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Sergio Romano
Molti uomini politici e parecchi giornalisti trattano l’interesse nazionale alla stregua
di un oggetto che altri hanno trascurato e che occorre ritrovare, ripulire, ritoccare con
qualche aggiornamento e proporre nuovamente all’attenzione del paese. E se chiede-
te a uno di essi quali siano i fattori che concorrono a formare questo interesse, vi ri-
sponderanno con un intruglio di argomenti, ora geopolitici, ora economici, ora cultu-
rali e ideologici. Nella realtà l’interesse nazionale è semplicemente la somma delle
percezioni, delle ambizioni e dei timori della classe
Già ambasciatore a Mosca e presso la NA- dirigente di un paese in un particolare momento
TO, Sergio Romano è editorialista del Cor- della sua storia. L’interesse nazionale di Crispi non
riere della Sera. Il suo ultimo libro si intito- è quello di Giolitti, quello di Giolitti non è quello di
la I giudizi della storia. Salandra, quello di Sforza non è quello di Mussoli-
ni, quello di De Gasperi non è quello dei neutralisti
o non allineati che pure ebbero una certa importanza nella politica italiana fra il
1947 e la fine della presidenza Gronchi nel 1962. Per parecchi decenni, dopo l’Uni-
tà, la politica estera italiana ha oscillato fra tre “direttrici di marcia”: Adriatico e Eu-
ropa danubiano-balcanica, Nord Africa e Levante, Mediterraneo occidentale. Esisto-
no ragioni ferree con cui sostenere che una di quelle tre direttrici corrispondeva me-
glio delle altre all’interesse nazionale? Chi parla della politica estera di un paese di-
mentica che ogni Stato ne ha sempre almeno due e che la scelta gli è spesso imposta
da altri Stati di cui è necessario calcolare, anticipare o contrastare le mosse. Piutto-
sto che di interesse nazionale italiano, quindi, conviene parlare del modo in cui es-
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so è stato interpretato e adattato alle circostanze da classi dirigenti che erano condi-
zionate dalla propria cultura e dai settori della società nazionale di cui ricercavano
il consenso.
vamo bisogno di protezione: un patto di comune convenienza che nessuno aveva in-
teresse a rimettere in discussione. Ma l’ingresso dei socialisti nel governo e, più tar-
di, il lungo ’68 della società italiana ebbero l’effetto di affievolire gli spiriti atlantici
del paese. La coesistenza pacifica, d’altro canto, consentiva licenze che negli anni
precedenti sarebbero state sconsigliabili. L’Italia ne approfittò praticando una sorta
di microgollismo prudente, non privo di una certa fantasia e scaltrezza. Era atlanti-
ca, ma cercava di atteggiarsi, agli occhi dell’URSS, come il più amico dei suoi nemici.
La guerra fredda presentò per l’Italia almeno due vantaggi. Rese la guerra estrema-
mente improbabile e trasformò la Nato, da strumento di guerra, in pilastro degli equi-
libri europei, vale a dire ne fece un’organizzazione che persino il PCI era disposto ad
accettare. Offrì all’economia italiana, la più dirigista delle economie occidentali, un
mercato (quello dell’URSS e dei satelliti) in cui gli affari si facevano nello stile più con-
forme alle consuetudini della penisola: interlocutori pubblici, banche di Stato, gare
in cui i criteri politici potevano essere, in molte circostanze, più importanti dei crite-
ri economici. I protagonisti di questo rapporto furono i traders, un gruppo di media-
tori, intermediari e sensali d’affari molto intelligenti che conoscevano bene l’URSS, si
muovevano con agilità nei ministeri moscoviti, aprivano alle aziende italiane le porte
dello Stato sovietico e combinavano affari che contribuivano ad alimentare, soprat-
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tutto dopo lo “strappo” della fine degli anni Settanta, le casse del PCI. Nessun altro
paese europeo riuscì a inventare un sistema altrettanto efficace e spregiudicato.
Questa “età dell’oro” della diplomazia italiana terminò bruscamente all’inizio degli
anni Novanta sotto il peso di quattro fattori convergenti. Il primo fu il crollo dell’URSS,
vale a dire del provvidenziale interlocutore che aveva permesso all’Italia di abbassa-
re la soglia del suo atlantismo a livelli tollerabili per la società nazionale. Il secondo
fu il colpo di acceleratore che il trattato di Maastricht dette al processo d’integrazio-
ne europea. Il terzo fu il collasso, dopo Tangentopoli, della grande coalizione centri-
sta che aveva concepito la politica estera dei decenni precedenti e ne aveva affinato
gli strumenti. Il quarto fu lo stato fallimentare della finanza pubblica. Nel giro di un
paio d’anni, dal 1990 al 1992, l’Italia scoprì di non avere né una politica estera né i
mezzi per inventarne un’altra. Il suo territorio (uno dei maggiori asset della diploma-
zia nazionale) aveva perduto una parte considerevole del suo valore. L’Europa si era
messa a correre nel momento in cui il debito pubblico e il disavanzo erano dramma-
ticamente lontani dai parametri fissati a Maastricht per la convergenza tra le finanze
dei paesi membri. Il crollo dell’impero sovietico aveva aperto fronti di guerra e crea-
4 to situazioni a cui il paese era culturalmente e militarmente impreparato.
Il maggior problema dell’Italia da allora fu quello di rincorrere gli alleati e i partner
per salire a bordo di treni che erano partiti o rischiavano di partire senza di lei. Ro-
mano Prodi e il suo ministro del Tesoro, Carlo Azeglio Ciampi, riuscirono a rispetta-
re le scadenze per l’adozione della moneta comune. Prodi e Lamberto Dini, con l’aiu-
to dell’opposizione, riportarono l’Italia in Albania. Massimo d’Alema accettò di fare
la guerra del Kosovo e ridette valore in tal modo a quei pezzi di territorio nazionale
che l’Italia aveva ceduto agli Stati Uniti. Alla fine della legislatura l’Italia aveva adot-
tato l’euro, faceva parte del gruppo di contatto per la Jugoslavia (una specie di club
senza grandi poteri di cui occorreva tuttavia essere soci), aveva contingenti militari
in Bosnia, Kosovo, Albania, Libano, e un italiano alla presidenza della commissione
di Bruxelles. Confrontata a quella di dieci anni prima la situazione era considerevol-
mente migliorata.
Silvio Berlusconi ebbe un merito che anche gli avversari farebbero bene a ricono-
scergli. Fu ambizioso, per sé e per il suo paese, e inventò una nuova politica estera.
Ma ottenne questo risultato rovesciando le tradizionali priorità della diplomazia ita-
liana dalla fine della Seconda guerra mondiale. Rafforzò il rapporto con gli Stati Uni-
ti a scapito dell’impegno europeo. E scelse di stare con Israele, right or wrong, a sca-
pito delle proprie tradizionali relazioni con il mondo arabo. Queste scelte produsse-
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