Sei sulla pagina 1di 68

IL VOLTO DELLA CONVERSIONE

L’INNOMINATO
L’Innominato: uno dei personaggi indubbiamente più
criptici, enigmatici, affascinanti ed al contempo
emblematici dei “Promessi Sposi”. Questi tuttavia
non racchiude in sé solo un altissimo valore
emblematico, morale e “spirituale”, ma riveste
anche un ruolo di fondamentale importanza da un
punto di vista prettamente narrativo, poiché è
proprio grazie e a partire dalla sua straordinaria e
quasi, si potrebbe dire, miracolosa conversione, il
suo “tratto caratterizzante”, che le vicende del
romanzo iniziano a volgere per il meglio, in quanto è
proprio dal momento della conversione
dell’Innominato che inizia a sciogliersi l’intreccio
che finora si era venuto ad “articolare”.
Il personaggio dell’Innominato è infatti vero e
proprio “protagonista” dei momenti di maggiore
tensione, sia emotiva che narrativa, di tutta l’opera:
lo spannung della trama è difatti caratterizzato,
accanto alle vicende, ai pensieri e ai tormenti di
Lucia, anche e soprattutto dai momenti di maggiore
esasperazione del conflitto interiore che dilaniava
l’animo dell’Innominato, e a cui seguirà la sua
conversione, causati proprio, per l’appunto, dal
rapimento di Lucia, e che dunque finiscono per
intrecciarsi in modo inscindibile con la trama del
romanzo, che proprio in quei drammatici momenti,
ricchi di un altissimo valore emblematico e morale
oltre che narrativo, appare letteralmente appesa a
un filo.
Ma procediamo con ordine, partiamo dal principio:
quando il nostro narratore introduce il personaggio
dell’Innominato, Renzo è ormai al sicuro dal cugino
Bortolo, dopo la sua degradazione e parte della sua
metamorfosi, mentre Lucia è ospite della Monaca di
Monza presso l’omonima città lombarda. Don
Rodrigo tuttavia ha tutt’altro che rinunciato ai suoi
criminosi propositi, e, dopo aver fatto allontanare
Fra Cristoforo, principale minaccia al
raggiungimento dei suoi scopi, decide di rivolgersi
ad un potente quanto oscuro e misterioso signore:
l’Innominato. Manzoni, come è solito fare in
presenza di personaggi particolarmente significativi
(Fra Cristoforo, Don Abbondio, la Monaca di Monza),
interrompe la narrazione palesandosi e realizza una
digressione dal filo della trama, allontanandosi
temporaneamente da questa per presentarci il nuovo
personaggio.
“Abbiamo detto che don Rodrigo, intestato più che
mai di venire a fine della sua bella impresa, s’era
risoluto di cercare il soccorso d’un terribile uomo.”
E’ con quest’appellativo, terribile uomo, che viene
presentato e introdotto il personaggio
dell’Innominato, fin da subito caratterizzato dunque
da una connotazione fortemente negativa. E’
singolare infatti come il Manzoni, quasi sempre
molto riflessivo e ponderato, da Illuminista quale è,
nel giudizio, nel caso dell’Innominato tenga invece a
ribadire e a sottolineare fin da subito, quando ancora
il personaggio non è stato presentato, la sua natura
fortemente riprovevole, al fine di evidenziare e di
far risaltare maggiormente la sua successiva
conversione e il carattere “miracoloso” di questa.
D’altro canto, uno degli elementi più singolari e che
maggiormente caratterizzano il personaggio
dell’Innominato è, per l’appunto, il suo essere
“innominato”, la mancanza di una precisa
identificazione, di un nome, e Manzoni pone subito
un particolare accento su quest’elemento:
“Di costui non possiam dare né il nome, né il
cognome, né un titolo, e nemmeno una congettura
sopra nulla di tutto ciò: cosa tanto più strana, che
del personaggio troviamo memoria in più d’un libro
di quel tempo. Che il personaggio sia quel
medesimo, l’identità de’ fatti non lascia luogo a
dubitarne; ma per tutto un grande studio a
scansarne il nome, quasi avesse dovuto bruciar la
penna, la mano dello scrittore.”
Nonostante lo STORICO Manzoni abbia dunque
ritrovato in molti documenti del tempo tracce di
quest’uomo, non ne vengono mai fornite le
generalità, tanto che questo suo “anonimato”
misterioso e oscuro, generato da un terrore quasi
inverosimile nei suoi confronti, si presenta e si
impone fin da subito come uno dei tratti
caratterizzanti del nuovo personaggio. Il Manzoni
quindi, da storico, prende in esame svariati
documenti del tempo per conferire veridicità e, per
l’appunto, verosimiglianza alle sue affermazioni,
accentuando in maniera particolare e quasi
martellante il peculiare elemento della mancanza di
identità, facendo emergere d’altro canto,
simultaneamente, una oscura e delittuosa fama di
potere. L’Innominato appare dunque circondato da
un denso alone di oscuro mistero e terrore, che lo
avvolgerà in maniera tanto intensa fino al momento
della conversione. Manzoni pone tuttavia davvero un
particolare accento sull’elemento del nome e della
mancata identificazione del nuovo personaggio, del
terrore che a tal punto lo circondava e lo precedeva,
come si evince dalla similitudine “iperbolica” quasi
avesse dovuto bruciar la penna, la mano dello
scrittore, dal momento che per mezzo
dell’Innominato egli si pone lo scopo di
IDEALIZZARE la malvagità fatta persona, e dunque
in seguito, conseguentemente, conferire un
carattere egualmente UNIVERSALE alla miracolosa
e straordinaria conversione; attribuendo un nome
all’Innominato, lo avrebbe, in un certo qual modo,
eccessivamente UMANIZZATO,
INDIVIDUALIZZATO, rendendolo proprio di una
caratteristica comune e identificativa quale è il
nome, che lo avrebbe allontanato dalla sua forte
connotazione ELITARIA, EMBLEMATICA e
IDEALIZZANTE. Ciò non vuol dire assolutamente
che il Manzoni non indagherà a fondo, come suo
solito, nell’individuo, nella sua psiche e nel suo
animo, ma che anzi proprio attraverso una visione
fortemente introspettiva ed approfondita del
personaggio, del suo io, riuscirà a porlo
efficacemente come massimo EMBLEMA di
conversione, poiché è proprio con l’emblematizzare
il particolare, l’individuale, che Manzoni riesce ad
arrivare al generale, all’UNIVERSALE.
Lo scopo di queste pagine di digressione è dunque
quello di presentare l’Innominato come massimo
emblema del male, del crimine, del desiderio
incontenibile di strapotere, di comando, di
affermazione, del disprezzo di ogni legge, ogni
regola, ogni morale, più di ogni altro potente:
“Fare ciò ch’era vietato dalle leggi, o impedito da
una forza qualunque; esser arbitro, padrone degli
affari altrui, senz’altro interesse che il gusto di
comandare; esser temuto da tutti, aver la mano da
coloro che sono soliti averla dagli altri; tali erano
state in ogni tempo le passioni principali di costui.”
L’Innominato viene dunque presentato come “il
principe dei potenti”, l’usurpatore degli usurpatori, il
“padrone” dei “padroni”, animato dal solo “gusto di
comandare” e da un desiderio di servire e di
compiere il male che pare intrinseco e connaturato
al suo animo, inestirpabile. Il sostantivo “passioni”
accentua peraltro ancor più il carattere negativo del
personaggio, poiché sinonimo per Manzoni di
IRRAZIONALITA’.
Emerge tuttavia ora nella sua personalità un primo
contrasto, un primo elemento, seppur limitato, di
“conflitto interiore”, che denota una disposizione
d’animo inquieta e vigorosa che ricorda, in un certo
qual modo, la personalità di Fra Cristoforo giovane,
anche se tuttavia da questo, per così dire,
“parallelismo”, emerge e viene evidenziato in realtà
come quella dell’Innominato sia fortemente in
contrasto ad essa, per i valori morali praticamente
“rovesciati”:
“Fino dall’adolescenza, allo spettacolo e al rumore
di tante prepotenze, di tante gare, alla vista di tanti
tiranni, provava un misto sentimento di sdegno e
d’invidia impaziente.”
Tale contrasto pare per la prima volta iniziare ad
arricchire il personaggio di un volume, di uno
spesso profilo psicologico, tutt’altro che “piatto”, ma
anzi anche, in prospettiva, dinamico, anche perché in
effetti l’Innominato, grazie alla sua radicale e
miracolosa conversione, risulterà alla fine essere,
probabilmente, uno dei personaggi, se non il
personaggio più dinamico del romanzo.
Manzoni continua quindi a vestire il personaggio dei
panni di “eroe del male”, primo nella “gerarchia dei
potenti”. Egli è senza dubbio un uomo malvagio e
spietato ben oltre i limiti dei suoi “simili”, per lui la
“professione del crimine” rappresenta lo scopo della
vita, mentre per gli altri ne è solo uno strumento;
ma, allo stesso tempo, la sua condizione, che ora
verrà presentata, di “isolato ribelle”, capace di porsi
al di sopra di tutti e di ogni legge, temuto da amici e
nemici, svela l’incredibile ECCEZIONALITA’ del
personaggio, uno dei suoi tratti fondamentali. Egli,
alla nobiltà e alla ricchezza familiare, unisce infatti
una straordinaria forza di corpo e d’animo, una rara
audacia, costanza e determinazione, una
stravolgente superiorità di carattere, una costante
insofferenza e disprezzo nei confronti di qualunque
regola, qualunque limite, qualunque legge, che egli
sfida non di rado apertamente e impudentemente.
“Superiore di ricchezze e di seguito alla più parte, e
forse a tutti d’ardire e di costanza, ne ridusse molti
a ritirarsi da ogni rivalità, molti ne conciò male,
molti n’ebbe amici; non già amici del pari, ma, come
soltanto potevan piacere a lui, amici subordinati, che
si riconoscessero suoi inferiori, che gli stessero alla
sinistra.”
Vengono dunque in tal modo sottolineate sia le
indubbie e pregevoli qualità del carattere
dell’Innominato, il suo essere superiore a tutti
“d’ardire e di costanza”, il suo animo audace e
vigoroso, che tuttavia, almeno per ora, mette al
servizio del male, sia, soprattutto, la sua condizione
peculiare di PREMINENZA e SUPERIORITA’
indiscussa su tutti gli altri potenti, il suo costante
“emergere”, seppur inteso in modo negativo, proprio
grazie, per l’appunto, al suo “ardire” e alla sua
“costanza”, che lo differenzia in maniera anche
intensa da tutti gli altri nobili. L’Innominato si
presenta al lettore dunque sì come un personaggio
fortemente negativo, ma anche, sotto certi aspetti,
alquanto ammirabile, elitario, dall’innegabile fascino,
dovuto al suo “anonimato”, alla sua condizione di
“comando” su coloro che “comandano”, alla sua
mirabile forza d’animo, e soprattutto all’alone di
grandezza, enorme potere, malvagità e oscurità che
aleggia attorno alla sua criptica ed enigmatica
figura. In questa chiave di lettura, attribuirgli un
nome sarebbe stato dunque come renderlo
“comune”, “simile agli altri”, renderlo “nominabile”
e dunque in un certo qual modo anche raggiungibile,
nella sua che è al contrario una condizione di
ECCEZIONALITA’, UNICITA’,
IRRAGGIUNGIBILITA’.
Altro elemento che lo caratterizza è indubbiamente
l’insofferenza e il disprezzo di ogni ordine, ogni
legge, ogni morale, qualsiasi cosa che possa porre o
soltanto possa minacciare di porre dei limiti al suo
insaziabile desiderio di comando, di affermazione, di
strapotere:
“Una volta che costui ebbe a sgomberare il paese, la
segretezza che usò, il rispetto, la timidezza, furon
tali: attraversò la città a cavallo, con un seguito di
cani, a suon di tromba; e passando davanti al
palazzo di corte, lasciò alla guardia un’imbasciata
d’impertinenze per il governatore.”
Manzoni riporta in questo caso una citazione del
Ripamonti, autorevole storico del tempo, che tratta
del modo in cui l’Innominato, costretto all’esilio,
avesse abbandonato lo stato di Milano, e da cui si
evince come neanche la più alta autorità politica del
territorio, già di per sé, comunque, piuttosto debole
e corrotta, incutesse timore o soltanto inquietasse,
impensierisse minimamente l’Innominato, che infatti
si pone come “superiore ad ogni cosa”, persino al
governatore. Dietro questa citazione del Ripamonti
che Manzoni, riportando nel suo romanzo, fa dunque
sua, si nasconde tuttavia, oltre che un ulteriore
aspetto della personalità del personaggio, anche un
fondo di forte critica sociale all’autorità politica del
tempo che, persino nelle sue più alte cariche,
risultava incapace di porsi come argine al crimine e
alle ingiustizie. Ed è a questo proposito che
Manzoni, poco dopo, scrive:
“Accadde qualche volta che un debole oppresso,
vessato da un prepotente, si rivolse a lui; e lui,
prendendo le parti del debole, forzò il prepotente a
finirla, a riparare il mal fatto, a chiedere scusa...E in
quei casi, quel nome tanto temuto e aborrito era
stato benedetto un momento: perché, non dirò quella
giustizia, ma quel rimedio, quel compenso
qualunque, non si sarebbe potuto, in que’ tempi,
aspettarlo da nessun’altra forza né privata, né
pubblica.”
Tale era dunque l’inefficienza, l’inefficacia della
legge, che a volte, davvero in maniera paradossale,
l’Innominato, il volto del male, si trovava
inconsapevolmente e criminosamente a riparare a
delle ingiustizie! A volte, nel tentativo di ribadire e
imporre il proprio strapotere, si trova
inconsciamente a farsi quasi portatore di una
primordiale forma di “giustizia”, e quest’elemento
non è introdotto al fine di elogiare l’Innominato, che
nemmeno era forse consapevole di ciò, quanto
piuttosto di criticare in maniera davvero dura,
marcata e quasi, si potrebbe dire, “tragicomica”, con
una punta di quell’amara ironia che è propria dello
stile del Manzoni, la fallimentare giustizia e legge
del tempo, rispetto a cui addirittura l’Innominato, il
“principe dei criminali”, risultava portare più
giustizia! Comunque Manzoni, quasi a sottolineare il
carattere di critica alla giustizia delle precedenti
affermazioni e non di “elogio” dell’Innominato,
afferma subito che “più spesso, anzi per l’ordinario,
la sua era stata ed era ministra di voleri iniqui, di
soddisfazioni atroci, di capricci superbi.”
E immediatamente dopo, a ribadire un fondamentale
aspetto del “profilo ideologico” e dell’agire
dell’Innominato, si legge:
“Ma gli usi così diversi di quella forza producevan
sempre l’effetto medesimo, d’imprimere negli animi
una grand’idea di quanto egli potesse volere e
eseguire in onta dell’equità e dell’iniquità, quelle due
cose che metton tanti ostacoli alla volontà degli
uomini, e li fanno così spesso tornare indietro.”
In questo punto diviene dunque evidente come, a
differenza della gran parte degli uomini,
l’Innominato, in linea con la sua “eccezionalità”, non
“viaggi nel binario” del perseguimento della giustizia
o dell’ingiustizia, dal momento che “quelle due cose
metton tanti ostacoli alla volontà degli uomini, e li
fanno così spesso tornare indietro”, per cui
andrebbero a costituire, di fatto, un “ostacolo” alla
“filosofia” propria dell’Innominato dell’agire fuori da
ogni “binario”, oltre ogni norma, ogni limite: appare
dunque come questi, circostanza davvero
ECCEZIONALE in tutto il romanzo, in cui il Manzoni,
particolarmente attaccato al tema, appare sempre
posizionare quasi tutti i personaggi nel “binario”
della giustizia o dell’ingiustizia, agisca del tutto
indipendentemente, anzi persino nel disprezzo degli
ideali di equità e di iniquità, di giustizia e di
ingiustizia, visti come “ostacoli” alla realizzazione
della propria volontà.
Prima della fine di questa digressione, non
particolarmente estesa ma decisamente significativa
e fondamentale, Manzoni realizza quasi un bilancio,
una “sintesi”, delle caratteristiche proprie del
personaggio dell’Innominato finora introdotte:
“Ma la fama di questo nostro era già da gran tempo
diffusa in ogni parte del milanese: per tutto, la sua
vita era un soggetto di racconti popolari; e il suo
nome significava qualcosa d’irresistibile, di strano,
di favoloso.”
I tre elementi che denotano dunque la grandissima e
temibile fama dell’Innominato, divenuta addirittura
“soggetto di racconti popolari”, sono infine questi: il
suo misterioso e oscuro FASCINO, un qualcosa
“d’irresistibile”, la sua peculiare condizione di
assoluta ECCEZIONALITA’, un qualcosa “di strano”,
e il suo immenso POTERE, tanto che l’Innominato
assume qui una caratterizzazione quasi “mitica”, un
qualcosa “di favoloso” ...
“E ogni volta che in qualche parte si vedessero
comparire figure di bravi sconosciute e più brutte
dell’ordinario, a ogni fatto enorme di cui non si
sapesse alla prima indicare o indovinar l’autore, si
proferiva, si mormorava il nome di colui che noi,
grazie a quella benedetta, per non dire altro,
circospezione de’ nostri autori, saremo costretti a
chiamar innominato.”
Dopo un lungo, intenso e cupo PREAMBOLO, che
arricchisce ancor più il personaggio di altro terrore,
oscurità, e quasi tensione, suspense, Manzoni,
attraverso un intervento da narratore palese, ci
presenta finalmente, ed anche con falsa
insoddisfazione, al fine di metterlo particolarmente
in evidenza, il teatrale appellativo che userà d’ora in
poi per identificare questo nuovo personaggio,
innominato, e che, proprio grazie a questa
digressione, è già connotato di un gran valore
criptico quanto emblematico, circondato da un denso
alone di oscurità, malvagità, eccezionalità e temibile
fama di criminale nequizia.
Prima di chiudere il capitolo, Manzoni tuttavia
riprende il filo della trama, tornando a focalizzare la
sua attenzione su don Rodrigo e sull’aiuto che aveva
intenzione di chiedere all’Innominato. E’ proprio in
questo passaggio finale che vengono esplicitate le
differenze tra Don Rodrigo, emblema di tutta la
categoria dei “signorotti”, e dunque, se vogliamo, il
“signorotto comune” per eccellenza, e l’Innominato,
un personaggio che, al contrario, tutto è fuorché
“comune”, che rappresenta, come abbiamo visto, un
“eccezione”, che “comanda a coloro che
comandano”, che si pone al di sopra degli altri
potenti in una condizione di “isolata superiorità”
individuale e sociale:
“Don Rodrigo voleva bensì fare il tiranno, ma non il
tiranno salvatico: la professione era per lui un
mezzo, non uno scopo: voleva dimorar liberamente
in città, godere i comodi, gli spassi, gli onori della
vita civile.”
Per don Rodrigo appare dunque come la
“professione” di tiranno, cioè l’uso della violenza,
sia il mezzo per raggiungere i suoi scopi di piacere e
prestigio sociale, mentre per l’Innominato la pratica
del crimine è fine a sé stessa, fonte di
soddisfazione, “comando”, affermazione, una vera e
propria “passione”, scopo ultimo della vita stessa.
Ed è appunto per questo che don Rodrigo si vede
addirittura costretto a nascondere l’amicizia
dell’Innominato in pubblico, poiché, intenzionato
com’era ad entrare in commistione, in buoni rapporti
con l’autorità pubblica, politica, nel tentativo di
ottenerne vantaggi e prestigio, “una lega con un
uomo di quella sorte, così apertamente nemico della
forza pubblica, non gli avrebbe certamente fatto
buon gioco a ciò.”
Il nuovo capitolo si apre con una dettagliata
descrizione del castello dell’Innominato e la vallata
in cui si trova: analogamente a come era avvenuto
con il palazzotto di don Rodrigo, la descrizione
dell’ambiente, fortemente connotativa, è specchio
dell’Innominato e della sua personalità. Ogni termine
utilizzato da Manzoni nella descrizione di questo
luogo inospitale e impervio risulta essere crudo,
aspro, quando possibile dispregiativo, in linea con la
caratterizzazione negativa del personaggio
dell’Innominato: “valle angusta e uggiosa”, “erto
pendio”, “torrentaccio”, “schegge e macigni”, “erte
ripide”, “castellaccio”, “terribile domicilio”, “come
un nastro serpeggiante” (il velato rimando al
serpente non è casuale, essendo questi in effetti
l’animale emblema del diavolo, del demonio, del
male assoluto, e dunque alquanto connotato al ruolo
dell’Innominato di “eroe del male”), “ragazzaccio”,
“carte sudice”, “caporalaccio”, “bravaccio”. E la
stessa posizione del castello è fortemente connotata
alla condizione sociale e alla personalità
dell’Innominato:
“Dall’alto del castellaccio, come l’aquila dal suo nido
insanguinato, il selvaggio signore dominava
all’intorno tutto lo spazio dove piede d’uomo potesse
posarsi, e non vedeva mai nessuno al di sopra di sé,
né più in alto.”
La collocazione sopraelevata, isolata, preminente,
quasi irraggiungibile del castello riflette chiaramente
la condizione di isolata superiorità individuale e
sociale dell’Innominato. Altro elemento particolare è
l’appellativo “selvaggio” associato a “signore” e,
contemporaneamente, la cruda similitudine legata al
mondo animale, sempre visto dal Manzoni come
emblema di irrazionalità, e spesso utilizzato in
metafore e similitudini legate, per l’appunto, a
personaggi particolarmente negativi (il cancelliere
Ferrer, la folla durante la rivolta del pane, ...). E in
questo luogo tanto ostile non poteva mancare
l’elemento della taverna, dell’OSTERIA, l’ambiente
indubbiamente, in tutto il corso del romanzo, più
osteggiato dal Manzoni, in quanto emblema di
ebrezza e, conseguentemente, di irrazionalità, che
da essa deriva.
“Lì c’era una taverna, che si sarebbe potuta
chiamare un corpo di guardia.”
Anche gli interni del castello, analogamente al resto
del luogo, appaiono densi di oscurità e malvagità,
con “corridoi bui”, e “sale tappezzate di moschetti,
di sciabole e di partigiane”.
Ed è quando finalmente don Rodrigo giunge presso
l’Innominato che, attraverso gli occhi del primo,
Manzoni ci presenta finalmente il “ritratto” del
secondo:
“Era grande, bruno, calvo; bianchi i pochi capelli che
gli rimanevano, rugosa la faccia: a prima vista, gli si
sarebbe dato più de’ sessant’anni che aveva; ma il
contegno, le mosse, la durezza risentita de’
lineamenti, il lampeggiar sinistro, ma vivo degli
occhi, indicavano una forza di corpo e d’animo, che
sarebbe stata straordinaria in un giovane.”
E’ questo uno dei ritratti più brevi del Manzoni, ma
uno dei più intensi e ricchi di CONTRASTI, elemento
caratterizzante dei ritratti, delle descrizioni, dello
stile dell’autore, che si fanno spesso emblema di
contrasti morali e psicologici. Nell’Innominato risalta
molto il contrasto tra aspetto fisico, anziano e
logorato dall’età, e contegno, atteggiamento, modo
di porsi, da cui emerge il suo straordinario vigore e
la sua “forza di corpo e d’animo, che sarebbe stata
straordinaria in un giovane”, elemento che emerge
ancor più forte, ancor più intenso, negli occhi che,
come abbiamo ampiamente avuto occasione di
vedere, ad esempio, coi personaggi di Fra Cristoforo
e della Monaca di Monza, Manzoni ritiene essere
davvero “lo specchio dell’anima.” Gli occhi sono
innanzitutto caratterizzati da un LAMPEGGIAR,
segno di vigore, di acume, “di ardire e di costanza”,
che è definito “sinistro, ma vivo”, che denota sì,
nell’aggettivo “sinistro”, oscurità e crudeltà, nel
segno di una vita passata al servizio del male, ma
anche, al contempo, nell’aggettivo “vivo”, qualità
come una vivacità d’animo, una determinazione e
un’energia non comuni, che egli finora, durante tutto
il corso della sua vita, ha sempre impiegato per fini
criminali e delittuosi, al servizio del male più
assoluto, ma che a seguito della sua radicale e
miracolosa conversione metterà a disposizione del
bene, facendosi strumento nelle mani della
Provvidenza e della Giustizia Divina. E le basi della
miracolosa conversione dell’Innominato, o per lo
meno della crisi spirituale e morale che la
precederà, iniziano ormai a presentarsi, dopo che
questi aveva accettato senza indugio, “come se un
demonio nascosto nel suo cuore gliel’avesse
comandato”, di aiutare don Rodrigo e rapire Lucia
per suo conto.
“Già da qualche tempo cominciava a provare, se non
un rimorso, una certa uggia delle sue scelleratezze...
era come il crescere e crescere d’un peso già
incomodo. Una certa ripugnanza provata ne’ primi
delitti, e vinta poi, e scomparsa quasi affatto,
tornava ora a farsi sentire.”
Manzoni comincia ora a indagare più a fondo
nell’animo dell’Innominato: cominciano a emergere i
primissimi segnali di una profonda crisi morale e
spirituale, che maturerà e si acuirà nel corso del
capitolo e esploderà in quello successivo. Si sta
venendo pian piano a delineare un’atmosfera
caratterizzata da una crescente pesantezza,
gravezza, “il crescere e il crescere d’un peso già
incomodo”, il peso del rimorso per gli innumerevoli
delitti commessi, che, in linea con l’acuirsi della crisi
morale e spirituale dell’Innominato, andrà ad
accrescersi vertiginosamente, fino a quando, nei
momenti di massima esasperazione del conflitto
interiore che dilanierà l’animo dell’Innominato,
l’atmosfera di pesantezza, di gravezza, si farà
davvero opprimente, intollerabile, insostenibile.
Manzoni continua quindi a delineare i principali
elementi del crescente “turbamento” dell’animo
dell’Innominato:
“Ma in que’ primi tempi, l’immagine d’un avvenire
lungo, indeterminato, il sentimento d’una vitalità
vigorosa, riempivano l’animo d’una fiducia
spensierata: ora all’opposto, i pensieri dell’avvenire
eran quelli che rendevano più noioso il passato.”
Emerge il contrasto nell’animo dell’Innominato tra
“l’immagine d’un avvenire lungo, indeterminato, il
sentimento d’una vitalità vigorosa” che aveva in
gioventù e lo scenario che gli si figura ora, in
vecchiaia, e per cui inizia a percepire in modo
diverso la gravità delle proprie azioni: l’avvicinarsi e
dunque la prospettiva della morte. Ed è proprio
attorno a questo punto che si articolano le
inquietudini dell’Innominato, ed è quindi proprio su
questo punto che Manzoni, riportando, da narratore
onnisciente, i pensieri del personaggio, si sofferma:
“Non era la morte minacciata da un avversario
mortale anche lui; non poteva respingerla con armi
migliori, e con un braccio più pronto; veniva sola,
nasceva di dentro; era forse ancor lontana, ma
faceva un passo ogni momento; e, intanto che la
mente combatteva dolorosamente per allontanarne il
pensiero, quella s’avvicinava.”
Il pensiero d’una morte che non può essere evitata e
SUPERATA con la “forza di corpo e d’animo”, “con
l’ardire e la costanza”, come aveva finora fatto con
qualsiasi ostacolo, qualsiasi limite si fosse frapposto
tra lui e l’esaudirsi della propria volontà e dei propri
nefasti proposti, sta iniziando a consumare l’animo e
la mente dell’Innominato, mentre egli tenta invano di
REPRIMERE questo pensiero, finendo però per
generare dei contrasti interiori dilanianti e dolorosi.
Egli cerca inutilmente di nascondere a sé stesso
come la sua “filosofia” di vita si trovi di fatto in
seria difficoltà davanti ad un ostacolo davvero
INSUPERABILE; i turbamenti e le inquietudini
dell’Innominato derivano proprio da questo, dal fatto
che non può e non riuscirà mai a sconfiggere la
morte, a porsi al di sopra di essa, come aveva fatto
con QUALSIASI COSA nel corso della sua esistenza.
Il suo modus vivendi inizia così ad entrare in crisi, a
vacillare, mettendo a nudo la sua profonda vuotezza,
vacuità morale e spirituale, di cui mai si era curato.
Ed è proprio da ciò che Manzoni trae e lascia
emergere, partendo dall’esperienza individuale
dell’Innominato, una profonda riflessione di
carattere universale, generale, un vero e proprio
pilastro del pensiero dell’autore, che ritroviamo
anche, similmente, seppur in un contesto
naturalmente differente, nel 5 maggio: è di fronte
all’umana impossibilità di sconfiggere la morte, per
quanto vigore e forza d’animo si possano mettere in
campo, che anche l’uomo più audace, potente e
vigoroso si rende conto dei propri limiti ed inizia ad
abbracciare una visione spirituale più ampia. Ed è
proprio questo che iniziamo pian piano a notare
nell’animo dell’Innominato:
“... ora, gli rinasceva ogni tanto nell’animo l’idea
confusa, ma terribile, di un giudizio individuale,
d’una ragione indipendente dall’esempio; ora,
l’essere uscito dalla turba volgare de’ malvagi,
l’essere innanzi a tutti, gli dava talvolta il sentimento
d’una solitudine tremenda. Quel Dio di cui aveva
tanto sentito parlare ma che, da gran tempo, non si
curava di negare né di riconoscere, occupato
soltanto a vivere come se non ci fosse, ora, in certi
momenti d’abbattimento senza motivo, di terrore
senza pericolo, gli pareva sentirlo gridar dentro di
sé: Io sono però.”
Ed è qui che traspare, oltre alla profonda sensibilità
psicologica del Manzoni, come la condizione di
isolata superiorità dell’Innominato, tanto agognata,
sia in realtà inutile, e, anzi, scaturisca in uno stato di
profonda solitudine, “tremenda”, dolorosa, che
nasce dall’impossibilità di dare un senso, un vero
scopo alla propria vita. Ed è in questo complesso
scenario psicologico che, in linea con il timore
causato dalla prospettiva della morte, il pensiero
d’un infallibile Giustizia Divina inizia ad impensierire
e spaventare anche il più efferato dei criminali, che
teme di dover rispondere davvero, al momento della
sua morte, di tutte le turpi azioni compiute in vita.
Ed è da questo timore che nel fondo della coscienza
dell’Innominato, rimasta sopita praticamente da
sempre ed ora ridestata pian piano dal crescente
peso del rimorso e dal rendersi conto della gravità
delle proprie azioni, che sta iniziando a formarsi,
simultaneamente, anche un senso spirituale, la
consapevolezza dell’esistenza di un Dio e di una
Giustizia Divina, racchiusa in quell’enigmatico “Io
sono però” che riecheggiava solenne e maestoso
nella mente dell’Innominato.
Ma ad opporsi e a reprimere queste nuove
“sensazioni”, queste nuove consapevolezze che
stavano emergendo nel suo animo, è l’Innominato
stesso:
“Ma, non che aprirsi con nessuno su questa nuova
inquietudine, la copriva anzi profondamente, e la
mascherava con l’apparenze d’una più cupa ferocia;
e con questo mezzo, cercava di nasconderla a sé
stesso, o di soffogarla.”
L’inizio della formazione e l’emergere di una
coscienza morale e spirituale vengono così
SOFFOCATI dall’Innominato, ancora troppo legato al
suo modus vivendi, alla gioventù e ai crimini del
passato, che cerca di celare al mondo e a sé stesso
“questa nuova inquietudine” e di reprimerla con
violenza nel suo animo, facendo scaturire tuttavia
forti contrasti interiori, che emergeranno ora in tutta
la loro stravolgente intensità e drammaticità.
L’Innominato, proprio per il desiderio di reprimere il
principio di una crisi morale e spirituale che
minacciava di dilaniare il suo animo e portare a galla
verità che non avrebbe avuto la forza di affrontare
senza abbandonare il suo vecchio “io”, accetta di
rapire Lucia per conto di don Rodrigo. I contrasti nel
suo animo iniziano subito, tuttavia, a farsi sentire:
“A quest’annunzio, l’innominato, comunque stesse di
dentro, diede ordine in fretta al Nibbio stesso, che
disponesse tutto secondo aveva detto Egidio, e
andasse con due altri che gli nominò, alla
spedizione.”
Appare evidente come in questi momenti sia
tuttavia, comunque, ancora molto forte ed alquanto
efficace la volontà di reprimere la paura della morte
e del Giudizio Divino, il rimorso per le azioni
compiute in passato, la consapevolezza
dell’esistenza di Dio, l’insorgere insomma
progressivo e preponderante d’una coscienza
morale e spirituale, soffocando i contrasti nel
proprio animo che nel frattempo si apprestavano a
dilaniarlo dall’interno, nel tentativo di non perdere
tutte quelle “passioni” per cui era finora vissuto: il
“gusto di comandare”, l’ “esser temuto da tutti”, il
desiderio, che era stato irrefrenabile e incontenibile,
di affermarsi tra coloro che “comandano”. Perciò,
alla fine, Lucia venne rapita, ma quando giunse al
castello dell’Innominato, iniziarono a manifestarsi,
nel concreto, le prime vere criticità, legate
all’acuirsi di questo confitto interiore:
“... ora, nel metter le mani addosso a questa
sconosciuta, a questa povera contadina, sentiva
come un ribrezzo, quasi un terrore”.
Si fanno per la prima volta davvero visibili i segni
dei suoi contrasti interiori, che iniziano ad incrinare
la sua volontà di ferro, la sua risolutezza e
spregiudicatezza nel compiere il male...
“E voleva chiamare uno de’ suoi sgherri, e spedirlo
subito incontro alla carrozza, e ordinare al Nibbio
che voltasse, e conducesse lei al palazzo di don
Rodrigo. Ma un no imperioso che risonò nella sua
mente, fece svanire quel disegno.”
Nel momento in cui tutta la trama appare appesa a
un filo, la COSCIENZA SOPITA e REPRESSA
dell’Innominato ha un sussulto di vigore, e, come
traspare in maniera implicita, spinta dalla
Provvidenza, si IMPONE con un NO IMPERIOSO, che
risuona nella mente dell’Innominato analogamente
all’ “Io sono però”, e che fa trasparire, seppur non in
maniera esplicita, come Dio abbia, in questo
momento di massima tensione narrativa, in cui tutto
sembrava volgere per il peggio, risvegliato
all’improvviso e “dato uno scossone” alla coscienza
spirituale dell’Innominato, evitando il peggio, e
intervenendo dunque attivamente e concretamente,
per la prima volta, se vogliamo, “per mezzo”
dell’Innominato, a salvare “l’umile” Lucia. E’ questo
dunque il primo vero segnale di un cambiamento,
seppur appena cominciato, nell’animo
dell’Innominato, che, per la prima volta, e
probabilmente in maniera ancora inconsapevole,
viene reso strumento nelle mani di Dio e della
Giustizia Divina. Al momento di altissima tensione
“narrativa”, in cui Lucia rischia davvero di finire in
mano a don Rodrigo, si unisce dunque l’altrettanto
alta tensione psicologica, spirituale e morale
dell’animo dell’Innominato, e, anche, in parte,
dell’animo di Lucia, devastata dai recenti
avvenimenti. E proprio le scene delle povera Lucia,
volto dell’innocenza, del candore, della purezza di
spirito, che, durante il rapimento, scongiura i bravi
di liberarla, li implora di poter tornare a casa, prega
il Signore di non abbandonarla, finiscono per toccare
emotivamente in maniera intensa il narratore, il
lettore e persino il Nibbio, il bravo più efferato e
criminale dell’Innominato...
“-Voglio dire che tutto quel tempo, tutto quel
tempo... M’ha fatto troppa compassione.
-Compassione! Che sai tu di compassione? Cos’ è la
compassione?
-Non l’ho mai capito così bene come questa volta: è
una storia la compassione un poco come la paura: se
uno la lascia prender possesso, non è più uomo.
-Sentiamo un poco come ha fatto costei per moverti
a compassione.
-O signore illustrissimo! tanto tempo...! piangere,
pregare e far certi occhi, e diventar bianca bianca
come morta, e poi singhiozzare, e pregar di nuovo, e
certe parole...”
Entra in gioco ora in maniera preponderante e quasi
martellante l’elemento della compassione, della
pietà, addirittura in un bravo come il Nibbio, quasi
predicendo, insinuandosi in animi tanto corrotti dal
male, straordinari mutamenti di spirito, nei confronti
di Lucia, tale è la sua innocenza e la sua purezza, e
tanto vili e meschine appaiono a confronto azioni
come il suo rapimento. E le dichiarazioni del Nibbio
altro non fanno che esasperare i dubbi e i contrasti
interiori nell’animo dell’Innominato, che è ormai
spaccato in due “fazioni” contrastanti:
“-Non la voglio costei-pensava intanto l’Innominato.
–Sono stato una bestia a impegnarmi; ma ho
promesso, ho promesso. –“
Assistiamo ora infatti ad un Innominato che si
definisce addirittura una BESTIA, e che dunque
prende duramente posizione e sempre più
consapevolezza della gravità delle sue azioni, ultima
quella del rapimento di Lucia, e che sempre più
tende ad allontanarsi dal suo “lato criminale”.
Assistiamo tuttavia contemporaneamente ad un
contrasto interiore molto acceso tra la “nuova
coscienza” che pare emergere, rappresentata dal
crescente sentimento di compassione verso Lucia e
dal desiderio di liberarla, e il “vecchio Innominato”,
rappresentato dall’importanza di mantenere
l’impegno preso con don Rodrigo.
“-...e va di corsa a casa di quel Don Rodrigo che tu
sai. Digli che mandi...ma subito subito, perché
altrimenti...-
Ma un NO interno più imperioso del primo gli proibì
di finire. –No-, disse con voce risoluta, quasi per
esprimere a sé stesso il comando di quella voce
segreta...”
Ed ecco intervenire miracolosamente, ancora una
volta, la Provvidenza: quando di nuovo le cose
sembrano volgere al peggio, la voce della destata
coscienza dell’Innominato, sempre più risoluta,
sempre più determinata, sempre più imperiosa, gli
impedisce di consegnare Lucia a Don Rodrigo,
denotando come ormai la crisi spirituale e morale
che già imperversava tacitamente nel suo animo
fosse ora giunta al suo apice e pronta ad esplodere
in tutta la sua violenza, drammaticità e intensità
emotiva.
“-Un qualche demonio ha costei dalla sua- “
L’Innominato infatti ancora non riesce a spiegarsi i
suoi tormenti interiori, le sue esitazioni, l’irrompere
nella sua personalità di sentimenti come la
compassione e la carità, che sempre aveva
disprezzato. Cerca, ormai quasi inutilmente, di
convincersi a consegnare Lucia a don Rodrigo, ma lo
fa “con quell’animo con cui si comanda a un ragazzo
indocile, sapendo che non ubbidirà”, e continuando
al contempo a non capacitarsi di come un bravo
tanto malvagio e criminale come il Nibbio possa
essere stato mosso a compassione.
“-compassione al Nibbio! –“
E’ proprio in quei momenti che cogliamo tuttavia,
implicito, velato, silenzioso ma decisivo, l’agire
attivo e fondamentale della Provvidenza, che
servendosi di Lucia, spinge l’Innominato verso la
compassione, la carità, il bene, la conversione, e che
servendosi quindi dello stesso Innominato, con i
“no” imperiosi che risuonano nella sua mente, salva
Lucia da don Rodrigo. E prima dell’esplosione della
crisi spirituale e morale dell’Innominato durante la
notte, sarà decisivo e significativo il suo incontro
con Lucia, che si farà davvero strumento e voce
della Divina Provvidenza:
“-Oh maltrattata! M’hanno presa a tradimento, per
forza! perché m’hanno presa? perché son qui? dove
sono? Sono una povera creatura: cosa le ho fatto? In
nome di Dio...
-Dio, Dio- interruppe l’Innominato- sempre Dio:
coloro che non possono difendersi da sé, che non
hanno la forza, sempre han questo Dio da mettere in
campo, come se gli avessero parlato. Cosa
pretendete con codesta vostra parola? Di farmi...? –
e lasciò la frase al mezzo.”
L’Innominato cerca con queste parole di
ridicolizzare e sminuire Dio innanzi a Lucia e,
soprattutto, a sé stesso, quel Dio che ormai
pervadeva il suo animo e lottava tenacemente
contro la sua indole criminale; ma non osa terminare
la domanda retorica, non osa affermare che Dio, il
pensiero della morte e di un “giudizio individuale”
non gli facciano paura, poiché sono proprio questi
pensieri ad aver innestato la sua crisi spirituale e
morale e sono ormai tanto presenti all’interno del
suo animo da non poter essere ignorati, sminuiti o
ridicolizzati, ma al contrario emergono in tutta la
loro intensità ad influenzare sempre più pensieri,
parole e azioni. E in questo scenario è davvero
fondamentale per la conversione dell’Innominato il
ruolo di Lucia, che si fa “tramite” tra lui e la
Provvidenza, o, per meglio dire, mezzo con cui la
Provvidenza perviene all’animo dell’Innominato e,
muovendolo a compassione, facendo appello agli
ideali di misericordia e contemporaneamente
Giustizia Divina, lo trae pian piano a sé:
“-Oh Signore! pretendere! Cosa posso pretendere io
meschina, se non che lei mi usi misericordia? Dio
perdona tante cose, per un’opera di misericordia! Mi
lasci andare; per carità mi lasci andare! Non torna
conto a uno che un giorno deve morire di far tanto
patire una povera creatura...-“
Qui diviene evidente come Lucia si faccia
inconsapevolmente portatrice innanzi all’Innominato
degli ideali di quella fede che questi avrebbe poi
abbracciato, a partire dal sentimento di compassione
che aveva, miracolosamente, suscitato nel Nibbio, e
poi nell’Innominato stesso. Diviene dunque palese e
quasi esplicito come ella rappresenti il mezzo con
cui la Provvidenza riuscirà finalmente a penetrare
con grandissima forza emotiva nell’animo
dell’Innominato, scardinando pian piano il suo modus
vivendi, e ponendo solide basi per la definitiva
conversione che avverrà davvero in modo
miracoloso grazie all’incontro col Cardinale
Borromeo. Lucia rappresenterà di fatto la goccia che
farà traboccare il vaso, il misfatto che il potente
Innominato non avrà il “coraggio” di compiere!
Ella infatti, inconsapevolmente -ma è proprio in
questi punti che si coglie l’intervento silenzioso ma
fondamentale della Provvidenza- tocca proprio il
“punto debole” dell’Innominato, il suo più grande
timore, il limite che non sarebbe mai riuscito a
superare: la morte! L’Innominato ormai, mosso
davvero a compassione dalle suppliche accorate di
quella sventurata innocente, cercava di trovare un
motivo con cui giustificare, innanzitutto a sé stesso
e alla sua coscienza, il misfatto che avrebbe dovuto
compiere:
“-Oh perché non è figlia d’uno di que’ cani che
m’hanno bandito! – pensava l’Innominato: - d’uno di
que’ vili che mi vorrebbero morto! che ora godrei di
questo suo strillare; e in vece...- “
Il narratore onnisciente, riportando i confusi e
contrastati pensieri dell’Innominato sotto forma di
monologo interiore, tecnica che prenderà piede e di
cui sarà pervasa la “notte dell’Innominato”, ci
mostra come, ormai pervaso dalla compassione,
cerchi invano un motivo “valido”, “ragionevole”, o
quantomeno che la sua coscienza possa accettare
senza poi perseguitarlo, per consegnare la povera
Lucia a don Rodrigo e abbandonarla al suo destino.
In questo momento tuttavia si coglie velatamente, in
linea con l’ideale manzoniano di una ideale fusione
tra ragione e fede, come anche la ragione venga in
soccorso alla compassione, come anche la ragione
venga in soccorso, in un certo qual modo, alla
“fede”! Ed è a questo punto che Lucia, voce della
Provvidenza, rivolge un solenne monito
all’Innominato, ma non un monito qualunque:
“- ...ma lei! ... Forse un giorno anche lei...Ma no, no;
pregherò sempre io il Signore che la preservi da
ogni male. - “
Queste parole lasciate sospese, a riecheggiare nel
vuoto e nella mente dell’Innominato, “Forse un
giorno anche lei...”, seppur subito “coperte” dalla
bontà d’animo di Lucia, risuonano MINACCIOSE e
SOLENNI, e costituiscono un palese rimando a
quelle fatidiche parole rivolte da Fra Cristoforo a
don Rodrigo...Mettendo in guardia velatamente ma
con innegabile intensità dall’infallibile e incombente
azione della Giustizia Divina, che vede e conosce
ogni cosa e ogni peccato, che è pronta a giudicare
l’operato di ogni uomo, queste parole ne denotano e
ne esaltano grandemente tutta la potenza e
l’infallibilità, destando nell’Innominato un incredibile
reazione:
“-Via, fatevi coraggio- interruppe l’Innominato, con
una dolcezza che fece strasecolar la vecchia. –V’ho
fatto nessun male? V’ho minacciata? -“
E’ la prima volta che un termine NETTAMENTE
POSITIVO, come, per l’appunto, “dolcezza”, viene
associato all’Innominato, a quel “terribile uomo”,
segno del profondo cambiamento che le parole di
Lucia stanno instillano in lui. A maggior
dimostrazione di ciò, vediamo addirittura
“strasecolar la vecchia” domestica dell’Innominato,
che più di tutti aveva conosciuto il “vecchio
Innominato” e aveva potuto notare gli effetti del
drastico e radicale mutamento in atto, tanto da
stentare davvero a credervi. Manzoni difatti, la
mattina dopo, utilizzerà ancora una volta i pensieri
della vecchia per sottolineare e far emergere in
maniera evidente, anche da un altro punto di vista,
alquanto “esterno” e “distaccato” dalla vicenda ma
che era stato vicino alla personalità dell’Innominato,
la drasticità dei cambiamenti in atto nell’animo di
quest’ultimo, esasperando il carattere “miracoloso”
e, per l’appunto, “Provvidenziale”, della sua futura
conversione, quando la vecchia arriva a pensare,
per giustificare gli “strani” comportamenti di lui
verso Lucia, “che sia una qualche principessa
costei?”
Ormai dunque letteralmente impossibilitato, come
abbiamo visto, a causa della sua coscienza, che
grazie all’agire della Provvidenza gli imponeva dei
“no imperiosi”, a consegnare Lucia a don Rodrigo,
l’Innominato le promette di liberarla la mattina
seguente, ed è proprio durante la notte, come
avviene nel corso del romanzo per altri personaggi,
secondo quella che è una vera e propria tecnica, di
Romantica ispirazione, del Manzoni, come Renzo,
don Abbondio e don Rodrigo, che si consuma
drammaticamente l’apogeo della crisi interiore del
personaggio, dilaniato dai contrasti ormai
esasperanti nel suo animo. Costruita in modo
dichiaratamente parallelo a quella di Lucia, in cui
assistiamo al celebre “voto di castità”, si apre ora la
scena della “notte dell’Innominato”, uno dei brani più
drammatici ed emozionanti del romanzo. Attraverso
un serrato monologo interiore, tecnica già prediletta
dal Manzoni in altre “notti”, come quella di Renzo, in
quanto efficace espressione, mediante anche la
sintassi paratattica che ne consegue, della
confusione, dell’agitazione, del sommovimento
interiore del personaggio, vi si concentra
l’esasperazione della crisi morale e spirituale della
vita intera di una personalità forte, complessa ed
enigmatica come quella del misterioso e violento
signore, ponendo peraltro in risalto i principali valori
morali e ideologici dello stesso autore. E nel
tormento fatale della coscienza comincerà ad
annunciarsi la redenzione miracolosa della
conversione:
“Ma la rimembranza di tali imprese, non che gli
ridonasse la fermezza, che già gli mancava, di
compir questa; non che spegnesse nell’animo quella
molesta pietà; vi destava in vece una specie di
terrore, una non so qual rabbia di pentimento.”
Nel ricordo delle criminali azioni del passato
l’Innominato, anziché, come accadeva fino a poco
prima, esser riconfermato e rinvigorito nella propria
spietata determinazione, trovava l’acuirsi di quella
“molesta pietà”, ma anche e soprattutto un
sentimento del tutto nuovo: una “rabbia di
pentimento”, un “furioso desiderio” di redimersi...
“-...le posso anche dire: perdonatemi...Perdonatemi?
Io domandar perdono? a una donna? io...! –“
Il tormentato monologo interiore si accende,
rispecchiando a portando a galla tutti i contrasti
interiori presenti nell’animo dell’Innominato. Egli è
ora davvero fortemente combattuto e questa nuova
“rabbia di pentimento”, il desiderio di chiedere
perdono a Lucia e di pentirsi per le nefaste azioni
del passato, si insinua nel suo animo.
E così dunque, analogamente a come accadrà nella
notte di don Rodrigo (“le coperte gli parvero una
montagna”), Manzoni ci presenta ora un ambiente,
fortemente connotato allo stato d’animo del
personaggio, in cui quel senso di pesantezza, di
gravezza, che avevamo già notato insinuarsi
nell’Innominato nel capitolo precedente (“il crescere
e il crescere d’un peso già incomodo”), dovuto al
fardello del rimorso per gli efferati crimini del
passato, giunto a causa della prospettiva di un
Giudizio Divino, arriva ora alla sua esasperazione,
con il letto che diviene “duro duro”, le coperte che
si fanno “pesanti pesanti”, in linea con i drammatici
contrasti interiori giunti anch’essi al loro apice:
“Tutto gli appariva cambiato: ciò che altre volte
stimolava più fortemente i suoi desideri, ora non
aveva più nulla di desiderabile: la passione, come un
cavallo divenuto tutt’a un tratto restìo per un’ombra,
non voleva più andare avanti.”
Ed ecco il momento fondamentale in cui diviene
esplicito e chiaro, nell’animo dell’Innominato,
l’arrestarsi della “passione”, della PERVERSIONE,
dell’irrazionale desiderio di fare del male, “step” di
prioritaria importanza, per l’Illuminista Manzoni, nel
tormentato cammino verso la conversione.
“Il tempo gli s’affacciò davanti voto d’ogni intento,
d’ogni occupazione, d’ogni volere, pieno soltanto di
memorie intollerabili; tutte l’ore somiglianti a quella
che gli passava così lenta, così pesante sul capo.”
E in uno dei momenti più drammatici e dolorosi
dell’episodio, anche persino la percezione del
tempo, in linea con l’atmosfera sempre più
intollerabilmente pesante, gravosa, si distorce,
rallenta inesorabilmente, trasforma la realtà della
narrazione in un qualcosa di terribilmente
opprimente, per l’Innominato come anche per il
lettore stesso, rendendo ancor più estenuanti, ancor
più logoranti, ancor più drammatiche quelle ore in
cui il tarlo del rimorso si faceva strada ineluttabile
con forza nel suo animo, presentando una visione
del futuro in cui la “vuotezza” delle ore, del tempo,
“d’ogni volere e occupazione”, rifletteva la
tremenda, assoluta e drammatica vacuità morale e
spirituale in cui l’Innominato era finora vissuto.
Ed è in questo scenario che si fa strada un
sentimento ancor più stravolgente, innegabile
segnale di un drastico e radicale cambiamento: il
ribrezzo, il disgusto, la repulsione, lo “schifo” per
l’ambiente marcio e malvagio in cui l’Innominato
viveva, tanto che “l’idea di rivederli”, i suoi bravi,
“di trovarsi tra loro, era un nuovo peso, un’idea di
schifo e d’impiccio.”
“-...e don Rodrigo? Chi è don Rodrigo? -
A guisa di chi è colto da una interrogazione
inaspettata e imbarazzante d’un superiore,
l’innominato pensò subito a rispondere a questa che
s’era fatta lui stesso, o piuttosto quel nuovo lui, che
cresciuto terribilmente a un tratto, sorgeva come a
giudicare l’antico.”
Dimostrando una sensibilità psicologica davvero
notevole e ragguardevole, se pensiamo ai tempi, il
Manzoni qui fa magistralmente mostra del massimo
esempio di quella che è una vera e propria scissione
psicologica, una situazione davvero unica all’interno
del romanzo, nella sua immane complessità,
drammaticità, drasticità e nell’immensa carica
morale ed emotiva che porta con sé: in questo punto
si palesa infatti per la prima volta e in modo
esplicito la nuova natura, la nuova personalità, il
nuovo “io” dell’Innominato, e viene messo più che
mai in evidenza il violento e sanguinoso scontro in
atto tra quest’ultimo e la sua antica natura malvagia.
Mai, in tutto il romanzo, avevamo assistito a
contrasti interiori tanto intensi e drammatici; mai, in
tutto il romanzo, avevamo assistito a mutamenti
d’animo così radicali e dinamici; mai, in tutto il
romanzo, avevamo assistito ad una cotanta
dimostrazione di forza e potenza da parte della
Provvidenza, che riuscirà infine ad entrare persino
nell’animo del più criminale tra i criminali, del più
usurpatore tra gli usurpatori, del “terribile uomo” di
cui mai avremmo creduto possibile una conversione,
o soltanto un accenno di crisi spirituale, nel
momento della sua presentazione al lettore.
“...e il tormentato esaminator di sé stesso, per
rendersi cagione d’un sol fatto, si trovò ingolfato
nell’esame di tutta la sua vita. Indietro, indietro,
d’anno in anno, d’impegno in impegno, di sangue in
sangue, di scelleratezza in scelleratezza: ognuna
ricompariva all’animo consapevole e nuovo, separata
da’ sentimenti che l’avevan fatta volere e
commettere; ricompariva con una mostruosità che
que’ sentimenti non avevano allora lasciato scorgere
in essa.”
Inizia qui, in uno dei momenti più drammatici e di
maggiore tensione emotiva, morale e spirituale di
tutto il romanzo, l’ “esame di coscienza”
dell’Innominato, pilastro della sua metamorfosi
spirituale, che lo obbligherà ad affrontare, con un
animo “consapevole e nuovo”, gli orrori e rimorsi di
una vita intera. Nella solitudine opprimente della
notte, l’ “onnipotente” signore scopre la solitudine
della sua esistenza, e sente agitarsi nella coscienza i
mostri degli orrori che popolano il suo passato e
presente. E’ un processo doloroso, straziante,
terribilmente gravoso, “schiacciante”, che lo porta
ai limiti della realtà e dell’annullamento definitivo: la
morte, il suicidio...
“e...al momento di finire una vita divenuta
insopportabile, il suo pensiero sorpreso da un
terrore, da un’inquietudine, per dir così, superstite,
si slanciò nel tempo che pure continuerebbe a
scorrere dopo la sua fine...Anche le tenebre, anche
il silenzio, gli facevan veder nella morte qualcosa di
più tristo, di spaventevole; gli pareva che non
avrebbe esitato, se fosse stato di giorno, all’aperto,
in faccia alla gente: buttarsi in un fiume e sparire. E
assorto in queste contemplazioni tormentose,
andava alzando e ribassando, con una forza
convulsiva del pollice, il cane della pistola; quando
gli balenò in mente un altro pensiero. – Se quell’altra
vita di cui m’hanno parlato quand’ero ragazzo, i cui
parlano sempre, come se fosse cosa sicura; se
quella vita non c’è, se è un’invenzione de’ preti; che
fo io? perché morire? cos’ importa quello che ho
fatto? cos’importa? è una pazzia la mia... E se c’è
quella vita...! - “
Sull’orlo dell’abisso della propria coscienza, mentre
le tenebre della notte sembrano avvolgerlo,
comprimerlo, schiacciarlo, esasperando i suoi timori,
il suo rimorso, il suo dolore, in un momento che è di
massima tensione psicologica e in cui sembra quasi
che l’Innominato non riuscirà a sopravvivere a sé
stesso, ai contrasti interiori tanto aspri che lo
dilaniavano, al peso del rimorso tanto gravoso,
opprimente e intollerabile, gli si apre
miracolosamente, all’improvviso, una nuova
prospettiva, la prospettiva di una vita dopo la morte.
E’ l’annuncio del risvegliarsi di un antico sentimento
religioso, ma di certo non è ancora per lui una
promessa di salvezza, tante sono le mostruose colpe
da scontare. Intuirne però l’esistenza è già il
segnale, per quanto confuso e contraddittorio, di un
cammino intrapreso. Ma subito, “a un tal dubbio, a
un tal rischio, gli venne addosso una disperazione
più nera, più grave, dalla quale non si poteva
fuggire, neppur con la morte.” Egli si rende conto di
non poter FUGGIRE dal peso opprimente del
rimorso, dai suoi misfatti, dagli orrori del suo
passato, si dispera ancor più poiché si rende conto
di doverli AFFRONTARE, e di non potervi scappare,
poiché non vi riuscirebbe, nemmeno con la morte:
deve dunque combatterli a viso aperto, per
superarli, deve scontarsi in maniera ancor più
intensa col suo “vecchio io”, ma non ne trova la
forza né i mezzi... Fino a quando, la voce della
Provvidenza ritorna a riecheggiare nella sua mente,
con le parole di Lucia:
“-Dio perdona tante cose, per un’opera di
misericordia! – E non gli tornavan già con
quell’accento d’umile preghiera, con cui erano state
proferite; ma con un suono pieno d’autorità, e che
insieme induceva una lontana speranza. Fu quello un
momento di sollievo.”
Ed è in questa situazione di totale disperazione, di
oppressione psicologica ormai insopportabile per il
peso dei propri peccati, che finalmente, quando la
notte è ormai giunta al termine, si palesa la luce, che
è il bagliore dell’infinita Misericordia di Dio, che si
serve delle parole di Lucia per giungere finalmente
in tutta la sua stravolgente pienezza al cuore
dell’Innominato, che ne assume finalmente
consapevolezza. Tali parole sono tuttavia proferite
ora con un “suono pieno d’autorità”, segno
inequivocabile della potenza e dell’autorità del
Signore, che si fa vivo e presente a “rischiarare” la
notte dell’Innominato, a porsi faro per la sua nave
che stava andando alla deriva nelle tenebre e
rischiava di schiantarsi contro la scogliera. Tali
parole inducono inoltre, soprattutto, una “lontana
speranza”, emblema di come il processo di
conversione dell’Innominato sia tutt’altro che
concluso, anzi come sia appena all’inizio, ma come si
sia acceso finalmente nel suo animo, seppur molto
timidamente, il bagliore della FEDE, destinato poi ad
inondarlo interamente in tutto il suo splendore con
l’episodio fondamentale dell’incontro con il
Cardinale. Dalla “discesa agli inferi”, dalla catabasi
avvenuta nella notte dell’Innominato, prende dunque
avvio la sua rinascita spirituale, attraverso quel Dio
che ha ormai iniziato a portare luce nel suo animo,
ancora dilaniato dal peso del rimorso e dai contrasti
interiori. Ma la confusione, lo sbigottimento, il
disorientamento derivati da una tale presa di
consapevolezza di Dio e di coscienza spirituale sono
tali:
“Ora si proponeva d’abbandonare il castello, e
d’andarsene in paesi lontani, dove nessun lo
conoscesse, neppur di nome; ma sentiva che lui, lui
sarebbe sempre con sé; ora gli rinasceva una fosca
speranza di ripigliar l’animo antico, le antiche voglie;
e che quello fosse come un delirio passeggero; ora
temeva il giorno, che doveva farlo vedere a’ suoi
così miserabilmente mutato; ora lo sospirava, come
se dovesse portar la luce anche ne’ suoi pensieri.”
Lo schema ripetitivo, anaforico di “ora” mette in
luce difatti proprio il disorientamento del “nuovo
Innominato”, non ancora del tutto “nuovo”, ancora
scisso, diviso, contrastato, tra il nuovo e il vecchio
“io”, con i crimini del passato che ancora incombono
sulla sua coscienza, dal momento che ancora
“sentiva che lui”, il suo “vecchio lui”, “sarebbe
sempre con sé”, se ora fosse scappato, se avesse
lasciato tutto. E’ qui che per la prima volta diviene
chiaro come ci sia bisogno, per portare davvero a
compimento un reale, profondo e radicale processo
di conversione, che avrebbe permesso
all’Innominato una “nuova vita”, che gli avrebbe dato
la possibilità di poter redimersi e guardare con
maggiore “distacco” al proprio passato, separandosi
dal rimorso che lo attanagliava nella mente e
nell’animo, di un intervento della Provvidenza ancor
più deciso di quello avvenuto “per mezzo” di Lucia,
che provocasse non solo “sommovimento”, ma un
reale “cambiamento”! La fine della notte
dell’Innominato coincide però con il sopraggiungere
di una “strana”, “misteriosa”, allegria in paese; i
contrasti interiori sono ancora vivi all’interno del
suo animo, tuttavia questi pare ora intenzionato ad
imboccare una nuova strada. L’arrivo dell’alba non è
dunque la fine, né il centro della conversione
dell’Innominato, ma soltanto la conclusione del suo
teso e tormentato inizio. La “valle in festa” pare
tuttavia quasi anticipare, in un certo qual modo,
l’avvicinarsi di un qualcosa di positivo, sembra quasi
la promessa di una qualche imprevedibile,
miracolosa, PROVVIDENZIALE soluzione ai tormenti
esistenziali dell’Innominato.
Si apre difatti di lì a poco l’episodio culminante della
sua vicenda: la profonda crisi spirituale e morale del
“povero signore” troverà infatti soluzione in una
miracolosa conversione religiosa, che rappresenta
l’elemento caratterizzante del personaggio
dell’Innominato, forse ancor più della stessa
misteriosa ed enigmatica “mancanza di nome”. Nel
sistema dei personaggi in tal modo, a seguito della
conversione, fondamentale dunque anche da un
punto di vista “narrativo” oltre che emblematico e
morale, l’Innominato, da “volto del male”, “eroe del
male”, da personaggio antagonista e negativo,
diverrà “volto della conversione” e assumerà così il
ruolo positivo di principale aiutante dei promessi
sposi. Insieme all’Innominato comparirà ora e agirà
come potente personaggio positivo il cardinale
Federigo Borromeo, l’arrivo del quale era il motivo
per cui “la valle” si trovasse “in festa”, e ultimo,
nell’ordine, dei quattro principali ed emblematici
personaggi ecclesiastici che Manzoni ci presenta nel
corso del romanzo, dopo Don Abbondio, Fra
Cristoforo e la Monaca di Monza. Il cardinale,
emblema dell’alto clero connotato positivamente,
rappresenta una delle figure di maggior fascino
intellettuale e forza spirituale dell’opera. Egli
incarna, ai massimi livelli della gerarchia
ecclesiastica, i più profondi valori della fede
cristiana: l’umiltà, la povertà, la vita sacerdotale
come missione al servizio dei più deboli, oltre che
un sensazionale spirito di carità; e, insieme a questi,
rivela personali doti di sensibilità umana, di
intelligenza psicologica, di passione culturale.
Spinto da una “risoluzione misteriosa”, anche
l’Innominato, tra gli altri, decide di recarsi in paese,
ove una folla si era radunata per l’arrivo del celebre
cardinale, cugino, peraltro, di San Carlo Borromeo.
Dopo una lunga digressione biografica, durata un
intero capitolo, sulla figura del cardinale Federigo,
la narrazione riprende: l’Innominato, preceduto dalla
sua oscura fama, ha chiesto di incontrare il
cardinale, ma il cappellano a cui si è rivolto pare
alquanto scettico e inquietato. La reazione di
Federigo, in risposta alle perplessità del cappellano,
dovute alla reputazione criminale dell’Innominato,
acquista un valore spirituale straordinario, in linea
con il “miracolo” che si sta preparando:
“-E non è una fortuna per un vescovo, che a un tal
uomo sia nata la volontà di venirlo a trovare? -“
Il Cardinale Borromeo appare fin da subito come un
personaggio dalla connotazione fortemente positiva,
privo di pregiudizi e ben lieto di poter aver
l’OPPORTUNITA’ di parlare con una “pecora nera”,
dimostrando di non rifiutare mai il dialogo con il
prossimo, ed anzi ritenendo questo che stava per
aver luogo una vera e propria FORTUNA, in quanto
avrebbe potuto rappresentare un’occasione di
crescita spirituale per un bandito tanto efferato, a
cui doveva essere rivolto in maniera particolare il
messaggio di Dio. Dalle parole del cardinale appare
infatti come quest’ultimo POSSA e DEBBA essere
destinato SENZA ALCUNA DISTINZIONE ad ogni
uomo: al pari di Cristo che si recava a casa dei
pubblicani, il cardinale Borromeo, dimostrando
dunque di seguire con estremo spirito di fede e
dedizione l’esempio di Gesù, accoglie con gioia
l’incontro con un uomo che si è perso nel peccato,
che ha smarrito la Via del Signore. E alle continue
resistenze del cappellano, che insinua che
l’Innominato possa essere giunto per ucciderlo, egli
risponde:
“-Oh che disciplina è codesta,- interruppe ancora
sorridendo Federigo,-che i soldati esortino il
generale ad aver paura? – Poi, divenuto serio e
pensieroso, riprese: -san Carlo non si sarebbe
trovato nel caso di dibattere se dovesse ricevere un
tal uomo: sarebbe andato a cercarlo. Fatelo entrar
subito: ha già aspettato troppo. - “
La metafora sui soldati evidenzia ancor più ora tutta
la dedizione del Cardinale Borromeo nell’adempiere
alla sua missione apostolica, quasi fosse, per
l’appunto, un dovere militare. E la virtù dell’uomo
pare aumentare ancor più quando dimostra
apertamente di trarre esempio ed ispirazione dal
cugino, san Carlo Borromeo, il quale, da buon
pastore, non avrebbe esitato, dopo aver condotto il
gregge con fatica al sicuro a casa, a darsi pena e ad
andare a cercare anche e soprattutto quell’unica
pecorella smarrita.
Appare ora chiaro, dunque, come il cardinale
Borromeo sarà effettivamente lo strumento con cui
la Provvidenza realizzerà finalmente la conversione
dell’Innominato:
“Appena introdotto l’Innominato, Federigo gli andò
incontro, con un volto premuroso e sereno, e con le
braccia aperte, come una persona desiderata.”
E’ evidente anche da quest’accoglienza densa
d’amore fraterno verso il prossimo, qualunque esso
sia, come l’episodio che ne seguirà sarà il CENTRO
della conversione dell’Innominato, ad opera di un
uomo aperto al perdono e al dialogo, privo di ogni
pregiudizio, saggio e dalla grande sensibilità
psicologica, che si renderà dunque “voce di Dio” e
mezzo con cui la Provvidenza giungerà, questa volta
in maniera piena e completa, al cuore
dell’Innominato. E non ci sarebbe potuto essere
uomo migliore del cardinale Borromeo ad assolvere
a questo delicato e prezioso compito, lieto com’ è di
poter avere la possibilità, l’opportunità, la gioia e la
fortuna, da convinto “apostolo” del Signore e
dunque messaggero di conversione quale egli è, di
condurre una pecora che si era smarrita sulla Via
della Verità e della Fede in Dio.
“L’ Innominato, ch’era stato portato lì per forza da
una smania inesplicabile, piuttosto che condotto da
un determinato disegno, ci stava anche come per
forza, straziato da due passioni opposte, quel
desiderio e quella speranza confusa di trovare un
refrigerio al tormento interno, e dall’altra parte una
stizza, una vergogna di venir lì come un pentito,
come un sottomesso, come un miserabile, a
confessarsi in colpa, a implorare un uomo.”
Viene ora ripresentata al lettore, come per
riavvolgere, in un certo qual modo, il filo del
discorso, dopo il capitolo di digressione dedicato al
cardinale, la complessa e contrastata condizione
dell’animo dell’Innominato, ora diviso tra la speranza
di poter trovare nel cardinale Borromeo parole di
“refrigerio”, di conforto, di sollievo, e l’irritazione,
lo sdegno, suscitati dal suo “vecchio io”, per esser
giunti a “implorare un uomo.” E’ a questo punto
tuttavia che interviene il cardinale Borromeo, la cui
sola presenza, in linea col suo ruolo di “apostolo” di
Dio, basta a riempire l’atmosfera e l’animo
dell’Innominato di sentimenti e sensazioni del tutto
nuove:
“Però, alzando gli occhi in viso a quell’uomo, si
sentiva sempre più penetrare da un sentimento di
venerazione imperioso e soave, che, aumentando la
fiducia, mitigava il dispetto, e senza prender
l’orgoglio di fronte, l’abbatteva, e, dirò così,
gl’imponeva il silenzio. La presenza di Federigo era
infatti di quelle che annunziano una superiorità, e la
fanno amare.”
Mentre in quest’ultima frase cogliamo, nel cardinale
Borromeo, il “riflesso” di Dio stesso, è in due
emblematici aggettivi che sono racchiuse le “due
connotazioni” principali di Dio così come è concepito
da Manzoni, che non sono tuttavia assolutamente in
contrasto, ma anzi, al contrario, costituiscono un
perfetto e, per l’appunto, divino connubio: da un lato
vi è “imperioso”, l’aggettivo più associato a Dio
durante tutta la vicenda dell’Innominato (ricordiamo
i “no imperiosi” che riecheggiavano nella sua
mente), giacché indica quell’AUTORITA’,
quell’INFALLIBILITA’, quell’Onnipotenza, quella
VOLONTA’ ASSOLUTA da cui nemmeno il potente
Innominato può sottrarsi, e che ora pervade il suo
animo in tutta la sua straordinaria e stravolgente
intensità emotiva e morale; dall’altro lato troviamo
quindi l’aggettivo “soave”, che accanto alla
POTENZA di Dio, mette in risalto la sua “dolcezza”,
la sua amorevolezza, quasi la sua “tenerezza”, il suo
essere Padre buono di tutti gli uomini, la sua infinita
Misericordia, quella “lontana speranza”, ora non più
tanto lontana, suscitata da quel “suono pieno di
autorità” con cui le parole di Lucia riecheggiavano
nella mente dell’Innominato, e, soprattutto, quel Dio
che, evocato dalle stesse parole di Lucia, “perdona
tante cose, per un’opera di misericordia!”, parole
che mettono a fuoco, tra l’altro, quel rapporto tra i
sentimenti del perdono e della carità che illuminano
lo spirito cristiano. E al “sentimento di venerazione
soave e imperioso” che entra nell’animo
dell’Innominato segue subito, e non a caso, il ritratto
del Cardinale Borromeo, compiuto proprio
attraverso gli occhi dell’Innominato:
“Il portamento era naturalmente composto, e quasi
involontariamente maestoso, non incurvato né
impigrito punto dagli anni; l’occhio grave e vivace, la
fronte serena e pensierosa; con la canizie, nel
pallore, tra i segni dell’astinenza, della meditazione,
della fatica, una specie di floridezza verginale: tutte
le forme del volto indicavano che, in altre età, c’era
stata quella che più propriamente si chiama bellezza;
l’abitudine de’ pensieri solenni e benevoli, la pace
interna d’una lunga vita, l’amore degli uomini, la
gioia continua d’una speranza ineffabile, vi avevano
sostituita una, direi quasi, bellezza senile, che
spiccava ancor più nella magnifica semplicità della
porpora.”
Oltre ad essere un ritratto che conferisce una
connotazione davvero decisamente e fortemente
positiva del personaggio, sotto ogni punto di vista, il
ritratto di Federigo mette in evidenza il connubio in
lui presente tra AUTOREVOLEZZA e VIVACITA’
INTERIORE (l’occhio grave e vivace), tra
SERENITA’, ARMONIA d’animo e RIFLESSIVITA’,
meditazione, ponderazione (la fronte serena e
pensierosa), mentre quella “magnifica semplicità
della porpora” è emblema del suo grande potere,
unito ed esercitato tuttavia con grande, mirabile
umiltà e spirito di abnegazione. Il ritratto del
cardinale Borromeo, che sarà la Voce di Dio e
compirà un vero e proprio “miracolo” con la
conversione dell’Innominato, è difatti alquanto
“santificato”, ed è fortemente associato alla
concezione manzoniana di Dio, che è peraltro, non a
caso, appena venuta fuori, con quel “sentimento di
venerazione imperioso e soave”: e non è casuale
nemmeno come il “santo” Federigo venga proprio
presentato attraverso gli occhi dell’Innominato, il
destinatario del “miracolo” che Dio compirà per
mezzo e grazie a lui. L’inizio del dialogo tra
l’Innominato e il Cardinale è ora immediatamente
caratterizzato da parole di Federigo di grande
intensità emotiva:
“-E questa consolazione ch’ io sento, e che, certo,
vi si manifesta nel mio aspetto, vi par egli ch’ io
dovessi provarla all’annunzio, alla vista d’uno
sconosciuto? Siete voi che me la fate provare; voi
dico, che avrei dovuto cercare; voi, de’ miei figli,
che pure amo tutti e di cuore, quello che avrei più
desiderato d’accogliere e d’abbracciare, se avessi
creduto di poterlo sperare. Ma Dio sa fare Egli solo
le maraviglie, e supplisce alla debolezza, alla
lentezza de’ suoi poveri servi.”
E abbiamo qui un primo, stravolgente esempio della
magistrale e straordinaria abilità oratoria del
cardinale Borromeo, che, santo, pare davvero
prestare la sua Voce al Signore, tanta è l’intensità
emotiva e morale delle sue parole, che si fa per
mezzo di queste stesse parole portatore
simultaneamente di valori di fede come l’umiltà, la
consapevolezza dei propri limiti e della propria
costante imperfezione, in contrasto con la
Perfezione Assoluta di Dio, l’amore incondizionato
verso il proprio prossimo, ma soprattutto rivendica
con queste parole, con una sincerità quasi
commovente, il proprio ruolo di “pastore di anime”,
dimostrando persino afflizione, dolore, rammarico
nel momento in cui l’Innominato, “pecorella
smarrita” giunge da lui, invece di essere avvenuto il
contrario. L’assaggio di discorso del cardinale
Borromeo all’Innominato incarna peraltro
pienamente la concezione religiosa del Manzoni
stesso, che dunque, come con Fra Cristoforo,
attraverso Federigo espone ed esplicita i propri
ideali di fede.
“L’innominato stava attonito a quel dire così
infiammato, a quelle parole, che rispondevano tanto
risolutamente a ciò che non aveva ancor detto, né
era ben determinato di dire; e commosso ma
sbalordito, stava in silenzio.”
L’Innominato altro non può fare se non restare
“commosso” e al contempo “sbalordito”, così come
il lettore, del resto, da queste parole così dense di
fede, di amore, di carità, che, MIRACOLOSAMENTE,
“rispondevano tanto risolutamente a ciò che non
aveva ancor detto.”
E quando l’Innominato, con le sue prime parole,
domanda al cardinale Borromeo dove sia Dio, egli
risponde:
“-Voi me lo domandate? voi? E chi più di voi l’ha
vicino? Non ve lo sentite in cuore, che v’opprime,
che v’agita, che non vi lascia stare, e nello stesso
tempo v’attira, vi fa presentire una speranza di
quiete, di consolazione, d’una consolazione che sarà
piena, immensa, subito che voi lo riconosciate, lo
confessiate, lo imploriate? -“
E’ sempre più sconvolgente e miracoloso come il
cardinale riesca a comprendere lo stato d’animo
dell’Innominato, rivelando anche una grandissima
sensibilità psicologica, e a spingere fin da subito il
suo cuore verso Dio, con parole che non potrebbero
essere più adatte alla complessa situazione
piscologica del signore.
“-Ma quando voi stesso sorgerete a condannare la
vostra vita, ad accusar voi stesso, allora! allora Dio
sarà glorificato! E voi domandate cosa Dio possa far
di voi? Chi sono io pover’ uomo, che sappia dirvi fin
d’ora che profitto possa ricavar da voi un tal
Signore? cosa possa fare di codesta volontà
impetuosa, di codesta imperturbata costanza, quando
l’abbia animata, infiammata d’amore, di speranza, di
pentimento? Chi siete voi, pover’ uomo, che vi
pensiate d’aver saputo da voi immaginare e fare
cose più grandi nel male, che Dio non possa farvene
volere e operare nel bene? – “
Il messaggio assai profondo del cardinale racchiude
ora la risposta a gran parte dei tormenti, dei dubbi e
dei timori che avevano afflitto l’Innominato: esso
manifesta chiaramente ed esplicita con decisione e
con un’enorme carica emotiva come l’Innominato,
pentendosi, “accusando sé stesso” e godendo della
Infinita Misericordia di Dio potrà quindi sfruttare i
doni e le qualità che il Signore stesso gli ha donato,
“volontà impetuosa”, “imperturbata costanza”, al
servizio del bene, per fare “grandi cose nel bene”,
permettendogli di intraprendere un cammino di vera
redenzione con cui cancellare pian piano gli
opprimenti e gravosi rimorsi per le azioni del
nefasto passato, doti che finora aveva invece
impiegato “per fare grandi cose nel male”, per fini
criminali e delittuosi, per raggiungere una
condizione di isolata e violenta superiorità che
tuttavia si era rivelata inutile, anzi, perniciosa, e che
si era pian piano sgretolata insieme a tutta la sua
“filosofia di vita”, scaturendo in uno stato di
“solitudine tremenda”, innanzi alla prospettiva della
morte e di un Giudizio Divino infallibile e
incombente, che questi tuttavia, al termine di un
lungo processo di redenzione che lo avrebbe
condotto verso Dio, non avrebbe più dovuto
assolutamente temere. La condizione di “santità” del
cardinale Federigo si fa tuttavia pienamente visibile,
in tutta la sua interezza, con queste parole:
“-Oh pensate! se io omiciattolo, io miserabile, e pur
così pieno di sé stesso, io qual mi sono, mi struggo
ora tanto della vostra salute, che per essa darei con
gaudio questi pochi giorni che mi rimangono; oh
pensate! quanta, quale debba essere la carità di
Colui che m’infonde questa così imperfetta, ma così
viva; come vi ami, come vi voglia Quello che mi
comanda e m’ispira un amore per voi che mi
divora!- “
Queste parole, che rappresentano uno dei punti più
intensi, da un punto di vista emotivo e morale, del
romanzo tutto, altro non rappresentano se non tutti
quegli elementi venuti fuori dalla personalità di
Federigo portati ora, racchiusi tutti insieme in
queste poche frasi ma tanto appassionate, al loro
apogeo, alla loro massima esaltazione, conferendo
l’immagine di un Federigo talmente “santo” ,
talmente “buon pastore”, talmente scrigno che
racchiude al suo interno tutti i valori della fede
cristiana nella loro forma più pura e assoluta, da
essere disposto a dare la propria vita per
l’Innominato, per una “pecorella smarrita”, affinché
si converta e imbocchi finalmente la Via del Signore,
quella stessa Via che ha condotto lui ad una tale
condizione di “santità”. E l’incredibile e ancor più, se
possibile, miracolosa reazione dell’Innominato a
parole d’una tale forza, d’un tale vigore, non si fa
attendere:
“La faccia del suo ascoltatore, di stravolta e
convulsa, si fece da principio attonita e intenta; poi
si compose a una commozione più profonda e meno
angosciosa; i suoi occhi, che dall’infanzia più non
conoscevan le lacrime, si gonfiarono; quando le
parole furon cessate, si coprì il viso con le mani, e
diede in un dirotto pianto, che fu come l’ultima e più
chiara risposta.”
La MIRACOLOSA, incredibile reazione
dell’Innominato è massima dimostrazione di come
anche colui che era stato il più terribile tra i
criminali possa alla fine giungere a un pianto di
sincera commozione innanzi ad una manifestazione
così piena, così completa, così sincera, così pura
come quella delle parole di Federigo di tutto
l’infinito amore e l’infinita Misericordia di Dio.
Lacrime queste, che, oltre a essere esaltazione della
potenza della Provvidenza, che è riuscita a
penetrare in tutta sua stravolgente intensità alla
fine, grazie alla “santità” delle parole del cardinale,
anche in un animo tanto oscuro, sono emblema di un
FORTE, FORTISSIMO PENTIMENTO e DESIDERIO
di REDENZIONE da parte dell’Innominato, che ha
finalmente spalancato gli occhi, sempre grazie alle
parole del cardinale tanto dense di amore e di carità,
alla LUCE DI DIO, in tutto il suo splendore. E lo
stesso Borromeo, anch’egli probabilmente colpito da
una tale reazione, la definisce un MIRACOLO, un
“giocondo prodigio”.
“-Lasciate- disse Federigo, prendendola con
amorevole violenza, -lasciate ch’ io stringa codesta
mano che riparerà tanti torti, che spargerà
beneficenze, che solleverà tanti afflitti, che si
stenderà disarmata, pacifica, umile a tanti nemici.-“
L’ossimoro dall’altissimo valore emblematico
“amorevole violenza” denota come anche il gesto
“violento”, un po’ “focoso” del “santo” Federigo
risulti alla fine essere pervaso di amore, dell’amore
di Dio che abbiamo visto e vediamo manifestarsi
sempre più per mezzo di lui, e che altro non fa che
accentuare la sua connotazione di vero e proprio
santo. In queste ultime parole, stringendo la mano
del “nuovo Innominato”, Borromeo sigilla, facendo le
veci di Dio stesso, l’inizio di un legame che mai più
si spezzerà tra Questi e l’Innominato, sigillo
“coronato” ed arricchito da questa “profezia”, che
un po’ anticipa quel che sarà il ruolo fondamentale
svolto dal nobile a difesa del bene nella vicenda. E
ancor più commovente, significativo ed intenso del
pianto dell’Innominato è l’abbraccio tra questi e il
cardinale:
“Così dicendo, stese le braccia al collo
dell’Innominato; il quale, dopo aver tentato di
sottrarsi, e resistito un momento, cedette, come
vinto da quell’impeto di carità, abbracciò anche lui il
cardinale, abbandonò sull’omero di lui il suo volto
tremante e mutato. Le sue lacrime ardenti cadevano
sulla porpora incontaminata di Federigo; e le mani
incolpevoli di questo stringevano affettuosamente
quelle membra, premevano quella casacca, avvezza
a portar l’armi della violenza e del tradimento.”
Manzoni, attraverso questa scena, mette innanzitutto
in evidenza il VALORE dell’emblematico abbraccio
tra l’Innominato e Borromeo, la “porpora
incontaminata” del cardinale che si bagna delle
“lacrime ardenti”, ardenti di pentimento, ardenti di
amore, ardenti di FEDE, dell’Innominato, la stessa
“porpora incontaminata”, immacolata, pura, le stesse
“mani incolpevoli”, innocenti, che si stringevano al
corpo e alle membra dell’Innominato, e “premevano
quella casacca, avvezza a portar l’armi della
violenza e del tradimento”: ed è in questo punto che
il Manzoni, ponendo in tal modo in contrasto tutto
l’amore, il perdono, la carità, di cui è colma la scena
e l’animo del cardinale Borromeo con il “vecchio
Innominato”, con la violenza e la malvagità delle sue
azioni, fa sì che il lettore si renda davvero conto
dell’effettivo MIRACOLO che abbia rappresentato la
conversione, il cambiamento tanto radicale d’un
“terribile uomo” ad opera del cardinale, esaltando
tuttavia ancor più la potenza e l’infinita grandezza
della Provvidenza, che ha agito per mezzo di lui e,
intervenendo ATTIVAMENTE nella vita degli
uomini, in linea con la concezione di fede del
Manzoni, ha reso possibile tutto ciò. E di questa
conversione tanto miracolosa si rende conto e si
rallegra anche l’Innominato:
“-Dio veramente grande! Dio veramente buono! Io
mi conosco ora, comprendo chi sono; le mie iniquità
mi stanno davanti; ho ribrezzo di me stesso;
eppure...! eppure provo un refrigerio, una gioia, sì
una gioia, quale non ho provata mai in questa mia
orribile vita!-“

In queste affermazioni c’è, finalmente, la


DICHIARAZIONE ESPLICITA dell’avvenuta
conversione dell’Innominato, in queste affermazioni
c’è la nascita di una NUOVA COSCIENZA
SPIRITUALE e MORALE, in queste affermazioni c’è
un profondo desiderio di AFFRONTARE e
SUPERARE il proprio oscuro passato, c’è il
riconoscimento dei propri, tanti e gravi, peccati, ma
c’è allo stesso tempo un sincero, sentito, intenso e
completo PENTIMENTO e un altrettanto vivo ed
ardente DESIDERIO di REDENZIONE, che condurrà
l’Innominato, rinnovato, anzi, rinato, nella mente e
nello spirito, a dedicare d’ora in poi tutte le proprie
energie, il proprio vigore, la propria “volontà
impetuosa” e la propria “imperturbata costanza” al
perseguimento del bene.
Manzoni mette in luce, nelle pagine successive alla
conversione, come nell’animo dell’Innominato fosse
effettivamente nata una sensibilità del tutto nuova,
che si accompagnava al residuo contrasto, ancora
non del tutto eliminato poiché lungo sarebbe stato il
cammino di redenzione, tra il futuro luminoso che gli
si prospettava innanzi, nel segno dell’amore di Dio, e
i ricordi ancor presenti del nefasto passato, in
merito ai quali appare evidente come egli riuscirà a
trovare maggiore conforto soltanto impegnandosi ad
aiutare CONCRETAMENTE e ATTIVAMENTE Lucia
e, assieme a lei, tutti i bisognosi che avrebbe
incontrato sul suo cammino.
L’Innominato dunque non si limiterà ad abbandonare
gli “antagonisti” e il suo ruolo di “eroe del male”,
bensì, come parte del processo di redenzione che ha
inizio con la sua nuova vita, egli combatterà
ATTIVAMENTE per il bene, difendendo ad esempio
attraverso i suoi bravi le popolazioni locali
dall’arrivo dei lanzichenecchi, e mettendo a
disposizione della Giustizia Divina tutti i suoi mezzi,
la sua determinazione e la sua forza d’animo,
facendosi a sua volta PORTATORE degli ideali di
fede che la Provvidenza, attraverso il cardinale
Borromeo, aveva instillato in lui, e rendendosi a sua
volta STRUMENTO nelle mani di Dio.

In conclusione, attraverso la vicenda


dell’Innominato, Manzoni, come spesso accade,
parte da una situazione individuale, dal particolare,
per pervenire a considerazioni e riflessioni di
carattere generale, universale, presentando dunque
un’analisi dei fatti diacronica e sincronica, valida
cioè in ogni tempo e in ogni luogo.
L’Innominato altro non è infatti che lo strumento con
cui Manzoni realizza una massima e straordinaria
dimostrazione dell’UNIVERSALITA’ del messaggio
di fede cristiana, degli ideali di AMORE, CARITA’ e
MISERICORDIA di Dio, sottolineando e facendo
emergere in maniera emotivamente e spiritualmente
molto intensa come le porte della Casa di Dio siano
davvero aperte a tutti gli uomini che solo si
premurino di notarne la presenza.

Marco Basile

Potrebbero piacerti anche