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Dal
mio libro Krisis. Genesi, formazione e sgretolamento dell’ordine economico
statunitense (2021):
Il Pil russo calò del 17% nel 1990-91, del 19% nel 1991-92 e dell’11% nel 1992-93
grazie ai “programmi di aggiustamenti strutturale” che avevano creato le condizioni
favorevoli al lancio della cosiddetta Operazione Hammer. Vale a dire un
ambiziosissimo piano strategico concepito sotto l’amministrazione guidata da George
H. W. Bush nel cui ambito, stando al dettagliato resoconto fornito al riguardo da
William Engdahl, andrebbero ricondotti il colpo di Stato dell’agosto del 1991
contro Mikheil Gorbačëv, la destabilizzazione pilotata del rublo e addirittura la
corruzione di alti funzionari della Gosbank finalizzata alla sottrazione delle
riserve auree nazionali. Ma soprattutto, l’Operazione Hammer mirava a imporre il
controllo statunitense sulle immense riserve di materie prime, sui corridoi
energetici e sulle aziende strategiche pubbliche operanti nei settori estrattivo e
militare.
A un anno di distanza, con El’cin rieletto a scapito del comunista Zjuganov grazie
al supporto determinante dell’amministrazione Clinton e degli oligarchi, il mancato
rimborso dei prestiti contratti implicò la cessione ai creditori di aziende di
dimensioni colossali a prezzi irrisori. Boris Berezovskij acquisì il 51% di una
società (la Sibneft) che valeva 5 miliardi di dollari a fronte di un prestito da
110 milioni. La banca Menatep, di proprietà di Mikheil Khodorkovskij, ottenne il
controllo di una società (la Lukoil) che valeva 6 miliardi di dollari a fronte di
un prestito di 160 milioni. Vladimir Potanin acquisì una compagnia (la Norilsk
Nichel) che valeva 2 miliardi a fronte di un prestito di 250 milioni. L’elenco
sarebbe lunghissimo, e annovera anche decine di banche e industrie acquistate a
prezzi stracciati dalle grandi imprese statunitensi (General Electric, ad esempio,
rilevò Rybinsk Motors, colosso russo della produzione di motori aerei, per appena
300.000 dollari) ed europee che profittarono a dovere della caduta libera del
rublo.
Tra il 1994 e il 1997, in nessuna Borsa Valori del mondo si verificò un attivismo
paragonabile a quello registrato presso il mercato azionario di Mosca. Supportato
dal sistema fiscale concepito in funzione di interessi riconducibili ai nuovi
rentier russi e al consorzio bancario anglo-statunitense che operava alle loro
spalle, il saccheggio delle immense ricchezze statali procedette a pieno ritmo
alimentando sia il gigantesco business del riciclaggio dei fondi del Fmi di cui gli
oligarchi avevano assunto il controllo, sia il deflusso di capitali e materie prime
fondamentali quali il plutonio. Come rivela Michael Hudson: «dal 1991, anno in cui
l’Unione Sovietica si è dissolta, il deflusso di capitali verso l’Occidente si è
attestato sui 25 miliardi di dollari l’anno. Ciò significa 500 miliardi di dollari
in 20 anni […]. Ancor prima della caduta dell’Unione Sovietica, Grigorij Lučanskij,
che lavorava per l’Università di Riga, aveva sfruttato l’istituto Nordex come
vettore per permettere ai vertici del Kgb e dell’esercito russo di spostare i
propri capitali illeciti fuori del Paese. Miliardi di dollari all’anno hanno
attraversato le varie banche lettoni negli ultimi 25 anni. La loro attività
principale è consistita nel ricevere i depositi russi e trasferirli in Occidente,
presso banche britanniche o del Delaware […]. Il fine ultimo delle banche lettoni
era quello di incoraggiare e gestire il deflusso di capitali della Russia verso
l’Occidente. Dal punto di vista statunitense, si trattava di un modus operandi
particolarmente adatto a prosciugare le ricchezze del nemico basato sullo
sdoganamento in Russia del modello di privatizzazione neoliberista dei servizi
pubblici, delle risorse naturali e delle proprietà immobiliari».