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BIBLIOTECA IDEALE GIUNTI

GUSTAVE FLAUBERT

Salammbô
a cura di
Lanfranco Binni
Titolo originale:
Salammbô

Progetto grafico di copertina:


Lorenzo Pacini

Il logo BIG è stato realizzato da


Sebastiano Ranchetti

www.giunti.it

© 1994, 2005 Giunti Editore S.p.A., Firenze - Milano


Prima edizione digitale: 2010

ISBN 9788809753518

Edizione elettronica realizzata da Simplicissimus Book Farm srl


Introduzione

GUSTAVE FLAUBERT
Gustave Flaubert nasce a Rouen, il 12 dicembre 1821, in
un appartamento dell’Hôtel-Dieu assegnato al padre,
Achille-Cléophas Flaubert, primario chirurgo
dell’ospedale.
I Flaubert sono una delle famiglie più antiche della
Champagne: proprietari terrieri, medici, funzionari. Il
dottor Flaubert è un tipico rappresentante della borghesia
in ascesa. Libero pensatore di formazione volterriana,
liberale moderato, totalmente impegnato nella sua
professione, possiede una biblioteca ricca di classici della
medicina, della religione e della letteratura. A fianco di
un marito dalla forte personalità, Anne Justine Caroline
costituisce una presenza passiva e muta. In famiglia le
giornate sono scandite dai ritmi e dalle vicende
dell’ospedale. Alcuni allievi del dottor Flaubert
ricorderanno di aver visto più volte il piccolo Gustave
aggirarsi per la sala anatomica: la presenza fisica della
morte, lo spettacolo della decomposizione dei cadaveri
entrano a far parte del suo immaginario.
Nel 1829 inizia a frequentare la scuola, ma si trova a
disagio con i compagni, si annoia, e comincia a costruirsi
un mondo a parte. Il teatro diventa il suo gioco preferito;
con la sorella Caroline, nata nel 1824, mette in scena
delle storie in una sala attigua alla sala anatomica.
Nel 1832 entra come allievo interno nel Collège Royal
di Rouen, riservato alle migliori famiglie della borghesia
cittadina. Al grigiore e alla disciplina della vita di collegio
Flaubert reagisce attraverso la lettura di Byron, del
Werther di Goethe, di Shakespeare, stabilendo un
rapporto importante con l’insegnante di francese, Henry
Gourgaud-Dugazon, e con l’insegnante di storia, Adolphe
Chéruel, che lo appassiona alla storia romana e
medievale. Dalla collaborazione con Gourgaud-Dugazon
nasce il giornale manoscritto «Art et Progrès» di cui
Flaubert è direttore e unico redattore; sul secondo
numero, che esce nel 1835, pubblica due testi che
costituiscono un documento significativo della sua
formazione: Voyage en enfer [Viaggio all’inferno],
percorso alla scoperta dell’onnipresenza del Male nel
mondo, e Une pensée [Un pensiero], evocazione
fantastica dell’amore sensuale e illusorio per una donna.
Nel 1836, durante le vacanze estive a Trouville, sulla
spiaggia gli appare, magica, sensuale e materna, adulta,
irraggiungibile, Élisa Schlesinger, la cui cristallizzazione
produrrà un modello fondamentale di femminilità e di
amore puro.
Nel 1837 la rivista «Le Colibri», di Rouen, gli pubblica
due racconti: Bibliomanie [Bibliomania], storia
drammatica di una “mania” vissuta fino al delitto, e Une
leçon d’histoire naturelle. Genre commis [Una lezione di
storia naturale. Genere: commesso], “fisiologia” di un
impiegato abbrutito dal suo lavoro di copista, come in
futuro i protagonisti di Bouvard et Pécuchet [Bouvard e
Pécuchet]. Allo stesso anno appartengono alcuni racconti
densi di implicazioni filosofiche ed esistenziali, tra cui
Rêve d’enfer [Sogno d’inferno], in cui riappare il tema
satanico del Male, e Passion et Vertu [Passione e virtù],
storia di un adulterio per la quale Flaubert si ispira a un
fatto di cronaca, e che svolgerà un ruolo nella genesi di
Madame Bovary. In questo anno di entusiasmo e
inquietudine, Flaubert scopre nuovi maestri (Rabelais,
Montaigne) e negli ultimi mesi tenta una sintesi della
propria concezione del mondo: Agonies. Pensées
sceptiques [Agonie. Pensieri scettici], raccolta di brevi
testi, frammenti autobiografici, aforismi, in un tono
appassionato e violento.
Dal 1838 continua a frequentare il Collège Royal, ma
come allievo esterno. Scopre Les confessions [Le
confessioni] di Rousseau e tenta un bilancio esistenziale
nei Mémoires d’un fou [Memorie di un pazzo],
ricostruendo la propria storia di forzato della sensibilità in
un mondo «idiota»: è il limite estremo del suo febbrile
romanticismo e di una scrittura usata come strumento di
espressione personale.
Nel 1839, all’ultimo anno presso il Collège Royal,
viene espulso per insubordinazione. Prepara da esterno il
baccalauréat, e intanto si appassiona alla lettura delle
opere di Sade. Conseguito il diploma nel 1840, con
alcuni amici di famiglia compie un viaggio nei Pirenei e in
Corsica, durante il quale riempie diciannove quaderni di
appunti. A Marsiglia ha un intenso e indimenticabile
incontro d’amore con la figlia del padrone dell’albergo,
Eulalie Foucaud, che lo inizia al piacere sessuale. A Parigi
dal 1841, si iscrive alla Facoltà di diritto; suo padre ha
deciso per lui: farà il giudice o l’avvocato.
Dal 1842, pur continuando a frequentare l’università e
a preparare esami con «estremo disgusto», tutta la sua
attenzione si concentra sul lavoro letterario. Scrive il
lungo racconto Novembre [Novembre], in cui appare un
nuovo atteggiamento nei confronti della confessione
autobiografica: la narrazione comincia a essere concepita
come creazione d’arte, come questione di stile. E nel
1843 inizia il romanzo L’éducation sentimentale
[L’educazione sentimentale], con l’intenzione di osservare
l’esistenza propria e della sua generazione da un punto di
vista oggettivo, esterno, depurato dal lirismo esuberante
che gli appare ormai troppo legato a un’adolescenza
conclusa.
Nel 1844, rientrato a Rouen per le vacanze di Natale,
resta quasi ucciso da un violento attacco di epilessia che
cambia profondamente il corso della sua vita, e lo libera
dagli incubi di un’improbabile carriera forense. La
famiglia Flaubert si trasferisce in campagna, a Croisset, a
qualche chilometro da Rouen. Da questo momento la
villa di Croisset sarà la sua “tana”, dove ormai è libero di
d e d i c a r s i totalmente alla scrittura dell’Éducation
sentimentale.
L’anno successivo, nel corso di un viaggio in Italia, a
Genova, nella quadreria di palazzo Balbi, resta folgorato
da un quadro di Bruegel il Giovane, La tentazione di
sant’Antonio: una composizione complessa, brulicante di
personaggi, dettagli, toni, colori. Quel soggetto e quella
potente visione d’insieme diventeranno presto centrali nel
laboratorio di Flaubert.
Nel gennaio 1846 muore il padre, dopo pochi mesi la
sorella Caroline. La perdita del genitore, ma ancora di più
quella della sorella, gettano Gustave in uno stato di
profonda prostrazione. Nello stesso anno, a Parigi, inizia
una relazione intensa e tormentata con Louise Colet e
comincia a lavorare alla prima stesura della Tentation de
saint Antoine, documentandosi scrupolosamente
sull’epoca in cui si svolge la storia del suo santo – il IV
secolo, il periodo della decadenza alessandrina.
Da maggio ad agosto 1847 compie un viaggio in
Bretagna in compagnia dell’amico Maxime Du Camp;
insieme tengono un diario. Al ritorno, scrivono a quattro
mani Par les champs et par les grèves [Attraverso i campi
e lungo i greti], un “esercizio di stile” estenuante.
Durante la rivoluzione del febbraio 1848 è a Parigi. Le
conseguenze degli avvenimenti, a cui assiste con
sostanziale distacco e che farà rivivere nella seconda
versione dell’Éducation sentimentale, costituiscono per
Flaubert una conferma ulteriore del suo profondo
pessimismo: dietro i clamori e i cambiamenti apparenti,
la tragedia di una condizione esistenziale immodificabile.
Nel settembre 1849 conclude La tentation de saint
Antoine: l’opera è un quadro imponente, animato da una
grande varietà di toni stilistici, dal lirismo all’ironia, dal
grottesco all’erudizione, che “tiene” per la forza di un’idea
generale della composizione, di un punto di vista unitario
(l’eremita Flaubert) sullo spettacolo del mondo. La
tentation de saint Antoine rimarrà un cantiere aperto; ne
usciranno una seconda redazione nel 1856 e una terza,
definitiva, nel 1872.
Il 29 ottobre, sempre del 1849, Flaubert e Du Camp
partono per un viaggio in Oriente; si imbarcano a
Marsiglia, diretti ad Alessandria. Poi, a cavallo,
attraversano il deserto alla volta del Cairo. È il viaggio nel
favoloso Oriente sul quale Flaubert fantastica da sempre;
durerà quasi due anni, rimanendo indelebile nella sua
sensibilità.
Rientra in Francia nel 1851, precocemente invecchiato
e rafforzato nella sua generale concezione del mondo:
l’esperienza di un radicale “spaesamento” dal quotidiano
borghese provocato dalla repentina immersione negli
abissi della Storia, in culture lontane e diverse da quella
occidentale, dà una nuova consistenza alle sue intuizioni
filosofiche sulla solitudine dell’esistenza umana, sullo
sprofondare del presente negli abissi dell’atemporalità e
della materia, e alla convinzione che soltanto attraverso la
creazione artistica l’uomo può sfuggire al proprio destino
di soccombere al nulla. A settembre inizia il romanzo
Madame Bovary, uno scavo esasperante nelle dinamiche
quotidiane di una storia di ordinaria vita borghese: vi
lavorerà per quasi cinque anni nell’isolamento di Croisset,
concludendolo nell’aprile 1856.
Per disintossicarsi dalla sua storia “borghese”, riprende
il lavoro sulla Tentation de saint Antoine, e abbozza La
légende de saint Julien l’hospitalier [La leggenda di san
Giuliano ospitaliere], che scriverà vent’anni dopo.
Alla sua pubblicazione, prima su rivista e poi in
volume, Madame Bovary provoca scandalo per il crudo
realismo – Flaubert viene addirittura processato per
oltraggio alla morale pubblica e religiosa – ma è anche
un grande successo editoriale, e diventa un riferimento
obbligato nel dibattito in corso sulla questione del
realismo e dell’arte per l’arte.
Nel marzo 1857, Flaubert sta già pensando a un nuovo
progetto: «Voglio scrivere», annuncia a un’amica, «un
romanzo la cui azione si svolgerà tre secoli prima di
Cristo, perché sento il bisogno di uscire dal mondo
moderno in cui la mia penna si è intinta troppo a lungo e
che d’altra parte mi stanca rappresentare quanto mi
disgusta vedere». È Salammbô, cui Flaubert dedicherà
cinque anni di lavoro. Nell’aprile-giugno 1858, per
documentarsi sullo scenario del nuovo romanzo, compie
un viaggio in Algeria e in Tunisia. Rientrato a Croisset,
inizia la stesura del romanzo “cartaginese”, che conclude
nell’aprile 1862. Pubblicato a novembre, il romanzo
ottiene un grande successo di pubblico.
Nel 1864 inizia a lavorare alla seconda versione
dell’Éducation sentimentale. Con il consueto rigore
scientifico si documenta su ogni aspetto del periodo
storico (dal 1840 al 1869), dell’ambiente sociale (la
borghesia parigina, i ceti popolari), delle posizioni
politiche (dai socialisti ai conservatori) e dei luoghi in cui
si svolgerà il romanzo. È il tempo storico del mediocre
trionfo della vita borghese sulle aspirazioni di una
generazione che si è nutrita di illusioni romantiche; ma è
anche, per Flaubert, l’età della maturità, della
consapevolezza sempre maggiore della propria identità di
testimone separato, disincantato, padrone dei propri
strumenti creativi. Pubblicato nel novembre 1869,
L’éducation sentimentale sconcerta il pubblico, che non
ama veder raffigurare il proprio tempo con toni così
profondamente disperanti, e incontra l’aperta ostilità della
critica.
Gli avvenimenti del 1870-1871, la guerra franco-
prussiana, la disfatta, la Comune, coinvolgono Flaubert. I
prussiani occupano Croisset e alcuni ufficiali si installano
in casa Flaubert, dove l’“eremita” può rientrare solo
nell’aprile del 1871. Nel marzo 1872 muore la madre. In
casa con lui resta una nipote; i disastri economici del
marito di lei travolgeranno presto lo stesso Flaubert. A
luglio la terza versione della Tentation de saint Antoine è
conclusa: «È l’opera di tutta la mia vita». E subito
Flaubert si mette a lavorare a «un romanzo moderno [...]
che avrà la pretesa di essere comico». È Bouvard et
Pécuchet, una profonda e radicale negazione del mondo
moderno, dei suoi valori e dei suoi miti attraverso il
racconto delle vicende grottesche di due copisti che si
impegnano nello studio e nella verifica personale delle
scienze e delle arti, subendo le disastrose conseguenze di
ogni loro esperienza; il romanzo è anche lo sviluppo di
quel Dictionnaire des idées réçues [Dizionario dei luoghi
comuni] nel quale Flaubert ha raccolto nel corso degli
anni un repertorio delle sciocchezze umane.
Negli anni 1875-1877, nelle pause di Bouvard et
Pécuchet, scrive La légende de saint Julien l’hospitalier,
Un coeur simple [Un cuore semplice] e Hérodias
[Erodiade], che nel 1877 raccoglie in Trois contes [Tre
racconti]: un trittico prezioso, stilisticamente perfetto, che
riceve un’accoglienza entusiastica. Il parnassiano
Théodore de Banville saluta in Flaubert un «genio»; i
giovani scrittori – Maupassant, Huysmans, Mirbeau... –
acclamano in lui un maestro. Tuttavia, le difficoltà
economiche continuano a ossessionarlo. Nel 1879
Edmond de Goncourt e la principessa Mathilde cercano di
fargli ottenere un impiego come conservatore alla
Bibliothèque Mazarine. Per Flaubert è un’umiliazione.
Finisce per accettare una pensione di conservatore
onorario, senza obbligo di presenza.
L’8 maggio 1880 muore a Croisset, fulminato da
un’emorragia cerebrale.
SALAMMBÔ
Nauseato di Parigi, di Madame Bovary e del suo assurdo
processo, nel marzo 1857, neppure un mese dopo il
ritorno a Croisset, Flaubert è già immerso in un altro
progetto. Il nuovo romanzo non avrà niente a che fare
con la sfida “realistica” di Madame Bovary. Non solo si
svolgerà nel remoto e ignoto passato di Cartagine, ma ne
sarà profondamente diverso lo stile. Dopo le costrizioni
estenuanti di un soggetto volgare e quotidiano, Flaubert
torna a confrontarsi con le pulsioni più segrete e violente
della propria immaginazione, che lo accompagnano fin
dall’adolescenza e costituiscono una componente
fondamentale della sua poetica.
L’“idea” la deve a Polibio. Nel Libro I delle Storie ha
incontrato le pagine dedicate alla rivolta dei Mercenari
contro Cartagine, al termine della prima guerra punica,
nel secolo III a.C. Su quell’episodio, Polibio è l’unica fonte
antica, all’origine delle notizie degli storici successivi.
Prima di lui, il vuoto. Ma soprattutto è ignoto tutto ciò
che riguarda Cartagine e la civiltà punica. Flaubert si
immerge in ricerche bibliografiche, consulta volumi di
archeologia, testi di storia e di letteratura, riempie
quaderni di appunti. A novembre ha già abbozzato una
prima versione del primo capitolo di Chartage. La
protagonista non si chiama ancora Salammbô ma Hanna.
Continua ad accumulare letture, appunti. Hanna diventa
Phyrra, poi Salammbô. Cambia titolo: da Chartage a
Salammbô, roman cartaginois. Passa l’inverno a riscrivere
il primo capitolo, ad abbozzare il secondo; lavora
sull’impianto generale del romanzo, su singole
“sceneggiature”. I libri di archeologia e di storia non
bastano più. Ha bisogno di “sentire” fisicamente la
materia del romanzo. I ricordi del viaggio in Oriente
compiuto tra il 1849 e il 1851 cominciano ad
accompagnare le sue letture e le sue fantasie, a creare
colori e sensazioni. Nei mesi successivi, l’idea di tornare
in Oriente per documentarsi sui luoghi in cui si svolgerà
la vicenda, è sempre più forte. Il 12 aprile 1858 si
imbarca a Marsiglia. Attraverso l’Algeria, Tunisi, le rovine
di Utica (la base militare di Roma in Africa), si avvicina
lentamente a Cartagine. Giunto alla meta, si aggira per
quattro giorni fra le rovine della città punica e nei
dintorni. Verifica sul posto le informazioni che ha raccolto
dai libri, si lascia travolgere dall’immaginazione, respira a
pieni polmoni un grande momento di libertà. Poi il
ritorno: Biserta, ancora Tunisi, Costantina... Alla fine di
maggio si imbarca di nuovo per Marsiglia, e il 6 giugno è
a Parigi. Rientrato a Croisset, riordina gli appunti di cui
ha riempito numerosi quaderni. Ora si sente pronto.
Consapevole delle difficoltà dell’impresa («A me, potenze
dell’emozione plastica! Resurrezione del passato, a me!»)
si mette al lavoro.
Il progetto è dunque la resurrezione “plastica” di
Cartagine e della sua perduta civiltà, sottraendole all’oblio
con la forza dello stile. L’impresa è inedita, e il metodo
che Flaubert intende seguire è del tutto diverso rispetto a
q u el l o rigorosamente applicato in Madame Bovary:
mentre nel romanzo “borghese” si è impegnato a scavare
con tenacia il reale quotidiano con l’obiettivo della
ricreazione impersonale, depurata di ogni esuberanza
lirica, in Salammbô si abbandonerà liberamente a ogni
eccesso, con lo scopo di oggettivare in creazione d’arte le
potenti suggestioni della sua immaginazione. La guerra
tra Cartagine e i Mercenari ribelli, l’impossibile storia
d’amore di Salammbô e Mâtho, saranno lo scenario di
una discesa allucinata nell’inferno degli ancestrali istinti
umani, liberati in tutta la loro forza distruttiva. È per
Flaubert una grande catarsi, cui si abbandona senza
riserve, eccitato, stravolto. Le condizioni del manoscritto,
con le sue molteplici versioni, riscritture, furiose
cancellature, sono la testimonianza drammatica di una
lotta incessante con le parole. La vera questione, ancora
una volta, è lo stile: Cartagine può risorgere soltanto in
virtù della forza stilistica del suo evocatore, perché la
faccia vivere di vita propria e duratura, come creazione
d’arte.
Ma cosa rappresenta Cartagine? Perché Flaubert ha
trovato nella rivolta dei Mercenari contro la Repubblica il
nucleo tematico e narrativo del suo romanzo punico? Si è
già detto del carattere sostanzialmente inedito della
vicenda: dopo Madame Bovary, finalmente un soggetto
libero da legami esterni, pressoché ignoto, da indagare in
completa libertà. Nel racconto di Polibio, la guerra tra i
Mercenari e Cartagine ha tutte le caratteristiche di una
guerra civile, fratricida. È lo scenario ideale per una
narrazione che attraversi la Storia in tutte le sue
stratificazioni, dal passato remoto al presente. In effetti lo
scenario “barbaro” di Salammbô ha molto a che fare con
la Francia del XIX secolo, alla vigilia dell’esplosione
rivoluzionaria della Comune di Parigi. La rivolta dei
Mercenari contro Cartagine è una guerra di classe tra
schiavi e padroni, tra operai e Capitale, che inizia in
seguito alla rottura di un contratto. L’armatore Amilcare è
un industriale moderno; le sue strategie militari
rispondono a logiche economiche; il suo palazzo è
organizzato come una grande fabbrica; usa la religione
come strumento di potere. E l’«elepoli» non è forse una
possente metafora del macchinismo industriale? E i
Mercenari, i Barbari, non minacciano forse la civiltà e
l’ordine esattamente come le «classi pericolose»? Attento
alle tensioni del proprio tempo, capace di percepirle,
Flaubert le vive e le accoglie nel proprio immaginario,
nell’inesauribile caleidoscopio delle proprie “tentazioni”.
Questa presenza inquietante della Storia contemporanea
dietro una scenografia cartaginese costituisce
indubbiamente un elemento formidabile di ambiguità
poetica, efficace sia nella fase della creazione che in
quella della lettura.
Cartagine è poi l’Oriente, il teatro dei misteri essenziali
della vita e della morte, della sessualità, dell’immaginario
fisico e metafisico di Flaubert fin dall’adolescenza, lo
scenario sempre presente della Tentation de saint
Antoine. Ma soprattutto l’Oriente è l’universo di tutti gli
universi possibili, la Babele dei linguaggi e delle culture,
della ricerca infinita e delle grandi sintesi filosofiche e
religiose. A un presente reso intollerabile anche dalla
volgarità e dalla mediocrità borghese Flaubert intende
opporre un radicale spaesamento in una civiltà “altra”,
sentendosi libero di penetrare regioni ignote e proibite
della condizione umana.
Su questo immenso e complesso scenario, Cartagine
emerge dal nulla come in un acquerello di Turner, dura e
compatta, dorata, purpurea, sfavillante di suoni e
brulicante di forme, con i colori di Delacroix. È lo stile, la
capacità di vedere e di creare, il vero protagonista di
Salammbô. All’interno di una struttura narrativa che vive
di grandi opposizioni simboliche, conflittuali e dinamiche
(il banchetto dei Mercenari all’inizio del romanzo e lo
speculare banchetto dei Cartaginesi alla fine, Salammbô e
Matho simboli della Luna e del Sole, della notte e del
giorno, del femminile e del maschile, le folle dei Barbari e
dei Cartaginesi), tutto è risolto in rappresentazione. I
paesaggi, le grandiose scene di massa, i costumi, i minuti
frammenti di vita quotidiana, i dialoghi, le scene atroci,
sono concrezioni di materia oggettivata. Tutto è come
pietrificato, definitivo, immobile. I colori sono crudi,
violenti fino all’eccesso. Tutto è osservazione a distanza,
o comunque separata. Lo scenario di Salammbô è
sospeso nel vuoto, circondato dal vuoto, immerso in un
grande silenzio. Eppure quei paesaggi pietrificati, quelle
masse di armati, quelle scene di vita quotidiana strappate
al vuoto e al nulla sono dotate di movimento. A
muoversi, con ritmi e velocità diversi, ora con lentezza
estenuante ora con accelerazioni improvvise, è il punto di
osservazione. Il movimento nasce dall’incontro tra la
visione prospettica e l’oggetto, tra la descrizione e
l’azione.
Le parole sono oggetti, concrezioni da sfiorare, da
afferrare. Le frasi devono essere cesellate. I tempi dei
verbi svolgono un ruolo essenziale nel rendere eterna
un’azione (l’imperfetto) o nel bloccare un movimento
(l’alternarsi di imperfetto e perfetto). L’uso ricorrente di
congiunzioni e di avverbi crea effetti di accumulazione, di
ampliamento della visione o di accelerazione del
movimento. I termini tecnici, scrupolosamente ricercati
da Flaubert nei suoi libri di archeologia, non sono usati
tanto per restituire “colore locale” quanto piuttosto per
rafforzare effetti di “spaesamento”. Ne nasce quella prosa
«dura come il bronzo, lucente come l’oro» – l’espressione
è di Zola – che sarà ammirata da Gautier e dai
parnassiani. Quella prosa costruita come poesia,
compatta e lucente, duratura, che sfida la morte, non è
tuttavia il prodotto di astratti esercizi di stile. In
Salammbô Flaubert persegue anzitutto quella ricerca della
verità che ha iniziato nei primi scritti autobiografici. Con
grande coraggio, talvolta con feroce piacere, il chirurgo
che aveva dissezionato il cuore di Madame Bovary in
punta di bisturi, scende senza alcuna protezione nei
sotterranei sulfurei della sessualità, della violenza, della
crudeltà. Presenza di Sade? Certamente. Ma anche
elaborazione personale di uno scrittore che non ha mai
smesso di ricercare le ragioni profonde della propria
scrittura, e che si mette costantemente in gioco.
LANFRANCO BINNI
Salammbô
I
Il festino

Accadde a Megara, quartiere di Cartagine, nei giardini di


Amilcare.
I soldati che Barca aveva comandato in Sicilia si
stavano concedendo un gran banchetto per celebrare
l’anniversario della battaglia di Erice,1 e poiché il padrone
era assente ed erano in molti, mangiavano e bevevano in
piena libertà.
I capitani, calzati di bronzei coturni, stavano sul viale
centrale, sotto un velario di porpora a frange d’oro,
disteso dal muro delle scuderie alla prima terrazza del
palazzo. I soldati erano sparsi sotto gli alberi tra i quali si
scorgevano numerosi edifici dal tetto piatto, frantoi,
dispense, magazzini, forni, arsenali, e poi un recinto per
gli elefanti, fossati per le bestie feroci, una prigione per
gli schiavi.
Alberi di fico circondavano le cucine; un bosco di
sicomori si estendeva fino a grandi macchie di
vegetazione dove, tra i bianchi ciuffi di cotone,
splendevano i melograni; viti cariche di grappoli si
arrampicavano tra i rami dei pini; un campo di rose era
sbocciato sotto i platani; qua e là, tra l’erba,
ondeggiavano gigli; una sabbia nera, mista a polvere di
corallo, era sparsa sui sentieri, e al centro il viale dei
cipressi sembrava formare da un capo all’altro un doppio
colonnato di obelischi verdi.
Sullo sfondo il palazzo, tutto di marmo numidio
screziato di venature gialle, sovrapponeva su larghi
basamenti quattro piani a terrazza. Col suo grande
scalone diritto di legno d’ebano, che agli angoli di ogni
gradino sosteneva la prua di una galea vinta, con le porte
rosse inquartate da una croce nera, le grate di bronzo che
in basso lo proteggevano dagli scorpioni e le grate di
canne dorate che in alto chiudevano ogni apertura, il
palazzo appariva ai soldati, nella sua truce opulenza,
solenne e impenetrabile come il volto di Amilcare.
Il Consiglio2 aveva assegnato loro la sua casa per
tenervi il festino; i convalescenti ricoverati nel tempio di
Eshmun,3 che si erano messi in cammino all’alba, si
erano trascinati fin lì sulle loro grucce. Continuavano ad
arrivare. Ne sbucavano continuamente da ogni sentiero,
come torrenti che si gettino in un lago. Si vedevano
correre tra gli alberi gli schiavi delle cucine, spaventati e
seminudi; belando, le gazzelle fuggivano sui prati; il sole
tramontava e il profumo dei limoni rendeva ancor più
grevi le esalazioni di quella folla in sudore.
C’erano uomini di tutte le nazioni, Liguri, Lusitani,
Balearici, Negri e disertori di Roma. Accanto al greve
dialetto dorico, si udivano le sillabe celtiche sonore come
carri da battaglia, e le desinenze ioniche cozzavano
contro le consonanti del deserto, aspre come grida di
sciacalli. Si riconosceva il Greco dalla corporatura minuta,
l’Egizio dalle spalle rialzate, il Cantabrico dai polpacci
massicci. I Carii facevano ondeggiare con orgoglio le
piume degli elmi, gli arcieri di Cappadocia si erano dipinti
sul corpo, con succhi d’erbe, grandi fiori, e qualche Lidio
vestito da donna e con gli orecchini mangiava in
pantofole. Altri che per la festa si erano imbrattati di
cinabro, sembravano statue di corallo.
Se ne stavano sdraiati sui cuscini, mangiavano
accovacciati intorno ai grandi vassoi, oppure, sdraiati sul
ventre, afferravano i pezzi di carne e si saziavano
appoggiati sui gomiti, nella placida posizione dei leoni
intenti a sbranare la preda. Gli ultimi venuti, in piedi
contro gli alberi, guardavano, in attesa del loro turno, i
bassi tavoli che quasi scomparivano sotto tappeti
scarlatti.
Poiché le cucine di Amilcare non erano sufficienti, il
Consiglio aveva inviato schiavi, stoviglie, letti; e si
vedevano al centro del giardino, come su un campo di
battaglia quando si bruciano i morti, grandi fuochi
abbaglianti sui quali stavano arrostendo dei buoi. I pani
cosparsi di anice si alternavano ai grandi formaggi più
pesanti di macine, ai crateri pieni di vino, alle anfore
piene d’acqua, ai cesti in filigrana d’oro ricolmi di fiori. La
gioia di potersi finalmente ingozzare a volontà spalancava
gli occhi di tutti; qua e là si cominciava a cantare.
Per prima cosa furono serviti uccelli in salsa verde, in
piatti d’argilla rossa con bordi a disegni neri, poi tutte le
specie di frutti di mare che si trovano sulle coste puniche,
farinate di grano, di fave e d’orzo, e lumache al cumino
su piatti d’ambra gialla.
Poi i tavoli furono ricoperti di carni: antilopi con le loro
corna, pavoni con le penne, interi montoni cotti in vino
dolce, cosci di cammella e di bufalo, ricci al garo,4 cicale
fritte e ghiri in umido. In gamelle di legno di
Tamrapanni,5 grandi pezzi di grasso galleggiavano nello
zafferano. L’aria era impregnata di odore di salamoia,
tartufi e assafetida.6 Le piramidi di frutta crollavano sui
dolci al miele, e non ci si era dimenticati di quei piccoli
cani panciuti e dalle rosee setole che venivano ingrassati
con sansa d’olive, cibo cartaginese abominevole per gli
altri popoli. La novità dei cibi eccitava l’avidità degli
stomaci. I Galli dai lunghi capelli raccolti sulla testa, si
strappavano di mano i cocomeri e i limoni che
divoravano con la buccia. Alcuni Negri che non avevano
mai visto le aragoste, si graffiavano la faccia con le loro
pinze rosse. I Greci dal volto rasato, più bianchi del
marmo, si gettavano dietro le spalle i resti dei loro piatti,
mentre i pastori del Bruzio,7 vestiti di pelli di lupo,
divoravano in silenzio, con la testa sul piatto.
Scendeva la notte. Venne tolto il velario steso sul viale
dei cipressi e furono portate delle fiaccole.
Le luci vacillanti del petrolio che bruciava in vasi di
porfido spaventarono, in alto sui cedri, le scimmie sacre
alla Luna; si misero a strillare, suscitando l’allegria dei
soldati.
Fiamme oblunghe tremavano sulle corazze di bronzo.
Scintillii di ogni genere sprizzavano dai piatti incrostati di
pietre preziose. I crateri, con i bordi di specchietti
convessi, moltiplicavano l’immagine ingrandita delle
cose; i soldati vi si affollavano intorno, per rimirarsi con
stupore, e facevano smorfie per ridere. Si lanciavano,
sopra i tavoli, gli sgabelli d’avorio e le spatole d’oro.
Tracannavano i vini greci dagli otri, i vini di Campania
dalle anfore, i vini dei Cantabrici dai barili, e i vini di
giuggiolo, di cinnamomo e di loto. Ce n’erano
pozzanghere per terra, e vi si scivolava. Il fumo delle
carni saliva tra il fogliame col vapore dei fiati. Si udivano,
in un unico frastuono, il battito delle mascelle, il rumore
delle parole, il fracasso dei vasi campani che si
rompevano in mille pezzi, o il suono limpido di un
grande piatto d’argento.
Più cresceva l’ebbrezza, e più chiaro diventava in loro il
ricordo dell’ingiustizia di Cartagine. Infatti la Repubblica,
stremata per la guerra, aveva lasciato che si
concentrassero in città tutte le bande che ritornavano.
Giscone,8 il loro generale, aveva tuttavia avuto
l’accorgimento di farli rientrare alla spicciolata, per
facilitare il loro pagamento, e il Consiglio aveva creduto
che avrebbero finito per accettare qualche riduzione del
compenso pattuito. Ma ora si provava del rancore nei
loro confronti, per il fatto di non poterli pagare. Nel
sentire comune dei Cartaginesi questo debito si
confondeva con i tremiladuecento talenti euboici pretesi
da Lutazio,9 e così anche loro, come Roma, erano
considerati nemici di Cartagine. I Mercenari se ne
rendevano conto, e la loro indignazione esplodeva in
minacce e intemperanze. Infine avevano chiesto di
riunirsi per celebrare una delle loro vittorie, e il partito
della pace acconsentì, vendicandosi di Amilcare che tanto
aveva sostenuto la causa della guerra; infatti era
terminata malgrado la sua tenace insistenza, e così,
disperando di Cartagine, Amilcare aveva affidato a
Giscone il comando dei Mercenari. Farli riunire nel suo
palazzo significava scaricare su di lui parte dell’odio di cui
erano oggetto. Inoltre la spesa, che doveva essere
notevole, sarebbe stata quasi interamente a suo carico.
Fieri di aver piegato la Repubblica, i Mercenari
credevano che finalmente sarebbero tornati alle loro case,
con la paga del loro sangue nel cappuccio del mantello.
Ma le fatiche, riviste attraverso i vapori dell’ebbrezza,
apparivano loro prodigiose e malamente ricompensate. Si
mostravano l’un l’altro le ferite, si raccontavano i
combattimenti, i viaggi e le cacce nei loro paesi.
Imitavano i versi delle bestie feroci e i loro balzi. Poi
giunse il momento delle bravate immonde; affondavano
la testa nelle anfore e bevevano senza mai prendere fiato,
come dromedari assetati. Un Lusitano, di corporatura
gigantesca, che sosteneva un uomo con ogni braccio,
passava attraverso i tavoli sputando fuoco dalle narici.
Alcuni Lacedemoni che non si erano tolti la corazza
saltavano pesantemente. Altri avanzavano con mosse
femminili, facendo gesti osceni; altri ancora si
denudavano per combattere, tra le coppe, come
gladiatori; una compagnia di Greci danzava intorno a un
vaso sul quale erano raffigurate delle ninfe, mentre un
Negro batteva con un osso di bue su uno scudo di
bronzo.
Improvvisamente si udì un canto lamentoso, un canto
forte e dolce che scendeva e saliva nell’aria, come un
battito d’ali di un uccello ferito.
Era la voce degli schiavi nell’ergastolo. Alcuni soldati,
per liberarli, si alzarono di scatto e scomparvero.
Tornarono spingendo avanti, tra le grida, nella
polvere, una ventina di uomini che si distinguevano per il
volto più pallido. Un berretto di forma conica, in feltro
nero, copriva le loro teste rasate; tutti portavano sandali
di legno e facevano un rumore di ferraglia come carri in
corsa.
Giunsero nel viale dei cipressi, dove si dispersero tra la
folla che li interrogava. Uno di loro era rimasto in
disparte, in piedi. Attraverso gli strappi nella tunica gli si
vedevano le spalle solcate da lunghe cicatrici.
Abbassando il mento, si guardava intorno diffidente e
socchiudeva le palpebre al bagliore delle fiaccole; ma
quando vide che nessuno di quegli uomini in armi ce
l’aveva con lui, un gran sospiro gli sfuggì dal petto;
balbettava, ridacchiava, mentre grandi lacrime gli
lavavano il viso; poi afferrò per le anse un cantaro pieno
di vino, lo sollevò in alto con le braccia da cui pendevano
le catene e, con lo sguardo fisso al cielo, continuando a
tenere sollevata la coppa, disse:
«Innanzitutto salute a te, Baal-Eshmun10 liberatore,
che la gente della mia patria chiama Esculapio! E salute a
voi, dèi nascosti sotto le montagne e nelle caverne della
terra! E a voi, uomini forti dalle lucenti armature, che mi
avete liberato!».
Poi riabbassò la coppa e raccontò la sua storia. Si
chiamava Spendio.11 I Cartaginesi l’avevano catturato
nella battaglia delle Eginuse;12 parlando in greco, ligure e
punico, ringraziò ancora una volta i Mercenari; e baciava
loro le mani. Infine si congratulò per il banchetto,
mostrandosi tuttavia stupito di non vedere sui tavoli le
coppe della Legione sacra. Quelle coppe, decorate con un
tralcio di vite di smeraldi su ognuna delle sei facce d’oro,
appartenevano a una milizia composta esclusivamente da
giovani patrizi, i più alti di statura. Erano il segno di un
privilegio, quasi un onore sacerdotale; per questa ragione
non c’era niente tra i tesori della Repubblica che i
Mercenari desiderassero di più. E detestavano la Legione
proprio a causa di quelle coppe, e più di una volta si era
visto qualcuno rischiare la vita per l’inconcepibile piacere
di bervi.
Dunque ordinarono di andare a prendere le coppe, che
erano custodite dai Sissizi, compagnie di commercianti
che mangiavano in comune. Gli schiavi ritornarono. A
quell’ora tutti i membri dei Sissizi dormivano.
«Svegliateli!», replicarono i Mercenari.
Dopo un secondo tentativo, si spiegò loro che le coppe
erano chiuse in un tempio.
«Apritelo!», risposero.
E quando gli schiavi, tremanti, ebbero confessato che
le coppe erano nelle mani del generale Giscone,
gridarono:
«Le porti qui!».
Ben presto Giscone apparve in fondo al giardino, in
mezzo a una scorta della Legione sacra. Il suo ampio
mantello nero, trattenuto sulla testa da una mitra d’oro
costellata di pietre preziose, pendente tutt’intorno fino
agli zoccoli del cavallo, si confondeva, da lontano, con il
colore della notte. Non si scorgeva altro che la barba
bianca, lo scintillio del copricapo e il triplice collare di
larghe piastre azzurre che gli batteva sul petto.
I soldati, appena fece il suo ingresso, lo salutarono
con una grande acclamazione, gridando tutti insieme:
«Le coppe! Le coppe!».
Cominciò dichiarando che, considerato il loro valore,
ne erano certamente degni. La folla urlò di gioia,
applaudendo.
Lo sapeva bene, lui che li aveva comandati laggiù, ed
era ritornato con l’ultima coorte sull’ultima galea!
«È vero! È vero!», dicevano.
Tuttavia, continuò Giscone, la Repubblica aveva
rispettato le loro divisioni in popoli, i loro costumi, i loro
culti; ed erano liberi a Cartagine! Quanto ai vasi della
Legione sacra, erano di proprietà privata. Tutt’a un tratto,
accanto a Spendio, un Gallo si lanciò sopra i tavoli, corse
diritto verso Giscone, e lo minacciò gesticolando con due
spade sguainate.
Il generale, senza interrompersi, lo colpì sulla testa
con il pesante scettro d’avorio: il Barbaro cadde. I Galli
urlavano, e il loro furore, comunicandosi agli altri, stava
per trascinare i legionari. Vedendoli impallidire, Giscone
alzò le spalle. Pensava che il suo coraggio sarebbe stato
inutile contro quei bruti inferociti, esasperati. Era meglio
vendicarsene più tardi, con qualche astuzia; così fece un
cenno ai soldati e si allontanò lentamente. Poi, giunto
sotto l’arco della porta, rivolto ai Mercenari gridò loro che
se ne sarebbero pentiti.
Il banchetto ricominciò. Ma Giscone poteva tornare e,
accerchiando il sobborgo che si addossava agli ultimi
bastioni della città, schiacciarli contro le mura. Allora si
sentirono soli nonostante fossero una folla; e la grande
città che dormiva sotto di loro, nell’ombra, d’un tratto li
impaurì con le sue scale sovrapposte, i suoi alti edifici
neri e i suoi strani dèi, ancora più feroci dei suoi abitanti.
In lontananza, qualche fanale scivolava sul porto e
c’erano luci nel tempio di Khamon.13 Si ricordarono di
Amilcare. Dov’era? Perché li aveva abbandonati, una
volta conclusa la pace? Sicuramente i suoi conflitti con il
Consiglio non erano altro che una trama per rovinarli.
Ora il loro odio represso ricadeva su di lui; e lo
maledicevano, esasperandosi a vicenda con la loro
collera. In quel momento si formò un assembramento
sotto i platani, intorno a un Negro che si rotolava per
terra sbattendo le membra, gli occhi sbarrati, il collo
torto, la schiuma alla bocca. Qualcuno gridò che era stato
avvelenato. Tutti credettero di essere stati avvelenati. Si
precipitarono sugli schiavi; si alzò un clamore terrificante
e un vortice di distruzione si abbatté sull’esercito ubriaco.
Colpivano a caso intorno a sé, spaccando e uccidendo:
alcuni lanciarono fiaccole tra il fogliame; altri, appoggiati
alla balaustrata dei leoni, li massacrarono a colpi di
freccia; i più temerari corsero verso gli elefanti, per
tagliare loro la proboscide e mangiarne l’avorio delle
zanne.
Intanto i frombolieri balearici, che per saccheggiare
più comodamente avevano svoltato l’angolo del palazzo,
furono fermati da un’alta barriera di canne d’India.
Tagliarono coi pugnali le corregge della serratura e si
trovarono sotto la facciata che dava su Cartagine, in un
altro giardino ricco di piante accuratamente potate. Filari
di fiori bianchi, susseguendosi sulla terra azzurrina,
descrivevano lunghe parabole, come scie di stelle. I
cespugli, pieni di tenebre, esalavano odori caldi, del
sapore del miele. C’erano tronchi d’alberi imbrattati di
cinabro che sembravano colonne insanguinate. Nel
mezzo, dodici piedistalli di rame sostenevano ognuno
una grande sfera di vetro, e bagliori rossastri riempivano
confusamente quei globi cavi, come enormi pupille
ancora palpitanti. I soldati facevano luce con delle torce,
avanzando incerti sul terreno scosceso e smosso in
profondità.
Scorsero infine un laghetto, diviso in numerosi bacini
da pareti di pietre azzurre. L’acqua era così limpida che le
fiamme delle torce tremavano fino sul fondo, un letto di
pietre bianche e di polvere d’oro; si mise a ribollire,
pagliuzze luminose si agitarono, e apparvero in superficie
grossi pesci che portavano intorno alla gola pietre
preziose.
I soldati, con grandi risate, infilarono le dita nelle
branchie dei pesci e li portarono in tavola.
Erano i pesci della famiglia Barca. Tutti discendevano
da quei pesci primordiali che avevano fatto schiudere
l’uovo mistico in cui si celava la dea.14 L’idea di compiere
un sacrilegio risvegliò la ghiottoneria dei Mercenari;
subito accesero i fuochi sotto vasi di bronzo e si
divertirono a guardare quei bei pesci che si dibattevano
nell’acqua bollente.
I soldati si accalcavano. Non avevano più paura.
Ricominciavano a bere. Gli unguenti che colavano dalle
fronti inzuppavano di larghe gocce le tuniche a brandelli;
alcuni, appoggiati con i gomiti sui tavoli che a loro
sembravano ondeggiare come navi, volgevano attorno i
grandi occhi ebbri, per divorare con lo sguardo ciò che
non potevano prendere. Altri, camminando tra i piatti
sulle tovaglie di porpora, fracassavano a calci gli sgabelli
d’avorio e le fiale di vetro di Tiro. Le canzoni si
mescolavano al rantolo degli schiavi agonizzanti tra le
coppe infrante. Chiedevano vino, carni e oro. Deliravano
in cento lingue. Alcuni credevano di trovarsi in un
tepidario, per tutto il vapore che fluttuava intorno,
oppure, vedendo il fogliame, immaginavano di essere a
caccia e si gettavano sui loro compagni come fossero
bestie selvagge. L’incendio si propagava da un albero
all’altro e gli alti fogliami, da cui fuggivano lunghe spirali
bianche, sembravano vulcani che cominciassero a
fumare. Il clamore cresceva; i leoni feriti ruggivano
nell’ombra.
D’un tratto si illuminò la terrazza più alta del palazzo,
la porta centrale si aprì, e una donna, la figlia di
Amilcare, proprio lei, coperta di vesti nere, apparve sulla
soglia. Scese la prima rampa di scale che fiancheggiava
obliqua il primo piano, poi la seconda, la terza, e si
fermò sull’ultima terrazza, in cima alla gradinata delle
galee. Immobile, a testa bassa, guardava i soldati.
Dietro di lei, sui due lati, si svolgevano due lunghe
teorie di uomini pallidi, vestiti di bianche tuniche con
frange rosse che cadevano dritte sui piedi. Non avevano
né barba, né capelli, né sopracciglia. Con le mani
scintillanti di anelli reggevano delle enormi lire e tutti
cantavano, con voce acuta, un inno alla divinità di
Cartagine. Erano i sacerdoti eunuchi del tempio di Tanit,
che Salammbô15 chiamava spesso presso di sé.
Finalmente scese la gradinata delle galee. I sacerdoti la
seguirono. Avanzò nel viale dei cipressi, camminando
lentamente tra i tavoli dei capitani, che indietreggiavano
per guardarla passare.
La capigliatura, incipriata di polvere di violette e
raccolta sulla testa a forma di torre secondo l’usanza delle
vergini cananee, la faceva sembrare più alta. Pendenti di
perle intrecciate scendevano dalle tempie fino agli angoli
della bocca, rosa come una melagrana socchiusa. Sul suo
petto, una distesa di pietre luminose scintillava screziata
come scaglie di murena. Le braccia, adorne di diamanti,
uscivano nude dalla tunica senza maniche, costellata di
fiori rossi su fondo nero. Portava tra le caviglie una
catenella d’oro per regolare il passo, e il suo ampio
mantello di porpora scura, tagliato in una stoffa
sconosciuta, si trascinava a terra dietro di lei, formando
una grande onda a ogni suo passo.
Di tanto in tanto i sacerdoti pizzicavano sulle lire
accordi sommessi, e nelle pause si udiva l’esile tintinnio
della catenella d’oro e lo scricchiolio regolare dei sandali
di papiro.
Nessuno ancora la conosceva. Si sapeva soltanto che
viveva ritirata, dedita a pratiche religiose. Alcuni soldati
l’avevano vista di notte, nella parte più alta del palazzo,
inginocchiata sotto le stelle, tra le spire di fumo degli
incensieri. Era stata la luna a renderla così pallida, e
qualcosa di divino la avvolgeva come un vapore sottile.
Le sue pupille sembravano guardare lontano, oltre gli
spazi terrestri. Camminava a testa china, e con la mano
destra reggeva una piccola lira d’ebano. La udivano
mormorare:
«Morti! Tutti morti! Più non verrete ubbidienti alla mia
voce, quando, seduta in riva al lago, vi gettavo dei semi
di cocomero! Il mistero di Tanit scorreva nel profondo
dei vostri occhi, più limpidi di una goccia d’acqua di
fiume». E li chiamava con i loro nomi, che erano i nomi
dei mesi. «Siv! Sivan! Tammuz, Elul, Tishri, Shebar! 16
Ah! Pietà di me, o dea!».
I soldati, non capendo cosa stesse dicendo, le si
stringevano intorno. Erano stupiti del suo abbigliamento;
Salammbô rivolse a tutti uno sguardo spaventato, poi,
ritraendo la testa tra le spalle e allargando le braccia,
ripeté più volte:
«Che avete fatto! Che avete fatto! Eppure avevate, per
festeggiare, pane, carni, olio, tutto il malòbatro17 dei
granai! Avevo fatto venire dei buoi da Ecatompilo,18
avevo mandato cacciatori nel deserto!». La sua voce
cresceva di tono, le guance s’imporporavano. Aggiunse:
«Dove credete di essere? In una città espugnata o non
piuttosto nel palazzo di un padrone? E di quale padrone!
Il suffeta19 Amilcare mio padre, servitore di Baal! Fu lui a
rifiutare a Lutazio le vostre armi, che ora sono rosse del
sangue dei suoi schiavi! Conoscete forse nelle vostre
nazioni un solo uomo che sappia condurre una battaglia
meglio di lui? Ma guardate! I gradini del nostro palazzo
sono carichi dei trofei delle nostre vittorie! Continuate!
Bruciate tutto! Porterò via con me il Genio della mia casa,
il mio serpente nero che dorme lassù sopra foglie di loto!
Fischierò, e mi seguirà; e se salirò su una galea, correrà
sulla schiuma delle onde nella scia della mia nave».
Le sue narici sottili palpitavano. Si rompeva le unghie
contro le pietre preziose appoggiate sul petto. I suoi
occhi divennero languidi; e continuò:
«Ah! Povera Cartagine! Sventurata città! Non hai più, a
difenderti, gli uomini forti di un tempo, che varcavano gli
oceani per costruire templi sulle loro rive. Tutti i paesi
lavoravano intorno a te, e le pianure del mare, arate dai
tuoi remi, facevano ondeggiare le tue messi».
Allora si mise a cantare le avventure di Melkarth,20 dio
dei Sidonii e capostipite della sua famiglia.
Narrava l’ascensione delle montagne d’Ersifonia, il
viaggio a Tartesso, e la guerra contro Masisabal per
vendicare la regina dei serpenti:
«Inseguiva nella foresta il mostro femminile la cui
coda ondeggiava sulle foglie morte come un ruscello
d’argento; e arrivò a una prateria dove alcune donne dal
dorso di drago stavano intorno a un grande fuoco,
appoggiate alla punta della coda. La luna, color sangue,
splendeva dentro un alone pallido, e le loro lingue
scarlatte, biforcute come fiocine di pescatori, si
allungavano curvandosi fino a sfiorare le fiamma».
Poi Salammbô, senza fermarsi, raccontò come
Melkarth, dopo aver vinto Masisabal, conficcò la sua testa
mozzata sulla prora della nave. «A ogni battito di onde
affondava nella schiuma; ma il sole l’imbalsamava, e così
divenne più dura dell’oro; tuttavia gli occhi non
smettevano di piangere, e le lacrime continuavano a
cadere nell’acqua».
Cantava queste storie in un vecchio dialetto cananeo
che i Barbari non capivano. Si chiedevano cosa mai
volesse dire loro con quei gesti terribili con cui
accompagnava le sue parole; e, saliti intorno a lei sui
tavoli, sui letti, sui rami dei sicomori, a bocca aperta e
allungando il collo, cercavano di cogliere il senso di
quelle storie confuse che ondeggiavano davanti alla loro
immaginazione attraverso l’oscurità delle teogonie, come
fantasmi tra le nubi.
Soltanto i sacerdoti senza barba capivano Salammbô.
Le loro mani grinzose, appoggiate alle corde delle lire,
fremevano e di tanto in tanto ne estraevano un lugubre
accordo: infatti, più deboli di vecchie donne, tremavano
per l’emozione mistica e insieme per la paura che tutti
quegli uomini incutevano loro. I Barbari non se ne
curavano; continuavano ad ascoltare la vergine che
cantava.
Ma nessuno la guardava nel modo in cui la stava
guardando un giovane capo numida seduto al tavolo dei
capitani, in mezzo ai soldati della sua nazione. La sua
cintura era talmente irta di frecce che formava una gobba
sotto l’ampio mantello fermato alle tempie da un laccio di
cuoio. Il panno, rigonfio sulle spalle, lasciava nell’ombra
il suo volto, e si scorgevano soltanto due occhi ardenti. Si
trovava per caso a quel banchetto; suo padre lo faceva
vivere in casa dei Barca secondo l’usanza dei re che
mandavano i figli nelle grandi famiglie per preparare
alleanze; ma durante i sei mesi che Narr’Havas21 vi aveva
trascorso, non aveva ancora visto Salammbô; e, seduto
sui talloni, la barba reclinata sulle aste dei suoi giavellotti,
la scrutava come un leopardo acquattato tra i bambù.
Dall’altro lato dei tavoli c’era un Libico di statura
colossale, capelli corti, neri e ricciuti. Si era lasciato
addosso soltanto la maglia di ferro le cui lamine di
bronzo laceravano la porpora del letto. Alcuni schizzi di
sangue gli macchiavano il volto; stava appoggiato sul
gomito sinistro, e sorrideva con la bocca spalancata.
Salammbô aveva terminato il suo canto sacro. Ora
parlava contemporaneamente in tutte le lingue dei
Barbari: delicatezza di donna per attenuare la loro collera.
Ai Greci parlava in greco, poi si rivolgeva ai Liguri, ai
Campani, ai Negri; e ognuno, ascoltandola, ritrovava in
quella voce la dolcezza della propria patria. Commossa
dai ricordi di Cartagine, ora cantava le antiche battaglie
contro Roma; e loro applaudivano. S’infiammava al
bagliore delle spade sguainate; gridava con le braccia
spalancate. La lira cadde a terra, e lei tacque: con le mani
premute sul cuore, rimase per qualche minuto a occhi
chiusi, assaporando l’agitazione di tutti quegli uomini.
Mâtho22 il Libico si chinò su di lei. Involontariamente,
lei gli si avvicinò e, spinta dalla riconoscenza del proprio
orgoglio soddisfatto, gli versò in una coppa d’oro un
lungo getto di vino, per riconciliarsi con l’esercito.
«Bevi!», gli disse.
Mâtho prese la coppa, e la stava portando alle labbra
quando un Gallo, lo stesso che Giscone aveva ferito, gli
toccò una spalla, rivolgendogli con aria gioviale delle
facezie nella lingua del proprio paese. Spendio non era
lontano; si offrì di tradurle.
«Parla!», disse Mâtho.
«Gli dèi ti proteggono, stai per diventare ricco. A
quando le nozze?»
«Quali nozze?»
«Le tue! Perché da noi», disse il Gallo, «quando una
donna fa bere un soldato, significa che gli offre il proprio
letto».
Non aveva ancora finito di parlare che Narr’Havas, con
un balzo, estrasse un giavellotto dalla cintura e,
appoggiando il piede destro sul bordo del tavolo, lo
lanciò contro Mâtho.
Il giavellotto sibilò tra le coppe e, trapassando il
braccio del Libico, lo inchiodò sulla tovaglia con tanta
forza che l’impugnatura vibrò a lungo nell’aria.
Mâtho lo strappò via; ma non aveva armi, era nudo;
poi, sollevando con le braccia il tavolo stracarico, lo
scagliò contro Narr’Havas, in mezzo alla folla che si
precipitava tra di loro. I soldati e i Numidi si accalcavano
al punto da non poter estrarre le spade. Mâtho si faceva
largo dando dei gran colpi con la testa; quando la
risollevò, Narr’Havas era scomparso. Lo cercò con gli
occhi. Anche Salammbô era scomparsa.
Allora, volgendo lo sguardo al palazzo, vide proprio in
alto la porta rossa che si stava chiudendo. Si precipitò.
Lo videro correre tra le prore delle galee, poi
riapparire lungo le tre rampe di scale fino alla porta
rossa, sulla quale si abbatté con tutto il peso del corpo.
Ansimante, si appoggiò al muro per non cadere.
Un uomo l’aveva seguito; nelle tenebre, poiché le luci
del banchetto erano nascoste dall’angolo del palazzo,
riconobbe Spendio.
«Vattene», gli disse.
Lo schiavo, senza rispondere, si lacerò coi denti un
lembo della tunica; poi, inginocchiatosi accanto a Mâtho,
gli prese il braccio delicatamente, palpandolo nell’ombra
per trovare la ferita.
Sotto un raggio di luna che scivolava tra le nubi,
Spendio scorse in mezzo al braccio una ferita aperta. Le
avvolse intorno il brandello di stoffa; ma l’altro, irritato,
diceva: «Lasciami! Lasciami!».
«Oh, no!», rispose lo schiavo. «Tu m’hai liberato
dall’ergastolo. Ti appartengo! Sei il mio padrone!
Ordina!».
Mâtho, camminando lungo i muri, fece il giro della
terrazza. A ogni rumore di passi tendeva l’orecchio, e
attraverso le fessure tra le canne dorate affondava lo
sguardo nelle stanze silenziose. Poi si fermò con aria
disperata.
«Ascolta!», gli disse lo schiavo. «Oh! non disprezzarmi
per la mia debolezza! Io ho vissuto nel palazzo. Posso
calarmi tra i muri come una vipera. Vieni! Nella sala degli
antenati c’è un lingotto d’oro sotto ogni pietra del
pavimento; un passaggio sotterraneo conduce alle loro
tombe».
«E che m’importa!», disse Mâtho.
Spendio tacque.
Erano sulla terrazza. Un’enorme massa d’ombra si
stendeva davanti a loro, e sembrava che contenesse
cumuli confusi, simili alle onde gigantesche di un oceano
nero pietrificato.
Ma una barra luminosa si alzò da Oriente. A sinistra, in
basso, i canali di Megara cominciavano a irradiare di
bianche sinuosità il verde dei giardini. I tetti conici dei
templi ettagonali, le gradinate, le terrazze, i bastioni, a
poco a poco si profilavano sul pallore dell’alba; e
tutt’intorno alla penisola cartaginese una cinta di schiuma
bianca ondeggiava, mentre il mare color smeraldo
sembrava irrigidito nella frescura del mattino. Poi,
mentre il cielo rosato si allargava, le altre case inclinate
sui pendii si ergevano, accalcandosi come un gregge di
capre nere che scenda dai monti. Le strade deserte si
allungavano; le palme, spuntando qua e là sopra i muri,
stavano immobili; le cisterne piene d’acqua sembravano
scudi d’argento persi nei cortili; il faro del promontorio
Ermeo23 cominciava a impallidire. In cima all’Acropoli,
nel bosco di cipressi, i cavalli di Eshmun,24 sentendo
giungere la luce, poggiavano gli zoccoli sul parapetto di
marmo e nitrivano verso il sole.
Finalmente apparve; Spendio, alzando le braccia, gettò
un grido.
Ora tutto si agitava in un rossore diffuso, perché il dio,
lacerandosi le vene, riversava a pieni raggi su Cartagine
la sua pioggia d’oro. Gli speroni delle galee scintillavano,
il tetto di Khamon sembrava in fiamme, e si scorgevano
luci nei templi le cui porte venivano aperte. I grandi carri
che giungevano dalla campagna rotolavano le ruote sul
lastricato delle strade. Alcuni dromedari carichi di bagagli
scendevano per le gradinate. I cambiamonete, nei
crocicchi, rialzavano gli sportelli delle loro botteghe.
Alcune cicogne si alzarono in volo; alcune vele bianche
palpitavano. Nel bosco di Tanit si udiva il tamburello
delle cortigiane sacre, e verso la punta dei Mappali25
cominciavano a fumare i forni per cuocere le bare
d’argilla. Spendio si sporgeva dalla terrazza. Batteva i
denti e ripeteva:
«Ah! Sì... sì... padrone! Capisco perché prima
disdegnavi di saccheggiare la casa».
Mâtho fu come svegliato dal sibilo della sua voce, e
sembrava non capire; Spendio continuò:
«Ah! Quali ricchezze! E gli uomini che le possiedono
non hanno neppure le armi per difenderle!».
Poi, indicandogli con la mano destra dei popolani che
strisciavano sulla sabbia, oltre il porto, alla ricerca di
pagliuzze d’oro:
«Guarda!», gli disse. «La Repubblica è come quei
miserabili: china sulla riva degli oceani, affonda in ogni
spiaggia le sue avide braccia, e il rumore delle onde le
rimbomba talmente negli orecchi che non sentirebbe
arrivare dietro di sé il tallone di un padrone!».
Trascinò Mâtho dal lato opposto della terrazza, e
mostrandogli il giardino dove brillavano al sole le spade
dei soldati appese agli alberi:
«Ma qui ci sono uomini forti il cui odio è esasperato! E
niente li lega a Cartagine, né le loro famiglie, né i loro
giuramenti, né i loro dèi!».
Mâtho restava appoggiato al muro; Spendio,
avvicinandosi, proseguì a bassa voce:
«Mi capisci, soldato? Potremmo passeggiare coperti di
porpora come satrapi. Ci laverebbero nei profumi; e io
potrei avere a mia volta degli schiavi! Non sei stanco di
dormire sulla dura terra, di bere l’aceto degli
accampamenti, e di sentir suonare la tromba? Ti riposerai
più tardi, vero? Quando ti strapperanno la corazza di
dosso per gettare il tuo cadavere in pasto agli avvoltoi! O
forse quando, appoggiandoti al bastone, cieco, zoppo,
debole, te ne andrai di porta in porta a raccontare la tua
giovinezza ai ragazzini e ai venditori di olive in salamoia.
Ricordati di tutte le ingiustizie dei tuoi capi, gli
accampamenti tra la neve, le marce forzate sotto il sole,
le tirannie della disciplina e l’eterna minaccia della croce!
Dopo tante miserie ti hanno dato un collare d’onore,
come si appende al collo degli asini una sonagliera per
stordirli durante la marcia, per non far sentire loro la
fatica. Un uomo come te, più valoroso di Pirro! Eppure,
se tu avessi voluto! Ah! Come saresti felice nelle grandi
sale fresche, al suono delle lire, sdraiato su un letto di
fiori, circondato da buffoni e da donne! Non dirmi che
l’impresa è impossibile! Forse che i Mercenari non si sono
già impadroniti di Reggio e di altre piazzeforti in Italia?
Chi te lo impedisce? Amilcare è assente; il popolo odia i
Ricchi; Giscone non ha alcun potere sui vigliacchi che gli
stanno intorno. Ma tu sei valoroso! Ti obbediranno!
Comandali! Cartagine è nostra; prendiamola!».
«No!», disse Mâtho. «La maledizione di Moloch26 pesa
su di me. L’ho sentito nei suoi occhi, e ho appena visto in
un tempio un ariete nero che indietreggiava». E
aggiunse: «Ma lei dov’è?».
Spendio comprese che era in preda a un’inquietudine
immensa; non osò più parlare.
Gli alberi dietro di loro fumavano ancora; dai loro rami
anneriti, carcasse di scimmie bruciacchiate cadevano di
tanto in tanto tra i vassoi. I soldati ubriachi russavano a
bocca aperta accanto ai cadaveri; e quelli che non
dormivano chinavano la testa abbagliati dalla luce del
giorno. Il suolo pesticciato era cosparso di pozzanghere
rosse. Gli elefanti dondolavano tra i pali dei loro recinti le
proboscidi sanguinolente. Nei granai aperti si scorgevano
sacchi di frumento rovesciati, e sotto l’arco della porta
una fila serrata di carri accatastati dai Barbari; i pavoni
appollaiati sui cedri dispiegavano la coda e lanciavano
gridi.
Intanto l’immobilità di Mâtho stupiva Spendio; era
ancora più pallido di prima, e con gli occhi fissi sembrava
scrutare qualcosa all’orizzonte, appoggiato con i due
pugni al parapetto della terrazza. Spendio, chinandosi,
finì per scoprire cosa stava contemplando. Un punto
dorato si muoveva lontano nella polvere sulla strada di
Utica; era il mozzo di un carro trainato da due muli; uno
schiavo correva alla testa del timone tenendoli per la
briglia. Due donne erano sedute sul carro. Le criniere
degli animali erano raccolte tra le orecchie secondo l’uso
persiano, sotto una reticella di perle azzurre. Spendio le
riconobbe; trattenne un grido.
Un grande velo, dietro, ondeggiava nel vento.
II
A Sicca

Due giorni dopo, i Mercenari uscirono da Cartagine.


A ognuno di loro era stata data una moneta d’oro, a
condizione che andassero ad accamparsi a Sicca,1 e con
ogni sorta di lusinghe era stato detto loro:
«Voi siete i salvatori di Cartagine! Ma restando qui
l’affamereste; e allora non potrebbe mai pagarvi.
Allontanatevi! La Repubblica, più tardi, vi sarà grata di
tale condiscendenza. Riscuoteremo subito nuove
imposte; la vostra paga vi sarà data per intero, e
armeremo delle galee che vi ricondurranno nei vostri
paesi».
Non sapevano cosa rispondere a tutti questi discorsi.
Quegli uomini, abituati alla guerra, si annoiavano in una
città; non fu difficile convincerli, e il popolo salì sulle
mura per vederli partire.
Sfilarono per la via di Khamon e la porta di Cirta, alla
rinfusa, gli arcieri con gli opliti,2 i capitani con i soldati, i
Lusitani con i Greci. Marciavano con passo energico,
facendo risuonare sul lastricato i pesanti coturni. Le
armature erano ammaccate dalle catapulte e i volti
anneriti dal fumo delle battaglie. Dalle folte barbe
uscivano grida rauche; le cotte lacerate sbattevano sulle
impugnature delle spade, e si scorgevano, attraverso gli
squarci nelle corazze di bronzo, le membra nude, terribili
come macchine da guerra. Le sarisse,3 le asce, gli spiedi,
i berretti di feltro e gli elmi di bronzo, ogni cosa
ondeggiava in un unico movimento. Riempivano le strade
tanto da far crepare i muri, e quella lunga massa di
soldati in armi scorreva tra le alte case a sei piani, dalle
pareti imbrattate di bitume.4 Dietro le grate di ferro o di
canne, le donne, con la testa coperta da un velo,
guardavano in silenzio passare i Barbari.
Le terrazze, le fortificazioni, i muri scomparivano sotto
la folla dei Cartaginesi avvolta in vesti nere. Le tuniche
dei marinai sembravano macchie di sangue in quella
scura moltitudine, e dei bambini seminudi, dalla pelle
rilucente sotto braccialetti di rame, gesticolavano tra il
fogliame dei capitelli o tra i rami di una palma. Alcuni
Anziani avevano preso posto sulla piattaforma delle torri
e non si capiva per quale ragione fossero disposti in quel
modo, sparsi qua e là, quei personaggi dalla lunga barba
e in atteggiamento pensoso; apparivano da lontano, sullo
sfondo del cielo, vaghi come fantasmi e immobili come
pietre.
Tutti però erano oppressi dalla stessa inquietudine;
avevano paura che i Barbari, vedendosi tanto forti,
venissero presi dalla voglia di rimanere. Ma quelli
partivano così fiduciosi che i Cartaginesi ripresero
coraggio e si mescolarono ai soldati. Li assediavano con
promesse e abbracci. Qualcuno addirittura li esortava a
non lasciare la città, esagerando in politica e in ipocrisia.
Gettavano loro profumi, fiori e monete d’argento.
Donavano loro amuleti contro le malattie, ma dopo
avervi sputato sopra tre volte per attirare la morte o
averli tenuti chiusi in pelli di sciacallo che rendono il
cuore vile. Invocavano ad alta voce il favore di Melkhart,
e sottovoce la sua maledizione.
Poi giunse la ressa delle salmerie, delle bestie da soma
e dei ritardatari. C’erano malati che gemevano sui
dromedari; altri si appoggiavano, zoppicando, a un
troncone di picca. Gli ubriaconi trascinavano otri di vino;
i voraci si portavano via quarti di bue, dolci, frutta, burro
in foglie di fico, neve in sacchi di tela. Se ne vedevano
certi con un parasole in mano, un pappagallo sulla spalla.
Altri si tiravano dietro mastini, gazzelle o pantere. Donne
di razza libica, in groppa ad asini, lanciavano ingiurie alle
Negre che per seguire i soldati avevano abbandonato i
lupanari di Malqua;5 molte di loro allattavano bambini
appesi al petto dentro una reticella di strisce di cuoio. I
muli, pungolati con la punta delle spade, piegavano la
schiena sotto il fardello delle tende; e c’era una quantità
di servi e portatori d’acqua, smunti, gialli per le febbri e
coperti di pidocchi, schiuma della plebe cartaginese che
seguiva i Barbari.
Quando furono passati, dietro di loro si chiusero le
porte; il popolo non scese dalle mura, e l’esercito si
sparse rapidamente sull’intera larghezza dell’istmo.
Si divideva in masse ineguali. Poi le lance sembrarono
alti fili d’erba, e tutto infine si perse in una striscia di
polvere; i soldati che si volgevano indietro verso
Cartagine ormai vedevano solo le sue lunghe mura, con i
merli vuoti che si stagliavano contro l’orizzonte.
Allora i Barbari udirono un grande grido. Credettero
che alcuni di loro, rimasti in città (non sapevano infatti
quanti fossero), si divertissero a saccheggiare un tempio.
L’idea li fece ridere molto, poi ripresero il cammino.
Erano contenti di ritrovarsi, come un tempo, a
marciare tutti insieme in piena campagna; e alcuni Greci
cantavano la vecchia canzone dei Mamertini:
«Con la mia lancia e con la mia spada, aro e mieto; e
sono io il padrone di casa! L’uomo inerme mi si getta ai
piedi e mi chiama Signore e Grande Re».
Gridavano, saltavano, i più allegri cominciavano a
raccontare delle storie; il tempo delle pene era finito.
Giunti a Tunisi, alcuni notarono che mancava un
drappello di frombolieri delle Baleari. Ma non dovevano
essere lontani, e nessuno ci pensò più.
Alcuni trovarono alloggio nelle case, altri si
accamparono sotto le mura, e gli abitanti della città
vennero a chiacchierare con i soldati.
Per tutta la notte si videro fuochi all’orizzonte, verso
Cartagine; quei bagliori, come torce gigantesche, si
allungavano sul lago immobile. Nessuno, nell’esercito,
sapeva dire quale festa si stesse celebrando.
Il giorno dopo i Barbari attraversarono una campagna
interamente coltivata. Le fattorie dei patrizi si
susseguivano sui lati della strada; canaletti scorrevano in
boschetti di palme; gli olivi disegnavano lunghe linee
verdi; vapori rosa fluttuavano nelle gole delle colline;
dietro, si ergevano montagne azzurre. Soffiava un vento
caldo. Camaleonti strisciavano sulle larghe foglie dei
cactus.
I Barbari rallentarono.
Avanzavano a gruppi isolati, o si trascinavano gli uni
dietro gli altri a lunghi intervalli. Mangiavano l’uva dei
vigneti. Si sdraiavano nell’erba, e guardavano stupiti le
grandi corna di bue artificialmente ritorte, le pecore
coperte di pelli per proteggere la lana, i solchi che
s’incrociavano formando delle losanghe, e i vomeri degli
aratri simili ad ancore di navi, e i melograni che venivano
innaffiati di silfio.6 Erano abbagliati dall’opulenza della
terra e da quelle sapienti invenzioni.
La sera si sdraiarono sopra le tende senza neppure
aprirle; e, addormentandosi con la faccia rivolta alle
stelle, rimpiangevano il banchetto di Amilcare.
A metà del giorno seguente sostarono sulla riva di un
fiume, tra ciuffi di oleandri. Allora gettarono a terra le
lance, gli scudi, le cinture. Si lavavano gridando,
riempivano d’acqua gli elmi, mentre altri bevevano
sdraiati sulla riva, con la faccia nell’acqua, in mezzo alle
bestie da soma i cui bagagli cadevano a terra.
Spendio, seduto su un dromedario rubato nei recinti di
Amilcare, vide da lontano Mâtho che, col braccio appeso
al collo, a testa nuda e col volto chino, faceva bere il
mulo e intanto guardava scorrere l’acqua. Subito si mise
a correre tra la folla, chiamando: «Padrone! Padrone!».
Mâtho lo ringraziò appena per tutte le sue benedizioni.
Spendio, non curandosene, si mise a camminargli dietro
e, di tanto in tanto, volgeva uno sguardo inquieto in
direzione di Cartagine.
Era il figlio di un retore e di una prostituta campana.
Dapprima si era arricchito vendendo donne; poi, rovinato
da un naufragio, aveva fatto la guerra contro i Romani
coi pastori del Sannio. L’avevano catturato, era fuggito;
l’avevano ripreso, e aveva lavorato nelle cave, ansimato
accanto alle caldaie, gridato tra le sevizie, cambiato molti
padroni, conosciuto tutti i furori. Un giorno infine, per
disperazione, si era gettato in mare dall’alto della trireme
su cui si trovava alla voga. Alcuni marinai di Amilcare
l’avevano raccolto morente e condotto a Cartagine
nell’ergastolo di Megara. Ma poiché bisognava restituire ai
Romani i loro transfughi, aveva approfittato del disordine
per fuggire con i soldati.
Durante tutto il viaggio rimase accanto a Mâtho; gli
portava da mangiare, lo aiutava a smontare, la sera gli
stendeva un tappeto sotto la testa. Mâtho finì per
commuoversi di tante premure, e a poco a poco
dischiuse le labbra.
Era nato nel golfo delle Sirti. Suo padre l’aveva portato
in pellegrinaggio al tempio di Ammon.7 Poi aveva
cacciato gli elefanti nelle foreste dei Garamanti.8 Quindi si
era arruolato al servizio di Cartagine. Era stato nominato
tetrarca9 alla presa di Trapani. La Repubblica gli doveva
quattro cavalli, ventitré medimni10 di grano e la paga di
un inverno. Temeva gli dèi e sperava di morire per la
patria.
Spendio gli parlò dei suoi viaggi, dei popoli e dei
templi che aveva visitato. Conosceva molte cose: sapeva
fare sandali, spiedi, reti, addomesticare le bestie feroci e
cuocere i pesci.
Talvolta si interrompeva, per cacciare un grido rauco
dal fondo della gola; allora il mulo di Mâtho accelerava il
passo, e gli altri si affrettavano a seguirlo; poi Spendio
ricominciava a parlare, sempre agitato dalla stessa
angoscia, che si calmò la sera del quarto giorno.
Procedevano fianco a fianco, alla destra dell’esercito,
costeggiando una collina; la pianura, in basso, si
allungava perduta nei vapori della notte. Le linee dei
soldati che sfilavano sotto di loro serpeggiavano
nell’ombra. Di tanto in tanto passavano su rilievi
rischiarati dalla luna; allora una stella tremava sulla punta
delle picche, per un attimo gli elmi luccicavano, poi tutto
scompariva, e ne sopraggiungevano altri, di continuo. In
lontananza le greggi svegliate belavano, e una dolcezza
infinita sembrava abbattersi sulla terra.
Spendio, la testa rovesciata all’indietro e gli occhi
socchiusi, aspirava a pieni polmoni la freschezza del
vento; apriva le braccia muovendo le dita per meglio
sentirne la carezza su tutto il corpo. Speranze di vendetta
riemergevano, e lo trascinavano. Si portò la mano sulla
bocca per frenare i singhiozzi, e quasi inebetito
dall’ebbrezza abbandonava la cavezza sul collo del
dromedario che avanzava a grandi passi regolari. Mâtho
era ricaduto nella sua tristezza: le gambe erano
abbandonate penzoloni, fino a terra, e le erbe,
frustandogli i coturni, facevano un sibilo continuo.
Intanto la strada si allungava senza finire mai. Al limite
estremo di una pianura, ci si trovava sempre su un
altopiano di forma rotonda; poi si scendeva ancora una
volta in una vallata, e le montagne che sembravano
chiudere l’orizzonte, via via che ci si avvicinava, si
spostavano indietro come se scivolassero via. Di tanto in
tanto tra il verde delle tamerici appariva un fiume, per
poi perdersi tra le colline. Talvolta si innalzava un masso
gigantesco, simile alla prua di un vascello o al piedistallo
di un colosso scomparso.
Si incontravano, a intervalli regolari, piccoli templi
quadrangolari che servivano come stazioni di sosta per i
pellegrini che si recavano a Sicca. Erano chiusi come
tombe. I Libici, per farsi aprire, davano dei gran colpi alle
porte, ma dall’interno non rispondeva nessuno.
Poi le colture si fecero più rare. Ci si trovava di colpo
su strisce di sabbia, irte di cespugli spinosi. Greggi di
pecore brucavano tra le pietre; le custodiva una donna
con un vello turchino intorno alla vita. Fuggiva gridando
appena scorgeva tra le rocce le picche dei soldati.
Marciavano in una specie di grande corridoio
fiancheggiato da due catene di montagnole rossastre,
quando un odore nauseabondo colpì le loro narici, e
credettero di vedere in cima a un carrubo qualcosa di
straordinario: la testa di un leone emergeva dal fogliame.
Accorsero. Era un leone, inchiodato per le quattro
zampe a una croce come un criminale. Il muso enorme
gli ricadeva sul petto, e le due zampe anteriori, quasi
nascoste dalla folta criniera, erano divaricate come le ali
di un uccello. Le costole sporgevano, una a una, sotto la
pelle tesa; le zampe posteriori, inchiodate l’una sull’altra,
erano un po’ rialzate; e sangue nero, scorrendo tra i peli,
si era rappreso in stalattiti in fondo alla coda che pendeva
dritta lungo la croce. Intorno, i soldati si divertirono; lo
chiamavano console e cittadino di Roma, e gli gettavano
dei sassi negli occhi, per farne volar via i moscerini.
Cento passi più avanti ne videro altri due, poi d’un
tratto apparve una lunga fila di croci sulle quali erano
appesi altri leoni. Alcuni erano morti da tanto tempo, così
che sul legno restavano soltanto frammenti di scheletro;
altri, putrefatti solo in parte, torcevano la bocca in una
smorfia orribile; ce n’erano di enormi, l’albero della croce
si piegava per il peso; ondeggiavano al vento, mentre
sulle loro teste volteggiavano senza sosta stormi di corvi.
Così si vendicavano i contadini cartaginesi quando
catturavano una bestia feroce; speravano, con
quell’esempio, di atterrire le altre. I Barbari, smettendo di
ridere, precipitarono in un lungo stupore: «Ma che
popolo è questo», pensavano, «che si diverte a
crocifiggere dei leoni!».
Del resto, soprattutto gli uomini del Nord, si sentivano
vagamente inquieti, turbati, già malati, con le mani
graffiate dalle spine delle piante di aloe; grandi zanzare
ronzavano intorno ai loro orecchi, e nell’esercito
cominciavano i casi di dissenteria. Li preoccupava non
vedere ancora Sicca. Avevano paura di perdersi e di finire
nel deserto, il paese delle sabbie e delle paure. Molti non
volevano più andare avanti. Altri ripresero la via di
Cartagine.
Finalmente al settimo giorno, dopo aver costeggiato a
lungo la base di una montagna, si svoltò bruscamente a
destra; allora apparve una linea di mura erette su rocce
bianche, con cui si confondevano. E subito si innalzò la
città intera; veli blu, gialli e bianchi sventolavano sulle
mura, nel rossore della sera. Erano le sacerdotesse di
Tanit, accorse a ricevere gli uomini. Stavano allineate
lungo il bastione, battendo i tamburelli, pizzicando le lire,
scuotendo i crotali,11 e i raggi del sole, che tramontava
sullo sfondo tra le montagne della Numidia, passavano
tra le corde delle arpe sulle quali si protendevano le loro
braccia nude. A tratti gli strumenti tacevano di colpo, ed
erompeva un grido stridulo, ansioso, furioso, continuo,
una sorta di latrato che quelle donne producevano
colpendo con la lingua gli angoli della bocca. Altre,
appoggiate sui gomiti, il mento tra le mani, restavano più
immobili delle sfingi, osservando con i grandi occhi neri
l’esercito che saliva.
Malgrado fosse una città santa, Sicca non poteva
contenere una tale moltitudine; il tempio e i suoi annessi
ne occupavano da soli la metà. Così i Barbari si
sistemarono nella pianura, nei modi che preferirono: i
più disciplinati in schiere regolari, gli altri per nazioni o
secondo la loro fantasia.
I Greci allinearono le loro tende di pelli in file
parallele; gli Iberici disposero in cerchio i loro padiglioni
di tela; i Galli si costruirono baracche di tavole; i Libici
capanne di pietre a secco, e i Negri scavarono nella
sabbia, con le unghie, fosse in cui dormire. Molti, non
sapendo dove sistemarsi, si aggiravano tra i bagagli e la
notte dormivano per terra, avvolti nei loro mantelli laceri.
La pianura si stendeva intorno a loro, circondata da
montagne. Qua e là una palma si piegava su una collina
di sabbia; abeti e querce punteggiavano i fianchi dei
precipizi. Talvolta la pioggia di un temporale pendeva dal
cielo come una lunga sciarpa, mentre la campagna
restava ovunque coperta di azzurro e di serenità; poi un
vento tiepido spazzava turbini di polvere; e un ruscello
scendeva a cascate dalle alture di Sicca su cui si ergeva,
con il suo tetto d’oro su colonne di bronzo, il tempio
della Venere Cartaginese, 12 dominatrice della contrada,
che sembrava riempire con la sua anima. Il terreno
tormentato, il mutare improvviso della temperatura, i
giochi di luce, manifestavano la stravaganza della sua
forza e insieme la bellezza del suo eterno sorriso. Le cime
delle montagne avevano la forma della mezzaluna; altre
sembravano petti di donna che tendessero i seni gonfi, e
i Barbari sentivano pesare sulle loro fatiche uno
sfinimento colmo di delizie.
Spendio, con il denaro del dromedario, si era
comprato uno schiavo. Durante tutto il giorno dormiva
disteso davanti alla tenda di Mâtho. Spesso si svegliava
credendo di udire nel sonno il sibilo della frusta; allora,
sorridendo, si passava le mani sulle cicatrici delle gambe,
là dove erano stati serrati a lungo i ferri; poi si
riaddormentava.
Mâtho accettava la sua compagnia e, quando usciva,
Spendio, con una lunga spada sulla coscia, lo scortava
come un littore; oppure Mâtho gli appoggiava con
noncuranza un braccio su una spalla, perché Spendio era
piccolo.
Una sera che attraversavano insieme le vie
dell’accampamento, scorsero degli uomini coperti di
mantelli bianchi; tra loro c’era Narr’Havas, il principe dei
Numidi. Mâtho trasalì.
«La tua spada!», gridò. «Voglio ucciderlo!».
«Non ancora!», disse Spendio trattenendolo.
Narr’Havas gli stava venendo incontro.
Fece il gesto di abbassare i pollici, in segno di alleanza,
attribuendo all’ebbrezza del banchetto il suo attacco di
collera; poi parlò a lungo contro Cartagine, ma non disse
per quale ragione era venuto tra i Barbari.
«Sarà per tradire loro o la Repubblica?», si chiedeva
Spendio; e siccome contava di trarre vantaggio da ogni
disordine, era grato a Narr’Havas per le future perfidie di
cui lo sospettava.
Il capo dei Numidi restò tra i Mercenari. Sembrava
voler conquistare l’amicizia di Mâtho. Gli inviava in dono
grasse capre, polvere d’oro e piume di struzzo. Il Libico,
stupito di tutte quelle cortesie, non sapeva se ricambiarle
o irritarsene. Ma Spendio lo calmava, e Mâtho si lasciava
guidare dallo schiavo, sempre irresoluto e in un torpore
invincibile, come uno che abbia ingerito una bevanda che
lo farà morire.
Una mattina che partivano tutti e tre per la caccia al
leone, Narr’Havas nascose un pugnale sotto il mantello.
Spendio gli camminò sempre dietro; e rientrarono senza
che il pugnale fosse stato estratto.
Un’altra volta Narr’Havas li condusse molto lontano,
fino ai confini del suo regno. Giunsero in una gola
stretta; Narr’Havas sorrise dicendo che non conosceva più
la strada; Spendio la ritrovò.
Ma più spesso Mâtho, malinconico come un augure, se
ne usciva all’alba per vagabondare nella campagna. Si
stendeva sulla sabbia, e rimaneva immobile fino alla sera.
Consultò, uno dopo l’altro, tutti gli indovini
dell’esercito, quelli che osservano i movimenti dei
serpenti, quelli che leggono nelle stelle, quelli che
soffiano sulle ceneri dei morti. Trangugiò galbano,
seseli13 e veleno di vipera, che gela il cuore; donne
negre, cantando parole barbariche al chiaro di luna, gli
punsero la pelle della fronte con stiletti d’oro; si caricava
di collane e amuleti; invocò di volta in volta Baal-
Khamon, Moloch, i sette Cabiri,14 Tanit e la Venere dei
Greci. Incise un nome su una lastra di rame e la seppellì
nella sabbia al limitare della tenda. Spendio lo udiva
gemere e parlare da solo.
Una notte entrò.
Mâtho, nudo come un cadavere, era sdraiato bocconi
sopra una pelle di leone, con la faccia tra le mani; una
lampada sospesa illuminava le sue armi, appese, sopra la
testa, al palo della tenda.
«Soffri?», gli chiese lo schiavo. «Di che hai bisogno?
Dimmelo!».
E gli scosse una spalla chiamandolo più volte:
«Padrone! Padrone!...».
Finalmente Mâtho alzò su di lui due grandi occhi
torbidi.
«Ascolta!», disse sottovoce, con un dito sulle labbra.
«È la collera degli dèi! La figlia di Amilcare mi perseguita!
E io ne ho paura, Spendio!».
Si stringeva le braccia al petto come un bambino
spaventato da un fantasma.
«Parlami! Io sono malato! Voglio guarire! Ho provato
tutto! Ma tu, conosci dèi più potenti o qualche
invocazione irresistibile?»
«Per fare cosa?», chiese Spendio.
Rispose, colpendosi la testa con i pugni:
«Per liberarmi di lei!».
Poi diceva, parlando tra sé, con lunghe pause:
«Sono forse la vittima di qualche olocausto che ha
promesso agli dèi?... Mi tiene legato con una catena che
non si vede. Se cammino, è perché lei avanza; se mi
fermo, è lei che si ferma! I suoi occhi mi bruciano, odo la
sua voce. Mi circonda, mi penetra. Mi sembra che sia
diventata la mia anima! Eppure è come se tra noi ci
fossero i flutti invisibili di un oceano illimitato! È lontana
e inaccessibile! Lo splendore della sua bellezza crea
intorno a lei una nube di luce; e a volte io credo non
averla vista mai... che non esista... che tutto questo sia
un sogno!».
Così Mâtho piangeva nelle tenebre; i Barbari
dormivano. Spendio, guardandolo, si ricordava dei
giovani che, un tempo, tenendo vasi d’oro tra le mani, lo
supplicavano quando portava a passeggio per le città il
suo gregge di cortigiane; provò un sentimento di pietà e
disse:
«Sii forte, padrone! Fai appello alla tua volontà e
smettila di implorare gli dèi, che sono indifferenti alle
grida degli uomini! Ecco che piangi come un vigliacco! Ma
non ti umilia il fatto che una donna ti faccia soffrire
tanto?»
«Sono forse un bambino?», disse Mâtho. «Credi che il
loro viso e le loro canzoni possano intenerirmi ancora? A
Trapani ne avevamo per pulire le scuderie. Ne ho
possedute in mezzo agli assalti, sotto i soffitti che
crollavano e mentre la catapulta vibrava ancora!... Ma
quella, Spendio, quella!...».
Lo schiavo lo interruppe:
«Se non fosse stata la figlia di Amilcare...».
«No!», gridò Mâtho. «Non ha niente in comune con le
altre figlie degli uomini! Hai visto i suoi grandi occhi sotto
le grandi sopracciglia, come soli sotto archi di trionfo?
Ricorda: quando è apparsa le torce sono impallidite. Tra i
diamanti della sua collana splendeva il seno nudo; dietro
di lei si sentiva un sapore di tempio, e da tutta la sua
persona si levava qualcosa che era più soave e più
terribile della morte. Continuava a camminare, poi si è
fermata».
Rimase a bocca aperta, la testa china, lo sguardo fisso.
«Ma io la voglio! Ne ho bisogno! Ne muoio! All’idea di
stringerla tra le braccia, sono travolto da un furore di
gioia, e tuttavia la odio, Spendio! Vorrei picchiarla! Che
fare? Ho voglia di vendermi, per diventare suo schiavo.
Tu lo sei stato! Tu potevi vederla: parlami di lei! È vero
che tutte le notti sale sulla terrazza del suo palazzo? Ah!
Le pietre devono fremere sotto i suoi sandali, e le stelle
devono chinarsi a guardarla!».
Ricadde furente, ansimando come un toro ferito.
Poi Mâtho cantò: «Inseguiva nella foresta il mostro
femmina, la cui coda serpeggiava sulle foglie morte come
un ruscello d’argento». E, modulando la voce, imitava
quella di Salammbô, mentre le mani protese si
muovevano come due mani leggere sulle corde di una
lira.
Alle consolazioni di Spendio, ripeteva gli stessi
discorsi; le loro notti passavano tra lamenti ed
esortazioni.
Mâtho provò a stordirsi col vino. Ma dopo le sue
ubriacature era più triste di prima. Provò a distrarsi con
gli astragali,15 e perse una dopo l’altra le piastre d’oro del
suo collare. Si lasciò portare dalle ancelle della dea; ma
discese la collina singhiozzando, come quelli che tornano
dai funerali.
Spendio, al contrario, diventava sempre più
baldanzoso e allegro. Lo si vedeva, nelle bettole sotto le
frasche, a discorrere in mezzo ai soldati. Accomodava
vecchie corazze. Faceva giochi di abilità con i pugnali,
andava a raccogliere erbe nei campi per i malati. Era
faceto, sottile, pieno di trovate e di parole; i Barbari si
abituavano ai suoi servizi; e lui sapeva farsi amare.
Intanto erano in attesa di un ambasciatore di Cartagine
che avrebbe portato loro, con i muli, ceste piene d’oro; e
rifacendo sempre da capo lo stesso calcolo, con le dita
tracciavano cifre sulla sabbia. Ognuno, in anticipo,
organizzava la propria vita: chi avrebbe avuto concubine,
schiavi, terreni; chi voleva nascondere il proprio tesoro o
rischiarlo su una nave. Ma in tanto ozio gli umori si
irritavano: sorgevano continue dispute tra i cavalieri e i
fanti, tra i Barbari e i Greci, e si era continuamente
storditi dalla voce stridula delle donne.
Ogni giorno giungevano bande di uomini seminudi,
con delle foglie in testa per proteggersi dal sole; erano i
debitori dei ricchi Cartaginesi, costretti a lavorare le loro
terre, e che erano fuggiti. Affluivano Libici, contadini
rovinati dalle tasse, banditi, malfattori. Poi l’orda dei
mercanti, tutti i venditori d’olio e di vino che, furiosi per
non essere stati pagati, se la prendevano con la
Repubblica, contro la quale declamava Spendio. Presto
cominciarono a mancare i viveri. Si parlava di marciare
su Cartagine e di chiamare i Romani.

Una sera, all’ora di cena, si udirono avvicinarsi suoni


grevi e striduli, e in lontananza, tra le ondulazioni del
terreno, apparve qualcosa di rosso. Era una grande
lettiga di porpora, con gli angoli adorni di ciuffi di piume
di struzzo. Catene di cristallo, con ghirlande di perle,
sbattevano contro le tende chiuse. La seguivano dei
cammelli che facevano suonare le grosse campane
appese ai pettorali, e intorno a loro si scorgevano dei
cavalieri con armature in squame d’oro che li coprivano
dai talloni alle spalle.
Si fermarono a trecento passi dal campo, per estrarre
dalle custodie che portavano in groppa lo scudo tondo, la
larga spada e l’elmo alla beota. Alcuni rimasero con i
cammelli; gli altri si rimisero in cammino. Finalmente
apparvero le insegne della Repubblica: bastoni di legno
blu con in cima teste di cavallo o pigne. I Barbari si
alzarono tutti in piedi, applaudendo; le donne si
precipitarono verso le guardie della Legione, a baciare
loro i piedi.
La lettiga avanzava sulle spalle di dodici Negri, che
camminavano a ritmo, con piccoli passi veloci. Andavano
a destra e a sinistra, a caso, impacciati dalle corde delle
tende, dalle bestie vaganti e dai treppiedi su cui
cuocevano le vivande. Di tanto in tanto una mano grassa,
carica di anelli, socchiudeva una tenda della lettiga; una
voce rauca gridava delle ingiurie; allora i portatori si
fermavano, poi prendevano un’altra strada attraverso
l’accampamento.
Ma le cortine di porpora si sollevarono, e si vide su un
grande cuscino una testa umana impassibile e gonfia; le
sopracciglia formavano come due archi d’ebano che
s’incontravano sopra il naso; pagliuzze d’oro luccicavano
tra i capelli crespi, e la faccia era talmente pallida da
sembrare incipriata con polvere di marmo. Il resto del
corpo scompariva sotto le pelli che riempivano la lettiga.
I soldati riconobbero in quell’uomo così adagiato il
suffeta Annone,16 colui che con la sua lentezza aveva
contribuito a far perdere la battaglia delle isole Egadi;
quanto alla sua vittoria di Ecatompilo sui Libici, se si era
comportato con clemenza l’aveva fatto per avidità perché,
pensavano i Barbari, aveva venduto per proprio conto
tutti i prigionieri, dopo aver dichiarato alla Repubblica
che erano tutti morti.
Dopo aver cercato, per un po’, un luogo adatto ad
arringare i soldati, fece un cenno: la lettiga si fermò, e
Annone, sorretto da due schiavi, poggiò i piedi a terra,
barcollando.
Portava calzari di feltro nero, decorati con lune
d’argento. Bende simili a quelle che avvolgono le
mummie gli fasciavano le gambe, e la carne sporgeva tra
le bende incrociate. Il ventre debordava sul gonnellino
scarlatto che gli copriva le cosce; le pieghe del collo gli
ricadevano sul petto come la giogaia di un bue; la tunica,
dipinta a fiori, stava per lacerarsi sotto le ascelle, tanto
era tesa; portava inoltre una sciarpa, una cintura e un
ampio mantello nero con larghe maniche allacciate.
L’abbondanza degli indumenti, la grande collana di pietre
blu, le fibbie d’oro e i pesanti orecchini rendevano ancora
più ripugnante la sua deformità. Lo si sarebbe detto un
grosso idolo sbozzato in un blocco di pietra; infatti una
pallida lebbra, diffusa in tutto il corpo, gli dava l’aspetto
di una cosa inerte. E tuttavia il naso, adunco come il
becco di un avvoltoio, si dilatava con forza per aspirare
l’aria, e gli occhi piccoli, dalle ciglia incollate, brillavano di
una lucentezza dura e metallica. Teneva in mano una
spatola di aloe, per grattarsi la pelle.
Infine due araldi suonarono i loro corni d’argento; il
tumulto si placò, e Annone si mise a parlare.
Cominciò elogiando gli dèi e la Repubblica; i Barbari
dovevano essere lieti di averla servita. Ma bisognava
mostrarsi più ragionevoli, i tempi erano duri, «e se un
padrone ha soltanto tre olive, non è giusto che ne tenga
due per sé?».
Così il vecchio suffeta farciva il suo discorso di
proverbi e apologhi, e intanto faceva cenni con la testa
per sollecitare consensi.
Parlava punico, e quelli che lo circondavano (i più
solleciti erano accorsi senza le armi) erano Campani,
Galli, Greci, e così nessuno in quella folla lo capiva.
Annone se ne accorse, si fermò, e cominciò a dondolarsi
pesantemente, da una gamba all’altra, riflettendo.
Gli venne l’idea di convocare i capitani; allora i suoi
araldi gridarono l’ordine in greco, la lingua che, dai tempi
di Santippo,17 veniva usata per gli ordini negli eserciti
cartaginesi.
Le guardie, a colpi di frusta, costrinsero la folla dei
soldati a fare largo; e dopo poco giunsero i capitani delle
falangi alla spartana e i capi delle coorti barbare, con le
insegne del loro grado e le armature del loro paese. Era
calata la notte, e un grande rumore agitava la pianura;
qua e là ardevano fuochi; di soldato in soldato, ci si
chiedeva «Che succede?», e perché il suffeta non
distribuiva il denaro?
Costui stava esponendo ai capitani gli oneri infiniti
della Repubblica. Il tesoro era vuoto. Il tributo dei
Romani la schiacciava. «Non sappiamo più che fare!... La
Repubblica è da compiangere».
Di tanto in tanto si sfregava le membra con la spatola
di aloe, oppure si interrompeva per bere da una coppa
d’argento, che gli porgeva uno schiavo, una tisana fatta
con cenere di donnola e asparagi bolliti in aceto; poi si
asciugava le labbra con un tovagliolo scarlatto, e
riprendeva:
«Ciò che valeva un siclo18 d’argento oggi vale tre sicli
d’oro, e le colture abbandonate durante la guerra non
producono niente! Le nostre peschiere di porpora sono
quasi perdute, le perle hanno raggiunto prezzi
esorbitanti; abbiamo appena unguenti a sufficienza per il
culto degli dèi! Quanto alle cose della tavola, non ne
parlo neppure, è un disastro! Mancandoci le galee, ci
mancano le spezie, ed è quasi impossibile rifornirsi di
silfio, a causa delle ribellioni alla frontiera di Cirene. La
Sicilia, dove si trovavano tanti schiavi, ora ci è preclusa!
Proprio ieri, per un servo dei bagni e quattro sguatteri,
ho speso più denaro di quanto ne avrei speso un tempo
per una coppia di elefanti!».
Svolse un lungo rotolo di papiro; e lesse, senza saltare
una sola cifra, tutte le spese che il governo aveva
sostenuto: tanto per riparare i templi, tanto per lastricare
le strade, tanto per costruire navi, e poi per le peschiere
di corallo, per ingrandire i Sissizi, e per alcune macchine
che servivano nelle miniere, nel paese dei Cantabri.
Ma i capitani, come i loro soldati, non capivano il
punico, anche se i Mercenari si salutavano in quella
lingua. Di solito si piazzavano negli eserciti dei Barbari
certi ufficiali cartaginesi che facevano da interpreti; dopo
la guerra si erano nascosti per timore di rappresaglie, e
Annone non aveva pensato a portarli con sé; comunque
la sua voce troppo sorda si perdeva nel vento.
I Greci, stretti nei cinturoni di ferro, tendevano
l’orecchio nello sforzo d’indovinare le sue parole, mentre
alcuni montanari, coperti di pelli come orsi, lo
guardavano con diffidenza o sbadigliavano, appoggiati
alla clava chiodata di bronzo. I Galli disattenti scuotevano
ridendo le folte capigliature, e gli uomini del deserto
ascoltavano immobili, incappucciati nei mantelli di lana
grigia: altri sopraggiungevano da dietro; le guardie,
spinte dalla calca, barcollavano sui loro cavalli; i Negri
reggevano a braccia tese rami d’abete in fiamme e il
grosso Cartaginese continuava la sua arringa, dall’alto di
un poggio erboso.
I Barbari intanto cominciavano a innervosirsi; si
udirono dei mormorii e ognuno si mise a redarguirlo.
Annone gesticolava con la sua spatola; quelli che
volevano far tacere gli altri, gridando più forte
aumentavano il baccano.
Improvvisamente un uomo dall’aspetto meschino saltò
ai piedi di Annone, strappò la tromba a un araldo, vi
soffiò dentro, e Spendio (perché si trattava di lui)
annunciò che aveva qualcosa di importante da dire. A
questa dichiarazione, subito tradotta in cinque lingue
diverse, greco, latino, gallo, libico e balearico, i capitani,
un po’ ridendo e un po’ sorpresi, risposero: «Parla!
Parla!».
Spendio esitò; tremava. Poi, rivolgendosi ai Libici, che
erano i più numerosi, disse loro:
«Avete udito tutti le orribili minacce di quest’uomo!».
Annone non protestò, dunque non capiva affatto il
libico; e, per continuare l’esperimento, Spendio ripeté la
stessa frase negli altri idiomi dei Barbari.
Si guardarono stupiti; poi tutti, come per un tacito
accordo, credendo forse d’aver capito, abbassarono la
testa in segno di assenso.
Allora Spendio cominciò con voce veemente:
«Innanzitutto ha detto che tutti gli dèi degli altri popoli
sono solo fantasie al confronto con gli dèi di Cartagine! E
vi ha chiamati vigliacchi, ladri, bugiardi, cani e figli di
cagne! Se non fosse per voi (ha detto questo!) la
Repubblica non sarebbe costretta a pagare il tributo ai
Romani; e con i vostri eccessi l’avete lasciata senza
profumi, senza aromi, senza schiavi e senza silfio, perché
ve la intendete con i nomadi alla frontiera di Cirene! Ma i
colpevoli saranno puniti! Ha letto l’elenco dei supplizi:
dovranno lavorare a lastricare le strade, a costruire navi,
ad abbellire i Sissizi, e gli altri saranno mandati a grattare
la terra nelle miniere, nel paese dei Cantabri».
Spendio ripeté le stesse cose ai Galli, ai Greci, ai
Campani, ai Balearici. Riconoscendo molte parole che già
avevano colpito la loro attenzione, i Mercenari furono
convinti che riferisse esattamente il discorso del suffeta.
Alcuni gridarono: «Tu menti!». Le loro voci si persero nel
tumulto degli altri; Spendio aggiunse:
«Non avete visto che ha lasciato fuori del campo una
riserva dei suoi cavalieri? A un segnale accorreranno a
scannarvi tutti».
I Barbari si voltarono da quel lato, e in mezzo alla folla
che si stava aprendo si vide avanzare, con la lentezza di
un fantasma, un essere umano tutto curvo, magro,
completamente nudo e coperto fino ai fianchi da lunghi
capelli irti di foglie secche, polvere e spine. Aveva intorno
alle reni e alle ginocchia impacchi di argilla e paglia, e
brandelli di tela; la pelle floscia e terrea penzolava dalle
membra scarnite, come stracci su rami secchi; le mani gli
tremavano con un fremito continuo, e camminava
appoggiandosi a un bastone di olivo.
Giunse vicino ai Negri che reggevano le torce. Una
sorta di ghigno idiota gli scopriva le gengive esangui; i
grandi occhi smarriti scrutavano la folla dei Barbari che
gli era intorno.
Poi, con un urlo di terrore, si gettò dietro di loro,
cercando rifugio dietro i loro corpi; balbettava «Eccoli!
eccoli!», e indicava le guardie del suffeta, immobili nelle
armature lucenti. I loro cavalli scalpitavano, abbagliati
dalla luce delle torce che scoppiettavano nelle tenebre; lo
spettro umano si dibatteva e urlava: «Li hanno
ammazzati!».
A queste parole che gridava in balearico, alcuni
Balearici si avvicinarono e lo riconobbero; senza
rispondere loro, continuava a ripetere:
«Sì, ammazzati tutti, tutti! Schiacciati come uva! Quei
bei giovani! I frombolieri! I miei compagni, i vostri!».
Gli fecero bere del vino, e pianse; poi si lasciò andare
alle parole.
Spendio faceva fatica a contenere la sua gioia, mentre
spiegava ai Greci e ai Libici le cose orribili che raccontava
Zarxas;19 non poteva crederci, tanto giungevano a
proposito. I Balearici impallidivano venendo a sapere in
quale modo erano morti i loro compagni.
Si trattava di una schiera di trecento frombolieri
sbarcati il giorno prima della partenza, e che quel giorno
avevano dormito troppo a lungo. Giunsero sulla piazza di
Khamon, quando i Barbari erano partiti, e si trovarono
senza difesa perché le loro pallottole d’argilla erano state
caricate sui cammelli con il resto dei bagagli. Li
lasciarono avanzare nella via di Satheb, fino alla porta di
quercia rivestita di piastre di bronzo; allora il popolo, in
un solo movimento, si era gettato su di loro.
In effetti, i soldati si ricordarono di un grande grido;
Spendio, che fuggiva in testa alle colonne, non l’aveva
udito.
I cadaveri furono poi sistemati tra le braccia degli dèi
Pateci20 che circondavano il tempio di Khamon. Furono
rimproverati loro tutti i crimini dei Mercenari: l’ingordigia,
i furti, le empietà, l’arroganza, e il massacro dei pesci nel
giardino di Salammbô. Ai loro corpi furono inflitte
mutilazioni atroci; i sacerdoti ne bruciarono i capelli per
tormentare le loro anime; li appesero a pezzi nelle
botteghe dei macellai; qualcuno giunse ad affondarvi i
denti, e la sera, per farla finita, furono accesi roghi nei
crocevia.
Erano queste le fiamme che rilucevano da lontano sul
lago. Ma siccome qualche casa aveva preso fuoco, si
erano affrettati a gettare oltre le mura quanto restava di
cadaveri e agonizzanti. Zarxas era rimasto nascosto nei
canneti, sulle rive del lago, fino all’indomani; poi aveva
errato per la campagna, alla ricerca dell’esercito,
seguendone le tracce dei passi nella polvere. Al mattino
si nascondeva nelle caverne; la sera, si rimetteva in
marcia, con le piaghe sanguinanti, affamato, malato,
sopravvivendo di radici e carogne; un giorno, finalmente,
aveva scorto delle lance all’orizzonte e le aveva seguite,
perché a forza di terrori e disgrazie la sua ragione era
sconvolta.
L’indignazione dei soldati, contenuta mentre parlava,
esplose come una tempesta; ora volevano massacrare le
guardie con il suffeta. Ma alcuni si misero in mezzo,
dicendo che bisognava ascoltarlo e almeno sapere se
sarebbero stati pagati. Allora tutti gridarono: «Il nostro
denaro!». Annone rispose loro che l’aveva portato.
Corsero agli avamposti, e i bagagli del suffeta giunsero
in mezzo alle tende spinti dai Barbari. Senza attendere gli
schiavi, subito aprirono le ceste; vi trovarono vesti di
giacinto,21 spugne, strigili, spazzole, profumi, bacchette
d’antimonio per truccarsi gli occhi; il tutto apparteneva
alle Guardie, uomini ricchi abituati a simili raffinatezze.
Poi si scoprì su un cammello una grande tinozza di
bronzo: era del suffeta, per fare il bagno durante il
viaggio; costui aveva preso infatti ogni sorta di
precauzioni, fino a portare con sé, nelle loro gabbie, le
donnole di Ecatompilo che venivano bruciate vive per
preparare la sua tisana. E poiché la sua malattia gli
metteva un grande appetito, c’erano anche molti
commestibili e molto vino, salamoie, carni e pesci al
miele, e vasetti di Commageno, grasso d’oca fuso
ricoperto di neve e paglia tritata.22 Le provviste erano
considerevoli; man mano che si aprivano le ceste,
continuavano a venirne fuori, e le risate si alzavano come
onde che cozzassero insieme.
Quanto alla paga dei Mercenari, riempiva più o meno
due canestri di sparto; in uno, addirittura, si vedevano
alcune di quelle rotelle di cuoio che la Repubblica usava
come monete; e poiché i Barbari sembravano molto
sorpresi, Annone dichiarò che, essendo i loro conti
troppo difficili, gli Anziani non avevano avuto il tempo di
esaminarli con calma. Intanto, era quello che
mandavano.
Allora tutto fu rovesciato, gettato all’aria: i muli, i
servi, la lettiga, le provviste, i bagagli. I soldati presero le
monete dai canestri per lapidare Annone. A stento costui
riuscì a salire su un asino; fuggiva aggrappato al pelo,
urlando, piangendo, sbattuto, contuso, e intanto invocava
la maledizione di tutti gli dèi sull’esercito. La grande
collana di pietre preziose gli sobbalzava fino agli orecchi.
Tratteneva coi denti il mantello troppo lungo,
trascinandoselo dietro, e i Barbari da lontano gli
gridavano: «Vattene, vigliacco! Maiale! Fogna di Moloch!
Suda il tuo oro e la tua peste! Più in fretta! Più in fretta!».
La scorta in rotta galoppava ai suoi fianchi.
Ma il furore dei Barbari non si placò. Si ricordarono
che molti di loro, partiti per Cartagine, non erano
ritornati; dovevano averli uccisi. Tanta ingiustizia li
esasperò, e si misero a svellere i picchetti delle tende, ad
arrotolare i mantelli, a imbrigliare i cavalli; ognuno prese
l’elmo e la spada, in un istante tutti furono pronti. Quelli
che non avevano armi, si lanciarono nei boschi a tagliarsi
dei bastoni.
Sorgeva il giorno; gli abitanti di Sicca, svegliati,
riempivano le strade. «Vanno a Cartagine», si diceva, e
questa voce si sparse rapidamente nella contrada.
Da ogni sentiero, da ogni vallone sbucavano uomini.
Si vedevano i pastori che di corsa scendevano dalle
montagne.
Poi, quando i Barbari furono partiti, Spendio fece il
giro della pianura, a cavallo del suo stallone punico e con
il suo schiavo che conduceva un terzo cavallo.
Una sola tenda era restata. Spendio vi entrò.
«In piedi, padrone! Alzati! Partiamo!».
«E dove andate?», chiese Mâtho.
«A Cartagine!», gridò Spendio.
Mâtho saltò sul cavallo che lo schiavo teneva sulla
soglia.
III
Salammbô

La luna si alzava a fior d’acqua, e, sulla città ancora


coperta di tenebre, brillavano dei punti luminosi, dei
chiarori: il timone di un carro in un cortile, qualche
cencio di tela appeso, l’angolo di un muro, una collana
d’oro sul petto di un dio. I globi di vetro sui tetti dei
templi rilucevano, qua e là, come grossi diamanti. Ma
rovine confuse, mucchi di terra nera e giardini formavano
nel buio masse più scure, e giù a Malqua le reti dei
pescatori erano stese da una casa all’altra come
giganteschi pipistrelli ad ali aperte. Non si udiva più il
cigolio delle ruote idrauliche che portavano l’acqua
all’ultimo piano dei palazzi; e in mezzo alle terrazze i
cammelli riposavano tranquilli, sdraiati sul ventre, alla
maniera degli struzzi. I portieri dormivano nelle strade
sull’uscio delle case; l’ombra dei colossi si allungava sulle
piazze deserte; talvolta, in lontananza, il fumo di un
sacrificio ancora ardente sfuggiva tra le tegole di bronzo,
e una calda brezza portava col profumo di erbe
aromatiche i sapori della marina e le esalazioni dei muri
scaldati dal sole. Intorno a Cartagine le onde
splendevano immobili, perché la luna diffondeva la sua
luce sia sul golfo chiuso dalle montagne che sul lago di
Tunisi, dove i fenicotteri disegnavano tra i banchi di
sabbia lunghe linee rosa; al di là del lago, sotto le
Catacombe, la grande laguna salata luccicava come un
pezzo d’argento. La volta del cielo blu sprofondava
nell’orizzonte, da un lato nella polvere delle pianure,
dall’altro nelle brume del mare, e sulla cima dell’Acropoli
i cipressi piramidali intorno al tempio di Eshmun
ondeggiavano, con un mormorio simile ai lenti e regolari
battiti della risacca contro il molo, sotto i bastioni.
Salammbô salì sulla terrazza del suo palazzo, sorretta
da una schiava che portava in un piatto di ferro dei
carboni ardenti.
In mezzo alla terrazza c’era un lettino d’avorio coperto
di pelli di lince con cuscini di piume di pappagallo,
animale fatidico sacro agli dèi, e ai quattro angoli si
innalzavano quattro lunghi bruciaprofumi pieni di nardo,
incenso, cinnamomo e mirra. La schiava accese i
profumi. Salammbô guardò la stella polare; salutò
lentamente i quattro punti del cielo, e si inginocchiò sul
pavimento sulla polvere azzurra disseminata di stelle
d’oro, a imitazione del firmamento. Poi, con i gomiti sui
fianchi, gli avambracci protesi e le mani aperte,
rovesciando la testa sotto i raggi della luna, disse:
«O Rabbetna!... Baalet!... Tanit!», 1 e la sua voce si
trascinava in tono lamentoso, come per chiamare
qualcuno. «Anaitis! Astarte! Derceto! Astoreth! Militta!
Athara! Elissa! Tiratha!...2 Per i simboli occulti; per le mie
cetre sonore; per i solchi della terra; per il silenzio eterno
e l’eterna fecondità; dominatrice del tenebroso mare e
delle azzurre spiagge, o Regina delle cose umide, salute a
te!».
Ondeggiò con tutto il corpo due o tre volte, poi si
gettò con la fronte nella polvere, a braccia aperte.
La schiava la risollevò prontamente, perché bisognava,
secondo i riti, che qualcuno sottraesse la supplice alla sua
prosternazione; significava dirle che gli dèi la gradivano,
e la nutrice di Salammbô non mancava mai di adempiere
questo dovere di devozione.
Alcuni mercanti della Getulia Darizia3 l’avevano portata
ancora bambina a Cartagine, e dopo il suo affrancamento
non aveva voluto abbandonare i suoi padroni, come
provava l’orecchio destro col suo grande foro. Una gonna
a strisce multicolori le serrava le anche e scendeva fino
alle caviglie, dove si urtavano due anelli di stagno. Il
volto, piuttosto comune, era giallo come la sua tunica.
Spilloni d’argento molto lunghi disegnavano una sorta di
raggiera dietro la testa. Portava su una narice un bottone
di corallo, e stava accanto al letto, più dritta di un’erma e
le palpebre abbassate.
Salammbô si avvicinò al parapetto della terrazza. I
suoi occhi percorsero in un attimo l’orizzonte, poi si
abbassarono sulla città addormentata, e il sospiro che
emise, sollevandole i seni, fece ondeggiare da un capo
all’altro la lunga zimarra bianca che le scendeva intorno,
senza fibbia né cintura. I sandali dalle punte ricurve
scomparivano sotto un cumulo di smeraldi, e i capelli
sciolti riempivano una reticella di fili di porpora.
Poi risollevò la testa per contemplare la luna, e
mescolando alle sue parole frammenti di un inno,
mormorò:
«Come ruoti leggera, sorretta dall’etere impalpabile,
che intorno a te si leviga! Ed è il moto del tuo corso a
distribuire i venti e le rugiade feconde. A seconda che tu
cresca o diminuisca, si allungano e si rimpiccioliscono gli
occhi dei gatti e le macchie delle pantere. Le spose urlano
il tuo nome nel dolore dei parti! Tu gonfi i frutti di mare!
Fai fermentare i vini! Mandi in putrefazione i cadaveri!
Formi le perle in fondo ai mari!
«E tutti i germi, o dea!, fermentano nelle oscurità
profonde della tua umidità.
«Quando appari, sulla terra si diffonde la quiete; i fiori
si chiudono, i flutti si placano, gli uomini stanchi si
sdraiano col petto rivolto verso di te, e il mondo con i
suoi oceani e le sue montagne si contempla nel tuo volto
come in uno specchio. Sei bianca, dolce, luminosa,
immacolata, ausiliatrice, purificatrice, serena».
La falce della luna era allora sulla Montagna delle
Acque Calde, nella cavità tra le due vette, dall’altro lato
del golfo. Più in basso brillava una piccola stella, e
tutt’intorno un alone chiaro. Salammbô riprese:
«Ma sei anche terribile padrona!... È per opera tua che
si generano i mostri, i fantasmi terrificanti, i sogni
mendaci; i tuoi occhi divorano le pietre degli edifici, e le
scimmie si ammalano tutte le volte che ti rinnovi.
«Dove vai dunque? Perché cambiare forma di
continuo? Ora sottile e curva, scivoli negli spazi come
galea senz’alberi, ora in mezzo alle stelle sembri un
pastore che custodisca il gregge. Lucente e rotonda, sfiori
la cima dei monti come la ruota di un carro.
«O Tanit! Tu mi ami, vero? Quanto ti ho guardato! Ma
no! Tu corri nel tuo azzurro, e io resto sulla terra
immobile.
«Taanach, prendi il tuo nebal 4 e suona molto piano
sulla corda d’argento, perché il mio cuore è triste!».
La schiava sollevò una specie di arpa in legno d’ebano
più alta di lei, triangolare come un delta; ne fissò la
punta in un globo di cristallo, e si mise a suonare con le
due mani.
I suoni si susseguivano, sordi e veloci come un ronzio
di api: in un crescendo d’intensità si alzavano nella notte
con il lamento dei flutti e il fremito dei grandi alberi sulla
cima dell’Acropoli.
«Taci!», gridò Salammbô.
«Che hai dunque, padrona? La brezza che soffia, una
nube che passa, tutto ora ti inquieta e ti agita».
«Non so», disse lei.
«Ti affatichi in preghiere troppo lunghe!».
«Oh, Taanach! Vorrei dissolvermi in esse come un
fiore nel vino!».
«Sono forse le esalazioni dei tuoi profumi?»
«No!», disse Salammbô. «Lo spirito degli dèi dimora
nei buoni odori».
Allora la schiava le parlò di suo padre. Lo credevano
partito per il paese dell’ambra, al di là delle colonne di
Melkarth.5
«Ma se non torna», diceva, «dovrai comunque
scegliere uno sposo tra i figli degli Anziani, poiché questa
era la sua volontà; e allora la tua afflizione sparirà tra le
braccia di un uomo».
«Perché?», chiese la fanciulla. Tutti quelli che aveva
visto le facevano orrore con le loro risate da bestie
selvatiche e le membra grossolane.
«Talvolta, Taanach, esalano dal fondo del mio essere
vampate di calore, più dense dei vapori di un vulcano.
Voci mi chiamano, un globo di fuoco rotola e sale nel
mio petto, mi soffoca, sto per morire; poi, qualcosa di
soave, che scende dalla fronte ai piedi, passa nella mia
carne... è una carezza che mi avvolge, e io mi sento
schiacciata come se un dio si stendesse su di me. Oh!
Vorrei perdermi nella nebbia delle notti, nell’acqua delle
fontane, nella linfa degli alberi, uscire dal mio corpo, non
essere che un soffio, un raggio di luce, e scivolare, salire
fino a te, o Madre!».
Alzò le braccia il più in alto possibile, inarcando la vita,
pallida e leggera come la luna, nella sua lunga veste. Poi
ricadde ansimante sul giaciglio d’avorio; ma Taanach le
mise intorno al collo una collana d’ambra con denti di
delfino per scacciare le paure, e Salammbô disse con
voce quasi spenta:
«Vai a cercarmi Shahabarin».
Suo padre non aveva voluto che lei entrasse nel
collegio delle sacerdotesse, e neppure che venisse a
conoscere alcunché della Tanit popolare. La riservava a
un matrimonio che potesse servire alla sua politica, e per
questo Salammbô viveva sola nel palazzo; sua madre era
morta da molto tempo.
Era cresciuta tra astinenze, digiuni e purificazioni,
sempre circondata da cose squisite e austere, il corpo
saturo di profumi, l’anima piena di preghiere. Non aveva
mai assaggiato vino, né mangiato carne, né toccato un
animale immondo, né messo piede nella casa di un
morto.
Ignorava i simulacri osceni; dato che ogni dio si
manifestava in forme diverse, culti spesso contraddittori
testimoniavano uno stesso principio, e Salammbô
adorava la dea nella sua figurazione siderale. Un influsso
era sceso dalla luna sulla vergine: quando l’astro era in
fase calante, Salammbô si indeboliva. Languida per tutto
il giorno, si rianimava la sera. Durante un’eclisse, per
poco non era morta.
Ma la Rabbet gelosa si vendicava di quella verginità
sottratta ai suoi sacrifici, e tormentava Salammbô con
ossessioni tanto più forti in quanto erano vaghe, diffuse
in quella credenza e da essa ravvivate.
La figlia di Amilcare si preoccupava continuamente di
Tanit. Aveva appreso le sue avventure, i suoi viaggi e
tutti i suoi nomi che ripeteva anche se per lei non
avevano un significato preciso. Per penetrare le
profondità del suo dogma, voleva conoscere nel luogo
più segreto del tempio il vecchio idolo con il magnifico
mantello da cui dipendevano i destini di Cartagine,
poiché l’idea di un dio non si distingueva nettamente
dalla sua raffigurazione, e possedere o anche solo vedere
il suo simulacro significava appropriarsi di una parte della
sua virtù e, in qualche modo, dominarlo.
Salammbô si volse. Aveva riconosciuto il rumore dei
campanelli d’oro che Shahabarin portava appesi all’orlo
della tunica.
Costui salì le scale; poi, sulla soglia della terrazza, si
fermò incrociando le braccia.
I suoi occhi infossati brillavano come le lampade di un
sepolcro; il lungo corpo magro fluttuava nella veste di
lino, appesantita dai sonagli che sui talloni si alternavano
con grossi smeraldi. Le sue membra erano deboli, il
cranio obliquo, il mento aguzzo; la pelle sembrava fredda
al tatto, e la faccia gialla, solcata da rughe profonde,
come contratta da un desiderio, da un eterno dolore.
Era il gran sacerdote di Tanit, colui che aveva allevato
Salammbô.
«Parla!», disse. «Che vuoi?»
«Speravo... mi avevi quasi promesso...».
Salammbô balbettava, turbata; poi, tutt’a un tratto:
«Perché mi disprezzi? Cosa ho dimenticato nei riti? Sei
il mio maestro, e mi hai detto che nessuno conosceva
meglio di me le cose della dea; ma ce ne sono che non
vuoi dirmi. È vero, padre?».
Shahabarin si ricordò gli ordini di Amilcare, e rispose:
«No, non ho altro da insegnarti!».
«Un Genio», riprese lei, «mi spinge a questo amore.
Ho salito la scala di Eshmun, dio dei pianeti e delle
intelligenze; ho dormito sotto l’olivo d’oro di Melkarth,
patrono delle colonie tirie; ho spinto le porte di Baal-
Khamon, che porta la luce e la fertilità; ho sacrificato ai
Cabiri sotterranei, agli dèi dei boschi, dei venti, dei fiumi
e delle montagne; ma tutti sono troppo lontani, troppo in
alto, troppo insensibili, capisci?... Mentre lei, la sento
unita alla mia vita; mi riempie l’anima, e sento dei
sobbalzi interiori come se stesse tentando di fuggirsene
via. Mi sembra di udire la sua voce, di vedere il suo
volto; dei lampi mi abbagliano, poi ripiombo nelle
tenebre».
Shahabarin taceva. Salammbô, con uno sguardo
supplice, gli chiedeva una risposta.
Alla fine, con un gesto, fece allontanare la schiava, che
non era di razza cananea. Taanach scomparve, e
Shahabarin, alzando in aria un braccio, cominciò:
«Prima degli dèi, c’erano solo le tenebre, e un soffio
fluttuava, greve e indistinto come la coscienza di un
uomo che stia sognando. Poi quel soffio si contrasse,
creando il Desiderio e la Nube, e dal Desiderio e dalla
Nube uscì la Materia primitiva. Era un’acqua melmosa,
nera, gelata, profonda. Racchiudeva mostri insensibili,
parti incoerenti delle forme destinate a nascere e che
sono dipinte sulle pareti dei santuari.
«Poi la Materia si condensò. Divenne un uovo. Si
ruppe. Una metà formò la terra, l’altra il firmamento.
Apparvero il sole, la luna, i venti, le nubi; e, al frastuono
della folgore, gli animali intelligenti si svegliarono. Allora
Eshmun si svolse nella sfera stellata; Khamon splendette
nel sole; Melkarth lo spinse con le braccia dietro Gades; i
Cabiri scesero sotto i vulcani, e Rabbetna, come una
nutrice, si chinò sul mondo, versando la sua luce come
latte e la notte come un mantello».
«E poi?», chiese Salammbô.
Le aveva narrato il segreto delle origini per distrarla
con prospettive più elevate; ma il desiderio della vergine
si riaccese a queste ultime parole, e Shaharabin, cedendo
in parte, proseguì:
«È lei che ispira e governa gli amori degli uomini».
«Gli amori degli uomini!», ripeté Salammbô, sognante.
«È lei l’anima di Cartagine», continuò il prete, «e
benché sia presente in ogni luogo è qui che dimora, sotto
il velo sacro».
«O padre!», gridò Salammbô. «Io la vedrò, vero? Mi
condurrai da lei! Da molto tempo esitavo; la curiosità
della sua forma mi divora. Pietà! Aiuto! Andiamo!».
Il sacerdote la respinse con un gesto veemente e
altero.
«Mai! Non lo sai che si muore? I Baal ermafroditi6 si
svelano solo per noi, uomini nell’animo, donne nella
debolezza. Il tuo desiderio è un sacrilegio; contentati
della scienza che possiedi!».
Salammbô cadde in ginocchio, appoggiando due dita
sugli orecchi in segno di pentimento; e singhiozzava,
distrutta dalle parole del sacerdote, al tempo stesso piena
di collera contro di lui, di terrore e di umiliazione.
Shahabarin, in piedi, restava più insensibile delle pietre
della terrazza. La guardava dall’alto in basso, tutta
fremente ai suoi piedi, e provava una sorta di gioia nel
vederla soffrire per la sua divinità, che neppure lui poteva
afferrare nella sua interezza. Già gli uccelli cantavano,
soffiava un vento freddo, delle nuvolette correvano nel
cielo più chiaro. Tutt’a un tratto egli scorse all’orizzonte,
dietro Tunisi, qualcosa come una nebbia leggera che
correva sul suolo; poi fu un grande velario di polvere
grigia, disteso perpendicolarmente, e, nel turbinìo di
un’enorme massa, apparvero teste di dromedari, lance e
scudi. Era l’esercito dei Barbari che avanzava su
Cartagine.
IV
Sotto le mura di Cartagine

La gente della campagna, sugli asini o correndo a piedi,


pallida, ansimante, terrorizzata, arrivò in città. Era in fuga
davanti all’esercito, che in tre giorni aveva compiuto il
percorso da Sicca a Cartagine per venire a distruggere
tutto.
Furono chiuse le porte. I Barbari apparvero quasi
subito; ma si fermarono a metà dell’istmo, sulla riva del
lago.
All’inizio non ebbero atteggiamenti ostili. Molti si
avvicinarono tenendo delle palme in mano. Furono
respinti a colpi di freccia, tanto era il terrore.
Talvolta, al mattino e al calar della sera, si vedeva
qualcuno aggirarsi lungo le mura. Si notava in particolare
un uomo piccolo, accuratamente avvolto in un mantello,
il volto che scompariva sotto una visiera molto bassa.
Restava per ore a osservare l’acquedotto, con una tale
insistenza da far credere che volesse confondere i
Cartaginesi sulle sue vere intenzioni. Lo accompagnava
un altro uomo, una sorta di gigante che camminava a
testa scoperta.
Ma Cartagine era difesa sull’intera larghezza dell’istmo:
prima da un fossato, poi da un terrapieno erboso, e
infine da un muro, alto trenta cubiti, in pietre squadrate e
su due piani. Conteneva scuderie per trecento elefanti,
con i magazzini per le loro gualdrappe, le bardature e il
foraggio, poi altre scuderie per quattromila cavalli con le
provviste d’orzo e i finimenti, e caserme per ventimila
soldati con le armature e tutto il materiale da guerra. Sul
secondo piano si ergevano delle torri, completamente
merlate, con all’esterno, appesi a uncini, scudi di bronzo.
Quella prima linea di mura riparava innanzitutto
Malqua, il quartiere dei marinai e dei tessitori. Si
scorgevano pennoni dov’erano ad asciugare vele di
porpora, e sulle ultime terrazze forni d’argilla per cuocere
la salamoia.
Dietro, la città sovrapponeva in forma di anfiteatro le
sue alte case cubiche. Erano costruite in pietra, tavole,
ciottoli, canne, conchiglie, terra battuta. I boschi dei
templi formavano delle specie di laghi di verde in quella
montagna di blocchi variamente colorati. Le piazze
pubbliche la livellavano a distanze ineguali; innumerevoli
stradine si incrociavano, la tagliavano dall’alto in basso.
Si distinguevano le cinte dei tre vecchi quartieri, ora
confuse insieme; si alzavano qua e là come grandi scogli,
o si allungavano in ammassi enormi, mezzi coperti di
fiori, anneriti, ampiamente percorsi dagli scarichi dei
rifiuti, e attraverso gli squarci spalancati passavano delle
strade, come fiumi sotto i ponti.
La collina dell’Acropoli, al centro di Birsa, scompariva
sotto un cumulo disordinato di monumenti. Erano templi
dalle colonne tortili con capitelli di bronzo e catene di
metallo, coni in pietra a secco con strisce blu, cupole di
rame, architravi di marmo, contrafforti babilonesi,
obelischi poggiati sulla punta come torce rovesciate. I
peristili raggiungevano i frontoni; le volute si svolgevano
tra i colonnati; muri di granito sostenevano paratie di
cotto; tutto ciò si sovrapponeva, nascondendosi in parte,
in un modo grandioso e incomprensibile. Si avvertiva il
succedersi delle età, come un ricordo di patrie
dimenticate.
Dietro l’Acropoli, su terreni rossi, la via dei Mappali,
fiancheggiata da tombe, si allungava in linea retta dal lido
alle Catacombe; più in là, grandi abitazioni si spargevano
tra i giardini, e quel terzo quartiere, Megara, la città
nuova, giungeva fino al limite della scogliera, dove
sorgeva un faro gigantesco che ardeva ogni notte.
Così si dispiegava Cartagine davanti ai soldati
accampati in pianura.
Da lontano riconoscevano i mercati, i crocicchi;
discutevano tra loro sull’ubicazione dei templi. Quello di
Khamon, di fronte ai Sissizi, aveva tegole d’oro; Melkarth,
a sinistra di Eshmun, aveva sul tetto rami di corallo; più
in là, Tanit arrotondava tra le palme la sua cupola di
rame; il nero Moloch era in basso rispetto alle cisterne,
dalla parte del faro. Agli angoli dei frontoni, sopra i muri,
nelle piazze, ovunque si vedevano divinità dalla testa
mostruosa, colossali o tozze, con ventri enormi, o
smisuratamente appiattite, con la bocca spalancata, le
braccia aperte, con in mano forche, catene o giavellotti; e
il blu del mare si stendeva in fondo alle strade, che la
prospettiva faceva apparire ancora più scoscese.
Una folla tumultuosa le riempiva dalla mattina alla
sera; ragazzi con campanelli in mano gridavano sulla
porta dei bagni; le botteghe di bevande calde fumavano,
nell’aria risuonavano i colpi sulle incudini, i galli bianchi
consacrati al Sole cantavano sulle terrazze, i buoi che
venivano sgozzati muggivano nei templi, e schiavi
correvano con ceste sulla testa; e nelle profondità dei
portici appariva qualche sacerdote avvolto in uno scuro
mantello, a piedi nudi, con un berretto a punta.
Lo spettacolo di Cartagine irritava i Barbari. La
ammiravano, la esecravano, avrebbero voluto nello
stesso tempo annientarla e abitarvi. Ma cosa c’era nel
Porto Militare, difeso da una triplice muraglia? Poi, dietro
la città, in fondo a Megara, più in alto dell’Acropoli,
appariva il palazzo di Amilcare.
Gli occhi di Mâtho vi si posavano in ogni momento.
Saliva sugli olivi, e si sporgeva, con la mano tesa sulle
sopracciglia. I giardini erano vuoti, e la porta rossa a
croce nera restava sempre chiusa.
Più di venti volte fece il giro dei bastioni, alla ricerca di
un varco per entrare. Una notte si tuffò nel golfo e nuotò
per tre ore senza mai fermarsi. Giunse sotto i Mappali,
tentò di arrampicarsi sulla scogliera. Si insanguinò le
ginocchia, si spezzò le unghie, poi ricadde in acqua e
tornò indietro.
La sua impotenza lo esasperava. Era geloso di quella
Cartagine che imprigionava Salammbô, come di qualcuno
che l’avesse posseduta. Poi la prostrazione passò, e
subentrò un ardore di azione folle e senza tregua. Le
guance in fiamme, gli occhi irritati, la voce rauca, si
aggirava per il campo a passi rapidi; oppure, seduto sulla
riva, sfregava con la sabbia la sua grande spada. Lanciava
frecce agli avvoltoi che passavano. Il suo cuore
traboccava di parole furiose.
«Lascia andare la tua collera come un carro senza
freni», diceva Spendio. «Grida, bestemmia, distruggi e
uccidi. Il dolore si placa con il sangue, e poiché non puoi
appagare il tuo amore, ingozza il tuo odio; esso ti
sosterrà!».
Mâtho riprese il comando dei suoi soldati. Li faceva
esercitare senza sosta. Lo rispettavano per il suo
coraggio, ma soprattutto per la sua forza. Del resto,
incuteva una sorta di timore mistico; si credeva che di
notte parlasse con i fantasmi. Il suo esempio spronò gli
altri capitani. Ben presto l’esercito ritrovò la disciplina.
Dalle loro case i Cartaginesi udivano la fanfara delle
buccine che ritmava gli esercizi. Alla fine i Barbari si
avvicinarono.
Per annientarli sull’istmo sarebbe stato necessario che
due eserciti li attaccassero alle spalle
contemporaneamente, il primo sbarcando in fondo al
golfo di Utica, il secondo presso la Montagna delle Acque
Calde. Ma che fare con la sola Legione sacra, forte di
seimila uomini al massimo? Se avessero piegato a oriente
si sarebbero uniti ai Nomadi, interrompendo la via di
Cirene e il commercio attraverso il deserto. Se invece
avessero piegato a occidente, si sarebbe sollevata la
Numidia. Infine la mancanza di viveri li avrebbe costretti,
prima o poi, a devastare come cavallette le campagne
intorno; i Ricchi tremavano per i loro bei castelli, per i
vigneti, per le colture.
Annone propose misure atroci e impraticabili, come la
promessa di una forte somma per ogni testa di Barbaro o
l’idea di incendiare il loro accampamento con navi e
macchine da guerra. Il suo collega Giscone voleva, al
contrario, che venissero pagati. Ma, a causa della sua
popolarità, gli Anziani lo detestavano; infatti non
volevano correre il rischio di doversi sottomettere a un
padrone e, temendo la monarchia, cercavano di
indebolire ciò che ne restava o potesse rinsaldarla.
Al di là delle fortificazioni c’era della gente di un’altra
razza e di origini sconosciute, tutti cacciatori di
porcospini, mangiatori di molluschi e di serpenti.
Andavano nelle caverne a catturare le iene vive, che la
sera si divertivano a far correre sulle sabbie di Megara,
tra le stele delle tombe. Le loro capanne di fango e di
alghe erano avvinghiate alla scogliera come nidi di
rondini. Vivevano là dentro, senza governo e senza dèi,
in promiscuità, completamente nudi, deboli e feroci nello
stesso tempo, e da secoli esecrati dal popolo a causa dei
loro cibi immondi. Una mattina le sentinelle si accorsero
che erano andati via tutti.
Alla fine alcuni membri del Gran Consiglio si decisero.
Vennero al campo, senza collane né cinture, in ciabatte,
come vicini. Avanzavano con passo tranquillo, salutando i
capitani, oppure fermandosi a parlare con i soldati,
dicendo che era tutto finito e che le loro richieste stavano
per essere soddisfatte.
Molti di loro vedevano per la prima volta un
accampamento di Mercenari. Invece della confusione che
avevano immaginato, ovunque c’erano un ordine e un
silenzio che mettevano paura. Un terrapieno erboso
chiudeva l’esercito entro un’alta muraglia, incrollabile
sotto i colpi delle catapulte. Le strade erano bagnate
d’acqua fresca; attraverso i fori delle tende, scorgevano
pupille selvagge che brillavano nell’ombra. I fasci di
picche e le panoplie appese li abbagliavano come specchi.
Parlavano tra loro a bassa voce. Temevano di rovesciare
qualcosa con le loro lunghe vesti.
I soldati chiesero viveri, impegnandosi a pagarli con il
denaro che dovevano ricevere.
Furono mandati loro buoi, pecore, faraone, frutta
secca e lupini, con sgombri affumicati, quegli sgombri
eccellenti che Cartagine spediva in tutti i porti. Ma i
soldati si aggiravano con atteggiamento sdegnoso
intorno a tutto quel bestiame magnifico; e, denigrando
ciò che desideravano, offrivano per un montone il prezzo
di un piccione, per tre capre il prezzo di una melograna. I
Mangiatori-di-cose-immonde, atteggiandosi ad arbitri,
sostenevano che li stavano imbrogliando. Allora i
Mercenari estraevano le spade e minacciavano di
ucciderli.
Alcuni commissari del Gran Consiglio scrissero il
numero degli anni di paga dovuti a ogni soldato. Ma
ormai era impossibile sapere quanti fossero stati i
Mercenari assoldati, e gli Anziani rimasero atterriti dalla
somma esorbitante che avrebbero dovuto pagare.
Bisognava vendere le riserve di silfio, imporre tasse alle
città commerciali; i Mercenari avrebbero perso la
pazienza, Tunisi era già con loro; e i Ricchi, frastornati
tra i furori di Annone e i rimproveri del suo collega,
raccomandarono ai cittadini che potevano conoscere
qualche Barbaro di andare subito a trovarlo per
riconquistarne l’amicizia, dirgli qualche buona parola.
Una tale confidenza li avrebbe calmati.
Mercanti, scribi, operai dell’arsenale, intere famiglie si
recarono dai Barbari.
I soldati lasciavano entrare nel campo tutti i
Cartaginesi, ma attraverso un solo passaggio talmente
stretto che quattro uomini di fronte vi si urtavano coi
gomiti. Spendio, in piedi contro la barriera, li faceva
perquisire meticolosamente; Mâtho, di fronte a lui,
scrutava quella folla con la speranza di ritrovare qualcuno
che avesse già visto nel palazzo di Salammbô.
Il campo sembrava una città, tanto era pieno di gente
e di movimento. Le due folle distinte si mescolavano
senza confondersi, l’una vestita di tela o di lana, con
berretti di feltro simili a pigne, l’altra di ferro e con elmi.
In mezzo ai servi e ai venditori ambulanti circolavano
donne di tutte le nazioni, brune come datteri maturi,
verdastre come olive, gialle come arance, vendute da
marinai, trovate nelle bettole, rubate alle carovane, prese
nei saccheggi delle città, esauste d’amore fintanto che
erano giovani, caricate di botte quando erano invecchiate,
e che morivano nelle disfatte sul ciglio delle strade, tra le
salmerie e le bestie da soma abbandonate. Le spose dei
Nomadi facevano ondeggiare sui calcagni vesti di pelo di
dromedario, squadrate e di colore fulvo; musicanti della
Cirenaica, avvolte in garze viola e con le sopracciglia
dipinte, cantavano accovacciate su delle stuoie; vecchie
Negre dalle mammelle pendule raccoglievano, per fare
fuoco, escrementi di animali da far seccare al sole; le
Siracusane portavano piastre d’oro tra i capelli, le
Lusitane avevano collane di conchiglie, e le donne dei
Galli pelli di lupo sui candidi seni; bambini robusti,
coperti di pidocchi, nudi, non circoncisi, davano testate
nel ventre ai passanti oppure li seguivano, come cuccioli
di tigri, a mordere loro le mani.
I Cartaginesi si aggiravano per il campo, sorpresi dalla
quantità di cose di cui traboccava. I più poveri erano
tristi, e gli altri dissimulavano la loro inquietudine.
I soldati battevano loro una mano sulla spalla,
invitandoli a essere allegri. Appena scorgevano qualche
persona in vista, la invitavano ai loro svaghi. Giocando
col disco, facevano in modo di schiacciargli i piedi; al
pugilato, fin dalla prima mossa, gli fracassavano la
mascella. I frombolieri spaventavano i Cartaginesi con le
loro fionde, gli incantatori di serpenti con le vipere, i
cavalieri con i cavalli. Quella gente dedita a occupazioni
tranquille, a ogni oltraggio chinava la testa e si sforzava
di sorridere. Alcuni, per mostrarsi coraggiosi, dicevano a
gesti di voler diventare soldati. Li mettevano a spaccar
legna e a strigliare muli. Li chiudevano in un’armatura e li
facevano rotolare come barili per le vie del campo. Poi,
quando si accingevano ad andarsene, i Mercenari si
strappavano i capelli con delle contorsioni grottesche.
Molti, per stupidità o pregiudizio, credevano
ingenuamente che tutti i Cartaginesi fossero ricchissimi, e
li seguivano supplicandoli di dar loro qualcosa.
Chiedevano tutto ciò che a loro sembrava bello: un
anello, una cintura, dei sandali, la frangia di una veste, e,
quando il Cartaginese spogliato di ogni cosa esclamava:
«Ma non ho più nulla. Che vuoi?». Quelli rispondevano:
«Tua moglie!». Altri dicevano: «La tua vita!».
I conti delle paghe militari furono consegnati ai
capitani, letti ai soldati, definitivamente approvati. Allora
chiesero delle tende: furono concesse le tende. Poi i
polemarchi dei Greci chiesero qualcuna di quelle belle
armature che si fabbricavano a Cartagine; il Gran
Consiglio votò delle somme per questo acquisto. Ma era
giusto, sostenevano i cavalieri, che la Repubblica li
risarcisse per i loro cavalli; e uno affermava di averne
perduti tre al tale assedio, un altro cinque durante la tale
marcia, un altro quattordici nei precipizi. Furono offerti
loro degli stalloni di Ecatompilo; preferirono il denaro.
Poi chiesero che venisse pagato in argento (in pezzi
d’argento e non in monete di cuoio) il grano che spettava
loro, e al prezzo più alto a cui era stato venduto durante
la guerra, e così per una misura di farina pretendevano
quattrocento volte più di quanto avessero speso per un
sacco di grano. Quest’ingiustizia esasperò i Cartaginesi,
ma bisognò cedere.
Allora i delegati dei soldati e quelli del Gran Consiglio
si riconciliarono, giurando sul Genio di Cartagine1 e sugli
dèi dei Barbari. Con i convenevoli e le verbosità orientali,
si scambiarono scuse e cortesie. Poi i soldati pretesero,
come prova di amicizia, la punizione dei traditori che li
avevano mal disposti nei confronti della Repubblica.
Si finse di non capirli. E quelli si spiegarono più
chiaramente, dicendo che serviva la testa di Annone.
Uscivano dal campo più volte al giorno. Camminavano
sotto le mura. Gridavano che gli buttassero giù la testa
del suffeta, e tendevano le vesti ad accoglierla.
Il Gran Consiglio avrebbe ceduto, forse, se non ci
fosse stata un’ultima pretesa più ingiuriosa delle altre:
chiesero in moglie, per i loro capi, vergini scelte nelle
grandi famiglie. Era un’idea di Spendio, che molti
trovavano del tutto semplice e possibile. Ma questa
pretesa di volersi mischiare con il sangue punico indignò
il popolo; fu detto loro brutalmente che non c’era
nient’altro da avere. Allora quelli si misero a gridare che
erano stati ingannati; se la paga non fosse arrivata entro
tre giorni, sarebbero andati loro a prendersela dentro
Cartagine.
La malafede dei Mercenari non era così assoluta come
pensavano i loro nemici. Amilcare aveva fatto loro
promesse esorbitanti, in realtà vaghe, ma solenni e
reiterate. Così avevano creduto, sbarcando a Cartagine,
che sarebbe stata abbandonata loro la città, e che si
sarebbero spartiti dei tesori; e quando videro che
avrebbero avuto a mala pena la paga, fu una delusione
per il loro orgoglio e la loro avidità.
Dionisio, Pirro, Agatocle2 e i generali di Alessandro
non erano forse stati esempi di fortune meravigliose?
L’ideale di Ercole, che i Cananei confondevano col Sole,
splendeva all’orizzonte degli eserciti. Si sapeva che
semplici soldati avevano indossato diademi, e il fragore
degli imperi che crollavano faceva sognare il Gallo nella
sua foresta di querce, l’Etiope nelle sue sabbie. Ma c’era
un popolo sempre disposto a utilizzare i coraggiosi; e il
ladro scacciato dalla sua tribù, il parricida errante sulle
strade, il sacrilego perseguitato dagli dèi, tutti gli
affamati, tutti i disperati, cercavano di raggiungere il
porto dove il sensale di Cartagine reclutava soldati. Di
solito manteneva le sue promesse. Ma quella volta lo zelo
della sua avarizia l’aveva trascinata in una pericolosa
infamia. I Numidi, i Libici, l’Africa intera, stavano per
gettarsi su Cartagine. Solo il mare era libero. Là avrebbe
incontrato i Romani; e, come un uomo aggredito dagli
assassini, ovunque intorno a sé sentiva la morte.
Fu necessario ricorrere a Giscone; i Barbari accettarono
la sua mediazione. Una mattina videro abbassarsi le
catene del porto, e tre battelli piatti, passando per il
canale della Tenia, 3 entrarono nel lago. Sul primo, a
prua, si scorgeva Giscone. Dietro di lui, più alta di un
catafalco, s’innalzava una cassa enorme, adorna di anelli
simili a corone appese. Appariva poi la legione degli
Interpreti, acconciati come sfingi, e con un pappagallo
tatuato sul petto. Seguivano amici e schiavi, tutti senza
armi, così numerosi che le spalle si toccavano. Le tre
lunghe barche, piene da affondare, avanzavano tra le
acclamazioni dell’esercito, che le guardava.
Appena Giscone sbarcò, i soldati gli corsero incontro.
Fece innalzare, con dei sacchi, una specie di tribuna e
dichiarò che non se ne sarebbe andato prima di averli
pagati tutti interamente.
Scoppiò un grande applauso; per un bel po’ non riuscì
a parlare.
Poi biasimò i torti della Repubblica e quelli dei Barbari;
la colpa era di pochi facinorosi, che con la loro violenza
avevano spaventato Cartagine. La prova migliore delle
buone intenzioni della Repubblica era il fatto che venisse
inviato da loro proprio lui, l’eterno avversario del suffeta
Annone. Non dovevano pensare che il popolo fosse così
inetto da voler irritare dei coraggiosi, né così ingrato da
misconoscere i loro servizi; e Giscone si accinse a pagare
i soldati, cominciando dai Libici. Poiché costoro avevano
detto che le liste mentivano, non se ne servì.
Sfilavano davanti a lui, per nazioni, aprendo le dita per
dire il numero degli anni; venivano quindi segnati sul
braccio sinistro con una pittura verde; gli scribi
prendevano il denaro dalla cassa aperta, e altri, con uno
stiletto, facevano dei fori su una lamina di piombo.
Passò un uomo che camminava con passo pesante,
alla maniera dei buoi.
«Vieni qui da me», disse il suffeta, sospettando un
imbroglio, «per quanti anni hai servito?»
«Dodici anni», rispose il Libico.
Giscone gli passò le dita sotto la mascella, perché il
sottogola dell’elmo vi formava col tempo due callosità;
venivano chiamate carrube, e avere le carrube era un
modo di dire per indicare un veterano.
«Ladro!», gridò il suffeta. «Quello che manca al tuo
viso devi averlo sulle spalle!» e, strappandogli la tunica,
scoprì una schiena coperta di croste sanguinolente; era
un contadino di Ippozarito.4 Si alzarono delle urla; fu
decapitato.
Quando fu notte, Spendio andò a svegliare i Libici. E
disse loro:
«Quando i Liguri, i Greci, i Balearici e gli uomini
d’Italia saranno stati pagati, se ne torneranno via. Ma voi
altri, voi resterete in Africa, dispersi nelle vostre tribù e
senza alcuna difesa. Allora la Repubblica si vendicherà!
Non fidatevi! Volete credere a ogni sua parola! I due
suffeti sono d’accordo! Costui vi inganna! Ricordatevi
dell’Isola delle Ossa, e di Santippo che fu rimandato a
Sparta su una galea marcia».5
«Che dobbiamo fare?», chiedevano.
«Riflettete!», disse Spendio.
I due giorni seguenti servirono a pagare la gente di
Magdala, di Leptis, di Ecatompilo; Spendio si occupava
dei Galli.
«Pagano i Libici, poi pagheranno i Greci, poi i
Balearici, gli Asiatici, e tutti gli altri! Ma a voi, che non
siete numerosi, non daranno nulla! Non rivedrete più i
vostri paesi! Non avrete navi! Vi uccideranno, per
risparmiare i viveri».
I Galli si recarono dal suffeta. Autarito, quello stesso
che aveva ferito nei giardini di Amilcare, gli fece delle
domande. Respinto dagli schiavi, scomparve, giurando
che si sarebbe vendicato.
Le proteste, le lamentele si moltiplicarono. I più
ostinati entravano nella tenda del suffeta; per intenerirlo
gli afferravano le mani, gli facevano toccare le bocche
sdentate, le braccia magrissime, le cicatrici delle ferite.
Quelli che ancora non erano stati pagati si irritavano,
quelli che avevano ricevuto la paga ne chiedevano
un’altra per i cavalli; e i vagabondi, i banditi, prendevano
le armi dei soldati e sostenevano di essere stati
dimenticati. Continuavano ad arrivare uomini, in una
sorta di turbinio; le tende si strappavano, crollavano; la
moltitudine racchiusa tra i bastioni dell’accampamento
ondeggiava urlante dalle porte al centro. Quando il
tumulto diventava troppo forte, Giscone appoggiava un
gomito sullo scettro d’avorio e, guardando il mare,
rimaneva immobile, con le dita affondate nella barba.
Spesso Mâtho si metteva in disparte con Spendio; poi
riprendeva il suo posto di fronte al suffeta, e Giscone
avvertiva costantemente le pupille di Mâtho che lo
fissavano come due falariche6 in fiamme. Più volte si
lanciarono ingiurie, sopra la folla, che tuttavia non
riuscirono a udire. Intanto la distribuzione continuava, e
il suffeta sapeva trovare gli espedienti per superare ogni
ostacolo.
I Greci vollero cavillare sulle diversità delle monete. E
lui dette loro tali spiegazioni che si ritirarono senza
mormorii. I Negri pretesero quelle conchiglie bianche di
uso corrente nel commercio all’interno dell’Africa. Offrì
loro di mandarle a prendere a Cartagine; allora, come gli
altri, accettarono il denaro.
Ma ai Balearici era stato promesso qualcosa di meglio,
cioè delle donne. Il suffeta rispose che era attesa per loro
un’intera carovana di vergini: la strada era lunga, ci
volevano ancora sei lune. Quando fossero state grasse e
belle lucide di benzoino, le avrebbero inviate con le navi
nei porti delle Baleari.
D’un tratto Zarxas, ora bello e vigoroso, saltò come un
funambolo sulle spalle dei suoi amici e gridò:
«Ne hai riservate anche per i cadaveri?», e intanto
indicava, a Cartagine, la porta di Khamon.
Sotto gli ultimi raggi di sole, le piastre di bronzo che la
rivestivano dall’alto in basso mandavano riflessi di fuoco;
i Barbari credettero di vedervi una striscia insanguinata.
Ogni volta che Giscone voleva parlare, ricominciavano a
urlare. Alla fine scese con passo austero e si chiuse nella
sua tenda.
Quando ne uscì all’alba, i suoi interpreti, che
dormivano fuori, rimasero immobili; giacevano sul
dorso, con gli occhi sbarrati, la lingua tra i denti e la
faccia bluastra. Dalle loro narici colava del muco bianco,
e le membra erano rigide, come gelate dal freddo della
notte. Intorno al collo di ognuno c’era un lacciolo di
giunco.
Da quel momento la ribellione fu inarrestabile. La
strage dei Balearici ricordata da Zarxas confermava la
diffidenza di Spendio. Erano ormai convinti che la
Repubblica volesse ingannarli in ogni occasione.
Bisognava farla finita! E avrebbero fatto a meno degli
interpreti! Zarxas, con una fionda intorno alla testa,
cantava canzoni di guerra; Autarito brandiva la sua
grande spada; Spendio, a uno bisbigliava una parola, a
un altro porgeva un pugnale. I più forti tentavano di
pagarsi da sé, i meno infuriati chiedevano che la
distribuzione continuasse. Ora nessuno lasciava le armi, e
le ire di tutti si univano contro Giscone in un odio
tumultuoso.
Alcuni gli salivano accanto. Finché vociferavano
ingiurie venivano ascoltati pazientemente; ma se per caso
tentavano di dire qualcosa in suo favore venivano
immediatamente lapidati, o, da dietro, un colpo di
sciabola gli troncava la testa. Il mucchio dei sacchi era
più rosso di un’ara.
Diventavano terribili dopo aver bevuto del vino! Era
una gioia proibita, punita con la morte, negli eserciti
punici, e allora alzavano le coppe in direzione di
Cartagine, a schernire la sua disciplina. Poi tornavano
dagli schiavi delle finanze e ricominciavano a uccidere. La
parola ammazza!, diversa in ogni lingua, era capita da
tutti.
Giscone sapeva bene che la patria lo stava
abbandonando; tuttavia, malgrado la sua ingratitudine,
non voleva disonorarla. Quando gli ricordarono che
erano state promesse delle navi, giurò su Moloch che le
avrebbe procurate lui stesso, a proprie spese, e,
strappandosi la collana di pietre blu, la gettò in mezzo
alla folla come pegno del suo giuramento.
Allora gli Africani reclamarono il grano previsto dagli
impegni del Gran Consiglio. Giscone distese i conti dei
Sissizi, scritti con pittura viola su pelli di pecora; leggeva
tutto quello che era entrato in Cartagine, mese per mese
e giorno per giorno.
Improvvisamente si fermò, con gli occhi spalancati,
come se avesse scoperto tra le cifre la propria sentenza di
morte.
In effetti gli Anziani le avevano fraudolentemente
ridotte, e il grano, venduto nel periodo più funesto della
guerra, era registrato a un prezzo così basso da non
poterci credere, a meno di essere ciechi.
«Parla!», gridarono. «Più forte! Ah, cerca di mentire il
vigliacco! Non fidiamoci».
Esitò per un po’. Quindi riprese il suo compito.
I soldati, non sospettando che li stesse ingannando,
presero per veri i conti dei Sissizi. Allora l’abbondanza in
cui si era trovata Cartagine li precipitò in una gelosia
furibonda. Spezzarono la cassa di sicomoro; era vuota
per tre quarti. Avevano visto uscirne tali somme che la
consideravano inesauribile; Giscone aveva senza dubbio
nascosto qualcosa nella sua tenda. Scalarono i sacchi. Li
guidava Mâtho, e poiché gridavano «Il denaro! Il
denaro!», Giscone alla fine rispose:
«Ve lo dia il vostro generale!».
Li guardava in faccia, senza parlare, con i suoi grandi
occhi gialli e il lungo volto, più pallido della barba. Una
freccia, trattenuta dalle penne, era conficcata sotto
l’orecchio nel largo anello d’oro, e un filo di sangue
colava dalla tiara sulla spalla.
A un gesto di Mâtho, tutti avanzarono. Giscone aprì le
braccia; Spendio gli strinse i polsi in un nodo scorsoio;
un altro lo rovesciò a terra, e il suffeta scomparve nel
tumulto della folla che si accalcava sui sacchi.
Saccheggiarono la tenda. Vi trovarono soltanto le cose
indispensabili alla vita; poi, cercando meglio, tre
immagini di Tanit e, in una pelle di scimmia, una pietra
nera caduta dalla luna. Molti Cartaginesi avevano voluto
accompagnarlo; erano tutti notabili, del partito della
guerra.
Li trascinarono fuori dalle tende, e li precipitarono
nella fossa delle immondizie. Poi, con catene di ferro
furono legati per il ventre a pioli conficcati nel terreno, e
passavano loro il cibo sulla punta di un giavellotto.
Autarito, che li sorvegliava, li copriva d’insulti, ma
poiché non capivano la sua lingua, non rispondevano;
allora il Gallo, di tanto in tanto, li prendeva a sassate in
faccia per farli gridare.

L’indomani, subentrò nell’esercito una specie di


languore. Sbollita la collera, l’inquietudine s’impadroniva
degli uomini. Mâtho soffriva di una vaga tristezza. Gli
sembrava di aver oltraggiato indirettamente Salammbô.
Quei Ricchi erano come un’appendice della sua persona.
Di notte si sedeva sul ciglio della fossa e nei loro gemiti
ritrovava qualcosa della voce che gli riempiva il cuore.
Intanto tutti accusavano i Libici, gli unici che fossero
stati pagati. Ma proprio mentre si riaccendevano le
antipatie nazionali insieme con gli odi personali, si
avvertiva il pericolo di abbandonarvisi. Le rappresaglie,
dopo un oltraggio così grave, sarebbero state terribili.
Bisognava dunque prevenire la vendetta di Cartagine. I
conciliaboli, le arringhe non finivano più. Ognuno parlava
e nessuno veniva ascoltato, e Spendio, di solito tanto
loquace, a ogni proposta scuoteva la testa.
Una sera chiese distrattamente a Mâtho se ci fossero
delle sorgenti all’interno della città.
«Neppure una!», rispose Mâtho.
Il giorno dopo, Spendio lo portò in riva al lago.
«Padrone», disse l’ex schiavo, «se il tuo cuore è
intrepido, ti condurrò dentro Cartagine».
«In che modo?», rispose l’altro, ansioso.
«Giura di eseguire tutti i miei ordini, e di venirmi
dietro come un’ombra!».
Allora Mâtho, alzando un braccio verso il pianeta di
Shabar,7 esclamò:
«Per Tanit, lo giuro!».
Spendio continuò:
«Domani, dopo il tramonto, mi aspetterai ai piedi
dell’acquedotto, tra la nona e la decima arcata. Porta con
te un piccone, un elmo senza cimiero e sandali di cuoio».
L’acquedotto di cui parlava attraversava obliquamente
l’intero istmo, opera considerevole che i Romani più tardi
avrebbero ingrandito. Malgrado il suo disprezzo per gli
altri popoli, Cartagine aveva rozzamente imitato dai
Romani quella nuova invenzione, così come Roma aveva
fatto con la galea punica; e cinque file di archi
sovrapposti, di architettura tozza, con contrafforti alla
base e teste di leone sulla sommità, giungevano fino al
lato occidentale dell’Acropoli, dove sprofondavano sotto
la città per riversare un fiume d’acqua nelle cisterne di
Megara.
All’ora convenuta, Spendio vi trovò Mâtho. Legò una
specie di arpione alla cima di una corda, lo fece roteare
velocemente come una fionda, l’attrezzo di ferro si
agganciò; e si misero, uno dietro l’altro, ad arrampicarsi
su per il muro.
Ma quando ebbero raggiunto il primo piano, l’arpione,
ogni volta che lo lanciavano, ricadeva giù; per scoprire
qualche fessura, erano costretti a camminare sul
cornicione, che a ogni piano diventava sempre più
stretto. Poi la corda si allentò. Più volte fu sul punto di
spezzarsi.
Finalmente raggiunsero la piattaforma superiore. Di
tanto in tanto Spendio si chinava a toccare le pietre con le
mani.
«Ci siamo», disse, «cominciamo!».
E facendo forza sul piccone portato da Mâtho,
riuscirono a sconnettere una delle pietre.
In lontananza videro un drappello di cavalieri che
galoppavano a briglia sciolta. I loro bracciali d’oro
sobbalzavano tra le ampie pieghe dei mantelli. Si
distingueva alla testa del gruppo un uomo con una
corona di piume di struzzo, che galoppava con una lancia
in ogni mano.
«Narr’Havas!», esclamò Mâtho.
«Che importa!», rispose Spendio; e saltò nel buco che
avevano aperto spostando la pietra.
Mâtho, a un suo ordine, tentò di spingere uno dei
blocchi. Ma, per mancanza di spazio, non poteva
muovere i gomiti.
«Torneremo», disse Spendio, «vai avanti». E si
avventurarono nella conduttura delle acque.
Erano immersi fino alla vita. Ben presto cominciarono
a vacillare, e dovettero nuotare. Le loro membra
urtavano contro le pareti del canale troppo stretto.
L’acqua scorreva quasi a contatto con le pietre della volta;
si scorticavano la faccia. Poi la corrente li trascinò. Un’aria
più greve che in un sepolcro opprimeva il petto, e con la
testa tra le braccia, le ginocchia strette, allungandosi
quanto potevano, passavano come frecce nell’oscurità,
soffocando, rantolando, quasi morti. A un tratto, tutto si
fece nero davanti a loro mentre la velocità della corrente
raddoppiava. Precipitarono.
Quando tornarono a galla, rimasero per qualche
minuto stesi sul dorso, a respirare l’aria, deliziati. In
mezzo a larghe mura che separavano numerosi bacini si
apriva una successione di arcate. I bacini erano tutti
colmi, e l’acqua si stendeva a un unico livello per l’intera
lunghezza delle cisterne. Le cupole del soffitto facevano
filtrare tra le loro fessure un pallido chiarore che
disegnava sull’acqua dei dischi di luce, e le tenebre
intorno, più fitte vicino alle pareti, li respingevano
indefinitamente. Il più piccolo rumore produceva una
grande eco.
Spendio e Mâtho si rimisero a nuotare, e passando
sotto gli archi attraversarono molti bacini uno in fila
all’altro. Due altre serie di bacini più piccoli correvano
parallelamente da ogni lato. Si persero, giravano su se
stessi, tornavano indietro. Finalmente sentirono qualcosa
di consistente sotto i piedi. Era il selciato della galleria
che costeggiava le cisterne.
Allora, avanzando con grande prudenza, tastarono le
pareti per trovare un’uscita. Ma i piedi scivolavano; così
cadevano nelle vasche profonde. Allora dovevano risalire,
per poi cadere di nuovo; e provavano una stanchezza
spaventosa, come se le membra, nuotando, si fossero
dissolte nell’acqua. I loro occhi si chiusero: agonizzavano.
Spendio urtò una mano contro le sbarre di
un’inferriata. La scossero, cedette, e si ritrovarono sui
gradini di una scala. Una porta di bronzo la chiudeva in
alto. Con la punta di un pugnale rimossero la spranga
che si spostava da fuori; un’improvvisa ventata di aria
pura li investì.
La notte era piena di silenzio, e il cielo era di un’altezza
smisurata. Ciuffi d’alberi sporgevano dalle lunghe linee
dei muri. La città intera dormiva. I fuochi degli avamposti
brillavano come stelle perdute.
Spendio, che aveva passato tre anni nell’ergastolo, non
era molto pratico dei quartieri. Mâtho suppose che per
arrivare al palazzo di Amilcare dovessero prendere a
sinistra, attraversando i Mappali.
«No», disse Spendio, «Portami al tempio di Tanit».
Mâtho fece per parlare.
«Ricordati!», disse l’ex schiavo; e, alzando il braccio,
gli mostrò il pianeta di Shabar che splendeva.
Allora Mâtho voltò in silenzio verso l’Acropoli.
Avanzavano lungo le siepi di nopale8 che
costeggiavano i sentieri. L’acqua colava dalle loro
membra sulla polvere. I sandali umidi non facevano
alcun rumore; Spendio, con occhi fiammeggianti più di
torce, a ogni passo scrutava i cespugli; e camminava
dietro Mâtho, con le mani sull’impugnatura dei due
pugnali che portava alle braccia, fissati sotto le ascelle da
una cinghia di cuoio.
V
Tanit

Usciti dai giardini, si trovarono di fronte la cinta muraria


di Megara. Ma scoprirono una breccia nella spessa
muraglia, e passarono.
Il terreno scendeva formando una sorta di vallone
molto largo. Era un luogo scoperto.
«Ascolta», disse Spendio, «e non temere! Manterrò la
promessa...».
Si interruppe; sembrava che stesse riflettendo, come
per cercare le parole.
«Ti ricordi quella volta, all’alba, quando ti ho mostrato
Cartagine dalla terrazza di Salammbô? Eravamo forti quel
giorno, ma tu non volesti darmi ascolto!». Poi, con voce
grave: «Padrone, nel santuario di Tanit c’è un velo
misterioso, caduto dal cielo, che ricopre la dea».
«Lo so», disse Mâtho.
Spendio continuò:
«Anche il velo è divino, perché è parte di lei. Gli dèi
dimorano dove si trovano i loro simulacri. È perché lo
possiede che Cartagine è potente». Poi, chinandosi al suo
orecchio: «Ti ho portato con me per rapirlo!».
Mâtho indietreggiò inorridito.
«Vattene! Cerca qualcun altro! Non voglio aiutarti in
questo ignobile misfatto».
«Ma Tanit è la tua nemica», replicò Spendio, «ti
perseguita, e la sua collera ti fa morire. Ti vendicherai e
lei ti obbedirà. Diventerai quasi immortale e invincibile».
Mâtho abbassò la testa. Spendio continuò:
«Soccomberemo. L’esercito si annienterà da solo. Non
possiamo sperare in una fuga, e neppure in soccorsi, né
in un perdono. Quale punizione puoi temere da parte
degli dèi, quando stai per avere nelle mani la loro forza?
O preferisci morire la sera dopo una disfatta,
miserabilmente, nascosto in un canneto, oppure tra gli
insulti della plebaglia, tra le fiamme del rogo? Padrone,
un giorno entrerai a Cartagine, tra i collegi dei Pontefici
che ti baceranno i sandali: e se il velo di Tanit ti peserà
ancora, lo riporrai nel suo tempio. Seguimi! vieni a
prenderlo».
Un desiderio terribile divorava Mâtho. Avrebbe voluto
possedere il velo, ma senza commettere il sacrilegio.
Diceva tra sé che forse non sarebbe stato necessario
prenderlo per impossessarsi della sua virtù. Non seguiva
fino in fondo i suoi pensieri; si fermava al punto in cui lo
spaventavano.
«Andiamo!», disse. E si allontanarono a passo svelto,
fianco a fianco, senza parlare.
Il terreno risalì, e le abitazioni si avvicinarono. Si
aggirarono per le strade strette, nelle tenebre. Tende di
sparto, a chiusura delle porte, sbattevano sulle pareti
delle case. In una piazza alcuni cammelli ruminavano
davanti a mucchi d’erba tagliata. Passarono quindi sotto
una galleria coperta di foglie. Una muta di cani abbaiò.
Ma d’un tratto lo spazio si allargò; e riconobbero il lato
occidentale dell’Acropoli. Nella parte bassa di Birsa si
stendeva una lunga massa nera: era il tempio di Tanit,
u n insieme di monumenti e giardini, cortili e atri,
recintato da un muretto di pietre a secco. Spendio e
Mâtho lo scavalcarono.
Quel primo recinto racchiudeva un bosco di platani,
come difesa contro la peste e l’aria infetta. Qua e là erano
sparse delle tende dove di giorno si vendevano pomate
depilatorie, vestiti, dolci a forma di luna, e immagini della
dea con rappresentazioni del tempio, scolpite in blocchi
di alabastro.
Non avevano nulla da temere, perché nelle notti in cui
l’astro non appariva ogni rito era sospeso; eppure Mâtho
rallentava il passo; si fermò davanti ai tre gradini d’ebano
che conducevano al secondo recinto.
«Avanti!», disse Spendio.
Vi si alternavano con regolarità melograni, mandorli,
cipressi e mirti, immobili come foglie di bronzo; il
sentiero, lastricato di ciottoli blu, scricchiolava sotto i loro
passi; da un pergolato pendevano rose fiorite, sull’intera
lunghezza del viale. Giunsero davanti a un foro ovale,
protetto da una griglia. Allora Mâtho, intimorito da quel
silenzio, disse a Spendio:
«Qui vengono mescolate le Acque dolci con le Acque
amare».
«L’ho già visto», rispose l’ex schiavo, «in Siria, nella
città di Maphug».
E attraverso una scalinata di sei gradini d’argento
salirono al terzo recinto.
Un enorme cedro ne occupava il centro. I suoi rami
più bassi scomparivano sotto le bende di stoffa e le
collane che i fedeli vi avevano appeso. Dopo pochi passi,
apparve la facciata del tempio.
Due lunghi portici, i cui architravi poggiavano su rozzi
piloni, fiancheggiavano una torre quadrangolare la cui
piattaforma era ornata da una falce di luna. Agli angoli
dei portici e ai quattro angoli della torre si ergevano dei
vasi colmi di aromi che bruciavano. Melograne e
coloquintidi ricoprivano i capitelli. Tortiglioni, losanghe,
file di perle si alternavano sui muri, e una cancellata in
filigrana d’argento formava un largo semicerchio davanti
allo scalone di bronzo che scendeva dal vestibolo.
All’ingresso, tra una stele d’oro e una di smeraldo,
c’era un cono di pietra; Mâtho, passandovi di fianco, si
baciò la mano destra.
La prima stanza era altissima, con innumerevoli
aperture nella volta; alzando la testa si potevano vedere
le stelle. Tutt’intorno, lungo le pareti, in ceste di vimini
erano ammucchiate barbe e capigliature, primizie di
adolescenti; e al centro dell’ambiente circolare, il corpo di
una donna usciva da una guaina coperta di mammelle.1
Grassa, barbuta, le palpebre abbassate, sembrava che
sorridesse, con le mani incrociate sul grosso ventre,
lucido per i baci della folla.
Poi si ritrovarono all’aria aperta, in un corridoio
trasversale, dove un’ara di dimensioni esigue era
appoggiata contro una porta d’avorio. Non era possibile
oltrepassarla: soltanto i preti potevano aprirla; perché un
tempio non era un luogo di riunione per la moltitudine,
ma la dimora privata di una divinità.
«L’impresa è impossibile», diceva Mâtho. «Non ci avevi
pensato! Torniamo indietro!». Spendio esaminava i muri.
Voleva quel velo, non perché credesse nei suoi poteri
(Spendio credeva soltanto all’Oracolo), ma perché era
convinto che i Cartaginesi, vedendosene privati,
sarebbero caduti in un grande abbattimento. Per trovare
un varco fecero il giro da dietro.
Sotto boschetti di terebinti si vedevano edicole di
forme diverse. Qua e là si ergeva un fallo di pietra, e
grandi cervi vagavano tranquilli, spingendo con i piedi
forcuti le pigne cadute.
Tornarono sui propri passi tra due lunghe gallerie che
avanzavano parallele. Sulle pareti si aprivano piccole
celle. Tamburelli e cembali 2 erano appesi dall’alto in
basso alle colonne di cedro. All’esterno delle celle c’erano
donne che dormivano sdraiate su stuoie. I loro corpi,
grassi di unguenti, emanavano un odore di spezie e di
incensieri spenti; erano talmente coperte di tatuaggi,
collane, anelli, cinabro e antimonio che, non fosse stato
per il movimento del petto, avrebbero potuto essere
scambiate per idoli rovesciati a terra. Piante di loto
circondavano una fontana dove nuotavano pesci simili a
quelli di Salammbô; poi, in fondo, contro la parete del
tempio, si stendeva una vigna i cui tralci erano di vetro e
i grappoli di smeraldo: i raggi delle pietre preziose
facevano giochi di luce tra le donne dipinte, sui volti
addormentati.
Mâtho soffocava nei caldi vapori esalati dalle pareti di
cedro. Tutti quei simboli della fecondazione, quei
profumi, quei riflessi, quei fiati lo opprimevano. In quella
sorta di stordimento mistico pensava a Salammbô. La sua
immagine si confondeva con quella della dea, e il suo
amore ne risultava più forte, come le grandi piante di
loto che fiorivano sulla profondità delle acque.
Spendio stava calcolando quanto denaro avrebbe
guadagnato in altri tempi con la vendita di quelle donne;
e con rapidi sguardi pesava le collane d’oro.
Il tempio era impenetrabile, sia da un lato che
dall’altro. Tornarono dietro la prima stanza. Mentre
Spendio cercava e frugava, Mâtho, prosternato davanti
alla porta, implorava Tanit. La supplicava di non
permettere quel sacrilegio. Cercava di addolcirla con
parole gentili, come si fa con una persona irritata.
Spendio notò sopra la porta una stretta apertura.
«Alzati!», disse a Mâtho, e lo fece addossare al muro,
in piedi. Quindi, posando un piede sulle sue mani e l’altro
sulla testa, giunse all’altezza dello spiraglio, vi si
introdusse e scomparve. Poco dopo Mâtho si sentì cadere
su una spalla una corda a nodi, la stessa che Spendio si
era avvolto intorno al corpo prima di entrare nelle
cisterne; aggrappandosi con le due mani, presto si
ritrovò accanto a lui in una grande sala piena d’ombra.
Profanazioni di questo genere erano eventi
straordinari. L’insufficienza dei mezzi per prevenirle
attestava che erano considerate impossibili. Il terrore, più
dei muri, proteggeva i santuari. Mâtho, a ogni passo, si
aspettava di morire.
Eppure in fondo alle tenebre vacillava un chiarore; vi si
avvicinarono. Era una lampada che ardeva in una
conchiglia, sul piedistallo di una statua che portava in
testa il berretto dei Cabiri.3 Dischi di diamante erano
disseminati sulla lunga veste blu, ed era legata per le
caviglie da alcune catene che scomparivano sotto il
pavimento. Mâtho trattenne un grido. Balbettava: «Ah!
Eccola! Eccola!...». Spendio prese la lampada per farsi
luce.
«Che empio che sei!», mormorò Mâtho. Ma gli andava
dietro.
Entrarono in una stanza dove c’era soltanto una pittura
nera che raffigurava un’altra donna. Le gambe arrivavano
in cima alla parete. Il corpo occupava l’intero soffitto.
Dall’ombelico pendeva, appeso a un filo, un uovo
enorme, e la figura ricadeva sull’altra parete a testa in
giù, fino al pavimento che raggiungeva con le dita
aguzze.
Per andare oltre, scostarono una tenda, ma soffiò il
vento e la luce si spense.
Allora avanzarono a tentoni, perduti nei meandri del
tempio. D’un tratto avvertirono sotto i piedi qualcosa di
stranamente morbido. Sprizzavano scintille, crepitando;
sembrava che stessero camminando sul fuoco. Spendio
tastò il suolo e sentì che era accuratamente tappezzato di
pelli di lince; poi gli sembrò che una grossa corda
bagnata, fredda e vischiosa, scivolasse tra le loro gambe.
Alcune fessure aperte nei muri filtravano esili raggi
bianchi. Avanzavano in quel fioco chiarore. Alla fine
distinsero un grande serpente nero. Subito scattò e sparì.
«Fuggiamo!», gridò Mâtho. «È lei! La sento; sta
venendo».
«Eh, no!», rispose Spendio. «Il tempio è vuoto».
Allora una luce abbagliante li costrinse ad abbassare
gli occhi. Poi videro tutt’intorno un’infinità di bestie,
scheletriche, ansimanti, che agitavano gli artigli, mischiati
tutti insieme in un disordine misterioso e terrificante.
C’erano serpenti con i piedi, tori con le ali, pesci dalla
testa umana che divoravano frutta, fiori che sbocciavano
nelle mascelle dei coccodrilli, ed elefanti che, la
proboscide eretta, attraversavano l’aria, orgogliosamente,
come aquile. Uno sforzo terribile tendeva le loro membra
incomplete o molteplici. Quando tiravano fuori la lingua
avevano l’aria di voler buttare fuori l’anima; e vi si
trovavano tutte le forme, come se il ricettacolo dei germi,
esplodendo all’improvviso, si fosse svuotato sui muri
della sala.
Sul suo pavimento circolare c’erano dodici globi di
cristallo, sormontati da mostri che sembravano tigri. Le
loro pupille sporgevano come gli occhi delle lumache, e
curvando le tozze reni si volgevano verso il fondo dove
splendeva, su un carro d’avorio, la Rabbet suprema,
l’Omnifeconda, l’ultima inventata.
Squame, piume, fiori e uccelli le salivano fino al
ventre. Come orecchini aveva dei cimbali d’argento che le
sbattevano sulle guance. I grandi occhi guardavano fisso,
e una pietra luminosa, incastonata sulla fronte in un
simbolo osceno, rischiarava l’intera sala riflettendosi al di
sopra delle porte in rossi specchi di rame.
Mâtho fece un passo; una pietra del pavimento
cedette, ed ecco che le sfere si misero a ruotare, i mostri
a ruggire; si alzò una musica, armoniosa e roboante
come l’armonia dei pianeti; l’anima tumultuosa di Tanit
stava sgorgando. La dea stava per sollevarsi, grande
come la sala, con le braccia aperte. D’un tratto i mostri
chiusero la bocca, e i globi di cristallo smisero di ruotare.
Per qualche attimo rimase nell’aria una lugubre
modulazione, che poi si spense.
«E il velo?», disse Spendio.
Non lo si vedeva da nessuna parte. Dov’era dunque?
Come scoprirlo? E se i sacerdoti l’avessero nascosto?
Mâtho provava uno strazio nel cuore, e una sorta di
delusione nella fede.
«Di qua!», sussurrò Spendio. Era guidato da
un’ispirazione. Spinse Mâtho dietro il carro di Tanit, dove
una fenditura larga un cubito tagliava la parete dall’alto in
basso.
Allora penetrarono in una piccola sala circolare, così
alta che sembrava l’interno di una colonna. Al centro
c’era una grossa pietra nera semisferica, come un
timpano; sopra vi ardeva una fiamma; dietro s’innalzava
un cono d’ebano, con una testa e due braccia.
Ma al di là c’era una specie di nube nella quale
scintillavano delle stelle; nella profondità delle sue pieghe
apparivano strane figure: Eshmun con i Cabiri, alcuni dei
mostri già visti, le bestie sacre dei Babilonesi, ed altre che
i due non conoscevano. Tutto ciò passava come un
mantello sotto il volto dell’idolo, e risaliva stendendosi
sulla parete, aderendo agli angoli; era insieme bluastro
come la notte, giallo come l’aurora, purpureo come il
sole, armonioso, diafano, scintillante, leggero. Era questo
il manto della dea, il sacro zaimf che non era lecito
vedere.
Impallidirono entrambi.
«Prendilo!», disse infine Mâtho.
Spendio non esitò; e, appoggiandosi all’idolo, staccò il
velo che si afflosciò a terra. Mâtho vi pose sopra le mani;
poi introdusse la testa nell’apertura, se ne avvolse il
corpo, e apriva le braccia per contemplarlo meglio.
«Andiamo!», disse Spendio.
Mâtho, ansimante, era immobile con lo sguardo fisso
sul pavimento.
Improvvisamente esclamò:
«Ma se andassi da lei? Non ho più paura della sua
bellezza. Che potrebbe fare contro di me? Ora sono più
che un uomo. Potrei attraversare le fiamme, potrei
camminare sul mare! Un ardore mi spinge! Salammbô!
Salammbô! Sono il tuo padrone!».
La sua voce tuonava. A Spendio sembrava più alto,
trasfigurato.
Un rumore di passi si avvicinò, una porta si aprì e
apparve un uomo, un sacerdote, col suo alto berretto e
gli occhi sgranati. Prima ancora che avesse potuto fare un
gesto, Spendio gli si era precipitato addosso e,
stringendolo tra le braccia, gli aveva affondato nei fianchi
i suoi due pugnali. La testa sbatté rumorosamente sul
pavimento.
Poi, immobili come il cadavere, per un po’ rimasero in
ascolto. Si udiva solo il mormorio del vento attraverso la
porta socchiusa.
Quella porta dava su uno stretto passaggio. Spendio vi
si inoltrò, Mâtho lo seguì, e si ritrovarono quasi subito
nel terzo recinto, tra i portici laterali, dove erano le
abitazioni dei sacerdoti.
Dietro le celle doveva esserci una via più breve per
uscire. Si affrettarono.
Spendio, chinandosi sul bordo della fontana, si lavò le
mani insanguinate. Le donne dormivano. La vigna di
smeraldi splendeva. Si rimisero in cammino.
Ma qualcuno, sotto gli alberi, correva dietro di loro; e
Mâtho, che portava il velo, sentì più volte di essere
trattenuto dal basso, leggermente. Era un grande
cinocefalo, di quelli che vivevano liberi nel recinto della
dea. Come se fosse consapevole del furto, si aggrappava
al mantello. Tuttavia non osavano batterlo, per paura
delle sue grida; poi improvvisamente si calmò e si mise a
trottare al loro fianco, dondolandosi sul corpo e con le
lunghe braccia penzoloni. Poi, alla barriera, con un salto
si lanciò in un palmizio.
Usciti dall’ultimo recinto, si diressero verso il palazzo
di Amilcare; Spendio aveva capito che era inutile
trattenere Mâtho.
Presero per la via dei Conciatori, la piazza di
Muthumbal, il mercato delle erbe e il crocevia di Cinasin.
All’angolo di un muro, un uomo indietreggiò, spaventato
da quella cosa scintillante che attraversava le tenebre.
«Nascondi lo zaimf!», disse Spendio.
Incrociarono altre persone, ma senza essere notati.
Infine riconobbero le case di Megara.
Il faro, costruito in fondo, sulla sommità della
scogliera, illuminava il cielo di una grande luce rossa, e
l’ombra del palazzo, con le sue terrazze sovrapposte, si
proiettava sui giardini come una mostruosa piramide.
Entrarono attraverso la siepe di giuggioli, spezzandone i
rami a colpi di pugnale.
C’erano ancora ovunque le tracce del banchetto dei
Mercenari. Le recinzioni erano a pezzi, i canali asciutti, le
porte dell’ergastolo aperte. Non si vedeva nessuno
intorno alle cucine e alle dispense. Erano stupiti di tanto
silenzio, rotto soltanto dall’ansimare rauco degli elefanti
che si agitavano legati alle catene, e dal crepitio del faro
sul quale ardeva un falò di aloe.
Intanto Mâtho ripeteva: «Ma dov’è? Voglio vederla!
Portami da lei!».
«È una follia!», diceva Spendio. «Griderà,
accorreranno gli schiavi, e malgrado la tua forza
morirai!».
Così giunsero allo scalone delle galee. Mâtho alzò la
testa, e gli sembrò di scorgere, in alto, un vago chiarore
diffuso e tenero. Spendio tentò di trattenerlo. Ma lui si
lanciò su per i gradini.
Ritrovandosi nei luoghi dove l’aveva già vista,
l’intervallo dei giorni trascorsi si cancellò dalla sua
memoria. Pochi attimi prima Salammbô aveva cantato tra
i tavoli; poi era scomparsa, e da quel momento Mâtho
non faceva che salire quella scala. Il cielo, sopra di lui,
era infuocato; il mare riempiva l’orizzonte; a ogni passo
era circondato da un’immensità più vasta, e continuava a
salire con la strana leggerezza che si prova nei sogni.
Il fruscio del velo che sfiorava il pavimento gli ricordò
il suo nuovo potere; ma, travolto dalla sua grande
speranza, ora non sapeva cosa fare; l’incertezza lo
intimidì.
Di tanto in tanto incollava il viso alle finestre
quadrangolari delle stanze chiuse, e in molte credette di
vedere delle persone addormentate.
L’ultimo piano, più stretto, formava una sorta di dado
sulla sommità delle terrazze. Mâtho vi girò intorno,
lentamente.
Una luce lattiginosa bagnava le foglie di talco che
chiudevano le piccole aperture del muro; nella loro
disposizione simmetrica sembravano, nelle tenebre, file
di perle fini. Riconobbe la porta rossa con la croce nera. I
battiti del suo cuore raddoppiarono. Avrebbe voluto
fuggire. Spinse la porta; si aprì.
Una lampada a forma di galea ardeva appesa in fondo
alla camera; e tre raggi, riflessi dalla carena d’argento,
tremavano sulla parte alta delle pareti, verniciata di rosso
a bande nere. Il soffitto era fatto di travi, decorate di
ametiste nei punti d’incrocio, e di topazi nei nodi del
legno. Sui due lati maggiori della stanza c’era un letto
molto basso, di strisce di cuoio bianche; e più in alto si
aprivano nelle pareti, come conchiglie, piccole nicchie da
cui pendeva fino a terra qualche indumento.
Un gradino di onice circondava una vasca ovale; sul
bordo erano rimaste, accanto a una brocca di alabastro,
delle fini pantofole di pelle di serpente. Più in là si
scorgeva la traccia di un piede bagnato. Sapori squisiti
evaporavano.
Mâtho sfiorava appena il pavimento intarsiato d’oro, di
madreperla e di vetro; e malgrado la levigatezza del
pavimento, gli sembrava che i piedi affondassero come
se stesse camminando sulla sabbia.
Aveva visto dietro la lampada d’argento un grande
quadrato azzurro sospeso in aria da quattro corde
attaccate al soffitto, e avanzava, curvo, a bocca aperta.
Ali di fenicottero infisse in manici di corallo nero erano
sparse alla rinfusa tra i cuscini di porpora e gli strigili di
tartaruga, i cofanetti di cedro, le spatole d’avorio. Anelli e
braccialetti erano infilati su corna di antilope; e vasi di
argilla si rinfrescavano al vento, nella fenditura del muro,
su un graticcio di vimini. Inciampò più volte, perché il
pavimento era su livelli diversi che dividevano la stanza in
scomparti. In fondo, una balaustrata d’argento recingeva
un tappeto disseminato di fiori dipinti. Infine giunse
davanti al letto sospeso, accanto a uno sgabello d’ebano
che serviva per salirvi.
Ma la luce si arrestava al bordo del letto, e l’ombra,
come una grande tenda, scopriva soltanto un angolo del
materasso rosso, con la punta di un piccolo piede nudo
posato sulla caviglia. Allora Mâtho, piano piano, avvicinò
a sé la lampada.
Salammbô stava dormendo, con una guancia su una
mano e l’altro braccio disteso. I riccioli della chioma le si
spargevano intorno così abbondanti che sembrava
adagiata su piume nere, e l’ampia tunica bianca la copriva
in molli drappeggi fino ai piedi, seguendo le sinuosità del
corpo. Tra le palpebre socchiuse si intravedevano gli
occhi. Le cortine, cadendo dall’alto, la avvolgevano in
un’atmosfera bluastra, e il movimento del suo respiro,
comunicandosi alle corde, sembrava cullarla nell’aria. Una
grande zanzara ronzava intorno.
Mâtho, immobile, teneva col braccio teso la galea
d’argento, ma la zanzariera s’incendiò all’improvviso
dissolvendosi, e Salammbô si svegliò.
Il fuoco si era spento da solo. Lei non parlava. La
lampada proiettava in alto, sulle pareti, grandi
marezzature luminose e tremolanti.
«Che cos’è?», chiese Salammbô.
Mâtho rispose:
«È il velo della dea!».
«Il velo della dea!», esclamò Salammbô. E appoggiata
sui pugni si sporgeva in fuori fremente. Mâtho continuò:
«Per te sono andato a cercarlo nelle profondità del
santuario! Guarda!». Lo zaimf scintillava coperto di raggi.
«Ricordi?», diceva Mâtho. «La notte apparivi nei miei
sogni; ma io non riuscivo a capire l’ordine muto dei tuoi
occhi!». Lei appoggiò un piede allo sgabello d’ebano. «Se
avessi capito, sarei accorso; avrei abbandonato l’esercito;
non sarei uscito da Cartagine. Per obbedirti, scenderei
attraverso la caverna di Adrumeto4 nel regno delle
Ombre... Perdonami! C’erano montagne che pesavano
sulle mie montagne, eppure qualcosa mi trascinava!
Tentavo di raggiungerti! Senza gli dèi, avrei mai osato?...
Andiamo! Devi seguirmi! Oppure, se non vuoi, sarò io a
restare. Che importa... Annega la mia anima nel soffio
del tuo respiro! Le mie labbra si consumino a baciare le
tue mani!».
«Lasciami vedere!», diceva lei. «Più vicino! Più
vicino!».
Sorgeva l’alba, e un colore rossastro tingeva le foglie
di talco sulle pareti. Salammbô si appoggiava ai cuscini
del letto, come stesse per svenire.
«Ti amo!», gridava Mâtho.
Lei balbettò: «Dammelo!». Ed erano sempre più vicini.
Lei continuò ad avanzare, trascinando la tunica bianca,
con i grandi occhi fissi sul velo. Mâtho la contemplava,
abbagliato dallo splendore del suo viso, e tendendo verso
di lei lo zaimf stava per stringerla in un abbraccio.
Salammbô aprì le braccia. Di colpo si fermò, e rimasero a
guardarsi a bocca aperta.
Senza capire cosa le chiedesse, fu presa dall’orrore. Le
sopracciglia sottili si sollevarono, le labbra si
schiudevano; tremava. Infine colpì una delle patere di
bronzo appese agli angoli del materasso purpureo,
gridando:
«Aiuto! Aiuto! Indietro, sacrilego! Infame! Maledetto! A
me, Taanach, Krum, Ewa, Micipsa, Schaul!».
E la faccia spaventata di Spendio, apparendo nella
fenditura del muro tra le brocche d’argilla, lanciò queste
parole:
«Fuggi! Arrivano!».
Un gran tumulto salì scuotendo le scale, e una folla di
gente, donne, servi, schiavi, irruppe nella stanza con
spiedi, mazze, coltellacci, pugnali. Rimasero paralizzati
dall’indignazione vedendo un uomo; le serve urlavano
come ai funerali, e gli eunuchi impallidivano sotto la pelle
nera.
Mâtho era dietro la balaustrata. Avvolto nello zaimf,
sembrava un dio siderale attorniato dal firmamento. Gli
schiavi stavano per gettarsi su di lui. Salammbô li fermò.
«Non toccatelo! È il manto della dea!».
Salammbô si era ritirata in un angolo; poi fece un
passo verso di lui e, tendendo il braccio nudo:
«Maledizione su di te che hai derubato Tanit! Odio,
vendetta, massacro e dolore! Gurzil, dio delle battaglie, ti
dilani! Matisma, dio dei morti, ti soffochi! E l’Altro, colui
che non si può nominare, ti bruci!».5
Mâtho gettò un grido come fosse stato ferito da una
spada. Lei ripeté più volte: «Vattene! Vattene!».
La folla dei servitori si fece da parte e Mâtho, a testa
bassa, passò lentamente in mezzo a loro; ma giunto alla
porta si fermò, perché la frangia dello zaimf era rimasta
impigliata in una stella d’oro del pavimento. Lo tirò
bruscamente, scrollando una spalla, e scese le scale.
Spendio, saltando di terrazza in terrazza, scavalcando
le siepi e i canali, era fuggito dai giardini. Giunse ai piedi
del faro. Il muro in quel punto era abbandonato, tanto la
scogliera era inaccessibile. Avanzò fino al ciglio, si stese
sul dorso e, con i piedi in avanti, si lasciò scivolare lungo
il pendio; poi raggiunse a nuoto il promontorio delle
Tombe, deviò attraverso la laguna salata, e la sera rientrò
al campo dei Barbari.
Il sole si era levato; e, come un leone che si allontani,
Mâtho scendeva per i sentieri gettando intorno a sé
sguardi terribili.
Udiva un rumore confuso; partito dal palazzo,
ricominciava più lontano, dalla parte dell’Acropoli. Alcuni
dicevano che era stato rubato il tesoro della Repubblica
nel tempio di Moloch; altri parlavano di un sacerdote
assassinato. Altrove si credeva che i Barbari fossero
entrati in città.
Mâtho, che non sapeva come uscire dalla cinta
muraria, camminava diritto davanti a sé. Lo videro, si
alzarono grida. Tutti avevano capito; ci fu costernazione,
poi una collera immensa.
Dal fondo dei Mappali, dalle alture dell’Acropoli, dalle
Catacombe, dalle rive del lago, la folla accorse. I patrizi
uscivano dai loro palazzi, i commercianti dalle botteghe;
le donne lasciavano i bambini; si presero spade, asce,
bastoni; ma l’ostacolo che aveva trattenuto Salammbô
fermò anche loro. Come riprendere il velo? Il solo
vederlo era un delitto: era della stessa natura degli dèi e
il suo contatto faceva morire.
Nel peristilio dei templi, i sacerdoti disperati si
torcevano le braccia. Le guardie della Legione
galoppavano a caso: la gente saliva sulle case, sulle
terrazze, sulle spalle dei colossi, sull’alberatura delle navi.
Intanto Mâtho continuava ad andare avanti, e a ogni suo
passo la rabbia aumentava, ma anche il terrore. Le strade
si vuotavano al suo avvicinarsi, e quel torrente di uomini
in fuga rigurgitava sui lati fino alla sommità dei muri.
Ovunque non vedeva altro che grandi occhi spalancati,
come per divorarlo, e denti che battevano, e pugni tesi;
le imprecazioni di Salammbô si moltiplicavano in un’eco
infinita.
D’un tratto sibilò una lunga freccia, poi un’altra, e
volarono sassi: ma i colpi, mal diretti perché si temeva di
colpire lo zaimf, gli passavano sopra la testa. Del resto,
facendosi scudo del velo, lo tendeva a destra, a sinistra,
davanti, dietro; e quelli non sapevano a quale espediente
ricorrere. Camminava sempre più in fretta, prendendo le
vie più aperte. Erano sbarrate da corde, carri, trappole; a
ogni deviazione tornava indietro. Finalmente raggiunse la
piazza di Khamon, dove erano morti i Balearici; Mâtho si
fermò, impallidendo come uno che stia per morire.
Questa volta era perduto; la folla batteva le mani.
Corse alla grande porta chiusa. Era altissima, di
quercia massiccia, con borchie di ferro e rivestita di
bronzo. Mâtho le si gettò contro. Il popolo batteva i piedi
dalla gioia, vedendo l’impotenza del suo furore; allora si
tolse un sandalo, ci sputò sopra, e con quello colpì i
battenti immobili. La città intera urlò. Stavano
dimenticando il velo, erano pronti a schiacciarlo. Mâtho
guardò la folla con due occhi vuoti. Le tempie gli
pulsavano fino a stordirlo; si sentiva invadere
dall’intorpidimento degli ubriachi. Ma improvvisamente
vide la lunga catena che veniva tirata per manovrare il
contrappeso della porta. Con un balzo vi si aggrappò,
tendendo le braccia, puntando i piedi; e alla fine gli
enormi battenti si dischiusero.
Quando fu fuori, si tolse dal collo il grande zaimf e lo
alzò sulla testa il più in alto possibile. Il tessuto, teso dal
vento di mare, splendeva al sole con i suoi colori, le sue
pietre preziose e le raffigurazioni dei suoi dèi. Mâtho,
portandolo in questo modo, attraversò l’intera pianura
fino alle tende dei soldati, e il popolo, sulle mura,
guardava la fortuna di Cartagine che se ne andava via.
VI
Annone

«Avrei dovuto rapirla!», disse la sera a Spendio.


«Bisognava prenderla, strapparla dalla sua casa! Nessuno
avrebbe osato fare qualcosa contro di me!».
Spendio non lo ascoltava. Disteso supino, si concedeva
un riposo delizioso accanto a una grande giara piena di
acqua mielata, dove di tanto in tanto tuffava la testa per
berne di più.
Mâtho riprese:
«Che fare... Come rientrare a Cartagine?»
«Non so», gli disse Spendio.
Quell’impassibilità lo esasperava; esclamò:
«È colpa tua! Mi ci trascini, e poi mi abbandoni,
vigliacco! Perché dovrei obbedirti? Credi di essere il mio
padrone? Ah, ruffiano, schiavo e figlio di schiavi!».
Digrignava i denti e alzava su Spendio la sua grossa
mano.
Il Greco non rispose. Una lucerna d’argilla ardeva
piano vicino al palo della tenda, dove lo zaimf splendeva
nella panoplia appesa.
All’improvviso Mâtho calzò i coturni, affibbiò la maglia
a lamine di bronzo, prese l’elmo.
«Dove vai?», chiese Spendio.
«Torno da lei! Lasciami! La porterò qui! Se si faranno
vedere li schiaccerò come vipere! La farò morire,
Spendio!». Ripeté: «Sì! la ucciderò! Vedrai, la ucciderò!».
Ma Spendio, che stava con gli orecchi tesi, afferrò
bruscamente lo zaimf e lo gettò in un angolo,
ammucchiandovi sopra delle pelli. Si udì un brusio di
voci, brillarono delle torce, e Narr’Havas entrò, seguito da
una ventina di uomini.
Indossavano mantelli di lana bianca, lunghi pugnali,
collari di cuoio, orecchini di legno, calzari di pelle di iena;
e, fermi sulla soglia, si appoggiavano alle lance come
pastori che si stiano riposando. Narr’Havas era il più bello
di tutti; cinghie adorne di perle gli stringevano le braccia
sottili; nel cerchio d’oro che fermava intorno alla testa
l’ampio mantello era infilata una piuma di struzzo che gli
ricadeva dietro le spalle; un perenne sorriso gli scopriva i
denti; gli occhi sembravano aguzzi come frecce, e in tutta
la sua persona c’era qualcosa di attento e leggero.
Annunciò che veniva a unirsi ai Mercenari, perché da
troppo tempo la Repubblica minacciava il suo regno.
Dunque era suo interesse aiutare i Barbari, e nello stesso
tempo poteva essere utile a loro.
«Vi fornirò elefanti (le mie foreste ne sono piene),
vino, olio, orzo, datteri, pece e zolfo per gli assedi,
ventimila fanti e diecimila cavalli. Mi rivolgo a te, Mâtho,
perché possedere lo zaimf ti ha fatto diventare il primo
dell’esercito». Aggiunse: «E poi, siamo vecchi amici».
Intanto Mâtho osservava Spendio, che ascoltava
seduto sulle pelli di pecora e faceva con la testa piccoli
cenni di assenso. Narr’Havas parlava. Chiamava a
testimoni gli dèi, malediceva Cartagine. Imprecò, spezzò
un giavellotto. I suoi uomini gettarono tutti insieme un
grande urlo, e Mâtho, travolto da quell’ira, gridò che
accettava l’alleanza.
Allora portarono un toro bianco e una pecora nera,
simboli del giorno e della notte. Li sgozzarono sul bordo
di una fossa. Quando fu piena di sangue, vi immersero le
braccia. Poi Narr’Havas appoggiò la mano destra ben
aperta sul petto di Mâtho, e Mâtho la sua sul petto di
Narr’Havas. Imposero poi le mani sulla tela delle loro
tende. Quindi passarono la notte a mangiare, e gli avanzi
delle carni furono bruciati insieme con la pelle, le ossa, le
corna e le unghie.
Un’acclamazione immensa aveva salutato Mâtho
quando era tornato portando il velo della dea; anche
coloro che non erano di religione cananea intuirono, dal
loro entusiasmo indefinito, che stava giungendo un
Genio. Quanto a cercare di impadronirsi dello zaimf,
nessuno ci pensò; il modo misterioso in cui l’aveva avuto
bastava, nello spirito dei Barbari, a legittimarne il
possesso. Così pensavano i soldati di razza africana. Gli
altri, il cui odio era meno antico, non sapevano cosa
pensare. Se avessero avuto delle navi se ne sarebbero
andati immediatamente.
Spendio, Narr’Havas e Mâtho spedirono degli uomini
in tutte le tribù del territorio punico.
Cartagine estenuava quei popoli. Ne ricavava tributi
esorbitanti; e i ferri, l’ascia o la croce punivano i ritardi e
perfino i mormorii. Bisognava coltivare ciò che conveniva
alla Repubblica, fornire ciò che chiedeva; nessuno aveva
il diritto di possedere un’arma; quando i villaggi si
ribellavano, i loro abitanti venivano venduti; i governatori
erano considerati come torchi, per quello che riuscivano a
spremere. Poi, al di là delle regioni direttamente
sottomesse a Cartagine, c’erano gli alleati che pagavano
un mediocre tributo; e ancora più in là vagabondavano i
Nomadi, che potevano essere aizzati contro di loro.
Grazie a questo sistema i raccolti erano sempre
abbondanti, gli allevamenti ben curati, le piantagioni
floride. Il vecchio Catone, che in fatto di agricoltura e di
schiavi era un maestro, novantadue anni più tardi ne
rimase sbalordito, e il grido di morte che ripeteva a
Roma non era altro che l’espressione di un’avida gelosia.
Durante l’ultima guerra le estorsioni erano
raddoppiate, e così le città della Libia erano passate quasi
tutte dalla parte di Regolo. Per punirle, Cartagine aveva
preteso da loro mille talenti, ventimila buoi, trecento
sacchi di polvere d’oro, consistenti anticipi di grano, e i
capi delle tribù erano stati crocifissi o gettati ai leoni.
Tunisi in particolare odiava Cartagine! Più antica della
metropoli, non le perdonava la sua grandezza; se ne
stava di fronte alle sue mura, accovacciata nel fango, in
riva all’acqua, come una bestia velenosa che stesse a
guardarla. Le deportazioni, i massacri e le epidemie non
la indebolivano. Aveva sostenuto Arcagato, figlio di
Agatocle.1 I Mangiatori-di-cose-immonde vi avevano
trovato subito delle armi.
I corrieri non erano ancora partiti che nelle province
esplose una gioia universale. Senza aspettare ancora,
furono strangolati nei bagni gli intendenti delle grandi
famiglie e i funzionari della Repubblica; le vecchie armi
che erano state nascoste nelle caverne furono tirate fuori;
si forgiarono spade col ferro degli aratri; sulle porte i
fanciulli appuntivano i giavellotti, e le donne donarono le
loro collane, gli anelli, gli orecchini, tutto ciò che potesse
servire alla distruzione di Cartagine. Ognuno voleva
contribuirvi. Nei borghi i fasci di lance si ammucchiavano
come covoni di mais. Mandarono al campo bestiame e
denaro. Mâtho poté pagare presto ai Mercenari il soldo
arretrato, e quest’idea di Spendio fece sì che venisse
nominato generale in capo, shalishim 2 dei Barbari.
Nel frattempo affluivano rinforzi di uomini. All’inizio
apparvero le popolazioni di razza autoctona, poi gli
schiavi delle campagne. Furono catturati e armati i Negri
di alcune carovane; certi mercanti che stavano andando a
Cartagine si unirono ai Barbari, nella speranza di un
profitto più certo. Nuove bande di uomini continuavano
ad arrivare. Dall’alto dell’Acropoli si vedeva crescere
l’esercito.
Le guardie della Legione erano appostate sulla
piattaforma dell’acquedotto; accanto a loro, di tanto in
tanto, s’innalzavano caldaie di rame in cui bollivano fiotti
di asfalto. In basso, nella pianura, la grande folla si
agitava tumultuosa; erano incerti, perché provavano
quell’imbarazzo che la vista delle mura suscita sempre nei
Barbari.
Utica e Ippozarito rifiutarono l’alleanza. Colonie fenicie
come Cartagine, si governavano da sole e, nei trattati
stipulati dalla Repubblica, ogni volta facevano inserire
delle clausole che distinguessero la loro posizione.
Rispettavano tuttavia quella sorella più forte, che le
proteggeva, e non credevano che un’accozzaglia di
Barbari riuscisse a vincerla; anzi, essi erano destinati allo
sterminio. Così preferivano restare neutrali e vivere
tranquille.
Ma la loro posizione le rendeva indispensabili. Utica, in
fondo a un golfo, era molto comoda per far giungere a
Cartagine soccorsi dall’esterno. Nel caso che Utica fosse
stata conquistata, Ippozarito, a sei ore di distanza sulla
costa, l’avrebbe rimpiazzata, e la metropoli, così rifornita,
sarebbe risultata inespugnabile.
Spendio voleva che l’assedio iniziasse
immediatamente; Narr’Havas si oppose: prima di tutto
bisognava occuparsi della frontiera. Era l’opinione dei
veterani, e dello stesso Mâtho; così fu deciso che Spendio
andasse ad attaccare Utica, e Mâtho Ippozarito, mentre il
terzo corpo d’armata, appoggiandosi su Tunisi, avrebbe
occupato la piana di Cartagine; se ne incaricò Autarito.
Quanto a Narr’Havas, doveva tornare nel suo regno a
prendervi gli elefanti, battendo le strade con la cavalleria.
Le donne urlarono con forza contro tale decisione;
infatti volevano i gioielli delle donne puniche. Anche i
Libici protestarono. Li avevano chiamati contro Cartagine,
ed ecco che si andava via! I soldati partirono quasi soli.
Mâtho comandava i suoi compagni, con gli Iberici, i
Lusitani, gli uomini dell’Occidente e delle isole; tutti quelli
che parlavano greco avevano chiesto di seguire Spendio,
per via della sua intelligenza.
Fu grande lo stupore dei Cartaginesi quando tutt’a un
tratto videro l’esercito mettersi in movimento e sfilare
sotto il monte di Ariana, sulla strada di Utica, dal lato del
mare. Un troncone rimase davanti a Tunisi; il resto
scomparve, per poi riapparire sull’altra sponda del golfo,
sul limitare dei boschi nei quali sparì.
Erano ottantamila uomini, forse. Le due città tirie non
avrebbero resistito; e sarebbero tornati su Cartagine. Già
un esercito considerevole la minacciava, occupando la
base dell’istmo, e assai presto la città sarebbe caduta per
fame perché non si poteva vivere senza l’aiuto delle
province, dal momento che i cittadini non pagavano,
come a Roma, tributi. Il genio politico mancava a
Cartagine. La sua eterna ansia di profitto le impediva di
avere quella prudenza che nasce dalle ambizioni più
elevate. Galea ancorata sulla sabbia libica, vi si
manteneva a forza di lavoro. Le nazioni, come flutti, le
mugghiavano intorno, e la più piccola tempesta scuoteva
quella macchina formidabile.
Il tesoro era stato esaurito dalla guerra romana, e da
tutto quello che si era dilapidato, perduto, a
mercanteggiare con i Barbari. Ma intanto servivano
soldati, e non c’era un solo governo che si fidasse della
Repubblica. Tolomeo 3 le aveva appena rifiutato duemila
talenti. E poi li scoraggiava il ratto del velo. Spendio
l’aveva saputo prevedere.
Ma questo popolo, che si sentiva odiato, si stringeva al
cuore il suo denaro e i suoi dèi; e il suo patriottismo era
assicurato dalla costituzione stessa del governo.
Innanzitutto, il potere dipendeva da tutti senza che
nessuno fosse abbastanza forte da impadronirsene. I
debiti privati erano considerati debiti pubblici, e gli
uomini di razza cananea avevano il monopolio del
commercio; moltiplicando i guadagni della pirateria per
quelli dell’usura, sfruttando duramente la terra, gli schiavi
e i poveri, talvolta si raggiungeva la ricchezza. Questa
sola permetteva di accedere a tutte le magistrature; e
benché il potere e il denaro restassero sempre nelle
stesse famiglie, si tollerava l’oligarchia perché si aveva la
speranza di giungere a farne parte.
Le società dei commercianti, dove si elaboravano le
leggi, sceglievano gli ispettori delle finanze che, allo
scadere del mandato, nominavano i cento membri del
Consiglio degli Anziani, che a loro volta dipendevano
dalla Grande Assemblea, riunione generale di tutti i
Ricchi. Quanto ai due suffeti, questi avanzi di re, meno
importanti dei consoli, erano scelti lo stesso giorno in
due famiglie diverse. Venivano divisi con ogni sorta di
rivalità, perché si indebolissero a vicenda. Non potevano
decidere in materia di guerra; quando venivano sconfitti,
il Gran Consiglio li crocifiggeva.
La forza di Cartagine proveniva dunque dai Sissizi, una
grande corte nel centro di Malqua, nel luogo dove si
diceva che fosse approdata la prima barca di marinai
fenici, dato che nel corso dei secoli il mare si era ritirato
molto. Era un complesso di piccole camere di struttura
arcaica, in tronchi di palma e con angoli di pietra, divise
le une dalle altre per accogliere separatamente le diverse
compagnie. I Ricchi si affollavano là dentro per tutto il
giorno, a discutere dei loro interessi e di quelli del
governo, dalla ricerca del pepe alla distruzione di Roma.
Tre volte a ogni luna facevano portare i letti sull’alta
terrazza che costeggiava il muro del cortile; allora, dal
basso, era possibile vederli a tavola, all’aperto, senza
coturni e senza mantelli, con le dita cariche di anelli che
vagavano tra le carni e i grandi orecchini che
penzolavano tra le brocche: tutti robusti e grassi, mezzi
nudi, beati, a ridere e a mangiare sotto il cielo azzurro,
come grossi squali che giochino nel mare.
Ma in quel momento non riuscivano a nascondere le
loro preoccupazioni, erano troppo pallidi; la folla, che li
aspettava sulle porte, li scortava fino ai palazzi per
ricavarne qualche notizia. Come in tempi di peste, tutte le
case erano chiuse; le strade si riempivano all’improvviso,
e subito si vuotavano; si saliva sull’Acropoli; si correva al
porto; ogni notte il Gran Consiglio deliberava. Alla fine il
popolo fu convocato sulla piazza di Khamon, e fu deciso
di affidarsi ad Annone, il vincitore di Ecatompilo.
Era un uomo devoto, astuto, spietato con le
popolazioni dell’Africa, un vero Cartaginese. Le sue
rendite erano pari a quelle dei Barca. Nessuno aveva
un’esperienza come la sua nelle cose
dell’amministrazione.
Decretò l’arruolamento di tutti i cittadini validi, piazzò
catapulte sulle torri, pretese esorbitanti forniture d’armi,
ordinò perfino la costruzione di quattordici galee di cui
non c’era bisogno; e volle che tutto questo fosse
registrato e scritto con cura. Si faceva portare all’arsenale,
al faro, nel tesoro dei templi; ovunque si vedeva la sua
grande lettiga che, ondeggiando di gradino in gradino,
saliva su per le scalinate dell’Acropoli. Nel suo palazzo, di
notte, quando non riusciva a dormire, per prepararsi alla
battaglia urlava ordini di guerra con una voce terribile.
Tutti, per eccesso di paura, diventavano coraggiosi. I
Ricchi, al canto del gallo, si allineavano lungo i Mappali;
e, rimboccate le maniche, si esercitavano a maneggiare la
picca. Ma poiché non c’era un istruttore, litigavano.
Sedevano ansimanti sulle tombe, poi ricominciavano.
Molti si imposero una dieta. Alcuni, pensando che
bisognasse mangiare molto per aumentare la forza, si
ingozzavano, mentre altri, impediti dalla loro corpulenza,
si sottoponevano a digiuni estenuanti per dimagrire.
Utica aveva già richiesto più volte l’aiuto di Cartagine.
Ma Annone non voleva partire finché alle macchine da
guerra mancasse l’ultimo dado. Perse ancora tre lune a
equipaggiare i centododici elefanti alloggiati nei bastioni;
erano i vincitori di Regolo; il popolo li amava;
l’attenzione per quei vecchi amici non era mai
abbastanza. Annone fece rifondere le piastre di bronzo di
cui erano armati i loro pettorali, dorare le zanne,
ampliare le torri, e tagliare nella porpora più bella delle
gualdrappe orlate di frange pesantissime. Infine, dal
momento che i loro conduttori venivano chiamati Indiani
(senza dubbio perché i primi erano giunti dalle Indie),
ordinò che tutti fossero acconciati alla moda indiana, cioè
con un turbante bianco intorno alle tempie e calzoni corti
di bisso che, con le loro pieghe trasversali, sembravano
le due valve di una conchiglia applicata sulle anche.
L’esercito di Autarito continuava a rimanere davanti a
Tunisi. Era nascosto dietro un muro fatto con il fango del
lago e difeso sulla sommità da una siepe di rovi. I Negri
vi avevano conficcato qua e là, in cima a grandi bastoni,
figure terrificanti, maschere umane fatte con penne di
uccelli, teste di sciacallo o di serpente, a fauci spalancate
verso il nemico per spaventarlo; e con questo
considerandosi invincibili, i Barbari danzavano, lottavano,
giocherellavano, convinti che Cartagine sarebbe caduta
presto. Uno diverso da Annone avrebbe annientato
facilmente quella folla impedita dalle greggi e dalle
donne. Del resto non capivano nessuna manovra militare,
e Autarito, scoraggiato, non pretendeva più niente da
loro.
Si scostavano, quando passava roteando i grandi occhi
blu. Poi, giunto sulla riva del lago, si toglieva il saio di
pelle di foca,4 scioglieva la corda che teneva legati i
lunghi capelli rossi, e li immergeva nell’acqua.
Rimpiangeva di non aver disertato, di non esser passato
dalla parte dei Romani insieme con i duemila Galli del
tempio di Erice.
Spesso, a metà giornata, improvvisamente il sole
perdeva i suoi raggi. Allora il golfo e il mare aperto
sembravano immobili come piombo fuso. Una nube di
polvere bruna, verticale, avanzava in un turbine; le palme
si curvavano, il cielo scompariva, si udivano rimbalzare le
pietre sul dorso degli animali; e il Gallo, con le labbra
incollate ai fori della tenda, ansimava sfinito e
malinconico. Pensava all’odore dei pascoli nei mattini
d’autunno, ai fiocchi di neve, ai muggiti degli uri5
sperduti nella nebbia, e chiudendo gli occhi credeva di
scorgere i fuochi delle lunghe capanne coperte di paglia,
tremanti sulle paludi, in fondo ai boschi.
Altri rimpiangevano come lui la patria, sebbene non
fosse altrettanto lontana. In effetti, i Cartaginesi
prigionieri potevano distinguere, al di là del golfo, sui
pendii di Birsa, i velari delle loro case, stesi nei cortili. Ma
c’erano sentinelle che marciavano continuamente intorno
a loro. Li avevano attaccati tutti a una catena comune.
Ognuno portava una gogna di ferro, e la folla non si
stancava di venire a vederli. Le donne mostravano ai
bambini le loro belle vesti che pendevano a brandelli
dalle membra smagrite.
Ogni volta che Autarito guardava Giscone, veniva
travolto dal furore al ricordo dell’ingiuria subita; senza il
giuramento fatto a Narr’Havas, lo avrebbe ucciso. Allora
rientrava nella tenda, beveva un miscuglio di orzo e
cumino fino a perdersi nell’ebbrezza; poi si svegliava in
pieno giorno, divorato da una sete orribile.
Intanto Mâtho assediava Ippozarito.
Ma la città era protetta da un lago comunicante col
mare. Aveva tre cinte murarie, e sulle alture che la
dominavano si svolgeva un muro fortificato con torri.
Non aveva mai diretto imprese del genere. Inoltre lo
assillava il pensiero di Salammbô, e tra i piaceri della sua
bellezza sognava le delizie di una vendetta che lo
riempiva di orgoglio. Era un bisogno di rivederla acre,
furioso, permanente. Pensò perfino di offrirsi come
parlamentare nella speranza che, una volta a Cartagine,
sarebbe giunto fino a lei. Spesso faceva suonare l’attacco
e, senza attendere, si lanciava sul molo che si stava
cercando di costruire nel mare. Strappava le pietre con le
mani, rovesciava, colpiva, affondava ovunque la spada. I
Barbari si precipitavano alla rinfusa; le scale si
spezzavano con grande fracasso, e masse di uomini
rovinavano nell’acqua che in rossi flutti s’infrangeva
contro le mura. Poi il tumulto si attenuava, e i soldati si
allontanavano per poi ricominciare.
Mâtho andava a sedersi fuori delle tende; si asciugava
col braccio il viso schizzato di sangue, e, rivolto verso
Cartagine, guardava l’orizzonte.
Davanti a lui, tra gli olivi, le palme, i mirti e i platani,
si stendevano due grandi stagni collegati con un terzo di
cui non si distinguevano i contorni. Dietro una montagna
se ne innalzavano altre e al centro dell’immenso lago si
ergeva un’isola tutta nera, a forma di piramide. Sulla
sinistra, in fondo al golfo, cumuli di sabbia sembravano
grandi onde bionde, immobili, mentre il mare, piatto
come un pavimento di lapislazzuli, saliva insensibilmente
fino al limite del cielo. Il verde della campagna
scompariva a tratti sotto lunghe chiazze gialle; carrubi
brillavano come bottoni di corallo; pampini ricadevano
dalle chiome dei sicomori; si udiva il mormorio
dell’acqua; allodole col ciuffo saltellavano, e gli ultimi
raggi del sole doravano il guscio delle tartarughe che
uscivano dai canneti a respirare la brezza.
Mâtho gettava sospiri profondi. Si sdraiava bocconi;
affondava le unghie nella terra e piangeva; si sentiva
miserabile, debole, abbandonato. Non avrebbe mai
posseduto Salammbô, e non riusciva neppure a
impadronirsi di una città.
La notte, solo, nella sua tenda, contemplava lo zaimf.
A cosa gli serviva quella cosa degli dèi? E qualche dubbio
si insinuava nella mente del Barbaro. Poi gli sembrava, al
contrario, che il velo della dea fosse intimamente unito a
Salammbô, e che una parte dell’anima di lei vi fluttuasse
più lieve di un respiro; allora lo palpava, lo annusava, vi
affondava il viso, lo baciava singhiozzando. Se ne
avvolgeva le spalle per illudersi e credersi accanto a lei.
Talvolta fuggiva all’improvviso; alla luce delle stelle
scavalcava i soldati che dormivano avvolti nei loro
mantelli; poi, alle porte del campo, saltava su un cavallo,
e due ore dopo era a Utica nella tenda di Spendio.
Si metteva a parlare dell’assedio; in realtà era venuto
per alleviare il proprio dolore parlando di Salammbô.
Spendio lo esortava alla saggezza:
«Scaccia dal tuo animo queste miserie che lo
degradano! Un tempo obbedivi ai comandi altrui; ma
oggi sei tu a comandare un esercito, e se anche Cartagine
non sarà conquistata ci saranno certamente concesse
delle province, diventeremo re!».
Ma perché il possesso dello zaimf non dava loro la
vittoria? Secondo Spendio bisognava attendere.
Mâtho pensò che il velo riguardasse solo gli uomini di
razza cananea e, nella sua sottigliezza di Barbaro, si
diceva: «Dunque lo zaimf non farà niente per me; ma
poiché l’hanno perduto, non farà niente neppure per
loro».
Poi fu preso da uno scrupolo. Aveva paura che
adorando Aptuknos, il dio dei Libici, avrebbe offeso
Moloch; perciò chiese timidamente a Spendio a quale dei
due convenisse sacrificare un uomo.
«Sacrifica sempre!», disse Spendio ridendo.
Mâtho, che non capiva questa indifferenza, sospettò
che il Greco avesse un Genio di cui non voleva parlare.
Tutti i culti, come tutte le razze, s’incontravano in
quegli eserciti di Barbari, e si rispettavano gli dèi degli
altri che comunque incutevano timore. Molti univano
pratiche straniere alla religione nativa. Pur non adorando
le stelle, poiché una data costellazione era ritenuta
funesta o propizia le si facevano dei sacrifici; un amuleto
sconosciuto, trovato per caso in una situazione di
pericolo, diventava una divinità; oppure si trattava di un
nome, nient’altro che un nome, che veniva ripetuto senza
che neppure si cercasse di capirne il significato. Ma, a
forza di saccheggiare templi, di vedere tanti popoli e
massacri, molti finivano per credere soltanto al destino e
alla morte; e ogni sera si addormentavano con la serenità
delle bestie feroci. Spendio avrebbe sputato sulle
immagini del Giove Olimpico; tuttavia temeva di parlare
a voce alta nelle tenebre, e non mancava mai, ogni
giorno, di calzare prima il piede destro.
Stava facendo innalzare, di fronte a Utica, un lungo
terrapieno quadrangolare. Ma via via che cresceva in
altezza, cresceva anche il bastione frontale; ciò che era
abbattuto dagli uni, veniva quasi subito ricostruito dagli
altri. Spendio risparmiava i suoi uomini, studiava piani;
cercava di ricordare gli stratagemmi di cui aveva sentito
parlare durante i suoi viaggi. Perché Narr’Havas non
ritornava? C’era molta inquietudine.
Annone aveva concluso i preparativi. In una notte
senza luna fece attraversare agli elefanti e ai soldati, su
zattere, il golfo di Cartagine. Poi aggirarono la Montagna
delle Acque Calde per evitare Autarito, e proseguirono
con tanta lentezza che invece di sorprendere i Barbari
all’alba, come aveva calcolato il suffeta, arrivarono al
terzo giorno, col sole alto.
A oriente di Utica una pianura si estendeva fino alla
grande laguna di Cartagine; dietro, sboccava ad angolo
retto una valle racchiusa tra due basse montagne che si
interrompevano bruscamente; i Barbari si erano
accampati più lontano, sulla sinistra, in modo da bloccare
il porto; e dormivano nelle loro tende (perché quel
giorno i due avversari, troppo stanchi per combattere,
riposavano) quando da dietro le colline apparve l’esercito
cartaginese.
Servi armati di fionde erano distanziati sulle ali. Le
guardie della Legione, nelle loro armature a lamine d’oro,
formavano la prima linea, coi loro grandi cavalli senza
criniera, senza pelo e senza orecchie, con un corno
d’argento in mezzo alla fronte per farli somigliare a dei
rinoceronti. Tra i loro squadroni, dei giovani che
portavano in testa un piccolo elmo bilanciavano in
entrambe le mani un giavellotto di frassino; dietro,
avanzavano le lunghe picche della fanteria pesante. Tutti
quei mercanti si erano messi addosso la maggiore
quantità possibile di armi: se ne vedevano alcuni che
portavano contemporaneamente una lancia, un’ascia, una
clava, due spade; altri erano irti di frecce come
porcospini, e tenevano le braccia scostate dalle corazze in
lamine di corno o in piastre di ferro. Infine apparvero le
impalcature delle alte macchine da guerra: carrobaliste,
onagri,6 catapulte e scorpioni,7 ondeggianti su carri
trainati da muli e da quadrighe di buoi; via via che
l’esercito si dispiegava, i capitani, ansimanti, correvano a
destra e a sinistra per trasmettere ordini, far serrare le
file e mantenere le distanze tra una fila e l’altra. Quelli tra
gli Anziani che avevano funzioni di comando erano venuti
con elmi purpurei le cui frange magnifiche s’impigliavano
tra le cinghie dei coturni. I loro volti, imbrattati di
cinabro, rilucevano sotto elmi giganteschi sormontati da
immagini di dèi; e poiché portavano scudi con un bordo
d’avorio ricoperto di pietre preziose sembravano dei soli
che passassero davanti a muri di bronzo.
I Cartaginesi manovravano con una tale lentezza che i
soldati, per deriderli, li invitavano a sedersi. Gridavano
che avrebbero forato subito i loro pancioni, e spazzolato
bene la doratura della loro pelle, e che avrebbero fatto
bere loro del ferro.
In cima al palo piantato davanti alla tenda di Spendio
apparve un brandello di tela verde: era il segnale.
L’esercito cartaginese rispose con un frastuono di trombe,
cimbali, flauti di osso di asino e timpani. I Barbari erano
già balzati fuori dalle palizzate. Si era a portata di
giavellotto, faccia a faccia.
Un fromboliere balearico avanzò di un passo, pose
nella fionda un proiettile di argilla, roteò il braccio; uno
scudo d’avorio andò in pezzi, e iniziò la mischia.
I Greci, colpendo i cavalli sul muso con la punta delle
picche, li fecero rovesciare addosso ai loro padroni. Gli
schiavi che dovevano lanciare pietre, le avevano scelte
troppo grosse; così ricadevano vicino ai loro piedi. I fanti
punici, che colpivano di taglio con le lunghe spade, si
scoprivano il fianco destro. I Barbari sfondarono le loro
linee; li sgozzavano affondando la spada; inciampavano
sui moribondi e sui cadaveri, accecati dal sangue che
schizzava sui loro volti. Quell’ammasso di lance, di elmi,
di corazze, di spade e di membra confuse, roteava su se
stesso, allargandosi e restringendosi con contrazioni
elastiche. Le coorti cartaginesi si disgregarono sempre di
più; le loro macchine da guerra si erano insabbiate;
infine la lettiga del suffeta (la sua grande lettiga con i
pendagli di cristallo), che fin dall’inizio era stata vista
ondeggiare tra i soldati come una barca sui flutti,
improvvisamente sprofondò. Annone doveva essere
morto. I Barbari si trovarono soli.
La nube di polvere stava ricadendo intorno a loro, e
cominciavano a cantare, quando Annone in persona
apparve in cima a un elefante. Era a testa nuda, sotto un
parasole di bisso che era tenuto da un Negro alle sue
spalle. La sua collana di piastre blu sbatteva sui fiori della
tunica nera; bracciali di diamanti gli stringevano le
enormi braccia, e, a bocca aperta, brandiva una lancia
smisurata che in punta si apriva come un fiore di loto,
più brillante di uno specchio. Subito la terra tremò, e i
Barbari videro accorrere, in una sola linea, tutti gli
elefanti di Cartagine con le loro zanne dorate, le orecchie
dipinte di blu, corazzati di bronzo, e che scuotevano
sopra le gualdrappe scarlatte le torri di cuoio, dentro
ognuna delle quali tre arcieri tendevano grandi archi.
I soldati erano armati malamente, e disposti alla
rinfusa. Il terrore li gelò; restarono indecisi. E già dall’alto
delle torri li bersagliavano di giavellotti, frecce, falariche,
blocchi di piombo; alcuni, per arrampicarsi, si
aggrappavano alle frange delle gualdrappe. Mozzavano
loro le mani con dei coltellacci, e quelli cadevano riversi
sulle spade alzate in alto. Le lance troppo deboli si
spezzavano; gli elefanti passavano in mezzo alle falangi
come cinghiali tra ciuffi d’erba; con le proboscidi
strapparono i pali dell’accampamento, lo attraversarono
da un capo all’altro rovesciando le tende sotto i loro
pettorali. Tutti i Barbari erano fuggiti. Si nascondevano
sulle colline che costeggiavano la valle da cui erano
venuti i Cartaginesi.
Annone, vincitore, si presentò davanti alle porte di
Utica. Fece suonare la tromba. Apparvero i tre Giudici
della città, sulla cima di una torre, tra i merli.
La popolazione di Utica non voleva accogliere in città
ospiti così bene armati. Annone s’infuriò. Alla fine
acconsentirono a farlo entrare con una piccola scorta.
Quando il suffeta fu in città, i notabili andarono a
salutarlo. Si fece condurre ai bagni, e chiamò i suoi
cuochi.

Tre ore dopo, era ancora immerso nell’olio di


cinnamomo di cui era stata riempita la vasca; e mentre
faceva il bagno mangiava, sopra una pelle di bue che gli
era stata distesa davanti, lingue di fenicottero con semi di
papavero conditi al miele. Accanto a lui, il suo medico,
immobile in una lunga tunica gialla, faceva di tanto in
tanto riscaldare la stufa, e due giovani, chini sui gradini
della vasca, gli strofinavano le gambe. Ma le cure del
corpo non frenavano il suo amore per la cosa pubblica;
così stava dettando una lettera per il Gran Consiglio e,
poiché erano stati presi dei prigionieri, si chiedeva quale
terribile punizione potesse mai inventare.
«Fermati!», disse a uno schiavo che scriveva, in piedi,
sul palmo della mano. «Portatemene qualcuno! Voglio
vederli».
E dal fondo della sala piena di un vapore biancastro
sul quale le torce gettavano riflessi rossi, furono spinti
avanti tre Barbari: un Sannita, uno Spartano e un
Cappadocio.
«Continua!», disse Annone.
«Gioite, luce dei Baal! Il vostro suffeta ha sterminato i
cani voraci! Benedizioni sulla Repubblica! Ordinate
preghiere!». Scorse i prigionieri e allora, scoppiando a
ridere: «Ah! ah! I miei prodi di Sicca! Oggi non gridate
più tanto forte! Sono io! Mi riconoscete? Dove sono finite
le vostre spade? Che uomini terribili! Veramente!». E
fingeva di volersi nascondere, come se avesse paura di
loro. «Chiedevate cavalli, donne, terre, magistrature, e
sacerdozi, vero? Perché no? Ebbene, ve le darò io le
terre... non ne uscirete più! Sarete sposati a forche belle
nuove! La vostra paga? Vi sarà fusa in bocca, in lingotti di
piombo! E vi darò dei buoni posti, molto in alto, tra le
nuvole, per essere vicini alle aquile!».
I tre Barbari, coi capelli lunghi e coperti di stracci, lo
guardavano senza capire quello che stava dicendo. Feriti
alle ginocchia, erano stati catturati con delle corde, e le
estremità delle grosse catene che stringevano le loro
mani strusciavano sul pavimento. Annone si indignò per
la loro impassibilità.
«In ginocchio! In ginocchio! Sciacalli! Polvere! Pidocchi!
Escrementi! E non rispondono neppure! Basta! Silenzio!
Che siano scorticati vivi! No! Più tardi!».
Soffiava come un ippopotamo, roteando gli occhi.
L’olio profumato traboccava sotto la massa del suo corpo,
e, incollandosi alle squame della sua pelle, alla luce delle
torce la faceva apparire rosa.
Annone riprese:
«Durante quattro giorni abbiamo sofferto molto per il
sole. Al passaggio del Macar, dei muli sono andati
perduti. Malgrado la loro posizione, il coraggio
straordinario... Ah! Demonade, quanto soffro! Fai
riscaldare i mattoni, e che siano rossi!».
Si udì un rumore di pale e di fornelli. Il fumo
dell’incenso si alzò più denso dagli incensieri, e i
massaggiatori completamente nudi, che sudavano come
spugne, gli schiacciarono sulle giunture una pasta fatta di
grano, zolfo, vino nero, latte di cagna, mirra, galbano e
storace.8 Era divorato da una sete irrefrenabile; l’uomo
vestito di giallo non cedette e, porgendogli una coppa
d’oro nella quale fumava un brodo di vipera:
«Bevi!», gli disse. «Affinché la forza dei serpenti, nati
dal sole, penetri nel midollo delle tue ossa, e tu prenda
coraggio, o riflesso degli dèi! Tu sai del resto che un
sacerdote di Eshmun osserva intorno al Cane le stelle
crudeli dalle quali deriva la tua malattia. Impallidiscono
come le macchie della tua pelle; vuol dire che non devi
morire».
«Oh, sì, vero?», ripeté il suffeta. «Io non devo
morire!». E dalle sue labbra violacee usciva un fiato più
nauseabondo delle esalazioni di un cadavere. Al posto
degli occhi, privi di ciglia, pareva ardessero due carboni;
una borsa di pelle rugosa gli pendeva sulla fronte; le
orecchie, staccandosi dalla testa, cominciavano a
ingrandirsi, e le rughe profonde che formavano dei
semicerchi intorno alle narici gli davano un aspetto strano
e spaventoso, da animale selvatico. La sua voce snaturata
somigliava a un ruggito; disse: «Che tu abbia ragione,
Demonade? In effetti molte ulcere si sono chiuse. Mi
sento robusto. Ecco, guarda come mangio!».
E più per ostentazione che per gola, e per dimostrare a
se stesso che stava bene, addentava i ripieni di formaggio
e di origano, i pesci senza lisca, le zucche, le ostriche,
con uova, rafano, tartufi e spiedini di uccelli. Guardando i
prigionieri si divertiva a prefigurare il loro supplizio.
Intanto si ricordava di Sicca, e la rabbia per tutti i suoi
dispiaceri si sfogava in ingiurie contro quei tre uomini.
«Ah, traditori! Ah, miserabili! Infami! Maledetti! E voi
oltraggiavate me! Il suffeta! Il loro servizio, il prezzo del
loro sangue, come dicono! Ah, sì! Il loro sangue! Il loro
sangue!». Poi, parlando a se stesso: «Moriranno tutti!
Neppure uno sarà venduto! Sarebbe meglio portarli a
Cartagine! Mi si vedrebbe... ma forse non ho portato
catene a sufficienza! Scrivi: Mandatemi... Quanti sono?
Andate a chiederlo a Mathumbal! Nessuna pietà: mi si
portino le ceste con dentro tutte le loro mani mozzate!».
Ma strane grida, insieme rauche e acute, giungevano
nella sala coprendo la voce di Annone e il sonoro rumore
dei piatti che gli venivano posati tutt’intorno. Le grida
divennero più forti, e all’improvviso esplose il barrire
furioso degli elefanti, come se la battaglia stesse
ricominciando. Un grande tumulto circondava la città.
I Cartaginesi non avevano neppure tentato d’inseguire
i Barbari. Si erano accampati sotto le mura con i bagagli,
i servi e tutti i loro accessorii da satrapi, e festeggiavano
nelle belle tende dalle frange di perle mentre il campo dei
Mercenari, nella pianura, era ridotto a un ammasso di
rovine. Spendio aveva ritrovato il suo coraggio. Spedì
Zarxas da Mâtho, attraversò i boschi, radunò i suoi
uomini (le perdite non erano considerevoli) che, rabbiosi
per essere stati sconfitti senza combattere, ricostituivano
le proprie linee quando qualcuno scoprì una tinozza di
petrolio, senza dubbio abbandonata dai Cartaginesi.
Allora Spendio fece prendere dei maiali dalle fattorie, li
cosparse di bitume, gli appiccò fuoco e li spinse verso
Utica.
Gli elefanti, spaventati da quelle fiamme, fuggirono. Il
terreno era in salita, scagliavano contro di loro i
giavellotti, e quelli tornarono indietro; a gran colpi di
zanne e con i piedi sventravano i Cartaginesi, li
soffocavano, li schiacciavano. Dietro di loro, i Barbari
scendevano la collina; il campo punico, sprovvisto di
trincee, fu messo a soqquadro al primo assalto, e i
Cartaginesi si trovarono schiacciati contro le porte, che
non si vollero aprire per paura dei Mercenari.
Sorgeva il sole; si videro arrivare, da Occidente, i fanti
di Mâtho. Contemporaneamente apparvero dei cavalieri;
era Narr’Havas con i suoi Numidi. Saltando sopra i fossi e
i cespugli, inseguivano i fuggiaschi come levrieri a caccia
di lepri. Il mutamento della sorte colse di sorpresa il
suffeta. Gridò che qualcuno lo aiutasse a uscire dal
bagno.
I tre prigionieri erano ancora davanti a lui. Allora un
Negro (lo stesso che durante la battaglia gli reggeva il
parasole) si chinò al suo orecchio.
«Ebbene?...», rispose lentamente il suffeta. «Ah!
Uccidili!», aggiunse con tono brusco.
L’Etiope estrasse dalla cintura un lungo pugnale, e le
tre teste caddero. Una, rimbalzando tra i resti del
banchetto, andò a cadere nella vasca, e vi galleggiò per
un po’ con la bocca aperta e gli occhi sbarrati. Le luci del
mattino entravano dalle fessure delle pareti; i tre corpi
riversi bocconi gettavano fiotti di sangue come tre
fontane, e un rivolo di sangue colava sui mosaici cosparsi
di polvere azzurra. Il suffeta immerse la mano in quella
fanghiglia calda e se ne sfregò le ginocchia: era un
rimedio.
Venuta la sera, fuggì dalla città con la sua scorta; poi
salì sulla montagna per raggiungere il suo esercito.
Riuscì a ritrovarne i resti.
Quattro giorni dopo era a Gorza, in cima a una cresta,
quando le truppe di Spendio apparvero nel fondovalle.
Venti buone lance, attaccando frontalmente la colonna, le
avrebbero fermate facilmente; i Cartaginesi le
guardarono passare stupefatti. Annone riconobbe nella
retroguardia il re dei Numidi; Narr’Havas s’inchinò per
salutarlo, facendo un segno che lui non capì.
Tornarono a Cartagine tra ogni sorta di terrori.
Marciavano soltanto di notte; di giorno si nascondevano
negli oliveti. A ogni tappa qualcuno moriva; più volte
credettero di essere perduti. Finalmente raggiunsero il
capo Ermeo, dove alcune navi vennero a prenderli.
Annone era così stanco, così disperato – lo avviliva
soprattutto la perdita degli elefanti – che per farla finita
chiese del veleno a Demonade. Del resto, si sentiva già
steso sulla croce.
Cartagine non ebbe la forza di indignarsi contro di lui.
Si erano perduti quattrocentomilanovecentosettantadue
sicli d’argento, quindicimilaseicentoventitré shekel d’oro,
diciotto elefanti, quattordici membri del Gran Consiglio,
trecento Ricchi, ottomila cittadini, grano per tre lune, un
bagaglio considerevole e tutte le macchine da guerra! La
defezione di Narr’Havas era certa, i due assedi
ricominciavano. Ora l’esercito di Autarito occupava il
territorio tra Tunisi e Rades. Dall’alto dell’Acropoli si
scorgevano nella campagna alte colonne di fumo che
salivano fino al cielo; erano i castelli dei Ricchi che
stavano bruciando.
Un uomo soltanto avrebbe potuto salvare la
Repubblica. Ci si pentì di averlo misconosciuto, e lo
stesso partito della pace votò olocausti per il ritorno di
Amilcare.
La vista dello zaimf aveva sconvolto Salammbô. Di
notte credeva di udire i passi della dea e, spaventata, si
svegliava gridando. Ogni giorno mandava offerte nei
templi. Taanach faticava a eseguire tutti i suoi ordini, e
Shahabarim non la lasciava più.
VII
Amilcare Barca

L’Annunciatore-delle-lune, che vegliava ogni notte sulla


sommità del tempio di Eshmun per segnalare con la sua
tromba le perturbazioni dell’astro, un mattino scorse a
Occidente qualcosa di simile a un uccello che con le
lunghe ali sfiorasse la superficie del mare.
Era una nave a tre ordini di remi; sulla prua c’era un
cavallo scolpito. Il sole stava sorgendo: l’Annunciatore-
delle-lune si mise una mano davanti agli occhi; poi,
impugnando con decisione la tromba, lanciò su Cartagine
un forte grido di bronzo.
La gente uscì da ogni casa; non si voleva credere alle
parole, si discuteva, il molo era gremito di folla.
Finalmente tutti riconobbero la trireme di Amilcare.
Avanzava orgogliosa e indomabile, la vela gonfia per
l’intera lunghezza dell’albero, fendendo la schiuma; i rami
giganteschi battevano l’acqua in cadenza; di tanto in
tanto appariva l’estremità della chiglia, come il vomere di
un aratro, e, sotto il rostro che concludeva la prua, il
cavallo dalla testa d’avorio, inarcando le zampe anteriori,
sembrava galoppasse sulla pianura del mare.
Intorno al promontorio, poiché il vento era cessato, la
vela cadde e accanto al pilota si vide un uomo in piedi, a
capo scoperto; era lui, il suffeta Amilcare! Aveva intorno
ai fianchi lamine di ferro lucenti; un manto rosso fermato
sulle spalle lasciava libere le braccia; due lunghe perle
pendevano dagli orecchi, e la folta barba nera cadeva sul
petto.
Intanto la galea sballottata tra gli scogli costeggiava il
molo, e la folla la seguiva sul lastricato gridando:
«Salute! Benedizione! Occhio di Khamon! Ah! Liberaci!
È colpa dei Ricchi! Vogliono farti morire! Stai attento,
Barca!».
Lui non rispondeva, come se il clamore degli oceani e
delle battaglie l’avesse reso completamente sordo. Ma
quando fu ai piedi della scalinata che scendeva
dall’Acropoli, Amilcare risollevò la testa, e, con le braccia
incrociate, guardò il tempio di Eshmun. Il suo sguardo
salì ancora più in alto, al grande cielo puro; con voce
aspra gridò un ordine ai suoi marinai; la trireme fece un
balzo in avanti, sfiorando l’idolo eretto all’angolo del
molo per fermare le tempeste; nel porto mercantile pieno
di immondizie, schegge di legno e bucce di frutti,
respingeva, speronava le altre navi ormeggiate ai pali, le
cui prue sembravano mascelle di coccodrillo. Il popolo
accorreva, alcuni si gettarono a nuoto. La trireme era già
in fondo, davanti alla porta irta di chiodi. La porta si alzò
e la trireme sparì sotto la volta profonda.
Il Porto Militare era completamente separato dalla
città; quando giungevano degli ambasciatori, dovevano
passare tra due muraglie, in un corridoio che sboccava a
sinistra, davanti al tempio di Khamon. Questo grande
specchio d’acqua, rotondo come una coppa, era
circondato da banchine dove erano stati costruiti dei
capannoni per accogliervi le navi. Davanti a ogni
capannone c’erano due colonne sormontate da capitelli
adorni di corna di Ammone, che formavano un porticato
continuo tutt’intorno al bacino. Al centro, su un’isola, si
ergeva una casa per il suffeta del mare.
L’acqua era talmente limpida che si scorgeva il
lastricato bianco del fondo. Il rumore delle strade non
giungeva fin là, e Amilcare, passando, riconosceva le
triremi che un tempo aveva comandato.
Non ne restavano più di una ventina, al riparo, a terra,
inclinate su un fianco o dritte sulla chiglia, con poppe
altissime e prue bombate, coperte di dorature e di
simboli mistici. Le chimere avevano perduto le ali, gli dèi
Pateci le braccia, i tori le corna d’argento; e tutti stinti,
inerti, marci, ma pieni di storie e ancora del sapore dei
viaggi, come soldati mutilati che rivedano il proprio
comandante, sembrava che gli dicessero: «Siamo noi!
Siamo noi! E anche tu sei vinto!».
Nessuno, tranne il suffeta del mare, poteva entrare
nella casa ammiraglia. Finché non si aveva la prova della
sua morte, lo si considerava ancora vivo. Gli Anziani, in
questo modo, evitavano un padrone di più, e nel caso di
Amilcare non avevano mancato di rispettare la tradizione.
Il suffeta si inoltrò nelle stanze deserte. A ogni passo
ritrovava armature, mobili, oggetti noti che tuttavia lo
stupivano; nel vestibolo, in un bruciaprofumi c’era
addirittura ancora la cenere degli aromi bruciati alla
partenza per scongiurare Melkarth. Non certo in questo
modo aveva sperato di ritornare! Rivide nella memoria
tutto ciò che aveva fatto, tutto ciò che aveva visto: gli
assalti, gli incendi, le legioni, le tempeste, Trapani,
Siracusa, il Lilibeo, il monte Etna, l’altopiano di Erice,
cinque anni di battaglie, fino al giorno funesto in cui,
deposte le armi, avevano perso la Sicilia. Poi rivedeva i
limoneti, i pastori con le capre sulle montagne grigie; e
gli batteva il cuore al pensiero di fondare laggiù un’altra
Cartagine. I progetti, i ricordi gli ronzavano nella testa,
ancora stordita dal rollio della nave; era oppresso
dall’angoscia, e, divenuto improvvisamente debole, sentì
il bisogno di avvicinarsi agli dèi.
Allora salì all’ultimo piano dell’edificio; poi, estratta da
una conchiglia d’oro appesa a un braccio una spatola
guarnita di chiodi, aprì una cameretta ovale.
Esili rondelle nere, incastrate nella parete e trasparenti
come vetro, la rischiaravano appena. Tra le file di quei
dischi eguali erano scavati dei fori, simili a quelli delle
urne nei colombari. Ogni foro conteneva una pietra
rotonda, scura, che sembrava molto pesante. Solo le
persone di animo superiore potevano onorare questi
abadir1 caduti dalla luna. Con la loro caduta
rappresentavano gli astri, il cielo, il fuoco; con il loro
colore, la notte tenebrosa, e con la loro densità la
coesione delle cose terrestri. Un’atmosfera soffocante
riempiva quel luogo mistico. Sabbia marina, senza
dubbio spinta dal vento attraverso la porta, imbiancava
leggermente le pietre rotonde deposte nelle nicchie.
Amilcare le contò una per una con la punta di un dito;
poi si nascose il viso sotto un velo color zafferano e,
cadendo in ginocchio, si stese per terra con le braccia
aperte.
Dall’esterno, la luce del giorno batteva contro le lamine
di talco nero. Arborescenze, monticelli, vortici, incerte
forme animali si delineavano nel loro diafano spessore; e
la luce arrivava, terribile eppure pacifica, come deve
accadere dietro il sole, nei tristi spazi delle creazioni
future. Amilcare si sforzava di bandire dalla propria
mente tutte le forme, tutti i simboli e i nomi degli dèi,
per cogliere meglio lo spirito immutabile nascosto sotto
le apparenze. Qualcosa delle vitalità planetarie penetrava
in lui, che intanto provava per la morte e per il caso un
disprezzo più consapevole e più intimo. Quando si rialzò,
era pienamente sereno, intrepido, invulnerabile alla
misericordia, alla paura, e siccome si sentiva soffocare
salì sulla cima della torre che dominava Cartagine.
La città digradava disegnando un’ampia curva, con le
sue cupole, i templi, i tetti d’oro, le case, i ciuffi di palme
qua e là, i globi di vetro dai quali scaturivano dei fuochi; i
bastioni formavano una specie di gigantesco orlo di
quella cornucopia che si riversava verso di lui. Scorgeva
in basso i porti, le piazze, l’interno dei cortili, il tracciato
delle vie, gli uomini minuscoli che si muovevano quasi
raso terra. Ah, se Annone non fosse arrivato troppo tardi
quella mattina alle isole Egadi! I suoi occhi si spinsero
all’estremo orizzonte; protese le braccia frementi in
direzione di Roma.
La folla occupava i gradini dell’Acropoli. Sulla piazza di
Khamon ci si accalcava per veder uscire il suffeta, la
terrazza a poco a poco si riempiva di gente; alcuni che lo
avevano riconosciuto lo salutavano; si ritirò, per
provocare meglio l’impazienza del popolo.
Amilcare trovò nella sala, da basso, gli uomini più
importanti del suo partito: Istatten, Subeldia, Ictamon,
Yeuba e altri. Gli raccontarono tutto quello che era
successo dopo la conclusione della pace: l’avarizia degli
Anziani, la partenza dei soldati, il loro ritorno, le loro
richieste, la cattura di Giscone, il furto dello zaimf, Utica
soccorsa e poi abbandonata, ma nessuno osò parlargli
degli avvenimenti che lo riguardavano direttamente. Alla
fine si separarono; si sarebbero rivisti durante la notte
all’assemblea degli Anziani, nel tempio di Moloch.
Erano appena usciti quando all’esterno, alla porta, ci fu
del frastuono. Qualcuno, nonostante i servitori, voleva
entrare; e poiché il baccano aumentava, Amilcare ordinò
di far entrare lo sconosciuto.
Apparve una vecchia Negra, curva, rugosa, tremante,
dall’aria ebete, e avvolta fino ai piedi in larghi veli blu.
Avanzò fino a trovarsi di fronte al suffeta; si scrutarono
l’un l’altra per un po’; improvvisamente Amilcare trasalì;
a un gesto della sua mano, gli schiavi se ne andarono.
Allora, facendole segno di camminare con prudenza, la
condusse per un braccio in una stanza lontana.
La Negra si gettò a terra, ai suoi piedi, per baciarglieli;
ma lui la rialzò in modo brusco.
«Dove l’hai lasciato, Iddibal?»
«Laggiù, padrone». E, liberandosi dei veli, con la
manica si sfregò la faccia; il colore nero, il tremito senile,
il dorso curvo, tutto scomparve. Era un vecchio robusto,
la cui pelle sembrava conciata dalla sabbia, dal vento e
dal mare. Un ciuffo di capelli bianchi si alzava sul cranio
come il pennacchio di un uccello; e con uno sguardo
ironico indicava, a terra, il suo travestimento.
«Hai fatto bene, Iddibal! Va bene!». Poi, quasi
trapassandolo con lo sguardo penetrante: «Nessuno
ancora ha qualche sospetto?...».
Il vecchio gli giurò sui Cabiri che il mistero era
custodito. Non lasciavano mai la capanna a tre giorni da
Adrumeto, costa popolata di tartarughe, con palmizi sulle
dune. «E secondo i tuoi ordini, padrone, gli insegno a
lanciare il giavellotto e a guidare il cocchio!».
«È forte, vero?»
«Sì, padrone, e anche intrepido! Non ha paura né dei
serpenti, né del tuono, né dei fantasmi. Corre a piedi
nudi, come un pastore, sul ciglio dei precipizi».
«Parla! Parla!».
«Inventa trappole per le bestie selvatiche. La luna
scorsa (lo crederesti?) ha sorpreso un’aquila; la
trascinava, e il sangue dell’uccello e il sangue del ragazzo
schizzavano in aria a grandi gocce, come petali di rose
strappati dal vento. La bestia, furiosa, lo avviluppava nei
colpi d’ala; e lui se la stringeva contro il petto, e più la
bestia agonizzava, più le sue risate erano forti, sonore e
orgogliose come un cozzare di spade».
Amilcare abbassò la testa, abbagliato da questi presagi
di grandezza.
«Ma da qualche tempo un’inquietudine lo agita.
Guarda le vele che passano lontane sul mare; è triste,
rifiuta il cibo, fa domande sugli dèi e vuole conoscere
Cartagine».
«No, no! Non ancora!», esclamò il suffeta.
Il vecchio schiavo sembrò consapevole del pericolo che
spaventava Amilcare, e continuò:
«E come trattenerlo? Devo già fargli delle promesse, e
sono venuto a Cartagine solo per comprargli un pugnale
dall’impugnatura d’argento tempestata di perle».
Poi raccontò come, avendo scorto il suffeta sulla
terrazza, si fosse spacciato ai guardiani del porto per una
delle schiave di Salammbô, per poter giungere fino a lui.
Amilcare restò a lungo pensieroso sulle decisioni da
prendere; alla fine disse:
«Domani ti troverai a Megara, al tramonto, dietro le
fabbriche di porpora, e per tre volte imiterai il grido dello
sciacallo. Qualora tu non mi veda, tornerai a Cartagine il
primo giorno di ogni luna. Non dimenticare nulla! Amalo!
Ora puoi parlargli di Amilcare».
Lo schiavo indossò di nuovo il suo travestimento, e
uscirono insieme dalla casa e dal porto.
Amilcare proseguì da solo, a piedi, senza scorta,
perché le riunioni degli Anziani, in circostanze
eccezionali, erano sempre segrete, e vi si andava in modo
misterioso.
All’inizio seguì la facciata orientale dell’Acropoli, poi
attraversò il mercato delle erbe, la galleria di Kinsido, il
quartiere dei profumieri. Le rare luci si spegnevano, le vie
più larghe diventavano silenziose, poi alcune ombre
scivolarono nelle tenebre. Lo stavano seguendo, ne
sopraggiunsero altre, e tutte si dirigevano come lui dalla
parte dei Mappali.
Il tempio di Moloch era costruito ai piedi di una ripida
gola, in un luogo sinistro. Dal basso si scorgevano
soltanto alte muraglie che salivano all’infinito come pareti
di una tomba mostruosa. La notte era cupa, una nebbia
grigiastra sembrava gravare sul mare che batteva contro
la scogliera con un rumore di rantoli e singhiozzi; e le
ombre a poco a poco svanivano come se fossero passate
attraverso i muri.
Ma appena varcata la soglia, ci si trovava in un’ampia
corte quadrangolare, delimitata da arcate. Nel mezzo
sorgeva una mole architettonica a otto lati eguali,
sormontata da cupole che si raccoglievano intorno a un
secondo piano che sosteneva una specie di rotonda, dalla
quale si slanciava in alto un cono a curva rientrante, che
in cima terminava in un globo.
Alcuni fuochi ardevano dentro cilindri in filigrana,
fissati a pertiche sorrette da uomini. Queste luci
vacillavano sotto le raffiche del vento e arrossavano i
pettini d’oro che trattenevano sulla nuca i loro capelli
intrecciati. Essi correvano, si chiamavano per accogliere
gli Anziani.
Qua e là sul pavimento erano accovacciati come sfingi
dei leoni enormi, simboli viventi del Sole divoratore.
Sonnecchiavano con le palpebre socchiuse. Ma, svegliati
dai passi e dalle voci, si alzavano lentamente, si
avvicinavano agli Anziani che riconoscevano dalle vesti, si
fregavano contro le loro gambe inarcando il dorso con
sbadigli sonori; il vapore del loro fiato fluttuava sulle
fiamme delle torce. L’agitazione aumentò, alcune porte si
chiusero, tutti i sacerdoti fuggirono, e gli Anziani
scomparvero sotto le colonne che delimitavano un
vestibolo profondo intorno al tempio.
Le colonne erano disposte in modo da riprodurre, con
i loro cerchi concentrici, il cielo saturnio che contiene gli
anni, e gli anni i mesi, e i mesi i giorni, e alla fine
terminavano, incontrandosi, contro la parete del
santuario.
Era lì che gli Anziani deponevano i loro bastoni di
corno di narvalo, perché una legge sempre rispettata
puniva con la morte chi partecipasse alla riunione con
un’arma qualsiasi. Molti avevano sull’orlo inferiore della
tunica uno strappo fermato con un nastro di porpora, per
far vedere che piangendo la morte dei loro congiunti non
si erano curati delle proprie vesti, e questa testimonianza
di cordoglio impediva allo spacco di allargarsi. Altri
tenevano la barba racchiusa in un sacchetto di pelle viola,
legato agli orecchi con due cordoni. Tutti si avvicinarono
gli uni agli altri abbracciandosi, petto contro petto.
Circondavano Amilcare, si felicitavano con lui;
sembravano fratelli che rivedessero un fratello.
Questi uomini erano generalmente tarchiati, con nasi
ricurvi come quelli dei colossi assiri. Alcuni tuttavia, per
gli zigomi più sporgenti, la statura più alta e i piedi più
stretti, rivelavano un’origine africana, antenati nomadi.
Coloro che passavano la vita nel chiuso delle loro
botteghe erano pallidi in volto; altri conservavano
nell’aspetto la durezza del deserto, e strani gioielli
scintillavano su ogni dito delle loro mani, abbronzate da
soli sconosciuti. Si riconoscevano i navigatori
dall’andatura ondeggiante, mentre gli uomini dediti
all’agricoltura sapevano di frantoio, erbe secche e sudore
di mulo. Questi vecchi pirati facevano lavorare i campi,
questi accumulatori di denaro armavano navi, questi
proprietari di piantagioni nutrivano schiavi che
esercitavano dei mestieri. Tutti erano sapienti nelle
discipline religiose, esperti in stratagemmi, spietati e
ricchi. Sembravano logorati dalle preoccupazioni. I loro
occhi infuocati scrutavano con diffidenza, e l’abitudine ai
viaggi e alle menzogne, ai traffici e al comando, dava a
tutta la loro persona un aspetto di astuzia e di violenza,
una sorta di brutalità discreta e convulsa. Del resto, li
incupiva l’influsso del dio.
Prima attraversarono una sala a volta che aveva la
forma di un uovo. Sette porte, corrispondenti ai sette
pianeti, aprivano sulla parete sette riquadri di colore
diverso. Dopo un lungo corridoio, entrarono in un’altra
stanza uguale.
Sul fondo ardeva un candelabro coperto di fiori
cesellati, e ognuno dei suoi otto bracci d’oro sosteneva,
in un calice di diamante, un lucignolo di bisso; era
sistemato sull’ultimo dei lunghi gradini che salivano a un
grande altare, che agli angoli terminava con corna di
bronzo. Due scale laterali conducevano alla sua piatta
sommità; non si scorgevano le lastre di pietra; era come
una montagna di ceneri accumulate, e, sopra, qualcosa di
indistinto fumava lentamente. Più in là, più in alto del
candelabro, e molto più in alto dell’altare, si innalzava il
Moloch, tutto di ferro, con il suo petto d’uomo in cui si
aprivano delle fenditure. Le sue ali aperte si stendevano
sulla parete, le mani abbandonate scendevano fino a
terra; tre pietre nere, chiuse in un cerchio giallo,
formavano tre pupille sulla fronte, e, come per muggire,
sollevava con uno sforzo terribile la sua testa di toro.
Intorno alla sala erano disposti sgabelli d’ebano, dietro
ognuno dei quali uno stelo di bronzo appoggiato su tre
artigli sosteneva una fiaccola. Tutte queste luci si
riflettevano nelle losanghe di madreperla di cui era
composto il pavimento della sala, e questa era così alta
che il colore rosso delle pareti, salendo verso la volta,
diventava nero, e i tre occhi dell’idolo sembravano, in
alto, stelle perdute nella notte.
Gli Anziani sedettero sugli sgabelli d’ebano, dopo
essersi coperta la testa con un lembo della tunica.
Restavano immobili, con le mani incrociate dentro le
ampie maniche, e il pavimento di madreperla sembrava
un fiume luminoso che, scorrendo dall’altare verso la
porta, passasse sotto i loro piedi nudi.
I quattro pontefici stavano nel mezzo, schiena contro
schiena, su quattro scranni d’avorio disposti a croce, il
gran sacerdote di Eshmun in una veste di giacinto, il gran
sacerdote di Tanit in una veste di lino bianco, il gran
sacerdote di Khamon in una veste di lana fulva, e il gran
sacerdote di Moloch in una veste di porpora.
Amilcare avanzò verso il candelabro. Gli girò intorno,
esaminando i lucignoli che bruciavano, sui quali gettò
una polvere profumata; sulle estremità dei bracci
apparvero fiamme violette.
Allora si alzò una voce acuta, un’altra le rispose; i
cento Anziani, i quattro pontefici, e Amilcare in piedi,
tutti insieme intonarono un inno, e ripetendo sempre le
stesse sillabe e crescendo di tono, le loro voci salivano,
esplosero, divennero terribili, poi, di colpo, tacquero.
Ci fu un’attesa. Infine Amilcare estrasse dalla veste, sul
petto, una piccola statuetta a tre teste, blu come lo
zaffiro, e la pose davanti a sé. Era l’immagine della
Verità, il genio stesso della sua parola. Poi la ripose in
seno, e tutti, come còlti da una collera improvvisa,
gridarono:
«Ecco i tuoi amici Barbari! Traditore! Infame! Torni per
vederci morire, vero? Lasciatelo perdere! No! No!».
Si vendicavano del contegno cui erano stati costretti
dal cerimoniale politico; e sebbene avessero desiderato il
ritorno di Amilcare, ora si indignavano perché non aveva
saputo prevenire i loro disastri o piuttosto non li aveva
subìti come loro.
Quando il tumulto si fu calmato, il pontefice di Moloch
si alzò.
«Noi ti chiediamo perché non sei tornato a Cartagine!»
«E che v’importa!», rispose sdegnosamente il suffeta.
Le loro grida aumentarono.
«Di che mi accusate? Ho forse condotto male la
guerra? Li avete visti i piani delle mie battaglie, voi che
lasciate comodamente a dei Barbari...».
«Basta! Basta!».
Riprese a voce bassa, perché fossero costretti ad
ascoltarlo:
«Oh! È vero! Mi sbaglio, luce dei Baal: ci sono tra voi
dei coraggiosi! Giscone, alzati! Tu puoi accusarmi,
costoro mi difenderanno! Ma dov’è?». Poi, come
ricredendosi: «Ah! Certamente a casa sua, circondato dai
figli, a comandare gli schiavi, felice, a contare sul muro i
collari d’onore che la patria gli ha concesso!».
Gli Anziani si agitavano scuotendo le spalle, come
sotto i colpi di uno staffile.
«Non sapete neppure se è vivo o morto!».
E senza curarsi del clamore diceva che, abbandonando
il suffeta, era la Repubblica che avevano abbandonato.
Quanto alla pace romana, per quanto fosse sembrata loro
vantaggiosa, era più funesta di venti battaglie. Alcuni
applaudirono, i meno ricchi del Consiglio, sospettati di
essere sempre a favore del popolo o della tirannide. I
loro avversari, capi dei Sissizi e amministratori, li
battevano per numero; i più ragguardevoli erano
schierati accanto ad Annone, che stava seduto all’altro
capo della sala, davanti all’alta porta chiusa da una tenda
di giacinto.
Annone si era coperto con del belletto le ulcere del
volto. Ma la polvere d’oro dei capelli gli era caduta sulle
spalle, dove formava due chiazze brillanti, e ora i capelli
sembravano biancastri, fini e crespi, come lana. Fasce
imbevute di un profumo grasso che gocciolava sul
pavimento gli avvolgevano le mani, e la sua malattia
doveva essersi aggravata notevolmente perché gli occhi
scomparivano sotto le pieghe delle palpebre. Per vedere,
doveva rovesciare indietro la testa. I suoi sostenitori lo
incitavano a parlare. Finalmente, con una voce rauca e
orribile:
«Meno arroganza, Barca! Tutti siamo stati vinti!
Ognuno sopporti la propria sventura! Rasségnati!».
«Piuttosto, raccontaci», disse Amilcare sorridendo,
«come hai fatto a condurre le tue galee in mezzo alla
flotta romana!».
«Ero spinto dal vento», rispose Annone.
«Tu fai come il rinoceronte che calpesta i propri
escrementi: emani la tua stupidità! Taci!».
E cominciarono ad accusarsi a vicenda per la battaglia
delle isole Egadi.
Annone accusava Amilcare di non essergli andato
incontro.
«Ma significava sguarnire Erice. Bisognava prendere il
largo; chi te lo impediva? Ah, dimenticavo! Tutti gli
elefanti hanno paura del mare!».
I sostenitori di Amilcare trovarono la battuta così
buona che esplosero in grandi risate. La volta rintronava
come se fossero stati percossi dei timpani.
Annone denunciò l’indegnità di un simile oltraggio; la
malattia gli era venuta perché aveva preso freddo
all’assedio di Ecatompilo, e sul suo viso scorrevano
lacrime come una pioggia d’inverno su un muro in
rovina.
Amilcare continuò:
«Se mi aveste amato quanto avete amato costui, oggi
ci sarebbe grande gioia a Cartagine! Quante volte vi ho
implorato! E sempre mi negavate il denaro!».
«Ne avevamo bisogno», dissero i capi dei Sissizi.
«E quando la nostra situazione era disperata –
abbiamo bevuto l’urina dei muli e mangiato le cinghie dei
sandali –, quando avrei voluto che i fili d’erba fossero
soldati, e trasformare in battaglioni la putredine dei nostri
morti, voi richiamavate le navi che mi restavano!».
«Non potevamo rischiare tutto», rispose Baat-Baal,
proprietario di miniere d’oro nella Getulia Darizia.
«E intanto che facevate qui a Cartagine, nelle vostre
case, dietro le vostre mura? Ci sono Galli sull’Eridano che
bisognava far muovere, Cananei a Cirene che sarebbero
venuti, e mentre i Romani inviavano ambasciatori a
Tolomeo...».
«Ora ci fa l’elogio dei Romani!».
Qualcuno gli gridò:
«Quanto ti hanno pagato per difenderli?»
«Chiedilo alle pianure del Bruzio, alle rovine di Locri,
di Metaponto e di Eraclea!2 Ho bruciato ogni albero, ho
saccheggiato ogni tempio, e fino alla morte dei nipoti dei
loro nipoti...».
«Eh, declami come un retore!», disse Kapura, un
notissimo mercante. «Insomma, cosa vuoi?»
«Dico che bisogna essere più astuti o più feroci! Se
l’Africa intera rifiuta il vostro giogo, è perché, da padroni
deboli, non sapete metterglielo sulla schiena! Agatocle,
Regolo, Cepione,3 tutti gli uomini coraggiosi devono solo
sbarcare per impadronirsene; e quando i Libici che sono
a Oriente si accorderanno coi Numidi che sono a
Occidente, e i Nomadi arriveranno da sud e i Romani da
nord...». Si alzò un grido di orrore.
«Oh, vi battete il petto, vi rotolate nella polvere, vi
strappate i mantelli! Non serve a niente! Bisognerà andare
a girare la mola in Suburra e vendemmiare sulle colline
del Lazio».
Si battevano la coscia destra per rimarcare la loro
indignazione, e le maniche delle tuniche si alzavano come
grandi ali di uccelli impauriti. Amilcare, come trascinato
da un demone, continuava a parlare, in piedi sul gradino
più alto dell’altare, fremente, terribile; alzava le braccia, e
i raggi del candelabro che ardeva dietro di lui gli
passavano tra le dita come giavellotti d’oro.
«Perderete le vostre navi, i vostri campi, i vostri carri, i
vostri letti sospesi, e i vostri schiavi che vi massaggiano i
piedi! Gli sciacalli si stabiliranno nei vostri palazzi, l’aratro
rivolterà le vostre tombe. Non ci sarà più nient’altro che il
grido delle aquile e l’ammucchiarsi delle rovine. Tu
perirai, Cartagine!».
I quattro pontefici stesero le mani per respingere
l’anatema. Tutti si erano alzati in piedi. Ma il suffeta del
mare, magistrato sacerdotale sotto la protezione del Sole,
era inviolabile fino a quando l’assemblea dei Ricchi non
l’avesse giudicato. L’altare emanava terrore.
Indietreggiarono.
Amilcare non parlava più. Con l’occhio fisso e il volto
pallido quanto le perle della sua tiara, ansimava, quasi
atterrito da se stesso, con la mente perduta in visioni
funeree. Dall’altezza in cui si trovava, tutte le fiaccole sui
loro steli di bronzo gli sembravano una grande corona di
fuochi appoggiati sul pavimento; sprigionavano fumi neri
che si perdevano nelle tenebre della volta; per qualche
minuto il silenzio fu così profondo che in lontananza si
udiva il rumore del mare.
Poi gli Anziani cominciarono a interrogarsi. I loro
interessi e la loro esistenza erano minacciati dai Barbari.
Ma non si poteva vincerli senza l’aiuto del suffeta, e
questa considerazione, nonostante il loro orgoglio, fece
loro dimenticare tutte le altre. Presero in disparte i suoi
amici. Ci furono riconciliazioni interessate, sottintesi e
promesse. Amilcare non voleva più immischiarsi in
nessun governo. Tutti lo scongiurarono. Lo supplicavano;
e poiché il termine tradimento ricorreva nei loro discorsi,
si infuriò. L’unico traditore era il Gran Consiglio perché
l’ingaggio dei soldati terminava con la guerra, e a guerra
finita tornavano liberi; addirittura giunse a esaltare la loro
bravura e tutti i vantaggi che ne sarebbero venuti se i
loro interessi fossero stati legati a quelli della Repubblica
con donazioni e privilegi.
Allora Magdassan, ex governatore di province, disse
stralunando gli occhi gialli:
«Veramente, Barca, a forza di viaggiare, sei diventato
un Greco o un Latino, o non so che! Parli di ricompense
per quegli uomini! Muoiano diecimila Barbari piuttosto
che uno solo di noi!».
Gli Anziani approvavano con la testa mormorando:
«Sì, perché preoccuparsene tanto? Se ne trovano
sempre!».
«E ci libera facilmente di loro, vero? Si abbandonano,
come avete fatto in Sardegna. Si dice al nemico quale
strada prenderanno, come nel caso di quei Galli in Sicilia,
oppure si sbarcano in mezzo al mare. Tornando, ho visto
lo scoglio tutto bianco delle loro ossa!».
«Che disgrazia!», disse impudentemente Kapura.
«Ma non sono passati cento volte al nemico?»,
esclamarono gli altri.
Amilcare gridò:
«Perché allora, malgrado le vostre leggi, li avete
richiamati a Cartagine? E quando si trovano nelle vostre
città, poveri e numerosi in mezzo a tutte le vostre
ricchezze, non vi viene neppure in mente di indebolirli
creando divisioni al loro interno! Poi li congedate con le
loro donne e i loro figli, tutti, senza trattenere un solo
ostaggio! Credevate che si sarebbero assassinati tra di
loro per risparmiarvi il dispiacere di mantenere le vostre
promesse? Voi li odiate perché sono forti! E odiate me
ancora di più, perché sono il loro capo! Oh, l’ho sentito
poco fa quando mi baciavate le mani, trattenendovi dal
morderle!».
Se i leoni che dormivano nel cortile fossero entrati
ruggendo, il clamore non sarebbe stato più spaventoso.
Ma il pontefice di Eshmun si alzò e, con le ginocchia
strette, i gomiti sui fianchi, eretto, le mani semiaperte,
disse:
«Barca, Cartagine ha bisogno che tu assuma il
comando generale delle forze puniche, contro i
Mercenari!».
«Rifiuto», rispose Amilcare.
«Ti daremo pieni poteri!», gridarono i capi dei Sissizi.
«No!».
«Senza controllo, senza spartizione, tutto il denaro che
vorrai, tutti i prigionieri, l’intero bottino, cinquanta zeret4
di terra per ogni cadavere di nemico».
«No! No! perché è impossibile vincere con voi!».
«Ha paura di loro!».
«Perché voi siete vili, avari, ingrati, pusillanimi e
pazzi!».
«Se li tiene buoni!».
«Per mettersi alla loro testa», disse qualcuno.
«E attaccarci», disse un altro. E dal fondo della sala
Annone urlò:
«Vuol farsi re!».
Allora saltarono in piedi, rovesciando gli sgabelli e le
torce: corsero in folla verso l’altare; brandivano pugnali.
Ma, frugandosi nelle maniche, Amilcare ne estrasse due
grandi coltellacci; e, curvo, il piede sinistro in avanti, gli
occhi fiammeggianti, i denti stretti, li sfidava, immobile
come il candelabro d’oro.
Insomma, per precauzione, erano venuti armati; e
questo era un crimine; si guardarono l’un l’altro
spaventati. Ma poiché tutti erano colpevoli, ben presto
ognuno si rassicurò; e a poco a poco, voltando la schiena
al suffeta, ridiscesero, rabbiosi per l’umiliazione. Per la
seconda volta indietreggiavano davanti a lui. Rimasero in
piedi per un po’. Molti, che si erano feriti le dita, se le
portavano alla bocca o le avvolgevano piano piano in un
lembo del mantello; e stavano per andarsene quando
Amilcare udì queste parole:
«Eh! È un riguardo per non dispiacere alla figlia!».
Si alzò una voce più forte:
«Certamente, dal momento che quella si sceglie gli
amanti tra i Mercenari!».
Amilcare vacillò, poi i suoi occhi cercarono
rapidamente Shahabarim. Ma il sacerdote di Tanit era
l’unico che fosse rimasto al suo posto; e Amilcare, da
lontano, vide soltanto l’alto copricapo. Tutti gli
sghignazzavano in faccia. Più cresceva la sua angoscia,
più cresceva la loro gioia, e, in mezzo alle grida, quelli
che erano dietro di lui gridavano:
«L’hanno visto uscire dalla sua camera!».
«Una mattina del mese di Tammuz!».5
«È il ladro dello zaimf!».
«Un uomo bellissimo!».
«Più alto di te!».
Si tolse la tiara, insegna della sua dignità – la sua tiara
a otto ordini mistici che aveva al centro una conchiglia di
smeraldo – e con le due mani, con tutta la sua forza, la
scagliò a terra; i cerchi d’oro, spezzandosi, rimbalzarono,
e le perle risuonarono sul pavimento. Videro allora sulla
sua fronte pallida una lunga cicatrice che si agitava come
un serpente tra le sopracciglia; tutte le sue membra
tremavano. Salì una delle scale laterali che portavano
sull’altare; vi camminava sopra! Significava votarsi al dio,
offrirsi in olocausto. Il movimento del suo mantello
agitava le fiamme del candelabro, più in basso dei suoi
sandali, e il pulviscolo sollevato dai suoi passi lo
avvolgeva fino al ventre come una nuvola. Si fermò tra le
gambe del colosso di bronzo. Prese due manciate di
quella polvere la cui sola vista faceva fremere di orrore
tutti i Cartaginesi, e disse:
«Per le cento fiaccole delle vostre intelligenze! Per gli
otto fuochi dei Cabiri! Per le stelle, le meteore e i vulcani!
Per tutto ciò che brucia! Per la sete del deserto e la
salsedine dell’oceano! Per la caverna di Adrumeto e
l’impero delle anime! Per lo sterminio! Per la cenere dei
vostri figli, e la cenere dei fratelli dei vostri avi, con la
quale ora confondo la mia! Voi, i Cento del Consiglio di
Cartagine, voi avete mentito accusando mia figlia! E io,
Amilcare Barca, suffeta del mare, capo dei Ricchi e
dominatore del popolo, davanti a Moloch dalla testa di
toro, giuro...».
Ci si aspettava qualcosa di terribile, ma continuò con
voce più forte e più calma: «... che non gliene parlerò
neppure!».
I servi sacri, che portavano pettini d’oro, entrarono: gli
uni con spugne di porpora e gli altri con rami di palma.
Sollevarono la tenda di giacinto stesa davanti alla porta; e
attraverso l’angolo dell’apertura si scorse, in fondo alle
altre sale, il grande cielo rosa che sembrava continuare la
volta, appoggiandosi all’orizzonte sul mare blu. Il sole
sorgeva, uscendo dai flutti. Improvvisamente colpì il
petto del colosso di bronzo, diviso in sette scomparti
chiusi da griglie. Le sue fauci dai denti rossi si aprivano in
uno sbadiglio orribile; le enormi narici si dilatavano, la
luce del giorno sembrava animarlo, gli dava un aspetto
terribile e impaziente, come se avesse voluto saltare fuori
per unirsi all’astro, il dio, e percorrere insieme le
immensità.
Intanto le torce sparse sul pavimento continuavano a
bruciare gettando qua e là, sulle lastre di madreperla,
riflessi che sembravano chiazze di sangue. Gli Anziani
barcollavano esausti; aspiravano a pieni polmoni l’aria
fresca; il sudore colava sui loro volti lividi; avendo
gridato tanto, non si udivano più tra di loro. Ma la loro
collera contro il suffeta non si era affatto placata; come
per salutarlo, gli lanciavano minacce, e Amilcare
rispondeva:
«Alla prossima notte, Barca, nel tempio di Eshmun!».
«Ci sarò!».
«Ti faremo condannare dai Ricchi!».
«E io dal popolo!».
«Attento a non finire sulla croce!».
«E voi, a non finire fatti a pezzi nelle strade!».
Appena furono sulla soglia del cortile, ripresero un
atteggiamento tranquillo.
Le scorte e i cocchieri li attendevano alla porta. La
maggior parte se ne andò a dorso di mule bianche. Il
suffeta saltò sul suo carro, afferrò le redini; le due bestie,
curvando il collo e colpendo ritmicamente i ciottoli che
rimbalzavano, salirono di gran galoppo l’intera via dei
Mappali, e l’avvoltoio d’argento collocato sulla punta del
timone sembrava che volasse, tale era la velocità del
carro.
La strada attraversava un campo disseminato di lunghe
pietre, aguzze in cima, come piramidi, che avevano
scolpita nel mezzo una mano aperta, come se il morto
che vi giaceva sotto l’avesse alzata verso il cielo per
chiedere qualcosa. Inoltre, vi erano sparse delle capanne
di terra, di frasche, di giunchi, tutte di forma conica.
Muretti di ciottoli, ruscelli d’acqua, cordami di sparto,
siepi di nopale separavano irregolarmente queste
abitazioni che diventavano sempre più fitte a mano a
mano che si saliva verso i giardini del suffeta. Ma
Amilcare fissava lo sguardo su una grande torre i cui tre
piani costituivano tre mostruosi cilindri, il primo di pietra,
il secondo di mattoni, e il terzo interamente di cedro,
quest’ultimo reggeva una cupola di rame appoggiata su
ventiquattro colonne di ginepro, dalle quali pendevano,
come ghirlande, catenelle di bronzo intrecciate. Questo
alto edificio dominava le costruzioni che si stendevano a
destra, i depositi, il fondaco, mentre il palazzo delle
donne sorgeva in fondo ai cipressi, allineati come due
muraglie di bronzo.
Appena il carro fu entrato, rumorosamente, per la
porta stretta, si fermò sotto una grande tettoia dove
alcuni cavalli, legati, mangiavano mucchi di fieno.
Tutti i servi accorsero. Erano molti, perché quelli che
lavoravano nei campi erano stati ricondotti a Cartagine
per paura dei soldati. I contadini, vestiti di pelli,
trascinavano catene fissate alle caviglie; gli operai delle
manifatture di porpora avevano le braccia rosse come
carnefici; i marinai, berretti verdi; i pescatori, collane di
corallo; i cacciatori, una rete in spalla; e la gente di
Megara, tuniche bianche o nere, brache di cuoio, cappelli
di paglia, di feltro o di tela, secondo il loro servizio o la
loro attività.
Dietro si accalcava una plebaglia cenciosa. Erano quelli
che vivevano senz’alcuna occupazione, lontano dalle
abitazioni, di notte dormivano nei giardini, divoravano gli
avanzi delle cucine, muffa umana che vegetava all’ombra
del palazzo. Amilcare li tollerava, più per preveggenza
che per disprezzo. Tutti, in segno di gioia, si erano messi
un fiore all’orecchio, anche se molti di loro non l’avevano
mai visto.
Ma alcuni uomini, acconciati come sfingi e muniti di
grossi bastoni, si lanciarono nella folla colpendo a destra
e a sinistra. Volevano allontanare gli schiavi curiosi di
vedere il padrone, perché non venisse travolto dalla calca
e disturbato dal loro odore.
Allora tutti si gettarono a terra, bocconi, gridando:
«Occhio di Baal, che la tua casa prosperi!». Tra quegli
uomini, stesi a terra in quel modo nel viale dei cipressi,
Abdalonim, l’intendente degli intendenti, con in testa una
mitra bianca e un incensiere in mano, avanzò verso
Amilcare.
In quel momento Salammbô scendeva la scalinata
delle galee. Dietro di lei c’erano tutte le sue schiave; a
ognuno dei suoi passi, anche loro scendevano. Le teste
delle Negre segnavano con grossi punti neri la linea delle
fasce a piastre d’oro che cingevano la fronte delle
Romane. Altre avevano tra i capelli frecce d’argento,
farfalle di smeraldi o lunghi spilloni disposti ad aureola.
Su quella confusione di vesti bianche, gialle e blu,
splendevano gli anelli, i fermagli, le collane, le frange, i
braccialetti; si avvertiva un fruscio di stoffe leggere; si
udiva il calpestio dei sandali e il rumore sordo dei piedi
nudi sul legno; – e, qua e là, un grande eunuco, che le
sovrastava, sorrideva col viso all’aria. Quando le
acclamazioni degli uomini terminarono, tutte insieme,
coprendosi il volto con le maniche, lanciarono un grido
bizzarro, simile all’ululato di una lupa, ed era così furioso
e stridente che sembrava facesse vibrare, come una lira
dall’alto in basso, la grande scalinata d’ebano gremita di
donne.
Il vento sollevava i loro veli, e gli esili steli dei papiri
ondeggiavano lievi. Si era nel mese di Shebat,6 in pieno
inverno. I melograni in fiore si curvavano sull’azzurro del
cielo, e attraverso i rami si vedeva il mare con un’isola in
lontananza, sperduta nella foschia.
Amilcare, vedendo Salammbô, si fermò. Gli era nata
dopo la morte di numerosi figli maschi. Del resto, la
nascita delle figlie era considerata una calamità nelle
religioni del Sole. Gli dèi, più tardi, gli avevano inviato un
figlio; ma ancora conservava nel cuore il risentimento
della sua speranza tradita, e il ricordo della maledizione
pronunciata contro di lei. Intanto Salammbô continuava a
scendere.
Perle di diversi colori le scendevano in lunghi grappoli
dagli orecchi sulle spalle. I capelli erano cotonati, in
modo da simulare una nuvola. Portava intorno al collo
piccole piastre d’oro, quadrangolari, che raffiguravano
una donna tra due leoni rampanti; e il suo abbigliamento
riproduceva in ogni dettaglio quello della dea. La sua
veste di giacinto, a maniche larghe, era stretta in vita e
svasata in basso. Il vermiglio delle sue labbra faceva
sembrare più bianchi i denti, e l’antimonio delle palpebre
le allungava gli occhi. I sandali, di piume d’uccello,
avevano tacchi molto alti; e lei era straordinariamente
pallida, senza dubbio a causa del freddo.
Giunse infine accanto ad Amilcare e, senza guardarlo,
senza alzare la testa, gli disse:
«Salute, Occhio di Baalim, gloria eterna! Trionfo!
Quiete! Soddisfazione! Ricchezza! Da molto tempo il mio
cuore era triste, e la casa languiva. Ma il padrone che
torna è come Tammuz resuscitato; e sotto il tuo sguardo,
padre, ovunque sboccerà la gioia, un’esistenza nuova!».
E prendendo dalle mani di Taanach un vasetto
oblungo nel quale fumava un miscuglio di farina, burro,
cardamomo e vino:
«Bevi d’un fiato», gli disse, «la bevanda del ritorno
preparata dalla tua serva».
Amilcare rispose: «Benedizione su di te!», e prese
meccanicamente il vaso d’oro che lei gli porgeva.
Intanto la osservava con un’attenzione così penetrante
che Salammbô, turbata, balbettò:
«Ti è stato detto, signore...».
«Sì! So tutto!», disse Amilcare a voce bassa.
Era una confessione? O lei stava parlando dei Barbari?
E Amilcare aggiunse qualche frase vaga sulle pubbliche
difficoltà che sperava di risolvere da solo.
«O padre!», esclamò Salammbô. «Non riuscirai a
cancellare l’irreparabile!».
Amilcare indietreggiò, e Salammbô era sorpresa del
suo stupore; perché non pensava affatto a Cartagine, ma
al sacrilegio di cui era rimasta complice. Quell’uomo, che
faceva tremare le legioni e che lei conosceva appena,
l’atterriva come un dio; aveva indovinato, sapeva tutto,
stava per accadere qualcosa di terribile. Gridò: «Grazia!».
Amilcare abbassò la testa, lentamente.
Pur volendo accusarsi, Salammbô non osava aprire le
labbra; e tuttavia soffocava per il bisogno di lamentarsi e
di essere consolata. Amilcare lottava con la voglia di
rompere il suo giuramento. Lo rispettava per orgoglio, o
per paura di porre fine alla sua incertezza; e la guardava
negli occhi, intensamente, per cogliere ciò che lei
nascondeva in fondo al cuore.
A poco a poco, ansimante, Salammbô affondava la
testa fra le spalle, schiacciata dal peso di quello sguardo.
Ora Amilcare era sicuro che fosse caduta tra le braccia di
un Barbaro; fremeva, alzò i due pugni. Salammbô gettò
un grido e cadde tra le braccia delle sue schiave, che le si
strinsero intorno.
Amilcare si girò e si allontanò. Tutti gli intendenti lo
seguirono.
Gli aprirono la porta dei magazzini, ed egli entrò in
una vasta sala circolare dove confluivano, come i raggi di
una ruota sul mozzo, lunghi corridoi che conducevano in
altre sale. Al centro si alzava un disco di pietra, con una
balaustra per sostenere cuscini accatastati su dei tappeti.
All’inizio il suffeta andò avanti e indietro, a grandi
passi rapidi; respirava rumorosamente, pestava i piedi
per terra, si passava una mano sulla fronte come se fosse
infastidito dalle mosche. Poi scosse la testa, e vedendo le
sue ricchezze accumulate si calmò; il suo pensiero,
attratto dalle fughe dei corridoi, andava alle altre sale
piene di tesori più rari. Lastre di bronzo, lingotti
d’argento e barre di ferro si alternavano ai pani di stagno
portate dalle Cassiteridi7 attraverso il Mare Tenebroso; le
gomme dei paesi dei Neri traboccavano dai sacchi di
foglie di palma; e la polvere d’oro, ammucchiata negli
otri, usciva impercettibilmente attraverso le cuciture
troppo vecchie. Sottili filamenti, derivati dalle piante
marine, pendevano tra i lini d’Egitto, di Grecia, di
Taprobane e di Giudea; madrepore simili a fitti cespugli
si ergevano al piede delle pareti; e nell’aria fluttuava un
odore indefinibile che era l’esalazione dei profumi, dei
cuoi, delle spezie e delle piume di struzzo legate in grossi
mazzi appesi alla volta. All’ingresso di ogni corridoio, due
zanne di elefante, in piedi, formavano un arco sopra la
porta congiungendosi per le punte.
Alla fine Amilcare salì sul disco di pietra. Tutti gli
intendenti stavano con le braccia incrociate, a testa bassa,
mentre Abdalonim alzava orgogliosamente la sua mitra
aguzza.
Amilcare interrogò il Capo-delle-navi. Era un vecchio
pilota con le palpebre logorate dal vento, e bianchi
bioccoli di pelo gli scendevano fino alle anche, come se la
spuma delle tempeste gli fosse rimasta sulla barba.
Rispose che aveva mandato una flotta via Gades e
Timiamata, per tentare di raggiungere Eziongaber
doppiando il Corno del Sud e il promontorio degli
Aromi.8
Altri avevano proseguito verso ovest, durante quattro
lune, senza incontrare terra; ma la prua delle navi
s’impigliava nelle alghe, l’orizzonte rimbombava
continuamente per il rumore delle cateratte, nebbie color
sangue oscuravano il sole, una brezza carica di profumi
addormentava gli equipaggi, che ora non potevano dire
nulla perché la loro memoria ne era rimasta sconvolta.
Tuttavia avevano risalito i fiumi degli Sciti, erano
penetrati nella Colchide, nel paese degli Ingrii e degli
Estii, avevano rapito millecinquecento vergini
nell’Arcipelago, e avevano affondato tutti i vascelli
stranieri che navigavano al di là del capo Estrimone,
affinché il segreto delle rotte non fosse svelato. Il re
Tolomeo tratteneva l’incenso di Shesbar; Siracusa,
Elathia, la Corsica e le isole non avevano dato nulla, e a
questo punto il vecchio pilota abbassò la voce per dire
che una trireme era stata catturata a Rusicada dai
Numidi, «Perché stanno con loro, padrone».
Amilcare aggrottò le sopracciglia; poi, con un cenno,
dette la parola al Capo-dei-viaggi; era avvolto in una
veste bruna senza cintura, la testa coperta con una lunga
sciarpa di stoffa bianca che, passandogli davanti alla
bocca, ricadeva dietro una spalla.
Le carovane erano partite regolarmente all’equinozio
d’inverno. Ma, dei millecinquecento uomini diretti
all’estrema Etiopia con ottimi cammelli, otri nuovi e
scorte di tela colorata, uno solo era ricomparso a
Cartagine, gli altri erano morti di stenti oppure impazziti
per il terrore del deserto; costui diceva di aver visto,
molto al di là dell’Harush Nero, oltre gli Ataranti e il
paese delle grandi scimmie,9 reami immensi dove gli
utensili più ordinari sono tutti d’oro, e un fiume color del
latte, largo come un mare; e foreste di alberi blu, colline
di aromi, mostri dal volto umano a vegetare sulle rocce e
le cui pupille, per guardarvi, si schiudono come fiori; poi,
al di là di certi laghi pieni di draghi, montagne di cristallo
che sorreggono il sole. Altri erano ritornati dall’India con
pavoni, pepe e tessuti nuovi. Quanto a coloro che
dovevano acquistare le calcedonie sulla strada delle Sirti e
del tempio di Ammone, senza dubbio erano morti tra le
sabbie. Le carovane della Getulia e di Fazzania 10 avevano
fornito i soliti prodotti; ma per il momento lui, il Capo-
dei-viaggi, non osava prepararne altre.
Amilcare capì; i Mercenari occupavano la campagna.
Con un sordo gemito, si appoggiò sull’altro gomito; e il
Capo-delle-fattorie aveva così paura di parlare che
tremava orribilmente, malgrado le spalle possenti e le
grandi pupille rosse. La sua faccia, camusa come quella
di un mastino, era sormontata da una reticella di fibre
vegetali; portava un cinturone di pelle di leopardo con
tutti i suoi peli, su cui luccicavano due terribili coltellacci.
Appena Amilcare si girò verso di lui, si mise a gridare
invocando tutti i Baal. Non era colpa sua! Non poteva
farci nulla! Era stato attento alle temperature, ai terreni,
alle stelle, aveva fatto piantare al solstizio d’inverno,
aveva fatto potare con la luna calante, aveva sorvegliato
gli schiavi, risparmiato sui loro vestiti.
Ma Amilcare era irritato da tanta loquacità. Fece
schioccare la lingua e l’uomo dai coltellacci si affrettò a
dire:
«Ah, padrone! Hanno saccheggiato tutto! Devastato
tutto! Distrutto tutto! Tremila piedi di alberi tagliati a
Mashala, e a Ubada i granai sfondati, le cisterne riempite
di terra! A Tedes hanno portato via millecinquecento
gommor di farina; a Marazzana hanno ucciso i pastori,
mangiato le greggi, bruciato la tua casa, la tua bella casa
dalle travi di cedro, dove venivi l’estate! Gli schiavi di
Tuburbo, che segavano l’orzo, sono fuggiti sulle
montagne; e gli asini, i bardotti, i muli, i buoi di
Taormina, i cavalli oringi11 ... non ne resta uno solo! Tutti
rubati! È una maledizione! Non sopravviverò!».
Continuava piangendo: «Ah, se tu sapessi com’erano
piene le cantine e rilucenti gli aratri! Ah, che belle greggi!
Ah, che bei tori!...».
Amilcare era soffocato dalla collera, che esplose:
«Taci! Sono dunque povero? Niente bugie! Dite la
verità! Voglio sapere tutto quello che ho perduto, fino
all’ultimo siclo, fino all’ultimo cab!12 Abdalonim, portami
i conti delle navi, quelli delle carovane; quelli delle
fattorie, quelli del palazzo! E se la vostra coscienza non è
tranquilla, sventura su di voi! Uscite!».
Tutti gli intendenti, camminando all’indietro, con i
pugni che sfioravano il suolo, uscirono.
Abdalonim andò a prendere, da uno scaffale incassato
nella parete, corde annodate, strisce di tela o di papiro,
scapole di pecora coperte da una scrittura sottile. Depose
ogni cosa ai piedi di Amilcare, gli mise tra le mani una
cornice di legno con tre fili all’interno sui quali erano
infilate delle sfere d’oro, d’argento e di corno, e
cominciò:
«Centonovantadue case nei Mappali, affittate ai nuovi
Cartaginesi in ragione di una beka13 per luna».
«No, è troppo! Non approfittare dei poveri! E scrivi i
nomi di coloro che ti sembreranno i più coraggiosi,
cercando di sapere se sono legati alla Repubblica! Poi?».
Abdalonim esitava, sorpreso da tanta generosità.
Amilcare gli strappò di mano le strisce di tela.
«Che è questo? Tre palazzi nei pressi di Khamon a
dodici kesitah al mese! Portali a venti! Non voglio che i
Ricchi mi divorino».
L’Intendente degli intendenti, dopo un lungo inchino,
proseguì:
«Prestati a Tigilla, fino alla fine della stagione, due
kikar al tre per cento, interesse marittimo; a Bar-
Melkarth, millecinquecento sicli su pegno di trenta
schiavi. Ma dodici sono morti nelle saline».
«Evidentemente non erano robusti», disse ridendo il
suffeta. «Che importa! Se ha bisogno di denaro, daglielo.
Bisogna sempre prestare, e a interessi diversi, secondo la
ricchezza delle persone».
Allora il servitore si affrettò a leggere tutto quello che
avevano reso le miniere di ferro di Annaba,14 le
peschiere di corallo, le fabbriche di porpora, la
riscossione delle imposte sui Greci residenti,
l’esportazione dell’argento in Arabia dove valeva dieci
volte l’oro, il bottino delle navi, detratta la decima parte
per il tempio della dea. «Ho sempre dichiarato un quarto
di meno, padrone!». Amilcare faceva i conti con le biglie
che tintinnavano sotto le sue dita.
«Basta! Che hai pagato?»
«A Stratonicle di Corinto e a tre mercanti di
Alessandria, su queste lettere (sono state onorate),
diecimila dracme ateniesi e dodici talenti d’oro siriani. Il
mantenimento degli equipaggi ammontando a venti mine
il mese per ogni trireme...».
«Lo so! quante ne sono andate perdute?»
«Ecco il conto su queste lamine di piombo», disse
l’Intendente. «Quanto alle navi noleggiate in comune,
siccome è stato spesso necessario gettare a mare il
carico, le perdite disuguali sono state ripartite secondo il
numero degli associati. Per i cordami presi a prestito
dagli arsenali, e che è stato impossibile restituire, i Sissizi
hanno preteso ottocento kesitah, prima della spedizione
di Utica».
«Ancora loro!», disse Amilcare abbassando la testa. E
rimase per qualche momento come schiacciato sotto il
peso di tutto l’odio che sentiva su di sé:
«Ma non vedo le spese di Megara!».
Abdalonim, impallidendo, andò a prendere da un altro
scaffale delle tavolette di sicomoro legate a mazzi con
corde di cuoio.
Amilcare lo ascoltava, curioso dei dettagli domestici,
calmandosi al suono monotono di quella voce che
elencava cifre; Abdalonim leggeva sempre più
lentamente. D’un tratto lasciò cadere a terra le tavolette
di legno e si gettò a terra lui stesso, bocconi, con le
braccia distese, nella posizione dei condannati. Amilcare,
senza turbarsi, raccolse le tavolette; e le sue labbra si
schiusero e gli occhi si spalancarono quando vide, tra le
spese di un solo giorno, un esorbitante consumo di carni,
pesci, uccelli, vini e aromi, e vasi rotti, schiavi morti,
tappeti rovinati.
Abdalonim, sempre prosternato, gli raccontò del
banchetto dei Barbari. Non aveva potuto sottrarsi alle
disposizioni degli Anziani, e anche Salammbô, del resto,
aveva voluto che si prodigasse il denaro per meglio
accogliere i soldati.
Udendo il nome della figlia, Amilcare si alzò di scatto.
Poi, stringendo le labbra, si accovacciò sui cuscini; ne
strappava le frange con le unghie, ansimante, lo sguardo
fisso.
«Alzati!», disse; e scese.
Abdalonim lo seguiva, con le ginocchia tremanti. Poi,
afferrata una sbarra di ferro, si mise a scalzare
furiosamente le lastre del pavimento. Un disco di legno
saltò via, e apparvero per tutta la lunghezza del corridoio
molti di quei grandi coperchi che chiudevano le fosse in
cui veniva conservato il grano.
«Lo vedi, Occhio di Baal», disse il servitore tremando,
«non hanno ancora preso tutto! Ogni fossa è profonda
cinquanta cubiti ed è piena fino all’orlo! Durante il tuo
viaggio, ne ho fatte scavare negli arsenali, nei giardini,
ovunque! La tua casa è piena di grano, come il tuo cuore
di saggezza».
Un sorriso passò sul volto di Amilcare:
«Va bene, Abdalonim!». Poi, chinandosi al suo
orecchio: «Ne farai venire dall’Etruria, dal Bruzio, da dove
vorrai e a qualunque prezzo! Accumula e custodisci!
Bisogna che io solo possieda tutto il grano di Cartagine».
Poi, quando furono all’estremità del corridoio,
Abdalonim, con una delle chiavi che gli pendevano dalla
cintura, aprì una grande camera quadrangolare, divisa
nel mezzo da pilastri di cedro. Monete d’oro, d’argento e
di bronzo, ordinate su tavole o dentro nicchie, salivano
lungo le quattro pareti fino alle travi del tetto. Enormi
coffe di pelle d’ippopotamo, negli angoli, sostenevano file
di sacchi più piccoli; mucchi di monete di biglione15
formavano monticelli sul pavimento; qua e là, qualche
pila troppo alta era crollata e ora sembrava una colonna
in rovina. Le grandi monete di Cartagine, raffiguranti
Tanit a cavallo sotto una palma, si mescolavano con
quelle delle colonie, contrassegnate da un toro, da una
stella, da un globo o da una falce di luna. E ancora si
vedevano, disposte in mucchi diseguali, monete di ogni
valore, di ogni dimensione, di ogni tempo – da quelle
antiche dell’Assiria, sottili come un’unghia, a quelle
antiche del Lazio più spesse di una mano, ai bottoni di
Egina, alle tavolette di Battriana, alle corte verghe
dell’antica Lacedemone; molte erano coperte di ruggine,
di grasso, verdi per l’acqua o annerite dal fuoco, perché
erano state prese con le reti o dopo gli assedi tra le
macerie delle città. Il suffeta calcolò in fretta se le somme
presenti corrispondevano ai guadagni e alle perdite di cui
era stato informato; e se ne stava andando quando vide
tre giare di bronzo completamente vuote. Abdalonim
voltò la testa in segno di orrore, e Amilcare rassegnato
non disse nulla.
Attraversarono altri corridoi, altre sale, e alla fine
arrivarono davanti a una porta dove, per meglio
custodirla, c’era un uomo legato per la vita a una lunga
catena fissata alla parete, usanza romana da poco
introdotta a Cartagine. La barba e le unghie gli erano
cresciute a dismisura, e ondeggiava da destra a sinistra
con quel movimento continuo che è proprio delle bestie
in cattività. Appena riconobbe Amilcare, gli si lanciò
incontro gridando:
«Grazia, Occhio di Baal! Pietà! Uccidimi! Sono dieci
anni che non vedo il sole! In nome di tuo padre, grazia!».
Amilcare, senza rispondergli, batté le mani, e
apparvero tre uomini; e tutti e quattro insieme, facendo
forza con le braccia, fecero scorrere negli anelli l’enorme
sbarra che chiudeva la porta. Amilcare prese una torcia, e
scomparve nelle tenebre.
Era, a quanto si credeva, il sepolcreto della famiglia;
ma non vi si sarebbe trovato altro che un largo pozzo.
Era stato scavato solo per fuorviare i ladri, e non
nascondeva niente. Amilcare gli passò accanto; poi,
abbassandosi, fece ruotare sui rulli una mola
pesantissima, e attraverso quest’apertura entrò in una
stanza costruita a forma di cono.
Le pareti erano rivestite di lastre di bronzo; nel mezzo,
su un piedistallo di granito, si ergeva la statua di un
Cabiro di nome Alete, che aveva scoperto le miniere nella
Celtiberia. A terra, addossati al basamento, erano
disposti in croce grandi scudi d’oro e straordinari vasi
d’argento, col collo chiuso, di forma stravagante e che
non potevano servire a niente; infatti c’era l’usanza di
fondere in questo modo grandi quantità di metallo
perché fosse quasi impossibile dilapidarle e perfino
spostarle.
Amilcare accese con la torcia una lampada da minatore
fissata al berretto dell’idolo; e, di colpo, luci verdi, gialle,
blu, viola, color vino, color sangue, illuminarono la sala.
Era piena di pietre preziose, raccolte in zucche d’oro
appese come lampadari alle lastre di bronzo, o ancora nei
loro blocchi originari ai piedi delle pareti. Erano callaidi
strappate alle montagne a colpi di fionda, carbonchi
formati dall’urina delle linci, glossopetri caduti dalla luna,
tiani, diamanti, sandastri,16 berilli, le tre varietà del
rubino, le quattro dello zaffiro e le dodici dello smeraldo.
Sfolgoravano, simili a schizzi di latte, a ghiaccioli blu, a
polvere d’argento, e diffondevano la loro luce a chiazze, a
raggi, a stelle. Le ceraunie17 generate dalla folgore
scintillavano accanto alle calcedonie che guariscono dai
veleni. C’erano topazi del monte Zabarca che prevengono
gli spaventi, opali della Battriana che impediscono gli
aborti, e corni di Ammone18 che si mettono sotto il letto
per avere dei sogni.
I fuochi delle pietre e le fiamme della lampada si
riflettevano nei grandi scudi d’oro. Amilcare, in piedi e
con le braccia incrociate, sorrideva, compiaciuto più che
per lo spettacolo per la consapevolezza delle proprie
ricchezze. Erano inaccessibili, inesauribili, infinite. Gli avi,
che dormivano sotto i suoi piedi, trasmettevano al suo
cuore qualcosa della loro eternità. Si sentiva molto vicino
ai geni sotterranei. La sua era una gioia di Cabiro; e i
grandi raggi luminosi che gli colpivano il viso gli
sembravano l’estremità di una rete invisibile che,
attraverso gli abissi, lo legasse al centro del mondo.
Un’idea lo fece trasalire, e, essendosi spostato dietro
l’idolo, andò dritto verso il muro. Poi esaminò tra i
tatuaggi del suo braccio una linea orizzontale con altre
due perpendicolari, che in cifre cananee significava il
numero tredici. Allora contò fino alla tredicesima lastra di
bronzo, e sollevò di nuovo l’ampia manica; stesa la mano
destra, lesse su un altro punto del braccio altre linee più
complicate, mentre faceva scorrere delicatamente le dita
come un suonatore di lira. Infine, con il pollice, batté
sette colpi; e in un solo blocco tutta una parte della
parete ruotò.
Nascondeva una specie di cripta, dove erano racchiusi
oggetti misteriosi, senza nome e di un valore
inestimabile. Amilcare scese i tre gradini; prese in un
bacile d’argento una pelle di lama che galleggiava su un
liquido nero, poi risalì.
Abdalonim riprese allora a camminare davanti a lui.
Batteva in terra il suo lungo bastone adorno di campanelli
intorno al pomo, e davanti a ogni stanza gridava il nome
di Amilcare, seguito da lodi e benedizioni.
Nella galleria circolare dove confluivano tutti i corridoi
erano stati accumulati lungo le pareti travicelli di
algummin, sacchi di lausonia, pani di terra di Lemno19 e
gusci di tartaruga pieni di perle. Il suffeta, passando, li
sfiorava con la veste, senza neppure guardare i
giganteschi pezzi d’ambra, materia quasi divina formata
dai raggi del sole.
Si liberò una nube di vapore odoroso.
«Spingi la porta!».
Entrarono.
Alcuni uomini nudi impastavano, tritavano erbe,
attizzavano carboni, versavano olio nelle giare, aprivano
e chiudevano le piccole celle ovoidali scavate tutt’intorno
nelle pareti e così numerose che la stanza sembrava
l’interno di un alveare. Traboccavano di mirobolano,
bdellio,20 zafferano e violette. Ovunque erano sparse
resine, polveri, radici, fiale di vetro, rami di filipendula,21
petali di rosa; e si soffocava tra i profumi, malgrado i
vortici di fumo dello storace che sfrigolava al centro
sopra un tripode di bronzo.
Il Capo-degli-odori-soavi, pallido e lungo come un
cero, si fece incontro ad Amilcare per schiacciargli tra le
mani un cilindro di metopio,22 mentre altri due uomini
gli sfregavano i talloni con foglie di bàccara.23 Amilcare li
allontanò; erano Cirenei dai costumi infami, tenuti in
considerazione solo per i loro segreti.
Per dimostrare la sua vigilanza, il Capo-degli-odori
offrì al suffeta, in un cucchiaio di elettro,24 un po’di
malòbatro perché lo assaggiasse; poi con una lesina
trafisse tre bezoar25 indiani. Il padrone, che conosceva gli
artifici, prese un corno pieno di balsamo e dopo averlo
accostato ai carboni lo inclinò sulla propria veste; vi
apparve una macchia scura, era una frode. Allora fissò il
Capo-degli-odori e senza una parola gli gettò in faccia il
corno di gazzella.
Per quanto fosse indignato delle falsificazioni
commesse a suo danno, vedendo dei pacchetti di nardo26
che venivano imballati per i paesi d’oltremare, ordinò di
mescolarvi dell’antimonio, allo scopo di aumentarne il
peso.
Poi chiese dove si trovassero tre scatole di psaga,27
per il suo uso personale.
Il Capo-degli-odori confessò di non saperne nulla:
erano venuti dei soldati, con dei coltelli, urlanti; aveva
aperto loro le celle.
«Dunque li temi più di me!», esclamò il suffeta; e
attraverso il fumo le sue pupille, come torce, scintillavano
sul lungo uomo pallido che cominciava a capire.
«Abdalonim! Prima del tramonto lo farai frustare: fallo
a pezzi!».
Quel danno, minore degli altri, l’aveva esasperato;
perché, malgrado tutti gli sforzi per bandirli dalla sua
mente, ritrovava continuamente i Barbari. I loro misfatti
si confondevano con la vergogna di sua figlia, e ce
l’aveva con tutti quelli della casa perché ne erano al
corrente e non gliene parlavano. Ma qualcosa lo spingeva
a sprofondarsi nel suo dolore; e, preso da una rabbia
indagatrice, ispezionò sotto le tettoie, dietro il fondaco, le
provviste di bitume, di legname, di ancore e cordami, di
miele e di cera, il magazzino delle stoffe, le scorte di
viveri, il cantiere dei marmi, il deposito del silfio.
Andò dall’altro lato dei giardini a ispezionare, nelle
loro capanne, gli artigiani domestici di cui si vendevano i
prodotti. C’erano sarti che ricamavano mantelli, altri
intrecciavano reti, altri ancora rifinivano cuscini,
tagliavano sandali, alcuni operai d’Egitto lisciavano i
papiri con una conchiglia; la spola dei tessitori
schioccava, le incudini degli armaioli risuonavano.
Amilcare disse loro:
«Forgiate spade! Continuate a forgiarne! Me ne
serviranno». Ed estrasse dal petto la pelle d’antilope
macerata nei veleni, perché gliene tagliassero una corazza
più forte di quelle di bronzo, inattaccabile dal ferro e dal
fuoco.
Appena si avvicinava agli operai, Abdalonim, per
distrarne la collera, cercava di irritarlo contro costoro
denigrando il loro lavoro con dei mugugni. «Ma che
modo di lavorare! È una vergogna! Il padrone è davvero
troppo buono». Amilcare, senza ascoltarlo, andava oltre.
Rallentò il passo, perché dei grandi alberi carbonizzati
da cima a fondo, come se ne vedono nei boschi dove si
sono accampati i pastori, sbarravano il cammino; le
palizzate erano spezzate, l’acqua dei canali si disperdeva,
cocci di vetri e ossa di scimmie apparivano nelle pozze
fangose. Qualche brandello di stoffa pendeva qua e là dai
cespugli; sotto i limoni, i fiori marciti formavano una
specie di letame giallo. In effetti i servitori, credendo che
il padrone non sarebbe più tornato, avevano
abbandonato tutto.
A ogni passo scopriva qualche nuovo disastro,
un’ulteriore prova di quella cosa che si era vietato di
sapere. Ecco che adesso imbrattava gli stivaletti di
porpora camminando tra le immondizie; e non aveva
quegli uomini davanti a sé, tutti su una catapulta, per
farli volare in mille pezzi! Si sentiva umiliato per averli
difesi; era una truffa, un tradimento; e poiché non poteva
vendicarsi né dei soldati, né degli Anziani, né di
Salammbô, né di nessuno, e doveva sfogare la sua
collera su qualcuno, in un sol colpo condannò al lavoro
nelle miniere tutti gli schiavi dei giardini.
Abdalonim aveva i brividi ogni volta che lo vedeva
avvicinarsi ai recinti degli animali. Ma Amilcare prese il
sentiero del mulino, dal quale si udiva uscire una lugubre
melopea.
In mezzo alla polvere giravano le pesanti macine, cioè
due coni di porfido sovrapposti, di cui il più alto,
provvisto di un imbuto, ruotava sull’altro per mezzo di
robuste stanghe. Alcuni uomini spingevano col petto e
con le braccia, mentre altri, aggiogati, tiravano. Lo
sfregamento delle cinghie di cuoio aveva formato intorno
alle loro ascelle delle croste purulente come se ne vedono
sul garrese dei somari, e lo straccio nero e floscio che
copriva appena le loro reni penzolando per un lembo
batteva sui garretti come una lunga coda. I loro occhi
erano rossi, le catene ai piedi sferragliavano, tutti i loro
petti ansimavano insieme. Avevano sulla bocca una
museruola, fissata con due catenelle di bronzo, in modo
che fosse loro impossibile mangiare la farina, e le mani
erano strette in manopole senza dita perché non
potessero prenderla.
All’ingresso del padrone, le stanghe di legno
cigolarono più forte. Il grano strideva frantumandosi.
Molti caddero in ginocchio; gli altri, continuando,
passavano sui loro corpi.
Chiese di Giddenem, il governatore degli schiavi; e
questo personaggio apparve, esibendo la sua importanza
attraverso la ricchezza delle vesti; infatti la sua tunica,
aperta sui fianchi, era di porpora fine; pesanti anelli
erano appesi agli orecchi, e, per tenere unite le fasce di
stoffa che gli avvolgevano le gambe, un laccio d’oro,
come un serpente intorno a un albero, saliva dalle
caviglie alle anche. Teneva tra le dita, cariche di anelli,
una collana di grani di giaietto per riconoscere gli uomini
affetti dal morbo sacro.28
Amilcare gli fece segno di togliere le museruole. Allora
tutti, con grida di bestie affamate, si precipitarono sulla
farina, che divoravano affondando la faccia nei mucchi.
«Li sfinisci!», esclamò il suffeta.
Giddenem rispose che bisognava farlo per domarli.
«Non valeva la pena che ti mandassi a Siracusa alla
scuola degli schiavi. Fai venire gli altri!».
E i cuochi, i cantinieri, i palafrenieri, i lettighieri, gli
addetti ai bagni e le donne con i loro bambini, tutti si
schierarono nel giardino su una sola linea, dal fondaco
fino al recinto delle belve. Trattenevano il respiro. Un
silenzio enorme riempiva Megara. Il sole si allungava
sulla laguna, sotto le Catacombe. I pavoni pigolavano.
Amilcare camminava a passi lenti.
«Che ci faccio con questi vecchi?», disse. «Vendili!
Troppi Galli; sono degli ubriaconi! E troppi Cretesi; sono
bugiardi! Comprami dei Cappadoci, degli Asiatici e dei
Negri».
Si stupì del piccolo numero dei bambini.
«Ogni anno, Giddenem, la casa deve avere le sue
nascite! Lascerai aperte ogni notte le loro capanne,
perché possano accoppiarsi in libertà».
Poi si fece indicare i ladri, i pigri, i ribelli. Distribuiva
punizioni, e rimproveri a Giddenem; e Giddenem, come
un toro, chinava la fronte bassa sulla quale
s’incontravano le due folte sopracciglia.
«Guarda, Occhio di Baal», disse indicando un Libico
robusto. «Eccone uno che è stato sorpreso con la corda
al collo».
«Ah! Vuoi morire?», chiese sdegnoso il suffeta.
E lo schiavo, con tono intrepido:
«Sì!».
Allora, senza preoccuparsi dell’esempio né del danno
economico, Amilcare disse ai servi:
«Portatelo via!».
Forse pensava a un sacrificio. Era una sventura che si
procurava per prevenirne altre più terribili.
Giddenem aveva nascosto i mutilati dietro gli altri.
Amilcare li vide:
«Chi ti ha tagliato il braccio?»
«I soldati, Occhio di Baal».
Poi, a un Sannita che zoppicava come un airone ferito:
«E te, chi ti ha conciato così?».
Era stato il governatore, che gli aveva spezzato la
gamba con una sbarra di ferro.
Quell’atrocità idiota indignò il suffeta; e, strappando
dalle mani di Giddenem la sua collana di giaietto:
«Maledetto il cane che ferisce il gregge. Storpiare degli
schiavi, bontà di Tanit! Ah! Tu rovini il tuo padrone!
Affogatelo nel letame! E quelli che ti mancano? Dove
sono? Li hai assassinati d’accordo con i soldati?».
L’espressione del suo volto era così terribile che tutte
le donne fuggirono. Gli schiavi, indietreggiando,
formavano un grande cerchio intorno a loro; Giddenem
gli baciava freneticamente i sandali; Amilcare, in piedi,
restava immobile con le braccia alzate su di lui.
Ma, lucidissimo come nel pieno di una battaglia, ora si
ricordava mille cose odiose, tutte le ignominie dalle quali
aveva distolto lo sguardo; e, alla luce della sua collera,
come ai bagliori di un uragano, rivedeva tutti insieme i
suoi disastri. I governatori delle campagne erano fuggiti
per paura dei soldati, forse per connivenza; tutti lo
ingannavano, da troppo tempo si tratteneva.
«Portateli qui!», gridò. «Marchiateli sulla fronte col
ferro rovente, come si fa con i vigliacchi!».
Allora furono portati, e sparsi in mezzo al giardino,
ritorte, gogne, coltelli, catene per i condannati alle
miniere, ceppi per stringere le gambe, numelle per
stringere le spalle, e scorpioni cioè staffili a tre strisce di
cuoio che terminavano con uncini di bronzo.
Tutti furono messi con la faccia al sole, in direzione di
Moloch divoratore, stesi per terra sul ventre o sulla
schiena; e i condannati alla flagellazione, in piedi contro
gli alberi, affiancati da due uomini, uno per contare i
colpi e l’altro per frustare.
Frustava a due braccia; le corregge, sibilando,
facevano volare la corteccia dei platani. Il sangue si
spargeva a pioggia sul fogliame, e forme rosse si
contorcevano urlando ai piedi degli alberi. Coloro ai quali
venivano messi i ferri si straziavano il volto con le
unghie. Si udivano cigolare le viti di legno;
rimbombavano sordi colpi; talvolta un grido acuto,
improvviso, fendeva l’aria. Dalla parte delle cucine, tra
vesti stracciate e capigliature disfatte, alcuni uomini
ravvivavano i carboni con dei ventagli, e si sentiva odore
di carne bruciata. I flagellati svenivano, ma trattenuti
dalle corde che legavano le loro braccia, rovesciavano la
testa sulle spalle chiudendo gli occhi. Gli altri, che
guardavano, si misero a gridare per lo spavento, e i
leoni, forse ricordandosi del banchetto, si stiravano
sbadigliando sul bordo delle fosse.
Si vide allora Salammbô, sulla piattaforma della sua
terrazza. La attraversava veloce, da destra a sinistra,
sconvolta. Amilcare la scorse. Gli sembrò che alzasse le
braccia verso di lui per chiedere grazia; ma con un gesto
di orrore si inoltrò nel recinto degli elefanti.
Questi animali erano l’orgoglio delle grandi famiglie
puniche. Avevano trasportato gli avi, trionfato nelle
guerre, ed erano venerati come prediletti del Sole.
Quelli di Megara erano i più forti di Cartagine.
Amilcare, prima di partire, aveva preteso da Abdalonim il
giuramento che li avrebbe sorvegliati. Ma erano morti per
le loro mutilazioni; e ne restavano soltanto tre, sdraiati in
mezzo al cortile, nella polvere, davanti alla mangiatoia in
frantumi.
Lo riconobbero e gli andarono incontro.
Uno aveva le orecchie orribilmente spaccate, un altro
aveva una larga piaga al ginocchio, e il terzo aveva la
proboscide mozzata.
Lo guardavano con un’aria triste, come creature
ragionevoli; e quello che non aveva più la proboscide,
chinando l’enorme testa e piegando le zampe, cercava di
accarezzarlo teneramente con l’orrenda estremità del suo
moncherino.
A quella carezza dell’animale, gli sgorgarono due
lacrime dagli occhi. Saltò addosso a Abdalonim.
«Ah, miserabile! La croce! La croce!».
Abdalonim, svenendo, si rovesciò a terra.
Dietro le fabbriche di porpora, dalle quali salivano al
cielo lente volute di fumo blu, risuonò il latrato di uno
sciacallo; Amilcare si fermò.
Il pensiero del figlio, come il richiamo di un dio, lo
aveva calmato immediatamente. Intravedeva un
prolungamento della sua forza, una continuazione
indefinita della sua persona, e gli schiavi non capivano da
dove gli fosse venuta quella quiete.
Dirigendosi verso le fabbriche di porpora, passò
davanti all’ergastolo, lungo edificio di pietra nera
costruito dentro una fossa quadrata con un sentiero
tutt’intorno e quattro scalini agli angoli.
Per completare il suo segnale, Iddibal aspettava
sicuramente la notte. C’è tempo, pensava Amilcare; e
scese nella prigione. Qualcuno gli gridò: «Torna
indietro!». I più coraggiosi lo seguirono.
La porta aperta sbatteva al vento. Il crepuscolo entrava
attraverso le strette feritoie, e all’interno si distinguevano,
appese alle pareti, delle catene spezzate.
Era tutto ciò che restava dei prigionieri di guerra.
Allora Amilcare impallidì, e coloro che erano sporti in
fuori sulla fossa videro che si appoggiava con una mano
al muro per non cadere.
Ma lo sciacallo abbaiò, tre volte di seguito. Amilcare
rialzò la testa; non disse una parola, non fece un gesto.
Poi, quando il sole fu completamente tramontato,
scomparve dietro la siepe di nopale, e la sera,
all’assemblea dei Ricchi, nel tempio di Eshmun, entrando
disse:
«Luci dei Baalim, accetto il comando delle forze
puniche contro l’esercito dei Barbari!».
VIII
La battaglia del Macar

L’indomani Amilcare Barca si fece consegnare dai Sissizi


duecentoventitremila kikar d’oro, e decretò un’imposta di
quattordici shekel a carico dei Ricchi. Anche le donne
contribuirono; si pagava per i figli e, cosa incredibile
nelle usanze cartaginesi, costrinse i collegi dei sacerdoti a
fornire denaro.
Requisì tutti i cavalli, tutti i muli, tutte le armi.
Qualcuno tentò di nascondere le sue ricchezze: ne fece
vendere i beni; e, per dissuadere l’avarizia degli altri,
donò personalmente sessanta armature e
millecinquecento gommor di farina, quanti ne dava la
Compagnia dell’avorio.
Mandò gente in Liguria a reclutare soldati: tremila
montanari abituati a combattere con gli orsi; furono
pagati anticipatamente, per sei lune, a quindici mine il
giorno.
Aveva assolutamente bisogno di un esercito. Ma non
accettò, come Annone, tutti i cittadini. Innanzitutto rifiutò
quelli che facevano un lavoro sedentario, poi quelli che
avevano una pancia eccessiva o l’aspetto pusillanime; e
ammise uomini malfamati, la marmaglia di Megara, figli
di Barbari, schiavi affrancati. Come ricompensa, promise
ai nuovi Cartaginesi i pieni diritti di cittadinanza.
Sua prima cura fu la riforma della Legione. Quei bei
giovani che si consideravano la maestà militare della
Repubblica, si governavano da soli. Esautorò i loro
ufficiali; li trattò con durezza, li faceva saltare, salire d’un
fiato il pendio di Birsa, lanciare il giavellotto, lottare
corpo a corpo, dormire la notte sulle piazze. Le loro
famiglie venivano a vederli e li compiangevano.
Ordinò spade più corte, calzari più forti. Stabilì il
numero dei servi e ridusse i bagagli; e poiché nel tempio
di Moloch erano custoditi trecento pili romani, malgrado
le proteste del pontefice li requisì.
Con quelli che erano tornati da Utica e altri che
appartenevano a privati, organizzò una falange di
settantadue elefanti e li rese terribili. Armò i loro
conduttori di una mazza e di uno scalpello, per spezzare
loro il cranio nel caso che in una mischia sfuggissero al
controllo.
Non permise che i suoi generali fossero nominati dal
Gran Consiglio. Gli Anziani cercavano di opporgli le leggi,
ma lui andava avanti; nessuno osava più mormorare,
tutto si piegava sotto la violenza del suo genio.
Si occupava da solo della guerra, del governo e delle
finanze; e, per prevenire le accuse, chiese come revisore
dei conti il suffeta Annone.
Fece rafforzare i bastioni e, per procurarsi le pietre,
fece demolire le vecchie mura interne, ormai inutili. Ma la
differenza delle ricchezze, sostituendo la gerarchia delle
razze, continuava a separare i figli dei vinti da quelli dei
vincitori; così i patrizi erano irritati dalla distruzione di
quei ruderi, mentre la plebe, senza sapere bene perché,
se ne rallegrava.
Le truppe in armi sfilavano, dalla mattina alla sera,
nelle strade; in ogni momento si udiva il suono delle
trombe; passavano carri che trasportavano scudi, tende,
picche: i cortili erano pieni di donne che preparavano
strisce di tela; l’ardore dell’uno si comunicava all’altro;
l’anima di Amilcare riempiva la Repubblica.
Aveva diviso i soldati in numeri pari, avendo cura di
alternare in ogni fila un uomo forte e uno debole,
affinché il meno vigoroso o il più codardo fosse condotto
e sospinto dagli altri due. Ma con i suoi tremila Liguri e i
migliori di Cartagine riuscì a mettere insieme solo una
falange semplice di quattromilanovantasei opliti, protetti
da elmi di bronzo, che maneggiavano sarisse di frassino
lunghe quattordici cubiti.
Duemila giovani portavano fionde, un pugnale e
sandali. Li rafforzò con altri ottocento, armati di uno
scudo rotondo e di una spada alla romana.
La cavalleria pesante era composta dalle
millenovecento guardie che restavano della Legione,
rivestite di lamine di bronzo dorato, come i Clinabari1
assiri. Aveva inoltre quattrocento arcieri a cavallo, di
quelli che erano chiamati Tarantini, con berretti di pelo di
donnola, un’ascia a doppio taglio e una tunica di cuoio.
Infine milleduecento Negri del quartiere delle carovane,
mescolati ai Clinabari, dovevano correre a fianco degli
stalloni, reggendosi con una mano alla criniera. Tutto era
pronto, eppure Amilcare non partiva.
Spesso, di notte, usciva da Cartagine, da solo,
spingendosi oltre la laguna, verso le foci del Macar. 2
Voleva unirsi ai Mercenari? I Liguri accampati sui Mappali
circondavano la sua casa.
Le apprensioni dei Ricchi sembrarono giustificate
quando un giorno si videro avvicinarsi alle mura trecento
Barbari. Il suffeta fece aprire loro le porte; erano dei
transfughi; correvano dal loro padrone, spinti dal timore
o dalla fedeltà.
Il ritorno di Amilcare non aveva affatto sorpreso i
Mercenari; erano convinti che quell’uomo non potesse
morire. Tornava per mantenere le sue promesse:
speranza che non aveva niente di assurdo, tanto
profondo era l’abisso tra la patria e l’esercito. Del resto,
non si consideravano colpevoli; il banchetto era ormai
dimenticato.
Le spie che catturarono li disillusero. Per i più accaniti
fu un trionfo; anche i più tiepidi si infuriarono. E poi i
due assedi li opprimevano di noia; non accadeva niente;
era meglio una battaglia! Così molti uomini si
sbandavano, correvano la campagna. Alla notizia dei
nuovi armamenti, ritornarono; Mâtho ne fu felice.
«Finalmente! Finalmente!», gridò.
Allora il rancore che provava nei confronti di
Salammbô si rivolse contro Amilcare. Ora il suo odio
scorgeva una preda ben definita; e poiché la vendetta era
più facilmente concepibile, credeva di averla in pugno, e
già se ne compiaceva. Nello stesso tempo era invaso da
una tenerezza più intensa, divorato da un desiderio più
penetrante. Di volta in volta si vedeva in mezzo ai soldati,
brandendo su una picca la testa del suffeta, poi nella
camera dal letto di porpora, stringendo la vergine tra le
sue braccia, coprendole il viso di baci, passandole le mani
tra i lunghi capelli neri; e questa fantasia che sapeva
irrealizzabile lo torturava. Poiché i suoi compagni
l’avevano nominato shalishim, giurò a se stesso di
condurre la guerra; la certezza che non ne sarebbe
tornato lo spingeva a renderla spietata.
Andò da Spendio, e gli disse:
«Raccogli i tuoi uomini! Io porterò i miei. Avverti
Autarito! Se Amilcare ci attacca siamo perduti! Mi senti?
Alzati!».
Spendio rimase stupito per quel tono imperioso. In
genere Mâtho si lasciava condurre, e le sue ire duravano
poco. Ma ora sembrava insieme più calmo e più terribile;
gli lampeggiava negli occhi una volontà superba, simile
alla fiamma di un sacrificio.
Il Greco non era d’accordo. Viveva in una tenda
cartaginese dagli orli di perle, beveva bevande fresche
nelle coppe d’argento, giocava al cottabo, si lasciava
crescere i capelli e conduceva l’assedio con lentezza. Del
resto, aveva stabilito certi accordi segreti all’interno della
città e non voleva partire, sicuro che in pochi giorni le
porte si sarebbero aperte.
Narr’Havas, che si aggirava tra i tre eserciti, in quel
momento era presso di lui. Si disse d’accordo con
Spendio, e addirittura accusò il Libico di voler
abbandonare la loro impresa, per eccesso di coraggio.
«Vattene se hai paura!», gridò Mâtho. «Ci avevi
promesso pece, zolfo, elefanti, fanteria, cavalli! Dove
sono?».
Narr’Havas gli ricordò che aveva sterminato le ultime
coorti di Annone; quanto agli elefanti, li stavano
cacciando nei boschi, la fanteria la stava armando,
mentre i cavalli erano in viaggio; e il Numida,
accarezzando la piuma di struzzo che gli ricadeva sulla
spalla, roteava gli occhi come una donna e sorrideva in
modo irritante. Mâtho, davanti a lui, non sapeva cosa
rispondere.
Ma entrò un uomo che nessuno conosceva, madido di
sudore, stravolto, con i piedi sanguinanti, la cintura
slacciata; un respiro affannoso gli scuoteva i magri
fianchi fino a farli scoppiare, e parlando in un dialetto
incomprensibile spalancava gli occhi, come se stesse
raccontando una battaglia. Il re saltò fuori e chiamò i
suoi cavalieri.
Si schierarono nella pianura, formando un cerchio
davanti a lui. Narr’Havas, a cavallo, chinava la testa e si
mordeva le labbra. Poi divise gli uomini in due metà,
disse alla prima di aspettarlo; quindi, lanciando gli altri al
galoppo con un gesto imperioso, scomparve all’orizzonte,
in direzione delle montagne.
«Padrone!», mormorò Spendio. «Non mi piacciono
questi avvenimenti straordinari, il suffeta che ritorna,
Narr’Havas che se ne va...».
«Eh! che importa?», disse Mâtho sprezzante.
Era una ragione di più per prevenire Amilcare
raggiungendo Autarito. Ma se si fosse abbandonato
l’assedio della città, i loro abitanti sarebbero usciti, li
avrebbero attaccati alle spalle, con i Cartaginesi di fronte.
Dopo lunghe discussioni, furono prese e immediatamente
attuate le seguenti decisioni.
Spendio con quindicimila uomini raggiunse il ponte
costruito sul Macar, a tre miglia da Utica; ne furono
fortificati gli angoli con quattro enormi torri munite di
catapulte. Con tronchi d’albero, massi di roccia, grovigli
di spine e muri di pietre, furono chiusi tutti i sentieri e
tutte le gole delle montagne; sulle cime fu ammucchiata
erba da bruciare, per le segnalazioni, e vi furono
appostati, di vedetta, dei pastori dalla vista buona.
Era fuori discussione che Amilcare non sarebbe
passato, come Annone, per la Montagna delle Acque
Calde. Non poteva non pensare che Autarito, padrone
dell’interno, gli avrebbe sbarrato la strada. E uno scacco
proprio all’inizio della campagna lo avrebbe perduto,
mentre una vittoria non sarebbe stata definitiva dal
momento che i Mercenari erano più lontani. Avrebbe
potuto sbarcare al Capo dell’Uva,3 e da lì marciare su una
delle città. Ma in questo caso si sarebbe trovato tra i due
eserciti, imprudenza che non poteva commettere con
forze poco numerose. Dunque doveva costeggiare la base
dell’Ariana, quindi piegare a sinistra per evitare le foci del
Macar e venire dritto in direzione del ponte. Ed era qui
che Mâtho lo aspettava.
La notte, alla luce delle torce, sorvegliava i guastatori.
Correva a Ippozarito, alle fortificazioni di montagna,
ritornava, non si riposava. Spendio invidiava la sua forza;
ma per quanto riguardava l’attività delle spie, la scelta
delle sentinelle, l’arte delle macchine da guerra e tutti gli
strumenti di difesa, Mâtho ascoltava docilmente il suo
compagno; e non parlavano più di Salammbô, l’uno
perché non ci pensava più, e l’altro perché trattenuto da
una sorta di pudore.
Spesso Mâtho andava in direzione di Cartagine per
cercare di scorgere le truppe di Amilcare. Con lo sguardo
fisso all’orizzonte, si sdraiava bocconi, e nel sordo battito
delle sue arterie credeva di sentire un esercito.
Disse a Spendio che se Amilcare non fosse giunto
entro tre giorni, gli sarebbe andato incontro con tutti gli
uomini, a dare battaglia. Passarono altri due giorni.
Spendio lo tratteneva; la mattina del sesto partì.

I Cartaginesi non erano meno impazienti dei Barbari;


volevano combattere. Nelle tende e nelle case c’era lo
stesso desiderio, la stessa angoscia; tutti si chiedevano
cosa mai impedisse la partenza di Amilcare.
Di tanto in tanto egli saliva sulla cupola del tempio di
Eshmun, accanto all’Annunciatore-delle-lune, e scrutava il
vento.
Un giorno, era il terzo del mese di Tibby, 4 lo videro
scendere di corsa dall’Acropoli. Un grande clamore salì
dai Mappali. In poco tempo le strade si riempirono di
folla, e ovunque i soldati cominciavano ad armarsi in
mezzo alle donne che in lacrime si gettavano sui loro
petti; poi correvano veloci a schierarsi sulla piazza di
Khamon. Era proibito seguirli, perfino parlar loro e
avvicinarsi ai bastioni; per qualche minuto la città fu
silenziosa come una grande tomba. I soldati, appoggiati
alle lance, erano pensierosi, e gli altri, nelle case,
sospiravano.
Al tramonto l’esercito uscì dalla porta occidentale; ma
invece di prendere la strada di Tunisi o di raggiungere le
montagne in direzione di Utica, proseguì lungo la riva del
mare; e ben presto raggiunse la laguna, dove chiazze
rotonde, bianche di sale, luccicavano come giganteschi
piatti d’argento, dimenticati sulla riva.
Poi le pozze d’acqua si moltiplicarono. Il terreno
diventava sempre più molle, i piedi vi affondavano.
Amilcare non si voltava indietro. Procedeva sempre alla
testa; e il suo cavallo, maculato di giallo come un drago,
schizzando schiuma intorno, avanzava nel fango a gran
colpi di reni. Scese la notte, una notte senza luna. Alcuni
gridarono che si andava a morire; furono tolte loro le
armi, furono date agli schiavi. Intanto il fango era
sempre più profondo. Bisognò montare sulle bestie da
soma; altri si aggrappavano alla coda dei cavalli; i robusti
tiravano i deboli, e il corpo dei Liguri spronava la fanteria
con la punta delle picche. L’oscurità si fece più fitta.
Avevano perduto la strada. Tutti si fermarono.
Allora alcuni schiavi del suffeta corsero avanti a
rintracciare i segnali che per suo ordine erano stati
piantati di tanto in tanto. Gridavano nel buio, e a distanza
l’esercito li seguiva.
Finalmente il terreno tornò a essere compatto. Poi si
delineò una vaga curva biancastra, e si ritrovarono sulla
riva del Macar. Malgrado il freddo, non furono accesi
fuochi.
A metà della notte si alzarono raffiche di vento.
Amilcare fece svegliare i soldati, ma senza suonare
neppure una tromba: i loro capitani li toccavano
leggermente su una spalla.
Un uomo di grande statura scese nell’acqua. Non gli
arrivava alla cintura; si poteva passare.
Il suffeta ordinò che trentadue elefanti fossero piazzati
nel fiume cento passi a monte, mentre gli altri, più a
valle, avrebbero fermato le linee di uomini che fossero
state travolte dalla corrente; e tutti, tenendo le armi
sollevate sopra la testa, attraversarono il Macar come tra
due muri. Aveva notato che il vento di ponente muoveva
la sabbia, ostruendo il fiume e formando un argine
naturale per tutta la sua larghezza.
Ora si trovava sulla riva sinistra di fronte a Utica, in
una vasta pianura, un vantaggio per gli elefanti che
costituivano il punto di forza del suo esercito.
Questo colpo di genio entusiasmò i soldati; ripresero
una grande fiducia. Ora volevano attaccare subito i
Barbari; ma il suffeta li fece riposare per due ore.
Quando sorse il sole, furono schierati nella pianura su tre
linee: prima gli elefanti, poi la fanteria leggera con la
cavalleria, e infine la falange.
I Barbari accampati a Utica, e i quindicimila intorno al
ponte, furono sorpresi di veder ondeggiare la terra in
lontananza. Il vento che soffiava molto forte sollevava
vortici di sabbia; si alzavano come strappati dal suolo,
salivano in grandi cortine bionde, si squarciavano e
ricominciavano continuamente, nascondendo ai Mercenari
l’esercito punico. A causa delle corna sugli elmi, alcuni
credevano di scorgere una mandria di buoi; altri,
ingannati dall’agitazione dei mantelli, sostenevano di
scorgere delle ali; e quelli che avevano viaggiato molto,
alzando le spalle spiegavano tutto con le illusioni del
miraggio. Intanto, qualcosa di enorme continuava ad
avanzare. Piccoli vapori, esili come fiati, correvano sulla
superficie del deserto; il sole, ora più alto, splendeva:
una luce cruda, e che sembrava vibrare, aumentava la
profondità del cielo, e, penetrando gli oggetti, rendeva
incalcolabile la distanza. L’immensa pianura si estendeva
in ogni direzione a perdita d’occhio; e le ondulazioni del
terreno, quasi impercettibili, giungevano fino all’estremo
orizzonte, chiuso da una grande linea blu che si sapeva
essere il mare. I due eserciti, usciti dalle tende,
guardavano; gli abitanti di Utica, per vedere meglio, si
accalcavano sui bastioni.
Finalmente poterono distinguere numerose barre
trasversali, irte di punte uguali. Divennero più fitte,
ingrandirono; dei monticelli neri ondeggiavano; d’un
tratto apparvero dei cespugli quadrati; erano elefanti e
lance; si alzò un solo grido: «I Cartaginesi!» e, senza un
segnale o un ordine, i soldati di Utica e quelli del ponte
corsero alla rinfusa, per abbattersi tutti insieme su
Amilcare.
A quel nome, Spendio trasalì. Ripeteva ansimando:
«Amilcare! Amilcare!», e Mâtho non c’era! Che fare?
Nessuna via di fuga! La sorpresa dell’avvenimento, il
terrore che aveva del suffeta e soprattutto l’urgenza di
una decisione immediata lo sconvolgevano: si vedeva
trapassato da mille spade, decapitato, morto. Intanto lo
chiamavano; trentamila uomini lo avrebbero seguito; lo
prese un furore contro se stesso; si rifugiò nella speranza
di una vittoria; era piena di buoni auspici, si sentì più
intrepido di Epaminonda. Per nascondere il pallore si
imbrattò le gote di carminio, poi si affibbiò gli schinieri,
la corazza, tracannò una tazza di vino puro e corse dietro
alle sue truppe che si affrettavano verso quelle di Utica.
Si ricongiunsero così rapidamente che il suffeta non
ebbe il tempo di schierare i suoi uomini in battaglia. A
poco a poco, rallentava. Gli elefanti si fermarono;
dondolavano i testoni adorni di piume di struzzo, e si
colpivano le spalle con la proboscide.
Negli spazi che lasciavano si intravedevano le coorti
dei veliti,5 più lontano i grandi elmi dei Clinabari, e lame
che luccicavano al sole, corazze, pennacchi, stendardi al
vento. Ma l’esercito cartaginese, forte di
undicimilatrecentonovantasei uomini, sembrava
contenerli a fatica, perché formava una quadrilatero
lungo, stretto sui fianchi e chiuso su se stesso.
Vedendoli così deboli, i Barbari, tre volte più
numerosi, furono presi da una gioia sfrenata; non si
vedeva Amilcare. Che fosse rimasto laggiù? Ma che
importava! Il disprezzo che provavano per quei bottegai
rafforzava il loro coraggio; e prima che Spendio avesse
ordinato la manovra, tutti l’avevano intuita e già la
stavano eseguendo.
Si dispiegarono su una lunga linea diritta, che
sopravanzava le ali dell’esercito punico, in modo da
poterlo circondare completamente. Ma, quando furono a
una distanza di trecento passi, gli elefanti, invece di
avanzare si volsero indietro; poi anche i Clinabari, con un
voltafaccia, li seguirono; e la sorpresa dei Mercenari
crebbe ancora quando videro che tutti gli arcieri
correvano a loro volta per raggiungerli. Dunque i
Cartaginesi avevano paura, fuggivano! Un clamore
formidabile esplose tra le file dei Barbari, e, dall’alto del
suo dromedario, Spendio gridava: «Ah, lo sapevo!
Avanti! Avanti!».
Allora i giavellotti, le frecce, i proiettili delle fionde
partirono tutti insieme. Gli elefanti, punzecchiati sul dorso
dalle frecce, si misero a galoppare più in fretta: un gran
polverone li avvolgeva, e, come ombre in una nube,
svanirono.
Intanto si udiva lontano un gran rumore di passi,
dominato dal suono acuto delle trombe, suonate con
furia. Lo spazio che i Barbari avevano di fronte, pieno di
vortici e di tumulto, attraeva come un gorgo; alcuni vi si
gettarono. Apparvero coorti di fanteria; serravano le file;
e nello stesso tempo tutti gli altri vedevano accorrere i
fanti e i cavalieri al galoppo.
Amilcare aveva ordinato infatti alla falange di
rompersi; agli elefanti, alle truppe leggere e alla
cavalleria di passare attraverso i varchi per portarsi
rapidamente sulle ali; e aveva calcolato così bene la
distanza dei Barbari che, nel momento in cui gli
arrivavano addosso, l’intero esercito cartaginese formava
una lunga linea diritta.
Al centro si ergeva la falange, formata da sintagmi o
quadrati pieni, con sedici uomini per lato. I capi di ogni
fila apparivano tra lunghi ferri aguzzi che li
sopravanzavano in modo ineguale, perché le prime sei
file incrociavano le sarisse impugnandole al centro, e le
dieci file successive le appoggiavano sulle spalle dei
compagni che li precedevano. I volti sparivano per metà
sotto la visiera degli elmi; schinieri di bronzo
proteggevano le gambe destre; i larghi scudi cilindrici
arrivavano fino alle ginocchia; e quell’orribile massa
quadrangolare si muoveva come fosse un pezzo solo,
sembrava vivere come una bestia e funzionare come una
macchina. Era fiancheggiata da due coorti di elefanti; con
un fremito si scrollavano di dosso le punte delle frecce
conficcate nella pelle nera. Gli Indiani accovacciati sul
garrese, tra i ciuffi di piume bianche, li trattenevano con
l’uncino dell’arpione, mentre, nelle torri, uomini nascosti
fino alle spalle incoccavano, in grandi archi tesi, stocchi di
ferro con stoppacci in fiamme. A destra e a sinistra degli
elefanti volteggiavano i frombolieri, con una fionda
intorno alle reni, una seconda sulla testa, una terza nella
mano destra. Poi i Clinabari, ognuno affiancato da un
Negro, tendevano le lance tra le orecchie dei cavalli tutti
coperti d’oro come loro. Poi, scaglionati, c’erano i soldati
armati alla leggera con scudi di pelle di lince, dai quali
spuntavano i giavellotti impugnati con la mano sinistra; e
i Tarantini, conducendo ognuno due cavalli appaiati,
chiudevano sui due lati questa muraglia di soldati.
L’esercito dei Barbari, al contrario, non aveva potuto
mantenere il suo schieramento. Nella sua lunghezza
esorbitante si erano prodotte delle ondulazioni, dei vuoti;
tutti ansimavano, trafelati per la corsa.
La falange si mosse pesantemente tendendo tutte le
sue sarisse; sotto questo peso enorme la linea dei
Mercenari, troppo esile, ben presto piegò nel mezzo.
Allora le ali cartaginesi si dispiegarono per attaccarli:
gli elefanti li seguivano. Con le sue lance protese
obliquamente, la falange tagliò in due la linea dei
Barbari; due tronconi enormi si agitarono; le ali, a colpi
di fionda e di freccia, li ributtavano addosso ai falangiti.
Per liberarsene, mancava la cavalleria; tranne duecento
Numidi che mossero contro lo squadrone destro dei
Clinabari. Tutti gli altri si trovavano chiusi, né potevano
rompere quelle linee. Il pericolo era imminente; urgeva
una decisione.
Spendio ordinò di attaccare la falange
simultaneamente sui due fianchi, per passare attraverso.
Ma le file più corte scivolarono dietro le più lunghe,
ripresero il loro posto, e la falange si rigirò contro i
Barbari, altrettanto terribile sui fianchi quanto lo era stata
frontalmente.
I Barbari colpivano sulle aste delle sarisse, ma la
cavalleria, da dietro, disturbava il loro attacco; e la
falange, che si appoggiava sugli elefanti, si contraeva e si
allungava, si presentava in forma di quadrato, di cono, di
rombo, di trapezio, di piramide. Dalla testa alla coda c’era
un duplice movimento interno, ininterrotto: quelli che
stavano nelle ultime file correvano verso le prime, e
queste, per stanchezza o a causa dei feriti, ripiegavano
indietro. I Barbari si trovarono accalcati sulla falange, che
non poteva avanzare; sembrava un oceano su cui
saltassero aironi rossi con scaglie di bronzo, mentre gli
scudi chiari si rovesciavano come una schiuma d’argento.
Talvolta, da un capo all’altro, ampie correnti scendevano,
poi risalivano, e al centro una massa greve restava
immobile. Le lance si abbassavano e si alzavano
alternativamente. Altrove c’era un turbinio di spade
sguainate talmente rapido che se ne scorgevano solo le
punte, e torme di cavalieri ampliavano cerchi che si
richiudevano dietro di loro, vorticosamente.
Sopra la voce dei capitani, sopra gli squilli di tromba e
lo stridio delle lire, i proiettili di piombo e di argilla
fendendo l’aria fischiavano, facevano saltare le spade
dalle mani, il cervello dai crani. I feriti, reggendo con un
braccio lo scudo per proteggersi, tendevano la spada
appoggiandone l’impugnatura a terra, e altri, in pozze di
sangue, si contorcevano per mordere talloni. La
moltitudine era così compatta, la polvere così fitta, il
tumulto così forte, che non era possibile distinguere
niente; i codardi che intendevano di arrendersi non
furono neppure uditi. Quando le mani erano vuote, ci si
avvinghiava corpo a corpo; i petti scricchiolavano contro
le corazze, e dei cadaveri rovesciavano la testa
all’indietro, tra due braccia serrate. Ci fu una compagnia
di sessanta Umbri che, fermi nella loro posizione, con la
picca davanti agli occhi, incrollabili e digrignando i denti,
costrinsero a retrocedere due sintagmi alla volta. Dei
pastori epiroti corsero contro lo squadrone sinistro dei
Clinabari, afferrarono i cavalli per la criniera facendo
roteare i loro bastoni; le bestie, disarcionando i cavalieri,
fuggirono per la pianura. I frombolieri punici, sparsi qua
e là, erano indecisi. La falange cominciava a vacillare, i
capitani correvano smarriti, i serrafile spingevano i soldati
e i Barbari avevano ricostituito le loro file; tornavano
all’attacco; la vittoria era loro.
Ma un grido, un grido spaventoso esplose, un ruggito
di dolore e di collera: erano i settantadue elefanti che
irrompevano in doppia fila; Amilcare aveva atteso che i
Mercenari fossero concentrati in un solo luogo per
lanciarglieli contro. Gli Indiani li avevano pungolati con
tanta energia che il sangue colava sulle grandi orecchie.
Le proboscidi, imbrattate di minio, erano alzate in aria,
simili a serpenti rossi; i pettorali erano muniti di uno
spiedo, i dorsi erano protetti da una corazza, le zanne si
prolungavano in lamine d’acciaio ricurve come sciabole,
e, per renderli più feroci, li avevano inebriati con un
miscuglio di pepe, di vino puro e d’incenso. Scuotevano i
collari di sonagli, gridavano; e gli elefantarchi
abbassavano la testa sotto i lanci delle falariche che
cominciavano a volare dall’alto delle torri.
Per resistere meglio al loro assalto, i Barbari si
precipitarono in massa, compatti; gli elefanti si gettarono
in mezzo, impetuosamente. Gli spiedi dei pettorali, come
prue di navi, fendevano le coorti, che rifluivano in grandi
gorghi. Con le proboscidi strozzavano gli uomini, oppure,
strappandoli da terra, li sollevavano sopra la loro testa
per porgerli ai soldati nelle torri; li sventravano, li
lanciavano in aria, e lunghe budella penzolavano dalle
zanne d’avorio come rotoli di cordame dai pennoni di una
nave. I Barbari cercavano di accecarli, di tagliare i tendini
delle loro zampe; altri, scivolando sotto il ventre, vi
affondavano la spada fino all’elsa e perivano schiacciati; i
più intrepidi si aggrappavano alle cinghie e, sotto le
fiamme, sotto i proiettili, sotto le frecce, continuavano a
segarle finché la torre di vimini non crollava come una
torre di pietra. Quattordici di quelli che si trovavano
all’estrema destra, irritati dalle loro ferite, si voltarono
verso la seconda fila; gli Indiani presero le mazze e gli
scalpelli, li appoggiarono sul collo, alla base del cranio, e
batterono con tutta la forza del braccio.
Le enormi bestie si accasciarono, caddero le une sulle
altre, formando una montagna; e su quel mucchio di
cadaveri e di armature un elefante mostruoso che veniva
chiamato Furore di Baal, rimasto impigliato con una
zampa nelle catene, continuò a barrire fino a sera, con
una freccia conficcata in un occhio.
Intanto gli altri, come conquistatori che si dilettino
nella propria opera di sterminio, rovesciavano,
schiacciavano, calpestavano, si accanivano sui cadaveri,
sui rottami. Per respingere i manipoli che si stringevano
intorno a loro, ruotavano sulle zampe posteriori, con un
movimento continuo che gli permetteva di avanzare. I
Cartaginesi sentirono crescere il loro vigore, e la battaglia
ricominciò.
I Barbari cedevano; alcuni opliti greci gettarono le
armi, il terrore si impadronì degli altri. Si vide Spendio
chino sul suo dromedario, mentre lo pungolava sul dorso
con due giavellotti. Tutti allora si precipitarono sulle ali e
corsero verso Utica.
I Clinabari, i cui cavalli erano sfiniti, non tentarono di
raggiungerli. I Liguri, estenuati dalla sete, gridavano che
volevano tornare al fiume. Ma i Cartaginesi, piazzati al
centro dei sintagmi, e che avevano sofferto meno,
smaniavano vedendo sfuggirsi di mano la vendetta; già
stavano per lanciarsi all’inseguimento dei Mercenari;
apparve Amilcare.
Tratteneva con briglie d’argento il suo cavallo tigrato,
coperto di sudore. I nastri legati alle corna dell’elmo
schioccavano al vento dietro di lui, ovale sotto la coscia
sinistra teneva lo scudo. Con un movimento della picca a
tre punte fermò l’esercito.
I Tarantini saltarono subito dal primo al secondo
cavallo, e partirono a destra e a sinistra verso il fiume e
verso la città.
La falange sterminò comodamente tutto quello che
restava dei Barbari. Quando arrivavano le spade,
porgevano la gola chiudendo gli occhi. Altri si difesero a
oltranza; li ammazzarono da lontano, a sassate, come
cani rabbiosi. Amilcare aveva raccomandato di fare
prigionieri. Ma i Cartaginesi gli obbedivano a malincuore,
tale era il piacere che provavano ad affondare le spade
nei corpi dei Barbari. Siccome avevano troppo caldo, si
misero a lavorare a braccia nude, come falciatori; e
quando si interrompevano per riprendere fiato,
seguivano con lo sguardo, nella campagna, un cavaliere
che galoppava dietro un soldato in fuga. Lo raggiungeva,
lo afferrava per i capelli, lo teneva così per un po’, quindi
lo abbatteva con un colpo di ascia.
Scese la notte. I Cartaginesi, i Barbari erano
scomparsi. Gli elefanti, che erano fuggiti, vagabondavano
all’orizzonte con le torri incendiate, che bruciavano nelle
tenebre, qua e là come fari perduti nella nebbia; e nella
pianura non si scorgeva altro movimento che
l’ondeggiare del fiume, gonfio dei cadaveri che trascinava
al mare.
Due ore dopo, arrivò Mâtho. Intravide alla luce delle
stelle lunghi mucchi ineguali sparsi a terra.
Erano schiere di Barbari. Si chinò; erano tutti morti,
chiamò a gran voce; nessuno gli rispose.
Quella stessa mattina aveva lasciato Ippozarito con i
suoi soldati per marciare su Cartagine. A Utica, l’esercito
di Spendio era appena partito, e gli abitanti cominciavano
a incendiare le macchine da guerra. Tutti si erano battuti
con accanimento. Ma poiché il clamore che si udiva dalla
parte del ponte aumentava in un modo incomprensibile,
Mâtho si era gettato, per il sentiero più breve, attraverso
la montagna, e siccome i Barbari erano in fuga nella
pianura, non aveva incontrato nessuno.
Di fronte a lui sorgevano nell’ombra piccole masse
piramidali, e al di qua del fiume, più vicino, c’erano delle
luci immobili rasoterra. Infatti i Cartaginesi avevano
ripiegato dietro il ponte e, per ingannare i Barbari, il
suffeta aveva collocato numerose postazioni sull’altra
riva.
Mâtho, continuando ad avanzare, credette di
distinguere delle insegne puniche, perché si scorgevano
in aria teste di cavallo immobili, fissate in cima a fasci di
aste che non si vedevano; e udì più lontano un grande
rumore, suoni di canti e tintinnii di coppe.
Allora, non sapendo dove si trovasse, né come
ritrovare Spendio, in preda all’angoscia, sgomento,
perduto nelle tenebre, tornò indietro per la stessa strada,
con furia anche maggiore. L’alba imbiancava, quando
dall’alto della montagna scorse la città, con le carcasse
delle macchine annerite dalle fiamme, come scheletri di
giganti appoggiati alle mura.
Tutto giaceva in un silenzio e in un’immobilità
straordinari. Tra i suoi soldati, sulla soglia delle tende,
uomini seminudi dormivano supini o con la fronte contro
un braccio sostenuto dalla corazza. Alcuni staccavano
dalle gambe le fasce insanguinate. Quelli che stavano per
morire giravano lentamente la testa; altri, trascinandosi,
portavano loro da bere. Lungo stretti sentieri le sentinelle
camminavano per riscaldarsi, oppure se ne stavano ferme
a guardare l’orizzonte, con la picca sulla spalla, in un
atteggiamento truce.
Mâtho trovò Spendio sotto un brandello di tela
sostenuto da due bastoni piantati in terra, un ginocchio
tra le mani, la testa china.
Restarono a lungo senza parlare.
Poi Mâtho mormorò:
«Vinti!».
Spendio rispose con voce tetra:
«Sì, vinti!».
E a ogni domanda rispondeva con gesti disperati.
Intanto giungevano fino a loro sospiri e rantoli. Mâtho
sollevò leggermente la tela. Allora la vista dei soldati gli
ricordò un altro disastro, nello stesso luogo, e
digrignando i denti:
«Miserabile! Già una volta...».
Spendio lo interruppe:
«Non c’eri neppure allora».
«È una maledizione!», esclamò Mâtho. «Ma alla fine lo
raggiungerò! E lo vincerò! Lo ucciderò! Ah! Se ci fossi
stato...».
Il pensiero di aver mancato la battaglia lo disperava
ancora più della sconfitta. Afferrò la spada e la scagliò a
terra.
«Ma in quale modo i Cartaginesi vi hanno battuto?».
L’ex schiavo si mise a descrivere le manovre. Mâtho
aveva l’impressione di vederle e si irritava. L’esercito di
Utica, invece di correre verso il ponte, avrebbe dovuto
attaccare Amilcare alle spalle.
«Eh! Lo so!», disse Spendio.
«Bisognava raddoppiare lo schieramento, non
impegnare i veliti contro la falange, lasciare varchi per gli
elefanti. All’ultimo momento si poteva recuperare: niente
obbligava alla fuga».
Spendio rispose:
«L’ho visto passare nel suo grande mantello rosso, le
braccia alzate, più in alto della polvere, come un’aquila
che volasse a fianco delle coorti, che a ogni cenno della
sua testa serravano i ranghi, si slanciavano; la mischia ci
ha trascinati l’uno verso l’altro; mi guardava; ho sentito
nel cuore il gelo di una spada».
«Che abbia saputo scegliere il giorno?», si chiedeva
Mâtho sottovoce.
Si interrogarono, cercando di scoprire come il suffeta
avesse potuto cogliere il momento più sfavorevole per
loro. Giunsero a parlare della situazione, e per attenuare
la propria colpa o riprendere coraggio, Spendio disse che
in fondo restava ancora qualche speranza.
«Che ne resti o no, che importa!», disse Mâtho.
«Anche da solo continuerò la guerra!».
«E anch’io!», esclamò il Greco balzando in piedi; ora
camminava a grandi passi; gli luccicavano gli occhi e un
sorriso strano increspava la sua faccia di sciacallo.
«Ricominceremo, non lasciarmi più! Non sono fatto
per le battaglie alla luce del sole; il lampeggiare delle
spade mi abbaglia; è una malattia, ho vissuto troppo a
lungo nell’ergastolo. Ma dammi delle mura da scalare di
notte, e io entrerò nelle cittadelle, e i cadaveri saranno
freddi prima che i galli abbiano cantato! Indicami
qualcuno, qualcosa, un nemico, un tesoro, una
donna...», ripeté, «... una donna, fosse anche la figlia di
un re, e subito deporrò ai tuoi piedi ciò che desideri. Tu
mi rimproveri di aver perduto la battaglia contro Annone,
eppure l’ho vinta. Confessalo! Il mio branco di porci ci è
servito più di una falange di Spartani». E, cedendo al
bisogno di riabilitarsi e prendersi una rivincita, enumerò
tutto quello che aveva fatto per la causa dei Mercenari.
«Sono stato io, nei giardini del suffeta, ad aizzare il Gallo!
Più tardi, a Sicca, li ho fatti infuriare tutti con la paura
della Repubblica! Giscone li faceva ripartire, ma io ho
impedito agli interpreti di parlare. Ah! Come penzolavano
dalla bocca le loro lingue! Te ne ricordi? Io ti ho condotto
dentro Cartagine; io ho rubato lo zaimf. Io ti ho portato
da lei. Farò molto di più, vedrai!».
Scoppiò a ridere come un pazzo.
Mâtho lo osservava con gli occhi spalancati. Si sentiva
a disagio di fronte a quell’uomo che era al tempo stesso
vile e terribile.
Il Greco riprese con tono gioviale, facendo schioccare
le dita:
«Evohé! Dopo la pioggia, il sole! Ho lavorato nelle cave
e ho bevuto vino massico in una coppa che mi è
appartenuta, sotto un baldacchino d’oro, come un
Tolomeo. Le sventure devono servire a renderci più
astuti. A forza di lavoro, si piega anche la fortuna. Essa
ama i politici; cederà!».
Tornò accanto a Mâtho, e prendendolo per un braccio:
«Padrone, in questo momento i Cartaginesi sono certi
della loro vittoria. Tu hai un intero esercito che non ha
ancora combattuto, e i tuoi uomini ti obbediscono.
Piazzali davanti; i miei, per vendicarsi, li seguiranno. Mi
restano tremila Carii, milleduecento frombolieri e arcieri a
coorti intere. Possiamo addirittura formare una falange;
andiamo!».
Mâtho, sconvolto dal disastro, fino a quel momento
non si era neppure posto il problema di uscirne.
Ascoltava a bocca aperta, e le lamine di bronzo che gli
circondavano il petto si sollevavano ai battiti affannati del
suo cuore. Raccolse la spada, gridando:
«Seguimi, andiamo!».
Ma gli esploratori, quando tornarono, annunciarono
che i morti dei Cartaginesi erano stati portati via, il ponte
era completamente distrutto e Amilcare scomparso.
IX
In campagna

Amilcare aveva pensato che i Mercenari lo avrebbero


atteso a Utica oppure sarebbero tornati per attaccarlo; e,
ritenendo che le sue forze non fossero sufficienti sia per
attaccare che per difendersi, si era inoltrato nel sud
seguendo la riva destra del fiume, mettendosi così subito
al riparo da una sorpresa.
Voleva separare tutte le tribù dalla causa dei Barbari;
per questo per il momento chiudeva gli occhi sulla loro
rivolta; poi, quando costoro sarebbero rimasti del tutto
isolati in mezzo alle province, allora si sarebbe gettato su
di loro e li avrebbe sterminati.
In quattordici giorni pacificò la regione compresa tra
Thuccaber1 e Utica, con le città di Tignicabah, Tessurah,
Vacca e altre ancora a occidente. Zunghar costruita tra i
monti; Assura celebre per il suo tempio; Geraado fertile
di ginepri; Thapitis e Hagur gli inviarono ambasciatori.
Gli abitanti delle campagne arrivavano con le mani piene
di viveri, imploravano la sua protezione, baciavano i suoi
piedi e quelli dei soldati, e si lamentavano dei Barbari.
Alcuni venivano a offrirgli, chiuse dentro sacchi, teste di
Mercenari, uccisi da loro, dicevano, ma che avevano
tagliato a cadaveri; perché molti si erano perduti nella
fuga e venivano trovati morti qua e là, sotto gli olivi e
nelle vigne.
Per suscitare l’ammirazione del popolo, Amilcare già
l’indomani della vittoria aveva inviato a Cartagine i
duemila prigionieri fatti sul campo di battaglia.
Arrivarono in lunghe schiere di cento uomini ognuna,
con le braccia attaccate sul dorso a una sbarra di bronzo
che li afferrava alla nuca, e anche i feriti, sanguinanti,
andavano di corsa; dei cavalieri, dietro di loro, li
spingevano avanti a frustate.
Fu un delirio di gioia! La gente continuava a dire che
erano stati uccisi seimila Barbari; gli altri non avrebbero
resistito, la guerra era finita; ci si abbracciava nelle
strade, e si lustrava con burro e cinnamomo il volto degli
dèi Pateci per ringraziarli. Con i loro grandi occhi, il
grosso ventre e le braccia sollevate all’altezza delle spalle,
sembravano vivi sotto quella pittura fresca, e partecipi
dell’allegria del popolo. I Ricchi lasciavano aperte le loro
porte; la città risuonava del rullo dei tamburi; i templi
erano illuminati ogni notte, e le sacerdotesse della dea
scese a Malqua innalzarono nei crocicchi delle impalcature
di sicomoro, in cui si prostituivano. Si votò l’assegnazione
di terre ai vincitori, olocausti per Merlkarth, trecento
corone d’oro per il suffeta, e i suoi sostenitori
proponevano di attribuirgli nuove cariche e nuovi onori.
Amilcare aveva sollecitato gli Anziani a fare proposte
ad Autarito per scambiare contro tutti i prigionieri
Barbari, se era necessario, il vecchio Giscone e gli altri
Cartaginesi prigionieri come lui. Ma i Libici e i Nomadi
che costituivano l’esercito di Autarito conoscevano
appena quei Mercenari, uomini di razza italiota o greca; e
poiché la Repubblica offriva loro così tanti Barbari contro
pochi Cartaginesi, questo poteva voler dire che gli uni
n o n valevano nulla e che gli altri valevano molto.
Temevano una trappola. Autarito rifiutò.
Allora gli Anziani decretarono che i prigionieri fossero
uccisi, benché il suffeta avesse scritto loro di non metterli
a morte. Contava infatti di inserire i migliori nelle sue
truppe, e incoraggiare in questo modo le defezioni. Ma
l’odio travolse ogni riserva.
I duemila Barbari furono legati, sulla via dei Mappali,
alle stele delle tombe; e mercanti, sguatteri, ricamatori e
anche donne, le vedove dei morti coi loro figli, tutti quelli
che volevano, vennero a ucciderli a colpi di freccia.
Prendevano la mira lentamente, per prolungarne il
supplizio: si abbassava l’arma, per poi alzarla di nuovo; e
la folla si accalcava urlante. C’erano paralitici che si erano
fatti portare sulle barelle; molti, previdenti, si portavano
il cibo e restavano lì fino a sera; altri ci passavano la
notte. Erano state piantate delle tende dove si beveva.
Molti guadagnarono grandi somme noleggiando gli archi.
Poi lasciarono lì, in piedi, tutti quei cadaveri crocifissi,
che sembravano tante statue rosse sopra le tombe, e
l’esaltazione aveva conquistato perfino gli abitanti di
Malqua, discendenti di famiglie autoctone e in genere
indifferenti alle cose della patria. Ma, riconoscenti per il
benessere che essa procurava loro, adesso si
interessavano alla sua sorte, si sentivano Punici, e gli
Anziani si convinsero di essere stati molto abili a unire
tutto il popolo in uno stesso sentimento di vendetta.
Non mancò neppure l’assenso degli dèi, perché da
ogni parte del cielo calarono stormi di corvi.
Volteggiavano con grandi strida rauche, e formavano
un’enorme nube che roteava su se stessa continuamente.
La si vedeva da Clipea, da Rhades e dal promontorio
Ermeo. Talvolta si rompeva all’improvviso, allargando in
lontananza le sue spirali nere; era un’aquila che
piombava nel mezzo, poi risaliva; sulle terrazze, sulle
cupole, sulla punta degli obelischi e sul frontone dei
templi c’erano, qua e là, grossi uccelli che tenevano nel
becco arrossato brandelli di carne umana.
A causa dell’odore, i Cartaginesi si rassegnarono a
slegare i cadaveri. Ne bruciarono alcuni; gettarono gli
altri in mare, e le onde spinte dal vento del nord ne
depositarono un certo numero sulla spiaggia, in fondo al
golfo, davanti al campo di Autarito.
La punizione doveva aver atterrito i Barbari, perché
dall’alto di Eshmun li si vide togliere le tende, riunire le
greggi, caricare i bagagli sugli asini, quella sera stessa
l’intero esercito si allontanò.
Spostandosi continuamente tra la Montagna delle
Acque Calde e Ippozarito, l’esercito doveva impedire al
suffeta di avvicinarsi alle città tirie come pure di tornare a
Cartagine.
Intanto gli altri due eserciti avrebbero cercato di
raggiungerlo nel sud, Spendio da oriente, Mâtho da
occidente, in modo da congiungersi tutti e tre per
coglierlo di sorpresa e accerchiarlo. Poi sopraggiunse un
rinforzo sul quale non contavano: ricomparve Narr’Havas,
con trecento cammelli carichi di bitume, venticinque
elefanti e seimila cavalieri.
Il suffeta, per indebolire i Mercenari, aveva ritenuto
opportuno impegnarlo nel suo stesso regno. Da
Cartagine si era accordato con Masgaba, un brigante
getulo che cercava di farsi un impero. Forte del denaro
punico, l’avventuriero aveva sollevato gli Stati numidi
promettendo loro la libertà. Ma Narr’Havas, avvisato dal
figlio della sua nutrice, era piombato a Cirta, aveva
avvelenato i vincitori con l’acqua delle cisterne, tagliato
qualche testa, rimesso tutto in ordine, e ora tornava
contro il suffeta, più furioso dei Barbari.
I capi dei quattro eserciti si accordarono sui
provvedimenti da prendere. La guerra sarebbe stata
lunga: bisognava prevedere tutto.
Inanzitutto si decise di chiedere l’aiuto dei Romani, e
questa missione fu proposta a Spendio; il quale, essendo
però un transfuga, non osò incaricarsene. Dodici uomini
delle colonie greche si imbarcarono a Annaba su una
scialuppa dei Numidi. Poi i capi pretesero da tutti i
Barbari un giuramento di obbedienza totale. Ogni giorno
i capitani ispezionavano i vestiti, le calzature; fu anche
proibito alle sentinelle di usare lo scudo, perché spesso lo
appoggiavano alla lancia e si addormentavano in piedi;
coloro che si portavano dietro un bagaglio furono
costretti a liberarsene; ogni cosa doveva essere portata
sulla schiena, secondo l’uso romano. Come difesa dagli
elefanti, Mâtho istituì un corpo di cavalieri catafratti, tali
cioè che l’uomo e il cavallo scomparivano sotto una
corazza di pelle d’ippopotamo irta di chiodi; e per
proteggere lo zoccolo dei cavalli, si fecero loro degli
stivaletti di sparto intrecciato.
Fu proibito di saccheggiare i villaggi, di brutalizzare gli
abitanti di razza non punica. Poiché le risorse del paese si
stavano esaurendo, Mâtho ordinò di distribuire i viveri
secondo il numero dei soldati, senza curarsi delle donne.
All’inizio i soldati spartirono con esse. Per carenza di cibo
molti si indebolivano. Era una causa continua di litigi e
invettive, perché molti attiravano le compagne degli altri
con l’offerta o anche la sola promessa della loro razione.
Mâtho ordinò di scacciarle tutte senza pietà. Si
rifugiarono nel campo di Autarito: ma i Galli e i Libici, a
forza di oltraggi, le costrinsero ad andarsene.
Alla fine andarono sotto le mura di Cartagine a
implorare la protezione di Cerere e di Proserpina, perché
a Birsa c’era un tempio dei sacerdoti consacrati alle due
divinità, a espiazione degli orrori commessi in altri tempi
durante l’assedio di Siracusa.2 I Sissizi, in nome del loro
diritto a entrare in possesso dei relitti, pretesero le più
giovani per venderle; e alcuni nuovi Cartaginesi presero
in moglie delle bionde Lacedemoni.
Alcune si ostinarono a seguire gli eserciti. Correvano
sui fianchi dei sintagmi, accanto ai capitani. Chiamavano i
loro uomini, li tiravano per il mantello, si battevano il
petto maledicendoli, e tendevano con le braccia i loro
piccoli, nudi e piangenti. Era uno spettacolo che
commuoveva i Barbari; quelle donne costituivano un
ostacolo, un pericolo! Respinte più volte, ritornavano
sempre; Mâtho le fece caricare a colpi di lancia dai
cavalieri di Narr’Havas; e poiché dei Balearici gli
gridarono che avevano bisogno di donne:
«Io non ne ho!», rispose.
Adesso era posseduto dal genio di Moloch. Malgrado
ripugnasse alla sua coscienza, commetteva azioni
spaventose immaginando di obbedire alla voce di un dio.
Quando non poteva devastarli, Mâtho gettava pietre nei
campi per renderli sterili.
Con ripetuti messaggi, sollecitava Autarito e Spendio
ad affrettarsi. Ma le operazioni del suffeta erano
incomprensibili. Si accampò successivamente a Eidus, a
Monchar, a Tehent; alcuni esploratori credettero di averlo
avvistato nei dintorni di Ishiil, vicino alle frontiere di
Narr’Havas, e si venne a sapere che aveva attraversato il
fiume sopra Teburba, come per tornare a Cartagine.
Appena giungeva in un luogo, subito si spostava in un
altro. Le strade che prendeva restavano sempre
sconosciute. Senza dare battaglia, il suffeta conservava il
suo vantaggio; inseguito dai Barbari, sembrava che li
stesse guidando.
Queste marce e contromarce stancavano ancora di più
i Cartaginesi; e le forze di Amilcare, non venendo
rinnovate, diminuivano di giorno in giorno. Ora gli
abitanti delle campagne gli portavano viveri con
maggiore lentezza. Ovunque notava un’esitazione, un
odio taciturno; e malgrado le sue suppliche al Gran
Consiglio, da Cartagine non giungeva alcun soccorso.
Si diceva (forse si credeva) che non ne avesse bisogno.
Si trattava di pretesti o di inutili lamentele; e i sostenitori
di Annone, per meglio ostacolarlo, esageravano
l’importanza della sua vittoria. Le truppe che comandava
costituivano già un sacrificio, e non era possibile
continuare a soddisfare ogni sua richiesta. La guerra era
un impegno pesante! Era costata troppo, e per orgoglio i
patrizi della sua fazione lo appoggiavano tiepidamente.
Allora, non contando sulla Repubblica, Amilcare
prelevò con la forza dalle tribù tutto quello che gli serviva
per la guerra: grano, olio, legno, bestiame e uomini. Ma
gli abitanti non tardarono a fuggire. I villaggi che
attraversavano erano vuoti, e i soldati frugavano nelle
capanne senza trovarvi nulla; ben presto una spaventosa
solitudine circondò l’esercito punico.
I Cartaginesi, furiosi, si misero a saccheggiare le
province; riempivano di terra le cisterne, incendiavano le
case. Le scintille portate dal vento si spargevano lontano,
e sulle montagne bruciavano intere foreste; cingevano le
valli di una corona di fuochi; per passare oltre, bisognava
aspettare. Poi riprendevano la marcia, in pieno sole, sulle
ceneri calde.
Talvolta vedevano luccicare in un cespuglio, sul ciglio
della strada, qualcosa che somigliava alle pupille di un
gatto selvatico. Era un Barbaro accovacciato sui talloni,
che si era imbrattato il volto di polvere per confondersi
con il colore del fogliame; oppure, quando costeggiavano
un burrone, quelli che si trovavano sulle ali all’improvviso
sentivano rotolare delle pietre; e, alzando gli occhi,
scorgevano nell’apertura della gola un uomo che saltava
a piedi nudi.
Intanto Utica e Ippozarito erano libere, perché i
Mercenari non le assediavano più. Amilcare ordinò loro di
venirgli in aiuto. Ma, non osando compromettersi, gli
risposero parole vaghe, complimenti, scuse.
Risalì improvvisamente verso nord, deciso a entrare in
una delle città tirie, a costo di assediarle. Gli serviva un
punto d’appoggio sulla costa, per potersi procurare
rifornimenti e soldati dalle isole o da Cirene, e pensava al
porto di Utica, il più vicino a Cartagine.
Il suffeta partì dunque da Zuitin e aggirò con prudenza
il lago di Ippozarito. Ma ben presto fu costretto ad
allungare in colonna i suoi reggimenti per inerpicarsi
sulla montagna che separa le due vallate. Al tramonto
stavano scendendo nell’incavo della cima, a forma
d’imbuto, quando scorsero davanti a sé, rasoterra, delle
lupe di bronzo che sembrava corressero sull’erba.
D’un tratto apparvero grandi pennacchi, e al ritmo dei
flauti esplose un canto terrificante. Era l’esercito di
Spendio; infatti dei Campani e dei Greci, in odio a
Cartagine, avevano preso le insegne di Roma. Nello
stesso tempo, sulla sinistra, apparvero lunghe picche,
scudi di pelle di leopardo, corazze di lino, spalle nude.
Erano gli Iberici di Mâtho, i Balearici, i Getuli; si udirono i
nitriti dei cavalli di Narr’Havas; si sparsero intorno alla
collina; poi arrivò la massa tumultuosa che comandava
Autarito; i Galli, i Libici, i Nomadi; e tra loro si
riconoscevano i Mangiatori-di-cose-immonde dalle lische
di pesce che portavano tra i capelli.
Così i Barbari, combinando con esattezza i loro
percorsi, si erano ricongiunti. Ma, stupiti essi stessi,
rimasero per qualche minuto immobili, a consultarsi.
Il suffeta aveva compattato i suoi uomini in una massa
circolare, in modo da offrire in ogni punto la stessa
resistenza. Gli alti scudi a punta, conficcati nel terreno
erboso gli uni accanto agli altri, circondavano la fanteria.
I Clinabari stavano fuori dal cerchio, e più avanti, in
ordine sparso, gli elefanti. I Mercenari erano sfiniti; era
meglio aspettare il giorno; e, certi della vittoria, i Barbari
passarono la notte a mangiare.
Avevano acceso grandi fuochi luminosi che,
abbagliandoli, lasciavano in ombra l’esercito punico sotto
di loro. Amilcare fece scavare intorno al suo campo,
come i Romani, un fossato largo quindici passi, profondo
dieci cubiti; con la terra di scavo fece alzare all’interno un
parapetto sul quale furono piantati pali aguzzi che
s’incrociavano, e all’alba i Mercenari videro con immenso
stupore i Cartaginesi trincerati come in una fortezza.
Riconoscevano in mezzo alle tende Amilcare, che
camminava distribuendo ordini. Aveva il corpo stretto in
una corazza bruna, intagliata a piccole squame; seguito
dal cavallo, di tanto in tanto si fermava per indicare
qualcosa col braccio destro.
Allora più d’uno si ricordò mattinate simili quando, tra
gli squilli di tromba, li passava lentamente in rassegna e i
suoi sguardi li rafforzavano come coppe di vino. Furono
presi da una sorta di commozione. Coloro invece che non
conoscevano Amilcare deliravano per la gioia di averlo in
pugno.
Tuttavia, se tutti avessero attaccato
contemporaneamente, si sarebbero danneggiati a vicenda
in uno spazio troppo stretto. I Numidi potevano attaccare
di traverso, ma i Clinabari protetti dalle corazze li
avrebbero sopraffatti; e poi, come superare le palizzate?
Quanto agli elefanti, non erano sufficientemente
addestrati.
«Siete tutti dei codardi!», gridò Mâtho.
E, con i migliori, si precipitò contro il trinceramento.
Una scarica di pietre li ricacciò indietro; infatti il suffeta
aveva preso le catapulte che essi avevano abbandonato
sul ponte.
Questo insuccesso fece mutare di colpo l’umore
volubile dei Barbari. L’irruenza scomparve; volevano
vincere, ma rischiando il meno possibile. Secondo
Spendio, bisognava tenere la posizione e affamare
l’esercito punico. Ma i Cartaginesi si misero a scavare
pozzi; la collina era circondata da montagne: trovarono
l’acqua.
Dall’alto della palizzata lanciavano frecce, terra, letame,
sassi che strappavano al terreno, mentre le sei catapulte
rotolavano senza sosta per tutta la lunghezza del
terrapieno.
Ma le sorgenti si sarebbero esaurite; i viveri sarebbero
finiti, le catapulte si sarebbero consumate; i Mercenari,
dieci volte più numerosi, avrebbero finito per trionfare. Il
suffeta pensò a un negoziato per prendere tempo, e una
mattina i Barbari trovarono tra le loro linee una pelle di
montone coperta di scrittura. Si giustificava per la sua
vittoria: gli Anziani l’avevano costretto alla guerra, e per
dar loro una prova che manteneva la propria parola, gli
offriva il saccheggio di Utica o quello di Ippozarito, a loro
scelta; concludendo, dichiarava di non temerli, perché
aveva dalla sua dei traditori e, grazie a loro, avrebbe
avuto facilmente ragione di tutti gli altri.
I Barbari rimasero turbati: quella proposta di un
bottino immediato li faceva sognare; e poi temevano un
tradimento, non sospettando una trappola nella
millanteria del suffeta; cominciarono a guardarsi l’un
l’altro con diffidenza. Stavano attenti alle parole, ai gesti;
di notte si svegliavano terrorizzati. Molti abbandonavano i
propri compagni, e si sceglievano un altro esercito a
causa delle proprie fantasie; così i Galli di Autarito
andarono a unirsi agli uomini della Cisalpina dei quali
capivano la lingua.
I quattro capi si riunivano tutte le sere nella tenda di
Mâtho, e, accovacciati intorno a uno scudo, spostavano
avanti e indietro, con grande attenzione, le piccole
figurine di legno inventate da Pirro per riprodurre le
manovre militari. Spendio mostrava le risorse di
Amilcare; supplicava di non sprecare l’occasione, giurava
su tutti gli dèi. Mâtho, irritato, andava su e giù
gesticolando. La guerra contro Cartagine era un suo
affare personale; lo indignava che gli altri se ne
immischiassero senza volergli obbedire. Autarito ne
indovinava le parole dall’espressione del viso, e
applaudiva; Narr’Havas sollevava il mento in segno di
disprezzo; non c’era una decisione che non giudicasse
funesta; e non sorrideva più. Sospirava come se
respingesse dentro di sé il dolore per un sogno
impossibile, la disperazione per un’impresa mancata.
Mentre i Barbari, incerti, deliberavano, il suffeta
incrementava le proprie difese: fece scavare al di qua
delle palizzate un secondo fossato, alzare un secondo
terrapieno, costruire torri di legno agli angoli; e i suoi
schiavi si spingevano tra gli avamposti a nascondere
trappole nel terreno. Ma gli elefanti, le cui razioni erano
diminuite, si dibattevano tra le loro catene. Per
risparmiare l’erba, ordinò ai Clinabari di uccidere gli
stalloni meno robusti. Alcuni si rifiutarono; li fece
decapitare. Furono mangiati i cavalli. Il ricordo di quella
carne fresca, nei giorni seguenti, fu una grande tristezza.
Dal fondo dell’anfiteatro in cui si trovavano rinchiusi
vedevano intorno a sé, sulle alture, i quattro
accampamenti dei Barbari in piena agitazione. Vi
circolavano donne con otri sulla testa, vi erravano capre
belanti tra i fasci di picche; si cambiavano le sentinelle, si
mangiava intorno ai tripodi. Infatti le tribù fornivano
viveri in abbondanza, e non sospettavano neppure
quanto la loro inattività atterrisse l’esercito punico.
Fin dal secondo giorno, i Cartaginesi avevano notato
nel campo dei Nomadi un gruppo di trecento uomini in
disparte. Erano i Ricchi tenuti prigionieri fin dall’inizio
della guerra. I Libici li schierarono tutti sul bordo del
fossato e, appostati dietro di loro, lanciavano giavellotti
facendosi scudo dei loro corpi. Quei disgraziati erano
quasi irriconoscibili, tanto il loro volto era coperto di
parassiti e sporcizia. I capelli strappati a chiazze
mettevano a nudo le piaghe della testa, ed erano
talmente magri e ripugnanti che sembravano mummie in
sudari bucati. Alcuni, tremanti, singhiozzavano con aria
ebete; altri gridavano ai loro amici di tirare sui Barbari.
Ce n’era uno, immobile, la fronte china, che non parlava;
la grande barba bianca gli scendeva fino alle mani
coperte di catene; e i Cartaginesi, quasi sentendo in
fondo al cuore il crollo della Repubblica, riconoscevano
Giscone. Benché il luogo fosse pericoloso, si spingevano
per vederlo. Gli avevano messo in testa una tiara
grottesca, in cuoio d’ippopotamo, tempestata di ciottoli.
Era una fantasia di Autarito; ma non piaceva a Mâtho.
Amilcare esasperato fece aprire le palizzate, deciso ad
aprirsi un varco in qualunque modo; e con impeto
furioso i Cartaginesi salirono fino a metà costa, per
trecento passi. Scese una tale ondata di Barbari che tutti
furono ricacciati sulle loro linee. Una guardia della
Legione, rimasta fuori, barcollava tra le pietre. Zarxas si
precipitò e, dopo averla atterrata, le affondò un pugnale
nella gola; poi lo estrasse, si gettò sulla ferita e,
incollandovi la bocca, con grugniti di gioia e soprassalti
che lo scuotevano fino ai talloni, pompava il sangue con
tutta la sua forza; poi sedette tranquillo sul cadavere, alzò
il viso rovesciando il collo all’indietro per respirare
meglio, come fa una cerva che abbia appena bevuto in
un torrente, e, con voce acuta, intonò una canzone dei
Balearici, una strana melodia piena di modulazioni
prolungate, che s’interrompevano, si alternavano, come
echi che si rispondano tra le montagne; chiamava i suoi
fratelli morti e li invitava a un banchetto; poi lasciò
ricadere le mani tra le gambe, abbassò lentamente la
testa, e pianse. Questa scena atroce fece inorridire i
Barbari, soprattutto i Greci.
A partire da quel momento, i Cartaginesi non
tentarono altre sortite; e non pensavano neppure ad
arrendersi, certi com’erano di perire tra i supplizi.
Nel frattempo i viveri, malgrado i provvedimenti di
Amilcare, diminuivano paurosamente. Per ogni uomo
non restavano più che dieci k’kommer di grano, tre hin di
miglio e dodici betza3 di frutta secca. Niente più carne, né
olio, né cibi sotto sale, non un chicco d’orzo per i cavalli
che si vedevano chinare il collo smagrito per cercare nella
polvere qualche filo di paglia calpestato. Spesso le
sentinelle di guardia sul terrapieno scorgevano, al chiaro
di luna, un cane dei Barbari che veniva ad aggirarsi sotto
il trinceramento, tra i mucchi d’immondizia; lo
abbattevano a sassate, e, aiutandosi con le cinghie dello
scudo, si calavano lungo le palizzate, poi se lo
mangiavano in silenzio. Talvolta scoppiavano orribili
latrati, e l’uomo non risaliva. Nella quarta dilochia del
dodicesimo sintagma, tre falangiti che si contendevano
un topo si ammazzarono a coltellate.
Tutti rimpiangevano le loro famiglie, le loro case: i
poveri, le loro capanne a forma di alveare, con qualche
conchiglia sulla soglia, una rete sospesa; i patrizi, le
grandi sale immerse in tenebre bluastre quando, nell’ora
più indolente del giorno, si riposavano ascoltando il vago
rumore delle strade unito allo stormire delle foglie mosse
dal vento nei giardini; e, per meglio calarsi in questo
pensiero, per goderne di più, socchiudevano le palpebre;
li risvegliava il dolore acuto di una ferita. In ogni
momento c’era uno scontro, un nuovo allarme; le torri
bruciavano, i Mangiatori-di-cose-immonde saltavano sulle
palizzate; si mozzavano loro le mani a colpi d’ascia; altri
accorrevano; una pioggia di ferro si abbatteva sulle
tende. Si costruirono gallerie con giunchi intrecciati per
proteggersi dai proiettili. I Cartaginesi vi si chiusero
dentro; non si muovevano più.
Ogni giorno il sole che girava sulla collina
abbandonava, fin dalle prime ore, il fondo della gola e li
lasciava nell’ombra. Davanti e dietro, salivano i pendii
grigi del terreno, coperti di ciottoli chiazzati di un rado
lichene, e, sulle loro teste, il cielo, continuamente
limpido, si stendeva più liscio e freddo di una cupola di
metallo. Amilcare era così indignato con Cartagine da
aver voglia di unirsi ai Barbari per guidarli contro di lei.
Anche i portatori, i vivandieri, gli schiavi cominciavano a
mormorare, e né il popolo, né il Gran Consiglio, nessuno
inviava neppure una speranza. La situazione era
intollerabile, soprattutto al pensiero che sarebbe
peggiorata.

Alla notizia del disastro, Cartagine aveva avuto un


soprassalto di collera e di odio; se il suffeta si fosse
lasciato vincere fin dall’inizio, lo avrebbero esecrato
meno.
Ma per assoldare altri Mercenari mancava il tempo,
mancava il denaro. Quanto ad arruolare soldati in città,
come equipaggiarli? Amilcare si era preso tutte le armi! E
chi poi li avrebbe comandati? I migliori capitani erano
laggiù con lui! Intanto, uomini inviati dal suffeta si
aggiravano per le strade, gridavano. Il Gran Consiglio se
ne inquietò, e fece in modo di farli sparire.
Era una precauzione inutile; tutti accusavano Barca di
essersi comportato con fiacchezza. Avrebbe dovuto
annientare i Mercenari subito dopo la vittoria. Perché
aveva saccheggiato le tribù? Eppure si erano imposti
sacrifici assai pesanti! E i patrizi deploravano il loro
contributo di quattordici shekel, i Sissizi i loro
duecentoventitremila kikar d’oro; coloro che non avevano
dato nulla recriminavano come gli altri. La plebaglia era
gelosa dei nuovi Cartaginesi ai quali aveva promesso il
pieno diritto di cittadinanza; e perfino i Liguri, che si
erano battuti con tanto valore, venivano confusi con i
Barbari, venivano maledetti come loro; appartenere alla
loro razza diventava un delitto, una complicità. I
commercianti sulla soglia delle botteghe, i manovali che
passavano con un regolo di piombo in mano, i venditori
di salamoia che sciacquavano i recipienti, i bagnanti nelle
stufe e i venditori di bevande calde, tutti avevano
qualcosa da dire sulle operazioni militari. Con un dito
nella polvere si tracciavano piani di battaglia; e il più
infimo sguattero sapeva correggere gli errori di Amilcare.
Era, dicevano i sacerdoti, la punizione della sua
prolungata empietà. Non aveva offerto olocausti; non
aveva potuto purificare le truppe; aveva perfino rifiutato
di portare con sé gli àuguri; e lo scandalo del sacrilegio
rafforzava la violenza dell’odio represso, la rabbia delle
speranze tradite. Si ricordavano i disastri della Sicilia, il
pesante fardello del suo orgoglio che avevano portato per
tanto tempo! I collegi dei pontefici non gli perdonavano
di essersi impossessato del loro tesoro, e pretesero dal
Gran Consiglio l’impegno di crocifiggerlo, se mai fosse
tornato.
La calura del mese di Elul,4 eccessiva quell’anno, era
un’altra calamità. Dalle rive del lago salivano odori
nauseabondi; attraversavano l’aria insieme con i fumi
degli aromi che volteggiavano agli angoli delle strade. Si
udivano continuamente risuonare inni. Fiumi di popolo
occupavano i gradini dei templi: tutti i muri erano coperti
di veli neri; dei ceri bruciavano davanti agli dèi Pateci, e il
sangue dei cammelli sgozzati nei sacrifici, colando lungo
le rampe di scale, formava sui gradini rosse cascate. Un
funebre delirio agitava Cartagine. Dal fondo delle viuzze
più strette, dai più neri tuguri, sbucavano figure smunte,
uomini dal profilo di vipera, che digrignavano i denti. Le
grida acute delle donne riempivano le case, e, uscendo
dalle grate delle finestre, facevano voltare coloro che
discutevano in piedi nelle piazze. Talvolta si credeva che i
Barbari stessero arrivando; erano stati visti dietro la
Montagna delle Acque Calde; si erano accampati a
Tunisi; e le voci si moltiplicavano, si ingrandivano, si
confondevano in un unico clamore. Poi si ristabiliva un
silenzio generale, e alcuni restavano aggrappati sul
frontone degli edifici, con la mano aperta sopra gli occhi,
mentre altri, ventre a terra sotto i bastioni, tendevano
l’orecchio. Passato il terrore, ricominciava la collera. Ma la
convinzione della loro impotenza li precipitava di nuovo
nella solita tristezza.
E questa aumentava ogni sera quando tutti, saliti sulle
terrazze, si inchinavano per nove volte e lanciavano un
alto grido per salutare il Sole. Scendeva lentamente
dietro la laguna, e di colpo spariva tra le montagne, dalla
parte dei Barbari.
Si attendeva la festa tre volte santa in cui, dall’alto di
un rogo, un’aquila si alzava in volo verso il cielo, simbolo
della resurrezione dell’anno, messaggio del popolo al suo
Baal supremo, e che considerava una sorta di unione, un
modo di entrare in contatto con la forza del Sole. Del
resto, ora pieno di odio, il popolo si rivolgeva
istintivamente a Moloch-Omicida, e tutti abbandonavano
Tanit. In effetti la Rabbetna, non avendo più il suo velo,
era come privata di una parte della sua virtù; negava il
beneficio delle sue acque, aveva abbandonato Cartagine;
era una transfuga, una nemica. Alcuni, per oltraggiarla,
le gettavano pietre. Ma, pur ingiuriandola, la
compiangevano; la amavano ancora, e forse più
profondamente.
Tutte le sciagure derivavano dunque dalla perdita dello
zaimf. Salammbô vi aveva partecipato indirettamente;
veniva coinvolta nello stesso rancore; doveva essere
punita. Presto circolò nel popolo la vaga idea di un
sacrificio. Per placare i Baalim, bisognava senza dubbio
offrire loro qualcosa di un valore incalcolabile, una
creatura bella, giovane, vergine, di antica famiglia,
discendente degli dèi, un astro umano. Ogni giorno degli
sconosciuti invadevano i giardini di Megara; gli schiavi,
tremando per la propria vita, non osavano opporre
resistenza. Tuttavia non oltrepassavano la scalinata delle
galee. Restavano in basso, con gli occhi rivolti alla
terrazza più alta; aspettavano Salammbô, e per lunghe
ore gridavano contro di lei, come cani che abbaiano alla
luna.
X
Il serpente

Quei clamori della plebaglia non spaventavano la figlia di


Amilcare.
Era turbata da inquietudini ben più elevate: il suo
grande serpente, il Pitone nero, languiva; e il serpente
era per i Cartaginesi un feticcio nazionale e privato nello
stesso tempo. Lo si credeva figlio del limo della terra,
poiché emerge dalle sue profondità e non ha bisogno di
piedi per percorrerla; il suo incedere ricordava le
sinuosità dei fiumi; la sua temperatura, le antiche tenebre
viscide e feconde; e il cerchio che descrive mordendosi la
coda, l’insieme dei pianeti, l’intelligenza di Eshmun.
Quello di Salammbô aveva già rifiutato molte volte i
quattro passeri vivi che gli venivano offerti al plenilunio e
a ogni luna nuova. La sua bella pelle, disseminata come il
firmamento di macchie d’oro su un fondo nero, adesso
era gialla, flaccida, grinzosa e troppo larga per il suo
corpo; una muffa lanuginosa gli avvolgeva la testa; e
all’angolo delle palpebre si scorgevano dei puntini rossi
che sembravano in movimento. Di tanto in tanto,
Salammbô si avvicinava alla sua cesta di filo d’argento;
scostava la cortina di porpora, le foglie di loto, le piume
d’uccello; era sempre arrotolato su se stesso, più
immobile di una liana avvizzita; e, a forza di guardarlo,
finiva per sentire nel proprio cuore un sorta di spirale,
come un altro serpente che a poco a poco le salisse alla
gola e la strangolasse.
Salammbô era disperata per aver visto lo zaimf, e
tuttavia ne provava una specie di gioia, un intimo
orgoglio. Un mistero si celava nello splendore delle sue
pieghe; era la nube che avvolge gli dèi, il segreto
dell’esistenza universale, e Salammbô, inorridita di se
stessa, rimpiangeva di non averlo sollevato.
Se ne stava quasi sempre rannicchiata in fondo alla
sua stanza, con le mani incrociate sulla gamba sinistra
ripiegata, la bocca socchiusa, il mento sul petto e lo
sguardo fisso. Ricordava con spavento il volto di suo
padre; avrebbe voluto andarsene tra i monti della Fenicia,
in pellegrinaggio al tempio di Afaka,1 dove Tanit è scesa
in forma di stella; fantasie di ogni genere l’attraevano,
l’atterrivano; del resto era circondata da una solitudine
ogni giorno più profonda. Non sapeva neppure cosa
stesse accadendo ad Amilcare.
Infine, stanca dei suoi pensieri, si alzava, e,
trascinando i piccoli sandali la cui suola a ogni passo
schioccava contro i talloni, si aggirava per la grande
stanza silenziosa. Le ametiste e i topazi del soffitto
facevano tremare qua e là chiazze luminose, e
Salammbô, mentre camminava, volgeva un po’ la testa
per guardarle. Poi andava a prendere, per l’imboccatura,
una delle anfore sospese; si rinfrescava il petto con larghi
ventagli, oppure si divertiva a bruciare del cinnamomo
dentro perle cave. Al tramonto, Taanach toglieva le
losanghe di feltro nero che chiudevano le aperture della
parete; allora le sue colombe, odorose di muschio come
le colombe di Tanit, entravano all’improvviso, e le loro
zampe rosa scivolavano sulle lastre di vetro tra i chicchi
d’orzo che Salammbô distribuiva a piene mani, come un
seminatore in un campo. Ma d’un tratto scoppiava in
singhiozzi, e restava sdraiata sul grande letto appeso a
corregge di bue, immobile, ripetendo sempre una stessa
parola, a occhi aperti, pallida come una morta,
insensibile, fredda; e intanto udiva le strida delle scimmie
nei ciuffi di palme, con il continuo cigolio della grande
ruota che di piano in piano portava un fiotto di acqua
pura nella vasca di porfiro.
Talvolta rifiutava il cibo, per molti giorni. Vedeva in
sogno astri inquietanti che passavano sotto i suoi piedi.
Allora chiamava Shahabarim e, quando arrivava, non
aveva più niente da dirgli.
Non poteva vivere senza il sollievo della sua presenza.
Ma intimamente si ribellava al potere che aveva su di lei;
nei confronti del sacerdote sentiva nello stesso tempo
terrore, gelosia, odio e una specie di amore, come
riconoscimento per la singolare voluttà che provava
accanto a lui.
Shahabarim aveva riconosciuto l’influsso della Rabbet,
abile com’era nel distinguere gli dèi dai quali provenivano
le malattie; per guarire Salammbô, faceva spruzzare la
sua stanza con lozioni di verbena e adianto;2 ogni
mattina le faceva mangiare delle mandragore;3 la faceva
dormire con la testa sopra un sacchetto di aromi
preparati dai pontefici; aveva usato perfino il baaras,4
radice color del fuoco che respinge verso settentrione gli
spiriti malefici; infine, voltandosi verso la stella polare,
mormorò tre volte il nome misterioso di Tanit; ma
Salammbô continuava a soffrire, le sue angosce
diventarono più profonde.
Nessuno a Cartagine era più sapiente di lui. In
gioventù aveva studiato nel collegio dei Mogbed, a
Borsippa, vicino a Babilonia; poi aveva visitato
Samotracia, Pessinunte, Efeso, la Tessaglia, la Giudea, i
templi dei Nabatei sperduti tra le sabbie; e, dalle cataratte
al mare, aveva percorso a piedi le rive del Nilo. Col volto
coperto da un velo, e agitando delle fiaccole, aveva
gettato un gallo nero in un fuoco di sandracca,5 davanti
al petto della Sfinge, la madre del terrore. Era sceso nelle
caverne di Proserpina; aveva visto girare le cinquecento
colonne del labirinto di Lemno e risplendere il candelabro
di Taranto che regge sullo stelo tanti lampadari quanti
sono i giorni dell’anno; la notte, talvolta, riceveva dei
Greci per porre loro delle domande. La struttura del
mondo lo preoccupava non meno della natura degli dèi;
con le armille installate nel portico di Alessandria aveva
potuto osservare gli equinozi, e aveva accompagnato fino
a Cirene i bematisti6 di Evergete che misurano il cielo
contando il numero dei propri passi; così, adesso,
maturava nella sua mente una religione particolare, senza
formule precise, e, proprio per questo, piena di vertigini
e di ardori. Non credeva più che la terra fosse fatta come
una pigna; credeva che fosse rotonda, e che precipitasse
eternamente nell’immensità con una velocità talmente
prodigiosa da non lasciarne percepire la caduta.
Dalla posizione del sole al di sopra della luna, traeva la
conclusione di un predominio di Baal, di cui l’astro non è
che il riflesso e l’immagine; del resto, tutto quello che
vedeva nella realtà terrestre lo costringeva a riconoscere
come supremo il principio maschile sterminatore. Inoltre,
in cuor suo imputava alla Rabbet la sventura della sua
vita. Non era forse per causa sua che in un tempo
lontano il gran pontefice, avanzando nel tumulto dei
cembali, gli aveva preso sotto una patera d’acqua
bollente la sua futura virilità? E seguiva con occhio
malinconico gli uomini che si perdevano con le
sacerdotesse nel folto dei terebinti.
I suoi giorni trascorrevano nelle ispezioni ai turiboli, ai
vasi d’oro, alle molle, ai rastrelli per le ceneri dell’altare e
a tutti gli addobbi delle statue fino allo spillone di bronzo
che serviva ad arricciare i capelli di una vecchia Tanit,
nella terza edicola, vicino alla vite di smeraldo. Sempre
alle stesse ore, sollevava i grandi tendaggi delle stesse
porte per poi lasciarli ricadere; restava a braccia aperte
nella stessa posizione; pregava prostrato sullo stesso
pavimento, mentre intorno a lui un popolo di preti
circolava a piedi nudi nei corridoi immerso in un eterno
crepuscolo.
Ma sull’aridità della sua vita Salammbô splendeva
come un fiore nella crepa di un sepolcro. Tuttavia era
duro con lei, né le risparmiava penitenze e parole amare.
La sua condizione stabiliva tra loro quasi l’eguaglianza di
un sesso comune, ed egli provava per la vergine un certo
rancore dovuto non tanto al fatto di non poterla
possedere quanto a quello di vederla così bella e
soprattutto così pura. Spesso si rendeva conto che lei si
affaticava a seguire il suo pensiero. Allora se ne tornava
via più triste; si sentiva più abbandonato, più solo, più
vuoto.
Talvolta gli sfuggivano delle parole strane, che
passavano davanti a Salammbô come grandi lampi che
illuminano gli abissi. Accadeva la notte, sulla terrazza,
quando, soli, guardavano le stelle, e Cartagine si
stendeva in basso, ai loro piedi, col golfo e il mare aperto
vagamente confusi nel colore delle tenebre.
Le esponeva la teoria delle anime che scendono sulla
terra, seguendo la stessa strada del Sole attraverso i
segni dello zodiaco. Col braccio teso, indicava nell’Ariete
la porta della generazione umana, nel Capricorno quella
del ritorno agli dèi; e Salammbô si sforzava di vederle,
considerando realtà quelle immagini; infatti accettava
come veri in sé dei puri simboli e perfino certi modi di
dire; queste distinzioni non erano molto precise neppure
per il prete.
«Le anime dei morti», diceva, «si dissolvono nella luna
come i cadaveri nella terra. Le loro lacrime costituiscono
la sua umidità; è un soggiorno oscuro pieno di fango, di
detriti e di tempeste».
Salammbô chiese cosa ne sarebbe stato di lei.
«All’inizio languirai, leggera come un vapore che
fluttua sulle onde; e dopo alcune prove e angosce più
lunghe, te ne andrai al focolare del Sole, alla sorgente
stessa dell’Intelligenza!».
Ma non parlava mai della Rabbet. Salammbô pensava
che lo facesse per pudore nei confronti della sua dea
umiliata, e chiamandola con un nome che indicava
comunemente la luna, si diffondeva in benedizioni
sull’astro fertile e dolce. Alla fine esclamò:
«No! No! È dall’altro che prende tutta la sua fertilità!
Ma non vedi che gli gira intorno come una donna
innamorata che corre dietro a un uomo in un campo?».
Ed esaltava continuamente la virtù della luce.
Non reprimeva affatto i suoi desideri mistici, anzi li
stimolava, e sembrava godesse a tormentarla con le
rivelazioni di una dottrina spietata. Salammbô, malgrado
le sofferenze del suo amore, accoglieva avidamente
quelle parole.
Ma più Shahabarim dubitava di Tanit, più voleva
crederci. Lo tratteneva un rimorso nel profondo
dell’anima. Avrebbe avuto bisogno di una prova, di una
manifestazione divina, e nella speranza di ottenerla il
sacerdote immaginò un’impresa che avrebbe potuto
salvare nello stesso tempo la sua patria e la sua fede.
Da quel momento si mise a deplorare davanti a
Salammbô il sacrilegio e le sciagure che ne derivavano fin
nelle regioni celesti. Poi, d’un tratto, le rivelò il pericolo
che correva il suffeta, assalito da tre eserciti comandati da
Mâtho; perché a causa del velo i Cartaginesi
consideravano Mâtho il re dei Barbari. E aggiunse che la
salvezza della Repubblica e di suo padre dipendevano
soltanto da lei.
«Da me!», esclamò lei. «Come potrei...?».
Ma il prete, con un sorriso sprezzante:
«Non acconsentirai mai!».
Lei lo supplicava. Finalmente Shahabarim gli disse:
«Bisogna che tu vada al campo dei Barbari, a
riprendere lo zaimf!».
Salammbô si lasciò cadere sullo sgabello di ebano;
restava con le braccia abbandonate tra le ginocchia, e un
tremito in tutto il corpo, come una vittima ai piedi
dell’altare mentre attende il colpo di mazza. Le ronzavano
le tempie, vedeva roteare cerchi di fuoco, e, nel suo
stupore, capiva soltanto una cosa: che certamente stava
per morire.
Ma se Rabbet trionfava, se lo zaimf veniva restituito e
Cartagine liberata, che importanza poteva avere la vita di
una donna! – pensava Shahabarim. Poteva anche
accadere che riuscisse a ottenere il velo senza perdere la
vita.
Per tre giorni non tornò; la sera del quarto, lei lo
mandò a chiamare.
Per meglio infiammarle il cuore, Shahabarim le riferiva
tutte le invettive urlate contro Amilcare in pieno
Consiglio; le diceva che sua era la colpa, che doveva
riparare e che la Rabbet ordinava quel sacrificio.
Spesso un grande clamore, percorrendo la via dei
Mappali, giungeva fino a Megara. Shahabarim e
Salammbô uscivano subito a guardare dall’alto della
scalinata delle galee.
Erano uomini sulla piazza di Khamon, che gridavano
per avere armi. Gli Anziani non volevano dargliene,
considerandolo uno sforzo inutile; altri che erano partiti
senza generali, erano stati massacrati. Finalmente ebbero
il permesso di andare e, per una sorta di omaggio a
Moloch o per un vago istinto di distruzione, svelsero nei
boschi dei templi grandi cipressi, e, avendoli accesi con le
torce dei Cabiri, li portavano per le strade cantando.
Quelle fiamme mostruose avanzavano, ondeggiando
lentamente; mandavano bagliori sui globi di vetro che
sormontavano i templi, sugli ornamenti dei colossi, sui
rostri delle navi; superavano in altezza le terrazze delle
case e sembravano dei soli che roteassero per la città.
Scesero l’Acropoli. La porta di Malqua si aprì.
«Sei pronta?», gridò Shahabarim. «O hai detto loro di
far sapere a tuo padre che vuoi abbandonarlo?».
Salammbô si nascose il viso nei veli, mentre i grandi
bagliori si allontanarono, abbassandosi a poco a poco
fino alla riva del mare.
La tratteneva una paura confusa, aveva paura di
Moloch, paura di Mâtho. Quell’uomo dalla statura
gigantesca, che era padrone dello zaimf, dominava sia la
Rabbet che il Baal, e lo vedeva avvolto dagli stessi
fulgori; l’anima degli dèi visitava talvolta i corpi degli
uomini. Shaharabim, quando parlava di lui, non le diceva
forse che avrebbe dovuto sconfiggere Moloch? L’uno e
l’altro si confondevano insieme nella sua mente; entrambi
la perseguitavano.
Volle conoscere il futuro e si avvicinò al serpente,
poiché si traevano auspici dal comportamento dei
serpenti. Ma la cesta era vuota; Salammbô ne rimase
turbata.
Lo trovò arrotolato per la coda a una colonnina
d’argento, vicino al letto sospeso; vi si sfregava per
liberarsi della vecchia pelle giallastra, mentre il corpo
rilucente e chiaro si allungava come una spada estratta
dal fodero per metà.
Nei giorni seguenti, a mano a mano che Salammbô si
lasciava convincere ed era sempre più disposta ad aiutare
Tanit, il pitone guariva, ingrossava, sembrava rivivere.
Allora la certezza che Shahabarim esprimesse la
volontà degli dèi si stabilì nella sua coscienza. Una
mattina si svegliò determinata, e chiese cosa doveva fare
perché Mâtho le restituisse il velo.
«Chiederlo», disse Shahabarim.
«Ma se rifiuta?».
Il sacerdote la guardò fisso, e con un sorriso che lei
non aveva mai visto.
«Sì, come fare?».
Arrotolava tra le dita l’estremità delle bende che dalla
tiara gli scendevano sulle spalle, con gli occhi bassi,
immobile. Poi, vedendo che lei non capiva:
«Sarai sola con lui».
«E poi?»
«Sola nella sua tenda».
«E allora?».
Shahabarim si morse le labbra. Cercava una frase, un
giro di parole.
«Se devi morire, avverrà più tardi», disse, «più tardi!
Non temere! E qualunque cosa faccia, non chiamare! Non
aver paura! Dovrai essere umile, capisci? E sottomessa al
suo desiderio, che è l’ordine del cielo!».
«Ma il velo?»
«Ci penseranno gli dèi», rispose Shahabarim.
Salammbô aggiunse:
«Se tu mi accompagnassi, padre?»
«No!».
La fece inginocchiare e, con la mano sinistra alzata e la
destra protesa, giurò per lei di riportare a Cartagine il
manto di Tanit. Consacrandosi agli dèi con terribili
imprecazioni, Salammbô ripeteva ogni parola pronunciata
da Shahabarim, e si sentiva svenire.
Le indicò tutte le purificazioni, i digiuni che doveva
fare e in che modo giungere fino a Mâtho. Del resto
l’avrebbe accompagnata un uomo pratico delle strade.
Si sentì sollevata. Non pensava più ad altro che alla
gioia di rivedere lo zaimf, e ora benediceva Shahabarim
per le sue esortazioni.
Era il periodo in cui le colombe di Cartagine
emigravano in Sicilia, sulla montagna di Erice, intorno al
tempio di Venere. Prima della partenza, per molti giorni,
si cercavano, si chiamavano per riunirsi; finalmente una
sera spiccarono il volo; il vento le spingeva, e quella
grande nube bianca si librava nel cielo, sopra il mare,
altissima.
L’orizzonte era color sangue. Sembravano scendere
lentamente verso i flutti, poi d’un tratto sparirono come
inghiottite, precipitate nella gola del sole. Salammbô, che
le guardava allontanarsi, chinò la testa, e Taanach,
credendo d’indovinare la sua tristezza, le disse
dolcemente:
«Ma ritorneranno, padrona».
«Sì! Lo so».
«E tu le rivedrai».
«Forse!», disse sospirando.
Non aveva confidato a nessuno la sua decisione; per
attuarla con maggiore segretezza, mandò Taanach
(invece di chiederlo agli intendenti) ad acquistare nel
sobborgo di Kinisdo tutto quello che le serviva: cinabro,
aromi, una cintura di lino e vesti nuove. La vecchia
schiava era stupita per quei preparativi, ma non osava
fare domande; e arrivò il giorno, scelto da Shahabarim,
in cui Salammbô doveva partire.
Verso la dodicesima ora, scorse in fondo ai sicomori
un vecchio cieco, che aveva una mano appoggiata sulla
spalla di un ragazzo che lo precedeva, e con l’altra
reggeva contro l’anca una specie di cetra di legno nero.
Gli eunuchi, gli schiavi e le donne erano stati allontanati
con cura, perché nessuno doveva sapere cosa si stava
misteriosamente preparando.
Taanach accese, agli angoli della stanza, quattro
tripodi pieni di strobo e cardamomo;7 poi dispiegò certi
grandi tendaggi babilonesi e li stese su delle corde,
tutt’intorno alla stanza: Salammbô non voleva essere
vista, neppure dai muri. Il suonatore di kinnor8 se ne
stava accovacciato dietro la porta, mentre il ragazzo, in
piedi, appoggiava alle labbra un flauto di canne. Lontano
si affievoliva il clamore delle strade, ombre violette si
allungavano davanti al peristilio dei templi, e, dall’altro
lato del golfo, le falde delle montagne, i campi di olivi e i
gialli terreni in abbandono, ondeggiando indefinitamente
si confondevano in un vapore bluastro; non si udiva
alcun rumore, un’oppressione indicibile pesava nell’aria.
Salammbô sedette sul gradino di onice, sul bordo della
vasca; rialzò le ampie maniche che fissò dietro le spalle e
cominciò le abluzioni, metodicamente, secondo i riti
sacri.
Infine Taanach le portò una fiala di alabastro che
conteneva un liquido in parte coagulato; era il sangue di
un cane nero, sgozzato da donne sterili in una notte
d’inverno tra le rovine di un sepolcro. Se ne sfregò le
orecchie, i talloni, il pollice della mano destra, e le restò
un po’ di rosso sull’unghia come se avesse schiacciato un
frutto.
Sorse la luna; allora la cetra e il flauto si misero a
suonare insieme.
Salammbô si sfilò gli orecchini, la collana, i
braccialetti, la lunga zimarra bianca; sciolse la fascia che
le cingeva i capelli, e per qualche minuto li scosse sulle
spalle, piano, per rinfrescarsi mentre si spargevano. Fuori
la musica continuava; erano tre note, sempre le stesse,
concitate, furiose; le corde stridevano, il flauto gemeva;
Taanach segnava il tempo battendo le mani; Salammbô,
ondeggiando con tutto il corpo, salmodiava preghiere e
le vesti, una dopo l’altra, le scivolavano ai piedi.
Il pesante tendaggio tremò, e sopra la corda che lo
reggeva apparve la testa del pitone. Scese lentamente,
come una goccia d’acqua che coli lungo un muro, strisciò
tra le vesti sparse, poi, con la coda incollata a terra, si
rizzò di colpo; e i suoi occhi, più brillanti di due
carbonchi, fissavano Salammbô.
L’orrore del freddo o il pudore, forse, all’inizio la
fecero esitare. Ma ricordò gli ordini di Shahabarim, si fece
avanti; il pitone si piegò e appoggiandole sulla nuca il
centro del corpo, lasciava penzolare la testa e la coda
come una collana spezzata i cui due capi scendessero fino
a terra. Salammbô se lo avvolse intorno ai fianchi, sotto
le braccia, tra le ginocchia; poi, tenendolo per la
mascella, avvicinò quelle piccole fauci triangolari alla
propria bocca e, socchiudendo gli occhi, si rovesciò sotto
i raggi della luna. La bianca luce sembrava avvolgerla in
una nebbia d’argento, le orme dei suoi passi umidi
brillavano sul pavimento, riflessi di stelle palpitavano
nell’acqua profonda; il serpente stringeva intorno a lei le
nere spire tigrate di macchie d’oro. Salammbô ansimava
sotto quel grave peso, inarcava le reni, si sentiva morire;
e la cima della coda le batteva sulla coscia piano piano;
poi la musica tacque, e il serpente ricadde a terra.
Taanach le tornò accanto; e quando ebbe sistemato
due candelabri le cui fiamme ardevano dentro globi di
cristallo pieni d’acqua, le tinse di lausonia il palmo delle
mani, le passò del cinabro sulle guance, dell’antimonio
sull’orlo delle palpebre, e le allungò le sopracciglia con
una mistura di gomma, muschio, ebano e zampe di
mosca schiacciate.
Salammbô, seduta su una sedia dai braccioli d’avorio,
si abbandonava alle cure della schiava. Ma quei contatti,
l’odore degli aromi e i digiuni cui si era sottoposta, la
innervosivano. Diventò così pallida che Taanach si fermò.
«Continua!», disse Salammbô e, irrigidendosi per farsi
forza, si rianimò di colpo. Allora fu presa dall’impazienza;
ora incitava Taanach a fare in fretta, e la vecchia schiava
borbottando:
«Va bene! Va bene! Padrona!... Non c’è mica nessuno
che ti aspetta!».
«Sì», disse Salammbô, «qualcuno mi aspetta».
Taanach indietreggiò sorpresa, e per saperne di più:
«Quali sono i tuoi ordini, padrona? Perché se devi
assentarti...».
Ma Salammbô singhiozzava; la schiava esclamò:
«Tu stai soffrendo! Che hai dunque? Non andare!
Portami con te! Quando eri piccola e piangevi, ti
stringevo al petto e ti facevo ridere con i capezzoli delle
mie mammelle; sei stata tu a prosciugarle, padrona!». E
si dava dei colpi sul petto avvizzito. «Ora sono vecchia!
Non posso più fare nulla per te! Tu non mi vuoi più bene!
Mi nascondi i tuoi dolori, disprezzi la tua nutrice!». E
lacrime di commozione e di dispetto le colavano sulle
guance, nei solchi dei tatuaggi.
«No», disse Salammbô, «no, ti voglio bene! Stai
tranquilla!».
Taanach, con un sorriso simile alla smorfia di una
vecchia scimmia, riprese il suo lavoro. Secondo le
raccomandazioni di Shahabarim, Salammbô le aveva
ordinato di farla splendida; e lei la stava preparando
secondo un gusto barbaro, molto raffinato e insieme
ingenuo.
Sopra una prima tunica, sottile, color vino, ne infilò
una seconda, ricamata con piume di uccello. I fianchi
erano fasciati da una larga cintura di scaglie d’oro, da cui
scendevano le larghe pieghe dei pantaloni blu, stellati
d’argento. Poi le fece indossare un’ampia veste tagliata
nella tela del paese dei Seri,9 bianca a strisce verdi. Fissò
sulle spalle uno scialle quadrato di porpora, appesantito
in basso da pendagli di sandastro; e sotto tutte queste
vesti appoggiò un mantello nero a strascico; poi la
contemplò e, fiera del suo lavoro, non poté fare a meno
di dire:
«Non sarai più bella il giorno delle tue nozze!».
«Le mie nozze!», ripeté Salammbô, pensierosa, con il
gomito appoggiato sul bracciolo della sedia d’avorio.
Ma Taanach le pose davanti uno specchio di rame così
largo e alto che poteva vedercisi tutta. Allora si alzò, e
con un colpetto del dito sollevò un ricciolo che scendeva
troppo in basso.
I capelli erano cosparsi di polvere d’oro, arricciati sulla
fronte, mentre dietro pendevano in lunghe trecce adorne
di perle. I bagliori dei candelabri ravvivavano il trucco
delle guance, l’oro delle vesti, il candore della pelle;
aveva intorno alla vita, sulle braccia, sulle mani e alle dita
dei piedi, una tale abbondanza di pietre preziose che lo
specchio, come un sole, rifletteva i suoi raggi; e
Salammbô, in piedi accanto a Taanach che si chinava per
vederla, sorrideva in mezzo a quello splendore.
Poi passeggiò su e giù per la stanza, infastidita per il
tempo che doveva passare.
D’un tratto un gallo cantò. In fretta si appuntò sui
capelli un lungo velo giallo, si avvolse una sciarpa intorno
al collo, infilò i piedi in stivaletti di cuoio blu, e disse a
Taanach:
«Vai a vedere se sotto i mirti c’è un uomo con due
cavalli».
Taanach era appena rientrata che lei già scendeva la
scalinata delle galee.
«Padrona!», gridò la nutrice.
Salammbô si girò, con un dito sulla bocca in segno di
discrezione e immobilità.
Taanach scivolò lentamente lungo le prue fin sotto la
terrazza; e da lontano, al chiarore della luna, riuscì a
vedere, nel viale dei cipressi, un’ombra gigantesca che
camminava obliqua alla sinistra di Salammbô: questo era
un presagio di morte.
Taanach risalì nella stanza. Si gettò per terra,
lacerandosi il viso con le unghie; si strappava i capelli, e
lanciava grida acute a piena gola.
Le venne in mente che qualcuno poteva udirla; allora
tacque. Ora singhiozzava in silenzio, la testa tra le mani e
il viso sul pavimento.
XI
Nella tenda

L’uomo che guidava Salammbô la fece risalire oltre il


faro, verso le Catacombe; poi scesero attraverso il lungo
sobborgo di Moluya, pieno di viuzze scoscese. L’alba
cominciava a imbiancare il cielo. Ogni tanto, travi di
palma che sporgevano dai muri li obbligavano ad
abbassare la testa. I due cavalli, che avanzavano al passo,
spesso scivolavano; finalmente arrivarono alla porta di
Teveste.
I pesanti battenti erano socchiusi; passarono; la porta
si richiuse dietro di loro.
All’inizio seguirono per un po’ i bastioni; poi, all’altezza
delle Cisterne, si inoltrarono sulla Tenia, la stretta lingua
di terra gialla che, separando il golfo dal lago, si
prolunga fino a Rades.
Intorno a Cartagine non si vedeva nessuno, né sul
mare, né nei campi. Le onde color ardesia sciabordavano
dolcemente, e un vento leggero, spingendone la schiuma
qua e là, le macchiava di squarci bianchi. Malgrado tutti i
suoi veli, Salammbô rabbrividiva all’aria fresca del
mattino; il movimento e l’aria pura la stordivano. Poi si
alzò il sole; le mordeva la nuca; senza rendersene conto,
lei si assopiva. Le due bestie, fianco a fianco, trottavano
d’ambio affondando gli zoccoli nella sabbia muta.
Oltrepassata la Montagna delle Acque Calde,
proseguirono ad andatura più veloce, su un terreno più
duro.
Ma i campi, benché si fosse nella stagione delle semine
e dell’aratura, per quanto si guardasse lontano, erano
vuoti come il deserto. C’erano qua e là, sparsi, dei
mucchi di grano; altrove, piante di orzo bruciacchiate si
sgranavano. Sull’orizzonte chiaro si stagliavano le
sagome nere dei villaggi, con forme incoerenti e
frastagliate.
Di tanto in tanto appariva lungo la strada un tratto di
muro semicalcinato. I tetti delle capanne erano crollati, e
nell’interno si vedevano cocci di stoviglie, brandelli di
vestiti, ogni sorta di utensili e oggetti in pezzi,
irriconoscibili. Spesso sbucava da quelle rovine un essere
coperto di stracci, il volto terreo e gli occhi infuocati. Ma
presto si metteva a correre o scompariva in un buco.
Salammbô e la sua guida non si fermavano.
Le pianure in abbandono si susseguivano. Su grandi
tratti di terra bionda si stendevano lunghe strisce ineguali
di polvere di carbone, che si alzava al loro passaggio.
Talvolta incontravano piccoli luoghi tranquilli, un ruscello
che scorreva tra alte erbe; e, risalendo sull’altra riva,
Salammbô strappava delle foglie bagnate per rinfrescarsi
le mani. Dietro un cespuglio di oleandri, il suo cavallo
scartò davanti al cadavere di un uomo steso a terra.
Subito lo schiavo la risistemò sulla sella. Era un
servitore del Tempio, un uomo che Shahabarim
impiegava nelle missioni pericolose.
Per maggior precauzione, ora avanzava a piedi, al suo
fianco e tra i cavalli; e li frustava con un laccio di cuoio
avvolto intorno a un braccio, oppure traeva da una sacca
appesa al petto certe polpette di frumento, di datteri e di
tuorli d’uovo, avvolte in foglie di loto, e le offriva a
Salammbô, senza una parola, continuando a correre.
Verso mezzogiorno tre Barbari, vestiti di pelli, li
incrociarono sulla strada. A poco a poco ne apparvero
altri, vagavano in gruppi di dieci, dodici, venticinque
uomini; molti spingevano avanti delle capre o qualche
vacca che zoppicava. I loro pesanti bastoni erano irti di
chiodi di bronzo; dei coltellacci luccicavano sui loro vestiti
di una sporcizia selvaggia, e sgranavano occhi minacciosi
e inebetiti. Mentre passavano, alcuni gli rivolgevano una
benedizione di uso comune; altri, delle facezie oscene; e
l’uomo di Shahabarim rispondeva a ognuno nella sua
lingua. Diceva che si trattava di un ragazzo malato, che
per guarire andava in un tempio lontano.
Intanto scendeva la sera. Si udirono latrati; vi si
diressero.
Poi, al chiarore del crepuscolo, scorsero un recinto di
pietre a secco che racchiudeva una costruzione informe.
Un cane correva sul muro. Lo schiavo gli gettò dei sassi;
ed entrarono in una stanza con un alto soffitto a volta.
Nel mezzo, una donna accovacciata si scaldava accanto
a un fuoco di sterpi il cui fumo sfuggiva attraverso i buchi
nel soffitto. I capelli bianchi, che le scendevano fino alle
ginocchia, la nascondevano per metà; e non volendo
rispondere alle domande, borbottava con aria idiota
parole di vendetta contro i Barbari e contro i Cartaginesi.
La guida frugava a destra e a sinistra. Poi tornò
accanto a lei, chiedendole da mangiare. La vecchia
scuoteva la testa e, con gli occhi fissi sui carboni,
mormorò:
«Io ero la mano. Le dieci dita sono tagliate. La bocca
non mangia più».
Lo schiavo le mostrò una manciata di monete d’oro.
Lei vi si gettò sopra, ma poi riprese la sua immobilità.
Alla fine le puntò alla gola un pugnale che portava alla
cintura. Allora la vecchia, tremante, andò a sollevare una
larga pietra e portò un’anfora di vino e dei pesci di
Ippozarito spalmati di miele.
Salammbô si allontanò con disgusto da quel cibo
immondo e si addormentò sulle gualdrappe dei cavalli
distese in un angolo della stanza.
Prima che fosse giorno, la guida la svegliò.
Il cane ululava. Lo schiavo gli si avvicinò lentamente; e
con un solo colpo di pugnale gli mozzò la testa. Poi
sfregò col sangue le froge dei cavalli, per rianimarli. La
vecchia gli lanciò dietro una maledizione. Salammbô se
ne accorse, e strinse l’amuleto che portava sul cuore.
Si rimisero in marcia.
Di tanto in tanto lei chiedeva se mancava ancora
molto. La strada serpeggiava in un paesaggio di colline.
Si udiva soltanto lo stridìo delle cicale. Il sole scaldava
l’erba ingiallita; la terra era ovunque rotta da crepacci che
la dividevano in lastroni mostruosi. Talvolta passava una
vipera, volava un’aquila; lo schiavo continuava a correre;
Salammbô fantasticava sotto i suoi veli, e malgrado il
caldo non li sollevava nel timore di sporcare i bei vestiti.
A distanze regolari si ergevano delle torri, costruite dai
Cartaginesi per sorvegliare le tribù. Vi entravano per
mettersi all’ombra, poi ripartivano.
Alla vigilia, per prudenza, avevano fatto un grande
giro. Ma ora non incontravano nessuno; la regione era
sterile, i Barbari non ci erano neppure passati.
Poi, a poco a poco, ricominciarono i segni della
devastazione. Talvolta, in mezzo a un campo, appariva
un mosaico, unico resto di un castello scomparso; e gli
olivi, senza foglie, da lontano sembravano grandi
cespugli di rovi. Attraversarono un borgo le cui case
erano state rase al suolo dal fuoco. Si vedevano lungo le
mura degli scheletri umani; ce n’erano anche di
dromedari e di muli. Carogne mezze rosicchiate
sbarravano le strade.
Scendeva la notte. Il cielo era basso e coperto di nubi.
Risalirono ancora per due ore verso occidente e,
improvvisamente, videro davanti a sé un gran numero di
fiammelle.
Brillavano sul fondo di un anfiteatro. Qua e là
scintillavano, spostandosi, alcune piastre d’oro: erano le
corazze dei Clinabari, l’accampamento punico; poi
scorsero tutt’intorno altre luci più numerose, perché gli
eserciti dei Mercenari, ora confusi insieme, si
estendevano su un grande spazio. Salammbô fece per
andare avanti. Ma l’uomo di Shahabarim la condusse più
lontano, e costeggiarono il terrapieno che chiudeva il
campo dei Barbari. Vi si apriva una breccia; lo schiavo
scomparve.
Sopra il terrapieno camminava una sentinella con un
arco in mano e una picca in spalla.
Salammbô continuava ad avvicinarsi; il Barbaro si
inginocchiò, e una lunga freccia le trapassò l’orlo del
mantello. Poi, siccome rimaneva immobile, le chiese
gridando che cosa volesse.
«Parlare a Mâtho», rispose. «Sono in fuga da
Cartagine».
Il Barbaro lanciò un fischio, che fu ripetuto di distanza
in distanza.
Salammbô attese; il suo cavallo, spaventato, girava su
se stesso sbuffando.
Quando Mâtho arrivò, la luna si stava alzando dietro di
lei. Ma il velo giallo a fiori neri che aveva sul viso, e le
tante vesti intorno al corpo, rendevano impossibile il suo
riconoscimento. Dall’alto del terrapieno, Mâtho osservava
quella forma incerta che si ergeva come un fantasma
nelle penombre della sera.
Finalmente lei gli disse:
«Portami nella tua tenda! Lo voglio!».
Un ricordo che non riusciva a definire gli attraversò la
memoria. Sentì battere il cuore. Quel tono imperioso lo
intimidiva.
«Seguimi!», le disse.
La barriera fu abbassata; e Salammbô fu dentro il
campo dei Barbari.
Lo riempivano un gran tumulto e una grande folla.
Fuochi abbaglianti ardevano sotto marmitte sospese; e i
loro riflessi purpurei, illuminando certi luoghi, ne
lasciavano altri nelle tenebre più fonde. Si udiva gridare,
chiamare; i cavalli legati per la cavezza formavano lunghe
linee diritte in mezzo alle tende, che erano rotonde,
quadrate, di cuoio o di tela; c’erano capanne di giunco e
tane nella sabbia come quelle dei cani. I soldati
trascinavano fascine, si accovacciavano per terra o si
avvolgevano in una stuoia preparandosi a dormire; e
talvolta il cavallo di Salammbô, per scansarli, doveva
allungare una zampa e saltare.
Lei si ricordava di averli già visti; ma le loro barbe
erano più lunghe, le facce ancora più nere, le voci più
rauche. Mâtho, che la precedeva, li scostava con un gesto
del braccio che sollevava il mantello rosso. Alcuni gli
baciavano le mani; altri, chinando la schiena, lo
avvicinavano per chiedere ordini; perché era il vero,
l’unico capo dei Barbari; Spendio, Autarito e Narr’Havas
erano scoraggiati, mentre lui aveva dimostrato tanta
audacia e ostinazione che tutti gli obbedivano.
Salammbô, seguendolo, attraversò l’intero
accampamento. La sua tenda era all’estremità opposta, a
trecento passi dal trinceramento di Amilcare.
Notò alla sua destra un’ampia fossa, e le sembrò che
dei volti si appoggiassero al bordo, al livello del suolo,
come teste mozzate. Tuttavia i loro occhi si muo vevano,
e dalle bocche semiaperte uscivano lamenti in lingua
punica.
Due Negri che reggevano ognuno una torcia di resina
stavano ai lati dell’ingresso. Mâtho ne scostò la tela
bruscamente. Salammbô lo seguì.
Era una tenda ampia, con un palo nel mezzo. La
rischiarava una grande lampada a forma di loto, piena di
olio giallo sul quale galleggiavano ciuffi di stoppa, e si
scorgevano vari oggetti militari che rilucevano
nell’ombra. Una spada sguainata era appoggiata a uno
sgabello, accanto a uno scudo; fruste di cuoio di
ippopotamo, cimbali, sonagli, collane erano alla rinfusa
dentro ceste di sparto; briciole di pane nero erano sparse
su una tovaglia di feltro; in un angolo, su una pietra
rotonda, erano ammucchiate con negligenza monete di
rame, e, attraverso gli strappi della tela, il vento portava
da fuori la polvere insieme con l’odore degli elefanti, che
si udivano mangiare scuotendo le catene.
«Chi sei?», chiese Mâtho.
Senza rispondere, Salammbô si guardava intorno,
lentamente, poi i suoi occhi si fermarono sul fondo della
tenda, dove su un letto di rami di palma era adagiato
qualcosa di bluastro e scintillante.
Fece un passo in avanti. Le sfuggì un grido. Mâtho,
dietro di lei, era spazientito.
«Chi ti manda? Che sei venuto a fare?».
Lei rispose indicando lo zaimf:
«A riprendermelo!», e con l’altra mano si tolse i veli
dalla testa. Mâtho indietreggiò, le braccia indietro, a
bocca aperta, quasi atterrito.
Salammbô si sentiva sostenuta dalla forza degli dèi; e,
guardandolo negli occhi, gli chiese lo zaimf; lo reclamava
con parole eloquenti e superbe.
Mâtho non ascoltava; la contemplava, e nella sua
mente le vesti di Salammbô erano tutt’uno col suo corpo.
Il luccichio delle stoffe era, come la lucentezza della sua
pelle, qualcosa di speciale che poteva appartenere a lei
soltanto. I suoi occhi, i suoi diamanti scintillavano; il
nitore delle sue unghie proseguiva lo splendore delle
gemme che le coprivano le dita; i due fermagli della
tunica, sollevando leggermente i seni, li avvicinavano
l’uno all’altro, e Mâtho si perdeva con il pensiero nel loro
stretto intervallo, dove scendeva un filo a reggere un
gioiello di smeraldi, che si scorgeva più in basso sotto il
velo violetto. Aveva per orecchini due piccole bilance di
zaffiri con incastonata una perla cava, piena di profumo
liquido. Dai fori delle perle cadeva ogni tanto una goccia,
che le inumidiva la spalla nuda. Mâtho la guardava
cadere.
Lo prese una curiosità irresistibile; e, come un
bambino che allunghi la mano verso un frutto
sconosciuto, tutto tremante, con la punta di un dito, la
toccò leggermente sulla parte alta del petto; la carne un
po’ fredda cedette con una resistenza elastica.
Quel contatto, per quanto lievissimo, sconvolse Mâtho
fino in fondo all’anima. Uno slancio di tutto il suo essere
lo trascinava verso di lei. Avrebbe voluto avvolgerla,
assorbirla, berla. Ansimava, batteva i denti.
Prendendola per i polsi, la attirò dolcementre a sé, e si
sedette su una corazza, accanto al letto di palme coperto
da una pelle di leone. Lei stava in piedi. La guardava dal
basso in alto, tenendola tra le gambe, e ripeteva:
«Come sei bella! Come sei bella!».
Gli occhi di lui continuamente fissi nei suoi la facevano
soffrire; e quel disagio, quella ripugnanza crescevano con
tale intensità che Salammbô doveva trattenersi per non
gridare. Le tornò in mente Shahabarim; si rassegnò.
Mâtho continuava a tenere le sue piccole mani tra le
sue; e di tanto in tanto, malgrado le raccomandazioni del
prete, torceva il viso e tentava di divincolarsi scuotendo le
braccia. Mâtho dilatava le narici per meglio odorare il
profumo che tutto il suo corpo emanava. Era un effluvio
indefinibile, fresco, ma che stordiva come il fumo di un
incensiere. Salammbô sapeva di miele, di pepe, di
incenso, di rose, e di altro ancora.
Ma come mai si trovava con lui, nella sua tenda, in suo
potere? Forse qualcuno l’aveva mandata? Era venuta solo
per lo zaimf? Lasciò cadere le braccia e chinò la testa,
oppresso da improvvisi pensieri.
Lei, per intenerirlo, gli disse con voce lamentosa:
«Che ti ho fatto dunque per volere la mia morte?»
«La tua morte!».
Salammbô proseguì:
«Ti ho visto una sera, alla luce dei miei giardini che
bruciavano, tra coppe fumanti e schiavi sgozzati, e la tua
collera era tale che sei balzato verso di me e ho dovuto
fuggire! Poi il terrore è entrato a Cartagine. Si gridava di
città devastate, di campagne bruciate, di soldati
massacrati; tu li avevi rovinati, tu li avevi assassinati! Ti
odio! Il tuo solo nome mi tormenta come un rimorso. Sei
più esecrato della peste e della guerra romana! Le
province tremano per il tuo furore, i solchi sono pieni di
cadaveri! Ho seguito la traccia dei tuoi fuochi, come se
camminassi dietro a Moloch!».
Mâtho si alzò di scatto; un orgoglio colossale gli
gonfiava il cuore; si sentiva un dio.
Con le narici palpitanti, i denti stretti, lei continuava:
«E come se il tuo sacrilegio non bastasse, sei venuto
da me, mentre dormivo, avvolto nello zaimf! Le tue
parole non le capivo; ma capivo bene che volevi
trascinarmi in qualcosa di spaventoso, in fondo a un
abisso».
Mâtho, torcendosi le braccia, gridò:
«No! No! Volevo dartelo! Restituirtelo! Mi sembrava che
la dea avesse lasciato la sua veste per te, e che ti
appartenesse! Nel suo tempio o nella tua casa, che
importa? Non sei forse onnipotente, immacolata, radiosa
e bella come Tanit?».
E, con uno sguardo di infinita adorazione:
«Sempre che tu non sia Tanit!».
«Io, Tanit!», disse tra sé Salammbô.
Non parlavano più. Il tuono rimbombava in
lontananza. Le pecore belavano, spaventate dal
temporale.
«Oh! vieni qui!», riprese Mâtho. «Vieni vicina! Non
aver paura! Un tempo non ero che un soldato, confuso
nella massa dei Mercenari, e così mite che portavo sulle
spalle la legna degli altri. Che mi importa di Cartagine?
La folla dei suoi uomini si agita come perduta nella
polvere dei tuoi sandali, e tutti i suoi tesori, le province,
le flotte e le isole, non suscitano il mio desiderio quanto
la freschezza delle tue labbra e la linea delle tue spalle.
Ma io volevo abbattere le sue mura per venire da te, per
possederti! Intanto, nell’attesa, mi vendicavo! Adesso
schiaccio gli uomini come conchiglie, mi getto sulle
falangi, scosto le sarisse con le mie mani, fermo i cavalli
afferrandoli per le froge; una catapulta non riuscirebbe a
uccidermi! Oh, se tu sapessi quanto penso a te, in mezzo
ai combattimenti! Talvolta, il ricordo di un gesto, di una
piega della tua veste, mi coglie all’improvviso e mi
stringe come un laccio! Vedo i tuoi occhi nelle fiamme
delle falariche e sulla doratura degli scudi! Sento la tua
voce nel fragore dei cimbali. Mi giro, ma tu non ci sei! E
allora mi rituffo nella battaglia!».
Alzava le braccia, sulle quali le vene si intrecciavano
come edera su rami d’albero. Il sudore gli colava sul
petto, tra i muscoli squadrati; e il respiro gli scuoteva i
fianchi e la cintura di bronzo guarnita di strisce di cuoio
che pendevano fino alle ginocchia, più salde del marmo.
Salammbô, abituata agli eunuchi, era affascinata dalla
forza di quell’uomo. Era la punizione della dea o l’influsso
di Moloch che emanava dai cinque eserciti e agiva su di
lei. Si sentiva esausta; ascoltava con stupore il grido
intermittente delle sentinelle che si rispondevano.
Le fiamme della lampada vacillavano sotto raffiche di
aria calda. Ogni tanto i bagliori dei lampi; poi l’oscurità
era più fitta; e lei non vedeva altro che le pupille di
Mâtho, come due tizzoni nella notte. Tuttavia sentiva
bene che una fatalità incombeva su di lei, che era giunta
a un momento supremo, irrevocabile, e, facendosi forza,
si mosse verso lo zaimf e alzò le mani per prenderlo.
«Che fai?», disse Mâtho.
Rispose con calma:
«Me ne torno a Cartagine».
Mâtho si fece avanti incrociando le braccia, e con
un’aria così terribile che Salammbô rimase come
inchiodata sui talloni.
«Tornartene a Cartagine!», balbettava, e ripeteva
digrignando i denti:
«Tornartene a Cartagine! Ah! Venivi per prendere lo
zaimf, vincermi e poi sparire! No, no! Tu mi appartieni! E
adesso nessuno ti porterà via di qui! Oh! Non ho
dimenticato l’insolenza dei tuoi grandi occhi tranquilli, e
come mi schiacciavi dall’alto della tua bellezza! Ora tocca
a me! Tu sei mia prigioniera, mia schiava, mia serva!
Chiama, se vuoi, tuo padre e il suo esercito, gli Anziani, i
Ricchi e il tuo popolo esecrabile, tutto intero! Sono il
padrone di trecentomila soldati! Andrò a cercarne altri in
Lusitania, nelle Gallie e in fondo al deserto, e distruggerò
la tua città, brucerò tutti i suoi templi; le triremi
vogheranno su onde di sangue! Non voglio che resti una
casa, né una pietra né una palma! E se mi mancheranno
gli uomini, prenderò gli orsi delle montagne e spingerò
avanti i leoni! Non tentare di fuggire, ti ucciderei!».
Pallido, con i pugni serrati, fremeva come un’arpa le
cui corde stessero per spezzarsi. Ma improvvisamente i
singhiozzi lo soffocarono, e accosciandosi sulle ginocchia:
«Ah! Perdonami! Sono un infame, più ignobile degli
scorpioni, del fango e della polvere! Prima, mentre
parlavi, il tuo respiro mi lambiva il volto, e io godevo
come un moribondo che beva ventre a terra sulla sponda
di un ruscello. Schiacciami, ma fammi sentire i tuoi piedi!
Maledicimi, ma fammi udire la tua voce! Non andartene!
Pietà! Io ti amo! Ti amo!».
Era in ginocchio, per terra, davanti a lei; le cingeva la
vita con le due braccia, la testa all’indietro, le mani
vaganti; i dischi d’oro che gli pendevano dagli orecchi
brillavano contro il collo abbronzato; grosse lacrime gli
scorrevano negli occhi, come globi d’argento; sospirava
dolcemente, e mormorava parole vaghe, più leggere di
una brezza e soavi come un bacio.
Salammbô era invasa da un languore in cui perdeva
ogni coscienza di sé. Qualcosa di intimo e insieme
superiore, un ordine degli dèi, la forzava a lasciarsi
andare; si sentì sollevare da una nube e, venendo meno,
cadde riversa sul letto, sulla pelle di leone. Mâtho le
afferrò i talloni, la catenella d’oro si spezzò, e le due parti
schizzarono via colpendo la tela come vipere infuriate. Lo
zaimf cadde e avvolse Salammbô; scorse il volto di Mâtho
che si piegava sul suo seno.
«Moloch, mi bruci!».
E i baci del soldato, più voraci di fiamme, la
percorrevano; era come sollevata in un uragano, presa
nella forza del Sole.
Baciò tutte le dita delle sue mani, le braccia, i piedi, e
da cima a fondo le lunghe trecce di capelli.
«Portalo pure via», diceva, «che m’importa! Portami
via con lui! Lascio l’esercito! Rinuncio a tutto! Al di là di
Gades, a venti giorni di mare, c’è un’isola coperta di
polvere d’oro, di foreste e di uccelli. Sulle montagne
ondeggiano, simili a eterni incensieri, immensi fiori pieni
di aromi che fumano; dai limoni, più alti dei cedri,
serpenti color latte colgono i frutti con le fauci di
diamante e li fanno cadere sui prati; l’aria è così dolce
che impedisce di morire. Oh! La troverò, vedrai. Vivremo
nelle grotte di cristallo, tagliate ai piedi delle colline. Non
vi abita ancora nessuno, oppure diventerò il re del
paese».
Le tolse la polvere dai coturni; volle che mettesse tra le
labbra uno spicchio di melagrana; le ammucchiò delle
vesti dietro la testa per farle un cuscino. Cercava di
servirla in ogni modo, umiliandosi; giunse a stenderle lo
zaimf sulle gambe, come fosse una coperta qualunque.
«Hai ancora», diceva, «quelle piccole corna di gazzella
dove appendi le tue collane? Me le regalerai; le amo!».
Parlava come se la guerra fosse finita, e gli sfuggivano
risa di gioia; e i Mercenari, Amilcare, tutti gli ostacoli
erano scomparsi. La luna scivolava tra due nuvole. La
vedevano attraverso un’apertura della tenda.
«Ah! Quante notti ho passato a contemplarla! Mi
sembrava un velo che nascondesse il tuo viso; tu mi
guardavi attraverso; il tuo ricordo si confondeva con i
suoi raggi; non vi distinguevo più!».
E, con la testa tra i suoi seni, si abbandonava al
pianto.
“È questo dunque”, pensava lei, “l’uomo terribile che fa
tremare Cartagine!”.
Mâtho si addormentò. Allora, sciogliendosi dalle sue
braccia, posò un piede a terra, e si accorse che la
catenella era spezzata.
Le vergini delle grandi famiglie venivano educate a
rispettare quell’impedimento come una cosa quasi
religiosa, e Salammbô, arrossendo, arrotolò intorno alle
gambe i due spezzoni della catena d’oro.
Cartagine, Megara, la sua casa e le campagne che
aveva attraversato turbinavano nella sua memoria in
immagini tumultuose eppure precise. Ma un abisso ora le
respingeva lontano da lei, a una distanza infinita.
L’uragano si allontanava; rare gocce d’acqua
battevano, una per una, sul tetto della tenda facendolo
oscillare.
Mâtho, come ubriaco, dormiva steso su un fianco, con
un braccio che penzolava dal letto. La sua fascia di perle
si era leggermente rialzata e gli scopriva la fronte. Un
sorriso faceva intravedere i denti. Brillavano nella barba
nera, e tra le palpebre socchiuse c’era un’allegria
silenziosa e quasi oltraggiosa.
Salammbô lo guardava immobile, la testa bassa, le
mani incrociate.
Al capezzale del letto, sopra un tavolo di cipresso c’era
un pugnale; alla vista di quella lama luccicante fu
afferrata da un impulso sanguinario. In lontananza,
nell’ombra, si udivano voci lamentose; come un coro di
Geni la incitavano. Si avvicinò al pugnale, lo afferrò per il
manico. Al fruscio delle sue vesti, Mâtho socchiuse gli
occhi, cercando con la bocca le sue mani; e il pugnale
cadde.
Si udirono delle grida; una luce accecante folgorava
dietro la tenda. Mâtho la sollevò; videro grandi fiamme
che avvolgevano il campo dei Libici.
Le loro capanne di giunco stavano bruciando e le
canne, torcendosi, scoppiavano nel fumo e volavano via
come frecce; sull’orizzonte tutto rosso correvano ombre
nere, come impazzite. Si udivano le urla di chi era
rimasto dentro le capanne; gli elefanti, i buoi e i cavalli
saltavano in mezzo alla folla e la schiacciavano insieme
con le armi e i bagagli che venivano strappati all’incendio.
Le trombe squillavano. E gli uomini chiamavano «Mâtho!
Mâtho!». C’era gente alla porta; volevano entrare.
«Vieni! Amilcare sta bruciando il campo di Autarito!».
Balzò fuori. Salammbô restò sola.
Allora guardò attentamente lo zaimf; e quando lo ebbe
osservato bene, fu sorpresa di non provare quella gioia
che altre volte si era immaginata. Di fronte al suo sogno
compiuto, era malinconica.
Ma il bordo inferiore della tenda si sollevò, e apparve
una forma mostruosa. All’inizio Salammbô distinse solo i
due occhi, con una lunga barba bianca che scendeva fino
a terra; il resto del corpo, impacciato negli stracci di una
veste rossiccia, strisciava sul terreno; e ad ogni
movimento per avanzare le mani sparivano dentro la
barba, per poi ricadere. Strisciando in questo modo,
giunse ai suoi piedi, e Salammbô riconobbe il vecchio
Giscone.
Infatti i Mercenari, per impedire che i vecchi prigionieri
fuggissero, a colpi di sbarra di bronzo gli avevano
spezzato le gambe; e ora marcivano tutti alla rinfusa, in
una fossa, tra le immondizie. I più robusti, quando
udivano il rumore delle gavette, si alzavano gridando: è
così che Giscone aveva visto Salammbô. Dalle palline di
sandastro che le sbattevano sui coturni aveva
riconosciuto una Cartaginese; e col presentimento di un
mistero importante si era fatto aiutare dai suoi compagni,
ed era riuscito a uscire dalla fossa; poi, con i gomiti e le
mani, si era trascinato venti passi più in là, fino alla tenda
di Mâtho. All’interno, due voci. Aveva ascoltato da fuori,
aveva capito tutto.
«Sei tu!», disse Salammbô, quasi spaventata.
Alzandosi sui polsi, rispose:
«Sì, sono io! Mi credono morto, vero?».
Salammbô chinò la testa. E lui continuò:
«Ah, perché i Baal non mi hanno concesso questa
misericordia!». E, avvicinandosi fino a sfiorarla: «Mi
avrebbero risparmiato la pena di maledirti!».
Salammbô balzò indietro; aveva paura di quell’essere
immondo, schifoso come una larva e terribile come un
fantasma.
«Presto avrò cent’anni». disse. «Ho visto Agatocle, ho
visto Regolo1 e le aquile dei Romani passare sulle messi
dei campi punici! Ho visto tutti gli orrori delle battaglie e
il mare ingombro dei rottami delle nostre flotte! Barbari
che io comandavo mi hanno incatenato mani e piedi,
come uno schiavo omicida. I miei compagni, uno dopo
l’altro, mi muoiono intorno; l’odore dei loro cadaveri mi
sveglia di notte; devo scacciare gli uccelli che vengono a
beccare i loro occhi; eppure, neanche per un giorno ho
smesso di sperare in Cartagine! Se anche avessi visto tutti
gli eserciti della terra schierati contro di lei, e le fiamme
dell’assedio superare l’altezza dei templi, ancora avrei
creduto alla sua eternità! Ma ora tutto è finito, tutto è
perduto! Gli dèi la esecrano. Maledizione a te che ne hai
affrettato la rovina con la sua ignominia!».
Salammbô schiuse le labbra.
«Ah! Ero qui!», gridò Giscone. «Ti ho sentita rantolare
d’amore come una prostituta; poi ti parlava del suo
desiderio, e ti lasciavi baciare le mani! Ma se eri travolta
dal furore della tua impudicizia, dovevi fare almeno come
le belve, che si nascondono nei loro accoppiamenti, senza
esporre la tua vergogna fin sotto gli occhi di tuo padre!».
«Come!», disse lei.
«Ah! non sapevi che i due trinceramenti sono a
sessanta braccia l’uno dall’altro, e che il tuo Mâtho, per
folle orgoglio, si è accampato proprio davanti ad
Amilcare. Tuo padre è là, proprio dietro di te; e se
potessi salire il sentiero che porta sul terrapieno, gli
griderei: “Vieni a vedere tua figlia tra le braccia del
Barbaro! Per piacergli ha indossato la veste della dea; e
abbandonandogli il corpo gli consegna, insieme con la
gloria del tuo nome, la maestà degli dèi, la vendetta dalla
patria e la stessa salvezza di Cartagine!”».
Il movimento della sua bocca sdentata agitava la barba
in tutta la sua lunghezza; gli occhi, fissi su di lei, la
divoravano; e lui ripeteva, ansimando nella polvere:
«Ah! Sacrilegio! Che tu sia maledetta! Maledetta,
maledetta!».
Salammbô aveva scostato la tela dell’ingresso, la
teneva sollevata col braccio teso, e, senza rispondergli,
guardava verso il campo di Amilcare.
«È di là, vero?», chiese.
«Che t’importa! Vòltati! Vattene! Piuttosto affonda la
faccia nella polvere! È un luogo santo che la tua vista
insozzerebbe».
Salammbô si strinse lo zaimf intorno alla vita, raccolse
in fretta i suoi veli, il mantello, la sciarpa. «Ci vado di
corsa!», gridò; e fuggendo scomparve.
Camminò per un po’ nelle tenebre senza incontrare
nessuno, perché tutti correvano sul luogo dell’incendio; e
il clamore aumentava, grandi fiamme tingevano di rosso
il cielo dietro di lei; si fermò davanti a un lungo
terrapieno.
Si voltò, a destra, a sinistra, a caso, cercando una
scala, una corda, una pietra, qualcosa che potesse
aiutarla. Aveva paura di Giscone, e le sembrava che dei
gridi e dei passi la stessero inseguendo. Cominciava ad
albeggiare. Scorse un sentiero che saliva sul
trinceramento. Prese tra i denti l’orlo della veste che la
impacciava, e in tre salti si trovò sopra il terrapieno.
Un grido acuto risuonò sotto di lei, nell’ombra, lo
stesso che aveva udito in fondo alla scalinata delle galee;
e, sporgendosi, riconobbe l’uomo di Shahabarim con i
suoi due cavalli.
Si era aggirato per tutta la notte tra i due
trinceramenti; poi, preoccupato per l’incendio, era
tornato indietro, cercando di capire cosa stesse
accadendo nel campo di Mâtho; e siccome sapeva che
quel luogo era il più vicino alla sua tenda, per obbedire al
sacerdote non si era mosso di lì.
Salì in piedi su uno dei cavalli. Salammbô si lasciò
scivolare fino a lui; e fuggirono di gran galoppo facendo
il giro del campo punico, per trovare un varco da qualche
parte.

Mâtho era rientrato nella sua tenda. La lampada


immersa nel fumo la rischiarava appena, e lui pensò che
Salammbô stesse dormendo. Allora palpeggiò
delicatamente la pelle di leone, sul letto di palma.
Chiamò, ma lei non rispose; strappò bruscamente un
lembo della tenda per fare luce; lo zaimf era scomparso.
La terra tremava sotto un calpestìo di passi sempre più
forte. Grida acute, nitriti, cozzi di armature si alzavano
nell’aria, e le trombe suonavano la carica. Era come un
uragano, un vortice intorno a lui. Con furore cieco si
gettò sulle armi, e si precipitò fuori.
Le lunghe file dei Barbari scendevano correndo dalle
montagne, e contro di loro avanzavano le formazioni
puniche, ondeggiando pesanti e regolari. La nebbia,
lacerata dai raggi del sole, formava piccole nubi
ondeggianti che a poco a poco, alzandosi, scoprivano gli
stendardi, gli elmi e le punte delle picche. Sotto le rapide
manovre, tratti di terreno ancora in ombra sembravano
spostarsi a blocchi interi; altrove sembrava un incrociarsi
di torrenti, intorno a masse spinose che restavano
immobili. Mâtho distingueva i capitani, i soldati, gli araldi
e perfino, più indietro, i servi in groppa agli asini. Ma
invece di tenere la sua posizione per coprire la fanteria,
Narr’Havas svoltò bruscamente a destra, come se volesse
farsi schiacciare da Amilcare.
I suoi cavalieri superarono gli elefanti che
rallentavano; e tutti i cavalli, allungando le teste senza
briglie, galoppavano talmente veloci che il ventre
sembrava sfiorare il terreno. Poi, all’improvviso, Narr’Ha
vas avanzò deciso verso una sentinella. Gettò la spada, la
lancia, i giavellotti, e scomparve in mezzo ai Cartaginesi.
Il re dei Numidi giunse alla tenda di Amilcare; e gli
disse, mostrandogli i suoi uomini che si erano fermati più
indietro:
«Barca! Te li consegno. Ti appartengono».
Si gettò a terra in segno di sottomissione e, per
dimostrare la sua fedeltà, gli ricordò il suo
comportamento fin dall’inizio della guerra.
Innanzitutto aveva impedito l’assedio di Cartagine e il
massacro dei prigionieri; poi non aveva approfittato della
vittoria di Annone dopo la disfatta di Utica. Quanto alle
città tirie, si trovavano sul confine del suo regno. Infine
non aveva preso parte alla battaglia del Macar; anzi, si
era allontanato per evitare di essere costretto a
combattere contro il suffeta.
Narr’Havas, in realtà, aveva voluto estendere il proprio
territorio sconfinando nelle province puniche e, secondo
le sorti della guerra, aveva di volta in volta aiutato e
abbandonato i Mercenari. Ma vedendo che il più forte
sarebbe stato definitivamente Amilcare, era passato dalla
sua parte; e forse nella sua defezione c’era anche del
rancore nei confronti di Mâtho, per rivalità nel comando o
per il suo antico amore.
Il suffeta lo ascoltò senza interromperlo. L’uomo che si
presentava così a un esercito dal quale doveva attendersi
vendette non era un alleato da disdegnare; Amilcare intuì
subito l’utilità di una tale alleanza per i suoi grandi
progetti. Con i Numidi si sarebbe sbarazzato dei Libici.
Poi avrebbe trascinato l’Occidente alla conquista
dell’Iberia; e, senza chiedergli perché non fosse venuto
prima, senza fargli notare nessuna delle sue menzogne,
baciò Narr’Havas, stringendolo al petto per tre volte.
Era per farla finita, e per disperazione, che aveva
incendiato il campo dei Libici. Questo esercito gli
giungeva come un aiuto degli dèi; dissimulando la sua
gioia, rispose:
«Che i Baal ti proteggano! Ignoro quello che farà la
Repubblica per te, ma Amilcare non è ingrato».
Il tumulto cresceva; entravano dei capitani. Amilcare si
armava e intanto parlava:
«Su, riprendi il tuo posto! Con i cavalieri spingerai la
loro fanteria tra i tuoi elefanti e i miei! Coraggio!
Sterminali!».
E Narr’Havas si precipitava, quando apparve
Salammbô.
Balzò rapida a terra. Aprì l’ampio mantello e,
allargando le braccia, dispiegò lo zaimf.
La tenda di cuoio, rialzata agli angoli, lasciava vedere
tutt’intorno la montagna coperta di soldati; e poiché la
tenda si trovava al centro, Salammbô era visibile da ogni
lato. Esplose un clamore immenso, un lungo grido di
trionfo e di speranza. Quelli che erano in marcia si
fermarono; i moribondi, appoggiandosi sui gomiti, si
volgevano verso di lei per benedirla. Tutti i Barbari ora
sapevano che lei aveva ripreso lo zaimf; da lontano la
vedevano, o credevano di vederla; e altre grida, ma di
rabbia e di vendetta, risuonavano malgrado gli applausi
dei Cartaginesi; i cinque eserciti, schierandosi sulla
montagna, si agitavano e urlavano intorno a Salammbô.
Amilcare, non riuscendo a parlare, la ringraziava con
cenni della testa. I suoi occhi andavano continuamente da
lei allo zaimf, e notò che la sua catenella era spezzata.
Allora ebbe un brivido, còlto da un sospetto terribile. Ma,
riprendendo subito la sua impassibilità, osservò
Narr’Havas obliquamente, senza volgere il viso.
Il re dei Numidi si teneva in disparte, in atteggiamento
discreto; aveva ancora sulla fronte una traccia della
polvere che aveva toccato prosternandosi. Infine il suffeta
andò verso di lui, e con tono solenne:
«Come ricompensa dei servigi che mi hai reso,
Narr’Havas, ti dono mia figlia». E aggiunse: «Sii figlio
mio e difendi tuo padre!».
Narr’Havas fece un grande gesto di sorpresa, poi si
gettò sulle sue mani e le coprì di baci.
Salammbô, immobile come una statua, sembrava non
capire. Arrossì un po’, abbassando le palpebre; le lunghe
ciglia ricurve le disegnavano ombre sulle guance.
Amilcare volle unirli immediatamente con un
fidanzamento indissolubile. Tra le mani di Salammbô fu
messa una lancia che lei offrì a Narr’Havas; i loro pollici
furono stretti l’uno all’altro con una striscia di cuoio, poi
sulle loro teste fu versato del grano, e i chicchi che
cadevano a terra intorno a loro risuonavano,
rimbalzando, come grandine.
XII
L’acquedotto

Dodici ore dopo, dei Mercenari non restava altro che una
massa di feriti, morti e agonizzanti.
Amilcare, uscito all’improvviso dal fondo della gola,
era sceso lungo il pendio occidentale, dalla parte di
Ippozarito, e poiché in quel luogo lo spazio era maggiore
aveva fatto in modo di attirarvi i Barbari. Narr’Havas li
aveva circondati con la cavalleria; intanto il suffeta li
respingeva, li faceva a pezzi; inoltre erano sconfitti in
partenza a causa della perdita dello zaimf; anche quelli
che non se ne erano preoccupati avevano provato un
senso di angoscia e di indebolimento. Amilcare, che non
riponeva il suo orgoglio nel fatto di occupare il campo di
battaglia, si era ritirato un po’ più lontano, sulla sinistra,
su alcune alture da cui li dominava.
Si riconosceva la forma degli accampamenti dalle
palizzate inclinate. Un lungo ammasso di ceneri nere
fumava sull’insediamento dei Libici; il terreno sconvolto
era ondulato come il mare, e le tende, con la tela a
brandelli, sembravano vagamente navi naufragate sugli
scogli. Corazze, forconi, trombe, pezzi di legno, di ferro e
di bronzo, grano, paglia, indumenti, erano sparsi in
mezzo ai cadaveri; qua e là una falarica prossima a
spegnersi bruciava su una catasta di bagagli; in certi
punti il terreno spariva sotto gli scudi; carogne di cavalli
si susseguivano come serie di monticelli; si scorgevano
gambe, sandali, braccia, cotte di maglia e teste nei loro
elmi, trattenute dal sottogola, che ruzzolavano come
bocce; capigliature pendevano dai rovi; elefanti, col
ventre squarciato, rantolavano riversi con le loro torri in
un lago di sangue; si camminava su cose viscide e
c’erano pozze di fango, sebbene non fosse piovuto.
Quella confusione di cadaveri occupava, dall’alto in
basso, l’intera montagna.
I sopravvissuti non si muovevano più dei morti.
Accovacciati in gruppi ineguali, si guardavano atterriti,
senza parlare.
In fondo a una lunga prateria, il lago di Ippozarito
luccicava nel tramonto. Sulla destra, un gruppo di case
bianche spuntava da una cinta muraria; più in là si
stendeva il mare sconfinato; e, col mento appoggiato alla
mano, i Barbari sospiravano pensando ai loro paesi. Una
nube di polvere grigia ricadeva.
Soffiò il vento della sera; allora tutti i petti si
dilatarono; e a mano a mano che l’aria diventava più
fresca, si videro gli insetti abbandonare i morti che si
raffreddavano, e correre sulla sabbia calda. Sulla cima di
grandi massi, corvi immobili scrutavano gli agonizzanti.
Quando fu scesa la notte, cani dal pelo giallo, quegli
animali immondi che seguivano gli eserciti, giunsero
silenziosamente in mezzo ai Barbari. Dapprima leccarono
i grumi di sangue sui moncherini ancora tiepidi; ma ben
presto si misero a divorare i cadaveri, azzannandoli al
ventre.
I fuggitivi ricomparivano uno dopo l’altro, come
ombre; anche le donne si arrischiarono a tornare; ce
n’erano ancora, soprattutto tra i Libici, malgrado l’orribile
strage che i Numidi ne avevano fatto.
Alcuni accendevano dei pezzi di corda, e se ne
servivano come torce. Altri, incrociate delle picche, vi
caricavano sopra dei cadaveri per trasportarli altrove.
Erano stesi sul dorso in lunghe file, con la bocca
aperta, la lancia accanto; oppure erano ammucchiati alla
rinfusa e spesso, per trovare chi mancava, bisognava
scavare nel mucchio. Poi si faceva passare lentamente la
torcia sui loro volti. Armi orribili avevano prodotto ferite
complicate. Brandelli verdastri pendevano dalle fronti;
erano tagliuzzati, schiacciati fino al midollo, illividiti dagli
strangolamenti, squarciati dalle zanne degli elefanti.
Benché fossero morti quasi nello stesso momento,
c’erano differenze nella decomposizione. Gli uomini del
Nord erano turgidi di un gonfiore livido, mentre gli
Africani, più magri, sembravano affumicati e già si
disseccavano. I Mercenari si riconoscevano dai tatuaggi
sulle mani: i vecchi soldati di Antioco avevano uno
sparviero; quelli che avevano prestato servizio in Egitto,
una testa di cinocefalo; chi era stato presso i principi
dell’Asia, un’ascia, una melograna, un martello; chi aveva
servito le repubbliche greche, il profilo di una cittadella o
il nome di un arconte; e ce n’erano alcuni le cui braccia
erano interamente coperte da tutti questi simboli,
moltiplicati, che si confondevano con cicatrici e nuove
ferite.
Per gli uomini di razza latina, i Sanniti, gli Etruschi, i
Campani e i Bruzi, furono eretti quattro grandi roghi.
I Greci scavarono fosse con la punta delle spade. Gli
Spartani si tolsero i mantelli rossi e ne avvolsero i morti;
gli Ateniesi li stendevano col viso rivolto a oriente; i
Cantabri li seppellivano sotto un mucchio di sassi; i
Nasamoni1 li legavano piegati in due, con strisce di
cuoio, e i Garamanti andarono a seppellirli sulla spiaggia,
perché fossero bagnati dai flutti in eterno. Ma i Latini
erano desolati di non poter raccogliere le ceneri nelle
urne; i Nomadi rimpiangevano il calore della sabbia che
mummifica i corpi, e i Celti, tre pietre grezze, sotto un
cielo piovoso, in fondo a un golfo pieno di isolotti.
Si alzavano lamenti, seguiti da lunghi silenzi. Lo
facevano per costringere le anime a ritornare. Poi
ricominciava il clamore, a intervalli regolari, con
ostinazione.
Ci si scusava coi morti di non poterli onorare come
prescrivevano i riti: perché a causa di questa privazione
avrebbero dovuto errare per periodi infiniti attraverso
ogni sorta di situazioni e di metamorfosi; venivano
chiamati per nome, veniva chiesto loro cosa
desiderassero; alcuni li coprivano di ingiurie per essersi
lasciati vincere.
Il bagliore dei grandi roghi faceva apparire ancora più
pallide le figure esangui, riverse qua e là tra resti di
armature; e le lacrime suscitavano le lacrime, i singhiozzi
si facevano più acuti, i riconoscimenti e gli abbracci più
frenetici. Le donne si stendevano sui cadaveri, bocca
contro bocca, fronte contro fronte; bisognava batterle
perché se ne staccassero quando si gettava la terra. C’era
chi si anneriva le guance, chi si tagliava i capelli, chi si
toglieva del sangue e lo gettava nelle fosse; chi si
procurava ferite simili a quelle che sfiguravano i morti.
Tra il rumore dei cimbali scoppiavano ruggiti. Qualcuno
si strappava gli amuleti, ci sputava sopra. I moribondi si
rotolavano nel fango insanguinato, mordendo
rabbiosamente i pugni mutilati; e quarantatré Sanniti,
un’intera primavera sacra,2 si sgozzarono tra loro come
gladiatori. Presto mancò la legna per i roghi, le fiamme si
spensero, le fosse erano piene; e, stanchi di aver gridato,
esausti, vacillanti, si addormentarono accanto ai loro
fratelli morti; pieni di inquietudini quelli che volevano
vivere, e gli altri col desiderio di non svegliarsi più.
Alle prime luci dell’alba, apparvero al limite del campo
dei Barbari dei soldati che sfilavano con gli elmi sulle
punte delle picche; salutando i Mercenari, chiesero se
dovevano riferire qualcosa nei loro paesi.
Altri si avvicinarono, e i Barbari riconobbero alcuni dei
loro vecchi compagni.
Il suffeta aveva proposto a tutti i prigionieri di entrare
nel suo esercito. Molti avevano intrepidamente rifiutato;
deciso a non nutrirli ma neppure a lasciarli nelle mani del
Gran Consiglio, li aveva mandati via, con l’ordine di non
combattere mai più contro Cartagine. Quanto a coloro
che la paura dei supplizi rendeva docili, avevano ricevuto
le armi tolte al nemico; e ora si presentavano ai vinti, più
per orgoglio e curiosità che per convincerli a seguire il
loro esempio.
Prima parlarono del buon trattamento riservato loro
dal suffeta; i Barbari li ascoltavano con invidia, pur
disprezzandoli. Poi, alle prime parole di rimprovero, i
codardi si infuriarono; gli mostravano da lontano le
spade che erano state le loro, le loro corazze, e
insultandoli li incitavano ad andarsele a prendere. I
Barbari raccolsero dei sassi; tutti fuggirono; e sulla cima
della montagna si videro soltanto le punte delle lance che
spuntavano dalle palizzate.
Allora un dolore ancora più forte dell’umiliazione della
sconfitta oppresse i Barbari. Pensavano all’inanità del loro
coraggio, con gli occhi fissi e digrignando i denti.
Venne a tutti la stessa idea. Si precipitarono urlando
sui prigionieri cartaginesi. Per puro caso i soldati del
suffeta non erano riusciti a trovarli, e poiché si erano
ritirati dal campo di battaglia i prigionieri si trovavano
ancora nella fossa profonda.
Li allinearono per terra in un luogo pianeggiante. Delle
sentinelle formarono un cerchio intorno a loro, e si
lasciarono entrare le donne, in gruppi di trenta o
quaranta per volta. Volendo approfittare del poco tempo
loro concesso, correvano dall’uno all’altro, incerte,
palpitanti; poi, chine su quei poveri corpi, li colpivano
con tutta la forza delle loro braccia, come le lavandaie col
bucato; urlando i nomi dei loro sposi, li dilaniavano con
le unghie; e trafissero loro gli occhi con gli spilloni dei
capelli. Poi vennero gli uomini, e li suppliziavano
cominciando dai piedi, che tagliavano alle caviglie, fino
alla fronte, dalla quale strappavano corone di pelle per
poi mettersele in testa. I Mangiatori-di-cose-immonde
furono atroci nella loro immaginazione. Invelenivano le
ferite versandovi polvere, aceto e frammenti di ceramica;
altri erano in attesa dietro di loro; il sangue colava e loro
godevano, come vendemmiatori intorno ai tini fumanti.
Intanto Mâtho era seduto per terra, nello stesso luogo
dove si trovava alla fine della battaglia, i gomiti sulle
ginocchia, le tempie tra le mani; non vedeva nulla, non
udiva nulla, non pensava più.
Agli urli di gioia della folla, rialzò la testa. Davanti a
lui, un lembo di tela appeso a una pertica pendeva fino a
terra coprendo confusamente delle ceste, dei tappeti, una
pelle di leone. Riconobbe la sua tenda; e i suoi occhi
fissavano il suolo come se la figlia di Amilcare,
scomparendo, fosse sprofondata sottoterra.
La tela lacerata sbatteva al vento; talvolta i suoi lunghi
brandelli gli passavano davanti alla bocca, e così notò un
segno rosso, simile all’impronta di una mano. Era la
mano di Narr’Havas, il segno della loro alleanza. Allora
Mâtho si alzò. Prese un tizzone ancora fumante e lo gettò
sui resti della tenda, sdegnosamente. Poi con la punta del
coturno spingeva verso la fiamma gli oggetti meno vicini,
perché non restasse nulla.
A un tratto, senza che si potesse capire da dove
veniva, apparve Spendio.
L’ex schiavo si era legato sulla coscia due spezzoni di
lancia; zoppicava penosamente e si lamentava.
«Togliti questa roba», gli disse Mâtho. «So che sei un
valoroso!».
Era talmente oppresso dall’ingiustizia degli dèi che non
aveva più forza per indignarsi con gli uomini.
Spendio gli fece un cenno, e lo condusse nella cavità di
un poggio dove stavano nascosti Zarxas e Autarito.
Anche loro, come lo schiavo, erano fuggiti, l’uno
malgrado la sua crudeltà, l’altro malgrado il suo valore.
Ma chi avrebbe potuto aspettarsi, dicevano, il tradimento
di Narr’Havas, l’incendio dei Libici, la perdita dello zaimf,
l’attacco improvviso di Amilcare, e soprattutto le sue
manovre che li avevano costretti a ritornare
nell’avvallamento della montagna sotto i colpi immediati
dei Cartaginesi? Spendio non confessava il suo terrore, e
si ostinava a sostenere che aveva la gamba rotta.
Finalmente i tre capi e lo shalishim si chiesero quale
decisione convenisse prendere.
Amilcare chiudeva la strada di Cartagine; erano presi
in mezzo tra i suoi soldati e le province di Narr’Havas; le
città tirie si sarebbero unite ai vincitori; essi sarebbero
stati spinti sul litorale, e tutte quelle forze riunite li
avrebbero schiacciati. Ecco cosa sarebbe accaduto
immancabilmente.
Non c’era un solo modo di evitare la guerra. Dunque
dovevano proseguirla a oltranza. Ma come far capire la
necessità di una battaglia interminabile a quegli uomini
scoraggiati e con le ferite ancora sanguinanti?
«Me ne occupo io!», disse Spendio.
Due ore dopo, un uomo che arrivava da Ippozarito salì
di corsa la montagna. Agitava delle tavolette con le
braccia alzate, e siccome urlava a squarciagola i Barbari
gli si fecero intorno.
Quelle tavolette erano state spedite dai soldati greci
della Sardegna. Raccomandavano ai loro compagni
d’Africa di sorvegliare Giscone e gli altri prigionieri. Un
mercante di Samo, un certo Ipponatte, di ritorno da
Cartagine, li aveva informati di un complotto organizzato
per farli evadere, e si esortavano i Barbari a stare con gli
occhi aperti; la Repubblica era potente.
Lo stratagemma di Spendio non funzionò subito come
aveva sperato. La certezza di un nuovo pericolo, invece di
suscitare furore sollevò dei timori; e ricordandosi
dell’avvertimento che Amilcare aveva appena gettato in
mezzo a loro, ora si aspettavano qualcosa di imprevisto,
terribile. La notte passò in una grande angoscia; molti
addirittura si sbarazzarono delle armi per impietosire il
suffeta quando si sarebbe presentato.
Ma l’indomani, alla terza vigilia, apparve un secondo
corriere ancora più affannato e nero di polvere. Il Greco
gli strappò di mano un rotolo di papiro coperto di
scrittura fenicia. Vi si supplicavano i Mercenari di non
scoraggiarsi; i prodi di Tunisi stavano arrivando con
grandi rinforzi.
Spendio lesse subito la lettera tre volte di seguito; e,
seduto sulle spalle di due Cappadoci, si faceva trasportare
di qua e di là, e la rileggeva. Per sette ore arringò la folla.
Ricordava ai Mercenari le promesse del Gran
Consiglio; agli Africani, le crudeltà degli intendenti; a
tutti i Barbari, l’ingiustizia di Cartagine. La mitezza del
suffeta era soltanto una trappola. Quelli che si
arrendessero, sarebbero venduti come schiavi; i vinti
perirebbero tra i supplizi. Quanto a fuggire, per quale
via? Non un popolo li avrebbe accolti. Perseverando
invece nei loro sforzi, avrebbero ottenuto insieme la
libertà, la vendetta e il denaro! E non avrebbero atteso a
lungo, perché il popolo di Tunisi, la Libia intera si
precipitava in loro aiuto. E mostrava il papiro srotolato:
«Guardate! Leggete! Ecco le loro promesse! Non sto
mentendo».
I cani erravano qua e là, col muso nero tinto di rosso.
Il sole ardente scaldava le teste nude. Un odore
nauseabondo esalava dai cadaveri sepolti malamente.
Alcuni sporgevano da terra fino al ventre. Spendio li
chiamava a testimoni di quello che diceva; poi alzava i
pugni in direzione di Amilcare.
Del resto Mâtho lo osservava e, per coprire la propria
viltà, Spendio ostentava una collera dalla quale a poco a
poco veniva preso lui stesso. Offrendosi agli dèi, copriva
di maledizioni i Cartaginesi. Il supplizio dei prigionieri era
un gioco da ragazzi. Perché mai risparmiarli e continuare
a trascinarsi dietro quell’inutile mandria? «No! Bisogna
farla finita! I loro progetti sono noti! Uno solo di loro può
provocare la nostra perdita! Nessuna pietà!
Riconosceremo i migliori dalla velocità delle gambe e
dalla forza dei colpi».
Allora tornarono addosso ai prigionieri. Molti
rantolavano ancora; li finirono affondandogli un tallone
in gola, oppure pugnalandoli con la punta di un
giavellotto.
Poi pensarono a Giscone. Non lo vedevano da nessuna
parte; li prese l’inquietudine. Volevano convincersi della
sua morte, e nello stesso tempo parteciparvi. Finalmente
tre pastori sanniti lo scovarono a quindici passi dal luogo
dove prima si trovava la tenda di Mâtho. Lo riconobbero
dalla lunga barba, e chiamarono gli altri.
Steso sul dorso, le braccia lungo i fianchi, le ginocchia
serrate, aveva l’aspetto di un morto preparato per la
sepoltura. Tuttavia le sue magre costole si abbassavano e
risalivano, e gli occhi, spalancati in mezzo al volto
pallidissimo, avevano uno sguardo fisso e insopportabile.
I Barbari lo osservavano con grande stupore. Da
quando viveva nella fossa, l’avevano quasi dimenticato;
turbati da antichi ricordi, si tenevano a distanza e non
osavano alzare la mano su di lui.
Ma quelli che erano dietro mormoravano e si
accalcavano, finché un Garamante attraversò la folla;
impugnava una falce; tutti capirono cosa voleva fare; i
loro volti avvamparono e, sia pure vergognandosi,
urlavano:
«Sì! Sì!».
L’uomo col ferro ricurvo si avvicinò a Giscone. Gli
afferrò la testa, se la appoggiò su un ginocchio, e la segò
con pochi colpi veloci, finché cadde; due grossi getti di
sangue scavarono un buco nella polvere. Zarxas la afferrò
con un balzo, e più leggero di un leopardo corse verso i
Cartaginesi.
Poi, salito a due terzi della montagna, tirò fuori dalla
veste la testa di Giscone tenendola per la barba, roteò più
volte le braccia rapidamente, e la massa, finalmente
lanciata, descrisse una lunga parabola e scomparve dietro
il trinceramento punico.
Poco dopo si alzarono sopra la palizzata due stendardi
incrociati, segno convenuto per chiedere la restituzione
dei cadaveri.
Allora quattro araldi, scelti per l’ampiezza del torace,
percorsero il terrapieno con grandi trombe e, parlando
attraverso i tubi di bronzo, dichiararono che ormai tra i
Cartaginesi e i Barbari non c’era più fede, né pietà, né
dèi, e che respingevano preliminarmente ogni trattativa,
e che i messi sarebbero stati rimandati indietro con le
mani mozzate.
Subito dopo, Spendio fu inviato a Ippozarito per
chiedere viveri; la città tiria ne inviò quella sera stessa.
Mangiarono voracemente. Poi, quando si furono
ritemprati, raccolsero in fretta i resti dei loro bagagli e le
armi spezzate; le donne si riunirono al centro, e senza
curarsi dei feriti che piangevano dietro di loro, partirono
lungo il litorale, a passi veloci, come un branco di lupi
che si allontani.
Marciavano su Ippozarito, decisi a prenderla, perché
avevano bisogno di una città.
Amilcare, scorgendoli da lontano, ebbe un attimo di
sconforto, malgrado l’orgoglio che provava vedendoseli
fuggire davanti. Sarebbe stato necessario attaccarli subito
con truppe fresche. Un’altra giornata così, e la guerra
sarebbe finita! Se invece passava del tempo, sarebbero
ritornati più forti; le città tirie si sarebbero unite a loro; la
sua clemenza verso i vinti non era servita a nulla. Decise
che d’ora in poi sarebbe stato spietato.
Quella sera stessa inviò al Gran Consiglio un
dromedario carico di braccialetti tolti ai morti e, con
minacce orribili, ordinò che gli mandassero un altro
esercito.
Tutti, da molto tempo, lo credevano perduto; così, alla
notizia della sua vittoria, provarono uno stupore che
rasentava il terrore. Il ritorno dello zaimf, vagamente
preannunciato, completava la meraviglia. Così ora gli dèi
e la forza di Cartagine sembravano favorire il suffeta.
Nessuno dei suoi nemici osò avanzare una lamentela o
una recriminazione. Per l’entusiasmo degli uni e la
pusillanimità degli altri, un esercito di cinquemila uomini
fu pronto prima della scadenza stabilita.
Raggiunse rapidamente Utica per coprire la
retroguardia del suffeta, mentre tremila uomini tra i più
valorosi salirono sulle navi che li avrebbero sbarcati a
Ippozarito, da dove avrebbero respinto i Barbari.
Annone ne aveva accettato il comando; ma affidò
l’esercito al suo luogotenente Magdassan, per guidare
personalmente le truppe da sbarco, non potendo
sopportare gli scossoni della lettiga. La sua malattia gli
aveva corroso le labbra e le narici, scavandogli in mezzo
alla faccia un grande buco; gli si vedeva il fondo della
gola a una distanza di dieci passi, e lui sapeva di essere
così ripugnante che si metteva, come una donna, un velo
sulla testa.
Ippozarito non ascoltò le sue intimazioni, e neppure
quelle dei Barbari; ma ogni mattina gli abitanti calavano a
costoro dei canestri pieni di viveri e, gridando dall’alto
delle torri, si scusavano di non poter fare di più per la
Repubblica, e li scongiuravano di allontanarsi. Le stesse
rimostranze le rivolgevano per mezzo di segnali ai
Cartaginesi che stazionavano in mare.
Annone si contentava di bloccare il porto senza
rischiare un attacco. Tuttavia convinse i giudici di
Ippozarito ad accogliere trecento soldati. Poi andò verso
il Capo dell’Uva e fece un lungo giro per accerchiare i
Barbari, operazione inopportuna e anche pericolosa. La
sua gelosia gli impediva di andare in aiuto del suffeta;
fermava le sue spie, ostacolava tutti i suoi piani,
comprometteva l’impresa. Alla fine Amilcare scrisse al
Gran Consiglio di levarglielo di torno, e Annone tornò a
Cartagine furibondo per la viltà degli Anziani e la follia
del suo collega. Dunque, dopo tante speranze, ci si
ritrovava in una situazione peggiore di prima; ma si
cercava di non pensarci e di non parlarne neppure.
Come se non bastasse, si venne a sapere che i
Mercenari della Sardegna avevano crocifisso il loro
generale, si erano impadroniti delle piazzeforti e avevano
sgozzato dappertutto gli uomini di razza cananea. Il
popolo romano minacciò la Repubblica di aprire
immediatamente le ostilità se non pagava milleduecento
talenti e non cedeva l’intera isola della Sardegna. Aveva
accettato l’alleanza dei Barbari, e inviò loro delle chiatte
cariche di farina e carne secca. I Cartaginesi le
inseguirono, catturando cinquecento uomini; ma tre
giorni dopo, una flotta proveniente dalla Bisacena, che
portava viveri a Cartagine, affondò durante una
tempesta. Evidentemente gli dèi erano contro Cartagine.
Allora i cittadini di Ippozarito, col pretesto di un
allarme, fecero salire sulle mura i trecento uomini di
Annone; poi, giungendo improvvisamente alle loro
spalle, li afferrarono per le gambe e li gettarono giù dai
bastioni. I pochi che non erano morti furono inseguiti e
finirono annegati in mare.
Anche Utica sopportava male i soldati, perché
Magdassan aveva fatto come Annone, e secondo i suoi
ordini circondava la città, sordo alle preghiere di
Amilcare. A costoro gli Uticensi dettero da bere del vino
misto a mandragora, poi li sgozzarono nel sonno.
Contemporaneamente arrivarono i Barbari; Magdassan
fuggì, le porte si aprirono, e da quel momento le due
città tirie dimostrarono ai loro nuovi amici una tenace
devozione, e ai loro antichi alleati un odio irrefrenabile.
Questo abbandono della causa punica era un
ammonimento, un esempio. Le speranze di liberazione si
risvegliarono. Certe popolazioni ancora incerte non
esitarono più. Tutto stava crollando. Il suffeta lo venne a
sapere, e ormai non aspettava più nessun aiuto! Era
perduto, senza scampo.
Subito congedò Narr’Havas, che doveva proteggere le
frontiere del suo regno. Quanto a lui, decise di tornare a
Cartagine per prendervi nuovi soldati e ricominciare la
guerra.
I Barbari insediati a Ippozarito videro il suo esercito
mentre scendeva la montagna.
Dove andavano i Cartaginesi? Senza dubbio era la
fame a spingerli; e, impazziti per le sofferenze, malgrado
la loro debolezza venivano a dare battaglia. Ma poi
svoltarono a destra: fuggivano. Ora si potevano
raggiungere, e fare a pezzi. I Barbari si lanciarono al loro
inseguimento.
I Cartaginesi furono fermati dal fiume. Era in piena, e
il vento dell’ovest non aveva soffiato. Gli uni lo passarono
a nuoto, gli altri sugli scudi. Si rimisero in marcia. Scese
la notte. Non si videro più.
I Barbari non si fermarono; risalirono il fiume, alla
ricerca di un passaggio più stretto. La gente di Tunisi
accorse trascinando quella di Utica. A ogni macchia
cresceva il loro numero; e i Cartaginesi, sdraiandosi a
terra, udivano rimbombare i loro passi nelle tenebre. Di
tanto in tanto, per farli rallentare, Barca faceva lanciare
indietro scariche di frecce; molti rimasero uccisi. Quando
sorse il sole, si trovarono tra le montagne dell’Ariace,
dove la strada fa un gomito.
Allora Mâtho, che procedeva in testa, credette di
scorgere all’orizzonte qualcosa di verde sulla cima di
un’altura. Poi il terreno si abbassò e apparvero obelischi,
cupole, case! Era Cartagine. Si appoggiò a un albero per
non cadere, tanto il suo cuore batteva veloce.
Pensava a tutto quello che era accaduto nella sua
esistenza dall’ultima volta che vi era passato! Era una
sorpresa infinita, che lo stordiva. Poi l’idea di rivedere
Salammbô lo riempì di gioia. Ricordò le ragioni che
aveva di esecrarla; le allontanò in fretta. Fremente,
concentrando lo sguardo, scrutava oltre il tempio di
Eshmun l’alta terrazza di un palazzo, al di sopra delle
palme; un sorriso estatico gli illuminava il volto, come
raggiunto da una grande luce; apriva le braccia, mandava
baci nel vento e mormorava: «Vieni! Vieni!»; un sospiro
gli gonfiò il petto, e due lacrime, lunghe come perle, gli
caddero sulla barba.
«Chi ti trattiene!», esclamò Spendio. «Affrettati! In
marcia! Il suffeta ci sfugge! Ma le tue ginocchia vacillano
e tu mi guardi come un ubriaco!».
Fremeva d’impazienza; spingeva Mâtho; e,
ammiccando con gli occhi, come all’avvicinarsi di una
meta a lungo sognata:
«Ah! Ci siamo! Eccoci! Li ho in pugno!».
Sembrava così convinto e trionfante che Mâtho, scosso
dal suo torpore, si sentì trascinare. Quelle parole gli
giungevano nel momento del massimo sconforto,
incitavano la disperazione alla vendetta, indicavano uno
sfogo alla sua collera. Saltò su uno dei cammelli delle
salmerie, gli strappò la cavezza; con la lunga corda
colpiva i ritardatari con tutta la sua forza; e correva a
destra e a sinistra della retroguardia, come un cane che
spinge avanti il gregge.
Al tuonare della sua voce, le file si serrarono; perfino
gli zoppi affrettarono il passo; a metà dell’istmo
l’intervallo diminuì. I primi Barbari marciavano nella
polvere dei Cartaginesi. I due eserciti si avvicinavano,
stavano per entrare in contatto. Ma la porta di Malqua, la
porta di Tagaste e la grande porta di Khamon
spalancarono i battenti. Il quadrato punico si divise; tre
colonne sprofondarono nelle porte, tumultuosamente,
sotto i portici. Presto però la massa, troppo accalcata,
non riuscì più ad avanzare; le picche si urtavano in aria, e
le frecce dei Barbari si schiantavano contro le mura.
Sulla soglia della porta di Khamon si vide Amilcare. Si
girò e gridò ai suoi uomini di fare spazio. Scese dal suo
cavallo, e, pungendolo sulla groppa con la spada, lo
lanciò verso i Barbari.
Era uno stallone oringio, nutrito con polpette di farina,
e che piegava le ginocchia per far salire il suo padrone.
Perché lo scacciava? Era forse un sacrificio?
Il grande cavallo galoppava in mezzo alle lance,
rovesciava gli uomini, e inciampando con le zampe nelle
proprie viscere cadeva, poi si rialzava con salti furiosi; e
mentre i Barbari si scostavano, cercavano di fermarlo o
guardavano sbalorditi, i Cartaginesi si erano ricongiunti;
entrarono; l’enorme porta si richiuse dietro di loro
rimbombando.
Non cedette. I Barbari vi si gettarono contro; e per
qualche minuto l’esercito, in tutta la sua lunghezza, fu
percorso da un’oscillazione che lentamente si smorzò e
poi cessò.
I Cartaginesi avevano appostato dei soldati
sull’acquedotto; cominciarono a lanciare pietre, palle,
travi. Spendio fece presente che non era il caso di
insistere. Andarono ad accamparsi più lontano, decisi ad
assediare Cartagine.
Intanto la notizia della guerra aveva superato i confini
dell’impero punico; e, dalle colonne d’Ercole fin oltre
Cirene, i pastori ne fantasticavano custodendo le greggi,
e le carovane ne parlavano la notte, al chiarore delle
stelle. Esistevano uomini che osavano attaccare la grande
Cartagine, dominatrice dei mari, splendida come il sole e
terribile come un dio! Addirittura era corsa più volte la
voce della sua caduta; e tutti ci avevano creduto, perché
tutti la desideravano: le popolazioni sottomesse, i villaggi
tributari, le province alleate, le orde indipendenti, coloro
che la esecravano per la sua tirannia, o ne invidiavano la
potenza, o ne bramavano la ricchezza. I più coraggiosi si
erano presto uniti ai Mercenari. La disfatta del Macar
aveva fermato tutti gli altri. Poi avevano ripreso fiducia, a
poco a poco si erano fatti avanti, riavvicinati; e ora gli
uomini delle regioni orientali erano tra le dune di Clupea,
dall’altra parte del golfo. Appena videro i Barbari, si
mostrarono.
Non erano i Libici dei dintorni di Cartagine, che da
molto tempo costituivano la terza armata; erano i nomadi
dell’altopiano di Barca, i banditi del Capo Fisco e del
promontorio di Derna, quelli del Fezzan e della
Marmarica. Avevano attraversato il deserto
abbeverandosi ai pozzi salmastri murati con ossa di
cammello; gli Zuaeci, coperti di piume di struzzo, erano
venuti su quadrighe; i Garamanti, col volto coperto da un
velo nero, seduti sulle reni delle giumente dipinte; altri in
groppa ad asini, onagri, zebre, bufali; e alcuni si
portavano dietro le famiglie, gli idoli, il tetto della
capanna a forma di scialuppa. C’erano degli Ammoniti
con la pelle raggrinzita dall’acqua calda delle loro
fontane; dei Trogloditi, che seppelliscono ridendo i loro
morti sotto rami di alberi; e gli schifosi Ausei che
mangiano le cavallette; gli Achirmachidi che mangiano le
pulci, e i Gisanti, dipinti di cinabro, che mangiano le
scimmie.
Tutti si erano schierati sulla riva del mare, in una
lunga linea diritta. Poi avanzarono come vortici di sabbia
sollevati dal vento. A metà dell’istmo la folla si fermò,
perché i Mercenari, accampati davanti a loro vicino alle
mura, non volevano spostarsi.
Poi, dal lato dell’Ariana, apparvero gli uomini
dell’Occidente, il popolo dei Numidi. Infatti Narr’Havas
regnava soltanto sui Massilii; e del resto, poiché la
tradizione consentiva loro di abbandonare un re sconfitto,
si erano riuniti sulle rive dello Zaine,3 e l’avevano varcato
appena Amilcare si era allontanato. Si videro accorrere
per primi tutti i cacciatori del Maletut-Baal e del Garafo,
vestiti di pelli di leone, che guidavano con l’asta della
lancia i loro piccoli cavalli magri dalla lunga criniera; poi
venivano i Getuli, con le corazze di pelle di serpente; poi i
Farusii, con in testa alte corone di cera e resina; e i
Cauni, i Macari, i Tillabari, ognuno con due giavellotti e
uno scudo rotondo in pelle di ippopotamo.4 Si fermarono
sotto le Catacombe, tra le prime pozze della laguna.
Ma quanto i Libici si furono spostati, nel luogo prima
occupato da loro si vide, come una nube rasoterra, la
moltitudine dei Negri. Ne erano venuti dall’Harush
bianco, dall’Harush nero, dal deserto di Augile e perfino
dalla grande regione di Agazimba, a quattro mesi di
marcia a sud dei Garamanti, e da più lontano ancora!
Malgrado i gioielli di legno rosso, il sudiciume della loro
pelle nera li faceva sembrare delle more rotolate a lungo
nella polvere. Portavano brache di corteccia, tuniche di
erbe secche, musi di belve sulla testa, e, ululando come
lupi, agitavano sbarre guarnite di anelli e brandivano,
come stendardi, code di vacca in cima a bastoni.
Poi, dietro i Numidi, i Maurusii e i Getuli, si
accalcavano gli uomini giallastri che vivono sparsi oltre
Taggir nelle foreste di cedri. Dalle loro spalle pendevano
faretre di pelle di gatto, e portavano al laccio cani
enormi, alti come asini, e che non abbaiavano.
Infine, come se l’Africa non si fosse svuotata
abbastanza, e si fosse dovuto ricorrere agli scarti delle
razze per aumentare i furori, dietro tutti gli altri
avanzavano uomini dai lineamenti bestiali, che
sghignazzavano come degli idioti; miserabili devastati da
malattie ripugnanti, pigmei deformi, mulatti di sesso
ambiguo, albini i cui occhi rossi non sopportavano la luce
del sole; balbettando dei suoni incomprensibili, si
mettevano un dito in bocca per dire che avevano fame.
La varietà delle armi non era inferiore alla confusione
dei vestiti e dei popoli. Non mancava nessuno strumento
per uccidere, dai pugnali di legno, dalle asce di pietra e
dai tridenti d’avorio, fino alle lunghe sciabole dentate
come seghe, sottili, fatte di una lama di rame flessibile.
Maneggiavano coltellacci che si biforcavano in tanti rami,
come corna di antilope, e roncole legate a una corda,
triangoli di ferro, mazze, punteruoli. Gli Etiopi del
Bamboto nascondevano tra i capelli piccole frecce
avvelenate. Molti portavano sacchi di ciottoli. Altri, a
mani vuote, digrignavano minacciosamente i denti.
Quella moltitudine si agitava incessantemente, con una
sorta di moto ondoso. Dromedari imbrattati di catrame
come navi deponevano a terra le donne coi figli legati alle
anche. Si spargevano a terra le vettovaglie dalle ceste;
camminando si calpestavano pezzi di sale, balle di
gomma, datteri marci, noci di cola; e talvolta, su seni
coperti di sporcizia, penzolava da un esile cordone un
diamante che i Satrapi avrebbero bramato, una pietra
quasi favolosa e sufficiente ad acquistare un impero. La
maggior parte di loro non sapeva neppure che cosa
volesse. Li spingeva una curiosità inconsapevole; i
Nomadi, che non avevano mai visto una città, erano
spaventati dall’ombra delle mura.
Ora l’istmo scompariva sotto gli uomini; e quella lunga
estensione, dove le tende sembravano capanne in una
inondazione, giungeva fino alle prime linee degli altri
Barbari, tutte luccicanti di armi e disposte
simmetricamente sui due lati dell’acquedotto.
I Cartaginesi non avevano ancora superato lo spavento
dell’arrivo, quando videro avanzare verso di loro, come
dei mostri, come edifici – con i pennoni, le braccia, i
cordami, le articolazioni, i capitelli, le corazze – le
macchine d’assedio inviate dalle città tirie: sessanta
carrobaliste, ottanta onagri, trenta scorpioni, cinquanta
tollenoni, dodici arieti e tre gigantesche catapulte che
lanciavano massi del peso di quindici talenti. Le
spingevano masse di uomini aggrappati ai loro
basamenti; a ogni passo traballavano; e giunsero così
davanti alle mura.
Ma ci volevano ancora molti giorni per concludere i
preparativi dell’assedio. I Mercenari, istruiti dalle loro
sconfitte, non volevano rischiare in azioni inutili; e da una
parte e dall’altra non c’era fretta, perché tutti sapevano
che stava per iniziare un’azione terribile il cui risultato
sarebbe stato la vittoria o lo sterminio totale.
Cartagine poteva resistere a lungo; le sue larghe mura
offrivano una serie di angoli rientranti o sporgenti,
disposti in modo tale da respingere gli assalti.
Tuttavia, verso le Catacombe, ne era crollata una
parte, e nelle notti oscure si scorgevano le luci dei tuguri
di Malqua. In qualche punto dominavano l’altezza dei
bastioni. Era là che vivevano, con i loro nuovi sposi, le
donne dei Mercenari scacciate da Mâtho. Rivedendoli, il
loro cuore non si trattenne più. Da lontano agitarono le
sciarpe; poi venivano, nelle tenebre, a parlare coi soldati
attraverso le fessure del muro, e una mattina il Gran
Consiglio venne a sapere che erano tutte fuggite. Alcune
erano passate tra le pietre; altre, più coraggiose, si erano
calate con delle corde.
Finalmente Spendio decise di attuare il suo progetto.
La guerra, trattenendolo lontano, glielo aveva impedito
fino a quel momento; e da quando erano tornati davanti
a Cartagine gli sembrava che gli abitanti sospettassero le
sue intenzioni. Ma ben presto ridussero il numero delle
sentinelle dell’acquedotto. Gli uomini bastavano appena
per la difesa delle mura.
L’ex schiavo si esercitò per molti giorni a tirare con
l’arco sui fenicotteri del lago. Poi, una sera in cui
splendeva la luna, pregò Mâtho di accendere nel cuore
della notte un grande fuoco di paglia, e in quello stesso
momento i suoi uomini avrebbero dovuto gridare tutti
insieme; e, portando con sé Zarxas, se ne andò lungo la
riva del golfo in direzione di Tunisi.
All’altezza delle ultime arcate, puntarono diritti
sull’acquedotto; il luogo era scoperto: avanzarono
strisciando fino alla base dei piloni.
Le sentinelle della piattaforma passeggiavano
tranquillamente.
Divamparono alte fiamme; le trombe squillarono; i
soldati di vedetta, credendo a un assalto, si precipitarono
verso Cartagine.
Era rimasto solo un uomo. Appariva nero sul fondo
del cielo. La luna lo illuminava da dietro, e la sua ombra
smisurata sembrava, sulla piana, un obelisco che
camminasse.
Aspettarono di averlo di fronte. Zarxas afferrò la
fionda; per prudenza o per ferocia, Spendio lo trattenne.
«No, il sibilo del sasso farebbe rumore! A me!».
Allora tese l’arco con tutte le sue forze, appoggiandolo
in basso sull’alluce del piede sinistro; prese la mira, e la
freccia partì.
L’uomo non cadde. Scomparve.
«Se fosse ferito, lo sentiremmo!», disse Spendio; e si
arrampicò svelto di piano in piano, come aveva fatto la
prima volta, aiutandosi con una corda e un arpione. Poi,
quando fu in alto, vicino al cadavere, lasciò ricadere la
corda. Il Balearico vi legò un piccone e un mazzuolo, e
tornò indietro.
Le trombe non suonavano più. Ora tutto era
tranquillo. Spendio aveva sollevato una delle lastre, era
entrato nell’acqua, aveva rimesso la lastra al suo posto.
Calcolando la distanza dal numero dei passi, giunse
esattamente al punto dove aveva notato, dall’esterno, una
fessura obliqua; e per tre ore, fino al mattino, lavorò
senza sosta, furiosamente, respirando appena attraverso
gli interstizi delle lastre superiori, assalito dall’angoscia e
credendo venti volte di morire. Finalmente si udì uno
scricchiolio; una pietra enorme, rimbalzando sulle arcate
inferiori, ruzzolò fino a terra, e, di colpo, una cataratta,
un fiume intero, precipitò dal cielo nella pianura.
L’acquedotto, spezzato nel mezzo, si svuotava. Era la
morte per Cartagine, e la vittoria per i Barbari.
In un istante i Cartaginesi, svegliati, apparvero sulle
mura, sulle case, sui templi. I Barbari si spingevano,
gridavano. Danzavano in delirio intorno alla grande
cascata d’acqua e, presi da una gioia irrefrenabile,
venivano a bagnarvisi la testa.
Sulla cima dell’acquedotto si vide un uomo con una
tunica bruna, a brandelli. Si sporgeva chinato a guardare
sotto di sé, le mani sui fianchi, come stupito della sua
opera.
Poi si rialzò. Percorse l’orizzonte con un’aria fiera che
sembrava dire: «Tutto questo ora è mio!». Esplosero gli
applausi dei Barbari; i Cartaginesi, rendendosi conto del
disastro, urlavano disperati. Allora Spendio si mise a
correre sulla piattaforma da un capo all’altro e, come un
auriga trionfatore ai giochi olimpici, folle d’orgoglio,
alzava le braccia.
XIII
Moloch

I Barbari non avevano bisogno di un vallo di difesa verso


l’Africa, che apparteneva a loro. Per rendere più facile
l’attacco alle mura, fu abbattuto il trinceramento che
costeggiava il fossato. Poi Mâtho divise l’esercito in
grandi semicerchi, in modo da circondare meglio
Cartagine. Gli opliti dei Mercenari furono piazzati in prima
linea; dietro di loro, i frombolieri e i cavalieri; infine le
salmerie, i carri, i cavalli; e al di là di questa moltitudine,
a trecento passi dalle torri, si ergevano le macchine.
Nell’infinita varietà dei loro nomi (che cambiarono più
volte nel corso dei secoli), potevano ricondursi a due
sistemi: quelle che agivano come fionde, e le altre che
agivano come archi.
Le prime, le catapulte, si componevano di un telaio
quadrato, con due montanti verticali e una barra
orizzontale. Nella parte anteriore un cilindro, munito di
cavi, tratteneva una grossa leva che terminava in un
cucchiaio nel quale venivano posti i proiettili; la base
della leva era avvolta da una matassa di fili ritorti, e
quando si mollavano le corde, la leva scattava in alto,
andando a sbattere contro la barra; il suo brusco arresto
aumentava la forza del lancio.
Le seconde presentavano un meccanismo più
complicato; al centro di una piccola colonna era fissata
una traversa, nel punto in cui finiva ad angolo retto una
scanalatura; alle estremità della traversa si ergevano due
pioli avvolti da torciglioni di crini; vi erano fissate due
putrelle che trattenevano i capi di una corda che veniva
tesa in basso fino alla scanalatura, su una piastra di
bronzo. Scattando una molla, la piastra di metallo si
liberava e, scivolando sulle guide, lanciava le frecce.
Le catapulte si chiamavano anche onagri, come gli
asini selvatici che lanciano sassi con le zampe, e le baliste
si chiamavano scorpioni a causa di un gancio fissato alla
piastra di metallo che, abbassato con un pugno, faceva
scattare una molla.
La loro costruzione richiedeva calcoli sapienti; il
legname doveva essere scelto tra le essenze più dure, e
gli ingranaggi erano tutti di bronzo; si armavano per
mezzo di leve, carrucole, argani e verricelli;1 perni
robusti variavano la direzione del tiro, si spostavano su
rulli, e le più grandi, trasportate pezzo per pezzo,
venivano rimontate di fronte al nemico.
Spendio dispose le tre grandi catapulte ai tre angoli
principali delle mura; davanti a ogni porta piazzò un
ariete, davanti a ogni torre una balista, e più indietro si
muovevano liberamente le carrobaliste. Ma bisognava
proteggerle dal fuoco degli assediati e innanzitutto
riempire il fossato che li separava dalle mura.
Si portarono avanti graticci di giunchi verdi e tettoie di
quercia, simili a enormi scudi che scivolassero su tre
ruote; piccole capanne ricoperte di pelli fresche e
imbottite di alghe riparavano chi lavorava; le catapulte e
le baliste furono protette con reti di corde imbevute
nell’aceto per renderle incombustibili. Le donne e i
bambini andavano a raccogliere sassi sulla spiaggia,
raccoglievano la terra con le mani e la portavano ai
soldati.
Anche i Cartaginesi si preparavano.
Amilcare li aveva subito rassicurati dicendo che nelle
cisterne c’era acqua per centoventitré giorni. Questa
affermazione, la sua presenza tra loro, e soprattutto
quella dello zaimf, ridavano speranza. Cartagine si
risollevò dal suo scoraggiamento; coloro che non erano
di origine cananea furono trascinati dalla passione degli
altri.
Furono armati gli schiavi, si vuotarono gli arsenali;
ogni cittadino ebbe il suo posto e il suo compito.
Sopravvivevano ancora milleduecento disertori; il suffeta
li fece tutti capitani; e i carpentieri, gli armaioli, i fabbri e
gli orefici furono preposti alle macchine. Malgrado le
condizioni della pace romana, i Cartaginesi ne avevano
conservate alcune. Furono riparate. Erano pratici di quei
lavori.
I due lati settentrionale e orientale, difesi dal mare e
dal golfo, erano inaccessibili. Sul tratto di mura che
fronteggiava i Barbari furono issati tronchi d’albero,
macine di mulino, vasi pieni di zolfo, orci pieni d’olio, e
furono costruiti dei fornelli. Furono ammucchiate pietre
sulle piattaforme delle torri, e le case addossate ai
bastioni furono riempite di sabbia per rinforzarli e
aumentarne lo spessore.
Assistendo a questi preparativi, i Barbari si irritarono.
Vollero combattere subito. Ma i massi che misero sulle
catapulte erano talmente pesanti che le leve si
spezzarono; l’attacco fu rinviato.
Finalmente il tredicesimo giorno del mese di Shebat, al
sorgere del sole, si udì un gran colpo contro la porta di
Khamon.
Settantacinque soldati tiravano le corde assicurate alla
base di una trave gigantesca, sospesa orizzontalmente
con catene a un’impalcatura; la trave terminava in una
testa di ariete, tutta di bronzo. Era stata fasciata con pelli
di bue; cerchiata qua e là con anelli di ferro, era grossa
tre volte il corpo di un uomo, lunga centoventi cubiti, e,
spinta in avanti e tirata indietro da una folla di braccia
nude, avanzava e rinculava con un’oscillazione regolare.
Cominciarono a muoversi anche gli arieti davanti alle
altre porte. Nelle ruote cave dei timpani si videro uomini
che salivano di gradino in gradino. Le pulegge, i perni
cigolarono, le reti di cordame caddero a terra, e partirono
di colpo scariche di pietre e di frecce; tutti i frombolieri
correvano sparpagliati. Alcuni soldati si avvicinavano al
bastione, nascondendo sotto gli scudi dei vasi pieni di
resina; poi li lanciavano con tutta la loro forza. Questa
grandinata di pietre, frecce e fuoco passava sopra le
prime file e ricadeva con una parabola dietro le mura.
Ma, sulla loro cima, apparvero alcune di quelle lunghe
gru usate per alberare le navi; ne scesero delle pinze
enormi che terminavano con due semicerchi dentati
all’interno, che afferrarono gli arieti. I soldati, aggrappati
alla trave, tiravano indietro. I Cartaginesi tiravano per
issarla; e la lotta durò fino a sera.
Quando i Mercenari, il giorno dopo, ripresero l’attacco,
la parte superiore delle mura era interamente coperta di
balle di cotone, tele, cuscini; le feritoie erano tappate da
stuoie; e sul bastione tra le gru si vedeva un allineamento
di forconi e roncole in cima a bastoni. Subito cominciò
una resistenza furiosa.
Tronchi d’albero sostenuti da cavi cadevano e
ricadevano, con movimento alterno, sugli arieti; arpioni
lanciati da baliste strappavano i tetti delle capanne; e
dalle piattaforme delle torri si rovesciavano torrenti di
ciottoli e selci.
Finalmente gli arieti infransero la porta di Khamon e la
porta di Tagaste. Ma i Cartaginesi avevano ammucchiato
all’interno una tale quantità di materiali che i battenti non
si aprirono. Rimasero in piedi.
Allora furono spinte contro le mura delle trivelle che
penetrando nelle giunture dei massi le avrebbero
sconnesse. Le macchine furono manovrate meglio, e i
loro inservienti divisi in squadre; erano in funzione dalla
mattina alla sera, senza fermarsi mai, con la monotona
precisione del telaio di un tessitore.
Spendio non si stancava mai di dirigerle. Era lui stesso
a tendere i cavi ritorti delle baliste. Perché ci fosse una
perfetta parità di tensione, si stringevano le corde
battendole ora a destra e ora a sinistra fino a quando non
restituivano lo stesso suono. Salito sul telaio, Spendio le
batteva piano con la punta del piede, e tendeva l’orecchio
come un musicista che accordi una lira. Poi, quando la
leva della catapulta scattava e la colonna della balista
tremava sotto il colpo della molla, e le pietre erano
scagliate a ventaglio e le frecce a ruscelli, si sporgeva con
tutto il corpo e gettava le braccia al cielo, come se
volesse accompagnare il lancio. I soldati, ammirati della
sua abilità, eseguivano i suoi ordini. Lavorando in
allegria, continuavano a scherzare sui nomi delle
macchine. Così le tenaglie per afferrare gli arieti si
chiamavano “lupi”, e le gallerie coperte “pergole”; e loro
erano “agnelli”, e si andava a vendemmiare; e mentre
armavano le macchine dicevano agli onagri: «Su, scalcia
bene!», e agli scorpioni: «Trafiggili fino al cuore!».
Queste facezie, sempre le stesse, davano loro coraggio.
Tuttavia le macchine non riuscivano a demolire il
bastione. Era formato da due muri e riempito di terra; le
macchine abbattevano le parti superiori. Ma gli assediati,
ogni volta, le rialzavano. Mâtho ordinò di costruire delle
torri di legno alte quanto le torri di pietra. Gettarono nel
fossato zolle di terra, pali, sassi e perfino carri con le
ruote per riempirlo più in fretta; prima che fosse pieno,
l’immensa massa dei Barbari ondeggiò sulla pianura in un
solo movimento, e si abbatté sul piede delle mura, come
un mare che trabocchi.
Furono portate avanti le scale di corda, le scale di
legno e le sambuche, cioè due pali dai quali veniva
calata, per mezzo di paranchi, una serie di canne di
bambù che terminava con un ponte mobile. Erano tante
linee diritte appoggiate alle mura, e i Mercenari le
salivano, l’uno dietro l’altro, con le armi in pugno. Non
un Cartaginese che si mostrasse; ed erano già arrivati a
due terzi del bastione. Le feritoie si aprirono vomitando
fuoco e fumo come fauci di drago; la sabbia si spargeva,
penetrando nei giunti delle armature; il petrolio si
attaccava ai vestiti; il piombo liquido saltellava sugli elmi,
bucava le carni; una pioggia di scintille schizzava sui
volti, e orbite senza occhi sembravano piangere lacrime
grosse come mandorle. C’erano uomini, tutti gialli di olio,
con i capelli in fiamme. Si mettevano a correre,
appiccando fuoco agli altri. Li spegnevano gettando loro
in faccia, da lontano, mantelli inzuppati di sangue.
Alcuni, che non avevano nessuna ferita, restavano
immobili, rigidi come pali, a bocca aperta e con le braccia
spalancate.
L’attacco si ripeté per molti giorni di seguito, perché i
Mercenari speravano di vincere puntando tutto sulla forza
e sull’audacia. Talvolta un uomo sulle spalle di un altro
piantava un picchetto tra le pietre, e se ne serviva per
salire più in alto, e ne piantava un secondo, un terzo;
riparati dal cornicione delle merlature che sporgeva dalle
mura, a poco a poco salivano in questo modo; ma, giunti
a una certa altezza, ripiombavano sempre giù. Il grande
fossato traboccava; calpestati dai vivi, i feriti si
ammucchiavano alla rinfusa tra i cadaveri e i moribondi.
In mezzo alle viscere aperte, ai cervelli sparsi e alle pozze
di sangue, i corpi calcinati formavano delle macchie nere;
e braccia e gambe che sporgevano per metà da un
mucchio restavano rigide e dritte come pali in un vigneto
incendiato.
Poiché le scale erano insufficienti, furono impiegati i
tollenoni, macchine costituite da una lunga trave posta
trasversalmente su un’altra, con all’estremità una grande
cesta quadrangolare che era in grado di contenere trenta
fanti armati.
Appena fu pronta la prima, Mâtho voleva salirvi. Ma
Spendio lo fermò.
Alcuni uomini si curvarono su un argano; la grande
trave si alzò, si stabilizzò in una posizione orizzontale, poi
si alzò quasi verticalmente e, troppo carica all’estremità,
si fletteva come una canna immensa. I soldati eranno
ammassati nella cesta, nascosti fino al mento; si
vedevano soltanto le piume degli elmi. Alla fine, quando
fu a un’altezza di cinquanta cubiti, ondeggiò più volte a
destra e a sinistra, poi si abbassò; e, come il braccio di
un gigante che tenesse sul palmo della mano una coorte
di pigmei, depositò sul bordo delle mura la cesta piena di
uomini. Saltarono in mezzo alla calca e non tornarono
più.
Tutti gli altri tollenoni furono preparati rapidamente.
Ma ce ne sarebbero voluti cento di più per prendere la
città. Allora vennero impiegati in un modo micidiale:
arcieri etiopi si appostavano nelle ceste; poi, tirate le funi,
restavano sospesi in aria e lanciavano frecce avvelenate.
In questo modo i cinquanta tollenoni, dominando le
merlature, circondavano Cartagine come mostruosi
avvoltoi; e i Negri ridevano vedendo le guardie sui
bastioni che morivano tra convulsioni atroci.
Amilcare inviò degli opliti; faceva bere loro ogni
mattina il succo di certe erbe che li proteggeva dal
veleno.
Una sera, particolarmente buia, imbarcò i suoi soldati
migliori su chiatte e zattere e, voltando a destra del
porto, andò a sbarcare alla Tenia. Poi avanzarono fino
alle prime linee dei Barbari e, attaccandoli sul fianco,
fecero una grande carneficina. Talvolta, di notte, dall’alto
delle mura venivano calati, appesi alle corde, uomini che
con le torce appiccavano il fuoco alle attrezzature dei
Mercenari, e poi risalivano.
Mâtho si accaniva; ogni ostacolo aumentava la sua
collera; giungeva a compiere cose terribili e stravaganti.
Convocò Salammbô, mentalmente, a un incontro; poi la
attese. Lei non venne; lo prese come un nuovo
tradimento; a questo punto la odiava. Avesse anche visto
il suo cadavere, probabilmente avrebbe tirato diritto.
Raddoppiò gli avamposti, piantò delle forche sotto le
mura, nascose trappole nel terreno, e ordinò ai Libici di
portargli un’intera foresta di legname per darle fuoco e
bruciare Cartagine, come se fosse una tana di volpi.
Spendio si ostinava nell’assedio. Cercava di inventare
macchine terribili, come non ne erano state costruite mai.
Gli altri Barbari, accampati in lontananza sull’istmo,
erano stupiti di tanta lentezza; mormoravano; si decise di
lasciarli fare.
Allora costoro si precipitarono con i coltellacci e i
giavellotti, a colpire le porte. Ma non avendo corazze
venivano feriti facilmente, i Cartaginesi ne massacrarono
un grande numero; e i Mercenari se ne rallegrarono,
senza dubbio gelosi dei propri diritti di saccheggio. Ne
nacquero litigi, risse tra loro. Poi, essendo devastata la
campagna, assai presto ci si azzuffò per i viveri. Si
scoraggiavano. Orde numerose se ne andarono. Ma la
massa era tale che non ci se ne accorse.
I migliori tentarono di scavare dei cunicoli; il terreno,
mal sostenuto, franò. Ricominciarono in altri punti;
Amilcare indovinava sempre la direzione degli scavi,
accostando l’orecchio a uno scudo di bronzo. Scavò a sua
volta dei cunicoli sotto il percorso delle torri di legno;
così, quando le spinsero avanti, sprofondarono nelle
buche.
Alla fine tutti riconobbero che la città era imprendibile,
finché non si fosse alzato all’altezza delle mura un
terrapieno che permettesse di combattere allo stesso
livello; la parte superiore sarebbe stata lastricata in modo
da potervi muovere le macchine. Allora Cartagine non
avrebbe più potuto resistere.

La città cominciava a soffrire la sete. L’acqua, che


all’inizio dell’assedio costava due kesitah il bath, ora
costava uno shekel d’argento; anche le provviste di carne
e di grano si stavano esaurendo; si temeva la fame; già
qualcuno parlava di bocche inutili, e questo spaventava
tutti.
Dalla piazza di Khamon fino al tempio di Melkarth i
cadaveri ingombravano le strade; e siccome si era alla
fine dell’estate, grosse mosche nere tormentavano i
combattenti. I vecchi trasportavano i feriti, e i devoti
celebravano i funerali fittizi di parenti e amici, morti
lontano in guerra. Statue di cera con capelli e vestiti
erano distese attraverso le porte. Si struggevano al calore
dei ceri che ardevano intorno; la pittura colava sulle
spalle, e le lacrime scorrevano sui volti dei vivi, che
salmodiavano lugubri canti. Intanto la folla correva;
passavano gruppi di armati; i capitani gridavano ordini, e
si udivano senza tregua i colpi degli arieti che si
abbattevano sui bastioni.
La temperatura aumentò talmente che i corpi,
gonfiandosi, non entravano più nelle bare. Venivano
bruciati nei cortili. Ma i fuochi, in quei luoghi stretti,
incendiavano i muri vicini e lunghe fiamme si
sprigionavano di colpo dalle case, come zampilli di
sangue da un’arteria; così Moloch possedeva Cartagine;
stringeva in pugno i bastioni, correva per le strade,
divorava perfino i cadaveri.
Uomini che in segno di disperazione indossavano
mantelli di stracci, si piazzarono agli angoli dei crocicchi.
Inveivano contro gli Anziani, contro Amilcare,
predicavano al popolo la rovina totale e lo incitavano a
distruggere tutto, e a permettersi tutto. I più pericolosi
erano i bevitori di giusquiamo;2 durante le loro crisi
credevano di essere bestie feroci e saltavano addosso ai
passanti, e li sbranavano. Intorno a loro si formavano
assembramenti; e ci si dimenticava della difesa di
Cartagine. Il suffeta pensò di pagarne altri che
sostenessero la sua politica.
Per trattenere in città il genio degli dèi, i loro simulacri
erano stati coperti di catene. Furono posti veli neri sui
Pateci e cilici intorno agli altari; si tentava di provocare
l’orgoglio e la gelosia dei Baal cantando al loro orecchio:
«Ti fai vincere! Gli altri sono forse più forti? Fatti vedere!
Aiutaci! Altrimenti i popoli diranno: “Ma dove sono finiti i
loro dèi?”».
Un’ansia continua agitava i collegi dei pontefici.
Soprattutto quelli della Rabbetna avevano paura, perché
il recupero dello zaimf non era servito. Restavano chiusi
nel terzo recinto, inespugnabile come una fortezza. Uno
solo tra loro si arrischiava a uscire, il gran sacerdote
Shahabarim.
Andava da Salammbô. Ma restava in silenzio a fissarla,
oppure era prodigo di parole e i rimproveri che le faceva
erano più duri che mai.
Per una contraddizione incomprensibile, non
perdonava alla giovane di aver eseguito i suoi ordini;
Shahabarim aveva intuito tutto, e l’ossessione di
quell’idea ravvivava la gelosia della sua impotenza.
Mâtho, a sentire lui, assediava Cartagine per riprendere lo
zaimf; e rovesciava imprecazioni e scherni su quel
Barbaro che pretendeva di possedere delle cose sacre.
Tuttavia non era questo che il sacerdote voleva dire.
Ma ormai Salammbô non aveva più paura di lui. Non
sentiva più le angosce che aveva sofferto in altri tempi.
Provava una strana tranquillità. Il suo sguardo, meno
incerto, brillava di una fiamma limpida.
Intanto il pitone si era ammalato di nuovo; e, poiché
Salammbô, al contrario, sembrava guarire, la vecchia
Taanach se ne rallegrava, convinta che il serpente,
deperendo, prendesse su di sé il languore della sua
padrona.
Una mattina lo trovò dietro il letto di pelle di bue, tutto
arrotolato su se stesso, più freddo del marmo, con la
testa che spariva sotto un brulichio di vermi. Alle sue
grida, giunse Salammbô. Rivoltò più volte il serpente con
la punta del sandalo, e la schiava rimase stupita di tanta
insensibilità.
La figlia di Amilcare non prolungava più i suoi digiuni
con il fervore di un tempo. Passava le sue giornate sulla
terrazza, i gomiti appoggiati alla balaustrata, divertendosi
a guardare davanti a sé. La sommità delle mura in fondo
alla città disegnava sul cielo una serie di zigzag ineguali,
e le lance delle sentinelle formavano tutt’intorno un orlo
di spighe. Al di là, tra le torri, vedeva le manovre dei
Barbari; nei giorni di tregua dell’assedio poteva perfino
distinguere le loro occupazioni. Riparavano le armi, si
ungevano i capelli, oppure si lavavano in mare le braccia
insanguinate; le tende erano chiuse; le bestie da soma
mangiavano; e, in lontananza, le falci dei carri allineati a
semicerchio sembravano una scimitarra d’argento distesa
ai piedi dei monti. Le tornavano alla memoria i discorsi di
Shahabarim. Aspettava il suo fidanzato Narr’Havas.
Malgrado l’odiasse, avrebbe voluto rivedere Mâtho. Di
tutti i Cartaginesi, era forse lei l’unica persona che non
avrebbe avuto paura di parlare con lui.
Spesso suo padre veniva a trovarla. Si sedeva
ansimando sui cuscini, e la guardava con un’aria quasi
intenerita, come se in quella vista trovasse un sollievo
alle sue fatiche. Talvolta le faceva domande sul suo
viaggio al campo dei mercenari. Giunse a chiederle se per
caso qualcuno non l’avesse spinta a quell’impresa; e con
un cenno della testa Salammbô rispondeva di no, tanto
era fiera di aver salvato lo zaimf.
Ma il suffeta riportava sempre il discorso su Mâtho,
con il pretesto delle informazioni militari. Non riusciva a
capire cosa avesse fatto in quelle ore passate nella sua
tenda. In effetti, Salammbô non parlava di Giscone;
perché, avendo le parole in se stesse un potere reale, le
maledizioni che venivano riferite a qualcuno potevano
ricadere su di lui; e non parlava neppure del suo impulso
a uccidere, perché temeva di essere biasimata per non
avervi ceduto. Diceva che lo shalishim sembrava
furibondo, che aveva gridato a lungo, e poi si era
addormentato. Salammbô non raccontava di più, forse
per vergogna, oppure per un eccesso di candore che non
le faceva dare alcuna importanza ai baci del soldato. Tutti
questi avvenimenti, del resto, fluttuavano nella sua mente
malinconici e confusi come il ricordo di un sogno
opprimente; né avrebbe saputo in quale modo e con
quali parole esprimerlo.
Una sera che se ne stavano così, l’uno di fronte
all’altra, arrivò Taanach trafelata. Nel cortile era arrivato
un vecchio con un bambino, che voleva vedere il suffeta.
Amilcare impallidì, poi rispose agitato:
«Fallo salire!».
Entrò Iddibal, senza inchinarsi. Teneva per mano un
ragazzino coperto con un mantello di pelo di caprone; e
subito alzando il cappuccio che gli nascondeva il volto:
«Eccolo, padrone! Prendilo!».
Il suffeta e lo schiavo si appartarono in un angolo della
stanza.
Il bambino era rimasto in piedi nel mezzo e, con uno
sguardo più attento che stupito, osservava il soffitto, i
mobili, le file di perle sui drappi di porpora, e quella
maestosa fanciulla che si chinava su di lui.
Poteva avere dieci anni, e non era più alto di una
spada romana. I capelli ricciuti ombreggiavano la fronte
bombata. Sembrava che le sue pupille fossero alla ricerca
di spazi aperti. Le narici del naso sottile palpitavano con
forza; da tutta la sua persona emanava l’indefinibile
splendore di coloro che sono destinati alle grandi
imprese. Quando si fu tolto il mantello troppo pesante,
restò vestito di una pelle di lince intorno alla vita; e i suoi
piccoli piedi nudi, bianchi di polvere, poggiavano decisi
s u l pavimento. Ma sicuramente intuì che si trattava di
cose importanti, perché restava immobile, con una mano
dietro la schiena, il mento sul petto, un dito in bocca.
Infine Amilcare chiamò con un cenno Salammbô, e le
disse a bassa voce:
«Lo terrai con te, intendimi bene! Nessuno, neppure
della casa, deve sapere della sua esistenza!».
Poi, dietro la porta, chiese di nuovo a Iddibal se era
sicuro che nessuno li avesse visti.
«Nessuno!», rispose lo schiavo. «Le strade erano
vuote».
Poiché la guerra coinvolgeva tutte le province, aveva
temuto per il figlio del suo padrone. Allora, non sapendo
dove nasconderlo, era venuto lungo la costa con una
scialuppa: da tre giorni Iddibal bordeggiava nel golfo,
scrutando i bastioni. Finalmente quella sera, poiché i
dintorni di Khamon sembravano deserti, e l’ingresso del
porto era libero, aveva varcato in fretta il passaggio
sbarcando vicino all’arsenale.
Pochi giorni dopo, i Barbari piazzarono di fronte al
porto un’immensa zattera per impedire ai Cartaginesi di
uscire. Intanto rialzavano le torri di legno, e nello stesso
tempo il terrapieno cresceva in altezza.
Essendo così interrotte le comunicazioni con l’esterno,
cominciò una carestia insopportabile.
Furono uccisi tutti i cani, tutti i muli, tutti gli asini, e i
quindici elefanti che il suffeta aveva riportato. I leoni del
tempio di Moloch erano diventati furiosi, e gli ieroduli
non osavano più avvicinarli. Prima li nutrirono con i
Barbari feriti; poi gettarono loro dei cadaveri ancora
tiepidi; ma i leoni li rifiutarono, e morirono tutti. Nel
crepuscolo, c’era gente che vagava lungo le vecchie mura
a cogliere tra le pietre erbe e fiori che facevano bollire nel
vino; il vino costava meno dell’acqua. Altri strisciavano
fino agli avamposti nemici, entravano nelle tende a
rubare del cibo; i Barbari, sbalorditi, a volte li lasciavano
tornare indietro. E giunse il giorno in cui gli Anziani
decisero di sgozzare, in gran segreto, i cavalli di Eshmun.
Erano animali sacri, le cui criniere venivano intrecciate
con nastri d’oro dagli stessi pontefici; raffiguravano
simbolicamente il movimento del sole, l’idea del fuoco
nella sua forma più alta. Le loro carni, tagliate in parti
eguali, furono nascoste dietro l’altare. Poi, ogni sera, col
pretesto di qualche rito, gli Anziani salivano al tempio, e
banchettavano di nascosto; e si portavano via sotto la
tunica un pezzo per i loro figli. Nei quartieri deserti,
lontano dalle mura, gli abitanti meno miserabili si erano
barricati in casa per paura degli altri.
Le pietre delle catapulte e le demolizioni ordinate per
la difesa avevano riempito le strade di mucchi di macerie.
Nei momenti più tranquilli, improvvisamente masse di
popolo si precipitavano urlando; e dall’alto dell’Acropoli
gli incendi sembravano stracci di porpora sparsi sulle
terrazze e piegati dal vento.
Le tre grandi catapulte, malgrado tutti i nuovi lavori,
non si fermavano mai. Le loro devastazioni erano
straordinarie; così la testa di un uomo andò a rimbalzare
sul frontone dei Sissizi; nella via di Kinisdo, una donna
che partoriva rimase schiacciata sotto un blocco di
marmo, e il bambino con il letto fu trascinato fino al
crocevia di Cinasin dove fu ritrovata la coperta.
La cosa più fastidiosa erano i proiettili dei frombolieri.
Cadevano sui tetti, nei giardini e in mezzo ai cortili,
mentre la gente mangiava seduta davanti a un magro
pasto, col cuore gonfio di sospiri. Quei proiettili atroci
portavano incise delle lettere che si imprimevano nelle
carni; e sui cadaveri si leggevano ingiurie come maiale,
sciacallo, pidocchio, e talvolta facezie: prendi questo!
oppure: me lo sono meritato.
Quella parte del bastione che dall’angolo del porto
arrivava all’altezza delle cisterne fu sfondata. Allora gli
abitanti di Malqua si trovarono chiusi tra la vecchia cinta
muraria di Birsa, alle spalle, e i Barbari di fronte. Ma si
era troppo impegnati a rinforzare e alzare il più possibile
le mura, per occuparsi di loro; morirono tutti, e sebbene
fossero generalmente odiati, questa scelta di Amilcare
suscitò un grande orrore.
L’indomani il suffeta aprì i depositi sotterranei nei quali
conservava del grano; i suoi intendenti lo distribuirono al
popolo. Per tre giorni ci si ingozzò.
La sete divenne sempre più insopportabile; e
continuavano ad avere davanti agli occhi la lunga cascata
di acqua limpida che precipitava dall’acquedotto. Sotto i
raggi del sole, saliva dal fondo un vapore sottile, accanto
a un arcobaleno, e un ruscelletto, serpeggiando sulla
spiaggia, si riversava nel golfo.
Amilcare non si scoraggiava. Contava su un
avvenimento, su qualcosa di decisivo, di straordinario.
I suoi schiavi strapparono le lastre d’argento del
tempio di Melkarth, trassero a terra dal porto quattro
lunghe navi, con degli argani, le trainarono fin sotto i
Mappali, e il muro che dava sulla marina fu abbattuto;
così partirono per le Gallie per assoldarvi, a qualsiasi
prezzo, dei Mercenari. Intanto Amilcare era desolato di
non poter comunicare con il re dei Numidi; sapeva che si
trovava dietro i Barbari, pronto ad attaccarli. Ma
Narr’Havas, troppo debole, non osava rischiare da solo; e
il suffeta fece rialzare il bastione di dodici palmi,
ammassare nell’Acropoli tutto il materiale degli arsenali,
e riparare le macchine ancora una volta.
Per la torsione delle catapulte, venivano di solito usati i
tendini tolti dal collo dei tori o dai garretti dei cervi. Ma a
Cartagine non c’erano né cervi né tori. Amilcare chiese
agli Anziani i capelli delle loro donne; tutte li
sacrificarono; ma la quantità non era sufficiente. Nei
magazzini dei Sissizi c’erano milleduecento schiave nubili,
di quelle destinate alla prostituzione in Grecia e in Italia,
e i loro capelli, resi elastici dall’uso degli unguenti, erano
perfetti per le macchine da guerra. Ma la perdita
economica, in seguito, sarebbe stata eccessiva. Dunque si
decise di scegliere le più belle capigliature tra le mogli dei
plebei. Senza curarsi affatto delle necessità della patria,
esse si misero a urlare come disperate quando arrivarono
i servitori dei Cento con le forbici in mano.
Intanto i Barbari erano presi da un furore crescente. Li
si vedeva da lontano mentre toglievano il grasso ai morti
per oliare le macchine, oppure strappavano loro le
unghie e le cucivano una all’altra per farsene corazze.
Pensarono di mettere nelle catapulte dei vasi pieni di
serpenti portati dai Negri; i vasi di argilla si frantumavano
sulle pietre, i serpenti correvano dappertutto, pullulavano
ed erano talmente numerosi che sembravano uscire
naturalmente dai muri. Poi i Barbari, insoddisfatti della
loro invenzione, la perfezionarono; lanciavano ogni sorta
di immondizie, escrementi umani, pezzi di carogne,
cadaveri. Riapparve la peste. Ai Cartaginesi cadevano i
denti di bocca e le gengive erano scolorite come quelle
dei cammelli dopo un viaggio troppo lungo.
Le macchine furono montate sul terrapieno benché
non raggiungesse ancora dappertutto l’altezza del
bastione. Ora davanti alle ventitré torri delle fortificazioni
ne sorgevano altre ventitré di legno. Tutti i tollenoni
erano stati rimontati, e in mezzo, un po’ indietro, si
vedeva la formidabile elepoli di Demetrio Poliorcete,3 che
Spendio era riuscito a ricostruire. Piramidale come il faro
di Alessandria, era alta centotrenta cubiti e larga ventitré,
con nove piani che si restringevano verso la cima ed
erano difesi da lastre di bronzo, con numerose porte e
pieni di soldati; sulla piattaforma superiore si ergeva una
catapulta fiancheggiata da due baliste.
Allora Amilcare fece piantare delle croci per chi avesse
parlato di arrendersi; anche le donne furono inquadrate.
Si dormiva per strada, e si stava in attesa pieni di
angoscia.
Poi una mattina, poco prima del sorgere del sole (era
il settimo giorno del mese di Nissam),4 udirono un
grande grido lanciato da tutti i Barbari insieme; le trombe
dal tubo di piombo squillavano, i grandi corni paflagoni
muggivano come tori. Tutti balzarono in piedi e corsero
al bastione.
Una foresta di lance, di picche e di spade si drizzava
alla sua base. Scattò contro le mura, le scale si
agganciarono; e negli spazi delle merlature apparvero
teste di Barbari.
Travi sostenute da lunghe file di uomini battevano
contro le porte; e nei punti in cui mancava il terrapieno i
Mercenari, per demolire il muro, arrivavano in coorti
serrate: la prima linea accovacciata, la seconda col
ginocchio piegato, e le altre rialzandosi progressivamente
fino alle ultime che restavano in piedi; mentre altrove,
per salire sulle mura, i più alti avanzavano in testa, i più
bassi in coda, e tutti, col braccio sinistro, tenevano gli
scudi sopra gli elmi, così accostati che sembravano un
insieme di grandi tartarughe. I proiettili scivolavano su
quelle masse oblique.
I Cartaginesi gettavano macine da mulino, pestelli,
tini, barili, letti, ogni cosa che fosse pesante e in grado di
uccidere. Alcuni si appostavano dietro i merli con una
rete da pescatore, e quando il Barbaro arrivava si trovava
preso tra le maglie e si dibatteva come un pesce.
Demolivano loro stessi i merli; blocchi di muro crollavano
sollevando un gran polverone; e poiché le catapulte
tiravano le une contro le altre, i loro proiettili si
scontravano e scoppiavano in mille pezzi che ricadevano
sui combattenti come una grande pioggia.
Presto le due masse formarono una sola grande catena
di corpi umani; traboccava negli intervalli del terrapieno
e, un po’ più sottile alle due estremità, continuava a
rotolare su se stessa senza mai avanzare. Si afferravano
l’un l’altro, stesi bocconi come lottatori. Si facevano a
pezzi. Le donne urlavano sporgendosi dai merli. Le
tiravano per le vesti, e il candore dei loro fianchi scoperti
all’improvviso splendeva tra le braccia dei Negri che vi
affondavano i pugnali. Spesso i cadaveri, troppo pigiati in
mezzo alla calca, non cadevano per terra; sorretti dalle
spalle dei loro compagni, continuavano ad avanzare per
qualche minuto, in piedi e con gli occhi sbarrati. Alcuni,
con le tempie trapassate da un giavellotto, dondolavano
la testa come orsi. Bocche che si erano aperte per gridare
restavano spalancate; mani mozzate schizzavano via.
Quel giorno ci furono dei gran colpi; coloro che
sopravvissero ne parlarono a lungo.
Intanto dalla cima delle torri di legno e delle torri di
pietra piovevano frecce. I tollenoni muovevano
rapidamente le loro lunghe antenne; e siccome i Barbari
avevano saccheggiato sotto le Catacombe il vecchio
cimitero degli autoctoni, lanciavano sui Cartaginesi pietre
tombali. Talvolta sotto il peso delle ceste troppo cariche i
cavi si spezzavano, e masse di uomini precipitavano
dall’alto con le braccia alzate.
Fino a metà del giorno, i veterani degli opliti si erano
accaniti contro la Tenia per penetrare nel porto e
distruggere la flotta. Amilcare fece accendere sul tetto di
Khamon un fuoco di paglia umida; quel fumo,
accecandoli, li fece piegare a sinistra, e così andarono ad
accrescere l’orribile calca che sconvolgeva Malqua. Alcuni
sintagmi, formati da uomini robusti, scelti
appositamente, avevano sfondato tre porte. Alti
sbarramenti, fatti di tavole irte di chiodi, li fermarono;
una quarta cedé facilmente; vi si precipitarono di corsa, e
rotolarono in un fosso dove erano state nascoste delle
trappole. All’angolo sud-est Autarito e i suoi uomini
abbatterono il bastione la cui spaccatura era stata tappata
con mattoni. Dietro, il terreno era in pendio; lo salirono
in fretta. Ma in alto trovarono un secondo muro, fatto di
pietre e di lunghe travi disposte orizzontalmente e che si
alternavano come le caselle di una scacchiera. Era una
tecnica gallica che il suffeta aveva adattato alle esigenze
della situazione; i Galli credettero di trovarsi davanti a
una città del loro paese. Attaccarono fiaccamente e
furono respinti.
Dalla via di Khamon fino al mercato delle erbe tutto il
cammino di ronda era ormai nelle mani dei Barbari, e i
Sanniti finivano i moribondi a colpi di spiedo; oppure,
con un piede sul muro, contemplavano in basso, sotto di
loro, le rovine fumanti, e in lontananza la battaglia che
ricominciava.
I frombolieri, sparsi più indietro, continuavano a
tirare. Ma, a forza di usarle, le ritorte delle fionde
acarnane si erano spezzate, e molti, come pastori,
lanciavano i sassi con le mani; altri ancora lanciavano
palle di piombo col manico di uno staffile. Zarxas, le
spalle coperte dai lunghi capelli neri, si spostava
dappertutto trascinando i Balearici. Aveva due tascapani
appesi ai fianchi; vi affondava continuamente la mano
sinistra, e il braccio destro roteava come la ruota di un
carro.
Inizialmente Mâtho si era astenuto dai combattimenti,
per meglio comandare tutti i Barbari. Lo si era visto sulla
riva del golfo con i Mercenari, vicino alla laguna con i
Numidi, sulle rive del lago tra i Negri, e dal fondo della
pianura spingeva contro le mura le masse di soldati che
continuavano ad arrivare. A poco a poco si era
riavvicinato; l’odore del sangue, lo spettacolo del carnaio
e lo strepitìo delle trombe avevano finito per fargli
sobbalzare il cuore. Allora era rientrato nella sua tenda e,
gettando la corazza, si era messo la pelle di leone, più
comoda per la battaglia. Il muso si adattava alla sua testa
e gli incorniciava il volto con un cerchio di zanne; le due
zampe anteriori si incrociavano sul petto, e quelle
posteriori giungevano con gli artigli fin sotto le ginocchia.
Aveva conservato il robusto cinturone nel quale
luccicava un’ascia a doppio taglio, e brandendo a due
mani la grande spada si era precipitato attraverso la
breccia, con impeto. Come un potatore che taglia i rami
dei salici, e cerca di tagliarne il più possibile per
guadagnare di più, avanzava falciando intorno a sé i
Cartaginesi. Quelli che tentavano di prenderlo di fianco, li
abbatteva con l’elsa della spada; quando lo attaccavano
frontalmente, li infilzava; se fuggivano, li tagliava in due.
Due uomini contemporaneamente gli saltarono sulle
spalle; indietreggiò con un balzo contro una porta e li
schiacciò. La sua spada si abbassava, si rialzava. Andò in
pezzi contro lo spigolo di un muro. Allora impugnò la
pesante ascia, e avanti e indietro sventrava i Cartaginesi
come un gregge di pecore. Si facevano sempre più da
parte, e così arrivò tutto solo davanti alla seconda cinta,
ai piedi dell’Acropoli. I materiali lanciati dall’alto
ingombravano i gradini e traboccavano dal muro. Mâtho,
in mezzo alle macerie, si voltò per chiamare i suoi
compagni.
Scorse i loro cimieri sparsi nella folla; venivano
sommersi, stavano per perire; si gettò verso di loro;
allora l’ampia corona di pennacchi rossi si rinserrò; si
riunirono, gli si strinsero intorno. Ma dalle strade laterali
stava arrivando una folla enorme. Fu preso per i fianchi,
sollevato e trasportato fuori dal bastione, in un punto
dove il terrapieno era alto.
Mâtho gridò un ordine: tutti gli scudi si alzarono sopra
gli elmi; vi saltò sopra, per aggrapparsi a qualche
sporgenza e rientrare dentro Cartagine; e, brandendo la
terribile ascia, correva sugli scudi simili a onde di bronzo,
come un dio marino che corra sui flutti agitando il
tridente.
Intanto un uomo vestito di bianco camminava sul
ciglio del bastione, impassibile e indifferente alla morte
che lo circondava. Talvolta portava la mano destra sugli
occhi per riconoscere qualcuno. Mâtho si trovò a passare
sotto di lui. Subito le pupille dell’uomo fiammeggiarono,
il suo volto livido si contrasse; e alzando le magre braccia
gli gridò delle ingiurie.
Mâtho non le udì; ma si sentì penetrare nel cuore uno
sguardo così crudele e furioso che gli sfuggì un ruggito.
Lanciò contro di lui la lunga ascia; alcuni uomini si
gettarono addosso a Shahabarim; e Mâtho, non
vedendolo più, si lasciò cadere all’indietro, esausto.
Si avvicinava un cigolio spaventoso, accompagnato da
un ritmo di voci roche che cantavano in cadenza.
Era la grande elepoli, circondata da una folla di soldati.
La tiravano a due mani, la trainavano con le corde e la
spingevano con le spalle, perché la pendenza dalla
pianura al terrapieno, pur essendo molto dolce, era
impraticabile per macchine di tale peso. Eppure aveva
otto ruote cerchiate di ferro, e fin dal mattino veniva
avanti in quel modo, lentamente, simile a una montagna
che si sollevasse sopra un’altra. Poi dalla sua base uscì un
ariete immenso; sui tre lati che guardavano la città le
porte si abbatterono, e all’interno apparvero, come
colonne di ferro, soldati corazzati. Se ne vedevano alcuni
che salivano e scendevano lungo le due scale che
attraversavano i piani. Altri aspettavano, per lanciarsi,
che gli arpioni delle porte si agganciassero alle mura; in
mezzo alla piattaforma superiore i verricelli delle baliste
roteavano, e la grande leva della catapulta si abbassava.
In quel momento Amilcare si trovava in piedi sul tetto
di Melkarth. Aveva valutato che l’elepoli sarebbe venuta
direttamente verso di lui, contro il punto più invulnerabile
delle mura, e per questo sguarnito di sentinelle. Da
tempo i suoi schiavi portavano otri sul cammino di
ronda, dove avevano costruito con l’argilla due muretti
trasversali che formavano una specie di bacino. L’acqua
colava impercettibilmente sulla terrazza e Amilcare, cosa
strana, non sembrava preoccuparsene.
Ma quando l’elepoli fu a circa trenta passi, ordinò di
sistemare delle tavole sopra le strade, tra le case, dalle
cisterne fino al bastione; e gente in fila si passava di
mano in mano anfore ed elmi pieni d’acqua, che
vuotavano continuamente. I Cartaginesi tuttavia si
indignavano per quell’acqua sprecata. L’ariete demoliva il
muro; all’improvviso sgorgò una fontana tra le pietre
sconnesse. Allora quella montagna di bronzo, di nove
piani e che conteneva e impegnava più di tremila soldati,
cominciò a oscillare lentamente come una nave. L’acqua,
infatti, infiltrandosi nel terrapieno, aveva fatto cedere il
terreno; le ruote si impantanarono; al primo piano, tra
tende di cuoio, apparve la testa di Spendio che soffiava
furiosamente in un corno d’avorio. La grande macchina,
come sollevata convulsamente, avanzò di circa dieci
passi; ma il terreno si infradiciava sempre di più, il fango
arrivava agli assi delle ruote e l’elepoli si fermò
inclinandosi paurosamente su un lato. La catapulta rotolò
fino al bordo della piattaforma; e, trascinata dal peso
della leva, cadde fracassando sotto di sé i piani inferiori. I
soldati, in piedi sulle porte, scivolarono nell’abisso,
oppure si aggrappavano alle estremità delle lunghe travi,
e con il loro peso aumentavano l’inclinazione dell’elepoli
che si smembrava scricchiolando in tutte le sue giunture.
Gli altri Barbari si precipitarono in soccorso dei loro
compagni. Si accalcavano fitti. I Cartaginesi scesero dal
bastione e, assalendoli alle spalle, li uccisero come
vollero. Ma accorsero i carri falcati. Galoppavano intorno
a quella moltitudine, che fu costretta a risalire il muro;
giunse la notte; a poco a poco i Barbari si ritirarono.
Nella pianura non si vedeva altro che una specie di
nero formicolio, tra il golfo bluastro e la laguna tutta
bianca; e il lago, dove era colato sangue, si stendeva più
lontano come una grande palude purpurea.
Ora il terrapieno era talmente pieno di cadaveri che
poteva sembrare costruito con corpi umani. In mezzo si
ergeva l’elepoli coperta di armature; e, di tanto in tanto,
se ne staccavano dei frammenti enormi, come pietre di
una piramide che crolli. Sulle mura si vedevano larghe
strisce prodotte dai rivoli di piombo fuso. Qua e là
bruciava una torre di legno abbattuta; e le case
apparivano vagamente, come i gradini di un anfiteatro in
rovina. Si levavano dense nuvole di fumo, trascinando
scintille che si perdevano nel cielo nero.

Intanto i Cartaginesi, divorati dalla sete, si erano


precipitati verso le cisterne. Ne ruppero le porte. Sul
fondo si stendeva una pozza melmosa.
Che fare ora? Del resto, i Barbari erano innumerevoli
e, passata la stanchezza, avrebbero ricominciato.
Il popolo, per tutta la notte, deliberò diviso in gruppi,
agli angoli delle strade. Gli uni dicevano che bisognava
mandare via le donne, i malati e i vecchi; altri proposero
di lasciare la città per andare a stabilirsi lontano, in una
colonia. Però mancavano le navi, e il sole spuntò senza
che fosse stato deciso qualcosa.
Quel giorno non si combatté, perché tutti erano sfiniti.
Quelli che dormivano sembravano cadaveri.
Allora i Cartaginesi, riflettendo sulla causa dei loro
disastri, si ricordarono di non aver mandato in Fenicia
l’offerta annuale dovuta al Melkarth di Tiro; e furono
presi da un terrore immenso. Gli dèi, indignati con la
Repubblica, avrebbero sicuramente portato fino in fondo
la loro vendetta.
Li consideravano dei padroni crudeli, che si placavano
con le suppliche e che si lasciavano corrompere a forza di
doni. Ma tutti erano deboli al confronto di Moloch il
divoratore. L’esistenza, la carne stessa degli uomini gli
appartenevano; così, per salvarla, i Cartaginesi avevano
l’usanza di offrirgliene una porzione che placasse il suo
furore. Si bruciavano i bambini sulla fronte oppure sulla
nuca con batuffoli di lana; e poiché questo modo di
soddisfare il Baal procurava molto denaro ai sacerdoti,
questi non mancavano mai di raccomandarlo come il più
facile e il meno doloroso.
Ma questa volta si trattava della Repubblica stessa.
Ora, poiché a ogni guadagno deve corrispondere una
qualche perdita, e ogni transazione si svolge secondo il
bisogno del più debole e l’esigenza del più forte, non
c’era dolore che non fosse eccessivo per il dio dal
momento che si compiaceva delle sofferenze più orribili e
che ora tutti erano nelle sue mani. Dunque era necessario
soddisfarlo completamente. Gli esempi provavano che in
quel modo si costringeva il flagello a scomparire. Del
resto erano convinti che un sacrificio col fuoco avrebbe
purificato Cartagine. La ferocia del popolo ne era già
allettata. E poi la scelta doveva cadere esclusivamente
sulle grandi famiglie.
Gli Anziani si riunirono. La seduta fu lunga. Partecipò
anche Annone. Poiché non poteva più sedersi, rimase
sdraiato accanto alla porta, seminascosto dalle frange
delle grandi tende; e quando il pontefice di Moloch chiese
se acconsentivano a consegnare i loro figli, la sua voce
esplose di colpo nell’ombra come il ruggito di un Genio
nel fondo di una caverna.
Rimpiangeva, disse, di non avere nessuno da offrire
del proprio sangue; e fissava Amilcare, di fronte a lui sul
lato opposto della sala. Il suffeta fu talmente turbato da
quello sguardo che abbassò gli occhi. Tutti approvarono,
uno dopo l’altro, con un cenno della testa; e secondo il
rito dovette rispondere al gran sacerdote: «Così sia».
Allora gli Anziani decretarono il sacrificio con una
perifrasi tradizionale, perché ci sono cose più difficili a
dirsi che a farsi.
La decisione fu conosciuta quasi immediatamente a
Cartagine; echeggiarono lamenti. Ovunque si udivano
gridare le donne; i loro sposi le consolavano oppure le
ingiuriavano e le rimproveravano.
Ma tre ore dopo si diffuse una notizia ancora più
straordinaria: il suffeta aveva trovato delle sorgenti
d’acqua ai piedi della scogliera. Vi si precipitarono. Sul
fondo di alcune buche scavate nella sabbia si vedeva
dell’acqua; e già qualcuno, steso ventre a terra, beveva.
Neppure Amilcare sapeva se ciò era accaduto su
consiglio degli dèi o piuttosto per il vago ricordo di una
rivelazione che gli aveva fatto una volta suo padre; ma,
lasciati gli Anziani, era sceso sulla spiaggia e con i suoi
servi si era messo a scavare nella sabbia.
Distribuì vestiti, calzature, vino e tutto il grano che
restava nei suoi depositi. Fece perfino entrare la folla nel
suo palazzo, e aprì le cucine, i magazzini e tutte le stanze
tranne quella di Salammbô. Annunciò che stavano
arrivando seimila Mercenari galli e che il re di Macedonia
mandava soldati.
Ma già al secondo giorno le sorgenti cominciarono a
scemare; la sera del terzo erano completamente asciutte.
Allora il decreto degli Anziani fu di nuovo su tutte le
labbra, e i sacerdoti di Moloch iniziarono la loro opera.
Uomini vestiti di nero si presentarono nelle case. Molti
le abbandonavano prima col pretesto di un impegno, o di
una leccornia da andare a comperare; i servitori di
Moloch arrivavano e prendevano i fanciulli. Altri,
inebetiti, li consegnavano con le loro mani. Poi li
portavano nel tempio di Tanit, dove le sacerdotesse
avevano il compito di nutrirli e farli divertire fino al
giorno solenne.
Arrivarono all’improvviso da Amilcare e lo trovarono
nei giardini:
«Barca! Veniamo per la cosa che sai... tuo figlio!».
Aggiunsero che alcune persone l’avevano incontrato
una sera dell’altra luna, in mezzo ai Mappali, condotto per
mano da un vecchio.
Amilcare si sentì soffocare. Ma assai presto,
rendendosi conto che era inutile negare, cedette; li fece
entrare nel fondaco. Alcuni schiavi accorsi a un suo
cenno ne sorvegliavano i dintorni.
Entrò nella stanza di Salammbô con l’aria perduta. Con
una mano afferrò Annibale, con l’altra strappò il cordone
di una veste, gli legò i piedi, le mani, gli infilò un capo in
bocca come bavaglio, e lo nascose sotto il letto di pelle di
bue facendo scendere fino al pavimento una grande
coperta.
Passeggiò su e giù per la stanza; alzava le braccia,
girava su se stesso, si mordeva le labbra. Poi restò
immobile con le pupille fisse e ansimando come se stesse
per morire.
Batté tre volte le mani. Apparve Giddenem.
«Ascolta!», disse. «Vai a prendere tra gli schiavi un
bambino maschio tra gli otto e i nove anni con i capelli
neri e la fronte bombata! Portalo! In fretta!».
Giddenem tornò dopo poco con un fanciullo.
Era un povero bambino, magro e insieme gonfio; la
sua pelle sembrava grigiastra come lo straccio infetto che
portava alla vita; ritraeva la testa tra le spalle, e con il
dorso della mano si stropicciava gli occhi pieni di
mosche.
Com’era possibile confonderlo con Annibale? E
mancava il tempo per sceglierne un altro! Amilcare
guardava Giddenem; aveva voglia di strangolarlo.
«Vattene!», gridò; l’intendente degli schiavi fuggì via.
Dunque era arrivata, la sciagura che temeva da tempo;
e cercava spasmodicamente di trovare una maniera, un
modo per sfuggirla.
Improvvisamente udì la voce di Abdalonim dietro la
porta. Chiedevano del suffeta. I servitori di Moloch
stavano perdendo la pazienza.
Amilcare trattenne un grido, come se fosse stato
bruciato da un ferro rovente; e ricominciò a camminare
per la stanza come un folle. Poi si accasciò sul bordo
della balaustrata e, con i gomiti sulle ginocchia, si
stringeva la fronte tra i pugni.
La vasca di porfido conteneva ancora un po’ d’acqua
limpida per le abluzioni di Salammbô. Malgrado la sua
ripugnanza e il suo orgoglio, il suffeta vi immerse il
ragazzo e, come un mercante di schiavi, si mise a lavarlo
e a strofinarlo con gli strigili e la terra rossa. Poi prese
dalle nicchie della parete due quadrati di porpora, gliene
pose uno sul petto, l’altro sul dorso, e li unì sulle
clavicole con due fibbie di diamanti. Gli versò un
profumo sulla testa; gli mise intorno al collo una collana
di elettro, lo calzò con sandali dai tacchi di perle, i sandali
di sua figlia! Ma non sopportava più la vergogna e l’ansia;
Salammbô, che faceva di tutto per aiutarlo, era pallida
quanto lui. Il fanciullo sorrideva, abbagliato da tanto
splendore, e, preso coraggio, cominciava a battere le
mani e a saltare quando Amilcare lo portò via.
Lo teneva per un braccio, forte, come se avesse paura
di perderlo; e il bambino, al quale faceva male,
piagnucolava correndogli accanto.
All’altezza dell’ergastolo, sotto una palma, si alzò una
voce, una voce lamentosa e implorante. Mormorava:
«Padrone! Oh! Padrone!».
Amilcare si girò e vide al suo fianco un uomo di
aspetto sordido, uno di quei miserabili che gli vivevano in
casa alla giornata.
«Cosa vuoi?», chiese il suffeta.
Lo schiavo, che tremava orribilmente, balbettò:
«Sono suo padre!».
Amilcare continuava a camminare; l’altro lo seguiva, la
schiena curva, le gambe piegate, la testa in avanti. Il suo
viso era stravolto da un’angoscia indicibile, e i singhiozzi
che tratteneva lo soffocavano, tale era il desiderio di
interrogarlo e insieme di gridargli: «Grazia!».
Finalmente osò toccarlo con un dito, sul gomito,
leggermente.
«Ma tu lo vuoi...?».
Non ebbe la forza di terminare, e Amilcare si fermò,
meravigliato di tanto dolore.
Non aveva mai pensato (tale era l’abisso che li
separava l’uno dall’altro) che tra loro potesse esserci
qualcosa in comune. Questo solo fatto gli sembrò una
sorta di oltraggio e quasi un’usurpazione dei suoi
privilegi. Rispose con uno sguardo più freddo e più duro
della mannaia di un boia; lo schiavo svenne cadendo
nella polvere ai suoi piedi. Amilcare lo scavalcò.
I tre uomini vestiti di nero lo attendevano nella grande
sala, in piedi contro il disco di pietra. Subito Amilcare si
stracciò le vesti, rotolandosi sul pavimento e lanciando
acute grida:
«Ah, povero piccolo Annibale! Oh, figlio mio! Mia
consolazione! Mia speranza! Vita mia! Uccidete anche me!
Portatemi via! Sventura! Sventura!». Si lacerava il volto
con le unghie, si strappava i capelli e urlava come le
prefiche ai funerali. «Portatelo via! Soffro troppo!
Andatevene! Uccidetemi con lui». I servitori di Moloch si
stupivano che il cuore di Amilcare fosse così fragile. Ne
erano quasi inteneriti.
Si udì uno scalpiccìo di piedi nudi e un ansimare
affannoso, simile al respiro di una bestia feroce che si stia
avvicinando; e all’ingresso della terza galleria, tra gli
stipiti d’avorio, apparve un uomo, pallido, terribile, con le
braccia aperte; gridò:
«Il mio bambino!».
Amilcare, con un salto, si era precipitato sullo schiavo;
coprendogli la bocca con le mani, gridava più forte di lui:
«È il vecchio che l’ha allevato! Lo chiama suo figlio!
Impazzirà! Basta! Basta!».
E, spingendo per le spalle i tre sacerdoti e la loro
vittima, uscì con loro chiudendosi dietro la porta con un
gran calcio.
Amilcare tese l’orecchio per qualche minuto, temendo
di vederli ritornare. Poi pensò di disfarsi dello schiavo per
essere sicuro che non parlasse; ma il pericolo non era
scomparso del tutto, e quella morte, se avesse irritato gli
dèi, avrebbe potuto ritorcersi contro suo figlio. Allora,
cambiando idea, gli fece inviare attraverso Taanach le
cose migliori della cucina: un quarto di capro, fave e
conserve di melograne. Lo schiavo, che non mangiava da
molto tempo, vi si avventò; e intanto gli cadevano le
lacrime sul piatto.
Amilcare, rientrato nella stanza di Salammbô, sciolse
le corde di Annibale. Il bambino, esasperato, gli morse a
sangue una mano. Lo allontanò con una carezza.
Per farlo stare tranquillo, Salammbô provò a
spaventarlo con Lamia, un’orchessa di Cirene.
«E dov’è?», chiese Annibale.
Gli raccontarono che sarebbero venuti i briganti per
portarlo in prigione.
«Vengano pure», replicò, «e io li ucciderò!».
Allora Amilcare gli disse la spaventosa verità. Ma lui si
adirò contro il padre, sostenendo che avrebbe potuto
annientare il popolo intero, visto che era il padrone di
Cartagine.
Infine, vinto dalla stanchezza e dalla collera, si
addormentò. Agitato, parlava sognando, con la schiena
appoggiata a un cuscino scarlatto; la testa era
leggermente rovesciata all’indietro, e aveva un braccino
alzato, diritto in un gesto imperioso.
A notte fonda, Amilcare lo sollevò adagio e scese
senza torcia la scalinata delle galee. Passando per il
fondaco, prese una cesta d’uva e una caraffa d’acqua
pura; il bambino si svegliò davanti alla statua di Alete,
nel sotterraneo delle pietre preziose; e sorrideva, come
l’altro, tra le braccia del padre, alla vista di tutti quei
luccichii che lo circondavano.
Ora Amilcare era sicuro che non avrebbero potuto
prendergli suo figlio. Era un luogo impenetrabile, che
comunicava con la spiaggia attraverso un sotterraneo che
lui solo conosceva, e guardandosi intorno respirò
profondamente. Poi depose il bambino su uno sgabello,
accanto a degli scudi d’oro.
Nessuno in quel momento lo vedeva; non aveva
bisogno di stare in guardia; allora si sfogò. Come una
madre che ritrovi il primogenito perduto, si gettò sul
figlio; se lo stringeva al petto, rideva e piangeva, lo
chiamava con i nomi più dolci, lo copriva di baci; il
piccolo Annibale, intimorito da quella tenerezza
eccessiva, ora taceva.
Amilcare tornò indietro in punta di piedi, tastando i
muri intorno a sé; e arrivò nella grande sala, dove
entrava la luce della luna attraverso una fessura della
cupola; nel mezzo, lo schiavo, sazio, dormiva disteso sul
pavimento di marmo. Lo guardò, e fu preso da un senso
di pietà. Con la punta del coturno gli fece scivolare un
tappeto sotto la testa. Poi rialzò gli occhi e guardò Tanit,
la cui esile falce brillava nel cielo, e si sentì più forte dei
Baal e pieno di disprezzo per loro.

I preparativi del sacrificio erano già iniziati.


Nel tempio di Moloch fu abbattuto un tratto di muro
per farne uscire il dio di bronzo, senza toccare le ceneri
dell’altare. Poi, quando spuntò il sole, gli ieroduli lo
spinsero verso la piazza di Khamon.
Andava all’indietro, scivolando su dei cilindri; le sue
spalle superavano l’altezza delle mura; appena lo
vedevano apparire da lontano, i Cartaginesi si davano alla
fuga, perché non si poteva contemplare impunemente il
Baal quando non era nell’esercizio della sua collera.
Un odore di aromi si sparse per le strade. Tutti i
templi si erano aperti contemporaneamente; ne uscivano
tabernacoli montati su carri o su lettighe portate dai
pontefici. Ai loro angoli ondeggiavano grandi pennacchi
di piume, e dai culmini aguzzi, che sorreggevano sfere di
cristallo, d’oro, d’argento o di rame, si irradiavano lampi
di luce.
Erano i Baalim cananei, sdoppiamenti del Baal
supremo, che tornavano verso il loro principio, per
umiliarsi davanti alla sua forza e annientarsi davanti al
suo splendore.
Il padiglione di Melkarth, di porpora fine, riparava una
fiamma alimentata a petrolio; su quello di Khamon, color
giacinto, si ergeva un fallo d’avorio, cinto da un cerchio
di pietre preziose; tra le tende di Eshmun, blu come
l’etere, un pitone addormentato disegnava un cerchio con
la coda; e gli dèi Pateci, portati in braccio dai loro
sacerdoti, sembravano grandi bambini in fasce, i cui
talloni sfioravano il terreno.
Poi venivano tutte le forme inferiori della divinità:
Baal-Samin, dio degli spazi celesti; Baal-Peor, dio dei
monti sacri; Baal-Zeboub, dio della corruzione; e poi gli
dèi dei paesi vicini e delle razze affini: lo Iarbal della
Libia, l’Adrammelech della Caldea, il Kijun dei Siriani;
Derceto, dal viso di vergine, strisciava sulle pinne, e il
cadavere di Tammuz era trainato sopra un catafalco, tra
torce e capigliature recise. Per asservire al Sole i re del
firmamento e impedire che i loro influssi particolari
interferissero con il suo, si brandivano lunghe pertiche
che avevano in cima stelle di metallo variamente
colorate; e vi erano rappresentati tutti, dal nero Nebo,
genio di Mercurio, al ripugnante Rhaab, che è la
costellazione del Coccodrillo. Gli abaddir, pietre cadute
dalla luna, roteavano in fionde di fili d’argento; i
sacerdoti di Cerere portavano canestri colmi di piccoli
pani che riproducevano la forma del sesso femminile;
altri portavano i loro feticci, i loro amuleti; riapparvero
idoli dimenticati; e si erano perfino presi alle navi i
simboli mistici, come se Cartagine avesse voluto
raccogliersi tutta in un pensiero di morte e di
desolazione.
Davanti a ogni tabernacolo, un uomo teneva in
equilibrio sulla testa un grande vaso in cui fumava
l’incenso. Qua e là fluttuavano nuvole, e tra quei densi
vapori si distinguevano i paramenti, i ciondoli e i ricami
dei padiglioni sacri. Avanzavano lentamente a causa del
loro enorme peso. Talvolta gli assi dei carri si
incastravano tra i muri delle vie; allora i devoti ne
approfittavano per toccare i Baalim con le vesti, che poi
avrebbero conservato come cose sante.
La statua di bronzo continuava ad avanzare verso la
piazza di Khamon. I Ricchi, che portavano scettri con il
pomo di smeraldo, partirono dal fondo di Megara; gli
Anziani, con in testa diademi, si erano riuniti in Kinisdo, e
gli amministratori delle finanze, i governatori delle
province, i mercanti, i soldati, i marinai e lo stuolo
numeroso degli addetti ai funerali, ognuno con le insegne
della propria magistratura o gli strumenti del mestiere, si
dirigevano verso i tabernacoli che scendevano
dall’Acropoli, tra i collegi dei pontefici.
Per deferenza nei confronti di Moloch, avevano
indossato i loro gioielli più splendidi. Diamanti
scintillavano sulle vesti nere; ma gli anelli troppo larghi
scivolavano dalle mani smagrite, e niente era più lugubre
di quella folla silenziosa, dove gli orecchini sbattevano
contro i volti smunti, e le auree tiare cingevano fronti
corrugate da una disperazione atroce.
Finalmente il Baal giunse nel mezzo della piazza. I suoi
pontefici alzarono, con delle grate, un recinto per tenere
lontana la folla, e restarono ai suoi piedi, intorno a lui.
I sacerdoti di Khamon, in vesti di lana fulva, si
schierarono davanti al loro tempio, sotto le colonne del
portico; quelli di Eshmun, con i loro mantelli di lino,
collane a testa di upupa e tiare a punta, si disposero sui
gradini dell’Acropoli; i sacerdoti di Melkarth, in tuniche
viola, occuparono il lato occidentale; i sacerdoti degli
abadir, stretti in fasce di stoffe frigie, occuparono quello
orientale; e sul lato meridionale furono disposti, insieme
con i negromanti tutti coperti di tatuaggi, i pubblici
urlatori dai mantelli rattoppati, gli assistenti dei Pateci e
gli Yidonim che, per conoscere il futuro, si mettevano in
bocca un osso di morto. I sacerdoti di Cerere, in vesti
blu, si erano fermati, prudentemente, nella via di Satheb,
e salmodiavano a bassa voce un tesmoforio5 in dialetto
megarese.
Di tanto in tanto, giungevano file di uomini
completamente nudi, che si tenevano l’un l’altro per le
spalle con le braccia aperte. Emettevano dal profondo del
petto un suono rauco e cavernoso; le loro pupille, fisse
sul colosso, brillavano nella polvere, e tutti insieme
dondolavano il corpo a intervalli eguali, come spinti da
un unico movimento. Erano talmente furiosi che, per
ristabilire l’ordine, a colpi di bastone gli ieroduli li fecero
sdraiare sul ventre, con il volto appoggiato alle grate di
bronzo.
Fu allora che dal fondo della piazza avanzò un uomo
vestito di bianco. Attraversò lentamente la folla, e tutti
riconobbero un sacerdote di Tanit, il gran sacerdote
Shahabarim. Ci furono urla di scherno, perché quel
giorno il potere del principio virile dominava ogni
coscienza, e la dea era dimenticata a tal punto che non
era stata notata l’assenza dei suoi pontefici. Ma la
meraviglia aumentò quando lo si vide aprire, nel recinto,
una delle porte riservate a chi sarebbe entrato per offrire
le vittime. I sacerdoti di Moloch, credendo che volesse
oltraggiare il loro dio, con grandi gesti cercarono di
allontanarlo. Nutriti con le carni degli olocausti, vestiti di
porpora come dei re, e con in testa una triplice corona,
schernivano quel pallido eunuco dal corpo macerato, e
risate di collera scuotevano sui loro petti le nere barbe
acconciate come raggi di sole.
Shahabarim, senza rispondere, continuava ad avanzare
e, attraversando passo dopo passo l’intero recinto, giunse
sotto le gambe del colosso, poi lo toccò dai due lati con
le braccia alzate, secondo una formula solenne di
adorazione. Da troppo tempo la Rabbet lo tormentava; e
per disperazione, o forse per mancanza di un dio che
soddisfacesse compiutamente il suo pensiero, decideva di
scegliere quella divinità.
Dalla folla, spaventata da quell’atto di apostasia, salì
un lungo mormorio. Sentivano spezzarsi l’ultimo legame
che univa le loro anime a una divinità clemente.
Ma Shahabarim, a causa della sua mutilazione, non
poteva partecipare al culto di Baal. Gli uomini col
mantello rosso lo fecero uscire dal recinto; poi, quando
fu al di fuori, si avvicinò a tutti i collegi, uno dopo l’altro;
quindi il sacerdote, ormai senza dio, scomparve nella
folla che al suo passaggio si scostava.
Intanto un fuoco di aloe, di cedro e di alloro ardeva tra
le gambe del colosso. Le sue lunghe ali immergevano la
punta tra le fiamme; gli unguenti con cui era stato
strofinato colavano come sudore sulle membra di bronzo.
Intorno alla pietra rotonda su cui posava i piedi, i
fanciulli, avvolti in veli neri, formavano un cerchio
immobile; e le sue braccia smisuratamente lunghe
abbassavano le palme fino a loro, come per cogliere
quella corona e portarla in cielo.
I Ricchi, gli Anziani, le donne, la folla intera, si
accalcavano dietro ai sacerdoti e sulle terrazze delle case.
Le grandi stelle dipinte non roteavano più; i tabernacoli
erano posati a terra; e i fumi degli incensieri salivano
verticalmente, come alberi giganteschi che dispiegassero
nell’azzurro del cielo i loro rami bluastri.
Molti svennero; altri, immobili, diventavano come
pietrificati nella loro estasi. Un’angoscia infinita
opprimeva i petti. Gli ultimi clamori si spegnevano uno
dopo l’altro, e il popolo di Cartagine ansimava, assorto
nel desiderio del suo terrore.
Finalmente il gran sacerdote di Moloch passò la mano
sinistra sotto i veli dei fanciulli, e dalla fronte di ognuno
strappò una ciocca di capelli che gettò sulle fiamme.
Allora gli uomini col mantello rosso intonarono l’inno
sacro. «Gloria a te, Sole! Re delle due zone, creatore che
genera se stesso, Padre e Madre, Padre e Figlio, dio e
dea, dea e dio!». E la loro voce si perse nell’esplosione
degli strumenti che suonavano tutti insieme, per
soffocare le grida delle vittime. Gli sheminith a otto
corde, i kinnor, che ne avevano dieci, e i nebal, che ne
avevano dodici, stridevano, fischiavano, tuonavano.
Enormi otri irti di canne producevano un acuto
sciabordìo; i tamburi, percossi con tutta la forza delle
braccia, risuonavano di colpi sordi e rapidi; e, malgrado
gli squilli delle trombe, i salsalim 6 schioccavano come ali
di cavallette.
Gli ieroduli aprirono, con un lungo gancio, i sette
scomparti sovrapposti sul corpo del Baal. Nel più alto fu
introdotta della farina; nel secondo, due tortore; nel
terzo, una scimmia; nel quarto, un ariete; nel quinto, una
pecora; e siccome non c’erano buoi per il sesto, vi
gettarono una pelle conciata presa nel santuario. Il
settimo scomparto restava vuoto.
Prima di procedere, bisognava provare le braccia del
dio. Delle catenelle sottili che partivano dalle dita,
raggiungevano le spalle e ridiscendevano lungo il dorso,
dove alcuni uomini, tirandole, facevano salire fino
all’altezza dei gomiti le due mani aperte che,
avvicinandosi, si portavano sul ventre; le mani si
mossero più volte di seguito, con piccoli movimenti
bruschi. Poi gli strumenti tacquero. Il fuoco sibilava.
I pontefici di Moloch passeggiavano sulla grande
pietra, osservando la folla.
Serviva un sacrificio individuale, un’oblazione del tutto
volontaria che trascinasse le altre. Ma nessuno fino a quel
momento si era fatto avanti, e i sette percorsi che
andavano dal recinto al colosso erano completamente
vuoti. Allora, per incoraggiare il popolo, i sacerdoti
estrassero dalle loro cinture dei punteruoli con i quali si
sfregiavano il viso. Furono fatti entrare nel recinto i
devoti, rimasti fuori sdraiati per terra. Fu gettato loro un
ammasso di orribile ferraglia e ognuno scelse la propria
tortura. Si infilavano spiedi nei seni; si trapassavano le
guance; si misero corone di spine sulla testa; poi,
allacciati per le braccia, formarono intorno al cerchio dei
fanciulli un altro cerchio più grande che si stringeva e si
allargava. Giungevano fino al recinto, si gettavano
indietro e ricominciavano, attirando la folla con la
vertigine di quel movimento pieno di sangue e di grida.
A poco a poco, alcuni entrarono nel recinto;
lanciavano nel fuoco perle, vasi d’oro, coppe, torce; tutte
le loro ricchezze; le offerte diventavano sempre più
splendide e si moltiplicavano. Finalmente un uomo che
barcollava, un uomo pallido e terrorizzato, spinse avanti
un bambino; poi si vide tra le mani del colosso un
fagotto nero che sprofondò nell’apertura tenebrosa. I
sacerdoti si chinarono sul bordo della grande pietra, e si
alzò un nuovo canto a celebrare le gioie della morte e le
rinascite dell’eternità.
Salivano lentamente, e siccome il fumo che si alzava
formava alti vortici, da lontano sembrava che sparissero
dentro una nube. Nessuno di loro si muoveva. Erano
legati ai polsi e alle caviglie, e il velo scuro impediva loro
di vedere, e di essere riconosciuti.
Amilcare, col mantello rosso come i sacerdoti di
Moloch, stava vicino al Baal, in piedi presso l’alluce del
suo piede destro. Quando venne portato il
quattordicesimo bambino, tutti poterono notare il suo
gesto di orrore. Ma subito, riprendendo il suo contegno,
incrociò le braccia e guardò a terra. Dall’altra parte della
statua il Gran Pontefice restava immobile come lui.
Piegando la testa cinta da una mitra assira, si guardava
sul petto la piastra d’oro coperta di pietre fatifiche, sulle
quali il riflesso della fiamma produceva bagliori iridati.
Era pallido, smarrito. Amilcare chinava la fronte; ed
erano entrambi così vicini al rogo che gli orli dei mantelli,
sollevandosi, di tanto in tanto ne sfioravano le fiamme.
Le braccia di bronzo si muovevano più in fretta. Non si
fermavano più. Ogni volta che vi posavano un bambino, i
sacerdoti di Moloch stendevano la mano su di lui, per
scaricare su di lui i delitti del popolo, e gridavano: «Non
sono uomini, ma buoi!», e la folla intorno ripeteva:
«Buoi! Buoi!». I devoti gridavano: «Signore! Mangia!», e i
sacerdoti di Proserpina, conformandosi per paura alle
esigenze di Cartagine, borbottavano la formula eleusina:
«Versa la pioggia, genera!».
Le vittime, appena sull’orlo dell’apertura,
scomparivano come una goccia d’acqua sopra una piastra
arroventata, e saliva una fumata bianca nel bagliore
scarlatto.
Tuttavia l’appetito del dio non si placava. Ne voleva
ancora. Per dargliene di più, gliene ammucchiavano sulle
mani, legandole con una grossa catena. All’inizio alcuni
devoti avevano voluto contarle, per vedere se il loro
numero corrispondeva ai giorni dell’anno solare; ma ne
vennero aggiunte altre, ed era impossibile distinguerle
nel movimento vorticoso delle orribili braccia. Tutto ciò
durò a lungo, senza sosta fino a sera. Poi le pareti interne
divennero più scure. Allora si videro carni che
bruciavano. Alcuni addirittura credettero di riconoscere
capelli, membra, corpi interi.
Scese la notte; nubi si addensarono sopra la testa del
Baal. Il rogo, ormai senza fiamme, era una piramide di
carboni che gli arrivava alle ginocchia; completamente
rosso come un gigante coperto di sangue, con la testa
rovesciata, sembrava vacillare sotto il peso della sua
ebbrezza.
A mano a mano che i sacerdoti si affrettavano, la
frenesia del popolo cresceva; diminuendo il numero delle
vittime, gli uni gridavano di risparmiarle, gli altri che ne
occorrevano ancora. Sembrava che le mura gremite di
gente crollassero sotto le grida di spavento e di mistica
voluttà. Poi i fedeli invasero il recinto trascinandosi dietro
i figli avvinghiati, e li picchiavano perché lasciassero la
presa, per poi consegnarli agli uomini rossi. I suonatori
talvolta si interrompevano sfiniti; allora si udivano le
grida delle madri e lo sfrigolìo del grasso che colava sui
carboni. I bevitori di giusquiamo, camminavano a quattro
zampe intorno al colosso e ruggivano come tigri, gli
Yidonim vaticinavano, i devoti cantavano con le labbra
spaccate; il recinto era stato abbattuto, tutti volevano
partecipare al sacrificio; e i padri dei bambini morti in
passato gettavano nel fuoco le loro effigi, i loro giocattoli,
le loro ossa conservate. Alcuni, armati di coltelli, si
precipitarono sugli altri. Ci si sgozzò a vicenda. Gli
ieroduli raccolsero in vassoi di bronzo le ceneri cadute sul
bordo della pietra, e le gettarono in aria affinché il
sacrificio si spargesse sulla città e raggiungesse la regione
delle stelle.
Il grande clamore e tutta quella luce avevano attirato i
Barbari ai piedi delle mura; aggrappati, per vedere
meglio, ai rottami dell’elepoli, guardavano inorriditi.
XIV
La gola dell’Ascia

I Cartaginesi non erano ancora rientrati nelle loro case


che le nuvole si addensarono; chi alzava la testa verso il
colosso sentì grosse gocce sulla fronte, e cominciò a
piovere.
Piovve tutta la notte, a dirotto e a torrenti; il tuono
rimbombava; era la voce di Moloch; aveva sconfitto
Tanit, che, ora fecondata, dall’alto del cielo apriva il suo
grande seno. Di tanto in tanto, in una schiarita luminosa,
la si vedeva distesa su cuscini di nubi; poi le tenebre si
richiudevano come se, ancora troppo stanca, volesse
riaddormentarsi; i Cartaginesi, che credevano che l’acqua
fosse generata dalla luna, gridavano per aiutarla nella sua
fatica.
La pioggia scrosciava sulle terrazze e traboccava
formando laghi nei cortili, cascate sulle scale, vortici agli
angoli di ogni edificio; ai muri sembravano appesi tenui
veli biancastri, e i tetti dei templi, lavati, brillavano neri al
bagliore dei lampi. Per mille sentieri scendevano torrenti
dall’Acropoli; crollavano case all’improvviso; e travi,
calcinacci, mobili, passavano trascinati dai ruscelli che
correvano impetuosi sui lastricati.
Avevano messo fuori dalle case anfore, bricchi, teli;
ma le torce si spegnevano; presero tizzoni dal rogo eel
Baal, e i Cartaginesi, per bere, rovesciavano la testa
indietro e spalancavano la bocca. Altri, sul bordo delle
pozzanghere melmose, vi immergevano le braccia fino
alle ascelle e ingurgitavano acqua fino a vomitarla come
bufali. A poco a poco si diffondeva la frescura; tutti
inspiravano voluttuosamente l’aria umida muovendo tutte
le membra, e nella felicità di quell’ebbrezza sorse ben
presto un’immensa speranza. Tutte le miserie furono
dimenticate. Ancora una volta la patria rinasceva.
Sentivano come il bisogno di scaricare su altri l’eccesso
di furore che non erano riusciti a rivolgere contro se
stessi. Un tale sacrificio non doveva essere inutile;
benché non provassero alcun rimorso, tutti si sentivano
travolti da quella frenesia che nasce dalla complicità in
delitti irreparabili.
L’uragano si era abbattuto sui Barbari rifugiati nelle
loro tende mal chiuse; e ancora tutti intirizziti il giorno
dopo, sguazzavano nel fango alla ricerca di munizioni e
armi, rovinate, perdute.
Amilcare andò di persona a trovare Annone; e, grazie
ai pieni poteri, gli affidò il comando. Il vecchio suffeta
esitò per qualche minuto tra il rancore e la brama di
potere. Poi accettò.
Quindi Amilcare fece uscire una galea armata di una
catapulta a prua e a poppa. La piazzò nel golfo davanti
alla grande zattera; poi imbarcò sui vascelli disponibili le
sue truppe migliori. Dunque fuggiva; e puntando a nord
scomparve nella nebbia.
Ma tre giorni dopo (stava per ricominciare l’attacco)
giunse al campo, con grande tumulto, gente della costa
libica. Barca era entrato nel loro territorio. Dappertutto
aveva requisito viveri, stava occupando il paese.
Allora i Barbari si indignarono, come se li avesse
traditi. Quelli che si annoiavano di più all’assedio,
soprattutto i Galli, non esitarono a lasciare le mura per
cercare di raggiungerlo. Spendio voleva ricostruire
l’elepoli. Mâtho si era tracciato una linea ideale dalla sua
tenda fino a Megara, e aveva giurato di seguirla; nessuno
dei loro uomini si mosse. Ma gli altri, comandati da
Autarito, se ne andarono abbandonando il tratto
occidentale del bastione. L’incuria era tale che non si
pensò neppure a rimpiazzarli.
Narr’Havas li spiava da lontano, sulle montagne.
Durante la notte fece passare tutti i suoi sul lato esterno
della laguna, lungo la riva del mare, ed entrò a
Cartagine.
Si presentò come un salvatore, con seimila uomini,
ognuno dei quali portava farina sotto il mantello, e
quaranta elefanti carichi di foraggio e di carne secca. Gli
si affollarono intorno, e gli davano dei nomi. L’arrivo di
un simile soccorso non rallegrava i Cartaginesi quanto la
vista di quei forti animali consacrati al Baal; era un pegno
del suo affetto, una prova che finalmente avrebbe preso
parte alla guerra, in loro difesa.
Narr’Havas ricevette i complimenti degli Anziani. Poi
salì verso il palazzo di Salammbô.
Non l’aveva più rivista dal giorno in cui, nella tenda di
Amilcare, tra i cinque eserciti, aveva sentito la sua
manina fredda e morbida dentro la sua; dopo il
fidanzamento, subito era ripartita per Cartagine. Il suo
amore, distratto da altre ambizioni, si era riacceso, e ora
contava di godersi i suoi diritti, di sposarla, di possederla.
Salammbô non capiva in che modo quel giovane
avrebbe potuto diventare il suo padrone! Sebbene ogni
giorno chiedesse a Tanit la morte di Mâtho, il suo orrore
per il Libico stava diminuendo. Sentiva confusamente che
l’odio con cui l’aveva perseguitata aveva qualcosa di
religioso, e avrebbe voluto vedere nella persona di
Narr’Havas almeno un riflesso di quella violenza che
ancora la soggiogava. Desiderava conoscerlo meglio,
eppure la sua presenza l’avrebbe imbarazzata. Gli fece
rispondere che non poteva riceverlo.
Del resto, Amilcare aveva proibito alla sua gente di far
entrare da lei il re dei Numidi; rinviando alla fine della
guerra quella ricompensa, sperava di preservarsi la sua
fedeltà; e Narr’Havas, per timore del suffeta, si ritirò.
Ma con i Cento si mostrò altezzoso. Cambiò le loro
disposizioni. Pretese privilegi per i suoi uomini e li piazzò
nelle postazioni importanti; così i Barbari spalancarono
gli occhi vedendo i Numidi sulle torri.
La sorpresa dei Cartaginesi fu ancora più grande
quando arrivarono, su una vecchia trireme punica,
quattrocento dei loro che erano stati fatti prigionieri
durante la guerra di Sicilia. Infatti Amilcare aveva
segretamente rinviato ai Quiriti gli equipaggi dei vascelli
latini catturati prima della defezione delle città tirie;
adesso Roma ricambiava il favore restituendo a Cartagine
i suoi prigionieri. Inoltre Roma respinse gli approcci dei
Mercenari in Sardegna, né volle riconoscere come sudditi
gli abitanti di Utica.
Gerone,1 che governava a Siracusa, seguì l’esempio di
Roma. Per conservare i suoi stessi Stati gli era
indispensabile un equilibrio tra i due popoli; aveva
dunque interesse alla salvezza dei Cananei, e si dichiarò
loro amico invitando a Cartagine milleduecento buoi e
cinquantamila nebel2 di frumento di qualità.
Ma una ragione più profonda spingeva a soccorrere
Cartagine: era chiaro che se i Mercenari avessero vinto,
tutti, dal soldato allo sguattero, sarebbero insorti e
nessun governo, nessuna grande famiglia avrebbe potuto
resistere.
Intanto Amilcare batteva le campagne orientali.
Respinse i Galli, e tutti i Barbari si trovarono come
assediati a loro volta.
Allora cominciò a logorarli. Arrivava, si ritirava e,
ripetendo ogni volta la stessa manovra, a poco a poco
riuscì ad allontanarli dai loro accampamenti. Spendio fu
costretto a seguirli; anche Mâtho, alla fine, cedette.
Ma non andò oltre Tunisi, e si rinchiuse tra le sue
mura. Quell’ostinazione era molto saggia; infatti ben
presto si vide Narr’Havas che usciva dalla porta di
Khamon con i suoi elefanti e i suoi soldati; Amilcare lo
chiamava. Ma già gli altri Barbari si aggiravano per le
province alla ricerca del suffeta.
Amilcare aveva ricevuto a Clipea tremila Galli. Fece
arrivare cavalli dalla Cirenaica, armature dal Bruzio, e
ricominciò la guerra.
Mai il suo genio si era dimostrato così impetuoso e
fertile. Per cinque lune se li trascinò dietro. Aveva una
meta dove voleva condurli.

All’inizio i Barbari avevano tentato di accerchiarlo con


piccoli distaccamenti; riusciva sempre a sfuggire. Il loro
esercito era di circa quarantamila uomini, e molte volte
provarono la soddisfazione di vedere i Cartaginesi
indietreggiare.
Ciò che più li tormentava, erano i cavalieri di
Narr’Havas. Spesso, nelle ore più calde, quando
avanzavano nella pianura sonnecchiando sotto il peso
delle armi, improvvisamente si alzava all’orizzonte una
densa linea di polvere; si udivano cavalli al galoppo, e da
una nube piena di pupille fiammeggianti si scatenava una
pioggia di frecce. I Numidi, coperti di mantelli bianchi,
lanciavano alte grida, alzavano le braccia stringendo tra le
ginocchia gli stalloni impennati, li facevano voltare
bruscamente, poi sparivano. Avevano sempre a una certa
distanza, sui dromedari, scorte di giavellotti, e
ritornavano più terribili di prima, urlando come lupi e
fuggendo come avvoltoi. I Barbari che si trovavano nelle
file esterne cadevano uno dopo l’altro, e andava avanti
così fino a sera, quando si cercava di riparare tra le
montagne.
Sebbene fossero pericolose per gli elefanti, Amilcare vi
si addentrò. Seguì la lunga catena che si estende dal
promontorio Ermeo fino alla cima dello Zaguan.
Credevano che fosse un espediente per nascondere
l’insufficienza delle sue truppe. Ma la continua incertezza
in cui li teneva finiva per esasperarli più di qualunque
sconfitta. Tuttavia non si scoraggiarono, e continuarono
ad andargli dietro.
Finalmente una sera, tra la Montagna d’Argento e la
Montagna di Piombo, in mezzo a grandi rocce,
all’ingresso di una gola, sorpresero un drappello di veliti;
l’intero esercito era sicuramente poco più avanti, perché
si udivano rumori di marcia accompagnati da squilli di
trombe; subito i Cartaginesi fuggirono dentro la gola, che
sboccava in una piana a forma di lama di ascia,
circondata da alti dirupi. Per raggiungere i veliti, i Barbari
vi si gettarono dentro; in fondo, tra buoi che
galoppavano, altri Cartaginesi correvano
tumultuosamente. Videro un uomo col mantello rosso,
era il suffeta, e tutti se lo indicavano gridando; furono
travolti dal furore e dalla gioia. Molti, per pigrizia o
prudenza, erano rimasti all’ingresso della gola. Ma uno
squadrone di cavalleria, sbucando da un bosco, a colpi di
picca e di spada li spinse verso gli altri; e presto tutti i
Barbari si trovarono in basso, nella piana.
Poi quella grande massa di uomini, dopo aver
ondeggiato per un po’, rimase immobile; non trovavano
nessuna via d’uscita.
Quelli che erano più vicini alla gola tornarono indietro;
ma il passaggio era scomparso. Gridarono a quelli che
stavano avanti di proseguire; sbattevano contro la
montagna, e da lontano inveivano contro i loro compagni
che non sapevano ritrovare la strada.
In effetti, appena i Barbari erano scesi nella piana,
alcuni uomini nascosti dietro le rocce le avevano sollevate
con dei pali, facendole precipitare; e poiché il pendio era
ripido, quei blocchi enormi, rotolando alla rinfusa,
avevano ostruito completamente lo stretto passaggio.
Dal lato opposto della piana c’era un lungo corridoio,
qua e là rotto da crepacci, che conduceva a una forra in
pendio e questa saliva verso l’altopiano dove stava
schierato l’esercito punico. Lungo le pareti a picco di
questo corridoio erano state preparate delle scale; così i
veliti, protetti dalle tortuosità dei crepacci, poterono
afferrarle e risalire prima di essere raggiunti. Molti di
loro, che erano giunti fino alla base della forra, furono
tirati su con delle corde perché in quel punto il terreno
era simile alle sabbie mobili e talmente inclinato che era
impossibile risalirlo, anche procedendo carponi. I Barbari
vi giunsero quasi subito. Ma una saracinesca alta
quaranta cubiti e della forma esatta del passaggio si
abbatté all’improvviso davanti a loro, come un bastione
caduto dal cielo.
Dunque, la tattica del suffeta aveva funzionato.
Nessuno tra i Mercenari conosceva la montagna, e quelli
che marciavano in testa alle colonne si erano trascinati
dietro tutti gli altri. I macigni, più stretti alla base, erano
stati precipitati facilmente, e mentre tutti correvano,
l’esercito punico aveva alzato grandi grida in lontananza
come se si trovasse in pericolo. Amilcare, è vero, poteva
perdere i suoi veliti, e in effetti ne rimase solo la metà.
Ma ne avrebbe sacrificati venti volte di più per il successo
di una simile impresa.
Fino al mattino i Barbari si spinsero in file serrate da
un capo all’altro della piana. Con le mani tastavano la
montagna, per scoprire un passaggio.
Finalmente fu giorno; e videro ovunque, tutt’intorno,
una grande muraglia bianca tagliata a picco. E nessuna
via di scampo, nessuna speranza! Le due uscite naturali
del passaggio erano chiuse dalla saracinesca e dalla frana
di rocce.
Allora tutti si guardarono senza parlare. Si
accasciarono, sentendo un brivido di ghiaccio nella
schiena, e sulle palpebre una pesantezza estenuante.
Si rialzarono, avventandosi contro le rocce. Ma le più
basse, schiacciate dal peso delle altre, erano inamovibili.
Tentarono di aggrapparvisi per raggiungere la cima; la
forma panciuta dei grossi massi impediva ogni presa.
Tentarono di scavare il terreno ai due lati della frana: i
loro strumenti si spezzarono. Con i pali delle tende fecero
un grande fuoco; ma il fuoco non poteva bruciare la
montagna.
Tornarono alla saracinesca; era irta di lunghi chio di,
grossi come pioli, aguzzi come gli aculei di un
porcospino, e più fitti delle setole di una spazzola. Ma
tanta era la rabbia, che vi si avventarono contro. I primi
vi rimasero infilzati fino alla spina dorsale, i secondi
scivolarono all’indietro, e tutti caddero lasciando appesi a
quegli orribili uncini brandelli di carne umana e
capigliature insanguinate.
Quando lo scoraggiamento si fu un po’ placato,
guardarono quanto restava di viveri. I Mercenari, le cui
salmerie erano andate perdute, ne avevano appena per
due giorni; e tutti gli altri ne erano sprovvisti, perché
aspettavano un convoglio promesso dai villaggi del sud.
C’erano tuttavia, qua e là, dei tori, quelli che i
Cartaginesi avevano lasciato nella gola per attirarvi i
Barbari. Li uccisero a colpi di lancia; se li mangiarono, e
con lo stomaco pieno i pensieri furono meno lugubri.
L’indomani sgozzarono tutti i muli, una quarantina
circa, poi ne raschiarono le pelli, fecero bollire le budella,
pestarono le ossa, e ancora non avevano perso la
speranza; l’esercito di Tunisi, che senza dubbio era stato
informato, stava arrivando.
Ma la sera del quinto giorno la fame aumentò;
rosicchiarono le cinghie delle spade e le piccole spugne
che orlavano internamente gli elmi.
Quei quarantamila uomini erano ammassati nella
specie d’ippodromo che la montagna formava intorno a
loro. Alcuni restavano davanti alla saracinesca o alla base
della frana; gli altri erano sparsi confusamente per la
piana. I forti si evitavano, e i pavidi si affiancavano ai
coraggiosi, che tuttavia non potevano salvarli.
I cadaveri dei veliti, a causa della loro putrefazione,
erano stati sotterrati in fretta; dove si trovassero le fosse,
non si vedeva più.
Tutti i Barbari languivano, sdraiati a terra. Ogni tanto,
tra le loro file, passava un veterano; e allora urlavano
maledizioni contro i Cartaginesi, contro Amilcare, e
contro Mâtho, anche se quel disastro non era colpa sua;
ma credevano che le loro sofferenze sarebbero state
minori se le avessero condivise anche con lui. Poi
gemevano, e alcuni piangevano sommessamente, come
bambini.
Andavano dai capitani e li supplicavano di dar loro
qualcosa che alleviasse le sofferenze. Ma quelli non
rispondevano oppure, infuriati, raccoglievano una pietra
e gliela gettavano in faccia.
Parecchi conservavano gelosamente, nascosta dentro
una buca, una riserva di cibo, qualche pugno di datteri,
un po’ di farina; e ne mangiavano di notte, con la testa
sotto il mantello. Chi aveva una spada la teneva
sguainata in mano; i più diffidenti restavano in piedi,
addossati alla parete della montagna.
Accusavano i loro capi e li minacciavano. Autarito non
temeva di farsi vedere. Con l’ostinazione del Barbaro che
non si lascia scoraggiare da niente, venti volte al giorno
si spingeva fino in fondo alla gola, ai piedi della frana,
sperando ogni volta di poterli trovare spostati; e
dondolando le grandi spalle coperte di pellicce, ricordava
ai suoi compagni un orso che esca dalla sua caverna a
primavera, per vedere se le nevi si sono sciolte.
Spendio, con intorno i suoi Greci, stava nascosto in un
crepaccio; poiché aveva paura, aveva fatto spargere la
voce che era morto.
Ormai erano di una magrezza ripugnante; la loro pelle
si macchiava di chiazze bluastre. La sera del nono giorno,
tre Iberici morirono.
I loro compagni, spaventati, lasciarono quel luogo. Li
spogliarono; e quei corpi nudi e bianchi restarono sulla
sabbia, al sole.
Allora alcuni Garamanti cominciarono a girare
lentamente intorno. Erano uomini abituati a vivere nella
solitudine del deserto e non rispettavano alcun dio. Alla
fine il più anziano del gruppo fece un segno, e chinandosi
sui cadaveri ne staccarono coi coltelli alcune strisce di
carne; poi, accovacciati sui talloni, le mangiarono. Gli
altri guardavano da lontano; ci furono grida di orrore;
molti però, nel profondo dell’anima, invidiavano il loro
coraggio.
Nel mezzo della notte alcuni di questi si avvicinarono
e, dissimulando il loro desiderio, ne chiedevano un
pezzettino, soltanto per provare, dicevano.
Sopraggiunsero altri più arditi; il loro numero aumentò;
presto divennero una folla. Ma quasi tutti, sentendo
quella carne fredda sulle labbra, lasciavano ricadere la
mano; altri, al contrario, la divoravano con voluttà.
Per farsi trascinare dall’esempio, si incitavano l’un
l’altro. Chi all’inizio si era rifiutato, andava a vedere i
Garamanti e non tornava più indietro. Facevano cuocere i
pezzi di carne sulla brace, dopo averli infilzati sulla punta
della spada; li salavano con la polvere e si disputavano i
pezzi migliori. Quando non restò più niente dei tre
cadaveri, gli occhi percorsero tutta la piana per trovarne
altri.
Ma non avevano dei Cartaginesi, venti prigionieri fatti
durante l’ultimo scontro e che nessuno, finora, aveva
notato? Sparirono; del resto, era una vendetta. Poi,
siccome bisognava vivere, siccome avevano preso gusto
a quel cibo, siccome si moriva, sgozzarono i portatori
d’acqua, i palafrenieri, tutti i servi dei Mercenari. Ogni
giorno ne uccidevano qualcuno. Alcuni mangiavano
molto, si rimettevano in forze e non erano più tristi.
Assai presto questa risorsa venne a mancare. Allora
passarono ai feriti e ai malati. Poiché non potevano
guarire, tanto valeva liberarli dalle loro pene; e, appena
un uomo vacillava, tutti gridavano che ormai era perduto
e doveva servire agli altri. Per accelerare la loro morte,
ricorrevano ad astuzie; gli rubavano l’ultimo resto della
loro immonda razione; li calpestavano, come per sbaglio;
gli agonizzanti, per farsi credere ancora in forze,
cercavano di stendere le braccia, di sollevarsi, di ridere.
Alcuni che erano svenuti rinvenivano al contatto di una
lama dentata che gli segava un arto; e inoltre si uccideva
per ferocia, senza necessità, per sfogare il proprio furore.
Il quattordicesimo giorno, una nebbia greve e tiepida,
come accade talvolta in quelle regioni alla fine
dell’inverno, si abbatté sull’esercito. Quel cambiamento di
temperatura provocò numerose morti, e la putrefazione
si sviluppava con spaventosa rapidità in quel caldo umido
trattenuto dalle pareti della montagna. L’acquerugiola che
si deponeva sui cadaveri, infradiciandoli, trasformò
presto l’intera piana in una vasta putredine. Vapori
biancastri fluttuavano nell’aria; pizzicavano le narici,
penetravano nella pelle, annebbiavano gli occhi; e i
Barbari credevano di intravedere le esalazioni dei
morenti, le anime dei loro compagni. Un disgusto
immenso li vinse. Non volevano più mangiarne,
preferivano morire.
Due giorni dopo, il cielo tornò sereno e la fame li
riprese. Talvolta avevano l’impressione che gli
strappassero lo stomaco con le tenaglie. Allora si
rotolavano in preda alle convulsioni, si riempivano la
bocca di terra, si mordevano le braccia e scoppiavano a
ridere freneticamente.
La sete li tormentava ancora di più, perché non
avevano una sola goccia d’acqua; dal nono giorno gli otri
erano completamente asciutti. Per ingannare la sete, si
appoggiavano sulla lingua le scaglie metalliche dei
cinturoni, le impugnature d’avorio e le lame delle spade.
Vecchi conduttori di carovane si comprimevano il ventre
con delle corde. Altri succhiavano un sasso. Bevevano
urina raffreddata negli elmi di bronzo.
E ancora aspettavano l’esercito di Tunisi! Il troppo
tempo che impiegava ad arrivare dimostrava, secondo le
loro congetture, che l’arrivo era ormai vicino. Del resto
Mâtho, che era un valoroso, non li avrebbe abbandonati.
«Sarà qui domani!», si dicevano; e l’indomani passava.
All’inizio avevano pregato, fatto voti, praticato ogni
sorta di incantesimi. Ma ora provavano soltanto odio per
le loro divinità e, per vendicarsi, cercavano di non
crederci più.
Gli uomini di carattere violento perirono per primi; gli
Africani resistettero meglio dei Galli. Zarxas, tra i
Balearici, restava lungo disteso, i capelli su un braccio,
inerte. Spendio trovò una pianta dalle larghe foglie, piene
di un succo abbondante, e dopo aver detto agli altri che
era velenosa, se ne nutriva.
Erano troppo deboli per abbattere a colpi di pietra i
corvi in volo. Talvolta, quando un gipeto se ne stava
appollaiato su un cadavere e già da un pezzo lo stava
dilaniando, un uomo si metteva a strisciare verso di lui
con un giavellotto in bocca. Si appoggiava su una mano
e, presa la mira, lanciava l’arma. L’uccello dalle bianche
penne, molestato dal rumore, si interrompeva, si
guardava intorno con aria tranquilla, come un cormorano
su uno scoglio, poi riaffondava il suo schifoso becco
giallo; e l’uomo disperato ricadeva bocconi nella polvere.
Alcuni riuscivano a trovare dei camaleonti, dei serpenti.
Ma quello che li faceva vivere, era l’amore della vita.
Concentravano la loro mente su quest’unica idea, e si
aggrappavano all’esistenza con uno sforzo di volontà che
la prolungava.
I più stoici se ne stavano gli uni accanto agli altri,
seduti in circolo, in mezzo alla piana, qua e là, tra i
morti; e, avvolti nei mantelli, si abbandonavano in
silenzio alla loro tristezza.
Quelli che erano nati nelle città ricordavano le strade
piene di rumori, e le taverne, i teatri, i bagni, le botteghe
dei barbieri dove si ascoltano delle storie. Altri
rivedevano le campagne al tramonto, quando le spighe
gialle ondeggiano e i grandi buoi risalgono le colline con
il vomere dell’aratro sul collo. I viaggiatori pensavano alle
cisterne, i cacciatori alle foreste, i veterani alle battaglie;
e, nella sonnolenza che li stordiva, i pensieri cozzavano
tra loro con l’impeto e la lucidità dei sogni. Di colpo
venivano colti da allucinazioni; cercavano una porta nella
parete della montagna, per fuggire, volevano passarvi
attraverso. Altri, credendo di navigare in mezzo a una
tempesta, ordinavano una manovra oppure si ritraevano
spaventati vedendo, tra le nubi, battaglioni punici. E c’era
chi credeva di essere a un festino, e cantava.
Molti, per una strana mania, ripetevano la stessa
parola o rifacevano sempre lo stesso gesto. Poi, quando
rialzavano la testa e si guardavano, scoppiavano in
singhiozzi vedendo l’orribile strazio dei loro volti. Alcuni
non soffrivano più, e per passare il tempo si
raccontavano i pericoli ai quali erano sfuggiti.
A tutti era chiaro che la morte era imminente. Quante
volte avevano tentato di aprirsi un passaggio! Quanto a
implorare al vincitore le condizioni di resa, come
potevano? Non sapevano neppure dove si trovasse
Amilcare.
Il vento soffiava dalla parte della forra. Faceva colare
la sabbia dall’alto della saracinesca, continuamente; e i
mantelli e le capigliature dei Barbari ne erano ricoperti,
come se la terra, salendo di livello, volesse seppellirli.
Non accadeva niente; l’eterna montagna, ogni mattina,
sembrava loro ancora più alta.
A volte passavano stormi di uccelli a volo spiegato nel
cielo azzurro, liberi. I Barbari chiudevano gli occhi per
non vederli.
All’inizio sentivano un ronzio negli orecchi, le unghie si
annerivano, il freddo prendeva il petto, si sdraiavano su
un fianco e si spegnevano senza un grido.
Al diciannovesimo giorno erano morti duemila Asiatici,
millecinquecento dell’Arcipelago, ottomila della Libia, i
Mercenari più giovani e alcune tribù al completo; in tutto
ventimila soldati, la metà dell’esercito.
Autarito, che ormai non aveva più di cinquanta Galli,
stava per farsi uccidere, per farla finita, quando, in cima
alla montagna, proprio di fronte, credette di vedere un
uomo. Quell’uomo, per l’altezza a cui si trovava, non
sembrava più grande di un nano. Tuttavia Autarito riuscì
a vedere che portava al braccio sinistro uno scudo a
forma di trifoglio. Gridò: «Un Cartaginese!». E tutti, nella
pianura, davanti alla saracinesca e sotto la frana, subito si
alzarono. Il soldato camminava sul bordo del precipizio;
dal basso i Barbari lo guardavano.
Spendio raccolse un teschio di bue; poi, avendo
composto un diadema con due cinture, lo piantò sulle
corna in cima a una pertica, a testimonianza di intenzioni
pacifiche. Il Cartaginese scomparve. Restarono in attesa.
Finalmente la sera, come una pietra che si fosse
staccata dalla parete, all’improvviso cadde dall’alto un
balteo. Fatto di cuoio rosso e ricamato, con tre stelle di
diamanti, portava impresso al centro il marchio del Gran
Consiglio: un cavallo sotto una palma. Era la risposta di
Amilcare, il salvacondotto che inviava.
Non avevano più nulla da temere; qualsiasi
cambiamento avrebbe significato la fine dei loro mali.
Furono presi da una gioia smisurata; si abbracciavano,
piangevano. Spendio, Autarito e Zarxas, quattro Italioti,
un Negro e due Spartani si offrirono come ambasciatori.
Li accettarono subito. Ma non sapevano per quale via
andarsene.
Ma si udì uno scricchiolio sopra la frana; e il macigno
più alto, dopo aver oscillato su se stesso, precipitò fino in
basso. In effetti, se dalla parte dei Barbari le rocce erano
inamovibili, perché sarebbe stato necessario farle risalire
su un piano obliquo (e inoltre erano incastrate nella
stretta gola), dall’altra parte invece bastava spingerle per
farle precipitare. I Cartaginesi le spinsero e, alle prime
luci dell’alba, scendevano verso la piana come i gradini di
un’immensa scala in rovina.
I Barbari non riuscivano ancora a salirli. Calarono delle
scale; tutti vi si gettarono. La scarica di una catapulta li
respinse; soltanto i Dieci poterono passare.
Camminavano tra i Clinabari, con una mano
appoggiata alla groppa dei cavalli per reggersi in piedi.
Passato il primo momento di gioia, cominciavano a
preoccuparsi. Le condizioni di Amilcare potevano essere
crudeli. Ma Spendio li rassicurava.
«Parlerò io!».
E si vantava di sapere cosa bisognava dire per salvare
l’esercito.
Dietro ogni cespuglio erano appostate sentinelle. Alla
vista del balteo che Spendio portava su una spalla, si
inchinavano.
Quando arrivarono al campo punico, la folla si strinse
intorno a loro; avevano l’impressione di sentire bisbigli e
risa soffocate. La porta di una tenda si aprì.
In fondo c’era Amilcare, seduto su uno sgabello,
accanto a un tavolo sul quale luccicava una spada
sguainata. Gli stavano intorno, in piedi, alcuni capitani.
Vedendo entrare quegli uomini, ebbe un gesto di
repulsione, poi si sporse per osservarli meglio.
Avevano le pupille straordinariamente dilatate, e un
grande cerchio nero intorno agli occhi, che si prolungava
fin sotto gli orecchi; i nasi bluastri sporgevano tra le
guance scavate, solcate da rughe profonde; la pelle del
corpo, troppo ampia per i loro muscoli, spariva sotto una
polvere color ardesia; le labbra erano incollate ai denti
gialli; emanavano un odore infetto; si sarebbero detti
delle tombe dischiuse, dei sepolcri viventi.
In mezzo alla tenda, sopra una stuoia dove i capitani
stavano per sedersi c’era un piatto di zucche fumanti. I
Barbari le fissavano tremando in tutto il corpo, e gli
venivano le lacrime agli occhi. Ma si trattennero.
Amilcare si voltò per parlare a qualcuno. Allora si
gettarono tutti a terra, bocconi, sul piatto. I loro volti
affondavano nel grasso, e il rumore che facevano
trangugiando il cibo si mescolava ai loro singhiozzi di
gioia. Più per stupore che per pietà, sicuramente, li si
lasciò finire il piatto. Poi, quando si furono rialzati,
Amilcare, con un gesto, ordinò all’uomo che portava il
balteo di parlare. Spendio aveva paura; balbettava.
Amilcare, ascoltandolo, faceva girare intorno a un dito
un grosso anello d’oro, quello che aveva impresso sul
balteo il sigillo di Cartagine. Lo lasciò cadere a terra:
Spendio si precipitò a raccoglierlo; in presenza del suo
padrone, lo riprendevano le sue abitudini di schiavo. Gli
altri fremettero, indignati di tanta bassezza. Ma il Greco
alzò la voce, e ricordando i crimini di Annone, che sapeva
essere il nemico di Barca, cercando di impietosirlo con la
descrizione delle loro sciagure e i ricordi della loro
dedizione, parlò a lungo, in modo rapido, insidioso,
perfino violento; alla fine dimenticava se stesso,
trascinato dall’impeto del discorso.
Amilcare rispose che accettava le scuse. Dunque si
stava per concludere la pace, e questa volta sarebbe stata
definitiva! Ma esigeva che gli venissero consegnati dieci
Mercenari a sua scelta, senza armi e senza tunica.
Non si aspettavano una tale clemenza; Spendio
esclamò:
«Oh! venti, se vuoi, padrone!».
«No! dieci mi bastano», rispose calmo Amilcare.
Li fecero uscire dalla tenda perché potessero
deliberare. Appena furono soli, Autarito protestò per i
compagni sacrificati, e Zarxas disse a Spendio:
«Perché non l’hai ucciso? La sua spada era là, accanto
a te!».
«Lui!», disse Spendio; e ripeté più volte «Lui! Lui!»,
come se la cosa fosse stata impossibile e Amilcare
immortale.
Erano talmente esausti che si stesero a terra, sul
dorso, non sapendo cosa decidere.
Spendio li esortava a cedere. Finalmente
acconsentirono, e rientrarono.
Allora il suffeta mise la sua mano tra le mani dei dieci
Barbari, uno dopo l’altro, stringendone i pollici; poi se la
sfregò sulla veste perché la loro pelle vischiosa,
toccandola, dava un’impressione di ruvido e di molle, un
formicolìo untuoso che faceva rabbrividire. Poi disse loro:
«Voi siete tutti i capi dei Barbari, vero? E avete giurato
per loro?»
«Sì», risposero.
«Senza costrizione, dal profondo del cuore, con
l’intenzione di mantenere le vostre promesse?».
Gli assicurarono che sarebbero tornati dagli altri per
farle rispettare.
«Ebbene», continuò il suffeta, «sulla base dell’accordo
stabilito tra me, Barca, e gli ambasciatori dei Mercenari,
siete voi quelli che scelgo, e vi trattengo!».
Spendio cadde svenuto sulla stuoia. I Barbari, come
abbandonandolo, si strinsero gli uni agli altri; e non ci fu
una parola, né un lamento.
I loro compagni, che li aspettavano, non vedendoli
tornare pensarono di essere stati traditi. Gli ambasciatori,
senza alcun dubbio, si erano venduti al suffeta.
Attesero ancora due giorni; poi, la mattina del terzo,
decisero. Con corde, picche e frecce disposte come pioli
tra strisce di tela, riuscirono a scalare le rocce; e
lasciando indietro i più deboli, circa tremila, si misero in
marcia per raggiungere l’esercito di Tunisi.
Sopra la gola si stendeva una prateria disseminata di
arbusti; i Barbari ne divorarono i germogli. Poi trovarono
un campo di fave; e tutto scomparve come se ci fosse
passata una nube di cavallette. Tre ore dopo giunsero a
un secondo altopiano, circondato di colline verdi.
Tra le ondulazioni di quei monticelli, brillavano
distanziati dei covoni color argento; i Barbari, abbagliati
dal sole, vedevano confusamente, al di sotto, grandi
masse nere che li sorreggevano. Si alzarono come se
fossero sbocciate. Erano le lance nelle torri, sopra elefanti
spaventosamente armati.
Oltre allo spiedo del pettorale, alle punte d’acciaio in
cima alle zanne, alle lastre di bronzo che coprivano i
fianchi, e ai pugnali applicati alle ginocchiere, avevano in
cima alle proboscidi un anello di cuoio in cui era infilato il
manico di un grosso coltellaccio; partiti nello stesso
momento dal fondo della piana, avanzavano sui due lati,
parallelamente.
Un terrore indicibile gelò i Barbari. Non tentarono
neppure di fuggire. Erano già accerchiati.
Gli elefanti entrarono in quella massa di uomini: e gli
speroni dei loro pettorali la dividevano, le zanne
acuminate la rivoltavano come vomeri di aratro;
tagliavano, troncavano, segavano con le falci delle
proboscidi; le torri, piene di falariche, sembravano
vulcani in marcia; non si vedeva altro che un grande
ammasso in cui le carni umane formavano macchie
bianche, le corazze di bronzo placche grigie, il sangue
razzi rossi. Il più furioso era guidato da un Numida
coronato da un diadema di piume. Lanciava giavellotti
con una velocità spaventosa, e intanto lanciava,
regolarmente, un lungo fischio acuto; i grossi animali,
docili come cani, durante il massacro volgevano un
occhio dalla sua parte.
Il cerchio si stringeva a poco a poco; i Barbari,
indeboliti, non resistevano; presto gli elefanti furono nel
centro della piana. Mancava loro lo spazio; si
ammucchiavano impennandosi, con le zanne che
cozzavano. Improvvisamente Narr’Havas li calmò, e
voltando la schiena se ne tornarono al trotto verso le
colline.
Intanto due sintagmi si erano rifugiati, sulla destra, in
un avvallamento del terreno, avevano gettato le armi e,
tutti in ginocchio verso le tende puniche, alzavano le
braccia implorando la grazia.
Legarono loro le gambe e le mani; poi, quando furono
stesi a terra gli uni accanto agli altri, ricondussero gli
elefanti.
I toraci scricchiolavano come casse che vengano
spezzate; ogni loro passo ne stritolava due; i grossi piedi
affondavano nei corpi con un movimento delle anche che
li faceva sembrare zoppi. Continuavano, e andarono fino
in fondo.
La piana tornò a essere immobile. Scese la notte.
Amilcare si compiaceva allo spettacolo della sua
vendetta; ma d’un tratto trasalì.
Vedeva, e tutti vedevano a seicento passi da lì, sulla
cima di un poggio, ancora altri Barbari! In effetti,
quattrocento dei più validi, Mercenari etruschi, libici e
spartani, fin dall’inizio avevano preso posizione sulle
alture, e fino a quel momento vi erano rimasti indecisi.
Dopo il massacro dei loro compagni, decisero di passare
attraverso i Cartaginesi; e già scendevano in colonne
serrate, in un modo meraviglioso e formidabile.
Subito fu mandato loro incontro un araldo. Il suffeta
aveva bisogno di soldati; e li accoglieva senza condizioni,
tanto ammirava il loro valore. Potevano anche, aggiunse
l’uomo di Cartagine, avvicinarsi un po’, in un luogo che
indicò loro, dove avrebbero trovato dei viveri.
I Barbari vi accorsero e passarono la notte a mangiare.
Allora i Cartaginesi esplosero in proteste contro la
parzialità del suffeta nei confronti dei Mercenari.
Amilcare cedette a quelle espressioni di un odio
insaziabile, oppure si trattò di raffinata perfidia?
L’indomani si presentò di persona senza spada, a testa
nuda, con una scorta di Clinabari, e dichiarò loro che
avendo troppa gente da nutrire non intendeva tenerli con
sé. Tuttavia, siccome gli servivano uomini e non sapeva
come scegliere i migliori, avrebbero combattuto a
oltranza; poi avrebbe arruolato i vincitori nella sua
guardia del corpo. Quella morte ne valeva un’altra; e
allora, facendo spostare i suoi soldati (perché gli
stendardi punici nascondevano ai Mercenari l’orizzonte),
mostrò loro i centonovantadue elefanti di Narr’Havas
schierati in una sola linea diritta e le cui proboscidi
brandivano grandi coltelli, simili a braccia di giganti che
tenessero delle scuri sulle loro teste.
I Barbari si guardarono in silenzio. Non era la morte a
farli impallidire, ma l’orribile costrizione cui erano ridotti.
La vita in comune aveva fatto nascere amicizie
profonde tra quegli uomini. Per la maggior parte di loro
l’accampamento sostituiva la patria; vivendo senza
famiglia, trasferivano su un compagno il loro bisogno di
affetto, e si addormentavano fianco a fianco, sotto lo
stesso mantello, al chiarore delle stelle. Poi, in quel
perpetuo vagabondare attraverso ogni sorta di paesi, di
uccisioni e avventure, erano sorti strani amori, unioni
oscene serie come matrimoni, in cui il più forte difendeva
il più giovane in battaglia, lo aiutava a superare precipizi,
gli asciugava sulla fronte il sudore delle febbri, rubava
per lui del cibo; e l’altro, fanciullo raccolto sul ciglio di
una strada, poi diventato Mercenario, contraccambiava
quella devozione con mille attenzioni delicate e
compiacenze di sposa.
Si scambiarono le collane e gli orecchini, regali che si
erano fatti in altri tempi, dopo un grande pericolo, nei
momenti di ebbrezza. Tutti chiedevano di morire,
nessuno voleva colpire. Qua e là si udiva un giovane dire
a un altro con la barba grigia: «No! No, tu sei il più forte!
Tu ci vendicherai, uccidimi!». E l’uomo rispondeva: «Ho
meno anni da vivere! Colpisci al cuore, e non pensarci
più!». I fratelli si guardavano stringendosi le mani, e
l’amante diceva addio per sempre all’amante, in piedi,
piangendo sulla sua spalla.
Si tolsero le corazze affinché la punta delle spade
penetrasse più in fretta. Allora apparvero le cicatrici delle
ferite che avevano riportato combattendo per Cartagine;
sembravano iscrizioni su colonne.
Si disposero in quattro file eguali alla maniera dei
gladiatori, e iniziarono con timide schermaglie. Alcuni si
erano bendati gli occhi, e le loro spade si muovevano in
aria, lentamente, come bastoni di ciechi. I Cartaginesi si
misero a urlare, e gridavano che erano dei vigliacchi. I
Barbari si rianimarono, e presto il combattimento fu
generale, irruente, terribile.
Talvolta due uomini si fermavano, pieni di sangue,
cadevano l’uno tra le braccia dell’altro e morivano
baciandosi. Nessuno indietreggiava. Si gettavano sulle
lame tese. Il loro delirio era così furioso che i Cartaginesi,
da lontano, avevano paura.
Alla fine si fermarono. Dai loro petti usciva un
ansimare rauco, e si vedevano le loro pupille tra i lunghi
capelli che pendevano come se fossero usciti da un
bagno di porpora. Molti giravano su se stessi,
velocemente, come pantere ferite in fronte. Altri
restavano immobili a guardare un cadavere steso ai loro
piedi; poi, all’improvviso, si laceravano il volto con le
unghie, afferravano la spada a due mani e se la
configgevano nel ventre.
Ne rimanevano ancora sessanta. Chiesero da bere. Gli
gridarono di gettare le spade; e quando le ebbero
gettate, gli portarono dell’acqua.
Mentre stavano bevendo, con la faccia affondata nei
vasi, sessanta Cartaginesi, saltandogli addosso, li uccisero
a stilettate nella schiena.
Amilcare aveva agito così per soddisfare gli istinti del
suo esercito e, con questo tradimento, legarlo di più alla
sua persona.
Dunque la guerra era finita; almeno lo credeva; Mâtho
non avrebbe resistito; impaziente, il suffeta ordinò di
partire immediatamente.
Gli esploratori vennero a dirgli che era stato avvistato
un convoglio che andava verso la Montagna di Piombo.
Amilcare non se ne curò. Una volta annientati i
Mercenari, i Nomadi non avrebbero dato più fastidio.
L’importante era prendere Tunisi. Vi si diresse a marce
forzate.
Aveva inviato Narr’Havas a Cartagine, a portare la
notizia della vittoria; e il re dei Numidi, fiero del proprio
successo, si presentò a Salammbô.
Lo accolse nei suoi giardini, sotto un grande sicomoro,
tra cuscini di cuoio giallo, con Taanach al suo fianco.
Aveva il volto coperto da una sciarpa bianca che,
passandole sulla bocca e sulla fronte, lasciava vedere
soltanto gli occhi; ma le sue labbra brillavano nella
trasparenza del tessuto come le gemme che le
adornavano le dita, perché Salammbô teneva le mani
avvolte nella sciarpa, e per tutto il tempo che parlarono
non fece un gesto.
Narr’Havas le annunciò la disfatta dei Barbari.
Salammbô lo ringraziò con una benedizione per i servigi
che aveva reso a suo padre. Allora si mise a raccontarle
le vicende della campagna.
Le colombe, sulle palme intorno a loro, tubavano
dolcemente, e altri uccelli svolazzavano tra le piante:
galeoli con il collare, quaglie di Tartesso e faraone
puniche. Il giardino, da molto tempo incolto, si era
riempito di vegetazione; le coloquintidi si arrampicavano
sui rami delle cassie, le asclepie avevano invaso i campi
di rose, piante di ogni specie si intrecciavano, formavano
pergolati; e i raggi del sole, che scendevano obliqui,
disegnavano qua e là, come nei boschi, l’ombra di una
foglia sul terreno. Gli animali domestici, ridiventati
selvatici, fuggivano al minimo rumore. A volte si vedeva
una gazzella che si trascinava dietro, attaccate ai piccoli
zoccoli neri, le penne sparse di un pavone. I rumori della
città, in lontananza, si perdevano nel mormorio dei flutti.
Il cielo era di un azzurro profondo; sul mare non c’era
una sola vela.
Narr’Havas non parlava più; Salammbô, senza
rispondergli, lo guardava. Indossava una veste di lino,
con fiori dipinti e frange d’oro in basso; due frecce
d’argento gli fermavano i capelli intrecciati sopra gli
orecchi; si appoggiava con la mano destra all’asta di una
picca, adorna di anelli di elettro e ciuffi di pelo.
Mentre lo guardava, una folla di pensieri occupava la
sua mente. Quel giovane dalla voce dolce e dal corpo
femmineo attraeva i suoi occhi per la grazia del
portamento, e quasi le sembrava una sorella maggiore
inviata dai Baal per proteggerla. Ripensò a Mâtho; non
resisté al desiderio di sapere cosa gli fosse accaduto.
Narr’Havas rispose che i Cartaginesi stavano avan
zando verso Tunisi per catturarlo. A mano a mano che le
esponeva le loro probabilità di successo e la debolezza di
Mâtho, Salammbô sembrava rallegrarsi, piena di
speranza. Le tremavano le labbra, il petto ansimava. E
quando lui le promise che l’avrebbe ucciso con le sue
mani, lei gridò: «Sì, uccidilo! È necessario!».
Il Numida rispose che desiderava ardentemente quella
morte perché, una volta finita la guerra, sarebbe stato
suo sposo.
Salammbô trasalì, e abbassò la testa.
Ma Narr’Havas, continuando, paragonò i propri
desideri a fiori che languono dopo la pioggia, a
viaggiatori sperduti che attendono l’alba. E inoltre le disse
che era più bella della luna, migliore del vento del
mattino e del viso dell’ospite. Per lei avrebbe fatto venire
dal paese dei Neri cose mai viste a Cartagine, e le stanze
della loro casa sarebbero state cosparse di polvere d’oro.
Scendeva la sera, c’era un forte sapore di aromi
balsamici. Si guardarono a lungo in silenzio, e gli occhi di
Salammbô, tra i lunghi drappeggi, sembravano due stelle
nello squarcio di una nuvola. Prima che il sole fosse
tramontato, si ritirò.
Quando partì, gli Anziani si sentirono sollevati da una
grande inquietudine. Il popolo l’aveva accolto con
acclamazioni ancora più entusiaste della prima volta. Se
Amilcare e il re dei Numidi avessero trionfato da soli sui
Mercenari, sarebbe stato impossibile resistergli. Perciò
decisero, per indebolire Barca, di far partecipare alla
liberazione della Repubblica colui che più amavano, il
vecchio Annone.
Costui si portò immediatamente nelle province
occidentali, per vendicarsi negli stessi luoghi che avevano
assistito alla sua vergogna. Ma gli abitanti e i Barbari
erano morti, nascosti o fuggiti. Allora la sua collera si
riversò sulla campagna. Bruciò le rovine delle rovine, non
lasciò un solo albero, non un filo d’erba; i bambini e gli
infermi che incontravano, li suppliziavano; le donne le
dava ai suoi soldati perché le stuprassero prima di
sgozzarle; le più belle venivano gettate nella sua lettiga,
perché la sua atroce malattia lo infiammava di voglie
impetuose, che soddisfaceva con tutto il furore di un
uomo disperato.
Spesso, sulla sommità delle colline, si vedevano tende
nere abbattersi come rovesciate dal vento, e grandi dischi
dal bordo luccicante, che venivano riconosciuti per ruote
di carri, girando e cigolando lamentosamente, a poco a
poco sprofondavano nelle valli. Le tribù, che avevano
abbandonato l’assedio di Cartagine, erravano così per le
province, in attesa di un’occasione, di una vittoria dei
Mercenari per ritornare. Ma, sia per terrore che per fame,
ripresero tutte la via dei loro paesi, e sparirono.
Amilcare non fu affatto geloso dei successi di Annone.
Tuttavia aveva fretta di farla finita; gli ordinò di puntare
su Tunisi; e Annone, che amava la sua patria, nel giorno
stabilito si trovò sotto le mura della città.
Per la propria difesa, Tunisi disponeva della
popolazione autoctona, di dodicimila Mercenari, poi di
tutti i Mangiatori-di-cose-immonde, perché come Mâtho
erano inchiodati all’orizzonte di Cartagine, e la plebe e lo
shalishim contemplavano da lontano le sue alte mura,
sognando voluttà infinite al loro interno. In questa
convergenza di odi, la resistenza fu organizzata
rapidamente. Presero degli otri per farne elmi, tagliarono
tutte le palme dei giardini per farne lance, scavarono
cisterne, e, quanto ai viveri, pescavano sulle rive del lago
grossi pesci bianchi, che si nutrivano di cadaveri e di
immondizia. I bastioni, mantenuti in uno stato disastroso
dalla gelosia di Cartagine, erano talmente deboli che si
potevano abbattere a spallate. Mâtho ne chiuse i buchi
con le pietre delle case. Era l’ultima lotta; non sperava
più niente, ma diceva a se stesso che la fortuna era
mutevole.
I Cartaginesi, avvicinandosi, notarono sui bastioni un
uomo che oltrepassava i merli dalla cintura in su. Le
frecce che gli volavano intorno non sembravano
spaventarlo più di uno stormo di rondini. Nessuna,
stranamente, lo colpì.
Amilcare si accampò sul lato meridionale; Narr’Havas,
alla sua destra, occupava la piana di Rhades, Annone la
riva del lago; e i tre generali dovevano tenere le rispettive
posizioni per poi attaccare la cinta muraria tutti nello
stesso momento.
Ma Amilcare volle innanzitutto mostrare ai Mercenari
che li avrebbe puniti come schiavi. Fece crocifiggere i
dieci ambasciatori, gli uni accanto agli altri, su una
collina, di fronte alla città.
A quella vista, gli assediati abbandonarono i bastioni.
Mâtho si era detto che se fosse riuscito a passare tra le
mura e le tende di Narr’Havas abbastanza rapidamente
perché i Numidi non avessero il tempo di uscirne,
sarebbe piombato alle spalle della fanteria cartaginese,
che si sarebbe venuta a trovare tra la sua divisione e i
difensori della città. Si lanciò fuori con i suoi veterani.
Narr’Havas lo vide; attraversò la spiaggia del lago e
andò ad avvertire Annone di inviare uomini in soccorso
di Amilcare. Pensava che Barca fosse troppo debole per
resistere ai Mercenari? Era una perfidia o una
sciocchezza? Nessuno poté mai saperlo.
Annone, per il desiderio di umiliare il rivale, non esitò.
Gridò di suonare le trombe, e tutto il suo esercito si
precipitò sui Barbari. Ma questi si volsero indietro e
corsero diritti sui Cartaginesi, travolgendoli e
calpestandoli; respingendoli in questo modo, giunsero
alla tenda di Annone, che in quel momento era
circondato da trenta Cartaginesi, i più illustri degli
Anziani.
Sembrò stupefatto della loro audacia; chiamò i suoi
capitani. Ma già l’avevano afferrato alla gola, coprendolo
di insulti. La folla si accalcava, e quelli che gli avevano
messo le mani addosso facevano fatica a tenerlo. Intanto
cercava di sussurrare a questo o a quello: «Ti darò tutto
quello che vorrai! Sono ricco! Salvami!». Lo tiravano;
nonostante il suo peso, non toccava più terra coi piedi.
Trascinavano via anche gli Anziani. Il suo terrore
aumentò. «Mi avete battuto! Sono vostro prigioniero! Vi
pago il riscatto! Ascoltatemi, amici!». E, trascinato da
tutte quelle spalle che lo stringevano ai fianchi, ripeteva:
«Che volete fare? Cosa volete? Non mi oppongo, come
vedete! Sono sempre stato buono!».
Accanto all’ingresso della tenda c’era una croce
gigantesca. I Barbari urlavano: «Qui! Qui!». Ma Annone
alzò la sua voce ancora di più; e in nome dei loro dèi li
scongiurò di condurlo dallo shalishim, perché doveva
confidargli una cosa da cui dipendeva la loro salvezza.
Si fermarono, perché alcuni sostenevano che era
meglio chiamare Mâtho. Andarono a cercarlo.
Annone cadde sull’erba; e intorno a sé vedeva altre
croci ancora, come se lo strumento di supplizio che lo
aspettava si fosse nel frattempo moltiplicato, e si sforzava
di convincersi che si sbagliava, che ce n’era una sola, e
che addirittura non ce n’era neppure una. Lo rimisero in
piedi.
«Parla!», disse Mâtho.
Annone offrì di consegnargli Amilcare; quindi
sarebbero entrati a Cartagine, dove entrambi sarebbero
stati re.
Mâtho si allontanò, facendo segno agli altri di
affrettarsi. Era un’astuzia, pensava, per guadagnare
tempo.
Il Barbaro si ingannava; Annone si trovava in una di
quelle situazioni estreme in cui non si valuta più nulla, e
d’altra parte odiava talmente Amilcare che per la più
piccola speranza di salvezza lo avrebbe sacrificato con
tutti i suoi soldati.
Gli Anziani languivano a terra, alla base delle trenta
croci; già gli avevano passato delle corde sotto le ascelle.
Allora il vecchio suffeta, comprendendo che era giunto il
momento di morire, pianse.
Gli strapparono di dosso ciò che gli restava degli abiti,
e apparve l’orrore del suo corpo. Quella massa informe
era coperta di ulcere; il grasso delle gambe gli
nascondeva le unghie dei piedi; dalle dita penzolavano
brandelli verdastri; e le lacrime che scorrevano tra i
foruncoli delle guance davano al suo viso un aspetto
spaventosamente triste, perché sembravano più
abbondanti che su qualunque volto umano. La benda
regale, mezza disfatta, si trascinava nella polvere insieme
con i capelli bianchi.
Pensarono di non avere corde sufficientemente robuste
per issarlo in cima alla croce, e allora ce lo inchiodarono
sopra prima di alzarla, alla maniera punica. Ma con il
dolore si risvegliò il suo orgoglio. Si mise a coprirli di
ingiurie. Sbavava e si contorceva, come un mostro
marino che venga scannato su una spiaggia, e prediceva
ai Barbari una fine più orribile della sua e che sarebbe
stato vendicato.
E lo era. Dall’altro lato della città, da dove si alzavano
lingue di fuoco e colonne di fumo, gli ambasciatori dei
Mercenari agonizzavano.
Alcuni che erano svenuti rinvenivano per il fresco del
vento; ma restavano col mento sul petto, e i loro corpi
scendevano un po’ malgrado i chiodi conficcati nelle
braccia, più in alto della testa; dai talloni e dalle mani
cadevano grosse gocce di sangue, lentamente, come dai
rami di un albero cadono i frutti maturi, e Cartagine, il
golfo, le montagne e le pianure, tutto sembrava girare
intorno a loro, come una ruota immensa; talvolta una
nube di polvere che saliva da terra li avvolgeva nei suoi
vortici; erano bruciati da una sete orribile, la lingua si
attorcigliava in bocca, e si sentivano colare addosso un
sudore glaciale, mentre la loro anima se ne andava.
E intanto intravedevano, a una distanza indefinita,
strade, soldati in marcia, ondeggiare di spade; e il
tumulto della battaglia giungeva soffocato, come il
rumore del mare a dei naufraghi che muoiano sui
pennoni di una nave. Gli Italioti, più robusti degli altri,
gridavano ancora; i Lacedemoni, gli occhi chiusi,
tacevano; Zarxas, un tempo così vigoroso, penzolava
come una canna spezzata; l’Etiope, accanto a lui, aveva la
testa rovesciata indietro sopra i bracci della croce;
Autarito, immobile, roteava gli occhi; la sua lunga
capigliatura, impigliata in una fessura del legno, era ritta
sopra la fronte, e il suo rantolo sembrava piuttosto un
ruggito di collera. Quanto a Spendio, gli era venuto uno
strano coraggio; ora disprezzava la vita, con la certezza di
un affrancamento quasi immediato ed eterno, e
attendeva la morte, impassibile.
Nella loro agonia, talvolta sussultavano a un frusciare
di penne vicino alla bocca. Ombre di grandi ali
ondeggiavano intorno a loro, e si udiva gracchiare; e
siccome la croce di Spendio era la più alta, fu sulla sua
che si abbatté il primo avvoltoio. Allora volse il viso verso
Autarito e gli disse lentamente, con un sorriso
indefinibile:
«Ti ricordi i leoni sulla strada di Sicca?»
«Erano nostri fratelli!», rispose il Gallo spirando.
Intanto il suffeta aveva aperto una breccia nel muro di
cinta, ed era arrivato alla cittadella. Un’improvvisa raffica
di vento dissipò il fumo, scoprendo l’orizzonte fino alle
mura di Cartagine; credette perfino di vedere della gente
che stava a guardare sulla piattaforma di Eshmun; poi,
riavvicinando lo sguardo, vide a sinistra, sulla riva del
lago, trenta croci smisurate.
In effetti, per renderle più terrificanti, le avevano
costruite con i pali delle tende uniti tra loro; e i trenta
cadaveri degli Anziani apparivano altissimi nel cielo. Sui
loro petti si scorgevano strane farfalle bianche; erano le
penne delle frecce che gli avevano tirato dal basso.
Sulla cima della più grande luccicava un largo nastro
dorato; penzolava sulla spalla, e da quel lato mancava il
braccio; Amilcare fece fatica a riconoscere Annone. Le
sue ossa spugnose non avevano resistito alla trazione del
corpo sui chiodi, pezzi di membra si erano staccati, e
sulla croce restavano soltanto lembi informi, simili a quei
resti di animali che si vedono inchiodati sulle porte dei
cacciatori.
Il suffeta non aveva potuto sapere nulla: la città,
davanti a lui, nascondeva tutto ciò che accadeva dietro; e
i capitani inviati successivamente ai due generali non
erano ricomparsi. Allora, arrivarono dei fuggiaschi, che
raccontarono la disfatta; e l’esercito punico si fermò.
Quella catastrofe che veniva a cadere nel bel mezzo della
loro vittoria, li riempiva di stupore. Non udivano più gli
ordini di Amilcare.
Mâtho ne approfittava per proseguire le sue
devastazioni tra i Numidi.
Messo a soqquadro l’accampamento di Annone, si era
gettato su di loro. Uscirono gli elefanti. Ma i Mercenari,
con dei tizzoni strappati dai muri, avanzarono nella piana
agitando le fiamme, e i grossi animali, spaventati,
corsero a precipitarsi nel golfo, dove si uccisero l’un
l’altro dibattendosi, e annegarono sotto il peso delle
corazze. Già Narr’Havas aveva lanciato la sua cavalleria;
tutti si gettarono faccia a terra; poi, quando i cavalli
furono a tre passi da loro, gli balzavano sotto il ventre e
lo squarciavano con un colpo di pugnale, e quando Barca
arrivò la metà dei Numidi era morta.
I Mercenari, esausti, non potevano resistere alle sue
truppe. Ripiegarono in buon ordine fino alla Montagna
delle Acque Calde. Il suffeta ebbe l’accortezza di non
inseguirli. Si spostò verso le foci del Macar.
Tunisi gli apparteneva; ma non era altro che un
ammasso di macerie fumanti. Le rovine si riversavano
attraverso le brecce delle mura fino in mezzo alla piana;
in fondo, tra le rive del golfo, i cadaveri degli elefanti,
sospinti dalla brezza, si urtavano, come un arcipelago di
rocce nere che galleggiasse sull’acqua.
Narr’Havas, per sostenere la guerra, aveva svuotato le
sue foreste, aveva preso gli elefanti giovani e quelli
vecchi, i maschi e le femmine, e la forza militare del suo
regno non si risollevò mai più. Il popolo, che li aveva
visti perire da lontano, ne rimase desolato; c’erano
uomini che si lamentavano per le strade chiamandoli per
nome, come amici defunti: «Ah! L’Invincibile! La Vittoria!
Il Micidiale! La Rondine!». Il primo giorno, addirittura, ne
parlarono più che dei cittadini morti. Ma l’indomani
videro le tende dei Mercenari sulla Montagna delle Acque
Calde. Allora la disperazione fu così profonda che molta
gente, soprattutto donne, si gettarono a testa in giù
dall’alto dell’Acropoli.

Si ignoravano i piani di Amilcare. Se ne stava chiuso


nella sua tenda, tenendo con sé soltanto un ragazzo, e
nessuno mangiava con loro, neppure Narr’Havas.
Tuttavia gli dimostrava un riguardo eccezionale dopo la
disfatta di Annone; ma il re dei Numidi era troppo
interessato a diventare suo figlio per non diffidarne.
Quest’inerzia mascherava abili manovre. Con ogni
sorta di artifici, Amilcare attirò dalla sua parte i capi dei
villaggi; e i Mercenari furono scacciati, respinti, braccati
come belve feroci. Appena entravano in un bosco,
intorno a loro gli alberi s’incendiavano; quando bevevano
a una sorgente, era avvelenata; venivano murate le
caverne dove si nascondevano a dormire. Le popolazioni
che fino a quel momento li avevano difesi, i loro vecchi
complici, ora li perseguitavano; e sempre, in quelle
bande, riconoscevano qualche armatura cartaginese.
Molti avevano il volto mangiato da rossi eczemi; gli
erano venuti, pensavano, toccando Annone. Altri
immaginavano che gli fossero venuti per aver mangiato i
pesci di Salammbô, e, neppure sfiorati dal pentimento,
fantasticavano su sacrilegi ancora più abominevoli
affinché l’umiliazione degli dèi punici fosse ancora
maggiore. Avrebbero voluto sterminarli.
Si trascinarono così per tre mesi lungo la costa
orientale, poi dietro la montagna di Sellum e fino alle
prime sabbie del deserto. Cercavano un luogo dove
rifugiarsi, uno qualsiasi. Solo Utica e Ippozarito non li
avevano traditi; ma Amilcare accerchiava le due città. Poi
risalirono verso nord, a caso, senza neppure conoscere le
strade. A forza di privazioni, la loro mente era alterata.
Ormai il loro unico sentimento era una crescente
esasperazione; e un giorno si ritrovarono nelle gole del
Cobus, di nuovo davanti a Cartagine!
Allora gli scontri si moltiplicarono. Restavano in
condizioni di parità; ma gli uni e gli altri erano talmente
sfiniti che desideravano, invece di quelle scaramucce, una
grande battaglia, a patto che fosse veramente l’ultima.
Mâtho aveva voglia di andare a proporla lui stesso al
suffeta. Uno dei suoi Libici si offrì di farlo. Tutti,
vedendolo partire, erano convinti che non sarebbe
ritornato.
Tornò la sera stessa.
Amilcare accettò la loro sfida. Si sarebbero incontrati
l’indomani all’alba, nella piana di Rhades.
I Mercenari vollero sapere se avesse detto altro, e il
Libico aggiunse:
«Poiché restavo fermo davanti a lui, mi chiese cosa
aspettassi; gli risposi: “Di essere ucciso!”». Allora
Amilcare aveva detto: «No! Vattene! Accadrà domani,
insieme con gli altri».
Questa generosità stupì i Barbari; alcuni ne rimasero
atterriti, e Mâtho rimpianse che il messo non fosse stato
ucciso.

Gli rimanevano ancora tremila Africani, milleduecento


Greci, millecinquecento Campani, duecento Iberici,
quattrocento Etruschi, cinquecento Sanniti, quaranta Galli
e un gruppo di Naffur, banditi nomadi incontrati nella
regione dei datteri: in tutto erano
settemiladuecentodiciannove soldati, ma neppure un
sintagma completo. Avevano tappato i buchi delle
corazze con scapole di quadrupedi e sostituito i coturni di
bronzo con sandali di stracci. Piastre di rame e di ferro
appesantivano le loro vesti; le cotte di maglia
penzolavano a brandelli e si vedevano cicatrici, come fili
purpurei, tra i peli delle braccia e dei volti.
Tornavano loro in mente tutte le ire dei compagni
morti, e ciò accresceva il loro vigore; percepivano
confusamente di essere i servitori di un dio presente nei
cuori degli oppressi, e quasi i pontefici della vendetta
universale! Poi il dolore di un’enorme ingiustizia e
soprattutto la vista di Cartagine all’orizzonte li faceva
infuriare. Giurarono di combattere gli uni per gli altri fino
alla morte.
Uccisero le bestie da soma e mangiarono più che
poterono, per acquistare forza; poi dormirono. Alcuni
pregarono, rivolti verso costellazioni diverse.
I Cartaginesi giunsero nella pianura prima di loro.
Sfregarono con olio i bordi degli scudi perché le frecce vi
scivolassero più facilmente; i fanti, che portavano lunghe
capigliature, per prudenza se le tagliarono sulla fronte; e
Amilcare, dopo l’ora quinta, fece rovesciare tutte le
gamelle sapendo che è uno svantaggio combattere con lo
stomaco troppo pieno. Aveva un esercito di
quattordicimila uomini, quasi il doppio di quello barbaro.
Eppure non aveva mai provato un’inquietudine simile; se
fosse stato sconfitto, sarebbe stata la fine della
Repubblica, e lui sarebbe morto crocifisso; se invece
avesse vinto, attraverso i Pirenei, le Gallie e le Alpi
avrebbe raggiunto l’Italia, e l’impero dei Barca sarebbe
diventato eterno.
Quella notte si alzò venti volte, per controllare tutto, di
persona, fino ai minimi dettagli. Quanto ai Cartaginesi,
erano esasperati dal terrore in cui avevano vissuto per
tanto tempo.
Narr’Havas dubitava della fedeltà dei Numidi. Del
resto, i Barbari potevano vincerli. L’aveva preso una
strana spossatezza; beveva in ogni momento grandi
coppe d’acqua.
Ma un uomo che non conosceva aprì la sua tenda e
depose a terra una corona di salgemma, ornata di disegni
ieratici fatti con zolfo e di losanghe di madreperla;
talvolta si inviava al fidanzato la corona di matrimonio;
era una prova d’amore, una specie di invito.
Eppure la figlia di Amilcare non provava affetto per
Narr’Havas.
Il ricordo di Mâtho la turbava in un modo
insopportabile; le sembrava che la morte di quell’uomo
avrebbe liberato la sua mente, come quando, per guarire
da un morso di vipera, la si schiaccia sulla ferita. Il re dei
Numidi ormai dipendeva da lei; attendeva impaziente le
nozze, e poiché avrebbero seguito la vittoria, Salammbô
gli inviava quel dono per incitare il suo coraggio. Allora
le sue angosce sparirono, e non pensò più ad altro che
alla gioia di possedere una donna così bella.
La stessa visione assalì Mâtho; ma lui la respinse
subito, e quell’amore cui non voleva pensare lo riversò
sui compagni d’arme. Li amava come parti di se stesso,
del suo odio, e così si sentiva rinfrancato, più forte; gli
apparve chiaro tutto quello che bisognava fare. Se a volte
gli sfuggivano dei sospiri, è perché pensava a Spendio.
Schierò i Barbari in sei file eguali. Dispose al centro gli
Etruschi, legati tra loro con una catena di bronzo; gli
arcieri e i frombolieri stavano più indietro, e sulle due ali
distribuì dei Naffur, montati su cammelli a pelo raso,
coperti di piume di struzzo.
Il suffeta schierò i Cartaginesi in un ordine simile.
All’esterno della fanteria, accanto ai veliti, piazzò i
Clinabari, e, più in là, i Numidi; quando sorse il giorno
erano schierati in questo modo gli uni davanti agli altri.
Tutti, da lontano, si scrutavano con occhi feroci. All’inizio
ci fu qualche incertezza. Finalmente i due eserciti si
mossero.
I Barbari avanzavano lentamente, per risparmiare il
fiato, battendo i piedi sul terreno; il centro dell’esercito
punico formava una curva convessa. Poi risuonò il
fragore di un urto terribile, simile allo schianto di due
flotte che si abbordino. La prima linea dei Barbari si era
subito aperta e gli arcieri e i frombolieri, nascosti dietro
gli altri, lanciavano i loro proiettili, le frecce, i giavellotti.
Intanto la curva dei Cartaginesi a poco a poco si
appiattiva, poi divenne completamente diritta, quindi si
fletté; allora le due sezioni dei veliti si avvicinarono
parallelamente come i due bracci di un compasso che si
richiuda. I Barbari, accaniti contro la falange,
penetravano nella sua apertura; rischiavano di perdersi.
Mâtho li fermò, e mentre le ali cartaginesi continuavano
ad avanzare, fece scorrere all’esterno le tre file interne del
proprio schieramento; in fretta oltrepassarono i fianchi, e
il suo esercito apparve schierato su una lunghezza tre
volte maggiore.
Ma i Barbari piazzati alle due estremità erano i più
deboli, soprattutto quelli dell’ala sinistra che avevano
esaurito le frecce nelle faretre, e lo squadrone dei veliti,
che finalmente gli era addosso, ne faceva grande strage.
Mâtho li fece arretrare. All’ala destra c’erano i
Campani, armati di asce; la spinse contro l’ala sinistra dei
Cartaginesi; il centro attaccava il nemico, e quelli che si
trovavano all’altra estremità, fuori pericolo, tenevano
sotto controllo i veliti.
Allora Amilcare divise i suoi cavalieri in squadroni, vi
inserì degli opliti e li lanciò contro i Mercenari.
Quelle masse a forma di cuneo presentavano una
fronte di cavalli, mentre i fianchi erano irti di lance. Per i
Barbari era impossibile resistere; soltanto i fanti greci
avevano armature di bronzo; tutti gli altri, coltellacci in
cima a pertiche, falci prese nelle fattorie, spade fabbricate
col cerchione di una ruota; le lame troppo fragili si
torcevano a ogni colpo, e mentre i Barbari cercavano di
raddrizzarle sotto i talloni, i Cartaginesi, da destra e da
sinistra, li massacravano comodamente.
Ma gli Etruschi, legati alle loro catene, non si
spostavano; quelli che erano morti, non potendo cadere,
facevano argine con i loro cadaveri; e quella grossa linea
di bronzo di volta in volta si allentava e si rinserrava,
flessibile come un serpente, incrollabile come un muro.
Dietro, i Barbari si riorganizzavano, riprendevano fiato
per un attimo; poi ripartivano, impugnando i tronconi
delle loro armi.
Molti già non ne avevano più, e si gettavano addosso
ai Cartaginesi mordendoli al volto come cani. I Galli, per
orgoglio, si tolsero i saghi; mostravano da lontano i
grandi corpi bianchissimi; per spaventare il nemico, si
allargavano le ferite con le mani. In mezzo ai sintagmi
punici non si udiva più la voce di chi gridava gli ordini;
gli stendardi ripetevano i segnali al di sopra della polvere,
e ognuno si muoveva trascinato dall’ondeggiare della
grande massa in cui era immerso.
Amilcare ordinò ai Numidi di avanzare. Ma i Naffur si
precipitarono incontro a loro.
Vestiti di ampi mantelli neri, con un ciuffo di capelli in
cima al cranio e uno scudo di pelle di rinoceronte,
maneggiavano una lama senza manico legata a una
corda; e i loro cammelli, irti di piume, lanciavano lunghi
gemiti rauchi. Le lame colpivano con precisione, poi
tornavano indietro con un colpo secco, portando con sé
un membro reciso. Le bestie infuriate galoppavano tra i
sintagmi; alcune, che avevano le gambe spezzate,
saltellavano come struzzi feriti.
L’intera fanteria punica attaccò i Barbari; li divise. I
loro manipoli volteggiavano, distanziati gli uni dagli altri.
Le armi dei Cartaginesi, lucentissime, li accerchiavano
come corone d’oro; un formicolio incessante si agitava
nel mezzo, e il sole, che batteva a picco, posava sulla
punta delle spade bianchi bagliori volteggianti. Intanto
file di Clinabari restavano sul terreno; i Mercenari
strappavano loro le armature, le indossavano, poi
tornavano a combattere. Più volte i Cartaginesi, tratti in
inganno, finirono in mezzo a loro. Si immobilizzavano
inebetiti, oppure indietreggiavano, e le grida di trionfo
che si alzavano da lontano sembravano sospingerli come
relitti in un mare in tempesta. Amilcare si disperava;
tutto minacciava di crollare sotto il genio di Mâtho e
l’invincibile coraggio dei Mercenari!
Ma un grande rullare di tamburi esplose all’orizzonte.
Era una folla di vecchi, di malati, di ragazzi quindicenni e
anche di donne che, non resistendo più all’angoscia,
erano usciti da Cartagine e, per mettersi sotto la
protezione di qualcosa che apparisse formidabile,
avevano preso nei giardini di Amilcare l’unico elefante
che ormai restava alla Repubblica, quello con la
proboscide mozzata.
Allora sembrò ai Cartaginesi che la Patria,
abbandonando le proprie mura, venisse a ordinare di
morire per lei. La loro furia raddoppiò, e i Numidi si
trascinarono dietro tutti gli altri.
I Barbari, in mezzo alla piana, si erano addossati a una
collinetta. Non avevano alcuna probabilità di vincere, e
neppure di sopravvivere; ma erano i migliori, i più
intrepidi e i più forti.
La gente di Cartagine cominciò a lanciare, al di sopra
dei Numidi, spiedi, lardatoi, martelli; quelli di cui i
consoli avevano avuto paura, morivano sotto i bastoni
lanciati dalle donne; la plebaglia punica sterminava i
Mercenari.
Si erano rifugiati sulla cima della collina. Il loro cerchio
si restringeva a ogni nuova breccia; per due volte
tentarono di scendere, ma subito venendo respinti; e i
Cartaginesi stendevano le braccia alla rinfusa;
allungavano le picche tra le gambe dei loro compagni e
frugavano a caso davanti a sé. Scivolavano sul sangue; la
pendenza troppo ripida del terreno faceva rotolare in
basso i cadaveri. L’elefante che cercava di salire sulla
collina ne aveva fino al ventre; sembrava che vi si
adagiasse sopra con voluttà; e la sua proboscide
scorciata, larga in cima, si alzava di tanto in tanto simile a
un’enorme sanguisuga.
Poi tutti si fermarono. I Cartaginesi, digrignando i
denti, scrutavano la cima della collina dove i Barbari
resistevano ancora.
Finalmente si gettarono avanti di colpo, e la mischia
ricominciò. Spesso i Mercenari li lasciavano avvicinare
gridando che si volevano arrendere; poi, sghignazzando
orribilmente, si uccidevano; e a mano a mano che i morti
cadevano, gli altri salivano sui loro corpi per difendersi.
Era una specie di piramide che cresceva a poco a poco.
Presto non ne restarono che cinquanta, poi venti, poi
tre, poi due soltanto, un Sannita armato di un’ascia, e
Mâtho che aveva ancora la sua spada.
Il Sannita, piegato sulle gambe, vibrava l’ascia
alternativamente a destra e a sinistra avvertendo Mâtho
dei colpi che gli stavano arrivando addosso: «Di qui,
capo! Di là! Abbassati!».
Mâtho aveva perduto gli spallacci, l’elmo, la corazza;
era completamente nudo, più livido di un morto, i capelli
ritti, la bava agli angoli della bocca, e la sua spada
roteava così veloce che gli disegnava un’aureola intorno.
Una pietra la spezzò vicino all’elsa; il Sannita era stato
ucciso e la folla dei Cartaginesi si stringeva; lo toccavano.
Allora alzò al cielo le mani vuote, poi chiuse gli occhi e,
aprendo le braccia, come uno che si getti in mare dall’alto
di un promontorio, si gettò sulle picche, che si
scostarono. Più volte si gettò contro i Cartaginesi. Ma
sempre costoro indietreggiavano, voltando le armi.
Urtò con un piede una spada. Mâtho fece per
afferrarla. Si sentì legare i polsi e le ginocchia, e cadde.
Era Narr’Havas che già da qualche tempo lo seguiva
passo passo con una di quelle grandi reti per catturare le
belve feroci, e approfittando dell’attimo in cui si era
chinato, gliela aveva gettata addosso.
Poi lo legarono sul dorso dell’elefante, con le quattro
membra in croce; e tutti quelli che non erano feriti,
scortandolo, si precipitarono in gran tumulto verso
Cartagine.
La notizia della vittoria vi era già arrivata, in modo
inspiegabile, fin dalla terza ora della notte; la clessidra di
Khamon aveva versato la quinta quando giunsero a
Malqua; allora Mâtho aprì gli occhi. C’erano così tante luci
sulle case che la città sembrava tutta in fiamme.
Un clamore immenso giungeva vagamente fino a lui;
e, sdraiato sul dorso, guardava le stelle. Poi una porta si
richiuse, e fu avvolto dalle tenebre.
L’indomani, alla stessa ora, l’ultimo degli uomini
rimasti nella gola dell’Ascia spirava.
Il giorno in cui erano partiti i loro compagni, gli Zuaeci
che ritornavano avevano fatto franare le rocce, e per un
po’ li avevano nutriti.
I Barbari si aspettavano sempre di veder apparire
Mâtho, e non volevano lasciare la montagna per
scoraggiamento, per debolezza, per quell’ostinazione dei
malati che si rifiutano di cambiare posto; alla fine,
esaurite le provviste, gli Zuaeci se ne andarono. Si sapeva
che non erano più di milletrecento e non ci fu bisogno,
per farla finita con loro, di impiegare dei soldati.
Le belve feroci, soprattutto i leoni, in quei tre anni di
guerra si erano moltiplicate. Narr’Havas aveva fatto una
grande battuta di leoni; poi, legata qua e là una capra a
un paletto, aveva inseguito gli animali spingendoli verso
la gola dell’Ascia; e ora tutti vivevano lì dentro, quando
giunse l’inviato degli Anziani a vedere cosa restasse dei
Barbari.
La distesa della pianura era disseminata di leoni e di
cadaveri; e i morti si confondevano con le vesti e le
armature. A quasi tutti mancava il volto o un braccio;
alcuni sembravano ancora intatti; altri erano
completamente rinsecchiti, e crani polverosi riempivano
gli elmi; piedi scarnificati sbucavano dalle cnemidi, alcuni
scheletri conservavano i loro mantelli; ossa ripulite dal
sole formavano macchie luminose nella sabbia.
I leoni riposavano, con il petto adagiato sul suolo e le
zampe anteriori allungate, sbattendo le palpebre per la
luce del sole esaltata dal riverbero delle rocce bianche.
Altri, seduti sulle zampe posteriori, guardavano fisso
davanti a sé; oppure, quasi nascosti nelle folte criniere,
dormivano arrotolati, e tutti avevano un’aria sazia,
stanca, annoiata. Erano immobili come la montagna e
come i morti. Scendeva la notte; larghe fasce rosse
striavano il cielo a occidente.
Da uno di quei cumuli che punteggiavano
irregolarmente la pianura si alzò qualcosa di più
indefinito di uno spettro. Allora un leone si mosse,
disegnando con la sua forma mostruosa un’ombra nera
sullo sfondo purpureo del cielo; quando fu vicino
all’uomo, lo gettò a terra con una sola zampata.
Poi gli si distese sopra e con la punta delle zanne,
lentamente, gli estraeva le viscere.
Poi spalancò le fauci e per alcuni minuti emise un
lungo ruggito, che l’eco della montagna andò ripetendo
finché non si perse nel silenzio.
Improvvisamente dall’alto rotolarono giù dei sassolini.
Si udì un fruscìo di passi veloci, e sia dal lato della
saracinesca che da quello della gola apparvero dei musi
aguzzi, delle orecchie diritte; brillarono pupille selvagge.
Erano gli sciacalli che arrivavano, per mangiare gli
avanzi.
Il Cartaginese, che osservava sporgendosi dal
precipizio, se ne andò.
XV
Mâtho

Cartagine era in preda alla gioia, una gioia profonda,


universale, smisurata, frenetica; le brecce nelle mura
erano state chiuse, le statue degli dèi ridipinte, rami di
mirto erano sparsi per le strade, nei crocevia fumava
l’incenso, e la folla dalle vesti variopinte riempiva le
terrazze come aiuole di fiori sbocciati.
Il continuo brusio delle voci era sovrastato dal grido
dei portatori d’acqua che innaffiavano il selciato delle
strade; schiavi di Amilcare offrivano in suo nome orzo
abbrustolito e pezzi di carne cruda; tutti parlavano tra
loro; si abbracciavano piangendo; le città tirie erano
cadute, i Nomadi dispersi, tutti i Barbari annientati.
L’Acropoli spariva sotto velari colorati; i rostri delle
triremi, allineati lungo la banchina esterna del molo,
luccicavano come una diga di diamanti; ovunque si
avvertiva l’ordine ristabilito, una nuova vita che
ricominciava, una grande gioia diffusa: era il giorno del
matrimonio di Salammbô con il re dei Numidi.
Sulla terrazza del tempio di Khamon, tre lunghi tavoli
carichi di vasellame d’oro attendevano i sacerdoti, gli
Anziani e i Ricchi, e ce n’era un quarto, più in alto, per
Amilcare, Narr’Havas e lei; infatti, poiché Salammbô
aveva salvato la Patria recuperando il velo, il popolo
considerava le sue nozze una festa nazionale, e aspettava,
giù in piazza, di vederla apparire.
Ma un altro desiderio, più acre, provocava la sua
impazienza; in occasione della cerimonia era stata
promessa la morte di Mâtho.
Prima era stato proposto di scorticarlo vivo, di colargli
del piombo fuso nelle viscere, di farlo morire di fame;
ma sarebbe stato meglio legarlo a un albero, e poi una
scimmia, dietro di lui, lo avrebbe percosso sul cranio con
una pietra; aveva offeso Tanit, e sarebbero stati i
cinocefali di Tanit a vendicarla. Per altri sarebbe stato
meglio portarlo in giro su un dromedario, dopo avergli
infilato in più punti del corpo stoppini di lino imbevuti
d’olio; e pregustavano la gioia di veder girare per le
strade il grande animale con in groppa quell’uomo, a
contorcersi tra le fiamme come un candelabro agitato dal
vento.
Ma quali cittadini sarebbero stati incaricati del suo
supplizio? E perché deludere tutti gli altri? Era preferibile
un genere di morte alla quale partecipasse la città intera,
e che tutte le mani, tutte le armi, tutte le cose di
Cartagine, fino al selciato delle strade e ai flutti del golfo,
potessero dilaniarlo, schiacciarlo, annientarlo. Allora gli
Anziani decisero di farlo andare senza scorta dalla sua
prigione alla piazza di Khamon, con le braccia legate
dietro la schiena; era proibito colpirlo al cuore, perché
vivesse più a lungo, bucargli gli occhi perché potesse
vedere fino alla fine la sua tortura, lanciare qualsiasi cosa
contro di lui e toccarlo con più di tre dita per volta.
Benché non dovesse comparire prima della fine del
giorno, ogni tanto qualcuno credeva di vederlo arrivare, e
la folla si precipitava verso l’Acropoli, le strade si
svuotavano, per poi tornare indietro con un lungo
mormorio. C’erano alcuni che fino dalla vigilia stavano
fermi nello stesso posto, e da lontano si chiamavano
mostrandosi le unghie che avevano fatto crescere per
conficcarle meglio nella carne di Mâtho. Altri andavano
avanti e indietro agitati; alcuni erano pallidi come se
fossero in attesa della propria esecuzione.
Improvvisamente, dietro i Mappali, grandi ventagli di
piume si alzarono sopra le teste. Era Salammbô che
usciva dal suo palazzo; si udì un lungo sospiro di
sollievo.
Ma il corteo ci mise molto ad arrivare; avanzava
lentamente.
Per primi sfilarono i sacerdoti dei Pateci, poi quelli di
Eshmun, quelli di Melkarth e poi tutti gli altri collegi, con
le stesse insegne e nello stesso ordine che avevano
osservato il giorno del sacrificio. I pontefici di Moloch
sfilarono a testa bassa, e la folla, per una sorta di
rimorso, si apriva al loro passaggio. Ma i sacerdoti della
Rabbet avanzavano con passo fiero, e tutti reggevano in
mano la lira; li seguivano le sacerdotesse con vesti
trasparenti gialle o nere, e lanciavano grida di uccelli
contorcendosi come vipere; oppure, al suono dei flauti,
volteggiavano per imitare la danza delle stelle, e le loro
vesti leggere spargevano per le strade effluvi di sapori
inebrianti. Insieme con le donne venivano applauditi i
Kedeshim dalle palpebre dipinte, che simboleggiavano
l’ermafroditismo della dea; profumati e vestiti come le
donne, somigliavano loro nonostante i seni piatti e le
anche più strette. Del resto, quel giorno, il principio
femminile dominava e confondeva tutto: una mistica
lascivia si diffondeva nell’aria greve; già le fiaccole
cominciavano ad accendersi in fondo ai boschi sacri; nella
notte vi si sarebbe svolta una prostituzione generale; tre
navi avevano portato cortigiane dalla Sicilia, e ne erano
arrivate dal deserto.
I collegi, a mano a mano che arrivavano, si
schieravano nei cortili del tempio, sulle gallerie esterne e
sulle doppie scalinate che salivano lungo le mura per
ricongiungersi in alto. File di vesti bianche apparivano tra
i colonnati, e l’architettura si popolava di statue umane,
immobili come statue di pietra.
Poi giunsero gli amministratori delle finanze, i
governatori delle province e tutti i Ricchi. Ci fu un grande
tumulto nella piazza. La folla vi si riversava dalle strade
vicine; gli ieroduli la respingevano a colpi di bastone; e in
mezzo agli Anziani, incoronati di tiare d’oro, su una
lettiga sormontata da un baldacchino di porpora, apparve
Salammbô.
Allora si alzò un grido immenso; i cembali e i crotali
suonarono più forte, i tamburi rimbombavano, e il
grande baldacchino di porpora scomparve tra i due
piloni.1
Riapparve al primo piano. Salammbô vi camminava
sotto, lentamente; poi attraversò la terrazza per andare a
sedersi in fondo, su una specie di trono intagliato in un
guscio di tartaruga. Le misero sotto i piedi uno sgabello
d’avorio a tre gradini; sul bordo del primo stavano
inginocchiati due bambini negri, e Salammbô di tanto in
tanto appoggiava sopra le loro teste le braccia cariche di
pesanti anelli.
Dalle caviglie alle anche era avvolta in una rete a
maglie strette che imitavano le scaglie di un pesce e
luccicavano come madreperla; una fascia blu che le
stringeva la vita lasciava vedere i seni attraverso due
scollature a forma di mezzaluna; due pendenti di
carbonchio nascondevano i capezzoli. Aveva
un’acconciatura fatta di piume di pavone costellate di
pietre preziose; un ampio mantello, bianco come la neve,
le ricadeva dietro le spalle; coi gomiti stretti ai fianchi e le
ginocchia unite, con bracciali di diamanti intorno alla
parte più alta delle braccia, se ne stava eretta, in
atteggiamento ieratico.
Su due sedili più bassi sedevano suo padre e il suo
sposo. Narr’Havas, vestito di una zimarra color croco,
portava la sua corona di salgemma da cui uscivano due
trecce di capelli ritorte come le corna di Ammone; e
Amilcare, in tunica viola ricamata a pampini d’oro, teneva
al fianco la spada di battaglia.
Nello spazio compreso tra i tavoli, il pitone del tempio
di Eshmun, sdraiato per terra tra pozze di olio rosa,
mordendosi la coda descriveva un grande cerchio nero.
Al centro del cerchio c’era una colonna di rame che
reggeva un uovo di cristallo; e poiché il sole vi batteva
sopra, i raggi si riflettevano in ogni direzione.
Dietro Salammbô erano schierati i sacerdoti di Tanit in
vesti di lino; gli Anziani, alla sua destra, formavano con
le loro tiare una grande linea d’oro, e dall’altro lato i
Ricchi, con i loro scettri di smeraldo, una grande linea
verde, mentre in fondo, dove erano schierati i sacerdoti
di Moloch nei loro mantelli rossi, sembrava che ci fosse
una muraglia di porpora. Gli altri collegi occupavano le
terrazze inferiori. La moltitudine affollava le strade e
risaliva in lunghe file, attraverso i tetti delle case, fino alla
sommità dell’Acropoli. Così, avendo il popolo ai suoi
piedi, il firmamento sopra la testa, e intorno a sé
l’immensità del mare, il golfo, le montagne e la vista
delle province, Salammbô, rilucente, si confondeva con
Tanit e sembrava il genio stesso di Cartagine,
l’incarnazione della sua anima.
Il festino doveva durare tutta la notte, e i lampadari a
molte braccia sorgevano come alberi dai tappeti di lana
dipinta che ricoprivano le tavole basse. Grandi ampolle di
elettro, anfore di vetro blu, cucchiai di tartaruga e piccoli
pani rotondi si stipavano tra le doppie serie di piatti dai
bordi di perle; grappoli d’uva con le foglie erano
arrotolati come tirsi intorno a ceppi d’avorio; blocchi di
neve si scioglievano lentamente su vassoi di ebano, e
limoni, melograne, zucche e cocomeri erano ammucchiati
su vassoi d’argento; cinghiali con la bocca spalancata
giacevano in letti di spezie; lepri, ancora con il loro pelo,
sembravano saltare tra i fiori; composizioni di carni
riempivano conchiglie; i dolci avevano forme simboliche;
quando si scoprivano i vassoi, delle colombe si alzavano
in volo.
Intanto gli schiavi, con le maniche delle tuniche
rimboccate, si muovevano in punta di piedi; di tanto in
tanto le lire intonavano un inno, oppure si alzava un coro
di voci. Il rumoreggiare della folla, continuo come il
rumore del mare, fluttuava vagamente intorno al festino
e sembrava cullarlo in un’armonia più ampia; qualcuno si
ricordava del banchetto dei Mercenari; ci si lasciava
andare a sogni di felicità; il sole cominciava a tramontare,
e la falce della luna già sorgeva dall’altra parte del cielo.
Ma Salammbô, come se qualcuno l’avesse chiamata,
girò la testa; il popolo, che la guardava, seguì la
direzione dei suoi occhi.
Sulla cima dell’Acropoli, la porta della cella scavata
nella roccia ai piedi del tempio si era aperta; e dentro
quel buco nero, sulla soglia, c’era un uomo in piedi.
Ne uscì piegato in due, con l’aria spaventata delle
bestie feroci rimesse all’improvviso in libertà.
La luce lo abbagliava; per un po’ rimase immobile.
Tutti l’avevano riconosciuto e trattenevano il fiato.
Il corpo di quella vittima aveva per loro un significato
particolare, quasi religioso. Si sporgevano per vederlo,
soprattutto le donne. Ardevano dal desiderio di vedere
colui che aveva fatto morire i loro figli e i loro sposi; e
dal fondo della loro anima, loro malgrado, saliva una
curiosità infame, il desiderio di conoscerlo
completamente, e quel desiderio misto a rimorso finiva
per accrescere il loro odio.
Finalmente avanzò; allora lo stupore della sorpresa
svanì. Si alzò una selva di braccia, e non lo si vide più.
La scalinata dell’Acropoli aveva sessanta gradini. Li
scese come rotolando in un torrente dall’alto di una
montagna; lo si vide rimbalzare tre volte, poi, giunto in
basso, ricadde sui talloni.
Gli sanguinavano le spalle, il petto ansimava
convulsamente; e per liberarsi delle catene compieva tali
sforzi che le braccia incrociate sulle reni nude si
gonfiavano come spire di serpente.
Dal punto dove si trovava gli si aprivano davanti
parecchie vie. In ciascuna di esse e su entrambi i lati si
stendeva da un capo all’altro un triplice ordine di catene
di bronzo, fissate all’ombelico degli dèi Pateci; la folla era
addossata alle case e, nel mezzo, alcuni servitori degli
Anziani si aggiravano brandendo degli scudisci.
Uno di loro gli dette un forte spintone; Mâtho si mise a
camminare.
Allungavano le braccia sopra le catene, gridando che
gli era stato lasciato un corridoio troppo largo; e lui
avanzava, palpato, punzecchiato, straziato da tutte quelle
dita; quando era giunto in fondo a una via, ne appariva
un’altra; più volte si gettò di fianco per morderli; ma
quelli si scostavano in fretta, le catene lo trattenevano, e
la folla scoppiava a ridere.
Un bambino gli lacerò un orecchio; una ragazza, che
aveva nascosto nella manica la punta di un fuso, gli tagliò
una guancia; gli strappavano ciuffi di capelli, lembi di
carne; altri, con dei bastoni che avevano in cima una
spugna imbevuta di sozzure, gliela sfregavano in faccia.
Dal lato destro del collo zampillò un fiotto di sangue:
subito iniziò il delirio. Quest’ultimo Barbaro
rappresentava per loro tutti i Barbari, l’intero esercito; si
vendicavano su di lui dei loro disastri, dei loro terrori, dei
loro obbrobri. La rabbia del popolo cresceva proprio
mentre si placava; le catene troppo tese si curvavano,
stavano per spezzarsi; non sentivano più le frustate con
cui gli schiavi volevano spingerli indietro; altri si
aggrappavano alle sporgenze delle case; ogni apertura
nei muri era gremita di teste; e il male che non
riuscivano a fargli, glielo urlavano.
Erano ingiurie atroci, immonde, con incoraggiamenti
ironici e imprecazioni; e poiché non erano soddisfatti
delle sue attuali sofferenze, gliene annunciavano altre
ancora più terribili per l’eternità.
Quegli urli, quegli ululati, riempivano Cartagine, con
stupida ripetitività. Spesso una sola sillaba,
un’intonazione rauca, profonda, frenetica, veniva ripetuta
per qualche minuto da tutto il popolo. I muri vibravano
dalle fondamenta alla cima e a Mâtho sembrava che le
due pareti della via gli venissero addosso e lo
sollevassero, come due braccia immense che l’avrebbero
soffocato per aria.
Tuttavia si ricordava di aver provato, un tempo,
qualcosa di simile. Era la stessa folla sulle terrazze, gli
stessi sguardi, la stessa collera; ma allora camminava
libero, tutti si scostavano, un dio lo proteggeva; e quel
ricordo, che a poco a poco si precisava, gli procurava una
tristezza opprimente. Davanti ai suoi occhi passavano
ombre; la città intera turbinava nella sua testa, il sangue
scorreva da una ferita al fianco, si sentiva morire; le
ginocchia si piegarono, e si accasciò lentamente sul
selciato.
Allora qualcuno andò a prendere, nel peristilio del
tempio di Melkarth, la sbarra di un tripode arroventata
sui carboni e, facendola passare sotto la catena più bassa,
gliela appoggiò sulla piaga. Si vide la carne fumare; le
urla del popolo soffocarono la sua voce: era di nuovo in
piedi.
Sei passi più in là, e cadde una terza, una quarta volta;
ogni volta un nuovo supplizio lo faceva rialzare. Gli
spruzzavano addosso, con dei tubi, gocce di olio
bollente; gli spargevano cocci di vetro sotto i piedi; ma
lui continuava a camminare. All’angolo della via di Sateb
si appoggiò al muro, sotto la tettoia di una bottega, e
non si mosse più.
Gli schiavi del Consiglio lo colpirono con gli scudisci di
cuoio d’ippopotamo, con una tale furia e così a lungo che
le frange delle loro tuniche erano fradice di sudore.
Mâtho sembrava insensibile; improvvisamente, preso lo
slancio, si mise a correre a caso, facendo con le labbra il
rumore di chi trema per il gran freddo. Così percorse la
via di Budes, la via di Sepo, attraversò il Mercato delle
Erbe e giunse sulla piazza di Khamon.
Ora apparteneva ai sacerdoti; gli schiavi avevano fatto
arretrare la folla; c’era più spazio. Mâtho si guardò
intorno, e i suoi occhi incontrarono Salammbô.
Fin dal primo passo che Mâtho aveva mosso,
Salammbô si era alzata; poi, involontariamente, a mano
a mano che si avvicinava, si era spinta fino al bordo del
parapetto; e presto, mentre ogni cosa esterna
scompariva, non vide nient’altro che Mâtho. Nella sua
anima era sceso il silenzio, uno di quegli abissi in cui il
mondo intero svanisce sotto la pressione di un solo
pensiero, di un ricordo, di uno sguardo. Quell’uomo che
camminava verso di lei, l’attraeva.
Non aveva più, tranne gli occhi, un aspetto umano;
era una lunga forma completamente rossa; le sue catene
spezzate penzolavano lungo le cosce, ma non si
distinguevano dai tendini dei polsi messi a nudo; la bocca
era spalancata; dalle sue orbite uscivano due fiamme che
sembravano salirgli fino ai capelli; e lo sventurato
continuava a camminare!
Giunse ai piedi della terrazza. Salammbô si sporgeva
dal parapetto; quelle pupille terrificanti la guardavano, e
all’improvviso si rese conto di quanto Mâtho aveva
sofferto per lei. Benché agonizzasse, lo rivedeva nella sua
tenda, in ginocchio mentre le cingeva la vita con le
braccia e balbettava parole dolci; ora aveva sete di
risentirle, di udirle; ora non voleva che lui morisse! In
quel momento Mâtho ebbe un grande sussulto;
Salammbô trattenne un grido. Mâtho cadde riverso e non
si mosse più.
Salammbô, semisvenuta, fu ricondotta sul suo trono
dai sacerdoti che le si stringevano intorno. Si
rallegravano con lei: era opera sua. Tutti battevano le
mani e saltavano gridando il suo nome.
Un uomo si gettò sul cadavere. Anche se era senza
barba, aveva sulle spalle il mantello dei sacerdoti di
Moloch, e alla cintura quella specie di coltello che serviva
a tagliare a pezzi le carni consacrate, con l’impugnatura
che terminava in una spatola d’oro. Con un solo colpo
aprì il petto di Mâtho, poi gli strappò il cuore, lo mise sul
cucchiaio, e Shahabarim, alzando il braccio, lo offrì al
Sole.
Il sole scendeva dietro i flutti; i suoi raggi giungevano
come lunghe frecce sul cuore tutto rosso. L’astro si
immergeva nel mare a mano a mano che i battiti
diminuivano; all’ultimo palpito, scomparve.
Allora, dal golfo fino alla laguna e dall’istmo fino al
faro, in ogni strada, su ogni cosa e su ogni tempio, fu un
solo grido: ogni tanto si interrompeva, poi ricominciava;
gli edifici ne tremavano; Cartagine era in preda allo
spasmo di una gioia titanica e di una speranza senza
confini.
Narr’Havas, ebbro di orgoglio, cinse con il braccio
sinistro la vita di Salammbô in segno di possesso; e, con
la destra, afferrata una patera d’oro, bevve al genio di
Cartagine.
Salammbô si alzò in piedi con il suo sposo, con una
coppa in mano, per bere a sua volta. Ma ricadde indietro,
con la testa rovesciata sulla spalliera del trono, livida,
irrigidita, le labbra socchiuse, e i suoi capelli sciolti
sfioravano il pavimento.
Così morì la figlia di Amilcare, colpevole di aver
violato il manto di Tanit.
Note

I. IL FESTINO

1. battaglia di Erice: i Mercenari che Amilcare Barca «aveva


comandato in Sicilia» celebrano il terzo anniversario della battaglia con
cui i Cartaginesi avevano sconfitto i Romani sul monte Erice nel 244
a.C. A quella vittoria era seguita, nel marzo del 241 a.C. la pesante
sconfitta nella battaglia navale delle isole Egadi, a opera del console
Gaio Lutazio Catulo, che aveva costretto i Cartaginesi a lasciare
definitivamente la Sicilia. Per la costruzione dello scenario storico di
Salammbô, Flaubert segue, fin dall’inizio del romanzo, i capitoli 65-88
del primo libro delle Storie di Polibio.
2. Il Consiglio: è il Consiglio dei Cento Anziani, il senato di
Cartagine; secondo Flaubert, si riunisce nel tempio di Moloch. Da non
confondersi con il Gran Consiglio, assemblea generale dei Ricchi, che si
riunisce nel tempio di Eshmun.
3. tempio di Eshmun: al dio fenicio Eshmun, corrispondente al
greco Asclepio e al latino Esculapio, è dedicato, secondo Appiano, il
tempio più sontuoso di Cartagine, sulla sommità dell’Acropoli.
4. garo: salsa prelibata a base di pesci marinati.
5. Tamrapanni: corruzione dell’antico nome (Tampraparni)
dell’isola di Ceylon.
6. assafetida: pianta ombrellifera asiatica da cui si ricava una
gomma resinosa che ha l’odore dell’aglio.
7. Bruzio: i Latini chiamavano Brutii gli abitanti dell’attuale Calabria.
8. Giscone: suffeta cartaginese di cui parla ampiamente Polibio (il
termine suffeta, con il significato di ‘giudice’, tanto in fenicio che in
ebraico, indica la carica dei due supremi magistrati di Cartagine e di
altre città puniche).
9. Lutazio: il console romano Gaio Lutazio Catulo, vincitore della
battaglia delle isole Egadi nel marzo del 241 a.C.
10. Baal-Eshmun: l’epiteto Baal, che significa ‘signore’, ‘dio’,
precede frequentemente i nomi delle divinità fenicie. Usato
indipendentemente, non come epiteto, indica, in Salammbô, il dio
Moloch.
11. Spendio: personaggio delle Storie di Polibio.
12. battaglia delle Eginuse: probabilmente si tratta della battaglia
delle isole Egadi. Fa parte delle Egadi l’isola di Aegusa (Favignana).
13. Khamon: dio del Sole, inteso come principio fecondatore.
Anche Moloch è dio del Sole, ma inteso come principio distruttore.
14. Tutti discendevano … la dea: la dea è Tanit, la principale
divinità di Cartagine, personificazione della Luna. Flaubert le attribuisce
caratteristiche e leggende riferite ad altre divinità delle religioni
mediorientali, in particolare ad Atargatis, venerata nel tempio di
Ierapoli, in Siria; di questa divinità si diceva che fosse nata da un uovo
caduto dal cielo. Vicino al tempio di Ierapoli, informa l’anonimo autore
di un trattato De dea Syria noto a Flaubert, esisteva un piccolo lago in
cui venivano allevati pesci sacri alla dea, dalle pinne ornate di oro e
pietre preziose.
15. Salammbô: nome di una dea venerata dai Fenici nelle colonie
iberiche, assimilabile a Tanit; è il risultato della contrazione di salam
‘pace’ e baal ‘divinità’, con il significato di ‘pace divina’. Polibio parla di
una figlia di Amilcare promessa in sposa a Naravas, il più antico re
della dinastia numida; la circostanza viene ripresa da Flaubert. Per il
resto, il personaggio di Salammbô è una creazione dello scrittore.
16. Siv! … Shebar!: nomi di mesi, di origine mesopotamica, che
Flaubert ha tratto dal calendario ebraico.
17. malòbatro: olio aromatico estratto da una pianta diffusa in
India e in Siria; ne parla un’altra fonte familiare a Flaubert, la Storia
naturale di Plinio il Vecchio.
18. Ecatompilo: città di cui parlano Polibio e Diodoro Siculo,
probabilmente da identificarsi con l’odierna Tebessa, in Algeria, sul
confine con la Tunisia.
19. suffeta: per il significato di questo termine si veda la nota 8.
20. Melkarth: dio fenicio, assimilabile all’Eracle greco. Flaubert ne
fa il progenitore della famiglia dei Barca, di cui in realtà Amilcare è il
primo personaggio storicamente conosciuto.
21. Narr’Havas: personaggio delle Storie di Polibio, dove appare
con nome di Naravas.
22. Mâtho: anche questo è un personaggio delle Storie di Polibio,
completamente reinventato da Flaubert.
23. promontorio Ermeo: la penisola che delimita a oriente il golfo
di Tunisi.
24. i cavalli di Eshmun: probabile invenzione di Flaubert, ispirata al
mito greco del carro del Sole.
25. Mappali: zona di Cartagine estesa tra i quartieri di Megara e di
Malqua, popolata di capanne e di tombe. Con il termine mapalia, di
origine punica, gli scrittori latini indicano le capanne africane in genere.
26. Moloch: è il dio fenicio della forza maschile e del Sole. Nella
Bibbia indica un idolo al quale alcuni popoli cananei immolavano vittime
umane.

II. A SICCA

1. Sicca: città a sud-ovest di Cartagine, tra Naraggara e Zama,


chiamata Sicca Venerea dai Romani; è l’odierna città tunisina di el-Kef.
2. opliti: soldati di fanteria con armatura pesante.
3. sarisse: lance lunghe e pesanti.
4. le alte case … di bitume: dell’usanza di imbrattare di bitume le
pareti delle case di Cartagine, per proteggerle dalle intemperie, parla
Plinio il Vecchio nella Storia naturale.
5. i lupanari di Malqua: il popolare quartiere di Malqua, che
circonda la città antica e parte della nuova, è immaginato da Flaubert
come una sorta di Suburra romana.
6. silfio: pianta aromatica, usata per salse raffinate.
7. tempio di Ammon: celebre santuario situato in un’oasi del
deserto libico, oggi denominata Siwah. Il culto di Ammon, originario
della città di Tebe, si era poi diffuso in Egitto e in altre regioni africane.
8. Garamanti: con questo nome Greci e Latini indicavano una
popolazione nomade dell’interno dell’Africa, stanziale in alcuni periodi
nelle oasi della Phazania (Fezzan).
9. tetrarca: comandante di quattro compagnie di fanteria o di
quattro squadroni di cavalleria.
10. medimni: misura greca di capacità.
11. crotali: strumenti simili alle nacchere.
12. Venere Cartaginese: Tanit.
13. galbano, seseli: essenze di piante.
14. i sette Cabiri: divinità sotterranee fenicie.
15. astragali: dadi.
16. Annone: personaggio delle Storie di Polibio.
17. Santippo: lo stratega spartano che, al servizio di Cartagine, nel
255 a.C. aveva sconfitto e catturato Attilio Regolo.
18. siclo: da siclus, traduzione di shekel, moneta orientale diffusa
in Fenicia.
19. Zarxas: personaggio delle Storie di Polibio.
20. dèi Pateci: gli dèi Penati di Cartagine.
21. giacinto: varietà della porpora, di colore violetto.
22. di Commageno … tritata: squisitezza siriana, descritta da Plinio
il Vecchio nella Storia naturale.

III. SALAMMBÔ

1. O Rabbetna! … Tanit!: Rabbetna e Baalet sono forme femminili


di Rabbet (‘signore’) e Baal (‘dio’), riferiti a Tanit.
2. Anaitis! … Tiratha!: nomi ed epiteti di dee, di varia origine, che
Flaubert considera sinonimi di Tanit.
3. Getulia Darizia: regione abitata dai Getuli, popolazione nomade,
situata tra il Gran Deserto e la catena dell’Atlante.
4. nebal: strumento simile all’arpa, come è spiegato poco più
avanti.
5. il paese dell’ambra … di Melkarth: i paesi costieri del mar
Baltico, oltre le colonne d’Ercole.
6. Baal ermafroditi: le divinità fenicie, per Flaubert, sono
ermafrodite; contengono cioè sia il principio maschile che quello
femminile, prevalendo ora l’uno (il principio femminile in Tanit), ora
l’altro (il principio maschile in Moloch).

IV. SOTTO LE MURA DI CARTAGINE

1. Genio di Cartagine: Tanit.


2. Dionisio, Pirro, Agatocle: Dionisio il Vecchio (432-367 a.C.),
tiranno di Siracusa dal 406, fino alla morte difese dai Cartaginesi la
città e la civiltà greca. Pirro (319-272 a.C.), re dell’Epiro, chiamato in
aiuto dai Siracusani assediati dai Cartaginesi, in poco tempo liberò
l’intera Sicilia, lasciando ai Cartaginesi soltanto Lilibeo (Marsala).
Agatocle (ca. 360-289 a.C.), Siracusano, nel 316 si impadronì del
potere con un colpo di stato; assediato dai Cartaginesi, lasciò la città
con poche navi e portò la guerra nel territorio di Cartagine,
devastandolo per quattro anni.
3. Tenia: la striscia di terra che separa la laguna di Tunisi dal
mare.
4. Ippozarito: è l’Hippo-Dyarrhytus dei Latini, l’odierna Biserta.
5. Ricordatevi … galea marcia: dell’Isola delle Ossa parla Diodoro; i
Cartaginesi avrebbero sbarcato su un’isola deserta alcuni Mercenari,
facendoli morire di fame e di sete, per evitare di pagarli. Del
comandante mercenario Santippo, la cui morte sarebbe stata
provocata dai Cartaginesi per invidia della sua gloria, parla Appiano.
6. falariche: pesanti giavellotti con testa metallica munita di
materiale incendiario.
7. il pianeta di Shabar: la Luna.
8. nopale: arbusto della famiglia delle cactacee su cui vive la
cocciniglia.

V. TANIT

1. il corpo … di mammelle: Flaubert si ispira alla celebre statua


della Artemide di Efeso.
2. cembali: strumenti a percussione, simili ai moderni “piatti”.
3. il berretto dei Cabiri: un berretto di forma conica; i Cabiri sono
divinità fenicie.
4. la caverna di Adrumeto: si credeva che da una caverna di
Adrumeto, l’odierna città di Susa, in Tunisia, si accedesse al regno
degli inferi.
5. Gurzil … ti bruci!: Gurzil e Matisma sono divinità libiche; l’Altro,
colui che non si può nominare è Moloch.

VI. A NNONE

1. Arcagato, figlio di Agatocle: il padre (si veda la nota 2, cap. IV )


gli aveva lasciato il comando dell’esercito d’Africa al suo ritorno in
Sicilia, nel 306 a.C.; Arcagato, tuttavia, fu rapidamente sconfitto dai
Cartaginesi, quindi ucciso dai propri soldati.
2. shalishim: termine biblico che significa ‘guerriero scelto’.
3. Tolomeo: Tolomeo III Evergete, sul trono d’Egitto dal 246 a.C.
4. il saio di pelle di foca: cappotto di pelo, aperto davanti, tipico dei
soldati nordici, in particolare dei Galli.
5. uri: l’uro è il progenitore del bue domestico.
6. carrobaliste, onagri: carri sormontati da grosse balestre
(carrobaliste) e asini selvatici (onagri).
7. scorpioni: macchine da guerra simili a catapulte e balestre.
8. galbano e storace: il galbano è una gommaresina ottenuta dal
succo di piante orientali; lo storace è un balsamo ricavato dalla
corteccia di una pianta, anch’essa asiatica.

VII. A MILCARE BARCA


1. abadir: pietra rituale. Nella mitologia greca, con questo nome è
indicata la pietra che Rea, moglie di Cronos, presentò fasciata come un
bambino al marito, che l’inghiottì, per evitare di essere spodestato in
futuro.
2. Chiedilo … di Eraclea: assunto il comando della flotta nel 247
a.C., Amilcare aveva attaccato e devastato le coste della Magna
Grecia.
3. Cepione: il console Gaio Servilio Cepione nel 253 a.C. aveva
compiuto numerose incursioni sulle coste africane.
4. zeret: misura ebraica.
5. Tammuz: nel calendario ebraico il mese di luglio.
6. Shebat: nel calendario ebraico il mese di febbraio.
7. Cassiteridi: le isole Britanniche; il Mare Tenebroso è l’Atlantico.
8. Rispose … degli Aromi: Timiamata, centro commerciale fenicio
sulla costa della Mauritania; Eziongaber, porto sul Mar Rosso in fondo
al golfo di Aqaba; il promontorio degli Aromi, all’estremo oriente
dell’Africa, corrisponde all’odierno capo Guardafui.
9. dell’Harush Nero … scimmie: Harush Nero è un rilievo collinare a
oriente del Fezzan; gli Ataranti sono una popolazione dell’interno, di
cui parla Erodoto; del paese delle grandi scimmie, forse il Gabon, parla
Annone.
10. Fazzania: è il Fezzan, la Phazania dei Latini.
11. cavalli oringi: cavalli selvatici dal manto zebrato.
12. cab: unità di misura palestinese (come, poco sopra, gommor).
13. beka: moneta palestinese (come le successive, kesitah, kikar,
mina).
14. Annaba: villaggio della costa algerina.
15. biglione: lega metallica a bassa percentuale d’argento.
16. Erano … sandastri: le callaidi corrispondono, forse, ai turchesi;
i glossopetri sono denti fossili di pescecane; dei tiani e dei sandastri
non conosciamo la corrispondenza (il repertorio è attinto da Plinio e da
Teofrasto).
17. ceraunie: pietre che gli antichi credevano precipitate dal cielo
in seguito allo scoppio di un fulmine.
18. corni di Ammone: ammoniti (fossili caratterizzati da una
conchiglia a spirale).
19. algummin … terra di Lemno: l’algummin era forse un legno
pregiato; la lausonia è l’henné; la terra di Lemno, un’argilla
astringente, usata per la cura della pelle.
20. mirobolano, bdellio: il mirobolano è un’essenza per unguenti; il
bdellio è una gommaresina ricavata dalla pianta omonima.
21. filipendula: pianta con piccoli fiori a grappolo, bianchi o rosa.
22. metopio: albero da cui si estrae un’essenza medicamentosa.
23. bàccara: nome antiquato del nardo selvatico, una pianta
odorosa da cui si ricavano alcune specie di lavanda.
24. elettro: ambra gialla per monili e ornamenti.
25. bezoar: concrezioni nell’intestino dei ruminanti, usate come
contravveleno.
26. nardo: lavanda.
27. psaga: unguento egiziano.
28. morbo sacro: l’epilessia, considerata dagli antichi una sorta di
invasamento divino.

VIII. LA BATTAGLIA DEL MACAR

1. Clinabari: cavalieri scelti.


2. Macar: fiume della Tunisia (Polibio).
3. Capo dell’Uva: promontorio a oriente di Ippozarito.
4. Tibby: il Tebet ebraico, che corrisponde al mese di gennaio.
5. veliti: fanti armati alla leggera.

IX. IN CAMPAGNA

1. Thuccaber: città a ovest di Tunisi, sulla riva sinistra della


Megerda; le città nominate successivamente si trovano nella parte
settentrionale della Tunisia.
2. durante l’assedio di Siracusa: nell’assedio del 395 a.C., il
generale cartaginese Imilcone profanò i templi di Demetra e di
Persefone; l’oltraggio fu punito da un’epidemia che devastò l’esercito
punico, costringendo Imilcone alla resa; allora, in segno di espiazione,
furono erette a Cartagine due statue in onore delle dee offese.
3. k’kommer … betza: unità di misura palestinesi ed ellenistiche.
4. Elul: settembre.

X. IL SERPENTE

1. tempio di Afaka: tempio siriano, dedicato al culto di Astarte,


identificata dai Greci in Afrodite.
2. adianto: capelvenere.
3. le faceva … mandragore: le proprietà sedative della mandragora
erano note fin dall’antichità.
4. baaras: pianta sconosciuta.
5. sandracca: resina.
6. bematisti: misuratori di distanza.
7. strobo e cardamomo: lo strobo è il pino, o la pigna; il
cardamomo è una pianta erbacea i cui semi, ricchi di oli essenziali,
sono usati come spezie.
8. kinnor: strumento musicale ebraico, a corde, simile alla lira.
9. del paese dei Seri: della Cina.

XI. NELLA TENDA

1. Ho visto … Regolo: Agatocle era sbarcato in Africa nel 309 a.C. e


Attilio Regolo nel 256.

XII. L’ACQUEDOTTO

1. Nasamoni: popolazione della grande Sirti, di cui parla Erodoto.


2. quarantatré … primavera sacra: rito sacrificale di Roma, che
consisteva nel dedicare agli dèi ciò che era nato in una primavera,
uomini e animali.
3. Zaine: fiume che segnava il confine tra il territorio di Cartagine e
la Numidia dei Massilii.
4. Si videro … di ippopotamo: il Maletut e il Garafo sono aree
montagnose dell’Atlante. Farusii, Cauni, Tillabari: altri nomi di
popolazioni che Flaubert ha trovato in Strabone e in Plinio.

XIII. MOLOCH

1. verricelli: piccoli argani.


2. giusquiamo: pianta erbacea da cui si estrae un succo
antispasmodico e sedativo.
3. la formidabile … Poliorcete: Demetrio i di Macedonia (336-283
a.C.), soprannominato Poliorcete (‘assediatore di città’) per la sua
grande esperienza militare, aveva impiegato macchine d’assedio di sua
invenzione, come la formidabile elepoli (‘prendi-città’) descritta da
Flaubert.
4. Nissam: ‘aprile’ nel calendario ebraico.
5. tesmoforio: inno sacro; tesmoforie erano in Grecia le feste
dedicate a Demetra, durante le quali venivano nascosti sottoterra certi
oggetti, perché la dea li fecondasse.
6. salsalim: strumento musicale ebraico simile forse al sistro.

XIV. LA GOLA DELL’A SCIA

1. Gerone: Gerone II di Siracusa, al potere dal 239 a.C.


2. nebel: unità di misura palestinese e siriaca.

XV. MÂTHO

1. piloni: le due torri che delimitano la porta di accesso al cortile


davanti al tempio; si tratta in realtà di una porta turrita, tipica
dell’architettura dei templi egizi.
Dizionario essenziale
del luoghi, delle divinità,
dei popoli e dei personaggi minori

Nella sua severa recensione a Salammbô, pubblicata nel


dicembre 1862 sul «Constitutionnel», Sainte-Beuve aveva
lamentato, tra l’altro, «la mancanza di un lessico» che
aiutasse il lettore a districarsi nella selva dei termini
tecnici, ricercati da Flaubert nei trattati di archeologia e
nei classici latini e greci, che affollano le pagine del
romanzo. Nella sua lettera di risposta alle critiche di
Sainte-Beuve, Flaubert aveva respinto anche quest’accusa
di pedante oscurità:
«Ecco un rimprovero che trovo assolutamente
ingiusto. Avrei potuto asfissiare il lettore con vocaboli
tecnici. Al contrario, ho avuto cura di tradurre tutto in
francese. Non ho usato un solo termine speciale senza
farlo seguire subito dalla sua spiegazione. Fanno
eccezione i nomi di monete, di misure e di mesi che il
senso della frase indica. O forse che quando leggendo vi
imbattete in kreutzer, iarda, piastra o penny , ciò vi
impedisce di capire? Che avreste detto allora se Moloch lo
avessi chiamato Melek, Annibale Han-Baal, Cartagine
Karthadda, e se, anziché dire che gli schiavi del mulino
portavano la museruola, avessi scritto la pausicapa?
Quanto ai nomi di profumi e di pietre preziose, sono
stato ovviamente costretto ad accettare quelli che si
trovano nelle opere di Teofrasto, di Plinio e di Ateneo.
Per le piante ho usato i nomi latini convenzionali, invece
di quelli arabi o fenici».
In effetti i vocaboli “tecnici” che Flaubert propone al
lettore di Salammbô sono innanzitutto reperti
archeologici, vocaboli di una civiltà perduta. Hanno un
proprio significato e nello stesso tempo un colore.
Servono a indicare ma anche a produrre effetti di
accumulazione e di spaesamento esotico. Sono, in sintesi,
creazione d’arte e svolgono una funzione precisa nello
stile dell’opera. Per questo ha ragione Flaubert a
protestare contro la pretesa di Sainte-Beuve di spiegare
scolasticamente ogni termine inconsueto o “tecnico”.
È anche vero, tuttavia, che nel massimo rispetto della
poetica di Flaubert e della sua bella indignazione nei
confronti di chi ha visto in Salammbô soltanto un
romanzo storico fallito, può essere di aiuto al lettore un
piccolo strumento mnemonico che raccolga in poche
pagine i principali nomi di luoghi, popoli, divinità e
personaggi minori, peraltro già incontrati nelle note al
testo. Una sorta di piccolo dizionario storico-geografico,
per orientarsi nel tempo e nello spazio di singolari
paesaggi d’arte.
L. B.
A CQUE C ALDE zona collinare e montuosa a sud di
Cartagine.
A DRUMETO l’odierna città di Susa, in Tunisia.
A FAKA, TEMPIO DI santuario siriano, dedicato al culto di
Astarte.
A GATOCLE condottiero siracusano (ca. 360-289 a.C.).
A MMON, TEMPIO DI celebre santuario situato in un’oasi del
deserto libico, oggi denominata Siwah. Il culto di
Ammon, originario della città di Tebe, si era poi
diffuso in Egitto e in altre regioni africane.
A NAITIS appellativo di Tanit.
A NNABA villaggio situato sulla costa algerina.
A NNONE suffeta cartaginese.
A PTUKNOS dio libico.
A RCAGATO figlio di Agatocle, nel 306 a.C. fu sconfitto dai
Cartaginesi e ucciso dai propri soldati.
A ROMI, PROMONTORIO DEGLI all’estremo oriente dell’Africa,
corrisponde all’odierno capo Guardafui.
A STARTE divinità fenicia, il cui culto deriva probabilmente
da quello dell’Ishtar babilonese. Qui è appellativo di
Tanit.
A STORETH deformazione biblica del nome di Astarte.
Appellativo della dea Tanit.
A TARANTI popolazione dell’interno dell’Africa.
A THARA deformazione aramaica del nome di Astarte.
Appellativo della dea Tanit.
A UTARITO comandante gallico dei Mercenari.
BAAL epiteto di origine ebraica con il significato di
‘signore’ e successivamente ‘dio’; precede i nomi di
numerose divinità fenicie. Usato indipendentemente,
non come epiteto, in Salammbô indica Moloch.
BAALET forma femminile di Baal, appellativo di Tanit.
BAMBOTO fiume africano, forse identificabile con il
Senegal.
BIRSA il primo insediamento di Cartagine, che ne
costituisce il centro.
BISACENIA regione dell’Africa settentrionale.
BRUZIO l’attuale Calabria.
CABIRI divinità fenicie, in origine di carattere marino; il
loro culto si trasferì poi in Grecia.
CANTABRI popolazione della penisola iberica.
CASSITERIDI nome greco delle isole Britanniche.
CAUNI popolazione della Mauritania.
CEPIONE il console Gaio Servilio Cepione che nel 253 a.C.
aveva compiuto numerose incursioni sulle coste
africane.
CIRTA città della Numidia.
CLINABARI soldati scelti assiri.
CLIPEA località del promontorio Ermeo, forse iden
tificabile con l’odierna Kelibia.
DEMETRIO POLIORCETE Demetrio I di Macedonia (336-283
a.C.); fu soprannominato Poliorcete (‘assediatore’) per
le sua grande esperienza militare.
DERCETO divinità della Palestina meridionale. Qui è
appellativo di Tanit.
DIONISIO Dionisio il Vecchio (432-367 a.C.), tiranno di
Siracusa dal 406.
DREPANO città sulla costa occidentale della Sicilia.
ECATOMPILO città di cui parlano Polibio e Diodoro Siculo,
probabilmente da identificarsi con l’odierna Tebessa, in
Algeria, sul confine con la Tunisia.
EFESO città dell’Asia Minore; vi sorgeva il tempio di
Artemide.
EGINUSE probabile sinonimo delle isole Egadi, di cui fa
parte l’isola di Aegusa (Favignana).
ELATHIA città sul mar Rosso.
ELISSA appellativo di Didone in Virgilio, con il significato
di ‘gioconda’; Didone-Elissa sarebbe un’incarnazione di
Tanit-Astarte. Dunque, appellativo di Tanit.
ERACLEA città della Magna Grecia, devastata da Amilcare
nel 247 a.C.
ERICE città della Sicilia. Sul monte Erice i Cartaginesi
avevano sconfitto i Romani nel 244 a.C.
ERMEO, PROMONTORIO l’odierno capo Bon, nella penisola
che delimita a oriente il golfo di Tunisi.
ESHMUN dio fenicio; corrisponde al greco Asclepio e al
latino Esculapio.
ESTII popolazione della Bitinia.
EZIONGABER porto sul mar Rosso, nel golfo di Aqaba.
FARUSII popolazione della Mauritania.
FAZZANIA il Fezzan.
GARAFO zona montagnosa dell’Atlante.
GARAMANTI popolo nomade dell’interno dell’Africa,
stanziale in alcuni periodi nelle oasi del Fezzan.
GERONE Gerone II di Siracusa, al potere dal 239 a.C.
GETULIA DARIZIA regione abitata dalla popolazione nomade
dei Getuli, situata tra il Gran Deserto e la catena
dell’Atlante.
GISANTI popolazione dell’Africa settentrionale.
GISCONE suffeta cartaginese.
GRANDI SCIMMIE, PAESE DELLE forse il Gabon.
GURZIL divinità libica.
HARUSH Nero rilievo collinare a oriente del Fezzan.
INGRII gli ungheresi.
IPPONA città dell’Africa settentrionale, nei dintorni
dell’odierna Annaba.
IPPOZARITO l’Hyppo-Dyarrhytus dei latini, l’odierna Biserta.
KHAMON dio fenicio del Sole, inteso come principio
fecondatore.
LEPTIS probabilmente la città di Leptis Minus, tra
Adrumeto e Tapso.
LUTAZIO Caio Lutazio Catulo, console romano, vincitore
dei Cartaginesi nella battaglia navale delle isole Egadi,
nel 241 a.C.
MACAR il più grande fiume della Tunisia, l’odierno
Megerda.
MACARI popolazione della Mauritania.
MAGDALA città dell’Egitto.
MALETUT zona montagnosa dell’Atlante.
MALQUA quartiere popolare di Cartagine, una sorta di
Suburra romana.
MAPHUG città della Siria.
MAPPALI zona di Cartagine estesa tra i quartieri di Megara
e di Malqua, popolata di capanne e di tombe.
MASSILII popolazione della Numidia.
MATISMA divinità libica.
MAURUSII popolazione della Mauritania.
MEGARA quartiere periferico di Cartagine, all’interno della
cinta muraria più recente.
MELKARTH dio fenicio, assimilabile all’Eracle greco.
Flaubert ne fa il progenitore della famiglia dei Barca.
METAPONTO città della Magna Grecia, nel golfo di Taranto.
MOLOCH dio fenicio del Sole, inteso come principio
distruttore.
NABATEI popolazione semita dell’odierna Giordania.
NASAMONI popolazione della Grande Sirti.
PATECI, dèi i Penati di Cartagine, protettori delle case e
delle navi.
PIRRO re dell’Epiro, vissuto dal 319 al 272 a.C.
PSILLI popolazione della Libia.
RABBETNA forma femminile di Rabbet (‘signore’),
appellativo di Tanit.
SANTIPPO lo stratega spartano che al servizio di Cartagine,
nel 255 a.C., aveva sconfitto Attilio Regolo.
SERI, IL PAESE DEI la Cina.
SHESBAR probabilmente la città etiope di Saba.
SICCA città a sud-ovest di Cartagine, tra Naraggara e
Zama; corrisponde all’odierna città tunisina di el-Kef.
SISSIZI il luogo dove si riuniscono le consorterie dei
commercianti di Cartagine.
T AGGIR regione del Sahara.
T AMRAPANNI l’antica Ceylon.
T ANIT la principale divinità di Cartagine, personificazione
della Luna.
T ARTESSO termine fenicio e poi greco per indicare
l’odierna Andalusia.
T EBESSA città della Numidia.
T ENIA la lingua di terra che separa la laguna di Tunisi dal
mare.
T HUCCABER città ad ovest di Tunisi, sulla riva sinistra della
Megerda.
T ILLABARI popolazione della Mauritania.
T IMIAMATA centro commerciale fenicio sulla costa della
Mauritania.
T IRATHA appellativo di Tanit.
T OLOMEO Tolomeo III Evergete, re di Egitto dal 246 a.C.
U TICA città della Tunisia, a trenta chilometri da Tunisi
sulla strada di Biserta.
U VA, C APO DELL’ promontorio a oriente di Ippozarito.
ZAINE fiume che segnava il confine tra il territorio di
Cartagine e la Numidia dei Massilii.
ZARXAS comandante balearico dei Mercenari.
ZUAECI tribù libica.
Indice

Introduzione di Lanfranco Binni

SALAMMBÔ

I. Il festino
II. A Sicca
III Salammbô
IV Sotto le mura di Cartagine
V Tanit
VI Annone
VII Amilcare Barca
VIII La battaglia del Macar
IX In campagna
X Il serpente
XI Nella tenda
XII L’acquedotto
XIII Moloch
XIV La gola dell’Ascia
XV Mâtho

Note

Dizionario essenziale dei luoghi, delle divinità,


dei popoli e dei personaggi minori

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