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Sheridan Le Fanu

CARMILLA
La vampira e il detective
dell’occulto
A cura di Stella Sacchini

Feltrinelli
Titolo delle opere originali
GREEN TEA
MR JUSTICE HARBOTTLE
CARMILLA

Traduzione dall’inglese di
STELLA SACCHINI

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano


Prima edizione digitale 2016 da prima edizione nell’“Universale Economica” – I
CLASSICI maggio 2016

ISBN ebook: 9788858825754

In copertina: © Rekha Garton/Arcangel Images.

Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore.


È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Carmilla
La vampira e il detective dell’occulto
TÈ VERDE
Prologo
Martin Hesselius,1 medico tedesco

Nonostante i miei studi approfonditi di medicina e


chirurgia, non ho mai praticato né l’una né l’altra. Tuttavia,
le due discipline continuano a destare in me un profondo
interesse. Non è stato né per pigrizia né per capriccio se mi
sono allontanato dall’onorabile professione che avevo
appena intrapreso. La causa fu un banale graffio che mi
feci con il bisturi. Il graffio mi costò la perdita di due dita,
subito amputate, e quella, ben più dolorosa, della salute,
perché da allora non sono più stato davvero bene, e di rado
sono rimasto per dodici mesi di fila nello stesso posto.
Nel corso dei miei vagabondaggi, ho fatto la conoscenza
del dottor Martin Hesselius, vagabondo come me, come me
medico, e come me entusiasta del suo mestiere. Al
contrario di me, il suo vagabondare era volontario, e lui un
uomo, se non ricco, per come intendiamo noi la ricchezza in
Inghilterra, quantomeno “agiato”, per dirla al modo dei
nostri avi. Era già anziano quando lo incontrai per la prima
volta; di circa trentacinque anni più vecchio di me.
Nel dottor Martin Hesselius trovai il mio maestro. Il suo
sapere era sconfinato, e a guidarlo nella comprensione dei
vari casi era l’intuito. Era lo stimolo perfetto per un giovane
entusiasta come me, perché ispirava timore reverenziale e
gioiosa curiosità. La mia ammirazione ha superato la prova
del tempo ed è sopravvissuta al distacco della morte. Sono
sicuro che avesse basi solide.
Per quasi vent’anni sono stato suo segretario medico. Mi
aveva affidato la sua immensa collezione di documenti,
affinché la sistemassi, curandone l’indice e rilegandola. Il
trattamento che riservava ad alcuni di questi casi è
singolare. Scrive in due stili differenti. Riporta ciò che ha
visto e sentito come potrebbe farlo un sagace profano, e
dopo aver accompagnato il paziente alla porta d’ingresso,
verso la luce del giorno, o ai cancelli dell’oscurità, verso le
caverne dei morti, con questo tipo di linguaggio, torna alla
narrazione, facendo ricorso al lessico della sua arte e a
tutta la forza e originalità del genio, e infine passa al lavoro
di analisi, diagnosi e semplificazione.
Qua e là incontro qualche caso interessante, di quelli che
potrebbero divertire o terrorizzare un lettore profano,
suscitando in lui un interesse ben diverso da quello,
specifico, che possiede un esperto. Con lievi modifiche,
soprattutto nel linguaggio, e ovviamente cambiando i nomi,
trascrivo il seguente. Il narratore è il dottor Martin
Hesselius. L’ho trovato fra gli abbondanti appunti dei casi
che seguì durante un viaggio in Inghilterra, all’incirca
sessantaquattro anni fa.
È raccontato all’interno di una serie di lettere indirizzate
a un suo amico, il professor Van Loo, di Leida.2 Il professore
non era un medico, ma un chimico e un lettore
appassionato di storia, metafisica e medicina, che ai suoi
tempi aveva scritto un’opera teatrale.
La storia, quindi, è per forza di cose scritta in modo da
risultare più accattivante per un lettore non addetto ai
lavori, benché così perda di valore come documento
medico.
Queste lettere, a quanto risulta da un memorandum
allegato, sono state restituite al dottor Hesselius nel 1819,
alla morte del professore. Alcune sono scritte in inglese,
altre in francese, ma per gran parte in tedesco. Sono un
traduttore fedele, ma manco di grazia, lo so, e benché qua
e là abbia omesso qualche passaggio, ne abbia accorciati
altri e modificato i nomi, non ho interpolato alcunché.
 
I
Il dottor Hesselius racconta del suo incontro con il
reverendo Jennings
Il reverendo Jennings è alto e magro, e veste con
precisione inappuntabile, d’altri tempi, tipica dell’alto
clero. È insita in lui una certa imponenza, scevra da
qualsiasi rigidità. I suoi lineamenti, pur non essendo belli,
sono piuttosto armoniosi, e la loro espressione molto
gentile, ma anche timida.
L’ho incontrato una sera dalla signora Mary Heyduke.3 Il
riserbo e la benevolenza dei suoi modi sono estremamente
affascinanti.
Eravamo una compagnia di poche persone, e lui si unì
con un certo garbo alla conversazione. Preferisce ascoltare
piuttosto che contribuire al discorso; ma ciò che dice è
sempre pertinente e ben formulato. È tra i grandi favoriti
della signora Mary che, a quanto pare, lo consulta su molte
questioni, e lo reputa la persona più felice e fortunata sulla
faccia della terra. Non immagina neanche quanto poco
sappia sul suo conto.
Il reverendo Jennings è scapolo e dicono che abbia
sessantamila sterline investite in titoli di stato. È un uomo
caritatevole. È più che mai ansioso di adoperarsi con ogni
mezzo per la sua sacra professione, e benché goda di una
discreta salute ovunque si trovi, quando si reca nello
Warwickshire, dove ha sede la sua canonica, per adempiere
le funzioni proprie del suo sacro ufficio, la salute subito lo
abbandona, e in modo assai strano. Così dice la signora
Mary.
Non vi sono dubbi che la salute del signor Jennings si
guasti in modo per lo più improvviso e misterioso, alle volte
proprio mentre sta officiando nella sua vecchia e graziosa
chiesa a Kenlis.4 Potrebbe essere il cuore, potrebbe essere
il cervello. Ma è già capitato tre o quattro volte, o anche
più spesso, che a un certo punto della funzione
all’improvviso si sia bloccato e, dopo un momento di
silenzio, all’apparenza incapace di proseguire, sia
sprofondato in una preghiera solitaria e impercettibile, con
le mani e gli occhi sollevati al Cielo, e poi, pallido come la
morte e scosso da una strana vergogna e orrore, sia sceso
tremante dal pulpito per rifugiarsi in sagrestia, lasciando i
fedeli a se stessi, senza una spiegazione. Questo accadeva
quando il suo curato era assente. Ora, quando va a Kenlis,
si premura sempre di avere con sé un sacerdote che
condivida le sue mansioni e lo sostituisca nel caso si
dovessero verificare questi blocchi improvvisi.
Quando il signor Jennings ha di questi crolli e batte in
ritirata dalla canonica per tornarsene a Londra, dove ha
un’angusta casetta in una via buia dalle parti di Piccadilly,
la signora Mary dice che è sempre in ottima salute. Ho una
mia personale opinione al riguardo. Bisogna procedere per
gradi. Staremo a vedere.
Il signore Jennings è un perfetto gentiluomo. La gente,
però, dice che ha qualcosa di strano. Ha un non so che di
ambiguo. C’è una cosa che contribuisce senz’altro a
suscitare questa impressione, ma non credo che la gente se
ne ricordi; o magari non ci fa caso. Ma io sì, l’ho notata
subito. Il signor Jennings ha un modo di guardare in tralice
il tappeto, come se con gli occhi seguisse il movimento di
qualcosa. Non sempre, certo. Succede ogni tanto. Ma
abbastanza spesso da conferire ai suoi modi una certa
stranezza, come ho appena detto, e in questo sguardo che
corre lungo il pavimento c’è qualcosa di esitante e ansioso
al tempo stesso.
Un medico filosofo, come avete avuto la bontà di
definirmi, nell’elaborare teorie con l’aiuto dei casi che ha
incontrato, esaminato e approfondito con più tempo a
disposizione, e quindi con molta più meticolosità di quanto
potrebbe permettersi un medico normale, cade senza
avvedersene nell’abitudine di osservare con occhio clinico,
pratica che lo accompagna ovunque e viene esercitata,
come direbbe qualcuno, con una certa insolenza, su
qualunque soggetto si presenti al suo cospetto con una
minima parvenza di gratificante curiosità scientifica.
C’era una promessa simile nel magro, timido, cortese ma
riservato gentiluomo che incontrai per la prima volta in
questa piccola, piacevole riunione serale. Osservai, in quel
particolare contesto, molto più di quanto ora riporto; ma
riservo tutti gli sconfinamenti in questioni più tecniche ai
dossier di puro carattere scientifico.
Mi preme precisare che, quando qui parlo di scienza
medica, lo faccio, come spero un giorno sia universalmente
riconosciuto, attribuendo a questo termine un significato
molto più ampio di quanto richiederebbe la sua trattazione
materiale. Credo che l’intero mondo naturale altro non sia
che l’espressione suprema di quel mondo spirituale, l’unico
da cui trae la sua vita, l’unico che davvero la possiede.
Credo che l’uomo nella sua essenza sia spirito, che lo
spirito sia una sostanza organizzata, ma diversa nella
struttura rispetto a ciò che di norma consideriamo materia,
più simile alla luce e all’elettricità; che il corpo materiale
sia, nel senso più letterale del termine, un rivestimento, e
la morte, di conseguenza, non sia un’interruzione
dell’esistenza dell’uomo, ma soltanto l’affrancamento dal
corpo materiale – un processo che comincia nel momento
che definiamo morte e si conclude, al massimo qualche
giorno dopo, con la risurrezione “in forma di energia”.5
Chi valuterà le conseguenze di queste posizioni potrà
forse vedere il loro reale impatto sulla scienza medica.
Comunque sia, questa non è certo la sede adatta per
esporre le prove e analizzare le conseguenze di questo
stato delle cose, troppo misconosciuto a livello generale.
Come mio solito, stavo osservando di nascosto il signor
Jennings, con la massima cautela – ma penso che se ne sia
accorto – e vidi chiaramente che anche lui mi stava
osservando con la medesima prudenza. A un certo punto la
signora Mary si rivolse a me chiamandomi per nome,
ovvero dottor Hesselius, e allora notai che il suo sguardo si
fece più penetrante, e poi divenne pensieroso per qualche
minuto.
Più tardi, mentre conversavo con un gentiluomo all’altro
capo della stanza, notai che mi guardava con maggiore
intensità e con un interesse di cui forse conoscevo la
ragione. Poi, appena poté, attaccò bottone con la signora
Mary e mi convinsi – in questi casi non ci si può sbagliare –
di essere l’oggetto di quel lontano botta e risposta.
Dopo un poco, questo sacerdote alto e magro mi si
avvicinò; e un momento dopo eravamo già nel vivo della
conversazione. Quando due persone, che amano leggere e
conoscono libri e posti, poiché hanno viaggiato, desiderano
dialogare, è davvero insolito che non trovino argomenti.
Non fu un caso a condurlo fin lì per conversare con me.
Conosceva il tedesco e aveva letto il mio Saggi sulla
medicina metafisica che, tra le righe, rivela più di quanto
realmente dica.
Quest’uomo cortese, mite, timido, senz’ombra di dubbio
un uomo di pensiero e gran lettore, che si muoveva tra noi
e con noi parlava, ma non era davvero uno di noi, e che –
già lo sospettavo – conduceva una vita i cui disbrighi e
timori erano tenuti nascosti con grande cura e
impenetrabile riserbo, non solo al mondo ma anche ai suoi
amici più cari – quest’uomo stava soppesando con estrema
cautela nella sua mente l’idea di fare un certo passo nei
miei confronti.
Leggevo i suoi pensieri senza che se ne accorgesse, e
stavo bene attento a non dire nulla che potesse tradire, alla
sua sensibile prudenza, i miei sospetti riguardo la sua
posizione o le mie congetture circa i suoi progetti su di me.
Passammo un po’ di tempo a chiacchierare di cose senza
importanza, ma infine disse:
“Ho trovato molto interessanti alcuni vostri studi, dottor
Hesselius, su quella che definite medicina metafisica – li ho
letti in tedesco, dieci o dodici anni fa – sono mai stati
tradotti?”.
“No, sono sicuro di no – altrimenti lo avrei saputo. Mi
avrebbero chiesto il permesso, in tal caso.”
“Qualche mese fa, ho chiesto ad alcuni editori di qui di
procurarmi il libro originale, in tedesco; ma dicono che sia
fuori commercio, al momento.”
“È così infatti, oramai da qualche anno; ma mi lusinga, in
quanto autore, scoprire che non avete dimenticato il mio
libricino, benché,” aggiunsi, ridendo, “siano passati anni, e
dieci o dodici sono un tempo considerevole; ma suppongo
abbiate continuato a rimuginare sulla questione, o forse di
recente è successo qualcosa che ha risvegliato il vostro
interesse.”
A questa osservazione, corredata da uno sguardo
indagatore, il signor Jennings fu colto da un improvviso
imbarazzo, simile a quello che fa avvampare e apparire
sciocca una giovane donna. Abbassò gli occhi e giunse le
mani, a disagio, e per un momento gli si dipinse in viso una
strana espressione, quasi di colpevolezza, si sarebbe potuto
dire.
Lo aiutai a togliersi d’impaccio nel modo migliore, ossia
facendo finta di non essermene accorto, e andando dritto
per la mia strada dissi: “Questi ritorni di interesse per un
dato argomento capitano spesso anche a me; un libro ne
suggerisce un altro e spesso mi rimanda a qualche assurda
ricerca anche a distanza di vent’anni. Ma se ci tenete
ancora ad averne una copia, sarò più che felice di
procurarvela; ne dovrei avere ancora un paio – e se me lo
permettete, sarei davvero onorato di regalarvela”.
“Voi siete troppo buono,” disse dopo un momento, di
nuovo a suo agio: “Ormai non ci speravo più – non so come
ringraziarvi”.
“Vi prego, non dite altro; è una cosa da nulla e quasi mi
vergogno di avervela offerta, e se mi ringraziate ancora la
getterò nel fuoco in uno slancio di modestia.”
Il signor Jennings rise. Mi domandò dove alloggiassi a
Londra, e dopo qualche altra chiacchiera su svariati
argomenti, si congedò.
II
Il dottore interroga la signora Mary e lei risponde
“Mi piace molto il vostro parroco, signora Mary,” dissi,
appena se ne fu andato. “Ha molto letto, viaggiato,
riflettuto, e anche sofferto, dovrebbe essere un amico
perfetto.”
“E di fatti lo è, e vi dirò di più: è davvero un buon uomo,”
disse lei. “I suoi consigli sono preziosissimi per le mie
scuole e le mie piccole attività a Dawlbridge, ed è anche
così coscienzioso, si dà un gran da fare – voi non avete idea
– ovunque ritenga di poter essere utile: è così affabile, così
sensibile.”
“È un piacere sentir parlare tanto bene delle sue virtù
altruistiche. Per quanto mi riguarda, posso solo
comprovarne la compagnia gradevole e garbata, e in
aggiunta a quel che mi avete detto, penso di potervi riferire
altre due o tre cose sul suo conto,” dissi.
“Davvero?”
“Sì, tanto per cominciare, non è sposato.”
“Sì, è vero – andate avanti.”
“Sta scrivendo, o meglio stava, visto che il suo lavoro è
fermo da circa due o tre anni, un libro d’argomento
piuttosto astratto – forse di teologia.”
“Be’, stava scrivendo un libro, sì; ma non sono tanto
sicura che l’argomento fosse quello, so solo che non
rientrava nei miei interessi; è assai probabile che abbiate
ragione, che l’abbia interrotto è sicuro – ah sì.”
“E anche se stasera qui ha bevuto solo un po’ di caffè,
preferisce il tè, o almeno gli piaceva in modo esagerato.”
“Sì, è proprio vero.”
“Beveva tè verde, in gran quantità, giusto?” proseguii.
“Be’, che stranezza! Ogni volta, sull’argomento tè verde
sfioravamo il litigio.”
“Ma ormai ci ha quasi rinunciato,” dissi.
“Proprio così.”
“E adesso, un’altra cosa. Sua madre e suo padre, li avete
conosciuti?”
“Sì, entrambi; suo padre è morto da neanche dieci anni, e
stavano dalle parti di Dawlbridge. Li conoscevamo molto
bene,” rispose.
“Be’, o sua madre o suo padre – ma credo sia suo padre –
ha visto un fantasma,” dissi io.
“Ah, voi siete proprio un mago, dottor Hesselius.”
“Mago o no, non ho forse ragione?” risposi allegro.
“Certo che avete ragione, e si trattava di suo padre: era
un uomo taciturno e stravagante, e tediava di continuo mio
padre con i suoi sogni, e negli ultimi tempi gli raccontava la
storia di un fantasma che aveva visto e con cui aveva anche
parlato, ed era una storia davvero stramba. La ricordo
molto bene, perché quell’uomo mi faceva paura. Era molto
tempo prima che morisse – io ero solo una bambina – e i
suoi modi erano così silenziosi e deprimenti, e alle volte
veniva a trovarci all’imbrunire, quand’ero sola in salotto, e
io me lo immaginavo sempre circondato dai fantasmi.”
Sorrisi e annuii.
“E ora che mi sono guadagnato la nomea di mago, è
arrivato il momento di darvi la buonanotte,” dissi.
“E come avete fatto a scoprirlo?”
“Attraverso i pianeti, ovvio, come fanno gli zingari,”
risposi, dopodiché, con tono allegro, ci scambiammo la
buonanotte.
Il mattino dopo, spedii il famoso libricino al signor
Jennings, insieme a un appunto, e quando la sera tardi
rientrai, scoprii che era venuto a cercarmi nella pensione
dove alloggiavo e mi aveva lasciato il suo biglietto da visita.
Aveva chiesto se ero in casa e a che ora mi avrebbe potuto
trovare.
Vorrà forse espormi il suo caso e chiedermi, come si suol
dire, “un consulto professionale”? Me lo auguro. Ho già
elaborato una teoria su di lui. È supportata dalle risposte
che la signora Mary ha dato alle mie domande prima che
me ne andassi. Mi piacerebbe avere una conferma dal
diretto interessato. Ma allora, cosa posso fare per indurlo a
confidarsi senza perdere le buone maniere? Niente. Lui,
invece, forse ci sta pensando su. A ogni modo, mio caro Van
L., vedrò di non rendermi inaccessibile; domani intendo
rendergli la visita. Chiedere di vederlo sarà solo un gesto di
civiltà in risposta alla sua cortesia. Magari ne verrà fuori
qualcosa. Se molto, poco, o niente, mio caro Van L., lo
verrete a sapere.
III
Il dottor Hesselius trova qualcosa in certi libri in
latino
Ebbene, sono andato a trovarlo in Blank Street.
Quando chiesi di lui, sulla soglia, il domestico mi disse
che il signor Jennings era molto occupato con un
gentiluomo, un pastore di Kenlis, la sua parrocchia di
campagna. Deciso a mantenere il mio privilegio di
ritornare, mi limitai a dire che avrei provato un’altra volta,
e avevo già girato i tacchi quando il domestico si scusò e mi
chiese, guardandomi con più attenzione di quanto fanno di
solito le persone beneducate del suo rango, se fossi il
dottor Hesselius; e, nell’apprendere che lo ero, disse:
“Allora forse, signore, mi permetterete di farne menzione al
signor Jennings, perché sono sicuro che desidera vedervi”.
Il domestico tornò subito dopo, con un messaggio del
signor Jennings: mi chiedeva di aspettarlo nel suo studio,
che di fatto era il retro del salotto, con la promessa che mi
avrebbe raggiunto in una manciata di minuti.
Era un vero studio – quasi una biblioteca. La stanza era
imponente, e aveva due finestre alte e strette e ricchi
tendaggi scuri. Era più grande di quanto mi fossi aspettato
e stipata di libri in ogni dove, dal pavimento al soffitto. Il
tappeto sopra – perché passeggiandoci sentivo che ce
n’erano due o tre sovrapposti – era un tappeto turco. I miei
passi non producevano alcun rumore. Gli scaffali sporgenti
incastonavano le finestre, molto strette, in profondi recessi.
Nel complesso la stanza, benché assai confortevole e
persino lussuosa, risultava decisamente tetra e avvolta in
un silenzio quasi opprimente. Ma forse quell’effetto era
dovuto alle mie associazioni mentali. Mi ero fatto un’idea
tutta mia sul signor Jennings. Ero entrato in questa stanza
immersa nel silenzio più assoluto, in una casa molto
silenziosa, con uno strano presentimento; e la sua oscurità,
e il solenne rivestimento di libri alle pareti, interrotto
soltanto da due stretti specchi, accrescevano questa cupa
impressione.
Mentre aspettavo l’arrivo del signor Jennings, mi
divertivo a curiosare tra i libri che riempivano gli scaffali.
Non in mezzo a questi, ma appena sotto, a terra, con la
copertina verso il basso, m’imbattei nella serie completa
degli Arcana Cœlestia di Swedenborg,6 nell’originale latino,
un’edizione in folio molto pregiata, con un’elegante
rilegatura tipica dei libri di teologia, in pura pergamena,
con lettere dorate e il taglio carminio. In parecchi di questi
volumi c’erano segnalibri di carta; li raccolsi, li disposi uno
accanto all’altro, sul tavolo, li aprii in corrispondenza dei
segni, e lessi, nella solenne fraseologia latina, una serie di
paragrafi segnalati da una linea a matita al bordo. Ne
trascrivo qui alcuni, traducendoli.
“Quando nell’uomo si apre la vista interiore, che è quella
del suo spirito, allora appaiono le cose di un’altra vita, che
non possono essere rese visibili alla vista corporea...”
“Attraverso la vista interna mi è stato concesso di vedere
le cose che sono nell’altra vita, più chiaramente di quanto
non veda quelle di questo mondo. A partire da tali
considerazioni, è evidente che la visione esterna esiste
grazie a quella interiore, e questa grazie a una visione
ancora più interiore, e così via...”
“A ogni uomo sono associati almeno due spiriti del
male...”
“Ai geni maligni è associato anche un eloquio fluente,
benché aspro e stridulo. Tra loro c’è anche un eloquio che
non è fluente, in cui il conflitto dei pensieri viene percepito
come qualcosa che s’insinua furtivo al suo interno.”
“Gli spiriti del male associati all’uomo in realtà vengono
dall’inferno, ma quando sono in compagnia dell’uomo allora
non si trovano all’inferno, ma da lì sono stati prelevati. Il
luogo dove si vengono a trovare, allora, è fra paradiso e
inferno ed è chiamato il mondo degli spiriti – quando gli
spiriti del male che sono con l’uomo si trovano in quel
mondo, non sono in alcun tormento infernale, ma in ogni
pensiero ed emozione dell’uomo, e quindi in tutto ciò di cui
l’uomo gode. Ma quando sono rimandati nel loro inferno,
tornano al loro stato precedente...”
“Se gli spiriti del male potessero rendersi conto di essere
associati all’uomo, pur restando spiriti da lui separati, e se
potessero fluire nella sfera del suo corpo, proverebbero a
distruggerlo in migliaia di modi; ché odiano l’uomo di un
odio letale...”
“Per cui, sapendo che ero un uomo nel corpo, cercavano
in continuazione di distruggermi, non solo come corpo, ma
soprattutto come anima; ché distruggere un uomo o uno
spirito è la gioia più grande della vita di chi vive all’inferno;
ma ho sempre avuto la protezione del Signore. Di qui si
evince quanto sia pericoloso per l’uomo vivere in viva
comunione con gli spiriti, a meno che non sia nella grazia
della fede...”
“Niente è tenuto nascosto con più cura agli spiriti
associati del loro stato di profonda congiunzione con
l’uomo, perché se lo sapessero gli parlerebbero con il
preciso intento di distruggerlo...”
“Per l’inferno è una gioia far del male all’uomo e
affrettarne l’eterna rovina.”
Una lunga nota a piè di pagina, scritta con una matita
dalla punta sottile nella grafia ordinata del signor Jennings,
attirò la mia attenzione. Aspettandomi una sua critica al
testo, lessi un paio di parole e mi fermai, perché si trattava
di qualcosa di molto diverso e cominciava con queste
parole: Deus misereatur mei – “Dio abbia pietà di me”.
Intuita la natura privata dell’appunto, distolsi lo sguardo,
chiusi il libro e rimisi tutti i volumi come li avevo trovati,
tranne uno che mi interessava e nel quale, come succede
agli uomini studiosi e solitari, mi immersi sempre più, fino a
perdere il contatto con il mondo esterno e a dimenticare
dove fossi.
Ero intento a leggere alcune pagine che trattavano di
“rappresentativi” e “corrispondenze”, nel linguaggio
tecnico di Swedenborg, ed ero arrivato a un passaggio dove
in sostanza si diceva che gli spiriti del male, quando
vengono visti da altri occhi che non siano quelli dei loro
associati infernali, si presentano per “corrispondenza” nelle
sembianze di una bestia (fera) che ne raffigura la cupidigia
e la vitalità, sotto una forma terrificante e mostruosa. È un
passaggio molto lungo e descrive nel dettaglio molte di
queste forme bestiali.7
IV
Quattro occhi leggevano il passaggio
Leggevo seguendo la riga con la punta del portamatite,
quando qualcosa mi indusse ad alzare lo sguardo.
Proprio davanti a me c’era uno degli specchi menzionati
poc’anzi, nel quale vidi riflessa l’alta figura del mio amico,
il signor Jennings, china sulla mia spalla e intenta a leggere
la pagina su cui ero tanto concentrato, con un’espressione
così cupa e stravolta che lo rendeva quasi irriconoscibile.
Mi voltai, alzandomi. Anche lui si raddrizzò e disse,
sforzandosi di ridere:
“Sono entrato e vi ho chiesto come stavate, ma senza
riuscire a smuovervi da quel libro; così non ho potuto
frenare la curiosità e con una gran faccia tosta, temo, ho
dato una sbirciatina da sopra la vostra spalla. Non era la
prima volta che vi capitavano sotto gli occhi quelle pagine.
Swedenborg l’avete già studiato tanto tempo fa, giusto? Ne
sono certo”.
“Oh, mio caro, sì! Devo molto a Swedenborg; nel libricino
sulla medicina metafisica, che avete avuto la bontà di
ricordare, troverete diverse tracce delle sue teorie.”
Benché il mio amico ostentasse una certa allegria nei
modi, c’era un lieve rossore sul suo viso, e sentivo che
dentro era molto turbato.
“Su Swedenborg ancora non sono tanto esperto, lo
conosco così poco! Quei libri li ho da un paio di settimane
al massimo,” rispose, “e credo siano l’ideale per mettere
alla prova il sistema nervoso di un uomo solitario – cioè, lo
dico in base a quel poco che ho letto, non perché sia
successo a me,” rise; “e vi sono molto grato per il libro.
Spero abbiate ricevuto il mio biglietto.”
Formulai i ringraziamenti di rito, dichiarando con
modestia che il mio gesto era ben poca cosa.
“Non ho mai letto un libro con cui mi sia trovato in
completo accordo come con il vostro,” continuò. “Ho capito
subito che contiene molto di più di quanto non sveli in
modo esplicito. Conoscete il dottor Harley?”8 domandò, in
tono piuttosto brusco.
En passant, il curatore di questo scritto sottolinea che il
medico qui menzionato era uno dei più eminenti specialisti
inglesi.
Lo conoscevo, sì, dal momento che ci eravamo scambiati
diverse lettere e avevo beneficiato della sua grande
cortesia e del suo notevole aiuto durante il mio soggiorno
in Inghilterra.
“Penso sia uno dei peggiori idioti che abbia mai
incontrato in vita mia,” disse il signor Jennings.
Era in assoluto la prima volta che lo sentivo fare un
commento così tagliente su qualcuno, e parole simili
riferite a un nome così illustre mi lasciarono un po’
interdetto.
“Davvero? Ma in riferimento a cosa?” chiesi.
“Alla sua professione,” rispose.
Sorrisi.
“Ora vi spiego,” disse: “mi sembra cieco, cieco a metà –
ossia, la metà di tutto ciò che tratta è oscuro –
straordinariamente luminoso e vivido tutto il resto; e quel
che è peggio, la cosa pare intenzionale. Non riesco a
capirlo – o meglio, è lui che non vuole farsi capire – ho
avuto a che fare con lui come medico, ma in quella veste lo
ritengo niente di più che una mente paralitica, un intelletto
mezzo morto. Vi racconterò tutto al riguardo – so che prima
o poi lo farò,” disse, un po’ agitato. “Resterete in
Inghilterra ancora qualche mese. Se durante la vostra
permanenza dovessi trattenermi fuori città per qualche
giorno, mi permetterete di disturbarvi con una lettera?”
“Ne sarei solo che felice,” gli garantii.
“Davvero gentile da parte vostra. Sono davvero
insoddisfatto di Harley.”
“Ha una lieve propensione per la scuola materialistica,”
dissi.
“Un materialista puro,” mi corresse; “non potete capire
quanto siano fastidiose, queste cose, per chi ne sa di più.
Non lo direte a nessuno, vero? – a nessuno dei nostri amici
in comune – che sono un po’ ipocondriaco; ad esempio,
nessuno sa – nemmeno la signora Mary – che ho consultato
il dottor Harley o altri medici. Per cui vi pregherei di non
farne menzione; e, se dovesse profilarsi la minaccia di un
possibile attacco, sarete tanto gentile da permettermi di
scrivervi o, nel caso fossi in città, di parlare un po’ con voi.”
Ero talmente preso dalle mie congetture che, senza
avvedermene, mi ritrovai a fissarlo con sguardo severo,
tanto che lui abbassò gli occhi, e disse:
“A quanto vedo, state pensando che potrei dirvi tutto già
da ora, o magari un’ipotesi ce l’avete già; ma vi conviene
lasciar perdere. Passereste il resto della vostra vita a
interrogarvi sulla questione senza cavarne fuori nulla”.
Scosse la testa sorridendo, e su quel sole invernale d’un
tratto calò una nube nera, e inspirò a denti stretti, come fa
chi è dolorante.
“Certo, mi rincresce di apprendere che paventate
l’opportunità di consultare uno di noi; ma disponete di me
quando e come desiderate, e non c’è bisogno che vi
garantisca la sacralità della vostra confidenza.”
Poi si mise a parlare di altre cose più allegre, e dopo un
poco mi congedai.
V
Il dottor Hesselius è convocato a Richmond
Il tono dei saluti fu allegro, ma il signor Jennings non era
allegro, e nemmeno io. Ci sono alcune espressioni di quel
potente organo dello spirito – il volto umano – che,
nonostante l’abitudine e il tipico sangue freddo del
mestiere, continuano a turbarmi profondamente. Lo
sguardo del signor Jennings mi perseguitava. Aveva
lasciato nella mia mente un’impressione così nefasta da
farmi cambiare i programmi per la serata e andai all’opera,
sentendo che avevo bisogno di distrarmi.
Non avevo più sue notizie, né da lui né da altri, da due o
tre giorni, quando ricevetti un biglietto scritto di suo
pugno. Era allegro, e pieno di speranza. Diceva che da un
po’ di tempo si sentiva molto meglio – proprio bene, in
realtà – tanto che aveva deciso di fare un piccolo
esperimento e tornarsene per un mese o giù di lì nella sua
parrocchia, per vedere se un po’ di lavoro non potesse
rimetterlo completamente in sesto. In quelle righe c’era
una fervente manifestazione religiosa di gratitudine per il
suo ristabilimento, come ormai sperava di poterlo
chiamare.
Un paio di giorni dopo vidi la signora Mary, che confermò
quanto annunciava il biglietto e mi disse che il signor
Jennings al momento si trovava nel Warwickshire e aveva
ripreso le sue funzioni clericali a Kenlis; e aggiunse:
“Comincio a pensare che sia in perfetta salute e che non
abbia mai avuto niente, a parte un po’ di nervosismo e
qualche strano pensiero; a tutti capita di essere nervosi, e
per quel genere di debolezze, secondo me, non c’è niente di
meglio che un po’ di duro lavoro, e lui ha deciso di
provarci. Non mi stupirei se non tornasse per un anno
intero”.
A dispetto di tanta fiducia, appena due giorni più tardi
ricevetti questo biglietto, proveniente dalla sua casa dalle
parti di Piccadilly:
Caro Signore, sono tornato molto deluso. Quando mi sentirò di vedervi, vi
scriverò chiedendovi di usarmi la cortesia di farmi visita. Al momento, sono
troppo giù di morale e di fatto non riuscirei a dirvi tutto quello che vorrei. Vi
prego di non parlare di me con i miei amici. Non posso vedere nessuno. Tra
un po’, se Dio vuole, riceverete mie notizie. Intendo fare un salto nello
Shropshire, dove abitano alcuni miei parenti. Dio vi benedica! Mi auguro, al
mio ritorno, di potervi incontrare con più entusiasmo di quanto ora non
riesca a esprimervi in questa lettera.

Circa una settimana dopo vidi la signora Mary a casa sua:


a suo dire, era l’ultima persona rimasta in città sul punto di
partire per Brighton, perché la stagione londinese9 era
ormai finita. Mi disse che aveva avuto notizie del signor
Jennings da sua nipote Martha, che abitava nello
Shropshire. Dalla lettera non si riusciva a desumere
granché, se non che era molto abbattuto e nervoso. In certe
parole, che le persone in salute prendono alla leggera,
spesso si annida un mondo di sofferenze!
Passarono quasi cinque settimane senza altre notizie del
signor Jennings. Al termine di quel periodo, ricevetti un suo
biglietto. C’era scritto:
Sono stato in campagna e ho cambiato aria, ambiente, facce, ogni cosa – sì,
ogni cosa – tranne me stesso. Ho deciso, nei limiti del possibile per la
creatura più irresoluta della terra, di raccontarvi il mio caso senza omettere
nulla. Impegni permettendo, vi pregherei di raggiungermi oggi, domani, o
dopodomani; ma vi pregherei di tardare il meno possibile. Non immaginate
quanto abbia bisogno di aiuto. Ho una casetta a Richmond,10 dove mi trovo
ora, un posto tranquillo. Forse riuscirete a venire, per cena, o per pranzo, o
magari per il tè. Non avrete difficoltà a trovarmi. Il domestico della mia casa
di Blank Street, che vi consegna questo biglietto, vi farà trovare una
carrozza davanti alla porta all’ora che preferite; e io sarò sempre reperibile.
Direte che non dovrei stare solo. Ho tentato in ogni modo. Venite a vedere.

Chiamai il domestico e decisi di partire la sera stessa, e


così feci.
Il signor Jennings si sarebbe trovato senz’altro meglio in
una pensione, o in un hotel, pensai, mentre la carrozza
attraversava un breve viale di tetri olmi, verso una casa in
mattoni vecchio stile, resa ancora più fosca dal fogliame di
questi alberi che la sovrastavano e la circondavano quasi
da ogni lato. Era una scelta irragionevole, poiché non si
poteva immaginare niente di più triste e silenzioso. La casa,
come ebbi a scoprire, era di sua proprietà. Il reverendo era
stato un paio di giorni in città e, trovando la cosa per
qualche ragione insopportabile, era venuto qui, forse
perché la casa era arredata ed era lui il padrone, e si
sentiva così dispensato dal pensiero e dall’indugio della
scelta.
Il sole era già tramontato e la luce rossa riflessa del cielo
di ponente illuminava la scena conferendole quel tocco
caratteristico che ci è tanto familiare. L’ingresso sembrava
molto buio, ma arrivando nel salotto sul retro, le cui
finestre guardavano a ovest, fui di nuovo immerso dalla
stessa luce crepuscolare.
Mi sedetti a rimirare, fuori dalla finestra, il paesaggio
ricco di boschi che rosseggiava nella maestosa e
melanconica luce, sempre più tenue ogni minuto che
passava. Gli angoli della stanza erano già bui; l’oscurità
avvolgeva ormai tutte le cose e le tenebre piano piano
stavano permeando anche la mia mente, già preparata a
eventi sinistri. Ero lì da solo, ad aspettare il suo arrivo, che
presto si verificò. La porta che comunicava con l’atrio si
aprì e l’alta figura del signor Jennings, appena visibile nella
luce rossastra del crepuscolo, entrò nella stanza, con passi
silenziosi e impercettibili.
Ci stringemmo la mano e, dopo aver portato una sedia
vicino alla finestra, dove c’era ancora abbastanza luce per
poterci guardare in faccia, si sedette accanto a me e,
posandomi la mano sul braccio, iniziò a raccontare, senza
tanti preamboli.
VI
Come il signor Jennings incontrò il suo compagno
Davanti a noi, il tenue bagliore di ponente e il fasto dei
solitari boschi di Richmond; dietro e tutt’intorno, la stanza
sempre più buia; e sul volto impietrito di quell’uomo
sofferente – l’espressione del suo viso, infatti, benché
ancora gentile e dolce, era cambiata – indugiava quel fioco
e strano bagliore che pareva declinare e produrre, ovunque
si posasse, luci improvvise ma fioche, che si perdevano,
quasi senza digradare, nell’oscurità. Anche il silenzio era
assoluto: da fuori neanche una ruota lontana, o un latrato,
o un fischio; e dentro la calma desolante della casa di uno
scapolo infermo.
Indovinavo bene la natura, anche se i particolari ancora
mi sfuggivano, delle rivelazioni cui avrei assistito, da quella
granitica maschera di dolore che emergeva, velata di uno
strano rossore, dallo sfondo scuro della stanza, simile a un
ritratto di Schalken.11
“Tutto è cominciato,” disse, “il quindici di ottobre, tre
anni, undici settimane e due giorni or sono – tengo il conto
al millesimo, perché ogni giorno è un tormento. Se nel
racconto dovessi saltare qualcosa, per favore ditemelo.
“Circa quattro anni fa intrapresi un lavoro che mi costò
molto in termini di letture e riflessioni. Riguardava la
metafisica religiosa degli antichi.”
“Intendete,” dissi, “l’effettiva religione di quel
paganesimo colto e assennato così lontano dal culto dei
simboli? Un campo vasto e davvero interessante.”
“Sì, ma non adatto a una mente come la mia – una mente
cristiana, voglio dire. Il paganesimo è contraddistinto da
un’essenziale unità e, in base a una malefica sintonia, la
religione influenza l’arte ed entrambe, a loro volta,
influenzano usi e costumi: l’argomento esercita un fascino
ignobile, ma la Nemesi è certa. Che Dio mi perdoni!
“Scrivevo moltissimo; scrivevo fino a notte fonda. Era il
mio pensiero fisso, anche mentre passeggiavo, ovunque
fossi, dappertutto. Mi aveva contagiato fin nel profondo.
Dovete considerare che le idee basilari connesse a questo
tema più o meno ruotano tutte intorno alla bellezza,
argomento di per sé interessante e molto piacevole, e io a
quei tempi ero senza un pensiero al mondo.”
Emise un doloroso sospiro.
“Credo che chiunque voglia scrivere sul serio lo faccia,
usando le parole di un mio amico, grazie a qualcosa – tè,
caffè, tabacco. Forse in questo genere di occupazioni c’è
una perdita fisiologica che va compensata di continuo,
altrimenti ci astrarremmo sempre più e la mente, in un
certo senso, si staccherebbe dal corpo, a meno che non ci
sia una sensazione fisica che le ricordi con una certa
frequenza tale connessione. In ogni caso, io questa
mancanza la sentivo, e la compensavo. Il tè era il mio
compagno – all’inizio normale tè nero, preparato nel modo
tradizionale, non troppo forte: ma ne bevevo una gran
quantità e andando avanti lo facevo sempre più forte. Su di
me non ha mai prodotto alcuna reazione sgradevole. Iniziai
poi a prendere un po’ di tè verde. Trovavo il suo effetto più
piacevole, schiariva e intensificava il potere della mente,
per cui sono arrivato a prenderlo con una certa frequenza,
ma non più forte di quello che si beve per piacere.
Quand’ero qui scrivevo tantissimo, era tutto così tranquillo,
scrivevo proprio in questa stanza. Rimanevo alzato fino a
tardi, e divenne un’abitudine sorseggiare il mio tè – tè
verde – di tanto in tanto mentre andavo avanti con il lavoro.
Sul tavolo avevo un piccolo bricco sistemato su una
lampada, e mi facevo il tè almeno un paio di volte tra le
undici e le due o le tre di notte, l’ora in cui andavo a letto.
Mi recavo in città ogni giorno. Non facevo una vita da
monaco e, benché passassi un paio d’ore in biblioteca a
caccia di fonti autorevoli e in cerca di lumi sull’argomento,
a mio giudizio non c’era niente di morboso in me. Vedevo i
miei amici più o meno come al solito e mi divertivo in loro
compagnia, e nel complesso la mia vita, prima di allora, non
era mai stata così piacevole.
“Avevo conosciuto un uomo che possedeva alcuni libri
molto particolari, vecchie edizioni tedesche in latino
medievale, ed ero ben felice di poterli consultare. I libri di
questa persona così cortese si trovavano nella parte
vecchia di Londra, in una zona molto fuori mano. Mi ero
trattenuto più del previsto e quando uscii, non vedendo
nessuna carrozza a nolo, fui tentato di prendere l’omnibus
che passava da quelle parti. Era più buio di adesso quando
l’omnibus raggiunse una vecchia casa, l’avrete notata
anche voi, con quattro pioppi ai lati della porta, e lì scese
l’ultimo passeggero prima di me. Proseguimmo piuttosto
spediti. Ormai era il crepuscolo. Mi poggiai con la schiena
contro l’angolo vicino alla porta, perso in piacevoli
meditazioni.
“L’interno dell’omnibus era quasi buio. Avevo notato
nell’angolo opposto a me, dall’altro lato della vettura, in
fondo, vicino ai cavalli, due piccoli riflessi circolari,
sembravano due lucine rossastre. Distavano un paio di
pollici l’uno dall’altro, ed erano all’incirca della misura di
quei bottoncini d’ottone che i comandanti di panfili
applicano alle loro giacche. Cominciai a fare ipotesi su
quella che sembrava una cosa da niente, senza troppa
convinzione. Da che parte veniva quella luce rossa, debole
ma profonda, e di quale oggetto – perline di vetro, bottoni,
decorazioni di qualche giocattolo – era il riflesso?
Procedevamo adagio, tanto ormai mancava appena un
miglio. Non avevo ancora risolto l’enigma, che diventava,
minuto dopo minuto, sempre più strano, poiché questi due
puntini luminosi, con uno scatto improvviso, scesero
sempre più giù, verso il pavimento, mantenendo tra loro la
stessa distanza e conservando la posizione orizzontale, e
poi, altrettanto all’improvviso, salirono al livello del sedile
su cui mi trovavo e non li vidi più.
“La mia curiosità ora era davvero eccitata e, prima che
avessi il tempo di pensare, tornai a vedere questi due
opachi fanalini, di nuovo insieme vicino al pavimento, e di
nuovo sparirono, e poi riapparvero di nuovo nell’angolo
dove li avevo visti all’inizio.
“Così, senza mai distogliere lo sguardo, mi spostai, piano
piano, rimanendo sempre sul mio lato, verso il punto dove
continuavano a baluginare questi minuscoli dischi rossi.
“C’era davvero poca luce nell’omnibus. Era quasi buio.
Mi sporsi in avanti nel tentativo di scoprire cosa fossero in
realtà quei piccoli cerchi. In quel momento, si spostarono
appena. Cominciai allora a distinguere la sagoma di
qualcosa di nero e di lì a poco vidi, con discreta chiarezza,
la sagoma di una piccola scimmia nera, che spingeva il
muso in avanti, verso di me, facendomi il verso; quei dischi
erano i suoi occhi e ora mi parve di intravvedere i suoi
denti in un ghigno.
“Indietreggiai, non sapendo se avesse intenzione di
saltarmi addosso. Pensai che magari uno dei passeggeri
avesse dimenticato nella vettura questa brutta bestiola e,
volendo sincerarmi del suo temperamento, giacché non mi
fidavo di protendere le dita, spinsi con delicatezza
l’ombrello verso di lei. Rimase immobile quando l’ombrello
la toccò e... l’attraversò da parte a parte. Già, l’attraversò,
avanti e indietro, senza incontrare la minima resistenza.
“È davvero impossibile spiegarvi a parole l’orrore che
provai. Dopo essermi sincerato che si trattava di
un’illusione, come allora credevo, fui preso da un brutto
presentimento e da un terrore che mi paralizzarono e mi
impedirono di distogliere lo sguardo dagli occhi della
bestiola per alcuni momenti. Mentre la guardavo, fece un
piccolo salto indietro, proprio nell’angolo, e io, in preda al
panico, mi ritrovai alla porta, con la testa fuori, a tirare
profonde boccate d’aria fresca e a fissare le luci e gli alberi
che oltrepassavamo, ben felice di tornare nella rassicurante
realtà.
“Fermai l’omnibus e scesi. Mentre pagavo, mi accorsi che
il conducente mi guardava con curiosità. Presumo che ci
fosse qualcosa di insolito nel mio aspetto e nei miei modi,
perché non mi ero mai sentito tanto strano prima.”
VII
Il viaggio: prima fase
“Quando l’omnibus ripartì, e mi ritrovai solo per strada,
mi guardai bene intorno per controllare se la scimmia mi
aveva seguito. Con mio indescrivibile sollievo non la vidi da
nessuna parte. Non è facile descrivere lo scossone emotivo
che avevo ricevuto e il senso di sincera gratitudine nel
constatare, così almeno credevo, di essermene sbarazzato.
“Ero sceso un po’ prima che raggiungessimo questa casa,
all’incirca due o trecento passi. Un muro di mattoni corre
lungo il marciapiede e dall’altra parte del muro c’è una
siepe di tasso, o di qualche altro sempreverde dal fogliame
scuro, e oltre la siepe la bella fila di alberi che avrete
notato venendo qui.
“Questo muro di mattoni mi arrivava più o meno alla
spalla e, alzando per caso gli occhi, vidi la scimmia che si
muoveva curva, a quattro zampe, camminando o
strisciando, vicinissima a me, sulla sommità del muro. Mi
fermai, guardandola con ribrezzo e orrore. Appena mi
fermai si fermò anche lei. Si sedette ritta sul muro e mi
guardava, con le lunghe mani sulle ginocchia. La luce era
appena sufficiente a distinguerne la sagoma, ma non era
neanche così buio da mettere in forte risalto la peculiare
luce dei suoi occhi. Eppure quella nebulosa luce rossa la
vedevo lo stesso, e anche abbastanza bene. L’animale ora
non mostrava i denti né manifestava alcun segno di
irritazione, ma pareva stanco e ingrugnato, e mi osservava
senza mai distogliere lo sguardo.
“Indietreggiai verso il centro della strada. Fu un riflesso
inconscio, e lì rimasi, continuando a guardarla. Non si
muoveva.
“Con un’istintiva determinazione a tentare qualcosa –
qualsiasi cosa – mi voltai e m’incamminai a passo spedito
verso la città, e intanto, per tutto il tempo, con la coda
dell’occhio controllavo i movimenti della bestia. Strisciava
rapida lungo il muro, alla stessa velocità dei miei passi.
“Dove il muro finisce, nel punto in cui svolta la strada,
scese giù e con un paio di vigorosi balzi si portò vicino ai
miei piedi e continuò a stare al mio passo, quando
accelerai. Era alla mia sinistra, così vicino alla mia gamba
che temevo di calpestarla ogni momento.
“La strada era completamente deserta e silenziosa, e si
faceva sempre più buio. Mi fermai, sgomento e confuso, mi
voltai di nuovo, nell’altra direzione – ossia, verso questa
casa, da cui mi ero allontanato. Quando smisi di
camminare, la scimmia indietreggiò di circa cinque o sei
iarde, credo, e rimase lì, immobile, a guardarmi.
“Ero molto più agitato di quanto vi ho detto. Certo, avevo
letto, come chiunque altro, qualcosa sulle ‘illusioni
spettrali’, come voi medici definite questo genere di
fenomeni. Riflettei sulla mia situazione e guardai in faccia
la mia sventura.
“Queste affezioni, avevo letto, sono a volte transitorie e
altre volte persistenti. Avevo letto di casi in cui
l’apparizione, all’inizio innocua, piano piano era degenerata
in qualcosa di spaventoso e insopportabile, e finiva per
logorare la sua vittima. Mentre me ne stavo lì, tutto solo, a
parte il mio compagno bestiale, provai a consolarmi
ripetendomi più e più volte la rassicurazione: ‘Si tratta di
una semplice malattia, di una ben nota affezione fisica,
proprio come il vaiolo o la nevralgia. I dottori sono tutti
d’accordo, la filosofia lo dimostra. Non devo fare lo stupido.
La sera vado a letto troppo tardi e ho seri problemi di
digestione, già, ma con l’aiuto di Dio andrà tutto a posto, e
questo è solo il sintomo di una dispepsia nervosa’. Ma ci
credevo davvero? Neanche a una parola, non più di quanto
ci abbia mai creduto qualsiasi altro infelice che sia stato
catturato e inchiodato a questa satanica cattività. Contro le
mie convinzioni, potrei dire contro il mio sapere, imponevo
a me stesso un falso coraggio.
“Mi diressi allora verso casa. Avevo solo poche iarde da
percorrere. Mi ero costretto a una sorta di rassegnazione,
ma non avevo superato quel disgustoso turbamento e il
subbuglio della certezza della mia sventura.
“Decisi di passare la notte in casa. La belva continuava a
starmi accanto, passo dopo passo, e immaginai che a
spingermi fosse una specie di impaziente attrazione, simile
a quella che talvolta si può vedere nei cavalli o nei cani
stanchi, quando vanno verso casa.
“Avevo paura di andare in città, avevo paura che
qualcuno potesse vedermi e riconoscermi. Ero consapevole
di essere preda d’una irrefrenabile frenesia. E avevo anche
paura di qualche violento cambiamento nelle mie abitudini,
tipo che avrei cominciato a frequentare luoghi di
divertimento o a uscire di casa e camminare apposta per
stancarmi. Alla porta d’ingresso aspettò che salissi gli
scalini e quando aprii la porta entrò con me.
“Quella notte non bevvi tè. Fumai sigari e sorseggiai
acqua e brandy. La mia idea era di agire sul mio corpo e,
vivendo per un po’ sensazioni fisiche separate dal pensiero,
di indirizzarmi a forza, potremmo dire così, verso un nuovo
binario. Venni in questa stanza. Mi sedetti proprio qui, dove
sono seduto ora. La scimmia allora si arrampicò su un
tavolino che a quei tempi si trovava lì. Aveva un’aria
disorientata e languida. Un’irrefrenabile inquietudine
causata dai suoi movimenti mi costringeva a tenere lo
sguardo sempre su di lei. I suoi occhi erano semichiusi, ma
potevo vederli brillare. Mi guardavano fissi. In ogni
situazione, a tutte le ore, quell’animale è sveglio e mi
guarda. Le sue abitudini non cambiano mai.
“È inutile che continui a raccontarvi nei dettagli tutto ciò
che accadde quella notte. Vi descriverò, piuttosto, i
fenomeni del primo anno, che di fatto non variarono mai. Vi
descriverò come appariva la scimmia alla luce del giorno.
Al buio, come ora avrete modo di apprendere, ha
caratteristiche ben strane. È una scimmia piccola, tutta
nera. Aveva una sola particolarità: una natura malvagia – di
una malvagità insondabile. Durante il primo anno appariva
astiosa e malaticcia. Ma questo carattere assai malevolo e
vigile sottostava sempre a quel burbero languore. Durante
tutto quel periodo si comportò come se avesse in progetto
di darmi meno fastidio possibile, anche se non smetteva
mai di tenermi d’occhio. Il suo sguardo non mi lasciava mai.
E da quella sera io non ho mai smesso di sentirmelo
addosso, tranne mentre dormivo, con la luce o al buio, di
giorno o di notte, a parte quando si allontana per qualche
settimana, inspiegabilmente.
“Nella totale oscurità è visibile come alla luce del giorno.
Non parlo solo dei suoi occhi. È visibile tutta, in modo
distinto, avvolta da un alone che ricorda un bagliore di
braci rosse e l’accompagna in ogni suo movimento.
“Quando mi lascia per un po’ succede sempre di notte,
quando è buio, e sempre allo stesso modo. All’inizio diventa
inquieta, poi furiosa, e a quel punto mi viene incontro
ghignando, tutta tremante, a zampe strette, e proprio in
quel momento nel caminetto appare il fuoco. Io il fuoco non
lo accendo mai. Non riesco a dormire con il fuoco acceso.
Quindi si avvicina sempre di più al focolare, fremendo di
rabbia, e quando la sua furia tocca l’apice, salta nel
caminetto e si arrampica su per la canna fumaria, e non la
vedo più.
“Quando accadde la prima volta, pensai di essermene
liberato. Ero un uomo nuovo. Passarono un giorno e una
notte, e non tornava, e una settimana beata – una settimana
– e poi un’altra. Ero sempre in ginocchio, dottor Hesselius,
sempre, a ringraziare Dio e a pregare. Passai un intero
mese di libertà, ma all’improvviso era di nuovo con me.”
VIII
Seconda fase
“Era con me, e la malevolenza, dapprima celata dietro un
atteggiamento astioso, ora era concreta. Per il resto non
era cambiato nulla. Questa nuova energia si manifestò nelle
azioni e nell’aspetto, e presto in altri modi.
“Per qualche tempo, poi lo vedrete, il cambiamento si
limitò a una maggiore vivacità e a un’aria minacciosa, quasi
stesse covando atroci propositi. Come prima, i suoi occhi
non mi lasciavano mai.”
“È qui, ora?”
“No,” rispose, “è assente, per l’esattezza, da due
settimane e un giorno – quindici giorni in tutto. Talora non
si è fatta vedere per quasi due mesi, una volta per tre. La
sua assenza supera sempre le due settimane, magari anche
solo di un giorno. Visto che sono passati quindici giorni da
quando l’ho vista l’ultima volta, potrebbe tornare da un
momento all’altro.”
“Il suo ritorno,” chiesi, “è accompagnato da qualche
manifestazione particolare?”
“No... niente,” disse. “A un certo punto è di nuovo con
me, tutto qua. Alzo gli occhi da un libro o mi volto e la vedo
che mi guarda, come al solito, e lì rimane, come sempre,
per il tempo designato. Non ho mai parlato di questa storia
in modo così esteso e dettagliato con nessun altro, prima
d’ora.”
La sua agitazione era palpabile e a vederlo sembrava un
cadavere, e non faceva che tamponarsi la fronte con il
fazzoletto; gli feci presente che magari era stanco, e
aggiunsi che sarei tornato con piacere a trovarlo il mattino
seguente, ma mi disse:
“No, se non vi dispiace, meglio che ascoltiate tutto ora.
Sono già molto avanti nel racconto e preferirei fare un
ultimo sforzo. Quando parlai con il dottor Harley, era inutile
che gli dicessi tutte queste cose. Voi siete un medico
filosofo. E date allo spirito il giusto valore. Se questa cosa è
reale...”.
Si interruppe guardandomi agitato, con aria
interrogativa.
“Ne discuteremo in un secondo momento, e in modo
esaustivo. Vi esporrò tutto ciò che penso,” risposi, dopo una
pausa.
“Bene... molto bene. Se è qualcosa di reale, comunque, a
poco a poco sta avendo la meglio e mi sta trascinando
sempre più nel cuore dell’inferno. Nervi ottici, così diceva il
dottor Harley. Ah! Be’... le informazioni vengono
trasportare anche da altri nervi. Dio onnipotente, aiutami!
Ora vi racconto.
“Il suo potere di azione, vi dico, era aumentato. La sua
malevolenza era divenuta, in un certo senso, aggressiva.
Circa due anni fa, dopo aver sistemato alcune questioni
pendenti tra me e il vescovo, mi recai presso la mia
parrocchia, nel Warwickshire, ansioso di tornare alla mia
professione. Non ero preparato a quanto accadde in
seguito, anche se da allora ho sempre pensato che una cosa
del genere avrei dovuto aspettarmela. C’è una ragione se
dico queste cose...”
Cominciava a parlare con molta più fatica e riluttanza, e
sospirava spesso, e alle volte pareva quasi sopraffatto dalla
stanchezza. Ora non era più agitato. Assomigliava più a un
paziente grave che si è arreso alla sua malattia.
“Sì, ma prima vorrei parlarvi di Kenlis, la mia parrocchia.
“Era con me quando ho lasciato questo posto per andare
a Dawlbridge. Era il mio silenzioso compagno di viaggio e
rimase con me anche nella canonica. Quando mi apprestai
a svolgere le mie funzioni, si verificò un altro cambiamento.
Quell’essere esibì una spietata determinazione
nell’ostacolarmi. Era con me in chiesa... al leggio... sul
pulpito... alla balaustra durante la comunione. Alla fine
arrivò al punto estremo di balzare sul messale, davanti a
tutta la congregazione, e restare lì accovacciata,
impedendomi così di vedere la pagina che stavo leggendo.
Questo accadde più di una volta.
“Lasciai Dawlbridge per un po’. Mi affidai al dottor
Harley. Feci tutto ciò che mi disse. Si arrovellò molto sul
mio caso. Lo interessava parecchio, credo. Sulle prime, la
sua terapia sembrò vincente. Per quasi tre mesi fui libero
da potenziali ricadute. Cominciai a pensare di essere salvo.
Con il suo pieno consenso, tornai a Dawlbridge.
“Viaggiavo in calesse. Ero di buon umore. Di più: ero
felice e grato. Ritornavo alle mie occupazioni di sempre
come tanto desideravo, affrancato, così credevo, da quella
tremenda allucinazione. Era una bella sera luminosa, ogni
cosa pareva serena e lieta, e io ero al colmo della
contentezza. Ricordo che guardavo fuori dal finestrino per
veder spuntare, tra gli alberi, la guglia della mia chiesa di
Kenlis. È proprio dove il piccolo ruscello che costeggia la
parrocchia passa sotto la strada attraverso un canalone, e
dall’altro lato della strada, nel punto in cui riemerge, c’è
una pietra con un’antica iscrizione. Oltrepassato quel
punto, ritirai dentro la testa e mi sedetti, e a un angolo del
calesse c’era la scimmia.
“Per un momento mi sentii mancare, un attimo dopo ero
fuori di me dalla disperazione e dall’orrore. Gridai al
cocchiere di fermarsi, scesi e mi sedetti sul ciglio della
strada, e pregai, implorando la misericordia divina.
Sopraggiunse una disperata rassegnazione. La mia
compagna era con me quando rientrai in canonica. Seguì la
stessa persecuzione di prima. Per un po’, cercai di opporre
resistenza, ma di lì a non molto me ne andai.
“Vi ho detto,” proseguì, “che la bestia era diventata in un
certo senso aggressiva. Ora vi spiego un po’ meglio.
Ogniqualvolta mi mettevo a pregare, anche solo se pensavo
di farlo, veniva come pervasa da una furia violenta e
crescente. Ogni mio tentativo finiva sempre con una
spaventosa interruzione. Vi chiederete, come fa uno spettro
silenzioso e immateriale a causare tanto scompiglio?
Eppure era così, ogniqualvolta mi accingevo a pregare ce
l’avevo sempre davanti agli occhi, ed era sempre più vicina.
“Saltava sul tavolo, sullo schienale della sedia, sulla
mensola del caminetto, e si dondolava piano da una parte e
dall’altra, guardandomi per tutto il tempo. C’è nei suoi
movimenti un potere indefinibile di dissipare il pensiero e
di attirare l’attenzione su quel dondolio monotono, finché le
idee da tante si riducono, per così dire, a una e alla fine
scompare anche quella – e se non mi fossi riattivato
scrollandomi di dosso quella catalessi mi sarei sentito come
se la mente fosse sul punto di perdersi. Succede anche in
altri modi,” disse con un sospiro profondo; “per esempio,
mentre prego in ginocchio, con gli occhi chiusi, mi viene
sempre più vicino, e io la vedo. Una cosa del genere non è
spiegabile da un punto di vista fisico, lo so, ma io la vedo
davvero, anche se ho le palpebre chiuse, e allora la mia
mente, come dire, vacilla ed è come annientata, e sono
costretto a rialzarmi. Se aveste sperimentato una cosa del
genere, sapreste cos’è la disperazione.”
IX
Terza fase
“Vedo, dottor Hesselius, che non vi siete perso una parola
del mio racconto. Non c’è bisogno che vi chieda di
ascoltare con particolare attenzione ciò che sto per dirvi.
Parlano di nervi ottici e di illusioni spettrali come se
l’organo della vista fosse l’unico a poter essere attaccato
dagli influssi di cui ero schiavo – io so che non è così. Per
due anni, nel mio terribile caso, quel limite prevalse. Ma
come il cibo è portato con delicatezza alla bocca e poi
spinto sotto i denti, come la punta del mignolo presa
nell’ingranaggio di un frantoio trascinerà con sé la mano e
il braccio e il corpo intero, così l’infelice mortale che sia
stato attirato, anche una sola volta, nella salda morsa di un
enorme meccanismo infernale attraverso l’estremità della
sua più sottile fibra nervosa, poi viene trascinato sempre
più dentro, fino a diventare come me. Sì, dottore, proprio
come me, perché mentre parlo con voi e imploro il vostro
aiuto, sento che la mia preghiera chiede l’impossibile e la
mia supplica scongiura l’inesorabile.”
Tentai di placare la sua agitazione, che cresceva a vista
d’occhio, e gli dissi che non doveva disperare.
Mentre parlavamo era sopraggiunta la notte. La diafana
luce della luna si spandeva sul paesaggio che dominavamo
dalla finestra, e dissi:
“Forse sarebbe meglio accendere le candele. Questa luce,
sapete, è strana. Vi vorrei, per quanto possibile, nel vostro
stato abituale mentre faccio la mia diagnosi, chiamiamola
così – altrimenti non importa”.
“Tutte le luci sono uguali per me,” disse; “a parte quando
leggo o scrivo, non m’importerebbe nulla se fosse sempre
notte. Sto per dirvi cosa è successo circa un anno fa.
Quell’essere cominciò a parlarmi.”
“Parlare! Cosa intendete dire... parlare come un essere
umano, intendete questo?”
“Sì; parlare con parole e frasi consecutive, in modo del
tutto coerente e articolato; ma c’è una particolarità. Non ha
il tono di una voce umana. Non mi giunge attraverso le
orecchie – arriva come un canto nella mia testa.
“Questo potere, la facoltà di parlare, sarà la mia rovina.
Non mi lascia pregare, mi interrompe con bestemmie
spaventose. Non oso proseguire, non ce la faccio. Oh!
dottore, è mai possibile che competenza, pensiero e
preghiere non mi giovino a niente?”
“Mi dovete promettere, mio caro signore, di non
tormentarvi con pensieri che vi procurerebbero
sconvolgimenti inutili. Limitatevi alla rigorosa narrazione
dei fatti e, soprattutto, ricordatevi, che anche se la cosa che
vi infesta fosse, come sembrate ipotizzare, una realtà con
una vita vera e una volontà indipendente, non avrebbe
comunque il potere di farvi del male, a meno che non gli sia
concesso dall’alto. Il suo accesso ai vostri sensi dipende
principalmente dalle vostre condizioni fisiche – e questo è,
sotto la protezione del Signore, il vostro conforto e la
vostra risorsa: siamo tutti assediati allo stesso modo. Solo
che nel vostro caso, il paries,12 il velo della carne, lo
schermo, è un po’ rovinato, e lascia passare visioni e suoni.
Dobbiamo intraprendere un nuovo percorso, signore...
fatevi coraggio. Dedicherò questa notte all’attenta
valutazione dell’intero caso.”
“Voi siete molto buono, signore; ritenete valga la pena
provare, non mi date per spacciato; ma, signore, voi non
sapete quale influenza sia arrivata a esercitare su di me: mi
impartisce ordini, è una tale tiranna, e io sono sempre più
indifeso. Dio me ne scampi e liberi!”
“Vi impartisce ordini... intendete con la parola, giusto?”
“Sì, sì; non fa che incitarmi a compiere delitti, a far del
male agli altri o a me stesso. Vedete, dottore, la questione è
urgente, proprio così. Poche settimane fa ero nello
Shropshire,” (il signor Jennings ora parlava veloce e
tremava, e mi stringeva il braccio con la mano
guardandomi in faccia), “e un giorno uscii a passeggio con
un gruppo di amici: il mio persecutore, ve lo giuro, era con
me in quel periodo. Ero rimasto indietro rispetto agli altri:
la campagna vicino al Dee è bellissima, sapete. Caso volle
che il nostro sentiero passasse nei pressi di una miniera di
carbone e sul limitare del bosco ci fosse un pozzo a
perpendicolo, lo chiamano così, profondo centocinquanta
piedi. Mia nipote era dietro di me – lei, ovviamente, non
sapeva nulla della natura delle mie sofferenze. Sapeva,
però, che ero stato malato ed ero ancora molto giù, e mi
seguiva dappresso per evitare che rimanessi solo. Mentre
vagavamo senza fretta, la belva che mi accompagnava mi
incitò a buttarmi nel pozzo. Ora come ora vi posso dire –
oh, signore, pensate un po’! – che a salvarmi da quella
morte orrenda fu la paura che il trauma di assistere a una
scena del genere fosse troppo grande per la povera
ragazza. La pregai di raggiungere i suoi amici, dicendole
che non me la sentivo di proseguire. Ma s’inventava ogni
sorta di scuse per non andare, e più io insistevo più lei
diventava irremovibile. Sembrava dubbiosa e spaventata.
Credo che a metterla in allarme sia stato qualcosa nel mio
aspetto o nei miei modi; fatto sta che non voleva saperne di
andarsene, e questo mi ha letteralmente salvato la vita.
Non avreste mai pensato, signore, che un essere umano
potesse divenire un così miserabile servo di Satana,” disse,
con un gemito agghiacciante, rabbrividendo.
A questo punto fece una pausa, e dissi: “A ogni modo,
siete stato preservato. È stato l’intervento divino. Siete
nelle mani di Dio e non in balìa del potere di altri esseri:
perciò siate fiducioso per il futuro”.
X
A casa
Prima di lasciarlo, gli feci accendere le candele e vidi che
la stanza appariva più allegra e popolata. Gli dissi che la
sua malattia era riconducibile a precise cause fisiche, per
quanto impalpabili, e come tale andava considerata. Gli
dissi pure che l’episodio del pozzo era una chiara prova
dell’amore di Dio e mi addolorava molto constatare che
invece lui in quella vicenda aveva ravvisato i segni della
propria dannazione spirituale. Niente poteva giustificare
una conclusione del genere, insistetti; e come se non
bastasse era anche in contrasto con i fatti, come
dimostrava la misteriosa liberazione dall’influenza omicida
della bestia durante la gita nello Shropshire. Innanzitutto,
la nipote era stata trattenuta al suo fianco quando lui
invece non la voleva vicina; in secondo luogo, gli era stata
instillata nella mente l’irrefrenabile ripugnanza a mettere
in atto quel tremendo suggerimento in presenza della
ragazza.
Mentre ragionavamo insieme su quest’ultimo punto, il
signor Jennings piangeva. Pareva confortato. Una sola cosa
gli feci promettere, ovvero di mandarmi subito a chiamare,
non appena la scimmia fosse ritornata; e dopo avergli
ribadito che non avrei dedicato tempo e attenzioni a nessun
altro paziente fin quando non avessi approfondito a dovere
il suo caso e che l’indomani avrebbe appreso i risultati delle
mie indagini, mi congedai.
Prima di salire in carrozza, dissi al domestico che il suo
padrone non stava per niente bene e quindi era il caso di
andare a controllarlo con una certa frequenza. Poi sistemai
i miei affari così da essere sicuro di non essere interrotto.
Feci giusto un salto a casa mia, raccattai uno scrittoio
portatile e una sacca da viaggio, presi una vettura da nolo e
me ne andai in una locanda a due miglia dalla città,
chiamata “I corni”, una casa molto tranquilla e comoda con
muri ben spessi. E lì, nel mio comodo salottino, lontano da
interferenze e distrazioni, decisi di dedicare alcune ore
della notte e altrettante del mattino, se ce ne fosse stato
bisogno, al caso del signor Jennings.
(A questo punto nel testo originale ci sarebbe una nota in
cui il dottor Hesselius riporta con dovizia di particolari la
sua opinione sul caso, le abitudini di vita e alimentari del
paziente e le medicine che gli aveva prescritto. È una nota
assai curiosa – qualcuno la definirebbe mistica. Ma, nel
complesso, dubito che possa incontrare l’interesse del
lettore che mi leggerà, per cui non ho alcun motivo di
riportarla. L’intera lettera è stata chiaramente scritta nella
locanda in cui si era rifugiato per l’occasione. La lettera
successiva proviene dal suo appartamento in città.)
Lasciai la città per la locanda, dove dormivo la notte
scorsa, alle nove e mezzo, e tornai nella mia stanza in città
il pomeriggio del giorno seguente, non prima dell’una. Sul
tavolo trovai una lettera del signor Jennings. Non era
arrivata per posta e, quando domandai chi l’avesse portata,
venni a sapere che era stato il solito domestico il quale, alla
notizia che non sarei tornato fino all’indomani e che
nessuno conosceva il mio indirizzo, era parso molto a
disagio e aveva detto che il padrone gli aveva ordinato di
non tornare senza una risposta.
Aprii la lettera e lessi:
Caro dottor Hesselius,
è di nuovo qui. Eravate andato via da neanche un’ora quando è tornata. Ora
è qui che mi parla. Sa tutto ciò che è accaduto. Sa ogni cosa – sa chi siete
voi, ed è in preda a un’atroce frenesia. Mi insulta. Vi mando queste poche
righe. Sa cosa vi ho scritto, tutto – ogni parola che scrivo. Ve l’ho promesso
ed eccomi a scrivervi, ma la paura mi confonde e rende i miei pensieri
sconclusionati. Vengo interrotto e disturbato di continuo.
Cordiali saluti, sempre vostro,
Robert Lynder Jennings
“Quand’è arrivata?” chiesi.
“Ieri sera, intorno alle undici: l’uomo che l’ha consegnata
è già venuto tre volte, oggi. L’ultima volta è stato circa
un’ora fa.”
A quelle parole, in tasca gli appunti che avevo scritto sul
caso, qualche minuto dopo ero già fuori, diretto a
Richmond, per vedere il signor Jennings.
Come avrete capito, per me quel caso non era affatto
disperato. Era stato proprio il signor Jennings a ricordare e
ad applicare per primo, anche se in modo errato, il
principio che avevo posto alla base della mia medicina
metafisica, e che regola tutti i casi del genere. Ora toccava
a me applicarlo con rigore. Ero profondamente interessato
e molto curioso di vedere e studiare il mio paziente
all’effettiva presenza del “nemico”.
La vettura si fermò davanti alla cupa dimora, corsi su per
le scale e bussai. La porta, un attimo dopo, fu aperta da
una donna alta vestita di seta nera. Aveva una brutta cera,
come se avesse pianto. Fece una riverenza e ascoltò la mia
domanda, ma non rispose. Distolse il viso, tendendo la
mano verso due uomini che stavano scendendo; e dopo
avermi, per così dire, tacitamente affidato a loro, passò
svelta da una porta laterale e la richiuse.
Mi accostai subito all’uomo che era più vicino
all’ingresso, ma quando gli fui accanto rimasi sconvolto nel
vedere che aveva entrambe le mani coperte di sangue.
Indietreggiai un po’, e l’uomo, arrivando in fondo alle
scale, si limitò a dire a voce bassa: “Ecco il domestico,
signore”.
Quando mi vide, il domestico si fermò per le scale,
confuso e ammutolito. Si sfregava le mani con un fazzoletto
zuppo di sangue.
“Jones, che c’è? Cosa è successo?” domandai, e intanto
un nauseante sospetto si impossessava di me.
L’uomo mi chiese di salire nel vestibolo. Un attimo dopo
ero al suo fianco e lo ascoltavo mentre mi raccontava,
accigliato e pallido, con le pupille contratte, l’orrore che
avevo già mezzo indovinato.
Il suo padrone s’era ammazzato.
Salii con lui nella sua stanza – non vi dico cosa videro i
miei occhi. Si era tagliato la gola con un rasoio. Era una
ferita spaventosa. I due uomini l’avevano adagiato sul letto
e ricomposto le povere membra. Era successo, come
testimoniava l’enorme pozza di sangue sul pavimento, a
una certa distanza fra il letto e la finestra. In camera
c’erano solo due tappeti, uno intorno al letto e un altro
sotto la toeletta, perché, come disse il domestico, al
padrone non piacevano i tappeti. In questa stanza cupa e
terribile, uno dei grandi olmi che oscuravano la casa
muoveva piano l’ombra di uno dei suoi grandi rami sul
pavimento terrificante.
Feci un cenno al domestico e scendemmo insieme al
piano di sotto. Lasciai l’ingresso per entrare in una stanza
vecchio stile rivestita di pannelli e lì rimasi, ad ascoltare
tutto ciò che il domestico aveva da dirmi. Non era granché.
“Ho dedotto, signore, dalle vostre parole e dallo sguardo,
signore, quando ve ne siete andato l’altra sera, che il mio
padrone fosse gravemente malato. Ho pensato che magari
temevate un attacco o qualcosa del genere. Così ho seguito
per filo e per segno le vostre istruzioni. È rimasto alzato
fino a tardi, fino alle tre passate. Non scriveva né leggeva.
Non faceva che parlare da solo, ma per lui era normale. Più
o meno a quell’ora l’ho aiutato a svestirsi e l’ho lasciato in
pantofole e vestaglia. Dopo una mezz’ora, sono tornato a
controllarlo senza fare rumore. Era a letto, completamente
svestito, e sul tavolo lì accanto c’erano un paio di candele
accese. Era appoggiato al gomito e guardava dalla parte
opposta del letto quando entrai. Gli chiesi se avesse
bisogno di qualcosa e mi disse: ‘No’.
“Non so se era per quello che mi avevate detto voi,
signore, o perché c’era qualcosa di insolito in lui, ma la
scorsa notte ero preoccupato, stranamente preoccupato
per lui.
“Dopo un’altra mezz’ora, o qualcosa di più, sono salito di
nuovo. Non lo sentivo più parlare come prima. Ho scostato
appena la porta. Le candele erano entrambe spente, e la
cosa era piuttosto insolita. Avevo con me un candeliere da
camera e ho fatto un po’ di luce nella stanza, piano piano,
guardandomi attorno. L’ho visto seduto su quella sedia
accanto alla toeletta, di nuovo vestito. Si è voltato a
guardarmi. Mi è parso strano che si fosse alzato e rivestito,
e avesse spento le candele per starsene seduto al buio a
quel modo. Be’, gli ho chiesto di nuovo se potevo fare
qualcosa per lui. Ha detto: ‘No’ in modo piuttosto brusco,
mi è parso. Gli ho chiesto se potevo accendere le candele e
lui ha detto: ‘Fate come vi pare, Jones’. Così le ho accese e
mi sono fermato un po’ nella stanza, e lui ha detto: ‘Ditemi
la verità, Jones; perché siete tornato – avete per caso
sentito qualcuno che bestemmiava?’, ‘No, signore,’ ho
detto, chiedendomi cosa volesse dire.
“‘No,’ ha detto, in risposta, ‘certo che no,’ e allora io gli
ho detto: ‘Non sarebbe meglio, signore, se andaste a letto?
Ormai sono le cinque,’ e lui non ha detto niente, solo:
‘Molto probabilmente sì; buonanotte, Jones’. Così me ne
sono andato, signore, ma dopo neanche un’ora sono
tornato. La porta era chiusa a chiave e lui mi ha sentito e
allora mi ha chiesto gridando, mi pare dal letto, cosa
volessi e ha espresso il desiderio di non essere più
disturbato. Mi sono steso a dormire un po’. Doveva essere
fra le sei e le sette quando sono tornato di sopra. La porta
era ancora chiusa a chiave e non mi ha risposto, così non
mi sono sentito di disturbarlo, e pensando che dormisse
l’ho lasciato stare fino alle nove. Era sua abitudine suonare
quando voleva che lo raggiungessi, e non avevo un’ora
precisa per andarlo a chiamare. Ho bussato piano piano e,
non ricevendo alcuna risposta, mi sono allontanato per un
po’, convinto che stesse ancora riposando. Solo alle undici
ho cominciato a preoccuparmi sul serio – perché negli
ultimi tempi, per quanto potessi ricordare, non si era mai
alzato più tardi delle dieci e mezzo. Non ho ricevuto
risposta. Ho bussato e chiamato, ancora nessuna risposta.
Così, non essendo capace di forzare la porta, ho chiamato
Thomas dalle stalle, e insieme l’abbiamo forzata e
l’abbiamo trovato nello stato spaventoso che avete visto.”
Jones non aveva altro da dire. Il povero signor Jennings
era un uomo molto gentile e cortese. Gli volevano bene
tutti. Da quel che potei vedere, il domestico era davvero
molto commosso.
Così, abbattuto e agitato, uscii da quella terribile dimora
e dalla sua buia volta di olmi, con la speranza di non
vederla mai più. Mentre vi scrivo, mi sento come un uomo
che non si è ancora del tutto svegliato da un sogno pauroso
e monotono. La mia memoria rifiuta questa immagine con
incredulità e orrore. Ma so che è tutto vero. È la storia
degli effetti di un veleno, un veleno che stimola l’azione
reciproca di spirito e nervi e paralizza il tessuto che separa
le funzioni affini dei sensi, le esterne dalle interne. Così
incappiamo in strani compagni di letto, e il mortale e
l’immortale s’incontrano prima del tempo.
Conclusione
Una parola a chi soffre
Mio caro Van L., avete sofferto di un’affezione simile a
quella che vi ho appena descritto. Avete lamentato ben due
ricadute.
Chi è stato a guarirvi, con l’aiuto di Dio? Il vostro umile
servo, Martin Hesselius. Concedetemi piuttosto di far mia
la più spiccata devozione di un buon vecchio chirurgo di
trecento anni fa: “Io vi ho curato, Dio vi ha guarito”.
Suvvia, amico mio, non dovete essere ipocondriaco.
Lasciate che vi racconti un fatto.
Ho avuto a che fare e curato, come testimonia il mio
libro, cinquantasette casi che presentavano questo genere
di visioni, che io definisco in modo analogo “sublimate”,
“precoci” e “interiori”.
Esiste un’altra classe di affezioni che sono correttamente
definite – benché in genere confuse con quelle che ho or
ora descritto – “illusioni spettrali”. Queste ultime le
considero curabili alla stregua di un comune raffreddore o
di una lieve dispepsia.
Sono quelle della prima categoria a mettere alla prova la
nostra prontezza di pensiero. Ho incontrato cinquantasette
casi del genere, né più né meno. E in quanti di questi ho
fallito? Neppure una volta.
Non c’è afflizione dell’uomo che si possa curare in modo
più semplice e sicuro, con un po’ di pazienza e una fiducia
razionale nel medico. Rispettando queste semplici
condizioni, considero la guarigione sicura al cento per
cento.
Dovete ricordare che non avevo ancora cominciato a
trattare il caso del signor Jennings. Non ho alcun dubbio
che lo avrei guarito del tutto in diciotto mesi, o al massimo
entro due anni. Alcuni casi si possono guarire con grande
rapidità, altri vanno per le lunghe. Ogni medico intelligente
che si dedicherà con giudizio e diligenza al proprio
compito, otterrà una completa guarigione.
Conoscete il mio libricino Le principali funzioni del
cervello. Lì, con innumerevoli prove, penso di aver
dimostrato l’alta probabilità di una circolazione arteriosa e
venosa nella meccanica cerebrale attraverso i nervi. Il
cervello è il cuore di questo sistema, così considerato. Il
fluido che da qui si propaga attraverso un tipo di nervi
ritorna in uno stato alterato attraverso un altro tipo, e la
natura di quel fluido è spirituale, benché non immateriale,
non più di quanto lo siano, come ho già spiegato, la luce o
l’elettricità.
A causa dell’uso smodato di varie sostanze, tra cui
l’assunzione abituale di tè verde, questo fluido potrebbe
essere alterato nella qualità, ma è più frequente che ne sia
turbato l’equilibrio. Questo fluido, che è quanto abbiamo in
comune con gli spiriti, se si addensa sulle masse cerebrali o
nervose collegate ai sensi interiori, provocando una
congestione, forma una superficie eccessivamente esposta
su cui possono agire gli spiriti incorporei. Tra la
circolazione cerebrale e quella cardiaca c’è un’intima
sintonia. La sede, o meglio lo strumento della visione
esteriore, è l’occhio. La sede della visione interiore è il
tessuto nervoso e il cervello, appena sopra e intorno al
sopracciglio. Ricorderete con quale efficacia feci sparire le
immagini che vedevate con la semplice applicazione di
acqua di colonia ghiacciata. A ogni modo sono pochi i casi
che possono essere trattati in modo identico ottenendo lo
stesso rapido successo. Il freddo agisce come valido
repellente del fluido nervoso. Se le applicazioni continuano
per un certo periodo produrranno quell’insensibilità
permanente che chiamiamo intorpidimento, e se il periodo
diventa più lungo, una paralisi muscolare e sensoriale.
Non ho, lo ripeto, il benché minimo dubbio che avrei
prima offuscato e poi chiuso per sempre quell’occhio
interiore che il signor Jennings senza volerlo aveva aperto.
Gli stessi sensi vengono aperti durante un attacco di
delirium tremens e completamente richiusi quando
l’iperattività del cuore cerebrale, e le prodigiose
congestioni nervose che l’accompagnano, vengono
interrotte da un netto cambiamento dello stato corporeo. È
agendo con costanza sul corpo, con un semplice processo,
che si ottiene questo risultato – è inevitabile – e finora non
ho mai fallito.
Il povero signor Jennings si è ammazzato. Ma quella
catastrofe è stata il risultato di una malattia molto diversa
che, per così dire, si innesta sul morbo preesistente. Il suo
è stato un tipico caso di complicazione, e il disturbo reale
che ne ha causato la morte era frutto di una mania suicida
ereditaria. Il povero signor Jennings non posso definirlo un
mio paziente, perché non ho neanche avuto il tempo di
iniziare una cura e poi lui non mi aveva ancora concesso,
ne sono convinto, la sua piena e incondizionata fiducia. Se
il paziente non si schiera dalla parte della malattia, la
guarigione è garantita.
IL GIUDICE HARBOTTLE
Prologo

Su questo caso il dottor Hesselius ha annotato niente di


più che le parole “Rapporto di Harman” e un semplice
rimando al suo straordinario saggio Il senso interiore e le
condizioni in cui si apre.
Il riferimento è al vol. I, sezione 317, nota Za. Il passaggio
a cui si riferisce dice soltanto: “Ci sono due versioni del
memorabile caso dell’onorevole giudice Harbottle, una
fornitami dalla signora Trimmer, di Tunbridge Wells (nel
giugno 1805); l’altra molto più tardi dall’egregio Anthony
Harman. Preferisco di gran lunga la prima; innanzitutto
perché è minuziosa e dettagliata, e scritta, mi pare, con più
attenzione e una maggiore conoscenza dei fatti; e poi
perché le lettere del dottor Hedstone ivi incluse forniscono
materiale di sommo valore per una corretta comprensione
della natura del caso. È uno dei più conclamati casi di
apertura del senso interiore in cui mi sia imbattuto. È
anche uno di quei casi in cui l’assiduità del fenomeno
testimonia l’esistenza di una legge per queste condizioni
che deviano dalla norma; vale a dire, presenta ciò che
definirei il carattere contagioso di questo genere
d’intrusione del mondo spirituale nel dominio specifico
della materia. Non appena l’azione dello spirito si
manifesta nel paziente, l’energia che sviluppa inizia a
irradiarsi, in modo più o meno efficace, sugli altri. Quando
si è dischiusa la vista interiore della figlia, si è dischiusa
anche quella della madre, la signora Pyneweck; e in quella
stessa occasione si sono dischiusi anche la vista e l’udito
interiori della sguattera. Le successive apparizioni sono il
risultato della legge spiegata nel vol. II, sezioni 17-49. Il
denominatore comune, a cui tutti e tre i casi si ricollegano,
li unisce o ri-unisce, a seconda delle situazioni, per un
periodo circoscritto, come possiamo vedere nella sezione
37. Il maximum può estendersi fino a diversi giorni, il
minimum dura poco più di un secondo. L’azione di questo
principio è ben visibile in certi casi di demenza, d’epilessia,
di catalessi e di un particolare e fastidioso genere di mania,
che però non impedisce di lavorare”.
Mi è stato impossibile rinvenire, tra le sue carte, il
memorandum sul caso del giudice Harbottle, scritto dalla
signora Trimmer di Tunbridge Wells, che il dottor Hesselius
riteneva il più significativo. Nel suo secrétaire ho trovato
un appunto in cui spiegava di aver prestato il rapporto sul
caso del giudice Harbottle scritto dalla signora Trimmer al
dottor F. Heyne. Pertanto ho scritto a quel dotto e capace
gentiluomo e nella sua lettera di risposta, piena di
amarezza e preoccupazione per le sorti incerte di quel
“prezioso manoscritto”, c’era una riga scritta molto tempo
prima dal dottor Hesselius, che lo assolveva da qualsiasi
responsabilità, giacché confermava di aver riavuto indietro
le carte. Il racconto del signor Harman è quindi l’unico
utilizzabile per questa raccolta. Il compianto dottor
Hesselius, in un altro passaggio della nota citata, dice: “Per
quanto concerne i dettagli (non medici) del caso, il
racconto del signor Harman coincide in tutto e per tutto
con quello fornito dalla signora Trimmer”. Il lato più
scientifico del caso sarebbe di scarso interesse per il lettore
comune; e considerando gli obiettivi di questa raccolta,
anche se avessi avuto a disposizione entrambi i documenti
forse avrei preferito la versione del signor Harman, che è
riportata per filo e per segno nelle seguenti pagine.
 
I
La casa del giudice
Trent’anni or sono, un uomo anziano a cui pagavo
trimestralmente una piccola rendita legata a una mia
proprietà venne a ritirarla nel giorno di scadenza.1 Era un
uomo asciutto, triste, silenzioso, che aveva conosciuto
giorni migliori e si era sempre comportato in modo
ineccepibile. Non si potrebbe immaginare una fonte più
autorevole per una storia di fantasmi.
Me ne raccontò una, seppur con evidente riluttanza; tirò
in ballo questa storia perché voleva spiegarmi un dettaglio
che non avevo notato, ovvero che era venuto con due giorni
d’anticipo: di solito, infatti, lasciava passare una settimana
dal giorno preciso del pagamento. Il motivo era
l’improvvisa decisione di cambiare alloggio e la
conseguente necessità di pagare l’affitto un po’ prima del
dovuto.
Alloggiava in una via buia di Westminster, in una vecchia
casa molto spaziosa e calda, in quanto era rivestita da cima
a fondo con pannelli di legno e dotata di un numero non
esagerato di finestre, tutte fornite di telai spessi e vetri
piccoli.
Questa casa era, come testimoniavano i cartelli affissi alle
finestre, disponibile per la vendita o l’affitto. Ma nessuno
pareva interessato a darle un’occhiata.
Un’esile signora in seta nera scolorita, molto taciturna,
con occhi grandi, fissi, allarmati, che vi si piantavano in
faccia per cercare di capire cosa potevate aver visto nelle
stanze e nei corridoi bui da cui eravate passati, ne era la
custode, con una solitaria “domestica tutto fare” alle sue
dipendenze. Il mio povero amico si era trasferito in questa
casa perché l’affitto era bassissimo. Vi era rimasto per
quasi un anno senza mai essere disturbato: era l’unico
affittuario dello stabile. Aveva due stanze; un soggiorno e
una camera da letto comunicante con uno stanzino in cui
teneva sotto chiave i suoi libri e i documenti. Era andato a
letto dopo aver chiuso a chiave la porta esterna. Non
riuscendo ad addormentarsi, aveva acceso una candela e,
dopo aver letto per un po’, aveva appoggiato il libro
accanto a sé. Sentì il vecchio orologio in cima alle scale
battere l’una; e dopo pochi istanti, con suo grande
spavento, vide la porta dello stanzino, che credeva chiusa a
chiave, aprirsi piano piano e nella stanza entrò, in punta di
piedi, un uomo snello e scuro, dall’aria sinistra, più o meno
sulla cinquantina, vestito a lutto in modo molto antiquato,
con un completo alla Hogarth.2 Lo seguiva un uomo più
anziano, robusto, butterato dallo scorbuto, i cui lineamenti,
rigidi come quelli di un morto, portavano impresso il
marchio spaventoso di una natura voluttuosa e malvagia.3
Il vecchio indossava una vestaglia di seta a fiori piena di
trine e merletti, e notò che al dito portava un anello d’oro e
in testa una cuffia di velluto simile a quelle che indossavano
i gentiluomini in déshabillé, ai tempi delle parrucche.
Questo vecchio spaventoso teneva nella mano inanellata
e ornata di trine un rotolo di corda; le due figure
attraversarono la stanza in diagonale, passando ai piedi del
letto, muovendosi da sinistra a destra, dalla porta dello
stanzino all’altro capo della stanza, vicino alla finestra, alla
porta che dava sul corridoio, accanto alla testata del letto.
Il poveretto non tentò di descrivere cosa provava mentre
le due figure gli passavano accanto. Disse soltanto che
nessuno al mondo l’avrebbe mai convinto a dormire di
nuovo in quella stanza e neanche a rimetterci piede da solo,
neppure alla luce del giorno. Il mattino dopo trovò
entrambe le porte, quella dello stanzino e quella che dava
sul corridoio, chiuse a chiave come le aveva lasciate prima
di andare a letto.
In risposta a una mia domanda, disse che nessuno dei
due pareva rendersi conto della sua presenza. A vederli
così, non vagolavano come fantasmi, ma camminavano
come uomini vivi, anche se non producevano alcun rumore,
e al loro passaggio aveva sentito il pavimento vibrare. Era
così tangibile la sua sofferenza nel parlare di queste
apparizioni, che non gli feci altre domande.
Tuttavia, nel suo racconto, c’era una serie di coincidenze
così singolari da indurmi a scrivere, a stretto giro di posta,
a un amico molto più vecchio di me, che viveva in una zona
remota dell’Inghilterra, per chiedergli alcune informazioni
che sapevo poteva darmi. Più di una volta, infatti, mi aveva
parlato di quella casa accennando a una storia bizzarra che
ora gli chiedevo di raccontarmi più nel dettaglio.
La sua risposta soddisfò la mia curiosità; e le pagine che
seguono ne riportano i tratti salienti.
Nella vostra lettera (scrisse) esprimete il desiderio di
conoscere alcuni dettagli degli ultimi anni di vita del signor
Harbottle, uno dei giudici del tribunale per le cause civili.4
Vi riferite, senz’altro, agli eventi straordinari che, molto
tempo dopo, fecero di quel periodo della sua vita il soggetto
di tante “storie davanti al camino” e speculazioni
metafisiche. Di questi misteriosi particolari si dà il caso che
io sappia forse più di qualunque altro essere umano.
L’ultima volta che vidi da vicino la vecchia magione di
famiglia risale a più di trent’anni fa, quando tornai a
Londra. Durante gli anni che sono seguiti da allora, mi è
giunta voce che, dopo una prima fase di sventramento, i
lavori di ristrutturazione avevano fatto miracoli per il
quartiere di Westminster, dove si trovava la casa in
questione. Se sapessi per certo che la casa è stata
abbattuta, non avrei alcuna difficoltà a dirvi il nome della
via in cui si trovava. Ma visto che quanto ho da dire non ne
aumenterebbe in alcun modo il valore di affitto e non voglio
avere seccature, preferisco tacere questo particolare.
Non so dire quanto fosse vecchia la casa. La gente
sostiene che sia stata costruita da Roger Harbottle, un
mercante turco,5 durante il regno di Giacomo I. Non sono
granché esperto di queste faccende; ma avendola visitata,
seppur quand’era ormai abbandonata e deserta, posso dirvi
per sommi capi che aspetto avesse. Era costruita con
mattoni rosso scuro, e la porta e le finestre avevano
cornicioni in pietra che con il tempo si era ingiallita.
Rispetto alle altre case della via, era arretrata di qualche
passo; e una ringhiera di ferro con elaborate e stravaganti
decorazioni correva lungo gli ampi scalini che invitavano a
salire fino alla porta d’ingresso, a cui erano attaccati, sotto
una fila di lampade, tra volute e torciglioni di foglie, due
enormi “spegnitoi”, simili ai cappelli a cono delle fate, nei
quali, nei tempi passati, i lacchè usavano infilare le fiaccole
quando portantine e carrozze lasciavano i loro insigni
padroni nell’atrio o sui gradini, a seconda dei casi. L’atrio è
rivestito di pannelli di legno fino al soffitto e ha un camino
molto grande. Su ciascun lato si aprono due o tre stanze
antiche e solenni. Le finestre di queste stanze sono alte,
con vetrate molto piccole. Passando sotto la volta in fondo
all’atrio, si arriva all’ampia e massiccia scalinata a rampa.
C’è anche una scala posteriore. La magione è grande ma,
considerando la sua ampiezza, non è molto luminosa, a
differenza delle case moderne. Quando la vidi, era sfitta da
molto tempo e aveva la triste fama di essere infestata. Le
ragnatele scendevano svolazzanti dai soffitti o si
estendevano agli angoli dei cornicioni e uno spesso strato
di polvere copriva ogni cosa. Le finestre erano sporche
della polvere e della pioggia di cinquant’anni, e l’oscurità
così si era fatta sempre più fitta.
Quando la visitai per la prima volta, ero in compagnia di
mio padre, nel 1808, ed ero ancora un ragazzo. Avevo circa
dodici anni ed ero molto impressionabile, come capita
sempre a quell’età. Mi guardavo intorno piuttosto
intimorito. Mi trovavo nel luogo che era stato teatro delle
vicende che avevo ascoltato, con orrore e piacevole
trepidazione, davanti al caminetto, a casa.
Al momento di sposarsi, mio padre era un vecchio
scapolo di quasi sessant’anni. Da bambino aveva visto il
giudice Harbottle in tribunale, con la toga e la parrucca,
almeno una dozzina di volte prima della sua morte, che
avvenne nel 1748, e quell’uomo aveva lasciato una traccia
indelebile e sgradevole non solo nella sua immaginazione
ma anche nel suo sistema nervoso.
Il giudice a quei tempi poteva avere sui sessantasette
anni. Aveva un faccione paonazzo, del colore delle more di
gelso, un naso grosso e pieno di pustole, occhi spietati e
una bocca arcigna e crudele. Mio padre, che a quei tempi
era giovane, pensò fosse la faccia più impressionante che
avesse mai visto; perché, nella forma e nelle linee della
fronte, recava i segni di una grande energia intellettuale.
La sua voce era forte e aspra, e rendeva ancor più efficace
il sarcasmo, che era la sua arma consueta in tribunale.
Questo vecchio signore aveva la fama di essere l’uomo
più malvagio d’Inghilterra. Anche in tribunale, di tanto in
tanto, dava libero sfogo al suo disprezzo nei confronti degli
imputati. Si diceva che avesse risolto alcuni casi a modo
suo, senza curarsi di avvocati, autorità o giurie, con
lusinghe, violenze e raggiri che in un modo o nell’altro
riuscivano sempre a confondere e sopraffare chi si
opponeva. Non si era mai esposto in prima persona, però;
era troppo astuto per farlo. A ogni modo, aveva la nomea di
essere un giudice pericoloso e senza scrupoli; ma non
sembrava curarsene. I compagni che si sceglieva per le sue
ore di svago se ne curavano ancor meno.
II
Il signor Peters
Una sera, durante la sessione del 1746,6 il vecchio
giudice si fece portare con la sua portantina in una delle
stanze della Camera dei Lord e lì attese l’esito di una
controversia a cui lui e il suo ordine erano interessati.
Saputo l’esito, stava per tornare a casa sua, lì vicino,
sempre in portantina; ma la notte si era fatta così mite e
bella che cambiò idea, la rimandò a casa vuota e preferì
avviarsi a piedi, accompagnato da due lacchè con la torcia.
La gotta l’aveva reso un pedone piuttosto lento. Ci mise un
po’ per attraversare le due o tre strade che doveva
percorrere per arrivare a casa.
In una di quelle vie strette, affiancate da case alte e
avvolte nel silenzio più totale a quell’ora della notte,
benché camminasse adagio, superò un vecchio gentiluomo
dall’aspetto assai strano.
Indossava un cappotto verde bottiglia con grossi bottoni
di pietra dura e sopra una mantellina, e in testa un cappello
con calotta alta e tesa larga, da cui spuntava una grande
parrucca incipriata; era molto curvo e si reggeva sulle
ginocchia piegate con l’aiuto di un bastone dal manico
simile a quello di una stampella, e così avanzava a fatica e
barcollava in modo penoso.
“Chiedo scusa, signore,” disse il vecchio, con voce
tremante, quando il corpulento giudice lo raggiunse, e
allungò incerto una mano verso il suo braccio.
Il giudice Harbottle vide che l’uomo non era affatto
vestito da straccione e i suoi modi erano quelli di un
gentiluomo.
Si fermò di colpo e disse, con il suo solito tono aspro e
perentorio: “Ebbene, signore, in che modo posso esservi
utile?”.
“Potete indicarmi la casa del giudice Harbottle? Ho da
riferirgli notizie della massima importanza.”
“Potete riferirle in presenza di alcuni testimoni?”
domandò il giudice.
“Niente affatto; devono giungere soltanto alle sue
orecchie,” rispose il vecchio, con voce tremula e seria.
“Se le cose stanno così, signore, non dovete far altro che
accompagnarmi per pochi passi ancora, fino a casa mia, e lì
vi sarà concessa un’udienza privata; perché il giudice
Harbottle sono io.”
Il vecchio malfermo accettò con prontezza l’invito; e un
minuto dopo lo sconosciuto si trovava in quello che, ai
tempi, veniva chiamato “il salottino d’ingresso” della casa
del giudice, tête-à-tête con quel sagace e pericoloso
burocrate.
Si dovette sedere, perché era davvero esausto, e per un
po’ non riuscì ad articolare parola; quindi ebbe un attacco
di tosse, che lo lasciò boccheggiante; e così passarono due
o tre minuti, durante i quali il giudice lasciò cadere il
mantello su una poltrona e vi gettò sopra il tricorno.
Il vecchio venerando con la parrucca bianca recuperò in
fretta la voce. Rimasero insieme per qualche tempo, a porte
chiuse.
C’erano ospiti in attesa nei salotti, e dal vestibolo del
primo piano giungevano, forti e chiare, risate maschili e la
voce di una donna che cantava accompagnata da un
clavicembalo: quella sera il vecchio giudice Harbottle aveva
organizzato una delle sue equivoche festicciole, di quelle
che fanno rizzare i capelli in testa agli uomini devoti.
Il vecchio gentiluomo dalla bianca parrucca incipriata,
che ricadeva sulle sue spalle curve, doveva avere qualcosa
di molto interessante da dire al giudice Harbottle; perché
altrimenti quest’ultimo non sarebbe rimasto lontano con
tanta facilità per i dieci minuti e oltre che quell’incontro gli
rubò dai bagordi che gli piacevano tanto e dalla sua
compagnia di amici, di cui era il re vociante e in qualche
modo anche il tiranno.
Il valletto che accompagnò alla porta l’anziano
gentiluomo notò che il volto paonazzo del padrone, pustole
comprese, era diventato di un giallo sbiadito e, dal modo in
cui augurò la buonanotte allo sconosciuto, capì che aveva la
mente altrove, turbata da chissà quali pensieri. Il servitore
comprese allora che l’argomento della conversazione era di
notevole rilevanza, e che il giudice era spaventato.
Anziché avviarsi a passi pesanti di sopra, senza indugi,
verso la scandalosa bisboccia, i suoi empi compagni e la
grossa terrina di porcellana colma di punch – la stessa
usata tanti anni prima da un vescovo di Londra, un uomo
buono e tranquillo, per battezzare il nonno del giudice, il
cui orlo adesso tintinnava al tocco dei mestoli d’argento ed
era costellato di ricciolute scorze di limone – anziché,
dicevo, avviarsi di sopra a passi pesanti, arrampicandosi a
fatica su per la grande scalinata verso l’antro degli incanti
di Circe, rimase lì a osservare, con il grosso naso
schiacciato contro il vetro della finestra, il vecchio e debole
gentiluomo che, tenendosi bene aggrappato alla ringhiera
di ferro, scendeva, passo dopo passo, verso il marciapiede.
La porta d’ingresso non si era ancora richiusa che il
vecchio giudice era già nell’atrio a urlare ordini frettolosi,
accompagnati da imprecazioni d’incitamento simili a quelle
cui oggigiorno si abbandonano a volte i vecchi colonnelli in
preda alla frenesia, e un paio di volte batté anche il grosso
piede a terra e agitò il pugno chiuso in aria. Comandò al
valletto di raggiungere il vecchio signore con la parrucca
bianca, di scortarlo fino a casa e di non ripresentarsi prima
di aver scoperto dove alloggiasse, chi fosse e tutto il resto.
“Perdinci... gaglioffo! Se mi deludi, stanotte stessa ti togli
la mia livrea!”
Il gagliardo valletto scattò subito, con un pesante bastone
sottobraccio, e scese le scale a grandi balzi e, una volta in
strada, guardò da una parte e dall’altra in cerca
dell’insolita figura, così facilmente riconoscibile.
Il racconto delle sue avventure lo rimando a un altro
momento.
Il vecchio, durante la consultazione cui era stato
ammesso in quella stanza maestosa, rivestita di pannelli di
legno, aveva raccontato al giudice una strana storia. Poteva
trattarsi di un cospiratore; o forse era un pazzo; o magari,
chissà, l’intera storia era vera e attendibile.
L’anziano signore con il cappotto verde bottiglia, nel
ritrovarsi solo con il giudice Harbottle, era stato preso
dall’agitazione. Aveva detto:
“Forse, signore, non ne siete a conoscenza, ma nella
prigione di Shrewsbury c’è un detenuto accusato di aver
falsificato una cambiale per centoventi sterline e il suo
nome è Lewis Pyneweck, un droghiere di quella città”.
“Ah sì?” aveva detto il giudice, che in realtà sapeva tutto.
“Sì, mio signore,” aveva detto il vecchio.
“Allora fareste bene a non rivelare niente che possa
influenzare questo caso. Se ci provate, quant’è vero Iddio...
vi farò sbattere dentro! Perché sarò io a giudicarlo,” aveva
detto Harbottle, con sguardo truce e tono spaventoso.
“Non ho intenzione di fare nulla del genere, mio signore;
di quell’uomo o del suo caso non so niente e non me ne
importa niente. Ma sono venuto a sapere una cosa che
dovete per forza tenere in considerazione.”
“Che cosa sarà mai?” aveva domandato il giudice; “ho
fretta, signore, per cui vi prego di sbrigarvi.”
“Sono venuto a sapere, mio signore, che si sta
costituendo un tribunale segreto, il cui scopo è controllare
la condotta dei giudici; e in primis, la vostra condotta, mio
signore; è un perfido complotto.”
“Chi ne fa parte?” aveva domandato il giudice.
“Per ora non conosco neanche un nome. Conosco solo il
fatto, mio signore; ed è vero, senza ombra di dubbio.”
“Vi convocherò davanti al Consiglio privato della Corona,
signore,” aveva detto il giudice.
“È il mio più grande desiderio; ma aspettate un giorno o
due, mio signore.”
“E perché mai?”
“Come ho già detto a vossignoria, ancora non ho in mano
nessun nome; ma nel giro di due o tre giorni conto di
entrare in possesso di un elenco dei membri più prominenti
e di altri documenti collegati al complotto.”
“Avete appena detto un giorno o due.”
“Più o meno, mio signore.”
“È un complotto giacobita?”
“In linea di massima credo di sì, mio signore.”
“Be’, allora è una questione politica. Non ho mai
giudicato detenuti politici, e non credo mi capiterà. E
quindi perché mai dovrebbe riguardarmi?”
“Da quanto sono riuscito a sapere, mio signore, alcuni
membri di questo Consiglio desiderano vendicarsi per
conto proprio di certi giudici.”
“Com’è che si chiama la loro congrega?”
“Alta corte di Appello, mio signore.”
“E voi chi siete, signore? Qual è il vostro nome?”
“Hugh Peters, mio signore.”
“Dovrebbe essere un nome whig,7 giusto?”
“Lo è, mio signore.”
“Dove abitate, signor Peters?”
“In Thames Street, mio signore, di fronte all’insegna ‘Tre
re’.”
“‘Tre re’? Fate attenzione, ché per voi uno è già troppo,
signor Peters! E come è possibile che un onesto whig quale
dite di essere sia al corrente di un complotto giacobita?
Avanti, rispondetemi.”
“Mio signore, una persona che mi sta molto a cuore si è
lasciata convincere e ci è finita dentro; ma poi, spaventata
dall’inattesa malvagità dei loro piani, ha deciso di diventate
informatore della Corona.”
“Ha preso una saggia decisione, signore. E delle persone
coinvolte che cosa dice? Chi è implicato nel complotto? Li
conosce?”
“Soltanto due, mio signore; ma fra qualche giorno sarà
presentato in via ufficiale al circolo, e allora entrerà in
possesso dell’elenco completo e di informazioni più precise
sui loro piani e, soprattutto, sui loro giuramenti, sugli orari
e i luoghi di incontro, tutte cose di cui vuole venire a
conoscenza prima che possano sospettare qualcosa sui suoi
reali propositi. Una volta ottenute queste informazioni, a
chi sarà meglio che si rivolga, mio signore?”
“Direttamente al procuratore generale8 del re. Ma voi
dite che questa faccenda mi riguarda in prima persona,
signore, giusto? Che mi dite di questo detenuto, Lewis
Pyneweck? È uno di loro?”
“Non saprei, mio signore; ma per qualche ragione si
ritiene che vossignoria farebbe bene a evitare di giudicarlo.
Se lo farete, si teme che questa cosa abbrevierà i vostri
giorni.”
“Da quel che mi dite, signor Peters, questa faccenda
emana una forte puzza di sangue e tradimento. Il
procuratore generale del re saprà come affrontarla.
Quando vi rivedrò, signore?”
“Se me ne date licenza, mio signore, domani stesso: o
prima della seduta in tribunale di vossignoria o a seduta
finita. Vorrei venire a riferire a vossignoria cosa è
accaduto.”
“Venite pure, signor Peters, domattina alle nove in punto.
E vedete di non giocarmi brutti tiri, signore; se ci provate,
quant’è vero Iddio, vi appendo a testa in giù, signore!”
“Non dovete avere di questi timori, mio signore; se non
avessi voluto mettermi al vostro servizio e alleggerirmi la
coscienza, non avrei mai fatto tutta questa strada per
venire a parlare con vossignoria.”
“Sono disposto a credervi, signor Peters; sono disposto a
credervi, signore.”
E con queste parole si erano separati.
“O si è incipriato il viso o è davvero molto malato,” pensò
il vecchio giudice.
Quando si era voltato per lasciare la stanza con un
inchino, la luce aveva messo in risalto i suoi lineamenti, e al
giudice parvero innaturali, come se fossero di gesso.
“Acc... a lui!” disse il giudice con malagrazia,
cominciando a salire le scale: “Mi ha quasi guastato la
cena”.
Ma se le cose stessero proprio così, nessuno, a parte il
giudice, poteva saperlo e le prove, da quel che si riusciva a
capire, erano tutte contrarie.
III
Lewis Pyneweck
Nel frattempo il valletto spedito all’inseguimento del
signor Peters aveva presto raggiunto il debole gentiluomo.
Nell’udire il rumore di passi che lo seguivano, il vecchio si
fermò, ma qualsiasi timore gli avesse attraversato la mente
parve svanire non appena riconobbe la livrea. Accettò con
somma gratitudine l’aiuto che gli veniva offerto e appoggiò
il braccio tremante su quello del servitore per sostenersi.
Ma non aveva percorso molta strada che il vecchio di colpo
si fermò, dicendo: “Povero me! Non ci posso credere, mi è
caduta. L’hai sentito anche tu. I miei occhi, temo, non mi
saranno di grande aiuto, e non riesco a chinarmi fino a
terra; ma se ci dai un’occhiata tu, se la trovi ti darò metà
del suo valore. È una ghinea; la tenevo nel guanto”.
La strada era silenziosa e deserta. Il valletto si era
appena “accucciato sui talloni”, per dirla con le sue stesse
parole, e aveva cominciato a perlustrare il marciapiede nel
punto che gli indicava il vecchio, quando il signor Peters,
che pareva davvero sfinito e respirava con difficoltà, gli
assestò dall’alto un colpo violento sulla nuca, e poi un altro,
con un arnese pesante; e lasciandolo sanguinante e privo di
sensi sul marciapiede, s’infilò, correndo come un lampo,9 in
una viuzza sulla destra, e scomparve.
Quando, un’ora dopo, una guardia riportò a casa l’uomo
in livrea, ancora intontito e coperto di sangue, il giudice
Harbottle ricoprì il servitore di sonanti imprecazioni, asserì
che era ubriaco, minacciò di incriminarlo perché senz’altro
si era fatto corrompere accettando denaro per tradire il suo
padrone, e poi gli risollevò il morale descrivendogli l’ampia
strada che dall’Old Bailey conduceva a Tyburn,10 la coda
dietro al carretto11 e la sferza del boia.
Malgrado queste manifestazioni di rabbia, il giudice sotto
sotto era contento. Si trattava di un “testimone giurato
professionista” o di un grassatore12 sotto mentite spoglie,
assoldato per spaventarlo. Il trucco era stato scoperto.
Per un “giudice impiccatore” come l’onorevole giudice
Harbottle, una “corte d’Appello” come quella prospettata
dal falso Hugh Peters, che prevedeva anche la pena di
morte, sarebbe stata un’istituzione piuttosto scomoda. Quel
sarcastico e crudele amministratore del codice penale
inglese – che a quei tempi era un sistema di giustizia
piuttosto farisaico, sanguinario e brutale – aveva le sue
ragioni per voler processare Lewis Pyneweck, a favore del
quale era stato escogitato quell’audace espediente. Sì che
l’avrebbe processato. Nessuno gli avrebbe potuto togliere
quel boccone dai denti.
Agli occhi del mondo esterno, lui di Lewis Pyneweck non
sapeva nulla. Lo avrebbe giudicato come era solito fare,
senza paura, senza favoritismi e senza coinvolgimenti
emotivi.
Ma aveva forse dimenticato quell’uomo magro, vestito a
lutto, che abitava a Shrewsbury, presso cui il giudice aveva
alloggiato fin quando non si era scoperto che maltrattava la
moglie ed era scoppiato lo scandalo? Un droghiere dall’aria
seriosa e dal passo leggero, con il volto scavato e scuro
come il mogano, il naso appuntito e lungo, anche un po’
storto, e due occhi di un castano molto scuro sotto l’arco
sottile delle sopracciglia nere – un uomo le cui labbra sottili
erano perennemente increspate in un vago e sgradevole
sorriso.
Quel farabutto non aveva forse un conto da regolare con
il giudice? Non gli aveva forse procurato più di un
grattacapo negli ultimi tempi? E il suo nome non era forse
Lewis Pyneweck, in passato droghiere di Shrewsbury e ora
detenuto nella prigione di quella città?
Se gli fa piacere, il lettore prenda pure come un segno di
cristianità il fatto che il giudice Harbottle non avesse mai
alcun rimorso. E questo era vero, senza ombra di dubbio.
Nondimeno, cinque o sei anni prima, a questo droghiere o
falsario che dir si voglia aveva fatto un grave torto; ma ora
come ora non era questo a turbare il dotto giudice, bensì la
minaccia di un possibile scandalo con tutte le relative
complicazioni.
Non lo sapeva, lui che era un uomo di legge, che per
trascinare un uomo dalla sua bottega al banco degli
imputati le probabilità di colpevolezza devono essere
almeno del novantanove per cento?
Un uomo debole come il suo dotto collega Withershins
non era il tipo di giudice capace di mantenere sicure le
principali strade della città e di far tremare i criminali. Il
vecchio giudice Harbottle, invece, era un uomo capace di
far gelare il sangue nelle vene ai malintenzionati e di
rinvigorire il mondo spargendo fiumi di sangue malvagio e
salvando così gli innocenti, secondo l’antico proverbio che
amava tanto citare:
La sciocca pietà
rovina la città.

A impiccare quel tizio non c’era nulla di sbagliato. Uno


sguardo abituato a posarsi sul banco degli imputati non
avrebbe certo mancato di leggere la parola “malvagio”
scritta a chiare lettere sul suo volto da cospiratore. Sì,
l’avrebbe processato: toccava a lui, e a nessun altro.
Il mattino dopo, una donna dall’aria impertinente, ancora
bella, con un’allegra cuffietta ornata di nastri azzurri e un
vestito a sacco di seta a fiori, piena di anelli e merletti, fin
troppo elegante per essere la governante del giudice, ma di
fatto lo era, diede una sbirciatina nello studio e, vedendo
che il giudice era solo, entrò.
“C’è un’altra sua lettera, arrivata per posta stamattina.
Non potete fare niente per lui?” disse in tono adulatorio,
mentre gli teneva il braccio intorno al collo e con l’indice e
il pollice giocherellava delicatamente con il lobo del suo
orecchio paonazzo.
“Ci proverò,” disse il giudice Harbottle, senza sollevare
gli occhi dal documento che stava leggendo.
“Sapevo che mi avreste accontentata,” disse.
Il giudice si batté sul cuore la mano gottosa e le fece un
inchino ironico.
“Quindi,” chiese lei, “cosa farete?”
“Lo farò impiccare,” disse il giudice, sghignazzando.
“Non dite sul serio; no che non dite sul serio, caro il mio
ometto,” disse lei, scrutandosi in uno specchio appeso alla
parete.
“Che mi venga... se alla fine non vi state innamorando
davvero di vostro marito!” disse il giudice Harbottle.
“Che mi venga un bene se non cominciate a essere geloso
di lui,” rispose la signora con una risata. “Ma non è così; è
sempre stato un cattivo marito; con lui ho chiuso da un
pezzo.”
“E lui con voi, perbacco! Quando vi rubò i soldi, le posate
e gli orecchini, ecco che aveva ottenuto tutto ciò che voleva
da voi. A quel punto vi cacciò di casa; e quando scoprì che
avevate trovato una buona sistemazione e un buon impiego,
si sarebbe preso un’altra volta le vostre ghinee e
l’argenteria e gli orecchini, per poi lasciarvi un’altra mezza
dozzina d’anni a preparare un nuovo raccolto per il suo
mulino. Non potete certo augurargli del bene; e se
sostenete di farlo, allora mentite.”
La donna scoppiò in una risata perfida e impertinente, e
diede al terribile Radamanto13 un giocoso colpetto sulla
mascella.
“Vuole che gli mandi dei soldi per pagare un avvocato,”
disse la governante, mentre i suoi occhi vagavano sui
quadri alle pareti e poi tornavano allo specchio; e di certo il
pericolo che quell’uomo correva non sembrava turbarla più
di tanto.
“Al diavolo la sua impudenza, farabutto che non è altro!”
tuonò il vecchio giudice, buttandosi indietro contro la
spalliera della sedia, come faceva sempre, in tribunale,
quando s’infuriava, e la sua bocca si piegò in
un’espressione di brutale cattiveria e gli occhi parevano
pronti a balzargli fuori dalle orbite. “Se volete fare a modo
vostro rispondendo alla sua lettera da casa mia, allora la
prossima la scriverete da casa di qualcun altro, e farete a
modo mio. Sapete com’è, mia cara streghetta, non voglio
noie. Andiamo, ora non fate il muso; i piagnistei con me non
attaccano. Di quel poco di buono non ve ne importa un
soldo bucato, niente di niente. Siete venuta qui solo per
litigare. Siete una delle pollastrelle di mamma Carey14; e
ovunque andiate, portate tempesta. Sparite, sgualdrina!
Via, sparite!” ripeté, battendo il piede a terra; perché un
colpo alla porta aveva reso indispensabile la sua istantanea
uscita di scena.
È inutile dire che il venerando Hugh Peters non si fece
più vedere. Il giudice non lo nominava mai. Ma, cosa ben
strana considerando la risata di sprezzo davanti alla fragile
messinscena che con un solo soffio aveva ridotto in polvere,
il visitatore con la parrucca bianca e l’incontro nel buio
salottino d’ingresso tornavano spesso nei suoi pensieri.
Il suo occhio scaltro gli diceva che, tenendo conto dei
cambi di colore e dei vari travestimenti che ogni notte
vanno in scena a teatro, i lineamenti di questo falso
vecchio, che si era rivelato un osso duro per il suo alto
valletto, erano identici a quelli di Lewis Pyneweck.
Il giudice Harbottle mandò il suo segretario dal
procuratore della Corona,15 per comunicargli che c’era un
uomo in città che assomigliava in modo impressionante a
un detenuto della prigione di Shrewsbury di nome Lewis
Pyneweck e chiedergli di verificare quanto prima, tramite
posta, se in carcere c’era qualcuno che si faceva passare
per Pyneweck e se quest’ultimo, in un modo o nell’altro,
fosse scappato.
Ma il detenuto era al sicuro e non c’erano dubbi sulla sua
identità.
IV
Un’interruzione in tribunale
A tempo debito il giudice Harbottle iniziò il giro della
propria circoscrizione giudiziaria16; e a tempo debito i
giudici si ritrovarono a Shrewsbury. A quei tempi le notizie
viaggiavano lente e i giornali, come i carri e le diligenze, se
la prendevano comoda. La signora Pyneweck era rimasta a
casa del giudice Harbottle, con la servitù ridotta – gran
parte dei domestici era andata con lui, perché il giudice
aveva smesso di girare a cavallo e adesso viaggiava in
pompa magna a bordo della sua carrozza – a mandare
avanti la baracca quasi da sola.
Malgrado i litigi, malgrado le offese reciproche – alcune,
inflitte da lei, enormi – malgrado una vita coniugale di
dispetti e battibecchi – anni privi d’amore o di affetto o di
sopportazione – ora che Pyneweck rischiava di morire, d’un
tratto fu colta da qualcosa che somigliava al rimorso.
Sapeva che a Shrewsbury si stava giocando la partita che
avrebbe deciso la sua sorte. Sapeva di non amarlo; ma non
avrebbe mai immaginato, soltanto quindici giorni prima,
che quel momento di sospensione potesse toccarla così a
fondo.
Sapeva in quale giorno doveva svolgersi il processo. Non
riusciva a togliersi dalla testa quel pensiero neanche per un
minuto; man mano che si avvicinava la sera si sentiva venir
meno.
Passarono due o tre giorni; a quel punto, sapeva con
sicurezza che il processo doveva essere terminato. C’erano
state inondazioni tra Londra e Shrewsbury e le notizie
arrivavano con molto ritardo. Desiderò che le inondazioni
durassero per sempre. Era orribile star lì ad aspettare una
qualche notizia; orribile sapere che quel che doveva
succedere era ormai successo e che non avrebbe saputo
nulla fin quando i fiumi, di propria volontà, non fossero
rientrati negli argini; orribile sapere che prima o poi
sarebbero rientrati negli argini e alla fine le notizie
sarebbero arrivate.
Nutriva una qualche vaga fiducia nella bontà del giudice
e molta nelle possibilità del caso e dell’imprevisto. Era
riuscita a mandargli il denaro di cui aveva bisogno. Non si
sarebbe trovato privo di assistenza legale e di un sostegno
energico e qualificato.
Finalmente le notizie arrivarono – nuove e vecchie, tutte
in un colpo: una lettera da un’amica di Shrewsbury; una
copia delle sentenze, inviata dal giudice; e, più importante
di tutto, perché più diretto e scritto con grande padronanza
e concisione, il resoconto, tanto atteso, delle sedute della
corte d’Assise di Shrewsbury, pubblicato sul “Morning
Advertiser”. Come un’impaziente lettrice di un romanzo,
che legge per prima l’ultima pagina, la donna lesse, in
preda a una vertigine, l’elenco delle esecuzioni.
Due erano state sospese, sette applicate; e in quell’elenco
di capitale importanza c’era questa riga:
“Lewis Pyneweck – contraffazione”.
Dovette leggerla una mezza dozzina di volte prima di
esser certa di aver capito. Ecco l’intero paragrafo:
Condanne a morte – 7
Eseguite, secondo la sentenza, venerdì 13 corrente,
vale a dire:
Thomas Primer, detto anche Duck – assalto alle diligenze.
Flora Guy – furto per un valore di 11 scellini e 6 penny.
Arthur Pounden – furto con scasso.
Matilda Mummery – sommossa.
Lewis Pyneweck – contraffazione di una cambiale.

E quando arrivò a questa riga, la lesse e la rilesse, con


una sensazione di gelo e di nausea.
A casa del giudice, questa prosperosa governante era
conosciuta come la signora Carwell – Carwell era il suo
nome da ragazza, che aveva ripreso.
Nessuno, in casa, conosceva la sua storia, a parte il suo
padrone. Quel lavoro l’aveva ottenuto con un’abile
manovra. E nessuno sospettava che c’era un accordo tra lei
e il vecchio reprobo in toga scarlatta ornata d’ermellino.
Flora Carwell corse su per le scale, prese in braccio la
figlioletta di appena sette anni che incontrò nel vestibolo e
come una furia la portò in camera sua, senza sapere bene
cosa stesse facendo, e lì si sedette, mettendo la bambina
davanti a sé. Non riusciva a parlare. Teneva la bambina
davanti a sé e guardava quel visetto meravigliato, e a un
certo punto, sopraffatta dall’orrore, scoppiò a piangere.
Credeva che il giudice avrebbe potuto salvarlo. Eccome
se avrebbe potuto. Era furibonda e per un attimo lo odiò
dal profondo del cuore. Abbracciava e baciava la figlioletta
che la guardava sconvolta, con i suoi grandi occhi tondi.
La bambina aveva perso il padre e non lo sapeva. Le
avevano sempre detto che suo padre era morto da molto
tempo.
Una donna volgare, ignorante, vanitosa e violenta non
ragiona in modo coerente, né ha sentimenti molto chiari;
ma in queste lacrime di costernazione c’era anche un
autorimprovero. Aveva paura di quella bambina.
Ma la signora Carwell era una persona che non viveva di
sentimenti, ma di manzo e budini; si consolò con il punch;
non si tormentò tanto a lungo neppure con i risentimenti;
era una persona rozza, terra terra, e anche volendo non
poteva piangere sull’irreparabile più di un numero limitato
di ore.
A breve il giudice Harbottle fu di nuovo a Londra. A parte
la gotta, questo vecchio e selvaggio epicureo17 non aveva
mai conosciuto un solo giorno di malattia. Accolse i deboli
rimproveri della giovane donna a suon di risate, blandizie e
minacce, e ben presto la morte di Lewis Pyneweck smise di
tormentarla; e il giudice esultava tra sé per l’eliminazione
perfettamente legale di uno scocciatore che, a poco a poco,
si sarebbe potuto trasformare in una specie di tiranno.
Toccò al giudice, di cui ora sto narrando le avventure,
giudicare, poco dopo il suo ritorno, alcuni reati all’Old
Bailey. Aveva cominciato il suo discorso di accusa davanti
alla giuria per un caso di contraffazione e, com’era sua
abitudine, tuonava a tutto spiano contro il detenuto,
ingigantendo non di poco la sua colpa e lanciando ciniche
frecciate, quando di colpo calò il silenzio e, invece di
guardare la giuria, l’eloquente giudice fissava a bocca
aperta una persona del pubblico.
Tra le persone di poca importanza che stavano in piedi ad
ascoltare ai lati dell’aula ce n’era una abbastanza alta da
svettare sulle altre; un’esile figura insignificante, con un
trasandato vestito nero, scarna e scura in viso. Aveva
appena consegnato una lettera al banditore,18 prima di
attirare su di sé lo sguardo del giudice.
Sbalordito, il giudice riconobbe i lineamenti di Lewis
Pyneweck. Aveva il solito timido sorriso sulle labbra sottili;
e con il mento azzurrognolo alzato, quasi fosse del tutto
inconsapevole della lampante attenzione che aveva
suscitato, stiracchiava con le dita storte il corto fazzoletto
che portava al collo, mentre girava piano la testa da una
parte e dall’altra – un movimento che permise al giudice di
vedere con estrema chiarezza una striscia gonfia e
azzurrognola intorno al suo collo, che indicava, pensò, la
morsa della corda.
Quest’uomo, insieme a pochi altri, era salito su un
gradino per poter vedere meglio l’aula. Ma proprio in quel
momento scese e il giudice lo perse di vista.
Sua signoria fece un energico cenno con la mano nella
direzione in cui l’uomo era scomparso. Si rivolse
all’ufficiale giudiziario.19 Il suo primo tentativo di parlare si
risolse in un rantolo. Si schiarì la gola e disse all’attonito
ufficiale di arrestare l’uomo che aveva interrotto la corte.
“È andato giù di lì proprio in questo momento. Fermatelo
e portatemelo qui entro dieci minuti, altrimenti vi strapperò
la toga dalle spalle e multerò lo sceriffo!” tuonò, mentre i
suoi occhi lampeggiavano per l’aula in cerca del
funzionario.
Procuratori, avvocati patrocinanti, oziosi spettatori, tutti
guardavano nella direzione verso cui il giudice Harbottle
aveva agitato la sua vecchia mano nodosa. Si scambiavano
osservazioni. Nessuno aveva visto qualcuno del pubblico
arrecare disturbo. Si chiesero allora se al giudice stesse
dando di volta il cervello.
La ricerca non diede alcun risultato. Sua signoria
concluse il discorso d’accusa con un tono molto più docile;
e quando la giuria si ritirò dall’aula, prese a guardarsi
intorno con aria smarrita, dando l’impressione che non
avrebbe pagato neanche mezzo scellino per vedere sulla
forca il detenuto.
V
Caleb l’Esploratore20
Il giudice aveva ricevuto la lettera; avesse saputo chi era
il mittente, l’avrebbe senz’altro letta subito. E invece ne
lesse soltanto l’indirizzo:
All’onorevole Signor Giudice
Elijah Harbottle
Giudice di Sua Maestà
presso l’Onorevole Tribunale per le cause civili

La busta gli rimase in tasca, dimenticata, finché non


arrivò a casa.
Tolse allora la lettera in questione e le altre dall’ampia
tasca del cappotto, e la lesse quando venne il suo turno,
mentre se ne stava seduto nella biblioteca con indosso la
sua pesante vestaglia di seta: il contenuto era scritto fitto,
dalla mano di uno scrivano, e c’era un allegato in “stile
segretariale” – a quei tempi credo si chiamasse così
l’angolosa grafia degli atti legali – redatto in forma legale
su un pezzo di pergamena grande più o meno come questa
pagina. La lettera diceva:
Signor Giudice Harbottle, Mio Signore,
Ho ricevuto l’ordine dall’Alta corte di Appello di informare Vossignoria,
affinché possa meglio prepararsi al processo, che è stato emesso un regolare
atto d’accusa nei confronti di Vossignoria per l’assassinio di tale Lewis
Pyneweck, cittadino di Shrewsbury, ingiustamente giustiziato per la
contraffazione di una cambiale, il giorno... del... scorso: si accusa Vossignoria
di aver deliberatamente inquinato le prove e di aver esercitato un’indebita
pressione sulla giuria, nonché di aver ammesso prove illegali, ben
consapevole della loro illegalità. È in ragione di tutto ciò che il promotore del
suddetto procedimento penale dinanzi all’Alta corte di Appello ha perduto la
vita.
Mi è stato inoltre ordinato di informare Vossignoria che il processo per il
suddetto capo d’accusa è stato fissato per il dieci del... prossimo
dall’onorevole Signor Presidente della Corte suprema Twofold, della
suddetta corte, vale a dire, l’Alta corte di Appello, e si svolgerà senza dubbio
alcuno nel giorno stabilito. Sono altresì tenuto a informare Vossignoria, per
evitare sorprese o disguidi, che la vostra causa sarà la prima del giorno
indicato e che la predetta Alta corte di Appello tiene udienza giorno e notte e
non aggiorna mai la seduta; qui acclusa, per ordine della predetta corte,
fornisco a Vossignoria una copia (estratto) dei documenti relativi alla causa,
a eccezione dell’atto di accusa, la cui sostanza e i cui effetti vengono tuttavia
presentati a Vossignoria con la presente Notifica. Sono infine tenuto a
informarvi che qualora la giuria designata a giudicare Vossignoria dovesse
trovarvi colpevole, l’onorevolissimo Presidente della Corte suprema, nel
pronunciare la sentenza di morte contro di voi, fisserà l’esecuzione per il
giorno 10 di..., ossia a un mese esatto dal giorno del processo.

Caleb l’Esploratore
Ufficiale del Procuratore della Corona
nel Regno dei Vivi e dei Morti

Il giudice diede una scorsa alla pergamena.


“Sangue di Cristo! Credono che un uomo come me si lasci
abbindolare dalle loro pagliacciate?”
I rozzi lineamenti del giudice si contorsero in uno dei suoi
ghigni; ma era pallido. Chissà, forse sotto sotto c’era
davvero un complotto. La cosa era sospetta. Avevano forse
intenzione di sparargli in carrozza? O volevano solo
spaventarlo?
Il giudice Harbottle aveva un coraggio a dir poco
bestiale. Non aveva paura dei banditi, e aveva affrontato la
sua buona dose di duelli per il linguaggio scurrile che usava
durante le sue arringhe in tribunale, quand’era ancora un
avvocato.21 Nessuno metteva in discussione le sue doti
battagliere. Ma rispetto al caso Pyneweck, viveva in una
casa dalle pareti di vetro. Non c’era forse la signora Flora
Carwell, la sua bella governante dagli occhi scuri, con i
suoi vestiti troppo eleganti? Una volta messi sulla giusta
pista, non era forse un gioco da ragazzi per gli amici di
Shrewsbury identificare la signora Pyneweck? E lui non si
era forse dedicato a quel caso con furibondo impegno? Non
aveva forse messo i bastoni fra le ruote al detenuto? Non
sapeva fin troppo bene cosa pensavano gli avvocati dei suoi
metodi? Sarebbe stato il peggior scandalo che mai avesse
colpito un giudice.
Ecco, quella faccenda lo intimoriva parecchio, ma niente
di più. Il giudice fu un po’ giù di corda per un paio di giorni,
e più irascibile del solito con chiunque gli capitasse a tiro.
Mise sotto chiave i documenti; e un bel giorno, circa una
settimana dopo, chiese alla governante, mentre erano nella
biblioteca:
“Vostro marito per caso aveva un fratello?”.
La signora Carwell lanciò un grido quando sentì
nominare, così di botto, quel lugubre argomento, e pianse
tanto “da riempire un mastello”, per dirla con le parole
spiritose del giudice. Ma lui stavolta non era in vena di
scherzare, e con tono aspro disse:
“Insomma, signora! Queste cose mi irritano. Rimandatele
a un altro momento; e rispondete piuttosto alla mia
domanda”. E lei rispose.
Pyneweck non aveva fratelli in vita. Ne aveva uno; ma era
morto in Giamaica.
“Come fate a sapere che è morto?” chiese il giudice.
“Perché me l’ha detto lui.”
“Non il morto.”
“Pyneweck me l’ha detto.”
“Tutto qui?” sghignazzò il giudice.
Il giudice non faceva che rimuginare sulla questione; e il
tempo passava. E il giudice divenne un po’ più scontroso e
un po’ meno socievole. Quella faccenda occupava i suoi
pensieri più di quanto avrebbe mai immaginato. Ma
succede sempre così con le preoccupazioni più segrete, e
lui non aveva nessuno con cui confidarsi.
Arrivò il giorno nove; e il giudice Harbottle era contento.
Era convinto che, alla fin fine, non sarebbe successo nulla.
Ma non era del tutto tranquillo; doveva aspettare il giorno
dopo per liberarsene in modo definitivo.
(Che fine ha fatto il documento che ho citato? Nessuno
l’ha mai visto finché era in vita; nessuno, dopo la sua
morte. Ne parlò al dottor Hedstone; si trovò soltanto una
presunta “copia”, scritta a mano dal vecchio giudice.
L’originale non fu mai trovato. Che si trattasse della
trascrizione di un’allucinazione connessa a una malattia
mentale? È quello che credo.)22
VI
In arresto
Quella sera il giudice Harbottle andò a vedere una
commedia al Drury Lane.23 Era uno di quei vecchi cui non
dispiace fare le ore piccole e ogni tanto andarsene in giro
alla ricerca di divertimenti.
Aveva invitato due colleghi del Lincoln Inn24 a tornare con
lui in carrozza e fermarsi a cena, dopo il teatro.
I due non erano nel suo palco, per cui l’accordo era di
incontrarsi all’uscita, per salire nella sua carrozza; e il
giudice Harbottle, che odiava aspettare, guardava fuori dal
finestrino un po’ impaziente.
Il giudice sbadigliò.
Disse al lacchè di controllare se arrivavano l’avvocato
Thavies e l’avvocato Beller; e, con un altro sbadiglio, posò il
tricorno sulle ginocchia, chiuse gli occhi, si allungò nel suo
angolo, avvolgendosi ben stretto nel mantello, e si mise a
pensare all’avvenente signora Abington.25
E poiché era un uomo capace di addormentarsi
all’istante, come i marinai, pensò di schiacciare un pisolino.
Quei due non avevano alcun diritto di far aspettare un
giudice.
Ed ecco che udì le loro voci. Quei debosciati ridevano, si
prendevano in giro e scherzavano come al solito. La
carrozza oscillò e sobbalzò quando salì il primo, e poi di
nuovo quando l’altro lo seguì. Lo sportello sbatté, e la
vettura cominciò a ballonzolare e a fare un gran fracasso
sul selciato. Il giudice era un poco ingrugnito. Non si curò
neppure di tirarsi su a sedere e aprire gli occhi. Pensassero
pure che stava dormendo. Quando se ne accorsero, li sentì
ridere con più malizia che buonumore, o almeno così gli
parve. Perdin...! Arrivati alla porta di casa, avrebbe fatto
passare un brutto quarto d’ora a quei due; fino ad allora,
avrebbe continuato a far finta di dormire.
Gli orologi battevano la mezzanotte. Beller e Thavies
erano silenziosi come tombe. Di solito erano dei bricconi
loquaci e scanzonati.
A un tratto, il giudice si sentì afferrare con violenza e
qualcuno lo spinse, dal suo angolo, al centro del sedile, e
quando aprì gli occhi si ritrovò in mezzo ai suoi due
compagni.
Prima di poter pronunciare l’imprecazione che gli era
salita alle labbra, si accorse che in realtà erano due
sconosciuti – due tizi dall’aria malvagia, ognuno con la
pistola in mano, vestiti come ufficiali di Bow Street.26
Il giudice si attaccò alla cordicella. La vettura si fermò. Si
guardò intorno. Non erano più nell’abitato; ma dai
finestrini scorse, sotto il largo disco della luna, un’oscura
brughiera che si stendeva, senza vita, da destra a sinistra,
con sporadici gruppi di alberi marciti che puntavano verso
il cielo i loro rami e i virgulti spettrali, simili a braccia e
dita tese in un’orribile esultanza per l’arrivo del giudice.
Un servitore si accostò al finestrino. Il giudice conosceva
bene quel viso allungato e quegli occhi incavati. Già, era
Dingly Chuff, quindici anni prima valletto al loro servizio,
licenziato su due piedi in uno scoppio di gelosia e
incriminato per la scomparsa di un cucchiaio. L’uomo era
morto in galera, ucciso dal tifo.27
Il giudice si ritrasse, al sommo dello stupore. I suoi
compagni armati fecero un muto cenno; ed ecco che
ricominciarono a scivolare lenti su quella brughiera
sconosciuta.
Sconvolto dall’orrore, il vecchio gonfio e gottoso
considerò la possibilità di opporre resistenza. Ma i suoi
giorni da atleta erano passati da un pezzo. La brughiera era
una landa desolata. Impossibile trovare qualcuno che
potesse aiutarlo. E anche se il riconoscimento di Dingly
Chuff si fosse rivelato un abbaglio, era comunque nelle
mani di servitori sconosciuti, agli ordini dei suoi rapitori.
Per il momento non poteva far altro che sottomettersi.
All’improvviso la carrozza si fermò quasi del tutto e il
prigioniero scorse dal finestrino uno spettacolo sinistro.
Sul lato della strada c’era un enorme patibolo; era a tre
bracci e da ciascuna delle tre larghe travi pendevano otto o
dieci corpi incatenati e da molti era scivolato via il sudario
in tela cerata, scoprendo così gli scheletri, che dondolavano
leggeri, appesi alle catene. Un’alta scala giungeva fino alla
sommità della struttura e sotto, sulla torba, giacevano le
ossa.
In cima alla scura trave laterale di fronte alla strada, da
cui, come dalle altre due che completavano il triangolo
della morte, penzolavano in fila questi sventurati in catene,
un boia con la pipa in bocca, simile a quello che si può
vedere nella famosa incisione L’apprendista ozioso,28 anche
se in questo caso il suo trespolo era molto più in alto, se ne
stava appoggiato, comodo comodo, e intanto, con fare
indifferente, lanciava contro gli scheletri appesi tutt’intorno
alcune ossa che prendeva da un mucchietto vicino al suo
gomito, facendo cadere ora una costola o due, ora una
mano, ora mezza gamba. Un uomo con una vista acuta
avrebbe potuto notare che era un oscuro e smilzo figuro; e
a forza di guardare verso il basso dall’altezza a cui stava
appeso, anche se in un altro senso, il suo naso, le labbra e il
mento erano diventati penduli e allungati, e disegnavano
una mostruosa maschera grottesca.
Vedendo la carrozza, il boia si tolse la pipa di bocca, si
alzò, fece qualche solenne saltello dall’alto della sua trave e
sventolò in aria una corda nuova, gridando con una voce
acuta e lontana come il gracchio di un corvo che
volteggiava sulla forca: “Una corda per il giudice
Harbottle!”.
La carrozza ora aveva ripreso la sua rapida andatura.
Neppure nei suoi momenti di massima esaltazione il
giudice aveva mai sognato un patibolo così alto. Pensava di
avere le traveggole. E il valletto morto, poi! Tendeva le
orecchie e strizzava gli occhi; ma se quello era un sogno,
lui non riusciva a svegliarsi.
Non serviva a niente minacciare quei delinquenti. Una
brusca minaccia gli avrebbe attirato tra capo e collo una
minaccia vera.
Era pronto a qualsiasi atto di sottomissione pur di
sfuggire alle loro grinfie; e poi avrebbe mosso cielo e terra
per braccarli e farli uscire allo scoperto.
All’improvviso girarono attorno all’angolo di un grande
edificio bianco e passarono sotto una porte-cochère.29
VII
Il presidente della Corte suprema Twofold30
Il giudice si ritrovò in un corridoio illuminato da flebili
lampade a olio, con le pareti di nuda pietra; sembrava
l’andito di una prigione. Le guardie lo consegnarono nelle
mani di altre persone. Qua e là vedeva ossuti e giganteschi
soldati che camminavano avanti e indietro con il moschetto
in spalla. Guardavano dritto davanti a sé e digrignavano i
denti con tetra furia, e l’unico rumore udibile era il
martellare dei loro passi.31 Li vedeva di sfuggita, che
giravano un angolo e in fondo a un corridoio, ma di fatto
non li incrociò mai.
Ecco che, passando da una porta stretta, si ritrovò sul
banco degli imputati, dinanzi a un giudice con la toga
scarlatta, in una grande aula di tribunale. Non c’era nulla
che elevasse questo Tempio di Themis32 al di sopra delle
altre aule adibite allo stesso scopo. Aveva un aspetto
abbastanza tetro, nonostante le abbondanti candele accese.
Era da poco terminata la discussione di una causa e il
giudice fece appena in tempo a vedere la schiena del
giurato di turno scomparire oltre la porta del banco dei
giurati. C’era una dozzina di avvocati: alcuni
giocherellavano con penne e inchiostro, altri erano sepolti
dalle scartoffie, altri ancora richiamavano l’attenzione,
usando le penne d’oca,33 dei loro assistenti, di cui non c’era
mai penuria; c’erano impiegati che andavano e venivano e
funzionari del tribunale e il cancelliere, che stava porgendo
un documento al giudice; e l’ufficiale giudiziario, che invece
presentava un biglietto, fissato alla punta di una bacchetta,
a un patrocinante per la Corona,34 passando sopra le teste
della folla che stava in mezzo. Se questa era l’Alta corte di
Appello, che tiene udienza giorno e notte, era presto
spiegato perché tutti avessero un aspetto così pallido e
affaticato. Un’aria di indescrivibile tristezza incombeva sui
volti smunti di tutti i presenti; nessuno sorrideva mai; tutti
sembravano più o meno scavati da una segreta sofferenza.
“Il re contro Elijah Harbottle!” gridò un funzionario.
“L’appellante Lewis Pyneweck è in aula?” chiese il
presidente Twofold con voce tonante, che fece sussultare i
mobili di legno dell’aula e rimbombò per i corridoi.35
Pyneweck si alzò dal suo posto, al tavolo.
“Chiamate in giudizio il prigioniero!” ruggì il presidente:
e il giudice Harbottle sentì i pannelli del banco intorno a
lui, il pavimento e la balaustrata tremare, alle vibrazioni di
quella voce spaventosa.
Il prigioniero, in limine,36 obiettò che quel tribunale
fasullo non era altro che un’impostura e pertanto non aveva
alcun diritto legale di esistere; e fosse anche un tribunale
costituito per legge (il giudice era sempre più sbalordito)
non aveva e non poteva avere alcuna facoltà di processarlo
per la sua condotta da giudice.
Al che il presidente della Corte suprema scoppiò in una
risata improvvisa e tutti i presenti, girandosi a guardare il
detenuto, scoppiarono a ridere anche loro, finché gli
scrosci di risa crebbero di volume e riempirono l’aula,
simili a un’assordante acclamazione; il giudice non vedeva
altro che occhi e denti scintillanti, un unico grande
sguardo, un solo enorme ghigno; ma nonostante tutte
queste risate, a quegli occhi che lo fissavano non
corrispondeva un volto sorridente. Quel moto d’ilarità cessò
con la stessa repentina prontezza con cui era iniziato.
Fu letto il capo d’accusa. Il giudice Harbottle era davvero
imputato di un qualche reato! Lui si dichiarò “Non
colpevole”. Una giuria prestò giuramento. Seguì il
processo. Il giudice Harbottle era sconcertato. Non poteva
essere vero. Era impazzito o ci stava vicino, pensò.
Una cosa però non mancò di colpirlo sul vivo. Il
presidente Twofold, che non perdeva occasione di
bersagliarlo con beffe e dileggi e lo aggrediva con la sua
voce tremenda, era un’effigie ingigantita di se stesso;
un’immagine del giudice Harbottle, grande almeno il
doppio, e con il suo stesso rabbioso colorito e la stessa
ferocia negli occhi e nell’espressione del viso, accentuati in
modo spaventoso.
Niente di ciò che il detenuto contestava, citava o asseriva
poteva in alcun modo ritardare d’un solo istante
l’inesorabile marcia verso la catastrofe.
Il presidente sapeva di avere in pugno i giurati, ed
esercitava il suo potere con indomabile esultanza. Li fissava
negli occhi, ammiccante, dando l’impressione di aver
stabilito con loro un’intesa. Le luci erano flebili in quella
parte dell’aula. I giurati non erano altro che ombre sedute
in fila; l’imputato vedeva emergere dall’oscurità una
ventina di occhi bianchi, lucenti e freddi; e ogniqualvolta il
presidente pronunciava il capo d’accusa con sprezzante
concisione, annuendo e sogghignando beffardo, l’imputato
poteva intuire, dal modo in cui quelle file di occhi si
abbassavano tutte insieme, nella penombra, che la giuria
annuiva in segno d’accordo.
E ora che l’accusa era stata pronunciata, l’enorme
presidente della Corte suprema s’abbandonò sulla sedia,
ansimante, lanciando all’imputato occhiate colme di
maligna esultanza. Tutti i presenti in aula, allora, si
voltarono a fissare con ferma ostilità l’uomo alla sbarra. Dal
palco della giuria, dove i dodici fratelli giurati bisbigliavano
tra loro, si udì, nel silenzio generale, un suono simile a un
sibilo prolungato; e poi, in risposta alla perentoria domanda
del funzionario “Qual è il vostro verdetto, signori della
giuria, colpevole o non colpevole?”, giunse con voce mesta
la sentenza: “Colpevole”.
Agli occhi dell’imputato quel posto sembrò farsi sempre
più buio, finché non riuscì più a distinguere nulla, a parte lo
scintillio degli occhi puntati su di lui da ogni banco e lato e
angolo e galleria dell’edificio. L’imputato era convinto di
avere abbastanza argomenti, e tutti inoppugnabili, per
invalidare la sentenza di morte a suo carico; ma il signor
presidente disperse quelle parole con sprezzo, come se
fossero una nuvola di fumo, e proseguì pronunciando la
sentenza di morte e fissando l’esecuzione per il dieci del
mese successivo.
Prima che si fosse ripreso dallo stordimento di questa
minacciosa farsa, in ottemperanza all’ordine “Portate via
l’imputato”, il giudice fu allontanato dal banco degli
imputati. Tutte le lampade sembravano essersi spente, e
qua e là c’erano stufe e bracieri che gettavano una debole
luce cremisi sulle pareti dei corridoi che attraversavano. Le
pietre con cui erano costruiti ora sembravano enormi,
crepate e grezze.
Giunse in una fucina a volta, dove due uomini, nudi fino
alla cintola, con teste taurine, spalle rotonde e braccia da
giganti, saldavano catene roventi con martelli che
picchiavano come folgori.
Guardarono l’imputato con feroci occhi rossi, poggiandosi
per un momento sul martello; e il più vecchio disse al
compagno: “Tira fuori i ceppi di Elijah Harbottle”; e con le
tenaglie ne afferrò l’estremità che giaceva nel fuoco e la
tirò fuori dalla fornace, incandescente.
“Un’estremità è chiusa a chiave,” disse, prendendo in
mano l’estremità fredda del ferro, mentre con una stretta
potente come quella di una morsa agguantava la gamba del
giudice e gli chiudeva l’anello intorno alla caviglia.
“L’altra,” disse con un ghigno, “è saldata.”
La banda di ferro che doveva andare a formare l’anello
per l’altra gamba giaceva ancora rovente sul pavimento di
pietra e dalla superficie sprizzavano vivaci scintille rosse.
Il suo compagno abbrancò, con le mani gigantesche,
l’altra gamba del vecchio giudice e immobilizzò il piede
contro il pavimento di pietra; mentre l’altro, il capo, in un
batter d’occhio, usando in modo magistrale tenaglie e
martello, curvava la banda arroventata e la chiudeva
intorno alla caviglia, così stretta che la pelle e i tendini
fumarono e si riempirono di bolle, e il vecchio giudice
Harbottle lanciò un urlo che sembrò raggelare persino le
pietre e scuotere le catene di ferro appese alle pareti.
Catene, volte, fabbri e fucina svanirono in un momento;
ma il supplizio continuò. Il giudice Harbottle sentiva un
dolore straziante alla caviglia intorno alla quale avevano
armeggiato quei fabbri infernali.
I suoi amici, Thavies e Beller, sobbalzarono quando il
giudice ruggì nel bel mezzo di una raffinata e frivola
conversazione su un matrimonio à-la-mode37 che stava per
essere celebrato. Il giudice era in preda al panico, oltre che
al dolore fisico. I lampioni e la luce dell’atrio di casa sua lo
calmarono.
“Sto malissimo,” grugnì a denti stretti; “mi brucia il
piede. Chi è stato a ferirmi il piede? Questa è la gotta... sì,
sì, è la gotta!” disse, svegliandosi del tutto. “Quante ore ci
abbiamo messo a tornare da teatro? Perdincibacco, cos’è
successo per strada? Ho passato metà notte a dormire!”
Non c’erano stati intoppi o ritardi, e avevano viaggiato
con un’andatura veloce.
A ogni modo, il giudice aveva un attacco di gotta e anche
la febbre; l’attacco, per quanto breve, fu molto acuto; e
quando, dopo una quindicina di giorni, passò, la sua feroce
giovialità non fece più ritorno. Non riusciva a togliersi dalla
testa quel sogno, come preferiva chiamarlo.
VIII
Qualcuno è entrato in casa
Si accorsero tutti che il giudice era affetto da una grave
forma di depressione. Il dottore gli consigliò di andare per
una quindicina di giorni a Buxton.38
Ogniqualvolta il giudice sprofondava nei suoi cupi
pensieri, non faceva che ripetere tra sé i termini della
sentenza pronunciata contro di lui nel corso della visione,
per cercare di capirci qualcosa: “a un mese esatto dal
giorno del processo” e poi la formula di rito “condannato a
essere appeso per il collo finché morte non sopraggiunga”
eccetera. “Sarebbe il dieci... ma io non ho certo voglia di
farmi impiccare. So di che materia sono fatti i sogni, e io li
prendo a ridere; ma questo è sempre nei miei pensieri,
come se fosse messaggero di chissà quale disgrazia. Vorrei
che la data del sogno fosse già passata, andata da un pezzo.
Vorrei liberarmi una volta per tutte da questa gotta. Vorrei
tornare a essere quello di un tempo. È tutto frutto della
depressione e delle mie inutili ubbie.” Leggeva e rileggeva
la pergamena e la lettera che annunciavano con tono
sprezzante e derisorio il processo, e intorno a lui
risorgevano, nei luoghi più impensati, la scena e i
personaggi del suo sogno, e in un attimo lo portavano via
da tutto ciò che lo circondava, trascinandolo in un mondo di
ombre.
Il giudice aveva perso la sua ferrea energia e i suoi modi
beffardi. Era diventato taciturno e scontroso. Anche in
tribunale si accorsero di quel cambiamento. I suoi amici
pensavano che fosse malato. Il dottore disse che era affetto
da ipocondria e che la gotta era ancora in agguato, in
forma latente, nel suo organismo, e gli ordinò di andare a
Buxton, quell’antico covo di stampelle e tofo.39
Il morale del giudice era davvero a terra; temeva per la
propria vita; e raccontò alla governante, che aveva invitato
nel suo studio a bere una tazza di tè, lo strano sogno che
aveva fatto di ritorno dal teatro di Drury Lane. Stava
sprofondando in quello stato di avvilimento in cui gli uomini
perdono la fede nella medicina ufficiale e in preda alla
disperazione consultano ciarlatani, astrologi e spacciatori
di fole. Era possibile che quel sogno significasse che
avrebbe avuto un attacco e sarebbe morto il giorno dieci?
La donna era di altro avviso. Per lei era l’esatto contrario:
quel giorno sarebbe di certo accaduto qualche evento
fortunato.
Il giudice si ravvivò; e per la prima volta dopo molti
giorni tornò a essere, per un paio di minuti, lo stesso di
sempre, e le diede un buffetto sulla guancia con la mano
libera.
“Perdindirindina! Che birbantella! Me n’ero dimenticato.
C’è il giovane Tom – quel vile di mio nipote Tom, come sai,
è a letto malato a Harrogate; vedi che magari tira le cuoia
proprio quel giorno, o un altro, e se muore l’eredità tocca a
me. Perché, sapete, ieri ho chiesto al dottor Hedstone se
poteva succedere che da un momento all’altro mi venisse
un colpo e lui si è messo a ridere, e ha giurato che sarò
l’ultimo uomo della città ad andarmene in quel modo.”
Il giudice spedì quasi tutti i servitori a Buxton per
preparare l’alloggio e fargli trovare tutto in ordine. Lui li
avrebbe raggiunti dopo un paio di giorni.
Era il nove del mese; e, trascorso il giorno seguente,
avrebbe potuto ridere delle sue visioni e di tutti i cattivi
presagi.
La sera del nove, il valletto del dottor Hedstone bussò
alla porta del giudice. Il dottore salì di corsa le scale buie
ed entrò in salotto. Era una sera di marzo, e si avvicinava
l’ora del tramonto, e il vento dell’est fischiava pungente nel
fumaiolo. Nel caminetto ardeva vivace il fuoco. E il giudice
Harbottle, con in testa quella che ai tempi veniva chiamata
“parrucca da brigadiere” e indosso il suo mantello rosso,
contribuiva a rendere ancor più incandescente l’atmosfera
di quella stanza scura, tutta immersa in una luce rossa,
quasi fosse in fiamme.
Il giudice aveva i piedi poggiati su uno sgabello e
l’arcigno faccione paonazzo rivolto verso il fuoco, che
pareva palpitare e gonfiarsi al ritmo alterno della fiamma
che divampa e poi si abbassa. Era di nuovo precipitato nel
gorgo della depressione e meditava di ritirarsi dal lavoro e
si perdeva in mille altri foschi pensieri.
Ma il dottore, che era un energico figlio di Esculapio, non
aveva alcuna intenzione di raccogliere i brontolii del
giudice, e gli disse che era talmente pieno di gotta che, in
quello stato, non era in grado di giudicare neppure se
stesso, ma gli promise che, passate un paio di settimane,
l’avrebbe lasciato libero di pronunciarsi su tutte quelle
tristi questioni.
Nel frattempo il giudice doveva stare molto attento. La
sua era una forma molto grave di gotta e doveva evitare di
farsi venire un attacco fin quando le acque di Buxton, con il
loro effetto benefico, non avessero fatto il loro dovere.
Ma il dottore non sembrava poi tanto convinto che il
paziente fosse fuori pericolo, forse faceva solo finta, perché
gli disse che aveva bisogno di riposo e che avrebbe fatto
meglio a mettersi subito a letto.
Il signor Gerningham, il suo valletto, lo aiutò a coricarsi e
gli diede le gocce; e il giudice gli chiese di restare lì con lui
fin quando non si fosse addormentato.
Quella notte fornì materiale per storie quanto mai
bislacche a ben tre persone.
La governante, in questo momento angoscioso, si era
liberata del fastidio di stare appresso alla figlioletta
dandole il permesso di scorrazzare per i salotti e di
guardare i quadri e le porcellane con la solita
raccomandazione di non toccare niente. Fu solo quando
l’ultimo bagliore del tramonto si era ormai spento da un po’
e il crepuscolo si era incupito a tal punto che non si
riuscivano più a distinguere i colori delle statuine di
porcellana sulla mensola del caminetto o nelle cristalliere,
che la bambina tornò nella stanza della governante in cerca
della madre.
E dopo aver chiacchierato per un po’ delle ceramiche, dei
quadri e delle due enormi parrucche del giudice nello
spogliatoio fuori dalla biblioteca, le raccontò un’avventura
straordinaria.
Secondo le usanze del periodo, l’atrio ospitava la
portantina che il padrone di casa usava di tanto in tanto,
rivestita di pelle stampata e guarnita di borchie d’oro, con
le tendine di seta rossa abbassate. Quella sera, le portiere
di questo antiquato mezzo di trasporto erano chiuse a
chiave, i finestrini alzati e le tendine abbassate, ma non a
tal punto da impedire alla bambina curiosa di dare una
sbirciatina da sotto e vedere l’interno.
Un raggio morente del sole al tramonto, entrando dalla
finestra di una stanza sul retro, passava di sbieco
attraverso la porta aperta e, posandosi sulla vettura,
disegnava sul vetro tenui riflessi di luce attraverso la
tendina cremisi.
Con suo sommo stupore, la bambina vide che dentro,
seduto nell’ombra, c’era un uomo magro, vestito di nero;
aveva lineamenti marcati e un’aria cupa; il naso, così le
sembrò, un poco storto, e gli occhi castani guardavano
dritto davanti a sé; la mano era poggiata sulla coscia e
stava più fermo della statua di cera che aveva visto alla
fiera di Southwark.40
Ai bambini viene così spesso insegnato a non porre
domande, a osservare il decoroso silenzio e a riconoscere la
superiore saggezza degli adulti, che finiscono per accettare
con piena fiducia quasi tutto; per cui la ragazzina, in nome
di quel rispetto, considerò normale e per niente fuori luogo
la presenza di quell’individuo dal volto color mogano nella
portantina.
Fu solo quando chiese alla madre chi fosse quell’uomo e
notò il suo viso spaventato mentre le poneva domande
precise sull’aspetto dello sconosciuto, che cominciò a
capire di aver visto qualcosa di inspiegabile.
La signora Carwell prese la chiave della portiera dal
chiodo piantato sulla mensola dei lacchè, prese la bambina
per mano e la condusse nell’atrio, mentre nell’altra mano
reggeva una candela accesa. Si fermò a una certa distanza
dalla portantina e affidò il candeliere alla figlia.
“Dai un’altra sbirciatina, Margery, controlla se c’è
qualcuno,” sussurrò; “tieni la candela vicino alla tenda, così
la luce ci passa attraverso.”
La bambina sbirciò, stavolta con un’espressione molto
solenne stampata in faccia, e dichiarò subito che se n’era
andato.
“Guarda di nuovo, sei proprio sicura?” insistette la
madre.
La ragazzina era più che certa; e la signora Carwell, con
la cuffia ornata di trine e nastri color ciliegia e i capelli
castano scuro, non ancora incipriati, in contrasto con il viso
pallidissimo, aprì la portiera, guardò dentro e vide che era
vuota.
“Come puoi vedere, ti sei sbagliata, bimba mia.”
“Là! Mamma! Guarda là! Ha appena girato l’angolo,”
disse la bambina.
“Dove?” disse la signora Carwell, facendo un passo
indietro.
“In quella stanza.”
“Ma no, figlia mia, era solo un’ombra, quella,” esclamò la
signora Carwell, stizzita per lo spavento che la bambina le
aveva fatto prendere. “Sono io che ho mosso la candela.”
Ma si aggrappò a uno dei timoni della portantina, poggiato
alla parete nell’angolo, e lo batté con violenza a terra,
perché aveva paura di passare davanti alla porta aperta
che la bambina le aveva indicato.
La cuoca e due sguattere salirono di corsa al piano di
sopra, confuse da quell’inusitato segnale d’allarme.
Rovistarono ovunque, nella stanza; ma era silenziosa e
vuota, e non trovarono alcun indizio del passaggio di un
fantomatico visitatore.
Forse qualcuno penserà che la direzione presa dai suoi
pensieri in seguito a questo piccolo ma assurdo episodio
possa spiegare la strana visione che la signora Carwell
ebbe circa due ore più tardi.
IX
Il giudice abbandona la propria casa
La signora Flora Carwell saliva l’ampia scala con una
scodella di latte caldo, vino e spezie per il giudice, su un
piccolo vassoio d’argento.
In cima alla tromba delle scale corre una balaustra di
legno massello di quercia; e, sollevando per caso gli occhi,
vide lì appoggiato, con una certa noncuranza, uno
sconosciuto dall’aspetto assai strano, alto e magro, che
stringeva una pipa tra l’indice e il pollice. Naso, labbra e
mento sembravano allungarsi notevolmente verso il basso,
mentre con il viso strano e indagatore si affacciava dalla
ringhiera. Nell’altra mano teneva un rotolo di corda e un
capo gli spuntava da sotto il gomito, penzolando sulla
balaustra.
La signora Carwell, che in quel momento non sospettò
affatto che non si trattasse di una persona reale e
immaginò fosse un garzone con il compito di legare i
bagagli del giudice, gli chiese cosa stesse facendo lì.
Invece di rispondere, lo sconosciuto si voltò dall’altra
parte e attraversò il corridoio, alla stessa andatura
tranquilla con cui la donna stava salendo le scale, ed entrò
in una stanza dove lei lo seguì. Era una camera senza
mobili e senza tappeti. Sul pavimento spoglio c’era un
baule aperto, e lì accanto il rotolo di corda; ma, a parte lei,
nella stanza non c’era nessuno.
La signora Carwell era molto spaventata e giunse alla
conclusione che il fantasma avvistato dalla bambina doveva
essere lo stesso che le era apparso poc’anzi; forse, pensò
quando riuscì a recuperare un po’ di lucidità, era meglio
pensarla così; poiché la faccia, la figura e l’abito descritto
dalla bambina le ricordavano in modo spaventoso quelli di
Pyneweck, e l’uomo che aveva visto lei, invece, non gli
assomigliava affatto.
In preda al panico e a un attacco isterico, la signora
Carwell scese di corsa in camera sua, con il terrore di
guardarsi alle spalle, e cercò un po’ di compagnia, e pianse,
e parlò, e tracannò più di un cordiale, e parlò e pianse
ancora, e via di seguito, finché non giunsero le dieci, che a
quei tempi era l’ora di andare a letto.
Solo una sguattera rimase alzata ancora un po’ a pulire e
a “sbollentare” la cucina, dopo che gli altri servi – che,
come ho detto, erano ben pochi in quei giorni – se n’erano
andati tutti a dormire. Era una ragazzotta intrepida, con i
capelli neri, la faccia larga e un’espressione stolida, che
non credeva “manco un po’” all’esistenza dei fantasmi e
trattava gli attacchi isterici della governante con smisurato
disprezzo.
La vecchia casa ora era immersa nel silenzio. Era quasi
mezzanotte, e non si sentiva alcun suono a parte il gemito
sommesso dei venti invernali che fischiavano alti tra tetti e
comignoli o di tanto in tanto rombavano, in raffiche più
basse, infilandosi per le strette viuzze.
Le vaste solitudini della cucina e delle altre stanze di quel
piano erano buie da far paura e questa ragazzotta scettica
era l’unica persona ancora alzata in giro per casa.
Canticchiò tra sé qualche motivetto, poi si interruppe e
rimase in ascolto; e poi riprese il suo lavoro. Tuttavia, era
destinata a spaventarsi più di quanto non lo fosse mai stata
la governante.
C’era anche un retrocucina, e da lì giungeva, quasi
uscisse dalle fondamenta della casa stessa, un rumore di
colpi pesanti che parevano scuotere la terra sotto i suoi
piedi. A volte una dozzina di seguito, a intervalli regolari;
altre volte meno. Uscì con passo felpato nel corridoio, e fu
sorpresa nel vedere un fosco bagliore provenire da quella
stanza, come da un fornello a carbone.
La stanza sembrava piena di fumo.
Quando si affacciò, scorse i vaghi contorni di una figura
mostruosa, china su una fornace, che batteva con un
possente martello gli anelli e i rivetti di una catena.
I colpi, che pure erano rapidi e pesanti, risuonavano cupi
e lontani. L’uomo si fermò e indicò, sul pavimento, qualcosa
che, attraverso la cortina di fumo, sembrò, almeno agli
occhi della donna, un cadavere. Non vide altro; ma le serve
nella stanza accanto, svegliate di soprassalto da un urlo
terrificante, la trovarono svenuta, sulle lastre del
pavimento, dove aveva appena avuto quella visione
spettrale.
Allarmate dalle asserzioni sconclusionate della ragazza,
che affermava di aver visto il cadavere del giudice sul
pavimento, due serve, dopo aver perlustrato i piani bassi
della casa, salirono di sopra, piuttosto impaurite, per
vedere se il padrone stava bene. Lo trovarono nella sua
stanza, ancora alzato. Accanto al letto, c’era un tavolo con
alcune candele accese: il giudice si stava rivestendo.
Ricoprì di imprecazioni e di sonori insulti, secondo le
vecchie abitudini, le due malcapitate, dicendo che aveva da
fare, per cui avrebbe licenziato in tronco qualunque
farabutto avesse osato disturbarlo di nuovo.
Così il malato venne lasciato in pace.
Il mattino dopo girava voce che il giudice fosse morto. Un
domestico dell’avvocato Traverse, che abitava tre porte più
in là, fu mandato a casa del giudice Harbottle per avere
notizie.
La serva che aprì la porta era pallida e di poche parole:
disse soltanto che il giudice era malato. Aveva avuto un
brutto incidente; il dottor Hedstone l’aveva visitato alle
sette del mattino.
Ma gli sguardi sfuggenti, le risposte risicate, i volti pallidi
e accigliati erano tutti segnali che c’era un segreto terribile
che opprimeva la loro mente, un segreto che non era
ancora il momento di rivelare. Il momento arrivò con
l’arrivo del coroner,41 e lo scandalo mortale che aveva
colpito la casa non poté più essere nascosto. Quel mattino il
giudice Harbottle era stato trovato impiccato alla balaustra
in cima alla grande scala, morto stecchito.
Non c’era il minimo segno di lotta o resistenza. Né si
erano sentite urla o altri rumori che potessero far pensare
a una qualche forma di violenza. Era invece possibilissimo –
i referti medici parlavano di temperamento atrabiliare –
che il giudice si fosse tolto la vita. La giuria stabilì
all’unanimità che si trattava di un caso di suicidio. Ma a
coloro che conoscevano la strana storia che il giudice
Harbottle aveva raccontato ad almeno due persone, il fatto
che la catastrofe si fosse consumata il mattino del dieci
marzo sembrò una coincidenza a dir poco agghiacciante.
Qualche giorno dopo, la pompa di un funerale solenne lo
accompagnò alla fossa; e così, come dicono le Scritture: “Il
ricco morì e fu sepolto”.42
CARMILLA
Prologo

Su un foglio allegato al racconto che segue, il dottor


Hesselius ha scritto una nota alquanto minuziosa,
corredata di rimandi al suo Saggio sull’insolito argomento
esposto nel manoscritto.
Nel Saggio, questo argomento misterioso è affrontato con
sapienza e acume proverbiali, e con mirabili chiarezza e
sintesi. Il volume così composto sarà solo uno fra i tanti
dell’ampia raccolta di studi di quell’uomo straordinario.
Nello specifico, questo volume è destinato per lo più a un
pubblico “profano”, per cui non anticiperò in nulla
l’intelligente signora che narra la storia ivi contenuta; e in
seguito alle dovute considerazioni, ho pertanto deciso di
astenermi dal presentare in compendio i dotti ragionamenti
del dottore, o di non fare riferimento a nessuna delle sue
asserzioni su un argomento che, sue testuali parole, “con
molta probabilità chiama in causa alcuni tra i più profondi
arcani della nostra duplice esistenza e dei suoi stati
intermedi”.1
Quando scoprii queste carte, mi premurai subito di
riprendere la corrispondenza, avviata molti anni or sono dal
dottor Hesselius, con una persona così attenta e perspicace
quale sembra sia stata la sua informatrice. Ma, con mio
sommo rammarico, appresi che intanto la donna era morta.
Con ogni probabilità, avrebbe potuto aggiungere ben poco
al racconto che ha scritto, a mio avviso, con tanto scrupolo
e dovizia di particolari, e affidato alle pagine che seguono.
 
I
Le prime paure
Pur non essendo gente facoltosa, in Stiria2 abitiamo in un
castello o, per meglio dire, in uno Schloss. In quella parte
di mondo, basta una piccola rendita per fare grandi cose.
Una di otto o novecento sterline l’anno fa miracoli. Nel
paese da cui veniamo una rendita simile sarebbe stata a
malapena considerata sufficiente tra le persone facoltose.
Mio padre è inglese e io porto un cognome inglese, anche
se non ho mai visto l’Inghilterra. Del resto qui, in questa
terra desolata e primitiva, dove tutto è così mirabilmente a
buon mercato, dell’altro denaro sarebbe inutile, viste le
comodità e i lussi di cui già godiamo.
Mio padre aveva prestato servizio nell’esercito austriaco
e, al momento del congedo, mettendo insieme pensione e
rendita, aveva comprato per una sciocchezza questa
residenza feudale e la piccola tenuta che la circonda.
Non c’è nulla di più pittoresco e solitario. Sorge su un
piccolo poggio, in mezzo al bosco. La strada, molto vecchia
e stretta, passa di fronte al ponte levatoio, che ai miei
tempi nessuno utilizzava, e alle acque del fossato, piene di
persici e solcate in superficie da cigni e da bianchi stuoli di
fluttuanti ninfee.
Su tutto troneggia il maniero, con la sua facciata piena di
finestre, le sue torri e la sua cappella gotica.
Davanti al cancello, il bosco si apre in una radura
sconnessa e molto pittoresca, e sulla destra un ripido ponte
in stile gotico attraversa un ruscello che si perde, ansa
dopo ansa, nelle fitte ombre del bosco. Ho già detto che è
un posto molto isolato. Sta a voi giudicare se quanto dico
corrisponde a verità. Guardando dalla porta d’ingresso
verso la strada, il bosco che circonda il nostro castello si
estende per quindici miglia sulla destra e per dodici sulla
sinistra. Il primo villaggio abitato si trova sulla sinistra, a
circa sette delle nostre miglia inglesi. Il primo maniero
abitato con un qualche valore storico è quello del vecchio
generale Spielsdorf, più o meno a venti miglia sulla destra.
Ho detto “il primo villaggio abitato”, perché in realtà, ad
appena tre miglia più a ovest, ossia in direzione del
maniero del generale Spielsdorf, c’è un villaggio in rovina,
con la suggestiva chiesetta, ora senza tetto, nella cui
navata laterale si trovano i resti delle tombe dell’orgogliosa
famiglia Karnstein, ora estinta, che un tempo possedeva
l’altrettanto desolato château che, dal folto del bosco,
domina le silenziose rovine del villaggio.
C’è una leggenda interessante, che prima o poi vi
racconterò, sul perché questo posto singolare e
malinconico fu abbandonato.
Ora devo raccontarvi della cerchia ristretta di persone
che abita il nostro castello. In questa cerchia non è
compresa la servitù, e nemmeno i dipendenti che occupano
le camere negli edifici adiacenti al maniero. Aprite bene le
orecchie, e stupitevi! Dunque, ad abitare il castello siamo
io, che all’epoca di questa storia avevo appena diciannove
anni, e mio padre, che è l’uomo più gentile del mondo, ma
ormai sta invecchiando. Sono passati otto anni da allora.
Al maniero, la famiglia era costituita da me e da mio
padre. Mia madre, originaria della Stiria, morì che ero
ancora una bambina, ma ho avuto un’istitutrice amorevole
che in pratica mi ha cresciuta. Se ripenso al passato, non
riesco a ricordare un solo momento in cui il suo viso paffuto
e benevolo non sia stato un’immagine familiare, per me.
Si chiamava madame Perrodon, era originaria di Berna, e
le sue cure e il suo buon cuore compensarono in parte la
perdita di mia madre, che non ricordo nemmeno, tanto ero
piccina quando la persi. Con lei, a tavola, l’esigua
compagnia arrivava a tre persone. C’era anche una quarta
persona, mademoiselle De Lafontaine, una signora che
potremmo definire, a mio avviso, “un’istitutrice superiore”.
Parlava francese e tedesco, madame Perrodon francese e
un inglese tutto sgrammaticato e, per finire, io e mio padre
l’inglese, che parlavamo tutti i giorni, in parte per evitare
che questa lingua ci diventasse estranea e in parte per
motivi patriottici. Quel che ne veniva fuori era una vera
Babele, che per gli estranei era sempre fonte di grande
divertimento e che non tenterò di riprodurre in questo
racconto. E poi c’erano due o tre ragazze, all’incirca della
mia età, che venivano a farci visita ogni tanto, per periodi
più o meno lunghi; visite che, a volte, io ricambiavo.
Erano queste le persone che frequentavamo
abitualmente; ma, certo, di tanto in tanto ricevevamo visite
dai “vicini” che abitavano a soltanto cinque o sei leghe di
distanza. Ciò nonostante, la mia vita era piuttosto solitaria,
ve l’assicuro.
Le mie istitutrici, da persone sagge quali erano,
esercitavano su di me tutto il controllo necessario con una
ragazza piuttosto viziata, che il padre, l’unico genitore,
assecondava in tutto e per tutto.
Il primo terribile avvenimento della mia esistenza a
lasciare un segno indelebile nella mia mente, impossibile
da cancellare, è uno dei miei ricordi più lontani, e talmente
insignificante che nessuno si prenderebbe la briga di
riportarlo.
Ma con un po’ di pazienza capirete per quale motivo ho
deciso di farne menzione. La camera dei bambini (la
chiamavamo così, anche se ero l’unica bambina del
castello) era un’ampia stanza al piano di sopra, con un tetto
spiovente di quercia. Non potevo avere più di sei anni,
quando una notte mi svegliai e, guardandomi intorno, nella
stanza, non vidi la cameriera. Non c’era nemmeno la balia;
capii allora di essere sola. Non avevo paura perché ero una
di quelle bambine felici a cui non venivano raccontate le
classiche favole o storie di fantasmi, né tutte quelle
leggende che ci fanno nascondere la testa sotto il cuscino
quando all’improvviso una porta inizia a scricchiolare o
quando gli ultimi barlumi di candela proiettano sulla parete
più vicina l’ombra danzante della colonnina del letto. Ero
risentita e offesa, al pensiero di essere stata trascurata;
cominciai a frignare e mi preparavo a lanciare una sentita
scarica di strilli, quando, con mia grande sorpresa, vidi di
fianco al mio letto un volto solenne, ma molto grazioso, che
mi guardava. Era il viso di una giovane donna
inginocchiata, con le mani sotto la coperta. La guardai
piacevolmente sorpresa e smisi di frignare. Lei mi
accarezzò, si distese nel letto accanto a me e mi attirò a sé,
sorridendo. Fui subito pervasa da una piacevole
rilassatezza e mi addormentai di nuovo. Mi svegliai con
l’impressione che due aghi mi stessero penetrando a fondo
nel petto e gridai forte. La signora indietreggiò di colpo e,
con gli occhi fissi su di me, scivolò sul pavimento e si
nascose sotto il letto, o almeno così mi sembrò.
Ora sì che, per la prima volta in vita mia, ebbi paura, e
gridai con tutte le mie forze. Balia, bambinaia e governante
si precipitarono tutte nella camera e, mentre ascoltavano la
mia storia, cercavano di minimizzare e intanto mi
consolavano come meglio potevano. E anche se ero solo
una bambina, mi accorsi lo stesso che i loro volti erano
pallidi, velati di un’ansia insolita, e le vidi guardare sotto il
letto e in giro per la stanza, e sbirciare sotto il tavolo e
aprire gli armadi; poi la governante bisbigliò alla balia:
“Vieni, metti qua la mano, c’è ancora il solco; qualcuno si è
davvero sdraiato qui, questo è poco ma sicuro; il letto è
ancora caldo”.
Ricordo che la bambinaia mi coccolava, e tutte e tre
controllavano il mio petto, nel punto in cui dicevo di aver
sentito la puntura, dichiarando che non c’erano segni
esterni che confermassero la mia storia.
La governante e le altre due donne addette alla camera
dei bambini rimasero con me tutta la notte; e da quel
momento in poi, fin quando compii quattordici anni, ci fu
sempre qualcuno nella camera dei bambini a vegliare su di
me.
Dopo questo episodio ebbi i nervi scossi per molto tempo.
Chiamarono un dottore, era pallido e anziano. Ricordo fin
troppo bene il suo viso lungo e saturnino, un poco butterato
dal vaiolo, e la sua parrucca castana. Per parecchio tempo,
venne ogni due giorni, somministrandomi medicine che io,
com’era naturale, odiavo.
Il mattino dopo l’apparizione ero in preda al terrore, e
non volevo essere lasciata sola neanche per un momento,
nonostante fosse giorno.
Ricordo mio padre, in camera mia, in piedi accanto al
letto, che chiacchierava tutto allegro, facendo diverse
domande alla balia e ridendo di cuore a ogni risposta; e mi
dava colpetti affettuosi sulla spalla e mi baciava dicendomi
di non avere paura, ché era stato solo un sogno e che non
poteva farmi alcun male.
Ma io non mi sentivo per niente tranquilla, perché sapevo
che la visita di quella strana donna non era stato affatto un
sogno; ero spaventata a morte.
Mi consolai un po’ quando la bambinaia mi assicurò che
la donna che mi aveva guardato e si era distesa nel letto
accanto a me era lei, e che dovevo essere mezza
addormentata se non l’avevo riconosciuta. Anche la balia
confermò la storia, ma io non ero ancora del tutto convinta.
Nel corso di quella giornata, me lo ricordo bene, entrò in
camera insieme alla balia e alla governante un vecchio
venerando, con una tonaca nera, parlò un poco con loro,
poi si rivolse a me con gentilezza; il suo viso era molto
dolce e benevolo e mi disse che avrebbero pregato, e mi
fece giungere le mani, e m’invitò, mentre loro pregavano, a
ripetere piano: “Ascolta, Padre, le nostre suppliche, per
amore di nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio. Amen”.
Credo che le parole fossero proprio queste, perché
continuai a ripetermele spesso, di lì in avanti, e la balia per
anni me le faceva dire tutte le volte che pregavo.
Ricordo ancora benissimo il viso dolce e pensieroso di
quel vecchio con i capelli bianchi e la tonaca nera, in piedi
dentro quella stanza austera, solenne, scura, arredata con
mobili orrendi che andavano di moda trecento anni prima,
che la poca luce che entrava dai rombi della finestrella
lasciava nella penombra. Si inginocchiò e le tre donne con
lui, e pregò ad alta voce, tutto serio e tremante, per quello
che mi sembrò un tempo lunghissimo. Non conservo alcun
ricordo della mia vita prima di quell’episodio, e per un
certo periodo anche quel che è successo dopo mi è del tutto
oscuro, ma le scene che ho appena descritto si stagliano
vivide nella mia memoria, come immagini isolate di una
fantasmagoria circondata dalle tenebre.
II
Un’ospite
Mi accingo ora a raccontarvi qualcosa di così strano che
ci vorrà tutta la vostra fiducia nella mia sincerità per
crederci. Ciò nonostante, non solo è una storia vera, ma io
ne sono stata anche testimone oculare.
Era una dolce sera d’estate e mio padre mi aveva chiesto,
come faceva spesso, di fare una breve passeggiata con lui
fino al belvedere in fondo al viale alberato che si apriva,
come ho già detto, di fronte al maniero.
“Purtroppo, per il momento, il generale Spielsdorf non
potrà essere nostro ospite, come speravo,” disse mio padre
mentre camminavamo.
Sarebbe dovuto restare da noi qualche settimana e
aspettavamo il suo arrivo per l’indomani. E avrebbe dovuto
portare con sé una ragazza, sua nipote e pupilla, la
signorina Rheinfeldt, che non avevo mai visto, ma che mi
era stata descritta come una creatura molto affascinante, e
mi ero immaginata di trascorrere in sua compagnia molti
giorni lieti. Restai più delusa di quanto una ragazza che
vive in città o in un paese molto animato potrebbe
immaginare. Avevo fantasticato per molte settimane su
questa visita e questa nuova conoscenza.
“E quando verrà?” chiesi.
“Non prima dell’autunno. Fra almeno due mesi,
presumo,” rispose mio padre. “E ora come ora, mia cara,
sono proprio contento che tu non abbia conosciuto la
signorina Rheinfeldt.”
“E perché?” chiesi io, mortificata e curiosa.
“Perché la poverina è morta,” rispose lui. “Non te l’avevo
detto, mi era proprio passato di mente, ma non eri presente
quando ho ricevuto la lettera del generale, stasera.”
Ne rimasi sconvolta. Sei o sette settimane prima, nella
sua prima lettera, il generale Spielsdorf aveva accennato
che la nipote non stava bene come avrebbe desiderato, ma
nulla lasciava presagire il più remoto sospetto di un tale
pericolo.
“Ecco la lettera del generale,” disse, porgendomi il foglio.
“Temo che sia sconvolto dal dolore; sembra scritta da un
uomo sull’orlo della follia.”
Ci sedemmo su una grezza panchina, sotto un gruppo di
magnifici tigli. Il sole tramontava in tutto il suo malinconico
splendore dietro quell’orizzonte silvestre e il ruscello, che
scorre vicino casa e passa sotto il vecchio e ripido ponte
che ho già menzionato, serpeggiava tra gli alberi maestosi,
quasi ai nostri piedi, riflettendo nelle sue acque il cremisi
del cielo, sempre più nero. La lettera del generale
Spielsdorf era così strana, così veemente, e in certi punti
così contraddittoria, che la lessi due volte – la seconda ad
alta voce a mio padre – e ancora non riuscivo a
spiegarmela; potevo solo supporre che il dolore gli avesse
sconvolto la mente.
La lettera diceva:
Ho perduto la mia adorata figlia; sì, perché l’amavo come se lo fosse.
Durante gli ultimi giorni di malattia della mia cara Bertha non sono riuscito a
scrivervi. Prima di allora non avevo idea di quanto grave fosse la situazione.
Ora che l’ho persa mi è tutto chiaro, ma è troppo tardi! È morta nella pace
degli innocenti e con la gloriosa speranza di un futuro beato. Il demonio che
ha tradito la nostra infatuata ospitalità è la causa di tutto. Credevo di
accogliere in casa innocenza e allegria, un’incantevole compagna per la mia
perduta Bertha. Cielo! Che stupido sono stato! Ringrazio Dio che la mia
bambina sia morta senza nutrire il minimo sospetto sulla causa delle sue
sofferenze. Se n’è andata senza neanche immaginare di che natura fosse il
suo male e quanto maledetta fosse la passione che nutriva per la vera
responsabile di questa miseria. Io dedicherò tutti i giorni che mi restano da
vivere a cercare questo mostro per ucciderlo. So di avere qualche speranza
di attuare questo mio proposito giusto e pietoso. Al momento ho un tenue
bagliore a guidarmi. Maledico la mia tracotante incredulità, la mia
deprecabile ostentazione di superiorità, la mia cecità, la mia ostinatezza...
tutto quanto... ma è troppo tardi. Ora come ora non riesco a parlare e a
scrivere in modo coerente. Sono fuori di me. Per cui, non appena mi sarò un
po’ ripreso, per un certo periodo intendo dedicarmi anima e corpo alle
ricerche che potrebbero condurmi fino a Vienna. In autunno, tra un paio di
mesi, o magari anche prima, se sarò ancora vivo, vi verrò a trovare – se me
lo permetterete; potrò a quel punto raccontarvi ciò che ora non oso mettere
su carta.
Addio. Pregate per me, caro amico.

La strana lettera terminava con queste parole. Anche se


non avevo mai visto Bertha Rheinfeldt, a quella notizia
inaspettata gli occhi mi si riempirono di lacrime; ero
sconvolta, oltre che profondamente delusa.
Il sole era appena tramontato ed era ormai buio quando
restituii a mio padre la lettera del generale.
Era una serata mite e chiara, e ci attardammo fuori,
domandandoci quale potesse essere il significato delle frasi
violente e incoerenti che avevo appena letto. C’era quasi un
miglio prima di raggiungere la strada che passava davanti
al maniero, e nel frattempo la luna si era alzata luminosa
nel cielo. Sul ponte levatoio incontrammo madame
Perrodon e mademoiselle De Lafontaine, che erano uscite
senza cappello a godersi quel delizioso chiaro di luna.
Mentre ci avvicinavamo ci giunse all’orecchio, ancora
confuso, il loro animato chiacchiericcio. Le raggiungemmo
sul ponte e ci voltammo per ammirare tutti insieme lo
splendido panorama. Davanti a noi si stendeva la radura
che avevamo appena percorso. Alla nostra sinistra
l’angusto sentiero, curva dopo curva, si inoltrava nel folto
di alberi monumentali, sparendo presto alla vista nel fitto
del bosco. Alla nostra destra lo stesso sentiero attraversava
il ponticello ripido e pittoresco, e lì vicino sorgevano le
rovine di un’antica torre di guardia; e oltre il ponte si
levava un colle ricoperto di alberi, picchiettato qua e là da
qualche roccia grigia invasa dall’edera, che emergeva
dall’ombra.
Sul prato e sui campi più in basso stava calando una
leggera cortina di nebbia, simile a fumo, che avvolgeva le
cose lontane in un velo trasparente; qua e là si vedevano i
vaghi riflessi del fiume al chiaro di luna.
Impossibile figurarsi uno spettacolo più dolce e delicato.
Le notizie che avevo appena ricevuto lo rendevano
malinconico; ma nulla poteva turbare la profonda serenità e
l’incantata magnificenza e vaghezza di quella vista.
Con mio padre, che amava quei paesaggi pittoreschi,
guardavamo in silenzio quell’enorme distesa giù in basso.
Le istitutrici, bontà loro, un po’ più indietro rispetto a noi,
discorrevano del panorama e versavano profluvi di parole
sulla luna.
Madame Perrodon era una donna paffuta, di mezz’età,
incline alle romanticherie, e tra una parola e l’altra
intervallava sospiri molto poetici. Mademoiselle De
Lafontaine – le cui origini tedesche da parte di padre le
conferivano poteri psicologici, metafisici, talvolta mistici –
dichiarava che quando la luna brilla di una luce così intensa
è risaputo che sta a indicare un’attività spirituale più
intensa del solito. Gli effetti della luna piena, in uno stato di
simile lucentezza, sono molteplici. Influisce sui sogni,
influisce sulla pazzia, influisce sugli ansiosi, ha anche
strabilianti influssi fisici sulla vita delle persone. La
signorina raccontò che suo cugino, ufficiale in seconda di
una nave mercantile, una sera come quella si era appisolato
sul ponte, a pancia in su, con il viso completamente
immerso nella luce della luna, e dopo aver sognato una
vecchia che lo graffiava sulla guancia, si era svegliato con i
lineamenti di metà faccia contratti in un’orribile smorfia; il
suo volto non era più tornato quello di prima.
“La luna, questa sera,” diceva la donna, “è piena di
influssi odici e magnetici3. .. e quando vi voltate a guardare
la facciata del maniero, vedete come rifulgono e luccicano
di argentei riflessi i vetri delle finestre, quasi che mani
invisibili avessero illuminato le stanze per ricevere ospiti
fatati?”
Ci sono momenti di indolenza dello spirito durante i quali,
poco desiderosi di parlare, i discorsi degli altri suonano
lieti alle nostre orecchie distratte; così io guardavo fissa
dinanzi a me, allietata dalle voci argentine delle signore.
“Sono proprio giù di corda, stasera,” disse mio padre
dopo un attimo di silenzio, e poi citò una frase di
Shakespeare, che leggeva spesso ad alta voce per
mantenere vivo il nostro inglese:
Non so spiegare questa mia tristezza;
mi stanca; anche voi dite che vi stanca;
ma come l’abbia presa... assorbita.4

“Ho dimenticato il resto. Ma è come se sopra di noi


incombesse una grande sciagura. Credo che la dolente
lettera del povero generale abbia qualcosa a che fare con
questa mia sensazione.”
In quel preciso istante l’inconsueto rumore delle ruote di
una carrozza e di numerosi zoccoli sulla strada attirò la
nostra attenzione.
Proveniva da un’altura che dava sul ponte e pareva
avvicinarsi, e ben presto da quel punto sbucò fuori un
equipaggio. I primi ad attraversare il ponte furono due
cavalieri, poi arrivò una vettura trainata da quattro cavalli
e seguita da altri due uomini in sella.
A giudicare dall’aspetto, quella carrozza doveva
trasportare un passeggero di alto rango; e tutti noi fummo
subito attirati da quell’insolito spettacolo. Un attimo dopo
lo spettacolo si fece ancor più interessante perché, appena
passato il ripido ponte, uno dei destrieri si spaventò e
trasmise il panico a tutti gli altri, e dopo un paio di salti
l’intera quadriglia si lanciò in un furioso galoppo,
gettandosi fra i due cavalieri d’avanguardia e
precipitandosi in strada con la velocità di un uragano.
La concitazione della scena era resa ancor più penosa
dalle chiare e ripetute urla di una voce femminile
provenienti dal finestrino della vettura.
Ci avvicinammo tutti quanti, pieni di curiosità e di orrore;
mio padre in silenzio, il resto della compagnia con varie
esclamazioni di spavento.
Ma la nostra attesa non durò a lungo. Poco prima del
ponte levatoio che conduceva al castello, dal lato della
strada su cui viaggiavano si ergeva un gigantesco tiglio e
dall’altro c’era un’antica croce di pietra, alla vista della
quale i cavalli, che ormai avanzavano a spron battuto,
deviarono, facendo così cozzare la ruota della vettura
contro le radici sporgenti dell’albero. Sapevo cosa sarebbe
successo. Mi coprii gli occhi, incapace di guardare, e voltai
la testa; nello stesso momento sentii gridare le mie
compagne, che erano andate un po’ più avanti.
La curiosità mi fece aprire gli occhi: era successo un
pandemonio. Due dei cavalli erano a terra, la carrozza era
rovesciata su un fianco con due ruote in aria; gli uomini
erano occupati a togliere le tirelle ai cavalli mentre una
signora dall’aspetto autoritario era già uscita dalla vettura
e stava lì davanti con le mani giunte, portandosi di tanto in
tanto il fazzoletto agli occhi.
Dallo sportello fu allora estratta una giovane,
all’apparenza senza vita. Il mio buon vecchio padre era già
accanto alla signora più anziana, cappello in mano, per
offrirle, com’era ovvio, il suo aiuto e metterle a disposizione
le risorse del maniero. La signora non pareva ascoltarlo, o
meglio sembrava aver occhi solo per l’esile figurina che
veniva adagiata sul pendio al margine della strada.
Mi avvicinai; la ragazza era visibilmente stordita, ma di
certo non era morta. Mio padre, che si piccava di capirci
qualcosa di medicina, le sentì il polso e garantì alla signora,
che dichiarò di essere la madre della ragazza, che il battito,
seppur debole e irregolare, era senza dubbio ancora
percettibile. La signora giunse le mani e levò gli occhi al
Cielo, come sorpresa da un passeggero moto di gratitudine;
un attimo dopo era di nuovo lì a fare la prima donna, come
viene naturale, secondo me, a un certo tipo di persone.
Era una donna incantevole per la sua età e da giovane
doveva essere stata bellissima; era alta, ma non magra, e
indossava un abito di velluto nero; era piuttosto pallida, ma
il suo volto, benché increspato da uno strano turbamento,
non perdeva mai la sua espressione fiera e autoritaria.
“È mai venuta al mondo creatura più disgraziata?” la
sentii dire, con le mani giunte, mentre mi avvicinavo. “Ed
eccomi qua, in un viaggio che è questione di vita o di
morte, dove perdere un’ora può significare perdere tutto.
Mia figlia chissà quando si rimetterà per poter riprendere il
viaggio. Sono costretta a lasciarla. Non posso, non oso
ritardare. Quanto dista, signore, il villaggio più vicino?
Sono costretta a lasciarla lì; e per tre mesi, fino al giorno
del mio ritorno, non potrò più vedere la mia adorata figlia,
né avere sue notizie.”
Tirai mio padre per la giacca e gli bisbigliai con fervore
all’orecchio: “Oh, papà, ti prego, chiedile di lasciarla qui da
noi... Sarebbe meraviglioso. Ti prego, chiediglielo”.
“Se la signora vorrà affidare la sua ragazza alle cure di
mia figlia e della sua buona istitutrice, madame Perrodon, e
le consentirà di rimanere come nostra ospite, sotto la mia
responsabilità, fino al suo ritorno, sarà per noi un onore e
un motivo di riconoscenza, e la tratteremo con tutta la
premura e la dedizione che una così sacra fiducia merita.”
“Non posso farlo, signore, sarebbe abusare della vostra
gentilezza e cavalleria,” disse la donna, fuori di sé.
“Al contrario, ci accordereste un gran conforto in un
momento in cui ne avremmo un disperato bisogno. Mia
figlia aspettava da tempo una visita, ma una sorte ingrata
le ha strappato questa felicità e non immaginate che
delusione sia stata per lei. Se affiderete questa ragazza alle
nostre cure, sarà la miglior consolazione, per lei. Il
villaggio più vicino dista parecchio da qui e non dispone di
una locanda dove poter sistemare vostra figlia; non potete
certo permettere che continui un viaggio così impegnativo,
sarebbe troppo pericoloso. Se, come avete detto poc’anzi,
non potete interrompere il viaggio, dovrete separarvi da lei
stasera stessa, e non trovereste da nessuna parte una così
sincera garanzia di affettuose premure.”
C’era qualcosa nell’espressione di questa signora,
nell’aspetto così distinto, quasi solenne, e nei modi così
seducenti che avrebbe convinto chiunque che la persona in
questione fosse una persona importante, anche senza lo
sfarzo dell’equipaggio.
Nel frattempo la carrozza era stata raddrizzata e ai
cavalli, ormai calmi, erano state rimesse le tirelle.
La signora lanciò alla figlia uno sguardo che non mi parve
così affettuoso come l’inizio della scena avrebbe potuto far
presagire; poi fece un breve cenno a mio padre, arretrando
con lui di due o tre passi per non farsi sentire; e gli parlò
con espressione ferma e severa, diversa da quella che
aveva avuto finora.
Mi meravigliò molto il fatto che mio padre sembrava non
essersi accorto del cambiamento, e poi morivo dalla
curiosità di sapere cosa gli stesse dicendo, quasi
all’orecchio, con tanta sollecitudine e serietà.
La conversazione sarà durata al massimo due o tre
minuti, poi la signora si voltò e raggiunse in pochi passi il
punto dove giaceva la figlia, sorretta da madame Perrodon.
Le si inginocchiò accanto per un momento e le bisbigliò
qualcosa all’orecchio – madame Perrodon era convinta che
fosse una piccola benedizione; poi le diede un bacio
frettoloso e risalì sulla carrozza, lo sportello venne chiuso, i
valletti in maestosa livrea scattarono al seguito, i
battistrada spronarono i cavalli, i postiglioni fecero
schioccare le fruste e i cavalli partirono e d’un tratto si
lanciarono in un passo concitato che minacciava di
ritrasformarsi ben presto in galoppo, e la carrozza
scomparve in fretta, seguita alla stessa velocità dai due
cavalieri della retroguardia.
III
Impressioni a confronto
Seguimmo con gli occhi il cortège5 fin quando, un attimo
dopo, non scomparve nelle brume del bosco; e presto anche
il rumore degli zoccoli e delle ruote svanì nell’aria silente
della notte. Nulla restava a garantirci che quell’avventura
non fosse stata un’illusione momentanea, a parte la
ragazza, che aprì gli occhi proprio in quel momento. Non
potevo vederla perché era di spalle, ma sollevò la testa, col
chiaro intento di guardarsi intorno, e a quel punto udii una
voce dolcissima domandare lamentosa: “Dov’è la
mamma?”.
La nostra buona madame Perrodon le rispose con tono
affettuoso e aggiunse qualche parola di rassicurante
conforto.
Poi la udii domandare: “Dove sono? Che posto è questo?”,
e poi disse: “Non vedo la carrozza; e Matska6 dov’è?”.
Madame Perrodon rispose a tutte le domande, o almeno a
quelle a cui sapeva rispondere; e un po’ alla volta la
ragazza si ricordò dello sventurato incidente e fu ben felice
di sentire che nessuno fra quelli che si trovavano nella
carrozza o al suo seguito era rimasto ferito; e quando
venne a sapere che la madre l’aveva lasciata lì fino al suo
ritorno, ovvero per almeno tre mesi, si mise a piangere.
Stavo per andare a consolarla anch’io, insieme a madame
Perrodon, ma mademoiselle De Lafontaine mi afferrò per
un braccio, dicendomi: “Non avvicinarti, al momento una
persona basta e avanza; ora come ora anche la più piccola
emozione potrebbe esserle fatale”.
Appena sarà bella comoda in un letto, pensai, andrò
subito a trovarla nella sua stanza.
Mio padre nel frattempo aveva ordinato a un servo di
prendere un cavallo e di andare a chiamare il dottore, che
viveva a un paio di leghe da lì; e intanto veniva preparata
una camera per la ragazza.
A quel punto la straniera si alzò e, appoggiandosi al
braccio di madame Perrodon, si avviò a piccoli passi verso
il ponte levatoio e varcò la porta del castello.
Nel vestibolo l’attendeva la servitù, che l’accompagnò
subito in camera sua. La stanza che di solito usavamo come
salotto è lunga, con quattro finestre che si affacciano sul
fossato e sul ponte levatoio, ovvero sulla parte di bosco
dove era avvenuta la scena che ho appena descritto.
È arredata con vecchi mobili di quercia, ampi stipi
intagliati e sedie imbottite di velluto cremisi di Utrecht. Le
pareti sono tappezzate di arazzi incastonati in enormi
cornici dorate, con figure a grandezza naturale in abiti
antichi e molto particolari: rappresentano scene di caccia,
di falconeria e di varie festività. A prescindere dall’aspetto
maestoso, è una stanza molto accogliente; è qui che
prendevamo il tè, visto che mio padre, con il suo solito
spirito patriottico, voleva che insieme al nostro caffè e alla
cioccolata fosse sempre presente anche la bevanda
nazionale.
Fu lì che ci sedemmo quella notte, con tutte le candele
accese, a parlare dell’avvenimento della serata.
Madame Perrodon e mademoiselle De Lafontaine erano
entrambe con noi. La giovane straniera era piombata in un
sonno profondo non appena aveva posato la testa sul
cuscino; e le due signore l’avevano lasciata alle cure di una
cameriera.
“Che ve ne pare della nostra ospite?” chiesi appena
madame Perrodon entrò. “Voglio sapere tutto di lei.”
“Mi piace moltissimo,” rispose l’istitutrice, “è davvero la
creatura più graziosa che abbia mai visto, o almeno così mi
sembra; ha circa la tua età ed è così dolce e simpatica.”
“È una meraviglia,” esclamò mademoiselle De Lafontaine,
che aveva dato una sbirciatina veloce nella camera della
straniera.
“E che voce dolce che ha!” aggiunse madame Perrodon.
“Ma voi vi siete accorte che quando hanno raddrizzato la
carrozza c’era una donna che non è mai scesa?” chiese
mademoiselle De Lafontaine. “Si è limitata a guardare dal
finestrino.”
“No, non l’abbiamo vista.”
Allora descrisse un’orribile donna scura, con una specie
di turbante variopinto in testa, che aveva guardato fuori dal
finestrino per tutto il tempo, annuendo e sogghignando
beffarda alla volta delle signore, con uno sguardo lucente
negli enormi occhi bianchi, e i denti serrati, come in preda
all’ira.
“E avete notato che loschi figuri erano i servi?” chiese
madame Perrodon.
“Sì,” disse mio padre, che era appena entrato, “brutti
ceffi così, con quell’aria colpevole dipinta in viso, non ne
avevo mai visti in vita mia. Spero non deruberanno quella
povera signora nel bosco. Comunque sia, sono furfanti belli
svegli; hanno sistemato tutto in un attimo.”
“Secondo me erano soltanto stanchi per il lungo viaggio,”
disse madame Perrodon.
“Oltre all’aspetto malvagio, erano insolitamente emaciati,
e scuri, e accigliati in viso. Sono molto curiosa, lo
riconosco; ma scommetto che domani la ragazza vi
racconterà tutto, se starà un po’ meglio.”
“Non credo che lo farà,” disse mio padre con un sorriso
misterioso e un lieve cenno del capo, come se sapesse più
di quello che aveva intenzione di dirci.
Con quella frase, accrebbe ancor di più la mia curiosità di
sapere cosa si fossero detti lui e la signora con l’abito di
velluto nero nel breve ma intenso colloquio che aveva
preceduto la sua partenza.
Appena rimanemmo soli, lo supplicai di dirmelo. Non ci fu
bisogno di insistere molto.
“Non c’è una ragione in particolare per cui non debba
dirtelo. La signora mi ha espresso la propria riluttanza a
darci l’incomodo di occuparci della figlia, perché, lei dice, è
delicata di salute e ha i nervi fragili, ma non è soggetta a
crisi – me l’ha detto di sua spontanea volontà – o ad
allucinazioni; in realtà è perfettamente sana di mente.”
“Che stranezza!” lo interruppi. “Che bisogno c’era di
precisarlo?”
“In ogni caso, l’ha detto,” rise mio padre, “e visto che
vuoi sapere tutto, io te lo racconto, anche se in realtà è ben
poco. Ha poi aggiunto: ‘Sto facendo un lungo viaggio di
vitale importanza’ e ha posto l’accento su questa parola,
‘un viaggio rapido e segreto; tornerò a prendere mia figlia
fra tre mesi; per tutto questo tempo lei non vi dirà chi
siamo, da che luogo veniamo e dove siamo dirette’. Questo
è tutto. Parlava un francese impeccabile. Quando ha
pronunciato la parola ‘segreto’ si è fermata per qualche
secondo, guardandomi severa, gli occhi fissi su di me.
Credo sia una questione a cui tiene molto. Hai visto come
se n’è andata in fretta. Spero di non aver fatto una
sciocchezza a offrirmi di prendermi cura della ragazza.”
Quanto a me, ero felicissima. Ero ansiosa di vederla e di
parlarle; aspettavo solo che il dottore mi desse il permesso.
Voi che abitate in città non avete idea di che grande evento
sia la conoscenza di una nuova amica per chi vive come noi
nella più totale solitudine.
Il medico arrivò che era ormai l’una; ma non sarei mai
riuscita ad andare a letto e dormire, quella notte, così come
non sarei mai riuscita a raggiungere a piedi la carrozza su
cui viaggiava la principessa vestita di nero.
Quando il dottore scese in salotto, la sua diagnosi sulle
condizioni di salute della paziente era più che confortante.
Ora riusciva a star seduta, il battito era regolare, a vederla
così sembrava in perfetta salute. Non aveva riportato
alcuna ferita e il lieve trauma emotivo era passato senza
lasciare conseguenze. Avrei potuto vederla senza alcun
problema, se anche lei lo desiderava; forte di questo
permesso, mandai subito a chiederle se potevo farle visita
per qualche minuto, in camera sua. La cameriera tornò
dopo un attimo, dicendo che la signorina non poteva
desiderare niente di meglio.
Come potrete immaginare, non ci pensai due volte ad
avvalermi di questo permesso.
La nostra ospite riposava in una delle stanze più belle del
castello. Forse era un po’ troppo maestosa. Di fronte al
letto c’era un arazzo a tinte fosche che raffigurava
Cleopatra con l’aspide al seno7; e sulle altre pareti c’erano
altri quadri di ambientazione classica, molto solenni ma un
po’ sbiaditi. Ma le altre decorazioni della stanza erano
ricche di intarsi dorati e di colori vivaci e compensavano di
gran lunga la cupezza del vecchio arazzo.
A fianco del letto c’erano delle candele accese. La
ragazza era seduta; la sua esile e graziosa figura era
avvolta in una soffice vestaglia di seta ricamata a fiori e
orlata con una spessa trapunta di seta, che sua madre le
aveva buttato sui piedi mentre giaceva a terra.
Cos’è che un attimo dopo mi lasciò senza parole,
facendomi indietreggiare di uno o due passi proprio mentre
ero ormai accanto al letto e avevo appena pronunciato
qualche parolina di saluto? Ora ve lo dico.
Rividi il volto che mi aveva fatto visita quella famosa
notte, quando ero bambina, e che era rimasto così fisso
nella mia memoria e a cui avevo ripensato con orrore tante
di quelle volte nel corso degli anni, quando nessuno poteva
immaginare cosa mi passasse per la mente.
Era grazioso, anzi bello; aveva la stessa malinconica
espressione della prima volta in cui lo vidi.
Ma quasi subito si illuminò di uno strano sorriso,
piuttosto rigido, come se mi avesse riconosciuta.
Seguì un minuto buono di silenzio, poi finalmente parlò;
io non ci sarei mai riuscita.
“È incredibile!” esclamò. “Dodici anni fa, vidi il vostro
volto in sogno, e da quel momento in poi mi ha sempre
perseguitato.”
“Davvero incredibile,” ripetei io, cercando di vincere
l’orrore che fin lì mi aveva impedito di proferire parola.
“Dodici anni fa, in sogno o nella realtà, sono certa di avervi
visto. Non avrei mai potuto dimenticare il vostro volto. Ce
l’ho sempre davanti agli occhi da allora.”
Il suo sorriso si era ammorbidito. Qualunque stranezza
avessi immaginato in quel sorriso, adesso era sparita, e le
due fossette sulle gote erano un incanto e le conferivano
un’aria graziosa e vivace.
A quel punto mi tranquillizzai e, come buona educazione
vuole, le diedi il benvenuto dicendole quanto ci avesse fatto
piacere il suo arrivo improvviso, e che felicità fosse stata
per me.
Mentre parlavo le presi la mano. Ero una ragazza
piuttosto timida, come lo sono tutte le persone solitarie, ma
la situazione mi rendeva loquace, perfino ardita. La
straniera mi strinse la mano, ci posò sopra la sua e mi
lanciò un rapido sguardo: le brillavano gli occhi. Sorrise di
nuovo e arrossì.
Rispose con prontezza al mio benvenuto. Mi sedetti
accanto a lei, ancora meravigliata; e mi disse:
“Vi devo raccontare la visione che vi riguarda; è proprio
strano che quando eravamo piccole abbiamo avuto un
sogno così nitido, l’una dell’altra, io di voi e voi di me, dove
avevamo l’aspetto che abbiamo adesso. Ero una bambina di
appena sei anni e mi svegliai da un sogno confuso e
inquieto, e mi ritrovai in una stanza che non era la mia,
goffamente rivestita di legno scuro, con credenze, letti,
sedie e panche tutto intorno. I letti erano vuoti, o almeno
così mi sembrava, e nella stanza non c’era nessuno tranne
me; e così, dopo essermi guardata intorno per un po’,
soffermandomi con ammirazione su un candeliere di ferro a
due braccia che saprei riconoscere subito se me lo
ritrovassi davanti, sgattaiolai sotto uno dei letti per
raggiungere la finestra; ma appena uscii da sotto il letto,
sentii qualcuno gridare; e sollevai lo sguardo, mentre ero
ancora in ginocchio, e vi vidi – eravate voi, senz’ombra di
dubbio – come vi vedo ora; una bellissima ragazza con i
capelli dorati e gli occhi azzurri, e le labbra... le vostre
labbra... eravate voi, siete voi.
“La vostra bellezza mi conquistò; salii sul letto e vi
abbracciai, e a quel punto ci addormentammo. Fui svegliata
da un grido; voi eravate seduta sul letto e gridavate. Io mi
spaventai e scivolai a terra e, a quel che ricordo, persi
conoscenza per un momento; e quando tornai in me, ero di
nuovo in camera mia, a casa. Da allora non ho mai
dimenticato il vostro viso. Non potrei mai e poi mai essere
tratta in inganno da una semplice somiglianza. Voi siete la
ragazza che vidi allora”.
Fu quindi il mio turno di raccontare la visione
corrispondente, cosa che feci, destando nella mia nuova
conoscenza un malcelato stupore.
“Non so chi delle due debba avere più paura dell’altra,”
disse lei, sorridendo di nuovo. “Se foste meno graziosa,
credo che dovrei avere molta paura di voi, ma poiché siete
come siete, e siamo entrambe così giovani, farò come se vi
avessi conosciuta dodici anni fa, e questo già ci rende
amiche intime; in ogni caso pare che fossimo destinate a
conoscerci fin dalla primissima infanzia. Mi chiedo se anche
voi sentiate nei miei confronti questa strana attrazione che
provo io per voi; non ho mai avuto un’amica... forse ne ho
appena trovata una?” Sospirò e i suoi begli occhi scuri mi
fissarono con ardore.
Ora, la verità è che i miei sentimenti per la bella
sconosciuta erano alquanto inspiegabili. Mi sentivo anch’io,
per usare le sue stesse parole, “attratta da lei”, ma allo
stesso tempo provavo nei suoi confronti anche una certa
repulsione. In questo groviglio di emozioni contrastanti,
l’attrazione prevaleva su tutto. Quella ragazza mi
interessava, e mi conquistò; era così bella e seducente oltre
ogni dire.
A un certo punto, sembrò piombarle addosso una specie
di languore e un senso di spossatezza, così mi affrettai ad
augurarle la buonanotte.
“Il dottore ritiene,” aggiunsi, “che dovreste avere
qualcuno con voi durante la notte; una delle nostre
cameriere è già pronta e, come potrete vedere, è una
creatura molto servizievole e taciturna.”
“È molto gentile da parte vostra, ma non riesco, non sono
mai riuscita a dormire con una domestica nella stanza. Non
avrò bisogno di alcuna assistenza... e poi... posso
confessarvi una mia debolezza? Ho una paura folle dei
ladri. Una notte la nostra casa fu svaligiata, e due servitori
rimasero uccisi, per cui chiudo sempre a chiave la porta
della mia camera. È diventata un’abitudine... sarete così
gentile da perdonarmi, vero? Vedo che c’è la chiave nella
serratura.”
Mi tenne stretta tra sue graziose braccia per un
momento, sussurrandomi all’orecchio: “Buonanotte, mia
cara; è molto dura separarmi da voi, ma devo darvi la
buonanotte; domani ci rivedremo, ma non prima”.
Si lasciò cadere sul cuscino con un sospiro e i suoi occhi
mi seguirono, amorevoli e malinconici, e mormorò ancora
una volta: “Buonanotte, amica cara”.
I giovani in amore o nelle amicizie seguono l’istinto. Io
ero lusingata dall’evidente, benché ancora immeritato,
affetto che quella ragazza mi dimostrava. Mi piaceva la
fiducia con cui mi aveva ricevuto fin da subito. Era certa
che saremmo diventate grandi amiche.
Il giorno dopo ci incontrammo di nuovo. Io ero felicissima
della mia nuova compagna; o almeno da molti punti di
vista.
Alla luce del sole la sua avvenenza restava intatta: era
senza dubbio la creatura più bella che avessi mai visto, e la
spiacevole somiglianza con il viso del mio vecchio sogno
aveva perso l’effetto del primo, inaspettato riconoscimento.
Mi confessò che nel vedermi aveva provato anche lei
un’emozione fortissima e la stessa vaga antipatia mista ad
ammirazione. Ora potevamo ridere insieme dei nostri
terrori passeggeri.
IV
Le sue abitudini – Una passeggiatina
Vi ho già detto che quella ragazza mi affascinava da
molteplici punti di vista.
C’erano però alcuni particolari che non mi piacevano poi
tanto.
Era più alta della media delle donne. Inizierò
descrivendola.
Era snella e dotata di una grazia fuori dal comune. A
parte il fatto che i suoi movimenti erano languidi – molto
languidi – non c’era niente nel suo aspetto che lasciasse
presagire una qualche infermità. La sua carnagione era
colorita e brillante; i lineamenti minuti e perfettamente
modellati; gli occhi grandi, scuri e lucenti; i capelli erano
una vera meraviglia, non avevo mai visto capelli così folti e
lunghi, quando li lasciava sciolti sulle spalle; ho spesso
infilato le dita in quella chioma magnifica e riso,
meravigliata dal loro volume. Erano mirabilmente sottili e
soffici, di un castano molto scuro, con sfumature dorate.
Quanto mi piaceva scioglierli e lasciarli ricadere giù,
scompigliati, quando era seduta sulla poltrona, nella sua
stanza, e parlava con voce dolce e bassa: allora li
raccoglievo e li intrecciavo, e poi li spettinavo e
ricominciavo a giocarci. Cielo! Se solo avessi saputo!
Ho detto che c’erano alcuni particolari in lei che non mi
piacevano. Vi ho anche raccontato di come il suo fare
confidenziale mi avesse conquistato la prima sera che la
vidi; ma notai che era molto cauta e riservata quando
doveva parlare di sé, della madre, della propria storia, di
tutto ciò che riguardava da vicino la sua vita, i suoi
progetti, le persone che conosceva. Magari era una mia
fissazione assurda, forse sbagliavo; avrei dovuto rispettare
la solenne ingiunzione impartita a mio padre dalla
principessa vestita di nero. Ma la curiosità è una bestia
smaniosa e priva di scrupoli, e nessuna ragazza può essere
tanto paziente da sopportare che le proprie domande
vengano eluse da una compagna. Che male ci sarebbe stato
a dirmi ciò che desideravo sapere con tanto ardore? Non
aveva alcuna fiducia nel mio buon senso e nel mio onore?
Perché non mi credeva quando le giuravo solennemente
che non avrei rivelato ad anima viva neanche una sillaba di
quello che mi avrebbe detto?
Mi sembrava ci fosse una certa freddezza, esagerata in
una ragazza della sua età, in quel suo sorridente e
malinconico, ma irremovibile rifiuto di regalarmi anche il
più piccolo raggio di luce.
Non posso dire che litigassimo a questo proposito, perché
lei non litigava mai su niente. Certo, era molto scorretto e
maleducato, da parte mia, insistere così tanto, ma non
potevo proprio farne a meno; e avrei fatto meglio a lasciar
stare.
Quello che di fatto mi raccontò ammontava, secondo una
mia irragionevole stima, al niente più assoluto.
Si poteva riassumere in tre rivelazioni assi vaghe.
Primo: si chiamava Carmilla.
Secondo: la sua famiglia era molto antica e nobile.
Terzo: la sua casa si trovava verso ovest.
Non mi volle dire il nome della sua famiglia, né quale
fosse il loro stemma, né il nome della tenuta, e nemmeno
quello del paese in cui abitava.
Non dovete pensare che la infastidissi di continuo su
questi argomenti. Aspettavo solo l’occasione più propizia, e
le ponevo le mie domande in modo subdolo e cercando di
essere il più discreta possibile. Se devo essere onesta, solo
un paio di volte passai all’attacco diretto. Ma qualsiasi
tattica usassi, per risultato ottenevo sempre e comunque il
fallimento più totale. Rimproveri e lusinghe cadevano nel
vuoto. Ma c’è da dire anche questo, ossia che le sue
risposte evasive erano pronunciate con una malinconia e un
distacco così eleganti, con così numerose nonché
appassionate dichiarazioni di affetto nei miei confronti e di
fiducia nel mio onore, e con tanti di quei giuramenti che
prima o poi avrei saputo tutto, che non riuscivo a tenerle il
muso per molto.
Allora mi gettava le braccia al collo, mi attirava verso di
sé e, avvicinando la sua guancia alla mia, mi sussurrava
all’orecchio: “Mia cara, il tuo cuoricino è ferito; non
giudicarmi crudele perché obbedisco all’irresistibile legge
della mia forza e della mia debolezza; se il tuo amato cuore
è ferito, anche il mio cuore stravolto sanguina. Nell’estasi
della mia enorme umiliazione, io vivo nel calore della tua
vita e tu morirai – morirai, dolcemente morirai – nella mia.
Non posso farne a meno; come ora mi avvicino a te, così tu,
un giorno, ti avvicinerai ad altri, e sperimenterai l’estasi di
quella crudeltà, che è pur sempre amore; quindi, per il
momento, non farmi più domande su di me e sulle mie cose,
ma abbi fiducia in me con tutto l’affetto di cui la tua anima
è capace”.
E dopo avermi ripetuto questa rapsodia, mi stringeva
ancora più forte nel suo abbraccio tremante, e le sue labbra
accendevano la mia guancia di teneri baci.
La sua foga e le sue frasi erano incomprensibili per me.
Da questi abbracci assurdi, che non erano molto
frequenti, sentivo il bisogno di liberarmi, lo ammetto; ma le
forze sembravano abbandonarmi. Le parole che mi
sussurrava all’orecchio parevano una nenia, e piegavano la
mia resistenza, conducendomi in uno stato di trance da cui
mi pareva di svegliarmi solo quando allentava l’abbraccio.
Quand’era preda di questi misteriosi umori, non mi
piaceva. Provavo una strana e tumultuosa eccitazione,
mista a un vago senso di paura e disgusto, che alle volte
era anche piacevole. In quei momenti non sapevo cosa
pensare di lei, ma ero consapevole che l’amore si stava
trasformando in adorazione e, in un certo senso, anche in
ripugnanza. So che può sembrare un paradosso, ma non
riuscirei a spiegare in altri termini il sentimento che
provavo per lei.
Ancora oggi, dopo più di dieci anni, mentre scrivo mi
trema la mano e mi tornano in mente i ricordi confusi e
orribili di alcuni eventi e situazioni, cimenti in cui mi
trovavo senza saperlo; i punti salienti della mia storia sono
invece impressi in modo vivido e quasi indelebile nella mia
memoria.
Credo che nella vita delle persone ci siano dei momenti
molto forti da un punto di vista emotivo durante i quali le
passioni vengono scatenate con una furia e una violenza
inaudite, e sono quelli che poi si ricordano in modo più
vago e indistinto.
A volte, dopo un’ora di apatia, la mia strana e bella
compagna mi prendeva per mano e me la stringeva
teneramente, più e più volte; arrossiva un poco, mi
guardava con occhi languidi e ardenti, ansimava così tanto
che il vestito si sollevava e si abbassava al ritmo
tumultuoso del suo respiro. Aveva l’ardore di un
innamorato e questo mi imbarazzava: era una sensazione
odiosa ma travolgente. Mi attirava a sé con occhi bramosi e
le sue labbra calde mi sfioravano le guance di baci, e mi
bisbigliava, quasi singhiozzando: “Tu sei mia, tu sarai mia,
io e te saremo unite per sempre”. Poi si lasciava cadere di
nuovo sulla sedia, con le piccole mani sugli occhi,
lasciandomi tremante.
“Siamo forse parenti?” le chiedevo ogni volta; “cosa
significano le tue parole? Forse ti ricordo qualcuno che
ami; ma non devi fare così, non lo sopporto; non ti
riconosco più... non riconosco più nemmeno me stessa
quando mi guardi e mi parli così.”
Alla mia reazione violenta, lei sospirava, poi distoglieva lo
sguardo e mi lasciava la mano.
Cercavo invano di formulare una qualche teoria
soddisfacente capace di spiegare il suo strano
comportamento – che tutto era tranne che affettato o
artificioso. Era senza dubbio l’esplosione momentanea di
istinti o emozioni represse. Forse, nonostante le
rassicurazioni della madre, era soggetta a brevi attacchi di
pazzia; o si trattava di un romantico travestimento?
C’erano antiche fiabe che parlavano di queste cose. E se un
ragazzo innamorato di me avesse trovato il modo di
intrufolarsi in casa mia e cercato di portare avanti il suo
corteggiamento travestendosi da ragazza, con l’aiuto di
un’avventuriera più anziana e scaltra? Ma c’erano troppi
elementi contro quest’ipotesi, benché stuzzicasse la mia
vanità.
Non potrei vantarmi di aver ricevuto quelle piccole
attenzioni che la galanteria maschile si diverte a offrire.
Tra questi momenti appassionati c’erano lunghi intervalli di
normalità, di gioia, di pensosa malinconia, durante i quali, a
parte quando intercettavo il suo sguardo infuocato e
malinconico che mi seguiva, alle volte era come se non
esistessi per lei. Tranne che per queste brevi parentesi
d’inspiegabile eccitazione, Carmilla si comportava in modo
femminile, e c’era sempre un languore in lei del tutto
incompatibile con le caratteristiche che dovrebbe avere un
maschio in salute.
Per certi versi le sue abitudini erano strane. Forse a voi
gente di città non sembreranno così bizzarre come a noi
che abitiamo in campagna. Al mattino scendeva molto
tardi, di solito non prima dell’una, e prendeva una tazza di
cioccolata, ma non mangiava nulla; poi uscivamo a fare una
passeggiata, o meglio, a fare due passi, perché si stancava
quasi subito, e allora tornavamo al maniero oppure ci
sedevamo su una delle panchine sistemate qua e là, tra gli
alberi. La sua mente contraddiceva il languore del corpo.
Era sempre una brillante conversatrice, e molto
intelligente.
A volte alludeva a casa sua o menzionava un’avventura o
una situazione o un ricordo d’infanzia, che faceva pensare a
gente con abitudini ben strane, e descriveva usanze di cui
non avevo mai sentito parlare. Da questi accenni fortuiti
capii che il suo paese natio era molto più lontano di quanto
avessi immaginato.
Un pomeriggio, mentre eravamo sedute sotto gli alberi,
passò di lì un corteo funebre. Era il funerale di una
graziosa ragazza che avevo visto spesso, la figlia di uno dei
guardaboschi. Il poveretto seguiva il feretro della sua
creatura; era la sua unica figlia e l’uomo sembrava davvero
affranto.
Lo seguivano, a due a due, i contadini, cantando un inno
funebre.
Al loro passaggio, mi alzai in segno di rispetto e mi unii a
quel canto così dolce.
La mia compagna mi scosse con una certa violenza e io
mi voltai, sorpresa.
Disse in tono brusco: “Non senti com’è stonato?”.
“Al contrario, lo trovo molto dolce,” risposi, irritata per
l’interruzione e molto a disagio, perché temevo che le
persone che formavano il piccolo corteo potessero
accorgersene e risentirsi.
Allora ripresi subito a cantare, ma fui di nuovo interrotta.
“Mi stai trapanando i timpani,” disse Carmilla, quasi
adirata, tappandosi le orecchie con le minuscole dita. “E
poi come fai a sapere che la tua religione e la mia sono
uguali? I vostri riti mi feriscono e odio i funerali. Che
trambusto! Ma sì, tu devi morire... tutti devono morire;
sono tutti più felici quando muoiono. Andiamo a casa.”
“Mio padre è andato avanti insieme al prete, aspettano il
corteo al cimitero. Pensavo che sapessi che la seppellivano
oggi.”
“Chi, quella ragazza? Non mi interesso ai contadini. Non
so chi sia,” rispose Carmilla, gli occhi belli attraversati da
un lampo.
“È quella povera ragazza che quindici giorni fa ha detto
di aver visto un fantasma, dopodiché si è andata
spegnendo, giorno dopo giorno, fino a ieri, quando è
spirata.”
“Non parlarmi di fantasmi. Altrimenti stanotte non
riuscirò a dormire.”
“Spero che non sia in arrivo un’epidemia o una febbre
contagiosa; i sintomi sembrano quelli,” continuai. “La
giovane moglie del porcaro è morta appena una settimana
fa, e diceva che mentre era a letto c’era qualcosa che la
afferrava per la gola fin quasi a strangolarla. Papà dice che
queste orribili fantasie accompagnano alcuni tipi di febbre.
Il giorno prima stava benissimo. Poi ha iniziato a deperire e
nemmeno una settimana dopo è morta.”
“Be’, allora il suo funerale l’avranno già fatto e avranno
già cantato il suo inno; e le nostre orecchie non saranno
torturate da quello scempio di suoni incomprensibili. Mi ha
reso nervosa. Siediti qui, vicino a me; siediti più vicino;
prendimi la mano; stringila forte, forte, più forte.”
Ci eravamo spostate un po’ più indietro, raggiungendo
un’altra panca.
Si sedette. Il suo volto subì una trasformazione che mi
allarmò e per un momento mi fece quasi paura. Si incupì, e
divenne orribilmente livido; strinse i denti e i pugni,
corrugò la fronte e serrò le labbra mentre teneva gli occhi
fissi a terra, guardandosi le scarpe, e tremava dalla testa ai
piedi, scossa da brividi irrefrenabili, quasi avesse un
attacco di febbre malarica. Tutti i suoi sforzi sembravano
tesi a sopprimere un attacco che la faceva penare e la
lasciava senza fiato; e alla fine scoppiò in un pianto
convulso, basso e doloroso, e pian piano l’isteria si placò.
“Lo vedi? Ecco cosa succede a soffocare la gente con gli
inni!” disse, infine. “Stringimi, stringimi ancora. Sta
passando.”
E, infatti, pian piano passò; e forse per dissolvere la cupa
impressione che quello spettacolo mi aveva lasciato
addosso, divenne insolitamente vivace e ciarliera; e così
tornammo a casa.
Questa fu la prima volta che la vidi manifestare i chiari
sintomi della salute cagionevole di cui aveva parlato la
madre. Fu anche la prima volta che la vidi manifestare una
qualche forma di collera.
Entrambe le cose passarono come una nuvola estiva; in
seguito non assistetti mai più, tranne una volta, a questi
sfoghi improvvisi di rabbia. Ora vi racconto come è andata.
Un giorno eravamo affacciate a una delle alte finestre del
salotto quando un vagabondo che conoscevo molto bene
passò il ponte levatoio ed entrò nella corte. In genere
faceva visita al maniero un paio di volte l’anno.
Era un gobbo, con i lineamenti spigolosi e scarni tipici
della deformità. Aveva una barba nera a punta e un sorriso
che gli partiva da un orecchio e gli arrivava all’altro e
metteva in bella mostra i dentoni bianchi. Indossava un
vestito marrone chiaro, nero e scarlatto, con molte più
cinghie e cinture di quante fosse possibile contare, dalle
quali pendevano oggetti di ogni sorta. Sulla schiena
portava una lanterna magica e due scatole che io
conoscevo bene: in una c’era una salamandra e nell’altra
una manticora.8 Questi mostri facevano ridere mio padre.
Erano costruiti con parti di scimmie, pappagalli, scoiattoli,
pesci e ricci, fatte essiccare e poi cucite insieme con
grande precisione e con risultati sorprendenti. Aveva un
violino, una scatola di giochi di prestigio, un paio di fioretti
e maschere attaccati alla cintura, e svariati altri foderi
misteriosi che gli penzolavano da ogni parte, e in mano un
bastone nero con il puntale di rame. Il suo compagno era
un cagnaccio irsuto e rinsecchito che gli stava sempre alle
calcagna, ma stavolta, mentre passavano sul ponte levatoio,
l’animale si fermò per un istante, sospettoso, e di lì a poco
cominciò a mandare cupi ululati.
Nel frattempo il saltimbanco, in piedi al centro della
corte, sollevò il grottesco cappello e ci fece un inchino
molto cerimonioso, esibendosi in lodi sperticate in un
esecrabile francese e in un tedesco ancor più disastroso.
Poi sciolse il violino dalla cintura e cominciò a trarne un
vivace motivetto su cui cantava con voce allegra e stonata,
e intanto danzava sfoggiando tutta una serie di mosse e
gesti ridicoli, che mi facevano ridere nonostante l’ululato
del cane.
Quindi il vagabondo si avvicinò alla nostra finestra con
molti sorrisi e saluti, il cappello nella mano sinistra, il
violino sottobraccio, e senza mai riprendere fiato ci
farfugliò l’elenco lunghissimo di tutti i suoi talenti, delle
svariate e prodigiose arti che metteva al nostro servizio, e
delle curiosità e dei divertimenti che, su nostra richiesta,
poteva offrirci.
“Le vostre signorie vorrebbero forse comprare un
amuleto contro l’upiro9 che, a quanto ne so, s’aggira per
questi boschi come un lupo?” disse, lasciando cadere a
terra il cappello. “Stanno morendo a destra e a manca e
questo talismano qua non fallisce mai; dovete solo
appuntarlo al cuscino, e al mostro potete ridergli in faccia.”
Questi talismani infallibili consistevano in strisce
rettangolari di pergamena con su disegnati simboli
cabalistici e diagrammi.
Carmilla ne comprò subito uno e io feci altrettanto.
Lui ci guardava da sotto la finestra e noi gli sorridevamo
dall’alto, divertite; almeno per quanto mi riguarda. I suoi
penetranti occhi neri, mentre ci fissavano, sembrarono
individuare qualcosa che per un momento catturò la sua
attenzione.
Srotolò rapido un astuccio di pelle, pieno dei più svariati
e bizzarri arnesi d’acciaio.
“Vedete, signorina,” disse, mostrandomeli, “io esercito,
insieme ad altre cose meno utili, l’arte dell’odontoiatria.
Che gli pigli un colpo a quel cagnaccio!” disse, rivolto ora
all’animale. “Sta’ zitto, brutta bestia! Ulula così forte che le
vostre signorie non possono sentire nemmeno una parola.
La vostra nobile amica, la giovane dama alla vostra destra,
ha i denti molto aguzzi... lunghi, sottili, appuntiti come una
lesina, come un ago; ah! ah! Con la mia vista acuta e
potente, non appena ho alzato gli occhi, li ho visti con
chiarezza; ora, se dovessero arrecare fastidio alla giovane
dama, e non può essere altrimenti, io sono qui, pronto per
lei, con lima, punteruolo e pinze; li renderò rotondi e
smussati, se alla signoria vostra piacerà; non saranno più
lunghi dei denti di un pesciolino, come si conviene a una
ragazza così bella. Come? La dama è contrariata? Sono
stato troppo audace? L’ho offesa?”
La ragazza, in effetti, sembrava molto arrabbiata mentre
si scostava dalla finestra.
“Come osa quel saltimbanco insultarci a questo modo?
Dov’è tuo padre? Pretendo delle scuse da parte sua. Mio
padre l’avrebbe fatto legare a una pompa, quel disgraziato,
e frustare con un pesante scudiscio, e marchiare a fuoco
come una bestia!”
Si allontanò dalla finestra di un paio di passi e si mise a
sedere. Non appena l’insolente fu fuori dalla vista, la sua
ira si placò con la stessa rapidità con cui era sorta, pian
piano la sua voce recuperò il tono di sempre: sembrava
aver dimenticato il piccolo saltimbanco e le sue scemenze.
Mio padre era molto abbattuto quella sera. Rientrando ci
disse che c’era stato un altro caso molto simile agli altri
due, fatali, occorsi di recente. La sorella di un giovane
contadino della sua proprietà, a neanche un miglio da casa,
era molto malata; la poveretta, sue testuali parole, era
stata attaccata allo stesso identico modo, e ora si avviava
verso una morte lenta ma inesorabile.
“Tutto questo,” disse mio padre, “è senz’altro da
attribuirsi a cause naturali. Ma questa povera gente si
contagia a vicenda con le sue superstizioni, e così si
convince di vedere le stesse spaventose immagini che
hanno infestato i loro vicini, ma sono solo fantasie.”
“Ma sono cose che mettono una paura tremenda,” disse
Carmilla.
“E come mai?” domandò mio padre.
“Ho tanta paura che poi finisco per immaginarle o
sognarle; secondo me la fantasia è brutta come la realtà.”
“Siamo nelle mani di Dio: nulla può accadere senza il Suo
permesso e tutto si concluderà bene per coloro che Lo
amano. Lui è il nostro amorevole Creatore; Lui ci ha creato
e Lui si prenderà cura di noi.”
“Il Creatore! La Natura!” disse la ragazza, in risposta alle
parole gentili di mio padre. “E questa malattia che invade il
paese è naturale. La Natura. Tutte le cose derivano dalla
Natura... vero? Tutte le cose in Cielo, sulla terra e sotto
terra agiscono ed esistono secondo il volere della Natura?
Già, proprio così.”
“Il dottore ha detto che sarebbe venuto oggi,” disse mio
padre, dopo un momento di silenzio. “Voglio sapere cosa ne
pensa e cosa sia meglio fare, secondo lui.”
“I dottori non mi hanno mai fatto alcun bene,” disse
Carmilla.
“Allora sei stata malata?” chiesi io.
“Più malata di quanto tu non sia mai stata,” rispose.
“Molto tempo fa?”
“Sì, molto tempo fa. Ho sofferto di una malattia simile a
questa; ma ho dimenticato tutto, tranne il dolore e la
spossatezza, che non sono peggiori di quelli provocati da
altre malattie.”
“Eri molto giovane allora?”
“Direi di sì, ma non parliamone più. Non vorrai ferire
un’amica, vero?”
Mi lanciò uno sguardo languido, mi cinse la vita con il
braccio, affettuosa, e mi condusse fuori dalla stanza. Mio
padre rimase accanto alla finestra, armeggiando con alcuni
documenti.
“Perché tuo papà si diverte a spaventarci?” disse quella
ragazza graziosa con un sospiro e un lieve fremito.
“Ma no, non voleva spaventarci, cara Carmilla; è quanto
di più lontano dalle sue intenzioni.”
“Tu hai paura, mia cara?”
“Ne avrei molta se credessi che il pericolo di essere
attaccata, come è successo a quei poveretti, fosse reale.”
“Hai paura di morire?”
“Certo, tutti hanno paura di morire.”
“Ma morire da innamorati... morire insieme, per
continuare a vivere insieme. Le ragazze sono come bruchi
mentre vivono nel mondo e diventano farfalle quando arriva
l’estate; ma frattanto ci sono altri bachi e larve, ma tu non
li vedi... ognuno con le proprie inclinazioni, necessità e
struttura. Almeno così dice Monsieur Buffon,10 nel librone
che c’è nella stanza accanto.”
Più tardi, quel giorno stesso, arrivò il dottore e restò
chiuso nello studio di papà per parecchio tempo.
Era un medico molto esperto, sui sessant’anni o forse più,
che si incipriava il viso e si radeva le guance pallide fino a
renderle lisce come una zucca. Uscirono dalla stanza
insieme, e io sentii papà che rideva e diceva:
“Mi meraviglio di un uomo saggio come voi. Cosa ne
pensate di ippogrifi e dragoni?”.
Il dottore sorrideva, e rispose scuotendo la testa.
“In ogni caso, la vita e la morte sono condizioni
misteriose e noi sappiamo poco o niente delle loro
potenzialità.”
Così dicendo, si allontanarono e non sentii altro. Allora
non sapevo a cosa alludesse il dottore, ma ora credo di
saperlo.
V
Un’incredibile somiglianza
Quella stessa sera arrivò da Graz11 il figlio del pulitore di
quadri, un giovanotto dal volto serio e scuro, con un cavallo
e un barroccio caricato con due grosse casse da
imballaggio che contenevano molte tele. Era un viaggio di
dieci leghe, e ogni volta che al castello arrivava un
messaggero dalla piccola capitale di Graz, noi ci
raccoglievamo tutti intorno a lui, nel vestibolo, curiosi di
sapere le novità.
Questo arrivo creò gran fermento nella nostra tenuta
isolata. Le casse vennero scaricate nel vestibolo, mentre la
servitù si occupò del messaggero fin quando non ebbe
finito la cena. Dopodiché con alcuni assistenti, armato di
martello, piede di porco e cacciavite, ci venne incontro nel
vestibolo, dove ci eravamo radunati per assistere
all’apertura delle casse.
Carmilla rimase seduta, guardando indifferente la scena,
mentre, uno dopo l’altro, venivano alla luce vecchi dipinti,
quasi tutti ritratti, che mio padre aveva fatto restaurare.
Mia madre apparteneva a un’antica famiglia ungherese e la
maggior parte dei quadri, che andavano rimessi al loro
posto, li avevamo ereditati da lei.
Mio padre scorreva un elenco che consultava ogni volta
che il restauratore scovava nella cassa il quadro con il
numero corrispondente. Non so se quei dipinti avessero un
qualche valore, ma erano senz’altro molto antichi e alcuni
erano anche piuttosto strani. Avevano, nella maggior parte
dei casi, il pregio di apparire nuovi ai miei occhi; infatti il
fumo e la polvere del tempo li avevano quasi del tutto
cancellati.
“C’è un dipinto che non ho ancora visto,” disse mio
padre. “In un angolo, in alto, c’è un nome, ‘Marcia
Karnstein’, se ho letto bene, con una data, ‘1698’; ecco,
sono davvero curioso di vedere com’è venuto.”
Me lo ricordavo; era un quadro piccolo, alto all’incirca un
piede e mezzo, e quasi quadrato, senza cornice; ma era così
annerito dal tempo che non ero mai riuscita a vedere con
chiarezza cosa rappresentasse.
Il restauratore lo esibì con legittimo orgoglio. Era
bellissimo; era sorprendente; sembrava vivo. Ed era
l’effigie di Carmilla!
“Carmilla, mia cara, ma questo è un vero miracolo! Eccoti
qui, dentro al quadro, viva, sorridente, pronta a parlare.
Non è bellissima, papà? E guarda, c’è anche il piccolo neo
che ha sulla gola.”
Mio padre rise, e disse: “La somiglianza è davvero
incredibile”, ma poi passò ad altro e, con mia grande
sorpresa, non parve troppo colpito dalla cosa, e continuò a
parlare con il restauratore, che era anche una specie di
artista e faceva osservazioni molto pertinenti sui ritratti e
su altri lavori che la sua arte aveva appena riportato alla
luce e ai loro antichi colori, mentre io continuavo a fissare
il dipinto ed ero sempre più sbalordita.
“Questo quadro posso appenderlo in camera mia, papà?”
chiesi.
“Ma certo, cara,” disse lui, sorridendo. “Mi fa piacere che
lo trovi così somigliante. Se è davvero come dici, forse è
ancor più bello di quanto pensassi.”
Carmilla non reagì in alcun modo a queste parole, come
se non le avesse proprio sentite. Era appoggiata allo
schienale della sedia, sotto le lunghe ciglia i suoi occhi
meravigliosi non smettevano mai di guardarmi, e sorrideva,
come in estasi.
“E ora finalmente si riesce a leggere con chiarezza il
nome scritto nell’angolo. Non è Marcia; è come dipinto in
oro. Il nome è Mircalla, contessa Karnstein, e questa, sopra
e sotto la data 1698, è una coroncina nobiliare. Io discendo
dai Karnstein; proprio così, da parte di madre.”
“Ah!” fece lei, languida, “anch’io, mi pare, ma una
discendenza molto alla lontana, molto antica. C’è ancora
qualche Karnstein vivente?”
“Nessuno che ne porti il nome, credo. La famiglia andò in
rovina durante una qualche guerra civile, credo, molto
tempo fa, ma le rovine del castello sono ad appena tre
miglia da qui.”
“Molto interessante!” disse lei, languida. “Ma guarda che
luna meravigliosa!” Diede una sbirciatina attraverso la
porta d’ingresso, che era socchiusa. “Sarebbe bello fare un
giretto in cortile, e guardare da lì la strada e il fiume.”
“È come la notte in cui sei arrivata,” dissi.
Lei sospirò, sorridendo.
Si alzò, mi passò il braccio intorno alla vita e io feci lo
stesso, e così abbracciate uscimmo fuori, sul selciato.
In silenzio, a passi lenti, scendemmo verso il ponte
levatoio, e proprio lì davanti a noi si aprì un magnifico
paesaggio.
“E così pensavi alla sera in cui sono arrivata qui,” disse
lei, quasi in un sussurro. “Sei contenta che sia venuta?”
“Felicissima, mia cara Carmilla,” risposi.
“E hai chiesto di avere il ritratto che secondo te mi
assomiglia, per appenderlo in camera tua,” mormorò con
un sospiro, stringendomi ancora più forte e lasciando
cadere la sua graziosa testolina sulla mia spalla. “Come sei
romantica, Carmilla,” dissi. “Quando deciderai di
raccontarmi la tua storia, sarà quasi come ascoltare un
grande romanzo.”
Lei mi baciò senza parlare.
“Sono sicura, Carmilla, che sei stata innamorata; che hai
ancora qualcuno che ti fa battere il cuore, anche in questo
momento.”
“Non sono mai stata innamorata di nessuno, e mai lo
sarò,” sussurrò, “a meno che non si tratti di te.”
Com’era bella al chiaro di luna!
Timido e strano era il suo sguardo quando nascose lesta il
viso contro il mio collo, tra i miei capelli, con tumultuosi
sospiri che sembravano quasi singhiozzi, spingendo nella
mia mano la sua, che tremava.
La sua morbida guancia bruciava contro la mia. “Cara,
cara,” mormorava, “io vivo in te; e tu moriresti per me, che
ti amo così tanto!”
Mi scostai da lei immediatamente.
Mi fissava con uno sguardo da cui erano sfumate ogni
fiamma, ogni intenzione; ora il suo viso era pallido e
apatico.
“L’aria si è fatta gelida, mia cara, non trovi?” disse
indolente. “Ho quasi i brividi; è stato tutto un sogno? Dai,
rientriamo. Su, su, rientriamo.”
“Sembri malata, Carmilla; un po’ debole. Dovresti bere
un goccio di vino,” le dissi.
“Sì. Lo farò. Ora mi sento meglio. Fra qualche minuto
starò benissimo. Sì, per favore, dammi un po’ di vino,” disse
Carmilla, mentre ci avvicinavamo alla porta.
“Restiamo ancora un momento a guardare; è l’ultima
volta, forse, che vedo la luna con te.”
“Come ti senti ora, cara Carmilla? Stai davvero meglio?”
le domandai.
Iniziavo a preoccuparmi: e se fosse stata vittima anche lei
di quella strana epidemia che stava imperversando per la
campagna tutt’intorno al castello?
“Per il papà sarebbe davvero troppo,” aggiunsi, “venire a
sapere che eri così malata e non ci hai informati subito.
Abbiamo un dottore molto bravo qui vicino; è il medico che
oggi era con papà.”
“Non ho dubbi che lo sia. E so quanto siete premurosi,
tutti quanti; ma ora sto di nuovo bene, mia cara, te
l’assicuro. Non c’è nulla che non vada in me, solo un po’ di
debolezza. La gente dice che sono languida; non posso fare
sforzi; le mie camminate possono durare quanto quelle di
un bambino di tre anni: e ogni tanto le mie poche forze mi
abbandonano, e allora mi succede come poco fa. Ma alla
fine di tutto, mi rimetto subito in sesto; in un attimo sono di
nuovo me stessa. Vedi come mi sono ripresa!”
E in effetti si era ripresa; chiacchierammo a lungo, e lei
parlava con grande vivacità; e il resto della serata trascorse
senza che si ripresentassero quelle che io chiamavo “le sue
infatuazioni”. Parlo dei suoi discorsi strampalati e dei suoi
sguardi folli, che mi mettevano in imbarazzo e un po’ mi
spaventavano anche.
Ma quella notte accadde qualcosa che diede un corso del
tutto nuovo ai miei pensieri, e che sembrò stimolare la
languida natura di Carmilla in un momentaneo slancio di
energia.
VI
Un’agonia molto strana
Quando entrammo in salotto per bere il caffè e la
cioccolata, Carmilla non toccò nulla, però sembrava di
nuovo in ottima forma; madame Perrodon e mademoiselle
De Lafontaine si unirono a noi e facemmo una breve partita
a carte, durante la quale papà venne a prendersi la sua
“tazza di tè”.
Finita la partita, si sedette sul divano accanto a Carmilla
e le chiese, un po’ preoccupato, se da quando era lì avesse
più ricevuto notizie dalla madre.
Rispose di no.
Poi le chiese se avesse un qualche indirizzo a cui poterle
scrivere.
“Non so che dire,” rispose lei restando sul vago, “ma in
ogni caso stavo pensando di lasciarvi. Siete già stati fin
troppo ospitali e gentili con me. Vi ho causato un’infinità di
guai e vorrei prendere una carrozza, domani, e partire alla
ricerca di mia madre; insomma, so dove potrebbe essere,
ma non saprei dirvelo con certezza.”
“Ma voi non dovete neanche sognarvi di fare una cosa del
genere,” esclamò mio padre, con mio grande sollievo. “Non
possiamo sopportare di perdervi così, e non permetterò che
ve ne andiate, se non dopo avervi affidato alle cure di
vostra madre, che è stata tanto buona da consentirvi di
rimanere con noi fino al suo ritorno. Sarei ben lieto di
sapere che avete ricevuto sue notizie: ma questa sera le
voci sulla misteriosa malattia che sta dilagando nella
contea si sono fatte più allarmanti; e visto che non posso
contare sul consiglio di vostra madre, mia bella ospite, mi
sento ancora più responsabile nei vostri confronti. Ma farò
del mio meglio; non dovete neanche pensare di andarvene
senza sue precise direttive in merito, questo è certo. E poi
soffriremmo troppo a separarci da voi per permetterlo con
tanta facilità.”
“Grazie, signore, mille volte grazie per la vostra
ospitalità,” rispose lei, sorridendo timida. “Siete tutti
troppo gentili con me; rare volte in vita mia sono stata
tanto felice, come ora qui, nel vostro splendido châteaux,
sotto la vostra protezione e in compagnia della vostra cara
figliola.”
Lui le baciò la mano con galanteria, secondo l’antica
usanza, sorridendo compiaciuto di quel bel discorsetto.
Come ogni sera, accompagnai Carmilla nella sua stanza e
mi sedetti a chiacchierare mentre lei si preparava per la
notte.
“Credi,” dissi alla fine, “che potrai mai confidarti del tutto
con me?”
Lei si voltò sorridendo, ma non rispose; continuò a
sorridere, tutto qua.
“Non vuoi rispondermi, vero?” dissi. “Non puoi darmi la
risposta che voglio; non avrei mai dovuto chiederlo.”
“Avevi tutti i diritti di farmi questa domanda, o qualsiasi
altra. Se tu sapessi quanto mi sei cara, non penseresti che
esistono confidenze troppo grandi. Ma ho fatto un voto, più
rigoroso di quello di una suora, e non oso raccontare la mia
storia, non ancora, neppure a te. Ma presto saprai tutto.
Penserai che sono crudele, molto egoista, ma l’amore è
sempre egoista; più è ardente, più è egoista. Non immagini
neanche quanto sia gelosa. Tu devi venire con me e
amarmi, fino alla morte; oppure odiarmi, ma venire lo
stesso con me e odiarmi nella morte e anche oltre. Il mio
ardore serafico non sa cosa sia l’indifferenza.”
“Ecco che ricominci con le tue assurde stupidaggini,
Carmilla,” mi affrettai a dire.
“Oh no, che sventata che sono! E per di più piena di
capricci e fantasie. Per amor tuo, stavolta parlerò da
saggia. Sei mai stata a un ballo?”
“No, ma che aspetti a raccontarmelo? Com’è? Deve
essere affascinante.”
“L’ho quasi dimenticato, è stato anni fa.”
Mi venne da ridere.
“Non sei così vecchia. Non puoi aver già dimenticato il
tuo primo ballo.”
“Ricordo tutto... ma a fatica. Vedo tutto quello che
succede come un palombaro che, nelle profondità marine,
guarda sopra di sé attraverso una cortina densa,
increspata, ma trasparente. Quella notte accadde qualcosa
che ha confuso la scena e sbiadito i colori. Sono stata quasi
assassinata nel mio letto, ferita qui,” e si toccò il petto, “e
da allora niente è mai più stato lo stesso.”
“Hai rischiato di morire?”
“Sì, per un amore molto strano – un amore crudele – che
mi avrebbe tolto la vita. L’amore otterrà i suoi sacrifici. E
non esiste sacrificio senza sangue. Ma adesso andiamo a
letto; mi sento così stanca. Come farò ora ad alzarmi per
venire a chiudere a chiave la porta?”
Giaceva sul letto con le piccole mani seppellite tra i folti
capelli ondulati, sotto la guancia, la testa minuta sul
guanciale, e gli occhi lucenti mi seguivano passo passo, con
un sorriso un po’ timido che non riuscii a decifrare.
Le augurai la buonanotte e sgattaiolai fuori dalla stanza
con addosso uno strano disagio.
Mi chiedevo spesso se la nostra graziosa ospite pregasse.
Io, di certo, non l’avevo mai vista in ginocchio. Al mattino
lei scendeva quando avevamo finito ormai da un pezzo le
nostre preghiere e la sera non lasciava mai il salotto per
partecipare alle nostre stringate preghiere vespertine, nel
vestibolo.
Se un giorno per caso, mentre parlavamo d’altro, non
fosse venuto fuori che era stata battezzata, avrei perfino
dubitato che fosse cristiana. La religione era un argomento
su cui non l’avevo mai sentita spendere una parola. Se
avessi conosciuto meglio il mondo, questa particolare
negligenza o avversione non mi avrebbe sorpreso più di
tanto.
Le precauzioni delle persone con i nervi tesi sono
contagiose, e le persone con un temperamento simile,
prima o poi, finiscono per imitarle, questo è certo. Avevo
preso anch’io l’abitudine di Carmilla di chiudere a chiave la
porta della camera, ora che tutti i suoi bizzarri timori circa
ipotetici invasori notturni e furtivi assassini mi erano
entrati in testa. Avevo anche adottato la cautela di fare una
breve ispezione, proprio come faceva lei, per assicurarsi
che nella stanza non fosse “annidato” nessun ladro o
assassino, pronto a colpire.
Dopo aver fatto i dovuti controlli, mi infilavo a letto e mi
addormentavo. Tenevo una luce accesa in camera. Era una
vecchia abitudine, di quando ero piccolissima, che niente e
nessuno mi avrebbe indotto ad abbandonare.
Così mi sentivo protetta e potevo riposare tranquilla. Ma i
sogni passano attraverso i muri di pietra, illuminano le
stanze buie o abbuiano quelle illuminate, e i loro
protagonisti entrano ed escono come gli pare e piace, e si
fanno beffe dei fabbri.
Quella notte feci un sogno che segnò l’inizio di un’agonia
molto strana.
Non posso definirlo un incubo, perché ero più che certa
di essere addormentata.
Ma ero altrettanto sicura di essere in camera mia, distesa
sul mio letto, dove effettivamente ero. Vidi, o così mi parve,
la stanza e i mobili proprio come li avevo visti prima di
chiudere gli occhi, solo che era molto buio, e vidi qualcosa
che si muoveva ai piedi del letto, che sulle prime non riuscii
a distinguere bene. Ma di lì a poco vidi che si trattava di un
grosso animale nero come la pece, simile a un gatto
enorme. Poteva essere lungo circa quattro o cinque piedi,
poiché copriva l’intera lunghezza del tappeto mentre ci
passava sopra; e continuava a fare avanti e indietro con
l’irrequietezza agile e sinistra di una bestia in gabbia. Non
riuscivo a gridare anche se, come potete immaginare, ero
terrorizzata. Il suo passo si faceva sempre più rapido, e la
stanza buia, sempre più buia, così buia che alla fine non
riuscii a vedere altro che i suoi occhi. Lo sentii balzare con
agilità sul letto. I suoi occhi enormi si avvicinarono al mio
viso e d’un tratto avvertii un dolore acuto, come se due
grossi aghi, separati da un pollice o due, mi penetrassero a
fondo nel petto. Mi svegliai gridando. La stanza era
illuminata dalla solita candela che restava accesa tutta la
notte, e vidi una figura femminile ai piedi del letto, sulla
destra. Indossava un ampio vestito nero, e i capelli sciolti le
ricadevano sulle spalle. Una pietra non sarebbe potuta
essere più immobile. Neanche il più lieve accenno di
respiro a muoverle il petto. Mentre la fissavo, la figura si
spostò e adesso era più vicina alla porta; quando la
raggiunse, la porta si aprì e lei se ne andò.
Tirai allora un sospiro di sollievo, e ricominciai a
respirare e a muovermi. Per prima cosa pensai che
Carmilla mi avesse fatto uno scherzo, e che magari avevo
dimenticato di chiudere a chiave la porta. Andai subito a
controllare, ma era chiusa dall’interno come al solito. Avevo
paura ad aprirla – ero atterrita. Mi precipitai a letto e
nascosi la testa sotto le coperte, e restai lì, più morta che
viva, fino al mattino.
VII
Deperimento
Sarebbe inutile tentare di spiegare l’orrore con cui,
ancora oggi, ripenso all’episodio di quella notte. Non era un
terrore passeggero, di quelli che lasciano i sogni. Pareva
acuirsi sempre più col passare del tempo, e impregnava di
sé la stanza e perfino i mobili che avevano assistito
all’apparizione.
Il giorno dopo non volli restare sola neanche per un
istante. Avrei dovuto parlarne con papà, ma non lo feci, per
due ragioni opposte. Da una parte pensavo che avrebbe
riso della mia storia, e non potevo sopportare che la cosa
fosse trattata come uno scherzo; dall’altra temevo avrebbe
pensato che ero stata colpita dalla misteriosa malattia che
aveva invaso il vicinato. Per quanto mi riguarda, non avevo
alcun timore, e visto che negli ultimi tempi non si era
sentito tanto bene, preferivo non metterlo in allarme.
Con le mie buone compagne, madame Perrodon e la
vivace mademoiselle De Lafontaine, mi sentivo abbastanza
tranquilla. Si erano accorte entrambe che ero giù di morale
e con i nervi a pezzi, e alla fine raccontai loro cosa mi
pesava tanto sul cuore.
Mademoiselle De Lafontaine sdrammatizzava, ma ebbi
l’impressione che madame Perrodon mi guardasse
preoccupata .
“A proposito,” disse la prima, ridendo, “il lungo sentiero
dei tigli, dietro la finestra della camera di Carmilla, è
infestato dagli spettri.”
“Che assurdità!” esclamò la seconda, che a quanto pare
riteneva l’argomento piuttosto sconveniente, “e chi
racconterebbe questa storia, mia cara?”
“Martin dice che è venuto un paio di volte, prima
dell’alba, per riparare il vecchio cancello del cortile, e tutte
e due le volte ha visto una figura di donna, sempre la
stessa, aggirarsi per il viale dei tigli.”
“Sì, può essere che l’abbia vista davvero, dato che ci sono
mucche da mungere nei campi che costeggiano il fiume,”
disse l’altra.
“Sarà così; ma Martin si è messo in testa di spaventarsi e
non ho mai visto uno sciocco spaventarsi più di lui.”
“Non dite niente a Carmilla, perché può vedere quel
sentiero dalla finestra della sua camera,” m’intromisi, “e, se
è possibile, lei è più fifona di me.”
Quel giorno Carmilla scese un po’ più tardi del solito.
“Ho avuto così tanta paura stanotte!” disse, non appena
fummo insieme, “e avrei senz’altro visto qualcosa di
terribile se non fosse stato per il talismano che ho
comprato da quel povero gobbetto che ho coperto di
improperi. Ho sognato una cosa nera che girava intorno al
letto e mi sono svegliata al colmo dell’orrore, e per qualche
secondo ho davvero creduto di vedere una figura scura
vicino alla mensola del camino, ma poi ho cercato il
talismano sotto il guanciale e, nel momento in cui le mie
dita l’hanno toccato, la figura è scomparsa, e sono
sicurissima che, se non l’avessi avuto accanto, mi sarei
ritrovata davanti agli occhi qualcosa di terrificante e
magari mi avrebbe anche strangolato, come ha fatto con
quei poveretti di cui abbiamo sentito.”
“Be’, ora tocca a me,” esordii, e le raccontai la mia
avventura, e lei ascoltò con sguardo pieno di orrore.
“Non avevi con te l’amuleto?” mi chiese accalorata.
“No, l’avevo messo nel vaso di porcellana in salotto, ma
sta’ sicura che stanotte lo porterò con me, visto che tu ci
credi tanto.”
Anche a distanza di tempo non so dirvi, non me ne
capacito proprio, come abbia fatto quella sera a vincere la
paura e a coricarmi da sola nella mia stanza. Ricordo come
se fosse ieri di aver appuntato il talismano al guanciale. Mi
addormentai quasi subito e dormii ancora più
profondamente del solito per tutta la notte.
Passò così anche la notte seguente. Il mio sonno era
tranquillo e profondo, e senza sogni.
Ma mi svegliavo con un senso di spossatezza e
malinconia, che però non superava mai un livello che
poteva considerarsi quasi piacevole.
“Be’, te l’avevo detto,” dichiarò Carmilla, quando le
descrissi il mio sonno tranquillo, “anch’io ho dormito
benissimo la notte scorsa; ho appuntato il talismano alla
camicia da notte, sul petto. La notte prima era troppo
lontano. Sono sempre più convinta che sia stato tutto frutto
della mia immaginazione, a parte i sogni. Ho sempre
pensato che a creare i sogni fossero gli spiriti maligni, ma il
nostro dottore mi ha spiegato che non è così. I sogni,
secondo lui, sono come una febbre o una qualsiasi altra
malattia: quando bussano alla porta, il talismano non li fa
entrare, e quelli se ne vanno.”
“E secondo te il talismano cos’è?” dissi.
“È stato suffumicato o immerso in qualche medicina, ed è
un antidoto contro la malaria,” rispose.
“Allora agisce solo sul corpo?”
“Certo; non crederai che gli spiriti maligni si spaventino
per qualche pezzo di nastro o per i profumi di una
drogheria? No, questi malesseri, vagando nell’aria,
logorano il sistema nervoso fino a contagiare anche il
cervello, ma prima che possano avere la meglio, l’antidoto
li respinge. Ecco, io sono sicura che il nostro talismano
abbia fatto questo per noi. Non c’è nulla di magico, è una
cosa naturale, tutto qua.”
Avrei dato qualsiasi cosa per poterle credere ma,
nonostante tutti i miei sforzi, iniziavo a dubitare delle sue
parole.
Per alcune notti dormii profondamente; ma al mattino
sentivo sempre la stessa spossatezza e un languore che mi
opprimeva per tutto il giorno. Ero diversa. Una strana
malinconia incombeva subdola su di me, una malinconia
che non riuscivo a contrastare. Cominciai a carezzare vaghi
pensieri di morte, e l’idea che a poco a poco mi stessi
spegnendo s’insinuò dolcemente e, in qualche modo,
tutt’altro che sgradita, dentro di me. Era un’idea triste, ma
lo stato d’animo che mi induceva era anche dolce.
Qualunque cosa fosse, io non riuscivo a opporre
resistenza.
Non potevo credere di essere malata, non volevo che lo
dicessero al mio papà, né che mandassero a chiamare il
dottore.
Carmilla si dedicò a me con più devozione che mai e i
suoi strani parossismi di languida adorazione divennero più
frequenti. Via via che le mie forze venivano meno e il mio
umore sprofondava, mi guardava con crescente ardore e
compiacimento. Tutto questo mi colpiva sempre come un
momentaneo accesso di follia.
A mia insaputa, quella stranissima malattia aveva
raggiunto lo stadio più avanzato che mai avesse colpito
essere umano. Nei primi sintomi c’era un fascino
incomprensibile che mi riconciliava con gli effetti
invalidanti di quello stadio della malattia. Per un po’ questo
fascino continuò a crescere, finché non raggiunse un certo
punto, dove a poco a poco si mescolò con l’orrore, e questa
sensazione si fece sempre più profonda, come avrete modo
di apprendere, fino a sbiadire e a sconvolgere tutta la mia
vita.
Il primo cambiamento che sperimentai fu alquanto
gradevole. Fu molto vicino al punto di svolta che segnò
l’inizio della mia discesa nell’averno.
Il mio sonno era visitato da sensazioni vaghe e strane. La
prevalente era il freddo, quel piacevole brivido che
sentiamo durante il bagno in un fiume, mentre nuotiamo
controcorrente. Questa sensazione era seguita dappresso
da sogni che sembravano interminabili ed erano così vaghi,
che al risveglio non riuscivo mai a ricordare
l’ambientazione e i protagonisti, o nessun dettaglio relativo
alla storia. Ma mi lasciavano addosso impressioni
spaventose e un senso di sfinimento, come se per lungo
tempo fossi stata sottoposta a un prolungato sforzo mentale
o a un grave pericolo.
Dopo tutti questi sogni, al risveglio persisteva il ricordo
di essere stata in un luogo quasi del tutto oscuro e di aver
parlato con persone che non riuscivo a vedere; in
particolare ricordavo una voce femminile, chiara, molto
profonda, che mi parlava come da lontano, lentamente,
suscitando in me sempre lo stesso senso di indescrivibile
solennità e paura. A volte invece mi pareva di sentire una
mano che mi passava leggera sulla guancia e sul collo.
Altre volte era come se calde labbra mi baciassero, a lungo,
sempre più a lungo, e con maggior passione man mano che
raggiungevano la gola, dove si concentravano le carezze. Il
cuore accelerava, il respiro si accorciava e si contraeva;
sopraggiungeva allora un singulto, che culminava in un
senso di soffocamento, e si trasformava poi in un’orribile
convulsione, durante la quale i sensi mi abbandonavano e
perdevo conoscenza.
Erano ormai passate tre settimane dal principio di questo
inspiegabile stato.
Le mie sofferenze, nell’ultima settimana, avevano lasciato
tracce visibili sul mio aspetto. Ero diventata pallida, i miei
occhi erano sgranati e cerchiati di nero, e il languore che
mi accompagnava ormai da tempo cominciò a manifestarsi
sul volto.
Mio padre mi chiedeva spesso se fossi malata; ma, con
un’ostinazione che ora mi sembra assurda, io continuavo ad
assicurargli che stavo benissimo.
E in un certo senso era anche vero. Non avevo dolori, e
non potevo lamentare alcun disturbo fisico. Il mio morbo
sembrava più legato all’immaginazione o ai nervi e, per
quanto orribili fossero le mie sofferenze, le tenevo quasi
tutte per me, con morbosa riservatezza.
Non poteva trattarsi di quella terribile piaga che i
contadini chiamavano upiro, perché le mie sofferenze
duravano da tre settimane, mentre chi ne era affetto di
solito stava male al massimo tre giorni, e poi
sopraggiungeva la morte a porre fine ai suoi tormenti.
Carmilla lamentava sogni deliranti e diceva di sentirsi la
febbre, ma niente di grave rispetto a quello che stava
capitando a me. Ora so che le mie condizioni erano della
massima gravità. Fossi stata capace di rendermene conto,
avrei supplicato aiuto e consiglio. Ma su di me agiva il
narcotico di un’influenza insospettata, che offuscava le mie
percezioni.
Ora vi racconterò un sogno che precedette di pochissimo
una strana scoperta.
Una notte, al posto della solita voce che sentivo sempre
al buio, ne udii un’altra, dolce e tenera e al contempo
terribile, che diceva: “Tua madre ti raccomanda di
guardarti dall’assassino”. In quel preciso istante a sorpresa
si accese una luce e vidi Carmilla ritta ai piedi del letto, con
la camicia da notte bianca, impregnata, per tutta la sua
lunghezza, di un’unica enorme chiazza di sangue.
Mi svegliai gridando, con una sola idea in testa, e cioè
che stessero assassinando Carmilla. Ricordo di essere
scesa dal letto con un balzo e l’immagine successiva è di
me in corridoio che urlo in cerca di aiuto.
Madame Perrodon e mademoiselle De Lafontaine si
precipitarono fuori dalle loro stanze, allarmate; in corridoio
c’era sempre un lume acceso, e appena mi videro
appresero subito il motivo del mio terrore.
Insistetti per andare a bussare alla porta di Carmilla.
Bussammo ma nessuno rispose.
Cominciammo allora a martellare di colpi la porta e a
strillare come pazze. Gridammo il suo nome, ma invano.
Eravamo sempre più impaurite, perché la porta era
chiusa a chiave. Tornammo in camera mia di corsa, in
preda al panico. Quindi suonammo a lungo il campanello,
con foga. Se la camera di mio padre fosse stata in quell’ala
del castello, saremmo corse a chiedergli aiuto. Ma, ahimè,
era troppo lontano per sentirci, e raggiungerlo comportava
un tragitto che nessuna di noi aveva il coraggio di
percorrere.
A ogni modo, la servitù accorse subito, precipitandosi su
per le scale; io e le mie compagne nel frattempo ci eravamo
infilate vestaglia e pantofole. Appena sentimmo le voci della
servitù in corridoio, scattammo subito fuori; tornammo alla
porta di Carmilla, invocando il suo nome, ma anche questo
secondo tentativo si rivelò infruttuoso, così ordinai agli
uomini di forzare la serratura. Eseguirono l’ordine e ci
fermammo sulla soglia, tenendo ben alte le torce, a
osservare la stanza. La chiamammo per nome; ma anche
stavolta nessuna risposta. Ci guardammo intorno. Tutto era
al suo posto. La stanza era esattamente come l’avevo
lasciata la sera prima, quando le avevo dato la buonanotte.
Ma di Carmilla nessuna traccia.
VIII
Ricerca
Alla vista della stanza in perfetto ordine, salvo l’apertura
forzata della porta, cominciammo a tranquillizzarci un po’,
e recuperammo subito la lucidità, tanto da poter congedare
i domestici. Secondo mademoiselle De Lafontaine, forse
Carmilla era stata svegliata da tutto quel trambusto alla
porta e lì per lì, in preda al panico, era saltata giù dal letto
e si era nascosta nell’armadio della biancheria, o dietro una
tenda, e fin quando il maggiordomo e i suoi fedeli servitori12
non si fossero allontanati non poteva certo venir fuori.
Ricominciammo così la nostra ricerca, e riprendemmo a
chiamarla per nome.
La ricerca non diede alcun risultato. Eravamo sempre più
perplesse e agitate. Esaminammo le finestre, ma erano
tutte serrate. Implorai Carmilla, nel caso si fosse nascosta
per gioco, di non prolungare oltre quello scherzo crudele –
di uscire fuori e di porre fine alle nostre ansie. Fu tutto
inutile. Mi ero ormai convinta che non fosse in camera e
nemmeno nello spogliatoio, la cui porta era chiusa a chiave
dall’esterno. Non poteva essere passata da lì. Ero nella
confusione più totale. Che avesse scoperto l’esistenza di
uno di quei passaggi segreti di cui parlava sempre la
vecchia governante, ma che nessuno era più in grado di
rintracciare con esattezza all’interno del maniero? Presto
tutto sarebbe stato chiarito, non vi erano dubbi – per
quanto al momento fossimo tutte completamente
disorientate.
Erano le quattro passate, e preferii trascorrere le restanti
ore della notte nella camera di madame Perrodon. La luce
del giorno non dissipò il mistero.
Al mattino tutta la casa, con mio padre in testa, era in
preda all’agitazione. Il castello venne perlustrato palmo a
palmo. Venne setacciato il parco, ma della ragazza
scomparsa nessuna traccia. Volevano persino dragare il
fiume; mio padre era come impazzito; cosa avrebbe
raccontato alla madre della povera ragazza, al suo ritorno?
Per quanto mi riguarda, ero anch’io fuori di me, anche se il
mio dolore era di tipo diverso.
La mattinata passò nell’ansia e nell’agitazione. Era ormai
l’una, e ancora nessuna notizia. Salii di corsa nella camera
di Carmilla e la trovai in piedi davanti alla toeletta. Ero
sbalordita. Non riuscivo a credere ai miei occhi. Lei con il
grazioso ditino fece cenno di avvicinarmi, senza dire una
parola. Il suo viso esprimeva la paura più totale.
Io corsi da lei in un’estasi di gioia; la baciai e l’abbracciai
più e più volte. Poi corsi alla campanella e la suonai con
veemenza per far accorrere gli altri, così da alleviare subito
l’angoscia di mio padre.
“Cara Carmilla, cosa ne è stato di te per tutto questo
tempo? Eravamo straziati dall’angoscia!” esclamai. “Dove
sei stata? Come hai fatto a tornare?”
“La notte scorsa è stata una notte di portenti,” disse.
“Per l’amor del Cielo, spiegaci tutto quello che puoi.”
“Erano le due passate,” disse, “quando, come al solito,
sono andata a letto, con le porte chiuse a chiave, quella
dello spogliatoio e quella che dà sulla galleria. Il mio sonno
è stato ininterrotto e, per quanto ricordo, senza sogni; ma
mi sono svegliata proprio ora sul divano dello spogliatoio, e
ho trovato la porta fra le due stanze aperta e l’altra forzata.
Com’è potuto accadere tutto ciò senza che mi svegliassi?
Devono aver fatto parecchio rumore e io mi sveglio con
niente; e come hanno fatto a portarmi fuori dal letto senza
interrompere il mio sonno, io che sobbalzo al minimo
movimento?”
Intanto nella stanza erano arrivati madame Perrodon,
mademoiselle De Lafontaine, mio padre e alcuni domestici.
Carmilla, com’era prevedibile, fu sommersa di domande,
rallegramenti e felicitazioni per il suo ritorno. Lei, da parte
sua, raccontava sempre la stessa storia e pareva quella
meno in grado, fra tutti noi, di fornire una spiegazione per
l’accaduto.
Mio padre cominciò a fare su e giù per la stanza,
pensieroso. Vidi gli occhi di Carmilla seguirlo per un
istante, con sguardo furtivo e cupo.
Dopo che mio padre congedò la servitù e mademoiselle
De Lafontaine partì alla ricerca di una boccetta di valeriana
e dei sali, non rimase più nessuno nella stanza con
Carmilla, a parte papà, madame Perrodon e me; a quel
punto mio padre, sempre pensieroso, si avvicinò alla
ragazza, le prese la mano con grande gentilezza, la
condusse sul divano e le si sedette accanto.
“Mi perdonerete, mia cara, se azzardo un’ipotesi e vi
faccio una domanda?”
“Chi ne avrebbe più diritto di voi?” disse lei. “Chiedete
quello che volete, e io vi dirò tutto. Ma la mia storia è tutta
tenebre e smarrimenti. Io non so niente di niente. Ponete
tutte le domande che volete, ma conoscete senz’altro le
restrizioni che mi ha imposto la mamma.”
“Per carità, cara figliola. Non c’è bisogno di toccare gli
argomenti che ci ha chiesto di tacere. Ora, il prodigio della
scorsa notte consiste nel fatto che siete stata portata via
dal vostro letto e dalla camera senza svegliarvi, e questo
spostamento a quanto sembra è avvenuto con le finestre
serrate e le due porte chiuse a chiave dall’interno. Vi dirò
quello che credo sia successo, ma prima mi occorre che voi
rispondiate a una domanda.”
Carmilla teneva il viso appoggiato alla mano, con aria
avvilita; io e madame Perrodon ascoltavamo col fiato
sospeso.
“Ora, la mia domanda è questa. Che voi sappiate, vi è mai
capitato di camminare nel sonno?”
“Mai, da quand’ero molto giovane.”
“Ma quando eravate più giovane camminavate nel
sonno?”
“Sì; che io sappia è capitato. La mia vecchia balia me l’ha
raccontato tante di quelle volte!”
Mio padre sorrise, annuendo.
“Be’, ecco cosa è successo. Vi siete alzata nel sonno,
avete aperto la porta senza lasciare la chiave nella
serratura come fate di solito, ma l’avete portata con voi e
poi avete richiuso la porta dall’esterno; a quel punto avete
di nuovo tolto la chiave dalla serratura e ve la siete portata
dietro in una delle venticinque stanze di questo piano, o
forse del piano sopra o sotto. Ci sono tante stanze e tanti
ripostigli qui, talmente tanti mobili pesanti e cumuli di robe
vecchie che ci vorrebbe una settimana per setacciare da
cima a fondo questa vecchia casa. Capite cosa voglio dire?”
“Sì, ma non del tutto,” rispose.
“Ma, papà, come te lo spieghi che Carmilla si è ritrovata
sul divano dello spogliatoio che avevamo controllato da
cima a fondo?”
“Ci è andata dopo, sempre nel sonno, e alla fine si è
svegliata da sola, e si è sorpresa di trovarsi lì, proprio come
siamo rimasti meravigliati noi. Magari tutti i misteri si
potessero spiegare con tanta facilità e chiarezza come il
vostro, Carmilla,” disse ridendo. “E per quanto ci riguarda,
possiamo rallegrarci e star sicuri che la spiegazione più
naturale all’accaduto non ha niente a che vedere con
narcotici, serrature manomesse, scassinatori, streghe o
veleni – nulla che debba far temere Carmilla, o chicchessia,
per la nostra incolumità.”
Carmilla era incantevole. Non c’era al mondo pelle più
bella della sua. La sua bellezza, secondo me, era
accresciuta da quel suo delicato languore. Credo che mio
padre, senza proferire parola, stesse confrontando il suo
aspetto con il mio, perché a un certo punto disse:
“Vorrei tanto che la mia povera Laura avesse il suo solito
aspetto”; e sospirò.
E così le nostre ansie ebbero un lieto fine, e Carmilla
venne restituita ai suoi amici.
IX
Il dottore
Visto che Carmilla non voleva saperne di far dormire una
cameriera in stanza con lei, mio padre decise che un
membro della servitù dormisse fuori della porta, per evitare
che la ragazza facesse un’altra escursione notturna senza
essere subito bloccata.
La notte passò tranquilla; e il mattino dopo, molto presto,
venne a visitarmi il dottore, che mio padre aveva mandato a
chiamare senza dirmi niente.
Madame Perrodon mi accompagnò nella biblioteca; e lì
mi aspettava il dottore appena menzionato, un omino serio
serio, con i capelli bianchi e gli occhiali.
Gli raccontai la mia storia e, mentre parlavo, si faceva
sempre più serio.
Eravamo in piedi, io e il dottore, nella rientranza di una
delle finestre, uno di fronte all’altra. Quando terminai il mio
racconto, il dottore si appoggiò con le spalle al muro, e
prese a fissarmi, concentrato, con interesse misto a orrore.
Dopo un momento di riflessione, chiese a madame
Perrodon se poteva vedere mio padre.
Mandarono subito a chiamarlo ed entrò sorridendo, e
disse: “Caro dottore, scommetto che state per dirmi che
sono stato un vecchio sciocco a farvi venire fin qui; spero
sia vero”.
Ma il suo sorriso si rabbuiò non appena il dottore, con
faccia seria, gli fece cenno di avvicinarsi.
Papà e il dottore parlarono per qualche minuto nella
stessa rientranza dove avevo appena conferito con il
medico. Sembrava una conversazione animata e
controversa. La biblioteca era molto grande, e io e madame
Perrodon eravamo lontane, all’altro capo della stanza, e
bruciavamo di curiosità. Ma non riuscivamo a sentire
neanche una parola, perché parlavano a voce molto bassa,
e la profonda rientranza della finestra nascondeva
completamente il dottore e di mio padre lasciava
intravedere soltanto un piede, un braccio e una spalla;
secondo me, le voci arrivavano così ovattate perché il muro
spesso e la finestra formavano una specie di recesso.
Dopo un po’ mio padre guardò nella stanza; il suo viso
era pallido, pensieroso e, così mi sembrò, agitato.
“Laura, mia cara, vieni qui un momento. Signora, il
dottore dice che, per ora, non c’è bisogno di scomodarvi.”
A quel punto mi avvicinai, per la prima volta un poco
spaventata; perché, anche se ero molto debole, non mi
sentivo malata; e pensiamo sempre che le forze siano
qualcosa che si possa recuperare a nostro piacimento.
Mentre lo raggiungevo, mio padre mi tendeva la mano,
ma intanto continuava a guardare il dottore, che diceva:
“Certo, la cosa è ben strana; non riesco proprio a capire.
Laura, mia cara, vieni qui; ora ascolta il dottor Spielsberg e
cerca di ricordare”.
“Avete riferito la sensazione di due aghi che vi
perforavano la pelle, nella zona del collo, la notte in cui
avete fatto il vostro primo, orribile sogno. Sentite ancora
dolore?”
“No, nessuno,” risposi.
“Potete indicarmi con il dito il punto dove vi pare di aver
sentito i due aghi?”
“Un po’ più giù della gola... qui,” risposi.
Indossavo un abito da giorno che nascondeva il punto in
questione.
“Ora potrete accertarvene da voi,” disse il dottore. “Certo
non vi dispiacerà se vostro padre vi abbassa un pochino il
vestito. È necessario, per poter osservare i sintomi della
malattia di cui soffrite.”
Acconsentii. Era appena un paio di pollici al di sotto dello
scollo.
“Che Dio mi benedica!... eccolo!” esclamò mio padre,
impallidendo.
“Ora lo vedete con i vostri occhi,” disse il dottore, con
cupa esultanza.
“Che cos’è?” esclamai, cominciando a spaventarmi.
“Nulla, mia cara ragazza, solo una macchiolina
azzurrognola, grande come la punta del vostro mignolo; e
ora,” continuò, rivolgendosi a papà, “la domanda è: cosa è
meglio fare?”
“Ma corro qualche pericolo?” insistetti, terrorizzata.
“Spero di no, mia cara,” rispose il dottore. “Non vedo
perché non dovreste ristabilirvi. Non vedo perché non
dovreste cominciare subito a stare meglio. È da questo
punto che si origina il senso di soffocamento?”
“Sì,” risposi.
“Cercate di ricordare, fate uno sforzo: è lo stesso punto
da cui partiva il brivido di freddo che mi avete descritto
poco fa, come se vi trovaste in mezzo a una corrente
avversa?”
“Può darsi; penso di sì.”
“Ecco! Vedete?” aggiunse, rivolgendosi a mio padre.
“Posso dire una parola alla signora?”
“Certo,” disse mio padre.
Chiamò madame Perrodon e disse:
“La nostra giovane amica non sta per niente bene, ma
non dovrebbero sopraggiungere complicazioni, o almeno
spero; ma sarà necessario prendere delle precauzioni che
vi spiegherò più in là; nel frattempo, signora, mi farete la
cortesia di non lasciare mai sola Miss Laura, neanche per
un momento. Questo è l’unico accorgimento necessario, per
ora. È indispensabile”.
“So che possiamo contare sulla vostra premura, signora,”
aggiunse mio padre.
La donna lo rassicurò con prontezza.
“E so che tu, cara Laura, seguirai le indicazioni del
dottore.”
Poi mio padre aggiunse, rivolgendosi al medico: “Vorrei
chiedervi il parere su un’altra paziente, i cui sintomi
assomigliano in parte a quelli che mia figlia vi ha appena
spiegato in dettaglio – sono molto più lievi, ma credo si
tratti dello stesso disturbo. È una ragazza, nostra ospite;
ma, visto che avete detto che in serata sareste ripassato di
qua, la cosa migliore è che ceniate con noi, così potrete
vederla. Non scende mai prima del pomeriggio”.
“Vi ringrazio,” disse il dottore. “Allora stasera verso le
sette sarò qui.”
E poi ripeterono le istruzioni a me e a madame Perrodon,
e con queste prescrizioni finali mio padre ci lasciò e uscì
dalla stanza con il dottore; e li vidi passeggiare insieme,
avanti e indietro fra la strada e il fossato, sullo spiazzo
erboso antistante il castello, e sembravano immersi in
discorsi molto seri.
Il dottore non tornò indietro. Lo vidi montare a cavallo,
congedarsi e avviarsi verso est, inoltrandosi nella foresta.
Quasi nello stesso istante vidi arrivare il postino da
Dranfield,13 smontare da cavallo e consegnare una busta a
mio padre.
Nel frattempo, io e madame Perrodon avevamo il nostro
bel daffare e ci perdevamo in congetture nel tentativo di
capire il motivo delle singolari e perentorie istruzioni che
mio padre e il dottore ci avevano imposto di comune
accordo. Madame Perrodon, come poi mi disse, aveva
paura che il dottore paventasse una crisi improvvisa
durante la quale, senza un provvidenziale intervento, avrei
potuto perdere la vita per un attacco di convulsioni o
quantomeno riportare seri danni.
Quest’interpretazione non mi impressionò; credevo, e
forse era una fortuna per i miei nervi, che questa
prescrizione servisse solo a garantirmi una compagna che
mi avrebbe impedito di fare troppo moto o di mangiare
frutti acerbi o di fare una qualsiasi delle mille sciocchezze a
cui i giovani pare siano propensi.
Una mezz’ora più tardi entrò mio padre – aveva una
lettera in mano – e disse:
“Questa lettera è arrivata in ritardo; è da parte del
generale Spielsdorf. Doveva arrivare ieri, ma non potrà
venire fino a domani, vale a dire oggi”.
Mi mise in mano la lettera aperta; ma non sembrava
felice come tutte le altre volte in cui arrivava un ospite,
specie se si trattava di una persona cara come il generale.
Anzi, sembrava quasi che avrebbe preferito saperlo in
fondo al Mar Rosso. Era chiaro che aveva in mente
qualcosa di cui non voleva parlare.
“Papà caro, mi dici una cosa?” gli chiesi, posando d’un
tratto la mano sul suo braccio e guardandolo con
un’espressione, ne sono certa, assai supplichevole.
“Vediamo un po’,” rispose, scostandomi i capelli dalla
fronte con una carezza.
“Secondo il dottore sono molto malata?”
“No, cara; è convinto che, se adottiamo le giuste misure,
nel giro di un paio di giorni starai di nuovo benissimo, o
quanto meno in via di completa guarigione,” rispose,
tagliando corto. “Avrei preferito che il nostro buon amico, il
generale, avesse scelto un altro momento per farci visita;
insomma, avrei preferito ti trovasse in perfetta salute.”
“Ma dimmi, papà,” insistetti, “secondo lui cosa mi è
successo?”
“Nulla; e non assillarmi con tutte queste domande,”
rispose, con un’irritazione che, a quanto ricordo, non aveva
mai manifestato prima; poi, vedendo che mi ero offesa, o
almeno così penso, mi baciò e aggiunse: “Fra un paio di
giorni saprai tutto; o meglio, tutto quello che so io. Nel
frattempo, non tormentarti nel dubbio”.
Si voltò e uscì dalla stanza, ma vi fece ritorno prima che
avessi il tempo di farmi altre domande e di scervellarmi
sulla stranezza di tutto questo; era solo per dirmi che
sarebbe andato a Karnstein, che aveva dato disposizione
perché la carrozza fosse pronta per mezzogiorno, e che io e
madame Perrodon lo avremmo accompagnato; doveva
incontrare il sacerdote che viveva nei pressi di quelle terre
pittoresche per certi affari, e dato che Carmilla non c’era
mai stata, avrebbe potuto raggiungerci quando fosse scesa,
insieme a mademoiselle De Lafontaine, che avrebbe portato
il necessario per quello che voi chiamereste un picnic,
magari tra le rovine del castello.
Così alle dodici in punto mi feci trovare pronta, e poco
dopo mio padre, madame Perrodon e io, come previsto, ci
mettemmo in viaggio.
Passato il ponte levatoio, c’è da svoltare a destra e
seguire la strada che passa sul ripido ponte gotico, verso
ovest, e così si arriva al villaggio abbandonato e alle rovine
del castello di Karnstein. Impossibile figurarsi un viaggio
tra le foreste più piacevole di questo. Il paesaggio è
interrotto da morbide colline e vallette, tutte ricoperte di
magnifici boschi, completamente prive della relativa
monotonia conferita dalle piantagioni dell’uomo, dalle
colture forzate e dalle potature.
Le irregolarità del terreno spesso costringono la strada a
deviare dal tracciato e a snodarsi in modo assai suggestivo
lungo i fianchi irregolari delle vallette e sui versanti ancor
più scoscesi delle colline, in mezzo a una varietà di
paesaggi pressoché inesauribile.
A una di queste svolte, d’un tratto ci imbattemmo nel
nostro vecchio amico, il generale, che trottava verso di noi
scortato da un servitore a cavallo. Seguivano i suoi bagagli
a bordo di una vettura presa a nolo, una specie di carretto.
Quando ci fermammo davanti a lui, il generale smontò da
cavallo e, dopo i saluti di rito, si convinse in un attimo a
occupare il posto libero nella nostra carrozza e a mandare
al maniero il suo servitore con il cavallo.
X
La perdita
Erano trascorsi circa dieci mesi dall’ultima volta che
l’avevamo visto: ma quel breve periodo aveva lasciato il
segno, e sembravano passati anni dal nostro ultimo
incontro. Era dimagrito; la cordiale serenità che l’aveva
sempre contraddistinto aveva lasciato il posto a una specie
di cupa angoscia. I suoi occhi blu scuro, sempre penetranti,
ora brillavano di una luce più severa sotto le ispide
sopracciglia grigie. Il dolore da solo non poteva giustificare
un simile cambiamento; a ridurlo in quello stato dovevano
aver contribuito passioni ben più violente.
Avevamo da poco ripreso il cammino quando il generale
cominciò a parlare, con la sua solita schiettezza
militaresca, della perdita, così la chiamava, che aveva
subìto con la morte della sua adorata nipote e pupilla;
dopodiché assunse un tono molto contrito e furioso e
proruppe in un’invettiva contro le “arti diaboliche” di cui la
ragazza era caduta vittima, esprimendo con parole più
esasperate che pietose il proprio stupore all’idea che il
Cielo tollerasse una così mostruosa concessione di
dissolutezza e malignità infernali.
Mio padre, resosi subito conto che doveva essere
accaduto qualcosa di veramente straordinario, gli chiese,
se non fosse stato per lui troppo doloroso, di riferire le
circostanze che a suo parere potessero giustificare il
linguaggio violento con cui si era espresso.
“Vi racconterei tutto con grande piacere,” disse il
generale, “ma non mi credereste.”
“Perché non dovrei?” chiese mio padre.
“Perché,” rispose stizzito, “voi non credete in nulla che
non si accordi con i vostri preconcetti e le vostre illusioni.
Ricordo quando anch’io ero così, ma poi ho imparato che
c’è dell’altro.”
“Mettetemi alla prova,” disse mio padre; “non sono
dogmatico come pensate. Inoltre, so benissimo che per
credere a qualcosa in genere avete bisogno di prove
inoppugnabili, per cui sono quanto mai propenso a prestar
fede alle conclusioni cui siete giunto.”
“Avete ragione a pensare che niente e nessuno mi
avrebbe fatto credere con tanta facilità a una storia così
straordinaria – perché la mia storia ha dello straordinario –
e invece sono stato costretto da prove eccezionali ad
ammettere ciò che andava in direzione diametralmente
opposta alle mie teorie. Sono stato la vittima ignara di una
cospirazione soprannaturale.”
A questo punto, nonostante le dichiarazioni di fiducia
nella lucidità del generale, vidi che mio padre gli lanciò
un’occhiata che tradiva chiari sospetti circa la sua salute
mentale.
Il generale, per fortuna, non ci fece caso. Osservava con
sguardo malinconico e curioso le radure e i panorami
boschivi che si aprivano davanti a noi.
“State andando alle rovine di Karnstein?” disse. “Sì, è
una coincidenza fortunata; sapete che avevo in animo di
chiedervi di accompagnarmi proprio in quel posto, per
poterlo ispezionare? La mia indagine ha uno scopo ben
preciso. C’è una cappella in rovina con un gran numero di
tombe di quella famiglia estinta, dico bene?”
“Sì, è così... molto, molto interessante,” disse mio padre.
“Avete forse intenzione di reclamare il titolo e i
possedimenti nobiliari?”
Mio padre pronunciò questa frase in tono allegro, ma il
generale non rispose alla battuta dell’amico con una risata
e nemmeno con un sorriso, come avrebbe richiesto la
buona creanza; al contrario, assunse un’aria grave, persino
feroce, mentre rimuginava su questioni che non facevano
che accrescere la sua rabbia e il suo orrore.
“È qualcosa di molto diverso,” disse in tono aspro.
“Intendo dissotterrare uno di quelle belle genti. Spero, con
l’aiuto del Signore, di compiere un pio sacrilegio che
libererà la terra da certi mostri e consentirà alla gente
onesta di dormire nel proprio letto senza essere assalita da
quegli assassini. Ho cose ben strane da raccontarvi, mio
caro amico, cose che io stesso, appena qualche mese fa,
avrei reputato incredibili.”
Mio padre tornò a guardarlo, ma stavolta i suoi occhi non
tradivano dubbi e incertezze – bensì un ingegno acuto e un
certo allarme.
“Il casato dei Karnstein,” disse, “è estinto da molto
tempo: almeno un centinaio di anni. La mia cara moglie
discendeva dai Karnstein da parte di madre. Ma il nome e il
titolo sono decaduti molto tempo fa. Il castello è in rovina;
anche il villaggio è stato abbandonato; sono passati
cinquant’anni da quando si è visto fumare l’ultimo
comignolo; non è rimasto neppure un tetto.”
“Verissimo. Ho sentito molte cose al riguardo dall’ultima
volta che vi ho visto; molte cose che vi lasceranno a bocca
aperta. Ma è meglio che proceda con ordine,” disse il
generale. “Conoscevate la mia pupilla – la mia bambina,
potrei chiamarla così. Fino a tre mesi fa, non esisteva al
mondo creatura più bella e florida.”
“Sì, poverina! L’ultima volta che l’ho vista era un vero
incanto,” disse mio padre. “Sono rimasto addolorato e
sconvolto più di quanto riesca a dirvi, mio caro amico;
dev’essere stato un duro colpo per voi.”
Prese la mano del generale e la strinse premuroso. Gli
occhi dell’anziano soldato si riempirono di lacrime. Non
cercò neppure di nasconderle. Disse:
“Siamo amici di lunga data; sapevo che avreste provato
compassione per me, solo e senza figli come sono. Lei era
diventata il centro di ogni mio interesse e ripagava le mie
attenzioni con un affetto che rallegrava la casa e mi
riempiva la vita di felicità. Ora è tutto finito. Gli anni che mi
restano da vivere su questa terra forse non sono molti; ma
con la grazia di Dio, spero di poter rendere un servizio
all’umanità, prima di morire, e di divenire strumento della
vendetta del Cielo sui demoni che hanno ucciso la mia
povera bambina nel fiore delle speranze e della bellezza!”.
“Avete appena detto che intendete raccontare ogni cosa
nell’ordine in cui è avvenuta,” disse mio padre. “Vi prego di
farlo; vi assicuro che la mia non è mera curiosità.”
Nel frattempo avevamo raggiunto il punto in cui la strada
di Drunstall,14 da cui era arrivato il generale, divergeva
dalla strada che stavamo percorrendo per arrivare a
Karnstein.
“Quanto manca per le rovine?” chiese il generale,
guardando ansioso davanti a sé.
“Circa mezza lega,” rispose mio padre. “Vi prego,
raccontateci la storia che avete avuto la bontà di
prometterci.”
XI
La storia
“Con tutto il cuore,” disse il generale, con uno sforzo; e
dopo una breve pausa in cui riorganizzò le idee, diede inizio
a uno dei racconti più strambi che io abbia mai sentito.
“La mia cara bambina aspettava con grande gioia la visita
che avete avuto la premura di organizzare per farle
conoscere la vostra incantevole figliola.” Qui mi rivolse un
galante, ma malinconico inchino. “Nel frattempo avevamo
ricevuto un invito da un mio vecchio amico, il conte
Carlsfeld, che vive in un maniero a circa sei leghe di
distanza, dall’altra parte di Karnstein. Si trattava di
partecipare a una serie di feste che, come ricorderete, il
conte ha dato in onore del suo illustre ospite, il granduca
Carlo.”15
“Certo; e immagino siano state davvero splendide,” disse
mio padre.
“Principesche! Ma del resto la sua ospitalità è a dir poco
regale. Ha la lampada di Aladino. La notte in cui ebbe inizio
il mio calvario era dedicata a una magnifica festa in
maschera. Il parco venne aperto agli ospiti e agli alberi
erano appesi lampioncini colorati. Ci fu uno spettacolo di
fuochi d’artificio come neanche a Parigi si erano mai visti.
E una musica – la musica, voi lo sapete, è il mio punto
debole – una musica così incantevole! La miglior orchestra
del mondo e i migliori cantanti che potessero essere
reclutati dai più grandi teatri lirici d’Europa. Mentre si
girovagava nel parco illuminato da un tripudio di lampade,
e il castello rischiarato dalla luna diffondeva una luce
rosata dalla sua lunga teoria di finestre, all’improvviso si
sentivano queste voci incantevoli emergere furtive dal
silenzio di un boschetto o levarsi dalle barche del lago.
Mentre guardavo e ascoltavo, il mio pensiero tornò al
periodo romantico e poetico della mia prima giovinezza.
“Finiti i fuochi, si aprirono le danze e noi ritornammo
dentro, nelle splendide sale allestite per i danzatori. Un
ballo in maschera, come sapete, è uno spettacolo
bellissimo; ma mai avevo assistito a uno spettacolo tanto
sfolgorante.
“Ero in presenza di un consesso molto aristocratico. In
pratica, ero l’unico ‘signor nessuno’ in sala. La mia povera
bambina era bellissima. Non indossava la maschera.
L’eccitazione e il diletto aggiungevano un fascino indicibile
ai suoi lineamenti, sempre adorabili. Notai una giovane
donna, elegantissima, ma con una maschera sul viso, che
pareva osservare la mia pupilla con straordinario interesse.
L’avevo già vista, all’inizio della serata, nella grande sala, e
poi di nuovo, per qualche minuto, passeggiare vicino a noi
sul terrazzo sotto le finestre del castello, similmente
impegnata. Una signora, anche lei in maschera, vestita in
modo sfarzoso e solenne, e con un portamento maestoso,
da persona di alto rango, l’accompagnava come chaperon.
“Certo, se la ragazza non avesse indossato una maschera,
avrei potuto affermare con maggiore certezza che stesse
davvero guardando la mia povera figliola.
“Ora so bene che le cose stavano proprio così.
“Dunque, ci trovavamo in uno dei saloni. La mia povera
bambina, dopo le danze, si stava riposando un poco su una
delle poltrone vicine alla porta; io ero in piedi lì a fianco. Le
due signore che ho appena menzionato si erano avvicinate
e la più giovane aveva occupato la poltrona accanto alla
mia pupilla; la sua compagna, invece, rimase in piedi vicino
a me e per qualche istante proferì a bassa voce con la sua
protetta.
“Avvalendosi del privilegio della maschera, la donna si
girò verso di me chiamandomi per nome, come se fossimo
vecchi amici, e diede inizio a una conversazione che
stuzzicò parecchio la mia curiosità. Nominò molti luoghi
dove secondo lei ci saremmo incontrati – a corte e in altre
illustri dimore. Alluse a piccoli episodi a cui non pensavo
più da molto tempo, ma che, come ebbi modo di scoprire,
avevo cacciato in qualche lontano recesso della mia
memoria, perché al suo accenno mi tornarono subito in
mente.
“Ogni momento che passava, ero sempre più curioso di
sapere chi fosse. Lei, invece, con maestria e garbo,
schivava ogni mio tentativo di scoprire la sua identità. La
conoscenza che dimostrava di molti episodi della mia vita
era inspiegabile, e sembrava trarre un innato piacere nel
frustrare la mia curiosità e nel vedermi annaspare nella
mia smaniosa perplessità, mentre saltavo da un’ipotesi
all’altra.
“Nel frattempo la ragazza, che la madre aveva chiamato
con lo strano nome di Millarca in un paio di occasioni,
aveva iniziato con la stessa facilità e grazia una
conversazione con la mia pupilla.
“Si presentò dicendo che sua madre era una mia
vecchissima conoscenza. Parlava della piacevole audacia
che una maschera induce in chi la porta; si comportava
come se fosse sua amica; faceva apprezzamenti sul suo
vestito e graziose allusioni alla bellezza della mia bambina.
La intratteneva con spiritosi commenti sulle persone che
affollavano la sala da ballo, e rideva nel vedere che la mia
povera ragazza si divertiva. Era molto arguta e brillante
quando voleva, e dopo un po’ erano diventate buone
amiche, tanto che la giovane sconosciuta abbassò la
maschera, mostrando un viso di una bellezza straordinaria.
Non l’avevo mai visto prima, e neppure la mia cara
bambina. Ma benché ci risultasse nuovo, i suoi lineamenti
erano così affascinanti e deliziosi che era impossibile non
provare nei suoi confronti una forte attrazione. Così
accadde alla mia povera ragazza. Non ho mai visto una
persona così presa da un’altra a prima vista, a parte la
bella straniera, che sembrava proprio essersi innamorata di
lei.
“Intanto, approfittando della maschera che indossava,
ponevo non poche domande alla donna più anziana.
“‘Mi avete proprio mandato in confusione,’ dissi ridendo.
‘Non vi basta? Non credete sia arrivato il momento di
affrontarci ad armi pari e usarmi la cortesia di togliervi la
maschera?’
“‘Può esserci richiesta più irragionevole?’ replicò lei.
‘Chiedere a una signora di cedere un vantaggio! E poi,
come fate a essere certo che mi riconoscerete? Gli anni
cambiano le persone.’
“‘Come potete vedere,’ dissi, con un inchino e, presumo,
una risatina piuttosto malinconica.
“‘Come ci insegnano i filosofi,’ disse lei, ‘e come fate a
sapere che vedere il mio viso vi aiuterebbe?’
“‘Almeno avrei una possibilità,’ ribattei. ‘E poi è inutile
che cerchiate di passare per un’anziana signora; la vostra
figura vi tradisce.’
“‘Tuttavia sono passati anni da quando vi ho visto, o
meglio, da quando voi avete visto me, ed è questo il punto.
Millarca è mia figlia; per cui non posso essere giovane,
nemmeno nel giudizio delle persone a cui il tempo ha
insegnato a essere indulgenti, e potrebbe anche non
piacermi essere messa a confronto con il ricordo che avete
di me. Voi non avete alcuna maschera da togliervi. Non
potete offrirmi nulla in cambio.’
“‘Mi appello alla vostra clemenza: vi prego, toglietevi la
maschera.’
“‘E io mi appello alla vostra: ve ne prego, lasciatela dove
si trova,’ replicò.
“‘E va bene, ma almeno ditemi se siete francese o
tedesca; parlate entrambe le lingue alla perfezione.’
“‘Non credo che ve lo dirò, generale; meditate un attacco
a sorpresa e state valutando quando sferrarlo.’
“‘In ogni caso, questo non potete negarmelo,’ dissi; ‘visto
che mi avete concesso l’onore di questa conversazione,
dovrei quantomeno sapere come rivolgermi a voi. Posso
chiamarvi Signora Contessa?’
“Rise, e mi avrebbe senz’altro risposto con un’altra delle
sue frasi evasive – se considerassi possibile modificare per
caso qualsiasi sviluppo di un colloquio in cui tutte le
circostanze erano state prestabilite, come ne sono ora
convinto, con l’astuzia più sottile.
“‘A tal proposito...’ cominciò; ma venne interrotta, proprio
appena schiuse le labbra, da un gentiluomo vestito di nero,
dall’aspetto molto elegante e distinto, con un unico neo: il
suo volto era il più mortalmente pallido che avessi mai
visto, fatta eccezione nei morti. Indossava un semplice
smoking e non aveva la maschera; e disse, senza un sorriso,
ma con un inchino cerimonioso e fin troppo profondo:
“‘La Signora Contessa mi permetterà di riferirle alcune
parole che potrebbero interessarla?’.
“La donna si voltò rapida verso di lui e avvicinò il dito alle
labbra, in segno di silenzio e discrezione; e poi mi disse:
‘Tenetemi il posto, generale; vado a sentire cosa ha da
dirmi e sono subito da voi’.
“E con quest’ordine, impartito con tono scherzoso, si
allontanò un poco con il gentiluomo in nero, e i due
parlarono per qualche minuto, e sembravano molto seri.
Poi, piano piano, si mescolarono alla folla e li persi di vista
per alcuni minuti.
“Trascorsi questo lasso di tempo a lambiccarmi il cervello
in congetture sull’identità di quella donna, che sembrava
ricordarsi di me con tanta benevolenza, e stavo ormai
pensando di fare dietrofront e unirmi alla conversazione tra
la mia graziosa pupilla e la figlia della contessa, per
provare a vedere se, al suo ritorno, non riuscissi ad avere
in serbo per lei una sorpresa, venendo a sapere il suo
nome, il titolo, il castello e le proprietà. Ma in quel preciso
istante tornò, accompagnata dal pallido uomo in nero, che
disse:
“‘Ritornerò per avvisare la Signora Contessa quando la
sua carrozza sarà all’ingresso’.
“Dopodiché si ritirò con un inchino.”
XII
Un appello
“‘Allora stiamo per perdere la Signora Contessa, ma
spero sia solo per qualche ora,’ dissi, con un lungo inchino.
“‘Potrebbe essere solo per qualche ora, sì, o forse per
qualche settimana. Che disdetta che quell’uomo si sia
rivolto a me a quel modo. Ora sapete chi sono, vero?’
“Le assicurai che non lo sapevo.
“‘Lo saprete,’ disse, ‘ma non ora. Il sentimento di
amicizia che ci lega è più antico e forte di quanto possiate
immaginare. Ma non posso ancora rivelare la mia identità.
Fra tre settimane passerò dalle parti del vostro bel
maniero, su cui ho fatto tante domande. Allora verrò a
trovarvi per un’ora o due e rinnoveremo un’amicizia a cui
sono legata da mille piacevoli ricordi. La notizia che mi è
appena arrivata è stata un fulmine a ciel sereno. Devo
partire subito e percorrere una brutta strada per quasi
cento miglia, nel minor tempo possibile. Il mio sconcerto
cresce a vista d’occhio. E a distogliermi dal farvi una
richiesta molto singolare è solo il riserbo imposto sul mio
nome. La mia povera bambina non si è ancora ripresa del
tutto. È caduta insieme al suo cavallo durante una battuta
di caccia a cui aveva partecipato come spettatrice, i suoi
nervi non si sono ancora ripresi dal colpo e il nostro medico
dice che per un po’ di tempo deve evitare qualunque sforzo.
Di conseguenza, siamo arrivate qui in comode tappe – al
massimo sei leghe al giorno. E ora mi vedo costretta a
viaggiare giorno e notte, per una missione di vita o di
morte: una missione la cui natura vitale e importantissima
potrò spiegarvi quando ci incontreremo, come spero
succederà, fra qualche settimana, senza la necessità di
nascondersi dietro una maschera.’
“Quindi mi fece il suo appello, e lo fece con il tono di chi,
con quella richiesta, sta concedendo un onore e non
chiedendo un favore.
“Ma era soltanto nei modi e, a quanto pareva, non se ne
rendeva affatto conto. Non avrebbe potuto utilizzare
termini più deprecabili. Per farla breve, mi chiedeva di
prendermi cura di sua figlia durante la sua assenza.
“Tutto considerato, era una richiesta ben strana, per non
dire assurda. In un certo senso mi disarmò, dichiarando di
comprendere ogni possibile obiezione e affidandosi
completamente alla mia cavalleria. Nello stesso momento,
fatalità che predeterminò tutto quello che accadde in
seguito, la mia povera bambina mi venne vicino e, a bassa
voce, mi implorò di invitare la sua nuova amica, Millarca, a
farci visita. Aveva appena sondato il terreno e pensava che,
con il permesso della madre, sarebbe venuta molto
volentieri.
“In un altro momento le avrei detto di aspettare un po’,
almeno fin quando non avremmo saputo chi fossero quelle
donne. Ma non ebbi il tempo di pensarci. Le due donne mi
sferrarono un attacco coordinato, e devo ammettere che il
raffinato e bellissimo viso della ragazza, che aveva qualcosa
di estremamente affascinante, la sua eleganza e il lustro dei
suoi nobili natali, furono decisivi; e, sconfitto su tutta la
linea, cedetti e m’impegnai, con fin troppa facilità, a
prendermi cura di quella ragazza che la madre chiamava
Millarca.
“La contessa con un cenno chiamò la figlia, che ascoltò
con estrema attenzione la madre mentre le riferiva, per
sommi capi, con quanta improvvisa e perentoria urgenza
fosse stata convocata e che di lei mi sarei occupato io,
questi erano gli accordi, aggiungendo infine che ero uno
dei suoi più vecchi e preziosi amici.
“Quanto a me, dissi qualche frase di circostanza, come da
manuale e, a pensarci meglio, mi ritrovai in una posizione
che non mi piaceva neanche un po’.
“Tornò il gentiluomo in nero e con molte cerimonie scortò
la donna fuori dalla stanza.
“Il contegno dell’uomo fu tale da infondermi la
convinzione che la contessa fosse una dama di rango molto
più elevato di quanto il suo modesto titolo lasciasse
supporre.
“Mi lasciò con la raccomandazione di non tentare di
scoprire più di quanto non avessi già indovinato sul suo
conto, almeno fino al suo ritorno. L’illustre padrone di casa,
di cui lei era ospite, ne conosceva il motivo.
“‘Ma qui,’ disse, ‘né io e né mia figlia potremmo essere al
sicuro per più di un giorno. Circa un’ora fa, ho commesso
l’imprudenza di togliermi per un momento la maschera, e
forse mi avete visto, ma ormai era troppo tardi. Così decisi
di cogliere l’occasione per venirvi a parlare un poco.
Qualora avessi scoperto che mi avevate vista, mi sarei
affidata al vostro alto senso dell’onore, implorandovi di
mantenere il mio segreto per qualche settimana. E invece
sono proprio contenta che non mi abbiate visto; ma se per
caso nutrite qualche sospetto o, dopo averci riflettuto su,
doveste sospettare qualcosa, mi rimetto di nuovo e
completamente al vostro onore. Mia figlia osserverà la
medesima segretezza, e sono certa che voi, di tanto in
tanto, gliela ricorderete, dovesse mai lasciarsi sfuggire
qualcosa in un momento di distrazione.’
“Bisbigliò qualche parola alla figlia, la baciò alla svelta un
paio di volte e se ne andò, accompagnata dal pallido
gentiluomo in nero, e scomparve tra la folla.
“‘Nella stanza accanto,’ disse Millarca, ‘c’è una finestra
che dà sulla porta d’ingresso. Mi piacerebbe vedere per
l’ultima volta la mamma, e mandarle un bacio con la mano.’
“Com’era ovvio, acconsentimmo e l’accompagnammo alla
finestra. Fuori c’era una bella carrozza vecchio stile, con
una truppa di lacchè e valletti. L’esile figura del pallido
gentiluomo in nero posò intorno alle spalle della donna un
pesante mantello di velluto e le sollevò il cappuccio sulla
testa. Lei annuì, sfiorandogli appena le mani. Lui si esibì in
una serie di profondi inchini mentre lo sportello si chiudeva
e la vettura cominciava a muoversi.
“‘Se ne è andata,’ disse Millarca, con un sospiro.
“‘Se ne è andata,’ ripetei tra me, e per la prima volta – da
quando avevo dato il mio frettoloso assenso – riflettei sulla
follia del mio gesto.
“‘Non ha nemmeno alzato lo sguardo,’ disse la ragazza
con tono lamentoso.
“‘La contessa forse si era tolta la maschera e non voleva
mostrare il viso,’ dissi io; ‘e poi non poteva sapere che
eravate alla finestra.’
“Lei sospirò e mi guardò in faccia. Era così bella che mi
sciolsi subito. Mi dispiacque di essermi pentito, anche solo
per un momento, di averle offerto la mia ospitalità, e mi
ripromisi di fare ammenda per l’involontaria scortesia della
mia accoglienza.
“La ragazza si rimise la maschera e si unì alla mia pupilla
nel tentativo di persuadermi a tornare nel parco, dove a
momenti sarebbe ripreso il concerto. Così facemmo, e
passeggiammo su e giù per il terrazzo che si trovava sotto
le finestre del castello.
“Millarca entrava sempre più in confidenza con noi, e ci
divertiva con vivaci descrizioni e aneddoti su gran parte
delle persone illustri che vedevamo sul terrazzo. Ogni
minuto che passava, mi piaceva sempre di più. I suoi
pettegolezzi, senza essere maligni, erano molto divertenti
per me, che ero stato per tanto tempo lontano dal bel
mondo. Pensai alla vitalità che avrebbe dato alle nostre
serate casalinghe, talvolta solitarie.
“Il ballo terminò solo quando il sole del mattino aveva
ormai raggiunto l’orizzonte. Al granduca piaceva ballare
fino a quell’ora, per cui i più fedeli non potevano andarsene
o pensare di coricarsi.
“Avevamo appena attraversato un salone gremito di gente
quando la mia pupilla mi chiese dove fosse finita Millarca.
Pensavo che fosse con lei, mentre lei era sicura che fosse al
mio fianco. Fatto sta che l’avevamo persa!
“Tutti i miei sforzi per ritrovarla furono vani. Temevo che,
nella confusione di una momentanea separazione da noi,
avesse scambiato per altri i suoi nuovi amici e magari li
avesse seguiti e poi persi di vista nell’ampio parco che ci
era stato messo a disposizione.
“In quel momento mi resi conto, con estrema chiarezza,
quant’ero stato folle ad aver preso sotto la mia custodia
una ragazza di cui conoscevo soltanto il nome; e legato
com’ero a promesse imposte da oscure ragioni, non potevo
neppure fare domande in giro dicendo che la giovane
scomparsa era la figlia della contessa partita qualche ora
prima.
“Venne il mattino. Era pieno giorno quando abbandonai le
ricerche. Le prime notizie della mia protetta scomparsa ci
giunsero non prima delle due del giorno successivo.
“Intorno a quell’ora un domestico bussò alla porta di mia
nipote, dicendo che una ragazza dall’aria parecchio
angosciata gli aveva chiesto con voce implorante dove
poteva trovare il generale barone Spielsdorf e sua figlia, ai
quali l’aveva affidata la madre.
“Nonostante la lieve imprecisione, non potevano esserci
dubbi che la nostra giovane amica fosse ricomparsa; e
difatti così era. Volesse il Cielo che l’avessimo persa
davvero!
“Raccontò alla mia povera bambina che ci aveva cercato
per tanto tempo, ma senza alcun risultato. Era ormai molto
tardi, disse, quando era entrata nella camera della
governante, disperando di trovarci, e qui era caduta in un
sonno lungo e profondo che le era appena bastato a
recuperare le energie dopo le fatiche del ballo.
“Quel giorno Millarca venne a casa con noi. Dopo tutto,
ero proprio felice di aver assicurato alla mia cara ragazza
una compagna così affascinante.”
XIII
Il boscaiolo
“Ma i problemi non tardarono a presentarsi. In primo
luogo, Millarca lamentava un estremo languore – la
debolezza che le aveva lasciato la sua ultima malattia – e
usciva dalla sua stanza solo a pomeriggio inoltrato. In
secondo luogo venimmo per caso a sapere, e la notizia era
certa, che, nonostante inchiavasse sempre la porta
dall’interno e non togliesse mai la chiave dalla serratura fin
quando non faceva entrare la cameriera per assistere alla
sua toeletta, spesso, al mattino presto, non era in camera
sua, e anche più tardi, in altri momenti della giornata,
prima che volesse far sapere che era sveglia. In più
occasioni fu vista dalle finestre del maniero, nel primo,
tenue grigiore del mattino, mentre camminava come in
trance fra gli alberi, verso est. Mi convinsi allora che
camminasse nel sonno. Ma quest’ipotesi non scioglieva
l’enigma. Come faceva a uscire dalla propria stanza
lasciando la porta chiusa dall’interno? Come faceva a
sgattaiolare fuori senza aprire porte o finestre?
“In mezzo a tutte queste perplessità, si presentò una
preoccupazione ben più urgente.
“La mia cara bambina cominciò a perdere la salute e a
mutare aspetto, e questo cambiamento avvenne in modo
così misterioso e persino orribile, che caddi preda del più
profondo terrore.
“Dapprima fu visitata da sogni spaventosi; poi da un vago
spettro, a volte simile a Millarca, altre volte nelle
sembianze di una belva, che le pareva di veder camminare
ai piedi del suo letto, da un capo all’altro.
“Infine arrivarono le sensazioni. Una, non spiacevole, ma
molto singolare, come di un torrente gelido che le
scorresse contro il petto, diceva. Un’altra volta, più avanti,
ebbe la sensazione che due grossi aghi la trafiggessero,
appena sotto la gola, provocandole un dolore molto acuto.
Poche notti dopo, sopraggiunse un graduale e convulso
senso di strangolamento e, a seguire, lo svenimento.”
Riuscivo a sentire distintamente ogni parola che il
vecchio e gentile generale diceva, perché ora la carrozza
passava sull’erba bassa che costeggia da ambo i lati la
strada, man mano che ci si avvicina alle case dirute del
villaggio, da cui non si levava un filo di fumo da almeno
mezzo secolo.
Potete immaginare che strana sensazione fosse per me
sentire che i sintomi avvertiti dalla povera ragazza, che se
non fosse sopraggiunta la catastrofe in quel momento
sarebbe stata ospite presso il castello di mio padre, erano
uguali identici ai miei. E potete anche immaginare cosa
provai quando gli sentii descrivere in dettaglio le abitudini
e le misteriose stranezze che, di fatto, erano le stesse della
nostra bella ospite, Carmilla!
Nella foresta si aprì uno scorcio; all’improvviso ci
ritrovammo sotto i comignoli e i frontoni del villaggio in
rovina, le torri e i merli del castello diroccato, intorno ai
quali si adunavano alberi giganteschi che ci sovrastavano
da una lieve altura.
Scesi dalla carrozza come in un incubo spaventoso, nel
silenzio più totale, perché avevamo tutti molte cose cui
pensare; risalimmo subito il pendio e ci ritrovammo tra le
ampie stanze, le tortuose scalinate e gli oscuri corridoi del
castello.
“E questa era un tempo la maestosa residenza dei
Karnstein!” disse infine il vecchio generale, guardando
fuori da una grossa finestra che si affacciava sul villaggio e
sull’ampia e increspata distesa del bosco. “Era una famiglia
malvagia e qui sono stati scritti i suoi annali intrisi di
sangue,” continuò. “È una crudeltà bell’e buona che, anche
dopo la morte, debbano continuare ad affliggere la razza
umana con i loro atroci appetiti. Ecco, laggiù c’è la cappella
dei Karnstein.”
Indicò i muri grigi di una costruzione gotica, in parte
visibile attraverso il fogliame, un po’ più in basso, lungo la
china. “E sento l’ascia di un boscaiolo tra gli alberi,”
aggiunse, “forse potrebbe darci le informazioni che sto
cercando e indicarci la tomba di Mircalla, contessa di
Karnstein. I contadini di solito mantengono vive le
tradizioni locali delle grandi famiglie, le cui storie
scompaiono dalla memoria dei ricchi e dei titolati non
appena le famiglie in questione si estinguono.”
“A casa abbiamo un ritratto di Mircalla, la contessa di
Karnstein; vorreste vederlo?” chiese mio padre.
“A tempo debito, amico mio,” replicò il generale. “Credo
di aver visto l’originale; e uno dei motivi che mi hanno
condotto da voi prima del previsto è stato il desiderio di
esplorare la cappella a cui ci stiamo avvicinando.”
“Come? Avete visto la contessa Mircalla?” esclamò mio
padre; “ma se è morta da più di un secolo!”
“Non così morta come credete voi, mi è stato detto,”
rispose il generale.
“Vi confesso, generale, che mi gettate nella confusione
più assoluta,” replicò mio padre, guardandolo, e per un
momento mi sembrò che nei suoi occhi fosse tornata ad
affacciarsi la stessa espressione di sospetto che gli avevo
visto poc’anzi. E per quanto rabbiosi e sprezzanti fossero a
volte i modi del vecchio generale, tuttavia non avevano
nulla di volubile.
“Non mi resta,” disse, mentre passavamo sotto il
massiccio arco della chiesa gotica – e infatti le sue
dimensioni erano degne di quello stile – “che un unico
scopo da perseguire nei pochi anni che mi restano da
vivere su questa terra, ovvero compiere su di lei la mia
vendetta che, grazie a Dio, può ancora essere compiuta per
mano di un mortale.”
“Cosa intendete per vendetta?” chiese mio padre, sempre
più sbalordito.
“Intendo decapitare il mostro,” rispose, avvampando di
furore e pestando forte il piede per terra; l’eco risuonò
lugubre tra le vuote rovine, mentre teneva il pugno alzato,
come se stringesse il manico di un’ascia immaginaria che
brandiva minaccioso nell’aria.
“Cosa?” esclamò mio padre, più sconcertato che mai.
“Mozzarle la testa!”
“Tagliarle la testa?”
“Sì, con un’accetta o una vanga, o qualsiasi altra cosa
possa recidere quella gola assassina. Sentirete,” aggiunse,
tremando dalla rabbia. Poi, con un balzo fulmineo in avanti,
disse:
“Quella trave andrà bene da sedile; la vostra cara figliola
ha l’aria affaticata; facciamola sedere, e intanto io, con
poche frasi, terminerò la mia terribile storia”.
Un blocco di legno squadrato, che giaceva sul pavimento
ricoperto d’erba della cappella, formava una specie di
panca su cui fui ben lieta di sedermi, e nel frattempo il
generale chiamò il boscaiolo che stava rimuovendo alcuni
grossi rami appoggiati alle antiche mura; quella vecchia
roccia si presentò al nostro cospetto con l’ascia in mano.
Non sapeva dirci nulla di quei monumenti; ma c’era un
vecchio, disse, un guardaboschi, che al momento abitava
nella casa del prete, a circa due miglia da lì, che poteva
indicarci i segreti di tutti i monumenti dell’antica famiglia
Karnstein; e in cambio di una sciocchezza promise di
riportarcelo in poco più di mezz’ora, se gli avessimo
prestato uno dei nostri cavalli.
“È da molto che lavorate in questa foresta?” chiese mio
padre al vecchio.
“È tutta la vita che faccio il boscaiolo qui,” rispose l’altro
nel suo dialetto, “sotto la guardia forestale; così mio padre
prima di me e anche i nostri avi, per molte generazioni.
Potrei indicarvi con precisione la casa dove vivevano i miei
antenati, qui nel villaggio.”
“Come mai il villaggio è stato abbandonato?” chiese il
generale.
“Era infestato dai revenant, signore; alcuni sono stati
inseguiti fino alle loro tombe, stanati grazie ai metodi
tradizionali ed eliminati coi sistemi tradizionali, con la
decapitazione, con il paletto o con il fuoco16; ma non prima
che molti abitanti del villaggio rimanessero uccisi.
“Ma dopo tutte queste procedure legali,” continuò, “dopo
avere aperto così tante tombe e aver privato così tanti
vampiri della loro orribile vitalità, il villaggio non ebbe
pace. Così un nobile della Moravia,17 di passaggio da queste
parti, venne a sapere della vicenda, ed essendo esperto di
simili questioni, come lo sono in molti nel suo paese, si offrì
di liberare il villaggio dal suo persecutore. E agì in questo
modo: siccome c’era una bella luna spendente, quella notte,
salì, poco dopo il tramonto, sulle torri di questa cappella,
da dove poteva avere una chiara visuale del cimitero
sottostante; potete vederlo anche voi da quella finestra.
Rimase a guardare da quella postazione fin quando non
vide il vampiro uscire dalla tomba, posare lì accanto i
bianchi sudari in cui era stato fasciato e scivolare silenzioso
verso la città per tormentare i suoi abitanti.
“Lo straniero, dopo aver visto tutto ciò, scese dalla torre
campanaria, prese i sudari che avvolgevano il vampiro e li
portò con sé in cima alla torre, dove nel frattempo era
risalito. Quando il vampiro tornò dalla caccia e non trovò i
suoi indumenti, lanciò urla furiose contro il moravo, che
vide sulla sommità della torre e che, per tutta risposta, gli
fece cenno di salire a riprenderseli. A quel punto il
vampiro, accettando l’invito, cominciò ad arrampicarsi su
per il campanile, e appena ebbe raggiunto i parapetti, il
moravo, con un colpo di spada, gli spaccò in due il cranio e
lo scaraventò nel camposanto; poi il forestiero scese le
scale tortuose, lo raggiunse e gli tagliò la testa, e il giorno
dopo la consegnò insieme al corpo agli abitanti del
villaggio, che lo impalarono e lo bruciarono, come andava
fatto.18
“Quel nobile moravo fu autorizzato dal capofamiglia di
allora a rimuovere la tomba di Mircalla, contessa di
Karnstein, impresa che portò a termine con successo, tanto
che di lì a poco nessuno più si ricordava dove si trovasse.”
“Voi sapreste indicarmi il punto esatto?” chiese il
generale, impaziente.
Il guardaboschi scosse la testa, e sorrise.
“Ormai non c’è anima viva che saprebbe dirvelo,” rispose.
“E poi dicono che il suo corpo è stato rimosso; ma l’assoluta
certezza non ce l’ha nessuno.”
Dopo queste parole, visto che il tempo stringeva, il
boscaiolo poggiò a terra l’ascia e partì, lasciandoci lì ad
ascoltare l’ultima parte dell’assurdo racconto del generale.
XIV
L’incontro
“La mia bambina diletta,” riprese, “ormai peggiorava
rapidamente. Il medico che la seguiva non era riuscito a
ottenere il benché minimo risultato sulla sua malattia, ché
di malattia credevo si trattasse. Mi vide preoccupato e
suggerì di consultare un altro medico. Ne chiamai uno
migliore, da Graz. Passarono diversi giorni prima che
arrivasse. Era un uomo buono e pio, e anche molto colto. I
due dottori visitarono insieme la mia povera pupilla e poi si
ritirarono nella biblioteca per conferire e discutere. Dalla
stanza accanto, dove aspettavo di essere convocato, sentii
le voci di questi due gentiluomini alzarsi e prendere toni
più aspri di quanto ci si aspettasse da una discussione
strettamente filosofica. Bussai alla porta ed entrai. Come
ebbi a scoprire, l’anziano medico di Graz difendeva la sua
teoria. Il suo rivale lo contrastava con malcelato scherno,
accompagnato da scoppi di risa. Questo increscioso
spettacolo terminò e l’alterco si placò con il mio ingresso.
“‘Signore,’ disse il nostro medico, ‘il mio sapiente fratello
è convinto che abbiate bisogno di uno stregone, più che di
un dottore.’
“‘Perdonatemi,’ disse l’anziano medico di Graz,
contrariato, ‘esprimerò il mio personale punto di vista a
modo mio in un’altra occasione. Mi rincresce, Monsieur le
General, ma le mie competenze e la mia scienza non
possono esservi di nessun aiuto. Prima di andare, mi
pregerò di offrirvi qualche suggerimento.’
“Sembrava molto preoccupato; si sedette al tavolo e
cominciò a scrivere.
“Pervaso da una profonda delusione, feci il mio inchino e,
quando mi voltai per andarmene, l’altro dottore indicò,
dietro di sé, il collega che stava scrivendo, e poi, con
un’alzata di spalle, si toccò la fronte con un gesto
eloquente.
“Dopo questo consulto, in definitiva, non mi ero mosso di
un millimetro. Uscii in giardino, ormai al colmo dell’ansia.
Il dottore di Graz mi raggiunse dopo dieci o quindici minuti.
Si scusò per avermi seguito, ma disse che, in tutta
coscienza, non poteva andarsene senza prima avermi detto
un altro paio di cose. Asserì che non poteva essersi
sbagliato; nessuna malattia conosciuta manifestava gli
stessi sintomi; e che la morte era già molto vicina. A ogni
modo, le restava un giorno di vita, al massimo due. Se
fossimo riusciti a bloccare sul nascere la crisi fatale, con
molte cure e grande perizia, forse avrebbe potuto
recuperare le forze. Ma eravamo proprio ai limiti
dell’irreversibile. Un altro attacco avrebbe potuto
estinguere l’ultima scintilla di vitalità, che rischiava di
spegnersi a ogni minuto.
“‘Ma di che crisi parlate?’ chiesi con tono implorante.
“‘È tutto scritto in questo biglietto, che vi affido a
condizione che mandiate a chiamare il sacerdote più vicino
e apriate la mia lettera solo in sua presenza, e per nessuna
ragione vi passi per la mente di leggerla finché non sarete
con lui; altrimenti la sdegnereste, quando invece è una
questione di vita o di morte. Non doveste riuscire a trovare
un prete, ebbene, allora potrete leggerla da solo.’
“Prima di prendere congedo, mi chiese se desiderassi
incontrare un uomo assai ferrato in quel preciso argomento
che, dopo aver letto la lettera, con ogni probabilità mi
sarebbe interessato più di tutti gli altri, e mi sollecitò con
una certa urgenza a invitarlo a fargli visita; e così prese
congedo.
“L’ecclesiastico non c’era, e così lessi da solo la lettera. In
un altro momento, in un’altra circostanza, avrebbe
suscitato la mia derisione. Ma in quali ciarlatanerie non si
lancerebbe la gente pur di avere un’ultima possibilità,
laddove ogni mezzo consueto ha fallito e la posta in gioco è
la vita di una persona amata?
“Nulla, direte voi, avrebbe potuto essere più assurdo
della lettera di quell’uomo erudito. Era abbastanza
mostruosa da far rinchiudere in manicomio il suo autore.
Diceva che le sofferenze della paziente dipendevano dalle
visite di un vampiro! Le punture vicino alla gola di cui
parlava erano, insisteva a dire, provocate dai due lunghi
denti, sottili e aguzzi, che, è risaputo, sono tipici dei
vampiri; non vi era dubbio alcuno, aggiungeva, sulla chiara
presenza del piccolo segno bluastro che doveva per forza di
cose essere stato lasciato dalle labbra di quel demonio, e
ogni sintomo descritto dalla malata era in perfetto accordo
con quelli registrati in tutti i casi di apparizioni simili.
“Ero del tutto scettico riguardo all’esistenza di portenti
come i vampiri, per cui la teoria soprannaturale del buon
dottore costituiva ai miei occhi solo un altro esempio di
sapere e intelligenza uniti, per chissà quale stramba
associazione, a fenomeni allucinatori. Ma ero così disperato
che, piuttosto di rinunciare a qualsiasi tentativo, seguii le
istruzioni della lettera.
“Mi nascosi nel buio guardaroba che dava sulla stanza
della povera paziente, dove bruciava una candela, e restai
di guardia finché non si addormentò profondamente.
Rimasi in piedi accanto alla porta, a sbirciare dalla piccola
fessura, la spada poggiata sul tavolo lì a fianco, proprio
come dettavano le mie istruzioni, fin quando, poco dopo
l’una, vidi un’enorme cosa nera, parecchio indefinita,
strisciare ai piedi del letto, o almeno così mi parve, e poi
estendersi rapida fino alla gola della poveretta, ove si
gonfiò, in un momento, diventando un’enorme massa
palpitante.
“Rimasi pietrificato qualche secondo. Poi feci un balzo
avanti, brandendo la spada. La creatura nera d’improvviso
si contrasse verso i piedi del letto, scivolò sul pavimento e,
quando si rizzò in piedi, circa una iarda più in là, mi fissò
con un lampo di codarda ferocia e orrore. Era Millarca.
Pensando non so neppure io a cosa, la colpii subito con la
spada; ma la vidi accanto alla porta, illesa. Pieno di orrore,
la inseguii e la colpii di nuovo. Era sparita; e la mia spada
finì in pezzi contro la porta.
“Impossibile descrivervi tutto quello che accadde
quell’orribile notte. In casa eravamo tutti svegli e
l’agitazione regnava sovrana. Lo spettro di Millarca era
sparito. Ma la sua vittima peggiorava in fretta, e prima
dell’alba morì.”
Il vecchio generale era agitato. Nessuno gli rivolse
parola. Mio padre si allontanò un poco e cominciò a leggere
le iscrizioni sulle lapidi; e così impegnato, passeggiò fino
alla porta di una cappella laterale per proseguire le sue
ricerche. Il generale si appoggiò al muro e si asciugò gli
occhi, lanciando un profondo sospiro. Con mio grande
sollievo udii le voci di Carmilla e di madame Perrodon,
sempre più vicine. Poi le voci svanirono.
In questa solitudine, dopo aver ascoltato una storia così
singolare, di fatto collegata a illustri e nobili estinti,
proprietari delle tombe monumentali in rovina, ricoperte di
polvere e edera, che avevamo intorno, e somigliante in
modo così incredibile al mio stesso misterioso caso – in
questo luogo infestato dai demoni, reso ancor più oscuro
dall’imponente fogliame che cresceva da ogni parte, folto e
alto, sui muri silenziosi – un senso di orrore cominciò a
impossessarsi di me, e il mio cuore sprofondò al pensiero
che, dopo tutto, le mie amiche non sarebbero entrate a
disturbare questa scena triste e funesta.
Gli occhi dell’anziano generale erano fissi a terra, mentre
teneva la mano poggiata allo zoccolo di un monumento
cadente.
Sotto l’arco di un’angusta porta sormontata da una di
quelle grottesche demoniache che tanto piacevano alla
cinica e spettrale fantasia degli antichi incisori gotici, vidi,
con grande piacere, il bel viso e la figura di Carmilla fare il
loro ingresso nell’ombrosa cappella.
Stavo per alzarmi e parlare, e annuii sorridendo, in
risposta al suo sorriso così coinvolgente; quando con un
grido il vecchio generale, che mi stava di fianco, afferrò
l’ascia del boscaiolo e balzò in avanti. Vedendolo, le
fattezze di Carmilla subirono un brutale cambiamento. Fu
una trasformazione improvvisa e orribile, mentre faceva un
passo indietro, acquattandosi. Prima che potessi lanciare
un grido, lui la colpì con tutta la forza che aveva, ma lei lo
schivò gettandosi sotto il suo braccio e, illesa, lo afferrò per
il polso con la sua piccola mano. Il generale si divincolò per
qualche istante nel tentativo di liberare il braccio da quella
stretta, ma poi aprì la mano e l’ascia cadde a terra, e
intanto la ragazza era sparita.
L’uomo barcollando andò ad appoggiarsi al muro. I capelli
grigi gli si erano rizzati in testa e il viso era imperlato di
sudore, come se fosse in punto di morte.
Quella scena spaventosa era durata un momento soltanto.
La prima cosa che ricordo, subito dopo, è madame
Perrodon in piedi davanti a me, che continuava a ripetere
con tono impaziente la stessa domanda: “Dov’è
mademoiselle Carmilla?”.
Finalmente risposi: “Non lo so... non saprei dirlo... è
andata da quella parte,” e indicai la porta da cui madame
Perrodon era appena entrata; “saranno un paio di minuti
fa.”
“Ma da quando mademoiselle Carmilla è entrata, io sono
sempre stata là, in quel varco; e non è tornata indietro.”
A quel punto cominciò a chiamare “Carmilla” attraverso
ogni porta e varco e dalle finestre, ma non ottenne risposta.
“Si faceva chiamare Carmilla?” chiese il generale, ancora
sconvolto.
“Carmilla, sì,” risposi io.
“Ah sì,” disse, “è proprio Millarca. Ed è la stessa persona
che, molto tempo fa, veniva chiamata Mircalla, contessa di
Karnstein. Abbandonate questo luogo maledetto, mia
povera figliola, più in fretta che potete. Raggiungete la casa
del sacerdote e restate lì fino al nostro arrivo. E ora andate,
su! Possiate non vedere mai più Carmilla; qui non la
troverete.”
XV
Ordalia ed esecuzione
Mentre il generale parlava, uno degli uomini più strani
che io abbia mai visto fece il suo ingresso nella cappella da
dove un attimo prima era entrata e uscita Carmilla. Era
alto, con il torace stretto, le spalle ricurve e prominenti, e
vestito di nero. Il suo viso era scuro e raggrinzito, e solcato
da rughe profonde; portava un bislacco cappello a tesa
larga. I capelli, lunghi e brizzolati, gli ricadevano sulle
spalle. Portava un paio di occhiali con la montatura dorata
e camminava lento, con una strana andatura dinoccolata,
con il viso a volte rivolto al cielo e altre chino verso terra,
ma sempre segnato da un sorriso perpetuo; le braccia,
lunghe e magre, gli ciondolavano lungo i fianchi e le mani
scarne, in un vecchio paio di guanti neri troppo grandi per
loro, si agitavano e gesticolavano nervosamente.
“È proprio lui!” esclamò il generale, avanzando con
palese contentezza. “Mio caro barone, come sono felice di
vedervi, non speravo di incontrarvi tanto presto.” Fece un
cenno a mio padre, che nel frattempo era tornato, e gli si
avvicinò portando con sé l’eccentrico e anziano gentiluomo,
che chiamava barone. Dopo le presentazioni ufficiali,
iniziarono subito a parlare con grande fervore. Lo
sconosciuto estrasse un rotolo di carta dalla tasca e lo stese
sulla superficie consunta di una tomba lì vicino. Teneva in
mano anche un portamatite con cui tracciava linee
immaginarie da un punto all’altro del foglio che, a
giudicare dalle occhiate che tutti e tre lanciavano a
determinati punti dell’edificio, conclusi che dovesse essere
la pianta della cappella. Accompagnava quella che si
potrebbe definire la sua lezione leggendo di tanto in tanto
qualche passaggio da un sudicio taccuino, le cui pagine
ingiallite erano fitte di appunti.
Passeggiarono lungo la navata laterale, dalla parte
opposta rispetto a quella dove mi trovavo io, senza mai
smettere di parlare; quindi presero a misurare le distanze
con i passi finché non si ritrovarono davanti a un
frammento della parete della galleria, e iniziarono a
esaminarlo con grande attenzione: strapparono via l’edera
attaccata, picchiettarono l’intonaco con la punta dei
bastoni, raspavano da una parte e bussavano dall’altra.
Appurarono infine l’esistenza di una grossa lastra di
marmo, con alcune lettere intagliate in rilievo.
Con l’aiuto del boscaiolo, che era tornato in un batter
d’occhio, riportarono alla luce un’iscrizione monumentale e
un blasone intagliato. Era proprio il monumento funebre di
Mircalla, contessa di Karnstein, da tempo dimenticato.
Il vecchio generale, benché temo non fosse molto in vena
di preghiere, levò le mani e gli occhi al Cielo per qualche
istante, in muto ringraziamento.
“Domani,” lo sentii dire, “verrà il commissario e, come
previsto dalla legge, si procederà alla Ricognizione.”19
Poi, rivolto all’anziano signore con gli occhiali dorati che
ho poc’anzi descritto, gli espresse calorosamente la propria
gratitudine, stringendogli le dita con entrambe le mani e
dicendo:
“Barone, come potrò mai ringraziarvi? Come potremo mai
ringraziarvi, noi tutti? Avete liberato questa regione da una
piaga che ha oppresso i suoi abitanti per più di cento anni.
L’orribile nemico, grazie a Dio, è stato finalmente scovato”.
Mio padre condusse in disparte lo sconosciuto e il
generale li seguì. So che li aveva condotti dove non potevo
sentirli, così da poter riferire il mio caso, e nel corso della
discussione li vidi lanciarmi frequenti e rapide occhiate.
A un certo punto mio padre venne da me, mi baciò più e
più volte e, mentre mi conduceva fuori dalla cappella,
disse:
“È ora di tornare a casa, ma prima di ripartire dobbiamo
aggiungere alla nostra compagnia quel brav’uomo del
prete, che vive a poca distanza da qui; e convincerlo ad
accompagnarci al maniero”.
La ricerca andò a buon fine: e ne fui ben lieta, perché
avevo addosso una stanchezza indicibile quando arrivammo
a casa. Ma la mia soddisfazione si tramutò in sconcerto
quando venni a scoprire che non si avevano notizie di
Carmilla. Non mi diedero alcuna spiegazione della scena
avvenuta nella cappella diroccata, ed era chiaro che si
trattava di un segreto che per il momento mio padre aveva
deciso di non rivelarmi.
La sinistra assenza di Carmilla rendeva ancor più orribile
il ricordo di quanto era successo. Le disposizioni per la
notte furono alquanto singolari. Due cameriere e madame
Perrodon avrebbero passato la notte in camera mia, a
vegliare sul mio sonno; l’ecclesiastico e mio padre
sarebbero stati di sentinella nel guardaroba adiacente.
Quella sera il prete aveva officiato una serie di riti solenni
di cui non capivo il senso, più di quanto non comprendessi
la ragione delle misure straordinarie adottate per la mia
sicurezza durante il sonno.
Qualche giorno dopo mi fu tutto chiaro.
Con la scomparsa di Carmilla cessarono anche le mie
sofferenze notturne.
Avrete senz’altro sentito parlare della spaventosa
superstizione in voga nella Bassa e Alta Stiria, in Moravia,
in Slesia, nella Serbia turca, in Polonia e perfino in Russia:
la superstizione, così appare ai nostri occhi, che riguarda la
figura del vampiro.
Se la testimonianza umana, presa in esame con la dovuta
cura e solennità, in sede di giudizio, al cospetto di
innumerevoli commissioni, ognuna composta da molti
membri, tutti scelti in virtù della loro integrità morale e
intelligenza, e capace di formulare rapporti forse più
voluminosi di quelli esistenti per qualsiasi altra tipologia di
casi, ha un qualche valore, è difficile negare o anche solo
mettere in dubbio l’esistenza di un fenomeno come quello
del vampiro.20
Da parte mia, non dispongo di nessuna teoria in grado di
spiegare ciò che ho visto con i miei occhi e sperimentato
sulla mia pelle, se non quella fornita dalle antiche e ben
attestate credenze del nostro paese.
Il giorno dopo furono espletate tutte le procedure di rito
nella cappella dei Karnstein.
Il sepolcro della contessa Mircalla fu aperto; e in quel
volto, ora dischiuso alla vista, il generale e mio padre
riconobbero entrambi la propria bella e perfida ospite. I
lineamenti, nonostante fossero passati centocinquant’anni
dal suo funerale, conservavano ancora le calde sfumature
della vita. Gli occhi erano aperti; dalla bara non esalava
alcun odore di cadavere. I due uomini di medicina, uno
presente in veste ufficiale e l’altro per conto del promotore
dell’inchiesta, attestarono lo straordinario riscontro di una
debole, ma apprezzabile attività respiratoria e di una
corrispondente attività cardiaca. Le membra erano
perfettamente flessibili, la carne elastica; e la bara
piombata traboccava di sangue, in cui il corpo giaceva
immerso a una profondità di sette pollici.
Ecco dunque, erano tutte prove che ci trovavamo di
fronte a un caso di vampirismo. Quindi, in accordo con
l’antica pratica, sollevarono il corpo e conficcarono un
paletto appuntito nel cuore del vampiro, che emise allora
un urlo lacerante, in tutto e per tutto simile a quello che
potrebbe lasciarsi scappare una persona nei suoi ultimi
momenti di agonia. Poi le tagliarono la testa, e dal collo
reciso sgorgò un torrente di sangue. Il corpo e la testa
vennero quindi sistemati su una pila di legna e ridotti in
cenere, poi sparsa nel fiume e portata via dalla corrente, e
da allora quella regione non è più stata afflitta dalle
incursioni di un vampiro.
Mio padre conserva una copia del rapporto della
Commissione imperiale, con le firme di tutti coloro che
assistettero a queste procedure, allegate a riprova delle
dichiarazioni ivi riportate. È grazie a tale documento
ufficiale che sono riuscita a ricostruire per sommi capi il
racconto di quest’ultima terribile scena.
Conclusione
Voi penserete che scriva tutto ciò senza scompormi.
Quanto di più lontano dalla realtà; non posso ripensare a
questa vicenda senza cadere preda dell’agitazione. Nulla,
se non il vostro più ansioso desiderio così tante volte
espresso, avrebbe potuto convincermi ad affrontare un
compito che ha logorato i miei nervi per molti mesi a
venire, e ha gettato sulla mia vita un’ombra di indicibile
orrore che anni dopo la mia liberazione continuava a
riempire di paura le mie notti e i miei giorni e a rendere la
solitudine talmente spaventosa da risultare insopportabile.
Lasciatemi aggiungere due parole a proposito
dell’eccentrico barone Vordenburg: è grazie alla sua
curiosa erudizione se siamo riusciti a scoprire il sepolcro
della contessa Mircalla.
Aveva preso dimora a Graz dove, contando su una misera
rendita, che era tutto ciò che gli restava dei possedimenti –
un tempo principeschi – della sua famiglia in Alta Stiria, si
era dedicato a dettagliate e laboriose indagini sulla
tradizione, mirabilmente accreditata, del vampirismo.
Sull’argomento conosceva a menadito tutti i volumi in
circolazione, dai più corposi ai più snelli.
Magia posthuma, De mirabilibus di Flegonte di Tralle, De
cura pro mortuis di sant’Agostino, Philosophicae et
christianae cogitationes de vampiris di John Christofer
Herenberg21; e altre migliaia, di cui ricordo soltanto quei
pochi che prestò a mio padre. Possedeva un’ampia raccolta
di tutti i casi giudiziari, da cui aveva desunto un sistema di
princìpi che sembrano governare – alcuni sempre e altri
solo ogni tanto – l’esistenza del vampiro. Ad esempio potrei
dirvi che il pallore mortale attribuito a questo genere di
revenant è pura finzione melodrammatica. Nella tomba e
quando escono fra gli uomini, presentano un aspetto sano e
vitale. Se portati alla luce nelle loro bare, esibiscono tutti i
sintomi enumerati a riprova del vampirismo della contessa
di Karnstein, morta molti anni addietro.
Come facciano a uscire dal sepolcro per un certo numero
di ore e poi ritornarvi, tutti i giorni, senza smuovere la
terra argillosa o lasciare alcun segno di scompiglio nella
bara o nel drappo funebre, è sempre stato considerato un
mistero inspiegabile. L’esistenza anfibia del vampiro si
rigenera ogni giorno grazie al riposo nel sepolcro. La sua
orrida brama di sangue umano gli procura le energie per le
sue ore di veglia. Il vampiro tende a sentirsi attratto da
certe persone con un impeto travolgente che ricorda la
passione amorosa. Nel dar loro la caccia, dimostrerà una
pazienza inesauribile e metterà in atto infiniti stratagemmi,
perché la conquista di certi oggetti del desiderio potrebbe
incontrare centinaia di ostacoli. Non desisterà fino a
quando non avrà soddisfatto la sua passione e prosciugato
la vita dell’anelata vittima. Ma in questi casi centellinerà e
prolungherà il suo piacere omicida con la raffinatezza di un
epicureo, e lo aumenterà attraverso le crescenti profferte
di un astuto corteggiamento. In questi casi sembra
agognare una specie di affinità con la propria vittima, e il
suo consenso. In tutti gli altri casi, invece, va dritto allo
scopo, sopraffà il malcapitato con forza bruta, e sovente lo
strangola e lo finisce in un solo banchetto.
In dati contesti, il vampiro sembra soggetto a condizioni
speciali. Nel caso specifico che vi ho raccontato, Mircalla
pareva vincolata a un nome che, pur non essendo quello
vero, doveva almeno riprodurre sotto forma di anagramma,
senza omissioni né aggiunte, le lettere che lo componevano.
Ed ecco Carmilla; ecco Millarca.
Mio padre riferì al barone Vordenburg, che rimase con
noi ancora due o tre settimane dopo la cacciata di Carmilla,
la storia del gentiluomo moravo e del vampiro del cimitero
di Karnstein, e poi chiese al barone come avesse fatto a
scoprire la posizione esatta della tomba della contessa
Mircalla, a lungo segreta. I grotteschi lineamenti del
barone si incresparono in un misterioso sorriso;
continuando a sorridere, abbassò lo sguardo sul suo
portaocchiali, ormai logoro, e ci giocherellò un poco. Poi,
sollevando gli occhi, disse:
“Ho molti diari e altri documenti scritti da quell’uomo
ragguardevole; il più curioso di tutti è il resoconto della
visita a Karnstein, di cui parlate. La tradizione popolare,
ovviamente, lo ha sbiadito e distorto un po’. Lo si potrebbe
definire un nobile moravo, perché si era trasferito in quel
territorio ed era anche nobile. Ma in realtà era nativo
dell’Alta Stiria. Basti dire che in gioventù era stato
l’amante appassionato e favorito della bella Mircalla,
contessa di Karnstein. La sua morte prematura lo gettò
nella disperazione più completa. È nella natura dei vampiri
crescere e moltiplicarsi, ma secondo una legge consolidata
e spettrale.
“Prendiamo, come punto di partenza, un territorio del
tutto libero da una simile piaga. Come ha inizio e come si
moltiplica? Ecco come: una persona, più o meno malvagia,
pone fine alla propria vita. Un suicida, in alcune
circostanze, diventa un vampiro. Allora lo spettro visita i
vivi nel sonno; questi muoiono e, quasi sempre, nel
sepolcro si trasformano in vampiri. È questo il caso della
bella Mircalla, che fu perseguitata da uno di questi demoni.
Il mio antenato, Vordenburg, di cui porto ancora il titolo,
venne presto a scoprirlo e, nel corso dei suoi ferventi studi,
apprese molto ancora.
“Fra le altre cose, giunse alla conclusione che, presto o
tardi, sulla defunta contessa, che in vita era stata il suo
idolo, sarebbe con ogni probabilità caduto il sospetto di
vampirismo. Gli sembrava orribile che, qualsiasi cosa fosse
diventata, i suoi resti venissero profanati dall’oltraggio di
un’esecuzione postuma. Ha anche lasciato un curioso
documento per dimostrare che il vampiro, una volta
sottratto alla sua esistenza anfibia, viene precipitato in una
vita ancora più orrenda; e così decise di salvare da tutto ciò
la sua adorata Mircalla.
“Adottò lo stratagemma di un viaggio da queste parti, con
il pretesto di spostare i suoi resti e la reale intenzione di
cancellare ogni traccia del suo monumento funebre.
Sorpreso dalla vecchiaia, giunto ormai sul declinare degli
anni, si volse a guardare le scene che avrebbe lasciato per
sempre e considerò con spirito diverso le sue azioni, e fu
sopraffatto dall’orrore. Redasse allora i disegni e le
annotazioni che mi hanno guidato al punto esatto, e stilò
una confessione dell’inganno che aveva perpetrato. La
morte prevenne qualsiasi altra azione in tal senso, se mai
l’avesse intesa; è stata la mano di un lontano discendente a
condurre le ricerche, troppo tardi per molti, fino alla tana
della bestia”.
Parlammo ancora un po’ e, tra le cose che disse, c’era
anche questa:
“Una delle caratteristiche del vampiro è la forza nelle
mani. L’esile mano di Mircalla ha chiuso in una morsa
d’acciaio il polso del generale quando ha sollevato l’ascia
per colpirla. Ma la sua forza non si limita alla stretta;
provoca nell’arto che afferra una specie di intorpidimento
da cui è difficile, se mai è possibile, riaversi”.
La primavera seguente mio padre mi portò a fare un
viaggio in Italia. Restammo lontani da casa per più di un
anno. Ci volle molto tempo prima che il terrore degli ultimi
eventi si placasse; e ancora oggi l’immagine di Carmilla mi
torna alla memoria con ambigue alternanze – a volte la
ragazza gioiosa, languida, bellissima; altre volte il demone
che vidi contorcersi nella cappella diroccata; e spesso mi
sono destata da qualche fantasticheria con un sussulto,
credendo di sentire il passo leggero di Carmilla alla porta
del salotto.
Note ai testi

Tè verde
1
Come molti uomini di cultura tedeschi, olandesi e scandinavi tra il 1500 e il
1800, Hesselius ha latinizzato il suo nome (vedi Celsus, Paracelsus, Gryphius,
Benzelius). Considerato il ruolo di Arcana Cœlestia nella storia, Le Fanu
probabilmente si riferiva ad Andreas Hesselius, cugino di Swedenborg.
2
Van Loo è un personaggio inventato, ma Le Fanu forse si è ispirato al
famoso e versatile Sebald Justinus Brugmans (1763-1819), professore di
botanica all’Università di Leida dal 1786 e poi professore di storia naturale e
chimica. Brugmans fu Magnifico Rettore durante l’occupazione francese.
3
Heyduke non è un tipico cognome inglese. Il termine heyduke o heyduck
(dal serbo hajduk) sta di solito a indicare un brigante o un soldato irregolare.
Le Fanu forse trovò qualche riferimento al serbo Heyducqs in The Phantom
World di Dom Augustin Calmet, una delle maggiori fonti per Carmilla.
4
Non esiste nessuna località inglese con questo nome, ma Kenlis (irlandese
Cean-lis) è l’antico nome di Kells, nella contea di Meath.
5
Al contrario della Chiesa, Swedenborg affermava che il corpo fisico
marcisse nella terra e non risorgesse più. È l’anima che possiede una natura
immortale e sono i suoi corpi sottili che dopo la morte si trasferiscono nel
mondo celeste. La morte del corpo fisico avviene quando polmoni e cuore
cessano la loro attività. Secondo Swedenborg, nel sangue circola l’anima: corpo
e cervello funzionano per mezzo di un fluido spirituale, che veicola, per
l’appunto, l’anima. Dopo la separazione dal suo involucro fisico, l’anima
dell’uomo resta un po’ di tempo nel corpo, ma soltanto finché il movimento del
cuore non si è spento totalmente. Quando questo movimento cessa, l’uomo
risuscita “in forma umana” e viene introdotto dal Signore nel mondo spirituale.
L’uomo, dopo la morte, è in possesso di tutti i suoi sensi, della memoria, del
pensiero, degli affetti che aveva nel mondo: abbandona soltanto il suo corpo
terreno.
6
Emanuel Swedenborg, Arcana Cœlestia quae in Scriptura Sacra, seu Verbo
Domini sunt detecta; nempe quae in Genesi et Exodo, una cum mirabilis quae
visa sunt in Mundo Spiritum, et in Cœlo Angelorum. Jennings possiede la prima
edizione, in otto volumi, pubblicata a Londra da John Lewis (1749-1756). Negli
Arcana vengono riportati i testi di Genesi ed Esodo, con il commentario di
Swedenborg, e un ulteriore commento in cui vengono descritte le visioni di
Swedenborg, che gli permettono di parlare con gli angeli e gli spiriti e così di
apprendere i significati nascosti o allegorici delle Scritture.
7
In Arcana Cœlestia Swedenborg non include le scimmie tra le “forme
bestiali”.
8
Molti illustri medici di Londra avevano lo studio in Harley Street, tanto che
“Harley Street” spesso designa la professione medica.
9
Periodo dell’anno in cui la vita della città è più animata, cioè tra maggio e
luglio.
10
Una piccola cittadina nel Surrey, a circa dieci miglia da Londra, a quei
tempi aperta campagna, ora periferia urbana.
11
Godfried Schalcken o Schalken (1643-1706) è stato un pittore olandese. I
suoi quadri sono caratterizzati da giochi di luce: era solito dipingere soggetti in
ambienti scuri illuminati da candele.
12
Paries, -etis (lat.): parete, muro.
Il giudice Harbottle
1
In originale quarter-day: nella tradizione britannica e irlandese, i quarter-
days erano le quattro date nelle quali veniva assunta la servitù e venivano
pagati le rate e gli affitti. Questi giorni cadevano in coincidenza con delle feste
religiose distanti all’incirca tre mesi l’una dall’altra. I quarter-days inglesi
(osservati anche in Irlanda) sono: Annunciazione del Signore (Lady Day, 25
marzo), Natività di san Giovanni Battista (Midsummer Day, 24 giugno), Festa di
san Michele arcangelo (Michaelmas, 29 settembre), Natale (25 dicembre).
2
I dipinti e le incisioni del pittore e incisore inglese William Hogarth (1697-
1764) sono come scene di romanzi che si animano, articoli di giornali che
prendono vita, rappresentazioni teatrali fissate con la pittura: raccontano i vizi
e le virtù della società inglese del Settecento, esprimendo giudizi di valore e
rivelando le idee dell’artista sul suo mondo. I soggetti scelti da Hogarth per i
suoi quadri si allontanano dalla tradizione della pittura religiosa (quadri con
Sacre famiglie o Crocifissioni importati soprattutto dall’Italia) e si rivolgono
invece agli abitanti di Londra: giovani con poca voglia di lavorare, mendicanti,
imbroglioni, candidati alle elezioni, commercianti, scommettitori, ma anche
bravi apprendisti e benefattori.
3
Le Fanu doveva avere in mente la figura centrale del dipinto The Bench di
Hogarth (1758) che rappresenta l’allora presidente della Corte suprema Sir
John Willies, “che univa erudizione e lascivia”. S.M. Ellis sostiene che il
personaggio di Harbottle sia anche ispirato alla figura di George Jeffreys (1648-
1689), lord cancelliere sotto Giacomo II d’Inghilterra, così come è descritta da
Thomas Babington Macaulay in History of England from the Accession of James
II, cap. 4 (1849; rist., John Wurtele Lovell, New York), pp. 406-409: “La
depravazione di quest’uomo era proverbiale...”.
4
Nelle cosiddette Courts of Common Pleas venivano discusse cause civili (in
contrapposizione a cause più gravi e a carattere penale, che vedevano
l’intervento del sovrano). Furono fondate nell’XI secolo e rimasero in funzione
fino al Judicature Act del 1873-1875. Le Courts of Common Pleas erano uno dei
tre tribunali con la massima autorità nel sistema della common law inglese.
5
Membro della Compagnia turca o Compagnia del Levante, istituita da
Giacomo I (1603-1625) per assicurare all’Inghilterra l’esclusiva sui traffici
commerciali con l’Impero turco.
6
Sessione parlamentare: la data in parte spiega perché Harbottle fosse in
allarme per una potenziale cospirazione. Nel giugno 1745, Bonnie Prince
Charlie (Carlo Edoardo Stuart) guidò l’insurrezione giacobita per ristabilire la
sua famiglia (il padre Giacomo III) sul trono di Gran Bretagna, in mano al
protestante Giorgio II, del casato di Hannover. L’insurrezione si concluse con la
battaglia di Culloden (16 aprile 1746), combattuta presso Inverness nelle
Highlands scozzesi, che vide i sostenitori di Carlo Edoardo Stuart, detto il
“Giovane Pretendente”, definitivamente sconfitti dalle forze lealiste comandate
dal duca di Cumberland, figlio di re Giorgio II, che per l’efferatezza della
repressione portata avanti nei confronti dei giacobiti fu soprannominato “Billy
il Macellaio”.
7
Appartenente all’omonimo partito che, alternandosi a quello dei tory,
esercitò il potere in Inghilterra dal Seicento all’Ottocento, propugnando il
principio della resistenza al sovrano e della tolleranza religiosa, nonché gli
interessi dei ceti commerciali londinesi arricchiti dal traffico marittimo e
coloniale.
8
Attorney General: è la più alta carica di funzionario di giustizia a livello
federale, a capo del Dipartimento di giustizia federale. Viene nominato dal
presidente e fa parte del gabinetto.
9
Runs like a lamp-lighter: come un fulmine o un lampo di luce. È una frase
tipica del XVIII secolo e non si riferisce a una particolare velocità degli uomini
che accendevano i lampioni.
10
A Londra i condannati a morte venivano condotti dalla prigione di
Newgate, adiacente all’Old Bailey, edificio che ospitava la corte della Corona e
il tribunale penale centrale, fino a Tyburn, un villaggio della contea del
Middlesex vicino al luogo dell’attuale Marble Arch, dove venivano giustiziati
pubblicamente.
11
I malfattori talvolta venivano legati dietro a un carretto e presi a sferzate,
mentre il carretto attraversava a passo d’uomo le principali vie della città.
12
“Affidavit man” or footpad: l’affidavit, nel diritto britannico e statunitense,
è una dichiarazione scritta e giurata, o affermazione solenne davanti a un
magistrato o pubblico ufficiale, avente valore in giudizio come prova, per cui
l’affidavit man è un testimone professionista, pronto a giurare su qualsiasi cosa.
I footpad erano invece briganti che viaggiavano a piedi e rapinavano la gente
per strada.
13
Radamanto (gr. Ραδάμανϑυς): antichissimo dio cretese; nella mitologia
classica greca è re e legislatore sapientissimo, figlio di Zeus. Nell’ulteriore
sviluppo del mito fu considerato signore del mondo ultraterreno dell’Eliso, o
Isole dei Beati; compare nella tradizione, insieme a Eaco e Minosse, come
giudice dei morti.
14
Mother Carey’s chicken: nome alternativo nel folclore per la procellaria, o
uccello delle tempeste, così chiamato perché la sua comparsa in cielo
preannuncia tempesta.
15
Il registrar è un impiegato addetto al registro delle cause. Il crown
solicitor è il consulente legale del governo.
16
I giudici viaggiavano nel distretto che veniva loro assegnato, tenendo
udienze presso le città e i paesi designati.
17
Originariamente i seguaci del filosofo greco Epicuro; più tardi, come in
questo caso, il termine ha cominciato a riferirsi a chi mangia, beve e si dedica
ad altri piaceri del corpo in modo vizioso.
18
Crier: assistente che aveva, fra i tanti, il compito di chiamare i testimoni e,
a volte, di ripetere a voce alta gli ordini del giudice.
19
Tipstaff: ufficiale giudiziario che doveva mantenere l’ordine durante i
processi e controllare che tutto fosse a posto, prima e durante. Lui e il
banditore sono alle dipendenze dello sceriffo.
20
Caleb: nome comune inglese, deriva dall’ebraico ‫( כָּלֵ ב‬Kalebh), che
significa “cane” o “simile a un cane” (da kelebh, “cane”); in senso lato il nome
fa riferimento alla fede e alla devozione a Dio. Come nome inglese, il suo uso
iniziò con la Riforma protestante e divenne comune fra i puritani, che lo
introdussero in America nel XVII secolo. Il più importante fra i personaggi
biblici che porta questo nome compare nella storia d’Israele al primo arrivo
degli Israeliti, dopo l’esodo dall’Egitto, alle porte della Palestina, in
Cadesbarne. Secondo il racconto biblico, in tale occasione Mosè sceglie da
ciascuna tribù uno fra i principi o capi, per inviarlo in esplorazione del paese di
Canaan (Numeri, XIII, 2-17): l’eletto per la tribù di Giuda fu appunto “Caleb
figlio di Iefone”. Questi compie con gli altri la missione e, al suo ritorno, è il
solo con Giosuè a propugnare, nonostante l’opposizione del popolo sobillato
dalle relazioni contrarie degli altri dieci esploratori, l’idea della conquista di
Canaan, magnificandone la fertilità e sostenendo la facilità di vittoria sui popoli
indigeni. Perciò a Caleb e Giosuè viene promessa come premio dopo la
conquista una porzione scelta nella terra di Canaan (Numeri, XIV, 22-38).
Infatti più tardi vengono assegnate a Caleb le terre di Ebron e Dabìr, sui confini
meridionali di Canaan (Giosuè, XIV, 12; XV, I3; Giudici, I, 10-16). La regione
conserverà fino all’epoca dei re il nome di Caleb (I Re [Samuele], XXX, 14).
21
Prima di diventare giudice, Harbottle era un barrister, avvocato con
funzioni diverse dal solicitor: i primi discutono i casi in tribunale, ma non hanno
di norma rapporti con i clienti; i secondi preparano la causa insieme ai clienti,
ma poi passano la documentazione ai barristers per la discussione (salvo che in
alcune corti inferiori).
22
Questo passaggio non è presente in “Belgravia”.
23
Il Theatre Royal Drury Lane è un teatro del West End Theatre situato nel
distretto londinese di Covent Garden. Il palazzo del teatro si affaccia su
Catherine Street (un tempo Brydges Street) e ha sul retro la strada di Drury
Lane. L’attuale teatro è il quarto di una serie di stabili il cui primo risale al
1663, rendendolo quindi il teatro più vecchio di Londra. Durante i primi due
secoli della sua storia, il Drury Lane può essere considerato il teatro più
importante di Londra. Nel periodo del suo splendore, era uno dei pochi teatri a
godere del titolo di Patent Theatre, ovvero un teatro che aveva la licenza di
rappresentare drammi teatrali a seguito della riforma di Carlo II d’Inghilterra
nel 1660. Le Fanu andava orgoglioso della sua parentela con il drammaturgo
Richard Brinsley Sheridan (1751-1816), suo prozio, titolare e direttore del
Drury Lane dal 1776 al 1809.
24
Lincoln’s Inn: è uno degli Inns of Court, edifici appartenenti a quattro
associazioni professionali inglesi che abilitano all’esercizio della professione
forense di barrister.
25
Mrs Abington: Frances Abington nata Frances Barton, detta Fanny
(Londra, 1737 - Londra, 4 marzo 1815) è stata un’attrice inglese. Esordì nel
1755 a Londra; fu nella compagnia di David Garrick ai teatri Drury Lane e
Covent Garden. Lasciò le scene nel 1799. Fu la prima a interpretare Lady
Teazle in School for Scandal (1777) di Sheridan e Betty Hoyden in A Trip to
Scarborough (1777), sempre di Sheridan.
26
Il Bow Street Runners è stato il primo corpo di polizia della città di
Londra. Venne fondato nel 1749 da Henry Fielding e inizialmente contava
soltanto otto membri.
27
Jail-fever: una violenta forma di febbre tifoide, un tempo endemica nelle
prigioni affollate e frequente nelle imbarcazioni e in altri posti ristretti.
28
The Idle ‘Prentice Executed at Tyburn è la tavola XI di Industry and
Idleness, una serie di dodici incisioni “progettate e incise” da Hogarth (1747).
La serie rappresenta i destini completamente diversi dell’Apprendista
industrioso (che diventa sindaco di Londra nella tavola XII) e l’Apprendista
ozioso. Sullo sfondo della tavola XI, il boia con la pipa siede in cima all’“albero
a tre rami”, il patibolo di Tyburn, un triangolo di travi sostenute da tre alti pali.
Sulla cornice della tavola XI, quasi a cornice dell’incisione, ci sono due
scheletri appesi in catene.
29
Porta cocchiera: è una struttura porticata, attraverso la quale può
transitare una vettura – o, in origine, appunto una carrozza – permettendo ai
suoi occupanti di scendere direttamente davanti alla porta d’ingresso di un
edificio senza essere esposti alla pioggia.
30
Twofold significa “duplice, doppio”.
31
Questa frase non è presente in “Belgravia”.
32
Temi (o Themis) è una figura della mitologia greca. Secondo Esiodo era
una titanide, figlia di Urano e Gea, e fu una delle spose di Zeus. Generò le
Stagioni (che erano chiamate Ore), le Moire e Astrea. Themis significa
irremovibile e forse è per questo che fu considerata non tanto una dea, quanto
la personificazione dell’ordine, della giustizia e del diritto, a tal punto che si
usava invocarla nel momento in cui qualcuno doveva prestare giuramento.
33
Non presente in “Belgravia”.
34
Un barrister più anziano che può rappresentare la Corona nei processi
(alto titolo onorifico concesso agli avvocati).
35
Non presente in “Belgravia”.
36
Letteralmente “sulla soglia”, “sul limitare”; qui nel senso di “alla sbarra”.
37
Molto chic, molto alla moda. Qui Le Fanu fa riferimento a qualche
scandalo nell’alta società, ma anche a un’altra serie di incisioni di Hogarth,
Marriage-à-la-Mode (1745, sei tavole), che rappresentano la storia di un
matrimonio combinato e senza amore che finisce con il marito che muore
durante un duello con l’amante della moglie, l’amante che viene giustiziato e la
moglie che si suicida.
38
Buxton è una stazione climatica nella contea del Derbyshire, spesso
raccomandata in caso di reumatismi e di gotta.
39
Tumefazione di consistenza nodulare che si forma in prossimità delle
articolazioni in seguito ad accumulo di acidi urici.
40
Fiera che si svolgeva una volta l’anno, ai primi di settembre, a Londra, e
durava quattordici giorni. Durante le due settimane si esibivano acrobati,
c’erano spettacoli teatrali e venivano esposte statue di cera. Hogarth
rappresentò questa fiera in una famosa incisione del 1733.
41
Il coroner è un funzionario, di solito un avvocato o un medico, incaricato
di indagare sui casi di morte violenta, improvvisa o sospetta; al termine delle
sue indagini una giuria decide se vi sia causa di procedere in giudizio.
42
Luca 16,22.
Carmilla
1
Arcani, duplice esistenza, spettri meridiani: gli “arcani” sono i segreti; “la
nostra duplice esistenza” è, secondo la dottrina di Swedenborg, nel mondo
spirituale e in quello materiale. Swedenborg descrive “il mondo degli spiriti”
come “un luogo intermedio tra il paradiso e l’inferno, e [...] anche come uno
stato intermedio dell’uomo dopo la morte”. È una sorta di purgatorio postumo o
di limbo di prova, dove l’umanità viene purificata. Qui si decide se lo spirito è
destinato all’inferno o al paradiso. Hesselius sembra presupporre un simile
stato intermedio tra la vita e la morte, luogo di esistenza dei “non morti”.
2
Una regione del sud-est dell’Austria, ai confini con l’Ungheria.
3
Si credeva che la natura fosse pervasa da una forza misteriosa che si
manifestava attraverso il magnetismo, l’influsso ipnotico, le reazioni chimiche e
altre cose simili; le persone dotate di una particolare sensibilità sarebbero in
grado di cogliere la presenza di questa forza. Questo concetto è stato formulato
dal barone Karl von Reichenbach (1788-1869), scienziato tedesco, che dedicò
per l’appunto gli ultimi anni della sua vita allo studio di un’ipotetica nuova
energia emanata da tutti gli esseri viventi, che chiamò Forza Odica.
4
W. Shakespeare, Il mercante di Venezia, atto I, scena 1, i Meridiani,
Mondadori, Milano 1982. In realtà la citazione qui riportata è errata: leggiamo
“In truth I know” mentre in originale sarebbe “In sooth I know”, e poi “I got it”
anziché “I caught it”.
5
Gruppo di servitori che seguiva la carrozza del padrone.
6
Diminutivo di un nome femminile, forse una domestica ceca o polacca.
7
Cleopatra si suicida facendosi mordere da un aspide. Un quadro
raffigurante lo stesso soggetto è appeso nella tetra anticamera nel romanzo
The Rose and the Key di Le Fanu (1871, cap. 87).
8
La manticora è una creatura mitica, una sorta di chimera dotata di una
testa simile a quella umana, corpo di leone e coda di scorpione, in grado di
scagliare spine velenose per rendere inerme la preda (confondendo così la sua
immagine con la criptozoologia di un istrice).
9
La parola è una variante slava del magiaro vampyr; confronta il russo upír,
il polacco upíor, il ceco upír, il ruteno opyr.
10
Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon (1707-1788) grande naturalista,
matematico e cosmologo francese, ideò un sistema di classificazione degli
animali.
11
Città universitaria della Stiria.
12
In originale majordomo e myrmidons: il majordomo, come in italiano, è il
sovrintendente alla servitù e al buon andamento della casa, in palazzi
principeschi o signorili, mentre i myrmidon, in origine i soldati guidati da
Achille durante la guerra di Troia, sono un gruppo di domestici subordinati.
13
Luogo inventato.
14
Luogo inventato.
15
Probabilmente il monarca di un piccolo stato tedesco.
16
Secondo alcune leggende, in caso di vampirismo, venivano scoperchiate le
bare per vedere se i corpi si erano mossi dopo la sepoltura, e si scopriva che i
capelli e le unghie dei morti continuavano a crescere e il processo di
decomposizione non era mai cominciato. Vedi P. Barber, Vampires, Burial, and
Death: Folklore and Reality (Yale University Press, New Haven, Conn. 1988).
17
La Moravia, allora provincia austriaca, fa oggi parte della Repubblica
Ceca.
18
La storia del boscaiolo è tratta da un racconto contenuto in Traité sur les
Apparitions des Esprits, et sur les Vampires, ou les Revenans de Hongrie, de
Moravie, etc. di Dom Augustin Calmet (Paris 1751). Le Fanu probabilmente la
lesse nella traduzione inglese di Henry Christmas: The Phantom World: or, the
Philosophy of Spirits, Apparitions etc., 2 voll. (Richard Bentley, London 1850).
19
Calmet descrive i procedimenti legali per l’esumazione e la distruzione del
corpo di un sospetto vampiro. Un commissario imperiale dirigeva le operazioni,
gli abitanti del villaggio erano testimoni giurati ed era previsto un riscontro
incrociato.
20
Calmet riporta un gran numero di testimonianze di dottori, avvocati,
autorità locali, pubblici ufficiali su vari casi di vampirismo in Ungheria all’inizio
del XVIII secolo.
21
Magia posthuma di Charles Ferdinand de Schertz (Olmütz 1706); De
mirabilibus, una versione latina del greco Peri thaumasion di Flegonte di Tralle,
liberto dell’imperatore Adriano; De cura pro mortuis... di sant’Agostino, un
trattato sul rispetto per i defunti, che mette anche in guardia dalle forme più
estreme di lutto; Philosophicae et christianae cogitationes de vampiris di John
Christian (non Christofer) Harenberg (Wolfenbüttel 1739). Calmet fa
riferimento a tutte queste opere.
Il genio celtico di Joseph Sheridan Le Fanu
M.R. James parla dello scrittore irlandese1

Fra gli scrittori a me noti, soltanto uno considera


Sheridan Le Fanu come un’indiscussa autorità e un maestro
nel suo genere: il nome di questo scrittore è rispettabile ma
niente di più. Si tratta di James Payn. Con ogni probabilità,
se fossero state redatte le concordanze dell’opera completa
di Andrew Lang, il nome di Le Fanu non sarebbe certo
mancato. Ma resta il fatto che Le Fanu al momento non
occupa alcun piedistallo. I suoi scritti non hanno mai
conosciuto una vera e propria esplosione di popolarità. [...]
Non voglio rivendicare per questo autore una posizione di
eccellenza, ma desidero attribuirgli il merito indiscusso di
aver raggiunto vette altissime in un particolare filone: è
riuscito a infondere nelle sue storie un oscuro terrore,
come nessun altro prima di lui. C’è chi afferma che il
miglior scrittore di storie del mistero in lingua inglese sia
Edgar Allan Poe, ma io non sono affatto d’accordo. Prima di
tutto, l’effetto di questo genere di letteratura dipende per
lo più dalla sua modernità, secondo me: in ogni caso, lo
stile non deve essere antiquato, per quanto possano essere
remote l’ambientazione o l’epoca degli eventi descritti. Per
essere davvero spaventosa, la storia deve risultare
possibile e attuale. Ma i racconti di Poe, a mio parere,
hanno il tipico sapore degli anni trenta e quaranta
dell’Ottocento, che li priva di mordente, riproducendo i
costumi, il mobilio e l’arte del periodo in cui sono stati
scritti. Inoltre, l’elemento di follia viene solitamente
suggerito o introdotto, spiegando così la presenza del
soprannaturale e riconducendo tutto ciò che è orribile
nell’ambito della vita quotidiana; benché gli effetti della
pazzia potrebbero essere orribili – e sarebbe senz’altro così
se qualcuno avesse modo di sperimentarli – tuttavia sono
rimestati tante di quelle volte che perdono la loro capacità
di stimolare l’immaginazione.
Così, quando leggo The Fall of the House of Usher, che
da alcuni è ritenuta la più terrificante di tutte le sue storie,
per quanto mi riguarda l’impressione è che sia soltanto un
brutto sogno. Non c’è alcun elemento di realtà. Ma questa
mia bassa stima potrebbe forse essere influenzata dalla
repulsione che ho per i suoi versi.
Tuttavia, è arrivato il momento di dire qualcosa su Le
Fanu e su ciò che ha scritto. La sua vita è presto detta:
veniva da un’antica famiglia di ugonotti, trascorse tutta la
vita a Dublino, dove morì nel 1873, vedovo. Per molti anni
fu direttore del “Dublin University Magazine” e di un altro
giornale di Dublino, di cui ora non ricordo il nome.
Credo sia stata una personalità davvero impressionante
sia nell’aspetto che nel modo di parlare. Durante gli ultimi
anni – e anche dopo, in seguito alla morte della moglie –
condusse una vita quasi da eremita, benché in precedenza
fosse stato una figura di spicco nella società di Dublino.
I romanzi e le raccolte di racconti pubblicati a suo nome
(spiegherò questa definizione fra poco) sono: The Cock and
Anchor, Torlogh O’Brien, Uncle Silas, The House by the
Churchyard, Checkmate, Guy Deverell, The Tenants of
Malory, Haunted Lives, A Lost Name, The Wyvern Mystery,
Wylder’s Hand, All in the Dark, The Rose and the Key e
Willing to Die – questi sono i romanzi. Le raccolte di
racconti sono The Chronicles of Golden Friars, In a Glass
Darkly e The Purcell Papers (quest’ultimo è uscito postumo,
con un ricordo a firma di Mr Graves2 in luogo di
prefazione). Oltre a queste opere, esiste un certo numero di
racconti anonimi usciti nelle pagine di varie riviste che
sono attribuibili con certezza morale a Le Fanu. Ad
esempio, Squire Toby’s Will, uno dei suoi migliori racconti
di fantasmi, uscì nel numero 22 di “Temple Bar”3; Dickon
the Devil, un altro racconto di fantasmi, fu pubblicato nel
numero natalizio del “London Society” o di “Belgravia”4 nel
1871 o poco prima; e un discreto numero di storie simili
uscì nei primi numeri della nuova serie di “All the Year
Round”5 (fra questi, Sir Dominick’s Bargain, The White Cat
of Drumgunniol, Tom Chuff’s Vision, The Child that went
with the Fairies e Stories of Lough Guir).
Voglio dire qualcosa sui romanzi che conosco o ricordo.
The Cock and Anchor con ogni probabilità non è stato più
ripubblicato dopo che uscì all’interno di una rivista di
Dublino. Non l’ho mai visto, ma dovrebbe essere una storia
ambientata nella vecchia Dublino. The Fortunes of Colonel
Torlogh O’Brien è un romanzo ambientato ai tempi della
battaglia del Boyne; fu illustrato da Phiz e, a quanto ne so,
esistono almeno tre edizioni. Mostra chiare influenze di
Harrison Ainsworth, ma è un libro molto più strutturato di
quanto lo siano quelli di Ainsworth. Il capitolo dove il
cattivo del libro cade nelle mani dei ribelli e viene torturato
con la sospensione alla corda mette in evidenza un’assoluta
maestria nel trattare tematiche orribili – senza però cadere
mai nel ripugnante.
A questo punto, potremmo parlare di Uncle Silas.
L’episodio cardine apparve ben due volte all’interno di
racconti minori prima che il romanzo prendesse la forma e
il titolo con cui lo conosciamo. È con ogni probabilità il più
noto dei libri di Le Fanu – e, a mio giudizio, il suo romanzo
migliore. La struttura della storia per sommi capi è la
seguente. Dopo la morte del padre, una ragazza eredita
un’immensa fortuna. C’è uno zio che anni prima era stato
sospettato di aver ucciso un uomo – un tizio poco
raccomandabile invischiato nel gioco d’azzardo – trovato
morto a casa sua, forse suicida. Da allora, questo zio aveva
sempre condotto un’esistenza solitaria, e il padre del-
l’ereditiera – per dimostrargli la sua fiducia
nell’infondatezza dell’accusa – affida l’esclusiva custodia
della figlia allo zio in questione. Il modo magistrale in cui la
rete di inganni intessuta dallo zio si stringe sempre più
attorno alla ragazza e la terrificante scena finale
dell’assassinio e della fuga possono difficilmente essere
dimenticati da chi ha letto il libro. Incredibilmente potente
è anche la descrizione dello spettrale zio (“venerabile,
crudele, dallo sguardo fiammeggiante”), della tremenda
Madame de la Rougierre e, in minor grado, di Dudley
Ruthyn e del dottor Bryerly.
In Checkmate e in The House by the Churchyard ricorre
un motivo a cui Le Fanu è molto legato: l’idea di un
malvagio formidabile e quasi soprannaturale che torna
dopo anni di assenza, quando ormai tutti lo danno per
morto, e in un caso si presenta direttamente sulla scena di
un antico crimine, mentre nell’altro al cospetto di uomini
che lo avevano conosciuto da giovane. Dangerfield e
Longcluse incarnano questo genere d’uomo – e si
somigliano in modo impressionante.
In The Tenants of Malory mi sembra che si ripresenti la
stessa idea. Checkmate contiene inoltre alcuni episodi
straordinari: non ultimo, quello del barone tedesco che di
mestiere cambia i connotati alle persone “ricercate” dalla
polizia. The House by the Churchyard è proprio un romanzo
nel suo stile tipico. La struttura non è affatto impeccabile
ed è fuor di dubbio che un lettore poco in sintonia con
questo autore, dopo il primo terzo del romanzo, potrebbe
abbandonarlo in tronco per lo spavento. Ma a parte questo,
l’atmosfera di orrore e mistero di questo libro è fra le più
riuscite e mai ce lo saremmo aspettati; e l’ambientazione –
un sobborgo di Dublino del secolo scorso – è molto più
vivida e reale, nonostante la mancanza di descrizioni
particolarmente dettagliate, di quanto non lo siano quelle
di gran parte dei romanzi più recenti. In tutto il libro, c’è
un solo capitolo in cui si fa riferimento al soprannaturale,
ma questo serve a stuzzicare l’appetito in vista di qualcosa
di più consistente. È il racconto di apparizioni spettrali
nella casa infestata: prima fra tutte, la mano di un vecchio,
che qualcuno della famiglia vede adagiata come un rospo
sul cuscino, mentre tutti dormono, e le cui impronte un bel
giorno vengono rinvenute su un tavolo polveroso del
salotto.
Wylder’s Hand e A Lost Name sono, con ogni probabilità,
i migliori fra i romanzi che ancora non ho citato; troviamo
in entrambi la stessa capacità di infondere in ogni momento
della storia una sfumatura, a volte soltanto un po’
malinconica, più spesso cupa e misteriosa. Questa
caratteristica è presente in quasi tutti i suoi libri, anche se
a vari livelli. Ci ritornerò.
The Wyvern Mystery presenta un personaggio non molto
diverso da Madame de la Rougierre; un’olandese cieca,
mezza matta, che inscena un’apparizione straordinaria in
cui riesce quasi ad assassinare l’eroina. Guy Deverell l’ho
proprio dimenticato. Fra tutti i suoi romanzi, il più fiacco è
All in the Dark – una storia domestica con un fantasma
finto: un’infrazione difficile da perdonare a qualsiasi
scrittore, ancor più difficile nel caso di Le Fanu,
considerata la sua eccelsa capacità di maneggiare
superbamente il reale senza dover ricorrere a ulteriori
espedienti.
Arrivati alle tre raccolte e ai racconti brevi anonimi
pubblicati nelle riviste, scopriremo alcune delle opere
migliori di Le Fanu. All’interno di The Purcell Papers, ci
sono un paio di storie brevi, molto divertenti e scritte in
dialetto, che mi sembrano notevoli. Fa parte della stessa
raccolta il paurosissimo Episode in the Life of Schalken the
Painter. Qui lo scrittore impiega un tema simile a quello
della ballata Lenore di Bürger: un morto vivente sposa una
fanciulla, e quando quest’ultima fugge dalla cripta, lui
viene a reclamarla – l’esito è fin troppo scontato.
Anche The Drunkard’s Vision è un racconto molto potente
– come lo sono un paio di storie non soprannaturali della
stessa raccolta. In The Chronicle of Golden Friars ci sono
due racconti buoni e uno meno: per quel che mi ricordo,
soltanto uno ha a che fare con una specie di fantasma e
magari ne parlerò più avanti.
Il volume intitolato In a Glass Darkly è forse il più
conosciuto, insieme a Uncle Silas, dei libri dell’autore e, a
chi lo ha letto, i titoli The Familiar, Mr Justice Harbottle,
Carmilla e Green Tea suggeriscono il ricordo di piacevoli
brividi. I primi due, insieme a Squire Toby’s Will, sono, a
mio parere, le migliori storie di fantasmi in lingua inglese.
L’elenco che ho fatto è più che sufficiente: ora passerò a
esaminare le idee e gli espedienti letterari ricorrenti in Le
Fanu, nel tentativo di arrivare a comprendere i suoi
principali punti di forza.
Ma forse è meglio partire dai suoi punti deboli. Tra questi
annovererei una certa tendenza a usare più e più volte
alcuni espedienti narrativi sensazionali già di per se stessi.
Uno l’ho già menzionato – il tema del cattivo messo al
bando che ritorna nel consorzio umano con un aspetto
nuovo. Questo motivo, nella mia mente, è strettamente
connesso a un altro che domina svariati suoi racconti di
fantasmi. Potrei definirlo l’idea-vampiro. Certo, uno dei
racconti, Carmilla, è una vera e propria storia di vampiri
ambientata in Stiria, ma l’idea cui mi riferisco ha
un’accezione più ampia. Assume due forme diverse: in una
il morto ritorna sulla terra in sembianze a volte umane a
volte animali – ad esempio, il gufo in The Familiar e il
bulldog in Squire Toby’s Will sono le incarnazioni del
“Custode” e del signorotto Toby. Nell’altra forma in cui si
declina l’idea-vampiro, un’anima umana oppure uno spirito
maligno prende possesso di un corpo e lo usa a suo
piacimento. Minheer Vanderhausen, nel racconto sul
pittore Schalken, è un esempio in tal senso, e così il
giovane di The Haunted Baronet. Era stato annegato e,
dopo il fallimento dei vari tentativi di recuperarlo, il corpo
giace morto per gran parte della notte, finché
all’improvviso non torna in vita; e da come si sviluppa poi la
storia, non ci possono essere dubbi che al lettore si vuol far
credere che il genio del male della famiglia Macdyke ha
preso dimora nel suo corpo. [...]
L’idea di fondo che Le Fanu usa ottenendo effetti
straordinari è sostanzialmente sempre la stessa, ma la
frequenza con cui questa ricorre forse non è così lampante
finché non si sono lette con attenzione quasi tutte le sue
opere. Inoltre bisogna ricordare che buona parte dei
racconti in cui viene applicata sono incompleti o si tratta di
abbozzi frettolosi che forse non si dovrebbero tenere in
stretta considerazione.
Un altro punto debole simile a questo è la ripetitività dei
personaggi tipo. Il vecchio servitore (quello maligno e
quello gentile), pazzo o visionario, i cui eccessivi entusiasmi
sono descritti, mi sembra, con grande abilità, il signorotto
di campagna che passa il tempo a bere, il libertino in
bolletta – tutti questi personaggi si possono ritrovare in
molti dei suoi libri. Ma sono sempre impiegati in modo
efficace.
C’è un solo elemento, in realtà, di cui farei volentieri a
meno, ed è una certa deriva stucchevole che prende a volte
la sua scrittura – benché succeda di rado – e che lo porta a
dare imbarazzanti nomignoli da animaletti domestici ad
alcuni dei suoi personaggi, che per di più fanno arrossire di
vergogna il lettore per lui. Tre libri peccano in questo
senso: in Wylder’s Hand ho trovato svariate scene in cui si
parla di un ragazzino; in A Lost Name ci sono un fratello e
una sorella di cui non voglio ricordarmi i nomi; e All in the
Dark contiene una quantità più che sufficiente di queste
cose. Ma nel complesso i casi non sono poi tanti.
Veniamo ora ai suoi punti di forza: credo che per capire
da dove gli vengano non si debba cercare troppo lontano.
Le Fanu aveva nelle vene sangue francese e irlandese, e
nelle sue opere mi sembra di ravvisare questa sua duplice
discendenza, benché prevalga quella irlandese.
L’indefinibile melanconia che l’aria d’Irlanda e i suoi colori
ispirano – una melanconia che ispira molti scrittori
irlandesi – è stata colta e fissata in parole da Le Fanu in
modo quasi del tutto soddisfacente. Indugia con grande
trasporto e una certa frequenza su scene che descrivono il
sole al tramonto, su un orizzonte di scuri declivi boscosi; la
luna riflessa su un fiume serpeggiante, costeggiato dal
bosco; un parco fitto di alberi; uno scuro laghetto montano
in una valle solitaria; una vecchia aria sentita a distanza
nella notte; una cappella o un castello diroccato; un
funerale alla luce delle fiaccole in una chiesa tetra.
Immagini come queste colpiscono la sua fantasia e il nostro
autore è in grado di restituirle con vividezza ai lettori.
Queste stesse immagini sono state trasformate in triti
luoghi comuni da scrittori meno dotati; e abbiamo
senz’altro (brutte) descrizioni di castelli diroccati sul Reno
o dell’abbazia di Melrose al chiaro di luna, ma di questi
stessi soggetti è possibile avere bei quadri e, molto
probabilmente, se non ci fossero state le belle
raffigurazioni, allora non ci sarebbero state nemmeno
quelle brutte. A mio giudizio, i quadri di Le Fanu sono
buoni e sono sicuro che ne hanno ispirati molti altri che
invece non sono buoni.
Ma in quale modo Le Fanu ispira l’orrore? In parte,
credo, grazie a un abile utilizzo del crescendo. Si procede,
nello specifico, alla graduale rimozione di ogni difesa, e i
vaghi presentimenti, da parte della vittima, di quanto sta
per accadere si fanno sempre più chiari; in genere sono
questi i procedimenti in grado di accrescere l’eccitazione e
la tensione emotiva. The Familiar e i capitoli conclusivi di
Uncle Silas ne sono il miglior esempio. E ancora, gli
inspiegabili indizi che vengono disseminati qua e là sono
estremamente rivelatori. Al lettore non è mai concesso di
conoscere in modo completo la teoria alla base di tutte le
sue storie di fantasmi, ma questo è un tratto che Le Fanu
ha in comune con molti altri artisti meno talentuosi di lui.
Si ha come la sensazione che, se solo lo volesse, potrebbe
fornire a chi legge una spiegazione esaustiva.
[...] Per quale oscura ragione la misteriosa carrozza con a
bordo la signora e la servitù a seguito conducono la
vampira Carmilla nella casa dove avrebbe trovato la sua
nuova vittima? E che cosa è successo per l’esattezza
quando Lewis Pyneweck e il boia sono andati a far visita al
giudice Harbottle? Non lo sapremo mai. Il trucco di
omettere o eliminare alcuni particolari potrebbe essere
usato in modo molto banale, ma Le Fanu lo usa a regola
d’arte.
Quanto alle sue credenze e alle sue teorie, possiamo
mettere insieme alcune ipotesi: mi piace pensare che fosse
un deciso antagonista dello spiritismo – All in the Dark è in
parte un attacco a questo sistema. Era un seguace di
Swedenborg? Non credo, ma era molto attratto dalle sue
speculazioni. Alcune frasi dei suoi Arcana Cœlestia
vengono citate in Green Tea e in Uncle Silas [...].
Sarebbe interessante confrontare il ruolo che ha avuto Le
Fanu nella letteratura con quello di Doré nell’arte. Nella
misura in cui posseggono uno stile facilmente riconoscibile
e prediligono soggetti piuttosto simili, hanno qualcosa in
comune; ma non è lecito spingere oltre un simile confronto,
perché a parte la generale erroneità di questi paragoni,
non vedo come i meriti di Doré possano essere comparabili
a quelli di Le Fanu, quando entrambi siano presi in
considerazione all’apice della loro attività artistica. Se si
volesse trovare un corrispettivo adeguato in termini di
pittura alle opere di Le Fanu, a qualcuno potrebbe venire in
mente il nome di Wiertz. Dopo la mia prima visita alla
Wiertz Gallery di Bruxelles, anch’io avrei detto lo stesso.
Dopo la seconda visita, niente mi sembrava più ingiusto per
Le Fanu. Quasi tutto ciò che prima mi era sembrato forte
ora mi appariva soltanto eccentrico, e quello che
consideravo davvero tragico e terribile era in realtà folle e
disgustoso.
No: se si desidera fare una comparazione fra Le Fanu e il
mondo della pittura, direi che l’artista più adatto sia
Bewick, laddove ritrae soggetti soprannaturali. C’è, ad
esempio, un eccellente disegno che ci mostra uno stanco
ambulante con un pacco sulle spalle mentre si avvicina a
una caverna ricoperta da licheni, ed è chiaro che vorrebbe
passare la notte lì. Se guardate una seconda volta
l’immagine, vedrete che alla bocca della caverna e sugli
alberi intorno c’è una gran quantità di folletti alati.
Aspettano soltanto che il pover’uomo si addormenti,
dopodiché cominceranno a uscire, e se qualcuno riuscirà ad
andarsene da quel posto, resterà per sempre segnato dalla
pazzia e dal delirio. Ma è più probabile che nessuno se ne
andrà da lì vivo e vegeto.
In questo breve abbozzo, ho lasciato da parte molte
questioni importanti: Le Fanu sulla morte; Le Fanu come
maestro di fortunate citazioni; Le Fanu come scrittore di
ballate. Questi e altri aspetti del mio autore li scoprirete da
soli, se, come spero, leggerete le sue opere con sufficiente
attenzione. Se mi chiedessero di fornire in poche parole e
nel gergo dei letterati una valutazione del posto che
occupa, sarei propenso a dire che è un posto di rilievo
come esponente del genio celtico, e con queste parole vi
devo lasciare.

1
Il testo qui riportato è da riferirsi alla conferenza tenuta da M.R. James
presso il Royal Institution of Great Britain il 16 marzo 1923. Il titolo del
contributo era “I romanzi e i racconti di J. Sheridan Le Fanu”. L’abstract di M.R.
James è apparso nel volume XXIV degli Atti dell’Istituto e poi all’interno del
libro di Peter Haining: M.R. James: Book of the Supernatural (Foulsham 1979).
2
Alfred Perceval Graves (Dublino, 22 luglio 1846 - Dublino, 27 dicembre
1931) è stato uno scrittore irlandese. Presidente dell’ILS (Irish Literary
Society), autore di ballate, alcune delle quali composte con l’amico Charles
Villiers Stanford.
3
“Temple Bar” fu una rivista letteraria di metà Ottocento e di inizio
Novecento (1860-1906), fondata e diretta da George Augustus Sala. La dicitura
completa sarebbe: “Temple Bar - A London Magazine for Town and Country
Readers”.
4
“Belgravia” fu una rivista letteraria mensile di Londra di fine Ottocento.
Fondata e diretta nel 1866 da Mary Elizabeth Braddon, inizialmente pubblicava
romanzi, poesie, reportage di viaggio, biografie e “sensation fiction” a puntate.
A partire dal 1876, quando Andrew Chatto sostituì la Braddon alla guida,
cominciò a pubblicare opere di autori come Dickens, Twain, Collins, Doyle e
Hardy.
5
“All the Year Round” fu un periodico settimanale inglese fondato da Charles
Dickens, e pubblicato tra il 1859 e il 1895 in tutto il Regno Unito. Edito da
Dickens, fu il diretto successore della rivista “Household Words”, abbandonata
a causa di una disputa con i precedenti editori. Ospitò la pubblicazione di
diversi romanzi, inclusi Racconto di due città e Grandi speranze di Dickens.
Dopo la morte di quest’ultimo (avvenuta nel 1870) venne poi edito dal suo figlio
maggiore, Charles Dickens Jr. Fu stampato dall’editore Chapman e Hall.
La ragione lo nega, ma la fede c’induce a crederlo1
di Stella Sacchini

Joseph Sheridan Le Fanu, creatore della bella e celebre


vampira Carmilla, è un bimbetto di quattro anni quando
viene pubblicato Frankenstein di Mary Shelley. L’anno
successivo uscirà Il vampiro di John William Polidori.
Dalle leggende popolari alla letteratura, la moda del
vampiro si era diffusa, nel XVIII secolo, a seguito
dell’interesse suscitato da alcuni casi segnalati in varie
zone d’Europa. Subito si propose la ricerca sul vampiro
come indagine scientifica su fenomeni che la scienza non
riusciva a spiegare, il che provocò non solo i salaci
commenti di Voltaire e di altri scettici osservatori, ma
anche gli interventi dell’autorità ecclesiastica e imperiale
volti a debellare tali superstizioni popolari.
Il vampiro letterario nasce tuttavia in una situazione più
precisa e foriera di infiniti sviluppi: nella migliore
atmosfera gotica, in una villa isolata nei dintorni di
Ginevra, alcuni personaggi cercano un passatempo con cui
allietare una noiosa serata di pioggia. I personaggi sono
Lord Byron, John William Polidori, segretario di Byron e da
lui soprannominato Polly Dolly, Mary Shelley, il marito P.B.
Shelley e la sua sorellastra Claire Clairmont. Da una
scommessa su chi fosse riuscito a comporre la storia più
terrificante, una storia forgiata nell’oscurità, nacquero in
seguito il Frankenstein di Mary Shelley (1818) e The
Vampyre di Polidori (1819), il cui protagonista, Lord
Ruthven, misterioso ed esangue, riassume in sé i tratti del
libertino aristocratico e dell’ebreo errante, inquieto, senza
radici, probabilmente modellato su Lord Byron.
Prima di loro, tuttavia, è Coleridge, se ci limitiamo alla
letteratura inglese, a utilizzare la figura del vampiro in
versione femminile nella ballata Christabel, ed è senz’altro
questa l’opera di cui risente maggiormente il racconto
vampiresco di Le Fanu, poiché qui il vampiro si presenta in
primo luogo come una declinazione della categoria
romantica del doppio.
Se il Vampiro di Polidori porta al Dracula di Bram Stoker
seguendo il filo che lo collega al libertino settecentesco,
seduttore impenitente e spregiudicato, Christabel conduce
a Carmilla per ragioni che non si limitano alla scelta del
sesso. Nel primo caso, benché sia chiaro, a diversi livelli di
lettura, il legame che unisce la vittima al suo persecutore,
quest’ultimo rimane pur sempre una figura grandiosa nel
suo isolamento. Nella ballata di Coleridge, invece, è il
carnefice a dipendere dalla vittima, e questo instaura uno
schema di reciprocità che prelude alle molteplici versioni
del doppio interiorizzato. Su tale gioco di distanza e
riavvicinamento si strutturano le varie configurazioni del
doppio, che toccano i punti di massima esteriorità nel
Dracula di Stoker e nel Dr Jekyll di Stevenson, il massimo
di interiorizzazione nel Sosia di Dostoevskij e in Giro di vite
di Henry James. Le Fanu percorre una via mediana, nella
quale il vampiro è sì proiezione di desideri e paure, ma può
esserlo solo in quanto figurazione autonoma, che non si
lascia annientare con il ritorno all’ordine e con l’esecuzione
del mostro. I luoghi e le convenzioni della letteratura
vampirica – l’ambientazione gotico-tedesca – vengono
utilizzati in un sottile equilibrio di resa letterale e forza
immaginifica grazie a un’ironia impercettibile che non si
riduce mai a parodia. Alla maniera di Poe e di Coleridge
prima di lui, Le Fanu ci ricorda che il terrore non è
“germanico”, ma è condizione universale e pandemica
dell’animo umano.

Acclamato da molti scrittori e critici come il miglior


compositore di storie spettrali che l’arcipelago anglo-
irlandese abbia mai prodotto, Joseph Sheridan Le Fanu è un
autore più grande di quello che la sua costrizione entro i
confini del genere lasci presupporre. Costituisce un
influente modello per molti importanti scrittori successivi,
specie per quelli interessati alle storie del mistero e del
terrore. Fra questi, Arthur Conan Doyle, che si ispira alla
trama del più famoso romanzo gotico di Le Fanu, Uncle
Silas, per il suo The Firm of Girdlestone (1890) e Bram
Stoker, che scrive il suo Dracula “come una specie di
sequel della potente e innovativa storia della vampira
Carmilla”.2 Stoker mutuò senz’altro l’episodio del grosso e
ripugnante ratto del suo The Judge’s House (racconto
contenuto in Dracula’s Guest) da An Account of Some
Strange Disturbances in Aungier Street (1853) dello
scrittore irlandese, così come l’ennesimo hanging judge
richiama la storia del tremendo giudice Harbottle del-
l’omonimo racconto, presentato qui in traduzione. Un altro
suo racconto, A Chapter in the History of a Tyrone Family
(1839), la storia di una pazza rinchiusa in soffitta che tenta
di uccidere la nuova moglie del marito, potrebbe aver
guidato la mano e la penna di Charlotte Brontë quando
scrisse il suo romanzo più famoso, Jane Eyre. Dorothy
Sayers, scrittrice britannica di gialli d’inizio Novecento,
sostiene che il romanzo poliziesco non sarebbe mai esistito
senza Wilkie Collins e Le Fanu3 e l’eroina del suo romanzo
semi-autobiografico Gaudy Night è una ricercatrice che si
occupa di Le Fanu.
Lo stesso Henry James rende omaggio all’opera di Le
Fanu: nel suo Giro di vite ci sono indubbie reminiscenze di
Uncle Silas. Nel racconto The Liar, James lo omaggia
citandolo esplicitamente: “Sul tavolino da letto c’era il
solito romanzo di Mr Le Fanu; lettura ideale, dopo la
mezzanotte, in una casa di campagna”; opinione non
condivisa da uno degli ultimi curatori di Le Fanu: “Uncle
Silas non è un romanzo da leggere se si è da soli, in una
casa deserta e piena di scricchiolii, nel cuore della notte”.
M.R. James, frequentatore assiduo del soprannaturale
nonché curatore di molte opere di Le Fanu, lo chiama
“Maestro” (con la “M” maiuscola) e lo mette “al primo
posto come scrittore di storie di spettri”. Elizabeth Bowen
considera i suoi libri come i primi esempi di thriller
psicologico, V.S. Pritchett lo definisce “il Simenon del
mistero” e aggiunge che “è bravissimo a montare piano
piano la tensione, senza forzature, ed è il mago della
sorpresa”.4 Jacques Barzun e Wendell H. Taylor affermano:
“Le Fanu ha una fantasia generosa e la geniale capacità di
rendere plausibile l’impossibile. Stargli appresso non è
facile, ma una volta preso il ritmo, che meraviglia!”.5 Julian
Symons dedica quattro pagine del suo Bloody Murder a Le
Fanu, “uno scrittore incredibilmente potente nel costruire
la suspense, nei suoi lavori migliori è un vero maestro del
plot ed è il padre di alcuni dei ‘cattivi’ più riusciti della
letteratura vittoriana”.6

Tra i suoi contemporanei, Le Fanu può vantare


l’apprezzamento di Charles Dickens, che considera il
maestro del terrore irlandese un esperto di soprannaturale
e “illusioni spettrali”, in quanto studioso di Swedenborg.
Quando Dickens pubblica nel suo giornale “All the Year
Round”, in quattro puntate (dal 23 ottobre 1869 al 13
novembre dello stesso anno), Green Tea, primo racconto
della selezione qui presentata, quella storia gli suona
talmente familiare da mettergli i brividi, così scrive a Le
Fanu per raccontargli di un suo viaggio a Genova, nel 1844,
durante il quale aveva tentato di usare le tecniche
ipnotiche del mesmerismo per liberare dai suoi demoni una
donna vittima di possessione, Augusta de la Rue, moglie di
un banchiere svizzero. Lo scrittore andava a trovarla
diverse volte al giorno e induceva nella sua “paziente” uno
stato di trance così da poter esplorare le sue paure e le sue
fantasie. La donna, in queste sedute, proclamava di essere
perseguitata da una miriade di spettri spaventosi assetati
di sangue che a un certo punto impallidivano e
nascondevano il proprio volto. Il primo spettro, da quel che
diceva la donna, sapeva che Dickens stava seguendo il suo
caso e, come la scimmia di Tè verde, esprimeva in modo
chiaro le sue obiezioni. Questa lettera a Le Fanu termina
con una richiesta di aiuto: “Le sue sofferenze sono
indicibili, e se poteste farmi dono di qualche buon consiglio
in grado di arrecarle un qualsiasi conforto, sarebbe da
parte vostra un’azione di cortesia altrettanto indicibile”.
Cos’abbia risposto lo scrittore irlandese a questa
richiesta di aiuto non è dato sapere, purtroppo.

Tra le ultime fatiche di Sheridan Le Fanu figura la


raccolta di cinque fra i suoi migliori racconti in un volume
dal titolo biblico, In a Glass Darkly, di cui qui se ne
presentano tre: Tè verde, Il giudice Harbottle e Carmilla. Il
titolo della raccolta è un chiaro (o meglio, oscuro) rimando
a un passo biblico: la Prima lettera di san Paolo ai Corinzi,
capitolo 13, versetto 12 (in inglese nella versione di re
Giacomo: “For now we see through a glass, darkly”). Qui
leggiamo: “Ora vediamo come in uno specchio, in maniera
confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia”. Dove l’“ora”
è la Gerusalemme Terrestre e l’“allora” è il mondo della
Gerusalemme Celeste, e i misteri della fede possono solo
essere scorti, e quindi conosciuti, in modo imperfetto,
oscuro. Con questi racconti, Le Fanu ci invita a guardare
nello specchio del reale con la consapevolezza che quanto
vedremo non sarà la verità, ma una sua ombra confusa, un
riflesso baluginante di qualcosa che sfugge al controllo
della ragione.
I cinque racconti dell’antologia vengono composti in
momenti differenti e pubblicati in varie riviste (nello
specifico, i tre qui presenti in “All the Year Round”,
“Belgravia” e “The Dark Blue”) e poi riuniti in tre volumi da
Richard Bentley & Son nel 1872. I singoli racconti, benché
diversissime siano le storie ivi riportate, possono essere
considerati parte di un’unica narrazione, fatta di oscure
risonanze e di sinistri riflessi più che di vere e proprie
corrispondenze. Elemento esterno unificante è la figura-
cornice del dottor Hesselius, medico, psicologo, mistico e
metafisico tedesco, primo “detective dell’occulto” in senso
seriale della letteratura europea. Ma oltre che figura-
cornice, Hesselius è anche direttamente in azione in Tè
verde, unico caso in tutta la raccolta: e in effetti il
personaggio nasce proprio con questo racconto, che
inizialmente Dickens fa pubblicare sulla propria rivista “All
the Year Round”.
Un ritratto di Hesselius ci è offerto nel prologo
dall’amico-curatore, per quasi vent’anni al suo fianco.
Erede del filosofo-mago Apollonio di Tiana, il dottor Martin
Hesselius si propone come nuovo modello di confessore
laico, che rassicura il “sofferente” e insieme spiazza per le
sue peculiarità, disseziona i fatti con esasperata freddezza
scientifica ma al contempo è capace di forti emozioni e
turbamenti profondi: attraverso il personaggio del medico
metafisico l’elemento gotico viene profondamente
rinnovato, in rapporto coi miti della scienza e con le derive
degli irrazionalismi magici. Già si prefigurano le bizzarrie
caratteriali del Van Helsing stokeriano e di molti altri
detective dell’occulto, fino ai moderni eroi del cinema e del
fumetto.
Nel primo racconto qui presentato, il dottor Hesselius si
trova ad affrontare un caso di haunting: il suo paziente, il
reverendo Jennings, è perseguitato dallo spettro di una
scimmia dagli occhi rossi.
Le Fanu, come ha notato Guido Almansi,7 “scrive tutte le
sue storie sul filo del rasoio fra la buona e la mala fede, in
quanto è troppo furbo per credere agli esseri
soprannaturali, troppo intelligente per non credervi [...]. Gli
spiriti evocati da Le Fanu vengono da un ‘oltre’ che
possiamo continuare a chiamare ‘oltretomba’ per ignavia o
per incompetenza nomenclatoria. [...] Le sue storie sono
incredibili solo per colui che rifiuta di credere sia nel
trascendente della legge che nell’immanente della
coscienza: furono quindi incredibili per i miopi positivisti
ottocenteschi, contemporanei di Sheridan Le Fanu, che
relegarono i suoi racconti nella sottospecie del gotico (in
cui poi si ritrovano in ottima compagnia con il Dottor Jekyll
e Mr Hyde di Robert Louis Stevenson). Le storie di questo
volume non sono paurose perché fantastiche bensì paurose
perché vere: con la forza della verità di un caso clinico di
Freud, a cui tendono a rassomigliare. [...] La scimmia, il
demone familiare, il revenant [...] non vengono da lontano
ma da uno specchio: sono incarnazioni del doppelgänger,
riflessi del nostro essere, voci della nostra coscienza,
proiezioni della nostra angoscia, immagini duplicate del
nostro volto inquietante. [...] Il solo nemico è la nostra
anima mortale: non la coscienza, che potrebbe offrire una
possibilità di riscatto; ma la coscienza della propria
incoscienza (ovvero la coscienza della propria assenza di
coscienza). La scimmietta, il demone familiare, il giudice
onirico abitano un vuoto d’aria nell’intimo dei protagonisti.
In altre parole questi fantasmi appariscenti hanno l’incerto
statuto, fra presenza e assenza, dei servi defunti del Giro di
Vite di Henry James. Ma questa parziale rinuncia
all’obbligo pesante dell’esistere non sottrae niente alla loro
prepotente e persuasiva veridicità. Forse non esistono, ma
sono bravissimi nel fingere di esistere, nel mimare lo
spettacolo della loro vitalità”.
Protagonista del secondo racconto della presente
selezione è lo spietato giudice Harbottle. Il racconto,
pubblicato per la prima volta nel 1872 sulle pagine della
rivista “Belgravia” con il titolo The Haunted House in
Westminster, è la fosca storia della nemesi piombata su
questo cattivissimo giudice, che in un terribile incubo (o
forse no?) si vede giudicato e condannato alla forca
dall’onorevole Signor Presidente della Corte suprema
Twofold (letteralmente “doppio”, “duplice”, e in effetti
“un’immagine del giudice Harbottle, grande almeno il
doppio, e con il suo stesso rabbioso colorito e la stessa
ferocia negli occhi e nell’espressione del viso, accentuati in
modo spaventoso”). Nel prologo il curatore cita un
ennesimo, “straordinario saggio” di Hesselius (Il senso
interiore e le condizioni in cui si apre, in particolare il
volume I, sezione 317, nota Za, con rimandi al II, sezioni 17-
49) e deve destreggiarsi tra due diverse versioni della
medesima vicenda, “una fornitami dalla signora Trimmer,
di Tunbridge Wells (nel giugno 1805); l’altra molto più tardi
dall’egregio Anthony Harman”, quasi a riecheggiare
ironicamente (i “doppi”, ancora) il rapporto tra questo testo
e un precedente racconto dello scrittore irlandese, An
Account of Some Strange Disturbances in Aungier Street,
del 1853, nell’ambito di una sofisticata dialettica di
riscritture e varianti dei medesimi temi.
Pubblicato a puntate nel 1871 sulla rivista “The Dark
Blue” e inserito l’anno successivo dall’autore stesso nella
collezione di racconti in tre volumi In a Glass Darkly, né
racconto lungo né romanzo breve (Sir Walter Scott
affermava che “il soprannaturale [...] è un argomento molto
difficile da sostenere ed è meglio entrarvi in contatto un
poco alla volta”), Carmilla, l’ultimo racconto della presente
selezione, conosciuto anche con il titolo Carmilla or The
Haunted Baronet, condensa una storia avvincente che
cattura il lettore in una spirale quasi claustrofobica dove
tutto torna due volte (l’eterno ritorno del “doppio”). Dei
quattro testi ottocenteschi che formano il canone della
letteratura vampirica – Il vampiro di Polidori (1819),
Varney, The Vampyre di Prest-Rymer (1847), Carmilla di Le
Fanu (1872) e Dracula di Bram Stoker (1897) – Carmilla è
l’unica figura di donna-vampiro e, oltre a essere
considerata una delle migliori storie inglesi di vampiri,
introduce il tema dell’omosessualità già trattato nel poema
incompiuto Christabel di Samuel Taylor Coleridge.
Ma Carmilla resta un racconto sfuggente, ambiguo.
Composto in anni relativamente misteriosi della vita del suo
autore, non ne sono troppo chiare neppure le fonti, visto
che Le Fanu di solito ambienta le sue storie di spettri in
tutt’altre atmosfere, più legate al folklore anglo-irlandese e
ai racconti della sua infanzia. Persino la scelta della Stiria
(regione oggi divisa tra Austria e Slovenia, ma all’epoca
dipendente dalla corona asburgica) quale terra di vampiri
appare curiosa, visto che i resoconti più celebri di epidemie
vampiriche settecentesche non la menzionano. È in realtà
assai probabile che in una regione come la Stiria, al confine
tra il mondo germanico, ungherese e slavo (e, in passato,
anche turco), fossero molto diffuse storie e leggende sui
revenant. La Stiria dei vampiri di Le Fanu divenne un topos
della geografia fantastica di fine Ottocento: Bram Stoker,
immaginando una collocazione ideale per le gesta del suo
conte, pensò inizialmente alla Stiria, e stiriana è la contessa
Dolingen, vampira del racconto-frammento di Stoker
Dracula’s Guest; in Stiria si ambienta poi il racconto The
Sad Story of a Vampire (1894), del conte Eric Stanislaus
von Stenbock, dove il non-morto conte ungherese Vardalek
seduce e uccide il fratello della narratrice Carmela
Wronski. Ungherese – e non valacco, come il voivoda
storico – risulterà infine il Dracula di Stoker, che decidendo
in ultimo per una collocazione transilvana del romanzo
convoglierà verso la “Terra oltre la foresta” l’immaginario
occidentale.
1
James Boswell, Vita di Samuel Johnson, tr. di A. Prospero, Garzanti Editore,
Milano 1954, vol. 2, p. 961.
2
Uncle Silas, a Tale of Bartram-Haugh, by J.S. Le Fanu with a New
Introduction by Frederick Shroyer, Dover Publications, Inc., New York 1996, p.
xi.
3
Nella sua introduzione al secondo volume di The Omnibus of Crime, New
York 1932.
4
V.S. Pritchett, The Living Novel, Arrow Books, London 1960, p. 104.
5
Jacques Barzun, Wendell H. Taylor, A Catalogue of Crime, Harper&Row,
New York 1971, p. 583.
6
Julian Symons, Bloody Murder, From the Detective Story to the Crime
Novel: a History, Faber and Faber, London 1972, pp. 59-61.
7
Joseph Sheridan Le Fanu, Tè verde, in Tè verde. Storie di fantasmi
indiscreti, tr. di Attilio Brilli e pref. di Guido Almansi, Serra e Riva, Imola 1981.
Cenni biografici

1814
Joseph Thomas Sheridan Le Fanu nacque il 28 agosto a Dublino, al 45 di Lower
Dominick Street. Il padre, Thomas Philip Le Fanu, pastore protestante,
discendeva da un’antica e nobile famiglia ugonotta stabilitasi in Irlanda agli
inizi del Settecento, dopo aver lasciato la Normandia in seguito alla revoca,
voluta nel 1685 da Luigi XIV, dell’editto di Nantes (promulgato da Enrico IV nel
1598 al fine di concedere agli ugonotti un’ampia libertà civile e religiosa). Il
fratello della nonna paterna, Alicia Sheridan Le Fanu, era il famoso
commediografo Richard Brinsley Sheridan, autore della celebre commedia
School for Scandal (1777). La madre, Emma Lucretia Dobbin, era figlia di un
membro del Trinity College di Dublino.
1815
In seguito alla nomina del padre a cappellano della Royal Hibernian Military
School, la famiglia andò ad abitare nella parte occidentale della città, a Phoenix
Park, nel villaggio di Chapelizod (Séipéal Iosóid).
1826-1829
Thomas Le Fanu fu nominato decano di Emly, così la famiglia si trasferì ad
Abington, nella contea di Limerick, a quel tempo teatro di continue sommosse
agrarie. Fu ad Abington che Le Fanu entrò in contatto con il ricco patrimonio
folclorico irlandese, soprattutto grazie ai racconti di Miss Anne Baily, di Lough
Guir. Educato privatamente dal padre, fu vorace lettore di molti dei libri della
ricca biblioteca che avevano in casa e, fin da bambino, diede prova delle sue
doti letterarie scrivendo versi e, all’età di quattordici anni, un lungo poema
irlandese. In questi anni visse a stretto contatto con una società contadina assai
fiera e orgogliosa, ma povera e imbevuta di superstizioni; questo ambiente
riaffiorerà di continuo nella sua opera, fino alla morte. La storia irlandese di
quel periodo fu contrassegnata dal progressivo rafforzamento dei cattolici e dal
conseguente indebolimento dei protestanti, che al tempo dell’assedio di
Limerick (1690-1691) e della completa disfatta degli Stuart per mano di
Guglielmo d’Orange, re d’Inghilterra dal 1689, avevano goduto dei benefici
derivanti dall’incameramento delle ricchezze confiscate ai loro antagonisti. La
famiglia Le Fanu era in possesso di un ritratto di Guglielmo d’Orange, donato
dal re in persona a Charles Le Fanu de Cresserons in segno di riconoscimento
del sostegno ricevuto nella battaglia di Boyne del 12 luglio 1690. Ma ai tempi
del nostro scrittore, la situazione era ben diversa. Con l’“Atto di unione” del
1800, voluto da William Pitt, e il conseguente scioglimento del Parlamento
irlandese, l’Irlanda fu annessa alla Gran Bretagna, ma le forze cattoliche del
paese erano fortemente contrarie a tale annessione e il consenso popolare
ottenuto da Daniel O’Connell (fondatore nel 1823 della Catholic Association e
dal 1828 deputato al Parlamento inglese) portò all’emanazione della “Legge
sull’emancipazione dei cattolici” nel 1829, che sanciva l’illegalità di qualsiasi
discriminazione, sia politica che giudiziaria, nei loro confronti, anche se dal
1832 al 1836 il paese sarà sconvolto dalle “Tithe Wars”, le sommosse degli
affittuari cattolici contro l’aumento della decima, una tassa loro imposta a
sostegno della Chiesa protestante irlandese.
1832-1837
Le Fanu frequentò la facoltà di giurisprudenza presso il Trinity College di
Dublino. Entrò poi a far parte della Historical Society, occupando al suo interno
una posizione di primo piano. In questi anni continuò a cimentarsi con la
letteratura. Al 1837 risalgano due ballate irlandesi: Phaudhrig Croohore e
Shamus O’Brien. Quest’ultima conquistò da subito una grandissima popolarità.
1838-1840
Nel 1838 un suo racconto fantastico, The Ghost and the Bone-Setter (Il
Fantasma e il Conciaossa), apparve sul “Dublin University Magazine”, rivista
letteraria indipendente irlandese d’ispirazione radical-conservatrice fondata nel
1833 e diretta prima da Isaac Butt, poi dal romanziere Charles Lever. Nel 1839,
dopo la laurea in giurisprudenza, divenne barrister – figura legale tipica dei
sistemi giuridici basati sulla common law come quello inglese, scozzese (dove è
chiamato advocate), gallese, irlandese, è un avvocato abilitato a patrocinare nei
tribunali di grado superiore, che non ha rapporti diretti con il cliente, con cui
tratta mediante un solicitor. Ma abbandonò presto la professione a favore della
letteratura e del giornalismo. Da questo momento fino al 1841 fece parte della
Irish Metropolitan Conservative Association, movimento politico irlandese con
sede a Dublino legato all’Irish Conservative Party. Ma il suo iniziale
patriottismo irlandese e la sua difesa del conservatorismo protestante,
contrassegnata da attacchi pubblici all’operato di O’Connell, col tempo
verranno meno, lasciando il posto a un apatico disinteresse e all’abbandono
definitivo di qualsiasi forma di partecipazione politica attiva.
1840-1842
Divenne proprietario e direttore di numerosi periodici dublinesi, tra cui il
giornale irlandese protestante “The Warder”, e in seguito del “The Evening
Packet” e del “The Dublin Evening Mail”, che fuse in un unico giornale, il “The
Evening Mail”. Da questo momento in poi lo scrittore irlandese si dedicherà
soprattutto al giornalismo.
Nel marzo del 1841 morì la sua amata sorella Catherine. Le Fanu iniziò a
mostrare forti segni di depressione e malinconia.
1843
A dicembre sposò Susanna Bennett, figlia di George Bennett, patrocinante per
la Corona, uno dei più importanti e potenti avvocati di Dublino. Avranno
quattro figli: Eleanor (1845), Emma (1846), Thomas Philip (1847) e George
Brinsley (1854).
1845-1852
Dopo il discreto numero di racconti scritti fra il 1838 e il 1840, tutti pubblicati
nelle pagine del “Dublin University Magazine”, la sua produzione di “short
story” subì una battuta d’arresto. Ma nel 1845 uscì, anonimo, il suo primo
romanzo, di impianto storico, sullo stile di Sir Walter Scott: The Cock and
Anchor (Il gallo e l’ancora). Nel 1847, sempre in forma anonima, venne
pubblicato The Fortunes of Colonel Torlogh O’Brien (Il destino del colonnello
Torlogh O’Brien), ambientato negli anni dell’assedio di Limerick.
Qualche anno dopo, nel 1851, uscì la prima raccolta di racconti, Ghost Stories
and Tales of Mystery (Storie di fantasmi e racconti del mistero), che fu un
modesto successo di pubblico.
Nel 1852 tentò, senza riuscirci, di ottenere la candidatura tory per la contea di
Carlow. La salute della moglie iniziò a deteriorarsi e cominciarono a presentarsi
i primi, chiari segni di un disturbo nervoso.
Questi anni costituirono uno dei periodi più drammatici della storia d’Irlanda.
La terra era quasi tutta in mano a una cerchia ristretta di latifondisti inglesi e i
contadini vivevano nella miseria più totale. Tra il 1845 e il 1849 l’isola fu
colpita dalla “Great Famine”, una grande carestia dovuta ai rovinosi raccolti
delle patate, attaccate dalla peronospora, e da un’epidemia di tifo, che spinse la
popolazione irlandese più povera a emigrare in massa verso gli Stati Uniti. In
risposta a questo periodo di profonda crisi, nacquero numerose società segrete
d’ispirazione repubblicana, che reclamavano l’indipendenza totale dell’Irlanda,
e svariati movimenti, come quello dello Home Rule di Isaac Butt e di Charles
Stewart Parnell, che miravano alla conquista dell’autonomia politica del paese.
1856
Alla morte del suocero, la famiglia Le Fanu si trasferì al numero 18 (oggi 70) di
Merrion Square, in pieno centro, dove lo scrittore rimarrà fino alla sua morte.
La casa diventò fin da subito un vivace centro di incontri e dibattiti. Ma il
periodo più nero della sua vita era ormai alle porte. In questi anni (1856-1869)
il “Dublin University Magazine”, sotto la sua guida editoriale, divenne uno dei
giornali di punta nel panorama letterario europeo. Furono tuttavia anni di
notevoli difficoltà economiche per la famiglia dello scrittore.
1858-1861
In aprile, in seguito a un non meglio precisato hysterical attack, si spense
l’amata moglie Susanna, a soli trentacinque anni, lasciandolo con quattro figli.
Da questo momento in poi, Le Fanu sembrò perdere ogni interesse per la vita
sociale e si isolò sempre più, tanto da guadagnarsi l’epiteto di “principe
invisibile”. Anche la sua partecipazione politica alla causa dell’indipendenza
irlandese si affievolì fino a spegnersi del tutto, col progressivo sgretolarsi della
posizione di preminenza dei protestanti nelle vicende storiche del paese. Questi
anni difficili, aggravati da una nuova crisi economica, furono però i migliori per
la produzione letteraria, cui lo scrittore si dedicò indefessamente, lavorando
quasi sempre di notte, bevendo grandi quantità di tè verde, e uscendo solo col
buio.
Nel 1861 morì la madre.
1863
Uscì The House by the Churchyard (La casa accanto al cimitero), considerato
da M.R. James il suo romanzo migliore e accolto da un notevole successo di
pubblico. Qui Le Fanu unì lo stile storico dei primi romanzi al seguente stile
gotico. Ambientato a Chapelizod (Séipéal Iosóid), villaggio di Dublino dove lo
scrittore era vissuto da piccolo, era il libro preferito del padre di James Joyce
ed ebbe una grande influenza su Finnegans Wake.
1864-1869
Spinto dal suo nuovo editore, Le Fanu cominciò ad ambientare i suoi romanzi in
Inghilterra e in tempi moderni, così da poter attirare un maggior numero di
lettori. Il primo dei suoi romanzi “inglesi” fu Wylder’s Hand (La mano di
Wylder), storia di infestazioni spettrali del 1864. Il secondo, ambientato nel
Derbyshire, fu Uncle Silas (Zio Silas), ritenuto il suo capolavoro. Preoccupato
che i suoi romanzi potessero essere considerati come sensation novels, nella
breve prefazione a Uncle Silas l’autore volle precisare: “Non c’è una sola storia
in cui la morte, il crimine e, sotto certi aspetti, il mistero non abbiano un
qualche ruolo” e ancora “Nessuno [...] descriverebbe i romanzi di Sir Walter
Scott come sensation novel”. Seguirono nel 1865 Guy Deverell, nel 1866 All in
the Dark (Tutto al buio), nel 1867 The Tenants of Malory (Gli inquilini di
Malory), nel 1868 A Lost Name (Un nome perduto) e Haunted Lives (Vite
perseguitate) e nel 1869 The Wyvern Mystery (Il mistero di Wyvern). Prima di
essere pubblicati in volume, questi romanzi apparvero a puntate sul “Dublin
University Magazine”, a eccezione di A Lost Name, ospitato su “Temple Bar”. In
questi anni pubblicò anche gran parte dei suoi racconti, per lo più riguardanti il
soprannaturale, all’interno del “Dublin University Magazine”, di “All the Year
Round”, rivista diretta da Dickens, e di “Belgravia” di Mrs Braddon.
Nel 1869, con l’aggravarsi delle difficoltà economiche, fu costretto a vendere il
“Dublin University Magazine”.
Il 1867 e il 1869 furono anni cruciali per la storia irlandese. Nel primo scoppiò
la rivolta feniana: la Fenian Brotherhood (Fratellanza Feniana) era
un’organizzazione repubblicana irlandese fondata nel 1858 a Chicago, negli
Stati Uniti, da John O’Mahony e Michael Doheny. Si trattava di una società
segreta a carattere rivoluzionario e nazionalista, che propugnava la creazione
di una repubblica irlandese indipendente dal Regno Unito. Il nome deriva dai
Fianna (o Sinn Féin o Feniani), la leggendaria banda di guerrieri irlandesi
guidati da Fionn Mac Cumhaill. I feniani americani sostenevano i fratelli
irlandesi inviando loro armi e denaro e incitandoli alla rivolta contro il dominio
britannico. Nel 1869, invece, William Ewart Gladstone, primo ministro del
Regno Unito, decretò che la Chiesa protestante non era più Chiesa di Stato. Per
la cosiddetta Protestant Ascendancy, di cui Le Fanu si considerava parte, lo
scacco fu definitivo, ma il conservatorismo dello scrittore irlandese, con le sue
marcate venature patriottiche, si era ormai moderato e, secondo testimonianze
dell’epoca, neanche la fuga del suo lacchè, che lo abbandonò per unirsi ai
ribelli, riuscì a gettarlo nel panico.
1870-1873
Nel 1870 iniziò la sua collaborazione con la rivista “All the Year Round”, diretta
da Charles Dickens, all’interno della quale pubblicò numerosi racconti e, a
puntate, i romanzi Checkmate (Scacco matto), precedentemente apparso nelle
pagine di “Cassell’s Magazine”, e The Rose and the Key (La rosa e la chiave),
entrambi nel 1871, e nel 1873 Willing to Die (Pronto a morire), quest’ultimo
completato pochi giorni prima della sua morte.
Nel 1872 uscì la raccolta di cinque racconti incentrati sulla figura del dottor
Hesselius, In a Glass Darkly (In uno specchio, oscuramente), contenente, oltre
a Carmilla, alcune delle sue storie più belle.
Negli ultimi anni della sua vita, lo scrittore soffrì di terrificanti incubi, simili a
quelli di cui sono vittime i protagonisti delle sue storie. Alcuni erano ricorrenti,
come quello in cui lo scrittore a un certo punto si ritrova davanti a una magione
diroccata che sta per crollargli addosso e non riesce a muoversi.
Quando il 7 febbraio fu trovato morto, in seguito a un attacco cardiaco nella
sua casa di Merrion Square, poco dopo aver pubblicato il suo ultimo romanzo,
significativamente intitolato Willing to Die, il dottore disse che la magione
cadente che infestava i suoi sogni gli era infine crollata addosso. Fu sepolto nel
cimitero di Mount Jerome.
Quando, un paio di giorni dopo la sua morte, la figlia Emma Lucretia scrisse:
“Mi dà conforto pensare che è in Cielo, perché nessuno poteva essere migliore
di quel che lui è stato. È vissuto solo per noi, e la sua vita è stata tanto
travagliata”, non è un semplice tributo al caro estinto di turno, ma l’effettiva
fotografia di un uomo buono, affettuosissimo e capace di dare serenità alle
persone che ama. Alcuni suoi racconti pubblicati soltanto su rivista furono in
seguito raccolti nelle due antologie postume The Purcell Papers (1880) e
Madam Crowl’s Ghost and Other Tales of Mystery, curata da M.R. James
(1923).
Bibliografia essenziale

Romanzi (prima edizione in volume)


The Cock and Anchor: Being a Chronicle of Old Dublin City, 3 voll., William
Curry, Dublin 1845 (anonimo); ripubblicato nel 1873 con il titolo Morley
Court, riacquistò il titolo originale con l’edizione del 1895.
The Fortunes of Colonel Torlogh O’Brien: A Tale of the Wars of King James,
James McGlashan, Dublin 1847 (anonimo).
The House by the Churchyard, 3 voll., Tinsley Bros., London 1863.
Uncle Silas: A Tale of Bartram-Hough, 3 voll., Richard Bentley, London 1864
(Lo zio Silas: una storia di Bartram-Hough, tr. di A. Guarnieri, pref. S. Melani,
Gargoyle, Roma 2008).
Guy Deverell, 3 voll., Tinsley Bros., London 1865.
All in the Dark, 2 voll., Richard Bentley, London 1866.
The Tenants of Malory: A Novel, 3 voll., Tinsley Bros., London 1867.
A Lost Name, 3 voll., Tinsley Bros., London 1868.
Haunted Lives: A Novel, 3 voll., Tinsley Bros., London 1868.
The Wyvern Mystery: A Novel, 3 voll., Tinsley Bros., London 1869.
Checkmate, 3 voll., Hurst & Blackett, London 1871.
The Rose and the Key, 3 voll., Chapman & Hall, London 1871.
Willing to Die, 3 voll., Hurst & Blackett, London 1873.
Racconti
The Ghost and the Bone-Setter, in “Dublin University Magazine”, gennaio 1838.
The Fortunes of Sir Robert Ardagh, in “Dublin University Magazine”, marzo
1838.
The Last Heir of Castle Connor, in “Dublin University Magazine”, giugno 1838.
The Drunkard’s Dream, in “Dublin University Magazine”, agosto 1838.
Passage in the Secret History of an Irish Countess, in “Dublin University
Magazine”, novembre 1838.
The Bridal of Carrigvarah, in “Dublin University Magazine”, aprile 1839.
A Strange Event in the Life of Schalken the Painter, in “Dublin University
Magazine”, maggio 1839.
Scraps of Hibernian Ballads, in “Dublin University Magazine”, giugno 1839.
Jim Sulivan’s Adventures in the Great Snow, in “Dublin University Magazine”,
luglio 1839.
A Chapter in the History of a Tyrone Family, in “Dublin University Magazine”,
ottobre 1839.
An Adventure of Hardress Fitzgerald, a Royalist, in “Dublin University
Magazine”, febbraio 1840.
The Quare Gander, in “Dublin University Magazine”, ottobre 1840.
Some Account of the Latter Days of the Hon. Richard Marston of Dunoran, in
“Dublin University Magazine”, aprile-giugno 1848.
The Mysterious Lodger, in “Dublin University Magazine”, gennaio-febbraio
1850.
Bill Malowney’s Taste of Love and Glory, in “Dublin University Magazine”,
giugno 1850.
Shamus O’Brien: A Ballad, in “Dublin University Magazine”, luglio 1850.
Ghost Stories of Chapelizod, in “Dublin University Magazine”, gennaio 1851.
An Account of Some Strange Disturbances in Aungier Street, in “Dublin
University Magazine”, dicembre 1853.
Ultor de Lacy: A Legend of Cappercullen, in “Dublin University Magazine”,
dicembre 1861.
Authentic Narrative of a Haunted House, in “Dublin University Magazine”,
ottobre 1862.
My Aunt Margaret’s Adventure, in “Dublin University Magazine”, marzo 1864.
Wicked Captain Walshawe, of Wauling, in “Dublin University Magazine”, aprile
1864.
Squire Toby’s Will: A Ghost Story, in “Temple Bar”, gennaio 1868.
Green Tea, in “All the Year Round”, 23 ottobre-13 novembre 1869.
The Child that Went with the Fairies, in “All the Year Round”, 5 febbraio 1870.
The Bird of Passage, in “Temple Bar”, aprile-giugno 1870.
The White Cat of Drumgunniol, in “All the Year Round”, 2 aprile 1870.
Stories of Lough Guir, in “All the Year Round”, 23 aprile 1870.
The Haunted Baronet, in “Belgravia”, luglio-novembre 1870.
The Vision of Tom Chuff, in “All the Year Round”, 8 ottobre 1870.
Madam Crowl’s Ghost, in “All the Year Round”, 31 dicembre 1870.
Carmilla, in “The Dark Blue”, dicembre 1871-marzo 1872.
The Dead Sexton, in “Once a Week”, Natale 1871.
Laura Silver Bell: A Fairy Story, in “Belgravia”, uscita annuale 1872.
The Haunted House of Westminster (Mr Justice Harbottle), in “Belgravia”,
gennaio 1872.
The Room in the Dragon Volant, in “London Society”, febbraio-giugno 1872.
Sir Dominick’s Bargain; A Legend of Dungoran, in “All the Year Round”, 6
giugno 1872.
Dickon the Devil, in “London Society”, Natale 1872.
Raccolte
Ghost Stories and Tales of Mystery, James McGlashan, Dublin 1851 (al suo
interno The Watcher, poi intitolato The Familiar al momento della sua
inclusione in In a Glass Darkly, e The Murdered Cousin, Schalken the Painter,
The Evil Guest).
Chronicles of Golden Friars, 3 voll., Richard Bentley, London 1871 (al suo
interno A Strange Event in the Life of Miss Laura Milmay, The Haunted
Baronet, The Bird of Passage).
In a Glass Darkly, 3 voll., Richard Bentley, London 1872 (al suo interno Green
Tea, The Familiar, Mr Justice Harbottle, The Room in the Dragon Volant,
Carmilla).
Raccolte postume
The Purcell Papers, con una prefazione di A.P. Graves, 3 voll., Richard Bentley,
London 1880 (al suo interno, The Ghost and the Bone-Setter, The Fortunes of
Sir Robert Ardagh, The Last Heir of Castle Connor, The Drunkard’s Dream,
Passage in the Secret History of an Irish Countess, The Bridal of Carrigvarah,
Schalken the Painter, Scraps of Hibernian Ballads, Jim Sullivan’s Adventures
in the Great Snow, A Chapter in the History of a Tyrone Family, An Adventure
of Hardress Fitzgerald, a Royalist, The Quare Gander, Billy Malowney’s Taste
of Love and Glory.)
Madam Crowl’s Ghost and Other Tales of Mystery, a cura di M.R. James, G. Bell
& Sons, London 1923 (al suo interno, Madam Crowl’s Ghost, Squire Toby’s
Will, Dickon the Devil, The Child that Went with the Fairies, The White Cat of
Drumgunniol, An Account of Some Strange Disturbances in Aungier Street,
Ghost Stories of Chapelizod, Wicked Captain Walshawe, of Wauling, Sir
Dominick’s Bargain, Ultor de Lacy, The Vision of Tom Chuff, Stories of Lough
Guir).
Poesia
The Poems of Joseph Sheridan Le Fanu, a cura di A.P. Graves, Downey, London
1896.
Edizioni italiane

Avventure di fantasmi, tr. di R. Rambelli, Garzanti, Milano 1966.


Carmilla, tr. di M. Scala, Commissionaria Foro Editrice, Milano 1967.
Storie impossibili, a cura di E. Scialoja, A. Curcio, Roma 1979.
La locanda del Drago Volante, postf. di G. Almansi, Serra e Riva, Milano 1982.
Creature dell’altro mondo: sei racconti dell’orrore e del soprannaturale,
SugarCo, Milano 1984.
I misteri di padre Purcell, a cura di G. Lippi, A. Mondadori, Milano 1987.
Carmilla, traduzione e nota di A. Brilli, Sellerio, Palermo 1988.
L’ inseguitore, tr. di O. Fatica, Theoria, Napoli 1988.
Carmilla, Garden, Milano 1990.
Guy Deverell, Bariletti, Roma 1990.
Racconti del soprannaturale, a cura di M. Skey, Theoria, Napoli 1990.
Il gatto bianco di Drumgunniol, tr. di D. Springle, Felinamente & C., Milano
1992.
Lady Glenfallen: storia di una famiglia della contea di Tyrone, introduzione di
G. D’Elia, tr. di A. Belviso, Tascabili Universali Ladisa, Bari 1992.
Tre casi del Dott. Hesselius, a cura di G. Pilo e S. Fusco, TEN, Roma 1994.
Il gatto di Drumgunniol e altri racconti, a cura di F. Ruggieri, Edisud Salerno,
Salerno 1995.
Storie di fantasmi mozzafiato, La Spiga Junior, Milano 1995.
Carmilla, introduzione di R. Reim, Tascabili Economici Newton, Roma 1997.
Tra fantasmi e vampiri, a cura di G. Pilo, Newton & Compton, Roma 1997.
Carmilla la fanciulla vampiro, traduzione e adattamento di C. Belliti, postf. di F.
Lazzarato, A. Mondadori, Milano 1998.
Storie di fantasmi mozzafiato, La Spiga Languages, Milano 2000.
Carmilla, tr. di A. Di Liddo, introduzione di V. Evangelisti, Fanucci, Roma 2004.
Il destino di sir Robert Ardagh e altre storie del soprannaturale, Costa & Nolan,
Milano 2006.
Lo zio Silas: una storia di Bartram-Haugh, tr. di A. Guarnieri, pref. di S. Melani,
Gargoyle, Roma 2008.
Ultor De Lacy, Laura Silver Bell, Libreria Dante & Descartes, Napoli 2008.
Carmilla e altri racconti di fantasmi e vampiri, a cura di G. Pilo, Biblioteca
Economica Newton, Roma 2009.
L’ospite maligno; La stanza al Dragon Volant, Gargoyle, Roma 2009.
Carmilla, a cura di S. Melani, Marsilio, Venezia 2010.
Carmilla, tr. di V. Cinta, illustrazioni di B.M. Vidal, Nuages, Milano 2010.
Tè verde, a cura di M. Rizzotto, Runde Taarn, Gerenzano 2010.
Carmilla la vampira, traduzione e cura di F. Giovannini (in appendice una nuova
traduzione integrale del poema Christabel di Samuel Taylor Coleridge e un
inserto illustrato Vampireide, 30 eredi di Carmilla), Stampa Alternativa,
Viterbo 2011.
Un oscuro scrutare, Miraviglia, Reggio Emilia 2011.
Carmilla, illustrato da A. Juan, tr. di F. Del Moro, Logos Edizioni, Modena 2015.
Biografie e saggi critici

J. Achilles, Sheridan Le Fanu und die schauerromantische Tradition, Gunter


Narr, Tübingen 1991.
J. Barzun, W.H. Taylor, A Catalogue of Crime, Harper&Row, New York 1971.
M.H. Begnal, Joseph Sheridan Le Fanu, Bucknell University Press, Lewisburg
(Pennsylvania) 1971.
J. Briggs, Night Visitors. The Rise and Fall of the English Ghost Story, Faber &
Faber, London 1977 (tr. di M. Bianchi, Visitatori Notturni, Bompiani, Milano
1988).
N. Browne, Sheridan Le Fanu, Arthur Barker, London 1951.
Id., Ghosts and Ghouls in Le Fanu, “Canadian Journal of Irish Studies”, 8, 1,
1982.
P.F. Byrne, Joseph Sheridan Le Fanu: A Centenary Memoir, “Dublin Historical
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London 1995.
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J.J. Kollmann, Dictionary of Literary Biography: British Mystery Writers, 1860-
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M. Sadleir, XIX Century Fiction: A Bibliography Record Based on His Own
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J. Symons, Bloody Murder, From the Detective Story to the Crime Novel: a
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K. West, Dictionary of Literary Biography: British Short-Fiction Writers, 1800-
1880, vol. 159, a cura di John R. Greenfield, The Gale Group, Farmington
Hills (Michigan) 1996.
 

Stella Sacchini è traduttrice letteraria dall’inglese, dal latino e dal greco. È


laureata in Filologia bizantina e ha conseguito il master in Traduzione
all’Università di Pisa. È fra i traduttori di John Berger, a cura di Maria Nadotti,
edito da Marcos y Marcos, e di Francis Scott Fitzgerald, Racconti, a cura di
Franca Cavagnoli, uscito nei “Classici” Feltrinelli. Sempre per i “Classici”
Feltrinelli ha tradotto e curato Jane Eyre (con cui ha vinto il Premio Babel per
la traduzione 2014), di Charlotte Brontë, Il meraviglioso mago di Oz, di L.
Frank Baum e Le avventure di Tom Sawyer di Mark Twain. È autrice di Fuori
posto, romanzo pubblicato da Coazinzola Press.
INDICE
Carmilla - La vampira e il detective dell’occulto
TÈ VERDE
Prologo - Martin Hesselius, medico tedesco
I - Il dottor Hesselius racconta del suo incontro con il
reverendo Jennings
II - Il dottore interroga la signora Mary e lei risponde
III - Il dottor Hesselius trova qualcosa in certi libri in
latino
IV - Quattro occhi leggevano il passaggio
V - Il dottor Hesselius è convocato a Richmond
VI - Come il signor Jennings incontrò il suo compagno
VII - Il viaggio: prima fase
VIII - Seconda fase
IX - Terza fase
X - A casa
Conclusione - Una parola a chi soffre
IL GIUDICE HARBOTTLE
Prologo
I - La casa del giudice
II - Il signor Peters
III - Lewis Pyneweck
IV - Un’interruzione in tribunale
V - Caleb l’Esploratore
VI - In arresto
VII - Il presidente della Corte suprema Twofold
VIII - Qualcuno è entrato in casa
IX - Il giudice abbandona la propria casa
CARMILLA
Prologo
I - Le prime paure
II - Un’ospite
III - Impressioni a confronto
IV - Le sue abitudini – Una passeggiatina
V - Un’incredibile somiglianza
VI - Un’agonia molto strana
VII - Deperimento
VIII - Ricerca
IX - Il dottore
X - La perdita
XI - La storia
XII - Un appello
XIII - Il boscaiolo
XIV - L’incontro
XV - Ordalia ed esecuzione
Conclusione
Note ai testi
Tè verde
Il giudice Harbottle
Carmilla
Il genio celtico di Joseph Sheridan Le Fanu - M.R.
James parla dello scrittore irlandese
La ragione lo nega, ma la fede c’induce a crederlo
(di Stella Sacchini)
Cenni biografici
Bibliografia essenziale
Romanzi (prima edizione in volume)
Racconti
Raccolte
Raccolte postume
Poesia
Edizioni italiane
Biografie e saggi critici

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