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AI MARGINI DELL'ARTICOLO SU FRA' JACOPO (1205-1295 c.

a)

Particolare dell'emiciclo absidale di San Giovanni in Laterano, Roma. Raffigurazione di Jacopo da Torrita

La cosa più sorprendente (almeno per me, profano qual sono) dell'opera musivaria di Jacopo da
Torrita, nel san Giovanni in Laterano, è proprio la rappresentazione di sè che stringe in una mano la
squadra e, nell'altra, il compasso. Dato che si sta parlando di un maestro d'arte del XIII secolo non
ci si può esimere dal farsi alcune domande e tentare di darsi delle accettabili risposte.

Ora, come universalmente noto, squadra e compasso identifica senza ombra di dubbio la
Massoneria. Peccato che la Massoneria sia sorta, ufficialmente, solo secoli dopo. I moderni storici e
critici d'arte aggirano elegantemente il problema. Come? Ignorandolo, semplicemente. Essi
giustificano tale rappresentazione col fatto che, squadra e compasso, fossero strumenti utili non solo
ai 'costruttori' ma anche ai musivaristi ed agli artisti in genere di epoca alto-medioevale. Serviva
loro per tracciare misure e disporre volumi come sostrato alle composizioni. Stabiliti gli elementi
spaziali dell'opera da realizzare usavano anche 'cartoni' e sagome (come nel caso, accertato, del
Torriti). Diamo per buona questa 'semplicistica' spiegazione, che può accontentare i palati di
osservatori disattenti o poco avvezzi alla 'decifrazione' dell'arte di quei secoli, che ci si ostina a
chiamare 'bui'. Invece si sa per certo che ogni opera era soggetta ad una elaborazione simbolica
molto complessa, e che bisognava possedere le 'chiavi' di lettura giuste, chiavi possedute da
individui (oltre la pura rappresentazione visiva che tutti, ovvero il popolino ingenuo e sprovveduto,
potevano comprendere ed ammirare) avviati su di una scala iniziatica, man mano sempre più ardua
nel suo salire (7 livelli; ma alcuni sostengono siano 12).
Osserviamo come si dispone Jacopo nel mosaico: a sinistra in basso, praticamente invisibile ad
occhio nudo per l'osservatore ritto sul pavimento della chiesa; un ginocchio direzionato verso terra,
gli occhi sollevati con lo sguardo puntato verso il Volto del Cristo; il compasso è aperto e tenuto
parallelo ad un piano terreno immaginario, la squadra sollevata ad una inclinazione, circa, di 45°,
con una retta che è parallela al suo sguardo.
Non ci soffermiamo sulle comuni interpretazioni di questi due strumenti così altamente simbolici; ci
basti osservare, come è recitato nella formula massonica, che nello spazio ideale tra compasso e
squadra (cerchio e quadrato, Cielo e Terra) vi è il Maestro massone “che si trova sempre tra la
squadra e il compasso” . Per ciò il Cristo è l'Uomo, il Mediatore.
E questo è già un buon punto di partenza.

Quindi, noi abbiamo un frate, inizato ai misteri (quali?) che nella sua rappresentazione riconosce il
Cristo come Magister Supremo. Ma Jacopo è a sua volta Magister... Difatti, al suo opposto, nel lato
destro dell'emiciclo in esame, sempre in basso, sta l'altra raffigurazione, anche questa, come
vedremo, a sua volta giustificatissima, ed è quella di frater Iacobus de Camerino, socius magistri
operis; anche il suo sguardo è rivolto verso il Cristo, ha un ginocchio piegato verso terra, ed in una
mano tiene un martelletto mentre con l'altra stringe una lastra che si suppone di pietra; i due Iacobus
sono soci nell'Opera, ma uno è il Maestro e l'altro l'apprendista.

Agli occhi dei comuni mortali doveva apparire come una innocente rappresentazione dei facitori
d'opera (e già il rappresentarsi in questo modo potrebbe apparire un peccato di orgoglio per dei
comuni seguaci del poverello di Assisi; ricordiamo che il Torriti era contemporaneo di Francesco).
Ma, visto che potevano bastare le iscrizioni ad illustrazione di ciò, che senso possiamo trovare al
loro rappresentarsi in figura intera? Non era così usuale, nel Medioevo, il farlo, anzi. E questo
sarebbe un bel punto di discussione, se vi fosse la volontà. Già vi si raffigura il Papa Niccolò IV
(francescano; Lisciano, 30 settembre 1227 – Roma, 4 aprile 1292) ) con san Francesco e
sant'Antonio; scelta, peraltro, a quei tempi molto criticata nella cerchie più vicine alla Cattedra di
Pietro. Un affollamento di frati in un mosaico rimaneggiato appositamente su volere del Papa; dal
che si desume che il Santo Padre avesse, quantomeno, approvato che il Jacopo e il socius vi si
rappresentassero, anche se in forma così minore da risultare quasi invisibile. Quasi, appunto.

Vediamo il possibile senso di questa operazione.


Simbolo: symbolé, patto, convenzione.
Riporto da: 'Il canto delle gru – Un racconto iniziatico', di Sante Anfiboli (pseudonimo; l'autore
mantiene strettamente riservata la sua vera identità; è uno studioso, milanese, di altissimo livello)

“Così il "dirozzare la pietra grezza" - compito precipuo dell'apprendista - mi pareva giocare sul
suono del termine inglese stone - non bisogna scordarsi la lingua originale in cui i termini erano
espressi - che rinvia al verbo greco sténo, gemo, sospiro, mi lamento, e all'aggettivo stenós, stretto,
angusto, tenue, insignificante, meschino, scarso. Così l'apprendista deve dirozzare la scarsità,
l'angustia, di cui soffre e che fa sì che egli si lamenti e invochi (bóasa), tuttavia senza sapere bene
chi. Per contro il compagno sa a chi rivolgersi (Iákchon) perché è colui che ha inteso la convenzione
(symbolé). Il suo compito è affinare lo strumento principale della conoscenza: i cinque sensi.”

Bóasa e Iákchon: le due Colonne itifalliche, omni-presenti nello Logge Massoniche.

Bisogna anche affrontare lo strano posizionamento dell'iscrizione musiva Iacobus Torriti pictor hoc
opus fecit , posta in alto sul capo di Giacomo detto il Minore, quasi in asse della raffigurazione del
Torrita. Dopo il primo attimo di sconcerto, comincia ad apparire il messaggio preciso che vi si cela:
Jacopo è il Magister, colui che possiede la Conoscenza del linguaggio segreto, l'antico linguaggio
degli dei, che gli permette di 'comunicare' con le Sfere Celesti. Il linguaggio dei Magi, venuti
dall'Oriente.
Riporto ancora dall'Anfiboli:
“Come non ripensare al brano di Diogene Laerzio sulla pretesa dei Magi di essere gli unici a venir
ascoltati dagli dei perché, in qualche modo, parlavano la stessa loro lingua?”

Potremmo andare oltre, ma sarebbe una fatica improba (oltreché inutile, chi ascolterebbe?).
Dovremmo affondare la lama della (supposta) conoscenza nelle correnti dello gnosticismo, e poi
ancora indietro, ai misteri di Cibele ed a quelli Eleusini (ed altri ancora), quindi ritornare su alla
chiesa delle origini, il culto della Maddalena (fenomeno non di origine alto-medioevale, come
comunemente si crede; era già presente nei secoli III-IV: nel complesso proto-cristiano di Cimitile
vi sono due affreschi, uno a mezzo busto ed uno a figura intera in cui vi appare incoronata),
l'apostolo più amato e depositario dell'insegnamento segreto più alto di Gesù secondo i testi
apocrifi; proseguire con Bernardo di Chiaravalle (che, tra l'altro, respingeva la tesi della verginità di
Maria), i Templari, il Catarismo... Senza dimenticare la Grande Opera Alchemica, 'scienza' praticata
dagli ingegni più elevati di quel secolo. Solo per citare qualche nome: Ruggero Bacone
(francescano), Raimondo Lullo (a cui sono attribuiti molti scritti alchemici e perfino la produzione
di oro filosofale per il re d'Inghilterra), Alberto Magno (elevato, a sei anni dalla sua morte, al rango
di Dottore della Chiesa) ed il suo allievo Tommaso d'Aquino (anche lui Dottore), san Domenico (lo
stesso che era amico di san Francesco, guarda caso), Arnaldo da Villanova (il più celebre alchimista
del suo tempo). Una pratica, nel segreto dei monasteri e dei conventi, talmente diffusa da spingere il
papa Giovanni XXII, nel 1317, a condannarla con la decretale Spondent Pariter (ma allo stesso
Giovanni XXII è attribuito lo scritto Ars Transmutatoria). Il Concilio di Trento (1545-1563)
dichiarerà, in seguito, lecita l'alchimia, purché realizzata senza frode.

«Voi parlate assai oscuramente e troppo. Ma io voglio indicare


completamente la Materia, senza tanti discorsi oscuri. Io ve lo ordino,
o Figli della Dottrina: congelate l'Argento vivo. Di più cose, fatene
due, tre e di tre una. Una con tre é quattro. 4, 3, 2,1; da 4a 3 vi
é l;da 3 a4 vi é 1, dunque I e 1, 3 e 4. Da 3 a 1 vi é 2, da 2 a 3 vi é
1; da 3 a 2 vi é I. 1, 2 e 3 e I, 2 di 2 e 1, 1. Da 1 a 2, vi é I; dunque
1. Vi ho detto tutto». (dalla Turba philosophorum, sec. xiii).

Forse la Storia, quella vera, degli ultimi duemila anni non è quella che ci hanno raccontato...

Ciascuno faccia le deduzioni che può e vuole. Ma io inizio a capire perché Giotto, nel riquadro che
raffigura un uomo stendere davanti ai piedi di san Francesco il suo mantello, abbia rappresentato,
sullo sfondo di quella è chiaramente la piazza di Assisi, il tempio della dea Minerva, con cinque
colonne al posto delle consuete sette (allusione al sigillo di Salomone); e perché frate Elia, nella
tomba di Francesco, da lui costruita e nascosta per secoli, ha posto l'anello con la rappresentazione
della stessa dea Minerva (che mani ignote, dopo la scoperta, hanno fatto scomparire, forse per
sempre), e l'ha infilato ad un dito del Santo...

Mauro Salvi, Torrita, 27-11-2015

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