Sei sulla pagina 1di 6

IL VODU DEL DAHOMEY

(appunti da “Il Dio Oggetto” di Marc Augé)


Il Vodu è la religione più seguita dalla popolazione dell’Africa Nord Occidentale. Considerato
originario dell’attuale Benin (popolo di lingua Fon), “culla del vodù”, in particolare la città di
Abomey, il vodu è storicamente radicato in Tongo (Ewe) e Nigeria (Yoruba). Erroneamente
collegato alla magia nera, si tratta in realtà di una fede politeistica, fondata sul culto degli
antenati con particolari aspetti di carattere feticistico e animistico . Vodu, la cui origine
Fon sta a significare “realizzare” (DU) “la pace, il benessere spirituale” (VO), è un termine
polisemico e assume diversi significati in funzione del contesto e delle modalità di utilizzo. Può
indicare:
• le singole entità invisibili
• gli oggetti prodotti dall’uomo o dalla natura
• gli adepti delle singole divinità (spesso vittime di possessione)
• la religione stessa
• l’insieme di entità che coesistono in uno stesso ambiente
• un bambino nato sotto il particolare segno di un certo vodu
Con le deportazioni di esseri umani ridotti alla condizione schiavile nelle Americhe, il Vodu inizia a
diffondersi nelle isole caraibiche e successivamente nell’America meridionale. Colonizzatori e
missionari vedono le religioni africane intrise di superstizione, degradandole spesso al livello di
semplice magia: l’ipotesi di primitività si fonda sull’assenza di una vera e propria teologia e, in
particolare, di un Dio unico. Col tempo il vodu si incrocia con la religione Cattolica generando
nuovi credi sincretici come il Candomblè in Brasile o la Santeria a Cuba. Nonostante le
repressioni cattoliche, che intendono distruggere e sostituire il Vodu, ritenuto “religione del
demonio”, il culto riesce ad attirare un numero sempre maggiore di adepti, proprio grazie all’alone
di proibito e misterioso che la stessa sua condanna finisce con il generare.
Il pantheon del Vodu è estremamente variegato e affascinante (si parla di un minimo di 600
tra i soli yoruba), risultato di una complessa commistione di regni e popolazioni, in cui i
conquistatori, sempre fedeli alle proprie divinità ancestrali, le imponevano ai vinti, riunendo però
al contempo attorno al proprio trono anche i culti locali, a loro volta aperti e pronti a scambiarsi
tra loro. Il Dio supremo che regna sovrano, ma che non viene mai raffigurato né mostrato, è un
Dio non creato, creatore delle altre divinità, che come queste vive in coppia. Si tratta della
coppia Mawu/Lisa, la prima raffigurata come una donna che porta la falce lunare (individuata
dagli osservatori cristiani come la trasfigurazione vodu di Dio), il secondo come un camaleonte che
porta in bocca un sole, segni cosmogonici che ne rinviano alla funzione fondatrice e demiurgica. La
dualità (sposo/sposa, padre/figlia, madre/figlia) è uno dei tratti fondamentali anche delle
divinità minori e di quelle loro satellite, ciascuna al contempo ambivalente e ambigua:
considerate nel loro insieme, esse delineano un modello ordinato, capace di guidare gli uomini
nel caos apparente della loro vita, in cui le qualità e gli elementi naturali si oppongono e
corrispondono, mentre ciascuna figura particolare, con la propria ambiguità e ricchezza,
smentisce invece l’apparente semplicità del quadro d’insieme e le sue opposizioni elementari.
Abbiamo così ad esempio Hevieso, dio del tuono, del fulmine e del cielo, vodu principe del
pantheon celeste, descritto come maschio o ermafrodito, la cui opposizione si delinea
internamente con la coppia marina di Agbwe e Avlekete, a loro volta in opposizione, la prima
ordine del mare calmo, la seconda disordine di spuma e onde. Al pantheon del cielo si oppone a
sua volta globalmente quello della terra, con la figura di Sakpata, dio del terremoto e del suo
boato (detto “tuono del buco”), insieme della vita e della morte, bisessuale (rappresentato da due
statue appaiate), che fornisce all’uomo il miele, il mais e tutte le granaglie che nascono dalla terra,
ma che per punire gli uomini fa comparire pari granaglie sulla loro pelle, provocando il vaiolo,
malattia “eruttiva” causata anche dal dio del tuono Hevieso, e curata dalle sacerdotesse di
Avlekete. Un ruolo particolare è attribuito al pitone arcobaleno, il vodu Da, insieme maschile e
femminile (rappresentato dall’arcobaleno, in cui la parte rossa è maschile e la blu femminile), dio
della fecondità, appartenente al pantheon celeste a servizio di Hevieso, di cui dirige i lampi verso
la terra. Divinità ambivalente per eccellenza, Da mette in relazione cielo e terra, è principio di
movimento e stabilità, si avvolge intorno alla terra e ne impedisce la dislocazione e, immerso nelle
acque sotterranee, con i suoi movimenti anima le acque prima immobili, dando vita ai fiumi. Di
grande importanza è inoltre il dio Legba, figura protettiva e personale, che si identifica con il
proprio protetto. Legba è al contempo una formula, una moltitudine di altari individuali, un
oggetto identificabile e un dio del pantheon al pari di Hevieso e Sakpata.
Numerose di queste divinità,
come Legba o Fa, sembrano essere vissute un tempo sulla terra, e forse per questo hanno
mantenuto una forte intimità con il mondo degli uomini: l’elemento celeste e quello terrestre si
rincorrono l’uno nell’altro e questa reciproca nostalgia spinge i vodu a tornare alla dimensione
umana e gli uomini a elevarsi verso la conoscenza e l’esercizio delle cose divine. Molti vodu, se
adeguatamente consultati, possono predire il futuro, se onorati proteggere luoghi e individui,
possono anche “salire alla testa” e possedere i loro adepti. Le danze, tra le espressioni più teatrali
del vodu, vedono spesso protagonisti sacerdoti officianti e adepti posseduti dal proprio vodu, con
indosso maschere, loro simulacri, attraverso cui ricevono forza ultraterrena a beneficio della
comunità, dopo essere caduti in trance. L’incontro con il vodù, che prende appunto possesso del
corpo del suo adepto, è violento e improvviso, causando una perdita di coscienza totale. Vista dai
primi studi come una forma di crisi nervosa, oggi la possessione è soprattutto interpretata come
una forma di rappresentazione, basata su meccanismi mimetici (durante l’iniziazione del
gorovodu, ad esempio, si acquisiscono pratiche corporee che consentono di perdere controllo e
possesso di sé). Esistono due tipi di possessione, manifesta (in cui il vodù prende possesso del
corpo dell’adepto) e latente (in cui il rapporto con il vodù è scandito nella quotidianità, lungo tutta
la vita dell’individuo). Il tema della possessione è legato all’autonomia degli organi interni (“salire
alla testa”), dotati di vita propria e oggetto di offerte e unzioni: in assenza della dicotomia
occidentale tra psiche/contenuto e soma/contenitore, l’individuo deve mantenere in armonia le
diverse parti di cui è composto, ma questo equilibrio suggerisce anche una possibile dissoluzione
dell’identità). Al contempo gli dei stessi hanno bisogno degli uomini, delle loro offerte e dei loro
sacrifici. Una volta “istallato” un culto, il vodu diventa sociale, prevedendo l’obbligo per i
discendenti di continuarne l’osservazione (numerose malattie sono attribuite al mancato
rispetto degli obblighi rituali), al punto che la forza del vodu deriva esclusivamente dal suo
installatore e utilizzatore. La relazione tra uomo e divinità è dunque mediata socialmente dal
complesso apparato divinatorio e dalla regola ereditaria di tipo agnatico. Chi installa il vodu
miscela diversi ingredienti, scelti in base alla divinità e alle sue funzioni, che si ritiene posseggano
un’energia vitale (erbe, radici, polveri, teschi), consentendo ciascuno di concentrare forza
nell’oggetto: la forza del feticcio risiede nella materia che lo costituisce , in una sorta di
unione tra visibile e invisibile. Una componente importante perché questa venga alimentata è il
sangue. Nel sacrificio l’animale viene sgozzato perché il suo sangue possa scorrere e passare nelle
divinità ancora carico di forza vitale: la vita non viene persa, entra nel vodu mentre abbandona la
vittima. Materialmente il vodu è un concentrato di mondo, vi sono presenti sostanze che
appartengono ai tre regni, animale, vegetale e terrestre. Gli elementi principali vengono
sotterrati e in quel punto viene eretta una seconda effige esterna dalla figura
antropomorfa, spesso tozza, dai grandi occhi e smisurati attributi sessuali, a causa delle offerte che
riceve, è soggetta a frequenti mutazioni: il vodù è un dispositivo in espansione. E’ necessario un
canale di comunicazione tra l’esterno e l’interno del vodu, perché questo possa essere riattivato
durante le cerimonie. Il vodu come un corpo umano ha i suoi umori, i suoi momenti particolari e i
suoi capricci, deve mangiare, bere e può persino morire; viene rimpinzato di sostanze animali,
vegetali, minerali in base a precise prescrizioni e interdizioni. Basta offrire a un dio ciò che gli è
interdetto per ottenere un risultato in-verso a quello che la sua vocazione permette di aspettarsi
(le sacerdotesse di Avlekete in caso di vaiolo offrono a Sakpata alimenti a lui interdetti per
ottenere la sua partenza: il dio è così il male e il suo rimedio insieme).
Ad esempio l’istallazione del dio Legba è legata a due particolari oggetti divini, il
Fa e lo Kpoli. Nella foresta sacra all’iniziato viene rivelato il proprio segno (du), insieme destino e
identità della persona (una sorta di segno zodiacale), attraverso l’interpretazione divinatoria
dell’immagine tracciata dal lancio in terra delle noci sacre, poi raccolte in un sacchetto, il Fa
appunto. A questo punto viene preparato un secondo oggetto, raccogliendo un po’ della terra su
cui è stato trac-ciato il du che, con altri elementi a questo associati e diverse sostanze -sabbie,
perle, escrementi- che danno potenza al feticcio stesso, viene infine rinchiusa e cucita in un altro
sacchetto, lo kpoli. Questi due oggetti, conservati nella casa dell’iniziato, sono legati alla
personalità dell’iniziato e vengono distrutti solo alla sua morte. Il dio Fa è il messaggero di Mawu
che prevede il destino e consente, già a tre mesi dalla nascita, di individuare lo JOTO del neonato,
ovvero una delle tre componenti dell’anima umana, e in particolare quella legata agli antenati (la
relazione con l’alterità); Kpoli è l’elemento fedele e complementare di Fa (detto vodu-si), suo
femminile e sposa, ed è invece connesso al SE, parte dell’anima visibile solo a persone con
particolari energie, che indica il destino e dopo la morte sopravvive all’uomo e resta sulla terra, in
casa dell’individuo, a contatto con la famiglia (identità individuale), mentre l’ultima componente,
lo YE, rappresenta il principio vitale, il respiro che finisce con la morte per raggiungere gli antenati
nell’aldilà (l’essere). L’anima dell’uomo, proprio come i vodu è costituita dall’assemblaggio di più
elementi: Fa rivela e indica un primo determinismo cui la vita ci pone di fronte, Kpoli è invece
l’estrema conoscenza che ciascuno può esprimere di sé stesso e del proprio destino, entrambi
mediati da un principio animico imperscrutabile, l’esistere, che ci è possibile appena percepire in
relazione ai primi due (vedi gli elementi fondanti ogni dispositivo simbolico nell’ultimo paragrafo).
Non appena terminato il terzo livello di iniziazione del Fa -
quello che determina l’accesso definitivo all’età adulta, dopo infanzia e adolescenza- ormai in
possesso del proprio segno e destino, l’individuo deve subito passare a costruire il proprio Legba
del portale e della camera. Legba segnala appunto uno spazio sociale e ha diverse forme in base
alla propria funzione, il Legba del portale, portatore di Fa, protegge la casa dalle disgrazie e dalle
energie negative, quello della camera, prioritario e nutrito sempre per primo, protegge invece
dagli influssi familiari, quello del Fa protegge l’intera famiglia nel sonno, ci sono poi un numero
svariato di altri Legba, come il Legba del mercato, dei cacciatori, etc. Ogni elemento del dispositivo
Legba ha significato in rapporto agli altri ed è in posizione di possibile sostituto. Il vodu del Legba
del portale, ad esempio, ha una prima versione in terra semplice, che viene solo ricoperto da una
bacinella, alla porta di casa; tre anni dopo l’iniziazione a Fa, questa viene distrutta e sostituita dal
così detto Legba Do Ko: una piccola statuetta di argilla impastata (ko), con sulla testa delle
piume, una spilla, un ferro troncoconico (ase godokpono), simbolo della ricerca delle foglie
medicamentose nella foresta sacra di Fa, un coltello e una collana al collo. Questa statuetta viene
riposta con una particolare mistura, ottenuta dall’unione di terra prelevata da un termitaio, il cui
interno deve essere necessariamente bianco (simbolo di purezza) e non rosso (simbolo di
aggressività), con una offerta di pepe di Guinea, olio di palma, farina di mais, fagioli, mais cotto e
acqua, in una giara (ze), ricoperta da una seconda giara più grande, forata orizzontalmente da due
buchi. Impastata con dell’argilla portata dall’iniziato una seconda effige esterna, che ritrae un
uomo seduto, con due falli, uno di legno e uno di ferro (quest’ultimo rimedio all’insufficienza del
primo, la cui giovinezza è destinata a finire), l’indovino introduce nella giara, contenente l’offerta e
il primo feticcio, diciotto noci di palma, a costituire il Fa del Legba, e le sostanze necessarie a
comporre il suo Kpoli, per poi sotterrare tutto in una buca all’esterno dell’abitazione. Fa e Kpoli del
Legba sono indissociabili da quelli custoditi nella camera del Favi (iniziato a Fa) suo detentore; in
caso di allontanamento dalla casa, il Favi dissotterra la giara ai piedi del Legba, portando solo
questa via con sé e abbandonandone l’effige esterna. Una piccola tettoia costruita con quattro pali
protegge il tutto dalle intemperie. I due falli che distinguono l’effige Do Ko dalla prima non sono
simboli specificamente sessuali, area quest’ultima controllata dal dio Da, ma espressione,
attraverso il desiderio, della volontà individuale e dell’aggressività, esibizione violenta e senza
vergogna. Il pene/Legba può essere messo in condizione di aggredire senza una propria iniziativa,
basta offrirgli sostanze a lui interdette, come alcool, olio di palmisti, cane o polvere da fucile,
dicendo il nome della persona contro cui lo si vuole “infiammare”: nella cultura del vodu
ciascuno costruisce un’effige della propria collera e cerca costantemente di
placarla. Legba stesso è la collera di Fa, figura positiva, capace di solo bene. Gli dei-oggetto sono
manipolabili come l’energia elettrica o atomica, le loro reazioni non sono sempre prevedibili e
domabili. Il fedele vive in una condizione di instabilità e incertezza, spinto a negoziare un equilibrio
tra visibile e invisibile, il vodu può irrompere in qualsiasi momento nella vita profana dell’adepto.
Legba-Fa-Kpoli si presenta come una sorta di identità multipla, la cui ultima realtà si con-fonde con
il pugno di sabbia disperso al momento della morte. Nel vodu la
dimensione relazionale è fondamentale, la vita tutta sembra essere interessata dall’interazione di
spiriti e principi animici diversi. Così proprio per avvicinarlo al corpo del dio, unico e molteplice, il
corpo del sovrano e della sovranità stessa si fa plurale. Il corpo del re, come quello di chiunque
altri, è animato da due principi, il wave (forza, ombra e doppio, l’influsso esterno del corpo) e
l’ekala (l’identità individuale, posseduta solo dagli uomini), a cui viene attribuito il kalada, ovvero
il nome distintivo della personalità. All’ekala è necessario fare doni e sacrifici, rispettandone gli
interdetti. Il re deve dedicare uno schiavo al proprio ekala, facendone in parte un altro sé stesso:
gli assegna il suo nome kalada e gli dona una talie, una collana che ne diventa l’abitacolo. Questo
schiavo sempre vicino al re, ne porta il seggio reale, ha il compito di osservare al suo posto gli
obblighi verso l’ekala reale e, in caso di morte, è tenuto a seguirlo. Al contempo, essendo quella
del Dahomay una società matrilineare, è una sorella o cugina uterina del re, la balahinma, ad
assicurare la discendenza al trono, scegliendo liberamente i propri partner sessuali: la sovranità si
articola dunque nel sovrano stesso con il suo doppio-schiavo e la sua moglie-sorella. Lo stesso
corpo del re, alla morte, per elevarsi definitivamente alla dimensione divina, viene trasformato in
un oggetto di lusso, lavato, unto di burro di carité, dipinto a strisce bianche e ricoperto d’oro, per
poi essere esposto per una quindicina di giorni. Il cadavere riposa sul corpo di una o più mogli
destinate a seguirlo nella tomba, mentre una donna fa da sgabello a coloro che vanno a vederlo,
fino alla morte, e i carnefici del re massacrano un gran numero di schiavi detti “vittime del
dolore”, che lo seguiranno per servirlo nell’oltretomba. Il re e la sua forza vitale si traferiscono nel
seggio del lignaggio, il bia, che -come in tutte le famiglie- viene trasmesso per via matrilineare.
Quando il suo legno comincia a dar segni di deterioramento, il seggio viene bruciato e le sue ceneri
con precise offerte rituali impastate con il sangue di una pecora appositamente sacrificata. Vi sono
dunque passaggi continui, dal corpo degli uomini al corpo degli dei, dal corpo all’oggetto,
dall’oggetto allo schiavo, dallo schiavo al re, dall’antenato al re: ancora una volta, l’attività rituale
cerca di pensare in termini di continuità la cosa e l’essere, gli uomini e gli dei, i vivi e i morti.
La progressiva scoperta dell’alterità, nel bambino, è prima di tutto scoperta
di un’altra vita, grazie alla relazione con la madre, che nella forma di oggetto parziale si lascia
qualificare come buona (in quanto oggetto produttore che il bambino crede di piegare alla propria
fantasia). Ciò che crea problemi, l’alterità che oppone resistenza, è invece la materia bruta,
l’impensabile che il vodu cerca di “animare”, attraverso la costruzione di feticci vagamente
antropomorfi, perché possano in qualche modo risultargli comprensibile. Se l’organico è la vita, il
vero mistero della vita - e quindi il soprannaturale - sarà di fatto l’inanimato ,
l’inflessibile, l’inesorabile, il non vivente, l’omogeneità minerale. Si può immaginare che la mole
del monte Kenya richiami l’immagine di un Dio e non l’inverso e, infatti, i vodu, oltre a oggetti
fabbricati dall’uomo, possono essere oggetti naturali. Il feticcio è dunque un simbolo, non un
semplice segno, proprio perché non si limita ad avere un ruolo solo rappresentativo, ma si spinge a
stabilire concretamente una relazione, è dotato di un potere relazionale e di valore operativo.
La relazione ha bisogno della materia per rappresentarsi e attualizzarsi, così come la materia ha
bisogno della relazione per diventare oggetto di pensiero. La condizione del pensiero stesso è che
la natura sia socializzata e la società naturalizzata. La provocazione della materia si risolve così
nell’evidenza dell’altro. Laddove tutto richiede un’interpretazione poiché tutto è segno, gli dei-
oggetto del vodu, insiemi di corpo/vita e materia/impensabile, attraverso la continua tensione
tra queste due misteriose essenze, funzionano come operatori intellettuali, mediatori che
consentono di passare da un sistema simbolico all’altro , nella speculazione intellettuale
come nella pratica sociale (uno sciamano che decifra sul corpo i segni di una tensione di lignaggio
dovuta a un conflitto economico mette in rapporto elementi che appartengono a sistemi simbolici
diversi, come parentela, economia, natura e giustizia). Io cosa sono? Chi sono? Che cos’è l’altro?
Queste tre domande, d’essere, identità e relazione, alle quali rispondono tutte le iniziazioni, sono
alla base di qualunque dispositivo simbolico: il problema dell’identità sostituisce quello
dell’essere perché più governabile, al quale la presenza degli altri consente di offrire in qualche
modo risposta. Vivere al plurale o morire soli.
La stregoneria nel vodu è soprattutto prerogativa femminile,
tramandata di generazione in generazione e di donna in donna. Essa si nutre di sangue e carne
umana. Considerate dei contenitori, al cui interno possono abitare futuri uomini, donne e antiche
divinità, si ritiene che le donne siano vicine alla stregoneria e alla possessione per la loro “innata
propensione verso l’irrazionale” e maggiore affinità per le cose della natura. Il sangue mestruale
è considerato impuro e sporco, durante il ciclo alle donne è vietato sia avvicinarsi agli altari che
alla divinità; a seguito del periodo mestruale è necessario ne venga purificato il corpo, le vesti e le
stoviglie.

Potrebbero piacerti anche