O R O M I T E L L I
UNA SCUOLA DIVERSA DALLE SOLITE
Note
M A R TA A L A I M O , VA L E R I O R O M I T E L L I
. D. Sacchetto, La vita professionale degli insegnanti nelle loro parole, in Dal Lago, De Bia-
si, Un certo sguardo, cit. La vita degli insegnanti viene qui raccontata attraverso le loro stesse pa-
role, raccolte in una serie di interviste condotte nel periodo tra maggio e settembre nell’am-
bito di una ricerca nazionale sullo stato di salute della scuola, promossa dal ministero della Pub-
blica istruzione e affidata all’Università di Genova. L’indagine si compone di una serie d’intervi-
ste condotte da cinque equipe di ricerca distribuite in altrettanti ambiti territoriali, ritenuti parti-
colarmente rappresentativi, che hanno raccolto circa duecento interviste semistrutturate, a cui so-
no state affiancate alcune storie di vita finalizzate ad approfondire la questione.
Una fabbrica da rifare
e la qualità del lavoro.
Gli operai della BredaMenarinibus
e della BT Cesab di Bologna
di Mirco Degli Esposti
Nei mesi di luglio e dicembre ho condotto due inchieste di fabbrica pres-
so altrettante industrie metalmeccaniche di Bologna: BT Cesab, azienda leader
a livello nazionale nella produzione di carrelli elevatori controbilanciati, e Bre-
daMenarinibus, seconda produttrice italiana di autobus. Tali inchieste sono
state svolte nell’ambito di una ricerca di dottorato in Antropologia presso l’U-
niversità Paris . Con essa si intendeva studiare le forme di soggettività degli
operai, oggi, nel capoluogo emiliano. L’obiettivo di queste inchieste, così come
io le propongo sulla base soprattutto dei lavori di Sylvain Lazarus e del suo
gruppo di ricerca, è quello di conoscere cosa pensano gli operai di una certa
fabbrica. Per chi conduce l’inchiesta, “operai” non designa né un soggetto de-
terminato, né un gruppo, né una classe, ma un’incognita per il pensiero che l’in-
chiesta prova a investigare interpellando ciò che dice la gente che tale termine
nomina nella lingua corrente. Così la ricerca non ha alcuna pretesa di rappre-
sentatività: gli operai sono interpellati semplicemente in quanto gente che è
chiamata in questo modo nella lingua comune, non in quanto gruppo il cui pen-
siero sarebbe determinato da una serie di variabili oggettive (prime fra tutte, in
questo caso, la condizione socio-professionale dei suoi membri e il tipo di la-
voro da loro svolto). Ciò che l’inchiesta prova a individuare è cosa dice e pen-
sa questa gente, permettendo così d’identificare i tratti della soggettività degli
operai che questo dire e questo pensiero costituiscono e rendono pensabili.
In questa inchiesta si è proceduto intervistando operai in ogni fabbrica
durante l’orario di lavoro. Al momento dell’indagine la “popolazione” operaia
era in BredaMenarinibus di unità e in BT Cesab di . Ogni intervista è
durata tra l’ora e un quarto e l’ora e mezza ed è stata effettuata sulla base di un
questionario guida, a risposta aperta, organizzato per capitoli tematici. Essen-
zialmente, le questioni poste sono state di due tipi:
. domande descrittive e biografiche (età, anzianità nella fabbrica, posto e ti-
po di lavoro svolto, percorso professionale);
. domande che chiedevano di esprimere giudizi soggettivi rispetto alle paro-
le “operaio” e “fabbrica”, all’organizzazione del lavoro, ai sindacati, alla poli-
tica in fabbrica.
MIRCO DEGLI ESPOSTI
Gli operai intervistati sono stati sorteggiati dalla lista del personale. La par-
tecipazione all’intervista era volontaria. Attraverso un volantino affisso alla ba-
checa delle comunicazioni al personale e, successivamente, attraverso il breve
colloquio che ha preceduto ciascuna intervista, si è spiegato che si trattava di
una ricerca universitaria indipendente rispetto all’azienda e ai sindacati; che le
interviste erano anonime e confidenziali; che i risultati, invece, sarebbero stati
resi pubblici tramite un rapporto scritto.
Presento subito, sinteticamente, i principali risultati di questo lavoro.
Gli operai della BredaMenarinibus, a partire dalla situazione di grave dif-
ficoltà della loro azienda, hanno posto all’ordine del giorno dei temi comples-
si. Questi temi permettono di pensare a delle nuove possibili politiche del la-
voro, nella crisi di quel singolare sistema di gestione istituzionale dello svilup-
po economico del territorio e del mercato del lavoro locale che è stato il “mo-
dello emiliano”. Infatti, nel pensiero degli operai intervistati, “fabbrica” è la
parola per pensare diverse politiche che decidono, decidendo questo luogo, co-
me pensare il lavoro. Delle politiche come quelle che secondo i nostri interlo-
cutori erano in atto alla BredaMenarinibus al momento dell’inchiesta, che su-
bordinano completamente la fabbrica, la sua esistenza, la gente che vi sta den-
tro, al mercato (lo stabilimento è in vendita, in cerca di un acquirente), impe-
dendo di pensare il lavoro come una realtà di cui si possono decidere alcune
condizioni. Ma secondo gli operai ci possono essere delle altre politiche: delle
politiche che fanno esistere la fabbrica come luogo della gente che ci sta den-
tro – nelle nostre interviste prima di tutto gli operai stessi – e in cui il lavoro che
in essa si svolge è pensabile come un ambito di possibilità che si misurano a par-
tire dalle scelte rispetto a questo stesso luogo. La fabbrica, dunque, non solo e
non tanto come luogo della produzione, ma come condizione (politica) del la-
voro, categoria per pensare il lavoro che in essa si svolge come un ambito di de-
cisioni soggettive.
Per chiarire questo modo di pensare, confrontandolo con questioni forse
più note a chi si occupa dei temi del lavoro da un punto di vista politico e so-
ciale, si può richiamare un famoso giudizio di Marx: non vi è alcun “senso” e
significato intrinseco del lavoro «in quanto sono le sue condizioni che, sole, pos-
sono dargli un senso». Per pensare il lavoro occorre pensare le sue condizio-
ni: le condizioni in cui si effettua, cioè le condizioni produttive, tecnologiche,
giuridiche ecc., che stabiliscono i modi in cui si lavora. A partire da quello che
dicono gli operai della BredaMenarinibus, tra queste condizioni possono esse-
re pensabili anche delle condizioni politiche. E queste condizioni sono pensa-
bili proprio facendo esistere la fabbrica come luogo dove si possono decidere
alcuni aspetti del lavoro che si svolge o si può svolgere in essa (e come vedre-
mo, anche alcuni aspetti e condizioni del come uscire dalla fabbrica in crisi, ces-
sando un lavoro). Tutto ciò, aggiungiamo noi e argomenteremo in seguito, può
forse fornire delle risorse intellettuali utili per riqualificare da un punto di vi-
U N A FA B B R I C A D A R I FA R E E L A Q U A L I T À D E L L AV O R O
sta politico il cosiddetto “modello emiliano”, la cui crisi, o la cui fine, sono og-
gi da più parti certificate.
Questioni diverse, ma a nostro avviso di notevole interesse, quelle poste da-
gli operai della BT Cesab. Gli intervistati hanno presentato come centrale il pro-
blema della qualità del lavoro. Un tema, questo, oggi ampiamente discusso sia
nelle riflessioni inerenti all’implementazione di “circoli di qualità” e “sistemi di
qualità” nella gestione dei processi produttivi, sia nel dibattito relativo alle po-
litiche pubbliche dell’impiego: il famoso Libro bianco sul mercato del lavoro del
governo Berlusconi, che ha ispirato la successiva legge Biagi, non ha forse per
sottotitolo proprio Per una società attiva e per un lavoro di qualità?
Gli operai BT Cesab presentano la questione della qualità in una maniera
del tutto originale e specifica: la minore o maggiore qualità, la presenza o l’as-
senza di qualità, non sono doti pensate come oggettivamente intrinseche al la-
voro che svolgono. La qualità del lavoro che svolgono non è già “contenuta”
nei contenuti tecnici delle mansioni da effettuare, ma è l’effetto di una possibi-
le relazione soggettiva col lavoro che è da loro stessi decisa. Ciò significa che la
qualità è il risultato di un rapporto degli operai con il loro lavoro che può qua-
lificarlo o meno; è l’effetto di una qualificazione – soggettiva e autonoma – del-
le mansioni necessarie per realizzare un certo risultato produttivo oggettivo. La
questione della qualità del lavoro è dunque relativa al rapporto degli operai con
una certa produzione da realizzare attraverso certe determinate operazioni tec-
niche. Gli operai BT Cesab vogliono poter decidere della qualità del loro lavo-
ro, cioè vogliono poter decidere del loro rapporto con una certa produzione da
svolgere, facendo così “bene” e “meglio” il loro lavoro. Un “bene” e un “me-
glio” che sono loro stessi a stabilire.
Per descrivere questo modo di pensare proviamo anche in questo caso a
rapportarlo a dei temi forse più conosciuti da sociologi e studiosi di questio-
ni del mondo del lavoro: decidere il rapporto tra gli operai e una certa pro-
duzione, da realizzare attraverso certe operazioni tecnicamente determinate,
significa decidere e intervenire sulla dimensione “socializzata”, “cooperati-
va”, “in comune” del lavoro di produzione. In effetti, i nostri interlocutori
vorrebbero una diversa organizzazione del lavoro, che incrementasse sia le
rotazioni e le mansioni in grado di essere svolte da ogni singolo operaio, sia
il sapere, l’esperienza e la formazione, così da garantire agli stessi operai più
risorse per pensare il loro rapporto con la produzione da realizzare. Queste
questioni ci paiono di notevole interesse. Si parla frequentemente, nelle più
recenti teorie di gestione delle risorse umane, di assumere l’intelligenza di chi
lavora come risorsa decisiva per incrementare la produttività del lavoro. Al-
cuni autori hanno recentemente sostenuto che la stessa nozione di produtti-
vità è da rivedersi proprio partendo dalla priorità che, nelle attuali economie
competitive, assume l’innovazione e la creatività per rispondere rapidamen-
te, con nuovi prodotti e soluzioni d’uso, a una domanda sempre più fram-
MIRCO DEGLI ESPOSTI
Le pagine che seguono danno conto di cosa hanno detto gli operai intervistati
e di come si sia proceduto nell’analisi delle loro parole per individuare i temi e
le questioni qui sinteticamente riassunti in premessa. Le parole degli interlo-
cutori presentano molteplici punti di vista, dispongono una molteplicità di
pensieri e giudizi: ma tali giudizi e pensieri, oltre che molteplici, identificano
anche delle singolarità, delle questioni ricorrenti, degli ambiti problematici
omogenei. Nel testo si è voluto rendere il più possibile identificabile dal letto-
re l’operazione intellettuale d’individuazione, in tale molteplicità, di queste
questioni singolari. Ciò proprio perché queste ultime non erano presupposte,
non era cioè presunto a priori dal ricercatore che gli operai fossero accomuna-
ti da problemi condivisi, oggettivamente dati dalla loro condizione sociale, dal
tipo di lavoro svolto, o dalla situazione della loro azienda. La scommessa di
questo tipo di ricerche, infatti, è che nel dire degli intervistati è possibile indi-
viduare una specificità problematica, ma sono loro stessi che la decidono co-
stituendola soggettivamente: sono cioè i nostri intervistati che dispongono la
realtà sociale da investigare, i temi e le questioni di cui sono soggetti e che il ri-
cercatore prova a conoscere pensando il pensiero che incontra.
Le due inchieste sono qui presentate separatamente, in quanto ciascuna do-
tata di una sua singolarità. Nelle conclusioni si proporrà infine una brevissima
lettura d’insieme di quelle che, secondo noi, sono le questioni principali emer-
se da queste due indagini rispetto all’attuale congiuntura politica ed economi-
ca italiana.
U N A FA B B R I C A D A R I FA R E E L A Q U A L I T À D E L L AV O R O
L’inchiesta alla BredaMenarinibus
MIRCO DEGLI ESPOSTI
lo industriale a capitalismo familiare ormai perduto? Secondo noi non solo. Ve-
diamo perché, analizzando alcuni degli enunciati che abbiamo incontrato nel
corso delle interviste.
Secondo un operaio con una lunga esperienza in Menarini «da dieci anni,
da quando è passata sotto la Breda, che non c’è più il padrone effettivo, sono cam-
biate molte cose nel sistema delle lavorazioni, […] lavoro di meno ma a livello
professionale è peggio, non c’è più quella atmosfera per poter andare avanti, […]
non c’è più soddisfazione, se hai montato giusto o sbagliato ha poco valore». Un
altro interlocutore sottolinea come l’azienda sia «in una situazione critica. […]
Dal , da quando siamo andati sotto alla Breda, […] la gente se ne va, anche
i dirigenti… non hanno spazio, deve sottostare ad un padrone, a un fittizio pa-
drone […] stanno distruggendo la fabbrica». Per un’operaia «sono venute a spa-
rire tante lavorazioni, […] danno molto lavoro esterno, perciò noi qui dentro ab-
biamo poca roba da fare. […] Col gruppo Breda sono proprio andati male, c’è del
menefreghismo, […] mentre un padrone teneva d’occhio». E un operaio della
linea d’allestimento afferma: «In un’altra fabbrica, quando uno si comporta be-
ne ti riconoscono, se vai male ti licenziano, invece se non fai niente qui ti ten-
gono e sei un peso sulle spalle degli altri, per la produzione. Se tutti lavorassero,
qui, ci sarebbe una gran produzione. […] Se fosse una fabbrica che avesse un pa-
drone andrebbe meglio, andrebbe meglio per tutti, ma, quando il padrone non
c’è, non c’è nessuno». Un altro interlocutore sottolinea, parlando delle qualifi-
che e dei passaggi di livello, come in BredaMenarinibus «chi decide il passag-
gio di livello non è chi ci guadagna; se fosse chi ha interesse, il padrone, allora
sceglierebbe chi vale».
Altri due intervistati, che lavorano alla preparazione dei pezzi da montare
sulle linee, identificano il presente della fabbrica come il tempo del venir me-
no del “padrone”: «Adesso ormai appaltano tutto, le lavorazioni vengono date
tutte fuori, […] qua non sai che padrone hai, chi dirige». «Credo sia proprio chi
organizza dall’alto, adesso un padrone non ce l’abbiamo più. […] Una volta la
macchina si finiva in linea, adesso non si finisce mai alla fine della linea, c’è da
recuperare, si perde tempo». Infine, tre operai sottolineano la differenza tra le
fabbriche dove il “padrone” c’è e BredaMenarinibus, dove esso è, a parer loro,
assente: «In altre fabbriche ti valorizzano di più, qui non c’è il padrone». «Nelle
fabbriche piccole, dove c’è il padrone c’è più attenzione». «Quello che c’è da fare
lo facciamo, a volte devi andare a fare le saldature alla verniciatura, sinceramen-
te se ne fregano abbastanza, non è che ci mettano del cuore proprio, […] si vede
la differenza quando c’è il padrone e quando non c’è».
Sia la parola “padrone” che la separazione tra un “prima” e un “adesso”
rendono intelligibili dei modi di pensare una differenza del “lavoro” in fabbri-
ca rispetto alla situazione presente al momento dell’indagine. Questa distin-
zione s’articola attraverso delle locuzioni relative al “lavoro” in quanto fattore
produttivo oggettivo («se tutti lavorassero, qui, ci sarebbe una gran produzione»;
U N A FA B B R I C A D A R I FA R E E L A Q U A L I T À D E L L AV O R O
«una volta la macchina si finiva in linea, adesso non si finisce mai alla fine della
linea, c’è da recuperare, si perde tempo»; «da quando […] non c’è più il padrone
effettivo […] lavoro di meno»), o alla cura e all’attenzione rispetto all’efficien-
za del processo di fabbricazione dei veicoli («un padrone teneva d’occhio»; «do-
ve c’è il padrone c’è più attenzione»; mentre in BredaMenarinibus «sinceramen-
te se ne fregano abbastanza, non è che ci mettano del cuore, […] si vede la diffe-
renza quando c’è il padrone e quando non c’è»). Ma il “prima”, che secondo mol-
ti giudizi indica il periodo dove c’era il “padrone”, in molti altri enunciati de-
gli operai intervistati si caratterizza anche come il tempo dove vi era più sod-
disfazione nel lavoro, un’altra forma di soggettività nei suoi confronti: «Una
volta eri anche premiato, c’era un “bravo”, il lavoro ti dava soddisfazione»;
«Quando c’era Menarini, si lavorava anche alla domenica mattina, era un altro
lavoro, si lavorava di più ma si era meno stanchi, è un’assurdità però è vero»; «La-
vorare con soddisfazione ti gratifica, il lavorare solo perché devi lavorare, adesso,
ti annoia, ti distrugge pian piano»; «Era diverso una volta, si veniva con un altro
spirito, […] tu venivi a lavorare e sapevi che si lavorava tranquillamente, ora non
sai cosa fai»; «Prima avevi tanti lavori da fare e ti passava di più la giornata, ades-
so ti annoi»; «I soldi van bene ma ci vogliono le motivazioni; […] la gente era
più invogliata, avevi più soddisfazioni sul campo lavorativo, forse non eri consi-
derato solo un numero».
Dunque, per i nostri interlocutori, rispetto alla situazione attuale dello stabi-
limento, nella fabbrica del “padrone” c’è una forma di coesistenza di una doppia
dimensione del “lavoro”: da un lato, il lavoro come fattore produttivo oggettivo,
in un processo di produzione più efficiente e in cui la quantità di lavoro erogata
è maggiore; dall’altro lato, il lavoro che dà “soddisfazione”, rispetto a cui vi sono
delle “motivazioni”, “uno spirito”, una soggettività all’opera (una soggettività ca-
pace anche di annullare la fatica connessa a dei livelli di produzione quantitati-
vamente maggiori: «Si lavorava anche alla domenica mattina. Era un altro lavoro,
si lavorava di più ma si era meno stanchi, è un’assurdità, però è vero»). Nei giudi-
zi degli operai, “padrone” è la categoria che costituisce una specifica relazione tra
il lavoro come fattore della produzione e il lavoro come termine soggettivo: una
relazione dove i più alti livelli quantitativi di utilizzo della forza-lavoro e quella
che è considerata una maggiore efficienza nello svolgimento del processo pro-
duttivo rinviano anche a una maggiore soddisfazione rispetto al lavoro. Si artico-
la, allora, una sorta di corrispondenza tra questa dimensione soddisfacente, inte-
ressante, soggettiva del lavoro, e la sua dimensione di fattore oggettivo della pro-
duzione. Tale corrispondenza è posta, nelle parole dei nostri interlocutori, da spe-
cifiche relazioni di lavoro in fabbrica. Come abbiamo visto, per alcuni degli in-
tervistati «da quando è passata sotto la Breda, che non c’è più il padrone effettivo,
[…] non c’è più soddisfazione, se hai montato giusto o sbagliato ha poco valore»;
«In un’altra fabbrica, quando uno si comporta bene ti riconoscono, se vai male ti li-
cenziano; […] se fosse una fabbrica che avesse un padrone andrebbe meglio»; «In
MIRCO DEGLI ESPOSTI
altre fabbriche ti valorizzano di più, qui non c’è il padrone»; «Chi decide il passag-
gio di livello non è che ci guadagna; se fosse chi ha interesse, il padrone, allora sce-
glierebbe chi vale». Un ex saldatore, oggi agli allestimenti, afferma che «la dire-
zione non sa neanche chi siamo, noi qua siamo un numero. Una volta l’operaio era
più controllato, non ci si parlava, era più considerato, si parlava dei problemi, ades-
so non c’è più nessuno». Mentre per altri tre interlocutori, che lavorano alle pre-
parazioni dei pezzi da montare in linea, «prima avevi un riconoscimento, un me-
rito di quello che facevi, una piccola soddisfazione personale: è valido quello che
fai… oggi è cambiato tutto»; «Una volta era diverso, eri premiato, se facevi un tipo
di lavoro eri premiato, se ti davi da fare, se t’impegnavi c’era un premio…»; «Una
volta eri anche premiato, c’era un “bravo”».
In questi enunciati, le distinzioni tra BredaMenarinibus e le “altre fabbri-
che”, e tra il “prima” e l’“adesso”, sono il modo per presentare delle specifiche
relazioni tra operai e impresa: relazioni basate sulla “valorizzazione”, sul “ri-
conoscimento” di colui che si “comporta bene”, di colui che “vale”, sull’attri-
buzione di un “premio” per chi si impegna e di un “valore” al lavoro ben fat-
to, sulla “considerazione” rispetto all’operaio. È questo tipo di relazioni di la-
voro a essere identificato attraverso la parola “padrone”.
In termini generali, si può dunque sostenere che il “padrone” è, nel pensie-
ro degli operai BredaMenarinibus, la categoria di una qualificazione della fab-
brica come luogo di una forma di corrispondenza tra il lavoro come fattore del-
la produzione del valore, da un lato, e il lavoro come termine d’identificazione
della soggettività dell’operaio, dall’altro lato: il lavoro qualificato come “soddi-
sfacente”, “motivante”, interessante ecc. è pensato in questo modo in quanto
l’operaio è “riconosciuto”, “valorizzato”, “premiato” (dal “padrone”) come
soggetto del lavoro-fattore produttivo. La capacità di produzione dell’operaio si
lega, in quanto riconosciuta dal “padrone”, a una forma di soggettivazione del
lavoro da parte degli operai. Come afferma molto chiaramente un’operaia, «ave-
vi più soddisfazioni sul campo lavorativo, forse non eri considerato solo un nume-
ro, […] perché chi dà è sempre un operaio che lavora, non si deve mettere alla fi-
ne ma all’inizio, è lui che dà i risultati, è lui che fa la macchina. Noi abbiamo bi-
sogno del padrone ma lui ha bisogno di noi». Questo enunciato presenta in mo-
do esemplare ciò che abbiamo fin qui sostenuto. In effetti, la dimensione sod-
disfacente del lavoro – che permette all’operaio di non essere considerato solo
un numero e di pensarsi dunque come soggetto –, non dispone una distinzione
del lavoro stesso dai “risultati”, dalla produzione quantitativa («avevi più soddi-
sfazioni sul campo lavorativo; […] chi dà è sempre un operaio che lavora […] è lui
che dà i risultati»). “Padrone” è quindi la categoria che presenta la prescrizione
della centralità del “lavoro” nel processo di produzione del valore economico e,
contemporaneamente, della centralità dell’operaio soggetto di questo lavoro. La
fabbrica è, per gli operai della BredaMenarinbus, il luogo della “valorizzazione
del lavoro”, ove “del lavoro” è contemporaneamente un genitivo soggettivo e
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Romagna, che è stata oggetto, soprattutto a partire dalla seconda metà degli an-
ni Settanta, di molte analisi relative ai suoi specifici caratteri economici e so-
ciali. Dei caratteri che molto spesso hanno fatto di questa regione la rappre-
sentante esemplare, a livello nazionale, di quella realtà produttiva che general-
mente è stata (ed è ancora) analizzata attraverso la nozione di “distretto indu-
striale”. È soprattutto durante gli anni Settanta che l’Emilia-Romagna si pre-
senta come “modello” d’amministrazione, a guida comunista, inserita in un ti-
po di sviluppo industriale singolare, non solamente dal punto di vista econo-
mico, ma anche politico. Una singolarità data dalle dimensioni piccole e me-
dio-piccole delle imprese del suo tessuto industriale, dalle capacità competiti-
ve di queste imprese e dalla loro stretta integrazione sul territorio. Molti studi
hanno isolato sia gli aspetti tecnico-produttivi (l’integrazione territoriale, la
specializzazione di più aziende in fasi differenti di uno stesso ciclo che permette
una riduzione della scala minima efficiente degli impianti, la flessibilità pro-
duttiva all’interno degli stabilimenti), sia quelli economico-sociali e culturali
che caratterizzano i sistemi territoriali di produzione a specializzazione flessi-
bile. Ma la questione che qui ci preme sottolineare è il tipo di relazioni indu-
striali e di gestione del mercato del lavoro che ha caratterizzato lo sviluppo del-
le aree di piccola-media impresa. In effetti, analizzando le ricerche di Barca e
Magnani relative all’andamento del sistema industriale italiano negli anni Set-
tanta e Ottanta, si può notare come le imprese piccole e medio-piccole (tra i
e i addetti) abbiano, durante questo periodo (gli anni, ricordiamolo, della
strutturazione e del consolidamento delle realtà distrettuali italiane), una red-
ditività superiore del capitale investito rispetto alle imprese medie e grandi.
Questo risultato è ottenuto nonostante che nelle PMI il capitale investito ri-
spetto al valore aggiunto prodotto sia costantemente inferiore in confronto al-
le imprese delle altre classi dimensionali e che sia inferiore anche la produtti-
vità del lavoro. Tra il e il la crescita del costo del lavoro per unità di
prodotto, indotta dall’incremento dei redditi da lavoro, è sempre maggiore nel-
le piccole e medio-piccole imprese; nonostante ciò, la quota dei loro profitti è
sempre superiore rispetto alle imprese più grandi. I fattori decisivi che ga-
rantiscono queste performances sono due: in primo luogo, la dinamica di cre-
scita dei prezzi dei prodotti delle PMI è più intensa rispetto a quella dei prodotti
delle aziende delle altre classi dimensionali; secondariamente, i salari dei di-
pendenti delle aziende piccole e medio-piccole sono sempre inferiori, benché
lo scarto tenda a ridursi, rispetto alle retribuzioni dei dipendenti di quelle più
grandi. Nel , lo scarto tra la classe composta dalle aziende piccole e me-
dio-piccole rispetto alle altre imprese, per quel che riguarda la produttività, era
uguale a –,%; nel a –,%. Avendo come riferimento lo stesso perio-
do, lo scarto delle retribuzioni era uguale a –,% e a –,%. Secondo Bar-
ca e Magnani, nel quadro stabilito dai contratti nazionali di lavoro, la contrat-
tazione aziendale decentrata avrebbe garantito salari significativamente più al-
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del valore. “Fabbrica”, allora, è la categoria che permette di costituire nel pen-
siero il “lavoro” come una realtà locale e specifica: “fabbrica” è la parola per
prescrivere una specificazione locale del lavoro. Questa dimensione prescritti-
va della parola “fabbrica”, che la costituisce come categoria per pensare la pa-
rola “lavoro”, è attestata dal carattere possibile, non necessario, non oggettivo
di questa stessa dimensione. Infatti, la fabbrica che fa “un punto” del lavoro,
che lo singolarizza localmente, può esserci o no, è una possibilità: BredaMena-
rinibus «non è più una fabbrica», nonostante che «è sempre una fabbrica dove
lavoro». La fabbrica non è solamente una realtà industriale ed economica, uno
spazio di lavoro, un luogo che «permette di vivere». Essa è un luogo prescritti-
vo: «una fabbrica deve essere una fabbrica».
– La locuzione “lavorare in privato” inscrive il lavoro in una dimensione di
scambio, contrattuale: questa locuzione rinvia al lavoro come fattore produttivo
nel mercato, ovvero al “lavoro-merce”. Secondo questa interlocutrice, il lavoro, in
quanto fattore scambiato nel mercato, può essere sotto condizione di un campo
di possibilità: le possibilità poste della sua costituzione in “un punto” prescritta
attraverso la categoria di “fabbrica”. “Fabbrica” è la categoria che presenta un mo-
do di pensare il lavoro come realtà singolare e “puntuale” (il “punto di lavoro”) e,
contemporaneamente, la separazione tra questa operaia e chi «vuole lavorare in
privato» senza restare fuori dalla fabbrica. Così, grazie alla fabbrica, ciò che può
contare del lavoro non è il suo essere merce, ma il suo costituirsi come questione
di chi in fabbrica ci sta dentro, di una soggettività che fa della fabbrica il luogo di
questa specificazione locale del lavoro a carattere prescrittivo.
– Se BredaMenarinibus non è più una fabbrica, ciò dipende dalla «volontà»
di «lavorare in privato» senza «mettere su» una fabbrica, da una volontà che
non permette di fare “un punto” del lavoro. L’inesistenza della fabbrica di-
pende dunque da un “volere” rispetto alla fabbrica, da prescrizioni ad essa re-
lative che la destituiscono come «un punto di lavoro».
– L’identificazione “puntuale”, fare “un punto” del lavoro: la fabbrica può
essere ciò che costituisce il “lavoro” in un “esserci” singolare. Il “lavoro” è dun-
que sotto condizione del possibile (il possibile di questa sua localizzazione) de-
signato dalla categoria di “fabbrica”. Ma la “fabbrica” come luogo che fa “un
punto” del “lavoro” è la prescrizione di un modo di pensarla che si confronta
con una prescrizione opposta. Ovvero, quella che destituisce la fabbrica come
luogo di questa stessa identificazione del lavoro come una realtà “puntuale”.
“Fabbrica” è allora la categoria di differenti prescrizioni che la costituiscono o
meno come luogo “puntuale” del lavoro.
Se la fabbrica è la condizione che può permettere di costituire il lavoro in
una realtà locale e singolare non riducibile solo a un fattore produttivo scam-
biato nel mercato, e ciò presentando contemporaneamente un conflitto di pre-
scrizioni relativo a questa stessa possibilità, allora la fabbrica è pensabile come
il luogo di condizioni prescrittive e politiche del lavoro.
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Possiamo ora leggere gli ultimi enunciati citati come dei giudizi sulla situa-
zione presente della BredaMenarinibus, in particolare rispetto alla politica di
decentramento ed esternalizzazione produttive adottata dall’impresa. La situa-
zione dello stabilimento è oggi, per questa interlocutrice, la sua destituzione co-
me “un punto di lavoro”. Esiste cioè una politica rispetto alla fabbrica che ren-
de impossibile alla BredaMenarinbus di essere un luogo in grado di fare del la-
voro una realtà localmente specificata, non riducibile solo a lavoro-merce.
Molti altri operai intervistati danno un giudizio sulla politica aziendale di de-
centramento produttivo adottata in BredaMenarinibus. Un operaio della linea
sostiene che «non funziona niente, non è un’azienda che può competere; […]
danno lavori fuori mentre mettono gli operai in cassa integrazione; […] non riu-
sciamo, noi tutti, a capire la strategia dell’azienda, ma non sanno loro cosa fare
della fabbrica… non c’è una strategia industriale, né politica». Stessa questione
quella sottolineata da un altro interlocutore: «È la completa disorganizzazione,
[…] arrivano gli esterni, non c’è una rivalità, fortunatamente, è un operaio come
noi, ma questa azienda si è indebolita a livello strutturale».
Un operaio che lavora alle preparazioni afferma: «se uno deve vivere alla
giornata, la fabbrica, allora, va bene. Ma se uno vuol star bene, migliorare, la fab-
brica non c’è più, vai via dalla fabbrica»; mentre per un altro intervistato «non
si capisce cosa vogliono fare, cosa vogliono fare di questa fabbrica, […] la gente
se ne va, anche i dirigenti… non hanno spazio, […] stanno distruggendo la fab-
brica»; e in un passaggio successivo dell’intervista rimarca: «Si vive in un cli-
ma di incertezza, […] sembra sempre di vivere alla giornata». Un giovane ope-
raio usa queste parole per dire cosa pensa dello stato attuale della BredaMe-
narinibus: «La fabbrica dovrebbe muoversi in un altro modo, scendere dal pie-
distallo e parlare con gli operai»; mentre per un’operaia «non c’è lavoro per noi,
perché gli esterni devono venire qui? […] Non riesco a capire e non voglio nean-
che capire perché non lo ritengo giusto». Secondo altri tre interlocutori «la fab-
brica doveva essere un posto dove uno andava a dare il meglio di se stesso, […]
invece trovi la fabbrica che è un vuoto, vuoto di tutto, […] manca una cucitura,
quello che ti mette insieme»; «Penso che l’organizzazione sia l’anima di tutto, se
non c’è organizzazione non si lavora, […] qui dentro non c’è, non esiste più»;
«Pensano sicuramente qualcosa, non so cosa, perché lavorare in questo modo è
privo di senso».
L’ipotesi di lettura di questi giudizi che noi proponiamo, alla luce della te-
si che BredaMenarinibus “deve essere una fabbrica”, e cioè ciò che fa “un pun-
to” del lavoro, è la seguente: per i nostri interlocutori bisogna che ci sia una re-
lazione diversa tra impresa e “fabbrica” che permetta di chiarire quali sono le
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condizioni di lavoro possibili per gli operai. Questo perché, come dice l’ultimo
intervistato citato, oggi il modo in cui loro ci lavorano è considerato “privo di
senso”. Rispetto ai giudizi che abbiamo analizzato all’inizio di questo testo, si
può affermare che, attraverso questo modo di pensare la parola “fabbrica”, gli
intervistati presentano la situazione attuale del loro stabilimento in una forma
che non è riducibile esclusivamente all’assenza del “padrone”. La fabbrica, in-
fatti, non è, secondo gli operai, il luogo certo della presenza o dell’assenza di
una politica di valorizzazione del lavoro: la politica del “padrone”. La fabbrica
è ora un luogo non più certo («non si capisce cosa vogliono fare di questa fab-
brica, si vive in un clima di incertezza, […] sembra sempre di vivere alla giorna-
ta»), un termine che rende esplicite delle scelte: quelle che la fanno esistere o
no come luogo di possibilità per gli operai, di possibilità per chi in fabbrica ci
sta dentro e ci lavora. La questione oggi non è, allora, solo la presenza o l’as-
senza del “padrone” ma, piuttosto e soprattutto, quali scelte relative alla “fab-
brica” sono attualmente all’opera in BredaMenarinibus. Come abbiamo già no-
tato, voler lavorare “in privato” dentro la fabbrica, rende impossibile fare “un
punto” del lavoro, l’iscrizione di questa parola in una problematica relativa al-
la sua possibile specificazione locale, che dispone delle condizioni al lavoro non
riducibili a quelle di mercato (che dispone cioè delle condizioni prescrittive e
politiche al lavoro). In questo modo «si vive giorno per giorno», «si vive in un
clima d’incertezza», «è la completa disorganizzazione». Il decentramento pro-
duttivo è allora considerato negativamente soprattutto perché, secondo gli ope-
rai, è solo l’effetto di una politica che destituisce la fabbrica come luogo in gra-
do di porre e “organizzare” delle condizioni singolari al lavoro («è la completa
disorganizzazione»; «Se non c’è organizzazione non si lavora; […] qui dentro non
c’è, non esiste più»; «Non funziona niente, […] danno lavori fuori mentre met-
tono gli operai in cassa; […] non c’è una strategia […] politica»).
Che ritenere di tutto questo? Secondo noi gli operai dicono in fondo una
cosa semplice: la fabbrica senza il “padrone” non è una fabbrica senza una po-
litica; piuttosto, è la politica che la riguarda a rendere la fabbrica impensabile
come luogo in grado di porre delle condizioni del lavoro non riducibili solo a
quelle stabilite dal mercato. BredaMenarinibus «è una fabbrica da rifare» per-
ché questa politica non è tanto volta a costituire l’azienda come un attore sul
mercato che mette in campo delle “strategie” per essere più competitivo («non
c’è una strategia industriale, né politica»), ma piuttosto subordina semplice-
mente la fabbrica al mercato, disponendola come una merce in cerca di acqui-
rente (come già detto l’azienda è in vendita), disponendo così come semplice
merce anche il lavoro che in essa e grazie ad essa esiste. Per gli operai occorre
dunque decidere cosa si vuole fare della fabbrica, in attesa della sua possibile
acquisizione, perché «una fabbrica deve essere una fabbrica», anche se è sul mer-
cato, anche se è in vendita. In questo modo, il lavoro che essi svolgono può es-
sere pensato come sottoposto a delle specifiche condizioni: quelle della loro
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to relative allo stabilimento: si tratta dunque di una decisione che riguarda l’o-
peraio in fabbrica, non il cassaintegrato fuori dalla fabbrica. Come dice un in-
terlocutore, «la fabbrica dovrebbe muoversi in un altro modo, scendere dal pie-
distallo e parlare con gli operai». Un piano di riduzione del personale su base
volontaria non doveva dunque concernere individualmente i cassaintegrati
fuori dalla fabbrica, ma essere discusso con gli operai alla BredaMenarinibus.
Riconoscere questo significa proprio riconoscere una delle questioni più im-
portanti che secondo noi gli operai intervistati formulano: la dimensione po-
litica di certe condizioni del lavoro che la fabbrica come luogo soggettivo, co-
me luogo della gente che ci sta dentro e non solo come spazio della produzio-
ne, può permettere di porre e organizzare.
In conclusione, ci sembra che almeno una precisa indicazione problemati-
ca possa desumersi dalla nostra ricerca, tirando le somme di quanto detto fin
qui: che sarebbe stato politicamente auspicabile che chi “governava” la fabbri-
ca (la direzione aziendale, ma anche, a loro modo, i sindacati) avessero orga-
nizzato un lavoro d’inchiesta volto a identificare, a partire dai pensieri degli
operai, delle inedite modalità per affrontare le questioni relative alle condizio-
ni di lavoro possibili nella profonda crisi che ha attraversato l’azienda. Ci sem-
bra cioè che sarebbe stato possibile e utile assumere gli operai in fabbrica co-
me soggetti in grado di fornire importanti indicazioni su come affrontare il pro-
blema delle condizioni di lavoro, e anche della fine di un lavoro, durante que-
sta crisi. Ad esempio: decentramento produttivo ed esternalizzazioni, o, piut-
tosto, forme di lavoro più flessibili anche contrattualmente (e se sì, quali e co-
me), ma comunque riguardanti i dipendenti BredaMenarinibus all’interno del-
l’azienda? Cassa integrazione (per chi? A rotazione?) o disponibilità di una par-
te degli operai a lasciare l’azienda a certe (quali) condizioni? Rigidità salariale
o disponibilità a forme di legame delle retribuzioni all’andamento dell’azien-
da? Se sì, a quali condizioni? Solo per gli operai o anche per quadri e dirigen-
ti? Il tutto, e questa pare una condizione preliminare ineludibile che gli operai
pongono, a partire dall’esplicitazione dei problemi economico-produttivi del-
l’impresa e delle strategie in corso da parte aziendale per farvi fronte e compe-
tere sul mercato. Questo lavoro d’indagine sarebbe stato una vera e propria po-
litica rispetto alla fabbrica, per quanto minimale, in grado di assumere le indi-
cazioni da me raccolte tra gli operai: facendo «scendere dal piedistallo e parlare
con gli operai» la fabbrica, facendo cioè della fabbrica non un luogo distante,
estraneo, al di sopra degli operai, ma un luogo d’incontro tra esigenze econo-
mico-produttive e le questioni sociali poste da chi ci lavora. Una politica capa-
ce forse di farne seguire altre: sulla base delle nuove indicazioni degli operai
che da tale inchiesta sarebbero potute venire fuori. Una politica che, seppure
in forme diverse, potrebbe essere attuata anche oggi, in un quadro meno dram-
matico, ma ancora caratterizzato da una situazione di profonda e preoccupan-
te incertezza riguardo al futuro dello stabilimento.
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sulla centralità attribuita alla produzione e al lavoro. Oggi le questioni poste dai
nostri interlocutori ci sembrano diverse e non riducibili a questo modo di pen-
sare. Il “padrone” che valorizza il lavoro riconoscendo la sua figura, l’operaio,
non ha il problema di fare una politica rispetto alla fabbrica, perché la fabbrica è
un luogo certo della produzione di valore (e di profitto). Oggi la fabbrica è un
luogo incerto. Ma se la fabbrica è oggi un luogo incerto anche nella sua oggetti-
va identità di sito produttivo, ciò significa pure che essa è pensabile come luogo
di scelte sempre più decisive e significative. Significative e decisive prima di tut-
to per chi ci sta, dentro le fabbriche, per chi nelle fabbriche ci lavora. Dunque,
l’incertezza della fabbrica segnala anche uno spazio aperto di possibilità da deci-
dere. Da decidere sottoponendo il lavoro a delle condizioni prescrittive e politi-
che. È proprio questa visione della fabbrica come una risorsa per la politica che
gli operai BredaMenarinibus, nell’esaurirsi del “modello emiliano”, ci restitui-
scono come questione aperta, come questione della contemporaneità. Una que-
stione in grado di sottoporre il lavoro, nel tempo del capitalismo globale e reti-
colare, a un ambito di possibilità, a delle nuove condizioni locali diverse da quel-
le “localistiche”, secondo la definizione di Trigilia, proprie del modello istitu-
zionale di relazioni industriali di tipo cooperativo che ha lungamente caratteriz-
zato questa regione. I giudizi degli operai BredaMenarinibus ci indicano dunque
una pista: la fabbrica come una risorsa per ripensare e riorganizzare il rapporto
politico tra economia e società. Una riarticolazione che gli attuali processi di glo-
balizzazione e riduzione del ruolo di mediazione esercitato dallo stato sociale ren-
dono ineludibili. La fabbrica, allora, come luogo per organizzare in modo inedi-
to questa relazione tra questioni economico-produttive e la realtà sociale di chi
lavora. Gli operai promuovono impresa e direzione aziendale a figure di tale rior-
ganizzazione, in quanto soggetti di politiche rispetto a questo luogo: una più pre-
cisa assunzione di questa dimensione politica del dire e dell’agire aziendale ci pa-
re una tra le indicazioni che gli operai BredaMenarinibus formulano. Conoscere
cosa dicono e pensano gli operai può dunque permettere di fare della fabbrica,
di chi ci sta dentro e di chi la governa, la categoria e i soggetti per inventare nuo-
ve politiche del lavoro, nell’esaurirsi di quel complesso sistema istituzionale di ge-
stione del mercato del lavoro che è stato il “modello emiliano”.
L’inchiesta alla BT Cesab
Nelle interviste condotte presso l’industria BT Cesab, uno dei temi più im-
portanti per gli operai è stato quello relativo a ciò che chiameremo la questio-
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sibile»; «Per ogni lavoro ci sono delle responsabilità, le cose sono da fare e le de-
vi fare bene, punto e basta. Non sono negligente, quello che devo fare provo a far-
lo il meglio che posso, poi credo che stia in ognuno di noi interpretare quello che
sta facendo»; «Adesso il lavoro mi sta interessando, adesso che il lavoro vedo che
mi riesce bene […] lo trovo interessante».
In questi giudizi le parole “lavoro” e “lavorare” sono poste in relazione con
il tema della loro “qualità”. “Fare bene il lavoro”, fare il lavoro “il meglio pos-
sibile”, “lavorare bene” sono delle possibilità convocate da un rapporto col la-
voro che si presenta attraverso le parole “imparare”, “provare”, “riuscire”, ave-
re “soddisfazione”, o tramite delle locuzioni come “cercare di fare”, “se voglio
[…] bisogna”. In questo modo, i termini qualitativi utilizzati in questi enuncia-
ti sono pensati come l’effetto d’una attività possibile, di capacità, di tentativi, di
scelte, di prescrizioni autonome. In un senso “oggettivo” lavorare bene è lavo-
rare senza fare errori: «se il mio lavoro non è fatto bene c’è il rischio che magari il
lavoratore che fa il lavoro dopo il mio non si accorge del mio errore»; «La respon-
sabilità è che mi danno da fare un carrello, deve andare bene, che non crei perico-
li a chi lo userà, c’è il collaudo, ma anche loro potrebbero sbagliare». Ma la qualità
del lavoro ha anche una dimensione totalmente soggettiva e non necessaria:
«Noi lavoriamo, facciamo quello che ci è chiesto, però è come se facessimo un fa-
vore a loro, ai capi, lavorando bene»; «Quello che devo fare provo a farlo il meglio
che posso, poi credo che stia in ognuno di noi interpretare quello che sta facendo»;
«C’è da imparare, sono delle piccole cose che ti vengono usando le mani, facendo
le modifiche, stringendo meglio tubi, bulloni».
Secondo questi operai, la qualità non è dunque data dai contenuti cogniti-
vi e professionali “oggettivi” delle mansioni da svolgere, ma è l’effetto di una
attività, di una operazione soggettiva: esattamente e letteralmente di una “qua-
lificazione” del lavoro. Questa attività è presentata attraverso una separazio-
ne tra “lavorare bene” e “quello che ci è chiesto”: quello che non è aggettivato
si configura semplicemente come attività oggettiva, come “quello che devo fa-
re”, come necessità. Non si tratta solamente di “stringere tubi, bulloni”, ma
d’imparare, lavorando, “usando le mani”, a stringerli “meglio”. Dunque, è il
pensiero di questa qualificazione del “lavoro” a costituire questa parola come
termine in rapporto alla soggettività dell’operaio. Ciò, attraverso un’operazio-
ne che differenzia il lavoro da “quello che è chiesto”, dall’oggettività di ciò che
si “deve fare”. Tutto questo ci permette di perlustrare cosa effettivamente sia,
ovvero come possa essere pensabile, la “qualità” del lavoro. Come ha afferma-
to Yves Schwartz a questo proposito, «il processo di produzione non è un pro-
cesso lineare, integralmente descritto quando sono descritte le sue condizioni
materiali. […] Ora, da dove viene la qualità? È la stessa questione che oggi si
pongono i dirigenti d’azienda quando creano dei circoli di qualità». Noi pos-
siamo affermare in prima battuta che la “qualità” viene, per i nostri interlocu-
tori, da un’operazione di qualificazione del lavoro soggettiva e prescrittiva. La
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Un operaio addetto alla linea dei carrelli elettrici afferma che «una volta c’era
una cultura dell’operaio; dicevano, anche gli anziani qua, che un operaio era te-
nuto in considerazione. Adesso, con questa storia della catena di montaggio sei
quasi un robot; una volta invece, che dovevi fare aggiustaggio […] eri più quali-
ficato. Stringere viti sono buoni tutti, il come stringi è un altro paio di maniche:
forse è anche per questo che non fanno formazione. Vedendoli come robot è uno
in più, non è che deve sapere a cosa serve quel pezzo». È lo stesso operaio a sot-
tolineare nuovamente, in un altro passaggio dell’intervista, questo problema:
«Qui facevano molto aggiustaggio, sego qui, asolo là, adesso non è più possibile.
Quando sono entrato io si facevano . carrelli, adesso .. […] Non si posso-
no permettere di stare lì ad asolare».
Un interlocutore che lavora alle postazioni per l’assemblaggio dei carrelli
diesel sostiene: «Il montatore interveniva sul pezzo che non andava bene, adesso
si dà la precedenza alla produzione e queste cose non si fanno più, è cambiato il si-
stema di lavorare, adesso siamo degli assemblatori e basta, mentre prima, se c’era
qualcosa che non andava bene, si interveniva; […] prima si agiva di più, adesso i
pezzi che non vanno bene sono rispediti al fornitore». Giudizio simile quello di
un ex collaudatore: «Al collaudo allora […] si interveniva abbastanza anche sul-
la meccanica; […] c’era da cambiare un pezzo e lo cambiavi tu, adesso va all’ad-
detto, tu lo collaudi solo per le tarature, i tempi di traslazione, non si fanno le ri-
parazioni». Un operaio della linea dei carrelli elettrici sostiene che «Cesab alla fi-
ne sta diventando un’azienda che monta le macchine, adesso sembra la FIAT». Men-
tre, per un altro interlocutore, «adesso tutto è puntato sul numero, più che sulla
qualità». Lo stesso operaio spiega così questa affermazione: «Hanno eliminato
la creatività. […] Secondo me, come figura di operaio, è quella artigianale; […]
forse è ancora possibile questo tipo di lavoro operaio quando viene fatto il lavoro
ad isole, in cui vi è ancora una grossa personalizzazione, e quello ti può dare sod-
disfazione. […] Purtroppo sta peggiorando: […] si riduce il concetto di operaio che
produce. O diventi un puro esecutore di una catena di montaggio, sei proprio, non
è un operaio, non si è operai».
Bisogna notare che secondo altri interlocutori la dimensione dell’aggiu-
staggio è, al contrario, presente in Cesab e connota positivamente il lavoro in
fabbrica: «Dei grossi tempi di produzione non ce ne sono […] c’è molto da ag-
giustare, da sistemare […] c’è chi fa prima una cosa, chi la fa dopo, c’è una certa
libertà d’interpretazione del lavoro»; «Mi piace quello che sto facendo perché cam-
bi sempre, fai anche dell’aggiustaggio»; «Dov’ero prima, anche qua faccio sempre
MIRCO DEGLI ESPOSTI
lo stesso lavoro, ma vedo non proprio un lavoro solo di produzione, vedo molto
anche un lavoro di aggiustaggio».
Dobbiamo sottolineare una distinzione decisiva tra la parola “aggiustag-
gio” e la parola “produzione”. Nei giudizi che abbiamo riportato è il “lavoro
d’aggiustaggio” l’ambito della soggettività degli operai rispetto al lavoro in fab-
brica. Questo ambito soggettivo è distinto dal “lavoro di produzione” ed è pen-
sato coincidere con la “qualità” rispetto al “numero”, alla “quantità”. In que-
sti enunciati l’operaio si pensa distinguendo la propria soggettività dalla “pro-
duzione”. L’operaio produce, ma la sua soggettività non dipende in alcun mo-
do dalla produzione: «Hanno eliminato la creatività: […] si riduce il concetto di
operaio che produce. O diventi un puro esecutore di una catena di montaggio, sei
proprio, non è un operaio, non si è operai».
Qui è evidente che il “concetto d’operaio”, benché l’operaio sia un sog-
getto che “produce”, non dipende dalla produzione, ma dall’intervento auto-
nomo di questo soggetto rispetto al lavoro da svolgere, dalla sua “creatività”.
In generale, gli operai pensano che questo ambito distinto dalla produzio-
ne si sta riducendo nel sistema d’organizzazione del lavoro adottato in Cesab.
Un sistema che, secondo i nostri interlocutori, tende a privilegiare il “lavoro di
produzione”, il “numero”, la quantità rispetto all’“aggiustaggio” e alla “qua-
lità”. È questa riduzione a disporre una riflessione sull’attività di lavoro in Ce-
sab che chiarisce intellettualmente la separazione posta, tramite il tema della
qualità, tra la soggettività degli operai e quello che si “deve fare”, e ciò che “è
chiesto”, il “lavoro di produzione”. Vediamo ora di identificare questo modo
di pensare, analizzando con più precisione che cosa può essere, secondo gli
operai, la “qualità” del lavoro oggi in Cesab, nel tempo della riduzione del-
l’aggiustaggio.
Uno dei giudizi ai nostri occhi più interessanti tra quelli raccolti alla Cesab è il
seguente: «La fabbrica è iniziativa. […] Non ti poni, per paura di perdere il po-
sto, cos’è la fabbrica per te, cosa potrebbe essere. Non credo che venga data all’o-
peraio tanta autonomia da dire che il proprio lavoro è un’estensione di sé; all’o-
peraio non viene data la possibilità di farlo».
Abbiamo visto che la soggettività rispetto al lavoro è pensata dagli intervi-
stati come attività che “qualifica” questo termine. Tale “qualificazione” si pre-
senta attraverso una distinzione dell’operaio dal “lavoro di produzione” che
svolge. Ora, grazie all’ultimo enunciato citato, possiamo sostenere che questo
campo di scelte per gli operai s’articola per mezzo di una specifica modalità di
pensare la fabbrica. In questo giudizio a far questione sono le possibilità di “di-
re” che l’operaio ha oggi. Possibilità che dovrebbero permettere di rendere il
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più: si può produrre in Cesab senza che tale qualificazione sia necessaria. Co-
sì, nel tempo della riduzione dell’aggiustaggio, questo spazio d’intervento au-
tonomo che decide la qualità oggettiva del lavoro non è più presente. Gli ope-
rai, ora, problematizzano la qualità del lavoro in termini diversi. Essi pensano
la “qualificazione” come una loro relazione soggettiva con una dimensione og-
gettivamente qualitativa del lavoro che è già data, che è già decisa (le mansioni
oggettivamente necessarie per produrre degli specifici output produttivi, i con-
tenuti tecnici del loro lavoro già fissati nel processo di produzione e che devo-
no necessariamente eseguire).
Ecco una serie di enunciati raccolti in Cesab, che presentano questa rela-
zione problematica tra mansioni oggettive da svolgere e una possibile relazio-
ne soggettiva con queste stesse mansioni, da ricercare attraverso un maggior
“sapere”, più possibilità di apprendere e di “pensare” il lavoro da effettuare,
più “esperienza” e “formazione”, una diversa divisione del lavoro: «Un ope-
raio deve sapere quello che fa, a che cosa serve, le funzioni che sta facendo, non
che io faccio un muletto, chi s’è visto s’è visto, è giusto che uno sappia quello che
sta facendo»; «Cesab non è una fabbrica che ha una gran cultura […] nel senso
che comunque non ti devi chiedere il perché delle cose ma le devi fare»; «Ades-
so c’è più da imparare […] adesso se non c’è l’azienda che fa i corsi non puoi im-
parare»; «È raro sapere quello che si fa»; «Una volta sapevano lavorare meglio;
adesso, appena arrivi, il capo officina ti affianca un ragazzo che magari è lì da due
settimane»; «Mi piacerebbe allargare le mie esperienze, perché comunque si im-
para sempre qualcosa di nuovo e quindi non mi sento mai soddisfatto; mi piace
allargare le mie esperienze»; «Gratificante o no, se fai un lavoro che non ti spin-
ge non ti può dare motivazioni sul lavoro perché bisogna farlo, lo fai con più fa-
tica, con meno voglia, lo fai male, senza pensarci […] devi avere la qualità del
lavoro, fare sempre un determinato tipo di lavoro non ti porta in là»; «C’è della
gente che vuole sapere cosa monta […] che si interessa a ciò che monta»; «La
formazione è importante soprattutto per chi lavora»; «Se vuoi lavorare qua den-
tro, rendere, devi sapere qualcosa in più. […] Non ci sono sufficienti corsi di for-
mazione, qualcosa in più dovrebbero fare»; «Secondo me la formazione è tutto,
la coscienza di come funziona il carrello, per poi andarci a mettere le mani è fon-
damentale»; «Si possono creare automatismi che parcellizzano di più il lavoro,
riduci tutto: si lavora parecchio, ore di lavoro al giorno, se vengono svolte con
la dovuta attenzione, sono molte. Un uomo che dà il % dell’attenzione per
o ore è già un mezzo miracolo. Non è possibile pretendere un’attenzione per
ore in un lavoro poi abbastanza smaronante».
Maggiore conoscenza sul lavoro, “formazione”, “sapere”, “esperienza”, la-
voro meno parcellizzato possono garantire delle possibilità, per gli operai Ce-
sab. Questi enunciati presentano uno spazio possibile d’intervento soggettivo
dell’operaio rispetto alle funzioni da svolgere, ai contenuti del lavoro così co-
me essi sono già fissati e dati nel processo produttivo. In questi giudizi, le man-
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mansioni necessarie per realizzare una certa produzione data e che oggi, finito
l’aggiustaggio, sono tecnicamente già fissate dall’organizzazione del lavoro. In
questo modo gli operai pensano di poter fare “meglio” e “bene” il loro lavoro.
Un “meglio” e un “bene” che non muta oggettivamente la produzione, ma che
muta soggettivamente la qualità del lavoro, cambiando la relazione tra gli ope-
rai e le mansioni tecniche necessarie per produrre. Si tratta quindi di un pro-
blema di organizzazione del lavoro. Per capire con maggior chiarezza cosa in-
tendono i nostri interlocutori, ci sembra illuminante quello che dice un operaio
che lavora alla catena: «Il mio lavoro non sarà gratificante però ha qualcosa che
si può mandare avanti, come ideologia: il lavoro nella fabbrica è pesante […] ci
si potrebbe impegnare di più, l’azienda potrebbe fare molti più corsi di formazio-
ne, che oltre a essere più uniti noi potremmo svolgere più lavorazioni; […] par-
tendo da noi il lavoro […] potremmo entrare più in una mentalità di persone che
conoscono di più il loro tipo di lavoro. Essendo proprio in una linea sei chiuso lì,
in una linea di montaggio dopo un po’ è pesante».
La conoscenza, la possibilità di cambiare “lavorazioni”, la “formazione” e
la riduzione della “pesantezza” del lavoro sono delle questioni “ideologiche” e
di “mentalità”; esse, dunque, sono principalmente delle questioni intellettuali,
o meglio dei modi di prescrivere come pensare l’operaio in fabbrica, come pen-
sare il suo rapporto col lavoro. Per gli operai della Cesab uno dei problemi prin-
cipali è dunque la capacità di formulare un nuovo pensiero del rapporto tra
operai e “lavoro” oggi, nel tempo della riduzione dell’aggiustaggio. Un pensie-
ro capace, cambiando questo rapporto, di ridurre la fatica e aumentare l’inte-
resse sul lavoro, intervenendo sul modo di organizzare il lavoro in fabbrica e
garantendo maggiore formazione agli operai. Come già sosteneva Marx, nelle
fabbriche «il macchinario […] funziona soltanto in mano al lavoro immediata-
mente socializzato, ossia al lavoro in comune. […] Il carattere cooperativo del
processo lavorativo diviene dunque necessità tecnica imposta dalla natura del
mezzo di lavoro stesso». La dimensione “socializzata”, “in comune”, coope-
rativa del lavoro è una necessità tecnica. Ma i modi in cui esiste in ogni fabbri-
ca questa necessità tecnica, imposta dalla natura stessa dei mezzi di produzio-
ne, sono essi stessi tecnicamente dati? La dimensione “sociale” è semplice-
mente già decisa, una volta che si assuma il suo carattere tecnicamente neces-
sario? O, piuttosto, la cooperazione è tecnicamente necessaria, ma ciò non de-
termina, in sé, i modi in cui questa necessità tecnica si articola e si può artico-
lare nel processo di lavoro? È questo ambito, che può essere unilateralmente
pensato come solo “tecnico” e oggettivo, a configurare, invece, almeno secon-
do i nostri interlocutori, uno spazio di scelte, diverse possibilità per gli operai.
Tutto questo è pensabile rappresentando il lavoro come qualcosa che “parte”
dall’operaio e che s’articola dalla sua soggettività («partendo da noi il lavoro
[…] potremmo entrare più in una mentalità di persone che conoscono di più il lo-
ro tipo di lavoro»). Noi abbiamo visto affermare in un giudizio già precedente-
MIRCO DEGLI ESPOSTI
mente citato che «la fabbrica è iniziativa. […] Non ti poni, per paura di perdere
il posto, cos’è la fabbrica per te, cosa potrebbe essere. Non credo che venga data
all’operaio tanta autonomia da dire che il proprio lavoro è un’estensione di sé; al-
l’operaio non viene data la possibilità di farlo». Questo interlocutore pensa la
fabbrica come un luogo specifico: il luogo dell’“iniziativa” dell’operaio. La fab-
brica può essere il luogo dove il rapporto tra “lavoro” e “operaio” è deciso dal-
l’operaio stesso in una maniera tale che il “proprio lavoro”, il “lavoro concre-
to” che svolge, sia pensabile come un’estensione della sua soggettività in fab-
brica. Una soggettività, dunque, che interviene autonomamente, per mezzo
della sua “iniziativa”, sul rapporto dell’operaio con una certa “produzione” e i
contenuti tecnici del lavoro necessari per realizzarla. Questa “iniziativa” è pri-
ma di tutto (e soprattutto) un “dire”. Un “dire” rispetto alla fabbrica: «Cos’è la
fabbrica per te, cosa potrebbe essere»; «La fabbrica è iniziativa». Il “lavoro” co-
me “estensione di sé” deriva allora da una capacità di “dire” in fabbrica, di pre-
scriverla come luogo della soggettività dell’operaio. Il “lavoro” che “parte” dal-
l’operaio è identificabile come il “lavoro” che l’operaio decide, non più come
il lavoro che si “deve fare”. Come abbiamo visto, ciò che l’operaio vuol deci-
dere non è né la quantità, la produzione da realizzare, né la qualità oggettiva (il
contenuto tecnico) delle mansioni che, nel venire meno di quella singolare at-
tività che è l’aggiustaggio, è oggi già del tutto oggettivamente data e organizza-
ta e, dunque, identificata anch’essa dagli operai come “produzione”. I nostri
interlocutori, nel tempo della riduzione dell’aggiustaggio, vogliono decidere
del loro rapporto con una certa produzione e certe mansioni da svolgere, rea-
lizzando la stessa produzione quantitativa, realizzando in fabbrica le stesse ope-
razioni tecnicamente oggettivabili, ma facendole “bene” e “meglio”, e cioè mu-
tando i modi soggettivi per realizzarle attraverso:
. l’allargamento delle lavorazioni in grado di essere svolte da ogni singolo
operaio;
. una diversa divisione tra gli operai delle operazioni tecniche necessarie per
realizzare una certa produzione data e, dunque, una diversa organizzazione del-
la divisione del lavoro in fabbrica;
. l’esperienza e la formazione che possono dare non solo più risorse e più sa-
pere per pensare la relazione degli operai con le mansioni da svolgere, ma an-
che, in questo modo, più sapere e risorse per pensare a una diversa organizza-
zione possibile di queste stesse mansioni.
Così il “lavoro” può non essere solamente un fattore produttivo, un’attività
finalizzata e subordinata all’obiettivo di una certa produzione data, un insieme di
operazioni tecnicamente fissate, ma il termine che designa un insieme di possibi-
lità che hanno luogo in fabbrica: le possibilità degli operai di “qualificare” il la-
voro, d’intervenire sul loro rapporto con una certa produzione e con i contenuti
tecnici necessari per realizzarla. Così, anziché la “quantità”, si può “privilegiare”
la “qualità”. La fabbrica è pensabile, a partire dalle parole dei nostri interlocuto-
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ri, come il luogo della qualificazione del lavoro. Le possibilità di qualificare il la-
voro sono dunque delle possibilità che riguardano l’operaio, che riguardano il
suo modo di contare in fabbrica, d’essere colui che la configura come il luogo del-
la sua “iniziativa” rispetto al “lavoro” e alla sua “qualità”. Ecco cosa significa qua-
lificare il lavoro per gli operai Cesab, cambiare soggettivamente il lavoro senza
che ciò implichi, di per sé, un mutamento “oggettivo” delle funzioni tecniche ne-
cessarie per realizzare una certa produzione quantitativa data.
Possiamo trovare in questo tipo di riflessione una problematica nota: il te-
ma che, in uno dei più recenti studi sociologici internazionali sull’industria au-
tomobilistica, L’avenir du travail à la chaîne, è indicato dalla nozione di “rela-
zione salariale”, più in particolare dal primo dei quattro sottoinsiemi che se-
condo gli autori la definiscono: quello dell’“organizzazione del lavoro”. Que-
st’ultimo concetto si riferisce alla «messa in relazione degli operatori tra loro e
di fronte a dei mezzi tecnici», implicando dei temi relativi alla «divisione del la-
voro» e alla «cooperazione intorno, per esempio, alla questione delle qualifica-
zioni e dell’autonomia nel lavoro». In questo lavoro d’indagine, tali temi sono
trattati in termini d’opposizione tra “autonomia” del lavoro e socializzazione
della produzione. L’autonomia del lavoro può essere effettivamente incom-
patibile con delle produzioni a grande scala perché «non si arriva a fabbricare
in grandi serie dei prodotti standardizzati […] con delle piccole organizzazio-
ni composte da équipe autonome funzionanti senza gerarchia e senza specia-
lizzazione delle mansioni, con la libertà di scegliere i loro metodi e i loro ritmi
di lavoro». In questa prospettiva, la qualificazione del lavoro non concerne la
sua autonomia ma, piuttosto, la sua socializzazione nel processo produttivo.
Oggi, in Cesab, nell’attuale fase di riduzione del lavoro d’aggiustaggio ver-
so una maggiore standardizzazione della produzione, l’ambito d’intervento de-
gli operai rispetto al lavoro è identificato come possibilità di “dire”, come que-
stione di “mentalità”, come “autonomia” che si articola attraverso l’allarga-
mento delle “lavorazioni” in grado di essere svolte da ogni singolo operaio, la
“conoscenza” e il “sapere” da accrescersi: i modi identificati prescrittivamente
per ridurre la fatica, la noia su lavoro, per aumentare la soddisfazione e l’inte-
resse nel lavoro stesso, per fare questo lavoro “meglio” e “bene”. Non c’è dun-
que opposizione obbligata tra “autonomia” e “socializzazione”, cioè tra indi-
pendenza del lavoratore nello svolgimento del suo lavoro e interdipendenza
produttiva orizzontale e verticale: in effetti, i nostri interlocutori identificano
una forma di “socializzazione” tra gli operai delle conoscenze; la “formazione”,
la variazione delle “lavorazioni”, sono dei modi per avere una maggiore auto-
nomia nel lavoro. Ma, soprattutto, l’autonomia degli operai rispetto al lavoro
si presenta come autonomia di “dire”, d’intervenire e prescrivere rispetto al-
l’ambito dell’organizzazione del lavoro e della divisione tra gli operai delle
mansioni da eseguire, decidendo maniere diverse per realizzare queste man-
sioni oggettive e necessarie. Un ambito che i modi di pensare degli operai Ce-
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come ciò che può decidere cosa è e come può essere la qualità del lavoro. Una
qualità che non riguarda la “prestazione lavorativa”, ma la relazione – sogget-
tiva e aperta a più possibilità, e che può anche lasciare inalterata la “prestazio-
ne” da un punto di vista oggettivo – tra l’operaio e il lavoro che deve svolgere,
tra l’operaio e la “prestazione lavorativa” che deve effettuare. Perché, come ci
insegnano gli operai Cesab, la qualità del lavoro, al di là della sua dimensione
oggettiva, determinata prevalentemente dai mezzi tecnici disponibili nel pro-
cesso di fabbricazione, non è altro che l’effetto di questo rapporto da decidere
tra chi lavora e i contenuti del lavoro necessari per realizzare una certa produ-
zione. Un rapporto che può dunque essere pensabile solo a partire da chi que-
sto lavoro lo svolge quotidianamente.
Un’ultima questione prima di concludere. Se la qualificazione del lavoro
come la pensano gli operai intervistati non implica, come abbiamo visto, mu-
tare la sua qualità oggettiva, ma cambiare l’organizzazione dei modi d’effet-
tuare, da parte degli operai, le mansioni da svolgere; se cambiare la qualità
delle mansioni non significa cambiare oggettivamente il lavoro ma, piuttosto,
mutare soggettivamente la sua organizzazione; allora, le questioni poste dai
nostri interlocutori quale interesse possono avere per chi governa l’azienda?
In realtà, ciò che dicono gli operai può interessare chi governa l’azienda an-
che per motivi d’ordine oggettivo. In primo luogo, perché abbiamo visto che,
secondo i nostri interlocutori, migliorare il loro rapporto con le mansioni da
svolgere quotidianamente in fabbrica potrebbe ridurre la pesantezza del la-
voro, potrebbe aumentare l’interesse e l’attenzione sul lavoro. Questo può si-
gnificare anche ridurre gli errori e incrementare la produttività oraria del la-
voro. Ma forse ci può essere anche un altro motivo, più importante, seppure
non quantificabile, né ex ante, né ex post. Nell’analisi che abbiamo condotto
delle parole degli intervistati, la qualità che loro possono conferire al lavoro
che effettuano non è oggettivamente misurabile, è qualcosa che sfugge, in sé,
alla valutazione tecnica ed economica. Possiamo dire che essa sfugge perché,
come abbiamo visto, è una questione propria a un altro ordine problematico:
un ordine non tecnico ed economico, ma soggettivo e politico. Come dice un
giovane operaio intervistato, tra azienda e operai «ci deve essere un rapporto
di collaborazione, se però uno dà di più, l’altro di meno, l’equilibrio non viene
rispettato, e l’equilibrio è sfasciato. L’azienda tende sempre a dare di meno.
Questo non è giusto a livello umano, c’è un baratro in mezzo, non si colma mai.
Dagli anni Ottanta prevale il discorso economico, che secondo me è un errore».
Una dimensione del dare degli operai non può avere una corresponsione da
parte aziendale («c’è un baratro in mezzo» che «non si colma mai»): questa di-
mensione concerne il “livello umano” del rapporto tra impresa e operaio, la
parte umana del dare che è irriducibile al “discorso economico”. Ecco, la
qualità come la intendono gli operai Cesab è un “dare” irriducibile al “di-
scorso economico” e purtuttavia è una risorsa, un “dare”, anche se intangi-
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bile e non oggettivabile, che l’impresa riceve. Un dare soggettivo che può es-
sere una risorsa in fabbrica, a meno che non si pensi la produzione come sem-
plice adeguamento burocratico a modelli di gestione formalizzati. Se oggi, co-
me si sostiene da più parti, ogni modello d’organizzazione e gestione della
produzione è sottoposto a delle sempre più intense sollecitazioni, relative al-
la sua concreta messa in coerenza con la situazione della fabbrica e al suo svi-
luppo innovativo in un mercato competitivo, ecco che allora può essere de-
cisivo, anche per chi l’impresa la governa, fare di questo dare e di questa ri-
sorsa intangibili una capacità (politica) relativa ai modi d’organizzare in fab-
brica il lavoro che in essa si effettua.
Conclusioni
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que, lungi dal configurare il lavoro (la parola “lavoro”) come un fattore pro-
duttivo che non ha più un luogo identificabile e che così dispone delle “nuove
forze produttive”, le quali «non hanno luogo, poiché li occupano tutti» e pro-
ducono «in un non luogo indefinito», presenta al contrario la fabbrica come
categoria capace di sottoporre la parola “lavoro” a un pensiero degli operai.
Così “fabbrica” è un termine decisivo che permette di pensare il lavoro come
un ambito di possibilità per chi lo effettua quotidianamente.
Del resto, al di fuori da ogni legame ed espressività di classe e rappresenta-
zione storicista del tipo “nuove forze produttive”, le questioni che pongono i no-
stri interlocutori possono non concernere solamente gli operai. In effetti, alla ba-
se delle attuali politiche dell’impiego adottate in Italia sta l’identificazione del la-
voro, operata attraverso la nozione di “occupabilità”, con un fattore produttivo
avente differenti livelli di “mobilità” nel mercato: l’“occupabilità” è infatti con-
cepita come dipendente dalla capacità del fattore lavoro di seguire le dinamiche
competitive; essa si traduce nella capacità dei lavoratori d’inserirsi, seguendo la
domanda e l’offerta nel mercato, nei segmenti e nei settori economici a più alta
produttività che garantiscono a chi lavora maggiori redditi e più possibilità pro-
fessionali e formative. Si tratta dunque di una forma di “destatizzazione” della
nozione di lavoro: da nozione “costituente” – basti pensare al primo articolo del-
la nostra costituzione, «L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro»
–, a termine il cui senso è esclusivamente dato dalla categoria di “mercato”. Co-
me si afferma nel Libro bianco, si tratta oggi di sostenere il passaggio «da un si-
stema di protezioni rigide e spesso inefficaci, presenti nell’ambito di ogni rap-
porto di lavoro, a un regime di protezioni nel mercato che sostengano la mobi-
lità del lavoro» e che «devono agire prima di tutto nel mercato, non operare
contro il mercato».
Quali politiche del lavoro, allora, sono possibili oggi in Italia?
Come abbiamo visto nelle due inchieste di fabbrica, una delle possibilità
per gli operai, ch’essi stessi individuano, è quella che permette di pensare la pa-
rola “lavoro” all’interno di un ambito di scelte e decisioni attraverso la catego-
ria di “fabbrica”: la fabbrica come categoria che fa del lavoro “un punto” (il
luogo di condizioni prescrittive del lavoro); la fabbrica come luogo dell’“ini-
ziativa” dell’operaio (il luogo della qualificazione del lavoro).
A partire dalle interviste che abbiamo effettuato, l’operaio è pensabile come
la figura di un pensiero contemporaneo delle condizioni politiche del lavoro. Del-
le condizioni da decidere a partire dai luoghi dove il lavoro può essere pensato dal-
la gente che lo fa come una realtà rispetto a cui si possono fare scelte diverse, non
determinate oggettivamente dal mercato. Questo può così permettere di deog-
gettivare la rappresentazione unilaterale, propria all’attuale congiuntura, che iden-
tifica esclusivamente il lavoro con un fattore produttivo, con diversi gradi di “oc-
cupabilità” derivanti dalle differenti capacità di chi lavora d’essere mobile, d’in-
serirsi nei segmenti produttivi a più alto valore aggiunto. Una rappresentazione
MIRCO DEGLI ESPOSTI
che, proprio in quanto unilaterale, non presenta per chi lavora altra possibilità che
rispondere a ciò che il mercato richiede: adeguandovisi oppure opponendovisi
specularmente. Un’opposizione, magari, in nome della fede in un movimento
“biopolitico” sempre presente e in costante conflitto, manifesto o latente, con le
forme della sua oggettivazione disposte dal capitale (o dall’“impero”), in una pe-
renne dinamica dialettica, visibile o “mimetica”, dell’oggettivo e del soggettivo.
Gli operai della Cesab e della BredaMenarinibus non configurano delle di-
namiche dialettiche o delle forme d’opposizione speculare a quel che c’è. La
questione ai nostri occhi più rilevante è che gli operai che abbiamo incontrato
prescrivono delle possibilità specifiche del presente identificabili attraverso le
categorie che essi stessi elaborano. Delle possibilità che così hanno luogo, in
quanto il poter esserci di questo possibile è il poter esserci, singolare e locale,
del pensiero che lo presenta.
Note
. Cfr. Lazarus, Anthropologie du nom, cit., pp. e e Id., Anthropologie ouvrière et en-
quêtes d’usine, cit., pp. -.
. Sulla nozione di “modello emiliano” si rinvia al PAR. . di questo testo.
. K. Marx, Critique de Gotha, pp. -, nella citazione di L. Althusser, Lire le Capital (),
Paris .
. Cfr. P. Bonora, Costellazione Emilia. Territorialità e rischi della maturità, Torino ; P.
Bonora, G. Giardini, L’Emilia postcomunista e l’eclissi del modello territoriale, Bologna .
. Cfr. P. Veltz, Le nouveau monde industriel, Paris ; P. Zarifian, Le travail et l’événement,
Paris .
. Per quanto il nostro metodo non consideri decisivi i dati quantitativi, diamo conto che
questa problematica è esplicitamente posta da operai sui intervistati ( dei quali pensano ta-
le questione attraverso l’utilizzo della categoria di “padrone” e utilizzando il nome del vecchio
proprietario, Menarini). Essa è comunque reperibile con forme diverse (che qui non analizziamo)
in quasi tutte le restanti interviste.
. Cfr. F. Barca, M. Magnani, L’industria fra capitale e lavoro. Piccole e grandi imprese dal-
l’autunno caldo alla ristrutturazione, Bologna , pp. -. Sulla riduzione della scala minima
efficiente degli impianti, cfr. anche R. Varaldo (a cura di), Ristrutturazioni industriali e rapporti fra
imprese. Ricerche economico-tecniche sul decentramento produttivo, Milano .
. Qui utilizzeremo indifferentemente le nozioni di “distretto industriale” e di “sottosistemi
industriali locali e urbani a specializzazione flessibile”, in quanto faremo costantemente riferimen-
to ai caratteri specializzati, flessibili e territorialmente integrati di tali sistemi produttivi di piccola
e media impresa. Dei caratteri che sono comuni a entrambe le nozioni. Per una distinzione e un
approfondimento, cfr.: V. Capecchi, Una storia della specializzazione flessibile e dei distretti indu-
striali in Emilia-Romagna, in F. Pyke, G. Becattini, W. Sengenberger (a cura di), Distretti industriali
e cooperazione fra imprese in Italia, in “Studi e Informazioni”, supplemento n. al n. , ; e V.
Capecchi, Petite entreprises et économies locales: la flexibilité productive, in M. Maruani, E. Rey-
naud, C. Romani (éds.), La flexibilité en Italie. Débats sur l’emploi, Paris , pp. -.
. Barca, Magnani, L’industria fra capitale e lavoro, cit., pp. e . Cfr. anche F. Barca,
Modèle de spécialisation flexible des PME et écarts de rémunération in Maruani, Reynaud, Romani,
La flexibilité en Italie, cit., pp. -.
. Ivi, p. . Cfr. anche C. Borzaga, Il ruolo della piccola impresa nelle regioni italiane, in R.
Innocenti (a cura di), Piccola città e piccola impresa. Urbanizzazione, industrializzazione e inter-
vento pubblico nelle aree periferiche, Milano , pp. -.
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sta ricerca aveva mostrato come i giudizi degli operai sulla loro professionalità erano strettamen-
te legati alle funzioni loro attribuite, benché il loro “saper fare” era pensato non identificarsi con
queste stesse funzioni. Cfr. Ires, Met, Studio Giano, I mutamenti del lavoro e l’identità. Ricerca
nelle fabbriche metalmeccaniche di Bologna, Brescia e Reggio Emilia, Roma , p. . Come ve-
dremo, i giudizi degli operai Cesab ineriscono in realtà a delle capacità prescrittive degli stessi
operai rispetto all’organizzazione del lavoro da svolgere e non solo a dei “saper fare”, a delle com-
petenze professionali.
. Y. Schwartz, Expérience et connaissance du travail, Paris , p. .
. La produzione in Cesab è fortemente aumentata negli ultimi anni: da circa . carrelli
nel a . nel (cioè al momento dell’indagine). L’obiettivo dell’impresa è di raggiun-
gere i . carrelli nel corso del . Questo incremento produttivo, oltre a spingere a nuove
assunzioni (il personale è cresciuto negli stessi anni del %) ha indotto un processo di “modu-
larizzazione” del processo produttivo (i sottogruppi da montare sono prodotti e preassemblati
prevalentemente da altre imprese) e una maggiore standardizzazione del prodotto. In questo con-
testo, in caso di pezzi difettosi, gli operai non intervengono più, ma si preferisce rinviare il sotto-
gruppo difettoso ai fornitori.
. K. Marx, Il capitale, l. I, sez. III, cap. VI, Capitale costante e capitale variabile, Roma ,
p. .
. Ivi, p. .
. Secondo Schwartz, in Marx «che i mezzi di produzione non siano consumati se non nel
modo richiesto dalla produzione dipende dagli operai in due sensi: un elemento tecnico, l’“ad-
destramento”, la “formazione”, una miscela di conoscenza e apprendimento sul posto di lavoro;
un elemento direttamente sociale, la “disciplina”» (Schwartz, Expérience et connaissance du tra-
vail, cit., p. ). Come abbiamo visto, secondo i nostri interlocutori, venuto meno l’aggiustaggio,
ciò che richiede tecnicamente la produzione non comporta in sé l’impossibilità di una qualifica-
zione soggettiva del lavoro. Ciò che è oggettivamente necessario fare per realizzare una certa pro-
duzione non determina quindi la “qualità” del lavoro così come essa è intesa dagli intervistati.
. Marx, Il capitale, cit., l. I, sez. IV, cap. XIII, Macchine e grande industria, p. .
. Che la dimensione “cooperativa” e “sociale” del lavoro si debba “organizzare” mediante
un pensiero specifico è il presupposto di tutto il lavoro di Taylor. La scienza che propone Taylor è
un modo di organizzare il lavoro fortemente normativo e prescrittivo. In effetti, uno dei principi
più noti del taylorismo, e cioè che «tutta l’attività intellettuale deve essere eliminata dall’officina e
concentrata nell’ufficio programmazione» perché «il costo di produzione può essere ridotto sepa-
rando il più possibile il lavoro intellettuale e di programmazione da quello manuale» (F. W. Taylor,
L’organizzazione scientifica del lavoro, Milano , pp. , ), si basa principalmente sull’assioma
tutto politico secondo cui «in ogni lavoro che richieda la cooperazione di due diversi uomini o par-
ti, quando entrambi hanno uguale potere quasi sicuramente esiste una certa dose di disaccordo e
di incertezza e il successo dell’impresa ne soffre di conseguenza. Se, viceversa, una sola delle due
parti assume l’intera direzione, l’impresa progredirà con continuità e probabilmente con armonia»
(ivi, pp. -, corsivo mio). Questa dimensione normativa e politica dei principi di Taylor è rin-
tracciabile nella stessa idea di scientificità dell’organizzazione del lavoro da lui proposta: una scien-
za per il cui sviluppo, secondo Taylor, non è richiesta in realtà alcuna conoscenza propriamente
scientifica. Una scienza, quella di Taylor, il cui procedere non dipende tanto dalla sua capacità di
fornire nuove conoscenze rispetto a quelle “empiricamente” già disponibili, quanto dall’identifi-
cazione dell’organizzazione del lavoro come una problematica (politica) specifica, che richiede ri-
sposte e modi di pensare specifici: «lo sviluppo di una scienza (l’organizzazione scientifica del la-
voro) che sostituisce le regole empiriche non è, nel maggior numero dei casi, una formidabile im-
presa e può essere opera di uomini ordinari, senza alcuna preparazione scientifica» (ivi, p. ),
perché «le leggi e le norme che vengono stabilite risultano così semplici che a stento una persona
di media levatura le degnerebbe del nome di scienza» (ivi, pp. -). Entrando più nel merito: che,
come diceva Henry Ford, «l’operaio deve fare possibilmente una cosa sola con un solo movimen-
to» (H. Ford, La mia vita e la mia opera, Milano , p. ) è certamente un buon principio di eco-
nomicità dello sforzo e dei movimenti che può incrementare fortemente la produttività (e che
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chiunque abbia svolto in vita sua un lavoro manuale sottoscriverebbe); ma che ciò debba portare
alla «riduzione della necessità di pensiero da parte degli operai» (ivi) è affermazione che dalla pri-
ma non consegue necessariamente. Infine, un’ultima considerazione. Il sistema d’organizzazione
del lavoro fordista e taylorista, che ha nella catena di montaggio la sua figura in qualche misura
esemplare, è stato veramente un elemento economicamente così determinante per gli eccezionali
incrementi della ricchezza prodotta e della produttività che si sono registrati nel corso del Nove-
cento? Se, in effetti, l’organizzazione del lavoro attraverso catene di montaggio ha permesso rapi-
di guadagni in produttività nelle fabbriche d’assemblaggio (grazie alla forte economizzazione dei
tempi di montaggio che una certa dose di parcellizzazione produttiva garantisce), certamente non
è stato l’unico fattore a determinare guadagni di produttività in questo tipo d’industrie. Le econo-
mie di scala hanno anch’esse potentemente contribuito in questo senso aumentando la produtti-
vità del capitale fisso. Ma lo straordinario aumento della produzione di ricchezza registrabile per
tutto il secolo scorso deriva principalmente da altri due fenomeni: da un lato, l’eccezionale aumento
della produttività nell’agricoltura che, nei paesi industrializzati, permette ormai al % della popo-
lazione di nutrire il restante % (e non è certamente la catena di montaggio ad aver stimolato que-
sto straordinario fenomeno); dall’altro lato, i progressi nella produttività nelle industrie di proces-
so (siderurgia, metallurgia, chimica, materiali da costruzione, energia) che non vengono dall’uti-
lizzo della catena di montaggio, ma, essenzialmente, da economie di scala e dalla meccanizzazione
delle mansioni (cfr. Giraud, L’inégalité du monde, cit., pp. -).
. È abbastanza intuitivo che, come afferma Gallino, «aumentare la produttività non vuol
dire faticare di più nelle stesse condizioni di prima, bensì lavorare meglio; la produttività non au-
menta senza innovazioni di prodotto e di processo; il maggior giacimento di produttività cui si
possa pensare consiste in un’organizzazione del lavoro che rispetti e utilizzi l’intelligenza delle per-
sone». Mentre lavorare di più «permette di aumentare la produzione, ma non la produttività ora-
ria. […] È anzi possibile che la produttività diminuisca, dato che lavorare stanca, e quando si è
stanchi i ritmi si allentano e i rischi di errori crescono» (L. Gallino, Lavorare di più o meglio?, in
“la Repubblica”, luglio ). Lavorare soggettivamente meglio può dunque avere delle rica-
dute anche “oggettive” non trascurabili.
. J. P. Durand, Les modèles de la relation salariale, in J. P. Durand, P. Stewart, J. J. Castillo,
L’avenir du travail à la chaîne. Une comparaison internationale dans l’industrie automobile, Paris
, pp. -.
In particolare ci riferiamo qui alle riflessioni condotte da P. Adler, Nummi: de l’autonomie
du travail à la socialisation de la production?, in Durand, Stewart, Castillo, L’avenir du travail à la
châine, cit., pp. -.
. Ivi, p. .
. Cfr. ivi, p. .
. S. Albertini, La gestione delle risorse umane nei distretti industriali. Lavoro e partecipazio-
ne nella piccola e media impresa, Milano , p. .
. Veltz, Le nouveau monde industriel, cit., p. . Cfr. anche Zarifian, Le travail et l’événe-
ment, cit., p. .
. Albertini, La gestione delle risorse umane nei distretti industriali, cit., p. .
. Ibid.
. Cfr.: Veltz, Le nouveau monde industriel, cit., p. ; Durand, Les modèles de la relation
salariale, cit., p. ; ma anche Magnabosco, L’esperienza della grande impresa, cit., p. ; S. Vaccà,
Scienza e tecnologia nell’economia delle imprese, Milano ; P. Aydalot, D. Keeble (eds.), High
Technology and Innovative Environments: the European Experience, London-New York ; E.
Rullani, Più locale e più globale: verso un’economia postfordista del territorio, in A. Bramanti, M.
A. Maggioni (a cura di), Le dinamiche dei sistemi produttivi locali: teorie, tecniche, politiche, Mi-
lano , pp. -; G. Becattini, E. Rullani, Sistema locale e mercato globale, in F. Cossentino, F.
Pyke, W. Sengenberger, Le risposte locali e regionali alla pressione globale: il caso dell’Italia e dei
suoi distretti industriali, Bologna , pp. -; ma anche, in una prospettiva diversa ma com-
parabile, il classico P. d’Iribarne, La logique de l’honneur. Gestion des entreprises et traditions na-
tionales, Paris , pp. -.
U N A FA B B R I C A D A R I FA R E E L A Q U A L I T À D E L L AV O R O
Anche al lavoro pensare,
dire quello che si pensa*
di Anne Duhin
ANNE DUHIN
A N C H E A L L AV O R O P E N S A R E , D I R E Q U E L L O C H E S I P E N S A
cessario deve essere vagliato, controllato e misurato dall’operaio, che è anche re-
sponsabile del buon funzionamento della macchina, con tutte le operazioni con-
nesse, come rabboccare l’olio, nonché di tutte le attrezzature affidategli.
Le macchine semiautomatiche, non dotate di controllo numerico, necessi-
tano invece di una regolazione manuale e ciò è necessario più volte nel corso
della produzione, in quanto tali macchine perdono facilmente la taratura.
Le macchine manuali, infine, richiedono di essere predisposte adeguata-
mente ogni volta che la lavorazione cambia.
Quando una macchina va in panne, l’operaio non deve intervenire perso-
nalmente, ma informarne rapidamente il suo diretto superiore. Si tratta allora
di decidere se il guasto è abbastanza modesto da poter essere riparato dallo
stesso operaio o se è il caso di far intervenire personale specializzato.
Veniamo ora all’analisi delle risposte degli operai.
Qualificazioni del lavoro
a) Comparazioni
Alcuni operai hanno comparato il lavoro in una grande azienda a quello svol-
to presso un artigiano, mettendo così in evidenza una specificità del lavoro nel-
le grandi aziende.
«Non è difficile, però è abbastanza impegnativo – dice un intervistato – an-
che perché non c’è il tornio di un artigiano, qui alla Bonfiglioli, la parte riguar-
dante i programmi, che è la cosa più complicata, è già fatta, per cui è più che altro
un lavoro di carico, scarico e controllo dei pezzi, perché i programmi li hanno già
fatti tutti loro, li hanno già registrati; quando c’è da fare un piazzamento nuovo,
le operazioni da fare sono semplici».
Un altro operaio considera il contenuto del lavoro svolto presso un artigia-
no come più professionalizzante, in quanto più complesso e promotore del “ta-
lento” dell’operaio. All’opposto, il lavoro in una grande fabbrica viene presen-
tato come un lavoro di sorveglianza della produzione, d’approvvigionamento
della macchina e di scarico dei pezzi prodotti.
«Dall’artigiano il lavoro è molto vario, in un giorno puoi cambiare due o tre
volte lavoro. C’è bisogno che ti arrangi per fare un lavoro: se non c’è l’utensile, te
lo devi costruire, ci si diverte lavorando. In una ditta più grande, al livello della
Bonfiglioli, sono lavori già selezionati, già tutto fatto, predisposto. L’impegno è
quando arriva una macchina nuova. Delle macchine non vengono piazzate per an-
ni, fanno sempre lo stesso lavoro». (Direbbe che il suo lavoro è interessante?)
«Interessante magari no, interessante è quando ci sono delle cose nuove da fare,
quello mi interessa perché mi impegna, però per il resto, troppe cose sono di rou-
tine, diventa un po’ monotono».
ANNE DUHIN
In un’altra intervista, alla risposta allo stesso quesito: «Non secondo me, ba-
sta fare attenzione, non è difficile», ho rilanciato chiedendo cosa intendesse per
“fare attenzione” e la risposta è stata: «I primi tempi può essere difficile, ma do-
po capisci come funziona, e poi è ripetitivo, alla fine diventa sempre la stessa co-
sa. Tutti i giorni è lo stesso lavoro, per tutta la settimana».
Non troppo differenti sono le risposte venute da un altro intervistato: «Di
difficoltà non c’è n’è, sono lavori semplici». (Anche fare la preparazione della
macchina è semplice?) «Sono tutte cose che si imparano in fretta, anche perché
sono lavorazioni standard, sempre uguali, quindi diventa abbastanza noioso,
non sono lavorazioni complesse, possono essere lunghe ma non complesse».
Per questi operai, dunque, è il carattere “monotono”, “ripetitivo”, “sem-
plice” e “di routine” che qualifica il lavoro nelle grandi fabbriche, essenzial-
mente perché i pezzi da produrre sono sempre gli stessi e perché i gesti da com-
piere, una volta appresi, si fanno per abitudine e in maniera automatica.
«Il tornitore – annota un altro intervistato – deve saper programmare la
macchina, qui con il fatto che alla fine i pezzi sono sempre gli stessi, la parte re-
lativa è stata fatta da tempo, è per questo che quando bisogna cambiare il lotto
non c’è bisogno di inserire il programma, lo si inserisce dal computer. […] Da
un artigiano questo potrebbe anche essere un mestiere perché ogni giorno tu de-
vi fare un programma diverso; nelle grandi industrie la macchina è regolata e fa
. pezzi; tu non impari veramente un mestiere, in dieci anni qui dentro tu
non impari questo mestiere, ma da un artigiano in un anno l’impari».
Qui l’accento cade dunque sul frequente cambiamento delle operazioni da
svolgere, il quale permette, assieme all’esercizio della programmazione, un’ac-
quisizione di saperi; così si pensa venga una vera conoscenza del mestiere, che
è ritenuta invece molto difficile, se non impossibile, in una grande azienda.
L’opposizione “lavoro manuale/lavoro numerico” è al centro di altre ri-
sposte, come la seguente: «Ho seguito un amico che lavorava, è stata la mia ro-
vina, non ho avuto altro pensiero che lavorare in fabbrica». [Per quale ragione
dice che è stata la sua rovina?] «Perché non mi piace più l’ambiente dell’offici-
na, è cambiato il modo di lavorare. Una volta era l’uomo che lavorava, era tutto
manuale il lavoro, adesso le macchine sono programmate, tu non fai altro che fa-
re del facchinaggio, pagato molto male, perché se uno va a fare il facchinaggio
prende il doppio che prendo ora».
Dove si può notare che attraverso l’opposizione “lavoro manuale/lavoro
numerico” l’operaio denuncia la riduzione del margine di manovra preceden-
temente concessogli.
In questa affermazione, come nelle precedenti, le differenze tra lavoro ar-
tigianale e lavoro in una grande fabbrica non sono ricondotte a una questione
di ordine produttivo, ma alludono anche ad altro: a una differenza di punti di
vista, quello dell’operaio e quello della direzione; a proposito del lavoro si de-
lineano quindi due concezioni di lavoro. Due concezioni che dipendono da fat-
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ANNE DUHIN
ma, mentre coi manuali devi fare tutto con semplicità, devi organizzare tu il la-
voro, in senso metaforico, vedere se il pezzo viene bene o male, fare delle modifi-
che con le mani».
In fondo qui è il lavoro sulle macchine a controllo numerico a essere con-
siderato più interessante. In effetti è l’utilizzo della tecnica attraverso il ricorso
al computer che fornisce il lato professionale del lavoro. Anziché la qualità del
gesto manuale, come nel caso della citazione precedente, qui emergono altri va-
lori. “Devi fare tutto con semplicità”, “fare delle modifiche con le mani”, “de-
vi organizzare tu il lavoro, in senso metaforico”: sono tutti argomenti di svalu-
tazione di questo tipo di lavoro. In questo caso, il fatto di dover intervenire su
tutte le tappe della produzione del pezzo, ma anche di avere il controllo di tut-
te le tappe e d’intervenire manualmente è visto come una mancanza di tecni-
cità nel lavoro, confermando così il carattere obsoleto di questo modo di lavo-
rare. È interessante notare come questo intervistato utilizzi le medesime argo-
mentazioni dell’interlocutore precedente per sviluppare un concetto opposto.
Le affermazioni che seguono si configurano diversamente, perché questi
intervistati, che hanno lavorato su entrambi i tipi di macchina, non mettono
su un piano comparativo i due tipi di lavoro, bensì li assegnano a due spazi
diversi.
«Sono due fasi diverse – dice un operaio – prima dovevi essere un buon la-
voratore manuale, dovevi conoscere gli utensili, il materiale che lavoravi, trovare
tutti i giri, era interessante anche prima, adesso è diverso, tutto è già preparato,
quello che ti fa fatica è il programma, è molto professionale, permette di avere pro-
fessionalità e di conoscere il processo».
Un altro: «Prima, per lavorare un pezzo, avevo una barra grande così, pren-
dere la barra, l’utensile da me, mentre ora tutto è già predisposto, è già semilavo-
rato, la cosa più difficile è la programmazione della macchina e quindi per chi non
ha fatto un po’ d’istruzione, di scuola, è difficile; se non conosci la programma-
zione, non ti muovi per niente. Sono due esperienze diverse».
Qui si presentano dunque due forme di lavoro diverse che fanno riferi-
mento a capacità diverse, non comparabili.
Alla luce di questa analisi, si nota una volta ancora che le affermazioni de-
gli operai non sono inscrivibili nel medesimo registro e che la distinzione tra il
lavoro su macchine manuali e il lavoro su macchine a controllo numerico atti-
va il pensiero di ognuno riguardo al proprio lavoro in modi diversi.
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«Il modo di lavorare – dice un intervistato – il saper stare vicino a una mac-
china, a bordo macchina e avere una visione di quello che si deve fare, poi stare
attenti a muovere le mani, mettere le mani dove si deve, al momento giusto per-
ché si rischia di farsi male, poi col tempo viene l’esperienza, cominci ad avere il
tuo modo di lavorare, non seguire più gli altri». [Cosa intende per “avere il tuo
modo di lavorare”?] «Ci sono vari metodi per poter lavorare, ognuno ha il suo,
anche se la sostanza è sempre quella, magari si riescono a trovare delle vie più qua-
litative per raggiungere l’obiettivo».
Qui, inizialmente, si sottolinea l’importanza della postura fisica, del saper
muovere il corpo, dell’adattare i propri movimenti per fare al meglio questo ti-
po di lavoro. Si insiste sull’esigenza di una strategia d’insieme con cui organiz-
zare i gesti da compiere: “avere una visione di quel che bisogna fare”. Ma, sot-
tolineando che ciascuno lo fa a suo modo, questi enunciati sostengono che, an-
che nel rispetto delle consegne ricevute, questo tipo di lavoro consente all’o-
peraio di dargli la propria impronta, integrandovi astuzie, inventando scorcia-
toie o trovando altri espedienti.
C’è anche chi parla di autonomia: «[Essere autonomo] vuol dire che l’ope-
raio sa stare sulle macchine, ci arriva, si sa gestire bene, un rapporto di confiden-
za con la macchina, del feeling tra la macchina e l’operaio». (Cosa intende?) «Sod-
disfazione dell’operaio, anche convivere con il rapporto macchina/operaio, cono-
scere cosa si fa e come si fa. Se tu conosci quel che fai, conosci la macchina, ti sai
gestire bene, sai come fare. [...] Rimanendo degli anni sulle stesse macchine, l’e-
sperienza ti insegna a conoscerle, sai già muoverti bene».
Autonomia qui significa dunque capacità di gestire, di convivere con la
macchina.
Macchina, che un altro operaio associa a qualcosa (come l’auto) di suo
possesso. «Sono sempre stato sulle rettifiche manuali, poi meccaniche». (Co-
me ha imparato il suo lavoro?) «Con i tecnici che venivano a installare gli im-
pianti, loro ti davano le basi per iniziare e poi piano piano tu ti applichi al la-
voro, piano piano vai avanti, con gli anni, vari trucchi della macchina, è come
con la propria automobile, uno sa i difetti della propria automobile, quindi...».
Qui siamo dunque in tutt’un altro spazio rispetto a quello delle consegne
impartite dalla direzione: è lo spazio di un rapporto di interiorità dell’operaio
con il proprio lavoro.
Nelle citazioni che seguono, il lavoro è posto in relazione all’intelletto, alla “te-
sta”. Un termine che ritorna in più risposte: «Non c’è tanto da imparare – dice
un intervistato – basta esserci con la testa, non distrarsi, ci sono momenti in cui
ti puoi distrarre, prendere un caffè, ma quando c’è il pezzo è meglio non esserlo
(distratto)». E un altro: «La rettifica è la lavorazione finale del pezzo, si fanno le
ANNE DUHIN
rifiniture sul pezzo, deve avere una certa misura ben precisa, parliamo di centesi-
mi, dopo la rettifica, sono montati. Bisogna essere abbastanza precisi, bisogna es-
sere abbastanza presenti con la testa».
Notiamo che l’utilizzo delle capacità intellettuali è considerato “necessario
in una certa fase del lavoro”, stando alle affermazioni del primo operaio, men-
tre viene considerato “costante” dal secondo. Ma ci sono anche enunciati con
diversa accentuazione: «Essere presente con la testa vuol dire dare interesse al
tuo lavoro, attenzione alla sicurezza. Senza la testa puoi sbagliare, poi se sei serio
devi essere soprattutto presente colla testa».
Qui “essere presente con la testa” può essere letto in due modi diversi. Il
primo è attinente all’idea che abbiamo già incontrato nelle precedenti citazio-
ni, cioè quella della stimolazione dell’attenzione durante le diverse fasi di lavo-
razione. Il secondo si riferisce a una dimensione più soggettiva (“prestare at-
tenzione al tuo lavoro”), che richiama il rapporto tra il lavoratore e il proprio
lavoro. In effetti, prestare attenzione a ciò che si fa, essere presenti soggettiva-
mente, mobilitare le proprie capacità equivale a mettersi in gioco, a investirsi
soggettivamente nel proprio lavoro.
Vediamo ora come ogni operaio considera il suo lavoro nel senso di “posto
di lavoro”.
Molteplici posizioni di fronte al lavoro
a) “Affrontare il lavoro”
Qui gli enunciati ruotano attorno alla questione di come lavorare al meglio.
«Personalmente – dice un operaio – io sono molto attento all’ordine, alla pu-
lizia sull’impianto, perché ritengo che l’ordine, la pulizia fa sì che l’operatore la-
vora meglio. Dopo di che il lavoro che devo svolgere lo faccio con più entusiasmo.
È una cosa messa insieme, l’ordine mi aiuta tanto a far sì che le cose vadano be-
ne». (Per quale motivo è importante per lei?) «Credo che per me è un fatto...
l’ordine mi dà la sicurezza che ho tutto sotto controllo».
Essere ordinati e mantenere la propria postazione pulita sono delle con-
segne date dalla direzione agli operai per svolgere il loro lavoro. Ma nelle af-
fermazioni dell’intervistato, più che indicazioni a cui conformarsi obbliga-
toriamente, queste consegne designano uno spazio soggettivo, una propria
visione del lavoro: «Dopo di che, il lavoro che devo fare lo faccio con più en-
tusiasmo».
Ci sono anche dei momenti di particolare impegno e preparazione al lavoro:
«Se succede di rettificare dei particolari molto più impegnativi – dice un altro in-
tervistato – mi metto nelle condizioni di affrontare il lavoro». Cosa intende per
“affrontare il lavoro”? «Può capitare che l’azienda ha bisogno di fare uno speci-
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fico particolare, che esce fuori della normalità del lavoro. Normalmente lavoria-
mo con delle qualità più facili, quindi l’operatore lavora con più tranquillità, in-
vece quando ci dobbiamo confrontare con particolari che chiedono più precisione,
da parte mia aumenta l’impegno nell’affrontare questo lavoro. Nella normalità
delle cose non è che sia facile, ma perché è da anni. Però quando si fa un partico-
lare, io mi metto nella condizione di operare in un modo diverso, è tutto lì».
ANNE DUHIN
Da questi enunciati emerge dunque uno spazio soggettivo degli operai ri-
spetto al loro lavoro. Si tratta di uno spazio condiviso da tutti gli intervistati,
indipendentemente dalle loro qualifiche ed età diverse, e che non impedisce del
resto che gli ordini di produzione posti dalla direzione siano rispettati.
È interessante notare che nella maggioranza delle risposte alla domanda “cosa
pensa delle iniziative nel suo lavoro?”, “iniziative” si sia inteso nel senso di un
“fare cose” di cui i “capi” non sono al corrente, vale a dire andare al di là del-
le consegne ricevute. Ciò fa pensare che tra gli intervistati prevalga la convin-
zione che la direzione accetti difficilmente le iniziative degli operai.
«Se [i capi] lasciassero far qualche operazione in più all’operatore – sostiene
un intervistato – rispetto ai tempi di produzione si perderebbe del tempo, la pro-
duzione avrebbe degli svantaggi: quando gli operatori possono se ne vanno per-
ché il lavoro monotono non piace».
Dal che si può chiaramente intendere che “iniziative” e “produzione/tem-
po” sono qui in netta opposizione, mentre l’intervistato propone che la fabbri-
ca sia un luogo dove, attraverso delle iniziative, venga lasciato spazio all’ap-
prendimento degli operai.
L’avviso di un altro operaio va in direzione opposta: «Bisogna dare un po’
di libertà di scelta». «Prendiamo delle iniziative – egli lamenta – ma la direzio-
ne non va in quel senso. [...] Adesso ci sono degli strumenti per togliere ogni ini-
ziativa. È come se ci chiedessero di applicare soltanto». Cosa ne pensa? «Per me
bisogna dare un po’ di libertà di scelta; non posso fare come dicono loro perché
ognuno ha le sue esperienze, i suoi punti di vista. Il compito è fare bene, fare me-
glio, fare di più. Tu non puoi dire “devi fare in questo modo qua, fare questo pro-
gramma qua”, quando io ne so di più. Bisogna dare un po’ di fiducia agli operai».
Pronunciandosi in favore della possibilità di più iniziative, d’“un po’ di li-
bertà di scelta”, con questi enunciati si richiede “fiducia” per gli operai da par-
te della direzione. È in effetti di estremo interesse sottolineare che le parole e
le proposizioni di questo operaio non si costruiscono in opposizione all’idea
di produrre, di rendere, di fare presto, e che su questo punto egli è in omoge-
neità completa con la direzione: «il fine è di fare bene, fare meglio, fare di più».
Ma c’è anche chi sottolinea che «bisogna essere forte per prendere delle ini-
ziative». E al rilancio (“che cosa intende più precisamente?”), la risposta è:
«Perché ti metti contro certi programmi, contro quelli che chiedono». Intende
dire forte di carattere? «Sì ma anche essere sicuro, se ti dicono vai a . e tu
dici no, vado a ., bisogna essere forte perché loro non lo ammettono». Come
spiega ciò? «Questo è un problema informatico, vogliono avere dei dati fissi per
un maggior controllo. Questo pezzo mi prende minuti, però se domani mi por-
ti un pezzo che è da minuti e tu vedi che è da minuti perché il lavoro è un
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po’ diverso, il pezzo è diverso, perché io ci guardo, se ci si mette di più, devo met-
terci di più anche se loro vogliono che ci metta di meno».
Queste parole mettono in dubbio che le scelte di gestione del personale
operaio dipendano sempre e solo da preoccupazioni di produttività. L’esigen-
za del controllo viene dunque ritenuta a volte eccessiva. Ed è anche proprio per
contenere simili eccessi che viene rivendicato il riconoscimento da parte della
direzione delle capacità e delle conoscenze degli operai.
Il tema del controllo ritorna anche in altre risposte critiche. Ad esempio la
seguente, che paragona l’azienda a una caserma e a una scuola.
«Qui è un po’ come una piccola caserma. Il potere è lì per gestire. Non si de-
ve muovere nulla, finché non viene una persona al di sopra di te. È un po’ come
essere a scuola».
O anche la seguente, che propone un’interessante riflessione generale sul
discorso del potere e del rapporto tra questo e il sapere: «Ogni cosa fatta senza
il permesso viene vissuta come una prevaricazione, una mancanza di rispetto per
il capo, quindi te la bloccano. È molto interessante vedere anche come la più pic-
cola cosa che puoi fare sul lavoro loro la vogliono sapere; si potrebbe fare altri-
menti, ma non deve sfuggire nulla di cui loro non siano al corrente. Questa cosa
è legata al discorso di potere, il potere ha bisogno di controllare il più possibile,
chi gestisce il potere non sopporta di non sapere tutto. Il bisogno di sapere tutto è
legato alla paura di perdere il potere, c’è questo bisogno di sapere tutto».
Qui è chiaramente denunciata la preoccupazione della direzione azienda-
le di controllare il lavoro operaio e di limitarlo a un lavoro puramente esecu-
tivo. Ma si prospetta anche come possibile un altro tipo di soggettività ope-
rante in fabbrica.
Sempre sullo stesso tono, un altro operaio rivela una contraddittorietà nei
comportamenti dei capi: «[Quando prendi una iniziativa] se hai fatto bene [i
capi] stanno zitti e basta. Se tu sbagli ti danno addosso. È già capitato una volta.
Danno una lista di quello che si doveva fare, è capitato che abbiamo già finito tut-
ta la lista, allora abbiamo tenuto ferma una macchina. Quando è arrivato il di-
rettore dello stabilimento, ha chiesto: “perché non avete fatto un altro pezzo?”.
Noi abbiamo detto: “ma pensiamo che...”. Lui ha detto: “non dovete pensare, ma
agire!”. Invece, se è sbagliato, dicono che si deve pensare e non agire!».
Il pensare o meno, dunque, come importante posta in gioco delle relazioni
di fabbrica.
Ma altri ancora non vedono, né desiderano alcuno spazio per le iniziative.
(Prende delle iniziative nel suo lavoro?) «No, perché quando si devono fare i pez-
zi bisogna farli in un certo modo, nessuno li può fare alla sua maniera». Le pia-
cerebbe prendere delle iniziative? «Per me va bene anche così».
Tra le nostre risposte non mancano quelle che danno una versione tutta in-
dividualistica di questa questione delle iniziative. Un intervistato, ad esempio,
la fa dipendere dalla variabile quanto mai aleatoria dello “stato d’animo”. Qui
ANNE DUHIN
non viene rivendicato alcun riconoscimento da parte della direzione del sape-
re proprio degli operai, né tantomeno si pensa a una possibile tensione tra ope-
rai e direzione rispetto al lavoro.
All’opposto, altri intervistati parlano di conflitti e di forme di violenza an-
che all’interno delle scelte più tecniche.
«Tu pensi che la cosa può essere fatta in un modo e loro decidono di farla in
un altro modo. E a volte anche l’insistenza dei capi nei nostri confronti è una vera
e propria forma di violenza». Cosa vuole dire? «Perché magari non riescono ad ave-
re una grande facoltà di saper ascoltare facendo rimanere la tua parola chiusa in sé.
Ma con tranquillità non è una cosa proprio fatta male, magari è perché sono già sta-
te fatte delle prove e la cosa doveva proprio andare così e noi magari facciamo fati-
ca ad accertarlo». Lei parlava di violenza? «Perché tu pensi magari che la cosa va
fatta in una certa maniera e loro decidono di farla in un altro modo, poi perché ci
sono dei giorni in cui la produzione ha una consegna breve, dobbiamo aumentare
tutti gli avanzamenti di una macchina e loro cominciano a sentirsi sotto pressione,
e quindi ci troviamo a usare di più la forza fisica che quella intellettiva». Cosa vuol
dire? «Perché dobbiamo avere come dei paraocchi, dobbiamo solo fare pezzi in
quantità senza capire con che metodo lo stiamo facendo e soprattutto con che tipo
di qualità».
Questo tema dell’intelligenza dell’operaio, e della violenza che può normal-
mente subire in fabbrica, torna anche in questa altra serie di enunciati molto si-
gnificativi. «Un operaio deve smettere di pensare quando viene a lavorare, deve fa-
re il robot, se pensa è un difetto. Al lavoro deve fare quello che si dice, secondo me
è un errore. È molto grave, ciascuno deve essere se stesso, anche al lavoro, pensa-
re, dire quello che pensa, senza avere paura. Nel mondo del lavoro è così, dapper-
tutto, per fare carriera devi restare silenzioso, ma non è il mio caso. Io sono... io
non farò mai carriera, ma sono molto coraggioso anche perché dico quello che pen-
so, anche perché sono bravo al lavoro. Per me è meglio avere . lire in meno e
avere una macchina pulita, non averli sotto. Per me va male perché si è creata...
Ognuno pensa a fare le scarpe all’altro per avere un po’ di soldi in più».
Non pensare, fare il robot, stare silenzioso, avere paura, fare carriera: da un
lato, tutto questo. Dall’altro: essere se stesso, pensare, dire quello che si pensa,
essere coraggioso e bravo sul lavoro. Divisione chiara, netta, ma “grave” e sof-
ferta («per me va male») e in un ambiente non favorevole («ognuno pensa a fa-
re le scarpe all’altro»), ma unica via per «non averli sotto».
Passiamo ora al tema della socialità.
La fabbrica come mondo
“Una specie di paese”: tra gli operai c’è anche chi qualifica così la “ditta” Bon-
figlioli.
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«La fabbrica ha un aspetto che è molto pettegolo, per passare il tempo, è una
specie di paese, giocoso, un po’ cattivo, quello che fai col tuo collega sai che dopo tut-
ta la ditta lo saprà, e questo aspetto non è del tutto positivo ma è molto umano, una
maniera di passare il tempo, le chiacchiere vanno in giro da sole».
L’aspetto “chiuso” della fabbrica la fa pensare come un piccolo paese, in
cui tutti si conoscono, e si tende a sparlare. Ma questo parallelismo tra fabbri-
ca e paese dice anche del risvolto caloroso dei legami tra operai, malgrado la
loro apparente durezza: «non è del tutto positivo, ma è molto umano».
Altri sottolineano “le grandi simpatie” che si possono creare in questo luo-
go, qui descritto con un’atmosfera un po’ familiare, con riti precisi.
«Si creano anche grandi simpatie, grande solidarietà. Belle amicizie, un po’ di
famiglia, e poi lavori molto, tendi a stare con le persone con le quali ti senti più
in sintonia, dei riti ben precisi: prendere il caffè, chiacchierare, il secondo caffè del-
la mattina, che prendi coi colleghi con cui senti di avere stima, affetto e simpatia».
Dal che risulta che questa notevole socialità ritma anch’essa il tempo della
vita di questa fabbrica.
Altra espressione che conferma questa dimensione è il paragonare la Bon-
figlioli a “un piccolo mondo”.
«La fabbrica è una specie di piccolo mondo, trovi di tutto. [...] Nascono an-
che [...] dei bei rapporti, anche se c’è un’ambiente chiuso, pettegolo. Puoi avere
molte molte conoscenze».
Qualcuno apprezza la possibilità di incontrare persone belle, intelligenti,
geniali, cosa che rende l’ambiente “ancora autentico”.
«Dico che dentro la fabbrica dove si annida l’olio… spesso qui cova il genio,
trovi delle belle persone, anche proprio ragazzi intelligenti. Un mio collega, pri-
ma di venire qua dentro andava in tourné e faceva il ballerino di danza classica
con le operette. È incredibile, ci sta bene! È un ambiente ancora autentico».
Un altro intervistato oppone un piano professionale a un piano umano, il
solo, questo tra operaio e operaio, che fa della fabbrica un luogo soggettiva-
mente positivo. Cos’è la fabbrica per lei? «È stato sul piano umano un bel ri-
sultato alla fine, posso dare qualcosa, invece di prendere, a me stesso e agli altri.
Sul piano professionale è un fallimento, ritornerei indietro, non verrei, anche se
mi piace. La professionalità è negativa per me, però sono solo buono a fare que-
sto. Grazie a degli amici che ho trovato, sono divenuto più uomo».
Anche in questa risposta di un giovane operaio ritorna il tema della fab-
brica come luogo di formazione della soggettività in senso lato, ma qui si qua-
lifica anche come luogo per un confronto positivo tra generazioni diverse: «Mi
sento più cresciuto, questo è sicuro, magari essendo a contatto con più persone,
magari molto più grandi di me, che mi hanno insegnato molte cose». Cosa? «Mio
nonno direbbe “a stare al mondo”». Più precisamente? «Esperienze sul lavoro,
di vita normale, di interessi, un po’ di tutto magari. Solo gente di una certa età
possono consigliarti, visto che sono uno dei più giovani. Comunque non avrei mai
ANNE DUHIN
pensato di trovarmi bene con della gente di una certa età, non avrei mai pensato
di andare così d’accordo, perché dove lavoravo prima eravamo della stessa età, è
una cosa che mi è piaciuta molto essere a contatto con della gente più grande di
me, perché sono convinto che c’è molto da imparare...».
Conclusioni
Dall’analisi di ciò che pensano gli operai del loro lavoro risulta una moltepli-
cità soggettiva, all’interno della quale si può dire che nessuna concezione, clas-
sista o meno, prevalga sull’altra. Più e diversi modi di pensare stanno fianco a
fianco e ciascuno rivendica una propria singolarità, che solo raramente sconfi-
na nel puro e semplice individualismo.
Un chiaro punto di convergenza riguarda l’esigenza di un riconoscimento
e di una presa in conto da parte della direzione del sapere e delle capacità de-
gli operai nel loro lavoro.
“Essere se stessi”, vale a dire non fare completamente astrazione da quello
che si è, da ciò che si sa e si pensa: un’altra questione, questa, che risulta ben
presente tra i nostri intervistati e che fa mettere in discussione comportamenti
contraddittori dei capireparto, nonché propensioni al puro controllo da parte
della direzione.
La fabbrica, in effetti, non è mai identificata solo come luogo oggettivo del-
la produzione, ma è assunta soggettivamente. Così la Bonfiglioli, nelle parole
di chi pure vi svolge un lavoro prevalentemente esecutivo, viene presentata co-
me luogo di molteplici incontri, tra operaio e operaio. “Paese”, “famiglia”,
“mondo”, sono quindi i paragoni che si accostano a quelli con “caserma” e
“scuola”, mentre i “pettegolezzi” risultano mischiati alle possibilità di “belle
amicizie”, “grandi solidarietà”.
Si può dunque riconoscere una socialità tra operai che non implica però
che essi abbiano una rappresentazione omogenea dei loro rapporti reciproci.
Né tra loro è riscontrabile una cultura circolante tra fabbrica e società, per cui
la dimensione della prima si confonderebbe con quella della seconda. Del tut-
to diversamente, gli operai intervistati hanno dato della fabbrica molteplici rap-
presentazioni che l’hanno caratterizzata come luogo singolare.
L’insieme di questi risultati mostra che l’investigazione della fabbrica è una
posta essenziale per la comprensione del mondo contemporaneo.
Da operaio a operaio
(nota del curatore)
I testi precedenti sono stati estratti da un vasto rapporto di inchiesta (di circa
pp.). Per rimarcare le ulteriori ragioni d’interesse che merita questo lavo-
A N C H E A L L AV O R O P E N S A R E , D I R E Q U E L L O C H E S I P E N S A
ro, da me seguito nel corso del suo svolgimento, riporto qui di seguito una par-
te dei commenti che gli ho dedicato durante la seduta tenuta l’ dicembre
presso l’Université Paris, diretta da Lionel Obadia, alla quale hanno parteci-
pato Sylvain Lazarus, Vittorio Capecchi, Alain Bertho e Jean Pierre Durand e
a seguito della quale Anne Duhin ha ottenuto il Doctorat d’État con le felici-
tazioni della commissione.
Quali sono le prescrizioni che si possono trarre dal lavoro di Anne Duhin?
In un primo momento può sembrare che si tratti solo di prescrizioni che
vengono dal passato. In effetti, è proprio sulle questioni della storia del movi-
mento operaio, del classismo degli anni Settanta, della loro fine e del vuoto che
esso ha lasciato oggi tra gli operai della Bonfiglioli, che finora si è prevalente-
mente discusso. Ricchissime sono infatti le suggestioni in tal senso che vengo-
no dalle risposte contenute in questo rapporto d’inchiesta. Ma a insistere trop-
po su questo aspetto mi pare si rischi di interpretare l’insieme di questo grosso
lavoro in un senso un po’ nostalgico.
La nostalgia è del resto proprio la parola che viene usata in quella che trovo
una delle risposte più evocative di tutte le interviste: «Io mi definisco un operaio,
ma ci sono anche certuni che dicono che sono operatori. Mi fa ridere. [...] Io mi so-
no sempre sentito operaio. [...] Per me operaio è bello, non si deve dimenticare che
io appartengo alla vecchia guardia, una cosa un po’ tradizionale. Ma comunque per
me operaio è bello. Mi piace questo termine… mi sembra, mi sembra degno; ha
una storia, la classe operaia, gli operai in sciopero! L’operaio ha una storia, perché
cambiare? [...] Gli scioperi operai, gli operai in strada, è bello perché è una storia,
l’operaio! In questo c’è una componente nostalgica. Il vecchio operaio è scompar-
so. La classe operaia, operai in strada, è un po’ l’immagine di questi operai, degni,
che combattono tutti uniti nel tentativo di ottenere qualcosa!».
In questa visione epica ed estetica dell’operaio e del classismo c’è un’oscil-
lazione tra l’ammissione della “componente nostalgica” e la domanda “perché
cambiare?” tutta rivolta al presente. La questione sembra essere che è dal bi-
lancio del passato che si può sapere a che punto si è nel presente, ma che que-
sto bilancio è comunque aperto ed è del tutto nel presente, del presente. Un
presente che comunque non è affatto accettato per quel che è. Operatore in-
vece che operaio fa ridere…
In altri enunciati, qualsiasi conflitto nel presente sembra essere impossi-
bile. La fabbrica viene associata alla scuola, alla caserma. In un altro caso, la
fabbrica, ampliata in una prospettiva che include “il mondo del lavoro”, è ca-
ratterizzata proprio come un luogo del tutto contrario al pensare e al dire del-
l’operaio. Ma la questione di esistere come soggetto attivo e pensante resta
acuta, quasi bruciante: «Un operaio deve smettere di pensare quando viene al
lavoro. Deve fare il robot. Se pensa è un difetto. Al lavoro devi fare quello ti vie-
ne detto, ma secondo me è un errore. [...] Ognuno deve essere se stesso, anche
ANNE DUHIN
al lavoro, si deve pensare, dire quello che si pensa, senza avere paura. Nel mon-
do del lavoro è così, dappertutto, per fare carriera tu devi stare zitto. Ma non è
il mio caso. Io sono…, non farò mai carriera, ma sono molto coraggioso, dico
quello che penso».
“Paura”, “coraggio”, “io”, “dire”, “pensare”, “si deve”. Questo intervista-
to, che considera la rinuncia a far carriera come condizione di esistere come
soggetto parlante e pensante, si esprime esattamente col tono di ciò che inten-
do per prescrizione.
Dove e come si può esercitare questa volontà dell’operaio a dire, a pensa-
re, tutta al presente?
Nel capitolo che Anne Duhin dedica al tema “lavorare cogli altri”, mi pa-
re si trovino alcune risposte a questa domanda.
Al centro della questione sono i rapporti da operaio a operaio, che riguar-
dano il sapere: la “collaborazione tra chi sa e chi sa meno”. Ma si tratta di rap-
porti complessi, come mostra la risposta che continua così: «A volte la persona
che sa meno comprende qualcosa che può insegnare, magari perché ha più elasti-
cità mentale, riesce ad arrivare dove gli altri non ce la fanno. Anche dai più pic-
coli si può imparare, succede sempre».
Un altro enunciato sottolinea il dovere di dare e ricevere le nozioni ricavate
dall’esperienza: «Chi è nel reparto da più tempo ha un’esperienza in più rispetto
a chi è entrato da poco, allora questa persona deve trasmettere tutte le nozioni del
lavoro che ha imparato [...] e chi gli sta davanti ha l’obbligo di ricevere».
Esistono addirittura delle figure riconosciute come “i saggi”: «Persone dai
capelli bianchi, quelli che sono chiamati i saggi. Da come si muovono riescono a
farti comprendere il modo in cui lavorare: pulizia, calma, usare il tornio, tutte que-
ste cose qui. Per il nostro lavoro è importante seguirli visivamente».
Le differenze di qualifica non devono comunque fare ostacolo. Poche pa-
role possono bastare: «L’importante è di intenderci bene, di comprenderci, di ri-
spettarci l’un l’altro, anche se ci sono delle differenze di qualifiche. Uno può an-
che essere un terzo livello, un quinto superiore, ma non ci devono essere differenze
per questo. Quando parliamo tra noi, in due o tre parole sappiamo cosa dobbia-
mo fare, senza perdere due o tre ore per capirci [...]».
Ma, secondo quanto dice questo stesso operaio, «le persone non hanno un
sistema predisposto al dialogo. È già successo e succederà di non comprendersi,
ma se una persona si impegna e dice “voglio lavorare con questo gruppo”, a mio
avviso, ce la può fare».
In altre risposte si coglie ancora più nettamente un problema di conoscen-
za quanto al modo di rapportarsi cogli altri operai: «Ultimamente un collega mi
ha fatto una critica che non era giusta, ho risposto con calma, visto che lui lo ave-
va fatto in modo corretto, e poi ho lasciato cadere la questione. [...] L’autogestio-
ne è molto importante: una buona gestione dei rapporti con gli altri, ma non tut-
ti ce l’hanno [...] la gente non sa che questa gestione è possibile».
A N C H E A L L AV O R O P E N S A R E , D I R E Q U E L L O C H E S I P E N S A
Ma c’è anche un giovane assunto da poco che si lamenta: «Non è sempre ve-
ro che gli operai si aiutano tra loro, certi operai non vogliono insegnare. [...] Se
tu non sai fare una cosa perché non ti ricordi, il tuo collega non è obbligato, an-
che perché ha il suo lavoro, i capi devono essere più vicini in questa fase». E an-
cora: «Il sistema d’insegnamento non è efficace, a livello dei responsabili devono
insegnare di più».
Un altro neoassunto invece spiega: «Sono gli operai a insegnarmi le cose. Lo-
ro mi insegnano meglio che il caporeparto».
Da tutto ciò ricavo un punto assai preciso. La questione di quel che alcuni so-
ciologi del lavoro chiamano “capitale intangibile” o altrimenti quel che gli eco-
nomisti à la page chiamano knowledge economy. Insomma, l’importanza del sa-
pere, delle conoscenze nella produzione. Le macchine, lo si sa, non sono che sa-
pere materializzato, tangibile, e tanto più ne contengono, tanto più valgono.
D’altra parte, la formazione, l’immissione del sapere tra chi fa lavori esecutivi è
uno dei temi più trattati oggi. E il sapere che gli operai stessi accumulano con la
loro esperienza, che si trasmettono tra loro, guardandosi, parlandosi, ogni gior-
no, magari anche disputando, o di nascosto, magari anche contro capireparto o
dirigenti fissi nella loro idee di disciplina e di produzione? A me pare che è esat-
tamente di questo che ci parlano queste voci raccolte da Anne Duhin alla Bon-
figlioli. E che mostrano quanto sia ampio il terreno di intervento per chi voles-
se e potesse raccogliere le prescrizioni che su simili argomenti vengono e pos-
sono venire da questi stessi operai, se interpellati adeguatamente come gli unici
esperti in materie, come questa del loro sapere, poco o nulla conosciute.
Note
Una benevola forma di egoismo.
I volontari della Casa dei Risvegli
di Laura Filippini
Viene qui presentata un’indagine condotta all’interno della realtà vissuta e rac-
contata con preziose parole da un gruppo di volontari, interpellati come de-
tentori di uno spazio intellettuale che troppo spesso non trova il modo di rac-
contarsi e che viene rappresentato e descritto da persone e istituzioni che non
lo conoscono nella sua totalità.
Obiettivo della ricerca è mettere in luce cosa i volontari dicono sul e intor-
no al volontariato; essi spesso non si identificano nella visione che la società dà
di loro, prova inconfutabile di una distanza fra l’opinione pubblica e la realtà
del volontariato. Le parole dei volontari possono così avere una portata non so-
lo conoscitiva della situazione che raccontano, ma anche pragmatica, di azio-
ne, conseguente a una richiesta di cambiamento migliorativo.
Il campione
LAURA FILIPPINI
I luoghi
Il presente studio vuole essere molto attento ai luoghi ove si svolgono le atti-
vità dei volontari intervistati, per questo si è cercato di usarli come ambienta-
zione delle interviste. Questo perché si è convinti che, per parlare di qualco-
sa, sia necessario, prima di tutto, rintracciare l’ambiente ove questo qualcosa
si articola e si compie. Questa è stata dunque una ricerca “sul campo”, forte
dell’idea che tutto il conoscibile vada contestualizzato e che l’astrazione sia
un’operazione impropria se non distruttrice di significati. È nella dimensione
specifica in cui si articola un fenomeno sociale, non in quella astratta e gene-
rica della società, che sostengo debbano essere analizzati e verificati empiri-
camente concetti come “solidarietà”, “eticità” e tanti altri, con l’intenzione di
non rendere questi concetti parole vuote, senza significato, dette senza quasi
rendersene conto.
– Nel caso dei volontari la cui attività comporta il contatto con persone ospe-
dalizzate, il luogo scelto per l’incontro è stato la biblioteca del Day Hospital
dell’Ospedale Maggiore di Bologna in largo Nigrisoli, .
– Nel caso dei volontari che svolgono l’attività organizzativa e promozionale, il
luogo scelto è stato la saletta riunioni dell’associazione in Via Saffi, a Bologna.
UNA BENEVOLA FORMA DI EGOISMO
– Infine, nel caso dei volontari della Croce rossa italiana, il luogo è stato la
sede dei Volontari del soccorso in via San Petronio Vecchio, a Bologna.
Le interviste
Il questionario
LAURA FILIPPINI
Una “benevola forma di egoismo”:
cosa dicono i volontari del volontariato
UNA BENEVOLA FORMA DI EGOISMO
LAURA FILIPPINI
Le proposte dei volontari
Partendo dal dato di fatto che questa forma di egoismo è considerata parte es-
senziale dei meccanismi psicologici che portano alla scelta di svolgere un’atti-
vità di volontariato e a quella di continuare a impegnarsi in essa, risulta che è
fondamentale trovare le strade più giuste e motivanti da proporre per aggan-
ciare e rinnovare nel tempo l’interesse dei volontari.
«Senza una proposta attiva da parte dell’associazione non credo che avrei fat-
to questa esperienza, non è partita da me questa cosa. È molto importante che ar-
rivino queste richieste d’aiuto e di collaborazione», dice un ragazzo ventitreen-
ne che fa parte del progetto teatrale per il quale è stato ed è in contatto con ra-
gazzi risvegliati dal coma. La questione portata alla ribalta da tutti gli intervi-
stati è quella del rapporto tra il volontariato e i giovani; si riconosce che «per
avvicinare i ragazzi al volontariato bisogna sfruttare agganci e motivazioni loro»,
UNA BENEVOLA FORMA DI EGOISMO
e che sarebbe giusto diversificare a seconda dell’età dei volontari le attività al-
l’interno di una stessa associazione e di uno stesso ambito d’azione. Questo da
una parte sottolinea l’esigenza di offrire stimoli e input a coloro che potenzial-
mente vorrebbero avvicinarsi al mondo del volontariato, e dall’altra rivela l’e-
sigenza di trovare il modo per rinnovare questi stimoli diversificandoli e ali-
mentandoli, per evitare l’abbandono dell’attività. Ecco allora che è difficile ve-
dere un giovane volontario che svolga un’attività continuativa e di un cospicuo
numero di ore settimanali, se questa attività non ha per lui agganci e spunti che
lo colleghino alla sua vita ancora in fase di progettazione. Una ragazza molto
determinata e costante nella sua collaborazione con l’associazione dice: «Se mi
dicessero di dare la pastiglia alla nonna alle due del pomeriggio non lo farei»; e
un suo coetaneo la segue affermando: «Se dovessi pulire il sedere alle vecchiette
in maniera meccanica non lo farei perché sarebbe una mancanza di stimoli».
Alcuni intervistati adulti si dichiarano molto scettici sulla consistenza fu-
tura dell’attività di volontariato e denunciano la perdita dello scopo primario
del volontariato, quello umano. Un’anziana volontaria dice: «Parlare con i ra-
gazzi della morte è molto importante perché bisogna conoscerla; ora c’è un brut-
to rapporto con questo argomento, non come quando ero bambina io. Adesso la
gente muore in ospedale e poi sembra sparisca, invece io mi ricordo che da bam-
bina andavo nelle case del paese quando moriva qualcuno e lo vedevamo. Biso-
gna quindi dare un esempio ai giovani per insegnare loro ad affrontare il dolo-
re della morte».
Molto è stato detto riguardo la necessità di una maggiore sensibilizzazione
nelle scuole e sono soprattutto i giovani che per primi hanno dichiarato la loro
difficoltà nella fase di approccio al volontariato, quelli che hanno più volte fat-
to presente l’importanza enorme che ci sia qualcuno che fornisca informazio-
ni: «Io ero rappresentante di istituto alle superiori e so che i ragazzi a scuola avreb-
bero un gran potere e una gran voglia di fare esperienze come queste, ma bisogna
presentare temi e iniziative valide e questo non avviene perché c’è un problema
di proposta e di ricezione». La maggior difficoltà riportata riguarda il non sape-
re chi contattare, quale tra le tante associazioni e come contattarla; ecco che al-
lora sono state presentate proposte volte a fornire alle scuole numeri di telefo-
no da utilizzare e referenti a cui fare capo. Altre proposte riguardano l’inseri-
mento di alcune ore di volontariato nei programmi delle scuole superiori per
dare la possibilità ai ragazzi di conoscere questa realtà. I volontari più giovani
affermano che a scuola non ricevono informazioni sulla possibilità di fare vo-
lontariato; un ragazzo dice: «Se qualcuno a scuola me ne avesse dato la possibi-
lità, lo avrei fatto prima».
Si sottolinea nuovamente l’importanza dell’approccio iniziale al volonta-
riato, degli agganci a questa realtà e questo è l’ambito in cui, a detta di molti
intervistati, lo Stato dovrebbe intervenire con proposte mirate e con propa-
gande efficaci; lo stesso volontario sopra citato aggiunge: «Manca il nesso…
LAURA FILIPPINI
come entro? Quando senti una sigla di un’associazione di volontariato non sai
come avvicinarti, è tutto troppo casuale; a chi lo chiedo? Dove vado? La gente
non lo fa perché è una strada in salita, sono gradini che devi fare da solo. Le
associazioni sono tante e non sai dove andare; per questo aspetto lo Stato do-
vrebbe fare qualcosa».
Gli intervistati più giovani hanno mostrato un enorme interesse verso la
questione della formazione dei volontari e dei problemi che si incontrano in
questa attività, soprattutto quelli il cui piano di studi universitari li porta ad es-
sere informati sul rapporto tra volontariato e welfare state. Costoro sostengo-
no che le risorse di quest’ultimo non siano infinite, per questo motivo ritengo-
no sia necessario incentivare il mondo del volontariato partendo dall’educa-
zione scolastica e che sia necessario strutturare in maniera più chiara le asso-
ciazioni per eliminare quella forte componente di casualità e genericità che
spesso avvolge questa realtà. Una giovane donna, che deve gestire con grande
impegno il suo lavoro da impiegata d’ufficio per poter ritagliarsi un po’ di tem-
po da dedicare al volontariato, dice: «Se chiedo un permesso al lavoro per recar-
mi in ospedale dai ragazzi non me lo danno… dovrebbero riconoscere in questo
senso la possibilità di prendere permessi per il sociale».
Tratto molto interessante è che le stesse persone che affermano di aver fat-
to volontariato un po’ per caso, sono poi le stesse che più di altre denunciano
la casualità come un aspetto tipico del volontariato, sul quale intervenire por-
tandovi ordine e maggiore sistematicità. Alcuni intervistati ritengono che per
migliorare la questione dei referenti e della gestione e formazione dei volon-
tari «dovrebbe esserci a capo un’organizzazione pagata; il lavoro verrebbe fatto
meglio perché pagare chi è ai vertici renderebbe la condizione più chiara… cre-
do sia molto importante», dice un’anziana volontaria forte anche della sua
esperienza in altre associazioni di volontariato. A riguardo, una ragazza ven-
tenne afferma: «Mi preoccupa che nel volontariato alcune cose siano poco orga-
nizzate, bisogna strutturare il volontariato perché funzioni bene e a pieno; oggi
è un po’ tutto lasciato così come viene. A volte bisogna stare attenti a non inter-
venire peggiorando le cose».
Un’altra ragazza, sua coetanea, dice: «[...] Se dovessi pensare a un volonta-
riato ideale metterei uno staff di base pagato che si occupi dell’organizzazione, al-
trimenti si rischia di sprecare molte energie e risorse; metterei precise figure di re-
ferenti e organizzatori. Quando fai volontariato devi sentirti utile e apprezzato e
una struttura di base risolve molti problemi».
Gli aspetti che caratterizzano il volontariato, quindi il suo essere un’attività
fatta di creatività, libertà, mancanza di certezze, relazioni interpersonali, speri-
mentazione, raccolta di sfide e coraggiosi salti nel vuoto, sono tutti aspetti che
lo rendono un qualcosa di assolutamente unico, ma sono anche quelli che nel-
le fasi di avvicinamento spesso scoraggiano, perché, a volte, la volontà da sola
non basta. Chi si sente meno parte del mondo del volontariato, chi non si ama
UNA BENEVOLA FORMA DI EGOISMO
definire con la parola volontario, chi fatica a dare una definizione precisa di
quello che fa, pur condividendo e facendo tanto, è in genere chi sottolinea con-
tinuamente l’importanza di trovare il modo di avvicinare la gente a questa realtà
e di motivare i giovani: «Conto sul fatto che ci sia qualcuno che mi dice che c’è
bisogno di me. Vorrei che ci fosse sempre qualcuno che mi cercasse; avendo tante
cose da fare ho bisogno di qualcuno che mi chieda di fare le cose. Nella squadra di
calcio dove gioco l’allenatore dei portieri un giorno mi ha detto di essere socio del-
la Casa dei Risvegli, ma ha anche detto che nessuno lo chiama, nessuno lo cerca
per avere il suo aiuto… potrei finire così anch’io». Queste sono le parole di un
ragazzo di ventidue anni al quale verrebbe da rispondere con le parole di un’al-
tra volontaria, quando dice: «[...] In fin dei conti però ognuno deve metterci del
suo, senza aspettare che siano sempre gli altri a prendere l’iniziativa».
Rimane il fatto che da parte dei più giovani è tangibile questa esigenza di
essere incanalati e sostenuti in quello che fanno.
Riconoscimento intellettuale,
informazione e formazione nel volontariato
LAURA FILIPPINI
aiutare gli altri non si possono dire, ne parlo con te perché è una tua esigenza»;
costoro, oltre a non identificarsi nel termine e nella categoria, non lo utilizzano
nemmeno in contesti generali e ufficiali. Una giovane donna che nel corso del-
l’intervista ha mostrato un particolare individualismo, sostiene di non voler es-
sere considerata una volontaria perché non vuole sentirsi obbligata ad avere,
ad esempio, un giorno fisso per fare questa attività. C’è in questi casi un vero e
proprio rifiuto di usare un termine che alcuni legano in prima istanza a qual-
cosa di ipocrita e ad atteggiamenti esibizionisti. Una giovane donna dice: «Pro-
vo vergogna a vedere certi personaggi esasperati che esibiscono finzione, a volte
diventa un modo per apparire e quindi una contraddizione dell’essenza stessa di
quello che dovrebbe essere invece un atto di generosità».
Volontariato «è un termine troppo generale e che non può coincidere con
quello che nello specifico faccio io», dice una giovanissima volontaria. I giovani
tendono a dire frasi del tipo: «Non mi sono mai sentito un volontario o di fare
volontariato»; «Non mi identifico molto nel volontariato»; non riescono insom-
ma a vedere quello che fanno come fosse volontariato e non si sentono appar-
tenenti all’ambito del volontariato.
Il difficile rapporto con le parole “volontariato” e “volontario” può essere
dunque considerato il sintomo di una generale assenza di appartenenza a un pre-
ciso ambito che proprio per questo è difficilmente raccontabile e riconoscibile
attraverso parole precise. Questo meccanismo si riscontra ancora di più se si
chiede ai volontari il loro rapporto con altre parole quali “paziente”, “collega”
e altri termini inerenti la loro attività. In questo caso tutti gli intervistati sono
uniti nel dire di non usare assolutamente mai, nemmeno in ambiti formali, ter-
mini come “paziente” o “collega”. Così i pazienti, nel caso di assistenza al ma-
lato, non sono mai chiamati “pazienti” e i colleghi mai “colleghi”. Pochissimi
usano il termine “disabile”, la maggior parte degli intervistati afferma di non
usare mai la parola “portatore di handicap” o “malato”, preferiscono usare an-
che in questo caso lunghe perifrasi per riferirsi a una persona, usano il nome pro-
prio oppure usano il termine “ragazzo”; quest’ultima parola è usata da tutti gli
intervistati e l’aspetto peculiare è che è utilizzata per riferirsi a persone di qual-
siasi età, testimonianza del fatto che si viene a instaurare una forte empatia che
elimina ogni differenza, anagrafica o fisica. Molti infatti dicono “un ragazzo di
anni” e lo fanno con la più grande naturalezza. Gli intervistati più giovani usa-
no spesso termini come “risveglini” per riferirsi ai ragazzi usciti dal coma, op-
pure alcuni dicono “i regaz usciti dal coma”. Questo dimostra ancora una volta
che non esistono categorie chiare e distinte, che non c’è demarcazione tra una
categoria del volontario e una del paziente su cui agisce; certo esistono diffe-
renze, ma queste vengono a sfumare quando si entra nel territorio relazionale.
Una ragazza la cui attività si svolge principalmente a contatto con persone ri-
svegliate dal coma afferma: «[...] Faccio fatica a lavorare se non c’è coinvolgi-
mento affettivo, ho bisogno di conoscerli».
UNA BENEVOLA FORMA DI EGOISMO
Lo stesso vale per le parole che si usano per riferirsi ai colleghi, appunto
mai chiamati “colleghi”, tranne in rarissimi casi, solo in occasioni particolar-
mente ufficiali, ma con il nome di battesimo; anche in questo caso molti inter-
vistati dicono “ragazzi”, oppure usano perifrasi del tipo: “Luca, un ragazzo con
cui lavoro”. Anche qui le differenze di età vengono superate, tutti si danno del
tu e si salutano con il ciao, c’è un grande rapporto di amicizia e complicità, non
esistono gerarchie e sudditanze, si vengono a creare veri e forti legami affettivi
che proseguono anche oltre l’attività di volontariato.
«Volontario è chi ha la volontà di fare questa esperienza,
con la consapevolezza di non essere un professionista»
LAURA FILIPPINI
re alla prova quelli già adottati, soprattutto vista la particolare realtà su cui si
opera, quella del coma, ove di sicuro e controllabile scientificamente c’è ben po-
co. Insomma, come dice una volontaria, «ci vorrebbe una circolarità tra teoria e
pratica». La quasi totalità degli intervistati dichiara di non sentirsi affatto pa-
drona delle situazioni che incontra, ma la ritiene una condizione congenita alla
propria attività per la quale «non esistono corsi specifici», come dice un’altra vo-
lontaria. Diverso è il caso dei volontari che si occupano di promozione e orga-
nizzazione pratica di eventi. Costoro non riportano l’esigenza di accedere a cor-
si teorici e aggiungono che la loro è stata una scelta, che hanno preferito non fa-
re volontariato in ospedale a contatto con persone con esperienza di coma, pro-
prio perché non si sentirebbero in grado di svolgere questo compito.
Torna l’aspetto relazionale nel volontariato, torna la diffusa idea che sì, sia
importante la preparazione teorica, ma che in fin dei conti sia tutta una que-
stione di capacità personale di relazionarsi, di voglia e propensione a mettersi
a disposizione degli altri. C’è una grande attenzione all’aspetto psicologico,
proprio e dell’altro, alla capacità di comunicare e alla sensibilità nel capire le
risposte che spesso non arrivano o che vanno codificate. La peculiarità di que-
sta realtà nella quale non sono applicabili standard e protocolli appresi attra-
verso corsi, apporta una buona dose di fatalismo che spesso avvolge il volonta-
riato, come se ci fosse una zona non controllabile e non definibile con esattez-
za, ove ciò che conta è la buona volontà e l’esperienza, ove non c’è mai un pun-
to di arrivo o una teoria incontestabile. Tornano spesso le parole “sperimenta-
zione”, “creatività” e “invenzione” per riferirsi a un’attività poliedrica ove le
varianti sono tanto infinite quanto imprevedibili.
In conclusione, si può pensare che nel volontariato primeggino certamente
le componenti relazionali, umane, solidaristiche, etiche e gratuite, ma anche che
parallelamente il volontariato si riconosca un concreto intervento nei riguardi di
realtà disagiate che, proprio perché sempre più crescenti, hanno bisogno di più
sistematicità di intervento; un intervento che sperimenti il disagio di quelle si-
tuazioni e che risponda con “creatività” e “inventiva” alle questioni che esse
pongono. Un intervento pratico ma, dunque, anche intellettuale; un intervento
che proprio per il suo carattere innovativo richiede nuovi modi di pensare la
stessa nozione di “volontariato” che dalle interviste risulta essere un termine as-
solutamente ambiguo. Un’ambiguità che pare soprattutto derivare dalla diffi-
coltà di trovare modalità adeguate per organizzare e far durare nel tempo un’e-
sperienza sociale in grado di dare risposte creative a nuovi bisogni, senza farle
perdere il suo carattere gratuito e non professionale. Se da una parte ci sono opi-
nioni, standard e luoghi comuni sul volontariato, da parte di tutti coloro che vo-
lontariato non lo fanno e nemmeno lo conoscono, dall’altra ci sono le parole di
quelle persone che volontà in questo senso ne hanno e che organizzano un pen-
siero testimone di uno specifico spazio intellettuale che spesso nulla ha a che ve-
dere con i discorsi retorici ed estranei e che tanto ha da dire.
UNA BENEVOLA FORMA DI EGOISMO
Grazie a tutti i volontari della Casa dei Risvegli e della Croce rossa italiana, un grazie par-
ticolare a Simona, con la speranza che presto possa sfogliare le pagine di questo libro.
Note
. Ogni anno molti giovani vanno in coma senza poter contare su valide strutture e su una con-
creta speranza per il loro recupero. L’associazione Gli Amici di Luca – Casa dei Risvegli Luca De
Nigris si occupa di assistenza a pazienti in coma o in fase di risveglio e di sostegno alle famiglie, e
ha inaugurato, il recentissimo ottobre , in occasione della sesta Giornata nazionale dei ri-
svegli per la ricerca sul coma – “Vale la pena”, il nuovo centro postacuto per giovani in coma pres-
so l’ospedale Bellaria di Bologna. Il centro è stato chiamato Casa dei Risvegli Luca De Nigris e rap-
presenta la realizzazione di un progetto all’avanguardia con lo scopo di facilitare il risveglio dal co-
ma e di permettere il ritorno alla vita e il reinserimento nel mondo lavorativo e sociale di giovani
con questa patologia; inoltre al suo interno i familiari potranno vivere insieme al paziente e diven-
tare così parte attiva della terapia riabilitativa. La Casa dei Risvegli è pensata più che come un ospe-
dale come una casa, in cui piccoli moduli abitativi offrono punti di riferimento abituali al pazien-
te. La struttura, unica nel suo genere in Europa, è promossa dall’Azienda USL di Bologna assieme
al Comune e alla Provincia di Bologna, dalla Regione Emilia-Romagna, dall’Università di Bologna,
Dipartimento di Scienze dell’educazione ed è aperta a numerose collaborazioni.
Così, dalla vicenda di Luca De Nigris, un ragazzo di sedici anni entrato in coma per due-
centoquaranta giorni, conclusasi tristemente nel gennaio del , è nata una gara di solidarietà
che ha portato fino a questo importante risultato, a questo centro postacuto che prevede e realiz-
za una necessaria integrazione fra competenze medico-riabilitative, psicopedagogiche, volonta-
riato formato e tecnologie innovative.
. Geertz, Antropologia interpretativa, cit. Nel testo l’autore sostiene la necessità di trattare i
fenomeni culturali come sistemi di significato e costellazioni di simboli che vanno interpretati te-
nendo in considerazione il contesto in cui nascono; è tutta una questione di “interpretazioni di in-
terpretazioni”, di voler capire, quindi interpretare, una particolare realtà che a sua volta ha attuato
un’interpretazione di ciò che si è trovata davanti. Ecco che le parole verbalizzano l’esperienza, co-
sì ascoltare le parole significa farsi raccontare qualcosa della realtà che esse esperimentano.
. W. H. Banaka, L’intervista in profondità, Milano . Viene esposta la tecnica dell’intervi-
sta in profondità, molto rispettosa della soggettività dell’intervistato.
. Qui non si utilizzerà la categoria centrale della “motivazione”, decisiva per altri approcci
allo studio di questo fenomeno. «Gran parte delle ricerche condotte nei vari paesi a livello inter-
nazionale sulle motivazioni dei volontari […] e basate su domande dirette poste agli interessati
danno risultati […] identici, […] al primo posto troviamo […] le motivazioni altruistiche. […]
Naturalmente non abbiamo motivi di mettere in dubbio questi risultati. Il problema è che la for-
mulazione predefinita delle domande, tipica di queste ricerche, orienta in qualche modo le ri-
sposte, lasciando poco spazio a formulazioni complesse […]» (I. Colozzi, A. Bassi, Da terzo set-
tore a imprese sociali. Introduzione all’analisi delle organizzazioni non profit, Roma , pp. -
). Il problema della qualità dei dati raccolti tramite interviste è conseguente alla qualità delle do-
mande poste; ritengo che la durata e la complessità articolata delle interviste da me condotte ab-
bia impedito l’antipatico fenomeno di viziare le risposte. Mi sembra abbastanza evidente che se
chiedo a un volontario “sei spinto da motivazioni altruistiche o da motivazioni egoistiche?”, ot-
terrò una risposta qualitativamente di basso interesse e attendibilità, non perché l’intervistato
menta ma perché non gli ho dato la possibilità di articolare una risposta complessa. Le cattive ri-
sposte derivano per lo più da cattive domande.
. Cfr.: L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Torino e Id., Alcune osservazioni
sulla forma logica, in Osservazioni filosofiche, Torino . Secondo Wittgenstein il significato dei
concetti deriva dal loro uso e si ha dunque un continuo slittamento semantico a seconda dei con-
testi sociali nei quali vengono utilizzati. Il linguaggio risulta essere un’istituzione sociale, colletti-
va e tramandata. Così, se il termine “egoismo” venisse usato in un altro contesto avrebbe un altro
LAURA FILIPPINI
significato. Per una visione generale sul pensiero di Wittgenstein cfr. anche D. Marconi, Guida a
Wittgenstein, Roma .
. «Il lavoro è sempre stato considerato un’attività fisica che desideravamo finisse quanto pri-
ma. Questa è anche la definizione di fatica. Il contrario della fatica è la motivazione. Quando de-
sideriamo che una cosa continui, non finisca, siamo motivati. […] Un lavoratore creativo può fre-
mere dal desiderio di cominciare, che so, a girare un film, a scrivere o a dipingere», o a fare vo-
lontariato, aggiungo io (D. De Masi, L’ozio creativo, Roma , p. ).
. A proposito cfr. Gli italiani: un popolo di donatori, in AA. VV., L’impronta civica. Le forme
di partecipazione sociale degli italiani: associazionismo, volontariato, donazioni, Roma .
. «Usando una certa prudenza possiamo dire che si fa del volontariato per una varietà mol-
to grande di motivi, che possono comprendere sia l’interesse del giovane a prepararsi per un pos-
sibile lavoro futuro sia l’interesse dell’imprenditore o del professionista di allargare il proprio gi-
ro di relazioni, sia l’interesse della casalinga a rompere un certo isolamento» (Colozzi, Bassi, Da
terzo settore a imprese sociali, cit., p. ).
. A proposito cfr. anche il capitolo L’associazionismo giovanile, in AA. VV., L’impronta civica, cit.
. A proposito propongo un “libro per chi vuole cominciare”, come dice il sottotitolo: S.
Gawronski, Guida al volontariato. Un libro per chi vuole cominciare, Torino ; un libro desti-
nato a tutti coloro che sentono il desiderio di impegnarsi in un’attività di volontariato ma che non
sanno da dove cominciare. Secondo il Censis ci sono milioni e mila cittadini disponibili e
non ancora impegnati che attendono proposte per tradurre in concreto la loro teorica disponibi-
lità a impegnarsi nel volontariato. Contiene testimonianze dirette, indirizzi internet e un piccolo
indirizzario delle organizzazioni di volontariato.
. Cfr. G. Cazzola, Lo stato sociale, tra crisi e riforme: il caso Italia, Bologna . Si occupa
del nostro paese e presenta delle proposte per conciliare deficit pubblico e solidarietà sociale. Cfr.
anche S. Trassari, Welfare state o neoassistenzialismo?, Milano , che si occupa della questione
nel Mezzogiorno italiano.
. «Quando ci si propone di affrontare questioni definitorie o classificatorie, in ambito di
discipline umanistiche […] accade che ci si venga a trovare di fronte alla dissoluzione o alla scom-
parsa dell’oggetto dello studio. Questo “effetto” non deve destare sorpresa in quanto è esatta-
mente ciò che ci si deve attendere avvenga quando si vanno a indagare fenomeni di natura socia-
le» (I. Colozzi, A. Bassi, Una solidarietà efficiente. Il terzo settore e le organizzazioni di volontaria-
to, Roma , p. ).
. A proposito cfr. G. Frege, Senso e denotazione, in A. Bonomi (a cura di), La struttura lo-
gica del linguaggio, Milano : il senso di un nome o di una parola viene afferrato da chiunque
conosca la lingua a sufficienza, mentre la denotazione, cioè l’oggetto stesso che designiamo e non
la rappresentazione che noi abbiamo dello stesso, non è detto che la si riesca ad afferrare. Lo stes-
so vale per la parola “volontario”, il cui senso è raggiungibile ma la cui denotazione è difficilmente
individuabile. Cfr. anche B. Russell, Sulla denotazione, in Bonomi, La struttura logica del linguag-
gio, cit. Russell sostiene che un sintagma denotativo, come ad esempio “un uomo”, è parte di un
enunciato e trova significanza solo in esso. Cfr. anche K. Donnellan, Riferimento e descrizioni de-
finite, in Bonomi, La struttura logica del linguaggio, cit. e W. O. Quine, Su ciò che vi è, in Id., Il
problema del significato, Roma .
Il senso della fabbrica.
Condizioni di ambientamento dei lavoratori
migranti nella provincia di Ravenna*
di Marta Alaimo e Franca Tarozzi
Introduzione
Nel periodo che va dalla fine di novembre alla fine di gennaio si è
svolta la prima fase della ricerca “Condizioni di ambientamento dei lavoratori
migranti nella provincia di Ravenna”.
Si è trattato della fase inchiestante che ci ha viste impegnate nella condu-
zione di quaranta interviste con gli operai di Marcegaglia S.p.A. trasferitisi re-
centemente nella provincia di Ravenna, provenienti dalle regioni meridionali
d’Italia e dall’estero.
L’inchiesta si è svolta con il contributo dell’Assessorato alle politiche del la-
voro e della formazione professionale della Provincia di Ravenna e con la col-
laborazione della Marcegaglia S.p.A. che, nella persona dell’ing. Zangaglia – ex
direttore dello stabilimento –, ci ha permesso di incontrare gli operai in fab-
brica, in una saletta attigua all’Ufficio controllo qualità, all’interno di un ca-
pannone, durante l’orario di lavoro. Ogni intervista è durata circa un’ora.
La partecipazione all’inchiesta, totalmente volontaria e anonima, ha visto
qualche operaio fermarsi oltre la fine del turno per riuscire a completare l’in-
tervista.
L’obiettivo
L’obiettivo centrale della ricerca sta nel conoscere i modi in cui i soggetti coin-
volti pensano il loro trasferimento e il loro adattamento alle nuove condizioni
lavorative, abitative e sociali.
Sulla base di queste conoscenze, il rapporto finale tende a:
– consigliare buone prassi in merito alle soluzioni dei maggiori problemi ri-
scontrati tra questi lavoratori;
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– contribuire alla valutazione dei costi e benefici per la Provincia stessa dei
diversi modi di selezionare, favorire e assistere il trasferimento sul suo territo-
rio dei lavoratori non ravennati.
Presentazione e caratteristiche del luogo
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struzioni che ricordano un po’ gli hangar dell’aviazione, con strutture portanti
metalliche e coperture leggere, molto aperti e dotati tutti di strutture aeree di
carroponte per lo spostamento dei coils nelle varie fasi della produzione.
I lavoratori intervistati sono tutti giovani (tra i e i anni di età) e lavo-
rano in questo luogo prevalentemente da non più di anni. C’è, quindi, un al-
to tasso di ricambio della forza lavoro che contribuisce a dare alla fabbrica
un’immagine giovane e mobile, che contrasta con la durezza e la pericolosità
del lavoro che viene svolto.
Gli intervistati sono operai addetti alla produzione (esclusi fra impiegati ne-
gli uffici e addetti alla portineria) nei diversi reparti che differiscono tra loro, a
parte per il tipo di lavorazione del prodotto che viene svolta, per l’organizzazio-
ne dei turni di lavoro: quelli del centro servizi lavorano per la maggior parte so-
lo su due turni produttivi (-/-), mentre quelli degli altri reparti lavorano a
ciclo continuo su tre turni (-/-/-), compresi quelli della portineria.
Gli operai svolgono il loro lavoro principalmente nelle postazioni di co-
mando automatizzate e di controllo lungo le linee di produzione, usano il car-
roponte per lo spostamento dei coils e intervengono sugli impianti quando si ve-
rificano problemi lungo la linea (un esempio sono le saldature corrette a mano).
La metalsiderurgia è un tipo di produzione imponente: i coils sono rotoli
di acciaio di più di metri di diametro che occupano grandi superfici, le linee
di produzione sono dei giganteschi nastri trasportatori dove corrono ad alta ve-
locità le lingue di acciaio sottoposte a trasformazione, tagliate, ridotte di spes-
sore, zincate, verniciate. La materia lavorata è fredda, tagliente, pesante, tal-
volta arrugginita, gli uomini passano la loro giornata lavorativa tra questi gi-
ganti di acciaio in un luogo dove il clangore assordante delle lamiere (anche se
congruo ai parametri) è sempre presente.
La nostra inchiesta quindi è sì localmente individuata e riguarda persone
immigrate nella provincia di Ravenna, ma queste persone passano gran parte
del tempo della loro vita in un luogo, questa fabbrica, che è molto significativo
sia per loro che per il territorio che lo ospita.
Presentazione del campione
Trentanove sono state le interviste svolte con i dipendenti, più un incontro fi-
nale fatto con i responsabili dell’Ufficio sicurezza.
Tutti uomini di età compresa tra i e i anni provenienti da regioni del
Sud Italia e dall’estero.
Le regioni di provenienza sono: Sicilia, Calabria, Campania, Puglia, Sarde-
gna, Abruzzo. Gli stati esteri sono: Romania, Marocco, Bangladesh.
Tempi di arrivo: sono a Ravenna dal -, circa da un anno; so-
no a Ravenna dal -, cioè da uno a tre anni; sono a Ravenna da più
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Argomenti rilevanti
Punto di appoggio, alloggio, casa:
«l’importante, all’inizio, è avere un appoggio»
Analizzando le risposte degli intervistati, risulta che «il problema qui sono gli af-
fitti», come ci dice un ragazzo proprio alla fine dell’intervista quando alla penul-
tima domanda (“cosa pensa di questa intervista?”) ci risponde così: «È positiva, lo
pensavo prima di farla ed è così, si parla di cose che gli altri non dicono, porta a vi-
sione dei problemi». E continua: «Il problema qui sono gli affitti, ci tocca stare co-
me quei marocchini che venivano qui un po’ di tempo fa. Se ne approfittano, non ve-
do il motivo, vedono che comunque c’è richiesta e comunque prendono i soldi men-
silmente sull’affitto quelli che ti trovano la casa, siccome noi veniamo da fuori, la gen-
te se ne approfitta. euro per un monolocale per chi vuole un po’ di libertà è mol-
to dura. C’è gente che lo fa come secondo lavoro (quello di cercarti la casa e prende-
re dei soldi). Chi vuole dividere lo stipendio con il padrone di casa?... Lavoro tantis-
simo, c’è sempre il rischio di farsi male e poi? Molti tornano da dove son venuti per-
ché il sacrificio non ne vale la pena, tanto da mangiare e dormire ce l’hai sempre».
Interessante in questa intervista l’utilizzo della parola “sacrificio”, a signi-
ficare la grande importanza che l’esperienza della migrazione rappresenta nel-
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la vita delle persone. Emerge inoltre, come in altre interviste, il fatto che «a Ra-
venna se ne approfittano»: non solo quindi si trae profitto, ma si fanno affari im-
mobiliari basati sulla elevata richiesta che proviene dai lavoratori immigrati.
Questa questione viene detta così in altre risposte: «Gli affitti sono cari,
pago euro ma da meno non si trova, Ravenna è costosa e sanno che Marce-
gaglia si sta ingrandendo e la maggior parte siamo meridionali e magari con la
famiglia e gli affittuari se ne approfittano», ci dice un ragazzo pugliese a Ra-
venna dal .
«Qui c’è un po’ la questione dell’estate, ti affittano tante case da giugno a set-
tembre per turismo, quindi per un operaio cercare casa con un contratto di un an-
no intero è difficile... La gente di Ravenna sa il fatto suo…».
Trovare casa, prendere un appartamento in affitto, è spesso il primo im-
patto con il territorio e la sua gente. Trattare con la gente di Ravenna (che, co-
me dicono gli intervistati, un po’ se ne approfitta, è diffidente, ha delle pretese
un po’ strane), è quindi un problema per chi viene da fuori per lavorare ed è
discriminante rispetto all’ambientamento e quindi anche rispetto alla decisio-
ne di stabilirsi: «Difficoltà maggiore quella abitativa, un posto letto, senza tv, sen-
za riscaldamento, ho dovuto fare molte telefonate, ho girato molto. Abito a Rus-
si, a km».
«All’inizio è stata dura, è difficile trovare alloggio, è molto caro, poi l’ho tro-
vato, ho fatto venire moglie e figlia e lavorando in è più semplice. All’inizio ave-
vo una stanza, eravamo in all’inizio, quello che ti propongono è quello, si tro-
vano appartamenti solo in comune», ci racconta del suo difficile arrivo un ope-
raio siciliano.
«In città fai fatica a inserirti, a trovare casa, quelle che si trovano costano un
occhio della testa. È un po’ difficile fare amicizia con i ravennati, è difficile fra-
ternizzare».
«Abito a Lugo... all’inizio avevo la stanza, ma grossa libertà in una stanza non
ce l’hai, come ospitare, far venire gli amici, invece in un monolocale non è così,
ma gli affitti sono mazzate…».
«Se hai dei problemi non è che sei bene accolto, ma anche per trovare la casa
è un gran casino, uno non può girare con una striscia sulla fronte che dice che io
sono bravo...», dice un lavoratore marocchino capoturno.
«[...] Ho girato un po’ tutta l’Italia e c’è un senso di diffidenza ovunque, ma
qui è un po’ peggio, per trovar casa ho faticato molto, il padrone di casa ha avuto
pretese un po’ strane».
«Quando ho fatto il colloquio qui prima di tornare in Sicilia ho comprato mol-
ti giornali di annunci e tramite telefono ho cercato, è stato molto difficile, mi chie-
devano da dove venissi e dicendo dalla Sicilia mi dicevano le faremo sapere, il pro-
prietario che poi mi ha affittato ha richiesto una lettera della Marcegaglia con il
periodo, la qualifica ecc… Io lo ritengo eccessivo anche se giusto, e così il diretto-
re di stabilimento ha dovuto fare una lettera».
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lavorano qui da parecchi anni», sia perché lavorare con persone di Ravenna, es-
sere colleghi di lavoro aiuta a farsi conoscere, anche se si viene da paesi lonta-
ni e culture diverse.
A questo proposito è emblematica la dichiarazione di un ragazzo che ha su-
bito un grave incidente sul lavoro: «Io ci stavo bene, sia adesso sia come ci stavo
prima, in fabbrica ci stavo bene, a Ravenna ti guardano le scarpe... Io sul lavoro
mi trovo bene, l’unico sfogo che ho è qua, ma è fuori dall’ambito di lavoro che non
mi trovo bene. A casa sono sempre da solo, sto al lavoro e a casa magari faccio la
spesa ma se esci fai un giro di mezz’ora… sempre le stesse cose… Io quando sono
giù non sono mai da solo, qua gli amici anche non li vedo mai perché fanno il tur-
no e lavorano sempre, anche il sabato e la domenica, qua ti tocca uscire anche a
spendere soldi se no, esci di testa…».
«L’inizio, è difficile farsi le amicizie, i ragazzi di Ravenna hanno troppa atten-
zione al lato estetico, se uno c’ha il pantalone firmato o meno... Sul lavoro invece
non ho avuto difficoltà, sono tutti meridionali nel mio reparto e anche fare amici-
zia è stato facile», come dice un altro ragazzo che la pensa allo stesso modo.
Sono gli stessi colleghi che possono fare da tramite con il nuovo territorio,
anche per trovare la casa: «Tramite un mio collega, la casa è di suo nonno».
«Tramite un ragazzo che lavorava qui, sono stato fortunato...».
«Nel ’ non mi son trovato tanto bene, nel è tutta un’altra cosa. Nel
’ sono arrivato da un amico che stava in una casa dell’Enel che hanno passato
al Mappamondo per gli extracomunitari e lì mancava un po’ tutto, il riscalda-
mento, nel mi sono messo in regola con la Turco-Napolitano e ho potuto af-
fittare io e tramite amici ho trovato un buon appartamento», dice un operaio ru-
meno e aggiunge: «Dopo, tramite amici romagnoli, italiani, ho trovato, se sei
raccomandato da un italiano passi e se ti comporti bene puoi raccomandare uno
straniero ma se ti comporti così così hai sempre bisogno di un italiano che met-
ta una buona parola».
«Tramite un mio collega di lavoro, che poi è un sindacalista, è romagnolo...».
«Tramite un collega che conosceva il padrone di casa».
«Una mano lava l’altra e tutte e due lavano la faccia, ci si aiuta, a cercare la
casa, anch’io ho trovato tramite un ragazzo che lavorava qui…».
La possibilità di avere una casa, un alloggio è quindi una condizione mol-
to rilevante per la riuscita o meno del percorso di ambientamento. Dalle cita-
zioni fatte, “tramite” risulta essere una parola chiave: la fabbrica diventa il tra-
mite fondamentale per un inserimento positivo nel territorio.
La situazione a Ravenna pare essere piuttosto difficile e, come dice, un ope-
raio marocchino: «Per tutti la casa è un problema, non solo per quelli che ven-
gono da fuori, se devo pagare - euro di affitto faccio il mutuo… se non te la
trova qualcuno che ti conosce è difficile, per avere la casa popolare devi avere i fi-
gli, reddito basso, lo sfratto, tutti i marocchini che hanno più di due figli qui a Ra-
venna hanno la casa popolare».
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La richiesta della casa popolare non può quindi essere l’unica soluzione, vi-
sto che per richiederla servono dei requisiti che non tutti hanno.
Gli intervistati ad esempio non sempre hanno famiglia o figli a carico, spes-
so sono giovani e non hanno reddito basso, visti gli stipendi che paga Marce-
gaglia.
È ancora dalle loro parole e da come essi pensano la questione della casa
che si apre un interessante dibattito sulla molteplicità di situazioni possibili che
potrebbero contribuire a migliorare le loro condizioni di vita proprio nel mo-
mento dello spostamento, nei primi mesi.
Col tempo infatti la decisione di rimanere a Ravenna comincia a dipende-
re da diversi fattori, ma all’inizio l’impatto è forte e incide molto la possibilità
di trovare o meno soluzioni che diano il tempo per decidere. Ciascuna idea qui
riportata è interessante, perché si colloca in una situazione che, al momento,
non ne prevede neanche una di soluzioni possibili.
Queste idee sono importanti perché sono gli stessi operai che esperiscono
la mobilità nei suoi aspetti negativi, oltre a quelli positivi di aver trovato un
buon lavoro, a ipotizzare soluzioni alternative al “farsi ammazzare dall’affit-
to”, dalle agenzie immobiliari e dai proprietari che se ne approfittano. Pensa-
no l’inesistente, ovvero dispongono le condizioni per l’esistenza di una politi-
ca sulla casa.
L’approccio non è in termini di diritto alla casa ma, il problema casa/allog-
gio/punto di appoggio è una specificità della più ampia questione della possi-
bilità di permanenza a Ravenna.
L’esistenza di questi enunciati mette in evidenza la latitanza degli altri sog-
getti coinvolti, ovvero gli imprenditori e le istituzioni locali: «Per determinate
aziende sarebbe facile aiutare i propri operai a trovare casa, più vicino alla loro
fabbrica, nelle Marche le agenzie e le aziende sono in contatto tra loro dove met-
tono gli operai finché non trovano la casa...».
«Penso che ci debba essere qualcosa che faciliti le persone da fuori…».
«Forse mi aspettavo di guadagnare un po’ di più, che la Marcegaglia facesse
dei villaggi tipo quelli che ha fatto l’Enichem per i suoi operai, visto che abbiamo
tante spese, che ci desse dei villaggi dove vivere».
«Forse Marcegaglia potrebbe costruire dei villaggi come fa l’Enichem, o il
Comune dovrebbe controllare, perché la gente se ne approfitta, ti fanno contratti
in nero oppure metà e metà e comunque i prezzi sono esagerati anche se la casa è
del padrone e non so se esiste una regola per dire a quanto la devi affittare».
C’è un enunciato che chiarisce bene la questione della difficoltà maggiore
nei primi tempi; è quello formulato da un ragazzo, «un papà giovane» che ha
comunque deciso di restare.
«Quando sono stato assunto qui avrei preferito che l’azienda mi venisse in-
contro come ospitalità almeno per un paio di mesi, quello me lo aspettavo, ho sen-
tito da amici che a Brescia sono stati ospitati dall’azienda, qui invece no, mi aspet-
I L S E N S O D E L L A FA B B R I C A
tavo di più, io avevo già la casa venendo qui, sono stato fortunato, non vorrei es-
sere nei panni di chi non ha nessuno».
Come si legge negli enunciati, le posizioni sono articolate: c’è chi vorrebbe
che l’azienda desse ospitalità almeno per un paio di mesi, chi dice che ci vor-
rebbero relazioni tra le aziende e le agenzie immobiliari, chi chiede il villaggio
tipo Enichem e chi invece lo vorrebbe, ma con la chiesa e il campo sportivo; c’è
anche chi ha paura che le soluzioni standard tipo villaggio finiscano per diven-
tare dei ghetti.
L’idea comune che ritroviamo in tutti questi enunciati è che comunque c’è
bisogno di pensare a soluzioni, chiamando in causa anche un ruolo attivo del
governo locale (comune e simili).
Soluzioni che devono andar bene «almeno per l’inizio, poi uno sceglie»,
enunciato che sgombera il campo anche dall’idea che queste persone finireb-
bero per diventare vittime di condizioni abitative degradanti.
«Lavorando là, il padrone di prima ci ha trovato la casa... però se l’avessi cer-
cata da solo senza questo padrone sarebbe stato un problema, conosco amici che
hanno avuto difficoltà».
«Marcegaglia potrebbe fare come ha fatto l’Enichem, che ha costruito le case
per gli operai, poi ti trattiene l’affitto dalla busta paga, sarebbe più facile per uno
che viene da fuori».
«Che lavoro sono soddisfatto, è un lavoro, per la casa no. Lui è Marcegaglia,
è un grande imprenditore. Qui a Ravenna l’% siamo del meridione e lui non
ha pensato mai di fare un villaggio Marcegaglia con la chiesa, il campo sportivo…
nessuno si prende di sua iniziativa e va da lui… noi non è che vogliamo non pa-
gar le tasse, ma siccome produciamo molto e facciamo turni che gli altri non vo-
gliono fare… quelli di qua ti chiedono tanto di affitto e si arricchiscono…».
«Io eviterei di fare i quartieri tipo quelli che fa l’Enichem perché sono ghetti,
ci vorrebbero più incentivi, qui li danno i contributi, ma dovresti prendere la re-
sidenza per averli. Quantomeno, se si mettessero insieme più aziende, anche se
alla fine va a finire come un ghetto secondo me, ho questa sensazione strana…».
C’è poi la questione della residenza, anch’essa dall’aspetto ambivalente, ovve-
ro che richiama sia un aspetto soggettivo che uno oggettivo e che, per come viene
pensata, rientra anch’essa nel più ampio discorso della difficile fase di inizio.
Non prendere la residenza può essere una scelta che rivela l’idea che chi si
sposta, anche dopo qualche anno di lavoro, vuole lasciarsi aperte delle altre
possibilità.
Alla domanda su cosa può facilitare la ricerca o l’ottenimento della casa,
un operaio siciliano a Ravenna da anni e a Marcegaglia da dice: «O villag-
gio oppure un aiuto, no dal Comune ma dall’azienda perché il Comune ti dice
che devi prendere la residenza per avere lo sconto dalle tasse oppure il contribu-
to per l’affitto, io penso sempre a un futuro migliore al sud, per questo non pren-
do la residenza…».
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C’è chi invece non prende la residenza perché il contratto a tempo deter-
minato gioca un ruolo di totale incertezza nella vita di una persona, tanto da
dire: «Se l’azienda ritiene che sono valido, perché no, tutto è nelle mani dell’a-
zienda, giù non ho il lavoro, qua sì e a calci e morsi vivo e anche mia moglie è gio-
vane, ha trent’anni, un lavoro lo può sempre trovare, ma se prima non ho un con-
tratto fisso, non ho portato ancora la residenza, niente, ho un contratto di forma-
zione, mesi, non è a tempo indeterminato, in base a quello, se porto tutto su
dopo è anche più facile anche per lei».
E ancora, c’è chi non può prenderla per via dell’atteggiamento del pro-
prietario e viene oggettivamente messo in difficoltà: «Pago euro di affitto e
la padrona di casa non mi fa prendere la residenza, mi rinnova il contratto ogni
sei mesi, prendo . euro di stipendio e non posso usufruire degli sconti sulle bol-
lette per i residenti».
Tutto ciò significa comunque che anche la questione della residenza non si
esaurisce nell’aut-aut secco tra il prenderla e il non prenderla. Per chi si muo-
ve e si trasferisce per lavorare sembra essere una categoria carica di significato
e che, guardata con gli occhi di chi la pone come questione, potrebbe rivelarsi
anch’essa utile nel migliorare le condizioni di vita di chi si sposta, ovvero di chi
è geograficamente mobile.
Al fondo della questione potremo dire, con un enunciato che ritroviamo
nell’intervista con un operaio del Bangladesh: «Ci vorrebbe una qualche forma
di governo che qui non c’è».
Si capisce bene da questo enunciato che la questione della mobilità geo-
grafica delle persone per motivi di lavoro richiederebbe un maggior protago-
nismo da parte dei soggetti coinvolti nel governo locale, una politica governa-
tiva che però non c’è, ma anche e soprattutto del mondo dell’imprenditoria che
si mostra in questo caso del tutto assente.
Formazione e lavoro:
«Se non hai mai visto una fabbrica, serve»
Dalle interviste emerge che lavoratori intervistati non hanno mai fatto corsi
di formazione professionale, invece sì. Dieci di questi ultimi hanno preso par-
te a corsi organizzati dalla Marcegaglia e dalla Provincia di Ravenna, soprat-
tutto nel momento in cui venivano installate nuove linee di produzione e c’era
bisogno di personale che sapesse come farle funzionare.
Uno soltanto aveva già svolto un corso nella sua regione finanziato dal Fon-
do sociale europeo. intervistati, anche quelli quindi che non hanno mai fre-
quentato un corso di formazione, sostengono la loro importanza e l’utilità; so-
lo lavoratori dicono che non servono, aggiungendo che serve fare il mestiere
direttamente piuttosto che stare in classe.
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essere informati bene dei rischi per ridurli al minimo, quindi conoscere il fun-
zionamento, le caratteristiche degli impianti e dei macchinari.
Chi ha avuto la possibilità di seguire dei corsi si sente privilegiato, fortuna-
to, ma la cosa sembra assolutamente fortuita e casuale: «Non so, forse è una coin-
cidenza, era la fase della costruzione dell’impianto e noi l’abbiamo seguita, ci sia-
mo fatti un certo bagaglio», quasi timoroso ci racconta un operaio.
«Ho avuto la fortuna di fare un corso specifico di rettifica e torneria a Gaz-
zoldo di un mese. Penso fosse un corso interno dell’azienda…». Anche quest’al-
tro operaio ha seguito il corso a Gazzoldo, paese del mantovano in cui si trova
la sede centrale.
La politica dell’azienda, rispetto alla formazione, sembra però essere un’al-
tra. La chiara denuncia che gli operai fanno è quella di essere buttati in linea
con pochissima esperienza; in questo viene riconosciuto uno dei motivi del di-
sagio e quindi dell’eventuale abbandono del lavoro e della città: «Alcuni che
non fanno i corsi arrivano qui e non sanno cosa aspettarsi, rimangono delusi, non
sanno come muoversi e quindi vanno via».
Questo, a nostro avviso, è un enunciato chiarificatore della situazione, che
svela uno dei nodi cruciali dell’alto numero di dimissioni e quindi dell’alto tas-
so di turnover che c’è in questa fabbrica. Così come lo sono i seguenti, che met-
tono in luce la questione della pressione per la produzione, l’interessante op-
posizione amore/bisogno e la carenza di personale come altri fattori determi-
nanti il grande ricambio del personale: «La pressione che ti mettono addosso per
la produzione; un operatore che sta sulla linea è pressato perché deve fare un cer-
to quantitativo di roba, è pressato dai vari capi… Molti non ce la fanno, è per que-
sto che vanno via, c’è un riciclaggio di persone molto alto. Qua diciamo che ci ri-
mane la gente che o ama questo lavoro o ha bisogno».
«Sì, soprattutto qui, perché è impossibile assumere della gente e mandarli
in zincatura, decapaggio, che richiede delle capacità, è sbagliato assumere per-
sone e metterle subito sugli impianti nuovi – lamenta un lavoratore comunque
molto felice di essere a Ravenna e di lavorare in regola –. Non ho fatto corsi,
ho fatto affiancamento col caporeparto e il capoturno, io non ho fatto corsi…
Forse perché c’era carenza di personale e prendevano tutti, io non l’ho fatto».
«…Qui è pericoloso, non pendono per i corsi di formazione, mettono a lavora-
re la gente senza sapere il lavoro che vanno a fare, è solo lo stipendio che gli impor-
ta e avere un lavoro sicuro, per me la fabbrica dovrebbe spendere per la formazione
e la sicurezza, tu li prendi, i soldi, e li perdi nel tunnel, qua qualità del lavoro non
ce n’è e tu sei sempre ad assumere persone, a buttarle dentro e quelli poi se ne van-
no», dice un operaio parecchio arrabbiato anche con i suoi stessi compagni.
In quest’altro enunciato ci viene spiegata una delle motivazioni che secon-
do noi stanno alla base del grande riciclo di personale. Causa-effetto di questa
poca preparazione/formazione degli operai è anche la giovanissima età e l’ine-
sperienza dei capoturno o capireparto, ai quali spesso vengono date qualifiche
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Una formazione per gli operai, fatta in fabbrica, relativa soprattutto alla
soggettività dell’operaio e a questo stesso luogo, e non solo e non tanto al-
l’oggettività tecnica della produzione. Una formazione dunque che assuma
chi in fabbrica ci lavora come soggetto in grado di pensare e scegliere cosa è
importante sapere in fabbrica.
Sulla sicurezza:
«La sicurezza siamo noi»
Sicurezza è la parola che abbiamo individuato come centrale rispetto alla que-
stione lavoro-fabbrica. Questo termine, che compare continuamente nelle pa-
role degli intervistati, svela però diverse ma contigue questioni: «Cultura della
sicurezza…», inteso come lavorare in sicurezza, ma anche come sicurezza del
lavoro: «Qui c’è un certo futuro…».
Questi due temi, che inizialmente tratteremo in modo distinto, si legitti-
mano e si completano l’uno con l’altro.
La garanzia di un posto di lavoro fisso e sicuro è tra i motivi che fa sceglie-
re alle persone di spostarsi, accettare la mobilità geografica per il posto sicuro
di lavoro, accettarla perché la grande industria è garanzia di lavoro sicuro.
Questo può apparire paradossale: mobilità in cerca di posto fisso; ma po-
trebbe chiarire gli equivoci che spesso sono dietro a parole di largo uso in ma-
teria di organizzazione del lavoro come “flessibilità” e “mobilità”.
Uno dei primi operai che abbiamo incontrato dice con grande chiarezza:
«L’attrattiva era che essendo una grossa azienda dà una sicurezza in più, io vivo
da solo da quando avevo anni e sono siciliano e anche per cambiare la macchi-
na hai bisogno di una certa busta paga che deve essere almeno di una S.p.A.». Al-
tri due sostengono: «Al Sud non prendi lo stipendio, al Nord lavori con maggio-
re sicurezza, un giorno vai a lavorare e uno no al Sud, c’è ancora la manovalan-
za…». «Giù ci sono tanti lavori in nero, non c’è sicurezza…».
«A Catania ho fatto per anni il pasticciere ma in nero; la prima busta paga
l’ho conosciuta qui, non è stata una questione economica. All’inizio ho lavorato
da un’altra parte ma non mi trovavo bene, industria alimentare, agricoltura; non
ci sono i diritti dei metalmeccanici…».
Indubbiamente una situazione limite quella di questo ex pasticciere sicilia-
no, ma che evidenzia i due aspetti trainanti di questa ricerca di sicurezza: eco-
nomica, quindi “busta paga”, ma anche: «Non è stata una questione economi-
ca… i diritti dei metalmeccanici».
C’è chi in modo molto concreto ci racconta di come un posto fisso faccia da
appoggio per concedersi cose altrimenti irraggiungibili: «All’inizio ho visto la co-
sa positiva, una fabbrica grossa, una S.p.A., lo stipendio era buono, non potevo tro-
vare una cosa migliore…». Le parole di un operaio che ha perso un arto inferiore.
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«Non so… Sulla sicurezza le protezioni ci sono, gli sbadati siamo noi, nel mio
reparto è importantissima», continua un altro lavoratore.
Nelle parole di un ragazzo che ha perso un occhio troviamo un ulteriore
pensiero su questo problema che getta luce sulla faccenda: «La pressione che
ti mettono addosso per la produzione, un operatore che sta sulla linea è pressato
perché deve fare un certo quantitativo di roba, è pressato dai vari capi… Perché
poi sei coinvolto tu, alla fine sei solo e non puoi dire va be non lo faccio io, se la
linea parte è come un treno, deve arrivare, c’è molta gente che si stressa a farlo,
ma sei coinvolto e se ti abitui poi ce la fai, è che devi stare sempre a produrre pro-
durre e molti non ce la fanno, è per questo che vanno via, c’è un riciclaggio di
persone molto alto... Dopo mesi al decapaggio ho avuto l’incidente e sono sta-
to a casa mesi».
Come si è sentito dopo l’incidente? «È che è capitato a me che ero quello che
facevo sempre notare che era pericoloso, io lo dicevo sempre anche ai capi, c’era
poca luce, i coil li lasciano in mezzo, è pericoloso, e poi quando piove c’è un sacco
di fango, togliendo la reggetta mi è saltata in un occhio perché loro le cose te le
danno ma poi con questa cosa che devi produrre sudi e quindi poi te li togli, ades-
so le cose sono cambiate, l’operatore fuori si mette la visiera integrale, era obbli-
gatorio ma non lo fai perché tu dici a me non mi capita, però è il sistema, è dove
stai che è così, purtroppo lì è così, poi i rumori, la polvere, se non avessi cambia-
to reparto non sarei rimasto là in quel reparto, non sarei rimasto a Marcega-
glia…».
Le parole di questo operaio ci introducono l’altra faccia della medaglia del-
la questione sicurezza: la chiara denuncia che viene fatta sull’insufficienza di
barriere e il poco interesse che l’azienda, oltre che i sindacati, vi dedicano.
Un’accusa che riguarda soprattutto l’identità di atteggiamenti tenuti dal-
l’azienda e dai sindacati di fronte alle loro richieste: «…Il loro intervento è do-
po che la cosa è già successa».
«La sicurezza, qui dentro noi siamo solo dei numeri, se manco io mi sosti-
tuisce un’altra persona, ci sono le fotocellule con dei paletti ma non sono mai at-
tivate, i fili non sono collegati, non funzionano, se uno si avvicina si dovrebbe-
ro fermare, invece non si accendono, dopo, siccome devi andare più forte o l’or-
dine è urgente, allora puoi scavalcare le tapparelle, loro pensano solo alla pro-
duzione, è stato un po’ messo a posto dopo che le persone si sono fatte male…».
Una denuncia forte e molto grave quella di questo lavoratore meridionale.
«Lasciamo perdere la sicurezza, penso che l’azienda è grandissima e noi ma-
novriamo tonnellate, cosa ci puoi fare, il problema grosso qui è di Marcegaglia,
c’è stato un morto, poi hanno messo le ringhiere… Queste cose succedono per-
ché lui non compra gli attrezzi nuovi, solo usati, i carroponti che sono importanti,
quante volte a noi è scivolato un coil, meno male che noi ci troviamo a distan-
za…». E continua: «Non so che c’è nella testa di Marcegaglia, in fondo noi me-
ridionali lo aiutiamo a lavorare, invece lui non ci aiuta».
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aspettavo più organizzazione, in una fabbrica così grande sembra che le cose siano
lasciate un po’ al caso, tipo per la produzione o le ferie...», ci dice un saldatore del
reparto zincatura e continua: «...Il contratto ci impone di fare altre ore se non c’è
il cambio turno, facciamo ore a parte la mezz’ora di pausa, dipende anche da noi,
se vedo che il collega è stanco gli dico riposati una mezz’oretta».
«La turnistica, il tempo di recupero non c’è, la vita è sempre sballata, un gior-
no dormi di notte e poi dormi di giorno, è un po’ difficile capire che giorno è e che
ora è, perdi la concezione del tempo… prima facendo almeno mattine di segui-
to ti abituavi».
«Prima ero tesserato ma dal giorno in cui abbiamo cambiato la turnistica…
L’azienda voleva cambiare i turni e lui, il sindacalista, alle riunioni ci teneva buo-
ni e diceva: tranquilli, quello che non volete fare non lo facciamo. E invece lo fac-
ciamo adesso! Dicono che lui parlava con la direzione e diceva: tranquillo, gli ope-
rai li faccio stare buoni io, gli operai li convinco io. Sai, magari a uno che ha fa-
miglia gli hanno detto prendi di più e quindi alla fine hanno votato il - ma non
hanno capito che alla fine stai sempre qui, non hai mai tempo di stare a casa».
È la risposta di un operaio, che ripropone la questione dell’identità di at-
teggiamenti della proprietà e del sindacato rispetto al non coinvolgimento de-
gli operai nelle scelte della produzione e che segnala quanto l’organizzazione
del lavoro si rifletta anche sulla qualità della vita a casa.
La parola organizzazione la ritroviamo anche come la responsabile diretta
dell’impossibilità di vivere a Ravenna, a riprova del fatto che come si vive den-
tro la fabbrica influenza in modo importante la vita degli operai anche fuori
dalla fabbrica: «Il modo di lavoro a Marcegaglia è organizzato da non permette-
re a chi non è di qua di vivere Ravenna, sia per i turni, sia per la modalità di la-
voro; è in fase di avvio questo stabilimento e quindi molte cose non sono orga-
nizzate, ho lavorato alla Fiat e le cose erano più organizzate, quindi la Marcega-
glia non è un buon ambiente per poter vivere Ravenna e Ravenna non si fa vive-
re dai lavoratori di Marcegaglia, anche perché venendo dal sud il tuo ambiente so-
ciale è il collega, non hai la famiglia e gli amici...».
Un altro operaio ci risponde così alla domanda su quale sia il problema più
grosso per gli operai: «Riguardo alla gestione dei reparti, la prima cosa nel lavo-
ro è avere l’organizzazione... Gestione nel senso di organizzare, nell’organizza-
zione bisogna essere amici perché ci frequentiamo anche fuori...».
C’è, nelle risposte date, un enunciato che nella sua semplicità ci fa capire
in modo inequivocabile sia l’importanza che ha il lavoro e la sua qualità sulla
vita delle persone, sia l’importanza della possibilità di pensare a quel che si sta
facendo. Mette in luce cioè, in maniera prescrittiva, l’importanza di pensare al
lavoro affinché il lavoro diventi possibile, non sia cioè solo un fattore necessa-
rio alla produzione e al profitto, ma una cosa vivibile, che dia delle possibilità
alle persone, invece che toglierle insieme a parti del loro corpo: «...Qui la vita
è tutta sul lavoro, non puoi avere un momento di riflessione...».
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Punti di sintesi dei giudizi degli operai
e qualche consiglio
.. Premessa
.. I punti
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f) l’eccessivo ricambio degli operai (sia per flessibilità interna sia per le fre-
quenti dimissioni) che non consente un accumulo di esperienza, considerato
uno dei fattori decisivi per la sicurezza sul lavoro;
g) l’inesperienza di alcuni capireparto e l’insensibilità di alcuni capoturno nei
confronti delle diverse esigenze degli operai;
h) le carenze nell’assunzione di responsabilità riguardo alle cause e alle con-
seguenze degli incidenti.
. Critici sono anche i giudizi nei confronti dei sindacati, soprattutto perché
si occupano più delle relazioni intersindacali e con la direzione aziendale che
non dei problemi di lavoro e sicurezza incontrati dagli operai.
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.a) «Penso che ci debba essere qualcosa che faciliti le persone da fuori, qui c’è un
po’ la questione dell’estate, ti affittano tante case da giugno a settembre per turi-
smo, quindi per un operaio cercare casa con un contratto di un anno intero è dif-
ficili. Ravenna città è molto cara, fuori sono zone turistiche e quindi vengono af-
fittate per questo. La gente di Ravenna sa il fatto suo». «…Ravenna è costosa e
sanno che Marcegaglia si sta ingrandendo e la maggior parte siamo meridionali e
magari con la famiglia e gli affittuari se ne approfittano».
b) «Il lavoro è mal gestito…». «Un problema è la mancata programmazione, ho
a che fare con gli operai e indicano quali sono i problemi che interesserebbero il
vertice, oltre che l’operaio; se un macchinario non funziona, crea problemi a chi
lavora, ma anche all’azienda, ma non si sa perché non viene fatto, le notizie non
vengono nemmeno trasmesse, il problema sorge, ma l’informazione non arriva.
I L S E N S O D E L L A FA B B R I C A
. «Qua non lavora bene il sindacato, si attacca a delle cose quando dovrebbe la-
vorare per altro, gli interessa più scontrarsi tra di loro…».
M A R TA A L A I M O , F R A N C A TA R O Z Z I
. «È positivo, lo pensavo prima di farla ed è così, si parla di cose che gli altri
non dicono, porta a visione dei problemi…». «È stata una novità, questa la met-
to tra le cose positive dell’Emilia-Romagna, che c’è qualcuno che si interessa di
noi…». «Mi sono sentito un po’ diverso, che sto facendo parte di questa società
un po’, mi avete trattato un po’ come un uguale, mi ha fatto piacere, grazie».
Note
. Rispetto a questo dato, manca chiarezza nelle risposte di due intervistati, che non vengono
quindi conteggiate.
. Cfr. nota .
. Cfr. L. Gallino, Il costo umano della flessibilità, Roma-Bari .
. Ibid.
. Cfr. L. Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, Torino .
. Ibid.
Sarebbe il lavoro del futuro*
di Anna Laura Diaco, Sebastiano Miele, Erika Peruzzi
Introduzione
ANNA LAURA DIACO, SEBASTIANO MIELE, ERIKA PERUZZI
S A R E B B E I L L AV O R O D E L F U T U R O
ANNA LAURA DIACO, SEBASTIANO MIELE, ERIKA PERUZZI
lettivo nazionale di lavoro delle cooperative sociali, infatti, l’assemblea dei so-
ci CADIAI ha stabilito di non rendere obbligatorio per i propri lavoratori asso-
ciarsi (prima l’assunzione avveniva tramite associazione), con l’idea che fosse
giusto distinguere l’assumersi un rischio d’impresa dall’offrire il proprio servi-
zio. Perciò, sul numero degli occupati, i soci CADIAI sono circa la metà ( nel
). Questo comporta tuttavia dei problemi per la cooperativa, la quale non
può così godere degli sgravi fiscali previsti per le cooperative con maggioranza
di soci lavoratori.
CADIAI applica dunque il CCNL, il quale stabilisce dieci livelli di retribuzione;
la maggioranza dei suoi lavoratori si colloca fra il terzo e il sesto livello. Lo sti-
pendio (circa euro per il quarto livello, il più diffuso in cooperativa) è ugua-
le ogni mese (non si tratta quindi di un salario a ore) e ogni sei mesi vengono pa-
reggiati i conti rispetto alle eventuali ore lavorative in più o in meno. In caso di
malattia, i lavoratori vengono pagati fin dal primo giorno, ricevendo un’integra-
zione della copertura da parte dell’Inps, che scatta dal terzo giorno; la maternità
viene pagata appieno e le donne, poiché svolgono lavori a rischio, possono as-
sentarsi dal primo giorno di gravidanza al settimo mese di vita del bambino.
Oltre al CCNL, CADIAI applica anche la contribuzione piena (invece del salario
medio convenzionale, come altre cooperative): se da un lato questo è un vantag-
gio per soci e lavoratori CADIAI, che sono più tutelati rispetto a quelli di altre coo-
perative, dall’altro si rivela uno svantaggio nelle gare d’appalto al ribasso, poiché
così, avendo costi più alti, CADIAI non è in grado di offrire prezzi competitivi.
La cooperativa CADIAI prevede un’Assemblea dei soci; un Consiglio d’am-
ministrazione, eletto dall’Assemblea ogni tre anni e composto da tredici consi-
glieri, rappresentanti di ogni settore produttivo; un presidente e un vicepresi-
dente, eletti dal CDA; un organo di informazione interna (un giornale) che tie-
ne aggiornati soci e dipendenti.
La struttura aziendale è composta dal presidente del CDA, dalla Direzione
operativa, formata da cinque responsabili di settore (uno per settore) nomina-
ti dal CDA, e da tre responsabili dei servizi di staff. Nessun membro della Dire-
zione operativa può far parte del CDA, esclusa la presidente, in modo da tene-
re così separate le esigenze della gestione aziendale da quelle dei soci.
Prerogativa delle cooperative è di garantire lavoro sicuro a tutti i propri so-
ci e lavoratori, tuttavia questo principio viene evaso con l’assunzione di perso-
nale a termine. All’interno della CADIAI si ritiene di dover ridurre questa fascia
di lavoro precario, resa ora necessaria sia dal bisogno di coprire periodi di ma-
ternità o di lunga malattia e infortuni, cui sono particolarmente soggetti questi
lavoratori, che devono tra l’altro sollevare gli assistiti e svolgere diverse man-
sioni faticose e pesanti, ma anche dalla discontinuità delle richieste di lavoro,
in particolare sull’assistenza domiciliare: infatti il monte ore preventivato dal
Comune a inizio anno per questo servizio solitamente subisce delle variazioni
cui bisogna adattarsi. Vengono fatte molte assunzioni a tempo determinato an-
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che per coprire i periodi di ferie, poiché il lavoro aumenta quando le famiglie
vanno in ferie e vanno in ferie anche gli operatori.
Altro punto critico è dunque l’assenteismo per infortunio o malattia (tasso
del %). Questo indica un malessere dei lavoratori: svolgono un lavoro logo-
rante dal punto di vista fisico e psichico (ogni due anni vengono effettuate del-
le visite mediche, secondo la legge , per stabilire l’idoneità del personale al-
le varie prestazioni), stanno a contatto con la sofferenza (caratteristica di CA-
DIAI è oltretutto il lavoro con l’utenza più grave), spesso sono sottoposti a ten-
sioni derivanti dal fatto che il lavoro si svolge in gruppi.
Da questi motivi dipende anche un eccessivo tasso di turnover (tasso am-
missioni/dimissioni dei lavoratori), per cui in un anno può cambiare anche
un terzo del personale. Sappiamo infatti che risulta difficile fidelizzare le
persone al lavoro di cura: alcuni lo considerano un lavoro di passaggio, altri
lo intraprendono poco consapevoli del tipo di mansioni da svolgere e lo ab-
bandonano nel giro di un mese. I settori che risultano più problematici da
questo punto di vista sono le case per disabili adulti e l’assistenza domicilia-
re, poiché si considera che, particolarmente in questi ambiti, non è indiffe-
rente chi svolge il lavoro: gli anziani si affezionano agli operatori, i disabili
hanno bisogno di punti di riferimento che non dovrebbero cambiare ogni
anno, anche perché si instaura un circolo vizioso per cui più cambiano gli
operatori, più gli assistiti sono agitati, e più loro sono agitati più il lavoro per
gli operatori diventa logorante, facendo sì che il tasso di turnover aumenti
ulteriormente.
Il marzo ci siamo dati appuntamento per accordarci su luoghi, date e ora-
ri delle interviste e per formare i gruppi che le avrebbero effettuate. Si sono co-
sì spontaneamente creati ventidue gruppi di due, tre per lo più, o quattro per-
sone al massimo, alcuni dei quali costituiti da studenti che già si conoscevano
fra loro, molti altri formati da studenti che hanno trovato allora l’occasione di
conoscersi e allo stesso tempo di fare insieme un’esperienza che per tutti è sta-
ta in primo luogo nuova rispetto alla didattica solitamente applicata all’interno
dell’università, e poi coinvolgente, entusiasmante, formativa.
Fare le interviste in gruppo è stato importante poiché, oltre a consentire a tut-
ti i frequentanti il corso di partecipare, ha reso più abbordabile un’impresa che,
come prima esperienza, avrebbe potuto dare risultati deludenti, e ha garantito
inoltre maggior attendibilità: le parole degli intervistati sono state infatti raccol-
te tramite scrittura, trascrizione manuale, non registrate, al fine di rendere l’in-
tervistato più responsabile rispetto alle proprie risposte. È stato dunque utile che
ci fossero almeno due mani a trascrivere, poiché questo ha reso più responsabili
rispetto alle parole degli intervistati anche noi intervistatori alle prime armi.
L’adesione all’inchiesta da parte dei lavoratori è stata volontaria e successi-
va alla ricezione di una nostra lettera, in cui si spiegavano motivazioni e obiet-
tivi della ricerca; che l’intervista sarebbe stata anonima e utilizzata solo a fini
ANNA LAURA DIACO, SEBASTIANO MIELE, ERIKA PERUZZI
scientifici; che si sarebbe stabilita una data in cui avremmo pubblicamente pre-
sentato i risultati dell’inchiesta.
Gli incontri fra studenti-intervistatori e lavoratori-intervistati sono avve-
nuti sui loro luoghi di lavoro e durante l’orario di lavoro. Le interviste hanno
avuto mediamente una durata di un’ora ciascuna.
Gli uffici CADIAI del quartiere Navile, del quartiere San Donato, del quar-
tiere Savena-Mazzini, del Centro civico Lame, del Centro civico Savena-Maz-
zini, la sede CADIAI di via del Monte, i centri diurni per anziani “Il Castelletto”
e “Tulipani”, i centri socio-riabilitativi diurni per disabili “Fava” e “Casa dei
Boschini”, la residenza protetta per disabili “Casa Rodari”, il gruppo apparta-
mento per disabili di via Sant’Isaia, dunque, i luoghi delle interviste.
I nostri strumenti erano il questionario a risposta aperta da somministrare
agli intervistati, di cui abbiamo discusso durante il corso, e la volontà di riusci-
re, servendoci di esso, a raccogliere le parole attraverso cui indagare quale sia
il pensiero che rende possibile il pesante lavoro di questi operatori.
Descrizione del campione
Pur avendo a disposizione meno di un mese, essendo ben ventidue gruppi, siamo
riusciti a intervistare settantaquattro persone, da una a sei per gruppo, secondo le
disponibilità, arrivando a raccogliere un materiale che consta di circa pagine.
Fra quartieri e centri civici, sono stati intervistati trentacinque assistenti do-
miciliari ad anziani, invalidi o malati terminali, quattro coordinatori, quattro re-
ferenti del servizio ADI (Assistenza domiciliare integrata), un responsabile orga-
nizzativo; presso la sede CADIAI, quattro educatori e un assistente domiciliare;
nei centri diurni per anziani, otto assistenti e un’operatrice che svolge attività di
supporto, poiché non può più svolgere mansioni di altro tipo per invalidità sul
lavoro; nei centri diurni per disabili, quattro educatori; altri otto educatori pres-
so Casa Rodari e infine quattro assistenti presso il gruppo appartamento.
Dunque il nostro campione è così composto:
‒ assistenti domiciliari;
‒ educatori ( in centri diurni – nella casa protetta);
‒ assistenti per anziani in centri diurni;
‒ assistenti per disabili in gruppo appartamento;
‒ referenti;
‒ coordinatori;
‒ Rresponsabile organizzativo.
Le donne sono , gli uomini . Di età compresa fra venti e trenta anni
abbiamo persone; fra trenta e quaranta: ; fra quaranta e cinquanta: ; fra
cinquanta e sessanta: ; uno solo oltre i sessanta; in undici casi non disponia-
mo del dato.
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«Nel nostro mondo siamo importanti»
ANNA LAURA DIACO, SEBASTIANO MIELE, ERIKA PERUZZI
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primo luogo di non deludere chi ci ha detto: «Spero in voi, spero che arrivi il
messaggio dell’importanza di questo lavoro».
Ma non basta promuovere la conoscenza di questo “mondo”: la parola che as-
sumiamo come parola chiave dei risultati di questa inchiesta è “riconoscimento”:
«Questo non è riconosciuto come lavoro»; «Bisogna riconoscere l’importanza della
nostra professionalità»; «È un lavoro che mi piace, anche se non è riconosciuto».
La assumiamo come tale non solo perché si presenta sovente fra le parole
dei nostri intervistati, ma anche perché pensiamo di poter prefiggerci come se-
condo obiettivo il tentativo di dare a questi operatori, attraverso il nostro lavo-
ro, un riconoscimento del tutto particolare, da anteporre a qualsiasi altro tipo
di riconoscimento: un riconoscimento intellettuale.
Pensiamo cioè di riconoscere a chi svolge l’attività di operatore sociale al-
l’interno di una cooperativa la dignità di chi esercita un lavoro il quale merita
di essere conosciuto e pensato in termini problematici nuovi e singolari, quan-
to nuove e singolari sono le difficoltà cui si trovano davanti questi operatori
trattando ambiti ancora ambigui e poco definiti della vita collettiva.
Cercheremo dunque di descrivere attraverso le loro parole questa realtà,
con i problemi che porta con sé e le soluzioni che caso per caso vengono da lo-
ro stessi elaborate.
«Lo stipendio non dà valore al nostro lavoro»
S A R E B B E I L L AV O R O D E L F U T U R O
Si tratta in effetti per gli operatori di avere responsabilità civili e penali ri-
spetto ai propri assistiti, oltre al coinvolgimento personale («lavoriamo con per-
sone, non con macchine») nella cura di costoro, alla fatica fisica e al continuo
sforzo di adattamento e di ricerca di soluzioni per ogni caso da affrontare. Con-
nesso a questo aspetto, emerge in più enunciati anche un altro problema, ri-
guardante il riconoscimento che, attraverso lo stipendio, si dovrebbe dare al li-
vello di esperienza e di formazione raggiunte dall’operatore: «Lo stipendio è
basso, dieci anni fa prendevo il minimo, ma mi stava bene perché non avevo for-
mazione...». Un’educatrice in proposito parla di impegno che dovrebbe essere
“rimborsato”: «L’impegno fisico, psicologico, di preparazione, che è alto, non è
rimborsato da questo stipendio».
In questa attività, infatti, la continua formazione, più che teorica, legata al-
l’esperienza diretta, la continua costruzione di modalità di agire e di rappor-
tarsi agli assistiti costituiscono – lo vedremo meglio più avanti – la parte più si-
gnificativa e problematica.
Fra i nostri intervistati, della propria retribuzione non è contento nessuno.
Ventisei ( coordinatori, referenti, assistenti domiciliari, educatori,
assistenti per anziani in centri diurni, assistenti per disabili in appartamenti),
quando abbiamo chiesto loro se ci fosse un problema che avrebbero voluto ve-
dere risolto o cosa potesse migliorare le condizioni del loro lavoro, hanno ri-
sposto: «Uno stipendio più alto».
Molti pensano di percepire uno stipendio che non basta per vivere: pren-
dendo in esame le risposte alla domanda che fa direttamente riferimento allo
stipendio, troviamo che sette intervistati ( assistenti domiciliari, educatore,
assistente a disabili in appartamento e assistente anziani in centro diurno) dan-
no risposte come: «Non è adeguato al costo della vita»; «Se non avessi mio ma-
rito, non riuscirei a viverci»; «Io vivo ancora con i miei genitori, ma se dovessi
mantenermi da sola questo stipendio non basterebbe».
Da questi enunciati emerge chiaramente che i nostri operatori percepisco-
no una retribuzione che non li mette in condizioni di costruire una famiglia, per
esempio, o semplicemente di mantenersi da soli, senza l’appoggio della fami-
glia d’origine o dello stipendio di un altro membro della propria famiglia: «Mol-
ti di noi fanno un secondo lavoro», ci ha detto un educatore. Questo contribui-
sce a caratterizzare il lavoro all’interno della cooperativa sociale come transito-
rio: può dunque essere anche per questo motivo che risulta un lavoro preva-
lentemente femminile e non solo perché si tratta di mansioni di cura.
Secondo un’analisi di Reyneri, il settore dei servizi è a prevalenza femmi-
nile, poiché gran parte dei servizi sociali e personali risultano essere la profes-
sionalizzazione di attività che venivano svolte fino a qualche decennio fa all’in-
terno della famiglia. Ma afferma anche che il lavoro nei servizi è vissuto da chi
lo svolge (per lo più donne, giovani e immigrati) come transitorio o comunque
non centrale nella propria esperienza di vita e che, in un sistema di scarsa oc-
ANNA LAURA DIACO, SEBASTIANO MIELE, ERIKA PERUZZI
cupazione e precarietà del lavoro, scaricarle su tali categorie può risultare me-
no traumatico per la gestione della società, poiché sarebbero categorie in gra-
do di fondare la propria identità sociale al di fuori del mercato del lavoro (co-
me casalinga, mamma, studente...) e quindi subire l’esclusione dall’occupazio-
ne con meno conflitti o tensioni.
A questo proposito notiamo che fra coloro che lavorano part-time c’è chi
(un assistente anziani in centro diurno, assistenti domiciliari, un educato-
re), mettendo in relazione stipendio e numero di ore di lavoro, attenua i to-
ni parlando della propria retribuzione, soprattutto perché il part-time è le-
gato alla possibilità di dedicarsi, per esempio, anche alla famiglia. Un’assi-
stente domiciliare, che ha scelto questo lavoro perché la impegna solo la mat-
tina, così ha «il tempo di stare con la sua bimba», ci ha detto: «È un tasto do-
lente, comunque non mi lamento. Per il momento è tanto già l’aver iniziato a
lavorare».
La scarsa retribuzione condiziona dunque anche il rapporto con il proprio
lavoro, l’intenzione di proseguirlo, influendo sul tasso di turnover, il quale – ab-
biamo visto – costituisce un grave problema per il lavoro in cooperativa. Sei in-
tervistati ( educatori e assistenti domiciliari) pensano infatti di non potere o
volere continuare a farlo per via della “situazione economica”. Una di loro, as-
sistente domiciliare, ci ha detto: «Se riesco a trovare un lavoro pomeridiano, pos-
so rimanere, altrimenti non so: ho bisogno di più soldi per vivere, ora sto solo so-
pravvivendo».
Anche le difficoltà nel reclutamento del personale dipendono in parte dal-
la questione “stipendio”.
È emerso durante l’inchiesta – lo approfondiremo più avanti – che trovare
persone motivate e qualificate da assumere è un grosso scoglio, il quale si ri-
percuote anche sulla vita lavorativa di molti operatori, che lamentano difficoltà
imputabili all’inadeguatezza di colleghi poco motivati.
Un’assistente domiciliare ci ha detto: «Se fosse più pagato questo lavoro, il
personale si troverebbe»; una coordinatrice: «Se pagassero di più, riusciremmo a
fare più selezione e a qualificarli meglio».
Nove intervistati ( assistenti domiciliari, assistente a disabili, operatore
in centro diurno per anziani) usano, in merito alla retribuzione, la parola “sfrut-
tamento”: «Negativo al massimo: siamo sfruttate al massimo»; «Le cooperative
sociali stanno diventando una specie di sfruttamento umano».
C’è anche chi parla di “agenzia interinale”: «Le persone sono sfruttate. Sia-
mo peggio delle agenzie interinali».
Emerge da queste parole un’idea negativa della politica di lavoro messa in at-
to dalla cooperativa, che si colloca in una più generale sfiducia nella cooperativa
come organizzazione. Un’educatrice: «Non significa più niente cooperativa».
Il sistema delle gare d’appalto per la gestione dei servizi, che abbiamo de-
scritto nell’introduzione, sicuramente contribuisce a questa sfiducia: «Il sistema
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degli appalti sta distruggendo questo lavoro»; «Le istituzioni pubbliche assegnano
posti tramite gare d’appalto, si gioca al ribasso e questo non aiuta molto».
Infatti, nel caso in cui la cooperativa perda una gara d’appalto, i lavoratori
si trovano comunque a ripartire da zero, almeno per quel che riguarda i risul-
tati raggiunti con gli utenti.
In cinque ( referenti, educatore e assistente domiciliare) fanno riferi-
mento al problema del contratto da rinnovare, mettendolo in correlazione an-
cora con la scarsa “considerazione” in cui si sentono tenuti “dall’alto” in quan-
to lavoratori: «Non solo si guadagna poco, anche il contratto è scaduto già da tre
anni, siamo poco considerati, nonostante sia un lavoro molto importante».
Tuttavia, alcuni pensano che comunque, nonostante la scarsa retribuzio-
ne, l’importante sia sentirsi “tranquilli”, “tutelati” dalla cooperativa in cui si
opera, riconoscendo alla CADIAI di dare delle garanzie ai propri lavoratori che
altre cooperative non danno (ricordiamo che la CADIAI è tra le pochissime
cooperative sociali ad applicare la contribuzione piena): «Secondo me, per i
servizi che diamo, lo stipendio è basso... ma la cooperativa ti garantisce tran-
quillità»; «È basso... ma la CADIAI tutela il lavoratore, a differenza di altre coo-
perative che non lo fanno».
Per alcuni ciò che manca alla CADIAI e, più in generale, alle cooperative so-
ciali è il peso politico, come abbiamo visto in precedenza, il potere contrattuale,
per cui, per quanto si cerchi di tutelare i lavoratori, non si riesce a migliorare le
loro condizioni economiche, a ottenere un CCNL più adeguato. Una responsabi-
le organizzativa ci ha detto: «Sullo stipendio stendiamo un velo pietoso, però il con-
tratto è quello e nel nostro statuto abbiamo il massimo che ci possono dare».
Due assistenti domiciliari aggiungono al quadro il problema degli sposta-
menti da effettuare con mezzi propri, fatto che sicuramente ha ripercussioni
in termini economici: «Non mi lamento dello stipendio, ma dell’usura della
macchina». È una questione che riguarda più in generale l’organizzazione dei
servizi. Infatti gli operatori lamentano di dover gestire gli spostamenti da una
casa all’altra degli assistiti in soli cinque minuti. «Devi usare il tuo mezzo, ti de-
vi pagare la benzina, devi trovare parcheggio e hai a disposizione solo cinque mi-
nuti», dice un’assistente domiciliare. Cosa possibile solo nei casi (che sono ri-
sultati rari) in cui il coordinatore del gruppo sia attento o abbia la possibilità
(legata alle dimensioni più o meno gestibili dei gruppi di lavoro) di creare per-
corsi razionali per ognuno.
Con le parole di cinque intervistati, tutti assistenti domiciliari, viene nuo-
vamente ribadito, pur nello scontento per lo stipendio, il grande valore che ha
per loro il proprio lavoro, il loro estremo coinvolgimento. Hanno tenuto a dir-
ci che, nonostante non si sentano economicamente gratificati, non lo lascereb-
bero mai: «Non lo lascerei mai nonostante lo stipendio»; «Siamo pagati poco, ma
mi è piaciuto tanto che lo farei anche da volontaria»; «Gli stipendi non vanno,
ma, per dirsela tutta, meglio morta di fame e aiutare gli altri».
ANNA LAURA DIACO, SEBASTIANO MIELE, ERIKA PERUZZI
«La cosa più importante è la gratificazione
che si può ricevere dalle persone»
Precedente alla nostra, la ricerca più recente sulle cooperative sociali di Bologna
riguardava il fenomeno del burnout e del suo possibile rimedio consistente nel-
l’empowerment. Anche se il campione e il settore così indagati erano sensibil-
mente diversi dai nostri, abbiamo constatato che non mancavano dei punti di in-
tersezione. Così, ai fini della nostra inchiesta, è stato molto importante esaminare
approfonditamente metodologia e risultati di questo studio antecedente. Quanto
alla metodologia, alcuni tratti lo rendono evidentemente molto diverso dal nostro.
Anzitutto, la coppia burnout/empowerment definisce un insieme di com-
portamenti che vengono verificati tra i soggetti interpellati dalla ricerca. Ciò è
necessario per somministrare dei questionari a multiple choice e quindi rag-
giungere dei risultati essenzialmente quantitativi.
La nostra inchiesta invece aveva un obiettivo del tutto opposto, di ap-
profondire il più possibile qualitativamente il pensiero e la soggettività degli
operatori. Per questo per noi è stato essenziale tenere come fonte principale di
conoscenza le loro stesse parole. E per questa stessa ragione è stato quanto mai
importante evitare di definire qualsiasi comportamento a priori, su cui esami-
nare i nostri intervistati. Ma c’è pure una divergenza metodologica ancora più
fondamentale. La coppia burnout/empowerment rappresenta una dialettica
evolutiva. L’idea è: c’è il cortocircuito per stress (tra chi fa lavori duri, come gli
operatori sociali) e c’è il rimedio (ad esempio, la fiducia nelle proprie possibi-
lità di carriera); constatiamo i rischi del primo, per verificare come si può pas-
sare al secondo. Ora, anche seguendo le indicazioni di Romitelli, noi non ab-
biamo fatto ricorso ad alcuno schema evolutivo. Abbiamo evitato l’idea stessa
di constatare un fenomeno e da ciò dedurre la possibilità di un altro, tanto più
se di là da venire. Solo così abbiamo potuto sapere dai soggetti intervistati che
le possibilità di carriera in futuro, per molti di loro e molto realisticamente, so-
no da ritenersi assai scarse e comunque poco compensative delle fatiche e del-
lo stress da lavoro, questi sempre duramente e costantemente presenti. Anche
se su campione e con finalità euristiche diverse, in tema di ciò che più può com-
pensare fatica e stress, gli intervistati della nostra ricerca, diversamente dai ri-
sultati della ricerca su burnout e empowerment, hanno parlato soprattutto de-
gli assistiti e delle soddisfazioni provate in rapporto a essi.
La “soddisfazione” che gli operatori dicono di provare rapportandosi agli
utenti, dall’analisi delle nostre interviste, risulta essere per loro l’unica fonte di
“gratificazione” che si possa ottenere da questo lavoro.
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Per quanto riguarda l’assistenza agli anziani, la maggior parte degli opera-
tori ritiene fondamentale il “rapporto” da instaurare con l’utente: «Non vai so-
lo a lavarli, è importante parlarci, creare un rapporto»; un rapporto che va co-
struito ogni giorno, uscendo dai “canali normali” e ricercando nuovi modi di
“comunicare”, un rapporto dove il “contatto” e la fiducia sono elementi indi-
spensabili, dove la socializzazione è fondamentale, altrimenti si corre il rischio
di essere rifiutati dall’utente e di non poter svolgere bene il proprio lavoro: «So-
no rapporti da costruire tutti i giorni. Il nostro lavoro è il contatto… Un modo di
comunicare differente da quello che hai nei canali normali… È un rapporto più
fisico… carezze, sorrisi… Devono avere fiducia in te, se no non va bene».
Gli operatori devono letteralmente inventarsi un modo di comunicare con
ogni utente.
Le persone seguite, in alcuni casi, non sono in grado di rapportarsi alla
realtà, quindi la maggior difficoltà sta soprattutto nel riuscire a trasmettere loro
la voglia di interagire; bisogna superare molti ostacoli e una chiave per riuscirci
spesso gli operatori sembrano trovarla nel dare “serenità” all’utente, nel fornir-
gli gli stimoli giusti. A tal proposito riportiamo gli enunciati di due assistenti do-
miciliari: «La cosa più importante e interessante è quella di vedere lo sguardo del-
le persone, riuscire a dargli della serenità senza farli sentire umiliati, allontanare
anche momentaneamente il dolore»; «Con gli assistiti è bellissimo, tranquillo, di-
vertente, cerco sempre di coinvolgerli: è importante farli ridere».
Gli operatori non considerano l’utente oggetto, ma soggetto del proprio la-
voro: «Abbiamo a che fare con persone, non con macchine».
Perciò le attenzioni a livello personale, l’ascolto, il coinvolgimento risulta-
no essenziali, sono un buon metodo per interagire e rientrano in quell’espe-
rienza di scambio, di “dare-avere” cui abbiamo accennato: «Per me l’anziano è
mio nonno, mio padre, un amico, un insieme di cose. Gli anziani sono come dei
pozzi dove attingi sempre qualcosa, una carezza, un sorriso, cose anche brutte da
commuovermi. Queste cose ti lasciano spiazzata, non sai cosa dirgli non avendo-
le vissute. Sono dei pozzi senza fine, stupendi come bambini, i miei bambini. So-
no piccoli grandi uomini»; «Si imparano molte cose dagli anziani: lezioni di vita,
parlano di come era la vita e il mondo, di oggi e di ieri, della guerra. Li considero
tanti libri… e ognuno racconta la sua storia».
Un problema particolare, che mette a dura prova lo sforzo di interazione
da parte dell’operatore, consiste nell’affrontare casi difficili come quelli di
utenti affetti da depressione.
Queste le parole di un assistente domiciliare: «Quando sono depressi... È
difficile con le parole tirare su un depresso, quello lucido terminale è il peggiore,
lavorare sugli anziani non è la cosa più facile, bisogna saperli prendere: ognuno
ha le proprie manie, le proprie abitudini».
Notevoli difficoltà si presentano anche di fronte a pazienti anziani “irascibi-
li”, che hanno reazioni violente. In questi casi, come in quelli riguardanti l’handi-
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cap, per l’operatore risulta complicato capire quale sia la cosa giusta da fare, riu-
scire ad avere una reazione controllata che non sconvolga equilibri tanto faticosa-
mente conquistati. Un’assistente in un centro parla di “paura” e trova nel “par-
larne” la chiave per avere il “coraggio” di affrontare la situazione: «La difficoltà
non mi fa paura, mi fa paura quando l’anziano è molto aggressivo: non sai come com-
portarti. È successo, ma non mi ha scoraggiata, perché ne parli. C’è l’anziano aggres-
sivo per la sua cattiveria e l’anziano che non capisce; allora devi parlare col medico,
per dargli dei medicinali… A me è arrivato un pugno in testa: la prima cosa che ti
viene è di reagire, ma ti devi trattenere perché è come un bambino piccolo».
Nonostante gli sforzi fatti per entrare in empatia con l’utente, gli operato-
ri si trovano a dover affrontare una contraddizione: parlano della necessità di
un “distacco” da mantenere con l’utente per non essere eccessivamente “coin-
volti” a livello personale e mantenere dunque una “professionalità” utile ad agi-
re nel migliore dei modi e a non risentire della sofferenza con cui giornalmen-
te si viene a contatto. Si verificano condizioni per cui la continua frequentazio-
ne degli assistiti, unita al particolare rapporto che abbiamo visto instaurarsi,
crea un “coinvolgimento” contro il quale diviene necessario lottare: «Ho im-
parato molto da loro, sono coinvolta, cerco di non esserlo, ma non ce la faccio…
Vedo più loro che mio marito!».
Alcuni parlano di “affezione”, contrapponendola a un “distacco”, che è
“necessario”, “dovuto” e legato alla professionalità, alla consapevolezza che
“sei lì per lavorare”: «Sapere che sei lì per lavorare ti permette di avere un cer-
to distacco… che è necessario… È molto utile il distacco, anche se alle volte ci si
affeziona»; «Spesso ci si affeziona a queste persone, ma bisogna cercare di divi-
dere la propria vita professionale da quella personale con un dovuto distacco».
C’è chi lo chiama “vetro”: «Il rapporto è ottimo, gli assistiti sono molto buo-
ni anche se tra loro e me bisogna mantenere un vetro…»; chi parla di “togliersi
la pelliccia”: «Devi ascoltare il dolore altrui, ti devi immedesimare nella soffe-
renza e poi quando hai finito devi toglierti la pelliccia…»; chi lo nomina come
“distanza”, conseguibile attraverso il rispetto delle “regole” che stanno alla ba-
se della “professionalità”, la quale determina il rapporto fra dentro e fuori il la-
voro: «L’assistente deve essere in grado di mantenere una certa distanza, perché
ci sono alcune regole che devono essere rispettate, c’è bisogno di professionalità,
il lavoro inizia quando entri e finisce non appena esci».
I nostri operatori si occupano di disabili, di anziani e anche di malati ter-
minali: l’esperienza della morte è perciò sempre un’eventualità di cui tener con-
to. Qui il tema del distacco professionale da contrapporre al coinvolgimento
emotivo acquista toni più forti: «Delle volte mi affeziono, quando muore qual-
cuno piango, infatti non va bene affezionarsi»; «La cosa più difficile è, penso pro-
prio, quando muoiono. Si va da loro quasi tutti i giorni per molti anni e, anche se
cerchi di avere un distacco, entri comunque in un rapporto che ti coinvolge e la lo-
ro morte ti fa star male».
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Molti vorrebbero che si tenessero dei corsi che spiegassero come affronta-
re la morte; alcuni ne hanno frequentato uno, di cui tuttavia non ci sono chia-
ri i temi e i risultati: «Ci vorrebbe un corso sulla morte»; «Sono stati fatti anche
dei corsi per affrontare questa cosa, ma secondo me rimane comunque la cosa più
brutta del nostro lavoro in quanto ha ripercussioni psicologiche sull’operatore».
È un tema importante nel vivere questo tipo di attività: un assistente domi-
ciliare, che lavora prevalentemente con malati terminali, considera la cosa più
importante del suo lavoro l’aver creato un nuovo rapporto con l’idea di vita in
base a quello che si è trovato a dover creare con la morte: «[La cosa più impor-
tante è] il maggior valore che ho dato alla vita conoscendo la morte. Sai che oggi
sei qui e domani può succederti di tutto. Capisci che improvvisamente non ci sarai
più. Si imparano ad apprezzare le piccole cose, a valutarle di più».
Occupandosi degli utenti, gli operatori si trovano a confrontarsi anche
con i loro familiari, soprattutto in contesti domiciliari. Questo rapporto
spesso assume l’aspetto di uno scontro: se fino a qualche decennio fa era an-
zitutto la famiglia a essere interpellata, a occuparsi dell’anziano o del disa-
bile, ora ciò avviene sempre meno, e a supplire a questa funzione sono pro-
prio gli operatori sociali. Lasciamo ai sociologi con prospettive più dall’al-
to, più panoramiche, stabilire quanto questa dissociazione sia più o meno
profonda e variamente trattata nelle diverse zone d’Italia, dell’Europa e del
mondo. Noi, stando alla nostra ricerca sul campo, sul luogo CADIAI, possia-
mo notare una netta diversità tra il modo familiare e il modo “cooperativo”
di trattare le stesse questioni. Diversità che è attestata tra l’altro dai notevo-
li problemi segnalati dagli operatori sociali nei confronti dei familiari degli
assistiti. Significativo è come un’assistente caratterizza la sua stessa singola-
rità soggettiva, affermando che deve confrontarsi come “esterno” con le “re-
gole di casa” caratterizzanti il “metodo familiare” di trattare l’anziano, sen-
za poter peraltro fare appello a “regole definite e condivise” quali quelle vi-
genti in strutture come gli ospedali: «Con i familiari è più difficile perché, se
prima se ne occupavano loro, avevano il loro metodo nell’accudire e fanno fa-
tica ad accettare un esterno, succede che abbiano delle pretese perché si è in ca-
sa loro e si devono accettare le regole della casa. Non si è in un ospedale dove
le regole sono già definite e condivise».
Molti operatori accusano i familiari di essere troppo “pretenziosi”, “esi-
genti”, di chiedere “la luna nel pozzo”, come spiega un’operatrice, non riu-
scendo a fare affidamento sulla loro “professionalità” e intromettendosi nel la-
voro con l’idea di dover “insegnare” il metodo (il “saper fare”) da adottare: «I
familiari sono un grosso scoglio e sono molto pretenziosi»; «Con i familiari è dif-
ficile dimostrare la propria professionalità. Per loro è difficile accettare il con-
fronto, pensano di poterti sempre insegnare qualcosa»; «C’è il parente asfissiante
che crede di saper fare più di noi, ci sono anche quelli molto esigenti che non tol-
lerano neanche il minimo ritardo».
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«Fra colleghi ci vorrebbe più collaborazione, rapporto»
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Sono in molti a pensare che l’eccessiva espansione della CADIAI, il fatto che
«non è più una famiglia, ma un’azienda» sia causa di difficoltà nel creare scam-
bio di informazioni, nel comunicare, nell’organizzare il lavoro, nell’instaurare
rapporti costruttivi o anche solo nell’aver occasione di conoscere i colleghi.
Un’assistente domiciliare parla di “irrigidimento”, facendo riferimento anche
a una spersonalizzazione (“siamo numeri”) nei rapporti: «È troppo grande, sia-
mo diventati dei numeri, c’è un irrigidimento totale del rapporto con gli altri»;
questione che ritorna nell’enunciato di un altro assistente, che usa di nuovo la
parola “numero”, mettendo inoltre distanza fra sé e la CADIAI (dice “per loro”):
«La CADIAI tecnicamente va bene, ma dovrebbe migliorare umanamente: per lo-
ro sei un numero». Un educatore ritiene di non poter dare risposte sulla CADIAI
nel suo complesso, tante sono le persone che vi lavorano e con cui non si ha oc-
casione di entrare in contatto: «Non ti posso parlare di CADIAI: tanti non li co-
nosco nemmeno di vista». Un’assistente domiciliare fa riferimento alla disper-
sione causata da una simile organizzazione: «Con questa organizzazione a volte
sembra difficile capire a chi chiedere cosa: è molto grande, per altre cooperative
può essere più semplice mantenere i rapporti con i soci, ma la CADIAI è grande, è
cresciuta molto».
Un’altra dà rilievo a un aspetto che è emerso frequentemente rispetto al-
l’idea che i nostri operatori hanno del luogo dove lavorano: la struttura “ge-
rarchica” cui ha dato luogo l’ampliamento della CADIAI ha trasformato la sua
dimensione da cooperativa in aziendale: «Mentre prima si intendeva per coo-
perativa cooperazione, adesso praticamente è una struttura aziendale, gerarchi-
ca». E ancora: «Ci sono troppe persone che gestiscono»; «Ci sono troppi capi,
capini, capetti».
Anche una coordinatrice pensa che «tra operatore e coordinatore c’è un rap-
porto piramidale».
Un educatore mette ancora in discussione il concetto di cooperativa, par-
lando di organizzazione “industriale” che manca di “attenzione” al lavoro de-
gli operatori: «Io penso che la CADIAI, anche se si definisce una cooperativa so-
ciale di sinistra e compagnia bella, la posso definire più un’organizzazione indu-
striale che mette macchine al lavoro: non c’è nessuna attenzione al lavoro che fa
un operatore sociale».
Il problema delle dimensioni della cooperativa genera anche quello della
costituzione di gruppi di lavoro, che risultano difficilmente gestibili per l’ec-
cessiva ampiezza e l’organizzazione verticistica. Questo comporta notevoli
tensioni fra gli operatori e chi li coordina. La responsabile organizzativa di-
ce: «Ora come ora, con un gruppo di operatori, la cosa più difficile sono le di-
namiche di gruppo. Gli occhi devono vedere anziché guardare, perché si fa pre-
sto a scatenare marette».
Sedici intervistati ( assistenti domiciliari e educatori) trovano partico-
larmente difficile rapportarsi con referenti, coordinatori e responsabili («Re-
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donare il lavoro: «Ad essere sincera, sono un tantinello restia a continuare: tra
colleghi ci sono problemi, si parla spesso alle spalle. A volte la pazienza scappa»,
dice un’assistente domiciliare.
Sei intervistati trovano che il motivo di simili tensioni vada attribuito alla
prevalenza femminile sul lavoro: due assistenti domiciliari e un’educatrice, tut-
te donne, lamentano questo disagio. L’educatrice: «Il problema è la prevalenza
femminile. Quando si è tutte donne è un disastro, ci vorrebbero più uomini che
smorzano le cose: fra donne ci sono sviperamenti, le cose non vengono dette di-
rettamente».
In proposito, due assistenti domiciliari, sempre donne, parlano di “man-
canza di sincerità”.
Uno degli effettivamente pochi uomini intervistati, assistente domiciliare,
ci ha detto: «Fanno troppe polemiche e sono bagolone», riassumendo poi la sua
visione dei problemi sul lavoro con: «Meno donne e più soldi»!
Molti pensano che le cose siano rese più difficili dall’eccessivo tasso di tur-
nover, che abbiamo visto essere un problema tutt’altro che trascurabile all’in-
terno della CADIAI (anche nel nostro campione sono in dodici a dichiarare di
non voler continuare a lavorarvi). Due assistenti domiciliari: «Non è facile rap-
portarsi con i colleghi perché cambiano spesso»; «È problematico cambiare conti-
nuamente collega».
Il turnover si ripercuote anche sui percorsi educativi elaborati dagli opera-
tori e dunque sugli utenti. Un’educatrice: «C’è troppo turnover, i ragazzi si
confondono, devono avere dei punti di riferimento. Se il personale cambia in con-
tinuazione, non c’è mai un gruppo che porta avanti un lavoro completo». Emer-
ge qui una preoccupazione diffusa, sia tra gli educatori che tra gli assistenti do-
miciliari: che i cattivi rapporti fra colleghi abbiano ripercussioni negative sul-
l’utente. Anche un’assistente domiciliare infatti dice: «Se non c’è un buon rap-
porto, gli utenti lo percepiscono e invece è fondamentale che ci sia tranquillità e
armonia».
Cinque operatori (assistenti domiciliari) lamentano invece «troppa inade-
guatezza dei colleghi», come dice uno di loro. Il lavoro di tipo sociale richiede
sia delle competenze che una predisposizione, le quali non sempre sono pre-
senti entrambe o in ugual misura in chi tenta di intraprenderlo. Approfondire-
mo più avanti questo aspetto. Ora ci limitiamo a segnalarlo come problema che
interviene a complicare la gestione dei rapporti fra colleghi. La dualità delle
qualità necessarie per fare l’operatore sociale si coglie bene nei seguenti enun-
ciati, in cui si parla di “sentire” di più il lavoro e dare più “cultura”: «Per ren-
dere il lavoro più efficace ci vorrebbero più persone che lo sentano»; «Bisogne-
rebbe dare un po’ più di cultura a tutti gli operatori».
Alla base di questo problema sta anche la difficoltà nel trovare personale
qualificato e motivato, viste la scarsa retribuzione e la scarsa considerazione in
cui è generalmente tenuto questo lavoro (i laureati ad esempio puntano “più in
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La formazione: una chiave di lettura del turnover?
Uno dei punti critici della cooperativa CADIAI è l’eccessivo turnover, ovvero l’al-
ta frequenza di abbandono del posto di lavoro, tale da far sì che ci sia un co-
stante bisogno di nuove assunzioni. Situazione che chiaramente destabilizza in
modo rilevante diversi aspetti della vita della cooperativa.
Riflettendo su questo tema, vorremmo anche provare a chiarire cosa inten-
diamo per “riconoscimento intellettuale” della figura dell’operatore sociale.
Le prime considerazioni in merito sono partite dalla lettura delle parole con
cui gli operatori intervistati descrivono e giudicano la formazione.
A una prima superficiale lettura, la maggior parte degli intervistati sem-
brerebbe soddisfatta della formazione ricevuta. In molte risposte infatti la for-
mazione è descritta come qualcosa di essenziale, che serve per affrontare i pro-
blemi giornalieri; molti poi esprimono la propria approvazione per determina-
ti corsi specifici, come ad esempio quello sulla morte, che prepara ad affronta-
re questa grave problematica.
Volgendo invece lo sguardo alla consistente fetta che, seppure ancora a una
lettura “esplorativa” superficiale, ritiene la formazione scarsa o insufficiente,
notiamo frasi come quella di un’operatrice che menziona il “paleolitico”: «I re-
sponsabili dei corsi sono persone antiquate, paleolitiche. Ci vogliono persone più
giovani e un corso fatto bene».
E subito ci si accorge anche della presenza di operatori che addirittura ri-
tengono la formazione non adatta a questo tipo di lavoro, come un’assistente
di base: «Normalmente la formazione la faccio da sola, andando in giro, fre-
quentando i colleghi. Naturalmente dei colleghi che nel settore lavorativo hanno
più anni…».
Anche se dunque in prima battuta il giudizio sembrerebbe in larga parte
positivo, non si può fare a meno di notare che aleggia sempre un “sottofondo”
di lamentela, a volte anche tra i più soddisfatti, alcuni dei quali si lamentano ad
esempio dei pochi fondi destinati alla formazione.
Penetrando più in profondità le parole degli intervistati, ci accorgiamo di
come l’insoddisfazione campeggi più in particolare tra gli assistenti di base
(ADB) e gli operatori socio sanitari (OSS), molti dei quali dichiarano di conside-
rare la partecipazione ai corsi solo un mezzo per conseguire una qualifica che
poi venga riconosciuta a livello contrattuale, non un’occasione per migliorare
le proprie tecniche e ampliare le proprie conoscenze. Un assistente domicilia-
re, in proposito: «A parte il corso che ci ha formato, per avere un pezzo di carta…
perché la formazione te la fai in campo…».
Molti intervistati mettono in luce il fatto di non aver ricevuto subito una
formazione, teorica soprattutto, ma di aver fatto un periodo di affiancamento
con un collega più esperto e di essere stati buttati subito nella mischia: una ra-
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tiva si riferiscono alla politica interna della cooperativa e agli enti pubblici, che
non mostrano attenzione alla funzione degli operatori nei vari settori. Infatti il
disagio scaturisce dall’insoddisfazione economica, igienico-sanitaria, e dalla
consapevolezza di non essere considerati in quanto soggetti: «Non sei nessuno,
sei una matricola, numero .».
Se da un lato colpisce il malcontento piuttosto diffuso, dall’altro si nota
una grande passione per questo lavoro, e un’attenzione particolare al rap-
porto con l’assistito: «Per me la cosa più importante è l’anziano: per me l’an-
ziano è mio nonno, mio padre, un amico, è un insieme di cose. Sono come dei
pozzi da dove attingi sempre qualcosa, sono come bambini: i miei bambini… so-
no piccoli grandi uomini».
Un’ultima particolare citazione in merito a questo argomento, alla doman-
da “Ci descrive il suo lavoro?”. Un educatore ha risposto: «Porto i ciechi al ci-
nema e i paralitici a passeggio».
Senza continuare a dilungarci in questo excursus circa le motivazioni per le
quali si è scelto questo lavoro, dobbiamo precisare che la CADIAI non può (que-
sto lo sappiamo) permettersi di selezionare il personale fra brillantissimi curri-
cula. Sappiamo che in teoria i criteri di selezione auspicati sarebbero capacità
di lavorare in gruppo, capacità relazionale e orientamento al compito, ma è pur
vero che, come dice un operatore, «la CADIAI fa con quel che c’è» e, crediamo,
in questo ambito in particolare. Scopriremmo dunque l’acqua calda dicendo
che una selezione più “accurata” (se ci fosse più personale e magari più moti-
vato e magari la possibilità di proporre stipendi migliori ecc.) potrebbe contri-
buire a migliorare la situazione turnover: ma bisogna fare con quel che c’è!
Tornando dunque a quel che c’è, riprendiamo la già discussa formazione e
proviamo ad accennare, dopo quanto detto, alcune timide proposte di formazio-
ne diverse e più vicine ai bisogni che scaturiscono dalle parole degli operatori.
– Si potrebbe pensare ad esempio all’inserimento di un aiuto “psicologico”
(abbiamo visto che a volte è una richiesta esplicita) da pensare bene e da stu-
diare sia per quanto riguarda le modalità di questi interventi, sia per quanto
concerne i tempi e tutta una serie di altre ovvie problematiche organizzative.
Ma ci viene anche da pensare: chi sarebbe questo psicologo in grado di affron-
tare in modo adeguato le problematiche così singolari e poco conosciute lega-
te magari soltanto a questo tipo di lavoro?
– Sembrerebbero utili corsi di formazione pensati ad hoc solo per i coordi-
natori: quella del coordinatore ci è parsa una figura davvero centrale, da cui di-
pende in larga parte l’efficienza del lavoro, soprattutto considerando che in-
fluisce molto sullo stato d’animo dei suoi “coordinati”.
– Sarebbe utile una formazione che rendesse l’operatore idoneo a ricoprire
più di un ruolo soltanto: alcuni intervistati affermano che dopo un po’ si stan-
cano di stare sempre nella stessa situazione e nello stesso posto e credono che
un cambiamento gli possa far ritornare l’entusiasmo.
ANNA LAURA DIACO, SEBASTIANO MIELE, ERIKA PERUZZI
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Non è vero che porto i paralitici a passeggio e i ciechi al cinema. È vero che uno de-
gli utenti che seguo (sono quattro) ha grossi problemi di vista e vuole andare al ci-
nema. Mentre riguardo i paralitici, li porto in sedie a rotelle in giro per la città.
Questo per dire che il rischio di questo lavoro è il fatto di essere scambiato con un
“non lavoro”: sia dagli esterni e sia dagli utenti stessi. Proprio giovedì scorso io ero
a cena con uno di questi ragazzi e lui mi ha detto: “Tu, Guido, hai visto un bel mon-
do, ma questo non è un lavoro vero. Tu fai appunto il lavoro più bello che esiste:
ti pagano per andare in pizzeria, al cinema. Ti rimborsano quando vai a prenderti
il caffè e persino ti pagano l’ora che hai passato con me, quindi questo non è lavo-
ro”. E infatti molti sono convinti che io faccia l’obiettore…».
Appendice
ANNA LAURA DIACO, SEBASTIANO MIELE, ERIKA PERUZZI
Note