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Stefano Bianchini

IL TRATTATO DI RAPALLO FRA DEFINIZIONI TERRITORIALI E PRINCIPIO DELLE NAZIONALITÀ*

1. Introduzione. Questioni nazionali e confini nel contraddittorio puzzle dell’immediato dopoguerra

Benché il diritto all’autodeterminazione dei popoli fosse già stato oggetto di articolate
considerazioni in diversi contesti internazionali e diplomatici 1, il modo in cui il Presidente Wilson decise di
sostenerlo pubblicamente a partire dal gennaio 1918 innescò ripercussioni – per molti versi inaspettate –
soprattutto sulle relazioni fra l’Italia e il costituendo Regno SHS**. Wilson, infatti, facendo dei suoi
“Quattordici punti” (peraltro considerati insoddisfacenti da Jugoslavi e Cecoslovacchi, almeno fino alle
modifiche apportate dal segretario di Stato Lansing nel giugno 1918) una leva fondamentale per la
costruzione della pace, insistette vigorosamente affinché fosse applicato il criterio linguistico nella
definizione dei nuovi confini di Stato 2. In verità, il suo atteggiamento fu particolarmente rigido sulla
“questione adriatica”, ma assai meno coerente in altre situazioni contese. Ad ogni modo, grazie al peso
politico-militare dello Stato che egli rappresentava, per la prima volta in un processo negoziale di pace fu
introdotto un riferimento normativo di carattere valoriale che stabiliva un nesso diretto fra modifiche
territoriali e l’applicazione di un criterio tanto soggettivo, quanto etnico, come quello linguistico. Di
conseguenza, venne indebolita l’accezione inclusiva, e di origine risorgimentale, dello Stato-nazione,
innescando un ampio ventaglio di controverse interpretazioni politico-diplomatiche, con gravi conseguenze
che si sarebbero avvertite lungo il corso di tutto il Novecento.

Comunque, e coerentemente con tale impostazione, Wilson negò, il 20 aprile 1919, di sentirsi
vincolato dal Trattato di Londra, in quanto gli USA non lo avevano firmato 3. A quel trattato, invece,
guardavano ancora, sia pure in maniera discordante, i delegati italiani alla Conferenza di Pace, giacché il
ministro degli esteri Sidney Sonnino ne chiedeva in modo inflessibile l’applicazione, mentre il primo

* Sono particolarmente grado a Mara Race e Carolina Muzzillo, alumne della LM MIREES dell’Università di Bologna, che, in tempi di
pandemia e blocchi di mobilità, sono riuscite ad aiutarmi a raccogliere fonti archivistiche a Trieste, Lubiana, Zagabria e Belgrado.
Senza il loro contributo non sarei mai stato in grado di portare a termine questo lavoro. Ringrazio altresì la dr.ssa Ersilia
Fabbricatore che mi ha messo a disposizione la documentazione conservata al Ministero degli Esteri a Roma e l’amico Ravel Kodrič
per gli interessanti spunti di approfondimento e ricerca che mi ha suggerito.
** L’utilizzo della terminologia per indicare il nuovo stato slavo-meridionale sorto dalle ceneri dell’Impero Absburgico nel 1918 varia
frequentemente nella documentazione archivistica vagliata. Molto spesso il Regno SHS viene genericamente indicato con quello di
Jugoslavia (benché questo sia diventato il nome ufficiale dello Stato solo nel 1929). In altre occasioni, gli “Jugoslavi” sono considerati
i popoli slavo-meridionali ex absburgici, distinti quindi dalla Serbia e dal Montenegro. Tuttavia, la componente unionista di
quest’ultimo viene spesso inclusa nel concetto di “jugoslavismo”. Infine, si ricordi che fra il 29 ottobre e il 1° dicembre 1918 aveva
operato nei territori austro-ungarici un Consiglio Nazionale dello “Stato degli Sloveni, Croati e Serbi” (Država Slovenaca, Hrvata i
Srba, ossia DSHS), prima della proclamazione del “Regno SHS” (ossia Kraljevina Srba, Hrvata i Slovenaca). Noi abbiamo cercato di
essere più chiari possibili nella narrazione che segue, ma è bene che il lettore tenga presente tali distinzioni.
1
Alcune interessanti considerazioni si trovano in proposito in Ubavka Ostojić Fejić, Sjedinjene Američke Države i Srbija
1914-1918, ISI, Beograd, 1994, pp. 200-210, il cui ultimo capitolo è dedicato alle relazioni italo-serbo-americane a
cavallo fra 1917 e 1918. Sul concetto di autodeterminazione dei popoli si era cominciato a discutere dagli anni
Sessanta del XIX secolo, quindi in Germania, Boemia, Francia e Polonia. Più articolate furono le posizioni di Lenin sin
dal 1913. Si v. Jörg Fisch, The Right of Self-Determination of Peoples. The Domestication of an Illusion, Cambridge U. P.,
Cambridge, 2015, pp. 117-122.
2
Sull’ampiezza delle pretese territoriali jugoslave nei confronti dei vari vicini, dettate dal desiderio di includere nel
nuovo stato tutti gli appartenenti alle tre componenti del Regno, secondo una concezione estensiva del principio delle
nazionalità ben espressa dalla mappa presentata dal gen. Petar Pešić al capo di stato maggiore del maresciallo Foch il
9 gennaio 1919 si v. Livia Kardum, Problemi istočnih i zapadnih granica Kraljevine Srba, Hrvata i Slovenaca na Pariškoj
mirovnoj konferenciji, in “Politička Misao”, Vol. 26, n. 4, 1989, p. 134.
3
AJ 334-1-1, “Ujedinjenje”, Trumbić al Ministero degli esteri, 21.4.1919.

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2

ministro Vittorio Emanuele Orlando – in ossequio al principio linguistico – si dimostrava più incline a
rinunciare alla Dalmazia (dove la componente italiana era da tempo minoritaria) in cambio di Fiume (la cui
popolazione in città era maggioritariamente italiana). A sua volta, Wilson candidamente ammise, con il
premier italiano Orlando, che la stessa Italia non fosse vincolata dai suoi “Quattordici punti” 4.

Si gettarono, così, le basi di uno stallo prolungato nel “Consiglio dei Quattro”, incapace di sciogliere
il nodo dei confini adriatici, il cui tracciato dipendeva in larga misura dai criteri applicati per valutare
l’equilibro demografico sul terreno. Nel caso controverso di Fiume, ad esempio, la prevalenza italiana nella
città si sarebbe ribaltata a favore dell’elemento croato, se al centro urbano fossero stati affiancati il
sobborgo orientale di Sušak e quelli a settentrione 5.

D’altra parte, che la spinosa questione del “confine orientale” si sarebbe ripercossa sul futuro delle
relazioni italo-jugoslave era apparso già evidente durante il Congresso di Roma dell’8-10 aprile 1918.
L’evento – su cui raramente si sofferma la letteratura italiana – era stato promosso su iniziativa di Luigi
Albertini e inaugurato in Campidoglio alla presenza di delegati dell’Intesa, dell’ambasciatore statunitense a
Roma e dei protagonisti del movimento della “New Europe” 6. In quell’occasione, i rappresentanti dei popoli
soggetti all’Austria-Ungheria ne concordarono il dissolvimento in un documento, accolto da tutti i
partecipanti, e denominato “Patto di Roma” 7. L’Italia avrebbe potuto cogliere il momento per svolgere una
funzione trainante in questo processo. Nell’entusiasmo generale, infatti, l’etica politica del principio delle
nazionalità, unitamente ai numerosi appelli all’”unità nazionale” dei popoli, prevalse su ogni altra
considerazione. Sicché, l’Italia avrebbe potuto agevolmente candidarsi a fonte cruciale di ispirazione
internazionale, nel nome dei suoi valori risorgimentali fondati sul richiamo alla “libertà dei popoli”. Certo,
questo avrebbe impresso rinnovato anelito alle idee europeiste, ben presenti nel pensiero mazziniano e
nelle gesta di Garibaldi, ossia a quanto di più lontano le autorità politiche del tempo fossero inclini a
recepire, visto il prevalere di orientamenti liberal-imperialisti. Mancò, quindi, la volontà di rimuovere gli
equivoci culturali che già allora impregnavano l’immaginario geopolitico delle varie delegazioni presenti al
Congresso e, con essa, quella di spianare il terreno a reciproche concessioni nella definizione dei nuovi
confini post-bellici.

Nel caso specifico italo-jugoslavo, alcuni tentativi di mediazione furono effettivamente avviati il 7 e
10 aprile, allorché Robert Seton Watson e Wickham Steed riuscirono ad organizzare dei colloqui fra il
gruppo del periodico di Salvemini “l’Unità”, cui faceva riferimento il “Comitato di propaganda per l’intesa
italo-jugoslava”, e Ante Trumbić che, con lo scultore Ivan Meštrović, fu attivo partecipante al Congresso 8.
Ma si trattò di abboccamenti privi di un sostegno governativo italiano anche informale e, quindi, inadatti a
produrre risultati significativi.

Restò così imprecisato quale equilibrio dovesse stabilirsi fra il riconoscimento del principio delle
nazionalità, inteso come “fondamento dei futuri confini”, e gli “interessi vitali di ciascuna delle parti” al
momento di definire frontiere capaci di garantire la sicurezza dell’Italia e del costituendo stato degli Slavi
meridionali. In tali condizioni fu inevitabile, per Trumbić, dimostrarsi riluttante ad impegnarsi in un
chiarimento, benché a ciò fosse stato sollecitato dai suoi sostenitori inglesi, fra cui appunto Wickham Steed

4
Ivo Lederer, La Jugoslavia dalla conferenza di pace al Trattato di Rapallo, Il Saggiatore, Milano, 1966, p. 229.
5
Si v., ad esempio, art. in francese di Guerrassimowitch, Fiume yugo-slave, in AJ, 334-1-10, 1919.
6
Sul ruolo della rivista “New Europe” e dei suoi più attivi componenti si v. Stefano Bianchini, Liquid Nationalism and
State Partitions in Europe, Edward Elgar, Cheltenham, 2017, p. 82; Harry Hanak, The New Europe 1916-1920, in “The
Slavonic and East European Review”, Vol. 39, No. 93 giugno 1961, pp. 369-399.
7
Il testo Le Pact the Rome, in La question Adriatique. Recueil de documents officiels, L’emancipatrice, Paris, 1920, pp.
24-26.
8
Leo Valiani, La dissoluzione dell’Austria-Ungheria, Il Saggiatore, Milano, 1985 (ma prima ed. 1966), pp. 361-63.

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e Robert Seton Watson 9. Per parte sua, Sonnino rifiutò di incontrare la delegazione jugoslava a margine
della Conferenza, con ciò acuendo la sfiducia del futuro ministro degli esteri jugoslavo verso gli Italiani,
nonostante il colloquio, peraltro di pura cortesia, concessogli dal primo ministro Orlando. A rafforzare la
diffidenza di Trumbić nei confronti di Roma contribuì pure la decisione di Sonnino di prendere le distanze
dall’accordo raggiunto il 7 marzo precedente fra lo stesso Trumbić e l’allora presidente della Federazione
italiana della stampa, Andrea Torre. Come è noto, l’accordo – che fu fatto proprio dal Congresso di Roma –
riconosceva “il diritto all’unificazione e all’indipendenza della nazione jugoslava (sic)” così come di quella
italiana; si obbligavano le parti a risolvere amichevolmente eventuali divergenze territoriali nel rispetto
degli interessi vitali di ciascuna nazione, garantendo altresì particolare riguardo alle esigenze culturali,
linguistiche ed economiche di quei “nuclei nazionali” (sic: non minoranze!) che sarebbero stati inclusi entro
i confini dell’altro Stato 10.

2. Le varianti interpretative del “principio di nazionalità” e l’impotenza delle diplomazie.

In effetti, la chiusura tanto culturale, quanto diplomatica, dimostrata da Sonnino in quei frangenti,
contribuì ad approfondire, nel tempo, le divergenze fra i due Paesi. Del resto, Sonnino non fu neppure
insensibile alle sirene di quanti gli prospettavano l’eventualità di insurrezioni armate in Croazia e
Montenegro contro le autorità dell’appena proclamato Regno SHS, al punto di approvare già il 9 dicembre
1918 un piano, presentatogli da Badoglio alcuni giorni prima, e che mirava a incoraggiare la conflittualità
etno-nazionale interna, soprattutto fra Croati e Serbi, secondo una visione del “principio delle nazionalità”
in aperto contrasto con le aspirazioni risorgimentali di carattere unitario 11.

Il piano venne perseguito per quasi due anni, in varie forme, da agenti dei servizi segreti italiani
facenti capo a Cesare Finzi (chiamato anche Pettorelli Lalatta). Tramite contatti clandestini e, almeno a
cavallo fra il 1918 e il 1919, con il beneplacito del Ministro degli esteri, l’Italia tentò di consolidare il proprio
controllo sui territori adriatici occupati dopo l’armistizio di Villa Giusti, anche a costo di accentuare
l’instabilità balcanica dell’immediato dopoguerra e facendo leva, come si è detto, su un’interpretazione del
“principio delle nazionalità” ritorta ai danni della nascente Jugoslavia 12. Secondo un rapporto inviato da
Finzi il 23 febbraio 1919 (e che Badoglio girò a Sonnino), suoi agenti incaricati sarebbero riusciti a prendere
contatto sin dalla metà di gennaio con esponenti vicini a Stjepan Radić e Josip Predavec, rispettivamente
presidente e vice presidente del Partito contadino croato. Tuttavia, quanto riferì Finzi confliggeva con la
delibera di Streljani del 3 febbraio. In questo documento, infatti, il Partito contadino da un lato rivendicava

9
Sulle pressioni di Robert Seton Watson v. la lettera a Trumbić del 2.4.1918 e successivamente ancora i commenti di
Seton Watson, nonché il contenuto delle valutazioni di Salvemini su Trumbić del 14 aprile 1918 in Robert Seton
Watson i Jugoslaveni, Korespondencija 1906-1918, Institut za Hrvatsku povijest, Zagreb 1976, doc. n. 212, 215 e 216.
10
Il testo dell’accordo è stato pubblicato in italiano in Robert Seton Watson…. cit., prilog 2, p. 384; in croato si trova
nella sezione “Dokumenti 1915-1955 za istraživanje jugoslavensko-talijanskih odnosa,” in “Časopis za suvremenu
povijest”, Vol. 7, No. 1, 1975, pp. 259-260. Si v. anche il telegramma di Gabinetto n. 626/112 in cui l’amb. italiano a
Londra Imperiali riferiva al proprio governo dei contenuti principali dell’accordo, ASMAE, Ufficio Cifra, Telegrammi di
Gabinetto in arrivo, Gran Bretagna 1918 (4). Ora anche in
http://www.farnesina.ipzs.it/mostra/297/sezioni/1604/bacheche/immagine/030421tel%20112Londra_accordo%20co
n%20jugoslavi.
11
DDI, vol. III, VI serie, p. 142. Il piano Badoglio e l’approvazione di Sonnino sono ben descritti da Ivo Lederer, op. cit.,
pp. 87-90.
12
In realtà, l’atteggiamento ambivalente dell’Italia verso l’Adriatico orientale aveva cominciato a manifestarsi già
all’indomani della Dichiarazione di Corfù, quando l’allora rappresentante diplomatico presso il governo serbo in esilio
nell’isola ionica, Carlo Sforza, cercò prima di stabilire un rapporto con Trumbić e, successivamente, dati i dissensi
riscontrati, di privilegiare quello con Pašić, trovando in ciò l’appoggio di Sonnino, come si vedrà più avanti. Fu,
comunque, tale ambivalenza (se interagire con il processo di integrazione jugoslava o favorire solo un rapporto con la
Serbia) ad incoraggiare altri settori dello Stato ad operare con lo scopo di minare l’unificazione degli Salvi meridionali.

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l’indipendenza di una Croazia repubblicana (peraltro disposta a partecipare ad una Jugoslavia federale 13),
esaltando – in maniera un po’ confusa – Wilson, l’autodeterminazione dei popoli e la rivoluzione russa;
dall’altro, non risparmiava critiche all’occupazione italiana dell’Adriatico orientale, così come all’uso della
forza da parte della polizia serba 14.

Finzi, invece, essendosi (falsamente) presentato in Croazia come capo di un partito, comunicò a
Roma di aver sondato le intenzioni di Radić nei confronti della Conferenza di Pace, raccogliendo, a suo dire,
“grandissime simpatie per l’Italia”, nonché un’ambigua condanna delle “aspirazioni jugoslave riguardanti i
territori abitati da popolazioni miste”. Ad ogni buon conto Finzi, pur esprimendo simpatie per le posizioni
croate, informò il governo di aver prudenzialmente avvertito il proprio interlocutore che Roma non avrebbe
potuto appoggiare apertamente le loro richieste: affermazione, questa “accolta a malincuore dagli
interessati” 15.

In realtà, benché Finzi presentasse un quadro alterato della situazione in quanto all’epoca Radić
non godeva ancora di un grande seguito, il leader contadino intendeva effettivamente stendere un
memorandum da recapitare a Wilson. A tal fine avrebbe preso contatto con esponenti italiani, almeno
secondo quanto riferì il luogotenente LeRoy King, che faceva capo alla missione statunitense a Vienna,
diretta da Archibald Cary Coolidge. King sostenne che l’arresto di Radić, avvenuto nella notte fra il 25 e il 26
marzo, aveva impedito il suo ritorno a Fiume, dove – sotto falso nome – si sarebbe dovuto incontrare con
due ufficiali italiani a Buccari/Bakar 16. In seguito al suo arresto alcuni sostenitori di Radić avevano
minacciato un’insurrezione. In realtà, non accadde nulla. Resta il fatto che, nonostante fosse incarcerato,
Radić continuò a lavorare ad un memorandum, ne informò la moglie 17, sostenne di aver raccolto un
numero rilevante di firme (varie fonti dicono da 115.000 a 200.000) e, quindi, sempre tramite Fiume, inviò il
2 aprile un telegramma in francese a Sonnino, in cui la informava del suo arresto, dell’esistenza di un
memorandum accompagnato da numerose firme e tenuto celato a Zagabria. Infine, lo pregava di
incoraggiare le potenze dell’Intesa affinché inviassero una delegazione a Zagabria per rendersi
direttamente conto della situazione 18. Il 7 il segretario della delegazione italiana a Parigi trasmise il
dispaccio al suo omologo della Conferenza di Pace, Dutasta. Tanto dinamismo potrebbe spiegare il contesto
entro cui si svolse la preoccupata visita di Herbette a Trumbić, di cui parleremo più avanti, ma che avvenne
peraltro solo alcune settimane dopo, il 25 aprile 1919. Radić, ad ogni buon conto, rimase in prigione fino al
27 febbraio 1920.

13
Sulla posizione di Radić fra repubblicanesimo croato e jugoslavismo si v. il suo articolo U Jugoslaveskom jedinstvu
hoćemo svoju Hrvatsku Državu, in “Dom”, n. 46, 21 nov. 1918 pubblicato nel volume Stjepan Radić, Politički spisi
govori i dokumenti, Dom i svijet, Zagreb, 1994, pp. 206-208.
14
Il testo della risoluzione era stato completato da Stjepan Uroić con il benestare di Radić e tradotto in francese il 12
febbraio per essere poi consegnato ad agenti della Francia e recapitato a Parigi. In realtà il memorandum non venne
mai spedito, ma fu pubblicato prima a Zagabria e successivamente da “Le Temps”. V. la ricostruzione di Bogdan
Krizman, Korespondencija Stjepana Radića, Institut za hrvatsku povijest, Zagreb, vol. II, pp. 58-59.
15
DDI, vol. II, VI serie, doc. n. 502.
16 Lieutenant LeRoy King to Professor A. C. Coolidge, Copy to Chargé d'Affaires, American Legation, Belgrade, Report

no. 15. Subject: Arrest of Radić, 28 marzo 1919 in Journal of Croatian Studies, Annual Review of the Croatian Academy
of America, New York, N.Y., number I, 1960, pp. 75-168, accessibile in http://www.studiacroatica.org/jcs/01/0108.htm.
17
Stjepan Radić Mariji Radić, 29.3.1919, “Au Congrès de la paix à Paris, aux mains du Président américain Wilson”, in
Bogdan Krizman, op. cit., p.124.
18
Ibid., p. 36. Il testo della petizione/memorandum è in Ivo Banac, Nacionalno pitanje u Jugoslaviji, Globus, Zagreb,
1984, p. 228. Il testo del telegramma è conservato presso Archivio storico-diplomatico del MAECI, Fondo Conferenza
della Pace, b. 1. Sulla questione si v. anche Francesco Caccamo, Il sostegno italiano all’indipendentismo croato, in
“Nuova storia contemporanea”, VIII, n. 6, 2004, pp. 23-56.

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Riassumendo questa intricata situazione, appare evidente come il “principio delle nazionalità”,
appena formulato, fosse già diventato fonte di conflitti e di interpretazioni divaricanti, con immediate
ripercussioni su confini e territori. Nel caso relativo alla “questione adriatica” si venivano ad intrecciare, in
modo incoerente, le rivendicazioni jugoslave del Regno SHS; quelle di alcuni partiti croati, fra l’altro incerti
fra federalismo repubblicano e separatismo (come nel caso del partito del diritto di Ivica Frank); quelle dei
liberal-socialisti (da Bissolati a Salvemini) preoccupati di trovare una mediazione su Istria e Dalmazia con le
componenti jugoslave; quelle degli irredentisti italiani (in cui confluivano superomismo, estetismo e
futurismo, così come narrazioni etniche e storico-culturali in un arco di posizioni che andavano da
D’Annunzio a Federzoni); e infine, non meno importanti, quelle nazional-imperialiste espresse da
componenti governative italiane, nonché da buona parte dei comandi militari (specie della marina) e di
servizi segreti “deviati” che ad esse facevano riferimento.

Per comprendere, quindi, bene come si giunse a Rapallo in tanta confusione di idee, speranze e
passioni, è di grande rilevanza rileggere la memoria che Salvemini sentì la necessità di inviare, con un
proprio commento manoscritto, al ministro degli esteri Sforza il 25 luglio del 1920. Nel documento, egli
ricostruì nel dettaglio quando avvenne in Campidoglio durante le riunioni dell’aprile 1918, ed espresse la
propria posizione sulla controversa questione dei confini. Ciò avvenne nel momento stesso in cui Sforza si
apprestava ad imprimere un’accelerazione a trattative troppo a lungo trascinatesi nel tempo e, come
vedremo, molti elementi descritti da Salvemini furono di grande aiuto a Sforza per definire gli sviluppi della
sua azione diplomatica 19.

In sintesi, Salvemini si concentrò sulla figura chiave di Trumbić, descritto come “sinceramente
convinto della necessità che Italiani e Slavi sieno associati contro il comune nemico pangermanista”. Il
timore di un ritorno degli Absburgo a Vienna o a Budapest costituiva il fondamento di un “modus vivendi”
che l’Italia avrebbe potuto costruire con il futuro Stato serbo-croato-sloveno, se all’accettazione dei
“sacrifici” richiesti a questa parte si fosse affiancato un fronte comune contro un potenziale ritorno degli
Absburgo a Vienna o a Budapest 20. Tuttavia Trumbić – nella ricostruzione di Salvemini, ma che trova
conferma anche nella documentazione archivistica conservata a Belgrado, così come nella corrispondenza
di Seton Watson 21 – aveva ritenuto di doversi mostrare “egualmente solidale con tutte le province del
futuro stato jugoslavo” e pertanto non poteva fare concessioni a spese soprattutto degli Sloveni senza
distruggere la propria credibilità morale e politica, a meno che – “a fatti compiuti”, ossia a guerra conclusa
e regno jugoslavo istituito – le richieste dell’Italia non venissero imposte al nuovo Stato da “Francia,
Inghilterra e America”. Salvemini, quindi, illustrò a Sforza quali “sacrifici” territoriali avrebbero potuto
essere accettati da chi, come Trumbić, restava convinto che Gorizia e “tutto l’Adriatico orientale, da Duino
ad Antivari, appartenesse alla Slavia” ossia a territori in cui vivono anche Italiani “i quali nel suo pensiero
probabilmente non sono che Slavi italianizzati o rinnegati”. In questo quadro, secondo Salvemini, i
“sacrifici” avrebbero potuto riguardare Gorizia e Trieste, l’Istria fino a Pola, ma certamente non la Dalmazia
e la Liburnia.

In precedenza, nel 1919, una nota elaborata da un estensore anonimo per il Ministero degli esteri
jugoslavo e dedicata agli accordi segreti in tempo di guerra, non solo entrava ampiamente nel merito del
Trattato di Londra, del contesto in cui questo fu firmato e delle sue ripercussioni per il giovane Regno SHS,

19
ASMAE, Questione adriatica 1920-21, filza n.7, sottofasc. VIII, Salvemini-Trumbich.
20
Un aspetto, questo, che deve essere rimasto impresso in Sforza, vista la documentazione approvata a latere del
Trattato di Rapallo e su cui torneremo.
21
V. Robert Seton Watson i Jugoslaveni, Korespondencija 1906-1918, cit., allegato al doc. 216, pp. 321-327, nonché AJ,
334-1-1, “Ujedinjenje”, Trumbić al Ministero degli esteri, 25 aprile 1919 o, ancora, Trumbić nella sua relazione del 15-
20 maggio 1919 al governo reale, in AJ 344-1-1, “Ujedinjenje”, 21 maggio 1919.

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ma dedicava uno specifico paragrafo al Congresso di Roma per concludere come la sua rilevanza politica
stesse proprio nel superamento del Trattato di Londra. Quest’ultimo, infatti, era stato stipulato nel 1915
nella convinzione che l’Austria-Ungheria sarebbe uscita dal conflitto ridimensionata, ma non demolita. Al
contrario, nel summit svoltosi a Roma in Campidoglio e in un quadro politicamente del tutto nuovo, si era
non solo convenuto il superamento della monarchia absburgica da parte di tutti i partecipanti, ma anche
l’affermazione di nuovi princìpi di libertà. Sicché, nell’interpretazione attribuita a quell’evento dalla
diplomazia SHS, l’Italia aveva allora assunto un impegno nei confronti degli Jugoslavi in quanto componente
alleata riconosciuta. Di conseguenza, i nuovi rapporti bilaterali avrebbero dovuto svilupparsi durante la
Conferenza di pace in coerenza con tale vincolo 22.

Con tutta evidenza, quindi, la memoria di Salvemini contribuì non poco, come vedremo, ad aiutare
il giovane Carlo Sforza nell’orientare la propria azione diplomatica, una volta divenuto ministro degli esteri
e potendo contare sull’appoggio di Giolitti.

Ma negli anni appena trascorsi, ossia fra il 1918 e il 1919, al vincolo assunto in Campidoglio non si
sentivano certo legati né Orlando, né Sonnino, il quale ultimo, in particolare, non intendeva pregiudicare
l’applicazione del Trattato di Londra (a cui si sentiva strettamente obbligato per averlo lui stesso negoziato)
con la possibile aggiunta di Fiume che, a suo tempo, non era stata prevista.

D’altro canto, Trumbić si vedeva incoraggiato dall’atteggiamento dell’amministrazione statunitense


– che il 10 febbraio 1919 aveva ufficialmente riconosciuto, primo paese al mondo, il Regno SHS – a
sostenere il più possibile il ricongiungimento di tutti gli Slavi meridionali in una medesima cornice statuale,
mentre Radić, Frank e taluni esponenti sloveni fedeli agli Absburgo (come Šušteršič) congiuravano, ciascuno
per proprio conto, per realizzare progetti separatisti alternativi, cercando una sponda in campo
internazionale per lo più con l’Italia, ma talvolta anche con la Francia, visti i contatti coltivati da Radić con
esponenti del mondo parigino.

Wilson, a sua volta, confortato dalle conclusioni cui era giunta la House Inquiry, ossia la
commissione da lui stesso costituita nel 1917 allo scopo di individuare i fondamenti nazionali di una “pace
stabile” in Europa 23, aveva formulato una propria proposta di frontiera (la famosa “linea Wilson”) che
limitava fortemente le aspettative italiane a Nord-Est in base ad indicazioni relative alla diffusione
linguistica e ricavate da rilevazioni dell’epoca absburgica, prontamente contestate da Roma. Per Trumbić,
invece, questo approccio favoriva la possibilità di mantenere quanto più possibili unite le tre componenti
del neonato Regno SHS, evitando dolorose amputazioni che avrebbero complicato, in futuro, i rapporti con
i Paesi vicini e con l’Italia in particolare, nonché innescato imprevedibili ripercussioni in politica interna 24. In
realtà, la situazione sul terreno presentava caratteristiche ben più complesse rispetto all’approccio
semplicistico di Wilson, specie nelle zone etnicamente miste, dove la maturazione di aspettative alquanto

22
Tajni sporazumi, doc. non firmato di 18 pagine, in AJ, Političko odeljenje MIP-a, Kabinet Ministra Inostranih Poslova,
fondo 334-1-2, 2019.
23
A.S. Link et al. (eds.), The Papers of Woodward Wilson, Princeton U. Press, vol. 45, 1979, pp. 534-539 and Heather
Derek, National Self-Determination: Woodrow Wilson and his Legacy, St. Martin’s Press, New York, 1994, pp. 36-46.
24
Sulla questione etno-linguistica dell’Adriatico orientale e la posizione di Trumbić si v. il verbale della riunione del 10
gennaio 1920 fra la delegazione jugoslava e il “Consiglio dei Quattro” in Ministarstvo Inostranih dela, Jadransko
pitanje od Pariza do Rapala, Državna Štamparija, Beograd, 1924, doc. n. 11, pp. 53-67. Curiosamente, tanto Nitti,
quanto Scialoja, benché presenti, si astennero da qualsiasi commento, come conferma un telegramma di Pašić a
Davidović dell’11 gennaio, in Ibid., doc. n. 12, p.67.

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7

divergenti rischiava di alimentare opposti estremismi nazionalistici, come poi si verificò a Spalato, a Trieste,
a Pola e nella stessa Fiume, divisa fra autonomisti e unionisti 25.

Esiste una vasta letteratura, ormai, sulla posizione assunta dal presidente americano, sulla sua
irremovibile convinzione che fosse necessario costruire un sistema internazionale capace di garantire la
pace, a capo del quale porre la Società delle Nazioni e il principio delle nazionalità, quest’ultimo anche a
barriera degli analoghi, e ben più radicali, pronunciamenti dei bolscevichi. Note sono pure le tensioni
insorte alla Conferenza della Pace fra Wilson e i rappresentanti dell’Intesa 26. Le distanze, di volta in volta, si
erano misurate sulla questione adriatica, sull’assetto delle colonie o del commercio marittimo, o su altri
aspetti al di là di quanto da noi qui trattato. In sostanza, però, il presidente americano era profondamento
convinto della necessità di stabilire un quadro etico condiviso, in grado di assicurare la pace mondiale. In
questo, egli si riteneva investito da un idealismo messianico, da una sorta di dovere religioso, che mal si
confaceva con gli orientamenti degli altri Paesi vincitori, attratti piuttosto, per esperienza storica, da
politiche fondate sul “balance of power” 27. Ne derivarono attriti e incomprensioni in particolare con il
governo italiano per quel che riguardava gli assetti dell’Adriatico, ma anche imbarazzo con gli altri alleati
dell’Intesa, trovatisi in diversi momenti stretti fra Washington e Roma.

Questo spiega perché, durante la Conferenza di Parigi, si siano verificate convergenze fra Francia,
Gran Bretagna e Stati Uniti, alternate da incontri a due o tre con l’Italia. Furono così analizzate soluzioni
territoriali non sempre coincidenti fra loro e, comunque, per lo più lontane dalle aspettative italiane 28. Il 23
aprile 1919 Wilson rese pubblica la propria posizione sulla questione adriatica. Rivolgendosi direttamente
alla popolazione italiana, egli si espresse, fra le altre cose, a favore dell’annessione di Fiume alla Jugoslavia,
senza aver informato gli Alleati del suo passo. Come è noto, la reazione delle autorità italiane, che si videro
scavalcate e delegittimate dal comportamento di Wilson, fu recisa e provocò il rientro in Italia di Orlando e,
subito dopo, di Sonnino. Trumbić commentò la nuova situazione preconizzando possibili cambiamenti
politici in Italia, auspicando un governo Nitti o, con minor entusiasmo, un esecutivo guidato da Giolitti e
suggerendo cautela al proprio governo. Il suo stesso commento alla reazione pubblica di Orlando fu
improntato sia ad alcuni retroscena fra i quatto alleati che, a suo dire, sarebbero stati informati in anticipo
delle decisioni di Wilson; sia al temporaneo ritiro della delegazione italiana che avrebbe potuto avere, come
conseguenza, un rinvio della firma del trattato di Versailles con la Germania, con ricadute inevitabili sullo
scioglimento della “questione adriatica” 29.

Nel frattempo, il 6 aprile Finzi aveva informato il capo di stato maggiore gen. Armando Diaz della
situazione in Croazia, sostenendo la credibilità di Radić e il prossimo avvento di un’insurrezione a Zagabria,
concordata con Josip Predavec per il 7 o 14 aprile, ossia prima che questi venisse arrestato, a sua volta,
poco dopo il fermo di Radić. Predavec venne, in realtà, rilasciato il 1° aprile per assenza di prove, ma
l’attesa insurrezione comunque non si verificò; anzi, i contadini continuarono tranquillamente a vendere i
loro prodotti al mercato di Zagabria 30. Tuttavia, Finzi era venuto al corrente dell’esistenza del memorandum

25
Vjekoslav Perica, Pax Americana na Jadranu i Balkanu, Algoritam, Zagreb, 2014, pp. 76-80 e Marina Cattaruzza,
L’Italia e il confine orientale, Il Mulino, Bologna, 2007, pp. 133-34.
26
Stefano Bianchini, Liquid Nationalism … cit., pp. 77-103.
27
Allen Lynch, Woodrow Wilson and the Principle of “National Self-Determination” as Applied to Habsburg Europe, in
Henry Huttenbach and Francesco Privitera (eds.), Self-determination. From Versailles to Dayton. Its Historical Legacy,
Longo, Ravenna, 1999, pp. 16-30 and Sterling J. Kernek, Woodrow Wilson and National Self-Determination along
Italy's Frontier: A Study of the Manipulation of Principles in the Pursuit of Political Interests, in “Proceedings of the
American Philosophical Society”, Vol. 126, No. 4, Agosto 1982, pp. 243-300.
28
AJ, 334-1-1, “Ujedinjenje”, Trumbić al Ministero degli Esteri, 21, 22 e 23 aprile 1919.
29
AJ, 334-1-1, “Ujedinjenje”, Trumbić al Ministero degli Esteri, 24 aprile 1919.
30
Così LeRoy King nei suoi rapporti a Coolidge, in Lieutenant LeRoy King to Professor A. C. Coolidge, cit.

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con le firme raccolte dal partito contadino e a più riprese, nel corso del mese di maggio riferì anche a
Sonnino di una situazione pre-insurrezionale che, suo modo di vedere, avrebbe potuto predisporre una
situazione vantaggiosa per le mire italiane 31. Diversamente, ma sempre in quel periodo, LeRoy King
raccoglieva, con riserva, voci attribuite ad ambienti governativi jugoslavi, secondo cui Radić stava
preparando una rivolta per consentire alle truppe italiane di intervenire in Croazia, mentre il colonnello
francese Dehove del Deuxième Bureau aveva comunicato a LeRoy King di essere stato avvisato da Radić,
poco prima del suo arresto, che si stavano preparando disordini fomentati, però, da “agenti belgradesi”,
senza far parola dei contatti fra Radić e gli Italiani 32.

Nulla di tutto ciò avvenne. Ma che, comunque, tutte queste dicerie avessero alzato la tensione è
confermato dalla visita a Parigi del diplomatico francese Maurice Herbette a Trumbić, la sera del 25 aprile,
con la chiara intenzione di conoscere gli orientamenti jugoslavi in caso di un attacco militare italiano a
Lubiana e Zagabria, evidentemente ritenuta un’eventualità da considerare. Trumbić, pur non
sottovalutando l’ipotesi, ritenne più realistico prevedere, eventualmente, alcune azioni mirate a rafforzare
il controllo italiano sulle aree dalmate già occupate al termine del conflitto, magari approfittando di
incidenti di frontiera. Dando, quindi, seguito a tali timori, ma senza attribuire loro troppa importanza, il
Ministro degli esteri jugoslavo suggerì a Belgrado di accrescere, ad ogni buon conto, l’allerta lungo l’arco
territoriale che da Spalato si estende fino a Lubiana via Karlovac 33. Piuttosto, quello stesso giorno e con
maggior preoccupazione, Trumbić avvertì il proprio governo, con un altro dispaccio, che si stavano
registrando alcuni cambiamenti negli atteggiamenti della stampa francese e inglese a favore delle tesi
italiane. Pertanto, propose di rivolgersi al Congresso americano affinché difendesse gli Jugoslavi, vittime
dell’autocrazia absburgica, contro la quale avevano combattuto i popoli slavo-meridionali insieme con la
Serbia per l’unità nazionale 34.

Poche settimane dopo, Trumbić rimase deluso, per la prima volta in modo esplicito, dal
comportamento di Wilson. In quel periodo, infatti, si erano svolti ripetuti incontri fra la delegazione
jugoslava e quella americana, in particolare con esperti geografi, durante i quali fu affrontata, per la prima
volta, l’idea di costituire a Fiume uno stato-cuscinetto, da trasferire successivamente alla sovranità
jugoslava, ma sulla cui consistenza territoriale non si era ancora entrati nel merito. La precisazione
statunitense – invece – arrivò inattesa il 19 giugno 1919, allorché Trumbić venne messo a conoscenza del
nuovo piano di Wilson, che trasformava Fiume in uno Stato cuscinetto senza Sušak, ma con le isole di
Cherso e Veglia (Cres e Krk), parte dell’Istria orientale e con un’estensione, a Nord, fino a Idrija in Carniola
(Kranjska) in modo da includere 160.000 sloveni e 30.000 italiani. Molte isole, da Lussino/Lošinj a Lissa/Vis,
sarebbero passate, invece, all’Italia, mentre Zara avrebbe goduto di uno status autonomo con
rappresentanza internazionale italiana 35.

31
DDI, vol. III, VI serie, doc. nn. 134, 440. 495, 591 e 649.
32
Lieutenant LeRoy King, Report no. 15 arrest of Radić, op.cit.; anche in Bogdan Krizman, Korespondencija…, cit., p. 35.
33
Voci su un possibile attacco italiano alla Jugoslavia erano effettivamente circolate in quei giorni. Fu Wickham Steed
a informare Herbette relativamente a possibili azioni militari guidate dal nipote di Giuseppe Garibaldi, Peppino
Garibaldi. Su questo v. Trumbić al Ministero degli Esteri, telegramma del 25 aprile 1919, in AJ, 334-1-1, “Ujedinjenje”.
In realtà, la vicenda era legata a tentativi semi-clandestini vòlti a realizzare un corpo di volontari irredentisti che più
tardi avrebbe individuato il suo leader non già in Peppino Garibaldi, ma in Gabriele D’Annunzio. Sulla vicenda si è
soffermato Raoul Pupo, Fiume città di passione, Laterza Bari, 2018, p. 78. Sulla visita di Herbette a Trumbić si v. il suo
rapporto al Ministero degli esteri, 26 aprile 1919, in AJ, 334-1-1, “Ujedinjenje”.
34
Trumbić al Ministero degli Esteri, 26 aprile 1919, in AJ, 334-1-1, “Ujedinjenje”.
35
La delusione di Trumbić è chiaramente espressa nel telegramma inviato al Ministero degli Esteri il 19 giugno 1919, in
AJ, 334-1-1, “Ujedinjenje”.

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Secondo Trumbić questa proposta assegnava all’Italia un ruolo economico prevalente nell’Adriatico
orientale, contro gli interessi degli Jugoslavi 36 che si trovavano, per certi versi circondati e senza un
importante sbocco al mare anche a causa della concomitante presenza italiana in Albania. Al di là di un
successivo memorandum jugoslavo spedito il 26 giugno a Wilson con le posizioni “ultimative” del Regno
SHS, che sostanzialmente respingevano il suo piano, Trumbić comprese allora che gli equilibri internazionali
stavano modificandosi a svantaggio di Belgrado. La causa di un tale rovesciamento di posizioni fu da lui
direttamente collegata all’indebolimento dell’amministrazione Wilson a Washington D.C., giacché questa
aveva perso il controllo del Senato alle elezioni di medio termine del novembre 1918 37. In effetti, si trattò
del primo significativo segnale, registrato dagli Jugoslavi, del progressivo svanire del sostegno statunitense
alla loro causa, con tutte le conseguenze che ciò avrebbe comportato nelle trattative con l’Italia,
trascinatesi, inconcludenti, come è noto, per tutto l’anno.

Su di esse, tuttavia, noi non ci soffermeremo, proprio perché ampiamente arate dalla letteratura
internazionale 38. Basti solo ricordare come, dopo la “fiammate” di aprile-maggio, il resto del 1919 passò
senza che si giungesse ad alcun avvicinamento fra le parti, nonostante due crisi di governo, fra giugno e
agosto, avessero portato alla formazione del gabinetto Nitti in Italia e a quello Davidović nel Regno SHS.
Piuttosto, prevalse per tutto l’anno un clima di relazioni confuso e spesso teso, in cui si intrecciarono vari
memorandum e prese di posizione diplomatiche, finché D’Annunzio, con la sua impresa su Fiume del 12
settembre, non impresse un’alterazione significativa al quadro esistente. Nel frattempo, trame eversive
continuarono ad essere ordite nell’ombra da quanti miravano, per ragioni diverse, a favorire la
disgregazione del Regno SHS.

Fu allora che tanto a Roma, quanto a Belgrado le rispettive cancellerie cominciarono a capire che
un prolungamento indefinito delle trattative non sarebbe stato vantaggioso per nessuna delle parti.

3. Geopolitica e nazionalità dopo Wilson: la difficile transizione del primo dopoguerra

Ad ogni modo, come si è detto, le relazioni diplomatiche continuarono a seguire per tutto l’anno un
approccio negoziale multilaterale (con gli USA, peraltro, sempre meno impegnati). La delegazione italiana
restò ferma sulle proprie rivendicazioni territoriali che includevano l’Istria fino al monte Nevoso/Snežnik, la
Dalmazia e la città di Fiume, come “somma” delle divergenti opinioni del primo ministro Orlando e del
ministro degli esteri Sonnino. Dalla documentazione archivistica del fondo Sforza 39 che abbiamo potuto
vagliare si nota come spesso siano state analizzate mappe e risultati di censimenti locali per valutare il
rapporto fra territori richiesti e peso della presenza etnica italiana, ma non si avvertono – nel corso del
1919 – significative riflessioni relative alle implicazioni politico-sociali e culturali che sarebbero derivate
dall’inclusione di rilevanti minoranze slave. Unica eccezione fu un precedente, ma significativo, scambio di
opinioni fra Tittoni e Nitti, in agosto, sulla questione delle tutele per gli Italiani di Dalmazia; questione,
questa, che, se sollevata, rischiava, nell’opinione di Nitti, di rafforzare le aspirazioni territoriali jugoslave in
una fase in cui non era stato ancora raggiunto alcun accordo sui confini, mentre il governo italiano si

36
Ibid.
37
Ibid.
38
Si cfr., in particolare, Paolo Alatri, Nitti, D’Annunzio e la questione adriatica, Feltrinelli, Milano, 1976 e Ivo Lederer,
op.cit.; Luciano Monzali, Il sogno dell’egemonia. L’Italia, la questione jugoslava e l’Europa centrale (1918-1941), Le
Lettere, Firenze, 2010, nonché Leo Valiani, op. cit.
39
Sforza fu chiamato a svolgere la funzione di sottosegretario agli esteri da Nitti all’avvio del suo primo governo, il 23
giugno 1919. Fu confermato da Nitti durante il suo secondo governo e divenne ministro allorché Giolitti prese le redini
del governo il 15 giugno del 1920.

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10

dichiarava disposto a fornire unicamente assicurazioni verbali sui diritti delle minoranze slave incorporate
nel Regno d’Italia 40.

Sicché, l’accento – da parte italiana – ricadde prevalentemente (anche se non esclusivamente) sulla
sicurezza militare, anche se taluni richiami etno-culturali, per lo più di origine risorgimentale, e riferiti ai
territori della Repubblica di Venezia, non furono del tutto assenti. Piuttosto, questi elementi si avvertirono
con maggior evidenza nelle mobilitazioni nazionaliste di confine, spesso spalleggiate dalle autorità italiane
di occupazione sin dalla fine del 1918, con un crescendo di tensioni nei confronti delle popolazioni slave 41.
Ulteriori interessi, di carattere più marcatamente imperialista, riguardarono l’assetto globale dell’Adriatico,
in cui rientravano le mire italiane su una parte dell’Albania e sul Montenegro; aspetti, questi, che tuttavia
vanno oltre i limiti del nostro studio, anche se si troverà modo di accennarne in alcuni passaggi rilevanti del
negoziato che condusse poi a Rapallo 42.

Al contrario, la delegazione jugoslava insistette sulla dimensione etnica delle proprie rivendicazioni
secondo i criteri delineati da Wilson e fondati sull’etica attribuita al principio delle nazionalità. Uno studio
commissionato al famoso storico Stevan K. Pavlowitch e basato su fonti statistiche austro-ungariche mise in
evidenza come la popolazione italiana a Fiume fosse diventata maggioritaria solo dopo il 1900 attraverso
flussi migratori che, tuttavia, non alteravano le proporzioni rispetto ad una dominante componente slava,
qualora Sušak fosse considerata parte della città, così come “la rive gauche di Parigi” 43.

Tali schermaglie, in cui si confrontavano etnicità e territorio tramite controverse raccolte di dati,
erano rese ancor più complicate dalle incertezze geopolitiche dell’immediato dopoguerra. L’Italia, ad
esempio, non aveva ancora riconosciuto il Regno SHS e, in particolare, considerava ancora aperta la
questione dell’adesione del Montenegro al nuovo Stato 44. Pertanto, in diversi documenti della Conferenza
di Pace, nella bozza di statuto della Società delle Nazioni (che sarebbe stata approvata il 28 aprile) così
come in parte della corrispondenza diplomatica si citava la Serbia come soggetto interlocutore, anche se, di
tanto in tanto, ricorrevano i termini “jugoslavo” o “Stato SHS”, a conferma della fluidità delle relazioni
diplomatiche del tempo. Furono, perciò, necessari non pochi sforzi da parte della delegazione slavo-
meridionale affinché si imponesse nella corrispondenza, così come nella scrittura dei trattati, la
terminologia da essi gradita, ossia l’utilizzo del termine “Regno SHS”. D’altra parte, sull’altro versante, si

40
DDI, Sesta Serie, vol. IV, corrispondenza Tittoni -Nitti fra il 4 e il 9 agosto 1919. Sul finire dell’anno, il 27 ottobre,
Tittoni ritornò sulla questione in Parlamento ricordando che l’Italia non era tenuta a fornite tutele alle minoranze
etniche in quanto i trattati di pace imponevano tali obblighi solo ai Paesi sconfitti o di recente costituzione. Tuttavia,
Tittoni volle altresì ridimensionare l’impatto della dichiarazione richiamandosi ai valori liberali dell’Italia per negare la
volontà di ricorrere a politiche di snazionalizzazione. Si v. su questo tema Lavo Čermelj, Sloveni e Croati in Italia fra le
due guerre, Est, Trieste, 1974, p. 21. Si vedrà più avanti, peraltro, come la posizione “di privilegio” assicurata a Roma
dai trattati di pace sarebbe stata nuovamente invocata al Ministero degli Esteri alla vigilia della trattativa di Rapallo.
41
Per un quadro generale si cfr., ad es., Luigi Federzoni, Due anni di occupazione in Dalmazia, pubblicato nell’ottobre
1920 e incluso nel libro dello stesso autore Il trattato di Rapallo, Zanichelli, Bologna 1921, pp. 115-132; Danilo Klen,
Talijanska Vojna Obavještajna Služba u bivšoj Julijskoj Krajini 1919 godine, in “Vjesnik historijskih arhiva u Rijeci i
Pazinu”, vol. XXI, 1977, pp. 125-131 con numerosi documenti allegati in italiano; nonché H HAZU F. 22, O postupku
Talijana u Istri, 2 dicembre 1918.
42
V. Federico Imperato, La “Chiave dell’Adriatico”. Antonio Salandra, Gaetano Salvemini, la Puglia e la politica
balcanica dell’Italia liberale durante la Grande Guerra (1914-1918), Rubbettino, Soveria Mannelli, 2019, pp. 221ss
e257ss.
43
AJ, fondo 334-1-1: Ujedinjenje. La question de Fiume. Une réponse yougoslave à l’article de M. Ossoinack, firmato
Steven K. Pavlowitch.
44
Cfr. Dimitrije Dimo Vujević, Podgorička skupština 1918, Školska Knjiga, Zagreb, 1989, pp. 138-156; Francesco
Caccamo, Il Montenegro negli anni della prima guerra mondiale, Aracne, Roma, 2008; Gavro Perazić, Nestanak
Crnogoske države u prvom svetskom ratu, Vojnoistorijski Institut, Beograd, 1988 e Milorad Popović, Crnogorsko
pitanje, Plima, Ulcinj, 1999.

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nota come Trumbić scrivesse spesso i propri messaggi a Belgrado in alfabeto latino, ma nella variante ekava
belgradese, chiamando inizialmente Fiume Reka e solo più tardi Rijeka 45.

Certo, la delegazione jugoslava a Parigi era composita sotto molti profili: etnici, politici e perfino
regionali. Al suo interno, le tensioni che avrebbero caratterizzato i successivi anni del regno restavano
ancora sotto traccia, ma la preoccupazione di dover salvaguardare la convergenza fra le varie componenti
slave del nuovo Stato era comunque ben presente fra le sue autorità politiche. Di fatti, alla Conferenza di
pace erano stati inviati come plenipotenziari due serbi (Pašić e Vesnić), un croato (Trumbić) e uno sloveno
(Žolger) 46.

Quest’ultimo esponente, tuttavia, non godeva della stima dei diplomatici italiani, in quanto era
stato ministro (senza portafoglio) nel governo austro-ungarico fra il 1917 e il 1918 con il compito di
preparare una riforma costituzionale in senso federale della parte austriaca dell’Impero. Proprio tale
esperienza governativa danneggiò la sua figura a Parigi, dove fu spesso ritenuto, in particolare dagli Italiani,
un rappresentante politico della parte sconfitta, con ciò ridimensionando l’autorevolezza della delegazione
jugoslava. Trumbić ne fu ben consapevole, al punto di informarne Belgrado in un telegramma del 25 aprile
1919, in cui evidenziò l’assoluta necessità che il trattato di pace con la Germania, e quelli successivi, fossero
firmati da un Serbo, un Croato e uno Sloveno (Žolger, appunto) in quanto “rappresentanti del popolo nella
sua interezza, escludendo particolarismi”. Inoltre, egli precisò che essi avrebbero firmato unicamente a
nome del Regno SHS, in quanto i plenipotenziari del neocostituito Stato slavo erano stati così accreditati
alla Conferenza. Si trattava di una posizione condivisa da Pašić, ma assai meno da Žolger e Otokar Ribarž
(quest’ultimo era un avvocato, delegato sloveno a rappresentare il litorale – o Venezia Giulia). Prevaleva,
infatti, in costoro il timore di creare un precedente che li avrebbe potuti condurre ad accettare confini
ritenuti insoddisfacenti per la loro componente etno-nazionale. Il governo replicò dando disposizione a
Žolger di firmare, e ciò proprio allo scopo di evitare qualsiasi interpretazione malevola secondo cui i
territori croato-sloveni ex absburgici erano stati annessi a Belgrado. Un’interpretazione, quest’ultima,
radicata fra i circoli diplomatici presenti a Parigi e, soprattutto, in quelli italiani 47. Ad ogni modo, e sia pure
fra mille difficoltà pure di natura burocratico-internazionali, gli argomenti addotti da Trumbić e Pašić
prevalsero fra gli alleati dell’Intesa e la terminologia richiesta venne, alla fine, rispettata 48.

Ma che effettivamente la componente slovena fosse la più debole nel contesto rappresentativo
jugoslavo risulterebbe confermato non solo dalla contrastata figura di Žolger, ma anche dalle divisioni che
percorrevano la politica slovena. Già il 10 novembre 1918 un dispaccio, inviato dall’ambasciatore serbo a
Roma Vojislav Antonijević, faceva notare come “agenti francesi” operanti in Italia e Svizzera avessero steso
un analitico rapporto sullo stato dei rapporti nelle diete slovene del periodo absburgico, nelle quali si

45
Trumbić utilizzò il termine Reka nella sua corrispondenza con il Ministero degli Esteri almeno fino all’estate del
1919, quando iniziò a utilizzare il termine Rijeka.
46
La delegazione jugoslava era composta da nove esponenti fra plenipotenziari, delegati e segretari generali, oltre ai
componenti delle segreterie, degli esperti (in storia ed etnografia; diritto internazionale; delle province; economia e
finanza; ferrovie e comunicazioni) e dei membri della missione militare. L’elenco completo in Ivo Lederer, op. cit., pp.
369-73. Sulla delegazione jugoslava, v. Livia Kordum, op. cit., pp. 129-131. Su Ribarž si v. Peter Rustja, Otokar Rybář v
dunajskem parlamentu, Zveza zgodovinskih društev Slovenije, Trst, 2001.
47
Ivo Lederer, op.cit., pp. 108-109. V. anche William Klinger, Germania e Fiume, Deputazione della storia patria per la
Venezia Giulia, Trieste, 2011, p. 216. Sonnino fece esplicito riferimento al ruolo di Žolger in Austria durante l’incontro
dei “Quattro” a Parigi l’11 marzo 1919, in https://history.state.gov/historicaldocuments/frus1919Parisv04/d17. Tale
atteggiamento era anche conseguenza delle divergenze ripetutamente manifestatesi fra Pašić e Trumbić negli ultimi
mesi del 1918 in particolare a proposito del riconoscimento del Consiglio Nazionale degli Sloveni, Croati e Serbi
(ancora formalmente sudditi dell’impero Austro-Ungarico) e il regno di Serbia, solo in parte risolto con la Conferenza
di Ginevra del 6 novembre. Si v. Dragovan Šepić, op. cit., pp. 388-94.
48
Ivo Lederer, op.cit., pp. 236-37.

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riscontravano sensibilità diverse a seconda dei problemi territoriali che li riguardavano direttamente. Ad
esempio, in Carniola, la priorità cadeva sul futuro confine con l’Austria e sul destino di Klagenfurt/Celovec.
Gli sloveni giuliano-triestini, invece, sotto la leadership di Otokar Ribarž, Josip Vilfan e della società
“Edinost”, erano assai più interessati ai rapporti con l’Italia e a come si sarebbe definito il confine con
Roma, nella speranza che prevalesse una soluzione etnica tramite il ricorso ad un plebiscito esteso ai
territori retrostanti le aree urbane costiere (dove prevaleva l’elemento slavo, mentre gli Italiani si
concentravano nelle città). Tale soluzione, ai loro occhi, aveva altresì il vantaggio di salvaguardare efficaci
vie di comunicazione per il regno SHS e l’accesso ai mercati danubiani e centro-europei, che, al contrario,
avrebbero potuto subire danneggiamenti qualora si fosse giunti ad una spartizione territoriale con l’Italia.
Diverse, però, erano le percezioni e la realtà dominante in Stiria dove, sotto la guida di mons. Anton
Korošec, prevaleva una marcata sensibilità jugoslavista. In questo caso le priorità erano orientate tutte
verso il consolidamento delle relazioni sloveno-croato-serbe, sicché si avvertiva maggior inclinazione ad
accettare soluzioni territoriali di compromesso, purché rispettose dei diritti culturali e nazionali delle
minoranze oltre confine. Infine, faceva notare sempre l’Antonijević, se fosse stata assicurata la Dalmazia
agli Jugoslavi, la componente croata del paese sarebbe stata, a sua volta, più propensa ad un accordo con
l’Italia 49.

Certo, nel momento in cui l’ambasciatore Antonijević scriveva il Regno SHS non era stato ancora
proclamato; più tardi, tuttavia, gli interessi della componente slovena furono effettivamente indeboliti dalla
perdita del Prekomurje a favore dell’Ungheria, secondo quanto deciso dal “Consiglio dei Quattro” nel
maggio 1919 50. Sicché, le complicazioni insorte rispetto al passato politico di Žolger contribuirono
successivamente a modificare l’atteggiamento della delegazione jugoslava impegnata nelle trattative sulla
questione adriatica. Gradualmente, insomma, la componente slovena passò in secondo piano (come
lamentato dalla storiografia slovena più recente) 51, mentre spettò per lo più a Trumbić e Pašić condurre il
negoziato, con il compito di riferire al resto della delegazione e al proprio governo.

Nel frattempo, però, tentativi paralleli, volti a sabotare il Regno SHS, erano proseguiti su binari in
parte clandestini, ma in parte noti al governo italiano. Lo conferma un telegramma inviato dal
sottosegretario Sforza al ministro degli esteri Tittoni del 6 novembre 1919 in cui riferiva in dettaglio di una
proposta presentata al Ministero nel corso di un colloquio intervenuto fra un incaricato di Sforza
(probabilmente Francesco Salata) e tre esponenti, sloveni e croati, auspice Finzi. Nel suo telegramma,
Sforza sottolineava come “il governo del Re non sia alieno dal considerare la proposta fatta” e chiedeva al
Ministro, in via precauzionale, se non fosse il caso di rendere noto agli interlocutori le rivendicazioni
territoriali italiane, presentate già a Wilson e note alla delegazione jugoslava a Parigi, affinché non
esistessero dubbi sulle mire di Roma, indipendentemente da quale Stato potesse sorgere alle sue frontiere
orientali 52.

Nella sostanza, il dettagliato dispaccio di Sforza riprendeva i punti essenziali di tre documenti senza
data, conservati presso l’Archivio del Ministero degli Esteri italiano e composti da un promemoria sulla

49
AJ, 334-12-33, Antonijević Ministarstvu inostranih dela, 10 novembre 1918. Tuttavia, va notato come, nel momento
in cui l’ambasciatore scriveva a Belgrado, si era in una fase transitoria ancorché in rapida evoluzione, giacché il 29
ottobre si era costituito lo Stato Sloveno-Croato-Serbo nei territori absburgici (DSHS), mentre solo il 1° dicembre il
reggente Aleksandar Karađorđević avrebbe proclamato il Regno SHS. Si v. Ljubo Boban, Kada je i kako nastala Država
Slovenaca, Hrvata i Srba, in “Radovi”, Zavod za Hrvatsku Povijest, vol. 26, n.1, 1993, pp. 187-198.
50
AJ, 334-1-1, Izvještaj od 15-20 Maja delegata Trumbića za kraljevsku vladu, 21 maggio 1919, p. 3.
51
Uroš Lipušček, Sacro egoismo: Slovenci v krempljih tajnega Londonskega pakta, Cankarjeva Založba, Ljubljana, 2012,
pp. 390-95 e nota 979 a p.475 e, dello stesso autore, Ave Wilson. ZDA in prekrajanje Slovenije v Versaillesu 1919-1920,
Sophia, Ljubljana, 2003, pp. 160-74.
52
Il telegramma di Sforza è conservato presso l’Istituto Nazionale F. Parri (ex Insmli), fondo a Prato, b. 9, fasc. 36/3.

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13

questione adriatica, con firma attribuibile al già menzionato Cesare Finzi; un sintetico verbale del colloquio
(non firmato); nonché una bozza di convenzione, senza nomi, in cui si definivano i contorni di una
federazione cantonale sloveno-croata (con uno status di neutralità garantito dalle “Grandi Potenze” senza
ulteriori specificazioni) e la possibilità di istituire una Repubblica di Dalmazia 53.

I soggetti proponenti erano Ivan Šušteršič, già membro del parlamento austriaco, governatore della
Carniola e esponente di primo piano del cattolicesimo sloveno anti-serbo, successivamente riparato in
Svizzera; nonché il tenente colonnello Stevo Dujić e l’avvocato di Zagabria Vladimir Sachs-Petrović,
ambedue vicini a Ivica Frank e al suo movimento separatista 54.

Secondo il loro progetto, una nuova entità statale sloveno-croato-dalmata avrebbe dovuto sorgere
dalla frantumazione del Regno SHS. Essa avrebbe goduto di una “doppia frontiera” con l’Italia,
dettagliatamente descritta: la prima, di natura politico-doganale, avrebbe rappresentato una garanzia etno-
linguistica per le popolazioni croate e slovene e sarebbe sostanzialmente coincisa con la linea Wilson in
Istria, ma rettificata per lasciare Fiume all’Italia; la seconda avrebbe assicurato, invece, una servitù militare
nei territori del Patto di Londra in grado di permettere all’Italia di presidiare tale confine e di erigere, al suo
interno caserme e guarnigioni. La proposta veniva presentata come una soluzione capace di rispettare
contemporaneamente il principio delle nazionalità (con il confine politico-doganale) e quello della sicurezza
(con il confine militare). Durante il colloquio che, presumibilmente, avvenne in concomitanza con la bozza
di convenzione proposta, fu riferito che “un’enorme maggioranza di croato sloveni” era pronta a tutto pur
di “liberarsi della dominazione (sic)”, che “tutti” gli ufficiali e gli uomini politici croati e sloveni erano pronti
all’azione in alleanza con l’Italia e a riconoscere l’indipendenza del Montenegro. Pertanto, si richiedeva al
governo di Roma di dislocare 10.000 propri prigionieri croati e sloveni, con armi e munizioni, nelle zone di
armistizio, in cambio della firma di un accordo territoriale. Nel suo commento finale, l’estensore anonimo
del verbale specificò che tale accordo avrebbe dovuto riguardare Istria, Fiume, Dalmazia, Montenegro e
Albania, non diversamente, quindi, da quanto suggerito da Šušteršič e dai suoi collaboratori 55.

Di tale questione si è peraltro già occupata nel 1989 la storica Milica Kacin Wohinz ed è stata
ripresa successivamente da Uroš Lipušček 56. Tuttavia, la proposta di Šušteršič e dei suoi sodali non ebbe un
seguito pratico. Secondo Lipušček le ragioni andrebbero ricercate nell’impresa di D’Annunzio a Fiume,
giacché essa aveva alterato gli equilibri esistenti, ancorché alquanto incerti. Ma tale ricostruzione
cronologica non convince del tutto. D’Annunzio, infatti, compì la sua temeraria azione nel settembre del
1919, mentre i progetti geopolitici qui sopra descritti devono essere stati esposti al Ministero degli esteri
italiano verso la fine di ottobre-inizio di novembre. Essi altresì erano espressione di un dinamismo eversivo
sostenuto dalle autorità italiane sin dal dicembre 1918 e che agenti italiani continuarono a suggerire al
proprio governo anche nel primo semestre del 1920, nonostante Nitti avesse manifestato la propria
contrarietà all’inizio di gennaio 1920. Fra l’altro, dopo tale rifiuto, il progetto venne sottoposto
all’attenzione di D’Annunzio da Giovanni Giuriati, che fino a dicembre era stato capo di gabinetto di
D’Annunzio a Fiume e, all’epoca, era ancora comandante della legione del Carnaro a Zara. A fine gennaio
1920 ripresero, quindi, le trattative a Fiume con emissari in particolare del partito di Ivica Frank. Sicché

53
ASMAE, carte Sforza – “Questione adriatica 1920-21”, filza 7, sottofasc. VII, nn. 1, 2, 3.
54
Cfr. Bogdan Krizman, Ante Pavelić i Ustaše, Globus, Zagreb, 1986, p. 11 e Mile Bjelajac, Neki primeri hrvatsko-
srpskog nerazumevanja o zajedničkoj vojnoj prošlosti, disponibile in Microsoft Word - kornati_mile_bjelajac.doc (chdr-
ns.com).
55
ASMAE, carte Sforza – “Questione adriatica 1920-21”, filza 7, cit.
56
Cfr. Milica Kacin Wohinz, Tajni predlog I. Šušteršiča o hrvatsko-slovenskoj republici, in AA.VV., Stvaranje
jugoslovenske države 1918. godine, Beograd 1989, pp. 197-199 e Uroš Lipušček, Sacro egoismo: Slovenci … cit., pp.
396-97. In Italia, v. anche Massimo Bucarelli, “Delenda Jugoslavia”. D’Annunzio, Sforza e gli “intrighi balcanici” del ‘19-
’20, in “Nuova storia contemporanea”, n. 6, 2002, pp. 19-34.

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progetti sediziosi vennero perseguiti ancora a lungo, presentati in primavera nuovamente al governo
italiano e coltivati almeno fino al mese di luglio, come vedremo più avanti 57.

In questo contesto, è interessante notare come Radić, ancora in carcere, fosse stato informato il 6
gennaio 1920 da sua nipote Milica che Sachs e Šušteršič erano a Roma per parlare “a nome della Croazia” e
“decidervi il destino della Jugoslavia” 58. A parte il fatto che Radić riteneva Sachs una “nullità”, egli era al
corrente di tali manovre da tempo, per lo meno dal maggio 1919, benché i suoi convincimenti federalisti e
repubblicani non vedessero di buon occhio né il separatismo dei frankovci (ossia gli appartenenti al partito
di Frank) in quanto subalterno al progetto di un ritorno degli Absburgo sul trono, né l’ipotesi confederale
della Jugoslavia, per lo meno in politica estera e quindi nella forma di una “Unione di Stati”, come sembrava
potesse essere prospettato dalla Gran Bretagna, almeno secondo quanto riportava il quotidiano di Tullio
Giordana “L’Epoca” 59. In questo caso, infatti, l’immagine internazionale avrebbe riflesso una
frammentazione della regione con il possibile ritorno del re del Montenegro, mentre la costituzione di una
Slovenia e una Croazia le avrebbe rese forse più autonome, ma anche più esposte alle insidie dei Paesi
vicini 60.

E, in effetti, l’atteggiamento ambivalente dell’Italia verso il proprio vicino orientale era oggetto di
discussioni non solo fra le variegate file degli oppositori del Regno SHS, ma anche fra gli stessi fautori della
Jugoslavia. Citando quanto riportato dal quotidiano “Slovenec”, Radić rilevò dal carcere, senza ulteriori
commenti, come lo stesso Pašić avesse dovuto ammettere che la questione jugoslava non era ancora risolta
nel novembre 1919. A sua volta e in quello stesso periodo, Ribarž richiamò le autorità jugoslave a
contrastare con i fatti la convinzione degli Alleati, secondo cui il Regno SHS dimostrava fondamenta assai
deboli in quanto non sembrava rispondere alla volontà di Sloveni e Croati, anche a causa degli intrighi
italiani a favore delle varie tendenze separatiste in Macedonia, Montenegro, e per il sostegno fornito allo
stesso Radić 61.

Una situazione, questa, molto confusa, ma che metteva oggettivamente in difficoltà la delegazione
jugoslava a Parigi. E, in effetti, il convergere di queste convinzioni con il graduale declino dell’influenza
statunitense in Europa non aiutava certo la forza negoziale jugoslava, senza che, peraltro, la stessa Italia
riuscisse a svincolarsi dalle rigidità diplomatiche che la attanagliavano.

Tuttavia, i primi segnali di una svolta rispetto alla situazione di stallo che si era ormai andata
sedimentando iniziarono a delinearsi alla fine dell’anno. Già Trumbić in un dispaccio del 6 novembre 1919
aveva informato il proprio capo del governo di un tentativo italiano, attribuito a Tittoni, di stabilire un
dialogo con lui stesso, per il tramite della delegazione americana. Tuttavia, per le modalità adottate,
Trumbić fu incline a ritenere che si trattasse di una manovra di carattere elettorale interno all’Italia e
pertanto suggerì di assumere un atteggiamento attendista e restare, per il momento, legati alle altre

57
Paolo Alatri, op.cit., pp 430-31; Giovanni Giuriati, Con D’Annunzio e Millo in difesa dell’Adriatico, Sansoni, Firenze,
1954, p. 150 e Bogdan Krizman, Vanjska politika Jugoslavenske države 1918-1941, Školska Knjiga, Zagreb, 1975, pp.
29-30.
58
Milica Radić Stjepanu Radiću, 6.1.1920, in Bogdan Krizman, Korespondencija…, cit., doc. 330, p. 458. La tempistica
coincide anche con quanto narra Giovanni Giuriati, op. cit., p. 149.
59
L’opinione di Radić su Sachs è in Stjepan Radić Mariji Radić, 16 maggio 1919, in Bogdan Krizman, Korespondencija…,
cit., doc. 20, p. 142. Sulle iniziative di Šušteršič per il ritorno degli Absburgo v. Stjepan Radić Mariji Radić, 23 luglio
1919, in Ibid., doc. n. 117, p. 257. La citazione del democratico “L’Epoca” è in Stjepan Radić Mariji Radić, 9.1.1920, in
Ibid., doc. n. 335, p. 464.
60
Tihomir Cipek, Ideja Hrvatske države u političkoj misli Stjepana Radića, Alinea, Zagreb, 2001, p. 133.
61
Stjepan Radić Mariji Radić, 25.11.1919, in Ibid., doc. N. 184, p. 323.

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Potenze dell’Intesa, nonostante fosse volontà esplicita di Trumbić favorire un accordo con l’Italia,
ritenendolo di vitale interesse per il futuro del Regno 62.

Il 29 dicembre 1919 l’incaricato d’affari francese a Belgrado, Grenar, fece visita al primo ministro
Davidović. Nel rapporto segreto che lo stesso premier inviò alla delegazione a Parigi, veniva spiegato, in
forma del tutto ufficiosa, che il governo francese avvertiva quello jugoslavo della disponibilità italiana ad
intraprendere trattative dirette con Belgrado. La risposta di Davidović, riportata nel medesimo rapporto, fu
improntata a cautela. Essa incluse una serie di condizioni, fra cui anche la richiesta di affrontare la
questione albanese. Infine, il documento specificava che, in ogni caso, Belgrado avrebbe mantenuto “stretti
contatti con gli alleati” 63, lasciando intendere sia scarsa fiducia verso la controparte italiana, sia la speranza
che Francia e Regno Unito potessero condizionare l’atteggiamento di Roma.

In realtà, nelle settimane seguenti il negoziato mantenne ancora il suo carattere multilaterale. Nel
corso del mese di gennaio si intrecciarono uno scambio di memorandum fra Nitti, Clemenceau e Lloyd
George, una missiva di Nikola Pašić al Presidente della Conferenza di Pace tutta incentrata sulle esigenze di
sicurezza jugoslava, nonché un esposto ai governi francese e inglese firmato, significativamente da Pašić,
Trumbić, Žolger e Radović (che rappresentava l’ala unionista del Montenegro) 64.

Il 13 gennaio 1920 fu raggiunto un accordo italo-franco-inglese che segnalava il progressivo


isolamento della diplomazia jugoslava, ormai priva di un consistente appoggio statunitense. Il giorno
successivo Clemenceau presentò a Pašić e Trumbić le proposte dell’Intesa: Fiume, nelle dimensioni del
corpus separatum di absburgica memoria 65, diventava Stato indipendente sotto garanzia della Società delle
Nazioni; la linea Wilson sarebbe stata corretta verso Est a favore dell’Italia; il municipio di Zara sarebbe
stato elevato a libero stato sotto garanzia della Società delle Nazioni; all’Italia sarebbero stati assegnati
Valona e un mandato sull’Albania, mentre alcune province a settentrione, inclusa Scutari, sarebbero
entrate a dar parte del Regno SHS con uno status autonomo simile a quello assicurato alla Rutenia
cecoslovacca 66. Infine, Argirocastro e Korça sarebbero passate alla Grecia. All’Italia sarebbero state altresì
assegnate le isole di Lussino/Lošinj, Pelagosa/Palagruža e Lissa/Vis, mentre le altre avrebbero fatto parte
del Regno SHS in un quadro di smilitarizzazione di tutte le isole dell’Adriatico. Agli Italiani di Dalmazia
sarebbe stato concesso il diritto di optare per la cittadinanza preferita, senza dover trasferire la residenza 67.

La proposta venne rifiutata nettamente dalla delegazione jugoslava il 20, lo stesso giorno in cui il
segretario di Stato USA Lansing, a nome del Presidente Wilson, faceva pervenire un proprio dispaccio di

62
AJ, 334-1-1, Trumbić a Davidović, 6 novembre 1919. Ulteriori sforzi italiani di stabilire un contatto diretto con la
controparte vennero comunicati a Belgrado sul finire dell’anno, nella convinzione, però, che si trattasse
semplicemente di approcci vòlti a sondare l’orientamento jugoslavo. Si v. il document Nekoje primjedbe, 22 dicembre
1919, in A HAZU, f.67, Rapalski pregovori.
63
Šifrovani telegram Delegaciji iz Beograda, 29 dicembre 1919 a firma Davidović, in A HAZU, F. 67 Rapalski pregovori.
64
Sugli incontri fra dleegazione jugoslava e “Consiglio dei Quattro”, nonché sulla risposta di Pasic a Clemanceau si v.
Ministarstvo Inostranih dela, Jadransko pitanje…cit., doc. nn.15 e 16, pp. 71-78. Sulla situazione del Montenegro v.
Francesco Caccamo, op. cit.; Srdja Pavlović, The Balkan Anschluss: The Annexation of Montenegro and the creation of
the Common South Slavic State, Purdue University Press, West Lafayette, 2008, pp. 119-144 e, dello stesso autore, The
Podgorica Assembly in 1918: Notes on the Yugoslav Historiography (1919-1970) about the Unification of Montenegro
and Serbia, in “Canadian Slavonic Papers / Revue Canadienne des Slavistes”, Vol. 41, no. 2, June 1999, pp. 157-176.
65
Sulle vicende storiche di Fiume Corpus separatum si v. Raoul Pupo, op. cit., pp. 3-37.
66
Un estratto delle garanzie attribuite ai Ruteni di Cecoslovacchia venne presentato e discusso durante l’incontro fra
la delegazione jugoslava e il “Consiglio dei Quattro” il 13 gennaio 1920, in Ministarstvo Inostranih dela, Jadransko
pitanje …cit., doc. n. 15, p.72.
67
Cfr. Tajno. Revidirani predlozi predati Trumbiću i Pašiću od g. Clemenceau-a, 14 gennaio 1920, A HAZU F. 85
Jadransko pitanje e ASMAE, Promemoria sulle conversazioni Nitti-Clemenceau-Lloyd George, filza 7, sottofasc. II, n. 11.

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critica nei confronti delle posizioni franco-inglesi con diretto riferimento allo status di Fiume, che gli
Americani intendevano assegnare al Regno SHS 68.

Tuttavia, l’intervento USA questa volta non scalfì la posizione dei tre alleati dell’Intesa, che
preannunciarono al governo di Belgrado la consegna del Trattato di Londra, lasciando chiaramente
intendere come esso fosse parte integrante della controversia sul futuro dell’Adriatico. Sicché, con Wilson
ormai rientrato negli Stati Uniti e politicamente sempre più indebolito in casa, il nesso fra confini e realtà
etno-territoriale (che, in nome del principio delle nazionalità, costituiva uno degli argomenti più evidenziati
dagli Jugoslavi) stava perdendo rapidamente rilevanza negoziale. Poco dopo, le dimissioni di Clemenceau,
sostituito il 18 da Millerand, complicò ulteriormente la posizione di Belgrado.

Tutto ciò spiegherebbe perché, già ad inizio mese, Pašić – intuendo un cambiamento di atmosfera
politica – avesse spostato l’attenzione dei propri interlocutori dal principio delle nazionalità alle esigenze
jugoslave di sicurezza nell’Adriatico, cercando in tal modo di equilibrare la principale forza argomentativa
italiana, come sopra menzionato. Nel frattempo, la nuova situazione internazionale – che vedeva crescere
la convergenza anglo-franco-italiana – rese evidenti tanto il disorientamento del governo a Belgrado,
quanto le divisioni nella delegazione jugoslava. Mentre, infatti, Pašić riteneva ormai inevitabile avviare
trattative dirette con l’Italia per evitare di entrare in rotta di collisione con l’Intesa, vista la crescente
marginalità americana, Trumbić riteneva pericoloso perfino prendere solo in considerazione la proposta
dell’Intesa, trovando in ciò il sostegno di Žolger, Ribarž e Radović. Il rischio di una contrapposizione fra
Serbia e area croato-sloveno-montenegrina poteva innescare ripercussioni imprevedibili 69.

Sullo sfondo di tali dinamiche, il ministro degli esteri jugoslavo incontrò Millerand il 29 gennaio. Dal
rapporto che Trumbić inviò a Belgrado sappiamo che il colloquio fu inizialmente molto freddo. Francia e
Gran Bretagna erano pronte a passare all’applicazione del Trattato di Londra. La reazione di Trumbić fu
molto articolata: affrontò la questione soprattutto sotto il profilo economico, dei traffici commerciali e
marittimi. Parlando di Fiume, ribaltò le tradizionali argomentazioni jugoslave, mettendo in evidenza come
la città fosse per loro fondamentale in quanto porto e nodo ferroviario, non potendo contare sempre sulla
“cortesia greca” e utilizzare Salonicco come ai tempi della “piccola Serbia”. Al contrario, secondo il ministro
degli esteri jugoslavo, era Nitti a fare riferimento all’italianità di Fiume e, quindi, al principio delle
nazionalità; tema, questo, che avrebbe dovuto valere anche per l’Istria orientale, nei confronti della quale,
coerentemente, Nitti non manifestava interesse data la preminenza di abitanti slavi. Per questo Trumbić
suggerì, come idea personale, di lasciar perdere la “minaccia” del Trattato di Londra e valutare uno scambio
che assegnasse la città di Fiume all’Italia e l’Istria orientale alla Jugoslavia. Dalle parole di Trumbić sembra
che a Millerand la proposta fosse apparsa interessante. Infine, nel commento conclusivo alla sua lunga nota
al governo, Trumbić sottolineò come la cessione di Fiume avrebbe costretto l’Italia a far i conti con
D’Annunzio; inoltre, il ritiro delle truppe di occupazione dall’Istria orientale sarebbe potuto avvenire
agevolmente, mentre il governatore militare italiano della Dalmazia Enrico Millo, senza l’appoggio di
D’Annunzio, non sarebbe stato in grado di opporsi a Zara e alla Dalmazia jugoslave 70.

In un successivo dispaccio, spedito sempre il 29 gennaio al proprio governo, Trumbić espresse la


propria contrarietà all’orientamento del suo governo di accettare la proposta di Clemenceau e Lloyd
George inviato il giorno precedente. Al contrario, egli ammonì Belgrado del fatto che ambedue i leader
politici di Francia e Gran Bretagna fossero convinti di soddisfare la Serbia con le loro proposte (concernenti

68
Paolo Alatri, op. cit., pp. 393-98.
69
Ivo Lederer, op. cit., pp. 314-15. Ciò si ricava anche dalla lettura dei verbali delle riunioni fra i membri della
delegazione jugoslava e dai singoli telegrammi invitati a Davidović, separatamente, da Pašić, da Žolger e Ribarž,
nonché da Trumbić. V. Ministarstvo Inostranih dela, Jadransko pitanje…cit., doc. nn. 52-66, pp. 129-143.
70
HDA, carte Krizman, f. 56.

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in particolare l’Albania). Essi ritenevano, infatti, che ad opporsi al loro piano fossero “unicamente i
rappresentanti delle nuove regioni” e questo spiegava perché si fossero avvicinati alle posizioni italiane.
Trumbić avvertì, insomma, la trappola: il richiamo alle “nuove regioni” costituiva un evidente riferimento ai
territori ex absburgici del Regno SHS; territori, questi, che potevano essere considerati “parte perdente”,
nei confronti dei quali il Trattato di Londra poteva trovare ancora giustificazione. Si trattava di un modo
divisivo di imporre il negoziato e in cui lo scambio dei territori diventava prioritario su qualsiasi altra
considerazione. Per questo il Ministro degli esteri jugoslavo espresse chiaramente la propria convinzione,
secondo cui bisognava evitare ad ogni costo l’amputazione dei popoli slavo-absburgici da una trattativa che
guardasse preferenzialmente alla Serbia, in quanto alleato dell’Intesa nel 1914, perché ciò avrebbe
fatalmente indebolito la posizione jugoslava 71.

Trumbić tornò di nuovo sull’argomento il 6 febbraio, allorché temette una dichiarazione di Nitti al
Parlamento italiano in cui la consegna a Belgrado del Trattato di Londra avrebbe potuto essere presentata
come unica alternativa perseguibile, in caso di rifiuto della proposta del 20 gennaio. In realtà, tale
dichiarazione non ebbe luogo, ma Trumbić sottolineò ancora una volta, in un dispaccio, quanto fosse
importante per il suo governo insistere non solo sul diritto delle nazionalità nel definire confini equi fra i
due stati, ma anche sul riconoscimento del Regno SHS nella sua interezza in quanto componente alleata a
tutti gli effetti, vista la sua partecipazione alla firma dei trattati di pace con Austria, Germania e Bulgaria.
Secondo questo ragionamento, non poteva altresì essere sottoposto a Belgrado il Trattato di Londra perché
concluso in altro contesto storico, nettamente superato dagli eventi militari e politici dopo il 1917 72.

A questo punto, però, occorsero alcuni mutamenti politici all’apparenza radicali. A causa di un
conflitto sulle tempistiche per la convocazione dell’assemblea costituente con il reggente al trono
Aleksandar, il governo del democratico Davidović diede le dimissioni e fu sostituito dal radicale Stojan
Protić il 19 febbraio 73. Trumbić fu confermato Ministro degli Esteri nella nuova compagine a Belgrado.
Quasi contemporaneamente, Lansing fu costretto alle dimissioni da un Wilson insoddisfatto del suo
operato. Il presidente americano tornò, così, a riproporre le proprie posizioni agli Alleati ai primi di marzo,
ritenendo ingiusto il trattamento riservato alla Jugoslavia. Ciò nonostante, gli effetti di questo intervento
furono praticamente nulli: le posizioni italiane, anglo-francesi e jugoslave sulla questione adriatica non
subirono alcuna sostanziale modifica.

A conferma di ciò soccorsero gli incontri, privi di riscontri concreti, che si svolsero a fine febbraio a
Londra, auspice Lloyd George, fra Nitti e gli Jugoslavi: in taluni casi, infatti, parteciparono solo Trumbić e
Pašić; in altri, si aggiunsero Radović, Žolger e Ribarž. Le discussioni si focalizzarono sui confini, ma le
posizioni rimasero distanti. Piuttosto, tali colloqui contribuirono ad acuire la reciproca antipatia personale
fra Trumbić e Pašić. Quest’ultimo avrebbe preferito un accomodamento a breve termine che si limitasse ad
ottenere qualche concessione su Abbazia/Opatija e Porto Baroš con una compensazione in Albania. La
ragione, molto probabilmente, risiedeva nel suo desiderio di rafforzare, con un risultato diplomatico, la
compagine governativa di Protić che era sostenuta dal suo partito radicale. Questo comportamento adirò
Trumbić che non vedeva di buon occhio né gli incontri bilaterali fra Pašić e Lloyd George, né la tendenziale
preferenza attribuita al suo collega serbo e volta a privilegiare una soluzione per l’Albania, anche a costo di
accettare la sovranità italiana su Fiume 74.

71
H HAZU, F. 85 Jadransko pitanje. Telegramma di Trumbić al Ministero degli Esteri 29 gennaio 1920.
72
Trumbić al Ministero degli esteri, 6 febbraio 1920, H HAZU F. 85, Jadransko pitanje.
73
Branislav Gligorijević, Demokratska stranka i politički odnosi u Kraljevini Srba, Hrvata i Slovenaca, Institut za
Savremenu Istoriju, Beograd, 1970, pp. 147-149.
74
Ivo Lederer, op. cit., pp. 325-30.

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4. L’avvio della trattativa bilaterale italo-jugoslava fra molteplici tensioni

Fu in tali turbolenti circostanze che Trumbić ricevette – per il tramite di Wickham Steed – un invito
da Nitti per un incontro segreto a Parigi, dove nel frattempo si era recato il capo di governo italiano. Nei
fatti, si trattava di un atto che poteva dar avvio ad una trattativa bilaterale 75. Rispetto allo stallo dei mesi
precedenti, qualcosa sembrava finalmente muoversi. Per parte sua, il ministro degli esteri jugoslavo decise
di accettare e si recò nella capitale francese dove il 5 marzo si svolsero ben tre colloqui bilaterali. Su di essi
hanno riferito in modo contrastante Alatri e Lederer, avendo il primo letto il rapporto di Nitti a Scialoja e il
secondo un memorandum di Trumbić al proprio governo 76. Secondo Lederer, l’incontro avrebbe avuto
l’obiettivo di influenzare l’atteggiamento jugoslavo e si sarebbe concentrato sulla definizione dei confini
con toni talvolta ricattatori. Secondo Alatri, invece, il tono delle conversazioni sarebbe stato disteso e
cordiale.

Ad ogni modo, visti i precedenti, era francamente impossibile aspettarsi risultati concreti su
territori e sicurezza, sul destino di Fiume e Sušak, delle isole adriatiche e dell’Albania, anche se una prima
convergenza pare fosse stata individuata, almeno per Zara e il Montenegro. Tuttavia – al di là delle
divergenze sulla sistemazione dei confini – i due interlocutori avevano per lo meno iniziato ad individuare
un terreno comune, vòlto al rafforzamento della cooperazione fra i due Paesi tanto in campo commerciale,
quanto in quello culturale. Durante gli incontri si prospettarono, forse per la prima volta in modo così
esplicito, opportunità di libero scambio, nonché l’istituzione di “cattedre universitarie di serbo” (sic) in Italia
e di italiano in Jugoslavia, estendendo lo studio dell’italiano alle scuole superiori nel Regno SHS. I due
interlocutori convennero anche sul diritto di opzione per gli Italiani di Dalmazia e sulle garanzie da fornire
alle loro imprese economiche e commerciali 77.

Non si trattava di convergenze marginali: al contrario, esse assumevano grande rilevanza per
l’epoca, se si considerano le tensioni che proprio sul sistema scolastico ed educativo si andavano
inasprendo tanto nelle zone sotto controllo italiano in Dalmazia, quanto in Istria e nella stessa Trieste. Nelle
relazioni dell’Ufficio Informazione Territori Occupati, parte integrante dei Governatorati stabiliti nelle aree
sotto occupazione militare, si trova conferma degli atti repressivi compiuti verso il clero croato e sloveno,
molti esponenti dei quali furono deportati in Sardegna o in altri campi. L’ostilità verso l’Italia fu accresciuta
anche da misure come l’abolizione dell’insegnamento della religione nelle scuole, la drastica riduzione delle
scuole in lingua croata (specie a Zara) e l’incremento di quelle in italiano, con programmi modificati e più
consoni alla “propaganda italiana” 78. Un clima di reciproche contrapposizioni nazionaliste trovava ulteriore
alimento nella stampa slovena a Lubiana, dove venivano pubblicate “liste nere” con i nominativi di Sloveni
che cercavano di stabilire buoni rapporti con le autorità italiane 79. Pertanto, la convergenza registratasi fra
Nitti e Trumbić, nel marzo del 1920, in particolare su temi quali formazione e cultura costituiva un passo

75
In realtà l’avvio di una trattativa bilaterale era stata suggerita dall’ambasciatore francese a Roma Camille Barrère al
suo omologo jugoslavo Antonijević e da questi segnalato a Davidović il 1° dicembre 1919. In Ministarstvo Inostranih
dela, Jadransko pitanje…, cit., doc. n. 67, p. 149.
76
Cfr, Paolo Alatri, op. cit., pp. 417-19 e Ivo Lederer, op. cit., p. 358.
77
Sempre Paolo Alatri, Ibid., pp. 418-19.
78
Cfr. Lavo Čermelj, op.cit., pp. 41-46 e 179-182 con Danilo Klen, Talijanska Vojna Obavještajna Služba u Bivšoj
Julijslkoj Krajini 1919 g., in “Vjesnik historijskih arhiva u Rijeci i Pazinu”, vol. 21, 1977, pp. 125-131, nonché la
documentazione italiana allegata al menzionato articolo di Klen, n. 21 pp. 131-180, e al successivo n. 22, 1978, pp. 59-
118.
79
Tale comportamento attribuito al settimanale sloveno “Domovina” e al notaio Francesco Tanzes (sic) viene riportato
nel Riassunto quindicinale sullo spirito della popolazione della Venezia Giulia, redatto dal Regio Governatorato della
Venezia Giulia, in data 10 maggio 1919 e pubblicato da Danilo Klen, Ibid., II parte, pp. 70-71.

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importante verso un accordo che non fosse meramente territoriale, ma capace di attenuare le rivalità
nazionaliste, nonché aprire la strada ad una più comprensiva strategia di vicinanza e cooperazione a
vantaggio di ambedue i Paesi e dell’intero arco adriatico in una chiave di convergente protezione nei
confronti di possibili rigurgiti anti-absburgici.

Da quel momento, comunque, il negoziato su Fiume e l’Adriatico orientale divenne, effettivamente,


oggetto di conversazioni bilaterali, come risultò evidente dai colloqui fra Trumbić e Scialoja in aprile, alla
vigilia della conferenza di Sanremo, e, successivamente, con l’incontro di Pallanza in maggio. La svolta
diplomatica di marzo avvenne, peraltro, in un momento politico delicato, perché di lì a poco, a partire cioè
dal mese di aprile, si sarebbe verificato un indebolimento simultaneo dei governi italiano e jugoslavo 80.
Inoltre, se è vero che il dialogo diretto fra Roma e Belgrado restringeva nei fatti i margini di manovra
soprattutto di D’Annunzio e dei suoi legionari, è altrettanto vero che le proteste nazionaliste, anche
esasperate, su ambedue i fronti, crebbero allora d’intensità, potendo approfittare, come si è detto, della
concomitante fragilità degli esecutivi italiano e jugoslavo.

In effetti, quelli furono mesi in cui si andarono accumulando numerosi conflitti sociali e politici che
influirono ampiamente sulle politiche interne delle due parti. In Italia, era in corso quello che venne poi
definito il “biennio rosso”, caratterizzato dal moltiplicarsi di scioperi, occupazioni di terre e di fabbriche,
accompagnato dalla radicalizzazione dei socialisti e dall’attivismo anarchico, in un quadro di crescente
contrapposizione con imprenditori e padronato agrario. Anche nel Regno SHS si stavano registrando
proteste di carattere sociale, promosse in particolare dal partito comunista, che aveva ottenuto lusinghieri
risultati alle prime elezioni amministrative nelle grandi città, e in particolare a Zagabria e Belgrado. Ulteriori
divisioni politiche, relative alla forma dello Stato SHS, se centralizzato o decentrato, esacerbavano i rapporti
fra i partiti, in vista della convocazione dell’Assemblea Costituente prevista per il 28 novembre 1920 81.

In tal fervore di passioni, pure la mobilitazione etno-nazionale si estese rapidamente, fino a


diventare un fattore non solo condizionante della politica, ma capace di esprimere – ancora una volta – una
pluralità di aspettative e progetti geopolitici, spesso fra loro conflittuali, con conseguenze imprevedibili per
la definizione dei territori e la governabilità. Quanto accadde nel corso del 1920 nell’Adriatico orientale fu
emblematico di un comportamento di massa che, intensificatosi nel breve volgere di un decennio, avrebbe
travalicato i limiti regionali per travolgere l’intera Europa.

Fu in questo quadro di crescente aggressività che si registrarono, tanto a Fiume quanto a Zara,
tensioni fra gli autonomisti guidati da Riccardo Zanella e i sostenitori di D’Annunzio, cui fece seguito il
sequestro del generale Nigra da parte dei legionari. Manifestazioni anti-italiane, anche violente, si
verificarono a Spalato, nel cui porto si trovavano ancorate navi italiane. Il rischio che si innescassero
disordini incontrollabili fu reale, come si ebbe modo di vedere all’inizio dell’estate. Paolo Alatri
esplicitamente attribuisce le responsabilità di un tale clima di eccitazione ai ripetuti interventi pubblici (e
non solo diplomatici) dell’amministrazione Wilson 82. In effetti, il presidente americano aveva continuato a
sostenere il principio etno-linguistico delle nazionalità nella convinzione che esso fosse un garante cruciale
per la stabilità in Europa 83. Tuttavia, non sempre egli agì con coerenza, “adeguando” le proprie convinzioni
a seconda di talune realtà come, ad esempio, nel caso dell’Austria, dell’Albania o dei confini orientali della
Polonia. Tale modo di agire ferì la sua credibilità, ripercuotendosi su percezioni e relazioni fra Italia e Regno

80
Cfr. Paolo Alatri, op.cit., pp. 453-60 e Ivo Lederer, op. cit., pp. 274-75.
81
Janko Pleterski, Nacije, Jugoslavija, revolucija, Komunist. Beograd, 1985, pp. 184-226
82
Paolo Alatri, op. cit., p. 427.
83
Su Wilson e i confini etno-linguistici fra Italia e Regno SHS, i diritti delle reciproche minoranze, nonché sul futuro
dell’Albania, scrive ampiamente Otokar Ribarž a Davidović il 6 gennaio 1920, in Ministarstvo Inostranih dela,
Jadransko pitanje … cit., doc. 5, pp. 17-20.

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SHS. Per di più, la sua capacità di influire sugli eventi era entrata in declino già a partire dall’autunno del
1919, benché le sue idee – alimentate da quelle analoghe e ancor più radicali di Lenin e Trockij – avessero,
nel frattempo, trovato numerosi terreni di coltura, tanto fertili quanto differenziati: ne fu favorita una
varietà di interpretazioni dell’idea di nazione che, nel caso specifico della questione adriatica, ebbe l’effetto
di aizzare una varietà altrettanto ampia di opposti nazionalismi, di accrescere il senso di insicurezza delle
popolazioni, e rendere, in ultima analisi, più complicato il dialogo diplomatico fra le potenze dell’Intesa,
Roma e Belgrado.

A mantenere confusa la situazione concorse, come si è già rilevato, la persistenza anche nel 1920 di
azioni sovversive intente a provocare radicali cambiamenti del contesto geopolitico venutosi via via
determinandosi, pur fra mille difficoltà, nel corso della Conferenza di Pace. L’idea di riportare sul trono gli
Absburgo, accarezzata in ambienti cattolici ungheresi, sloveni e viennesi era ancora viva grazie al sostegno
dell’ammiraglio Horthy e si intrecciava con alcune tendenze separatiste presenti in Croazia e Montenegro. I
loro fautori ai appellavano anch’essi al principio delle nazionalità, benché inteso in termini etno-culturali e
territoriali “esclusivi”. Nel loro modo di ragionare si coglieva, infatti, la profonda convinzione secondo cui il
Regno SHS fosse lo Stato erede dell’Impero absburgico, con i Serbi a svolgere una funzione dominante
simile a quella degli Austriaci fino al 1918, mentre gli altri popoli erano costretti a vivere in condizioni di
rinnovata oppressione. Si alimentava, così, un filone “nazional-revisionista” che si opponeva al prevalente
pensiero politico di origine jugoslavista, cecoslovacchista, grande-romeno e polacco-prometeico, tutti in
larga misura ispirati al successo dei processi di unificazione italiana e tedesca del XIX secolo 84.

Sicché, in frangenti segnati dal permanere di incertezze relative al riconoscimento di Stati e confini
nell’area adriatica si inserirono nuove manovre politiche mirate a favorire la frantumazione del Regno SHS.
Paolo Alatri riferisce ampiamente delle proposte suggerite da Giovanni Giuriati a favore della costituzione
di una “Dalmazia indipendente”, grazie ad un’insurrezione in Croazia e Bosnia preparata dal partito di Frank
e sui cui preparativi Nitti venne informato direttamente da Sforza mentre si trovava a Londra 85. Giuriati
stesso racconta, con dovizia di particolari, di come tenne informato D’Annunzio dei suoi contatti con
esponenti croati e sloveni delusi dal rifiuto opposto dal governo Nitti in gennaio. Con questi stessi, molto
probabilmente, egli si incontrò a Fiume a gennaio e nuovamente febbraio con esponenti di Frank. Più tardi.
Giuriati ammise che vi fossero problemi ad individuare degli interlocutori sloveni, molto probabilmente a
causa delle divisioni che ne caratterizzavano il loro mondo politico, come abbiamo già visto. Concentratosi,
quindi, sulla situazione croata, Giuriati andò a raccogliere il consenso di Millo a Zara per poi farsi latore, nel
marzo del 1920, di un piano insurrezionale che espose a Roma al gen. Badoglio. Questi manifestò, ancora
una volta, il proprio personale interesse al progetto, pur rammaricandosi di non possedere più le risorse
necessarie a sostenerlo a causa del trasferimento dei fondi dello Stato Maggiore al Ministero della
Guerra 86.

Seguì un incontro con il sottosegretario Sforza che, tuttavia, rigettò il piano. A sua volta, Nitti
intervenne ripetutamente con il Ministro degli Esteri Scialoja in marzo per dichiarare la totale estraneità del
governo da tentativi eversivi in Croazia e Montenegro. Quindi, in aprile, dopo aver brevemente incontrato
(di malavoglia) Finzi, ne sconfessò l’operato, ponendo fine all’ambiguo atteggiamento dei precedenti
governi italiani. Anzi, per cancellare ogni dubbio, inviò un dispaccio al gen. Caviglia e ad Antonio Mosconi,
all’epoca amministratore della Venezia Giulia, in cui escluse di voler considerare l’opzione di uno stato

84
Rinvio al mio Liquid Nationalism, cit., pp. 77-103.
85
Ibid., pp. 430-34.
86
Giovanni Giuriati, op. cit., pp. 148-153.

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cuscinetto sloveno-croato come un elemento degno di interesse, spiegando di “non voler fare alcuna cosa
poco leale verso gli Jugoslavi” 87.

Tuttavia, mentre Nitti cercava di mantenere aperto il dialogo diplomatico con Trumbić, piani
eversivi continuarono ad essere prodotti nei mesi a venire, con velenose ripercussioni tanto sulla
affidabilità della controparte negoziale, quanto sull’idea di nazione, la cui percezione esclusivista e
imperniata sull’“opposizione all’altro” aggravava frustrazioni e risentimenti da ambo le parti. Attiva rimase,
quindi, la rete di relazioni clandestine e servizi “deviati” che, a questo punto, ruotò principalmente attorno
a D’Annunzio. Si trattava di una rete composta da variegati personaggi, attratti dalle sue sfide visionarie, fra
le quali stava facendosi strada l’idea di proclamare la repubblica a Fiume. In tali frangenti, fra le due sponde
dell’Adriatico continuarono a circolare voci di “intese segrete croato-slovene” con ambienti governativi
italiani, così come di un coinvolgimento dello stesso D’Annunzio in una prossima rivolta in Montenegro 88.

Nell’affastellarsi di idee politiche “alternative”, visioni estetizzanti e inconcludenti destrutturazioni


del principio delle nazionalità che si andavano congetturando fra Fiume e Roma, rientrò pure il progetto
“internazionalista” vòlto alla costituzione di una “Lega di Fiume” in opposizione alla Società delle Nazioni,
ritenuta da D’Annunzio “un trust mondiale degli stati ricchi”. Benché sia stata raramente oggetto di studi in
Italia, la sua concezione di fondo era emblematica non solo, e non tanto, della megalomania futurista che
andava tanto di voga a quei tempi, quanto – e soprattutto – di una molteplice ricerca di fonti di
legittimazione della nazione per stabilire la sacralità del perimetro territoriale. Fu così che l’idea di una
“Lega” di popoli oppressi (reminiscente, per certi versi del Congresso di Roma del 1918) venne elaborata in
una serie di documenti da Léon Kochnitzky fra il 22 marzo e il 21 agosto 1920, grazie all’incoraggiamento
pervenuto da Alceste De Ambris, all’epoca capo di Gabinetto di D’Annunzio, e al sostegno fornito da
Giuriati 89.

Compito di tale “Lega” sarebbe stato, per l’appunto, quello di “raggruppare in un fascio compatto le
forze sparse di tutti gli oppressi della terra: Popoli, nazioni, razze…”. Fra queste, scorrendo le liste dei
potenziali invitati ad una riunione preliminare immaginata per il 1° maggio, sono menzionati, fra gli altri, la
Dalmazia, la Croazia, i “popoli oppressi dal governo imperialista di Belgrado”, i Montenegrini e gli Albanesi.
Il progetto rimase, in realtà, al suo stadio originario, con tratti fumosi e per certi versi surreali, in cui
convergevano propositi nazionalisti, libertari e perfino bolscevichi. Persistette un ambiguo amalgama,
coerente con gli atteggiamenti di D’Annunzio a quell’epoca, e che da un lato si proponeva di stabilire
collegamenti con Stjepan Radić, “viste le sue note relazioni con Mosca” e dall’altro sviluppare la vicinanza
con i “Frankisti” (sic) croati e in particolare Vladimir Sachs-Petrović 90.

Nel frattempo, un accordo di alleanza allo scopo di abbattere il Regno SHS fu effettivamente
firmato da Giuriati e Sachs a Venezia il 5 luglio 1920. Ad esso si aggiunse un’ulteriore convenzione firmata
dalla ormai proclama Reggenza del Carnaro e “rappresentanti” (non meglio identificati) di Macedonia e
Vojvodina. Secondo quanto narra lo stesso Giuriati, era stato previsto un “movimento militare antiserbo

87
Con ciò Nitti disconobbe l’attività svolta da Finzi, così come fecero Sforza e, più tardi, anche Giolitti. Cfr. Alatri,
op.cit., 434 e 432n e Raoul Pupo, op. cit., p. 71.
88
Paolo Alatri, op. cit., p. 433-436.
89
V. Renzo De Felice (a cura di), La carta del Carnaro nei testi di Alceste De Ambris e Gabriele D’Annunzio, Il Mulino,
Bologna, 1973, pp. 19, 114-131 e Raoul Pupo, op. cit., pp. 118-121.
90
V. Renzo De Felice (a cura di), La carta del Carnaro… cit., pp. 116-118.

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[che] avrebbe dovuto iniziarsi il 21 novembre dai Croati e dai Montenegrini, il 27 novembre dalla Voivodina,
il 3 dicembre dagli Albanesi e dai Macedoni” 91.

Non successe nulla di quanto pianificato, è vero, ma resta il fatto che una rete di intrighi dai tratti
para-diplomatici, semi-clandestini, che coinvolgeva servizi segreti “deviati”, e basati su progetti in parte
nostalgici, in parte stravaganti e illusori, si stesse sviluppando sia in parallelo alle tradizionali relazioni fra
governi, sia mescolandosi ambiguamente ad esse. Tali comportamenti avrebbero esercitato un peso
rilevante sull’affidabilità delle relazioni fra i due Stati nei decenni a venire. Il carattere eversivo di tali
macchinazioni si rivelò, infatti, in grado di attirare simpatie e consensi in diversi ambienti italiani: attivisti
politici, militari, amministrativi e perfino diplomatici. Ciò poté avvenire per due principali ragioni: la prima
scaturiva dalla radicata convinzione che i sacrifici sopportati durante il conflitto mondiale dovessero essere
ripagati in coerenza con quell’unità di sentimenti nazional-patriottici che erano stati energicamente
alimentati nelle truppe dopo la disfatta di Caporetto e che avevano reso possibile lo sfondamento delle
linee absburgiche a Vittorio Veneto. La seconda, in larga misura conseguenza della prima, si fondava sulla
volontà di ottenere acquisizioni territoriali che si consideravano legittimati dal principio delle nazionalità,
reinterpretato in modo da provocare il collasso del Regno SHS, costituire una serie di piccoli e deboli stati
nell’Adriatico orientale, e affermare il dominio italiano sulla regione. Di conseguenza, nei confronti di
Belgrado si creava un clima di diffidenze e sospetti, che irrigidiva i comportamenti fra i due Stati; accresceva
la reciproca sfiducia nelle rispettive opinioni pubbliche; e costringeva i negoziatori a rinviare la ricerca di un
compromesso. Ne scaturì un clima di incertezza generale, che si riversò a livello locale nei rapporti fra
abitanti italiani e slavi, rendendoli sempre più tesi lungo tutto l’arco adriatico-orientale 92.

In questo contesto, apparve evidente che il futuro (conteso) della città di Fiume sarebbe dipeso da
una soluzione complessiva della “questione adriatica”, in cui il principio delle nazionalità e l’obiettivo
strategico della sicurezza militare erano avvertiti come poli alternativi, ancorché confusi. Da un lato, il
diritto delle nazionalità fu discutibilmente interpretato dalle varie parti in causa in chiave demografico-
linguistica (in base a contestati censimenti o raccolte di dati) e/o in relazione a eredità storico-culturali di
lungo periodo. Dall’altro, sul piano più strettamente diplomatico, la sicurezza geopolitica prevalse
rapidamente nelle argomentazioni delle autorità italiane (anche perché il ricorso a narrazioni nazionali era
frenato dall’insistenza etno-linguistica di Wilson). Al contrario, i plenipotenziari jugoslavi sottovalutarono a
lungo questo aspetto, preferendo concentrarsi sulla difesa dell’unità etno-territoriale degli Slavi
meridionali, con ciò tenendo conto di una parte importante del mondo politico sloveno, nonché delle
posizioni espresse da Otokar Ribarž e della società Edinost di Trieste 93. Sottoposti a tali, contrastanti,
dinamiche, i due princìpi richiamati dalle opposte delegazioni stentavano a trovare una ricomposizione
accettabile, anche perché memorie storiche e percezioni del passato venivano interpretate in chiave
esclusivista, e spesso alterate pubblicamente – secondo linee fra loro divergenti – dalle componenti liberali,
socialiste, radicali, nazionaliste e dai vari avventurieri che operavano nei due Paesi.

Naturalmente, tali visioni corrispondevano raramente alla realtà storica. In passato, si era
sviluppata una tradizione di pensiero condivisa che riconosceva lo status minoritario degli Italiani in
Dalmazia e perciò anche la necessità di rispettarne i diritti. Molto opportunamente il Tamborra 94 ha

91
Giovanni Giuriati, op. cit., pp. 158-169. In allegato il volume riporta anche i testi delle due convenzioni di Venezia,
pp. 221-226.
92
Contribuì a questo clima una informazione apparsa sul quotidiano di Zagabria Obzor secondo cui un funzionario del
Ministero degli Esteri italiano aveva trattato con Stjepan Radić l’indipendenza della Croazia, promettendo all’Italia
Fiume, Istria e Dalmazia. La voce fu energicamente smentita da Nitti stesso. Si v. Paolo Alatri, op. cit., p. 436.
93
Si v., ad es. l’articolo di Otokar Ribarž, La fase attuale della questione adriatica, del 13 maggio 1920 e conservata, in
italiano in ASMAE, Questione adriatica 1920-21, filza n.7, sottofasc. I, all. a lettera di Salata a Sforza, 25 giugno 1920.
94
Si v. Angelo Tamborra Introduzione, in Ivo Lederer, op. cit., p. XXV.

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ricordato il duplice sentimento italo-slavo di Niccolò Tommaseo che traspare evidente nelle sue “Scintille”,
così come il riconoscimento di una simile fluidità di legami da parte del rettore dell’Università di Zagabria, e
uomo politico, Kosto Vojnović, nonché le convinzioni manifestate dal sindaco spalatino Antonio Bajamonti e
il rifiuto delle violenze antitaliane manifestate dallo storico Natko Nodilo che pure con Tommaseo
polemizzò vivacemente. Ma ad analoghe conclusioni era giunto pure l’irredentista zaratino Roberto
Ghiglianovich sul finire della Grande Guerra 95. Successivamente, come è noto, personaggi come Salvemini e
Bissolati (e lo stesso Nitti) avevano espresso voci “fuori dal coro nazionalista ed irredentista italiano” 96.

A sua volta, nel Regno SHS, la situazione si presentava ancor più complessa, giacché ogni autonoma
presa di posizione rischiava di essere re-interpretata localmente alla luce di potenziali, divergenti, interessi
dei “rami serbo, croato o sloveno” del Regno uno e trino; interessi, questi, che venivano fatti coincidere,
rispettivamente, con le aspirazioni su Albania e Montenegro; Dalmazia e Istria; Venezia Giulia e Carinzia.
Alcuni motivi di scontro occorsi fra Trumbić e Pašić, e di cui abbiamo riferito sopra, costituirono palese
manifestazione di tale controversa situazione, benché ambedue desiderassero sinceramente raggiungere
un accordo con Roma. E, certo, al fine di ristabilire una proiezione esterna condivisa, il parlamento
jugoslavo approvò all’unanimità a fine marzo 1920 una dichiarazione che forniva pieno appoggio alla
posizione assunta dal governo Davidović allorché, il 20 gennaio precedente, questi aveva respinto la
proposta alleata del 9 dicembre 97.

Nel frattempo, però, nonostante la crescente polarizzazione fra autonomisti e legionari a Fiume, la
visita a Roma di un gruppo di fedeli seguaci di D’Annunzio guidata dal De Ambris a metà aprile e il ritiro dei
carabinieri guidati dal capitano Vadalà in maggio 98, le parti negoziali italiana e jugoslava ripresero a parlarsi.
La svolta era in aria da tempo, ma l’incontro di Pallanza dell’11 maggio costituì indubbiamente un momento
di accelerazione delle trattative. Oltre a Trumbić e Pašić questa volta la delegazione jugoslava era
accompagnata da Ribarž e Žolger, anche se i colloqui diretti con la parte italiana, composta dal Ministro
degli Esteri Vittorio Scialoja e dal suo capo di Gabinetto Carlo Garbasso, coinvolsero solo i primi due 99. La
rappresentanza del Regno SHS rispecchiava, pertanto, solo in parte le maggiori componenti del Paese,
anche se all’epoca l’accento interno cadde prioritariamente sull’unità politica dello Stato, ancora esposta
alla fragilità della sua collocazione internazionale.

Il negoziato affrontò, come è noto, una vasta gamma di questioni, non restando circoscritto alla
questione dei confini terrestri e dello status di Fiume, le cui tensioni interne avevano ormai indotto le parti
ad accelerare la ricerca di un compromesso. Questo, infatti, cominciò a delinearsi con la discussione
incentrata sulla sovranità italiana della città del Carnaro e sul futuro del suo distretto territoriale, in quanto
ciò tornava a riproporre non solo l’assetto delle vie di comunicazione, via ferro e via mare, ma anche la
vexata questio della cittadinanza slava e dei diritti riconosciuti alle minoranze incorporata nel Regno
d’Italia. Un tema, questo, che Trumbić sollevò con molto calore. Contemporaneamente, furono affrontati
altri nodi controversi, che riguardavano i confini istriani ben oltre la linea Wilson, nonché l’attribuzione

95
Angelo Tamborra, Ibid., p. XXIV. Molto interessante, sul Tommaseo, Mazzini e la Slavia, quanto ricostruito da
Salvemini al Parlamento italiano in Amedeo Giannini (a cura di), Il Trattato di Rapallo al Parlamento italiano, Libreria di
Scienze e Lettere, Roma, 1920, pp. 34-36.
96
Dragovan Šepić, Italija, Saveznici i Jugoslavensko Pitanje, 1914-1918, Školska Knjiga, Zagreb, 1970, pp. 264-68,
nonché ASMAE, Questione adriatica 1920-21, filza n.7, sottofasc. VIII, Salvemini-Trumbich, cit. Sull’irredentismo e
l’ostilità di Salvemini verso gli Imperi Centrali si è diffuso Federico Imperato, La “Chiave dell’Adriatico”… cit.
97
Paolo Alatri, op. cit., p. 445.
98
Raoul Pupo, op. cit., p. 94.
99
I quali, peraltro, avevano ricevuto dal capo del governo Protić ampia facoltà di mediare, inclusa la rinuncia alla
sovranità su Fiume nel caso in cui ciò avesse consentito di “evitare che un male maggiore si abbatta sul nostro
popolo”. V. Istruzioni a Pašić e Trumbić a firma M. Protić, AJ M 560/8, 7 maggio 1920.

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delle isole adriatiche e di Zara, così come il destino geopolitico di Montenegro e Albania. Fu altresì
convenuto che, una volta raggiunto un accordo sull’insieme della “questione adriatica”, sarebbe stato
necessario stipulare convenzioni specifiche relativamente al commercio, alla pesca, alla navigazione e ai
rapporti culturali e intellettuali. Dunque, come si vede, le parti avevano cominciato ad entrare nel merito
dei vari problemi ancora aperti, delineando un percorso, sia pure impervio, ma che avrebbe dovuto
condurre ad una positiva soluzione 100.

Tuttavia, la caduta del governo Nitti il 12 maggio, seguita pochi giorni dopo da quella di Protić a
Belgrado, comportò la sospensione del dialogo appena avviato. Se a Belgrado la crisi di governo venne
rapidamente risolta, affidando il 16 maggio la carica di primo ministro a Milenko Vesnić, con Trumbić
sempre agli esteri, le settimane che seguirono furono particolarmente tese in Italia, dove le pressioni
nazionalistiche si accentuarono allo scopo di impedire la ripresa delle trattative, come Nitti avrebbe invece
voluto. La crisi, pertanto, si prolungò fino all’11 giugno, allorché Giolitti formò il nuovo gabinetto con Sforza
agli Esteri. Nel frattempo, proprio ai primi di giugno, esplose una ribellione in Albania contro la presenza
militare italiana e, soprattutto, contro l’accordo spartitorio Tittoni-Venizelos del 29 luglio 2019, reso noto
proprio allora dal governo greco 101.

Eppure, nonostante le tensioni si andassero rapidamente accumulando sui vari fronti della
“questione adriatica”, nel giro di pochi mesi i vari pezzi che componevano il suo controverso puzzle
trovarono – sorprendentemente – modo di ricomporsi all’interno di una mediazione diplomatica raggiunta
dalle parti. Era chiaro già allora, infatti, che tanto a Roma, quanto a Belgrado fosse prevalsa la volontà di
addivenire ad una soluzione onnicomprensiva in grado di sciogliere i troppi nodi – ancora aggrovigliati – che
investivano i confini di Stato; la questione fiumana (dove l’autonomia d’azione di D’Annunzio stava creando
crescente irritazione a Roma); il futuro del Montenegro (ancora contestato dall’Italia) e quello dell’Albania.
Il tutto avveniva in un contesto afflitto da crescente ostilità fra opposti irredentismi, ostilità a sua volta
istigata dall’ambivalenza del principio delle nazionalità. In altre parole, il trascinarsi della trattativa rischiava
di accendere vieppiù gli animi, come effettivamente accadde con l’inizio dell’estate, benché i due governi
avessero iniziato, troppo tardi, a rendersi conto della necessità di fermare una tendenza capace di sfociare
in conflitto militare.

Insomma, mentre la diplomazia riallacciava i suoi fili, le intemperanze nazionaliste si stavano


moltiplicando su ambedue i fronti. Proprio per questo, appena prese le funzioni, Sforza, che era amico
personale di Pašić avendolo conosciuto a Corfù durante la Grande Guerra, si adoperò per rilanciare il
dialogo, sostenuto in questo da Giolitti il quale desiderava, a sua volta, chiudere la questione del “confine
orientale” quanto prima. Dall’altra parte, Pašić – paradossalmente, visti i suoi legami con Sforza – diede
poco credito alla volontà mediatrice di Giolitti, al contrario di Trumbić, che si attestò su una posizione di
maggior disponibilità 102. La divergenza fra i due leader jugoslavi si acuì proprio in quei giorni, fino al punto
di indurre Pašić a dimettersi dal suo ruolo di delegato plenipotenziario. Sulla scena rimase così solo
Trumbić, che incontrò Sforza alla conferenza interalleata di Spa il 5 luglio, dove i due ministri si ripromisero
reciprocamente di riprendere quanto prima le trattative e giungere ad un accordo. Ciò effettivamente
avvenne il 17 dello stesso mese, quando Sforza chiarì a Trumbić che la sistemazione dei confini fra i due
Paesi avrebbe dovuto comportare l’inclusione in Italia del minor numero possibile di Sloveni. Inoltre, fra i

100
Paolo Alatri, op. cit., pp. 460-70.
101
Si v. i riflessi in Parlamento provocati dalle interpellanze di Luigi Federzoni su Sanremo, Pallanza, la crisi albanese e
la difesa della situazione fiumana, inclusa la sua polemica con Salvemini, e riportate dallo stesso Federzoni, ne Il
trattato… cit., pp. 45-92.
102
La divergenza viene riportata nel verbale della seduta della delegazione reale del 14 giugno, in Ministarstvo
inostranih dela, Jadransko pitanje…cit., doc. n. 103, p. 193.

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due diplomatici furono discusse varie opzioni territoriali e evidenziata la necessità di arrivare in tempi brevi
ad una soluzione concordata per evitare il riprodursi delle tensioni occorse appena la settimana
precedente 103.

Nel frattempo, infatti, le tensioni – che covavano sotto la cenere delle delusioni e/o illusioni
provocate dalla Grande Guerra – erano esplose nell’Adriatico orientale: il 12 luglio a Spalato, come è noto,
si erano verificati gravi scontri con i marinai italiani alla fonda e il capitano di corvetta Tommaso Gulli,
assieme al macchinista Rossi, era rimasto ucciso. Sforza chiese le scuse al governo jugoslavo. Trumbić
attribuì la responsabilità alla parte italiana, mentre i risultati di un’indagine autonoma americana non
risultarono graditi a Roma. Alla fine, comunque, Belgrado trovò modo di esprimere il proprio rammarico 104.

Intanto, però, il giorno successivo agli eventi di Spalato un’azione capitanata dal segretario del
fascio triestino di combattimento Francesco Giunta appiccò il fuoco e distrusse il Narodni Dom a Trieste
(che, assieme alla sede di “Edinost”, era già stato oggetto di tentati atti vandalici nell’agosto del 1919 da
parte di un manipolo di arditi). Seguì un’analoga aggressione a danno del Narodni Dom di Pola, e l’incendio
a Pisino /Pazin della sede del “Pučki Prijatelj” (giornale cattolico sloveno), con la partecipazione o
l’atteggiamento compiacente di militari italiani 105 . Il 1° settembre la società “Edinost” e il suo Presidente
Josip Vilfan inviarono un lungo, dignitoso e dettagliato promemoria a Giolitti, in cui venivano specificate la
struttura dell’edificio e delle associazioni ospiti, ricostruite le vicende che avevano portato alla distruzione
del Narodni Dom triestino e i danni che ciò aveva procurato alla cultura slovena, chiedendo misure atte a
garantire “la sicurezza pubblica… della popolazione slava che è indigena da secoli e ha gli stessi diritti come
la popolazione italiana…. fruendo di tutte le libertà concesse dalle leggi in vigore” 106.

È ormai accertato dagli storici che gli eventi di Trieste e Pola abbiano rappresentato il primo atto di
squadrismo fascista in Italia 107. Ma nell’insieme, il clima politico, da ambo le parti, si era fatto acceso e
minoranze agguerrite agivano con sempre maggior frequenza con l’intento sia di eccitare sentimenti etno-
nazionali contrapposti, sia di intimidire quanti si proponevano di mantenere aperta la via del dialogo e del
compromesso. Di conseguenza, il nesso fra territorialità ed etnicità era diventato sempre più stringente e
competitivo, con il rischio che, a pagare il prezzo, sarebbero state le minoranze inglobate nei due Paesi, il
cui controllo dell’Adriatico restava oggetto di contesa.

103
Trumbić a Vesnić, da Parigi, il 19 luglio 1920, in Ibid., doc. n. 104, pp. 194-195.
104
La questione venne sollevata nuovamente da Galanti a Belgrado in una riunione con i rappresentanti stranieri
Primanje stranih Predstavnika il 18 settembre: H HAZU, F. 112, Pred Rapallom. L’argomento, peraltro, è stato oggetto
di numerosi e approfonditi studi. Si cfr. Milica Kacin-Wohinz, L’incendio del “Narodni Dom” a Trieste, in “Qualestoria”
n. 1, giugno 2000, pp. 89-99; Vjekoslav Perica, op. cit., pp. 149-154; Mario Pacor, Confine orientale. Questione
nazionale e Resistenza in Friuli Venezia Giulia, Feltrinelli, Milano, 1964, pp. 73-76; e Claudio Silvestri, Documenti
americani sui “fatti di Spalato” del luglio 1920 (Studi e documenti), in Movimento di Liberazione in Italia, rassegna
bimestrale di studi e documenti, n. 94, gen-mar 1969, pp. 62-81, oggi accessibile sul sito http://www.reteparri.it/wp-
content/uploads/ic/RAV0068570_1969_94-97_03.pdf. Si v. anche L’incidente di Spalato, doc. 1416/3 in “Prassi italiana
di Diritto Internazionale, Istituto di Studi Giuridici Internazionali, CNR, accessibile ora in
http://www.prassi.cnr.it/prassi/content.html?id=2296.
105
Sull’impatto di questi eventi in Istria si v. Marina Cattaruzza, op. cit., p. 144-45, nonché Lavo Čermelj, op cit., pp.
229-236.
106
AST, fondo RGC VG, busta 82, soc. pol. Edinost.
107
Secondo Renzo De Felice si trattò del “vero battesimo dello squadrismo organizzato”. Si v. Renzo De
Felice, “Mussolini il rivoluzionario 1883-1920”, Einaudi, Torino, 1995 [1° ediz.1965], p. 624.

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5. La “questione adriatica” ad una svolta: il trattato di Rapallo, il principio di nazionalità e la sicurezza


dei confini.

A partire dall’agosto 1920 una serie di eventi impresse una decisa accelerazione all’intera
“questione adriatica”.

Il 2 agosto Giolitti decise il ritiro italiano dall’Albania, limitandosi al solo controllo dell’isolotto di
Saseno. La decisione ebbe effetti benefici, in quanto contribuì a rasserenare il quadro locale, giacché
consentì all’Albania di ritornare ai confini del 1913, stabilizzando altresì le percezioni di sicurezza e la
collocazione geopolitica regionale di Atene e Belgrado.

Il 7 settembre, con la firma dell’accordo Bertolini-Trumbić, le delegazioni italiane e jugoslava


poterono addivenire alla spartizione della flotta mercantile austro-ungarica 108.

Fu subito evidente che ambedue queste decisioni avrebbero spianato la strada al raggiungimento di
un accordo globale sull’area.

Per parte sua D’Annunzio, evidentemente preoccupato di come si stesse modificando il quadro
geopolitico, decise di dar seguito alle proposte di Wilson a sostegno di uno Stato libero di Fiume e proclamò
l’8 settembre la Reggenza del Carnaro, restando in attesa, però, dell’annessione di Fiume all’Italia. Tale
decisione, che fu accompagnata dalla pubblicazione di una Costituzione (la Carta del Carnaro), fu seguita da
agitazioni a Zara e in alcune isole adriatiche su iniziativa dei suoi legionari e in contrasto con l’orientamento
delle autorità locali fiumane ormai avvicinatesi alle tesi autonomiste di Zanella 109.

Di fronte a questo alternarsi di eventi che spingevano obiettivamente in direzioni opposte le


relazioni italo-jugoslave, il governo italiano accelerò la propria azione diplomatica. Lo scambio di missive fra
Giolitti e Sforza si intensificò dall’inizio di settembre. Sforza, in particolare, avvertiva l’urgenza di incontrare
Trumbić e addivenire ad una soluzione in tempi stretti, come rivelano alcuni telegrammi scambiati con
Giolitti fra il 10 e l’11 settembre. Da un lato, infatti, i due uomini politici italiani convennero che si dovesse
porre fine agli atti di pirateria marina che sempre più spesso si verificavano in partenza dal porto
quarnerino e, in questo contesto, ricuperare quanto prima il piroscafo Cogne, dirottato su Fiume dai
legionari di D’Annunzio; dall’altro, essi ritennero necessario ammonire Belgrado di non compiere alcuna
azione su Scutari in grado di violare i confini albanesi del 1913, approfittando del ritiro italiano 110. Tale
coacervo di tensioni spiega, quindi, le ragioni per cui il 20 settembre Sforza abbia informato il Ministero
degli esteri jugoslavo, per il tramite dell’incaricato d’affari a Belgrado Galanti, di essere disponibile a
riprendere quanto prima i negoziati in Italia. La settimana successiva egli spedì Volpi a Belgrado, contando
sulla sua lunga amicizia personale con il primo ministro Vesnić.

Volpi, in effetti, si incontrò con Vesnić e Trumbić il 30 settembre. Durante i colloqui, oltre ad
affrontare tutti i problemi territoriali in sospeso e offerto garanzie relativamente alla volontà di Giolitti di
giungere ad un accordo in tempi brevi, Volpi esplicitamente menzionò la necessità di allargare la
convergenza alle questioni relative alla cooperazione economica e agli interessi industriali italiani in
Dalmazia, nonché alle tutele delle reciproche minoranze “sulla base della reciprocità” e sulle relazioni
culturali. La discussione entrò in molti dettagli e il ritiro italiano dall’Albania venne presentato da Volpi

108
HDA, Figatner, Korespondencija, Accordo fra l’Italia e la Jugoslavia sottoscritto il 7 settembre 1920.
109
Si v. Renzo de Felice (a cura di), La carta del Carnaro…, cit., pp. 7-31, cui segue il testo della Carta del Carnaro,
nonché Raoul Pupo, op. cit., pp. 125-128.
110
ASMAE, Sforza a Giolitti, 10 e 11 settembre 1920, Filza 7, sotto fasc. III, n. 11.

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come un atto politico di garanzia verso Belgrado della volontà di Giolitti di giungere ad un accordo
bilaterale. Di fatto, furono poste allora le basi per l’avvio dei negoziati di Rapallo 111.

Seguirono – fra settembre e ottobre – giorni frenetici di consultazioni sia a livello nazionale, sia con
gli alleati francesi e inglesi 112. Al tempo stesso, furono raccolti a Roma vari dossier sulle potenziali linee di
confine, il loro impatto economico su Trieste, i collegamenti ferroviari con l’Austria, l’avvicinarsi del
plebiscito in Carinzia 113. Vennero considerate varie opzioni, sia nel caso di una rottura delle trattative, sia
nel caso in cui avessero avuto successo, poiché ciò avrebbe comportato lo sgombero (anche forzato) dei
volontari di Fiume e l’appoggio governativo agli autonomisti di Zanella 114.

In tali frangenti fu altresì chiaro, al governo italiano, che la questione delle minoranze, una volta
definito il confine orientale, si sarebbe posta in maniera ineludibile su ambedue i lati del confine. Ne è
prova il documento redatto dall’Ufficio del contenzioso del Ministero degli Esteri il 9 ottobre, in cui si entrò
nel dettaglio dei vari “trattati speciali” firmati durante la Conferenza di pace con i paesi dell’Europa centro-
orientale. Dopo ampia disanima, la memoria concluse, citando le obiezioni di De Martino alla Conferenza di
Pace e quelle di un delegato britannico, che tali accordi non potessero, tuttavia, essere applicati alle
“Grandi Potenze” e, quindi, di conseguenza all’Italia. Pertanto, la tutela – sempre secondo il documento
ministeriale – avrebbe dovuto essere applicata esclusivamente agli Italiani destinati a rimanere entro il
territorio jugoslavo 115.

Si tratta di una nota dal contenuto molto importante, giacché spiega in larga misura, e al di là dei
rapporti di forza internazionali che si erano andati modificando con il declino dell’interventismo di Wilson
negli affari europei, quale sia stata la genesi non solo giuridica, ma soprattutto politico-culturale del dettato
racchiuso nell’art. VII del Trattato. Articolo, questo, che – assicurando la protezione ai soli Italiani di
Dalmazia – negava eguaglianza di trattamento alle nuove minoranze slave inglobate nel regno d’Italia. In
altre parole, già nella fase pre-negoziale, Roma si preparava ad esternare la propria indisponibilità ad
applicare sul proprio territorio norme che, a salvaguardia del principio delle nazionalità per le popolazioni
allogene, erano state imposte durante la Conferenze di Pace sia ai Paesi vinti, sia a quelli di nuova
istituzione. Per le Potenze dell’Intesa, invece, tale trattamento non era stato ritenuto di pertinenza. Forte,
quindi, della sua posizione di membro dei “Quattro” decisori che avevano stabilito le condizioni per la pace,
l’Italia rivendicava anche nei confronti del vicino adriatico un privilegio che i rapporti di forza dell’epoca,
indubbiamente, le assicuravano.

In verità, come vedremo, il problema – prettamente politico, prima ancora che giuridico – della
tutela delle numerose minoranze slave incorporate a seguito della firma del Trattato (ancora peraltro, in
quella fase, in via di definizione), non fu affatto sottovalutato né da Giolitti, né da Sforza. Ambedue gli
uomini politici, infatti, individuarono nelle fasi conclusive del negoziato alcune misure da attuare
all’indomani della sua ratifica. Oggetto di assicurazioni verbali nei confronti della controparte, esse erano
state incluse in una serie di osservazioni riservate che avevano accompagnato la stesura dei vari articoli,

111
Dell’incontro fra Volpi, Vesnić e Trumbić abbiamo gli appunti di Trumbić, pubblicasti da Vojislav Jovanović (a cura
di), Rapallski ugovor. Zbirka dokumenata, Zagreb, 1950, pp. 11-21.
112
Numerosi telegrammi furono scambiati fra Sforza e gli ambasciatori Bonin e Imperiali sugli incontri fra questi ultimi
e le massime autorità di Gran Bretagna e Francia. La corrispondenza fra il 22 ottobre ie il 7 novembre in Ibid., pp. 22-
32.
113
ASMAE, lettera ms. Salata 7 settembre 1920, filza 7, sottofasc. II, n. 2, Riassunto dati etnici, filza 7, sottofasc. II, n. 4
e Memoriale Vannutelli Rey, Parigi, 18 settembre 1920, filza 7, sottofasc. II, n. 6.
114
ASMAE, fogli dattiloscritti intitolati da Sforza “Progetto Sechi”, 10 ottobre 1920, filza 7, sottofasc. II, n. 13.
115
ASMAE, Promemoria del Contenzioso a firma Busatti sulla protezione delle minoranze, 9 ottobre 1920, filza 7,
sottofasc. II, n.14.

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come vedremo più avanti. Ciò nonostante, dato il clima di aspettative creato dal principio delle nazionalità,
pur nella varietà delle sue interpretazioni e delle ambiguità che lo caratterizzavano, il contenuto dell’art.
VII, tanto nella forma, quanto nella sostanza, innescò un ampio ventaglio di ripercussioni a breve e a lungo
termine sia nei nuovi territori acquisiti da Roma, sia nelle relazioni bilaterali italo-jugoslave, sia in quelle
all’interno del Regno SHS 116.

Nel frattempo, data la pluralità di passioni, personalità e movimenti interessati, a diverso titolo, alla
sistemazione della “questione adriatica”, un’atmosfera gravida di molteplici tensioni si andò accumulando
sul rilancio delle trattative dirette. Ne è testimonianza un dispaccio di Sforza a Giolitti del 15 ottobre, in cui
si fa cenno a minacce dirette al Ministro degli Esteri, in un quadro variegato di crescente malcontento che
trovava la propria forza nella “debolezza dello Stato”, resa evidente da “generali ed ammiragli che
discutono o non obbediscono” 117. Un chiaro riferimento, questo, ai comportamenti di insubordinazione
manifestati in più occasioni dall’ammiraglio Umberto Cagni a Pola, dal governatore della Dalmazia Enrico
Millo e dal generale Francesco Saverio Grazioli al comando della piazza di Fiume, tutti simpatizzanti di
D’Annunzio e della causa nazionalista italiana.

Negli stessi giorni altre forme di pressione furono esercitate nei confronti del governo di Roma. Non
è da escludere che esse fossero state incoraggiate dal risultato del plebiscito in Carinzia, dove il 10 ottobre
era prevalsa la volontà di restare in Austria anche con il voto di una parte significativa della popolazione
slovena locale. In effetti, il 18 ottobre il commissario generale della Venezia Giulia Antonio Mosconi scrisse
a Salata per sconsigliare vivamente l’avvio di trattative dirette con Belgrado, ritenendo che le voci in
circolazione su possibili compromessi relativamente al confine in Istria avrebbero potuto provocare una
reazione militare da parte di D’Annunzio, mentre – sempre secondo Mosconi – la situazione politica
jugoslava appariva troppo fragile a causa dell’approssimarsi del voto per la Costituente e, pertanto, il Regno
SHS non costituisse, al momento, una controparte credibile 118.

Ancor meno attendibile – se non sul piano delle mere pressioni politiche – risulta il telegramma
inviato dalla legazione di Lubiana il 5 novembre, in cui si svaluta il ruolo del Partito Popolare Sloveno di
Anton Korošec sostenendo, piuttosto, che la “maggioranza del popolo sloveno si dichiarerebbe per l’Italia”
se dovesse scegliere in un plebiscito fra Italia e Serbia e che, addirittura, “in molti casolari della Stiria” lo
scrivente “aveva visto la bandiera italiana nascosta con cura gelosa”. Il documento proseguiva sostenendo
che le manifestazioni antiitaliane a Zagabria fossero state organizzate dalla polizia, per concludere che,
comunque, date le avversioni verso la Serbia, l’Italia in futuro “sarà chiamata ad occupare il primo posto nei
traffici e nello sviluppo culturale della Croazia e della Slovenia” 119. Una chiosa, quest’ultima, i cui riferimenti
geopolitici lasciano intendere come persistessero nostalgie per il progetto separatista di Šušteršič e Dujić,
almeno in una parte della diplomazia italiana, e al di là della componente politica di orientamento
nazionalista che aspirava a inglobare in Italia, come avrebbe voluto Sonnino, tutti i territori previsti dal
Patto di Londra, nonché Fiume.

A Belgrado non si viveva un’atmosfera differente, anzi. Già il 1° agosto era giunta una relazione di
12 pagine a cura di Ante Belanić che descriveva nei dettagli la politica di “epurazione nazionale” eseguita in

116
V. “Edinost”, 13, 14, 16 e 17 novembre 1920; HDA Figatner, Korespondencija, e A HAZU, F.22 e F.85.
117
ASMAE, Sforza a Giolitti, 15 ottobre 1920, filza 7, sottofasc. XVII, n. 6.
118
ASMAE, Mosconi a Salata, 17 ottobre 1920, filza 7, sottofasc. I, n. 1. All’epoca Salata era consigliere di Stato e
Presidente della VI sezione speciale provvisoria per le Nuove province. Sulla vicinanza di Mosconi agli attivisti
nazionalisti e fascisti si v. Milica Kacin-Wohinz, Primorski Slovenci pod italijansko zasedbo 1918-1921, Založništvo
Tržaškega Tiska, Trieste, 1972, pp. 172-174.
119
ASMAE, R. Legazione italiana a Lubiana a Legazione a Belgrado, 5 novembre 1920, filza 7, sottofasc. IV, n. 3.

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Istria con l’internamento di sacerdoti, maestri, impiegati e proprietari. Nel documento si criticava il gen.
Caviglia per aver incoraggiato la popolazione slava ad assimilarsi o, in alternativa, a trasferirsi nel Regno
SHS. Il documento menzionava poi il caso del Commissario civile Cannella a Pisino/Pazin, il quale era sì stato
protagonista di incomprensioni di natura etno-culturale con la popolazione locale, ma era stato poi
costretto dai nazionalisti italiani a lasciare le sue funzioni perché considerato “un amico degli Slavi”. Inoltre,
il rapporto riferiva delle ripetute censure e delle devastazioni subite dal giornale “Pučki Prijatelj” fra ottobre
1919 e luglio del 1920, lamentando l’assenza di interventi protettivi da parte dei carabinieri 120. Il 21
settembre fu la volta della chiesa ortodossa serba di Trieste che si rivolse a Trumbić per esprimere i propri
timori nel caso in cui fossero stabiliti confini che avessero separato una parte della popolazione slava da
quella del Regno SHS, chiedendo di proteggere i beni ecclesiastici e di potersi collegare con le diocesi delle
Bocche di Cattaro o con il patriarcato di Karlovac 121. Il 14 ottobre toccò all’associazione degli studenti
belgradesi fare pressione su Trumbić, con un documento nazionalista molto retorico e poco chiaro, ma che
lasciava presumere la necessità di mantenere in Jugoslavia tutte le regioni abitate da popolazione slava.
Seguì un telegramma dello “Jadranski Zbor” che chiedeva di interrompere le trattative con l’Italia e uno da
Roma, a firma di Vladimiro Cerina che invocava la salvaguardia della cultura slava a Zara 122. Era evidente,
comunque, che il perdurare di una situazione di incertezza relativamente ai confini italo-jugoslavi
accresceva apprensioni e sfiducia, nonché moltiplicava le pressioni tanto individuali, quanto di vari
movimenti sociali e politici sulle autorità statali di ambedue i paesi.

Fu, quindi, in questo contrastante clima di aspettative e timori che si arrivò, all’inizio di novembre,
all’incontro di Rapallo 123. La documentazione conservata presso l’Archivio storico del Ministero degli Esteri
italiano ci offre un quadro interessante delle trattative, tenuto conto che, oltre a sintetici verbali, essa
include le trascrizioni delle intercettazioni ripetutamente operate ai danni della delegazione jugoslava. Fra i
(pochi) giornalisti presenti 124 le voci sulle posizioni delle parti si accavallarono, anche perché i primi incontri,
iniziati l’8 novembre alle 9,30 del mattino e terminati alle 19 con una pausa fra le 13 e le 15, si svolsero
senza verbale, in un contesto sostanzialmente informale secondo quanto la stessa stampa jugoslava riferì.
Solo il giorno successivo Sforza fece la sua prima dichiarazione pubblica: un dispaccio al quotidiano
belgradese “Politika”, firmato Tanović, riferì tre aspetti fondamentali di un negoziato ancora incerto: ossia,
la frase del ministro italiano, secondo cui l’accordo migliore “è quello che rende tutti malcontenti”; che
l’Italia è a conoscenza “dell’agitazione di Šušteršič, Prebeg e Frank per il ritorno degli Asburgo” e che i due
paesi dovranno impegnarsi per “un grande lavoro comune nel campo economico, commerciale e
culturale” 125.

Furono tali aspetti, insomma, a far da sfondo ad una trattativa ricca di sfaccettature, ma in cui la
questione territoriale mantenne il suo carattere prioritario. E infatti, quando il 9 novembre alle 10,30 del
mattino Francesco Salata si recò presso la delegazione jugoslava, questa aveva già ricevuto un dispaccio da

120
Ante Belanić, Izješče iz Istre o stanju stvari iza dolaska talijanske vojske do danas, H HAZU, F.67, Rapalski pregovori.
121
Srpska pravoslavna crkva Trumbiću, 21 settembre 1920, Ibid.
122
Cfr. Udruženje studenata Beogradskog Univerziteta Trumbiću, 14 ottobre 1920, H HAZU, F. 112, Pred Rapallom e
telegramma a firma “Jadranski Zbor” a Trumbić, 12 novembre 1920, Ibid.
123
Sul piano formale, membri plenipotenziari della delegazione italiana erano Carlo Sforza e il Ministro della Guerra
Ivanoe Bonomi. Più tardi si aggiunse il Primo Ministro Giovanni Giolitti. La delegazione jugoslava era composta dal
Primo Ministro Milenko Vesnić, da Trumbić e dal ministro delle finanze Kosta Stojanović.
124
Al di là della stampa italiana e jugoslava, a seguire l’evento vi era solo il “Morning Post”, nessun’altra testata inglese
o francese era presente nella cittadina ligure in quei giorni cruciali. ASMAE, “Questione adriatica 1920-21”, Sfilza 7,
sottofasc. IV, n. 7.
125
ASMAE, decifrazione di telegrammi, Tanović a “Politika”, 9 novembre 1920, filza 7, sottofasc. IV, n. 7. Vi sono poi
alcuni telegrammi di Sforza a Giolitti e uno di Vesnić a Momčilo Ninčić dell’8 novembre in Vojislav Jovanović (a cura
di), Rapallski ugovor… cit., pp. 32-35.

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Millerand dal tono inequivocabilmente a favore di una conclusione positiva della trattativa, da raggiungere
altresì in tempi brevi. Peraltro Salata, oltre a presentare le richieste territoriali italiane (su cui non ci
soffermeremo perché ben note), affrontò il nodo delle minoranze, proponendo di estendere l’uso della
propria lingua dalle controversie giudiziarie alle questioni amministrative (così come l’Italia, nelle parole di
Salata, aveva già fatto con Tedeschi e Sloveni), nonché di rafforzare la convenzione culturale ben oltre
quanto già concordato con la Francia per la Valle d’Aosta, aprendo cattedre nelle rispettive lingue, secondo
l’esempio di quanto avvenuto a Trieste. Dall’intercettazione del colloquio si ricava inoltre come, uscito
Salata, i presenti fossero ancora molto reticenti ad accettare le proposte territoriali italiane, pur
ammettendo che queste avrebbero consentito, come contropartita positiva, il riconoscimento del Regno
SHS, l’acquisizione di tutta la Dalmazia (tranne Zara) e la soluzione della questione montenegrina. La
prospettiva di interrompere le trattative restò comunque fra le opzioni ancora aperte, giacché la
delegazione jugoslava aveva chiaramente percepito come le proposte italiane in materia di confini avessero
carattere ultimativo, in ciò provocando reazioni emotivamente ostili e piene di risentimento 126.

Quali siano stati i seguiti della trattativa nel corso della giornata del 9 non sono noti. Per lo meno, la
documentazione archivistica italiana non offre ulteriori dettagli. Il 10, però, alle 9 del mattino si svolse un
colloquio diretto fra Salata e Trumbić, anche questo intercettato. Dallo scambio di opinioni che ebbe luogo
rimasero, alla fine, insoluti 5 punti, tutti di natura territoriale: fra questi, non vi era nulla che riguardasse la
città di Fiume, sul cui futuro di stato indipendente le parti avevano già convenuto l’8. Uscito Salata, Trumbić
ebbe un colloquio con un giornalista, probabilmente croato, giacché il ministro degli esteri jugoslavo
dovette tradurgli le proposte di Salata. La discussione si soffermò, in particolare, sul futuro di un paio isole,
ma soprattutto di Zara. Dalla trascrizione dell’intercettazione sembra che questo fosse ormai il nodo più
controverso, e non solo per quanto riguardava la parte jugoslava. Infatti, proprio quella stessa mattina, alle
10,45, Giolitti inviò un telegramma a Sforza sollevando dubbi sulla praticabilità dell’annessione di Zara
all’Italia, data la mancanza di contiguità territoriale. A questa stregua, Giolitti espresse, piuttosto, l’auspicio
che venisse assegnato alla cittadina dalmata uno status indipendente o anche, semplicemente,
autonomo 127.

Nel frattempo, a Rapallo, il giornalista – ancora riunito con Trumbić – chiese (curiosamente) quale
lingua si parlasse a Zara. Evidentemente, non ne era a conoscenza. Trumbić gli riferì con personale,
profonda, sofferenza che l’italiano era dominante in città, dove vivevano “piccoli negozianti, macellai ed
altra gente minuta, che – aggiunse – hanno tradito la loro lingua e nazionalità, essendo tutti di origine
slava”. Il tema del tradimento fu oggetto di ulteriori commenti di biasimo da parte di membri della
delegazione, una volta uscito il giornalista. Ma proprio a questo punto si registrò la svolta: Trumbić,
riconoscendo la validità della posizione di Vesnić, suggerì di chiudere la trattativa, accettando la perdita di
Zara, come un “sacrificio fatto mal volentieri” perché l’alternativa avrebbe potuto essere un conflitto
armato e la popolazione del Regno SHS non era affatto pronta ad una prospettiva del genere. Trumbić
espresse ulteriormente il proprio stato d’animo, con toni molto drammatici, giacché “come uomo” avrebbe
preferito morire piuttosto che accettare i “sacrifici” che venivano loro imposti, ma come “uomo di stato”
riteneva di dover accettare le condizioni italiane, nella convinzione che, col tempo, Zara sarebbe stata
ricuperata, giacché la soluzione individuata assimilava la città ad una “colonia italiana” e, pertanto, non
avrebbe potuto durare nel tempo. Il tema degli zaratini, “banda pagata”, fu ancora ripreso nello scambio
sdegnoso di battute che seguirono. In particolare, Vesnić ricordò come, in passato, avesse più volte

ASMAE, Intercettazione telefonica n. 4, 9 novembre 1920, filza 7, sottofasc. IV, n. 7.


126

ASMAE, intercettazione telefonica n. 5, 10 novembre 1920, Ibid., e telegramma Giolitti a Sforza su Zara, 10
127

novembre 1920, filza 7, sottofasc. III, n. 13.

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espresso la necessità di “croatizzare” Zara (senza meglio precisare come), dato il permanere del carattere
“italianissimo” del centro urbano, riconosciuto a denti stretti dallo stesso capo di governo jugoslavo.

In tanta amarezza e delusione, la discussione prese all’improvviso un’altra, interessante piega,


giacché l’attenzione degli astanti si spostò su quanto di positivo l’intesa di Rapallo avrebbe comportato per
il nuovo regno. Fu Trumbić ad introdurre per primo l’argomento, che venne ben accolto dalle altre voci
registrate. Secondo le sue parole, la firma del Trattato di Rapallo assicurava alla Jugoslavia il riconoscimento
formale di un’estensione territoriale di grande rilievo, che andava ben oltre le dimensioni di un piccolo
stato (come, si può presumere dalle valutazioni espresse, fosse considerata la Serbia del 1914). Al tempo
stesso, ritornando criticamente sulla percezione jugoslava nei confronti dell’Italia, egli aggiunse che la
Grande Guerra era “cominciata con l’ultimatum nemico alla Serbia e finiva con l’ultimatum di un alleato alla
Serbia” 128 e concluse: “Io dico che possiamo essere contenti di aver raggiunto questo punto”. L’esposizione
del Ministro degli Esteri riscosse consensi, mentre un’altra voce (attribuita nella trascrizione
dell’intercettazione al ministro delle finanze Stojanović) si soffermò sulla difficile situazione economico-
sociale del paese e sulle altre grandi sfide che attendevano nel prossimo futuro il nuovo Stato, ivi compresa
la capacità di favorire l’amalgama culturale delle varie provincie del regno e la costruzione di un nuovo
porto. A discussione terminata, Trumbić fu invitato a riferire la decisione della delegazione direttamente a
Sforza, evitando Salata 129.

Così, infatti, avvenne e alle 15,30 del 10 novembre Sforza telegrafò la notizia a Giolitti, pur
ricordandogli che restava ancora incerta l’estensione della sovranità territoriale di Zara. Alle 18,50 un
telegramma cifrato di conferma della posizione presa fu inviato a Belgrado dal primo ministro Vesnić, che
annunciò l’arrivo di Giolitti per il giorno successivo. In tutto ciò non deve essere mancata una forte
pressione da parte della Francia, almeno stando ad un’informazione inviata a Roma dall’ambasciatore
italiano a Parigi e secondo cui un telegramma a firma del primo ministro Georges Leygues era stato spedito
a Belgrado per ricordare che “sarebbe cosa assai grave se Governo Serbo (sic) si assumesse responsabilità
rottura negoziati” 130.

Alle 17,15 dello stesso giorno si svolse una seduta congiunta italo-jugoslava. Dal verbale della
riunione si evince come lo status di Fiume e quello di Zara abbiano costituito l’argomento principale di
discussione. Per Fiume si trattava di definire i confini dello stato indipendente in relazione all’antico corpus
separatum e al suo collegamento terrestre con il Regno d’Italia. I delegati jugoslavi insistettero a lungo su
un coinvolgimento della Società delle Nazioni nella delimitazione dei confini sul terreno, così come
sull’assegnazione di Porto Baroš al Regno SHS. Tuttavia Sforza rifiutò ambedue le richieste: la prima perché,
come ebbe a dire, la SdN era impopolare in Italia; per la seconda, invece, suggerì di garantire
l’appartenenza di Porto Baroš alla Jugoslavia tramite una nota segreta. A questa proposta il ministro
italiano giunse in seguito alle ripetute richieste di Trumbić e Vesnić di definire i diritti della popolazione
jugoslava a Fiume, raro accenno – questo – alle questioni delle minoranze nel corso della trattativa. Per
quanto riguardava, invece, Zara, i dissidi che ancora permanevano fra le parti riguardarono la sovranità (se

128
Si tratta di una frase altamente significativa perché fatta da Trumbić con un riferimento alla Serbia (e non al Regno
SHS o allo Stato SHS). Sembra di cogliere in queste parole, infatti, i richiami culturali e politici all’idea della Serbia
“Piemonte” dei Balcani, secondo un processo di identificazione all’epoca assai diffuso in molte regioni dell’Europa
orientale.
129
ASMAE, intercettazione telefonica n. 5, 10 novembre 1920, cit. Quello stesso giorno Vesnić inviò un amaro
telegramma a Belgrado a Ninčić informando dell’accettazione delle richieste italiane da parte della delegazione
jugoslava. In Vojislav Jovanović (a cura di), Rapallski ugovor… cit., pp. 38-39.
130
ASMAE, Sforza a Giolitti, 10 novembre 1920 (due telegrammi alle 15,30 e 15,40) Sfilza 7, sottofasc. III, n.11;
telegramma cifrato Vesnić a Ministero degli Esteri, 10 novembre 1920 ore 18,50; Bonin a Gabinetto, 10 novembre
1920. Ambedue in Sfilza 7, sottofasc. IV, n.7 e 20 rispettivamente.

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italiana o jugoslava) sul territorio retrostante la città. Alle 21,15 la riunione si concluse senza ancora una
convergenza fra le parti 131.

Di lì a poco, alle 22,30 il primo ministro Vesnić incontrò il col. Danilo Kalafatović, a suo tempo
membro della Commissione militare jugoslava a Parigi. Il colloquio – la cui intercettazione si protrasse fino
alle 0,45, benché non sia stata in grado di afferrare tutti gli argomenti a causa di un dialogo spesso
avvenuto a voce molto bassa – è, tuttavia, interessante perché avvenuto fra due esponenti serbi di rilievo. Il
colonnello era furioso per come si era svolta la discussione con la delegazione italiana, soprattutto per
quanto riguardava il futuro di Zara. Senza mezzi termini, accusò di slealtà e scarsa credibilità la controparte
italiana, definendo Salata un ladro. Vesnić si sforzò di spiegare che Zara era perduta e pertanto conveniva
concentrarsi sul suo contenimento territoriale e sulle isole. Aspetti, questi, su cui, a sentire Vesnić, Sforza
aveva chiesto agli Jugoslavi di preparare uno schizzo. Kalafatović incalzò ancora il proprio primo ministro
chiedendogli come avrebbe reagito la popolazione quando sarebbe stata messa al corrente del
compromesso raggiunto e Vesnić ammise chiaramente: “il popolo per ciò che abbiamo fatto dovrebbe
ucciderci, ed io gli darei ragione” (un convincimento, questo, non certo distante da quello espresso da
Trumbić il giorno prima e di cui abbiamo riferito sopra). Successivamente, Vesnić aggiunse che la
delegazione italiana era, a sua volta, sotto pressione da parte della propria opinione pubblica e questo non
consentiva a Sforza di venire ulteriormente incontro alle richieste jugoslave una volta ceduta la Dalmazia
(su cui contavano, invece, D’Annunzio, Luigi Federzoni e le varie, rumorose, correnti nazionaliste italiane).
Infine, Vesnić specificò che non avrebbero comunque ceduto Lissa/Vis, in quanto all’isola teneva in modo
particolare Trumbić, e proprio per questo avrebbero lasciato all’Italia Lagosta/Lastovo, considerata
evidentemente meno rilevante sul piano strategico 132.

Dai toni e dagli argomenti affrontati in questo colloquio, ma anche in quelli registrati
precedentemente, non si colgono divergenze significative fra i membri della delegazione jugoslava, tanto
meno una polarizzazione serbo-croata; né vi sono riferimenti a interessi serbi sull’Albania o disinteresse
sulle prevedibili ripercussioni dell’accordo nelle regioni ex absburgiche del regno; semmai si notano,
un’amara – e condivisa – rassegnazione, nonché un (imbarazzato) silenzio sull’impatto che esso avrebbe
avuto sulla popolazione di lingua slovena. Evidentemente, il tempo delle recriminazioni e dei reciproci
sospetti sarebbe emerso successivamente e l’opinione pubblica avrebbe giocato su questi temi un ruolo
fondamentale nella politica interna sia della Jugoslavia, sia dell’Italia.

Nel frattempo, l’11 novembre alle 11,30 le due delegazioni si incontrarono nuovamente alla
presenza di Giolitti per rivedere insieme il progetto di trattato. Vesnić tornò sull’assegnazione di
Lagosta/Lastovo all’Italia, chiedendo di rivedere la decisione, visto che la popolazione era “esclusivamente
di nazionalità slava”. Giolitti, tuttavia, ricordò in modo reciso “il gran fanatismo per la Dalmazia e per il
Patto di Londra” esistente in Italia e come questo atteggiamento limitasse i margini di manovra del suo
governo che alla Dalmazia aveva rinunciato. Trumbić spostò allora l’attenzione sull’esigenza di definire delle
convenzioni commerciali con il nascente Stato fiumano e Sforza gli propose di trovare una formulazione
assieme a Salata. Vesnić accettò, quindi, l’idea di un protocollo che garantisse al Regno SHS Delta e porto
Baroš. Sforza, a sua volta, lesse il progetto di nota approntato dal suo Ministero su questo tema e suggerì
ancora una volta di attribuire a Trumbić e Salata il compito di precisare i confini di porto Baroš. Le parti
convennero altresì di riunire quanto prima una commissione bilaterale, cui affidare il compito di definire la

131
ASMAE verbali intestati “Convegno di Rapallo”, 10 novembre 1920 sfilza 7, sottofasc. III, n. 14.
132
ASMAE, intercettazione telefonica n. 6, 10 novembre 1920, sfilza 7, sottofasc. IV, n. 7.

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cooperazione economica e a quel punto Sforza sollevò il problema delle garanzie da assicurare alla
minoranza italiana in Dalmazia. Senza ulteriori discussioni, la riunione si concluse alle 13,30 133.

Il giorno successivo, venerdì 12, il quotidiano sloveno di Trieste “Edinost” pubblicava un primo
articolo critico sulle garanzie attribuite agli Italiani in Dalmazia e sull’assenza di analoghe garanzie per le
ben più numerose minoranze slave incorporate nel Regno d’Italia 134.

In quel momento, tuttavia, il testo del trattato doveva ancora essere limato. Al Ministero degli
Esteri italiano, infatti, sono conservati (purtroppo senza data e firma) interessanti appunti con una serie di
osservazioni sui singoli articoli. Fra questi, alcuni affrontano apertamente il tema dei diritti degli Italiani di
Dalmazia, l’esercizio delle professioni, le proprietà, le imprese, la tassazione, il domicilio. Al punto D di
questo fascio di documenti si equiparano esplicitamente i diritti italiani nel Regno SHS e quelli delle
minoranze slovena, croata e serba in Italia a “dirigere e controllare a loro spese istituzioni caritatevoli
religiose e sociali, scuole e altri stabilimenti di educazione, con il diritto del libero uso della loro lingua e del
libero esercizio della loro religione”. La bozza di un ulteriore articolo riguarda l’impegno delle parti a
istituire borse per 20 studenti universitari all’anno per parte, la creazione di cattedre di lingua serbo-croata
a Roma e Padova, nonché di lingua italiana a Belgrado e Zagabria. Tali reciproci riconoscimenti sul piano
culturale non compaiono, tuttavia, nella bozza di protocollo corretta a mano da Sforza e che risale al 12
novembre: in questo caso, i punti trattati riguardavano solo i diritti dei sudditi italiani in Dalmazia poi
riassunti con formulazioni, in parte diverse, nell’art. VII del trattato. Non abbiamo peraltro trovato verbali
che illuminassero le motivazioni di queste riflessioni e dei cambiamenti intervenuti, probabilmente alla
vigilia della versione definitiva del trattato. Possiamo tuttavia dedurle dal comportamento – rigido nella
sostanza, ancorché cortese nella forma – assunto tanto da Giolitti quanto da Sforza, e che si sarebbe
palesato poco dopo alla ripresa dei negoziati 135.

Il 12 novembre alle 10,45 le due delegazioni si incontrarono nuovamente per discutere del progetto
di accordo, evidentemente ancora bisognoso di aggiustamenti, benché le sue linee di fondo fossero ormai
già state divulgate dalla stampa, innescando le prime reazioni critiche soprattutto da parte di “Edinost” e
della stampa jugoslava. E infatti, all’apertura della sessione, Vesnić riferì dell’atteggiamento di
costernazione manifestato dalla stampa “in Serbia”, pur confermando gli impegni già assunti dalla
delegazione jugoslava anche a costo dell’impopolarità in patria. Sforza, però, reagì con durezza, sostenendo
di aver ricevuto informazioni dalla propria legazione a Belgrado secondo cui, al contrario di quanto
sostenuto da Vesnić, sia in Serbia, sia a Lubiana “l’opinione pubblica fosse favorevole alla soluzione”. Il
battibecco finì lì, anche se quanto riferito da Sforza suonasse poco credibile, alla luce delle pressioni
esercitate da “Edinost” e altri gruppi slavi su Belgrado e perfino su Roma sin dall’estate del 1920, come
abbiamo visto sopra 136.

La discussione, comunque, proseguì: deboli tentativi furono esperiti da parte della delegazione
jugoslava per ottenere qualche modifica a proprio favore dei confini nell’Istria orientale e attorno a Zara,

133
ASMAE, verbali intestati “Convegno di Rapallo”, 11 novembre 1920 sfilza 7, sottofasc. III, n. 15.
134
Po odločitvi v Sv. Margeriti Ligurski, in “Edinost”, 12 novembre 1920, p. 1. Sulle polemiche e irritate reazioni degli
Sloveni della Venezia Giulia, che avevano a suo tempo protestato perché esclusi dalla delegazione regionale alla
Conferenza di Sanremo, riferisce ampiamente Milica Kacin-Wohinz, op. cit., pp. 292-295 e 382-385.
135
ASMAE, Protocollo annesso corretto a mano da Sforza, sfilza 7, sottofasc. IV, n. 24; osservazioni sui singoli articoli,
in Ibid., n. 22.
136
Cfr. ASMAE, verbali intestati “Convegno di Rapallo”, 12 novembre 1920… cit.; A HAZU, F. 84, Izjava jugoslovenskih
zastupnika za krajeve sto po Rapallskom ugovoru imaju da padnu pod Italiju, 1° dicembre 1920 e F. 112, Pred
Rapallom. Quest’ultimo documento sottolineava il mancato rispetto del “principio di nazionalità” per le popolazioni
slave incluse nel territorio italiano e ne chiedeva pertanto la revisione. In calce le firme di Josip Vilfan, Otokar Ribarž e
altri 11 parlamentari, ambasciatori o rappresentanti regionali.

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ma riuscì ad acquisire solo il controllo delle isole di fronte al capoluogo dalmata. Si tornò, quindi, sul tema
della protezione delle minoranze. La versione italiana del comma 2 dell’art. VII venne proposta secondo
quanto riportato al punto D del fascio di documenti sopra menzionato, ma privo di ogni riferimento alle
minoranze slave che sarebbero state inglobate nel Regno d’Italia. In altre parole, il testo seguiva l’impianto
impresso da Sforza (con le proprie correzioni a mano) ad una bozza di protocollo che non vide mai la luce,
ma i cui contenuti vennero poi inseriti, in larga misura, nell’art. VII. Alla sua lettura, però, sia Vesnić, sia
Trumbić opposero il proprio rifiuto sostenendo che la formulazione del testo avrebbe costituito un
precedente per potenziali richieste da parte di altri Stati con proprie minoranze all’estero. Trumbić tornò a
menzionare le dichiarazioni di Wilson alla Conferenza di pace e fu allora che Giolitti reagì con asprezza,
tornando a menzionare il Trattato di Londra. Egli, infatti, sostenne che quanto previsto per la minoranza
italiana in Dalmazia non poteva costituire un precedente per nessuno, giacché si trattava di “Italiani
appartenenti ad un territorio che un patto internazionale assegna all’Italia e al quale l’Italia
spontaneamente ha rinunciato”. Alla fine, la frase suggerita dall’Italia venne modificata nella forma poi
riportata nelle ultime tre righe del comma 2 art. VII, seguita da un adeguamento verbale nell’art. VIII. Non
essendovi più altro da discutere e avendo concordato i contenuti del trattato, la seduta fu tolta alle
14,15 137.

Al testo del Trattato fu poi aggiunta una “Convenzione antiabsburgica” in sei articoli, in cui le parti
firmatarie si impegnavano a prendere tutte le misure necessarie per impedire un ritorno della famiglia
Absburgo sui troni di Austria e Ungheria. Questo ulteriore documento era stato concordato al fine di
gettare le basi di una più solida cooperazione italo-jugoslava, capace di superare le inevitabili delusioni che
l’accordo raggiunto a Rapallo avrebbe provocato nei due Paesi. Non a caso l’art. IV della convenzione fece
ulteriore riferimento ad un accordo simile, stipulato fra il governo serbo-croato-sloveno e quello
cecoslovacco; accordo, questo, cui l’Italia giolittiana guardava con favore nella prospettiva, strategica, di
consolidare il proprio ruolo nell’Europa centro-orientale. Sempre a garanzia di quanto convenuto durante le
negoziazioni, Sforza e Trumbić ci scambiarono lo stesso 12 novembre una doppia corrispondenza. La prima,
destinata a rimanere segreta, assicurava al Regno SHS che l’Italia le riconosceva la sovranità su porto Baroš,
annesso a Sušak, accogliendo così l’interpretazione jugoslava dell’art. IV del Trattato. La seconda, facendo
sempre seguito ad accordi verbali, annunciava l’amnistia di tutti i crimini di natura politica e militare
commessi da abitanti dei territori annessi all’Italia sia durante il conflitto, sia nel corso del periodo di
occupazione. A sua volta Trumbić assicurò nelle sue risposte che il suo Regno non avrebbe apportato alcuna
modifica capace di danneggiare l’approvvigionamento d’acqua a Fiume, e che analoga amnistia sarebbe
stata concessa agli abitanti inclusi definitivamente nel territorio jugoslavo 138.

6. Conclusioni: significato e contesto del Trattato di Rapallo a cento anni dalla firma.

Come si è più volte qui sottolineato, il Trattato di Rapallo, firmato dai sei plenipotenziari che lo
avevano concordato, avrebbe dovuto, nelle loro intenzioni, creare le condizioni per una cooperazione
amichevole fra i due paesi. In realtà, l’accordo lasciò ferite che si sarebbero protratte per decenni.
D’Annunzio fu costretto con la forza a lasciare Fiume dall’esercito italiano nel Natale 1920, né le proteste
nazionaliste, tanto in Italia, quanto nel Regno SHS si placarono per decenni 139. I princìpi conflittuali che

137
ASMAE, Ibid.
138
Dokumenti 1915-1955 za istraživanje jugoslavensko-talijanskih odnosa, op. cit., pp. 261-267.
139
Senza entrare nel merito di un’ampia letteratura che si è protratta per decenni, basti qui solo ricordare l’aspra
critica all’”italofilia di Trumbić” in Franko Potočnjak, Rapalski ugovor, Hrvatski štamparski zavod, Zagreb 1921 e,
all’opposto l’accusa di essere stati dei “rinunciatari” lanciata a Sforza e Giolitti da Attilio Tamaro, L’applicazione del
Trattato di Rapallo, in «Politica», maggio 1921 o da Luigi Federzoni, Le rinunzie di Rapallo, discorso presentato al

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avevano fatto da sfondo a tutta la questione, ossia le aspirazioni strategico-militari di natura difensiva o
imperialista, nonché le convinzioni nazionaliste storico-culturali ed etno-linguistiche percepite da una parte
significativa delle opinioni pubbliche in chiave oppositiva ed esclusivista, segnarono a lungo e in modo
drammatico le relazioni bilaterali fra Belgrado e Roma, così come quelle fra le popolazioni della Venezia
Giulia, Zara e Fiume, nonché – alla lunga – anche fra le tre componenti costitutive del Regno SHS.

A cent’anni dalla sua firma, un’attenta rilettura del testo del Trattato di Rapallo del 12 novembre
1920, evidenzia come esso fosse sostanzialmente composto da due parti distinte. La prima, più ampia,
riguardava la definizione dei confini fra Italia e Regno SHS, mentre la seconda, concentrata nell’art. VII, si
soffermava sui diritti delle minoranze. Diritti, questi, limitati agli Italiani in Dalmazia. Un più sintetico art.
VIII impegnava le parti firmatarie a stipulare una convenzione per lo sviluppo della cooperazione culturale. I
contenuti di questo documento – concordati dopo quasi due anni di negoziati multilaterali e bilaterali –
furono il risultato di un faticoso compromesso raggiunto in base ai rapporti di forza dell’epoca e come
conseguenza dei condizionamenti di natura politico-culturale maturati nel corso di un biennio, non solo sul
piano diplomatico e culturale, ma anche su quello delle pressioni esercitate da opposti estremismi e
opinioni pubbliche divisive.

Esso fu, altresì, il risultato di una complessa convergenza fra due princìpi che, forse per la prima
volta in modo così evidente, si erano trovati a costituire oggetto di negoziato internazionale. Tali princìpi
riguardavano, come si è visto, la definizione dei confini in relazione alla percezione di sicurezza degli Stati
(tema, diremmo “classico”) e quello delle nazionalità (tema, invece, “innovativo”). Si potrebbe obiettare
che tali princìpi avevano già informato la Conferenza per la Pace seguita alla Grande Guerra. Tuttavia, va
ricordato che la Conferenza non si tradusse in un “negoziato tradizionale”, come era accaduto con il
Congresso di Vienna del 1815, in quanto le parti sconfitte furono semplicemente convocate e informate
delle condizioni loro imposte dai vincitori in base ad una scelta brutale, rispondente al criterio del
“prendere o lasciare”, dove il “lasciare” poteva implicare la ripresa delle ostilità militari.

Ben diverso fu, invece, il percorso che condusse al Trattato di Rapallo.

Innanzi tutto, le trattative coinvolsero delegazioni che rappresentavano Stati su un piede formale di
parità, in quanto ambedue usciti vincitori dalla Grande Guerra, anche se con differenti gradi di influenza
politica e di efficacia nello stabilire alleanze diplomatiche con le potenze dell’Intesa. Nell’insieme, poi, il
quadro si presentava assai più complesso.

Da un lato l’Italia sperava di aver raggiunto uno status riconosciuto di Grande Potenza, essendo non
solo parte vincente, ma componente a pieno titolo dei “Quattro” che si erano attribuiti il compito di
stabilire le condizioni di una pace duratura. In realtà, la situazione non corrispondeva esattamente a queste
convinzioni, giacché le relazioni con gli alleati dell’Intesa dovevano tener conto delle posizioni espresse dal
presidente americano Wilson, così come del disappunto franco-inglese per il ritardo con cui Roma aveva
dichiarato guerra alla Germania, preferendo concentrarsi sullo scontro con la nemica Austria.

Dall’altro, il Regno SHS si trovava in una situazione di indeterminatezza per quanto riguardava il
proprio riconoscimento internazionale e il tracciato dei suoi confini. Esso, tuttavia, (e non la Serbia) fu
invitato a prender parte – fra il 28 giugno 1919 e il 10 agosto 1920 – alla firma dei trattati di pace con
Germania, Austria, Bulgaria, Ungheria e Turchia in quanto paese vincitore. Ciò nonostante, come
testimoniano molti dispacci diplomatici dell’epoca, vi furono momenti in cui la diplomazia internazionale

Parlamento, il 26 novembre 1920, in Amedeo Giannini (a cura di), Il Trattato di Rapallo …cit., pp. 91-108. Un più ampio
quadro delle reazioni italiane “a caldo” al trattato ne Il Trattato di Rapallo nella stampa italiana, ed. Ufficio Stampa del
Ministero degli esteri, Tipografia del Senato, Roma, 1921.

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(anche italiana) guardò a Belgrado come alla capitale di una Serbia ingrandita, che aveva incorporato una
componente slava ex austro-ungarica percepita come militarmente sconfitta, piuttosto che come il centro
di un nuovo Stato, la cui formazione non era stata nemmeno lontanamente prevista allo scoppio delle
ostilità. Ed è altrettanto vero, come si è visto, che taluni esponenti sloveni e croati – nostalgici dell’Impero –
abbiano cercato di far leva proprio su tali elementi per suggerire a Roma la costituzione di uno “Stato
tampone croato-sloveno” fra Italia e Ungheria, con l’obiettivo di impedire il riconoscimento di quel Regno
trino proclamato il 1° dicembre 1918 dal reggente serbo Aleksandar Karađorđević, in seguito agli accordi di
Corfù del luglio 1917 140.

Tali peculiarità spiegano perché la difficile, a tratti aspra, negoziazione fra Roma e Belgrado abbia
seguito un tracciato differente da quello applicato alla Conferenza di Pace. All’apparenza, certo, i suoi
plenipotenziari e i due governi hanno trattato percorrendo binari procedurali sperimentati e tipici dei
rapporti internazionali “tradizionali” fra Stati, sia pure collocati su piani diseguali. In realtà, essi dovettero
misurarsi con le sfide imposte dall’applicazione dei principi di territorialità e nazionalità all’interno di un
quadro di riferimento rappresentato dallo Stato-nazione e dalle controverse modalità con cui esso veniva
percepito e realizzato.

A questo proposito, basti qui solo ricordare la ambivalente coesistenza derivante (1) dalle
indefinite, ma vieppiù radicate, aspirazioni alla “libertà dei popoli”; (2) dall’impatto internazionale delle
idee risorgimentali e delle modalità con cui si era giunti all’unificazione di Italia e Germania; (3) dai progetti
inclusivi e macroregionali, così come quelli esclusivi e distintivi dei gruppi etnici sviluppatisi sin
dall’Ottocento; (4) dalle aspirazioni omogeneizzanti e irredentiste, così come da quelle miranti al ripristino
di unità statali un tempo spartite fra Grandi Potenze; (5) dai progetti di autonomie culturali, dalle fiere
resistenze di natura imperialista e dalle idee di autodeterminazione dei popoli che avevano iniziato a
serpeggiare già a cavallo fra XIX e XX secolo, prima ancora che Lenin e Wilson le accreditassero come parte
integrante dei loro progetti geopolitici.

Fu, tuttavia, in tali frangenti e con questo background culturale che la rivista “New Europe”
condusse una forte operazione di lobby in tempo di guerra. L’azione promossa dai suoi prestigiosi
componenti – fra i quali Robert Seton Watson, Wickham Steed, Tomáš Masaryk, Ante Trumbić, Jules
Destrée, Arthur Evans, Frano Supilo, Ronald Burrows, sir Arthur Evans e altri – fu tutta mirata a favorire il
riaggiustamento geopolitico europeo in base al criterio dello Stato-nazione. La sua legittimazione fu allora
sostenuta assecondando una chiave interpretativa inclusiva, per certi versi ispirata alla cultura
risorgimentale, benché questa non fosse poi ambiguamente priva di impulsi etno-culturali 141.

Tale fu, del resto, la logica che condusse al già menzionato patto di Corfù, all’accordo Trumbić-Torre
del 7 marzo 1918, al Congresso di Roma dell’8-10 aprile 1918, all’intesa ceco-slovacca di Pittsburgh del 31
maggio 1918: tutti eventi di cui si è parlato. L’obiettivo dello Stato-nazione, per quanto ambiguo ne fosse il
contenuto, era ormai al centro dell’evoluzione politica dell’ultima fase della guerra. Inevitabilmente, quindi,
la sua realizzazione fu ritenuta un fatto acquisito da molti intellettuali, buona parte dell’opinione pubblica e
delle élite dominanti già alla fine del 1918, ossia nel momento in cui sopravvenne la pace e nuovi Paesi (gli
Stati-nazione, appunto) si costituivano, ridisegnando la mappa del vecchio Continente, lungo nuove e assai
incerte linee di confine.

In tali circostanze, le modalità con cui armonizzare il principio della territorialità (come fattore
garante della sicurezza militare) e quello della nazionalità (in quanto diritto collettivo a valenza etica)
divennero oggetto di mobilitazioni di massa e, al tempo stesso, di convinzioni profonde e fra loro

140
Il testo della Dichiarazione di Corfù in La question adriatique… cit., pp. 19-23.
141
Sul ruolo della rivista “New Europe” e dei suoi più attivi componenti si v. ivi, nota 2.

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conflittuali, nonché di aspettative risolutive sotto il profilo istituzionale e politico, benché fossero inadatti a
soddisfare le rivendicazioni delle parti in causa (ma all’epoca questo non era affatto chiaro).

Sicché, l’itinerario che condusse al Trattato di Rapallo costituisce, sotto questo profilo, una prima
verifica politica della capacità, o meno, degli Stati-nazione di gestire la coesistenza di tali princìpi, definendo
accordi in grado di assicurare reciproca soddisfazione, stabilità, pace e cooperazione internazionale,
evitando rancori e desideri di rivalsa. Come è noto, tali obiettivi non furono raggiunti. Al contrario, dopo
infinite tragedie, si dovette attendere la firma del trattato di Osimo, all’interno dello spirito che avrebbe
condotto alla Conferenza di Helsinki del 1975, alla creazione dell’OSCE e, più tardi, al consolidamento del
processo di integrazione europea e del suo allargamento ad Est perché si costituissero contesti
internazionalmente nuovi, dove la diplomazia e la politica avrebbero potuto trovare maggiori opportunità
per la soluzione dei conflitti. Ma, va subito aggiunto, ciò sarebbe avvenuto al di fuori del contenitore
rappresentato dallo Stato-nazione, il cui ruolo storico si è andato via via esaurendo nel corso del
Novecento, nonostante la versatile molteplicità delle sue interpretazioni e la sua caparbia resistenza alla
globalizzazione con il diffondersi di dinamiche transnazionali, il sorgere di società interculturali ed
eterogenee, l’affermarsi di nuovi nomadismi e sfide planetarie (dal cambiamento climatico alla salute
pubblica, all’organizzazione economica e tecnologica, giusto per fare qualche esempio).

Cent’anni fa, invece, al termine di una interminabile e spaventosa guerra, prevalse in buona parte
d’Europa l’euforia politica che traeva ispirazione da modelli nazionali di organizzazione statale. Al tempo
stesso, si trattò di un’euforia che dovette fare i conti con il permanere di logiche di potenza; logiche,
queste, che marcavano vistose differenze anche fra i “Quattro Grandi” vincitori. Ad esempio, il presidente
americano Wilson attribuì al principio delle nazionalità il criterio principale di riferimento per stabilire la
pace in Europa, articolandolo in base ad un fondamento etno-linguistico, di assai dubbia obiettività, come
tuttavia gli era stato suggerito dalla House Inquiry, ossia la commissione da lui stesso costituita a questo
proposito nel 1917. D’altra parte, la sua interpretazione trovò fredda accoglienza in Francia e Gran
Bretagna, i cui orientamenti imperialistici non solo miravano a salvaguardare la stabilità delle loro colonie,
ma anche a spartirsi quelle tedesche e i territori dell’Impero ottomano in disfacimento. In questo contesto,
il principio delle nazionalità trovava ben poco consenso, se non a parole e perfino con molte cautele, tanto
è vero che non fu concesso all’Austria di ricorrervi.

Diversa era la situazione italiana, giacché numerose componenti caratterizzavano il suo approccio
alla questione. Alcune di esse rispondevano, infatti, ad un afflato etno-culturale di origine risorgimentale
cui non era estranea un’aspirazione irredentista verso Trento, Trieste, Fiume e la Dalmazia. Altre – popolari
soprattutto fra i vertici della Marina militare – manifestavano un’attrazione imperialista in cui venivano a
convergere la volontà di esercitare il controllo militare e navale sulla regione adriatica con l’aspirazione ad
estendere la propria influenza sul Mediterraneo orientale, dove le isole del Dodecaneso avrebbero potuto
svolgere un’essenziale ponte verso l’Anatolia meridionale. In questo contesto, non mancò neppure il
ricorso a servizi “deviati” e ad operazioni di destabilizzazione nei confronti del nascente Regno SHS, anche
in assenza del favore governativo. Un’ulteriore interpretazione estetico-visionaria fu promossa da Gabriele
D’Annunzio che, con l’impresa di Fiume e il tentativo di dar vita ad una Lega delle nazioni oppresse, tentò
una strada semi-imperialista e nazional-rivoluzionaria, che raccolse simpatie fra talune autorità civili-militari
(come nei casi di Pola, Fiume e Dalmazia che abbiamo citato).

Per quanto riguardava, invece, lo spazio culturale jugoslavo, esso vide al momento prevalere una
prospettiva etno-inclusiva dei tre popoli del neonato Regno SHS, la cui aspirazione unificatrice fu estesa
ovunque l’elemento linguistico slavo-meridionale fosse presente. Essa, pertanto, fu dilatata dal nucleo
originale alla Carinzia austriaca, all’Istria, a Trieste, alla Dalmazia, al Montenegro, al Banato, al Prekomurje e
all’Albania nord-occidentale. Nell’insieme, tali aspirazioni – territorialmente molto amplificate – avevano

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trovato un fondamento stringente nella necessità di mantenere una forte coesione, in termini di consenso,
fra Serbi, Croati e Sloveni, così come nella speranza di poter contare sul sostegno di Wilson e nella
convinzione che l’applicazione del principio delle nazionalità costituisse un diritto, nonostante le sue
frontiere restassero ancora tutte da definire. Non mancarono neppure tendenze geopolitiche divergenti, ad
esempio in quella parte dell’opinione pubblica serba più interessata a cercare compensi territoriali
nell’Albania settentrionale, che non verso l’Austria e l’Adriatico settentrionale. O striscianti e poi espliciti
risentimenti in Slovenia, a causa del marginale coinvolgimento di propri esponenti nella delegazione inviata
alla Conferenza di Pace e poi impegnata nella trattativa con l’Italia. Similmente, fra gli esponenti rimasti
maggiormente legati da vincoli politici e di fedeltà agli Absburgo, si manifestarono progetti etno-nazionali
esclusivisti intenti a valorizzare la sola componente cattolica sloveno-croata, magari in vicinanza con
l’Ungheria di Horthy e gli irredentisti italiani, in funzione antiserba. Progetti, questi ultimi, che riuscirono
comunque ad indebolire tanto sul piano interno, quanto su quello internazionale, l’azione diplomatica del
Regno SHS.

Pertanto, il negoziato che condusse poi al trattato di Rapallo costituì il risultato di un complesso
convergere e divergere di tali convinzioni, dei vari protagonisti che ne condizionarono gli sviluppi
diplomatici, vuoi sotto il profilo delle trattative multilaterali, vuoi – successivamente – di quelle bilaterali fra
Roma e Belgrado. Si trattò di un ampio spettro di personalità, la cui interpretazione dei princìpi di
territorialità e nazionalità e della loro mutua relazione variò radicalmente, seguendo percorsi anche fra loro
opposti, contribuendo a complicare il processo di negoziazione, ma soprattutto ad evidenziare le
incompatibilità politiche che scaturivano dalla loro applicazione pratica, nel contesto più ampio dello Stato-
nazione a cui tutti loro si richiamavano e delle divergenti caratteristiche a questo da essi stessi attribuite.

In conclusione, il modo in cui gli stati-nazione si erano venuti forgiando, nel solco dei lasciti culturali
impressi dall’imperialismo e dalla Grande Guerra, aveva dato vita ad un intreccio inestricabile di
orientamenti politici fra loro incompatibili, alterando le aspirazioni libertarie maturate nel corso
dell’Ottocento e rendendo le aspettative di pace e stabilità oggetto di una competizione fra Stati che
lasciava presagire solo l’aggravarsi delle conflittualità. Il Trattato di Rapallo non sarebbe, pertanto, sfuggito
a questo destino. Altre, tormentate, modifiche sarebbero seguite, in attesa che un nuovo contenitore
istituzionale apparisse all’orizzonte.

Elenco abbreviazioni:

AG INV LJ Arhivsko Gradivo - Inštitut Narodnostna Vprašanja Ljubljana

A HAZU Arhiv Hrvatske Akademije Znanosti i Umjetnosti

AJ Arhiv Jugoslavije

ASMAE Archivio Storico Ministero degli Esteri

AST Archivio di Stato Trieste

DDI Documenti Diplomatici Italiani

HDA Hrvatski Državni Arhiv

NŠK TS Narodna in Študiijska Knjižnica Trieste

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