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Parte II – Il diritto dei conflitti armati

Cap. 1- Concetti generali


Conflitti armati internazionali e conflitti armati interni
Il principale tratto che distingue la disciplina dei conflitti internazionali (conflitti tra Stati) da quella dei
conflitti interni (ad uno Stato) consiste nel fatto che coloro che prendono parte alla prima categoria sono
considerati legittimi combattenti e in caso di cattura vengono considerati prigionieri di guerra, mentre nel
secondo caso i contendenti non sono considerati sullo stesso piano: lo Stato è libero di assoggettare i ribelli
alla propria potestà punitiva ed essi non possono essere considerati legittimi combattenti.

I conflitti armati interni trovano la loro disciplina nell’art.3 delle Convenzioni di Ginevra del 1949 e nel II
Protocollo addizionale del 1977.

Alla categoria dei conflitti internazionali appartengono anche le guerre di liberazione nazionale, o conflitti
per l’autodeterminazione. Si tratta di conflitti in cui un popolo, non ancora costituitosi in Stato
indipendente, lotta contro il governo al potere per realizzare il diritto all’autodeterminazione.
L’assimilazione dei conflitti per l’autodeterminazione ai conflitti armati interstatali è un fatto abbastanza
recente, dovuto al processo di decolonizzazione violenta. Fino all’entrata in vigore del I Protocollo, i conflitti
per l’autodeterminazione erano disciplinati dal diritto relativo ai conflitti interni. La loro qualificazione come
conflitti internazionali vale però solo per gli Stati parte del I protocollo, per cui se lo Stato non ha ratificato il
protocollo non è obbligato a considerare come legittimi combattenti coloro che combattono per realizzare il
diritto all’autodeterminazione (e anche il movimento di liberazione nazionale dovrebbe notificare la sua
volontà di applicare le Convenzioni e il Protocollo).

Pur facendo riferimento al diritto all’autodeterminazione, il I Protocollo circoscrive le guerre di liberazione


nazionale a quelle situazioni in cui un popolo, che combatte per realizzare il diritto all’autodeterminazione,
sia sottoposto a dominazione coloniale, ad un regime razzista o ad un’occupazione straniera (art. 1.4).
Quest’ultimo concetto è il più difficile da interpretare. Se il termine occupazione fosse impiegato in senso
tecnico come occupatio bellica, il relativo conflitto sarebbe da considerare comunque come un conflitto
interstatale, già coperto dalle disposizioni delle Convenzioni di Ginevra. Come risulta invece dai lavori
preparatori, il termine è stato usato in senso atecnico, per indicare quei conflitti che insorgono tra un
popolo autoctono del territorio ed un governo espressione di “settlers” ossia di popolazioni stabilitesi nel
territorio successivamente.

Tra i conflitti per l’autodeterminazione non possono essere compresi i conflitti promossi da minoranze
etniche, che non sono titolari di questo diritto. L’art. 1.4 non è applicabile ai fenomeni di mera secessione,
tranne che la situazione non sia assimilabile ad una situazione di dominazione coloniale e razzista o
occupazione straniera.

Nel caso di conflitto interno, l’intervento straniero a favore del governo costituito per combattere gli insorti
non cambia la natura del conflitto e la qualificazione di “conflitto internazionalizzato” non è una nozione
formale, ma solo politologica: ai fini dell’applicazione del diritto internazionale umanitario, i conflitti
internazionalizzati non costituiscono un tertium genus.

Dalla teoria dello “stato di guerra” a quella del conflitto armato


Almeno fino all’entrata in vigore della Carta delle Nazioni Unite, il dualismo tra DI di pace e DI di guerra era
comunemente accettato: il primo era talmente elastico e onnicomprensivo da regolare anche procedimenti
violenti non bellici, mentre il secondo diveniva applicabile non appena uno stato avesse esercitato il suo ius
ad bellum. Questa situazione, chiara in teoria, non lo era affatto nella pratica, non essendo possibile
stabilire con certezza se un conflitto armato dovesse esser definito guerra e si fosse di conseguenza
validamente instaurato lo stato di guerra, conseguenza della manifestazione di volontà di un soggetto
dell’ordinamento internazionale (animus bellandi) espressa mediante una dichiarazione formale di guerra
oppure desumibile dai fatti.

L’incertezza circa l’esistenza, nel caso concreto, dello stato di guerra si è aggravata dopo l’entrata in vigore
della Carta delle Nazioni Unite e le ipotesi secondo cui lo ius ad bellum sarebbe stato definitivamente
abolito, opinione né unanime né consolidata.

Le Convenzioni dell’Aja del 1899 e 1907 condizionano l’applicazione delle rispettive norme all’esistenza di
uno stato di guerra, così come codificazioni posteriori quali la Dichiarazione di Londra del 1909 e il
Protocollo di Ginevra del 1925 e del 1936. Dopo l’entrata in vigore della Carta delle Nazioni Unite il termine
guerra –come nozione giuridica-non viene cancellato, ma accanto ad esso compare la nozione di conflitto
armato, e ambedue fenomeni vengono assunti come condizione di applicabilità delle successive
convenzioni. Le disposizioni del I Protocollo addizionale che hanno per oggetto la protezione della
popolazione civile nei territori occupati, per esempio, si applicano sia in caso di guerra sia in occasione di un
conflitto armato. Lo stesso dicasi per il diritto umanitario. Al contrario, non è detto che i diritti di
belligeranza degli Stati parti del conflitto nei confronti dei terzi discendano automaticamente dallo stato di
guerra: la prassi sembra decisamente orientata a far discendere i diritti di belligeranza dal diritto di
legittima difesa, con la conseguenza che solo gli atti di belligeranza compatibili con l’esercizio di questo
diritto sono ritenuti legittimi.

Benché il termine conflitto armato non abbia ancora sostituito quello di guerra, lo sviluppo verso la
completa abolizione di quest’ultima nozione appare ormai marcato. La stessa Commissione del diritto
internazionale, nel codificare le conseguenze del fenomeno bellico, ha preso come termine di riferimento
non il concetto di guerra, ma quello di conflitto armato.

Gli effetti della guerra sui trattati


Per quanto riguarda i trattati tra due Stati, non è detto che essi vengano automaticamente travolti dallo
stato di guerra. Il diritto consuetudinario e la prassi sembrano distinguere tre categorie di trattati:

a. Trattati che trovano nel conflitto armato la ragione della loro esistenza
b. Trattati per cui la guerra determina una situazione di radicale incompatibilità con la situazione
preesistente. Tali trattati si estinguono non a causa dello stato di guerra in sé, ma per effetto della
clausola rebus sic stantibus per quanto riguarda il trattato nel suo insieme
c. Trattati per cui la guerra produce un effetto sospensivo.

Dopo la fine delle ostilità è invalsa la prassi di rimettere in vigore i trattati sospesi pendente bello,
solitamente con una procedura contenuta nel trattato di pace. La nostra Corte di Cassazione si è
pronunciata per l’estinzione solo dei trattati il cui contenuto sia divenuto radicalmente incompatibile con lo
stato di guerra, mentre in altri casi essa produrrebbe un mero effetto sospensivo e il trattato riprenderebbe
a produrre automaticamente i suoi effetti dopo la cessazione delle ostilità.

Un problema particolare sorge per i trattati multilaterali di disarmo, la cui osservanza potrebbe mettere in
pericolo la sicurezza dei belligeranti, soprattutto nel caso solo uno di essi fosse vincolato. Tali trattati
contengono una clausola di recesso piuttosto ampia, che permette al belligerante di non dover ricorrere
alla teoria dell’automatica sospensione del trattato che lo esporrebbe all’accusa di violazione. Anche i
trattati bilaterali sono dotati di una clausola di recesso analogica, ma per essi è più facile ipotizzare
l’automatica estinzione, che consentirebbe al belligerante di evitare di attendere il decorso del tempo
necessario affinché il recesso diventi operante.

La guerra non dovrebbe provocare un effetto sospensivo o estintivo in relazione ai trattati internazionali in
materia di diritti dell’uomo. Di regola tali trattati contengono una clausola che abilita lo Stato ad invocare la
guerra per sospenderne l’applicabilità, ma vi sono tuttavia disposizioni che non possono essere derogate.
Ciò trova conferma nel parere della Corte internazionale di giustizia sulla liceità delle armi nucleari, dove si
afferma, con riferimento al Patto sui diritti civili e politici, che la protezione derivante dalle disposizioni del
Patto non cessa in tempo di guerra, salvo che uno Stato invochi l’art.4, che dispone che in caso di guerra si
possa derogare a taluni obblighi imposti dal Patto stesso. Tale giurisprudenza ha trovato conferma nella
sentenza relativa alla controversia Congo v. Uganda, in cui la Corte internazionale di giustizia ha ribadito
che in occasione di un conflitto armato devono essere rispettati sia il diritto internazionale umanitario che i
diritti umani.

La guerra non dovrebbe pregiudicare l’esistenza dei trattati istitutivi di un’organizzazione internazionale.

Le fonti del diritto bellico


Le fonti del diritto internazionale bellico hanno essenzialmente natura consuetudinaria e pattizia. Gli
strumenti datano dalla metà del secolo XIX con l’adozione della Dichiarazione di Parigi sulla guerra
marittima. L Successivamente, le due Conferenze della Pace dell’Aja (1899 e 1907) costituirono un punto
fermo per il processo di codificazione. Dopo la I Guerra mondiale, gli orrori causati dall’uso dei gas e
l’apparizione di nuove armi furono d’impulso per l’adozione del Protocollo di Ginevra del 1925 sul divieto
dell’uso di armi chimiche e batteriologiche e del Processo verbale di Londra sulla guerra sottomarina del
1926.

Il processo di codificazione non ha avuto per oggetto solo la disciplina della violenza bellica, ma anche la
condizione delle persone che si trovano ad essere vittime di tale violenza. Questo processo si è sviluppato
soprattutto dopo la II guerra mondiale, con l’adozione delle 4 convenzioni di Ginevra del 1949. Codificazioni
ulteriori sono al Convenzione dell’Aja del 1954 sulla protezione dei beni culturali, il II Protocollo alla
Convenzione dell’Aja e i due Protocolli addizionali del 1977 alle quattro convenzioni di Ginevra. Anche la
Convenzione del 1993 sull’interdizione delle armi chimiche non è una pura convenzione di disarmo, ma
anche una convenzione di diritto umanitario. Eguali considerazioni valgono per la convenzione di Oslo sulle
cluster weapons conclusasi nel 2008.

Tra le fonti del diritto bellico è da annoverare anche lo Statuto della Corte penale internazionale, che
contiene non solo norme processuali, ma anche sostanziali relative ai crimini internazionali (genocidio,
crimini contro l’umanità e crimini di guerra).

La guerra aerea non ha invece ancora trovato idonea codificazione e per essa potrebbe essere utile il
ricorso al procedimento analogico, quando una fattispecie non è regolata né dal diritto consuetudinario né
da quello pattizio.

Buona parte delle disposizioni contenute negli strumenti sopra menzionati sono divenute regole di diritto
internazionale consuetudinario. Ne segue che ha ormai perso di significato pratico la regola contenuta in
tali convenzioni secondo cui esse avrebbero trovato applicazione solo se tutti i belligeranti fossero stati
parte delle convenzioni. Oggi si è inoltre attenuata, se non annullata, la distinzione tra “diritto dell’Aja”
(diritto che contiene regole i combattimento e disciplina diritti e doveri dei neutrali) e “diritto di Ginevra”
(diritto umanitario). Anche la Corte internazionale di Giustizia ha affermato che i due settori si sono fusi in
un unico sistema di diritto.
L’adeguamento dell’ordinamento italiano alle norme di diritto internazionale bellico
 Riferimento alle norme consuetudinarie automaticamente immesse nel nostro ordinamento
tramite art.10 Cost
 Ratificazione delle 4 convenzioni di Ginevra del 1949, il I protocollo addizionale, la Convenzione
dell’Aja del 1954 sulla protezione dei beni culturali, il II Protocollo addizionale del 1999 e lo Statuto
della Corte Penale internazionale mediante ordine d’esecuzione
 L. 45/2009, adeguamento al II Protocollo addizionale alla Convenzione sui beni culturali con
procedimento misto (ordine di esecuzione e riformulazione delle norme del Protocollo,
chiaramente non self-executing).

Il frequente ricorso all’ordine di esecuzione per l’adeguamento alle norme del diritto internazionale bellico
convenzionale è criticabile, dato che spesso queste norme non hanno natura self-executing, e perciò questa
tecnica è poco adeguata a rendere le norme internazionali pienamente operanti nell’ordinamento
nazionale.

 Titolo IV cpmg. Tali disposizioni necessitano però una profonda revisione per adeguare
l’ordinamento italiano al sistema predisposto dalle quattro Convenzioni di Ginevra, dal I Protocollo
addizionale e dallo Statuto della Corte Penale internazionale. Nel 1998 era stato presentato un
disegno di legge al Senato per l’adeguamento della legislazione penale militare, ma esso non è
stato mai discusso ed è decaduto a fine legislatura.
Il titolo IV cpmg trova applicazione in ogni caso di conflitto armato, indipendentemente dalla
dichiarazione dello stato di guerra. Tale formulazione è in sintonia con il modello sviluppo del
diritto bellico, sia per l’inserimento della nozione “conflitto armato” e non “guerra”, e perché la
giurisprudenza del Tribunale penale internazionale per la ex-Iugoslavia e lo statuto del CPI hanno
stabilito che i crimini di guerra possono essere commessi sia in occasione di un conflitto
internazionale che un conflitto interno. Nel cpmg sono state abrogate talune disposizioni
chiaramente in contrasto con la normativa internazionale successiva all’adozione del cpmg.
L’applicabilità del codice è prevista non solo in caso di dichiarazione dello stato di guerra e fino alla
sua cessazione (art.3), ma anche qualora i corpi di spedizione per operazione militari siano inviati
all’estero, ancorché in tempo di pace. SI è dovuto pertanto provvedere con legge che escludesse
l’applicabilità del cpmg ai corpi di spedizione all’estero in tempo di pace. Con la L. 6/2002, si è
modificato l’art.9, precisando che il codice trova applicazione anche in relazione alle missioni
armate all’estero. Ne restano escluse quelle missioni che non comportano l’equipaggiamento con
le armi. Per l’Afghanistan, ad es., si è proceduto inizialmente ad applicare il cpmg, per poi ritornare
al cpmp. A favore dell’applicazione del primo è stato detto che esso è più garantista con le
popolazioni civili, poiché il codice è stato emendato per renderlo conforme al diritto internazionale
umanitario attualmente in vigore. A favore del secondo si è invece detto che le disposizioni del
cpmg sono inutilmente repressive dei militari della missione.

 L 145/2016 sulla partecipazione dell’Italia alle missioni internazionale, che dispone l’applicabilità
del cpmp alle missioni all’estero (rovesciando l’art.9 cpmg). Tuttavia il governo potrebbe deliberare
l’applicazione di quello di guerra per una specifica missione, con un procedimento legislativo e la
presentazione in Parlamento di un apposito disegno di legge, escludendo quindi che si possa
ricorrere alla decretazione d’urgenza.
L’art.19 inoltre stabilisce la non punibilità di chi, per la necessità delle operazioni militari, ricorra
alla violenza in conformità alle direttive, alle regole di ingaggio ovvero agli ordini legittimamente
impartiti. La legge 145 è inoperante nel caso sia stato commesso un crimine internazionale.
Per quanto riguarda il crimine di aggressione, che era stato inserito, ma non definito dallo statuto di
Roma e la cui portata è stata precisata dagli emendamenti adottati dalla Conferenza di Kampala, si
tratta di crimine che può essere difficilmente commesso dal personale che partecipa alla missione
internazionale, dato che è un crimine ascrivibile alla leadership politico-militare dello Stato.

 Una rilevanza, seppur limitata, è da attribuire al D.lgs 66/2010, recante il Codice dell’ordinamento
militare, che afferma che in caso di conflitti armati e nel corso delle operazioni di mantenimento e
ristabilimento della pace e della sicurezza internazionale i comandanti delle Forze armate vigilano,
in concorso, se previsto, con gli organismi internazionali competenti, sull’osservanza delle norme di
diritto internazionale umanitario

La clausola Martens
La c.d. clausola Martens è contenuta nel preambolo della IV Convenzione dell’Aja del 1907. Secondo
questa, in attesa che venga enunciato un Codice più completo delle leggi relative alla guerra, nei casi non
compresi nelle disposizioni regolamentari adottate dalle parti, le popolazioni e i belligeranti restano sotto la
salvaguardia e l’impero dei principi del diritto delle genti, quali risultano dagli usi stabiliti tra nazioni civili,
dalle leggi dell’umanità e dalle esigenze della coscienza pubblica. La clausola è ripetuta nelle 4 convenzioni
di Ginevra e in quella di Oslo, mentre la Corte internazionale di giustizia ha riconosciuto alla clausola dignità
di diritto internazionale consuetudinario.

Tale clausola ha una portata generale ed è volta a colmare eventuali lacune nella codificazione del diritto
bellico o comunque ad assicurare una disciplina ove le parti del conflitto denuncino le convenzioni di diritto
umanitario. Ad es. la clausola svolge un’utile funzione per valutare la liceità di armi non specificatamente
disciplinate dal diritto internazionale umanitario ed è volta ad impedire l’interpretazione secondo cui ciò
che non è espressamente vietato è permesso.

Inizio e termine dell’applicazione delle norme di diritto bellico nei conflitti armati internazionali
Le Convenzioni di Ginevra del 1949, quelle dell’Aja del 1954 e il I Protocollo addizionale del 1977
individuano nella guerra o nel conflitto armato il momento a partire dal quale le norme ivi contenute
trovano applicazione, tranne quelle che debbano essere applicate già in tempo di pace. Spesso è però
difficile stabilire con certezza il dies a quo. Non esiste alcun dubbio qualora un esercito attraversi la
frontiera, ma le ostilità possono anche essere compiute mediante operazioni di guerriglia, come conflitto a
bassa intensità. La nozione di conflitto armato, se interpretata alla luce del principio di effettività, prefigura
lo svolgimento di operazioni militari di una certa consistenza e durata: ad es. sarebbe difficile considerare
conflitto armato un isolato incidente di frontiera.

Il Tribunale penale internazionale per l’ex Iugoslavia ha affermato che esiste un conflitto armato
ogniqualvolta venga fatto ricorso alla forza armata tra Stati o vi sia una violenza armata prolungata tra
autorità governative e gruppi armati o tra tali gruppi all’interno dello Stato. L’art.165 del nostro cpmg
stabilisce invece che, ai fini dell’applicazione della legge pmg, il conflitto armato è un conflitto in cui almeno
una delle parti fa uso militarmente organizzato e prolungato delle armi nei confronti di un’altra.

In generale si può dire che le condizioni per l’esistenza di un conflitto armato sono più rigorose quando
comportano l’applicazione del diritto della neutralità (poiché in questo caso vengono coinvolti gli interessi
di Stati terzi), mentre sono meno rigorose quando servono a rendere applicabili le regole di diritto
internazionale umanitario.

L'esistenza di un conflitto armato non presuppone necessariamente la resistenza del nemico: come si
evince dall’art.2 delle 4 convenzioni di Ginevra, esse sono applicabili anche in caso di occupazione totale o
parziale del territorio nemico, quantunque l’occupazione non incontri nessuna resistenza armata.
La cessazione dell’applicazione delle norme di diritto bellico dovrebbe aver luogo con la fine completa delle
ostilità e il ristabilimento della pace, condizione difficile da accertare, poiché raramente vengono oggi
stipulati trattati di pace.

L’applicazione del diritto bellico


In quanto diritto internazionale, il diritto bellico viene immesso negli ordinamenti statali mediante il
procedimento di adeguamento del diritto interno al DI. Le difficoltà insiste nell’applicazione del DB hanno
consigliato l’adozione di manuali militari contenenti regole per i membri delle forze armate. Essi non sono
fonti di diritto, ma traducono a livello nazionale il linguaggio di convenzioni internazionali di difficile
interpretazione e dettano regole nelle materie in cui il diritto è lacunoso. I manuali militari interpretano il
diritto bellico alla luce delle riserve apposte dallo Stato o dalle dichiarazioni interpretative effettuate al
momento della firma o della ratifica delle convenzioni di diritto bellico. La tradizione dei manuali militari è
di derivazione anglosassone, ma si sta diffondendo sia per le operazioni belliche che per quelle di peace-
keeping.

Dai manuali militari occorre distinguere le regole d’ingaggio, direttive che un governo stabilisce per
individuare le circostanze e i limiti entro cui le sue forze armate inizieranno o continueranno un
combattimento con le forze nemiche. Esse hanno come contenuto le direttive governative circa l’impiego
della violenza bellica, hanno un contenuto estremamente operativo e non sono pertanto rese pubbliche. Di
solito esse vengono adottate in reazione ad uno specifico conflitto armato, ma esistono anche regole
d’ingaggio per il tempo di pace, quando si tratta di impiegare la forza in legittima difesa. Esse devono essere
fondate sulle norme di diritto bellico e il loro valore giuridico dipende dai singoli ordinamenti (es. non è
chiaro se nell’ordinamento italiano l’inosservanza costituisca la trasgressione di un dovere, sanzionato
penalmente, o se il militare che si conformi ad esse possa invocare la scriminante dell’adempimento del
dovere, qualora commettesse una violazione del diritto bellico.

In linea di principio le regole d’ingaggio, non provenendo da una fonte abilitata a porre norme giuridiche,
non dovrebbero essere considerate fonti di diritto, anche tenuto conto che esse sono spesso segrete. È
comunque da escludere che possano essere invocate le sole regole d’ingaggio per ottenere la non punibilità
in caso di commissione di un crimine internazionale.

Il I Protocollo addizionale contiene due disposizioni che sono particolarmente rilevanti per l’applicazione
delle norme di diritto bellico: gli artt. 82 e 83. Il primo obbliga gli Stati a istituire la figura del Consigliere
giuridico, che ha il compito di consigliare i comandanti militari circa l’applicazione a livello concreto del I
Protocollo e delle quattro Convenzioni di Ginevra, mentre il secondo impegna gli stati a diffondere sia in
tempo di pace sia in tempo di conflitto armato le convenzioni di Ginevra e il I Protocollo.

Notevole è anche il Manuale di San Remo sul diritto internazionale applicabile ai conflitti armati in mare,
che si tratta però di una mera codificazione privata.

Il problema dell’applicabilità del diritto internazionale umanitario alle forze armate delle UN
In linea di principio, le forze delle UN sono obbligate a rispettare il diritto internazionale umanitario in
quanto diritto internazionale consuetudinario. Esse infatti non sono e non potrebbero mai essere parte
delle convenzioni di diritto umanitario, che sono aperte solo agli stati.

L’Institut de Droit International si è pronunciato per l’applicazione del diritto internazionale umanitario alle
forze delle Nazioni Unite. In tal senso è anche la prassi delle Nazioni Unite, la quale impone di osservare e
rispettare i principi e lo spirito delle convenzioni generali di diritto internazionale umanitario, cioè i
contingenti sono tenuti ad applicare le regole convenzionali di diritto internazionale umanitario
trasformatesi in diritto consuetudinario. Questa è però solo la condizione minima: infatti, le forze delle
Nazioni Unite sono fornite dagli Stati, e questi hanno l’obbligo di rispettare e far rispettare il diritto
internazionale umanitario.
Tra le operazioni delle Nazioni Unite, occorre distinguere tre categorie:

 Operazioni autorizzate dalle Nazioni Unite, operazioni coercitive intraprese contro uno stato ad
opera di altri stati. In questo caso il diritto internazionale umanitario deve trovare piena
applicazione (es. Corea 1950, Iraq 1991, Libia 2011)
 Operazioni di peace-keeping che non comportano il ricorso alla forza armata. In questo caso le
forze delle UN sono assimilabili alla popolazione civile, dunque soggetto passivo del diritto
internazionale umanitario, nel senso che un attacco contro di esse è vietato e costituisce una
violazione del diritto umanitario e crimine di guerra secondo lo Statuto della CPI
 Operazioni di peace-keeping che possono comportare il ricorso alla forza armata a titolo di
legittima difesa, intesa in senso ampio, delle forze delle Nazioni Unite. Il conflitto armato che ne
segue è disciplinato dal diritto internazionale umanitario.

Queste idee hanno trovato una razionalizzazione nel Bollettino del Segretario Generale UN del 1999,
contenente un elenco di principi e regole di DI umanitario da rispettare in caso di operazioni di peace-
enforcement e peace-keeping. Il Bollettino non è applicabile alle operazioni militari condotte dagli Stati su
autorizzazione delle Nazioni Unite, poiché in questo caso troveranno applicazione le convenzioni di diritto
umanitario ratificate dagli Stati le cui truppe partecipano all’operazione.

Le regole da osservare hanno per oggetto la protezione della popolazione civile i mezzi e i metodi di
combattimento, il trattamento dei civili e delle persone fuori combattimento, il trattamento dei prigionieri e
la protezione dei feriti. Il Bollettino non distingue tra conflitti armati interni e conflitti armati internazionali,
ma trova applicazione nelle situazioni di “conflitto armato”. Di solito vengono diramate Roe (Rules of
Engagement) ad hoc per ogni singola missione che incorporano le disposizioni di diritto umanitario, incluse
quelle relative all’uso della forza. Tali regole costituiscono la “Soldier’s Pocket Card” dei componenti militari
della missione.

Il rispetto dei diritti dell’uomo nella condotta delle operazioni belliche


Le disposizioni relative alla protezione dei diritti dell’uomo trovano applicazione anche in tempo di conflitto
armato, tranne che il belligerante si sia avvalso della clausola di deroga presente nelle convenzioni
internazionali in materia di diritti umani. Anche in questo caso vi sono però alcune norme inderogabili.

Talvolta i trattati sui diritti umani non contengono una vera e propria clausola di deroga, ma solo una
disposizione che permette di limitare la portata dei diritti tutelati, purché siano rispettati determinati
parametri in modo da non vanificare il contenuto dei diritti protetti.

In tempo di conflitto armato devono essere applicati tanto i diritti dell’uomo quanto il diritto internazionale
umanitario. In caso di conflitto, il rapporto tra le due branche del diritto è considerato dalla Corte
internazionale di giustizia come un rapporto tra lex generalis (diritti dell’uomo) e lex specialis (diritto
umanitario).

Tra le norme che tutelano i diritti umani, il diritto della vita è quello la cui applicazione diviene critica, per
ovvi motivi in occasione di un conflitto armato. Tale diritto è garantito dall’art.6 del Patto sui diritti civili e
politici del 1966, che afferma che nessuno può essere arbitrariamente privato della vita, e dall.art.2 CEDU.
La Corte ha affermato che il diritto alla vita non rientra tra i diritti che si possono derogare, ma ha osservato
che la nozione di privazione arbitraria dev’essere valutata alla luce delle norme relative al diritto dei conflitti
armati. Occorre cioè accertare se la privazione sia dovuta a un atto legittimo o illegittimo di belligeranza.

L’art.2 della CEDU è formulato in maniera differente, stabilendo una serie di eccezioni quali l’esecuzione di
una sentenza di condanna alla pena capitale pronunciata da un tribunale, o la legittima difesa, l’uso della
forza per eseguire un arresto o evitare un’evasione o l’uso della forza per reprimere, conformemente alla
legge una rivolta o un’insurrezione. La clausola di eccezione consente ad una parte contraente di prendere
misure di deroga ai diritti garantiti dalla Convenzione, tranne taluni diritti inderogabili quale quello alla vita.
La clausola di eccezione non comporta nessuna deroga al diritto alla vita, salvo il caso di decesso causato da
legittimi atti di guerra. Ciò significa che la privazione della vita non costituisce una violazione dell’art.2 se
essa è risultato di un atto di belligeranza conforme alle norme di diritto internazionale umanitario.
L’uccisione del belligerante non costituirà una violazione dell’art.2 qualora sia conforme al diritto
internazionale umanitario, anche se si tratta di un atto compiuto nel quadro di un ricorso alla forza armata
contrario al diritto internazionale.

Secondo l’art.2 del Patto, lo Stato parte si impegna a rispettare e garantire a tutti gli individui che si trovino
sul suo territorio e siano sottoposti alla sua giurisdizione i diritti riconosciuti dal Patto. Sembrerebbe quindi
che il patto non abbia alcuna efficacia extraterritoriale e adotti, come criteri per determinare la sua sfera di
applicazione, sia il criterio del territorio sia quello della giurisdizione. Ma l’interpretazione che è stata data
dal Comitato dei diritti dell’uomo e dalla Corte internazionale di giustizia è nel senso che le due espressioni
(controllo e giurisdizione) devono essere disgiuntivamente: in questo senso, uno stato sarebbe obbligato
ad applicare il Patto non solo agli individui che si trovino nel suo territorio, ma anche quelli che si trovino
all’estero, purché sotto la sua giurisdizione, e viceversa.

Il problema di è posto anche con la CEDU: di regola, la Convenzione trova applicazione nel territorio di uno
stato membro o in altro luogo soggetto alla sua giurisdizione, ma non nel territorio di un terzo stato. La
giurisprudenza ha esteso la nozione di giurisdizione fino a ricomprendervi tutte quelle azioni compiute in
territorio altrui da organi dello Stato parte. Questo principio è applicabile anche alle attività delle forze
armate che esercitano il controllo di una zona situata oltre i confini statali.

Nel caso Bankovic et al., la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha invece dato un’interpretazione restrittiva
dell’art.1 della Convenzione. I ricorrenti lamentavano una violazione dell’art.2 (privazione del diritto alla
vita non come conseguenza di un atto legittimo di belligeranza) consumatasi nei loro confronti durante il
bombardamento aereo della stazione radiotelevisiva di Belgrado al tempo della guerra del Kosovo,
sostenendo che nel momento in cui Belgrado veniva bombardata i residenti si trovavano sotto il controllo
degli aerei della coalizione. La Corte ha però respinto questa tesi e dichiarato il ricorso inammissibile,
affermando che la nozione di giurisdizione è essenzialmente territoriale e le eccezioni sono limitatissime.
L’applicazione extraterritoriale della Convenzione ha infatti avuto luogo in relazione a procedimenti di
espulsione o estradizione o in connessione con il comportamento di consoli o agenti diplomatici di uno
stato parte. Né poteva essere invocato, come precedente, il caso Loizidou (diritto di ritorno nella propria
casa) perché in questo caso la Turchia aveva l’effettivo controllo del territorio di Cipro del Nord e il
territorio apparteneva ad uno stato che aveva contratto la CEDU.

Nel caso Issa v. Turchia, dove veniva in considerazione la condotta dei contingenti militari turchi sconfinati
in Iraq per dare la caccia ai guerriglieri curdi, la Corte non ha però escluso che in un dato momento le
vittime fossero sotto il controllo turco, e dunque dovesse applicarsi la convenzione. Nel caso Al-Skeini v. UK
la corte ha recuperato l’ordinamento pre-Bankovic, affermando che il Regno Unito, in quanto potenza
occupante della regione di Bassora (Iraq) era obbligato ad applicare la CEDU.

L’applicazione dei trattati sui diritti umani in tempo di conflitto armato è di estrema importanza sotto il
profilo della protezione dei diritti dell’individuo e di accesso alla giustizia. Qualora i corpi di truppa all’estero
violino le norme sui diritti dell0uomo, applicabili anche in tempo di conflitto armato, l’individuo potrebbe
avere un rimedio contro lo stato responsabile, non solo in caso di operazioni belliche, ma anche in
operazioni di peace-keeping.

Le operazioni delle coalizioni militari (coalition warfare)


Nelle operazioni militari una forza multinazionale deve rispettare il diritto internazionale umanitario, le cui
regole sono ormai diventate in buona parte diritto internazionale consuetudinario, e quindi vincolano gli
stati indipendentemente dalla ratifica dei trattati che le contengono. Vi sono però talune regole che ancora
non hanno raggiunto questo status, e quindi vincolano solo gli Stati che hanno ratificato i relativi strumenti.
Occorre poi tener conto delle riserve espresse al momento della ratifica e delle differenze interpretative.
Ciò può comportare problemi per quanto riguarda l’interoperabilità giuridica della coalizione: spesso finisce
per prevalere il punto di vista della potenza egemone.

Per le missioni militari UE non dovrebbero sorgere grandi problemi di interoperabilità giuridica, a parte i
problemi interpretativi. L’UE, come del resto le Nazioni Unite, non può divenire parte delle Convenzioni di
Ginevra e i relativi Protocolli. Non ha neppure adottato un Bollettino analogo a quello delle Nazioni Unite e
del diritto internazionale umanitario non è fatta menzione nei documenti della strategia europea di
sicurezza. L’UE ha piuttosto emanato dei documenti di studio. Per quanto riguarda le missioni ONU, il
Segretario Generale ha diramato un Bollettino contenete le regole da rispettare, che ricalcano i principi
delle convenzioni di diritto umanitario.

Il problema della interoperabilità giuridica dei contingenti componenti una forza multinazionale si
ripresenta per quelle operazioni intraprese dietro autorizzazione del Consiglio di sicurezza, ma non
sottoposte a comando ONU. Può uno Stato della coalizione essere coinvolto in una violazione del diritto
umanitario commessa da altri?

È da precisare che anche in un’operazione multinazionale le forze armate di ciascun membro della
coalizione restano sotto la responsabilità del singolo Stato nazionale. Qualora il comandante sul campo
dovesse ritenere come contraria al diritto una missione, egli dovrebbe consultare immediatamente le
proprie autorità nazionali, per evitare che lo Stato al quale appartiene incorra nella commissione di un
illecito internazionale. Per prevenire condotte non conformi, è invalsa la prassi di inserire dei caveat
nazionali alle regole d’ingaggio adottate a livello multinazionale. Un ufficiale del continente (il “red card
holder”) ha il compito di rendere edotta la catena multinazionale di comando che, nel caso concreto, il
contingente al quale appartiene non può partecipare a quella determinata operazione.

La Convenzione di Oslo sulle cluster weapons prevede espressamente che Stati membri della convenzione
possano intraprendere forme di cooperazione e operazioni militari con Stati non parte. Tale clausola ha
consentito di salvaguardare l’interoperabilità tra le forze Nato, appartenenti sia a stati parte della
Convenzione di Oslo che a stati che non l’hanno ratificata.
Cap. 2 – Principi Comuni al Diritto dei Conflitti Armati
Internazionali
NB: La guerra terrestre, marittima ed aerea è disciplinata da un corpo di regole distinte per ciascuno dei tre
settori. Vi sono tuttavia dei principi comuni applicabili ai tre settori di ripartizione del diritto bellico.

Sezione I – Nozioni fondamentali


Gli organi della violenza bellica
Tre concetti importanti:

 Combattenti legittimi = coloro che possono lecitamente partecipare alle ostilità e i cui atti sono
imputati allo stato di cui sono organi
 Combattenti regolari = coloro i quali fanno parte delle forze armate di un belligerante (mentre gli
irregolari sono membri di milizie indipendenti o dei movimenti di resistenza organizzata, pur
sempre considerati legittimi combattenti)
 Combattenti privilegiati = coloro che godono dello status di prigioniero di guerra dopo la cattura
(non sono combattenti privilegiati ad es. le spie e i sabotatori)

Il combattente dev’essere o un organo del belligerante o comunque essere inquadrato nell’organizzazione


del soggetto a favore del quale prende parte alle ostilità, per evitare le c.d. “guerre private”.

Il Regolamento annesso alla IV Convenzione dell’Aja del 1907 definisce come combattenti legittimi tre
categorie di persone:

1. Membri delle forze armate di una parte in conflitto


2. Appartenenti alle altre milizie e i corpi volontari. Si tratta di membri di milizie indipendenti, non
inquadrate nelle forze armate di uno stato. Si tratta dunque di combattenti irregolari. Per potere
essere considerati legittimi combattenti, essi devono soddisfare quattro requisiti:
a) Essere comandati da una persona responsabile per i propri subordinati, ossia ci dev’essere una
persona che, nella catena di comando, risponda alla parte del conflitto.
b) Portare un segno distintivo fisso riconoscibile a distanza, per poter distinguere i combattenti
dalla popolazione civile. È controverso se esso debba farlo nel momento in cui prende parte ad
un’operazione militare, oppure se deve distinguersi sempre e comunque
c) Portare apertamente le armi, ragionevolmente solamente durante le operazioni militari
d) Conformarsi, nelle loro operazioni, alle leggi e agli usi di guerra (diritto bellico di natura
convenzionale e di natura consuetudinaria)
3. La “levata in massa”, ossia la popolazione di un territorio non occupato che, all’avvicinarsi del
nemico, prenda spontaneamente le armi. I combattenti in questo caso non devono soddisfare i
molteplici requisiti dettati per le milizie volontarie e i movimenti di resistenza organizzati: è
sufficiente che portino apertamente le armi e rispettino leggi e usi di guerra. La levata in massa non
è però possibile in territorio occupato, né nei confronti di un esercito che si ritira

Dalle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949, che definiscono la nozione di prigioniero di guerra, si evince
che vengono considerati combattenti anche:

4. I membri dei corpi di resistenza organizzati, che oltre a soddisfare i requisiti stabiliti per gli
irregolari, debbono appartenere ad un’entità che possa essere definita un movimento organizzato
e che vanti un legame con una delle parti in conflitto (sebbene vi siano casi dubbi, come quello in
cui il governo di una delle parti in conflitto non esista più o non sia riconosciuto dall’avversario).
Non è detto che il movimento debba necessariamente operare in territorio occupato, ma anche
all’interno del territorio dell’occupante.
5. I membri delle forze armate che appartengono ad un governo o un’autorità non riconosciuta
dall’avversario.
Un problema a riguardo si posto nel corso delle operazioni contro l’Afghanistan nel 2001. Le due
categorie di combattenti, i Talebani e i membri di al Qaeda, sotto il profilo del diritto di guerra,
appartenevano a due diverse categorie. Mentre i talebani erano da considerare forze armate
regolari di un governo non riconosciuto dagli USA, al Qaeda era solo un gruppo di irregolari. Stando
alla III Convenzione di Ginevra, i Talebani catturati avrebbero avuto diritto allo status di prigionieri
di guerra. Al contrario, tale status era da negare ai membri di al Qaeda. Gli USA hanno però negato
lo status di prigionieri di guerra anche ai Talebani, partendo dal presupposto che essi non si
distinguevano dalla popolazione civile e dunque non soddisfacevano i requisiti della Terza
Convenzione di Ginevra. Tale pretesa è di dubbio fondamento, poiché di regola le condizioni
stabilite dal Regolamento dell’Aja e dalla Convenzione per il riconoscimento di legittimo
belligerante per gli irregolari sono ritenute implicite per i regolari. Inoltre, lo status dei Talebani
catturati sarebbe dovuto quanto meno essere determinato da un tribunale.
Quanto ai combattenti di al Qaeda, si trattava, per gli USA, di elementi non inquadrabili nelle forze
talebane.

Con il Protocollo addizionale del 1977 vengono aggiunti

6. I membri dei movimenti di liberazione nazionale


7. I guerriglieri

Il Protocollo addizionale ha rinnovato profondamente la disciplina precedente, dando una definizione di


forze armate del belligerante e determinando dei requisiti che qualsiasi membro delle forze armate deve
soddisfare per conservare lo status di combattente legittimo e godere dello status di prigioniero di guerra,
ponendo fine alla discriminazione tra regolari e irregolari. Le forze armate di una parte del conflitto, per
poter ricadere sotto l’art. 43, devono:

a. Appartenere ad una parte del conflitto


b. Essere organizzate
c. Essere sottoposte ad un comando responsabile per la condotta dei subordinati

L’unico dovere fondamentale dei combattenti, regolari e non, è quello di distinguersi dalla popolazione
civile mentre sono impegnati in un’operazione militare. Questa regola trova un’attenuazione in talune
situazioni in cui, a causa della natura delle ostilità, il combattente non può soddisfare interamente il
tradizionale requisito di distinzione. In tal caso, è sufficiente che egli porti apertamente le armi durante ogni
fatto d’armi e quando egli è esposto alla vista dell’avversario.

Le situazioni a cui fa riferimento l’articolo 44, che in sostanza legittima il metodo della guerriglia, hanno per
oggetto solo limitate eccezioni. Praticamente i movimenti di resistenza in territorio occupato e i movimenti
di liberazione nazionale. Taluni stati hanno apposto delle dichiarazioni interpretative che limitano
ulteriormente la portata della disposizione.

Spie, sabotatori e mercenari


Sono combattenti non privilegiati gli individui che, in caso di cattura, sono alla mercé del nemico, non
avendo diritto al trattamento di prigionieri di guerra. Essi sono tradizionalmente:

 Le spie, persone che, agendo clandestinamente o sotto falsi pretesti, ottiene o cerca di ottenere
informazioni nella zona di operazione del belligerante con l’intenzione di comunicarle al nemico.
L’art.46 del I Protocollo addizionale ha adattato le regole dello spionaggio alla nuova realtà di
guerra: ad oggi un atto di spionaggio può essere commesso in qualsiasi parte del territorio
controllato dall’avversario, non solo la zona di operazione. Non è da considerarsi spia colui che, in
abiti civili, ha la ventura di raccogliere informazioni di valore militare (ad es. uno spostamento di
truppe).
 Coloro che commettono atti di sabotaggio, l’atto di chi penetri in territorio controllato dal nemico
allo scopo di commettere atti ad esso nocivi attraverso la distruzione di beni. Il sabotaggio
commesso dietro linee nemiche da militari in uniforme non è punito, mentre può essere punito il
sabotaggio compiuto indossando la divisa del nemico (poiché esso rappresenta una violazione del
diritto di guerra) e da individui in abito civile (per violazione dell’obbligo di distinguersi dalla
popolazione civile). Durante i recenti conflitti (Afghanistan, Iraq) hanno operato forze speciali
inviate dagli USA oltre le linee nemiche per preparare l’avanzata. Poiché i corpi appartenenti alle
forze speciali non operavano in uniforme, essi non avrebbero potuto reclamare lo status di
legittimo combattente, qualora catturati
 I mercenari, categoria stabilita dal I Protocollo addizionale. Il problema principale consiste nella
loro identificazione. Secondo l’art. 47, sono mercenari coloro che:
a. Sono stati reclutati per combattere in uno specifico conflitto
b. Prendono parte diretta alle ostilità
c. Sono essenzialmente motivati da scopo di lucro
d. Non sono cittadini di una parte del conflitto o residenti nel territorio controllato da detta parte
e. Non sono membri delle forze armate di una parte del conflitto
f. Non sono membri delle forze armate di un terzo stato inviati in missione ufficiale

I volontari stranieri non sono dunque da considerare mercenari. L’art. 47 non impedisce che un
piccolo paese, con scarsa popolazione, si serva i cittadini stranieri per far fronte alle necessità
belliche: basta che essi siano inquadrati nelle sue forze armate.

Su iniziativa dei paesi del terzo mondo è stata conclusa nel 1989 una Convenzione internazionale
contro il reclutamento, l’utilizzazione, il finanziamento e l’addestramento di mercenari. Questa
convenzione ha un oggetto ben più ampio dell’art. 47 del Protocollo e non appartiene, a stretto
rigore, al diritto internazionale umanitario. A livello regionale esiste la Convenzione dell’AU
sull’eliminazione del mercenariato in Africa (1977), ma la redazione di una convenzione in materia
è ostacolata dagli occidentali, che temono una deviazione dai principi che informano il diritto
internazionale bellico.

Le compagnie militari private


Il fenomeno del crescente uso di compagnie militari private si inquadra nella “privatizzazione della guerra”,
che consiste nell’affidare compiti militari all’industria privata, le c.d. Private Military Companies. Il
problema che si pone è se i contractors, i membri delle PMC, godano dello status di legittimi combattenti e
possano partecipare direttamente alle ostilità.

Per poter essere qualificati come legittimi combattenti, seguendo l’art. 43 del I Protocollo addizionale, i
contractors debbono essere inquadrati nelle forze armate del belligerante, e quindi essere organizzati,
sottoposti ad un comando responsabile, che assicuri tra l’altro il rispetto del diritto internazionale
umanitario, ed appartenere ad una parte del conflitto.

Quindi i contractor possono essere considerati legittimi combattenti solo se inquadrati nelle forze armate
del belligerante. I contractor debbono essere distinti da altre categorie, quali le persone che accompagnano
le forze armate e i mercenari. Presso il Consiglio dei diritti umani nell’ambito del Working Group sui
mercenari era stato elaborato un progetto di convenzione in materia di PMC, ma esso ha incontrato la
netta opposizione degli occidentali, che hanno preferito strumenti di soft law quale il Documento di
Montreux, che detta regole di comportamento nella forma di raccomandazioni e “good practices”.
Le aree del conflitto armato
Le aree in cui i belligeranti possono dar corso alle ostilità sono il territorio nemico e l’alto mare. La
letteratura recente parla anche di una quarta dimensione, il cyberspazio.

Il territorio del neutrale può diventare legittimamente oggetto di violenza bellica nel caso in cui il suo
territorio sia diventato la base di operazioni ostili contro l’altro belligerante, o addirittura sia stato
occupato, oppure nel caso il neutrale abbia concesso basi militari o un territorio in affitto (lease) al
belligerante prima dell’inizio delle ostilità e mantenga tali concessioni.

Vi sono die territori permanentemente esclusi dalle ostilità, come il Canale di Suez, l’arcipelago delle Aaland
e il continente antartico. La Convenzione di neutralizzazione del Canale di Suez è invece stata violata a più
riprese.

L’oggetto della violenza bellica


Il principio fondamentale per quanto riguarda le persone è quello secondo cui la violenza non deve essere
diretta contro i civili e la popolazione civile.

Per quanto riguarda le cose, invece, occorre distinguere tra obiettivi militari e obiettivi civili. Solo i primi
possono divenire oggetto della violenza bellica. Tuttavia la distinzione non è, nella sua assolutezza, valida
per i tre tipi di conflitto armato. Il I Protocollo addizionale dà la definizione di obiettivi militari quegli oggetti
che, per loro natura, ubicazione, destinazione o impiego contribuiscono efficacemente all’azione militare, e
la cui distruzione totale o parziale, conquista o neutralizzazione offre, nel caso concreto un vantaggio
militare preciso. La definizione di obiettivo militare non può essere applicata sic et simpliciter alla guerra
marittima (ad es. un carico di petrolio costituisce sicuramente un obiettivo militare, ma non potrà essere
attaccata una petroliera che trasporti un carico di petrolio, ad esempio.

I mezzi e i metodi di combattimento


I principi fondamentali sono contenuti nell’art.35 del I Protocollo addizionale, che dispone il divieto di:

a) Impiegare armi, proiettili e sostanze, nonché metodi di guerra, capaci di causare mali superflui o
sofferenze inutili. Questo criterio è piuttosto vago, ma detta un criterio oggettivo, ossia non tiene
conto del fattore intenzionalità. Occorre tener conto che il criterio in esame è destinato a
proteggere il combattente, poiché la popolazione civile è protetta da altri principi. Quanto ai
parametri, l’interpretazione prevalente fa riferimento ai criteri della necessità e della
proporzionalità, con la conseguenza che un’arma sarà vietata se arreca mali non necessari o
comunque non proporzionali ai vantaggi militari che possono derivare dal suo uso. Non sarà
vietata, al contrario, un’arma il cui uso si renda necessario per colpire un obiettivo militare.

b) Di impiegare metodi o mezzi concepiti con lo scopo di provocare danni estesi, durevoli e gravi
all’ambiente naturale. È sufficiente che si verifichi uno dei tre effetti affinché la tecnica di modifica
dell’ambiente naturale ricada nella proibizione. L’interpretazione di questi termini può però essere
divergente (es. la Convenzione del 1977 intende il termine “durevole” come implicante un periodo
di mesi, mentre il I Protocollo lo interpreta come un periodo di vari decenni).
L’obiettivo di proteggere l’ambiente naturale nei conflitti armati è stato ribadito dal principio 24
della Dichiarazione di Rio del 1992 d dalla Corte internazionale di giustizia, che si è espressa per
l’esistenza di un “obbligo generale di proteggere l’ambiente naturale contro i danni estesi, durevoli
e gravi”.
La proibizione ha una concreta applicazione in materia di armi chimiche, batteriologiche ed
atomiche, mentre per ciò che concerne le armi convenzionali la proibizione riguarda l’uso che ne
viene fatto, non tanto l’arma in sé.
Occorre poi tener conto dell’art. 51, che vieta l’uso di mezzi e metodi di combattimento indiscriminati,
effettuati con mezzi di combattimento i cui effetti non possono essere limitati. Generalmente le armi
convenzionali non sono di per sé indiscriminate, ma ne può esser fatto un uso indiscriminato.

Le munizioni a grappolo sono state ampiamente usate nei recenti conflitti; talvolta gli ordigni rilasciati
restano inesplosi, con grave pregiudizio per la popolazione civile. La Convenzione di Oslo del 2008 non ne
stabilisce una proibizione totale: essa infatti non si applica agli ordigni più perfezionali, che non possono
essere considerati indiscriminati. Per il resto, la Convenzione di Oslo è una classica Convenzione di diritto
umanitario e di disarmo. Per gli stati non parte della Convenzione, la liceità delle cluster bombs dev’essere
valutata in relazione allo specifico impiego che ne viene fatto.

Un problema si è posto anche per l’uso di proiettili all’uranio impoverito. Tali armi sono impiegate contro
obiettivi militari e presentano notevoli vantaggi sotto il profilo militare. La Commissione istituita dal
Procuratore del Tribunale penale internazionale per la ex-Iugoslavia ha escluso che l’uso di tali proiettili
possa essere considerato illecito, ma senza approfondire adeguatamente la questione.

Due sono i parametri che vengono in considerazione, sotto il profilo del DI umanitario:

 Il divieto dell’uso di armi che arrecano mali superflui o sofferenza inutili


 Il divieto dell’uso di armi volte a causare danni particolarmente gravi all’ambiente naturale

Per poter determinare l’eventuale superfluità di un’arma occorre far riferimento ai criteri della necessità e
della proporzionalità. Non sarà vietata un’arma il cui uso si renda necessario per neutralizzare un obiettivo
militare, in particolare se il vantaggio militare che essa procura è superiore ai “mali” arrecati ai belligeranti.
Anche per quanto riguarda le armi atomiche, la Corte internazionale di giustizia non ne ha affermato la
totale illiceità.

Tali considerazioni portano a concludere che è difficile dimostrare in base ai principi generali che un’arma è
vietata perché produce sofferenze non necessarie/mal superflui o perché cu su poteva aspettare che essa
avrebbe provocato danni particolarmente gravi all’ambiente naturale. La va da seguire consiste dunque nel
concludere una convenzione ad hoc.

Le armi non letali, che provocano al nemico solo un’invalidità temporanea, non sono proibite da nessuna
convenzione ad hoc. Il loro impiego è quindi generalmente consentito, se esso non è espressamente vietato
da una specifica convenzione. Ad es. l’uso in guerra di gas lacrimogeni o altri agenti antisommossa
normalmente impiegati dalla polizia per motivi di ordine pubblico, sono vietati dalla Convenzione sul
disarmo chimico.

Metodo di combattimento vietato è altresì costituito dagli atti di perfidia, atti che fanno appello, con
l’intenzione di ingannarla, alla buona fede di un avversario per fargli credere che ha il diritto di ricevere o
l’obbligo di accordare la protezione prevista dalle regole del diritto internazionale applicabile nei conflitti
armati (es. simulare l’intenzione di negoziare, o la resa). Non sono invece vietati gli stratagemmi di guerra,
come i mascheramenti, le operazioni simulate o le false informazioni.

Il progresso tecnologico ha portato all’attenzione nuovi mezzi e metodi di combattimento, come le cyber
operations e gli autonomous weapons. Un attacco informatico potrebbe configurare un attacco
indiscriminato qualora avesse come conseguenza incidenti che colpissero tanto gli aerei civili quanto quelli
militari. Anche i sistemi automatici di combattimento (ossia gli ordigni) che selezionano e attaccano
autonomamente l’obiettivo non sono di per sé illegali, ma devono essere programmati in modo che il loro
impiego sia conforme al DI umanitario.
Il divieto dell’uso di determinati mezzi bellici
Vi sono categorie di armi il cui uso è espressamente vietato. Esse sono:

- Proiettili esplosivi o incendiari di peso inferiore ai 400 grammi, il cui uso provoca “sofferenze
inutili”. Essi però sono vietati solo se utilizzati contro gli individui e sparati da armi diverse
dall’artiglieria. Il loro uso è pertanto lecito contro cose costituenti obiettivo militare o anche nei
duelli aerei o nel tiro contraereo.
- Pallottole che si schiacciano o si dilatano nel corpo umano (comunemente denominati pallottole
dum-dum)
- Trappole, congegni con lo scopo di uccidere o colpire una persona e che funzionano all’improvviso
quando questa li tocca o si avvicina, credendo di avere a che fare con un oggetto innocuo.
- Armi che impiegano schegge non localizzabili ai raggi X, proibizione applicazione del principio di
divieto delle armi che provochino sofferenza inutile. Non rientrano tra le armi antipersona vietate
le armi i cui il ferimento mediante schegge non localizzabili sia solo un effetto secondario né quelle
che esplodono proiettando grappoli di schegge
- Armi batteriologiche. Il Protocollo di Ginevra del 1925 non esclude l’uso dell’arma biologica a titolo
di rappresaglia, mentre la Convenzione del 1972 è un puro trattato di disarmo, ma è ammissibile
un’interpretazione secondo cui la Convenzione del 1972 proibisce implicitamente l’uso delle armi
biologiche, poiché non si può usare ciò che non è possibile fabbricare o acquisire.
- Armi chimiche, messe definitivamente al bando nella Convenzione del 1993 sulla proibizione ed
eliminazione delle armi chimiche. Essa è innanzitutto una Convenzione di disarmo, che obbliga gli
stati a non usare le armi chimiche neppure a titolo di rappresaglia, e il divieto ha ormai assunto la
qualifica di obbligo disposto dal diritto internazionale consuetudinario.
La convenzione regola anche l’uso degli agenti antisommossa, proibendone l’uso come metodo di
guerra, ma ammettendone l’impiego per il mantenimento dell’ordine pubblico, per quanto non
chiarisca ad esempio se una potenza occupante possa usare gli agenti antisommossa per
mantenere l’ordine in territorio occupato.
- Armi laser accecanti. NB: il Protocollo a riguardo non proibisce l’uso del laser che provochino
l’accecamento come effetto fortuito o collaterale
- Mine antiuomo, vietate completamente, anche a titolo di rappresaglia, dalla Convenzione sulla
proibizione dell’uso, stoccaggio, produzione e trasferimento delle mine antiuomo e la loro
distruzione adottata ad Oslo nel 1997. L’Italia ha provveduto autonomamente a vietare l’uso a
qualsiasi titolo di ogni tipo di mina antipersona, fatto salvo l’utilizzo di un quantitativo minimo ai fini
di addestramento per operazioni di sminamento. La legge 274/1997 contiene una proibizione
ancora più severa da quella stabilita dalla Convenzione di Ottawa.
- Munizioni a grappolo, vietati dalla convenzione di Oslo del 2008, tranne che le bomblets rilasciate
non abbiano un congegno autodistruttivo

Le armi atomiche
La questione della liceità dell’uso delle armi atomiche è una vexata quaestio. Gli autori che si pronunciano
per l’illiceità affermano che si tratta di un’arma indiscriminata, che provoca sofferenze non necessarie, i cui
effetti si ripercuotono sugli Stati non partecipanti al conflitto armato, in violazione del principio di
neutralità. I difensori affermano invece che l’arma atomica potrebbe essere impiegata in conformità al
principio di non discriminazione, a quello di neutralità e a quello che fa divieto di provocare sofferenze non
necessarie, poiché la conformità di un’arma a detto principio va valutata in realzione all’importanza
dell’oviettivo militare, ed ai criteri di necessità e proporzionalità.

La Corte non è riuscita ad effettuare una scelta definitiva tra le due interpretazioni. Essa riconosce che l’uso
delle armi nucleari è poco conciliabile con i principi fondamentali del DI umanitario, in particolare il
principio di non discriminazione e quello per cui non si debbono arrecare sofferenze inutili. La Corte
ammette però anche che non dispone di elementi sufficienti per poterne concludere con certezza l’illeceità.
L’impiego delle armi nucleari sarebbe dunque vietato nella maggior parte dei casi, con riferimento a talune
ipotesi estreme di legittima difesa in cui viene messa in causa la stessa esistenza dello Stato. Il parere però
non contribuisce a chiarire in modo definitivo lo status. Nello statuto della Corte penale internazionale si
trova traccia di questo parere nelle dichiarazioni degli Stati al momento della firma: taluni Stati hanno
dichiarato che la disposizione che qualifica l’uso di armi indiscriminate come crimini di guerra è applicabile
anche alle armi atomiche, mentre altri (Francia, Regno Unito) hanno direttamente o indirettamente
affermato il contrario.

Il principio dell’eguaglianza dei belligeranti


Uno dei principi fondamentali del diritto bellico è quello dell’uguaglianza dei belligeranti, eguali davanti alle
“Leggi della guerra”. Qualora regole diverse dovessero balere per aggressore e aggredito, infatti, si
finirebbe per minare la solidità del diritto bellico, anche perché è difficile stabilire chi sia uno e chi l’altro.

La necessità militare
La necessità militare (o necessità bellica) va intesa come limite generale all’applicazione del diritto bellico,
nel senso che questo non troverebbe applicazione quando imperiose necessità impongono al belligerante
di agire diversamente. Ma la regola Kriegsraeson geht vor Krigsrechy finisce per mettere in discussione
l’intera cogenza del diritto bellico. Essa è priva id fondamento e il Tribunale americano a Norimberga statuì
chiaramente che la necessità militare non poteva essere invocata per giustificare l’uccisione di membri
innocenti della popolazione e la distruzione di villaggi e città. La necessità militare pu essere invocata come
giustificazione di un’azione altrimenti proibita solo quando ciò sia espressameten consentito da una
specifica norma del diritto bellico.

La necessità militare, nell’ottica moderna, assume anche un secondo significato completamente opposto al
precedente.la necessità militare rappresenterebbe in questo caso un limite generale all’azione bellica, nel
senso che il belligerante dovrebbe impiegare solo la quantità di forza necessaria per sconfiggere il nemico.
Tle principio ispira talune regole di diritto bellico, come quella secondo cui non possono essere impiegate
armi che provochino sofferenze non necessarie.

Infine, la necessità militare può venire in considerazione come esimente allo scopo di non sottoporre a
punibilità l’autore dell’atto. La scriminante non opera nel caso egli abbia commesso un crimine
internazionale. Inoltre, la scriminante opera nei confronti dell’autore dell’atto, ma non esenta lo Stato.

Il trattamento dei cittadini nemici e delle loro proprietà

I cittadini nemici possono essere internati. La IV Convenzione di Ginevra contiene disposzioni abbastanza
dettagliate per i cittadini nemici che si trovino sul territorio di una parte in conflitto. Il belligerante avrebbe
il diritto di espellere gli stranieri appartenenti al nemico, purché siano rispettatu elementi principi del diritto
umanitario.

Per le proprietà vige il principio secondo cui i beni degli stranieri di una parte in conflitto non possono
essere confiscati. Di regola, le proprietà vengono poste sotto custodia in modo da impedire atti di
disposizione per tutta la durata delle ostilità.

Le regole ora menzionate sono state applicate nei recenti conflitti caratterizzati da una limitazione
geografica delle ostilità. Questa prassi non p stata seguita dall’Italia, che durante il conflitto in Iraq si è
pronunciata per la non applicabilità della IV Convenzione ai cittadini iracheni residenti in Italia, partendo
dalla premessa secondo cui la lontananza dal teatro delle ostilità rendeva di fatto irrilevanti le regole dei
conflitti armati in zone completamente estranee al conflitto.
Costituisce bottino di guerra la proprietà pubblica del nemico. Anche il denaro può essere sequestrato,
purché si tratti di proprietà pubblica e non appartenga invece al singolo combattente.

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