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16/02/22, 16:08 Un’etica della produzione - Altro Novecento | Fondazione Micheletti

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NUMERO 02

Un’etica della produzione


DI GIORGIO NEBBIA · 1 MARZO 2000 ·  26 MINUTI DI LETTURA

uando si guardano le colline devastate dagli incendi, la congestione urbana, la

Q scomparsa della fauna, i fiumi contaminati da agenti tossici, le montagne che


franano, l’intossicazione del corpo umano ad opera degli antiparassitari, del
piombo, eccetera, viene davvero da chiedersi perché la tecnica sia stata e sia
usata non al servizio degli esseri umani, ma in maniera così selvaggia e anzi contro gli interessi
stessi umani.

La  presa di coscienza dei guasti ambientali nei paesi industriali ha portato ad un riesame del
destino dell’uomo tecnologico e consumatore che sfrutta in maniera sconsiderata la natura e che
rischia di essere a sua volta vittima di questa degradazione. È vero che anche i paesi
tecnicamente arretrati hanno provocato, per ignoranza, alterazioni della natura e ne hanno sfruttato
le risorse con opera lenta, ma spesso ugualmente disastrosa. Nelle società avanzate, però, tale
usura è stata ed è molto più rapida; il “progresso” tecnico, nel trasformare le risorse naturali – aria,
acqua, foreste, suolo, minerali, animali, vegetali — nel “bene supremo”, in merci e servizi, si lascia
alle spalle una natura impoverita, talvolta irrimediabilmente, e corrompe l’aria, l’acqua e gli altri
beni senza i quali è impossibile il benessere fisico, psichico e morale degli esseri umani e perfino
la loro sopravvivenza.

C’è seriamente da interrogarci sulla produzione e sull’uso dei beni materiali, se veramente gli
oggetti e le merci che stanno alla base della nostra crescita economica sono compatibili con le
leggi della natura, se esistono altri modi per procurarsi cibo, energia, abitazioni.

La critica alla “società dei consumi” non è nuova: è stata  formulata, solo per fare alcuni nomi, da
Thornstein Veblen (1857-1929), da Bertrand Russell (1872-1970), da Lewis Mumford (1895-
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1990), nel corso del Novecento, per non citare le opere giovanili di Karl Marx (1818-1883), come i
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“Manoscritti del 1844”. Il dubbio che qualcosa non andasse nella frenesia produttivistica, nella
corsa al benessere materiale, è stato più volte sollevato da studiosi, filosofi e uomini di cultura, ma
il “successo” tecnico e merceologico hanno fatto tacere ogni volta la voce della coscienza e della
ragione.

Inoltre, fino a quando lo sfruttamento delle risorse naturali, la produzione di merci e gli inquinamenti
sono stati modesti, la natura ha sopportato l’immissione dei prodotti del metabolismo delle città e
delle industrie “digerendoli” nei suoi grandi cicli biologici e geochimici. Pur davanti allo squallore
delle grandi città industriali e alla sporcizia dei fiumi e delle spiagge, non si è mai pensato, fino a
pochi decenni fa, che la natura potesse ribellarsi e che potesse affacciarsi il pericolo di una
ecocatastrofe.

L’aggravarsi dell’usura delle risorse naturali è stato una conseguenza dell’aumento


della  popolazione, dell’aumento della richiesta di beni e della crescente “perfezione” della
tecnica; ci se ne è resi conto, in particolare, con la costruzione e l’uso della bomba atomica,
la  prima invenzione che ha mostrato in maniera inequivocabile di poter arrecare danni, attraverso
l’immissione di prodotti radioattivi artificiali, a tutti gli esseri viventi su tutta la Terra, oggi e in futuro.

Le successive scoperte di prodotti sintetici come i detergenti, gli antiparassitari, le


materie plastiche, salutate all’inizio con entusiasmo perché hanno permesso di risolvere
numerosi problemi della vita quotidiana con grande successo economico per i fabbricanti, hanno
rivelato, dopo pochi anni, pericoli  nascosti soprattutto perché tali prodotti, per la loro
composizione chimica, sono estranei alla natura, restano stabili e inalterati e non vengono
decomposti e degradati dai normali processi di disintossicazione del mondo naturale, e spesso si
sono rivelati tossici per tutti gli esseri viventi.

Molte altre invenzioni considerate un progresso tecnico e economico hanno provocato la


degradazione e l’inquinamento dell’ambiente, dalla cui integrità dipende la  sopravvivenza degli
esseri umani, al punto da far temere che presto possano mancare aria e acqua pulite, terreno
fertile, città in cui sia possibile muoversi e abitare in maniera decente, che risulti compromessa la
stessa possibilità di continuare a produrre e a consumare, a vivere nel futuro. In altre parole, come
si dice oggi, che sia compromessa la “sostenibilita’” del pianeta, dello sviluppo, della società
umana, della stessa persona umana.

La lezione dell’ecologia

L’ecologia, intesa originariamente (il termine è stato “inventato” dal biologo tedesco Ernst Haeckel
nel 1866) come studio delle relazioni fra gli organismi viventi e l’ambiente in cui essi vivono, a
poco a poco si è rivelata un grande strumento per un più generale studio dei rapporti fra gli esseri
umani e la loro casa (oikos, appunto), l’intero pianeta Terra.
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Abbiamo così preso coscienza di alcune cose pur ovvie, ma alle quali non si era data sufficiente
importanza. Noi possiamo trarre le risorse naturali necessarie per gli oggetti della nostra vita
quotidiana  soltanto dalla Terra, nostra unica casa nello spazio; da nessun altro pianeta o
corpo celeste, raggiungibile con mezzi tecnici in un numero ragionevole di settimane o mesi o anni
di viaggio spaziale, possiamo ricavare energia, spazio abitabile, aria, minerali, spazio coltivabile,
acqua, alimenti.

Le risorse naturali sono disponibili in quantità grandi, ma non illimitate e in certe zone della Terra,
specialmente nei paesi densamente abitati e altamente  industrializzati, lo sfruttamento di alcune
di tali risorse sta già portando a situazioni di crisi. Si pensi – solo per fare pochi esempi – al
graduale abbassamento della falda idrica in molte zone, come conseguenza di una eccessiva
sottrazione di acqua per consumi urbani e industriali che spesso costituiscono dei veri e propri
sprechi; si pensi al deterioramento dell’ambiente agricolo e all’erosione dei suoli in seguito ad un
forzato aumento della produttività, si pensi alla congestione del traffico nelle città.

Inoltre i “beni” materiali fabbricati, con la tecnica, per trasformazione delle risorse naturali,
non scompaiono; noi, non “consumiamo” le merci che usiamo, ma queste, dopo l’uso, in un
periodo più o meno breve, si trasformano in rifiuti, la cui massa è molte volte superiore a quella
dei beni materiali utilizzati. Tali rifiuti devono essere smaltiti “da qualche parte”, cioè, per forza,
negli stessi serbatoi delle risorse naturali – nei fiumi, nel mare, nel suolo, nell’aria – dai quali
traiamo ciò che ci occorre per vivere e per produrre.

Essere di più sulla Terra, produrre di più e più intensamente, significa, quindi, avere in futuro meno
risorse disponibili, e peggiorare continuamente, attraverso la miscelazione con i rifiuti, la qualità di
quelle restanti, tanto che la nostra merita davvero il nome di “società dei rifiuti”, più che di “società
dei consumi”.

La biosfera ha delle possibilità di autoriparazione nei confronti della sottrazione di una crescente
parte delle sue risorse, e di disintossicazione nei confronti degli inquinamenti, ma anche tali
possibilità sono limitate.

“Spaceship Earth”

La Terra è – per usare una bella immagine dell’economista inglese Barbara Ward (1914-1981) -
come una capsula spaziale che porta con se una limitata riserva di aria, acqua, cibo per i
suoi astronauti – noi terrestri – che nella stessa capsula devono per forza depositare i propri rifiuti:
con la differenza che la Terra non ha nessun posto in cui andare o tornare per rifornirsi di altre
risorse o scaricare i rifiuti.

La grande lezione dell’ecologia è che esiste una  stretta interrelazione fra tutte le risorse naturali e
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che una azione in un punto del pianeta ha effetti sull’equilibrio dell’intera biosfera. Essa ci invita
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perciò a prendere coscienza di un nuovo senso di solidarietà fra tutti i componenti della
biosfera, siano essi viventi, come gli esseri umani e gli altri esseri animali e vegetali, siano non
viventi, come l’acqua  degli oceani e delle terre emerse, l’atmosfera, il suolo, i minerali.

La nostra salvezza, la sopravvivenza degli esseri umani sul pianeta, richiedono che essi lavorino
questa Terra, ma ricordino che ne sono i “custodi” – una immagine che si trova nel libro della
genesi (Genesi 2:15), come anche nelle parole di Marx (nel terzo libro de “Il capitale”) o in quelle di
Saint-Exupery, divenute poi bandiera dei movimenti ambientalisti (la Terra ci è stata data in
prestito dai nostri nipoti) – e che i beni della Terra sono dati per il dignitoso sostentamento di tutti
gli esseri umani e devono essere usati al fine di realizzare, per la presente e le future generazioni,
delle condizioni adatte allo sviluppo integrale e non solo materiale dell’uomo e tanto meno di
alcuni gruppi, una minoranza, di esseri umani a spese dell’altra maggioranza dei terrestri.

Se è vero che alcune situazioni di sfruttamento della natura e di inquinamento della biosfera
possono essere sanate impiegando, diversamente, altra tecnica, adottando opportuni depuratori
oppure con azioni di rimboschimento e di  ristrutturazione delle città e del mondo rurale, per
conservare un mondo naturale a dimensioni degli esseri umani, vivibile, occorre una
revisione  radicale di molti dei modelli di comportamento finora adottati, occorre una nuova cultura
e una nuova etica.

Difesa e conservazione della natura  significano rifiutare l’egoismo e la furberia, avvicinarsi


diversamente ai  grandi problemi della casa, della città, della produzione, riformare la nostra
valutazione di ciò che è “economico”.

Vengono alla mente le parole scritte da T.S. Eliot (1888-1965) nel 1939 nel libro: “L’idea di una
società cristiana”: “L’organizzazione della  società sulle basi del profitto individuale e della
distruzione collettiva dei beni conduce sia al deturpamento dell’umanità, attraverso un
industrialismo  indisciplinato, sia all’esaurimento delle risorse naturali. Buona parte
del nostro progresso materiale sarà forse pagata a caro prezzo dalle generazioni future”. Così è
stato per la seconda metà del ventesimo secolo e ancora di più tale rischio esiste per gli abitanti
del ventunesimo secolo.

Lo sfruttamento della natura, gli inquinamenti, le offese all’ambiente vanno rifiutati perché
rappresentano forme di violenza verso altri umani, verso il prossimo, quello che è vicino a noi, che
conosciamo, che avveleniamo con i gas dello scappamento dell’automobile, ma anche quello che
è lontano, in  qualche altro punto del pianeta, che non sa più dove trovare il cibo a causa
dell’avvelenamento dei pesci con i rifiuti, dei raccolti contaminati con i pesticidi, e addirittura verso
il “prossimo  del futuro”, che non conosceremo mai, ma di cui, con certe nostre azioni compiute
oggi, possiamo influenzare negativamente le condizioni di vita: si pensi, solo per fare un esempio,
alle modificazioni climatiche secolari provocate dal nostro attuale uso di combustibili e prodotti
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che alterano la composizione chimica dell’atmosfera; all’eredità di scorie e materiali radioattivi


artificiali che lasciamo alle generazioni future.

Così, indipendentemente dal reato nei confronti delle leggi umane, si arreca danno al prossimo
quando lasciamo l’automobile parcheggiata in seconda fila, quando usiamo i pesticidi,
quando usiamo in eccesso energia, dal momento che l’uso dei combustibili fossili provoca un
inquinamento e anche modificazioni climatiche che fanno peggiorare le condizioni di vita degli
abitanti dell’intero pianeta.

Si usa violenza verso i nostri contemporanei e le future generazioni quando viene prodotta
elettricità commerciale – o quando sono predisposte armi di distruzione di massa – utilizzando le
reazioni nucleari che liberano sostanze radioattive che entrano in tutti gli organismi della Terra, con
conseguenze difficilmente prevedibili, in quanto la radioattività liberata oggi resterà inalterata per
millenni nei depositi, quella assorbita dagli organismi animali continuerà a far sentire i suoi effetti
per decenni.

Così sono forme di violenza la distruzione degli animali allo stato naturale con lo pseudo-sport
della caccia o per procacciare pelli; la speculazione edilizia che  porta alla costruzione di città
inumane; lo sfruttamento del suolo; il  rumore (la collera dei clackson e degli scappamenti
aperti);  la distruzione delle foreste; l’avvelenare i passanti con i gas di scarico degli autoveicoli; lo
scarico da parte delle fabbriche di rifiuti e di agenti inquinanti nell’aria, nei fiumi e nel mare; il
trascurare norme di sicurezza e condizioni di lavoro che proteggano la vita e la salute dei
lavoratori; e molte altre azioni.

Non ci si può nascondere che, accettando questa visione etica, l’ecologia finisce per essere una
scienza sovversiva, nel suo interrogarsi su: quale tecnica? quali merci? quale economia? per che
cosa?

Il fatto è che tutte le azioni, ecologicamente riprovevoli, prima elencate, vengono generalmente


compiute per ragioni “economiche”, ubbidendo all’attuale filosofia che raccomanda l’espansione
del reddito, della produzione e dei consumi – che ci viene fatto credere siano i motori della
fabbrica della felicità e del progresso.

Ed è proprio qui che l’ecologia, imponendo una revisione del concetto di progresso, si fa
sovversiva. Se è vero, infatti, che gli esseri umani, a qualsiasi popolo e a qualsiasi civiltà
appartengano, hanno una naturale tendenza verso un miglioramento delle loro condizioni di vita,
verso una vita  più lunga  per  se e per i propri figli, verso l’allontanamento delle malattie e del
dolore, è altrettanto vero che in gran parte dei popoli e delle culture oggi il concetto di progresso è
associato alla crescente disponibilità di beni materiali – merci, macchine, energia, servizi – e di
ricchezza monetaria e che questo obiettivo può realizzarsi soltanto sfruttando sempre più le
 della natura e provocando
risorse   e continui inquinamenti.
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Ormai in tutti i paesi – in quelli orientali dove esistevano filosofie che proponevano diversi rapporti
fra gli uomini e gli altri esseri animati e inanimati, nei paesi capitalistici come in quelli che fino a
ieri avevano una economia  socialista, come negli ultimi paesi a economia pianificata – il termine
di paragone, il criterio di valutazione e confronto, è il reddito monetario individuale medio e un
paese è considerato tanto più “progredito” quanto più alto è tale reddito.

Senza tenere conto che l’aumento della ricchezza e dei beni materiali può aversi
soltanto attraverso un crescente sfruttamento e deterioramento delle risorse dell’ambiente, dei
beni collettivi non monetizzabili, della basi naturali della vita.

Consumi dei ricchi, consumi dei poveri

Questa critica si riferisce a consumi e modi di vivere di una piccola parte dell’umanità, quella
degli abitanti dei paesi ricchi del Nord del mondo; ma i tre quarti dell’umanità non si sono neanche
avvicinati all’ombra della società dei consumi.

Nei paesi tecnicamente avanzati, nel Nord del mondo, abitati da 1.500 milioni di persone, i
bisogni e i servizi  primari sono, in media, soddisfatti, e l’aumento del reddito e della  produzione
portano  a soddisfare bisogni secondari e artificiosi sollecitati dalla raffinate tecniche della
pubblicità e da condizionamenti palesi e occulti, e a veri sprechi.

I consumi artificiosi dei paesi sviluppati si traducono, a livello globale, in una rapida
diminuzione delle risorse naturali di buona qualità dalle quali dipendono il soddisfacimento dei
bisogni primari e lo stesso sviluppo dei paesi poveri, del Sud del mondo, con i loro 4.500 milioni
di persone, e, alla lunga, la stessa sopravvivenza di tutti gli esseri umani.

In certe zone del Nord del mondo si sta addirittura osservando che gli effetti negativi
dell’abuso  e  dello spreco delle risorse dell’ambiente ricadono sopra coloro che da tale abuso e
spreco hanno tratto e traggono vantaggio: è il caso dell’impoverimento delle riserve di acqua
dolce; del deterioramento dei raccolti in seguito alla forzatura delle colture e all’uso eccessivo dei
pesticidi e dei concimi; dell’inquinamento del mare; della congestione urbana, eccetera.

D’altra parte gli abitanti dei paesi del Sud del mondo spesso mancano di una adeguata
disponibilità dei beni necessari a soddisfare i bisogni primari, perfino quelli alimentari, anche
perché sono costretti a coltivare prodotti destinati all’esportazione nei paesi ricchi, sottraendo
terra alle coltivazioni che assicurerebbero cibo per loro stessi.

In un tempo in cui i progressi della tecnica e delle attività economiche potrebbero permettere
un’attenuazione delle disparità e delle ingiustizie sociali, troppo spesso essi si tramutano in causa
del loro
 aggravamentoe in alcuni  luoghiperfino del regresso  delle condizioni
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umane  dei deboli e dei poveri. Mentre folle immense mancano dello stretto necessario, alcuni,
anche nei paesi meno sviluppati, vivono in una offensiva opulenza o dissipano i beni, per cui il
lusso si accompagna alla miseria.

E’ venuto il tempo di proporre una nuova definizione di progresso che ribadisca il diritto di tutti gli
esseri umani di avere un livello adeguato di beni per soddisfare i bisogni primari indispensabili,
quali alimenti, abitazioni, assistenza  sanitaria, istruzione, lavoro, dignità, vita in un ambiente
decoroso.

E qui si entra in un altro territorio che induce a pensieri nuovi: tutti quelli che consideriamo
“bisogni  primari” possono essere soddisfatti con merci e servizi molto differenti. Al “bisogno
primario” istruzione ci si può avvicinare con una lavagna dentro una capanna, ma
nessun  ragazzo  nei paesi “civili” si avvicina all’istruzione se non è attrezzato con cartelle e
quaderni “firmati” e con libri di carta patinata.

La necessità di distinguere fra bisogni primari e bisogni secondari artificiosi si fa tanto più urgente
in quanto all’attuale folle idea di “progresso” si ispirano anche i ceti poveri dei paesi ricchi, e i
paesi poveri.

Per restare al caso dei poveri dei paesi industriali  avanzati, non assistiamo forse continuamente
all’impiego del salario per ostentare consumi che scimmiottano quelli dei “modelli” offerti dai
grandi mezzi di comunicazione ? L’indebitamento collettivo per ubbidire  ad una moda di consumi
ispirata dai fabbricanti fa sì che l’analfabetismo conviva con i più moderni elettrodomestici, che il
padre, la madre, i bambini vengano indegnamente strumentalizzati per stupidi consumi,
che  una  offensiva ostentazione consumistica faccia indebitare le famiglie povere che devono
fare, “per la gente”, sfoggio di superfluità sacrificando ben più importanti valori, come l’istruzione e
la sicurezza dell’avvenire e della salute dei figli, e tutto questo sprecando e sporcando l’acqua e
l’aria e il verde e il mondo circostante.

Su scala globale, se i paesi oggi poveri adottassero dei livelli di consumi come quelli americani o
europei odierni, che sembrano rappresentare il vertice della felicità, la richiesta e lo sfruttamento
delle riserve di risorse naturali in  tutto il pianeta avrebbero conseguenze disastrose in pochi anni.

Poiché non è possibile sottrarre senza limiti risorse da un serbatoio di capacità finita, come è la
Terra, il  possedere maggiori quantità di beni materiali, merci e macchine porta a
depauperare  e  a sporcare le risorse naturali e a togliere agli  altri, al prossimo della nostra e
delle future  generazioni,  acqua pulita, aria limpida, il verde, le condizioni indispensabili per lo
sviluppo fisico, psichico  e  morale, cioè per il vero progresso umano, addirittura per la stessa vita.

Dovrebbe essere compito dei governi orientare la produzione e i consumi delle merci verso il
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soddisfacimento di bisogni primari e non è detto che ciò richieda una società  autoritaria. E’
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necessaria invece una società morale.

E’ indispensabile che i parlamenti e i governi pianifichino i grandi  processi  civili ed economici —


scuola  e  traffico, abitazioni e produzione, servizi sanitari e igienici, eccetera – non sotto la
pressione degli interessi  finanziari  di una ristretta minoranza, ma alla luce di valori anche etici, fra
cui l’etica della scarsità dei beni della natura.

La bestemmia dell’austerità

Non c’è dubbio che l’idea della continenza come guida ad una  nuova  saggezza ecologica è non
solo impopolare –  oggi addirittura una bestemmia – ma anche piena di contraddizioni. Il potere
economico ironizza sulle proposte di continenza, di austerità avanzate dai malinconici  frustrati,
come ci chiamano, che, criticando l’attuale struttura dei consumi, vogliono tornare al tempo delle
caverne. E’ quello stesso potere economico che oggi si presenta tanto amico dell’ecologia e degli
ecologi sperando di cavalcare la nuova tigre per poter continuare  a inquinare e a
sfruttare la  Terra  senza eccessivi disturbi ai propri bilanci aziendali.

E’ innegabile che, una volta assaporato il frutto dell’albero della tecnica, non si può tornare indietro
e che le  proposte di continenza merceologica nascondono, sotto il loro fascino, profonde
contraddizioni. E’ credibile che si possa smettere di produrre energia,  macchine, strumenti di
lavoro, con la popolazione mondiale che aumenta di ottanta milioni di persone all’anno,
con  tremendi problemi di sottoalimentazione, di sottosviluppo? E, d’altra parte, possiamo
continuare a correre, con incoscienza, verso il diboscamento e l’erosione del suolo e le
modificazioni, di origine antropica, della composizione dell’atmosfera e delle acque?

Possiamo decidere, nel nome della salvaguardia degli equilibri naturali, di non usare più
pesticidi  col  rischio di lasciar morire milioni di persone per mancanza di cibo o per malattie ? E,
d’altra parte, possiamo accettare l’idea che, continuando ad usare gli attuali pesticidi, si
avvelenino, nel  corso di alcuni decenni, tutti gli esseri viventi della Terra?

Possiamo negare acqua, energia e fertilizzanti ai due terzi sottoalimentati della popolazione
terrestre perché le opere di regolazione del corso dei fiumi turbano l’equilibrio ecologico di
migliaia di kilometri quadrati della superficie terrestre o perché le centrali nucleari producono dei
residui radioattivi il cui smaltimento senza pericolo diventerà sempre  più difficile ? E, d’altra parte,
possiamo accettare che le valli si trasformino in deserti e che i residui radioattivi contaminino, in
trenta o cento anni, tutta la  biosfera?

Come possiamo distinguere fra la produzione di merci inutili, ispirata soltanto al profitto privato e
imposta con le raffinate  tecniche  della persuasione a consumatori ormai sazi nelle loro  necessità
elementari di cibo e di lavoro, e la produzione di beni in grado di assicurare un minimo di  vita
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umana a quelli che oggi vivono in condizioni sub-umane ? Come possiamo capire quando
economia e tecnica sono al  servizio dell’uomo o quando sono al servizio dei bilanci aziendali ?

Etica dei bisogni e bisogni di lavoro

Una delle contraddizioni della proposta di continenza merceologica riguarda il fatto che la
produzione e i consumi di merci sono indispensabili per assicurare occupazione a milioni di
persone in Italia, a miliardi di lavoratori nel mondo. Che cosa faremo della mano d’opera che
probabilmente resterà disoccupata se porremo dei limiti al processo di produzione di merci che,
anche se inutili, pure contribuiscono a tenere in  piedi un meccanismo da cui dipende la vita di
tante famiglie?  Con che coraggio raccomanderemo la continenza ai poveri, a coloro che non
hanno ancora neanche assaporato il frutto dell’albero della tecnica?

Non si può infatti dimenticare che lo sfruttamento della natura  ha luogo anche per assicurare un
minimo di beni a coloro che non hanno niente, tiene in moto un meccanismo che, oltre  a procurare
profitto ai padroni, assicura lavoro agli operai ed è liberatorio per molti bisogni elementari. I
detersivi sintetici e le lavatrici, responsabili di  inquinamenti, hanno liberato la donna dalla
schiavitù del  bucato e dal lavatoio; l’automobile che porta l’operaio più rapidamente sul posto di
lavoro inquinando l’atmosfera, permette però allo stesso operaio di stare più tempo con la sua
famiglia; e così via.

Peraltro la continenza nei consumi, intesa  come atto di rispetto per il prossimo del futuro, al quale
si vuole lasciare un’adeguata eredità di risorse naturali ancora di decente qualità, potrebbe
tradursi in un atto di  ingiustizia verso i poveri di oggi; se infatti questa continenza venisse
adottata  oggi da tutti gli abitanti della Terra: quelli che hanno già a sufficienza o molto
continuerebbero  ad  avere quello che hanno e quelli che hanno poco o niente resterebbero come
sono.

Per  realizzare almeno un minimo di giustizia occorre dare precedenza alle azioni tecniche e
scientifiche e ai settori dell’agricoltura e dell’industria che assicurano una adeguata disponibilità
dei beni primari a coloro che ne sono privi. Per  far ciò è indispensabile imporre ai paesi che
già  hanno molto, una revisione critica della gerarchia dei  bisogni di beni materiali e una azione di
disciplina nei consumi e di freno nello sfruttamento delle risorse naturali.

Del resto alla realizzazione di uno “sviluppo sostenibile” proposto dalle Nazioni Unite – uno
sviluppo in grado di soddisfare i bisogni dell’attuale  generazione lasciando alle generazioni future
risorse che gli consentano di soddisfare  ugualmente i loro bisogni – non ci si può neanche
avvicinare se non si realizza una contrazione dei consumi dei paesi ricchi per  assicurare ai paesi
poveri le condizioni  materiali  per almeno un avvio del loro sviluppo.

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Anche così, tuttavia, per assicurare ai  paesi poveri il raggiungimento di un livello dignitoso di
sviluppo umano, per soddisfare i bisogni primari dei poveri, di quelli che non hanno neanche
l’indispensabile, bisogna essere  preparati  a sacrificare una parte, che può essere anche
rilevante,  della quantità e della qualità delle risorse naturali ancora  restanti, togliendole alle
generazioni future. Il che è in contrasto con la definizione stessa di ”sostenibilità”.

Come decidere fino a che punto, anche solo per assicurare  un minimo ai poveri, possiamo
continuare a provocare inquinamenti, diboscamento, frane, senza arrivare ad una catastrofe
planetaria, è un problema pieno di incognite e costituisce uno dei più grandi impegni di ricerca da
parte di ecologi ed economisti, ma anche di politici e moralisti.

Fra  l’altro bisogna sottoporre a revisione gli attuali concetti-idoli di produttività, di competitività, di


globalizzazione dei mercati, e di convenienza economica, in modo da comprendere, nelle
valutazioni economiche, i costi sociali conseguenti al peggioramento della qualità dell’ambiente
e  i benefici derivanti dallo svolgimento della vita umana in un ambiente decente che assicuri un
adeguato sviluppo fisico, psichico e morale.

Popolazione, ambiente e merci

I problemi, già difficili, finora considerati sono aggravati dal rapido aumento della popolazione
mondiale.

Ci sono voluti alcuni milioni di anni per  raggiungere, nel 1900, la presenza sulla Terra di 1.600
milioni di  persone; la  popolazione  era salita a duemila milioni di persone dopo
appena  trent’anni ed è diventata di quattromila milioni di persone nel 1975; di cinquemila nel
1987; di 6.000 milioni nel 2000. Anche se si osserva un sia pur piccolo rallentamento nel tasso di
aumento, in questa fine di secolo la  popolazione mondiale aumenta ogni anno di quasi ottanta
milioni di esseri umani.

Finora le azioni per rallentare l’aumento della popolazione sono state ispirate all’egoismo
individuale o collettivo, familiare  o politico. Per chi ha molto si tratta di evitare di spartire quello
che si ha con “troppi” altri; per  quelli che hanno poco si tratta di evitare che i figli, essendo in
troppi, non  abbiano mezzi materiali sufficienti; i  paesi ricchi temono che l’aumento degli abitanti
dei paesi poveri –  sono  i poveri, infatti, che generalmente  aumentano più rapidamente dei  ricchi
–  minacci  l’equilibrio  mondiale, faccia aumentare il numero dei potenziali scontenti e
rivoluzionari,  con le loro pretese di ripartizione più equa delle risorse esistenti, porti ad una
crescente pressione  migratoria verso i paesi industriali.

L’ecologia induce ad esaminare il problema della  popolazione mondiale sotto diversa luce:


quanto più aumenta il numero degli esseri umani sulla Terra, tanto maggiore è, per soddisfare
     

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anche soltanto i loro bisogni elementari, la  richiesta di risorse naturali, l’impoverimento delle
riserve di risorse che restano disponibili alle generazioni future.

Circa duecento anni fa, precisamente il 7 giugno 1798, comparve uno scritto, anonimo, sui
rapporti fra popolazione e risorse, in particolare risorse alimentari. L’autore, Robert Malthus
(1766-1834), dopo aver raccomandato la limitazione delle nascite, nella seconda  edizione
del  “Saggio  sulla popolazione” (1803), scrisse che devono essere respinti dal pur abbondante
banchetto della natura coloro che vi si presentano senza avere di che provvedere a se stessi. Una
frase tanto spietata che lo stesso Malthus la tolse nelle edizioni successive.

Non ci si può, peraltro, illudere che si possa allargare  il banchetto della natura, che le risorse della
natura – cibo, acqua, energia – possano aumentare,  anche se più o meno lentamente. Le leggi
della natura sono esplicite: le risorse materiali, fisiche, in realtà diminuiscono a  mano a mano che
aumenta la popolazione e tanto più rapidamente se anche  aumentano i consumi.
Se  guardiamo  all’avvenire, i ricchi e i poveri si ritrovano tutti ugualmente poveri  di quei beni
naturali che sono indispensabili per una vita degna dell’uomo.

Per elementari ragioni ecologiche, chimiche e fisiche, l’aumento della popolazione umana
determina una crescente sottrazione delle risorse indispensabili perché altri raggiungano uno
sviluppo integrale e costituisce un atto di violenza verso il  prossimo, presente e futuro, verso gli
stessi figli e verso gli abitanti attuali e futuri del pianeta che avranno minori disponibilità di acqua,
aria, di spazio abitabile, di condizioni umane di vita.

L’analisi dei rapporti fra popolazione, consumi, risorse naturali mostra che vi sono altre trappole
con cui dobbiamo fare i conti.

Un rallentamento del tasso di aumento della popolazione, cioè del numero di  figli  per coppia,
porta ad un rallentamento dell’aumento del numero totale dei terrestri, ma porta anche in breve
tempo ad un aumento del numero di anziani: oggi nelle società industriali, domani in tutto il
pianeta. Questi anziani hanno crescente bisogno di beni e servizi, sia pure di un tipo del tutto
diverso da quelli dei consumatori – bambini, giovani e giovani adulti – per i quali produce
l’industria e a cui parla la pubblicità: i bisogni della crescente popolazione degli anziani richiedono
denaro,  proprio  mentre sta diminuendo la popolazione in età lavorativa e quindi la fonte prima di
reddito.

Questo quadro presuppone nuovi indicatori e nuove azioni di solidarietà, l’identificazione dei nuovi
bisogni della popolazione anziana e di nuove merci, strutture e servizi per soddisfarli. Presuppone
la  necessità di aprire le porte dei paesi industriali alla forza lavoro proveniente dai paesi oggi
poveri, presuppone la rottura di molti  privilegi esistenti nei paesi ricchi, anche nelle classi
lavoratrici, presuppone una nuova cultura del “servizio” per una nuova categoria, o “classe”, di
e di nuovi poveri,
deboli  gli anziani appunto.
   

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A maggior ragione la  soluzione di questi problemi non è facilitata, ma aggravata, da un ulteriore


aumento di coloro che si affacciano al banchetto della natura.

La tecnica ci salverà?

Si sente spesso affermare che i guasti ambientali provocati da un uso miope della tecnica
possono essere riparati da un uso migliore, più attento, più intenso, di altra tecnica.

Coloro che vogliono evitare le contraddizioni esistenti fra l’erosione delle risorse naturali,
l’aumento della popolazione e i consumi, coloro che vogliono evitare di affrontare il problema dei
“limiti” della Terra, fanno rilevare come, in  molte  zone del nostro pianeta, esistano ancora grandi
riserve di acqua, foreste, suolo coltivabile e come, da un punto di vista scientifico e tecnico, sia
possibile mettere a coltura i deserti, estrarre acqua dolce dal mare, ridistribuire  le risorse e le
popolazioni spostandole da una parte all’altra del globo in modo da alleviare l’eccessivo
sfruttamento che, in particolari zone, la popolazione già esercita sulle risorse naturali locali.

Fra tali proposte vi sono i giganteschi progetti di modificazione  del corso dei fiumi, l’uso
dell’energia nucleare per produrre fertilizzanti e acqua dolce dal mare, le grandi opere di
diboscamento per ricavare nuovo terreno da coltivare nelle  foreste tropicali, per
raggiungere risorse minerarie ancora non sfruttate, per aumentare la produzione agricola e
forestale.

A breve termine è possibile, con adatti accorgimenti, uscire dalle trappole tecnologiche in cui
siamo caduti: agli inquinamenti si può rimediare con impianti di depurazione, con nuove
materie plastiche, con nuove fonti di energia, con antiparassitari diversi, con nuovi detersivi,
con nuove e diverse automobili: i cambiamenti tecnici sono certamente costosi, fanno aumentare i
costi di produzione e le imposte, ma permettono di continuare sulla attuale strada del “progresso”.

Con l’illusione che, grazie alle risorse illimitate della tecnica, si possa evitare il rapido esaurimento
delle limitate scorte di risorse naturali della Terra, molti si tranquillizzano e  ritengono così
scongiurato il pericolo di dover consigliare la continenza nei consumi, il pericolo di un
rallentamento della corsa verso la produzione e il profitto, di dover raccomandare un rallentamento
dell’aumento della popolazione mondiale.

L’esperienza finora raccolta mostra, però, che le grandi dighe hanno modificato il
trasporto di sostanze fertili a valle e hanno diminuito la fertilità dei suoli; le grandi opere di
irrigazione hanno prosciugato i laghi di acqua dolce e li hanno trasformati in  paludi  saline;  il
diboscamento delle  foreste tropicali ha consentito di aumentare la superficie coltivabile solo per
breve  tempo; il nuovo terreno è ben presto divenuto sterile ed esposto all’erosione. Molti sistemi
di depurazione dei fumi e delle acque non fanno altro che trasferire le sostanze nocive da una
     
parte all’altra della biosfera; dalle acque o dai fumi, ai fanghi e al terreno e alle acque sotterranee.
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Nei paesi poveri la diffusione di alcune nuove tecniche avanzate, estranee alla cultura locale, ha
creato una nuova classe dominante costituita da coloro che sono riusciti a ricevere dalle mani dei
“bianchi” i segreti degli artifizi e dei macchinari e che diventano oppressori dei loro concittadini.
Non a caso molti paesi poveri accusano i paesi ricchi di usare le storie dell’ecologia come nuovi
strumenti di oppressione e di colonialismo.

La soluzione va cercata in un “nuovo ordine economico internazionale”, invocato da tanti anni,


ma sempre eluso, che richiede anche l’uso di tecniche che siano al servizio della persona, della
dignità umana, della vita.

Una ingegneria per la vita

Una tecnica capace di aiutare i paesi poveri del Sud del mondo a muovere i primi passi
sulla via di un reale sviluppo, dovrebbe essere basata più sull’amore che sull’energia nucleare, più
sulla comprensione di bisogni e culture a noi estranei che sulle grandi dighe e autostrade.

La conoscenza delle culture locali è di primaria importanza perché le nuove tecniche siano
credibili ed accettabili e siano facilmente assimilabili. Le tecniche al servizio dell’uomo
dovrebbero essere basate su attrezzature creabili sul posto di utilizzazione, con materiali  e
capacità locali, che gli abitanti dei paesi poveri devono imparare a fabbricare e usare con le
proprie mani, per convinzione e non per imposizione di culture e interessi finanziari estranei.

Penso a pompe per sollevare l’acqua dal sottosuolo, a macchinari alimentati dall’energia solare e
dal vento, a sistemi di depurazione dell’acqua, a tecniche di conservazione dei prodotti agricoli, di
trasformazione e utilizzazione industriale dei prodotti e sottoprodotti agricoli e forestali, a
dispositivi per migliorare le condizioni igieniche, per aiutare i minorati e i disabili, eccetera.

Essenziale è il contributo dei tecnici locali, più vicini ai problemi di ciascun paese, ma occorre una
svolta decisiva nella cooperazione tecnico-scientifica che finora è stata orientata a preparare
tecnici in grado di esportare nei loro paesi le nostre tecniche, spesso contrarie agli interessi dei
loro stessi paesi, spesso disastrose per l’ambiente.

Le difficoltà sono grandi perché tutto il mondo va in direzione contraria. Basta pensare che i paesi
industriali del Nord del mondo hanno l’interesse a vendere a quelli poveri del Sud del mondo
quello che sanno produrre, dai macchinari sofisticati, ai trattori, alle armi, alla propria cultura
e al  proprio modo di  vedere il mondo. Lo dimostra uno sguardo ai nuovi paesi emergenti che
scimmiottano, nelle città, nei  negozi, negli edifici, le nostre città industriali.

Un progetto di cambiamento è di difficile attuazione, ma non utopistico; intanto i materiali e


il  denaro
 per lo sviluppo
 umano del Suddel mondo sarebbero
 già disponibili
 se cessasse o

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diminuisse la produzione di armamenti, queste “merci oscene” così redditizie per la grande
industria delle armi nelle mani del capitale dei paesi industriali; è contro tale fabbrica di morte che
va condotta una guerra coraggiosa e intensa, tanto più che la produzione, la conservazione e la
sperimentazione, anche non in guerra, e perfino la distruzione delle armi “scientifiche” (nucleari,
biologiche e chimiche) rappresentano dei gravi attentati alla conservazione dell’ambiente e agli
equilibri della biosfera.

Nonostante il gran parlare di distensione, dopo 2000 esplosioni sperimentali di bombe nucleari


nell’aria e nel  sottosuolo, soltanto alla fine del 1996 si è arrivati ad un trattato che vieta tali
esplosioni, peraltro non ancora entrato in vigore per la mancata ratifica da parte degli Stati uniti.
Siamo ancora ben lontani dal fare qualche passo concreto verso un vero disarmo nucleare
totale, pur richiesto dal Trattato di non proliferazione delle armi nucleari, firmato e ratificato da tutti i
paesi.

E ancora oggi nel mondo esistono trentamila bombe nucleari, con una potenza distruttiva mille
volte più grande di quella di tutti gli esplosivi usati durante la seconda guerra mondiale. E se
anche venisse deciso un vero disarmo nucleare, la distruzione e lo smaltimento dei materiali
esplosivi radioattivi, presenti in tali bombe dovrebbe impegnare intere generazioni di tecnici e
scienziati e enormi cifre.

Lo stesso vale per le armi biologiche e chimiche che, pur essendo formalmente vietate e
dichiarate illegali, continuano ad essere prodotte clandestinamente in vari paesi, anche in quelli
poveri, e sono state usate in conflitti locali  per uccidere o per rendere inabitabile l’ambiente
occupato dal nemico attraverso la distruzione della vegetazione o la contaminazione della
biosfera, con diretta ricaduta sui civili innocenti. Anche la distruzione e lo smaltimento delle
armi di guerra chimica può dar luogo a disastri ecologici e all’avvelenamento degli oceani.

È semplicemente sbalorditivo che paesi che si dicono “civili”, e fra questi anche l’Italia, siano
contrari ad un disarmo nucleare, invocando cavilli giuridici di diritto all’autodifesa, o addirittura
producano e vendano le mine anti-uomo che stanno uccidendo e mutilando milioni di persone, fra
cui molti bambini, nel mondo.

Una rivoluzione scientifica ed etica

La salvezza può venire solo da una diffusione della cultura della speranza e della nonviolenza.
Nonviolenza nei confronti degli altri esseri umani e della natura. Si tratta di ricuperare antichi e
dimenticati valori di rispetto del prossimo, di solidarietà, di rapporti internazionali disinquinati dalla
violenza della sopraffazione, della concorrenza, del potere, del denaro.

Si tratta di portare tali nuovi valori nelle scuole, nelle Università, le quali, nei paesi industrializzati,
     
sono ancora troppo permeate dai veleni dell’ideologia della violenza, del successo privato, del
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consumo, e di portare un nuovo messaggio, mobilitando gli insegnanti.

Si tratta di denunciare la pubblicità che, incoraggiando i consumi inutili e gli sprechi, ha, come
effetto, l’ulteriore degrado della natura e rappresenta, perciò, una forma di “ecopornografia”.

Un ruolo importante avrebbero le chiese se condannassero, più di quanto non facciano, lo spreco,
l’ostentazione, i consumi inutili. Si pensi all’occasione del giubileo, l’anno sabatico
che, nel capitolo 25 del Levitico, viene specificamente indicato come l’anno in cui deve essere
lasciata “riposare la Terra”, devono essere restituite le terre accumulate nei cinquant’anni
precedenti, devono essere liberati gli schiavi. Quale straordinario invito ecologico, e quanto
lontano dalla frenesia consumistica che permea il giubileo romano del 2000!

Un ruolo fondamentale avrebbero i partiti e le organizzazioni dei lavoratori, se avessero il coraggio


di rivendicare i grandi valori di solidarietà e internazionalismo – che erano poi i valori fondatori
della loro stessa esistenza – contro le meschine manovre di protezione di interessi parziali.

Nel 1970 un gruppo di  filosofi,  naturalisti e tecnologi, riuniti a Perugia per un convegno sul  tema:
“Verso il terricidio?”, ha firmato un “manifesto” che dichiara “antiumana qualsiasi azione che,
attraverso lo sfruttamento delle risorse naturali, arrechi danno fisico o morale a qualsiasi essere
umano, in qualunque parte della Terra si trovi, vivente oggi e in futuro sul pianeta”.

Questa dichiarazione potrebbe essere una guida per un cammino verso la nuova cultura
della sopravvivenza e può essere sottoscritta da coloro che vogliono impegnarsi nell’operazione
di salvataggio degli abitanti di questa nave spaziale alla deriva nello spazio.

Saggi

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Autore / Autrice

Giorgio Nebbia

Ambientalista, politico e chimico italiano. Ha svolto attività di ricerca nell'ambito della merceologia, con
particolare riferimento all'analisi del ciclo delle merci. Si è occupato di ambientalismo e risorse naturali,
studiando l'energia solare e la dissalazione delle acque, temi sui quali ha pubblicato numerosi contributi
scientifici. È il fondatore di Altronovecento.

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Un interessante archivio per la storia del movimento


ambientalista: l’archivio Renzo Videsott (1944-1973)
DI EDGAR MEYER


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Postfordismo e sviluppo sostenibile


DI PIER PAOLO POGGIO

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Numero 02

Editoriale n°2
Giorgio Nebbia

UN’ETICA DELLA PRODUZIONE


GIORGIO NEBBIA

Postfordismo e sviluppo sostenibile


Pier Paolo Poggio

Filipiéi u lu. L’ultimo lupo della Bormida


Gian Domenico Zucca

Per una rivoluzione tecnico-scientifica


Giorgio Nebbia

Riflessioni economologiche
Giancarlo Zinoni

Una fabbrica d’oro


Giorgio Nebbia

La fabbrica del novecento nel Museo dell’Industria e del Lavoro


Pier Paolo Poggio

Abitare l’età della tecnica. Memoria, culture, immaginario.


La Redazione

Interrogare il futuro. Gli studi sul futuro in Italia e Europa


Eleonora Barbieri Masini

Kenneth Boulding (1910-1993)


Giorgio Nebbia

Antonio Cederna (1920-1996)


Giorgio Nebbia

Valerio Giacomini (1914-1981)


Augusto Pirola

Luigi Micheletti (1927-1994)


Pier Paolo Poggio

Lewis Mumford (1895-1990)


Giorgio Nebbia

Acqua
Giorgio Nebbia

Carbone     
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Cloro
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Nylon
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La tromba
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Recensioni
Pier Paolo Poggio

Il Fondo archivistico Laura Conti presso il Centro di Storia dell’Ambiente di Brescia


La Redazione

Fondazione Luigi Mich…


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Conti era nata a Udine il…

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NUMERO 02

Recensioni
F. Arminio, Diario civile, Sellino, Pratole Serra, 1999 (Piazzetta dell’Università n.3, 83030 Pratola Serra-AV).
Le lotte ambientaliste di questi…

DI GIORGIO NEBBIA E DI PIER PAOLO POGGIO

NUMERO 02

La tromba
Dal Glossario dei linguaggi tecnici e specialistici, in preparazione presso il «Museo dell’industria e del
lavoro – Eugenio Battisti», a cura…

DI GIANCARLO ZINONI

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16/02/22, 16:08 Un’etica della produzione - Altro Novecento | Fondazione Micheletti

NUMERO 02

Nylon
Ho davanti una fotografia del 1940: in una strada centrale di New York un cordone di polizia tiene a bada…

DI GIORGIO NEBBIA
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