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Etnografia del pensiero

Ipotesi e ricerche

A cura di Valerio Romitelli

Carocci editore
QUADERNI DEL DIPARTIMENTO DI DISCIPLINE STORICHE /
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BOLOGNA
Il testo è disponibile sul sito Internet di Carocci editore
e sul sito Internet del Dipartimento di Discipline Storiche
dell’Università di Bologna:

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Pubblicato con il contributo del
Dipartimento di Discipline Storiche dell’Università di Bologna

a edizione, maggio 


© copyright  by
Carocci editore S.p.A., Roma

Realizzazione editoriale: studioagostini, Roma

Finito di stampare nel maggio 


dagli Stabilimenti Tipografici
Carlo Colombo S.p.A.
via Roberto Malatesta,  –  Roma

ISBN ---

Riproduzione vietata ai sensi di legge


(art.  della legge  aprile , n. )

Senza regolare autorizzazione,


è vietato riprodurre questo volume
anche parzialmente e con qualsiasi mezzo,
compresa la fotocopia, anche per uso interno
o didattico.
Indice

Parte prima
Ipotesi
di Valerio Romitelli

. Quattro ipotesi 

. Tre domande 

. Risposte classiche 

.. Il classismo 
.. L’evoluzionismo 
.. Definire, per conoscere quale sociale? 
.. L’ideale dei tipi ideali 
.. Il funzionalismo e i suoi paradossi 
.. L’etnografia statunitense 

. Risposte più recenti 

a. Il linguaggio come strumento 


a.. Anche Stalin sulla linguistica / a.. L’interazionismo sim-
bolico / a.. L’etnometodologia
a. Il linguaggio strutturante 
a.. L’Edipo / a.. L’equivocità del tempo
a. Il linguaggio come risorsa 
a.. Linguaggio e pensiero / a.. Performance o prescrizione?
a. Segni ovunque 
a.. La semiotica alla moda / a.. Il ritorno del sistema


INDICE

a. Dalla comunicazione alle comunità 


a.. Doni non richiesti / a.. Identità o soggettività?
b. Scienze sociali e politica nel Novecento 
b. I partiti, il linguaggio, il sociale, la guerra / b. Scienze sociali e
regimi politici / b. Il Sessantotto e le sue conseguenze
c. Questioni di metodo: discorsi o parole? 

. Le nostre risposte 

.. Il dualismo delle scienze sociali 


.. Prescrizioni per la ricerca 
... Ricerche sociologiche sui governanti / ... Ricerche etno-
grafiche tra i governati

Parte seconda
Ricerche

Presentazione 

Più possibilità di vivere 


di Valerio Romitelli

. La didattica, un’esperienza sul campo 


. Il metodo, la quadruplice dimensione soggettiva 
. L’inchiesta, più possibilità di vivere 
. Immigrazione zero, un fallimento politico 

Una scuola diversa dalle solite 


di Marta Alaimo e Valerio Romitelli

. Ipotesi e problemi 


. Il NOF, questo sconosciuto 
. Chi, dove e come 
. A proposito dell’intervista, della provenienza e del lavoro 
. Al NOF la teoria è strettamente collegata con la pratica 
. Formazione e/o istruzione? 


INDICE

Una fabbrica da rifare e la qualità del lavoro. Gli operai


della BredaMenarinibus e della BT Cesab di Bologna 
di Mirco Degli Esposti

. L’inchiesta alla BredaMenarinibus 


. L’inchiesta alla BT Cesab 
. Conclusioni 

Anche al lavoro pensare, dire quello che si pensa 


di Anne Duhin

. Qualificazioni del lavoro 


. Molteplici posizioni di fronte al lavoro 
. La fabbrica come mondo 
. Conclusioni 
. Da operaio a operaio (nota del curatore) 

Una benevola forma di egoismo. I volontari della Casa dei


Risvegli 
di Laura Filippini

. Il campione 
. I luoghi 
. Le interviste 
. Il questionario 
. Una “benevola forma di egoismo”: cosa dicono i volontari del
volontariato 
. Le proposte dei volontari 
. Riconoscimento intellettuale, informazione e formazione
nel volontariato 
. «Volontario è chi ha la volontà di fare questa esperienza,
con la consapevolezza di non essere un professionista» 

Il senso della fabbrica. Condizioni di ambientamento dei


lavoratori migranti nella provincia di Ravenna 
di Marta Alaimo e Franca Tarozzi

. Introduzione 
. L’obiettivo 
. Presentazione e caratteristiche del luogo 
. Presentazione del campione 


INDICE

. Argomenti rilevanti 


. Punto di appoggio, alloggio, casa: «l’importante, all’inizio,
è avere un appoggio» 
. Formazione e lavoro: «Se non hai mai visto una fabbrica,
serve» 
. Sulla sicurezza: «La sicurezza siamo noi» 
. Punti di sintesi dei giudizi degli operai e qualche consiglio 

Sarebbe il lavoro del futuro 


di Anna Laura Diaco, Sebastiano Miele, Erika Peruzzi

. Introduzione 
. Descrizione del campione 
. «Nel nostro mondo siamo importanti» 
. «Lo stipendio non dà valore al nostro lavoro» 
. «La cosa più importante è la gratificazione che si può rice-
vere dalle persone» 
. «Fra colleghi ci vorrebbe più collaborazione, rapporto» 
. La formazione: una chiave di lettura del turnover? 
. Appendice 

Indice dei nomi e delle cose notevoli 


Parte prima
Ipotesi
di Valerio Romitelli

Quattro ipotesi

Le ricerche qui raccolte sono state compiute nell’arco degli ultimi cinque anni.
Esse non solo si sono svolte in luoghi, tra popolazioni e con soggetti tra loro di-
versi, ma sono anche avvenute seguendo impostazioni problematiche nonché
metodologie tra loro non del tutto omogenee. Tuttavia, il Leitmotiv c’è ed è sta-
to ben certo fin dal loro inizio, anche se si è venuto chiarendo e precisando
strada facendo. Con la pubblicazione di questa raccolta, i loro autori hanno an-
che deciso che fosse venuto il momento di provare a esplicitare le convinzioni
comuni che hanno ispirato le loro inchieste. A me che, bene o male, ho segui-
to da vicino ciascuno di questi lavori è spettato il compito di introdurli per pro-
vare a fare il punto sul senso da essi condiviso. A tale scopo propongo delle ipo-
tesi metodologiche che rispondono ad alcune delle più importanti questioni
presenti tra le scienze sociali. Dichiarando subito che la loro ispirazione viene
dall’antropologia di Sylvain Lazarus e dal GRAM (Groupe de Recherche de
l’Anthropologie de la Modernité) da lui diretto, riassumo tali ipotesi in questi
quattro enunciati:
. chiunque può pensare;
. per conoscere la realtà sociale occorre pensare il pensiero altrui;
. occorre sempre distinguere due realtà sociali: quella che è governata da un
qualche potere e quella che è resa possibile da chi potere non ha;
. per conoscere quest’ultima realtà la ricerca sociale può evitare ogni lin-
guaggio da specialisti, ovvero ogni metalinguaggio.
Questi enunciati saranno in seguito più estesamente spiegati. Ora, un bre-
ve commento di ciascuno.
. Dire che “chiunque può pensare” significa escludere che il pensiero sia ap-
pannaggio di chi può rivendicare titoli di sapere o di potere, da esperto o da re-
sponsabile autorizzato. “Chiunque” qui vuol dire anche “chi non è nessuno”,
chi non ha alcuna qualifica o competenza per prendere decisioni riguardo alla
propria condizione. Che anche in tale condizione di soggezione si possa sem-
pre pensare, che ciò effettivamente avvenga e che ciò costituisca un’abbon-
dantissima fetta della realtà sociale: tutti questi mi paiono dati incontestabili di
cui molte ricerche sociali ancora non tengono debito conto.
. Dire che “per conoscere la realtà sociale occorre pensare il pensiero altrui”
significa escludere che la realtà sociale sia sempre da ricercarsi “dietro” ciò che


VA L E R I O R O M I T E L L I

gli altri pensano, come una causa oggettiva o forza naturale che spingerebbe
dalle spalle ogni altro e che unicamente “io” ricercatore sociale sarei in grado
di vedere. Ogni ricercatore sociale è sempre inevitabilmente un “io”, un sog-
getto cartesiano, un soggetto di scienza, come lo chiamava Jacques Lacan. Ma
proprio per essere degno di questo nome non può non ammettere, come del
resto faceva a suo modo George H. Mead, riconosciuto padre dell’interazioni-
smo simbolico, che non c’è realtà sociale che non risulti dal rapporto col pen-
siero altrui.

. Questo terzo enunciato significa ammettere che in ogni realtà sociale (co-
me ad esempio una fabbrica o un servizio sociale) c’è sempre chi la governa
(manager o funzionari, ad esempio) e chi è governato (operai od operatori so-
ciali, ad esempio), ma significa anche che le questioni di governo non esauri-
scono tutto ciò che si può conoscere di tale realtà. Di più, che quest’ultima è
del tutto diversa per chi non la governa e invece ne fa esperienza senza dispor-
re di alcun potere né sapere come averne (come, appunto, operai od operato-
ri sociali). Se per conoscere la realtà sociale da governare occorre conoscere an-
zitutto le necessità di chi ha potere e sapere (politici, manager o funzionari), per
conoscere la realtà di chi non ha potere né sapere (che è il compito principale
delle nostre ricerche), occorre anzitutto pensare il pensiero di chi (operai od
operatori sociali) si rende possibile tale realtà. Tutto ciò implica, per esempio,
assumere in modo assai particolare l’obiettivo sempre più spesso fatto proprio
dalle scienze sociali di “fornire consigli per buone prassi di politica sociale”.
Come si vedrà, anche in alcune delle nostre inchieste ci si è posto il problema
di fornire tali “consigli”, ma non mettendosi dal punto di vista della governa-
bilità della situazione in cui l’inchiesta è stata condotta; bensì cercando di far
parlare il pensiero di chi è governato e lasciando a chi governa la responsabi-
lità di trarne le proprie conseguenze. Proprio perciò, al posto dei “consigli”,
che servono se rivolti a chi ha il potere di applicarli, preferiamo parlare di “pre-
scrizioni”, che valgono per chiunque.

. Proprio per poter pensare e far parlare il pensiero di altri, senza potere, né
sapere, viene proposto il quarto enunciato. Rinunciare a qualsiasi linguaggio da
esperto è, infatti, condizione necessaria per porsi sullo stesso piano di chiun-
que. Molte scienze sociali non ammettono questa possibilità. Sostengono che
ogni ricercatore sociale degno di questo nome è un esperto, e quindi non può
non parlare e pensare secondo un suo linguaggio diverso da quelli che incon-
tra, specie se senza alcuna specifica qualifica. Rispetto a ciò, io non dico che il
ricercatore sociale debba rimuovere il suo sapere, dico invece che può evitare
di fissare questo suo sapere in definizioni, discorsi, modelli che rendono il suo
linguaggio un linguaggio tecnico, da esperti, ossia un metalinguaggio: un lin-
guaggio che traduce, decodifica quello degli altri. Il pregiudizio secondo il qua-


. Q U AT T R O I P O T E S I

le ciò non sarebbe possibile si fonda sull’idea che tra il linguaggio scientifico e
quello comune la differenza sia insormontabile. Il che è certamente e necessa-
riamente vero nella maggioranza degli ambiti della conoscenza scientifica (so-
prattutto in tutti quelli matematizzati come ad esempio la fisica, la chimica e fi-
nanche la linguistica, l’economia politica o la sociologia fondata sulla statisti-
ca), ma può non esserlo nelle ricerche sociali di tipo etnografico riguardanti ciò
che chiamiamo il pensiero altrui. Qui sta una delle maggiori singolarità del no-
stro metodo: che si possa far scienza, cioè che si possa raggiungere una cono-
scenza sistematica, infinitamente trasmissibile, ripetibile in altre esperienze di
ricerca, pur mantenendosi in un linguaggio comune. Basilare a questo propo-
sito è tenere conto di un assunto già altrimenti noto, ma che nel Novecento gli
studi sul linguaggio, non ultimi quelli della grammatica generativa di Noam
Chomsky, hanno quanto mai confermato: che l’infinita varietà dei linguaggi
non esclude una loro omogeneità fondamentale; in altre parole, che il linguag-
gio per quanto sia complesso e differenziato a seconda dei suoi usi nelle diver-
se lingue, società ed esperienze possibili (da quelle più comuni a quelle artisti-
che, da quelle scientifiche a quelle politiche e così via) può sempre essere pen-
sato come un unico linguaggio.
È questa una delle considerazioni essenziali contenute in un saggio di
Clifford Geertz di una trentina di anni fa; un saggio, il quale arriva alla con-
clusione che sia possibile un’etnografia del pensiero: del pensiero ovunque, co-
munque e da chiunque possa essere elaborato.
Questo saggio mantiene l’idea che l’etnografia in quanto scienza debba in-
terpretare e tradurre a suo modo pensiero e linguaggio altrui. Io mi spingo in-
vece fino a sostenere che l’etnografo possa pensare e parlare come chiunque,
restando all’interno delle diversità e delle somiglianze che chiunque ha rispet-
to a chiunque altro, senza per questo dovere per forza derogare al suo compi-
to di far scienza. Per spiegare come ciò sia possibile non trovo nulla di meglio
che anticipare alcuni risultati delle nostre inchieste. Essi consistono soprat-
tutto nel far brillare di luce propria le parole dei nostri interpellati, ad esem-
pio, operai/operaie e operatori/operatrici sociali. Ebbene cosa dicono questi
soggetti?
Cito giusto una frase degli operai della Marcegaglia, fabbrica metalsiderur-
gica ravennate in un impetuoso sviluppo, in controtendenza rispetto all’anda-
mento della grande industria nazionale, ma tormentata da continui incidenti, al
punto da provocare un’inchiesta della magistratura che ha finito per far saltare
la direzione aziendale precedente all’attuale. La frase di questi operai che qui
porto ad esempio è “la sicurezza siamo noi!”. È, questo, un enunciato che per
me merita già di essere presentato come un enunciato di portata scientifica. Per
comprendere compiutamente in che senso, basta leggere il rapporto d’inchiesta
più sotto riportato. Ma per quel che ora più interessa è sufficiente anticipare al-
cune delle ampie e complesse implicazioni di tale enunciato. Anzitutto, dicen-


VA L E R I O R O M I T E L L I

do “la sicurezza siamo noi”, gli operai della Marcegaglia dicono che l’antidoto
fondamentale contro gli incidenti non sta né in una maggiore o migliore forma-
zione, né nel puro e semplice rispetto delle norme di sicurezza, né negli inter-
venti dell’Ispettorato del lavoro e neanche nel timore di inchieste giudiziarie.
Tutti questi aspetti, che pur gli operai ritengono importanti, a loro avviso, non
sono decisivi quanto loro stessi: quanto il fatto di essere loro stessi i primi de-
positari delle conoscenze che permettono di contenere gli incidenti. Il che, con-
trariamente a quanto potrebbe apparire a un primo sguardo superficiale, non è
affatto scontato, né privo di inedite conseguenze pratiche e teoriche. In effetti,
la situazione quale risulta dalle parole degli operai intervistati appare invilup-
pata in una sorta di circolo vizioso: tanto più la fabbrica si espande rapidamen-
te e recluta mano d’opera giovane e inesperta, quanto più quest’ultima è espo-
sta ai rischi d’incidente e quindi è indotta a lasciare rapidamente il posto di la-
voro. Risultato: ininterrotte emorragie tra gli operai delle conoscenze dirette, di
“prima mano” è proprio il caso di dire, dei macchinari e dei loro pericoli. Ecco
quindi l’importanza e la difficoltà di far fronte a tali emorragie: l’importanza di
assumere la frase “la sicurezza siamo noi” come una prescrizione a cercare dei
modi di far accumulare tra gli operai tali conoscenze di “prima mano”. Come
organizzare nuovi corsi di formazione o nuove modalità di affiancamento, come
rendere trasmissibili e tramandabili i consigli da operaio a operaio per far fron-
te al pericolo di incidenti sul lavoro: questi, alcuni dei fronti della sperimenta-
zione scientifica, etnografica, e non certo privi di effetti pragmatici e politici,
aperti dall’enunciato “la sicurezza siamo noi”. Né si può certo dubitare che tali
fronti siano del tutto privi del valore di universalità, di applicabilità in altri con-
testi, che è valore scientifico imprescindibile.

Note

. Chi voglia saperne di più può provare a leggere il certo non facile Anthropologie du nom,
(Paris ) di questo autore e la raccolta di saggi da lui curata per il n.  di Éthnographie françai-
se, Paris . Se qui di seguito non si troveranno richiami espliciti a riguardo è perché di impli-
citi ve ne sono tanti che la loro esposizione avrebbe tremendamente appesantito il testo. Ma an-
che perché, se c’è una cosa che ho imparato da questa scuola, è che ogni ricercatore deve cercare
una propria via.
. Riferimento decisivo da questo punto di vista è tutta l’opera di Michel Foucault, ma in un
senso diametralmente opposto a quello prevalente (ad esempio anche in Hardt, Negri, Impero,
Milano ; Id., Moltitudine, Milano ) che privilegia la tematica della “biopolitica”. Che
questioni biologiche, politiche e anche quindi storiche e sociali possano essere trattate allo stesso
modo, con un unico approccio, è infatti un presupposto tipico da pensiero unico, a una dimen-
sione, per quanto si presenti “moltitudinario”. A proposito di Foucault, rimando al mio Potere
senza corpo e corpi senza potere: ricordando Foucault, in C. Pancino (a cura di), Corpi, Padova .
. Qui non tratterò di alcuna problematica che abbia al centro la psiche, ma ogni riferimen-
to a esso sarà sempre ispirato a questo grande maestro di psicoanalisi e a quanto ne ho appreso
dai suoi allievi, quali Alain Badiou (L’essere e l’evento, Meditazione , Genova ), Jean Clau-
de Milner (Périple structural, Paris ) o Marc Silver (L’etica della psicanalisi, Milano ).


. Q U AT T R O I P O T E S I

. Si vedano le inchieste sugli operai della Bonfiglioli, della Menarini, della Cesab e della
Marcegaglia qui riportate.
. Cfr. l’inchiesta sugli operatori della CADIAI qui riportata.
. Questo detto, “senza potere, né sapere”, che ritornerà più volte nelle prossime pagine, si
riferisce a popolazioni che non hanno i titoli istituzionali o economici, ma neanche le competen-
ze e le conoscenze, per decidere del destino altrui. Ciò non toglie che ciascun individuo di queste
popolazioni possa avere un suo potere, ad esempio come capofamiglia, o un suo sapere su qual-
siasi questione, tranne su quella di decidere per e di altri.
Questa ipotesi può contrariare l’opinione più diffusa della democrazia. Secondo tale opi-
nione infatti tra governati e governanti i regimi democratici frappongono dei dispositivi di rap-
presentanza grazie ai quali i primi partecipano delle scelte dei secondi. Il rito fondamentale at-
torno a cui gravita la partecipazione democratica è, come noto, l’elezione. La sua efficacia ha in
ogni caso non pochi limiti: di regola non riguarda tutte le situazioni dove c’è una direzione, ov-
vero un governo; avviene sempre solo in determinate scadenze; la sua ragione d’essere principa-
le, che consiste nella possibilità di revoca degli eletti dimostratisi non meritevoli del mandato ot-
tenuto, ben di rado si impone appropriatamente; tra le possibilità di scelta che offre non rientra
quella cruciale delle candidature, ma solo dei candidati; e così via. Per quanto valore si dia alla
partecipazione democratica, i suoi limiti restano dunque tali da lasciare sempre aperto il divario
sociale tra chi decide della sorte degli altri e chi no.
. Cfr. S. Lazarus, Anthropologie, cit. e Id., L’Éthnologie, cit.
. Per farsi un’idea di questo autore, cfr. la voce Linguaggio dell’Enciclopedia Einaudi, Tori-
no .
. C. Geertz, Il modo in cui oggi pensiamo: verso un’etnografia del pensiero moderno, in Id.,
Antropologia interpretativa, Bologna .
. Da qui viene l’idea di ipotizzare un’“etnografia del pensiero”.



Tre domande

Pensare, parlare, scrivere come chiunque, facendo rientrare l’intento della co-
noscenza scientifica tra le differenze che chiunque ha rispetto a chiunque altro:
questa è dunque l’ipotesi di fondo che l’etnografia del pensiero qui presentata
sottopone a sperimentazione.
A decidere dello stile di questo come dei successivi testi è stato dunque il
pensiero di coloro ai quali ci rivolgiamo. Li si possono suddividere in quattro
categorie.
– Gli esperti in scienze sociali, che si deve supporre ne sappiano infinita-
mente più di noi.
– I responsabili del governo dei luoghi dove, grazie al loro stesso aiuto, ab-
biamo condotto le nostre inchieste.
– I soggetti che sono stati da noi interpellati come “gente senza potere e sen-
za sapere”, per quanto da qualche parte essi ne abbiano sicuramente, che ci
hanno in vario modo confermato la nostra ipotesi di poter conoscere la realtà
sociale attraverso il loro pensiero.
– Infine, i soggetti che sono supposti saperne meno di noi e quindi volere ap-
prendere da noi: tutti gli interessati, studenti universitari compresi, a intra-
prendere ricerche sociali.
Ma non si tratta, o non si tratta solo, di quattro settori di un possibile pub-
blico per il nostro libro (di quelli che risultano per esempio dai sondaggi d’o-
pinione e dalle loro medie). Si tratta piuttosto dei quattro tipi di soggetti al cui
centro sta per me il cuore della realtà sociale. Una realtà che, come spiegherò
meglio più oltre, sta sempre all’incrocio di tre dimensioni: quella del “sapere”,
acquisito e da acquisire, quella del “potere”, del potere di governo, e quella di
“chi non può e non sa, ma che rende possibile il rinnovarsi del sociale stesso”.
Un incrocio, che, come sempre si deve, per non creare scontri, richiede di es-
sere sgombro da intralci, libero per i diversi attraversamenti, in questo caso, del
pensiero. Per cui qui non si propone alcuna dottrina generale, alcun discorso,
logica o dialettica per la composizione, la sintesi o, peggio, lo scontro di queste
diverse dimensioni, ma si tratta di alcune possibilità per farle confrontare la-
sciando a ognuna la propria autonomia di movimento.


VA L E R I O R O M I T E L L I

A tale scopo, la prima questione che mi sono posto è come spiegare quan-
to si sa o si deve sapere delle scienze sociali per capire in che rapporto rispetto
a esse si pongono le nostre ipotesi. In altri termini, quali sono gli antecedenti,
tra sociologi, antropologi ed etnografi, che il nostro approccio può rivendica-
re o respingere; quali le sue prossimità, quali le sue distanze, rispetto ai meto-
di della ricerca sociale già acquisti; quali i debiti di conoscenza che sono qui da
dichiarare, quali i crediti che sono da richiedere per nostro conto.
Per esporre tutto ciò in modo stringato e accessibile a qualunque lettore di
buona volontà mi sono risolto a passare in rassegna alcuni dei più noti approc-
ci delle scienze sociali, quasi fossero dei soggetti da intervistare.
Li ho dunque affrontati tramite una sorta di mini-questionario: ponendo
loro tre domande con le quali chiunque si interessi al sociale, da esperto o no,
prima o poi deve confrontarsi.
a) Cos’è la società?
b) A che scopo conoscerla?
c) Come conoscerla?
Con questo dispositivo a tre domande andrò a interpellare alcuni dei mag-
giori nomi, discorsi e passaggi che hanno punteggiato la storia delle scienze so-
ciali. Mia precisa intenzione è contrastare l’opinione, a un tempo accademica e
triviale, che queste discipline si sviluppino da loro stesse, come per partenoge-
nesi, come se i loro pulpiti siano sempre fissi in un mondo che gira loro attor-
no, mentre le diverse generazioni e le diverse comunità di “scienziati sociali” vi
si alternano. Al contrario, proverò a mostrare che sotto il nome di scienze so-
ciali ne sono successe di tutti i colori, sono circolate le più disparate risposte su
cos’è la società, come e perché studiarla. Il che non esime affatto dal cercare di
sapere di quali e quanti colori si è trattato. Ma obbliga anche ad ammettere,
proprio per rispetto alla scienza che non è se non sperimentale , che il modo
migliore di apprezzarli sta nell’usarli per nuove sperimentazioni. Perciò, tutte
le risposte di cui tratterò qui di seguito saranno direttamente commisurate alle
nostre ipotesi di ricerca.
Prima delle risposte, qualche chiarimento sul senso di questi tre interrogativi.
La prima domanda (a) riguarda l’oggettività del sociale: ciò che ci si trova
innanzi ogni volta che ci si pone una questione sociale. Ma è chiaro che questa
domanda ha senso solo se chi se la pone si chiama fuori dal sociale. Si tratta di
un punto di vista che si giustifica in nome di qualcosa che sociale non è: quin-
di o in nome della natura o in nome di uno spirito più o meno eterno, sia che
lo si voglia intendere in senso filosofico che in senso religioso. In effetti, per
quasi tutto l’Ottocento la conoscenza del sociale è stata condizionata o da filo-
sofie della storia, come quelle di Comte, Marx o Spencer, o da scoperte delle
scienze naturali, come la teoria dell’evoluzione di Darwin. Filosofie e scienze
che definivano cosa è la società, a priori, ancora prima di studiarla dall’interno.
La storia e l’evoluzione sono state così presentate come i sinonimi stessi di tut-


. TRE DOMANDE

ta la realtà conoscibile: in loro nome si sono costruiti discorsi capaci di orga-


nizzare un linguaggio da specialisti, un metalinguaggio il cui senso compren-
deva e spiegava tanto la natura, tanto lo spirito, quanto il sociale. Marx, ad
esempio, pur rifiutando di fare il filosofo, costruisce un discorso, una dialetti-
ca che permette di trattare di leggi, tanto della storia quanto della natura. Il No-
vecento però mal tollererà simili metalinguaggi a portata universalistica. Ciò so-
prattutto in ragione delle scienze sociali che proliferano per conto loro, stu-
diando dall’interno una varietà praticamente infinita di realtà sociali, una di-
versa dall’altra. La domanda su cosa è la società è quindi divenuta sempre me-
no rilevante (al di fuori della filosofia, che giustamente deve pretendersi eter-
namente alle prese con questioni ricorrenti in ogni tempo). Tant’è che oggi nes-
sun serio ricercatore sociale se la sente di dare una sua precisa risposta alla do-
manda “cos’è la società?”, proprio allo stesso modo in cui nessun serio magi-
strato può voler rispondere a tono alla domanda “cos’è la giustizia?”. Resta che
essa è del tutto pertinente per farsi un’idea di quel che le scienze sociali sono
state nelle origini ottocentesche e di come sono cambiate nel corso del Nove-
cento; e ciò soprattutto nel senso di un ridimensionamento della questione del-
l’oggettività del sociale.
La seconda domanda (b) riguarda essenzialmente il rapporto tra la cono-
scenza sociale e la politica. Le risposte vengono in parte dall’esterno e in parte
dall’interno delle scienze sociali. Queste sono solitamente sempre state inter-
pellate dalle istituzioni a fornire consigli sulle “buone prassi”, come si dice og-
gi, da seguire nelle politiche sociali. Ma anche le stesse scienze sociali si svilup-
pano tramite loro scelte politiche, ad esempio, sulle priorità delle questioni so-
ciali da studiare. Un aspetto, questo, della politica scientifica delle ricerche so-
ciali, che è divenuto sempre più importante nel corso del Novecento, quanto-
meno queste stesse ricerche si sono attenute a definizioni oggettive, a priori, di
origine ottocentesca, del sociale.
In effetti, oggi trovo del tutto decisivo per la conoscenza sociale che i ri-
cercatori sociali rispondano direttamente e chiaramente degli scopi del loro ri-
cercare. In questa direzione c’è un nodo da sciogliere: quello della soggettività
della ricerca sociale. Dall’Ottocento fin verso la fine del Novecento il fatto che
tale ricerca non potesse prescindere dalla soggettività è sempre stato conside-
rato un limite, una nota di demerito rispetto alle scienze naturali, il cui sup-
posto oggettivismo faceva da modello. Più recentemente invece si è assistito a
una sorta di rivalutazione della dimensione soggettiva del ricercatore sociale,
che ha attenuato i confini epistemologici da sempre esistenti tra la sua attività
e quelle artistico-letterarie. Di qui, ad esempio, il diffondersi di saggi antro-
pologici o etnografici redatti con stile del tutto personale. Inalterato, o quasi,
è rimasto infatti il presupposto che la soggettività non possa essere che una
qualifica personale attribuibile esclusivamente a un individuo. Diversamente,
è del tutto proficuo pensare che la categoria della soggettività non sia solo si-


VA L E R I O R O M I T E L L I

nonimo dell’individualità personale, ma possa applicarsi a dimensioni collet-


tive, quali, appunto, quella dei ricercatori sociali. Chiedersi quale sia la loro
soggettività allora significa chiedersi quali siano i modi e le condizioni intel-
lettuali tramite cui essi scelgono di studiare questo o quel problema sociale
piuttosto che altri, come e perché alla loro ricerca diano un obiettivo piutto-
sto che un altro. In una parola, quali siano le possibilità soggettive da essi aper-
te nell’ambito della conoscenza.
La terza domanda (c), infine, riguarda evidentemente il rapporto tra le ri-
sposte che vengono alle due precedenti domande. Il come studiare la società
dipende infatti da cosa si è convinti che sia e dagli scopi che ci si propone nel-
lo studiarla. Se la prima domanda è una domanda sull’oggettività del sociale,
la seconda sulla soggettività del ricercatore sociale, quest’ultima è una do-
manda sul metodo della ricerca. Fino a che, dall’Ottocento in poi, la risposta
alla prima domanda è stata la più importante, le risposte metodologiche han-
no sempre prescritto che la soggettività del ricercatore sociale dovesse ridursi
il più possibile a semplice riflesso, a pura rappresentazione dell’oggetto della sua
ricerca. Di qui l’enfasi sul tema dell’obiettività come qualità prima del ricer-
catore sociale: obiettività, che vuol dire una soggettività soggetta, sottomessa
a una oggettività.
La maggiore attenzione che la questione della soggettività del ricercatore
ha riscosso nella seconda parte del Novecento ha apportato parecchie novità
metodologiche. Ma non su un punto decisivo. Quello di mantenere sempre che
ogni ricerca debba essere anzitutto rispondente, adeguata all’oggettività del so-
ciale. La maggior parte delle risposte metodologiche hanno così a tutt’oggi un
carattere che potremmo chiamare dialettico, in quanto mantengono al loro cen-
tro la dialettica tra la soggettività e l’oggettività: l’oggettività del sociale come
termine di verifica essenziale della soggettività della ricerca.
Una delle maggiori novità metodologiche qui proposte starà invece proprio
nell’evitare ogni dialettica e di ripensare le questioni di oggettività sociale come
questioni interne a quelle della soggettività della ricerca. Il che peraltro impli-
ca un’altra novità: una netta dissociazione tra le risposte da dare alla prima do-
manda e quelle da dare alla seconda. Stante infatti il tradizionale obbligo del ri-
cercatore di riflettere la realtà oggettiva ne conseguiva anche l’obbligo di ana-
lizzare le soggettività del sociale come riflesso esse stesse di condizioni oggetti-
ve, mentre qui si proporranno due distinte problematiche, una volta all’analisi
dell’oggettività, l’altra volta alla soggettività. Proprio all’interno di quest’ultima
si situano le nostre ricerche. È quindi a essa che dedicherò la maggiore atten-
zione, la quale è anche dovuta alle notevoli difficoltà tutt’oggi esistenti ad am-
metterla sia tra esperti sia tra neofiti delle scienze sociali. Tant’è che niente sem-
bra meno plausibile di una conoscenza razionale, positiva che riguardi la sog-
gettività sociale in quanto tale, come possibilità effettiva, reale, ma senza ri-
scontri oggettivi. Eppure, come cercherò di mostrare, è proprio così che il pre-


. TRE DOMANDE

sente di ogni realtà sociale può essere conosciuto, se se ne vuole avere una sua
conoscenza effettiva, “in presa diretta”: non a posteriori, non come rappresen-
tazione oggettiva di un presente già dato o, al contrario, a priori, come antici-
pazione di un qualche futuro più o meno prevedibile, ma nel suo stesso pre-
sentarsi, come si dice, “in tempo reale”, o, meglio, in contemporaneità rispet-
to a chi la studia.

Risposte ricorrenti

Veniamo ora ad alcune delle risposte più ricorrenti tra le scienze sociali.
Ma prima di tutto è opportuna qualche spiegazione delle ragioni per cui
qui l’origine di queste scienze viene fatta risalire a non prima della seconda
metà dell’Ottocento.
Molto spesso, quando si tratta della storia delle scienze sociali, le si fa risalire
anche a ben prima dell’Ottocento, a Rousseau, Montesquieu, Vico, se non addi-
rittura a Platone. La mia idea qui è invece che le questioni sociali di cui oggi si par-
la abbiano una qualche parentela diretta solo con quanto è accaduto in Europa
dopo il Quarantotto. È questo grande sommovimento di metà Ottocento che san-
cisce infatti quella che è una singolarità anche della realtà sociale del nostro tem-
po: la polarizzazione della (già esistente, ma antecedentemente più confusa e seg-
mentata) separazione tra le popolazioni che hanno potere e sapere e quelle che non
li hanno. Spopolamento delle campagne, affollamento delle città, esplosione de-
mografica, industrializzazione, espansione finanziaria, guerre coloniali, guerre
mondiali, alfabetizzazione generalizzata, proliferazione delle università, sviluppi
tecnologici, impoverimento di intere zone del pianeta e tanti altri macroscopici fe-
nomeni dell’ultimo secolo e mezzo si può dire che abbiano a che fare con questa
separazione. Ne sono dunque venuti infiniti mali, ma anche enormi perfeziona-
menti del potere e del sapere. E con essi alcuni indiscutibili vantaggi, come quel-
lo raggiunto negli anni Sessanta del Novecento, di riscattare l’umanità dal suo più
pressante problema dal Neolitico in avanti: dover lavorare per nutrirsi. A partire
da quegli anni, in alcuni dei paesi più ricchi, per raggiungere questo scopo, infat-
ti, è più che sufficiente l’attività del % della popolazione. Ma questo risultato è
restato e resta appannaggio solo di un numero esiguo di paesi, mentre nel resto
del mondo il problema della fame cresce e si complica quanto mai prima.
Da esso risulta evidente che la questione di fondo per le scienze sociali sta
sempre nella separazione tra chi può e sa e chi no, quale si è configurata a par-
tire dalla metà dell’Ottocento.
Mio intento non è di offrire un sunto più o meno enciclopedico di queste
ultime, come avviene nella maggior parte dei manuali a esse dedicati, ma di
chiarire le distanze e le prossimità delle nostre scelte metodologiche rispetto a
quelle già più affermate nelle scienze sociali. La varietà delle risposte che sono
venute da queste ultime alle tre domande poste più sopra è ovviamente infini-


VA L E R I O R O M I T E L L I

ta. Tuttavia vi si può individuare per così dire un minimo comune multiplo. Ov-
vero un insieme di risposte con cui ci si deve tutt’oggi confrontare se non si vo-
gliono dare delle risposte poco o nulla credibili. Ad esempio, se alla prima do-
manda rispondiamo che la società è influenzata da fattori astrologici, sicura-
mente non troveremo molti disposti a prenderci sul serio. Che il sociale sia
composto anzitutto da sagittari, pesci, gemelli e gli altri segni zodiacali non è
infatti mai stata una risposta utilizzata per la ricerca sociale. Così pure la rispo-
sta secondo la quale la società sia composta anzitutto da razze, malgrado sia sta-
ta parecchio discussa tra Ottocento e Novecento, oramai, specie dopo l’uso che
ne hanno fatto i nazisti contro gli ebrei, ha perduto ogni credibilità.
Insomma, l’obiettività nelle scienze sociali dipende essenzialmente dalla
credibilità delle questioni che si pongono e dalle risposte che si danno. Questa
credibilità varia nel tempo, ma non può non essere in una qualche continuità
con ciò che precedentemente è già stato creduto come obiettivo. Di qui la no-
stra esigenza, avanzando nuove ipotesi, di compararle con dei precedenti, sen-
za però pretendere di esserne né semplice continuazione, né rottura completa.

Le risposte alle tre domande più sopra poste possono essere raggruppate se-
condo diversi generi. Tra di essi distinguo quelli più tradizionali, classici, la cui
origine risale tra Ottocento e Novecento, e quelli più recenti.
Tra i generi più classici, ne individuo cinque che chiamo, rispettivamente:
classista, evoluzionista, definitorio, idealtipico e funzionalistico.
Quelli più recenti li riassumo sotto l’unica etichetta che chiamo la “svolta
linguistica” nelle scienze sociali.
Vediamo dunque che generi di risposte alle nostre tre domande si possono
ricavare da questi diversi orientamenti delle scienze sociali. Sottoponendo loro
questa sorta di mini-questionario, chiaramente si semplificheranno all’osso i ri-
sultati che potrebbero essere infinitamente più complessi. Ogni opera, ogni
saggio, ogni ricerca sociale degni di questo nome meritano un’attenzione tale
da rivelare un’infinità d’implicazioni ben più ricche di quelle che si possono ri-
cavare ponendo loro delle domande rudimentali. Ponendole, non cerco altro
che delle risposte paradigmatiche, utili a delineare uno sfondo di riferimenti a
tinte forti, in rapporto al quale risulti più netto possibile il profilo di quelle che
saranno le nostre risposte. È un po’ come rovistare alla svelta in un contenito-
re di attrezzi vecchi e nuovi senza badare molto alle loro fattezze e per vedere
cosa non ci serve e cosa invece si può utilizzare al momento.

Note

. A rigore, esiste anche un altro genere di scienza, che in un paese come l’Italia ha avuto
sviluppi del tutto rilevanti. Si tratta della Scientia theologica medioevale, che si è modernizzata
soprattutto in occasione della Controriforma tridentina e specie tramite l’elaborazione del pen-
siero giuridico dell’Inquisizione. Lo scontro tra questo modo di pensare la scienza e quello spe-


. TRE DOMANDE

rimentale ha il suo momento più famoso, mai abbastanza ricordato, nel processo e nella con-
danna di Galileo Galilei, il cui nome è sinonimo appunto del metodo e della ricerca sperimen-
tale. Come tra gli altri ha magistralmente dimostrato Italo Mereu in Storia dell’intolleranza in Eu-
ropa (Milano ), la scienza dell’Inquisizione ha influenzato tutta la storia del diritto penale eu-
ropeo. Non è esagerato riconoscere che questa influenza si sia estesa anche tra le scienze sociali
e più in generale in tutte quelle chiamate storiche e umanistiche. Primo sintomo ne è la tenden-
za, tutt’oggi riscontrabile nei saggi che le riguardano, a ripetere le cose, le ricerche, le teorie già
conosciute, anziché proporne esplicitamente di nuove; ovvero a presentare qualsiasi novità co-
me conseguenza necessaria di tradizioni già acquisite e autorevoli. Questa visione legittimista e
tradizionalista del sapere è giustificata in conformità al pensiero teologico che ritiene peccami-
nosa anche l’ambizione di scoprire qualcosa che non ricada sotto il Mistero Primo del Sommo
Ente e quindi si discosti da quello che hanno da sempre detto i suoi ministri in terra. Ma questa
visione timorata, al di fuori della cerchia dei suoi fedeli, può fare solo danni allo sviluppo delle
conoscenze. L’obbligo stesso accademicamente inevitabile di dovere riportare il proprio pensiero
come conseguenza del pensiero d’altri, non fa che torto ad entrambi. Un torto che è tanto più gran-
de quanto più la rassegna dei propri antecedenti pretende di avvicinarsi all’ideale richiesto del-
la completezza. Come se si ignorasse che l’enciclopedia di ogni sapere è infinita, quanto le pos-
sibilità del pensare, le quali, quando si tratta di conoscere l’ignoto, vanno non vincolate, ma li-
berate. La Chiesa qualche tempo fa ha riscattato Galileo dai torti inflittigli, l’università, specie
quella italiana che si è modernizzata sotto l’Inquisizione, non è mai stata così esplicita, meno che
mai nel campo delle scienze sociali.
. Sull’antifilosofia di Marx mi permetto di rimandare al mio Sulle origini e la fine della ri-
voluzione, Bologna .
. In proposito, quanto mai chiaro è A. Badiou, Il manifesto per la filosofia, Milano .
. Così, ad esempio, A. Izzo, Storia del pensiero sociologico, Bologna . D’altro canto, F. Cre-
spi, in Le vie della sociologia, Bologna , pp. -: «Se prendiamo [...] il termine sociologia nel
suo senso letterale più generico, come Logos riguardante il sociale, ossia come discorso sul sociale
[…], che sviluppa una conoscenza logica ovvero razionale del sociale, allora potremmo dire che la
sociologia, anche se in forme molto diverse tra loro, è sempre esistita. Ma se consideriamo invece
[…] il termine sociologia nel significato specifico che gli è stato attribuito nell’Ottocento, allora ta-
le termine indica la precisa volontà di sviluppare una conoscenza scientifica dei fenomeni sociali».
Questa volontà viene qui dunque distinta nettamente dal modo tradizionale, logico e discorsivo di
intendere la razionalità. Questione cruciale è decidere qual è il rapporto tra i due: di sviluppo, di
essenziale continuità, di differenziazione dialettica oppure di rottura, di discontinuità, di separa-
zione. Come si vedrà, è quest’ultimo il modo in cui si pongono le nostre ipotesi.
. P.-N. Giraud, L’inégalité du monde, Paris .



Risposte classiche

.
Il classismo

a) Alla prima domanda, “cosa è la società?”, il classismo (di cui Marx, per sua
stessa ammissione, non è l’unico, ma uno dei massimi teorici) dà una risposta
in nome della Storia, della Storia con la esse maiuscola, della storia universale.
Storia che è intesa come destino di tutta l’umanità, il cui presente è sempre da
pensarsi come un passaggio e una lotta tra il passato e il futuro. Nel classismo,
infatti, la società è composta da più classi sociali fondate su diversi interessi eco-
nomici, ma la loro divisione fondamentale è tra quelle che sono arroccate sul
passato e quelle che dischiudono l’avvenire. Il passato è essenzialmente la mil-
lenaria tradizione dello sfruttamento del lavoro altrui, l’avvenire invece è la pos-
sibilità di riscatto del lavoro da ogni sfruttamento.
I proletari del capitalismo moderno si trovano allora in una situazione pa-
radossale. A differenza degli schiavi e dei servi d’altri tempi, godono di libertà
di diritto, tra le quali quella di vendere la propria forza lavoro come qualunque
altra merce. Ma in fabbrica, dove contano esclusivamente per le loro braccia,
si ritrovano a essere sfruttati come schiavi e servi. Di qui, la necessità della pre-
sa di coscienza del loro essere storico: tanto schiacciati dal peso di un passato
di sfruttamento che non passa, quanto portatori di un futuro sociale senza pre-
cedenti, quel socialismo e/o comunismo dove non ci dovrebbero essere più
sfruttati o sfruttatori.
Oggi il classismo è superato, non esiste più, o almeno non esiste più nelle
sue forme originarie. Nella sua tradizione, che oggi sopravvive anche nelle ri-
cerche sociali oltre che tra qualche partito, sindacato e movimenti no o new glo-
bal, gli obiettivi del socialismo e del comunismo sono oramai del tutto decli-
nati. A essi si sono sostituiti quelli delle rivendicazioni e delle “conquiste de-
mocratiche” o dell’“antagonismo sociale”: le prime che sarebbero garantite dai
successi elettorali delle sinistre, il secondo dalle più svariate manifestazioni di
disobbedienza civile. Resta però sempre invariata, o quasi, la prospettiva stori-
cista, di un divenire storico universale, cui non si potrebbero opporre altri se
non conservatori, reazionari o quegli individualisti più o meno sovversivi o po-
tenti, contrari all’oggettiva necessità del progresso umano.


VA L E R I O R O M I T E L L I

b) La risposta classista alla nostra seconda domanda, “a che scopo studiare la


società?”, è evidentemente: per conoscere le condizioni storiche del progresso
storico. Ma quale è lo scopo politico di questo scopo cognitivo? Qui possiamo
distinguere due o tre tipi di classismo che si sono manifestati in modo più o me-
no discontinuo dalla metà dell’Ottocento in poi, a volte contaminandosi, a vol-
te combattendosi tra loro.
Uno, governativo, che si incarica di dar consigli sui conflitti sociali e le que-
stioni del lavoro a chi governa centri di potere, quali i ministeri, i tribunali, i
sindacati o i partiti. Temi privilegiati sono allora o la pianificazione o le rifor-
me, a seconda che il partito marxista sia al governo o all’opposizione. Si tratta,
in ogni caso, di progetti per riadattare le forme del potere ai cambiamenti del
tempo che sono supposti sempre andare nel senso del progresso storico.
Un altro, accademico, che punta ad applicarsi e confermarsi come scienza
nel ristretto di ambiti universitari, contribuendo alla diffusione e alla difesa nel-
le università di approcci materialisti, democratici e progressisti, incentrati so-
prattutto sulle questioni del lavoro e dei conflitti sociali.
Ma c’è anche una terza specie di classismo, che è in parte riconducibile al-
le prime due e che in parte se ne distingue. Si tratta della sua dimensione più
militante, “di base”, che viene applicata da quadri politici, sindacali o di mo-
vimenti rivendicativi in rapporto diretto ai lavoratori o, più in generale, a gen-
te con poco o nessun potere. La questione cruciale è qui quella della “co-
scienza”, del suo elevamento. In effetti, dal momento che si suppone inevita-
bilmente necessario il progresso storico, l’unico vero ostacolo può stare nel
fatto che la classe predestinata a esserne protagonista non ne abbia “ancora”
una coscienza adeguata. Di qui, l’obiettivo politico del militante classista è
sempre stato l’educazione della soggettività dei proletari per elevarla fino a far-
la corrispondere dialetticamente alle necessità oggettive del progresso storico.
E le cose non cambiano se, come oggi, al posto dei proletari si pensa stia il sem-
plice elettore o la “moltitudine”, “antagonista” e “disobbediente”. Il proble-
ma, al fondo, resta più o meno sempre quello del marxismo ottocentesco, di
vincere l’ignoranza con la scienza. Coscienza è proprio questo che vuol dire:
con-scienza. Avere una coscienza democratica o antagonista significa in effet-
ti avere dei comportamenti soggettivi, elettorali o conflittuali, conformi a ciò
che una conoscenza scientifica stabilisce come oggettività necessaria. Ed è
questo l’obiettivo politico principale di cui ogni militante della tradizione clas-
sista, e oggi postclassista, si è fatto propagandista tra le “masse” supposte con
scarsa o nulla coscienza.
Fatto sta che a fornire la conoscenza oggettiva del processo storico non pos-
sono provvedere che le altre due specie di classismo (o di postclassismo), quel-
lo governativo e/o quello accademico, in quanto sono in contatto, l’uno con la
realtà del potere da trasformare, l’altro con le possibilità di ottenere conoscen-
ze scientifiche. Al classismo (o postclassismo) militante così non resta che la


. RISPOSTE CLASSICHE

funzione di volgarizzare la politica e/o la teoria cui aderiscono, ossia tradurle


in formule didattiche accessibili anche alle masse ritenute più o meno ignoran-
ti e inconsapevoli. Il che, a sua volta, comporta che l’educazione delle coscien-
ze così ottenuta è sempre poco politica, poco teorica, e invece molto spesso fi-
deistica, tutta dedita a dar una fiducia incondizionata al partito o ai sindacati o
ai dirigenti dei movimenti.
Resta, peraltro, che, come ogni buon educatore, anche il militante classista
o postclassista, ha sempre saputo che la prima cosa da fare è cercare di partire
dalle opinioni dei propri allievi, volenti o nolenti. Così, in questa tradizione si
è sempre dovuto fare i conti anche con quel che “i proletari”, “gli elettori di si-
nistra” o “la moltitudine” pensano. Anche se l’obiettivo è stato e resta quello
di elevare il grado della loro coscienza, si è dovuto e si deve ipotizzare, magari
anche implicitamente, che chiunque tra di essi sia dotato di sua capacità a pen-
sare: che chiunque abbia una propria capacità intellettuale. Ora, questo è il
punto che qui più interessa e che più avvicina le nostre ricerche al classismo e
al postclassismo.
A essi va in effetti riconosciuto il merito non trascurabile di aver dato e
mantenuto un’importanza a sé stante al problema di conoscere la soggettività,
il pensiero di una popolazione senza potere né sapere, come i proletari, i sem-
plici elettori o la moltitudine.
È da qui che è venuto quel grande patrimonio che tutt’ora rappresentano
per le scienze sociali le inchieste tra gli operai di fabbrica.
Un patrimonio comunque già condannato all’obsolescenza se non viene ri-
preso in un senso del tutto diverso da quello dello stesso classismo, nonché del-
le diverse varianti postclassiste.
Come si è accennato e come si preciserà ulteriormente, punto di demarca-
zione e di svolta decisiva è la distinzione tra la categoria di pensiero e la catego-
ria di coscienza con tutte le sue implicazioni dialettiche.

c) La dialettica è in effetti la risposta del classismo alla nostra terza domanda:


questo è il modo in cui il classismo in tutte le sue varianti studia e conosce la
società.
Dialettica tra la base economica e la sovrastruttura istituzionale, politica e
ideologica; dialettica tra situazione sociale locale e divenire storico globale; dia-
lettica tra le diverse classi su cui si concentrano tutte queste determinazioni,
economiche, sovrastrutturali, locali e globali; dialettica tra l’essere sociale del-
le classi e il grado di coscienza di ogni loro appartenente; in una sola formula,
dialettica tra l’oggettivo e il soggettivo: è così che il classismo inquadra la società
su cui fa ricerca. E quand’anche si dedichi a uno di questi ambiti, suppone sem-
pre che sia in dialettica col divenire della totalità degli altri ambiti. È l’idea stes-
sa di storia universale, di un divenire unico per tutta l’umanità, che obbliga a
conoscere per via dialettica, collegando tra loro il maggior numero di ambiti


VA L E R I O R O M I T E L L I

problematici distinti. Di qui l’ambizione sempre insoddisfatta di arrivare a una


conoscenza completa della società. E di qui anche la pretesa nefasta, nei paesi
socialisti dove il classismo è diventato dottrina di Stato, di escludere e repri-
mere ogni altro modo di far ricerca sociale. Col risultato di tagliare fuori que-
sti paesi da tutti gli svariati sviluppi novecenteschi delle scienze sociali.

.
L’evoluzionismo

a) Al momento di far uscire il primo volume del Capitale, Marx lo voleva de-
dicare a Darwin, massimo teorico dell’evoluzionismo: colui cui si doveva la
scoperta secondo la quale la specie umana, anziché avere origini misteriose e
divine, deriva da una specie evolutivamente meno sviluppata, quella delle
scimmie. La sua conclusione più nota, cui era giunto a seguito di vaste ricer-
che zoologiche e biologiche, è che gli organismi naturali siano destinati a pas-
sare da forme più semplici a forme più complesse e che questo passaggio av-
venga tramite una selezione dovuta alla lotta di ciascun organismo per la pro-
pria sopravvivenza. In ciò Marx vedeva una teoria del tutto compatibile con
la sua classista: la storia delle classi sociali, così come l’aveva concepita lui stes-
so, gli pareva del tutto accostabile all’evoluzione delle specie degli organismi
biologici di cui parlava Darwin. Questi però rifiutò che Il capitale gli fosse de-
dicato: la sua idea di specie di organismi biologici non coincideva con quella
di classe sociale così come la sua idea di lotta per la sopravvivenza non coin-
cideva con quella di lotta di classe.
Ciononostante, tra lo storicismo classista d’impronta marxista e l’evoluzio-
nismo di derivazione darwiniana le contaminazioni sono state assidue. In ge-
nerale, si può dire che esse si sono imposte soprattutto quando (come a caval-
lo tra Ottocento e Novecento, al tempo dei primi partiti socialisti, o al tempo
dei partiti comunisti e socialisti nel secondo dopoguerra) il primo si è associa-
to a una politica riformista, volta cioè a condizionare il potere di governo in fa-
vore delle questioni del lavoro. Mentre le distanze sono state maggiori ogni vol-
ta che il marxismo ha fatto venire fuori la sua anima rivoluzionaria, insurrezio-
nalista (come al tempo della rivoluzione bolscevica del  o della rivoluzione
culturale maoista).
In ogni caso, la differenza tra lotta tra le classi sociali e lotta per la soprav-
vivenza degli organismi delle specie biologiche, semplificando all’estremo, può
essere chiarita così: mentre le classi si costituiscono nella lotta, gli organismi la
precedono; mentre le prime non esistono che separandosi, dividendosi tra lo-
ro, i secondi esistono trasformandosi per reazione difensiva nei confronti degli
altri. Nella seconda metà degli anni Sessanta, in Cina un dibattito simile venne
tematizzato dall’opposizione di due detti di sapore taoista: “l’uno si divide in
due” contro “il due si fonde in uno”. Ove quest’ultimo veniva attribuito ai rea-


. RISPOSTE CLASSICHE

zionari, mentre il primo era rivendicato dai rivoluzionari. Una rivendicazione,


questa, quanto mai radicale, che mina la stessa idea di storia universale su cui
il classismo si regge. Non a caso dibattiti simili sono avvenuti nel corso di una
rivoluzione che ha mandato all’aria tutto lo Stato-partito cinese di quel tempo.
Si può dire che la risposta dell’evoluzionismo alla nostra prima domanda
“cosa è la società?” sta nel sostenere che essa funziona e si sviluppa come un or-
ganismo vitale, seguendo fasi e leggi simili, e similmente lottando per la propria
sopravvivenza.
Così la biologia si è conquistata un’egemonia per lungo tempo quasi in-
contrastata tra i modelli ispiratori delle scienze sociali, le quali hanno assunto
l’evoluzione come sinonimo del divenire della realtà sociale. A prescindere dal-
la stessa socio-biologia, molta parte delle scienze sociali anche nel corso del
Novecento mutua i suoi modi di pensare e di dire dalla biologia. La stessa pa-
rola “cultura”, tanto abusata in queste scienze, nel suo etimo, che evoca il col-
tivare, ha un fondamento biologico. Così l’altrettanto spesso utilizzata distin-
zione tra natura e cultura altro non significa che la società è una seconda natu-
ra: un modo d’essere umano senza soluzione di continuità rispetto al modo
d’essere animale. Il che dimostra la misura nella quale le scienze sociali hanno
faticato e faticano per trovare un loro modo di pensare e di dire, senza pren-
derli in prestito da altri ambiti scientifici.
Resta che è proprio sotto il segno dell’evoluzionismo che l’antropologia ac-
quista un suo statuto scientifico. L’apertura di questo orizzonte è dovuta anzi-
tutto a due figure maggiori che fanno le loro ricerche più importanti nella se-
conda parte dell’Ottocento. Si tratta di Tylor e Morgan. Essi sono tra i primi
a trattare le popolazioni “primitive” o “selvagge” non più come oggetto di cu-
riosità esotiche, ma come custodi di una semplicità originaria capace di far lu-
ce anche sui misteri delle società più evolute e complesse.
Il primo, in effetti, che insegnerà a Oxford tra il  e il , introduce
non poche novità che segneranno il destino delle scienze sociali: la ricerca sul
campo (in America centrale e sugli Anahuac del Messico), la comparazione su
dati statistici (in particolare, tra vari modi “primitivi” di organizzazione fami-
liare), nonché la teorizzazione della “cultura” come categoria chiave per l’ana-
lisi delle “sopravvivenze”, all’interno di una realtà sociale, di stadi evolutivi pre-
cedenti in quelli successivi. L’opera Alle origini della cultura, scritta da Tylor nel
, viene considerata addirittura la data di inizio dell’antropologia.
Morgan, dal canto suo, studiando in quegli stessi anni gli irochesi abitanti
negli USA, arriva a teorizzare che tra i segni distintivi dei primi stadi dello svi-
luppo umano vi fossero matriarcato, allevamento in comune della prole e ge-
stione comune della tribù. Il che gli ha attirato le simpatie di Friedrich Engels
e di tutti i marxisti, i quali hanno trovato così argomenti per suffragare le loro
idee sul fatto che famiglia, proprietà privata e Stato fossero solo istituzioni pas-
seggere da superare al più presto per riorganizzare la moderna società indu-


VA L E R I O R O M I T E L L I

striale in nome di originari e rinnovati principi comunisti. Ma, oltre a ciò, Mor-
gan è da ricordare e da studiare soprattutto come importante padre fondatore
dell’antropologia scientifica. La sua opera infatti rappresentò a suo tempo
un’innovazione senza precedenti. La comparazione tra le nomenclature fami-
liari di centinaia di tribù dell’America settentrionale e dell’Asia meridionale,
che ne costituisce uno dei maggiori contributi, ha l’obiettivo, oggi non più di-
fendibile, di dimostrare una preistorica migrazione tra questi due continenti. Si
tratta di uno dei primi esempi d’analisi antropologica condotta non su sempli-
ci congetture, ma fondata su dati empirici e verificabili.

b) L’evoluzionismo non ha prescritto alcuno scopo politico alla conoscenza


del sociale. Se, come si è appena visto, anche il classismo ne ha talvolta condi-
viso l’impostazione di fondo, pure i paladini della libertà personale a tutti i co-
sti non hanno stentato a riconoscere nell’individuo il primo organismo sociale
e nella concorrenza di mercato la lotta per la sopravvivenza sociale.
In effetti, già nella prima parte dell’Ottocento, ancor prima di Darwin, par-
lare di sociale implicava parlare dell’evoluzione biologica dell’umanità. Da que-
sto punto di vista l’unica vera discriminante era tra poligenisti e monogenisti:
tra chi cioè sosteneva che l’umanità avesse origini diverse, e dunque razze di-
verse, e chi invece, come nella seconda metà del secolo Tylor e Morgan, soste-
neva un’unica origine, contrariando così ogni presupposto razzista.
Da varie parti si critica l’antropologia evoluzionista di essere al servizio
di quel colonialismo e di quell’imperialismo che tra Ottocento e Novecento si
sono spartiti tra le rispettive zone di sfruttamento quasi tutti i paesi più pove-
ri ed economicamente sottosviluppati. Nelle sue versioni più semplici, questo
tipo di critica trascura un fatto decisivo: che tale antropologia è riuscita a da-
re dignità scientifica alla conoscenza di popolazioni senza potere e senza sa-
pere, ovvero senza poteri e conoscenze paragonabili a quelli dei paesi più ric-
chi e potenti. Anzi, occorre riconoscere che saranno proprio le ricerche volte
a rendere comparabile questa evidente incomparabilità uno dei temi cruciali
dell’antropologia detta culturale, ossia evoluzionista. L’infinità di studi che so-
no stati dedicati, ad esempio, alla comparazione tra scienza moderna e magia
o tra le forme statali del potere e le sue forme tribali (Durkheim, Mauss,
Radcliffe-Brown ed Evans-Pritchard, tra gli esempi classici più importanti)
è stata resa possibile grazie al presupposto essenzialmente evoluzionista se-
condo cui le società più sviluppate e quelle più arretrate sono solo diversi sta-
di dello stesso sviluppo.
Lo scopo principale dell’evoluzionismo nelle scienze sociali si può dire sia
stato la promozione di queste stesse scienze accanto alle altre: il fatto che que-
ste tra Ottocento e Novecento fossero riconosciute e accettate dagli Stati più
ricchi e potenti, e che, dunque, tanto le ricerche quanto il loro insegnamento
fossero ammessi nelle università. L’emulazione della biologia per le scienze so-


. RISPOSTE CLASSICHE

ciali ha avuto quindi anche lo scopo di far guadagnare loro una legittimità pub-
blica pari a quella già ottenuta da altre scienze, della natura, appunto.
È anche per il fatto che questa legittimità è oramai da tempo fuori discus-
sione che l’evoluzionismo oggi risulta antiquato.

c) Il metodo di studio privilegiato dai presupposti evoluzionisti è la compara-


zione. La comparazione tra i diversi stadi dell’evoluzione cui più società o più
aspetti della stessa realtà sono assegnabili.
Ma questo metodo verso la fine dell’Ottocento mostrava già i suoi limiti. A
chiarirlo in modo convincente provvide quell’altro grande maestro dell’antro-
pologia che è Franz Boas, tedesco d’origine, ma dal  al  figura di spic-
co della Columbia University di New York. Egli, infatti, nello stesso , pub-
blica un testo proprio col titolo I limiti del metodo comparativo in antropolo-
gia. A essere qui contestata è direttamente un’idea che in fondo reggeva an-
che la teoria di Tylor sulle “sopravvivenze”: l’idea che le culture primitive di
popolazioni ancora esistenti potessero essere considerate sullo stesso piano del-
le culture preistoriche e primordiali. Per Boas è invece della massima impor-
tanza distinguere i due diversi piani problematici. Se sul secondo, quello prei-
storico e primordiale, possono sempre essere utili le conoscenze indirette, de-
dotte da materiali archeologici o da resoconti di missionari ed esploratori, sul
primo, invece, che riguarda popolazioni viventi, le conoscenze più importanti
sono quelle indotte dall’osservazione sul campo. Di qui, l’importanza dello stu-
dio delle lingue usate nella realtà sociale su cui si fa ricerca, tant’è che Boas ha
anche il merito di avere provveduto a compilare le prime grammatiche delle lin-
gue americane in via d’estinzione. Ma egli è anche tra i primi a prescrivere al-
l’etnologo di provare a mettersi “dal punto di vista del nativo”, escludendo, ad
esempio, che lo stesso elemento culturale riscontrato in due diverse popola-
zioni debba avere per forza lo stesso significato.
Anche se arriverà a negare l’utilità della distinzione generale tra culture
primitive e civilizzate, egli la mantiene relativamente a ogni singolo “tratto cul-
turale”, intendendo con ciò delle “unità minime di cultura”, dei “canoni mi-
nimi dell’esistenza”, come le modalità della caccia o delle decorazioni artisti-
che. Tali tratti, infatti, per lui sono da ritenersi effettivamente primitivi se «mi-
seri di aspetto e contenuto, nonché intellettualmente deboli». Se è vero che
la distinzione tra primitivo e civilizzato è un principio tipicamente evoluzioni-
sta, qui risulta chiaramente che la critica di Boas all’evoluzionismo non è così
frontale e completa, come molti sottolineano. In un passo quanto mai chia-
ro a questo proposito egli ammette l’esistenza di «leggi generali legate alla cre-
scita culturale», aggiungendo tuttavia che «qualunque possano essere, saran-
no, però, in ogni singolo caso, sopraffatte da una massa di fatti casuali proba-
bilmente molto più determinanti, negli accadimenti reali, di quanto non lo sia-
no le leggi generali».


VA L E R I O R O M I T E L L I

Il caso, dunque, la singolarità del singolo caso, come ciò che decide del-
l’importanza delle determinazioni generali, obiettivamente rilevabili, in quan-
to riscontrabili per comparazione con altri casi. È per simili assunti e per la lo-
ro messa in pratica nella ricerca che Boas viene considerato, e non di rado cri-
ticato, caposcuola di quel “relativismo” che avrebbe portato alla disseminazio-
ne delle scienze sociali in una molteplicità di “casi di studio” mai riconducibi-
li a un pensiero unico, e più precisamente a quella visione unitaria del divenire
umano che per tutto l’Ottocento era stata imposta dall’egemonia intellettuale
congiunta di evoluzionismo e storicismo classista.
Questo punto interessa direttamente le nostre stesse ipotesi.
Che nella realtà sociale ci sia del necessario, dell’oggettivo, ma che esso va-
da analizzato a partire dalla casualità delle scelte soggettive: questo, lo si è già
detto e lo si ridirà, rientra a pieno titolo tra le nostre ipotesi. La loro messa in
pratica può dunque sicuramente imparare dal relativismo inaugurato da Boas.
Se c’è invece un aspetto in cui questo insegnamento pare datato, sta proprio nel
suo evoluzionismo residuo, nel fatto di mantenersi spesso sul limite dei pro-
blemi e dei metodi evoluzionisti, senza distaccarsene del tutto.

.
Definire, per conoscere quale sociale?

a) Per Durkheim, padre fondatore della sociologia in Francia, la società è quel


che la scienza ne può definire.
Già in questa disposizione della risposta alla nostra prima domanda su co-
s’è la società si può cogliere una relativizzazione dell’oggettività della realtà so-
ciale. Essa non risulta più qualcosa che ci sta innanzi come una montagna o
qualcos’altro di esistente del tutto al di fuori del nostro pensiero, ma risulta una
realtà sotto condizione di una nostra operazione intellettuale, la quale ci fa ve-
dere questa realtà secondo una certa ottica e ce ne fa parlare secondo un certo
discorso. Il discorso della Scienza, della Scienza con la esse maiuscola, dice ap-
punto Durkheim.
Ma di quale scienza si tratta? La sociologia, ossia la sua sociologia, si vuo-
le diretta applicazione al sociale del modello di scienza dominante nel suo
tempo, quel tornante tra Ottocento e Novecento che anche in Francia è sem-
pre segnato dall’egemonia sul sapere dell’evoluzionismo e dunque della bio-
logia. La scienza sociologica in Francia si costituisce come un’estensione e un
adattamento specifico di un modo di pensare e di conoscere mutuato dalla
biologia.
La specificità del campo della sociologia sta essenzialmente nel fatto di stu-
diare tutto ciò che si impone “come una cosa” agli individui. Così, con questa
semplice demarcazione, sono definiti i confini del sociale, tanto rispetto alla
stessa biologia, che ha al centro della sua problematica la vita osservabile al-


. RISPOSTE CLASSICHE

l’interno di forme individuali umane, animali e vegetali, quanto rispetto alla psi-
cologia, che studia la mente di cui ogni individuo è dotato.
Definire è mettere in cornice, stabilire un dentro e un fuori. Per Durkheim,
la sociologia può conoscere solo a condizione di operare preliminarmente que-
sta selezione tra i fatti che dipendono dall’individuo e i fatti che l’individuo su-
bisce, per dedicarsi esclusivamente a questi ultimi. Quindi, anche la sociologia
può pretendere di essere scienza solo se riesce a mettere a distanza ogni “pre-
nozione” che dipenda dal desiderio dell’individuo di darsi spiegazioni di tutto
ciò che lo circonda e, dunque, anche di quello che esclusivamente una scienza
ad hoc può spiegare.
Ma vi è anche una conseguenza maggiore del porre che la società è esclu-
sivamente ciò che la scienza può conoscerne. In diretta polemica contro il mo-
do univoco di pensare e conoscere la società, tipico dello storicismo classista,
Durkheim sosterrà infatti che «la società non esiste, ma esistono solo delle so-
cietà». Sarebbe a dire le società o i fatti sociali che la scienza, nel suo proce-
dere, arriva a conoscere e che quindi non può mai identificare a priori. D’altra
parte, che il sociale si imponga a più individui unitariamente obbliga a ricono-
scere che esso abbia una sua unità, sia pur relativa e fondata su una “solida-
rietà” delle sue parti. Di qui la nota distinzione tra la solidarietà “meccanica”,
che caratterizzerebbe le società più arcaiche, in cui le componenti (ad esempio
campagne e città) coesistono l’una distinta dall’altra, e quella “organica”, che
caratterizzerebbe invece le società moderne, industriali, dove ogni aspetto fi-
nisce per condizionare gli altri.
Una simile sociologia, il cui insegnamento universitario sarà una conquista
personale di Durkheim, avrà un seguito di allievi, a loro volta capiscuola, qua-
li M. Mauss e M. Halbwachs, nonché degli echi di lunga e ampia durata,
anche fuori della Francia e pure in discipline limitrofe, nel corso di buona par-
te del Novecento.
Essa rappresenta sicuramente uno dei tentativi più oggettivisti di definire
il sociale. La dimensione soggettiva è, infatti, completamente abolita, sia dal-
l’oggetto sociale, sia dalla figura stessa del sociologo, al quale è prescritto di ab-
bandonare ogni “prenozione” ottenuta in quanto individuo, fuori dalla sua
missione di ricercatore.
Come vedremo, pur non optando per questo genere di ricerche oggettivisti-
che, le nostre non le escludono, a condizione di includerle e rettificarle in un cam-
po problematico più vasto, dove la soggettività ha un suo spazio di tutto rilievo.
Che i fatti sociali abbiano una realtà, delle necessità ben definibili come oggetti-
ve e che l’individuo o gli individui vi contino poco o nulla: questi due assunti, in
particolare, saranno qui ripresi, sia pur ai margini delle nostre prospettive.

b) Lo scopo primo di questa sociologia definitoria è di contribuire a quello


sviluppo dello spirito scientifico, che dall’illuminismo fino al positivismo di


VA L E R I O R O M I T E L L I

Comte (non per nulla uno dei primi a fare della sociologia un concetto) è una
tradizione di origini tutte francesi. Come detto, Durkheim è colui che per pri-
mo realizza nel suo paese l’obiettivo di far ammettere una cattedra di sociolo-
gia nell’università. Tutto il rigore della sua dottrina sicuramente risponde all’e-
sigenza di un riconoscimento pubblico. Questo scopo era accompagnato e so-
stenuto da un altro: quello di offrire allo Stato, considerato centro della razio-
nalità sociale, un sapere adeguato ai tempi. Religione e socialismo sono i due
concorrenti coi quali questa sociologia deve fare i conti. Si ricordi che siamo a
cavallo tra Ottocento e Novecento, in un’epoca successiva al Secondo impero
di Napoleone III e alla catastrofe della Comune, in quella Terza repubblica fran-
cese, dove i cattolici sono maggioritari e il Partito socialista è uno dei più im-
portanti della Seconda internazionale. L’idea di Durkheim è che per far fronte
ai nuovi problemi sociali non bastino né gli individui, per quanto potenti e il-
luminati possano essere, né le chiese, né i partiti, ma neanche lo Stato stesso, in
quanto tale. Per lui la soluzione può venire solo se ogni dimensione sociale pro-
duttiva si organizzi al suo interno e nei rapporti con le altre, sotto la supervi-
sione dello Stato. Per questo crede in un avvenire delle corporazioni e che la
sociologia e la corporazione dei sociologi lo possano favorire. Inoltre, egli, di
famiglia rabbinica, è ateo. Crede che Dio non sia altro che l’immagine della so-
cietà venuta fuori da individui tanto profani da non cogliere la realtà sociale che
si cela nel sacro.
Corporativista, antindividualista, antisocialista, oltre che razionalista e
ateo: tanto è bastato per far passare Durkheim per autoritario, se non addirit-
tura totalitario. Ma basta leggere il suo appassionato intervento a favore di
quelli che, allora per la prima volta, vennero chiamati “gli intellettuali”, riuniti
attorno al J’accuse! di Zola e contro il razzismo scatenato dall’“affaire Drey-
fus”: vi si può trovare tutto quanto rende insostenibili simili critiche.
Del resto, con i suoi studi, come Le forme elementari della vita religiosa,
ha contribuito a strutturare l’interesse delle scienze sociali per popolazioni
senza potere né sapere, in via d’estinzione e ai margini del mondo più ricco e
potente.
In definitiva, si può dunque dire che la sociologia di Durkheim prescrive la
conoscenza di tre cose dalle evidenti implicazioni politiche:
– le oggettive necessità dello Stato, al di là di quel che dicono individui più o
meno potenti e illuminati, i partiti o le chiese;
– il sociale, soprattutto laddove il potere dello Stato non giunge;
– la religione e il socialismo come fatti sociali.
Il tutto senza evitare di scendere in campo contro il razzismo nel momen-
to in cui diviene una politica.
Nessuno di questi obiettivi è affatto criticabile. Semmai, sono oggi da di-
stinguere più in dettaglio e da disporre in uno spazio problematico diverso da
quello del discorso evoluzionista che li riunisce.


. RISPOSTE CLASSICHE

c) All’evoluzionismo sono sicuramente improntate tutte le regole che


Durkheim ha tenuto a definire per il suo metodo di ricerca. Suo strumento de-
cisivo è la comparazione di ogni fatto sociale rispetto ad altri simili, e metro di
paragone è proprio l’ipotesi di un’unica evoluzione comprendente uno spettro
infinitamente precisabile di diversi stadi di sviluppo, di complessità crescente.
L’obiettivo è giungere a definire un “tipo medio” di fatti sociali per ogni gra-
dazione dello spettro evolutivo. Sulla base di questo tipo medio si giunge a di-
stinguere tra la “normalità” e la “patologia” sociale, altra distinzione decisiva
per le regole del metodo di Durkheim. Così, di fatti come criminalità e suici-
dio, che gli individui sono portati a considerare comunque patologici, la socio-
logia stabilisce l’assoluta normalità, in determinate condizioni di sviluppo,
spingendosi addirittura a vedere, nel caso dell’eccessivo abbassarsi del loro tas-
so rispetto alla media, l’indice di un altro problema sociale da scoprire. Anche
se i dati che lo comprovano appaiono oggi poco credibili, il suo studio Il suici-
dio ha definitivamente sancito l’uso sistematico delle statistiche da parte della
sociologia. Tali metodi sono in effetti una necessaria conseguenza dell’obbligo
di definire un fatto sociale differenziandolo rispetto a ciò che dipende dagli in-
dividui o dalla natura.
Tutt’altre sono le ipotesi metodologiche delle nostre ricerche. Esse evitano
il più possibile ogni forma di definizione. Anziché stabilire cosa è e cosa non è
una realtà sociale, per poterla in seguito indagare, le nostre ricerche puntano
fin dal loro inizio a entrare dentro la stessa dinamica soggettiva della realtà so-
ciale, e proprio per questo l’affrontano evitando di darne alcuna definizione pre-
liminare. Il che non significa respingere del tutto il metodo di Durkheim, ma
accoglierlo e ripensarlo in un campo più vasto di possibilità metodologiche,
non più sottomesso all’egemonia del modello biologico evoluzionista. Oggi, in-
fatti, le scienze sociali si sono sviluppate al punto che non occorre riferirsi ad
altre scienze. E ciò che meglio caratterizza la loro singolarità è il loro essersi svi-
luppate in rapporto diretto con le popolazioni su cui è stata condotta una mol-
teplicità infinita di ricerche.
Da questo punto di vista, ogni definizione preliminare che ponga il ricer-
catore in una posizione di esteriorità o peggio di superiorità è poco proficua.
Per entrare nel merito dei problemi della gente, quando di gente qualunque, di
puro sociale si tratta, è sempre consigliabile adottare delle ipotesi abbastanza
ampie e sfumate da potere in seguito essere rettificate dall’andamento stesso
della ricerca, quando l’effettiva realtà sociale comincia a essere conosciuta.
Diversa questione si pone qualora a essere interpellata non è gente qua-
lunque, non è il sociale in quanto tale, ma una realtà sociale quale risulta a
chi ha potere e/o competenze in grado di governarla. Qui, partire dal loro
sapere è inevitabile. La ricerca è innanzitutto ricerca sulle conoscenze uti-
lizzate per governare quella determinata realtà sociale. Il primo obiettivo do-
vrà essere definire il più scientificamente possibile le oggettive necessità di


VA L E R I O R O M I T E L L I

tale governo. La comparazione con altri casi più o meno simili e la messa a
distanza delle prenozioni utilizzate dagli individui preposti a governare, in-
somma tutte le regole di metodo consigliate da Durkheim, si rivelano dun-
que ancora assai preziose. Il tutto, eventualmente, per arrivare alla conclu-
sione o che chi governa il sociale non ne sa abbastanza o che nelle sue deci-
sioni non utilizza le conoscenze disponibili. Conclusioni cui lo stesso
Durkheim a suo tempo era giunto.

.
L’ideale dei tipi ideali

a) Weber è il massimo teorico di quella che chiamo sociologia idealtipica. Tra


lui e il suo contemporaneo Durkheim sembra svolgersi, sia pur a distanza, ché
mai si conobbero, una vera e propria battaglia. Al pari di quelle che si svolsero
realmente tra Germania e Francia nel corso della Prima guerra mondiale e che
videro entrambi i sociologi decisamente schierati a favore del proprio paese
contro l’altro. Ma la battaglia di cui qui parlo è a colpi di categorie del di-
scorso. Di quei discorsi con i quali entrambi fecero prendere il volo alla socio-
logia tra le alte sfere universitarie dei rispettivi Stati. Ove Durkheim esclude
l’individuo e il soggetto da ciò che costituisce il fatto sociale da definirsi in no-
me di una scienza del tutto oggettiva e apparentata con quella biologica, We-
ber fa invece mosse praticamente opposte: a interessarlo sono anzitutto le azio-
ni degli individui che si raggruppano e di cui egli punta a interpretare le inten-
zioni soggettive in base al senso che essi stessi condividono. Di più: se per il pri-
mo da definire è anzitutto il tipo medio dei fatti sociali, per il secondo ogni
azione sociale va interpretata a partire da un tipo ideale. L’alternativa sembra
davvero secca, eppure è simmetrica: il sociale come fatto compiuto, oggettivo,
oppure come azione in corso, soggettiva? Che si impone necessariamente sugli
individui oppure che è reso possibile da gruppi di individui? Che va definito
nel suo tipo medio oppure interpretato a partire da un tipo ideale?
Talcott Parsons, di cui si dirà in seguito, più o meno mezzo secolo dopo,
negli USA, ha costruito un sistema di risposte per soddisfare entrambi questi due
generi di domande. Così è come se si fosse provato a far pace tra i due orienta-
menti, quello durkheimiano e quello weberiano, tra loro incompatibili.
Non è questa la via qui perseguita. Sostengo invece che le scienze sociali
hanno una duplicità problematica irriducibile a qualsiasi discorso univoco, a
qualsiasi dialettica. Ciò, come già detto, per il semplice fatto che la società ha
sempre una doppia realtà, le cui parti sono contigue, si toccano, stridono tra
loro, ma non comunicano o quantomeno non lo fanno in modo normale, na-
turalmente. Che due padri fondatori delle scienze sociali come Durkheim e
Weber siano così l’un contro l’altro armati, pur quasi senza saperlo, questo per
me è un sintomo vago ma significativo di tale duplicità sociale irriducibile. Ma


. RISPOSTE CLASSICHE

di essa tratterò più oltre, ora vanno menzionate le differenze dei contesti stori-
ci nazionali di questi padri fondatori della sociologia.
Tra Ottocento e Novecento, in effetti, la Germania intellettuale segue delle
vie quasi eguali e contrarie a quelle francesi. Vi primeggia un ritorno a Kant, a
vario titolo proposto da filosofi quali Dilthey e Windelband, il quale, in par-
ticolare, prescrive di tenere ben distinte scienze della natura e scienze dello spi-
rito, altrimenti dette scienze “nomotetiche” e “ideografiche”, queste ultime
comprendenti anche discipline come la storiografia e la sociologia. All’interno
di queste ultime primeggia la categoria dell’individualità, in più o meno larvata
polemica col materialismo storico. Se l’individuo torna infatti a essere conside-
rato il vero protagonista della società, invece delle classi, nella storia viene riva-
lutata l’importanza dell’evento unico, rispetto alle grandi tendenze oggettive.
Weber, in origine brillante economista, poi convertitosi alle scienze socia-
li, condivide queste scelte problematiche. Il sociologo per lui non ha alcun pul-
pito scientifico che lo pone al di sopra degli altri individui, non può non inter-
pretare come chiunque, e come chiunque non può sottrarsi ai rischi dell’arbi-
trio che tutti corrono interpretando. La sua sociologia sarà dunque “interpre-
tante”. Essa si guarda bene dal provare a spiegare la società in base a cause
del tutto oggettive (come in Durkheim), né completamente determinanti (co-
me nel classismo o nell’evoluzionismo), ma non per questo rinuncia a com-
prendere le cause dell’agire sociale. Alla domanda “cos’è la società?” qui si ri-
sponde con un’altra domanda su cosa v’è di razionale, di razionalmente inter-
pretabile nella società, considerata di per sé ben poco razionale e ben poco co-
noscibile. Poiché al servizio dello Stato, e come ogni altro intellettuale di pro-
fessione, il sociologo non deve farsi condizionare da qualche gruppo sociale
particolare o partito politico: deve puntare a svuotare la propria interpretazio-
ne da ogni valore, per renderla la più avalutativa, la più obiettiva possibile.
Per questo non deve rinunciare a trovare le cause dell’agire sociale, ma non de-
ve pretendere di trovarne di più di quelle sufficienti a comprendere il senso di
questo agire di per sé sempre anche insensato. Dal momento che per Weber la
realtà sociale resta sempre in parte insensata, inconoscibile, la sua domanda
cruciale è come se ne possa conoscere o meglio riconoscere (qui sta un punto
decisivo, come vedremo) il senso razionale, separandolo dall’irrazionalità.
I tipi ideali non sono allora che diverse ipotesi per distinguere questa ra-
zionalità e interpretarla a seconda dei concreti casi sociali da studiare. L’esem-
pio più noto di questa impostazione è L’etica protestante e lo spirito del capita-
lismo. Tale “etica” come tale “spirito”, infatti, anche se quest’opera non lo di-
chiara espressamente, sono da intendersi come due tipi ideali. Weber, infatti,
esaminando le diverse versioni della religione protestante (luteranesimo, calvi-
nismo, pietismo, metodismo, sette battiste, mennoniti, quaccheri) arriva a sele-
zionarne i caratteri etici che per lui hanno più “affinità elettive” con i caratteri
“spirituali” del capitalismo, anch’essi ricavati selezionando tra diversi modi


VA L E R I O R O M I T E L L I

d’intendere il capitalismo e soprattutto in opposizione alla visione tutta mate-


rialista dell’economia. L’obiettivo è dimostrare che questa corrispondenza tra
due tipi ideali riesce a dare una spiegazione razionale di alcuni aspetti quanto
mai complessi della realtà storica e sociale: ad esempio, il fatto che il capitali-
smo si sia sviluppato di più in paesi protestanti che in paesi cattolici. La pole-
mica col determinismo economico propugnato dal marxismo in auge in questa
Germania inizio secolo è frontale. Contrariamente a questa visione classista, se-
condo cui tutta la storia delle società moderne sarebbe da spiegare in base alle
necessità del capitalismo e alla sua forza distruttrice di ogni fede, se non nel de-
naro, Weber propone tutta un’altra visione sociale e storica, scandita dagli in-
contri resi possibili da diversi tipi di soggettività: il capitalista e il protestante
più convinti, lungi dal combattersi l’un l’altro, appaiono in sinergia. Gli ideali
della razionalità economica e della religiosità puritana in questa visione hanno
così la meglio sulle semplici necessità materiali, tra cui i socialisti vedevano sor-
gere l’avvenire del riscatto proletario.
La distinzione maggiore tra i diversi “tipi ideali” qui avviene dunque tra la
razionalità rispetto allo scopo (ad esempio, quella tutto calcolo e orientata uni-
camente a far profitto per il profitto, perseguita dal capitalista) e la razionalità
rispetto al valore (ad esempio, quella etica orientata da valori eterni e ultrater-
reni come quelli religiosi). Il tipo ideale di questo ideale di razionalità è dato
dalla prima, dalla razionalità rispetto allo scopo. Quella “rispetto al valore” ne
è una variabile derivata, come pure quella ulteriore, “nel rispetto della tradi-
zione”, ne è una variabile degradata.
L’ideale di razionalità per Weber sta dunque in un’azione i cui mezzi sono
adeguati ai fini. Il che significa che non ci siano contraddizioni nella sua logica.
La figura empirica che incarna questa logica è chiaramente l’imprenditore capi-
talista, il suo tipico modo di fare calcoli e di agire in rapporto a delle previsioni
e alle sue realizzazioni. Il comportamento che qui fa da modello è infatti il sog-
getto in grado di calcolare preventivamente il profitto che può ricavare dai suoi
investimenti e che eventualmente li cambia se la previsione non si realizza.
Prima conclusione: Weber non ha mai dimenticato i suoi studi da econo-
mista, ma anzi li ha sempre rinnovati, ergendo quello che per lui è il tipo idea-
le della razionalità capitalistica a ideale di tutti gli altri tipi ideali. Ma ad atte-
nersi a questa conclusione si arriverebbe a dedurne che la sociologia idealtipi-
ca è una sociologia da capitalisti. Così non si farebbe che confermare le criti-
che che sono venute da tutti i suoi commentatori classisti, più o meno ispirati
dal marxismo. Trovo invece ci sia anche un’altra conclusione da trarne.
Lo faccio trattando il prossimo punto.

b) In modo seccamente empiristico, Weber sostiene che ogni disciplina scien-


tifica in generale tende all’evidenza. Viene da chiedersi come in tal modo sia
concepibile anche la più clamorosa delle scoperte scientifiche, quale quella co-


. RISPOSTE CLASSICHE

pernicana che ha contraddetto l’evidenza della piattezza della terra per affer-
mare invece la sua rotondità, in tempi in cui era letteralmente inimmaginabile.
L’evidenza non è altro che una delle categorie utilizzate, e non sempre, dalle
scienze. Così pure il senso comune, che sull’evidenza si basa, rientra certo tra i
temi che le scienze sociali devono studiare (Geertz, ad esempio, dedica analisi
del tutto interessanti al suo variare in diverse realtà sociali) ma non è l’unico,
né tantomeno il decisivo. Lo stesso può dirsi in logica del principio di non con-
traddizione cui si rifà Weber per fondare il suo ideale di razionalità sulla non
contraddizione tra mezzi e fini. Fin da Platone, che non per nulla fondava la
sua filosofia sul concetto di Idee al plurale, la logica non è mai stata pensata a
senso unico come unica e obbligatoriamente non contraddittoria. Del resto, co-
me ha dimostrato il grande filosofo tedesco Heidegger, anche nella formula
più canonica del principio di non contraddizione, A=A, risalente ad Aristote-
le, il fatto stesso che il simbolo A debba essere ripetuto evoca una contraddit-
torietà irriducibile tra il primo e il secondo A. Quel che diceva Durkheim del-
la società, che non esiste, perché al posto suo esistono solo delle società, può
dirsi parimenti della logica, e dunque della razionalità, specie quella che si cer-
ca nella realtà sociale: che non esiste, perché al posto suo esistono più logiche,
ossia più razionalità tra loro essenzialmente diverse.
Ma anche da un punto di vista strettamente empirico, basato su ricerche
sociali (ad esempio le nostre), è del tutto evidente che esistono delle azioni so-
ciali per le quali il senso comune non vale, né hanno alcuna razionalità rispet-
to allo scopo, al valore o alla tradizione, senza per questo dovere essere consi-
derate irrazionali. Si tratta, ad esempio, di quel che accade in luoghi dove il la-
voro dal punto di vista del senso comune è impossibile e i lavoratori per ren-
derlo possibile non hanno altra risorsa che il loro pensiero; pensiero, che ha una
sua propria razionalità irriducibile a qualsiasi scopo, valore, tradizione.
In definitiva, il primato che Weber assegna all’evidenza di una logica non
contraddittoria è giustificato dall’intenzione dello stesso Weber di fare del sen-
so comune la matrice ideale della razionalità in campo sociale. L’intento polemi-
co è chiaramente verso quei gruppi sociali le cui intenzioni non rispettano il
senso comune. Mentre a essere favoriti sono i gruppi sociali che lo rispettano,
quali che siano i loro scopi, i valori e le tradizioni. Se dunque l’ideale è quello
puramente calcolatore della razionalità capitalista, esso, secondo Weber, può
far da ideale anche per altri gruppi sociali, quali quelli di tipo religioso e agra-
rio, nonché la stessa burocrazia statale.
Conclusione: non che la sociologia idealtipica sia semplicemente al servizio
del capitalismo, essa sostiene piuttosto una razionalizzazione di tutti i gruppi so-
ciali per accrescere il potere di chi già ne ha.
Per spiegare questa conclusione, consideriamo la definizione che dà Weber
del fondamento del potere, l’obbedienza: ha potere chi ottiene obbedienza da
altri. Anche qui, coerentemente, è questione di rapporti soggettivi tra indivi-


VA L E R I O R O M I T E L L I

dui e di non contraddizione: obbedire significa non contraddire. Per avere po-
tere, dice Weber, non basta far subire il proprio potere a un altro che vi sog-
giace passivamente, occorre che questi risponda attivamente al comando. Ma
perché ciò avvenga occorre che l’obbedienza sia fondata sulla condivisione del
senso del comando. Qui di nuovo la questione del senso comune, tra chi co-
manda e chi obbedisce. Questione che viene posta in termini di legittimazione,
dei diversi tipi di legittimazione (razionale, tradizionale, carismatico) di cui il
potere può godere. Ma l’essenziale resta che il potere sia fondato sul consen-
so, e ciò fino al punto di riscuotere obbedienza.
Ecco, dunque, di che si pone al servizio la sociologia idealtipica: di un po-
tere e di una razionalizzazione sociale così concepiti, che si misura sul consen-
so, ma si impone con comandi che richiedono obbedienza. Ciò evidentemente
per escludere realtà sociali senza potere, senza comandi e/o obbedienza, e per
questo stesso motivo ritenuti irrazionali.
A parte ogni altra considerazione sull’intensa attività scientifica, politologica
e politica di Weber, qui importa ricordare la sua convinzione che uno Stato come
quello tedesco del suo tempo non potesse non essere una potenza imperialistica.
Convinzione, questa, che lo ha portato anche a sostenere fino in fondo lo scate-
namento di quella Prima guerra mondiale tramite la quale la Germania ha tenta-
to per la prima volta di succedere alla declinante egemonia mondiale inglese.

c) Che nel potere la cosa più interessante da analizzare sia come si legittimi,
come trovi consenso e obbedienza: questa indicazione di metodo proposta da
Weber ha riscosso un successo straordinario tra le scienze sociali. Tutt’oggi so-
no infiniti gli studi orientati in questo senso. Si può anche notare come un mo-
vimento alternativo tra i più noti abbia scelto di chiamarsi dei “disobbedienti”,
formula in cui risuona un’eco sia pur invertita del metodo weberiano. Sono
possibili, però, altri modi di porsi rispetto a questo metodo. Anche se non è la
problematica del potere e del governo a essere al centro delle nostre ipotesi, es-
se la contemplano ai confini dei loro campi di ricerca. È da questa angolatura
che propongo qualche considerazione su ciò che trovo più criticabile in Weber,
per poi invece sottolineare cosa c’è sempre da imparare.
Criticabile è, anzitutto, che il suo ideale di razionalità sociale (come razio-
nalità del potere) si voglia unico e senza contraddizioni, come unico e senza con-
traddizioni si vuole il senso comune su cui si fonda la logica di questa raziona-
lità. Così infatti si condanna all’irrazionalità ogni realtà sociale senza potere e
fuori dal senso comune.
Criticabile è, in secondo luogo, il fatto di considerare il potere unicamente
in base al tipo di legittimità fondata sul consenso di cui può godere. Così infat-
ti si fa del potere una questione puramente soggettiva, di comando e obbe-
dienza, senza considerare le sue condizioni oggettive: ossia le condizioni che
rendono possibile qualsiasi potere, come la ricchezza o le posizioni istituziona-


. RISPOSTE CLASSICHE

li privilegiate, e che esistono indipendentemente da consenso, comandi e ob-


bedienza. D’altra parte, essere governato significa subire un potere, ma ciò non
significa necessariamente obbedire, né l’unica alternativa è disobbedire. Anzi,
ciò che è più interessante per le ricerche sociali sulle attività esecutive, gover-
nate da altri, è proprio analizzare come esse si rendono possibili da loro stesse,
applicando a loro modo i comandi ricevuti, sottraendosi a essi o anche trovan-
do soluzioni impreviste. Tutte eventualità, queste, che sono del tutto ammissi-
bili, una volta ammesso che il potere su una qualsiasi attività non esaurisce la
molteplicità di possibilità connesse a tale attività.
Criticabile è infine il fatto che, a considerare solo come un potere si legitti-
ma, si trascura la cosa che più conta quando si studia il potere: il sapere su cui
si basa il suo esercizio. Se si vogliono analizzare le decisioni di chi ha potere su-
gli altri, infatti, non c’è altro modo di valutarle se non chiedendosi in base a
quali conoscenze delle condizioni oggettive tali decisioni sono prese. Ciò non
viene considerato, se a interessare è solo come un potere riesce a condizionare
la soggettività su cui si esercita. Per dirlo più seccamente: la storia è piena di
esempi di governi del tutto legittimati, che godono del massimo di obbedienza
e di consensi, e che ciononostante prendono decisioni rovinose.
D’altra parte, il metodo della sociologia idealtipica di Weber ha ancora da
insegnarci almeno quattro cose, le quali, tra l’altro, vanno in tutt’altra direzio-
ne rispetto agli insegnamenti di Durkheim:
– che la soggettività conta nel sociale, che anzi ne può essere una dimensio-
ne decisiva e che non è dunque da intendersi semplicemente come una figura
di assoggettamento a sovrastanti determinazioni storiche e collettive;
– che per soggetto sociale non si debba intendere necessariamente o l’indi-
viduo o al contrario le classi: diversamente dall’interpretazione tutta indivi-
dualistica di Weber trovo che il suo concetto di “gruppo” contempli che la
soggettività sociale, a seconda dei diversi casi, a volte possa concentrarsi in un
individuo, a volte risulti come effetto di più individui che come tali perdono
ogni rilevanza;
– che per studiare la soggettività non si deve guardare dietro di essa, nell’in-
tento di scoprire da quali cause oggettive sia necessariamente determinata, ma
si deve osservare dentro di essa, dentro le sue stesse intenzioni e ciò che queste
intenzioni rendono possibile;
– che il ricercatore sociale, in quanto egli stesso interprete della società come
chiunque altro, non ha da supporre alcuna superiorità sui soggetti che la sua ri-
cerca interpella.
Quattro cose preziose, queste, perché rischiarano la strada alle ricerche so-
ciali sulla problematica delle possibilità soggettive irriducibili a qualsiasi ne-
cessità oggettiva.
Ma quattro cose che, per brillare in tal modo, hanno bisogno di essere scro-
state. In effetti, Weber le presenta sempre avvolte da una ganga dialettica che


VA L E R I O R O M I T E L L I

le offusca. La soggettività nel suo discorso è infatti sempre una soggettività as-
soggettata al senso comune, il quale è categoria in fin dei conti oggettiva, in
quanto risulta dalla media al ribasso di più soggettività. Inoltre, questa media
non è neanche, come in Durkheim, il semplice risultato di una comparazione,
ma è selezionata alla luce di un tipo ideale, il cui ideale è, come già criticato, il
dogma della non contraddizione, dell’identità senza resti. Cosicché in Weber,
alla fin fine, di vera soggettività sociale ce ne è solo una, quella della razionalità
avente a ideale la non contraddizione.
Per aprire invece la problematica della soggettività sociale in tutta la sua in-
finita vastità, mai riducibile a una tipologia, tantomeno se fondata su un unico
ideale, le nostre ricerche considerano ogni soggettività sociale nella sua singo-
larità contigua con altre soggettività: singolarità e contiguità che possono esse-
re studiate solo se al loro centro si pone non il senso comune, ma il pensiero, in
quanto attività intellettuale che rende possibili realtà sociali altrimenti impos-
sibili. Di qui anche il fatto che tra il ricercatore sociale e i soggetti da lui inter-
pellati il punto di incontro non è da vedersi garantito dal fatto che entrambi ri-
corrono all’interpretazione, all’interpretazione dello stesso senso comune, ma
è sempre da cercare e da trovare come faccia a faccia tra due pensieri diversi, l’u-
no volto a conoscere quella realtà sociale di cui l’altro fa esperienza diretta.

.
Il funzionalismo e i suoi paradossi

a) Quello funzionalista è un approccio delle scienze sociali tipicamente anglo-


sassone, che ha trionfato a partire dal primo Novecento tra Oxford e Cambrid-
ge, ma che è anche salito in cattedra in ogni continente, diffondendo insegna-
menti e schiere di seguaci a Chicago, Sydney, Capetown, Il Cairo e in numero-
se altre importanti università. Una folla pressoché infinita di ricerche e ricerca-
tori, tant’è che in area anglosassone è quasi impossibile tutt’oggi concepire le
scienze sociali in un modo che da vicino o da lontano non si apparenti con la tra-
dizione funzionalista. D’altra parte, poiché tra le scienze sociali quelle di lingua
inglese dominano quanto mai la scena mondiale, è decisivo mettere bene a fuo-
co quale è la risposta di questa tradizione alla domanda su cos’è la società. La
sua risposta influenza ancora tutte le possibili risposte a questa domanda.
Nell’impostazione originaria di Malinowski, che è uno dei padri fonda-
tori del funzionalismo, ci si astiene dal chiedersi cosa è la società in generale e
si prende invece atto che la complessità di quest’ultima è tale da comportare
dimensioni “imponderabili”. Ciò ammesso, non resta dunque che procede-
re per induzione, tramite l’osservazione diretta del ricercatore che deve par-
tecipare il più possibile alla realtà delle popolazioni indagate. “Lasciare che i
fatti parlino da soli” e “afferrare il punto di vista dell’indigeno” diventano
così un unico obiettivo.


. RISPOSTE CLASSICHE

L’esserci, sul campo di ricerca, l’andare e addirittura l’abitare tra la gente


che ci vive, cose di cui lo stesso Malinowski è stato pioniere e maestro, sono di-
venuti così dei veri e propri strumenti essenziali per la sperimentazione delle
scienze sociali, quasi come il cannocchiale per la fisica galileiana o la provetta
nella ricerca chimica.
La domanda decisiva qui, dunque, non riguarda cosa sia la società, ma co-
me una società funziona: dove e come si possono individuare dei rapporti tra
mezzi e fini decisivi per le popolazioni indagate. Laddove mezzi e fini sono tra
loro in un rapporto funzionale, il funzionalismo riconosce un’istituzione: un’i-
stituzione sociale, da intendersi come “sistema organizzato di attività intenzio-
nali”. Si noti la parola “sistema”, per cui al centro dell’interesse non è posta
la funzione in quanto tale, ma i rapporti sistematici tra più funzioni. Sono que-
sti quindi al cuore della problematica funzionalista, la quale è dunque, alla fin
fine, una problematica istituzionalista del sociale.
Ciò significa, dal nostro punto di vista, che essa ha sempre da insegnare
qualcosa quando si tratta di analizzare il sociale dall’ottica delle popolazioni
che hanno i mezzi, il potere e il sapere, e dunque anche le istituzioni utili a per-
seguire i propri fini, e di condizionare così il resto della società. Ma è fuori te-
ma quando si tratta di analizzare delle realtà sociali costituite da popolazioni
prive di mezzi, senza il potere e il sapere necessari per decidere istituzional-
mente delle proprie funzioni sociali. Il limite maggiore del funzionalismo sta
proprio nel fatto di non ammettere i limiti alla propria problematica, di rele-
gare nell’“imponderabile” la realtà sociale che non possa essere studiata in ter-
mini funzionali, di rapporto istituito tra fini e mezzi. Tutta l’opera di Mali-
nowski è segnata da questa unilateralità problematica che pur egli si sforza di
aprire a nuovi orizzonti di ricerca. I suoi diari, scritti durante i soggiorni di
ricerca tra le popolazioni delle isole Trobriand, pubblicati postumi, a parte
ogni risvolto scandalistico, mostrano in modo del tutto significativo le con-
traddizioni e i tormenti di questo pioniere tanto della ricerca sul campo, quan-
to del funzionalismo. La dimostrazione che popolazioni ritenute selvagge ab-
biano istituzioni funzionali non è infatti un’operazione così evidente come egli
cerca di far intendere. Essa ha due obiettivi almeno in parte contraddittori: da
un lato, accogliere i costumi trobriandesi a un livello comparabile a quello ci-
vilizzato, ma, dall’altro, mantenere delle categorie d’analisi del tutto estranee
a questi stessi costumi. Insomma, un riconoscimento che è al tempo stesso un
disconoscimento dal quale la cosa più evidente che esce è la promozione del
funzionalismo a codice di lettura universale, a pensiero unico per conoscere
ogni realtà sociale.
A tale scopo le funzioni sociali sono considerate delle risposte istituziona-
lizzate in rapporto a bisogni naturali. Così si teorizza che l’uso dei mezzi per
perseguire i fini sociali, anziché dipendere dalle decisioni soggettive delle po-
polazioni che hanno potere su tali mezzi, dipenda direttamente e completa-


VA L E R I O R O M I T E L L I

mente da necessità oggettive, esterne agli stessi rapporti sociali. Ogni distinzio-
ne tra l’“alto” e il “basso” del sociale, tra chi può e sa far funzionare una società
e chi non può e non sa, diventa superflua e ogni manifestazione di soggettività
sociale viene ricondotta a pura funzione dell’oggettività naturale. Il che signifi-
ca vedere e pensare la società come una “seconda natura”, per capire la quale
basta applicare con qualche rettifica le categorie valide per la prima. La biolo-
gia e l’evoluzionismo, quindi, di nuovo, come verità ultime del sociale.
Un altro grande ricercatore e maestro di questa scuola di pensiero, Rad-
cliffe-Brown, arriva in effetti a sostenere con ostinazione la possibilità di
un’“unica scienza naturale della società”. Essendo uno dei più attivi propa-
gandisti nel mondo dell’antropologia secondo il verbo funzionalista, accen-
tuandone il carattere naturalistico cercava di mantenere un senso unitario alle
svariate ricerche da lui promosse in Africa, Australia, Stati Uniti ed Europa.
A tale scopo, secondo lui si sarebbe dovuto «arrivare a una comparazione si-
stematica di un numero sufficiente di società di tipo sufficientemente diverso».
È la tesi sostenuta in un ciclo di conferenze tenute a Chicago nel  da que-
sto grande ricercatore che, suo malgrado, venne riconosciuto come padre del-
lo struttural-funzionalismo.
Il che non impedisce che in Inghilterra il suo insegnamento abbia uno svi-
luppo del tutto divergente, grazie all’opera originale di un suo allievo etero-
dosso, Evans-Pritchard. Questi, assumendo in modo quanto mai rigoroso l’im-
perativo dell’induzione basata sull’osservazione diretta e su un preciso vaglio
critico degli elementi di ricerca, contesta l’inevitabile approssimazione di ogni
comparazione fondata su presupposti naturalistici tra realtà sociali diverse,
contribuendo così a orientare il funzionalismo su quel relativismo delle scien-
ze sociali di cui, come si è visto, Boas fu precursore.

b) Il paradosso del funzionalismo, già notato nell’opera di Malinowski, è che,


nonostante la sua visione istituzionalista del sociale, ha ottenuto i suoi maggio-
ri titoli di merito grazie a ricerche di tipo etnografico condotte tra popolazioni
sperdute, in via d’estinzione, o, come vedremo tra poco, socialmente emargi-
nate. Ma si tratta di un paradosso che è spiegabile se si coglie un inequivocabi-
le tratto comune delle ricerche funzionaliste.
Si tratta della tradizione giuridica anglosassone del diritto consuetudinario.
Una tradizione che non ha mai rotto i ponti coi principi della famosa Magna
Charta dei primi del XIII secolo. In un tempo cioè in cui era possibile che degli
individui, quali i padri fondatori di tale testo, avessero proprietà tali, specie ter-
riere, che, una volta accordatisi tra loro, potevano decidere in tutto e per tutto
del loro destino sociale. Da qui viene il mito tipicamente anglosassone di una
società di individui “liberi tra pari”, capace di autoregolarsi. Autoregolazione,
che per l’essenziale si realizza nel non ammettere alcuna sopraffazione, né in-
terna, da parte di un individuo sugli altri, né esterna, da parte di ogni potere


. RISPOSTE CLASSICHE

superiore, astratto e impersonale. Va da sé allora che in questa ottica appaiano


quanto mai sospetti tutti quei poteri che vengono da istituzioni anonime e com-
pletamente collettive come le leggi scritte e gli apparati amministrativi. Quelle
leggi scritte e quegli apparati amministrativi che invece hanno primeggiato a di-
verso modo nelle altre due tradizioni giuridiche prevalenti in Europa, quella
francese e quella tedesca. Diversamente da queste ultime, dai destini assai con-
trastati e controversi, la fedeltà alla Magna Charta, che nella sua patria d’origi-
ne si è mantenuta anche in tempi moderni, ha dunque favorito delle continuità
con un passato medioevale altrove impensabili. Ad esempio, un parlamento
con una Camera dei Lords che rivendica a chiare lettere le sue origini nobilia-
ri o il perpetuarsi di un potere giudiziario formato dalla corporazione di giudi-
ci, custodi e arbitri di consuetudini anche non scritte, le quali formano il dirit-
to detto appunto consuetudinario. Il mito di una società ristretta di individui
che hanno il potere di autoregolarsi naturalmente ha così trovato ogni sorta di
conferme nella storia inglese. Tra di esse, non da ultimo, va ricordato anche il
fatto che la patria dell’immenso Impero britannico nel corso del Settecento è
diventata pure la culla del mercato capitalista. Un mercato che, per definizio-
ne, deve essere il più libero possibile da ogni ingerenza pubblica, legale e sta-
tale per potersi autoregolare.
Per relativizzare la pretesa di chiara incontestabilità che spesso vanta que-
sta tradizione, basta rimarcarne semplicemente l’origine evidentemente aristo-
cratica. La società di liberi tra pari che si autoregola è, infatti, un mito medioe-
vale che gli anglosassoni traggono dalla concezione giuridica vigente nella Ro-
ma antica. Se in quest’ultimo caso a essere esclusa dalla società di diritto era la
moltitudine infinita degli schiavi, nel Medioevo, come si apprende sui banchi
di scuola, lo erano i servi detti “della gleba”, nonché i poveri, anch’essi in mag-
gioranza assoluta nella popolazione del tempo. Del resto, quanto all’argomen-
to secondo il quale il libero mercato capitalista darebbe l’opportunità a chiun-
que di diventare libero tra pari, esso comunque lascia insoluto il problema del-
la stragrande maggioranza di chi non solo non ce la fa, ma neanche ha il pote-
re di provarci. Dal punto di vista dell’esclusione sociale, possono allora appa-
rire sotto una nuova luce anche quei poteri superiori, astratti e impersonali,
quali leggi scritte e apparati amministrativi, tanto poco graditi alla prospettiva
giuridica anglosassone più tradizionale. Senza negare l’infinità di problemi e di
mali comportati da tali poteri (che peraltro si sono necessariamente imposti an-
che in tutti i paesi di lingua inglese), quantomeno è chiaro che essi, nel loro ri-
volgersi a chiunque, di qualunque condizione, hanno allargato la dimensione
del sociale per dar spazio e rilievo anche alle popolazioni che non hanno alcun
potere di deciderne le funzioni.
Ma torniamo ai padri fondatori dell’antropologia ed etnologia funzionali-
ste, quali Malinowski, Radcliffe-Brown ed Evans-Pritchard, tutti intellettual-
mente cresciuti nell’Inghilterra della prima parte del Novecento. La società di


VA L E R I O R O M I T E L L I

individui liberi tra pari che si autoregola naturalmente è certo un Leitmotiv del-
le loro indagini pionieristiche, rispettivamente tra popolazioni come quelle del-
le Isole Trobriand, delle Isole Andamane o dell’alto Nilo. Se essi lo trovano è
perché non cercavano altro: non cercavano altro, perché tra i loro presupposti
c’era la tradizione giuridica anglosassone or ora rievocata. In altre parole, ciò
che voglio contestare è il loro presunto empirismo, la loro idea di “lasciare che
i fatti parlino da soli”. I fatti non parlano mai se non tramite la voce o gli scrit-
ti di qualcuno che, specie se ricercatore sociale, deve rendersi quanto mai re-
sponsabile del senso delle sue parole e del suo pensiero. La pretesa di limitar-
si alla semplice induzione e alla percezione della realtà così com’è è sempre una
pretesa da “pensiero unico”, che aspira a escluderne ogni altro, quale appunto
il funzionalismo anglosassone che in effetti ha finito per dominare le scienze so-
ciali, come l’Impero britannico fino ai primi del Novecento aveva dominato il
mondo, per venire in seguito rilevato da quello statunitense. Il che non toglie
ne siano venute delle conoscenze immense su simili popolazioni dai costumi
tanto singolari, quanto in via d’estinzione; conoscenze che hanno fatto scuola
anche per ogni ricerca successiva sul campo. Ma credo si debba anche conve-
nire che per questi padri fondatori dell’antropologia e dell’etnografia funzio-
naliste il fascino maggiore di popolazioni come quelle trobriandesi, andamane
e nuer, sia proprio consistito nel fatto che esse non conoscevano la separazio-
ne tutta moderna tra chi può e sa e chi non può e non sa, tra i ricchi e i poveri.
È da qui che viene la vera passione di ricercatori come Malinowski, Radcliffe-
Brown e Evans-Pritchard nello studiare organizzazioni sociali strutturate in
clan familiari, tramite riti, magie e faide. Leggendo questi studi, infatti, non è
difficile cogliere in essi l’intenzione di dimostrare l’esistenza tutta reale e fun-
zionante di società senza leggi scritte, né istituzioni burocratiche, ma anche do-
ve nessuno può ritrovarsi estraniato dalle decisioni riguardanti la gestione del
potere. Molto significativo a questo proposito è il sottotitolo del saggio pub-
blicato nel  da Evans-Pritchard sui nuer: Un’anarchia ordinata. Ciò che
interessa di questa popolazione è dunque il fatto che essa sia ordinata, che svol-
ga le sue funzioni, pur senza essere stratificata secondo gerarchie di potere. Co-
sì, in fondo, questo allievo di Radcliffe-Brown non faceva che portare alle estre-
me conseguenze quello che era stato un interesse di gioventù del suo stesso
maestro: Kropotkin, noto teorico dell’anarchismo.
In effetti, l’idea libertaria e anarchica può facilmente coniugarsi con la tra-
dizione liberale anglosassone. Medesimo è il presupposto secondo cui la vera
società non debba rispondere ai bisogni naturali degli individui. Medesimo è il
rifiuto della separazione moderna tra le popolazioni che hanno il potere di de-
cidere per il resto della società e questo stesso resto della società che il potere
lo può esclusivamente subire.
La paradossalità del funzionalismo sta dunque tutta qui: nel sostenere che
le funzioni sociali, quali sono analizzabili tra popolazioni senza leggi, né Stato,


. RISPOSTE CLASSICHE

nonché prive di profonde divisioni quanto alla gestione del potere, sono de-
terminate da necessità naturali le quali devono valere anche per società mo-
dernizzate dove esistono leggi, Stato e profonde divisioni attorno al potere. La
pretesa di un’unica scienza sociale funzionalista implica in effetti l’ipotesi quan-
to mai equivoca (libertaria? liberale? liberista?) secondo cui in ogni società le
funzioni sociali in fondo si svolgono e si possono conoscere indipendentemen-
te dal potere di governo che su di esse si esercita.

c) Nell’altro grande paese di lingua inglese, gli Stati Uniti, il funzionalismo ha


perfezionato due metodi di ricerca divergenti e interessati più ai fenomeni so-
ciali metropolitani. Uno di questi due metodi, di cui tratto qui di seguito, pre-
dilige lo studio del sociale dal punto di vista di chi ha il potere e il sapere di con-
dizionarlo e che quindi risponde anche all’esigenza di una prospettiva d’insie-
me, dall’alto, più panoramica, più teorica; l’altro, cui sarà dedicato il paragrafo
successivo, studia invece il sociale dal punto di vista di chi il potere di condi-
zionare il resto della società non ce l’ha, cosicché anche il suo sapere è di dub-
bia utilità sociale. Di comune vi è il presupposto che della realtà sociale si deb-
ba studiare soprattutto e anzitutto la funzionalità.
Il metodo di Talcott Parsons offre la massima sistemazione teorica delle te-
si struttural-funzionaliste, nelle più prestigiose università degli Stati Uniti, so-
prattutto dagli anni Trenta agli anni Settanta, nell’epoca in cui questo paese si
afferma come la potenza egemone mondiale. Il funzionalismo qui non si spe-
rimenta più tra foreste o savane con sperdute capanne di fango e paglia, abita-
te da gente seminuda, ma si mette alla prova con la potenza e la ricchezza che
hanno sede in grattacieli svettanti in mezzo al caos metropolitano. I problemi
di metodo diventano più complicati.
La categoria della funzione sociale a opera di Parsons si precisa all’interno
di una sintesi che fa i conti col meglio della tradizione sociologica della vecchia
Europa: tanto con la lezione weberiana, quanto con quella durkheimiana. I rap-
porti tra le funzioni sono strutturati in modo da dare luogo a fitte e dettagliate
gabbie di status e di ruoli che possono essere riconosciute nelle società da ana-
lizzare. Ma, cosa più interessante, anche la categoria dell’azione sociale, pur
pensata sempre in termini funzionali, viene ulteriormente raffinata: da valutar-
ne non è più l’adeguatezza tra mezzi e fini, ma anche la differenza tra condi-
zioni di partenza e di arrivo. Se questo scrive Parsons nel , nel  egli
precisa ancora di più: per analizzare ogni azione sociale, occorre analizzare la
conoscenza di cui l’attore dispone nel compiere la stessa azione. Ciò perché in
ogni situazione ci sono sempre più possibilità di agire e la scelta dell’attore di-
pende dalla conoscenza che ha dell’ampiezza di tali possibilità.
Così viene ottenuto uno schema metodico di indubbio interesse. Esso si-
curamente fa scuola per qualsiasi analisi tratti delle scelte compiute da sogget-
ti che hanno potere di agire nei confronti del resto della società e, dunque, di


VA L E R I O R O M I T E L L I

condizionarla. Ognuno di questi soggetti (sia uno staff dirigenziale o un’équi-


pe ministeriale, fino ad arrivare a un comitato sindacale o un’assemblea con-
dominiale), infatti, per esercitare il proprio potere, non può non usare un cer-
to sapere, un sapere che riguarda quantomeno le condizioni stesse di esistenza
del proprio potere; ed è dunque da questo stesso sapere che occorre partire, se
la ricerca sociale vuole analizzare come il potere viene gestito, quali delle sue
molteplici condizioni sono utilizzate come mezzi, quali invece sono tenute in
riserbo, e con quali giustificazioni, per esempio, pertinenti o evasive. Ma si può
anche rovesciare il discorso in senso oggettivo: fino al punto di sostenere che
ogni dato, ogni informazione, ogni nozione presente o passata riguardante il so-
ciale si inscrive sempre in una qualche azione concernente il potere, quanto-
meno quello universitario. Cosicché, per analizzare qualunque notizia sul so-
ciale, la ricerca deve analizzare anche la sua funzionalità rispetto alla gestione
del potere, in modo da riuscire a distinguere quanto tale notizia ampli o re-
stringa la gamma delle scelte di gestione. Detto più sinteticamente, è del tutto
proficuo pensare che tra il potere e il sapere disponibili in una realtà sociale agi-
sca sempre una doppia e reciproca funzionalità, per cui, se si vuole studiare ta-
le realtà, bisogna ammettere che non c’è potere che non sia esercitato in fun-
zione di un sapere e che non c’è sapere che non sia presentato in funzione di
un potere. Qui la lezione di Parsons è sempre piena di stimoli.
Tale ammissione però non comporta affatto l’obbligo di dire che ogni fun-
zione si debba necessariamente conformare a un’unica struttura che garantisce
l’integrazione delle diverse funzioni, né tantomeno che al di là di tale struttura
non si dia altro che devianza o disgregazione sociale. Come ha a suo modo ec-
cepito Robert K. Merton, critico seguace di Parsons, è più opportuno pren-
dere atto che in ogni società esistono sempre delle vaste realtà che sono sempli-
cemente non-funzionali e non integrate, senza essere necessariamente disfunzio-
nali o disintegranti. È il caso ad esempio di quelle popolazioni in condizioni di
precarietà lavorativa, abitativa e/o assistenziale, per le quali le questioni di fun-
zionalità sociale non si pongono nemmeno; e ciò non solo in quanto subiscono
le soluzioni funzionali prese da altri, ma anche perché devono rendere possibi-
li delle condizioni di lavoro e di vita che di per se stesse non funzionano.
A riguardo, lo struttural-funzionalismo ha in riserbo una ricetta, tutta stel-
le e strisce, ottimista e da “nuova frontiera” sempre da oltrepassare: la prescri-
zione secondo cui ogni realtà sociale prima o poi può e deve arrivare a funzio-
nare, così come ogni individuo emarginato deve e può avere l’opportunità di
riscattarsi. Il che però ha come implicazione meno edificante che, in caso con-
trario, tali realtà e tali individui non possono non essere considerati e trattati
come devianti e disgreganti. I considerevoli tassi delle popolazioni carcerate in
USA illustrano bene come simile concezione del sociale possa funzionare.
Dal punto di vista del metodo si tratta allora piuttosto di chiedersi come
possano coesistere una realtà sociale più o meno funzionale con realtà sociali


. RISPOSTE CLASSICHE

non funzionanti. Una domanda, questa, che richiede anzitutto risposte politi-
che, contingenti o strategiche, governative o non governative, concertate o con-
flittuali, comunque mai definibili tramite un metodo o una teoria sociale, me-
no che mai funzionalisti. Concludo quindi su quella che è in fondo la prescri-
zione più evidente dello struttural-funzionalismo: l’integrazione. Il merito che
più spesso viene riconosciuto all’opera di Parsons è infatti di avere contribui-
to a concepire quello che è stato chiamato «il più importante e notevole espe-
rimento dopo le invasioni barbariche». Sarebbe a dire quell’amalgama di po-
polazioni diverse che gli USA hanno reso possibile, specie nel momento del lo-
ro presentarsi al mondo come potenza egemone. L’integrazione è in effetti og-
gi parola d’ordine obbligatoria dei governi di tutti i paesi più ricchi nei con-
fronti dell’immigrazione. Obbligo, questo, senza dubbio necessario, specie di
fronte alle ricorrenti tentazioni puramente discriminatorie, ma sicuramente in-
sufficiente e non unico, tantomeno esclusivo. L’integrazione delle nuove popo-
lazioni nelle funzioni sociali esistenti non può comunque essere accompagnata
dalla condanna come devianti o disgreganti di tutti e di tutto ciò che nell’inte-
grazione non rientra. Se ciò avviene, è perché chi ha il potere sulle funzioni so-
ciali le usa ignorando, deliberatamente o meno, le condizioni della vastissima
realtà sociale che non rientra, né rientrerà mai nell’integrazione. Un’ignoranza
che nei punti più equivoci dello struttural-funzionalismo può trovare i titoli per
presentarsi come dotta. Per questo la ripresa e la critica di questo metodo è
sempre importante, anche per la sperimentazione delle nostre ipotesi che han-
no altri campi d’applicazione.

.
L’etnografia statunitense

a) Molto più vicina ci è la problematica etnografica dedicata a realtà sociali


metropolitane, che ha avuto grande sviluppo sempre negli USA, a partire dagli
anni Dieci e Venti del Novecento, con ricerche condotte presso la “Scuola di
Chicago”, come quelle di Thomas e Znaniecki, che promuovevano a fonte di
studio dei problemi migratori la corrispondenza di un contadino polacco, o
di Neils Anderson, mescolatosi a lavoratori senza fissa dimora, o ancora dei
coniugi Lynd sui comportamenti della città media americana verificati nell’ar-
co dei dieci anni, tra il  e il , che abbracciano la grande crisi del Venti-
nove. Tutto un ciclo di grandi ricerche sul campo, che arriva fino ai primi an-
ni Quaranta, segnati dalla ricerca di William Foore Whyte  tra quartieri po-
veri con popolazioni d’origine italiana. Ma è con gli anni Sessanta che l’etno-
grafia conosce, oltre che un nuovo sviluppo, anche dei tentativi di teorizzazio-
ne, spesso in polemica più o meno esplicita con lo struttural-funzionalismo al-
la Parsons e Merton. Tra gli autori più citati a riguardo ci sono nomi come
Howard S. Becker, Aaron W. Cicourel, Harold Garfinkel, Erving Goffman. Un


VA L E R I O R O M I T E L L I

vastissimo insieme di contributi alle scienze sociali che in Italia ha in Alessan-


dro Dal Lago uno dei più noti sostenitori. Come egli stesso chiarisce, caratte-
ristica peculiare di questo metodo etnografico sta soprattutto nell’attenzione
microsociologica per le pratiche di ogni giorno: la vita quotidiana, opportuna-
mente osservata al di là delle sue apparenze scontate, rivelerebbe un senso
pragmatico ben diverso da quello comune. Ad esempio, a diverso titolo, si è di-
mostrato che le pratiche svolte quotidianamente dai tribunali risultano funzio-
nali ben più a necessità di routine istituzionale che al valore della giustizia in-
tesa secondo il senso comune. Netta è dunque l’opposizione nei confronti del
metodo di cui Parsons è stato caposcuola e che abbiamo appena considerato.
Se il suo struttural-funzionalismo punta infatti a offrire una teoria sistematica
e macrosociologica, focalizzata sull’ordine sociale inteso come integrazione di
strutture oggettive più o meno costanti e tenute insieme dal senso comune con-
diviso dai più, del tutto diversamente l’etnografia osserva la realtà sociale con
un’ottica microsociologica, volta a cogliere le percezioni e i comportamenti dei
soggetti così come agiscono quotidianamente all’interno della “cornice simbo-
lica” che caratterizza ogni situazione concreta. Questa opposizione di metodo
può essere intesa con diverse accentuazioni: in modo più o meno conflittuale o
invece ridotta a semplice divisione di compiti accademici.
Negli USA degli anni Sessanta e Settanta l’etnografo era per lo più una fi-
gura di ricercatore impegnato a rivelare l’assurdità della sociologia dominante
ispirata allo struttural-funzionalismo e a contestare le sue teorie dell’ordine so-
ciale e del senso comune. Così, in Italia, anche assai recentemente, si è ripresa
questa accezione dell’etnografia in senso alternativo e conflittuale combinan-
dola con una rinnovata problematica dell’antagonismo di genere classista. Ne
è conseguita la già citata “conricerca”: un termine a suo tempo coniato da Ro-
mano Alquati e che ha conosciuto un nuovo successo nell’ispirare delle inchie-
ste condotte all’interno dei movimenti dei no o new-global e più in particolare
dei “disobbedienti”.
D’altra parte, nelle scienze sociali si è cercato di mantenere il dissidio nei
termini del dibattito tra diverse scelte tra loro compatibili. Si è così ammessa la
legittimità della problematica etnografica sotto l’insegna di una qualità da di-
stinguere rispetto alla quantità, che sarebbe l’elemento privilegiato da teorie co-
me quelle struttural-funzionaliste. Micro e macro; soggettivo e oggettivo; qua-
lità e quantità; pragmatico e strutturale; osservazione partecipante, sul campo
e teorie distaccate, sistematiche, fondate su dati statistici: queste alcune delle
coppie più usate per riassumere l’alternativa metodologica cruciale di tutte le
scienze sociali. Alternativa che non dimostra altro se non la ricchezza delle
scienze sociali, tanto varie, tanto produttive di infiniti modi di pensare e cono-
scere il sociale da non potersi mai ridurre a una sola. In effetti, si può dire che
l’unico principio da tutte condiviso sta proprio nel dovere sempre separare, in
ogni questione sociale, quello che è un problema sociologico da quelli che sono


. RISPOSTE CLASSICHE

invece problemi antropologici, etnologici o etnografici. Ciò senza pretendere di


risolvere entrambi: senza quella pretesa universalistica, onnicomprensiva, di
derivazione filosofica, che rispunta spesso tra gli stessi ricercatori sociali.
Degli esempi in questo senso si possono trovare nelle maggiori critiche ri-
volte all’etnologia, che ne denunciano l’incapacità ad affrontare le questioni
d’insieme di una società e quindi a spiegare le sue trasformazioni progressive o
regressive. L’idea così difesa è evidentemente quella secondo cui il sociale sog-
giace a un’unica evoluzione storica di cui tutte le scienze sociali non possono
non tenere conto. Un’idea, dunque, che sottopone queste ultime all’imperati-
vo di un pensiero unico, di un metodo unico. A simili conclusioni può del re-
sto portare anche la stessa alternativa tra le già citate coppie di quantità e qua-
lità, macro e micro, oggettivo e soggettivo, se intese in senso dialettico, ossia
avente tra loro un ponte discorsivo che permette allo stesso ragionamento di
passare dall’una all’altra.
Il problema nuovo e cruciale posto dall’etnografia, che così contribuisce ul-
teriormente al relativismo delle scienze sociali, è invece proprio che la moltepli-
cità della realtà sociale è impensabile e inconoscibile come un’unica realtà. Co-
sì si afferma una delle più clamorose e difficili novità impostasi in modo più o
meno latente o manifesto a tutto il sapere del secondo Novecento: l’irrimedia-
bile obsolescenza di qualsiasi principio, idea o categoria che sotto qualunque
punto di vista pretenda di valere per tutto il genere umano o per ogni società.
Anche le nostre ricerche etnografiche presuppongono una simile constata-
zione, ma il loro metodo diverge su più di un punto da questa etnografia d’i-
spirazione anglosassone.
Se condividiamo la sua critica allo struttural-funzionalismo e al senso co-
mune, nonché il suo interessarsi alle soggettività in modo pragmatico e micro-
sociologico, “qualitativo”, tuttavia ci discostiamo da sue categorie fondamen-
tali quali la vita quotidiana e l’ordine funzionale che vi sarebbe empiricamente
osservabile.

b) L’etnologo d’ispirazione nordamericana ha una precisa prescrizione per chi


vuol seguirlo: “scendi in strada e guardati intorno!”. Imperativo pragmatico,
questo, che andrebbe corredato da una mobilitazione di tutti i sensi (non solo
il vedere, ma anche l’“annusare”!), quanto da un robusto e svariato sapere.
Così il ricercatore, col suo sguardo sensorialmente dilatato nonché sapiente,
mescolandosi tra la gente, dovrebbe riuscire a osservarla per quel che essa real-
mente fa. E, al di qua di tutte le teorie sulle opinioni manipolate, sul senso co-
mune, sull’ordine sociale più o meno ben strutturato, si dovrebbe vedere che
gli attori sociali, per ottenere gli scopi funzionali alla loro vita quotidiana, san-
no organizzarsi in proprio.
Non è difficile riconoscere qui all’opera le convinzioni già riscontrate nel
funzionalismo anglosassone: quelle di un empirismo sempre teso a confer-


VA L E R I O R O M I T E L L I

mare le possibilità di uno spontaneo autogoverno del sociale. Convinzioni,


queste, che hanno delle immediate implicazioni sulle scelte che orientano la
politica della ricerca sociale. La categoria della vita quotidiana ha in effetti
una chiara portata polemica: in suo nome si mette a distanza ogni teoria so-
ciale deduttiva, fatta a tavolino, “dall’alto”, e non tra la gente, vicino alle sue
esperienze più dirette; meno chiaro, però, è come, in nome della vita quoti-
diana, si possa scegliere ciò che vi è di intellettualmente rilevante da ciò che
è semplicemente banale e futile. Nell’indecisione che così si crea, nulla im-
pedisce che a imporsi allo sguardo siano proprio i fatti più banali e futili. In
effetti, è proprio quanto suggerisce la dialettica proposta da Dal Lago: «trat-
tare l’ovvio come se fosse strano e ciò che appare strano come ovvio». Un’al-
ternativa, questa, tra lo “strano” e l’“ovvio”, che porta a fare della percezio-
ne la misura del lavoro intellettuale richiesto da ogni ricerca sociale. Conver-
sazioni casalinghe o fatti di costume, come tifoserie calcistiche, diventano ca-
si di studio di grande importanza.
Ma, contrariamente alla sua parvenza evidente e intuitiva, l’idea di dover
studiare il sociale nella sua dimensione quotidiana ha come condizione il pre-
coce imporsi negli Stati Uniti di quello che, dopo il film di Orson Welles del
, è stato stigmatizzato come “quarto potere”. Sarebbe a dire quel potere che
surrettiziamente si accompagna agli altri tre legittimamente pubblici (governo,
magistratura, parlamento) e che è costituito dai quotidiani. Sarebbe a dire quel-
le testate della stampa a grande tiratura che, specie nel corso della Seconda
guerra mondiale, creano un’opinione pubblica favorevole all’ascesa degli Stati
Uniti a potenza mondiale e che ha per protagonisti quei giornalisti che Nietz-
sche, un secolo prima, chiamava con una delle sue espressioni violente, ma il-
luminanti, “schiavi cartacei del giorno”. Insomma, la figura dell’etnologo nor-
damericano che, anziché passare il suo tempo tra costruzioni teoriche e stati-
stiche, va per strada e si mescola a gente qualunque, magari anche poco racco-
mandabile, cercando di capire come se la passa giorno per giorno, non può cer-
to non risultare simpatica. Ma se essa si distanzia dalla mentalità universitaria
più tradizionale, lo fa solo perché converge verso un’altra mentalità, sostenuta
da un centro di potere, quello della stampa, che nella seconda metà del Nove-
cento diventa concorrente con quello universitario. Resta che, mentre la ricer-
ca sociale punta sempre a essere scientifica e dunque a confrontarsi col massi-
mo del sapere già acquisito, il giornalismo ha l’obiettivo non solo di dare delle
informazioni a chi non ne ha, ma anche di farlo dovendo cercare ogni giorno
di colpire di più un pubblico sempre sedotto anche da altri giornali concor-
renti. Cosicché, concepire la ricerca sociale come un “reportage” non può co-
munque non abbassarne il livello intellettuale.

c) Quanto si distanzia dunque il metodo delle nostre ipotesi da questo ap-


proccio, posto che entrambi si vogliono pertinenti all’etnografia?


. RISPOSTE CLASSICHE

Certo è che si tratta di andare tra la gente, senza considerarla del tutto ma-
nipolata o assoggettata al senso comune, per incontrarla laddove essa fa espe-
rienze decisive per la sua stessa vita, prendendo sul serio quel che dice e fa. Co-
se, tutte queste, su cui, grazie al metodo dell’etnografia americana, sono state
fatte infinite ricerche e prodotto un grandissimo patrimonio di conoscenze, co-
me appena accennato. Se non se ne vogliono seguire i canoni, è dunque tutto da
spiegare il perché. Ciò è ancora più importante in quanto le nostre ipotesi pos-
sono vantare dalla loro solo un modesto insieme di contributi. Tuttavia, come
cerco ora di mostrare, c’è più di una buona ragione per cercare un’alternativa a
questo metodo etnografico e per rinnovare altrimenti le ricerche sul terreno.
Parto dunque da quella che si può considerare la prescrizione più nota che
solitamente viene assunta da questo tipo di ricerche: procedere a un’“osserva-
zione partecipante” dei “comportamenti” e delle “percezioni” degli “attori so-
ciali” nella loro “vita quotidiana”.
Prescindo da tutte le argomentazioni filosofiche tra cui simili temi po-
trebbero far disperdere il discorso, per mantenerlo nel linguaggio più sempli-
ce e naturale.
Chiediamoci quale sia il piano su cui dovrebbe avvenire la “partecipazio-
ne” cui allude l’espressione “osservazione partecipante”. Si tratta in effetti di
una domanda decisiva, poiché con questa “partecipazione” il metodo che la ri-
vendica punta a superare, o quantomeno ad attenuare, quelle differenze ri-
spetto alla gente comune, che di solito sono invece mantenute dai ricercatori in
scienze sociali. Differenze che possono essere ricondotte essenzialmente a tre:
al fatto che il ricercatore è solitamente esterno ed estraneo alla realtà sociale
della gente; al fatto che il ricercatore, essendo un esperto in scienze sociali, è in
possesso di un sapere sconosciuto alla gente; al fatto che, infine, avendo fina-
lità scientifiche, il suo problema è conoscere in termini trasmissibili e riprodu-
cibili anche altrove, per altri ricercatori, quell’esperienza che invece la gente vi-
ve e conosce direttamente.
Ora, la partecipazione all’esperienza della gente, secondo questo meto-
do, è possibile sul piano delle sensazioni, delle percezioni, dei comporta-
menti o tutt’al più dell’uso di simboli. È essenziale che queste sensazioni,
percezioni, comportamenti o uso di simboli siano rispondenti a necessità,
per cogliere le quali lo stesso ricercatore non deve fare affidamento sul suo
bagaglio di conoscenze. Se così non fosse, anziché attenuare le differenze
con la gente, le accentuerebbe, reintroducendo la sua superiorità di esperto.
Decisiva è allora la categoria di “vita quotidiana”. Con essa si allude infatti
all’unità di tempo più naturale, il volgere del sole, di cui ognuno, esperto e
non esperto, ha esperienza costante e diretta. Il ricercatore può così parte-
cipare delle sensazioni, delle percezioni, dell’uso dei simboli della gente co-
mune, nella misura in cui si pone e la interpella sul piano delle necessità del-
la vita quotidiana.


VA L E R I O R O M I T E L L I

Ora, è proprio qui che c’è il problema. O meglio: è proprio qui che questo
metodo rivela il suo aspetto equivoco, di proporre una soluzione che non solo
lascia aperto, ma nasconde un problema cruciale.
Ogni ricerca sociale non è mai una cosa spontanea. I suoi tempi non sono
mai quelli del quotidiano. La sua durata, i suoi luoghi, le sue scadenze sono pre-
viste secondo un protocollo o un progetto per il quale il ricercatore deve aver
lavorato preventivamente e a cui è necessario lavorare anche a ricerca sul cam-
po conclusa. Da questo punto di vista, l’“osservazione partecipante” risulta una
formula troppo semplicistica, se non equivoca, in quanto sottace o comunque
trascura tutta una serie di operazioni decisive per la ricerca sociale. Tra di esse,
il fatto che il ricercatore, se vuol davvero capire la gente che interpella, non può
limitarsi a usare il suo sapere al ribasso, solo per lasciare spazio, dilatandoli o
acuendoli, ai suoi sensi. Tutto al contrario, egli deve attivare il più possibile le
sue conoscenze e le sue percezioni in funzione di una precisa attività intellet-
tuale. È infatti solo tramite il pensiero, che ogni ricerca sul campo può avven-
turarsi in quei campi altrimenti sconosciuti e inconoscibili, dai quali solamen-
te viene la sua legittimità scientifica.
Uno dei difetti maggiori del metodo etnologico dell’“osservazione par-
tecipante” sta dunque in questa omissione del pensiero, dell’intelligenza at-
tiva da parte del ricercatore come condizione decisiva per la riuscita della ri-
cerca stessa.
Ma suo difetto ancora maggiore è che, interpellando i soggetti sociali sul
terreno delle loro percezioni e comportamenti nella vita quotidiana, non li in-
terpella come esseri pensanti.
In effetti, secondo lo schema empiristico tipico della tradizione anglosas-
sone, la dimensione intellettuale si giustifica sempre solo come passiva e stru-
mentale, solo in quanto riceve sensazioni e serve a scopi pratici. La possibilità
che il pensiero, l’attività intellettuale modifichi le sensazioni e gli scopi pratici
è un’eventualità vista con sospetto, in quanto esposta al libero arbitrio e quin-
di a rischio d’errore. Ciò perché si continua a ritenere che l’unico soggetto pen-
sante possa essere l’individuo, cosicché più pensa a suo modo più rischia di far-
si idee personali diverse da quelle degli altri. Quegli altri, quella dimensione
collettiva, che quindi ha senso positivo solo se considerata nel modo più “na-
turale”, il più vicino possibile alle necessità della “vita quotidiana”. Ove, “na-
turale” deve suonare proprio come il contrario di “intellettuale” e il più vicino
possibile alla dimensione sensitiva, animale, dell’umanità.
Insomma, tutte le nostre ipotesi sul fatto che chiunque, la gente come sog-
getto collettivo, pensi e che questo pensiero possa essere fonte decisiva per co-
noscere la realtà sociale sono decisamente escluse da questo metodo. Ma, co-
me ho cercato di mostrare, non gli mancano i difetti che giustificano la ricerca
di alternative. Una, ma non la sola, è appunto fare del pensiero il terreno su cui
il ricercatore sociale deve porsi allo stesso livello della gente, per incontrarla.


. RISPOSTE CLASSICHE

Note

. Nella sterminata bibliografia su questo argomento, tra i riferimenti imprescindibili ricor-


do, per le origini, F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra (), Roma ; i co-
niugi Webb, Storia delle Unioni operaie in Inghilterra (), Torino ; e, per l’Italia, in tempi
più recenti, oltre alle inchieste dei “Quaderni rossi” dei primi anni Sessanta, Pizzorno, Reyneri,
Regini, Regalia, Lotte operaie e sindacato: il ciclo - in Italia, Bologna , nonché R. Alqua-
ti, Per fare conricerca, Torino , e il n.  della rivista “Posse”, Roma .
. C. Darwin, L’origine delle specie (), Torino  e Id., L’origine dell’uomo e la selezio-
ne sessuale (), Roma .
. Cfr. anche A. Badiou, Le Siècle, Paris .
. A questo proposito si può vedere, oltre al mio Sulle origini e la fine, cit., A. Badiou, La Ré-
volution Culturelle: la dernière révolution?, Paris .
. E. O. Wilson, Lineamenti di sociobiologia, Bologna .
. Gustoso, da questo punto di vista, è l’aneddoto narrato da C. Geertz (in Antropologia e fi-
losofia, Bologna , p. ) sulle  definizioni di cultura che suoi colleghi di Harvard negli an-
ni Cinquanta erano laboriosamente arrivati a censire.
. E. B. Tylor, Alle origini della cultura (), Roma -.
. L. H. Morgan, La società antica. Le linee del progresso umano dallo stato selvaggio alla ci-
viltà (), Milano .
. F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (), Roma .
. Cfr. E. Leach, voce “Anthropos”, Enciclopedia Einaudi, Torino .
. Cfr. A. Barnard, Precursori della tradizione antropologica, in Id., Storia del pensiero antro-
pologico, Bologna .
. Ad esempio M. Harris, L’evoluzione del pensiero antropologico: una storia della teoria del-
la cultura (), Bologna .
. Oltre al già citato Tylor, non può non essere menzionata la monumentale e celeberrima
opera di J. G. Frazer, Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione (), Torino .
. É. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa. Il sistema totemico in Australia
(), Milano ; Id., Le origini dei poteri magici (), Torino .
. M. Mauss, Teoria generale della magia e altri saggi (), Torino .
. A. R. Radcliffe-Brown, Struttura e funzione nella società primitiva (), Milano .
. E. E. Evans-Pritchard, Stregoneria, oracoli e magia fra gli Azande (), Milano ; Id.,
I Nuer. Un’anarchia ordinata (), Milano .
. F. Boas, Antropologia culturale. Testi e documenti, a cura di L. Bonin e A. Marazzi, Mila-
no .
. Id., Introduzione alle lingue indiane d’America (), Torino .
. Id., Antropologia e vita moderna (), Perugia .
. Id., L’uomo primitivo (), Bari .
. Ad esempio Barnard, Storia del pensiero antropologico, cit., p. .
. Boas, Antropologia e vita moderna, cit., p. .
. Tutto quel che segue, salvo indicazioni diverse, è un commento a É. Durkheim, Le rego-
le del metodo sociologico (), Milano .
. Id., La concezione materialistica della storia (), in La scienza sociale e l’azione, Milano
, p. .
. Id., La divisione del lavoro sociale (), Milano .
. Mauss, Teoria generale della magia, cit.
. M. Halbwachs, La memoria collettiva (), Milano .
. E ciò anche grazie alla rivista “L’année sociologique”, cui lo stesso Durkheim darà i mag-
giori contributi durante i quindici anni in cui uscirà, tra il  e il .
. É. Durkheim, Définition de l’État, in Leçons de sociologie (-), Paris .
. Id., Montesquieu et Rousseau, précurseurs de la sociologie (), Paris .


VA L E R I O R O M I T E L L I

. Ad esempio R. Guiducci, L’interpretazione del suicidio da Durkheim ad oggi, in É.


Durkheim, Il suicidio (), Milano .
. Una delle analisi più famose di questo “affaire” è in H. Arendt, Le origini del totalitari-
smo (), Milano .
. L’individualismo e gli intellettuali (), in É. Durkheim, La scienza sociale e l’azione, Mi-
lano .
. Del , ed. it. Milano .
. Cfr.: M. Toscano, Trittico sulla guerra, Roma-Bari ; W. Mommsen, Max Weber e la po-
litica tedesca -, Bologna .
. W. Dilthey, Critica della ragione storica (-), Torino .
. W. Windelband, Preludi (), Milano .
. Salvo diverse indicazioni, d’ora in poi commento soprattutto M. Weber, Economia e so-
cietà (), Milano . In ogni caso, al di là di ogni sua parvenza intuitiva, va ricordato che que-
sta, come altre teorie dell’interpretazione, deriva dalla tradizione ermeneutica. E va anche ricor-
dato che il problema originario di questa tradizione è come sia possibile che un mortale possa
comprendere il senso immortale di un testo sacro. Di qui tutte le questioni dei limiti dell’inter-
pretazione, del rischio del libero arbitrio, dell’errore soggettivo, di fronte alla saggezza infinita ed
eterna del divino. Che le scienze sociali abbiano assunto tali questioni indica solo la loro difficoltà
a costruire un proprio campo problematico distinto da quello delle tradizioni religiose.
. M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione (), Torino .
. Id., L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (-), Firenze .
. G. Lukács, La distruzione della ragione (), Torino ; H. Marcuse, Industrializza-
zione e capitalismo (), in AA. VV., Max Weber e la sociologia oggi, Milano .
. C. Geertz, Il senso comune come sistema culturale, in Id., Antropologia interpretativa
(), Bologna .
. M. Heidegger, Identità e differenza () in “Teoresi”, , pp. - e , pp. -.
. Weber, Economia e società, cit., p. .
. In direzione molto diversa da quella qui seguita, cfr. A. D’Attorre, Le basi teoriche della
sociologia del potere, in “Filosofia politica”, , .
. Come F. Leonardi, Di che parla il sociologo? Problemi di epistemologia delle scienze so-
ciali, Milano . Sull’argomento cfr. anche A. Izzo, Storia del pensiero sociologico, Bologna ,
p. .
. Su tutto ciò cfr., più sotto, CAP. , PAR. a, Il linguaggio come risorsa.
. B. Malinowski, Gli argonauti del Pacifico Occidentale (), Torino , p. .
. Ivi, pp.  e .
. Id., Teoria scientifica della cultura (), Milano , p. .
. Id., Giornale di un antropologo (), Roma . In proposito cfr. C. Geertz, “Dal pun-
to di vista dei nativi”: sulla natura della comprensione antropologica, in Id., Antropologia interpre-
tativa, cit.
. Barnard, Storia del pensiero antropologico, cit., p. .
. Radcliffe-Brown, Struttura e funzione della società primitiva, cit.; Id., Il metodo dell’an-
tropologia sociale (), Roma .
. Cfr. a riguardo M. Fioravanti, Appunti di storia delle costituzioni europee, Torino .
. Cfr. G. Arrighi, B. Silver, Caos e governo del mondo, Milano .
. Evans-Pritchard, I Nuer. Un’anarchia ordinata, cit.
. Barnard, Storia del pensiero antropologico, cit., p. .
. G. Valdevit, I volti della potenza. Gli Stati Uniti e la politica internazionale del Novecen-
to, Roma .
. T. Parsons, La struttura dell’azione sociale (), Bologna , p. .
. Id., Il sistema sociale (), Milano , p. .
. R. K. Merton, Teoria e struttura sociale (), Bologna .
. La categoria chiave di questo tipo di problematica è quella di empowerment. Cfr. C. Pic-
cardo, Empowerment. Strategie di sviluppo organizzativo centrato sulle persone, Milano .


. RISPOSTE CLASSICHE

 . Cfr. P.-N. Giraud, Qu’avons nous appris de cinq décennies de développement?, in


www.cerna.ensmp.fr.
. Cfr. la raccolta di saggi di T. Parsons, Comunità societaria e pluralismo, Milano .
. S. E. Morrison, H. S. Commager, Storia degli Stati Uniti (), Firenze , pp. -.
. Cfr. ad esempio G. Zincone (a cura di), Primo e Secondo rapporto sull’integrazione degli
immigrati in Italia, Bologna -.
. Per trattazioni sistematiche di questa impostazione problematica in lingua italiana cfr.: A.
Dal Lago, R. De Biasi, Un certo sguardo. Introduzione all’etnografia sociale, Roma-Bari ; G.
Gobo, Descrivere il mondo. Teoria e pratica del metodo etnografico in sociologia, Roma .
. W. I. Thomas, F. Znaniecki, Il contadino polacco in Europa e in America (), Milano
.
. N. Anderson, Il vagabondo (), Roma .
. R. S. Lynd, M. H. Lynd, Middletown (), Milano ; Idd., Ritorno a Middletown
(), Milano .
. W. F. Whyte, Little Italy. Uno slum italo-americano (), Bari .
. A. Dal Lago, R. De Biasi, Introduzione a Idd., Un certo sguardo, cit., p. XXIV.
. Izzo, Storia del pensiero sociologico, cit., pp. -.
. È un motto della scuola di Chicago ripreso da Dal Lago, De Biasi, Introduzione, cit.
. Secondo quanto diceva un autore come Georg Simmel, che, come altri sociologi tedeschi
tra Ottocento e Novecento, pensava che le scienze dello spirito dovessero provare a “rivivere” l’e-
sperienza dei soggetti da loro indagati. L’attuale etnografia d’ispirazione anglosassone riprende in
effetti anche questi temi accanto a quelli fenomenologici, oltre a quelli più prettamente empiristi.
. Dal Lago, De Biasi, Introduzione, cit.
. Su questo tema in campo filosofico sono imprescindibili W. Dilthey, Critica della ragione
storica (-), Torino  ed E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo
(-), Milano ; mentre, più in prossimità con le questioni proprie delle ricerche sociali,
cfr. A. Schutz, La fenomenologia del mondo sociale (), Bologna  e E. Goffman, La vita quo-
tidiana come rappresentazione (), Bologna .



Risposte più recenti

In filosofia è espressione corrente, ma di rado la si sente usare tra le scienze so-


ciali. Tuttavia, anche queste come quella sono state interessate dal grande som-
movimento che, specie nella seconda metà del Novecento, ha segnato tutti i
campi del pensiero e della conoscenza. Si tratta della “svolta linguistica”. Il fat-
to, cioè, che il linguaggio si sia imposto come questione prioritaria per ogni for-
ma di razionalità. Detto banalmente, è come se, nel corso del XX secolo, ma so-
prattutto a Seconda guerra mondiale finita, tra i paesi più ricchi del mondo,
nello stesso periodo in cui le differenze sociali e l’analfabetismo al loro interno
si riducevano come mai, avesse preso corpo e forza la convinzione che ogni co-
sa, ogni realtà, ogni evento muti radicalmente a seconda di come se ne parla; di
più: che pensare e conoscere è anzitutto pensare e conoscere il linguaggio, in
quanto elemento primo di ogni pensiero e di ogni conoscenza.
La particolarità di tale questione per le scienze sociali sta nel fatto che essa
impone al ricercatore un ripensamento sul suo stesso linguaggio, non solo su
quello che si trova davanti, quello parlato dalla popolazione su cui la ricerca è
condotta; ma soprattutto sul rapporto tra il proprio linguaggio da esperto e
quello di altri non esperti nel suo stesso sapere. Già negli anni Dieci del Nove-
cento Malinowski, ad esempio, notava quanto l’interiorizzazione del linguag-
gio dei trobriandesi avesse mutato il senso delle sue ricerche. Se uno dei capi-
toli più importanti del suo Argonauti del Pacifico Occidentale è intitolato Kula,
è proprio perché il senso di questo sistema di scambi è intraducibile con qual-
siasi espressione esistente nelle lingue indoeuropee. Il fatto stesso che, per trat-
tarne, Malinowski decida di nominare questo sistema con l’espressione tro-
briandese, mostra una prima decisa apertura del linguaggio delle scienze sociali
nei confronti del linguaggio naturale. Quel che chiamo la svolta linguistica, che,
come detto, si imporrà in tutta la sua ampiezza solo più tardi, porterà alle estre-
me conseguenze tutte le questioni che i ricercatori sociali avevano già toccato
sperimentando, al di là dei problemi di traduzione tra lingue diverse, quanto la
loro scienza restasse sempre debitrice del più puro e semplice linguaggio, qua-
le quello usato da popolazioni senza sapere scientifico.
Nel far valere l’importanza universale di tale dimensione, ha contribuito
una scienza particolarmente sviluppatasi nel Novecento e che è appunto la


VA L E R I O R O M I T E L L I

scienza del linguaggio. Ad aprire questo percorso sta il Corso di linguistica ge-
nerale, costituito da note prese da allievi, durante i corsi tenuti tra il  e il
 e pubblicato postumo a Parigi nel , ma divenuto noto anche fuori del-
le cerchie dei linguisti solo negli anni Sessanta. In tale testo il suo autore, Fer-
dinand de Saussure, propone una grammatica comparativa fondata su una teo-
ria dei “fonemi” e dei rapporti tra il suono e la parola, tra il significante e il si-
gnificato. Così si arriva a formalizzare la matrice del sanscrito fino al punto di
potere produrre regole e parole prima del tutto sconosciute, ma con ogni pro-
babilità utilizzate dalle lingue indoeuropee di tempi oramai del tutto remoti e
neanche storicamente situabili. Un’impresa, questa della scienza del linguag-
gio, fondata essenzialmente su ricerche grammaticali, che ha continuato ad ave-
re svariati e proficui sviluppi nel corso del secolo. Tra di essi, campeggia il pro-
getto universalistico, nel corso degli anni Sessanta, della “grammatica genera-
tiva” di Noam Chomsky, il quale ha tentato di formalizzare un’unica matrice di
tutti i linguaggi possibili, nell’ambiziosissimo, e discutibile, intento di potere
così contribuire anche allo studio neuro-biologico delle funzioni cerebrali.
Senza entrare nel merito degli infiniti altri e straordinari sviluppi della lin-
guistica novecentesca, c’è un punto che qui interessa particolarmente. Il fatto
che questi sviluppi hanno tratto le loro maggiori risorse non dalla semantica o
dalla sintassi, ma dalla grammatica in rapporto con la fonetica. Di più: che le
prime e più importanti scoperte non hanno riguardato le regole dei rapporti
tra le parole e i loro significati, bensì la dimensione del “fonema”, ossia lad-
dove la parola è ancora a livello significante, prima di divenire un significato
tra i significati. In effetti, nelle ricerche sulle lingue indoeuropee, anche l’in-
novazione decisiva, costituita dall’individuazione di regole comuni a tali lin-
gue, è stata possibile solo grazie alla fissazione di corrispondenze fonetiche.
Intendendo con ciò quelle che, ad esempio, danno come risultato l’etimo in-
doeuropeo *pHater, il quale altro non è che il prodotto dalla comparazione tra
il latino pater, il greco πατήρ, il sanscrito pitar- e il germanico Vater. Decisi-
vo è capire che “dietro” questo etimo, come qualsiasi altro, non sta nulla, se
non la stessa operazione della grammatica comparativa che lo crea. In altri ter-
mini, perché un padre viene chiamato “padre”? O un cavallo, “cavallo”? So-
no domande destinate a restare comunque senza risposta. Ciò semplicemente
perché il rapporto tra il significante e il significato è di per sé insondabile, pu-
ramente casuale o, come dice lo stesso de Saussure, “arbitrario”. Il che com-
porta che tra fonetica e grammatica non si dà alcuna regola, quale invece si dà
nelle implicazioni sintattiche e semantiche della grammatica. Il significante,
dunque, come pura possibilità di incontro tra il semplice suono e il suono con
funzione di linguaggio. Sarà proprio da qui, da questa categoria del signifi-
cante, che nell’acme della “svolta linguistica”, dagli anni Cinquanta agli anni
Settanta, Jacques Lacan prenderà le mosse per rinnovare la problematica del-
l’inconscio della psicoanalisi di Freud.


. RISPOSTE PIÙ RECENTI

Nelle scienze sociali è invece prevalso un orientamento opposto. Tale


orientamento è consistito nell’accogliere la “svolta linguistica” come se essa
ponesse il problema di studiare la realtà sociale cercando soprattutto di leg-
gervi regole di tipo sintattico e semantico. Da questo punto di vista, si può di-
re che la società appare come un “grande libro”, proprio allo stesso modo in
cui si parla del “grande libro della natura”: l’una come l’altra da decodificare
secondo le loro stesse regole. Questo prevalere tra le scienze sociali di un’in-
terpretazione in senso sintattico e semantico della svolta linguistica ha una sua
spiegazione. Si può infatti dire che in tal modo esse hanno potuto restare an-
che nella seconda parte del Novecento in continuità col retaggio della loro tra-
dizione ottocentesca. Di quella tradizione evoluzionistica e storicistica che ha
sempre trattato la società come una “seconda natura”, condizionata dalle ne-
cessità della prima. Così, la svolta linguistica tra le scienze sociali si è potuta
molto spesso ridurre a una sorta di conversione di ciò che evoluzionismo e sto-
ricismo ponevano come leggi (dell’evoluzione e della storia) in regole di tipo
sintattico e semantico, la cui origine viene ricondotta all’esistenza di conven-
zioni sociali. Se nel primo caso le leggi venivano giustificate in nome dei biso-
gni naturali della società, nel secondo caso le regole sociali vengono giustifi-
cate in nome delle convenzioni imposte dal senso comune. Insomma, dalle leg-
gi alle regole, dai bisogni alle convenzioni, dalla natura al senso comune: que-
sti tra i maggiori spostamenti tematici nei quali si è ridotto l’impatto della svol-
ta linguistica sulle scienze sociali. Grazie a tale riduzione la realtà sociale ha
continuato a venire presentata e studiata come intimamente determinata da
vincoli oggettivi.
Tuttavia, questa idea oggi diffusa che la realtà sociale, se non risponde a leg-
gi dell’evoluzione o della storia, è quantomeno regolata da convenzioni, rap-
presenta un uso estensivo del tutto improprio del concetto grammaticale di re-
gola, che resta il più scientificamente fondato e da cui le stesse scienze sociali
novecentesche hanno preso più o meno direttamente ispirazione.
Per arrivare subito al nocciolo della questione, basti solo una brevissima ri-
flessione sulle funzioni delle grammatiche. Tutte quelle più comunemente in
uso hanno essenzialmente due ragioni d’essere: da un lato, censire le moltepli-
ci possibilità di significanti che sono le parole, per stabilirne gli usi prevalenti
relativamente a un determinato tempo; usi peraltro sempre assai variabili, visto
l’incessante afflusso di neologismi e l’altrettanto incessante deflusso di arcaismi
all’interno di ciascuna lingua. Dall’altro, stabilire delle misure, ovvero delle re-
gole all’interno dei rapporti mediamente utilizzati tra le parole.
Dal che si può trarre la conseguenza che qui interessa più direttamente:
la grammatica, quand’anche sia intesa come scienza, non può stabilire rego-
le cogenti come leggi, ma solo regole come misure per un migliore utilizzo del
linguaggio. Regole, il cui rispetto resta sempre nell’ordine del possibile, ma
non del necessario. Tant’è che nella società a un uso sgrammaticato del lin-


VA L E R I O R O M I T E L L I

guaggio in genere non segue alcuna punizione, salvo quelle, peraltro assai
modeste, che sono inflitte laddove, come nella scuola, l’uso scorretto della
grammatica è sanzionato. Così, la scelta stessa di una parola piuttosto che
un’altra resta sempre del tutto soggettiva, nell’ordine del possibile, ma al tem-
po stesso decide di come chi l’enuncia diventi soggetto d’enunciazione, ov-
vero decide della realizzazione delle possibilità intrinseche alla potenza si-
gnificante della parola.
Nulla, dunque, giustifica che la regola in senso linguistico, cioè grammatica-
le, possa venire assunta come modello di riferimento per individuare delle rego-
le sociali. Se le scienze sociali devono tenere conto delle scoperte prodotte dalle
scienze del linguaggio, non è affatto obbligatorio trarne l’idea che la realtà socia-
le sia da leggere come una sintassi, né tantomeno come una semantica vincolata.
Più giustificato è invece trarre insegnamenti dalla categoria del significan-
te per cercare come e quale realtà sociale venga resa possibile dall’uso sogget-
tivo di certe parole piuttosto che di altre.
Tornando al senso che la svolta linguistica ha avuto per le scienze sociali, si
può concludere che esso è stato assunto da esse in due direzioni. Da un lato,
quella dominante, che, curandosi anzitutto di regole sintattiche e di conse-
guenze semantiche, ha assunto il linguaggio come necessità del sociale, come
una sua funzione più o meno fondamentale. Dall’altro, quella che, più attenta
alle effettive novità apportate a tale svolta, ha assunto il linguaggio come risor-
sa, come miniera inesauribile di possibilità significanti e soggettive all’interno
del sociale.
Quest’ultima è la direzione entro cui si situano le nostre stesse ipotesi.

Ritorniamo ora alle nostre tre domande: a) cos’è la società? b) Perché stu-
diarla? c) Come studiarla? Se, pur nella loro rudimentale semplicità, esse han-
no una loro utilità per testare i paradigmi più classici delle scienze sociali, non
è più così in riferimento alla svolta linguistica. Per seguire, sia pur sempre a
grandi linee schematiche, come le scienze sociali abbiano affrontato tale svol-
ta dopo la metà del Novecento, occorre riformulare le domande. Invece di
chiedere loro cos’è la società, perché e come studiarla, è più appropriato por-
re loro domande come: che effetti ha il linguaggio sulla società? Perché e co-
me studiarli? Dovrebbe essere evidente infatti che, dal momento in cui il lin-
guaggio emerge come questione cruciale anche per il sociale, tutto quello che
è stato detto e scritto a suo riguardo, tutto il linguaggio che lo ha riguardato,
va rimesso in discussione. La questione diventa, quindi, come ripensare le
scienze del sociale, le loro finalità, i loro modi di ricercare, dopo la svolta lin-
guistica. L’alternativa di fondo è: o riconfermare l’essenziale di ciò che se ne
sapeva anche prima o cercare nuovi modi di sapere.
Come si vedrà, la prima soluzione sta essenzialmente nel considerare il lin-
guaggio in modo strumentale. Il che significa ritenere che, per dar spazio alla


. RISPOSTE PIÙ RECENTI

svolta linguistica, le scienze sociali debbano sì studiare con maggiore attenzio-


ne gli effetti propri del linguaggio, ma che per farlo sia loro sufficiente consi-
derarlo uno strumento rispondente a necessità e fini sociali già noti e studiati.
Nel PAR. a sarà quindi illustrato, in tre punti (a., a., a.), come è proprio
assumendo una visione strumentale del linguaggio che le impostazioni, già vi-
ste nel capitolo precedente, del classismo, del funzionalismo e dello struttural-
funzionalismo, ma anche, almeno in parte, dell’etnometodologia nordamerica-
na, possono continuare a far ricerca più o meno sulle stesse rotte intraprese al-
le loro origini tra Ottocento e Novecento.
Della seconda soluzione che assume la svolta del linguaggio in senso più in-
novativo verranno invece mostrati due orientamenti maggiori.
Il PAR. a è dedicato al primo, corrispondente a ciò che è noto come lo strut-
turalismo francese tra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento. A questo
proposito saranno menzionate soprattutto le straordinarie e sofisticate ricerche
volte ad analizzare il sociale per trovarvi quali profondi e duraturi vincoli gli
imponga il linguaggio. Annotazioni particolari saranno dedicate ai due studi
esemplari: sul mito di Edipo da parte di Lévi-Strauss (a.) e sulla categoria del
tempo in Edmund Leach (a.).
Il PAR. a è dedicato a un secondo orientamento nel modo di recepire la
svolta linguistica da parte delle scienze sociali. Tale orientamento viene rin-
tracciato trasversalmente a diverse impostazioni metodologiche, dall’ipotesi
Sapir-Whorf e dall’etnometodologia di Harold Garfinkel e Roy Turner all’an-
tropologia interpretativa di Clifford Geertz e all’antropologia del nome di Syl-
vain Lazarus. In questo svariato ed eterogeneo campo problematico verrà in-
dividuato un tema decisivo anche per le nostre ipotesi. Quello di assumere il
linguaggio in quanto tale, il linguaggio naturale come risorsa di infinite possi-
bilità di agire, pensare e conoscere la realtà sociale, cui le stesse scienze sociali
possono aprirsi senza dover sempre restare per forza trincerate nei loro meta-
linguaggi da esperti (in a.). A chiarimento di questo punto si discuterà del-
l’alternativa tra la categoria d’origine anglosassone di “performance” e quella
d’origine francese di “prescrizione” (in a.).
Il PAR. a. tratterà della semiotica a partire dall’opera di uno dei suoi mag-
giori epigoni, Roland Barthes. Se ne sottolineerà (in a.) il ruolo egemone ot-
tenuto tra le scienze sociali a partire dagli anni Settanta del Novecento e ne
verrà criticata la tesi secondo cui “tutto è segno” e quindi “tutto è linguaggio”.
Annotazioni particolari saranno quindi (in a.) dedicate alla categoria di si-
stema, del sociale come sistema, quale la semiotica ha contribuito a rilanciare.
Infine, col PAR. a sarà esaminata la tematica tutt’oggi dominante, quella
delle identità comunitarie, in cui verrà polemicamente riconosciuta una pro-
pensione regressiva.
Nella seconda parte (b) di questo stesso capitolo si affronterà la questione
del perché, a quali condizioni e per quali scopi politici le scienze sociali, nel cor-


VA L E R I O R O M I T E L L I

so del Novecento abbiano prestato tanta attenzione alle questioni del linguag-
gio. L’importanza dei partiti e dei regimi partitici sarà particolarmente messa in
evidenza, ma attribuendo anche una rilevanza epocale all’evento Sessantotto
nei rapporti tra il linguaggio, il sociale e la politica.
Il capitolo si concluderà con una terza parte (c) nella quale verranno esa-
minati i problemi di metodo che si pongono con l’apertura delle scienze socia-
li verso il linguaggio naturale.

a
Il linguaggio come strumento

In generale si può dire che le scienze sociali hanno reagito alle nuove questioni
poste dalla svolta linguistica rettificando ad hoc risposte già date: date cioè quan-
do il linguaggio nelle scienze sociali era semplicemente usato come uno stru-
mento, senza metterlo in discussione. Così, il modo più semplice di affrontare
la svolta linguistica è consistito nello studiare gli effetti del linguaggio sul socia-
le, senza rimettere in discussione i modi già acquisiti di conoscere il sociale.

a.. Anche Stalin sulla linguistica

Quanto mai paradigmatico è ciò che avviene a questo proposito, nell’ambito


delle scuole di pensiero classiste, fondate cioè sull’idea secondo cui il destino
di ogni società è deciso dalla lotta di classe. Lo stesso leader del comunismo
mondiale, Stalin, che certo genio scientifico non era, nel , in piena guerra
fredda, si sente di dire la sua a proposito delle nuove questioni del linguaggio.
Così, arriva a redigere un testo a diffusione universale, Marxismo e questioni
linguistiche, in cui, pur riaffermando i principi del materialismo storico e dia-
lettico, si cura di metterli a confronto con le questioni poste dalle ricerche dei
linguisti sovietici. Le necessità storiche oggettive della lotta di classe e del suo
esito comunista si trovano così ad accompagnarsi, senza sovrapporvisi, alle ne-
cessità storiche dello sviluppo delle lingue. Il linguaggio, dunque, come stru-
mento rispondente a necessità sociali diverse, ma non escludenti quelle della
lotta di classe.

a.. L’interazionismo simbolico

Sia pur in tutt’altra temperie e con ben altre conseguenze, anche il funzionali-
smo e lo struttural-funzionalismo d’area anglosassone propendono per soluzio-
ni meno diverse di quanto si può credere. Il linguaggio viene infatti da essi con-
siderato per lo più alla stregua di altre funzioni sociali; come esse, rispondente
alle necessità oggettive e naturali di ciascun individuo. Per studiare gli effetti del
linguaggio sulla società anche in quest’ottica non occorre ripensare la stessa so-


. RISPOSTE PIÙ RECENTI

cietà e il modo di farvi ricerca, basta estendere e precisare le idee disponibili:


quelle formulate prima che l’importanza della questione del linguaggio si impo-
nesse. Lo si trova confermato anche nelle enciclopedie che a un certo punto,
nel corso del secolo passato, tra le scienze sociali ci si è accorti che a far la diffe-
renza tra “natura” e “cultura” è appunto il linguaggio. Ciò vuol dire, da un pun-
to di vista evoluzionista e funzionalista, che la società altro non è che una “se-
conda natura”, diversa dalla “prima”, quella “naturale”, solo perché “coltivata”:
coltivazione di cui il linguaggio è strumento. Insomma, l’umanità resterebbe es-
senzialmente eguale a se stessa, sia in natura che in cultura, salvo il fatto che nel-
la seconda userebbe strumenti di cui nella prima non sarebbe dotata. Cosicché,
ogni spiegazione, tanto della società quanto del linguaggio, sarebbe sempre da
cercarsi tra i bisogni e le necessità naturali dell’umano.
Il fatto è che tra le scienze sociali d’area anglosassone la questione del lin-
guaggio si impone precocemente, senza riferimenti a ricerche propriamente
linguistiche, ma sotto l’influenza del pragmatismo filosofico di John Dewey,
nonché della psicologia evoluzionista e fisiologica di Max W. Wundt. Questi,
l’uno nordamericano, l’altro tedesco, sono due riferimenti decisivi per l’ope-
ra, Mente, sé e società, che esce postuma nel , raccolta delle lezioni tenu-
te fin dai primi del secolo presso l’università di Chicago da George H. Mead,
la cui impostazione della questione del linguaggio farà scuola per ogni versio-
ne del funzionalismo, fino praticamente ai nostri giorni. Nel  Herbert Blu-
mer, trattando di questa impostazione, le attribuì un’etichetta che ha avuto
grande fortuna: “interazionismo simbolico”. Esso, secondo la versione di que-
sto autore,

si fonda in ultima analisi su tre semplici premesse. La prima […] è quella secondo cui
gli esseri umani agiscono nei confronti delle cose (oggetti fisici, altri esseri umani, isti-
tuzioni o idee guida come la libertà) sulla base dei significati che tali cose hanno per lo-
ro. […] La seconda premessa è che il significato di tali cose è derivato dall’interazione
sociale che il singolo ha con i suoi simili o sorge da essa. La terza premessa è che que-
sti significati sono elaborati e trasformati in un processo interpretativo messo in atto da
una persona nell’affrontare le cose in cui si imbatte.

Per quel che qui interessa, una delle novità maggiori dell’interazionismo simbo-
lico sta nel suo attribuire al linguaggio la capacità di creare la realtà sociale. Il che
parrebbe una vera e propria anticipazione della svolta linguistica. Ma non è esat-
tamente così. Infatti, in Mead l’affermazione della creatività del linguaggio non
si fonda su un’analisi dello stesso linguaggio, né ad esso viene assegnato un ri-
lievo problematico a sé stante. Quel che interessa sono solo i suoi effetti utili a
confermare e arricchire una visione del sociale fisiopsicologica e pragmatica.
Una visione cioè per la quale ogni possibilità di pensiero e d’azione soggettiva
conta solo se oggettivamente necessaria, funzionale a qualche finalità già data e


VA L E R I O R O M I T E L L I

conosciuta, quantomeno per il ricercatore. Al centro dell’attenzione non sono


gli effetti del linguaggio sul sociale, ma il linguaggio pensato come strumento che
rende le interazioni tra individui necessarie allo stesso modo di quelle naturali.
Il punto di partenza di tutto il ragionamento è quanto mai biologistico, natura-
listico: gli esseri umani sono considerati sullo stesso piano di qualsiasi altro or-
ganismo. L’origine del linguaggio è ricondotta alle reazioni che ha un qualsiasi
“organismo”, animale o umano poco conta, nei confronti di qualsiasi altro. È a
questa reazione che viene attribuita la capacità di dar significato ai gesti: così co-
me la fuga di un animale rispetto a un altro implica che il primo dà il significa-
to di minaccia al secondo. Il linguaggio non sarebbe allora che un insieme di si-
gnificati resi necessari dall’interazione di ogni individuo con altri. Un’interazio-
ne che, nel caso degli individui pensanti, può anche essere indiretta, determina-
ta dalle necessità psicologiche, e non solo semplicemente fisiologiche, in rela-
zione con gli altri. È qui che diviene decisiva la categoria dei simboli. Essi sa-
rebbero i significati del linguaggio utilizzati nell’interazione di ogni individuo
cosciente nei confronti degli altri. La società stessa allora non sarà che la realtà
creata dai simboli condivisi, dal “senso comune” che lega necessariamente co-
me un organismo naturale tutti gli individui che lo compongono.
Come giustamente osserva Izzo, anche se in un senso del tutto divergente
dal mio, possiamo qui riconoscere il tema del “senso comune”, già fondamen-
tale per Max Weber, del resto quasi contemporaneo di G. H. Mead, ma anche
per il successivo Parsons. In effetti, questo tema è obbligatorio ogni volta che,
diversamente dalle nostre ipotesi, si parte dalle questioni delle possibilità sog-
gettive solo per arrivare a stabilire quali sono le loro necessità oggettive; detto
altrimenti, quando il soggettivo non interessa che come assoggettamento all’og-
gettivo. Di questo tipo di dialettica tra soggettivo e oggettivo, già rintracciabi-
le nelle origini ottocentesche del classismo, dell’evoluzionismo, come dello
stesso funzionalismo, l’“interazionismo simbolico” offre solo una versione ag-
giornata. Una versione che, come si è appena visto, anticipa già negli anni Tren-
ta temi che nel giro di un ventennio saranno propri della svolta linguistica, ma
che, proprio perciò, resterà sempre in esteriorità alle questioni più profonde
aperte da quest’ultima.

a.. L’etnometodologia

Negli anni Sessanta non mancano comunque diversi interessanti tentativi di un


maggiore approfondimento in questo senso. Uno dei più importanti è rappre-
sentato dal programma di ricerche microsociologiche proposte da Harold Gar-
finkel sotto il nome dell’“etnometodologia”. Pur mantenendosi in fondo fe-
dele alle premesse dell’interazionismo simbolico e dell’etnologia anglosassone,
egli lo porta alle estreme conseguenze nel sostenere e nel comprovare con ri-
cerche sul campo la capacità del linguaggio di creare realtà sociale. Egli conte-


. RISPOSTE PIÙ RECENTI

sta infatti che tale realtà possa essere ricondotta ai simboli del senso comune, e
quindi spiegata in base a necessità psicologiche, fisiologiche e macrostruttura-
li. Tesi centrale è, detta in termini semplificati, che la realtà delle situazioni so-
ciali organizzate è quella di cui rende conto chi agisce in tale situazione. Ogni
situazione è pensata come frame, cioè come cornice simbolica, di cui alcuni sim-
boli hanno capacità “indicali” cioè di essere indici di realtà. L’analisi di tali in-
dici può avvenire solo laddove si realizzino pratiche di organizzazione – come
ad esempio le procedure diagnostiche e terapeutiche di ospedali psichiatrici al-
le quali sono state dedicate pionieristiche ricerche etnometodologiche. L’uso
corrente del linguaggio, dove e come esso è effettivamente utilizzato, diviene
così fonte privilegiata della conoscenza sociale. Quindi pare ci si orienti deci-
samente verso la ricerca degli effetti del linguaggio sul sociale. Ma non è esat-
tamente così. Garfinkel, restando fedele alla problematica della “vita quotidia-
na”, è da essa che trae i suoi indici. L’etnometodologia non sfugge infatti al di-
fetto già riscontrato nell’etnologia in genere e che consiste nel non distinguere
tra i casi di studio di indubbio interesse, come appunto quelli degli ospedali
psichiatrici, e quelli decisamente frivoli rappresentati dalle più banali conver-
sazioni domestiche. Nel rivelarne i paradossi impliciti, nel portare fino alle
estreme conseguenze le loro inavvertite assurdità, Garfinkel e i suoi allievi era-
no convinti di poter scoprire qualcosa di molto importante: che, una volta ri-
velata la loro insensatezza, i modi di dire del senso comune rivelano degli indi-
ci reali delle situazioni sociali in cui sono utilizzati. Ma una tale convinzione in
fondo riposa su un assunto dell’interazionismo simbolico per nulla innovativo:
quello secondo cui l’uso dei simboli risponda sempre a ben precise necessità,
più che mai oggettive: quelle, appunto, della vita quotidiana.
Resta comunque interessante l’idea di Garfinkel secondo cui la realtà so-
ciale è conoscibile solo tramite indici, da trovare e analizzare nel linguaggio. Per
svilupparla al meglio, per trarre le sue conseguenze oltre la svolta linguistica,
occorre rinunciare alla convinzione, oramai superata, che al fondo della realtà
sociale ci sia un serbatoio di necessità naturali alle quali sono facilmente ricon-
ducibili gli indici del linguaggio. Una rinuncia, questa, cui si deve accompa-
gnare la sfida a pensare la realtà sociale come posta in gioco e arena di diverse
possibilità create nel linguaggio e indicate da esso. Come la ricerca può proce-
dere in questo senso lo si vedrà in seguito.

a
Il linguaggio strutturante

«Nell’ambito delle scienze sociali, al quale indiscutibilmente appartiene, la lin-


guistica occupa tuttavia un posto eccezionale: non è una scienza sociale come le
altre, ma quella che di gran lunga ha compiuto i maggiori progressi». E anco-
ra: «Quando un evento di tale importanza ha luogo in una scienza dell’uomo, i


VA L E R I O R O M I T E L L I

rappresentanti delle discipline limitrofe non solo possono, ma debbono verifi-


carne subito le conseguenze e la possibile applicazione a fatti d’altro ordine».
Queste le idee del padre dell’antropologia strutturale. Si tratta di Claude
Lévi-Strauss, che tra i suoi maestri annovera anche Franz Boas e che, come que-
sti, è stato uno straordinario ricercatore sul campo. Essenziale per la sua im-
postazione problematica è il libro del  da cui sono tratti i passi ora citati,
dove sono anche riportati alcuni risultati dei seminari condotti a New York as-
sieme a Roman Jakobson, già fondatore nel  del famoso Circolo linguisti-
co di Praga.
Qui scienze sociali e scienza del linguaggio si confrontano direttamente.
Strutturalismo significa anzitutto questo. E la Francia tra gli anni Cinquanta e
Settanta ne sarà la patria, sia pur con infiniti e duraturi echi planetari. In psi-
coanalisi, come già accennato, si dovranno a Jacques Lacan ricerche in questo
stesso senso, che approderanno a ripensare la problematica dell’inconscio e dei
malesseri mentali nel solco aperto da Freud, ma sviluppato ulteriormente nei
termini di una inedita “logica del significante”.
Per quanto riguarda le ricerche più propriamente dedicate al sociale, va
notato come l’orientamento strutturalista vada in direzione assai diversa da
quella dell’interazionismo simbolico. Se quest’ultimo obbliga a pensare il lin-
guaggio come strumento i cui effetti sono in un rapporto più o meno diretto
con la natura e gli organismi che interagiscono tra loro, tutt’altra è l’impo-
stazione di Lévi-Strauss. Ed è importante sottolineare questa distanza di me-
todo proprio perché grandi antropologi contemporanei come Edmund Lea-
ch e Clifford Geertz la superano senza dar conto di quanto in essa ci sia
ancora da imparare.
Punto distintivo di un approccio strutturalista come quello di Lévi-Strauss è
lo studiare gli effetti sociali del linguaggio, prescindendo da qualsiasi particolare
situazione di interazione, per analizzarli al di là del tempo e dello spazio, o me-
glio in modo tale da abbracciare sequenze temporali e zone geografiche dalle
estensioni pressoché incommensurabili. Esemplare, da questo punto di vista, co-
me vedremo tra poco, è lo studio di quelle singolari configurazioni narrative del
linguaggio che sono i miti, specie quelli tanto potenti, come l’Edipo, da attraver-
sare più epoche e più continenti lasciando una loro impronta in infiniti rapporti
sociali. Ma, per fare ciò, lo studio del linguaggio deve esaminare anzitutto i si-
gnificanti e il loro latente concatenarsi prima ancora di diventare significati espli-
citi, fruibili come strumenti di comunicazione. La struttura che lo strutturalismo
rivendica allude proprio ai contenuti impliciti che il linguaggio cela condizio-
nando il sociale sempre di più e altrimenti rispetto a quanto risulta nell’intera-
zione nonché nella comunicazione. La grande novità degli approcci che sono ri-
conducibili allo “strutturalismo” francese è quindi consistita nel fare un passo in-
dietro rispetto al considerare il linguaggio anzitutto per i significati che esso as-
sume in rapporto al sociale. La svolta linguistica qui acquista il senso più profon-


. RISPOSTE PIÙ RECENTI

do di uno scendere nei recessi significanti del linguaggio per trovare i suoi con-
dizionamenti di lunga durata su vaste molteplicità di realtà sociali.

a.. L’Edipo

Quanto mai esemplare da questo punto di vista è come Lévi-Strauss fa proce-


dere la sua analisi del mito di Edipo. Al centro dell’attenzione non è una qual-
che sua versione particolare, storicamente situabile, ma le parole, le frasi, i fram-
menti narrativi che lo evocano e che sono rintracciabili nella più ampia gamma
delle sue interpretazioni censibili, dall’antichità addirittura fino ai giorni nostri.
«La nostra proposta – dice chiaramente Lévi-Strauss – è […] definire ogni mi-
to in base all’insieme di tutte le sue versioni». Tant’è che, per studiare quello di
Edipo, egli tiene conto dei più svariati riferimenti: dalla versione originaria, do-
vuta alla tragedia di Sofocle, all’interpretazione da cui Freud ha ricavato uno dei
concetti centrali della sua teoria dell’inconscio. La struttura, dunque, come
struttura di ciò che nel linguaggio ritorna, si ripete, si dà come concatenarsi ri-
petitivo di significanti. Così risulta che, all’interno delle complesse e controver-
se versioni che sono state offerte del racconto del personaggio Edipo, è indivi-
duabile un va e vieni del senso, un’ambiguità fondamentale dei significati.
Un’ambiguità che si può riassumere nella domanda: “il medesimo nasce dal me-
desimo o da altro?”. Un interrogativo che rivela al fondo la difficoltà di «capi-
re come uno possa nascere da due: come avviene che non abbiamo un solo ge-
nitore, ma una madre più un padre». La complessa argomentazione con cui
Lévi-Strauss giunge a questa conclusione ha due passaggi decisivi. Da un lato,
egli ricorda la credenza diffusa nella Grecia del tempo di Sofocle nell’autocto-
nia dell’uomo, nel fatto cioè che la sua origine venisse da madre Terra. Dall’al-
tro, egli nota che il nome Edipo, come quello di suo padre e di suo nonno, evo-
cano tutti un rapporto irrisolto con la terra, ovvero una difficoltà a reggersi in
piedi (Edipo=“piede gonfio”; Laio, suo padre =“sbilenco”; Labdaco, suo non-
no =“zoppo”). Dal che si ricava che tutte le peripezie di questi personaggi, tra
cui stermini, amori, uccisioni di mostri, enigmi, autoaccecamento, nonché, e non
da ultimo, l’incesto, ruotano attorno al dilemma sulle possibilità o meno dei sog-
getti umani di separarsi, di differenziarsi dalle necessità imposte dal destino na-
turale. Detto altrimenti, Edipo come emblema del fatto che la differenza tra l’u-
mano e il bestiale non è mai decisa una volta per tutte.
Da ciò vanno tratte almeno tre considerazioni decisive per le nostre stesse
ipotesi di ricerca etnografica.
In primo luogo, occorre riconoscere che nei pressi del suono delle parole,
degli enunciati, dei frammenti dei discorsi c’è sempre una riserva significante,
delle possibilità a significare, le quali si ripetono, ritornano, indipendentemen-
te dal significato loro attribuito da qualsiasi discorso, narrazione o interazione
comunicativa, per quanto siano ben formate, corrette, convincenti, convenzio-


VA L E R I O R O M I T E L L I

nalmente accettate: insomma, occorre assumere fino in fondo l’idea che le pa-
role spesso contano più dei discorsi, lo si voglia o no.
In secondo luogo, ammettere l’esistenza nel sociale di strutture significan-
ti ripetitive, le quali comunque non si piegano facilmente a ogni loro uso di-
scorsivo, narrativo o comunicativo, non equivale affatto a sostenere che tali
strutture facciano ostacolo alle decisioni soggettive, a un uso singolare del lin-
guaggio; tutto al contrario, la lezione di Lévi-Strauss appena citata dimostra
proprio l’ambiguità costitutiva di ogni struttura significante, la sua sempre co-
stante apertura polisemica a diverse interpretazioni. Come dire, con una bat-
tuta: se tutti abbiamo a che fare con l’“Edipo”, ognuno ce l’ha a suo modo.
In terzo luogo, soppesiamo una differenza cruciale tra l’approccio struttu-
ralista e l’approccio funzionalista alla questione degli effetti sociali del linguag-
gio. Quest’ultimo approccio, come si è accennato, ammette certo che il lin-
guaggio può creare una realtà sociale, ma questa stessa viene concepita come
una variante della realtà oggettiva, esistente indipendentemente dal linguaggio
stesso. Ad esempio, l’etnologia all’americana sostiene sì che le pratiche sociali
più ordinarie producano la realtà della “vita quotidiana” in cui si svolgono, ma
ciò ha senso solo se si suppone che la realtà sociale, indipendentemente da quel
che se ne dice, sia oggettivamente la realtà della vita quotidiana. Sono quindi le
necessità di questa vita a verificare ciò che il linguaggio realizza; ovvero la sua
funzionalità; ovvero il suo essere strumento adeguato a scopi reali. Insomma, è
il fine oggettivo (la vita quotidiana) che giustifica il mezzo soggettivo (il lin-
guaggio). Lo strutturalismo dispone la questione in tutt’altro modo. Esso po-
stula che esista una potenzialità del linguaggio, come ad esempio quella evoca-
ta dal mito di Edipo, che persiste, che si ripete, indipendentemente dagli usi
che se ne fanno. Soggetti e fini qui sono esclusi. Concepire i processi storici e
sociali senza soggetto né fine è esattamente una prescrizione di Althusser, il
quale deve la sua grandezza proprio all’aver tentato di combinare marxismo e
strutturalismo. Si tratta dunque di un oggettivismo estremo, ma tutto incen-
trato sul linguaggio. Un linguaggio concepito sì come necessità inaggirabile, ma
dal senso costituzionalmente ambiguo, polisemico, mai univoco, sempre da de-
cidere in ogni situazione concreta.
È proprio qui che lo strutturalismo raggiunge i suoi limiti. Ciò per cui lo
strutturalismo è stato criticato, anche per vie interne, fino ad esaurirne le ca-
pacità propositive, è stato proprio il fatto di non confrontarsi mai con le possi-
bili realizzazioni concrete, soggettive, delle potenzialità del linguaggio. Non è
forse solo per caso che Parigi, già culla dello strutturalismo, lo sia anche stata
di un Sessantotto particolarmente intenso, il fatidico e infuocato “maggio”. In
ogni caso, tutto lo scatenamento di energie soggettive innescate da questo even-
to ha come fatto esplodere lo stesso strutturalismo. Dopo di che è venuta la
gran fama a livello d’opinione, ma anche scarse innovazioni a livello di ricer-
ca. L’eredità lasciata però persiste tutt’oggi. E sta nella rottura con ogni dia-


. RISPOSTE PIÙ RECENTI

lettica tra oggettività e soggettività, nell’avere aperto una prospettiva per la qua-
le non c’è oggettività sociale prima, dopo o comunque fuori del linguaggio.
Il che vuol dire, tanto per riprendere un esempio già evocato, che oggi la
realtà della fame nel mondo non dipende da necessità naturali, quali le caren-
ze globali di cibo o l’impossibilità materiale di fornire mezzi per sviluppare le
economie arretrate, ma da quel che è detto di questo fenomeno: basterebbe in-
fatti che i paesi ricchi proclamassero misure pertinenti perché il problema fos-
se risolto; e con quali misure potrebbe esserlo è sempre questione da discute-
re, quali che siano gli interessi difesi. A questo proposito lo strutturalismo in-
segna a non supporre alcuna evidenza di tali interessi e a fare attenzione a qua-
le linguaggio, a quali parole sono presentate a loro difesa. Questo nella con-
vinzione che non si possano distinguere i buoni e i cattivi interessi, se non a par-
tire da quel che si dice in loro nome. Se, ad ulteriore esempio, l’interesse che si
dice di difendere è quello dell’intera “umanità”, non si può non tenere conto
di tutte le critiche che gli strutturalisti hanno rivolto all’equivocità naturalisti-
ca di ogni terminologia “umanistica”.

a.. L’equivocità del tempo

Altra questione cruciale aperta nelle scienze sociali dall’approccio struttura-


lista riguarda la categoria del tempo. Una delle critiche più insistenti che è
stata rivolta a questo approccio gli ha imputato di negare la storia, e con es-
sa il principio stesso dell’evoluzione, e quindi ogni distinzione tra progresso
e regresso. In effetti, la struttura per lo strutturalismo è analizzabile facendo
il più possibile astrazione da ogni variazione dei rapporti tra linguaggio e so-
cietà e concentrandosi invece su ciò che comunque si ripete, ritorna. Del re-
sto, come si è appena visto, anche a proposito dell’Edipo la domanda che Lé-
vi-Strauss finiva per porsi non era forse se il medesimo nasce da sé o da al-
tro? Ebbene, lo strutturalismo non solo chiude con ogni storicismo, ma ad-
dirittura rimette radicalmente in discussione la categoria stessa del tempo. E
lo fa a suo modo, attraverso l’analisi del mito. Mi riferisco a due saggi del 
di Edmund Leach. Anche qui il punto di partenza è la constatazione di
un’ambiguità essenziale: quella intrinseca alla categoria del tempo. Con essa
infatti viene designata la ripetitività dell’alternarsi del giorno e della notte o
del tic-tac del pendolo; ma viene anche designata l’irreversibilità, ovvero il
fatto che ad esempio tutti invecchiamo e siamo destinati a morire. La ripeti-
tività risulta quando ogni tic-tac viene comparato agli altri tic-tac che prece-
dono o seguono; l’irreversibilità risulta invece quando, concentrandosi su un
singolo tic-tac, ci si rende conto che esso può scandire il tempo solo perché
ha un inizio e una fine entrambi irreversibili.
Ora, la tesi di Leach è che il mito di Kronos contiene già questa duplice di-
mensione e che proprio qui sta la ragione, altrimenti poco comprensibile, per


VA L E R I O R O M I T E L L I

la quale questa divinità, fin dagli albori della cultura occidentale, abbia rap-
presentato il mito del tempo.
Il simbolo chiave è la falce con cui questa antica divinità greca appare sem-
pre raffigurata. Il suo movimento oscillante (il quale tra l’altro ricorda ai mo-
derni quello del pendolo) evoca esplicitamente il gesto della mietitura che si ri-
pete ogni anno nella stagione del raccolto. Ma evoca anche un taglio quant’al-
tro mai irreversibile e creatore: quello con cui Kronos castra il padre Urano, il
Cielo. Il sangue così sparso cade infatti nel mare, fecondandolo e facendo na-
scere Afrodite, dea della fecondità universale. Solo allora possono generarsi al-
tre divinità e in seguito anche gli uomini, fino a quel momento inesistenti. Il fat-
to è che i genitori di Kronos sono i due elementi primordiali, Gè, la terra, e Ura-
no, il Cielo. Tra loro copulavano, ma Urano ricacciava tutti i figli nel ventre di
Gè, finché essa, oberata di tanti feti, dota l’ultimo della falce con cui dare la ter-
ribile lezione al padre e liberare le sorelle e i fratelli già concepiti.
Crescendo Kronos, la storia si ripete, per poi subire una nuova repentina
interruzione. Egli si accoppia con una sorella, ma divora i figli, finché la stessa
sorella, ingannandolo, gli fa ingoiare una pietra al posto di Zeus, ultimo nato,
il quale può così divenire adulto. Nel frattempo, il pesante boccone fa vomita-
re Kronos, che rigetta così anche gli altri fratelli e sorelle di Zeus; questi allora
coglie l’occasione per uccidere il padre.
La terza parte del mito, sempre come ce la presenta Leach, costituisce una
specie di apoteosi di tutta la vicenda, in cui ripetizione e irreversibilità si com-
binano, dando luogo a una inversione generale del movimento. Il tema princi-
pale è il contrasto tra le due epoche, quella dominata da Kronos e quella do-
minata da Zeus. Nella prima regna l’abbondanza e la felicità: i campi danno i
raccolti senza essere coltivati, ogni sorta di conflitti è assente e tra i mortali, che
nascono dalla terra come piante, ci sono solo maschi. Nella seconda, invece, le
cose vanno in un modo che ci è più familiare: le donne esistono, i conflitti pu-
re (le due cose nel mito sono connesse) e i campi devono essere coltivati. Ma il
punto più interessante qui è la profezia di un ritorno del regno di Kronos, nel
frattempo relegato nei Campi Elisi, paese dei morti felici. Con tale ritorno tut-
to si ripete al contrario: gli uomini, invece di invecchiare, ringiovaniscono, i
morti rinascono dalle loro tombe e le donne (non servendo più!) cominciano
ad estinguersi.
Tutto il mito quindi contempla, oltre al prologo sulla coppia sterile forma-
ta da Cielo e Terra, tre fasi (quella di Kronos, quella di Zeus e infine quella del
ritorno di Kronos) con due interruzioni, di cui l’ultima porta alla ripetizione
della prima fase, ma in senso invertito. Il Tempo, dunque, come divinità del-
l’interruzione e del ritorno, dell’irreversibile e del ripetitivo.
Mito degli antichi greci, questo, ma anche nostro mito, che ritorna ancora
oggi quando si parla del tempo, se è vero che con questa parola ci riferiamo
sempre a due dimensioni irriducibili, quella della ripetizione e quella dell’in-


. RISPOSTE PIÙ RECENTI

terruzione irreversibile, senza distinguerle, e anzi alludendo alla loro coinci-


denza. Leach si dice convinto che questa confusione venga dalla paura dell’ir-
reversibilità, che è in fondo paura della morte. Ed è proprio per lenire questa
paura che, a suo avviso, le religioni introducono un terzo termine, oltre a quel-
li che designano o la ripetizione o l’irreversibilità: nel caso degli antichi greci,
come si è visto, il tempo, personificato nella figura di Kronos. Figura, questa,
che rivela tutta la sua oscurante soperchieria. Fa notare sempre Leach: anche
in termini sessisti, il suo mito ha infatti tratti inequivocabilmente maschilisti.
Non più storia, né tempo, né dialettica tra il ripetersi necessario e il possi-
bile irreversibile: questa, in sintesi, la prospettiva qui aperta allo studio degli ef-
fetti sociali del linguaggio.
Secondo le nostre ipotesi, ciò significa che le necessità sociali non esauri-
scono il campo di ricerche sulla realtà sociale: che il ripetersi sincronico e dia-
cronico di queste necessità è comunque soggetto a interruzioni. Se esse vanno
dunque studiate a partire da ciò che se ne dice e se ne può dire, c’è anche un
altro dire che va interpellato e può essere rintracciato solo oltre l’interruzione
del necessario: laddove si trovano i soggetti sociali che non possono decidere
delle necessità del resto della società.

a
Il linguaggio come risorsa

Pensare il linguaggio come una risorsa è diverso dal pensarlo sia come uno stru-
mento, sia come una struttura. Ora considero, infatti, una terza possibilità nel-
l’affrontare la svolta linguistica rispetto alle due appena esposte.
Quando si parla di una risorsa, si parla in effetti di una materia prima, non
per analizzarla anzitutto nella sua struttura interna e neanche in funzione di un
suo uso, ma per considerarne le potenzialità, la molteplicità dei suoi usi possibi-
li. Considerare il linguaggio come risorsa significa in effetti considerarne la mol-
teplicità degli usi possibili. Da questo punto di vista, sostenere che il sociale è co-
stituito anzitutto in termini linguistici significa sostenere che la sua realtà è costi-
tuita a partire dalle molteplici possibilità reali che si presentano nel linguaggio. È
esattamente questo il terreno di ricerca assunto dalle nostre ipotesi. Qui infatti ci
si spinge oltre la svolta linguistica delle scienze sociali, laddove queste si liberano
da ogni vincolo naturalistico. Quel vincolo che ancora restava in modo quanto
mai coercitivo nell’approccio funzionalistico, strumentale, del linguaggio e che
ancora si faceva sentire pure nell’approccio strutturalista.
Per vedere il tutto in altra ottica, ripensiamo alla tradizionale distinzione d’i-
spirazione evoluzionistica tra natura e cultura: tra di esse, si dice, sta il linguag-
gio che, facendo da interfaccia, mediando tra la prima e la seconda, dà forma al-
la società. Tutto sta allora nel modo in cui si concepisce questa supposta media-
zione, questo suo essere interfaccia del linguaggio rispetto a natura e cultura.


VA L E R I O R O M I T E L L I

Per il funzionalismo si tratta anzitutto di una mediazione passiva, di un fil-


tro minimo. Si può allora pensare che la natura agisca sulla cultura e quindi sul-
la società tramite il linguaggio. Quest’ultimo non sarebbe insomma che lo stru-
mento grazie al quale la natura farebbe valere le sue necessità nella società. Il lin-
guaggio, detto altrimenti, non farebbe che tradurre le cause, gli impulsi, i biso-
gni naturali in cause, impulsi, bisogni sociali. La società non sarebbe insomma
che una seconda natura, causata, determinata, necessitata come la prima: la pri-
ma natura che resterebbe la vera chiave di lettura della seconda. Un po’ come
dire che gli uomini restano sempre al fondo scimmie, anche se parlano e si or-
ganizzano soprattutto parlando, cioè usando il linguaggio. L’etologia e la socio-
biologia in effetti restano per lo più, tutt’oggi, ancorate a questa visione natura-
listica del sociale, che riduce al minimo lo spazio problematico del linguaggio.
Per lo strutturalismo, invece, la mediazione, il filtro che opera il linguaggio
tra natura e cultura è attivo e massimale. Che il linguaggio abbia una propria
struttura vuol dire proprio che esso ripresenta la natura a modo tutto suo, con
simboli, immagini, miti che hanno anzitutto cause, necessità, determinazioni,
condizionamenti reciproci, tutti loro. In questa ottica, la riscoperta del rap-
porto tra il linguaggio e la natura è quanto mai difficile, dubbia e problemati-
ca. Preliminare a tale riscoperta è l’analisi minuziosa, quanto mai dettagliata,
delle strutture linguistiche. Si ricorderà il più sopra riportato studio di Lévi-
Strauss sul mito di Edipo. Le sue conclusioni non portano affatto a scoprire
qualche causa naturale. Laddove un funzionalista molto probabilmente non
esiterebbe a concludere che tale mito ha la funzione di vietare l’incesto e dun-
que di “arricchire il sangue” della specie umana, lo strutturalista francese sco-
priva invece il dubbio sul mistero tutto intellettuale e in fondo linguistico di co-
me “uno possa nascere da due”. Sarebbe troppo, comunque, non riconoscere
il permanere di qualche presupposto naturalistico anche nello strutturalismo,
quantomeno in quello di Lévi-Strauss. E questo permanere è per me ricono-
scibile soprattutto nel fatto che il linguaggio visto come struttura finisce per es-
sere coercitivo, vincolante, oggettivamente necessitante, infinitamente ripetiti-
vo, esattamente come la natura. In effetti, come a suo modo ha dimostrato l’on-
tologia di Alain Badiou, per naturale solitamente si intende tutto ciò le cui
possibilità devono dimostrarsi necessarie, tutto ciò in cui non c’è novità se non
come variazione di una ricorrenza, tutto ciò per cui non c’è soggetto che non
sia interamente condizionato da una oggettività. Da questo punto di vista, si
può dire che la struttura del linguaggio anche per lo strutturalismo è molto
spesso concepita come una seconda natura, con termini e modi tutti suoi, ma
che si presenta secondo una logica naturale.
Ora si può forse capire meglio quale portata innovativa possa avere il pen-
sare il linguaggio come risorsa e dunque come molteplicità di infinite possibi-
lità sociali. Così la distanza col naturale è definitiva, tutto si gioca nel linguag-
gio, all’interno delle sue possibilità di incidere sul reale. Come si diceva, ad


. RISPOSTE PIÙ RECENTI

esempio, oggi nel mondo nessuna popolazione muore più di fame per cause na-
turali, perché manchi il cibo o le capacità di distribuirlo in qualunque luogo,
ma ciò può accadere solo perché nessuno che ne avrebbe il potere giunge a
prendere le “risoluzioni”, a dire le parole adeguate a contrastare simili cata-
strofi. Il che ovviamente non esclude che dietro a tali impossibilità vi siano dei
vincoli, delle necessità, ma sono sempre delle necessità, dei vincoli che si deci-
dono a livello del dire. Ad esempio, non c’è certo alcuna necessità naturale nel
fatto che i paesi più ricchi del mondo non concedano poco più o poco meno
dello ,% (gli USA solo qualcosa di più dello ,%!) del loro prodotto interno
lordo in aiuti a paesi poveri. Quasi tutti sanno che solo aumentando di po-
chissimo queste cifre il destino di molti paesi poveri potrebbe svoltare al me-
glio. Tuttavia, se ciò non avviene, è perché nessuno sa come convincere i go-
verni dei paesi ricchi. In essi dunque c’è un ostacolo, una necessità ben reale
nell’eludere le questioni degli aiuti. L’economia politica ci può spiegare fino a
che punto tale elusione sia giustificata per ragioni di mercato, concorrenziali, e
fino a che punto sia invece solo frutto di scelte politiche ispirate a pregiudizi o
paure ingiustificate. Lo strutturalismo può spiegare da quali miti, discorsi, im-
magini o simboli vengano simili paure e pregiudizi, nonché come si sono ri-
prodotti. Ma è solo assumendo il linguaggio come risorsa che si può pensare di
prestare seriamente attenzione ai più direttamente interessati: a quegli stessi
poveri che non hanno alcun potere nell’ottenere aiuti, né sicuramente sanno
come riuscirci, eppure si rendono possibile un’esistenza che dall’esterno, dal
punto di vista delle popolazioni più ricche e potenti, sembra talmente impos-
sibile da non essere neanche degna di attenzione, se non filantropica. Le loro
parole, il loro pensiero, se opportunamente interpellati, possono rivelare inve-
ce delle realtà sociali altrimenti sconosciute. E conoscerle tramite queste stesse
parole e questo stesso pensiero può avere anche un uso, una funzione pragma-
tica, politica, ad esempio precisando le richieste di aiuti.
In definitiva, studiare il linguaggio come risorsa significa studiare la realtà
sociale come un campo sul quale si affrontano, si scontrano ed eventualmente
si confrontano diverse possibilità soggettive identificabili a partire da quel che
è detto e pensato a proposito di tale realtà. A imporsi in modo evidente, di so-
lito sono gli enunciati di chi ha il potere di governo e che organizza un con-
senso, una circolazione di opinioni favorevoli a questi stessi enunciati. Qui l’a-
nalisi deve allora valutare in che misura il sapere disponibile su tale realtà giu-
stifica o meno le scelte dichiarate di chi governa e quindi anche il consenso
creato attorno a esse. Ma occorre ammettere che in ogni realtà sociale esistono
anche le altre risorse del linguaggio: quelle costituite da chi non ha potere di
governo, né conoscenze disponibili, e che rende possibile quantomeno una par-
te di tale realtà. Di solito, le popolazioni che non hanno parte né nel potere né
nel sapere sono chiamate popolazioni emarginate, proprio perché non decido-
no nulla rispetto al resto della società. Ma anche le loro parole e i loro modi di


VA L E R I O R O M I T E L L I

pensare possono essere considerati delle risorse e la loro marginalità trattata co-
me una zona di frontiera per nuove possibilità di tutto il sociale. Questo è in ef-
fetti l’obiettivo primo delle nostre ipotesi e delle nostre ricerche. E per questo
ci collochiamo sicuramente nella scia di chi considera che le scienze sociali deb-
bano assumere il linguaggio non tanto e non solo come uno strumento, non tan-
to e non solo come una struttura, ma anzitutto come risorsa.

a.. Linguaggio e pensiero

L’espressione “linguaggio come risorsa” l’ho trovata in Roy Turner, che ha


contribuito alla discussione della filosofia di John Austin tra le scienze sociali.
Ma prima di tutti, nella promozione di questo orientamento, è da citare quella
che è stata chiamata l’ipotesi Sapir-Whorf. È di queste due questioni che ora
tratterò brevemente, per meglio chiarire come le nostre ipotesi si situino ri-
spetto a questi antecedenti, per poi concludere con un richiamo a Clifford
Geertz, da cui trae ispirazione l’idea stessa di un’etnografia del pensiero.
Anzitutto, l’ipotesi Sapir-Whorf, questione quanto mai controversa nelle
scienze sociali, le quali le hanno appunto riservato il nome singolare di “ipote-
si”, come se mai fosse dimostrata o dimostrabile fino in fondo. È anche in
omaggio a questo singolare e controverso riconoscimento che pure le nostre
tengono a chiamarsi ipotesi.
Ma anche l’accoppiamento di due nomi (Sapir e Whorf) è già abbastanza
strano e risponde al fatto che il primo, accademico quanto mai riconosciuto
al suo tempo – si tratta degli anni Trenta e Quaranta negli USA –, abbia fatto sue
e sviluppate le ipotesi del secondo, che potremmo dire accademico quasi solo
per caso. Whorf infatti arrivò alle scienze sociali dopo aver studiato da inge-
gnere di una compagnia di assicurazione le casistiche degli incendi, nonché per
coltivare un amore quanto mai appassionato per le lingue dei nativi messicani
e del Nordamerica. Tant’è che egli arriva a riconoscere delle qualità scientifi-
che, oltre che estetiche e d’efficacia, alle lingue algonchine, «parlate da gente
molto semplice, indiani (d’America) dediti alla caccia e alla pesca» e del tutto
«sconosciute alle lingue e alle mentalità indoeuropee».
L’esempio riportato a sostegno di questo apprezzamento riguarda la pos-
sibilità dei nativi d’America di usare una frase come “il padre disse al figlio
di portargli il suo arco”. Una frase che è impossibile per una lingua indoeu-
ropea, dal momento che in questo “suo” non si capisce se viene indicato “il
padre” o “il figlio”, cosicché si è costretti o a tediose ripetizioni o ad altret-
tanto tediosi “giri di parole”. La questione è invece del tutto elegantemente
e concisamente risolta nelle lingue ammirate da Whorf, dal momento che es-
se contemplano l’esistenza di due terze persone pronominali, cosicché nel-
l’esempio citato ci sono due modi diversi di dire “suo” a seconda che si rife-
risca al padre o al figlio.


. RISPOSTE PIÙ RECENTI

Dal che si deve concludere anche che, in un simile caso, un nativo d’Ame-
rica, potendo risparmiare le parole rispetto a uno che parla con una lingua in-
doeuropea, ragiona meglio e più velocemente di quest’ultimo? Se così fosse,
che dei “selvaggi” hanno un’intelligenza più agile ed efficace dei “civilizzati”,
non si dovrebbero forse rimettere in discussione gli stessi principi dell’evolu-
zionismo?
È per il fatto di non avere mai risolto tali dubbi che l’ipotesi Whorf legitti-
mata da Sapir ha goduto fama di essere “sovversiva e provocatoria”.
Il contenuto più preciso di tale ipotesi sta in ogni caso nel sostenere che il
pensiero dipende dalle categorie elaborate dal linguaggio. Dal che «Siamo […]
indotti a un nuovo principio di relatività, secondo cui differenti osservatori non
sono condotti dagli stessi fatti fisici alla stessa immagine dell’universo, a meno
che i loro retroterra linguistici non siano simili». Per capire il senso di questo
nuovo principio di relatività, che si richiama evidentemente a quello già fatto
valere da Einstein in fisica, è opportuno precisare rispetto a quale principio as-
soluto prenda le distanze. Ebbene, si tratta proprio della pretesa di qualsiasi
linguaggio di valere in assoluto, a priori, tanto per la natura tutta, quanto per la
molteplicità dei linguaggi. Contestare questa pretesa universalistica tradizio-
nale non significa però escludere che tra i diversi linguaggi e i modi di pensare
da essi condizionati ci possano essere dei nuovi incontri. Anzi, è proprio a que-
sto che le ricerche di Whorf si sono dedicate. Il limite di relatività che esse pon-
gono è di non supporre che tutto sia sempre pensabile in unico modo e quindi
con unico linguaggio. Tutto il nuovo problema sta dunque nel trovare come,
con quali approcci, su quali terreni problematici, far incontrare linguaggi e mo-
di di pensare diversi, tenendo conto del fatto che ci si trova sempre all’interno
di un pensiero e di un linguaggio, in rapporto ad altri pensieri e linguaggi.
Così intesa, questa ipotesi non è che un’anticipazione quanto mai radicale di
quella che ho chiamato la svolta linguistica. In effetti, se si postula il contrario del-
l’ipotesi suddetta, cioè che è il linguaggio a dipendere dal pensiero, significa che
si continua a trattare il linguaggio come uno strumento; che si continua cioè a ri-
durlo entro i limiti dell’impostazione evoluzionista, la quale, come si è visto, con-
sidera minimo il filtro che il linguaggio pone tra natura e cultura; per cui è sem-
pre alla prima che andranno ricondotte le necessità più profonde della seconda
e quindi anche di ogni forma di pensiero e di qualsiasi società.
Tutt’altre sono invece le conseguenze che si possono trarre dall’ipotesi se-
condo cui è dal linguaggio che dipende ogni pensiero. Una di queste conse-
guenze è, ad esempio, che quando un ricercatore sociale intende studiare una
popolazione deve partire dal linguaggio di questa stessa popolazione, senza an-
teporre pregiudizi sulle sue capacità di pensare, ma supponendo solo che ogni
parlare implica sempre un pensare. Si pone quindi il problema di come sia pos-
sibile un incontro scientificamente proficuo tra il ricercatore e la popolazione
da lui interpellata. Whorf, da linguista, lo cercava anzitutto sul piano della


VA L E R I O R O M I T E L L I

grammatica. Per chi cerca di conoscere la realtà sociale le cose devono quindi
andare altrimenti. Se il ricercatore resta fedele all’assunto che il pensiero di-
pende dal linguaggio, egli deve misurarsi con la difficoltà di fare una ricerca a
partire da un altro linguaggio che non è il suo. La soluzione più adottata, allo-
ra, è quella dell’interpretazione ai fini della traduzione: della traduzione del lin-
guaggio della popolazione studiata in quello del ricercatore che la studia. Que-
sta è comunque la soluzione “anti-anti-relativistica” proposta e praticata dal-
l’antropologia detta appunto “interpretativa” di Clifford Geertz.
Ma qui può insorgere un’obiezione. Il linguaggio che viene tradotto si può
dire infatti che venga ridotto a un linguaggio oggetto da parte del linguaggio in
cui viene tradotto e che in logica, quella di Tarski, ma anche in teoria lingui-
stica, quella di Louis Hjelmslev, viene detto metalinguaggio. Dal che insorgo-
no tutti i legittimi dubbi su quanto di un linguaggio ridotto a oggetto possa re-
stare nel metalinguaggio in cui è tradotto. Geertz, nel saggio in cui postula pos-
sibilità di un’etnografia del pensiero, coglie perfettamente il problema e ne cer-
ca una soluzione nel pensiero stesso, nonché nelle ricerche novecentesche di un
suo nucleo fondamentale originario (la psicoanalisi inaugurata da Freud e la
grammatica generativa di Chomsky sono portati ad esempio). È dunque da
questa facoltà essenziale del pensare che dipenderebbe la possibilità di incon-
tro, di interpretazione e di traduzione tra linguaggi diversi, proprio come av-
viene quando, anche tra gli individui più diversi, ci si riesce comunque a in-
tendere. Il paragone chiaramente ironico con cui Geertz pone diverse comu-
nità scientifiche sullo stesso piano di villaggi tribali ha proprio questo senso: di
ridimensionare il linguaggio da esperti delle scienze sociali, la loro presunta su-
periorità metalinguistica, banalizzandola e abbassandola allo stesso livello di
dialetti e convenzioni tradizionali.
Resta che in tal modo si rischia di ritornare a quella tradizionale idea del-
l’anteriorità del pensiero rispetto al linguaggio che viene superata dall’ipotesi Sa-
pir-Whorf, se assunta nelle sue conseguenze più radicali. In effetti, ricondurre,
come fa Geertz, la questione dell’incontro tra diversità di linguaggio e di pen-
siero a questione di traduzione e interpretazione, più che apportare chiarimen-
ti, non fa che aprire altre questioni, d’ordine filosofico ed ermeneutico, come il
libero arbitrio e l’impossibilità dell’individuo d’evitare l’errore. La domanda
su dove il ricercatore sociale possa trovare le risorse per pensare un pensiero di-
verso dal suo e per parlare un linguaggio diverso dal suo necessita di risposte più
operative. In ciò che dice Whorf, per quanto in modo ellittico e allusivo, c’è di
che trovarne. Si rifletta ad esempio sulla sua sentenza secondo cui «la parola è
quanto di meglio l’uomo sappia fare». La parola è qui chiaramente intesa co-
me vera potenza del linguaggio. Tutto sta allora nel decidere a quale aspetto del
linguaggio si dà la priorità: se alla potenza significante delle parole o invece alle
regole discorsive che esistono tra i significati delle parole. Solo in quest’ultimo
caso le questioni di interpretazione come traduzione diventano cruciali, perché


. RISPOSTE PIÙ RECENTI

solo in questo caso, per indagare la realtà sociale di una popolazione, bisogna
anzitutto tradurne il linguaggio nel metalinguaggio di chi fa l’indagine. Nell’al-
tro caso, in cui tutto è affidato alla potenza delle parole e delle loro concatena-
zioni significanti, non vi è alcuna differenza insormontabile tra il linguaggio di
chi fa l’indagine e quello di chi è interpellato dall’indagine.
Qui può valere a chiarimento una categoria proposta dall’Antropologia del
Nome, di Sylvain Lazarus: quella di “molteplicità omogenea”. Il linguaggio,
dunque, come molteplicità differenziata, infinitamente differenziata, ma fon-
damentalmente omogenea: originata e attivata dalla stessa risorsa, quella delle
parole, della capacità significante delle parole. Quanto possa essere potente
questa capacità lo si può cogliere pensando all’esempio della poesia: più preci-
samente, al caso in cui una poesia così intensa che non perde il proprio conte-
nuto artistico, pur passando tra lingue diverse. Ciò evidentemente può avveni-
re solo a condizione che il traduttore sappia intercettare l’ispirazione del poe-
ta, se ne faccia trasportare e si prenda le sue responsabilità nel renderla, anche
forzando, eventualmente, i rapporti tra i significati letterali delle parole. E non
si tratta di un esempio del tutto a caso. In effetti, ai fini della ricerca etnografi-
ca come la intendo, per conoscere la realtà sociale racchiusa in ciò che dicono
i soggetti incontrati, è molto più opportuno leggere e pensare i loro enunciati
come un testo poetico, ben più che come una narrazione. Da cercare è infatti
non la logica discorsiva, che tiene insieme i significati delle parole, non la coe-
renza o meno del rapporto tra presupposti e conclusioni, tra inizio e fine, ma
quanto danno da pensare le parole stesse, le frasi o i frammenti di discorsi, pre-
si in quanto tali, nella loro potenza significante. Come nel caso delle poesie, le
quali per essere apprezzate fino in fondo devono essere imparate a memoria, lo
stesso o quasi è consigliabile fare con i testi raccolti dalle interviste etnografi-
che: ripeterli e ripensarli, fino a che alcuni di loro possono tornare alla mente
senza essere letti. Quando si tenta così di pensare un pensiero, allo scopo di in-
contrare la realtà che sta tra le sue parole, la traduzione come l’interpretazione
risultano per quello che sono: questioni accessorie, pressoché tecniche.

a.. Performance o prescrizione?

Un semplice “sì” e le nozze sono fatte, cambiando la realtà, anche sociale, di lei
e di lui, dal momento in cui diventano moglie e marito. Il matrimonio è un clas-
sico esempio di performance. Termine che, come insegna Victor Turner, viene
dal francese arcaico parfournir e significa concludere, portare a termine. John
Austin è famoso per avere eretto atti simili a temi filosofici e logici di prima im-
portanza, contribuendo a suo modo a quella che ho chiamato la svolta lingui-
stica. Le sue categorie chiave sono appunto gli “enunciati constativi” e gli
“enunciati performatici”. Questi ultimi essendo appunto in grado di fare, di
portare a termine, di realizzare cose (un matrimonio ad esempio), mentre gli al-


VA L E R I O R O M I T E L L I

tri, i constativi, no. Roy Turner, per trattare del linguaggio come di una risor-
sa, è proprio a queste idee di Austin che si riferisce. Qui, linguaggio e realtà ten-
dono a confondersi, sia pur occasionalmente. In fondo, si sostiene che non sem-
pre il dire è fare, ma talvolta, quando la performance riesce, ovvero è “felice”,
secondo un termine caro ad Austin, sì. Ma ciò che decide di questa eventualità
non è tanto l’enunciato, quel che si dice, quanto rispetto a che cosa lo si dice,
rispetto a quale contesto, rispetto a quali convenzioni preesistenti. La realtà,
dunque, è sempre anzitutto una realtà convenzionale a cui, dicendo, si può ag-
giungere o togliere qualcosa. Il linguaggio come risorsa è così certo esaltato, fi-
no al punto di attribuirgli capacità d’agire realmente, ma le sue possibilità di
azione restano comunque quanto mai modeste, sempre entro una cornice di
convenzioni da rispettare, pena l’“infelicità”, degli enunciati, s’intende. Ne
consegue che la realtà sociale diventa quella che si può conoscere tramite ogni
sorta di conversazione, purché colta all’interno della “vita quotidiana”. Tanto
le chiacchiere domestiche più banali (ad esempio, quelle telefoniche) quanto le
discussioni più sofferte e problematiche (ad esempio che decidono le attività di
un ospedale psichiatrico o di un tribunale) sono messe tutte allo stesso livello
di interesse primario da questo tipo di approccio, che può essere ricondotto
all’“etnometodologia”. Sui pregi e i difetti che questa impostazione ha dal pun-
to di vista delle nostre ipotesi ho già scritto più sopra.
Ora mi interessa piuttosto mettere a confronto questa categoria degli enun-
ciati performativi con un’altra, d’altra impostazione e che pur riguarda sempre
le possibilità del linguaggio di dar luogo a effetti reali.
Si tratta degli “enunciati prescrittivi” così come sono presentati da Sylvain
Lazarus. La questione è dunque che differenza fa per la ricerca sociale ana-
lizzare il linguaggio come performance o analizzarlo invece come prescrizione.
Anzitutto, se inteso come performance, il linguaggio porta a termine, con-
clude, esaurisce una realtà (lo si è visto nell’esempio delle nozze concluse),
mentre non è così dal punto di vista della prescrizione. Da questo punto di vi-
sta, infatti, la realtà resta sempre distinta dal linguaggio. Ma ciò non per lascia-
re aperto lo spazio ad altri tipi di problematiche del reale (riguardanti per esem-
pio i bisogni naturali, gli interessi economici, di classe o la psicologia dei sog-
getti parlanti), bensì perché la realtà stessa è concepita come campo in cui coe-
sistono sempre più prescrizioni, di cui nessuna può mai essere completamente
realizzata. Così, da questo punto di vista, dal punto di vista prescrittivo, tutto
risulta possibile, nell’ordine del possibile, aperto su un ventaglio più o meno li-
mitato. Per analizzare questa molteplicità di possibili, la prima distinzione da
operare è quella tra le possibilità prescritte da chi ha potere di governo sulla
realtà sociale e invece le possibilità prescritte da chi, pur aderendo a tale realtà,
non vi ha alcun potere di decisione.
Ecco allora che anche le realtà sociali che più interessano le ricerche sul lin-
guaggio come prescrizione sono diverse da quelle che lo considerano come


. RISPOSTE PIÙ RECENTI

performance. Se in quest’ultimo caso la realtà sociale è anzitutto quella dei fram-


menti della vita quotidiana, non è così nel primo caso. Quando si va alla ricer-
ca, non di performance, ma di prescrizioni, a interessare sono anzitutto le realtà
sociali dove risulta più netta e più problematica la distinzione tra chi ha pote-
re e chi no: tra chi, prescrivendo, decide del governo di una molteplicità indi-
stinta ed eterogenea di altra gente e chi invece può prescrivere solo per sé e so-
lo eventualmente con altri governati come lui.
L’esempio più evidente, ma non l’unico, né quello eminente, allora è rap-
presentato dalla realtà della fabbrica. E ciò perché la polarizzazione delle pre-
scrizioni è solitamente massimale. Da un lato, infatti, chi ha il potere di gover-
nare un’impresa, con le sue prescrizioni non condiziona solo la stessa impresa
a tutti i diversi livelli del lavoro, da quelli più intellettuali o tecnici a quelli più
duramente manuali, ma condiziona anche il consumo, e quindi il mercato, an-
che finanziario, con tutte le sue ricadute sull’economia globale. Dall’altro lato,
invece, quello del prestatore di mano d’opera, ossia dell’operaio, non si può
quasi mai nulla, né si sa come potere qualcosa, per quanto ci siano sindacalisti
che bene o male lo sanno e lo fanno, con prescrizioni che spesso pretendono di
essere le uniche varianti rispetto a quelle della direzione. Ma, confidando nel
linguaggio come risorsa inesauribile, anche tra gli stessi operai, se la ricerca so-
ciale li interpella come esseri parlanti e pensanti, si trovano parole, enunciati e
frammenti di discorsi, che possono essere presentati come ulteriori prescrizio-
ni sulla stessa realtà della fabbrica.
Questa, dunque, è da intendersi come luogo di coesistenza di molteplici pre-
scrizioni, all’interno del quale la ricerca deve scegliere su quali di esse concen-
trarsi. La scelta di parte, della parte della popolazione della quale individuare le
prescrizioni, è decisiva. Per trattare tutte le prescrizioni presenti in una realtà so-
ciale, occorrerebbe infatti identificarsi in un metalinguaggio che supponga di ri-
durre a linguaggio-oggetto ogni tipo di prescrizione. Ma poiché, secondo le no-
stre ipotesi, nella ricerca si deve evitare ogni metalinguaggio, per conoscere la
realtà non resta che provare a individuare un insieme di prescrizioni tenendolo
distinto dagli altri. Nel nostro esempio: quelle della direzione, quelle dei sinda-
cati o quelle degli operai. Ognuna infatti ha una problematica diversa. Per stu-
diare quelle della direzione, ma anche quelle dei sindacati, sicuramente occorre
analizzare quanto esse siano giustificate o meno rispetto al sapere disponibile sui
diversi piani, economico, finanziario, giuridico, di relazioni aziendali e così via.
Mentre, per studiare quelle degli operai, occorrerà analizzare il contenuto di
quello che dicono una volta interpellati dall’inchiesta. Ma non a partire dalle re-
gole di coerenza del discorso, né per la coscienza che essi dimostrano di avere a
proposito di ciò che il ricercatore stesso presume di sapere e neanche per quan-
to aggiungono o tolgono alle convenzioni esistenti nella loro vita quotidiana. Ciò
che interessa è piuttosto la lettera delle loro stesse parole, dei loro frammenti di
discorso, la loro risorsa significante. Nel loro ricorrere o, viceversa, nel loro spez-


VA L E R I O R O M I T E L L I

zarsi in un detto singolare, nelle loro associazioni e dissociazioni previste o im-


previste, non meno che nei loro equivoci, questi pezzi sparsi di linguaggio, se
combinati e scombinati, se letti e riletti, danno sempre da pensare al ricercato-
re che voglia davvero conoscere questa realtà. Egli può allora scoprire cosa per
gli operai va e cosa non va, cosa è fuori discussione e cosa invece può migliora-
re: tutte “cose” che molto probabilmente risultano ben diverse da quello che di-
rezione, sindacati e altri tipi di ricerche sociali si immaginano.
Ma non sono certo solo le fabbriche le realtà sociali che rispondono al re-
quisito di essere al centro di più prescrizioni tra loro diverse. Come dimostra-
no i rapporti d’inchiesta riuniti in questo libro, le nostre ipotesi si possono ap-
plicare anche a centri di servizi sociali, scuole o associazioni di volontariato.
L’essenziale è che si tratti di realtà sociali ben localizzabili, di luoghi in cui so-
no riunite delle molteplicità di soggetti che lavorano sotto il governo di un qual-
che potere pubblico o privato.
In definitiva, si può quindi concludere che, secondo le nostre ipotesi, per
studiare la risorsa del linguaggio in rapporto alla realtà sociale, è opportuno stu-
diarne i luoghi dove si presentano più prescrizioni, all’interno delle quali si pos-
sono distinguere quantomeno quelle provenienti dalla soggettività costituita da
chi governa e quelle provenienti dalla soggettività costituita da chi è governa-
to, tenendo presente comunque che ogni soggettività capace di prescrizioni
merita un approccio diverso.

a
Segni ovunque

a.. La semiotica alla moda

Una sottolineatura di quanto appena scritto: se escludo la possibilità di far ricer-


ca con gli stessi metodi e approcci su chi ha potere nella società e chi no, è per-
ché ritengo che il linguaggio, e dunque il pensiero, non possano mai abbracciare
tutta la realtà e meno che mai quella sociale. Così bisogna ammettere che le scien-
ze sociali non possono mai pretendere di conoscere una qualsiasi realtà sociale
nella sua interezza, ma solo per pezzi o frammenti e solo concentrando le loro ri-
cerche su uno di essi, senza volere contenerli tutti all’interno di un’unica proble-
matica. Mantengo dunque uno scarto, una differenza fondamentale tra linguag-
gio e realtà, intendendo quest’ultimo termine come sinonimo di “ciò di cui non
c’è nulla da dire”, proprio perché è altro rispetto al linguaggio stesso. Un indici-
bile, un impensabile, un incognito, un indeterminato, che, occorre ammetterlo,
rappresenta il limite di ogni ricerca. Contemplare questo limite significa prende-
re una distanza decisiva rispetto alla già considerata teoria della performance, la
quale, come si è già visto, porta a confondere il dire col fare, il linguaggio e la
realtà. Ma così ci si discosta anche da un’altra grande galassia del cosmo sociolo-


. RISPOSTE PIÙ RECENTI

gico e antropologico. Intendo quelle impostazioni problematiche che hanno co-


minciato a circolare nel corso degli anni Sessanta del Novecento e che si sono im-
poste sostenendo slogan come “tutto è segno”, ovvero l’idea secondo cui ogni so-
cietà si fonda sullo scambio sistematico di segni.
Ad avvalorare queste ipotesi, nell’Italia di Umberto Eco, forse il più fa-
moso cultore di questa materia nel mondo, c’è chi ha parlato di “svolta semio-
tica”, anziché di “svolta linguistica”. In quest’ottica, la grande novità nove-
centesca per le scienze sociali starebbe nell’assumere l’importanza non del lin-
guaggio in quanto tale, ma dei segni in genere (inclusivi ad esempio anche del
far segno come gesto manuale), tra cui quelli linguistici non sarebbero che una
componente più o meno decisiva. L’obiettivo cognitivo così raggiunto sarebbe
quello di poter sfruttare le maggiori scoperte in campo linguistico per altri cam-
pi scientifici, come quello appunto delle ricerche sociali, a esso esteriori. Il tut-
to, peraltro, in conformità a quanto auspicato dallo stesso padre della lingui-
stica novecentesca. In effetti, lo stesso de Saussure si era augurato che la fon-
dazione a venire di una semiologia avrebbe potuto accogliere e completare i ri-
sultati che le ricerche linguistiche del suo tempo stavano ottenendo.
Se i maggiori successi stavano arrivando dal separare, in ogni parola, signi-
ficante (fonologico) e significato (semantico), per aprire così un nuovo spazio
alla perlustrazione grammaticale, la speranza era che un giorno si sarebbe giun-
ti a ricomporre significanti e significati come le due facce di uno stesso segno,
cui la parola stessa avrebbe dovuto essere ricondotta.
Ma così non è stato. Cosicché, fino a oggi «la semiologia non ha avuto con-
tenuto che non sia stato preso in prestito dalla linguistica». Studiare la società
dal punto di vista dello scambio dei segni equivale non solo a studiare la società
come se fosse riducibile a un linguaggio, ma anche a considerare il linguaggio
come se fosse fatto di segni e dunque in un modo in buona parte estraneo a ogni
nuova scoperta linguistica. Così, con una sola mossa, la semiotica si pone al di
sopra tanto delle scienze sociali quanto delle scienze del linguaggio.
Del resto, è chiaro che l’ipotesi secondo cui tutto è segno, tutto è linguag-
gio, ha forza solo se intesa in senso polemico: solo come contestazione dell’e-
videnza banale, ma ben difficilmente confutabile, secondo la quale non tutto è
segno e/o linguaggio. Tale contestazione, almeno ai suoi inizi, negli anni Ses-
santa, ha avuto l’indiscutibile merito di innalzare il livello di attenzione tenuto
dalle scienze sociali rispetto alla questione del linguaggio e alle novità delle ri-
cerche linguistiche. Più discutibili sono invece gli effettivi contributi apportati
dalla semiologia alla conoscenza della realtà sociale. Quanto mai significativo a
questo proposito è il percorso delle ricerche di uno dei suoi padri fondatori,
Roland Barthes. Se egli nel  dà infatti a questa sua disciplina un program-
ma scientifico quanto mai ambizioso, quello di «sviluppare un’analisi generale
dell’intelligibile umano», che viene realizzato negli Elementi di semiologia,
dopo tre anni, nel , egli arriva a fare della moda una questione intellettua-


VA L E R I O R O M I T E L L I

le di prima grandezza. Addirittura la teorizza come “sistema”. E ciò in un’e-


poca, quella degli anni Sessanta, in cui, quando la parola “sistema” veniva usa-
ta, lo era quasi solo per alludere, oltre che a quelli matematici, a quello capita-
lista e a quello socialista. Una vera e propria provocazione, dunque, quella di
mettere la dimensione dell’haute culture sullo stesso piano dei due modelli so-
cio-politico-economici che si dividevano il mondo. Così anche in Francia, una
delle patrie più importanti delle scienze sociali, si ha il fenomeno per cui temi
sociali solitamente ritenuti superficiali vengono promossi allo stesso rango in-
tellettuale di quelli ritenuti più profondi. Qualcosa di simile a quello che in area
anglosassone è accaduto, praticamente negli stessi anni, ergendo la vita quoti-
diana a dimensione sociale decisiva. Del resto, sono questi i tempi in cui i ceti
medi dei paesi più ricchi celebrano il loro trionfo grazie a politiche di distribu-
zione del reddito che ne favoriscono la crescita, come mai era avvenuto prima
della metà degli anni Quaranta e come mai più avverrà dopo la metà degli an-
ni Settanta. Oggi che tempi simili sono passati, anche la semiotica non ha più
quel primato tra le scienze sociali che aveva a suo tempo conquistato. Resta co-
munque la sua eredità, fatta dell’enorme massa di ricerche sociali dedicate a fe-
nomeni come la moda. Senza nulla togliere alla loro legittimità, peraltro una-
nimemente riconosciuta, resta da discutere come mai siano proprio esse a es-
sere privilegiate da questa impostazione semiologica, la quale si vuole d’orien-
tamento generale sia per le scienze sociali sia per le scienze linguistiche.
Il punto è che, dal momento in cui si considera che il segno è tutto, il pro-
blema principale diventa necessariamente lo scambio tra i segni dal punto di
vista più ampio possibile. Ecco dunque che la linfa di ogni società viene trova-
ta nella “comunicazione di massa”. Non per nulla, lo stesso Barthes aveva pro-
mosso un pionieristico Centro studi delle comunicazioni di massa. Se quindi
sono le comunicazioni di massa a rivelare quel che più conta della realtà socia-
le, è chiaro che a essere privilegiato è qualunque fatto su cui le opinioni, anche
quelle più banali, sono attratte e polarizzate. Moda, gossip, cronache, specie se
relative a personaggi ricchi e potenti, qualsiasi scandalo o curiosità, dal mo-
mento in cui sono configurabili come decisivi entro un sistema di scambio e cir-
colazione dei segni, sono visti anche come socialmente decisivi. Così, il ricer-
catore sociale diventa il compagno di strada del giornalista, per dare un tono
più scientifico alle inchieste d’opinione. In effetti, sociologi, antropologi e psi-
cologi da talk show sono divenuti oggi personaggi quanto mai familiari.

a.. Il ritorno del sistema

Ma vi sono anche altri tipi di esperti del sociale più o meno influenzati dalla cor-
rente semiologica oggi declinante. La sua crescente influenza, a partire dalla fine
degli anni Sessanta, è stata infatti tale da attraversare praticamente ogni ambito
delle scienze sociali. Tra i suoi altri svariati effetti, uno mi pare qui degno di no-


. RISPOSTE PIÙ RECENTI

ta. Si tratta del rilancio alla grande della categoria di “sistema”. Vecchia catego-
ria filosofica, questa, celebrata dalla filosofia hegeliana. A far di tutto un sistema,
in questo caso, è lo Spirito Assoluto per cui, secondo la nota formula, “quel che
è reale è razionale, quel che è razionale è reale”. Insomma, poiché si suppone che
ovunque aleggi uno Spirito Assoluto che costituisce l’unità del Tutto, l’impor-
tante per la ragione è saper riconoscere la sua presenza in modo sistematico, poi-
ché solo così può avere un’efficacia reale. In tal senso, Hegel finiva per esaltare
lo Stato costituzionale tedesco, che al suo tempo faceva i primi passi, come in-
carnazione dello Spirito Assoluto, tale da rendere la società civile un sistema rea-
le e razionale. È da qui che poi Marx, e in seguito tutti i marxisti, prendono le
mosse per definire il loro nemico, sempre usando la parola “sistema”: il sistema
capitalista, che forse si può dire rappresenti l’uso della parola “sistema” di mag-
gior successo tra le scienze sociali. Invece dello Spirito Assoluto, qui a costituire
l’unità del sistema è l’“equivalente generale”, il denaro, di cui il comunismo si
supponeva avrebbe saputo fare a meno. Barthes, quando, negli anni Sessanta, tirò
fuori l’idea di considerare la moda come un sistema, sapeva certo di riutilizzare
in un modo nuovo e un po’ ironico quella stessa parola che i comunisti usavano
per criticare la società capitalista. L’unità del sistema semiotico è ovviamente da-
ta dal segno in quanto tale, il quale, come lo Spirito Assoluto per Hegel o il de-
naro per Marx, è ovunque, cosicché solo la sua conoscenza sistematica permette
di conoscere la realtà sociale. “Sistema” è stato quindi usato quasi come sinoni-
mo di quest’ultima, senza dover riferirsi all’hegelismo o al marxismo. Un’opera
di passaggio assai significativa è La società dello spettacolo di Guy Debord, che
nel  coniuga una ripresa della visione hegelo-marxista coi temi emergenti del-
la semiotica, così da riutilizzare tutte le categorie della vecchia critica del capita-
lismo per denunciarne gli ultimi sviluppi come “spettacolarizzazione” della so-
cietà. Ma, a lato della scia semiologica, sono state possibili anche nuove teorizza-
zioni della realtà sociale come sistema. Una delle più note, anche in Italia, è quel-
la di Niklas Luhmann, che ha impresso una svolta alla tradizione tedesca hege-
lo-marxista mantenuta viva dalla scuola di Francoforte e da notevoli figure del
secondo dopoguerra, come Herbert Marcuse o Jürgen Habermas. Una svolta
che, per l’essenziale, si è realizzata tramite un ripensamento della classica cate-
goria di “sistema” in rapporto all’“ambiente”, il tutto con forti richiami alla bio-
logia, la quale si è così ritrovata a svolgere quel ruolo di scienza-modello già svol-
to tra Ottocento e Novecento, quando l’evoluzionismo dettava legge.
Inaggirabile vincolo posto dalla semiologia resta comunque che il centro
focale di ogni studio dei sistemi sociali stia in ciò che viene più spesso definito
“sistema delle comunicazioni di massa”. Da esso viene fatto dipendere tanto il
consenso di cui necessita la politica, a sua volta da intendersi come sistema, co-
me sistema politico, quanto l’opinione pubblica, ossia ciò che più conta di quel
che chiunque pensa. Da qui l’esaltazione del potere detenuto da parte del si-
stema delle comunicazioni di massa nel manipolare ogni forma di consenso e


VA L E R I O R O M I T E L L I

opinione. In effetti, una volta ammesso che tutto è segno, è chiaro che si è in-
dotti a riconoscere una potenza enorme ai mezzi che legano, che mettono i se-
gni in comunicazione tra loro: i tanto celebrati “mass media”. Cosicché, chi ac-
cetta di far suo l’universo semiologico diviene molto facilmente propenso a ri-
conoscere nella realtà sociale una sorta di “quarto potere” all’ennesima poten-
za, al cui vertice possono comparire figure come quella del “Grande fratello”,
quale se lo immaginava Orwell. Insomma, la semiologia, per quanto critica vo-
glia essere, con l’enfasi che pone sul potere dei media, finisce per accrescerne
il seguito. Facendo un brusco tuffo nell’attualità più prossima, trovo del tutto
sostenibile che in una figura come quella di un Berlusconi al governo ci sia an-
che da vedere una sorta di avveramento più o meno involontario di profezie se-
miotiche sul ruolo crescente dei “media” nel manipolare le masse ignoranti.
Dal punto di vista delle nostre ipotesi, le cose stanno del tutto diversamen-
te. Non che sia da negare il potere della comunicazione, da negare è piuttosto
che l’unico modo per conoscerlo stia nel pensarlo come sistema autosufficiente
o, secondo un termine più sofisticato, caro a Luhmann, “autopoietico”. Un’al-
tra possibilità sta nel pensare che tutto il potere della comunicazione risieda più
semplicemente in una ripetizione di alcune opinioni selezionate, le quali tanto
più sono diffuse e amplificate quanto più si degradano, perdono di senso, come
già nel secondo dopoguerra notavano Lazarsfeld e Merton. Così, si tratta di
capire che ogni potere di governo comporta certo una qualche forma di con-
senso e di capacità di manipolarlo, ma sempre solo entro un più o meno lungo
lasso di tempo, scaduto il quale, si pone comunque la questione di come rinno-
vare il consenso. Una questione, questa, che si pone anche per chiunque abbia
un grande potere sui mezzi di comunicazione. Sia pur solo per essere mantenu-
to, questo potere richiede dunque delle decisioni periodiche. Ed è proprio in
queste decisioni che sta la cosa più interessante da studiare nella gestione del
consenso e dei mezzi di comunicazione. Chiedersi perché una campagna d’opi-
nione piuttosto che un’altra, perché si propaga questo messaggio pubblico piut-
tosto che quell’altro, a volte può infatti rivelare svolte altrimenti impercettibili
nei giochi di potere. E per capire il senso di queste eventuali svolte, a nulla ser-
ve considerarle nella loro funzionalità sistematica, come se non servissero ad al-
tro che a oliare sempre lo stesso meccanismo. Da analizzare sono invece anzi-
tutto le conoscenze che hanno spinto alla decisione colui che l’ha presa. Solo co-
sì infatti tale decisione potrà venire analizzata, distinguendo in che misura essa
sia stata, al peggio, arbitraria e menzognera, o, al meglio, razionale e intelligibi-
le ai più, e quindi democratica. Insomma, occorre sempre distinguere tra con-
senso e consenso, tra comunicazione e comunicazione, tra svolta e svolta nella
loro gestione. E trattarli in blocco, come sistemi di segni o effetti sistematici del-
la potenza di mass media, non giova certo a tali distinzioni.
D’altra parte, l’approccio semiotico, col suo assunto secondo cui tutto è se-
gno, risulta decisamente incompatibile con le ipotesi stesse delle nostre inchie-


. RISPOSTE PIÙ RECENTI

ste. La prima di queste ipotesi, infatti, lo ricordo ancora una volta, sostiene che
chiunque, anche senza sapere e senza potere, può pensare, nonché che questo
pensiero può rientrare tra i temi più importanti delle ricerche sociali. Possibi-
lità, queste, che sono invece prive di ogni interesse per chi vede tutto ruotare at-
torno alle comunicazioni di massa e al potere di manipolare le opinioni. Le ri-
cerche possibili nei confronti delle popolazioni che non hanno questo potere so-
no allora solo quelle che le interpellano come campioni dai quali trarre “indici
di gradimento” o “di ascolto” o rozze dicotomie tra “favorevoli” e “contrari”.
Le loro parole insomma non contano nulla, se non come ripetizione, conferma
o diniego di discorsi elaborati da altri, più potenti in materia di comunicazione.
Ora, è chiaro che anche nelle nostre inchieste si tiene conto della ripetizione
delle opinioni, del consenso più o meno manipolato, degli effetti della comuni-
cazione di massa, fenomeni tutti sempre ben presenti nelle parole e nel pensiero
di chiunque, e dunque, a maggior ragione, di chi ha pochi mezzi propri o non ne
ha affatto. Ne teniamo conto, ma con due distinguo. Anzitutto, che il pensiero
dei nostri intervistati va cercato proprio laddove le loro parole dicono di più o di
meno rispetto ai discorsi e alle opinioni consensuali che circolano tra loro come
nel resto della società; il che significa fare attenzione anche ai lapsus, alle forza-
ture, agli equivoci, alle stranezze, alle scorrettezze, che sono riscontrabili in quan-
to i nostri interpellati dicono anche quando ripetono il già sentito. L’altro distin-
guo riguarda il fatto che, anche quando una popolazione pare particolarmente
passiva nel ripetere luoghi comuni, ciò non significa che la si debba ritenere com-
pletamente manipolata; a essere rilevante, in un caso simile, è analizzare in det-
taglio quali siano i luoghi comuni ripetuti, come sono ripetuti, perché proprio
quelli anziché altri. Decisiva, per orientare su tutte queste questioni, è la catego-
ria di “luogo”, cui si è già accennato e che considereremo meglio in seguito. De-
cisivo è che ogni popolazione sia interpellata in riferimento al luogo in cui vive,
lavora, apprende, a seconda del caso che interessa la ricerca.
La realtà sociale, per le nostre ipotesi di ricerca, non è che la realtà di luo-
ghi, per conoscere i quali non ci fidiamo in fondo che delle parole di chi vi è
governato.
Per concludere, alle categorie semiologiche di “segno”, “sistema” e “co-
municazione” le nostre ipotesi oppongono “parola”, “luogo” e “pensiero”.

a
Dalla comunicazione alle comunità

a.. Doni non richiesti

La semiologia, sul finire del XX secolo, ha perso non poco del suo fascino, un
tempo quasi irresistibile. Le sue teorizzazioni si sono oggi tanto più ridotte
quanto più diffusi e disparati sono stati i suoi successi tra le scienze sociali. L’e-


VA L E R I O R O M I T E L L I

spansione insomma si è realizzata in effetti, che ora si stanno combinando in


nuove configurazioni problematiche. Ma, col nuovo secolo, a diventare ege-
mone tra le scienze sociali, più che una problematica o una metodologia, è piut-
tosto un tema: il tema comunitario.
Sia chiaro, si tratta di un tema vecchio e ben noto. Tra i suoi teorici il più
famoso risale all’Ottocento. Si tratta di F. Tönnies con la sua opera Comunità e
Società del , dalla quale, si può dire, non c’è ricercatore sociale che non
abbia attinto. Tant’è che molto spesso società e comunità compaiono come si-
nonimi, o accomunati in espressioni come “comunità sociale”. Ma è degno di
nota che Tönnies stesso facesse dell’opposizione tra questi due termini il cen-
tro stesso del suo discorso; un discorso, peraltro, pervaso dal rimpianto per
un’autentica dimensione comunitaria, resa sempre meno possibile dall’ineso-
rabile e progressivo imporsi della società. L’idea è che la comunità corrispon-
da alla condizione più originaria e naturale dell’umanità. La famiglia, il legame
di sangue tra familiari fanno qui da riferimenti sostanziali. Il modello di riferi-
mento è costituito dal patriarcato e dall’economia domestica, quali quelli con
cui solitamente si caratterizza il Medioevo. Nella comunità, dunque, vige la più
naturale unità delle volontà e dei sentimenti di coloro che la compongono. Con
l’imporsi della società, invece, i rapporti tra individui si ridurrebbero a rapporti
essenzialmente contrattuali, a scapito della naturalezza e dei sentimenti sosti-
tuiti da concorrenza, egoismo, individualismo, il tutto dominato dal denaro.
Qui il modello di riferimento è la società borghese, più o meno quale Marx, ci-
tato da Tönnies, l’aveva presentata.
Ora, è chiaro che questa è una visione tipica di una certa tradizione tede-
sca romantica e storicista. Che al suo centro stia ancora un riferimento alle ne-
cessità naturali, di cui si lamenta proprio lo svanire nel presente, ciò fa chiara-
mente intendere che si tratta di un discorso da fine Ottocento, mezzo secolo
prima del culmine della svolta linguistica.
Come ha dimostrato Roberto Esposito, la parola stessa “comunità” con-
tiene già nel suo stesso etimo latino l’idea di un legame passivo, causato da un
dato precedente ed esterno, che chi ne subisce gli effetti non può mutare. Com-
munitas significa infatti cum-munus, con dono, l’essere accomunati da un dono
ricevuto. Ad esempio, nella tradizione biblica, si tratta del dono della grazia; un
dono, di cui l’umanità stessa – a seguito della storia della mela, altro dono, que-
sto diabolico, accettato da Eva – non si è dimostrata degna; da qui il peccato ori-
ginale che ciascuno in vita si porta addosso, avendo come unica scappatoia di
arrivare alla morte senza avere troppo aggravato la propria condizione di pec-
catore congenito. In effetti, il dono che accomuna in comunità è un dono che
nessuno ha voluto e di cui tutti devono sentirsi debitori insolventi. Questo, dun-
que, detto in due parole, il senso più profondo e quanto mai coercitivo della ca-
tegoria di comunità. Essa suppone la figura di un donatore originario, sempre
in credito, come una immutabile ipoteca su ogni possibilità soggettiva.


. RISPOSTE PIÙ RECENTI

Nella tradizione biblica si tratta chiaramente di Dio, l’Ente da cui tutto di-
pende e che sta prima di ogni cosa, l’Uno. Ma un Uno, dato una volta per tut-
te e che di tutto dà la misura, è sempre obbligatorio quando si parla di comu-
nità. A differenza di quel che si intende normalmente per società e che evoca
comunque delle diversità di condizione tra chi ne fa parte, comunità significa
una popolazione unita attorno a una identità. Identità che vuol dire appunto
Uno, ovvero il contrario di qualsiasi differenza. L’identità di ogni comunità vie-
ne quindi sempre da un atto di fede, da un principio fideistico che esclude ogni
sua messa in discussione.
Ora, è del tutto incontestabile che dagli ultimi due decenni del secolo scor-
so fino a oggi il “comunitario” abbia ripreso quota. Nella realtà sociale in ef-
fetti circolano sempre più rivendicazioni di identità comunitaria. Al posto di
un donatore divino si mette la natura, così ecco che l’identità rivendicata può
essere sessuale, etnica o peggio razziale, oltre che religiosa. I principi attorno a
cui le comunità prendono corpo sono in ogni caso sempre naturalistici, mitici
o mistici, e si realizzano solo grazie ad atti di fede.
Victor Turner di questa grande svolta antropologica intervenuta col decli-
nare del XX secolo parla in questi termini: «Nelle coscienze moderne, cogni-
zione, idea, razionalità erano dominanti. Con la svolta postmoderna, la cogni-
zione non viene detronizzata, ma si colloca piuttosto sullo stesso piano della vo-
lizione e dell’affetto». Sarebbe dunque su questo “piano” intermedio tra il ra-
zionale e l’affettivo che ritornerebbe in auge il comunitario. Resta che alle scien-
ze sociali spetta sempre di fare ricerche razionali. E se la loro razionalità non è
mai una, e deve sempre rinnovarsi, è in ogni caso discutibile che la via miglio-
re sia quella postmoderna proposta da Turner. In effetti, il suo obiettivo di giun-
gere a un’“antropologia liberata” lo porta a cercare nell’arte, anziché nella
scienza, un modello di riferimento. Così, è dal teatro che egli trae espliciti
orientamenti per trattare le realtà sociali come “drammi” e performances. Ma il
fatto è che in tale ottica teatrale del sociale le identità comunitarie finiscono per
avere una parte del tutto reale.
Un altro modo di assumere, sia pur criticamente, i temi delle identità co-
munitarie lo si può trovare in Geertz. Egli infatti introduce il concetto di “po-
litiche di identità”. Queste consisterebbero nelle operazioni di “inclusione” ed
“esclusione” con cui in molte parti del mondo si starebbe ridisegnando la vec-
chia geografia basata su distinzioni nazionali oramai superate. Per spiegare ta-
li politiche, egli fa ricorso a un altro concetto, quello di “lealtà primordiali”, che
sarebbero forme di attaccamento a fatti come sangue, lingua, costume, fede, re-
sidenza, famiglia, sembianza fisica e così via. Fatti, questi, che verrebbero per-
cepiti dagli attori sociali come «dotati di una forza coercitiva ineffabile e schiac-
cianti in sé e per sé». Egli tiene, però, a sottolineare che la ricerca sociale non
deve assumere queste percezioni come dati del tutto affidabili, ma deve conte-
stualizzarli e relativizzarli nello spazio e nel tempo. Come dire che l’identità de-


VA L E R I O R O M I T E L L I

rivante dall’attaccamento al proprio “essere” musulmano, cristiano o ebreo,


serbo o croato, hutu o tutsi e così via, muta radicalmente col mutare delle cir-
costanze e delle situazioni. Geertz però non spiega fino a che punto tale varia-
bilità delle “lealtà primordiali” non sia tale da far dubitare che abbiano una
consistenza propria. Viene in mente la critica, più sopra citata, che Boas rivol-
geva a ogni determinismo: si ammetta pure l’esistenza di leggi che determina-
no l’evoluzione in generale, ma nello studio di ogni situazione particolare si tro-
vano tante casualità singolari che sono esse a decidere del senso e dell’inciden-
za di queste determinazioni. In altre parole, si ammettano pure “lealtà primor-
diali”, ma si deve anche ammettere che esse non hanno senso, se non quello che
è loro dato dalla situazione contingente, singolare. È proprio quanto dice un
proverbio arabo amato dal grande storico francese Marc Bloch, secondo il qua-
le “ognuno è figlio più del proprio tempo che del proprio padre”. Se è dunque
legittimo dubitare che queste cosiddette “lealtà primordiali” abbiano una con-
sistenza propria, non si capisce cosa possano spiegare della politica. Viene al-
lora da chiedersi se non sia piuttosto il caso di ammettere che sono invece le
scelte politiche a spiegare quando, quanto e come miti o fedi comunitari si sca-
tenino. Così, ad esempio, la maggior parte dei conflitti che hanno dilaniato la
ex Jugoslavia, anziché essere considerati come scontro tra diverse identità et-
niche o religiose, sono ben più razionalmente analizzabili come effetti perversi
della decomposizione del socialismo di Tito e dei conflitti tra spezzoni dell’e-
sercito, nonché delle manovre della diplomazia internazionale in questa zona
geopolitica. Dal che esce del tutto discutibile l’etichettare queste politiche che
si sviluppano nel decomporsi dei quadri nazionali come “politiche d’identità”.
Ciò proprio perché non sono le cosiddette lealtà primordiali a poterle spiega-
re.
Anziché rovistare col concetto comunque rigido e dogmatico, oltre che fi-
deistico, di “identità”, qui come altrove, le nostre ipotesi consigliano l’uso del-
la categoria delle prescrizioni. E quindi di fare delle diverse prescrizioni, e dei
conflitti tra di esse, la prima chiave di lettura della politica, in generale. Ove,
per “prescrizione” – è il caso di insistere – si deve intendere apertura di possi-
bilità singolare, da analizzare, se avanzata nell’esercizio di un potere – ad esem-
pio, nel caso citato, militare –, in base al sapere da cui è orientata.
Nel caso delle immani catastrofi come quella delle “pulizie etniche” nella
ex Jugoslavia o degli stermini in Ruanda, è chiaro che, nelle decisioni politiche
che li hanno resi possibili, di sapere ce n’era poco o nulla. Ma è solo qui, in quel
minimo di razionalità che ogni prescrizione politica contiene, fosse anche nel-
la forma delle più avventate astuzie o del più cinico e criminale calcolo d’inte-
ressi, che la ricerca sociale può trovare un appiglio per condurre l’analisi sul-
l’unico piano che conta per la scienza, quello razionale.
Tra i ricercatori sociali sono però rari gli esempi di chi si oppone decisa-
mente all’assunzione delle identità comunitarie come indici credibili della


. RISPOSTE PIÙ RECENTI

realtà sociale. Si può forse dire che questo tipo di tematica, delle identità co-
munitarie, ha preso nelle scienze sociali il posto egemone già detenuto dalla se-
miologia. Dal prevalere dei problemi della comunicazione al prevalere di quel-
li delle comunità, dunque. Ma se questo passaggio è stato possibile, è perché
tra queste due tematiche c’è qualcosa di profondamente omologo. Il fatto di es-
sere, entrambi, due tipi di “pensiero unico”, di metodi e di problematiche “a
una dimensione”. Sia la categoria semiotica di segno, sia quella comunitaria
dell’identità non fanno infatti che rimettere insieme, rimescolare ciò che la ri-
cerca scientifica aveva già distinto e separato, aprendo nuovi e diversi orizzon-
ti al pensiero e alla conoscenza. Nel primo caso, il segno inteso semiologica-
mente, come si è già detto, rappresenta un ritorno a quanto stava prima di quel-
la distinzione tra significante e significato, distinzione dalla quale hanno preso
le mosse tra le più importanti scoperte linguistiche del Novecento. Nel secon-
do caso, la ripresa attuale dell’arcaica categoria della comunità rappresenta un
ritorno a quell’unità tra natura, cultura e società (alla Tönnies), che la svolta lin-
guistica nelle scienze sociali aveva già da decenni e decenni mandato definiti-
vamente in frantumi.

a.. Identità o soggettività?

Insomma, che da qualche decennio nelle scienze sociali ci sia stagnazione, se


non riflusso, è per me constatazione obbligatoria, anche riflettendo sul succes-
so semiologico seguito da quello comunitario. È come se fosse in corso una sor-
ta di “delinguistizzazione” delle problematiche sociali a profitto di una loro “ri-
naturalizzazione”. Invece di discutere delle differenze tra chi ha potere e chi
no, delle responsabilità dei primi e delle condizioni al limite dell’impossibile
dei secondi, l’opinione dominante, insistendo sui temi comuni della natura, fi-
nisce anche per privilegiare le immagini più naturali o tradizionali dei conflit-
ti, i quali oramai sembrano avere perso ogni carattere sociale, per apparire in-
vece quasi solo in vesti etniche o religiose. Con l’unica prospettiva di esaspe-
rarsi all’estremo. Un simile spirito del tempo mette a rischio l’abc stesso delle
scienze sociali, ma anche offre loro un campo di ricerca più che mai vasto e ten-
denzialmente omogeneo. Se infatti la polarità tra ricchi e poveri aumenta, gra-
zie al rapido sviluppo di grandissimi paesi già sottosviluppati, come Russia, In-
dia e soprattutto Cina, diminuisce invece la polarità tra paesi ricchi e poveri.
La globalizzazione vuol dire anche questo: un mondo ovunque più socialmen-
te e più similmente diversificato. A ciò si connette la tendenza oramai pluride-
cennale che spinge quasi tutti i governi alla riduzione degli impegni sociali. Le
scienze sociali possono temere dunque di vedere calare l’interesse statale nei lo-
ro confronti, ma possono anche risollevarsi riprendendo la svolta linguistica
nelle sue conseguenze ultime, quelle che portano a ridurre l’uso di metalin-
guaggi da specialisti per far proprio il linguaggio che è già di chiunque.


VA L E R I O R O M I T E L L I

Il successo in tali scienze dei temi identitari e comunitari significa già una
rinuncia a impostazioni sofisticate, ma solo per dar spazio alle opinioni più
circolanti.
Da questo punto di vista, a poco valgono tutti i tentativi di rendere meno
univoco e totalizzante il tema comunitario parlando di identità multiple. Fatto
sta che questa tematica delle identità multiple in molte ricerche sociali ha fini-
to per accompagnare, se non soppiantare, quella precedentemente più usuale
delle differenze sociali. In termini puramente accademici tutto può risolversi
riconoscendo una diversità di ambiti della ricerca. Il tema delle differenze so-
ciali può infatti apparire di competenza più della sociologia quantitativa, men-
tre il tema delle identità collettive tirerebbe in ballo aspetti più soggettivi, per
i quali sarebbero più adatte sociologia qualitativa, antropologia ed etnografia.
Ma al fondo c’è un problema quanto mai delicato, che riguarda il modo stesso
in cui le scienze sociali accettano di aprirsi alle questioni della soggettività. Ta-
li questioni infatti scontano una lunga quarantena tra queste scienze. Si può di-
re che tutti i loro approcci più importanti, tanto nell’Ottocento, quanto nel No-
vecento, hanno sempre considerato i soggetti sociali solo come accessori di que-
stioni oggettive: la soggettività, cioè, sempre, o quasi, intesa come puro assog-
gettamento a vincoli oggettivi, ai quali poco o nulla aggiunge o toglie. Ma a se-
guito della svolta linguistica, come si è visto, tale noncuranza non è più am-
missibile. Dal momento che al dire si riconosce la possibilità di produrre effet-
ti sociali del tutto reali, infatti, la questione di chi parla, di quali sono le condi-
zioni soggettive del suo dire non può più essere elusa.
Come pensare e conoscere chi parla a partire dal suo stesso parlare e nel
rapporto che questo parlare ha con la realtà sociale? Questa è sicuramente una
domanda di fondo e di frontiera per le scienze sociali d’oggi. Le risposte che
qui tentiamo si fondano sulla già più volte menzionata distinzione fondamen-
tale: quella tra chi può e chi non può sulla stessa realtà sociale; tra chi ha mez-
zi e capacità per condizionare lavoro, vita, esperienze di un’infinità d’altri e chi
invece no. È in base a questa distinzione che si può procedere ad analisi diffe-
renziate sui diversi rapporti soggettivi tra linguaggio e realtà. In altri termini,
così si fa diventare un’ipotesi di ricerca l’assunto, di per sé ben intuitivo, del di-
verso peso che le parole hanno nel sociale a seconda del potere che ha chi le
pronuncia. Procedendo da questo assunto di partenza, si ha il vantaggio di
mantenere la questione della soggettività sociale entro la prospettiva aperta dal-
la svolta linguistica tra le scienze sociali. In senso del tutto opposto va invece la
soluzione delle questioni soggettive in termini di identità. Per quanto all’inter-
no di una stessa soggettività collettiva se ne possano riconoscere di infinita-
mente molteplici, tra loro differenziate o, se si preferisce, “meticciate”, “ibri-
date”, secondo la greve terminologia di moda; per quanto si insista sui loro in-
trecci sessuali, etnici, religiosi, tradizionali o quant’altro, tali identità hanno
senso solo se ciascuna di esse si suppone fondata su degli elementi originari tan-


. RISPOSTE PIÙ RECENTI

to uniti da non potere mai essere distinti al loro interno, dunque senza con-
traddizioni: insomma, su delle sostanze naturali o mistiche, che possono certo
attirare l’immaginazione e la fede di chiunque, ma non del ricercatore sociale
edotto dalla svolta linguistica.

b
Scienze sociali e politica nel Novecento

In un libro recentemente uscito ho sostenuto che il Novecento dal punto di vi-


sta della storia della politica non sia riducibile allo scontro tra democrazia e to-
talitarismo, come molti sostengono, e che è invece da considerarsi, specie a par-
tire dal primo dopoguerra, il “secolo dei partiti”. Sarebbe a dire dei regimi in
cui i rapporti tra Stato e società sono stati organizzati, decisi e governati anzi-
tutto dalla figura dei partiti. Sarebbe dunque il loro formarsi, la loro espansio-
ne e, infine, il loro declino ad avere segnato il destino degli Stati e delle società
più ricche. E non viceversa.
Questa tesi riguarda anche le scienze sociali e la loro svolta linguistica. E
ciò in ragione della promessa senza precedenti che ogni partito del Novecento
ha fatto: quella di essere la soluzione esplicita, dichiarata, di ogni profonda di-
sparità sociale.

b. I partiti, il linguaggio, il sociale, la guerra

In effetti, fascisti, nazisti, comunisti, socialisti, liberaldemocratici, tutti, tra di-


rigenti, militanti e simpatizzanti, coi loro immensi seguiti, hanno avuto un trat-
to di fede comune: quella nel potere di risolvere il perenne dualismo di ogni so-
cietà. Intendo la divisione tra ricchi e poveri, tra potenti e non potenti, tra go-
vernanti e governati, tra chi ha i mezzi di decidere dei destini del resto della so-
cietà e chi invece ha sempre da inventarsi come rendere possibile il proprio.
“Comunismo”, “socialismo”, “impero ariano”, “pari opportunità per ciascun
individuo”: queste le maggiori promesse con cui i partiti, da quello sovietico a
quelli socialisti, da quelli fascisti e nazisti a quelli statunitensi e inglesi, con tut-
te le loro numerose imitazioni locali disseminate nel mondo, si sono proposti
come organizzazioni capaci di realizzare la riduzione di tutte le diversità socia-
li. Per comunisti e socialisti, infatti, il “mondo dell’avvenire” non avrebbe più
avuto né sfruttati né sfruttatori; per i nazisti avrebbero dovuto cadere sotto il
dominio degli ariani (tra cui i fascisti speravano di far passare anche un po’ di
stirpe italica); per i liberaldemocratici, con la loro incrollabile e in fondo arcai-
ca fede nell’indissolubile potenza dell’individuo, il futuro avrebbe dovuto es-
sere migliore per i più meritevoli.
Le realizzazioni sono state comunque enormi. Nei paesi più ricchi si è infatti
formato quel “ceto medio” che ha dato agli Stati di questo secolo uno zoccolo


VA L E R I O R O M I T E L L I

duro e resistente contro ogni possibile divisione sociale interna. In compenso,


quando attorno agli anni Trenta si è trattato di contendersi il mondo, tutti que-
sti Stati mono o pluripartitici, non si sono fermati di fronte a nessun orrore.
Da un punto di vista propriamente politico, è d’obbligo far precise diffe-
renze. Stante che nessun regime può essere considerato pacifista, bisogna sa-
pere distinguere quali sono i diversi tipi di guerra (di difesa o d’attacco, ester-
na o interna) che vengono assunti come modello dalle diverse politiche. Se la
guerra in difesa dello Stato contro i nemici interni è stato il motivo ispiratore
delle leggi “fascistissime” del  in Italia, per il nazismo lo è stato la guerra
d’assalto contro il mondo intero, mentre per il comunismo l’ideale cui tendere
è sempre stato il riscatto dei proletari e la difesa della patria socialista, in nome
dei quali non si sono comunque risparmiate guerre, gulag e deportazioni. D’al-
tra parte, i regimi pluralisti anglosassoni non hanno mai voluto rispondere dei
“crimini contro l’umanità” da essi perpetrati con la tecnica a basso rischio per
chi la usa dei bombardamenti a tappeto e delle bombe atomiche.
Da un punto di vista antropologico, la Seconda guerra mondiale, con tutti i
suoi strascichi “freddi”, può essere considerata quasi come una guerra di reli-
gione, non più tra nazioni, sia pur con dimensioni imperialistiche, come nella
Prima, ma tra i vari modelli di partiti(o) al comando degli Stati. I partiti-Stato
del XX secolo, dunque, come vere e proprie chiese laiche: non dichiaratamente
religiose, ma rette su fedi univoche o pluraliste che possono essere paragonate
alle tradizioni monoteiste o pagane. In effetti, non si fa alcuna fatica a ricono-
scere, nella vita di ognuno di questi partiti, culti, riti e sacramenti vari.
Tutto ciò non deve far dimenticare che, sempre tramite la figura dei parti-
ti-Stato, nel Novecento sono avvenute due svolte epocali senza precedenti. Da
un lato, l’assunzione e l’organizzazione sistematica da parte degli Stati di quel-
l’assistenza al sociale più emarginato che precedentemente riceveva attenzione
praticamente solo dalle chiese. Dall’altro, il fatto che la gestione del potere di
Stato ha finito per perdere gran parte della sua tradizionale aura mistica e oscu-
ra, per accettare invece sempre più il vincolo di esplicitarsi, di dichiararsi, di
configurarsi in una dimensione linguistica, leggibile, trasparente per chiunque
se ne interessasse. Programmi, propaganda, campagne per la conquista dei con-
sensi, che sono stati la risorsa prima dei partiti-Stato, sono stati tutti fattori che
hanno portato, come mai prima, il potere a legittimarsi anzitutto tramite paro-
le: parole che ognuno può comprendere ed eventualmente controbattere. I par-
titi-Stato, dunque, come indiscutibili portatori di democrazia, intendendo con
ciò soprattutto il manifestarsi pubblico, il dirsi, da parte di chi ha potere.
Qui sta dunque una delle condizioni politiche essenziali che hanno sospin-
to le scienze sociali ad assumere il linguaggio come questione decisiva. In quan-
to scienze per lo più sovvenzionate dallo Stato, non potevano essere estranee
alla figura del partito che ne gestiva o viceversa ne contestava il potere soprat-
tutto tramite parole. È solo grazie alle parole dei partiti, alle loro prescrizioni,


. RISPOSTE PIÙ RECENTI

che si sono realizzate politiche capaci di portare i loro paesi a quella grande vit-
toria sulla natura, qui già ricordata, per cui per nutrire tutta una popolazione
può bastare solo il lavoro di una sua infima parte.

b. Scienze sociali e regimi politici

Per seguire lo sviluppo novecentesco delle scienze sociali, nulla è più fuorvian-
te del pensarlo al di sopra o estraneo alla storia politica di questo secolo. I tipi
di regime in cui si sono trovate a operare le hanno infatti condizionate in mo-
do decisivo.
Laddove i regimi sono stati monopartitici, queste scienze o hanno accet-
tato di svilirsi in apologia di regime o sono state semplicemente tacitate, re-
presse, perseguitate, esiliate come, o anche più, di altre attività intellettuali.
Dal che il panorama d’insieme di tali scienze, tra gli anni Venti e Trenta, fini-
sce per ridursi a unica prospettiva, quella di lingua anglosassone, con l’unica
eccezione francese.
In particolare, la situazione delle scienze sociali in Italia ha uno sviluppo
con suoi tratti singolari. Se tra Ottocento e Novecento essa appariva punteg-
giata da opere di notevole portata (da quelle sociologiche, psicologiche, peda-
gogiche di Roberto Ardigò a quelle marxiste di Antonio Labriola, a quelle
di politologi come Mosca, Pareto e Michels), col trionfo della filosofia
neoidealistica di Croce e Gentile, si ha un punto di arresto che il monopartiti-
smo fascista rende irreversibile. Un qualche interesse per le ricerche sociali
sembra sopravvivere tramite le varie dottrine più o meno corporativistiche del
regime o vaste operazioni di raccolta del consenso intellettuale, quali quelle at-
tivate dallo stesso Gentile con la redazione dell’enciclopedia Treccani. Ma il
regime, monopolizzando una già ridotta ricerca sociale, ne ha scoraggiato ogni
possibilità di rinnovamento problematico e metodologico.
Una condizione di depressione, questa, che non si può dire venga comple-
tamente riscattata con la fondazione della Repubblica. Le scienze sociali del
nostro paese, infatti, pur sempre aggiornate su ricerche e dibattiti di altri pae-
si, non hanno mai prodotto studi che abbiano lasciato segni indelebili, tranne
l’eccezionale Ernesto De Martino, negli studi di etnografia del folklore, e la
già citata corrente dell’operaismo con tutti i suoi diversi aggiornamenti. Il fat-
to è che l’Italia dal monopolio del Partito fascista passa al quasi duopolio del-
la Democrazia cristiana e del Partito comunista italiano, che per molto tempo
sono stati i più sostenuti e foraggiati dalle rispettive superpotenze di riferi-
mento, Stati Uniti e Unione Sovietica. Contrariamente alla visione tutta nazio-
nalpopolare della storia repubblicana del nostro paese, anche parlando dello
sviluppo delle scienze sociali, sono ancora quasi tutti da censire gli enormi con-
dizionamenti internazionali subiti da questa penisola, geopoliticamente tanto
decisiva per tutto il lunghissimo secondo dopoguerra. Una sequenza storica,


VA L E R I O R O M I T E L L I

questa, che in fondo si è conclusa solo attorno all’Ottantanove con la caduta


del muro di Berlino.
Il fatto è che entrambi i due partiti egemoni (nell’occupazione del potere
la DC e nel campo del sapere il PCI) hanno da sempre avuto una loro dottrina
del sociale, cristiana la prima, marxista la seconda. Due dottrine che per tradi-
zione non hanno mai avuto come luogo privilegiato di insegnamento, d’orga-
nizzazione e di sperimentazione quello pubblico dell’università, ma quelli, co-
me sezioni o parrocchie, più decisamente controllati dal partito o dalla Chiesa.
Così non si può certo dire che nel gestire i rapporti tra società e Stato questi
due maggiori partiti abbiano particolarmente stimolato le scienze sociali a dar-
si delle politiche di ricerca indipendenti, orientate da pure e semplici esigenze
della conoscenza. E si deve invece dire che tali scienze in Italia non hanno mai
goduto, né tutt’oggi godono di un grande prestigio o di notevoli mezzi.
Per chiedersene il perché, oltre che tra le appena accennate caratteristiche
dei maggiori partiti, occorrerebbe probabilmente cercare anche tra le altre sva-
riate ragioni che hanno contribuito a far sì che la prima repubblica di questo pae-
se abbia sempre dimostrato poco entusiasmo per la conoscenza scientifica del so-
ciale. Si dovrebbe allora analizzare quanto e come altre figure abbiano tenuto il
posto e svolto le funzioni che altrimenti avrebbero dovuto spettare a ricercatori
sociali. Particolare attenzione andrebbe alla tradizionale opera caritatevole del
clero cattolico, al quale lo Stato ha affiancato un esercito di tutori dell’ordine pub-
blico che (tra poliziotti, carabinieri, finanzieri e guardie municipali), rispetto al
totale della popolazione del nostro paese, è tra i più folti del mondo e forse an-
che tra i meglio informati in materia sociale. Senza dimenticare peraltro la pre-
senza sociale dei sindacati, i quali anch’essi, almeno dagli anni Settanta del No-
vecento, hanno costituito un’istituzione particolarmente diffusa e incisiva nel no-
stro paese. Ma non si dovrebbe neanche trascurare la tradizionale funzione so-
ciale svolta dalla famiglia, che per lungo tempo ha assorbito e risolto a suo modo
problemi economici cruciali come la disoccupazione giovanile, specie nel Meri-
dione. In primo piano dovrebbe comunque risultare l’abituale propensione go-
vernativa a delegare alle figure fin qui menzionate gli interventi sociali, trascu-
rando peraltro dimensioni e luoghi che, per le loro caratteristiche decisamente
anonime e collettive, come la grande industria (oggi oramai quasi scomparsa),
richiedono strategie politiche e sociali di vasta prospettiva.
Insomma, se in Italia le informazioni sul sociale sono più o meno sempre
venute da una considerevole massa di addetti, quali militanti di partito, preti,
tutori dell’ordine pubblico, sindacalisti, familiari, e se, d’altra parte, i governi
non hanno mai avuto estrema necessità di ulteriori informazioni, si può ben ca-
pire perché in questo paese gli investimenti intellettuali, oltre che finanziari, nei
confronti di ricercatori sociali, non siano mai stati troppo generosi. Ma così si
può capire anche perché le conoscenze rigorose, scientifiche, del sociale non vi
abbiano mai abbondato, con tutte le conseguenze, anche politiche, del caso.


. RISPOSTE PIÙ RECENTI

b. Il Sessantotto e le sue conseguenze

Fatto sta che col XXI secolo si è voltato pagina rispetto alla storia politica del XX
secolo.
Tutti i partiti-Stato su scala planetaria non solo non godono più del presti-
gio e della vitalità di un tempo, ma si può dire che siano entrati addirittura in
una fase di decomposizione. I loro funerali sono stati celebrati in vario modo:
nei paesi comunisti, dove il partito era unico, il regime stesso è clamorosamen-
te crollato; in Italia, a spazzare via i partiti che occupavano lo Stato ha provve-
duto l’inchiesta del  nota come “mani pulite”; negli USA, la cosa è avvenu-
ta col pateracchio delle penultime elezioni che, discreditando il sistema eletto-
rale, hanno discreditato anche il bipartitismo che ne è sempre stato emanazio-
ne, per cui ora la lobby della guerra non ha rivali nel trovare consensi; in In-
ghilterra, poi, si sa che Blair è socialista come la Thatcher; in Francia, infine,
Chirac, che ha potuto godere di una maggioranza schiacciante come mai, si può
dire sia leader di tutti i partiti e di nessuno in particolare. La lista potrebbe con-
tinuare, ovviamente con le dovute eccezioni (quella cinese in testa), che non
fanno tuttavia che confermare la regola generale: quella del disfacimento avan-
zato di ogni organizzazione dei regimi di partito, quale ha dominato buona par-
te del XX secolo. Così, oggi, nel XXI secolo, non è più questo il tipo di organiz-
zazione che unisce e/o divide tutti quelli che siedono in governi o in parlamenti,
né meno che mai quelli che sono i loro seguiti più o meno clientelari. Non ci
sono più né “basi”, né “vertici”, né rapporti sistematici tra i due. Culti, riti, sa-
cramenti, simboli, bandiere appaiono sempre più solo come anticaglie o rima-
sugli del passato. Il nome stesso “partito” è quasi del tutto desueto e sempre
meno gradito.
Un momento inizialmente scatenante di questo declino lo si può rintrac-
ciare nel fatidico Sessantotto. Evento sul quale le interpretazioni si sprecano e
che qui non saranno commentate, per venire subito al punto. Tra i tanti nodi
che vi vengono al pettine, ce n’è uno che qui interessa in particolare. Si tratta
della presa del potere della parola da parte di chiunque in qualunque luogo so-
ciale, di lavoro, di insegnamento. È da ciò, da questa esplosione del linguaggio,
che i fondamenti dei regimi partitici sono stati minati. L’intensità, la durata e i
modi di questa esplosione sono stati diversi a seconda dei paesi in cui è avve-
nuta. Ma la sua contemporaneità praticamente universale è indubbia. E al cuo-
re c’è la radicale contestazione di ogni competenza a parlare, di ogni qualifica
e privilegio nel poter dire invece di e su altri.
Per spiegarne le cause profonde, si può ricordare una cospicua serie di con-
dizioni storiche singolari che avevano cominciato a riunirsi in molti paesi ric-
chi e meno ricchi dal secondo dopoguerra: più scuola, più università, più mo-
bilità sociale, più servizi sociali, ma anche, come si è visto, più importanza al
linguaggio in quanto tale nelle ricerche sociali. Il tutto però sempre politica-


VA L E R I O R O M I T E L L I

mente organizzato da regimi partitici che garantivano la gerarchia e la fitta re-


te dei poteri di chi, nelle istituzioni e nell’economia, dai livelli più alti a quelli
più bassi, ma anche all’interno della famiglia, continuava a decidere del desti-
no altrui. È dunque stato contro questa gerarchia e questa rete che il Sessan-
totto è insorto, interpellando, incoraggiando ognuno a dire la sua o ad urlare o
protestare se non gliela si lasciava dire. Il potere della parola è diventato dun-
que alla portata di tutti, ovunque. E questa conquista è restata e resta tutt’og-
gi. Contro ogni teoria del riflusso che sarebbe seguito a questa stagione e che
l’avrebbe del tutto estinta, va assolutamente difesa l’idea che da allora non si è
mai più tornati indietro, che l’essenziale è rimasto. Anche chi non ha potere, né
sa come ottenerne nel luogo dove lavora o apprende, il potere della parola ce
l’ha e lo esercita. È questo che le nostre stesse inchieste verificano nella mag-
gioranza dei casi. La paura di parlare, la reticenza a dire, il desiderio di tacere
o sorvolare non li si trovano quasi mai. La gente non solo pensa, parla anche, e
liberamente. E ciò viene dal Sessantotto. Il prima e il dopo questo anno sim-
bolico formano uno spartiacque epocale, ancora da ripensare e conoscere nel-
le sue conseguenze. Il che non vuol dire che ne siano seguite solo “meraviglio-
se sorti e progressive”. Anzi. Il potere della parola, alla parola, appena conqui-
stato, ha cominciato la sua corruzione. Non che si sia perduto, dunque, ma più
precisamente è stato contaminato dagli altri poteri più tradizionali, quelli del-
le ricchezze private e dei potentati pubblici. Tutti questi, preso atto della no-
vità dei tempi, vi si sono adattati. Hanno allora cominciato come mai prima a
lasciare parlare, a lasciare dire a ognuno quello che gli pareva, puntando sem-
pre più a esercitarsi, tacendo, in silenzio, con mosse e decisioni meno esplicite,
quasi mai dichiarate. Si esauriva così il tempo dei grandi programmi di partito,
delle eclatanti dichiarazioni dei politici, delle accattivanti promesse di benes-
sere per tutti, delle leggi che scandivano con clamore la vita pubblica. Finiva
questo tempo che era iniziato proprio coi partiti novecenteschi e iniziava il tem-
po delle “emergenze”. Dei decreti e delle leggi d’eccezione. Decreti e leggi spe-
ciali, d’emergenza e d’eccezione che vogliono proprio dire che chi le fa valere
è in uno stato di necessità tale da non poter perdere tempo a dichiarare, a spie-
gare bene, a dare forma compiuta, universale, di legge, a quello che sta facen-
do. L’Italia, con le leggi speciali in materia di terrorismo, seguite all’assassinio
di Moro, nel  – nelle quali si concentrava e si rilanciava la lunga tradizione
delle normative “non normali”, iniziata già con l’Unità, attorno al , contro
i briganti e, poi, nel secondo dopoguerra, contro la mafia e più in generale
contro la criminalità organizzata – ha dato in questo senso un contributo uni-
versalmente riconosciuto da molti governi e personaggi pubblici. E se questa
propensione a non dire bene cosa si sta facendo ha preso piede tra le istituzio-
ni statali, nel privato non si è voluto essere da meno. Tutte le grandi tendenze
sociali ed economiche che caratterizzano il passaggio dal XX al XXI secolo, dal-
la globalizzazione al ridursi della sovranità degli Stati e dei loro impegni nel so-


. RISPOSTE PIÙ RECENTI

ciale, dalla flessibilizzazione e precarizzazione del lavoro alla rimessa in discus-


sione dei modi tradizionali di far scuola, sono quindi accompagnate da una
grande libertà di linguaggio, ovunque e per chiunque, ma che comprende an-
che la libertà di dire poco o nulla di ciò che si sta facendo da parte di chi ha il
potere di condizionare la vita di altri. Che da qualche anno la parola sia passa-
ta alle armi, alle armi dei terroristi e dei governi che non trovano modo miglio-
re di contrastarli se non facendo guerra, questo è un fenomeno derivato anche
dalle sorti del linguaggio. Il fatto che tutti parlino di più di chi ha il potere con-
diziona anche la diffusione dell’opinione, che tacita ogni discussione, metten-
do avanti i problemi di “sicurezza” contro la criminalità di qualunque genere.
Di qui l’importanza del fatto che le scienze sociali assumano il linguaggio
come questione decisiva, proprio per dar voce e ascolto alle parole di chi soli-
tamente non conta, se non come esecutore e governato.

c
Questioni di metodo: discorsi o parole?

Conoscere le lingue dei “nativi” per parlare con loro, come loro, per porsi dal
loro punto di vista è sempre stato un obbligo inderogabile per tutti i maestri
dell’antropologia e dell’etnografia. Tale obbligo però diventa cruciale solo per
le ricerche sociali che portino alle estreme conseguenze la svolta linguistica.
Una delle maggiori questioni di metodo che si pone in questa prospettiva ri-
guarda la rimessa in discussione della pretesa delle scienze sociali di avere un
proprio linguaggio da esperti, un metalinguaggio capace di includere e tratta-
re il resto dei linguaggi come oggetti.
Ora, questa pretesa è quasi scontata dal momento che le scienze sociali si
vogliono scienze. In effetti, da Galileo in poi praticamente non c’è scienza spe-
rimentale che non abbia rinunciato al linguaggio corrente per assumere invece
dei metalinguaggi matematizzati. Il che non vuol dire un semplice ricorso tec-
nico ai calcoli matematici, ma l’assunzione delle matematiche come modelli di
pensiero e conoscenza. Così, per scienze come la fisica o la chimica tutto ciò
che chiunque può dire sulla natura può essere accolto o respinto a seconda che
sia o meno traducibile nelle loro formule. Formule che a loro volta non sono
traducibili in linguaggio comune, se non a prezzo di volgarizzazioni molto im-
poverenti, se non fuorvianti. Ciò perché i linguaggi scientifici come quelli del-
la chimica o della fisica hanno come destinazione di venire esposti a esperi-
menti “da laboratorio”, del tutto estranei al resto delle possibili esperienze.
Ora, le somiglianze con le scienze sociali non mancano. Ad esempio, ognuna
delle loro ricerche può certo venire considerata come un esperimento scientifico,
“da laboratorio”. Ciò che viene messo alla prova non è infatti una realtà sociale
pura e semplice, ma un suo frammento campionato, selezionato e isolato grazie a
conoscenze del sociale che sono non da tutti, bensì di competenza solo di esperti.


VA L E R I O R O M I T E L L I

Al di là di queste somiglianze esteriori con le altre scienze, occorre chieder-


si anche da dove, da quali fonti le scienze sociali cercano di trarre le loro pro-
prie nuove conoscenze sulla realtà. Il punto è, come più volte sottolineato, che,
se si prende sul serio la svolta linguistica, è chiaro che questa fonte non è altro
che il linguaggio stesso, il linguaggio in quanto tale, quello parlato da chiunque,
esperti e non esperti. Una delle possibilità più proprie delle scienze sociali ri-
spetto alle altre scienze risulta allora quella di non fare del metalinguaggio un
proprio obbligo assoluto. Assumere fino in fondo il fatto che la realtà sociale si
dà anzitutto e soprattutto attraverso il linguaggio significa che esso è da assu-
mere in quanto tale, senza distinzioni a priori, senza gerarchie prestabilite tra lin-
guaggi, lingue, gerghi o dialetti. Il fatto bruto, la dimensione puramente empi-
rica, non diviene allora altro se non quello che viene detto nel luogo che il ri-
cercatore ha scelto come proprio campo di indagine. Le nostre inchieste hanno
tutte al loro cuore un insieme di interviste (su un unico questionario, ma del tut-
to aperto) rivolte a un campione di popolazione incontrata sul suo luogo di la-
voro, di apprendimento o di utenza di un servizio. E nostro obiettivo principa-
le è conoscere il loro pensiero attraverso le loro stesse enunciazioni, senza sup-
porre a priori che tra queste enunciazioni ci debba essere alcun legame.
Tale questione del legame o meno tra gli enunciati è decisiva.
Nella maggioranza delle scienze sociali si opta per presupporre tale legame.
Senza di esso pare proprio impossibile qualsiasi conoscenza del linguaggio. Per
la conoscenza linguistica del linguaggio, tale legame sta essenzialmente nella re-
gola grammaticale. Il rispetto o meno di questa regola nel parlare è una delle que-
stioni cruciali di ogni scienza del linguaggio. Così, tutte le scienze sociali che van-
no al seguito delle scienze del linguaggio possono affrontare la realtà sociale so-
lo se sono armate di una qualche regola di tipo o di derivazione grammaticale.
Esiste anche tutto un campo di dottrine interdisciplinari che hanno tra gli
obiettivi proprio quello di amplificare il senso delle regole grammaticali in una
logica polifunzionale, direttamente assumibile, né più né meno, da ogni cam-
po dello scibile, e quindi a maggior ragione dalle scienze sociali. Tra di esse, ad
esempio, gode ancora di buon credito un’opera come quella di van Dijk, che
propone non solo una semantica formale, ma anche una pragmatica del di-
scorso, universalmente applicabili tanto in psicologia cognitiva, quanto in an-
tropologia e sociologia, nonché in filosofia e poetica. Il tutto in nome di una
teoria capace di ricostruire gli enunciati del linguaggio naturale come “se-
quenze di frasi”, in cui ogni frase viene considerata “in relazione” a quelle del-
le altre frasi della stessa sequenza. Detta sequenza, concepita come relazione,
costituirebbe allora il “contesto verbale” da analizzare come “discorso”, dalla
cui coerenza o meno dipenderebbero le sue conseguenze pragmatiche.
Al di là della portata logica e linguistica di questa teoria, le sue implicazio-
ni per la conoscenza della realtà sociale possono riassumersi in una prescrizio-
ne con una sua chiara evidenza: quella di dover analizzare tale realtà a partire


. RISPOSTE PIÙ RECENTI

dalla coerenza o meno dei discorsi che la riguardano. Il che è quasi ovvio. Va
da sé che la coerenza o meno dei discorsi interessa le scienze sociali, oltre ad
avere diretti effetti sulla stessa realtà sociale. Nessun sapere che si rispetti, in-
fatti, può essere pensato e presentato senza un minimo di coerenza, così come
nessuno con responsabilità di governo nella società dovrebbe sentirsi esonera-
to dalla responsabilità di far discorsi con un minimo di coerenza. Ogni eserci-
zio del sapere e del potere ha sempre le sue necessità e, per parlarne senza trop-
pe omissioni, occorre evitare il più possibile di contraddirsi. Qui, dunque, sot-
to questo duplice aspetto, il rapporto tra linguaggio e realtà sociale non può
non essere analizzato senza considerare come e se il linguaggio si tenga insie-
me, abbia o meno coerenza.
Il punto è però che questo non è il solo aspetto del rapporto tra linguaggio
e realtà sociale, né quello che più interessa le nostre ricerche. A essere interpel-
lati da esse non sono esperti o governanti, ma gente che non può nulla, né sa co-
me ottenere potere, dal momento che fa un lavoro duro, cioè oggettivamente al
limite del possibile. Nelle interviste a tali soggetti, la coerenza o meno dei loro
discorsi ha poca o nulla importanza. La loro realtà sociale non la cerchiamo
prendendo come regola, come misura, il legame o meno tra le frasi che vengo-
no come risposte. La cerchiamo direttamente tra le parole, tra le frasi, suppo-
nendo che questo “tra” non designi nulla, se non una semplice possibilità signi-
ficante, e dunque senza alcun intrinseco significato. Realtà sociale è dunque ciò
verso cui parole e frasi degli intervistati tendono senza mai raggiungerla; il che
non toglie, ma anzi precisa, che frasi e parole degli intervistati sono l’unica fon-
te per la conoscenza della realtà sociale, in quanto luogo di una molteplicità di
prescrizioni diverse e a volte in conflitto tra loro. Insomma, nel dire degli inter-
vistati il ricercatore non deve trovare alcuna necessità, ma solo delle possibilità
di prescrizione sulla realtà sociale: possibilità, che sta allo stesso ricercatore pre-
sentare a suo modo, con tutte le responsabilità del caso.
Il dubbio accademico che in tal modo non vi sia alcuna garanzia di obiet-
tività della ricerca è in fondo un dubbio antisperimentale, legittimista: che va-
luta la ricerca stessa a partire dalla sua legittimità rispetto a canoni accademici
realistici, oggettivistici, i quali, per quanto godano ancora di una qualche cre-
dibilità istituzionale, da un punto di vista sperimentale, sono praticamente sca-
duti, desueti. In realtà, ciò che ha sempre deciso dell’obiettività di una ricerca
non è altro che la sua comparabilità col sapere esistente delle scienze sociali,
nonché la sua efficacia nell’offrire delle conoscenze utili alle decisioni politiche.
Da questo punto di vista, far ricerca su parole e frasi assunte in modo slegato e
frammentario non è meno giustificato del cercarvi una qualche coerenza o leg-
gerle tramite un qualche codice di lettura fissato a priori. Non è altro che que-
stione di scelta. A negare la possibilità di questa scelta possono essere solo me-
todologie a una dimensione e con una propensione egemonica, cioè meno che
mai legittime nel nostro tempo.


VA L E R I O R O M I T E L L I

Resta che le nostre ipotesi di fare ricerca sul rapporto tra linguaggio e realtà
sociale solamente localizzandolo, senza supporvi alcun legame, sono eccentri-
che rispetto a quasi tutte le maggiori tradizioni delle scienze sociali. Tutte le ca-
tegorie centrali di queste tradizioni, come “lotta tra le classi”, “evoluzione”,
“definizione”, “tipo ideale”, “funzione”, “struttura”, “sistema”, “vita quoti-
diana”, “performance”, “discorso”, non sono infatti che dei sinonimi della
realtà sociale, che garantiscono a priori un legame tra quest’ultima e il linguag-
gio. Studiare il sociale ha significato quasi sempre applicare nei più svariati mo-
di queste categorie. Secondo un marxista, essere obiettivo significava ricono-
scere in ogni società le divisioni e le lotte delle classi; secondo un evoluzionista,
riconoscervi e compararvi i diversi gradi di sviluppo; secondo un durkheimia-
no, distinguervi, per poi studiarlo, cosa fosse definibile come fatto sociale; se-
condo un weberiano, costruire un tipo ideale di agire sociale, per poi valutar-
ne l’approssimazione alla realtà; secondo un funzionalista, riconoscervi la fun-
zionalità e così via. Sono stati questi sinonimi dell’essenza della realtà sociale a
costituire l’abc dei metalinguaggi delle scienze sociali: dei linguaggi da esperti,
dei gerghi tecnici che hanno trattato il linguaggio naturale, corrente, come un
insieme di linguaggi-oggetto. Ma è del tutto degno di nota che le certezze su cui
si fondavano questi metalinguaggi erano comunque esogene, derivate da cam-
pi del sapere estranei alle stesse ricerche sociali. “Lotta di classe” è categoria
derivata essenzialmente dalla militanza intellettuale e politica dei marxisti;
“evoluzione”, “funzione” e “sistema” dalla biologia; “definizione” dalla filoso-
fia positivista e “tipo ideale” dalla filosofia neokantiana; “struttura”, “discor-
so” dalla linguistica; “performance”, oltre che dalla filosofia del linguaggio, dal
teatro.
Essere obiettivi, pur chiamandosi fuori da queste tradizioni, non significa
altro che ottenere dei risultati comparabili a quelli ottenuti da ricerche con-
dotte in nome di queste categorie. E se i linguaggi da essi organizzati si sono
presentati come linguaggi da esperti, non è detto che non si possa fare altri-
menti. È quanto prescrive la svolta linguistica assunta nelle sue ultime conse-
guenze. Ed è quanto le nostre ricerche tentano.

Note

. Tra la fine degli anni Quaranta e lungo tutti gli anni Sessanta vedono la luce svariate ope-
re filosofiche che fanno epoca e che hanno tutte al centro il tema del linguaggio: da Martin Hei-
degger (a partire dal  con la Lettera sull’umanismo, Torino ), a Ludwig Wittgenstein (Ri-
cerche logiche [], Torino ); da John Austin (Come fare cose con le parole [], Genova
) a Richard Rorty (La svolta linguistica [], Milano ). Su tutto ciò, mio riferimento de-
cisivo qui, come altrove, resta Alain Badiou, di cui cfr. Logique, philosophie, “tournant langagier”,
in Court traité d’ontologie transitoire, Paris .
. Milner, Périple structural, cit., p. .
. Per tutte le questioni della scienza del linguaggio cfr. J. C. Milner, Introduction à la scien-
ce du language, Paris .


. RISPOSTE PIÙ RECENTI

. Ivi, p. .
. Cfr., ad esempio, E. Leach, La comunicazione non verbale (), Torino  e, in parti-
colare, il modo in cui applica alle scienze sociali la distinzione tra “competenze” ed “esecuzione”
proposta da Chomsky per lo studio sintattico delle lingue parlate in Saggi linguistici, I-II (),
Torino .
. Cfr. Leach, voce “Anthropos”, cit.
. G. H. Mead, Mente, sé e società (), Firenze .
. H. Blumer, Symbolic interactionnism (), citato in Izzo, Storia del pensiero sociologico,
cit., p. .
. Ivi, p. .
. A. Garfinkel, Cos’è l’etnometodologia? (), in P. P. Giglioli, A. Dal Lago (a cura di),
Etnometodologia, Bologna .
. Ivi, p. .
. Ivi, p. .
. Ivi, p. .
. Non si può non ricordare la sua opera imprescindibile, Tristi tropici (), Milano .
. Cfr. Leach, Comunicazione non verbale, cit. e Id., Nuove vie dell’antropologia (), Mi-
lano .
. Cfr., ad esempio, C. Geertz, Antropologia e filosofia (), Bologna , pp. -.
. C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, Milano , p. .
. Ivi, p. .
. Ivi, p. .
. L. Althusser, Umanesimo e stalinismo (), Bari . Sulla figura di Louis Althusser,
cfr. S. Lazarus (a cura di), Politique et philosophie dans l’oeuvre de Louis Althusser, Paris .
. Da questo punto di vista è del tutto interessante notare come non pochi allievi di strut-
turalisti, quali Althusser, Lacan e Lévi-Strauss, si siano ritrovati protagonisti del Sessantotto fran-
cese. Cfr. N. Michel, Ô jeunesse! Ô vieillesse! Le mai mao, Paris .
. Milner, Le périple, cit., p. .
. Strutturalisti maggiori come Althusser, Foucault e Lacan fecero dell’“umanismo” uno dei
loro più costanti bersagli polemici. Cfr. A. Badiou, L’etica. Saggio sulla coscienza del Male (),
Parma .
. Tra gli altri, cfr. A. Schmidt, La negazione della storia. Strutturalismo e marxismo in Althus-
ser e Lévi-Strauss (), Padova .
. E. Leach, Due saggi sulla rappresentazione simbolica del tempo (), in Id., Nuove vie del-
l’antropologia, Milano .
. Cfr. di questo autore il cap. La Natura non esiste, in L’essere e l’evento, cit.
. P. Krugman, La deriva americana, Roma-Bari , p. .
. Cfr. il testo del  Parole, enunciati e attività, in Giglioli, Dal Lago (a cura di), Etno-
metodologia, cit.
. E. Sapir, Il linguaggio. Introduzione alla linguistica (), Torino .
. B. L. Whorf, Linguaggio, pensiero e realtà (), Torino , p. .
. Ivi, cfr. l’introduzione di A. Mioni, Presenza e attualità di Whorf nella linguistica.
. B. L. Whorf, Scienza e linguistica, in Id., Linguaggio, pensiero e realtà, cit., p. .
. In Whorf non è estranea la prospettiva di una nuova visione cosmologica integrale. Nel-
la già citata conferenza e che avviene presso la società di teosofia per cui simpatizza egli parla di
un nuovo avanzamento che lo “spirito scientifico come totalità” è chiamato a fare, ma subito ag-
giunge che esso comporta «un completo allontanamento dalle tradizioni». E a tal scopo uno dei
passi più importanti che la scienza occidentale deve compiere per lui sta nel «riesame del retro-
terra linguistico del suo pensiero», ivi, p. .
. Che il confronto tra diversità sia una via obbligata è ribadito spesso da Whorf in affer-
mazioni come la seguente: le «strutture (del pensiero) sono complesse sistemazioni non percepi-
te del suo proprio linguaggio, che vengono prontamente in luce rilevabili con un confronto con
altre lingue», ivi, p. .


VA L E R I O R O M I T E L L I

. Cfr. il paragone dell’impostazione di Whorf con quella del contemporaneo Lévy-Bruhl
proposta da Barnard, Storia del pensiero antropologico, cit.
. Non per nulla uno dei suoi testi maggiori si intitola proprio Antropologia interpretativa (cit.).
. Cfr. Antimo Negri (a cura di), Novecento filosofico e scientifico, II, Milano .
. L. Hjelmslev, Essais linguistiques, Copenhagen .
. Geertz, Il modo in cui oggi pensiamo, cit.
. Cfr. CAP. , nota .
. Whorf, Linguaggio, pensiero e realtà, cit., p. .
. Considerazioni non troppo distanti, sia pur condotte in termini propriamente filosofici,
le si possono trovare in A. Badiou, Philosophie et poésie, in Conditions, Paris .
. V. Turner, Antropologia della performance (), Bologna, .
. R. Turner, Parole, enunciati e attività, in Giglioli, Dal Lago (a cura di), Etnometodologia, cit.
. In Lazarus, Anthropologie du nom, cit.
. In Antropologia della performance, cit., Victor Turner opera una distinzione tra «proces-
si di regolarizzazione» e «processi di aggiustamento situazionale» (pp. -), la quale, sia pur al-
la lontana, può essere accostabile alla nostra distinzione tra le prescrizioni che hanno il potere di
condizionare il resto della società e quelle che invece non fanno che rendere possibile l’esistenza
sociale di popolazioni senza potere. Inoltre, questo stesso autore insiste sul fatto che il contesto
sociale postmoderno risulta sempre più condizionato dal “fattore indeterminatezza” e dunque ir-
riducibile a ogni processo di regolarizzazione e aggiustamento situazionale, secondo il suo lessi-
co. Il che può anche apparire un autorevole antecedente dell’idea qui esposta che la realtà socia-
le è irriducibile a ogni prescrizione o insieme di prescrizioni, proprio perché ne costituisce l’are-
na e la posta in gioco. Resta comunque almeno un punto in cui le divergenze tra le nostre ipotesi
e quelle di Turner risultano chiare. È quando sostiene l’esigenza postmoderna di una “coscienza
multiprospettica” (p. ). A parte l’uso discutibile della categoria di “postmoderno”, ciò che tro-
vo non condivisibile è proprio la possibilità di pensare e di conoscere la realtà sociale da una pro-
spettiva che, volendosi pluralista, non si dà limiti. Nostra idea è infatti che ogni ricercatore, tro-
vandosi sempre dentro una realtà sociale, non può che studiare le prescrizioni di una popolazio-
ne rispetto alle altre presenti in quella stessa realtà. E ciò tenendo conto del fatto che la prima di-
stinzione da operare è sempre tra le popolazioni che hanno potere sul resto della società e quelle
che non lo hanno.
. Anche se un po’ troppo citato e anche malamente evocato, perché il suo riferimento non
dia adito a confusioni, il famoso “principio di indeterminatezza” del Nobel per la fisica W. Hei-
senberg (Lo sfondo filosofico della fisica moderna [], Palermo ) non può mancare di esse-
re annoverato tra le fonti ispiratrici delle nostre ipotesi.
. U. Eco, Trattato di semiotica generale, Milano .
. P. Fabbri, La svolta semiotica, Roma-Bari .
. Milner, Introduction à la science du language, cit., p. .
. Citato in Id., Le périple, cit., p. .
. R. Barthes, Elementi di semiologia (), Torino .
. Milner, Le périple, cit., p. .
. Giraud, L’inégalité du monde, cit.
. Milner, Le périple, cit., p. .
. G. Debord, La società dello spettacolo (), Bolsena (VT) .
. N. Luhmann, Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale (), Bologna .
. H. Marcuse, Eros e civiltà (), Torino ; Id., Ragione e rivoluzione (), Bologna
; Id., L’uomo a una dimensione (), Torino .
. J. Habermas, Agire comunicativo e logica delle scienze sociali (), Bologna ; Id.,
Prassi politica e teoria critica della società (), Bologna .
. P. F. Lazarsfeld, R. K. Merton, Mezzi di comunicazioni di massa, gusti popolari e azione so-
ciale organizzata, in M. Livolsi (a cura di), Comunicazioni e cultura di massa, Milano .
. È sintomatico che Eco, nel  (Semiotica e filosofia del linguaggio, Milano ) tratti,
sia pur non senza ironia, della “morte del segno”.


. RISPOSTE PIÙ RECENTI

. F. Tönnies, Comunità e società (), Milano .


. R. Esposito, Communitas, Torino .
. Turner, Antropologia della performance, cit., p. .
. Ivi, p. .
. Seguendo un orientamento cui E. Goffman ha dato uno dei maggiori contributi, specie
con La vita quotidiana come rappresentazione (), Bologna .
. C. Geertz, Mondo globale, mondi locali. Cultura e politica alla fine del ventesimo secolo,
Bologna , p. .
. Merito va dunque a F. Remotti, Contro l’identità, Roma-Bari .
. È una delle tesi centrali di Giraud, L’inégalité du monde, cit.
. V. Romitelli, Storie di politica e di potere, Napoli .
. R. Ardigò, Sociologia, Padova ; Id., La scienza dell’educazione (), Milano .
. A. Labriola, Del materialismo storico (), Roma .
. G. Mosca, Teoria dei governi e governo parlamentare (), Milano .
. W. Pareto, Trattato di sociologia generale (), Milano .
. R. Michels, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna (), Bologna .
. Cfr. L. Mangoni, L’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, Roma-
Bari, ; G. Turi, Il fascismo e il consenso degli intellettuali, Bologna .
. Nella vasta bibliografia storiografica sull’argomento, cfr.: P. Ginsborg, Storia d’Italia dal
dopoguerra ad oggi, Torino ; S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, Venezia ; P. Crave-
ri, La Repubblica dal  al , Milano .
. E. De Martino, Il mondo magico (), Torino ; Id., Sud e magia (), Milano ;
Id., Magia e civiltà (), Milano .
. Cfr. CAP. , nota .
. Cfr. G. Galli, I partiti politici italiani -, Milano .
. E. Reyneri, Occupati e disoccupati in Italia, Bologna .
. L. Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, Torino .
. R. Martucci, Emergenza e tutela dell’ordine pubblico nell’Italia liberale, Bologna .
. Traduco con “laboratorio” ciò che J. C. Milner chiama “il dispositivo dell’osservatorio”,
per ispirarmi alle sue considerazioni su scienze e scienze umane e sociali in Introduction à la scien-
ce du language, cit.
. T. A. van Dijk, Testo e contesto, Bologna .



Le nostre risposte

Prima di passare alle nostre risposte, faccio il punto, con l’aggiunta di qualche
commento ulteriore a quanto finora sostenuto.

.
Il dualismo delle scienze sociali

La svolta linguistica, quale avviene nelle scienze sociali nel corso del Novecento,
significa che non è più possibile pensare che nella realtà sociale vi siano decisivi
condizionamenti naturali, ma che tutto o quasi dipende da quel che è detto a pro-
posito del sociale: anzitutto da quel che è detto da chi vi ha potere di condizio-
nare la vita altrui. Ora, il fatto è che in questo secolo chi ha avuto tale potere è sta-
to organizzato soprattutto da partiti che si sono presentati essenzialmente nella
forma scritta, dichiarata, discutibile, dei programmi, dei discorsi, delle parole d’or-
dine. Un linguaggio, questo, di cui i partiti sono vissuti, che è stato caratterizzato
dalla promessa secondo la quale prima o poi non sarebbe più esistito un sociale
emarginato e che presto o tardi tutto il sociale sarebbe stato integrato attorno al-
lo stesso modello di umanità: comunista, fascista, ariano o liberaldemocratico, per
non parlare di tutte le altre possibili variazioni e sfumature intermedie.
A partire dall’esplosione del Sessantotto e dal disseminarsi illimitato del po-
tere della parola, i partiti, con tutti i loro programmi e leggi per ridurre la pola-
rità tra governanti e governati, tra ricchi e poveri, tra chi ha potere e chi no, han-
no esaurito il loro ciclo d’esistenza. Tale polarità oggi, dunque, torna fuori più
che mai. Dei modi per nasconderla non mancano. Ad esempio, quello di ritirare
in ballo delle differenze naturali o religiose, come quelle evocate dalle identità co-
munitarie. Ma la natura di fronte alla società è oramai solo ambiente, sfondo di
una scena che è decisa altrimenti: anzitutto da quel che si dice che sia possibile
fare. Ed è quanto mai significativo che, quando l’opinione mediatica tratta d’am-
biente, lo faccia soprattutto in nome di una sua “difesa”: come se si trattasse di
fare il meno possibile, di lasciarlo al suo stato naturale, come se tutti, indipen-
dentemente dai propri status e ruoli, avessero pari responsabilità. Mentre è chia-
ro che lo stato dell’ambiente naturale non è altro che il risultato delle politiche di


VA L E R I O R O M I T E L L I

chi ha il potere su industrie, trasporti, gestione dei rifiuti, ricerche scientifiche e


altre attività del genere, su cui la stragrande maggioranza della popolazione non
ha alcun minimo potere. La prescrizione della “difesa dell’ambiente” rischia dun-
que di fare da paravento alle responsabilità di chi gestisce quelle che invece sono
(come quella già citata, sulla fame, raggiunta, sia pur relativamente da pochi pae-
si, nel secondo dopoguerra) delle conquiste sulle necessità naturali: conquiste da
allargare ed estendere per rimodellare ulteriormente anche ciò che della natura
trasformata in ambiente si è rivelato un residuo incompatibile con la vita sociale.
Ma il fatto stesso che ovunque si parli di natura solo come di un’armonia origi-
naria che tutti indistintamente hanno l’obbligo morale di rispettare, il fatto che
quasi mai sia messo in discussione il potere di chi la trasforma costantemente, tut-
to ciò mostra chiaramente solo una cosa, che qui interessa. Che non tutte le pa-
role hanno lo stesso peso, che non si tratta solo di segni che si scambiano, che co-
municano tra loro. Ciò perché le parole di chi condiziona le sorti del sociale so-
no parole con un’efficacia diversa da quella delle parole di chi fa tanto se riesce
a rendersi possibile una propria realtà sociale.
Alle scienze sociali sta dunque decidere dove indirizzare le proprie ricerche.
Le nostre sono indirizzate in quest’ultimo senso, verso quei soggetti che sono
senza potere dove lavorano o apprendono, ma hanno la capacità e la volontà di
dire cosa pensano e come fanno a rendere possibile il sociale oltre ciò che già gli
esperti conoscono. Ma non è l’unica direzione. C’è infatti quanto mai bisogno
di scienze sociali capaci anche di offrire proprie prescrizioni nei confronti di
quelle politiche di chi, nel pubblico come nel privato, ha potere e competenze
di governo. L’essenziale è che nei due casi, sia in quello delle ricerche tra i go-
vernati, sia in quello delle ricerche tra i governanti, non si pretenda di integrare
anche l’altra casistica svuotandola di contenuti propri. Nel triangolo tra gover-
nati, governanti e scienze sociali nessuno deve pretendere di dettare legge, di
trovare la soluzione che accontenti tutti. I rapporti reali non possono che esse-
re bilaterali e il “terzo”, come insegna la logica più tradizionale, non può che es-
sere escluso. Solo così si può rispettare la società nelle sue divisioni, per avvici-
narle senza farle scontrare.
L’immagine delle scienze sociali che ne risulta può apparire un po’ schizo-
frenica, intimamente e irrimediabilmente divisa tra le ricerche al servizio di chi
governa e le ricerche al servizio dei governati. Ma questa divisione di fatto esi-
ste già fin dalle loro origini di metà Ottocento. Fin da quando, cioè, a ricerca-
tori come Tylor venne in mente di studiare dei “selvaggi”, quali gli Anahuac del
Messico, e non certo allo scopo di asservirli o gestirli, ma per dar loro la dignità
di rappresentare una grande questione per l’antropologia nascente. Se dunque
simili ricerche su popolazioni senza potere sono da sempre state un punto di
forza delle scienze sociali, esse si sono sempre accompagnate a ricerche del tut-
to funzionali alle esigenze dei governi più potenti. Questa doppia attitudine a
guardare la realtà “dall’alto” o “dal basso”, da sempre esistente, nei fatti, tra so-


. LE NOSTRE RISPOSTE

ciologi, antropologi ed etnografi, è apparsa più che mai composta nel Nove-
cento, grazie anche alle diverse promesse partitiche convergenti nel far spera-
re in un mondo in cui le differenze di condizione tra esseri umani si sarebbero
in un modo o in un altro ridotte, se non addirittura estinte. L’attuale venir me-
no di tali promesse richiederebbe però che questo dualismo delle scienze so-
ciali, questo loro oscillare, di fatto, tra popolazioni di governanti e popolazio-
ni di governati, fosse finalmente riconosciuto anche di diritto. Il che per loro
non comporterebbe alcuna scissione metodologica o istituzionale, ma solo del-
le più chiare assunzioni di responsabilità quanto alla politica scientifica perse-
guita, se più in favore dei governanti o più in favore dei governati.

.
Prescrizioni per la ricerca

Le nostre risposte verranno esposte in forma di prescrizioni. Prescrizioni di co-


me può prendere l’avvio e orientarsi una ricerca ispirata dalle nostre ipotesi.
Supponiamo di essere qualcuno che ne sa qualcosa di scienze sociali (ov-
vero che ha già letto le parti precedenti di questo testo e ha preso visione di
qualche libro segnalato in nota) e che ha intenzione di fare una ricerca.
Anzitutto, si cerca di avere qualche informazione su quel che si dice nel pre-
sente a proposito del sociale. A tale scopo l’operazione più semplice consiste
nello sfogliare qualche giornale. In questi mezzi della comunicazione di massa
si trova ovviamente una miriade di opinioni circolanti sui fatti più diversi.

... Ricerche sociologiche sui governanti

Tra queste opinioni circolanti, solitamente campeggiano quelle di coloro che


hanno capacità e competenze di governo sulla vita degli altri. Poco importa che
siano imprenditori, sindacalisti, politici o funzionari, poco importa che siano o
meno favorevolmente commentati dai giornalisti, ancora meno se le loro paro-
le godano di un consenso unanime, l’essenziale è soffermarsi su quello che di-
cono a proposito di quello che stanno facendo: su ciò che dichiarano a propo-
sito di quello che stanno rendendo possibile. Solitamente queste dichiarazioni
contengono delle giustificazioni del proprio operato. Chi ha potere per lo più
non si sottrae del tutto alla responsabilità di dare qualche spiegazione del per-
ché sta facendo quello che sta facendo. E gli argomenti per tale spiegazione non
possono non contenere un minimo di razionalità: cioè, di coerenza logica ri-
spetto a un insieme di conoscenze riguardanti le condizioni in cui si agisce. In-
somma, i discorsi di chi ha potere tendono sempre o quasi a evocare le cogni-
zioni di causa che giustificano le loro scelte. Ora, è proprio questo, queste co-
gnizioni di causa, la prima cosa che è opportuno studiare, se a interessare è l’a-
nalisi di una decisione che ha conseguenze prescrittive sul resto della società.


VA L E R I O R O M I T E L L I

La prima domanda che ci si può porre riguarda il metodo, la scuola di pen-


siero con cui tali conoscenze sono state ottenute. E, poiché normalmente si trat-
ta di conoscenze fondamentalmente economiche, giuridiche o militari, si trat-
terà di capire da quale indirizzo all’interno di queste dottrine venga tratto il sa-
pere necessario a decidere. Qual è insomma la formazione degli esperti, dei
consiglieri di chi spiega pubblicamente perché è stata presa una decisione di
governo piuttosto che un’altra. In tal modo si potrà capire se con tale decisio-
ne non si fa che applicare dogmaticamente un sapere già acquisito oppure se
ne rappresenta una variante innovativa più o meno giustificata. Ad esempio,
una critica molto spesso rivolta al Fondo monetario internazionale è stata quel-
la di seguire dogmaticamente un approccio economico neoliberista e moneta-
rista. Invece, in Italia, a un ministro come Tremonti è stata imputata una finanza
“creativa”, ironizzando sul fatto che le cifre addotte non giustificavano le deci-
sioni prese in loro nome.
Una seconda domanda che ci si può porre riguarda la coerenza tra le con-
seguenze sociali prevedibili della decisione presa e la sua giustificazione. Per
esempio, se l’obiettivo di estirpare dal sociale ogni forma di terrorismo giusti-
fichi, da un punto di vista militare, la decisione di una guerra infinita ai cosid-
detti “Stati-canaglia”. Personalmente, altrove, ho provato a dimostrare che,
anche alla luce della tradizionalissima e sempre rispettata dottrina bellica del
generale prussiano del primo Ottocento, Karl von Clausewitz, tale giustifica-
zione è introvabile.
La domanda più impegnativa consiste nel chiedersi se, alla luce delle co-
noscenze disponibili intorno alle condizioni di una decisione a rilevanza socia-
le, non fosse opportuno pensare un’altra decisione. Ogni problema sociale in-
fatti ha sempre più soluzioni possibili. Possibilità che aumentano tanto più e
meglio è conosciuto il problema. E dato che nessun problema ha solo una so-
luzione, ogni decisione di politica sociale è tanto più contestabile quanto più si
giustifica come l’unica possibile. Tale giustificazione infatti non fa semplice-
mente che nascondere quali siano i settori di popolazione che sono più premiati
e quelli che sono più penalizzati. Ogni soluzione di un problema sociale, in
quanto attuata comunque col concorso di finanze pubbliche, implica infatti
una inevitabile redistribuzione del reddito, di cui sarebbe sempre opportuna
una discussione pubblica, cui le scienze sociali dovrebbero contribuire. La
semplice deduzione della soluzione politica, tratta per via puramente logica
dalla conoscenza del problema, come si trattasse di un’operazione naturale e a
costo zero, è solo falsità, che le scienze sociali dovrebbero sempre denunciare.
Così pure dovrebbero denunciare l’uso sempre più frequente e sistematico tra
i governanti di categorie giuridiche come “stato d’emergenza”, “leggi speciali”
e “d’eccezione”. Tale uso, che è finito nell’evidente perversione di rendere nor-
male l’eccezionale, non punta infatti che a tacitare sul nascere ogni discussione
sull’opportunità di altre decisioni.


. LE NOSTRE RISPOSTE

Ma c’è anche un altro insieme di questioni che possono suscitare l’interes-


se di ricerca. Specie in Italia si tratta di quelle che si possono chiamare indeci-
sioni o le decisioni del tutto implicite da parte di chi ha il potere: le famose di-
sfunzioni o inefficienze dello Stato, i conflitti di interessi. Ad esempio, l’inca-
pacità di avere procedure omogenee e credibili nell’accoglimento dei lavorato-
ri stranieri, la delega spesso tacita alla famiglia o alla chiesa per risolvere que-
stioni sociali che riguardano tutti i cittadini, con o senza famiglia, credenti o
non credenti, o, d’altra parte, il fatto che il lavoro continui a essere per metà, o
quasi, “nero”, cioè non censito, fuori di ogni conto e norma. Qui le domande
da porsi riguardano tutte le decisioni che sono prese al posto di quelle che, al-
la luce delle conoscenze economiche e giuridiche, parrebbero importanti.
D’altra parte, in qualsiasi problematica sociale del nostro paese occorre
sempre tenere conto di un dato caratteristico della situazione giuridica. L’in-
flazione legislativa, il fatto che esistono troppe leggi, il fatto che, ad esempio,
quando se ne fa una, non si abrogano le precedenti su analoga materia, insom-
ma, l’esistenza su ogni questione di garbugli normativi che finiscono per la-
sciare molto spazio discrezionale all’autorità del caso: magistrati, tutori del-
l’ordine pubblico, clero, funzionari o grandi e piccoli manager con prestigio e
qualifiche pubbliche o semipubbliche. Di qui l’interesse a studiare come, caso
per caso, sulla base di quali conoscenze tali governanti prendano le loro deci-
sioni. L’importante, per mantenere la ricerca a livello scientifico, è concentrare
l’attenzione sulle conoscenze e sulla coerenza o meno delle decisioni che ven-
gono prese. Diversamente, se l’attenzione è dedicata soprattutto a stabilire gli
intrecci personali più o meno occulti che stanno dietro le decisioni, oppure a
sollevare scandali per la loro segretezza, in tali casi si scivola inevitabilmente
nella cronaca. Non si deve mai dimenticare che ogni Stato, per definizione, ri-
vendica di avere dei segreti, e che questi coprono l’essenziale di quella dimen-
sione decisiva degli affari pubblici costituita dalla tutela dell’ordine interno e
dalle questioni militari. Insomma, la supposta trasparenza delle istituzioni pub-
bliche e democratiche riguarda solo una parte di queste ultime. Le conoscenze
delle ricerche sociali su chi ha potere possono contribuire a estendere questa
trasparenza, ma solo puntualmente e relativamente.
Da notare bene è che ovunque l’opinione circoli, ovunque l’informazione
arrivi, c’è sempre un potere che decide o al quale si può comunque imputare
lo stato del problema sociale che si incontra. Il ricercatore sociale non deve cioè
cedere alla tentazione di credere a qualcosa come l’autogoverno della società.
Credenza, questa, favorita dall’uso di categorie quali quella della “società civi-
le” o della “cultura”, intesa come stadio evolutivo contiguo a quello naturale e
quindi condivisa da tutti e da nessuno in particolare. Ad esempio, tipico, da
questo punto di vista, è un certo tradizionale e sempre diffuso modo di con-
cepire il “sottosviluppo” del meridione italiano, attribuendone la causa, o me-
glio la colpa, ai difetti che caratterizzerebbero “società civile” o “cultura” da


VA L E R I O R O M I T E L L I

Roma in giù. Ma anche a proposito di fenomeni come le “tifoserie” calcistiche,


la grande, la piccola criminalità o altri fenomeni di rilevanza sociale generale, il
focus della ricerca deve sempre puntare a individuare le sedi pubbliche o pri-
vate, manifeste od occulte, dove si concentra il potere di prendere decisioni sul
destino di tali fenomeni. E anche qui l’analisi deve concentrarsi sulle cono-
scenze in base alle quali tali decisioni sono prese e quindi sulla coerenza o me-
no di queste ultime rispetto a quanto viene dichiarato per giustificarle.
In ogni caso, da evitare è credere che il risultato ideale della ricerca dovreb-
be consistere in pure e semplici descrizioni oggettive di quel che la realtà socia-
le è. Dal momento in cui la svolta linguistica impone di ammettere che la realtà
sociale è quello che il linguaggio ne presenta, anche il ricercatore sociale non può
non sentirsi corresponsabile della sua presentazione. Così, le sue ricerche non
possono non avere una portata pragmatica, effettuale, quantomeno nello spin-
gere in un senso piuttosto che in un altro la circolazione delle opinioni.
Come si è visto, tutto questo genere di ricerche sui governanti richiede co-
munque delle precise competenze e conoscenze in materie da esperti: giuridiche,
statistiche, economiche, urbanistiche, criminologiche, militari e così via. Senza
padroneggiare almeno uno di questi tipi di sapere, tali ricerche su come si eser-
cita il governo del sociale non sono possibili. Se questi si possono chiamare stu-
di sociologici, quelli cui si dedica il nostro gruppo sono altri, che rientrano piut-
tosto tra gli studi che si chiamano antropologici, etnologici o ancora più preci-
samente, nel nostro caso, etnografici.

... Ricerche etnografiche tra i governati

Per spiegare come orientarli, ritorniamo allo spoglio dei giornali.


Più spesso tra le righe, possiamo notare il riferimento a gente che è sem-
plicemente governata, che non ha alcun potere di decidere i destini del resto del
sociale e che stenta a rendere possibile il proprio. Si tratta di popolazioni che
fanno lavori duri, obiettivamente al limite del possibile, o che sono senza lavo-
ro e che si arrangiano come possono a sopravvivere. Un sociale che, volendo,
si può chiamare marginale, ma intendendo così che si tratta di una realtà alla
frontiera del possibile, che rende possibile ciò che per il resto della società non lo
è. I margini che occupa questo genere di popolazione sono più o meno grandi
a seconda della ricchezza e dello sviluppo economico del paese in cui si trova,
ma sono comunque molto più vasti di quanto la circolazione delle opinioni so-
litamente ammetta. E ciò, non perché queste sono manipolate dai mass media
e da chi li comanda, ma perché questa realtà sociale, senza potere, non ha nul-
la da comunicare, né da far notizia. Così, a livello d’opinione, essa compare so-
lo tramite i discorsi di chi ne trae anche solo un minimo di potere, come i sin-
dacati. Il recente disfacimento dei partiti, soprattutto di quelli che tiravano
avanti il movimento operaio, ha sicuramente fatto recedere, come mai prima,


. LE NOSTRE RISPOSTE

poveri, operai, lavoratori precari o senza lavoro a semplici cifre statistiche. Ma,
d’altra parte, oggi nessuno può pensare seriamente che queste siano delle po-
polazioni in più o meno rapida ascesa sociale o estinzione. Si allargano, allar-
gando sempre più i margini del sociale rispetto ai suoi centri decisionali.
Dunque, l’etnografo che oggi voglia studiare queste popolazioni, dette
marginali, si trova in una posizione assai nuova e singolare. Da un lato, la sua
scelta di ricerca può assomigliare a quella di quei primi etnografi che, contro
l’opinione pubblica del proprio tempo e sfidando ogni sorta di rischi, si av-
venturavano tra capanne sperdute nelle foreste per ergere a grande questione
scientifica il pensiero di semplici “selvaggi”; dall’altro, anziché a remoti e spa-
ruti villaggi, si trova di fronte a immense popolazioni ovunque in crescita, co-
me in crescita sono povertà, lavoro precario e mancanza di assistenza.
Punto di partenza è che tra queste popolazioni di governati comunque si
parla e quindi si pensa. E lo si fa non diversamente da come lo può fare ogni ri-
cercatore non troppo scolastico, non troppo chiuso nella sua presunzione di es-
sere uno scienziato o nella smania di rispettare riti e corpi accademici. Primo
passo da fare è quindi scommettere che tra le parole e il pensiero di chi dalla
ricerca è interpellato e le parole e il pensiero di chi la ricerca la fa ci possa es-
sere incontro. Un incontro come tutti quelli che chiunque può fare, ma con
qualcosa di un po’ speciale. Quel qualcosa che chi fa la ricerca deve riuscire a
metterci, col suo sapere: il fatto che l’incontro non si riduca a semplice scam-
bio di opinioni, a ulteriore mulinello nella circolazione delle comunicazioni. In
effetti, ammettere che un soggetto senza potere possa avere un suo pensiero
non deve far credere che tutto quel che esso dice sia frutto di pensiero. Occor-
re invece ammettere che esso, come chiunque, possa parlare, anche semplice-
mente ripetendo quel che ha sentito dire in giro. Anzi, è chiaro che questo se-
condo caso è sicuramente il più probabile, mentre è più difficile il precedente,
quello in cui si dà del pensiero in modo singolare. La scommessa è che solo in
quest’ultimo, nella sua singolarità, si trovino le tracce di quel che è la realtà so-
ciale per chi è governato. Presentarle come risultato scientifico, nonché come
prescrizione per le politiche sociali è dunque tra i nostri obiettivi ultimi.
Ma la realtà sociale di chi non può deciderne nulla, in generale, è identifi-
cabile solo se viene localizzata. Come il “villaggio” è una delle categorie del-
l’etnografia del “pensiero selvaggio”, così la nostra etnografia del pensiero ha
come prescrizione obbligatoria la localizzazione della realtà sociale. Fabbriche,
centri di assistenza, scuole sono tra i luoghi principali delle nostre inchieste.
Cosa sia o non sia un luogo è a volte problematico. Che un quartiere lo sia è
tutto da valutare. Così come invece un solo reparto di una fabbrica può esser-
lo. L’essenziale è capire se e fino a che punto il luogo è luogo che dà da pensare
a chi ne fa esperienza diretta. Decidere su questo punto è importante, perché
è proprio a proposito di questi luoghi che interpelliamo il pensiero dei sogget-
ti che ne fanno esperienza diretta.


VA L E R I O R O M I T E L L I

Importante è anche conoscere tutto quel che si può sapere a priori di questi
luoghi. Qual è la loro storia, come si situano rispetto al complesso industriale,
educativo, formativo o assistenziale in cui sono inseriti, quel che ne dicono le
cronache, i dirigenti o le opinioni circolanti intorno a essi. Ma tutte queste co-
noscenze da esperti, da raccogliere prima dell’incontro con gli intervistati, non
devono costituire gli argomenti cruciali dell’incontro stesso. Ciò accade, ad
esempio, se interpelliamo i nostri soggetti cercando di capire il grado della loro
coscienza rispetto alle conoscenze che noi già abbiamo. La distinzione tra co-
scienza e pensiero è qui decisiva. Ciò cui puntiamo è stimolare un pensiero, non
verificare delle coscienze. E per stimolare il pensiero occorre supporre che esso
ci possa dire qualcosa del tutto diverso da quel che si può sapere altrimenti, per
quanto scientifico possa essere. Per conoscere la realtà sociale di cui parla un
pensiero, occorre pensarlo, e per pensarlo occorre dargli spazio, lasciare che si
dispieghi in un suo spazio intellettuale. È solo trovando uno spazio intellettuale
proprio degli intervistati, ciò di cui discutono, su cui si confrontano, di cui par-
lano, che si può pensare e conoscere il loro pensiero dall’interno. A tale scopo,
tutte le conoscenze che si possono fare del luogo dell’incontro cogli intervistati,
prima dell’incontro stesso, devono servire solo come preliminari.
Tra i preliminari ci sono anche i contatti coi responsabili del governo del luo-
go, le direzioni. Decisivo è infatti che le interviste si svolgano sul luogo e durante
l’orario di lavoro. Per questo è decisiva anche la collaborazione con le direzioni,
alle quali si può assicurare che dai risultati della ricerca si potranno ricavare pre-
scrizioni utili ad avvicinare il governo del luogo a quanto pensano i governati. Per
campionare il gruppo di soggetti con cui svolgere le interviste, a parte altri detta-
gli più tecnici, il principio solitamente seguito sta nel non cercare di costruire una
media o un tipo ideale di interlocutore, il che supporrebbe una precisa conoscen-
za preliminare di tutta la popolazione interpellata, ma nell’evitare ogni eccesso di
caratteristiche particolari (ad esempio, di sesso, provenienza, età o mansioni). Poi-
ché l’essenziale sta nella riuscita degli incontri, la formulazione del questionario o
della guida per le interviste che avvengono durante tali incontri, è quanto mai de-
licata. Essa deve tenere presente questi limiti, ma varia completamente da luogo a
luogo. Il tipo di domande di cui è composto il questionario è comunque il più
aperto, il più generico possibile, proprio per lasciare la massima libertà di rifles-
sione all’intervistato, al quale peraltro va garantito il più assoluto anonimato. Non
va risparmiato alcuno sforzo, perché metodo e intenti della ricerca siano il più pos-
sibile chiari per tutti quelli che sono da essa interpellati. Gli incontri sono intervi-
ste faccia a faccia tra uno o più intervistatori e un intervistato. Il questionario è lo
stesso per tutte le interviste, ma su ogni risposta l’intervistatore è legittimato a ogni
sorta di rilancio per ottenere risposte più precise. Il magnetofono è sconsigliato,
per il clima da chiacchiera che permette, ma anche perché, registrando tutto, re-
gistra anche gli enunciati che l’intervistato non desidera siano registrati. E contra-
riare un intervistato non giova all’intervista così come la intendiamo. Viene prefe-


. LE NOSTRE RISPOSTE

rita l’immediata trascrizione su supporto cartaceo delle risposte, anche a costo di


qualche malaugurata perdita di enunciati. Si vuole infatti che l’intervistato si sen-
ta del tutto responsabilizzato sulle risposte che dà, parola per parola.
In alcune ricerche simili alle nostre, una volta raccolte le risposte, l’inchie-
sta può ritenersi prossima alla conclusione. Nel nostro caso, l’analisi del conte-
nuto è la parte più complessa. L’importante è che il ricercatore impari a pensa-
re e conoscere il luogo dove la ricerca è avvenuta tramite gli enunciati stessi che
vi ha raccolto. Iterazioni o singolarità, silenzi o malintesi, reticenze o logorree:
ogni carattere riscontrato in una o in tutte le interviste può acquistare un aspet-
to diverso a seconda dell’inchiesta. L’importante è non cercare conferme o cri-
tiche dell’opinione che circola dentro e fuori il luogo, ma cercare ciò che viene
pensato in quel luogo e in quello solamente. Problemi e soluzioni incontrati per
rendere possibile un lavoro, un’esperienza che dall’esterno del luogo è poco o
nulla immaginabile: queste le prime cose da conoscere e che spesso risultano
ignote anche a chi governa quello stesso luogo, nonché agli esperti che prova-
no a conoscerlo seguendo modelli o definizioni universali.
Quanto al rapporto finale, esso deve essere pertinente ad almeno una que-
stione già discussa dalle scienze sociali, della quale l’inchiesta stessa possa pre-
sentarsi come una sperimentazione. Il tutto comunque in un linguaggio acces-
sibile anche a non esperti, in quanto tra i suoi destinatari vi sono anche gli stes-
si intervistati, oltre agli esperti del tema trattato dall’inchiesta e a chi esercita il
governo del luogo. Far confrontare queste tre soggettività, senza confonderle o
esasperarne i conflitti, va infatti sempre presentato come uno dei primi obiet-
tivi pragmatici perseguiti dalla nostra etnografia.

Note

. Un terremoto devastante come quello di fine  nel Sud-Est asiatico dimostra quanto, con-
trariamente all’immagine d’armonia perfetta e rassicurante che ne offre l’attuale opinione ecologi-
sta più scadente, la natura possa sempre essere anche crudelissima “matrigna”, secondo la nota
espressione di Leopardi, il poeta. Giustamente subito ci si chiede come si potrebbero difendere da
simili eventi le società di quei territori costieri, le quali ora sono non solo con popolazioni tragica-
mente falcidiate, ma addirittura strutturalmente disarticolate. Già Machiavelli alla fine del Principe,
prendendo ad esempio le alluvioni, sosteneva che quel che accade agli uomini è attribuibile per metà
alla “fortuna”, su cui niente si può, e per metà alla “virtù”, che dipende tutta dagli uomini. Il che
comporta il non accontentarsi di piangere la sfortuna dell’alluvione, ma il pensare anche a quanto si
poteva fare e non si è fatto per prevenire e contenere gli effetti di tale evento naturale. Ragionamento,
questo, in cui si può notare già una chiara critica contro ogni ricorso a necessità naturali per spie-
gare questioni sociali che invece dipendono anzitutto dalle “virtù” o meno di chi vi ha potere.
. È opportuno segnalare che molte delle indicazioni di metodo che seguono sono indiretta-
mente ispirate a Giraud, L’inégalité du monde, cit., ma anche a M. Foucault, soprattutto ai suoi
testi raccolti da Fontana e Pasquino in Microfisica del potere: interventi politici, Torino .
. Romitelli, Storie di politica e di potere, cit.
. Cfr. G. Agamben, Lo stato d’eccezione. Homo sacer, Torino , sia pur in una direzione
problematica diversa da qui.
. R. D. Putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane, Milano .


Parte seconda
Ricerche
Presentazione

I testi che seguono sono il risultato di inchieste svoltesi in tempi e modi diffe-
renti. Le discussioni e i lavori, che hanno portato alla loro raccolta e presenta-
zione, hanno contribuito alla recente costituzione del Gruppo di ricerca di et-
nografia del pensiero, cui tutti gli autori aderiscono, con la prospettiva di nuo-
vi progetti di indagine.
Pur nella loro relativa disomogeneità, dovuta sia alla diversa formazione
degli autori, sia ai diversi ambiti in cui le inchieste sono nate (alcune si sono
svolte nell’ambito di corsi universitari, altre in quello di tesi di laurea e di dot-
torato), questi lavori condividono esiti convergenti.
Presentiamo le inchieste in ordine cronologico rispetto alla loro realizza-
zione.
Più possibilità di vivere, del , costituisce un primo esperimento di coin-
volgimento di studenti universitari nella fase delle interviste ed è un’inchiesta
condotta tra gli utenti dell’Ufficio immigrati della CGIL di Bologna.
Nel , sempre nell’ambito di un corso universitario, si è svolta l’inchie-
sta Una scuola diversa dalle solite, tra ragazzi di - anni frequentanti il Nuo-
vo obbligo formativo, corsi di formazione professionale organizzati dalla Pro-
vincia di Bologna.
Una fabbrica da rifare – La qualità del lavoro e Anche al lavoro pensare, dire
quello che si pensa sono invece i risultati di inchieste condotte nell’ambito di due
tesi di dottorato presso l’Università di Paris. Sono state effettuate in grandi fab-
briche dell’Emilia-Romagna (la BredaMenarinibus, la Cesab e la Bonfiglioli) tra
i loro operai. Annesso al testo Anche al lavoro pensare, dire quello che si pensa,
col titolo Da operaio a operaio, è il sunto di un intervento tenuto in occasione
della discussione della tesi di dottorato da cui è tratto.
Una benevola forma di egoismo è l’estratto di un’inchiesta svolta per una te-
si di laurea, tra i volontari della Casa dei Risvegli, un’associazione che si occu-
pa dell’assistenza a pazienti in coma o in fase di risveglio.
Il senso della fabbrica, del , è frutto di un’inchiesta condotta per la Pro-
vincia di Ravenna tra gli operai della Marcegaglia S.p.a., una fabbrica assoluta-
mente in controtendenza in Italia: tra le grandi industrie non solo non è in cri-
si, ma è anzi in forte espansione. Qui si indaga la questione dell’immigrazione,


GRUPPO DI RICERCA DI ETNOGRAFIA DEL PENSIERO

per lo più dal sud verso il nord d’Italia. Grande fabbrica e migrazione interna:
temi che rimandano a un passato recente che continua a esistere, ma con nuo-
ve questioni problematiche.
Sarebbe il lavoro del futuro, dello stesso anno, è il risultato di un’inchiesta
condotta, nell’ambito di un corso universitario, tra i lavoratori della cooperati-
va sociale bolognese CADIAI, i quali si occupano di assistenza ad anziani e disa-
bili. I risultati di quest’inchiesta hanno avuto un primo utilizzo in alcune ore di
formazione svolte all’interno della cooperativa.
Tutte le inchieste sono state seguite da V. Romitelli.

Ringraziamo tutti gli intervistati, che volontariamente hanno accettato di partecipare al-
le nostre inchieste. Ringraziamo inoltre: Roberto Morgantini dello sportello per i lavo-
ratori stranieri della CGIL di Bologna; i tutor del NOF, Agnese Maio, Raffaele Rani, Ro-
berto Panzacchi, Gianni De Giuli, Samantha Mongiello; Antonella Migliorini e Sonia
Bianchini, responsabili della formazione per la Provincia di Bologna; tutti i volontari
della Casa dei Risvegli e della Croce rossa italiana; Riduttori Bonfiglioli S.p.a., in parti-
colare il dott. Bonvicini; BT Cesab S.p.a., in particolare il dott. Zanaboni; BredaMena-
rinibus S.p.a., in particolare il dott. Fiorillo; Roberto Bennati (FIOM Emilia-Romagna);
Emilio Pascale (Assindustria Bologna); Marcegaglia S.p.a., in particolare l’ing. Zanga-
glia e Simone D’Andrea, rispettivamente direttore dello stabilimento e responsabile
dell’Ufficio sicurezza all’epoca della ricerca, e Massimo dell’Ufficio sicurezza; Germa-
no Savorani, assessore alle politiche del lavoro e della formazione professionale per la
Provincia di Ravenna; Alberto Alberani, responsabile politiche sociali di Legacoop Bo-
logna; Rita Ghedini, presidente CADIAI; Franca Guglielmetti, responsabile ufficio
marketing CADIAI; Roberto Malaguti del servizio marketing e sviluppo CADIAI. Un par-
ticolare ringraziamento a Gianluca Borghi, assessore alle Politiche Sociali della Regio-
ne Emilia-Romagna, per il sostegno dato alle nostre ricerche.
Un grazie per la loro collaborazione al testo a Davide Baroncini, Brigitte Luggin,
Samuele Paganoni.

GRUPPO DI RICERCA DI ETNOGRAFIA DEL PENSIERO


Più possibilità di vivere*
di Valerio Romitelli

Una ventina di studenti che, per un corso semestrale di Metodologia delle


scienze sociali dell’Università di Bologna, intervistano una cinquantina di uten-
ti dei centri per lavoratori stranieri della CGIL. Il tutto, poi, sintetizzato e pre-
sentato in relazioni durante un seminario presso la stessa CGIL, cui partecipa-
no, oltre a qualche lavoratore straniero, altri operatori del settore.
Un’interessante esperienza didattica non solo per me, che l’ho diretta, ma
anche per gli stessi studenti, che hanno partecipato e concluso questa esercita-
zione con impegno ed entusiasmo.
I suoi risvolti metodologici, cognitivi e anche politici, oltre che didattici,
credo, meritano di essere riportati.
Vediamoli uno a uno.


La didattica, un’esperienza sul campo

Sul piano didattico occorre subito dire che, trattandosi di un corso di Metodo-
logia delle scienze sociali presso il Dams, gli studenti frequentanti non avevano
alcuna dimestichezza particolare con le questioni di tipo sociologico, antropo-
logico o etnologico. In effetti, si tratta di un insegnamento comune, fondamen-
tale, ma in fondo accessorio rispetto alle tematiche di musica, arte e spettacolo
che costituiscono il cuore di questa istituzione universitaria. Inatteso è stato
dunque l’entusiasmo col quale gli studenti hanno accolto la mia proposta di ten-
tare l’esercitazione di una ricerca sul campo, oltretutto su un tema come quello
dei lavoratori stranieri in Italia, che sicuramente ha ben poco di musicale, arti-
stico o spettacolare. Tuttavia, per una volta almeno, la mia scommessa è stata
proprio quella di puntare su una didattica intimamente legata a una ricerca su
un tema d’attualità. È il caso di spiegare alcune ragioni di fondo di tale scelta.
. Perché, nonostante tutto il gran parlare che si fa all’università del legame tra
didattica e ricerca, ben raramente si prova a sperimentare effettivamente questo

* Un’inchiesta sulle parole dei lavoratori stranieri condotta a Bologna da studenti uni-
versitari.


VA L E R I O R O M I T E L L I

legame; cosicché, invece di indirizzare gli studenti a cimentarsi su delle incogni-


te, l’insegnamento finisce quasi sempre per essere una rassegna il più possibile
enciclopedica di quanto è già conosciuto di una materia; col risultato di demoti-
vare ogni desiderio di indagine dell’ignoto e incutere invece un sacro, e non di
rado annoiato, timore per tutto quello che si presenta sotto il nome di Scienza.
. Perché, come da alcuni anni tento di insegnare, una delle più importanti
novità introdotte dalle scienze sociali, a partire dal XIX secolo, sta proprio nel-
l’affermare il valore cognitivo delle ricerche “sul campo”. Solo così tali scien-
ze, infatti, hanno saputo distinguersi dai loro grandi concorrenti, quali teologia
e filosofia; sarebbe a dire dei modi di pensare certamente sempre validi, ma che
si fondano su presupposti per i quali non c’è aspetto reale che possa essere co-
nosciuto senza essere legittimato e situato in un quadro di principi universali.
. Perché ho ritenuto che una questione come quella dei lavoratori stranieri,
oggi, sia di una tale importanza e attualità che anche degli studenti, non neces-
sariamente interessati a essa, gradissero averne una conoscenza diretta.
Ecco dunque il mio puntare sul triplice obiettivo didattico: tentare un in-
segnamento decisamente orientato alla preparazione e alla realizzazione di una
ben precisa ricerca; mostrare che solo nella ricerca, all’interno di una ricerca si
può capire qual è il vero senso delle scienze sociali; verificare la portata anche
scientifica e intellettuale della questione dei lavoratori stranieri oggi.
Per perseguire questi obiettivi il corso ha dunque insistito sulla necessità di
dare alla nostra ricerca un dispositivo problematico singolare, ad hoc. Il che si-
gnifica non solo dotato di ipotesi del tutto proprie, cioè non necessariamente
condivisibili da altre ricerche, ma anche esplicitamente delimitato rispetto ad
altri possibili campi di ricerca. In parole più semplici, ci si è chiesto in modo
approfondito secondo quale ottica avremmo studiato la questione dei lavora-
tori stranieri.
Così ci si è addentrati in importanti questioni di metodo.
Su di esse mi dilungherò un poco, perché è stato proprio il modo in cui so-
no state affrontate ad aver reso possibile un proficuo coinvolgimento in questa
esperienza di studenti poco o nulla esperti.


Il metodo, la quadruplice dimensione soggettiva

Prendere sul serio le questioni di metodo nelle scienze sociali significa anzitutto
non scambiarle per semplici questioni di tecnica di ricerca. Ovvero non credere
che si tratti solo di mezzi e di misure, ma assumere che si tratta essenzialmente di
questioni di approccio: di come ci si pone di fronte a ciò che si vuole studiare.
La maggiore difficoltà di questo problema sta proprio nel porlo e nel farlo
accettare. Troppa cultura, da quella religiosa a quella marxista, passando anche
attraverso il pragmatismo all’anglosassone, alimenta la credenza che ci sia un


PIÙ POSSIBILITÀ DI VIVERE

unico modo di vedere il mondo. Il “pensiero unico” abita ancora nelle nostre
menti, anche se si presenta in svariati modi, come appunto quelli teologici, clas-
sisti o individualisti. Insegnare la metodologia delle scienze sociali per me si-
gnifica anzitutto prendere le distanze da ogni forma di “pensiero unico”.
Durante il corso, ho quindi particolarmente insistito sulla tesi che i metodi
d’approccio nelle scienze sociali possono essere infiniti, ma che l’essenziale è
deciderne uno, senza peraltro pretendere che sia l’unico e il migliore. E che a
tale scopo conviene distinguere il proprio, almeno da un altro possibile ap-
proccio contiguo.
Abbiamo così esaminato due possibili approcci alla questione dei lavora-
tori stranieri: in esteriorità o in interiorità; da un punto di vista oggettivo o da
un punto di vista soggettivo; in senso quantitativo o in senso qualitativo; in ter-
mini statistici e sociologici o in termini antropologici ed etnografici; osservan-
doli a distanza, come un determinato insieme di popolazione, o andando tra lo-
ro, per incontrare direttamente qualcuno di essi.
Il primo tipo di approccio è sicuramente obbligatorio per fornire delle co-
noscenze necessarie a funzionari di Stato, di partito, di sindacati o di qualun-
que altra istituzione che abbia il potere di condizionare l’esistenza di questi la-
voratori, come di qualsiasi altro soggetto senza potere. Ma come tutti i metodi
d’approccio, anche questo ha i suoi limiti: non offre alcuna conoscenza appro-
priata di quel che soggetti simili pensano e dei modi in cui rendono possibile
la loro vita. Conoscenza, questa, comunque degna di interesse, a meno di non
credere che ogni sapere conti solo se direttamente al servizio della gestione di
qualche potere. Il nome di Lévi-Strauss e le sue memorabili ricerche sul “pen-
siero selvaggio” sono stati qui citati a dimostrazione del fatto che nell’antropo-
logia, come nell’etnologia, ha trovato spazio questo tipo di conoscenza senza
alcuna diretta utilità per la gestione di poteri esistenti.
È quest’ultimo l’approccio che è stato assunto per la nostra ricerca, senza
peraltro pretendere che esso fosse sostitutivo dell’altro approccio oggettivo,
quantitativo, statistico, sociologico, in esteriorità. Non si è infatti trascurato di
passare in rassegna alcuni dei risultati più significativi apportati dalle maggiori
ricerche condotte in tal senso: il VII rapporto Caritas e il Primo e Secondo rap-
porto sull’integrazione dell’immigrazione, alcuni dei più importanti documen-
ti della Commissione della UE, i testi della legge Bossi-Fini, il libro bianco di
Biagi e Maroni.
Per configurare in modo operativo l’approccio della nostra ricerca, mi
sono avvalso degli insegnamenti desunti dalla singolarissima, pionieristica e
poco nota opera di Sylvain Lazarus. La sua antropologia, secondo una clas-
sica distinzione, può anche dirsi orientata in un senso radicalmente qualita-
tivo. Ma non vi è alcuna parentela con approcci come l’“osservazione parte-
cipante” o l’“interazionismo simbolico”. Si tratta di una problematica del
tutto sui generis.


VA L E R I O R O M I T E L L I

Tra le tante suggestioni che ne ho ricavato, una primeggia: quella, detta a


modo mio, di privilegiare nella ricerca antropologica le parole rispetto ai di-
scorsi. Il che vuol dire:
. cercare il reale a partire dal linguaggio, da quel che ne viene detto e non da
qualche teoria del mondo, della storia o del sociale;
. analizzare il rapporto tra il linguaggio e il reale, non a partire dai rapporti
discorsivi tra parola e parola, ma a partire dalle parole stesse, ipotizzando che
in alcune di esse il reale sia effettivamente problematizzato.
I due punti sono evidentemente connessi: non ammettere altra teoria che
quella di partire dal linguaggio, dal dire, è lo stesso che rifiutare qualsiasi di-
scorso, come orientamento generale per la ricerca. Attenzione dunque alle pa-
role, alle parole solamente, non ai discorsi che si suppongono “stare dietro” le
parole. Quei discorsi che solo l’esperto (universitario, di partito o sindacale, po-
co importa) sarebbe in grado di conoscere a fondo e quindi riconoscere negli al-
tri. Ecco quindi che, per adottare il metodo d’indagine interno al soggettivo, il
ricercatore deve astenersi da qualsiasi discorso da esperto: deve rinunciare a
qualsiasi logica generale, a qualsiasi dialettica, a qualsiasi teoria della comunica-
zione, a qualsiasi “pensiero unico”; deve andare ed esporsi semplicemente co-
me essere parlante tra altri esseri parlanti. Ciò che si deve supporre possa es-
serci tra le parole è la capacità condivisa, tanto da chi fa ricerca quanto da colui
sul quale la ricerca è condotta, la capacità intellettuale, la capacità soggettiva a
pensare. È quindi responsabilità del ricercatore riuscire a incontrare e pensare
il pensiero di coloro su cui fa ricerca, ed è proprio a tale scopo che il ricercato-
re deve ipotizzare che vi siano delle parole più importanti, più problematiche di
altre. Il primo obbligo è quindi prestare fede alle parole e al pensiero, propri e
degli altri. Il che ad esempio significa escludere sia che le parole siano dei mez-
zi di comunicazione, sia che il pensiero sia un’opinione più o meno manipolata.
In tali casi, infatti, si ritiene che la realtà stia nella comunicazione e/o nella ma-
nipolazione dell’opinione, mentre, se sono le parole e il pensiero a essere presi
sul serio, è in questi stessi, che va cercato un rapporto con il reale.
Queste le sponde essenziali della nostra metodologia, che configurano già
tutto un protocollo d’inchiesta.
In effetti, la ricerca così concepita esige comunque un protocollo capace di
individuare la ricerca stessa, di renderla una. Solo in tal modo, solo delimitan-
do l’inchiesta come un’inchiesta, con un suo inizio e una sua fine, la responsa-
bilità di tipo cognitivo può essere rispettata. Tale responsabilità, infatti, non si-
gnifica altro che assumersi il compito di arrivare a concludere la ricerca pre-
sentandone dei risultati utili alla conoscenza, commisurabili con quanto è già
conosciuto del fenomeno studiato.
Questi dunque i lineamenti metodologici essenziali, che hanno permesso
di tentare un’inchiesta con degli studenti affatto esperti né di scienze sociali, né
della questione dei lavoratori stranieri.


PIÙ POSSIBILITÀ DI VIVERE

Primo punto operativo per la nostra ricerca è stato quindi fissare una serie
di parole problematiche attorno alle quali configurare un questionario, che per-
mettesse di mantenere un minimo comun denominatore alla serie di interviste
con lavoratori stranieri condotte dagli studenti. “Immigrato”, “politica d’im-
migrazione”, “lavoro”, “diritti”, “paese” sono state alcune delle parole proble-
matiche che sono parse tra le più indicate a costituire il questionario.
Che diritti per i lavoratori stranieri? è stato il titolo generale assegnato alla
ricerca. Pur rendendoci conto della vastità di tale questione, del tutto spro-
porzionata rispetto alla limitata esercitazione di inchiesta con cui l’avremmo af-
frontata, si è deciso di mantenere questo titolo. Ciò in quanto esso permetteva
di offrire un orientamento generale, un orizzonte all’insieme delle interviste.
“Straniero” infatti significa comunque una differenza ben chiara, quantomeno
sul piano giuridico, rispetto a “cittadino”; e il nostro primo obiettivo era co-
noscere cosa i diretti interessati di questa differenza dicevano e pensavano. Te-
nendo nella massima considerazione i gradi più elevati di questa differenza:
quelli costituiti dai “senza documenti”, che l’opinione pubblica autoctona
troppo spesso ed equivocamente equipara a “clandestini”, “irregolari” o “ille-
gali”, mentre vengono di fatto legittimati dalla prevista e pur sempre insuffi-
ciente misura delle “sanatorie”.

Per fissare operativamente il modo in cui le inchieste andavano condotte, ho


parlato di una quadruplice dimensione soggettiva. Nessuna ricerca di oggetti-
vità, ma una ricerca tutta interna alla soggettività, eppur quanto mai rispettosa
delle differenze.
La prima è quella che si istituisce nell’intervista, che va concepita come in-
contro, come un incontro di cui il soggetto intervistante si assume tutta la re-
sponsabilità e tutti i rischi. Ivi compreso quello che l’intervista stessa possa es-
sere un incontro mancato, un incontro in cui i due pensieri, quello dell’intervi-
statore e quello dell’intervistato, non si incontrano.
Niente di più fuorviante a tal proposito dell’idea che l’intervistato, magari
anche senza saperlo, non aspetti altro che farsi intervistare. Così si ragiona ad
esempio in quello che ho chiamato un approccio “coscienziale” all’intervista.
Si tratta di un approccio dialettico, il quale suppone solitamente che l’intervi-
sta vada interpretata e analizzata alla luce di un discorso di classe e/o sulla de-
mocrazia. In altri termini, l’intervistatore interpella l’intervistato solo per co-
noscere lo stato o meglio il grado di maturazione della sua coscienza di classe
e/o democratica. Coscienza di classe e/o democratica di cui ovviamente l’in-
tervistatore si suppone già esperto e quindi in una pur implicita posizione di
superiorità rispetto all’intervistato. Ecco che la dimensione soggettiva non è più
duplice, ma unica, quella imposta dall’intervistatore che va incontro all’inter-
vistato solo per accoglierne le parole, solo per comprenderle e/o spiegarle al-
l’interno del discorso di classe. Decisivo, per non cadere in simili invasioni del-


VA L E R I O R O M I T E L L I

la soggettività dell’intervistatore nei confronti di quella dell’intervistato, è te-


nere ben ferma la distinzione tra pensiero e coscienza. La coscienza è sempre
coscienza “di”, coscienza di qualche oggettività, di solito i rapporti tra le clas-
si o i “valori democratici”; l’analisi così finisce per essere sempre in termini di
adeguatezza o meno, di riflesso più o meno chiaro, rispetto a un dato già co-
nosciuto. Diversamente, il pensiero è pura possibilità soggettiva, che può esse-
re analizzata solo riuscendo a farsene sorprendere, solo pensandone la singola-
rità, ossia i suoi eccessi o le sue mancanze rispetto a tutto quanto già si sa.
Due soggettività, due pensieri per un incontro, che può riuscire o manca-
re: questa la sostanza dell’intervista. Per esaltare questa duplicità di responsa-
bilità, un mezzo efficace, che è stato assunto nella nostra ricerca, è stato quel-
lo di trascrivere immediatamente su supporto cartaceo le risposte. Chi le offre
si trova così a dover rilasciare delle dichiarazioni, e chi le raccoglie si trova
sempre a doversi fare ben spiegare quanto ascolta. Così, certo, si può perdere
in confidenza, ma si guadagna in rispetto delle distanze, che sono effettive, tra
chi intervista e chi è intervistato.

Ma non è finita. Le risposte di una o più interviste non sono che un materia-
le grezzo. Esibite in quanto tali non servono a nessuna inchiesta. Esse devo-
no essere scomposte e ricomposte per un rapporto finale dell’inchiesta. Se
nella/e intervista/e il ricercatore ha a che fare con singoli intervistati, quando
si tratta di fare un rapporto d’inchiesta che tenga conto dell’insieme delle in-
terviste, occorre dar la parola alle soggettività ritenute a diverso titolo più si-
gnificative. Ma questa significatività è chi fa il rapporto a configurarla, è lui a
doversene assumere la responsabilità. È sbagliato credere che il rapporto
d’inchiesta debba esprimere semplicemente, il più oggettivamente possibile,
quel che gli intervistati hanno detto. In questo tipo di ricerca si deve sempre
tenere presente che l’oggettività non è mai decisiva. Bisogna rendersi conto
che quando si fa il rapporto d’inchiesta entra in gioco una terza dimensione
soggettiva, rispetto alle due precedenti dell’intervistato e dell’intervistatore.
Tant’è che può accadere che lo stesso ricercatore sia un ottimo intervistato-
re, ma un pessimo relatore o viceversa. Il problema resta rispettare le diffe-
renti dimensioni soggettive: evitare che facendo il rapporto d’inchiesta si fi-
nisca per forzare e/o trascurare le parole risultate dalle interviste. Il rischio è
notevole, poiché il rapporto non può non presentarsi in una forma discorsi-
va più o meno logica, dialettica e comunicativa, mentre il suo obiettivo cru-
ciale deve restare quello di presentare la problematizzazione del reale quale
si dà attraverso le parole degli intervistati. Per contenere il rischio di sacrifi-
care tali parole a profitto del discorso che le riporta, non c’è che un modo: ri-
spettare il più rigorosamente possibile alla lettera gli enunciati delle risposte,
fare del rapporto una composizione i cui elementi costitutivi non sono che le
parole degli intervistati. Solo così si può tentare che il risultato finale sia il


PIÙ POSSIBILITÀ DI VIVERE

pensiero di un pensiero: il fatto che il ricercatore sia riuscito a pensare qual-


cosa di quello che gli intervistati pensano.
Il fatto che questo tipo di ricerca si tenga sempre a distanza rispetto all’og-
gettività rende sicuramente discutibile il suo carattere scientifico. Ma occorre an-
che ammettere che tra le scienze sociali niente è più costantemente discusso del
loro statuto scientifico, cosicché non mi pare arbitrario far rientrare in tale di-
scussione il metodo di ricerca ora abbozzato. In ogni caso, i risultati cognitivi che
si ottengono con esso non possono non avere una destinazione assai particolare,
comunque non solo scientifica. Si tratta quindi di problematizzare una quarta
dimensione soggettiva: quella dei destinatari dei risultati cognitivi di questa in-
chiesta. Tra di essi vanno sicuramente contemplati anche i diretti interessati:
chiunque si può supporre sia in una condizione soggettiva prossima a quella de-
gli intervistati, chiunque si può supporre faccia un uso simile delle parole su cui
la ricerca è stata condotta. È anche a loro quindi che il rapporto d’inchiesta de-
ve indirizzarsi, per dir loro qualche parola significativa sulle loro parole ritenute
più importanti. Il linguaggio del rapporto deve quindi risparmiarsi il più possi-
bile ogni discorso scientifico. Il che non vuol dire affatto ricorrere alla volgariz-
zazione. Se è vero che il rapporto dell’inchiesta deve parlare di pensiero, di co-
noscenze ottenute attorno a un pensiero, ciò sicuramente non può essere fatto
tramite alcuna volgarizzazione. Semplicemente vanno evitati il più possibile i di-
scorsi da esperti, ovvero di tipo scientifico, proprio perché, se tali sono, devono
obbligatoriamente legittimarsi in rapporto ad altri discorsi da esperti. Mentre il
nostro tentativo deve essere quello di un discorso conclusivo giustificato anzitut-
to e soprattutto dalle parole più significative degli stessi intervistati.
Ecco dunque la quadruplice soggettività che ha costituito un parametro
fondamentale della nostra inchiesta: la prima dimensione è quella dei soggetti
intervistati, la seconda quella dei soggetti intervistanti, la terza di chi fa il rap-
porto d’inchiesta, la quarta di coloro ai quali sono destinati i risultati cognitivi
di tutto il lavoro, tra i quali vanno contemplati anche i diretti interessati aven-
ti condizioni soggettive prossime a quelle degli stessi intervistati. È stato il con-
fronto tra le parole connesse a queste quattro soggettività che ha fatto da mo-
tore a tutto il lavoro di ricerca.


L’inchiesta, più possibilità di vivere

Venendo ai risultati del lavoro, vanno subito sottolineati, oltre la già menzio-
nata inesperienza degli studenti, i tempi assai stretti entro cui l’inchiesta ha do-
vuto essere prima da me proposta e illustrata, poi preparata assieme a tutti gli
interessati, quindi eseguita e alla fine rielaborata e presentata. Il tutto nell’arco
di tre mesi, tra marzo e maggio, che rappresenta l’effettiva durata di un corso
detto semestrale. Lungi dall’essere una vera e propria inchiesta, non si è mai


VA L E R I O R O M I T E L L I

preteso che fosse niente più che un’esercitazione di inchiesta. Interessante pro-
prio per questo, ma dai risultati cognitivi che possono essere apprezzati solo
come primo passo per ulteriori ricerche.
Per circoscrivere il campione da intervistare, si è preso contatto col Centro
lavoratori stranieri della CGIL di Bologna, coordinato da Roberto Morgantini.
Le interviste si sono svolte cogli utenti dello sportello di questo centro, al mo-
mento in cui vi si rivolgevano per chiedere informazioni. Gli operatori del cen-
tro hanno attivamente e discretamente collaborato per trovare soggetti dispo-
nibili a sottoporsi all’intervista. La maggiore cura quanto al campione è stata ri-
volta non tanto al fatto che esso fosse rappresentativo, quanto al fatto che esso
non fosse sovradeterminato da caratteristiche impreviste. Il risultato in effetti
ci è parso abbastanza soddisfacente. Sufficientemente vario e differenziato. Il
tutto, come richiesto dalla nostra scelta metodologica, stando unicamente e ri-
gorosamente a quanto i nostri intervistati ci hanno dichiarato.

Dopo aver scartato qualche intervista mal riuscita, gli intervistati sono risultati .
Essi si sono presentati prevalentemente come lavoratori in attività: , tra operaie
e operai,  badanti, un muratore, un caporeparto, una barista, un giardiniere, un
artigiano, una mediatrice culturale, uno studente-operaio, uno studente-par-
cheggiatore e un artigiano ambulante; inoltre,  in cerca di occupazione.
Più svariati sono i loro paesi d’origine: Tunisia, Albania, Ecuador, Colom-
bia, Repubblica Dominicana, Cile, Pakistan, Cuba, Polonia, Sri Lanka, Roma-
nia, Filippine, Bangladesh, Nigeria, con una forte prevalenza marocchina.
In maggioranza maschi (), ma con una consistente componente femmi-
nile ();  di età tra i  e i  anni,  tra i  e i , e sempre  tra i  e i .
In  hanno detto di abitare con famiglia o familiari (di cui  donne e  uo-
mini); in  con amici (tra cui  donne); in  soli (sono: una barista cubana di 
anni, in Italia da un anno e mezzo; un artigiano tunisino, di  anni e da  anni
in Italia; uno studente-lavoratore albanese di  anni e da sei in Italia; un di-
soccupato marocchino di  anni e da  anni in Italia; una quarantasettenne po-
lacca, che rientra ogni  mesi nel suo paese e che qui alloggia con l’anziana ita-
liana presso la quale lavora); i restanti dichiarano di abitare con un/a convi-
vente, nessuna/o con italiane/i.
Il livello d’istruzione è mediamente assai alto in rapporto all’occupazione
svolta. Tutti vantano titoli di studio superiori alla scuola elementare, e in  (una
colf nigeriana di  anni, una marocchina disoccupata di  e un caporeparto
pakistano di  anni) persino una laurea.
Quanto alla durata della loro presenza nel nostro paese, è varia, ma per lo
più non breve: , tra i  e i  anni; , tra  e  anni; , oltre  anni; , meno
di un anno.
Le interviste, che erano introdotte da un preciso chiarimento quanto alla
natura universitaria dell’inchiesta, sono mediamente durate tra un’ora e un’o-


PIÙ POSSIBILITÀ DI VIVERE

ra e mezza. Gli studenti le hanno condotte per lo più in coppia. Il questionario


che è stato somministrato era passibile di rilanci su ogni domanda, a discrezio-
ne dell’intervistatore e allo scopo di poter ottenere delle risposte il più possibi-
le chiare ed esaurienti. Le risposte, come previsto, sono sempre state trascritte
immediatamente su supporto cartaceo.
Per arrivare a un rapporto finale dei risultati dell’inchiesta, si è proceduto
per fasi. In un primo momento gli studenti hanno tenuto durante il corso una
prima relazione sulle loro stesse interviste. In seguito, si sono tutti esercitati a
valutare l’insieme complessivo delle risposte. Ne sono venute delle relazioni in-
torno ad alcune parole problematiche incontrate durante le interviste. Questo
lavoro è stato prima presentato durante una riunione di preparazione e poi al
seminario finale alla CGIL di Bologna.
Eccone un’ultima e rapida sintesi.
Anzitutto, si può dire che l’insieme dei nostri intervistati, a un primo sguar-
do panoramico, sono oggettivamente inquadrabili all’interno della figura quan-
to mai attuale di lavoratori avvezzi ad accettare le condizioni più richieste dai
mercati del lavoro globalizzati: mobilità e flessibilità. In ciò assai simili a tutti i
lavoratori autoctoni o meno che oggi si trovano esposti a queste nuove condi-
zioni di precarietà del lavoro.
Una peculiarità soggettiva cui fanno pensare le nostre interviste è piuttosto
l’assunzione della mobilità e della flessibilità come dimensioni oramai norma-
li, all’interno delle quali si apre comunque un campo di infinite possibilità di
vita e di scelte. È la varietà delle scelte di tali possibilità soggettive che qui si
proverà a delineare.

Cominciamo con un tratto caratteristico assai netto, ma di difficile definizione:


il fatto che la maggioranza dei nostri intervistati non si pensa in una condizio-
ne costantemente nomade, né ha come massima aspirazione una condizione se-
dentaria.
In  infatti si sono dichiarati del tutto indecisi sul restare o meno nel no-
stro paese. Mentre in  hanno dichiarato di volere o cambiare paese o tornare
in quello di provenienza. E se in  hanno espresso il desiderio di restare in Ita-
lia,  di essi hanno comunque espresso vari dubbi sul mantenimento di questo
loro proposito. Senza che, peraltro, le differenze di sesso, provenienza o occu-
pazione sembrino particolarmente significative sotto questo profilo.
Assai significativo è che l’ottenimento della cittadinanza e/o del diritto di
voto sono stati rivendicati solo da  intervistati (un operaio, due colf, una me-
diatrice culturale e una disoccupata, tutti residenti in Italia tra i  e i  anni).
D’altra parte, occorre sottolineare che neanche la mobilità è quasi mai con-
siderata un valore in sé.
Unica eccezione, un ventitreenne ecuadoregno da  mesi in Italia, il quale
non ha permesso di soggiorno e, essendo diplomato al conservatorio del suo


VA L E R I O R O M I T E L L I

paese d’origine, si guadagna da vivere ora con la musica, ora vendendo “cose
indiane”; già passato per la Svizzera e la Germania, pensa di trasferirsi in Au-
stria, «ho amici anche lì», malgrado gli piaccia stare in Italia; vivere così, se-
condo le sue parole, gli «va bene, perché mi sento libero», anche se giudica ma-
le la politica d’immigrazione non solo in Italia, ma anche nel resto dell’Europa.
Il migrare qui, a questo giovane musicista e venditore ambulante, appare
dunque come una vera e propria scelta esistenziale. Ma va ripetuto che si trat-
ta del solo caso tra i nostri  intervistati. Per la maggioranza degli altri inter-
vistati l’essere migrante è pensato come una condizione con cui dover comun-
que fare i conti, ma più o meno relativamente transitoria.
Chiarificanti a questo riguardo sono le parole di un operaio marocchino di
 anni, residente con moglie e figlia da  anni in Italia. Da un lato egli dice:
«dovete pensarci come rondini e farfalle che migrano da un territorio all’altro»; e
inoltre sostiene che «se mi cacciano non c’è problema». Enunciati, questi, che
attestano certo una soggettività particolarmente incline alla mobilità e alla fles-
sibilità. Tuttavia, essi sono compensati da altri di senso opposto. Dall’altro la-
to, lo stesso operaio sconsiglia ai “ragazzi” nelle sue “condizioni” di «venire in
Italia senza documenti», ricordando i momenti più difficili da lui stesso attra-
versati in tale situazione. Da notare che i disagi maggiori citati in proposito so-
no l’impossibilità di trovare casa, che lo costrinse a dormire in macchina. E non
ad esempio il lavoro. Egli rivendica inoltre di far parte di «una seconda genera-
zione di immigrati […] più preparata della prima, che ha lasciato agli italiani una
brutta immagine di sé». La condizione del migrante è quindi alla fin fine pre-
sentata come una condizione dovuta a una scelta soggettiva che richiede una
buona immagine e perciò anche “preparazione”.
Secondo una terminologia circolante tra i social forum, si potrebbe forse
etichettare questo operaio come un’“avanguardia” della “moltitudine in movi-
mento”, che prende coscienza dell’“esodo” mondiale dischiudente la prospet-
tiva di una globalizzazione dal basso antagonista a quella dell’Impero. Ma sa-
rebbe dire non troppo, ma troppo poco sulla singolarità di questa figura. Essa,
assieme alle altre dei nostri intervistati, va studiata, nel nostro approccio, non
per quello che rappresenta o riflette, né per legittimarla, ma per le possibilità
che ci offre di conoscere nuovi e differenti modi di pensare. E, per cogliere que-
sta novità e queste differenze, sicuramente l’ultima cosa da fare è tentare di
comprenderle dentro una visione totale, del mondo, della storia, dell’umanità,
quale quella implicata in categorie onnicomprensive come moltitudine, impe-
ro ecc. Così non si fa che riproporre un’ennesima versione di pensiero unico.
L’interesse dell’inchiesta, così com’è qui intesa, sta proprio nel dar la paro-
la agli intervistati, non nell’attribuire loro un discorso già noto, solo per artico-
larlo ulteriormente.
Ma sarebbe egualmente fare un torto al nostro operaio marocchino, come
agli altri intervistati, cucirgli addosso un’immagine assoggettata, del tutto de-


PIÙ POSSIBILITÀ DI VIVERE

terminata dalle circostanze oggettive, quale quelle che ricorrono in certi sinistri
ritratti giornalistici, ma purtroppo a volte anche “scientifici”, degli “immigrati
disperati”, la cui unica aspirazione dovrebbe essere quella di diventare un bra-
vo “cittadino normale”.
Il nostro operaio ha già un’idea tutta sua della politica. E questa sua idea
non lo predispone certo a sperare molto nella sua eventuale partecipazione da
cittadino alla “vita democratica”. Senza appello è la sua sentenza: «tante paro-
le e pochi fatti: questa è la politica». Ma non si tratta di una semplice espressio-
ne di disinteresse. Si tratta di una conclusione derivata da una precisa espe-
rienza di trattative avuta col Comune di Bologna. Il quale «si mostra disponibi-
le, ma poi non fa niente» (il contenzioso riguarda le condizioni di vita nel cen-
tro di accoglienza di via Stalingrado, dove il nostro operaio abita con la fami-
glia). Ma egli racconta anche della denuncia che ha rivolto a un capo che sul la-
voro è arrivato a prenderlo a calci.
Ecco dunque una figura soggettiva singolare, capace di scelte ben decise,
tanto più di libertà, quanto più deliberatamente prese in una condizione di
estrema precarietà.
Ma anche altri intervistati hanno mostrato simili tratti soggettivi.

«Sono convinto che il mondo è un paese – dice un giardiniere algerino di  an-


ni, da  in Italia –. Se lavoro e pago le tasse, questo è il mio paese».
Il “paese”, “un paese” dunque, come categoria di identificazione del mon-
do, il lavoro e le tasse, e nient’altro, che bastano a dare appartenenza a un pae-
se. Enunciati radicali ed essenziali, che potrebbero dare lezione di sobrietà e di
pragmatismo a tante discussioni sulle origini etniche o religiose dei lavoratori
stranieri o a tante leggi più o meno ispirate al jus sanguinis.
Anche il racconto di vita di questo giardiniere è quanto mai disincantante:
«Lavoravo in Svizzera nel commercio delle auto e spesso venivo in Italia.
Qualcuno mi ha invitato a rimanere. Così ho fatto. […] Quando sono entrato in
Italia sono diventato clandestino. Bisogna evitare i poliziotti. Se possono umilia-
no. […] Ho messo su un’officina abusiva con un marocchino. Riparavamo le au-
to degli extracomunitari. La polizia sapeva di questa attività, ma non ci ha creato
problemi».
Si tratta evidentemente di un paradosso, quello di una polizia che, da un
lato, «se può, umilia», dall’altro, «non crea problemi» a un’attività abusiva. Ma
ci pare assai significativo. Mette in luce una condizione quanto mai diffusa nel
nostro paese: quella di chi si trova a lavorare senza documenti e in nero. Una
condizione del tutto sospesa all’arbitrio delle autorità, in primis quelle di poli-
zia, rispetto alle quali l’unica strategia possibile è evitarle.
Malgrado molte reticenze ad aprirsi su tali temi durante le nostre intervi-
ste,  intervistati in effetti ci hanno parlato del lavoro nero come loro unica
possibilità. Una colf salvadoregna di  anni, da  anni in Italia, e tutt’ora sen-


VA L E R I O R O M I T E L L I

za documenti, rivendica addirittura che «è giusto lavorare in nero, l’impor-


tante è lavorare».
In effetti, la ricerca del lavoro per il lavoro, senza troppe preoccupazioni ri-
guardo alle sue condizioni o qualità, primeggia tra le ragioni del migrare e/o del
restare in Italia. Un operaio pakistano di  anni, da cinque anni in Italia, chiu-
de ogni questione: «l’importante è lavorare, non mi posso neanche chiedere se mi
interessa o no».
Da notare è che la paura di perdere il lavoro non è prevalente, ma abba-
stanza diffusa; viene, infatti, ammessa da  intervistati. È comunque supe-
riore a quella di non trovarne uno nuovo, qualora si cada nella disoccupazio-
ne: solo in  infatti lo temono esplicitamente. Viene da pensare a una sorta di
compensazione, per cui la paura di perdere il lavoro viene attenuata dalla
convinzione di poterne ritrovare uno. Si conferma così la figura di soggetti
con una capacità singolare di far fronte alla precarietà e dunque anche alla
saltuarietà del lavoro.
Il che d’altra parte non esclude che le stesse condizioni del lavoro siano og-
getto di diffuse insoddisfazioni: l’imposizione dei «lavori più sporchi» o «che gli
italiani non vogliono fare», «i pregiudizi», il «razzismo», il «salario basso», gli
orari disagevoli, l’arbitrarietà dei comportamenti dei capi, il sottoutilizzo delle
proprie capacità, lo scarso affidamento di responsabilità sono temi di denuncia
ricorrenti in molte interviste.
Una delle più amareggiate a questo proposito è quella di un’operaia sene-
galese di  anni: «il mio livello di salario è molto basso, anche se sono tanti an-
ni che lavoro; […] mi fanno fare i lavori più sporchi perché ho la pelle nera e pen-
sano che sia giusto così; […] alcuni sono razzisti, […] usano pregiudizio, […] mi
oppongo e ho paura di essere mandata via».
Tra i diversi tipi di occupazione, le meno scontente forse sono le badanti,
 in totale, di cui solo  si dichiarano insoddisfatte del loro lavoro. Una, ru-
mena, di  anni, pur soddisfatta del suo lavoro, preferirebbe lavorare in fab-
brica, ma lamenta di non poterlo fare perché priva di documenti.
Va peraltro notato che, secondo la maggioranza degli intervistati, , sul la-
voro la differenza relativa al paese di origine si attenua. Un operaio marocchi-
no di  anni distingue nettamente: sul lavoro «non conta», mentre «fuori sì».
Quanto poi ai problemi di documenti, pur essendo solo una minoranza (in
) ad ammetterli, il risultato più interessante forse viene dalle risposte dei  in-
tervistati che temono di perdere il lavoro; più della metà di loro ha associato
questa paura a quella connessa di perdere il permesso di soggiorno. In tal sen-
so, la prima preoccupazione di un disoccupato marocchino è «se non trovo la-
voro, non mi rinnovano i documenti». Come se il lavoro contasse anzitutto co-
me condizione per avere i documenti.
Quella relativa ai documenti si conferma così una delle preoccupazioni
più sentite.


PIÙ POSSIBILITÀ DI VIVERE

Così è emerso anche nella nostra inchiesta un segno caratteristico di tutta


la questione dei lavoratori stranieri in Italia. È noto infatti che «essere in rego-
la con il permesso di soggiorno costituisce una fatica di Sisifo, la continua ri-
costruzione di una condizione giuridica esposta a una continua distruzione». E
ciò perché «il collegamento tra occupazione e rinnovo del permesso di sog-
giorno si trasforma, in un sistema produttivo come quello italiano caratterizza-
to da un’ampia quota di economia informale, in un continuo rischio di ricadu-
ta nella irregolarità».
Una badante colombiana di  anni, da noi intervistata, ha ben presente la
soluzione del problema: «il governo dovrebbe dare il permesso indipendente-
mente dal lavoro, per togliere il sommerso».
Altro punto critico di tutti i lavoratori stranieri in Italia confermato anche
dai nostri intervistati: il problema della casa. Discriminazioni razziste duran-
te la ricerca, mancanza di aiuto, difficoltà estreme nel trovare la dura alternati-
va al dormire per strada o in auto: queste le lamentele più ricorrenti.

Venendo ora al tema dei diritti, occorre un inciso. È già stato scritto più sopra
della evidente complessità della questione, che comunque non ha scoraggiato la
nostra inchiesta, non solo a inserire nel questionario delle domande su tale te-
ma, ma anche a porlo come titolo generale di tutta la ricerca. Ora pare oppor-
tuno chiarire in che senso e a che titolo abbiamo ritenuto di potere interpellare
a questo proposito i lavoratori stranieri. Essi sono certamente degli inesperti di
diritto sotto un doppio profilo: non solo in termini tecnici come qualsiasi altro
lavoratore, ma anche per il fatto stesso di essere stranieri, e quindi per avere una
dimestichezza nulla o assai limitata con giurisprudenza e leggi del nostro paese.
Nell’approccio che si è più sopra chiamato di tipo “coscienziale”, il compito del-
l’inchiesta a questo proposito è assai chiaro: sondare il livello di coscienza ovve-
ro conoscenza da parte del lavoratore straniero in merito ai diritti esistenti che
gli spettano. Compito chiaro, ma poco proficuo. Poco proficuo a causa dell’in-
contestabile incertezza che regna su tali diritti. E ciò almeno per quattro ordini
di questioni. In primo luogo, per il fatto che i nuovi fenomeni della migrazione
rivelano nuovi limiti alla stessa giurisprudenza dei paesi accoglienti, la quale si
trova così a doversi rinnovare sotto non pochi aspetti. In secondo luogo, per il
fatto che in Italia gli stessi diritti del lavoro sono quanto mai in discussione, una
discussione che, qualunque ne sarà l’esito politico, porterà a considerevoli cam-
biamenti. In terzo luogo, per il fatto che nella disputa sui diritti del lavoro in Ita-
lia non giocano solo le particolarità della situazione politica del nostro paese, ma
anche le grandi modificazioni del lavoro indotte dai processi di globalizzazione
rispetto ai quali ogni giurisprudenza nazionale si ritrova indebolita. In quarto
luogo, per il fatto che tra i tanti ritardi dell’unificazione europea spiccano pro-
prio le questioni dell’armonizzazione, sia dei diritti del lavoro, sia delle politiche
di immigrazione, entrambe ancora assai diverse tra gli Stati membri.


VA L E R I O R O M I T E L L I

Ecco dunque che i diritti spettanti ai lavoratori stranieri, in Italia e anche


in altri paesi europei, sono in gran parte un’incognita, anche da un punto di vi-
sta tecnico, oltre che politico. Un’incognita, che non si può risolvere semplice-
mente nei termini dell’“integrazione”. Se è vero, infatti, che questa parola ha
senso solo in riferimento a un’idea ben chiara e distinta del contesto di inte-
grazione, è altrettanto vero che tutti i fatti ora citati mostrano che tale contesto,
rappresentato dallo stato giuridico degli Stati accoglienti, fa acqua da molte
parti. Una soluzione non può essere la “fortificazione” di questi stati giuridici,
paventandone la disintegrazione per colpa di invasori. Sono gli stessi discorsi
integrazione/disintegrazione o inclusione/esclusione che vanno quantomeno
ridimensionati, evitando di attendersi da essi ricette giuridiche e/o legislative
su come risolvere tale urgente questione dei diritti dei lavoratori stranieri. A es-
sa si può e si deve contribuire in molti modi. Uno di questi può essere appun-
to quello di interpellare gli stessi diretti interessati per conoscere il loro pen-
siero in materia appunto di diritti, per conoscere cosa evoca loro questa paro-
la, se e in che misura si pone loro come problema.
A questo proposito i risultati della nostra inchiesta sono di non facile lettura.
In estrema sintesi si potrebbe dire che tutti gli intervistati pensano di ave-
re dei diritti, ma non vi è alcuna certezza sul come li si possa ottenere. Il lavo-
rare e il pagare le tasse, altre volte il semplice fatto di esistere come essere uma-
ni: queste le condizioni che, secondo la maggior parte dei nostri intervistati,
danno diritto ad avere diritti. «La politica italiana […] è ingiusta, se uno lavora
deve avere i documenti e vivere liberamente, come gli italiani», ci ha detto una
colf ecuadoregna di  anni. Una disoccupata marocchina di  anni ha sotto-
lineato invece l’esigenza di poter arrivare a una completa parità: «la cittadinan-
za è un diritto che lo Stato deve riconoscere agli immigrati che lavorano e che han-
no i documenti in regola». Ma in parecchi insistono anche sul diritto alla casa.
Alloggio, documenti, libertà, cittadinanza: il quadro dinamico dei diritti
che gli intervistati ritengono di avere risulta abbastanza chiaro. Chiara è anche
l’imputazione delle responsabilità politiche, quanto ai diritti: «il diritto me lo
deve dare il governo, non mi puoi dare solo il documento per stare qui e basta».
«Lo Stato dovrebbe garantire certi diritti». È ad esempio quel che pensano un
operaio tunisino di  anni e una badante rumena di  anni.
In ogni caso, tra il fatto di avere diritti e come sia possibile rivendicarli non
c’è nessun chiaro rapporto.
In  pensano che sia meglio agire da soli, individualmente. Inoltre, dalla
maggior parte degli intervistati è risultata l’opinione che tra i comportamenti
più consigliabili vi è il «restare tranquilli», «non mettersi in mostra», «non an-
dare troppo in giro». Solo in  dichiarano di appoggiarsi solitamente alla CGIL
(ma si tenga presente che era la sede stessa delle nostre interviste) e/o ad asso-
ciazioni varie (una cattolica, due di donne dello stesso paese d’origine e un so-
cial forum). Se ne deve concludere che tra i lavoratori stranieri c’è una doman-


PIÙ POSSIBILITÀ DI VIVERE

da di diritti, ma che essa non trova alcuna risposta politica? O, almeno, nessu-
na che essi pensano condivisibile?
Certo è che la politica d’immigrazione in Italia è molto mal giudicata.
In  interviste prevalgono giudizi decisamente negativi. «Le leggi italiane
non si capiscono perché cambiano subito»; «lo Stato italiano non fa abbastanza»;
«non fa niente»; «la politica d’immigrazione italiana fa schifo, cambia da regione
a regione»; «la legge non ci aiuta». Questi, alcuni dei tanti pareri negativi che
abbiamo raccolto (rispettivamente da un operaio marocchino di  anni, una
badante filippina di  anni, un operaio marocchino di  anni, un’operaia ma-
rocchina di  anni e da un operaio marocchino di  anni).
Solo  intervistati hanno espresso apprezzamenti del tutto positivi (due
colf, una ventottenne nigeriana e una trentottenne colombiana; e due giovani
con meno di un anno di presenza nel nostro paese, un ambulante ecuadoregno
di  anni e uno studente-operaio cinese di ). Mentre una disoccupata della
ristorazione Camst (laureata in lingue, marocchina di  anni) è la sola in deci-
sa controtendenza a criticare la politica d’immigrazione italiana perché troppo
permissiva.
Anche l’Italia come paese d’accoglienza non gode di una buona immagine
tra i nostri intervistati. «È difficile vivere in Italia»; «il permesso di soggiorno do-
vrebbe equiparare i diritti di un cittadino non comunitario a quelli di un cittadi-
no italiano, ma nella realtà non è così»; «gli italiani devono conoscere i problemi
degli extracomunitari e non generalizzare senza cercare di capire»; «mi sento ma-
le, sono ignoranti gli italiani»; «c’è molta ignoranza in Italia». Questi i giudizi ri-
spettivamente di un operaio marocchino di  anni, uno studente lavoratore al-
banese di  anni, un’operaia marocchina di  anni, un operaio tunisino di 
anni e un’operaia nigeriana di  anni.
Tra la maggioranza degli intervistati che criticano l’Italia e la sua politica
d’immigrazione, in  citano come esempio più positivo la Francia o altri paesi
europei. «In Francia – dice ad esempio un operaio marocchino di  anni – la
situazione è molto diversa. Sono abituati ad avere immigrati di altri paesi». Un
altro operaio marocchino di  anni è ancora più netto: «in Francia ci sono più
di  milioni di immigrati e stanno bene».
Si tratta, in tutti i casi (tranne quello di una badante rumena di  anni), di
lavoratori il cui paese d’origine (Marocco, Algeria, Tunisia, Senegal) conosce
una tradizionale immigrazione verso la Francia. È quindi presumibile che tali
giudizi si basino su informazioni provenienti da parenti o amici.
In ogni caso, è chiaro che si tratta di comparazioni oggettivamente del tut-
to discutibili. Ma ciò non toglie, anzi avvalora, il loro significato soggettivo. Si-
gnificato che sta nell’ulteriore e più profonda conferma del fatto emerso fin dal-
la prima intervista commentata: che i lavoratori stranieri in Italia si pensano
particolarmente esposti all’arbitrio di autorità e istituzioni, che appaiono estre-
mamente imprevedibili, ora umilianti ora permissive, comunque, si può ag-


VA L E R I O R O M I T E L L I

giungere, poco trasparenti, troppo informali e occasionali. Cosicché, nelle no-


stre interviste abbiamo anche sentito dirci, tra le tante parole di questo tono,
«se stai calma e non commetti reati non sanno neanche che esisti» (una colf ecua-
doregna di  anni).
Un ancora più grave difetto in termini di categorie e linguaggio politico di
tutti i paesi accoglienti è sollevato da un insieme di risposte ottenute tramite
una domanda sulla parola “immigrato”. In effetti, quasi / dei lavoratori stra-
nieri da noi intervistati si dissociano in vario modo da questa stessa parola. E
ben  la trovano decisamente offensiva.
«Non voglio essere chiamato immigrato, mi offendo»; «immigrato mi fa pen-
sare a sfruttamento»; «fa schifo»; «è da razzisti, è una parola che mi dà fastidio»;
«mi sembra una parolaccia»; «non mi piace come termine, io sono una persona
diversa da chi vive di spaccio o ruba o altre cose simili»; «non la sento quasi mai
usare, forse solo dai poliziotti o in questura». Queste alcune delle frasi da noi rac-
colte (tra tre operai marocchini di ,  e  anni, un operaio tunisino di  an-
ni, un disoccupato pakistano di  anni, uno studente-operaio cinese di  anni
e una colf ecuadoregna di  anni).
Il che evidentemente pone un grave problema nei confronti di questa pa-
rola considerata la migliore da tutti gli esperti, i politici e i funzionari che in Ita-
lia come in tutta la UE si occupano di lavoratori senza la cittadinanza di uno Sta-
to membro.

A conclusione, ancora qualche citazione. Anzitutto, le parole di un operaio ma-


rocchino di  anni che titolano questo stesso testo: «più possibilità di vivere».
Più possibilità di vivere rispetto a che? Rispetto alle due altre possibilità che
questo stesso operaio indica. La prima è «l’aver fortuna». L’altra è «essere di-
scriminati» o «trattati da schiavi».
Analogamente un giardiniere marocchino di  anni dice: «è importante
avere la fortuna di trovare amicizie di persone serie che già lavorano e che sono in
regola, allora ci si mette sulla strada giusta, altrimenti può finire male». Ove è
detto ben chiaramente che l’aver fortuna non dipende da alcuna associazione,
istituzione o politica esistenti nel nostro paese.
Ecco dunque un punto importante e qui conclusivo. Quel che alcuni la-
voratori stranieri da noi intervistati pensano, e che sembra ben mettere in lu-
ce un problema comune a tutti gli altri, è che nel nostro paese non c’è per lo-
ro che un’alternativa secca: o l’aver fortuna o una condizione da schiavi. Un
ventaglio di opportunità evidentemente troppo ristretto, troppo tragico, per
essere accettabile anche per tutti coloro che sono a pieno titolo di questo pae-
se e che, nonostante tutto, ci sono attaccati. Allargare questo ventaglio, dare
più possibilità di vivere a questi lavoratori stranieri, è sicuramente un obiet-
tivo politico urgente e imprescindibile anche per rendere più degne sia l’Ita-
lia sia l’Europa.


PIÙ POSSIBILITÀ DI VIVERE


Immigrazione zero, un fallimento politico

La Commissione dell’UE, in una comunicazione al Consiglio e al Parlamento


sulle politiche di immigrazione, denuncia il fatto che negli ultimi  anni que-
ste politiche sono state di “immigrazione zero”. Sarebbe a dire che hanno pro-
ceduto facendo finta che la realtà dell’immigrazione non esistesse. Un po’ co-
me qualcuno che si benda gli occhi e va avanti a tentoni, convinto di poter an-
dare dove vuole respingendo tutto quello che incontra. Quando si parla di la-
voratori stranieri in Europa, si dovrebbe sempre tenere in mente che questa
parte da “zero”, da un punto di vista politico.
E se questa è la media, si può ben capire che qua e là in questa stessa Eu-
ropa pullulino comportamenti da “sotto zero”, ovvero che addirittura voglio-
no colmare la mancanza di politiche nei confronti dei lavoratori stranieri attri-
buendo loro la colpa di ogni problema economico, sociale e culturale. È chia-
ro, peraltro, che i politici degli Stati nazionali, mediamente degli zero in politi-
ca d’immigrazione (stando alla lettera dello stesso parere della Commissione),
hanno tutto l’interesse all’esistenza di simili comportamenti “sotto zero” che
comunque alzano la loro stessa media. Un vero circolo vizioso, nel quale sicu-
ramente i paesi europei di fatto più avvezzi all’immigrazione si giovano com-
plessivamente di un maggior savoir faire (peraltro non di rado contraddetto da
clamorose cadute di tono) rispetto a paesi come l’Italia solo più recentemente
interessati da considerevoli flussi migratori.
E non è che l’inizio. Anche i dati demografici parlano chiaro. Entro il 
infatti i vicini poveri e poverissimi degli europei, sarebbe a dire gli abitanti del
Nordafrica e Medio Oriente, sono destinati a raddoppiare, mentre gli stessi eu-
ropei resteranno stabili. Stante quindi l’estrema e crescente mobilità di merci e
capitali poco o nulla regolata specie in paesi come l’Italia, ogni forma di prote-
zionismo nei confronti del movimento delle persone si rivela quanto mai cieca.
Di una cecità interessata, si dirà. È infatti chiaro che le politiche di immigra-
zione “zero” sono del tutto complementari a uno sfrenato sfruttamento dei la-
voratori stranieri i quali, di fatto, sono tanto più presenti in Italia e in Europa
e tanto più compressi su un livello zero di diritti. Ma la diagnosi di questa ce-
cità, per quanto critica, non equivale a una prognosi. Dal momento che questo
male non lo si vince con la sola volontà, ammesso e non concesso che questa
cambi. Per vedere meglio, in questo caso, occorre comunque costruire da zero
una nuova ottica, imparare a guardarci dentro, trarne dei nuovi calcoli e così
via. In una parola, si tratta di vincere l’“ignoranza” (come denunciano alcuni
nostri intervistati) sulla questione dei lavoratori stranieri e assieme a essa tutta
la cultura, le opinioni e il sapere che la legittimano; solo così si potrebbe inau-
gurare un nuovo modo di conoscere questo fenomeno gigantesco che sta cam-
biando la faccia di quel pezzetto del mondo in cui ci capita di abitare.


VA L E R I O R O M I T E L L I

Ma per combattere l’ignoranza non basta mai diffondere ed estendere quel


che già si sa. Una situazione di diffusa ignoranza è sempre, in parte o in tutto,
dovuta all’obsolescenza dei pregressi modi di conoscere. Per aprire alla cono-
scenza la questione dei lavoratori stranieri ci vogliono nuove ricerche e nuovi
modi di far ricerca. Trattare i lavoratori stranieri come flusso, come problema
di sicurezza, come comunità da integrare da parte di uno stato certo di cittadi-
nanza è già un modo superato di affrontare la questione. Un modo che finisce
per farne anzitutto una questione elettorale incentrata sul condizionamento di
voto tra i cittadini che ne hanno diritto. In realtà, occorre render conto del fat-
to che l’essere lavoratore straniero è e sarà una condizione del tutto normale
per una fetta importante delle popolazioni attive in Europa e in Italia; e che l’in-
sieme degli usi e dei costumi di tutte queste popolazioni e delle loro istituzioni
sarà così più o meno profondamente trasformato. Tutto starà nel vedere come:
con sempre maggiori conflitti e disordini o in modi più pacifici e razionali. Per
rendere possibili questi ultimi modi non c’è altra via che un incontro tra nuo-
ve ricerche e nuove politiche: in particolare, quelle ricerche che si volgessero a
conoscere qual è il pensiero di questi lavoratori e tramite quali parole lo pre-
sentano; e in particolare quelle politiche che, accantonando ogni calcolo pura-
mente elettoralistico, promuovessero simili ricerche per poter essere accettabi-
li anche per questi lavoratori.
Per tutte queste ragioni, penso che la nostra esperienza, per quanto davve-
ro infima, anche da un punto di vista politico non sia comunque zero.

Note

. Roma .
. Della Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati e a cura di G. Zinco-
ne, editi a Bologna nel  e .
. Nel corso, Brigitte Luggin, che lavora al Parlamento europeo, ha tenuto una relazione su
questi argomenti.
. Franca Tarozzi dell’associazione “Trame di terra” di Imola e Davide Baroncini della CGIL
sempre di Imola hanno tenuto delle relazioni a questo riguardo.
. Lazarus, Anthropologie du nom, cit.; Id., Anthropologie ouvrière et enquêtes d’usine: état
des lieux et problématique, in “Ethnologie française”, XXXI, .
. È un uso tutto mio di una celebre formula dello psicoanalista Jacques Lacan.
. Del resto il risultato cambia ben poco se si converte il discorso della “lotta di classe” in
quello oggi più in voga dell’“antagonismo tra moltitudine e impero”.
. Ad essa ha contribuito in modo decisivo Marta Alaimo.
. Oltre che il testo di riferimento obbligatorio (Hardt, Negri, Impero, cit.), a questo riguar-
do vanno sicuramente citati; S. Mezzadra, Diritto di fuga, Verona  e il periodico “Posse. Fi-
losofia, politica, moltitudini”, /, .
. G. Zincone (a cura di), Secondo rapporto sull’integrazione degli immigrati in Italia, Il Mu-
lino, Bologna , p. .
. Ivi, p. .
. Commissione dell’UE, Comunicazione al Consiglio e al Parlamento europeo su una politica
comunitaria in materia di immigrazione, Bruxelles,  novembre , COM (), .


Una scuola diversa dalle solite*
di Marta Alaimo e Valerio Romitelli


Ipotesi e problemi

Come nel  avevamo condotto un’inchiesta sui fruitori dello sportello per la-
voratori stranieri della CGIL Bologna col concorso di studentesse e studenti che
frequentano il corso di Metodologia delle scienze sociali per la Facoltà di Let-
tere e Filosofia, quest’anno, avvalendoci anche del contributo di studentesse e
studenti di Lingue e Letterature straniere, abbiamo svolto un’inchiesta sulle ra-
gazze e i ragazzi che frequentano i corsi del NOF (Nuovo obbligo formativo).
Nel tentare di far sì che gli studenti universitari assumessero il metodo d’in-
chiesta da noi proposto, abbiamo incontrato un ostacolo maggiore. Per lo più
essi, infatti, spontaneamente erano portati a equivocare il nostro approccio. Per
diradare gli equivoci è stato quanto mai utile distinguere “pensiero” e “co-
scienza”, insistendo sul fatto che al centro della nostra ricerca è ciò che pensa
la gente, non ciò di cui ha coscienza. La questione può sembrare astratta, ma
ha delle conseguenze del tutto concrete, tanto nella conduzione delle intervi-
ste, quanto nella lettura dei suoi risultati, nonché nel momento in cui si tratta
di trarre le conclusioni di tutta l’inchiesta. In effetti, se la ricerca è impostata
secondo l’approccio che si può chiamare coscienziale, il ricercatore deve sup-
porre di sapere in partenza quale sia l’oggetto su cui misurare la coscienza de-
gli intervistati. Tale oggetto può essere costituito dai principi democratici, dai
diritti, da questo o quel tema culturale o dalla conflittualità sociale. E gli inter-
vistati possono essere interpellati per conoscere quale sia il loro livello di co-
scienza democratica, di coscienza dei diritti, di coscienza culturale o di co-
scienza della conflittualità sociale. Ma la sostanza non cambia: il ricercatore in
questo modo si pone comunque, anche al di là delle sue intenzioni, in una po-
sizione di superiorità. In effetti, coscienza vuol dire etimologicamente “con
scienza”: interrogare qualcuno per la coscienza che ha di questo o quel tema,
significa sempre giudicarlo per quel che sa.

* Inchiesta sul NOF condotta assieme a studenti della Facoltà di Lettere e Filosofia e Lingue
e Letterature straniere dell’Università di Bologna.


M A R TA A L A I M O , VA L E R I O R O M I T E L L I

Nel nostro metodo invece è del tutto decisivo indagare il pensiero, come
dice Geertz, «là dove lo si trova»; aggiungiamo noi: così come lo si trova, os-
sia nei diversi modi e forme in cui presenta, senza prevedere a priori il primato
di alcuna forma o contenuto della coscienza. E per far ciò è necessario porsi
sullo stesso piano dei soggetti che interpelliamo, nonché escludere qualsivoglia
oggettività su cui misurare la capacità a pensare. Il che ovviamente non esclu-
de la conoscenza di vincoli sociali oggettivi. Ma essi sono da conoscere solo per
individuare la singolarità del luogo su cui la ricerca viene condotta. Mentre il
focus della ricerca deve sempre attenersi solo all’incontro tra le due diverse sog-
gettività, quella di chi fa inchiesta e quella di coloro tra i quali l’inchiesta è con-
dotta, senza mai confonderle, scambiarle o sovrapporle. Un incontro che non
deve essere condizionato da altro se non dall’obiettivo del ricercatore di cono-
scere una realtà sociale così come viene soggettivamente pensata da chi ne ha
esperienza diretta.
Così dunque ci siamo sforzati di impostare gli incontri tra i nostri studenti
universitari e le ragazze e i ragazzi del NOF. Ragazze/i tra i  e  anni, che nel-
l’insieme, sia per esperienze di vita, sia per percorsi scolastici quantomeno ac-
cidentati, sicuramente risultano assai deboli rispetto a qualsiasi supposto livel-
lo di coscienza civica, culturale o conflittuale. Che il problema centrale della
nostra ricerca non fosse constatare forme e gradi di questa debolezza, né tan-
tomeno come porvi rimedio: questo, come detto, è stato l’osso più duro da far
digerire ai nostri studenti universitari. La loro maggiore difficoltà è stata infat-
ti proprio nell’interpellare le ragazze e i ragazzi del NOF, anzitutto per pensare
quello che essi pensavano. Ma dopo aver subito parecchi e severi richiami, qua-
li ad esempio: «In realtà loro, nelle interviste, stanno dimostrando di pensare
molto più di voi!», anche i ricercatori in erba del nostro corso hanno per lo più
apprezzato il metodo loro proposto.


Il NOF, questo sconosciuto

A noi, che non siamo esperti di istruzione o formazione, il NOF è apparso come
realtà quasi sconosciuta, incontrata casualmente, alla ricerca come eravamo di
un nuovo campo di indagine per far esercitare gli studenti del corso di Meto-
dologia delle scienze sociali. Comunque si tratta di una struttura generalmen-
te poco nota perché assolutamente nuova e attiva di fatto solo in Emilia-Ro-
magna, anche se il Nuovo obbligo formativo corrisponde a una normativa na-
zionale introdotta nel . Conoscendola più da vicino, grazie soprattutto al-
la fruttuosa collaborazione di coordinatori e tutor, ci siamo resi conto della sua
complessità.
In poche parole, sono corsi finanziati con fondi sociali europei per giovani
tra i quindici e i diciotto anni d’età che abbiano frequentato le scuole almeno


UNA SCUOLA DIVERSA DALLE SOLITE

per nove anni. L’amministrazione di questi fondi è delegata dalla Regione alla
Provincia, la quale accoglie e seleziona dei progetti di percorsi formativi che
poi vengono affidati a enti gestori. Tali percorsi sono normalmente della dura-
ta di / ore nell’arco di due anni. Una quota di ore in aula e in labora-
torio, con lezioni tenute da esperti incaricati di funzione docente, viene affian-
cata da una quota di ore di stage presso qualche azienda. Il tutto organizzato
da un coordinatore e gestito dalla figura del tutor, che segue l’insieme del per-
corso, oltre a tenere lezioni di orientamento sul tipo di professione cui si è av-
viati. L’obiettivo di chi si iscrive è infatti il raggiungimento di una qualifica pro-
fessionale e/o della certificazione di competenze. Per essere ammessi ai corsi,
nella fase d’iscrizione è previsto un colloquio informativo e orientativo.
Il NOF dunque non è propriamente una “scuola”, come di solito la si inten-
de, ma non è neanche semplicemente apprendistato: come la prima è gratuita e
rilascia qualifiche, come il secondo è un canale di formazione on the job. Inten-
to dichiarato è facilitare la transizione dei giovani dalle sedi scolastiche a quelle
lavorative, ossia di colmare quel vuoto che c’è tra il lavoro dopo la scuola del-
l’obbligo e la prosecuzione degli studi secondo un percorso più canonico come
liceo o scuola superiore e poi eventualmente università. Tutto l’insieme comun-
que concepito nel contesto del decentramento delle politiche di formazione e
impiego a enti locali più radicati nel territorio e più vicini alle imprese autocto-
ne. E in effetti nei percorsi NOF le imprese sono direttamente interpellate come
soggetti attivi nel rendere possibile per i ragazzi l’esperienza dello stage.
Una realtà complessa, dunque, nuova e singolare. Come sempre di fronte
a simili realtà, le prime tentazioni sono proprio di negarne l’originalità. Così è
stato anche nel nostro corso universitario, dove i partecipanti all’inchiesta, fin
dai suoi inizi, hanno accanitamente discusso sul giudizio d’insieme da dare al-
lo stesso NOF. I voti più negativi sono venuti da due parti: l’una sicuramente più
incline a discorsi di tipo sindacale e ispirata alla coscienza della conflittualità
sociale, l’altra più improntata a un linguaggio classicamente pedagogico. Nel
primo caso la critica principale rivolta al luogo su cui abbiamo fatto inchiesta
è stata radicale: lo si è infatti accusato di essere poco più che apprendistato non
pagato, ossia un regalo di giovane mano d’opera gratuita fatto dagli enti locali
alle imprese, le quali invece agli apprendisti propriamente detti devono co-
munque corrispondere una retribuzione. Da questo punto di vista i corsi di for-
mazione che nel NOF accompagnano gli stage sarebbero poco più che una co-
pertura al limite dell’ipocrisia, in considerazione anche del fatto che lo stesso
apprendistato retribuito contempla dei corsi di formazione. Nel secondo caso,
invece, più che di critiche, si è trattato di insistenti dubbi sulla capacità dello
stesso NOF a dare quell’istruzione polivalente e in termini di cultura generale
necessaria per degli adolescenti non ancora diciottenni. Come ben si vede, al
di là dei modi in cui sono stati presentati, si tratta di due ordini di problemi del
tutto o in parte non fittizi.


M A R TA A L A I M O , VA L E R I O R O M I T E L L I

Tuttavia, non sono stati questi a essere posti al centro della nostra inchie-
sta, la quale invece, come abbiamo sempre insistito a chiarire, ha riguardato i
modi in cui ragazze e ragazzi frequentanti il NOF ne parlano e cosa ne pensano.
Così, senza tacitare i dubbi e le critiche su questo luogo in quanto tale, abbia-
mo spinto i nostri ricercatori in erba a mettere alla prova i loro dubbi e le loro
critiche, confrontandoli con le parole e i pensieri di chi di questo luogo fa espe-
rienza diretta.


Chi, dove e come

I corsi su cui abbiamo condotto la nostra ricerca sono per meccanici, parruc-
chieri, aiuto acconciatori, estetiste, ciascuno frequentato da - allievi. Il primo,
di durata biennale, è gestito dalla Fondazione Aldini-Valeriani, presso l’Istituto
professionale Aldini-Valeriani di Bologna, e prevede la formazione a commercio,
manutenzione e riparazione di autoveicoli e motocicli, per un totale di . ore,
di cui  di stage/tirocinio. I moduli didattici affrontati nel percorso sono Mec-
canica ed elettronica dei motori ( ore), Informatica ( ore), Inglese ( ore),
infine  ore tra Comunicazione, Diritto del lavoro, Simulazione aziendale, Am-
biente e sicurezza e Ricerca attiva del lavoro. Gli altri percorsi di formazione ge-
stiti dall’ECIPAR di Bologna invece sono rispettivamente di . ore circa per par-
rucchieri ed estetiste (di cui  di stage) e di  ore (di cui  di stage) per
quello di aiuto acconciatori. In particolare il percorso per estetiste, dove abbia-
mo avuto l’opportunità di condurre il maggior numero di interviste, contempla
materie come Anatomia, Chimica, Comunicazione, Lingua inglese, Informatica
e Diritto, con particolare attenzione al Diritto del lavoro.
In tutti questi corsi gli insegnanti, sia di pratica che di teoria, sono sele-
zionati liberamente e senza vincoli di graduatorie dall’ente gestore. Si tratta
di solito non semplicemente di insegnanti, ma di persone che già lavorano in
questi settori.
Quanto all’utente medio di questi corsi, in particolare i tutor degli aspiranti
meccanici, prima che iniziassimo le nostre interviste ce ne hanno dato un ri-
tratto pieno d’ombre: ragazzi rifiutati o ritiratisi dalla scuola, spesso con note-
voli difficoltà anche nella vita privata, che preferirebbero lavorare, ma, doven-
do assolvere l’obbligo formativo, vi si ritrovano senza esserne troppo convinti.
Cosicché, almeno buona parte del primo anno i tutor ci hanno raccontato di
averla passata anzitutto a convincere con ogni mezzo i ragazzi delle loro stesse
capacità di apprendimento.
Per appassionare al corso di inglese, ad esempio, si è ricorsi alla realizza-
zione in lingua di un cortometraggio di cui tutti, studenti e tutor, erano autori
e attori. Una volta redatto ogni singolo episodio, alla lezione successiva ciascu-
no recitava la propria parte. Questa originale soluzione è stata pensata e rea-


UNA SCUOLA DIVERSA DALLE SOLITE

lizzata dopo che la docente d’inglese si era ritirata, rinunciando all’incarico, del
tutto esaurita dalle resistenze non solo verbali incontrate in aula.
Solo un esempio, questo, di quanto può accadere al NOF, delle difficoltà di
questo luogo, ma anche delle possibilità inventive sicuramente tra le più ampie
godute da qualsiasi scuola.
Per quanto riguarda le ragazze, aspiranti estetiste, parrucchiere e aiuto ac-
conciatrici, ci è stato raccontato di alcuni loro gravi disagi familiari, dei loro fre-
quenti pregiudizi nei confronti di stranieri o, per converso, delle difficoltà per
le poche straniere di avere rapporti con le italiane, della spregiudicatezza con
cui molte hanno rapporti sessuali, con tutte le conseguenze del caso. Una tutor
ci ha detto di essersi dovuta più volte e in più casi recare a casa di alcune alun-
ne, che per vari motivi non volevano più frequentare la scuola, spingendole e
riuscendo infine a fare loro terminare il corso.
Fin dai primi nostri approcci alla realtà del NOF, ci è apparsa evidente la
centralità della figura del tutor, fondamentale non solo per gestire il rapporto
tra aula e laboratorio e tra questi e l’impresa dove avviene lo stage, ma per tut-
ta l’esperienza soggettiva che compie chi frequenta questi corsi.
Dopo questi primi approcci esteriori al tema centrale della nostra in-
chiesta, abbiamo proceduto alla stesura del questionario seguendo alcuni
modelli, adattandoli alle nostre esigenze, discutendone approfonditamente
cogli studenti universitari e consultandoci continuamente con i tutor. Le do-
mande erano trentuno, divise in tre gruppi. Il primo di carattere più gene-
rale, con informazioni biografiche, pur nell’assoluto rispetto dell’anonima-
to. Il secondo incentrato sul NOF: come i suoi frequentanti hanno saputo del-
l’esistenza di questa scuola, quanto sono soddisfatti della scelta compiuta, i
problemi e le incomprensioni, le aspettative deluse. Il terzo gruppo riguar-
dava invece la loro vita al di fuori del corso di formazione, le loro esperien-
ze personali.
Abbiamo incontrato le ragazze e i ragazzi nelle loro scuole in giorni pre-
stabiliti, in modo da non intralciare le loro attività didattiche e da lasciare il tem-
po ai tutor di spiegare di cosa si trattasse.
Gli incontri, una settantina, alla fin fine sono andati molto meglio del pre-
visto. Sono durati all’incirca un’ora, ma a volte anche di meno.
Le ragazze e i ragazzi del NOF si sono rivelati assai più interessanti e dalle
personalità complesse. Con alcuni di loro si è instaurata una buona intesa, che
ha permesso interviste piuttosto ricche.
Quanto alle studentesse e agli studenti universitari, nella maggior parte,
hanno dimostrato di appassionarsi a questa prima loro esperienza di intervi-
statori, fino a contendersi le ragazze e i ragazzi da intervistare.
Durante il corso di Metodologia delle scienze sociali, si sono in seguito te-
nute delle relazioni a commento dei risultati ottenuti dalle interviste, con di-
scussioni molto intense.


M A R TA A L A I M O , VA L E R I O R O M I T E L L I

Infine, in due occasioni, tra la fine di maggio e l’inizio di giugno  sono
state tenute due sedute seminariali, prima alla Fondazione Aldini-Valeriani, poi
presso la sede dell’ECIPAR dove docenti, ricercatori, studentesse e studenti uni-
versitari, coordinatori, tutor e responsabili NOF hanno potuto discutere dei ri-
sultati di tutti i lavori dell’inchiesta.
I prossimi paragrafi ne daranno un’ultima sintesi.


A proposito dell’intervista, della provenienza e del lavoro

Ci piace cominciare con uno dei risultati che più ci hanno gratificato. Esso è
venuto dalle risposte all’ultima domanda di tutto il questionario, relativa al gra-
dimento dell’intervista: su circa una settantina di intervistati, se in dodici dico-
no che non serve a niente o solo ai ricercatori e otto circa non capiscono a co-
sa serve o non rispondono, i restanti quarantasei si dimostrano entusiasti. Que-
sti alcuni dei commenti più positivi: «Bellissimo non volevo più smettere»; «È
stata grande»; «Bella, sono delle domande belle, mi piace essere ascoltata e le do-
mande erano buone»; «È carina ’sta cosa delle domande, mai nessuno mi fa tut-
te queste domande! Fa bene qualche volta»; «Mi piace, mi sento importante»; «È
stata bella anche se è durata troppo poco».
In particolare, un’aspirante estetista di quindici anni dice: «Molto interes-
sante, è servita anche per sfogarmi. Ho detto cose che anche con le compagne non
ci diciamo». Enunciato che mette in luce l’interessante problema dei rapporti
tra compagne e compagni di classe su cui ci soffermeremo più avanti.
Altre risposte molto incoraggianti per la nostra ricerca sono le seguenti: «È
un buon metodo per capire e chiedere com’è il nostro corso»; «Spero che il risul-
tato di questa intervista venga trasmesso ad altri ragazzi».
Un meccanico, che in altre risposte non sembra soddisfatto della scelta del
NOF dice: «Serve a conoscere i ragazzi di questa scuola, a capire cosa vogliono dal-
la vita».
Ma la risposta più interessante e su cui avremo modo di tornare è quella di
una ragazza di sedici anni: «Penso che serva a qualcosa, per capire come sono fat-
ta io, per capire la gente che avete nel corso. Sicuramente è utile per raccogliere
opinioni diverse, vedere come va questo corso, perché se abbiamo delle buone idee
adesso, il corso può andare avanti anche in futuro».
Ma vediamo ora un po’ di dati quantitativi, che per comodità a volte sa-
ranno esposti in percentuali, anche se la limitatezza del campione li rende un
po’ artificiosi.
Abbiamo condotto settantuno interviste, incontrando ventidue meccanici,
tutti di sesso maschile, trentaquattro estetiste, tutte di sesso femminile e quindi-
ci, tra parrucchieri e aiuti acconciatori, di cui solo due maschi e il restante fem-
mine. Oltre alla distinzione del percorso scelto, si è verificata un’evidente divi-


UNA SCUOLA DIVERSA DALLE SOLITE

sione anche di genere. Dopo parecchie discussioni, abbiamo trovato il compro-


messo di considerare questa distinzione di sessi, ma evitando di ricondurre o di
spiegare ogni differenza tra l’uno e l’altro corso sulla base di questa diversità.
Tutti questi ragazzi hanno un’età compresa tra i quindici e i diciotto anni;
tra le aspiranti estetiste, tre di quindici anni, dodici di sedici anni, quattordici
di diciassette e le restanti di diciotto anni. Per quanto riguarda i meccanici, la
maggioranza, nove, ha sedici anni, mentre otto ne hanno quindici e quattro di-
ciassette e uno solo diciotto. Quanto ai parrucchieri, in sette sono di sedici an-
ni, in cinque di quindici anni e in tre di diciassette.
Quanto ai paesi di provenienza, la maggior parte, il %, viene dalla pro-
vincia di Bologna, mentre il % non specifica; a Bologna città risiede solo il
%. Per quanto riguarda i ragazzi della Fondazione Aldini-Valeriani, il %
vive nella provincia, il % a Bologna, inoltre la metà di loro vive con i genito-
ri; un % cita anche fratelli e sorelle; il % dichiara di vivere con un solo pa-
rente, mentre solo il % non specifica. Le ragazze estetiste vivono con genito-
ri e un solo parente, rispettivamente il % e il %; delle restanti, o non spe-
cificano o parlano di fratelli e sorelle. Dei parrucchieri, il % dichiara di vive-
re con i genitori, il % anche con altri parenti, il % con un solo parente,
mentre il % preferisce non parlarne. Poco più della metà vive da sempre nel-
lo stesso posto, il % da meno di un anno, i restanti da più di dieci anni, stan-
te però che un % non ne parla. I più stabili sono i maschi con il %, che
non ha mai cambiato residenza, mentre i meno fissi sono i parrucchieri. Tra i
luoghi di provenienza, oltre la provincia bolognese, la regione più presente è la
Puglia con il %, pressappoco con percentuali simili Calabria, Sicilia, Campa-
nia, con la presenza di tre sole straniere, una marocchina, una ragazza vene-
zuelana e una sola estetista polacca.
Alla domanda in cui viene chiesto quali lingue sappiano parlare l’inter-
vistata/o, le risposte cambiano parecchio da un corso all’altro: i maschi per
la maggior parte, in dieci, dicono di conoscere solo l’italiano, in otto dicono
di sapere l’inglese o il francese, in tre l’inglese e il francese, uno solo l’ingle-
se e il croato. Undici estetiste conoscono anche l’inglese, nove l’inglese e il
francese, otto dicono di parlare tre lingue, inglese, francese e spagnolo, e al-
trettante solo l’italiano. In maggioranza, i parrucchieri dicono di saper par-
lare due lingue oltre l’italiano: l’inglese e il francese, uno solo l’inglese, un
altro solo il tedesco e due altri, rispettivamente, il francese e il bosniaco e so-
lo uno il polacco.
Per quanto riguarda le scuole precedentemente frequentate, otto meccani-
ci hanno frequentato solo le medie inferiori, ma dato che uno dei requisiti fon-
damentali per iscriversi al NOF è avere nove anni di scuola pregressa, questi ra-
gazzi sono stati bocciati almeno un anno. Hanno frequentato in undici istituti
professionali, due l’alberghiero e uno l’ITIS. Tra le ragazze, in sette sono state
rimandate alle medie e poi si sono iscritte al corso per estetista, in cinque ven-


M A R TA A L A I M O , VA L E R I O R O M I T E L L I

gono da istituti professionali, in quattro dal Liceo socio-psico-pedagogico, in


tre da Ragioneria e sempre in tre da Grafica pubblicitaria, mentre le restanti da
corsi per operatore sociale, dall’Istituto turistico e alberghiero, dal Liceo scien-
tifico, dall’Istituto d’arte, dall’Istituto chimico-biologico, dal Liceo linguistico
e da un corso per operatore di moda; una sola non specifica. Anche le aspiran-
ti parrucchiere/i per la maggior parte provengono direttamente dalle medie,
dal professionale, dall’Istituto d’arte, dall’Istituto alberghiero, dal Liceo scien-
tifico, dall’Istituto turistico e da Ragioneria; la ragazza polacca invece frequen-
tava il ginnasio nel suo paese.
Da questa serie di dati si nota che c’è maggiore varietà nelle scelte operate
dalle giovani estetiste e parrucchiere, ma, analizzando gli enunciati, si scopre
che le scelte di alcune ragazze e ragazzi sono state prese soprattutto per tem-
poreggiare. Ad esempio, un’aspirante estetista ci ha detto che: «Fin da piccola
mi è sempre piaciuto fare l’estetista, ho fatto un anno così, alle superiori, poi mi
sono iscritta al corso per estetiste».
Di contenuto non troppo diverso è anche la frase di una ragazza di sedici
anni che ha frequentato un anno alle Aldini-Valeriani al professionale per ope-
ratore tecnico-sociale: «Ho fatto tutto fino alle medie, poi un anno alle superio-
ri per forza perché è obbligatorio, poi adesso tre anni da estetista».
Come molte sue colleghe, una quindicenne aspirante parrucchiera confer-
ma: «Un anno d’operatrice di moda per raggiungere l’età, poi il NOF».
Così pure un’altra aspirante estetista: «Sono andata alle superiori perché do-
vevo fare un anno per forza; mi hanno segata e la stessa estate ho fatto il colloquio
con Samantha [la tutor, N.d.R.] per l’ECIPAR che già conoscevo». Dal che si rica-
va che molte ragazze hanno dovuto aspettare un anno per raggiungere l’età giu-
sta per realizzare la loro intenzione già maturata di iscriversi al NOF.
Da questo punto di vista, è tutto molto diverso per i maschi. Infatti, nessu-
no di loro accenna al fatto di aver perso un anno aspettando d’iscriversi al cor-
so al quale invece sono approdati con diverse motivazioni. Alcuni, essendo in
obbligo formativo, l’hanno scelto come alternativa all’apprendistato, che com-
porta comunque almeno  ore medie annue di formazione.
Un aspirante meccanico spiega così la propria scelta: «Quando ho smesso
le Aldini, volevo andare a lavorare, ma ho capito che andavo a spaccarmi la schie-
na per pochi soldi. Mio padre mi ha detto: “prenditi almeno una qualifica”, così
ho deciso di iscrivermi».
Un altro dice di avere soprattutto seguito l’esempio di amici: «Avevo degli
amici che venivano qui, quindi sono venuto anch’io: o andavo a lavorare o veni-
vo qui». Dai più, comunque, quella del NOF viene presentata come una scelta
di ripiego, dopo fallimenti scolastici, magari ripensati senza rimpianto, come
nel caso del diciassettenne che in tutta l’intervista ci ha tenuto a fare un po’ lo
strafottente: «Mi hanno cacciato dall’ITIS, comunque non mi hanno lasciato nien-
te. I prof. erano teste di cazzo e adesso sono qui».


UNA SCUOLA DIVERSA DALLE SOLITE

Per molte ragazze il NOF è il mezzo per raggiungere un sogno, a volte di-
chiaratamente infantile: «È stato sempre il mio sogno, mi piace fare la truccatri-
ce… era una decisione che avevo dentro di me»; «Mi sentivo pronta. Mi è sempre
piaciuto. È realizzare il mio sogno, diventare estetista»; «L’idea di fare la parruc-
chiera mi piaceva fin da piccola».
Meno convinte di queste sono le risposte dei ragazzi a proposito del loro
futuro lavoro. Anche se non manca la passione per gli scooter. Uno di loro, pe-
raltro reticente su molti argomenti, su questo non ha dubbi: «Per essere un buon
meccanico conta la passione!».
Ma sicuramente qui la decisone del percorso formativo è più incerta di
quella riscontrata tra le ragazze. Le opzioni per altri corsi NOF o per altre pro-
spettive di lavoro tra questi ragazzi sembrano restare più spesso aperte: «Ad an-
dare a lavorare, sarei stato forse più contento, sicuramente anche in fabbrica. Mi
accontento»; «Avrei voluto fare termotecnica, se non avessi passato il test, avrei
fatto quella. Sono sempre dei lavori dove si guadagna bene»; «Inizialmente avrei
voluto fare proprio questo corso. Ora sto pensando di fare un altro NOF, ma è so-
lo un pensiero».
C’è anche chi già rimpiange una ben altra strada: «Avrei voluto fare il pilo-
ta di moto».

Comunque, ancora più fantasiose sulle loro scelte di vita alternative alle attuali
sono le ragazze dei tre altri corsi: «All’inizio volevo fare l’hostess, perché mi pia-
ceva volare, e mi piace ancora adesso, ma mio padre mi ha detto che sono troppo
bassa e mi ha tolto la voglia»; «Informatica»; «L’architetto»; «Avrei voluto fare la
scuola di volo, ma non ho avuto occasione»; «Mi sarebbe piaciuto esser tanto ricca
da non dover lavorare»; «Avrei voluto fare l’insegnante di danza»; «Il mio sogno
nel cassetto? Bello, bellissimo però impossibile, il mio sogno è quello di fare il chi-
rurgo plastico, è il mio sogno irrealizzabile»; «Prima di venire qui avrei voluto fa-
re il turistico (lingue), ma mi piace anche l’estetista, anche se all’inizio lo reputavo
un bel lavoro, ma che non faceva per me»; «Il mio sogno è fare l’hostess, ma ho
una cugina che fa l’estetista e mi piace fare i massaggi».
Non manca chi voleva continuare la scuola: «Sicuramente l’intenzione era
quella di finire i precedenti studi, ma ho avuto delle difficoltà e ho scelto il NOF».
Tra i ragazzi sono più ricorrenti dei calcoli ben precisi sul valore di un per-
corso formativo piuttosto che un altro.
Per uno di essi «la qualifica che ti danno qui vale meno, meglio la quinta del-
le Aldini».
Un altro, con un po’ di rimpianto per il proprio insuccesso, concorda: «I
miei amici, con cui ero alle Aldini, sono stati promossi e stanno andando avanti
lì; secondo me è meglio che vadano avanti là invece che qua. Qui puoi andare a
lavorare solo fino a un certo punto, poi devi essere ingegnere... se hai la qualifica
alle Aldini salti qualche gradino».


M A R TA A L A I M O , VA L E R I O R O M I T E L L I

Un altro ancora afferma, con un desiderio di rivalsa: «Sono considerato


più ignorante da chi fa altre cose, come quelli del professionale, che mi vedo-
no sempre senza zaino, ma per smentirli il prossimo anno mi iscrivo alle Al-
dini».
Quanto a ciò che dicono i ragazzi e le ragazze a proposito del lavoro, se ne
possono ricavare i seguenti dati quantitativi. Il % degli intervistati dice di non
aver mai lavorato, il restante % sì. Tra i ragazzi che hanno avuto un’occupa-
zione, il % dice di averlo fatto senza contratto, il % dichiara di essere sta-
to regolarmente assunto, mentre il restante % non specifica.
In particolare, il % dei parrucchieri dice di non avere mai lavorato, il
% dice di avere fatto il parrucchiere, un altro % non specifica, mentre due
dicono di aver fatto rispettivamente il muratore e l’ambulante. Tra i meccanici,
il % dice di non avere mai svolto nessun lavoro, il % non entra nel parti-
colare, il % solo stage, solo il % il meccanico, mentre i restanti rispettiva-
mente camerieri ed elettricisti. Infine, tra le estetiste, delle quali il % dice di
non avere mai lavorato, soltanto il % considera lavoro lo stage, pur avendolo
già fatto praticamente, il % dice di aver già svolto o di svolgere lavori da este-
tista, mentre tra le restanti vengono ricordate le occupazioni più varie: operaia,
barista, pulizie, volantinaggio e cameriera.
Il dato più interessante, oltre alla predominanza di lavoro nero, è la diffe-
renza dei modi in cui viene considerato lo stage. Per i ragazzi e le ragazze che
frequentano i corsi per estetiste, parrucchiere e aiuto acconciatrici si tratta per
lo più di un momento formativo che fa parte dell’apprendere. La maggioranza
dei ragazzi dei corsi per meccanici considerano invece lo stage un lavoro, an-
che se non tutti ne hanno ancora esperienza.
Peraltro, lo stage per alcuni/e è lavoro, per altri/e no. C’è chi, tra le esteti-
ste in erba, dice infatti: «Non ho mai lavorato, ho fatto solo lo stage per tre set-
timane». Tra i meccanici invece: «Come esperienza lavorativa ho fatto solo lo sta-
ge». Ma le ambiguità su questo tema sono rintracciabili nelle parole dei fre-
quentanti di tutti e quattro i corsi.
Un problema tutto da approfondire si profila poi tra i modi assai contro-
versi in cui i ragazze e le ragazze parlano delle possibilità di lavorare mentre se-
guono il NOF e che di norma sarebbe consentito solo per venti ore settimanali.
Il punto è che questa confusione non sembra dipendere solo da loro incom-
prensioni. Un’apprendista estetista infatti lamenta: «Molte cose non coincidono,
perché la vecchia tutor mi aveva detto che potevo lavorare purché venissi a scuo-
la, lui [il nuovo tutor, N.d.R.] non me lo permette più».
Equivoci non da poco paiono anche circolare sui modi in cui vengono ge-
stiti gli stage. Una ragazza che frequenta un corso da parrucchiera dice: «Ho la-
vorato, ma non in regola, in regola non ci vogliono mettere, ora. Al pomeriggio
lavoro nello stesso salone dove farò lo stage, quindi lo faranno [metterla in rego-
la, N.d.R.] a scuola finita».


UNA SCUOLA DIVERSA DALLE SOLITE


Al NOF la teoria è strettamente collegata con la pratica

Un altro dato decisamente positivo della nostra inchiesta sta nel fatto che ra-
gazzi e ragazze da noi intervistati si dimostrano per lo più assai soddisfatti del-
la scelta del percorso formativo in cui sono inseriti: la rifarebbero e la consi-
glierebbero ad altri. Un dato che risalta maggiormente se confrontato coi bi-
lanci prevalentemente negativi che essi danno delle loro precedenti esperienze
scolastiche. Fallimenti di cui a volte non si sentono responsabili: «Mi piaceva la
moda, ma i proff. se ne fregavano. Non mi serviva a niente, ci andavo perché ci
andava la mia amica», ci racconta un’estetista in erba.
Un aspirante meccanico invece rievoca così il suo passato scolastico deci-
samente negativo: «Fino alla terza media ho imparato a leggere e a scrivere… e
a fare l’asino! Fino alla terza media cosa vuoi fare? Gli anni sono lunghi quando
ci sei dentro. Informazioni ne ho avute. Sono io che non mi interesso. Ero tutti i
giorni dal preside. Alla fine, ci ho preso anche il gelato insieme. Non portavo i
compiti, non ci andavo, così alla fine ho perso un anno».
Un altro ragazzo dei corsi alla Fondazione Aldini-Valeriani esprime così la
sua incomprensione per l’insegnamento scolastico tradizionale: «A me cosa mi
interessa di geografia? Se voglio andare in una città, ci vado!».
A proposito del NOF, tutt’altro è il tono prevalente: «Il corso è molto bel-
lo e fatto bene, l’ho consigliato e lo continuerò a consigliare»; «Sì, consiglierei
di venire qui, perché, nonostante tutto, se uno vuole imparare ci riesce»; «È un
posto bellissimo, dove ti aiutano se hai dei problemi tuoi, a casa. Ne puoi par-
lare con i tutor che ti danno una mano»; «È una bella scuola dove sanno inse-
gnare bene, e gli insegnanti sono bravi e comprensivi»; «È una scuola diversa
dalle solite».
Questi alcuni dei giudizi più entusiasti tra le iscritte ai corsi per estetiste,
parrucchiere e aiuto acconciatori.
Ma ancora una di esse trova “vaga” la scuola tradizionale rispetto a quella
ora frequentata: «L’ho scelta perché volevo fare una scuola che mi formasse sul
lavoro, non una scuola più vaga».
Un’altra apprezza il collegamento tra teoria e pratica, che esiste per lei so-
lo al NOF: «Mi insegna a saper collegare la teoria con la pratica, cosa che nei licei
manca. Al NOF la teoria è strettamente collegata con la pratica».
Infine, c’è chi tra queste ragazze dichiara che solo nel NOF ha trovato le mo-
tivazioni a studiare: «In una scuola normale sarei andata solo per fare fuga e di-
vertirmi, non per studiare, se fossi andata in un’altra scuola non mi sarebbe pia-
ciuto e non avrei studiato. Mi piace il lavoro, la scuola un po’ meno, ma mi devo
mettere nell’ottica che devo studiare».
Anche nelle parole degli aspiranti meccanici, ritorna il paragone con le
scuole tradizionali.


M A R TA A L A I M O , VA L E R I O R O M I T E L L I

C’è addirittura di chi si dice «fiero di aver fatto questa scuola!». Sottoli-
neando: «Non portiamo neanche lo zaino e i libri», segni, questi ultimi, per lui
tipici del più tradizionale Istituto Aldini-Valeriani, al quale peraltro egli stesso
dice poi di voler iscriversi in futuro. Un altro oppone libertà a fissità: «Come
scuola qui stai polleggiato. Sei libero. Se vai in una scuola superiore sei lì fisso».
Semplice, ma sempre positivo è il giudizio di un altro aspirante meccanico:
«Questa scuola almeno ti fa fare qualcosa». Un altro ragazzo ancora sottolinea
la prospettiva che gli apre il NOF: «Mi insegna la responsabilità di un lavoro, un
mestiere, il mio futuro».
Ma ovviamente non mancano le spine. Due ci paiono i maggiori problemi
sollevati dai nostri intervistati/e. Uno riguarda i rapporti non sempre dei mi-
gliori tra gli stessi compagni/e di corso. L’altro le ore del corso dedicate agli in-
segnamenti teorici e i rapporti cogli insegnanti che ne sono incaricati.
Sul primo problema abbiamo raccolto parecchi enunciati interessanti. Ec-
cone alcuni. «Non mi piacciono nemmeno le mie compagne – dice un’aspirante
estetista – tutte queste impiccione. Non essere capita e non essere ascoltata è il
problema. Io divento una bestia». Un’altra dello stesso corso: «Il problema più
grosso è stato l’inserimento con le altre ragazze, infatti al primo anno avevo pen-
sato di ritirarmi». Altre estetiste in erba parlano in tono simile dello stesso te-
ma: «Con le compagne? Male, malissimo, sono tutte molto strafottenti e imma-
ture»; «Con alcune non lego tanto perché abbiamo idee diverse»; «Non andare
d’accordo con le compagne, è un problema che non si riesce a risolvere, con alcu-
ne persone parli, con altre non riesci».
Qualcuna ha trovato la soluzione, ma solo prendendo le distanze: «Il pro-
blema era non andare d’accordo con alcune compagne, che magari prendono in gi-
ro. Non ci faccio più caso e così si è risolto da solo»; «Tra le compagne, ci sono
gruppetti. Qualcuna con cui lego di più, altre con cui ho meno feeling. Io sono una
ragazza aperta. Se vedo che qualcuno si interessa a me ci parlo, altrimenti la salu-
to e basta»; «Non c’è nessuno con cui non vado d’accordo; verso le persone trop-
po diverse da me c’è indifferenza, non abbiamo alcun rapporto»; «Ogni tanto
qualche lite, così! Non si può sempre andare d’accordo. Se c’è antipatia si cerca di
evitare».
Anche tra le future parrucchiere più di una si lamenta: «Mi danno fastidio
alcuni atteggiamenti dei miei compagni di classe»; «Mi danno fastidio la maggior
parte dei miei compagni di classe perché hanno atteggiamenti stupidi».
Tra i meccanici, uno ci racconta di avere avuto noie in classe: «Una volta,
perché uno mi rompeva le scatole, ne ho parlato con il tutor. Se loro non rompo-
no le balle a me, io non le rompo a loro».
Un altro parla di «rapporti tranquilli» coi suoi compagni, ma subito ag-
giunge: «non mi interessa più di tanto avere rapporti con loro».
Un altro ancora dice: «Lego con chi ha i miei stessi interessi, con gli altri è
soprattutto questione di distanza».


UNA SCUOLA DIVERSA DALLE SOLITE

L’altro problema notevole, si diceva, riguarda le ore in classe durante le le-


zioni frontali di teoria: «Faccio troppe ore in classe, sono noiose»; «La cosa che
mi piace di più è che non devo stare in un banco, così [incrocia le braccia]»; «In
classe non riesco a stare seduto, non riesco a stare seduto con un libro in mano»;
«Non vado d’accordo con i proff. Lei è là, io sono qua».
Questi alcuni degli enunciati ricorrenti tra i frequentanti di tutti i corsi.
Ma è tra parrucchiere e aiuto acconciatori in erba che abbiamo raccolto
i rifiuti più decisi delle lezioni di teoria: «Voglio togliere qualche materia teo-
rica. Alcune non hanno senso con il nostro lavoro»; «È una buona scuola e ci
fanno fare più pratica che teoria. La teoria non serve a niente, quello che spie-
gano i professori in realtà non serve nel nostro lavoro»; «Mi piace tutto tran-
ne la teoria. Chimica la odio. Alcune non servono, tipo l’inglese»; «La teoria
è pallosa: stare cinque ore seduta ad ascoltare una che parla»; «Teoria è troppo
pallosa; stare seduta lì cinque ore a sentire una che parla, se non te ne frega
niente».
Tra le estetiste si può invece notare un maggiore apprezzamento della teo-
ria, considerata sì più faticosa della pratica, ma della quale si capiscono co-
munque l’importanza, la necessità, l’utilità.
Ad esempio, una ragazza alla quale è chiesto quale sia la cosa che conta di
più per essere una brava estetista, risponde: «Studiare la chimica e l’anatomia,
perché se non sai dove mettere le mani, non conta niente».
Così pure delle sue compagne di corso usano parole simili: «Preferisco la
pratica alla teoria. Non sono portata per lo studio, ma è importante la conoscen-
za; bisogna infatti saper collegare teoria e pratica. Vorrei fare il terzo anno inte-
grativo. Vorrei continuare a formarmi»; «È importante anche la teoria, perché
senza di quella non si può fare la pratica. Mi piacciono materie come chimica e
anatomia anche se sono complesse»; «Questa scuola ti dà la possibilità di fare un
bel lavoro, anche se bisogna studiare, ma ne vale la pena»; «Le materie sono un
po’ difficili, ma ho capito che se volevo farcela dovevo studiare di più. Occorre sa-
pere bene anatomia e teoria perché sono elementi fondamentali per svolgere il
proprio lavoro».
Tra i futuri meccanici, prima e più di tutto contano l’osservazione e l’e-
sperienza diretta. Secondo uno di loro, quel che conta di più per imparare è
«guardare chi ne sa più di te, poi fare molta esperienza». Un altro ragazzo va più
nel dettaglio: «A me studiare non mi è mai piaciuto. È meglio venire qua. Non
hai problemi. Bisogna stare attenti. Se c’è una cosa che non sai fare, devi stare at-
tento e guardare. Guardando poi magari ti ricordi, ce l’hai lì davanti e magari ti
ricordi come l’ha smontato. In stage ho imparato come si usa il computer per fa-
re dei controlli. Un collega lo usava e io pensavo “ora va lì” e lui lo faceva». C’è
poi chi pensa che per essere un buon meccanico ci vogliono qualità quali: «fan-
tasia, capacità di risolvere i problemi nel minor tempo possibile, pazienza ed
esperienza».


M A R TA A L A I M O , VA L E R I O R O M I T E L L I

Il rapporto con gli insegnanti risulta più o meno problematico in ogni cor-
so. «Con i miei insegnanti ci sono stati dei disguidi perché non avevamo rappor-
to» riferisce una futura estetista. Un’altra pensa che gli insegnanti «sono abi-
tuati a classi di persone più grandi e non sono abituati a noi che abbiamo sedici
anni». Un’altra ancora si lamenta: «Quella di anatomia parla a busso; alzi la ma-
no e non ti caga neanche». Un meccanico sentenzia: «I professori non è che in-
segnano, ti dicono quello che sanno».
E così di seguito, frasi di scontento su questo argomento paiono accomu-
nare tutti i ragazzi e le ragazze da noi intervistati. «È un po’ difficile avere rap-
porti con gli insegnanti, perché molti dopo la lezione vanno via subito»; «La teo-
ria è molto noiosa, e i prof. te la fanno pesare»; «Lego poco con gli insegnanti per-
ché sono antipatici»; «Qui gli insegnanti sembrano appena usciti da scuola. Io non
ci arrivo forse; ma gli insegnanti leggono e basta. Questo non aiuta»; «Con gli in-
segnanti non c’è rapporto».
Tutt’altre sono invece le parole riservate alla figura dei tutor, che è sicura-
mente un elemento centrale tra i più innovativi di questo progetto di forma-
zione. In effetti, i ragazzi li considerano molto di più che insegnanti, e non so-
lo per problemi strettamente legati alla scuola. A loro si rivolgono infatti an-
che per questioni personali. Questo emerge da tutti e quattro i gruppi intervi-
stati, sia pur con qualche differenza. Tra le aspiranti parrucchiere e aiuto ac-
conciatori due ragazze sottolineano con forza l’importanza del loro rapporto
con la tutor: «Più di tutti nel corso, lego con la tutor, perché lei mi ascolta di
più»; «Sono stata quasi sospesa a scuola, ma l’ho risolta con il mio tutor poiché
mi ha perdonato».
Per quanto riguarda i meccanici, i pareri sono discordanti ed estremi; si
parla di rapporti conflittuali coi tutor, ma allo stesso tempo tutti gli intervista-
ti riconoscono loro un ruolo basilare: «I tutor non li sopporto!»; «Il rapporto con
i tutor non è come quello con i professori, li vedo più come amici»; «Mi danno fa-
stidio i tutor perché sono pesanti»; «Con i due tutor c’è un rapporto d’amore-odio.
Quando sono bravo e mi impegno scherziamo. Quando faccio l’asino litighiamo»;
«Puoi parlare un po’ con tutti, qui siamo tutti amici, vado meno d’accordo con i
tutor»; «Ho rischiato la sospensione dai corsi per atti vandalici e l’ho superata gra-
zie a un atto di bontà dei tutor».
Un ragazzo fa dei tutor la pietra di paragone tra la scuola tradizionale e
il NOF:
«Va molto bene, si può parlare in confidenza, cosa che nelle altre scuole non
succede, soprattutto con i tutor».
Le estetiste hanno invece un rapporto praticamente idilliaco con la loro re-
sponsabile, e dimostrano d’avere una grande fiducia in lei. «Con la tutor ci dia-
mo anche del tu e anche se le raccontiamo le nostre cose ci fidiamo». «Per i pro-
blemi della scuola ho parlato con la mia tutor. Ci ho messo tanto. Sono riuscita a
superare tutto, ma ero da sola e con la mia tutor». «Lego di più con alcune com-


UNA SCUOLA DIVERSA DALLE SOLITE

pagne e con la tutor con cui faccio battute». «Il NOF è un posto bellissimo, dove ti
aiutano. Se hai dei problemi, tuoi a casa, ne puoi parlare con la tutor che ti dà una
mano. Per qualsiasi problema puoi rivolgerti a lei».
Anche alla domanda su quale sia stata la difficoltà più importante incon-
trata nella vita, più di una di queste ragazze ricorda la tutor: «La difficoltà più
grossa l’ho risolta chiedendo aiuto alla tutor e alla mia famiglia, insomma a mia
madre»; «Con la tutor riesco a legare meglio: lei sa tutto di me anche al di fuori
della scuola».
E sempre la tutor, in altre risposte, sembra la figura risolutiva nel proble-
ma rivelatosi non trascurabile dei rapporti tra compagne e compagni di ognu-
no dei quattro corsi: «Ho litigato molto con una mia compagna di corso, perché
mi ero fatta il piercing all’ombelico e lei l’ha detto ai miei genitori che non vole-
vano. E poi si sono intromesse anche altre ragazze del corso. Per questo abbiamo
litigato molto. La tutor ha proposto di fare un’assemblea con tutta la classe per
parlare. E con l’assemblea è stato risolto questo problema»; «Il problema più gros-
so è stato l’inserimento con le altre ragazze; infatti al primo anno avevo pensato
di ritirarmi, perché all’interno di ogni classe si formano gruppetti e non riesci a
fare amicizia. L’ho risolto parlandone con la tutor e alla fine con qualche difficoltà
mi sono integrata»; «Il primo anno ero considerata una secchiona, ora lego con
tutte grazie alla tutor Samantha che ci ha fatto unire».
Ma anche su altri problemi l’intervento della tutor è considerato decisivo:
«Il mio problema più grande era la lingua perché i proff. non mi capivano e pen-
savano che mi rifiutassi d’apprendere, poi ho parlato con la tutor e ho risolto»;
«Al lavoro nello stage, mi hanno trattata male. Mi piace fare l’estetista, ma se con-
tinuavano a trattarmi male non ce la facevo più. Mi ha aiutata Samantha, la tu-
tor»; «All’inizio dell’anno c’erano problemi con le materie che non avevo mai fat-
to, ma la tutor mi ha aiutata».


Formazione e/o istruzione?

Da quanto precede risulta per tutti i ragazzi del NOF l’importanza della figura
dei tutor, i quali in effetti si trovano nell’intersezione di più insiemi problema-
tici. Da quello che hanno detto le ragazze e i ragazzi direttamente interessati se
ne possono enucleare almeno cinque: . i rapporti tra le lezioni teoriche in au-
la e quelle pratiche nei laboratori; . i rapporti tra i corsi nelle sedi preposte e
gli stage presso le aziende; . i rapporti non di rado contrastanti tra lo stesso
percorso formativo e le condizioni diremmo proprio esistenziali (familiari, abi-
tative, adolescenziali ecc.) di allieve e allievi; . i rapporti tra lo stesso percorso
formativo e i modi in cui i suoi fruitori e fuitrici pensano il proprio avvenire; .
i rapporti tra gli stessi compagni di corso che non sempre si risolvono da soli.
Ci parrebbe comunque sbagliato pensare che sia sufficiente sommare tutte que-


M A R TA A L A I M O , VA L E R I O R O M I T E L L I

ste problematiche. Ad essere più problematico è il loro stesso insieme. Da co-


me esso è trattato, e soprattutto da parte dei tutor, dipende la capacità del NOF
di funzionare anche come scuola, dunque anche come luogo d’istruzione poli-
valente, non strettamente finalizzata all’avviamento a una professione, ma ca-
pace di mettere allievi e allieve in condizione di pensare alla possibilità di spen-
dersi in altre attività e lavori. Un’esigenza, questa, che rientra tra quelle che van-
no oggi sotto il nome tecnico ed economico della “flessibilità”, ma che è pen-
sata a loro modo anche dai nostri stessi intervistati.
Quando parlano del NOF, i nostri ragazzi/e, che sicuramente hanno più a
cuore una formazione direttamente utile al lavoro, non mancano comunque di
apprezzarlo anche come scuola che insegna più che un semplice avviamento
professionale: «Mi insegna il lavoro e a stare in mezzo alla gente»; «[…] a fare
la parrucchiera e a dialogare con le persone»; «[…] a presentarti bene alle clien-
ti, come parlare ed essere sempre educata»; «[…] sia a imparare un mestiere che
a realizzarmi con gli altri, avere un buon rapporto con le persone»; «[…] a saper
comunicare con le persone, a stare con le persone»; «[…] a relazionarmi meglio
con le persone».
Queste, alcune frasi ricorrenti tra la maggior parte dei nostri intervistati/e
sulla funzione d’istruzione in senso ampio offerta sul NOF. Luogo che peraltro
tutti tengono a chiamare “scuola”.
Prendendo sul serio questa denominazione, si può riflettere se dalle nostre
interviste possa venire qualcosa che riguardi più in generale la scuola in quan-
to tale. Sicuramente, come scuola, il NOF, sia per chi la frequenta sia per chi vi
opera, si presenta come un luogo tra i meno in crisi di quelli che l’istruzione
pubblica italiana prevede per le stesse fasce d’età, tra i quindici e i diciassette
anni. Stando a ricerche condotte su questo tema, gli studenti, le loro famiglie,
gli stessi insegnanti, esprimono per lo più un grave scontento sul funziona-
mento della scuola. Tra i punti salienti di questa indagine, viene evidenziato il
senso di frustrazione del corpo insegnanti. Anche professori a tempo pieno,
con una carriera più che avviata, spesso lamentano una sensazione di inade-
guatezza nei confronti dei ragazzi, nell’avvicinarsi a loro e alle questioni diffi-
cili e nuove che li riguardano. Il che appare assai simile a quanto emerge dal di-
sagio espresso dai nostri intervistati nei confronti degli insegnanti.
Ora, da questo punto di vista, dall’esperienza del NOF crediamo possa veni-
re uno spunto utile. Anziché considerare la figura del tutor, che qui è centrale,
una figura altrove solo sperimentale e marginale, si potrebbe cominciare a pen-
sare come farla diventare un importante perno per il rinnovamento di ogni scuo-
la. Sicuramente essa potrebbe comunque apportare qualche contributo per far
fronte ai più gravi difetti attualmente sofferti dall’istruzione pubblica. Tra tutti,
quello rappresentato dalla tradizionale offerta di un’educazione nazionale fissa-
ta entro schemi validi ovunque e comunque e senza troppa attenzione a quel mu-
tevole differenziarsi delle situazioni locali e sociali che attualmente è oramai on-


UNA SCUOLA DIVERSA DALLE SOLITE

nipresente. Conoscere direttamente e in dettaglio le diverse popolazioni dei ra-


gazzi che si iscrivono nelle scuole, adeguare alle loro esigenze i corsi, legare que-
sti ultimi a esperienze pratiche (che nel caso delle materie più teoriche e classi-
che potrebbero coincidere con esperienze di ricerca): tutte queste iniziative, che
solo delle figure simili a quelle dei tutor presso il NOF potrebbero attivare, sicu-
ramente male non farebbero in ogni tipo e grado di scuola.
Del resto, i diversi apprezzamenti che i nostri intervistati/e hanno dato dei
loro rispettivi tutor segnalano sicuramente un problema ancora aperto. Sareb-
be a dire l’inevitabile incertezza e diversificazione del loro modo di operare, an-
cora ovviamente allo stato della sperimentazione pionieristica anche laddove,
come nel NOF, sono già istituiti, comunque da pochissimo tempo. In particola-
re, il rapporto cogli stessi fruitori/trici di questo luogo ci sembra passibile di
miglioramenti metodologici. Miglioramenti che crediamo possano venire solo
approfondendo la conoscenza diretta dei pensieri e delle parole di questi ra-
gazzi, piuttosto che cercando di classificare i loro comportamenti in modelli
magari logicamente coerenti, ma poco aderenti alla mutevole e diversificata
realtà dei soggetti considerati.
Da questo punto di vista, ci azzardiamo a suggerire che inchieste come
quella qui riportata, se sviluppate in modo sistematico potrebbero non essere
inutili a orientare e consolidare il lavoro dei tutor.
Del resto, è proprio quello che alcuni dei ragazzi/e da noi intervistati ha au-
spicato.
A loro, dunque, ancora una volta, le ultime parole: «È carina ’sta cosa delle
domande, mai nessuno mi chiede tutte queste domande!»; «Mi piace, mi sento
importante»; «È stata bella anche se è durata troppo poco»; «Molto interessante,
è servita anche per sfogarmi. Ho detto cose che anche con le compagne non ci di-
ciamo»; «È un buon metodo per capire e chiedere com’è il nostro corso»; «Spero
che il risultato di questa intervista venga trasmesso ad altri ragazzi»; «Serve a co-
noscere i ragazzi di questa scuola, a capire cosa vogliono dalla vita»; «Penso che
serva a qualcosa, per capire come sono fatta io, per capire la gente che avete nel
corso. Sicuramente è utile per raccogliere opinioni diverse, vedere come va questo
corso, perché se abbiamo delle buone idee adesso, il corso può andare avanti an-
che in futuro».

Note

. Geertz, Il modo in cui oggi pensiamo, cit.


. Tra di essi dobbiamo ringraziare in particolare Maria Agnese Maio, Samantha Mongiello,
Marisa Gervasi, Gianni De Giuli, Roberto Panzacchi, Raffaele Ranni. Alcuni dei quali sono an-
che venuti a presentare la loro esperienza al nostro corso universitario, per fornire le conoscenze
preliminari necessarie all’avvio dell’inchiesta.
. Cfr. il sito www.osof.provincia.bologna.it, ma anche l’opuscolo della stessa Provincia Dal
corso al percorso, curato da Sandra Zaramella e Beatrice Draghetti.


M A R TA A L A I M O , VA L E R I O R O M I T E L L I

. D. Sacchetto, La vita professionale degli insegnanti nelle loro parole, in Dal Lago, De Bia-
si, Un certo sguardo, cit. La vita degli insegnanti viene qui raccontata attraverso le loro stesse pa-
role, raccolte in una serie di interviste condotte nel periodo tra maggio e settembre  nell’am-
bito di una ricerca nazionale sullo stato di salute della scuola, promossa dal ministero della Pub-
blica istruzione e affidata all’Università di Genova. L’indagine si compone di una serie d’intervi-
ste condotte da cinque equipe di ricerca distribuite in altrettanti ambiti territoriali, ritenuti parti-
colarmente rappresentativi, che hanno raccolto circa duecento interviste semistrutturate, a cui so-
no state affiancate alcune storie di vita finalizzate ad approfondire la questione.


Una fabbrica da rifare
e la qualità del lavoro.
Gli operai della BredaMenarinibus
e della BT Cesab di Bologna
di Mirco Degli Esposti

Nei mesi di luglio e dicembre  ho condotto due inchieste di fabbrica pres-
so altrettante industrie metalmeccaniche di Bologna: BT Cesab, azienda leader
a livello nazionale nella produzione di carrelli elevatori controbilanciati, e Bre-
daMenarinibus, seconda produttrice italiana di autobus. Tali inchieste sono
state svolte nell’ambito di una ricerca di dottorato in Antropologia presso l’U-
niversità Paris . Con essa si intendeva studiare le forme di soggettività degli
operai, oggi, nel capoluogo emiliano. L’obiettivo di queste inchieste, così come
io le propongo sulla base soprattutto dei lavori di Sylvain Lazarus e del suo
gruppo di ricerca, è quello di conoscere cosa pensano gli operai di una certa
fabbrica. Per chi conduce l’inchiesta, “operai” non designa né un soggetto de-
terminato, né un gruppo, né una classe, ma un’incognita per il pensiero che l’in-
chiesta prova a investigare interpellando ciò che dice la gente che tale termine
nomina nella lingua corrente. Così la ricerca non ha alcuna pretesa di rappre-
sentatività: gli operai sono interpellati semplicemente in quanto gente che è
chiamata in questo modo nella lingua comune, non in quanto gruppo il cui pen-
siero sarebbe determinato da una serie di variabili oggettive (prime fra tutte, in
questo caso, la condizione socio-professionale dei suoi membri e il tipo di la-
voro da loro svolto). Ciò che l’inchiesta prova a individuare è cosa dice e pen-
sa questa gente, permettendo così d’identificare i tratti della soggettività degli
operai che questo dire e questo pensiero costituiscono e rendono pensabili.
In questa inchiesta si è proceduto intervistando  operai in ogni fabbrica
durante l’orario di lavoro. Al momento dell’indagine la “popolazione” operaia
era in BredaMenarinibus di  unità e in BT Cesab di . Ogni intervista è
durata tra l’ora e un quarto e l’ora e mezza ed è stata effettuata sulla base di un
questionario guida, a risposta aperta, organizzato per capitoli tematici. Essen-
zialmente, le questioni poste sono state di due tipi:
. domande descrittive e biografiche (età, anzianità nella fabbrica, posto e ti-
po di lavoro svolto, percorso professionale);
. domande che chiedevano di esprimere giudizi soggettivi rispetto alle paro-
le “operaio” e “fabbrica”, all’organizzazione del lavoro, ai sindacati, alla poli-
tica in fabbrica.


MIRCO DEGLI ESPOSTI

Gli operai intervistati sono stati sorteggiati dalla lista del personale. La par-
tecipazione all’intervista era volontaria. Attraverso un volantino affisso alla ba-
checa delle comunicazioni al personale e, successivamente, attraverso il breve
colloquio che ha preceduto ciascuna intervista, si è spiegato che si trattava di
una ricerca universitaria indipendente rispetto all’azienda e ai sindacati; che le
interviste erano anonime e confidenziali; che i risultati, invece, sarebbero stati
resi pubblici tramite un rapporto scritto.
Presento subito, sinteticamente, i principali risultati di questo lavoro.
Gli operai della BredaMenarinibus, a partire dalla situazione di grave dif-
ficoltà della loro azienda, hanno posto all’ordine del giorno dei temi comples-
si. Questi temi permettono di pensare a delle nuove possibili politiche del la-
voro, nella crisi di quel singolare sistema di gestione istituzionale dello svilup-
po economico del territorio e del mercato del lavoro locale che è stato il “mo-
dello emiliano”. Infatti, nel pensiero degli operai intervistati, “fabbrica” è la
parola per pensare diverse politiche che decidono, decidendo questo luogo, co-
me pensare il lavoro. Delle politiche come quelle che secondo i nostri interlo-
cutori erano in atto alla BredaMenarinibus al momento dell’inchiesta, che su-
bordinano completamente la fabbrica, la sua esistenza, la gente che vi sta den-
tro, al mercato (lo stabilimento è in vendita, in cerca di un acquirente), impe-
dendo di pensare il lavoro come una realtà di cui si possono decidere alcune
condizioni. Ma secondo gli operai ci possono essere delle altre politiche: delle
politiche che fanno esistere la fabbrica come luogo della gente che ci sta den-
tro – nelle nostre interviste prima di tutto gli operai stessi – e in cui il lavoro che
in essa si svolge è pensabile come un ambito di possibilità che si misurano a par-
tire dalle scelte rispetto a questo stesso luogo. La fabbrica, dunque, non solo e
non tanto come luogo della produzione, ma come condizione (politica) del la-
voro, categoria per pensare il lavoro che in essa si svolge come un ambito di de-
cisioni soggettive.
Per chiarire questo modo di pensare, confrontandolo con questioni forse
più note a chi si occupa dei temi del lavoro da un punto di vista politico e so-
ciale, si può richiamare un famoso giudizio di Marx: non vi è alcun “senso” e
significato intrinseco del lavoro «in quanto sono le sue condizioni che, sole, pos-
sono dargli un senso». Per pensare il lavoro occorre pensare le sue condizio-
ni: le condizioni in cui si effettua, cioè le condizioni produttive, tecnologiche,
giuridiche ecc., che stabiliscono i modi in cui si lavora. A partire da quello che
dicono gli operai della BredaMenarinibus, tra queste condizioni possono esse-
re pensabili anche delle condizioni politiche. E queste condizioni sono pensa-
bili proprio facendo esistere la fabbrica come luogo dove si possono decidere
alcuni aspetti del lavoro che si svolge o si può svolgere in essa (e come vedre-
mo, anche alcuni aspetti e condizioni del come uscire dalla fabbrica in crisi, ces-
sando un lavoro). Tutto ciò, aggiungiamo noi e argomenteremo in seguito, può
forse fornire delle risorse intellettuali utili per riqualificare da un punto di vi-


U N A FA B B R I C A D A R I FA R E E L A Q U A L I T À D E L L AV O R O

sta politico il cosiddetto “modello emiliano”, la cui crisi, o la cui fine, sono og-
gi da più parti certificate.
Questioni diverse, ma a nostro avviso di notevole interesse, quelle poste da-
gli operai della BT Cesab. Gli intervistati hanno presentato come centrale il pro-
blema della qualità del lavoro. Un tema, questo, oggi ampiamente discusso sia
nelle riflessioni inerenti all’implementazione di “circoli di qualità” e “sistemi di
qualità” nella gestione dei processi produttivi, sia nel dibattito relativo alle po-
litiche pubbliche dell’impiego: il famoso Libro bianco sul mercato del lavoro del
governo Berlusconi, che ha ispirato la successiva legge Biagi, non ha forse per
sottotitolo proprio Per una società attiva e per un lavoro di qualità?
Gli operai BT Cesab presentano la questione della qualità in una maniera
del tutto originale e specifica: la minore o maggiore qualità, la presenza o l’as-
senza di qualità, non sono doti pensate come oggettivamente intrinseche al la-
voro che svolgono. La qualità del lavoro che svolgono non è già “contenuta”
nei contenuti tecnici delle mansioni da effettuare, ma è l’effetto di una possibi-
le relazione soggettiva col lavoro che è da loro stessi decisa. Ciò significa che la
qualità è il risultato di un rapporto degli operai con il loro lavoro che può qua-
lificarlo o meno; è l’effetto di una qualificazione – soggettiva e autonoma – del-
le mansioni necessarie per realizzare un certo risultato produttivo oggettivo. La
questione della qualità del lavoro è dunque relativa al rapporto degli operai con
una certa produzione da realizzare attraverso certe determinate operazioni tec-
niche. Gli operai BT Cesab vogliono poter decidere della qualità del loro lavo-
ro, cioè vogliono poter decidere del loro rapporto con una certa produzione da
svolgere, facendo così “bene” e “meglio” il loro lavoro. Un “bene” e un “me-
glio” che sono loro stessi a stabilire.
Per descrivere questo modo di pensare proviamo anche in questo caso a
rapportarlo a dei temi forse più conosciuti da sociologi e studiosi di questio-
ni del mondo del lavoro: decidere il rapporto tra gli operai e una certa pro-
duzione, da realizzare attraverso certe operazioni tecnicamente determinate,
significa decidere e intervenire sulla dimensione “socializzata”, “cooperati-
va”, “in comune” del lavoro di produzione. In effetti, i nostri interlocutori
vorrebbero una diversa organizzazione del lavoro, che incrementasse sia le
rotazioni e le mansioni in grado di essere svolte da ogni singolo operaio, sia
il sapere, l’esperienza e la formazione, così da garantire agli stessi operai più
risorse per pensare il loro rapporto con la produzione da realizzare. Queste
questioni ci paiono di notevole interesse. Si parla frequentemente, nelle più
recenti teorie di gestione delle risorse umane, di assumere l’intelligenza di chi
lavora come risorsa decisiva per incrementare la produttività del lavoro. Al-
cuni autori hanno recentemente sostenuto che la stessa nozione di produtti-
vità è da rivedersi proprio partendo dalla priorità che, nelle attuali economie
competitive, assume l’innovazione e la creatività per rispondere rapidamen-
te, con nuovi prodotti e soluzioni d’uso, a una domanda sempre più fram-


MIRCO DEGLI ESPOSTI

mentaria e volatile . A partire da ciò che è emerso dall’indagine effettuata in


BT Cesab, incrementare la produttività con la creatività di chi lavora è que-
stione del tutto subordinata a un altro ordine problematico di natura non tec-
nica ma politica, che non concerne la produzione, ma le possibilità che han-
no gli operai di contare in fabbrica. In effetti, lavorare bene, e dunque au-
mentare l’interesse sul lavoro e ridurre la fatica durante il suo svolgimento,
liberando eventualmente nuove risorse soggettive nel processo di produzio-
ne, per i nostri interlocutori significa in primo luogo intervenire sull’organiz-
zazione del lavoro a partire da quel che essi pensano del loro rapporto con le
mansioni da svolgere quotidianamente. Ciò significa che la qualità del fatto-
re produttivo “lavoro” non concerne le sua dimensione tecnica, non deriva
da una diversa qualificazione “oggettiva” delle mansioni, ma da un interven-
to politico che riguarda le possibilità degli operai di organizzare e decidere
del loro rapporto con un certo lavoro tecnicamente dato; cioè dalla possibi-
lità che gli operai hanno di contare in fabbrica come soggetti, e non come
semplici agenti (per quanto intelligenti o creativi) della produzione. A parti-
re da come i nostri interlocutori intendono la qualità, è dunque una politica
che assume l’operaio in fabbrica come proprio soggetto a poter qualificare o
meno il lavoro che in essa si svolge.

Le pagine che seguono danno conto di cosa hanno detto gli operai intervistati
e di come si sia proceduto nell’analisi delle loro parole per individuare i temi e
le questioni qui sinteticamente riassunti in premessa. Le parole degli interlo-
cutori presentano molteplici punti di vista, dispongono una molteplicità di
pensieri e giudizi: ma tali giudizi e pensieri, oltre che molteplici, identificano
anche delle singolarità, delle questioni ricorrenti, degli ambiti problematici
omogenei. Nel testo si è voluto rendere il più possibile identificabile dal letto-
re l’operazione intellettuale d’individuazione, in tale molteplicità, di queste
questioni singolari. Ciò proprio perché queste ultime non erano presupposte,
non era cioè presunto a priori dal ricercatore che gli operai fossero accomuna-
ti da problemi condivisi, oggettivamente dati dalla loro condizione sociale, dal
tipo di lavoro svolto, o dalla situazione della loro azienda. La scommessa di
questo tipo di ricerche, infatti, è che nel dire degli intervistati è possibile indi-
viduare una specificità problematica, ma sono loro stessi che la decidono co-
stituendola soggettivamente: sono cioè i nostri intervistati che dispongono la
realtà sociale da investigare, i temi e le questioni di cui sono soggetti e che il ri-
cercatore prova a conoscere pensando il pensiero che incontra.
Le due inchieste sono qui presentate separatamente, in quanto ciascuna do-
tata di una sua singolarità. Nelle conclusioni si proporrà infine una brevissima
lettura d’insieme di quelle che, secondo noi, sono le questioni principali emer-
se da queste due indagini rispetto all’attuale congiuntura politica ed economi-
ca italiana.


U N A FA B B R I C A D A R I FA R E E L A Q U A L I T À D E L L AV O R O


L’inchiesta alla BredaMenarinibus

.. «Quando il padrone non c’è, non c’è nessuno»:


la fabbrica come luogo della valorizzazione del lavoro

Nell’inchiesta condotta tra gli operai della BredaMenarinibus abbiamo incon-


trato una riflessione singolare rispetto a ciò che stava accadendo nella fabbrica
al momento dell’indagine. Per chiarire i termini di tale riflessione è opportuno
descrivere brevemente la situazione dell’azienda quando vi abbiamo condotto
l’inchiesta. L’industria Menarini viene acquistata nel  dalla Breda, gruppo
dell’holding di Stato Finmeccanica, assumendo il nome attuale di BredaMena-
rinibus S.p.A. Dopo il passaggio di proprietà, fino alla metà degli anni Novan-
ta la società vive un periodo di forte difficoltà produttiva. Tra il  e il 
l’andamento dell’impresa migliora nettamente e la produzione più che qua-
druplica. In questi stessi anni l’azienda avvia un significativo processo di de-
centramento produttivo: per le attività di carpenteria e di preparazione dei sot-
togruppi più complessi da montare, ma anche per quel che riguarda le stesse
operazioni di montaggio dell’autobus, che possono essere gestite sulle linee in-
terne allo stabilimento o date all’esterno, ad altre aziende che effettuano an-
ch’esse il montaggio finale dei veicoli. Questo processo viene implementato sia
per abbassare i costi di produzione, sia per ridurre i tempi di consegna delle
commesse, senza che sia necessario un aumento massiccio del personale e del-
la capacità produttiva dello stabilimento. Contemporaneamente, nel , la
proprietà Finmeccanica dichiara la propria volontà di vendere BredaMenari-
nibus. Questa scelta è la conseguenza della decisione di abbandonare il setto-
re trasporti, in quanto considerato non strategico per le attività industriali del-
l’holding di Stato. Ma, nonostante la dichiarazione di messa in vendita, nessun
acquirente viene trovato. A partire dal , in un contesto di calo complessi-
vo della domanda e di una sempre più forte concorrenza di multinazionali co-
me Mercedes (connessa alle loro dimensioni, alla loro proiezione internaziona-
le e alle conseguenti economie di scala di cui possono approfittare), la produ-
zione si riduce fortemente (da circa  autobus all’anno a poco più di ). Al
momento dell’indagine questa crisi produttiva e strategica comincia a palesar-
si sempre più chiaramente (alcuni mesi dopo l’inchiesta è avviata la cassa inte-
grazione straordinaria per circa la metà del personale). Nelle parole degli ope-
rai questa situazione è pensata attraverso la categoria di “padrone”. In effetti,
durante le interviste gli operai presentano uno scarto tra un “prima” e un
“adesso” in fabbrica e una differenza tra BredaMenarinibus e le altre fabbri-
che. Questo scarto e questa differenza sono molto frequentemente indicate at-
traverso l’uso di questa parola. Le difficoltà dell’azienda sono considerate de-
rivare dall’assenza di un “padrone”. Si tratta solo del rimpianto per un model-


MIRCO DEGLI ESPOSTI

lo industriale a capitalismo familiare ormai perduto? Secondo noi non solo. Ve-
diamo perché, analizzando alcuni degli enunciati che abbiamo incontrato nel
corso delle interviste.
Secondo un operaio con una lunga esperienza in Menarini «da dieci anni,
da quando è passata sotto la Breda, che non c’è più il padrone effettivo, sono cam-
biate molte cose nel sistema delle lavorazioni, […] lavoro di meno ma a livello
professionale è peggio, non c’è più quella atmosfera per poter andare avanti, […]
non c’è più soddisfazione, se hai montato giusto o sbagliato ha poco valore». Un
altro interlocutore sottolinea come l’azienda sia «in una situazione critica. […]
Dal , da quando siamo andati sotto alla Breda, […] la gente se ne va, anche
i dirigenti… non hanno spazio, deve sottostare ad un padrone, a un fittizio pa-
drone […] stanno distruggendo la fabbrica». Per un’operaia «sono venute a spa-
rire tante lavorazioni, […] danno molto lavoro esterno, perciò noi qui dentro ab-
biamo poca roba da fare. […] Col gruppo Breda sono proprio andati male, c’è del
menefreghismo, […] mentre un padrone teneva d’occhio». E un operaio della
linea d’allestimento afferma: «In un’altra fabbrica, quando uno si comporta be-
ne ti riconoscono, se vai male ti licenziano, invece se non fai niente qui ti ten-
gono e sei un peso sulle spalle degli altri, per la produzione. Se tutti lavorassero,
qui, ci sarebbe una gran produzione. […] Se fosse una fabbrica che avesse un pa-
drone andrebbe meglio, andrebbe meglio per tutti, ma, quando il padrone non
c’è, non c’è nessuno». Un altro interlocutore sottolinea, parlando delle qualifi-
che e dei passaggi di livello, come in BredaMenarinibus «chi decide il passag-
gio di livello non è chi ci guadagna; se fosse chi ha interesse, il padrone, allora
sceglierebbe chi vale».
Altri due intervistati, che lavorano alla preparazione dei pezzi da montare
sulle linee, identificano il presente della fabbrica come il tempo del venir me-
no del “padrone”: «Adesso ormai appaltano tutto, le lavorazioni vengono date
tutte fuori, […] qua non sai che padrone hai, chi dirige». «Credo sia proprio chi
organizza dall’alto, adesso un padrone non ce l’abbiamo più. […] Una volta la
macchina si finiva in linea, adesso non si finisce mai alla fine della linea, c’è da
recuperare, si perde tempo». Infine, tre operai sottolineano la differenza tra le
fabbriche dove il “padrone” c’è e BredaMenarinibus, dove esso è, a parer loro,
assente: «In altre fabbriche ti valorizzano di più, qui non c’è il padrone». «Nelle
fabbriche piccole, dove c’è il padrone c’è più attenzione». «Quello che c’è da fare
lo facciamo, a volte devi andare a fare le saldature alla verniciatura, sinceramen-
te se ne fregano abbastanza, non è che ci mettano del cuore proprio, […] si vede
la differenza quando c’è il padrone e quando non c’è».
Sia la parola “padrone” che la separazione tra un “prima” e un “adesso”
rendono intelligibili dei modi di pensare una differenza del “lavoro” in fabbri-
ca rispetto alla situazione presente al momento dell’indagine. Questa distin-
zione s’articola attraverso delle locuzioni relative al “lavoro” in quanto fattore
produttivo oggettivo («se tutti lavorassero, qui, ci sarebbe una gran produzione»;


U N A FA B B R I C A D A R I FA R E E L A Q U A L I T À D E L L AV O R O

«una volta la macchina si finiva in linea, adesso non si finisce mai alla fine della
linea, c’è da recuperare, si perde tempo»; «da quando […] non c’è più il padrone
effettivo […] lavoro di meno»), o alla cura e all’attenzione rispetto all’efficien-
za del processo di fabbricazione dei veicoli («un padrone teneva d’occhio»; «do-
ve c’è il padrone c’è più attenzione»; mentre in BredaMenarinibus «sinceramen-
te se ne fregano abbastanza, non è che ci mettano del cuore, […] si vede la diffe-
renza quando c’è il padrone e quando non c’è»). Ma il “prima”, che secondo mol-
ti giudizi indica il periodo dove c’era il “padrone”, in molti altri enunciati de-
gli operai intervistati si caratterizza anche come il tempo dove vi era più sod-
disfazione nel lavoro, un’altra forma di soggettività nei suoi confronti: «Una
volta eri anche premiato, c’era un “bravo”, il lavoro ti dava soddisfazione»;
«Quando c’era Menarini, si lavorava anche alla domenica mattina, era un altro
lavoro, si lavorava di più ma si era meno stanchi, è un’assurdità però è vero»; «La-
vorare con soddisfazione ti gratifica, il lavorare solo perché devi lavorare, adesso,
ti annoia, ti distrugge pian piano»; «Era diverso una volta, si veniva con un altro
spirito, […] tu venivi a lavorare e sapevi che si lavorava tranquillamente, ora non
sai cosa fai»; «Prima avevi tanti lavori da fare e ti passava di più la giornata, ades-
so ti annoi»; «I soldi van bene ma ci vogliono le motivazioni; […] la gente era
più invogliata, avevi più soddisfazioni sul campo lavorativo, forse non eri consi-
derato solo un numero».
Dunque, per i nostri interlocutori, rispetto alla situazione attuale dello stabi-
limento, nella fabbrica del “padrone” c’è una forma di coesistenza di una doppia
dimensione del “lavoro”: da un lato, il lavoro come fattore produttivo oggettivo,
in un processo di produzione più efficiente e in cui la quantità di lavoro erogata
è maggiore; dall’altro lato, il lavoro che dà “soddisfazione”, rispetto a cui vi sono
delle “motivazioni”, “uno spirito”, una soggettività all’opera (una soggettività ca-
pace anche di annullare la fatica connessa a dei livelli di produzione quantitati-
vamente maggiori: «Si lavorava anche alla domenica mattina. Era un altro lavoro,
si lavorava di più ma si era meno stanchi, è un’assurdità, però è vero»). Nei giudi-
zi degli operai, “padrone” è la categoria che costituisce una specifica relazione tra
il lavoro come fattore della produzione e il lavoro come termine soggettivo: una
relazione dove i più alti livelli quantitativi di utilizzo della forza-lavoro e quella
che è considerata una maggiore efficienza nello svolgimento del processo pro-
duttivo rinviano anche a una maggiore soddisfazione rispetto al lavoro. Si artico-
la, allora, una sorta di corrispondenza tra questa dimensione soddisfacente, inte-
ressante, soggettiva del lavoro, e la sua dimensione di fattore oggettivo della pro-
duzione. Tale corrispondenza è posta, nelle parole dei nostri interlocutori, da spe-
cifiche relazioni di lavoro in fabbrica. Come abbiamo visto, per alcuni degli in-
tervistati «da quando è passata sotto la Breda, che non c’è più il padrone effettivo,
[…] non c’è più soddisfazione, se hai montato giusto o sbagliato ha poco valore»;
«In un’altra fabbrica, quando uno si comporta bene ti riconoscono, se vai male ti li-
cenziano; […] se fosse una fabbrica che avesse un padrone andrebbe meglio»; «In


MIRCO DEGLI ESPOSTI

altre fabbriche ti valorizzano di più, qui non c’è il padrone»; «Chi decide il passag-
gio di livello non è che ci guadagna; se fosse chi ha interesse, il padrone, allora sce-
glierebbe chi vale». Un ex saldatore, oggi agli allestimenti, afferma che «la dire-
zione non sa neanche chi siamo, noi qua siamo un numero. Una volta l’operaio era
più controllato, non ci si parlava, era più considerato, si parlava dei problemi, ades-
so non c’è più nessuno». Mentre per altri tre interlocutori, che lavorano alle pre-
parazioni dei pezzi da montare in linea, «prima avevi un riconoscimento, un me-
rito di quello che facevi, una piccola soddisfazione personale: è valido quello che
fai… oggi è cambiato tutto»; «Una volta era diverso, eri premiato, se facevi un tipo
di lavoro eri premiato, se ti davi da fare, se t’impegnavi c’era un premio…»; «Una
volta eri anche premiato, c’era un “bravo”».
In questi enunciati, le distinzioni tra BredaMenarinibus e le “altre fabbri-
che”, e tra il “prima” e l’“adesso”, sono il modo per presentare delle specifiche
relazioni tra operai e impresa: relazioni basate sulla “valorizzazione”, sul “ri-
conoscimento” di colui che si “comporta bene”, di colui che “vale”, sull’attri-
buzione di un “premio” per chi si impegna e di un “valore” al lavoro ben fat-
to, sulla “considerazione” rispetto all’operaio. È questo tipo di relazioni di la-
voro a essere identificato attraverso la parola “padrone”.
In termini generali, si può dunque sostenere che il “padrone” è, nel pensie-
ro degli operai BredaMenarinibus, la categoria di una qualificazione della fab-
brica come luogo di una forma di corrispondenza tra il lavoro come fattore del-
la produzione del valore, da un lato, e il lavoro come termine d’identificazione
della soggettività dell’operaio, dall’altro lato: il lavoro qualificato come “soddi-
sfacente”, “motivante”, interessante ecc. è pensato in questo modo in quanto
l’operaio è “riconosciuto”, “valorizzato”, “premiato” (dal “padrone”) come
soggetto del lavoro-fattore produttivo. La capacità di produzione dell’operaio si
lega, in quanto riconosciuta dal “padrone”, a una forma di soggettivazione del
lavoro da parte degli operai. Come afferma molto chiaramente un’operaia, «ave-
vi più soddisfazioni sul campo lavorativo, forse non eri considerato solo un nume-
ro, […] perché chi dà è sempre un operaio che lavora, non si deve mettere alla fi-
ne ma all’inizio, è lui che dà i risultati, è lui che fa la macchina. Noi abbiamo bi-
sogno del padrone ma lui ha bisogno di noi». Questo enunciato presenta in mo-
do esemplare ciò che abbiamo fin qui sostenuto. In effetti, la dimensione sod-
disfacente del lavoro – che permette all’operaio di non essere considerato solo
un numero e di pensarsi dunque come soggetto –, non dispone una distinzione
del lavoro stesso dai “risultati”, dalla produzione quantitativa («avevi più soddi-
sfazioni sul campo lavorativo; […] chi dà è sempre un operaio che lavora […] è lui
che dà i risultati»). “Padrone” è quindi la categoria che presenta la prescrizione
della centralità del “lavoro” nel processo di produzione del valore economico e,
contemporaneamente, della centralità dell’operaio soggetto di questo lavoro. La
fabbrica è, per gli operai della BredaMenarinbus, il luogo della “valorizzazione
del lavoro”, ove “del lavoro” è contemporaneamente un genitivo soggettivo e


U N A FA B B R I C A D A R I FA R E E L A Q U A L I T À D E L L AV O R O

oggettivo: il lavoro-fattore produttivo valorizza il capitale, ma, a sua volta, il ca-


pitale valorizza il lavoro, valorizzando il suo soggetto, l’operaio.
Gli operai di questa fabbrica, attraverso questa doppia dimensione della pa-
rola “lavoro” (termine che indica un fattore della produzione, ma anche ciò che
qualifica la loro soggettività in fabbrica), si pensano come soggetti del valore
(economico) insieme al soggetto capitalistico “padrone”, in quanto da esso valo-
rizzati e riconosciuti come figura del lavoro produttivo. Così il “valore” è una pa-
rola che transita anch’essa tra il soggettivo e l’oggettivo: il valore è identificabile
con la sua produzione (oggettiva) che implica il riconoscimento soggettivo (la
“valorizzazione”) dell’operaio come figura di questa produzione («Non c’è più
soddisfazione, se hai montato giusto o sbagliato ha poco valore»; «In altre fabbriche
ti valorizzano di più, qui non c’è il padrone»; «Se ci fosse chi ha interesse, il padro-
ne, allora sceglierebbe chi vale»; «Prima avevi un riconoscimento, un merito di quel-
lo che facevi, una piccola soddisfazione personale: è valido quello che fai; oggi è cam-
biato tutto»). C’è allora, negli enunciati che abbiamo raccolto, una reciprocità tra
la fabbrica del “padrone” e la fabbrica come luogo dove c’è l’operaio: «Quando
il padrone non c’è, non c’è nessuno»; «Noi abbiamo bisogno del padrone ma lui ha
bisogno di noi». La parola “bisogno”, utilizzata nell’ultimo enunciato citato, è
molto significativa. Infatti, a partire da questo giudizio, nella fabbrica del “pa-
drone” la produzione del valore è pensabile come condizionata da un rapporto
tra due soggetti, “noi” e il “padrone”, a carattere necessariamente cooperativo:
essa è dunque condivisa tra “padrone” e “operai”.
La parola “padrone” e il “prima” indicano allora un modo di pensare la fab-
brica che presenta delle singolari relazioni di lavoro al suo interno: delle relazioni
tra operai e impresa che, secondo i nostri interlocutori, non sono più presenti. La
cooperazione tra operai e “padrone” in un processo produttivo pensato come tra
loro condiviso in quanto basato sulla “valorizzazione del lavoro”, oggi, in Breda-
Menarinibus, è per la maggior parte degli operai inoperante, assente. Cerchere-
mo di analizzare come gli operai identificano la situazione presente della fabbrica
in termini affermativi, in termini cioè non riducibili semplicemente all’assenza del
“padrone”. Ma, prima di procedere in questa direzione, ci soffermeremo su alcu-
ni temi e questioni che una ricerca sugli operai a Bologna può utilmente investi-
gare alla luce dei giudizi fin qui analizzati: ci riferiamo alla nozione di “modello
emiliano”. Una nozione che ha caratterizzato per lungo tempo le ricerche socio-
economiche relative a questa regione e al suo sistema industriale.

.. Modello emiliano,


distretti industriali, sistemi produttivi locali a specializzazione flessibile.
Soggettività operaia in un modello di relazioni industriali

Questa ricerca ha come obiettivo l’individuazione di alcuni tratti dei modi di


pensare degli operai oggi a Bologna, ovvero in quella regione italiana, l’Emilia-


MIRCO DEGLI ESPOSTI

Romagna, che è stata oggetto, soprattutto a partire dalla seconda metà degli an-
ni Settanta, di molte analisi relative ai suoi specifici caratteri economici e so-
ciali. Dei caratteri che molto spesso hanno fatto di questa regione la rappre-
sentante esemplare, a livello nazionale, di quella realtà produttiva che general-
mente è stata (ed è ancora) analizzata attraverso la nozione di “distretto indu-
striale”. È soprattutto durante gli anni Settanta che l’Emilia-Romagna si pre-
senta come “modello” d’amministrazione, a guida comunista, inserita in un ti-
po di sviluppo industriale singolare, non solamente dal punto di vista econo-
mico, ma anche politico. Una singolarità data dalle dimensioni piccole e me-
dio-piccole delle imprese del suo tessuto industriale, dalle capacità competiti-
ve di queste imprese e dalla loro stretta integrazione sul territorio. Molti studi
hanno isolato sia gli aspetti tecnico-produttivi (l’integrazione territoriale, la
specializzazione di più aziende in fasi differenti di uno stesso ciclo che permette
una riduzione della scala minima efficiente degli impianti, la flessibilità pro-
duttiva all’interno degli stabilimenti), sia quelli economico-sociali e culturali
che caratterizzano i sistemi territoriali di produzione a specializzazione flessi-
bile. Ma la questione che qui ci preme sottolineare è il tipo di relazioni indu-
striali e di gestione del mercato del lavoro che ha caratterizzato lo sviluppo del-
le aree di piccola-media impresa. In effetti, analizzando le ricerche di Barca e
Magnani relative all’andamento del sistema industriale italiano negli anni Set-
tanta e Ottanta, si può notare come le imprese piccole e medio-piccole (tra i 
e i  addetti) abbiano, durante questo periodo (gli anni, ricordiamolo, della
strutturazione e del consolidamento delle realtà distrettuali italiane), una red-
ditività superiore del capitale investito rispetto alle imprese medie e grandi.
Questo risultato è ottenuto nonostante che nelle PMI il capitale investito ri-
spetto al valore aggiunto prodotto sia costantemente inferiore in confronto al-
le imprese delle altre classi dimensionali e che sia inferiore anche la produtti-
vità del lavoro. Tra il  e il  la crescita del costo del lavoro per unità di
prodotto, indotta dall’incremento dei redditi da lavoro, è sempre maggiore nel-
le piccole e medio-piccole imprese; nonostante ciò, la quota dei loro profitti è
sempre superiore rispetto alle imprese più grandi. I fattori decisivi che ga-
rantiscono queste performances sono due: in primo luogo, la dinamica di cre-
scita dei prezzi dei prodotti delle PMI è più intensa rispetto a quella dei prodotti
delle aziende delle altre classi dimensionali; secondariamente, i salari dei di-
pendenti delle aziende piccole e medio-piccole sono sempre inferiori, benché
lo scarto tenda a ridursi, rispetto alle retribuzioni dei dipendenti di quelle più
grandi. Nel , lo scarto tra la classe composta dalle aziende piccole e me-
dio-piccole rispetto alle altre imprese, per quel che riguarda la produttività, era
uguale a –,%; nel  a –,%. Avendo come riferimento lo stesso perio-
do, lo scarto delle retribuzioni era uguale a –,% e a –,%. Secondo Bar-
ca e Magnani, nel quadro stabilito dai contratti nazionali di lavoro, la contrat-
tazione aziendale decentrata avrebbe garantito salari significativamente più al-


U N A FA B B R I C A D A R I FA R E E L A Q U A L I T À D E L L AV O R O

ti nelle imprese medie e grandi rispetto a quelle piccole e medio-piccole delle


realtà distrettuali italiane. Ciò benché si assista a una progressiva riduzione
del divario, che induce un maggior incremento del costo del lavoro per unità
di prodotto nelle PMI, “scaricato” attraverso le dinamiche più intense di cre-
scita dei prezzi dei beni da esse fabbricati.
Per quel che concerne più specificamente il sistema produttivo manifattu-
riero emiliano-romagnolo, Sebastiano Brusco notava, all’inizio degli anni Ot-
tanta, come la struttura industriale della regione fosse nettamente divisa in due
fasce di imprese. Una prima fascia, nella quale vi era una forte presenza dei sin-
dacati, caratterizzata da un sistema di relazioni industriali molto strutturato,
che comportava una sorta di cogestione della forza lavoro a natura “cooperati-
va” tra impresa e sindacato. Questa fascia comprendeva, secondo Brusco, le
imprese con più di  dipendenti, ovvero all’incirca la metà dei lavoratori im-
piegati all’epoca nel settore manifatturiero della regione . In queste aziende i
livelli salariali erano più alti rispetto al livello minimo fissato dal contratto col-
lettivo nazionale. La seconda fascia era composta da imprese artigiane e da pic-
cole imprese per conto terzi, con dei livelli salariali più bassi e senza alcuna pre-
senza organizzata del sindacato al loro interno. Una zona del mercato del lavo-
ro istituzionalmente molto meno regolamentata. In ogni modo, secondo altri
autori, la forte integrazione produttiva del sistema industriale locale ha potuto
permettere un intervento indiretto dei sindacati anche rispetto alla galassia del-
le microimprese distrettuali. Infatti, si è rilevato sin dagli anni Settanta «un
complesso sistema di regole» sul territorio, «una rete di relazioni e di accordi,
più o meno formalizzati, per la difesa del posto, sulla mobilità e sulle retribu-
zioni». I sindacati, in relazione alla domanda e offerta d’impiego nel settore
manifatturiero, sarebbero stati dunque capaci di cogestire, in una maniera spes-
so informale, l’intero mercato del lavoro locale nei sistemi industriali a specia-
lizzazione flessibile emiliano-romagnoli. Questo a partire dalla loro presenza
organizzata nelle imprese maggiori, alla testa dei diversi stabilimenti decentra-
ti della catena di fornitura e subfornitura.
Entrambe le letture risultano coerenti rispetto ai dati di Barca e Magnani.
I caratteri “cooperativi” delle relazioni industriali avrebbero garantito nelle im-
prese piccole e medio-piccole una più bassa incidenza della contrattazione
aziendale sulle retribuzioni. Del resto, la crescita costantemente superiore dei
redditi reali da lavoro, registrata nelle piccole e medio-piccole imprese rispet-
to alle altre, confermerebbe un processo progressivo di riduzione dello scar-
to retributivo che può avere coinvolto anche le microimprese del sistema pro-
duttivo territoriale. Come Trigilia ha fatto notare per quel che riguarda in ge-
nerale i sistemi industriali a specializzazione flessibile del Centro-Nord (Emilia
e Toscana in particolare) – regioni dove «i tassi di sindacalizzazione sono nelle
aree di piccola impresa […] superiori a quelli esistenti nelle grandi imprese»
del Nord – i sindacati «non pongono vincoli all’uso flessibile del lavoro – sia


MIRCO DEGLI ESPOSTI

dentro che tra le aziende – ma ne contrattano il compenso e […] le modalità.


In cambio ottengono incrementi spesso sensibili nei salari negoziati localmen-
te che si estendono anche alle aziende più piccole e una situazione di pieno im-
piego a livello territoriale». In questo quadro, la presenza sindacale (che si
struttura nelle fabbriche dopo il biennio delle grandi lotte operaie e sindacali
-) e il sistema di relazioni industriali organizzato a livello di aree-siste-
ma risultano decisivi a costituire in “modello” l’azione politico-amministrativa
delle istituzioni locali emiliano-romagnole a guida comunista. Infatti, seppure
in presenza di una estrema frammentazione del tessuto industriale, il carattere
fortemente integrato a livello produttivo di questo stesso tessuto e la struttura-
zione della presenza sindacale nelle fabbriche dispongono le condizioni per
delle forme di gestione istituzionalizzata delle politiche industriali e del merca-
to del lavoro sull’intero territorio. Si è parlato di regional productivity coali-
tions per definire le pratiche consensuali di mediazione tra i soggetti econo-
mici che hanno caratterizzato negli anni Settanta e Ottanta il potere regionale
in Emilia-Romagna. Un ruolo di mediazione che ha costituito questa regione
come rappresentante esemplare di un «meccanismo di gestione del territorio
come governo della fabbrica integrata», permettendo al “modello emiliano”,
e al PCI, di guadagnare un significativo credito politico anche a livello naziona-
le. In effetti, in questi due decenni, il Partito comunista risulta capace di pro-
muovere un’azione amministrativa che assume dei ruoli molto articolati. Dei
ruoli che, «superando i confini strettamente istituzionali, comprendono delle
funzioni di controllo, di mediazione degli interessi, di difesa del tessuto eco-
nomico» (servizi alle imprese, bassi costi delle zone industriali, appoggio al cre-
dito soprattutto per le imprese artigiane) e «di negoziazione rispetto all’ammi-
nistrazione centrale». Queste funzioni, «almeno nelle regioni del “triangolo
industriale”, e se non si considerano gli interventi di sostegno alle piccole im-
prese e all’artigianato, sono state tradizionalmente gestite sotto il controllo del-
la grande impresa». Si può sostenere che in Emilia-Romagna, in un contesto
industriale privo di vere grandi imprese, queste funzioni sono al contrario eser-
citate dal PCI. Il PCI assume infatti il potere sindacale nelle fabbriche del terri-
torio come risorsa per porre in essere, sotto la sua egemonia, una strutturata at-
tività di mediazione istituzionale tra i diversi attori economici locali. Una me-
diazione, quindi, basata politicamente sulla cogestione del fattore lavoro, or-
ganizzata dai sindacati nelle fabbriche e sul territorio e che, in relazione alla do-
manda e offerta di lavoro nel settore manifatturiero, assume come modello il
sistema di relazioni industriali presente nelle fabbriche del nostro paese: un «si-
stema di protezione del lavoro dai rischi di downsizing “brutale” e unilatera-
le», che garantisce contemporaneamente alle stesse imprese «una notevole
dose di flessibilità funzionale e di elasticità nei compiti e nelle mansioni dei la-
voratori e nelle forme dell’organizzazione produttiva». In generale, l’azione
delle rappresentanze sindacali nelle industrie italiane ha infatti «reso molto ela-


U N A FA B B R I C A D A R I FA R E E L A Q U A L I T À D E L L AV O R O

stico e flessibile […] l’utilizzo della manodopera» a livello tecnico, irrigiden-


do contemporaneamente le possibilità da parte aziendale di ricorrere a massic-
ce riduzioni del personale. In Emilia-Romagna, questo sistema di relazioni in-
dustriali, che di fatto promuove flessibilità nella gestione della manodopera in
cambio di garanzie, almeno relative, rispetto alla stabilità occupazionale, si
struttura nell’intero mercato del lavoro dei sistemi produttivi di piccola e me-
dia impresa. In effetti, uno dei caratteri distintivi dei distretti, connesso alla for-
te integrazione del tessuto produttivo, è la loro capacità di riassorbire molto ra-
pidamente (almeno fino a oggi) le espulsioni di forza lavoro da parte di altre
aziende del sistema industriale locale. Le forme di mobilità verticale e oriz-
zontale dei lavoratori, registrate da alcune ricerche nelle aree di piccola e me-
dia impresa, sembrano confermare che all’interno di queste realtà produttive
ha funzionato un mercato del lavoro capace d’unire flessibilità e assicurazione
dell’impiego a livello territoriale. Tutto ciò può disporre delle forme di coope-
razione produttiva dei lavoratori nell’intero sistema industriale locale, ridu-
cendone i costi relativi che sono a carico dei profitti delle imprese. In ogni
azienda è naturalmente «indispensabile […] un’attitudine cooperativa degli
addetti di cui non si può misurare direttamente l’intensità del lavoro, in ragio-
ne della sua stessa complessità, e ancora meno assicurarsi che essi abbiano da-
to il massimo. Questa cooperazione non può che fondarsi su delle incitazioni e
delle assicurazioni, le quali esigono l’utilizzo a questo fine di una parte dei pro-
fitti». In Emilia-Romagna, il tessuto produttivo integrato sul territorio, la co-
gestione sindacale della forza lavoro nelle aree-sistema, la mediazione “con-
sensuale” delle istituzioni amministrative locali e regionali tra i diversi soggetti
economici del territorio promossa dal PCI, possono avere costituito delle forme
istituzionalmente regolate d’assicurazione dei lavoratori per quel che riguarda
la stabilità occupazionale nei distretti industriali. Delle assicurazioni dirette e
indirette. Quelle indirette basate sull’appoggio delle istituzioni amministrative
municipali e regionali alle imprese locali, soprattutto quelle piccole (sostegno
al credito, trasferimenti alle aziende tramite servizi alle attività economiche e
produttive ecc.); le assicurazioni dirette basate sull’articolazione, da parte dei
sindacati, di relazioni industriali fortemente strutturate nelle imprese e sul ter-
ritorio, incentrate sull’importanza attribuita al fattore lavoro, alla sua utilizza-
zione flessibile, ma anche al suo “riconoscimento” come figura decisiva per lo
sviluppo economico e industriale. Le istituzioni locali (amministrative e sin-
dacali) avrebbero dunque promosso in questa regione delle forme di coopera-
zione del “lavoro” nell’intero tessuto produttivo manifatturiero del territorio,
garantendo, rispetto ad altre realtà industriali, una minore incidenza sui pro-
fitti d’impresa dei costi necessari per ottenere tale cooperazione produttiva.
Questo ha permesso di coniugare, da un lato, flessibilità produttiva e, come di-
mostrano Barca e Magnani, salariale (una riduzione del costo del lavoro a cari-
co delle imprese, che deriva esattamente dalla minore spesa per le assicurazio-


MIRCO DEGLI ESPOSTI

ni alla manodopera e per le incentivazioni allo sforzo produttivo spontaneo); e,


dall’altro lato, sistemi politici di regolazione della mobilità del lavoro nelle aree-
sistema. Dei sistemi di regolazione capaci dunque di strutturare delle forme di
protezione dell’occupazione a livello territoriale, garantendo, contemporanea-
mente, flessibilità nell’utilizzo della forza lavoro e significative “economie ester-
ne” per le aziende locali.

A partire da questa rapida ricostruzione di alcuni caratteri dei sistemi produt-


tivi a specializzazione flessibile in Emilia-Romagna, la relazione tra la parola
“padrone” e la parola “lavoro”, presente nelle interviste effettuate alla Breda-
Menarinibus, può permetterci d’identificare un modo di pensare che ci pare
chiarifichi alcuni tratti del “modello emiliano”. Abbiamo affermato che gli
enunciati degli operai fin qui analizzati presentano una sorta di corrisponden-
za tra la dimensione soggettivamente qualificata del lavoro (“soddisfacente”,
“motivante” ecc.) e la sua dimensione di fattore della produzione economica:
produrre, in quanto attività valorizzata dal “padrone”, comporta anche una
forma di soddisfazione soggettiva dell’operaio. La “valorizzazione del lavoro”
coincide con lo spazio delle relazioni industriali in fabbrica: delle relazioni do-
ve l’operaio si rappresenta come “figura del lavoro produttivo”. La valorizza-
zione economica s’articola insieme a una valorizzazione soggettiva che concer-
ne le due figure della produzione (operaio e “padrone”): la produzione è così
pensabile come un processo condiviso tra questi due soggetti.
Gli operai intervistati identificano dunque una politica che valorizza il la-
voro, riconoscendo la sua figura (l’operaio) in quanto soggetto che coopera
con l’impresa nel processo di produzione. Ma la cooperazione col “padrone”
qualifica nel pensiero dei nostri interlocutori la stessa soggettività dell’ope-
raio: l’operaio si pensa come la figura della cooperazione produttiva, all’in-
terno della fabbrica, col “padrone”. La specificità politico-istituzionale che
ha caratterizzato il cosiddetto “modello emiliano” – ovvero una strutturata
mediazione tra imprese, sindacati, amministrazioni locali, basata sulla cen-
tralità della gestione del fattore lavoro e che estende il modello di relazioni
industriali di tipo cooperativo sull’intero territorio dei sistemi produttivi a
specializzazione flessibile –, trova in questo modo di pensare una precisa con-
ferma. Possiamo infatti ritenere che la specificità del cosiddetto modello emi-
liano si basa anche sul rapporto politico tra “padrone” e operaio, che abbia-
mo identificato a partire dalle parole degli operai intervistati. In questo mo-
do, l’assenza del “padrone” potrebbe essere interpretata come un giudizio
degli operai BredaMenarinibus che riflette una situazione più generale: la fi-
ne di un modello di produzione industriale fortemente radicato sul territorio,
a relativamente bassa intensità di capitale ma con produzioni specializzate e
in cui, dunque, l’organizzazione della manodopera, della sua gestione flessi-
bile e della sua cooperazione nel processo produttivo, può essere una condi-


U N A FA B B R I C A D A R I FA R E E L A Q U A L I T À D E L L AV O R O

zione per la competitività particolarmente significativa. Le analisi più re-


centi sui sistemi produttivi locali sottolineano come negli ultimi anni questo
modello sia in una fase di radicale trasformazione, nell’epoca del cosiddetto
capitalismo globale e reticolare. Ma nella nostra ricerca non abbiamo indi-
viduato solo delle forme d’intelligenza di una situazione oggettiva, bensì an-
che dei modi di pensare capaci di problematizzare questi cambiamenti og-
gettivi, qualificando il presente (il presente anche di questa situazione) come
ambito di differenti possibilità. In effetti, gli operai intervistati non pensano
l’oggi semplicemente come il tempo dell’assenza del “padrone”. Gli operai,
problematizzando la situazione della BredaMenarinibus, forniscono contem-
poraneamente una nuova qualificazione della fabbrica. Una qualificazione in
cui essa non è più esclusivamente identificata con il luogo dove il processo di
produzione è (o non è) soggettivamente condiviso tra operaio e “padrone”.
Vediamo ora in dettaglio questa forma di pensiero.

.. «Una fabbrica deve essere una fabbrica,


se uno vuole lavorare in privato sta fuori, si mette su la sua fabbrica»

È un’operaia a identificare il presente della BredaMenarinibus nei termini in-


tellettualmente più chiari. Secondo questa interlocutrice, la fabbrica è «un
punto di lavoro che mi permette di vivere», mentre BredaMenarinibus «non è
più una fabbrica, è una fabbrica da rifare. È una fabbrica, è sempre una fabbrica
dove ci lavoro, però…». L’intervistata afferma ancora che «una fabbrica deve
essere una fabbrica, se uno vuole lavorare in privato sta fuori, si mette su la sua
fabbrica».
In questi enunciati ci si riferisce al processo d’esternalizzazione produttiva
che, come abbiamo già ricordato, è stato implementato dall’azienda soprattutto
a partire dal . Questo processo ha anche portato all’utilizzo all’interno del-
lo stabilimento di dipendenti di altre imprese o di lavoratori autonomi. Nelle pa-
role di questa operaia, il problema non è tanto l’identità della fabbrica come spa-
zio produttivo i cui confini sono oggi meno limpidi. Al di là di questo aspetto,
la questione che qui è messa in luce riguarda la fabbrica come parola che pone
una condizione alla dimensione “privata” del lavoro attraverso una forma di sua
localizzazione, alla costituzione di “un punto di lavoro”. Procederemo alla for-
mulazione di quattro tesi per identificare ciò che è pensato in questi enunciati.
– La questione principale è posta dalla parola “punto”. La locuzione “un
punto” indica una forma di identificazione del “lavoro” come una realtà sin-
golare (“un” punto), come “un esserci” localmente specificato. La fabbrica è
un luogo di lavoro «che permette di vivere», affermazione che rinvia alla sua
dimensione di luogo d’articolazione del lavoro al capitale per mezzo del sala-
rio. Ma la fabbrica fa anche “un punto” del lavoro come fattore oggettivo del-
lo scambio tra tempo (di lavoro) e salario proprio alla produzione capitalistica


MIRCO DEGLI ESPOSTI

del valore. “Fabbrica”, allora, è la categoria che permette di costituire nel pen-
siero il “lavoro” come una realtà locale e specifica: “fabbrica” è la parola per
prescrivere una specificazione locale del lavoro. Questa dimensione prescritti-
va della parola “fabbrica”, che la costituisce come categoria per pensare la pa-
rola “lavoro”, è attestata dal carattere possibile, non necessario, non oggettivo
di questa stessa dimensione. Infatti, la fabbrica che fa “un punto” del lavoro,
che lo singolarizza localmente, può esserci o no, è una possibilità: BredaMena-
rinibus «non è più una fabbrica», nonostante che «è sempre una fabbrica dove
lavoro». La fabbrica non è solamente una realtà industriale ed economica, uno
spazio di lavoro, un luogo che «permette di vivere». Essa è un luogo prescritti-
vo: «una fabbrica deve essere una fabbrica».
– La locuzione “lavorare in privato” inscrive il lavoro in una dimensione di
scambio, contrattuale: questa locuzione rinvia al lavoro come fattore produttivo
nel mercato, ovvero al “lavoro-merce”. Secondo questa interlocutrice, il lavoro, in
quanto fattore scambiato nel mercato, può essere sotto condizione di un campo
di possibilità: le possibilità poste della sua costituzione in “un punto” prescritta
attraverso la categoria di “fabbrica”. “Fabbrica” è la categoria che presenta un mo-
do di pensare il lavoro come realtà singolare e “puntuale” (il “punto di lavoro”) e,
contemporaneamente, la separazione tra questa operaia e chi «vuole lavorare in
privato» senza restare fuori dalla fabbrica. Così, grazie alla fabbrica, ciò che può
contare del lavoro non è il suo essere merce, ma il suo costituirsi come questione
di chi in fabbrica ci sta dentro, di una soggettività che fa della fabbrica il luogo di
questa specificazione locale del lavoro a carattere prescrittivo.
– Se BredaMenarinibus non è più una fabbrica, ciò dipende dalla «volontà»
di «lavorare in privato» senza «mettere su» una fabbrica, da una volontà che
non permette di fare “un punto” del lavoro. L’inesistenza della fabbrica di-
pende dunque da un “volere” rispetto alla fabbrica, da prescrizioni ad essa re-
lative che la destituiscono come «un punto di lavoro».
– L’identificazione “puntuale”, fare “un punto” del lavoro: la fabbrica può
essere ciò che costituisce il “lavoro” in un “esserci” singolare. Il “lavoro” è dun-
que sotto condizione del possibile (il possibile di questa sua localizzazione) de-
signato dalla categoria di “fabbrica”. Ma la “fabbrica” come luogo che fa “un
punto” del “lavoro” è la prescrizione di un modo di pensarla che si confronta
con una prescrizione opposta. Ovvero, quella che destituisce la fabbrica come
luogo di questa stessa identificazione del lavoro come una realtà “puntuale”.
“Fabbrica” è allora la categoria di differenti prescrizioni che la costituiscono o
meno come luogo “puntuale” del lavoro.
Se la fabbrica è la condizione che può permettere di costituire il lavoro in
una realtà locale e singolare non riducibile solo a un fattore produttivo scam-
biato nel mercato, e ciò presentando contemporaneamente un conflitto di pre-
scrizioni relativo a questa stessa possibilità, allora la fabbrica è pensabile come
il luogo di condizioni prescrittive e politiche del lavoro.


U N A FA B B R I C A D A R I FA R E E L A Q U A L I T À D E L L AV O R O

Possiamo ora leggere gli ultimi enunciati citati come dei giudizi sulla situa-
zione presente della BredaMenarinibus, in particolare rispetto alla politica di
decentramento ed esternalizzazione produttive adottata dall’impresa. La situa-
zione dello stabilimento è oggi, per questa interlocutrice, la sua destituzione co-
me “un punto di lavoro”. Esiste cioè una politica rispetto alla fabbrica che ren-
de impossibile alla BredaMenarinbus di essere un luogo in grado di fare del la-
voro una realtà localmente specificata, non riducibile solo a lavoro-merce.

.. La politica di decentramento: «la fabbrica dovrebbe muoversi


in un altro modo, scendere dal piedistallo e parlare con gli operai»

Molti altri operai intervistati danno un giudizio sulla politica aziendale di de-
centramento produttivo adottata in BredaMenarinibus. Un operaio della linea
sostiene che «non funziona niente, non è un’azienda che può competere; […]
danno lavori fuori mentre mettono gli operai in cassa integrazione; […] non riu-
sciamo, noi tutti, a capire la strategia dell’azienda, ma non sanno loro cosa fare
della fabbrica… non c’è una strategia industriale, né politica». Stessa questione
quella sottolineata da un altro interlocutore: «È la completa disorganizzazione,
[…] arrivano gli esterni, non c’è una rivalità, fortunatamente, è un operaio come
noi, ma questa azienda si è indebolita a livello strutturale».
Un operaio che lavora alle preparazioni afferma: «se uno deve vivere alla
giornata, la fabbrica, allora, va bene. Ma se uno vuol star bene, migliorare, la fab-
brica non c’è più, vai via dalla fabbrica»; mentre per un altro intervistato «non
si capisce cosa vogliono fare, cosa vogliono fare di questa fabbrica, […] la gente
se ne va, anche i dirigenti… non hanno spazio, […] stanno distruggendo la fab-
brica»; e in un passaggio successivo dell’intervista rimarca: «Si vive in un cli-
ma di incertezza, […] sembra sempre di vivere alla giornata». Un giovane ope-
raio usa queste parole per dire cosa pensa dello stato attuale della BredaMe-
narinibus: «La fabbrica dovrebbe muoversi in un altro modo, scendere dal pie-
distallo e parlare con gli operai»; mentre per un’operaia «non c’è lavoro per noi,
perché gli esterni devono venire qui? […] Non riesco a capire e non voglio nean-
che capire perché non lo ritengo giusto». Secondo altri tre interlocutori «la fab-
brica doveva essere un posto dove uno andava a dare il meglio di se stesso, […]
invece trovi la fabbrica che è un vuoto, vuoto di tutto, […] manca una cucitura,
quello che ti mette insieme»; «Penso che l’organizzazione sia l’anima di tutto, se
non c’è organizzazione non si lavora, […] qui dentro non c’è, non esiste più»;
«Pensano sicuramente qualcosa, non so cosa, perché lavorare in questo modo è
privo di senso».
L’ipotesi di lettura di questi giudizi che noi proponiamo, alla luce della te-
si che BredaMenarinibus “deve essere una fabbrica”, e cioè ciò che fa “un pun-
to” del lavoro, è la seguente: per i nostri interlocutori bisogna che ci sia una re-
lazione diversa tra impresa e “fabbrica” che permetta di chiarire quali sono le


MIRCO DEGLI ESPOSTI

condizioni di lavoro possibili per gli operai. Questo perché, come dice l’ultimo
intervistato citato, oggi il modo in cui loro ci lavorano è considerato “privo di
senso”. Rispetto ai giudizi che abbiamo analizzato all’inizio di questo testo, si
può affermare che, attraverso questo modo di pensare la parola “fabbrica”, gli
intervistati presentano la situazione attuale del loro stabilimento in una forma
che non è riducibile esclusivamente all’assenza del “padrone”. La fabbrica, in-
fatti, non è, secondo gli operai, il luogo certo della presenza o dell’assenza di
una politica di valorizzazione del lavoro: la politica del “padrone”. La fabbrica
è ora un luogo non più certo («non si capisce cosa vogliono fare di questa fab-
brica, si vive in un clima di incertezza, […] sembra sempre di vivere alla giorna-
ta»), un termine che rende esplicite delle scelte: quelle che la fanno esistere o
no come luogo di possibilità per gli operai, di possibilità per chi in fabbrica ci
sta dentro e ci lavora. La questione oggi non è, allora, solo la presenza o l’as-
senza del “padrone” ma, piuttosto e soprattutto, quali scelte relative alla “fab-
brica” sono attualmente all’opera in BredaMenarinibus. Come abbiamo già no-
tato, voler lavorare “in privato” dentro la fabbrica, rende impossibile fare “un
punto” del lavoro, l’iscrizione di questa parola in una problematica relativa al-
la sua possibile specificazione locale, che dispone delle condizioni al lavoro non
riducibili a quelle di mercato (che dispone cioè delle condizioni prescrittive e
politiche al lavoro). In questo modo «si vive giorno per giorno», «si vive in un
clima d’incertezza», «è la completa disorganizzazione». Il decentramento pro-
duttivo è allora considerato negativamente soprattutto perché, secondo gli ope-
rai, è solo l’effetto di una politica che destituisce la fabbrica come luogo in gra-
do di porre e “organizzare” delle condizioni singolari al lavoro («è la completa
disorganizzazione»; «Se non c’è organizzazione non si lavora; […] qui dentro non
c’è, non esiste più»; «Non funziona niente, […] danno lavori fuori mentre met-
tono gli operai in cassa; […] non c’è una strategia […] politica»).
Che ritenere di tutto questo? Secondo noi gli operai dicono in fondo una
cosa semplice: la fabbrica senza il “padrone” non è una fabbrica senza una po-
litica; piuttosto, è la politica che la riguarda a rendere la fabbrica impensabile
come luogo in grado di porre delle condizioni del lavoro non riducibili solo a
quelle stabilite dal mercato. BredaMenarinibus «è una fabbrica da rifare» per-
ché questa politica non è tanto volta a costituire l’azienda come un attore sul
mercato che mette in campo delle “strategie” per essere più competitivo («non
c’è una strategia industriale, né politica»), ma piuttosto subordina semplice-
mente la fabbrica al mercato, disponendola come una merce in cerca di acqui-
rente (come già detto l’azienda è in vendita), disponendo così come semplice
merce anche il lavoro che in essa e grazie ad essa esiste. Per gli operai occorre
dunque decidere cosa si vuole fare della fabbrica, in attesa della sua possibile
acquisizione, perché «una fabbrica deve essere una fabbrica», anche se è sul mer-
cato, anche se è in vendita. In questo modo, il lavoro che essi svolgono può es-
sere pensato come sottoposto a delle specifiche condizioni: quelle della loro


U N A FA B B R I C A D A R I FA R E E L A Q U A L I T À D E L L AV O R O

fabbrica; quelle decise e “organizzate” a partire da un ambito di scelte, da una


politica che ha una “strategia” rispetto a questo luogo.

Siamo tornati nell’azienda due anni dopo lo svolgimento di queste interviste,


nell’estate del . Ciò che era accaduto in questi due anni ci è parso mette-
re in luce e confermare proprio le questioni poste dagli operai. La direzione,
opponendosi alle proposte avanzate per un certo periodo dalla proprietà, ha
deciso di mantenere una produzione di autobus a gamma larga, in grado di
conservare anche in prospettiva le attuali posizioni di mercato dell’azienda,
che resta comunque la seconda produttrice nazionale di bus. Pur mantenen-
do una gamma larga, si è deciso di concentrare la produzione verso modelli
complementari rispetto a quelli fabbricati da possibili acquirenti. Inoltre,
adottata la cassa integrazione guadagni nel corso del  e , l’azienda ha
avviato un processo di parziale reinternalizzazione di certe funzioni produtti-
ve prima decentrate, che ha garantito, insieme a un migliore andamento com-
plessivo del mercato, il progressivo rientro dei dipendenti cassaintegrati, ec-
cezion fatta per i lavoratori che hanno lasciato l’azienda (circa ). In questi
due anni si è infatti avviato un piano di stimolazione delle dimissioni indivi-
duali volontarie. Ci pare che l’azienda abbia assunto, attraverso una strategia
industriale più chiara e un programma d’incentivazione delle dimissioni indi-
viduali volontarie, proprio la questione, emersa durante l’indagine, della fab-
brica come luogo di condizioni prescrittive del lavoro (in questo caso anche di
condizioni prescrittive della fine di un lavoro), in quanto luogo di scelte poli-
tiche relative alla fabbrica stessa. Ma, a partire dagli enunciati che abbiamo
raccolto durante l’inchiesta, ci sembra che resti aperta una questione impor-
tante. La proprietà (Finmeccanica) ha scelto e dichiarato cosa vuol fare della
fabbrica (venderla), ma non è riuscita a farlo: la dichiarazione di messa in ven-
dita non è stata sufficiente per vendere lo stabilimento. Questo evidentemen-
te significa che, se Finmeccanica vuole vendere lo stabilimento, deve prima di
tutto cambiare strategia rispetto alla fabbrica. È questo quello che oggi deci-
de dei destini della fabbrica (anche della sua vendita), non la sua messa in ven-
dita. Anche per venderla «una fabbrica deve essere una fabbrica». La direzione
aziendale ci sembra che abbia di fatto assunto questa prospettiva, articolando
una strategia imprenditoriale, una politica rispetto alla “fabbrica”, più chiara.
Tuttavia, il piano di stimolazione delle dimissioni individuali volontarie è sta-
to attuato durante il periodo di cassa integrazione. Come abbiamo visto, se-
condo gli operai, per porre delle condizioni prescrittive al lavoro o alla sua fi-
ne, occorre chiarire quali scelte relative alla fabbrica sono oggi in corso in Bre-
daMenarinibus («non si capisce cosa vogliono fare di questa fabbrica; […] la
gente se ne va, anche i dirigenti… non hanno spazio, […] stanno distruggendo
la fabbrica»). Decidere a quali condizioni andarsene dall’azienda è una que-
stione che riguarda le possibilità degli operai rispetto alle scelte politiche in at-


MIRCO DEGLI ESPOSTI

to relative allo stabilimento: si tratta dunque di una decisione che riguarda l’o-
peraio in fabbrica, non il cassaintegrato fuori dalla fabbrica. Come dice un in-
terlocutore, «la fabbrica dovrebbe muoversi in un altro modo, scendere dal pie-
distallo e parlare con gli operai». Un piano di riduzione del personale su base
volontaria non doveva dunque concernere individualmente i cassaintegrati
fuori dalla fabbrica, ma essere discusso con gli operai alla BredaMenarinibus.
Riconoscere questo significa proprio riconoscere una delle questioni più im-
portanti che secondo noi gli operai intervistati formulano: la dimensione po-
litica di certe condizioni del lavoro che la fabbrica come luogo soggettivo, co-
me luogo della gente che ci sta dentro e non solo come spazio della produzio-
ne, può permettere di porre e organizzare.
In conclusione, ci sembra che almeno una precisa indicazione problemati-
ca possa desumersi dalla nostra ricerca, tirando le somme di quanto detto fin
qui: che sarebbe stato politicamente auspicabile che chi “governava” la fabbri-
ca (la direzione aziendale, ma anche, a loro modo, i sindacati) avessero orga-
nizzato un lavoro d’inchiesta volto a identificare, a partire dai pensieri degli
operai, delle inedite modalità per affrontare le questioni relative alle condizio-
ni di lavoro possibili nella profonda crisi che ha attraversato l’azienda. Ci sem-
bra cioè che sarebbe stato possibile e utile assumere gli operai in fabbrica co-
me soggetti in grado di fornire importanti indicazioni su come affrontare il pro-
blema delle condizioni di lavoro, e anche della fine di un lavoro, durante que-
sta crisi. Ad esempio: decentramento produttivo ed esternalizzazioni, o, piut-
tosto, forme di lavoro più flessibili anche contrattualmente (e se sì, quali e co-
me), ma comunque riguardanti i dipendenti BredaMenarinibus all’interno del-
l’azienda? Cassa integrazione (per chi? A rotazione?) o disponibilità di una par-
te degli operai a lasciare l’azienda a certe (quali) condizioni? Rigidità salariale
o disponibilità a forme di legame delle retribuzioni all’andamento dell’azien-
da? Se sì, a quali condizioni? Solo per gli operai o anche per quadri e dirigen-
ti? Il tutto, e questa pare una condizione preliminare ineludibile che gli operai
pongono, a partire dall’esplicitazione dei problemi economico-produttivi del-
l’impresa e delle strategie in corso da parte aziendale per farvi fronte e compe-
tere sul mercato. Questo lavoro d’indagine sarebbe stato una vera e propria po-
litica rispetto alla fabbrica, per quanto minimale, in grado di assumere le indi-
cazioni da me raccolte tra gli operai: facendo «scendere dal piedistallo e parlare
con gli operai» la fabbrica, facendo cioè della fabbrica non un luogo distante,
estraneo, al di sopra degli operai, ma un luogo d’incontro tra esigenze econo-
mico-produttive e le questioni sociali poste da chi ci lavora. Una politica capa-
ce forse di farne seguire altre: sulla base delle nuove indicazioni degli operai
che da tale inchiesta sarebbero potute venire fuori. Una politica che, seppure
in forme diverse, potrebbe essere attuata anche oggi, in un quadro meno dram-
matico, ma ancora caratterizzato da una situazione di profonda e preoccupan-
te incertezza riguardo al futuro dello stabilimento.


U N A FA B B R I C A D A R I FA R E E L A Q U A L I T À D E L L AV O R O

.. Dalla fabbrica del “padrone”


alla fabbrica che “deve essere un punto di lavoro”:
la fabbrica luogo di condizioni prescrittive del lavoro

Gli operai della BredaMenarinibus, se pur lamentano l’assenza del “padrone”,


non si limitano a pensare questo. Essi pensano anche qualcos’altro: pensano
che nella loro fabbrica si possa e si debba decidere di molte cose essenziali. An-
zitutto del destino stesso della fabbrica, la quale non è più identificabile sem-
plicemente come luogo di lavoro. Il lavoro, in altri termini, non basta più a qua-
lificare cos’è una fabbrica. Al contrario, è quel che viene deciso quanto al de-
stino della fabbrica che qualifica il lavoro, che lo valorizza o meno, che ne può
decidere alcune delle condizioni essenziali. Impediti dalla situazione dello sta-
bilimento a confidare su dati oggettivamente certi, gli operai, rispetto a termi-
ni come “fabbrica” e “lavoro”, rovesciano la prospettiva abituale con cui tali
termini si pensano, e ne fanno delle questioni di tipo politico e soggettivo. Gli
operai non si pensano più come soggetti della produzione e non pensano più
la fabbrica come luogo, prima di tutto, della relazione tra la figura soggettiva
del capitale (il padrone) e quella del lavoro produttivo (l’operaio). Per i nostri
interlocutori, l’operaio, al di là di essere una soggettività al lavoro, è colui che
è in fabbrica. Essere operaio è per loro esserlo in fabbrica, pensarsi quindi co-
me soggetti attraverso questa categoria che identifica uno spazio di decisioni e
non solo uno spazio della produzione. I modi di pensare e prescrivere la fab-
brica, in quanto categoria di diverse politiche, fanno del lavoro stesso un am-
bito di scelte e di possibilità, prima di tutto per chi in fabbrica ci lavora.
Rispetto alla situazione dello stabilimento, questo modo di pensare pone
delle specifiche questioni, come abbiamo visto nel precedente paragrafo. Pos-
siamo aggiungere qualche considerazione su cosa si può pensare, a partire da
queste riflessioni, rispetto al “modello emiliano”. In un volantino distribuito il
 febbraio , durante le agitazioni che hanno coinvolto lo stabilimento, do-
po la decisione di mettere in cassa integrazione straordinaria la metà del per-
sonale dell’azienda, le rappresentanze sindacali della BredaMenarinibus affer-
mavano: «Finmeccanica non vuole fare scelte imprenditoriali e industriali. […]
Preferisce guardare alla finanza. […] Questa situazione parla anche alla politi-
ca e alle istituzioni. […] Significa fare scelte amministrative e di governo che
spingano e costringano le imprese a innovare per coniugare ambiente, vita e la-
voro. Non farlo significa farsi trascinare dai grandi poteri economici e trasfor-
mare l’interesse delle imprese in interesse generale. […] La nostra lotta, difen-
dendo il lavoro, propone una nuova qualità sociale della nostra città».
Abbiamo citato questo volantino perché ci pare evocare in maniera esem-
plare un modo di pensare da “modello emiliano”, da fabbrica del “padrone”. Un
modo di pensare in cui istituzioni, impresa, sindacato, amministrazioni pubbli-
che, cogestiscono lo sviluppo locale attraverso un sistema di mediazioni basato


MIRCO DEGLI ESPOSTI

sulla centralità attribuita alla produzione e al lavoro. Oggi le questioni poste dai
nostri interlocutori ci sembrano diverse e non riducibili a questo modo di pen-
sare. Il “padrone” che valorizza il lavoro riconoscendo la sua figura, l’operaio,
non ha il problema di fare una politica rispetto alla fabbrica, perché la fabbrica è
un luogo certo della produzione di valore (e di profitto). Oggi la fabbrica è un
luogo incerto. Ma se la fabbrica è oggi un luogo incerto anche nella sua oggetti-
va identità di sito produttivo, ciò significa pure che essa è pensabile come luogo
di scelte sempre più decisive e significative. Significative e decisive prima di tut-
to per chi ci sta, dentro le fabbriche, per chi nelle fabbriche ci lavora. Dunque,
l’incertezza della fabbrica segnala anche uno spazio aperto di possibilità da deci-
dere. Da decidere sottoponendo il lavoro a delle condizioni prescrittive e politi-
che. È proprio questa visione della fabbrica come una risorsa per la politica che
gli operai BredaMenarinibus, nell’esaurirsi del “modello emiliano”, ci restitui-
scono come questione aperta, come questione della contemporaneità. Una que-
stione in grado di sottoporre il lavoro, nel tempo del capitalismo globale e reti-
colare, a un ambito di possibilità, a delle nuove condizioni locali diverse da quel-
le “localistiche”, secondo la definizione di Trigilia, proprie del modello istitu-
zionale di relazioni industriali di tipo cooperativo che ha lungamente caratteriz-
zato questa regione. I giudizi degli operai BredaMenarinibus ci indicano dunque
una pista: la fabbrica come una risorsa per ripensare e riorganizzare il rapporto
politico tra economia e società. Una riarticolazione che gli attuali processi di glo-
balizzazione e riduzione del ruolo di mediazione esercitato dallo stato sociale ren-
dono ineludibili. La fabbrica, allora, come luogo per organizzare in modo inedi-
to questa relazione tra questioni economico-produttive e la realtà sociale di chi
lavora. Gli operai promuovono impresa e direzione aziendale a figure di tale rior-
ganizzazione, in quanto soggetti di politiche rispetto a questo luogo: una più pre-
cisa assunzione di questa dimensione politica del dire e dell’agire aziendale ci pa-
re una tra le indicazioni che gli operai BredaMenarinibus formulano. Conoscere
cosa dicono e pensano gli operai può dunque permettere di fare della fabbrica,
di chi ci sta dentro e di chi la governa, la categoria e i soggetti per inventare nuo-
ve politiche del lavoro, nell’esaurirsi di quel complesso sistema istituzionale di ge-
stione del mercato del lavoro che è stato il “modello emiliano”.


L’inchiesta alla BT Cesab

.. «Noi lavoriamo, facciamo quello che ci è chiesto,


però è come se facessimo un favore a loro, ai capi, lavorando bene»:
la qualità come qualificazione soggettiva del lavoro

Nelle interviste condotte presso l’industria BT Cesab, uno dei temi più im-
portanti per gli operai è stato quello relativo a ciò che chiameremo la questio-


U N A FA B B R I C A D A R I FA R E E L A Q U A L I T À D E L L AV O R O

ne della qualità del lavoro. Questo tema si dispiega attraverso la riflessione su


due fenomeni che oggi caratterizzano, secondo i nostri interlocutori, lo stabili-
mento e il lavoro che in esso si svolge: da un lato, la presenza massiccia di ope-
rai recentemente assunti; dall’altro lato, un processo di mutamento del lavoro
che comporta una forte riduzione delle funzioni d’aggiustaggio sui pezzi difet-
tosi da montare. Per quanto riguarda la prima questione, secondo sei degli in-
terlocutori incontrati ( giovani e  con una più lunga esperienza in altre azien-
de), la scarsa presenza di operai con una significativa anzianità è sintomatica di
un cambiamento della fabbrica: «Cesab non è una fabbrica che ha una gran cul-
tura. Quello più anziano dentro al nostro reparto ha  anni di anzianità. Si riflet-
te nel modo di lavorare […] nel senso che comunque non ti devi chiedere il per-
ché delle cose ma le devi fare»; «Adesso sono tutti giovani, hai più da imparare,
adesso; se non c’è l’azienda che fa i corsi non puoi imparare. Gli anziani ti tene-
vano più lì, parlavano più di lavoro»; «Io penso che prima si lavorava con più pe-
rizia. Adesso è tutto reso in modo superficiale. […] È raro sapere quello che si fa»;
«Una volta sapevano lavorare meglio, adesso, appena arrivi, il capo officina ti af-
fianca un ragazzo che magari è lì da due settimane»; «La generazione che è anda-
ta in pensione […] ne sapeva anche di più dal punto di vista tecnico, per l’espe-
rienza. Vi è una cultura puramente teorica, che è basata sul calcolo, che poi alla
fine lascia l’industrializzazione a qualcun altro: l’industrializzazione che era lega-
ta al piccolo sbuzzo tecnico era più legata all’altra generazione»; «C’era più voglia
di migliorarsi. Adesso mi sembra che ci sia più un atteggiamento di lasciar perde-
re le cose, non di migliorare».
Il fenomeno della ridotta anzianità è connesso, in questi giudizi, a una ri-
flessione sulla modalità di lavorare oggi in Cesab. Questa riflessione si presen-
ta attraverso dei termini che indicano delle capacità soggettive e intellettuali de-
gli operai rispetto al lavoro: “cultura”, “sapere”, “imparare”, “atteggiamento”,
“sbuzzo”. Se oggi c’è, secondo i giudizi riportati, una riduzione in Cesab del
sapere e della cultura dell’operaio rispetto al lavoro, in molti altri enunciati è
comunque reperibile un modo di pensare che presenta una relazione singolare
degli operai con il loro lavoro, attraverso l’uso di termini qualitativi a esso re-
lativi. Un intervistato che lavora alla linea dei carrelli elettrici sostiene che «c’è
da imparare, sono delle piccole cose che ti vengono usando le mani, facendo le mo-
difiche, stringendo meglio tubi, bulloni»; mentre un altro interlocutore afferma
che «se voglio andare avanti occorre che il lavoro sia fatto bene». Per un addet-
to alla produzione dei carrelli diesel, «noi lavoriamo, facciamo quello che ci è
chiesto, però è come se facessimo un favore a loro, ai capi, lavorando bene». Giu-
dizio diverso, ma che convoca comunque una dimensione qualitativa del fare
dell’operaio, quello di un altro interlocutore secondo cui «la fabbrica è un po-
sto dove devi cercare di dare il tuo meglio per far andare avanti l’azienda, devi cer-
care di fare il tuo lavoro come si deve». Altri tre intervistati presentano questo
tipo di problematica: «Io so che lavoro qua, cerco di fare il lavoro il meglio pos-


MIRCO DEGLI ESPOSTI

sibile»; «Per ogni lavoro ci sono delle responsabilità, le cose sono da fare e le de-
vi fare bene, punto e basta. Non sono negligente, quello che devo fare provo a far-
lo il meglio che posso, poi credo che stia in ognuno di noi interpretare quello che
sta facendo»; «Adesso il lavoro mi sta interessando, adesso che il lavoro vedo che
mi riesce bene […] lo trovo interessante».
In questi giudizi le parole “lavoro” e “lavorare” sono poste in relazione con
il tema della loro “qualità”. “Fare bene il lavoro”, fare il lavoro “il meglio pos-
sibile”, “lavorare bene” sono delle possibilità convocate da un rapporto col la-
voro che si presenta attraverso le parole “imparare”, “provare”, “riuscire”, ave-
re “soddisfazione”, o tramite delle locuzioni come “cercare di fare”, “se voglio
[…] bisogna”. In questo modo, i termini qualitativi utilizzati in questi enuncia-
ti sono pensati come l’effetto d’una attività possibile, di capacità, di tentativi, di
scelte, di prescrizioni autonome. In un senso “oggettivo” lavorare bene è lavo-
rare senza fare errori: «se il mio lavoro non è fatto bene c’è il rischio che magari il
lavoratore che fa il lavoro dopo il mio non si accorge del mio errore»; «La respon-
sabilità è che mi danno da fare un carrello, deve andare bene, che non crei perico-
li a chi lo userà, c’è il collaudo, ma anche loro potrebbero sbagliare». Ma la qualità
del lavoro ha anche una dimensione totalmente soggettiva e non necessaria:
«Noi lavoriamo, facciamo quello che ci è chiesto, però è come se facessimo un fa-
vore a loro, ai capi, lavorando bene»; «Quello che devo fare provo a farlo il meglio
che posso, poi credo che stia in ognuno di noi interpretare quello che sta facendo»;
«C’è da imparare, sono delle piccole cose che ti vengono usando le mani, facendo
le modifiche, stringendo meglio tubi, bulloni».
Secondo questi operai, la qualità non è dunque data dai contenuti cogniti-
vi e professionali “oggettivi” delle mansioni da svolgere, ma è l’effetto di una
attività, di una operazione soggettiva: esattamente e letteralmente di una “qua-
lificazione” del lavoro. Questa attività è presentata attraverso una separazio-
ne tra “lavorare bene” e “quello che ci è chiesto”: quello che non è aggettivato
si configura semplicemente come attività oggettiva, come “quello che devo fa-
re”, come necessità. Non si tratta solamente di “stringere tubi, bulloni”, ma
d’imparare, lavorando, “usando le mani”, a stringerli “meglio”. Dunque, è il
pensiero di questa qualificazione del “lavoro” a costituire questa parola come
termine in rapporto alla soggettività dell’operaio. Ciò, attraverso un’operazio-
ne che differenzia il lavoro da “quello che è chiesto”, dall’oggettività di ciò che
si “deve fare”. Tutto questo ci permette di perlustrare cosa effettivamente sia,
ovvero come possa essere pensabile, la “qualità” del lavoro. Come ha afferma-
to Yves Schwartz a questo proposito, «il processo di produzione non è un pro-
cesso lineare, integralmente descritto quando sono descritte le sue condizioni
materiali. […] Ora, da dove viene la qualità? È la stessa questione che oggi si
pongono i dirigenti d’azienda quando creano dei circoli di qualità». Noi pos-
siamo affermare in prima battuta che la “qualità” viene, per i nostri interlocu-
tori, da un’operazione di qualificazione del lavoro soggettiva e prescrittiva. La


U N A FA B B R I C A D A R I FA R E E L A Q U A L I T À D E L L AV O R O

qualità è l’effetto di un intervento autonomo dell’operaio sul lavoro “oggetti-


vo” da svolgere. Questa questione risulta evidente affrontando anche un altro
tema posto dagli intervistati: quello dell’aggiustaggio.

.. L’aggiustaggio: una problematica singolare

Un operaio addetto alla linea dei carrelli elettrici afferma che «una volta c’era
una cultura dell’operaio; dicevano, anche gli anziani qua, che un operaio era te-
nuto in considerazione. Adesso, con questa storia della catena di montaggio sei
quasi un robot; una volta invece, che dovevi fare aggiustaggio […] eri più quali-
ficato. Stringere  viti sono buoni tutti, il come stringi è un altro paio di maniche:
forse è anche per questo che non fanno formazione. Vedendoli come robot è uno
in più, non è che deve sapere a cosa serve quel pezzo». È lo stesso operaio a sot-
tolineare nuovamente, in un altro passaggio dell’intervista, questo problema:
«Qui facevano molto aggiustaggio, sego qui, asolo là, adesso non è più possibile.
Quando sono entrato io si facevano . carrelli, adesso .. […] Non si posso-
no permettere di stare lì ad asolare».
Un interlocutore che lavora alle postazioni per l’assemblaggio dei carrelli
diesel sostiene: «Il montatore interveniva sul pezzo che non andava bene, adesso
si dà la precedenza alla produzione e queste cose non si fanno più, è cambiato il si-
stema di lavorare, adesso siamo degli assemblatori e basta, mentre prima, se c’era
qualcosa che non andava bene, si interveniva; […] prima si agiva di più, adesso i
pezzi che non vanno bene sono rispediti al fornitore». Giudizio simile quello di
un ex collaudatore: «Al collaudo allora […] si interveniva abbastanza anche sul-
la meccanica; […] c’era da cambiare un pezzo e lo cambiavi tu, adesso va all’ad-
detto, tu lo collaudi solo per le tarature, i tempi di traslazione, non si fanno le ri-
parazioni». Un operaio della linea dei carrelli elettrici sostiene che «Cesab alla fi-
ne sta diventando un’azienda che monta le macchine, adesso sembra la FIAT». Men-
tre, per un altro interlocutore, «adesso tutto è puntato sul numero, più che sulla
qualità». Lo stesso operaio spiega così questa affermazione: «Hanno eliminato
la creatività. […] Secondo me, come figura di operaio, è quella artigianale; […]
forse è ancora possibile questo tipo di lavoro operaio quando viene fatto il lavoro
ad isole, in cui vi è ancora una grossa personalizzazione, e quello ti può dare sod-
disfazione. […] Purtroppo sta peggiorando: […] si riduce il concetto di operaio che
produce. O diventi un puro esecutore di una catena di montaggio, sei proprio, non
è un operaio, non si è operai».
Bisogna notare che secondo altri interlocutori la dimensione dell’aggiu-
staggio è, al contrario, presente in Cesab e connota positivamente il lavoro in
fabbrica: «Dei grossi tempi di produzione non ce ne sono […] c’è molto da ag-
giustare, da sistemare […] c’è chi fa prima una cosa, chi la fa dopo, c’è una certa
libertà d’interpretazione del lavoro»; «Mi piace quello che sto facendo perché cam-
bi sempre, fai anche dell’aggiustaggio»; «Dov’ero prima, anche qua faccio sempre


MIRCO DEGLI ESPOSTI

lo stesso lavoro, ma vedo non proprio un lavoro solo di produzione, vedo molto
anche un lavoro di aggiustaggio».
Dobbiamo sottolineare una distinzione decisiva tra la parola “aggiustag-
gio” e la parola “produzione”. Nei giudizi che abbiamo riportato è il “lavoro
d’aggiustaggio” l’ambito della soggettività degli operai rispetto al lavoro in fab-
brica. Questo ambito soggettivo è distinto dal “lavoro di produzione” ed è pen-
sato coincidere con la “qualità” rispetto al “numero”, alla “quantità”. In que-
sti enunciati l’operaio si pensa distinguendo la propria soggettività dalla “pro-
duzione”. L’operaio produce, ma la sua soggettività non dipende in alcun mo-
do dalla produzione: «Hanno eliminato la creatività: […] si riduce il concetto di
operaio che produce. O diventi un puro esecutore di una catena di montaggio, sei
proprio, non è un operaio, non si è operai».
Qui è evidente che il “concetto d’operaio”, benché l’operaio sia un sog-
getto che “produce”, non dipende dalla produzione, ma dall’intervento auto-
nomo di questo soggetto rispetto al lavoro da svolgere, dalla sua “creatività”.
In generale, gli operai pensano che questo ambito distinto dalla produzio-
ne si sta riducendo nel sistema d’organizzazione del lavoro adottato in Cesab.
Un sistema che, secondo i nostri interlocutori, tende a privilegiare il “lavoro di
produzione”, il “numero”, la quantità rispetto all’“aggiustaggio” e alla “qua-
lità”. È questa riduzione a disporre una riflessione sull’attività di lavoro in Ce-
sab che chiarisce intellettualmente la separazione posta, tramite il tema della
qualità, tra la soggettività degli operai e quello che si “deve fare”, e ciò che “è
chiesto”, il “lavoro di produzione”. Vediamo ora di identificare questo modo
di pensare, analizzando con più precisione che cosa può essere, secondo gli
operai, la “qualità” del lavoro oggi in Cesab, nel tempo della riduzione del-
l’aggiustaggio.

.. «La fabbrica è iniziativa»: la subordinazione del “posto”


al “dire” dell’operaio come prescrizione rispetto alla fabbrica

Uno dei giudizi ai nostri occhi più interessanti tra quelli raccolti alla Cesab è il
seguente: «La fabbrica è iniziativa. […] Non ti poni, per paura di perdere il po-
sto, cos’è la fabbrica per te, cosa potrebbe essere. Non credo che venga data all’o-
peraio tanta autonomia da dire che il proprio lavoro è un’estensione di sé; all’o-
peraio non viene data la possibilità di farlo».
Abbiamo visto che la soggettività rispetto al lavoro è pensata dagli intervi-
stati come attività che “qualifica” questo termine. Tale “qualificazione” si pre-
senta attraverso una distinzione dell’operaio dal “lavoro di produzione” che
svolge. Ora, grazie all’ultimo enunciato citato, possiamo sostenere che questo
campo di scelte per gli operai s’articola per mezzo di una specifica modalità di
pensare la fabbrica. In questo giudizio a far questione sono le possibilità di “di-
re” che l’operaio ha oggi. Possibilità che dovrebbero permettere di rendere il


U N A FA B B R I C A D A R I FA R E E L A Q U A L I T À D E L L AV O R O

lavoro un’estensione di se stessi, di rendere il “lavoro” l’effetto di una sogget-


tività, quella dell’operaio, capace d’annullare l’“oggettività” del lavoro desi-
gnata dal termine “posto” (e dalla paura di perderlo in quanto lavoro salaria-
to). Questo pensiero s’articola formulando una prescrizione relativa alla fab-
brica che la configura come un luogo del tutto singolare: «La fabbrica è inizia-
tiva». Del resto, in molti altri frammenti citati, gli operai formulano dei giudi-
zi rispetto all’attuale riduzione della creatività e delle loro possibilità soggetti-
ve rispetto ai modi di lavorare in fabbrica.
Per comprendere questa forma d’identificazione della fabbrica e dell’ope-
raio è necessario approfondire ulteriormente la riflessione relativa alla parola
“lavoro” che presentano i nostri interlocutori. Per isolare tale questione è uti-
le ricordare una tradizionale ambivalenza del lavoro sottolineata a suo tempo
da Marx. C’è sempre nel processo produttivo una bilateralità “oggettiva”, un
carattere doppio del lavoro: la creazione di neovalore e la trasformazione e con-
servazione del valore dei mezzi di lavoro nel processo di valorizzazione. Come
afferma Marx, «con l’aggiunta semplicemente quantitativa di lavoro si aggiun-
ge nuovo valore, con la qualità del lavoro aggiunto vengono conservati nel pro-
dotto i vecchi valori dei mezzi di produzione».Vale a dire che lo stesso lavo-
ro nel processo di produzione è leggibile da due punti di vista: da una parte, la
quantità di questo lavoro, misurabile in “tempo” di lavoro, produce del neo-
valore producendo dei nuovi prodotti; dall’altra parte, e allo stesso tempo, con
la sua “qualità”, con la specificità delle operazioni di lavoro svolte, con i suoi
contenuti particolari, il lavoro conserva i vecchi valori dei mezzi di produzione
nei prodotti che va a produrre. La qualità è così la dimensione del lavoro che
non produce alcuna “addizione” di valore e che quindi non è quantificabile at-
traverso il “tempo”. La qualità è ciò che lega il lavoro come capacità astratta di
lavoro (il “tempo” di lavoro) a dei mezzi di produzione specifici durante il pro-
cesso di valorizzazione: «Il filatore aggiunge tempo di lavoro solo filando, il tes-
sitore solo tessendo, il fabbro battendo il ferro».
In effetti, come abbiamo visto, nel lavoro d’aggiustaggio l’operaio articola
autonomamente alcune delle operazioni che legano tempo di lavoro e mezzi di
produzione e che stabiliscono così la qualità specifica del lavoro necessario per
realizzare un certo risultato produttivo domandato. Una forma di lavoro con-
templata dall’organizzazione tecnica della produzione, ma che non è fissata a
priori da questa stessa organizzazione del lavoro e dalla divisione delle mansio-
ni. Una forma di lavoro, dunque, che l’operaio decide, decidendo così sogget-
tivamente questa qualità oggettiva del lavoro. Insomma, in Cesab, nell’epoca
dell’aggiustaggio, la qualificazione da parte degli operai del lavoro era necessa-
ria per produrre: oltre a produrre, l’operaio decideva anche alcune delle ope-
razioni necessarie per produrre, che il sistema d’organizzazione del lavoro de-
legava al suo intervento autonomo, delegando dunque all’operaio l’organizza-
zione della modalità d’esecuzione tecnica di queste stesse operazioni. Oggi non


MIRCO DEGLI ESPOSTI

più: si può produrre in Cesab senza che tale qualificazione sia necessaria. Co-
sì, nel tempo della riduzione dell’aggiustaggio, questo spazio d’intervento au-
tonomo che decide la qualità oggettiva del lavoro non è più presente. Gli ope-
rai, ora, problematizzano la qualità del lavoro in termini diversi. Essi pensano
la “qualificazione” come una loro relazione soggettiva con una dimensione og-
gettivamente qualitativa del lavoro che è già data, che è già decisa (le mansioni
oggettivamente necessarie per produrre degli specifici output produttivi, i con-
tenuti tecnici del loro lavoro già fissati nel processo di produzione e che devo-
no necessariamente eseguire).
Ecco una serie di enunciati raccolti in Cesab, che presentano questa rela-
zione problematica tra mansioni oggettive da svolgere e una possibile relazio-
ne soggettiva con queste stesse mansioni, da ricercare attraverso un maggior
“sapere”, più possibilità di apprendere e di “pensare” il lavoro da effettuare,
più “esperienza” e “formazione”, una diversa divisione del lavoro: «Un ope-
raio deve sapere quello che fa, a che cosa serve, le funzioni che sta facendo, non
che io faccio un muletto, chi s’è visto s’è visto, è giusto che uno sappia quello che
sta facendo»; «Cesab non è una fabbrica che ha una gran cultura […] nel senso
che comunque non ti devi chiedere il perché delle cose ma le devi fare»; «Ades-
so c’è più da imparare […] adesso se non c’è l’azienda che fa i corsi non puoi im-
parare»; «È raro sapere quello che si fa»; «Una volta sapevano lavorare meglio;
adesso, appena arrivi, il capo officina ti affianca un ragazzo che magari è lì da due
settimane»; «Mi piacerebbe allargare le mie esperienze, perché comunque si im-
para sempre qualcosa di nuovo e quindi non mi sento mai soddisfatto; mi piace
allargare le mie esperienze»; «Gratificante o no, se fai un lavoro che non ti spin-
ge non ti può dare motivazioni sul lavoro perché bisogna farlo, lo fai con più fa-
tica, con meno voglia, lo fai male, senza pensarci […] devi avere la qualità del
lavoro, fare sempre un determinato tipo di lavoro non ti porta in là»; «C’è della
gente che vuole sapere cosa monta […] che si interessa a ciò che monta»; «La
formazione è importante soprattutto per chi lavora»; «Se vuoi lavorare qua den-
tro, rendere, devi sapere qualcosa in più. […] Non ci sono sufficienti corsi di for-
mazione, qualcosa in più dovrebbero fare»; «Secondo me la formazione è tutto,
la coscienza di come funziona il carrello, per poi andarci a mettere le mani è fon-
damentale»; «Si possono creare automatismi che parcellizzano di più il lavoro,
riduci tutto: si lavora parecchio,  ore di lavoro al giorno, se vengono svolte con
la dovuta attenzione, sono molte. Un uomo che dà il % dell’attenzione per 
o  ore è già un mezzo miracolo. Non è possibile pretendere un’attenzione per 
ore in un lavoro poi abbastanza smaronante».
Maggiore conoscenza sul lavoro, “formazione”, “sapere”, “esperienza”, la-
voro meno parcellizzato possono garantire delle possibilità, per gli operai Ce-
sab. Questi enunciati presentano uno spazio possibile d’intervento soggettivo
dell’operaio rispetto alle funzioni da svolgere, ai contenuti del lavoro così co-
me essi sono già fissati e dati nel processo produttivo. In questi giudizi, le man-


U N A FA B B R I C A D A R I FA R E E L A Q U A L I T À D E L L AV O R O

sioni “oggettive” da eseguire sono comunque connesse prescrittivamente a del-


le possibilità di scelta, a delle decisioni che concernono la modalità di lavora-
re, l’organizzazione della divisione del lavoro, lo sviluppo delle conoscenze per
aumentare l’interesse sul lavoro e i suoi contenuti, per renderli più vari. Così,
le questioni poste dagli operai della Cesab risultano molto ricche e complesse,
assolutamente irriducibili a una forma di rimpianto, per quanto in qualche ca-
so presente, per un lavoro più artigianale. Vediamo meglio il perché.
Come sostiene un operaio che lavora alle postazioni per la produzione dei
carrelli diesel, «il lavoro potrebbe essere interessante dal punto di vista che […]
farebbe piacere che fosse presa in considerazione l’esperienza di chi monta il car-
rello e fosse confrontata con l’Ufficio tecnico, perché nascono delle questioni
quando monti il carrello che devono essere risolte. Invece, come in tutte le fab-
briche, si tende a privilegiare la quantità; […] se devo montare un variatore di ve-
locità sopra il carrello prendo il pezzo e lo monto sopra ma non so come è com-
posto il pezzo; se io chiedo, non lo sanno». In questo giudizio l’interlocutore af-
ferma che la dimensione “quantitativa” del lavoro riduce la dimensione relati-
va al rapporto soggettivo dell’operaio al lavoro che, come abbiamo visto, ne
configura la possibile “qualificazione”. Secondo questo operaio, l’esperienza
del montatore potrebbe essere presa in considerazione per migliorare tecnica-
mente la produzione, per risolvere i problemi che insorgono nel processo di la-
vorazione. Ma in questo enunciato si afferma anche un’altra cosa: si può sce-
gliere (“privilegiare”) un certo rapporto tra “quantità” e “qualità”. Preferire la
“quantità” è una scelta: una scelta che caratterizza non solo la Cesab, ma “tut-
te le fabbriche”. A partire dalla problematica posta da questo operaio, si può
individuare meglio cosa i nostri interlocutori pensano attraverso le locuzioni
“fare bene” il proprio lavoro, “lavorare bene”, lavorare “meglio”. Infatti, cosa
vogliono dire, tra i giudizi che abbiamo raccolto, degli enunciati del tipo: «C’è
da imparare, sono delle piccole cose che ti vengono usando le mani, facendo le mo-
difiche, stringendo meglio tubi, bulloni»; «Stringere  viti sono buoni tutti, il co-
me stringi è un altro paio di maniche»; «Noi lavoriamo, facciamo quello che ci è
chiesto, però è come se facessimo un favore a loro, ai capi, lavorando bene»? Strin-
gere meglio bulloni e tubi; stringere in un modo soggettivo tre viti, cosicché
questo “modo” di stringere è tutt’altra cosa dal semplice stringere; “lavorare
bene” in una maniera tale che non si fa solamente “quello che ci è chiesto”, ma
si fa un “favore” ai capi: tutto ciò significa che si possono svolgere in maniera
diversa le stesse mansioni tecniche da effettuare. Gli operai così deoggettivano
i contenuti e la “qualità” del lavoro tecnicamente fissate, deoggettivano il “la-
voro concreto” necessario per realizzare un certo risultato produttivo, garan-
tendo in ogni modo “quello che ci è chiesto”, cioè lo stesso risultato produtti-
vo e tecnico domandato, ovvero la stessa “produzione”. Questo significa che,
anche al di fuori del lavoro di aggiustaggio, si può qualificare il lavoro facendo
diversamente le stesse operazioni produttive oggettive, qualificando diversa-


MIRCO DEGLI ESPOSTI

mente a livello soggettivo la stessa “produzione” tecnicamente fissata: quello


che si “deve fare”, “quello che ci è chiesto”, il risultato produttivo da realizza-
re, non impediscono in loro stessi una “qualificazione” soggettiva del lavoro.
Così, il rapporto tra “quantità” (“produzione”) e “qualità” del lavoro non è per
gli operai “oggettivo” e tecnicamente determinato («adesso puntano tutto sul
numero più che sulla qualità»), proprio perché la “qualità” è l’effetto del rap-
porto dell’operaio con i contenuti tecnici dati del suo lavoro. Infatti, privile-
giare la “quantità” si traduce in una dequalificazione del lavoro, nell’impossi-
bilità di articolare una relazione soggettiva con le mansioni da svolgere, piut-
tosto che richiamare a un aumento dei volumi produttivi attraverso un’intensi-
ficazione dei ritmi («si tende a privilegiare la quantità… se devo montare un va-
riatore di velocità sopra il carrello prendo il pezzo e lo monto sopra ma non so co-
me è composto il pezzo, se io chiedo, non lo sanno»). A nostro avviso, se molti
operai pensano che in Cesab si preferisce la “quantità” alla “qualità” e si pun-
ta “tutto sul numero più che sulla qualità”, questo non significa che prima non
si producesse quantitativamente; significa che per i nostri interlocutori, assun-
ta come data una loro certa capacità di produzione quantitativa, oggi in Cesab,
nel tempo della riduzione dell’aggiustaggio, ciò che conta è solo la “produzio-
ne”, non un possibile nuovo rapporto soggettivo degli operai con questa stes-
sa produzione da effettuare. I giudizi più sopra citati, che prescrivono una re-
lazione diversa tra gli operai e le mansioni oggettive da svolgere, da ricercarsi
attraverso un maggior “sapere”, più “esperienza” e “formazione”, una diversa
divisione del lavoro, configurano proprio questo nuovo rapporto possibile tra
operai e produzione capace, nel progressivo venir meno dell’attività d’aggiu-
staggio, di qualificare soggettivamente il lavoro in un modo nuovo.
Ma oggi, nel tempo della riduzione dell’aggiustaggio – e cioè, ripetiamolo,
di una qualificazione del lavoro necessaria oggettivamente per produrre, che
l’organizzazione del lavoro in fabbrica delega all’operaio e a un suo intervento
autonomo non formalizzato dalle mansioni da svolgere –, cosa significa con-
cretamente “qualificare” soggettivamente il lavoro? Si tratta di una valutazio-
ne dell’operaio relativa alla funzionalità ed efficacia delle operazioni che effet-
tua rispetto, per dirla alla Marx, al “valore d’uso” da produrre? Probabilmen-
te si tratta anche di questo. Ma, come abbiamo visto, nell’attuale organizzazio-
ne del processo di fabbricazione, la produzione di “valori d’uso” non richiede
oggettivamente alcuna qualificazione del lavoro da parte dell’operaio e, in ge-
nerale, come abbiamo sottolineato, l’efficacia “qualitativa” del lavoro, non es-
sendo misurabile in tempo, sostanzialmente non è valutabile economicamente.
La questione ai nostri occhi più significativa è il carattere prescrittivo di questo
modo di pensare. I nostri interlocutori non vogliono mutare i mezzi di lavoro,
né la “quantità” di produzione, né le funzioni oggettivamente necessarie per
realizzarla. Essi vogliono cambiare il rapporto tra “quantità” e “qualità” del la-
voro in fabbrica attraverso il mutamento della relazione degli operai con le


U N A FA B B R I C A D A R I FA R E E L A Q U A L I T À D E L L AV O R O

mansioni necessarie per realizzare una certa produzione data e che oggi, finito
l’aggiustaggio, sono tecnicamente già fissate dall’organizzazione del lavoro. In
questo modo gli operai pensano di poter fare “meglio” e “bene” il loro lavoro.
Un “meglio” e un “bene” che non muta oggettivamente la produzione, ma che
muta soggettivamente la qualità del lavoro, cambiando la relazione tra gli ope-
rai e le mansioni tecniche necessarie per produrre. Si tratta quindi di un pro-
blema di organizzazione del lavoro. Per capire con maggior chiarezza cosa in-
tendono i nostri interlocutori, ci sembra illuminante quello che dice un operaio
che lavora alla catena: «Il mio lavoro non sarà gratificante però ha qualcosa che
si può mandare avanti, come ideologia: il lavoro nella fabbrica è pesante […] ci
si potrebbe impegnare di più, l’azienda potrebbe fare molti più corsi di formazio-
ne, che oltre a essere più uniti noi potremmo svolgere più lavorazioni; […] par-
tendo da noi il lavoro […] potremmo entrare più in una mentalità di persone che
conoscono di più il loro tipo di lavoro. Essendo proprio in una linea sei chiuso lì,
in una linea di montaggio dopo un po’ è pesante».
La conoscenza, la possibilità di cambiare “lavorazioni”, la “formazione” e
la riduzione della “pesantezza” del lavoro sono delle questioni “ideologiche” e
di “mentalità”; esse, dunque, sono principalmente delle questioni intellettuali,
o meglio dei modi di prescrivere come pensare l’operaio in fabbrica, come pen-
sare il suo rapporto col lavoro. Per gli operai della Cesab uno dei problemi prin-
cipali è dunque la capacità di formulare un nuovo pensiero del rapporto tra
operai e “lavoro” oggi, nel tempo della riduzione dell’aggiustaggio. Un pensie-
ro capace, cambiando questo rapporto, di ridurre la fatica e aumentare l’inte-
resse sul lavoro, intervenendo sul modo di organizzare il lavoro in fabbrica e
garantendo maggiore formazione agli operai. Come già sosteneva Marx, nelle
fabbriche «il macchinario […] funziona soltanto in mano al lavoro immediata-
mente socializzato, ossia al lavoro in comune. […] Il carattere cooperativo del
processo lavorativo diviene dunque necessità tecnica imposta dalla natura del
mezzo di lavoro stesso». La dimensione “socializzata”, “in comune”, coope-
rativa del lavoro è una necessità tecnica. Ma i modi in cui esiste in ogni fabbri-
ca questa necessità tecnica, imposta dalla natura stessa dei mezzi di produzio-
ne, sono essi stessi tecnicamente dati? La dimensione “sociale” è semplice-
mente già decisa, una volta che si assuma il suo carattere tecnicamente neces-
sario? O, piuttosto, la cooperazione è tecnicamente necessaria, ma ciò non de-
termina, in sé, i modi in cui questa necessità tecnica si articola e si può artico-
lare nel processo di lavoro? È questo ambito, che può essere unilateralmente
pensato come solo “tecnico” e oggettivo, a configurare, invece, almeno secon-
do i nostri interlocutori, uno spazio di scelte, diverse possibilità per gli operai.
Tutto questo è pensabile rappresentando il lavoro come qualcosa che “parte”
dall’operaio e che s’articola dalla sua soggettività («partendo da noi il lavoro
[…] potremmo entrare più in una mentalità di persone che conoscono di più il lo-
ro tipo di lavoro»). Noi abbiamo visto affermare in un giudizio già precedente-


MIRCO DEGLI ESPOSTI

mente citato che «la fabbrica è iniziativa. […] Non ti poni, per paura di perdere
il posto, cos’è la fabbrica per te, cosa potrebbe essere. Non credo che venga data
all’operaio tanta autonomia da dire che il proprio lavoro è un’estensione di sé; al-
l’operaio non viene data la possibilità di farlo». Questo interlocutore pensa la
fabbrica come un luogo specifico: il luogo dell’“iniziativa” dell’operaio. La fab-
brica può essere il luogo dove il rapporto tra “lavoro” e “operaio” è deciso dal-
l’operaio stesso in una maniera tale che il “proprio lavoro”, il “lavoro concre-
to” che svolge, sia pensabile come un’estensione della sua soggettività in fab-
brica. Una soggettività, dunque, che interviene autonomamente, per mezzo
della sua “iniziativa”, sul rapporto dell’operaio con una certa “produzione” e i
contenuti tecnici del lavoro necessari per realizzarla. Questa “iniziativa” è pri-
ma di tutto (e soprattutto) un “dire”. Un “dire” rispetto alla fabbrica: «Cos’è la
fabbrica per te, cosa potrebbe essere»; «La fabbrica è iniziativa». Il “lavoro” co-
me “estensione di sé” deriva allora da una capacità di “dire” in fabbrica, di pre-
scriverla come luogo della soggettività dell’operaio. Il “lavoro” che “parte” dal-
l’operaio è identificabile come il “lavoro” che l’operaio decide, non più come
il lavoro che si “deve fare”. Come abbiamo visto, ciò che l’operaio vuol deci-
dere non è né la quantità, la produzione da realizzare, né la qualità oggettiva (il
contenuto tecnico) delle mansioni che, nel venire meno di quella singolare at-
tività che è l’aggiustaggio, è oggi già del tutto oggettivamente data e organizza-
ta e, dunque, identificata anch’essa dagli operai come “produzione”. I nostri
interlocutori, nel tempo della riduzione dell’aggiustaggio, vogliono decidere
del loro rapporto con una certa produzione e certe mansioni da svolgere, rea-
lizzando la stessa produzione quantitativa, realizzando in fabbrica le stesse ope-
razioni tecnicamente oggettivabili, ma facendole “bene” e “meglio”, e cioè mu-
tando i modi soggettivi per realizzarle attraverso:
. l’allargamento delle lavorazioni in grado di essere svolte da ogni singolo
operaio;
. una diversa divisione tra gli operai delle operazioni tecniche necessarie per
realizzare una certa produzione data e, dunque, una diversa organizzazione del-
la divisione del lavoro in fabbrica;
. l’esperienza e la formazione che possono dare non solo più risorse e più sa-
pere per pensare la relazione degli operai con le mansioni da svolgere, ma an-
che, in questo modo, più sapere e risorse per pensare a una diversa organizza-
zione possibile di queste stesse mansioni.
Così il “lavoro” può non essere solamente un fattore produttivo, un’attività
finalizzata e subordinata all’obiettivo di una certa produzione data, un insieme di
operazioni tecnicamente fissate, ma il termine che designa un insieme di possibi-
lità che hanno luogo in fabbrica: le possibilità degli operai di “qualificare” il la-
voro, d’intervenire sul loro rapporto con una certa produzione e con i contenuti
tecnici necessari per realizzarla. Così, anziché la “quantità”, si può “privilegiare”
la “qualità”. La fabbrica è pensabile, a partire dalle parole dei nostri interlocuto-


U N A FA B B R I C A D A R I FA R E E L A Q U A L I T À D E L L AV O R O

ri, come il luogo della qualificazione del lavoro. Le possibilità di qualificare il la-
voro sono dunque delle possibilità che riguardano l’operaio, che riguardano il
suo modo di contare in fabbrica, d’essere colui che la configura come il luogo del-
la sua “iniziativa” rispetto al “lavoro” e alla sua “qualità”. Ecco cosa significa qua-
lificare il lavoro per gli operai Cesab, cambiare soggettivamente il lavoro senza
che ciò implichi, di per sé, un mutamento “oggettivo” delle funzioni tecniche ne-
cessarie per realizzare una certa produzione quantitativa data.
Possiamo trovare in questo tipo di riflessione una problematica nota: il te-
ma che, in uno dei più recenti studi sociologici internazionali sull’industria au-
tomobilistica, L’avenir du travail à la chaîne, è indicato dalla nozione di “rela-
zione salariale”, più in particolare dal primo dei quattro sottoinsiemi che se-
condo gli autori la definiscono: quello dell’“organizzazione del lavoro”. Que-
st’ultimo concetto si riferisce alla «messa in relazione degli operatori tra loro e
di fronte a dei mezzi tecnici», implicando dei temi relativi alla «divisione del la-
voro» e alla «cooperazione intorno, per esempio, alla questione delle qualifica-
zioni e dell’autonomia nel lavoro». In questo lavoro d’indagine, tali temi sono
trattati in termini d’opposizione tra “autonomia” del lavoro e socializzazione
della produzione. L’autonomia del lavoro può essere effettivamente incom-
patibile con delle produzioni a grande scala perché «non si arriva a fabbricare
in grandi serie dei prodotti standardizzati […] con delle piccole organizzazio-
ni composte da équipe autonome funzionanti senza gerarchia e senza specia-
lizzazione delle mansioni, con la libertà di scegliere i loro metodi e i loro ritmi
di lavoro». In questa prospettiva, la qualificazione del lavoro non concerne la
sua autonomia ma, piuttosto, la sua socializzazione nel processo produttivo.
Oggi, in Cesab, nell’attuale fase di riduzione del lavoro d’aggiustaggio ver-
so una maggiore standardizzazione della produzione, l’ambito d’intervento de-
gli operai rispetto al lavoro è identificato come possibilità di “dire”, come que-
stione di “mentalità”, come “autonomia” che si articola attraverso l’allarga-
mento delle “lavorazioni” in grado di essere svolte da ogni singolo operaio, la
“conoscenza” e il “sapere” da accrescersi: i modi identificati prescrittivamente
per ridurre la fatica, la noia su lavoro, per aumentare la soddisfazione e l’inte-
resse nel lavoro stesso, per fare questo lavoro “meglio” e “bene”. Non c’è dun-
que opposizione obbligata tra “autonomia” e “socializzazione”, cioè tra indi-
pendenza del lavoratore nello svolgimento del suo lavoro e interdipendenza
produttiva orizzontale e verticale: in effetti, i nostri interlocutori identificano
una forma di “socializzazione” tra gli operai delle conoscenze; la “formazione”,
la variazione delle “lavorazioni”, sono dei modi per avere una maggiore auto-
nomia nel lavoro. Ma, soprattutto, l’autonomia degli operai rispetto al lavoro
si presenta come autonomia di “dire”, d’intervenire e prescrivere rispetto al-
l’ambito dell’organizzazione del lavoro e della divisione tra gli operai delle
mansioni da eseguire, decidendo maniere diverse per realizzare queste man-
sioni oggettive e necessarie. Un ambito che i modi di pensare degli operai Ce-


MIRCO DEGLI ESPOSTI

sab configurano come spazio di scelte indipendenti dalla natura strettamente


tecnica della “produzione” e di cui si prescrive una forma di “socializzazione”
in fabbrica («oltre a essere più uniti noi potremmo svolgere più lavorazioni»).

In conclusione, alcune considerazioni sul rapporto operai-lavoro così come ci


pare emerga dalle interviste in Cesab. Il modo di pensare questo rapporto da
parte dei nostri interlocutori può sembrare a prima vista vicino alle riflessioni
avanzate da alcune delle teorie più recenti di sociologia del lavoro e di gestione
delle risorse umane. Secondo queste teorie infatti «lo spartiacque tra lavoro for-
dista esecutivo e lavoro postfordista “imprenditorializzato” è esattamente que-
sto: il superamento della separazione della soggettività del lavoratore dalla pro-
pria attività lavorativa (tempi, modi e contenuti della prestazione sono preroga-
tiva della potente macchina organizzativa) verso la ricongiunzione del soggetto
lavoratore con il contenuto intelligente e creativo del proprio lavoro». L’auto-
nomia individuale del lavoratore «cambia di senso: non più margine di manovra
rispetto a una regola rigida ma capacità dinamica d’inserirsi in un collettivo».
In questo nuovo modo di concepire il lavoro produttivo «il lavoratore, nello
svolgimento della propria attività lavorativa, “costruisce” il contesto relaziona-
le dell’attività stessa (che non è più preordinato) e produce (e riproduce) in mo-
do innovativo la natura e la qualità della prestazione lavorativa (che quindi è
“misurabile” solo in itinere o ex post ma mai ex ante)». La gestione delle risor-
se umane dovrebbe dunque sviluppare, in questo nuovo contesto, delle politi-
che con lo scopo di garantire incentivi ai lavoratori, anche i lavoratori «periphe-
ral, tradizionalmente impegnati in lavori manuali nella parte bassa della gerar-
chia aziendale», che si ricongiungono col contenuto del loro lavoro.
La prospettiva delineata da queste teorie di gestione delle risorse umane
può essere considerata prossima a quella che elaborano gli operai della Cesab.
Ma a una condizione. Per i nostri interlocutori il rapporto tra gli operai e una
certa produzione da realizzare non è “contenuta” nei contenuti delle mansioni
da svolgere e nelle competenze tecniche necessarie per realizzare un certo tipo
di lavoro: questo rapporto è una questione soggettiva. Vale a dire che la di-
mensione “creativa” e “intelligente” del lavoro non è intrinseca al lavoro, ma
alla sua eventuale dimensione soggettiva. O, in termini più rigorosi, essa non è
che il possibile di una prescrizione che sottopone il lavoro alla soggettività di
chi lavora, disponendo l’articolazione del carattere socializzato del lavoro stes-
so come una questione d’ordine politico, indipendente dai mezzi di lavoro (che
determinano le mansioni tecniche necessarie per effettuare una certa produ-
zione). Si può affermare in termini del tutto generali che ogni “riunione” della
soggettività del lavoratore con il contenuto del suo lavoro, così come essa è pro-
posta da queste teorie, semplicemente non è possibile: la soggettività è altra co-
sa dalla produzione e dal lavoro tecnicamente necessario per la sua realizzazio-
ne, non è in esso contenuta. Si tratta allora di assumere il pensiero degli operai


U N A FA B B R I C A D A R I FA R E E L A Q U A L I T À D E L L AV O R O

come ciò che può decidere cosa è e come può essere la qualità del lavoro. Una
qualità che non riguarda la “prestazione lavorativa”, ma la relazione – sogget-
tiva e aperta a più possibilità, e che può anche lasciare inalterata la “prestazio-
ne” da un punto di vista oggettivo – tra l’operaio e il lavoro che deve svolgere,
tra l’operaio e la “prestazione lavorativa” che deve effettuare. Perché, come ci
insegnano gli operai Cesab, la qualità del lavoro, al di là della sua dimensione
oggettiva, determinata prevalentemente dai mezzi tecnici disponibili nel pro-
cesso di fabbricazione, non è altro che l’effetto di questo rapporto da decidere
tra chi lavora e i contenuti del lavoro necessari per realizzare una certa produ-
zione. Un rapporto che può dunque essere pensabile solo a partire da chi que-
sto lavoro lo svolge quotidianamente.
Un’ultima questione prima di concludere. Se la qualificazione del lavoro
come la pensano gli operai intervistati non implica, come abbiamo visto, mu-
tare la sua qualità oggettiva, ma cambiare l’organizzazione dei modi d’effet-
tuare, da parte degli operai, le mansioni da svolgere; se cambiare la qualità
delle mansioni non significa cambiare oggettivamente il lavoro ma, piuttosto,
mutare soggettivamente la sua organizzazione; allora, le questioni poste dai
nostri interlocutori quale interesse possono avere per chi governa l’azienda?
In realtà, ciò che dicono gli operai può interessare chi governa l’azienda an-
che per motivi d’ordine oggettivo. In primo luogo, perché abbiamo visto che,
secondo i nostri interlocutori, migliorare il loro rapporto con le mansioni da
svolgere quotidianamente in fabbrica potrebbe ridurre la pesantezza del la-
voro, potrebbe aumentare l’interesse e l’attenzione sul lavoro. Questo può si-
gnificare anche ridurre gli errori e incrementare la produttività oraria del la-
voro. Ma forse ci può essere anche un altro motivo, più importante, seppure
non quantificabile, né ex ante, né ex post. Nell’analisi che abbiamo condotto
delle parole degli intervistati, la qualità che loro possono conferire al lavoro
che effettuano non è oggettivamente misurabile, è qualcosa che sfugge, in sé,
alla valutazione tecnica ed economica. Possiamo dire che essa sfugge perché,
come abbiamo visto, è una questione propria a un altro ordine problematico:
un ordine non tecnico ed economico, ma soggettivo e politico. Come dice un
giovane operaio intervistato, tra azienda e operai «ci deve essere un rapporto
di collaborazione, se però uno dà di più, l’altro di meno, l’equilibrio non viene
rispettato, e l’equilibrio è sfasciato. L’azienda tende sempre a dare di meno.
Questo non è giusto a livello umano, c’è un baratro in mezzo, non si colma mai.
Dagli anni Ottanta prevale il discorso economico, che secondo me è un errore».
Una dimensione del dare degli operai non può avere una corresponsione da
parte aziendale («c’è un baratro in mezzo» che «non si colma mai»): questa di-
mensione concerne il “livello umano” del rapporto tra impresa e operaio, la
parte umana del dare che è irriducibile al “discorso economico”. Ecco, la
qualità come la intendono gli operai Cesab è un “dare” irriducibile al “di-
scorso economico” e purtuttavia è una risorsa, un “dare”, anche se intangi-


MIRCO DEGLI ESPOSTI

bile e non oggettivabile, che l’impresa riceve. Un dare soggettivo che può es-
sere una risorsa in fabbrica, a meno che non si pensi la produzione come sem-
plice adeguamento burocratico a modelli di gestione formalizzati. Se oggi, co-
me si sostiene da più parti, ogni modello d’organizzazione e gestione della
produzione è sottoposto a delle sempre più intense sollecitazioni, relative al-
la sua concreta messa in coerenza con la situazione della fabbrica e al suo svi-
luppo innovativo in un mercato competitivo, ecco che allora può essere de-
cisivo, anche per chi l’impresa la governa, fare di questo dare e di questa ri-
sorsa intangibili una capacità (politica) relativa ai modi d’organizzare in fab-
brica il lavoro che in essa si effettua.


Conclusioni

Secondo gli operai di entrambe le fabbriche oggetto dell’inchiesta, si tratta og-


gi di stabilire condizioni e qualità del lavoro come possibilità per gli operai. I
nostri interlocutori identificano alcuni tratti di una singolare figura dell’operaio
e della fabbrica come luogo soggettivo, in quanto luogo “della qualificazione e
di condizioni prescrittive” del lavoro. Pensare la “qualità” del lavoro come sua
“qualificazione” soggettiva; pensare la fabbrica come luogo di condizioni pre-
scrittive del lavoro: questo significa principalmente due cose.
. Mettere a distanza le “qualità” oggettive del lavoro e prescrivere una sua
“qualificazione” soggettiva che, a partire dalla fabbrica come luogo dell’“ini-
ziativa” dell’operaio, muta il rapporto degli operai con una certa “produzione”
quantitativa da realizzare e le mansioni tecniche necessarie per realizzarla (mu-
tando l’organizzazione del lavoro, la sua divisione nel processo di fabbricazio-
ne e incrementando la formazione, l’esperienza e le conoscenze degli operai).
. Pensare il lavoro come sottocondizione delle prescrizioni (di specifiche po-
litiche) che hanno “fabbrica” come propria categoria e che pongono, attraver-
so questa stessa categoria, una specificazione locale del lavoro stesso a natura
soggettiva e politica.
Può essere astrattamente vero che oggi, date la velocità delle trasformazio-
ni tecnologiche e la rapida obsolescenza delle competenze e conoscenze pro-
duttive, il lavoro non è più «costituito da specifiche attività produttive ma dal-
l’universale capacità di produrre, e cioè, dall’attività sociale astratta», come «in-
siemi cooperanti di cervelli e mani, menti e corpi, […] lavoro vivo, diffuso, no-
made e creativo, […] il desiderio e lo sforzo della moltitudine dei lavoratori
mobili e flessibili»; ma se ciò può essere vero, le categorie intellettuali decisi-
ve degli operai sono esattamente la “qualità” del lavoro, come qualificazione
soggettiva delle mansioni concretamente effettuate in fabbrica ogni giorno, e la
“fabbrica”, come termine per porre localmente delle condizioni prescrittive al
lavoro che in essa si svolge. Il modo di pensare che abbiamo incontrato, dun-


U N A FA B B R I C A D A R I FA R E E L A Q U A L I T À D E L L AV O R O

que, lungi dal configurare il lavoro (la parola “lavoro”) come un fattore pro-
duttivo che non ha più un luogo identificabile e che così dispone delle “nuove
forze produttive”, le quali «non hanno luogo, poiché li occupano tutti» e pro-
ducono «in un non luogo indefinito», presenta al contrario la fabbrica come
categoria capace di sottoporre la parola “lavoro” a un pensiero degli operai.
Così “fabbrica” è un termine decisivo che permette di pensare il lavoro come
un ambito di possibilità per chi lo effettua quotidianamente.
Del resto, al di fuori da ogni legame ed espressività di classe e rappresenta-
zione storicista del tipo “nuove forze produttive”, le questioni che pongono i no-
stri interlocutori possono non concernere solamente gli operai. In effetti, alla ba-
se delle attuali politiche dell’impiego adottate in Italia sta l’identificazione del la-
voro, operata attraverso la nozione di “occupabilità”, con un fattore produttivo
avente differenti livelli di “mobilità” nel mercato: l’“occupabilità” è infatti con-
cepita come dipendente dalla capacità del fattore lavoro di seguire le dinamiche
competitive; essa si traduce nella capacità dei lavoratori d’inserirsi, seguendo la
domanda e l’offerta nel mercato, nei segmenti e nei settori economici a più alta
produttività che garantiscono a chi lavora maggiori redditi e più possibilità pro-
fessionali e formative. Si tratta dunque di una forma di “destatizzazione” della
nozione di lavoro: da nozione “costituente” – basti pensare al primo articolo del-
la nostra costituzione, «L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro»
–, a termine il cui senso è esclusivamente dato dalla categoria di “mercato”. Co-
me si afferma nel Libro bianco, si tratta oggi di sostenere il passaggio «da un si-
stema di protezioni rigide e spesso inefficaci, presenti nell’ambito di ogni rap-
porto di lavoro, a un regime di protezioni nel mercato che sostengano la mobi-
lità del lavoro» e che «devono agire prima di tutto nel mercato, non operare
contro il mercato».
Quali politiche del lavoro, allora, sono possibili oggi in Italia?
Come abbiamo visto nelle due inchieste di fabbrica, una delle possibilità
per gli operai, ch’essi stessi individuano, è quella che permette di pensare la pa-
rola “lavoro” all’interno di un ambito di scelte e decisioni attraverso la catego-
ria di “fabbrica”: la fabbrica come categoria che fa del lavoro “un punto” (il
luogo di condizioni prescrittive del lavoro); la fabbrica come luogo dell’“ini-
ziativa” dell’operaio (il luogo della qualificazione del lavoro).
A partire dalle interviste che abbiamo effettuato, l’operaio è pensabile come
la figura di un pensiero contemporaneo delle condizioni politiche del lavoro. Del-
le condizioni da decidere a partire dai luoghi dove il lavoro può essere pensato dal-
la gente che lo fa come una realtà rispetto a cui si possono fare scelte diverse, non
determinate oggettivamente dal mercato. Questo può così permettere di deog-
gettivare la rappresentazione unilaterale, propria all’attuale congiuntura, che iden-
tifica esclusivamente il lavoro con un fattore produttivo, con diversi gradi di “oc-
cupabilità” derivanti dalle differenti capacità di chi lavora d’essere mobile, d’in-
serirsi nei segmenti produttivi a più alto valore aggiunto. Una rappresentazione


MIRCO DEGLI ESPOSTI

che, proprio in quanto unilaterale, non presenta per chi lavora altra possibilità che
rispondere a ciò che il mercato richiede: adeguandovisi oppure opponendovisi
specularmente. Un’opposizione, magari, in nome della fede in un movimento
“biopolitico” sempre presente e in costante conflitto, manifesto o latente, con le
forme della sua oggettivazione disposte dal capitale (o dall’“impero”), in una pe-
renne dinamica dialettica, visibile o “mimetica”, dell’oggettivo e del soggettivo.
Gli operai della Cesab e della BredaMenarinibus non configurano delle di-
namiche dialettiche o delle forme d’opposizione speculare a quel che c’è. La
questione ai nostri occhi più rilevante è che gli operai che abbiamo incontrato
prescrivono delle possibilità specifiche del presente identificabili attraverso le
categorie che essi stessi elaborano. Delle possibilità che così hanno luogo, in
quanto il poter esserci di questo possibile è il poter esserci, singolare e locale,
del pensiero che lo presenta.

Note
. Cfr. Lazarus, Anthropologie du nom, cit., pp.  e  e Id., Anthropologie ouvrière et en-
quêtes d’usine, cit., pp. -.
. Sulla nozione di “modello emiliano” si rinvia al PAR. . di questo testo.
. K. Marx, Critique de Gotha, pp. -, nella citazione di L. Althusser, Lire le Capital (),
Paris .
. Cfr. P. Bonora, Costellazione Emilia. Territorialità e rischi della maturità, Torino ; P.
Bonora, G. Giardini, L’Emilia postcomunista e l’eclissi del modello territoriale, Bologna .
. Cfr. P. Veltz, Le nouveau monde industriel, Paris ; P. Zarifian, Le travail et l’événement,
Paris .
. Per quanto il nostro metodo non consideri decisivi i dati quantitativi, diamo conto che
questa problematica è esplicitamente posta da  operai sui  intervistati ( dei quali pensano ta-
le questione attraverso l’utilizzo della categoria di “padrone” e  utilizzando il nome del vecchio
proprietario, Menarini). Essa è comunque reperibile con forme diverse (che qui non analizziamo)
in quasi tutte le restanti interviste.
. Cfr. F. Barca, M. Magnani, L’industria fra capitale e lavoro. Piccole e grandi imprese dal-
l’autunno caldo alla ristrutturazione, Bologna , pp. -. Sulla riduzione della scala minima
efficiente degli impianti, cfr. anche R. Varaldo (a cura di), Ristrutturazioni industriali e rapporti fra
imprese. Ricerche economico-tecniche sul decentramento produttivo, Milano .
. Qui utilizzeremo indifferentemente le nozioni di “distretto industriale” e di “sottosistemi
industriali locali e urbani a specializzazione flessibile”, in quanto faremo costantemente riferimen-
to ai caratteri specializzati, flessibili e territorialmente integrati di tali sistemi produttivi di piccola
e media impresa. Dei caratteri che sono comuni a entrambe le nozioni. Per una distinzione e un
approfondimento, cfr.: V. Capecchi, Una storia della specializzazione flessibile e dei distretti indu-
striali in Emilia-Romagna, in F. Pyke, G. Becattini, W. Sengenberger (a cura di), Distretti industriali
e cooperazione fra imprese in Italia, in “Studi e Informazioni”, supplemento n.  al n. , ; e V.
Capecchi, Petite entreprises et économies locales: la flexibilité productive, in M. Maruani, E. Rey-
naud, C. Romani (éds.), La flexibilité en Italie. Débats sur l’emploi, Paris , pp. -.
. Barca, Magnani, L’industria fra capitale e lavoro, cit., pp.  e . Cfr. anche F. Barca,
Modèle de spécialisation flexible des PME et écarts de rémunération in Maruani, Reynaud, Romani,
La flexibilité en Italie, cit., pp. -.
. Ivi, p. . Cfr. anche C. Borzaga, Il ruolo della piccola impresa nelle regioni italiane, in R.
Innocenti (a cura di), Piccola città e piccola impresa. Urbanizzazione, industrializzazione e inter-
vento pubblico nelle aree periferiche, Milano , pp. -.


U N A FA B B R I C A D A R I FA R E E L A Q U A L I T À D E L L AV O R O

. Barca, Magnani, L’industria fra capitale e lavoro, cit., p. .


. Ivi, pp. -.
. Ivi, pp. -.
. Cfr. ivi, pp. -.
. Cfr.: S. Brusco, Flessibilità e solidità del sistema: l’esperienza emiliana, in G. Fuà, C. Zac-
chia (a cura di), Industrializzazione senza fratture, Bologna , pp. -; Id., The Emilian Mo-
del: Productive Decentralization and Social Integration, in “The Cambridge Journal of Econo-
mics”, , , pp. -.
. Cfr. Brusco, Flessibilità e solidità del sistema, cit., pp. -.
. E. Giovannetti, Distretto industriale e valutazione macroeconomica: la disoccupazione “en-
tropica”, in “Inchiesta”, XX, -, aprile-settembre , p. . Cfr. G. Becattini, G. Bianchi, I di-
stretti industriali nel dibattito sull’economia italiana, in G. Becattini (a cura di), Mercato e forze lo-
cali: il distretto industriale, Bologna .
. Cfr. Barca, Magnani, L’industria fra capitale e lavoro, cit., p. . Come abbiamo visto, lo
scarto retributivo tra PMI e MGI si riduce tra il  e il  da –,% a –,%.
. C. Trigilia, Contesto socio-politico e cambiamento dei distretti industriali, in M. Bellandi,
M. Russo (a cura di), Distretti industriali e cambiamento economico locale, Torino , p. .
. Cfr. V. Romitelli, Il Sessantanove-Settanta sindacale: di che biennio si è trattato?, in Storie
di politica e di potere, Cronopio, Napoli .
. Cfr. S. O. Garmise, R. J. Grote, Economic Performance and Social Embeddedness: Emilia-
Romagna in an Interregional Perspective, in R. Leonardi, R. Y. Nanetti (eds.), The Regions and Eu-
ropean Integration. The case of Emilia-Romagna, London-New York , pp. -.
. F. Piro, Utopia e realtà del modello emiliano, in S. Conti, R. Lungarella, F. Piro, L’econo-
mia emiliana nel dopoguerra, Venezia , p. .
. Cfr. A. Accornero, La parabola del sindacato. Ascesa e declino di una cultura, Bologna
, p. .
. Giovannetti, Distretto industriale e valutazione macroeconomica, cit., p. . Cfr. anche L.
Paggi, M. D’Angelillo, I comunisti italiani e il riformismo, Torino , p.  e C. Trigilia, Grandi
partiti e piccole imprese, Bologna , pp. -.
. Giovannetti, Distretto industriale e valutazione macroeconomica, cit., p. .
. Come già nel  affermava l’allora segretario regionale del PCI, Sergio Cavina, sono
proprio le conquiste politiche ottenute nelle fabbriche negli anni -, il «nuovo potere per
gli operai» così raggiunto, ad espandere le possibilità di intervento politico nella società da par-
te delle amministrazioni a guida comunista. È in questa nuova possibilità politica aperta dalle
lotte sindacali che, secondo Cavina, «si saldano le nuove esperienze e le conquiste in fabbrica
con la funzione del potere locale che in Emilia è già espressione della direzione della classe ope-
raia e delle grandi masse popolari». Ed è da questo legame determinato dalla «conquista di un
potere nuovo dentro la fabbrica» che riceve nuova spinta «la costruzione del blocco storico clas-
se operaia-contadini-ceti medi» (PCI, Comitato regionale Emilia-Romagna, III Conferenza regio-
nale Emilia-Romagna del PCI, Atti dei lavori, Bologna, -- gennaio , p. ). Sul modello
emiliano e l’alleanza tra classe operaia, contadini e ceti medi come modello di una via italiana al
socialismo, cfr. P. Togliatti, Ceto medio e Emilia rossa, in Id., Politica nazionale e Emilia rossa, Ro-
ma , pp. -.
. P. Barbieri, Mercato e politiche del lavoro, transizione postfordista e nuove forme di occu-
pazione: modifiche del modello occupazionale italiano e problemi di regolazione, in “Documenti
CNEL”, , Rapporto: postfordismo e nuova composizione sociale, Roma , p. .
. Ibid.
. Ibid.
. Come si sostiene nel Libro bianco sul mercato del lavoro, ancora oggi «la quota del lavo-
ro nel valore aggiunto manifatturiero, […] pur tra fluttuazioni cicliche, non mostra tendenze al
declino in confronto con gli anni ottanta» (Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, Il libro
bianco sul mercato del lavoro in Italia: proposte per una società attiva e per un lavoro di qualità, Ro-
ma , p. ).


MIRCO DEGLI ESPOSTI

. C. Sforzi, I distretti marshalliani nell’economia italiana, in F. Pyke, G. Becattini, W. Sen-


genberger (a cura di), Industrial District and Interfirm Cooperation in Italy, Genève , p. .
. Cfr. A. Michelsons, La problematica dell’industrializzazione diffusa nelle scienze sociali ita-
liane, in Innocenti, Piccola città e piccola impresa, cit., pp. - e Capecchi, Una storia della spe-
cializzazione flessibile, cit.
. Giraud, L’inégalité du monde, cit., p. .
. Giovannetti, Distretto industriale e valutazione macroeconomica, cit., p. .
. Si registra per le piccole e medio-piccole imprese un aumento costante degli attivi anche
all’inizio degli anni Ottanta, caratterizzati da massicce ristrutturazioni aziendali e da una forte ri-
duzione dei lavoratori del settore manifatturiero (mediamente + ,% annuo durante il periodo
- rispetto a una riduzione degli attivi nelle medie e grandi imprese pari, nello stesso perio-
do, al ,% annuo. Cfr. Barca, Magnani, L’industria fra capitale e lavoro, cit., p. ). Più in parti-
colare, e negli anni più recenti (-), in Emilia-Romagna si registra un incremento degli at-
tivi nel settore manifatturiero che passano, nell’insieme, da . a . unità con una cre-
scita media di circa lo ,% annuo (nello stesso periodo si registra a livello nazionale una ridu-
zione media dello ,% annuo). Dati desunti da Agenzia Emilia-Romagna Lavoro, Regione Emi-
lia-Romagna, Rapporto congiunturale, anno , Economia e lavoro, maggio .
. Cfr. G. Becattini, Il distretto industriale, Torino , pp. -.
. Cfr.: A. Bonomi, Il capitalismo molecolare. La società al lavoro nel nord Italia, Torino ;
G. Dematteis, P. Bonavero, Il sistema urbano italiano nello spazio unificato europeo, Bologna .
. Su questa questione cfr. le considerazioni di Aldo Bonomi: «nella fabbrica modulare»
scompare «la separazione fordista data dal fuori e dal dentro le mura delle fabbriche, si lavora co-
me lavoratori autonomi dentro le mura della fabbrica e come proletari fuori dalle mura» (A. Bo-
nomi, Le dinamiche dell’economia postfordista, in “Documenti CNEL”, , Rapporto: postfordismo
e nuova composizione sociale, cit., p. ). Cfr. anche le riflessioni sulla fabbrica Peugeot-Sochaux
condotte nel suo lavoro storico da Nicolas Hatzfeld: «L’entreprise […] a engagé depuis les années
 l’externalisation d’une partie de ses activités. Au sein même du site, une partie croissante des
activités est assurée par des salariés affiliés à d’autres entreprises ou à des sociétés de travail inté-
rimaire. […] Ainsi, la difficulté à fixer l’usine dans une définition tout au long de la période tra-
duit pour partie une recomposition de son identité: différentes espaces coexistent, plusieur types
de cohérence se superposent. En se transformant, l’usine multiple ses définitions» (N. Hatzfeld,
Les gens d’usine.  ans d’histoire à Peugeot-Sochaux, Paris , p. ).
. Questo modo di pensare può avere una sua pertinenza rispetto al presente anche al di là
del caso aziendale BredaMenarinibus. Le nuove teorie “postfordiste” della produzione indu-
striale propongono da qualche anno una organizzazione “modulare” del processo produttivo: una
forma più articolata di decentralizzazione che supera il modello di produzione “integrato” e do-
ve «il produttore esce completamente dal processo di fabbricazione dandolo a delle altre impre-
se da cui compra il prodotto finale» (cfr. M. Magnabosco – ex amministratore delegato FIAT fer-
roviaria –, L’esperienza della grande impresa, in “Documenti CNEL”, , Rapporto: postfordismo e
nuova composizione sociale, cit., p. ). Così, il rapporto tra lavoro e produzione può essere ge-
stito come se esso non si articolasse nel luogo fabbrica ma nel mercato, lungo la cosiddetta “ca-
tena del valore” che si dispiega in uno spazio di compravendita di beni e fattori organizzato da un
produttore che può anche non fabbricare niente. In questo modo di rappresentare e gestire la pro-
duzione industriale, le condizioni del lavoro sono immediatamente deducibili dal mercato e dal-
la dinamica della domanda e offerta dei fattori produttivi. Il lavoro è così gestito e rappresentato
come disgiunto da ogni possibile problematica politica e soggettiva relativa alle sue condizioni.
. Trigilia, Contesto socio-politico, cit., p. .
. L’azienda Cesab è entrata a far parte nel  del gruppo svedese BT Industries, a sua vol-
ta acquisito, nel corso dello stesso anno, dal gruppo Toyota. Essa ha così assunto il nome di BT
Cesab. D’ora in avanti essa verrà indicata in questo testo come facevano all’epoca delle interviste
gli operai: utilizzando semplicemente il nome Cesab.
. Si può qui ritrovare una conferma di alcuni dei risultati di una ricerca condotta nel 
presso gli operai di undici industrie metalmeccaniche di Bologna, Brescia e Reggio Emilia. Que-


U N A FA B B R I C A D A R I FA R E E L A Q U A L I T À D E L L AV O R O

sta ricerca aveva mostrato come i giudizi degli operai sulla loro professionalità erano strettamen-
te legati alle funzioni loro attribuite, benché il loro “saper fare” era pensato non identificarsi con
queste stesse funzioni. Cfr. Ires, Met, Studio Giano, I mutamenti del lavoro e l’identità. Ricerca
nelle fabbriche metalmeccaniche di Bologna, Brescia e Reggio Emilia, Roma , p. . Come ve-
dremo, i giudizi degli operai Cesab ineriscono in realtà a delle capacità prescrittive degli stessi
operai rispetto all’organizzazione del lavoro da svolgere e non solo a dei “saper fare”, a delle com-
petenze professionali.
. Y. Schwartz, Expérience et connaissance du travail, Paris , p. .
. La produzione in Cesab è fortemente aumentata negli ultimi anni: da circa . carrelli
nel  a . nel  (cioè al momento dell’indagine). L’obiettivo dell’impresa è di raggiun-
gere i . carrelli nel corso del . Questo incremento produttivo, oltre a spingere a nuove
assunzioni (il personale è cresciuto negli stessi anni del  %) ha indotto un processo di “modu-
larizzazione” del processo produttivo (i sottogruppi da montare sono prodotti e preassemblati
prevalentemente da altre imprese) e una maggiore standardizzazione del prodotto. In questo con-
testo, in caso di pezzi difettosi, gli operai non intervengono più, ma si preferisce rinviare il sotto-
gruppo difettoso ai fornitori.
. K. Marx, Il capitale, l. I, sez. III, cap. VI, Capitale costante e capitale variabile, Roma ,
p. .
. Ivi, p. .
. Secondo Schwartz, in Marx «che i mezzi di produzione non siano consumati se non nel
modo richiesto dalla produzione dipende dagli operai in due sensi: un elemento tecnico, l’“ad-
destramento”, la “formazione”, una miscela di conoscenza e apprendimento sul posto di lavoro;
un elemento direttamente sociale, la “disciplina”» (Schwartz, Expérience et connaissance du tra-
vail, cit., p. ). Come abbiamo visto, secondo i nostri interlocutori, venuto meno l’aggiustaggio,
ciò che richiede tecnicamente la produzione non comporta in sé l’impossibilità di una qualifica-
zione soggettiva del lavoro. Ciò che è oggettivamente necessario fare per realizzare una certa pro-
duzione non determina quindi la “qualità” del lavoro così come essa è intesa dagli intervistati.
. Marx, Il capitale, cit., l. I, sez. IV, cap. XIII, Macchine e grande industria, p. .
. Che la dimensione “cooperativa” e “sociale” del lavoro si debba “organizzare” mediante
un pensiero specifico è il presupposto di tutto il lavoro di Taylor. La scienza che propone Taylor è
un modo di organizzare il lavoro fortemente normativo e prescrittivo. In effetti, uno dei principi
più noti del taylorismo, e cioè che «tutta l’attività intellettuale deve essere eliminata dall’officina e
concentrata nell’ufficio programmazione» perché «il costo di produzione può essere ridotto sepa-
rando il più possibile il lavoro intellettuale e di programmazione da quello manuale» (F. W. Taylor,
L’organizzazione scientifica del lavoro, Milano , pp. , ), si basa principalmente sull’assioma
tutto politico secondo cui «in ogni lavoro che richieda la cooperazione di due diversi uomini o par-
ti, quando entrambi hanno uguale potere quasi sicuramente esiste una certa dose di disaccordo e
di incertezza e il successo dell’impresa ne soffre di conseguenza. Se, viceversa, una sola delle due
parti assume l’intera direzione, l’impresa progredirà con continuità e probabilmente con armonia»
(ivi, pp. -, corsivo mio). Questa dimensione normativa e politica dei principi di Taylor è rin-
tracciabile nella stessa idea di scientificità dell’organizzazione del lavoro da lui proposta: una scien-
za per il cui sviluppo, secondo Taylor, non è richiesta in realtà alcuna conoscenza propriamente
scientifica. Una scienza, quella di Taylor, il cui procedere non dipende tanto dalla sua capacità di
fornire nuove conoscenze rispetto a quelle “empiricamente” già disponibili, quanto dall’identifi-
cazione dell’organizzazione del lavoro come una problematica (politica) specifica, che richiede ri-
sposte e modi di pensare specifici: «lo sviluppo di una scienza (l’organizzazione scientifica del la-
voro) che sostituisce le regole empiriche non è, nel maggior numero dei casi, una formidabile im-
presa e può essere opera di uomini ordinari, senza alcuna preparazione scientifica» (ivi, p. ),
perché «le leggi e le norme che vengono stabilite risultano così semplici che a stento una persona
di media levatura le degnerebbe del nome di scienza» (ivi, pp. -). Entrando più nel merito: che,
come diceva Henry Ford, «l’operaio deve fare possibilmente una cosa sola con un solo movimen-
to» (H. Ford, La mia vita e la mia opera, Milano , p. ) è certamente un buon principio di eco-
nomicità dello sforzo e dei movimenti che può incrementare fortemente la produttività (e che


MIRCO DEGLI ESPOSTI

chiunque abbia svolto in vita sua un lavoro manuale sottoscriverebbe); ma che ciò debba portare
alla «riduzione della necessità di pensiero da parte degli operai» (ivi) è affermazione che dalla pri-
ma non consegue necessariamente. Infine, un’ultima considerazione. Il sistema d’organizzazione
del lavoro fordista e taylorista, che ha nella catena di montaggio la sua figura in qualche misura
esemplare, è stato veramente un elemento economicamente così determinante per gli eccezionali
incrementi della ricchezza prodotta e della produttività che si sono registrati nel corso del Nove-
cento? Se, in effetti, l’organizzazione del lavoro attraverso catene di montaggio ha permesso rapi-
di guadagni in produttività nelle fabbriche d’assemblaggio (grazie alla forte economizzazione dei
tempi di montaggio che una certa dose di parcellizzazione produttiva garantisce), certamente non
è stato l’unico fattore a determinare guadagni di produttività in questo tipo d’industrie. Le econo-
mie di scala hanno anch’esse potentemente contribuito in questo senso aumentando la produtti-
vità del capitale fisso. Ma lo straordinario aumento della produzione di ricchezza registrabile per
tutto il secolo scorso deriva principalmente da altri due fenomeni: da un lato, l’eccezionale aumento
della produttività nell’agricoltura che, nei paesi industrializzati, permette ormai al % della popo-
lazione di nutrire il restante % (e non è certamente la catena di montaggio ad aver stimolato que-
sto straordinario fenomeno); dall’altro lato, i progressi nella produttività nelle industrie di proces-
so (siderurgia, metallurgia, chimica, materiali da costruzione, energia) che non vengono dall’uti-
lizzo della catena di montaggio, ma, essenzialmente, da economie di scala e dalla meccanizzazione
delle mansioni (cfr. Giraud, L’inégalité du monde, cit., pp. -).
. È abbastanza intuitivo che, come afferma Gallino, «aumentare la produttività non vuol
dire faticare di più nelle stesse condizioni di prima, bensì lavorare meglio; la produttività non au-
menta senza innovazioni di prodotto e di processo; il maggior giacimento di produttività cui si
possa pensare consiste in un’organizzazione del lavoro che rispetti e utilizzi l’intelligenza delle per-
sone». Mentre lavorare di più «permette di aumentare la produzione, ma non la produttività ora-
ria. […] È anzi possibile che la produttività diminuisca, dato che lavorare stanca, e quando si è
stanchi i ritmi si allentano e i rischi di errori crescono» (L. Gallino, Lavorare di più o meglio?, in
“la Repubblica”,  luglio ). Lavorare soggettivamente meglio può dunque avere delle rica-
dute anche “oggettive” non trascurabili.
. J. P. Durand, Les modèles de la relation salariale, in J. P. Durand, P. Stewart, J. J. Castillo,
L’avenir du travail à la chaîne. Une comparaison internationale dans l’industrie automobile, Paris
, pp. -.
 In particolare ci riferiamo qui alle riflessioni condotte da P. Adler, Nummi: de l’autonomie
du travail à la socialisation de la production?, in Durand, Stewart, Castillo, L’avenir du travail à la
châine, cit., pp. -.
. Ivi, p. .
. Cfr. ivi, p. .
. S. Albertini, La gestione delle risorse umane nei distretti industriali. Lavoro e partecipazio-
ne nella piccola e media impresa, Milano , p. .
. Veltz, Le nouveau monde industriel, cit., p. . Cfr. anche Zarifian, Le travail et l’événe-
ment, cit., p. .
. Albertini, La gestione delle risorse umane nei distretti industriali, cit., p. .
. Ibid.
. Cfr.: Veltz, Le nouveau monde industriel, cit., p. ; Durand, Les modèles de la relation
salariale, cit., p. ; ma anche Magnabosco, L’esperienza della grande impresa, cit., p. ; S. Vaccà,
Scienza e tecnologia nell’economia delle imprese, Milano ; P. Aydalot, D. Keeble (eds.), High
Technology and Innovative Environments: the European Experience, London-New York ; E.
Rullani, Più locale e più globale: verso un’economia postfordista del territorio, in A. Bramanti, M.
A. Maggioni (a cura di), Le dinamiche dei sistemi produttivi locali: teorie, tecniche, politiche, Mi-
lano , pp. -; G. Becattini, E. Rullani, Sistema locale e mercato globale, in F. Cossentino, F.
Pyke, W. Sengenberger, Le risposte locali e regionali alla pressione globale: il caso dell’Italia e dei
suoi distretti industriali, Bologna , pp. -; ma anche, in una prospettiva diversa ma com-
parabile, il classico P. d’Iribarne, La logique de l’honneur. Gestion des entreprises et traditions na-
tionales, Paris , pp. -.


U N A FA B B R I C A D A R I FA R E E L A Q U A L I T À D E L L AV O R O

. Hardt, Negri, Impero, cit., p. .


. Ivi, p. .
. In Europa «un quart de tous les salariés à temps plein et plus deux tiers de ce qui tra-
vaillent involontairement à temps partiel ont des emplois de faible qualité – c’est à dire des em-
plois mal rémunérés et à faible productivité, n’offrant ni sécurité de travail ni accès à la formation
ni possibilités d’avancement professionnel» (Commission Europeénne, L’emploi en Europe ,
cit., p. ). Al contrario, «la productivité va de pair avec la qualité du travail, la satisfaction au tra-
vail et la formation» (ibid.).
. Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, Libro bianco sul mercato del lavoro in Ita-
lia, cit., pp. -.
. Ivi, p. .


Anche al lavoro pensare,
dire quello che si pensa*
di Anne Duhin

Questo testo riporta i risultati di due inchieste di fabbrica realizzate a Bologna,


all’interno della Bonfiglioli, azienda meccanica che produce riduttori di velo-
cità. L’insieme della ricerca si è svolta in due fasi: da gennaio a marzo  e da
gennaio a marzo .
In ognuna delle due fasi è stata compiuta una ventina di interviste indivi-
duali con operai di due stabilimenti del gruppo Bonfiglioli: lo stabilimento B,
situato a Calderara di Reno, che produce le parti interne dei riduttori di velo-
cità, e lo stabilimento B, situato a San Lazzaro di Savena, che invece produce
la parte esterna dei riduttori (scatole e coperchi).
Le interviste, di una durata compresa tra un’ora e trenta e due ore e tren-
ta, hanno avuto luogo dentro la fabbrica, durante l’orario di lavoro, sulla base
di un questionario che chiedeva agli operai che cosa pensassero del loro lavo-
ro, degli operai oggi, della fabbrica, del sindacato, della politica. La ricerca che
ho condotto si concentra sul pensiero degli operai e ha come cardine una tesi
di dottorato in Antropologia. Questo studio si iscrive, in effetti, nel campo di
un’“antropologia operaia” che, basandosi sui risultati di ricerche condotte a
partire dal  in Francia e all’estero, si propone di identificare le categorie
per analizzare la realtà degli operai e delle fabbriche, con lo scopo di coglierne
i termini attuali. In effetti, se gli operai solitamente non si riferiscono più alla
“classe”, al “movimento” e non si identificano più con un gruppo, tuttavia usa-
no concetti come “operaio”, “fabbrica” e “politica” in modi inediti e da ana-
lizzare in riferimento alla contemporaneità. Si può dunque ipotizzare che si
possa identificare una figura operaia contemporanea.
Lavoro, socialità e fabbrica: questi i tre temi principali su cui ho interpel-
lato gli operai durante le interviste.
I due questionari che ho elaborato comprendono numerose domande sul
lavoro. Ad esempio: “Mi può dire in cosa consiste precisamente il suo lavoro?”;
“Direbbe che il suo lavoro è un mestiere?”; “Prende delle iniziative nel suo la-
voro?”; “Lavorare bene: cosa significa per lei?”; “Cosa è importante nel suo la-
voro?” ecc.

* Ricerche di antropologia operaia all’interno di una fabbrica meccanica di Bologna, la Bon-


figlioli.


ANNE DUHIN

L’analisi delle risposte al tempo della prima inchiesta mi ha permesso, nel-


la stesura del secondo questionario, di centrare meglio alcune domande. È co-
sì che, per esempio, ho introdotto delle domande su forme e modi in cui gli
operai si aiutano, ma anche sui trucchi e le astuzie che essi utilizzano nel lavo-
ro, nonché sulla sua dimensione intellettuale.
Mostrerò che i discorsi dei lavoratori si basano su una dimensione di inte-
riorità al lavoro che si palesa attraverso una molteplicità di modi di pensarlo.
Molteplicità che mette in evidenza il rapporto singolare che ciascuno intrattie-
ne con il proprio lavoro.

Ma anzitutto qualche annotazione sul modo in cui è organizzato il lavoro al-


l’interno degli stabilimenti B e B, dove ho effettuato le interviste.
La maggior parte degli operai lavora dal lunedì al venerdì su due squadre
per sette ore al giorno, dalle . alle ., per quanto riguarda il primo tur-
no, e dalle . alle . per il secondo. Ogni settimana gli operai cambiano
di turno. Alcuni operai lavorano su tre turni, effettuando un turno supple-
mentare dalle . alle . del mattino. Altri coprono l’orario cosiddetto
“normale”: otto ore di lavoro giornaliero, dal lunedì al venerdì, dalle . alle
. e dalle . alle ..
Nel turno di sette ore non è prevista alcuna pausa ufficiale, ma vi sono dei
momenti in cui c’è meno lavoro (quando la macchina produce i pezzi, per
esempio) di cui gli operai approfittano, soprattutto per andare presso distri-
butori di caffè o panini. L’orario normale prevede una pausa per il pranzo tra
le . e le ..
La produzione avviene in grandi serie e per stock, programmati ogni anno.
Le macchine sono prevalentemente a controllo numerico, alcune dotate di
robot, ma ci sono ancora alcune macchine semiautomatiche e altre chiamate
“manuali”, anche se la tendenza della direzione è quella di eliminarle progres-
sivamente.
Ogni operaio lavora generalmente su più macchine, da solo o con altri ope-
rai. La direzione favorisce il fatto che gli operai sappiano lavorare su più tipi di
macchine e a differenti fasi del processo di produzione, affinché siano sostitui-
bili tra loro.
Le macchine a controllo numerico vanno sempre preparate prima dell’ini-
zio del lavoro. Questa operazione viene chiamata “piazzamento” della macchi-
na. Essa richiede un tempo che varia in funzione dell’esperienza e dell’abilità
del lavoratore. Si tratta di inserire nella macchina gli utensili necessari e i dati
(misure, velocità, numero di pezzi da produrre ecc.) nel programma informa-
tico. Agli operai spetta solo di adattarlo in funzione della produzione prevista.
Una volta avviata la macchina, il primo pezzo prodotto deve superare un con-
trollo-qualità. La produzione viene lanciata solo quando giunge il benestare del
laboratorio del controllo-qualità. Durante la produzione, il materiale che le è ne-


A N C H E A L L AV O R O P E N S A R E , D I R E Q U E L L O C H E S I P E N S A

cessario deve essere vagliato, controllato e misurato dall’operaio, che è anche re-
sponsabile del buon funzionamento della macchina, con tutte le operazioni con-
nesse, come rabboccare l’olio, nonché di tutte le attrezzature affidategli.
Le macchine semiautomatiche, non dotate di controllo numerico, necessi-
tano invece di una regolazione manuale e ciò è necessario più volte nel corso
della produzione, in quanto tali macchine perdono facilmente la taratura.
Le macchine manuali, infine, richiedono di essere predisposte adeguata-
mente ogni volta che la lavorazione cambia.
Quando una macchina va in panne, l’operaio non deve intervenire perso-
nalmente, ma informarne rapidamente il suo diretto superiore. Si tratta allora
di decidere se il guasto è abbastanza modesto da poter essere riparato dallo
stesso operaio o se è il caso di far intervenire personale specializzato.
Veniamo ora all’analisi delle risposte degli operai.


Qualificazioni del lavoro

a) Comparazioni

Alcuni operai hanno comparato il lavoro in una grande azienda a quello svol-
to presso un artigiano, mettendo così in evidenza una specificità del lavoro nel-
le grandi aziende.
«Non è difficile, però è abbastanza impegnativo – dice un intervistato – an-
che perché non c’è il tornio di un artigiano, qui alla Bonfiglioli, la parte riguar-
dante i programmi, che è la cosa più complicata, è già fatta, per cui è più che altro
un lavoro di carico, scarico e controllo dei pezzi, perché i programmi li hanno già
fatti tutti loro, li hanno già registrati; quando c’è da fare un piazzamento nuovo,
le operazioni da fare sono semplici».
Un altro operaio considera il contenuto del lavoro svolto presso un artigia-
no come più professionalizzante, in quanto più complesso e promotore del “ta-
lento” dell’operaio. All’opposto, il lavoro in una grande fabbrica viene presen-
tato come un lavoro di sorveglianza della produzione, d’approvvigionamento
della macchina e di scarico dei pezzi prodotti.
«Dall’artigiano il lavoro è molto vario, in un giorno puoi cambiare due o tre
volte lavoro. C’è bisogno che ti arrangi per fare un lavoro: se non c’è l’utensile, te
lo devi costruire, ci si diverte lavorando. In una ditta più grande, al livello della
Bonfiglioli, sono lavori già selezionati, già tutto fatto, predisposto. L’impegno è
quando arriva una macchina nuova. Delle macchine non vengono piazzate per an-
ni, fanno sempre lo stesso lavoro». (Direbbe che il suo lavoro è interessante?)
«Interessante magari no, interessante è quando ci sono delle cose nuove da fare,
quello mi interessa perché mi impegna, però per il resto, troppe cose sono di rou-
tine, diventa un po’ monotono».


ANNE DUHIN

In un’altra intervista, alla risposta allo stesso quesito: «Non secondo me, ba-
sta fare attenzione, non è difficile», ho rilanciato chiedendo cosa intendesse per
“fare attenzione” e la risposta è stata: «I primi tempi può essere difficile, ma do-
po capisci come funziona, e poi è ripetitivo, alla fine diventa sempre la stessa co-
sa. Tutti i giorni è lo stesso lavoro, per tutta la settimana».
Non troppo differenti sono le risposte venute da un altro intervistato: «Di
difficoltà non c’è n’è, sono lavori semplici». (Anche fare la preparazione della
macchina è semplice?) «Sono tutte cose che si imparano in fretta, anche perché
sono lavorazioni standard, sempre uguali, quindi diventa abbastanza noioso,
non sono lavorazioni complesse, possono essere lunghe ma non complesse».
Per questi operai, dunque, è il carattere “monotono”, “ripetitivo”, “sem-
plice” e “di routine” che qualifica il lavoro nelle grandi fabbriche, essenzial-
mente perché i pezzi da produrre sono sempre gli stessi e perché i gesti da com-
piere, una volta appresi, si fanno per abitudine e in maniera automatica.
«Il tornitore – annota un altro intervistato – deve saper programmare la
macchina, qui con il fatto che alla fine i pezzi sono sempre gli stessi, la parte re-
lativa è stata fatta da tempo, è per questo che quando bisogna cambiare il lotto
non c’è bisogno di inserire il programma, lo si inserisce dal computer. […] Da
un artigiano questo potrebbe anche essere un mestiere perché ogni giorno tu de-
vi fare un programma diverso; nelle grandi industrie la macchina è regolata e fa
. pezzi; tu non impari veramente un mestiere, in dieci anni qui dentro tu
non impari questo mestiere, ma da un artigiano in un anno l’impari».
Qui l’accento cade dunque sul frequente cambiamento delle operazioni da
svolgere, il quale permette, assieme all’esercizio della programmazione, un’ac-
quisizione di saperi; così si pensa venga una vera conoscenza del mestiere, che
è ritenuta invece molto difficile, se non impossibile, in una grande azienda.
L’opposizione “lavoro manuale/lavoro numerico” è al centro di altre ri-
sposte, come la seguente: «Ho seguito un amico che lavorava, è stata la mia ro-
vina, non ho avuto altro pensiero che lavorare in fabbrica». [Per quale ragione
dice che è stata la sua rovina?] «Perché non mi piace più l’ambiente dell’offici-
na, è cambiato il modo di lavorare. Una volta era l’uomo che lavorava, era tutto
manuale il lavoro, adesso le macchine sono programmate, tu non fai altro che fa-
re del facchinaggio, pagato molto male, perché se uno va a fare il facchinaggio
prende il doppio che prendo ora».
Dove si può notare che attraverso l’opposizione “lavoro manuale/lavoro
numerico” l’operaio denuncia la riduzione del margine di manovra preceden-
temente concessogli.
In questa affermazione, come nelle precedenti, le differenze tra lavoro ar-
tigianale e lavoro in una grande fabbrica non sono ricondotte a una questione
di ordine produttivo, ma alludono anche ad altro: a una differenza di punti di
vista, quello dell’operaio e quello della direzione; a proposito del lavoro si de-
lineano quindi due concezioni di lavoro. Due concezioni che dipendono da fat-


A N C H E A L L AV O R O P E N S A R E , D I R E Q U E L L O C H E S I P E N S A

tori oggettivi, ma anche da fattori soggettivi, come la decisione da parte della


direzione aziendale di concedere agli operai del tempo per migliorare le loro
conoscenze a proposito del lavoro.
È parimenti interessante notare come gli operai non sostengano tanto che
il lavoro sulle macchine a controllo numerico sia in se stesso “monotono” e “ri-
petitivo”, quanto il fatto che, a sollecitare in misura maggiore o minore le loro
competenze, sia il modo in cui la direzione organizza il lavoro.
Resta l’importanza attribuita alle possibilità per gli operai di apprendere
il lavoro e di avere proprie iniziative in questo tipo di fabbrica: possibilità che
in altre aziende più grandi e più complesse vengono considerate praticamen-
te inesistenti.
Nelle affermazioni sopra sostenute, il lavoro svolto su macchine dette “ma-
nuali” e semiautomatiche risulta qualcosa di completamente distinto da quello
svolto su macchine a controllo numerico. Una distinzione che accomuna tanto
gli operai più giovani, che hanno iniziato la loro carriera sulle macchine a con-
trollo numerico, per poi dover imparare anche a lavorare su macchine semiau-
tomatiche e manuali, quanto gli operai più anziani, che hanno seguito un per-
corso di carriera inverso.
Nella risposta che segue, la differenza tra i due tipi di lavoro si pone su un
altro piano: decisiva qui è la categoria della professionalità. «C’è un cambia-
mento importante nella fabbrica, perché all’epoca della macchina manuale di-
ciamo che dovevi fare le cose dalla A alla Z, dal filetto all’angolo del profilo do-
vevi costruire, invece adesso basta solamente impostare i dati nella macchina e
ti viene fatto il pezzo praticamente finito. Era un altro modo di lavorare, mol-
to più professionale di adesso. Nel senso che all’epoca dovevi fare degli ingra-
naggi, delle formule, dovevi farti i calcoli di questi ingranaggi. Adesso è tutto
tramite computer, ti viene già fuori il passo della vite. Prima dovevi farti i cal-
coli, dopo aver fatto i dati, adesso come professionalità, va be’, ce n’è un po’,
ma non ce n’è più come prima, il computer è bello, ma la professionalità cade,
non costruisci il pezzo per conto tuo».
Dal che risulta che il lavoro su macchine manuali è considerato come for-
temente promotore delle abilità lavorative dell’operaio. Lavorando su macchi-
ne manuali, la fabbricazione del pezzo dipende totalmente dalle capacità fisi-
che e dalle conoscenze utilizzate. Questo spiega l’utilizzo di verbi come “fare”
e “costruire”, oltre alla locuzione “per conto tuo”.
È diverso il rapporto intrattenuto con la macchina a controllo numerico: il
lavoro è concepito come un intervento diretto, piuttosto che come un control-
lo d’insieme del processo di fabbricazione. La tecnicità e la professionalità del
suo lavoro si oggettivano così nei gesti fatti, cosa che viene ritenuta impossibi-
le con le macchine a controllo numerico.
Assai diverso è quel che pensa un altro intervistato: «Con il controllo nu-
merico bisogna andare dentro il programma e digitare le coordinate sul program-


ANNE DUHIN

ma, mentre coi manuali devi fare tutto con semplicità, devi organizzare tu il la-
voro, in senso metaforico, vedere se il pezzo viene bene o male, fare delle modifi-
che con le mani».
In fondo qui è il lavoro sulle macchine a controllo numerico a essere con-
siderato più interessante. In effetti è l’utilizzo della tecnica attraverso il ricorso
al computer che fornisce il lato professionale del lavoro. Anziché la qualità del
gesto manuale, come nel caso della citazione precedente, qui emergono altri va-
lori. “Devi fare tutto con semplicità”, “fare delle modifiche con le mani”, “de-
vi organizzare tu il lavoro, in senso metaforico”: sono tutti argomenti di svalu-
tazione di questo tipo di lavoro. In questo caso, il fatto di dover intervenire su
tutte le tappe della produzione del pezzo, ma anche di avere il controllo di tut-
te le tappe e d’intervenire manualmente è visto come una mancanza di tecni-
cità nel lavoro, confermando così il carattere obsoleto di questo modo di lavo-
rare. È interessante notare come questo intervistato utilizzi le medesime argo-
mentazioni dell’interlocutore precedente per sviluppare un concetto opposto.
Le affermazioni che seguono si configurano diversamente, perché questi
intervistati, che hanno lavorato su entrambi i tipi di macchina, non mettono
su un piano comparativo i due tipi di lavoro, bensì li assegnano a due spazi
diversi.
«Sono due fasi diverse – dice un operaio – prima dovevi essere un buon la-
voratore manuale, dovevi conoscere gli utensili, il materiale che lavoravi, trovare
tutti i giri, era interessante anche prima, adesso è diverso, tutto è già preparato,
quello che ti fa fatica è il programma, è molto professionale, permette di avere pro-
fessionalità e di conoscere il processo».
Un altro: «Prima, per lavorare un pezzo, avevo una barra grande così, pren-
dere la barra, l’utensile da me, mentre ora tutto è già predisposto, è già semilavo-
rato, la cosa più difficile è la programmazione della macchina e quindi per chi non
ha fatto un po’ d’istruzione, di scuola, è difficile; se non conosci la programma-
zione, non ti muovi per niente. Sono due esperienze diverse».
Qui si presentano dunque due forme di lavoro diverse che fanno riferi-
mento a capacità diverse, non comparabili.
Alla luce di questa analisi, si nota una volta ancora che le affermazioni de-
gli operai non sono inscrivibili nel medesimo registro e che la distinzione tra il
lavoro su macchine manuali e il lavoro su macchine a controllo numerico atti-
va il pensiero di ognuno riguardo al proprio lavoro in modi diversi.

b) Un lavoro sulle macchine

Le citazioni qui raggruppate riguardano il “rapporto operaio/macchina”, co-


me lo chiama un intervistato. È anche messa in evidenza la costruzione di un
“sapere”, di una capacità propria di lavorare ottenuta nel tempo e con l’espe-
rienza del lavoro.


A N C H E A L L AV O R O P E N S A R E , D I R E Q U E L L O C H E S I P E N S A

«Il modo di lavorare – dice un intervistato – il saper stare vicino a una mac-
china, a bordo macchina e avere una visione di quello che si deve fare, poi stare
attenti a muovere le mani, mettere le mani dove si deve, al momento giusto per-
ché si rischia di farsi male, poi col tempo viene l’esperienza, cominci ad avere il
tuo modo di lavorare, non seguire più gli altri». [Cosa intende per “avere il tuo
modo di lavorare”?] «Ci sono vari metodi per poter lavorare, ognuno ha il suo,
anche se la sostanza è sempre quella, magari si riescono a trovare delle vie più qua-
litative per raggiungere l’obiettivo».
Qui, inizialmente, si sottolinea l’importanza della postura fisica, del saper
muovere il corpo, dell’adattare i propri movimenti per fare al meglio questo ti-
po di lavoro. Si insiste sull’esigenza di una strategia d’insieme con cui organiz-
zare i gesti da compiere: “avere una visione di quel che bisogna fare”. Ma, sot-
tolineando che ciascuno lo fa a suo modo, questi enunciati sostengono che, an-
che nel rispetto delle consegne ricevute, questo tipo di lavoro consente all’o-
peraio di dargli la propria impronta, integrandovi astuzie, inventando scorcia-
toie o trovando altri espedienti.
C’è anche chi parla di autonomia: «[Essere autonomo] vuol dire che l’ope-
raio sa stare sulle macchine, ci arriva, si sa gestire bene, un rapporto di confiden-
za con la macchina, del feeling tra la macchina e l’operaio». (Cosa intende?) «Sod-
disfazione dell’operaio, anche convivere con il rapporto macchina/operaio, cono-
scere cosa si fa e come si fa. Se tu conosci quel che fai, conosci la macchina, ti sai
gestire bene, sai come fare. [...] Rimanendo degli anni sulle stesse macchine, l’e-
sperienza ti insegna a conoscerle, sai già muoverti bene».
Autonomia qui significa dunque capacità di gestire, di convivere con la
macchina.
Macchina, che un altro operaio associa a qualcosa (come l’auto) di suo
possesso. «Sono sempre stato sulle rettifiche manuali, poi meccaniche». (Co-
me ha imparato il suo lavoro?) «Con i tecnici che venivano a installare gli im-
pianti, loro ti davano le basi per iniziare e poi piano piano tu ti applichi al la-
voro, piano piano vai avanti, con gli anni, vari trucchi della macchina, è come
con la propria automobile, uno sa i difetti della propria automobile, quindi...».
Qui siamo dunque in tutt’un altro spazio rispetto a quello delle consegne
impartite dalla direzione: è lo spazio di un rapporto di interiorità dell’operaio
con il proprio lavoro.

c) Un lavoro con la testa

Nelle citazioni che seguono, il lavoro è posto in relazione all’intelletto, alla “te-
sta”. Un termine che ritorna in più risposte: «Non c’è tanto da imparare – dice
un intervistato – basta esserci con la testa, non distrarsi, ci sono momenti in cui
ti puoi distrarre, prendere un caffè, ma quando c’è il pezzo è meglio non esserlo
(distratto)». E un altro: «La rettifica è la lavorazione finale del pezzo, si fanno le


ANNE DUHIN

rifiniture sul pezzo, deve avere una certa misura ben precisa, parliamo di centesi-
mi, dopo la rettifica, sono montati. Bisogna essere abbastanza precisi, bisogna es-
sere abbastanza presenti con la testa».
Notiamo che l’utilizzo delle capacità intellettuali è considerato “necessario
in una certa fase del lavoro”, stando alle affermazioni del primo operaio, men-
tre viene considerato “costante” dal secondo. Ma ci sono anche enunciati con
diversa accentuazione: «Essere presente con la testa vuol dire dare interesse al
tuo lavoro, attenzione alla sicurezza. Senza la testa puoi sbagliare, poi se sei serio
devi essere soprattutto presente colla testa».
Qui “essere presente con la testa” può essere letto in due modi diversi. Il
primo è attinente all’idea che abbiamo già incontrato nelle precedenti citazio-
ni, cioè quella della stimolazione dell’attenzione durante le diverse fasi di lavo-
razione. Il secondo si riferisce a una dimensione più soggettiva (“prestare at-
tenzione al tuo lavoro”), che richiama il rapporto tra il lavoratore e il proprio
lavoro. In effetti, prestare attenzione a ciò che si fa, essere presenti soggettiva-
mente, mobilitare le proprie capacità equivale a mettersi in gioco, a investirsi
soggettivamente nel proprio lavoro.
Vediamo ora come ogni operaio considera il suo lavoro nel senso di “posto
di lavoro”.


Molteplici posizioni di fronte al lavoro

a) “Affrontare il lavoro”

Qui gli enunciati ruotano attorno alla questione di come lavorare al meglio.
«Personalmente – dice un operaio – io sono molto attento all’ordine, alla pu-
lizia sull’impianto, perché ritengo che l’ordine, la pulizia fa sì che l’operatore la-
vora meglio. Dopo di che il lavoro che devo svolgere lo faccio con più entusiasmo.
È una cosa messa insieme, l’ordine mi aiuta tanto a far sì che le cose vadano be-
ne». (Per quale motivo è importante per lei?) «Credo che per me è un fatto...
l’ordine mi dà la sicurezza che ho tutto sotto controllo».
Essere ordinati e mantenere la propria postazione pulita sono delle con-
segne date dalla direzione agli operai per svolgere il loro lavoro. Ma nelle af-
fermazioni dell’intervistato, più che indicazioni a cui conformarsi obbliga-
toriamente, queste consegne designano uno spazio soggettivo, una propria
visione del lavoro: «Dopo di che, il lavoro che devo fare lo faccio con più en-
tusiasmo».
Ci sono anche dei momenti di particolare impegno e preparazione al lavoro:
«Se succede di rettificare dei particolari molto più impegnativi – dice un altro in-
tervistato – mi metto nelle condizioni di affrontare il lavoro». Cosa intende per
“affrontare il lavoro”? «Può capitare che l’azienda ha bisogno di fare uno speci-


A N C H E A L L AV O R O P E N S A R E , D I R E Q U E L L O C H E S I P E N S A

fico particolare, che esce fuori della normalità del lavoro. Normalmente lavoria-
mo con delle qualità più facili, quindi l’operatore lavora con più tranquillità, in-
vece quando ci dobbiamo confrontare con particolari che chiedono più precisione,
da parte mia aumenta l’impegno nell’affrontare questo lavoro. Nella normalità
delle cose non è che sia facile, ma perché è da anni. Però quando si fa un partico-
lare, io mi metto nella condizione di operare in un modo diverso, è tutto lì».

b) Modi diversi d’imparare il proprio lavoro

La volontà di apprendere è un tema ricorrente in molti enunciati. Ad esempio:


«Considerando la mia voglia di apprendere, perché sono uno così, mi sono sem-
pre migliorato fino ad arrivare alle macchine computerizzate. Io ho sempre avu-
to voglia di migliorare, di migliorarmi. Anche adesso che ho una certa età, ho
sempre voglia di vedere cose nuove». Per quale motivo è importante? «Per una
cosa personale. Sono una persona che mi piace sapere, migliorare nella vita,
quando lo so sono felice. E nello stesso tempo, a mio avviso, facendo questa co-
sa, il tempo passa meglio, sempre a livello personale».
“Volontà d’imparare”, “di migliorare”, “vedere cose nuove”, “sapere” qui
sono tutte parole che non si riferiscono solo al campo del lavoro, si presentano
come “qualità” inerenti alla personalità e utilizzate sul lavoro. Così il rapporto in
interiorità col lavoro di questo operaio si costituisce in maniera indipendente e
soggettiva, cioè a prescindere dalle prescrizioni della direzione della fabbrica.
In questo stesso senso va la risposta di un altro intervistato: «Io m’impegno,
devo imparare, sempre mettermi a conoscenza di cose nuove, la mia persona cre-
sce, io la penso così, ecco».
Ma c’è anche chi vede il “migliorarsi” nel lavoro come una “sfida”. «La per-
sona andando sulla macchina deve sempre migliorarsi nell’organizzazione. Se de-
vi fare un piazzamento nuovo, la prima volta ci metti tre ore, la seconda volta de-
vi andare più velocemente, devi sempre migliorarti. Anche a me dopo tanti anni
che lavoro capita che non riesco in qualcosa, ma queste cose qui non devono suc-
cedere». Per quale motivo? «Perché hai sbagliato». È importante non sbagliare?
«Per me è importantissimo, ogni volta che faccio una cosa, il primo pezzo deve an-
dare bene. [...] È una sfida [...] se io riesco a fare quelle cose lì, anche se si fa po-
co in un’azienda come la Bonfiglioli, il poco che fai lo devi fare bene, perché rag-
giungi un buon livello».
Questo mettersi alla prova, che è evidentemente richiesto dalla logica del-
la produttività dell’impresa, l’intervistato lo assume come opportunità per da-
re consistenza a un lavoro che considera poco valorizzante: «anche se si fa poco
in un’azienda come la Bonfiglioli, il poco che fai devi farlo bene». L’avverbio “po-
co” richiama una caratteristica del lavoro già sottolineata da altri intervistati, la
monotonia, la ripetitività, ma che l’assunzione di sfide per questo operaio per-
mette di interrompere.


ANNE DUHIN

Da questi enunciati emerge dunque uno spazio soggettivo degli operai ri-
spetto al loro lavoro. Si tratta di uno spazio condiviso da tutti gli intervistati,
indipendentemente dalle loro qualifiche ed età diverse, e che non impedisce del
resto che gli ordini di produzione posti dalla direzione siano rispettati.

c) “Essere se stessi sul lavoro”

È interessante notare che nella maggioranza delle risposte alla domanda “cosa
pensa delle iniziative nel suo lavoro?”, “iniziative” si sia inteso nel senso di un
“fare cose” di cui i “capi” non sono al corrente, vale a dire andare al di là del-
le consegne ricevute. Ciò fa pensare che tra gli intervistati prevalga la convin-
zione che la direzione accetti difficilmente le iniziative degli operai.
«Se [i capi] lasciassero far qualche operazione in più all’operatore – sostiene
un intervistato – rispetto ai tempi di produzione si perderebbe del tempo, la pro-
duzione avrebbe degli svantaggi: quando gli operatori possono se ne vanno per-
ché il lavoro monotono non piace».
Dal che si può chiaramente intendere che “iniziative” e “produzione/tem-
po” sono qui in netta opposizione, mentre l’intervistato propone che la fabbri-
ca sia un luogo dove, attraverso delle iniziative, venga lasciato spazio all’ap-
prendimento degli operai.
L’avviso di un altro operaio va in direzione opposta: «Bisogna dare un po’
di libertà di scelta». «Prendiamo delle iniziative – egli lamenta – ma la direzio-
ne non va in quel senso. [...] Adesso ci sono degli strumenti per togliere ogni ini-
ziativa. È come se ci chiedessero di applicare soltanto». Cosa ne pensa? «Per me
bisogna dare un po’ di libertà di scelta; non posso fare come dicono loro perché
ognuno ha le sue esperienze, i suoi punti di vista. Il compito è fare bene, fare me-
glio, fare di più. Tu non puoi dire “devi fare in questo modo qua, fare questo pro-
gramma qua”, quando io ne so di più. Bisogna dare un po’ di fiducia agli operai».
Pronunciandosi in favore della possibilità di più iniziative, d’“un po’ di li-
bertà di scelta”, con questi enunciati si richiede “fiducia” per gli operai da par-
te della direzione. È in effetti di estremo interesse sottolineare che le parole e
le proposizioni di questo operaio non si costruiscono in opposizione all’idea
di produrre, di rendere, di fare presto, e che su questo punto egli è in omoge-
neità completa con la direzione: «il fine è di fare bene, fare meglio, fare di più».
Ma c’è anche chi sottolinea che «bisogna essere forte per prendere delle ini-
ziative». E al rilancio (“che cosa intende più precisamente?”), la risposta è:
«Perché ti metti contro certi programmi, contro quelli che chiedono». Intende
dire forte di carattere? «Sì ma anche essere sicuro, se ti dicono vai a . e tu
dici no, vado a ., bisogna essere forte perché loro non lo ammettono». Come
spiega ciò? «Questo è un problema informatico, vogliono avere dei dati fissi per
un maggior controllo. Questo pezzo mi prende  minuti, però se domani mi por-
ti un pezzo che è da  minuti e tu vedi che è da  minuti perché il lavoro è un


A N C H E A L L AV O R O P E N S A R E , D I R E Q U E L L O C H E S I P E N S A

po’ diverso, il pezzo è diverso, perché io ci guardo, se ci si mette di più, devo met-
terci di più anche se loro vogliono che ci metta di meno».
Queste parole mettono in dubbio che le scelte di gestione del personale
operaio dipendano sempre e solo da preoccupazioni di produttività. L’esigen-
za del controllo viene dunque ritenuta a volte eccessiva. Ed è anche proprio per
contenere simili eccessi che viene rivendicato il riconoscimento da parte della
direzione delle capacità e delle conoscenze degli operai.
Il tema del controllo ritorna anche in altre risposte critiche. Ad esempio la
seguente, che paragona l’azienda a una caserma e a una scuola.
«Qui è un po’ come una piccola caserma. Il potere è lì per gestire. Non si de-
ve muovere nulla, finché non viene una persona al di sopra di te. È un po’ come
essere a scuola».
O anche la seguente, che propone un’interessante riflessione generale sul
discorso del potere e del rapporto tra questo e il sapere: «Ogni cosa fatta senza
il permesso viene vissuta come una prevaricazione, una mancanza di rispetto per
il capo, quindi te la bloccano. È molto interessante vedere anche come la più pic-
cola cosa che puoi fare sul lavoro loro la vogliono sapere; si potrebbe fare altri-
menti, ma non deve sfuggire nulla di cui loro non siano al corrente. Questa cosa
è legata al discorso di potere, il potere ha bisogno di controllare il più possibile,
chi gestisce il potere non sopporta di non sapere tutto. Il bisogno di sapere tutto è
legato alla paura di perdere il potere, c’è questo bisogno di sapere tutto».
Qui è chiaramente denunciata la preoccupazione della direzione azienda-
le di controllare il lavoro operaio e di limitarlo a un lavoro puramente esecu-
tivo. Ma si prospetta anche come possibile un altro tipo di soggettività ope-
rante in fabbrica.
Sempre sullo stesso tono, un altro operaio rivela una contraddittorietà nei
comportamenti dei capi: «[Quando prendi una iniziativa] se hai fatto bene [i
capi] stanno zitti e basta. Se tu sbagli ti danno addosso. È già capitato una volta.
Danno una lista di quello che si doveva fare, è capitato che abbiamo già finito tut-
ta la lista, allora abbiamo tenuto ferma una macchina. Quando è arrivato il di-
rettore dello stabilimento, ha chiesto: “perché non avete fatto un altro pezzo?”.
Noi abbiamo detto: “ma pensiamo che...”. Lui ha detto: “non dovete pensare, ma
agire!”. Invece, se è sbagliato, dicono che si deve pensare e non agire!».
Il pensare o meno, dunque, come importante posta in gioco delle relazioni
di fabbrica.
Ma altri ancora non vedono, né desiderano alcuno spazio per le iniziative.
(Prende delle iniziative nel suo lavoro?) «No, perché quando si devono fare i pez-
zi bisogna farli in un certo modo, nessuno li può fare alla sua maniera». Le pia-
cerebbe prendere delle iniziative? «Per me va bene anche così».
Tra le nostre risposte non mancano quelle che danno una versione tutta in-
dividualistica di questa questione delle iniziative. Un intervistato, ad esempio,
la fa dipendere dalla variabile quanto mai aleatoria dello “stato d’animo”. Qui


ANNE DUHIN

non viene rivendicato alcun riconoscimento da parte della direzione del sape-
re proprio degli operai, né tantomeno si pensa a una possibile tensione tra ope-
rai e direzione rispetto al lavoro.
All’opposto, altri intervistati parlano di conflitti e di forme di violenza an-
che all’interno delle scelte più tecniche.
«Tu pensi che la cosa può essere fatta in un modo e loro decidono di farla in
un altro modo. E a volte anche l’insistenza dei capi nei nostri confronti è una vera
e propria forma di violenza». Cosa vuole dire? «Perché magari non riescono ad ave-
re una grande facoltà di saper ascoltare facendo rimanere la tua parola chiusa in sé.
Ma con tranquillità non è una cosa proprio fatta male, magari è perché sono già sta-
te fatte delle prove e la cosa doveva proprio andare così e noi magari facciamo fati-
ca ad accertarlo». Lei parlava di violenza? «Perché tu pensi magari che la cosa va
fatta in una certa maniera e loro decidono di farla in un altro modo, poi perché ci
sono dei giorni in cui la produzione ha una consegna breve, dobbiamo aumentare
tutti gli avanzamenti di una macchina e loro cominciano a sentirsi sotto pressione,
e quindi ci troviamo a usare di più la forza fisica che quella intellettiva». Cosa vuol
dire? «Perché dobbiamo avere come dei paraocchi, dobbiamo solo fare pezzi in
quantità senza capire con che metodo lo stiamo facendo e soprattutto con che tipo
di qualità».
Questo tema dell’intelligenza dell’operaio, e della violenza che può normal-
mente subire in fabbrica, torna anche in questa altra serie di enunciati molto si-
gnificativi. «Un operaio deve smettere di pensare quando viene a lavorare, deve fa-
re il robot, se pensa è un difetto. Al lavoro deve fare quello che si dice, secondo me
è un errore. È molto grave, ciascuno deve essere se stesso, anche al lavoro, pensa-
re, dire quello che pensa, senza avere paura. Nel mondo del lavoro è così, dapper-
tutto, per fare carriera devi restare silenzioso, ma non è il mio caso. Io sono... io
non farò mai carriera, ma sono molto coraggioso anche perché dico quello che pen-
so, anche perché sono bravo al lavoro. Per me è meglio avere . lire in meno e
avere una macchina pulita, non averli sotto. Per me va male perché si è creata...
Ognuno pensa a fare le scarpe all’altro per avere un po’ di soldi in più».
Non pensare, fare il robot, stare silenzioso, avere paura, fare carriera: da un
lato, tutto questo. Dall’altro: essere se stesso, pensare, dire quello che si pensa,
essere coraggioso e bravo sul lavoro. Divisione chiara, netta, ma “grave” e sof-
ferta («per me va male») e in un ambiente non favorevole («ognuno pensa a fa-
re le scarpe all’altro»), ma unica via per «non averli sotto».
Passiamo ora al tema della socialità.


La fabbrica come mondo

“Una specie di paese”: tra gli operai c’è anche chi qualifica così la “ditta” Bon-
figlioli.


A N C H E A L L AV O R O P E N S A R E , D I R E Q U E L L O C H E S I P E N S A

«La fabbrica ha un aspetto che è molto pettegolo, per passare il tempo, è una
specie di paese, giocoso, un po’ cattivo, quello che fai col tuo collega sai che dopo tut-
ta la ditta lo saprà, e questo aspetto non è del tutto positivo ma è molto umano, una
maniera di passare il tempo, le chiacchiere vanno in giro da sole».
L’aspetto “chiuso” della fabbrica la fa pensare come un piccolo paese, in
cui tutti si conoscono, e si tende a sparlare. Ma questo parallelismo tra fabbri-
ca e paese dice anche del risvolto caloroso dei legami tra operai, malgrado la
loro apparente durezza: «non è del tutto positivo, ma è molto umano».
Altri sottolineano “le grandi simpatie” che si possono creare in questo luo-
go, qui descritto con un’atmosfera un po’ familiare, con riti precisi.
«Si creano anche grandi simpatie, grande solidarietà. Belle amicizie, un po’ di
famiglia, e poi lavori molto, tendi a stare con le persone con le quali ti senti più
in sintonia, dei riti ben precisi: prendere il caffè, chiacchierare, il secondo caffè del-
la mattina, che prendi coi colleghi con cui senti di avere stima, affetto e simpatia».
Dal che risulta che questa notevole socialità ritma anch’essa il tempo della
vita di questa fabbrica.
Altra espressione che conferma questa dimensione è il paragonare la Bon-
figlioli a “un piccolo mondo”.
«La fabbrica è una specie di piccolo mondo, trovi di tutto. [...] Nascono an-
che [...] dei bei rapporti, anche se c’è un’ambiente chiuso, pettegolo. Puoi avere
molte molte conoscenze».
Qualcuno apprezza la possibilità di incontrare persone belle, intelligenti,
geniali, cosa che rende l’ambiente “ancora autentico”.
«Dico che dentro la fabbrica dove si annida l’olio… spesso qui cova il genio,
trovi delle belle persone, anche proprio ragazzi intelligenti. Un mio collega, pri-
ma di venire qua dentro andava in tourné e faceva il ballerino di danza classica
con le operette. È incredibile, ci sta bene! È un ambiente ancora autentico».
Un altro intervistato oppone un piano professionale a un piano umano, il
solo, questo tra operaio e operaio, che fa della fabbrica un luogo soggettiva-
mente positivo. Cos’è la fabbrica per lei? «È stato sul piano umano un bel ri-
sultato alla fine, posso dare qualcosa, invece di prendere, a me stesso e agli altri.
Sul piano professionale è un fallimento, ritornerei indietro, non verrei, anche se
mi piace. La professionalità è negativa per me, però sono solo buono a fare que-
sto. Grazie a degli amici che ho trovato, sono divenuto più uomo».
Anche in questa risposta di un giovane operaio ritorna il tema della fab-
brica come luogo di formazione della soggettività in senso lato, ma qui si qua-
lifica anche come luogo per un confronto positivo tra generazioni diverse: «Mi
sento più cresciuto, questo è sicuro, magari essendo a contatto con più persone,
magari molto più grandi di me, che mi hanno insegnato molte cose». Cosa? «Mio
nonno direbbe “a stare al mondo”». Più precisamente? «Esperienze sul lavoro,
di vita normale, di interessi, un po’ di tutto magari. Solo gente di una certa età
possono consigliarti, visto che sono uno dei più giovani. Comunque non avrei mai


ANNE DUHIN

pensato di trovarmi bene con della gente di una certa età, non avrei mai pensato
di andare così d’accordo, perché dove lavoravo prima eravamo della stessa età, è
una cosa che mi è piaciuta molto essere a contatto con della gente più grande di
me, perché sono convinto che c’è molto da imparare...».


Conclusioni

Dall’analisi di ciò che pensano gli operai del loro lavoro risulta una moltepli-
cità soggettiva, all’interno della quale si può dire che nessuna concezione, clas-
sista o meno, prevalga sull’altra. Più e diversi modi di pensare stanno fianco a
fianco e ciascuno rivendica una propria singolarità, che solo raramente sconfi-
na nel puro e semplice individualismo.
Un chiaro punto di convergenza riguarda l’esigenza di un riconoscimento
e di una presa in conto da parte della direzione del sapere e delle capacità de-
gli operai nel loro lavoro.
“Essere se stessi”, vale a dire non fare completamente astrazione da quello
che si è, da ciò che si sa e si pensa: un’altra questione, questa, che risulta ben
presente tra i nostri intervistati e che fa mettere in discussione comportamenti
contraddittori dei capireparto, nonché propensioni al puro controllo da parte
della direzione.
La fabbrica, in effetti, non è mai identificata solo come luogo oggettivo del-
la produzione, ma è assunta soggettivamente. Così la Bonfiglioli, nelle parole
di chi pure vi svolge un lavoro prevalentemente esecutivo, viene presentata co-
me luogo di molteplici incontri, tra operaio e operaio. “Paese”, “famiglia”,
“mondo”, sono quindi i paragoni che si accostano a quelli con “caserma” e
“scuola”, mentre i “pettegolezzi” risultano mischiati alle possibilità di “belle
amicizie”, “grandi solidarietà”.
Si può dunque riconoscere una socialità tra operai che non implica però
che essi abbiano una rappresentazione omogenea dei loro rapporti reciproci.
Né tra loro è riscontrabile una cultura circolante tra fabbrica e società, per cui
la dimensione della prima si confonderebbe con quella della seconda. Del tut-
to diversamente, gli operai intervistati hanno dato della fabbrica molteplici rap-
presentazioni che l’hanno caratterizzata come luogo singolare.
L’insieme di questi risultati mostra che l’investigazione della fabbrica è una
posta essenziale per la comprensione del mondo contemporaneo.


Da operaio a operaio
(nota del curatore)

I testi precedenti sono stati estratti da un vasto rapporto di inchiesta (di circa
 pp.). Per rimarcare le ulteriori ragioni d’interesse che merita questo lavo-


A N C H E A L L AV O R O P E N S A R E , D I R E Q U E L L O C H E S I P E N S A

ro, da me seguito nel corso del suo svolgimento, riporto qui di seguito una par-
te dei commenti che gli ho dedicato durante la seduta tenuta l’ dicembre 
presso l’Université Paris, diretta da Lionel Obadia, alla quale hanno parteci-
pato Sylvain Lazarus, Vittorio Capecchi, Alain Bertho e Jean Pierre Durand e
a seguito della quale Anne Duhin ha ottenuto il Doctorat d’État con le felici-
tazioni della commissione.

Quali sono le prescrizioni che si possono trarre dal lavoro di Anne Duhin?
In un primo momento può sembrare che si tratti solo di prescrizioni che
vengono dal passato. In effetti, è proprio sulle questioni della storia del movi-
mento operaio, del classismo degli anni Settanta, della loro fine e del vuoto che
esso ha lasciato oggi tra gli operai della Bonfiglioli, che finora si è prevalente-
mente discusso. Ricchissime sono infatti le suggestioni in tal senso che vengo-
no dalle risposte contenute in questo rapporto d’inchiesta. Ma a insistere trop-
po su questo aspetto mi pare si rischi di interpretare l’insieme di questo grosso
lavoro in un senso un po’ nostalgico.
La nostalgia è del resto proprio la parola che viene usata in quella che trovo
una delle risposte più evocative di tutte le interviste: «Io mi definisco un operaio,
ma ci sono anche certuni che dicono che sono operatori. Mi fa ridere. [...] Io mi so-
no sempre sentito operaio. [...] Per me operaio è bello, non si deve dimenticare che
io appartengo alla vecchia guardia, una cosa un po’ tradizionale. Ma comunque per
me operaio è bello. Mi piace questo termine… mi sembra, mi sembra degno; ha
una storia, la classe operaia, gli operai in sciopero! L’operaio ha una storia, perché
cambiare? [...] Gli scioperi operai, gli operai in strada, è bello perché è una storia,
l’operaio! In questo c’è una componente nostalgica. Il vecchio operaio è scompar-
so. La classe operaia, operai in strada, è un po’ l’immagine di questi operai, degni,
che combattono tutti uniti nel tentativo di ottenere qualcosa!».
In questa visione epica ed estetica dell’operaio e del classismo c’è un’oscil-
lazione tra l’ammissione della “componente nostalgica” e la domanda “perché
cambiare?” tutta rivolta al presente. La questione sembra essere che è dal bi-
lancio del passato che si può sapere a che punto si è nel presente, ma che que-
sto bilancio è comunque aperto ed è del tutto nel presente, del presente. Un
presente che comunque non è affatto accettato per quel che è. Operatore in-
vece che operaio fa ridere…
In altri enunciati, qualsiasi conflitto nel presente sembra essere impossi-
bile. La fabbrica viene associata alla scuola, alla caserma. In un altro caso, la
fabbrica, ampliata in una prospettiva che include “il mondo del lavoro”, è ca-
ratterizzata proprio come un luogo del tutto contrario al pensare e al dire del-
l’operaio. Ma la questione di esistere come soggetto attivo e pensante resta
acuta, quasi bruciante: «Un operaio deve smettere di pensare quando viene al
lavoro. Deve fare il robot. Se pensa è un difetto. Al lavoro devi fare quello ti vie-
ne detto, ma secondo me è un errore. [...] Ognuno deve essere se stesso, anche


ANNE DUHIN

al lavoro, si deve pensare, dire quello che si pensa, senza avere paura. Nel mon-
do del lavoro è così, dappertutto, per fare carriera tu devi stare zitto. Ma non è
il mio caso. Io sono…, non farò mai carriera, ma sono molto coraggioso, dico
quello che penso».
“Paura”, “coraggio”, “io”, “dire”, “pensare”, “si deve”. Questo intervista-
to, che considera la rinuncia a far carriera come condizione di esistere come
soggetto parlante e pensante, si esprime esattamente col tono di ciò che inten-
do per prescrizione.
Dove e come si può esercitare questa volontà dell’operaio a dire, a pensa-
re, tutta al presente?
Nel capitolo che Anne Duhin dedica al tema “lavorare cogli altri”, mi pa-
re si trovino alcune risposte a questa domanda.
Al centro della questione sono i rapporti da operaio a operaio, che riguar-
dano il sapere: la “collaborazione tra chi sa e chi sa meno”. Ma si tratta di rap-
porti complessi, come mostra la risposta che continua così: «A volte la persona
che sa meno comprende qualcosa che può insegnare, magari perché ha più elasti-
cità mentale, riesce ad arrivare dove gli altri non ce la fanno. Anche dai più pic-
coli si può imparare, succede sempre».
Un altro enunciato sottolinea il dovere di dare e ricevere le nozioni ricavate
dall’esperienza: «Chi è nel reparto da più tempo ha un’esperienza in più rispetto
a chi è entrato da poco, allora questa persona deve trasmettere tutte le nozioni del
lavoro che ha imparato [...] e chi gli sta davanti ha l’obbligo di ricevere».
Esistono addirittura delle figure riconosciute come “i saggi”: «Persone dai
capelli bianchi, quelli che sono chiamati i saggi. Da come si muovono riescono a
farti comprendere il modo in cui lavorare: pulizia, calma, usare il tornio, tutte que-
ste cose qui. Per il nostro lavoro è importante seguirli visivamente».
Le differenze di qualifica non devono comunque fare ostacolo. Poche pa-
role possono bastare: «L’importante è di intenderci bene, di comprenderci, di ri-
spettarci l’un l’altro, anche se ci sono delle differenze di qualifiche. Uno può an-
che essere un terzo livello, un quinto superiore, ma non ci devono essere differenze
per questo. Quando parliamo tra noi, in due o tre parole sappiamo cosa dobbia-
mo fare, senza perdere due o tre ore per capirci [...]».
Ma, secondo quanto dice questo stesso operaio, «le persone non hanno un
sistema predisposto al dialogo. È già successo e succederà di non comprendersi,
ma se una persona si impegna e dice “voglio lavorare con questo gruppo”, a mio
avviso, ce la può fare».
In altre risposte si coglie ancora più nettamente un problema di conoscen-
za quanto al modo di rapportarsi cogli altri operai: «Ultimamente un collega mi
ha fatto una critica che non era giusta, ho risposto con calma, visto che lui lo ave-
va fatto in modo corretto, e poi ho lasciato cadere la questione. [...] L’autogestio-
ne è molto importante: una buona gestione dei rapporti con gli altri, ma non tut-
ti ce l’hanno [...] la gente non sa che questa gestione è possibile».


A N C H E A L L AV O R O P E N S A R E , D I R E Q U E L L O C H E S I P E N S A

Ma c’è anche un giovane assunto da poco che si lamenta: «Non è sempre ve-
ro che gli operai si aiutano tra loro, certi operai non vogliono insegnare. [...] Se
tu non sai fare una cosa perché non ti ricordi, il tuo collega non è obbligato, an-
che perché ha il suo lavoro, i capi devono essere più vicini in questa fase». E an-
cora: «Il sistema d’insegnamento non è efficace, a livello dei responsabili devono
insegnare di più».
Un altro neoassunto invece spiega: «Sono gli operai a insegnarmi le cose. Lo-
ro mi insegnano meglio che il caporeparto».

Da tutto ciò ricavo un punto assai preciso. La questione di quel che alcuni so-
ciologi del lavoro chiamano “capitale intangibile” o altrimenti quel che gli eco-
nomisti à la page chiamano knowledge economy. Insomma, l’importanza del sa-
pere, delle conoscenze nella produzione. Le macchine, lo si sa, non sono che sa-
pere materializzato, tangibile, e tanto più ne contengono, tanto più valgono.
D’altra parte, la formazione, l’immissione del sapere tra chi fa lavori esecutivi è
uno dei temi più trattati oggi. E il sapere che gli operai stessi accumulano con la
loro esperienza, che si trasmettono tra loro, guardandosi, parlandosi, ogni gior-
no, magari anche disputando, o di nascosto, magari anche contro capireparto o
dirigenti fissi nella loro idee di disciplina e di produzione? A me pare che è esat-
tamente di questo che ci parlano queste voci raccolte da Anne Duhin alla Bon-
figlioli. E che mostrano quanto sia ampio il terreno di intervento per chi voles-
se e potesse raccogliere le prescrizioni che su simili argomenti vengono e pos-
sono venire da questi stessi operai, se interpellati adeguatamente come gli unici
esperti in materie, come questa del loro sapere, poco o nulla conosciute.

Note

. Cfr. “Ethnologie française”, , : S. Lazarus, S. Moucharik, A. Duhin, A. Kassapi, M.


Hérard, D. Corteel, J. Hayem, L. Pitti, M. Kuhlmann, M. Schumann, P.-N. Giraud, M. Hidouci,
L. Kundid; Lazarus, Anthropologie ouvrière et enquêtes d’usine, cit.
. Cfr. S. Lazarus, Étude sur les formes de conscience et les représentations des OS des usines
Renault, rapporto conclusivo della ricerca “Les OS dans l’industrie automobile”, CNRS/RNUR, .


Una benevola forma di egoismo.
I volontari della Casa dei Risvegli 

di Laura Filippini

Viene qui presentata un’indagine condotta all’interno della realtà vissuta e rac-
contata con preziose parole da un gruppo di volontari, interpellati come de-
tentori di uno spazio intellettuale che troppo spesso non trova il modo di rac-
contarsi e che viene rappresentato e descritto da persone e istituzioni che non
lo conoscono nella sua totalità.
Obiettivo della ricerca è mettere in luce cosa i volontari dicono sul e intor-
no al volontariato; essi spesso non si identificano nella visione che la società dà
di loro, prova inconfutabile di una distanza fra l’opinione pubblica e la realtà
del volontariato. Le parole dei volontari possono così avere una portata non so-
lo conoscitiva della situazione che raccontano, ma anche pragmatica, di azio-
ne, conseguente a una richiesta di cambiamento migliorativo.


Il campione

La ricerca aveva lo scopo di intervistare  volontari che si occupassero di di-


verse attività, ma tutte inerenti alla Casa dei Risvegli. Sono stati intervistati:
–  giovani volontari, dell’età compresa fra i venti e i trenta anni, accomuna-
ti da un progetto teatrale che li ha visti in contatto con persone risvegliate dal
coma. A parte per tre di essi, per gli altri questa è stata la prima esperienza di
volontariato;
–  giovani volontari intorno ai trenta anni di età molto attivi nell’ambito del-
l’associazione per la quale si occupano da circa tre o quattro anni di vari aspet-
ti: dal contatto con persone risvegliate dal coma, in ospedale o a domicilio, a
sperimentazioni teatrali, ma anche contatto con l’aspetto organizzativo e più
burocratico dell’associazione;
–  volontarie in pensione che si occupano esclusivamente di gestione di
eventi promozionali e che hanno alle spalle un’impegnativa attività di volonta-
riato, anche per altre associazioni;
–  giovani donne di circa quaranta anni con un’esperienza di assistenza do-
miciliare a una ragazza risvegliata dal coma;


LAURA FILIPPINI

–  volontari della Croce rossa italiana di età compresa tra i venticinque e i


trentacinque anni, tranne un signore in pensione, i quali hanno aderito a un
progetto proposto dalla Casa dei Risvegli, avendo così l’occasione di seguire al-
cuni pazienti risvegliati dal coma, in ospedale o a casa degli stessi.
Fra i  volontari intervistati  sono di sesso maschile; di questi,  hanno
un’età compresa tra i venti e i ventitré anni, uno ha trentacinque anni e un altro
è un signore di sessantacinque. I restanti  volontari sono di sesso femminile; 
sono signore di età compresa tra i sessanta e i settanta anni,  hanno quaranta
anni,  sono ragazze di età compresa tra i venti e i venticinque anni,  sono don-
ne tra i trenta e i quaranta anni. Al di là del campione utilizzato nella ricerca, va
sottolineato che il volontariato all’interno dell’associazione è prettamente fem-
minile, soprattutto per quanto riguarda la fascia d’età più matura, dai cinquan-
ta ai settanta anni. I volontari di sesso maschile, ove ci sono, li si trova in fasce
d’età basse, dai venti ai trenta anni, e impegnati in attività creative e sperimen-
tali, comunque mai in attività promozionali o inerenti all’ufficio. La fascia d’età
con minore presenza risulta essere quella compresa tra i quaranta e i cinquanta
anni, mentre le due fasce esterne, quella tra i venti e i quaranta e quella tra i cin-
quanta e i settanta risultano essere rappresentative di tipiche forme di attività
volontaria; i più giovani sono volontari impegnati in esperienze molto ricche di
elementi artistici e creativi, mentre i più adulti o anziani in attività più pratiche
e legate all’organizzazione dell’associazione.


I luoghi

Il presente studio vuole essere molto attento ai luoghi ove si svolgono le atti-
vità dei volontari intervistati, per questo si è cercato di usarli come ambienta-
zione delle interviste. Questo perché si è convinti che, per parlare di qualco-
sa, sia necessario, prima di tutto, rintracciare l’ambiente ove questo qualcosa
si articola e si compie. Questa è stata dunque una ricerca “sul campo”, forte
dell’idea che tutto il conoscibile vada contestualizzato e che l’astrazione sia
un’operazione impropria se non distruttrice di significati. È nella dimensione
specifica in cui si articola un fenomeno sociale, non in quella astratta e gene-
rica della società, che sostengo debbano essere analizzati e verificati empiri-
camente concetti come “solidarietà”, “eticità” e tanti altri, con l’intenzione di
non rendere questi concetti parole vuote, senza significato, dette senza quasi
rendersene conto.
– Nel caso dei volontari la cui attività comporta il contatto con persone ospe-
dalizzate, il luogo scelto per l’incontro è stato la biblioteca del Day Hospital
dell’Ospedale Maggiore di Bologna in largo Nigrisoli, .
– Nel caso dei volontari che svolgono l’attività organizzativa e promozionale, il
luogo scelto è stato la saletta riunioni dell’associazione in Via Saffi,  a Bologna.


UNA BENEVOLA FORMA DI EGOISMO

– Infine, nel caso dei volontari della Croce rossa italiana, il luogo è stato la
sede dei Volontari del soccorso in via San Petronio Vecchio,  a Bologna.


Le interviste

Ogni intervista ha avuto la durata di circa un’ora e mezza. Il questionario non


è stato consegnato all’intervistato, ma è stato da me letto, permettendomi così
di muovermi al suo interno a seconda delle risposte ricevute. Essendo inoltre il
questionario unico, c’è stato bisogno di alcuni aggiustamenti a seconda della ti-
pologia dell’attività svolta dal volontario intervistato.


Il questionario

Il questionario prevedeva un totale di  domande. L’intenzione è stata di en-


trare immediatamente nell’argomento e di aprire subito un dialogo con l’in-
tervistato, per questo le  domande per la raccolta dei dati personali e stati-
stici sono state lasciate alla fine. Le altre  domande sono state disposte se-
condo una successione che permettesse un’alternarsi tra momenti più perso-
nali e questioni più generali; i temi trattati sono stati molteplici, con lo scopo
di avere un quadro il più possibile completo di tutti gli aspetti di questa atti-
vità: da argomenti di attualità ad argomenti introspettivi, ma comunque tut-
ti inerenti al personale modo di vedere il volontariato. Il questionario può es-
sere definito “l’anima” del presente lavoro, perché è a partire da esso che si
è sviluppato tutto il materiale; ogni domanda rappresenta una finestra che si
è aperta su una porzione della realtà del volontariato. Le domande sono sta-
te formulate con lo scopo di permettere non solo un’esposizione di risposte,
ma anche una eventuale riflessione su qualcosa che si fa, quindi su un agire,
sul quale di solito non ci si fanno tante domande. Le domande sono state con-
cepite per rendere l’intervista articolata, ma non dispersiva e avevano lo sco-
po di portare a una risposta chiara, ma non sintetica. Infine ha avuto luogo
l’elaborazione delle interviste, il cui scopo non è stato quello di trovare un’og-
gettività in esse o quello di stilare una statistica. Ho cercato di rimanere il più
possibile fedele alle parole che ho ascoltato, senza condirle e viziarle con si-
gnificati diversi, con l’intenzione di proporre uno spaccato di una realtà che
si è rivelata essere misteriosa e affascinante, enigmatica e cristallina allo stes-
so tempo, disarmante nella sua spontaneità, imbarazzante nella sua difficoltà
di spiegarsi a parole e coinvolgente nella sua volontà di fare. Parallelamente
c’è stata l’intenzione di rintracciare le “parole prescrittive”, capaci cioè di in-
tervenire e proporre oltre che di descrivere.


LAURA FILIPPINI


Una “benevola forma di egoismo”:
cosa dicono i volontari del volontariato 

Un ragazzo, volontario da parecchio tempo all’interno dell’associazione e con


un grande bagaglio di esperienze, nel corso dell’intervista si è spesso riferito al
volontariato definendolo “una benevola forma di egoismo”. Il termine “egoi-
smo” riferito al volontariato e al perché lo si faccia è tornato più volte nel cor-
so delle interviste e l’accezione che ne è stata data è del tutto positiva. Con
grande naturalezza, la totalità degli intervistati ha detto di fare quello che fa in
prima istanza perché spinta da questioni e motivazioni personali: «Non esiste
volontariato senza crescita personale, […] se non trovi un arricchimento perso-
nale non lo fai», sostiene una volontaria con una discreta esperienza alle spal-
le. Sono proprio i volontari non alle prime armi a riferire di un «bisogno perso-
nale di aiutare se stessi aiutando gli altri», come dice quello stesso ragazzo au-
tore della frase per prima citata e che continua affermando: «Sei tu che ti nutri
dell’atto del dare». La maggior parte degli intervistati sono volontari a contatto
con persone uscite dal coma o che si trovano nella fase del risveglio. In costo-
ro è forte la necessità di fare quello che fanno traendone una soddisfazione per-
sonale, altrimenti, come molti dicono, non sarebbe assolutamente possibile
sopportare l’“angoscia esistenziale”, come la definisce una volontaria, che de-
riva dal vivere queste realtà: «Quotidianamente vivi realtà assurde e sconvolgenti
e devi essere capace di liberartene in qualche modo». I modi per liberarsi di que-
sti vissuti sono vari, ma per lo più personali; una ragazza che segue vari giova-
ni con esperienza di coma dice: «Mi rendo conto che vederli una volta ogni tan-
to mi aiuta, non ce la farei a vederli sempre; a volte ho bisogno di sdrammatizza-
re, per questo li chiamo affettuosamente “handy”».
Alcuni dicono di aver ideato tecniche per esorcizzare certi sentimenti, altri
dicono che, nonostante le grandi difficoltà, riescono a «non portarsi a casa la
sofferenza» che vivono, perché «quando esci devi staccare la spina altrimenti non
sopporti la situazione». I volontari non a contatto con il dolore fisico, che si oc-
cupano di aspetti organizzativi e burocratici, non parlano di questa esigenza di
scaricarsi dal peso delle esperienze vissute in ospedale o al domicilio di perso-
ne malate, ma anch’essi parlano della loro attività come di «un’efficace terapia»
e anche per loro è un appagarsi donando ore del proprio tempo agli altri. Solo
un intervistato, un signore in pensione che, come lui stesso dice, fa “compa-
gnia” a due ragazzi con esperienza di coma, afferma: «Dove non c’è nessun ti-
po di interesse personale, quello è volontariato»; per il resto degli intervistati la
componente di appagamento ricevuto ha una grossa importanza.
La soggettività e l’aspetto personale, che rendono “benevolo” l’egoismo,
sono gli elementi chiamati in causa nelle motivazioni che spingono ad avvici-
narsi alla realtà del volontariato, ma sono anche quelli che continuano ad agire


UNA BENEVOLA FORMA DI EGOISMO

durante lo svilupparsi nel tempo dell’attività. Una giovane donna intervistata


parla di una sorta di esigenza esistenziale per la quale vive «un bisogno di fare i
conti con una qualche parte di te»; bisogno la cui soddisfazione non sembra ar-
rivare mai perché appartiene a un percorso probabilmente senza fine. Spesso è
stato detto che sarebbe impossibile sopportare un carico così pesante di soffe-
renza se chi lo sostiene non fosse spinto da profonde motivazioni personali.
Non potrebbe esserci ipocrisia, non potrebbe essere un modo di scaricarsi la
coscienza, perché se così fosse si sceglierebbe il volontariato sotto forma di do-
nazioni, non quello che ti coinvolge personalmente; ma non potrebbe esserci
nemmeno puro altruismo, per lo stesso motivo, perché «non dureresti un gior-
no» senza motivazioni personali. Solo un’intervista ha toccato il tema del rap-
porto fra coscienza personale e religiosità, ma in maniera molto superficiale;
quella dell’influenza religiosa è risultata essere infatti una questione molto mar-
ginale; le motivazioni religiose non sono mai state presentate come cause e
realtà determinanti. In quell’unica intervista è stato detto: «Io sono cattolica, ma
il mio volontariato non è mai stato spinto da questo aspetto».
Un’intervistata afferma: «Il volontariato deve essere una cosa anonima, di-
screta e arricchente, invece a volte vedo le persone lì per gratificare se stesse».
Le persone intervistate che prestano volontariato solo all’interno della Casa
dei Risvegli non hanno riferito di aver mai incontrato gente che facesse volonta-
riato per scaricarsi la coscienza o per motivazioni simili, ma hanno contemplato
la possibilità che questo possa verificarsi soprattutto in grosse associazioni e ri-
portano racconti che testimoniano realtà del genere. C’è insomma in costoro la
testimonianza diretta e personale di aver sempre incontrato persone spinte da
motivazioni profonde, motivazioni in parte egoistiche ma comunque personali e
ben salde, ma c’è anche il riportare un ampio “sentito dire” di realtà molto di-
verse in cui la componente egoistica diventa ricerca di riconoscimenti e sfoggio
esibizionistico di ciò che si fa; niente a che vedere con qualcosa di “benevolo”.
Un ragazzo afferma: «Sono spinto dal bisogno di fare cose che contribuisca-
no a definirmi come persona»; altri individui sono stati agganciati a questa atti-
vità grazie a una loro personale passione o interesse come la musica, la recita-
zione o gli studi universitari. Altri argomenti ricorrenti riguardano esperienze
personali o familiari che hanno avvicinato alla realtà del coma, ma in generale
prevale una forma di curiosità accompagnata a una certa propensione verso le
relazioni umane e, in molti casi, una buona dose di casualità. La motivazione
personale è predominante tra i giovani volontari, e spesso questi raccontano
che la scelta del volontariato è stata fatta durante un periodo di irrequietezza;
una ragazza dice: «È stato tutto molto casuale, se mi avessero proposto un corso
di salsa lo avrei fatto ugualmente»; un ragazzo dice: «Ti sembrerà strano ma l’ho
fatto parecchio per me stesso».
Altri ragazzi dicono di essere stati spinti dai loro studi universitari; sono in-
fatti molti coloro i quali hanno svolto il loro tirocinio universitario all’interno


LAURA FILIPPINI

dell’associazione, poi vi sono rimasti. Assieme a tutte queste motivazioni si ac-


compagna sempre la componente umana, la voglia di conoscere le persone e la
loro “benevola forma di egoismo”: «È bene che esista questa realtà, ha una fun-
zionalità sociale importantissima per chi lo fa, certo anche per chi lo riceve; è un
nutrimento per tutti».
I volontari che lo fanno da più tempo e che offrono parecchia disponibilità
perché sono in pensione, sono accomunati dal dire di farlo perché si sentono
fortunati e perché hanno ricevuto in famiglia un’educazione fatta di esempi di
vita in comune e di aiuto dato agli altri. Un’anziana signora dice: «[...] Pur con
tutte le scalogne, nella mia vita mi sono sempre sentita fortunata e ho sempre cer-
cato, al di là del fattore religioso, di seguire e far seguire a mio figlio un principio,
quello per cui se ricevi devi dare. Noi siamo sei fratelli, siamo nati nel periodo del-
la guerra in un piccolo paese, eravamo tutti senza soldi ma ci si aiutava… forse è
da questo che nasce il mio atteggiamento».
Un’altra anziana volontaria afferma: «Penso che ognuno di noi debba sempre
fare qualcosa per chi ne ha bisogno, altrimenti questa società va in malora».
Questa carrellata sul perché gli intervistati abbiano scelto o si siano trova-
ti nella situazione di diventare volontari non deve esaurirsi qui; parallelamente
ci deve essere una riflessione sulle parole che si sono usate e sul pensiero che
esprimono. La frase «[...] altrimenti questa società va in malora» possiede una
grande potenza prescrittiva, dice molto riguardo a ciò che fanno i volontari nei
riguardi di una realtà sulla quale altre parti, come il governo o la sanità, spesso
e volentieri non intervengono. Le parole portano in sé dunque una grande po-
tenzialità incisiva sulla realtà che raccontano: lo si farà per una “benevola for-
ma di egoismo”, ma anche perché bisogna darsi da fare e intervenire a fronte
di richieste a cui altri non rispondono.


Le proposte dei volontari

Partendo dal dato di fatto che questa forma di egoismo è considerata parte es-
senziale dei meccanismi psicologici che portano alla scelta di svolgere un’atti-
vità di volontariato e a quella di continuare a impegnarsi in essa, risulta che è
fondamentale trovare le strade più giuste e motivanti da proporre per aggan-
ciare e rinnovare nel tempo l’interesse dei volontari.
«Senza una proposta attiva da parte dell’associazione non credo che avrei fat-
to questa esperienza, non è partita da me questa cosa. È molto importante che ar-
rivino queste richieste d’aiuto e di collaborazione», dice un ragazzo ventitreen-
ne che fa parte del progetto teatrale per il quale è stato ed è in contatto con ra-
gazzi risvegliati dal coma. La questione portata alla ribalta da tutti gli intervi-
stati è quella del rapporto tra il volontariato e i giovani; si riconosce che «per
avvicinare i ragazzi al volontariato bisogna sfruttare agganci e motivazioni loro»,


UNA BENEVOLA FORMA DI EGOISMO

e che sarebbe giusto diversificare a seconda dell’età dei volontari le attività al-
l’interno di una stessa associazione e di uno stesso ambito d’azione. Questo da
una parte sottolinea l’esigenza di offrire stimoli e input a coloro che potenzial-
mente vorrebbero avvicinarsi al mondo del volontariato, e dall’altra rivela l’e-
sigenza di trovare il modo per rinnovare questi stimoli diversificandoli e ali-
mentandoli, per evitare l’abbandono dell’attività. Ecco allora che è difficile ve-
dere un giovane volontario che svolga un’attività continuativa e di un cospicuo
numero di ore settimanali, se questa attività non ha per lui agganci e spunti che
lo colleghino alla sua vita ancora in fase di progettazione. Una ragazza molto
determinata e costante nella sua collaborazione con l’associazione dice: «Se mi
dicessero di dare la pastiglia alla nonna alle due del pomeriggio non lo farei»; e
un suo coetaneo la segue affermando: «Se dovessi pulire il sedere alle vecchiette
in maniera meccanica non lo farei perché sarebbe una mancanza di stimoli».
Alcuni intervistati adulti si dichiarano molto scettici sulla consistenza fu-
tura dell’attività di volontariato e denunciano la perdita dello scopo primario
del volontariato, quello umano. Un’anziana volontaria dice: «Parlare con i ra-
gazzi della morte è molto importante perché bisogna conoscerla; ora c’è un brut-
to rapporto con questo argomento, non come quando ero bambina io. Adesso la
gente muore in ospedale e poi sembra sparisca, invece io mi ricordo che da bam-
bina andavo nelle case del paese quando moriva qualcuno e lo vedevamo. Biso-
gna quindi dare un esempio ai giovani per insegnare loro ad affrontare il dolo-
re della morte».
Molto è stato detto riguardo la necessità di una maggiore sensibilizzazione
nelle scuole e sono soprattutto i giovani che per primi hanno dichiarato la loro
difficoltà nella fase di approccio al volontariato, quelli che hanno più volte fat-
to presente l’importanza enorme che ci sia qualcuno che fornisca informazio-
ni: «Io ero rappresentante di istituto alle superiori e so che i ragazzi a scuola avreb-
bero un gran potere e una gran voglia di fare esperienze come queste, ma bisogna
presentare temi e iniziative valide e questo non avviene perché c’è un problema
di proposta e di ricezione». La maggior difficoltà riportata riguarda il non sape-
re chi contattare, quale tra le tante associazioni e come contattarla; ecco che al-
lora sono state presentate proposte volte a fornire alle scuole numeri di telefo-
no da utilizzare e referenti a cui fare capo. Altre proposte riguardano l’inseri-
mento di alcune ore di volontariato nei programmi delle scuole superiori per
dare la possibilità ai ragazzi di conoscere questa realtà. I volontari più giovani
affermano che a scuola non ricevono informazioni sulla possibilità di fare vo-
lontariato; un ragazzo dice: «Se qualcuno a scuola me ne avesse dato la possibi-
lità, lo avrei fatto prima».
Si sottolinea nuovamente l’importanza dell’approccio iniziale al volonta-
riato, degli agganci a questa realtà e questo è l’ambito in cui, a detta di molti
intervistati, lo Stato dovrebbe intervenire con proposte mirate e con propa-
gande efficaci; lo stesso volontario sopra citato aggiunge: «Manca il nesso…


LAURA FILIPPINI

come entro? Quando senti una sigla di un’associazione di volontariato non sai
come avvicinarti, è tutto troppo casuale; a chi lo chiedo? Dove vado? La gente
non lo fa perché è una strada in salita, sono gradini che devi fare da solo. Le
associazioni sono tante e non sai dove andare; per questo aspetto lo Stato do-
vrebbe fare qualcosa».
Gli intervistati più giovani hanno mostrato un enorme interesse verso la
questione della formazione dei volontari e dei problemi che si incontrano in
questa attività, soprattutto quelli il cui piano di studi universitari li porta ad es-
sere informati sul rapporto tra volontariato e welfare state. Costoro sostengo-
no che le risorse di quest’ultimo non siano infinite, per questo motivo ritengo-
no sia necessario incentivare il mondo del volontariato partendo dall’educa-
zione scolastica e che sia necessario strutturare in maniera più chiara le asso-
ciazioni per eliminare quella forte componente di casualità e genericità che
spesso avvolge questa realtà. Una giovane donna, che deve gestire con grande
impegno il suo lavoro da impiegata d’ufficio per poter ritagliarsi un po’ di tem-
po da dedicare al volontariato, dice: «Se chiedo un permesso al lavoro per recar-
mi in ospedale dai ragazzi non me lo danno… dovrebbero riconoscere in questo
senso la possibilità di prendere permessi per il sociale».
Tratto molto interessante è che le stesse persone che affermano di aver fat-
to volontariato un po’ per caso, sono poi le stesse che più di altre denunciano
la casualità come un aspetto tipico del volontariato, sul quale intervenire por-
tandovi ordine e maggiore sistematicità. Alcuni intervistati ritengono che per
migliorare la questione dei referenti e della gestione e formazione dei volon-
tari «dovrebbe esserci a capo un’organizzazione pagata; il lavoro verrebbe fatto
meglio perché pagare chi è ai vertici renderebbe la condizione più chiara… cre-
do sia molto importante», dice un’anziana volontaria forte anche della sua
esperienza in altre associazioni di volontariato. A riguardo, una ragazza ven-
tenne afferma: «Mi preoccupa che nel volontariato alcune cose siano poco orga-
nizzate, bisogna strutturare il volontariato perché funzioni bene e a pieno; oggi
è un po’ tutto lasciato così come viene. A volte bisogna stare attenti a non inter-
venire peggiorando le cose».
Un’altra ragazza, sua coetanea, dice: «[...] Se dovessi pensare a un volonta-
riato ideale metterei uno staff di base pagato che si occupi dell’organizzazione, al-
trimenti si rischia di sprecare molte energie e risorse; metterei precise figure di re-
ferenti e organizzatori. Quando fai volontariato devi sentirti utile e apprezzato e
una struttura di base risolve molti problemi».
Gli aspetti che caratterizzano il volontariato, quindi il suo essere un’attività
fatta di creatività, libertà, mancanza di certezze, relazioni interpersonali, speri-
mentazione, raccolta di sfide e coraggiosi salti nel vuoto, sono tutti aspetti che
lo rendono un qualcosa di assolutamente unico, ma sono anche quelli che nel-
le fasi di avvicinamento spesso scoraggiano, perché, a volte, la volontà da sola
non basta. Chi si sente meno parte del mondo del volontariato, chi non si ama


UNA BENEVOLA FORMA DI EGOISMO

definire con la parola volontario, chi fatica a dare una definizione precisa di
quello che fa, pur condividendo e facendo tanto, è in genere chi sottolinea con-
tinuamente l’importanza di trovare il modo di avvicinare la gente a questa realtà
e di motivare i giovani: «Conto sul fatto che ci sia qualcuno che mi dice che c’è
bisogno di me. Vorrei che ci fosse sempre qualcuno che mi cercasse; avendo tante
cose da fare ho bisogno di qualcuno che mi chieda di fare le cose. Nella squadra di
calcio dove gioco l’allenatore dei portieri un giorno mi ha detto di essere socio del-
la Casa dei Risvegli, ma ha anche detto che nessuno lo chiama, nessuno lo cerca
per avere il suo aiuto… potrei finire così anch’io». Queste sono le parole di un
ragazzo di ventidue anni al quale verrebbe da rispondere con le parole di un’al-
tra volontaria, quando dice: «[...] In fin dei conti però ognuno deve metterci del
suo, senza aspettare che siano sempre gli altri a prendere l’iniziativa».
Rimane il fatto che da parte dei più giovani è tangibile questa esigenza di
essere incanalati e sostenuti in quello che fanno.


Riconoscimento intellettuale,
informazione e formazione nel volontariato

I volontari dicono di condividere qualcosa a cui però non sentono di apparte-


nere e per questo non riconoscono a se stessi, intellettualmente e socialmente,
un ruolo preciso; per loro la parola “volontariato” è una parola comoda con la
quale ci si fa capire dagli altri velocemente, ma in realtà il volontariato è per lo-
ro uno spazio delegato alle relazioni umane, è una “questione di ascolto e di re-
lazione avvenuta”, di empatia raggiunta e di scambio di energie.
«Anch’io uso spesso questa parola, è comoda e la gente mi capisce al volo»:
questo dice un volontario di trentacinque anni molto attivo all’interno dell’as-
sociazione. Volontariato e volontario sono considerate categorie e termini da
utilizzare per farsi capire dagli altri in ambiti formali. Una giovane donna vo-
lontaria dice: «Quando dico che sono una volontaria la gente mi capisce imme-
diatamente».
Al di là dell’uso che se ne fa, c’è una diffusa difficoltà nell’identificarsi nel
termine “volontario” e quando lo si usa si è spinti da motivi pratici e di como-
dità, per indicare una realtà a cui non si sente di appartenere ma che comun-
que si svolge con grande passione. Un solo intervistato, un volontario in pen-
sione che segue due pazienti ospedalizzati con esperienza di coma, afferma con
una certa dose di orgoglio di riconoscersi nella figura del volontario e di sen-
tirsi appartenente allo “spirito del volontariato”, come lui lo definisce.
Se chi considera comoda la parola “volontariato” rappresenta circa la metà
del campione intervistato, l’altro cinquanta per cento mostra una spiccata an-
tipatia verso questa parola e per questo afferma: «Non uso mai parole come vo-
lontario, nemmeno volontariato, non mi piace l’identificazione, certe cose come


LAURA FILIPPINI

aiutare gli altri non si possono dire, ne parlo con te perché è una tua esigenza»;
costoro, oltre a non identificarsi nel termine e nella categoria, non lo utilizzano
nemmeno in contesti generali e ufficiali. Una giovane donna che nel corso del-
l’intervista ha mostrato un particolare individualismo, sostiene di non voler es-
sere considerata una volontaria perché non vuole sentirsi obbligata ad avere,
ad esempio, un giorno fisso per fare questa attività. C’è in questi casi un vero e
proprio rifiuto di usare un termine che alcuni legano in prima istanza a qual-
cosa di ipocrita e ad atteggiamenti esibizionisti. Una giovane donna dice: «Pro-
vo vergogna a vedere certi personaggi esasperati che esibiscono finzione, a volte
diventa un modo per apparire e quindi una contraddizione dell’essenza stessa di
quello che dovrebbe essere invece un atto di generosità».
Volontariato «è un termine troppo generale e che non può coincidere con
quello che nello specifico faccio io», dice una giovanissima volontaria. I giovani
tendono a dire frasi del tipo: «Non mi sono mai sentito un volontario o di fare
volontariato»; «Non mi identifico molto nel volontariato»; non riescono insom-
ma a vedere quello che fanno come fosse volontariato e non si sentono appar-
tenenti all’ambito del volontariato.
Il difficile rapporto con le parole “volontariato” e “volontario” può essere
dunque considerato il sintomo di una generale assenza di appartenenza a un pre-
ciso ambito che proprio per questo è difficilmente raccontabile e riconoscibile
attraverso parole precise. Questo meccanismo si riscontra ancora di più se si
chiede ai volontari il loro rapporto con altre parole quali “paziente”, “collega”
e altri termini inerenti la loro attività. In questo caso tutti gli intervistati sono
uniti nel dire di non usare assolutamente mai, nemmeno in ambiti formali, ter-
mini come “paziente” o “collega”. Così i pazienti, nel caso di assistenza al ma-
lato, non sono mai chiamati “pazienti” e i colleghi mai “colleghi”. Pochissimi
usano il termine “disabile”, la maggior parte degli intervistati afferma di non
usare mai la parola “portatore di handicap” o “malato”, preferiscono usare an-
che in questo caso lunghe perifrasi per riferirsi a una persona, usano il nome pro-
prio oppure usano il termine “ragazzo”; quest’ultima parola è usata da tutti gli
intervistati e l’aspetto peculiare è che è utilizzata per riferirsi a persone di qual-
siasi età, testimonianza del fatto che si viene a instaurare una forte empatia che
elimina ogni differenza, anagrafica o fisica. Molti infatti dicono “un ragazzo di
 anni” e lo fanno con la più grande naturalezza. Gli intervistati più giovani usa-
no spesso termini come “risveglini” per riferirsi ai ragazzi usciti dal coma, op-
pure alcuni dicono “i regaz usciti dal coma”. Questo dimostra ancora una volta
che non esistono categorie chiare e distinte, che non c’è demarcazione tra una
categoria del volontario e una del paziente su cui agisce; certo esistono diffe-
renze, ma queste vengono a sfumare quando si entra nel territorio relazionale.
Una ragazza la cui attività si svolge principalmente a contatto con persone ri-
svegliate dal coma afferma: «[...] Faccio fatica a lavorare se non c’è coinvolgi-
mento affettivo, ho bisogno di conoscerli».


UNA BENEVOLA FORMA DI EGOISMO

Lo stesso vale per le parole che si usano per riferirsi ai colleghi, appunto
mai chiamati “colleghi”, tranne in rarissimi casi, solo in occasioni particolar-
mente ufficiali, ma con il nome di battesimo; anche in questo caso molti inter-
vistati dicono “ragazzi”, oppure usano perifrasi del tipo: “Luca, un ragazzo con
cui lavoro”. Anche qui le differenze di età vengono superate, tutti si danno del
tu e si salutano con il ciao, c’è un grande rapporto di amicizia e complicità, non
esistono gerarchie e sudditanze, si vengono a creare veri e forti legami affettivi
che proseguono anche oltre l’attività di volontariato.


«Volontario è chi ha la volontà di fare questa esperienza,
con la consapevolezza di non essere un professionista»

«Volontario è chi ha la volontà di fare questa esperienza, con la consapevolezza di


non essere un professionista»: queste le parole di una volontaria della Casa dei
Risvegli.
Il volontario è connotato dunque da una grande volontà, volontà che forse
chi fa un lavoro dipendente non ha. La necessità di un’adeguata formazione teo-
rica e pratica, che sembra mancare in molti casi, è presentata continuamente da
parte dei volontari intervistati, ma rimane sullo sfondo; ciò che primeggia è as-
solutamente di altro tono e colore, è una questione che rimanda alla libertà di
donare un po’ del proprio tempo a qualcuno che ne ha bisogno facendolo con
la voglia di essere competenti e pronti, ma facendolo soprattutto con quella con-
sapevolezza, segno di sincera umiltà, di non essere dei professionisti e di non am-
bire a diventarlo. Ciò che la volontà dona agli altri non può che essere misurato
in termini qualitativi, le soddisfazioni derivano da cose apparentemente picco-
le, da un sorriso o da una smorfia risvegliati in un ragazzo, da un abbraccio di-
sperato ricevuto seduti su un letto di ospedale o anche da un semplice “grazie”.
«Il momento più bello è stato con J., quando ha chiuso gli occhi alla fine dell’in-
contro per dire sì, puoi tornare», dice una ragazza.
Se è vero che la frase poco sopra citata («volontario è chi ha la volontà di fa-
re questa esperienza, con la consapevolezza di non essere un professionista») è un
po’ l’emblema che rappresenta il punto di vista di tutti gli intervistati, è anche
vero che c’è da parte degli stessi l’interesse e l’esigenza di approfondire alcuni
aspetti della loro attività attraverso corsi teorici ai quali affiancare una cospicua
esperienza pratica: «Mi piacerebbe saperne di più, ma non esistono corsi specifi-
ci e comunque nessun corso ti potrebbe insegnare come comportarti in alcune si-
tuazioni», così dice un giovanissimo volontario molto coinvolto nella sua atti-
vità che lo porta a contatto con persone con esperienza di coma e molto curio-
so di saperne di più di questa realtà.
Nella maggior parte dei casi, comunque, gli intervistati considerano prima-
ria l’esperienza pratica, perché solo con essa si possono trovare metodi e mette-


LAURA FILIPPINI

re alla prova quelli già adottati, soprattutto vista la particolare realtà su cui si
opera, quella del coma, ove di sicuro e controllabile scientificamente c’è ben po-
co. Insomma, come dice una volontaria, «ci vorrebbe una circolarità tra teoria e
pratica». La quasi totalità degli intervistati dichiara di non sentirsi affatto pa-
drona delle situazioni che incontra, ma la ritiene una condizione congenita alla
propria attività per la quale «non esistono corsi specifici», come dice un’altra vo-
lontaria. Diverso è il caso dei volontari che si occupano di promozione e orga-
nizzazione pratica di eventi. Costoro non riportano l’esigenza di accedere a cor-
si teorici e aggiungono che la loro è stata una scelta, che hanno preferito non fa-
re volontariato in ospedale a contatto con persone con esperienza di coma, pro-
prio perché non si sentirebbero in grado di svolgere questo compito.
Torna l’aspetto relazionale nel volontariato, torna la diffusa idea che sì, sia
importante la preparazione teorica, ma che in fin dei conti sia tutta una que-
stione di capacità personale di relazionarsi, di voglia e propensione a mettersi
a disposizione degli altri. C’è una grande attenzione all’aspetto psicologico,
proprio e dell’altro, alla capacità di comunicare e alla sensibilità nel capire le
risposte che spesso non arrivano o che vanno codificate. La peculiarità di que-
sta realtà nella quale non sono applicabili standard e protocolli appresi attra-
verso corsi, apporta una buona dose di fatalismo che spesso avvolge il volonta-
riato, come se ci fosse una zona non controllabile e non definibile con esattez-
za, ove ciò che conta è la buona volontà e l’esperienza, ove non c’è mai un pun-
to di arrivo o una teoria incontestabile. Tornano spesso le parole “sperimenta-
zione”, “creatività” e “invenzione” per riferirsi a un’attività poliedrica ove le
varianti sono tanto infinite quanto imprevedibili.
In conclusione, si può pensare che nel volontariato primeggino certamente
le componenti relazionali, umane, solidaristiche, etiche e gratuite, ma anche che
parallelamente il volontariato si riconosca un concreto intervento nei riguardi di
realtà disagiate che, proprio perché sempre più crescenti, hanno bisogno di più
sistematicità di intervento; un intervento che sperimenti il disagio di quelle si-
tuazioni e che risponda con “creatività” e “inventiva” alle questioni che esse
pongono. Un intervento pratico ma, dunque, anche intellettuale; un intervento
che proprio per il suo carattere innovativo richiede nuovi modi di pensare la
stessa nozione di “volontariato” che dalle interviste risulta essere un termine as-
solutamente ambiguo. Un’ambiguità che pare soprattutto derivare dalla diffi-
coltà di trovare modalità adeguate per organizzare e far durare nel tempo un’e-
sperienza sociale in grado di dare risposte creative a nuovi bisogni, senza farle
perdere il suo carattere gratuito e non professionale. Se da una parte ci sono opi-
nioni, standard e luoghi comuni sul volontariato, da parte di tutti coloro che vo-
lontariato non lo fanno e nemmeno lo conoscono, dall’altra ci sono le parole di
quelle persone che volontà in questo senso ne hanno e che organizzano un pen-
siero testimone di uno specifico spazio intellettuale che spesso nulla ha a che ve-
dere con i discorsi retorici ed estranei e che tanto ha da dire.


UNA BENEVOLA FORMA DI EGOISMO

Grazie a tutti i volontari della Casa dei Risvegli e della Croce rossa italiana, un grazie par-
ticolare a Simona, con la speranza che presto possa sfogliare le pagine di questo libro.

Note

. Ogni anno molti giovani vanno in coma senza poter contare su valide strutture e su una con-
creta speranza per il loro recupero. L’associazione Gli Amici di Luca – Casa dei Risvegli Luca De
Nigris si occupa di assistenza a pazienti in coma o in fase di risveglio e di sostegno alle famiglie, e
ha inaugurato, il recentissimo  ottobre , in occasione della sesta Giornata nazionale dei ri-
svegli per la ricerca sul coma – “Vale la pena”, il nuovo centro postacuto per giovani in coma pres-
so l’ospedale Bellaria di Bologna. Il centro è stato chiamato Casa dei Risvegli Luca De Nigris e rap-
presenta la realizzazione di un progetto all’avanguardia con lo scopo di facilitare il risveglio dal co-
ma e di permettere il ritorno alla vita e il reinserimento nel mondo lavorativo e sociale di giovani
con questa patologia; inoltre al suo interno i familiari potranno vivere insieme al paziente e diven-
tare così parte attiva della terapia riabilitativa. La Casa dei Risvegli è pensata più che come un ospe-
dale come una casa, in cui piccoli moduli abitativi offrono punti di riferimento abituali al pazien-
te. La struttura, unica nel suo genere in Europa, è promossa dall’Azienda USL di Bologna assieme
al Comune e alla Provincia di Bologna, dalla Regione Emilia-Romagna, dall’Università di Bologna,
Dipartimento di Scienze dell’educazione ed è aperta a numerose collaborazioni.
Così, dalla vicenda di Luca De Nigris, un ragazzo di sedici anni entrato in coma per due-
centoquaranta giorni, conclusasi tristemente nel gennaio del , è nata una gara di solidarietà
che ha portato fino a questo importante risultato, a questo centro postacuto che prevede e realiz-
za una necessaria integrazione fra competenze medico-riabilitative, psicopedagogiche, volonta-
riato formato e tecnologie innovative.
. Geertz, Antropologia interpretativa, cit. Nel testo l’autore sostiene la necessità di trattare i
fenomeni culturali come sistemi di significato e costellazioni di simboli che vanno interpretati te-
nendo in considerazione il contesto in cui nascono; è tutta una questione di “interpretazioni di in-
terpretazioni”, di voler capire, quindi interpretare, una particolare realtà che a sua volta ha attuato
un’interpretazione di ciò che si è trovata davanti. Ecco che le parole verbalizzano l’esperienza, co-
sì ascoltare le parole significa farsi raccontare qualcosa della realtà che esse esperimentano.
. W. H. Banaka, L’intervista in profondità, Milano . Viene esposta la tecnica dell’intervi-
sta in profondità, molto rispettosa della soggettività dell’intervistato.
. Qui non si utilizzerà la categoria centrale della “motivazione”, decisiva per altri approcci
allo studio di questo fenomeno. «Gran parte delle ricerche condotte nei vari paesi a livello inter-
nazionale sulle motivazioni dei volontari […] e basate su domande dirette poste agli interessati
danno risultati […] identici, […] al primo posto troviamo […] le motivazioni altruistiche. […]
Naturalmente non abbiamo motivi di mettere in dubbio questi risultati. Il problema è che la for-
mulazione predefinita delle domande, tipica di queste ricerche, orienta in qualche modo le ri-
sposte, lasciando poco spazio a formulazioni complesse […]» (I. Colozzi, A. Bassi, Da terzo set-
tore a imprese sociali. Introduzione all’analisi delle organizzazioni non profit, Roma , pp. -
). Il problema della qualità dei dati raccolti tramite interviste è conseguente alla qualità delle do-
mande poste; ritengo che la durata e la complessità articolata delle interviste da me condotte ab-
bia impedito l’antipatico fenomeno di viziare le risposte. Mi sembra abbastanza evidente che se
chiedo a un volontario “sei spinto da motivazioni altruistiche o da motivazioni egoistiche?”, ot-
terrò una risposta qualitativamente di basso interesse e attendibilità, non perché l’intervistato
menta ma perché non gli ho dato la possibilità di articolare una risposta complessa. Le cattive ri-
sposte derivano per lo più da cattive domande.
. Cfr.: L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Torino  e Id., Alcune osservazioni
sulla forma logica, in Osservazioni filosofiche, Torino . Secondo Wittgenstein il significato dei
concetti deriva dal loro uso e si ha dunque un continuo slittamento semantico a seconda dei con-
testi sociali nei quali vengono utilizzati. Il linguaggio risulta essere un’istituzione sociale, colletti-
va e tramandata. Così, se il termine “egoismo” venisse usato in un altro contesto avrebbe un altro


LAURA FILIPPINI

significato. Per una visione generale sul pensiero di Wittgenstein cfr. anche D. Marconi, Guida a
Wittgenstein, Roma .
. «Il lavoro è sempre stato considerato un’attività fisica che desideravamo finisse quanto pri-
ma. Questa è anche la definizione di fatica. Il contrario della fatica è la motivazione. Quando de-
sideriamo che una cosa continui, non finisca, siamo motivati. […] Un lavoratore creativo può fre-
mere dal desiderio di cominciare, che so, a girare un film, a scrivere o a dipingere», o a fare vo-
lontariato, aggiungo io (D. De Masi, L’ozio creativo, Roma , p. ).
. A proposito cfr. Gli italiani: un popolo di donatori, in AA. VV., L’impronta civica. Le forme
di partecipazione sociale degli italiani: associazionismo, volontariato, donazioni, Roma .
. «Usando una certa prudenza possiamo dire che si fa del volontariato per una varietà mol-
to grande di motivi, che possono comprendere sia l’interesse del giovane a prepararsi per un pos-
sibile lavoro futuro sia l’interesse dell’imprenditore o del professionista di allargare il proprio gi-
ro di relazioni, sia l’interesse della casalinga a rompere un certo isolamento» (Colozzi, Bassi, Da
terzo settore a imprese sociali, cit., p. ).
. A proposito cfr. anche il capitolo L’associazionismo giovanile, in AA. VV., L’impronta civica, cit.
. A proposito propongo un “libro per chi vuole cominciare”, come dice il sottotitolo: S.
Gawronski, Guida al volontariato. Un libro per chi vuole cominciare, Torino ; un libro desti-
nato a tutti coloro che sentono il desiderio di impegnarsi in un’attività di volontariato ma che non
sanno da dove cominciare. Secondo il Censis ci sono  milioni e  mila cittadini disponibili e
non ancora impegnati che attendono proposte per tradurre in concreto la loro teorica disponibi-
lità a impegnarsi nel volontariato. Contiene testimonianze dirette, indirizzi internet e un piccolo
indirizzario delle organizzazioni di volontariato.
. Cfr. G. Cazzola, Lo stato sociale, tra crisi e riforme: il caso Italia, Bologna . Si occupa
del nostro paese e presenta delle proposte per conciliare deficit pubblico e solidarietà sociale. Cfr.
anche S. Trassari, Welfare state o neoassistenzialismo?, Milano , che si occupa della questione
nel Mezzogiorno italiano.
. «Quando ci si propone di affrontare questioni definitorie o classificatorie, in ambito di
discipline umanistiche […] accade che ci si venga a trovare di fronte alla dissoluzione o alla scom-
parsa dell’oggetto dello studio. Questo “effetto” non deve destare sorpresa in quanto è esatta-
mente ciò che ci si deve attendere avvenga quando si vanno a indagare fenomeni di natura socia-
le» (I. Colozzi, A. Bassi, Una solidarietà efficiente. Il terzo settore e le organizzazioni di volontaria-
to, Roma , p. ).
. A proposito cfr. G. Frege, Senso e denotazione, in A. Bonomi (a cura di), La struttura lo-
gica del linguaggio, Milano : il senso di un nome o di una parola viene afferrato da chiunque
conosca la lingua a sufficienza, mentre la denotazione, cioè l’oggetto stesso che designiamo e non
la rappresentazione che noi abbiamo dello stesso, non è detto che la si riesca ad afferrare. Lo stes-
so vale per la parola “volontario”, il cui senso è raggiungibile ma la cui denotazione è difficilmente
individuabile. Cfr. anche B. Russell, Sulla denotazione, in Bonomi, La struttura logica del linguag-
gio, cit. Russell sostiene che un sintagma denotativo, come ad esempio “un uomo”, è parte di un
enunciato e trova significanza solo in esso. Cfr. anche K. Donnellan, Riferimento e descrizioni de-
finite, in Bonomi, La struttura logica del linguaggio, cit. e W. O. Quine, Su ciò che vi è, in Id., Il
problema del significato, Roma .


Il senso della fabbrica.
Condizioni di ambientamento dei lavoratori
migranti nella provincia di Ravenna*
di Marta Alaimo e Franca Tarozzi


Introduzione

Nel periodo che va dalla fine di novembre  alla fine di gennaio  si è
svolta la prima fase della ricerca “Condizioni di ambientamento dei lavoratori
migranti nella provincia di Ravenna”.
Si è trattato della fase inchiestante che ci ha viste impegnate nella condu-
zione di quaranta interviste con gli operai di Marcegaglia S.p.A. trasferitisi re-
centemente nella provincia di Ravenna, provenienti dalle regioni meridionali
d’Italia e dall’estero.
L’inchiesta si è svolta con il contributo dell’Assessorato alle politiche del la-
voro e della formazione professionale della Provincia di Ravenna e con la col-
laborazione della Marcegaglia S.p.A. che, nella persona dell’ing. Zangaglia – ex
direttore dello stabilimento –, ci ha permesso di incontrare gli operai in fab-
brica, in una saletta attigua all’Ufficio controllo qualità, all’interno di un ca-
pannone, durante l’orario di lavoro. Ogni intervista è durata circa un’ora.
La partecipazione all’inchiesta, totalmente volontaria e anonima, ha visto
qualche operaio fermarsi oltre la fine del turno per riuscire a completare l’in-
tervista.


L’obiettivo

L’obiettivo centrale della ricerca sta nel conoscere i modi in cui i soggetti coin-
volti pensano il loro trasferimento e il loro adattamento alle nuove condizioni
lavorative, abitative e sociali.
Sulla base di queste conoscenze, il rapporto finale tende a:
– consigliare buone prassi in merito alle soluzioni dei maggiori problemi ri-
scontrati tra questi lavoratori;

* Un’inchiesta alla Marcegaglia S.p.A.


M A R TA A L A I M O , F R A N C A TA R O Z Z I

– contribuire alla valutazione dei costi e benefici per la Provincia stessa dei
diversi modi di selezionare, favorire e assistere il trasferimento sul suo territo-
rio dei lavoratori non ravennati.


Presentazione e caratteristiche del luogo

Aver deciso di circoscrivere l’inchiesta sulle condizioni di ambientamento dei


lavoratori migranti nella provincia di Ravenna, portandola avanti con gli ope-
rai della Marcegaglia S.p.A., ci ha permesso di lavorare con un campione so-
ciologicamente omogeneo e di indagare non solo le problematiche relative al-
l’ambientamento territoriale dei nuovi arrivati, ma anche il rapporto tra questo
tipo di ambientamento e le condizioni di lavoro e di vita in un luogo specifico
e molto particolare.
Un luogo, lo stabilimento Marcegaglia di Ravenna, che costituisce anch’es-
so un nuovo punto importante per la vita della città e della provincia, visto l’in-
sediamento relativamente recente (dal ) e le sue prospettive di ampliamen-
to, che contribuiscono a fare di Ravenna, grazie all’acquisizione strategica della
banchina del porto, lo stabilimento più importante del gruppo metalsiderurgi-
co Marcegaglia S.p.A., sia dal punto di vista logistico che della produzione.
Con i suoi cinquecento dipendenti, più altri duecento contrattisti di ditte
esterne che si occupano soprattutto della manutenzione, Ravenna è diventata
negli ultimi anni, come dice uno degli operai intervistati, la “punta di diaman-
te” del gruppo.
È infatti del mese di aprile  l’annuncio che la direzione sta cercando
altri centodieci operai da assumere per far partire una seconda linea di zinca-
tura e una seconda di decapaggio, portando così la produzione di acciaio, en-
tro il , a quota , milioni di tonnellate: circa un milione e mezzo di ton-
nellate verranno ridistribuite tra gli stabilimenti del gruppo, mentre  milioni
di tonnellate verranno lavorate nello stabilimento di Ravenna, come ha dichia-
rato il nuovo direttore dello stabilimento ravennate Mauro Bragagni all’agen-
zia di notizie Apcom.
Situato lungo la via Baiona verso Porto Corsini, lo stabilimento produtti-
vo, luogo della nostra inchiesta, si estende su un’area di . mq, di cui
. coperti, dove vengono principalmente lavorati coils di acciaio al fine
di raggiungere un prodotto rispondente alle richieste del cliente.
All’ingresso c’è la palazzina degli uffici amministrativi, la portineria che or-
ganizza e gestisce in entrata e uscita tutto il traffico pesante di camion e autoar-
ticolati che trasportano il materiale, la mensa aziendale e, verso il mare, la ban-
china del porto con le navi cariche di materiali e i capannoni della produzione
con il centro servizi, la zincatura, il decapaggio, la ricottura statica, la vernicia-
tura, tandem laminatoio a freddo, la rettificazione. I capannoni sono enormi co-


I L S E N S O D E L L A FA B B R I C A

struzioni che ricordano un po’ gli hangar dell’aviazione, con strutture portanti
metalliche e coperture leggere, molto aperti e dotati tutti di strutture aeree di
carroponte per lo spostamento dei coils nelle varie fasi della produzione.
I lavoratori intervistati sono tutti giovani (tra i  e i  anni di età) e lavo-
rano in questo luogo prevalentemente da non più di  anni. C’è, quindi, un al-
to tasso di ricambio della forza lavoro che contribuisce a dare alla fabbrica
un’immagine giovane e mobile, che contrasta con la durezza e la pericolosità
del lavoro che viene svolto.
Gli intervistati sono operai addetti alla produzione (esclusi  fra impiegati ne-
gli uffici e addetti alla portineria) nei diversi reparti che differiscono tra loro, a
parte per il tipo di lavorazione del prodotto che viene svolta, per l’organizzazio-
ne dei turni di lavoro: quelli del centro servizi lavorano per la maggior parte so-
lo su due turni produttivi (-/-), mentre quelli degli altri reparti lavorano a
ciclo continuo su tre turni (-/-/-), compresi quelli della portineria.
Gli operai svolgono il loro lavoro principalmente nelle postazioni di co-
mando automatizzate e di controllo lungo le linee di produzione, usano il car-
roponte per lo spostamento dei coils e intervengono sugli impianti quando si ve-
rificano problemi lungo la linea (un esempio sono le saldature corrette a mano).
La metalsiderurgia è un tipo di produzione imponente: i coils sono rotoli
di acciaio di più di  metri di diametro che occupano grandi superfici, le linee
di produzione sono dei giganteschi nastri trasportatori dove corrono ad alta ve-
locità le lingue di acciaio sottoposte a trasformazione, tagliate, ridotte di spes-
sore, zincate, verniciate. La materia lavorata è fredda, tagliente, pesante, tal-
volta arrugginita, gli uomini passano la loro giornata lavorativa tra questi gi-
ganti di acciaio in un luogo dove il clangore assordante delle lamiere (anche se
congruo ai parametri) è sempre presente.
La nostra inchiesta quindi è sì localmente individuata e riguarda persone
immigrate nella provincia di Ravenna, ma queste persone passano gran parte
del tempo della loro vita in un luogo, questa fabbrica, che è molto significativo
sia per loro che per il territorio che lo ospita.


Presentazione del campione

Trentanove sono state le interviste svolte con i dipendenti, più un incontro fi-
nale fatto con i responsabili dell’Ufficio sicurezza.
Tutti uomini di età compresa tra i  e i  anni provenienti da regioni del
Sud Italia e dall’estero.
Le regioni di provenienza sono: Sicilia, Calabria, Campania, Puglia, Sarde-
gna, Abruzzo. Gli stati esteri sono: Romania, Marocco, Bangladesh.
Tempi di arrivo:  sono a Ravenna dal -, circa da un anno;  so-
no a Ravenna dal -, cioè da uno a tre anni;  sono a Ravenna da più


M A R TA A L A I M O , F R A N C A TA R O Z Z I

di tre anni.  sono a Marcegaglia dal -, circa da un anno;  sono a


Marcegaglia dal -, cioè da uno a tre anni;  sono a Marcegaglia da più
di tre anni.
Per sedici intervistati il lavoro a Marcegaglia è il primo impiego a Ravenna,
mentre ventuno intervistati avevano già lavorato a Ravenna o provincia.
Tipo di scuola frequentata: licenza media (); studi superiori (), di cui:
Istituto tecnico industriale – Perito elettronico (), Ragioneria (), Ipsia (), Al-
berghiero (), Operatore turistico (), Segretario d’azienda (), ITIS ().
Laureati , di cui: laurea in Matematica, fisica, informatica (), Economia e
commercio (), non specifica ().
Situazione abitativa:  intervistati vivono con la famiglia e  con amici o
compagni di lavoro.


Argomenti rilevanti

In fase di rielaborazione abbiamo individuato tre questioni principali che inci-


dono e svelano come questi operai pensano la propria vita a Ravenna e sul luo-
go di lavoro, alla Marcegaglia, quali sono le loro difficoltà e le cause che fanno
da discriminante tra il fermarsi o no.
Le sfaccettate categorie individuate sono: punto di appoggio, alloggio, ca-
sa; formazione e lavoro; sicurezza.


Punto di appoggio, alloggio, casa:
«l’importante, all’inizio, è avere un appoggio»

Analizzando le risposte degli intervistati, risulta che «il problema qui sono gli af-
fitti», come ci dice un ragazzo proprio alla fine dell’intervista quando alla penul-
tima domanda (“cosa pensa di questa intervista?”) ci risponde così: «È positiva, lo
pensavo prima di farla ed è così, si parla di cose che gli altri non dicono, porta a vi-
sione dei problemi». E continua: «Il problema qui sono gli affitti, ci tocca stare co-
me quei marocchini che venivano qui un po’ di tempo fa. Se ne approfittano, non ve-
do il motivo, vedono che comunque c’è richiesta e comunque prendono i soldi men-
silmente sull’affitto quelli che ti trovano la casa, siccome noi veniamo da fuori, la gen-
te se ne approfitta.  euro per un monolocale per chi vuole un po’ di libertà è mol-
to dura. C’è gente che lo fa come secondo lavoro (quello di cercarti la casa e prende-
re dei soldi). Chi vuole dividere lo stipendio con il padrone di casa?... Lavoro tantis-
simo, c’è sempre il rischio di farsi male e poi? Molti tornano da dove son venuti per-
ché il sacrificio non ne vale la pena, tanto da mangiare e dormire ce l’hai sempre».
Interessante in questa intervista l’utilizzo della parola “sacrificio”, a signi-
ficare la grande importanza che l’esperienza della migrazione rappresenta nel-


I L S E N S O D E L L A FA B B R I C A

la vita delle persone. Emerge inoltre, come in altre interviste, il fatto che «a Ra-
venna se ne approfittano»: non solo quindi si trae profitto, ma si fanno affari im-
mobiliari basati sulla elevata richiesta che proviene dai lavoratori immigrati.
Questa questione viene detta così in altre risposte: «Gli affitti sono cari,
pago  euro ma da meno non si trova, Ravenna è costosa e sanno che Marce-
gaglia si sta ingrandendo e la maggior parte siamo meridionali e magari con la
famiglia e gli affittuari se ne approfittano», ci dice un ragazzo pugliese a Ra-
venna dal .
«Qui c’è un po’ la questione dell’estate, ti affittano tante case da giugno a set-
tembre per turismo, quindi per un operaio cercare casa con un contratto di un an-
no intero è difficile... La gente di Ravenna sa il fatto suo…».
Trovare casa, prendere un appartamento in affitto, è spesso il primo im-
patto con il territorio e la sua gente. Trattare con la gente di Ravenna (che, co-
me dicono gli intervistati, un po’ se ne approfitta, è diffidente, ha delle pretese
un po’ strane), è quindi un problema per chi viene da fuori per lavorare ed è
discriminante rispetto all’ambientamento e quindi anche rispetto alla decisio-
ne di stabilirsi: «Difficoltà maggiore quella abitativa, un posto letto, senza tv, sen-
za riscaldamento, ho dovuto fare molte telefonate, ho girato molto. Abito a Rus-
si, a  km».
«All’inizio è stata dura, è difficile trovare alloggio, è molto caro, poi l’ho tro-
vato, ho fatto venire moglie e figlia e lavorando in  è più semplice. All’inizio ave-
vo una stanza, eravamo in  all’inizio, quello che ti propongono è quello, si tro-
vano appartamenti solo in comune», ci racconta del suo difficile arrivo un ope-
raio siciliano.
«In città fai fatica a inserirti, a trovare casa, quelle che si trovano costano un
occhio della testa. È un po’ difficile fare amicizia con i ravennati, è difficile fra-
ternizzare».
«Abito a Lugo... all’inizio avevo la stanza, ma grossa libertà in una stanza non
ce l’hai, come ospitare, far venire gli amici, invece in un monolocale non è così,
ma gli affitti sono mazzate…».
«Se hai dei problemi non è che sei bene accolto, ma anche per trovare la casa
è un gran casino, uno non può girare con una striscia sulla fronte che dice che io
sono bravo...», dice un lavoratore marocchino capoturno.
«[...] Ho girato un po’ tutta l’Italia e c’è un senso di diffidenza ovunque, ma
qui è un po’ peggio, per trovar casa ho faticato molto, il padrone di casa ha avuto
pretese un po’ strane».
«Quando ho fatto il colloquio qui prima di tornare in Sicilia ho comprato mol-
ti giornali di annunci e tramite telefono ho cercato, è stato molto difficile, mi chie-
devano da dove venissi e dicendo dalla Sicilia mi dicevano le faremo sapere, il pro-
prietario che poi mi ha affittato ha richiesto una lettera della Marcegaglia con il
periodo, la qualifica ecc… Io lo ritengo eccessivo anche se giusto, e così il diretto-
re di stabilimento ha dovuto fare una lettera».


M A R TA A L A I M O , F R A N C A TA R O Z Z I

Trovarsi bene si può, ma «dipende anche dalla situazione contingente, vivo in


una bella casa e con un bravo amico con cui mi trovo bene, questo non c’entra con
Ravenna, non so altrimenti…», come ci dice un ragazzo che è a Ravenna già da
sette anni, ma che si sente un emigrante e non ancora parte della città.
Un operaio, che del lavoro è soddisfatto, ma della casa no e che dice che «è
un brutto impatto l’ambientarsi», ci suggerisce che proprio doversi ambientare,
cioè adattarsi a nuove e diverse condizioni, è comunque difficile.
La possibilità o l’impossibilità di avere una casa a determinate condizioni
ci descrive quindi un aspetto oggettivo ed esterno della vita dei lavoratori in-
tervistati, ma sicuramente rilevante, e infatti il dato quantitativo lo conferma:
 intervistati su  hanno trattato con enfasi il tema.
Pur essendo la nostra un’inchiesta qualitativa, riteniamo importante trat-
tare questo dato, che nomina quindi un’importante questione nella vita delle
persone che si spostano per lavorare, anche perché è nel momento in cui esse
pensano a molteplici e possibili soluzioni del problema oggettivo casa/allog-
gio che si comincia a delineare anche l’aspetto soggettivo della questione.
Le parole degli intervistati ci indicano che un buon modo di affrontare la
situazione dell’arrivo e del primo impatto è quello di “avere un appoggio”:
«...Un mio collega che ha fatto domanda prima di me... mi ha aiutato a trovare la
casa, l’importante all’inizio è avere un appoggio…»; «…Ho deciso di venire in
Italia perché avevo già un appoggio, se dovevo vagabondare non venivo, se devo
far la fame la faccio a casa mia…», racconta un lavoratore marocchino che da 
anni vive in una casa popolare del comune ma che adesso sta comprando casa.
Sempre rispetto all’avere appoggio un altro dice: «La casa l’ho trovata, per
il prezzo che volevo io è stato difficile, ma dopo un po’ l’ho trovata, forse io ho
avuto la fortuna che qua c’era mia sorella in appoggio e quindi ho potuto cercare,
in un anno è più facile trovare lavoro che casa».
Usare proprio la parola “appoggio” ci fa capire che quello a cui si riferiscono
non è una soluzione permanente; all’inizio è importante avere almeno un appog-
gio transitorio che non getti queste persone nello sconforto della situazione nuo-
va, che spesso è nuova anche in senso lavorativo, non avendo magari mai lavora-
to in fabbrica. E ancora: «Penso di rimanere perché qui c’è un punto di appoggio con
le mie zie», ci dice un ragazzo che però dichiara anche: «A Marcegaglia mi trovo
bene, a Ravenna, oddio… noi viviamo in due mondi diversi, culture diverse, non mi
sono ancora ambientato ai modi di fare che hanno a Ravenna».
L’enunciato che segue mette in luce anche un aspetto molto interessante,
legato all’ambientamento e alla fabbrica come luogo fondamentale delle rela-
zioni umane anche di tipo interculturale: «Ho dovuto cambiare completamente
il mio carattere e adeguarmi alle diverse culture, prima me la prendevo per qual-
siasi cosa, ora tra rumeni e marocchini… sono diventato un po’ più tollerante…».
La fabbrica come luogo delle relazioni umane, quindi, che facilitano l’am-
bientamento, sia perché «è stato facile ambientarmi, ci sono tanti meridionali che


I L S E N S O D E L L A FA B B R I C A

lavorano qui da parecchi anni», sia perché lavorare con persone di Ravenna, es-
sere colleghi di lavoro aiuta a farsi conoscere, anche se si viene da paesi lonta-
ni e culture diverse.
A questo proposito è emblematica la dichiarazione di un ragazzo che ha su-
bito un grave incidente sul lavoro: «Io ci stavo bene, sia adesso sia come ci stavo
prima, in fabbrica ci stavo bene, a Ravenna ti guardano le scarpe... Io sul lavoro
mi trovo bene, l’unico sfogo che ho è qua, ma è fuori dall’ambito di lavoro che non
mi trovo bene. A casa sono sempre da solo, sto al lavoro e a casa magari faccio la
spesa ma se esci fai un giro di mezz’ora… sempre le stesse cose… Io quando sono
giù non sono mai da solo, qua gli amici anche non li vedo mai perché fanno il tur-
no e lavorano sempre, anche il sabato e la domenica, qua ti tocca uscire anche a
spendere soldi se no, esci di testa…».
«L’inizio, è difficile farsi le amicizie, i ragazzi di Ravenna hanno troppa atten-
zione al lato estetico, se uno c’ha il pantalone firmato o meno... Sul lavoro invece
non ho avuto difficoltà, sono tutti meridionali nel mio reparto e anche fare amici-
zia è stato facile», come dice un altro ragazzo che la pensa allo stesso modo.
Sono gli stessi colleghi che possono fare da tramite con il nuovo territorio,
anche per trovare la casa: «Tramite un mio collega, la casa è di suo nonno».
«Tramite un ragazzo che lavorava qui, sono stato fortunato...».
«Nel ’ non mi son trovato tanto bene, nel  è tutta un’altra cosa. Nel
’ sono arrivato da un amico che stava in una casa dell’Enel che hanno passato
al Mappamondo per gli extracomunitari e lì mancava un po’ tutto, il riscalda-
mento, nel  mi sono messo in regola con la Turco-Napolitano e ho potuto af-
fittare io e tramite amici ho trovato un buon appartamento», dice un operaio ru-
meno e aggiunge: «Dopo, tramite amici romagnoli, italiani, ho trovato, se sei
raccomandato da un italiano passi e se ti comporti bene puoi raccomandare uno
straniero ma se ti comporti così così hai sempre bisogno di un italiano che met-
ta una buona parola».
«Tramite un mio collega di lavoro, che poi è un sindacalista, è romagnolo...».
«Tramite un collega che conosceva il padrone di casa».
«Una mano lava l’altra e tutte e due lavano la faccia, ci si aiuta, a cercare la
casa, anch’io ho trovato tramite un ragazzo che lavorava qui…».
La possibilità di avere una casa, un alloggio è quindi una condizione mol-
to rilevante per la riuscita o meno del percorso di ambientamento. Dalle cita-
zioni fatte, “tramite” risulta essere una parola chiave: la fabbrica diventa il tra-
mite fondamentale per un inserimento positivo nel territorio.
La situazione a Ravenna pare essere piuttosto difficile e, come dice, un ope-
raio marocchino: «Per tutti la casa è un problema, non solo per quelli che ven-
gono da fuori, se devo pagare - euro di affitto faccio il mutuo… se non te la
trova qualcuno che ti conosce è difficile, per avere la casa popolare devi avere i fi-
gli, reddito basso, lo sfratto, tutti i marocchini che hanno più di due figli qui a Ra-
venna hanno la casa popolare».


M A R TA A L A I M O , F R A N C A TA R O Z Z I

La richiesta della casa popolare non può quindi essere l’unica soluzione, vi-
sto che per richiederla servono dei requisiti che non tutti hanno.
Gli intervistati ad esempio non sempre hanno famiglia o figli a carico, spes-
so sono giovani e non hanno reddito basso, visti gli stipendi che paga Marce-
gaglia.
È ancora dalle loro parole e da come essi pensano la questione della casa
che si apre un interessante dibattito sulla molteplicità di situazioni possibili che
potrebbero contribuire a migliorare le loro condizioni di vita proprio nel mo-
mento dello spostamento, nei primi mesi.
Col tempo infatti la decisione di rimanere a Ravenna comincia a dipende-
re da diversi fattori, ma all’inizio l’impatto è forte e incide molto la possibilità
di trovare o meno soluzioni che diano il tempo per decidere. Ciascuna idea qui
riportata è interessante, perché si colloca in una situazione che, al momento,
non ne prevede neanche una di soluzioni possibili.
Queste idee sono importanti perché sono gli stessi operai che esperiscono
la mobilità nei suoi aspetti negativi, oltre a quelli positivi di aver trovato un
buon lavoro, a ipotizzare soluzioni alternative al “farsi ammazzare dall’affit-
to”, dalle agenzie immobiliari e dai proprietari che se ne approfittano. Pensa-
no l’inesistente, ovvero dispongono le condizioni per l’esistenza di una politi-
ca sulla casa.
L’approccio non è in termini di diritto alla casa ma, il problema casa/allog-
gio/punto di appoggio è una specificità della più ampia questione della possi-
bilità di permanenza a Ravenna.
L’esistenza di questi enunciati mette in evidenza la latitanza degli altri sog-
getti coinvolti, ovvero gli imprenditori e le istituzioni locali: «Per determinate
aziende sarebbe facile aiutare i propri operai a trovare casa, più vicino alla loro
fabbrica, nelle Marche le agenzie e le aziende sono in contatto tra loro dove met-
tono gli operai finché non trovano la casa...».
«Penso che ci debba essere qualcosa che faciliti le persone da fuori…».
«Forse mi aspettavo di guadagnare un po’ di più, che la Marcegaglia facesse
dei villaggi tipo quelli che ha fatto l’Enichem per i suoi operai, visto che abbiamo
tante spese, che ci desse dei villaggi dove vivere».
«Forse Marcegaglia potrebbe costruire dei villaggi come fa l’Enichem, o il
Comune dovrebbe controllare, perché la gente se ne approfitta, ti fanno contratti
in nero oppure metà e metà e comunque i prezzi sono esagerati anche se la casa è
del padrone e non so se esiste una regola per dire a quanto la devi affittare».
C’è un enunciato che chiarisce bene la questione della difficoltà maggiore
nei primi tempi; è quello formulato da un ragazzo, «un papà giovane» che ha
comunque deciso di restare.
«Quando sono stato assunto qui avrei preferito che l’azienda mi venisse in-
contro come ospitalità almeno per un paio di mesi, quello me lo aspettavo, ho sen-
tito da amici che a Brescia sono stati ospitati dall’azienda, qui invece no, mi aspet-


I L S E N S O D E L L A FA B B R I C A

tavo di più, io avevo già la casa venendo qui, sono stato fortunato, non vorrei es-
sere nei panni di chi non ha nessuno».
Come si legge negli enunciati, le posizioni sono articolate: c’è chi vorrebbe
che l’azienda desse ospitalità almeno per un paio di mesi, chi dice che ci vor-
rebbero relazioni tra le aziende e le agenzie immobiliari, chi chiede il villaggio
tipo Enichem e chi invece lo vorrebbe, ma con la chiesa e il campo sportivo; c’è
anche chi ha paura che le soluzioni standard tipo villaggio finiscano per diven-
tare dei ghetti.
L’idea comune che ritroviamo in tutti questi enunciati è che comunque c’è
bisogno di pensare a soluzioni, chiamando in causa anche un ruolo attivo del
governo locale (comune e simili).
Soluzioni che devono andar bene «almeno per l’inizio, poi uno sceglie»,
enunciato che sgombera il campo anche dall’idea che queste persone finireb-
bero per diventare vittime di condizioni abitative degradanti.
«Lavorando là, il padrone di prima ci ha trovato la casa... però se l’avessi cer-
cata da solo senza questo padrone sarebbe stato un problema, conosco amici che
hanno avuto difficoltà».
«Marcegaglia potrebbe fare come ha fatto l’Enichem, che ha costruito le case
per gli operai, poi ti trattiene l’affitto dalla busta paga, sarebbe più facile per uno
che viene da fuori».
«Che lavoro sono soddisfatto, è un lavoro, per la casa no. Lui è Marcegaglia,
è un grande imprenditore. Qui a Ravenna l’% siamo del meridione e lui non
ha pensato mai di fare un villaggio Marcegaglia con la chiesa, il campo sportivo…
nessuno si prende di sua iniziativa e va da lui… noi non è che vogliamo non pa-
gar le tasse, ma siccome produciamo molto e facciamo turni che gli altri non vo-
gliono fare… quelli di qua ti chiedono tanto di affitto e si arricchiscono…».
«Io eviterei di fare i quartieri tipo quelli che fa l’Enichem perché sono ghetti,
ci vorrebbero più incentivi, qui li danno i contributi, ma dovresti prendere la re-
sidenza per averli. Quantomeno, se si mettessero insieme più aziende, anche se
alla fine va a finire come un ghetto secondo me, ho questa sensazione strana…».
C’è poi la questione della residenza, anch’essa dall’aspetto ambivalente, ovve-
ro che richiama sia un aspetto soggettivo che uno oggettivo e che, per come viene
pensata, rientra anch’essa nel più ampio discorso della difficile fase di inizio.
Non prendere la residenza può essere una scelta che rivela l’idea che chi si
sposta, anche dopo qualche anno di lavoro, vuole lasciarsi aperte delle altre
possibilità.
Alla domanda su cosa può facilitare la ricerca o l’ottenimento della casa,
un operaio siciliano a Ravenna da  anni e a Marcegaglia da  dice: «O villag-
gio oppure un aiuto, no dal Comune ma dall’azienda perché il Comune ti dice
che devi prendere la residenza per avere lo sconto dalle tasse oppure il contribu-
to per l’affitto, io penso sempre a un futuro migliore al sud, per questo non pren-
do la residenza…».


M A R TA A L A I M O , F R A N C A TA R O Z Z I

C’è chi invece non prende la residenza perché il contratto a tempo deter-
minato gioca un ruolo di totale incertezza nella vita di una persona, tanto da
dire: «Se l’azienda ritiene che sono valido, perché no, tutto è nelle mani dell’a-
zienda, giù non ho il lavoro, qua sì e a calci e morsi vivo e anche mia moglie è gio-
vane, ha trent’anni, un lavoro lo può sempre trovare, ma se prima non ho un con-
tratto fisso, non ho portato ancora la residenza, niente, ho un contratto di forma-
zione,  mesi, non è a tempo indeterminato, in base a quello, se porto tutto su
dopo è anche più facile anche per lei».
E ancora, c’è chi non può prenderla per via dell’atteggiamento del pro-
prietario e viene oggettivamente messo in difficoltà: «Pago  euro di affitto e
la padrona di casa non mi fa prendere la residenza, mi rinnova il contratto ogni
sei mesi, prendo . euro di stipendio e non posso usufruire degli sconti sulle bol-
lette per i residenti».
Tutto ciò significa comunque che anche la questione della residenza non si
esaurisce nell’aut-aut secco tra il prenderla e il non prenderla. Per chi si muo-
ve e si trasferisce per lavorare sembra essere una categoria carica di significato
e che, guardata con gli occhi di chi la pone come questione, potrebbe rivelarsi
anch’essa utile nel migliorare le condizioni di vita di chi si sposta, ovvero di chi
è geograficamente mobile.
Al fondo della questione potremo dire, con un enunciato che ritroviamo
nell’intervista con un operaio del Bangladesh: «Ci vorrebbe una qualche forma
di governo che qui non c’è».
Si capisce bene da questo enunciato che la questione della mobilità geo-
grafica delle persone per motivi di lavoro richiederebbe un maggior protago-
nismo da parte dei soggetti coinvolti nel governo locale, una politica governa-
tiva che però non c’è, ma anche e soprattutto del mondo dell’imprenditoria che
si mostra in questo caso del tutto assente.


Formazione e lavoro:
«Se non hai mai visto una fabbrica, serve»

Dalle interviste emerge che  lavoratori intervistati non hanno mai fatto corsi
di formazione professionale,  invece sì. Dieci di questi ultimi hanno preso par-
te a corsi organizzati dalla Marcegaglia e dalla Provincia di Ravenna, soprat-
tutto nel momento in cui venivano installate nuove linee di produzione e c’era
bisogno di personale che sapesse come farle funzionare.
Uno soltanto aveva già svolto un corso nella sua regione finanziato dal Fon-
do sociale europeo.  intervistati, anche quelli quindi che non hanno mai fre-
quentato un corso di formazione, sostengono la loro importanza e l’utilità; so-
lo  lavoratori dicono che non servono, aggiungendo che serve fare il mestiere
direttamente piuttosto che stare in classe.


I L S E N S O D E L L A FA B B R I C A

Tutti hanno svolto corsi di carroponte e primo soccorso, rispettivamente di


 e  ore, all’interno dell’azienda.
Il primo dato lampante è il riconoscimento dell’utilità dei corsi di forma-
zione che tutti gli operai da noi incontrati rivendicano.
«Sì, servono perché ti inseriscono su quello che devi fare, fare un corso di for-
mazione prima secondo me è meglio».
«Per me proprio sono obbligatori, io vorrei che chi viene assunto li facesse per
forza, perché le cose sono rischiose sia per lui che per gli altri, non è proprio da
sottovalutare questa cosa, da noi se non lo conosci fai il botto. Anche fermo ci vo-
gliono due persone fisse per la salvaguardia», racconta un operaio che aveva già
lavorato in altre città fuori dalla propria regione, ma che ha scelto Ravenna do-
po esserci stato in vacanza.
«Sì, perché ti aiutano a capire il lavoro che stai facendo e nella sicurezza, sa-
perti muovere, dove mettere le mani e come metterle. Nel mio reparto solo in due
abbiamo fatto il corso e agli altri per passaparola gli abbiamo insegnato noi», dice
un ragazzo che ha potuto seguire il corso e poi fare lo stage a Marcegaglia.
Da queste prime affermazioni emerge un chiaro rapporto tra corsi e si-
curezza.
I corsi di formazione servono, quindi, non tanto per imparare il mestiere,
ché quello può essere imparato anche con l’affiancamento: «Più che formazio-
ne, magari affiancamento».
«Secondo me è più importante per il lavoro stare lì che in una classe», sen-
tenzia un lavoratore straniero che ha ancora qualche problema con la lingua.
«Il corso deve essere molto anche pratico, se uno deve fare il saldatore deve
trovarsi in linea stando vicino a un bravo saldatore, cercando di carpirne i segre-
ti, la modalità, per noi questo non è avvenuto…».
La formazione serve soprattutto per lavorare con più sicurezza, intesa sia in
senso fisico, cioè non farsi male, che come preparazione al lavoro in senso gene-
rale, un impatto graduale con il luogo e l’ambiente: «…Più di tanto non mi è ser-
vito per il lavoro che sto facendo ma mi ha aiutato per fare il rappresentante della
sicurezza che ho fatto qui dentro, se non hai mai visto una fabbrica serve, per me è
stato un po’ uno shock… Non avevo mai visto uno stabilimento, col corso è stato
un po’ più graduale», ci spiega molto chiaramente questo operaio.
«Per dove sono stato io penso che non servano a niente, penso che servano
per lavorare in generale, oggi si lavora su macchinari sofisticati quindi penso che
servano», dice un ragazzo che non ha avuto la possibilità di fare corsi.
«Certo, già uno impara un po’ e in più per uno che non è mai entrato nel mon-
do del lavoro… Lì impari come comportarti in mezzo all’altra gente…».
«Penso di sì per uno che non ha esperienza di lavoro sicuramente, anche su
altri argomenti tipo la sicurezza».
Ecco dunque i due aspetti fondamentali per cui, secondo la maggioranza
degli intervistati, è utile fare formazione: preparazione all’ambiente-fabbrica ed


M A R TA A L A I M O , F R A N C A TA R O Z Z I

essere informati bene dei rischi per ridurli al minimo, quindi conoscere il fun-
zionamento, le caratteristiche degli impianti e dei macchinari.
Chi ha avuto la possibilità di seguire dei corsi si sente privilegiato, fortuna-
to, ma la cosa sembra assolutamente fortuita e casuale: «Non so, forse è una coin-
cidenza, era la fase della costruzione dell’impianto e noi l’abbiamo seguita, ci sia-
mo fatti un certo bagaglio», quasi timoroso ci racconta un operaio.
«Ho avuto la fortuna di fare un corso specifico di rettifica e torneria a Gaz-
zoldo di un mese. Penso fosse un corso interno dell’azienda…». Anche quest’al-
tro operaio ha seguito il corso a Gazzoldo, paese del mantovano in cui si trova
la sede centrale.
La politica dell’azienda, rispetto alla formazione, sembra però essere un’al-
tra. La chiara denuncia che gli operai fanno è quella di essere buttati in linea
con pochissima esperienza; in questo viene riconosciuto uno dei motivi del di-
sagio e quindi dell’eventuale abbandono del lavoro e della città: «Alcuni che
non fanno i corsi arrivano qui e non sanno cosa aspettarsi, rimangono delusi, non
sanno come muoversi e quindi vanno via».
Questo, a nostro avviso, è un enunciato chiarificatore della situazione, che
svela uno dei nodi cruciali dell’alto numero di dimissioni e quindi dell’alto tas-
so di turnover che c’è in questa fabbrica. Così come lo sono i seguenti, che met-
tono in luce la questione della pressione per la produzione, l’interessante op-
posizione amore/bisogno e la carenza di personale come altri fattori determi-
nanti il grande ricambio del personale: «La pressione che ti mettono addosso per
la produzione; un operatore che sta sulla linea è pressato perché deve fare un cer-
to quantitativo di roba, è pressato dai vari capi… Molti non ce la fanno, è per que-
sto che vanno via, c’è un riciclaggio di persone molto alto. Qua diciamo che ci ri-
mane la gente che o ama questo lavoro o ha bisogno».
«Sì, soprattutto qui, perché è impossibile assumere della gente e mandarli
in zincatura, decapaggio, che richiede delle capacità, è sbagliato assumere per-
sone e metterle subito sugli impianti nuovi – lamenta un lavoratore comunque
molto felice di essere a Ravenna e di lavorare in regola –. Non ho fatto corsi,
ho fatto affiancamento col caporeparto e il capoturno, io non ho fatto corsi…
Forse perché c’era carenza di personale e prendevano tutti, io non l’ho fatto».
«…Qui è pericoloso, non pendono per i corsi di formazione, mettono a lavora-
re la gente senza sapere il lavoro che vanno a fare, è solo lo stipendio che gli impor-
ta e avere un lavoro sicuro, per me la fabbrica dovrebbe spendere per la formazione
e la sicurezza, tu li prendi, i soldi, e li perdi nel tunnel, qua qualità del lavoro non
ce n’è e tu sei sempre ad assumere persone, a buttarle dentro e quelli poi se ne van-
no», dice un operaio parecchio arrabbiato anche con i suoi stessi compagni.
In quest’altro enunciato ci viene spiegata una delle motivazioni che secon-
do noi stanno alla base del grande riciclo di personale. Causa-effetto di questa
poca preparazione/formazione degli operai è anche la giovanissima età e l’ine-
sperienza dei capoturno o capireparto, ai quali spesso vengono date qualifiche


I L S E N S O D E L L A FA B B R I C A

e quindi responsabilità quando ancora loro stessi hanno contratti di formazio-


ne lavoro, e quindi sono da meno di diciotto mesi nella fabbrica.
«L’operatore stesso è un po’ irresponsabile, penso che succeda per inesperien-
za, siamo tutti giovani, gli stessi responsabili di reparto sono entrati dopo di noi
appena laureati e senza esperienza, gli incidenti che ho visto io sono accaduti per
inesperienza…».
«Quel che riguarda l’organizzazione, perché siamo un’azienda che è passata
da  operai a  in  anni e adesso ci sono anche quelli che non sono specializ-
zati e che coordinano e sono responsabili anche per la sicurezza…».
Cosa vorrebbe veder cambiare? – abbiamo domandato –. «Che le persone
che effettivamente fanno i capi abbiano una professionalità maggiore, perché noi
pecchiamo un po’ su questo...». In questo modo aiuta a capire la situazione un
ragazzo che lavora nella fabbrica da circa tre anni, tantissimi per la media di
quest’azienda.
«Per il momento va bene, ho un contratto di formazione, non so se mi ten-
gono ma siccome hanno intenzione di farmi capomacchina in meno di tre mesi»,
ci confida un operaio di Foggia che vive come un riconoscimento della sua abi-
lità questa futura promozione, anche se lo caricherà di più responsabilità.
Un altro operaio continua dicendo: «Sono capomacchina, ho la qualifica di
terzo livello, sono pagato normale, di solito un capomacchina è del quarto o quin-
to livello, ma hanno visto la mia buona volontà. Contratto… forse  mesi, for-
mazione lavoro». Pensi che lo rinnoveranno? «Speriamo, penso di sì, mi hanno
dato anche una grande opportunità e responsabilità».
Qualche corso di formazione l’azienda lo propone, ma spesso sono di po-
che ore e fatti dopo che già si lavora; per lo più i corsi sono per l’utilizzo del
carroponte, mansione che tutti svolgono perché fondamentale per il tipo di la-
voro che si fa negli stabilimenti Marcegaglia. Inoltre, la carenza di personale co-
stringe a cambiare spesso postazioni per supplire alla mancanza di operai: «Ho
fatto corsi quando già lavoravo. Quando sono andato a fare il corso, il lavoro lo
sapevo già fare…», lamenta un operaio di trenta anni. «Un addetto ci ha spiega-
to come funziona il carro ponte, ma le cose importanti per non farsi male non le
hanno spiegate, io già lavoravo al carro ponte anche perché se uno è ammalato o
si licenzia devi farlo tu…».
«Il corso di formazione l’ho fatto dopo  mesi di lavoro alle spalle…». In so-
stanza, dopo aver trattato la questione formazione-lavoro-corsi, possiamo quin-
di sostenere, con uno degli operai intervistati, che i corsi servono «al .%,
anzi se ne dovrebbero fare non tanti ma fatti come si deve…».
“Fatti come si deve” significa, viste le risposte dei nostri intervistati, che an-
drebbero fatti prima di entrare in linea e sul posto di lavoro, che prevedano, ol-
tre alla parte teorica, anche fasi di stage nel reparto dove si andrà a lavorare, ma
anche informazioni sull’organizzazione della fabbrica e sui rischi del lavoro,
una preparazione sostanziale non solamente pratica al lavoro.


M A R TA A L A I M O , F R A N C A TA R O Z Z I

Una formazione per gli operai, fatta in fabbrica, relativa soprattutto alla
soggettività dell’operaio e a questo stesso luogo, e non solo e non tanto al-
l’oggettività tecnica della produzione. Una formazione dunque che assuma
chi in fabbrica ci lavora come soggetto in grado di pensare e scegliere cosa è
importante sapere in fabbrica.


Sulla sicurezza:
«La sicurezza siamo noi»

Sicurezza è la parola che abbiamo individuato come centrale rispetto alla que-
stione lavoro-fabbrica. Questo termine, che compare continuamente nelle pa-
role degli intervistati, svela però diverse ma contigue questioni: «Cultura della
sicurezza…», inteso come lavorare in sicurezza, ma anche come sicurezza del
lavoro: «Qui c’è un certo futuro…».
Questi due temi, che inizialmente tratteremo in modo distinto, si legitti-
mano e si completano l’uno con l’altro.
La garanzia di un posto di lavoro fisso e sicuro è tra i motivi che fa sceglie-
re alle persone di spostarsi, accettare la mobilità geografica per il posto sicuro
di lavoro, accettarla perché la grande industria è garanzia di lavoro sicuro.
Questo può apparire paradossale: mobilità in cerca di posto fisso; ma po-
trebbe chiarire gli equivoci che spesso sono dietro a parole di largo uso in ma-
teria di organizzazione del lavoro come “flessibilità” e “mobilità”.
Uno dei primi operai che abbiamo incontrato dice con grande chiarezza:
«L’attrattiva era che essendo una grossa azienda dà una sicurezza in più, io vivo
da solo da quando avevo  anni e sono siciliano e anche per cambiare la macchi-
na hai bisogno di una certa busta paga che deve essere almeno di una S.p.A.». Al-
tri due sostengono: «Al Sud non prendi lo stipendio, al Nord lavori con maggio-
re sicurezza, un giorno vai a lavorare e uno no al Sud, c’è ancora la manovalan-
za…». «Giù ci sono tanti lavori in nero, non c’è sicurezza…».
«A Catania ho fatto per  anni il pasticciere ma in nero; la prima busta paga
l’ho conosciuta qui, non è stata una questione economica. All’inizio ho lavorato
da un’altra parte ma non mi trovavo bene, industria alimentare, agricoltura; non
ci sono i diritti dei metalmeccanici…».
Indubbiamente una situazione limite quella di questo ex pasticciere sicilia-
no, ma che evidenzia i due aspetti trainanti di questa ricerca di sicurezza: eco-
nomica, quindi “busta paga”, ma anche: «Non è stata una questione economi-
ca… i diritti dei metalmeccanici».
C’è chi in modo molto concreto ci racconta di come un posto fisso faccia da
appoggio per concedersi cose altrimenti irraggiungibili: «All’inizio ho visto la co-
sa positiva, una fabbrica grossa, una S.p.A., lo stipendio era buono, non potevo tro-
vare una cosa migliore…». Le parole di un operaio che ha perso un arto inferiore.


I L S E N S O D E L L A FA B B R I C A

«Sto meglio, molto meglio. Qua posso permettermi di fare un finanziamento


per la macchina, per i mobili e il mutuo per la casa. In Romania non arrivi a fine
mese, la macchina nuova me la sognavo, anche qui sempre in due perché se no da
solo con tutti questi debiti!».
L’altro aspetto di questo largo uso che viene fatto della parola “sicurezza”
riguarda la possibilità d’avere diritti che lavorando al Sud o nei loro paesi d’o-
rigine non conoscevano: «Io l’operaio giù non l’ho fatto, però operaio giù non è
come qui, non c’hai tutti i diritti che hai qui, poi per non parlare del lavoro nero,
trovare un lavoro sicuro devi essere raccomandato da un politico, da uno che con-
ta, sono sempre quelli, giù non puoi negare di fare lo straordinario il giorno dopo
sei a casa,  su  è così», racconta un giovane napoletano.
«Al Nord c’è una mentalità di lavoro più libera più pulita più sincera, qui si
lavora molto in regola, fai il lavoro che ti chiede l’azienda, al Sud non basta fare
- ore di lavoro, anzi il datore di lavoro te ne chiederebbe di più, si lavora più
sporco, meno sicurezza in tutto e per tutto».
Il secondo aspetto che viene svelato passando per la parola “sicurezza” ri-
guarda il non farsi male: «Qui il lavoro è molto rischioso, si può perdere un arto
ma anche la vita».
Sicurezza sul lavoro che in questo caso vede diversi protagonisti: gli operai
da una parte e l’azienda e i sindacati dall’altra.
Durante l’intervista un operaio che lavora a Marcegaglia dal ’ ci de-
scrive bene quanto è importante la qualità di rapporti fra operai nei reparti
produttivi, anche ai fini della sicurezza: «…Nel compagno operaio bisogna
avere grande fiducia, anche per la sicurezza, se fa una cosa sbagliata può rovi-
narti per tutta la vita».
Un lavoratore siciliano dice che sono loro stessi a doversi occupare della lo-
ro sicurezza: «Ho imparato, prima ero esterno, a cavare le regge poi mi hanno det-
to di andare dentro e ho imparato in poco tempo, è facile ma ci sono responsabi-
lità a non farsi male, a te e agli altri, la sicurezza siamo noi, se non sei sicuro tu
tutto quello che hai addosso non conta, ci può essere sicurezza intorno ma sta a
noi, fino a che il collega non si sposta non lo faccio il lavoro». Si capisce molto
chiaramente dalle sue parole che considera il problema soprattutto come sua
responsabilità.
«È che praticamente il problema ce lo andiamo a cercare, dobbiamo fare tutto
in sicurezza, in alcune parti dell’impianto, stanno anche provando a migliorarlo,
ma il problema è la sicurezza, in quell’impianto lì c’è scappato anche il morto, lui
ha fatto un lavoro non in sicurezza, ma il giorno dopo si è vista gente che lavorava
lì intorno, vuol dire che proprio in sicurezza l’impianto non era, se lo facevano pri-
ma magari…». Questa è la testimonianza di un lavoratore che ha assistito alla
morte di un suo compagno, avvenuta a Marcegaglia nel . Certo non rispec-
chia l’opinione di tutti quelli presenti alla disgrazia, ma rileva la polivalenza del-
la parola “sicurezza” e i suoi legami con la questione della responsabilità.


M A R TA A L A I M O , F R A N C A TA R O Z Z I

«Non so… Sulla sicurezza le protezioni ci sono, gli sbadati siamo noi, nel mio
reparto è importantissima», continua un altro lavoratore.
Nelle parole di un ragazzo che ha perso un occhio troviamo un ulteriore
pensiero su questo problema che getta luce sulla faccenda: «La pressione che
ti mettono addosso per la produzione, un operatore che sta sulla linea è pressato
perché deve fare un certo quantitativo di roba, è pressato dai vari capi… Perché
poi sei coinvolto tu, alla fine sei solo e non puoi dire va be non lo faccio io, se la
linea parte è come un treno, deve arrivare, c’è molta gente che si stressa a farlo,
ma sei coinvolto e se ti abitui poi ce la fai, è che devi stare sempre a produrre pro-
durre e molti non ce la fanno, è per questo che vanno via, c’è un riciclaggio di
persone molto alto... Dopo  mesi al decapaggio ho avuto l’incidente e sono sta-
to a casa  mesi».
Come si è sentito dopo l’incidente? «È che è capitato a me che ero quello che
facevo sempre notare che era pericoloso, io lo dicevo sempre anche ai capi, c’era
poca luce, i coil li lasciano in mezzo, è pericoloso, e poi quando piove c’è un sacco
di fango, togliendo la reggetta mi è saltata in un occhio perché loro le cose te le
danno ma poi con questa cosa che devi produrre sudi e quindi poi te li togli, ades-
so le cose sono cambiate, l’operatore fuori si mette la visiera integrale, era obbli-
gatorio ma non lo fai perché tu dici a me non mi capita, però è il sistema, è dove
stai che è così, purtroppo lì è così, poi i rumori, la polvere, se non avessi cambia-
to reparto non sarei rimasto là in quel reparto, non sarei rimasto a Marcega-
glia…».
Le parole di questo operaio ci introducono l’altra faccia della medaglia del-
la questione sicurezza: la chiara denuncia che viene fatta sull’insufficienza di
barriere e il poco interesse che l’azienda, oltre che i sindacati, vi dedicano.
Un’accusa che riguarda soprattutto l’identità di atteggiamenti tenuti dal-
l’azienda e dai sindacati di fronte alle loro richieste: «…Il loro intervento è do-
po che la cosa è già successa».
«La sicurezza, qui dentro noi siamo solo dei numeri, se manco io mi sosti-
tuisce un’altra persona, ci sono le fotocellule con dei paletti ma non sono mai at-
tivate, i fili non sono collegati, non funzionano, se uno si avvicina si dovrebbe-
ro fermare, invece non si accendono, dopo, siccome devi andare più forte o l’or-
dine è urgente, allora puoi scavalcare le tapparelle, loro pensano solo alla pro-
duzione, è stato un po’ messo a posto dopo che le persone si sono fatte male…».
Una denuncia forte e molto grave quella di questo lavoratore meridionale.
«Lasciamo perdere la sicurezza, penso che l’azienda è grandissima e noi ma-
novriamo tonnellate, cosa ci puoi fare, il problema grosso qui è di Marcegaglia,
c’è stato un morto, poi hanno messo le ringhiere… Queste cose succedono per-
ché lui non compra gli attrezzi nuovi, solo usati, i carroponti che sono importanti,
quante volte a noi è scivolato un coil, meno male che noi ci troviamo a distan-
za…». E continua: «Non so che c’è nella testa di Marcegaglia, in fondo noi me-
ridionali lo aiutiamo a lavorare, invece lui non ci aiuta».


I L S E N S O D E L L A FA B B R I C A

«Un problema è la mancata programmazione, ho a che fare con gli operai e


indicano quali sono i problemi che interesserebbero il vertice oltre che l’operaio;
se un macchinario non funziona crea problemi a chi lavora ma anche all’azienda,
ma non si sa perché non viene fatto, le notizie non vengono nemmeno trasmesse,
il problema sorge ma l’informazione non arriva. Ho avuto un infortunio in linea,
se ci fosse stata attenzione, infortuni tipo il mio non si sarebbero verificati», le pa-
role di un lavoratore.
Ecco come viene detta la responsabilità dei sindacati in questa fabbrica a
proposito degli incidenti sul lavoro: «Qua non lavora bene il sindacato, si attac-
ca a delle cose quando dovrebbe lavorare per altro, ha poco potere…».
«Quando è morto un anno fa il ragazzo, abbiamo fermato gli impianti, giu-
stamente mi sembrava il minimo, lì c’è stata anche una responsabilità dei sinda-
cati, devi impedire che una persona s’infili dove non deve, il ragazzo ha fatto una
cazzata ma la rete non c’era. Questo purtroppo in Italia succede da tutte le parti,
prima succede la catastrofe poi si prendono i provvedimenti».
«Sono una parrocchia… Fanno la parte dell’industria, non dei lavoratori. Ri-
spetto alla questione della sicurezza fanno poco…», queste le parole di un altro
lavoratore molto critico sull’attività del sindacato.
«…“Fanno” è una parola grossa, non hanno mai fatto qualcosa, tipo quando
è morto quel ragazzo, poi hanno fatto la riunione sulla sicurezza… Non impon-
gono la loro voce, forse mi aspetto di più».
Infine, è importante analizzare un enunciato che ratifica l’importanza del-
l’avere più diritti in fabbrica e che ci dice quanto in questo luogo le persone vo-
gliano stare, essendo anche disposte a lavorare in condizioni, come abbiamo vi-
sto, di poca organizzazione e sicurezza: «Qui si vive proprio il senso della fab-
brica, al Sud “operaio” proprio non esiste… Qui si fa l’operaio in tutti sensi, ci so-
no i diritti e i doveri, l’operaio può denunciare cosa non gli va, ci sono i sindaca-
ti, giù ci sono solo doveri».
Il senso della fabbrica attira le persone e le localizza e, pur non essendo im-
muni dalla tentazione di andarsene, provano veramente a restare: hanno delle
aspettative, spesso rimangono delusi.
Abbiamo visto, quindi, nelle parole degli operai, sia un’accezione positi-
va della parola “sicurezza”, come possibilità (di vivere, avere un lavoro sicu-
ro, un futuro, avere dei diritti, fare delle cose per sé e per la famiglia), ma an-
che come le possibilità possano trasformarsi in invalidità, mostrando l’acce-
zione negativa della parola, quando essa viene nominata parlando degli infor-
tuni e quando designa il problema maggiore per gli operai in questa fabbri-
ca. La questione della sicurezza non riguarda per gli intervistati solo un pro-
blema di norme di sicurezza che devono essere rispettate, ma è soprattutto
un problema di come vengono trattati gli operai e di come la proprietà e i sin-
dacati si sono posti di fronte alla tragica morte di un operaio o ai gravi inci-
denti invalidanti.


M A R TA A L A I M O , F R A N C A TA R O Z Z I

«È un fatto soggettivo... Con la direzione qui di Ravenna è meglio non aver-


ci a che fare, una volta gliel’ho detto anche in faccia, non ha niente di umano, e
mi è costata una lettera disciplinare. Perché quando ci è morto quel ragazzo lì, lui
ci è passato con i piedi sopra… Pensava comunque a produrre, neanche fosse sta-
to un cane lì appeso, con tutto il rispetto per i cani, è logico che il compito suo è
pensare alla produzione, però dai, un morto lì, stai scherzando...».
«Io non sono iscritto al sindacato, non perché lo temo, però per quello che fa
preferisco scegliere la mia strada da me. Secondo me dovrebbe essere più presen-
te, quando abbiamo avuto i problemi coi rilevatori del gas, se non fossimo stati
noi a rompere tutti i giorni e a insistere… È vero che l’azienda è grossa e ha tan-
ti problemi… Perché devono passare anni prima che le cose si risolvano? C’entra
sia col lavoro da fare che con la pericolosità… Sia la direzione che il sindacato la-
scia correre un po’. Danno più importanza a problemi che sono grandi per l’a-
zienda e non per noi… Quanto ci abbiamo dovuto dare noi come reparto per ot-
tenere delle cose sulla sicurezza dei carrelli, stavamo tutti i giorni a rompere...».
Bisogna avere fiducia nell’operaio e coinvolgerlo nell’organizzazione.
Gli operai possono e sanno intervenire sulle questioni organizzative del la-
voro e quindi utili anche ai fini della sicurezza sul lavoro. La fabbrica non è so-
lo il luogo della produzione e delle macchine, quindi del capitale, è anche il luo-
go degli operai e delle loro conoscenze, è un “sistema cognitivo distribuito”,
c’è quindi anche del sapere operaio, è un luogo soggettivo ed è solo attraverso
il coinvolgimento degli operai che si può pensare la sicurezza come possibilità
per i lavoratori e non come minaccia per la loro vita.
È proprio perché la fabbrica non si propone come luogo soggettivo che i
lavoratori se ne vanno; se sapessero cosa stanno facendo, se partecipassero al-
l’organizzazione del lavoro e alla determinazione delle condizioni di lavoro,
probabilmente rimarrebbero.
Infatti, la parola “organizzazione”, che spesso ritorna nelle parole degli in-
tervistati, sottolinea proprio l’importanza che questa riveste dentro la fabbrica,
sia in quanto legata alla parola “sicurezza” sia in quanto connessa alle motiva-
zioni e alla possibilità per loro di continuare a lavorare alla Marcegaglia e di sta-
re a Ravenna.
Il primo intervistato così ci ha risposto alla domanda: cosa non si aspetta-
va venendo qui?
«La poca organizzazione nel lavoro, facciamo il lavoro due volte...». E ha
continuato in risposte successive sul problema maggiore per gli operai e sui
rapporti fra colleghi: «Quel che riguarda l’organizzazione, perché siamo un’a-
zienda che è passata da  operai a  in  anni e adesso ci sono anche quelli
che non son specializzati e che coordinano e sono responsabili anche per la si-
curezza». «Se ci fosse più organizzazione ci sarebbero meno attriti fra colleghi».
Allo stesso modo, altri mettono in luce come l’organizzazione sia fattore fon-
damentale per la sicurezza, analizzando gli aspetti della turnistica: «Sul lavoro mi


I L S E N S O D E L L A FA B B R I C A

aspettavo più organizzazione, in una fabbrica così grande sembra che le cose siano
lasciate un po’ al caso, tipo per la produzione o le ferie...», ci dice un saldatore del
reparto zincatura e continua: «...Il contratto ci impone di fare altre  ore se non c’è
il cambio turno, facciamo  ore a parte la mezz’ora di pausa, dipende anche da noi,
se vedo che il collega è stanco gli dico riposati una mezz’oretta».
«La turnistica, il tempo di recupero non c’è, la vita è sempre sballata, un gior-
no dormi di notte e poi dormi di giorno, è un po’ difficile capire che giorno è e che
ora è, perdi la concezione del tempo… prima facendo almeno  mattine di segui-
to ti abituavi».
«Prima ero tesserato ma dal giorno in cui abbiamo cambiato la turnistica…
L’azienda voleva cambiare i turni e lui, il sindacalista, alle riunioni ci teneva buo-
ni e diceva: tranquilli, quello che non volete fare non lo facciamo. E invece lo fac-
ciamo adesso! Dicono che lui parlava con la direzione e diceva: tranquillo, gli ope-
rai li faccio stare buoni io, gli operai li convinco io. Sai, magari a uno che ha fa-
miglia gli hanno detto prendi di più e quindi alla fine hanno votato il - ma non
hanno capito che alla fine stai sempre qui, non hai mai tempo di stare a casa».
È la risposta di un operaio, che ripropone la questione dell’identità di at-
teggiamenti della proprietà e del sindacato rispetto al non coinvolgimento de-
gli operai nelle scelte della produzione e che segnala quanto l’organizzazione
del lavoro si rifletta anche sulla qualità della vita a casa.
La parola organizzazione la ritroviamo anche come la responsabile diretta
dell’impossibilità di vivere a Ravenna, a riprova del fatto che come si vive den-
tro la fabbrica influenza in modo importante la vita degli operai anche fuori
dalla fabbrica: «Il modo di lavoro a Marcegaglia è organizzato da non permette-
re a chi non è di qua di vivere Ravenna, sia per i turni, sia per la modalità di la-
voro; è in fase di avvio questo stabilimento e quindi molte cose non sono orga-
nizzate, ho lavorato alla Fiat e le cose erano più organizzate, quindi la Marcega-
glia non è un buon ambiente per poter vivere Ravenna e Ravenna non si fa vive-
re dai lavoratori di Marcegaglia, anche perché venendo dal sud il tuo ambiente so-
ciale è il collega, non hai la famiglia e gli amici...».
Un altro operaio ci risponde così alla domanda su quale sia il problema più
grosso per gli operai: «Riguardo alla gestione dei reparti, la prima cosa nel lavo-
ro è avere l’organizzazione... Gestione nel senso di organizzare, nell’organizza-
zione bisogna essere amici perché ci frequentiamo anche fuori...».
C’è, nelle risposte date, un enunciato che nella sua semplicità ci fa capire
in modo inequivocabile sia l’importanza che ha il lavoro e la sua qualità sulla
vita delle persone, sia l’importanza della possibilità di pensare a quel che si sta
facendo. Mette in luce cioè, in maniera prescrittiva, l’importanza di pensare al
lavoro affinché il lavoro diventi possibile, non sia cioè solo un fattore necessa-
rio alla produzione e al profitto, ma una cosa vivibile, che dia delle possibilità
alle persone, invece che toglierle insieme a parti del loro corpo: «...Qui la vita
è tutta sul lavoro, non puoi avere un momento di riflessione...».


M A R TA A L A I M O , F R A N C A TA R O Z Z I


Punti di sintesi dei giudizi degli operai
e qualche consiglio

.. Premessa

Essenziale per il nostro metodo di ricerca è assumerci tutte le nostre re-


sponsabilità di ricercatori. Non ci limitiamo a dar voce ai nostri intervistati,
né pretendiamo di parlare in loro nome. Proviamo anzitutto a far incontra-
re il nostro pensiero col loro, con quello che ricaviamo dalle loro stesse pa-
role, avendo come primo obiettivo di rendere pensabile la realtà della loro
situazione anche ad altri: in particolare, a chi ha responsabilità di gestirla e
governarla.
È in tal senso che proponiamo i seguenti punti per consigliare buone pras-
si sia alla Marcegaglia S.p.A., sia alla Provincia di Ravenna, che a diverso tito-
lo hanno favorito lo sviluppo della nostra ricerca sull’ambientamento dei lavo-
ratori migranti in questa azienda e in questo territorio.

.. I punti

. L’esistenza e lo sviluppo della Marcegaglia S.p.A. è giudicata positivamen-


te in quanto giova a:
a) fare esperienza della fabbrica in senso molteplice, non solo come luogo
produttivo, ma anche come luogo di fiducia tra operai;
b) far ambientare gli operai migranti, italiani e non, nel territorio ravennate;
c) far esistere gli operai come figure indipendenti e dotate di propri diritti;
d) dare sicurezza del posto di lavoro e di uno stipendio fisso e regolare.

. Giudizi negativi riguardano invece il rapporto tra la Marcegaglia S.p.A. e


il territorio, nonché l’organizzazione produttiva e la sicurezza sul lavoro nell’a-
zienda. In particolare a essere criticati sono:
a) il problema degli alloggi per gli operai: di difficile reperimento, non solo a
causa del turismo stagionale, ma anche a causa della crescente domanda abita-
tiva indotta dalle assunzioni operate dall’azienda;
b) la disorganizzazione produttiva, nonché le carenze nell’attivazione dei si-
stemi di sicurezza, nella disponibilità di attrezzi adeguati e nella manutenzione
dei locali e dei piazzali;
c) la solitudine dell’operaio di fronte ai problemi incontrati nel suo lavoro;
d) la pressione subita dagli operai per aumentare la produzione;
e) la formazione spesso tardiva e poco adatta alle questioni ritenute fonda-
mentali, quali quelle dell’ambientamento dei neoassunti in fabbrica e della si-
curezza sul lavoro;


I L S E N S O D E L L A FA B B R I C A

f) l’eccessivo ricambio degli operai (sia per flessibilità interna sia per le fre-
quenti dimissioni) che non consente un accumulo di esperienza, considerato
uno dei fattori decisivi per la sicurezza sul lavoro;
g) l’inesperienza di alcuni capireparto e l’insensibilità di alcuni capoturno nei
confronti delle diverse esigenze degli operai;
h) le carenze nell’assunzione di responsabilità riguardo alle cause e alle con-
seguenze degli incidenti.

. Critici sono anche i giudizi nei confronti dei sindacati, soprattutto perché
si occupano più delle relazioni intersindacali e con la direzione aziendale che
non dei problemi di lavoro e sicurezza incontrati dagli operai.

. Ravenna e il ravennate risultano territori di difficile ambientamento per gli


operai, che non considerano Provincia e istituzioni del territorio come interlo-
cutori.

. La nostra inchiesta è giudicata molto positivamente.


.. Qualche consiglio

Se l’esistenza e lo sviluppo dell’azienda, come risulta dal punto , sono conside-


rati positivamente anche in rapporto alle difficoltà d’ambientamento nel terri-
torio, i problemi evidenziati nel punto  (dell’alloggio, della qualità della for-
mazione, dell’organizzazione del lavoro e della sicurezza) sono al centro di no-
tevoli preoccupazioni da cui sono da trarre consigli per migliorare la situazione.
In particolare, a proposito del punto a si può notare che il pensiero degli
operai si orienta su richieste di “punti di appoggio” nella ricerca di alloggi e/o
di un’edilizia più vicina ai loro bisogni: richieste che potrebbero venire affron-
tate tramite un maggiore impegno dell’azienda, ma anche grazie a forme di coo-
perazione tra azienda e istituzioni del territorio.
Quanto al punto e, riguardante la formazione, è consigliabile un profon-
do rinnovamento che tenga conto delle notevoli difficoltà di ambientamento
dei neoassunti, solitamente senza alcuna conoscenza del lavoro di fabbrica.
Senza dubbio, la formazione va resa più tempestiva, da compiersi in prossi-
mità dello stesso posto di lavoro. Inoltre, ci pare utile far riferimento alla pra-
tica dell’affiancamento, che i nostri intervistati ritengono essenziale per il lo-
ro buon inserimento.
La risorsa fondamentale che viene trasmessa tramite l’affiancamento è l’e-
sperienza accumulata dagli operai più anziani. Esperienza che pare costituire
uno degli antidoti più efficaci ai problemi prioritari di questa fabbrica: anzi-
tutto, organizzazione e sicurezza.
Cruciale sembra comunque il punto f: il notevole ricambio che, ostaco-
lando l’accumulo soggettivo di esperienza, aggrava i problemi organizzativi e


M A R TA A L A I M O , F R A N C A TA R O Z Z I

aumenta i rischi d’infortunio. Illuminante a questo riguardo è l’enunciato di un


operaio: «La sicurezza siamo noi». La sicurezza, dunque, non solo come pro-
blema tecnico, di attrezzature, o giuridico, di applicazione delle norme, ma es-
senzialmente come questione soggettiva, come elaborazione singolarmente me-
ditata di esperienze accumulate.
Infine, in considerazione del punto , e cioè del notevole apprezzamento
dimostrato dagli intervistati per la nostra inchiesta, ci permettiamo di consi-
gliare analoghe ricerche per ogni miglioramento anche di dettaglio. In partico-
lare, per contribuire a raccogliere le conoscenze acquisite dagli operai nell’e-
sperienza del loro lavoro, che già vengono utilizzate nella pratica dell’affianca-
mento e che potrebbero costituire una risorsa importante per il rinnovamento
della formazione.
Riportiamo gli enunciati raccolti tra i nostri intervistati, che sono tra i più
significativi per ogni punto.
. «Ho coronato il sogno della mia vita, il lavoro che cercavo, non mi sposto
più…». «All’inizio ho visto la cosa positiva, una fabbrica grossa una S.p.A. Non
potevo trovare cosa migliore…».
a) «…Nel compagno operaio bisogna avere grande fiducia…». «…Qui si vive
proprio il senso della fabbrica, al Sud operaio proprio non esiste…qui si fa l’ope-
raio in tutti i sensi…».
b) «Abbastanza buoni, è stato facile ambientarmi ci sono tanti meridionali che la-
vorano qui da parecchi anni, mi sono sentito subito a mio agio. Si discute di lavoro
all’interno della fabbrica, al cambio turno, per il resto abbiamo rapporti di amicizia
anche con ragazzi di Ravenna andiamo qualche sera a prendere una birra».
c) «…Ci sono diritti e doveri, l’operaio può denunciare cosa non gli va, ci sono
i sindacati, giù ci sono solo doveri».
d) «…L’attrattiva è che essendo una grossa azienda ti dà una sicurezza in più…
Io vivo da solo da quando ho  anni e anche per cambiare macchina hai bisogno
di una certa busta paga che sia almeno di una S.p.A.».

.a) «Penso che ci debba essere qualcosa che faciliti le persone da fuori, qui c’è un
po’ la questione dell’estate, ti affittano tante case da giugno a settembre per turi-
smo, quindi per un operaio cercare casa con un contratto di un anno intero è dif-
ficili. Ravenna città è molto cara, fuori sono zone turistiche e quindi vengono af-
fittate per questo. La gente di Ravenna sa il fatto suo». «…Ravenna è costosa e
sanno che Marcegaglia si sta ingrandendo e la maggior parte siamo meridionali e
magari con la famiglia e gli affittuari se ne approfittano».
b) «Il lavoro è mal gestito…». «Un problema è la mancata programmazione, ho
a che fare con gli operai e indicano quali sono i problemi che interesserebbero il
vertice, oltre che l’operaio; se un macchinario non funziona, crea problemi a chi
lavora, ma anche all’azienda, ma non si sa perché non viene fatto, le notizie non
vengono nemmeno trasmesse, il problema sorge, ma l’informazione non arriva.


I L S E N S O D E L L A FA B B R I C A

Ho avuto un infortunio in linea, se ci fosse stata attenzione, infortuni tipo il mio


non si sarebbero verificati».
«Qui dentro noi siamo solo dei numeri, anche se io mi faccio male o muoio,
se manco io mi sostituisce un’altra persona, ci sono le fotocellule con dei paletti
ma non sono mai attivate, i fili non sono collegati, non funzionano, se uno si av-
vicina si dovrebbero fermare, invece non si accendono, dopo siccome devi andare
più forte o l’ordine è urgente, allora puoi scavalcare le tapparelle, loro pensano so-
lo alla produzione, è stato un po’ messo a posto dopo che le persone si sono fatte
male o uno è morto al decapaggio; nel mio reparto un ragazzo ha perso la gamba
e io ero al lavoro, l’ho visto in piedi e poi non l’ho visto più».
c) «…Perché poi sei coinvolto tu, alla fine sei solo e non puoi dire va be’ non lo
faccio io, la linea è come un treno, deve arrivare».
d) «La pressione che ti mettono addosso per la produzione, un operatore che sta
sulla linea è pressato perché deve fare un certo quantitativo di roba, è pressato dai
vari capi…».
e) «…Il corso ti prepara mentalmente al tipo di lavoro che devi fare; alcuni che non
fanno il corso arrivano qua e non sanno cosa aspettarsi, rimangono delusi, non san-
no come muoversi e quindi vanno via, ad alcuni invece hanno fatto lo stage già fa-
cendo il lavoro che poi avrebbero fatto realmente». «Qui è pericoloso, non prendo-
no per i corsi di formazione, mettono a lavorare la gente senza sapere il lavoro che
vanno a fare, è solo lo stipendio che gli importa e avere un lavoro sicuro, per me la
fabbrica dovrebbe spendere per la formazione e la sicurezza…».
f) «Ci vuole un po’ di esperienza, non ci vuole la scienza ma un po’ di esperien-
za, a saper fare il lavoro…». «…Ci sono responsabilità a non farsi male, a te e agli
altri, la sicurezza siamo noi, se non sei sicuro tu, tutto quello che hai addosso non
conta, ci può essere sicurezza intorno, ma sta a noi, fino a che il collega non si spo-
sta, non lo faccio il lavoro...».
g) «Quel che riguarda l’organizzazione, perché siamo un’azienda che è passata da
 operai a  in  anni e adesso ci sono anche quelli che non sono specializzati e che
coordinano e sono responsabili anche per la sicurezza. Che le persone che effettiva-
mente fanno i capi abbiano una professionalità maggiore, perché noi pecchiamo un
po’ su questo. Io sono delegato e quindi conosco un buon % degli operai, conosco
i loro problemi, parliamo della sicurezza e dei livelli di salario».
h) «…In quell’impianto lì c’è scappato anche il morto, lui ha fatto un lavoro non
in sicurezza, ma il giorno dopo si è vista gente che lavorava lì intorno, vuol dire
che proprio in sicurezza non era, se lo facevano prima magari…».

. «Qua non lavora bene il sindacato, si attacca a delle cose quando dovrebbe la-
vorare per altro, gli interessa più scontrarsi tra di loro…».

. «Sull’integrazione, l’immigrato è integrato solo dal punto di vista del lavoro,


ma socialmente no!».


M A R TA A L A I M O , F R A N C A TA R O Z Z I

. «È positivo, lo pensavo prima di farla ed è così, si parla di cose che gli altri
non dicono, porta a visione dei problemi…». «È stata una novità, questa la met-
to tra le cose positive dell’Emilia-Romagna, che c’è qualcuno che si interessa di
noi…». «Mi sono sentito un po’ diverso, che sto facendo parte di questa società
un po’, mi avete trattato un po’ come un uguale, mi ha fatto piacere, grazie».

Note

. Rispetto a questo dato, manca chiarezza nelle risposte di due intervistati, che non vengono
quindi conteggiate.
. Cfr. nota .
. Cfr. L. Gallino, Il costo umano della flessibilità, Roma-Bari .
. Ibid.
. Cfr. L. Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, Torino .
. Ibid.


Sarebbe il lavoro del futuro*
di Anna Laura Diaco, Sebastiano Miele, Erika Peruzzi


Introduzione

Tra il  aprile e il  maggio del , sessantotto studenti frequentanti il cor-


so di Metodologia delle scienze sociali, tenuto dal prof. Valerio Romitelli
presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna, hanno in-
tervistato settantaquattro operatrici e operatori sociali, lavoratori della coo-
perativa sociale bolognese CADIAI (Cooperativa assistenza domiciliare infer-
mi, anziani, infanzia).
L’incontro fra studenti e operatori è stato preceduto da un intervento, teso
a fornire un quadro della legislazione riguardante le cooperative sociali e della
loro storia, del responsabile delle Politiche sociali di Legacoop Bologna, Al-
berto Alberani, colui che ha inoltre reso possibile la realizzazione di questa in-
chiesta, contattando la presidente di CADIAI, Rita Ghedini. Un secondo incon-
tro è avvenuto con la responsabile del Servizio marketing di CADIAI, Franca Gu-
glielmetti, che ha illustrato la storia di questa cooperativa, la sua struttura in-
terna, le figure professionali che vi lavorano, dando conto inoltre di alcuni pun-
ti problematici caratterizzanti il lavoro all’interno della cooperativa sociale.
L’obiettivo delle cooperative sociali, secondo la legge dell’ novembre ,
n. , è quello di perseguire l’interesse generale della comunità, la promozio-
ne umana e l’integrazione sociale dei cittadini attraverso la gestione di servizi
socio-sanitari ed educativi (in questo caso si parla di cooperative di tipo “A”,
come CADIAI), oppure attraverso lo svolgimento di attività agricole, industriali,
commerciali o di servizi, finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svan-
taggiate, quali disabili psichici, fisici o sensoriali, persone con problemi di sa-
lute mentale, tossicodipendenti o ex tossicodipendenti, minori in difficoltà,
carcerati o ex carcerati, alcolisti (cooperative di tipo “B”).
Le cooperative sociali nascono negli anni Settanta, in maniera spontanea e
improvvisata, come società di persone che, attraverso questa forma di associa-
zione, di impresa democraticamente controllata dai soci, cercano di rendere

* Un’inchiesta tra i lavoratori della cooperativa sociale CADIAI.


ANNA LAURA DIACO, SEBASTIANO MIELE, ERIKA PERUZZI

più stabile il proprio lavoro e di migliorarne le condizioni economiche, profes-


sionali e sociali; fra il  e il  conoscono una fase di forte sviluppo e – tap-
pa importante nella loro storia – nel  vengono disciplinate dalla legge .
Alle origini della cooperazione sociale stanno nuovi bisogni sociali, come il
cambiamento della situazione demografica, che vede un forte aumento della
popolazione anziana, le modifiche dell’ambito familiare, laddove la donna esce
dalla dimensione di cura della famiglia; l’affermarsi della cultura dell’integra-
zione, con la chiusura dei manicomi (legge Basaglia del  maggio , n. )
e l’inserimento nelle scuole dei bambini handicappati (legge  maggio , n.
); la creazione del “privato sociale organizzato”, il terzo settore.
La nascita delle cooperative sociali è inoltre sia di ispirazione cattolica, poi-
ché guarda all’organizzazione della Chiesa e all’attività delle parrocchie, in par-
ticolare al volontariato spontaneo, sia di ispirazione laica, poiché ha innanzi le
realtà della cooperazione, del sindacato e degli enti locali che gestiscono situa-
zioni di disagio, per lo più psichiatrico.
La cooperativa sociale si è sviluppata o meno a seconda dei diversi welfa-
re territoriali e in conseguenza dei processi di decentramento ed esternalizza-
zione messi in atto dalle pubbliche amministrazioni negli ultimi decenni. In
Italia, dopo un primo sviluppo a macchia di leopardo, che ha visto un picco a
ridosso del ’, la diffusione si è molto estesa, per cui si può parlare di zone
“mature” e zone “di recente espansione”: nel Sud Italia la presenza di un tes-
suto sociale che protegge maggiormente dall’esclusione, basandosi sulla fami-
glia, che qui è ancora la principale struttura di fatto delegata dalle istituzioni
a farsi carico della dimensione del disagio sociale, ha fatto sì che non si creas-
sero le condizioni per un particolare sviluppo delle cooperative: perciò in que-
sta zona il quadro è più frammentato. Nel Nord le cooperative si trovano in-
vece a operare in sistemi di protezione sociale spesso strutturati, con reti di
servizi, relazioni con i soggetti locali, sia pubblici che privati, consolidate. Ve-
neto, Piemonte e Lombardia (Brescia è la culla della cooperazione sociale: so-
lo nella sua provincia esistono circa duecento cooperative) sono le regioni in
cui sono presenti cooperative nate prevalentemente su ispirazione cattolica;
Toscana ed Emilia-Romagna quelle che hanno visto nascere cooperative so-
ciali di ispirazione per lo più laica. Fino al  (caduta del muro di Berlino)
le cooperative sociali in Italia sono state fortemente compartecipate, sostenu-
te dai partiti: o dalla DC o dal PCI.
Nella provincia di Bologna oggi sono presenti tre diverse associazioni di
rappresentanza del movimento cooperativo: Legacoop, Confcooperative e
AGCI (Associazione generale delle cooperative italiane), cui aderiscono  coo-
perative sociali, di tipo “A” e di tipo “B”, le quali danno lavoro a . perso-
ne e forniscono servizi a . utenti, fra anziani, disabili, persone con pro-
blemi di salute mentale, tossicodipendenti, alcolisti, ex detenuti, disagiati, pro-
fughi, immigrati, minori (dati all’ gennaio ).


S A R E B B E I L L AV O R O D E L F U T U R O

Le figure professionali che lavorano nelle cooperative sociali sono educa-


tori, assistenti di base (ADB), operatori socio-sanitari (OSS), responsabili di atti-
vità ausiliarie (RAA), impiegati, dirigenti, tecnici (pedagogisti, psicologi, assi-
stenti sociali…), operai, autisti soccorritori, terapisti della riabilitazione, medi-
ci, infermieri, addetti alle pulizie.
A Bologna, dove dal  al  quasi tutti i servizi sociali sono gestiti di-
rettamente dagli enti pubblici, fra il  e il  si sviluppa il “privato sociale”
sia associativo, come ANFFAS (oggi Associazione nazionale famiglie di disabili
intellettuali e relazionali) e AIAS (Associazione nazionale assistenza agli spasti-
ci), sia cooperativo; la prima cooperativa sociale, la Croce azzurra, nasce nel
, seguita nel  da CADIAI; nel  nasce la prima di tipo “B”, COPAPS
(Cooperativa per attività produttive e sociali).
Se inizialmente le cooperative lavorano in convenzione con l’ente pubbli-
co, dal  ai primi anni del  si passa al sistema delle gare d’appalto per
l’assegnazione dei servizi, che si svolgono per lo più al ribasso, cioè a vantaggio
di chi propone il prezzo più basso, senza guardare alla qualità: un sistema che
dà il via a un percorso di sfruttamento dell’operatore sociale, poiché le coope-
rative che offrono il prezzo più basso tutelano meno i propri lavoratori, adot-
tando il “salario medio convenzionale”, il quale permette di non pagare a pie-
no i contributi.
Nel  una direttiva regionale ha reso obbligatorio per le pubbliche am-
ministrazioni valutare almeno al % l’elemento qualità, ma i problemi legati
alle gare d’appalto al ribasso (soprattutto instabilità e scarsa tutela del lavoro)
permangono.
Diamo ora, a partire da ciò che abbiamo recepito dall’intervento della re-
sponsabile del servizio marketing, un quadro della storia e dell’organizzazione
della CADIAI. Cerchiamo dunque di capire cos’è la CADIAI vista “dall’alto”, pri-
ma di addentrarci nell’analisi delle parole degli operatori che vi lavorano.
CADIAI viene costituita il  settembre  su iniziativa di  persone, di cui
 donne, provenienti da esperienze di lavoro precario, in qualità di assistenti
ad anziani e a bambini, a domicilio o in case di cura, che svolgevano appog-
giandosi alle ACLI. Queste persone danno il via alla cooperativa con l’intento
principale di assicurare il lavoro ai loro soci, allo stesso tempo qualificandolo
in quanto lavoro di cura.
In trent’anni la CADIAI è notevolmente cresciuta: al  dicembre  vi la-
voravano  persone, di cui  a tempo indeterminato,  con contratto a ter-
mine,  liberi professionisti (medici, psicologi, infermieri professionali). Dei
 assunti a tempo indeterminato  avevano un contratto part-time ( ore
e mezza su  del tempo pieno). Le donne costituivano l’% dei lavoratori e
anche il presidente della cooperativa è tradizionalmente una donna.
I lavoratori CADIAI non sono obbligati a diventare soci, come solitamente
avviene nelle cooperative: da quando è stato stipulato il primo Contratto col-


ANNA LAURA DIACO, SEBASTIANO MIELE, ERIKA PERUZZI

lettivo nazionale di lavoro delle cooperative sociali, infatti, l’assemblea dei so-
ci CADIAI ha stabilito di non rendere obbligatorio per i propri lavoratori asso-
ciarsi (prima l’assunzione avveniva tramite associazione), con l’idea che fosse
giusto distinguere l’assumersi un rischio d’impresa dall’offrire il proprio servi-
zio. Perciò, sul numero degli occupati, i soci CADIAI sono circa la metà ( nel
). Questo comporta tuttavia dei problemi per la cooperativa, la quale non
può così godere degli sgravi fiscali previsti per le cooperative con maggioranza
di soci lavoratori.
CADIAI applica dunque il CCNL, il quale stabilisce dieci livelli di retribuzione;
la maggioranza dei suoi lavoratori si colloca fra il terzo e il sesto livello. Lo sti-
pendio (circa  euro per il quarto livello, il più diffuso in cooperativa) è ugua-
le ogni mese (non si tratta quindi di un salario a ore) e ogni sei mesi vengono pa-
reggiati i conti rispetto alle eventuali ore lavorative in più o in meno. In caso di
malattia, i lavoratori vengono pagati fin dal primo giorno, ricevendo un’integra-
zione della copertura da parte dell’Inps, che scatta dal terzo giorno; la maternità
viene pagata appieno e le donne, poiché svolgono lavori a rischio, possono as-
sentarsi dal primo giorno di gravidanza al settimo mese di vita del bambino.
Oltre al CCNL, CADIAI applica anche la contribuzione piena (invece del salario
medio convenzionale, come altre cooperative): se da un lato questo è un vantag-
gio per soci e lavoratori CADIAI, che sono più tutelati rispetto a quelli di altre coo-
perative, dall’altro si rivela uno svantaggio nelle gare d’appalto al ribasso, poiché
così, avendo costi più alti, CADIAI non è in grado di offrire prezzi competitivi.
La cooperativa CADIAI prevede un’Assemblea dei soci; un Consiglio d’am-
ministrazione, eletto dall’Assemblea ogni tre anni e composto da tredici consi-
glieri, rappresentanti di ogni settore produttivo; un presidente e un vicepresi-
dente, eletti dal CDA; un organo di informazione interna (un giornale) che tie-
ne aggiornati soci e dipendenti.
La struttura aziendale è composta dal presidente del CDA, dalla Direzione
operativa, formata da cinque responsabili di settore (uno per settore) nomina-
ti dal CDA, e da tre responsabili dei servizi di staff. Nessun membro della Dire-
zione operativa può far parte del CDA, esclusa la presidente, in modo da tene-
re così separate le esigenze della gestione aziendale da quelle dei soci.
Prerogativa delle cooperative è di garantire lavoro sicuro a tutti i propri so-
ci e lavoratori, tuttavia questo principio viene evaso con l’assunzione di perso-
nale a termine. All’interno della CADIAI si ritiene di dover ridurre questa fascia
di lavoro precario, resa ora necessaria sia dal bisogno di coprire periodi di ma-
ternità o di lunga malattia e infortuni, cui sono particolarmente soggetti questi
lavoratori, che devono tra l’altro sollevare gli assistiti e svolgere diverse man-
sioni faticose e pesanti, ma anche dalla discontinuità delle richieste di lavoro,
in particolare sull’assistenza domiciliare: infatti il monte ore preventivato dal
Comune a inizio anno per questo servizio solitamente subisce delle variazioni
cui bisogna adattarsi. Vengono fatte molte assunzioni a tempo determinato an-


S A R E B B E I L L AV O R O D E L F U T U R O

che per coprire i periodi di ferie, poiché il lavoro aumenta quando le famiglie
vanno in ferie e vanno in ferie anche gli operatori.
Altro punto critico è dunque l’assenteismo per infortunio o malattia (tasso
del %). Questo indica un malessere dei lavoratori: svolgono un lavoro logo-
rante dal punto di vista fisico e psichico (ogni due anni vengono effettuate del-
le visite mediche, secondo la legge , per stabilire l’idoneità del personale al-
le varie prestazioni), stanno a contatto con la sofferenza (caratteristica di CA-
DIAI è oltretutto il lavoro con l’utenza più grave), spesso sono sottoposti a ten-
sioni derivanti dal fatto che il lavoro si svolge in gruppi.
Da questi motivi dipende anche un eccessivo tasso di turnover (tasso am-
missioni/dimissioni dei lavoratori), per cui in un anno può cambiare anche
un terzo del personale. Sappiamo infatti che risulta difficile fidelizzare le
persone al lavoro di cura: alcuni lo considerano un lavoro di passaggio, altri
lo intraprendono poco consapevoli del tipo di mansioni da svolgere e lo ab-
bandonano nel giro di un mese. I settori che risultano più problematici da
questo punto di vista sono le case per disabili adulti e l’assistenza domicilia-
re, poiché si considera che, particolarmente in questi ambiti, non è indiffe-
rente chi svolge il lavoro: gli anziani si affezionano agli operatori, i disabili
hanno bisogno di punti di riferimento che non dovrebbero cambiare ogni
anno, anche perché si instaura un circolo vizioso per cui più cambiano gli
operatori, più gli assistiti sono agitati, e più loro sono agitati più il lavoro per
gli operatori diventa logorante, facendo sì che il tasso di turnover aumenti
ulteriormente.
Il  marzo ci siamo dati appuntamento per accordarci su luoghi, date e ora-
ri delle interviste e per formare i gruppi che le avrebbero effettuate. Si sono co-
sì spontaneamente creati ventidue gruppi di due, tre per lo più, o quattro per-
sone al massimo, alcuni dei quali costituiti da studenti che già si conoscevano
fra loro, molti altri formati da studenti che hanno trovato allora l’occasione di
conoscersi e allo stesso tempo di fare insieme un’esperienza che per tutti è sta-
ta in primo luogo nuova rispetto alla didattica solitamente applicata all’interno
dell’università, e poi coinvolgente, entusiasmante, formativa.
Fare le interviste in gruppo è stato importante poiché, oltre a consentire a tut-
ti i frequentanti il corso di partecipare, ha reso più abbordabile un’impresa che,
come prima esperienza, avrebbe potuto dare risultati deludenti, e ha garantito
inoltre maggior attendibilità: le parole degli intervistati sono state infatti raccol-
te tramite scrittura, trascrizione manuale, non registrate, al fine di rendere l’in-
tervistato più responsabile rispetto alle proprie risposte. È stato dunque utile che
ci fossero almeno due mani a trascrivere, poiché questo ha reso più responsabili
rispetto alle parole degli intervistati anche noi intervistatori alle prime armi.
L’adesione all’inchiesta da parte dei lavoratori è stata volontaria e successi-
va alla ricezione di una nostra lettera, in cui si spiegavano motivazioni e obiet-
tivi della ricerca; che l’intervista sarebbe stata anonima e utilizzata solo a fini


ANNA LAURA DIACO, SEBASTIANO MIELE, ERIKA PERUZZI

scientifici; che si sarebbe stabilita una data in cui avremmo pubblicamente pre-
sentato i risultati dell’inchiesta.
Gli incontri fra studenti-intervistatori e lavoratori-intervistati sono avve-
nuti sui loro luoghi di lavoro e durante l’orario di lavoro. Le interviste hanno
avuto mediamente una durata di un’ora ciascuna.
Gli uffici CADIAI del quartiere Navile, del quartiere San Donato, del quar-
tiere Savena-Mazzini, del Centro civico Lame, del Centro civico Savena-Maz-
zini, la sede CADIAI di via del Monte, i centri diurni per anziani “Il Castelletto”
e “Tulipani”, i centri socio-riabilitativi diurni per disabili “Fava” e “Casa dei
Boschini”, la residenza protetta per disabili “Casa Rodari”, il gruppo apparta-
mento per disabili di via Sant’Isaia, dunque, i luoghi delle interviste.
I nostri strumenti erano il questionario a risposta aperta da somministrare
agli intervistati, di cui abbiamo discusso durante il corso, e la volontà di riusci-
re, servendoci di esso, a raccogliere le parole attraverso cui indagare quale sia
il pensiero che rende possibile il pesante lavoro di questi operatori.


Descrizione del campione

Pur avendo a disposizione meno di un mese, essendo ben ventidue gruppi, siamo
riusciti a intervistare settantaquattro persone, da una a sei per gruppo, secondo le
disponibilità, arrivando a raccogliere un materiale che consta di circa  pagine.
Fra quartieri e centri civici, sono stati intervistati trentacinque assistenti do-
miciliari ad anziani, invalidi o malati terminali, quattro coordinatori, quattro re-
ferenti del servizio ADI (Assistenza domiciliare integrata), un responsabile orga-
nizzativo; presso la sede CADIAI, quattro educatori e un assistente domiciliare;
nei centri diurni per anziani, otto assistenti e un’operatrice che svolge attività di
supporto, poiché non può più svolgere mansioni di altro tipo per invalidità sul
lavoro; nei centri diurni per disabili, quattro educatori; altri otto educatori pres-
so Casa Rodari e infine quattro assistenti presso il gruppo appartamento.
Dunque il nostro campione è così composto:
‒  assistenti domiciliari;
‒  educatori ( in centri diurni –  nella casa protetta);
‒  assistenti per anziani in centri diurni;
‒  assistenti per disabili in gruppo appartamento;
‒  referenti;
‒  coordinatori;
‒  Rresponsabile organizzativo.
Le donne sono , gli uomini . Di età compresa fra venti e trenta anni
abbiamo  persone; fra trenta e quaranta: ; fra quaranta e cinquanta: ; fra
cinquanta e sessanta: ; uno solo oltre i sessanta; in undici casi non disponia-
mo del dato.


S A R E B B E I L L AV O R O D E L F U T U R O

Per quanto riguarda l’anzianità di servizio, le persone che lavorano in CADIAI


da un periodo compreso fra due mesi e un anno sono ; fra due e cinque anni:
; fra cinque e dieci anni: ; fra dieci e venti anni: ; da più di venti anni vi la-
vorano  persone, di cui quella con maggior anzianità da trentacinque anni.
Originari e residenti di Bologna e provincia sono ; provenienti da altre
città del Nord Italia: ; provenienti da diverse città del Centro Italia: ; prove-
nienti dal Sud Italia: ; provenienti da altri paesi (Albania, Colombia, Ecuador,
Senegal): ; in  casi non disponiamo del dato.
 persone provengono da esperienze di volontariato;  hanno cominciato
a lavorare in CADIAI per prestare servizio civile e sono stati poi assunti;  sono
laureati in psicologia e lavorano qui dopo aver svolto attività simili per il pro-
prio tirocinio; per  persone è il primo lavoro dopo il diploma (Istituto magi-
strale, Istituto tecnico per i servizi sociali, Liceo per le scienze sociali, Istituto
tecnico commerciale);  sono studenti universitari (Scienze antropologiche,
Scienze della formazione);  lavoravano con diverse mansioni in strutture me-
diche;  facevano privatamente attività di assistenza ad anziani o bambini;  fa-
ceva la maestra d’asilo;  faceva terapie artistiche con bambini disabili;  pro-
vengono da un lavoro in fabbrica;  facevano i commercianti;  erano impiega-
ti in uffici vari;  provengono dal campo della moda e  da un’agenzia pubbli-
citaria;  facevano lavori diversi, come commessa, parrucchiera, cassiera, ca-
meriera, magazziniere, decoratrice, restauratrice, estetista;  ha sempre lavora-
to per CADIAI;  faceva l’istruttore militare in Ecuador. Fra costoro  donne han-
no cominciato a lavorare nella cooperativa dopo aver lasciato da diversi anni
un’altra attività per dedicarsi alla maternità.
Questo il nostro vario campione.
Il  maggio, presso la sede CADIAI del quartiere Pilastro, abbiamo esposto
i primi risultati della ricerca a un pubblico costituito dalla presidente della coo-
perativa, Rita Ghedini, dalla responsabile del Servizio marketing, Franca Gu-
glielmetti, da responsabili e coordinatori della CADIAI e dagli studenti del cor-
so di Metodologia delle scienze sociali.
Mancavano i diretti interessati, gli operatori, impegnati in quel momento
al lavoro, che, tuttavia, abbiamo avuto modo di incontrare più avanti, non so-
lo per restituire loro i risultati dell’inchiesta, ma anche per verificare e ap-
profondire questioni, attraverso un dialogo di gruppo, con lo scopo di arriva-
re a costruire con loro una serie di prescrizioni utili pragmaticamente.
Di questa esperienza daremo conto nell’Appendice a conclusione del testo.


«Nel nostro mondo siamo importanti»

Il sistema di welfare italiano ha sempre visto prevalere i trasferimenti moneta-


ri alle famiglie rispetto all’erogazione di servizi pubblici, favorendo così una lar-


ANNA LAURA DIACO, SEBASTIANO MIELE, ERIKA PERUZZI

ga autoproduzione di assistenza e servizi alla persona da parte delle famiglie


stesse. Il recente sviluppo del terzo settore e in particolare dei servizi assisten-
ziali e sanitari è legato, dunque, alla crescita, dovuta al ritrarsi della famiglia tra-
dizionale, di una domanda che lo Stato sembra sempre meno in grado di sod-
disfare, sia per quantità che per qualità. Le cooperative sociali costituiscono in
quest’ambito una risposta innovativa a tali carenze: secondo C. Borzaga e J.
Defourny le cooperative sociali, insieme alle organizzazioni di volontariato,
rappresentano la fattispecie organizzativa più innovativa all’interno del settore
non profit italiano. Anche nel Terzo rapporto sulla cooperazione sociale in Italia
si parla di innovazione: le cooperative sociali sono innovative rispetto alle tra-
dizionali forme di cooperazione, in quanto i beneficiari dei prodotti dell’im-
presa non coincidono solo con i soci, ma con la più vasta comunità locale.
Il loro carattere innovativo è legato anche alla nascita relativamente recen-
te e al loro recente riconoscimento: abbiamo già detto, del resto, che la prima
legge che le disciplina (la ) risale solo al .
I lavoratori che operano all’interno delle cooperative sociali sono allora fi-
gure nuove, le quali si trovano ad affrontare bisogni non soddisfatti dallo Sta-
to, ma anche non più gestiti in seno alla famiglia, con tutto lo sforzo di adat-
tamento e di creatività che ciò – vedremo più avanti – comporta. Ma sono an-
che figure che non rientrano ancora nel tradizionale panorama delle profes-
sioni in Italia, dove l’operatore sociale non è riconosciuto come lavoratore,
poiché nemmeno conosciuto o confuso con chi fa del volontariato: non es-
sendo l’assistenza al cittadino percepita come diritto, ma demandata per lo più
alla generosità di volontari, i lavoratori che questo diritto lo incarnano non
hanno visibilità o, laddove ne abbiano, le loro competenze vengono spesso
fraintese e svalutate.
La nostra inchiesta è stata subito recepita dagli operatori come un’occasio-
ne, un mezzo per diffondere la conoscenza della loro realtà.
C’è appunto chi parla di “realtà diversa” da far conoscere all’“esterno”: «È
una buona iniziativa per mostrare alle persone una realtà diversa, che all’esterno
forse nessuno conosce»; chi di nuovo usa la parola “conoscere”, legandola alla
possibilità di arrivare a “sostenere” di più questo lavoro: «Se serve per far co-
noscere di più il nostro lavoro, ben venga: questo lavoro dovrebbe essere più aiu-
tato e sostenuto»; chi parla, invece, di far “capire” il proprio lavoro, ripren-
dendo l’idea di una “realtà” esterna contrapposta a una interna, in questo caso
costituita solo dagli utenti, “gli anziani”: «Spero sia utile per far capire il nostro
lavoro, perché lo riescono a capire solo gli anziani»; c’è anche chi ci attribuisce
la possibilità di “sensibilizzare” l’opinione pubblica rispetto alla propria realtà:
«Queste interviste bisognerebbe farle più spesso per sensibilizzare l’opinione pub-
blica»; e, ancora, chi si sente “valorizzato” dalla nostra iniziativa rispetto alle
abituali condizioni, in cui ci si sente chiamare “lavaculi” (questa parola è ricorsa
frequentemente nelle interviste, a rimarcare la sottovalutazione dei compiti del


S A R E B B E I L L AV O R O D E L F U T U R O

lavoratore sociale da parte dell’“esterno”): «Bellissima iniziativa: spesso siamo


considerati una categoria di lavaculi. L’intervista ci ha fatto sentire valorizzati».
Nelle parole dei nostri operatori l’idea che il proprio lavoro non sia conosciuto
si accompagna, e allo stesso tempo contrasta, con quella dell’importanza rivestita
da esso non solo per la società, per la gestione di una fetta problematica e non tra-
scurabile di questa, ma anche per ogni soggetto che lo svolge, questo lavoro.
Risulta infatti essere un lavoro dalle qualità intrinseche tali da far afferma-
re a un’operatrice: «È un lavoro che mi ha cambiato il carattere». Ma più avan-
ti la stessa lamenta scarsa “considerazione” da parte delle istituzioni: «È dal-
l’alto che questo lavoro dovrebbe essere considerato di più».
Un altro rileva l’importanza del proprio mestiere nel caratterizzarsi come
scambio reciproco, come “dare e ricevere”: «È un lavoro affascinante: non dai
solo, ricevi anche». Gli attribuisce dunque un fascino, pur sentendosi “abban-
donato”, non riconosciuto socialmente in rapporto ad esso: «È difficile essere
da soli, abbandonati da parte della società».
Un’altra mette l’accento sulla piacevole sensazione che si ricava da que-
st’attività nel dedicarsi agli altri. Sensazione che va poco dopo a scontrarsi con
quella derivante – di nuovo – dall’inadeguata “considerazione”: «È bellissimo
riuscire a conciliare il bisogno di lavorare con la sensazione di aver fatto qualcosa
per qualcuno»; e poi: «In linea di massima penso che ci sia poca considerazione
per il nostro lavoro».
Emblematico è il seguente enunciato, in cui si ripresentano un “fuori”, le-
gato alla scarsa considerazione, e un “dentro”, che qui viene nominato come il
“nostro mondo”, legato all’idea di essere “importanti”: «Al di fuori non siamo
presi in considerazione, siamo l’ultima ruota del carro, ma nel nostro mondo sia-
mo importanti».
Questi operatori ritengono dunque di appartenere a un mondo chiuso, ric-
co, quanto poco conosciuto al suo esterno. In primo luogo misconosciuto dal-
le istituzioni: «Penso che le istituzioni pubbliche ci trattino molto male, che ci
sfruttino e che non capiscano nemmeno il nostro lavoro».
Anche la stessa organizzazione di lavoro, la cooperativa, è pensata dagli
operatori come non riconosciuta e quindi poco “sicura” per quanto riguarda
la stabilità e la continuità del lavoro: «La cooperativa non è riconosciuta in
campo politico»; «La CADIAI dovrebbe farsi sentire di più»; «La CADIAI do-
vrebbe rendersi più visibile: per assicurare un futuro a questo settore è indi-
spensabile sensibilizzare la gente e informarla di ciò che avviene all’interno dei
nostri centri».
Ci poniamo perciò come primo obiettivo di promuovere la conoscenza del
lavoro sociale attraverso l’indagine sul pensiero di soggetti che questo lavoro lo
svolgono.
In linea con chi pensa che questo «sarebbe il lavoro del futuro», anche per-
ché «lavorare nel sociale ti fa vedere altri aspetti della vita», ci proponiamo in


ANNA LAURA DIACO, SEBASTIANO MIELE, ERIKA PERUZZI

primo luogo di non deludere chi ci ha detto: «Spero in voi, spero che arrivi il
messaggio dell’importanza di questo lavoro».
Ma non basta promuovere la conoscenza di questo “mondo”: la parola che as-
sumiamo come parola chiave dei risultati di questa inchiesta è “riconoscimento”:
«Questo non è riconosciuto come lavoro»; «Bisogna riconoscere l’importanza della
nostra professionalità»; «È un lavoro che mi piace, anche se non è riconosciuto».
La assumiamo come tale non solo perché si presenta sovente fra le parole
dei nostri intervistati, ma anche perché pensiamo di poter prefiggerci come se-
condo obiettivo il tentativo di dare a questi operatori, attraverso il nostro lavo-
ro, un riconoscimento del tutto particolare, da anteporre a qualsiasi altro tipo
di riconoscimento: un riconoscimento intellettuale.
Pensiamo cioè di riconoscere a chi svolge l’attività di operatore sociale al-
l’interno di una cooperativa la dignità di chi esercita un lavoro il quale merita
di essere conosciuto e pensato in termini problematici nuovi e singolari, quan-
to nuove e singolari sono le difficoltà cui si trovano davanti questi operatori
trattando ambiti ancora ambigui e poco definiti della vita collettiva.
Cercheremo dunque di descrivere attraverso le loro parole questa realtà,
con i problemi che porta con sé e le soluzioni che caso per caso vengono da lo-
ro stessi elaborate.


«Lo stipendio non dà valore al nostro lavoro»

In quest’ottica il malcontento per lo stipendio, che sembra coinvolgere trasver-


salmente tutte le figure professionali, tutti i livelli, non ci è sembrato da consi-
derare una lamentela banale o scontata, o semplicemente una rivendicazione
sindacale, come le tante che ci sono capitate sotto mano occupandoci di que-
sto settore, nel quale le lotte per il rinnovo del Contratto collettivo nazionale di
lavoro e per il miglioramento del trattamento economico sono continue: cre-
diamo sia il campo in cui emerge nella maniera più immediata, meno elaborata,
forse, la richiesta di riconoscimento, poiché molto frequentemente viene usata,
in merito alla questione, la parola “valore”: «Lo stipendio non dà valore al nostro
lavoro», dice un educatore.
Con lui, altri  intervistati ( coordinatori,  referenti,  educatori,  operato-
ri in centri diurni per anziani e  assistenti domiciliari) danno rilievo con le loro
parole all’inadeguatezza dello stipendio rispetto al valore del lavoro, alla difficoltà,
ma anche alle grandi qualità («mi ha cambiato il carattere», «fa riflettere di più sul-
la vita») di esso. Due assistenti domiciliari dicono: «Dovrebbe essere un lavoro re-
tribuito di più, per quello che vale»; «È basso, considerando quello che si fa».
E questo anche perché, come dice un’altra assistente domiciliare, «sono im-
pagabili il coinvolgimento, le energie e le responsabilità che quotidianamente ven-
gono messe in questo lavoro».


S A R E B B E I L L AV O R O D E L F U T U R O

Si tratta in effetti per gli operatori di avere responsabilità civili e penali ri-
spetto ai propri assistiti, oltre al coinvolgimento personale («lavoriamo con per-
sone, non con macchine») nella cura di costoro, alla fatica fisica e al continuo
sforzo di adattamento e di ricerca di soluzioni per ogni caso da affrontare. Con-
nesso a questo aspetto, emerge in più enunciati anche un altro problema, ri-
guardante il riconoscimento che, attraverso lo stipendio, si dovrebbe dare al li-
vello di esperienza e di formazione raggiunte dall’operatore: «Lo stipendio è
basso, dieci anni fa prendevo il minimo, ma mi stava bene perché non avevo for-
mazione...». Un’educatrice in proposito parla di impegno che dovrebbe essere
“rimborsato”: «L’impegno fisico, psicologico, di preparazione, che è alto, non è
rimborsato da questo stipendio».
In questa attività, infatti, la continua formazione, più che teorica, legata al-
l’esperienza diretta, la continua costruzione di modalità di agire e di rappor-
tarsi agli assistiti costituiscono – lo vedremo meglio più avanti – la parte più si-
gnificativa e problematica.
Fra i nostri intervistati, della propria retribuzione non è contento nessuno.
Ventisei ( coordinatori,  referenti,  assistenti domiciliari,  educatori, 
assistenti per anziani in centri diurni,  assistenti per disabili in appartamenti),
quando abbiamo chiesto loro se ci fosse un problema che avrebbero voluto ve-
dere risolto o cosa potesse migliorare le condizioni del loro lavoro, hanno ri-
sposto: «Uno stipendio più alto».
Molti pensano di percepire uno stipendio che non basta per vivere: pren-
dendo in esame le risposte alla domanda che fa direttamente riferimento allo
stipendio, troviamo che sette intervistati ( assistenti domiciliari,  educatore, 
assistente a disabili in appartamento e  assistente anziani in centro diurno) dan-
no risposte come: «Non è adeguato al costo della vita»; «Se non avessi mio ma-
rito, non riuscirei a viverci»; «Io vivo ancora con i miei genitori, ma se dovessi
mantenermi da sola questo stipendio non basterebbe».
Da questi enunciati emerge chiaramente che i nostri operatori percepisco-
no una retribuzione che non li mette in condizioni di costruire una famiglia, per
esempio, o semplicemente di mantenersi da soli, senza l’appoggio della fami-
glia d’origine o dello stipendio di un altro membro della propria famiglia: «Mol-
ti di noi fanno un secondo lavoro», ci ha detto un educatore. Questo contribui-
sce a caratterizzare il lavoro all’interno della cooperativa sociale come transito-
rio: può dunque essere anche per questo motivo che risulta un lavoro preva-
lentemente femminile e non solo perché si tratta di mansioni di cura.
Secondo un’analisi di Reyneri, il settore dei servizi è a prevalenza femmi-
nile, poiché gran parte dei servizi sociali e personali risultano essere la profes-
sionalizzazione di attività che venivano svolte fino a qualche decennio fa all’in-
terno della famiglia. Ma afferma anche che il lavoro nei servizi è vissuto da chi
lo svolge (per lo più donne, giovani e immigrati) come transitorio o comunque
non centrale nella propria esperienza di vita e che, in un sistema di scarsa oc-


ANNA LAURA DIACO, SEBASTIANO MIELE, ERIKA PERUZZI

cupazione e precarietà del lavoro, scaricarle su tali categorie può risultare me-
no traumatico per la gestione della società, poiché sarebbero categorie in gra-
do di fondare la propria identità sociale al di fuori del mercato del lavoro (co-
me casalinga, mamma, studente...) e quindi subire l’esclusione dall’occupazio-
ne con meno conflitti o tensioni.
A questo proposito notiamo che fra coloro che lavorano part-time c’è chi
(un assistente anziani in centro diurno,  assistenti domiciliari, un educato-
re), mettendo in relazione stipendio e numero di ore di lavoro, attenua i to-
ni parlando della propria retribuzione, soprattutto perché il part-time è le-
gato alla possibilità di dedicarsi, per esempio, anche alla famiglia. Un’assi-
stente domiciliare, che ha scelto questo lavoro perché la impegna solo la mat-
tina, così ha «il tempo di stare con la sua bimba», ci ha detto: «È un tasto do-
lente, comunque non mi lamento. Per il momento è tanto già l’aver iniziato a
lavorare».
La scarsa retribuzione condiziona dunque anche il rapporto con il proprio
lavoro, l’intenzione di proseguirlo, influendo sul tasso di turnover, il quale – ab-
biamo visto – costituisce un grave problema per il lavoro in cooperativa. Sei in-
tervistati ( educatori e  assistenti domiciliari) pensano infatti di non potere o
volere continuare a farlo per via della “situazione economica”. Una di loro, as-
sistente domiciliare, ci ha detto: «Se riesco a trovare un lavoro pomeridiano, pos-
so rimanere, altrimenti non so: ho bisogno di più soldi per vivere, ora sto solo so-
pravvivendo».
Anche le difficoltà nel reclutamento del personale dipendono in parte dal-
la questione “stipendio”.
È emerso durante l’inchiesta – lo approfondiremo più avanti – che trovare
persone motivate e qualificate da assumere è un grosso scoglio, il quale si ri-
percuote anche sulla vita lavorativa di molti operatori, che lamentano difficoltà
imputabili all’inadeguatezza di colleghi poco motivati.
Un’assistente domiciliare ci ha detto: «Se fosse più pagato questo lavoro, il
personale si troverebbe»; una coordinatrice: «Se pagassero di più, riusciremmo a
fare più selezione e a qualificarli meglio».
Nove intervistati ( assistenti domiciliari,  assistente a disabili,  operatore
in centro diurno per anziani) usano, in merito alla retribuzione, la parola “sfrut-
tamento”: «Negativo al massimo: siamo sfruttate al massimo»; «Le cooperative
sociali stanno diventando una specie di sfruttamento umano».
C’è anche chi parla di “agenzia interinale”: «Le persone sono sfruttate. Sia-
mo peggio delle agenzie interinali».
Emerge da queste parole un’idea negativa della politica di lavoro messa in at-
to dalla cooperativa, che si colloca in una più generale sfiducia nella cooperativa
come organizzazione. Un’educatrice: «Non significa più niente cooperativa».
Il sistema delle gare d’appalto per la gestione dei servizi, che abbiamo de-
scritto nell’introduzione, sicuramente contribuisce a questa sfiducia: «Il sistema


S A R E B B E I L L AV O R O D E L F U T U R O

degli appalti sta distruggendo questo lavoro»; «Le istituzioni pubbliche assegnano
posti tramite gare d’appalto, si gioca al ribasso e questo non aiuta molto».
Infatti, nel caso in cui la cooperativa perda una gara d’appalto, i lavoratori
si trovano comunque a ripartire da zero, almeno per quel che riguarda i risul-
tati raggiunti con gli utenti.
In cinque ( referenti,  educatore e  assistente domiciliare) fanno riferi-
mento al problema del contratto da rinnovare, mettendolo in correlazione an-
cora con la scarsa “considerazione” in cui si sentono tenuti “dall’alto” in quan-
to lavoratori: «Non solo si guadagna poco, anche il contratto è scaduto già da tre
anni, siamo poco considerati, nonostante sia un lavoro molto importante».
Tuttavia, alcuni pensano che comunque, nonostante la scarsa retribuzio-
ne, l’importante sia sentirsi “tranquilli”, “tutelati” dalla cooperativa in cui si
opera, riconoscendo alla CADIAI di dare delle garanzie ai propri lavoratori che
altre cooperative non danno (ricordiamo che la CADIAI è tra le pochissime
cooperative sociali ad applicare la contribuzione piena): «Secondo me, per i
servizi che diamo, lo stipendio è basso... ma la cooperativa ti garantisce tran-
quillità»; «È basso... ma la CADIAI tutela il lavoratore, a differenza di altre coo-
perative che non lo fanno».
Per alcuni ciò che manca alla CADIAI e, più in generale, alle cooperative so-
ciali è il peso politico, come abbiamo visto in precedenza, il potere contrattuale,
per cui, per quanto si cerchi di tutelare i lavoratori, non si riesce a migliorare le
loro condizioni economiche, a ottenere un CCNL più adeguato. Una responsabi-
le organizzativa ci ha detto: «Sullo stipendio stendiamo un velo pietoso, però il con-
tratto è quello e nel nostro statuto abbiamo il massimo che ci possono dare».
Due assistenti domiciliari aggiungono al quadro il problema degli sposta-
menti da effettuare con mezzi propri, fatto che sicuramente ha ripercussioni
in termini economici: «Non mi lamento dello stipendio, ma dell’usura della
macchina». È una questione che riguarda più in generale l’organizzazione dei
servizi. Infatti gli operatori lamentano di dover gestire gli spostamenti da una
casa all’altra degli assistiti in soli cinque minuti. «Devi usare il tuo mezzo, ti de-
vi pagare la benzina, devi trovare parcheggio e hai a disposizione solo cinque mi-
nuti», dice un’assistente domiciliare. Cosa possibile solo nei casi (che sono ri-
sultati rari) in cui il coordinatore del gruppo sia attento o abbia la possibilità
(legata alle dimensioni più o meno gestibili dei gruppi di lavoro) di creare per-
corsi razionali per ognuno.
Con le parole di cinque intervistati, tutti assistenti domiciliari, viene nuo-
vamente ribadito, pur nello scontento per lo stipendio, il grande valore che ha
per loro il proprio lavoro, il loro estremo coinvolgimento. Hanno tenuto a dir-
ci che, nonostante non si sentano economicamente gratificati, non lo lascereb-
bero mai: «Non lo lascerei mai nonostante lo stipendio»; «Siamo pagati poco, ma
mi è piaciuto tanto che lo farei anche da volontaria»; «Gli stipendi non vanno,
ma, per dirsela tutta, meglio morta di fame e aiutare gli altri».


ANNA LAURA DIACO, SEBASTIANO MIELE, ERIKA PERUZZI

Vediamo allora quali fattori rendono il lavoro sociale così particolare, da


dove i nostri operatori traggono la gratificazione che li spinge a continuare.


«La cosa più importante è la gratificazione
che si può ricevere dalle persone»

Precedente alla nostra, la ricerca più recente sulle cooperative sociali di Bologna
riguardava il fenomeno del burnout e del suo possibile rimedio consistente nel-
l’empowerment. Anche se il campione e il settore così indagati erano sensibil-
mente diversi dai nostri, abbiamo constatato che non mancavano dei punti di in-
tersezione. Così, ai fini della nostra inchiesta, è stato molto importante esaminare
approfonditamente metodologia e risultati di questo studio antecedente. Quanto
alla metodologia, alcuni tratti lo rendono evidentemente molto diverso dal nostro.
Anzitutto, la coppia burnout/empowerment definisce un insieme di com-
portamenti che vengono verificati tra i soggetti interpellati dalla ricerca. Ciò è
necessario per somministrare dei questionari a multiple choice e quindi rag-
giungere dei risultati essenzialmente quantitativi.
La nostra inchiesta invece aveva un obiettivo del tutto opposto, di ap-
profondire il più possibile qualitativamente il pensiero e la soggettività degli
operatori. Per questo per noi è stato essenziale tenere come fonte principale di
conoscenza le loro stesse parole. E per questa stessa ragione è stato quanto mai
importante evitare di definire qualsiasi comportamento a priori, su cui esami-
nare i nostri intervistati. Ma c’è pure una divergenza metodologica ancora più
fondamentale. La coppia burnout/empowerment rappresenta una dialettica
evolutiva. L’idea è: c’è il cortocircuito per stress (tra chi fa lavori duri, come gli
operatori sociali) e c’è il rimedio (ad esempio, la fiducia nelle proprie possibi-
lità di carriera); constatiamo i rischi del primo, per verificare come si può pas-
sare al secondo. Ora, anche seguendo le indicazioni di Romitelli, noi non ab-
biamo fatto ricorso ad alcuno schema evolutivo. Abbiamo evitato l’idea stessa
di constatare un fenomeno e da ciò dedurre la possibilità di un altro, tanto più
se di là da venire. Solo così abbiamo potuto sapere dai soggetti intervistati che
le possibilità di carriera in futuro, per molti di loro e molto realisticamente, so-
no da ritenersi assai scarse e comunque poco compensative delle fatiche e del-
lo stress da lavoro, questi sempre duramente e costantemente presenti. Anche
se su campione e con finalità euristiche diverse, in tema di ciò che più può com-
pensare fatica e stress, gli intervistati della nostra ricerca, diversamente dai ri-
sultati della ricerca su burnout e empowerment, hanno parlato soprattutto de-
gli assistiti e delle soddisfazioni provate in rapporto a essi.
La “soddisfazione” che gli operatori dicono di provare rapportandosi agli
utenti, dall’analisi delle nostre interviste, risulta essere per loro l’unica fonte di
“gratificazione” che si possa ottenere da questo lavoro.


S A R E B B E I L L AV O R O D E L F U T U R O

Un’assistente domiciliare parla di soddisfazione come “punto di forza”:


«Per quanto riguarda gli assistiti, le soddisfazioni sono state il mio punto di for-
za». Un’altra dice di trarla da piccoli gesti di gratitudine, come un “sorriso”, da
parte dell’utente: «La soddisfazione più grande è ricevere, dopo un servizio, un
sorriso, un “senza di lei non so cosa avrei fatto”».
È di nuovo un’assistente domiciliare a parlare invece di “gratificazione”: «La
cosa più importante per me è la gratificazione che si può ricevere dalle persone»; e
con lei un’altra: «A me interessa di più la gratificazione di questi nonnini».
Ancora una, la quale in particolare trova gratificante l’apprezzamento da
parte dell’utente, che vuole “trattenerti” oltre il tempo di servizio: «La cosa più
importante è la gratificazione da parte degli anziani, quando vuoi andar via per-
ché è finito il tuo tempo e loro cercano di trattenerti».
Si tratta di una soddisfazione personale, morale, che a volte fa superare
difficoltà grandi, legate allo stipendio troppo basso, agli orari e ai tempi, a vol-
te improponibili, alle strutture troppo spesso carenti di attrezzature, alle ten-
sioni fra colleghi, alla disomogeneità dei gruppi di lavoro e soprattutto allo
scarso riconoscimento da parte della società. Ha tanto valore da avvincere a
questo tipo di lavoro anche chi lo ha iniziato senza particolare motivazione:
«Ho iniziato per curiosità, poi mi sono affezionata»; «All’inizio pensavo che non
mi sarebbe piaciuto come lavoro, ma poi ho scoperto che poterli aiutare mi ha
spinta a continuare».
Una coordinatrice afferma addirittura che preferirebbe tornare a fare l’o-
peratrice per la gratificazione che questo ruolo comportava: «Vorrei tornare in-
dietro perché il lavoro che faccio adesso è molto meno gratificante».
Il particolare modo di rapportarsi agli utenti si caratterizza per gli ope-
ratori come uno scambio, un “dare-avere”, che valorizza questa attività e il
soggetto che la svolge. Il seguente enunciato ci apre tale dimensione: «La co-
sa più importante sono i rapporti interpersonali con gli anziani, c’è un dare-
avere reciproco, a volte basta un sorriso». Un’altra parla anche di “aiuto” re-
ciproco: «È che io do del mio e guardo praticamente la persona che sta aven-
do assistenza… quella gioia e gratitudine che alle volte non si ha nei parenti.
Però la cosa strana è che anche loro aiutano me, perché io comunque ho una
famiglia e comunque ho la possibilità di dare oltre la mia famiglia. Io aiuto lo-
ro e loro aiutano me».
Il tipo di rapporto descritto dagli operatori è basato sull’instaurazione del-
la fiducia, perché le attività svolte sono a stretto contatto fisico e mentale con
le persone seguite e spesso è necessario farsi “accettare” dall’utente come
“esterno” alla famiglia: «A volte succede che all’inizio si faccia un po’ di fatica
perché è difficile accettare qualcuno di esterno: preferirebbero che le famiglie si
occupassero di loro».
Troviamo distinzioni che caratterizzano i diversi tipi di intervento: nel ca-
so degli assistenti ai portatori di handicap l’attenzione dell’operatore è rivolta


ANNA LAURA DIACO, SEBASTIANO MIELE, ERIKA PERUZZI

a ottenere una condizione di tranquillità e rispetto reciproco, alla ricerca di un


giusto metodo educativo non sempre facile da trovare, sia perché «non c’è for-
mazione che ti faccia capire come fare questo lavoro. C’è sempre da imparare», sia
perché a volte, come dice un’educatrice, riferendosi ai propri colleghi, «ognu-
no vuole fare di testa sua, ci sono modalità di agire opposte».
In questo ambito l’operatore, per riuscire a interagire in modo costruttivo
con gli assistiti, ha bisogno di far loro riconoscere il proprio ruolo: «Sono ra-
gazzi dolci ma che devono imparare a obbedire e a riconoscere la nostra autorità»,
dice un educatore.
Per ottenere dei risultati, bisogna costruire un particolare percorso insie-
me all’assistito: «Si deve sempre camminare con loro, non prima o dopo, devo ade-
guarmi prima io a loro e poi loro si adeguano a me. Loro non hanno la pazienza,
gliela devi dare tu».
La “pazienza”, se vogliamo, è la soluzione per tenere sotto controllo le si-
tuazioni, la parola chiave che chiarisce l’importanza di avere un equilibrio per-
sonale per lavorare efficacemente.
Quando poi si trovano a lavorare con persone non capaci di intendere e vo-
lere o assistiti particolarmente aggressivi, molti operatori prendono come sfida
personale il fatto di riuscire a superare l’iniziale paura che alcune patologie de-
stano in loro.
È importante per molti operatori “mettere in discussione” se stessi, rico-
noscere i propri “limiti”, al fine di arrivare ad affrontare in maniera costruttiva
situazioni difficili, anche pericolose, in cui è necessario mantenere un control-
lo tale da trovare l’azione giusta da compiere per proteggere sia l’assistito in cri-
si che la propria “indennità”: «Ci si mette a confronto con le proprie emozioni e
i propri limiti personali, mi sono messa in discussione emotivamente. Qui ho im-
parato a controllare i miei limiti. Ci sono anche situazioni di crisi, emergenze, de-
vi tutelare l’utente, ma anche la tua indennità».
L’operatore si mette “in gioco” come soggetto: «La cosa più difficile è met-
tere in gioco se stessi»; deve rapportarsi ogni giorno con realtà difficili e deve
adattarsi e intervenire a seconda delle persone che si trova davanti.
Ci sono situazioni di aggressività in cui, però, gli operatori non riescono a
superare le paure. Un’educatrice dice: «Qui c’è un ragazzo molto aggressivo e io
ancora non riesco ad affrontarlo, a superare la paura nei suoi confronti», e affer-
ma in seguito che le sarebbe utile un aiuto psicologico.
Emerge in più casi una chiara richiesta di aiuto da parte dei lavoratori, per
quanto riguarda il proprio equilibrio: «Non so se la CADIAI lo fa, ma un corso di
psicologia non farebbe male».
Equilibrio che si possa poi essere in grado di mantenere anche al di fuori
del lavoro: diversi soggetti lamentano di trovarsi a sfogare lo stress, accumula-
to attraverso il contatto con l’utente, sui familiari e le persone che fanno parte
della loro realtà.


S A R E B B E I L L AV O R O D E L F U T U R O

Per quanto riguarda l’assistenza agli anziani, la maggior parte degli opera-
tori ritiene fondamentale il “rapporto” da instaurare con l’utente: «Non vai so-
lo a lavarli, è importante parlarci, creare un rapporto»; un rapporto che va co-
struito ogni giorno, uscendo dai “canali normali” e ricercando nuovi modi di
“comunicare”, un rapporto dove il “contatto” e la fiducia sono elementi indi-
spensabili, dove la socializzazione è fondamentale, altrimenti si corre il rischio
di essere rifiutati dall’utente e di non poter svolgere bene il proprio lavoro: «So-
no rapporti da costruire tutti i giorni. Il nostro lavoro è il contatto… Un modo di
comunicare differente da quello che hai nei canali normali… È un rapporto più
fisico… carezze, sorrisi… Devono avere fiducia in te, se no non va bene».
Gli operatori devono letteralmente inventarsi un modo di comunicare con
ogni utente.
Le persone seguite, in alcuni casi, non sono in grado di rapportarsi alla
realtà, quindi la maggior difficoltà sta soprattutto nel riuscire a trasmettere loro
la voglia di interagire; bisogna superare molti ostacoli e una chiave per riuscirci
spesso gli operatori sembrano trovarla nel dare “serenità” all’utente, nel fornir-
gli gli stimoli giusti. A tal proposito riportiamo gli enunciati di due assistenti do-
miciliari: «La cosa più importante e interessante è quella di vedere lo sguardo del-
le persone, riuscire a dargli della serenità senza farli sentire umiliati, allontanare
anche momentaneamente il dolore»; «Con gli assistiti è bellissimo, tranquillo, di-
vertente, cerco sempre di coinvolgerli: è importante farli ridere».
Gli operatori non considerano l’utente oggetto, ma soggetto del proprio la-
voro: «Abbiamo a che fare con persone, non con macchine».
Perciò le attenzioni a livello personale, l’ascolto, il coinvolgimento risulta-
no essenziali, sono un buon metodo per interagire e rientrano in quell’espe-
rienza di scambio, di “dare-avere” cui abbiamo accennato: «Per me l’anziano è
mio nonno, mio padre, un amico, un insieme di cose. Gli anziani sono come dei
pozzi dove attingi sempre qualcosa, una carezza, un sorriso, cose anche brutte da
commuovermi. Queste cose ti lasciano spiazzata, non sai cosa dirgli non avendo-
le vissute. Sono dei pozzi senza fine, stupendi come bambini, i miei bambini. So-
no piccoli grandi uomini»; «Si imparano molte cose dagli anziani: lezioni di vita,
parlano di come era la vita e il mondo, di oggi e di ieri, della guerra. Li considero
tanti libri… e ognuno racconta la sua storia».
Un problema particolare, che mette a dura prova lo sforzo di interazione
da parte dell’operatore, consiste nell’affrontare casi difficili come quelli di
utenti affetti da depressione.
Queste le parole di un assistente domiciliare: «Quando sono depressi... È
difficile con le parole tirare su un depresso, quello lucido terminale è il peggiore,
lavorare sugli anziani non è la cosa più facile, bisogna saperli prendere: ognuno
ha le proprie manie, le proprie abitudini».
Notevoli difficoltà si presentano anche di fronte a pazienti anziani “irascibi-
li”, che hanno reazioni violente. In questi casi, come in quelli riguardanti l’handi-


ANNA LAURA DIACO, SEBASTIANO MIELE, ERIKA PERUZZI

cap, per l’operatore risulta complicato capire quale sia la cosa giusta da fare, riu-
scire ad avere una reazione controllata che non sconvolga equilibri tanto faticosa-
mente conquistati. Un’assistente in un centro parla di “paura” e trova nel “par-
larne” la chiave per avere il “coraggio” di affrontare la situazione: «La difficoltà
non mi fa paura, mi fa paura quando l’anziano è molto aggressivo: non sai come com-
portarti. È successo, ma non mi ha scoraggiata, perché ne parli. C’è l’anziano aggres-
sivo per la sua cattiveria e l’anziano che non capisce; allora devi parlare col medico,
per dargli dei medicinali… A me è arrivato un pugno in testa: la prima cosa che ti
viene è di reagire, ma ti devi trattenere perché è come un bambino piccolo».
Nonostante gli sforzi fatti per entrare in empatia con l’utente, gli operato-
ri si trovano a dover affrontare una contraddizione: parlano della necessità di
un “distacco” da mantenere con l’utente per non essere eccessivamente “coin-
volti” a livello personale e mantenere dunque una “professionalità” utile ad agi-
re nel migliore dei modi e a non risentire della sofferenza con cui giornalmen-
te si viene a contatto. Si verificano condizioni per cui la continua frequentazio-
ne degli assistiti, unita al particolare rapporto che abbiamo visto instaurarsi,
crea un “coinvolgimento” contro il quale diviene necessario lottare: «Ho im-
parato molto da loro, sono coinvolta, cerco di non esserlo, ma non ce la faccio…
Vedo più loro che mio marito!».
Alcuni parlano di “affezione”, contrapponendola a un “distacco”, che è
“necessario”, “dovuto” e legato alla professionalità, alla consapevolezza che
“sei lì per lavorare”: «Sapere che sei lì per lavorare ti permette di avere un cer-
to distacco… che è necessario… È molto utile il distacco, anche se alle volte ci si
affeziona»; «Spesso ci si affeziona a queste persone, ma bisogna cercare di divi-
dere la propria vita professionale da quella personale con un dovuto distacco».
C’è chi lo chiama “vetro”: «Il rapporto è ottimo, gli assistiti sono molto buo-
ni anche se tra loro e me bisogna mantenere un vetro…»; chi parla di “togliersi
la pelliccia”: «Devi ascoltare il dolore altrui, ti devi immedesimare nella soffe-
renza e poi quando hai finito devi toglierti la pelliccia…»; chi lo nomina come
“distanza”, conseguibile attraverso il rispetto delle “regole” che stanno alla ba-
se della “professionalità”, la quale determina il rapporto fra dentro e fuori il la-
voro: «L’assistente deve essere in grado di mantenere una certa distanza, perché
ci sono alcune regole che devono essere rispettate, c’è bisogno di professionalità,
il lavoro inizia quando entri e finisce non appena esci».
I nostri operatori si occupano di disabili, di anziani e anche di malati ter-
minali: l’esperienza della morte è perciò sempre un’eventualità di cui tener con-
to. Qui il tema del distacco professionale da contrapporre al coinvolgimento
emotivo acquista toni più forti: «Delle volte mi affeziono, quando muore qual-
cuno piango, infatti non va bene affezionarsi»; «La cosa più difficile è, penso pro-
prio, quando muoiono. Si va da loro quasi tutti i giorni per molti anni e, anche se
cerchi di avere un distacco, entri comunque in un rapporto che ti coinvolge e la lo-
ro morte ti fa star male».


S A R E B B E I L L AV O R O D E L F U T U R O

Molti vorrebbero che si tenessero dei corsi che spiegassero come affronta-
re la morte; alcuni ne hanno frequentato uno, di cui tuttavia non ci sono chia-
ri i temi e i risultati: «Ci vorrebbe un corso sulla morte»; «Sono stati fatti anche
dei corsi per affrontare questa cosa, ma secondo me rimane comunque la cosa più
brutta del nostro lavoro in quanto ha ripercussioni psicologiche sull’operatore».
È un tema importante nel vivere questo tipo di attività: un assistente domi-
ciliare, che lavora prevalentemente con malati terminali, considera la cosa più
importante del suo lavoro l’aver creato un nuovo rapporto con l’idea di vita in
base a quello che si è trovato a dover creare con la morte: «[La cosa più impor-
tante è] il maggior valore che ho dato alla vita conoscendo la morte. Sai che oggi
sei qui e domani può succederti di tutto. Capisci che improvvisamente non ci sarai
più. Si imparano ad apprezzare le piccole cose, a valutarle di più».
Occupandosi degli utenti, gli operatori si trovano a confrontarsi anche
con i loro familiari, soprattutto in contesti domiciliari. Questo rapporto
spesso assume l’aspetto di uno scontro: se fino a qualche decennio fa era an-
zitutto la famiglia a essere interpellata, a occuparsi dell’anziano o del disa-
bile, ora ciò avviene sempre meno, e a supplire a questa funzione sono pro-
prio gli operatori sociali. Lasciamo ai sociologi con prospettive più dall’al-
to, più panoramiche, stabilire quanto questa dissociazione sia più o meno
profonda e variamente trattata nelle diverse zone d’Italia, dell’Europa e del
mondo. Noi, stando alla nostra ricerca sul campo, sul luogo CADIAI, possia-
mo notare una netta diversità tra il modo familiare e il modo “cooperativo”
di trattare le stesse questioni. Diversità che è attestata tra l’altro dai notevo-
li problemi segnalati dagli operatori sociali nei confronti dei familiari degli
assistiti. Significativo è come un’assistente caratterizza la sua stessa singola-
rità soggettiva, affermando che deve confrontarsi come “esterno” con le “re-
gole di casa” caratterizzanti il “metodo familiare” di trattare l’anziano, sen-
za poter peraltro fare appello a “regole definite e condivise” quali quelle vi-
genti in strutture come gli ospedali: «Con i familiari è più difficile perché, se
prima se ne occupavano loro, avevano il loro metodo nell’accudire e fanno fa-
tica ad accettare un esterno, succede che abbiano delle pretese perché si è in ca-
sa loro e si devono accettare le regole della casa. Non si è in un ospedale dove
le regole sono già definite e condivise».
Molti operatori accusano i familiari di essere troppo “pretenziosi”, “esi-
genti”, di chiedere “la luna nel pozzo”, come spiega un’operatrice, non riu-
scendo a fare affidamento sulla loro “professionalità” e intromettendosi nel la-
voro con l’idea di dover “insegnare” il metodo (il “saper fare”) da adottare: «I
familiari sono un grosso scoglio e sono molto pretenziosi»; «Con i familiari è dif-
ficile dimostrare la propria professionalità. Per loro è difficile accettare il con-
fronto, pensano di poterti sempre insegnare qualcosa»; «C’è il parente asfissiante
che crede di saper fare più di noi, ci sono anche quelli molto esigenti che non tol-
lerano neanche il minimo ritardo».


ANNA LAURA DIACO, SEBASTIANO MIELE, ERIKA PERUZZI

Oppure, al contrario, li accusano di delegare loro totalmente la cura del-


l’assistito («ma noi possiamo starci solo un’ora»), di “fregarsene”: «Si vede mol-
to menefreghismo da parte dei familiari»; «Ci sono quelli che delegano e sono in-
sopportabili»; «I figli se ne fregano»; o anche di “approfittare” del loro servizio
per non accudire il parente: «A volte sono menefreghisti perché approfittano del
fatto che ci siamo noi assistenti di base a fare tutto».
Ma è un delegare che per alcuni operatori, particolarmente per quelli che la-
vorano all’interno di strutture in cui si prendono a tempo pieno la responsabilità
dell’utente, assume un’accezione positiva. Un’educatrice usa la parola “affidare”:
«I parenti si affidano piano piano, nel tempo lasciano tutto in mano a noi».
Nei contesti domiciliari, invece, risulta da alcuni enunciati che i familiari
arrivano addirittura a costituire un intralcio per le loro mansioni, a complicar-
ne il lavoro, opponendosi all’utilizzo degli ausili e dei supporti necessari, poi-
ché condizionati dal rifiuto di modificare l’ambiente casalingo in funzione del-
la malattia: «Ci sono alcuni familiari un po’ difficili perché molto spesso si rifiu-
tano di accettare situazioni, ad esempio una persona di novanta chili che devi gi-
rare… Se trovi la famiglia che ti dice che il letto matrimoniale non lo vuole divi-
dere per metterci il letto infermieristico…»; «Ci vorrebbe maggiore collaborazio-
ne da parte dei familiari, che per esempio nell’intento di rendere più comoda la
vita dell’anziano, tagliano i piedi o bucano i sostegni del letto per inserire il tele-
comando».
Gli operatori si trovano dunque a svolgere azione di supporto non solo
agli utenti, ma anche ai loro familiari: si trovano infatti ad affrontare, a do-
versi confrontare con la particolare situazione in cui si viene a trovare la fa-
miglia, provata dalla gestione di una malattia, che risulta difficile da accet-
tare. Parlano di “comprensione”, di “capire”: «Li capisco, ho assistito mio pa-
dre: è uno stress mentale più che fisico, hai dei momenti di abbandono»; «I fa-
miliari, sapendo di lasciare un figlio all’interno di un’organizzazione come la
nostra, molte volte si sentono in colpa, soprattutto le mamme che a volte con
noi sono dolci, a volte isteriche, però questi scatti si possono tollerare, sono
comprensibili. Alla fine comunque tutte le famiglie ci apprezzano e ci voglio-
no bene».
Questi operatori sono dunque figure nuove, che si fanno carico di una par-
te della società di difficile gestione, costruendo caso per caso le modalità per
farlo e ricercando nuovi modi di inserirsi in un contesto che non è né familia-
re, né ospedaliero e di far riconoscere la propria professionalità, affermandosi
come una precisa figura, che non va confusa né con quella della badante (per-
ché questa si inserisce nella famiglia, assumendone le medesime modalità di ge-
stione, non sempre efficaci in situazioni che richiedono un intervento specifi-
co, come le demenze), né con quella del volontario, da cui si differenzia sia nel-
l’esercitare una professione, appunto, sia nel rappresentare un diritto nell’assi-
stenza al cittadino, comunque sostenuto dalle istituzioni.


S A R E B B E I L L AV O R O D E L F U T U R O


«Fra colleghi ci vorrebbe più collaborazione, rapporto»

Gli operatori, dunque, pur dovendo compiere continui sforzi di adattamento


a nuove condizioni, pur dovendo superare numerose difficoltà nei rapporti con
gli assistiti, trovano in essi il motore della loro forza, della loro voglia di impe-
gnarsi in questo tipo di lavoro.
Risulta invece dalla nostra inchiesta che i problemi più gravi si creano nel
rapporto non solo con referenti, coordinatori, responsabili, ma anche orizzon-
talmente, fra colleghi.
Un’educatrice: «È più difficile lavorare con i colleghi che con i ragazzi».
Ci sembra significativo che, durante le interviste, moltissimi abbiano espo-
sto la questione prima che rivolgessimo loro la domanda riguardante diretta-
mente i rapporti fra colleghi, rispondendo ad altri punti del questionario.
Nove assistenti domiciliari, ad esempio, pensano che il problema che vor-
rebbero vedere risolto sul lavoro concerne il rapporto con i propri colleghi:
«Fra colleghi ci vorrebbe più collaborazione, rapporto»; «Il problema è la rivalità
tra colleghi»; «Il rapporto con i colleghi è il problema: bisognerebbe trovare qual-
cosa per andare tutti d’accordo».
A pensare che un miglioramento del rapporto con gli altri migliorerebbe an-
che le condizioni del proprio lavoro e lo renderebbe più efficace sono otto assi-
stenti domiciliari, che vorrebbero più occasioni per “conoscere” i colleghi: «Più
contatti tra colleghi: non ci conosciamo»; maggior “confronto”: «Ci vorrebbero
più assemblee, più confronto»; più “comunicazione”: «Bisognerebbe creare più
gruppo, la comunicazione qua dentro è il problema»; maggior scambio di infor-
mazioni: «Si parla poco, a volte chi va al posto mio non sa delle cose...».
Da questi enunciati emergono diverse problematiche: c’è sì rivalità e ca-
renza di collaborazione, come non è difficile che accada in qualsiasi ambiente
lavorativo, ma le vere questioni sono l’insufficienza di occasioni di incontro e
di scambio, la mancanza di passaggi di informazioni utili al lavoro, la carenza
di conoscenza fra colleghi. Questi sono problemi che gli operatori imputano al-
l’organizzazione stessa della CADIAI, la quale ha seguito un modello organizza-
tivo teso alla crescita delle dimensioni dell’impresa in rapporto ai livelli di do-
manda: abbiamo visto che è arrivata a dare lavoro a più di settecento persone.
Ma la natura relazionale di questa attività discorda con un sistema di gran-
di dimensioni, dove necessariamente finiscono per instaurarsi rapporti anoni-
mi e burocratici: «Ci vorrebbe meno burocrazia e più succo».
Un’assistente domiciliare in proposito parla di organizzazione “caotica”
come risultato dell’ampliamento della CADIAI: «Sta peggiorando… è una coope-
rativa molto corretta, ma trovo che abbia sbagliato ad ampliarsi così tanto: ora sia-
mo più del doppio dei dipendenti rispetto all’inizio e questo dà luogo a un’orga-
nizzazione caotica, con risultati decisamente negativi».


ANNA LAURA DIACO, SEBASTIANO MIELE, ERIKA PERUZZI

Sono in molti a pensare che l’eccessiva espansione della CADIAI, il fatto che
«non è più una famiglia, ma un’azienda» sia causa di difficoltà nel creare scam-
bio di informazioni, nel comunicare, nell’organizzare il lavoro, nell’instaurare
rapporti costruttivi o anche solo nell’aver occasione di conoscere i colleghi.
Un’assistente domiciliare parla di “irrigidimento”, facendo riferimento anche
a una spersonalizzazione (“siamo numeri”) nei rapporti: «È troppo grande, sia-
mo diventati dei numeri, c’è un irrigidimento totale del rapporto con gli altri»;
questione che ritorna nell’enunciato di un altro assistente, che usa di nuovo la
parola “numero”, mettendo inoltre distanza fra sé e la CADIAI (dice “per loro”):
«La CADIAI tecnicamente va bene, ma dovrebbe migliorare umanamente: per lo-
ro sei un numero». Un educatore ritiene di non poter dare risposte sulla CADIAI
nel suo complesso, tante sono le persone che vi lavorano e con cui non si ha oc-
casione di entrare in contatto: «Non ti posso parlare di CADIAI: tanti non li co-
nosco nemmeno di vista». Un’assistente domiciliare fa riferimento alla disper-
sione causata da una simile organizzazione: «Con questa organizzazione a volte
sembra difficile capire a chi chiedere cosa: è molto grande, per altre cooperative
può essere più semplice mantenere i rapporti con i soci, ma la CADIAI è grande, è
cresciuta molto».
Un’altra dà rilievo a un aspetto che è emerso frequentemente rispetto al-
l’idea che i nostri operatori hanno del luogo dove lavorano: la struttura “ge-
rarchica” cui ha dato luogo l’ampliamento della CADIAI ha trasformato la sua
dimensione da cooperativa in aziendale: «Mentre prima si intendeva per coo-
perativa cooperazione, adesso praticamente è una struttura aziendale, gerarchi-
ca». E ancora: «Ci sono troppe persone che gestiscono»; «Ci sono troppi capi,
capini, capetti».
Anche una coordinatrice pensa che «tra operatore e coordinatore c’è un rap-
porto piramidale».
Un educatore mette ancora in discussione il concetto di cooperativa, par-
lando di organizzazione “industriale” che manca di “attenzione” al lavoro de-
gli operatori: «Io penso che la CADIAI, anche se si definisce una cooperativa so-
ciale di sinistra e compagnia bella, la posso definire più un’organizzazione indu-
striale che mette macchine al lavoro: non c’è nessuna attenzione al lavoro che fa
un operatore sociale».
Il problema delle dimensioni della cooperativa genera anche quello della
costituzione di gruppi di lavoro, che risultano difficilmente gestibili per l’ec-
cessiva ampiezza e l’organizzazione verticistica. Questo comporta notevoli
tensioni fra gli operatori e chi li coordina. La responsabile organizzativa di-
ce: «Ora come ora, con un gruppo di  operatori, la cosa più difficile sono le di-
namiche di gruppo. Gli occhi devono vedere anziché guardare, perché si fa pre-
sto a scatenare marette».
Sedici intervistati ( assistenti domiciliari e  educatori) trovano partico-
larmente difficile rapportarsi con referenti, coordinatori e responsabili («Re-


S A R E B B E I L L AV O R O D E L F U T U R O

sponsabili e coordinatori non capiscono il nostro lavoro!»), ritengono difficile


districarsi all’interno dell’organizzazione CADIAI, mettendo nuovamente in
evidenza la sfiducia nella cooperativa come ente. Un’assistente domiciliare
contrappone addirittura gli “interessi” della cooperativa a quelli dei lavorato-
ri: «Le coordinatrici dovrebbero venire incontro a noi e non fare gli interessi del-
la cooperativa».
La struttura gerarchica, l’ampiezza eccessiva dei gruppi finiscono per com-
portare – come dice un’educatrice – “responsabilità” per i coordinatori tali da
dover gestire i rapporti con gli operatori in modo “formale”: «I rapporti con
coordinatori e responsabili sono alquanto formali; questa figura comporta re-
sponsabilità che causano allontanamento dagli educatori». Un’assistente domi-
ciliare, lamentandosi dei coordinatori dice, però, “non possono” soddisfare le
richieste: «Con i coordinatori ci puoi parlare, ma non ti senti preso in considera-
zione, le tue richieste spesso non possono essere soddisfatte».
In particolare, alcuni fanno riferimento alla distanza creata dal ruolo di “su-
periori” di coordinatori e referenti, rimarcando nuovamente la discordanza fra
la presente condizione e un’organizzazione cooperativa “ideale”. In un enun-
ciato molto colorito, un operatore usa parole come “piedistallo”, “aristocrazia”
per definire i responsabili: «Con i responsabili c’è un po’ una barriera, loro ten-
dono a salire un po’ di più sul piedistallo, capiscono, ma fanno finta di non capi-
re, sta diventando un’aristocrazia... , prima della rivoluzione francese! Se sa-
li in cattedra, perdi il contatto, la fiducia, la stima. Questa è una cooperativa: io
non ammetto queste cose». E un’altra dice: «È meglio che non parlo... non c’è
collaborazione, specialmente con i referenti: chi ha il titolo se lo tiene, alza la te-
sta e si fa grande».
Usa toni meno forti, si dichiara “malleabile”, solo chi ha avuto modo di
esperire il ruolo di coordinatore: «Ho imparato a essere malleabile, sono più tol-
lerante, visto che sono stato coordinatore anch’io e so che non è affatto facile fa-
re quel lavoro».
Potrebbe allora essere utile un momento di formazione costituito da un pe-
riodo di tirocinio o affiancamento che comporti una simile esperienza.
I referenti hanno i loro particolari problemi a rapportarsi con colleghi e su-
periori, dovuti soprattutto alla posizione intermedia della propria figura lavo-
rativa: costituiscono un tramite fra l’operatore e l’utente, ma anche fra opera-
tore e coordinatore, mantenendo comunque mansioni nel servizio.
Una di loro usa la parola “sdoppiare”: «La cosa più difficile è doversi sdop-
piare fra il ruolo di operatrice e quello di referente, è difficile dire a un collega: hai
sbagliato». Un’altra parla di “accontentare”: «La cosa più difficile è accontenta-
re tutti, utente e operatori. Con  teste è difficile». Anche in questo caso ritor-
na il problema del gruppo costituito da troppi soggetti.
Le dinamiche di gruppo problematiche arrivano in alcuni casi a costituire
una questione talmente insormontabile da spingere l’operatore a voler abban-


ANNA LAURA DIACO, SEBASTIANO MIELE, ERIKA PERUZZI

donare il lavoro: «Ad essere sincera, sono un tantinello restia a continuare: tra
colleghi ci sono problemi, si parla spesso alle spalle. A volte la pazienza scappa»,
dice un’assistente domiciliare.
Sei intervistati trovano che il motivo di simili tensioni vada attribuito alla
prevalenza femminile sul lavoro: due assistenti domiciliari e un’educatrice, tut-
te donne, lamentano questo disagio. L’educatrice: «Il problema è la prevalenza
femminile. Quando si è tutte donne è un disastro, ci vorrebbero più uomini che
smorzano le cose: fra donne ci sono sviperamenti, le cose non vengono dette di-
rettamente».
In proposito, due assistenti domiciliari, sempre donne, parlano di “man-
canza di sincerità”.
Uno degli effettivamente pochi uomini intervistati, assistente domiciliare,
ci ha detto: «Fanno troppe polemiche e sono bagolone», riassumendo poi la sua
visione dei problemi sul lavoro con: «Meno donne e più soldi»!
Molti pensano che le cose siano rese più difficili dall’eccessivo tasso di tur-
nover, che abbiamo visto essere un problema tutt’altro che trascurabile all’in-
terno della CADIAI (anche nel nostro campione sono in dodici a dichiarare di
non voler continuare a lavorarvi). Due assistenti domiciliari: «Non è facile rap-
portarsi con i colleghi perché cambiano spesso»; «È problematico cambiare conti-
nuamente collega».
Il turnover si ripercuote anche sui percorsi educativi elaborati dagli opera-
tori e dunque sugli utenti. Un’educatrice: «C’è troppo turnover, i ragazzi si
confondono, devono avere dei punti di riferimento. Se il personale cambia in con-
tinuazione, non c’è mai un gruppo che porta avanti un lavoro completo». Emer-
ge qui una preoccupazione diffusa, sia tra gli educatori che tra gli assistenti do-
miciliari: che i cattivi rapporti fra colleghi abbiano ripercussioni negative sul-
l’utente. Anche un’assistente domiciliare infatti dice: «Se non c’è un buon rap-
porto, gli utenti lo percepiscono e invece è fondamentale che ci sia tranquillità e
armonia».
Cinque operatori (assistenti domiciliari) lamentano invece «troppa inade-
guatezza dei colleghi», come dice uno di loro. Il lavoro di tipo sociale richiede
sia delle competenze che una predisposizione, le quali non sempre sono pre-
senti entrambe o in ugual misura in chi tenta di intraprenderlo. Approfondire-
mo più avanti questo aspetto. Ora ci limitiamo a segnalarlo come problema che
interviene a complicare la gestione dei rapporti fra colleghi. La dualità delle
qualità necessarie per fare l’operatore sociale si coglie bene nei seguenti enun-
ciati, in cui si parla di “sentire” di più il lavoro e dare più “cultura”: «Per ren-
dere il lavoro più efficace ci vorrebbero più persone che lo sentano»; «Bisogne-
rebbe dare un po’ più di cultura a tutti gli operatori».
Alla base di questo problema sta anche la difficoltà nel trovare personale
qualificato e motivato, viste la scarsa retribuzione e la scarsa considerazione in
cui è generalmente tenuto questo lavoro (i laureati ad esempio puntano “più in


S A R E B B E I L L AV O R O D E L F U T U R O

alto”): «La carenza di offerta di persone preparate costringe ad assumere gente


non specializzata», lamenta un’operatrice.
Le difficoltà nella selezione del personale, non sempre “motivato” (che “lo
senta”), emergono anche dalle parole di una coordinatrice, la quale ritiene che
la cosa più problematica del suo lavoro sia «la gestione degli operatori e soprat-
tutto trovarne di motivati». Un’altra coordinatrice, che si occupa anche delle se-
lezioni, parla invece di “qualifica” (“cultura”): «Se pagassero di più riuscirem-
mo a fare più selezioni e a qualificarli meglio».
Un’assistente domiciliare critica il “criterio” di assunzione: «Nella scelta de-
gli operatori non c’è un criterio molto adatto, perché spesso si assume in base al-
le esigenze del momento».
Gli educatori hanno quasi tutti lo stesso problema riguardo ai colleghi:
diciassette di loro lamentano una carenza di omogeneità nel proprio gruppo
di lavoro, una difficoltà nel trovare una linea di lavoro comune. Usano paro-
le come “coordinamento”: «Non c’è coordinamento, ognuno fa come gli pare»;
“sintonia”: «La sintonia è abbastanza scarsa perché abbiamo punti di vista dia-
metralmente opposti»; “diversità” nel “modo”: «C’è troppa diversità nel mo-
do di lavorare del gruppo»; o anche “separazioni” riguardo alle “modalità”:
«Ci sono separazioni tra colleghi per modalità e mentalità di agire»; “compat-
tezza” nelle “competenze”: «Il problema è la compattezza e la competenza del
gruppo». Uno di loro attribuisce alla figura del pedagogista, il quale non è at-
tento al “come” si lavora, la carenza di “riferimenti”: «Dovremmo essere più
seguiti da un punto di vista pedagogico. È come se mancasse un punto di riferi-
mento. Il nostro pedagogista non si occupa mai di come svolgiamo noi questo
lavoro, dei nostri problemi, delle nostre frustrazioni, finora non è riuscito a met-
tere insieme un discorso educativo che coinvolgesse tutti gli educatori e creare
un clima di tranquillità».
Alcuni educatori danno rilievo in particolare alla disomogeneità di forma-
zione all’interno del gruppo, alla mancanza di “direttive”, sempre riguardo al
“modo” di agire: «Occorrerebbe una formazione adattata ai problemi specifici,
una supervisione, qualcuno che dia delle direttive più mirate al modo di compor-
tarsi con i ragazzi. Ci vorrebbe un coordinamento comune, delle modalità coe-
renti».
Una possibile soluzione viene dalle parole di uno di questi educatori, che
ritorna sullo “scambio”, necessario perché circolino fra colleghi informazioni
e idee utili per il loro lavoro: «Servirebbero più riunioni. Se si facessero più riu-
nioni fra me e i miei colleghi per scambiarci informazioni, per scambiarci pareri e
non essere ogni volta costretti ad andare a berci una birra... non sarebbe male. So-
lo che queste riunioni non ci sono».
Riguardo alle tensioni che comportano le dinamiche di gruppo, alcuni af-
fidano la risoluzione del problema ai propri pregi caratteriali. Un’educatrice ad
esempio afferma: «Io parlo anche con le pietre!».


ANNA LAURA DIACO, SEBASTIANO MIELE, ERIKA PERUZZI


La formazione: una chiave di lettura del turnover?

Uno dei punti critici della cooperativa CADIAI è l’eccessivo turnover, ovvero l’al-
ta frequenza di abbandono del posto di lavoro, tale da far sì che ci sia un co-
stante bisogno di nuove assunzioni. Situazione che chiaramente destabilizza in
modo rilevante diversi aspetti della vita della cooperativa.
Riflettendo su questo tema, vorremmo anche provare a chiarire cosa inten-
diamo per “riconoscimento intellettuale” della figura dell’operatore sociale.
Le prime considerazioni in merito sono partite dalla lettura delle parole con
cui gli operatori intervistati descrivono e giudicano la formazione.
A una prima superficiale lettura, la maggior parte degli intervistati sem-
brerebbe soddisfatta della formazione ricevuta. In molte risposte infatti la for-
mazione è descritta come qualcosa di essenziale, che serve per affrontare i pro-
blemi giornalieri; molti poi esprimono la propria approvazione per determina-
ti corsi specifici, come ad esempio quello sulla morte, che prepara ad affronta-
re questa grave problematica.
Volgendo invece lo sguardo alla consistente fetta che, seppure ancora a una
lettura “esplorativa” superficiale, ritiene la formazione scarsa o insufficiente,
notiamo frasi come quella di un’operatrice che menziona il “paleolitico”: «I re-
sponsabili dei corsi sono persone antiquate, paleolitiche. Ci vogliono persone più
giovani e un corso fatto bene».
E subito ci si accorge anche della presenza di operatori che addirittura ri-
tengono la formazione non adatta a questo tipo di lavoro, come un’assistente
di base: «Normalmente la formazione la faccio da sola, andando in giro, fre-
quentando i colleghi. Naturalmente dei colleghi che nel settore lavorativo hanno
più anni…».
Anche se dunque in prima battuta il giudizio sembrerebbe in larga parte
positivo, non si può fare a meno di notare che aleggia sempre un “sottofondo”
di lamentela, a volte anche tra i più soddisfatti, alcuni dei quali si lamentano ad
esempio dei pochi fondi destinati alla formazione.
Penetrando più in profondità le parole degli intervistati, ci accorgiamo di
come l’insoddisfazione campeggi più in particolare tra gli assistenti di base
(ADB) e gli operatori socio sanitari (OSS), molti dei quali dichiarano di conside-
rare la partecipazione ai corsi solo un mezzo per conseguire una qualifica che
poi venga riconosciuta a livello contrattuale, non un’occasione per migliorare
le proprie tecniche e ampliare le proprie conoscenze. Un assistente domicilia-
re, in proposito: «A parte il corso che ci ha formato, per avere un pezzo di carta…
perché la formazione te la fai in campo…».
Molti intervistati mettono in luce il fatto di non aver ricevuto subito una
formazione, teorica soprattutto, ma di aver fatto un periodo di affiancamento
con un collega più esperto e di essere stati buttati subito nella mischia: una ra-


S A R E B B E I L L AV O R O D E L F U T U R O

gazza, assistente domiciliare agli anziani si ritiene “autodidatta”, ponendo co-


me problematica la questione degli affiancamenti: «Formazione molto scarsa…
perché praticamente parti da autodidatta, gli affiancamenti per me sono troppo
brevi». E si arguisce che nella maggior parte dei casi è stato questo pur breve
periodo di “tirocinio” a fornire il grosso delle competenze agli intervistati. La
teoria in sé non è vista con molta considerazione e ciò che sembra contare di
più per queste persone è il corpus di conoscenze acquisite col tempo: un assi-
stente a malati terminali: «Quello che ti fanno vedere ai corsi è impossibile da ap-
plicare… meglio fare esperienza sul campo»; e, ancora, un assistente anziani in
centro diurno (ex domiciliare): «A me i corsi sono serviti solo a livello di quali-
fica, a livello di fare le cose no».
Una delle maggiori ambiguità che scaturiscono dalle descrizioni e dai giu-
dizi di questi intervistati sulla formazione è che questo tipo di lavoro è ancora
caratterizzato da un alto livello di praticità, intesa come capacità di acquisire
determinate competenze (essenziali per inserirsi in modo adeguato nelle varie
tipologie di intervento da effettuare), piuttosto che da una professionalità uffi-
cialmente riconosciuta. Il frequente ricorrere di parole come “autodidatta”,
“fare le cose”, “imparare guardando gli altri” palesa il senso di tale ambiguità.
Indicativo da questo punto di vista è, da una parte, che gli intervistati pon-
gano il lavoro svolto su due piani (quello più prettamente “manuale” e quello
psicologico, “umanitario”. Un domiciliare: «È un lavoro a livello umanitario»;
e un assistente a malati terminali: «Bisogna aiutarli con le parole e con il sorri-
so… è un servizio più umano che manuale»); e, d’altra parte, che lamentino spes-
so la scarsa considerazione che la cooperativa, ma anche la società, riservano al-
la loro attività: «Le gratificazioni che ti fanno continuare questo lavoro non sono
quelle della CADIAI»; «Al di fuori non siamo presi in considerazione, siamo l’ulti-
ma ruota del carro. Ma nel nostro mondo siamo importanti».
Dunque, questi operatori parlano spesso di sorrisi, di gesti, di contatto, di
buon senso, che portano a gratificazioni date e ricevute, a un continuo scam-
bio di energie psichiche che sembra a molti il più importante, quando non l’u-
nico, motivo per “tirare avanti”, nonostante lo stipendio inadeguato. È questo
tipo di competenze che gli intervistati vorrebbero vedersi riconosciuto dalla
cooperativa e dalla società, un tipo di professionalità che gli attuali corsi di for-
mazione e di aggiornamento non danno o non riescono a comunicare, una pro-
fessionalità che gli operatori acquisiscono, anzi costruiscono, giorno dopo gior-
no sul campo e che trova un riscontro minimo nel corpus di informazioni teo-
riche che devono sempre essere modificate, “riadattate”: «La teoria si modifica
ogni giorno, non siamo uguali noi come non sono uguali loro».
Ecco forse un modo per spiegare le “denunce” di incomprensioni quando
si tratta di tramutare le conoscenze in operatività, quando bisogna agire sul-
l’assistito. Chi si esprime in modo più diretto dice: «Ognuno lavora a modo
suo»; oppure: «Qua ognuno fa come gli pare»; mentre qualcun altro parla più


ANNA LAURA DIACO, SEBASTIANO MIELE, ERIKA PERUZZI

esattamente di “lingue diverse”: «Parliamo lingue diverse per l’eterogeneità dei


gruppi e degli ascoltatori»; e infine una coordinatrice indica come necessaria la
condivisione: «Bisognerebbe essere un gruppo che condivide le stesse cose».
Il lavoro, quindi, come descritto dagli intervistati, sembra porsi a metà stra-
da tra l’applicazione meccanica di conoscenze acquisite e la continua messa in
discussione delle suddette conoscenze, l’adeguamento del sapere alle esperien-
ze che di volta in volta l’operatore si trova a dover affrontare e che tenta di ri-
solvere, almeno in parte, “a modo suo”. Sapere come comportarsi, come “pren-
dere” l’assistito non è una capacità che i corsi di formazione, almeno a sentire
gli intervistati, possono dare. È questa “professionalità” che, ripetiamo, gli in-
tervistati vedono sottovalutata e vorrebbero vedere riconosciuta. Non sono “la-
vaculi”, come dice espressamente un intervistato, ma professionisti in grado di
adeguarsi continuamente alle esigenze dell’assistito. Una frase un po’ poetica
di un intervistato potrebbe aiutare a comprendere maggiormente il senso di
questa professionalità: «Per nascere c’è bisogno di una persona saggia, l’ostetri-
ca; per lasciare questa terra c’è bisogno di una persona ancora più saggia, un ami-
co. Questo è il mio lavoro, il mio non è un mestiere, ma una professione».
Ma nonostante il bisogno di dedizione, pazienza, umiltà e amore, altri ope-
ratori spesso capiscono che errare è umano, ma che in questo lavoro devono li-
mitare il più possibile gli sbagli per il benessere fisico e psicologico degli uten-
ti, e allora la formazione è vista come il tassello mancante per lo svolgimento
ottimale di questo lavoro. Alcuni usano il termine formazione come imperati-
vo: «Formazione, formazione, formazione!».
Da altri enunciati emerge un’insicurezza che si vorrebbe ridotta da cono-
scenze teoriche un po’ più “sicure”, un’operatrice parla addirittura di una uten-
te con la quale non sa come comportarsi: «…Se io ho una difficoltà con Cristi-
na che urla in continuazione, come devo fare, che cosa devo fare? Esiste una so-
luzione o non esiste? La devo sapere per sentito dire da parte dei colleghi?».
A tutto ciò si devono aggiungere le richieste formative ancora più concre-
te e “tecniche” come quella di un’altra operatrice che, parlando dei corsi, dice:
«Forse ce ne vorrebbero di più perché sarebbero utili come aggiornamento. Per-
ché abbiamo spesso a che fare con ausili che sono tutti diversi (i sollevatori cam-
biano…). Delle volte mi sono trovata in difficoltà a capire il meccanismo… per-
ché… forse è l’unica cosa che mi crea un po’ di imbarazzo… L’utente vuole vede-
re la sicurezza, che tu sei pratico».
Ci sembra ora di poter affermare che un buon operatore sociale è conside-
rato tale se non manca di entrambe queste caratteristiche:
– una certa tendenza innata, una sensibilità, una predisposizione “naturale”,
congenita verso questo tipo di lavoro;
– precise competenze necessarie per questo lavoro (che si maturano per lo
più con l’esperienza), a volte anche competenze puramente tecniche.
Dunque una sorta di continua oscillazione fra “personale” e “professionale”.


S A R E B B E I L L AV O R O D E L F U T U R O

A questo punto possiamo indagare in maniera più frontale la questione turnover.


Tre quesiti del nostro questionario permettono di venire a conoscenza in
un certo senso del passato, del presente e del futuro di questi operatori, sia nel-
la loro dimensione lavorativa, che in quella umana: “Prima cosa faceva?”, “Per-
ché lo ha scelto?”, “Pensa di continuare a fare questo lavoro?”.
Analizzare i dati ricavati dalle risposte degli operatori a tali domande ci po-
trebbe permettere di valutare le molteplici motivazioni dei vari intervistati, e
conseguentemente i vari approcci al lavoro.
Prendiamo quindi in analisi il primo quesito: “Prima cosa faceva?”. È ri-
sultato che su  intervistati/e,  hanno svolto in passato lavori, attività o stu-
di inerenti al sociale; i restanti  hanno invece svolto i lavori più disparati; il
gruppo che ne viene fuori è perciò piuttosto eterogeneo: si va dallo studente di
veterinaria o dell’accademia delle belle arti, all’ex cuoco, all’ex odontotecnico,
all’ex impiegato nel campo della moda. Tra questi  operatori che svolgevano
attività non inerenti al sociale, ben  hanno fatto la scelta di cambiare il loro
lavoro impegnandosi nel sociale consapevolmente e con entusiasmo; si può
quasi parlare di vocazione o comunque di appagamento personale nell’aiuto
del prossimo.
C’è chi ha iniziato a dedicarsi agli altri “per alleviare un suo dolore”: «In
passato ho subito un’esperienza traumatica e per alleviare ho iniziato ad assistere
una persona anziana»; chi cercava una “professione d’aiuto”: «Ero disoccupata,
desideravo una professione d’aiuto, è capitata l’occasione ed è stata una sfida fa-
re questo lavoro perché ho iniziato dal nulla»; chi, mettendo in contrapposizio-
ne una sua precedente esperienza lavorativa, parla di un passaggio da belli e
stupidi a vecchi e malati: «Ho lavorato per un’agenzia di moda, sono passata da
belli e stupidi a vecchi e malati»; chi parla di lavoro affascinante e sottolinea l’im-
portanza e la soddisfazione di lavorare con “umani”: «È un lavoro affascinante,
non dai solo, ma ricevi anche… Lavori con umani non con macchine, e quindi si
possono vedere i cambiamenti»; o chi questi umani li considera una “diversità”
positiva: «Per assecondare una tensione interiore e per ritrovarmi nella diver-
sità»; chi parla di motivazione ideologica: «Quando l’ho scelto c’era ancora l’on-
data Basaglia, c’era lo stimolo di fare qualcosa. Non mi importava la retribuzione
economica. La motivazione era personale e in qualche modo ideologica».
Un’ex impiegata in un’agenzia pubblicitaria lo ritiene un lavoro “utile”:
«Dopo sei anni di bolle e fatture ho deciso di unire l’utile al dilettevole. Mi sen-
tivo inutile facendo l’altro lavoro».
Addirittura, un’ex studentessa dell’accademia delle belle arti parla di “pas-
sione” sbocciata attraverso l’arte, di “soddisfazione” nel dare a questa uno “sco-
po”: «Mi sono avvicinata al sociale proprio attraverso l’arte: ho iniziato a lavora-
re con dei bambini disabili, facendo delle terapie artistiche e di conseguenza m’è
sbocciata questa passione per il sociale. Dare uno scopo per me all’arte era molto
soddisfacente, soprattutto perché poi univo due cose che mi piacevano».


ANNA LAURA DIACO, SEBASTIANO MIELE, ERIKA PERUZZI

Sempre tra quei  operatori che svolgevano in precedenza attività lontane


dal sociale, c’è comunque un numero altrettanto importante () di persone che
hanno dovuto iniziare questo lavoro per necessità: il più delle volte si tratta di
necessità economiche; altre volte invece si tratta necessità di tempo, che la for-
mula part-time proposta dalla CADIAI riesce a risolvere: «Cercavo un lavoro part-
time a seguito della nascita dei miei figli e questo si è rivelato l’ideale»; «Lavoro
solo di mattina, così ho il tempo di stare con la mia bambina…»; oppure per il
fatto non secondario che, per lavorare in questo settore, CADIAI può non ri-
chiedere alcun attestato, alcun diploma specifico, particolarmente in periodi di
carenza di personale: «È stata più che altro una scelta di necessità in quanto non
avevo un diploma e questo era uno dei lavori possibili».
In altri casi invece ciò che determina una discriminante per la ricerca di al-
tri lavori è l’età, considerata troppo avanzata per svolgere altri tipi di lavoro:
«Perché alla mia età non ci sono tanti sbocchi…».
In qualche caso, alla pur non esplicitata, ma sottintesa necessità, si accom-
pagna una chiara propensione all’abbandono del lavoro. Si parla infatti di “fa-
se di passaggio”: «Io l’ ho scelto non, diciamo così, per devozione, perché non sa-
pevo nemmeno… non mi sarei mai immaginata di poter fare questo lavoro e ades-
so lo vedo comunque come una fase di passaggio».
Si può notare in un’ulteriore analisi che i  operatori che avevano svolto
precedentemente lavori inerenti al campo sociale o conseguito un titolo di stu-
dio che implica una propensione all’aiuto e alla cura del prossimo (medicina,
psicologia, scienze dell’educazione e affini) hanno iniziato l’esperienza CADIAI
per necessità in numero molto esiguo, e spesso la necessità si unisce comunque
a una passione di fondo: «Ho sempre avuto la preferenza per i lavori sociali o per
lo meno strutturati sul sociale. Il fattore principale è nel sentirsi utili non per ne-
cessità, ma per volere proprio o altrui. Inoltre è un lavoro fisso rispetto ad altri»;
«Perché studio psicologia, comunque mi serviva un lavoro in cui si potesse intera-
gire con le persone, qualcosa che riguardasse il disagio, e comunque per facilitarmi
il tirocinio nelle cooperative per l’università, per non perdere tempo in più…».
Un numero superiore di operatori invece ha scelto questo lavoro per pas-
sione, dopo aver compiuto studi o lavori affini; le risposte alle domanda “Per-
ché lo ha scelto?” hanno rilevato in questo caso particolare motivazione: «L’ho
scelto in base all’indirizzo di scuole superiori, volevo fare l’educatrice».
Le parole chiave qui riscontrate sono: “fascino” («Mi è sempre piaciuto que-
sto lavoro e mi ha sempre affascinato stare con gli anziani»), “socializzare” («Al-
la fine mi piace, perché si tratta di socializzare: quei nonnini ti aspettano»), “in-
nato”, “desiderio”, “utile” («È una cosa innata, avevo il desiderio di aiutare gli
altri, mi piace rendermi utile, vedere le persone contente perché a vederle contente
mi diverto anch’io»).
Giungiamo infine all’ultimo dei tre quesiti presi in esame: “Pensa di conti-
nuare a fare questo lavoro?”. Si riscontra qui una tendenza generale a volerlo


S A R E B B E I L L AV O R O D E L F U T U R O

continuare ( intervistati su  hanno espresso chiaramente questo desiderio);


si tratta ora di comprendere come si relaziona tale desiderio con i dati rilevati
dalle due precedenti questioni.
Non sorprende che persone che hanno scelto questo impiego con entusia-
smo e consapevolezza vogliano continuare a farlo; piuttosto è curioso, e degno
di nota, che ci siano persone che, pur avendo intrapreso questa strada per ri-
piego, siano propense a rimanere in questo campo. Qui le discriminanti mag-
giori risultano essere il problema dello stipendio – ritenuto inadeguato alle lo-
ro mansioni – ma anche il desiderio di cambiare ruolo: «Non lo so, magari sot-
to altri ruoli».
C’è chi, ad esempio, lavorando nell’handicap, preferirebbe lavorare coi
bambini: «Ogni tanto vorrei cambiare rimanendo, però, sempre nell’ambito so-
ciale: per esempio dagli handicappati passare a lavorare con i bambini»; chi, da
assistente domiciliare, vorrebbe passare a lavorare con i portatori di handi-
cap: «Sì, decisamente, mi piacerebbe di più l’handicap anche se gli stipendi non
vanno»; chi preferirebbe un altro ruolo (magari d’ufficio) principalmente a
causa del forte logoramento soprattutto fisico: «Finché posso cerco di mante-
nere il lavoro, anche se piuttosto pesante, soprattutto fisicamente, in quanto dif-
ficile da gestire; sei sola in casa di pazienti che non hanno macchinari, come sol-
levatori». Restano sempre i più convinti: «Ma sì, un po’ per forza, ma in fon-
do è il mio. E ho anche imparato a farlo»; insieme agli estremamente convinti
(che appaiono però ironicamente rassegnati): «Continuo, continuo, sto addi-
rittura diventando socia!».
Una particolare intervista colpisce per la provocazione di fondo riscontra-
bile nella risposta alla domanda “Pensa di continuare a fare questo lavoro?”:
«Assolutamente sì, se me lo lasciano fare le istituzioni».
La risposta lascia perplessi in quanto l’intervistata, alla domanda “Perché lo
ha scelto?” aveva risposto: «L’ho scelto per natura, mi sono sempre occupata di chi
era più debole di me, avevo il destino un po’ segnato». Aveva quindi manifestato
una grande predisposizione per il lavoro che fa, perciò il riferimento alle istitu-
zioni, con la valenza negativa che abbiamo visto, è il campanello d’allarme che
indica un malessere che, comunque, si respira anche nella contraddittorietà di
altre risposte: «Se cambia lo stipendio sì. Mi piacerebbe fare qualcosa per conto
mio, ma da qui al fare, soprattutto per l’età, manca il coraggio. Mi piacerebbe con-
tinuare qui: è un lavoro che mi piace»; «Bella domanda! Sì. Però non nascondo che
se si dovesse presentare un’offerta migliore abbandonerei».
Le motivazioni di chi alla domanda ha risposto negativamente sono mol-
teplici.
– Chi per incomprensioni con i colleghi: «Ad essere sincera sono un tantinel-
lo restia a continuare, un po’ mi dispiacerebbe andarmene, e un po’ no. Tra colle-
ghi ci sono problemi, si parla alle spalle e a me dispiace perdere l’amicizia con le
persone con le quali lavoro per questi litigi».


ANNA LAURA DIACO, SEBASTIANO MIELE, ERIKA PERUZZI

– Chi ritiene di dover necessariamente “staccare”: «Adesso sto qua, perché ci


devo stare, perché non c’è nient’altro. Ma non è il lavoro della mia vita. Dopo un
po’ ti stanchi. Io me li sogno anche la notte [gli anziani]. Arrivi a un punto che
devi staccare. C’è gente che ci lavora da  anni, ma non è possibile. Io non credo
che lo farò per sempre». Per comprendere meglio questa risposta, integriamo
anche ciò che l’intervistata dice alla domanda “Qual è la cosa più difficile, più
problematica del suo lavoro?”: «L’ambiente qui: ti soffocano, ti schiacciano, non
sei nessuno, sei una matricola, numero .; a volte ti prendi anche dell’igno-
rante. Non c’è spazio per le tue idee: devi abbassare la testa. Ma io me ne frego,
vado contro corrente».
– Chi, ancora, vuole tornare al proprio luogo d’origine: «No, perché voglio
tornare in Ecuador dalla mia famiglia prima del ».
– Chi per fare tutt’altro, per realizzare un sogno nel cassetto: «Vorrei fare l’i-
struttrice di scuola guida».
– Chi vorrebbe trovare un impiego adatto alla sua qualifica perché si sente
sminuito nel suo ruolo attuale: «Essendo una psicomotricista, vorrei trovare un
impiego adatto alla mia qualifica».
– Chi, infine, vuole uscire dalla “trincea” dei problemi di salute che lo sfor-
zo fisico di questo lavoro comporta: «No, perché ho già l’ernia al disco: è un la-
voro faticoso, devi stare chinata a lavare persone, sollevarli, è un lavoro che non
puoi fare fino alla pensione. Voglio restare nel campo, ma non in trincea».
Non mancano le persone incerte, specialmente per l’aspetto economico:
«Mi piacerebbe continuare, ma non so, a causa dell’aspetto economico. Vedremo,
intanto provo a laurearmi»; «Ultimamente ho dei dubbi, non stanno andando
benissimo le cose in generale, soprattutto a livello di stanziamento fondi. È un
lavoro che mi piace, ma c’è il rischio di essere tagliati, ci sono problemi per i sol-
di pubblici».
Sembrano esistere tante CADIAI quanti sono gli operatori che la pensano e
la vivono. Abbiamo rilevato la convivenza di molti pensieri, anche divergenti
tra loro, da cui emergono problemi e possibili soluzioni.
Singolare è una risposta alla domanda sulle opinioni circa l’organizzazione
della CADIAI: «CADIAI? Sarebbe così anche se andassi in un’altra cooperativa: po-
litica fatta a modo loro, non so mica con che criterio. Non sei nessuno! Le mie
soddisfazioni me le prendo da sola. Per le cooperative ci vorrebbe qualcosa di nuo-
vo, di creativo, la creatività di noi giovani. Parto dall’alto, da chi gestisce la coo-
perativa, alle persone sedute negli uffici. C’è troppa gerarchia! Ti dicono: sei un
lavaculo, non sei nessuno».
Le parole chiave riscontrate sono, da una parte, pregne di valenza di signi-
ficato positivo: “soddisfazione”, “appagamento”; dall’altra, con connotazione
negativa: “lavaculo”, “non sei nessuno”.
È significativo riscontrare il fatto che, se le parole chiave con valenza posi-
tiva si riferiscono al rapporto tra operatore e assistito, quelle con valenza nega-


S A R E B B E I L L AV O R O D E L F U T U R O

tiva si riferiscono alla politica interna della cooperativa e agli enti pubblici, che
non mostrano attenzione alla funzione degli operatori nei vari settori. Infatti il
disagio scaturisce dall’insoddisfazione economica, igienico-sanitaria, e dalla
consapevolezza di non essere considerati in quanto soggetti: «Non sei nessuno,
sei una matricola, numero .».
Se da un lato colpisce il malcontento piuttosto diffuso, dall’altro si nota
una grande passione per questo lavoro, e un’attenzione particolare al rap-
porto con l’assistito: «Per me la cosa più importante è l’anziano: per me l’an-
ziano è mio nonno, mio padre, un amico, è un insieme di cose. Sono come dei
pozzi da dove attingi sempre qualcosa, sono come bambini: i miei bambini… so-
no piccoli grandi uomini».
Un’ultima particolare citazione in merito a questo argomento, alla doman-
da “Ci descrive il suo lavoro?”. Un educatore ha risposto: «Porto i ciechi al ci-
nema e i paralitici a passeggio».
Senza continuare a dilungarci in questo excursus circa le motivazioni per le
quali si è scelto questo lavoro, dobbiamo precisare che la CADIAI non può (que-
sto lo sappiamo) permettersi di selezionare il personale fra brillantissimi curri-
cula. Sappiamo che in teoria i criteri di selezione auspicati sarebbero capacità
di lavorare in gruppo, capacità relazionale e orientamento al compito, ma è pur
vero che, come dice un operatore, «la CADIAI fa con quel che c’è» e, crediamo,
in questo ambito in particolare. Scopriremmo dunque l’acqua calda dicendo
che una selezione più “accurata” (se ci fosse più personale e magari più moti-
vato e magari la possibilità di proporre stipendi migliori ecc.) potrebbe contri-
buire a migliorare la situazione turnover: ma bisogna fare con quel che c’è!
Tornando dunque a quel che c’è, riprendiamo la già discussa formazione e
proviamo ad accennare, dopo quanto detto, alcune timide proposte di formazio-
ne diverse e più vicine ai bisogni che scaturiscono dalle parole degli operatori.
– Si potrebbe pensare ad esempio all’inserimento di un aiuto “psicologico”
(abbiamo visto che a volte è una richiesta esplicita) da pensare bene e da stu-
diare sia per quanto riguarda le modalità di questi interventi, sia per quanto
concerne i tempi e tutta una serie di altre ovvie problematiche organizzative.
Ma ci viene anche da pensare: chi sarebbe questo psicologo in grado di affron-
tare in modo adeguato le problematiche così singolari e poco conosciute lega-
te magari soltanto a questo tipo di lavoro?
– Sembrerebbero utili corsi di formazione pensati ad hoc solo per i coordi-
natori: quella del coordinatore ci è parsa una figura davvero centrale, da cui di-
pende in larga parte l’efficienza del lavoro, soprattutto considerando che in-
fluisce molto sullo stato d’animo dei suoi “coordinati”.
– Sarebbe utile una formazione che rendesse l’operatore idoneo a ricoprire
più di un ruolo soltanto: alcuni intervistati affermano che dopo un po’ si stan-
cano di stare sempre nella stessa situazione e nello stesso posto e credono che
un cambiamento gli possa far ritornare l’entusiasmo.


ANNA LAURA DIACO, SEBASTIANO MIELE, ERIKA PERUZZI

– Un tipo di formazione ad personam, che serva annullare la disomogeneità


di formazione tra i componenti di un gruppo.
– Sempre in modo sperimentale si potrebbe puntare a migliorare attraverso
la formazione anche l’aspetto dei rapporti fra colleghi: e qui sarebbe il caso di
pensare e ripensare a tutte le modalità possibili di interventi in questo senso (ad
esempio incontri di gruppo, affiancamenti particolari ecc.)
– E non sarebbe da tralasciare un altro aspetto: quello di pensare a una for-
mazione che cerchi il più possibile di chiarire all’operatore (soprattutto al più
inesperto) che questo lavoro necessita di quella “oscillazione fra personale e
professionale” di cui parlavamo prima: qualcosa di mai troppo definibile sic et
simpliciter, che sarebbe interessante capire con l’aiuto dell’operatore e delle sue
esperienze quotidiane… Una formazione quindi un po’ più “interattiva”, che
interpelli gli operatori come fonti di conoscenza.
– Si potrebbe anche pensare in questo senso alla nascita di una nuova figura
che contribuirebbe a risolvere oltretutto i problemi legati alla gestione di lavo-
ratori anziani che per problemi fisici dovuti all’età non riescono più a svolgere
adeguatamente il ruolo ad esempio di assistente di base: un buon operatore an-
ziano potrebbe diventare un “affiancatore esperto” che “tramandi” ai più gio-
vani, tirocinanti o appena arrivati, il giusto equilibrio fra “personale” e “pro-
fessionale” maturato con la sua esperienza.
Crediamo che un tipo di formazione che si ispiri a simili criteri possa con-
tribuire a motivare maggiormente l’operatore nella scelta stabile di questo la-
voro, e in questa ottica immaginiamo un possibile argine all’incessante turno-
ver, piuttosto che attraverso un certo tipo di selezione che è purtroppo inat-
tuabile nei fatti.
Nuovi, sconosciuti, senza sicure soluzioni tradizionali sono dunque i pro-
blemi cui questi operatori si trovano a far fronte. Nuovi dunque devono esse-
re i modi di pensarli, conoscerli e di renderli trasmissibili al di là della singola
esperienza. Se si è d’accordo con quel che dice un intervistato, che il suo sa-
rebbe il “lavoro del futuro”, se non si vuole cioè sterilmente immaginare un ri-
torno dei modi familiari nel trattare anziani e disabili, allora occorre pensare
seriamente a presentare un nuovo quadro problematico tramite il quale far as-
surgere a conoscenza trasmissibile l’esperienza dell’operatore sociale. È questo
che chiamiamo un “loro riconoscimento intellettuale”.
Il condizionale (“sarebbe”) è d’obbligo. Niente infatti garantisce che tale
riconoscimento avverrà davvero. Di sicuro c’è solo che esso può essere co-
munque tentato.
Le parole di un educatore che citavamo poco prima ci sembrano la con-
clusione migliore. Ci puoi descrivere in poche parole in che cosa consiste il tuo
lavoro?
«Ti rispondo nello stesso modo in cui rispondo ai miei stessi amici e alle per-
sone che mi conoscono. Dico: “porto i ciechi al cinema e i paralitici a passeggio”.


S A R E B B E I L L AV O R O D E L F U T U R O

Non è vero che porto i paralitici a passeggio e i ciechi al cinema. È vero che uno de-
gli utenti che seguo (sono quattro) ha grossi problemi di vista e vuole andare al ci-
nema. Mentre riguardo i paralitici, li porto in sedie a rotelle in giro per la città.
Questo per dire che il rischio di questo lavoro è il fatto di essere scambiato con un
“non lavoro”: sia dagli esterni e sia dagli utenti stessi. Proprio giovedì scorso io ero
a cena con uno di questi ragazzi e lui mi ha detto: “Tu, Guido, hai visto un bel mon-
do, ma questo non è un lavoro vero. Tu fai appunto il lavoro più bello che esiste:
ti pagano per andare in pizzeria, al cinema. Ti rimborsano quando vai a prenderti
il caffè e persino ti pagano l’ora che hai passato con me, quindi questo non è lavo-
ro”. E infatti molti sono convinti che io faccia l’obiettore…».


Appendice

Nel mese di ottobre  la CADIAI ci ha dato la possibilità di svolgere alcu-


ne ore di “formazione” per gli operatori sulla base dei risultati della nostra
inchiesta. Abbiamo dunque incontrato tre gruppi costituiti da - operato-
ri, ogni gruppo per due volte di seguito, realizzando quindi in totale sei mo-
menti formativi.
Gli operatori hanno aderito volontariamente ai corsi, iscrivendosi tramite
un modulo interno, proposto dalla cooperativa a tutti: si è trattato quindi per
la maggior parte di persone che non erano già state interpellate durante la no-
stra inchiesta.
La possibilità di effettuare un secondo incontro con ogni gruppo di opera-
tori ci ha permesso di strutturare questi interventi in due momenti ben distinti:
– il primo per la “restituzione” dei risultati;
– il secondo per rilanciare gli argomenti e avviare così una discussione di
gruppo.
Alla presentazione dei primi risultati, a fine maggio, non si era resa possibile
la partecipazione degli operatori, ma solo della dirigenza CADIAI e di alcuni coor-
dinatori. Ritenevamo importante presentare i risultati agli stessi operatori, per-
ché questa dimensione soggettiva, di cui andiamo a indagare il pensiero, è anche
una delle principali dimensioni che il rapporto d’inchiesta ha come destinatarie.
Il primo momento è stato così scandito dai nostri interventi esplicativi del-
le questioni di maggior rilievo emerse dall’analisi delle interviste, preceduti da
un’introduzione di Valerio Romitelli.
Oltre alla cosiddetta “foto di gruppo”, statica e definitiva, credevamo uti-
le provare a interpellare nuovamente queste soggettività, anche considerando
il fatto che solo alcuni dei presenti si erano già espressi in un’intervista.
Abbiamo concluso così il primo momento, lasciando a ogni operatore un
questionario-guida, con l’intento di stimolare il dibattito nell’incontro succes-
sivo e al contempo di disciplinarlo in modo da evitare lo sconfinamento nella


ANNA LAURA DIACO, SEBASTIANO MIELE, ERIKA PERUZZI

chiacchiera vaga. Più che di un vero e proprio questionario, si trattava di una


raccolta di domande per temi tra cui abbiamo proposto di sceglierne, in modo
spontaneo e personale, alcune su cui riflettere. Tutto ciò ha dato vita a tre di-
battiti molto vivaci dai quali siamo riusciti comunque a “registrare” su carta ul-
teriore e rilevante materiale.
Questo secondo momento è stato innanzitutto utile a verificare e ap-
profondire le principali questioni della nostra lettura delle interviste, ma so-
prattutto ci interessava qui provare a individuare nel pensiero degli operatori
delle prassi, dei suggerimenti, dei “consigli”, delle prescrizioni utili a migliora-
re il clima e le condizioni del loro lavoro.
Abbiamo tentato quindi un’azione cognitiva, tra le parole e il pensiero di
queste persone, ma ponendoci un obiettivo pragmatico, concreto.
A questo punto, per cercare di spiegarci praticamente, andiamo subito a il-
lustrare, pur molto brevemente, solo alcuni esempi dei risultati cui questa ope-
razione può portare.
Per quanto riguarda ad esempio il problematico rapporto con i coordina-
tori si è giunti a formulare la prescrizione che costoro siano più discreti nel ri-
prendere gli operatori, cioè che lo facciano senza scenate eccessive, e in priva-
to, non davanti agli altri colleghi. O anche: perché il lavoro del coordinatore sia
più efficace e meno complicato bisognerebbe creare gruppi di lavoro costitui-
ti da non più di dieci persone e suddividere i gruppi troppo grandi.
E ancora, gli operatori preferirebbero che all’interno della cooperativa ci si
chiamasse tutti “collega”, senza creare gerarchie anche nel nominarsi.
Riguardo alla formazione, gli operatori riterrebbero utili interventi di per-
sone che hanno lavorato per molto tempo in cooperativa e possono riportare
la loro esperienza diretta, piuttosto che corsi tenuti da professori ed esperti teo-
rici. Vorrebbero tirocini meno teorici e più pratici. Vorrebbero che si investis-
se di più sull’affiancamento, il quale dovrebbe avere una maggiore durata e
contemplare una valutazione finale da parte di chi affianca.
Abbiamo raccolto prescrizioni simili in merito a tutte le altre problemati-
che emerse nell’inchiesta, con l’obiettivo di utilizzarle per l’elaborazione di un
opuscolo, cui attualmente stiamo lavorando, da distribuire all’interno della CA-
DIAI. Convinti della loro utilità, speriamo così di mettere in circolo fra gli ope-
ratori stessi queste prescrizioni, tentando per lo meno di mettere in atto in tal
modo una delle possibili forme di “conoscenza”, di “scambio”, che abbiamo
visto risultare tanto carenti quanto necessarie.

Note

. C. Borzaga, F. Zandonai, Comunità cooperative. Terzo rapporto sulla cooperazione sociale in


Italia, Torino .
. Legacoop, Confcooperative, AGCI (a cura di), Cooperazione sociale, ricchezza comune. I ser-
vizi e le idee delle cooperative sociali di Bologna e provincia, Bologna .


S A R E B B E I L L AV O R O D E L F U T U R O

. CADIAI, Bilancio sociale .


. Cfr. E. Reyneri, Occupati e disoccupati in Italia, Bologna .
. C. Borzaga, J. Defourny, L’impresa sociale in prospettiva europea, Trento .
. Borzaga, Zandonai, Comunità cooperative, cit.
. Oltre alle confederazioni sindacali, numerosi sono in Italia i comitati di difesa dei lavora-
tori delle cooperative, i collettivi delle cooperatrici e dei lavoratori, i coordinamenti cittadini di
operatori e operatrici sociali, le rappresentanze di base e continue risultano le loro attività di pro-
testa e rivendicazione. I costanti aggiornamenti su tali attività si possono trovare sui vari siti in-
ternet di queste organizzazioni.
. Reyneri, Occupati e disoccupati in Italia, cit.
. L. Pietrantoni, B. Zani (a cura di), Risorse e difficoltà del lavoro sociale fra burnout ed em-
powerment. Ricerca sulla condizione lavorativa di professionisti che lavorano con persone handi-
cappate, coord. A. Alberani, Bologna .
. La ricerca è stata realizzata su un campione composto da lavoratori del settore dell’han-
dicap di diverse cooperative e associazioni (APAD, Attività sociali, AXIA, CADIAI, CSAPSA, Nuova sa-
nità, ANNFAS).


Indice dei nomi e delle cose notevoli

Accornero A.,  Biagi M., , 


ACLI,  Blair A., 
Adler P.,  Bloch M., 
Agamben G.,  Blumer H., , 
AGCI, ,  Boas F., -, , , , 
AIAS,  Bonfiglioli S.p.A., , -, , , ,
Alberani A., , ,  -, 
Albertini S.,  Bonin L., 
Aldini-Valeriani (Fondazione), , - Bonomi A., , 
,  Bonora P., 
Alquati R., ,  Borzaga C., , , -
Althusser L., , ,  Bragagni M., 
Anderson N., ,  Bramanti A., 
ANFFAS,  BredaMenarinibus S.p.A., -, -
APAD,  Brusco S., , 
APCOM,  BT Cesab S.p.A., , -
Ardigò R., , 
Arendt H.,  CADIAI, , , -
Arrighi G.,  Capecchi V., , , 
Austin J., , -,  Casa dei Risvegli, -, -
AXIA,  Castillo J. J., 
Aydalot P.,  Cavina S., 
Cazzola G., 
Badiou A., , , , , - CGIL, -, -, , -
Banaka W. H.,  Chomsky N., , , , 
Barbieri P.,  Cicourel A. W., 
Barca F., -, , - Clausewitz K., 
Barnard A., -,  Colozzi I., -
Barthes R., , ,  Commager H. S., 
Bassi A., - Comte A., , 
Becattini G., -,  Comune di Bologna, 
Becker H. S.,  Confcooperative, , 
Berlusconi S., ,  Conti S., 


INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI

Coop. Attività sociali,  Frazer J. G., 


Coop. Nuova sanità,  Frege G., 
COPAPS,  Freud S., , -, 
Corteel D., 
Cossentino F.,  Galilei G., 
Craveri P.,  Galli G., 
Crespi F.,  Gallino L., , , 
Croce azzurra,  Garfinkel H., , , , 
Croce B.,  Garmise S. O., 
Croce rossa italiana, , - Gawronski S., 
CSAPSA, 
Geertz C., , , , -, , , , ,
-, -, , , 
Dal Lago A., , , , -,  Gentile G., 
D’Attorre A.,  Ghedini R., , 
Darwin C., , , ,  Giardini G., 
Giglioli P. P., -
De Biasi R., 
Ginsborg P., 
Debord G., , 
Giovanetti E., -
Defourny J., , 
Giraud P.-N., , , 
De Martino E., , 
Gli amici di Luca (Associazione), 
De Masi D., 
Gobo G., 
De Nigris L., 
Goffman E., , , 
de Saussure F., , 
Grote R. J., 
Dewey J.,  Guglielmetti F., , 
Dilthey W., , - Guiducci R., 
D’Iribarne P., 
Donnellan K.,  Habermas J., , 
Durand J. P., ,  Hardt M., , , 
Durkheim É., , -, , -, - Harris M., 
Hatzfeld N., 
ECIPAR, , ,  Hayem J., 
Eco U., ,  Hegel G. W. F., 
Enel,  Heidegger M., , 
Engels F., ,  Heisenberg W., 
Esposito R., ,  Hérard M., 
Enichem, - Hidouci M., 
Evans-Pritchard E. E., , -, - Hjelmslev L., , 
Husserl E., 
Fabbri P., 
Fiat, , ,  Innocenti R., , 
Fioravanti M.,  INPS, 
Fontana A.,  Izzo A., , -, , 
Ford H., 
Foucault M., , ,  Jakobson R., 


INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI

Kassapi A.,  Mereu I., 


Keeble D.,  Merton R. K., -, , , 
Khulmann M.,  Mezzadra S., 
Kropotkin P.,  Michel N., 
Krugman P.,  Michels R., , 
Michelsons A., 
Labriola A., ,  Milner J. C., , -
Lacan J., , , , ,  Mioni A., 
Lanaro S.,  Mommsen W., 
Lazarsfeld P. F., ,  Montesquieu C. L., , 
Lazarus S., , , , -, -, , , Morgan L. H., -, 
, , ,  Morrison S. E., 
Leach E., , , -,  Mosca G., , 
Legacoop, , , ,  Moucharik S., 
Leonardi F., 
Leonardi R.,  Nanetti R. Y., 
Leopardi G.,  Negri Antimo, 
Lévi-Strauss C., , -, , ,  Negri Antonio, , , 
Lévy-Bruhl L.,  NOF, , -
Livolsi M., 
Luhmann N., , ,  Pancino C., 
Lukács G.,  Pareto W., , 
Lynd M. H., ,  Parsons T., , -, -, 
Lynd R. S., ,  Pasquino P., 
Lungarella R.,  Piccardo C., 
Pietrantoni L., 
Machiavelli N.,  Piro F., 
Maggioni M. A.,  Pitti L., 
Magnabosco M., ,  Pizzorno A., 
Magnani M., -, , - Platone, , 
Malinowski B., -, ,  Provincia di Bologna, , , , 
Mangoni L.,  Provincia di Ravenna, , -, ,
Marazzi A.,  
Marcegaglia S.p.A., -, -, - Putnam R. D., 
Marconi D.,  Pyke F., , , 
Marcuse H., , , 
Maroni R.,  Quine W. O., 
Martucci R., 
Maruani M.,  Radcliffe-Brown A. R., , -, -
Marx K., -, , , , , , , , Regalia I., 
-, ,  Regini M., 
Mauss M., , ,  Regione Emilia-Romagna, 
Mead G. H., , -,  Remotti F., 


INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI

Reyneri E., , , ,  Turi G., 


Romani C.,  Turner R., , , , 
Rorty R.,  Turner V., , , -
Rousseau J. J., ,  Tylor E. B., -, , 
Rullani E., 
Russell B.,  Vaccà S., 
Valdevit G., 
Sacchetto D.,  Van Dijk T. A., , 
Sapir E., , -,  Varaldo R., 
Schumann M.,  Veltz P., , 
Schutz A., 
Schwartz Y., , 
Sengenberger W., ,  Webb B., 
Sforzi C.,  Webb S. J., 
Silver B.,  Weber M., -, , 
Silver M.,  Welles O., 
Simmel G.,  Whorf B. L., , -, -
Sofocle,  Whyte W. F., , 
Stalin J., ,  Wilson O., 
Stewart P.,  Windelband W., , 
Wittgenstein L., , -
Tarski A.,  Wundt W., 
Taylor F. W., 
Thatcher M.,  Zandonai F., -
Thomas W. I., ,  Zangaglia A., 
Togliatti P.,  Zani B., 
Tönnies F., , ,  Zarifian P., , 
Toscano M.,  Zincone G., , 
Trassari S.,  Znaniecki F., , 
Trigilia C., , , - Zola É., 


Carocci editore

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Ulrich Beck, Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società plane-
taria

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Luigi Berzano, Franco Prina, Sociologia della devianza

Giuseppe Brienza, Famiglia e politiche familiari in Italia

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società. Ambiti, concetti e paradigmi della filosofia sociale

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
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ciologico

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Ethan B. Kapstein, Governare la ricchezza. Il lavoro nell’economia globale

Carmen Leccardi (a cura di), Limiti della modernità. Trasformazioni del mondo
e della conoscenza


Laura Leonardi, La dimensione sociale della globalizzazione

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Alberto Melucci, Parole chiave. Per un nuovo lessico delle scienze sociali

Ambrogio Santambrogio, Introduzione alla sociologia delle diversità

Melania Scali, Carmelina Calabrese, Maria Claudia Biscione, La tutela del mi-
nore: le tecniche di ascolto

Luigi Maria Solivetti, Sociologia come ricerca. Modelli sociologici e percorsi di


ricerca

Enzo Vittorio Trapanese (a cura di), Sociologia e modernità. Problemi di storia


del pensiero sociologico

Daniele Ungaro, Capire la società contemporanea



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