Sei sulla pagina 1di 3

Perché gli Stati Uniti e i loro vassalli amavano tanto El’cin e destano Putin?

Dal
mio libro Krisis. Genesi, formazione e sgretolamento dell’ordine economico
statunitense (2021):

Sotto la direzione di personaggi come Egor Gajdar e Anatolij Čubajs, la Russia fu


sottoposta a un processo di adeguamento ai canoni del Washington consensus
implicante il trasferimento del controllo del sistema bancario russo nelle mani del
capitale straniero, l’ancoraggio del rublo al dollaro e l’implementazione di un
imponente piano di liberalizzazione/privatizzazione culminato con la liquidazione
dei beni pubblici e la drastica riduzione della popolazione.

Il Pil russo calò del 17% nel 1990-91, del 19% nel 1991-92 e dell’11% nel 1992-93
grazie ai “programmi di aggiustamenti strutturale” che avevano creato le condizioni
favorevoli al lancio della cosiddetta Operazione Hammer. Vale a dire un
ambiziosissimo piano strategico concepito sotto l’amministrazione guidata da George
H. W. Bush nel cui ambito, stando al dettagliato resoconto fornito al riguardo da
William Engdahl, andrebbero ricondotti il colpo di Stato dell’agosto del 1991
contro Mikheil Gorbačëv, la destabilizzazione pilotata del rublo e addirittura la
corruzione di alti funzionari della Gosbank finalizzata alla sottrazione delle
riserve auree nazionali. Ma soprattutto, l’Operazione Hammer mirava a imporre il
controllo statunitense sulle immense riserve di materie prime, sui corridoi
energetici e sulle aziende strategiche pubbliche operanti nei settori estrattivo e
militare.

Inizialmente, l’operazione sembrò fruttare i risultati sperati, visto che un gruppo


ristretto di giovani ex funzionari del Komsomol sponsorizzati dai generali del Kgb
Philipp Bobkov, Alexeij Kondaurov e Aleksandr Koržakov rastrellarono, grazie ai
finanziamenti concessi da istituti di credito occidentali legati alla Cia come la
Riggs Bank, enormi quantità di voucher dal valore corrispondente a una frazione
della ricchezza economica nazionale che erano stati distribuiti a ciascun cittadino
russo nell’ambito del programma di privatizzazione avviato sotto El’cin. Le linee
di credito accordate dalle banche statunitensi ed europee consentirono ai
cosiddetti oligarchi di impadronirsi di società, giacimenti, miniere e soprattutto
banche alle quali lo stesso El’cin si rivolse nel 1995 per ottenere crediti
garantiti dai pacchetti azionari di maggioranza delle più grandi imprese del Paese
non ancora privatizzate.

A un anno di distanza, con El’cin rieletto a scapito del comunista Zjuganov grazie
al supporto determinante dell’amministrazione Clinton e degli oligarchi, il mancato
rimborso dei prestiti contratti implicò la cessione ai creditori di aziende di
dimensioni colossali a prezzi irrisori. Boris Berezovskij acquisì il 51% di una
società (la Sibneft) che valeva 5 miliardi di dollari a fronte di un prestito da
110 milioni. La banca Menatep, di proprietà di Mikheil Khodorkovskij, ottenne il
controllo di una società (la Lukoil) che valeva 6 miliardi di dollari a fronte di
un prestito di 160 milioni. Vladimir Potanin acquisì una compagnia (la Norilsk
Nichel) che valeva 2 miliardi a fronte di un prestito di 250 milioni. L’elenco
sarebbe lunghissimo, e annovera anche decine di banche e industrie acquistate a
prezzi stracciati dalle grandi imprese statunitensi (General Electric, ad esempio,
rilevò Rybinsk Motors, colosso russo della produzione di motori aerei, per appena
300.000 dollari) ed europee che profittarono a dovere della caduta libera del
rublo.

Tra il 1994 e il 1997, in nessuna Borsa Valori del mondo si verificò un attivismo
paragonabile a quello registrato presso il mercato azionario di Mosca. Supportato
dal sistema fiscale concepito in funzione di interessi riconducibili ai nuovi
rentier russi e al consorzio bancario anglo-statunitense che operava alle loro
spalle, il saccheggio delle immense ricchezze statali procedette a pieno ritmo
alimentando sia il gigantesco business del riciclaggio dei fondi del Fmi di cui gli
oligarchi avevano assunto il controllo, sia il deflusso di capitali e materie prime
fondamentali quali il plutonio. Come rivela Michael Hudson: «dal 1991, anno in cui
l’Unione Sovietica si è dissolta, il deflusso di capitali verso l’Occidente si è
attestato sui 25 miliardi di dollari l’anno. Ciò significa 500 miliardi di dollari
in 20 anni […]. Ancor prima della caduta dell’Unione Sovietica, Grigorij Lučanskij,
che lavorava per l’Università di Riga, aveva sfruttato l’istituto Nordex come
vettore per permettere ai vertici del Kgb e dell’esercito russo di spostare i
propri capitali illeciti fuori del Paese. Miliardi di dollari all’anno hanno
attraversato le varie banche lettoni negli ultimi 25 anni. La loro attività
principale è consistita nel ricevere i depositi russi e trasferirli in Occidente,
presso banche britanniche o del Delaware […]. Il fine ultimo delle banche lettoni
era quello di incoraggiare e gestire il deflusso di capitali della Russia verso
l’Occidente. Dal punto di vista statunitense, si trattava di un modus operandi
particolarmente adatto a prosciugare le ricchezze del nemico basato sullo
sdoganamento in Russia del modello di privatizzazione neoliberista dei servizi
pubblici, delle risorse naturali e delle proprietà immobiliari».

La spoliazione della Russia fu indubbiamente agevolata dal processo di


dollarizzazione dell’economia nazionale che aveva preso avvio a partire dal crollo
verticale del rublo verificatosi nel 1992 per effetto della liberalizzazione dei
prezzi. La percentuale di “verdoni” utilizzati in Russia passò da zero al 24% tra
la metà del 1992 e l’inizio del 1993, per raggiungere il 33% nel gennaio del 1994,
il 73% alla fine del 1995 e addirittura l’84% nel novembre del 1998, al culmine
della crisi del debito che di lì a poco avrebbe condotto il Paese alla bancarotta.
Ogni dollaro stampato senza alcuno sforzo dalla Federal Reserve e inviato in Russia
tornava negli Usa sotto forma di beni reali e risorse naturali estratte dal “cuore
della terra”, mentre il Paese, dotato di un gigantesco arsenale di armi nucleari,
scivolava inesorabilmente verso la bancarotta e la disgregazione socio-politica.

Sergeij Glazijev, economista russo e futuro consigliere di Putin, scrisse in quegli


anni che nel contesto del Nuovo Ordine Mondiale per il periodo post-bipolare
delineato dall’amministrazione guidata da George H.W. Bush, «al nostro Paese viene
assegnato il ruolo di colonia fornitrice di risorse naturali incaricata di attutire
l’impatto ecologico ed economico generato dallo sfruttamento intensivo delle
materie prime che minaccia la prosperità e la stabilità dei Paesi sviluppati.
Conformemente a questa concezione, è stata imposta alla Russia una strategia di
deindustrializzazione implicante l’interruzione dei programmi per lo sviluppo delle
tecnologie ad alta intensità scientifica e l’adeguamento dello spazio giuridico ed
economico del Paese agli interessi del grande capitale transnazionale. Una
strategia che si candida a ripulire il territorio na-zionale non solo dai prodotti
di fabbricazione russa, ma anche da una popolazione “superflua” [...]. La Russia è
considerata alla stregua di un territorio da utilizzare come deposito di materie
prime, parco naturale scarsamente popolato, discarica per rifiuti pericolosi, fonte
di super-profitti per le imprese multinazionali».

Significativamente, Brzezinski raccomandava di affiancare alle manovre di rapina


una serie di iniziative di stampo militare e di intelligence intese a serrare
l’accerchiamento della Russia e indebolirne la struttura statale, attraverso
l’espansione ad est della Nato, l’integrazione del ponte ucraino nello schieramento
occidentale e la strumentalizzazione delle pulsioni indipendentiste che
serpeggiavano nel Caucaso – Cecenia in primis. Simultaneamente, suggeriva
Brzezinski, occorreva rinvigorire i focolai islamisti presenti in Asia centrale e
provvedere alla dollarizzazione dell’intera regione, così da sottrarre alla sfera
d’influenza russa territori di particolare rilevanza sotto l’aspetto sia energetico
che geostrategico, perché ricchi di giacimenti di petrolio e gas e solcati da
gasdotti e oleodotti diretti verso la Cina.

Nell’ottica dell’ex consigliere per la Sicurezza Nazionale di Carter, la


disgregazione della Federazione Russa passava inoltre per il riconoscimento delle
aspirazioni da grande potenza mondiale (e non soltanto regionale) coltivate dal
Giappone e per l’adozione di un approccio conciliante nei confronti del progetto di
integrazione europea. Allo stesso tempo, occorreva a suo avviso ricucire lo strappo
con la Repubblica Popolare Cinese prodotto dagli eventi di Piazza Tiananmen, e
ricostruire il rapporto con l’Iran degli ayatollah, lacerato dalla strategia
doppiogiochista del “doppio contenimento” messa in atto dagli Usa all’epoca della
sanguinosa guerra con l’Iraq. In tale contesto, la Russia avrebbe perso qualsiasi
libertà d’azione nel continente eurasiatico, dal quale provenivano gran parte dei
flussi di merci e denaro indispensabili al mantenimento del tenore di vita degli
Stati Uniti.

Potrebbero piacerti anche