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I edizione ebook: novembre 2014

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nonché dell’articolo 10 della Convenzione di Berna

Cover: Laura Oliva

Foto dell’autrice a pagina 13: © Roberto Ricciuti

www.arcanaedizioni.com

ISBN: 9788862317313

Versione digitale realizzata da Simplicissimus Book Farm srl


LAURA GRAMUGLIA

ROCK IN LOVE
60 storie d’amore
a tempo di musica
INDICE

Vero amore rock di Linus

La ragazza della canzone

Elvis Presley & Priscilla Ann Wagner


Johnny Cash & June Carter
Bob Dylan & Joan Baez
Syd Barrett & Gayla Pinion
Van Morrison & Janet Planet
Sonny & Cher
Frank Zappa & Gail Sloatman
Jim Morrison & Pamela Courson
John Phillips & Michelle Gilliam
Mick Jagger & Marianne Faithfull
Keith Richards & Anita Pallenberg
Bill Wyman & Mandy Smith
Paul McCartney & Linda Eastman
John Lennon & Yoko Ono
George Harrison & Pattie Boyd
Ike & Tina Turner
Graham Nash & Joni Mitchell
Jimmy Page & Pamela Des Barres
Robert Plant & Maureen Wilson
Steven Tyler & Bebe Buell
Serge Gainsbourg & Jane Birkin
Robert Mapplethorpe & Patti Smith
Bob Marley & Rita Anderson
David Bowie & Angela Mary Barnett
Marc Bolan & Gloria Jones
Nick Kent & Chrissie Hynde
Dee Dee Ramone & Connie Gripp
Sid Vicious & Nancy Spungen
Ian Curtis & Annik Honorè
Robert Smith & Mary Poole
Tom Waits & Rickie Lee Jones
Bruce Springsteen & Patti Scialfa
Sting & Trudie Styler
Ozzy Osbourne & Sharon Arden
Lou Reed & Laurie Anderson
Bono Vox & Alison Stewart
Nick Cave & PJ Harvey
Michael Hutchence & Helena Christensen
Dave Pirner & Winona Ryder
Eddie Vedder & Beth Liebling
Michael Jackson & Lisa Marie Presley
Sean Lennon & Charlotte Kemp Muhl
Lenny Kravitz & Lisa Bonet
Bobby Brown & Whitney Houston
Moby & Kelly Tisdale
Thurston Moore & Kim Gordon
Jack White & Meg White
Chris Robinson & Kate Hudson
Benjamin Biolay & Chiara Mastroianni
Bertrand Cantat & Marie Trintignant
Thomas Mars & Sofia Coppola
Bill Callahan & Cat Power
Michael Stipe & Douglas A. Martin
Angus Andrew & Karen O
Ben Gibbard & Zooey Deschanel
Devendra Banhart & Natalie Portman
Pete Doherty & Kate Moss
Blake Fielder-Civil & Amy Winehouse
Mi & L’au
Kurt Cobain & Courtney Love

Discografia sentimentale
ROCK IN LOVE
Il rock è single per definizione, poche chiacchiere. Essere fidanzati, peggio ancora sposati, non è
assolutamente rock. Una vita rock è fatta di amori contrastati, di baci rubati e camerini affollati.
Essere innamorati per un personaggio del rock è un po’ come perdere i capelli o smettere di bere.
Come i Ramones che cantano Baby I Love You dopo Blitzkrieg Bop.
Però, dietro alla logica che vuole che l’unica regola è che non ci siano regole, spesso
l’eccezione la fa da padrona. Di vere storie d’amore il rock è pieno, poi magari non tutte hanno il
lieto fine. Ma, siamo sinceri, spesso neanche le nostre. Forse, al contrario, dovremmo ribaltare il
punto di vista e pensare che anche noi comuni mortali, maschi o femmine che siamo, avremmo
diritto a pensare alla nostra vita sentimentale con più passione e meno raziocinio. Magari ci
divertiremmo un po’ di più. Si può essere felici tantissimo per pochissimo o festeggiare le nozze
di diamante. Purché sia vero amore. Meglio se rock.

Linus
Da bambina volevo diventare la ragazza della canzone. Mentre mi sfilavano davanti schiere di
ballerine, maestre, veterinarie e principesse, a me interessava solo essere l’oggetto di quel
motivetto che chiunque avrebbe canticchiato almeno una volta nella vita. Scrivermelo da sola, un
testo, non sarebbe stata la stessa cosa. L’ipotesi di strimpellare in pubblico non era da prendere in
considerazione, data la scarsa autostima. Agitarmi in uno di quei videoclip che mi tenevano in
ostaggio e a debita distanza dai compiti di matematica non mi sarebbe mai bastato, anche se in
effetti impersonare me stessa mentre abbandono il malcapitato di turno che annaspa nelle sue
lacrime mi sarebbe piaciuto, eccome. Il problema era che quella donna dovevo essere io, anche
nelle intenzioni. Mai sarei riuscita ad appropriarmi di una storia altrui. Quella era la mia storia, si
trattava solo di trovare qualcuno disposto a scriverla. Ma chi? E come? Esisteva un ufficio di
collocamento per giovinette con una mania di protagonismo fin troppo sviluppata? Se c’era, io non
lo conoscevo. Certo, avrei sempre potuto chiedere in famiglia. Tutti quei ritratti di musicisti
appesi alle pareti non avevano forse un legame di sangue con la sottoscritta? No. Ma che ci
stavano a fare lì allora? Sono delle icone, Laura, delle fonti di ispirazione quotidiana; non sono
nostri parenti, ma è come se lo fossero. Ah, quindi non ero la vera nipote di John Lennon né una
lontana cugina di Mick Jagger e non condividevo una sola goccia di sangue con Joni Mitchell. Mi
ci sono voluti anni per capire come funzionavano le cose, anni in cui non ho mai smesso di
specchiarmi nelle prime note di una canzone. Questo pezzo parla di me, non può essere altrimenti.
Lui non mi ha mai incontrata in questa vita, ma in un’altra sicuramente sì. Era davvero così
importante mettermi sulla strada di un musicista che, nella migliore delle ipotesi, mi avrebbe
scaricata nei pressi della stazione degli autobus più vicina, dopo un rapido giro in città? Si, ovvio
che lo era. Se avevo dunque deciso di far ruotare la mia esistenza attorno a quella di un estraneo
di cui non conoscevo che pochi accordi, allora avevo bisogno di un metodo. Non potevo rischiare
di farmi spezzare il cuore dal primo venuto, tanto più senza la certezza di ricevere in cambio la
mia canzone. Dovevo essere pronta, informarmi. Esempi illustri mi avevano preceduto. Migliaia
di donne, ogni sera, subito dopo l’esibizione dell’oggetto dei desideri, finivano per intrufolarsi nel
backstage, partecipare a festini e accompagnare svariati energumeni in buca prima di ghermire la
preda. Magari potevo cercare di salire qualche gradino e finire dietro le quinte con un registratore
nella mano e un bicchiere nell’altra, e se la conversazione avesse iniziato a scemare, ecco, forse
in quel caso tanto valeva liberarsele, le mani, e riaprire la bocca non per chiacchierare. Chrissie
Shrimpton fu costretta a un stato di assoluta sottomissione prima di vedersi ritratta in brani come
Under My Thumb e Stupid Girl da Sir Mick. Ma chi vuole essere ricordata come una stupid girl?
Meglio sorgere e tramontare di nascosto tra le coperte di quel pazzo scatenato di Robert Plant e
strappare un arrivederci sullo spartito di Going To California. Michele Overman sapeva il fatto
suo e lo sapeva anche Patti Smith, che non ha mai avuto remore ad ammettere di desiderare
carnalmente chiunque la ossessionasse dai solchi di un disco o dalle pagine di un libro. Patti
Smith è diventata il mio modello, almeno fino a quando non mi sono guardata intorno per capire
dove cavolo stessi vivendo. Quello di spettatrice sembra l’unico ruolo ancora disponibile.
Osservatrice di epoche passate, magari cronista di un presente poco allettante. Per caratura e
disposizione geografica, il mio Paese sembra non voler stare al gioco. Va bene. Modulo
all’italiana, allora. Io comunque devo scendere in campo, pena l’interdizione a vita dalla stanza di
ricreazione delle ragazze. Che sarà anche meno avvincente di quella dei maschi, ma con le
chiacchiere e sogni ci si possono dipingere faccia, mani e giorni. E dove sta scritto che non sia
proprio questa la via più comoda per accelerare i desideri?

Laura – Vincent Gallo (WHEN)


Quando la mattina del 16 agosto 1977 Elvis Presley viene trovato senza vita nella sua stanza da
bagno a Memphis ha quarantadue anni, ma ne dimostra molti di più. Il Re del rock non è mai stato
così gonfio e appesantito. Dell’idolo delle fanciulle e dell’agitatore di folle è rimasto ben poco.
Elvis non si è schiantato a ventitré anni sfrecciando con una delle sue automobili come James
Dean e non se n’è andato all’apice della carriera come la più dannata delle rockstar. Nel 1977 il
Re è il patetico fantasma di un essere imprigionato in un’eterna replica del suo show a Las Vegas.
La musica è superata. L’impero è in pericolo e la corte resta abbrancata con le unghie e con i denti
a tappeti e arazzi. La regina consorte ha già abdicato da un pezzo. Da almeno quattro anni Priscilla
ha detto addio al suo Re, stanca del continuo viavai di cortigiane che per tutta la durata del
matrimonio non hanno fatto che prostrarsi innanzi al sire, che da par suo non si è mai negato ai
piaceri del reame.
Non è morto giovane. Non è morto bello e nemmeno magro. Ma la dipartita nobilita, ridà
purezza e affranca dagli episodi meno felici. Deve essere per questo motivo che si ritorna in cima
alle classifiche quando ormai è evidente che non si aveva più nulla di nuovo da dire. Gli amici si
rifanno vivi, loro possono, e indossano la maschera migliore. Si spalancano le porte del regno, la
tenuta di Graceland, la seconda abitazione più visitata degli Stati Uniti, dopo la Casa Bianca. Le
donne che spergiurano di avere intimamente conosciuto uno degli uomini più dolci e generosi mai
apparso sulla terra non si contano. Tutte hanno aneddoti divertenti e amorevoli da narrare. Poi c’è
Priscilla, la promessa sposa bambina che un minuto dopo essere giunta all’altare ha capito la
dimensione del sogno, più simile a un incubo a dire il vero. Negli anni trascorsi accanto a Elvis
alterna qualche storiella romantica a lunghi periodi bui. Resiste, fino a quando non si rende conto
che pur con tutta la buona volontà suo marito non ha intenzione di cambiare strada, foss’anche
diretta al fondo di un precipizio.
È durante il lungo servizio militare svolto in Germania che Elvis conosce la sua futura moglie.
S’incontrano a una festa il 13 settembre del 1959. Non è improbabile rimanere affascinati dal
giovane in uniforme coi capelli corvini; stupisce invece il di lui colpo di fulmine per una
ragazzina di appena quattordici anni. Presley, che di anni ne ha ventiquattro e sa per esperienza di
poter disporre di qualsiasi signorina in età da marito, illibata o no, inizia un’opera di persuasione
per convincere i genitori della fanciulla ad acconsentire all’unione. La proposta di matrimonio è
nell’aria, ma Priscilla deve ancora completare gli studi e le tradizioni vanno rispettate. Persa la
testa per Elvis, Priscilla lo supplica di dare sfogo alle sue pulsioni, ma il ragazzo rilancia con
pratiche sessuali che non mettano a rischio la purezza della sua amata. È una regola che Priscilla
osserva fino al ritorno in America di Elvis, nel 1960, e poi fino al 1963, quando questi manifesta
finalmente l’intenzione di vivere con lei.
A marzo del 1963 Priscilla si trasferisce definitivamente negli Stati Uniti con una rinnovata
promessa di matrimonio e il proposito di terminare gli studi. Inizialmente, trova alloggio nella
villa del padre del futuro marito, poi si intrufola a Graceland e trascorre la notte nel letto di Elvis,
ma la vecchia regola continua a valere. Esistono tanti modi per soddisfarsi a vicenda: le
fotografie, per esempio, e i travestimenti e i giochi inventati per rallegrare la promessa sposa.
Un’incredibile dimostrazione di rispetto, o di convenienza. Mentre il Re è impegnato ad allestire
un teatrino immacolato e a plasmare una giovane che non vede l’ora di diventare la signora
Presley, uno stuolo di starlette legate direttamente o indirettamente all’entourage dell’artista non
ha alcuna intenzione di stare a guardare. Nemmeno Elvis si accontenta di uno sguardo, e durante i
lunghi periodi in cui è impegnato sul set lontano da casa è impossibile evitare la fuga di notizie sui
suoi continui flirt.
Priscilla freme e raggiunge Elvis a Hollywood, pur sapendo che le sue incursioni non
cambieranno le cose. Ma ha una certezza: qualunque cosa accada, sa che il suo ragazzo tornerà
sempre a casa. E va esattamente così. Elvis recita in numerosi film, s’innamora regolarmente delle
sue partner, vive con loro momenti unici, trova l’ispirazione per una nuova colonna sonora e poi fa
ritorno a Graceland, dove ad attenderlo c’è la donna che ha modellato con pazienza. Eppure
litigano, litigano tanto, perché Priscilla non ha ancora un anello al dito ed è attorniata da un clan
che soffoca ogni momento di intimità. Senza contare i repentini sbalzi di umore di un uomo che per
controllare il peso e tenere fede ai continui impegni della propria agenda deve ricorrere a una
montagna di pillole. La svolta avviene poco prima di Natale del 1966, quando da una scatola di
velluto blu Elvis Presley sfila una vera di diamanti e rinnova la sua proposta a Priscilla. Il primo
maggio del 1967 la coppia si unisce in matrimonio presso l’Hotel Aladdin di Las Vegas. I media
immortalano ogni singolo attimo della cerimonia, durata appena otto minuti.
Sembrerebbe un matrimonio come tanti – abito scuro e capelli impomatati per lui, abito bianco
e capelli cotonati per lei – ma non lo è, perché il Re del rock’n’-roll manda nel panico migliaia di
ragazzine urlanti che non riescono a concepire che il loro idolo sia coniugato e padre di famiglia.
Quest’ultimo ruolo non è in progetto, ma non appena il matrimonio viene consumato Priscilla
rimane incinta: esattamente nove mesi dopo la cerimonia, partorisce Lisa Marie. Un nuovo
intralcio si pone sulla via dei freschi sposi. Elvis si dichiara impossibilitato ad adempiere i
propri doveri coniugali con una donna che ha avuto un figlio. Nella testa del ragazzo scatta
qualcosa che azzera totalmente la pulsione nei confronti di quel corpo atteso per così tanti anni. A
Priscilla non resta che occuparsi di sua figlia, della casa e del suo aspetto. Decide di seguire corsi
di danza per rimettersi in forma e tra le braccia del suo istruttore riscopre momenti di piacere e
appagamento. Ma poi si ricorda che il matrimonio è “aperto” solo per gli uomini; così, per non
rovinare tutto, tronca la relazione poco tempo dopo.
Elvis, di contro, è fermamente intenzionato a moltiplicare le sue relazioni. Tuttavia,
all’interesse per un numero crescente di donne non sembra corrispondere uno stato di benessere.
La vera pace è nel lavoro, nella voglia di ricominciare a incidere dischi veri e non più scialbe
colonne sonore; e poi ci sono le scorribande con gli amici e le solite pillole, a cui spetta il
compito di infondere energia e tirare su il morale. Tra le nuove passioni del Re spicca poi il
karate, che diversamente dalle discipline religiose sembra attrarre anche Priscilla. Ecco che
finalmente si presenta una nuova opportunità di condivisione. Mentre Elvis è però interessato
unicamente ai progressi sportivi di sua moglie, l’istruttore, Mike Stone, segue Priscilla da vicino e
la dimensione agonistica lascia presto il campo a un’intesa affettiva tra i due. Questa volta la
regina consorte è decisa ad abbandonare il suo regno e nemmeno un ultimo tentativo di
riconciliazione, siglato da un violento rapporto sessuale tra i coniugi, risana l’unione. All’inizio
del 1972 Priscilla lascia il Re del rock e il 26 luglio presenta istanza di divorzio. Tra Elvis e le
sue conquiste non ci sono più ostacoli.
Elvis sceglie Miss Memphis. Chi meglio di una ragazza delle sue parti può capirlo? Questa
volta, tuttavia, non ci sarà alcun anello. La separazione da Priscilla è ancora troppo dolorosa e
comunque il matrimonio non è la scelta ideale per chi non ha in proposito di attraccare in un solo
porto. Linda Thomp son occupa il posto lasciato vacante dalla regina, ma non ne eredita i
privilegi; piuttosto, sfregi e tradimenti, alcuni di pubblico dominio, inscenati platealmente
sull’onda di un abbrutimento che ha ormai trasfigurato il fu gentleman. Ora quell’immagine è
sfocata, rimpiazzata da una silhouette bolsa e goffa che fatica a reggersi in piedi nel suo esilio
placcato d’oro. Las Vegas può essere davvero velenosa. Un intero album di nozze è lì a
dimostrarlo. Ma c’è una fotografia ancora più significativa di quel vecchio album: è il 9 ottobre
del 1973, il divorzio è effettivo e gli ormai ex coniugi Presley escono dal tribunale di Santa
Monica mano nella mano. Priscilla è ancora giovane e luminosa. Il Re è esausto, svuotato: ha
appena perduto la donna della sua vita.

I Miss You – Elvis Presley (RAISED ON ROCK)


Nel 1956, I Walk The Line lancia definitivamente la carriera dell’uomo in nero. Si tratta di un
elogio della fedeltà coniugale e insieme di una promessa: Johnny Cash s’impegna davanti a Dio e
davanti agli uomini a rigare dritto. È un manifesto puro ed è anche il primo singolo del cantante a
entrare nelle classifiche pop, vendendo oltre due milioni di copie e permettendo all’autore e a
tutta la sua famiglia di farsi una vita più dignitosa. Nello stesso anno, però, le insidie del successo
mettono a dura prova il vincolo di diligenza e dedizione stabilito dalla canzone. Johnny Cash è
ormai un artista affermato e il suo matrimonio, officiato solo un paio di anni prima eppure così
distante nel tempo, deve fare i conti con tutte le ragazze che si presentano alla sua porta. Come se
non bastasse, il 7 luglio 1956, durante un’apparizione al Grand Ole Opry, Cash incontra una
giovane che è solita esibirsi con l’intera famiglia in un mix di numeri spiritosi, gospel e vecchi
motivi tradizionali. Il suo nome è June Carter, depositaria della straordinaria eredità della Carter
Family.
Johnny Cash e June Carter hanno entrambi contratto un impegno nei confronti di altre persone e
hanno troppo rispetto del vincolo del matrimonio per cedere alla reciproca attrazione. Che, però,
non è mero richiamo sessuale. C’è stima profonda, conoscenza dei rispettivi ruoli e una capacità
di comprensione che trascende quei pochi ritagli di tempo spesi insieme. Eppure, un matrimonio e
quattro figli da una parte, due matrimoni e due figli dall’altra, sono un motivo sufficiente per non
azzardarsi a sfidare il destino. Johnny e June proseguono le proprie vite su binari paralleli, fino a
quando al Johnny Cash Show, uno spettacolo itinerante denso di artisti e canzoni, si aggrega
proprio June Carter. È il 1961, e a quel punto Cash è un uomo diverso, ha smarrito buona parte
della sua fede, ha ripetutamente infranto la vecchia promessa di rigare dritto, ha accolto nella sua
vita donne e anfetamine. Soprattutto, il matrimonio con Vivian Liberto è ormai agli sgoccioli.
Nel 1962 Johnny Cash e June Carter si tuffano in una relazione clandestina, ma fortemente
voluta e ricercata. Per Johnny, June è una compagna, una collega, una complice, un’amica,
un’amante, ed è incredibilmente materna. A lei quell’uomo taciturno e complicato non deve
nascondere nulla; June sa già tutto, problemi di droga e alcol compresi. L’incedere del rapporto
Carter-Cash è rintracciabile attraverso il percorso musicale intrapreso assieme. A partire proprio
dal 1962, sono diverse le canzoni che i due producono in coppia. In particolare Ring Of Fire,
scritta e registrata da June e portata al successo da Cash nel 1963, è il documento di una passione
divorante che non può più passare inosservata. Eppure, benché il matrimonio tra Johnny e Vivian
sia terminato da un pezzo, i due si fanno scudo del fervente credo cattolico e prendono ancora
tempo.
Giunti al 1967, l’unico ostacolo che si frappone alla nuova unione è costituito dalla salute di
Cash, a repentaglio a causa dei continui abusi. Grazie a June e alla sua famiglia, l’uomo in nero
ritrova la fede e davanti al suo pubblico in una storica data a London, nell’Ontario, il 22 febbraio
del 1968, chiede ufficialmente la mano di June Carter. Poco più di una settimana dopo, in
Kentucky, le nozze. Considerate le passate esperienze dei due, non sono in molti a scommettere sul
legame, ma nessuno dubita della felice influenza che l’una esercita sull’altro. June è allegra,
solare, spiritosa e sembra fatta apposta per smussare gli spigoli più selvaggi e cupi di Johnny. Ed
è anche la più forte, sempre consapevole delle battaglie che dovrà combattere accanto a un uomo
del genere. Il lavoro li tiene uniti. All’inizio degli anni Settanta, quando il Johnny Cash Show
approda in televisione, una nuova cospicua fetta di pubblico resta piacevolmente impressionata da
quell’uomo riabilitato che sembra incarnare i valori dell’americano medio.
Anche dopo la fine del popolare show, il matrimonio, la nascita di un figlio, una nuova casa
immersa nella natura e soprattutto una rinnovata fede cristiana contribuiscono a donare a Cash un
aspetto meno oscuro rispetto all’antica immagine di sodale dei reietti e dei furfanti e spesso nei
guai con la legge. Nel settembre del 1975, Johnny e June si iscrivono a un corso intensivo di studi
biblici presso la scuola cristiana internazionale di teologia. Due anni più tardi, il percorso di Cash
si conclude con la laurea di primo livello in teologia e la successiva consacrazione a ministro
della chiesa che gli consente di officiare i matrimoni di alcuni amici stretti. Gli anni Ottanta
riservano nuovi turbamenti. Blues e country, nel nuovo decennio, non sono certamente i generi più
in voga, e il notevole calo di popolarità coincide con il raffreddamento della fede e la ricaduta
nella droga. Se rigare dritto non è più un problema all’interno di un matrimonio consolidato, la
vera sfida è costituita dalla pressione di dover sempre dimostrare al proprio pubblico di essere
vivo.
Ci sono ancora così tante cose da dire che non basta una vita, ma per veicolare il messaggio
occorre lo spirito giusto, servono buone intuizioni e ottima salute. È proprio la salute a mancare a
Cash ed è ancora June la prima ad accorgersene, quando alla fine degli anni Ottanta i ricoveri si
fanno sempre più frequenti. Il dolore fisico aggredisce ogni parte del corpo di Johnny, eppure tra
un intervento e l’altro, le cure, la serenità e l’incoraggiamento di June ristabiliscono l’equilibrio.
E preparano il terreno alla terza carriera artistica di Johnny Cash, quella che lo introdurrà alle
ultime generazioni, complice il fiuto del produttore Rick Rubin. Negli anni Novanta, Cash
seleziona sapientemente pezzi di Tom Waits, Leonard Cohen, Glenn Danzig e altri autori
contemporanei di ottima reputazione; si esibisce al Viper Room di Johnny Depp, uno dei locali di
Hollywood più quotati tra le star emergenti, dando così il via a quelle American Recordings che
lo porteranno a realizzare quattro album negli ultimi otto anni della sua esistenza e forniranno
materiale per diverse pubblicazioni postume.
Il costante pensiero di non avere ancora molto tempo a disposizione spinge i coniugi Cash a
considerare l’ipotesi di un film biografico sulla loro vita e sul loro amore. E la voglia di
esorcizzare la morte lavorando a tempo pieno prende il sopravvento. Nel 2002, per AMERICAN IV:
THE MAN COMES AROUND, Johnny incide due brani che sembrano scritti di suo pugno tanto sono
perfetti nel descrivere il suo presente: Personal Jesus dei Depeche Mode e Hurt dei Nine Inch
Nails. La magistrale interpretazione è l’ulteriore sigillo posto al rammarico di non esserne
l’autore. Se la prima centra al meglio il rapporto con la fede di Cash, la seconda suona come un
testamento. A dirigere il videoclip di Hurt viene chiamato il regista Mark Romanek. Il risultato è
pura commozione: Johnny e June vi compaiono ancora una volta insieme e alle immagini attuali di
una coppia minata nel corpo ma non nello spirito, si sovrappongono quelle di un passato
felicemente speso uno accanto all’altra.
Poche settimane dopo l’uscita del disco, la salute di Cash si aggrava nuovamente. Anche June
perde le forze, con la crescente amarezza di non riuscire più a supportare il marito. È proprio June
la prima a spegnersi, nel maggio del 2003. Non sono bastate le preghiere a tenerla in vita. Dal
giorno del matrimonio, celebrato trentacinque anni prima, i coniugi Cash si ritrovano per la prima
volta separati. Johnny è costretto a navigare senza ancora. Si rifugia nel lavoro e promette a June
di raggiungerla presto. Promessa mantenuta. Quattro mesi dopo è di nuovo accanto alla sua anima
gemella. I Walk The Line è il titolo del film a cui Cash aveva iniziato a pensare nel 1998 e che
vede finalmente la luce nel 2005, con due bravi attori e una solida sceneggiatura. Mentre sullo
schermo scorrono le immagini più significative della vita di Johnny e June accompagnate dalla
musica, a dare i brividi più intensi restano i loro sguardi nel video di Hurt, gli sguardi di un uomo
e una donna che non hanno mai smesso di specchiarsi uno nell’altra.

Ring Of Fire – Johnny Cash (RING OF FIRE – THE BEST OF JOHNNY CASH)
La biografia di Steve Jobs edita nel 2011 svela un retroscena della giovinezza dell’arguto
imprenditore che lascia tutti a bocca aperta. Nel 1982, quando è ancora al lavoro sul Macintosh,
Jobs conosce la celebre interprete folk Joan Baez, attraverso la sorella Mimi Fariña, e se ne
innamora. Lui ha ventisette anni, lei quarantuno, ma per circa tre anni una conoscenza casuale si
traduce in una seria relazione fra amanti. Al contrario di Jobs, Joan non è interessata a costruirsi
una famiglia e questo in apparenza è il motivo della separazione. Qualche tempo dopo, amici ben
informati precisano che il coinvolgimento di Jobs per la cantante americana avesse in realtà a che
fare con la sua passione spropositata per Bob Dylan, di cui Baez era stata compagna molti anni
prima. Steve amava semplicemente l’idea di avere un legame, per quanto indiretto, col suo idolo,
arrivando ad ammettere di essere stato sì attratto da Joan, ma mai innamorato.
Nelle sue memorie pubblicate nel 1989, Joan Baez parla della separazione dal marito e della
ragione per cui non ha più voluto risposarsi. In chiusura del libro inserisce anche un
ringraziamento a Steve Jobs per averle insegnato a usare un programma di videoscrittura. Non
aggiunge altro. Per una vita ha lasciato che fosse la sua musica a parlare per lei e anche quando si
è ritrovata suo malgrado bersaglio di allusioni ha sempre cercato di evitare il centro della scena, a
meno che non si trattasse di un palco debitamente allestito per uno show. Joan Baez scopre presto
se stessa, come vivere e cosa diventare, e lo fa da sola, senza che nessuno le indichi la via.
Quando qualcuno prova a farle cambiare strada o semplicemente considerare una deviazione, Joan
sorride e rifiuta l’invito.
Il 10 aprile del 1961 Joan Baez incontra per la prima volta Bob Dylan in un locale del
Greenwich Village. Lei è già un’interprete affermata, lui sta ancora affinando il repertorio. Sono
due ventenni affascinanti, ma in modo opposto. Joan è una donna decisa, virtuosa, distante dai
canoni di bellezza del periodo, eppure la sua indipendenza attira schiere di amanti. Anche Dylan
non ha certo problemi con le donne, ma è la malia dell’artista arruffato e scostante a colpirle.
Sono ambedue esili, timidi, hanno in comune una passione sconfinata per la musica e
un’incoercibile voglia di fare bene il proprio mestiere. Si incontrano, si osservano, si ammirano e
poi ognuno prosegue per la propria strada. Joan si trasferisce in California e Dylan resta a New
York, dove ha da poco iniziato a frequentare una diciassettenne che gravita intorno alla scena del
Village, Susan Rotolo.
Ma si rivedono. In giro per festival. Sempre a New York e poi a Cambridge. È in una
domenica di aprile del 1963 che scoprono di avere molte più cose in comune di quanto
immaginassero. Le canzoni di Dylan, per esempio, Joan non pensava di apprezzarle al punto da
proporgli di dividere lo stesso palco. L’occasione è offerta qualche settimana dopo dal Folk
Festival di Monterey. Si presentano insieme e il pubblico di Joan Baez non può fare a meno di
apprezzare un artista così caldamente raccomandato dalla propria beniamina. Joan prende per
mano lo spettatore e lo invita ad aprire gli occhi, a prestare ascolto, a conoscere colui che lei ha
visto prima di tutti. Ci vuole un po’ prima che il cantautore faccia breccia nel cuore del pubblico.
In quello di Joan, invece, ha già fatto il suo ingresso trionfale. Non c’è bisogno di fare l’amore,
racconta la stessa Baez, basta la musica.
Il 27 maggio del 1963 Bob Dylan pubblica l’album che farà decollare la sua carriera.
S’intitola THE FREEWHEELIN’ BOB DYLAN. La copertina lo coglie intirizzito dal freddo mentre
passeggia su Jones Street, al Village, sottobraccio a Suze Rotolo. Ma la foto è ormai datata. Joan
si sente così sicura che quando regala il disco alla sorella lo accompagna con un biglietto nel
quale presenta quel giovane scarmigliato come il suo nuovo ragazzo. Mimi, la più giovane delle
sorelle Baez, in realtà conosce già Dylan; era con Joan la sera del primo incontro e ricorda
distintamente di aver ricevuto delle attenzioni da lui. In ogni caso, non è mai successo nulla. Mimi
è innamorata dell’aspirante scrittore Richard Fariña. Quanto a Joan, le basta qualche altro invito a
condividere il palco per retrocedere Suze a sbiadito ricordo nella testa di Dylan.
È l’alba di una storia che giova a entrambi, ma in termini di popolarità più al cantore del
Minnesota. A ogni concerto Joan Beaz, regina in carica della musica folk, nomina Dylan principe
consorte. E da una costa all’altra dell’America paiono anche divertirsi molto insieme. Joan
addolcisce Bob, lo rende più aggraziato e in diverse occasioni lo induce a sposare l’impegno
civile. E anche la Baez acquista fascino, soprattutto agli occhi di chi la riteneva una pasionaria
asessuata. Quando Joan e Bob iniziano a fare coppia fissa le loro vicende si avviluppano a
un’altra coppia, quella formata da Mimi e Richard Fariña, i quali, da poco unitisi in matrimonio,
ammirano da vicino sorella e cognato. In fondo Mimi ha sempre desiderato cantare e anche
Richard, oltre al sogno letterario, coltiva quello di diventare autore di canzoni.
Le storie s’intrecciano. Bob scrive per Joan una canzone, Lay Down Your Tune, in realtà molto
lontana dal consueto registro folk della cantante, che in effetti pare apprezzare maggiormente un
brano scritto per lei da Fariña, Birmingham Sunday, ispirato a un fatto di cronaca del periodo.
Progressivamente, a livello professionale, Joan e Bob cominciano a prendere direzioni diverse.
Mentre la Baez dedica sempre più tempo a questioni sociali e politiche, Dylan matura la decisione
di non prendere più parte a manifestazioni e comizi. Eppure, nonostante i reciproci impegni,
nell’estate del 1964 la coppia sfiora l’argomento matrimonio. Parlano di un nome da dare a un
possibile bambino e si preoccupano di vedere più chiaro nel loro futuro. Ma è sempre Joan a
razionalizzare e a constatare che le cose in comune sono ancora troppo poche.
Per Joan, amore e musica non sono affatto universi a sé stanti. Se inizialmente tollera il
disinteresse del compagno per l’impegno sociale, non sembra invece accettare il crescente senso
di nichilismo dei suoi testi. Quando Bob nel mese di marzo del 1965 dà alle stampe l’album
BRINGING IT ALL BACK HOME, quello che si offre al pubblico è un artista nuovo, elusivo e
piuttosto arrogante. C’è una canzone, in particolare, che Dylan sembra dedicare a Joan: She
Belongs To Me raffigura con sarcasmo una donna superba e pretenziosa, caratteristiche in verità
molto più affini al ruolo assunto dallo stesso interprete. Un altro tour intrapreso fianco a fianco
contribuisce ulteriormente a portare a galla le differenze inconciliabili tra i due. Ora che Bob
Dylan ha il suo pubblico, di quello caritatevole e contegnoso della Baez non sa più che farsene.
Nell’estate del 1965, la relazione naufraga. Bob Dylan si libera della compagna umiliandola
pubblicamente nel corso dell’ultimo tour inglese. Ora che è lui a godere di maggior fama non c’è
più bisogno di condividere il palco. Il debito di riconoscenza è ampiamente saldato. In più, c’è
un’altra donna, e svincolarsi con sdegno dal passato inibisce desideri di riconciliazione. Lei si
chiama Sara Lownds, è già in attesa del primo figlio di Dylan e a novembre ne diventa la moglie.
Un ulteriore timbro alla storia con Joan Baez, Bob Dylan lo appone con Positively 4th Street, un
brano critico verso l’ex compagna e tutta la scena folk del Greenwich Village. Joan risponde con
un lamento, e affida la sua replica a Diamonds And Rust. Quando Bob lascia Sara, dopo dodici
anni di matrimonio e tre figli, è da Joan che torna, giusto il tempo per leccarsi le ferite e
ricominciare altrove. Ancora lontani. Eppure indissolubilmente legati.

Diamonds And Rust – Joan Baez (DIAMONDS AND RUST)


Questa è una storia a tempo determinato. Un amore con scadenza ravvicinata esattamente come il
suo protagonista: un uomo che trasforma in oro o diamanti tutto ciò che tocca, ma solo per un
breve periodo della sua esistenza. Roger Keith Barrett è un ragazzo introverso, originale ed
estremo che non assomiglia a modelli preesistenti. Sempre un po’ troppo in anticipo rispetto ai
tempi, vive la condizione di chi non attende che le cose accadano con raziocinio e metodo. Si fa a
modo suo, questo è quanto. Consigli pochi, intromissioni ancora meno. È logico che la partita si
concluda in solitudine.
Fino al 1964 Roger, ribattezzato dai conoscenti Syd, posa le sue lunghe dita e le sue mire sulla
compagna di scuola Libby Gausden, la prima a subire il fascino di atteggiamenti che lasciano
intendere qualcosa di molto poco convenzionale. Alla donna resteranno pochi ricordi, giusto
qualche fotografia in bianco e nero. Ce n’è una che la ritrae in costume, in spiaggia, sulle spalle
del fidanzato. Una foto come tante, da conservare nella scatola della vita passata. Terminata la
complicata storia con Syd, Libby resta nell’orbita del musicista unendosi a Storm Thorgerson,
autore delle più celebri copertine dei dischi dei Pink Floyd.
Da Syd non si guarisce. Sono segni profondi quelli che lascia dentro a Lindsey Corner, una
ragazza bionda di Cambridge, trasferitasi a Londra per fare la modella part-time. Syd e Lindsey
vivono insieme per due anni, ma quando le cose iniziano a prendere quota per i Pink Floyd,
Barrett raduna alla sua porta uno stuolo di fanciulle adoranti. È in questo periodo che Syd
imbastisce una breve relazione anche con Jenny Spires, la Jennifer Gentle di Lucifer Sam, e con
Kari-Ann Moller, che solo qualche anno più tardi ammetterà di essergli stata solo amica e si
investirà del ruolo di protagonista del secondo singolo dei Pink Floyd, See Emily Play. Lindsey
uscirà dalla vita di Syd dopo l’ennesimo episodio di violenza perpetrata dal compagno armato di
chitarra.
Non è chiaro se lo faccia per vendicarsi dal rifiuto di Lindsey, ma appena conclusa quella
tumultuosa relazione Syd è tra le braccia di un’amica dell’ex ragazza. Lei è Gayla Pinion e per il
musicista sembra un toccasana. Gayla è un’altra aspirante modella di Cambridge che alla fine del
1969 entra nella vita di Syd attraversando uno degli appartamenti più celebri della storia del rock.
L’indirizzo è quello di Earl’s Court Square, dove una stanza in particolare, spoglia e con il
pavimento dipinto di arancione e viola, sarà protagonista delle sedute fotografiche per la
copertina di THE MADCAP LAUGHS, il debutto da solista di Barrett dopo la sua uscita dai Pink
Floyd. Il fotografo Mick Rock incrocia per una sola sessione lo sguardo di Syd e quegli scatti
consegnano entrambi all’eternità.
All’inizio della relazione con Syd, Gayla non ha ancora l’esclusiva. Non nel privato, almeno.
In quell’appartamento sono diverse le donne che tentano di restare accanto a Barrett per più di una
notte. Non sono in molte a riuscirci. Non ci riesce nemmeno Iggy, l’eschimese che è costretta ad
andarsene alla svelta, ma che dalla copertina di THE MADCAP LAUGHS riceve più gloria di quanta
potrà accumularne nell’arco della sua intera vita. Iggy passeggia senza vestiti nella stanza di Syd;
pare sia la sua tenuta preferita, persino in strada. Non proferisce una parola, si aggira
semplicemente tra quattro pareti dove risultano visibili soltanto uno sgabello, un vaso di fiori e il
modellino di un aeroplano. Sullo sfondo, il suo corpo, e in primo piano il geniale musicista la cui
aura valica obiettivo ed epoche per restituirci un’immagine senza tempo, la stessa che
identificherà la vita di Syd fino alla sua scomparsa. Syd Barrett resterà per sempre quel ragazzo
misterioso, bello, alla moda; cosa le droghe e la mente faranno al suo fisico non conta.
Gayla Pinion è al fianco di Barrett dalla fine del 1969 e ci resta per più di un anno. Lo trascina
via dall’appartamento troppo affollato di Earl’s Court Square, lo riporta a Cambridge e insieme
cercano di condurre una normale vita familiare, coltivando progetti matrimoniali. Syd annuncia
che vuole diventare marito e medico nello stesso anno in cui esce il suo primo disco da solista e,
grazie all’ottimo riscontro ottenuto, si mette al lavoro sul secondo. Pubblicato nel novembre del
1970, si chiama BARRETT. È un album di dodici brani prodotto come il precedente dall’amico
David Gilmour. Vi ricorrono diversi temi d’amore e Wined And Dined è la traccia dedicata a
Gayla. Il primo ottobre del 1970 Gayla compie vent’anni e festeggia il suo fidanzamento con Syd.
Una giornata memorabile, soprattutto per il comportamento del futuro sposo, che nel bel mezzo
della cena lascia la tavola per poi farvi ritorno completamente rasato. È la nuova immagine di
Syd, quella adulta e già votata alla follia. È il ritratto di un uomo che cancella ogni traccia della
sua vita passata e per farlo è costretto a liberarsi anche di ciò che è buono.
Il fidanzamento con Gayla non dura a lungo. La giovane non riesce a stare accanto a un uomo
che ha deciso di non avere più alcun progetto di vita. È colpa degli acidi o è solo uno stato
confusionale, in ogni caso è una condizione che porta altrove. Syd abbandona Gayla, abbandona la
musica, abbandona l’intero mondo conosciuto fino a quel momento. Si rifugia nella pittura e trova
appoggio nella famiglia; entrambe non hanno mai avuto nulla a che fare con le sue canzoni. Eppure
di Barrett non ci si dimentica: quella sua bellezza spettrale, quello sguardo penetrante, continuano
a ossessionare Gayla. Nel 1977 si rivedono per caso. L’ex fidanzata si riavvicina a Syd il tempo
necessario per capire se qualcosa è cambiato, ma non è così. Dopo un fugace incontro, esce
definitivamente dalla vita dell’uomo che non si può scordare. È in buona compagnia, Gayla: fan,
giornalisti, musicisti, sono in molti a non farsi una ragione che l’artefice di una delle band più
amate di tutti i tempi si sia eclissato senza nemmeno una spiegazione, un congedo.
Syd Barrett finisce col rassomigliare ai personaggi che ha descritto nei suoi brani, come
Arnold Layne. È un fantasma, nella vita delle persone che lo hanno conosciuto, che temono ed
evocano al tempo stesso la sua presenza. Ed è un’icona di fascino e stile che continua ad
appassionare con l’immagine cristallizzata della sua giovinezza. È il 1971 quando Syd decide di
interrompere la relazione con Gayla, l’ultima donna della sua vita, a detta di molti. È il 1971
quando rilascia l’ultima intervista a Mick Rock, che lo fotografa per la rivista «Rolling Stone». È
il 1971 quando abbandona la musica e diventa immortale. Il resto del mondo non si accorda più
alla sua mente. O forse è la sua vita a non accordarsi al resto del mondo.
Wined And Dined – Syd Barrett (BARRETT)
Un uomo burbero e poco socievole, un tipetto difficile con qualcosa da nascondere. Un ragazzotto
introverso con un unico interesse. La musica è il solo argomento di conversazione di cui George
Ivan Morrison disponga fin dalla più giovane età. Se in ballo non ci sono canzoni, dischi, partiture
da approfondire, si può fare a meno di aprire bocca. Viene dunque spontaneo chiedersi come un
individuo del genere a ventitré anni, lontano dalla sua Irlanda, vessato da una casa discografica
che lo teneva al guinzaglio e neanche un centesimo in tasca, sia riuscito a chiudersi in uno studio
di New York con una manciata di musicisti e a registrare il disco più alto della sua poi lunga e
fortunata carriera.
Tra le riviste specializzate e gli addetti ai lavori, ASTRAL WEEKS è accreditato come uno dei
migliori dischi di sempre. Un lavoro complesso ed enigmatico almeno quanto il suo autore. Otto
brani sorprendenti che compongono un’unica suite di quarantasei minuti dove non si scorgono
ritornelli, né incisi. Messa a fuoco irripetibile di un talento sovrumano. Qualcuno, da lassù, in
quell’unica circostanza è sceso a patti con il suo umore, le sue idiosincrasie, il suo eremo di note,
eludendo per un attimo la sorveglianza e penetrando nell’animo di un artista che ha fatto del
controllo l’elemento centrale della propria opera.
Alla fine degli anni Sessanta, Van the Man è un uomo col quale è assai difficile relazionarsi.
Lo sanno bene i membri della sua band, che a malapena riescono a mettersi in contatto con il
musicista, quasi mai con l’uomo. Poi una sera entra in scena la solita bionda, di quelle che hanno
il potere di farti sentire un po’ più simile a Dio. Peccato che non duri e che il ritorno sulla terra ti
faccia sentire come ogni altro uomo col cuore spezzato, solo con una manciata di canzoni in più da
scrivere, perché in un songbook la tristezza a volte è tutto. Almeno fino a quando arriva lei, lei che
ti ravviva e costringe la tua manager a metterti in guardia più dai sentimenti che dall’alcol, perché
un ubriacone può essere ancora un bravo autore, ma un marito felice avrà difficilmente qualcosa di
buono da cantare nel prossimo disco.
Lei non è bionda e non ti fa sentire Dio per una sera, ma ti dà qualcosa di ben più duraturo e
pericoloso: la stabilità. Van Morrison conosce la sua futura moglie nell’estate del 1966, appena
quarantotto ore dopo il suo arrivo negli Stati Uniti. Si chiama Janet Rigsbee, ma per lui e poi per
tutti è Janet Planet, una graziosa modella texana che ha vissuto buona parte della sua esistenza in
California e che non appena entra nell’orbita del musicista è già protagonista delle sue canzoni.
Per Morrison non ci sono filtri: quello che vive e più lo colpisce va dritto al centro delle sue
composizioni, da un brano come Ballerina fino al primo singolo trasmesso dalle radio americane,
che avrà il potere di riportare l’irlandese in America. Van, rientrato nel frattempo in Irlanda, dice
a Janet di restare in ascolto, perché quando sentirà Brown Eyed Girl alla radio, il singolo estratto
da BLOWIN’ YOUR MIND!, quello sarà il segnale del loro nuovo incontro.
Nell’estate del 1967 Van e Janet vanno a vivere insieme a New York a caccia dei personaggi
leggendari del blues e del jazz che esercitano grande fascino sul defilato autore e che avrebbero il
potere di lanciare in un attimo la sua carriera. Janet lo asseconda in tutto, gli infonde coraggio e
quando l’ufficio immigrazione rischia di intromettersi tra amore e carriera accetta di buon grado
di accogliere George Ivan Morrison come proprio marito e di continuare a seguirlo e supportarlo
con un’unica missione: renderlo felice. Janet segue Van a Cambridge, Massachusetts, dove
l’ingente quantità di locali funky e un’infinità di bar disposti ad aprire le proprie porte a musicisti
R&B sembrano fare proprio al caso della coppia, che si mantiene grazie agli introiti delle serate.
Poi è la volta di Woodstock, un luogo ancora più isolato dove fare musica e dove certamente le
agenzie di moda non vengono a bussare alla tua porta. Ma quando Janet diventa la signora
Morrison, di quella che è stata la sua vita fino a quel momento resta ben poco.
Janet è ottimista e continua a fornire ispirazione al proprio compagno. Se nuvole minacciose si
addensano sulla testa di Van, lei è lì pronta a spazzarle via. A sei mesi dal festival che avrebbe
reso la cittadina di Woodstock celebre in tutto il pianeta, marito e moglie vivono una vita
appartata. Van compone per la propria musa e Janet non solo ha il compito di trascrivere strofe
improvvisate su metri di bobine, diventa anche interprete di quell’uomo che ha sempre più
difficoltà a entrare in sintonia col mondo esterno, ma che alla bottiglia pare invece accordarsi
benissimo. Tuttavia, non sono i goccetti di troppo a segnare la rotta artistica di Morrison.
Matrimonio e paternità, acquisita con la nascita di Shana, sono eventi rintracciabili in quasi tutta
la produzione del periodo. Nell’album HIS BAND AND THE STREET CHOIR Janet accompagna ai
cori Van ed è l’autrice delle note di copertina. Ancora una volta, è lei il ponte tra l’universo del
compagno e tutto ciò che resta fuori dalla porta della loro casa-studio.
Canzoni come Blue Money, Crazy Face, Call Me Up In Dreamland e Domino sono il frutto di
un momento di estrema felicità per Morrison, che al fianco di Janet ha sperimentato la serenità
dopo anni di malcontento e tribolazioni. Le canzoni dell’impegno e della terra sembrano lontane
anni luce ed è forse questo che più preoccupa l’autore, che nella primavera del 1971 decide di
fare i bagagli e di trasferirsi sulla West Coast, quasi a voler riportare a casa Janet. Proprio in
California accade qualcosa nelle vita della coppia. A pochi mesi dal trasferimento, un nuovo
album è già alle porte. Questa volta l’intenzione è di far coincidere i brani con l’immagine
pubblica di Morrison. Se è il ritratto di una famiglia felice a risaltare dalle canzoni di TUPELO
HONEY, allora tanto vale corredarle con gli scatti che il pubblico si aspetta. Sulla copertina del
disco, Janet cavalca un destriero bianco e Van cammina ai suoi piedi, mentre sul retro l’immagine
dei due su una staccionata si configura nell’iconografia più classica dell’epoca.
Tupelo Honey è anche l’ennesimo singolo sull’affettività sdolcinata. C’è un solo problema: la
realtà ora è scissa da quelle fotografie come da quelle canzoni. Alle fine del 1971 Janet si rende
conto che l’autore di quella musica non ha nulla a che vedere con l’uomo con cui divide il letto.
Quanto ai cavalli, a Van non sono mai andati a genio. Quello che sembra funzionare a livello
commerciale, tra le pareti domestiche comincia a scricchiolare. È un uomo geloso che pretende
adorazione incondizionata, quello a cui ogni sera Janet deve preparare la cena. È un uomo da
amare e accudire incondizionatamente. Le regole le decide lui e non sono ammesse interferenze,
pena discussioni e divieti. A iniziare da quello di ricominciare a lavorare come attrice e modella,
fino ad arrivare al completo isolamento dal resto del mondo. Come in un sogno durato troppo a
lungo, nel 1972 Janet Planet si sveglia sudaticcia e con una sola idea in testa: dare le dimissioni
dal ruolo di moglie.
Il 17 novembre del 1972 Janet prende le sue cose e lascia il problematico marito. Il 26
gennaio del 1973 l’istanza di divorzio viene depositata per incompatibilità di carattere. Janet ha
tenuto duro e ha sperato che le scorte del suo entusiasmo potessero bastare a entrambi per tutta una
vita insieme. Deve aver pensato che, superato il primo periodo di incertezza e miseria, tutto il
resto non sarebbe stato di ostacolo. Dimenticandosi di fare i conti con chi le stava a fianco. Un
uomo che non somigliava affatto ai suoi dischi e nemmeno alle loro copertine. Un uomo che una
volta raggiunta fama e ricchezza ha iniziato a sentirsi ancora più sotto pressione di quanto non
fosse quando in tasca non aveva che pochi spiccioli. Janet si è chiusa la porta alle spalle e prima
di andarsene si è curata di portare con sé quanto di buono aveva germinato nella vita di Van: sua
figlia e buona parte del suo patrimonio. A Morrison, che avrà altre mogli e altri figli, sono rimaste
canzoni intrise di disagio e tristezza ancora da scrivere, brani che non riveleranno però alcun tipo
di rimpianto o rimorso.

You’re My Woman – Van Morrison (TUPELO HONEY)


Sonny Bono disse una volta, a proposito di Cher, che la sua ex moglie era così stupida da pensare
che la luna fosse il lato opposto del sole. Sonny Bono nel 1998 va a sbattere contro un albero
durante una discesa sugli sci e muore per le ferite riportate; ha sessantadue anni, ma a giudicare
dalle immagini che lo ritraggono negli ultimi mesi di vita ne dimostra molti di più. Cher nello
stesso anno pubblica il disco di maggiore successo della sua carriera e grazie all’ennesimo hit in
testa alle classifiche di mezzo mondo arriva a toccare i venti milioni di dischi venduti. Ora, è fin
troppo facile partendo da questa breve considerazione ristabilire i ruoli. In realtà il gioco è più
complesso ed è quello che accade quando in una storia non ci sono i buoni da una parte e i cattivi
dall’altra, ma solo vincitori e vinti. La storia d’amore di Sonny & Cher è per molti aspetti simile
alle coppie nella vita e nel lavoro nelle quali è facile imbattersi nell’America degli anni Sessanta.
Ike & Tina Turner hanno aperto le danze e su quella stessa pista muovono i primi passi anche
Sonny & Cher. Entrambe le parti cominciano con un potenziale inestimabile, un carico da novanta
da giocare immediatamente sul numero vincente. E vincono. Vincono tantissimo e non
abbandonano il tavolo finché non è la controparte femminile a farlo. È solo allora che inizia la
sconfitta, è solo allora che la rabbia si manifesta pubblicamente, tra le mura domestiche è già
accaduto.
Sonny è un artista in ascesa quando si imbatte nella sua futura musa, una ragazzina di appena
sedici anni incontrata in un bar, con una luce negli occhi particolare, o forse solo la stessa che
hanno tutte le adolescenti quando avvertono nell’aria odore di celebrità. È di quella luce che si
innamora l’uomo, Cher è già una splendida donna con le gambe lunghissime, i capelli neri lucenti
e gli zigomi alti, ma Sonny ne intuisce la dote prima di chiunque altro, una dote che non ha niente a
che spartire con pizzi e merletti, perché la giovane ha solo i suoi sogni in tasca e poco altro. Sonny
si innamora di un bagliore, non di una persona in carne e ossa. Dev’essere per questo che dopo fa
tanto male, dev’essere per questo che la ferita rimane aperta e brucia ad ogni manifestazione
pubblica della donna. Anche a distanza di anni dalla rottura, altri compagni e nuove carriere,
anche quando il terreno è ormai bonificato per piantare una fresca amicizia, di tanto in tanto, di
notte, il giardiniere arriva e disbosca. Perché quello resterà sempre il suo giardino e non è
ammissibile che la sua creatura riesca a piantare radici senza le sue cure.
Questa è comunque una storia che racconta un sogno, il classico sogno americano. Una giovane
si ritrova casualmente di passaggio negli studi di uno dei produttori di grido degli anni Sessanta, il
solito Phil Spector, e altrettanto accidentalmente viene notata da quest’ultimo, che la sceglie per il
ruolo di corista in uno degli hit del periodo, Be My Baby delle Ronettes. Ma non confondiamo le
acque, Cher arriva in quello studio al braccio di Sonny Bono, un ragazzo che vede nell’amata una
miniera d’oro e non sbaglia. È il 1964 e i nostri protagonisti scelgono di fare le cose per bene.
Ottenuto il divorzio dalla prima moglie, Sonny mette un bell’anello al dito della sua protetta e con
lei inizia a incidere le prime tracce a firma Ceasar & Cleo. Sono le acconciature della coppia a
suggerire loro il nome: prima della frangetta dei Ramones, ecco palesarsi in musica il caschetto di
Sonny Bono che, a quanto pare, ha attinto direttamente alla storia per siglare il debutto. I primi
passi nell’olimpo discografico coincidono con uno stile che diventerà moda e che caratterizzerà
soprattutto la carriera di Cher. Da questo momento in poi, ogni decade verrà contraddistinta da un
radicale cambio d’immagine, spesso al centro delle discussioni dei media perché eccessivo,
provocante o inappropriato.
Prima degli interventi di chirurgia plastica, prima delle parrucche voluminose, prima dei
perizoma e delle giacche di pelle, Cher è figlia del suo tempo con i pantaloni a zampa d’elefante, i
capelli sciolti lungo la schiena, l’ombelico scoperto e gli occhi allungati con la matita nera. È
Elizabeth Taylor che smessi i panni di Cleopatra raggiunge nel camerino il suo Richard Burton con
il trucco di scena. L’amore vince su ogni scandalo, tutti se ne devono accorgere.
In realtà, in questo primo periodo, Cleo/Cher non ha ancora molta fiducia in se stessa, è Sonny
il capo, lui sa cosa sia meglio per entrambi, tanto vale lasciargli il pieno controllo della nave fino
a quando sarà in grado di captare i gusti della gente e scrivere testi che il pubblico ha voglia di
ascoltare. È quello che accade fino alla fine del decennio: brani come Baby Don’t Go, I Got You
Babe, Bang Bang (My Baby Shot Me Down) raggiungono sempre le prime posizioni nelle
classifiche di vendita. Poi qualcosa si interrompe. Il flusso creativo di Sonny, in particolare,
sembra andare in controtendenza rispetto ai tempi.
Il 1969 dovrebbe essere un buon anno per Sonny & Cher. Dopo svariati successi, che fruttano
alla coppia fama, ingaggi e contratti, l’arrivo della prima figlia Chastity dona alla famiglia una
sorta di aura in cui tutte le cose sembrano combaciare. E invece i primi dissapori in casa sono
anche le prime parole che Chastity ode. Parlare di pace e buoni sentimenti non frutta più al duo
quanto dovrebbe, i tempi cambiano, cambiano le mode e c’è voglia di sperimentare sia con le
relazioni sia con le sostanze. Da una parte c’è Woodstock, l’alba che si svela dai riff di Jimi
Hendrix, gente come Eric Clapton e Led Zeppelin che non può davvero permettersi di fare
campagna antidroga o di avere da ridire a proposito delle infedeltà coniugali. Dall’altra c’è una
coppia che ha appena chiamato la figlia “Castità”, che si proclama proibizionista e che si esibisce
in motivetti pop votati all’amore nuziale. Qualcosa non torna. Meglio fermarsi una mano, rifugiarsi
a Las Vegas il tempo necessario per portare a casa altra grana e capire come puntare le fiches che
si hanno a disposizione.
Las Vegas all’inizio degli anni Settanta è un buon palcoscenico, non ha ancora inghiottito in un
solo boccone Mama Cass, Re Elvis e chi dopo di loro accetterà contratti milionari in cambio di
repliche sempre uguali, sera dopo sera, per un pubblico che si accontenterebbe di vedere il
proprio idolo sul piedistallo di un carillon. Non stupisce quindi che da questo palcoscenico Sonny
& Cher ottengano un ingaggio per il loro debutto sul piccolo schermo. Prende da qui il via una
nuova stagione del duo, che improvvisamente ha la possibilità di mettere in mostra altre capacità
oltre quelle canore. In particolare stupiscono quelle attoriali di Cher, che adesso si ritrova show
dopo show a interpretare il ruolo della moglie petulante. In realtà la situazione matrimoniale è ben
diversa. Sonny non accenna a lasciare il timone, spetta a lui il controllo totale su tutto, nessuna
interferenza e il ritrovato successo sembra confermare ancora una volta il suo intuito. Ma c’è una
cosa su cui non può avere il controllo, il gusto dello spettatore, che ora ha imparato ad apprezzare
sua moglie; le donne finalmente si identificano nelle sue frustrazioni messe in scena e i primi
successi da solista non tardano ad arrivare.
Sonny Bono è un uomo di talento per arrivare dove è arrivato, ma non ci è arrivato da solo sul
tetto del mondo. Lo ha fatto con una donna che adesso appare molto più simpatica di lui. L’ego
rende Sonny cupo, lo acceca e lo trascina a provare un sentimento come l’invidia, che è alla base
della separazione tra i coniugi. Secondo Sonny in realtà è l’egoismo della moglie a mandare in
frantumi il matrimonio, secondo Cher si tratta semplicemente di un amore sfumato, succede. Il
primo si arresta, la seconda non ha ancora smesso di correre. Il programma è ancora in onda
quando Sonny & Cher abbandonano i ruoli di marito e moglie nella vita e li mantengono sullo
schermo. L’uomo non vuole cedere, sa che senza la propria compagna la sua carriera potrebbe
finire. Per questo accetta di continuare a fianco a una donna che ha perso la testa per Elvis e che
poi si rifugia nelle braccia di Gregg Allman, leader della Allman Brothers Band. Due cattivi
ragazzi uno in fila all’altro, per una fanciulla che già prima di incontrare suo marito aveva flirtato
con un certo Warren Beatty.
Allora è questa la vera Cher, una donna che sa il fatto suo e che inizia a fumare marijuana, si
chiede il pubblico. La nuova Cher, o soltanto quella riemersa dopo il trattamento Sonny, piace e
viene premiata con un’attenzione e una fedeltà riservata a poche dive al mondo. La cantante non
imbusta parole sgradevoli all’indirizzo dell’ex, certo ci fa capire che la sua condizione è stata più
simile a quella di una schiava che non a quella di una moglie, ma è Sonny che alterna stoccate a
sorrisi ironici. Ci sono diverse storielle accumulate nel corso degli anni sulla vita di Cher, quasi
tutte hanno a che fare con la sua ambiguità sessuale e tutte iniziano quando termina il suo
matrimonio. Sonny Bono deve preoccuparsi unicamente di andare avanti da solo e di non restare
impantanato nel suo stesso fango. Nella sua biografia ostenta di avere amato un numero
sconsiderato di donne, di avere figli che non ha mai conosciuto, si dichiara un repubblicano
convinto che vanta amicizie nella malavita, ma soprattutto ci ricorda che senza di lui non avremmo
mai avuto Cher e ancora, con ineludibile tristezza, si chiede come sia stato possibile perdere la
sua anima gemella.
Cher lontano da Sonny colleziona prime volte. Il primo concerto da solista, il primo one
woman show, il primo figlio maschio, il primo intervento di chirurgia plastica, il primo Oscar, la
prima regia e ci tiene a sottolineare che anche quando non si è trattato di situazioni memorabili
sono state prime volte che è valso la pena tenere a mente. Ce lo racconta con semplicità e
saggezza nella sua biografia The First Time, pubblicata poco dopo la scomparsa di Sonny, al
quale, ancora una volta, non lesina parole di affetto e ammirazione durante la veglia funebre.
All’ex marito è dedicato BELIEVE, il disco di maggior successo di Cher. Certo, è più che
comprensibile l’insoddisfazione di un uomo che sente di avere perso una fortuna, ma a proposito
di vincitori e vinti è difficile non immaginare Cher intenta a spassarsela con Marlon Brando, Gene
Simmons e Richie Sambora mentre a stento trattiene le risate provocatele dalle apparizioni di
Sonny in pellicole come L’aereo più pazzo del mondo… sempre più pazzo e Grasso è bello. In
fondo ha sempre saputo che il suo primo marito, sotto sotto, sapeva essere anche dannatamente
divertente.

But You’re Mine – Sonny & Cher [THE WONDROUS WORLD OF SONNY & CHER]
Storie tanto salde e durature si contano sulle dita di una mano nell’effervescente e sconsiderato
panorama rock. Adelaide Gail Sloatman è l’oracolo al quale chiedere dettagli di vita, particolari
fondamentali, istruzioni da applicare all’occorrenza. Gail oggi ha l’aspetto di una sessantasettenne
un po’ in carne alla quale in foto piace ridere, e lavora ancora attivamente al patrimonio lasciatole
in eredità dal marito musicista e compositore Frank Zappa.
A metà degli anni Sessanta Gail Sloatman è un’intraprendente ragazza amante della musica e
dei suoi protagonisti. Ben presto scoprirà, senza dolersene affatto, di appartenere a pieno titolo a
quella categoria che l’intero pianeta sta iniziando a identificare col termine groupie. Se groupie
significa stare al centro di una scena che permette alle ragazze più carine e vivaci di entrare a
stretto contatto con musicisti talentuosi, allora Gail lo è. Londra pullula di artisti che le fanno
perdere la testa, primi fra tutti i Rolling Stones e poi gli Who. Quando nel 1964 si trasferisce a
New York e capita per sbaglio in una stanza d’albergo con Tom Jones, realizza di essere incline
per natura ad altre frequentazioni e suggestioni. Le va a cercare sulla West Coast. Nel sud della
California, animata dalla volontà di portare alle radio la musica inglese degli Who, incontra i
Beach Boys e i Byrds e si ritrova a conversare con un ragazzo di nome Jim Morrison conosciuto
molti anni prima, quando i rispettivi padri militavano in Marina.
Gail non cede alle sue lusinghe, anche perché ha in testa da un po’ una sorta di premonizione.
È convinta che qualcuno o qualcosa di grande entrerà presto nella sua vita. Un’intuizione che in
fondo l’accomuna a milioni di adolescenti che preferiscono sognare piuttosto che risvegliarsi
brutalmente in una realtà che non le soddisfa. Ma Gail non ha niente di cui lamentarsi. Il lavoro in
uno dei club più hip del momento su Sunset Strip le consente di mantenersi ed entrare in contatto
con la scena musicale californiana. Il Whisky a Go Go è davvero un’epifania per la ventenne Gail.
Poi, il destino si manifesta a più riprese, quasi a sottolineare la sua ineluttabilità. Gail incontra
Frank una volta, due volte, ma soltanto alla terza scocca la scintilla. È il 1966, e i due
impiegheranno pochi mesi per convincersi di avere le carte in regola per tentare l’avventura.
Zappa odia le canzoni d’amore e ha un rapporto del tutto speciale con i cliché. Dopo una
prematura unione con una compagna di college terminata nel 1964, il venticinquenne è pronto a
crescere al fianco di Gail. Trasferitasi sulla East Coast, il 21 settembre del 1967 la coppia si reca
alla New York City Hall con una penna a sfera per firmare il certificato di matrimonio. Al posto
dello scambio di anelli, Zappa appunta la stessa penna sul vestito di Gail e poi parte per il primo
tour europeo lasciando la consorte incinta del primo figlio con un solo monito: «Se è femmina
chiamala Moon, se è maschio Motorhead». Moon Unit nasce due settimane dopo. Qualche anno
più tardi arriveranno anche Dweezil, Ahmet e Diva. Questa famiglia tutt’altro che tradizionale già
dai nomi, per quanto il capofamiglia si dichiari un conservatore, nel 1968 si trasferisce
nuovamente in California. La nuova residenza losangelina, una capanna di legno all’angolo tra
Laurel Canyon Boulevard e Lookout Mountain Drive, diventa l’epicentro di un circo freak che
metterebbe a dura prova anche il rapporto più saldo.
Al culmine del movimento hippie questa casa viene invasa da musicisti e aspiranti tali, artisti
di fama e altri senza arte né parte, tutti con al seguito massicce dosi di stramberia e droga
snobbata da Zappa (a eccezione di tabacco e caffè). E poi ci sono le groupie. Gail le conosce
bene, è stata una di loro, se le fa amiche, e non sono certo i corpi scoperti di poche giovinette a
preoccuparla. Non tanto, almeno, quanto la difficile gestione di un menage familiare che
comprende rancio e bucato per decine di persone, alcune delle quali con la psiche in balia di
chissà quali alterazioni. Nella vita di Frank le groupie ci sono e ci saranno sempre, fanno parte del
suo lavoro. Addirittura, ne raduna un po’ per l’incisione di un un disco che diventa in breve un
piccolo culto nell’ambiente. Zappa è il burattinaio di un teatrino di cui magicamente governa i fili.
Senza di lui, un’intera scena di svitati non avrebbe catturato così tanta attenzione.
Le mosse del compositore italo-americano sono tutt’altro che azzardate. La meticolosità sul
lavoro, le lunghe sessioni in studio e una genialità impossibile da catalogare hanno bisogno di
assistenza e soccorso. Gail accetta la sfida e il mestiere di moglie, un vero e proprio impiego a
stretto contatto con il proprio uomo, anche quando per interi mesi lui si trova dall’altra parte
dell’oceano. Non una semplice casalinga o compagna: il ruolo di moglie è fatto di regole, orari,
programmi, incombenze mirate ad alleggerire e a migliorare l’attività del marito. Il punto di vista
è gestionale, finanziario e, naturalmente, sentimentale. Per intere giornate, la sola cosa di cui deve
occuparsi Zappa è lavorare; a tutto il resto pensa Gail. Figli da portare a scuola, compere,
pagamenti. Ciò che potrebbe essere scambiato per incomunicabilità e placida rassegnazione
rappresenta in realtà la chiave di volta di un’unione che si sviluppa felicemente fino alla
scomparsa del musicista, nel 1993.
Per ventisei anni la coppia Zappa-Sloatman rimane unita anche se ognuno dei due conserva la
propria individualità e la poca predisposizione a occuparsi l’uno dell’attività dell’altra. Frank e
Gail applicano a una delle più longeve storie d’amore rock lo stesso principio sul quale si
fondano milioni di altri rapporti duraturi che non sono esposti ai riflettori: non si intralciano, si
rispettano, mantengono la lucidità per capire quando è il momento di farsi da parte, specie in
prossimità di un ego smisurato, a volte affascinante ma altre dannatamente frustrante. Alla fine del
1993 Frank Zappa, da tempo malato, muore nella sua casa attorniato dall’intera famiglia. Soltanto
qualche mese prima l’annuncio di volersi candidare alla presidenza degli Stati Uniti aveva
preparato Gail all’ennesima battaglia da combattere al fianco del marito. Alla fine del 1993 Gail
Sloatman lascia il mestiere di moglie per abbracciare quello non meno impegnativo di
amministratrice dell’intero patrimonio artistico ed economico del fu consorte. Una vera groupie è
sempre al servizio della musica, e se la musica è l’altare e i musicisti sono gli dèi, le groupie sono
le più alte sacerdotesse. Parola di Gail.

Tell Me You Love Me – Frank Zappa (CHUNGA’S REVENGE)


Una delle storie d’amore rock più celebrate e invidiate di tutti i tempi è in realtà una sequenza di
abusi, dipendenze, tradimenti e pratiche masochistiche. Eppure, a distanza di oltre quarant’anni da
una relazione durata poco più di un lustro, i nomi dei protagonisti possono fare a meno dei
cognomi. Come una sigla può identificare un brand, Jim & Pam è sinonimo di un’epoca, di
controcultura, di insubordinazione, di poesia, di immagini e parole che milioni di adolescenti in
ogni parte del mondo continuano a celebrare come se bastasse un pensiero rivolto alla tragica
coppia per appropriarsi delle briciole di un periodo che non tornerà più.
James Douglas Morrison incontra Pamela Susan Courson nella primavera del 1966. Da circa
un mese i Doors si esibiscono come gruppo fisso in uno dei tanti locali di Sunset Strip, a Los
Angeles. La rossa e minuta Pam intreccia il proprio sentiero a quello di una band in procinto di
esplodere, e di lì a poco le cose non saranno più le stesse. Jim è pronto ad abbracciare fama e
gloria, è come se conoscesse sempre un po’ prima i fatti in cui sarà coinvolto. O magari è solo una
copertura per atteggiamenti scomposti. Facile prevedere che il pubblico ti guarderà con occhi
diversi se sarai tu il primo a provocarlo. Jim Morrison è il cantante dannato e questo a Pamela non
va giù. Vuole per sé un poeta più che un musicista e per tutta la durata del rapporto spingerà il
compagno in questa direzione. Compromettendo gli equilibri della band.
Jim e Pam sono la coppia più enigmatica degli anni Sessanta. Non si sposarono mai. Sebbene
fosse un acceso desiderio di Pamela, che a un certo punto cominciò a farsi chiamare signora
Morrison, Jim si oppose alla ratifica del legame. Ma si amavano, se non poter fare a meno l’uno
dell’altra significa amare. Litigavano, si tradivano, si separavano, e poi alla fine si rincorrevano
sempre. Era un legame speciale fatto di passione, gioco, confessioni e schermaglie che spesso
sfociavano in atroci liti nelle quali nessuno dei due era disposto ad abbassare la testa. E poi
c’erano gli stupefacenti: acidi, cocaina, eroina. Probabilmente, se non ci fosse stato alcun tipo di
dipendenza conclamata la relazione tra i due sarebbe andata in maniera diversa.
Nell’estate del 1966 Jim e Pam vanno a vivere insieme, ma la casa di Laurel Canyon è più che
altro un posto dove ritornare dopo intere nottate spese in giro per locali, studi di registrazione e
camere d’albergo. A vent’anni e con un valore come la fedeltà in caduta libera per i costumi
dell’epoca, Jim Morrison dà linfa al suo personaggio di rubacuori tormentato, offrendo a fan e
giornalisti qualcosa in più dei suoi testi. Il corpo di Jim diventa un oggetto di culto ben più
venerabile della musica dei Doors. Gli altri membri se ne rendono conto, sfruttano appieno il
clamore, ma poi le cose sfuggono di mano e il gruppo scivola nelle retrovie. Sul gradino più alto
restano gli scandali e le provocazioni che l’America puritana non ha ancora assimilato, e le
scorribande di un giovane allucinato sono il bersaglio più comodo sul quale aprire il fuoco per
redimere milioni di adolescenti prima che si incamminino sulla sua stessa cattiva strada. A
rileggerla con gli occhi di oggi, la brevissima storia dei Doors e del loro leader pare
un’estenuante countdown: si ha la certezza di un lancio, o meglio di uno scoppio, e si cerca di
ritardarne il più possibile la deflagrazione.
Tra il 1966 e il 1970 Jim e Pam collezionano schiere di amanti e non ne fanno mistero. Per il
primo, considerato il crescente successo, è praticamente impossibile mantenere segrete le
innumerevoli relazioni; quanto a Pam, è lei stessa a premurarsi di far sapere al compagno che non
se ne sta a casa ad aspettarlo da sola. Si potrebbe credere a una routine tacitamente condivisa, ma
questo stato di cose è la sorgente delle reciproche sofferenze e dei continui stati allucinatori per
distaccarsi da una realtà mai troppo magnanima. Eppure, anche secondo Ray Manzarek, Jim e Pam
sono fatti per stare insieme, facce opposte di un’unica medaglia, la stessa persona da maschio e da
femmina. Peccato che giocare la seducente partita delle anime gemelle porti la coppia a
condividere un destino da spostati. Ma chi decide di sedersi a quel tavolo sa in partenza a cosa va
incontro e ne accetta le conseguenze.
Per Jim, le conseguenze hanno vari nomi e quasi tutti femminili. C’è Gloria Stevens, ex
modella divenuta direttrice e fotografa della rivista «Sixteen», e concedersi alle sue avances è un
modo molto piacevole per guadagnare copertine e recensioni entusiastiche. Si tratta delle prime
celebri immagini in cui un Morrison in ottima forma viene ritratto a braccia spalancate come un
cristo hippie. Ci sono le groupie domiciliate al circo freak di Zappa, a pochi passi dall’indirizzo
di Jim e Pamela. Una di loro, Pamela Ann Miller, futura musa di Jimmy Page, racconta di aver
avuto un incontro molto ravvicinato con Jim. Uno dei tanti, in quella che viene definita la lunga
estate dell’amore sulla East Coast. E proprio nell’estate del 1967, mentre i Doors suonano per
tutto il Paese, Jim lascia Pam e si tuffa con ardore in una relazione con l’interprete tedesca Nico,
dea delle arti di Andy Warhol e del progetto Velvet Underground.
Ma poi torna da Pam e fa lo stesso anche dopo il breve flirt con un’icona del rock
psichedelico, Grace Slick dei Jefferson Airplane, pure lei soggiogata dal fascino che Morrison
irradia dal palco. Fossero anche la droga e l’alcol a rendere le esibizioni di quell’indemoniato
così polarizzanti, di certo tali livelli di carnale magnetismo non vengono mai raggiunti da altre
band allora in circolazione. Non dai Beatles, che ormai hanno rinunciato a suonare dal vivo, e non
dai Rolling Stones, che per quanto ben più sfrontati e provocatori dei cugini inglesi, sanno di non
dover mai perdere completamente il controllo per continuare a portarsi a casa la fetta più
cospicua della torta. La fetta dei Doors fa invece molta gola a Pam, che inaugura Themis, una
boutique di abiti stravaganti, insiste con l’eroina e si gode il suo uomo lontano dalla band,
colpevole di non rendere appropriata giustizia al sedicente poeta.
Londra, Marrakech, Parigi. Pamela Courson gira mezzo mondo in cerca di capi per la sua
attività. A volte è con il compagno, altre con uno dei suoi amanti, ma non appena le cose
precipitano Jim corre da lei, ovunque si trovi. Raramente sono soggiorni piacevoli. Di sicuro,
Pam preferisce non indugiare sulle varie presunzioni di paternità di Jim. C’è persino una
giornalista, Patricia Kennely, direttrice del mensile musicale «Jazz & Pop», che dichiara di
essersi unita al dio del rock in una cerimonia Wicca terminata con un patto di sangue il 24 giugno
del 1970. Anche Patricia asserisce di essere rimasta incinta di Jim, ma quando il 22 dicembre
bussa alla porta di Pamela comunicandole di avere abortito, pare che la sempre più sottile e
tenace fanciulla dai capelli rossi si limiti a zittire la rivale confessandole un numero cospicuo di
gravidanze mai portate a termine.
Quando la coppia all’inizio del 1971 si trasferisce a Parigi, i Doors non esistono praticamente
più e Pam ha a suo modo vinto la battaglia contro la band. I due però si trascinano stanchi e tossici
per la Ville Lumière. Le discussioni non si arrestano, le loro mosse sono confuse almeno quanto i
domicili, fino all’epilogo. Romantico, tremendamente fosco. Jim si lascia andare esausto nella
vasca da bagno e Pam è lì vicino, troppo intontita per mettere a fuoco i contorni della tragedia. È
un’istantanea che ancora una volta diventa memoria comune. Così come le leggende intorno alla
fine, per alcuni soltanto presunta, dell’artista. Persino i Doors all’inizio si rifiutano di credere che
sia accaduto per davvero, pensando a una delle tante burle dell’amico. Ma è tutto autentico.
Pamela Courson ritorna a Los Angeles e arranca per qualche stagione prima di addormentarsi per
sempre sul suo divano il 24 aprile del 1974. Sulla lapide del cimitero di Orange County il nome
che viene inciso è Pamela Susan Morrison. Il suo Jim riposa dall’altra parte del mondo e ancora
una volta gli tocca rincorrerla.

My Wild Love – The Doors (WAITING FOR THE SUN)


A volte accade che uomini e donne coltivino il rapporto perfetto nel proprio giardino d’infanzia.
Crescendo, questo giardino può diventare il terreno più fertile per le loro fantasie. È lì e soltanto
lì che le cose funzionano a dovere. Niente liti, nessuna discussione, le cose procedono senza
intoppi e non si può fare a meno di sorridere e magari intonare qualche melodia che parli del
sogno californiano in piena era hippie. La realtà però può essere ben diversa, specie se hai
sovvertito regole, leggi e senso del pudore e hai chiuso gli occhi rifugiandoti nel tuo piccolo
mondo, dove sei convinto di non aver mai fatto nulla di male.
Quando John Phillips incontra Michelle Gilliam si presentano da subito due problemi. Lui è
già sposato ed è padre, mentre lei ha soltanto sedici anni. Ma i Sixties sono alle porte, la
rivoluzione sessuale anche, e certe tradizioni sembrano esistere per essere scardinate. John e
Michelle si innamorano e decidono di convivere. Il primo intuisce anche le potenzialità vocali
della seconda, oltre alla sua manifesta avvenenza. Così, al tramonto delle prime esperienze
musicali di John e del compagno Denny Doherty, i tre formano un nuovo gruppo: The Mama’s and
The Papa’s. Alla band si unisce poi la vocalist Cass Elliot, inizialmente osteggiata da John a causa
del suo peso eccessivo e della sua immagine poco rispondente ai canoni di bellezza in voga
all’epoca.
Ma tutto funziona. Ci sono i fiori, gli abiti colorati, i cori, e ci sono brani che diventano hit. È
il 1965 e in classifica fa prepotentemente ingresso California Dreamin’. L’anno successivo,
l’album di debutto della band, IF YOU CAN BELIEVE YOUR EYES AND EARS, arriva direttamente al
vertice della chart di «Billboard» trainato da un altro singolo di successo, Monday Monday.
Perfetto, almeno in superficie; a guardare bene sotto il tappeto, ci si accorge che le rivoluzioni in
atto nel periodo oltre a capelli lunghi, buffi cappelli e collane vistose mettono in gioco equilibri
che non è facile mantenere e il prezzo da pagare rischia di essere davvero alto per un gruppo agli
esordi.
Nella primavera del 1966 i Mamas & Papas sono già al lavoro sulla produzione del secondo
album. Tra Michelle e Denny pare esserci qualcosa che va al di là di una tranquilla relazione tra
colleghi e John non si dimostra affatto liberale quando ne viene a conoscenza. È il caos: Michelle
viene allontanata dalla band, al suo posto è ingaggiata Jill Gibson, all’epoca fidanzata del
produttore Lou Adler. Nel giro di una sola estate la crisi rientra, Michelle riprende il suo posto in
formazione e a fianco del consorte. Denny trova invece conforto nell’alcol. A settembre esce
l’album omonimo della band, ma non è chiaro a chi appartengano alcune delle voci femminili.
La storia dei Mamas & Papas prosegue tra alti e bassi fino al 1968, anno in cui la formazione
decide di sciogliersi proprio a causa delle continue liti tra gli stessi componenti. John e Michelle
si separano anche nella vita e dopo altri due album pubblicati dal gruppo è la casa discografica
che, tra ristampe e reunion poco acclamate, tenta di non perdere i pezzi di qualcosa che
evidentemente non potrà mai più essere ricomposto. Tutti i membri non vedono l’ora di
ricominciare singolarmente. Mischiare affetti e carriera non è affatto semplice, e anche se si è
finiti davanti a un giudice le canzoni restano e i sorrisi che stimolano all’ascolto non si possono
cancellare. Forse.
Per molte persone non è più possibile ascoltare oggi quei brani. Almeno, non con il sorriso
sulle labbra. Un moto di disgusto sfocia nell’orrore alla scoperta di ciò che nascondeva il tappeto,
qualcosa che non aveva nulla a che fare con liti tra marito e moglie, tradimenti o discussioni tra
membri di uno stesso complesso. Quello che è venuto alla luce dopo molti anni dalla scissione del
quartetto californiano non combacia con il sogno e i risvegli assolati sulla spiaggia, ma piuttosto
con l’incubo e la voglia di intontirsi fino a non svegliarsi più.
Papà John nel 1965 ha già una figlia di sei anni avuta dalla prima moglie Laura. Mackenzie è
una ragazzina di quattordici anni quando debutta nel film diretto da George Lucas, American
Graffiti. La vediamo poi, in alcuni ruoli minori, dividersi tra film e show televisivi fino agli inizi
degli anni Ottanta, quando l’abuso di stupefacenti la costringe al ricovero dopo due overdose
quasi fatali. La sua carriera da attrice subisce anch’essa un brusco arresto, fino a quando lei e il
padre tentano la carta del revival e per un breve lasso di tempo danno vita ai New Mamas and The
Papas.
Ma Mackenzie non sembra così decisa a volersi liberare dalla propria dipendenza; al
contrario, non appena le cose per lei ricominciano a funzionare, rimette tutto in discussione.
Capita ai figli di genitori separati. Capita ai figli di. Tuo padre se ne va di casa per diventare una
stella della musica folk insieme a un’altra donna. Ci provi anche tu, e ci provano i tuoi fratelli. A
tua sorella Chynna, per esempio, le cose filano lisce e insieme alle figlie di Brian Wilson nel 1990
sforna un hit che ancora oggi migliaia di donne si ritrovano a canticchiare alle feste di addio al
nubilato. Perché magari ci si vergogna un po’ ad ammetterlo, ma quel Cd delle Wilson Phillips fa
ancora capolino ogni tanto dall’angolo più impolverato della nostra collezione.
A te le cose proprio non vanno, e tra disintossicazioni e arresti finisci per non chiederti più
cos’è che non funziona. Fino al 2009, quando in una puntata dell’Ophra Winfrey Show leggi
qualche brano tratto dalla tua biografia da poco pubblicata. Ovviamente, non si parla di trucchi
per restare in forma e condurre una vita sana. Non si tratta nemmeno di un memoir dai giorni bui
del rehab, perché non ne sei ancora uscita e non c’è nessun segno di vittoria sul tuo volto. Ci
consegni una storia e ci dai delle risposte che mai avremmo pensato di ricevere.
Inizi rivelandoci che hai provato la droga per la prima volta a undici anni insieme a tuo padre.
È stato lui a iniziarti e poi a diventare il tuo spacciatore. Ci racconti che la notte prima del tuo
matrimonio realizzi di essere a letto con tuo padre e che la cosa si ripeterà per circa dieci anni,
quando ti rendi conto di essere incinta probabilmente proprio di papà John. Parli di rapporto
consensuale pur sapendo che tra un genitore e una figlia queste cose non possono essere condivise
alla pari. E in fondo non ti ha mai picchiato. Papà ti voleva bene, voleva solo proteggerti, averti
tutta per sé, e aspetti molti anni dopo la sua morte per rivelare la vera identità di un uomo al quale
avevamo imputato fino a questo momento solo un po’ di livore nei confronti della donna meno
avvenente della sua band.
Alcuni non ti credono, tua sorella Bijou per esempio. Jessica Woods invece, figlia di Denny
Doherty, dice che persino suo padre sapeva cosa combinava John in quegli anni. Coltivava il
sogno californiano nella sua mente, tra spiagge, prati verdi e tanti acidi. Un’illusione che per la
prima volta funzionava e nulla si poteva frapporre a lui e alla sua tenera amante consanguinea. E li
vediamo insieme ritratti in foto dell’epoca, abbracciati. E poi proviamo ad ascoltare canzoni che
la nostra memoria si ostina a non cancellare, ma ora conosciamo anche l’altro lato della medaglia.
Nel 2010, Mackenzie Phillips ritenta la carta della popolarità dando in pasto al pubblico
quello che ha imparato a fare meglio: disintossicarsi prima di ricaderci. All’inizio dell’anno è la
protagonista della terza stagione di Celebrity Rehab, reality show della rete televisiva americana
VH1 in cui volti noti provano a liberarsi della tossicodipendenza sotto gli occhi di un’equipe
medica di Pasadena, ma soprattutto sotto lo sguardo di milioni di telespettatori. Mackenzie è in
buona compagnia; prima di lei qualcuno ce l’ha fatta, come l’attore Daniel Baldwin, qualcun altro
è un habitué della serie, come Steven Adler, storico batterista dei Guns N’-Roses. C’è chi non
riesce a riprendersi dai fasti del passato, come Dennis Rodman, e c’è già chi ci ha lasciato le
penne, come Mike Starr, primo bassista degli Alice in Chains. Ma la serie continua e nel 2011 è
felice di accogliere un altro paparino modello: Michael Lohan, padre di Lindsay.

California Dreamin’ – The Mama’s and The Papa’s (IF YOU CAN BELIEVE YOUR EYES AND
EARS)
La lunga strada del rock è lastricata di pietre rotolate via precipitosamente. Quelle di cui ci si
ricorda hanno impresso un nome, un aneddoto e una data. Per alcune è stato eretto un vero e
proprio altare, altre ogni tanto vengono sollevate dal terreno e ripulite.
Questa è una delle prime storie d’amore del rock’n’roll. Alle varie protagoniste femminili è
stato riservato un unico destino nonostante origini molto diverse. A ciascuna è toccato sparire. Del
loro passaggio resta solo una canzone, ma non di quelle che riemergono dall’album dei ricordi.
Qui le canzoni arrivano prima di tutto il resto e danno il La alla storia. Solo che poi la musica
rimane e gli autori si godono i frutti dei propri lampi di genio. Le muse no. Le muse se ne devono
andare, specie se diventano ingombranti, competitive, problematiche. Le muse portano scompiglio
dove c’è già disordine, ma di qualcuna bisognerà pure sbarazzarsi. Le più fortunate si vedono
offrire un biglietto di sola andata per il purgatorio. A tutte le altre viene spalancata la portiera
dell’auto in corsa.
La musa, nel 1964, si chiama Marianne Evelyn Faithfull, una diciottenne ben educata dell’alta
società inglese, interessata all’arte. Compagna del gallerista John Dunbar, la ragazza conosce a un
party la banda di capelloni che sta sulla bocca di tutta l’Inghilterra. Quella stessa sera Mick Jagger
e Keith Richards vengono sfidati dal manager Andrew Loog Oldham a comporre un brano
originale per la deliziosa Marianne, la quale non ha ancora deciso come guadagnarsi da vivere e
non sembra averne l’urgenza. Dopo neanche una settimana dalla singolare proposta, si ritrovano
tutti agli Olympic Studios di Londra per registrare As Tears Go By, una delle prime composizioni
originali a firma Rolling Stones, fino a quel momento rinomati soprattutto per le cover di standard
blues. Pubblicato nello stesso anno, il singolo diventa un grosso successo per la giovane Marianne
e in pochi mesi accresce fama e reputazione del gruppo di capelloni.
As Tears Go By è il principio. All’inizio del 1966 Mick Jagger e Marianne Faithfull diventano
ufficialmente il re e la regina della scena di Chelsea. Hanno il loro regno, il loro inno e qualche
vittima da buttarsi alle spalle. Mick si libera della fidanzata Chrissie Shrimpton, la Stupid Girl di
AFTERMATH che per tre anni lo ha sostenuto dall’anonimato al successo, mentre Marianne lascia
Dunbar a pochi mesi dalla nascita del loro bambino. La fama è lì per essere colta e all’orizzonte
si intravedono eventi di proporzioni immani. Nel frattempo, all’interno dell’alcova, due amanti
ventenni si scambiano libri, quadri, film e idee politiche. La musa questa volta non è soltanto il
grazioso involucro di un pacco regalo. Marianne è colta ed è un ottimo passepartout per
quell’aristocrazia che un medio borghese come Jagger ha potuto sbirciare solo dal buco della
serratura.
In piena Swinging London, Mick e Marianne condividono un appartamento a Cheyne Walk
arredato con tappeti, arazzi, cuscini, oggetti di antiquariato e incenso ovunque. Nelle strade
manifestazioni, cortei e repressioni sono all’ordine del giorno, ma solo in seguito al pasticcio di
Redlands la coppia si ritrova suo malgrado al centro di un linciaggio mediatico che punta il dito
su lascive rockstar fradice di droghe. Se Mick e Marianne vengono incriminati ufficialmente per
possesso di pasticche acquistate legalmente in Italia, è evidente agli occhi dell’intera società che
il consistente consumo di sostanze allucinogene è ormai abitudine negli ambienti artistici della
città. C’è chi gioca a nasconderlo e a puntare sulla facciata da bravo ragazzo, come accade ai
Beatles, e chi l’arroganza e la supponenza ce le ha cucite addosso. E dato che la parte del
giovanotto di buona famiglia è già stata presa, allora non resta che minacciare tutti i padri del
mondo al grido di «Lasceresti che tua figlia uscisse con un Rolling Stone?».
Dopo la retata di Redlands, Jagger e Richards assurgono a spocchiosi martiri ingiustamente
accusati, mentre Marianne Faithfull ne esce con la reputazione di stramba impellicciata e drogata
con tanto di barretta Mars infilata tra le gambe a uso e consumo dell’amante. E non è l’unica donna
dipinta a tinte forti tra quelle sedute sulle ginocchia di Mick. Anita Pallenberg è la fidanzata di
Brian Jones, ma quando il chitarrista perde contatto con la band e con la realtà a causa del
consumo smodato di Lsd, si rifugia tra le braccia di Keith Richards continuando a esercitare un
potere enorme sull’intero carrozzone. Nel 1968 quello che potrebbe essere visto come un saldo
rapporto tra due coppie molto legate tra loro, si trasforma in un eccentrico menage a base
ovviamente di sesso, droga e rock’n’roll.
Anita scivola nel letto di Mick, complice il film Performance che li vede entrambi
protagonisti. Keith, stordito dall’improvvisa gelosia in un tempo in cui la monogamia è ormai
vetusta, si rifugia nell’eroina. Quanto a Marianne, incinta della figlia di Mick e ormai dipendente
dalla cocaina, decide di trascorrere un periodo col primo figlio, dalla madre in Irlanda. Al
termine delle riprese del debutto sul grande schermo di Jagger, gli equilibri tra i due compagni di
band sono compromessi. La tiepida unione di una notte tra Keith e Marianne non placa veleni,
leggende ed episodi di dubbio gusto che da questo momento in poi diventeranno una costante nella
vita del gruppo più longevo del pianeta. Ma alla fine dei Sessanta, la più grossa fetta della storia
degli Stones è ancora da scrivere, e per compiere il passo successivo una prima pietra viene
sacrificata.
Il 3 luglio del 1969, a un mese dalla messa al bando dal gruppo, Brian Jones viene trovato
morto nella sua piscina. Due giorni dopo, il concerto dei Rolling Stones già programmato a Hyde
Park si trasforma in una sorta di veglia funebre. Tra le retrovie, quella più colpita dalla scomparsa
di Jones sembra essere proprio Marianne Faithfull, che dopo sette mesi di gravidanza ha appena
perso la bambina che aspettava da Mick. Per la coppia tornare indietro non sembra più possibile e
la successiva overdose della cantante porta Jagger a desiderare di avere accanto a sé una donna
più sana. L’americana Marsha Hunt, attrice e cantante pop già ex di Marc Bolan, sembra la
candidata ideale. Prende così il via un nuovo tourbillon alimentato dalla nascita di figli, quello di
Keith e Anita poco prima della bambina di Mick e Marsha, nuovi legami, quello tra la Faithfull e
l’artista italiano Mario Schifano, e tante splendide canzoni. Se non fosse per Brown Sugar,
Marsha Hunt resterebbe solo un’altra pietra senza nome rotolata sul sentiero del rock.
As Tears Go By – Marianne Faithfull (MARIANNE FAITHFULL)
Grandi vecchi e neofiti, padri e figli sotto il tendone del grande circo del rock’n’-roll, continuano
a domandarsi come mai il chitarrista dei Rolling Stones, da decenni in cima alla classifica dei vip
più accreditati alla morte, sia ancora in vita e goda di buona salute. Keith Richards non solo tiene
a farci sapere che un’esistenza l’ha conservata perché pur spingendosi oltre ogni limite non ha mai
perso del tutto il controllo, ma ci prende per mano, ci fa accomodare sulla sua chaise lounge
preferita e ci racconta aneddoti della sua vita con dovizia di particolari. Quando è il turno di
parlarci della sua storia d’amore più turbolenta si fa persino nostalgico e con lucidità mista a
franchezza ci informa che se non fosse stato per la dipendenza dalle droghe della sua donna, lui
oggi sarebbe ancora al fianco della scalmanata e seducente Anita Pallenberg. E il dispiacere di
non vedere adesso quei due settantenni avvinghiati sulla stessa amaca è enorme.
Quando Keith incontra per la prima volta l’attrice e modella Anita Pallenberg di anni ne ha
poco più di venti. Anita, anche lei appena uscita dai suoi teen, ha già vissuto in diversi Paesi,
conosce tre lingue e gli artisti più in voga in Italia e nel Regno Unito. La donna ideale, se non
fosse la fidanzata di Brian Jones, l’altro componente tutto matto dei Rolling Stones, il primo a
impelagarsi in una dipendenza che gli risulterà fatale di lì a qualche anno. Nel 1966, tuttavia, le
cose tra Brian e Anita vanno a gonfie vele e al resto della band non dispiace affatto avere attorno
una bellezza colta e raffinata con la quale apparire in pubblico. Nello stesso anno la migliore
amica di Anita, la cantante Marianne Faithfull, si unisce al leader del gruppo, Mick Jagger. Keith
Richards inizia a uscire con Linda Keith, una ragazza ebrea di West Hampsted che per sbaglio un
giorno si trova a consegnare tra le mani di Jimi Hendrix una Fender Stratocaster di proprietà di
Richards e un demo di Tim Rose che canta un pezzo intitolato Hey Joe.
In seguito Linda concederà a Jimi molto di più, e di fatto è la prima donna a spezzare il cuore
di Richards. La storia le frutta un lasciapassare per gli annali del rock chiamato Ruby Tuesday.
Naufragata la relazione con Linda, Keith passa sempre più tempo nell’abitazione londinese di
Brian e Anita. Non c’è nulla di sconveniente a scambiarsi qualche occhiata o a divertirsi tutti
assieme, ma all’inizio del 1967 la sola compagnia che Brian gradisce è quella degli acidi, che lo
inducono a comportamenti violenti e sopra le righe soprattutto in direzione di Anita. Un viaggio
nel sud della Spagna alla volta del Marocco è la cornice che avvicina Keith e Anita e consente
loro di scoprirsi molto più simili di quanto non abbiano mai pensato. Brian viene liquidato con
garbo e sveltezza, ma essendo considerato il più intrigante degli Stones non tarderà a consolarsi.
Keith e Anita aprono le danze di quello che sarà un lungo idillio rock di suoni, immagini e mode.
A partire dall’estate del 1967, decine e decine di fotografie eternano la coppia. Anita è
semplicemente splendida. Il suo stile ha un’influenza enorme sull’epoca; per quanto eccentrico,
qualunque capo sembra starle d’incanto e crea tendenza. Shorts, tutine, pellicce, enormi cappelli,
camicie trasparenti: Anita non passa inosservata. La notano fotografi come Mario Schifano, con il
quale ha già avuto una relazione, registi come Roger Vadim, che la sceglie per Barbarella, e attori
del calibro di Marlon Brando. La ragazza scivola da un ambiente all’altro con la stessa facilità
con la quale si fa riprendere. Per il mondo sono le istantaneee di un’epoca intera quelle che la
colgono sui sedili di un’automobile circondata dalla band; per Anita è soltanto l’ennesimo ritratto
di un’altra giornata trascorsa con gli amici a parlare di musica e cinema e a sballarsi un po’. Un
po’ troppo.
Alla fine degli anni Sessanta per Anita si profila il ruolo più importante della carriera.
Performance è il titolo di un film destinato a far discutere, anche perché il protagonista maschile
sarà Mick Jagger, per la prima volta attore di cinema. Nel lungometraggio Anita e Mick sono
amanti, e le lunghe scene in cui giacciono nello stesso letto e nella stessa vasca da bagno non
funzionerebbero così bene se non si cercasse l’intimità anche al di là della macchina da presa.
Keith non verrà a sapere dell’accaduto se non dopo molto tempo, ma le basi per un muro di
diffidenza tra lui e Jagger sono ormai gettate. Quanto alla volontà di scacciare fantasmi e
insicurezze, tra tutti gli alleati possibili è con l’eroina che sceglie di stringere un patto. Lo stesso
che Anita ha siglato già da qualche tempo. Gelosia e assuefazione spingono Keith a comporre un
altro hit per gli Stones, Gimme Shelter.
Dopo la nascita di Marlon, Keith e Anita sembrano carburare alla stessa velocità. Al primo
figlio viene dato il nome di quell’amico attore, il primo a congratularsi per il lieto evento. Un
intero decennio se ne va sulla dipartita di Brian Jones; un sipario di disagio cala dopo l’esibizione
di Altamont, dove un diciottenne viene pestato a morte da un Hell’s Angel. I Rolling Stones si
rifugiano nel sud della Francia a causa dei problemi col fisco inglese. La scusa è restare un po’
lontani da casa, ma l’esilio dorato si trasforma presto in uno dei periodi più eccessivi dell’intera
storia del rock’n’roll. Jagger ha una nuova compagna che non vede di buon occhio il suo
soggiorno a Nellcôte, la residenza di Keith e Anita. Anche per gli altri membri della band non è
facile lavorare in un luogo dove ogni tentazione è a portata di mano a qualunque ora del giorno e
della notte. Bambini, spacciatori, musicisti e amanti convivono a stretto contatto per diversi mesi
e l’eco di quel baccanale compare nel 1972 nei solchi di EXILE ON MAIN ST.
Tutto è amplificato. Da una sostanza, da una passione, da un microfono. Ci sono i problemi con
la giustizia, certo, ma a quelli pensano gli avvocati. Poi c’è l’eroina, che a quanto pare Richards è
l’unico a poter controllare anche assumendone in quantità smodate. Non ce la fa invece Anita, che
si ripulisce appena durante la gravidanza della secondogenita Angela. Una casa in Giamaica dove
trascorrere lunghi periodi non è esattamente il posto giusto per iniziare a disintossicarsi. Il tuo
uomo, poi, è in tour per il mondo e la sola certezza che hai è che non se ne starà da solo in
camerino o in una stanza d’albergo ad aspettare le tue telefonate. Ma se la relazione sembra
superare anche questo distacco, la scomparsa prematura del terzo figlio a un paio di mesi dalla
nascita è una frattura irreparabile.
Eppure Keith Richards ci prova, a modo suo. Non rinuncia alla musica, ovviamente, ma stacca
dall’eroina. Mentre Anita non ha la forza e probabilmente neanche l’intenzione di uscire da un
tunnel di paranoia e routine consolidata, Richards fa marcia indietro. Direzioni opposte, fine della
corsa. I due sono separati da un pezzo quando Anita, nell’estremo tentativo di ingelosire il padre
dei suoi figli, accende una relazione con Scott Cantrell, diciassettenne che il 20 luglio del 1979, in
preda ai fumi di chissà quale sostanza, si fa saltare le cervella giocherellando alla roulette russa
nel letto di Anita.
Keith Richards ha sempre saputo che la donna della sua vita era un po’ matta e forse l’ha
amata anche per questo. Peccato solo per quel finale così macabro e per tutta quella droga che non
ha permesso agli amanti più sinceri della storia del rock di contarsi le rughe a vicenda senza
smettere mai di sorridere.

Gimme Shelter – The Rolling Stones (LET IT BLEED)


Nell’estate del 1964, durante il primo tour negli Stati Uniti, i Rolling Stones incappano nelle
riprese del Teen Awards Music International, uno show con una dozzina di gruppi in scaletta per
accontentare tutti i gusti dei giovani americani. Nell’occasione, la band inglese ha la fortuna di
dividere il palco con il futuro sex machine James Brown. Non solo. Gli organizzatori dell’evento
stabiliscono che spetterà proprio ai Rolling Stones chiudere lo spettacolo subito dopo la
performance del re del soul. Questa scelta porta Brown, Jagger e i rispettivi compagni a dare il
massimo. Se qualcuno pensava che fosse impossibile eguagliare il carisma dell’artista americano,
è costretto a ricredersi quando cinque giovanotti appena sbarcati dal vecchio continente
cominciano a dimenarsi sui classici del blues, sfoderando la stessa arma appena impugnata da
Brown: il sesso. Patti Smith, adolescente spettatrice della bollente esibizione, anni dopo
rievocherà l’episodio per la rivista «Creem» descrivendo «cinque ragazzi bianchi sexy come neri,
carne dura, nervi eccitati, sesso puro».
I Rolling Stones non sono che agli esordi della carriera. Si stanno ancora facendo le ossa sugli
standard rhythm’n’blues e rock’n’roll, eppure hanno già intuito quel che serve per sbancare.
Bisogna entrare nelle case della gente, non perdersi in cerimoniali da salotto, irrompere
direttamente nelle camerette delle ragazzine e flirtare con ciascuna di loro. È quanto stanno
facendo da un po’ i Beatles, solo che i quattro di Liverpool giocano la carta delle buone maniere. I
Rolling Stones sono più sfacciati, non hanno una bella divisa, i loro capelli sembrano acconciati
da cuscino e lenzuola dopo una notte di bagordi. Mick Jagger si agita e ammicca come un uomo e
una donna in un solo corpo, Keith Richards e Brian Jones lo seguono a ruota. In seconda linea, si
godono lo spettacolo compiaciuti l’elegantissimo Charlie Watts e il compassato Bill Wyman.
Bill Wyman entra nei Rolling Stones che è già sposato e ha un figlio. Così come accaduto per
John Lennon, il matrimonio viene taciuto il più a lungo possibile, pena l’eventualità di perdere
l’attenzione di migliaia di fan adoranti. Si scopre poi che alle fan, dopo un principio di stizza, non
gliene importa proprio nulla se c’è qualcuna a casa ad aspettare, perché loro sono lì, in prima fila
al concerto, e per le più intraprendenti un bis nelle retrovie è quasi sempre assicurato. Alcune tra
loro sono disposte a tutto pur di infilarsi nel letto della rockstar prediletta, mentre altre sono ben
felici di presentarsi con biancheria pulita e buon cibo fatto in casa; si offrono come guide
turistiche e la loro missione è prendersi cura di uomini incapaci di cavarsela da soli.
Jagger le chiama pollastrelle e sembra non averne mai abbastanza. Per Richards sono veri e
propri angeli di cui innamorarsi, foss’anche per una notte sola. E poi c’è Wyman, il membro più
anziano della band, il musicista distaccato che assomiglia così tanto al principe Carlo. Bill che
tiene una prudente distanza da alcol e droga al contrario dei suoi compagni, ma che alle stanze
d’albergo affollate non sa comunque dire di no. Pare addirittura che con Jagger condivida una
sorta di taccuino dove appuntare cifre, città dopo città, e la sempre più giovane età delle ragazze.
Alla fine dei Sessanta Wyman divorzia dalla moglie Dianne e si lega sentimentalmente a un’altra
donna, Astrid Lundstrom, fino agli inizi degli Ottanta. Ogni singolo componente dei Rolling Stones
non rinuncia ad avere una moglie, una compagna dalla quale tornare a casa, ma è prerogativa
condivisa combattere la solitudine dei lunghi tour a fianco di qualcuno che, per una sera o per una
settimana, possa farti sentire un uomo molto fortunato, qualora il fatto di far parte della band più
famosa del pianeta non bastasse a favorire la crescita smisurata del tuo ego.
È stato calcolato che nei trentuno anni di militanza nei Rolling Stones, Bill Wyman abbia
soddisfatto la bellezza di oltre mille donne, cifra che ha permesso al bassista di guadagnarsi il
decimo posto nella classifica delle leggende viventi del sesso. Certo, mille non sembrano poi così
tante se confrontate alle quasi cinquemila di Gene Simmons dei Kiss, ma Wyman non è riuscito a
tenere stampa e riflettori lontano da quel suo vizietto per ragazze molto, molto giovani. Nel 1984
gli Stones, ancora sulla cresta dell’onda e pronti a confrontarsi con una scena musicale assai
distante da quella degli esordi, non sembrano affatto voler gettare la spugna. Sul palco e appena
sotto, dischi, collaborazioni e matrimoni vengono archiviati in un batter di ciglia per arrivare
leggeri a ciò che riserva il domani. Invitato ai Rock Awards per la consegna di un riconoscimento
alla memoria del bluesman Alexis Korner, Wyman conosce una ragazzina di quattordici anni,
Amanda Louise Smith, e se ne innamora perdutamente.
Per circa otto mesi, Bill sostituisce la figura paterna mancante nella vita di Mandy e della
sorella Nicole. La madre delle ragazzine sembra d’accordo, del tutto ignara che un uomo di quasi
cinquant’anni possa provare attrazione per una delle due. Ma nel 1985 Bill e Mandy hanno una
relazione a tutti gli effetti e la stampa se ne avvede, bollandola come l’ennesima provocazione di
un grande vecchio del rock’n’roll. Mandy Smith, nel frattempo, accorcia ulteriormente la gonna e
le sue gambe scarne vengono impacchettate insieme alla sua voce e spedite all’indirizzo pop da
classifica. Guardatela bene, certo è giovane, ma è terribilmente sveglia e procace per la sua età. Il
2 giugno del 1989, una cerimonia nuziale in grande stile mette a tacere ogni pettegolezzo. Mandy
ha compiuto diciott’anni, lo sposo va per i cinquantatré.
Il clamore e la sontuosità delle nozze risultano presto inversamente proporzionali allo stesso
matrimonio, che si consuma rapidamente tra l’urgenza di una carriera oltre i Rolling Stones per
Bill e i problemi di salute di Mandy. Si parla di esaurimento, depressione, anoressia. Da una
parte, la rockstar insiste a girare il mondo e ad acchiappare qualsiasi gentile profferta; dall’altra,
un’adolescente cresciuta troppo in fretta tenta confusamente di trovare il proprio posto nella vita.
Che a quanto pare non è nell’industria discografica, e nemmeno tra le pareti domestiche. I ricoveri
in clinica si fanno frequenti e i tabloid condiscono il tutto con un’altra sordida storia. Stephen
Wyman, il figlio di Bill, ha una relazione con Patsy Smith, la madre di Mandy. Il figlio di un
genero e la suocera di un padre. Le famiglie d’altronde si frequentano da diversi anni e anche in
questo caso il rapporto tra i due è sancito da norma e tranquillità. Alla fine del 1991, Mandy e Bill
decidono di separarsi. Il divorzio arriva soltanto nel 1993, anno del nuovo matrimonio di Bill con
l’ex fidanzata modella Suzanne Accosta.
A oltre vent’anni dalla fine della relazione tra Bill Wyman e Mandy Smith, quello che ci è
stato venduto come graziosa cornice picaresca di un periodo tutto lustrini e canzoncine algide in
realtà non era altro che uno squarcio profondo e maldestro nella vita di un’adolescente inglese.
Dopo due matrimoni, un figlio e una carriera musicale mai decollata, Amanda Louise ricompare
sulle pagine dei tabloid, questa volta per spiegare che l’unico uomo nella sua vita è Dio e il suo
solo scopo è quello di mettere in guardia tanti ragazzi e ragazze dai rischi della corruzione
minorile. Per farlo, si appoggia alla chiesa e alla religione cattolica. Il suo motto oggi è: assicurati
una carriera e così otterrai il rispetto di te. Quanto al passato, “gigantesco errore” è la sbrigativa
etichetta che affibbia alla pratica Wyman.

Terrifying – The Rolling Stones (STEEL WHEELS)


Ho chiesto un po’ in giro rivolgendo indistintamente a uomini e donne la stessa domanda, ovvero
quale sia la coppia rock per eccellenza. La risposta è stata sempre la stessa: Paul e Linda, ovvio!
Ovvio non direi. Mi aspettavo piuttosto altri nomi, come John & Yoko o Elvis & Priscilla, e
invece no. Paul e Linda, a quanto pare, battono tutti gli altri per qualità, durata e purezza.
Eccola, la storia. Di quelle che durano una vita intera, finché la malattia… Ma alzi la mano chi
pensa che se Linda Eastman non avesse perso la sua battaglia contro il cancro i due avrebbero
posto fine al matrimonio volontariamente. Impossibile.
Si incontrano per la prima volta nel 1967 a un concerto di Georgie Fame, mentre Linda è
impegnata in un servizio fotografico sui musicisti della Swinging London. Tra i due è subito intesa
e se di mezzo non ci fosse il complesso più famoso del pianeta e uno degli scapoli più ambiti del
Paese le cose risulterebbero certamente più semplici.
Ma al giovane Paul piace flirtare (anche all’anziano Paul, in verità). Per circa quattro anni non
disdegna la compagnia della facoltosa attrice Jane Asher. È lei a offrirgli un tetto all’inizio della
loro storia ed è sempre la tenace Jane a scoprire l’amato a letto con una nuova fiamma. Francie
Swartz, Frannie per gli amici, è un lampo nella vita di Paul, nemmeno il tempo per una canzone.
Jane invece ispira eccome McCartney, che le ha dedicato brani come And I Love Her, You Won’t
See Me, I’m Looking Through You e soprattutto Yesterday.
Terminata la tempesta, compare Linda, come un sole che a detta dello stesso Paul gli dona la
forza e il coraggio di riprendere a lavorare dopo la rottura dei Beatles. Linda entra in scena in
punta di piedi, senza smorfie né clamore. La severa ragazza dell’Arizona va sulle copertine senza
un filo di trucco, elegante, naturale. Non si piazza davanti all’obiettivo, né grida davanti a un
microfono come chi da tempo fa tanto innervosire Paul, l’artista fluxus, la compagna dell’amico
John che proprio non sa stare in disparte, neanche durante le ultime registrazioni dei Beatles. Nel
corso delle session del White Album è lo stesso Paul a suggerire un nomignolo per Yoko Ono,
investendola dell’infelice titolo di Jap Tart. Linda, invece, quasi si trova in imbarazzo sotto i
riflettori, preferisce starne dietro e scatto dopo scatto, passo dopo passo, eccola che s’infila come
un’anguilla sotto al braccio di Paul. E non lo molla più.
Le tessere del puzzle sembrano andare tutte a posto: la tranquillità, l’equilibrio, la carriera.
Dopo il matrimonio con Paul avvenuto nel 1969, Linda diventa una fotografa professionista del
rock’n’roll. Immortala Aretha Franklin, Jimi Hendrix, Bob Dylan, Janis Joplin, Eric Clapton,
Simon & Garfunkel, Who, Doors, Rolling Stones. E i Wings. La fine dei Beatles segna il debutto
della nuova band di McCartney, che da Linda preferisce non separarsi e che per questo decide di
coinvolgerla nella nuova avventura in veste di tastierista. Voce e attitudine acerba allo strumento
non risparmiano attacchi della stampa, ma negli anni Settanta i Wings diventano uno dei gruppi dei
quali non si può fare a meno di parlare.
L’ex Beatle riscopre la sua vena creativa e alla moglie inizia a dedicare diversi brani: tra i più
celebri, My Love e The Lovely Linda. Come non struggersi sulle note di My Love? E ancora più
difficile restare indifferenti dinanzi ai filmati che li ritraggono insieme, sullo stesso palco, a
trasmettere calore con uno sguardo oltre che con la musica. C’è purezza nella loro unione e c’è
complicità, la stessa che dà stabilità alla coppia e se la corda si tende nessuno può più cadere. In
My Love Paul canta dell’amore di cui ha bisogno e non si serve di altro per fare chiarezza nelle
menti di chi ascolta, se non dell’accompagnamento di una melodia di beatlesiana memoria che mai
ci sogneremmo di definire debole o patetica.
Il mondo si accorge in fretta dell’intesa e marito e moglie non lesinano testimonianze visive
della loro privacy. Celebri le immagini che li riprendono nella fattoria in Scozia tra cavalli,
passione giovanile di Linda, e passeggiate in mezzo ai campi. Sono scatti di vita familiare: Linda
ritrae il padre dei suoi figli e riesce a renderlo splendido nonostante l’aspetto trasandato e l’aria
di chi ha appena messo piede giù dal letto. Barba incolta, montone d’annata, i bambini che
corrono all’aria aperta vestiti dei soli pigiami, come se non ci fosse distinzione tra sogno e realtà.
Come si può non provare un pizzico d’invidia per una favola che ogni giorno si svela regalando
nuovi dettagli?
L’happy end però non è contemplato, in questa storia. Abbiamo avuto tutto, ma non il vissero
felici e contenti. Linda Eastman muore il 17 aprile del 1998 nel suo ranch di Tucson. Il vuoto pare
incolmabile, soprattutto per la quantità di cose che legava la coppia, non ultimo l’impegno
condiviso in diverse battaglie ambientaliste e l’attivismo a favore di varie associazioni benefiche.
Eppure, nel 2002 Paul sposa Heather Mills, ex modella e anche lei attivista, coinvolta nella
campagna contro le mine antiuomo. E allora tutti a chiedersi se non è troppo presto, se è possibile
legarsi a un’altra donna e condividerne battaglie, certo, ma soprattutto cederle un posto nella
propria vita ricalcato a immagine e somiglianza della persona che abbiamo perduto. È lo stesso
McCartney a fornire la risposta, con una sentenza di divorzio e una lunga battaglia in tribunale.
Proprio lui, che ha sempre fatto dell’amore la sua arma più affilata, improvvisamente sembra
detestare la donna scelta quattro anni prima. La medesima durata dell’unione con Jane Asher. Un
perdonatemi, mi sono sbagliato, che quasi ci sembra di avvertire sfogliando magazine e tabloid.
E sono ancora i tabloid, nel 2007, a rendere pubblica l’unione di Macca con Nancy Shevell. Il
6 maggio del 2011 Paul annuncia l’intenzione di sposarla e il successivo 9 ottobre, giorno di
quello che sarebbe stato il settantunesimo compleanno di John Lennon, il matrimonio viene
celebrato al Westminster Register Office di Londra, lo stesso dove quarantadue anni prima Paul si
era unito a Linda. È una cerimonia sobria, questa volta, e la scelta del posto testimonia la volontà
di costruire un ponte tra le due donne più importanti della sua vita. Il capitolo Mills, il capitolo
dell’odio e della battaglia legale per un patrimonio da capogiro, è concluso e un nuovo sole
sembra aver fatto breccia nella vita di McCartney.
Comunque, chapeau Linda, perché tra dignità e savoir faire nessuno è riuscito a detestarti,
nessuna donna soprattutto, e sarebbe stato facile considerato con chi hai avuto a che fare. Per
quanto tu possa esserti imposta, quasi non ce ne siamo accorte, e se fossi ancora tra noi potresti
aprire il tuo salotto buono e tenere lezioni di bon ton per piccole borghesi o magari dotarci tutte di
un frasario degno della più astuta gatta morta. Servirebbe a noi che strilliamo dietro al nostro lui
se azzarda un’accozzaglia di stili differenti in un’unica mise mentre tu, il tuo Paul, riuscivi a
renderlo fantastico anche con le occhiaie. Certo, gli anni Sessanta sono passati da un pezzo, e al
nostro lui è improbabile che capiti di militare in una band che stravolgerà la storia della musica,
ma cara Linda non chiederci di prendere lezioni di stile da Kate Moss e Jamie Hince.

My Love – Paul McCartney & Wings (RED ROSE SPEEDWAY)


Ceranounavolta due palloncini di nome Jock e Yono. Erano legati da un amore come ne capita
uno in un milione di anni. Erano una cosa sola, gente. Sfortunauguratamente, prima avevano
avuto altre esperienze che continuavano a farsi sentire in un modo onellaltro (saicomè). Ma si
batterono contro le avversità, compresi alcuni dei loro peggiori amiciperlapelle. Essendo
innamorati, si strinsero più forte l’uno l’altro, ma i mostruosi lanciamerda vomitavano i loro
liquami e a loro ogni tanto toccava passare in lavatrice. Per fortuna questo non bastò a
ucciderli né a escluderli dai giochi olimpici. E vissero da allora speranzosi e contenti (come
biasimarli?). j.o.l.

È la fine del 1968 e sul tradizionale CHRISTMAS RECORD dei Beatles, Lp con messaggi natalizi
registrati dai Fab Four e destinati al loro fan club inglese, compare questa piccola poesia di
Lennon che ora si firma John Ono Lennon. In realtà, John non è ancora ufficialmente il signor Ono
così come Yoko non è ancora la signora Lennon; bisogna attendere i rispettivi divorzi prima di
ufficializzare l’unione. In poche righe John si unisce per la vita alla compagna, conosciuta due
anni prima, ma accanto a sé da qualche mese appena. L’8 dicembre del 1980, poche ore prima di
morire assassinato, Lennon si fa ritrarre dalla fotografa Annie Leibovitz completamente nudo
avvinghiato a Yoko, che invece compare vestita e rigida come spesso siamo abituati a vederla.
Anche in quest’ultimo caso John non è intimorito dall’intimità esibita. Tra alti e bassi, il gioco
dura fino alla fine dei suoi giorni.
La prima volta che si incontrano, John e Yoko mettono in contatto per pochi istanti due mondi
lontani. Il 9 novembre del 1966 all’Indica Gallery debutta la mostra londinese dell’artista fluxus.
Due giorni prima dell’inaugurazione, però, l’esposizione apre solo per John, che se ne va in giro
per le sale bianche di Mason’s Yard meravigliato e divertito. Lennon è invitato da John Dunbar,
marito di Marianne Faithfull e comproprietario della galleria, con lo specifico intento di
presentargli la giapponese già sulla bocca di tutti negli ambienti artistici. La reciproca curiosità
tra John e Yoko si manifesta immediatamente, ma passeranno diversi mesi prima che entrambi
decidano di approfondire una conoscenza tenuta inizialmente a freno dai rispettivi mestieri e
matrimoni.
Il 19 maggio del 1968 Lennon è solo nella sua grande casa a Kenwood. La moglie Cynthia e il
figlioletto Julian non ci sono e, dopo fiumi di inchiostro spesi in lettere, John invita Yoko
proponendole due alternative: passare la notte in bianco a chiacchierare oppure componendo
musica. Yoko propende per la seconda ed emette le sue grida caratteristiche fino al mattino mentre
John accorda strumenti, si perde in loop, sperimenta suoni e voci. Quella notte nasce il primo
disco della coppia e quella stessa notte John e Yoko capiscono di non poter fare a meno l’uno
dell’altra. Quando esce UNFINISHED MUSIC NO.1 – TWO VIRGINS, il capitolo Beatles non è ancora
concluso, e un disco che in copertina raffigura due amanti nudi non è una buona pubblicità per il
quartetto piuttosto ligio alla forma.
Il disco ha un seguito, l’anno successivo. Il secondo volume testimonia che i due fanno sul
serio e si producono ancora in urla e laceranti feedback. Il lato b contiene registrazioni effettuate
durante il ricovero di Yoko per il suo primo aborto. La foto di copertina raffigura l’episodio –
raccontato anche in No Bed For Beatle John – di Lennon costretto a dormire sul pavimento
dell’ospedale per mancanza di letti. La traccia Baby’s Heartbeat è la registrazione del battito del
cuore del bambino mai nato. John e Yoko rendono in questo modo pubblico il privato. C’è la loro
musica, ci sono le loro discutibili intenzioni, ma ciò che chiaramente attrae il pubblico è l’intimità
della coppia.
Tramontata l’era Beatles, John si libera di obblighi e costrizioni. Se prima doveva mostrarsi
sempre sorridente, ora può indossare la maschera che preferisce. Se per i primi tempi del
matrimonio con Cynthia doveva nascondere moglie e figlio, adesso sfoggia con fierezza la
compagna e ostenta il disperato desiderio di una nuova paternità.
John Lennon e Yoko Ono si sposano il 20 marzo del 1969 alla Rocca di Gibilterra. Il 7
novembre dello stesso anno regalano ai fan il WEDDING ALBUM, composto da due sole tracce
della durata complessiva di oltre quaranta minuti. Nella prima John & Yoko si chiamano a vicenda
sul tappeto dei loro battiti cardiaci, mentre nella seconda, Amsterdam, si può ascoltare un
resoconto della loro luna di miele, un singolare bed-in tenuto nella capitale olandese per discutere
di pace con i giornalisti invitati nella suite nuziale all’Hilton Hotel. Naturalmente la copertina
presenta gli sposi vestiti di bianco, mentre all’interno compaiono fotografie della cerimonia e
della torta nuziale, copia del certificato di matrimonio, commenti della stampa, un fumetto di John
e una cartolina. Se non si può ancora definire “reality”, l’esposizione Lennon-Ono vi si avvicina
molto.
Di John e Yoko giorno dopo giorno pediniamo movimenti, desideri, stati d’animo. Perfino la
loro crisi è di dominio pubblico. Nel 1973 la coppia decide di separarsi per un po’ di tempo.
Yoko resta a New York mentre John se ne va a Los Angeles a lavorare ad alcune registrazioni in
compagnia di May Pang, sua amante-assistente su specifico incarico di Yoko. Più che l’estro
creativo è la dipendenza dall’alcol a prendere il sopravvento nella vita del musicista in queste
“settimane perdute”. John definirà poi questo periodo come un esilio imposto da Yoko affinché
l’effettiva distanza contribuisse a dipanare i dubbi di ciascuno. Le settimane si trasformano in
mesi. John tornerà a casa soltanto all’inizio del 1975. Il 9 ottobre dello stesso anno, come regalo
di compleanno, riesce finalmente ad abbracciare il figlio tanto atteso.
John e Yoko cambiano nuovamente registro. Il primo sparisce dalla vita pubblica per fare il
padre, mentre la seconda resta attiva a salvaguardare nome e patrimonio comune. John e Yoko
sono tornati insieme e le celebrazioni per una nuova vita non si spegneranno più. Per cinque anni
perdiamo l’immagine dell’artista e acquistiamo quella di un padre che accompagna il figlio al
parco, gli insegna a disegnare e a tempo perso impara a cucinare il pane nel forno di casa. È un
quadro totalmente inedito anche per il primo figlio, Julian, il quale un padre che osservasse la sua
crescita non l’ha mai avuto. John questa volta fa le cose sul serio, si raccoglie i capelli in una
coda di cavallo, indossa un kimono e decide di liberarsene soltanto molto tempo dopo per le
prime uscite in sala prove.
Abbiamo delle nuove immagini, centinaia di fotogrammi che ritraggono la famiglia serena.
Certo, Kyoko, la prima figlia di Yoko, è scomparsa insieme al padre; certo, ci sono le
recriminazioni di Julian e di sua madre Cynthia; ma ancora una volta ci viene venduto il ritratto
dell’unione perfetta. Il 9 ottobre del 1980, nel cielo di Manhattan, tutti i newyorkesi possono
leggere a chiare lettere il messaggio di auguri rivolto da Yoko a John e Sean per i loro
compleanni. Il 17 novembre esce DOUBLE FANTASY, primo album d’inediti dal ritorno sulle scene
di John, che ora è pronto a riconcedersi alla vita pubblica. In questa nuova collaborazione tra
marito e moglie il contributo di Yoko appare meno concettuale, le grida vengono sostituite da
ispirazione, testi, cori. Ci sono brani d’amore che la coppia si autodedica e ci sono splendidi
affreschi dedicati a Sean.
Quando Lennon viene ucciso si ha la sensazione di assistere a una narrazione brutalmente
interrotta. È impossibile intuirne il finale, provare a immaginare sviluppi artistici e sentimentali di
una coppia che sembrava destinata a restare per sempre insieme, ma adagiata in un letto di mine.
Con la morte, inizia un culto che non permette al ricordo di sbiadire e alle persone di dimenticare.
Yoko preferisce ricalcare quel ritratto a matita, ingentilirlo dove occorre, colorarlo e stamparne
copie su copie per chiunque ne faccia richiesta. Per se stessa, ma soprattutto per il mondo intero,
assume il ruolo di vedova come si assumerebbe quello di un incarico aziendale al livello più alto.
Una missione incredibilmente redditizia e dannatamente toccante. Sean non ce la fa, per lui è
troppo doloroso parlare sempre del padre e dividerlo con chi ha avuto molto più tempo per stargli
accanto. Persino l’album di famiglia è condiviso da mezzo mondo. A Sean bastano i ricordi e
quegli abbracci destinati a lui soltanto.
Yoko è inarrestabile nella costruzione e nella difesa del proprio culto. Un culto con regole
strette, scadenze da rispettare, piani da vagliare e ogni singola parola da approvare, se legata a
John. Sei mesi dopo la morte del marito, Yoko Ono pubblica un nuovo album: SEASON OF GLASS.
In copertina sono ritratti gli occhiali insanguinati di Lennon indossati la sera del suo assassinio. È
il documento postumo di un amore che non c’è più e che Yoko tenta di salvaguardare e mantenere
vivo nel solo modo che conosce: attraverso la condivisione di umori, scelte, condizioni
impacchettate a puntino e recapitate spesso in maniera brutale, ma estremamente efficace a
giudicare dai risultati ottenuti. Poi all’orizzonte si profila un altro matrimonio per Yoko, con un
certo gallerista di origine ungherese, Samuel Havadtoy, sposato nel 1981 e lasciato ventidue anni
più tardi. Ma a questo, nella storia d’amore rock più importante del secolo, verrebbe da dare la
stessa importanza che si riserva alla forfora su una giacca di velluto nero.

The Ballad Of John & Yoko – The Beatles (HEY JUDE)


Un semplice flirt può trasformarsi nell’amore del secolo, una scappatella nella fine di un’epoca, e
le brucianti passioni possono rivelarsi casi montati ad arte, pretesti per creare storie da dare in
pasto ai giornalisti quando le domande in merito all’origine di talune canzoni si fanno pressanti.
Se poi sul piatto c’è una band più famosa di Gesù allora occorrerà un’analisi dettagliata per
capire come si sono svolti i fatti. Peccato solo che gli interessati siano i primi a cambiare le carte
in tavola; d’altronde, dare risposte diverse alla solita domanda è un legittimo passatempo.
Quante illazioni sono state fatte su ogni singolo brano a firma Beatles? Quante volte ai quattro
è stato domandato cosa abbia dato il via alle loro composizioni? Almeno tante quante ciascuno di
essi si è divertito a inventare risposte. Qualche volta siamo stati accontentati. Se di canzoni
d’amore si trattava allora non c’era niente da nascondere, bastava individuare il nome della musa
e il gioco era fatto. Le canzoni di George Harrison, per esempio: Something, I Need You, For You
Blue, tre elegie dedicate alla sua musa, Pattie Boyd. Un romanzo rosa su cui si sono spesi fiumi di
inchiostro. Poi fra i due è arrivato Eric Clapton, amico di George, e si è intromesso in un’unione
dotata di tutti i crismi del romanticismo. Un triangolo scottante, che a distanza di anni gli stessi
protagonisti hanno ridisegnato come una figura geometrica con molti più lati.
Paul McCartney ha sempre sostenuto che i Beatles fossero una specie di quadrato: togliendo
uno dei quattro angoli, sarebbe crollato tutto. Ma la figura sostenuta dai quattro angoli non era
affatto regolare e pertanto era destinata a un equilibrio precario. George Harrison aveva una
straordinaria vena creativa, esplosa in un triplo album allo scioglimento del quartetto. Era attratto
dalla religione indiana e amava il giardinaggio. E la relazione con sua moglie non era esattamente
rose e fiori. Be’, forse abbiamo attribuito troppa importanza alle canzoni d’amore, che spesso
appartengono più a chi le ascolta che non a chi le scrive.
George Harrison e Patricia Anne Boyd si conoscono nel 1964 sul set del film A Hard Day’s
Night. Pattie è una modella diciannovenne chiamata a interpretare una scatenata fan dei Beatles
dal regista Richard Lester, che l’aveva già diretta in una pubblicità televisiva. Tra la giovane e il
musicista scocca subito la scintilla. Il 21 gennaio del 1966 a Epsom, nel Surrey, con Paul
McCartney come testimone, Pattie e George si uniscono in matrimonio e scelgono le Barbados per
la luna di miele. L’anno successivo, con l’ingresso del maestro yoga Maharishi Mahesh nella vita
dei quattro musicisti di Liverpool, le prime tensioni bussano alla porta della coppia. Sono gli anni
della controcultura e della fascinazione per le filosofie orientali, e Harrison, come molti altri
artisti dell’epoca, diventa discepolo del Maharishi, guru che proprio grazie al collegamento coi
Beatles vive un periodo di grande popolarità.
Ma sono anche gli anni in cui sperimentare diventa il verbo più attuale. Si sperimenta con la
musica e con sostanze che hanno il potere di provocare alterazioni psichiche, e si sperimenta nelle
relazioni, a loro volta estremamente influenzate dalla prima e dalle seconde. Ascoltando un disco
dei Beatles da principio si ha la sensazione di leggere nel diario di quattro bravi figlioli, poi si è
tentati di credere che siano i messaggi cifrati a prendere il sopravvento e che le frasi d’amore
siano rivolte a un numero imprecisato di giovinette che sarebbe sciocco non accogliere notte dopo
notte al proprio fianco. Ma non c’è una sola sfumatura che non tenda al cangiante, in questa storia.
George ama la meditazione trascendentale e non disdegna la cocaina, è timido e riservato, non
apprezza il clamore e l’opulenza, ma appena se lo può permettere acquista un castello
nell’Oxfordshire. George è innamorato della sua Pattie, a lei dedica canzoni e attenzioni, ma
gradisce la compagnia di altre donne. E pazienza se le più allettanti sono quelle degli amici.
Tra le più vicine a George, Maureen Cox, moglie di Ringo Starr e amica di Pattie. Pare non ci
sia davvero niente di male, a patto che ognuno sia consapevole del proprio ruolo, e così il gioco
prende la mano anche a Patricia, che negli stessi anni si ritrova a letto con Mick Jagger, Ronnie
Wood e John Lennon, mentre cerca di tenere a bada l’ossessione che un altro caro amico di
George nutre per lei. Eric Clapton conosce Pattie nel 1968, quando è ancora fidanzato con la
modella francese Charlotte Martin, futura moglie di Jimmy Page. La corte di Clapton è serrata, ma
inizialmente la Boyd è restia a concedersi, almeno fino a quando non avverrà l’ennesimo scambio
di coppie alla luce del sole e Charlotte finirà tra le braccia di George per un breve flirt. Le
canzoni aggiungono ulteriori dettagli. Layla, successo del 1970 di Clapton siglato Derek & The
Dominos, è certamente una delle dediche più belle del rock. Peccato che dopo un consistente
numero di anni l’immagine dei due uomini che si sdilinquiscono per la stessa donna muti in due
compagnoni che amavano scambiarsi muse alla velocità della luce.
Nel 1974 il passaggio di consegne è ufficiale. Pattie lascia il regno di Friar Park e si unisce al
suo nuovo cantore Eric Clapton, che per lei comporrà l’hit Wonderful Tonight. La sera del 7
settembre del 1976 Eric e Pattie si apprestano a presenziare alla festa in onore di Buddy Holly
tenuta annualmente da Paul e Linda. Mentre Pattie si veste in camera da letto, Eric aspetta in
soggiorno strimpellando la chitarra. L’attesa si fa snervante e uno spazientito Clapton compone un
brano che non lo entusiasma, ma che funziona. Tutto lì. Un uomo frustrato, una donna che indugia
davanti allo specchio e una chitarra tra le mani al posto di una porta sbattuta.
Nel 1979 Pattie Boyd ed Eric Clapton si uniscono in matrimonio, ma il passato è ancora
troppo ingombrante per voltare pagina, e il copione si ripete. Pattie non riesce a dimenticare
George e rimane molto turbata dalla notizia delle nuove nozze dell’ex marito, con il quale non ha
mai interrotto i contatti. Quanto a Eric, non fa affatto mistero delle molteplici relazioni che
continua a tessere fuori dal matrimonio. I figli Ruth e Conor nascono a un anno di distanza l’uno
dall’altro, ma non sono di Pattie, che non riesce a concepire nonostante i numerosi tentativi di
fecondazione assistita. La delusione per un’unione tutt’altro che esclusiva e la dipendenza
dall’alcol di Clapton portano la coppia al divorzio nel 1989, concesso a causa di ripetute
infedeltà e comportamento irragionevole.
Oltre alle tante fotografie da lei stessa scattate, a Patricia Boyd restano le canzoni, brani
ascoltati e suonati miliardi di volte e chissà per quante persone, ma inizialmente destinati a lei
soltanto; i jeans che Clapton le regalò di ritorno da un viaggio a Miami prima di comporre Bell
Bottom Blues; l’aver ispirato una delle canzoni più amate dei Beatles, Something. Peccato che un
bel giorno George tradisca la sua musa dichiarando che il brano è in realtà dedicato a Ray
Charles. Comprensibile rettifica, in fondo: si tratta pur sempre di un uomo piantato per il suo
migliore amico. E anche se ai tempi si liquidava il dolore con un’alzata di spalle, persino l’epoca
più indulgente non è immune dal senno di poi.

Something – The Beatles (ABBEY ROAD)


Questa è una storia al contrario, con un finale vero e lieto. La favola no, quella termina nel
peggiore dei modi, forse perché di favola non si è mai trattato. Di favola c’è stata solo quella che
per anni la protagonista si è ostinata a raccontarsi. Per andare avanti, per trovare una
giustificazione agli occhi blu del principe, non quelli a cui ci si riferirebbe in una fiaba qualsiasi.
Qui gli occhi blu sono quelli pesti di una donna che finché ha vissuto a fianco del suo bellimbusto
non ha mai lasciato la torre del castello. Ci ha provato, ma ad attenderla sempre e soltanto zucche,
promesse non mantenute, abiti che avrebbero smesso di brillare al di fuori del regno, sorrisi di
plastica, un racconto del terrore da cui svegliarsi appena l’autostima avesse bussato alla porta e
tutte quelle dannate dicerie sull’uomo giusto con cui fuggire avessero fatto il loro corso.
Cosa c’è di peggio dell’essere intrappolati in un cattivo matrimonio? Sapere che da quella
affrettata unione dipende anche la propria carriera e che per il resto del mondo il suo peso è
infinitamente più interessante della somma delle singole parti. Fine dei giochi, tanto vale
sopportare e rassegnarsi a una vita di soprusi, piuttosto che gettare all’aria tutto quello per cui si è
speso tempo ed energie. Nella seconda metà degli anni Settanta per Ike e Tina Turner restare
insieme a riflettori accesi e nelle retrovie delle camere d’albergo è routine consolidata, l’unica
soluzione di comodo, per Ike soprattutto, che senza la moglie sembra non captare più i segnali che
i tempi impongono. Ma all’ennesima lite, consumata proprio in una stanza di hotel, Tina Turner
sente il dovere di allontanarsi per sempre dalla musica, dalle mani, dalla voce di un uomo che da
tempo ha smesso di incantare.
Quando alla fine degli anni Cinquanta Anna Mae sale per la prima volta sul palco dei Kings of
Rhythm, è poco più che una ragazzina. Non ha la minima idea che il leader di quella band per
circa due decenni le porterà via ogni cosa in cambio del solo nome. Prima della sottrazione, per
Tina Turner c’è una somma persistente di possibilità e carriera. O meglio, sogni. Quelli che non ha
mai avuto tempo di fare da bambina, che per un po’ sembrano a portata di mano persino per chi
come lei non ha fatto mai tanto per guadagnarseli. Ora è tutto lì, su un palco illuminato a giorno,
dietro a un microfono che amplifica una voce trattenuta a lungo, all’ombra di un uomo che ha tutta
l’aria di chiedere indietro i doni che elargisce.
Ma questo Anna Mae, quando sale su quel palco, non può saperlo. La giovane vede solo un
uomo che piace alle donne e che ci sa fare con la chitarra. Ike Turner è posseduto dalla propria
musica, fa ondeggiare il suo strumento, lancia in aria la gamba e tutto prima che un certo Jimi
Hendrix accenda le masse. Naturale che le più giovani impazziscano per questo spilungone
indiavolato. All’inizio Anna Mae del Tennessee prende le cose molto seriamente, o solo con molta
ingenuità se pensa che condiscendenza e disciplina siano i soli vincoli ai quali attenersi per fare
parte della band. «Eravamo amici, tutto qui, amici per la pelle. Ike mi faceva sentire importante. E
quel tipo di sicurezza era una base solida per me, per la prima volta in vita mia: una sorta di
affetto familiare».
Può succedere di scambiare tranquillità per affetto, desiderio per amore. Capita a una donna
che una famiglia vera e propria non l’ha mai avuta, né conosciuto le ginocchia di un padre
presente anche soltanto per spiegarle la differenza tra giusto e sbagliato. E Tina sbaglia, sbaglia ad
affidarsi completamente a un uomo che ha già stipulato nella sua testa un contratto ben più
costrittivo di quello matrimoniale. Ike e Tina Turner prima di andare oltre quell’amicizia, prima di
condividere lo stesso letto, rappresentano un investimento da svariate migliaia di dollari per il suo
creatore, quel successo che profuma di bigliettoni, dischi in classifica e favola a buon mercato da
rivendere al pubblico. Ike e Tina Turner sono un marchio che deve restare impresso e avere
accesso alle case degli americani ad ogni ora del giorno e della notte.
«La prima volta che sono andato con lei ho avuto l’impressione di scopare mia sorella o roba
del genere». Si sacrifica anche Ike per la fama, lui che è già sposato e ha già uno o forse due figli
da qualche parte ancora attaccati al seno della madre. Ike ha disperatamente bisogno di una bella
storia da dare in pasto ai suoi fan. Lo fa nel 1962, mettendo nelle mani di Tina un figlio suo e un
certificato di matrimonio di dubbio valore legale, ma tanto basta per sancire un’unione che già
dietro al primo hit nasconde burrasca. A Fool In Love lancia il duo in classifica, ma insieme alla
fama ecco svelate una volta per tutte le regole di casa. Si fa come dice Ike e se Ike non lo ammette
non esiste divertimento, collaborazione, onestà, ma lavoro, obbedienza e botte. Botte a
prescindere, tanto per ricordare chi comanda e a chi spetta la ricompensa. A un padrone che
baratta in fretta la fede per un bastone.
A Tina non gliene importa un accidente del denaro e delle belle case, a Tina importa starsene
in pace e non dovere rischiare la salute per macinare miglia e concerti. A Tina basterebbe una
casa nella quale tornare e conservare un’oncia di complicità con il suo uomo. Eppure, appena le
cose iniziano a girare bene sul lavoro, Ike non ammette replica. «E così succedeva che avessi
sempre un occhio nero e un taglio su un labbro. Ike mi picchiava con qualsiasi cosa gli capitasse a
tiro. E poi faceva l’amore con me. Era una tortura, pura e semplice». Come se non bastasse, alle
percosse fisiche si aggiungono le umiliazioni, in pubblico, nel privato, davanti ai figli o agli
amici. Il cattivo ragazzo del Mississippi non perde occasione per circondarsi di donne, fare sesso
con loro e cercare di trascinarle nella cerchia affinché si curino dei suoi affari. Tina si aggrappa
all’orgoglio, a una fedeltà che cerca assurdamente di preservare, lotta con le rivali che incontra
sulla propria strada, capisce di avere molto in comune con loro e ne diventa amica.
L’amicizia è l’unica cosa che le resta quando si accorge della catena corta intorno al collo. E
la fedeltà, a se stessa e al suo matrimonio, perché in fondo non le interessa affatto riprovarci con
chi potrebbe rivelarsi l’ennesimo padrone. Ma intorno alla metà degli anni Sessanta un ometto di
nome Phil Spector e un gruppo del calibro dei Rolling Stones contribuiscono a renderle più chiare
le idee, quanto meno nell’industria musicale, perché là fuori è indubbiamente lei la stella più
luminosa del duo. A lei la voce graffiante, le movenze sexy, l’energia dilagante. È Tina che tiene il
passo coi tempi, è Ike che da quando ha scoperto la cocaina non riesce più a scrivere qualcosa di
originale o a preferire almeno un taglio di capelli alla moda. L’Inghilterra apre gli occhi gonfi di
Tina Turner e per la prima volta le propone uno stile di vita distante anni luce da quello
conosciuto finora.
Ma l’America non ha ancora esaurito la dose di polvere per la sua stella. Polvere bianca sui
quei tavoli su cui è sempre più facile cadere e poi il solito carosello di botte e infedeltà. In mezzo
persino un tentativo di suicidio, pagato presto con nuovi insulti per le date cancellate a causa del
conseguente ricovero. «A quel punto le cose si erano messe proprio male. Ike diventava sempre
peggio. Non si poteva mai sapere per quale ragione ti avrebbe picchiata, lo sapeva solo lui. La
sua vita consisteva in questo: ti picchiava e ti scopava e discuteva e litigava, poi andava a suonare
la sua musica. E a me quella sua musica malinconica neppure piaceva». Forse è davvero la musica
il campanello d’allarme di Tina. Come rimanere legata a un uomo la cui musica ripugna? È il
disprezzo che ha la meglio sulla paura, l’odio che vivifica la ragione. È arrivato il momento di
fare le valigie.
Tina Turner raduna più volte figli e cose per uscire per sempre dalla vita del marito. Ma con
le cattive, ogni volta, lui è lì per riportare tutti a casa. Sono gli anni Settanta, la liberazione del
corpo della donna sembra cosa fatta, eppure c’è chi come Tina è costretta a girare armata per
proteggersi da un pessimo matrimonio. Quando finalmente si arriva in tribunale, si è di nuovo a un
vicolo cieco. Il padrepadrone non intendere retrocedere di un solo metro. Tutto gli appartiene, ma
non la libertà della donna che lo ha portato davanti al giudice. Il divorzio viene sancito nel
novembre del 1977, ma diventa effettivo solo il 29 marzo del 1978. Tina ha rinunciato ad ogni
bene materiale, ma non al suo nome, quello per cui ha lavorato al limite delle proprie possibilità.
Tina ha pagato il suo debito, sempre che ne avesse contratto uno. Si è diplomata all’accademia
di Ike, ha seguito con diligenza ogni lezione e gli ha regalato il suo sogno di celebrità. È stata una
moglie fedele, per sedici lunghi anni non ha mai permesso a nessun altro uomo che non fosse suo
marito di sfiorarla. Ha cantato le sue canzoni, persino quelle che le sembravano insignificanti. Ha
tenuto per sé opinioni e desideri e ha dato solo il meglio. Quando si sveglia dal suo matrimonio,
da una favola che mai è stata tale, di anni Tina ne ha ormai quaranta, ma la voglia di sperimentare
e di cercare una strada solo sua non è mai stata così urgente. Un celere cambio di trucco e
parrucco, una rapida inversione di marcia e persone esperte alle quali affidarsi consacrano Tina
Turner, agli inizi degli anni Ottanta, regina del rock pronta a tirare in ballo diverse generazioni. I
più giovani il nome di Ike nemmeno lo conoscono.

A Fool In Love – Ike & Tina Turner


In una delle storie d’amore più romantiche e rappresentative di tutta un’era, la protagonista è
soltanto una: la poetessa confessionale che mette in musica le sue emozioni senza pentirsene. Se il
pubblico impara a conoscerti attraverso le tue opere, allora tanto vale fornire più informazioni
possibili. Stiamo parlando di una donna che vive, scrive e si comporta come un uomo, ovvero il
massimo complimento per un’interprete femminile. Una donna talentuosa, arguta e decisa che
riesce a condividere il gradino più alto del podio insieme a Bob Dylan, Leonard Cohen e Neil
Young, nonostante ci sia sempre qualcuno pronto a confondere libertà e indipendenza per una
natura scostante e dissoluta. Joni Mitchell in poco tempo diventa una stella del folk, si arricchisce
scrivendo canzoni che una folta rosa di musicisti smania per interpretare, non abbandona la sua
vita bohemienne nella Los Angeles altoborghese e soprattutto non si accontenta dei propri successi
e della propria vita sentimentale.
Quando alla fine degli anni Sessanta Joni decide di comprare casa a Laurel Canyon, il cuore
del mondo hippie dell’epoca, ha già avviato una carriera come autrice. Per riuscire nel mestiere
che si è scelta ha dovuto abbandonare presto la famiglia, un marito che le ha lasciato un cognome
e una figlia che non si è sentita di crescere. Joni conosce bene il gusto di una scelta e sa bene che
vita domestica e carriera mal si conciliano. La musica viene prima di tutto, quelle canzoni che
raccontano scampoli di vita, perché se è vero che a raccontarsi a voce prevalgono pudore e
riservatezza, attraverso i dischi si può tracciare una mappa affettiva più schietta e sciolta. È tutto
lì, poi si può decidere di tenere qualcosa per sé o di forzare laddove il brano necessiti di una rima
o di una chiusa, ma sempre di quotidiano si tratta. Le canzoni di Joni Mitchell parlano degli amori
che si lasciano, perché su quelli che si trattengono c’è davvero poco da dire. E comunque, quanti
hanno la forza per restare accanto a una donna che ha scelto di vivere on the road?
Come spesso accade, ciò che alla lunga mette a rischio un rapporto è quel che all’inizio gli fa
da collante. Joni Mitchell è una donna libera che richiama a sé un numero spropositato di musicisti
attratti dall’arte e dalla condivisone. È proprio quello che cerca la bionda canadese, qualcuno con
cui dividere la passione e il tumulto che il processo creativo comporta. Con alcuni amici della
West Coast, Joni si è già confrontata positivamente. All’inizio sono in tre, saltuariamente si
aggiunge un quarto, e allora basta sommare un cognome e la sigla è definita: Crosby, Stills, Nash
& Young. La Mitchell è inizialmente amica di Neil Young, poi conosce David Crosby e ne rimane
affascinata. I due iniziano a suonare e a vivere insieme, ma di tanto in tanto Graham Nash si unisce
a loro e così ne nasce un buon terzetto. Iniziano le magiche danze che prevedono repentini e
gioiosi scambi di partner. Joni non perde mai di vista la musica, è la prima a suggerire agli amici
di mettere su un gruppo, ed è anche la prima ad accorgersi che gli occhi di Graham possono
rivelare molto più di quanto la sua bocca non dica.
Alla fine del 1968 Joni si stacca da Crosby per aprire la porta a Nash. Insieme esplorano uno
stile di vita adulto, basato sull’uguaglianza e la comunione di arte, musica, amici. Si lasciano
indietro il passato e provano a intraprendere un viaggio nella stessa direzione. Sarà un cammino
bucolico e iscritto nei tempi: l’immagine della coppia a bordo di una barchetta mentre approda al
Mariposa Festival nell’estate del 1969 ci restituisce appieno i contorni dell’epoca. E quando non
bastano i racconti e le istantanee, ci sono la canzoni. In questa storia ogni personaggio coinvolto
scrive ed è suo malgrado protagonista di brani altrui. Joni compone per il suo uomo Willy, una
canzone d’amore che già contiene un presagio di fuga e sconfitta. Nash scrive Our House, un
leggiadro ritrattato di armonia domestica. Anche Crosby scrive un brano che sembra ricalcare il
triangolo iniziale; si intitola Guinnevere e pare sia la sua risposta a un altro pezzo della Mitchell
ispirato a David, The Dawntreader.
È un periodo assai fecondo per tutti, un idillio che sopravvive nella memoria e nelle canzoni
degli interessati. L’ultimo supergruppo degli anni Sessanta nasce così, attorno a un fuoco, nel
soggiorno di una casa di tronchi rivestito di assi di pino, tessuti e pezzi di antiquariato. Nel 1969
Joni è in tour con Crosby, Stills, Nash & Young e sul palco alterna brani scritti per l’ex marito,
come I Had A King, a quelli dedicati ai suoi nuovi compagni di scena. Ad agosto la
partecipazione a uno show televisivo le impedisce di raggiungere gli amici a Woodstock; se ne
resta a casa e compone quello che poi diverrà l’inno del festival: Woodstock, appunto. Il brano
finisce l’anno successivo nell’album LADIES OF THE CANYON. Dopodiché, il ciclo incredibilmente
vivo e fertile si interrompe.
Joni sparisce per quasi un anno senza lasciare traccia. Quando ricompare lo fa ancora una
volta con un disco, BLUE, che pesa come un mattone sull’esistenza della cantautrice e che svela
traccia dopo traccia che cosa le è accaduto. Le atmosfere dell’album ricalcano quelle di una storia
d’amore agli sgoccioli. L’estate precedente Joni e Graham, prima di un concerto al Fillmore East,
hanno deciso di interrompere la loro storia. Quello stesso giorno, Nash aveva scritto Simple Man
per dare la sua versione dei fatti. Joni si è presa un po’ di tempo per chiarirsi le idee, ma
all’uscita di BLUE evidentemente non c’era ancora riuscita. I brani sono in bilico tra il vecchio
amore, Graham Nash, e il nuovo, James Taylor. Un altro musicista, e non potrebbe essere
altrimenti se è sul palco che si trascorre la maggior parte del proprio tempo. Joni inizia a suonare
in giro con Taylor, ma oscilla come un pendolo tra passato e presente. E alla fine opta per
un’amicizia col passato e un flirt col presente.
In BLUE la sicurezza e la tranquillità domestica si riflettono in canzoni come My Old Man e
California, dedicate alla relazione con Nash, mentre la novità e l’eccitazione esplodono in Carey,
impregnata di James Taylor. Nel testamento emozionale di Joni non mancano comunque l’ex marito
Chuck Mitchell e Leonard Cohen. BLUE spazza via definitivamente i giorni di Laurel Canyon.
Graham Nash scappa con una ragazza amata da Stephen Stills. Poi, dopo una temporanea
separazione, il supergruppo si riunisce e ricomincia proprio dai brani di Joni. Ci sono legami
invisibili che non si possono spezzare, non importa quanto sanguinosamente ci si scontri. Accade
tra fratelli, dice Nash, e può capitare tra ex amanti che scelgono la via dell’amicizia per non
perdersi. E si ritrovano, in tour, in scena, in studio. Crosby, Stills, Nash & Young e Joni e James
Taylor. Non senza sofferenza, il rock’n’roll sembra avere la meglio su tutto.
Anche se l’amore finisce, il lato creativo della relazione può continuare a espandersi. Succede
a Joni, che non smette di scrivere canzoni e dipingere quadri, e succede a Nash, che alla musica
affianca la fotografia. Nel 1972 Jackson Browne prende il posto di James Taylor in tour e nel
cuore di Joni, che alla nuova fiamma dedica Woman Of Heart And Mind. È una cometa che dona
luci e ombre al cielo della Mitchell, senza intaccarne in alcun modo la libertà. Certo, sarebbe
bello sentirsi liberi a fianco della stessa persona per diversi anni nella stessa casa, ma si
rischierebbe di non avere più nulla da dirsi. La dipendenza emotiva e quella artistica, specie per
una donna, non possono coesistere. Se è una scelta che occorre fare, allora Joni l’ha fatta e vi ha
tenuto fede fin dall’estate in cui ha preso il controllo di quella barchetta. L’estate del 1969.
L’estate dell’amore.

Willy – Joni Mitchell (LADIES OF THE CANYON)


A certe donne basta sognare, immaginare l’incanto perfetto, ci si abitua fin da bambine. Una
fantasia elastica e amorevole fa parte del kit di sopravvivenza per ragazze che saranno prese o
prenderanno all’amo. Una dote tra i lombi spinge le astute giovinette a interessarsi di individui
apparsi nei loro sogni umidicci. Né principi né cavalieri, ma fantasie puberali. Al risveglio il letto
potrà non essere cosparso di rose.
Se si desidera tanto qualcosa o qualcuno, bisogna fare il possibile per impossessarsene. Non è
contemplato accontentarsi, e solo una volta raggiunto l’obiettivo sarà possibile valutare la
conquista e decidere se tenerla o voltare pagina. Non avere rimpianti o rimorsi non è ugualmente
garantito, ma almeno non mancherà una storia da raccontare ai nipoti o in un memoriale pubblico.
Se poi ci viene incontro un’epoca propizia, potremmo anche illuderci di aver partecipato a un
momento irripetibile, in cui le inclinazioni hanno avuto la meglio, si sono concentrate e hanno
trovato il terreno adatto per dialogare. Persone ricche di talento o armate di una sola idea si sono
date appuntamento, al termine del quale hanno compreso cosa sarebbe rimasto e cosa invece
sarebbe svanito.
Pam è un’adolescente come milioni al mondo e sogna idoli rock in cameretta. Dalla sua parte
ha un calendario favorevole, e le coordinate geografiche sono ideali per uscire di casa e scegliere
a che gioco giocare. Il sole della California fa venire in testa strani pensieri e il resto lo fa la
musica, che a metà degli anni Sessanta la farà girare forte su una giostra colorata, stuzzicante e
primitiva. A Pamela Ann Miller non basta guardare i musicisti che adora appesi alle pareti della
sua stanza e così decide di andarsene in giro per concerti e club e capire se quelle persone sono
realmente in grado di trasmetterle emozioni. I turbamenti della piccola Pam si chiamano Paul,
Mick, Jimmy; per verificare se fanno sul serio non resta che mettersi sulle loro tracce.
Nel 1969 Pamela non sa ancora cosa fare della sua vita, ma sa che gli ultimi anni sono stati
fantastici. Ha vissuto al centro di una scena e se l’è cavata egregiamente nonostante gli scarsi
mezzi a disposizione. L’incontro con Frank Zappa le è valso un nuovo indirizzo e persino un disco
con una band tutta al femminile, le GTOs. Sette ragazze scatenate che si agitano sopra e sotto il
palco ai concerti e spesso nei camerini sono uno spettacolo che in studio viene orchestrato da
Zappa, e la cosa avrebbe avuto seguito se la follia, ma soprattutto la dipendenza dalle sostanze più
in voga del periodo, non si fossero messe in mezzo. Miss Pamela si muove dove e come vuole,
peccato che come molte coetanee si trovi a dover fare i conti con quella dannata voglia di
sistemarsi. E di bravi ragazzi, in quell’ambiente, nemmeno l’ombra.
Nell’estate dell’amore il cuore di Pamela ha già subito diversi contraccolpi. Ogni volta si
chiede se durerà e ogni volta i suoi amanti canterini realizzano di non potersi fermare troppo a
lungo in un porto solo. Poi arriva lui, uno dei chitarristi più in gamba e sensuali dell’intera scena
rock. Girano strane voci di perversione sul suo conto, per questo Pamela è stupita nell’apprendere
che al suo arrivo a Los Angeles il chitarrista dei Led Zeppelin ha chiesto espressamente di lei.
L’americana ha un viso angelico e il cuore palpita alla velocità della luce. Quanto all’inglese,
oltre ad avere una passione per frustini e biancheria di pelle, pare sia terribilmente affascinato
dall’occultismo di Aleister Crowley, uno dei principali esponenti di un certo satanismo.
A pochi giorni dal primo invito, Miss Pamela si getta tra le braccia di uno dei musicisti più
ambiti del tempo. In giro c’è molta concorrenza. Se fino a qualche anno prima le ragazze
conservavano un po’ di pudore, i Sessanta hanno sciolto le redini a miriadi di giovani donne che
ora non vedono dove sia il problema nell’accostarsi intimamente al ragazzo – o ai ragazzi – dei
propri sogni. Si chiamano groupie: alcune sono fiere di esserlo, altre trovano il termine riduttivo.
Interpretano il ruolo come missionarie e si riconoscono un’importanza enorme nella musica rock.
Ma tra di loro c’è chi desidererebbe molto di più che una semplice libertà di scelta. Accetterebbe
di buon grado la monogamia in cambio di un anello o di una promessa, perché farsi notare al
fianco di un famoso musicista è entusiasmante, ma essere presentate come dame ufficiali fornisce
privilegi che nemmeno l’olimpo potrebbe garantire.
È proprio questo che Pamela desidera dalla sua relazione con Jimmy Page, e quando nel mese
di agosto il rapporto tra i due ha inizio i momenti vissuti insieme sono talmente intensi che più di
una volta il pensiero di trasferirsi in Inghilterra le fa compagnia. Arrivano regali, telefonate attese
da uno Stato all’altro e notti di passioni così dense da meravigliare anche gli altri membri della
band, che a quanto pare non hanno mai visto il loro chitarrista con la stessa donna per più di tre
notti di seguito. Quando Jimmy non c’è, Pam trascorre il tempo a confezionargli camicie
sfavillanti. Attende vicino al ricevitore, continua ad andare ai concerti, e quando Mick Jagger le
mette gli occhi addosso fa di tutto per non cadere nella rete. L’estate è finita da un pezzo e anche i
raggi più infuocati si sono fatti più radi tra Pam e Jimmy. I primi giorni di novembre il musicista
inglese se ne torna in Inghilterra senza lasciare promesse né pegni da infilare al dito di Pam. E
Pam ancora una volta si ritrova con un pugno di mosche; allora, decide di accettare la corte delle
labbra più sexy dello show business.
La bionda californiana è ad Altamont il 6 dicembre del 1969, quando un concerto gratuito dei
Rolling Stones si trasforma in tragedia a causa dell’uccisione di un ragazzo per mano di un
motociclista degli Hell’s Angels, assunti con troppa leggerezza come responsabili della security.
Quella che dai più verrà considerata la notte che sancisce la fine dei sogni di pace e amore di
un’intera epoca, per la ventunenne Pamela è soltanto un’occasione per stare accanto alla sua nuova
conquista. Peccato che quella notte i desideri di Mick comprendano anche Michelle Phillips dei
Mamas & Papas, e se c’è una cosa che Pam non ha ancora imparato è spartirsi la preda con altri.
Ma il cuore della giovane batte verso l’Inghilterra e le palpitazioni aumentano quando il 22
dicembre le giunge inaspettata una collana che magari non si può infilare all’anulare della mano
sinistra, ma se non è un pegno d’amore quello…
Il 9 gennaio del 1970 i sogni di Pamela fanno posto alla realtà. Al party per il suo
ventiseiesimo compleanno, Jimmy Page conosce una giovane modella di nome Charlotte Martin,
accompagnata dalla sua amica Heather, compagna di Roger Daltrey degli Who. Charlotte non è
nuova dell’ambiente, ha vissuto tre anni d’amore con Eric Clapton, prima che Pattie Boyd
decidesse di lasciare il marito George Harrison proprio per Slowhand. Ma queste cose possono
accadere: lo sa bene Charlotte, che dopo quattro giorni si ritrova al braccio di Jimmy, e lo sa bene
Pam, a cui bastano pochi ritagli del «Melody Maker» per intuire che oltreoceano c’è una nuova
signora Page. È bionda, affascinante, ha il suo stesso sguardo incantato e malinconico, ama i
vestiti colorati, ma non è forse questo il ritratto di altre decine di ragazze amate da Jimmy? Questa
volta però è diverso e Pamela sa anche questo. Charlotte Martin sarà la sposa di Jimmy per oltre
dodici anni. Pam dovrà attendere qualche tempo prima di intrecciare il suo destino con con quello
dell’uomo che le cambierà abitudini e cognome, Michael Des Barres.

Miss Pamela’s First Conversation With The Plaster Casters Of Chicago – The GTOs
(PERMANENT DAMAGE)
Il protagonista maschile di questa storia è probabilmente la stella del rock più eccitante che abbia
mai brillato su un palcoscenico. Una luce costante e un’energia sessuale direttamente
proporzionale al volume della sua emissione vocale hanno catalizzato per oltre un decennio
l’attenzione di migliaia di uomini e donne tra Europa e Stati Uniti. La sex machine risponde al
nome di Robert Anthony Plant, dal 1968 al 1980 voce stridula eppure seducente dei Led Zeppelin.
Il cantante non è però l’unico a esercitare fascino e turbamento sul pubblico. Di fianco a lui, il
chitarrista Jimmy Page è dotato di un’aura che non ha pari nel panorama rock del periodo, un
misto di innocenza e ambiguità, un giovane dall’aspetto angelico sulle cui passioni è calato un
velo di mistero.
La carriera dei Led Zeppelin è punteggiata da una miriade di voci e aneddoti. Sui
comportamenti di almeno tre dei quattro componenti del gruppo esistono strane e degeneri
leggende. C’è la passione per l’occulto di Page, la follia e l’alcolismo del batterista John Bonham,
conosciuto anche col nomignolo di Bestia per la propensione a perdere il controllo, e poi c’è
Plant il doppio, che ha in sé due personalità distinte. Se da una parte è il poeta visionario intriso
di tradizioni celtiche, il suo contraltare è rappresentato da un uomo brusco che non rifugge i vizi
concessi alla sua professione, a cominciare dalla parata di giovani fanciulle che ogni sera, a
margine del concerto, lo ricoprono di promesse d’amore e favori sessuali, ai quali Plant e il resto
della band conferiscono una nuova e mitica liturgia.
Robert Plant si affaccia all’olimpo come dio del rock e del sesso appena ventenne e tutto
quello che fa è assecondare la propria natura di mortale a cui sta per schiudersi un mondo
incantato. L’anno è il 1968 e subito dopo la pubblicazione dell’album di debutto, i Led Zeppelin
partono per un tour negli Stati Uniti. Sarà il primo di una lunga serie che vedrà la formazione
britannica osannata oltreoceano e accolta da un tiepido interesse al ritorno in patria.
Un’ambivalenza che non può fare a meno di riflettersi anche sulla vita di Plant, il quale, prima di
prendere il volo per l’assolata California, sposa quella che da due anni è la sua compagna e che
da poche settimane lo ha reso padre. Maureen Wilson conosce Robert a un concerto di George
Harrison, è di origini indiane e può mantenere Plant in attesa che questi inizi a portare a casa
qualche sterlina. Si sposano il 9 novembre del 1968, ma la notte di Natale dello stesso anno Plant
è già abbagliato dalle bionde californiane che, grazie a temperature tutt’altro che rigide, si
concedono abiti leggeri e trasparenti.
Comincia qui la doppia vita di mister Plant: devoto padre di famiglia al rientro dai lunghi tour
e principe della depravazione sui palchi e nei backstage. Mentre Maureen se ne sta in una fattoria
nelle campagne del Galles insieme alla figlioletta, dall’altra parte dell’Atlantico c’è un uomo che
indossa pantaloni sempre più attillati e camicie sempre più sbottonate e agita i lunghi riccioli
biondi come un indemoniato. Dopo ogni show di tre ore, un altro tipo di spettacolo contribuisce ad
alimentare la leggenda della band. Maratone di sesso, feste orgiastiche, lunghe notti votate allo
stordimento con droghe, alcol e groupie di tutte le età che aspirano a diventare le elette per entrare
dall’ingresso principale sotto al tendone dei Led Zeppelin.
È forse la nostalgia di casa a provocare tutto questo. Pare che Plant si lasci spesso andare a
confidenze riguardo l’effettiva mancanza della propria compagna in tournée, ma è anche cosciente
di come le cose riescano a funzionare così bene al suo ritorno proprio in virtù delle lunghe pause
di piacere. Maureen è il molo sicuro a cui attraccare. Il frontman dei Led Zeppelin ritorna nella
sua proprietà bucolica e compone Thank You, suo primo brano integralmente autografo, e lo
dedica alla moglie. È una dichiarazione di devozione incondizionata, rigonfia di frasi zuccherose
per incartare un pacchetto pieno di scuse, una romantica ballata che inneggia all’amore coniugale
e rappresenta a pieno titolo la dicotomia di Plant. Nello stesso disco trova posto Whole Lotta
Love, il manifesto carnale della band, messo in scena ogni sera dallo stesso Plant tra mugugni,
versetti e posture sul palco che lasciano poco all’immaginazione.
Il sentimento per Maureen non è mai messo in discussione per tutta la durata del matrimonio e
dell’unione della band, che incredibilmente collimano. Nel mese di giugno del 1973 il cantante
dichiara al «New Musical Express» che non desidera la presenza della moglie in tour perché non
è quella la vita che si sente di offrire a una signora con un pargolo dato alla luce da pochi mesi.
Gli orari non coincidono e non riuscirebbe ad assicurare alla moglie un giro di shopping. Plant
sacrifica la famiglia in cambio di amore mercenario, basta solo che la stampa non ci ficchi il naso.
Occorre metodo, e così l’intero gruppo, dopo l’abbuffata dei primi tour, si circonda di ragazze
fisse. Sono le cosiddette mogli americane, donne rassegnate a pazientare in attesa di potersi
immolare all’altare della propria concupiscenza.
La moglie americana di Robert si chiama Michele Overman. È una modella dai lunghi e sottili
capelli d’oro. È dedicato a lei il brano più soleggiato e meno aspro del quarto album dei Led
Zeppelin, il capitolo più oscuro della discografia della band, conosciuto tra i fan con il nome di
Zoso; in Going To California filtra qualche raggio, tanto per ricordarsi della giovane groupie che
assolve il suo compito con gioia, occhi pieni di tenerezza e un fiore tra i capelli. Solo che
Maureen non ce la fa più ad aspettare l’estate, e quando decide di andare alla ricerca del suo
uomo lo trova coinvolto in un’altra storia clandestina ben più ardita. Questa volta Robert Plant è
rapito dalla sorella minore di Maureen, sottaciuto idillio in corso da diverso tempo e siglato fin
dalle prime note di un altro brano dei Led Zeppelin, What Is And What Should Never Be. Michele
se ne torna in America e aspetterà oltre vent’anni per vedere nuovamente Robert in tour con Page,
alla fine dei Novanta.
Il matrimonio tra Robert e Maureen si piega ma non si spezza. Prosegue nel 1975 dopo un
terribile incidente stradale che porta la donna tra la vita e la morte e l’uomo sulla sedia a rotelle
per settimane. Supera il decesso del figlio maschio nel 1977 per un arresto respiratorio e passa
indenne anche attraverso l’ultimo tradimento di Plant, consumato platealmente e immortalato in
un’altra canzone, Hot Dog, dall’album del 1979 IN THROUGH THE OUT DOOR. Robert presenta il
brano come un omaggio al Texas e in particolare alla sua amante texana Audrey Hamilton. La vera
luce alla fine del tunnel porta comunque il nome del terzo figlio di Robert e Maureen: Logan
Romero. Ai Led Zeppelin, però, manca il felice epilogo: la morte in un sonno alcolico del
batterista John Bonham sigla di fatto la fine della band. I titoli di CODA, ultimo capitolo
discografico, sfilano nel 1982. Lo stesso anno, anche le strade di Maureen e Robert si dividono.

Thank You – Led Zeppelin (LED ZEPPELIN II)


Che sia di anni o di una sola notte, è davvero la durata a connotare l’importanza di una relazione?
Ci sono storie da meno di ventiquattro ore che impieghi una vita a scrollarti di dosso. Se poi
quell’unico appassionato incontro ha dato vita a una creatura innocente, di quella notte sarà
impossibile dimenticare persino il numero delle noccioline sgranocchiate prima di salire in
camera e lasciarsi andare a carezze e bicchieri.
È andata così. La splendida playmate-groupie-modella Bebe Buell una notte è entrata nelle
grazie delle labbra più convincenti del rock dopo quelle di Mick Jagger e ha messo al mondo una
bambina che qualche tempo dopo si sarebbe agitata in abiti succinti e assai provocanti nei
videoclip del padre, Steven Tyler, leader degli Aerosmith. Tutto qui? Macché. Quella notte, in
quella stanza, è accaduto molto, ma al di là di quella porta c’era un mondo intero che non ha mai
smesso di girare e che ha portato i protagonisti di questa vicenda a mischiarsi per qualche ora.
Poi, al mattino, le rispettive giostre hanno ricominciato a ruotare vertiginosamente ed è stato
impossibile restare aggrappati l’uno all’altra. E chi pensa a intenzioni reali, a volontà e sentimenti
forti, forse non tiene conto del periodo in cui si sono svolti i fatti.
Dice oggi la Buell: «Se sei geloso per carattere, negli anni Settanta avresti sofferto». Quando
Beverle Lorence “Bebe” Buell incrocia per una notte Steven Tyler ha poco più di vent’anni e sa
benissimo a cosa va incontro. La musica rock e i suoi apostoli occupano un ruolo primario nella
sua vita, come d’altronde in quella di milioni di adolescenti americane. Ad alcune non basta
ascoltare un disco della collezione del fratello maggiore per sentirsi appagate. Alcune hanno
bisogno di recarsi in pellegrinaggio direttamente alla fonte del loro piacere e pazienza se non
verranno riconosciute come discepoli tributari. Pazienza se amore e credibilità saranno oscurati
dalla lunghezza delle loro gambe e dal loro bel visino. Avranno comunque raggiunto il loro scopo
e potranno tornarsene a casa con qualcosa che non si può comprare in un negozio di dischi.
Bebe Buell, all’inizio degli anni Settanta, ha molto più di un bel visino. Ha un corpo da sballo:
lo muove a tempo di rock e lo spoglia per «Playboy». Le chiamano groupie o aiuta-complessi, ma
molte di loro trovano la definizione alquanto sessista e immeritata. Non si tratta mica di venire
scarrozzate in cerca della propria aspirazione, di finire da un letto all’altro per passare il tempo,
né tanto meno di farsi accompagnare in giro per la città a comprare vestiti, borse e monili. Qui si
parla di un’intera vita spesa a ispirare rockstar, uomini che non hanno la più pallida idea di cosa
accadrà domani, che hanno bisogno di una guida, che perdono facilmente l’orientamento, e quando
lo perdono non sanno fare altro che ricorrere a una bottiglia e a una femmina silente.
Beverle invece parla, e quando si stanca di stare al lato del palco ci prova lei stessa a dare in
pasto la sua voce alla folla. Prima, però, si concede il lusso di flirtare con Mick Jagger, David
Bowie ed Eric Clapton. Poi, un bel giorno del 1972, decide di andare a vivere con Todd
Rundgren, il che non le impedisce di continuare a collezionare incontri con Iggy Pop, Jimmy Page
e Steven Tyler. Nello stesso periodo Todd non disdegna la compagnia di Patti Smith. Quindi,
davvero, non c’è problema. Succede anche che, a distanza di anni, dalle biografie emergano altre
figure alle quali non si era dato peso. Nel caso di Bebe Buell a sorprendere è il nome di Elvis
Costello e di una relazione di cui persino la protagonista non rammenta trame e contorni. Di
Steven Tyler, il carismatico e tossico leader degli Aerosmith, invece si ricorda eccome.
Il primo luglio del 1977 viene alla luce il frutto di quell’unico incontro, ma alla piccola Liv la
verità è tenuta nascosta per otto anni. La tossicodipendenza di Tyler porta la madre a scegliere
Rundgren come padre, benché le cose tra i due naufraghino qualche mese dopo. È a questo punto
che Bebe decide di pensare seriamente alla propria carriera nel mondo della musica. D’altronde,
le conoscenze non le mancano. Ci prova dapprima, nel 1980, con un progetto chiamato The B-
Sides che la porta ad aprire dei concerti di Alice Cooper; poi, nel 1981, supportata da Rick
Derringer e Ric Ocasek, registra un Ep di quattro canzoni per la Rhino Records, ma è soltanto tre
anni più tardi che il suo piano più ambizioso fa capolino tra le maglie di un’altra relazione.
È il 1984 e Bebe Buell ha un nuovo bellissimo compagno. Si chiama John Taylor e sta vivendo
un periodo d’oro grazie alla sua band capitanata dall’amico Simon LeBon. I Duran Duran sono ai
vertici delle classifiche pop, eppure John trova il tempo per costruire i Power Station attorno alla
compagna. Pare che sia un capriccio di Bebe a dare il via alla rock band. Bebe è desiderosa di
reinterpretare Get It On (Bang A Gong) dei T. Rex e si diverte a riscoprire il suono delle chitarre
elettriche in un’epoca governata dai sintetizzatori. L’intuizione è buona, ma quando le cose si
fanno serie il posto di Bebe viene occupato da Robert Palmer. Non sono molte, d’altronde, le
donne che vivono di rock. Quelle, poi, che prima di guadagnare il palco hanno assaggiato camere
da letto in quantità, difficilmente otterranno consensi per il loro talento.
Quando nel 1991 la paternità della figlia viene svelata, Bebe Buell torna a essere solo la
groupie che si è concessa a uno dei Toxic Twins. Nel suo curriculum non resta che quella storia
dissoltasi in un lampo e una ragazzina alla quale non è più possibile tacere la verità quando
persino lo specchio rivela che sei il ritratto di tuo padre. Eppure, dentro e fuori le camere
d’albergo, il rock continua a incantare Bebe. E Bebe torna, nel 2009, con una manciata di canzoni
e una band tutta sua che sembra proprio un allenamento per quello che forse vuole dirci da una
vita e che finalmente trova spazio su disco nel mese di settembre del 2011.
Dieci anni prima era toccato al memoriale Rebel Heart, ma nel 2011 è il turno di HARD LOVE
e le emozioni e i racconti accumulati negli anni diventano questa volta autentiche canzoni rock.
Ancora una volta Bebe ha dovuto contare sulla produzione di un marito, che oggi si chiama Jimmy
Walls. Sarà difficile convincere i critici che il disco Bebe non l’ha fatto perché è andata a letto col
produttore. Ci sono amore e rock, e nessuna delle due cose riuscirebbe a sopravvivere senza
l’altra. Quanto al tempo, che importanza potrà mai avere la durata di una relazione se ti dichiari
Mother Of Rock & Roll? «Sono una macchina da rock & roll e non ho data di scadenza. Sono
come una lavastoviglie con venti anni di garanzia». Parola di Bebe Buell.

Mother Of Rock & Roll – Bebe Buell (HARD LOVE)


Una storia d’amore senza tempo né regole, senza logica né coordinate. Deve avere riflettuto a
lungo Jane Mallory Birkin, nel 1980, prima di trasferirsi dalla casa in Rue de Verneuil in un
anonimo albergo. Indugiando davanti allo specchio e realizzando chi e cosa fosse diventata negli
ultimi dodici anni, avrà comunque trovato la forza per immaginarsi altrove, accanto a un’altra
persona. Poi deve essersi fatta una di quelle risate cavalline che al suo uomo piaceva tanto
inserire nei dischi.
La mia vita si sviluppa intorno a una triade – dice Serge Gainsboug in Mort ou vices – anzi
intorno a un triangolo equilatero di Gitanes, etilismo e ragazze. L’ordine pare sia esattamente
questo. Sigarette, decine, a volte persino centinaia in una notte passata a comporre davanti al
piano con la sola compagnia di una bottiglia di whiskey e qualche tazza di caffè. E le donne,
immagini inghiottite percorrendo le loro forme al tatto, conquistate o soltanto bramate, donne
sfumate e altre marchiate a fuoco sulla pelle. Quasi a meditare una sorta di rivalsa nei confronti
delle prime acerbe e poco galanti avventure sentimentali, il giovane Lucien, ribattezzatosi presto
Serge, scopre il potere che hanno le donne di ispirare la sua musica. Nel 1967 c’è n’è una che ha
la facoltà di spingerlo oltre il ruolo di padre e marito libertino. Una bionda attrice, che tutto il
mondo identifica con le soli iniziali, è la prima musa alla quale il compositore francese dedica un
intero disco: INITIALS B.B. Oltre a essere la più desiderata al mondo, Brigitte Bardot è anche una
donna sposata che ama divertirsi, ma non fino al punto di mettere a rischio carriera e matrimonio.
Serge invece non vuole più dividere il tetto con la seconda moglie Beatrice. Si abbevera a
quella fonte orgiastica scovata grazie a Brigitte. Nel 1968, però, un incontro cancella tutto ciò che
Serge è stato per quarant’anni. La sua esistenza s’incammina su un nuovo binario, veloce e
incredibilmente folle. Lei si chiama Jane, è un’inglesina di appena vent’anni con alle spalle un
matrimonio finito, una figlia e una carriera di attrice ben avviata. È un’epoca in cui se possiedi un
bel fondoschiena e le giuste conoscenze le cose possono volgere al meglio.
Quando le gambe affusolate di Jane inciampano sui tappeti di Serge, lui ha già in serbo per lei
una carriera da interprete. Trova molto più interessante far cantare delle stupende attrici piuttosto
che delle cantanti con delle bellissime voci. Il musicista ha pronta una canzone per Jane, già incisa
con B.B. ma troppo licenziosa perché la diva francese potesse consentirne la diffusione. Per Jane
è diverso. Jane segue le direttive del suo pigmalione e nel 1969 regala all’amato il suo primo hit,
Je t’aime… Moi non plus. È il brano dello scandalo, è oltraggioso, fa avvampare uomini e donne,
turba i benpensanti e gli organi ecclesiastici. In Italia, il distributore del disco viene scomunicato
dal Vaticano. Ma è anche il brano che dona alla coppia l’immortalità. Serge e Jane ora sono
l’emblema del sesso, esagerato e sopra le righe. Oltre all’apparenza, però, alla base c’è un legame
solido.
Prima di elevarsi a icona della moda e di dare il suo nome a uno dei modelli più venduti di
borse Hermès, Jane Birkin firma cuore e mente di Gainsbourg, che nel 1971 le dedica un concept
album incentrato sulla storia d’amore tra un uomo francese di mezza età e una ragazzina inglese
minorenne. Sulla copertina di HISTOIRE DE MELODY NELSON la musa compare poco vestita e
incinta della prima figlia della coppia, Charlotte. La famiglia segue comunque un bizzarro ordine
che passa attraverso una dimora impeccabile. Musica e copioni sono ancora da scrivere. Non ha
importanza per chi o cosa, ciò che conta è mantenere il ritmo e accettare le scadenze. Ma a che
prezzo? Se lo chiede Jane quando, nel 1973, accorre al capezzale di Serge dopo il primo attacco
di cuore. Non si pone il problema lo chansonnier, che a quarantacinque anni non ha alcuna
intenzione di abbandonare i vizi.
Tra i due ci sono vent’anni di differenza, ma l’eterno adolescente è l’uomo maturo che vuole
continuare a piacere ai giovani e perciò cambia il suo look, esce da un personaggio a volte datato
e scrive musica al passo coi tempi. Racimola denaro grazie a spot pubblicitari e poi vola in
Giamaica alla scoperta di ritmi che l’isola serba per il mondo, ben prima che un certo Bob Marley
inizi a esportare il sound tipico di quella terra assolata. Dall’altra parte Jane osserva, non approva
l’intensità con la quale Serge vive ogni attimo, ma è cosciente di vivere accanto a un uomo le cui
malattie appaiono infinitamente più interessanti della salute di chiunque altro. Questo almeno fino
alla comparsa sulla scena di Gainsbarre, l’alter ego marcio di Gainsbourg, la parte alcolizzata e
dissoluta alla quale manca la violenza, ma la cui forma di persecuzione e dipendenza è comunque
inaccettabile. Jane non ci sta e, pur sapendo che non si tratta di una fine, nel 1980 decide di non
voler più essere una bambola nelle mani di un aguzzino.
Jane lascia Serge e sposa il regista Jacques Doillon, con cui nel 1982 ha anche una figlia. Ma
non fa mai passare molto tempo tra una visita e l’altra al vecchio indirizzo di Rue de Verneuil,
dove ad attenderla c’è un poeta che non ha mai smesso di inneggiare alla propria musa.
L’appartamento è diventato un vero e proprio santuario dedicato alla ex compagna, ma ora è
sempre più spesso frequentato da una modella ventunenne, che nel gennaio del 1986 lo rende
nuovamente padre di un bambino. Nonostante tutto, Jane resta il grande amore di Serge, e la loro
Charlotte è l’unica tra i figli di Gainsbourg che ha la possibilità di conoscere davvero il genitore,
cantando e recitando al suo fianco in alcuni episodi provocanti e sempre sul filo della
trasgressione. Charlotte ha tredici anni quando debutta come cantante duettando col padre in
Lemon Incest e ne ha quindici quando è la protagonista del film Charlotte Forever, che il genitore
ha scritto per lei e per il quale si è ritagliato il ruolo del padre.
Gli anni Ottanta fanno registrare la nascita di una famiglia allargata e di un rapporto adulto tra
due ex amanti che oltre al lavoro amano condividere chiacchiere e pettegolezzi, come una vecchia
coppia che ha rinunciato al sesso ma non alla complicità. Bambou, la compagna di Serge, accetta
passivamente il menage così come molti anni prima Jane aveva sopportato la presenza
ingombrante di B.B.; quanto a Doillon, alla fine del decennio decide di non stare più al gioco. Ma
il gioco finisce presto per tutti. Il 2 marzo del 1991 un nuovo attacco di cuore risulta fatale a
Gainsbourg/Gainsbarre. L’uomo che ha deciso di prendersi tutto dalla vita saluta le donne del suo
harem. A una in particolare è convinto di aver donato il meglio di sé, ma tutte sanno di aver
perduto un uomo complicato, egocentrico, testardo, che ha riempito la loro vita come nessun altro.
Serge Gainsbourg viene trascinato nella tomba da quell’altro, Gainsbarre. Per l’industria, invece,
la pace tra i due è già stata siglata nel 1989, anno in cui l’etichetta discografica Philips lancia
l’opera omnia dell’autore, DE GAINSBOURG À GAINSBARRE, sull’onda del claim “Gainsbourg non
aspetta di morire per diventare immortale”.

Je t’aime… Moi non plus – Jane Birkin / Serge Gainsbourg (JANE BIRKIN / SERGE
GAINSBOURG)
Quando Patti Smith arriva a New York di vite se n’è lasciata alle spalle almeno un paio. Ha già
conosciuto il sapore delle promesse non mantenute. Se cresci con in mano una Bibbia e pochi
spiccioli nell’altra ti convinci che la fede possa essere l’eterna risorsa. Ma non è così se hai
vent’anni nei Sessanta, sei incinta e sola. Le Sacre Scritture non ti dicono come comportarti in una
situazione del genere, ma qualcosa di ben radicato dentro di te ti dirà di portare alla luce tua
figlia, di regalarle una famiglia; esattamente quello che non puoi darle, almeno per ora. E poi via,
lontano, perché quella voce ti sta dicendo che è arrivato il momento di lasciarsi tutto alle spalle.
La nuova vita di Patti Smith inizia a New York alla fine degli anni Sessanta. Le hanno
raccontato che qui tutto è possibile, che la città è un concentrato di menti, poeti e scrittori. È qui
che la ragazza di Chicago vuole mettere radici e se occorrerà fare la fame, vestirsi di stracci e
centellinare le docce per riuscirci, poco importa. Questo è il luogo giusto, il solo dove una voce
per nulla convenzionale può sfruttare l’eco.
Quando Patricia Lee Smith arriva nella Grande Mela non ha con se né dollari né idee certe
riguardo alle proprie aspirazioni. Ci sono i libri, però, quelli che l’hanno accompagnata nelle vite
precedenti e quelli che immagina di dover conoscere al più presto infilandosi nelle biblioteche nei
ritagli di tempo e accettando impieghi saltuari per continuare a coltivare questa passione. Ed è
proprio in una libreria che un giorno fa il suo ingresso Robert Mapplethorpe, l’uomo con il quale
Patti intreccerà subito una delle relazioni più romantiche, vere e bohemienne di tutti i tempi.
Patti e Robert si incontrano nella primavera del 1967. Lei è una giovane e spiantata ragazza
col pallino della poesia, mentre lui ha le tasche vuote e chiari gli obiettivi. Robert vuole fare
l’artista e ha capito che per riuscirci deve tessere una fitta rete di relazioni, il resto verrà da sé. I
due decidono presto di andare a vivere insieme in un appartamento di Hall Street. Per entrambi è
subito evidente che il collante della relazione è l’amicizia che, non subirà contraccolpi quando
Patti si ritroverà a fare i conti con l’omosessualità latente del compagno. La condivisione di idee,
progetti e sogni sarà sempre più forte di tutto.
Di questa parte di vita di colei che verrà poi universalmente riconosciuta come la
sacerdotessa del rock, conserviamo diverse immagini, polaroid, quadri e pagine di diario, un
racconto ben dettagliato che soltanto molti anni più tardi impareremo a conoscere nella biografia
dedicata proprio al fotografo americano. Nel volume – Just Kids – pubblicato nel 2010 è la stessa
Smith a ricordare con nostalgia e infinita devozione quanto gli anni antecedenti all’esordio
discografico hanno contribuito alla sua formazione. Grazie a Robert, uno degli uomini più
importanti della sua vita.
È Robert a iniziarla all’ambiente artistico della città. È lui a spingerla a scrivere e declamare
pubblicamente le sue poesie, che magari con un accompagnamento musicale adeguato potrebbero
diventare canzoni. Il posto è giusto, il momento anche. Ogni sera, musicisti, scrittori e
drammaturghi si ritrovano in locali come il Max’s Kansas City e il CBGB’s e non vedono l’ora di
confrontarsi e condividere lo stesso palco. Sono le relazioni, che contano: Robert lo ha sempre
saputo e non esiterà a imbastire un legame col suo mecenate Sam Wagstaff per iniziare a esporre le
proprie opere nelle gallerie emergenti della città.
Di denaro se ne vede ancora poco, quando Patti e Robert decidono di lasciare il loro freddo
appartamento per trasferirsi ancora più al centro della scena artistica newyorkese. Magari non se
lo possono permettere, ma per entrare nel giro giusto non puoi non avere una stanza al Chelsea
Hotel. È qui che hanno vissuto a lungo Dylan Thomas e Arthur C. Clarke, è qui che hanno
soggiornato Leonard Cohen e Bob Dylan, ed è qui che è più facile imbattersi in Jimi Hendrix o
Allen Ginsberg.
La scelta si rivela felice. Tra il 1969 e il 1974 Patti e Robert cominciano a lavorare a diversi
progetti. Arti visive, performance, poesia. Il rapporto sentimentale tra i due inizia a sfumare, nuovi
partner entrano ed escono nella piccola stanza tra la Settima e l’Ottava Strada, ma al reciproco
sostegno non rinunciano. Robert e Patti continuano a mostrarsi come due innamorati. Gli scatti di
lui e i dipinti di lei. Mapplethorpe e la sua ambiguità emergono in ogni ritratto; l’attenzione per il
dettaglio, per l’accessorio, è rigorosa, quasi maniacale. La sua musa ispiratrice appare sempre
sgualcita, i vestiti stropicciati, come se non le importasse nulla di farsi trovare in ordine. Quando
hai un obiettivo puntato addosso che ti guarda per come sei davvero, non hai bisogno di uno
shampoo prima di metterti in posa.
Nel 1971 Patti Smith incontra il futuro drammaturgo Sam Shepard e se ne invaghisce
perdutamente. Sam è un ragazzo di una bellezza viva, fresca. Eppure il rapporto con Robert non
viene compromesso. Sono anni in cui altri uomini contribuiscono a connotare l’universo artistico
della futura cantautrice, che sempre di più pare attratta anche dai suoni, oltre che dalle parole, e le
collaborazioni con riviste come «Rolling Stone» e «Creem» ne sono testimonianza. Durante le
prime, incerte esibizioni in pubblico, Patti Smith conosce anche Tom Verlaine, leader dei
Television e altro cultore dei poeti maledetti francesi che tanto la ispirano, e Lenny Kaye, futuro
membro a vita del Patti Smith Group.
Con Lenny, Patti dà vita alle prime note di Piss Factory, brano che ritroveremo nel primo
singolo pubblicato dalla Arista Records, a cui farà presto seguito l’album di debutto, HORSES. È il
1975 e Robert Mapplethorpe ha ancora un braccio sulle spalle di Patti, come in quella fotografia
in bianco e nero che li ritraeva al Greenwich solo qualche anno prima. Per la copertina di
HORSES, Robert scatta una serie di polaroid all’amica, che come sempre si fa consigliare su look,
espressione, posa. Sono scatti veloci, naturali. Abiti maschili, niente trucco, Patti si fa ritrarre
appena sveglia, subito dopo colazione, perché la luce del mattino è più bella, e pazienza se un po’
di zucchero resta incollato alla giacca: «Levatela, falla scivolare lungo la schiena, così nessuno lo
noterà».
Finisce così la terza vita della signora Smith. La quarta ha inizio all’incirca col successo di
HORSES e la pubblicazione di altri tre album nel giro di appena tre anni. Anche la carriera di
Mapplethorpe prende il volo: grazie all’influenza di Wagstaff, raffina la tecnica senza intaccare un
gusto teso tra arte e pornografia che non gli riserverà soltanto critiche positive eppure lo porterà a
essere formalmente riconosciuto come uno degli artisti più influenti della sua generazione.
Mapplethorpe muore di Aids il 9 marzo del 1989. A tenerle la mano è l’amica di sempre, che
si trova a dover superare la scomparsa di amici e familiari nell’arco di un paio di stagioni appena.
Ma alzare lo sguardo con aria di sfida all’obiettivo è l’insegnamento più prezioso che Patti eredita
da Robert. E allora avanti, incontro alla luce del mattino, e chi se ne frega dello zucchero sulla
giacca.

Wild Leaves – Patti Smith (DREAM OF LIFE)


«Ero diventata il suo angelo custode. Alla fine sono andata oltre il ruolo di moglie. Il nostro
matrimonio non era un viaggio di divertimento, era una missione, una campagna evangelica con lo
scopo di far avvicinare le persone a Jah». Negli anni Settanta un affollato bus per Babilonia parte
dalla Giamaica e se ne va in giro per il mondo per setti lunghi anni. Compie più fermate e ogni
volta che le porte si aprono diverse persone salgono a bordo. Si tratta per la maggior parte di
giovani donne affascinate dall’aspetto esotico del carrozzone e influenzate dal carisma del loro
leader, un giovane coi dreadlocks che inneggia alla pace tra i popoli e alla salvaguardia della
propria cultura. Il suo nome è Bob Marley e in questo cammino non è solo, lo accompagna una
band certo, e una donna che canta insieme a lui in ogni disco, ma che prima di quelle incisioni,
prima di intraprendere un tour, prima di tutti quei volti giovani sorridenti e sconosciuti, ha
intrapreso con il suo uomo un cammino personale. Lei si chiama Rita Marley, la signora Rita
Marley.
Il solo nome Bob Marley è sufficiente per veicolare alla nostra mente immagini precise. La
musica, quei capelli intrecciati agitati a tempi dispari, i colori della sua isola, il profumo
dell’erba e bambini, un numero spropositato di ragazzini che inseguono un pallone da calcio. Una
comune, per usare una parola in voga all’epoca, era il numero 56 di Hope Road, il quartier
generale degli Wailers messo a disposizione dalla Island Record quando le cose per la band
cominciarono a girare. Ma in quella grande casa, Rita Marley e i suoi figli non abitarono mai. Bob
sì, ne fece la sua base insieme ai musicisti e a diverse donne. E la chiave della loro unione è lì
riposta. Un matrimonio aperto per volere di una sola delle due parti in causa, e si sa che
l’accettazione non passa per forza attraverso l’accondiscendenza.
Quando l’11 febbraio del 1966 Bob e Rita si uniscono in matrimonio, non sono certo questi i
patti, d’altronde i due non hanno ancora la minima idea di quello che presto accadrà alle loro vite.
In questo periodo c’è una passione sconfinata per la melodia a unirli e poi c’è il loro credo
Rastafari, non occorre altro. Non subito, almeno. Non occorrono beni materiali, case, conto in
banca, a vent’anni bastano l’amore e una fiducia spropositata l’uno nelle buone intenzioni
dell’altra. Rita ha già una bambina che Bob subito adotta, a patto che il padre biologico non venga
mai più nemmeno nominato. Anche Bob da qualche parte ha già concepito una figlia. Non è un
santo, Rita lo sa bene, quello che non sa è che le compagne di una notte da quel momento in poi
diverranno una costante all’interno del loro matrimonio. Ma è lei quella con l’anello, alle altre
l’illusione di avere conquistato il cuore del dio del reggae.
«Eravamo compagni di vita e di anima e la biochimica che ci univa era naturale e positiva.
Così pensammo soltanto a fare l’amore e a metter su famiglia». E i figli arrivano, uno in fila
all’altro, la primogenita Cedella, l’amato figlio maschio David detto Ziggy e Stephen. Fino al
1972, la premiata ditta Marley non può che contare sulle proprie forze, ma le cose sembrano
andare a meraviglia. Nella buona e nella cattiva sorte, in ricchezza e in povertà, un vincolo
indissolubile messo a dura prova dall’improvvisa popolarità di Bob Marley & The Wailers.
Quando vuole catturare l’attenzione della sua donna, Marley ricorre a quel vecchio motivetto dei
Temptations, My Girl. Si tratta di una faccenda privata, però, perché per i fan non deve esistere
alcun matrimonio; un marito fedele non può andarsene in giro per il mondo e vendere migliaia di
dischi. Conviene quindi essere una buona sorella, piuttosto che una povera moglie. A Rita non
resta che chinare la testa, ma persino le sue spalle hanno occhi per vedere cosa sta accadendo.
Al numero 56 di Hope Road, quando i maschi si radunano per interminabili partite di calcio,
si inizia a perdere il conto dei figli di Bob. Rita no, conosce il nome di ognuno e li accoglie come
se fossero suoi, dato che delle madri, spesso, se ne perdono le tracce. «Sapevo che amava i
bambini quanto me e anche se ero arrabbiata a morte con lui dovevo essere forte. Sentivo che
dovevo prendere io il comando e che dovevamo cercare di andare d’accordo perché eravamo soci
ed eravamo una famiglia». Ma non è facile andare d’accordo quando il tuo uomo fa quello che
vuole alla luce del sole.
Esther Anderson è una bella fotografa assoldata dalla Island per accompagnare la band in
Inghilterra e promuoverne i dischi. Però ha anche messo i suoi occhi su Bob. Di lei conosciamo il
nome perché più che la compagna di una notte è stata la compagna di un periodo, la prima
probabilmente a intimidire Rita. Se cerchi tuo marito e la sua amante si para davanti accusandoti
di imbrigliare la carriera del tuo uomo in una fitta rete di figli, allora è il caso di chiedersi cosa
davvero resti di quel matrimonio. «Chiesi a Dio di aiutarmi per quello che non ero in grado di
cambiare. Ci furono moltissime donne e forse proprio perché così numerose finirono per diventare
sempre meno una minaccia».
Alla fine del 1973, in un momento non certo idilliaco della sua unione, Rita Marley si avvicina
a un altro uomo. Si tratta di Oswald Stewart, un famoso calciatore giamaicano chiamato
familiarmente Tacky. Quella che all’inizio si presenta come un’affettuosa amicizia si trasforma
presto in una relazione, ma quando Rita rimane nuovamente incinta, Marley si assume le sue
responsabilità, per quanto l’origine dell’ennesima paternità non sia mai del tutto stata chiarita.
Nell’estate del 1974, poco dopo avere salutato l’arrivo della figlia Stephanie, un possessivo Bob
porta con sé in tour Rita e ne fa una delle sue coriste. Marito e moglie sembrano di nuovo uniti e
complici, nella vita e sulle scene, ma se grazie a questo ingaggio hanno l’opportunità di stare più
vicini, quello che la donna non ha messo in conto è che oltre alla carriera c’è ben altro di cui
preoccuparsi tra Europa e Stati Uniti.
Rita Marley pretende la sua stanza, come ogni musicista che compaia sul libro paga. Lo fa per
affrancarsi dal ruolo di moglie servizievole, lo fa per avere un po’ più di libertà e pensare a se
stessa, ma soprattutto perché tra un tour e l’altro Bob ha iniziato seriamente a frequentare la
reginetta di bellezza Cindy Breakspeare. È questa la relazione extraconiugale di Marley forse più
propagandata dalla stampa, d’altronde i due non si nascondono, e quando nel 1976 Cindy affianca
alla fascia di Miss Giamaica quella di Miss Universo, i fotografi vanno a nozze. I due sembrano
davvero molto innamorati, sulla spiaggia al tramonto, sul divano di casa, tra un’incoronazione e
un’altra. Cindy Breakspeare sembra avere tutta l’aria di pretendere qualcosa in più, questa volta,
o magari è lo stesso Marley a farglielo credere, promettendo che prima o poi divorzierà da Rita.
Ma questo non accade nemmeno alla nascita del figlio Damien due anni più tardi: se c’è una cosa
su cui Bob può contare è la sorellanza della moglie, una donna che non è al suo fianco per il lusso,
per un capriccio o per la celebrità. A Rita Marley spetta il compito di portare sempre e comunque
suo marito alla realtà.
E poi c’è la musica, ci sono le canzoni. Molti dei testi di Bob Marley rispecchiano le sue
vicende personali. Certo, basta chiedere a una qualunque vecchia ragazza di Bob il significato di
un testo e lei non impiegherà un solo attimo a rispondere che quel brano parla di lei. Rita però c’è.
È al fianco di Bob in studio e in sala di incisione, e quando in tour i due hanno un litigio, Marley
alla sera attraversa il palco, mette un braccio intorno alle spalle della moglie mentre l’incipit è
uno soltanto: No Woman No Cry. Ed eccoli di nuovo insieme e indissolubili tra le mille scuse di
un uomo che prega la propria donna di non arrabbiarsi per le sue scappatelle. «Baby tu non puoi
avere tutti i bambini che io sento di avere. Alcune di queste ragazze in realtà servono a
risparmiare il peso di una gravidanza a te e al tuo corpo. Perché so che tu vuoi lavorare e vuoi
cantare». Lo faccio per te, ecco come uno degli uomini più influenti del periodo mette a tacere la
propria coscienza.
Sesso e procreazione non abbandonano mai Bob Marley. Quando l’11 maggio del 1981 perde
la sua battaglia contro un male che gli ha strappato troppo in fretta chioma e carisma, la sua ultima
figlia, frutto dell’ennesima infedeltà, deve ancora nascere. Al suo fianco però non c’è alcuna
reginetta, modella o principessa di paese ignoto. Se ne sono andate tutte, anche quelle che fino
all’ultimo si sono attaccate a una canzone o a una promessa rubata in camerino. Al capezzale di
Marley c’è il suo angelo custode, la donna che non ha mai smesso di lavargli la biancheria,
arrabbiarsi e poi sciogliersi in un sorriso quando ha capito che la vita avuta non era esattamente
quella si aspettava, ma ugualmente ricca e generosa. Solo quando chiude gli occhi, Rita Marley
lascia andare il corpo di suo marito. Lo spirito no, quello le resta accanto, nella vita, sul palco e
in giro per il mondo. «Dimentica il pianto Rita, continua a cantare. Non ti lascerò mai, dove tu
sarai, ci sarò anch’io…».

No Woman No Cry – Bob Marley & The Wailers [NATTY DREAD]


Si dice che gli uomini sposino le loro madri. Quantomeno, la prima volta. A vent’anni le idee non
sono tanto chiare e l’uomo cerca una donna che lo assecondi, rispetti e adori nella stessa maniera
incondizionata di chi lo ha messo al mondo. Una donna che sappia comprenderlo e che condivida i
suoi gusti e i suoi interessi. Una compagna in grado di difenderlo in un mondo che divora e
confonde, al punto di farlo dubitare del suo stesso orientamento sessuale. E non sono tante là fuori
capaci di reggere il peso di una simile investitura, ma anche di trasformare la confusione in dono,
merce rara da rivendere in cambio di successo e quattrini. Quando un incontro del genere si
materializza, se si ha la fortuna di riconoscersi, allora il tempo si moltiplica, i mesi diventano anni
e un decennio vissuto ogni giorno fianco a fianco ha tutto l’aspetto di un’intera vita. Di vite, il
protagonista di questa storia ne ha vissute tante, e per ciascuna ha scelto di ritagliarsi un’identità
distinta.
Nel mese di aprile del 1969 il ventiduenne David Robert Jones, già ribattezzatosi Bowie in
omaggio a un pioniere americano del Diciannovesimo secolo, incontra a Londra la diciannovenne
Angela Mary Barnett grazie a un amico comune. Conoscenze e passioni condivise fanno la fortuna
della coppia, che si unisce in matrimonio il 19 marzo del 1970. Non si tratta di un legame
convenzionale, ma di un vero e proprio patto fondato sulla convergenza di due personalità opposte
che insieme danno vita a uno dei personaggi più incantati del musicista inglese: Ziggy Stardust.
Ziggy è un prodotto, un marchio impersonato da uno straordinario attore ma animato da uno staff
che vede in Angela Bowie una competente direttrice d’orchestra. Se fino al 1970 David Bowie è
un efficace interprete della cultura dei tempi, al pari di altri artisti coevi, il nuovo decennio si
apre affidando alle sue mani mezzi e competenza per delineare qualcosa di totalmente nuovo e
inaspettato.
Prima di Angela, David è un ragazzo affascinante e già ispirato da figure influenti, come il
coreografo e ballerino Lindsay Kemp. È ammaliato dalla performer Hermione Farthingale,
benestante ragazza inglese immune dalle scorribande delle sue coetanee nel continente americano.
Sono dedicati a lei i brani Letter To Hermione e An Occasional Dream, presenti sul primo
omonimo disco di Bowie. Poi l’America, l’incontro con Angela e la conoscenza di un artista folle
e disturbante come Iggy Pop danno il via a un esperimento che si rivelerà unico nel suo genere.
Un’altra identità, un nuovo look, un’ambiguità sessuale fieramente esibita: David Bowie smette i
panni di stella del pop e padre di famiglia per indossare quelli dell’alieno Ziggy Stardust,
un’allegoria teatrale infarcita di rock e glam.
Angela sostiene il marito in questa trasformazione. Le fotografie in bianco e nero tardo hippie
che ritraggono la coppia insieme al figlio appena nato, Zowie, vengono sostituite dalle immagini
fluorescenti di un uomo e una donna che potrebbero essere scambiati per fratello e sorella. Stesso
colore di capelli, abiti sgargianti e trucco di scena, i coniugi Bowie paiono individui speculari,
corpi efebici concepiti per firmare un manifesto androgino. A contatto con il nuovo continente,
Bowie trova le risorse per esplorare la propria sessualità e, in accordo con Angela, le dicerie in
merito alla vita privata e pubblica della coppia si moltiplicano per tutto il decennio. Nel gennaio
del 1972 Bowie dichiara in un’intervista a «Melody Maker» la propria omosessualità. Qualche
tempo dopo è pronto a ritrattare orientandosi in favore di una bisessualità che giustifichi il suo
matrimonio. Non è chiaro se stia semplicemente giocando a violare i codici morali dell’epoca o
se assecondi un reale stato psicologico e biologico.
Risulta invece più manifesta l’apertura della coppia. Se David ha tutta l’intenzione di
esercitare i poteri conferiti alla sua reggenza da rockstar, Angela non sta certo lì a guardare.
Durante la messa in scena di Ziggy Stardust è sempre accanto al marito, in ogni tour. Si occupa dei
costumi, delle luci ed è perfetta nel tessere relazioni fruttuose in pubblico. In privato non perde il
sorriso, si prodiga a conoscere ogni ragazza che prima o poi finirà nel letto del marito, impara
soprattutto a non temere rivali e si concede anche lei ai membri dello staff in party selvaggi in cui
ogni cosa sembra muoversi esattamente nell’orbita stabilita. Diversi anni dopo la fine del suo
matrimonio, Angela si diverte a millantare gustosi siparietti a luci rosse che vedono sfilare tra le
coperte di Bowie personaggi della scena rock, come ad esempio Mick Jagger.
Ovviamente, non mancano le solite groupie. C’è Cherry Vanilla, attrice e performer che fino al
1974 si occupa dell’ufficio stampa americano di Bowie e in più di un’occasione si ritrova a
consolarlo quando Angie è lontana. C’è la minorenne più quotata del tempo, Lori Maddox, che
passa con disinvoltura da Jimmy Page a Iggy Pop, da Mick Jagger a Ronnie Wood, senza
tralasciare entrambi i coniugi Bowie. C’è la futura playmate Bebe Buell che, dopo la storia con
l’avvenente Todd Rundgren e prima di immolarsi all’altare di Steven Tyler, accompagna il Duca
Bianco per le strade di New York. C’è Cyrinda Foxe, attrice e modella, pure lei prossima
all’incontro col padre di sua figlia Mia, Steven Tyler, ma prima giocattolo accondiscendente tra le
mani di David durante le tappe del tour californiano di Ziggy Stardust. E c’è Sable Starr, che
prima di scoprire la predilezione di Bowie per la sorella Coral si fa spezzare il cuore e lo
riassesta in tempo per donarlo al vorace Iggy Pop.
Ma è e rimane Angela l’alter ego di David Bowie. Non è una semplice affiliata al clan, è la
first lady. A lei vengono dedicate canzoni come The Prettiest Star e Golden Years, e leggenda
vuole che persino Angie dei Rolling Stones sia ispirata a lei. Angela accoglie Rock’n’Roll
Suicide come colonna sonora del proprio matrimonio e non perde il sorriso nemmeno quando
capisce che per continuare ad accrescere la gloria del marito deve mettere da parte la sua carriera
d’attrice. Nel 1974 è in lista per il ruolo di protagonista nella serie televisiva americana Wonder
Woman, ma la parte viene assegnata alla reginetta di bellezza Lynda Carter. Angie riparte in tour e
poi adotta il nuovo nome di Jipp Jones per tentare di separare la propria carriera di attrice e
modella da quella di manager e moglie.
Sebbene Angela e David riescano a sopravvivere alla dipartita di Ziggy Stardust, è
probabilmente l’ispiratore di quella figura a mettere a repentaglio il matrimonio. Nel 1976 i
coniugi Bowie si trasferisco a Berlino a seguito di un’infatuazione del musicista per
l’Espressionismo tedesco. Iggy Pop li accompagna per lavorare con David alla produzione del
suo nuovo album, THE IDIOT. Come sempre, Angela è l’impeccabile hostess che si preoccupa di
sostentare il nuovo nucleo familiare per tutta la prima parte del soggiorno. Poi gli equilibri mutano
e lo stesso Iggy prende il suo posto nella vita artistica di Bowie. Angela assiste a un’unione tra
due dannati, un rapporto in cui si tollera reciprocamente qualsiasi cosa. Fino al 1979, la cocaina e
la vita decadente berlinese assorbiranno totalmente il nuovo David, che in questo modo certifica
anche la fine della sua relazione con Angela.
Quando viene depositata l’istanza di divorzio, l’8 febbraio del 1980, non è rimasto più niente
a legare la coppia d’oro del glitter rock, se non quell’unico figlio che, pur restando a vivere col
padre, prende le distanze dalla sua carriera e dal suo nome per accogliere un più comune Duncan.
Angela non rinuncia a una sola fetta delle risorse spese accanto all’ex marito e nel 1993 pubblica
un resoconto dettagliato dei giorni più selvaggi della propria esistenza sotto i riflettori. Il
memoriale Backstage Passes non incontra l’approvazione di Bowie, che a ogni cambio d’abito
sembra voler dimenticare quelli appena smessi. Il secondo matrimonio, che lo lega alla modella
somala Iman, stacca totalmente dal precedente.

The Prettiest Star – David Bowie (ALADDIN SANE)


David Bowie alla fine degli anni Settanta dichiara di avere avuto fino a quel momento un solo
avversario durante la sua carriera e di essersi sempre battuto come un pazzo per riuscire a tenergli
testa. Il nome del rivale è Marc Bolan e quando Bowie esterna alla stampa questa sua
convinzione, il leader dei T.Rex non ha più la possibilità né di controbattere né tanto meno di
ringraziarlo per le sue attenzioni. Il 16 settembre del 1977 il chitarrista inglese perde la vita in un
terribile schianto, muore sul colpo, dicono, nemmeno il tempo di rendersi conto di ciò che sta
accadendo. Fin troppo facile esprimersi così dopo, omaggiare chi non ha più fiato in gola per
mostrare l’altro lato del campo di battaglia, avere risposte, sempre che le guerre siano in grado di
produrle. David Bowie e Marc Bolan in realtà per circa un decennio sono amici-nemici.
All’inizio è il secondo a polarizzare l’attenzione della stampa e quella del produttore Tony
Visconti. Poi i ruoli si invertono, all’ascesa del Duca Bianco corrisponde un abisso per il
protagonista di questa storia, che qualche brutto incontro col destino lo ha già avuto prima del
1977. Marc Bolan all’età di ventinove anni è un uomo che ha vissuto diverse esperienze e non
immagina lontanamente di dovere ancora avere a che fare con la più tragica. Nessuno se lo
aspetta.
Se ad ogni singolo individuo sono concesse più vite, allora Marc Bolan se le gioca tutte
troppo in fretta. Tuttavia, se ne va proprio mentre ha smesso di giocherellare alla roulette russa.
Ha messo via le munizioni da tempo, o almeno così racconta, adora le macchine, la velocità, ma
non ha mai preso la patente di guida perché è convinto che la strada, quella vera, di catrame e
cemento, potrebbe riservargli qualche brutta sorpresa. Non si sbaglia. All’alba del 16 settembre
del 1977, due settimane prima del suo trentesimo compleanno, Bolan scompare in un incidente
automobilistico. Uno di quelli che non guardano in faccia a nessuno e che rendono tutti, ricchi o
indigenti, popolari o sconosciuti, dannatamente uguali. Destino condiviso, un monito, o meglio,
una sentenza: siamo tutti vulnerabili. Ma quando muore una celebrità, spesso si conclude la vita
terrena per dare spazio alla leggenda. Marc Bolan smette i panni dell’artista che si sta
arrovellando alla bell’e meglio per risalire la china e indossa quelli dell’icona glam, una stella
glitterata di prima grandezza, una testa di serie da svariati bigliettoni.
Questa storia inizia con uno spaventoso incidente d’auto perché è in quell’abitacolo che si
consuma un altro dramma. A bordo di una Mini inglese viola termina anche una storia d’amore
iniziata qualche anno prima e ancora bollente. Marc Bolan non è solo a bordo, non potrebbe
d’altronde. Sul sedile del conducente è seduta la sua compagna, la cantante Gloria Jones, che
probabilmente a causa della bassa pressione dei pneumatici perde il controllo della macchina. I
due stanno tornando a casa dopo una cena fuori. Forse qualche calice è stato alzato, sulla testa di
Bolan è da poco tornato a splendere il sole, c’è persino uno show tutto suo prodotto dalla tv
inglese a ricordarglielo. Tra i due si parla di matrimonio, sarebbe il secondo per il musicista. Il
primo ha avuto vita breve, per quanto anche in quell’occasione Bolan fosse certo di avere
riconosciuto l’anima gemella negli occhi di June Child, già musa e assistente di Syd Barrett. Con
Gloria Jones le cose sono diverse, c’è di mezzo un figlio che al momento dell’incidente ha appena
due anni e di quei giorni ricorda solo le fasciature della madre sopravvissuta all’impatto.
Con al collo un boa di piume viola, il suo colore preferito, gli occhi ricoperti di mascara e gli
zigomi accentuati dal glitter, il glam rocker per eccellenza attraversa a grandi falcate la fine degli
anni Sessanta più psichedelica e si concede ai Settanta. Lo accompagnano la band dei T.Rex e il
produttore Tony Visconti. «Sono troppo bello per vivere e troppo giovane per morire», ama
ripetere in questo periodo con aria di sfida. Bolan gioca, sperimenta, rischia; con la musica, con le
parole e con le droghe naturalmente. All’inizio sembra funzionare tutto alla grande, ma poi il
cocktail perde sapore, sono altri gusti ad andare per la maggiore e il chitarrista si allontana da
ogni punto di riferimento. Allontana da sé chiunque, si rifugia nell’alcol e nella cocaina e la sola
luce che pare mantenerlo in vita è quella di un incontro. Lei si chiama Gloria Jones ed è nota per il
brano Tainted Love, non ancora un hit negli anni Sessanta, ma il suo potenziale aspetta solo di
essere esplorato.
Jones e Bolan si incontrano la prima volta nel 1969, ma la scintilla scocca due anni dopo, in
un club di Londra frequentato da entrambi. Le rispettive carriere risultano però essere un ostacolo
ai loro incontri. La soluzione è un’intuizione dello stesso musicista che mette il talento di Gloria al
servizio della sua band. Il racconto della vita personale e della carriera di Bolan conduce a questo
punto a un bivio. Da una parte, le parole della compagna restituiscono il ritratto di un uomo
semplice, che smessi i panni della rockstar selvaggia si tramuta in amante allegro e premuroso,
pronto a lanciarsi con la donna in un ballo romantico al centro di una pista deserta. Il padre
perfetto per il frutto di una precedente relazione di Gloria, l’incontro del destino al quale è inutile
opporsi. Dall’altra, la vita pubblica dell’artista non nasconde irritabilità, repentini cambi di rotta
e una dipendenza ben documentata che male si coniuga con il ritratto del buon padre di famiglia.
Eppure, nel 1975 la nostra coppia mette al mondo il figlio Rolan. Un bambino dal quale non si
separano mai. Si parla di matrimonio, si parla di trasferirsi in una grande casa sulla spiaggia di
Malibù, di abbandonare le rispettive carriere per dedicarsi ad allevare altri figli. Ma il
palcoscenico, il richiamo delle luci e del rock deve avere la meglio su qualunque pensiero di
armonia coniugale, perché Marc Bolan resta del tutto intenzionato a risalire la china. Se tra il
1973 e il 1975 la carriera sembra subire una battuta d’arresto, quella dell’amico-rivale Bowie
continua ad andare alla grande. E allora non serve a niente raccontarsi di essere in anticipo sui
tempi, si tratta semplicemente di cavalcare lo stile e domarlo prima di venire disarcionati. Nel
1974 Marc Bolan cade da cavallo, una brutta battuta d’arresto infarcita di cocaina e cuore debole,
ma a raccoglierlo ci sono un bel po’ di alleati che rispondono al nome di Ringo Starr, Elton John e
David Bowie naturalmente. Chi più, chi meno, ci sono già passati tutti attraverso quel tunnel e se
sono ancora tutti lì per raccontarlo qualcosa vorrà pur dire.
E poi c’è la voce calda di Gloria, la stessa che non riesce a tenere Bolan lontano dalla
bottiglia sembra invece perfetta per il post-sbornia. Sembrano fatti l’uno per l’altra, forse perché
il ricordo vola subito a un altro amore giovanile dell’autore di 20th Century Boy. Marsha Hunt
avrebbe potuto rappresentare qualcosa in più di un semplice flirt nella vita del chitarrista, se
all’orizzonte non avesse fatto la sua comparsa un certo Mick Jagger, di nuovo a caccia dopo le
recente rottura con Marianne Faithfull, ma questa è ormai una storia che fa parte del passato. La
famiglia Bolan, nel 1975, torna in Inghilterra dopo un esilio fiscale negli Stati Uniti e da lì
ricomincia. Si riprende da un tour per offrire la possibilità ai più giovani un’alternativa allo
strapotere del punk e da uno show televisivo che nel 1977 sembra essere l’occasione tanto attesa
per rimettere insieme la vecchia band e magari ritrovare gli amici di sempre. Le registrazioni
portano davanti alle telecamere Roger Taylor, Jam, Boomtown Rats, Thin Lizzy, Rod Stewart e
ovviamente T.Rex e David Bowie per un totale di sei puntate; ma quando le ultime due vengono
trasmesse, Marc Bolan è ormai deceduto e sulla bocca di tutti ci torna a prescindere dal successo
del programma.
La sua eredità è un mix di stravaganza, misticismo e carisma. I brani più celebri restano quelli
del primo periodo dei T.Rex. Il suo lascito più tangibile invece non viene ripartito tra figlio e
compagna, perché Bolan si ferma alle parole, si fa incantare dai sogni e la sua famiglia è
illegittima. Gloria Jones non perde la vita, le restano accanto i figli, ma tutto il resto le viene
strappato via. Persino gli oggetti personali vengono saccheggiati dalla residenza della coppia alla
notizia della scomparsa del cantante. Nessuna rete di protezione, nessuna cintura di sicurezza, il
caso questa volta non ha guardato in faccia a nessuno, o forse sì, ha risparmiato la vita a Rolan, a
quel bambino da cui i genitori non si separavano mai. Rolan cresce, a sei anni gioca con i dischi
che trova in casa, i suoi ricordi sono sempre quelli degli altri, gli altri che suo padre lo
conoscevano. Ma non è solo. Ha un padrino che nei momenti di difficoltà non si tira indietro. Si
tratta di un altro amico di papà. Anzi, di un collega. Meglio, un inflessibile nemico che non è mai
venuto a patti in combattimento. Il suo nome è David Bowie.

To Know You Is To Love You – T.Rex [DANDY IN THE UNDERWORLD]


Galeotti furono i dischi degli Stooges. Con buona pace di chi pensa che le melodie di Iggy Pop e
compagni non siano indicate a condire una storia d’amore che nasce. Ma se è una storia d’amore
rock e se sul calendario spicca in bella mostra la data del 1973, allora i pezzi di FUN HOUSE e
RAW POWER saranno l’ideale per tenere a battesimo i primi vagiti di un rapporto che rispecchia
appieno i sogni, le intenzioni e le delusioni di un decennio da poco iniziato e per molti dei suoi
protagonisti già maturo e spericolato. All’inizio degli anni Settanta molti artisti inglesi decidono
di lasciare il vecchio continente e di varcare l’oceano. C’è chi va alla conquista dell’America
attraverso lunghi ed estenuanti tour, come i Led Zeppelin, e c’è chi cambia semplicemente
domicilio, come David Bowie. E poi c’è chi dagli Stati Uniti sceglie di andare controcorrente,
alla ricerca di nuove tendenze.
Nel 1973, una ventiduenne dell’Ohio si trasferisce a Londra con in tasca un articolo della
rivista inglese «New Musical Express» che ritrae con toni entusiastici il suo idolo Iggy Pop.
Christine Ellen Hynde porta con sé diversi sogni ancora da mettere a fuoco e una chitarra con la
quale si è dilettata a strimpellare nel suo primo gruppo al college. Le motivazioni che spingono
Chrissie in Inghilterra vanno ricercate proprio in nomi e immagini affisse nel suo nuovo
appartamento di Clapham South: Iggy Pop, ovvio, e poi Brian Jones e Keith Richards. La ragazza
ha buon gusto. Le fotografie incollate alle pareti sono motivo di distrazione per chiunque capiti nel
suo monolocale e se l’ospite di turno condivide le stesse passioni gli sarà difficile competere con
quelle star. Il rischio è di passare tutta la serata a dissertare sui capolavori della musica rock
piuttosto che a farsi promesse d’amore, ma Chrissie è pronta a correrlo.
Poco prima dell’estate del 1973, a casa della giovane del Midwest entra lo spilungone ultimo
acquisto del «New Musical Express». È la convergenza di due orbite affini. Nick Kent ha la stessa
età di Chrissie e la medesima bruciante passione per il rock. E quei volti alle pareti li conosce
molto bene. Ha imparato tante cose sul loro conto vagabondando per locali, pub, concerti e
backstage, e alcuni di essi si sono talmente fidati di lui da consentirgli di imprimere sulla carta
qualche sensazione in più di quella trasmessa dai dischi. Kent ricorda a memoria il suo primo
articolo per il «New Musical Express», anche perché l’inchiostro è ancora fresco. L’intervistato
era un certo Iggy Pop. Chrissie non poteva sperare di meglio da una fugace conoscenza di un party
casalingo negli anfratti di Londra Nord.
Nel giro di poche settimane Chrissie e Nick diventano inseparabili. L’estate li coglie a
condividere giradischi, libri e strumenti allo stesso numero civico. La ragazza perennemente in
denim inizia a fare coppia fissa con un giovane che non solo non disdegna le correnti più in voga
del periodo, ma vuole esserne al centro per respirarne l’essenza e raccontarne i segreti. Anche per
Chrissie l’immedesimazione è importante, ma il desiderio di partecipare alla scena non è forte
quanto la voglia di crearne una tutta per sé, con una sua band e qualche complice britannico.
Lavorare nella musica, a qualunque livello, è comunque preferibile a un lavoro da segretaria. A
qualche mese dall’inizio della relazione con Kent, oltre agli interessi e alle lenzuola, Chrissie
inizia a condividerne anche la scrivania allo stesso magazine.
All’inizio del 1974 il settimanale spedisce l’americana a intervistare Brian Eno per un
articolo da centro pagina. Il pezzo funziona ed è il principio di una collaborazione che conduce
Chrissie al cospetto di personaggi diversissimi tra loro come Suzi Quatro e Tim Buckley. Si tratta
di fotografare un’epoca in cui carta stampata e dischi rappresentano gli unici mezzi per tenere vivo
l’interesse attorno a un’artista, anche da una parte all’altra del globo. Gli strilli in copertina e le
foto a tutta pagina sono fondamentali, hanno il potere di muovere un’industria, e occorre stare
molto attenti quando si scambiano quattro chiacchiere dopo un concerto. Se i musicisti non
riescono a frenare le loro boccacce, ci sono manager pagati appositamente per ricordare loro cosa
potrebbero leggere l’indomani sulle riviste.
La pressione è tanta e dopo qualche mese Chrissie giudica l’intero processo della stesura di un
articolo troppo pesante e poco divertente. Kent, al contrario, sembra non voler mai scendere da un
ottovolante impazzito ed è disposto a far parte del gioco a costo di rispettarne le regole più
tossiche. Quando finalmente il giornalista inglese corona il sogno di una certa intimità alla corte
dei Rolling Stones, Chrissie non è affatto contenta dell’influenza che la band esercita su Nick. Lo
accusa di essere una pedina nelle loro mani e tra i due cresce un evidente distacco. Qualcosa che
somiglia a invidia mista a incomunicabilità spinge le due distinte personalità a confrontarsi sullo
stesso terreno e di conseguenza le passioni e gli interessi che soltanto un anno prima avevano
contribuito a consolidare il rapporto non appaiono più così eclatanti. Il lavoro, se portato a casa,
può non essere affatto piacevole.
Nell’estate del 1974 la coppia si separa per un breve periodo. Chrissie lascia il lavoro al
«New Musical Express» e sempre grazie a Nick trova un impiego alla boutique di Malcolm
McLaren e Vivienne Westwood, pionieri in fatto di mode e nuovi stili: mentre nelle vetrine degli
altri empori della città velluto e satin dettano ancora legge, McLaren e la sua bizzarra socia
mettono in commercio latex, pelle e gomma da feticisti. È ancora estate quando Chrissie e Nick si
rivedono. Lui, di ritorno da un viaggio in Francia, porta con sé pochi racconti e un’infezione in
mezzo alle gambe che causa l’immediato ricovero in ospedale della compagna.
Il primo amore giovanile sfuma così tra decibel e batteri. È complicato individuare il modo
per sistemare le cose. È molto più facile lasciarsi trascinare da una sorta di commiserazione,
ottima scusa per concedersi ulteriormente a sesso, droga e rock’n’roll. È ciò che capita a Kent. Al
suo risveglio dalla sbornia d’amore per Chrissie si accorge di non avere ancora ventitré anni,
l’età giusta per accelerare ulteriormente le giornate in compagnia di qualcuno che possieda le
chiavi di un osservatorio tutto speciale per il più affascinate dei mondi. A Chrissie brucia ancora
dentro un tormento che in città non trova sfogo. Si sente nuovamente fregata e sa di non avere
molto tempo per tentare nuove strade.
Attorno al negozio di McLaren bazzica un certo Sid Vicious e per un attimo a Chrissie un
accordo matrimoniale per restare ancora in Inghilterra sembra la soluzione ideale. Ma poi non se
ne fa niente e allora via, a Parigi, dove ad attenderla c’è finalmente un gruppo tutto suo. Si
chiamano The Frenchies e a quanto pare hanno bisogno di rimpiazzare alla svelta il loro cantante
per uno show all’Olympia. L’amato ex tenta di tornare sui suoi passi. I due si rivedono a Parigi,
ma per Chrissie è già tempo di impantanarsi in un’altra relazione a base di droga e rock’n’-roll
con il bassista della sua nuova formazione. I Pretenders sono ancora lontani, per la giovane di
Cleveland, così come le figlie che avrà con Ray Davies e Jim Kerr.

Kid – Pretenders (PRETENDERS)


Quando quei pazzi scatenati di Sid Vicious e Nancy Spungen fanno il loro ingresso come coppia in
cancrena nell’olimpo del punk, scalzano un’altra coppia fuori di testa: Dee Dee Ramone e la sua
folle controparte femminile Connie Gripp. Ma non stiamo parlando di un rapporto duraturo o
romantico; i protagonisti di questa singolare relazione, se oggi fossero ancora in vita, non
sprecherebbero il loro affanno per ricordarsi l’uno dell’altra. «Pazza svitata» potrebbe essere il
commento di Dee Dee alla vista dell’unica foto in circolazione dell’ex fidanzata. E quest’ultima,
con tutta probabilità, glisserebbe su quel capitolo della sua vita. O forse no. Magari ci farebbe
accomodare nel suo salotto buono, se mai ne avesse uno, e ci racconterebbe della trilogia del
terrore a lei dedicata nell’album di debutto dei Ramones. Ma come diavolo andò realmente?
A metà degli anni Settanta tiene banco una relazione che fa ammattire mezza New York e che
porta regolarmente a rifugiarsi sull’altro lato della strada quando il bassista dei Ramones e la sua
manesca fidanzata imboccano la via. «Appena la vidi mi piacque da subito», tiene a farci sapere
Dee Dee. «Indossava un abito nero da sera e scarpe altissime, con il tacco a punta, e aveva una
bottiglia di brandy nella borsa. Sembrava un’antichissima contessa vampira decisa a impadronirsi
della mia anima». Le maniere di Connie non sono esattamente aristocratiche, eppure la donna
riesce a rapire anima e cuore di questo alterato punk ben prima delle successive mogli Vera e
Barbara. Connie Gripp è un lampo tossico nella vita di Dee Dee. Di lei non sappiamo nulla né
prima – a parte la sua conclamata dipendenza da eroina – né dopo, a parte la sua dipartita per
overdose. Sappiamo però che è una groupie a caccia di rockstar e che non ha molto a che spartire
con le colleghe che corrono da un backstage all’altro. Connie preferisce la strada come la sua
erede Nancy Spungen, che prima di soffiarle il posto tenta anche di rubarle il fidanzato. Ma a
Connie non gliela si fa, foss’anche per il suo debole per i coltelli e le bottiglie rotte; di questa
ragazza acconciata con lo stesso caschetto del suo uomo c’è da avere molta paura, specialmente se
le gira storto.
Connie arriva nella City sbaragliando la concorrenza di altre giovani donzelle. Gira voce che
sulla West Coast abbia militato per un periodo nelle GTOs di Frank Zappa, ma tra i suoi capelli
non ci sono fiori né tanto meno atteggiamenti che lascino intendere che il leader delle Mothers of
Inventions si sia interessato a lei. E perché mai avrebbe dovuto? Connie a New York è sulla bocca
di tutti, o meglio, la sua bocca ne ha spesso per tutti. Non ci sono belle parole per lei, perché lei
dovrebbe riservarne per altri? La sua fama la precede in ogni tugurio e locale equivoco dove si
respirino colla e rock’n’roll. Si dice in giro che sia una grande chiacchierona, appellativo che non
le risparmia nemmeno il suo futuro fidanzato Dee Dee, dipingendola a tinte piuttosto forti nel
brano Loudmouth. Ma prima di incontrare Dee Dee, l’ossessione di Connie si chiama Arthur
Kane, bassista dei New York Dolls. Un altro rapporto di cui non rimarrebbe traccia se non fosse
per il macabro episodio del pollice mozzato. Narra la leggenda che un bel giorno Connie Gripp,
non accettando l’idea che il suo uomo potesse partire in tour sull’altra costa dell’America senza di
lei, pensò bene di escogitare il modo più rapido per trattenerlo con sé. Kane in realtà se la cavò
con qualche punto e partì ugualmente in tour con le Dolls. Non solo, non abbandonò Connie e
continuò a ficcarsi in situazioni simili. D’altronde stiamo parlando di un tale soprannominato The
Killer. Connie però è una ragazza che non passa inosservata, non passano inosservate le sue curve,
la sua lingua lunga piace e ripugna al contempo e non è certo una a cui importa di rovinarsi il
vestito quando c’è da usare le mani e trascinare per i capelli qualche concorrente. È esattamente
quello che accade quando l’ennesima groupie di turno prova a soffiarle Kane, scaramucce da
adolescenti se confrontate alle risse per accaparrarsi il membro dei Ramones.
Dee Dee è il bello della band con la frangetta. È il più corteggiato e il più schizzato del
gruppo, quello che a soli quattordici anni contrae la prima dipendenza da eroina. Su di lui
aleggiano scimmia e pareri discordanti, soprattutto in merito alle doti di musicista. In realtà si può
senz’altro parlare di limite o poca ricercatezza del suono, caratteristiche che poi contribuiranno a
creare la fortuna della formazione newyorkese. La verità è che per scagliarsi davvero contro un
bassista che si dimentica di collegare lo strumento ai concerti, pubblico e critica dovranno
attendere di lì a poco il più grande fan di Dee Dee, Sid Vicious. Al contrario di Sid, Dee Dee è
ossessionato dalla pulizia – c’è chi dice addirittura che sfiori le quattro docce giornaliere – ed è
un collezionista di orologi oltre che di coltelli, e poi, certo, ama le ragazze appariscenti, vestite di
pelle, abiti bondage, trucco pesante sugli occhi e capelli ossigenati. Il ritratto di molte ragazze in
trance per i suoni dell’epoca, il ritratto di una certa Nancy Spungen che prima di incontrare
Vicious esce per un po’ di tempo proprio con Dee Dee Ramone.
O almeno ci prova. Per qualche ora d’amore con la sua ultima conquista, Nancy deve fare i
conti con quella che adesso è a tutti gli effetti la nuova fidanzata di Dee Dee. Connie sa
esattamente in quale letto scovare il suo uomo. Lo sa anche una sera del 1976, quando in preda a
uno dei suoi lucidi attacchi di follia, armata di tacchi alti e coltello in borsetta, piomba sulla
Ventritreesima Strada e non ci mette molto a sorprendere Dee Dee e Nancy avvinghiati sotto alle
coperte. Connie non batte ciglio, fa esattamente quello che ci si aspetta da una come lei, prende la
lama e accoltella il fidanzato, poi ruba la collezione di dollari d’argento di Nancy per rivenderla e
comprarsi droga e invita Dee Dee a seguirla per sballarsi un po’. «Connie mi fece sfiorare la
morte un sacco di volte, ma, in un certo senso, fu anche quella che mi mantenne in vita. Nessun
altro lo faceva. Avevo tutta questa responsabilità, dovevo suonare ogni sera e a nessuno fregava un
cazzo di sapere se avessi o meno un posto per dormire, della droga o qualcosa da mangiare. A
Connie importava. Lei era tutto ciò che avevo».
È questo il principio sul quale si fondano certe relazioni dell’epoca, quella di Nancy e Sid e
molte altre. Musicisti squattrinati e con dipendenze difficili da mantenere si affidano a ragazze che
stravedono per gente che sembra avere la fama a portata di mano. Chi usa chi? Difficile dirlo. Le
più giovani se la cavano, investono anima e corpo, ma poi superata la maggiore età tornano quasi
sempre a casa da mamma e papà. E così ai ragazzi non resta che cambiare giro. A chi invece sulla
strada continua a viverci il destino non offre sconti; è per questo che si diventa più dure e poco
inclini a piegare la testa. Connie Gripp appartiene a quest’ultima categoria, è una ragazza cattiva,
considerata già vecchia nel giro, lo dicono tutti, ma sostenta il suo uomo quando per la droga
arriva a spendere ogni giorno quello che solitamente guadagna in una settimana. Connie è sempre
lì ad aspettare Dee Dee con un grosso pacchetto di eroina nelle tasche, in una sessione infinita di
feedback e vetri rotti.
Dee Dee Ramone e Connie Gripp sono una barzelletta insieme, un tormentone e un
investimento a fondo perduto. Su di loro si scommette: chi ci lascerà le penne per primo? Dove sta
scritto che quei due debbano continuare a frequentarsi e a odiarsi a quel modo? Una storia
d’amore e di coltelli come questa non si è mai vista prima, ma si vedrà di nuovo molto presto,
perché prima di gettare le armi c’è già chi è pronto a raccoglierle, due disperati che come
un’ombra negli ultimi tempi non hanno fatto altro che seguire Connie e Dee Dee. I nuovi
disgraziati si chiamano Sid e Nancy e i loro nomi ci sono ben più familiari dei primi perché non
hanno l’arguzia di separarsi prima che sia troppo tardi. Sid e Nancy il baratro lo toccano insieme
forse perché troppo innamorati per allontanarsi l’uno dall’altra o soltanto troppo stupidi. Su Dee
Dee circolano tante voci. La più accreditata è quella che vede il musicista comportarsi da idiota,
ma comunque essere dotato di intuito e sopravvivenza, caratteristiche che si sviluppano in fretta
quando si inizia a vivere in strada e a contare solo sulle proprie forze.
Dee Dee Ramone, nel 1977, sposa la donna che gli resterà accanto per i seguenti dodici anni.
L’abbandono nel 1989 coinciderà anche con la sua dipartita dai Ramones e una nuova infatuazione
per il rap, ma questa è solo un’altra incredibile storia del folle bassista e della sua carriera da
solista come Dee Dee King. Tornando invece a uno dei rapporti più squilibrati della storia del
rock, non è difficile capire cosa abbia segnato la parola fine nella relazione tra Connie e Dee Dee.
Casomai nutrissimo ancora dei dubbi, è possibile andare a riascoltare il primo omonimo disco
della band americana, nel quale compaiono tre tracce che sembrano ricalcare molto bene una
vicenda conosciuta dai fan e non solo. Si comincia da Loudmouth, dove la protagonista è appunto
una pupa chiacchierona, si procede con Listen To My Heart, in cui la violenza cede il passo
all’autocommiserazione, e si arriva al messaggio di I Don’t Wanna Walk Around With You, secco,
chiaro, deciso.
Siamo proprio sicuri che Dee Dee abbia scritto quelle canzoni pensando alla sua donna tutta
matta? Potremmo giurare che Connie Gripp fosse la sola a ispirare quei brani? In fondo, i testi dei
Ramones, quanti argomenti avranno affrontato se non un paio, tre al massimo? Anche nel secondo
disco del quartetto, LEAVE HOME, c’è una canzone la cui protagonista sembra avere i tratti di
Connie: si intitola Glad To See You Go, ma questa volta la ragazza non è sola in gioco; un certo
Charles Manson le ruba la scena. Qualche tempo dopo, in un’intervista rilasciata a «Spin», Dee
Dee Ramone confessò che se non avesse rotto con quella ragazza sarebbe sicuramente passato a
miglior vita insieme a lei. Gli emuli Sid e Nancy verranno invece immortalati in Love Kills, brano
del 1986 contenuto nel nono disco dei Ramones, ANIMAL BOY.

Glad To See You Go – Ramones [LEAVE HOME]


I ragazzi innamorati hanno il diritto di sentirsi unici, benedetti. Ma i protagonisti di questa storia
non recano doni di fede né di gioia o di vita; anzi, ereditano solo il peggio delle proprie origini e
crescono nell’aberrazione e nel degrado. Sono votati all’orrore eppure assurgono a eroi tragici di
un romanzetto rosa che nemmeno il più astuto manager del rock’n’roll avrebbe saputo ordire con
pari efficacia. A pochi passi dallo loro morte, Sid e Nancy si prendono per mano e si guardano
alle spalle. A parte i loro corpi martoriati, si lasciano dietro un racconto di due anni appena,
talmente putrido e malato da affascinare diverse generazioni a venire. Un film già visto, una
replica costante che crea dipendenza. Benché se ne conosca il finale, scritto fin dall’inizio, non si
può fare a meno di staccare loro gli occhi di dosso verso il tragico epilogo, chiedendosi infine se
in questa storia l’amore sia mai veramente comparso sulla scena.
John Simon Ritchie e Nancy Laura Spungen sono una coppia di ventenni che alla fine degli
anni Settanta si prendono inaspettatamente il ruolo di Romeo e Giulietta del punk. Come siano
riusciti a spingersi tanto in là è tuttora oscuro. Appare chiarissimo, invece, il loro smisurato
bisogno reciproco, pari solo alla dipendenza da eroina e da qualunque droga a buon mercato si
trovasse in circolazione. All’inizio del 1977, poco dopo l’ingresso di Sid nei Sex Pistols, Nancy
arriva in Inghilterra da New York in cerca di nuove opportunità dopo una breve vita da adulta
spesa come spogliarellista a Times Square e al seguito di gruppi rock come Aerosmith, New York
Dolls e Ramones. Le groupie vanno a caccia di rockstar, ma in questo caso sono le rockstar a
cercare Nancy, che elargisce non solo favori sessuali ma anche sostanze in grado di mandare al
tappeto più a lungo di qualsiasi pratica orale.
Sid e Nancy si incrociano per la prima volta nell’esclusivo locale sadomaso di Linda Ashby.
Sid è lì col suo socio Johnny Rotten. Sembra che siano rivolte a quest’ultimo le attenzioni di
Nancy, inizialmente, ma dopo nemmeno quarantott’ore è da Sid che non riesce più a staccare occhi
e mani di dosso. Sid è attratto dal carattere autoritario di Nancy: in lei gli sembra di riconoscere
alcune caratteristiche disturbanti del proprio carattere. Nancy non è spaventata da questo ragazzo
che gira con una catena e un lucchetto attorno al collo che possono tornare utili nell’eventualità
che le cose si mettano male. Sa di essere lei la più forte, e non ha alcuna intenzione di mollare il
braccio del bassista di una punk band in rapida ascesa in mezza Europa. Più della musica e dello
showbiz, però, è l’eroina a fare da attaccatutto. Un’unione perversa e agghiacciante che non lascia
tregua se non c’è altro per cui valga la pena vivere o se la vita stessa diventa una grottesca
celebrazione di un termine chiamato e inseguito fino alla noia.
Le overdose di uno e dell’altra non si contano. Le ferite autoinferte e l’ostinato sfidare la
morte sono soltanto una parte del circo che va in scena a ogni concerto dei Sex Pistols. Il sound
non è affatto male e, Sid a parte, il gruppo sa suonare eccome e un album come NEVER MIND THE
BOLLOCKS è stato provato e riprovato in studio con dovizia di particolari prima di conquistare le
classifiche inglesi alla fine del 1977. Sid ha però il potere di regalare alla band quell’alone
dannato che gli altri membri possono scordarsi. Se Rotten è il folletto spiritato che canta in trance,
Vicious è il mentecatto che irrita le masse, che accorrono ai concerti per scoprire chi prenderà a
bottigliate il bassista o per leggere cosa si inciderà sul petto. Poco metodo, molta teatralità. Un
musicista che si dimentica di collegare il proprio strumento non si è mai visto.
Cosa succede se ci si identifica con il personaggio che quotidianamente si interpreta?
Innanzitutto, il resto della compagnia comincia a non sopportarti più. Gli equilibri si spezzano e,
dopo uno snervante tour negli Stati Uniti dove la band mette in scena lo spettacolo più marcio e
apocalittico che il manager Malcolm McLaren riesca a tramare, i Sex Pistols terminano la propria
corsa. Nessuno ha più niente da dire all’altro. Sid rientra a Londra e si ricongiunge alla sua
Barbie punk, alla quale non ha mai smesso di pensare per tutto il soggiorno americano. Si
rivedono, si annusano, si azzuffano e poi si amano, come due cani randagi che si detestano ma non
si separano mai. Si rintanano per un po’ a Pindock Mews, nel quartiere di Maida Vale, la centrale
della droga di Londra, poi si trasferiscono temporaneamente a Gunter Grove insieme a Lydon e
alla fine decidono di andare a New York, dopo un ultimo concerto all’Electric Ballroom di
Camden, dove Sid si esibisce con un gruppo di nome Vicious White Kids.
Chelsea Hotel, Ventitreesima Strada, fra la Settima e l’Ottava. Stanza 100. È questo il nuovo
domicilio di Mr. e Mrs. Ritchie. Nancy s’improvvisa manager del suo uomo e gli procura qualche
concerto al Max’s Kansas City, locale di punta della scena musicale newyorkese per oltre un
decennio. L’incasso basta appena per farsi qualche regalo fra innamorati, come eroina e coltelli, e
per dare una festicciola nella camera d’albergo. È il 12 ottobre del 1978: la padrona di casa dà il
benvenuto agli ospiti, amici e spacciatori, e non uscirà più da quella stanza. Viene trovata riversa
sotto al lavandino del bagno, in un lago di sangue. Al suo fianco, un coltello. Potrebbe essere il
suo o quello di Sid, che la trova così al mattino e di quello che è accaduto durante la notte non
ricorda nulla. Forse ha ucciso la sua donna in un accesso d’ira. Forse voleva solo farla tacere per
un attimo. Forse si erano promessi di farla finita entrambi, ma qualcosa è andato storto.
Sid viene arrestato e rilasciato su cauzione. Undici giorni dopo la morte di Nancy, tenta di
uccidersi con una lampadina rotta, non ci riesce, ma confessa alla madre Ann di voler raggiungere
Nancy al più presto. Ormai è una scheggia impazzita. Il 9 dicembre, in un locale di Broadway, Sid
ferisce con una bottiglia Todd Smith, fratello di Patti, e viene di nuovo arrestato. Rilasciato dopo
quasi due mesi di detenzione, il primo febbraio del 1979 lascia il penitenziario di Rikers Island.
Quella stessa sera si presenta a una festa apparentemente ripulito, ma le vecchie abitudini non
sono scomparse e per festeggiare a dovere è dell’eroina che ha bisogno. I soldi glieli dà Ann, che
da ex tossicodipendente conosce e in parte asseconda le abitudini del figlio. La mattina del 2
febbraio Sid viene trovato morto in un appartamento del Greenwich Village, vittima di
un’overdose di eroina. Suicidio, forse. Sid ce l’ha fatta, questa volta. Ha raggiunto Nancy. O forse
voleva solo divertirsi insieme alla donna accreditata come la sua nuova ragazza, Michelle
Robinson.
Michelle e tutti gli altri partecipanti al festino della sera prima restano in vita. Sid no. Sua
madre si ricorda di quando il figlio le raccomandava di essere seppellito insieme a Nancy.
Premonizione e desiderio. Non è dato sapere se il desiderio di Sid sia stato esaudito. C’è chi è
pronto a scommettere che le sue ceneri siano state cosparse sulla tomba di Nancy a Filadelfia e
chi trova più avvincente credere che l’urna sia rovinata a terra, sul pavimento dell’aeroporto di
Heathrow, a Londra. La coppia più disadattata del punk non ha resistito a lungo separata. I
riflettori si sono spenti in fretta sulle vicende giudiziarie dei due. Dopo la scomparsa di Sid, la
polizia ha deciso di archiviare il caso della morte di Nancy Spungen. Un fascio di luce
permanente ha invece iniziato a illuminare una delle storie d’amore più sconvolgenti del rock.

My Way – Sid Vicious (SID SINGS)


Può succedere che alcuni capitoli di una vita abbiano il potere di condizionare un’intera esistenza.
Nel bene e nel male quegli attimi legati a una stagione, a un età e a un luogo, sono irripetibili.
Momenti che non si ripresenteranno più: vengono archiviati alla voce ricordi e restano lì per anni
senza una ragione per occuparsene ancora. Poi accade qualcosa, qualcosa che non ti consente di
tornare indietro eppure ti ancora al passato. Andare avanti è possibile, ma solo con un bagaglio a
mano, spesso ingombrante, col quale fare i conti per il resto dei tuoi giorni. Ti faranno domande
alle quali non saprai rispondere, e sarai la prima a chiederti cose sapendo di non avere la giusta
replica. Cercherai di capire, di prendere tempo, ma una cosa è certa: passare inosservati e fare
finta che niente sia accaduto non sarà più possibile.
Questa storia occupa pochi mesi nella vita delle persone coinvolte, ma non si risolve. Rimane
latente per quindici anni almeno, fino a quando qualcuno non si decide a spostare un masso dalla
bocca dello stomaco. Dopo non ci si sentirà meglio, perché si avranno tanti occhi puntati addosso.
Occorrerà andare più spesso dal parrucchiere e avere un po’ più di riguardo per il proprio aspetto
e per le persone che ci stanno intorno, che forse nemmeno capiranno cosa stiamo facendo, ma è
pur sempre un inizio. Un inizio che svela fatti realmente accaduti così come la memoria li riporta a
galla. Un’unione acerba, un matrimonio consumato in fretta, maglie che si allargano e permettono
intrusioni esterne e preghiere, tante preghiere. Peccato solo non vengano sempre esaudite
nell’ordine esatto in cui sono state formulate.
Il 23 agosto del 1975 Ian Curtis e Deborah Woodruff si sposano in una chiesa a poche miglia
da Macclesfield, sobborgo di Manchester. Sono entrambi appena maggiorenni. I soldi non sono
molti, dapprima ci si accontenta di modeste soluzioni domestiche a Hulme, poi a Chadderton, fino
a quando nel mese di maggio del 1977 la coppia trova un alloggio più confortevole al numero 77
di Barton Street a Macclesfield. Quando due anni dopo, il 16 aprile del 1979, nasce la prima e
unica figlia Natalie, il rapporto tra Ian e Debbie non va affatto bene; troppe cose hanno già messo
una distanza tra i due, che decidono di porre ufficialmente fine al matrimonio all’inizio del 1980.
Nel mezzo, la nascita e l’ascesa di una delle band più celebri del Regno Unito, una malattia dagli
effetti devastanti e un’altra relazione tutt’altro che trascurabile.
Il gruppo che nel giro di un paio di anni assurge a vero e proprio monumento nazionale è
quello dei Joy Division. Con un solo album all’attivo pubblicato nel 1979, la band si è già
guadagnata apparizioni televisive, la copertina del «New Musical Express», il più importante
magazine musicale del paese, tour in mezza Europa e la possibilità di procurarsi a breve
l’attenzione del pubblico oltreoceano, sempre molto interessato ai fermenti della scena inglese.
L’album si intitola UNKNOWN PLEASURE e colpisce da subito per l’originale copertina,
un’illustrazione realizzata da Peter Saville e Chris Mathan ricalcata da un’immagine presa da The
Cambridge Encyclopedia of Astronomy. Ascoltando il disco, poi, si apprezza la potenza delle
parti vocali di Ian; musica e testo portano l’ascoltatore a immedesimarsi nell’interprete, che
dichiara fin dalle prime battute di non avere nessuna guida su cui contare. Brani come Disorder,
Shadowplay e She’s Lost Control contribuiscono in maniera determinante al successo dell’album.
Il clamore e l’intensa attività live incidono negativamente sullo stato di salute di Curtis,
sofferente da qualche tempo di attacchi epilettici. Proprio le performance dal vivo minano
l’equilibrio del cantante, che durante i brani si esibisce in una sorta di danza schizofrenica ispirata
alla sua malattia. Perché limitarsi a cantare qualcosa che si può anche dimostrare?, si domanda
Ian. Ian che pare sempre troppo coinvolto in ciò che descrive: l’alienazione, l’isolamento
emotivo, il degrado urbano, la morte, sono temi ricorrenti nei suoi scritti. Eppure è come se ci
fossero due anime distinte in un solo corpo, perché quando non è sul palco Curtis è soltanto un
ventenne della provincia che ha voglia di ridere e scherzare. E sono in molti a pensare a uno
stupido scherzo quando i primi attacchi epilettici lo colgono durante le performance della band.
Nel mese di agosto del 1979, nel corso di un concerto dei Joy Division, all’epoca in tour coi
Buzzcocks, c’è qualcuno tra le prime file che non riesce a togliere gli occhi di dosso a Ian. In
realtà sono in molti a rimanere sbalorditi dall’esibizione del gruppo, ma una giovane belga sente
che deve assolutamente scambiare quattro chiacchiere con quel ragazzo. Dopo la fine del set si
rivolge al manager Rob Gretton e insieme concordano un’intervista. La ragazza si chiama Annik
Honorè e si è da poco trasferita a Londra per lavorare all’ambasciata del suo Paese. Ma è la
musica la vera fascinazione di Annik. L’infanzia trascorsa ad ascoltare dischi dei Rolling Stone, la
folgorazione a un concerto di Patti Smith nel 1976 a diciassette anni e poi The Stranglers alla
Roundhouse di Londra e David Bowie alla Wembley Arena… Nell’estate del 1979 Annik dà
sfogo alla sua passione scrivendo qualche articolo per il giornale «En Attendant», ottima scusa
per andare ogni sera a un concerto diverso.
Un mese dopo quel primo concerto, Annik ottiene la sua intervista a conclusione di un’altra
esibizione della band. Viene invitata a seguire il gruppo nell’appartamento di amici, a nord di
Londra, e lì entra in contatto con colui che l’ha conquistata. Ian si dimostra sereno, simpatico,
lusingato da tante attenzioni. Annik, dal canto suo, fa la conoscenza di un ragazzo educato, dallo
sguardo dolce, che non cerca di nascondere le proprie fragilità, al contrario, pare essere felice di
avere trovato finalmente qualcuno con cui parlarne. Il primo incontro viene descritto dal fotografo
e regista Anton Corbijn, stregato a tal punto dalla band di Manchester da decidere di seguire il
quartetto per un breve tratto della loro carriera e poi di dedicare il suo primo film, Control,
proprio a Curtis. La pellicola si ispira in realtà al volume pubblicato nel 1995 da Deborah Curtis,
Touching From a Distance, e si concentra soprattutto sulle complesse vicende sentimentali da
sempre causa di profonde crisi nell’animo di Ian. Malessere sedato solo dalla sua repentina
scomparsa, avvenuta nel mese di maggio del 1980.
Prima del 1995 Annik non aveva un’identità definita. Poi rientra in una storia che aveva già
vissuto e messo da parte nella certezza che nessuno l’avrebbe rivangata. Ma Annik e Debbie
hanno idee molto differenti riguardo ai propri sentimenti. Annik all’inizio decide di non parlare,
mentre Deborah racconta ogni dettaglio del rapporto tra Ian e Annik: la distanza venutasi a creare
dopo la nascita di Natalie, le assenze sempre più frequenti, fino alla scoperta dell’amante, causa
principale delle decisione di prendere definitivamente le distanze da Ian. La storia che rivelerà
Annik, invece, è ben diversa.
Quando gli incontri si fanno più frequenti, Ian confessa ad Annik che il suo matrimonio è già
finito da un pezzo. Il ragazzo appare sempre più provato, sia mentalmente sia fisicamente, e ha
bisogno di un’amica alla quale raccontarsi. Annik è lì, ai piedi del palco, nei camerini, a volte in
furgone nei lunghi tragitti tra un concerto e l’altro. Per lei la band si dimentica del regolamento che
vieta ragazze negli spazi condivisi da tutti membri del gruppo. Ma la verità di Annik, a distanza di
oltre trent’anni, racconta di un legame puro e casto, una relazione sentimentale platonica, mai
consumata anche a causa dei farmaci assunti da Curtis che inibivano qualunque tipo di rapporto
fisico. Al loro posto parole, poesie, confidenze che potevano durare intere notti e al termine delle
quali dubbi e rimorsi si allungavano come ombre sul capo di Ian.
Annik non ha mai voluto uscire dalle quinte, eppure un bel giorno Deborah ha deciso di
trascinarla con violenza al centro del palcoscenico, illuminarla col faro più luminoso e farle
recitare un ruolo che ancora oggi sente estraneo. Anche Debbie, dopo il 1980, impersona la parte
della moglie che in gioventù non aveva più voglia di interpretare. Cerca in tutti in modi di
riappropriarsi di un periodo nel quale non aveva avuto più voce in capitolo. Il 17 maggio del
1980 è Annik che Ian vuole vedere prima di partire per il tour che porterà i Joy Division a suonare
negli Stati Uniti. Si accordano per incontrarsi all’aeroporto di Heathrow l’indomani, ma
quell’ultima notte trascorsa in solitudine per Ian è un peso troppo grande da sopportare e ad Annik
non restano che ricordi, parole, lettere e un biglietto aereo di ritorno per Bruxelles compratole da
Tony Wilson, amico e boss della Factory, a nome Annik Curtis.

Love Will Tear Us Apart – Joy Division (UNKNOWN PLEASURE)


Mr & Mrs Smith. Una coppia anonima, una coppia come tante. Venticinque anni di matrimonio e
quasi quaranta di vita insieme. Succede. Succede di incontrarsi al ballo della scuola o ancora
prima, all’ingresso di quello stesso istituto a cui dedicherai tempo e risorse. E può accadere
persino di ricevere qualcosa in cambio al di là dell’istruzione. Qualcuno in questo caso. Persone
con le quali crescere e confrontarsi, a cui difficilmente dire addio, foss’anche perché con loro se
ne andrebbe una grossa parte di te. Robert Smith è un uomo che ama i cambiamenti, tranne quando
riguardano se stesso. Deve essere per questo che dalla fine degli anni Settanta non ha mai
abbandonato il gruppo che lo ha reso celebre in tutto il mondo, nonostante gli avvicendamenti in
formazione. Deve essere per questo che dal 1973 continua a guardare negli occhi la stessa donna
senza annoiarsi la vista. «La ragazza più bella della scuola. Ci uscivo perché faceva gola a tutti».
Ormoni in subbuglio e sete di conquista, inizia così una delle relazioni più romantiche e durature
del rock. Lei si chiama Mary Poole e a quanto pare è la donna giusta, o forse soltanto il primo
treno, ma talmente addobbato e confortevole che è un peccato perderlo.
I signori Smith passano inosservati. Pochi scatti li ritraggono insieme e si tratta quasi sempre
di immagini datate. La loro unione non è mai stata oggetto di servizi scandalistici, non rilasciamo
interviste di coppia e non se ne vanno in giro per il mondo mano nella mano per cause umanitarie.
Un’unione di una noia mortale o una felicità esclusiva, un amore destinato a due soci soltanto.
Possibile? Accade a due individui simili e tuttavia complessi, un ragazzo e una ragazza pronti ad
accogliere i rispettivi dubbi come sfide. Mary Poole all’inizio non crede particolarmente nel
potenziale della band del fidanzato, ma subito dopo la scuola è lei a trovare un impiego e a
soddisfare le spese extra di Robert. Un compagno particolare quello di Mary, testardo, arrogante e
con una sola idea in testa, concentrarsi sulla musica senza distrazione alcuna e obblighi di alcun
tipo. Un prendere o lasciare, un investimento di lungo corso che soltanto negli anni darà i suoi
frutti. I signori Smith dovranno attendere il 1985 per condividere casa e il 1988 per la firma del
legame, prima spazio alla carriera e agli stravizi, ovviamente.
L’industria del rock ha le sue regole. Quando ne sei fuori bisogna fare carte false per entrare,
una volta dentro occorre prestare molta attenzione per non perdere quello che si è guadagnato,
guardarsi le spalle e soprattutto restare vivi. A vent’anni quest’ultima clausola è probabilmente la
più difficile da rispettare, se le cose iniziano a funzionare. È quello che accade ai Cure, fin dagli
esordi imbarcati su una navicella che non conosce sosta, ma turbolenza a profusione. Le
ossessioni di Smith sono quelle di un ragazzo della sua età che ama flirtare con il lato oscuro della
vita. Il pacchetto comprende la musica, certo, ma anche un’estetica che all’inizio degli anni
Ottanta diventa il marchio della band. Rossetto rosso, matita nera intorno agli occhi, capelli
arruffati e camice scure svolazzanti, il leader dei Cure incontra la strega del punk Siouxsie Sioux e
la sua immagine cambia radicalmente. Si tratta di un incontro fondamentale per Smith, che dal
1979 al 1984 suona regolarmente la chitarra nei Banshees, partecipando al processo creativo di
alcuni brani del gruppo. Se con il bassista Steve Severin Smith crea un sodalizio incentrato
sull’abuso di sostanze chimiche con Siouxsie le cose sono più articolate.
Per la prima volta nella sua carriera, la stampa inizia a occuparsi di questo ragazzone che
milita in due band promettenti. All’inizio è una festa, almeno fino a quando si radunano sulla porta
di casa diverse voci riconducibili tutte al concetto di responsabilità. Robert Smith insegue un
sogno o forse soltanto una vita parallela in un altro gruppo, vicino, troppo vicino a una donna
dalla personalità debordante. «Vado molto d’accordo con Siouxsie, il che è piuttosto strano. Sono
una delle poche persone che ci riescono. Credo che sia perché non la prendo seriamente». A
quanto pare le cose invece si fanno serie eccome, se Smith comincia ad accarezzare l’ipotesi di
congelare i Cure per dedicarsi totalmente al suo impegno nei Banshees. Le parole per descrivere
il rapporto di complicità con la cantante dal look estremo si moltiplicano. «Adottiamo identità di
personaggi diversi a seconda delle situazioni, tipo Batman e Robin. Ma lei probabilmente direbbe
che sono più simile al Pinguino». Soltanto qualche tempo prima, il personaggio dei fumetti più
amato da Robert risultava essere Betty Boop, così simile alla sua Mary Poole.
La relazione tra i due non trova riscontri effettivi, così come la successiva attrazione di Smith
per un’altra strega buona dell’ovest che risponde al nome di Lydia Lunch, eppure l’effetto sul
cantante è tangibile. Quando all’inizio degli Ottanta decide di ricomporre i pezzi della sua
formazione, la metamorfosi è radicale. Il dopo-Siouxsie lascia tracce in superficie tangibili nel
nuovo look adottato dai Cure, ma anche nel profondo. Lo stato psicofisico di Smith, sempre più
dedito all’alcol, è seriamente compromesso. «Il mio morale era a terra. Non mi interessava più
niente. Ci sono volute diverse cose per farmi uscire da quello stato». A metà del 1982 Mary
rappresenta l’unica persona costante nella vita dell’uomo, la sola che non gli abbia voltato le
spalle o con la quale non sia dovuto scendere a patti per divergenze artistiche inconciliabili. Mary
Poole, abbonata a questo punto al pessimismo cosmico del compagno e alla sua apparente
incapacità di costruirsi una propria indipendenza affettiva, lontano almeno dalla casa dei genitori,
raccoglie Robert e lo aiuta a superare le difficoltà. «È stata quella che mi ha dato più forza.
Quando conosci una persona da tanto tempo, hai la sua stessa età e le stelle esperienze alle spalle,
hai dei vantaggi enormi, perché puoi capire le sue intenzioni e capire cosa gli stia succedendo».
La pillola della felicità per Robert Smith si chiama The Cure. È la sua band quella che sceglie
per ritornare a galla. Nell’estate del 1984 si congeda dai Banshees, rimette in piedi la sua
formazione e parte per una vacanza nel Galles con la fidanzata. Una parentesi salutare che
accoglie i primi semi di cambiamento se non nei testi della band inglese, sempre fradici
dell’umore nero del cantante, nella ricerca di una stabilità emotiva. Nel 1985, Robert Smith e
Mary Poole acquistano un appartamento a Londra e iniziano la loro vita sotto lo stesso tetto. I fan
devono accontentarsi della musica e di quel privato reso pubblico in rarissime occasioni. Nel
1980 è toccato al brano M solleticare le fantasie dei seguaci dei Cure. Se non una vera e propria
canzone romantica, una ballata che chiunque presto o tardi è riuscito a ricondurre a Mary. Per
incappare in qualche segnale meno velato occorre però attendere il 1987, quando sul disco KISS
ME KISS ME KISS ME compare Just Like Heaven, brano ispirato da una notte trascorsa dalla coppia
sulla scogliera di Beachy Head, nel sud dell’Inghilterra. Non solo, nel video girato esattamente
nella località che ha contribuito a suggellare la canzone, oltre alla band compare Mary che compie
piroette in un ampio abito bianco. La donna non è solo la ragazza della canzone, è il femminile
ideale abitato dai Cure.
Ma è solo l’inizio. Nel 1988 Robert Smith ha diversi progetti in testa e come sempre si serve
di canzoni per realizzarli. Il più importante è sul piano personale. Il brano si intitola Lovesong, il
primo brano d’amore dei Cure, e il fatto che sia tra le tracce contenute in un disco intitolato
DISINTEGRATION è solo un dettaglio. «Ho mostrato apertamente i miei sentimenti. Non ho cercato
di fare il tipo che non si lascia vincere da nessuna emozione». Se Smith impiega dieci anni per
sentirsi a suo agio a cantare una canzone d’amore, ne impiega quindici per chiedere alla propria
donna di diventare sua moglie, e certamente la proposta è all’altezza delle aspettative. «Non
sapevo cosa offrirle e così ho scritto quella canzone per lei, un regalo economico e pieno di
sentimento». Non un anello di diamanti, ma un brano che chiunque può ascoltare. Un dono che
acquista valore nel tempo. Il 13 agosto del 1988 i due si sposano all’abbazia di Worth nel Sussex,
il dj set della lunga notte di festeggiamenti è affidato allo sposo. «Ci siamo sposati per passare un
bel giorno, così Mary poteva passeggiare per la navata di una chiesa indossando un vestito bianco
e tutti e due potevamo riunire il parentado. Una cosa non molto originale, ma coinvolgente ed
emozionante».
I signori Smith non amano il clamore. Certo si distinguono, ma rimangono in sordina. Il resto è
storia o soltanto spontaneità, piacere. Lo stesso che porta la coppia a lasciare la città per la
campagna, inseguendo privacy e una vita normale. A trent’anni, Robert Smith se ne sente addosso
almeno il doppio, ma questo non gli impedisce di abbandonare frustrazioni e sentimenti che
sembrano appannaggio dei più giovani soltanto. Spirito naïf e meticolosità portano i Cure negli
anni successivi a condividere le classifiche di vendita con generi e personaggi che non hanno
davvero niente a che spartire con la storia personale e musicale di Robert Smith e ad ogni
intervista il solito macabro presagio di non avere la certezza e nemmeno la voglia di ripresentarsi
sul palco truccato come il più funereo dei clown si ripresenta. Eppure. Eppure Mr Smith non ama
confrontarsi con trasformazioni radicali sulla propria pelle. Resta fedele a se stesso, alla sua
musica e alla compagna di vita. È chiaro che in quest’ordine di idee persino la paternità non è
contemplata. «Non sono tagliato per fare il padre e sono fortunato perché Mary pensa la stessa
cosa». La coppia però adotta due bambini a distanza e i nipoti possono contare su uno zio che
durante i weekend prenota voli per parchi di divertimento in giro per l’Europa e che diventa
l’idolo dei ragazzi comparendo nella serie animata South Park al grido di “Robert Smith Kicks
Ass”.

Lovesong – The Cure [DISINTEGRATION]


Ci sono uomini che hanno il privilegio di vivere una doppia vita, e ad alcuni è concesso persino di
assaporare due lati della stessa medaglia, in una di queste vite. Non si sta parlando della moglie in
vacanza e dell’amante in città, bensì della più complessa strategia che spesso sta dietro a un
cantautore di successo. Tom Waits, ad esempio, mica uno qualunque: il cantastorie che sa sì
intrattenere, ma ha anche il dono di persuadere l’uditorio che dalla sua bocca escono solo verità, e
i suoi abiti ormai smessi nessuno li indosserebbe con la stessa disinvoltura. Waits è come sembra.
All’inizio della carriera è il reietto che vive sulla strada come i suoi idoli beat. Dategli l’asfalto,
una vecchia macchina con la carrozzeria arrugginita, l’insegna di un motel, una camera putrida e
l’artista avrà ciò di che vivere e scrivere. Ma ciò che più sembra colpire il nostro antieroe da
marciapiede non è l’alcol, non è la droga o il gioco d’azzardo; è piuttosto l’amore, meglio se
disperato e non ricambiato, quello che costringe ogni uomo ad allontanarsi dai fantasmi dal
passato, a rifugiarsi sulla costa opposta del paese e cominciare a pensare che forse è arrivato il
momento di cambiare vita.
Ma Tom Waits mantiene davvero ciò che promette nei suoi dischi? Da principio, questo
vagabondo che vive in prima persona le storie che incide sembra essere dannatamente autentico. È
lì riposta la sua ispirazione, in quella disperazione da bar che tanto lo attrae e lo diverte, piede
sull’acceleratore, bottiglia tra le gambe e demoni nel bagagliaio. Chi altri può millantare di essere
venuto al mondo sul sedile posteriore di un taxi mentre il tassametro continuava a correre? Chi
altri ha per dio Ray Charles e per altare un jukebox? Waits si sente unico e perciò benedetto,
invincibile, dal momento che non ha ancora incontrato sulla sua strada uno spettro con le sue
stesse sembianze, solo più femminili. A guardare meglio non si tratta nemmeno di uno spettro, ma
di una donna che ha scelto di vivere, esprimersi e stare al gioco meglio di lui. Il suo nome è
Rickie Lee Jones, e quando il musicista americano se la trova di fronte, il tendone del suo piccolo
circo freak comincia a barcollare.
«La prima volta che vidi Rickie Lee mi venne in mente Jane Mansfield. Era estremamente
attraente, le prime reazioni furono alquanto primitive, primordiali, persino. Era il 1977, lei
beveva molto, io pure, e così ci ubriacammo insieme. Puoi imparare molto di una donna quando si
fanno questo genere di cose insieme». Rickie Lee ha poco più di vent’anni quando incontra Tom
nel locale di Santa Monica dove quest’ultimo è solito esibirsi. Potrebbe trattarsi di uno dei tanti
incontri da bar tra la star della serata e una cameriera piuttosto avvenente, l’ennesima storia fatta
apposta per ispirare una canzone una volta smaltita la sbornia, ma non è così. Rickie Lee quella
sera non è solo una cameriera che deve guadagnarsi da vivere. È un’interprete e sul palco i
riflettori sono tutti per lei. «Il suo stile sul palcoscenico era eccitante e stimolante, molto sexy».
Fino a quella sera la donna ha con sé soltanto qualche canzone, l’affitto arretrato da pagare e la
solitudine per bagaglio a mano. Poi, in un lampo, tutto cambia: due ventenni – che a giudicare
dalle storie che raccontano, di primavere sembrano averne assaggiate almeno sessanta – si
riconoscono e si fanno compagnia.
Waits e Jones si innamorano all’istante e altrettanto velocemente prende quota una tumultuosa
avventura sentimentale, una relazione lubrificata da alcol e jazz. A volte sono amanti, altre
compagni di bevute, insieme frequentano i locali notturni più fumosi e vanno in cerca degli angoli
più scuri di Hollywood. Rickie Lee non ha paura di nulla, accetta ogni sfida, forse perché è in giro
da un pezzo e ha imparato a cavarsela meglio di qualsiasi maschio. «A modo mio l’amavo
pazzamente, eppure mi spaventava a morte. A volte si comportava da vecchia sporcacciona, altre
volte da bambina. Spesso saltavamo sui treni merci o andavamo a rubare le tende dalle finestre
delle case di Beverly Hills». E ci sono i party ai quali ubriacarsi e dare spettacolo, finché non
viene il momento di darsela a gambe, correre all’impazzata al rifugio di Tom, una camera da 9
dollari a notte al Tropicana, l’hotel delle rockstar, dove Jim Morrison era solito soggiornare
quando i viaggi cosmici gli duravano un po’ più del dovuto, lo stesso dove Janis Joplin venne
trovata morta dopo un’overdose di eroina. C’è insomma di che scrivere e stordirsi al Tropicana,
ed è proprio in una stanza di quell’albergo che Rickie Lee, dietro incoraggiamento di Tom, inizia a
comporre i brani per il suo imminente esordio discografico.
Quando nel febbraio del 1979 esce il primo omonimo disco di Rickie Lee Jones, il pubblico è
preparato e non aspetta altro che conoscere più da vicino la donna che ha monopolizzato
l’immaginario di Waits. Soltanto qualche mese prima, infatti, l’uomo ha dato alle stampe un nuovo
album, BLUE VALENTINE, che non lascia dubbi sui sentimenti del suo autore, comunque fugati dalla
splendida immagine di copertina che ritrae i due amanti in un tipico spaccato americano caro a
entrambi: un drugstore aperto tutta la notte, l’amico Chuck E. Weiss – compare di scorribande – da
un lato, e una Thunderbird del 1964 che pare su di giri, a giudicare dagli sguardi rapiti e sexy dei
nostri fuorilegge. Grazie a tutto questo la coppia acquista una grande popolarità tra i media. C’è in
effetti qualcosa di incredibilmente nuovo ed eccitante all’orizzonte, perché qui non si sta parlando
dell’unione hippie alla Joni Mitchell e Graham Nash o alla Stephen Stills e Judy Collins, e non si
tratta nemmeno della favola a tinte pastello di James Taylor e Carole King. Nossignori, l’agenzia
matrimoniale di Los Angeles questa volta ha a che fare con una coppia che scardina i canoni
sentimentali dell’epoca.
«Mi hanno paragonato molto a Tom Waits; lo capisco, dal momento che entrambi descriviamo
dei caratteri presi dalla strada, ma il nostro modo di scrivere e cantare non ha niente in comune.
Andiamo in giro per le stesse strade ed esiste una medesima situazione che ha a che fare con il
jazz. Noi viviamo nella parte jazzata della vita». Ma alla stampa non gliene frega nulla di separare
le etichette: per un po’ Rickie Lee Jones è Tom Waits in gonnella e questo basta a fare del suo
disco d’esordio un successo. Un successo che permette alla donna di pagarsi l’affitto, finalmente,
di andarsene in giro per concerti e di guadagnare quella sicurezza che prima le era sempre
sfuggita. Il problema ora è che quei baci languidi, quegli abbracci eterni e i sorrisi smaliziati non
bastano più a tranquillizzare un uomo minacciato dall’improvvisa fama della propria ragazza, un
uomo che deve cambiare aria per rinfrescare l’ispirazione. Cosa accade in realtà nella testa di chi
appena pochi mesi addietro se ne è uscito con un disco che in molti modi rispecchia la sua
relazione, alimentato dall’energia dal suo stesso amore?
Esistono pareri discordanti riguardo la fine inaspettata di questa storia. E quasi tutti hanno a
che fare con quel tipo di verità e doppia vita che solo certi uomini possono permettersi. Quel che
è certo è che entrambi i protagonisti di questa vicenda per anni non vogliono nemmeno sentire
nominare il nome dell’uno e dell’altra, difendendo a spada tratta porzioni di vita che da questo
momento in poi non è più divertente dare in pasto al pubblico, che si tratti di sbronze o effusioni al
chiaro di luna. Il successo di Rickie Lee comporta un fitto programma di impegni, che sommati
allo stress per l’inattesa popolarità mina l’equilibrio della donna. «Ero fisicamente a pezzi,
terrorizzata dall’ansia e dalla paura, ma non sapevo di chi o cosa. E un bel giorno ho rotto con
Tom. Eravamo sognatori romantici che si amavano intensamente perché caduti entrambi nel posto
sbagliato. Ma il gioco stava diventando troppo pericoloso». A quanto pare il gioco sta diventando
pericoloso anche per Waits, che forse si rende conto di averne accumulate fin troppe di storie da
bar, o magari è il gioco stesso a non divertirlo più. Sta di fatto che un bel giorno l’uomo fa i
bagagli e cambia aria. Quando ritorna, la sua casa non è più uno squallido hotel. Nei suoi piani
c’è ben altro.
Alla fine degli anni Settanta, Tom Waits smette i panni dell’ubriacone depravato che vive di
espedienti per abbracciare quelli di un gentiluomo con la testa ben piantata sulle spalle. Un
signore defilato che all’alba dei trent’anni decide di cambiare vita al fianco di una moglie che
pare corrispondere alle sue esigenze. Ciò che è stato è riposto in una scatola di malinconica
meraviglia. Il nuovo Waits ha altro a cui pensare, una casa dalle finestre socchiuse, senza buchi
nelle serrature dai quali sbirciare, eppure attraverso i dischi è facile percepire opportune dosi di
egocentrismo e appagamento. Un ragazzo in fin dei conti normale, nonostante le follie proiettate in
passato. Pochi mesi dopo la rottura con Rickie Lee Jones, Tom Waits sposa la donna che gli è
accanto ancora oggi. Non sappiamo se per la prima parte della sua vita abbia recitato una parte o
se abbia semplicemente seguito un impulso, sappiamo però che le parole di Rickie Lee
corrispondono al vero quando tra i motivi della rottura tira in ballo il desiderio di Waits di vivere
una tranquilla vita di provincia, con tutti gli annessi e connessi, e che in questo disegno le cattive
ragazze non sono contemplate.
Tom Waits mette ordine nella sua vita e lo fa vicino a una femmina che non ha vizi, ma
abitudini. Lo allontana dalle cattive compagnie del passato e da chiunque possa esercitare una
pessima influenza. Lui ricambia in musica, scrivendole quella Jersey Girl resa poi immortale
dall’altro ragazzo di strada del New Jersey, ma questa è un’altra storia. Rickie Lee Jones, invece,
sulla strada ci resta. «Quando stavamo insieme vivevamo come personaggi di un film. Io non vedo
niente di romantico nell’essere povera o alcolizzata o drogata o puttana. Ma ti appassiona così
tanto recitare queste parti che non ti va di smettere». Per superare la rottura sa che la sola cosa che
può davvero aiutarla è la musica, e le sue canzoni sono lì per offrirle riparo. Rifugiatasi in
un’altra stanza d’albergo, questa volta di lusso, per un po’ si concede agli stravizi che lo Chateau
Marmont le offre. A poco a poco, dopo qualche mese il dolore si trasforma in poesia. PIRATES, la
seconda raccolta di inediti dell’autrice, esce nel 1981. Il fantasma di Waits permea quasi ogni
brano dell’album. In We Belong Together si radunano i cocci di una relazione bohemienne andata
in frantumi troppo presto; A Lucky Guy sembra sottolineare un sentimento di adorazione non
corrisposto; Living It Up è il resoconto dei giorni più folli.

We Belong Together – Rickie Lee Jones [PIRATES]


La donna giusta, quella al cui fianco impari a riconoscerti, a crescere e ad accettarti. Quella che
non ti fa sentire solo, che sa esserci senza pesarti, che ti capisce e ti sa ascoltare e non si
sognerebbe mai di farti una domanda di troppo. Quella che si accontenta e sa come accontentarti.
Quella che appoggia il tuo sogno e arriva ad amarlo come se fosse il suo. Quella che un bel giorno
apparirà sulla soglia della porta, chiederà permesso prima di accomodarsi e saprà attendere il
momento giusto prima di sistemare le sue cose. Quella che ti renderà padre, ti farà sentire l’uomo
più importante del mondo eppure ti solleverà dalla quotidianità meno attraente. Quella che si
occuperà di te come nemmeno tua madre è riuscita a fare e poi scivolerà nel tuo letto per farti
dimenticare ogni singola donna che l’ha preceduta. Quella che saprà proteggere te e l’intera
famiglia con tutte le sue forze senza lamentarsi mai. Quella che continuerà a tenere accesa la
fiamma, a nutrire la passione giorno per giorno, anno dopo anno.
Sempre ammesso che esista, quando la incontri rischi di non riconoscerla, la donna giusta. È
successo per esempio a Bruce Frederick Springsteen, che sul finire degli anni Settanta incrocia
per la prima volta lo sguardo della cantante dalla folta chioma rossa Vivienne Patricia Scialfa.
Già da tempo il rocker del New Jersey medita di aprire le porte della sua E Street Band a una
voce femminile, ma quando Patti, un’altra figlia del New Jersey, si presenta a un provino per il
ruolo di corista, lui la liquida in fretta a causa della giovane età. Si ricorda di lei, o almeno così
gli pare, quando nel 1982 si ritrovano nel backstage di un concerto, e lui borbotta un
originalissimo «Ci siamo già conosciuti, ma non ricordo il tuo nome». Cosa alquanto probabile,
del resto, data l’urgenza con la quale al tempo il Boss è solito passare da una donna all’altra.
A metà degli anni Settanta, per la E Street Band le cose ingranano e per il frontman del gruppo
le donne iniziano a fioccare. Springsteen in realtà è una rockstar atipica per la sua epoca. Al
contrario dei suoi colleghi, non sembra abbagliato da lusso e denaro e certamente non pare
interessato a legare il suo nome a quello di una modella in carriera o di una ragazza dell’alta
società. Tutte pruderie che lascia a gente meno raccomandabile e più standardizzata in termini di
canoni rock’n’roll. Il ragazzo della provincia americana è maturato, ma non si crogiola nelle
fortune del suo sogno. La musica e il lavoro restano al centro della sua vita d’artista, tutto il resto
non ha molta importanza. A parte il sesso, che ne ha eccome, specie se si è in cerca di ispirazione
per il testo di un pezzo che farà avvampare madri e figlie. E non occorre nemmeno impegnarsi
troppo: una notte in un motel sarà più che sufficiente.
Questo almeno fino al 1984, quando la solitudine di tour sempre più alienanti si fa sentire e le
retrovie del palco cominciano a brulicare di mogli e passeggini. Anche il Boss fa la sua scelta,
una scelta che coglie tutti di sorpresa perché la candidata è un’attrice di ventiquattro anni
lontanissima dai giardini del Jersey e dall’universo schietto e per nulla patinato di Bruce. Julianne
Phillips, nata per essere eletta reginetta del ballo della scuola piuttosto che per andare in tournée
per mezzo mondo, il 13 maggio del 1985 sposa Springsteen e condanna una ragazza dai capelli
rossi a comporre un intero nastro di canzoni talmente tristi che nessuno si affretta a pubblicare. A
quel punto della storia, Patti la Rossa è riuscita già da un anno a coronare il sogno di entrare a far
parte della band che ha sempre inseguito. Quanto all’uomo dei suoi desideri e della sua stessa
terra, per una volta pare comportarsi come una qualunque rockstar ammaliata da riccioli biondi e
quarta misura.
Patti Scialfa è alta, magra, ha capelli lunghi e ama la musica. Non sarà dotata di una voce che
fa girare la testa, ma sul lato del palco, quando la E Street Band attacca, sta davvero molto bene. È
la presenza femminile che mancava, qualcosa di più di un semplice orpello. Va d’accordo col
resto del gruppo e ha la fiducia del capo. È un’amica, ed è bello avere accanto qualcuno con cui
parlare. Già nel 1986 il matrimonio tra Bruce e Julianne dà segni di cedimento. La Phillips
antepone la carriera alla famiglia e le differenze tra i due emergono alla svelta. Addetti ai lavori e
gente comune, tutti a chiedersi: cosa avranno mai in comune quei due? Springsteen confessa alla
stampa di non avere idea del perché le sue storie d’amore finiscano sempre nella meschinità né
del perché gli riesca così difficile stabilire un contatto intimo con una donna. La relazione, tra alti
e bassi e lunghe separazioni, prosegue fino alla fine del 1987.
L’anno dopo qualcosa cambia nella vita del musicista. Uno sguardo lanciato verso un punto
preciso del palco lo costringe a fare i conti con la donna giusta e a lungo ignorata. TUNNEL OF
LOVE, un intero album dedicato ai sentimenti, non basta a raccogliere i cocci di un matrimonio che
non si è mai evoluto. La richiesta di divorzio viene depositata dalla Phillips il 30 agosto del 1988,
ma già da diversi mesi Bruce e Patti non si nascondono più, né sotto né sopra il palco. I fan non
sembrano apprezzare questo cambio di direzione e la stampa è pronta a condannare l’uomo che ha
sempre fatto della genuinità dei propri sentimenti una virtù. Patti è l’altra, la collega alla quale
ogni moglie guarda con sospetto e diffidenza, e dovrà guadagnarsela l’investitura accanto a uno
degli idoli più virili di tutto il decennio. Quanto al comportamento adottato da Springsteen per il
primo anno della sua nuova vita, non sembra poi così differente da quello di migliaia di uomini
tornati improvvisamente liberi.
Prima di conquistarsi l’esclusiva tra i pensieri e le canzoni di Bruce, Patti attende qualche
stagione. Fino al 1990, quando le occasionali scappatelle paiono cedere finalmente il passo a un
rapporto simbiotico anche grazie alla nascita del primo figlio della coppia. È dunque il momento
di liriche incredibilmente romantiche come If I Should Fall Behind o dannatamente sexy come
Red Headed Woman. Non c’è più distinzione tra palco e realtà: ciò che accade là sopra è
esattamente quello che si vive tra le pareti domestiche. Il Boss è al sicuro, non sono più le donne
il nemico, ma la stampa con le sue continue incursioni nel privato dell’artista in un momento in cui
il concetto di privacy non è ancora pienamente salvaguardato. L’ 8 giugno del 1991, il matrimonio
e l’annuncio di una nuova gravidanza pacificano il rapporto con i fan meno propensi a sopportare
la confusione sentimentale del loro beniamino. Ora le perplessità non vertono più sugli interessi in
comune della coppia, quanto piuttosto sullo scarso appeal della Scialfa.
Il matrimonio tra i due è però inossidabile. L’arrivo del terzo figlio nel 1994 sedimenta
un’unione da sempre anelata. E tutto questo senza mai scalfire la creatività che tocca il padre di
famiglia, ma ancora di più l’uomo taciturno che non disdegna frequenti fughe nella solitudine.
Alcune voci sembrano fatte apposta per essere alimentate dai media. Nel 2006 si dà per certa la
relazione di Springsteen con una ricca e splendida vedova, notizia debitamente smentita da un
comunicato ufficiale che ribadisce quanto l’impegno della coppia resti saldo come nel giorno
delle nozze. La stessa dichiarazione viene rispolverata per un altro presunto flirt attribuito sempre
a Springsteen tre anni più tardi. Chi non ha mai digerito la presenza sul palco della spilungona
deve rassegnarsi. Patti è una delle donne più invidiate del mondo e non le resta che prendere
coscienza della propria fortuna. Non capita a tutti di essere sposata con un uomo che fa salire la
temperatura ogni volta che entra in una stanza.

Red Headed Woman – Bruce Springsteen (BRUCE SPRINGSTEEN IN CONCERT – MTV


UNPLUGGED)
I deliri di onnipotenza solleticano curiosità morbose, e per finire in prima pagina non è richiesto
che si verifichi l’attendibilità di certe dichiarazioni shock. Nella stragrande maggioranza dei casi,
è del tutto superfluo constatare se si tratti di allucinazioni estemporanee o di strategie atte a
promuovere prodotti o compagne di sensibilizzazione per la più nobile delle cause. Se in ballo ci
sono due grossi nomi e se si parla di sesso reale, allora la copertina è assicurata. Il fatto in
questione risale a una ventina di anni fa, ma l’argomento è talmente pruriginoso che ci si torna su
ancora oggi a cadenze cicliche. All’epoca il musicista inglese Sting, sposato da tempo con Trudie
Styler, confessò di essere in grado di esibirsi in maratone di sesso tantrico per svariate ore e che
la cosa non gli procurasse alcun tipo di stress o particolare affaticamento.
Trudie, da parte sua, cercò invano di riportare l’attenzione su campi da gioco terreni,
precisando che la durata includeva non solo preliminari, ma anche diverse pause, dialoghi,
riflessioni e persino qualche spuntino. La vicenda risultò infine frutto di un macroscopico
fraintendimento, opera di un giornalista troppo esaltato o furbo. Sting era al pub con un reporter
del «Sun» e l’amico Bob Geldof, quando a un certo punto tra i tre s’era innescato il meccanismo
del chi è più bravo a fare cosa. Solo uno stupido gioco tra uomini, col risultato che la notizia entrò
inesorabilmente in circolo finendo per imbarazzare i figli della coppia, instillare forti dubbi sulla
capacità amatoria di buona parte del genere maschile e incentivare un notevole business intorno al
Tantra e alle sue innumerevoli forme di piacere.
Nel 2011 Sting e Trudie, ormai prossimi a festeggiare il sessantesimo anno di vita e il
trentesimo insieme, si fanno ritrarre dal fotografo Terry Richardson su commissione del mensile
inglese «Harper’s Bazaar». Le immagini colpiscono più della solita storiella sulle prodezze dei
due in camera da letto, che di lì a poco viene ovviamente riesumata. Sting e Trudie sembrano
appena rientrati dalla luna di miele. Davanti all’obiettivo di Richardson si lasciano andare a
effusioni, palpate e baci appassionati. Va in mostra una fisicità che ci si aspetterebbe da una
giovane coppia di amanti o da un marito e da una moglie che a dispetto del gossip hanno davvero
imparato a meraviglia la difficile lezione dello stare insieme.
Quando alla fine degli anni Settanta gli occhi chiari di Gordon Sumner e quelli chiarissimi di
Trudie Styler si incrociano per la prima volta, nessuno dei due ha la più pallida idea di quello che
accadrà nelle loro vite di lì a poco. Ma per tutti e due è subito chiaro, come nei romanzi più rosa,
che qualcosa sta per cambiare. Gordon si fa chiamare Sting, ha lasciato il lavoro di insegnante di
provincia per trasferirsi a Londra e tentare la fortuna come musicista. Milita in un paio di band e
ogni mese paga l’affitto con un assegno di disoccupazione e le entrate di qualche sporadico
concerto. È arrivato in città con la moglie Frances, che di mestiere fa l’attrice, e un figlio appena
nato. Trudie è la ragazza della porta accanto che divide l’appartamento gemello con il proprio
ragazzo. Anche lei è un’attrice e pure lei conosce l’esatta misura del sacrificio in nome di ciò che
realmente ci si sente chiamati a fare nelle vita.
Sting fa la conoscenza di Trudie per un problema di condominio e d’improvviso le
preoccupazioni non investono più spazzatura e vicini chiassosi. Il giovane bassista di Newcastle
posa gli occhi sulla bionda del Worcestershire e ha l’impressione di aver già visto il suo volto.
Nei suoi ricordi quei lineamenti appartengono alla prima fidanzatina Deborah Anderson,
scomparsa appena qualche giorno prima. Ma è il presente a coinvolgere i due: un’attrazione fisica
fulminea li attraversa e li lega. Sono sentimenti difficili da tenere a bada anche per adulti
responsabili con famiglie a carico.
Prima dei sentimenti, per Sting ci sono i Police. Tra il 1978 e il 1983 la band si afferma come
una delle formazioni più celebri di tutto il pianeta. Un album all’anno, la consacrazione, una vita
frenetica sotto i riflettori portano altrettanto rapidamente il leader del gruppo a coltivare desideri
di libertà oltre le costrizioni creative e logistiche. Il musicista asseconda l’istinto e, all’apice
della carriera, scioglie il gruppo. Il marito si affranca dalle convenzioni e subito dopo la nascita
della seconda figlia rompe il matrimonio per rifugiarsi tra le braccia di Trudie. Una nuova vita si
staglia all’orizzonte, cresciuta all’ombra di rinunce e fallimenti e alimentata da una donna
caparbia che abbandona la propria carriera per accompagnare il marito in un viaggio che lo
riporterà in breve sulla giusta rotta.
Il 20 agosto del 1992 la coppia si unisce in matrimonio nella sua tenuta di Lake House, nella
campagna del Wiltshire. Dopo dieci anni vissuti assieme, tre figli e svariate battaglie
ambientaliste combattute fianco a fianco, i due scelgono di sancire l’unione davanti ad amici,
parenti e invitati d’eccezione come Peter Gabriel e Don Henley, accolti dalla musica dei Police in
un giorno che celebra armonia e riconciliazione, fasto e buone cause. Gli abiti di Sting e Trudie
firmati dall’amico Gianni Versace vengono battuti all’asta poco dopo la cerimonia per destinare
soldi alla fondazione della coppia istituita anni prima per la salvaguardia delle foreste pluviali
del Brasile. Luoghi cari a entrambi, che già nel 1987 avevano stretto un legame con gli indigeni
del posto durante il cerimoniale di somministrazione dell’ayahuasca, un’antica medicina ricavata
da sostanze vegetali la cui assunzione ha il potere di indurre straordinarie visioni. Sting e Trudie
erano accanto anche in quella singolare occasione.
È quindi logico domandarsi quale sia il segreto di un rapporto così vivo nel tempo. Dando
un’occhiata alla ricetta, tra gli ingredienti si leggono ancora parole come semplicità e lontananza.
Il musicista continua a girare il mondo con la musica e l’ex attrice ha trovato il ruolo di
produttrice cinematografica che le calza a pennello. E poi ci sono certi vizietti che, anche se non
hanno nulla a che vedere con maratone e posizioni atletiche, parrebbero giocare un ruolo di primo
piano nella vita della coppia, almeno tra le pareti della camera da letto. Con buona pace di chi
quella ricetta non è nemmeno in grado di leggerla e si ostina ad arrischiare ipotesi azzardate. Le
labbra di Trudie una volta non avevano quell’aspetto così pieno e turgido. Un buon chirurgo,
forse, o magari un gioco erotico finito male.

The Secret Marriage – Sting (…NOTHING LIKE THE SUN)


Il record di resistenza agli eccessi è ampiamente nelle mani di Ozzy. Tra i Grandi Misteri
dell’Umanità, che sia tuttora vivo a margine di incidenti di ogni tipo, incendi, minacce di morte,
rovinose cadute e fratture multiple, concorre per un posto d’onore, ma che sua moglie lo adori
nonostante liti feroci e persino un tentativo di omicidio e gli faccia ancora da balia devota dopo
trent’anni, li batte tutti. Eh sì, il Principe delle Tenebre detiene senza dubbio anche il primato
dell’unione più squilibrata e longeva del rock.
Gli strampalati interpreti di questa storia andrebbero presi a esempio, ma non si può. La
coppia formata da Ozzy Osbourne e Sharon Arden possiede un codice comportamentale proprio,
regole scritte per due persone soltanto che porterebbero a rottura certa chiunque altro si
azzardasse a seguirle. La chiave è proprio lì, sotto un tetto dove è possibile trovare di tutto tranne
ciò che ti occorre, che sicuramente giace sommerso da dischi d’oro e contratti milionari, mucchi
di gioielli e studi di registrazione casalinghi, colonie cinofile e montagne di cibo spazzatura. In
mezzo a un miscuglio di tradizione inglese e opulenza yankee è custodito il segreto di una famiglia
che per ogni santo giorno della propria esistenza non ha mai smesso di amarsi e mandarsi a quel
paese.
John Osbourne, ribattezzato Ozzy fin dai tempi della scuola, conosce la diciottenne Sharon
durante un incontro col padre Don Arden, futuro manager dei Black Sabbath. È il 1970 e Ozzy è
uno splendore di ragazzo che nasconde i lineamenti perfetti del volto dietro a una maschera di
smorfie. Sharon è attraente per pochi sul piano fisico, ma tra quei pochi c’è proprio Ozzy,
istantaneamente sedotto da questa ragazzina che ride ai suoi scherzi e controbatte ad armi pari:
battute taglienti, ironia da vendere, risate sguaiate. Oltre a quella per la musica, l’altra passione
che li accomuna, quella per la bottiglia, sarà approfondita col tempo. Ora le impellenze
riguardano una carriera da assecondare e due figli da crescere. A poco più di vent’anni Ozzy è
convinto che la vita sia tutta lì, tra spassosi tour, serate al pub con gli amici e seccature familiari.
Quando però cominci a vendere milioni di dischi la vita può essere anche molto altro. Ogni
giorno può offrirti quello che desideri, a patto che tu sappia cosa chiedere. Ozzy inizia e conclude
gli anni Settanta in uno stato alcolico permanente e i suoi desideri non vanno oltre i liquori, la
polvere bianca e le disinibite compagne di una notte. Si regala qualche automobile pur non
prendendo mai la patente e fa incetta di armi, perché in una proprietà inglese che si rispetti il
capofamiglia prima o poi deve andare a caccia. Il primo matrimonio di Ozzy sfuma così, tra sensi
di colpa e rari attimi di lucidità vissuti accanto a una donna che per anni si accontenta delle
freddure più riuscite e alla fine presenta un conto salato insieme all’istanza di divorzio. È il 1979
quando il musicista inglese si ritrova licenziato come marito e come leader del gruppo da lui
fondato. Le cause sono davanti agli occhi di tutti.
A raccogliere ciò che è rimasto di Ozzy tra tatuaggi, croci e giacche di pelle è la figlia del
manager, quella ragazza un po’ sovrappeso e sgraziata ma perfetta per condividere una pinta di
birra. Il problema è che Sharon non vuole limitarsi a un giro di pub. Ozzy ha una carriera da
solista da lanciare, dei tour da organizzare e una nuova immagine da curare, e insomma prima
vengono gli affari. All’alba degli anni Ottanta, occorre ridarsi tono con un nuovo taglio e un
guardaroba di lustrini. Soltanto dopo questa rinascita si potrà tornare in circolazione e riprendersi
l’attenzione della stampa distruggendo camere d’albergo, azzannando colombe e staccando a
morsi la testa ai pipistrelli, perché è questo che ci si aspetta da un principe delle tenebre ed è
questo che Sharon si aspetta dal proprio uomo: una ritrovata fiducia nei propri mezzi e un
compagno di giochi che la faccia divertire seguendo alla lettera i suoi piani.
Tre anni dopo la resurrezione, il 4 luglio del 1982 Ozzy e Sharon si sposano alle Hawaii. Le
foto della cerimonia mostrano una coppia allegra che ride e sta al gioco. Sharon ha l’aspetto di
una donna molto più avanti negli anni della sua età effettiva, mentre osserva compiaciuta un marito
ossigenato come si guarda il figlio più discolo e coccolato. Ozzy è invece eternamente grato alle
pellicole che gli restituiscono i ricordi che la sua memoria fradicia non è più in grado di
assicurargli. Nella testa del rocker si affollano confusamente immagini sbiadite di concerti,
nascite e fini premature. Performance clamorose che portano fama e un discreto bottino. Tre figli
in tre anni e la scelta di una vasectomia tanto per evitare ulteriori sbadataggini. E le perdite di
membri del proprio staff in situazioni assurde, come assurdi sono gli incidenti che continuano a
vessare un uomo che ormai non si ricorda dove si è coricato la sera prima.
Per anni il matrimonio Osbourne è afflitto da alcol, droga e violenza domestica. A metà degli
Ottanta arrivano i primi ricoveri nei centri di disintossicazione, ma la consapevolezza è tutta
un’altra faccenda. Ozzy inizia a rendersi conto di avere un problema con l’alcol, eppure continua a
ignorarne totalmente gli influssi nefasti che ricadono sulla sua famiglia. Nel 1989, l’episodio più
grave. Il musicista viene accusato del tentato omicidio della moglie tramite strangolamento durante
l’ennesima lite tra le mura della tenuta inglese della coppia. È la stessa Sharon a respingere le
accuse e a difendere il marito, affermando che il suo uomo non potrebbe mai spingersi fino a quel
punto. Si è trattato di uno sbaglio. Mamma Sharon rimprovera Ozzy lo scapestrato, lo prende per
mano e lo riporta a casa, a riposarsi in vista di un nuovo decennio pieno di impegni.
Snobbata dal festival itinerante per eccellenza, il Lollapalooza, Sharon progetta di organizzare
lei stessa una rassegna su misura per Ozzy. Raduna qualche amico di vecchia data, persino i Black
Sabbath, e offre ai più giovani la possibilità di conoscere dal vivo la voce e la potenza di un uomo
che sul palco sembra scrollarsi di dosso tutte le sostanze che lo tengono al palo nella vita reale.
L’Ozzfest è un successo, figlio di un connubio d’intesa che va al di là della comprensione comune.
Resta la curiosità: quale diavolo di equilibrio hanno quei due? Quale oscuro patto porta avanti
quella famiglia? Se lo chiede il pubblico e se lo chiede il canale Mtv, che, quasi per gioco, decide
di portare le telecamere in casa Osbourne e di dare in pasto ai telespettatori le vicende
domestiche di Ozzy. È un nuovo successo: la serie conquista mezzo mondo e oltre a dare nuova
linfa alla carriera del rocker gli fa ereditare il ruolo di papà d’America lasciato vacante da Bill
Cosby.
Il segreto è che non c’è nessun segreto. Ozzy e Sharon continuano ad amarsi, lavorano insieme
e crescono i figli tra mille difficoltà. Superano la malattia e i problemi legali e riescono a
districarsi nelle trame avviluppate delle rispettive famiglie d’origine. Guardano ben oltre la
popolarità improvvisa e la conseguente ossessione di un pubblico chiaramente non più interessato
alla produzione musicale. Si reinventano quotidianamente e hanno idee e denaro a sufficienza per
poterselo permettere. Non abbastanza forse per ricomprare il tempo perso, ma quanto serve per
assicurare futuro e carriera a una discendenza spesso inerme e annoiata. In fondo, ciò che conta è
solo restare uniti. Magari affittando una grande casa per Natale, ritrovarsi tutti insieme e dopo
pochi minuti sbattersi la porta in faccia e crivellarsi di insulti. Tanto, tra imprecazioni e battute,
prima o poi quella porta si riaprirà. È così da trent’anni.

Mama, I’m Coming Home – Ozzy Osbourne (NO MORE TEARS)


Per la prima parte della sua vita Lewis Allan Reed si è attenuto fedelmente a un diktat: trova la
donna perfetta e fuggi con lei. Mollare tutto e ricominciare ogni volta da capo è un buon modo per
condurre la ricerca e valutarne gli effetti, un credo e uno stile di vita che sono precursori di
mutamento e sperimentazione. Lou Reed – uno dei musicisti più ambigui e innovatori del secolo
scorso – assorbe ogni espressione artistica che lo circonda e poi, sul più bello, eccolo
interrompere il rapporto e cambiare direzione. Nessuno come lui ha avuto così tanto fiuto per
correnti e personaggi assaggiati un attimo prima che il resto del mondo se ne accorgesse. Nessuno
come lui è stato poi altrettanto bravo a sabotarsi e a mandare all’aria tutto quello che era lì per
soddisfarlo, incoraggiarlo e fornirgli strumenti per il successo. Donne e uomini non fanno
eccezione, in questo quadro.
È dannatamente complicato inquadrare l’affettività di una rockstar abituata a fingere, non solo
sul palcoscenico. Sotto i riflettori, trucco pesante, matita per gli occhi, rossetto, abiti di pelle e
borchie, smalto per le unghie. In strada c’è l’apparenza, ci sono le dichiarazioni shock per la
stampa e ancor prima per la famiglia d’origine, che va così di moda denigrare anche quando le
cose non si sono mai spinte troppo al limite. Fin dalle prime sortite pubbliche, Lou Reed dimostra
un vero e proprio talento a dissacrare, a rendere un pietoso omaggio all’altare della sua infanzia
che gli ha permesso di venire al mondo con un cospicuo bagaglio di rabbia, sensibilità e
frustrazione. È un tenero amante che spera di vivere per sempre con la compagna di scuola ed è
anche il suo carnefice, un uomo che all’occorrenza sa imporsi, ma non disdegna raffinati giochi di
seduzione con amici di sesso maschile disposti a compiacerlo.
Omosessuale o bisessuale, con una predilezione per donne alte e decisamente in carne, senza
dimenticare uomini incredibilmente sexy in abiti femminili, Lou ama e finge al contempo. Si lega
per anni a una compagna del college, quasi a volersi costruire una parvenza di normalità in un
periodo dominato dalle droghe e da una New York frenetica, con la Factory di Andy Warhol al
centro dell’esperienza dei Velvet Underground. In mezzo a tutto questo non poteva mancare il flirt
con una delle donne simbolo dell’epoca, la modella e performer Nico. Nico, che conta tra i suoi
innumerevoli amanti Jim Morrison e John Cale, avvia una relazione distruttiva con Reed durante
le fasi di realizzazione del primo album dei Velvet Underground. Quel disco uscito nel 1967 e
reso celebre anche dalla copertina che raffigura una banana disegnata da Warhol, un album che
segna l’inizio e la fine della collaborazione tra la band e la cantante tedesca. Nonostante la
repentina uscita di scena dal gruppo, la relazione tra Nico e Lou Reed si consuma fino al 1973. Un
disco intitolato BERLIN, terza prova da solista di Reed, pubblicato proprio nel 1973, in un primo
momento viene accreditato alla discesa tra gli inferi di Nico, per poi scoprire che è nel fallimento
di un’altra relazione che l’artista ha trovato ispirazione. Lei si chiama Bettye Kronstadt e per un
paio di stagioni è la moglie di Lou Reed. Ma è al fianco di un parrucchiere di Filadelfia di nome
Rachel che Reed trova l’equilibrio dopo la fine del matrimonio, almeno fino al 1978. Il ciclo di
questo rapporto tenuto a battesimo dalle liriche di CONEY ISLAND BABY – un’ode a Rachel che fa
diventare Lou il poeta ufficiale del mondo gay della New York degli anni Settanta – si esaurisce
alla pubblicazione di STREET HASSLE, che documenta la triste conclusione della storia. Ancora una
volta, però, più che ai costumi sessuali, Reed sembra interessato a tutto ciò che può ispirarlo per
le sue poesie prestate alla musica.
Il 14 febbraio del 1980 Lou Reed si sposa con una giovane che per abnegazione, fiuto per gli
affari e condiscendenza potrebbe rivelarsi la copia esatta di Angela Bowie. Sylvia Morales resta
al fianco del musicista americano per un intero decennio, fino a dimenticarsi totalmente della
propria esistenza. Sylvia, l’ex spogliarellista, diventa contabile, manager, amministratrice, mamma
di un uomo che non vuole avere figli, lui che per primo ha un costante bisogno di attenzioni e cure.
THE BLUE MASK, LEGENDARY HEARTS e NEW SENSATIONS sono album matrimoniali. Reed è
cambiato, si è ripulito ed è riuscito a dare al suo rapporto una nuova intensità. Ma quanto un uomo
nato per camminare dalla parte selvaggia della strada con occhiali scuri e pantaloni di pelle, da
sempre attratto dai bar più malfamati del quartiere, potrà resistere all’interno di un quadro così
delineato? Più del previsto, o almeno il tempo necessario per raccogliere le energie sufficienti a
una nuova inversione di rotta.
Il 2 marzo del 1992 Lou Reed compie cinquant’anni e le cose cambiano ancora. Si allontana
dalla moglie e le voci di una nuova relazione omosessuale si fanno insistenti, ma all’orizzonte c’è
qualcosa di più di un semplice flirt. L’incontro con una donna che sembra racchiudere in sé
personalità femminile e maschile strega il musicista newyorkese. L’artista multimediale Laurie
Anderson conquista Lou sul suo stesso terreno. Entrambi non sono più giovanissimi, ma in ottima
forma e con mille progetti ancora da realizzare per la testa. Trova la donna perfetta e fuggi con lei.
Fosse anche su una panchina a Central Park.
O Superman è il brano che nel 1981 fa conoscere Laurie Anderson a chi le élite d’avanguardia
non sa nemmeno dove stiano di casa, almeno fino a questo momento. Il singolo, una canzone
davvero minimale se vogliamo, ma certamente quella più pop dell’intera produzione dell’artista
americana, raggiunge il secondo posto nelle classifiche britanniche e permette al grande pubblico
di fare conoscenza con una donna che ha già diversi anni di esperienza come performer alle spalle
e che ora non disdegna altre opportunità in campo discografico. Laurie Anderson ha fatto della
ricerca e della realizzazione personale nelle arti la sua missione, nient’altro sembra contare per
questa signora senza età, dall’aspetto androgino che è facile incontrare per le gallerie e le strade
di New York, città di cui è follemente innamorata e che lascia soltanto per esibizioni in giro per il
mondo. Non è dunque difficile intuire cosa colpisca Lou Reed di questa femmina mascolina,
sicura di sé e al contempo decisamente aperta alle contaminazioni. Alla fine del 1993 i due
musicisti si incontrano al Festival delle Arti e della Musica di Monaco. Lou invita Laurie sul
palco per il brano A Dream. «Sono rimasto stupefatto quando l’ha cantata esattamente come avrei
fatto io dal punto di vista ritmico, con le pause giuste», racconta Reed. Tornati a New York, i due,
normalmente riservati per quanto riguarda la vita privata, parlano tranquillamente con gli amici di
quella che ormai sembra essere a tutti gli effetti l’inizio di una relazione. Il racconto è la struttura
attorno alla quale si sviluppa un legame, un reciproco raccontarsi piuttosto lungo, considerata l’età
di entrambi. Un dialogo che non annoia se l’interlocutore è quello giusto e questa volta pare
esserlo davvero. Sono diverse le passioni che accomunano Reed e Anderson, a cominciare dagli
strumenti di lavoro, la tecnologia che per ambedue pare ricoprire un ruolo fondamentale
nell’infinita possibilità di indagine e sperimentazione. Quando la stampa immortala la nuova
coppia scambiarsi effusioni sul sedile posteriore di un’auto e nei ristoranti, Lou Reed è il primo
ad aprire la bocca coi giornalisti non risparmiando aggettivi come sexy, vivace e bella
all’indirizzo della compagna.
Lou Reed e Laurie Anderson condividono ben più di un concerto, di una passeggiata al parco
mano nella mano o una vacanza ad Antigua da svariate migliaia di dollari. Per la prima volta,
Reed si ritrova coinvolto in una relazione alla pari, dove ognuno è piacevolmente costretto a
badare a sé e interessarsi alle cose dell’altra. Il brano del 1994 In Our Sleep suggella il legame
sia sul piano personale sia su quello artistico. Scritta, cantata e registrata insieme per l’album di
Laurie BRIGHT RED, è una canzone d’amore minimale, intensa e dotata di un romanticismo del tutto
corrispondente alla nuova coppia. È il principio di un sodalizio che vedrà i due scambiarsi favori
collaborando saltuariamente ai rispettivi dischi. Se nel 1996 Adventurer, contenuta nell’album di
Reed SET THE TWILIGHT REELING, sembra descrivere nuovamente il rapporto, è lo stesso Lou a
cancellare dubbi e ipotesi confessando che tutta la sua produzione è ormai ispirata alla donna. In
realtà tutti gli amici di Reed ipotizzano che, date le esperienze passate, questa relazione abbia i
giorni contati. Tuttavia è noto come il musicista newyorkese abbia costruito la sua intera carriera
attraverso nuove collaborazioni e cambi di rotta. In questo caso si tratta di una relazione che nasce
seguendo i canoni di una collaborazione artistica. Durerà? Sembra di sì e la stanchezza, a
giudicare dalla frenetica vita artistica che entrambi conducono, non c’entra davvero nulla. Ma se
vi state chiedendo cosa tenga unita la coppia, le parole di Laurie Anderson posso esserci utili:
«Non so mai cosa aspettarmi da Lou. È bello stare con qualcuno che ti sorprende ogni giorno con
le sue opinioni e pensieri. È molto eccitante ed è certamente un grande miracolo quando le cose
funzionano e funzionano per una tale varietà di motivi folli che è impossibile elencare».
Che un uomo della complessità di Lou Reed potesse, a cinquant’anni suonati, rinnovare la sua
passione al fianco di un’altra artista, compagna di giochi e mestieri come Laurie Anderson è una
stimolante premessa per la vita ancora da vivere. Il Lou Reed più recente è un uomo travolto da un
grande affetto per la sua compagna e sembra aver regolato una volta per tutte i conti con il suo
passato meno lucido e improduttivo. È al fianco di Laurie che pare definitivamente aver trovato la
vena felice dei tempi migliori, una scrittura limpida e intensa, la voglia di sperimentazione sulle
sonorità, la partecipazione e uno sguardo acuto su ciò che gli sta intorno: persone, avvenimenti, la
sua città e il suo paese come sempre ricco di contraddizioni. Ritroviamo la coppia, fianco a
fianco, a combattere le stesse battaglie, come quella sulla raccolta e lo smaltimento dei rifiuti a
New York, a quanto pare gestita con superficialità dal dipartimento di Igiene della città. Li
vediamo separati dai rispettivi impegni, gelosi della propria individualità: Laurie Anderson non
ha mai abbandonato la propria casa-studio ed è durante i tour del compagno che approfitta per
lavorare, sostenendo ritmi e scadenze del tutto differenti da quelle scandite dalla presenza nella
stessa abitazione di un’altra persona. E poi c’è la musica, naturalmente, e l’esplorazione che ha
portato Lou e Laurie a produrre un evento per il popolo canino. Ispirata dal proprio terrier, la
coppia ha pensato bene di esplorare nuove frequenze in un concerto pensato esclusivamente per
compiacere i cani e appena i loro padroni, accorsi in una sorta di aggregazione sociale mai vista e
udita prima.
Questa volta la perfezione non sembra appannaggio di un solo giorno. Sono molti i giorni di
sole che si mettono in fila nella loro storia d’amore. Arte e vita si aggrovigliano nella vita di
Reed, ma questa volta le parti in causa sono due, e ognuna difende il proprio punto di vista. Laurie
porta violino e cori in diversi dischi di colui che il 12 aprile del 2008 diventa a tutti gli effetti suo
marito. La cerimonia si svolge in forma privata in Colorado, ma il giorno dopo la coppia è di
nuovo a New York, nell’amato East Village, per festeggiare nella città che da vent’anni incornicia
il loro romanzo amoroso. «Lou e io ci siamo sposati», ammette Laurie. «Prima mi sono chiesta chi
fosse questa persona e chi fossi io. La risposta è che siamo le stesse persone che sono insieme da
vent’anni, ed è una cosa straordinaria, perché è un po’ come sposare il tuo migliore amico. Sono
molto felice. Si tratta di un riconoscimento straordinario del rapporto con la persona che spero mi
resterà accanto per il resto della vita». Lou Reed e Laurie Anderson continueranno a colpire con
la loro straordinaria semplicità, due adulti attorno alla settantina le cui innumerevoli rughe
disegnano una mappa spontanea di gioia e seduzione.
«Lou è stato un principe e un combattente e so che le sue canzoni sul dolore e la bellezza che
c’è nel mondo riempiranno la gente con la stessa gioia incredibile che lui sentiva per la vita.
Lunga vita alla bellezza che ci colpisce e ci passa attraverso e ci cade addosso». Il resto della vita
da trascorrere insieme si arresta bruscamente una domenica mattina, il 27 ottobre del 2013. Lou è
malato da due anni, ma è sempre riuscito a cavarsela, imparando tutto ciò che c’è da sapere sulle
sue malattie e i rispettivi trattamenti. Ha continuato a fare Tai Chi ogni giorno, e le sue mani sono
impegnate a disegnare la forma ventuno di questa disciplina quando arriva la fine. Laurie
Anderson è al suo fianco, quel posto che non ha mai lasciato vacante negli ultimi vent’anni. «I suoi
occhi erano spalancati. Stavo tenendo tra le braccia la persona che amavo più di ogni altra cosa al
mondo e le parlavo mentre moriva. Il suo cuore ha smesso di battere. Non aveva paura. Ero
riuscita a camminare con lui fino alla fine del mondo. La vita – così bella, dolorosa e spettacolare
– non può dare qualcosa più di questo. E la morte? Penso che lo scopo della morte sia liberare
tutto l’amore che si possiede».

In Our Sleep – Laurie Anderson (BRIGHT RED)


Per una rockstar, di quelle vere, trent’anni di matrimonio rappresentano un traguardo pressoché
irraggiungibile. Com’è possibile dividere la propria vita con una persona soltanto, quando
migliaia di donne chiedono di farti compagnia? È plausibile la monogamia per uno degli uomini
più desiderati della sua generazione? Quando guarda negli occhi le sue fan, quando sul palco o in
sala di registrazione intona canzoni d’amore struggenti, ha veramente in testa solo un nome? La
risposta è sempre sì. E appurata la fermezza della scelta, non resta che interrogarsi sulle
motivazioni.
Sposare e restare fedele alla propria compagna di scuola risponde a un tipo di vita
probabilmente più consono a una comunità rurale di piccole e remote province, magari legate a un
cammino di fede. In questa storia la religione è importante, ma non è un aspetto primario, da sola
non basta a mantenere un rapporto tra due persone che si scelgono in piena adolescenza. All’apice
del cambiamento, due ragazzi piuttosto maturi e formati per la loro età, s’impegnano in una
relazione vera, di quelle che iniziano con una bella amicizia. Prima si scopre di apprezzarsi, poi
di rispettarsi e infine di piacersi.
Il 1975 per il quindicenne Paul Hewson, dagli amici già soprannominato Bono Vox, si rivela
un anno fondamentale. Forma la prima band con alcuni compagni del suo istituto scolastico e si fa
avanti con una coetanea, una moretta brillante e indipendente, una certa Alison Stewart. Ali
accetta un lungo corteggiamento da quel ragazzo scarmigliato e gli resta accanto fino alla fine
della scuola, mentre quel nuovo progetto battezzato inizialmente Feedback, poi Hype e infine U2
sembra avere tutte le carte in regola per far parlare di sé. Bono, dal canto suo, non ha intenzione di
rinunciare a queste due opportunità che sono entrate nella sua vita.
Il 21 agosto 1982 Bono sposa Alison con Adam Clayton, il bassista della band, come
testimone. La cerimonia, con rito cattolico, si tiene presso la Church of Ireland di Raheny a
Dublino. Gli sposi, poco più che ventenni, prendono subito le cose seriamente senza rinunciare ai
rispettivi ruoli. Se c’è una cosa che Ali non vuole sono i riflettori puntati su di sé e tanto meno
quell’odioso appellativo di moglie di. Prosegue i propri studi, sostiene il marito, ma non rilascia
interviste in merito alla carriera o al rapporto col futuro padre dei suoi figli. Un matrimonio
ideale, con qualche crepa. Gruppo e colombi vivono tutti sotto lo stesso tetto e il novello sposo,
persino in luna di miele, è concentrato sulla scrittura dell’album che lancerà la sua carriera.
Alison ce la mette tutta per salvaguardare indipendenza, rispetto e amore, in un legame alla
pari che non contempli resa o subordinazione. Bono Vox è il primo a interrogarsi su come
conciliare lavoro e famiglia, su come conservare credibilità presso un pubblico abituato a
un’immagine di rockstar libertina. With Or Without You, un brano di metà anni Ottanta, documenta
un animo tomentato. L’autore si chiede come sia possibile restare fedeli all’arte senza tradire la
propria compagna, e viceversa. La soluzione arriva solo quando ci si rende conto di come
reprimere certi desideri di fuga renda più forti.
Inizialmente Bono sembra sfuggire a certe responsabilità familiari, come la difficile
riconciliazione con un padre ormai avanti negli anni e una paternità ritardata, ma col tempo
sembra volere farsi carico dei destini del mondo. Si spinge lontano, in Africa, alla ricerca di
quelle popolazioni che compaiono davanti ai nostri occhi soltanto durante i notiziari e poi
spariscono in una bolla. Ali sposa la sua causa, perché l’uomo che ha scelto di avere vicino è una
di quelle poche star che hanno compreso che la fama può essere utilizzata per combinare qualcosa
di buono. Etiopia, Salvador, Bielorussia, Jugoslavia, le campagne in favore di Amnesty e
Greenpeace sono soltanto alcune delle cause per cui Bono, Ali e gli U2 si espongono in prima
linea.
L’attivista politico è soltanto l’ennesimo ruolo fortemente ricercato da Bono Vox, che nel 1989
accetta anche quello altrettanto difficile di padre. Ruolo che sottoscriverà per ben quattro volte.
Tra un impegno e l’altro dimenticarsi del compleanno della propria consorte è legittimo, ma se
continui a essere il leader di una delle band più amate del pianeta le scuse possono interessare
milioni di testimoni. Bono chiede perdono alla moglie con un brano che il mondo conoscerà molto
tempo dopo la sua scrittura, tanto per porre la consueta distanza tra emozioni private e
condivisione pubblica. La canzone si intitola Sweetest Thing. Anche se per un manciata di
secondi, nel relativo videoclip i fan hanno il piacere di vedere per la prima volta la coppia nei
rispettivi panni di marito e moglie.
Se ti chiami Bono Vox puoi fare molto di più: puoi intonare una All I Want Is You all’interno di
un’arena gremita dedicandola alla tua inseparabile consorte, quella donna così riservata che non
vuole apparire e farsi conoscere a fondo nemmeno da suo marito. Ali conserva malizia e carattere
e ti accetta per quello che sei. Ali non ha bisogno di leggere i giornali per sondare lo stato della
sua unione, le basta una sola opinione e non deve neppure scendere dal letto per conoscerla. Dopo
tanti anni di matrimonio passati al setaccio senza scovare mai un solo scoop, all’inizio del nuovo
secolo la stampa ipotizza un flirt di Bono con la cantante irlandese Andrea Corr. Il cantante non
solo non perde occasione per ribadire la sua fedeltà ad Ali, ma ne approfitta per ricordare che la
maggior parte delle sue frequentazioni sono femminili e alle amicizie nessuno gli ha mai chiesto di
rinunciare. Se la donna perfetta esiste, è irlandese, e purtroppo è già sposata.

Sweetest Thing – U2 (THE BEST OF 1980-1990)


Qualcuno con il quale credevi di avere a che fare si rivela improvvisamente diverso, se non
tutt’altra persona, davanti ai tuoi occhi. O forse no. Siamo noi a esserci baloccati con un’immagine
che non aveva nulla a che vedere con quella reale. Ci siamo accontentati dell’apparenza, perché
era quella che serviva al nostro ego. Non avevamo bisogno di farci troppe domande all’inizio,
bastava guardare e specchiarsi nel proprio riflesso.
Questa storia ha a che fare con un uomo che credi di conoscere. È un uomo che ti spaventa e ti
attrae allo stesso tempo. Sai di non poterlo presentare alla tua famiglia eppure la famiglia la
lasceresti volentieri perdere, se lui ti chiedesse di seguirlo in Tanzania. Per buona parte della sua
vita è apparsa una creatura esile, nervosa, e stropicciata, almeno fino a quando deve essersi
accorto di riviste di moda disseminate nelle hall di qualche albergo; o magari è probabile che un
giorno, sbagliando camera, si sia risvegliato nella cabina armadio di una qualunque stilista
brasiliana.
Lui si chiama Nick Cave e dagli anni Ottanta non smette di fissarci dalle copertine dei suoi
dischi. Osservi quello sguardo, ascolti la sua voce, leggi e rileggi ogni suo testo e anche se non ne
capisci appieno il significato ne hai a sufficienza per chiarirti le idee. Quest’uomo è un pazzo
mitomane o è Nostro Signore tornato sulla terra per sbatterci in faccia tutta la sua delusione. In
fondo, non c’è tanta differenza tra le due opzioni. Quindi, scegliamo la seconda e dichiariamo
aperto il culto al messia in gessato e mocassino Gucci.
Anche lei deve aver pensato all’incirca questo quando per la prima volta ha sentito quelle note
sotto la doccia. E certamente deve essersi lasciata andare a qualche pensiero pruriginoso quando
per la prima volta si è trovata di fronte un individuo che sembrava ricalcato a sua immagine e
somiglianza. Lei è una cantautrice adulta da sempre, fin dagli esordi, da quando ha iniziato a
scrivere i primi testi, a diciassette anni, o da quando la rivista «Rolling Stone» ha nominato la
ventiduenne PJ Harvey miglior autrice e miglior cantante donna dell’anno.
Sono i Novanta, in giro c’è molto rock alternativo e c’è un’abbondanza di donne che
imbracciano chitarre e altri strumenti. Nessuna si sognerebbe mai di mostrarsi in pubblico priva di
trucco o senza il vestito debitamente strappato nei punti giusti. PJ adotta invece un look grottesco e
rivoltante allo stesso tempo. Come una Joan Crawford in acido, agita le sue esili anche nel video
di Down By The Water e anche se non sai se amarla o detestarla non puoi fare a meno di
continuare a guardare quelle immagini, ascoltare quella canzone e chiederti se esista davvero una
creatura sotto a quel trucco e parrucco.
Nick Cave e PJ Harvey si incontrano nel 1996. PJ è ancora frastornata dal successo di TO
BRING YOU MY LOVE, mentre il suo alter ego maschile ha già scritto buona parte della propria
storia in compagnia dei Bad Seeds. Dagli esordi con i Birthday Party è già passato attraverso
rehab, relazioni sfumate e due figli nati a distanza di poche settimane l’uno dall’altro da un
matrimonio ufficiale e da una relazione occasionale. Nick chiama Polly per duettare insieme in un
disco sublime e terrificante, un album che racchiude tante brevi storie di omicidi a sfondo
passionale; riprendendo un filone tipico del folk anglosassone, Nick Cave racconta storie di
assassini e assassinii.
«La prima volta che ho ascoltato un suo disco avevo diciotto anni. Sono rimasta sconvolta
dalle sue canzoni e non ho ascoltato altro per molto tempo. La sua musica aveva toccato alcune
parti di me in modo così forte. In seguito, sono rimasta scioccata nell’apprendere che era un
eroinomane». Ma Cave si è ormai ripulito quando incontra «la ragazza con le mani più fredde e le
labbra più calde che abbia mai conosciuto».
Cave e Harvey si ritrovano così a cinguettare sulle note di Henry Lee, una murder ballad
basata sui dettagli e sulle conseguenze di un omicidio per amore. Polly sussurra a Nick del perché
è costretta a farlo: il suo uomo non la ama più e non vuole più dormire con lei, e questa è una
motivazione più che sufficiente per dare il via al valzer degli addii. Un solo giro di valzer, sembra
in realtà aggiungere PJ: mi hai tenuta stretta per un ballo e poi hai deciso di lasciarmi a marcire su
una sedia. Be’, sappi che la vendetta sarà tremenda.
La relazione tra i due brucia in un lampo, come un fuoco che non riesce a contenersi. Anche
quando sono insieme, per Nick e Polly non c’è domani. Nel video di Henry Lee si consumano
negli sguardi, si tengono stretti. Lei porta a passeggio il suo demone con disinvoltura, mentre lui
aspetta la sera per poter sedare i propri incubi in sua compagnia.
Due fisicità pressoché identiche: capelli corvini e occhi da cerbiatto. Dopo le rare apparizioni
pubbliche insieme, è sempre come se qualcosa ti spingesse a proseguire il racconto e a
immaginarteli rincorrersi nel bosco, spaventarsi a vicenda e riconoscersi al tatto. Li rivedi
insieme in sala d’incisione, Nick che affonda le dita nel piano, Polly che sfiora le corde dell’arpa,
occhi negli occhi. E quelle bocche. Bocche fatte apposta per respirare all’unisono. Labbra che non
si spendono a disegnare mille parole, solo qualche sillaba e qualche nota a margine di un’unione.
Ma il suono della sveglia rompe l’incantesimo. La realtà è diversa: non è affatto scontato che
due persone tanto simili possano ballare insieme per più di una stagione. Qualcosa non funziona, e
dopo nemmeno un anno dal primo incontro Nick Cave pubblica un intero album – THE BOATMAN’S
CALL – ispirato alla relazione naufragata. Testi come Into My Arms, (Are You) The One That I’ve
Been Waiting For? e Black Hair basterebbero a sciogliere un’intera calotta polare ma non PJ, che
all’uscita del disco è già tornata alle sue, di canzoni, e a ciò che desidera davvero: il suo nuovo
album, IS THIS DESIRE?
Ci si chiede quanto i resti di uno e dell’altra possano influire su ciò che verrà dopo. Nel 1999
Nick Cave incontra una modella inglese, Susie Bick, la sposa, ci fa due figli e per il tenebroso
artista australiano la vita sembra quasi assumere un cammino pastorale. Spariscono gli eccessi, le
dipendenze; i teneri pargoli vengono alla luce e imparano a conoscere un padre devoto e un marito
fedele, che a ogni occasione decanta il proprio culto familiare e alla sera, prima di addormentarsi,
depone i paramenti sulla sedia insieme al vestito buono.
Di PJ Harvey continuiamo a pedinare l’esistenza attraverso i dischi. Sappiamo che è
follemente innamorata quando ci consegna spaccati di vita vissuta con STORIES FROM THE CITY,
STORIES FROM THE SEA, nel 2000, e sappiamo anche che la storia è arrivata al capolinea quando
ascoltiamo WHITE CHALK, nel 2007, l’album più sofferto e intimista dell’interprete del Dorset,
che per l’occasione si veste a lutto: stentiamo a riconoscerne il profilo triste ritratto come in
santini d’altri tempi.
Oh my Lord, non smette di urlarci nelle orecchie Cave e sì, abbiamo capito, eppure ti
preferivamo prima. Quando selvaggio e conquistato ti avvinghiavi a lei, Polly Jean, le cingevi la
vita con una mano mentre con l’altra le accarezzavi il viso e le sussurravi di quell’uccellino che
un bel dì si posò su Henry Lee, e attento messia in mocassino Gucci, augurati solo che quel letto
non possa mai essere vuoto.

Henry Lee – Nick Cave and The Bad Seeds (MURDER BALLADS)
Lei è una delle modelle più belle di sempre. E questa è una verità, mica un’opinione. Se a distanza
di oltre vent’anni dal primo concorso di bellezza i magazine ancora scalpitano per averti poco
vestita in copertina, sai bene di sedere al tavolo di un privé con altre quattro o cinque come te, e
l’accesso è severamente vietato al resto del mondo.
Confrontando le copertine di oggi con quelle del 1991, solo la moda sembra essere superata.
Lei no. Lei è ancora come quando l’abbiamo scoperta, a ventitré anni, mentre sdraiata su un
bagnasciuga in bianco e nero si divertiva a sedurci. Pose, ammiccamenti, scorci senza tempo.
Dove siamo? Che anno è? Chi se ne importa, se alla fine uomini e donne non riescono a staccare
gli occhi dai corpi avvinghiati di Helena Christensen e Chris Isaak.
In realtà, sapevamo riconoscere quella canzone dalle prime note. All’inizio degli anni Novanta
Wicked Game arrivava al tramonto, d’estate, quando il caldo ti aveva già azzerato la salivazione
ma avresti continuato a sudare volentieri su quegli accordi. Il maestro David Lynch, che
naturalmente aveva già previsto ogni cosa, scelse Wicked Game per la colonna sonora di uno dei
suoi film più belli. Di quelli in cui musica e inquadrature sono più espressive di qualunque
dialogo o sguardo. Per quanto in stato di grazia, quando in Cuore selvaggio irrompe la voce di
Isaak, Nicolas Cage ha perso la partita.
Più di ogni altra immagine, però, è il corpo di Helena Christensen a restare impresso. La sua
pelle insabbiata, il suo incarnato scuro e gli occhi trasparenti comunque intuibili nonostante
l’assenza di colori. Capelli nell’acqua, labbra e mani ovunque. Tutto perfetto. La donna più bella
del mondo e un uomo più grande di lei straordinariamente in forma e con una voce così profonda
da farti domandare: dove ho vissuto finora? Perché hanno lasciato che per anni mi concentrassi
solo su Morten Harket o Tony Hadley? Se c’è un uomo che prende il controllo della situazione più
bollente, quello è Chris Isaak, e ascoltandolo cantare si ha la sensazione di voler restare per
sempre su quella spiaggia, mentre d’inverno si potrebbe aspettare un abete anche delle settimane
se fosse proprio Chris a trascinarlo nella neve sulle note di una christmas song qualsiasi.
Ma in California non è mai stagione per maglioni a tricot. Che peccato, dobbiamo
accontentarci di vederlo in canottiera, o anche senza, mentre accaldato sfiora il corpo statuario
della modella danese che, prima di Kate Moss, tradisce una sfrenata passione per musica e
musicisti. Helena Christensen è colta, intelligente e sa come attirare l’attenzione. Non bastassero
le misure perfette, si può sempre rilasciare ai cronisti qualche segreto di bellezza. Helena è tra le
prime a farsi portavoce di dubbie verità: nessuna dieta, adoro il formaggio. Esercizio fisico?
Poco, sono così pigra. Quanto dedico alla cura del mio corpo quando non lavoro? Esco di casa
struccata e m’infilo in una pasticceria.
Ce ne sarebbe a sufficienza per gettare bilance e amor proprio dal balcone, ma Helena fa di
più. All’apice della carriera si fidanza con uno degli uomini più affascinanti del rock: Michael
Hutchence. Il leader degli australiani Inxs è uno dei pochi ad avere stile a cavallo di un decennio
che vede avanzare in classifica cantanti pop dalle mise fluorescenti e rocker malvestiti. Hutchence
ha carisma, personalità e diversi hit all’attivo, come Need You Tonight, Never Tear Us Apart,
Suicide Blond, brani che nei video di lancio anima con movenze terribilmente sexy.
Nel 1991 Helena e Michael si incontrano grazie al fotografo di moda Herb Ritts, regista
proprio di quel videoclip che lancia la carriera della modella scandinava a livello mondiale. I
flash dei fotografi immortalano sempre più spesso i due insieme. Hutch ha una compagna la cui
carriera non ha bisogno di essere alimentata dal gossip: Kylie Minogue se la cava benissimo con
la sua musica e la sua avvenenza. Per questo si fa da parte, non sta al gioco e preferisce cedere il
posto a un’altra che sembra a proprio agio sotto ai riflettori.
Ora i corpi statuari che ci fissano dalle copertine sono due. E spesso l’uno è intrecciato
all’altro. Alla prima edizione europea degli Mtv Music Awards a Berlino, la coppia si presenta
insieme. Introdotti da Tom Jones, spetta a Helena e Michael il compito di premiare la canzone
migliore del 1994. L’attenzione è però altrove e, non appena la camera ruota su di loro, ci
sorprendono con un bacio appassionato. Subito dopo tocca a scherzi e divertissement tra fidanzati.
Tutto sembra ancora una volta idilliaco. Alla fine del 1994 si parla di matrimonio, ma dopo pochi
mesi le cose tra i due raggiungono una posizione di stallo.
Nuovi rumors alimentano voci di crisi tra una delle coppie apparentemente meglio assortite
degli ultimi tempi. E un’altra unione vacilla. Entra prepotentemente in gioco la relazione di lunga
data tra Bob Geldof e la giornalista televisiva Paula Yates. Pare che Michael e Paula si siano
conosciuti in occasione di un’intervista nel programma The Tube condotto da Paula negli anni
Ottanta, lo stesso che le fece incontrare Geldof. A distanza di dieci anni, un nuovo incontro
compromette definitivamente gli equilibri e ancora una volta i giornali ci arrivano prima dei
diretti interessati.
A Helena non viene risparmiata la stessa sorte toccata a Kylie Minogue quattro anni prima.
Come fece a suo tempo l’interprete australiana, anche Helena sfuma da quei ritratti che la
coglievano al centro dell’obiettivo. Ma c’è qualcuno che non ha la minima intenzione di mandare a
monte la propria famiglia. Bob Geldof apre inaspettatamente un dialogo a tre e testardamente
proverà a non chiuderlo più.
Nel mese di maggio del 1996, quando il divorzio tra Bob e Paula viene ufficializzato, la Yates
aspetta già una figlia da Hutchence. Tiger Lily nasce il 22 luglio dello stesso anno e per un breve
periodo vive insieme a due genitori che si dicono follemente innamorati. E con Helena? Non era
forse amore quello che brillava come un diamante sotto a ogni luce? No, non lo era. Prima uno e
poi l’altra confessano alla stampa la propria svista madornale: Michael e Paula sono fatti per
restare uniti. Solo che l’unione si rivela tale anche nel baratro che li attende.
Il 22 novembre del 1997 Hutch viene trovato senza vita in una stanza d’albergo. Un gioco di
asfissia autoerotica finito male pare sia l’origine del soffocamento che ha portato alla morte il
cantante degli Inxs. Paula crolla, entra ed esce dalla clinica, e perde la battaglia legale contro l’ex
marito per l’affidamento delle figlie. Dopo un primo tentativo di suicidio, il 17 settembre del 2000
un’overdose le risulta fatale nel decimo compleanno della sua terza figlia. La quarta, Tiger Lily,
poco dopo viene affidata a Geldof e nel 2008 assume definitivamente il doppio cognome
Hutchence Geldof.

Not Enough Time – Inxs (WELCOME TO WHEREVER YOU ARE)


C’era una volta e c’è ancora una cattiva ragazza che fin da adolescente abbiamo imparato a
riconoscere in decine di pellicole hollywoodiane, e poi è diventata donna. Con gli anni, il suo
astro si è offuscato, e non certo per gli arresti dovuti a una cleptomania conclamata né per alcune
dichiarazioni discutibili. La sua stella sulla Walk of Fame brilla decisamente meno rispetto a un
tempo, non tanto per le relazioni burrascose o per la scelta dei ruoli di dubbio gusto dell’ultimo
decennio, fatta eccezione per qualche cameo di tutto rispetto. È accaduto semplicemente che
questa attrice ha compiuto quarant’anni e l’industria del cinema prima ha lanciato un gridolino di
disappunto e poi ha riflettuto a lungo prima di offrirle il prossimo copione.
Di anni, quando Winona Ryder ha iniziato a recitare, ne aveva meno della metà di oggi. Una
ragazzina androgina, con due grandi occhi scuri e la pelle trasparente, caratteristiche che non
sfuggono al regista Tim Burton che ne nel 1988 la sceglie per comparire al fianco di Michael
Keaton, Alec Baldwin e Geena Davis in Beetlejuice, una delle sue tipiche favole nere: a Winona
spetta il ruolo della ragazzina ossessionata dalla morte che veste di nero, una parte simile a quella
che interpreterà subito dopo in Schegge di follia di Michael Lehmann.
Da questo momento in poi Winona inanella ruoli che, fino all’arrivo di un’altra cattiva ragazza
che risponde al nome di Juliette Lewis, nessun’altra attrice è in grado di ricoprire. La bionda
lolita non ha nulla a che spartire con la giovane del Minnesota che a nemmeno vent’anni si
dimostra sveglia, indipendente e nient’affatto in balia di un’industria che crea modelli
riproducibili. Winona ha qualcosa di singolare, oltre al nome. Ha il potere di appiccicare allo
schermo ragazzi e genitori perché non è mai detto che dietro la schiena o sotto il letto non possa
nascondere un segreto inconfessato.
È la sposa bambina nel biopic sull’ascesa e il declino di Jerry Lee Lewis, e poi è ancora
Burton a volerla al fianco di Johnny Depp per un nuovo affresco a tinte scure. Sul set di Edward
mani di forbice, Winona ritrova il regista con il quale ha ormai instaurato un’affiatata
collaborazione, ma è dal protagonista maschile che rimane soggiogata. Winona e Johnny iniziano a
fare coppia fissa. Gli anni Novanta sono cominciati da poco e in giro c’è una nuova generazione di
attori e musicisti che vuole a tutti i costi far parte di qualcosa di importante.
Quello che non sanno è che la giovane età, se non si sta attenti, può ostacolare i loro progetti.
Basta ritrovarsi una sera in un bar, sentirsi un po’ a terra e per questo cercare il modo più rapido
per andare su di giri. È accaduto a John Belushi all’inizio del decennio appena trascorso. Non era
forse lui l’astro nascente del cinema americano? Lo stesso capita a un altro giovane attore
acclamato. È la notte del 31 ottobre 1993 quando River Phoenix si accascia sul marciapiede al
numero 8852 di Sunset Boulevard. River è appena uscito dal locale The Viper Room, dell’amico
Depp, non si sente affatto bene, sa di avere esagerato, ma non quanto evidentemente.
Ci sono conti da pagare, pene da scontare, ma c’è anche una vita che corre e non aspetta
nessuno, specialmente se sei troppo impegnato a rovinare a terra in qualche club alla moda o a
passare notti insonni litigando con la tua ragazza. Nel 1994 Winona e Johhny mettono fine alla loro
relazione. Sul bicipite di lui rimarrà impresso – non per sempre – il tatuaggio WINONA FOREVER,
così come resteranno cicatrici e tagli che nemmeno il tempo può cancellare definitivamente. Ma se
per Depp il corpo non è che un diario sul quale imprimere una storia che gli appartiene, capiamo
che un nuovo capitolo è scritto quando da WINONA sparisce l’ultima sillaba.
Nel frattempo, la carriera della Ryder è decollata definitivamente. Jim Jarmusch, Francis Ford
Coppola e Martin Scorsese sono soltanto alcuni dei registi che la scelgono per interpretare le loro
storie. Proprio grazie al film di Scorsese, L’età dell’innocenza, riceve la sua prima candidatura
dall’Academy come miglior attrice non protagonista. L’anno successivo saranno altre due
pellicole a farle conquistare il favore del pubblico, due ruoli completamente diversi in cui ancora
una volta la sua singolare capacità interpretativa può venire a galla quanto basta per ribadire che
non c’è collega coetanea che riesca a competere con lei.
In Giovani, carini e disoccupati, debutto alla regia del collega Ben Stiller, Winona Ryder ed
Ethan Hawke sono due giovani che cercano di costruirsi un futuro. Winona interpreta Lelaina,
aspirante regista dedita a un documentario sulla vita, i sogni, le aspettative e gli amori della sua
generazione, ed è esattamente quello che il film cerca di raccontare. La colonna sonora raduna
diversi gruppi in voga nel periodo, e un altro interprete fa capolino nel film. Il suo nome è Dave
Pirner, il leader scarmigliato dei Soul Asylum, e si vocifera che sia il nuovo compagno di Winona,
già protagonista nel video del brano Without A Trace della band.
Nel mese di marzo del 1994 la coppia esce allo scoperto alla consegna annuale degli Oscar.
Questa volta la Ryder è stata nominata come miglior attrice protagonista per il ruolo di Jo in
Piccole donne. La coppia si presenta sul tappeto rosso mano nella mano, un po’ impacciata, come
se soffrisse la scelta dell’abito da sera d’ordinanza; in jeans e sneakers le cose sarebbero
senz’altro più semplici. La statuetta, quella sera, finisce per la seconda volta tra le mani di Jessica
Lange, per la sua interpretazione in Blue Sky, titolo che incasserà svariate decine di milioni di
dollari in meno rispetto a Piccole donne.
Ma quella sera non ci sono sconfitti. C’è solo voglia di sorridere, perché lo si desidera
davvero e non perché sono i fotografi a richiederlo. Winona stringe la mano di Dave, l’autore di
Runaway Train, canzone strappalacrime che ha contribuito al successo dei Soul Asylum. In
particolare, il video del brano sarà ricordato come uno dei migliori servizi pubblici offerti al
paese: mette in sequenza fotografie di bambini scomparsi, con nomi e cognomi, e alla fine è lo
stesso Pirner che invita a chiamare un numero di telefono nel caso si riconoscesse qualcuno dei
ragazzi ritratti. L’idea si rivela vincente e molte famiglie riescono a ristabilire un contatto con i
propri figli.
La storia tra Dave e Winona procede fino al 1997, quando annunciano una separazione di
comune accordo. Niente lascia presagire la fine di una storia la cui sceneggiatura non contempla
alcun tipo di sbavatura o clamore mediatico. Qualcuno afferma che il brano dei Primus Wynona’s
Big Brown Beaver del funambolico bassista Les Clypool altro non sia che una presa per i fondelli
dell’attrice e che questa sia la causa di un battibecco tra Primus e Soul Asylum. Altre voci hanno
continuato a etichettare la Ryder come particolarmente sensibile al fascino dei propri partner e
musicisti. Ma è soltanto dopo la fine della relazione con Pirner che altre storie vengono in
superficie. Tra le più chiacchierate, quella con Beck, che per Winona archivierà un fidanzamento
di nove anni.
L’attrice atipica e la rockstar defilata vivono e riflettono appieno un decennio che gronda
possibilità e tentazioni. L’indie rock entra prepotentemente al cinema e nella letteratura. C’è un
libro da cui poi prenderà il nome un’intera generazione: si chiama Generazione X e l’autore è
Douglas Coupland. La Generazione X fotografa una gioventù apatica, cinica, senza valori e affetti,
spossata e disorientata dopo i fasti degli anni Ottanta. Ma l’underground viene presto fagocitato
dall’industria, via Mtv, e vira in prodotto di mercato per le masse. Alla fine del millennio anche la
Generazione X scompare; al suo posto arriverà la Generazione Y.

Without A Trace – Soul Asylum (GRAVE DANCERS UNION)


Nel 1992, in piena era grunge, arriva al cinema la seconda prova da regista di Cameron Crowe. Il
quale, da sempre ossessionato dalla musica e dalle commedie con l’happy end, unisce entrambe le
passioni in un’opera che fotografa la vita di un gruppo di giovani alle prese con l’amore. Singles –
L’amore è un gioco inizia con un motto, un insegnamento tramandato da padre a figlio: “Divertiti
ragazzo, resta un single”. I protagonisti, per quanto se la raccontino, hanno invece il solo obiettivo
di costruire una relazione solida, perché quando le carriere non sembrano soddisfarci in maniera
adeguata è nel petto del partner che possiamo sprofondare la testa la sera rientrando dal lavoro.
Il film non racconta nulla di nuovo, ma è divertente e condito da ottima musica, e per la prima
volta Hollywood si accorge di un movimento che travalica camerette e palchi fino a salire in
passerella, sui magazine, sul piccolo e grande schermo. Il grunge è servito e a riprova che non si
tratta di sola scena, Crowe ambienta Singles a Seattle, epicentro del movimento, riprende
esibizioni live e a uno dei gruppi più in vista assegna il ruolo della band un po’ sfigata del
protagonista. Ci indica insomma una strada, ci fornisce guide locali e poi esce dall’inquadratura
per scattare un’istantanea, non prima di essersi fatto un sana risata in compagnia dell’allegra
combriccola.
La band sfigatella è in realtà la formazione di punta della scena musicale di Seattle. Si tratta
dei Pearl Jam e ogni loro concerto è un evento da ricordare e custodire gelosamente. Sono in
particolare le performance del frontman, Eddie Vedder, a lasciare il segno. Vedder non solo canta
agitandosi nervosamente per tutte le due ore del concerto, fa più di un classico stage diving, più di
surf diving: si arrampica su ogni struttura che glielo consenta, muri di amplificatori, costruzioni
mobili, scala quinte e raggiunge palchi nei teatri, è inarrestabile, mentre il resto della band se ne
sta con il naso all’insù tra il divertito e il preoccupato. I musicisti continuano a suonare lunghi
intermezzi strumentali e intanto si domandano se alla fine dell’esibizione avranno ancora un
cantante o se dovranno ricominciare a mandare nastri in giro in cerca di una voce che sia
all’altezza del predecessore. Ma come è giunto Eddie Vedder a Seattle?
All’inizio degli anni Novanta in città si parla di questo ragazzo dotato di una voce profonda
che fa surf a San Diego. Questo tipo, in realtà, canta in diverse band della sua zona assumendo
varie identità. I testi poi non sono niente male. Eddie scrive di sé, dell’infanzia e della vita che lo
ha riportato a un passo dall’oceano dopo un periodo vissuto a Chicago insieme alla madre e ai
fratelli. Non è solo; sulla spiaggia, ad attenderlo dopo l’ennesima evoluzione, c’è Beth, la sua
ragazza, arrivata con lui da Chicago. Perché non fare un tentativo? Perché non convocare quei due
ragazzi a Seattle e liberare Eddie dalla pompa di benzina e dal servizio di guardia notturna? È un
buon momento per esperimenti di quel genere, e basta una spintarella al destino perché nasca una
band del calibro dei Pearl Jam.
Quando Eddie Vedder recita accanto a Matt Dillon nel film di Cameron Crowe dedicato alla
complicata vita dei singles, la sua relazione con Beth Liebling è ormai al settimo anno. Un
rapporto rodato, fatto di complicità e crescita. Beth divide col compagno la passione per la
musica. Una volta giunta a Seattle forma la sua band, Hovercraft, e per tutto il decennio successivo
s’impegna attivamente per portare avanti un mestiere che mal si concilia con una relazione, specie
quando tour e promozione coincidono. Subito dopo il matrimonio celebrato a Roma il 3 giugno del
1994, in un’intervista al «Los Angeles Times» Vedder dichiara: «Le relazioni possono essere
molto complicate se impieghi tanto del tuo tempo nella musica. So di essere una persona difficile
da affrontare e a volte c’è tensione perché siamo entrambi egoisti. Ma senza Beth sarei un
aquilone senza corda, un signor nessuno».
Per sedici anni la coppia vive al riparo dal gossip. E i fan si riconoscono in un legame così
straordinario proprio perché non ha nulla di gridato o esibito. Eddie applica al suo matrimonio lo
stesso profilo rodato con la band. Poche immagini promozionali, di video neanche a parlarne. Se
vuoi ottenere risultati devi impegnarti seriamente, nel lavoro come nella vita. Beth compare al
fianco del marito in rarissime occasioni eppure nelle retrovie del palco è sempre presente; così, ci
si chiede se Eddie sarebbe disposto a fare lo stesso con lei. Fino al mese di settembre del 2000
nessuno nutre dubbi su questa relazione ritenuta tra le più salubri della musica rock. Poi, lo shock.
Eddie Vedder si imbatte a Milano nella giovane modella Jill McCormick e tutto cambia.
Eddie Vedder e Beth Liebling si separano, ma quelle due o tre foto che li ritraggono insieme
restano incorniciate alle pareti ingiallite di molte camerette di ormai ex adolescenti. Eddie e Beth
sono il ritratto di un’America con cui abbiamo familiarizzato grazie alla musica e a centinaia di
film per ragazzi. L’America dei college, dei lunghissimi corridoi di scuola tutta armadietti e baci
rubati tra bagni e anfratti. Amori acerbi eppure densi e vischiosi come certe, ehm, confetture. Nel
1984 Eddie Vedder portava ancora i pantaloni corti, infilava le dita nella marmellata di pere della
nonna e smaltiva gli zuccheri facendo surf. Sulla spiaggia, Beth seguiva con un occhio le
evoluzioni del fidanzato e con l’altro guardava fremente l’orologio contando quanti minuti la
separavano dalla sala prove. Non c’era tempo da perdere, c’erano canzoni da scrivere e una
relazione da nutrire e onde talmente alte che era meraviglioso cavalcarle un po’.
Quando però il sogno si realizza, allora bisogna mettersi a tavolino e misurare i centimetri che
si è disposti a mollare l’uno all’altra. Ed è in quel momento che tutto precipita, quando capisci che
quella vita non può funzionare in metà uguali. Qualcuno dovrà cedere o il metro si spezzerà, e il
campo d’azione di ciascuno ricomincerà a essere totale. Da battitore libero, Vedder sa esattamente
dove e cosa andare a cercare. Una famiglia, un nuovo inizio. Qualcuno con cui ricominciare da
capo. Una donna con la quale fare due figli e azzerare i conti impossibili del passato. Soltanto nel
mese di settembre del 2010, a dieci anni esatti dal divorzio da Beth, Eddie sposa Jill alle Hawaii.
Una data importante per mettere una pietra al dito della madre delle sue figlie e una ben più
imponente sulla storia con la donna che madre non è mai stata, troppo impegnata a correre
appresso ai sogni.

Oceans – Pearl Jam (TEN)


Il re del pop, così come molti altri musicisti, nutre una vera e propria adorazione per il re del
rock. Scongiurato il pericolo di diventare un artista fallito, è la fama a mettere in difficoltà
Michael Jackson, che nel 1988 confessa di essere incredibilmente affascinato dallo stile di vita
condotto da Elvis e da come sia riuscito a distruggersi con le proprie mani, pur assicurando che
quella strada, lui, non la percorrerà mai. La fama, si sa, costa cara e rende impossibile condurre
una vita normale. A questa Michael ha rinunciato da tempo, dagli esordi con i Jackson 5 fino al
successo planetario di THRILLER. Ciò di cui invece non intende privarsi è l’amore, l’amore per
una donna che condivida i suoi stessi sogni, che abbia conosciuto i suoi stessi incubi e che sia in
grado di dargli al più presto dei figli.
Michael Jackson cerca e trova l’amore in una donna più grande di lui, Diana Ross, che gli
resterà a fianco per sempre, come amica. Poi sono due giovani bianche a interessarlo, Tatum
O’Neal e Brooke Shields, accomunate da un virus del successo contratto troppo presto.
Esattamente come lui, le sue compagne sanno cosa significhi vivere un’infanzia condizionata dal
lavoro, costantemente sotto i riflettori, e non hanno bisogno di altra pubblicità o ricchezza. Il re
del pop non vuole offrire all’eletta il suo regno, ma il suo cuore. Nel 1994 la scelta cade sulla
figlia del re del rock, Lisa Marie Presley. Il destino non avrebbe potuto scrivere un copione più
esatto, e plausibilmente sono in molti a pensare che l’infatuazione per Lisa Marie non sia casuale.
Il matrimonio viene celebrato senza fanfare il 26 maggio del 1994 nella Repubblica Dominicana;
nello stesso luogo, venti giorni prima, la sposa ha ottenuto il divorzio dal primo marito. La stampa
rivela la notizia con settimane di ritardo e non si può fare a meno di pensare che sia stato tutto
affrettato per via delle grane giudiziarie che coinvolgono Jackson.
In realtà, Lisa Marie è vicina al re del pop fin dall’inizio del processo che lo vede imputato di
molestie sessuali nei confronti di uno dei giovani ospiti che ogni tanto accoglie nella sua villa. La
figlia di Elvis ha incontrato Michael casualmente tramite un amico comune, pur sapendo benissimo
chi fosse. Lo sa più o meno dal 1974, quando da bambina aveva espresso il desiderio di assistere
a uno show della famiglia Jackson e il padre l’aveva accontentata accompagnandola a uno dei loro
concerti a Las Vegas. S’incontrano dunque bambini e si ritrovano da adulti con un passato
ingombrante alle spalle e un presente tutto da costruire. Persino le rispettive famiglie vengono
messe a conoscenza del fatto solo a nozze celebrate. Katherine, la madre di Jackson, si dice
sollevata dalla scelta, immaginando di veder sparire così un numero spropositato di persone che
da anni e a vario titolo affollano la vita del figlio.
Ma è difficile credere al matrimonio del secolo. Alcuni giornalisti teorizzano un piano ordito
da Jackson per mettere mano al catalogo di Elvis, da sommare a quello già in suo possesso dei
Beatles. La fetta più cospicua dei media ritiene invece che si tratti di un tentativo per dare a
Michael un’immagine più virile, in contrasto con quella secondo cui la star sarebbe attratta da
uomini o ragazzini. In ogni caso, la parola amore non compare mai. Eppure la coppia ce la mette
tutta. Restii da sempre a rilasciare interviste, nel settembre del 1994 i neosposi aprono la serata
degli Mtv Video Music Awards al Radio City Music Hall di New York e si scambiano un lungo
bacio davanti a milioni di telespettatori. Qualche mese dopo provano a ribadire l’autenticità della
loro unione comparendo nel video del nuovo singolo di Jacko, You Are Not Alone. Sono
fotogrammi decisamente eloquenti: entrambi appaiono senza vestiti, avvolti solo da un
asciugamano sui fianchi, si scambiano sguardi languidi ed effusioni che non lasciano spazio
all’immaginazione, come a rilanciare non solo l’amore, ma anche un legame sessuale compiuto e
soddisfacente.
Nel mese di giugno del 1995 ci riprovano. Concedono un’intervista per il programma Prime
Time Live della Abc. Parlano del loro primo appuntamento, del matrimonio e della volontà di
mettere presto su famiglia in Svizzera. E non appena l’argomento sesso ritorna sul banco degli
imputati, Lisa Marie si affretta a ribadire che il loro legame è reale sotto ogni punto di vista. Ma i
figli non arrivano; Lisa ne ha già due e Michael ha il suo lavoro. C’è la promozione del nuovo
album HI-STORY a tenerlo impegnato in giro per il mondo, e se c’è una cosa di cui la figlia del re
del rock non ha bisogno è un’altra figura totalmente assente nella sua famiglia. Alla fine del 1995
il matrimonio del secolo dà già segni di cedimento. Lisa e i suoi due figli partono per una vacanza
alle Hawaii con l’ex marito e la favola sembra finire il 18 gennaio del 1996, quando la donna
presenta una richiesta di separazione per differenze inconciliabili.
Dopo appena diciotto mesi, la stampa è convinta di non essersi sbagliata mettendo sempre in
discussione il matrimonio. Il re del pop, nel frattempo, contrae un nuovo matrimonio. Non c’è
amore questa volta, è evidente. C’è solo un patto che obbliga l’assistente del suo dermatologo,
l’infermiera Debbie Rowe, a mettere al mondo due bambini. E quando i figli arrivano, a generare
dubbi è il patrimonio genetico. Di chi sono realmente figli Prince e Paris? E perché il loro volto è
sempre coperto da maschere? Sono interrogativi che accompagneranno il resto della vita del re
del pop e che negli ultimi dieci anni prenderanno il sopravvento su musica e tour.
Se all’inizio del nuovo millennio di Michael Jackson ci si ricorda quasi esclusivamente per gli
interventi di chirurgia estetica, per le cause processuali e per quella strana abitudine di aggirarsi
mascherato e in pigiama, di Lisa Marie si continua a parlare per le burrascose relazioni
sentimentali. Dopo l’intricata separazione da Michael si dedica alla musica incidendo un paio di
dischi, scrive un libro sul padre insieme alla madre Priscilla e nel 2002 fa scalpore per le nozze
con un altro grande fan del padre, l’attore Nicolas Cage, matrimonio che termina dopo 108 giorni.

Yo u Are Not Alone – Michael Jackson (HISTORY)


Essere il figlio prediletto di uno degli uomini più compianti dell’intero pianeta può farti sentire
inadeguato. Se poi sei venuto al mondo lo stesso giorno di tuo padre, sai bene che la maggior parte
della gente avrà a cuore la sua nascita ben prima della tua. Specie se lui non è più qui a
festeggiare né il suo né tanto meno il tuo compleanno. Poi c’è tua madre, che ha passato gli ultimi
trent’anni delle vostre vite a fare in modo che il mondo si ricordasse di tuo padre, e lo trovi
giusto. A volte. E infine c’è il tuo fratellastro, che non perde occasione per ricordarti che, tra i
due, quello fortunato sei tu.
Sean Lennon viene al mondo nel trentacinquesimo compleanno di John. Non poteva sperare in
un regalo più bello. Di figli maschi ne ha già uno, Julian, ma questa volta non dovrà correre per il
mondo, potrà starsene a casa a leggere il giornale col suo cucciolo in braccio, cucinargli il pane
fresco e aspettare che cresca osservandone ogni piccolo cambiamento. A Julian ha pensato sua
madre Chyntia, ma a Sean penserà lui. Resterà in famiglia per un po’, non c’è fretta.
Per cinque anni, dal 1975 al 1980, John Lennon si rifugia tra le pareti del Dakota Building, a
New York. Esce per passeggiare con Sean e la compagna Yoko, per fare la spesa. Qualche volta
esce per andare allo studio di registrazione, soprattutto negli ultimi mesi, quando il ritorno sulle
scene è ormai imminente. John è pronto per staccarsi da Sean e fuori ci sono milioni di persone
che chiedono a gran voce di ricominciare ad ascoltare la musica di chi troppo a lungo si è
eclissato.
Ma le cose non vanno sempre come uno se le aspetterebbe. Lennon è costretto a sostituire
l’assenza temporanea con una permanente. Dietro di sé lascia una piccola vita, agli esordi, eppure
già scritta, perché se sei il figlio della coppia più chiacchierata dell’ultimo decennio non puoi che
combinare qualcosa di grandioso. Ce lo aspettiamo. Aspettiamo di vederti assomigliare anima e
corpo a tuo padre, c’è un copione già scritto almeno fino al tuo quarantesimo anno di vita. Dopo
chissà. Dopo toccherà a te improvvisare, ed essere sopravissuto a tuo padre non renderà le cose
più facili.
Ce la metti tutta. A nove anni inizi a cantare. È il 1984 e intoni il brano It’s Alright per l’album
di tributo a tua madre EVERY MAN HAS A WOMAN. Quattro anni più tardi ti si vede sgambettare in
Moonwalker al fianco di Michael Jackson nella parte di te stesso, uno dei piccoli amici del re del
pop. Sai che la musica è la tua vita, ma non hai ancora le idee chiarissime, così intorno ai sedici
anni partecipi al secondo episodio della carriera di Lenny Kravitz, mentre subito dopo
accompagni tua madre nelle registrazioni dei suoi lavori.
Ciò che segue è esattamente il risultato degli stimoli ricevuti. Ti gravitano dentro e fuori così
tante contaminazioni che c’è da perdere la testa. Ma non è quello che ci si aspetta da te. Sono tutti
in attesa di vederti seduto dietro al pianoforte bianco di John. Fremono per vederti con gli
occhialini tondi appoggiati sul naso aquilino, l’atteggiamento un po’ dimesso, mentre canti e fissi
nel vuoto in attesa dell’arrivo di una compagna, preferibilmente di origini asiatiche, ma soltanto
per scuotere la testa e poter dire in coro: non ci siamo proprio, Sean.
La ragazza di origine asiatica, comunque, arriva presto al tuo fianco. Si chiama Yuka Honda ed
è la cantante del duo giapponese Cibo Matto. Una breve collaborazione col duo nel 1997 ti
permette di conoscere Yuka, che diventerà la principale fonte di ispirazione del tuo primo disco.
INTO THE SUN esce nel 1998, hai poco più di vent’anni; siamo ancora lontani dal poterti anche
solamente paragonare a colui che ti ha generato, ma è un inizio e almeno tu, al contrario di Yoko e
Julian, sai tenere la bocca chiusa.
Julian all’inizio ci faceva pena. Ci dispiaceva per quel bambino cancellato con noncuranza
dalla prima vita di John. In fondo era solo una creatura nata troppo presto all’interno di una
relazione che non ha mai funzionato. Julian che assomiglia tanto al padre e che cerca in ogni modo
di ristabilire un contatto con lui anche dopo la morte, acquistando a ogni asta gli oggetti
appartenuti al genitore. E ti cerca, Sean, Julian ti cerca per suonare insieme, ma poi, appena girate
le spalle, è il rancore a prendere il sopravvento, perché tu, Sean, un padre che ti ha visto mangiare
per la prima volta cibo solido l’hai avuto.
Eppure c’è un vuoto da colmare, e una vita che ha delle linee prestabilite da seguire. È giusto
iniziare il nuovo secolo scegliendo di firmare per la Capitol Records, l’etichetta discografica
incorporata dalla più potente Emi che ha prodotto tutti i dischi di tuo padre. E poi c’è il nuovo
disco che attende, ma dopo la fine della relazione con Yuka c’è anche tanto tempo da spendere e
vuoto da riempire, specialmente se sei in cerca di ispirazione.
Nell’estate del 2004, come tanti coetanei, Sean Lennon incontra una ragazza a un festival di
musica rock. Si chiama Charlotte Kemp Muhl, ha appena diciassette anni ma è già apparsa sulla
copertina della rivista britannica «Harpers & Queen» e ha posato per campagne di famosi marchi
come Tommy Hilfiger, Sisley, D&G e Maybelline. Charlotte è diversa da tutte le altre ragazze non
soltanto per la sua straordinaria bellezza, ma anche perché probabilmente è l’unica persona sulla
faccia della terra a non conoscere nemmeno una canzone dei Beatles.
«Incontrarsi è stato come colmare una lacuna e allo stesso tempo creare una collisione tra due
galassie». Sean ha finalmente conosciuto la sua musa. Non si tratta solo della donna più bella del
mondo, ai suoi occhi: questa ragazza sfila in passerella e si concede ai fotografi per guadagnare i
soldi necessari a produrre la propria musica. Ma ora che i soldi non sono più in problema, creare
una band insieme è il naturale passo successivo per entrambi.
Sean e Charlotte debuttano come duo il giorno di San Valentino del 2008 in una performance
live alla Radio City Music Hall di New York per presentare al pubblico il loro progetto The
Ghost of a Saber Tooth Tiger. Canzoni a base di chitarra e poco altro, armonie suadenti e due voci
che quando cantano all’unisono paiono fondersi. Sean definisce il rapporto artistico con Charlotte
una sorta di incontro di tennis intellettuale. In campo non c’è alcuna eredità, questa volta. Lennon
ha scelto di improvvisare ben prima del suo quarantesimo compleanno.
Nell’autunno del 2010 il duo decide di farsi immortalare dal fotografo Terry Richardson.
L’occasione è propiziata da uno dei tanti magazine che hanno capito che questi due ragazzi
contribuiscono e non poco alle vendite. Sulla copertina finisce uno scatto familiare. Sean e
Charlotte vengo ritratti dall’alto abbracciati, esattamente come Annie Leibovitz aveva ritratto John
e Yoko trent’anni prima per il mensile «Rolling Stone». L’omaggio è evidente, anche se questa
volta i ruoli sono invertiti. Ma questo è un altro rapporto, lo abbiamo capito. «Mia madre non ha
mai voluto scrivere canzoni con mio padre. Io e Charlotte amiamo collaborare. Insieme abbiamo
una sola chimica».

Shroedinger’s Cat – The Ghost of a Saber Tooth Tiger (ACOUSTIC SESSIONS)


All’inizio degli anni Ottanta la televisione ce la metteva proprio tutta per insegnarci che a
Manhattan possono esistere afroamericani con un discreto conto in banca. Alcune di esse si sono
arricchite lavorando dalla mattina alla sera e credendo fermamente di poter cambiare il proprio
destino mentre altre hanno studiato, non meno duramente, e hanno conseguito posizioni di assoluto
rispetto. Tutto questo abbiamo imparato ad assorbirlo giorno dopo giorno grazie a due show molto
popolari: The Jeffersons e The Cosby Show.
Entrambe le serie focalizzavano l’attenzione sui dialoghi, sulle battute, sulla bravura degli
attori. Difficilmente avremmo intuito di trovarci all’interno di appartamenti newyorkesi se non ce
lo avessero comunicato prima. Ciò che accadeva al di fuori di quelle tre pareti non era affar
nostro, così come non lo erano le vite degli attori che ancora, all’epoca, si confondevano con lo
show con il quale a volte condividevano addirittura il nome, come nel caso di Bill Cosby.
Di alcuni ricordiamo soltanto il nome, in effetti, di altri l’atteggiamento, altri ancora abbiamo
imparato a conoscerli più da vicino e a seguirne le vicende personali. Questo è accaduto però in
seguito, quando la Rete ci ha offerto non solo la possibilità di allargare i nostri orizzonti culturali
in materia geografica, scientifica o storica, ma anche di sapere che fine avessero fatto Phylicia
Ayers-Allen e Sherman Hemsley, Roxie Albertha Roker e Lisa Bonet.
In alcuni casi la ricerca è ardua e constatare dopo svariati sforzi che la nostra eroina ha
lasciato il piccolo schermo per ritirarsi in una fattoria dell’Arizona con il marito, i tre figli, il
cane e un paio di conigli non ha placato la nostra sete. Effettivamente non lo avrebbe fatto
nemmeno rivedere l’oggetto delle nostre ricerche impegnata a promuovere bibite gassate sul
canale delle televendite o imparare a memoria il numero da chiamare se per caso fossimo noi a
fornire dettagli sul suo ritrovamento alla famiglia. In altri casi invece la ricerca è più semplice e
la curiosità subito appagata.
Roxie Albertha Roker è un’attrice statunitense di origini bahamensi divenuta famosa grazie al
ruolo di Helen Willis nella sit-com The Jeffersons. Per tutte e undici le stagioni Roxie interpreta
la metà afroamericana della prima coppia interrazziale a comparire in prima serata sul canale
della Cbs. Quando Roxie accetta la parte ha già un figlio di undici anni con una passione smodata
per la musica, per John Lennon e Jimi Hendrix in particolare: il suo nome è Leonard Albert
Kravitz, ma in famiglia lo chiamano Lenny.
Lenny, negli anni Ottanta, preferisce farsi chiamare Romeo Blue, un nome che trova più
indicato per i suoi primi dischi, che inizia a incidere autoproducendosi. Dalla California decide
poi di ritrasferirsi a New York, dove aveva vissuto da bambino, e qui decide di intraprendere una
carriera musicale vera e propria; ma prima, ad attenderlo c’è un incontro, di quelli che si fanno a
vent’anni, di quelli che condividiamo un appartamento e vediamo che succede, di quelli che a
volte cambiano la vita.
Lei si chiama Lisa Bonet, o almeno così decide di farsi chiamare quando inaugura la carriera
di attrice. Il ruolo importante arriva presto. A sedici anni Lisa entra nel cast di uno show
fortemente voluto dal suo creatore, Bill Cosby, attore comico e cantante americano che sulla scia
di serie già molto popolari negli Stati Uniti decide di dare vita a una famiglia numerosa il cui
capostipite, un ginecologo afroamericano interpretato dallo stesso Cosby, dispensa ramanzine,
consigli e buonumore all’interno della casa.
Lisa Bonet viene scelta nel 1984 per interpretare il ruolo di Denise Robinson fin dalla prima
stagione. È il personaggio più amato della serie. Denise è una ragazza ribelle, è certamente la più
carina della famiglia e anche quella che crea più grattacapi al padre. Il pubblico si affeziona a tal
punto alle vicende interpretate da Lisa Bonet che nel 1987 viene creato uno spin-off per continuare
a seguire Denise al college. Ma il 1987 è anche l’anno dell’incontro con un giovane musicista, e
tutto il resto può attendere.
Lisa e Romeo Blue si incontrano e decidono subito di vivere insieme. Il 16 novembre del
1987 il matrimonio, e nei primi mesi del 1988 l’annuncio della repentina gravidanza dell’attrice
costringe gli sceneggiatori a rivedere i copioni. Denise non può avere un figlio in nessuna delle
due serie, così il suo personaggio viene per il momento accantonato. Ma Lisa ha altri progetti: una
figlia in arrivo, certo, ma anche la carriera musicale del compagno deve prendere il volo.
Nel 1988 Lenny Kravitz è al lavoro sul suo primo vero disco, quello che lo spingerà a mettersi
in gioco davvero, senza più nascondersi dietro a uno pseudonimo. Nel mese di ottobre, quando ha
già completato buona parte dell’album, grazie a Lisa incontra Stephen Elvis Smith, supervisore
musicale di diverse serie televisive americane, due delle quali molto care al musicista perché tra
le interpreti figurano proprio la moglie e la madre. Nel giro di qualche mese, Smith riesce a
strappare a una major il primo contatto discografico di Lenny Kravitz.
All’inizio del 1989 è la Virgin Records a dare alle stampe LET LOVE RULE, un disco
fortemente connotato da ciò che Kravitz sta vivendo. Il rapporto con la moglie e la paternità sono i
temi centrali di un’opera che è stata la stessa Bonet a finanziare e in parte a scrivere. LET LOVE
RULE, trainato dal primo singolo estratto, raggiunge la posizione numero 61 nella classifica di
«Billboard». Il video del brano che dà il titolo all’album vede ancora Lisa Bonet dietro la
macchina da presa.
Il 1989 fa anche registrare il ritorno di Denise all’interno della famiglia Robinson. Ha lasciato
il college deludendo le aspettative dei genitori, è tornata a casa e ora si occupa a tempo pieno
della figlia del nuovo compagno, un tenente di vascello della United States Navy. Ancora una
volta Denise è la scheggia impazzita della serie, alterna look androgini ad altri etnici, non ha le
idee chiare riguardo al futuro e comunica irrequietezza anche allo spettatore meno attento.
Nel frattempo Kravitz inizia un tour mondiale. Apre i concerti di Tom Petty, Bob Dylan, David
Bowie. Se negli Stati Uniti LET LOVE RULE sta riscuotendo un discreto successo, nel resto
d’Europa addirittura spopola. Nel 1990 Madonna si accorge di lui e sceglie un suo brano, Justify
My Love, per la raccolta THE IMMACULATE COLLECTION. Mtv bandisce il videoclip del brano per
i contenuti troppo espliciti, ma non appena esce nei negozi il disco vende oltre 500mila copie. I
rumors però dicono che Madonna non fosse attratta solo dalla musica di Kravitz. L’interessato
smentisce, ma la fisicità del musicista newyorkese non passerà più inosservata.
Nel 1991 Lenny Kravitz produce l’album omonimo di una giovanissima cantante francese in
cerca di riscatto dopo l’esordio un po’ troppo naïf. Lei si chiama Vanessa Paradis, insieme a
Lenny passa molto tempo per la stesura dei testi e ancora una volta pare che il reciproco interesse
non sia fomentato dalla sola musica. La cantante non ha ancora incontrato l’uomo dei suoi sogni –
un certo Johnny Depp, che comparirà sulla scena soltanto dopo le travagliate storie con Winona
Ryder e Kate Moss – e Kravitz pare avere l’innata capacità di comporre pezzi tremendamente
sexy.
È ancora il 1991 quando la produzione di quello che è diventato uno degli show più seguiti in
America decide di fare a meno del personaggio di Denise per divergenze artistiche inconciliabili.
Ed è sempre il 1991 quando Lisa Bonet e Lenny Kravitz decidono di prendere strade differenti,
anche se la separazione verrà ufficializzata soltanto due anni dopo. È l’amore dei vent’anni che
finisce, è l’entusiasmo giovanile che evapora per fondersi in altri progetti.
MAMA SAID, il secondo album di Kravitz, esce dopo pochi mesi e il perno attorno al quale
ruotano i brani è nuovamente l’amore. Un amore finito, questa volta. It Ain’t Over ’Til It’s Over
arriva a sfiorare il vertice della chart di «Billboard» documentando il disagio e l’avvilimento che
coglie il musicista dopo la rottura. È un successo senza sorrisi.

Let Love Rule – Lenny Kravitz (LET LOVE RULE)


Iniziamo a non poterne più di donne con gli occhi pesti spalmate sulle prime pagine dei rotocalchi.
Gli anni Zero prendono il largo con un bastione carico di principesse pop che rischiano di
affogare, diciamo casualmente, ad ogni virata. Le più fortunate hanno extension talmente salde da
permettere loro un provvidenziale salvataggio quando ormai in superficie non è rimasta che
qualche ciocca posticcia. A tutte le altre, specie se decidono di rasarsi a zero davanti a obiettivi
puntati addosso come Remington, non resta che contare sul conto in banca o al limite su tardivi e
ripetuti pentimenti in pubblica piazza.
Il percorso per tornare in pista ce l’hanno chiaro anche le signore poco inclini a frequenti
visite ai saloni di bellezza. Si sparisce per un po’, il tuo agente ti dà viva e vegeta nel rehab più
alla moda e al momento del ritorno, se avrai raccolto tutti i bonus sul percorso, avrai nuove vite
da giocarti per le successive ricadute. Ma chiamiamolo stress. Al tuo fianco, in fase di rinascita,
ecco materializzarsi la figura del sober coach, terapeuta specializzato che per un po’ avrà il
compito di controllarti e tenerti lontano dai vizi, ma chiamiamolo amico, che ha saputo dimostrarsi
tale soprattutto nelle circostanze più difficili. Chi ha bisogno di compiere dodici passi quando ci
si può tranquillamente limitare a un paio? E il successivo è presto fatto, da ricercarsi alla voce
reality, docu-show, meglio. Intere puntate dedicate a come eri, a come ti comportavi, a come
vivevi, al prima e al dopo insomma. E se non ci sono abbastanza denari per dedicarti un’intera
stagione, allora basterà affiliarsi a serie già in produzione, questa volta da ricercarsi alla voce
Intervention o Relapse, al sober coach la sentenza.
A questo punto sembrerebbe scontato pensare che chiunque possa farcela, specie se ricco e di
bell’aspetto; se ha talento, poi, il red carpet all’uscita dalla Betty Ford incide la sua stella
ricalcata dalla Walk of Fame. E invece non sempre è così: c’è anche chi rifiuta l’offerta e decide
che tanto vale continuare a respirare sott’acqua. È così che la trovano, è così che la vedono i
familiari per l’ultima volta, con la faccia nell’acqua bollente, riversa nella vasca da bagno quasi
per distrazione più che per reale intenzione. È l’11 febbraio del 2011 e Whitney Houston da un
pezzo non ha più molto da dire al suo pubblico; ha già detto, cantato, esternato ogni cosa che le
passava per la testa. Lo ha fatto attraverso la sua musica, i tappeti rossi, i reality e i tabloid.
Questi ultimi, in particolare, sembrano così affezionati alla diva da offrirle l’ultima copertina post
mortem: i fan salutano la propria beniamina, adagiata nella bara durante una cerimonia che vede
tra i partecipanti solo gli amici più cari, per fortuna.
La vita pubblica di Whitney Houston ci ha fatto conoscere il suo entourage, composto fin dagli
esordi dai suoi stessi familiari. Pensando a lei, pensiamo immediatamente alla sua voce, certo,
all’acuto di I Will Always Love You, ma subito dopo pensiamo alle botte, a quegli occhi pesti e
alle labbra gonfie a firma Bobby Brown, suo marito. Bobby è un giovanotto con un’infanzia
tutt’altro che facile, che un bel giorno si ritrova tra le mani la possibilità di lasciare la strada per
attraccare in una delle prime boy band degli anni Ottanta. Con i New Edition ha un discreto
successo, ma è da solo che inizia ad assaggiare il negozio di dolciumi che si cela dietro ai dischi
in classifica e alle foto sui magazine; naturalmente, senza abbandonare mai la sua cattiva
reputazione. Quando nel 1989 Bobby Brown incontra per la prima volta Whitney alla cerimonia
dei Soul Train Music Awards, ha vent’anni e due, forse tre figli in arrivo da altrettante partner
occasionali. Sono anni in cui un’altra figura cara quanto il sober coach non è ancora diffusa nella
filiera hollywoodiana, e mister enabler, l’amico facilitatore, non ha ancora realizzato che
distribuire pillole del giorno dopo al risveglio dalle notti alcoliche può essere l’unica soluzione.
Parliamoci chiaro, a Whitney Houston non importa un bel niente della vita precedente di quel
cattivo ragazzo. A Whitney probabilmente interessa solo di aver trovato qualcuno che scaldi i suoi
giorni, lei che da quando è venuta al mondo si ritrova quel “Nippy” come soprannome,
affibbiatole da un padre ben più gelido della figlia e che impareremo a detestare per avere
trascinato la cantante in tribunale con l’accusa di mancato pagamento per l’aiuto tributatole in
carriera. Controversia tra l’altro finita davanti alle telecamere all’inizio del nuovo millennio: ma
la famiglia Houston è abituata alla cattiva pubblicità, la stessa che ha inizio l’8 luglio del 1992, la
data delle nozze di Bobby e Whitney. Quel giorno non ci sono dubbi, la voce più redditizia in
circolazione ha fatto la sua scelta per amore, non c’è altra ragione per scegliere un bad boy come
marito, il solo che possa trarre giovamento in termini economici e di popolarità dall’unione. Quel
giorno la donna non bada a spese, e può permetterselo, perché in classifica c’è il suo smash hit,
un vecchio brano di Dolly Parton che la sua struggente interpretazione ha portato a nuova vita; la
canzone è parte della colonna sonora di un film – la più venduta di tutti i tempi – che vede
Whitney brillare anche come protagonista femminile.
Fino a questo punto la vita di Whitney Houston pare impeccabile, la brava ragazza colleziona
un successo dietro l’altro, ed ecco che a coronare la sua storia d’amore arriva anche una bambina.
È il 4 marzo del 1993 quando nasce Bobbi Kristina, una data da tenere a mente non soltanto per il
lieto evento; da questo momento in poi, il cielo in casa Houston-Brown si rabbuia, e se da una
parte la carriera di Whitney continua a proceder a gonfie vele, il privato si arresta in prossimità di
dossi e compie repentine e azzardate inversioni a U. Il comportamento non esattamente da
gentleman del giovane Brown è noto a tutti, ma ciò che ancora non conosciamo è un’allergia al
successo della moglie, e certe cattive compagnie sembrano fatte apposta per alimentare lingue di
fuoco. Tutto ha inizio da una collezione di denunce e conseguenti arresti per l’autore di My
Prerogative, pezzo portato poi al successo da Britney Spears per esorcizzare il suo cattivo
rapporto con i media, per la serie “non sono così, ma mi dipingono così”. Bobby Brown, a
giudicare invece dalla sua fedina penale non proprio immacolata, sembra esattamente così. Risse
nei peggiori bar, molestie sessuali, guida in stato di ebbrezza e lesioni. Nello stesso periodo,
quella gran lavoratrice abituata da sempre a mantenere il clan Houston si contraddistingue per
concerti annullati all’ultimo minuto, problemi alle corde vocali, stanchezza, capricci e richieste
impossibili che più che ricordare una diva di altri tempi inaugurano un nuovo capitolo per
entrambi i coniugi: si intitola addicted, dipendenza.
Non ci vuole uno scienziato per capire che il cattivo ha traviato la buona e che evidentemente
Whitney non ha messo in conto la dote di Bobby Brown, un carico di sostanze da travolgere un
intero esercito. Marijuana, cocaina, eroina, crack. No, niente crack per la signora. È quello che
ammette la stessa Whitney durante una delle prime interviste post sbornia. Siamo troppo ricchi per
buttarci via così: ce lo sbatte in faccia, ce lo ricorda con un sorriso smagliante, poco importa sia
fasullo, i denti si possono aggiustare e la stessa cosa si può fare con la reputazione, è sufficiente
stendere i panni lerci in tv, ce lo hanno insegnato fin da piccole tra uno spot di maghi e uno di
principi azzurri. E le violenti discussioni? Le grida a tarda notte? I lividi? Può succedere, anzi no.
Prima è un sì, è tutto vero, e poi ecco immancabilmente il ritiro della denuncia e quel «mi sono
sbagliata, mio marito non mi ha mai picchiata, ma io in un’occasione ho alzato le mani su di lui».
Matrimonio in crisi? Nient’affatto, quando tutto precipita farsi fotografare insieme a qualche
Music Award è un buon modo per smentire la voce, e pazienza se quell’uso privato di stupefacenti
porta la coppia ad apparire come una barzelletta che non fa ridere nessuno.
Per i coniugi Houston-Brown gli anni Duemila iniziano come si concludono i Novanta.
Scandali per infedeltà, arresti per droga e alcol, disturbi alimentari e presunti ricoveri per
esaurimento sono all’ordine del giorno. Eppure i dischi continuano a vendere, e se le apparizioni
pubbliche di Whitney sono un disastro, la celebrity di turno che affonda insieme alla sua vita
domestica rincuora quella fetta di pubblico, un’enorme fetta di pubblico, che vorrebbe anche solo
una parte di quei lustrini. Nel 2003, durante un litigio, Brown picchia la moglie; la polizia
interviene nella villa dei due ed è costretta a usare la scossa elettrica per fermare e poi arrestare
l’uomo. Fine dei giochi? Macché, ancora una volta la cantante in tribunale ritratta tutto e il
matrimonio continua sotto la lente dell’ennesimo reality a cui spetta il compito di riciclare la
carriera del rapper. È il 2005 e sui teleschermi americani arriva Being Bobby Brown, sei mesi
nella vita di un individuo che ce la mette tutta per non sparire all’ombra della moglie, sei mesi
nell’esistenza di un maschio amato alla follia da una femmina che per lui continua a coprirsi di
fango. Non così a lungo, forse. Dopo i tredici episodi della serie, inaspettatamente nel 2006 viene
annunciata la separazione e successivamente formalizzata la richiesta di divorzio.
Non tutte le telecamere vengono per nuocere. Forse proprio grazie al contributo di uno show
televisivo, Whitney si è resa conto di quanto fosse caduta in basso. Altro rehab, altra vita, altro
fidanzato. Il fortunato è Ray J, un giovanotto di diciotto anni più giovane della donna, fratello
della cantante Brandy, cugino di Snoop Dog, già ex amante di Kim Kardashian. Un tenero rapper
che si diverte a sbeffeggiare in rima l’ex marito della sua bella fidanzata. Non una scelta
qualunque, non uno capitato a caso. Bobby Brown è un lontano ricordo, le cattive abitudini no.
Insieme alla note più alte, Whitney ha perso il controllo e la capacità di regolare la velocità di
marcia. Piede sull’acceleratore, incontro all’ultima curva. Non ci sono più vite per la diva l’11
febbraio del 2012, se le è giocate tutte durante gli anni del suo matrimonio; è questo che ci
raccontano parenti e familiari quando ormai è troppo tardi. Whitney ha rischiato grosso così tante
volte che è quasi un miracolo sia riuscita a resistere fino a questo punto. Un corpo martoriato e
imbellettato portato a spasso finché ha potuto. La causa ufficiale della morte è annegamento
provocato da crisi cardiaca e abuso di cocaina.
Nell’ottobre 2012 un nuovo docu-reality prende il via sul network Lifetime. Si intitola The
Houston: On Our Own e i protagonisti sono la figlia, la madre, il fratello, la cognata e i nipoti di
Whitney. Per quattordici settimane i telespettatori posso conoscere più da vicino le vicende della
celebre famiglia dopo la tragedia che li ha colpiti. In particolare, c’è un evento che tiene il
pubblico col fiato sospeso. Bobbi Kristina annuncia in una puntata il suo fidanzamento con il
fratellastro Nick Gordon. In realtà tra i due non ci sono legami di sangue, quest’ultimo è stato
adottato dalla famiglia all’età di dodici anni. Cresciuti poi sotto allo stesso tetto, fratello e sorella
hanno compreso meglio la natura del legame che li unisce. Forse tutte le telecamere vengono per
nuocere.

Something in Common – Bobby Brown & Whitney Houston [BOBBY]


Teany è il nome di un piccolo locale di New York, situato nel Lower East Side, dove vengono
serviti un centinaio di varietà di tè, infusi e prelibatezze vegetariane e vegane. Lo hanno aperto nel
2002 il musicista di fama mondiale Moby e la sua fidanzata Kelly Tisdale. Teany è inizialmente
diventato un cult fra gli hipster di Manhattan, sempre a caccia di novità alla moda e locali
all’ultimo grido aperti da celebrità; poi, nel 2005, Teany è diventato anche un curioso libro di
ricette, fumetti, fotografie surreali e suggerimenti musicali. Peccato solo che all’uscita del volume
l’idillio tra Moby e Kelly fosse già andato in frantumi da un pezzo.
Quando incontri una persona nella città di New York non puoi fare a meno di chiederti se
durerà, se la sera dopo ci sarà ancora spazio per un secondo appuntamento o se è meglio fare
incetta di caffè il meno annacquato possibile per restare svegli una notte intera a parlare del più e
del meno prima di prendere una qualsiasi decisione. Ci hanno scritto interi scaffali rosa,
sull’argomento, girato commedie romantiche con tante panchine nel parco e cappottini leggeri che
mai il vento della città permetterebbe di indossare. E ci hanno pure ricamato abbondantemente
sopra, per almeno sei stagioni e due lungometraggi, le protagoniste di Sex and the City.
Se incontri qualcuno in una città che conta non meno di otto milioni di abitanti inizi a
domandarti se è davvero quella la persona che fa per te e se avete qualcosa in comune, qualcosa
per cui valga la pena di aspettare una telefonata o una e-mail per i successivi dieci giorni almeno.
Quando Moby e Kelly si conoscono, si rendono subito conto di avere lo stesso senso
dell’umorismo. Non solo. Amano stare svegli a chiacchierare, ma detestano la caffeina.
Preferiscono tisane, bevande che sarebbe bello poter trovare e gustare in città a qualunque ora del
giorno e della notte.
Kelly Tisdale ha da poco traslocato nella Grande Mela quando incrocia Moby. Lei lavora al
servizio di associazioni per la tutela dei diritti umani. Lui, l’erede dello scrittore Herman
Melville, è un musicista attivo da anni come dj e producer, ma solo da poco ha scalato le
classifiche di mezzo pianeta con l’album PLAY. Una sera del 2000 Moby e Kelly si incontrano,
conversano, si piacciono. Si rivedono, continuano a chiacchierare e non solo scoprono di avere
gusti in comune in fatto di alimentazione, ma pensano che sarebbe fantastico condividere
un’attività, un tea shop a pochi isolati dai loro rispettivi appartamenti. Decidono anche che
vorrebbero avere due robot per il tè come mascotte, poi si addormentano e al risveglio
stabiliscono di credere al sogno della notte precedente.
È Kelly a occuparsi di tutto. Nell’inverno del 2001 Moby è quasi sempre in tour e, a parte
qualche consiglio dispensato dall’altra parte dell’oceano, non partecipa molto alla realizzazione
di un desiderio che coltiva fin da quando viveva nel Connecticut e faceva il bagno in una tinozza.
Kelly insedia Teany al numero 90 di Rivington Street e si accorge di quanto sia duro essere socia
in affari del proprio ragazzo, specialmente quando quest’ultimo è dall’altra parte del mondo e le
uniche conversazioni telefoniche che si riescono a mantenere riguardano conti da pagare, tinture
pastello e inviti per l’inaugurazione.
Una piovosa domenica d’inverno del 2002, Teany apre. Il locale ha una capienza di una
trentina di posti, ma alla festa si presentano oltre duecento invitati. Ci sono i vicini, c’è la polizia,
il parrucchiere ex affittuario delle mura, i soliti hipster bene informati sulle inaugurazioni del loro
quartiere e c’è anche Matt Groening. Il creatore dei Simpson si ferma a un tavolo all’angolo e
inizia a fare il ritratto agli avventori interessati. È un successo. Moby e Kelly sono pienamente
soddisfatti, eppure decidono che per entrambi è molto meglio limitarsi a restare amici e soci in
affari piuttosto che progettare un futuro per la loro relazione amorosa.
Quella che potrebbe apparire come una decisione foriera di sventure si rivela in realtà un
ottimo compromesso. Teany funziona, i robot che dispensano tè sul bancone sono deliziosi e poi è
pur sempre New York, e Moby e Kelly adorano il romanticismo. Pensano che sarebbe fantastico
se il locale entrasse nella vita sentimentale delle persone e si adoperano perché questo possa
accadere. Si mettono a sedere insieme e iniziano a scrivere una serie di consigli e idee sulla
serata ideale da trascorrere col partner, magari a luglio, meglio se dopo la visione di un buon film
indipendente, ordinando raspbellini e cheesecake al cioccolato nella veranda esterna di Teany.
Con loro ha funzionato, del resto, o almeno lo ha fatto circa per diciotto mesi. Che non è
molto, ma se trascorri la tua vita a girare tutti e cinque i continenti suonando sera dopo sera la tua
musica, rilasciando interviste, scrivendo e disegnando per i tuoi videoclip e trovi anche il tempo
per aprire il locale dei tuoi sogni o quantomeno investi su chi lo farà per te, allora diciotto mesi
sono un’eternità. 18 è anche il titolo del nuovo album di Moby. Diciotto brani, molti dei quali
romantici, perché è bello continuare a crederci. Perché in fondo hai scelto di vivere a New York.
Ogni volta che Moby torna in città continua a correre da Kelly e a proporle idee. Si tratta di
liste, soprattutto, compilate con tutto ciò che a Teany servirebbe. Playlist per la notte e per il
giorno, consigli di bellezza, rimedi post-sbronze, ricette da pic-nic e per pranzi di compleanno.
Tutte cose che alla bionda ragazza del Massachusetts fanno tanto sorridere. Lei intuisce che
sarebbe meraviglioso dispensare tutti questi consigli in giro, non soltanto agli avventori di Teany,
ma a chiunque non abbia la minima idea di come si prepari un sidro brulè o una zuppa di melone e
agrumi o a chi ignori totalmente le notevoli proprietà del ginkgo biloba.
Nel 2005 Teany esce così anche in libreria. È un libro bizzarro, che i commessi non sanno mai
su quale scaffale posizionare e che nemmeno Moby e Kelly sanno definire. Però è divertente, ci
sono tante idee carine, ci sono i fumetti, il cibo, delle storie buffe e anche un po’ d’amore. Chi se
ne importa se la storia è finita, la complicità c’è ancora, e ai più diffidenti i due ex spediscono una
copia del libro che potrebbe sembrare il ritratto di una coppia felice e in fondo lo è.
Moby e Kelly si mascherano, indossano parrucche, occhiali e cappelli e si mettono in posa
davanti all’obiettivo. Inventano storie assurde su Teany e infilano tutto nel libro. Poi si fanno più
seri e dispensano canzoni, ricette e rimedi della nonna che a quanto ci dicono le immagini hanno
già sperimentato sulla loro pelle e pare con ottimi risultati. Come si può anche per un solo minuto
pensare che l’abbiano fatto per vendere qualche copia in più di un volume destinato a non
raggiungere la seconda ristampa?
Poi Moby riparte, lo fa sempre. Scrive musica, sforna dischi e va in giro per il mondo a
suonarli dal vivo. Kelly rimane a New York e nel 2007 incontra un volto noto, uno di quelli che ti
risultano da subito familiari anche se non l’hai mai incontrato prima. Il volto appartiene a Mike
Myers, l’attore che ha prestato il ghigno al personaggio di Austin Powers, lo stesso che quando
Kelly era adolescente impazzava al Saturday Night Live nei panni di Wayne, lo stralunato
metallaro protagonista anche sul grande schermo nella commedia Fusi di testa. È di nuovo amore.
In fondo è divertente. In fondo è New York.

Signs Of Love – Moby (18)


A certe coppie dovrebbe essere intimato di indossare una t-shirt con su scritto: NON SEGUITECI, CI
SIAMO PERSI ANCHE NOI! La guardi e, anche se ti trovi nel bel mezzo di una partita e magari con
un match point da servire, ti viene voglia di abbandonare il campo. Se non ce l’hanno fatta loro,
perché dovremmo farcela noi? A cosa serve allenarsi duramente, cedere terreno per poi
riguadagnarlo alla minima distrazione del compagno?
Un bel giorno i musicisti Kim Gordon e Thurston Moore, sposati da più anni di quanti ne
abbiano i loro giovani fan, si lasciano. I Sonic Youth procederanno con le date del tour già
programmate in Sud America, ma piani al di là di questo sono incerti. Ora, scusateci discepoli del
noise sudamericani, ma chi se ne importa delle ultime date del tour. Qui stiamo parlando di una e
vera e propria débâcle dei sentimenti dopo ventisette anni di unione privata e pubblica, perché
incorniciata sul mobile all’ingresso, dopo il divorzio degli zii, c’era rimasta soltanto la loro foto.
Kim e Thurston si sposano nel 1984, ma si conoscono già da diverso tempo e il primo capitolo
della storia dei Sonic Youth è stato scritto da almeno tre anni. La città è New York, il centro del
mondo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta. Kim si è diplomata alla scuola d’arte
di Los Angeles dove è entrata in contatto con artisti che la influenzeranno molto, primo fra tutti il
visionario Tony Oursler, e decide di trasferirsi a Est perché è lì che le cose accadono. La
previsione si rivela giusta e l’incontro con Thurston Moore e Lee Ranaldo è dietro l’angolo. I
Sonic Youth diventano alfieri della scena alternativa americana. A dispetto del nome, non
pretendono di farsi portabandiera di una generazione. Semplicemente, hanno idee originali, suoni
innovativi, una strumentazione che curano nel più piccolo dettaglio e la testa ricurva sul proprio
lavoro.
A partire dal 1982, data che segna il debutto sul mercato discografico con un omonimo mini
Lp, la band inizia a sfornare album e ad affrontare lunghissimi tour. È esattamente ciò che
desiderano fare, suonare nei dischi, stravolgerli dal vivo, perdersi in lunghe distorsioni e
riverberi che insieme all’assoluto controllo sul proprio lavoro diventano il loro marchio di
fabbrica. Le critiche giungono saltuariamente, quando li si accusa di voler entrare nel circuito
mainstream accettando un contratto major o quando crescendo reindirizzano il proprio suono su
binari più maturi. Ma negli anni Novanta non c’e adolescente americano che a ogni concerto non
indossi la maglietta di WASHING MACHINE.
Molto prima di WASHING MACHINE c’è stato EVOL, ispirato proprio a un lavoro dell’amico
Oursler; c’è stato DAYDREAM NATION, la consacrazione del sound sonico del 1988, e c’è stato
DIRTY, uno fra i dischi più orecchiabili della band, quello da cui partire per poi accostarsi a
sonorità più ostiche e alterate. E poi arriva il 1994, e un altro album molto caro a Kim e Thurston.
EXPERIMENTAL JET SET, TRASH AND NO STAR esce all’inizio dell’anno, ma per la prima volta i
Sonic Youth non salpano alla volta di uno dei loro celebri ed estenuanti tour, quelli raccontati nel
diario del chitarrista Lee Ranaldo, Road Movies. Il motivo della pausa forzata è la gravidanza di
Kim, che a quarantun anni si fa ammirare nel video del primo singolo estratto dall’album, Bull In
The Heather.
Se non fosse per l’annuncio, nemmeno ce ne accorgeremmo. Kim copre il ventre col basso e
non sembra nascondere alcunché. Del resto, non c’è niente di singolare in una coppia che decide
di avere un figlio dopo dieci anni di matrimonio e una discreta carriera alle spalle. Hai curato
tutto a dovere e hai aspettato anche una certa tranquillità lavorativa ed economica prima di
programmare la gravidanza. Eppure, se la tua musica finisce in un uno dei videogiochi più venduti
al mondo, trascorri l’estate sul carrozzone del festival itinerante Lollapalooza e i Simpson
iniziano a parlare di te, qualcosa che va al di là della vita di una comune famiglia americana deve
esserci. Il primo luglio del 1994 viene alla luce Coco Hayley Gordon Moore.
I tre, però, non si fanno vedere in giro. Non li si incontra al parco, non presenziano alle
inaugurazioni dei locali e alla neomamma non salta in testa di rivelare particolari sul latte
prediletto o sulla marca di pannolini più usati. Li si scorge sul palco, invece, e in ogni occasione
in cui è solo il frutto del proprio lavoro a essere portato in scena. Non si tratta di snobismo, ma di
coerenza, ed è questa la lezione che Thurston e Kim impartiscono tramite azioni, strumenti
imbracciati e nessun dito puntato. Le poche foto che ritraggono la coppia insieme sono immagini
desiderate, in cui entrambi scelgono di mettersi in posa davanti all’obiettivo per raccontare le
cose come stanno. Jeans e camicia per lui, shorts e maglietta per lei. Eccoci, sembrano dirci,
davvero siete interessati a questo nulla? Davvero il braccio attorno alle spalle di mia moglie può
significare qualcosa per voi che state sfogliando questa rivista e scrollate nervosamente pagine
Web? Sì, Thurston, e non sai quanto.
Quando, nel mese di ottobre del 2011, la coppia annuncia la separazione è come se i fan
apprendessero la notizia della crisi insanabile tra i propri genitori. Certo, c’è dignità anche in
quest’ultimo capitolo, non ci sono sceneggiate, chitarre sfasciate (almeno per questa ragione) e
nessun materiale che possa ricondurre la rottura a un’infatuazione del dinoccolato Moore per
qualche collega giovinetta. Ma c’è sgomento e dispiacere, perché una volta tanto i punti di
riferimento erano vincenti, tanto per i ragazzi – impressionati dal tizio allampanato che fa morire
la chitarra di una morte lenta, di quelle che sopraggiungono dopo infiniti lamenti che quasi vorresti
salire tu sul palco per infliggere l’ultimo respiro e invece no, resti giù di sotto a chiederti come
andrà a finire, che cosa s’inventerà questa volta Thurston Zazzera Moore – quanto le ragazze, che
sognano di diventare come Kim, fiera e fedele a se stessa, col volto segnato e le idee più chiare di
un intero esercito, e tu che stai crescendo realizzi d’un tratto come vorresti vivere la tua vita o
almeno a quale vorresti che somigliasse.
D’accordo, Kim e Thurston non hanno nulla a che spartire con due fratelli inglesi che si
trascinano nel fango suonandosele di santa ragione, e probabilmente non passeranno il resto del
loro tempo a sbeffeggiarsi nei rispettivi dischi. La possibilità di una nuova vita serena per
entrambi è dunque evidente proprio grazie all’aplomb e alla moltitudine di arti alle quali ci hanno
iniziato. Moore continua girare mezzo mondo con tutte le partiture che può contenere il suo
cervello, Kim disegna linee d’abbigliamento legate alle arti visive e non disdegna qualche
apparizione sul piccolo e grande schermo. Insieme, ormai, rischiamo di vederli soltanto ai
concerti di Coco, che alla vigilia della maggiore età ha pensato bene di mettere su una band con
cui per il momento ama sfoggiare lo stesso broncio del padre.
Da questa prospettiva, dunque, nessun fallimento. Ventisette anni di matrimonio farebbero gola
a chiunque ci abbia provato e non sia riuscito a oltrepassare la crisi del settimo, per non parlare di
chi proprio non ce l’ha fatta a far convivere sotto lo stesso tetto personalità definite e forti. Nel
2007 Thurston Moore, in un’intervista apparsa su «Rolling Stone», ha dichiarato che il
personaggio più cool che abbia mai incontrato nell’arco della sua vita è proprio Kim Gordon.
Ricorda ancora l’outfit della moglie – vestito a righe, occhiali colorati, capelli raccolti in una
coda di cavallo – e l’inequivocabile sensazione di aver trovato una persona unica. Eccola qui la
chiave di volta di una matrimonio riuscito: viverlo con una persona che sappia ricordare il colore
dei tuoi occhi chiusi.

Star Power – Sonic Youth (EVOL)


Il destino gioca strani scherzi. Ti regala due sogni in successione, ma per avere il secondo devi
rinunciare al primo. Quando John Anthony Gillis incontra Meg White di bello da raccontare ha
ben poco. Intanto, ha un nome che si fa fatica a memorizzare. Ama la musica, certo, eccome se la
ama, si spezza la schiena ogni santo giorno per suonare come turnista in decine di gruppi dell’area
di Detroit, ma è come tappezziere che si guadagna da vivere. Megan invece fa la barista nel centro
di Royal Oak, sobborgo della stessa città. È un lavoro come un altro, soprattutto per chi non ha
sogni urgenti che premono per uscire dal cassetto. Di sogni invece John ne ha uno talmente
ingombrante che ha bisogno di dividerlo con Meg. Il 21 settembre del 1996 John e Megan si
sposano e John diventa Jack, Jack White, marito di Meg White.
Pochi mesi dopo il matrimonio, Meg si siede per la prima volta dietro a una batteria. Non è
uno strumento che s’impara a suonare facilmente, sono così tante le articolazioni che devi lasciare
andare e poi controllare. Ma Jack è un buon maestro: aveva appena sei anni quando ha cominciato
a prendere lezioni su come dividersi tra cassa e rullante, e una band in più non fa differenza. Anzi,
stavolta la fa. Questa volta il progetto è suo e suo è il controllo totale su testi e musica. Il nome
però lo sceglie Meg. Rivelando una passione infantile per caramelle alla menta con un tipico
incarto striato bianco e rosso, decide per The White Stripes. Stabilito il ripieno e trovato il
contenitore, non occorre altro. Signore e signori, il primo concerto dei White Stripes è servito.
I due cominciano a esibirsi nei club locali, riscuotendo l’interesse di un pubblico sempre
maggiore. Firmano il primo contratto con la Sympathy for the Record Industry, l’etichetta che
assisterà Jack e Meg nei loro primi tre album. Nel 1998 escono alcuni singoli, tra cui Let’s Shake
Hands e Lafayette Blues, e l’anno successivo vede la luce un album d’esordio intitolato
semplicemente THE WHITE STRIPES. È un’opera originale e innovativa, benché fatta
sostanzialmente solo di chitarra e batteria: la carica di Jack White esplode in una sequenza di
pezzi che raramente sforano il tetto dei tre minuti. C’è velocità e c’è la rabbia tipica del punk-
rock, che in The Big Three Killed My Baby si tramuta in denuncia dello sfruttamento umano di
alcune case automobilistiche statunitensi con sede a Detroit.
Non c’è niente di male ad avere tutta quella voglia di raccontare e raccontarsi e forse quando
cresci insieme ad altri nove fratelli è normale alzare la voce per farsi sentire e spiegare il proprio
punto di vista. Jack non abbassa la testa, è come se la sua faccia da bambino fosse sempre sul
punto di esplodere. Meg, dal canto suo, preferisce starsene tranquilla. Ha accettato di suonare con
Jack perché lo trovava divertente, ma non ha la minima voglia di agitarsi. È come se ogni volta
sospiri stancamente: «Va bene Jack, facciamolo». La macchina sulla quale la band ha ormai preso
posto non si arresta, ma il matrimonio sì. Il 24 marzo del 2000 Meg e Jack firmano le carte del
divorzio.
Nello stesso anno pubblicano il loro secondo album, DE STIJL, titolo tratto dall’omonima
rivista artistica olandese del primo Novecento. Il pubblico li scopre e anche nel resto d’Europa le
vendite iniziano a salire. La stampa arriva di lì a poco. Si parla sempre più di due ragazzi che si
assomigliano parecchio, come fratello e sorella. Anzi no, sono marito e moglie, ma non vogliono
ammetterlo per mantenere il riserbo sulla loro vita personale. In realtà sono proprio Meg e Jack
ad alimentare le più svariate voci sulla natura ambigua del loro rapporto non appena intuiscono
quanto ciò contribuisca a tenere alta l’attenzione intorno alla coppia.
Persino la semplice storia della caramella viene accantonata, e quando i giornalisti chiedono
di motivare la scelta dei colori che la band indossa Jack tira in ballo le forze dell’universo
attribuite proprio ai colori rosso, bianco e nero. Interviste del genere, in cui l’ego di Jack si fa
ironicamente manifesto, si succedono in fretta, e così anche le copertine; ma oltre alle chiacchiere,
questa volta c’è anche la musica. L’album WHITE BLOOD CELLS del 2001 decreta il successo
mondiale della band. La raffinatezza di Michel Gondry nobilita il clip di Fell In Love With A Girl,
seguono riconoscimenti e premi e i White Stripes continuano a confezionare singoli di successo.
Quanto ai concerti, se da una parte si resta incantati dalla padronanza con la quale Jack si
esibisce in un tutt’uno col proprio strumento, ci si relaziona con molta criticità alla parte ritmica.
Meg esegue puntuale le sue parti, ma il confronto con l’ex consorte non regge. C’è chi inizia a
pensare che ascoltare i dischi dei White Stripes sia un’esperienza assai più gratificante che
sentirli suonare dal vivo e il loro originale record di emettere una sola nota davanti a un pubblico
di cinquecento persone accorso per vederli nel 2007 in Canada, parrebbe una di quelle risposte
eloquenti e arroganti a cui Jack ci ha abituato fin dagli esordi. Ma nello stesso anno, dopo altri tre
dischi di tutto rispetto, qualcosa inizia a rompersi e l’equilibrio della band è seriamente
compromesso. Meg non controlla più i suoi stati ansiogeni e il 12 settembre del 2007 l’intero tour
di supporto al nuovo album viene cancellato.
Jack non sta lì a guardare. Non c’è niente che lo fermi e una sola band non basta più. Fonda
due nuovi gruppi, The Raconteurs e The Dead Wheater, e con entrambi si diverte a giocare alla
rockstar. Poi, smessi i panni del leader ma non certo quelli della primadonna, suona con Rolling
Stones, Bob Dylan, Jimmy Page e The Edge, i musicisti dai quali ha appreso la tecnica dopo anni
di ripetuti ascolti. Neanche un nuovo matrimonio e due figli con la modella e cantante a tempo
perso Karen Elson, conosciuta sul set di un video dei White Stripes, pare assorbirlo. Al contrario.
Il 2010 lo vede in veste di rinnovato batterista nell’album di debutto da solista della moglie.
Jack mischia ancora carriera e vita privata. Questa volta lo affianca una persona attratta da un
immaginario gotico ben più lussureggiante del suo. Non è necessario invocare altri sogni né
incubi, il piatto è già terribilmente ricco e invitante. Eppure nel mese di giugno del 2011 la coppia
annuncia la separazione, non prima di venire immortalata in uno splendido servizio di moda dalla
celebre fotografa Annie Leibo -vitz. Una sontuosa cerimonia celebra l’amore finito. Per la serie
“ogni occasione è buona per farsi un goccetto”, Karen e Jack approfittano della circostanza per
raduna -re parenti e amici e dichiarare che è una scelta di comune accordo e che se tornassero
indietro rifarebbero tutto, per la contenuta gioia dei loro pargoli preraffaelliti.
E infine si può tirare in ballo di nuovo il destino o una più appropriata giustizia divina perché,
caro Jack, ricordati che ne avevi fatto tua moglie dopo averla vista agitarsi sul set di un video di
cui eri protagonista insieme alla tua ex. E, comunque, per una ragazza ordinaria è molto più facile
riconoscersi nel corpo di una barista taciturna e un po’ goffa piuttosto che in quello di una top
model diafana che quando si annoia duetta con Robert Plant. E a proposito della barista, lei che la
lezione l’ha imparata, ha deciso di riporre per il momento le bacchette che le avevi porto. Anche
il cognome ha deciso che te lo puoi tenere. Adesso Meg è la signora Smith, e per suocera ha
tutt’altro che un’anonima Patti.

I’m Bound To Pack It Up – The White Stripes (DE STIJL)


Il gusto popolare è spesso influenzato dalla moda dal momento, che vorrebbe a nozze la coppia
glam più ricercata. C’era una volta e forse c’è ancora un’industria del cinema – e anche musicale,
per certi versi – che incentivava l’uscita di un film con qualche strillo di copertina in cui i
protagonisti venivano spacciati come amanti. In alcuni casi poteva trattarsi di reale e sempliciotta
attrazione, in altri di trovata pubblicitaria, in altri ancora si dava in pasto al pubblico uno
scandaletto per distoglierne l’attenzione da uno ben più grosso.
Molte coppie di attori non hanno resistito nemmeno il tempo per assistere al passaggio in
seconda visione del loro film. A decine di rockstar è accaduto di svegliarsi con l’anello al dito
dopo una notte di bagordi, magari in quel di Las Vegas, e poi di mettere al riparo nome e
patrimonio il giorno a seguire con annullamento, testa china e frasi del tipo: scusateci, è stato
divertente, ma il gioco ci ha un po’ preso la mano. Quando i due mondi convergono ne risulta
spesso una coppia esplosiva, un giro di denaro mirabolante e un accordo sentimentale a tempo
determinato.
Quando incrocia Chris Robinson, Kate Hudson è impegnata sul set del film che le cambierà la
vita, mentre lui, che il successo l’ha sperimentato per tutti gli anni Novanta, si lecca le ferite
dall’unione appena sfumata con Lala Sloatman, nipote di Frank Zappa e promessa a stento
mantenuta del cinema adolescenziale americano. Kate e Chris fanno conoscenza nel mese di
maggio del 2000 a un party a New York. Dichiarano pubblicamente di amarsi dopo soli quattro
giorni dall’incontro e a dicembre si dicono sì. Fiori, lunghi abiti, folte barbe e settanta invitati.
C’è persino uno sciamano indiano sotto una tenda bianca a formalizzare le nozze. Atmosfera da
comune hippie.
Kate ha appena terminato le riprese di Quasi famosi. Il film, ambientato a metà degli anni
Settanta, ripercorre le vicende del regista Cameron Crowe, all’epoca giornalista in erba e ben
educato alle prese con i propri idoli musicali e la prima infatuazione. Lei è la sedicenne Penny
Lane, precoce aiuta-complessi in cerca di attenzioni da quei musicisti che ascolta e rincorre
ostinatamente. Tuttavia, la realtà è diversa da quella che ti raccontano sui dischi e Kate-Penny,
crescendo, ne subisce le conseguenze. L’interpretazione vale alla bionda attrice una nomination
all’Oscar e il lancio definitivo della propria carriera.
L’ultima notte dell’anno Kate, che nella vita non è stata ancora smentita, la dedica a Chris.
Chris Robinson è il frontman dei Black Crowes, formazione di southern rock, particolarmente
influenzata dal sound di gruppi come Rolling Stones, Lynyrd Skynyrd e Led Zeppelin. Gli anni
Settanta sono terminati da un pezzo, ma la band di Atlanta non sembra curarsene. Trascinati dagli
accordi e disaccordi dei fratelli Robinson (Rich, l’altro), i Black Crowes hanno cavalcato a testa
alta un intero decennio e all’inizio del nuovo millennio sono in procinto di pubblicare il loro
nuovo album. LIONS esce nel 2001, ma dopo un tour promozionale il gruppo giunge alla
conclusione di sciogliersi e riflettere per un po’.
Chris ha una nuova vita che l’attende. Una casa sulla spiaggia, una nuova moglie e il sole della
California a rasserenarlo ogni mattina. È qui che inizia a comporre un disco in proprio. Ogni
brano di NEW EARTH MUD è ispirato alla quotidianità vissuta a fianco di Kate. Alla quale, a
distanza di dieci anni esatti da quei giorni, resta un solo cruccio: essersi lasciata influenzare dalle
reminescenze hippy del periodo al punto da aver scelto un abito totalmente sbagliato per la notte
più importante della sua carriera. L’occasione non le regalò l’ambita statuetta per la quale era in
lizza, ma in compenso le valse il titolo come donna peggio vestita della serata.
Naturalmente per lei, all’epoca, questi non erano che trascurabili dettagli. Per circa un anno
Kate si prende un pausa dal lavoro e decide di fare unicamente la moglie. Cucina e lavora a
maglia mentre Chris guarda la televisione e l’oceano, in cerca di ispirazione per la propria
musica. NEW EARTH MUD esce nel mese di ottobre del 2002 ed è uno spaccato reale, parecchio
alto, della vita matrimoniale. È un affresco romantico, a tratti sdolcinato. Chris si interroga
sull’amore ed è certo di avere visto la luce intorno a Kate; sa anche di non avere molte cose in
comune con quella ragazza californiana, eppure il legame trascende le piccole imperfezioni
quotidiane.
A gennaio del 2004 nasce il figlio della coppia. Al quadretto, che per una volta parrebbe
smentire la fragilità di una relazione sorta dopo appena quattro giorni tra due mondi in apparenza
antitetici, si unisce il piccolo Ryder, biondissimo pargolo ritratto ripetutamente a fianco dei
genitori per i primi due anni della propria esistenza. Un nuovo album si aggiunge alla discografia
di Robinson, che nel frattempo ha abbandonato la band che lo aveva accompagnato nell’esordio
da solista. La musica, invece, non cambia. THE MAGNIFICENT DISTANCE è ancora un compendio di
buoni sentimenti, good vibrations e galloni di felicità in vendita a ogni angolo di strada per una
delle barbe più sexy e desiderate del folk-rock.
Poi succede qualcosa. Le foto a tre si fanno più rare e le passeggiate sui red carpet mano nella
mano svaniscono. THE MAGNIFICENT DISTANCE rimane a oggi l’ultimo capitolo nella carriera
solistica di Chris. I vetri della finestra sull’oceano s’infrangono improvvisamente e non c’è più
niente da vedere. Il 14 agosto del 2006 Kate Hudson e Chris Robinson annunciano la separazione.
Il divorzio viene ufficializzato il 18 novembre dello stesso anno: differenze insanabili, le stesse a
cui il black crow aveva accennato nel suo primo disco e che aveva elencato a Kate per circa
un’ora e mezza poco prima del matrimonio. Solo che al tempo era bastato il sole del Pacifico a
creare l’illusione del sereno.
Kate Hudson si riscopre ventenne e inanella relazioni brevi, flirt e amicizie particolari in
quantità tali da riempire scaffali interi dedicati al gossip. Tra il 2006 e il 2008 si parla di uno
strano legame tra lei e il collega Owen Wilson. Pare che quest’ultimo abbia addirittura tentato il
suicidio dopo una violenta discussione con colei che viene considerata sua partner anche fuori dal
set della loro ultima commedia ridanciana, Tu, io e Dupree. Ma è soltanto nel 2010 che Kate torna
a passeggiare apertamente al fianco di un altro musicista. Lui è l’inglese Matthew Bellamy, leader
dei Muse. È l’alba di una nuova favola, di quelle che iniziano con un incontro inaspettato e la
frase “L’ho visto e non ho capito più nulla”.
Questa volta i contorni sono talmente limpidi e gli equilibri così rodati che all’inizio del 2011
la coppia, in dolce attesa, viene ritratta alla partita di baseball del piccolo Ryder. Qualche passo
più in là, Chris Robinson si gode il medesimo spettacolo in compagnia della terza moglie e della
figlia Cheyenne. Occhiali scuri, cappelli alla moda e BlackBerry tra le dita, gli accessori perfetti
per un (inevitabile) servizio giornalistico. Perché, sì, è vero: certe storie sembrano costruite ad
arte per soddisfare il gusto popolare. Alcune vendono, eccome, altre meno. Il sorriso serafico di
Kate, incorniciato dai suoi riccioli biondi, continuerà a vendere. Per un po’, Chris Robinson
tornerà a essere solo una delle barbe più sensuali del folk da media classifica.

Katie Dear – Chris Robinson (NEW EARTH MUD)


Quando nell’estate del 2004 Benjamin Biolay e Chiara Mastroianni pubblicarono il primo e unico
disco corale della loro breve storia sentimentale, la stampa non impiegò un solo istante a
scomodare Paul e Linda. Musica coniugale del terzo millennio e non estinguibile in un ammiccante
duetto alla Serge e Jane, tanto per restare nei confini francesi. Un intero album cantato a due voci e
con un titolo che in una sola parola esplicava cosa avremmo trovato al suo interno o anche dove
avremmo preferito ascoltarlo: HOME. La casa di Benjamin e Chiara, a cui avremmo dato
volentieri una sbirciatina. In quale stanza sarà stato concepito ogni brano, e in quale occasione?
In realtà la coppia non aveva in progetto di mettersi a tavolino e raccogliere reciproci pensieri
d’amore in un concept album. Semplicemente, aveva voglia di tradurre in musica frasi e ricordi
dopo un viaggio romantico nei Paesi Bassi. E chi al ritorno a casa non ha mai pensato di dotare il
filmino delle vacanze di una colonna sonora ad hoc? Benjamin e Chiara lo hanno fatto e si sono
messi così d’impegno che, avendo tra le mani motivi e fotografie, non hanno potuto fare a meno di
servirci in una cornice d’argento il ritratto del loro idillio. HOME è un gioco a due a volte
malinconico, altre delicato e passionale, e Chiara è la musa che ama farsi riprendere in
controluce, tra le tende di una grande casa, al tramonto o appena sveglia.
Le immagini che corredano il video del primo singolo estratto dall’album, La ballade du mois
de Juin, offrono un quadro bucolico, vagamente rètro. Un’intimità agreste raccontata a fior di
labbra da Chiara e in punta di corda dal suo compagno, che siede su tronchi d’albero o insegue la
bionda interprete tra le fronde. C’è Gainsbourg, certo, ma c’è anche Lennon e poi ci sono leggende
della musica francese come Juliette Gréco e Françoise Hardy. Stili differenti che Biolay
reinterpreta prestando attenzione a non emulare e a non ripetersi. Se di gioco si tratta, l’importante
è non annoiarsi mai.
Benjamin Biolay ci prova, a non annoiare il pubblico. Basta sorprenderlo ed evitare il
presenzialismo. Come fa il pubblico a ricordarsi di te se resti in penombra? Semplice, lavori poco
ma assicuri buone prestazioni in diversi campi. Versatilità, per dirlo in una parola. Biolay inizia
con la musica; a soli vent’anni si ritrova ad aprire all’Olympia per i New Order. Il teatro parigino,
che anche da vuoto metterebbe a disagio il performer più esperto, non porta fortuna al piccolo
ragazzo francese che si trova ad affrontare una platea accorsa per tutt’altro genere, ma è solo
l’inizio. Dopo i primi lavori dietro le quinte come produttore, il debutto arriva nel 2001. Due anni
dopo, tra le pieghe delle oltre trenta canzoni che compongono NEGATIF è riconoscibile già la voce
di sua moglie.
Chiara e Benjamin si sposano l’11 maggio del 2002. Lei indossa un leggero abito bianco al
ginocchio e un impermeabile dello stesso colore. La mise tradisce uno stile classico, ereditato
dalla madre Catherine Deneuve. Non ha ancora trent’anni Chiara, eppure in ogni fotogramma
sembra molto più matura; forse è lo sguardo corrucciato del babbo, chissà. Benjamin è un anno
più giovane di Chiara, ma sembra un ragazzino: capelli sugli occhi e un abito Dior disegnato
dall’artista rock Hedi Slimane. Ancora una commistione di stili, perché nulla impedisce di sentirsi
a proprio agio in un giubbotto da biker come in una giacca Yves Saint Laurent. Per le foto
promozionali del disco, invece, lo stile è casual: t-shirt e denim vanno benissimo tra le pareti di
casa e in giro nei club per le performance live.
HOME, a onor del vero, è il secondo parto della coppia. Il primo avviene il 22 aprile del 2003
e si chiama Anna. HOME è il punto d’incontro tra due carriere. Chiara Mastroianni, che fin da
bambina ha seguito l’esempio dei genitori, per la prima volta si trova alle prese con uno studio di
registrazione. È grazie a Chiara che Biolay ora esce sempre più spesso dalle quinte, fino a quando
anche il cinema comincia ad accorgersi di lui e le parti si invertono completamente. Gli attori
prestati alla musica si contano a decine, ma i musicisti che irrompono sul grande schermo sono
accolti con maggior riserva. Il cantautore francese sembra però avere tutto il tempo del mondo e
riflette a lungo prima di dedicarsi a una seconda carriera quando la prima ha ancora molte
soddisfazioni da offrirgli.
Di contro, non sembra avere tutto il tempo del mondo la relazione con Chiara, che nel 2005
arriva al capolinea. Tra il 2005 e il 2007 Biolay si butta a capofitto nella musica e in due anni dà
alle stampa due lavori molto simili, autobiografici. Compaiono per la prima volta campionamenti
e incursioni nell’elettronica, ma rimangono due album scuri, cupi. Il secondo in particolare, TRASH
YÉ YÉ, risente della depressione che ha travolto il cantautore dopo la separazione dalla moglie. Il
racconto di un’esistenza tipicamente bohemienne, in cui vengono esplicitate traccia dopo traccia la
storia di un uomo che si innamora, resta solo e cerca di riemergere con le proprie forze dopo
vicende travagliate, sembra diventare il leitmotiv anche della successiva produzione di Biolay.
Nel 2009, l’album LA SUPERBE ripresenta un uomo tormentato e profondamente affascinato da
un romanticismo decadente che non trova requie. Esattamente come i suoi idoli giovanili
Gainsbourg e Morrissey, Biolay non ha pace e ci informa dei suoi travagli nelle ventidue tracce
che compongono il disco. Possibile sia tutto vero? Sincerità od opportunismo? Nello stesso anno
il ruolo del padre distratto e niente affatto prodigo di buoni consigli nell’apprezzato film Stella,
gli vale riconoscimenti e consensi di pubblico e critica. Vi recita a fianco di Guillaume
Depardieu, il figlio di Gerard che dell’inquietudine e dell’esistenza consumata sempre sul filo del
rasoio ha fatto la propria bandiera fino all’ultimo dei suoi giorni.
In Biolay c’è qualcosa di diverso, però. L’uomo è scuro in volto, ma s’intuisce una conoscenza
di regole e limiti ai quali è d’uopo attenersi per restare in gioco. E abbiamo capito che quando
canta di dipendenze alle quali non riesce a sottrarsi, sguardo sfuggente e aria da dandy, più che
all’amore è al sesso che si riferisce, e l’autocompiacimento è alla porta. Quando canta di follia, la
descrive osservando gli altri e cercando di immedesimarsi nelle loro vite. Nel brano Folle de toi
è alla tragica vicenda che ha coinvolto il musicista Bertrand Cantat e la sua compagna, l’attrice
Marie Trintignant, caduta a terra priva di vita dopo un alterco, che fa riferimento. Probabilmente,
amore e gelosia non c’entrano nulla.
Magari avremmo dovute fiutarle da quella copertina in bianco e nero che li raffigurava uno di
spalle all’altra, certe differenze. Avremmo dovuto captare da certi testi che si trattava di un gioco
pericoloso. E che Paul e Linda non si sarebbero mai prestati a partecipare. Basta ascoltare prima
My Love e poi tentare di capire che intenzioni hanno Benjamin e Chiara quando cantano in A
House Is Not A Home: “I’m so alone with you / No one to hurt but you / Life’s not just what it
seems / You’ve been burnin’ down the house”. Paul e Linda avrebbero storto la bocca all’unisono
o forse si sarebbero fatti una risata, una volta archiviato il paragone.

La ballade du mois de Juin – Benjamin Biolay / Chiara Mastroianni (HOME)


Questa storia è un film già scritto. Non potrebbe esistere sceneggiatura più accurata. Il regista è il
cineasta francese Leon Carax, un autore visionario, disturbante. Un folle o forse un genio,
comunque uno tra i pochi che può permettersi una pausa di tredici anni tra un lungometraggio e
l’altro. Nel 1999 dirige Pola X e anticipa in pellicola i destini tragici dei suoi interpreti,
condannati ad avere vita breve esattamente come i personaggi che interpretano. Poi più nulla. Il
risveglio nel 2012 avviene con un’opera che ha a che fare con la morte del cinema al cinema. Nel
fantomatico intervallo recitato, ecco comparire una banda che segue il protagonista a grandi
falcate all’interno delle navate di una chiesa. Uno dei musicisti suona un’armonica a bocca,
strumento e mani sul volto, corpo seminascosto dagli attori in primo piano. È un lampo, il tempo
di un brevissimo intermezzo. Probabilmente si tratta della scena meno rilevante dell’intero film,
eppure quell’uomo che compare a destra dello schermo sulle note di Let My Baby Ride di R.L.
Burnside ha un nome che nei titoli di coda non passa inosservato come il suo cameo. Lui si chiama
Bertrand Cantat ed è il protagonista maschile di questa storia.
Nel 2012, Leon Carax torna dietro alla macchina da presa per raccontarci le molteplici vite di
un uomo in Holy Motors. Ma nessuna di queste ha realmente a che fare con la nostra storia.
Eppure questa vicenda sul grande schermo non sfigurerebbe. Ma siamo già andati oltre, la realtà
ha superato di gran lunga la commedia, il dramma, fino a sfigurarsi con la sua stessa tragicità in
una sorta di racconto che non ha genere, tanto è crudele e incredibile. Dall’inizio.
Bertrand Cantat è il leader della rock band francese Noir Désir, un gruppo attivo fin dai primi
anni Ottanta. Un decennio che impone ancora una lunga gavetta prima di arrivare a un contratto e
poi a vendere qualche copia di un disco. Non ci sono scorciatoie, si tratta di un’occupazione a
tempo pieno che passa attraverso contatti, provini, riunioni, mani da stringere e poi ancora incontri
e ottimismo a piccole dosi. Mai abbassare la guardia, fiutare le correnti e i generi è importante,
ma lo è ancora di più accorgersi per tempo con chi si ha a che fare. Bertrand non fa sconti a
nessuno, sa esattamente quale strada la sua musica ha scelto di imboccare e non ammette
deviazioni. Quelle inevitabili le affronta stringendo i denti, raccogliendo rabbia e tramutandola in
forza. È così che una band condannata sulla carta per limiti linguistici valica i confini francesi, è
così che il suo leader si guadagna la fama di puro, poco incline ai dettami imposti dallo show
business: ciò che conta è la musica, tutto il resto può andarsene a quel paese, soldi compresi.
Nella vita di Bertrand sembra non ci sia spazio che per un sogno soltanto. Tutto il resto passa
in secondo piano. «Il gruppo per me è un’occupazione cerebrale quotidiana, qualcosa che mi
tortura continuamente, una sorta di ossessione. Quasi non posso pensare ad altro. È dura, molto
dura». Non è mai successo che il cantante che assomiglia così tanto a Jim Morrison abbia
rinunciato a qualche impegno della band, non è accaduto nemmeno quando in più occasioni ha
rischiato di perdere la voce. Ma dopo quasi vent’anni di abnegazione e prima linea, un incontro
costringe Cantat a rallentare i suoi piani di lavoro.
Lei si chiama Marie ed è un’attrice molto nota in Francia, se non altro per essere la figlia di
Nadine Marquand e Jean-Louis Trintignant. Quando il 3 luglio del 2002 i nostri protagonisti si
incontrano, non hanno la più pallida idea né chi sia una né cosa faccia l’altro. Hanno entrambi una
quarantina d’anni, ma è come se avessero vissuto l’intera vita ognuno all’interno della propria
bolla, bolle che non hanno davvero niente a che spartire. L’occasione per un primo contatto è un
concerto dei Noir Désir a Vaison-la-Romaine, nei pressi di Avignone. La stessa zona dove Marie
sta girando un film insieme ad Ann Cantat, la sorella minore di Bertrand, che fa parte della troupe.
Bertrand e Marie sono due adulti, ma è come se nascessero in quel momento. Perdono le
coordinate, tutto ciò che sanno sull’amore e sui rapporti fino a quel momento si annulla per fare
spazio a un sentimento che non ha ancora forma e colori, ma è già terribilmente ingombrante.
Se il colpo di fulmine esiste, quello che ha trafitto Bertrand Cantat e Marie Trintignant ha tutta
l’aria di essere tra i più folgoranti. La stessa sera del loro primo incontro si promettono di
rivedersi presto, dopo pochi giorni non fanno che sommergersi di telefonate e sms e a settembre
stanno ormai facendo carte false per organizzare il loro prossimo appuntamento. A tenerli lontani
nei primi giorni non sono i dubbi e non sono le rispettive professioni. Entrambi hanno contratto
anni prima un impegno con altri partner. Marie ha quattro figli avuti da altrettanti compagni; nella
lista figurano un batterista, un attore, un tecnico di ripresa e l’ultimo, uno scrittore, con il quale ha
una relazione stabile da almeno sette anni. Ma Marie sa riconoscere l’amore quando lo incontra, o
almeno così crede. Rischia, si mette in gioco ogni volta, piuttosto che restare ingabbiata
nell’ipocrisia di un compromesso coniugale. Malgrado i bambini, le responsabilità, il parere
contrario di genitori e amici e l’occhio sempre attento dei media, la donna non rinuncia alla sua
nuova adolescenza. È esattamente questo che sembra Marie quando va incontro a Bertrand,
un’adolescente alla prima cotta, e il suo nuovo amore non è da meno.
Bertrand ha una compagna da una decina d’anni, Kristina, una donna che ha imparato a
convivere con un uomo assillato dalla musica. Lo ha accettato e gli ha dato due figli, l’ultimo, una
bambina, è ancora nella sua pancia quando inizia a capire che le attenzioni di Bertrand non sono
più per lei. Per Cantat all’inizio è più difficile che per Marie, forse perché la nuova situazione lo
coinvolge a tal punto da distogliere il suo interesse dal gruppo o forse perché la gelosia contro la
quale si trova inaspettatamente a combattere non lo aiuta. E allora tanto vale affrettare i tempi,
bruciare le tappe prima che la passione divampi. Nell’ottobre dello stesso anno i due sono già
inseparabili, non si nascondono, semplicemente vivono la loro storia come se fossero i soli
abitanti di un pianeta con l’unico bisogno di amarsi. I reciproci partner versano in uno stato di
semi-incoscienza per prendere qualsiasi decisione in proposito, si ritrovano abbandonati di punto
in bianco, eppure nessuno in questa storia vuole perdere.
A Natale, in piena turbolenza, è già tempo di famiglia allargata per Bertrand, che invita Marie
a trascorrere le feste con la moglie e i figli. Ma a un amore così intenso e totalizzante è complicato
fornire l’ossigeno quotidiano di cui necessita. Ambedue pretendono impegno incondizionato che la
convivenza non placa. Le richieste aumentano probabilmente in virtù di un passato che non arretra,
è troppo presto. La strada imboccata è chiaramente quella della reciproca distruzione, se ne
accorgono tutti, se ne accorge la stampa, ma non gli stessi interessati che continuano a passare al
settaccio ogni segnale dall’esterno in cerca di conferme, conferme quotidiane e patologiche di un
affetto che nessuno dei due può permettersi di lasciarsi sfuggire. Non questa volta. Bertrand
annulla una tournèe per stare con la donna, e non solo, su richiesta di Marie interrompe ogni
rapporto con la moglie Kristina. Marie invece che non ha mai troncato i rapporti coi padri dei suoi
figli e continua ad avere con tutti un’intesa, fatica di più ad andare incontro alle richieste di
Bertrand.
Ogni volta che una differenza si manifesta, la coppia la soffoca con una vicinanza che toglie il
fiato. Separarsi sembra impossibile. Marie Trintignant deve partire per la Lituania dove l’attende
un progetto per la televisione curato dalla madre Nadine. Due mesi di lontananza? Non se ne
parla, i due partono insieme e alla fine di maggio iniziano gli ultimi giorni della loro vita di
coppia, la stessa che comincia con una dichiarazione d’amore di Bertrand a Marie su un canale
televisivo lituano e termina con il volto del cantante ormai sfigurato dalla rovina sulla stessa
emittente. I nostri amanti ora sono più soli che mai, lasciata Parigi si ritrovano ostaggio delle
proprie pulsioni, svaniscono i punti di riferimento, la ragione soprattutto. Se Marie ha ancora il set
ad aggrapparla a una sorta di realtà, Cantat ha solo i pensieri, i fantasmi, spettri che si allungano
come ombre sulle insicurezze. Tanto vale riempire le ore di alcol, antidepressivi e poi
antinfiammatori per combattere una fastidiosa lombalgia. Magari esistessero pillole per tenere a
freno la gelosia. Bertrand interroga in questi giorni anche Nadine, le chiede se crede che la figlia
si sia mai davvero innamorata. La madre di Marie si augura eccome che sua figlia, dopo quattro
figli, abbia provato amore nella sua vita.
Le discussioni non si placano, iniziano a giugno, continuano a luglio. Bertrand e Marie hanno
paura di perdersi o di non essersi mai visti per ciò che sono realmente. Due persone mature con
un’esistenza piena alle spalle e non due ragazzini alla prima esperienza. Non è possibile
incontrarsi a quarant’anni e pretendere di cancellare ciò che si è stati fino a quell’estate. Il 26
luglio l’ennesima discussione. Marie ha ricevuto un sms affettuoso da suo marito, che in fondo non
ha ancora rinunciato alla donna. Bertrand non ci sta, Bertrand ha troncato ogni rapporto con
Kristina, perché la sua attuale compagna non può fare altrettanto? La lite va avanti per l’intero
giorno, si seda appena con qualche alcolico, ma di sera rimbalza prepotentemente tra le pareti di
una suite d’albergo. È una trappola per due, ci sono caduti insieme, Marie però ha la peggio e non
riesce a uscirne se non sdraiata su una barella priva di quei sensi che non riacquisterà più. Un
ultimo litigio le è stato fatale, i precedenti le hanno lasciato paure e dubbi, questo le toglie il
respiro. Accanto a lei c’è un uomo troppo angosciato per accorgersi di quello che sta accadendo.
Accanto a lei c’è Bertrand che piange per il colpo finale inflitto al suo rapporto e non ha capito
che quel colpo ha tolto la vita a Marie.
Quando Bertrand Cantat capisce la gravità della situazione è troppo tardi. È troppo tardi per
tornare indietro, salvare Marie, è troppo tardi persino per tentare il suicidio in quella stessa
stanza. Ci prova ugualmente diverse ore dopo, ma le autorità lituane sanno esattamente a quale
porta bussare. Termina qui la libertà dell’uomo, che nonostante il senso di colpa, la dannazione, la
carriera data alle ortiche, resta vivo. I Noir Désir si sciolgono, o meglio, versano in uno stato di
coma indotto. L’affare Cantat-Trintignant è sulla bocca di chiunque, perché il cattivo questa volta è
mascherato da virtuoso, un uomo collerico a volte, ma non privo di moralità e compassione. Il
cattivo ha la faccia dell’interprete maledetto che nonostante tutto intriga ancora il gentil sesso o
almeno quella parte che vuole credere alla sventura e alla circostanze avverse. Una donna in
particolare lo ha difeso più di tutte, è scesa nella mischia e si è fatta scudo per Bertrand.
Lei è Kristina e per tutto questo tempo non ha fatto altro che testimoniare a favore di colui che
è ancora a tutti gli effetti suo marito. Ma è dura ricucire un rapporto spolverandolo dalle ceneri di
un altro, è dura perché nessun pezzo sembra più combaciare. Bertrand ha solo lei e da lei torna
dopo quattro anni trascorsi in carcere. Kristina però non ce la fa più, annaspa nello sconforto, è di
altro che ha bisogno, ma con Cantat a fianco è impossibile ricostruirsi una vita, quindi tanto vale
fare a meno anche di quell’unica possibile. L’11 gennaio del 2010 Kristina scrive una lettera di
addio, poi si impicca nella sua abitazione. Nell’altra stanza c’è Cantat, che di nuovo non capisce
il dramma della donna che gli dorme accanto, ma almeno questa volta sembra non avere parte in
causa. Sembra. Tre anni più tardi, i genitori di Kristina divulgano un messaggio registrato dalla
figlia nella loro segreteria telefonica sei mesi prima di morire. La donna ammette le botte e le
intimidazioni inflitte da Bernard, è disperata e arrendevole allo stesso tempo. È convinta che
senza di lei l’uomo si possa uccidere e mai vorrebbe privare i figli del padre. Ma Bertrand torna
dal regno dei morti anche in questa circostanza e pare del tutto intenzionato a restare.

Ange De Désolation – Bertrand Cantat/Detroit [HORIZONS]


Ti chiami Sofia Carmina Coppola e cresci nei primi anni Settanta in una famiglia numerosa, un
vero e proprio clan ben affiatato, di quelli che la famiglia prima di tutto e aiutarsi l’un l’altro non
è una possibilità da vagliare, ma un dovere. Ti chiami così, ma invece di venire alla luce in un
paesino a svariati chilometri dal primo centro abitato della Lucania, i tuoi vagiti riecheggiano tra
le colline di Hollywood e i grattacieli di New York e il registro di opportunità che ti viene offerto
è subito illimitato.
Non hai ancora un anno di vita quando reciti la parte di un neonato nel tuo primo film. Il
regista, uno degli autori più affermati e apprezzati su scala mondiale non solo è tuo padre, ma è
anche un uomo che ha conservato le proprie origini italiane, ne và fiero ed è ben contento di poter
dare una mano ai propri figli e nipoti. Certo, tu non ne hai ancora bisogno, Sofia, e pazienza se chi
non appena avrà la facoltà di ragionare deciderà non solo di non chiedere aiuto al patriarca, ma
opterà persino per un cambio di nome: Nicolas Cage suona molto meglio di Nicolas Kim
Coppola.
Nel 1990, Sofia Coppola recita ancora in un film del padre. Si tratta del terzo capitolo de Il
Padrino. Il ruolo è quello di Mary Corleone, parte che è costretta a ricoprire all’ultimo minuto
dopo l’abbandono sul set di un’attrice un po’ troppo capricciosa per i gusti di Francis, una giovane
promessa che in quel periodo sta vivendo una tormentata storia d’amore col collega Johnny Depp.
Sarà lo stesso Coppola a richiamare due anni dopo sul set Winona Ryder per la parte della
protagonista in Dracula, ma per il momento dipende da Sofia la fine delle riprese del film.
Per quel ruolo la giovane Coppola raccoglie soltanto critiche negative. È ora di cambiare, di
allontanarsi dalla famiglia e di volgere lo sguardo altrove. La musica, per esempio, e poi la
macchina da presa. Spesso protagonista di videoclip – cosa del tutto normale se il tuo migliore
amico e futuro marito si chiama Spike Jonze ed è uno dei più richiesti videomaker degli anni
Novanta – Sofia inizia a innamorarsi del set e del potere evocativo che hanno certi suoni. È la
svolta.
Nel 1999, Sofia debutta alla regia di un lungometraggio. La sceneggiatura è tratta da un
romanzo di Jeffrey Eugenides che l’ha molto colpita. Per realizzare Il giardino delle vergini
suicide, la regista miscela pochi dialoghi, tinte pastello e una gamma di toni che vanno dal
grottesco al drammatico, fino al tragico finale. Il film trascina lo spettatore in una camera onirica,
lo fa accomodare nella poltrona più scomoda e gli porge una colonna sonora dal quale non è
possibile riemergere in fretta e senza turbamento.
Nello stesso anno Sofia Coppola e Spike Jonze ufficializzano un’unione ormai di lungo tempo.
Si sposano a giugno e per quattro anni cercano di alimentare un legame fiorito nel momento clou
delle rispettive carriere. Jonze debutta sul grande schermo con un film poi diventato di culto, non
soltanto per gli appassionati dei suoi precedenti lavori musicali: Essere John Malkovich gli vale
una candidatura all’Oscar come migliore regia. Sofia, dal canto suo, non se ne resta con le mani in
mano e nel 2003 ritorna con un altro film che in comune con il precedente ha senz’altro
l’incomunicabilità tra i protagonisti. Il titolo è più che eloquente: Lost in translation.
Nella pellicola, nuovamente supportata da una colonna sonora che svela la passione della
regista per sonorità raffinate e decadenti come quelle evocate dai My Bloody Valentine, Sofia
racconta un rapporto stanco, che si consuma nell’assenza, tra un fotografo freelance e la sua
giovane moglie. Il personaggio dell’anonimo John, interpretato da Giovanni Ribisi, pare il ritratto
del marito della regista, sempre troppo impegnato a pensare alla carriera piuttosto che a curarsi
del suo matrimonio.
Se Jonze ottiene una nomination al debutto, Sofia ne ottiene due per sé, e la statuetta più ambita
la conquista proprio grazie alla sceneggiatura originale scritta di suo pugno. L’allieva supera il
maestro e qualcosa all’interno della coppia va in frantumi. Sei riuscita a essere indipendente, a
cavartela da sola, a coltivare le tue passioni, ma se poi diventi competitiva al pari di colui che ti
dorme accanto chi si alzerà per primo dal letto per preparare il caffè? Il 5 dicembre del 2003
Sofia Coppola e Spike Jonze chiedono e ottengono il divorzio per divergenze inconciliabili.
Intanto, tra le innumerevoli amicizie della regista fa la sua comparsa un gruppo francese niente
male. Il pallino della musica di classe è un vizio di famiglia, evidentemente. Roman Coppola,
fratello di Sofia, perde la testa per una band di Versailles e inizia a curarne la regia dei video. La
stessa Sofia sceglie un brano dei Phoenix per la colonna sonora di Lost in translation e il passo
tra l’amare quella musica e chi la scrive è davvero breve.
Nel 2004 Sofia si fa vedere in giro a fianco di Thomas Mars, il leader del gruppo francese che
grazie all’album d’esordio, UNITED, e ad alcuni singoli azzeccati si è fatto conoscere anche negli
Stati Uniti. Per un momento si pensa a un ritorno di fiamma della regista per Jonze. La somiglianza
tra i due è impressionante: sguardo sfuggente, capigliatura arruffata, atteggiamento dimesso.
Questa volta però è Sofia ad aprire le porte al compagno, e quell’antico vizietto di famiglia di
supportare cose e persone in cui si crede ora può tornare utile.
Thomas e Sofia iniziano a collaborare cercando di non mescolare troppo le acque. La coppia
si stabilisce a Parigi e nel 2006 Sofia dà alla luce la prima figlia e il terzo film, dedicato alle
regina più famosa di Francia, Maria Antonietta. Come d’abitudine, Sofia ci prende per mano e ci
svela le sue passioni per le buone letture, le ottime musiche e la famiglia, che viene sempre al
primo posto. Il produttore è ancora papà Francis, mentre il protagonista maschile è il cugino della
regista, Jason Schwartzman.
Se a Maria Antonietta Mars lavora dietro le quinte, per il successivo Somewhere viene
coinvolto in prima persona alla realizzazione della colonna sonora. Sofia va ancora oltre e non si
limita a utilizzare le stesse lenti impiegate dal padre per le riprese di Rusty il selvaggio. In
Somewhere la regista mette in scena la sua infanzia, sensibilmente diversa da quella che ci
saremmo aspettati di conoscere. Ci sono gli agi, ci sono le colline e le corse in Ferrari, ma c’è
soprattutto quel vuoto e quell’assenza che abbiamo imparato a distinguere anche nelle sue
precedenti prove dietro la macchina da presa.
Somewhere esce nel 2010. A maggio Sofia partorisce la seconda figlia e a settembre vince il
Leone d’Oro. A consegnarglielo è il presidente di giuria Quentin Tarantino, con il quale in una vita
precedente la stessa Coppola aveva provato a imbastire una relazione volata via in un batter d’ali.
Ma ora c’è un’altra vita che attende. Una vita che se ti chiami Coppola e sei nata a New York City
non puoi certo consumare tra camere d’albergo spoglie e ricordi d’infanzia. Anche se farsi guidare
dal braccio di papà per una cerimonia intima può essere divertente. Sofia Coppola e Thomas Mars
si sposano a Bernalda, paese d’origine di Francis Ford in provincia di Matera, il 27 agosto del
2011.

Love Like A Sunset Part II – Phoenix (WOLFGANG AMADEUS PHOENIX)


Se da bambina l’infatuazione di tua madre per David Bowie è tale da costringerti a presentarla
agli amici come Ziggy Stardust e pochi anni più tardi è la stessa genitrice a sommergerti di
cassette degli Hüsker Dü, corri seriamente il rischio di diventare la nuova punta di diamante
dell’indie rock o di impazzire prima ancora che questo accada. Oppure, se ti chiami Chan
Marshall, possono accaderti entrambe le cose. La piccola Chan in realtà è lucidissima,
quantomeno se paragonata a tutta una famiglia decisamente fuori dagli schemi. Crescendo, Chan si
rende conto di avere a che fare con lati diametralmente opposti del proprio carattere, un disturbo
bipolare che l’accomuna a migliaia di persone. La giovane di Atlanta ignora però le motivazioni
alla base dei suoi repentini cambi di umore. Mette in piazza i sentimenti e poi cancella ogni
traccia, prova l’ebbrezza di stare al centro del mondo e poi di rifugiarsi in un angolo, ginocchia al
petto, sperando di non essere vista.
Prima di adottare il suo nome d’arte, preso in prestito da un marchio di macchine per
l’edilizia, prima di capire su quale strumento indirizzare le sue attenzioni, la ventenne Chan è già
una star. Lei non lo sa ancora, ma è come se intorno a lei si spianasse una strada con tante persone
pronte a batterle le mani. Applausi di incoraggiamento per una graziosa cameriera del Sud
rintanata in provincia nell’attesa di tentare la sorte nell’unica città al mondo che non ti nega mai
una buona occasione. New York accoglie Cat Power nel 1992. Non le promette sogni facili, ma le
trasmette la forza per assecondare quell’istinto che la conduce su un palco a inscenare
pubblicamente una gamma spropositata di emozioni. Non è semplice per Cat, perché una parte di
sé continua a non voler condividere niente con nessuno e ciò che desidera sono solo un marito e
una casa dove crescere tanti figli.
La vita personale non è in armonia con quella professionale. Può capitare, se non si hanno
chiari i propri desideri. Cat Power, allora, su quel palco continua a salirci, almeno finché non ha
nessuno da cui tornare la sera. E dal suo pulpito intona qualche melodia, a volte borbotta scampoli
di canzoni, esaspera gli spettatori con lamentele, dissertazioni private e frasi sconnesse. Chan si
concede per svuotarsi le tasche di scuse, alleggerirsi la coscienza o più semplicemente per dare
forma a un malessere. Il pericolo di mandare tutto a monte prima ancora di spiccare il volo è forte,
e invece Cat Power ce la fa. A poco più di vent’anni, il suo nome fiorisce sulla bocca di tutti a
New York. Puoi anche tenere concerti musicalmente discutibili, ma se il giorno dopo la gente non
smette di parlare del tuo show allora qualcosa di buono devi averlo fatto, su quel palco. Se pure
hai usato il microfono per amplificare le tue ossessioni, al pubblico è piaciuto.
I fan sviluppano una morbosa curiosità verso quella ragazza incline a flussi di coscienza che
spesso non prevedono nemmeno l’ausilio di uno strumento. A volte non sono propriamente
canzoni, forse si tratta di dichiarazioni, come quella che rivolge per un periodo all’attore Vincent
Gallo. Chan non fa mistero di desiderare un uomo al suo fianco e Vincent sembra quello giusto,
almeno fino all’incontro con l’uomo che sul finire del 1996 ha il potere di stravolgerle totalmente
l’esistenza. Lui si chiama Bill Callahan, è un musicista trentenne conosciuto con lo pseudonimo di
Smog, è un poeta lo-fi, profondo conoscitore di un suono che inizia a farla da padrone negli anni
Novanta grazie a etichette e musicisti che più che all’aspetto tecnico dei loro dischi si concentrano
sulle idee e sulle emozioni. Nella primavera del 1997, Chan ha finalmente un motivo per scendere
dal palco e ritirarsi a vita privata, trasferirsi in una casa isolata e mettere su famiglia con Bill.
Lontano da pubblico e critica, e da quelle canzoni fortemente autobiografiche che cominciano
a spaventarla, Chan può finalmente dedicarsi a pianificare un nuovo ruolo di moglie e madre. Bill
e Chan si stabiliscono a Prosperity, in South Carolina; al primo spetta il compito di sostentare con
la propria musica il neonato gruppo familiare, mentre la seconda non ha ancora idea di come
impiegare il tempo. Di sicuro, cesserà all’istante ogni attività musicale. La ricerca di una
normalità passa attraverso pasti cucinati in casa, un buon salotto accogliente, il giardino da
rigovernare, ma quando non si sa più cosa aggiungere o sottrarre alla lista è della musica che si
realizza di aver bisogno per restare in contatto. Solo che la musica, alla fine del 1997 non lega,
divide.
Quando Callahan inizia ad allontanarsi sempre più spesso da casa, a Chan cosa resta se non il
passato per continuare a galleggiare? Quando Cat Power, contro le proprie aspettative, si ritrova a
comporre nuove canzoni al numero 9095 della High -way 51, non immagina che quella notte
passata a scrivere musica sia la fine della sua relazione e l’inizio di una nuova porzione di vita.
Almeno sei delle undici tracce che compongono MOON PIX fotografano una condizione nella quale
è venuto improvvisamente a mancare qualcosa. Il 22 settembre del 1998 MOON PIX arriva nei
negozi e i fan di Cat Power si vedono consegnare la mappa dettagliata di una storia d’amore
imbastita per durare un secolo e tramontata dopo nemmeno un anno.
Se Metal Heart è il centro nevralgico di un disco e dell’intera esistenza di Cat Power, Colors
And The Kids è il requiem del rapporto con Bill. Anche i fan di Smog possono avere la loro
versione dei fatti ascoltando in sequenza le tracce dell’album KNOCK KNOCK. Pare sia arrivata
un’altra donna. Di certo, Chan ha bisogno di tornare alla sua musica, per quanto le esibizioni dal
vivo segnalino un peggioramento del suo stato mentale. Il fallimento della vita domestica e la
sensazione di essere stata rapidamente sostituita non le permettono di trovare pace fino alla
primavera del 1999, quando il ritratto del poeta forte e maturo, che era Bill, viene accantonato per
fare posto a quello dell’aitante e giovane Daniel Currie. E se ancora una volta non si potrà contare
sulle cose in comune, tanto vale puntare sulla spensieratezza e sulla possibilità di avere a fianco
un uomo che assecondi la propria indole anziché amputarla.
Daniel Currie è la persona con cui dividere il presente, qualunque cosa accada. Ne accadono
tante, nella vita di Chan, e non per tutte c’è una spiegazione razionale. Di tanto in tanto fanno visita
i ricordi, si sentono le voci e non bastano le bottiglie di whisky per tenere a bada i tormenti. Il
pubblico ti apprezza, ti acclama, ti fa sentire viva e poi vuota se non possiedi abbastanza energie
per ricaricarti. Nel 2003 Cat Power lavora al disco più acclamato della sua carriera in compagnia
dell’arrangiatore David Campbell, il quale ritornerà nella vita della cantante qualche anno dopo,
quando l’inquieta ricerca di un nuovo compagno condurrà Chan tra le braccia dell’attore Giovanni
Ribisi, cognato di Beck, l’altro genio di casa Campbell.

Colors And The Kids – Cat Power (MOON PIX)


Questa è la storia di un’ossessione. Un’ossessione gentile, con gli angoli smussati dagli stessi
protagonisti. E i lati sfumati, per lasciare traccia, ma non contorni. I perimetri limitano, così come
le etichette e le definizioni possono rendere parziale e addirittura sgradevole ciò che invece è
troppo delicato persino per restare impresso su pagina. Tanto vale allora tenersi tutto dentro,
mandare giù a forza anche quell’ultimo boccone e tanti saluti. Douglas A. Martin invece non ce la
fa, forse ha un peso sullo stomaco, forse ha una voglia disperata di gridare al mondo intero ciò che
ha vissuto, perché sono in molti a dubitare di quella storia e lui rischia di essere fra questi. Martin
un bel giorno rilegge i suoi diari, così come sono stati scritti qualche anno prima, giorno per
giorno, ma poi rilascia una versione edulcorata, ci racconta la sua travagliata relazione, lo fa con
grazia, turbamento e stupore. Però ce la racconta e per la prima volta esce allo scoperto con il suo
pigmalione, se non per prenderne il posto sotto ai riflettori, almeno un fascio di luce, quello che
gli spetta.
Questa storia inizia nella prima metà degli anni Novanta e termina nella seconda. È la storia di
una passione agrodolce, perfetta per essere incisa nei solchi di un disco. Traccia dopo traccia
abbiamo tra le mani la narrazione di un rapporto con le sue incertezze, i suoi apici, le fughe e i
ritorni. Il protagonista più celebre di questa storia però non ha alcuna intenzione di riportare le sue
vicende personali in musica, non apertamente almeno. Lui che di parole e note vive, lui che con i
suoi album è arrivato in cima alle classifiche e a guadagnare cifre da capogiro tiene le sue
relazioni per sé. Ci si aggrappa per non perdere l’equilibrio. L’equilibrio lo perde eccome il suo
partner, che alla rockstar si stringe con entrambe le braccia, per non cadere, per non lasciarlo
andare, per rendersi conto di quanto sia tangibile quel rapporto. Due corpi estranei che si
ritrovano insieme divorati dall’istinto e da paure opposte. Una storia d’amore tra due persone
sincere in un momento bugiardo.
Michael Stipe all’inizio degli anni Novanta è il leader della band alfiere del suono alternativo
americano. I R.E.M. vengono dalla provincia, prima di arrivare al successo collezionano musica
ed esperienza. Il gruppo è riuscito fino a questo momento a cavarsela senza troppo stress, ma quel
tempo è terminato, il nuovo decennio si presenta con domande sempre più insistenti e non si
accontenta di testi da decifrare in risposta. Ora c’è la prima linea da coprire e bisogna prepararsi.
Michael Stipe è sfuggente, sembra sapere esattamente dove sta andando, ma non è così sicuro di
voler condividere con il resto del mondo questa informazione. Fatevi bastare la musica, sembra
dire alla stampa, e invece la stampa ha trovato un nuovo Morrissey da stuzzicare sul proprio
orientamento sessuale. Peggio. Intorno al 1992 gira voce che Stipe abbia contratto il virus
dell’Hiv. Il diretto interessato, non rilasciando dichiarazioni in proposito, contribuisce ad
alimentare il pettegolezzo.
Le chiacchiere sembrano sostenute anche dall’apparente magrezza del cantante, che alla fine
del 1992 mostra costole e ventre incavo nel video del primo singolo estratto dall’album
AUTOMATIC FOR THE PEOPLE. Il brano si intitola Drive, una canzone malinconica e intimista in
linea con l’intero lavoro. Ma c’è chi ascoltando quella melodia e guardando le immagini che la
accompagnano non riesce a togliere gli occhi di dosso da quel corpo. Della sua magrezza sembra
non importargliene, così come di quelle storielle che girano sul conto del leader della band.
Douglas A. Martin dal college della città di Athens, la stessa di quell’uomo che ora riempie
schermo e pupille con sorprendente liquidità, si ritrova in ostaggio di quell’essere. Studente
intorno alla ventina, Douglas è ora un ragazzino che con la mano sfiora lo schermo del televisore e
di imbrigliare le sue fantasie non ci pensa lontanamente. Perché dovrebbe? Solo perché qualcuno
gli ha spiegato che certi sogni sono difficili da realizzare? O perché mondi così distanti raramente
si mescolano?
È tutto vero, le regole e persino le fantasie. Accade così che un giovane di vent’anni, che ne
dimostra a malapena quindici, si ritrovi nell’orbita della persona che agogna perché è lì che vuole
essere e ci si metta di impegno per riuscirci. Rintracciando l’indirizzo del cantante, uscendo dal
dormitorio per andare a vivere in una casa non troppo distante, frequentando gli stessi bar e
tendendo mani e sorrisi alla stessa cerchia di persone. Azioni caute eppure studiate a tavolino,
romanticherie con una brama spropositata per la star di turno che mai potrebbe deludere. E poi
accade. La favola prende corpo. Douglas A. Martin e Michael Stipe si incontrano, si frequentano,
la distanza abissale non impedisce il reciproco interesse. Quando non è in tour, il musicista è un
uomo che ama divertirsi e circondarsi di tante persone. Riempie la casa di ospiti, gli amici sono la
sua famiglia. Martin più che amico è un partner occasionale, almeno fino a quando le porte
dell’abitazione extralusso di Stipe si schiudono anche per lui e l’allievo squattrinato si ritrova ora
ad addormentarsi con gli occhi rivolti a soffitti alti quanto le sue aspettative.
La relazione tra i due ha inizio in un periodo in cui diverse persone care scompaiono
drammaticamente dalla vita di Stipe. Alcune sono note, a River Phoenix Stipe dedica un intero
disco, MONSTER. In quest’ultimo è contenuto anche il brano Let Me In, scritto di getto proprio
durante la fase avanzata delle registrazioni, una volta appresa la notizia del suicidio dell’amico
Kurt Cobain. Non è un buon momento per pensare alla nascita di un nuovo rapporto, un tour
mondiale è alle porte, eppure è esattamente quello che accade. Cercare di rassicurare una persona
e tenere fede a una promessa quando la sola cosa che si ha in testa è salvaguardare la propria
esistenza piuttosto che una relazione. E tenere testa alle solite voci. L’orientamento sessuale di
Stipe è all’ordine del giorno. Nel 1994 Stipe dichiara alla rivista «Details» di essere un fautore
delle pari opportunità a letto. Alle preferenze sessuali degli artisti viene attribuita da sempre
troppa importanza? Può darsi. Certamente negli anni Novanta il leader dei R.E.M. non riesce
ancora ad arginare la solita domanda ad ogni intervista. «Gay? Non mi piace questo termine. Il
solo concetto gay inquadra le persone in una categoria. Da quando sono sessualmente attivo sono
stato attratto sia da donne che da uomini e sono andato a letto con entrambi».
Intorno al 1995, per Michael Stipe sono ancora lontane le uscite pubbliche a braccetto di bei
giovanotti. Stipe sembra abbonato agli amici e alle vedove. Patti Smith, Courtney Love. Su
quest’ultima si addensano persino chiacchiere di un legame ben più profondo. Forse perché alla
sua vera relazione il musicista non riserva red carpet e show televisivi. Douglas deve
accontentarsi di qualche biglietto aereo in prima classe per raggiungere il suo uomo in tour,
incontri consumati in camere d’albergo e banconote all’alba per sparire o divertirsi altrove. In
realtà tra i due c’è una vicinanza e un’intimità che trascende il corpo, ma nessuno dei due ha idea
di cosa passi davvero nella mente dell’altro. Se Stipe è la rockstar in fuga, dai sentimenti e dai
bisogni più terreni, Martin è il randagio in cerca di affetto e protezione. Un amore squilibrato che
soltanto nella distanza trova proporzione. In lettere appassionate che la coppia si scambia quando
è lontana, messaggi poetici registrati in segreterie telefoniche e haiku.
«Fin dall’inizio conto i giorni che mi restano con lui. […] Il ragazzo sottobraccio che tra tutti i
suoi amici ha scelto di portarsi a letto. Loro lo sanno. Aspettano tutti quel giorno, la mattina che
sono certi arriverà. Quella in cui io non sarò più lì». Quel mattino arriva dopo tre anni e mezzo di
relazione. Per quanto Martin sia da tempo preparato all’evento, non ci sta. È chiaro che i due non
possono trovare un accordo, non subito almeno. Sono entrambi feriti e hanno idee diverse sulla
fine dell’amore. Per Stipe è sopraggiunta mesi prima, almeno quando l’incomprensione e i bisogni
opposti hanno accentuato le differenze tra i due. Il suo giovane amante non è riuscito a ritagliarsi il
posto che sperava nella vita del cantante, né tantomeno nella sua, visto che a poche settimane dalla
laurea non ha idea di che strada prendere, specie ora che il suo unico scopo pare averlo tradito.
Non è così. Se c’è una cosa che Douglas ha capito è che Michael Stipe non abbandona mai
nessuno.
Nel 1998 si ritrovano entrambi autori di un libro di haiku. Per la prima volta i loro nomi sono
uno accanto all’altro e compaiono insieme apertamente nel progetto corale The Haiku Year. C’è lo
zampino di Stipe anche dietro alla prima raccolta di poesie di Martin, Servicing the Salamander,
e nel 1999 il musicista è il lasciapassare per uscire dall’anonimato. Con Outline Of My Lover il
racconto della vicenda sentimentale tra i due è di pubblico dominio, nemmeno troppo velato. Se
Martin ha in qualche modo raggiunto una fama per diversi aspetti inseguita, a Stipe non ha rubato
premura e gentilezza. L’intimità non è stata violata, il narratore ci ha restituito l’immagine di un
artista vulnerabile, sensibile, disposto a colmare di pazienza e amicizia le proprie carenze. Martin
d’altronde è stato e resta l’anello debole, il fan lamentoso che non riesce a gestire il rapporto con
il proprio idolo. Un vaso vuoto che aspetta solo di essere riempito e maneggiato con cura, solo
che quando accade non ha istruzioni. Douglas A. Martin alla fine della sua relazione con Michael
Stipe si frantuma, va in mille pezzi. Quando inizia a raccogliere i cocci, però, può farlo ascoltando
un brano che lui solo sa comprendere meglio di chiunque altro.

At My Most Beautiful – R.E.M. [UP]


Il 10 febbraio del 2004 la band newyorkese Yeah Yeah Yeahs, capitanata dalla grintosa Karen O,
pubblica il secondo singolo estratto dall’album d’esordio FEVER TO TELL, dato alle stampe
qualche mese prima. Il video che accompagna il brano è diretto da un amico e collaboratore
stretto del gruppo, Patrick Daugthers, giovane filmmaker californiano molto sveglio nel recepire
che all’inizio degli anni Zero qualcosa sulla Weast Coast si sta muovendo. A settembre 2003,
Patrick viene chiamato a dirigere le scene che dovranno accompagnare i suoni di Maps.
Non abbiamo idea di cosa significhi quel titolo e di quale mappa stia cantando Karen, ma è
chiaro che si tratta di una canzone d’amore, di quelle struggenti per testo e incedere armonico. Le
lacrime che scivolano sul viso della performer paiono appropriate, soprattutto perché non hanno
niente di patetico; al contrario, fanno da elemento catalizzatore di un semplice girato in presa
diretta all’interno di una palestra adornata di lucette colorate e poco altro. Minimale, diretto, il
clip guadagna diverse nomination agli Mtv Video Music Awards del 2004.
Soltanto nell’estate del 2007 spunta qualche informazione in più su brano e immagini. È la
stessa Karen a svelare che il testo è dedicato al suo già compagno, Angus Andrew, leader dei
Liars. Il titolo della canzone altro non è che un acronimo: My Angus Please Stay. Nel 2003 il
rapporto tra i due fidanzati subisce un duro contraccolpo a causa dell’attività frenetica delle
rispettive band, giunte ormai a buon punto con le proprie carriere. Karen non accetta che certi
impegni abbiano il sopravvento sulla relazione e lo confessa ad Angus, a tempo di musica.
Durante le riprese del video Angus promette di raggiungere Karen, ma il ritardo si accumula e
i Liars devono per forza prendere un aereo. La tensione sale, ma Angus mantiene la promessa,
perché quel brano è dedicato a lui ed è una dichiarazione d’amore di quelle che valgono una vita.
Karen è pronta per girare, ma non riesce a trattenere le lacrime. A Patrick Daughters spetta il
merito di aver colto l’attimo, di avere azzeccato qualche filtro per permettere agli ambienti di
cambiare colore assecondando il registro della canzone. All’afflizione reale, però, va il vero
plauso.
Yeah Yeah Yeahs e Liars muovono insieme i primi passi sulla scena di Brooklyn. Vengono
accomunati ad altre band attive in quel momento sui palchi di piccoli club di New York, come Tv
On The Radio e Rapture. Si parla di una nuova scena new wave, figlia o figliastra di quella che
più di vent’anni prima aveva visto premiare talenti come Blondie e Televison. Karen O e Angus si
conoscono così, andando l’uno ai concerti dell’altra, instaurando un legame che li porta a
supportarsi a vicenda, a chiedere e ottenere consigli in fatto di musica, look e performance.
I primi a uscire sul mercato sono i Liars, che nel 2001 danno alle stampe un album il cui titolo
è tutto un programma: THEY THREW US ALL IN A TRENCH AND STUCK A MONUMENT ON TOP. Due
anni dopo tocca alla band di Karen e le cose si complicano perché per potersi incontrare non
basterà più uscire di casa e recarsi in qualche locale malfamato della città. Sono da mettere in
conto separazioni temporanee e attese snervanti, e occorre assecondare una carriera che sta per
nascere e che non ha tempo di aspettare in doppia fila: ci sono pochi posti in giro e se non si corre
come schegge impazzite qualcun altro là fuori si preparerà al sorpasso.
Il destino può aiutare. Il fatto di ritenere le due band parte integrante della stessa scena porta i
critici ad accomunare i nomi di Liars e Yeah Yeah Yeahs. Il risultato è un primo tour americano
insieme alla fine del 2002, a cui seguirà un altro in Giappone e in Australia nell’estate del 2003. A
Karen piace molto poter condividere il proprio lavoro con Angus. Nonostante gli alti e bassi della
relazione, nel 2004 è la cantante di origini coreane a recarsi sul set di un videoclip dei Liars. Si
siede dietro la macchina da presa e dirige le scene di commento a We Fenced Other Gardens With
The Bones Of Our Own, singolo estratto dal concept album THEY WERE WRONG, SO WE
DROWNED.
Karen O si accorge del potere delle immagini e la stampa si accorge di Karen, ammaliata non
più soltanto dalle sue capacità vocali e dalle travolgenti performance live. Ai tabloid comincia a
piacere qualcosa che esula dal discorso musicale. È lo stile a interessare, è un taglio di capelli
che molte giovani iniziano a copiare, sono outfit che si fanno sempre più ricercati. Crescendo,
Karen sperimenta con la propria immagine, e oltre al trucco marcato sugli occhi e alle labbra
sempre di un tono rosso acceso, dal suo guardaroba escono total black look comuni al rock, per
iniziarsi a una gamma di colori e firme. Miscelare capi di grido a fogge scovate in qualche
mercatino in giro per il mondo è il nuovo trend, ma Karen ci mette del suo e arriva a confezionare
personalmente le sue mise di scena. Karen O diventa l’icona della nuova scena indie punk.
In poco tempo la popolarità degli Yeah Yeah Yeahs supera di gran lunga quella dei Liars, la
cui storia rimane confinata a riviste di musica di settore e i cui esperimenti rifuggono il
mainstream. Cultori e appassionati accolgono con grandi elogi le scelte stilistiche della band, ma
a eccezione di qualche tour promozionale l’unico interesse di Angus e soci resta chiudersi in
studio e sperimentare, portare la ricerca del suono sempre un po’ più in là tra ritmiche
elettroacustiche, modulazioni avventurose e registrazioni in digitale. Le smorfie e le t-shirt di
Angus fanno sorridere il pubblico, ma l’ultima mise di Karen in copertina aiuta le vendite almeno
quanto la ciccia esibita con clamore da Beth Ditto. Sono facce di una stessa medaglia.
Nel 2004 e 2005 la rivista «Spin» consegna a Karen O uno strano Sex Goddess Award. Nel
2006 è nominata da «Blender» fra le donne più influenti del rock. Nel 2007 si aggiudica il terzo
gradino del podio della stessa classifica di «Spinner». Nel 2010 l’incoronazione arriva invece
sulle pagine del «New Musical Express». L’infatuazione per la macchina da presa continua, la
voglia di dividere le proprie passioni col partner anche, ma nel 2006 il regista Spike Jonze prende
il posto traballante di Angus, attardatosi a cercare il giusto assetto mentre Karen ha già tagliato il
traguardo.
Già a braccetto di Sofia Coppola nella vita e sul lavoro, Spike realizza per gli Yeah Yeah
Yeahs il video della canzone Cheated Hearts. Karen ricambia aiutandolo nella direzione di
Blessed Evening del collettivo Foetus e prenderà poi parte alla colonna sonora di Where The Wild
Things Are, terzo lungometraggio di Jonze, firmandosi come Karen O And The Kids. Quando il
film esce, tuttavia, Karen ha già iniziato a collaborare con un altro giovane regista, Barney Clay, e
le famose riviste ci mettono un attimo a immortalare la nuova coppia glamour. Alla fine del 2011
Karen e Barney si sposano, senza festeggiamenti. C’è un nuovo album degli Yeah Yeah Yeahs da
comporre, colonne sonore da terminare e videoclip da realizzare. Il lavoro prima di tutto.

Maps – Yeah Yeah Yeahs (FEVER TO TELL)


Alcuni legami, almeno in apparenza, sembrano fatti apposta per durare: carte in regola, ottime
credenziali, presente certo e futuro luminoso. Poi ti accorgi che il tempo trascorso insieme non è
bastato nemmeno per guadagnarsi quei nomignoli fastidiosi che andrebbero banditi. Non vi
chiamate a vicenda in modo sciocco e imbarazzante? Questo potrebbe rivelarsi un segnale
eloquente di come la vostra storia non sia fatta per accompagnarvi fino al momento in cui dovrete
scegliere la pasta migliore per la protesi dentaria.
C’era una sorta di disegno mistico sulle teste dei protagonisti di questa storia, di quelli che si
notano ogni dieci anni sui contorni di uomini e donne che si stagliano a coppia ideale dell’oggi.
Quello stesso disegno che avremmo scorto sulle figure di Tom Hanks e Meg Ryan se solo ci
avessero provato o di Bob Dylan e Joan Baez se le cose avessero funzionato. Ci sono coppie che
fotografano un’epoca, e se da un lato sai di avere qualcuno in cui riconoscerti, dall’altro speri che
l’incantesimo si spezzi in fretta, soprattutto se il modello in questione appare troppo alto.
Lei si chiama Zooey Deschanel, lui Ben Gibbard. Tra i due la star è senza dubbio lei, ma
insieme sono la coppia indie per eccellenza. Insieme rappresentano gli anni Zero, quelli in cui si
può essere delle star anche con occhiali spessi, accettando ruoli in film di nicchia o suonando
nella tua piccola band e venendo selezionati per la colonna sonora del blockbuster sui vampiri più
celebre di tutti i tempi.
Zooey e Ben si fidanzano nel 2008 e un anno più tardi decidono di sposarsi a Seattle. Lei è
l’attrice di culto emergente del momento. Grandi occhi blu, che una frangetta tende sempre a
sfiorare, e una partecipazione a uno di quei film che il pubblico ama riscoprire dopo qualche
tempo dall’uscita, per poi crearvi attorno un hype vertiginoso a colpi di passaparola social. Nella
pellicola, (500) Giorni insieme, Zooey non solo dichiara di potersi innamorare perdutamente solo
di un fan degli Smiths, ma si azzarda anche a reinterpretarne quella Please, Please, Please, Let
Me Get What I Want che già basterebbe a far cadere molti maschietti ai propri piedi.
Ben Gibbard è invece il cantante nerd fortemente influenzato da band come Nirvana, Stone
Roses, Pixies e Teenage Fanclub. Alla fine degli anni Novanta dà vita ai Death Cab For Cutie,
gruppo che si impone per un decennio come alfiere della musica alternativa americana, almeno
fino al 2009, quando il brano Meet Me On the Equinox viene scelto per la colonna sonora del
film The Twilight Saga: New Moon proiettandolo nel mainstream.
Sposandosi, Zooey e Ben vivono il momento di maggiore visibilità. La musica li ha uniti e
continua a farlo, perché nel frattempo Zooey affianca all’attività di attrice quella di cantante nel
duo She & Him in compagnia di M. Ward. È accaduto tutto per caso, come per caso sembrano
capitare tutte le cose che pianifichi per farle apparire naturali. È un piccolo mondo patinato che in
copertina preferisce il casual chic.
Deschanel e Ward si conoscono nel 2006 sul set del film American Sunshine, nel quale Zooey
ha un ruolo da protagonista. Il regista chiede ai due di cantare un brano insieme per i titoli di coda.
Dopo la felice esperienza, Zooey decide di spedire alcuni dei suoi testi nel cassetto a Ward, il
quale la contatta subito per proporle una collaborazione musicale e, squillino le trombe, il duo è
formato. Tre dischi in tre anni e tanta voglia di apparire nei talkshow più popolari d’America per
esclamare: «Non me l’aspettavo proprio!».
Ma a Zooey non si può voler male, un po’ perché sceglie di sposare il ragazzo più brutto della
scuola, un po’ perché canta e strimpella l’ukulele infischiandosene dello scarso appeal dello
strumento e del sudore che in concerto le macchia gli abitucci col colletto. E ancora, un po’ perché
ogni tanto mette su qualche chilo di troppo sulle cosce, se ne infischia e va a interpretare la
ragazza appena lasciata e pasticciona nella sit-com New Girl. E il pubblico la segue, chiedendosi
se si trova davanti una simpatica signorina goffa o invece la più intelligente di tutte, tanto scaltra
da nasconderlo sapientemente.
Che Zooey sappia scegliere o sia ben consigliata in realtà ce n’eravamo già accorti dando
un’occhiata al suo curriculum: un nome uscito da un romanzo di Salinger, un’allegra e solida
famigliola di artisti alle spalle, una laurea all’Università di Northwestern e una carrellata di ruoli
in quei film che piacciono a tutti come Quasi famosi di Cameron Crowe, Guida galattica per
autostoppisti, ispirata alla serie dello scrittore britannico Douglas Adams, e Yes man al fianco di
Jim Carrey.
E se dubitassimo ancora dell’intelligenza di Zooey Deschanel o delle sue capacità di scelta,
allora basterebbe scorrere i nomi dei suoi ex per verificare che l’attrice americana sa davvero il
fatto suo: da una breve relazione con un altro attore e cantante di culto come Jason Schwartzman
fino al celebre figlio di, ovvero un musicista che di nome fa Dhani e di cognome Harrison, il
pargolo di papà George che evidentemente è troppo impegnato a suonare con i suoi compagni di
band Ben Harper e Joseph Arthur per mantenere la relazione con una ragazza impegnativa come
Zooey.
Ma c’è Ben per Zooey. Coppia defilata nella privacy e mai fuori contesto sui red carpet. Alle
rispettive premiere si accompagnano e sostengono a vicenda. Nei loro completi vintage sembrano
appena usciti da un catalogo di modernariato chic, incarnano la moda hipster, quella che pare
casuale ma non lo è affatto. E questa cosa della fidanzata o del fidanzato della porta accanto
esercita ancora un fascino incredibile, pret-a-porter soprattutto.
È bello seguire mano nella mano Ben e Zooey e immaginare che prima o poi tocchi a tutti
conoscere una persona con la quale fare lunghe dissertazioni letterarie prima di addormentarsi,
scambiarsi dischi e impressioni al mattino prima di andare al lavoro e concedersi lunghi pediluvi
mentre nell’altra stanza uno dei due è intento a strimpellare l’ultima canzoncina che ha catturato la
sua attenzione.
Davvero può non durare una relazione del genere? Il primo novembre del 2011, dopo soli due
anni di matrimonio, Zooey Deschanel e Ben Gibbard annunciano la separazione in modo
amichevole e consenziente. Si dice sempre così, no? È la stampa, bellezza! Tuttavia questa volta
deve essere proprio così, perché i piatti che volano in casa Gibbard non riesci a immaginarli,
come non riesci a mettere a fuoco scenate e discussioni a voce alta. Forse appena qualche silenzio
di troppo. Deve essere andata così, tutto si è consumato troppo di corsa. Ma se incarni gli anni
Zero, allo scadere del decennio questo è il minimo che possa capitarti.

I’ll Never Find Another You – Ben Gibbard & Zooey Deschanel (youtube.com)
Quando nel mese di aprile del 2008 vennero ritratti insieme per la prima volta i giornali
pensarono a uno scherzo. Una delle giovani attrici statunitensi più promettenti se ne andava in giro
a New York abbracciata a uno strano tizio che indossava il suo stesso cappotto femminile. Non
solo. Stessi occhialoni a coprire l’intero volto e capelli sciolti sulle spalle per entrambi. Il
misterioso ragazzo allampanato a fianco dell’attrice esibiva anche una folta barba da far invidia al
più vecchio dei saggi. È una pagliacciata. È evidente che si sono camuffati tutti e due per
nascondere una relazione alla stampa. E invece.
L’attrice si chiama Natalie Portman. Ad aprile del 2008 non ha ancora compiuto ventisette anni
eppure ci è già familiare da oltre un decennio. Ce la ricordiamo persino bambina, quando nel
1994 se ne andava in giro per Little Italy in compagnia di una piantina e di un sicario
semianalfabeta interpretato da Jean Reno nel suo primo film, Léon. Il regista Luc Besson,
all’epoca, la preferì all’adolescente Liv Tyler e mai scelta si rivelò più azzeccata a giudicare dal
successivo curriculum della Portman.
Una pioggia di ruoli, commedie romantiche, fantastiche, drammatiche. Un recitazione misurata,
un aplomb calibrato per ogni parte. Natalie Portman sembra sempre soppesare le parole dentro e
fuori dal set, mai una sbavatura, mai una copertina forzata, di quelle che ti ritraggono barcollante
all’uscita di un bar a notte fonda o mentre scendi dall’auto sbadatamente senza slip.
Le altre colleghe sembrano abbonate a tutto questo. Natalie, invece, ci ha abituato a credere
che su quelle spalle ci sia una testolina con tante cose a posto. Potremmo scommettere sulla sua
capacità di mangiare e respirare allo stesso tempo. È dunque inusuale vederla passeggiare
tranquillamente in compagnia di un ragazzo pressoché sconosciuto ma tutt’altro che anonimo,
almeno stando a quel look che gli vale la vittoria nella rubrica Freak of the Week sulle pagine del
tabloid «National Enquirer».
Il giovane freak si chiama Devendra Banhart e quando conosce Natalie Portman è già un
musicista di culto su scala nazionale. La sua musica cavalca l’onda neofolk che da qualche tempo
sta riscoprendo le radici di un’America cresciuta nelle praterie, a contatto con natura e terreni
incolti. Devendra vive a Topanga, dove molti altri artisti prima di lui hanno coltivato il sogno
psichedelico: Jim Morrison, Joni Mitchell, Neil Young. Topanga Canyon è conosciuta per essere
un’enclave bohemienne, una delle poche che a quanto risulta dai nomi sulle buche delle lettere ha
resistito fino a oggi. La presenza di musicisti a Topanga fu così massiccia che nel 1982 venne
fondata la Topanga Simphony Orchestra.
Ma nel 1982 Devendra ha solo un anno e vive ancora in Venezuela con la madre. Un
immaginario che gli resterà dentro, così come la lingua che lo porta a comporre alcuni brani in
spagnolo. Ed è proprio per il videoclip di Carmensita che il musicista convoca Natalie Portman.
Non è chiara la divinità rappresentata dall’attrice sul set, e i testi spesso surreali di Banhart non
aiutano. L’alchimia tra i due invece è evidente, tanto che decidono di uscire allo scoperto
dimenticandosi almeno per una volta di quello che scriveranno i giornali.
E i giornali all’inizio non sembrano scommettere molto sulla liaison. Poi però gli scatti si
moltiplicano e diventa quasi impossibile vederli separati. Li incontriamo al parco mentre si
scambiano effusioni, sulla porta di casa mentre portano a passeggio il cane, in un ristorantino della
Croisette, il viso di lei tra le mani di lui. Li vediamo al caldo e al freddo, mentre arrancano con le
buste della spesa, fanno shopping e sorseggiano cappuccino. Se la salute di una coppia dipendesse
dal fascino che esercitano sull’obiettivo, allora potremmo stare certi di non doverci preoccupare
di niente.
Per la prima volta Natalie decide di vivere una relazione alla luce del sole e lo fa con
nonchalance. Non cerca i fotografi e nemmeno si nasconde; semplicemente, le sono indifferenti.
Ancora una volta ha vinto lei, che non attira l’attenzione con un dito medio e nemmeno si concede
alle riviste in cambio di pubblicità benevola. Natalie Portman non è Lindsay Lohan, non è una
Olsen e non ha intenzione di perdere la testa per un uomo. Quello lo lascia a Winona. A proposito,
che fine ha fatto la Ryder?
Una volta ci sarebbe stata lei al posto di Natalie. Ma gli anni Novanta sono solo un ricordo e
ora alle cerimonie è lei la stella, e le nomination sono tutte sue. Teen Choice, Golden Globe,
Bafta. Natalie fa incetta di premi, non inciampa sul tappeto rosso e non rivela nulla del suo
amorevole quadretto folkloristico.
Dal canto suo, Devendra ci mette i quadri e le canzoni. Scrive There’s Always Something
Happening, un’occasione per duettare con l’amata. Il brano verrà inserito in una compilation di
beneficenza per l’organizzazione statunitense no-profit Finca, un apparato che promuove il
microcredito per aiutare le aziende possedute da donne nei paesi in via di sviluppo, di cui Natalie
è ambasciatrice.
È ancora il 2008. Natalie Portman si è trasferita a Los Angeles per dividere il quotidiano con
il compagno, ma a settembre già si parla di separazione. Impegni di lavoro, vite troppe diverse, la
giovane età. Gli amici parlano, parlano sempre, ci informano della decisione consensuale e di
quanto Natalie e Devendra ci tengano a restare amici. Gli interessati tacciono, pare non abbiano
nessuna voglia di rilasciare comunicati ufficiali. Non c’è poi molto da aggiungere: così come ci
siamo abituati in fretta a vederli insieme, altrettanto celermente ce ne dimenticheremo.
Di Banahart, forse. Della stella di origine israeliana, invece, non sarà facile scordarsi. Subito
dopo la fine della relazione, si comincia a parlare di uno di quei rari ruoli cinematografici che
un’attrice passa un’intera vita a desiderare. Quando arriva la chiamata del regista Darren
Aronofsky, di anni Natalie ne ha ancora ventotto e non le mancano le energie per stare ore e ore
alla sbarra cercando di apprendere i rudimenti di una disciplina nella quale potrebbe servire un
secolo solo per capire come allacciare quelle terribili scarpette da punta.
Natalie Portman non è sola in questo cammino. La accompagna un ballerino francese e
coreografo di fama internazionale. Benjamin Millepied insegna all’attrice a danzare e lei lo
trascina con sé davanti alla macchina da presa per Il cigno nero, il film che le varrà il Premio
Oscar. Alla cerimonia di consegna della statuetta Natalie si presenta con Millepied e un figlio in
arrivo. L’altra attrice nota del film non ha ottenuto alcuna nomination dall’Academy, ma almeno
ora sappiamo che fine ha fatto. Sdilinquirsi per amori passati, Winona, non aiuta.

Carmensita – Devendra Banhart (SMOKEY ROLLS DOWN THUNDER CANYON)


Questa coppia ha a che fare con il sogno o con l’impossibilità di viverlo, perché si fa di tutto per
distruggerlo o perché bisogna sempre prestare molta attenzione a ciò che si desidera. Kate Moss è
una fra le quattro, forse cinque, top model più celebri del pianeta. Qualcosa che va al di là del
corpo, del viso, del portamento e dello stile. Ci è stata imposta più o meno come la riga in mezzo
negli anni Settanta e una canzone degli Wham negli Ottanta: difficile fare finta di nulla quando sei
sopra o dentro la testa di ognuno.
Kate Moss e la sua infinita e permanente magrezza fanno ingresso nelle nostre vite grazie a un
paio di jeans prima e a un profumo poi. Calvin Klein e la campagna promozionale per il lancio
della nuova fragranza Obsession ci aiutano a familiarizzare – meglio: a rimanere ossessionati – da
una giovanissima inglese che non sorride mai. Al contrario, il suo broncio quasi ci disturba e ci
turba il suo corpo emaciato e pallido, con quell’aria di sfida e di compatimento che non abbiamo
visto indossare a Claudia, a Linda o a Naomi.
Ma a Kate si perdona tutto, e lo scopriremo quando eccessi, comportamenti ostentatamente
borderline, tradimenti e dipendenze contribuiranno a creare attorno alla modella un’aura che solo
da certe rockstar all’apice della carriera abbiamo visto azzardare. E a proposito di rockstar, non
poteva mancare nella vita di Kate la più fanatica icona della nuova ondata british.
Il suo nome è Pete Doherty e sappiamo che da ragazzino ha una sola idea in testa: diventare
famoso e fare baldoria. Lo conosciamo poco più che ventenne come frontman dei Libertines.
L’album UP THE BRACKET del 2002, pubblicato dalla storica etichetta Rough Trade e prodotto da
Mick Jones, chitarrista dei Clash, porta Doherty e il proprio coinquilino, Carl Barat, ai vertici
delle classifiche inglesi. Il britpop, dopo i fasti degli anni Novanta, sembra avere trovato i degni
eredi di gruppi come Suede, Pulp e Oasis. Ma c’è qualcosa di differente in questi ragazzi. C’è un
tipo di sballo completamente diverso rispetto a chi li ha preceduti e che passa da subito attraverso
droghe pesanti, crack ed eroina su tutte.
Pete vuole fare le cose in grande, ma le dipendenze e gli arresti non aiutano a salvaguardare la
band. Tra la fine del 2004 e l’inizio del 2005, dopo soli due dischi all’attivo, peraltro apprezzati
da pubblico e critica, i Libertines si sciolgono. Sulla strada degli ex Barat e Doherty paiono
ventilarsi decine di ipotesi. Per il secondo, in particolare, si profila all’orizzonte un incontro. Lei
è la ex fidanzata di Johnny Depp, è la madrina dei figli di Paul Simonon, bassista dei Clash, e
spesso balla e flirta nei video rock del momento. Si tratta di una modella atipica perché la sua vita
non è mai stata di grandissimo esempio e la sua fama la precede: il suo nome è Kate.
Il 15 settembre del 2005 il «Daily Mirror» pubblica in prima pagina alcune fotografie che
ritraggono Kate Moss insieme al nuovo compagno Pete Doherty. I due non vengono colti al parco
mentre passeggiano mano nella mano e nemmeno sulla porta di casa al rientro dopo una nottata
insonne. Sulla prima pagina della rivista britannica, Kate e Pete sono immortalati nell’atto di
consumare cocaina. Nel dettagliato articolo si riportano anche quantità e tempi di assunzione. Le
fotografie sono state vendute alla rivista da James Mullord, ex manager di Doherty, per più di
150mila dollari.
Tira aria di scandalo. Kate è costretta a chiedere pubblicamente scusa in conferenza stampa,
ammettendo le proprie responsabilità. Allontana da sé per un periodo Doherty, ma dopo appena
qualche mese di apparente black-out mediatico è di nuovo madre e modella dell’anno su ogni
copertina del globo. Secondo la rivista «Forbes», lo scandalo frutta a Kate milioni di dollari, i
contratti si moltiplicano e in poco meno di un anno anche Pete può rientrare nella sua vita. Ma la
modella ora è pulita. O così è costretta a farci credere, ben sapendo che un secondo perdono
sarebbe difficile da ottenere.
Un matrimonio. Un matrimonio è esattamente quello che ci vorrebbe per sancire un’unione che
ha bisogno di essere certificata e resa salubre agli occhi di chi non crede alla favola dell’amore
pulito. Modelle e rockstar, si sa, continuano a scegliersi e a lasciarsi con la stessa rapidità. Perché
dovrebbe essere diverso questa volta? Nel 2006 corre voce che Pete e Kate sanciscano il loro
legame in Tailandia con una cerimonia buddista priva di valore legale in Inghilterra; tuttavia, gli
interessati smentiscono la notizia.
Qualche mese più tardi, durante un concerto tenuto l’11 aprile del 2007, Doherty presenta la
modella come propria fidanzata ufficiale. Nell’estate del 2007, nuovi rumors danno i due pronti
per convolare a nozze al festival di Glastonbury. Entrambi habitué della manifestazione, la
cittadina nel Somerset appare come il luogo ideale per la consacrazione di uno dei legami più
rock degli ultimi anni.
Ma anche queste voci vengono presto zittite. Poco dopo la fine della stessa estate, Kate Moss
e Pete Doherty si lasciano. L’ex frontman dei Libertines definisce Kate maniaca e persecutrice, ma
in realtà sarebbe proprio la modella ad avere scaricato il cantante a causa dell’ennesimo
tradimento di quest’ultimo. Pete esce ferito dalla relazione, tanto che i soliti bene informati
parlano persino di un tentativo di suicidio del cantante, fortunatamente scongiurato in tempo. In
ogni caso, i due restano legati. Pete dichiara pubblicamente di voler scrivere un libro sulla sua
storia d’amore con Kate e le dedica una canzone su YouTube: Bohemian Love.
Kate Moss, poco dopo la fine della turbolenta relazione, incontra Jamie Hince, chitarrista dei
Kills. È la rockstar buona, questa volta. Jamie tiene alla musica quanto al buon gusto e pare più
interessato a seguire le sue molteplici declinazioni artistiche piuttosto che a ridursi impresentabile
pure agli occhi di sua madre. Il primo luglio del 2011 Kate Moss e Jamie Hince si sposano presso
una chiesa nel villaggio di Southrop, nell’Inghilterra meridionale. L’evento, seguitissimo, è un
crogiolo di stile, firme e ospiti da far impallidire l’altra Kate del Regno Unito, convolata a nozze
soltanto qualche mese prima. Kate Moss veste un abito vintage di John Galliano, mentre lo sposo
si concede all’azzurro di Yves Saint Laurent. Tra gli invitati Stella McCartney, Vivienne
Westwood, Naomi Campbell, Beth Ditto, Iggy Pop, Snoop Dogg e i Rolling Stones.
Nel frattempo, Pete Doherty si scopre padre. Lei si chiama Lisa Moorish e il figlio è frutto di
un incontro occasionale avvenuto nel backstage di un concerto dei Libertines nel 2003. Non solo,
il piccolo Doherty ha già una sorellastra più grande che di cognome fa Gallagher. Ma il leader
degli Oasis, al contrario di Doherty, non ha mai voluto avere nulla a che fare con questa
inaspettata paternità. E così Molly Gallagher non ha mai conosciuto il fratellastro Lennon, figlio di
Liam e Patsy Kensit. Ma questa è un’altra storia d’amore rock.

Bohemian Love – Pete Doherty (youtube.com)


Ci sono storie che non riservano il lieto fine. Altre talmente travagliate che non le augureresti
nemmeno al tuo peggiore nemico. Altre ancora sono così brevi da venire archiviate come errori,
di gioventù spesso, o qualcosa che ha più a che vedere con la dipendenza che non con i sentimenti.
Questa storia riassume tutto ciò: raccoglie il marcio e lo sbatte in prima pagina. Una relazione di
cui neanche tener conto, tanto è di cattivo esempio.
Eppure ci sono legami che ti restano incollati addosso come solo gli odori di certe cucine
italiane. Coppie che catalizzano l’attenzione e suscitano un interesse morboso. Dei media, della
stampa, della gente comune che non aspetta altro di sapere se questa volta la rottura sarà definitiva
o se all’alba di un nuovo giorno ricomincerà a splendere il sole. Peccato indotto, coinvolgimento
inusuale, può darsi, ma la domanda che ci poniamo sfogliando in modo ossessivo riviste patinate
non è affatto perseguibile: davvero è successo a loro?
Allora, se è successo a loro, noi, nelle nostre piccole vite, possiamo rincuorarci. Non siamo
soli. Anzi, c’è chi ha molto più di noi e ottiene decisamente meno. Chiamiamola compensazione o
ripartizione equa. È un sorriso beffardo quello che spunta a fior di labbra quando scopriamo che
altrove il destino ha riservato sorprese poco entusiasmanti a chi può avere tutto dalla vita. O forse
ancora una volta è frustrazione, perché chi più ha meno gode.
Questa coppia non è mai esistita. O almeno così ci hanno raccontato. Dopo. Hanno tenuto a
informarci che Blake Fielder-Civil era tornato da Amy Winehouse solo per interesse. Nel
momento in cui Amy cominciava a fare soldi a palate, Blake era tornato sui suoi passi e le aveva
fatto una proposta: «Sposami, il resto si aggiusta!». Ad Amy non era parso vero. Amy che non
aspettava altro per ricominciare a vivere. Amy che aveva passato l’ultimo anno a scrivere prima
un intero disco nel ricordo di un amore sfumato e poi a tentare di cantarlo nonostante ogni volta le
lacrime le rigassero il viso. Non un tentennamento. Non un solo battito di ciglia. Amy sapeva
benissimo cosa rispondere. Occhi che si spalancano e poco fiato in gola: «Sì».
Basta ciondolare per i pub di Chalk Farm Road. O forse anche continuare, ma in due sarà
senz’altro più divertente. Quando la tua vita è tutta da costruire e si rimanda al domani o al destino
anche la più piccola decisione, è giusto che tu creda di avere tutto il tempo del mondo a
disposizione. Ma di tempo seduta al bancone di un bar con in mano il bicchiere sempre pieno Amy
ne ha già trascorso fin troppo, quando conosce Blake. Blake più stonato della nuova cantante soul
destinata a sfondare, peccato solo sembri stare sempre altrove: quando parla, quando canta o
rilascia interviste o passeggia Dio solo sa in cerca di cosa per Camden Town.
Amy e Blake si rincontrano nel 2007. Nel mese di aprile il quotidiano «The Sun» pubblica la
notizia del fidanzamento della cantante e il 18 dello stesso anno, a Miami Beach in Florida, Amy e
Blake regolarizzano l’unione. Matrimonio celebrato in solitudine, in quella solitudine che da
giovani pare così romantica, e poi le fotografie, un mare di immagini che li ritraggono assieme,
occhi negli occhi. E via, di nuovo a Camden Town. Impossibile credere che a Londra il sole possa
splendere così, ma è esattamente ciò che si vede in quelle immagini: t-shirt, skinny jeans, milk-
shake e sole alto.
Poi ci hanno detto che no, ci stavamo sbagliando. Quei baci non erano veri. Era Amy a
implorarli ed era Blake ad acconsentire solo in cambio di qualche sterlina. E i graffi? E i lividi?
Quelli erano veri. Entrambi dipendenti da crack e alcol erano capaci di qualunque follia, insieme.
Complicato continuare così, difficile dare un senso anche al più piccolo gesto quotidiano.
Capolinea. Fine della storia. Dovrebbero insegnarlo a tutte le bambine che gli incontri al bar non
funzionano. Non puoi incontrare un ragazzo ubriaco in un locale una sera e farne tuo marito, perché
non solo non durerà, ma per quel poco che durerà non avrai alcun aneddoto romantico sul tuo
primo appuntamento da raccontare agli amici.
Di amici in questa storia ce ne sono ben pochi; quanto al romanticismo, si potrebbe indugiare
su una spilla col nome di Blake puntata tra i capelli posticci di Amy o dello stesso nome tatuato
sul suo petto in prossimità del cuore o di cheeseburger consegnati in carcere all’ora delle visite.
Questo è ciò che resta della relazione: brandelli o poco più, incontri sporadici ai margini di
svariati arresti.
Amy riprende a camminare sola per le vie di Camden. Blake non è più lì a tenerle la mano e
lei inizia a barcollare. Al supermercato, al pub, sui marciapiedi, la next big thing della musica
inglese non ce la fa proprio a reggersi in piedi. La famiglia tira un sospiro di sollievo, però. Sarà
dura – pensano – ma forse possiamo dire addio a quelle stupide battute razziste, alle liti per strada
e a quegli osceni filmati che la ritraggono in atteggiamenti sopra le righe, anche per il genitore più
liberale. Il rehab è sempre dietro l’angolo. Amy lo rifiuta con tutte le sue forze, e soltanto quando
finisce riversa sul pavimento, il ricovero sembra essere anche per lei l’unica soluzione.
Il 6 agosto del 2009 il divorzio viene formalmente ufficializzato. Blake sparisce e ricompare
con un figlio in arrivo. La madre è Gileen Morris, una ragazza conosciuta nella clinica di
disintossicazione dove Blake viene spedito all’uscita dal carcere. Si parla di incontri occasionali
nei bagni della clinica. Nessuna smentita. A rincarare la dose giunge la voce di Georgette, madre
di Blake, disposta ad assumersi le responsabilità del figlio: proprio lei che ha non mai visto di
buon occhio l’ex nuora, ora ha la possibilità di cancellare per sempre quell’unione.
Anche Amy sembra voltare pagina. Con Reg Traviss, un ragazzone con il quale fare subito
progetti matrimoniali. È lui il salvatore, un uomo giovane che non si sognerebbe mai di uscire di
casa senza il suo completo grigio e il gel tra i capelli. Spalle larghe e testa pensante. Reg è regista,
un regista vero che gira film, non come quell’altro che voleva sfondare coi videoclip ma che ha
lasciato perdere quando ha capito che il momento d’oro era passato. Reg sembra quello giusto.
Finalmente un bravo ragazzo, dicono gli amici. Con lui vicino, Amy è diversa.
La relazione prosegue tra alti e bassi per circa due anni. A ottobre del 2010 il «Daily Star»
racconta di un’Amy che in pompa magna arriva sul set dell’amato e gli chiede di sposarla davanti
a tutti, ma il netto rifiuto di lui non giova al rapporto. All’inizio dell’estate del 2011 Reg,
impegnato nelle riprese del suo nuovo film Screwed, è costretto ad allontanarsi spesso da Londra
ed Amy è di nuovo sola a lottare contro le dipendenze e i fantasmi del passato.
Sempre nella stessa estate, Sarah Aspin, la nuova compagna di Blake, denuncia alla stampa
che i due ricevono continuamente chiamate dal numero 30 di Camden Square. Amy sta diventando
una stalker, non fa che ripetere che è Blake l’amore della sua vita e tenta di riconquistare l’ex
marito con centinaia di telefonate spinte e sms provocanti firmati “Tua moglie Amy”. È l’ultimo
contatto tra i due. Il 23 luglio del 2011 Amy Winehouse viene trovata senza vita nella sua stanza da
letto. Reg non c’è, Blake nemmeno, è di nuovo in carcere, deve scontare una pena di trentadue
mesi per furto con scasso e possesso di arma da fuoco. Amy si sente abbandonata, tradita, o ha
semplicemente capito che il suo grande amore è stato un’illusione.

Love Is A Losing Game – Amy Winehouse (BACK TO BLACK)


Immaginate un paesaggio nordico invernale, qualche abete, ma soprattutto un manto nevoso che
sfuma i contorni. Poetico, quieto, suggestivo, ma per quanto tempo? Ora, in mezzo a tutto questo
prendete due tizzoni ardenti, posizionateli al centro del quadro o all’interno di una baita di legno
col tetto spiovente. Sappiate poi che avvicinandovi alla soglia del piccolo rifugio sarete investiti
da una melodia austera eppure calda nonostante la temperatura. Qualcosa di intimo ed elegante che
porterebbe volentieri Nico al braccio di Chet Baker e farebbe spuntare un sorriso di
compiacimento tra gli zigomi di Vashti Bunyan.
Quella casetta esiste davvero, si trova in Finlandia, dove di simili probabilmente se ne vedono
a centinaia. Soltanto in una, però, hanno vissuto un uomo e una donna che appena incontratisi
hanno deciso di lasciare Parigi per qualcosa di più intimo, che li distogliesse dal caos e li
precipitasse in una dimensione onirica, creativa e rilassante al contempo. Hanno fatto i bagagli –
pochi abiti, qualche strumento – e hanno portato al sicuro il loro amore nato da poco, via da un
mondo che aveva cominciato ad annoiarli. Qualche tempo dopo ci hanno restituito istantanee di
quella loro scelta attraverso immagini, racconti e canzoni. Nel 2005, una fetta consistente di
pubblico ha conosciuto la storia e le melodie di Mi and L’au tramite il loro omonimo album di
debutto.
Mira Romantschuk, bellezza diafana di origini finlandesi, è una modella che lavora a Parigi e
saltuariamente strimpella la chitarra in attesa di una buona occasione per cambiare vita. Gliela
offre Laurent Leclère, musicista parigino che sbarca il lunario confezionando colonne sonore. È
subito intesa e riconoscenza, un dialogo alla pari in cui chi sa di avere più esperienza in un campo
la trasmette immediatamente all’altro preservando così un principio di equilibri e interessi
comunicanti. La vita bohemienne li accoglie in un appartamento parigino, fino a quando Mira e
Laurent decidono di prendersi una pausa, una lunga pausa. Fanno le valigie senza avere idea di
quanto tempo ci vorrà per staccare completamente, armati del solo desiderio di isolarsi per
cominciare a lavorare alla loro musica; ciò che hanno assorbito fino a quel momento sarà più che
sufficiente.
Non è un caso se le foto che li ritraggono insieme sembrano uscite da una rivista di moda o da
una di arredamento d’interni rigorosamente vintage. È il gioco preferito dei due, ripescare a piene
mani dal passato e dare l’impressione che tutto sia capitato lì per caso. Ma anche svegliarsi al
mattino, compiere i gesti di ogni giorno e fare in modo che sembri sempre la prima volta è un’arte.
Mi e L’au applicano il medesimo principio al loro rapporto e alla loro musica. Non c’è alcunché
di innovativo nella consapevole scelta di due giovani di appartarsi in solitudine per qualche
tempo. Non c’è nulla di così straordinario nello scoprire tra i propri scaffali dischi e letture
comuni. Capita a tutti di scambiarsi vestiti e accessori. Riuscire a combinare gli ingredienti e
spacciare il piatto che ne risulta come qualcosa che non si è mai assaggiato prima dimostra invece
metodo e abilità.
Nel loro piccolo rifugio Mira e Laurent si amano tanto, cucinano poco e bevono caffè. È
soprattutto di notte che siedono davanti al fuoco e cercano il modo di intrecciare chitarra,
mandolino e voce. Non è innaturale: il timbro vocale di Mi è flebile e non sarà straordinario, ma
appartiene a quei luoghi, sussurra parole come una presenza discreta eppure tangibile. Le canzoni,
che andranno poi a comporre un album di cui andare fieri, riflettono appieno la quotidianità del
momento, un paesaggio bianco che pare sempre uguale a se stesso, ossessionante e puro al
contempo. L’isolamento porta la coppia a spogliarsi di tutto – orpelli, costrizioni, influenze – e
origina una musica nuda, fatta con una strumentazione scarna. A tratti si ha la sensazione di
ascoltare delle confessioni intime e delicate che a nessun altro sarebbe mai saltato in mente di
eternare in un disco col proprio nome sopra.
Quello che nove volte su dieci porta una coppia sull’orlo della crisi e dell’abbruttimento,
risulta invece essenziale per Mira e Laurent. Senza scomodare il ritiro innevato di Shining, dove
fra l’altro l’esubero di metri quadri offriva la facoltà di ignorarsi qualora le cose non fossero
andate nel verso giusto, in un esiguo perimetro tutto ciò che si ha di fronte è la propria solitudine e
quella del partner. Un bosco, qualche ora di luce e un’attività che non contempla gite in paese,
discese in pista e cene con gli amici. Non ci sono testimoni né alleati in un racconto che, se non ci
fosse stato fornito del materiale a riprova dell’effettiva riuscita del piano iniziale, avremmo
archiviato con un’alzata di spalle alla voce neo-hippie.
Ben oltre qualche collana, vestiti alla moda e capelli spettinati, Mi e L’au dimostrano
passione, idee e talento. Alla fine del 2005 lasciano orsi e salmoni per accompagnare in tour il
loro disco e il pubblico è servito con una storia e la sua colonna sonora. Che poi è il vecchio
mestiere di Laurent, quello di scrivere musiche per altri; solo che questa volta la storia è sua.
Questa volta al centro di tutto – o in mezzo al nulla – c’è un discorso amoroso, un confronto
infinito tra un uomo e una donna che si regalano tempo a vicenda per guardare negli occhi il
proprio fantasma e imparare a dialogarci. Non sono in molti a poterselo permettere, ma in tanti
comprendono l’urgenza della scelta. Che grazie a Dio più che alla follia ha portato alla
conoscenza e alla creazione. Certo, parlare agli alberi in eterno renderebbe pazzo chiunque, ma a
un certo punto Mi e L’au tornano in città, a Brooklyn, e fanno il pieno di suggestioni urbane.
Quando poi si stancano di girovagare per il mondo e di raccontare di boschi e favole del nord,
Mi e L’au si stabiliscono a Valencia. Anche se non permettono al sole di colorare i loro volti né
tanto meno all’estate di prendere il sopravvento sui loro inverni, la città contagia e certe leggende
latine irrompono nell’immaginario dei due. È sufficiente dare uno sguardo alla copertina di GOOD
MORNING JOKERS per accorgersi del netto contrasto con la precedente. Al posto di alberi e luce
compaiono teschi e ombre. Dopo quattro anni li ritroviamo dunque ancora insieme, nella vita e nei
dischi, tuttavia ora il legame è solido e pronto ad aprirsi a nuove influenze. L’urgenza di
sperimentare si rivela con moderazione nel loro secondo album, che conserva un certo
romanticismo di fondo.
Alla fine del 2011, a diversi anni da quel primo incontro a Parigi, Mira e Laurent continuano a
vivere, a creare e a esibirsi insieme. Non solo: ci regalano un nuovo disco che oltre a essere
l’ennesima testimonianza del loro consolidato rapporto, ci sbeffeggia col titolo: IF BEAUTY IS A
CRIME. In copertina, questa volta, compaiono proprio loro in persona, per una di quelle immagini
che al solito sembrano uscite dalla campagna di una casa di moda. D’altronde, Mi e L’au non
disprezzano e non fanno mistero delle loro incursioni a supporto di abiti e cosmesi. Ora però
abbandonano chitarre, archi e corni e si concedono a sonorità sintetiche per omaggiare il
compositore francese François de Roubaix. Per carità, nulla di male nell’esibire le proprie
velleità artistiche. Solo che il confine tra raffinatezza e ostentazione è davvero labile. E al
cospetto di chi pretende di rifilarti amore, bellezza e sommi gusti verrebbe voglia di rigare un
disco con la puntina o di graffiare una lavagna con le unghie.

Nude – Mi and L’au (MI AND L’AU)


Quando il 5 aprile del 1994 Kurt Cobain si spara un colpo di fucile, non lascia soltanto una figlia
orfana. Ne lascia migliaia, migliaia di ragazze e ragazzi che non hanno mai messo piede nella sua
casa, nella sua città, nel suo Stato, che non hanno mai intercettato un suo sguardo, se non su
qualche rivista o filmato, eppure versano lacrime, ognuno nella propria parte di mondo,
sentitamente partecipi alla veglia funebre e convinti di essere vicinissimi al defunto. Alcuni
s’illudono di aver compreso le ragioni di quel gesto, altri sono inconsolabili, perché è come se un
pezzo di loro se ne fosse andato. Lo conoscevamo attraverso le sue parole, le sue canzoni, dicono.
E non dubitano che qualcuno possa anche non somigliare alle cose che scrive. I più intelligenti si
preservano e si fanno bastare un libro o un disco. L’incontro con l’autore, per quanto desiderato e
miracoloso, non è mai all’altezza delle aspettative. Meglio restare aggrappati con tenacia all’idea
che si ha di quella persona, e pensare che soltanto noi saremmo davvero in grado di restare svegli
al suo fianco intere notti, sorseggiando tazze di caffè, a centellinare quelle sue parole che tanto
bene descrivono i nostri stati d’animo. In ogni caso, tutto è preferibile alla delusione più cocente,
alla sciagurata eventualità di trovarsi fisicamente davanti uno che non nutre interessi al di fuori di
una bottiglia o di qualsiasi altra cosa sia in grado di provocare assuefazione. Quando Kurt Cobain
azzera la sua esistenza, al suo capezzale giungono una moglie e una figlia. La prima era in tour con
la sua band e aveva perso le tracce del marito al punto da assumere un investigatore privato per
ritrovarlo. La seconda non ha ancora compiuto due anni e del padre a malapena ricorda l’odore e
qualche giocattolo un po’ buffo regalatole. Non è chiaro come le cose possano essere scivolate
così drasticamente. Da una parte c’è una donna che condanna il gesto del marito, ma non smette
per un attimo di ricordare l’affetto e la vita matrimoniale felice che condividevano. Dall’altra c’è
chi è pronto a giurare che tra i due le cose non funzionavano più e si era a un passo dalla
separazione che avrebbe portato già a un divorzio se Cobain non fosse stato così segnato da quello
dei genitori. C’era chi sapeva che Kurt era arrivato persino a nascondersi da Courtney per paura
delle sue azioni sconsiderate.
Prima di quel fatidico 5 aprile – prima delle recriminazioni, delle battaglie legali per i diritti
sulla musica e di quelle per disintossicarsi e imparare a fare i bravi genitori – c’è una relazione
che dura poco più di tre anni tra Kurt e Courtney. Quando il 12 gennaio del 1990 Kurt rivolge per
la prima volta la parola a Courtney in un piccolo locale male illuminato di Portland, ha quasi
ventitré anni, ha voglia di suonare la propria musica, ma non intende comportarsi come la maggior
parte delle rockstar in circolazione alla fine degli Ottanta. Kurt ritiene che ci sia troppo
testosterone in giro. Meglio un rapporto alla pari, scambiandosi ruoli e vestiti, meglio divertirsi
insieme alla propria ragazza piuttosto che doverne soddisfare una mezza dozzina di cui si
dimenticherà il nome il mattino successivo. Quando Kurt incontra Courtney, la sua relazione con
Toby Vail, batterista di una band femminile che sta muovendo i primi passi nella giusta direzione
nella scena musicale del periodo, è ormai giunta al capolinea; tutto ciò che vuole è conoscere
quella bionda manesca che ha piantato grane al primo cenno di saluto. Kurt è da subito molto
affascinato da Courtney: «Pensai che somigliasse a Nancy, la donna di Sid Vicious, la classica
pupa punk, e mi sentii attratto». Si rivedono però soltanto a maggio, nel backstage di un concerto a
Los Angeles, e l’intesa tra i due è confermata da una notte di chiacchiere telefoniche. È a questo
punto che Courtney inizia a inviare piccoli doni a quel ragazzo che le occupa i pensieri, ma anche
lo stereo a giudicare dalla rapida ascesa dei Nirvana nel periodo. Kurt però si fa desiderare.
All’inizio sembra confuso, spaventato, aspetta che sia Courtney a ricercarlo nel mese di ottobre,
poi i piani di entrambi sembrano finalmente convergere. La ragazza ha appena lasciato il suo
ragazzo, Billy Corgan, il leader degli Smashing Pumpkins. Kurt Cobain sembra accettare una
donna al suo fianco per condividere ogni aspetto della sua vita, anche i più tragici, come un’altra
relazione alla quale Kurt non vuole rinunciare, quella con l’eroina.
I nostri protagonisti a questo punto hanno letteralmente perso la testa l’uno per l’altra. Alla
fine del 1991 Kurt Cobain e Courtney Love appaiono inseparabili. Ma oltre all’affetto, al
reciproco bisogno di tranquillità, alla comune aspirazione di crearsi una famiglia meno
disfunzionale rispetto a quella d’origine, a legarli ci sono l’eroina e l’uso eccessivo di qualsiasi
tranquillante contribuisca a sedare l’ansia dell’una e l’ulcera dell’altro. Il 24 febbraio del 1992 la
coppia si sposa sulla spiaggia di Waikiki alle Hawaii. Courtney è già incinta ed entrambi
sembrano molto felici e innamorati. Finalmente una famiglia propria, un percorso da costruire
insieme per rimuovere il passato. Qualche foto sgranata li ritrae insieme quel giorno e tradisce
emozione. I fiori, il tramonto, il vestito di raso e pizzo appartenuto a una diva del cinema e il
pigiama verde, comodo, divertente da indossare al proprio matrimonio. Si notano anche grandi
assenze. Krist Novoselic, bassista dei Nirvana e amico di lunga data di Cobain, non si presenta
alla cerimonia. Kim Gordon, bassista dei Sonic Youth e punto di riferimento nella vita di Cobain,
è contraria all’unione di due persone dominate da una dipendenza così disturbante. È l’inizio degli
anni Novanta, la flanella la fa ancora da padrona, insieme alla stravaganza di uscire di casa come
se ci si fosse vestiti al buio, ma Kurt e Courtney fanno di più. Inaugurano una sorta di filone che li
vede ritratti in atteggiamenti intimi e familiari molto prima dei reality per celebrità. È questo il
solo modo che conoscono per comunicare la propria semplicità e freschezza. Senza filtri e senza
protezioni. Ma gli anni Settanta sono finiti da un pezzo, John & Yoko non esistono più e nessuno
meglio di loro può sapere quanto costi la sovraesposizione di un rapporto. Marito e moglie lo
imparano presto, a proprie spese. Nel 1992 «Vanity Fair» invia la giornalista Lynn Hirschberg a
casa dei due per ritrarre Courtney in attesa. La cronista rivela poi tra le pagine della rivista che la
donna non ha mai smesso di fare uso di eroina e che la posa e il colore delle sue dita rivelano
ancora un attaccamento morboso alla nicotina. Iniziano qui le beghe che vedono Kurt e Courtney
tacciati di non essere in grado di crescere una figlia e che porterà la coppia a dover lottare
ripetutamente per non perderne la custodia.
Frances Bean Cobain nasce il 18 agosto e pare fortunatamente non avere ereditato la
dipendenza della madre. C’è una nuova famiglia da costruire e un passato di abusi da dimenticare.
Courtney rivela che da piccola, il padre, per un breve periodo manager dei Grateful Dead, era
solito farle provare qualche droga per acquietare i suoi capricci. Da parte sua, Cobain si ritrovava
spesso cacciato di casa dal nuovo compagno della madre, che a quanto pare non riusciva a
instaurare un buon rapporto con quel ragazzino introverso e inappetente. È come se l’istinto di
sopravvivenza riuscisse a persuadere tutti quanti della buona condotta della coppia. Da questo
momento in poi, i genitori tentano in ogni modo di ottenere la piena custodia della figlia e
impiegheranno oltre sette mesi per riuscirci. Mesi in cui Kurt e Courtney tentano di ripulirsi in
ogni modo, ma con scarsi risultati. «Tenere in braccio mia figlia è la migliore droga al mondo».
Eppure lo stesso Cobain colleziona più overdose che ricoveri in centri di disintossicazione e i
momenti in cui i coniugi sfiorano normalità e armonia domestica sono sempre più rari. Ma
continuano ad amarsi, se questo significa mettere la propria vita nella mani dell’altro. Sono tutti e
due certi che quella figlia rappresenti una benedizione, ma la dipendenza di entrambi è ormai un
hobby conclamato. Courtney però sa di avere una responsabilità maggiore, riportare letteralmente
in vita il compagno ogni volta che oltrepassa il limite.
La prima volta che si incontrano, Courtney Love scambia il suo futuro compagno per Dave
Pirner. Ma il leader dei Soul Asylum è in realtà felicemente accompagnato a una giovane attrice di
nome Winona Ryder. Un’altra storia d’amore rock. La nostra coppia, invece, alla fine del 1992
lascia la California per trasferirsi definitivamente a Seattle. Ancora una volta i coniugi Cobain
tentano di vivere una vita apparentemente normale, ma sono tanti gli elementi che dimostrano il
contrario. Acquistano un’enorme villa tra i boschi, ma finiscono quasi sempre per soggiornare in
alberghi, più facilmente raggiungibili da spacciatori, guardie mediche con ricette facili o di pronto
intervento. Il 1993 inizia per Kurt con un’assuefazione ancora più grave, per quanto possibile, è
come se tutta la sua vita sia filtrata dall’eroina. I suoi diari, pubblicati diversi anni dopo la sua
scomparsa, sono pieni di lamenti sulla sua incapacità di restare pulito. Si sente giudicato da tutte
le persone che lo circondano e in effetti il controllo è la sola forma che familiari e amici sembrano
adottare per tenerlo in vita. Ci sono diverse immagini che ritraggono la famiglia Cobain in questo
periodo, si tratta di filmati per lo più amatoriali. Rivediamo così il primo Natale in famiglia nel
1992 a cui si sommano diversi istanti differenti trascorsi insieme a Frances, fino al marzo del
1994. C’è anche una ripresa di un bagnetto a tre dove è possibile notare siringhe laddove si è
soliti riporre dentifricio e spazzolino, spettri disseminati ovunque che accompagnano i momenti
più teneri di un nucleo familiare che non sarà mai come tutti gli altri. E poi c’è una carriera
musicale da portare avanti, dischi in uscita per Nirvana e Hole, che a questo punto della storia più
che a sogni assomigliano a coperte pesanti come argilla nelle notti di Kurt e Courtney.
Questa è una relazione a tempo determinato; per quanto i nostri amanti provino con tutte le
forze a far funzionare le cose. L’amore non basta, i demoni sono molto più forti per Kurt Cobain e
Courtney Love. Dalla fine del 1993, i due non hanno più molte occasioni per stare insieme. Le
rispettive carriere reclamano entrambi. Prima è il turno di Kurt, a cui tocca supportare l’uscita del
terzo disco dei Nirvana, IN UTERO. Un lavoro intimo, in cui la maggior parte delle liriche è
ispirata alla vita privata, un album che nei suoni sembra distaccarsi molto dai precedenti e che da
subito non raccoglie il favore della critica; recensioni poco lusinghiere non contribuiscono a
rasserenare lo spirito del musicista americano. Eppure si tratta di una raccolta molto sentita.
Heart Shaped Box, il primo singolo estratto, altro non è che un omaggio alla moglie e a quella
scatola a forma di cuore che Courtney dona a Kurt durante i primi tempi del corteggiamento. Ma
torniamo agli impegni di entrambi, ora, perché alla promozione di IN UTERO si affianca
l’imminente uscita del nuovo disco della band di Courtney e per trascorrere qualche giornata
insieme i coniugi Cobain devono rincorrersi tra diversi continenti. È quello che accade all’inizio
del 1994, quando i due si ritrovano dopo quasi un mese di distanza a Roma. Le tensioni per la
lontananza sfociano da giorni in frequenti litigi telefonici, Kurt ha sempre la spiacevole sensazione
di sentirsi abbandonato quando non è con Courtney, ma al tempo stesso, quando sono insieme,
permane quel controllo da cui il musicista vorrebbe liberarsi, insieme al senso di inadeguatezza e
ai dolori allo stomaco. Kurt e Courtney si rivedono a Roma, giusto il tempo per permettere alla
donna di salvare il compagno dopo l’ennesima overdose, a tutti gli effetti un tentativo di suicidio.
Ma il pericolo pare scampato anche questa volta, e marito e moglie ritornano insieme nella
loro abitazione di Seattle, cercando di cancellare i rispettivi impegni professionali senza
distruggere irrimediabilmente le proprie carriere. E il teatrino ricomincia, da capo. Non
preoccupatevi, stiamo bene, sembrano dirci sulla porta, mentre ci accompagnano all’esterno di
case sempre troppo grandi o troppo affollate. Ce la caviamo benissimo da soli, ci rassicurano
mentre vengono ritratti ancora in tipici spaccati familiari. Solo che tutt’attorno c’è sempre
qualcosa che stona. Troppe facce e voci sconosciute, e poi le armi, troppe persino per una coppia
di americani che ha imparato a sparare e che vuole solo difendersi. La polizia negli ultimi tempi
accorre sempre più spesso alla villa dei due. Non sono normali quei buchi alle pareti e non va
bene che non si riesca ad avere sufficiente lucidità per ricordarsi il numero della carta di credito o
quello del telefono della propria compagna, o che per compiere un’azione qualsiasi è della droga
che si ha bisogno, mentre la famiglia anziché alleviarti il dolore lo inasprisce. Kurt non ce la fa
più. Accetta l’ennesimo ricovero in un centro di disintossicazione, per poi fuggirne qualche giorno
dopo. Ritorna a casa senza dire nulla a nessuno i primi giorni di aprile del 1994. Courtney non
c’è, ne ha avuto abbastanza delle ultime discussioni e per il momento pensa che forse suo marito
può cavarsela da solo, anche se sa che c’è e ci sarà sempre ogni volta che Kurt avrà bisogno di
lei. Ma le distanze a volte non sono semplici da coprire, le promesse non facili da mantenere e
Kurt Cobain non ce la fa a restare lucido per tenere fede alle sue promesse. Non ce la fa a offrire
una famiglia migliore, o quanto meno in vita, a sua figlia Frances e quel 5 aprile del 1994 preme il
grilletto e lascia migliaia di orfani in giro per il mondo. Lo fa di proposito: fugge dalla
responsabilità, da un equilibrio precario che non riesce più a mantenere. La storia d’amore rock,
senza lieto fine questa volta, ci consegna il nome di una coppia che è una sigla, come un’entità
indivisibile, nel bene e nel male: Kurt & Courtney, proprio come Sid & Nancy.

All Apologies – Nirvana (IN UTERO)


Questo libro non sarebbe mai nato senza l’ascolto prolungato e ossessivo di centinaia di dischi.
Tutta musica che, nel corso degli anni, ha prodotto riflessioni, turbamenti e repentini cambi di
direzione. Gli eventi della giornata difficilmente hanno influenzato i miei gusti musicali, ma ogni
singola canzone contenuta in questi dieci album è riuscita a farmi compiere delle scelte e ha il
potere di farlo tuttora.
John Lennon – THE COLLECTION
La copertina di questo disco è stata affissa per diversi anni sopra la testiera del mio letto, nel
posto solitamente occupato dal crocefisso o da qualche madonna adorante che ha il compito di
vegliare sul sonno dei bambini. Quel compito spettava a John, ritratto da Annie Leibovitz durante
l’ultima sessione fotografica della sua vita. Ero rapita da quell’immagine, così come ogni sera non
riuscivo ad addormentarmi prima di aver ascoltato dalla voce di mio padre il racconto della morte
di Lennon. Era la mia storia della buonanotte. Poi mi addormentavo e sognavo di John in volo
sulla mia testa mentre fasci di luce filtravano dal suo corpo attraverso fori di proiettile. E io
ridevo, prendevo per mano Sean e insieme guadagnavamo l’ingresso di una grande casa bianca,
come nel video di Imagine.

The Beatles – ABBEY ROAD/LET IT BE


Non ho mai saputo scegliere. Non sono mai riuscita a capire quale fosse il mio disco preferito tra
i due. Da bambina me ne stavo seduta a terra davanti allo stereo indecisa su quale dei due Lp
mettere al primo posto quando, un bel dì, mi avrebbero chiesto di stilare la classifica dei miei
album preferiti. Perché prima o poi me l’avrebbero chiesto. Escluso SGT. PEPPER, che mi faceva
venire il mal di testa con quei suoni così strani e tutti quei personaggi raffigurati in copertina,
molti dei quali a me sconosciuti, la scelta cadeva sul finale. Strisce pedonali e un ultimo giro negli
studi di Abbey Road oppure le orchestrazioni di Phil Spector, da togliere il fiato in un brano come
The Long And Winding Road? Il vinile del primo un bel giorno è comparso tatuato appena sotto il
mio gomito sinistro. In quel momento, ho scelto.

The Rolling Stones – EXILE ON MAIN ST


Un’estate nel sud della Francia come quella degli Stones. Ecco cosa desiderare da una vacanza. Il
ritratto di un’epoca con le donne più belle del mondo, i musicisti più chiacchierati, una
scenografia da cartolina e la musica a condire il tutto. C’era dell’altro, ovvio. C’erano intricate
trame sentimentali a rendere più stuzzicante la partita e c’era la droga, che se non avesse
accompagnato per quasi tutta la vita uno come Keith Richards, adesso non avremmo un’aneddotica
stupefacente sulla quale intrattenerci con amabile sollazzo. Le fotografie di quella stagione
irripetibile, scattate da Robert Frank, sono finite sul retro di EXILE, ma sono gli scatti di Anita
Pallenberg, all’epoca compagna di Richards, a incorniciare le canzoni del disco. Sole alto, una
buone dose di alcol nel sangue e un pezzo come Happy nelle orecchie: c’è altro che si può
pretendere da qualche giorno di relax?
Syd Barrett – THE MADCAP LAUGHS
Ennesimo disco la cui copertina ha iniziato a ossessionarmi ben prima dell’ascolto. Anche in
questo caso, lo scatto del celebre fotografo Mick Rock coglie appieno le sensazioni che i brani
dell’Lp suscitano. Estraniamento, solitudine, follia. Syd ha smarrito il lume della ragione dopo
l’allontanamento dai Pink Floyd e ci si domanda quanto fosse presente a se stesso durante la
registrazione del disco e la seduta fotografica all’interno del suo appartamento, arredato da
sgabello, vaso di fiori e donna nuda. Le strade di Syd e della band sono divise, ma il suo spettro
aleggia su buona parte della mia infanzia e mi chiama a sé in dischi come ANIMALS e THE WALL,
dai quali non riesco a staccarmi nemmeno per andare in bagno.

Patti Smith – HORSES


Conquistata l’età della ragione, capisco che la sola donna alla quale vorrei assomigliare è Patti
Smith. Una donna con baffetti e strabismo che se ne frega di lavarsi con regolarità. Sul palco, tra
una strofa e l’altra, sputa come un lama in testa alle prime file del pubblico. Qualche anno dopo,
su quelle stesse teste, qualcun altro orinerà, ci si sdraierà sopra e getterà tampax usati. Patti non
vuole attirare l’attenzione, l’ha già tutta per sé grazie alle sue canzoni. Resta seduta sul trono
durante il crollo del regno, soffia via le macerie e se ne va a cercarne un altro senza battere ciglio.
Nirvana – IN UTERO
La tristezza adolescenziale è servita su un piatto d’argento e mi viene incontro sulle note di questo
album. Il peggio deve ancora arrivare, ma è già nell’aria. Aria viziata. Il preside a scuola vieta di
aprire le finestre dell’edificio dopo che alcuni ragazzi hanno ripetutamente tentato di buttarsi di
sotto. Qualcosa non funziona. Durante la lezione di figura disegnata possiamo scegliere a turno la
musica da ascoltare. Io opto sempre per IN UTERO, almeno fino al giorno in cui trovo il Cd fatto a
pezzi sotto la cattedra. La lezione non l’ho mai imparata. Dopo il 1994, il soggetto di ogni mio
dipinto è sempre la famiglia Cobain. Ho la media dell’otto e mi diplomo al Liceo Artistico un
anno prima dei miei compagni.

Nick Cave and The Bad Seeds – MURDER BALLADS


Nick Cave è il messia in mocassini, è il diavolo in doppiopetto. Alla fine degli anni Novanta
inizia a perdere i capelli, ma non quel viziaccio di sedurre e di puntarti il dito contro. Se da
ragazzo era un depravato, da uomo continua a esserlo, ma travestito da predicatore. Concepisce
figli nello stesso momento da donne diverse e la sua carica erotica si sprigiona da ogni selvaggio
accordo di piano. Quando nel 1996 esce MURDER BALLADS lo vediamo flirtare con Kylie
Minogue e poi ucciderla nel video di Where The Wild Roses Grow, per perdersi infine in un giro
di valzer con il suo alter ego femminile PJ Harvey. Un incontro di buone e cattive intenzioni da
farti desiderare un vestito identico al loro e sperare di incontrare qualcuno che assomigli al tuo
ritratto nello specchio, quando con la matita degli occhi ti disegni baffi e basette.
Frank Zappa – UNCLE MEAT
Un padre come Frank l’avrei voluto, altroché. Mi avrebbe affibbiato un nome strano, qualcosa
come Justice Juice, e mi avrebbe fatto sedere sulle sue ginocchia insieme a Moon Unit, Dweezil,
Diva e Amhet. Uno come Zappa mi sarebbe piaciuto averlo come mentore, amante e non credo
come marito. Un giorno, il mio primo ragazzo, musicista e fan di Zappa, decide di dedicarmi una
canzone, la nostra canzone. È un brano di Frank cantato in italiano che non conosco, si intitola
Tengo Na Minchia Tanta. Me ne innamoro all’istante, decido di imparare a memoria le parole e il
nostro gioco preferito diventa riarrangiare il brano e stravolgerne il testo, ma non il senso. E il
senso è chiaro: è una canzone d’amore. Zappa doveva avere in mente due come noi quando la
scrisse.

Cat Power – YOU ARE FREE


Voglio vedere Cat Power dal vivo e dopo l’ascolto di qualche album, nel 2003, mi attivo affinché
si esibisca nella mia città. Il locale è stracolmo, molte persone restano senza biglietto e lo show
ha inizio dopo una lunga attesa. Non credo ai miei occhi e alle mie orecchie. Chan Marshall ha una
relazione stretta solo con la bottiglia, caccia dal palco i musicisti che l’accompagnano, intona
melodie che puntualmente interrompe, se la prende con le luci, chiede di restare al buio, si rotola
per terra e non sembra ricordare una sola parola delle canzoni. Poi la richiesta gridata in faccia al
pubblico: I need a man! Non sono ancora a conoscenza delle vicende sentimentali di Chan, ma se
è in questo modo che le condizionano l’esistenza, qualcosa non quadra. I rimbrotti e i gestacci di
Courtney Love non hanno mai toccato punte così alte di dolore e alienazione.

Amy Winehouse – BACK TO BLACK


Se uno ha l’indiscussa capacità di scegliersi sempre i modelli sbagliati, o c’è qualcosa che non va
nel naturale processo di autoconservazione o magari ama il rischio. Dal 2007 al 2011 Amy
Winehouse è fra le popstar più rincorse dai paparazzi. Si tratta di un lavoretto facile facile: ci si
apposta sotto alla sua finestra, la si pedina per strada fino al supermercato e qualche isolato più in
là, dove ad attenderla ci sono tipi poco raccomandabili. Uno di questi diventa suo marito e nelle
loro uscite pubbliche c’è chi, come la sottoscritta, non riesce a fare a meno di restare impigliata.
Lo stesso accade con le tracce di BACK TO BLACK, che inizia a saltare nella bocca dello stereo per
inesauribili ascolti. I vicini insorgono e il nome di Amy entra nell’odg della riunione di
condominio.

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