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IMPUGNAZIONI

Il libro III relativo alle impugnazioni si compone di pochi articoli. Abbiamo un titolo I le impugnazioni in
generale dall’articolo 91 all’articolo 99 cpa; un titolo II che si occupa delle impugnazioni ordinarie, in
particolare l’appello che è l’unica impugnazione ordinaria nel processo amministrativo ( dall’articolo 100
all’articolo 105 cpa; il titolo III riguardante le impugnazioni straordinarie ( revocazione 106 e 107 cpa); titolo
IV ( 108 e 109 cpa); titolo V ( 110 e 111cpa). Sono 20 articoli perché il legislatore ha previsto IL RINVIO
INTERNO ALLE DISPOSIZIONI DEL LIBRO II SUL PROCESSO DI PRIMO GRADO che valgono anche per tutti gli
altri processi e quindi anche quelli di impugnazione nell’ambito del processo amministrativo. Questi 20
articoli si accompagnano con le ordinarie regole processuali già dettate con il primo grado di giudizio che
per quanto compatibili si applicano anche nel processo di appello. Ovviamente le norme dettate in modo
specifico sono dettate proprio per le specificità tipiche di un giudizio di impugnazione e abbiamo delle
disposizioni che valgono per tutti i giudizi di impugnazione e altre che si occupano dei diversi tipi di
impugnazione. Quali sono le impugnazioni nel processo amministrativo? Si distinguono in IMPUGNAZIONI
ORDINARIE E STRAORDINARIE. L’unico mezzo di impugnazione ordinario nel processo amministrativo è
l’appello. Tutti gli altri sono mezzi di impugnazione straordinari( revocazione, opposizione di terzo, ricorso
per cassazione per soli motivi di giurisdizione): tutti rimedi che sostanzialmente si conoscono dal processo
civile. Mezzi di impugnazione ordinari e straordinari cioè tutti quelli disciplinati dall’articolo 91 godono della
disciplina comune dei primi 10 articoli di questo titolo I del libro III e la prima disposizione che sovviene per
tutte le impugnazione è quella relativa ai TERMINI DI IMPUGNAZIONE che costituiscono un tema
significativo non tanto per gli studi universitari ma per LO SVOLGIMENTO DELLE PROFESSIONI LEGALI e
soprattutto per la professione forense e per chi svolge la funzione di magistrato. Per gli avvocati possono
costituire una ragione di grave responsabilità professionale nell’ipotesi in cui non li conoscessero o se ne
dimenticassero e per i magistrati una grande occasione di riduzione del loro carico di lavoro perché il
mancato rispetto del termine perentorio anche di quelli indicati nell’articolo 92 conducono a una sentenza
in rito. Salvo quanto diversamente previsto da speciali disposizioni di legge, le impugnazioni si propongono
con ricorso e devono essere notificate entro il termine perentorio di 60 giorni decorrenti dalla notificazione
della sentenza. Questo comma 1 dell’articolo 92 ci dice tre cose importanti: 1) tutte le impugnazioni
VENGONO PROPOSTE CON RICORSO. Non è una novità. Anche nel giudizio di primo grado, le azioni speciali
previste per il processo amministrativo di legittimità e anche le altre azioni a tutela dei diritti soggettivi della
giurisdizione esclusiva si propongono con ricorso. Anche i rimedi in sede di impugnazione sono proposti con
il ricorso e si propongono con il ricorso notificato. Quindi l’avvio, la fase introduttiva del giudizio di
impugnazione come per il giudizio di primo grado trova inizio nell’atto di notificazione del ricorso in appello
ovvero per opposizione di terzo, revocazione, cassazione per soli motivi di giurisdizione nel termine di 60
giorni dalla notificazione della sentenza. Il termine di 60 giorni è qualificato come termine breve. L’inciso
iniziale è importante” salvo quanto previsto da SPECIALI DISPOSIZIONI di legge”, le speciali disposizioni di
legge possono ridurre ulteriormente il termine di 60 giorni, possono addirittura dimidiarlo in alcune materie
particolari. Il termine di decadenza breve per la notifica delle impugnazioni salvo diverse disposizioni di
legge che li riducono ulteriormente ovvero che li estendono( come vedremo in alcuni casi di revocazione o
opposizioni di terzo) o ne estendono il TERMINE DI DECORRENZA è DI 60 giorni dalla notificazione. Il dies a
quo dal quale computare i termini è la notificazione al destinatario del ricorso in appello o di altre
impugnazioni. Dies a quo non computatur in termino. Dies ad quem computatur. Secondo comma articolo
92 ( iniziamo con le deroghe al termine breve indicato dal comma 1):” per i casi di revocazione previsti nei
numeri 1,2,3 e 6 del comma 1 dell’articolo 395 CPC e di opposizione di terzo di cui all’articolo 108 comma 2,
il termine di cui al comma 1 decorre dal giorno in cui è stato scoperto il dolo o la falsità o la collusione o è
stato recuperato il documento o è passata in giudicato la sentenza di cui al numero 6 del medesimo articolo
395”. Quindi, non cambia la durata del termine per l’impugnazione, ma cambia il dies a quo per la
determinazione della decorrenza. Il termine decorre dal giorno in cui è stato scoperto il dolo, la falsità o la
collusione. Le ipotesi dell’articolo 395 cpc sono: dolo del giudice, dolo di una delle parti, falsità del
documento oppure documento mai rinvenuto e che successivamente è stato ritrovato. Queste ipotesi
previste dall’articolo 395 cpc vengono riprese per consentire una decorrenza diversa per la proposizione del
rimedio della revocazione o di una delle ipotesi di opposizione di terzo. In difetto della notificazione della
sentenza non vale il termine breve indicato dal comma 1 cioè i 60 giorni se la sentenza non viene notificata
perché la sentenza viene pubblicata a cura della segreteria del tribunale amministrativo regionale che ha
deciso la controversia. Viene pubblicata mediante deposito in segreteria e del deposito in segreteria viene
data comunicazione alle parti costituite. Ma non c’è alcun obbligo di notificazione. L’avvocato della parte
vittoriosa ovvero l’avvocato della parte più diligente anche quella soccombente possono notificare la
sentenza nelle stesse forme della notificazione degli atti giudiziari. Quindi la notifica con PEC , a mezzo del
servizio postale da parte dell’avvocato a ciò abilitato, la notifica da parte dell’ufficiale giudiziario. La
sentenza notificata produce l’effetto della decorrenza del termine breve di cui al comma 1, la mancata
notificazione la DECORRENZA DEL TERMINE LUNGO( quello di cui al terzo comma dell’articolo 92 . In
difetto di notificazione della sentenza, l’appello , la revocazione di cui ai numeri 4 e 5 e il ricorso per
cassazione devono essere notificati entro 6 mesi dalla pubblicazione della sentenza. Quindi, o 60 giorni
dalla notificazione o 6 mesi dalla pubblicazione della sentenza. Cosa accade se la notificazione non viene
disposta subito ma viene disposta al secondo mese? Ovviamente nulla, i 60 giorni decorrono sempre dalla
notificazione purchè essa sia inferiore al termine lungo per la notifica dalla pubblicazione. L’unico problema
si pone nell’ipotesi di notificazione della sentenza che intervenga negli ultimi 60 giorni del termine lungo
indicato dal terzo comma del 92. Se la sentenza non è notificata e al quinto mese e quindicesimo giorno
uno degli avvocati la notifica, decorrono da quella notificazione 60 giorni? NO, il terzo comma si deve
leggere nel senso che entro 6 mesi dalla pubblicazione della sentenza ma quei 6 mesi sono un TERMINE
MASSIMO anche nell’ipotesi in cui la notificazione intervenendo nei 6 mesi in teoria potrebbe produrre
un’artificiosa estensione del termine lungo. Quindi il termine lungo di cui al terzo comma è un termine
finale. Ovviamente c’è un’eccezione a questo termine decadenziale ultimo e cioè che la disposizione del
terzo comma cioè 6 mesi dalla pubblicazione non si applica quando la parte che non si è costituita in
giudizio dimostri di non aver avuto conoscenza del processo a causa della nullità del ricorso di primo grado
o della sua notificazione. Quindi la parte che non si è costituita dinanzi al tar e non ha resistito come
resistente o controinteressata al ricorso dinanzi al primo giudice perché la notifica di quel ricorso era nulla
ovvero perché era nulla la notificazione può sempre proporre appello nel momento in cui venga a
conoscenza dell’esistenza di una sentenza a suo danno. Pensate alla notificazione di un ricorso che non
venga sottoscritto dal difensore o alla notificazione da parte dell’avvocato con una notifica a mezzo del
servizio postale senza la sottoscrizione da parte del difensore della relata di notifica; ovviamente si tratta di
NULLITA’ DELLA NOTIFICAZIONE (quella relativa alle notifica) o nullità del ricorso( quella relativa alla
mancata sottoscrizione dell’atto da parte del difensore). Questo tipo di vizio determina il mancato decorso
del termine lungo di cui al terzo comma dell’articolo 92. Queste sono le principali disposizioni relative sia
alla forma delle impugnazioni (le impugnazioni si propongono sempre con ricorso) sia al termine delle
impugnazioni (termine breve 60 giorni dalla notificazione ovvero da uno di quei fatti del tutto eccezionali:
dolo, collusione, falso reperimento di un documento non conosciuto nel primo grado di giudizio ovvero 6
mesi dalla pubblicazione della sentenza salvo il caso di nullità del ricorso introduttivo o della sua
notificazione. Dove si notifica il ricorso recante l’impugnazione? Qui abbiamo la disposizione che ci dice
come l’impugnazione debba essere notificata nella RESIDENZA DICHIARATA o nel DOMICILIO ELETTO DALLA
PARTE nell’atto di notificazione della sentenza o in difetto presso il difensore o nella residenza dichiarata o
nel domicilio eletto per il giudizio e risultante dalla sentenza. Quindi notificata nella residenza o nel
domicilio eletto della parte o in difetto presso il difensore. Questo nell’ipotesi in cui la parte si sia costituita
in giudizio. Nel caso in cui la parte non si costituisce in giudizio ( parte resistente o controinteressata) dove
verrà effettuata la notificazione? Vale la prima porzione del primo comma dell’articolo 93: deve essere
notificata nella residenza, non la residenza dichiarata o eletta se la parte non si è costituita o non ha
dichiarato né eletto alcunchè ma nel luogo di residenza del destinatario. Per scoprire la residenza si
presuppone la ricerca anagrafica dei registri di stato civile del luogo di presunta residenza e quindi se il
ricorrente non conosce esattamente il luogo di residenza del soggetto controinteressato( il problema non
vale per le amministrazione che hanno una loro sede fisica e quindi un loro indirizzo, un luogo dove
notificare e quindi hanno una PEC presso il quale notificare. Lo stesso vale per le persone giuridiche iscritti
in registri come il registro della camera di commercio che hanno anch’essi indirizzi di PEC dove si possono
notificare gli atti). Per le persone fisiche il problema è significativo che oggettivamente talvolta costituisce
un ostacolo alla notificazione. Ed è anche la ragione per cui quando vi sono ricorsi con molti destinatari
persone fisiche come controinteressati si preferisce procedere con la notifica per PUBBLICI PROCLAMI
perché essa non dovendo richiedere una notificazione presso il domicilio ma una forma di pubblicità molto
diversa, non richiede queste annose verifiche. Il secondo comma dell’articolo 93 prevede che :” qualora la
notificazione abbia avuto esito negativo perché il domiciliatario si è tarsferito senza notificare una formale
comunicazione alle altre parti, la parte che intende proporre l’impugnazione può presentare al presidente
del tribunale amministrativo regionale o al presidente del consiglio di stato, secondo il giudice adito con
l’impugnazione un’istanza corredata dell’attestazione dell’omessa notificazione per la fissazione di un
termine perentorio per il completamento della notificazione o per la rinnovazione dell’impugnazione”. Può
capitare cioè che la parte non costituita ovvero la parte costituita a mezzo di difensore cambino il proprio
domicilio o indirizzo nel corso del giudizio. Può capitare che l’avvocato cambi l’indirizzo PEC o cambi
l’indirizzo dello studio così come lo può cambiare la parte. Cosa accade in questa ipotesi? L’avvocato della
controparte che deve notificare l’atto di appello lo notifica tempestivamente nei 60 giorni ma la PEC
contenente la notifica gli torna indietro perché l’indirizzo è sconosciuto. A questo punto è evidente che
l’onere processuale della parte che propone l’impugnazione in qualche modo è stato assolto nel rispetto
delle regole e che l’altra parte quella che ha mutato indirizzo nel corso del giudizio non si è premurata di
comunicare il mutamento del domicilio eletto. Onde evitare che questa inosservanza di una regola di
correttezza professionale venga in danno dell’altra parte si prevede che in questa ipotesi di mancata
comunicazione la notifica malamente effettuata perché l’indirizzo è mutato dal ricorrente in appello o altro
proponente impugnazione possa essere nuovamente effettuata con l’assegnazione di un termine ad hoc
richiesto e consentito dal presidente del giudice adito, dal presidente titolare dell’ufficio giudiziario adito
( TAR o consiglio di stato a seconda delle impugnazioni) il quale assegnerà un termine entro il quale
rinotificare presso un possibile nuovo indirizzo se conosciuto ovvero attraverso altre forme di notifica
ultima delle quali è la NOTIFICA AI SOGGETTI IRREPERIBILI disciplinata dall’articolo 140 codice di procedura
civile: notifica nel comune dell’ultimo domicilio residenza nota mediante affissione all’ALBO PRETORIO di
quel comune. Ovviamente si tratta di rarissimi casi ma è bene conoscerli perché da essi deriva la ricevibilità
del rimedio di impugnazione. L’articolo 94 disciplina il deposito delle impugnazioni. Già in primo grado il
ricorso viene notificato e poi depositato. Anche nei giudizi di impugnazione il ricorso deve essere depositato
nella segreteria del giudice adito a pena di decadenza entro 30 giorni dall’ultima notificazione ai sensi
dell’articolo 45, unitamente a una copia della sentenza impugnata e alla prova delle eseguite notificazioni.
Quindi il termine di deposito salvo le ipotesi di termini dimidiati in particolari materie è di 30 giorni dalla
notificazione, dall’ultima notificazione se ve n’è più di una. Si depositerà insieme al ricorso recante
l’impugnazione la sentenza gravata e le prove delle avvenute notifiche. In questo modo, notifica e deposito
si è instaurato il rapporto processuale. Le parti sono edotte dell’esistenza di un giudizio di impugnazione
verso la sentenza; la sentenza che pure è esecutiva non passa in giudicato e depositato il ricorso nella
segreteria del giudice adito si avvia il processo nelle sue fasi di impugnazione, nelle sue diverse fasi. Quindi,
così come nel ricorso di primo grado, l’inutile decorso del termine di impugnazione soprattutto del termine
di impugnazione per la proposizione dell’azione di annullamento determina l’inoppugnabilità del
provvedimento amministrativo e quindi salvo l’esercizio di poteri di autotutela in termini ragionevoli il
provvedimento non è più eliminabile, allo sstesso modo la sentenza del giudice di primo grado laddove non
appellata nel termine previsto dall’articolo 92 che abbiamo appena letto, la sentenza passa in giudicato.
Quindi, vi è un effetto fondamentale non soltanto connesso all’instaurazione del rapporto processuale ma
anche in relazione alle conseguenze derivanti dalla mancata tempestiva impugnazione sulla sentenza
oggetto di contestazione in appello. Il passaggio in giudicato determina effetti sostanzialmente irrimediabili
o definitivi salvo l’attivazione di rimedi straordinari di impugnazione. Notificazione e deposito come
essenziali per l’instaurazione del rapporto processuale. L’articolo 95 si occupa delle parti del giudizio di
impugnazione. Così come abbiamo visto in primo grado, anche in appello e anzi meglio in appello e nelle
altre impugnazioni il legislatore si preoccupa di indicarci quali sono le parti del giudizio di impugnazione.
L’impugnazione della sentenza pronunciata in causa inscindibile o in cause tra loro dipendenti è notificata
in tutte le parti in causa e negli altri casi alle parti che hanno interesse a contraddire. Quindi il rapporto
processuale trova la sua completezza e quindi il rispetto del principio dell’integrità del contraddittorio
quando l’impugnazione è notificata a tutte le parti in causa e alle parti che hanno interesse a contraddire.
Ma anche in questo caso come nel giudizio di primo grado, il termine decadenziale per la proposizione
dell’appello non vale per la notifica a tutte queste parti. Sarebbe un onere talvolta eccessivo laddove il
giudizio si svolga con un numero di parti molto elevate e quindi anche in questo caso il comma 2 prevede
che l’impugnazione debba essere notificata a pena di inammissibilità nei termini previsti dall’articolo
92( brevi o lunghi: 60 giorni o sei mesi ) ad almeno una delle parti interessate a contraddire. Questo
consente che anche successivamente alla prima notifica, quella effettuata nei confronti di una delle parti
interessate a contraddire si possa integrare il contraddittorio nei confronti di tutte le altre parti nel giudizio.
Questo può valere in via spontanea: cioè l’avvocato notifica una delle parti e poi subito dopo si affretta a
notificare a tutte le altre ma può avvenire anche per ordine del giudice e questo ce lo spiega il comma
successivo comma 3:” Se la sentenza non è stata impugnata nei confronti di tutte le parti di cui al comma 1,
il giudice ordina l’integrazione del contraddittorio fissando il termine entro cui la notificazione deve essere
eseguita nonché la successiva udienza di trattazione”. In caso di mancata integrazione del contraddittorio
nel termine assegnato IL GIUDIZIO DIVENTA IMPROCEDIBILE. L’impugnazione è dichiarata improcedibile se
nessuna delle parti provvede all’integrazione del contraddittorio nel termine fissato dal giudice. Qui il
legislatore si perde e passa subito a considerare la posizione del consiglio di stato. Si era parlato in realtà di
GIUDICE ADITO NON DI CONSIGLIO DI STATO nell’articolo 94 perché mentre l’appello si propone dinanzi al
consiglio di stato ma anche in Sicilia dinanzi al Consiglio di giustizia amministrativa della regione siciliana la
revocazione non è detto che si proponga al consiglio di stato perché va proposta di fronte allo stesso
giudice che l’ha pronunciata. Quindi se la sentenza del TAR è passata in giudicato, non è che poi
proponiamo l’appello essendo passata in giudicato, proponiamo il giudizio di revocazione. Se va proposta
dinanzi allo stesso giudice il giudice dell’impugnazione non è il consiglio di stato ma il TAR. Quindi il
consiglio di stato ma il discorso si estende al consiglio di giustizia amministrativa della regione siciliana, ai
TAR, ai tribunali di giustizia amministrativa in Alto Adige e Trentino il giudice adito se riconosce che
l’impugnazione è MANIFESTAMENTE IRRICEVIBILE e lo è quando SONO SCADUTI I TERMINI
DECADENZIALI( quindi violati i termini di cui all’articolo 92 e 93) INAMMISSIBILE quando non vi sono gli
elementi essenziali del rapporto processuale ovvero LA LEGITTIMAZIONE E L’INTERESSE o IMPROCEDIBILE
quando sopravviene la mancanza di interesse o anche molto impropriamente la mancata integrazione del
contraddittorio entro il termine. La mancata notificazione entro il termine fissato ai controinteressati
necessari dopo l’ordine del giudice non è un’improcedibilità anche se lo dice il legislatore ma è una
irricevibilità perché è una violazione del termine decadenziale di notifica del ricorso oppure INFONDATA
può non ordinare l’integrazione del contraddittorio quando l’impugnazione di altre parti è preclusa o
esclusa. Perché il consiglio di stato o il giudice dell’impugnazione non deve ordinare l’integrazione del
contraddittorio quando l’impugnazione è manifestamente irricevibile, inammissibile, improcedibile o
infondato? L’integrazione del contraddittorio è importante perché consente a monte IL DIRITTO DI DIFESA.
Quindi nell’ipotesi in cui l’esercizio del diritto di difesa non è necessario perché il ricorso è comunque
destinato a perire per una delle ragioni in rito che abbiamo detto o una delle ragioni in merito (manifesta
irricevibilità, improcedibilità, infondatezza). E’ inutile stare a scomodare tutti i controinteressati che
esercitino il loro diritto di difesa perché quel diritto di difesa cioè la tutela della situazione giuridica
soggettiva non è minimamente messo in pericolo da un ricorso che è manifestamente irricevibile,
improcedibile, inammissibile o infondato. Quindi non c’è neanche bisogno di scomodare i controinteressati
che non hanno ricevuto la notifica. Basta rigettare l’appello o l’impugnazione e la storia finisce lì. Questo in
ragione di un altro principio del processo amministrativo che è il principio di ECONOMICITA’. Cosa accade
quando in giudizio che ha molte parti la sentenza venga a essere oggetto di contestazione di più parti.
Ipotizziamo tanti ricorsi con tanti ricorrenti avverso un medesimo provvedimento( una graduatoria
concorsuale) a un certo punto del giudizio, il presidente del TAR adito dispone la riunione di tutti questi
ricorsi per una parziale connessione soggettiva cioè la medesima amministrazione pubblica resistente che
ha bandito il concorso e per una connessione oggettiva , la medesima graduatoria che viene contestata da
molti ricorrenti che si trovano in posizione non utile per una erronea valutazione di un certo tipo di titoli.
Nell’ipotesi in cui a seguito di riunione di ricorsi in primo grado vi siano più parti originariamente ricorrenti
risultate soccombenti e ognuna di esse proponga il suo appello succede che ci sono più impugnazioni
avverso la medesima sentenza. Tutte queste parti non possono fare un unico appello perché ci sono
posizioni IN CONTRASTO. Tutte queste parti sono in una posizione di conflitto di interessi processuali
perché ciascuna vuole vincere il medesimo posto e quindi non possono agire tutte insieme a tutela della
loro situazione giuridica soggettiva perché la tutela della situazione giuridica soggettiva di una delle parti
esclude almeno in tesi il soddisfacimento di quella delle altre. Ci sono più impugnazioni ma è evidente che il
rischio di impugnazioni plurime avverso un’unica sentenza va evitato per evitare il contrasto di giudicati
nell’ipotesi in cui l’impugnazione finisca in sezioni diverse dello stesso giudice o venga deciso dalla stessa
sezione in tempi diversi con esiti diversi. Per assicurare dunque l’uniformità dei giudicati ma anche la
concentrazione delle tutele, l’economia processuale, la razionalità dell’organizzazione della giustizia
l’articolo 96 prevede che:” tutte le impugnazioni proposte separatamente contro la stessa sentenza devono
essere riunite in un solo processo. Possono essere proposte impugnazioni incidentali, ai sensi degli articoli
333 e 334 codice procedura civile”. Questo ovviamente non c’entra nulla con le impugnazioni avverso la
sentenza ma riguardano la facoltà delle parti controinteressate rispetto alla sentenza pronunciata di poter
introdurre un appello incidentale nella parte in cui la sentenza non ha dato soddisfazione ai
controinteressati, per esempio con un parziale accoglimento oppure non considerando le tesi difensive
spiegate dai controinteressati e quindi per le stesse ragioni e con la stessa logica propria del ricorso
incidentale cioè CONTESTARE UNA PARTE DIVERSA DEL PROVVEDIMENTO IMPUGNATO( questo in primo
grado) con la stessa logica si potrà impugnare una parte diversa della sentenza impugnata dalle parti
appellanti o ricorrenti con altro mezzo di impugnazione. Quindi le impugnazioni incidentali sono di solito
proposte dai soggetti controinteressati risultati vittoriosi in primo grado che non ricorrono in via di azione
immediatamente con l’atto di appello o con altra impugnazione ma possono proporre ricorso incidentale in
appello nell’ipotesi di proposizione del ricorso principale. Con l’impugnazione incidentale possono essere
impugnati anche capi autonomi della sentenza. Tuttavia se l’impugnazione principale è dichiarata
inammissibile, l’impugnazione incidentale perde ogni efficacia. La disciplina è identica a quella del ricorso
incidentale. L’impugnazione incidentale esiste e mantiene la sua valenza processuale e quindi consente di
conseguire una pronuncia solo nell’ipotesi in cui il ricorso principale, l’impugnazione principale sia presente
ed esaminata nel merito. Se l’impugnazione principale è esaminata solo in rito e viene dichiarata
inammissibile, l’impugnazione incidentale perde ogni efficacia. Qui parla solo di inammissibilità ma il
discorso vale anche per l’irricevibilità e improcedibilità perché in tutte le ipotesi di sentenza negativa in rito
non c’è nessuna ragione perché il giudice di secondo grado si occupi o preoccupi di definire un ricorso
incidentale. L’impugnazione incidentale deve essere proposta dalla parte entro 60 giorni dalla data in cui si
è perfezionata nei suoi confronti la notificazione dell’impugnazione principale e depositata unitamente alla
prova dell’avvenuta notificazione nel termine di cui all’articolo 45. Anche per l’impugnazione incidentale il
termine di 60 giorni dalla notificazione dell’appello o di altra impugnazione. Il sesto comma dell’articolo 96
si preoccupa del disordine delle segreterie dei giudici di appello, in particolare del consiglio di stato. Può
capitare cioè che nonostante l’unicità del giudice di appello nella giurisdizione amministrativa e salvo le
ipotesi di ricorso dinanzi al CGA, nonostante il giudice di appello sia solo il consiglio di stato può capitare
che più impugnazioni avverso la medesima sentenza non vengano riunite. Il presidente del consiglio di stato
non si accorge di questo dato; fra l’altro il presidente non se ne può neanche accorgere perché la assegna
alla sezione competente. Se per esempio c’è un errore nell’assegnazione alla sezione competente, quindi
tutte le impugnazioni vanno a finire alla sezione competente e un’unica impugnazione viene per errore
trasmessa ad altra sezione giurisdizionale del consiglio di stato, chiaramente non c’è modo per il presidente
di questa sezione di sapere che in un’altra sezione ce ne sono tante altre. Quindi può capitare che
un’impugnazione sfugga alla riunione. Per evitare che ci siano conseguenze dalla violazione della regola
della riunione, il comma 6 ci dice che:” in caso di mancata riunione di più impugnazioni ritualmente
proposte contro la stessa sentenza, la decisione di una delle impugnazioni non determina l’improcedibilità
delle altre”. E’ tuttavia raro che questa mancata riunione continui fino all’esito del giudizio perché se il
presidente non se ne accorge nel corso del giudizio se ne dovrebbero accorgere le parti soprattutto la parte
pubblica appellata. Quando la parte pubblica appellata ma anche appellante contesta la sentenza con
plurimi appelli e si rende conto che tutte le cause sono fissate in una certa sezione, in una certa udienza
tutte insieme e un’unica altra impugnazione non è fissata nella stessa data con lo stesso collegio, nella
stessa udienza, nella stessa sezione sarà la parte a rilevare e a richiedere la riunione onde evitare un
conflitto tra giudicati. In ogni caso questo errore non determina l’improcedibilità delle altre impugnazioni.
L’articolo 97 ci dice che nel giudizio di impugnazione è sempre possibile l’intervento da parte di chi vi abbia
interesse. L’intervento studiato già nel giudizio di primo grado che può essere AD ADIUVANDUM O AD
OPPONENDUM è un intervento dipendente non autonomo nel quale l’interveniente non tutela una
situazione giuridica soggettiva propria che avrebbe dovuto tutelare direttamente con un proprio atto di
ricorso o impugnazione, ma un interesse ADESIVO DIPENDENTE direbbero i processualcivilisti. Possibile nel
giudizio di impugnazione sia il ricorso incidentale sia l’intervento da chi vi abbia interesse. Questa è la fase
di instaurazione del rapporto processuale e le facoltà che le singole parti hanno di introdurre, ampliare o
precisare la domanda. Dopo la fase dell’instaurazione del rapporto processuale vi è una seconda fase solo
EVENTUALE come abbiamo detto quando abbiamo parlato del primo grado di giudizio che è la FASE
CAUTELARE del processo amministrativo che c’è non soltanto in primo grado ma anche in appello e perché
c’è in appello la fase cautelare? PER SOSPENDERE L’ESECUZIONE DELLA SENTENZA. Atteso che le sentenze
sono immediatamente esecutive e atteso che la proposizione dell’impugnazione non determina la
sospensione automatica dell’esecutività delle sentenze come invece accade per le SENTENZE DEL GIUDICE
CONTABILE, allora sarà necessario prevedere una fase processuale eventuale volta alla sospensione
dell’esecutività della sentenza. Per le stesse ragioni che giustificavano la tutela cautelare nel giudizio di
primo grado, evitare che la durata del giudizio precluda la possibile soddisfazione finale all’esito del giudizio
medesimo in modo irrimediabile. Salvo quanto disposto dall’articolo 111 , il giudice dell’impugnazione su
istanza di parte valutati i motivi proposti e qualora dall’esecuzione possa derivare un pregiudizio grave e
irreparabile dispone la sospensione dell’esecutività della sentenza impugnata nonché le altre opportune
misure cautelari con ordinanza pronunciata in camera di consiglio. Esattamente una replica di quel giudizio
cautelare collegiale che abbiamo studiato quando abbiamo studiato l’articolo 55 codice processo
amministrativo. L’esistenza del fumus boni iuris valutati i motivi proposti ( ovviamente valutati e ritenuti
credibili perché se i motivi sono manifestamente infondati nulla quaestio) e l’esistenza di un pregiudizio
grave e irreparabile e infatti il comma 2 dell’articolo 98 si premura di ricordarci come questo giudizio,
questa fase del giudizio di appello , l’impugnazione in genere si svolge con le stesse modalità in quanto
compatibili del libro II titolo II proprio le disposizioni dettate dall’articolo 55 e seguenti del cpa. La tutela
cautelare è anche in questo caso suscettibile di una tutela anticipata, quindi una tutela monocratica; qui
non se ne parla ma l’applicabilità per quanto compatibile del libro II titolo II significa che oltre alla tutela
collegiale quella ordinaria sarà possibile chiedere una tutela monocratica al presidente della sezione del
consiglio di stato o giudice adito che si occupa del ricorso in impugnazione. Quindi anche la tutela cautelare
monocratica in appello è prevista. Quale tutela non è possibile nel giudizio di appello? Allora le possibili
forme di tutela sono la tutela monocratica, collegiale e ante causam. Le uniche forme di tutela possibili nel
giudizio di appello sono la tutela monocratica e soprattutto quella collegiale. E’ esclusa la tutela ante
causam perché in appello il giudizio ci è stato e si è anche consumato il primo grado di giudizio. Il rapporto
tra tutela monocratica e collegiale in appello soffre di una importante differenza strutturale dovuta al
numero dei magistrati che intervengono nella pronuncia cautelare. Nel giudizio al TAR, il collegio decide
con 3 magistrati. Nel giudizio di appello la sezione giurisdizionale del consiglio di stato salvo che siamo in
adunanza plenaria decide con il concorso di 5 magistrati. Quindi la decisione monocratica da parte del
presidente mentre nell’ipotesi di un collegio a 3 è un’eccezione che postula il sopravanzare della decisione
di altri due componenti del collegio; qui postula il sopravanzare o anticipare la decisione di 4 magistrati. Il
presidente nonostante quello di una sezione del consiglio di stato sia sempre persona molto autorevole è
sempre molto attento nell’esercitare in via monocratica la tutela cautelare preferendo sempre discuterla in
sede collegiale con i suoi altri 4 membri del collegio e magari convincendoli dell’opportunità di concederla o
negarla ma senza assumere decisioni monocratiche. Quindi l’eccezionalità della misura monocratica in
appello è ancor più spiccata. L’unica ragione per cui comunque gli avvocati chiedono tutela cautelare in
appello è perché nel libro II titolo II quando si chiede la tutela monocratica il presidente anche se rigetta
l’istanza è tenuto a fissare la discussione della tutela cautelare collegiale nella prima camera di consiglio
utile. Quindi per anticipare la discussione in camera di consiglio gli avvocati pur consapevoli che non
conseguiranno il risultato favorevole in via monocratica la chiedono comunque in modo da ottenere
un’anticipazione della discussione in camera di consiglio. L’articolo 99 cpa analisi. L’adunanza plenaria del
consiglio di Stato come indicato nei primi articoli del nostro codice è previsto che mentre le sezioni del
consiglio di stato giurisdizionali decidono con il concorso di 5 magistrati, per alcuni casi che sono quelli
disciplinati dall’articolo 99 il collegio è costituito da 13 magistrati. Il numero è dettato in relazione
all’originaria composizione del consiglio di stato in tre sezioni giurisdizionali: La quarta, la quinta e la sesta.
L’idea basilare del legislatore è che le sezioni giurisdizionali sono 3: adunanza plenaria significa che vi
devono stare dei rappresentanti di ciascuna sezione, mettiamo quattro rappresentanti per sezione e il
presidente del consiglio di stato. Quindi il presidente, quattro magistrati per sezione giurisdizionale di cui
almeno un presidente di sezione per ciascuna sezione giurisdizionale. Quindi il presidente del consiglio di
stato, un presidente per ciascuna sezione e siamo a 4, tre magistrati per ciascuna sezione e siamo a 13. Da
qui il numero. Il problema è che il consiglio di stato via via ha aumentato le sezioni giurisdizionali; prima
hanno trasformato in giurisdizionale la sezione III, poi hanno trasformato in giurisdizionale la seconda e sin
qui i numeri non tornavano perché moltiplicando per 4 non si raggiungeva il 13 e moltiplicando per 3 non si
raggiungeva in difetto. Finalmente dal 1 gennaio per un caso del destino l’istituzione della settima sezione
del consiglio di stato farà si che si ritornerà a poter ragionare in multipli perché essendo sei le sezioni
giurisdizionali e non 3 sarà possibile ipotizzare di moltiplicare due per sei dodici e quindi prevedere il
concorso di due magistrati per sezione giurisdizionale con il concorso di un presidente e di un consigliere o
di due consiglieri ma comunque si ritornerà alla possibilità che la plenaria sia costituita da un numero pari
di magistrati per ciascuna sezione oltre il presidente del consiglio di stato. Il presidente del consiglio di stato
non siede in altro collegio giurisdizionale se non nell’adunanza plenaria perché il presidente del consiglio di
stato non è assegnato a nessuna delle sezioni giurisdizionali solo alla plenaria. L’adunanza plenaria è un
organo particolarmente autorevole perché ci sono magistrati di tutte le sezioni che dovrebbero assicurare
con una voce corale la funzione nomofilattica, un po’ come con la stessa funzione esistono organi analoghi
sia nella corte di cassazione( le sezioni unite civili e penali) sia nella corte dei conti( le sezioni riunite ) organi
in cui il concorso di un numero elevato di magistrati rappresentativi di tutte le diverse sezioni assicura una
nomofilachia dell’orientamento giurisprudenziale. Da qui la costituzione e la composizione di questo
organo. L’articolo 99 disciplina come vengono deferite le questioni all’adunanza plenaria. Si intitola
deferimento all’adunanza plenaria. Ricordiamoci sempre di distinguerla dall’adunanza GENERALE DEL
CONSIGLIO DI STATO che è un organo con funzioni consultive cui possono partecipare tutti e 100 i
consiglieri di stato. Esercita al massimo grado le funzioni CONSULTIVE di cui all’articolo 100 costituzione.
Non c’entrano niente con l’adunanza plenaria. Peraltro siedono in sale diverse di palazzo Spada.
Ovviamente l’adunanza generale richiedendo più sedie occupa LA SALA DELLE FESTE di Palazzo Spada e la
magnifica sala di Pompeo e invece l’adunanza plenaria siede nella SALA CHE OCCUPAVA ANCHE LA IV
SEZIONE e che è la SALA STORICA della sezione giurisdizionale dove c’è il busto di Silvio Spaventa, gli
affreschi, il soffitto a cassettoni. Come e perché vengono deferite le questioni all’adunanza plenaria? Le
questioni più importanti vanno in plenaria e in estrema sintesi è proprio così. Vanno in plenaria le questioni
di PARTICOLARE IMPORTANZA ovvero le questioni nelle quali vi sia un conflitto di orientamenti
giurisprudenziali tra le diverse sezioni. La sezione cui è assegnato il ricorso se rileva che il punto di diritto
sottoposto a suo esame( qui si parla al singolare ovviamente uno dei punti di diritto sottoposto all’esame
della sezione) ha dato luogo o possa dare luogo a contrasti giurisprudenziali( si distinguono due ipotesi: Che
il contrasto sia ATTUALE o che sia POTENZIALE) quindi abbia dato luogo quando più sezioni la pensano
diversamente sull’interpretazione di una medesima norma giuridica ovvero potenzialmente ci potrebbe
essere questo conflitto con ordinanza emanata su richiesta delle parti o d’ufficio ( anche altre due ipotesi:
rimessione d’ufficio della sezione ovvero rimessione a istanza di parte) può rimettere il ricorso all’esame
dell’adunanza plenaria. L’adunanza plenaria qualora ne ravvisi l’opportunità può anche restituire gli atti alla
sezione e rimandarglieli indietro non ritenendo la questione importante. Rarissimamente capita perché
sarebbe un affronto alla sezione che ha ritenuto la questione importante. Vi è anche un altro modo per
accedere alla rimessione o al deferimento all’adunanza plenaria che è previsto al secondo comma:” il
presidente del consiglio di stato prima della decisione su richiesta delle parti o d’ufficio può rimettere il
ricorso all’esame dell’adunanza plenaria, qualunque ricorso per risolvere questioni di massima di
particolare importanza ovvero per dirimere contrasti giurisprudenziali. Gli accessi alla plenaria possono
essere distinti: su domanda di parte o d’ufficio da parte della sezione, su domanda si parte o d’ufficio da
parte del presidente. Perché su domanda di parte alla sezione e al presidente? Perché la parte potrebbe
chiedere la rimessione alla plenaria. Dopodiché si vede recapitare l’avviso di udienza dinanzi alla sezione
semplice. Questo significa che la sezione non ha ritenuto che la sezione sia meritevole di un’indagine della
plenaria e allora se gli avvocati sono tignosi e ritengono che una questione ci sia e che magari la sezione
non l’ha rimessa alla plenaria perché vuole continuare a decidere come le pare possono formulare istanza
al presidente del consiglio di stato perché valuti lui l’opportunità di deciderla o meno in plenaria. C’è poi la
possibilità che sia il presidente del consiglio di stato d’ufficio a decidere la rimessione in plenaria e questa
modalità di accesso è un po’ più criticata in dottrina perché potrebbe violare IL PRINCIPIO DEL GIUDICE
NATURALE PRECOSTITUITO PER LEGGE ma in modo serio perché il presidente del consiglio di stato è anche
componente della plenaria. Quindi se decide di mandarla alla plenaria significa che decide di mandarlo
davanti a se stesso e questo ovviamente nella dottrina che è molto attenta alla tutela dei principi anche
solo dal punto di vista formale ovviamente perché nessuno ipotizza che il consiglio di stato si diverta a
violare il principio del giudice naturale precostituito per legge, è un aspetto che desta qualche perplessità
più teorica che pratica perché mai il presidente del consiglio di stato ha deciso d’ufficio di inviarla alla
plenaria. Quando ci sono contrasti giurisprudenziali attuali o potenziali o questioni di massima si particolare
importanza la sezione o il presidente possono deferire alla plenaria. Questa rimessione alla plenaria è
obbligatoria quando la sezione in presenza di un caso già deciso dalla plenaria in un modo ritenga di
volersene discostare. Questa disposizione introduce per la prima volta nel processo amministrativo nel
2010 IL PRINCIPIO DEL PRECEDENTE VINCOLANTE. Nel giudizio di appello laddove una questione sia già
stata decisa dal giudice autorevole cioè dall’adunanza plenaria in un certo modo, non è possibile discostarsi
dal precedente giurisprudenziale ma è obbligatorio ove si voglia discostarsene rimettere la questione alla
plenaria onde la plenaria possa riconsiderare e in ipotesi mutare orientamento. Questa disposizione è
molto forte e NON VALE PER IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO. I TAR possono fare quello che gli pare, possono
decidere anche bugerandosene della soluzione data dall’adunanza plenaria perché evidentemente poi in
appello il tema della decisione in conflitto con l’orientamento più autorevole della plenaria può essere
riproposto e riesaminato. Quindi mentre i giudici di primo grado non sono vincolati al precedente
giurisprudenziale dell’adunanza plenaria, la funzione nomofilattica in appello è fortissima e strettissima.
L’adunanza plenaria decide l’intera controversia per evitare le spolette tra la plenaria e la sezione semplice
e quindi allungare oltre modo il processo salvo che ritenga di enunciare il principio di diritto e di restituire
per il resto il giudizio alla sezione remittente. Di solito la restituzione alla sezione remittente viene fatta
quando la questione di diritto controversa è una ma ci sono molteplici altre questioni da decidersi ovvero
valutazioni in ordine al risarcimento del danno da decidere. La plenaria non si sporca le mani con le
questioni minute e quindi in quel caso la rimette alla sezione. Un ulteriore facoltà che ha la plenaria è una
deroga al principio della natura del processo amministrativo come processo di diritto soggettivo cioè volto
alla tutela di situazioni giuridiche soggettive dei ricorrenti e cioè anche se il ricorso è irricevibile,
inammissibile lo dice il comma 5 :” se ritiene che la questione sia di particolare importanza, l’adunanza
plenaria può comunque enunciare il principio di diritto nell’interesse della legge”, qui addirittura esiste
un’ipotesi di funzione giurisdizionale nell’interesse della legge anche quando dichiara il ricorso irricevibile,
inammissibile o improcedibile ovvero deve disporre l’estinzione perché soccorre una delle cause di
estinzione del processo. In tali casi, la pronuncia dell’adunanza plenaria non ha effetto sul provvedimento
impugnato. Serve solo a fare giurisprudenza. Casi rari però questo segnala l’importanza di questo rimedio.
Queste disposizioni concludono il titolo I e la buona metà del nostro libro III sulle impugnazioni.

L’APPELLO: è un mezzo di impugnazione ordinario, l’unico, di contestazione di una sentenza del giudice
amministrativo di primo grado. L’articolo 100 dice:” Avverso le sentenze dei tribunali amministrativi
regionali è ammesso appello al consiglio di stato ferma restando la competenza del consiglio di giustizia
amministrativa per la regione siciliana per gli appelli proposti contro le sentenze del tribunale
amministrativo regionale per la Sicilia, sede di Palermo e sede di Catania”. L’appello si propone dinanzi al
consiglio di stato e in Sicilia dinanzi al CGA. L’articolo 101 intitolato contenuto del ricorso in appello
ripropone una norma simile a quella prevista nel libro II per il contenuto del ricorso di primo grado con una
sostanziale differenza. Siccome l’impugnazione è l’impugnazione di una sentenza e non di un
provvedimento amministrativo sarà necessario l’indicazione della sentenza impugnata, l’indicazione dei
capi della sentenza impugnata perché si possono impugnare alcuni capi e altri no e se non si impugnano
tutti capi della sentenza su quelli non impugnati cala il giudicato con tutte le conseguenze processuali e
sostanziali del caso e anche i motivi di impugnazione e vediamo cosa dice il comma 1 articolo 101:” il
ricorso in appello deve contenere l’indicazione del ricorrente , del difensore , delle parti nei confronti delle
quali è proposta l’impugnazione, della sentenza che si impugna, nonché l’esposizione sommaria dei fatti, le
specifiche censure contro i capi della sentenza gravata, le conclusioni , la sottoscrizione del ricorrente se sta
in giudizio personalmente ai sensi dell’articolo 22 comma 3 oppure del difensore con indicazione in questo
caso della procura speciale rilasciata anche unitamente a quella per il giudizio di primo grado”. Il comma 2
afferma:” Si intendono rinunciate le domande e le eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate nella
sentenza di primo grado”. Talvolta il giudice decide la sentenza di primo grado decidendo una questione
assorbendo tutte le altre. La tecnica dell’assorbimento è una tecnica che il giudice amministrativo di primo
grado usa per rendere più celere il suo pronunciarsi per cui se ha fondato un motivo di ricorso non li sta a
esaminare tutti, ne accoglie uno e gli altri li assorbe. Se la parte avversa propone appello (ipotizziamo che la
sentenza accoglie il ricorso per quel singolo motivo assorbendo tutti gli altri) l’amministrazione fa appello
dicendo che quel motivo è del tutto infondato. La parte vittoriosa in primo grado che è appellata dovrà
riproporre tutte le questioni dichiarate assorbite in primo grado se vuole evitare che su di esse il giudice di
appello trovi una preclusione processuale. Quindi, se si vogliono far rivivere i motivi assorbiti in primo grado
devono essere riproposti; questo gli avvocati talvolta lo dimenticano ma è un tema importante quanto alla
definizione corretta del perimetro dell’oggetto di impugnazione. In questo caso è molto importante una
differenza rispetto alla semplice costituzione in giudizio. Già nel giudizio di primo grado si prevede che le
parti debbano costituirsi in giudizio entro 20 giorni e questo non è un termine perentorio perché ci si può
costituire anche dopo; in appello però quel termine è perentorio LIMITATAMENTE ALLA RIPROPOSIZIONE
DELLE DOMANDE ED ECCEZIONI DICHIARATE ASSORBITE. Chi vuole riproporre domande ed eccezioni
dichiarate assorbite lo deve fare a pena di decadenza nei termini di costituzione in giudizio che per questo
limitato caso sono previsti a pena di decadenza. Possono proporre appello le parti tra le quali è stata
pronunciata la sentenza di primo grado, l’interventore può proporre appello soltanto se titolare di una
posizione GIURIDICA AUTONOMA, quindi sostanzialmente QUASI MAI. Le parti che non sono state evocate
nel giudizio di primo grado e quindi non sono parti nel giudizio di appello ci possono stare o no? Possono
proporre appello o no? Da una prima lettura dell’articolo 102:” possono proporre appello le parti fra le
quali è stata pronunciata la sentenza di primo grado” sembrerebbe di no. Vedendo i casi di opposizione di
terzo, in realtà questa previsione è contraddetta. E’ anche prevista la riserva facoltativa di appello nelle
ipotesi di sentenze non definitive. Rarissimo nel processo amministrativo che si faccia riserva facoltativa di
appello perché essendo facoltativa e non essendoci alcuna esigenza di pronunciarla e riservarsi, quasi
nessuno si riserva. Molto importante è la disposizione dell’articolo 104 che ci fa comprendere la natura del
giudizio appello. Nel giudizio di appello viene interamente rinnovato il giudizio di primo grado ovvero
l’oggetto del giudizio di appello si limita alla sentenza impugnata? Questo è un tema che è risolto
dall’articolo 104:” nel giudizio di appello non possono essere proposte nuove domande”. Costituisce il
divieto di NOVA IN APPELLO. Questo divieto non significa soltanto divieto di nuove domande ma anche
divieto di nuove prove con delle eccezioni. Da un lato non possono essere proposte nuove domande né
nuove eccezioni non rilevabili d’ufficio ma possono tuttavia essere chiesti gli interessi e gli accessori
maturati dopo la sentenza nonché il risarcimento dei danni subiti dopo la sentenza. Questa è una prima
deroga. Ancor più ampia è la deroga consentita dal comma 3:” possono essere proposti motivi aggiunti
qualora la parte venga a conoscenza di documenti non prodotti dalle altre parti nel giudizio di primo grado
da cui emergano vizi degli atti o provvedimenti amministrativi impugnati”. Il divieto di nova in appello trova
un temperamento molto significativo nel terzo comma dell’articolo 104: motivi aggiunti nuovi laddove
sovvenga l’evidenza di atti e documenti ignoti all’epoca del giudizio di primo grado e quindi che possono
essere introdotti per la prima volta in appello. Rispetto al divieto di introdurre nuovi mezzi di prova, l’inizio
della disposizione del comma 2 è secco e diretto:” non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono
essere prodotti nuovi documenti” sembrerebbe molto secco il precetto ma l’eccezione è più ampia dello
stesso divieto “SALVO che il collegio li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la
parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non
imputabile”. Mentre questa seconda eccezione è piuttosto di semplice comprensione, se io ritrovo un
documento di cui non avevo disponibilità ovviamente lo posso produrre in appello. Molto più complessa è
la lettura di questa altra parte “SALVO che il collegio li ritenga indispensabili ai fini della decisione della
causa”. Significa sostanzialmente che le parti ci debbono provare sempre perché poi sarà il collegio a
decidere se valutarli o meno e tendenzialmente il collegio li valuta perché il collegio ha sempre quell’idea
antica del giudice signore della prova. Questo inciso è una grave deroga al principio dispositivo perché
attribuisce al collegio una discrezionalità amplissima nel decidere se ammettere o non ammettere nuove
prove fondandola non su circostanze che giustificano la mancata esibizione in primo grado ma in base
semplicemente alla loro indispensabilità ai fini della decisione. Peraltro indispensabilità di tipo soggettivo.
Stabilisce il giudice quando è indispensabile o quando no. Soluzione molto dubbia ma comunque è quella
che ha scelto il nostro legislatore. Da ultimo rimessione della causa al primo giudice. Cosa succede in caso di
annullamento della sentenza di primo grado? Articolo 105 ce lo dice:” Il consiglio di stato rimette la causa al
giudice di primo grado soltanto se è mancato il contraddittorio, oppure è stato leso il diritto di difesa di una
delle parti, ovvero dichiara la nullità della sentenza, o riforma la sentenza o l’ordinanza che ha declinato la
giurisdizione o ha pronunciato sulla competenza o ha dichiarato l’estinzione o la perenzione del giudizio”. Il
giudizio di appello è interamente devolutivo, il giudice di appello decide della controversia salvo il caso in
cui è violato un principio fondamentalissimo quale quello alla difesa e all’integrità del contraddittorio si
debba restituire al primo giudice l’intera controversia onde garantire il doppio grado di giudizio
costituzionalmente tutelato. Solo nell’ipotesi di lesione del principio del contraddittorio è possibile la
rimessione al primo giudice, altrimenti (anche nei casi in cui il giudice ha DECLINATO la giurisdizione perché
siamo in presenza della stessa situazione cioè un giudice che non ha svolto il giudizio di primo grado o per
motivi di difetto di giurisdizione o competenza ovvero per un motivo ancora più significativo come
l’interesse del contraddittorio). Salvo questi casi il consiglio di stato pronuncia la sua sentenza e definisce il
giudizio.

LE IMPUGNAZIONI STRAORDINARIE: LA REVOCAZIONE

Analizziamo l’articolo 106:” salvo quanto previsto dal comma 3, le sentenze dei tribunali amministrativi
regionali e del consiglio di stato sono impugnabili per revocazione nei casi e nei modi previsti dagli articoli
395 e 396 del codice di procedura civile. Richiamo espresso alle regole di revocazione del codice del
processo civile limitandole alle ipotesi ivi previste dagli articoli. Contro la sentenza emessa nel giudizio di
revocazione sono ammessi i mezzi di impugnazione ai quali era originariamente soggetta la sentenza
impugnata per revocazione. E’ ammesso quindi l’appello avverso la sentenza di revocazione. Non è
viceversa ammessa LA REVOCAZIONE DELLA REVOCAZIONE PER EVITARE CHE LA PROPOSIZIONE
ALL’INFINITO DELL’AZIONE DI REVOCAZIONE DETERMINI L’IMPOSSIBILITA’ DI PASSAGGIO IN GIUDICATO,
quindi per evitare l’uso strumentale dell’impugnazione straordinaria con finalità elusive verso la formazione
del giudicato che è una cosa seria. Passiamo all’altro rimedio straordinario che è l’opposizione di terzo.
L’opposizione di terzo non era prevista nel processo amministrativo perché il processo amministrativo non
nasceva come un processo con una pluralità ampia di parti; di solito si ipotizzava un processo che avesse
una parte ricorrente e una pubblica resistente e al massimo un controinteressato. Viceversa con il
complicarsi dei rapporti amministrativi che vedono pluralità molto ampie di parti e con l’ampliarsi della
legittimazione processuale a soggetti titolari di interessi diffusi o adespoti come le associazioni
rappresentative di interessi collettivi e diffusi ( Italia Nostra, Legambiente) ovviamente si è posto il tema
della tutela del terzo e quindi con una bellissima sentenza della corte costituzionale del 1997 il professor
CAIANIELLO giudice della corte costituzionale con una sentenza molto importante dichiarò l’illegittimità
costituzionale delle norme sul testo unico delle leggi sul consiglio di stato nella parte in cui non
prevedevano l’opposizione di terzo nel processo amministrativo. Caianiello era un magistrato del consiglio
di stato ed era anche un professore di diritto amministrativo peraltro concluso la sua carriera universitaria
alla LUISS ( iniziata e conclusa) nella facoltà di economia, è stato anche ministro della giustizia e fece questa
sentenza storica per il processo amministrativo e questa sentenza ha poi dato luogo alle disposizioni degli
articoli 108 e 109 del codice del processo amministrativo. L’articolo 108 comma 1 dice:” Un terzo può fare
opposizione contro una sentenza del tribunale amministrativo regionale o del consiglio di stato pronunciata
tra altri soggetti ancorché passata in giudicato quando pregiudica i suoi diritti o interessi legittimi”. Poi
esiste anche l’opposizione di terzo di cui al comma 2:” gli aventi causa e i creditori di una delle parti
possono fare opposizione alla sentenza quando questa sia effetto di dolo o collusione a loro danno”. Chi è
competente nel giudizio di opposizione di terzo? Ce lo dice l’articolo 109:” E’ proposta davanti al giudice
che ha pronunciato la sentenza impugnata, salvo quanto previsto al comma 2. Se è proposto appello contro
la sentenza di primo grado, il terzo deve introdurre la domanda di opposizione di terzo intervenendo nel
giudizio di appello”. La norma sull’appello prevede che possono fare appello solo le parti dell’originario
giudizio di primo grado è vero MA se c’è un terzo costui non è che sta a proporre un’altra impugnazione
straordinaria cioè l’opposizione di terzo ma DEVE INTERVENIRE NEL GIUDIZIO DI APPELLO PROPOSTO DALLE
ALTRE PARTI. Solo se nessuna delle altre parti ha proposto appello farà opposizione di terzo dinanzi al
giudice che ha pronunciato la sentenza che lo ha ingiustamente pretermesso. Continuando:” Se
l’opposizione di terzo è già stata proposta al giudice di primo grado, questo lo dichiara improcedibile e se
l’opponente non vi ha ancora provveduto fissa un termine per l’intervento nel giudizio di appello ai sensi
del periodo precedente”. Questo sempre per ECONOMIA PROCESSUALE E CONCENTRAZIONE DEI GIUDIZI.

IL RICORSO PER CASSAZIONE: per motivi di giurisdizione le parti possono sollevare regolamento preventivo
di giurisdizione. E’ previsto dal libro I del codice del processo amministrativo. Così come si può proporre
all’inizio il ricorso per cassazione per motivi di giurisdizione si può proporre anche alla fine del giudizio
quando in primo grado o in appello non è stato accolto la contestazione del difetto di giurisdizione. Di solito
questo rimedio è usato come rimedio piuttosto dilatorio rispetto alla possibilità che sulla sentenza cadi il
giudicato. Tuttavia non mancano casi in cui effettivamente le questioni di giurisdizione ci siano e si decidano
alla fine perché le parti preferiscono avere ragione nel merito e solo quando poi nel merito hanno torto
eccepiscono o contestano davvero in modo definitivo la giurisdizione sperando di aver ragione nell’altra
giurisdizione. Quindi, capita che il ricorso per cassazione venga utilizzato alla fine e non all’inizio del
processo. Talvolta peraltro capita che qualora il giudice amministrativo esageri non solo sulla giurisdizione
ma anche sulla decenza gli avvocati che si arrabbiano qualora i giudici amministrativi eccedono e
soprattutto le PARTI SI ARRABBIANO tentano la strada del ricorso per cassazione ipotizzando che queste
abusive conclusioni del giudice di appello vengano a essere in qualche modo ricondotte nell’esorbitanza dai
limiti esterni della giurisdizione amministrativa. Non è un caso rarissimo che il giudice di cassazione abbia
annullato sentenza del consiglio di stato per violazioni di questa regola o principio. Raramente ma è
capitato quando il giudice amministrativo ha esagerato per qualche non commendevole ragione è capitato
che la cassazione sia intervenuta anche al di là dell’uso proprio del ricorso per cassazione. Il ricorso per
cassazione alimenta talvolta quei conflitti fra le due giurisdizioni, è un rimedio significativo nonostante il
suo essere straordinario. Quanto alle caratteristiche relative al rito, su esse non ci soffermiamo perché
come ci dicono gli articoli 110 e 111( disciplina di questo processo) è interamente demandata al codice del
processo civile perché il giudizio si svolge dinanzi alla corte di cassazione.

LIBRO IV: GIUDIZIO DI OTTEMPERANZA

E’ un libro composito perché sostanzialmente contiene due grandi materie: l’una il giudizio di
ottemperanza, il titolo I solo 5 articoli ma molto significativi, tutti gli altri titoli del libro che sono II,III,IV e V
su particolari riti. Un gruppo di riti speciali particolarmente importante nel contenzioso amministrativo è
quello relativo al titolo V: riti abbreviati relativi a speciali controversie tra cui dall’articolo 120 al 125 si
colloca IL CONTENZIOSO IN MATERIA DI CONTRATTI PUBBLICI. E’ un contenzioso che per valore e per
quantità costituisce parte cospicua del contenzioso amministrativo. Il giudizio di ottemperanza costituisce la
prima attribuzione in assoluto della giurisdizione amministrativa. Sin dalla legge abolitiva del contenzioso
amministrativo nell’allegato D sostanzialmente veniva ricordata anzi istituita una giurisdizione propria del
consiglio di stato. Ricordiamo che nel 1831 re Carlo Alberto aveva varato l’editto di Racconigi e aveva
istituito il consiglio di stato. Il consiglio di stato sedette per la prima volta a Torino a Palazzo Carignano che
tra l’altro era la casa di Carlo Alberto perché Carlo Alberto era una mira cadetta dei Savoia e quindi abitava
in questo bellissimo palazzo. Nel momento in cui ascese al trono di Sardegna si spostò a Palazzo Reale e
Palazzo Carignano fu rimandato al Demanio della Corona e poi assegnato al consiglio di stato. Lì già nel
1831 sedeva il consiglio di stato, nel 1865 con le leggi abolitive del contenzioso amministrativo si istituisce
per il consiglio di stato che all’epoca era un organo SOLO CONSULTIVO viene istituita una giurisdizione
propria. Quindi è il primo nucleo della giurisdizione amministrativa in senso compiuto e viene istituita per
consentire l’esecuzione delle pronunce dei giudici, degli unici giudici che esistevano dopo la legge abolitiva
del contenzioso amministrativo che erano i giudici ordinari. La giurisdizione ordinaria sui diritti civili e
politici. Quindi quell’organo amministrativo particolarmente qualificato presieduto dal re era considerato il
giusto luogo dove assicurare l’esecuzione delle sentenze dei giudici senza violare il principio di separazione
tra i poteri. Era impensabile che una amministrazione del regno venisse sottoposta alla ingerenza della
magistratura e quindi all’esecuzione giurisdizionale delle sentenze contro la pubblica amministrazione. Si
ipotizzò che questo compito non potendo ipotizzare che le sentenze restassero ineseguite da parte
dell’amministrazione, si pensò che questo compito potesse essere espletato da un organo amministrativo,
quindi nel rispetto della separazione dei poteri, un organo amministrativo distante o comunque talmente
autorevole da non essere condizionato nell’esecuzione delle pronunce giurisdizionali. Ed è così che il
consiglio di stato si trovò questo compito: un compito di giurisdizione propria tipicamente caratterizzato
dall’essere una cognizione di merito. Perché di merito? In primo luogo per la natura dell’organo che aveva
questo compito: giurisdizione propria si ma evidentemente organo amministrativo il consiglio di stato. In
secondo luogo perché dovendo eseguire anche in luogo delle amministrazioni pubbliche dei precetti
giurisdizionali doveva poter assumere in ultima istanza provvedimenti amministrativi e quindi quantomeno
doveva avere lo stesso potere che l’amministrazione pubblica in origine aveva avuto nell’emanazione del
provvedimento poi annullato. Quindi la natura di giurisdizione di merito in realtà è data proprio dalla
necessità di condividere la medesima natura del potere esercitato dall’amministrazione pubblica nei cui
confronti la sentenza o la pronuncia giurisdizionale veniva eseguita anche in via sostitutiva. Questa la genesi
della giurisdizione di ottemperanza così come nel 1865 viene pensata dal legislatore postunitario. Facendo
un lungo salto cronologico e giungendo fino al codice vediamo come queste disposizioni si preoccupano in
primo luogo di afre un elenco delle sentenze( singolarmente chiamati provvedimenti dall’articolo 112)del
giudice amministrativo che debbano essere eseguiti dalle pubbliche amministrazioni e dalle altre parti. Si
usa la parola provvedimenti perché il giudice amministrativo come anche altri giudici non si esprime solo
con sentenze, si esprime anche con ordinanze e quindi già dal comma 1 dell’articolo 112 comprendiamo
che il giudizio di ottemperanza è un giudizio di esecuzione di ogni comando che venga da parte di
un’autorità giudiziaria. Quale autorità giudiziaria? Perché nel 1865 l’autorità giudiziaria era solo l’autorità
giudiziaria ordinaria. Ma oggi ovviamente la giurisdizione è declinata in diversi ambiti e così il nostro
articolo 112 al comma 2 elenca le 5 tipologie di provvedimenti giurisdizionali che sono oggetto del giudizio
di ottemperanza. L’azione di ottemperanza può essere proposta per conseguire l’attuazione. Soffermiamoci
sull’azione di ottemperanza. Il legislatore riconosce che questo giudizio di ottemperanza è caratterizzato da
un’azione tipica e unica: nel giudizio di ottemperanza si può spendere un’unica azione. E’ quindi un diritto di
azione in senso proprio e formale che non viene qualificato come azione esecutiva secondo quanto si è
studiato nel corso di procedura civile nel libro sull’esecuzione che occupa numerosi articoli nel codice del
processo civile. Non è una esecuzione. Potremmo dire meglio che NON E’ SOLO ESECUZIONE, nel senso che
sicuramente nel giudizio di ottemperanza vi è la finalità di dare esecuzione a una sentenza ma il compito del
giudice dell’ottemperanza è un compito molto più esteso perché l’esecuzione della sentenza talvolta passa
anche attraverso l’adozione di atti, il compimento di operazioni, lo svolgimento di attività necessarie a
soddisfare il decisum contenuto nel provvedimento giurisdizionale. Da qui l’impiego di questa parola
ottemperanza; ottemperanza deriva da ottemperare cioè dare attuazione a un precetto distinta da
esecuzione anche a fine di discriminare sempre in quell’ottica ottocentesca che ha caratterizzato la genesi
dell’istituto, discriminare questo tipo di attribuzione dal giudizio esecutivo. In dottrina gli studiosi del
processo amministrativo hanno cercato alcuni di essi soprattutto coloro che sono più vicini agli studi del
processo civile, hanno cercato di qualificare questa azione come azione di esecuzione e hanno anche in
seno alla commissione di studi che ha poi esteso la bozza del codice del processo amministrativo provato a
scardinare la tradizione del giudizio di ottemperanza qualificandolo come giudizio di esecuzione di sentenze
e nonostante ciò la tradizione ha resistito a queste spinte culturali peraltro minoritarie e quindi rimaniamo
fermi nello studiare un’azione di ottemperanza. Ottemperanza di cosa? A delle sentenze del giudice
amministrativo passate in giudicato. Non segue il criterio cronologico nell’attribuzione dei compiti di
ottemperanza perché evidentemente è la lettera C la prima delle attribuzioni del giudice amministrativo
dell’ottemperanza e cioè le sentenze passate in giudicato e gli atri provvedimenti ad esse equiparate del
giudice ordinario al fine di ottenere l’adempimento dell’obbligo della pubblica amministrazione di
conformarsi per quanto riguarda il caso deciso al giudicato. Gli autori di questo articolo sono plurimi perché
tra la lettera A e la lettera C c’è una bella differenza dal punto di vista del suo contenuto e della sua portata
anche illustrativa. Quindi la lettera C la dobbiamo sempre considerare come rilevante non solo perché ci
dice che il giudice dell’ottemperanza consente l’attuazione delle sentenze passate in giudicato del giudice
ordinario e di tutti gli altri provvedimenti emanati da quest’ultimo con valore di sentenza ma dice anche
una cosa aggiuntiva che non vale solo per la lettera C ma vale per tutte le lettere di questo comma 2
dell’articolo 112 e cioè delinea la finalità del giudizio, qual è l’obiettivo che attraverso questa azione si può
perseguire al fine di ottenere l’adempimento dell’obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi
per quanto riguarda il caso deciso al giudicato. Quindi, troviamo in primo luogo l’affermazione dell’obbligo
di eseguire, dell’obbligo di conformarsi della pubblica amministrazione. Quando abbiamo parlato delle
sentenze del giudice amministrativo, abbiamo detto che il giudicato amministrativo produce o ha 3 effetti:
1) EFFETTO CONFORMATIVO; 2) EFFETTO PRECLUSIVO; 3)EFFETTO COSTITUTIVO. Questo precetto
evidentemente l’obbligo di conformarsi ci dice semplicemente che molti effetti la sentenza li può produrre
automaticamente. Quali effetti produce automaticamente la sentenza? Sicuramente l’effetto costitutivo.
L’annullamento del provvedimento contenuto nella sentenza non richiede di essere ottemperato. Anche
l’effetto preclusivo che costituisce sostanzialmente e tecnicamente un contenuto di divieto e
sostanzialmente la preclusione alla riproposizione del provvedimento che contrasti con la decisione
giurisdizionale potrebbe non necessitare di un giudizio di ottemperanza ma può capitare che questo divieto
venga direttamente in modo puntuale ovvero venga eluso. Quindi già in relazione all’effetto preclusivo di
ogni giudicato e del giudicato amministrativo in particolare il giudizio di ottemperanza attribuisce al giudice
amministrativo il compito di vigilare sul rispetto dell’effetto preclusivo del giudicato. Quindi quando
leggiamo nella lettera D comma 2 articolo 112 :” al fine di ottenere l’adempimento della pubblica
amministrazione di conformarsi alla decisione” la conformazione non si limita all’effetto conformativo ma si
estende sia all’effetto preclusivo sia all’effetto conformativo. L’effetto conformativo è quell’effetto in virtù
del quale una pubblica amministrazione dovrà agire, cioè rinnovare l’esercizio del proprio potere
conformandosi cioè seguendo i precetti, le indicazioni, gli orientamenti interpretativi, le soluzioni di
valutazione del fatto che nel giudicato sono state accertate e che sono cristallizzate in modo definitivo.
Quindi, per tutte le pronunce e i provvedimenti giurisdizionali di cui alle lettere da A alla lettera E la finalità
è quella di portare all’adempimento dell’obbligo dell’amministrazione di conformarsi al giudicato.
Conformarsi al giudicato ma non solo al giudicato; di portare l’adempimento dell’obbligo di conformarsi al
giudicato dei giudici civili, al giudicato lettera A del giudice amministrativo ma anche la lettera B delle
sentenze esecutive e degli altri provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo. Qui abbiamo
un’importante novità nel nostro codice, una novità già introdotta dalla LEGGE 205/2000 ma che in realtà è
molto recente al giudizio di ottemperanza. Il giudizio di ottemperanza dal 1865 al 2000 era un giudizio per
l’ADEMPIMENTO DELL’OBBLIGO DI CONFORMARSI AL GIUDICATO civile e poi amministrativo; mentre
invece l’affermazione della natura esecutiva delle sentenze di primo grado dl giudice amministrativo ha
portato il legislatore a ritenere suscettibili di ottemperanza anche le sentenze esecutive che non abbiano
l’autorità della cosa giudicata. Questo privilegio vale per le sentenze del giudice amministrativo e non vale
per tutti gli altri provvedimenti giurisdizionali, non per quelli del giudice ordinario LETTERA C ( si fa
riferimento solo al giudicato), non per le altre sentenze lettera D sentenze passate in giudicato e altri
provvedimenti ad esse equiparati per i quali non sia previsto il rimedio dell’ottemperanza al fine di ottenere
l’adempimento della pubblica amministrazione di conformarsi alla decisione. Queste altre sentenze
possono essere di altre giurisdizioni speciali: LA CORTE DEI CONTI, IL GIUDICE MILITARE. Un’altra
importante giurisdizione, importante per quantità oltre che per gli interessi pubblici che dovrebbe tutelare
ed è LA GIURISDIZIONE TRIBUTARIA. Anche la giurisdizione tributaria è una giurisdizione molto significativa
quanto ad effetti delle pronunce anche se la giurisdizione tributaria raramente impone oneri alle pubbliche
amministrazioni; più spesso li pone AI PRIVATI. In questo caso, anche se il comma 1 ci dice che
l’ottemperanza vale tra le altre parti in realtà i titoli esecutivi del giudice tributario possono essere
suscettibili anche di altre forme di esecuzione. Infine i LODI ARBITRALI ESECUTIVI divenuti inoppugnabili
perché i lodi non sono sentenze quindi non passano in giudicato ma diventano ovviamente inoppugnabili.
Cosa occorre affinché un lodo sia inoppugnabile? La cosiddetta giurisdizione arbitraria o il contenzioso
arbitrario costituisce un ambito molto significativo per modo di risoluzione delle controversie e modo della
tutela dei diritti sia dei diritti nei confronti delle pubbliche amministrazioni sia dei diritti in generale. Dove
fonda il potere di un organo arbitrale di assumere una decisione risolutiva della controversia? Nel
CONTRATTO. Il fondamento è il CONTRATTO. Nonostante abbia natura contrattuale ovviamente assolve in
modo alternativo a una funzione tipicamente giurisdizionale. Quindi è possibile che questa giurisdizione
venga esercitata soltanto e limitatamente alle materie che sono compromettibili in arbitro.
Sostanzialmente la tutela degli interessi legittimi non è suscettibile di essere demandata alla risoluzione di
un collegio arbitrale perché in realtà mentre il titolare dell’interesse legittimo ci può fare quel che vuole con
la sua situazione giuridica soggettiva, la pubblica amministrazione titolare del potere che dialoga con
l’interesse legittimo NON NE PUO’ DISPORRE SE NON NEL RISPETTO E NEI LIMITI INDICATI DALLA LEGGE.
Quindi è un potere funzionalizzato, vincolato al perseguimento del fine e quindi non è disponibile; non
essendo disponibile non si può neppure disporre di una sorte alternativa nella tutela giurisdizionale. Quindi,
gli arbitrati di cui si parla in questo caso sono LODI ARBITRALI CHE RIGUARDANO DIRITTI SOGGETTIVI. Ma
nei confronti della pubblica amministrazione ci sono dei diritti soggettivi per esempio in tutte quelle ipotesi
in cui vi sia UN CONTRATTO CON UNA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE. Quando ci sono contratti con le
pubbliche amministrazioni in cui i privati fanno valere nei confronti delle pubbliche amministrazioni e
viceversa le amministrazioni nei confronti dei privati contraenti un diritto soggettivo in questo caso anche
quelle controversie sono o possono essere rimesse ad arbitri. Gli arbitrati sono di diversi generi e di diversa
specie. Abbiamo quelli PROPRI e disciplinati dal codice civile che seguono le regole del processo civile e
abbiamo altri arbitrati che si chiamano SPECIALI O AMMINISTRATI. In particolare per quello che riguarda
più strettamente il diritto amministrativo ma anche dal punto visto quantitativo più significativi gli arbitrati
in materia di contratti pubblici. Il codice dei contratti pubblici infatti prevede un particolare tipo di arbitrato
in materia di contratti pubblici: un arbitrato che ha delle regole particolari, che è guidato da una CAMERA
ARBITRALE DEI CONTRATTI PUBBLICI istituita presso l’Autorità Nazionale Anticorruzione con un albo
speciale per la nomina degli arbitri quantomeno del terzo arbitro e che si svolge con particolari regole e con
particolari tariffari. L’arbitrato in materia di contratti pubblici costa sostanzialmente molto di meno di un
arbitrato ordinario regolato dalle tariffe professionali forensi. Possiamo affrontare il tema della lettera E:
lodi arbitrali esecutivi divenuti inoppugnabili. Quando un lodo arbitrale diviene inoppugnabile? Quando le
parti SOPRATTUTTO QUELLA SOCCOMBENTE presta acquiescenza alla decisione del collegio arbitrale
ovvero quando sono decaduti i termini di impugnazione. Dove si impugnano i lodi arbitrali? DINANZI ALLA
CORTE D’APPELLO. Quando un lodo arbitrale non è stato appellato e rispetto ad esso si è prestato
acquiescenza, laddove esso non venga eseguito si procederà con il giudizio di ottemperanza. Perciò anche
in questo caso parliamo sostanzialmente di un giudicato perché la pronuncia del collegio arbitrale non è più
contestabile. Ormai è divenuta immodificabile. Quindi il rimedio del giudizio dell’ottemperanza nasce
storicamente come un giudizio per l’esecuzione del giudicato, per l’ottemperanza a un giudicato. Soltanto
successivamente agli inizi degli anni 2000 si estende alle sentenze esecutive del solo giudice
amministrativo. Perché c’è questa discriminazione tra le sentenze di tutti i giudici dell’ordinamento e le
sentenze del giudice amministrativo? Perché le sentenze del giudice amministrativo possono
immediatamente essere sottoposte al giudizio di ottemperanza e invece quelle degli altri giudici no? Questa
è una follia del codice, non c’è una giustificazione razionale, anzi si potrebbe per altri versi sostenere che
questa discriminazione contrasti con i principi di uguaglianza nella tutela delle situazioni giuridiche
soggettive per violazione degli articoli 3, 24, 111 costituzione. Ma la differenza sta nel fatto che questa
decisione di rendere ottemperabili le sentenze anche solo divenute esecutive nasce dalla legge 205/2000
che si occupa ovviamente e soltanto del diritto amministrativo e quindi non essendoci nessuna avversione
per un fatto sistematico ilo tempore cioè nel 2000 ma scelte puntuali di revisione delle norme sul processo
amministrativo, nessuno si preoccupò di pensare a tutte le altre sentenze. Quando si è scritto il codice poi
che è un decreto legislativo, quindi un decreto delegato; quando si fece la legge di delega nessuno pensò
che c’era questo profilo particolare nella legislazione vigente e quindi quando si dettero i criteri della delega
il legislatore fu invitato a codificare il processo sulla base delle norme esistenti e delle interpretazioni
giurisprudenziali più autorevoli. Non c’era nessuna delega a modificare l’ambito dell’ottemperanza delle
sentenze degli altri giudici delle altre giurisdizioni. Quindi ci teniamo questa differenza significativa:
ottemperanza del giudicato e anche solo per i giudici amministrativi delle loro sentenze e degli altri
provvedimenti esecutivi. Questa differenza peraltro in termini concreti non è una differenza significativa dal
punto di vista sostanziale perché se la sentenza del giudice amministrativo esecutiva cioè NON SOSPESA
DAL CONSIGLIO DI STATO ADITO IN GRADO DI APPELLO viene portata ad esecuzione nel senso che la parte
vittoriosa in primo grado in attesa della definizione del giudizio di appello notifica un ricorso per
l’ottemperanza, qual è l’effetto? A fronte del giudizio di ottemperanza dinanzi al TAR che ha pronunciato
sentenza esecutiva cosa si fa immediatamente? SI NOTIFICA UN’ISTANZA CAUTELARE DINANZI AL
CONSIGLIO DI STATO CHIEDENDO LA SOSPENSIONE DELL’ESECUTIVITA’ DELLA SENTENZA perché nel libro III
parte generale articolo 98 anche nel giudizio di impugnazione è possibile proporre la misura cautelare.
Quindi, se si tenta l’esecuzione a mezzo dell’ottemperanza di una sentenza esecutiva ma non passata in
cosa giudicata per la quale pende l’appello è chiaro che la prima reazione della difesa erariale è quella di
chiedere la sospensione dell’esecutività della sentenza e nella più gran parte dei casi questa sospensione
verrà concessa. Il rimedio dell’ottemperanza per le sentenze esecutive è un rimedio di assai limitato
impiego da parte dei soggetti privati vittoriosi in primo grado in corso di giudizio di appello. Questa è la
natura del ricorso per ottemperanza (un’azione), dell’oggetto dell’ottemperanza e della finalità
dell’ottemperanza. Ma quanto all’oggetto abbiamo sempre parlato di sentenza e obbligo di ottemperanza
cioè giudicato con sentenza esecutiva e obbligo di ottemperanza. Qual è l’altro presupposto perché ci possa
essere un giudizio di ottemperanza? Innanzitutto ci deve essere un giudicato amministrativo; l’altro
elemento che in questo articolo non viene citato ma che è necessario affinché un soggetto azioni
l’ottemperanza davanti al giudice che ha competenza. In primo luogo, la pubblica amministrazione non
deve dare adempimento alla sentenza perché la pubblica amministrazione in un paese normale quando gli
arriva una sentenza di un giudice la esegue. Dovrebbe dare esecuzione spontanea. Il presupposto principe
del giudizio di ottemperanza è L’INOTTEMPERANZA cioè il MANCATO SPONTANEO ADEGUAMENTO
DELL’AMMINISTRAZIONE ALLA PREVISIONE, ALL’ORDINE DEL GIUDICE, LA SUA MANCATA
CONFORMAZIONE ALLA SENTENZA DI UN GIUDICE. Quindi i due presupposti sono: un giudicato solitamente
o una sentenza esecutiva del solo giudice amministrativo e l’inottemperanza. Ma in realtà l’inottemperanza
non si limita alla mancata esecuzione spontanea della sentenza anzi proprio perché in un Paese civile
tendenzialmente la pubblica amministrazione dovrebbe dare immediata attuazione alla sentenza del
giudice anche in Italia le pubbliche amministrazioni tendono a dare più o meno immediata esecuzione alle
sentenze dei giudici. Questo tuttavia non fa venir meno l’esigenza del giudizio di ottemperanza perché
spesso le pubbliche amministrazioni ELUDONO IL GIUDICATO e cioè EMANANO UN NUOVO
PROVVEDIMENTO che apparentemente è conforme alla sentenza emanata dal giudice amministrativo ma è
sostanzialmente elusivo del giudicato amministrativo. Qui dobbiamo ripercorrere un po’ di storia del
giudizio di ottemperanza per specificare come il giudice amministrativo si è orientato rispetto alla
inottemperanza come presupposto dell’obbligo di eseguire. Storicamente prima che avvenisse l’istituzione
dei TAR e quindi nel periodo storico che va dal 1865 al 1971 il consiglio di stato giudice amministrativo di
unico grado in primo luogo per accertare l’inottemperanza o per dare un’evidenza documentata
all’inottemperanza onde diverse sentenze dei primi del Novecento iniziò a pretendere che la parte che
agiva per l’ottemperanza di una sentenza diffidasse con atto pregiudiziale notificato alla parte soccombente
pubblica amministrazione, diffidasse ad adempiere e ad eseguire una determinata condotta, porre in essere
un determinato comportamento, provvedere al pagamento di una determinata somma di denaro, adottare
un determinato provvedimento con certi contenuti: una DIFFIDA CON L’ASSEGNAZIONE DI UN TERMINE
RAGIONEVOLE ENTRO IL QUALE PROVVEDERE. Ovviamente tutto ciò non essendo fissato dalla legge fu via
via affermato da una serie di sentenze del consiglio di stato che richiedevano per l’azionabilità del giudizio
di ottemperanza la previa diffida. Quindi c’è una sentenza passata in giudicato, l’interessato se
l’amministrazione spontaneamente non vi si adegua la diffida ad adempiere o a conformarsi, le assegna un
termine e decorso questo termine decorrono i termini per la proposizione dell’azione di ottemperanza e
quindi la parte interessata ferma l’impugnazione dell’amministrazione potrà agire. Questa è la prima ipotesi
quella del Completo Inadempimento. L’altra ipotesi invece è che l’amministrazione magari elude e quindi
l’amministrazione adotta un provvedimento. A questo punto non c’è nulla da diffidare perché
l’amministrazione il provvedimento l’ha assunto. Siamo tra la fine del 1800 e la prima metà del 1900; a
fronte di un nuovo provvedimento della pubblica amministrazione era ipotizzabile che si azionasse il
giudizio di ottemperanza in presenza di un nuovo provvedimento pur assunto quale elusivo? Che avrebbe
fatto l’avvocato dei primi del 1900? Avrebbe proposto nel termine di 60 giorni dalla comunicazione o
notificazione quel che sia avrebbe proposta una nuova AZIONE DI ANNULLAMENTO PER VIOLAZIONE DI
LEGGE in quanto il provvedimento era elusivo del giudicato. Infatti così accadeva. Questa circostanza
portava le amministrazioni meno corrette e animate da intenti particolarmente illegittimi, induceva le
amministrazioni a utilizzare la TECNICA DELLA RINNOVATA EMANAZIONE DI PROVVEDIMENTI ILLEGITTIMI
nell’assoluta certezza che a fronte del nuovo provvedimento il giudizio iniziava da capo. Quindi io emano un
provvedimento, il giudice me lo annulla, ne emano un secondo, il giudice me lo annulla e vado avanti così.
Può sembrare una narrazione di eventi eccezionali ma purtroppo non erano eventi eccezionali soprattutto
nella seconda parte del Novecento cioè dopo la Costituzione e prima dell’avvento dei TAR con la
trasformazione dell’ordinamento giuridico in un ordinamento ispirato al principio democratico e quindi con
l’ampliamento della componente politica nella gestione amministrativa degli enti soprattutto degli ENTI
TERRITORIALI la indisponibilità di alcune amministrazioni in ragione delle scelte dei vertici politici delle
medesime a eseguire il giudicato del giudice diventarono CRONICHE e ovviamente una situazione di questo
genere era manifestamente non conforme allo Stato di diritto. A questo punto il consiglio di stato inizia a
porsi il problema dell’INSUFFICIENZA DELLA SOLA OTTEMPERANZA nell’ipotesi di inadempimento e del
ricorso al rimedio dell’azione di annullamento nell’ipotesi di ADEMPIMENTO ELUSIVO perché
l’adempimento elusivo non poteva essere caratterizzato da un rinnovato giudizio con il rischio
sostanzialmente di una GIUSTIZIA RINVIATA SINE DIE. Allora il consiglio di stato che nella sua capacità
creativa soprattutto in materia processuale ha dato lezioni per molti decenni, assume la tesi della NULLITA’
DEL PROVVEDIMENTO AMMINISTRATIVO ASSUNTO IN ELUSIONE DEL GIUDICATO. Non siamo negli però
negli anni 2000 quando viene fatta la novella alla legge 241/1990 che prevede tra le ipotesi di nullità
speciale la nullità per elusione del giudicato. Siamo esattamente 60 anni prima. Il giudice ha questa
esigenza di fare giustizia, di evitare che alcune pubbliche amministrazioni si comportino in modo
manifestamente illegittimo e soprattutto che riservino all’autorità giurisdizionale un atteggiamento di totale
dispregio e quindi assumono con mera interpretazione giurisprudenziale che i provvedimenti amministrativi
assunti in elusione del giudicato sono nulli. Cosa consegue a questa qualificazione del provvedimento
elusivo del giudicato in termini di nullità? Che IL GIUDIZIO DI OTTEMPERANZA PUO’ ESSERE UTILIZZATO
ANCHE PER RIMEDIARE A CONDOTTE ELUSIVE DELL’OBBLIGO CONTENUTO NELLA SENTENZA PASSATA IN
GIUDICATO pur in presenza di un nuovo provvedimento. Il nuovo provvedimento non può e non costituisce
ostacolo all’ottemperanza perché se il giudice lo ritiene è nullo ed essendo nullo QUOD NULLUM EST
NULLUM PRODUCIT EFFECTUM. Quindi la nullità costituisce un’ottima intuizione per il giudice
amministrativo per consentirgli di esercitare la sua giurisdizione di ottemperanza anche in presenza di un
nuovo provvedimento. E anche in assenza di un’azione di annullamento che dal 1889 con la legge Crispi in
avanti costituiva l’unico rimedio per demolire un provvedimento amministrativo. L’adozione di questa
opzione interpretativa è una scelta coragiosissima da parte del consiglio di stato perché ci dobbiamo
collocare storicamente in un’epoca in cui il provvedimento amministrativo una volta emanato era
intangibile se non impugnato; era esecutivo, esecutorio, caratterizzato da quei profili di immediata
possibilità di coazione e quindi ipotizzare che un provvedimento amministrativo ancora elusivo del
giudicato potesse essere nullo e quindi dato come non esistente era un’opzione molto forte ma del resto la
condotta elusiva delle amministrazioni negli anni 50, 60 e 70 dello scorso secolo aveva assunto dimensioni
tali da non poter essere più consentita e quindi la scelta interpretativa del consiglio di stato rese il giudizio
di ottemperanza un giudizio che si poteva praticare, quindi si poteva azionare non solo nell’ipotesi più tipica
della inottemperanza assoluta ma anche della cattiva ottemperanza cioè della ottemperanza elusiva volta
ad aggirare o eludere il precetto contenuto nella sentenza passata in giudicato. E’ evidente che
l’azionabilità dell’ottemperanza era differenziata a seconda che si trattasse di un’ottemperanza a fronte di
totale inerzia rispetto alla quale era necessaria una previa diffida perché andava verificato che
effettivamente ci fosse inerzia dell’amministrazione; in realtà la previa diffida aveva anche un altro aspetto:
poter evitare che la mera inefficienza e lentezza dell’amministrazione portasse a un nuovo giudizio, quindi
se questa inerzia o inottemperanza non era dolosa ma soltanto colposa, se cioè questa inottemperanza era
frutto di semplice inefficienza e lentezza dei processi dell’amministrazione, la diffida poteva costituire un
campanello di allarme e portare l’amministrazione ad adempiere. Ed effettivamente dopo la diffida un buon
numero di amministrazioni adempiva. Soltanto quelle che restavano ulteriormente inadempienti si
sottoponevano o venivano portate in giudizio dinanzi al giudice dell’ottemperanza. Per l’ipotesi di
inottemperanza al giudicato collegata alla CATTIVA ESECUZIONE O ELUSIVA ESECUZIONE DEL PRECETTO,
NON ERA NECESSARIA LA DIFFIDA perché c’era già un atto amministrativo di apparente esecuzione e quindi
per quella tipologia di inottemperanza, non essendo necessaria la diffida era sufficiente il ricorso per
l’ottemperanza che contestava il provvedimento chiedendo ovviamente che fosse accertata la nullità del
provvedimento rinnovato. Perché era utile agire in ottemperanza e non ricominciare da capo? Era utile in
un periodo storico risalente perché evidentemente il giudice dell’ottemperanza è un giudice molto più
veloce, rapido, efficace; è lo stesso giudice che ha assunto la sentenza, quindi sa benissimo cosa intendeva
dire nella sentenza e immagina come si sarebbe dovuta eseguire la sentenza. Ma quando nel 1971 vennero
istituiti i TAR vi era una seconda ragione perché il nuovo provvedimento se non si fosse ricorsi all’ipotesi
della nullità per elusione del giudicato avrebbe addirittura dovuto avere due gradi di giudizio prima di
giungere all’ottemperanza, quindi con un ulteriore rallentamento e quindi con l’avvento del TAR e del
doppio grado di giurisdizione amministrativa questa esigenza di un’ottemperanza anche verso i
provvedimenti amministrativi elusivi del giudicato si rafforzò ulteriormente. Questa evoluzione portò
soprattutto all’eliminazione o meglio al contenimento di condotte gravemente lesive in termini quantitativi
almeno. C’è un limite in questa interpretazione: il limite consiste in un netto criterio distintivo tra il
provvedimento nuovo che esegue la sentenza eludendola e il provvedimento nuovo che rinnova
completamente l’esercizio del potere e pur se in una porzione può apparire elusivo contiene degli elementi
innovativi rispetto al provvedimento originario già annullato o rispetto all’inerzia già contestata cioè talvolta
è difficile distinguere se il nuovo provvedimento è effettivamente solo elusivo del giudicato e come tale
radicalmente nullo o invece contenendo una rinnovazione del potere che per una sua parte non è elusiva
del giudicata o comunque è nuova e quindi non è e non ha nessun vincolo nel giudicato perché non
esistente nel precedente provvedimento se è possibile attrarre in questo caso al giudizio di ottemperanza
quel provvedimento. In questo i giudici amministrativi sono particolarmente accorti: se il provvedimento
rinnovato in realtà ha delle componenti che non erano presenti o delle valutazioni o delle motivazioni che
non erano presenti nel provvedimento originario, salvo che esse siano manifestamente fallaci e quindi
manifestamente strumentali, tenderà sempre a riconoscere che si tratta di un nuovo provvedimento e non
di un provvedimento nullo perché elusivo del giudicato. In questo caso bisognerà sicuramente ricominciare
daccapo con un secondo ricorso al TAR e poi al consiglio di stato e così via. Anche rispetto a questa accorta
opera di discernimento, la giurisprudenza amministrativa si è preoccupata di specificare. Uno dei casi più
eclatanti di questa inottemperanza è quello dei GIUDIZI DI ABILITAZIONE SCIENTIFICA NAZIONALE PER
ESSERE ABILITATI ALLE FUNZIONI DI PROFESSORE UNIVERSITARIO. Cosa accadeva in queste vicende? Viene
nominata una commissione nazionale per un certo periodo di tempo (2 anni e mezzo circa), valuta i
candidati in diverse tornate (5) una successiva all’altra di semestre in semestre. La commissione valuta un
determinato candidato come inidoneo sulla base di un giudizio di merito. Quel giudizio viene annullato dal
TAR, poi l’annullamento viene confermato in consiglio di stato in quanto si assume che le motivazioni siano
incongrue, che travisino i fatti, non tengano conto delle pubblicazioni e dei risultati scientifici del candidato
e così via. Viene nominata una nuova commissione quindi che in ottemperanza del giudicato
amministrativo debba rivalutare il candidato/a. La nuova commissione formula evidentemente un nuovo
giudizio; ci sono diversi commissari che formulano un nuovo giudizio sullo stesso candidato/a e sugli stessi
titoli. A questo punto la nuova commissione sulla base del contenuto conformativo della sentenza magari
evita di dimenticarsi che ci sono altre pubblicazioni che la commissione precedente non aveva valutato, non
si limita a dire che le pubblicazioni del candidato erano non originari senza alcuna motivazione sostanziale e
così via. Anche questa nuova valutazione negativa viene annullata dal TAR e dal consiglio di stato. C’è un
nuovo provvedimento di una terza commissione che valuta il candidato/a. nella continuazione di
rinnovazioni il consiglio di stato si è posto il tema se possa ritenersi confacente ai principi dell’ordinamento
processuale che di ottemperanza in ottemperanza il giudizio dovesse sempre essere un giudizio ordinario e
cioè se non ci fosse una parola fine sulla vicenda sostanziale e controversa che è sempre la medesima. Con
delle sentenze piuttosto recenti di un paio di anni fa il consiglio di stato in realtà ha detto che se il
provvedimento non è di tipo meramente elusivo ma contiene nuove valutazioni andrà impugnato. Ma se di
sentenza in sentenza o meglio di giudicato in giudicato il potere viene sempre di più conformato perché
nella prima sentenza ci si limitava a dire un difetto mero di motivazione, nella seconda un difetto di
valutazione dei titoli e delle pubblicazioni del candidato e così via. Via via che il giudicato diventa sempre
più ricco di contenuti conformativi a un certo punto si può ipotizzare che il potere dell’amministrazione nel
dare esecuzione al giudicato non abbia più un contenuto discrezionale perché nella serie di rinnovazioni
conseguente ai diversi giudicati la discrezionalità è tendenzialmente esaurita. A questo punto non sarà
necessario un ricorso ordinario nuovo nei due gradi di giudizio etc nei casi in cui la discrezionalità
nell’esecuzione dell’ultima serie di giudicati di una lunga vicenda controversa si sia esaurita, in quel caso si
può proporre solo azione di ottemperanza. E’ un caso che ha destato molto dibattito sia in dottrina che in
giurisprudenza. Però in realtà se dal punto di vista teorico le opinioni sono tutte piuttosto autorevoli e
anche ben spese sia in favore che contro. La ragione sostanziale che ha portato la sesta sezione del
consiglio di stato ad adottare questa via è una ragione più che commendevole: evitare cioè che il giudizio su
un rapporto amministrativo dato non abbia mai fine. Questo è un tema che nel codice non si trova ma che
evidentemente i giudici si pongono nel decidere dell’ottemperanza. Una novità contenuta nel nostro codice
rispetto al passato è un diverso giudizio di ottemperanza: non il giudizio di ottemperanza storico ma un
giudizio che rientra nelle disposizioni sul giudizio di ottemperanza ma che in realtà non ha la finalità di
contestare l’inottemperanza e quindi eventualmente di dar luogo a funzioni sostitutive: un’ottemperanza
sui generis che infatti viene chiamato RICORSO PER CHIARIMENTI O RICORSO EX ARTICOLO 112 COMMA 5:”
il ricorso di cui al presente articolo può essere proposto anche al fine di ottenere chiarimenti in ordine alle
modalità di ottemperanza”. Questo è un ricorso del tutto diverso: mentre il primo quello storico
presuppone l’inottemperanza, il secondo quello di cui al comma 5 presuppone la volontà
dell’amministrazione di ottemperare o anche la volontà della parte vittoriosa privata di far precisare alcuni
dei contenuti della sentenza onde l’amministrazione ottemperi correttamente. In realtà questo ricorso è
pensato per le pubbliche amministrazioni anche se ne fanno impiego le parti private perché non è precluso
dalla norma. E’ un ricorso che prevalentemente viene proposto dalle pubbliche amministrazioni. Quando le
pubbliche amministrazioni leggendo una sentenza non sanno che pesci prendere ( può capitare che alcune
sentenze siano di difficile lettura) ovvero quando una pubblica amministrazione non vuole assumere scelte
di particolare responsabilità conseguenti dalla sentenza e preferisce che quelle scelte siano espressamente
legittimate con dictum del giudice( le scelte amministrative sono fonte di responsabilità giuridica e
amministrativa per le amministrazioni e per i funzionari delle medesime; se invece sono esecuzione di un
precetto del giudice sono coperte da un rischio di responsabilità, c’è anche questa componente che deve
essere considerata ) le amministrazioni allora prima di decidere come eseguire possono notificare un
ricorso per avere dei chiarimenti sulla portata e il modo di esecuzione della sentenza. Questo rimedio è un
rimedio che è abbastanza invalso nella prassi quotidiana ed è un rimedio che da un lato salvo quando la
sentenza non è molto chiara dall’altro è usato ancora quando si desidererebbe che la sentenza affrontasse
anche qualche profilo su cui il giudice non si è attardato per dare un quadro più completo. A fronte dei
ricorsi per chiarimenti non vi è una tendenza giurisprudenziale uniforme cioè il consiglio di stato ma anche i
TAR non si comportano sempre allo stesso modo. Vi sono dei collegi che sono più generosi nel fornire
indicazione cioè non vengono disturbati dal fatto che qualcuno chieda chiarimenti; ve ne sono altri che
assumono il loro pronunciamento originario assolutamente chiarissimo e anzi soffrono con un certo fastidio
la richiesta di chiarimenti e quindi tendenzialmente non ne danno. In ogni caso l’importante per noi in
questa sede è che oltre al ricorso per ottemperanza esiste un ricorso per ottenere chiarimenti al fine della
spontanea ottemperanza. L’articolo 113 ci parla del giudice dell’ottemperanza. Qual è il giudice
dell’ottemperanza? Il ricorso avverso le sentenze del giudice amministrativo (nelle lettere a e b del comma
1 dell’articolo 113 si fa riferimento alle sentenze passate in giudicato e sentenze esecutive del giudice
amministrativo) si propone al giudice che ha emesso il provvedimento della cui ottemperanza si tratta:
significa che se la sentenza del TAR viene confermata dal consiglio di stato e l’appello è rigettato, il giudice
di ottemperanza sarà il TAR e infatti la seconda parte di questo comma 1 ci dice:” la competenza è del
tribunale amministrativo regionale anche per i suoi provvedimenti confermati in appello con motivazione
che abbia lo stesso contenuto dispositivo e conformativo dei provvedimenti di primo grado”. Quindi se la
sentenza è una sentenza del TAR che è passata in giudicato per mancata impugnazione cioè senza appello o
se abbiamo la sentenza del TAR confermata in appello con identica motivazione, identico contenuto
dispositivo e conformativo la competenza in ottemperanza è del TAR. Se invece la sentenza del TAR viene
annullata dal consiglio di stato ovvero la sentenza del TAR viene confermata ma con un contenuto
dispositivo e conformativo anche solo in parte diverso, la competenza a decidere sull’azione di
ottemperanza è del consiglio di stato. Per le sentenze che non sono invece dei giudici amministrativi, il
ricorso si propone al TAR nella cui circoscrizione ha sede il giudice che ha emesso la sentenza di cui è
chiesta l’ottemperanza. Ovviamente il legislatore qui non si è ricordato che il giudice di cui alla lettera E non
è un giudice e che quindi non ha una sede giudiziaria il collegio arbitrale. Tuttavia il collegio arbitrale si
svolge in un determinato luogo e in ogni caso la sentenza ha un luogo e una data e quel luogo e quella data
sono ritenuti essere la sede cui far riferimento per la scelta della circoscrizione per il tribunale
amministrativo regionale competente. Andiamo al modo di svolgimento del procedimento di
ottemperanza. Una novità rispetto a quell’insegnamento che la giurisprudenza del consiglio di stato aveva
formulato è che l’azione si propone ANCHE SENZA PREVIA DIFFIDA. Ovviamente questo processo non
sarebbe necessario, lo è perché la giurisprudenza fino ad allora prevedeva la necessità di previa diffida.
Quindi, il legislatore ha voluto dire che non serve più la previa diffida perché già con la legge 241/1990 e poi
ancor di più con la sua novella l’azione amministrativa è sottoposta a dei termini: i termini del
procedimento e quindi anche per l’esecuzione della sentenza, la legge già indica un termine il superamento
del quale non rende necessario nessun atto di diffida. Quindi così come l’inottemperanza è legittima e
consente l’azione avverso l’inerzia e non richiede diffida allo stesso modo anche l’ottemperanza oggi non
richiede più diffida. Si procede con ricorso notificato alla pubblica amministrazione a tutte le altre parti del
giudizio definito dalla sentenza o dal lodo della cui ottemperanza di tratta. L’azione si prescrive con il
decorso di dieci anni dal passaggio in giudicato della sentenza. Questo è il TERMINE PIU’ LUNGO CHE
ABBIAMO NEL NOSTRO PROCESSO AMMINISTRATIVO: 10 anni dal passaggio in giudicato della sentenza.
Unitamente al ricorso è depositato in copia autentica il provvedimento di cui si chiede l’ottemperanza con
l’eventuale prova del suo passaggio in giudicato. Come si da la prova del passaggio in giudicato di una
sentenza? Si dovrà chiedere un certificato di non pendenza dell’impugnazione che potrà essere depositato.
Questo vale soprattutto per i casi in cui l’ottemperanza si svolga all’interno del TAR perché il consiglio di
stato sa bene se c’è un appello avverso le sentenze essendo lo stesso giudice che ha competenza in grado di
appello; per il deposito di ottemperanza dinanzi ai TAR i tribunali amministrativi regionali richiedono la
prova di un certificato di non pendenza dell’appello davanti al consiglio di stato. Il giudice decide con
sentenza in forma semplificata e questo dimostra la particolare celerità del giudizio di ottemperanza. Il
giudice in caso di accoglimento del ricorso, può assumere una serie di particolari contenuti e ha una
cognizione molto ampia e adesso dal comma 4 e 6 dell’articolo 114 possiamo comprendere nella sua
genericità l’oggetto e lo svolgimento del procedimento. Una precisazione: il fatto che il giudizio venga
definito con sentenza in forma semplificata postula anche che abbia uno svolgimento molto più
concentrato che non il giudizio ordinario. Ricordiamo il giudizio ordinario che abbiamo scansionato in fasi:
la fase dell’avvio o iniziativa, la fase della tutela cautelare, fase istruttoria. Della verifica dell’integrità del
contraddittorio, la fase di discussione e di deliberazione e della sentenza. Qui invece tutto si svolge in modo
più concentrato. C’è UN'UNICA UDIENZA CAMERALE IN CAMERA DI CONSIGLIO NON IN PUBBLICA UDIENZA
al cui esito si procederà con sentenza in forma semplificata. Cosa può contenere questa sentenza?
Innanzitutto l’ORDINE DI OTTEMPERARE. Il giudice in caso di accoglimento del ricorso: a) ordina
l’ottemperanza prescrivendo le relative modalità anche mediante la determinazione del contenuto del
provvedimento amministrativo o l’emanazione dello stesso in luogo dell’amministrazione. Possiamo vedere
quante alternative ha il giudice dell’ottemperanza nella sua giurisdizione di merito: ordina l’ottemperanza e
prescrive le modalità (ipotesi meno invasiva rispetto all’amministrazione), ordina l’ottemperanza, prescrive
le modalità e determina il contenuto del provvedimento (molto più invasiva). Infine ancora di più ha il
POTERE SOSTITUTIVO: addirittura si sostituisce all’amministrazione nell’adozione del provvedimento. B)
Dichiara nulli gli eventuali atti in violazione o elusione del giudicato. Lettera D: nomina ove occorra un
commissario ad acta. Il commissario ad acta in realtà viene utilizzato nell’ottemperanza quasi
esclusivamente per l’unica ipotesi in cui il giudice si sostituisce all’amministrazione nell’emanazione del
provvedimento. L’emanazione del provvedimento in luogo dell’amministrazione non è mai posta in essere
con una sentenza. Viene nominato un prefetto in pensione, generale in pensione, ambasciatore in pensione
il quale adotta il provvedimento da commissario ad acta. Questo per tre ragioni: una formale e due di
ordine pratico. Quella formale PER EVITARE CHE IL PROVVEDIMENTO SIA CONTENUTO IN UN ATTO
GIURISDIZIONALE. L’atto del commissario ad acta per quanto questa figura sia ausiliaria del giudice diventa
quell’antica nozione che si aveva del commissario ad acta “ANCHE ORGANO STRAORDINARIO
DELL’AMMINISTRAZIONE”. In secondo luogo perché è in ottemperanza un’amministrazione dello stato per
garbo istituzionale invece di assumere il provvedimento direttamente a mezzo di una sentenza si nomina di
solito un funzionario, dirigente, un esponente di particolare prestigio di quell’amministrazione stessa che
possa sostituirsi senza creare particolari fastidio o imbarazzo. in terzo luogo perché se si tratta di un
dirigente della stessa amministrazione o di un’amministrazione analoga sa anche fare le cose: sa emanare il
provvedimento amministrativo, materialmente dispone dell’apparato di conoscenze culturali, capacità
professionali e degli strumenti tecnici necessari per adottare un provvedimento amministrativo conforme al
giudicato. In più la lettera E introduce un’importantissima e nuova misura: laddove il giudice non si
sostituisca all’amministrazione ma indichi il contenuto e le modalità per l’adozione del nuovo
provvedimento o anche parte del suo contenuto senza sostituirsi, può ovviamente SU RICHIESTA DI PARTE
indicare la somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva ovvero per
ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato. Cioè una vera e propria ammenda: per ogni giorno di
inesecuzione della sentenza di ottemperanza l’amministrazione sarà tenuta al pagamento di una somma di
euro X. Questo costituisce chiaramente un incentivo molto significativo perché il mancato rispetto e quindi
l’obbligo di pagare l’ammenda si trasforma immediatamente in un danno erariale e quindi nella
responsabilità amministrativa o contabile del responsabile del procedimento e del dirigente dell’ufficio.
Quindi questa misura concorre ed è stata impiegata frequentemente per evitare l’uso del potere sostitutivo
che è sempre una scocciatura. Piuttosto che sostituirsi all’amministrazione inottemperante si prevede la
corresponsione di una somma di denaro in modo che vi sia un sicuro incentivo. Dal punto di vista
processuale se si chiede l’esecuzione di un’ordinanza del giudice amministrativo (ad esempio un’ordinanza
cautelare emanata dal consiglio di stato su cui non si forma il giudicato ma si forma quello che
propriamente viene chiamato GIUDICATO CAUTELARE), se si chiede l’esecuzione di un’ordinanza del
consiglio di stato adottata in sede cautelare la pronuncia che il giudice (il consiglio di stato che l’ha
adottata) dovrà rendere sarà anch’essa con ordinanza non con sentenza. Il commissario come ci dice il
comma 7 può chiedere chiarimenti nel caso di ricorso ai sensi del comma 5 dell’articolo 112; ma è
un’ipotesi molto rara. L’ultimo aspetto è quello delle impugnazioni. Anche le sentenze rese in ottemperanza
sono suscettibili di impugnazione. Quando? Quando la sentenza dell’ottemperanza è adottata dal TAR
perché se la sentenza di ottemperanza è adottata dal consiglio di stato evidentemente non c’è rimedio di
impugnazione. L’unica impugnazione possibile per ipotesi sarà quella straordinaria della REVOCAZIONE O
DELL’OPPOSIZIONE DI TERZO. Revocazione più che altro perché ipotizziamo che ci sia un terzo che sia stato
pretermesso dopo il giudicato e in sola sede di ottemperanza è un po’ difficile. I termini per l’impugnazione
sono sempre quelli previsti dal libro III: in ipotesi di sentenza notificata 60 giorni, in ipotesi di sentenza
pubblicata non notificata 6 mesi. Il termine per l’ottemperanza è molto lungo ed è di 10 ANNI. E’ possibile
che si faccia ottemperanza dopo 9 anni e 8 mesi soprattutto quando a fronte di situazioni piuttosto incerte
nei rapporti di durata per esempio CONCESSIONI o ipotesi di GESTIONE DI SERVIZI PUBBLICI A MEZZO DI
SOCIETA’ IN HOUSE, la gravità dell’inottemperanza emerga a distanza di anni.

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