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GUSTAVE FLAUBERT
Salammbô
a cura di
Lanfranco Binni
Titolo originale:
Salammbô
www.giunti.it
ISBN 9788809753518
GUSTAVE FLAUBERT
Gustave Flaubert nasce a Rouen, il 12 dicembre 1821, in
un appartamento dell’Hôtel-Dieu assegnato al padre,
Achille-Cléophas Flaubert, primario chirurgo
dell’ospedale.
I Flaubert sono una delle famiglie più antiche della
Champagne: proprietari terrieri, medici, funzionari. Il
dottor Flaubert è un tipico rappresentante della borghesia
in ascesa. Libero pensatore di formazione volterriana,
liberale moderato, totalmente impegnato nella sua
professione, possiede una biblioteca ricca di classici della
medicina, della religione e della letteratura. A fianco di
un marito dalla forte personalità, Anne Justine Caroline
costituisce una presenza passiva e muta. In famiglia le
giornate sono scandite dai ritmi e dalle vicende
dell’ospedale. Alcuni allievi del dottor Flaubert
ricorderanno di aver visto più volte il piccolo Gustave
aggirarsi per la sala anatomica: la presenza fisica della
morte, lo spettacolo della decomposizione dei cadaveri
entrano a far parte del suo immaginario.
Nel 1829 inizia a frequentare la scuola, ma si trova a
disagio con i compagni, si annoia, e comincia a costruirsi
un mondo a parte. Il teatro diventa il suo gioco preferito;
con la sorella Caroline, nata nel 1824, mette in scena
delle storie in una sala attigua alla sala anatomica.
Nel 1832 entra come allievo interno nel Collège Royal
di Rouen, riservato alle migliori famiglie della borghesia
cittadina. Al grigiore e alla disciplina della vita di collegio
Flaubert reagisce attraverso la lettura di Byron, del
Werther di Goethe, di Shakespeare, stabilendo un
rapporto importante con l’insegnante di francese, Henry
Gourgaud-Dugazon, e con l’insegnante di storia, Adolphe
Chéruel, che lo appassiona alla storia romana e
medievale. Dalla collaborazione con Gourgaud-Dugazon
nasce il giornale manoscritto «Art et Progrès» di cui
Flaubert è direttore e unico redattore; sul secondo
numero, che esce nel 1835, pubblica due testi che
costituiscono un documento significativo della sua
formazione: Voyage en enfer [Viaggio all’inferno],
percorso alla scoperta dell’onnipresenza del Male nel
mondo, e Une pensée [Un pensiero], evocazione
fantastica dell’amore sensuale e illusorio per una donna.
Nel 1836, durante le vacanze estive a Trouville, sulla
spiaggia gli appare, magica, sensuale e materna, adulta,
irraggiungibile, Élisa Schlesinger, la cui cristallizzazione
produrrà un modello fondamentale di femminilità e di
amore puro.
Nel 1837 la rivista «Le Colibri», di Rouen, gli pubblica
due racconti: Bibliomanie [Bibliomania], storia
drammatica di una “mania” vissuta fino al delitto, e Une
leçon d’histoire naturelle. Genre commis [Una lezione di
storia naturale. Genere: commesso], “fisiologia” di un
impiegato abbrutito dal suo lavoro di copista, come in
futuro i protagonisti di Bouvard et Pécuchet [Bouvard e
Pécuchet]. Allo stesso anno appartengono alcuni racconti
densi di implicazioni filosofiche ed esistenziali, tra cui
Rêve d’enfer [Sogno d’inferno], in cui riappare il tema
satanico del Male, e Passion et Vertu [Passione e virtù],
storia di un adulterio per la quale Flaubert si ispira a un
fatto di cronaca, e che svolgerà un ruolo nella genesi di
Madame Bovary. In questo anno di entusiasmo e
inquietudine, Flaubert scopre nuovi maestri (Rabelais,
Montaigne) e negli ultimi mesi tenta una sintesi della
propria concezione del mondo: Agonies. Pensées
sceptiques [Agonie. Pensieri scettici], raccolta di brevi
testi, frammenti autobiografici, aforismi, in un tono
appassionato e violento.
Dal 1838 continua a frequentare il Collège Royal, ma
come allievo esterno. Scopre Les confessions [Le
confessioni] di Rousseau e tenta un bilancio esistenziale
nei Mémoires d’un fou [Memorie di un pazzo],
ricostruendo la propria storia di forzato della sensibilità in
un mondo «idiota»: è il limite estremo del suo febbrile
romanticismo e di una scrittura usata come strumento di
espressione personale.
Nel 1839, all’ultimo anno presso il Collège Royal,
viene espulso per insubordinazione. Prepara da esterno il
baccalauréat, e intanto si appassiona alla lettura delle
opere di Sade. Conseguito il diploma nel 1840, con
alcuni amici di famiglia compie un viaggio nei Pirenei e in
Corsica, durante il quale riempie diciannove quaderni di
appunti. A Marsiglia ha un intenso e indimenticabile
incontro d’amore con la figlia del padrone dell’albergo,
Eulalie Foucaud, che lo inizia al piacere sessuale. A Parigi
dal 1841, si iscrive alla Facoltà di diritto; suo padre ha
deciso per lui: farà il giudice o l’avvocato.
Dal 1842, pur continuando a frequentare l’università e
a preparare esami con «estremo disgusto», tutta la sua
attenzione si concentra sul lavoro letterario. Scrive il
lungo racconto Novembre [Novembre], in cui appare un
nuovo atteggiamento nei confronti della confessione
autobiografica: la narrazione comincia a essere concepita
come creazione d’arte, come questione di stile. E nel
1843 inizia il romanzo L’éducation sentimentale
[L’educazione sentimentale], con l’intenzione di osservare
l’esistenza propria e della sua generazione da un punto di
vista oggettivo, esterno, depurato dal lirismo esuberante
che gli appare ormai troppo legato a un’adolescenza
conclusa.
Nel 1844, rientrato a Rouen per le vacanze di Natale,
resta quasi ucciso da un violento attacco di epilessia che
cambia profondamente il corso della sua vita, e lo libera
dagli incubi di un’improbabile carriera forense. La
famiglia Flaubert si trasferisce in campagna, a Croisset, a
qualche chilometro da Rouen. Da questo momento la
villa di Croisset sarà la sua “tana”, dove ormai è libero di
d e d i c a r s i totalmente alla scrittura dell’Éducation
sentimentale.
L’anno successivo, nel corso di un viaggio in Italia, a
Genova, nella quadreria di palazzo Balbi, resta folgorato
da un quadro di Bruegel il Giovane, La tentazione di
sant’Antonio: una composizione complessa, brulicante di
personaggi, dettagli, toni, colori. Quel soggetto e quella
potente visione d’insieme diventeranno presto centrali nel
laboratorio di Flaubert.
Nel gennaio 1846 muore il padre, dopo pochi mesi la
sorella Caroline. La perdita del genitore, ma ancora di più
quella della sorella, gettano Gustave in uno stato di
profonda prostrazione. Nello stesso anno, a Parigi, inizia
una relazione intensa e tormentata con Louise Colet e
comincia a lavorare alla prima stesura della Tentation de
saint Antoine, documentandosi scrupolosamente
sull’epoca in cui si svolge la storia del suo santo – il IV
secolo, il periodo della decadenza alessandrina.
Da maggio ad agosto 1847 compie un viaggio in
Bretagna in compagnia dell’amico Maxime Du Camp;
insieme tengono un diario. Al ritorno, scrivono a quattro
mani Par les champs et par les grèves [Attraverso i campi
e lungo i greti], un “esercizio di stile” estenuante.
Durante la rivoluzione del febbraio 1848 è a Parigi. Le
conseguenze degli avvenimenti, a cui assiste con
sostanziale distacco e che farà rivivere nella seconda
versione dell’Éducation sentimentale, costituiscono per
Flaubert una conferma ulteriore del suo profondo
pessimismo: dietro i clamori e i cambiamenti apparenti,
la tragedia di una condizione esistenziale immodificabile.
Nel settembre 1849 conclude La tentation de saint
Antoine: l’opera è un quadro imponente, animato da una
grande varietà di toni stilistici, dal lirismo all’ironia, dal
grottesco all’erudizione, che “tiene” per la forza di un’idea
generale della composizione, di un punto di vista unitario
(l’eremita Flaubert) sullo spettacolo del mondo. La
tentation de saint Antoine rimarrà un cantiere aperto; ne
usciranno una seconda redazione nel 1856 e una terza,
definitiva, nel 1872.
Il 29 ottobre, sempre del 1849, Flaubert e Du Camp
partono per un viaggio in Oriente; si imbarcano a
Marsiglia, diretti ad Alessandria. Poi, a cavallo,
attraversano il deserto alla volta del Cairo. È il viaggio nel
favoloso Oriente sul quale Flaubert fantastica da sempre;
durerà quasi due anni, rimanendo indelebile nella sua
sensibilità.
Rientra in Francia nel 1851, precocemente invecchiato
e rafforzato nella sua generale concezione del mondo:
l’esperienza di un radicale “spaesamento” dal quotidiano
borghese provocato dalla repentina immersione negli
abissi della Storia, in culture lontane e diverse da quella
occidentale, dà una nuova consistenza alle sue intuizioni
filosofiche sulla solitudine dell’esistenza umana, sullo
sprofondare del presente negli abissi dell’atemporalità e
della materia, e alla convinzione che soltanto attraverso la
creazione artistica l’uomo può sfuggire al proprio destino
di soccombere al nulla. A settembre inizia il romanzo
Madame Bovary, uno scavo esasperante nelle dinamiche
quotidiane di una storia di ordinaria vita borghese: vi
lavorerà per quasi cinque anni nell’isolamento di Croisset,
concludendolo nell’aprile 1856.
Per disintossicarsi dalla sua storia “borghese”, riprende
il lavoro sulla Tentation de saint Antoine, e abbozza La
légende de saint Julien l’hospitalier [La leggenda di san
Giuliano ospitaliere], che scriverà vent’anni dopo.
Alla sua pubblicazione, prima su rivista e poi in
volume, Madame Bovary provoca scandalo per il crudo
realismo – Flaubert viene addirittura processato per
oltraggio alla morale pubblica e religiosa – ma è anche
un grande successo editoriale, e diventa un riferimento
obbligato nel dibattito in corso sulla questione del
realismo e dell’arte per l’arte.
Nel marzo 1857, Flaubert sta già pensando a un nuovo
progetto: «Voglio scrivere», annuncia a un’amica, «un
romanzo la cui azione si svolgerà tre secoli prima di
Cristo, perché sento il bisogno di uscire dal mondo
moderno in cui la mia penna si è intinta troppo a lungo e
che d’altra parte mi stanca rappresentare quanto mi
disgusta vedere». È Salammbô, cui Flaubert dedicherà
cinque anni di lavoro. Nell’aprile-giugno 1858, per
documentarsi sullo scenario del nuovo romanzo, compie
un viaggio in Algeria e in Tunisia. Rientrato a Croisset,
inizia la stesura del romanzo “cartaginese”, che conclude
nell’aprile 1862. Pubblicato a novembre, il romanzo
ottiene un grande successo di pubblico.
Nel 1864 inizia a lavorare alla seconda versione
dell’Éducation sentimentale. Con il consueto rigore
scientifico si documenta su ogni aspetto del periodo
storico (dal 1840 al 1869), dell’ambiente sociale (la
borghesia parigina, i ceti popolari), delle posizioni
politiche (dai socialisti ai conservatori) e dei luoghi in cui
si svolgerà il romanzo. È il tempo storico del mediocre
trionfo della vita borghese sulle aspirazioni di una
generazione che si è nutrita di illusioni romantiche; ma è
anche, per Flaubert, l’età della maturità, della
consapevolezza sempre maggiore della propria identità di
testimone separato, disincantato, padrone dei propri
strumenti creativi. Pubblicato nel novembre 1869,
L’éducation sentimentale sconcerta il pubblico, che non
ama veder raffigurare il proprio tempo con toni così
profondamente disperanti, e incontra l’aperta ostilità della
critica.
Gli avvenimenti del 1870-1871, la guerra franco-
prussiana, la disfatta, la Comune, coinvolgono Flaubert. I
prussiani occupano Croisset e alcuni ufficiali si installano
in casa Flaubert, dove l’“eremita” può rientrare solo
nell’aprile del 1871. Nel marzo 1872 muore la madre. In
casa con lui resta una nipote; i disastri economici del
marito di lei travolgeranno presto lo stesso Flaubert. A
luglio la terza versione della Tentation de saint Antoine è
conclusa: «È l’opera di tutta la mia vita». E subito
Flaubert si mette a lavorare a «un romanzo moderno [...]
che avrà la pretesa di essere comico». È Bouvard et
Pécuchet, una profonda e radicale negazione del mondo
moderno, dei suoi valori e dei suoi miti attraverso il
racconto delle vicende grottesche di due copisti che si
impegnano nello studio e nella verifica personale delle
scienze e delle arti, subendo le disastrose conseguenze di
ogni loro esperienza; il romanzo è anche lo sviluppo di
quel Dictionnaire des idées réçues [Dizionario dei luoghi
comuni] nel quale Flaubert ha raccolto nel corso degli
anni un repertorio delle sciocchezze umane.
Negli anni 1875-1877, nelle pause di Bouvard et
Pécuchet, scrive La légende de saint Julien l’hospitalier,
Un coeur simple [Un cuore semplice] e Hérodias
[Erodiade], che nel 1877 raccoglie in Trois contes [Tre
racconti]: un trittico prezioso, stilisticamente perfetto, che
riceve un’accoglienza entusiastica. Il parnassiano
Théodore de Banville saluta in Flaubert un «genio»; i
giovani scrittori – Maupassant, Huysmans, Mirbeau... –
acclamano in lui un maestro. Tuttavia, le difficoltà
economiche continuano a ossessionarlo. Nel 1879
Edmond de Goncourt e la principessa Mathilde cercano di
fargli ottenere un impiego come conservatore alla
Bibliothèque Mazarine. Per Flaubert è un’umiliazione.
Finisce per accettare una pensione di conservatore
onorario, senza obbligo di presenza.
L’8 maggio 1880 muore a Croisset, fulminato da
un’emorragia cerebrale.
SALAMMBÔ
Nauseato di Parigi, di Madame Bovary e del suo assurdo
processo, nel marzo 1857, neppure un mese dopo il
ritorno a Croisset, Flaubert è già immerso in un altro
progetto. Il nuovo romanzo non avrà niente a che fare
con la sfida “realistica” di Madame Bovary. Non solo si
svolgerà nel remoto e ignoto passato di Cartagine, ma ne
sarà profondamente diverso lo stile. Dopo le costrizioni
estenuanti di un soggetto volgare e quotidiano, Flaubert
torna a confrontarsi con le pulsioni più segrete e violente
della propria immaginazione, che lo accompagnano fin
dall’adolescenza e costituiscono una componente
fondamentale della sua poetica.
L’“idea” la deve a Polibio. Nel Libro I delle Storie ha
incontrato le pagine dedicate alla rivolta dei Mercenari
contro Cartagine, al termine della prima guerra punica,
nel secolo III a.C. Su quell’episodio, Polibio è l’unica fonte
antica, all’origine delle notizie degli storici successivi.
Prima di lui, il vuoto. Ma soprattutto è ignoto tutto ciò
che riguarda Cartagine e la civiltà punica. Flaubert si
immerge in ricerche bibliografiche, consulta volumi di
archeologia, testi di storia e di letteratura, riempie
quaderni di appunti. A novembre ha già abbozzato una
prima versione del primo capitolo di Chartage. La
protagonista non si chiama ancora Salammbô ma Hanna.
Continua ad accumulare letture, appunti. Hanna diventa
Phyrra, poi Salammbô. Cambia titolo: da Chartage a
Salammbô, roman cartaginois. Passa l’inverno a riscrivere
il primo capitolo, ad abbozzare il secondo; lavora
sull’impianto generale del romanzo, su singole
“sceneggiature”. I libri di archeologia e di storia non
bastano più. Ha bisogno di “sentire” fisicamente la
materia del romanzo. I ricordi del viaggio in Oriente
compiuto tra il 1849 e il 1851 cominciano ad
accompagnare le sue letture e le sue fantasie, a creare
colori e sensazioni. Nei mesi successivi, l’idea di tornare
in Oriente per documentarsi sui luoghi in cui si svolgerà
la vicenda, è sempre più forte. Il 12 aprile 1858 si
imbarca a Marsiglia. Attraverso l’Algeria, Tunisi, le rovine
di Utica (la base militare di Roma in Africa), si avvicina
lentamente a Cartagine. Giunto alla meta, si aggira per
quattro giorni fra le rovine della città punica e nei
dintorni. Verifica sul posto le informazioni che ha raccolto
dai libri, si lascia travolgere dall’immaginazione, respira a
pieni polmoni un grande momento di libertà. Poi il
ritorno: Biserta, ancora Tunisi, Costantina... Alla fine di
maggio si imbarca di nuovo per Marsiglia, e il 6 giugno è
a Parigi. Rientrato a Croisset, riordina gli appunti di cui
ha riempito numerosi quaderni. Ora si sente pronto.
Consapevole delle difficoltà dell’impresa («A me, potenze
dell’emozione plastica! Resurrezione del passato, a me!»)
si mette al lavoro.
Il progetto è dunque la resurrezione “plastica” di
Cartagine e della sua perduta civiltà, sottraendole all’oblio
con la forza dello stile. L’impresa è inedita, e il metodo
che Flaubert intende seguire è del tutto diverso rispetto a
q u el l o rigorosamente applicato in Madame Bovary:
mentre nel romanzo “borghese” si è impegnato a scavare
con tenacia il reale quotidiano con l’obiettivo della
ricreazione impersonale, depurata di ogni esuberanza
lirica, in Salammbô si abbandonerà liberamente a ogni
eccesso, con lo scopo di oggettivare in creazione d’arte le
potenti suggestioni della sua immaginazione. La guerra
tra Cartagine e i Mercenari ribelli, l’impossibile storia
d’amore di Salammbô e Mâtho, saranno lo scenario di
una discesa allucinata nell’inferno degli ancestrali istinti
umani, liberati in tutta la loro forza distruttiva. È per
Flaubert una grande catarsi, cui si abbandona senza
riserve, eccitato, stravolto. Le condizioni del manoscritto,
con le sue molteplici versioni, riscritture, furiose
cancellature, sono la testimonianza drammatica di una
lotta incessante con le parole. La vera questione, ancora
una volta, è lo stile: Cartagine può risorgere soltanto in
virtù della forza stilistica del suo evocatore, perché la
faccia vivere di vita propria e duratura, come creazione
d’arte.
Ma cosa rappresenta Cartagine? Perché Flaubert ha
trovato nella rivolta dei Mercenari contro la Repubblica il
nucleo tematico e narrativo del suo romanzo punico? Si è
già detto del carattere sostanzialmente inedito della
vicenda: dopo Madame Bovary, finalmente un soggetto
libero da legami esterni, pressoché ignoto, da indagare in
completa libertà. Nel racconto di Polibio, la guerra tra i
Mercenari e Cartagine ha tutte le caratteristiche di una
guerra civile, fratricida. È lo scenario ideale per una
narrazione che attraversi la Storia in tutte le sue
stratificazioni, dal passato remoto al presente. In effetti lo
scenario “barbaro” di Salammbô ha molto a che fare con
la Francia del XIX secolo, alla vigilia dell’esplosione
rivoluzionaria della Comune di Parigi. La rivolta dei
Mercenari contro Cartagine è una guerra di classe tra
schiavi e padroni, tra operai e Capitale, che inizia in
seguito alla rottura di un contratto. L’armatore Amilcare è
un industriale moderno; le sue strategie militari
rispondono a logiche economiche; il suo palazzo è
organizzato come una grande fabbrica; usa la religione
come strumento di potere. E l’«elepoli» non è forse una
possente metafora del macchinismo industriale? E i
Mercenari, i Barbari, non minacciano forse la civiltà e
l’ordine esattamente come le «classi pericolose»? Attento
alle tensioni del proprio tempo, capace di percepirle,
Flaubert le vive e le accoglie nel proprio immaginario,
nell’inesauribile caleidoscopio delle proprie “tentazioni”.
Questa presenza inquietante della Storia contemporanea
dietro una scenografia cartaginese costituisce
indubbiamente un elemento formidabile di ambiguità
poetica, efficace sia nella fase della creazione che in
quella della lettura.
Cartagine è poi l’Oriente, il teatro dei misteri essenziali
della vita e della morte, della sessualità, dell’immaginario
fisico e metafisico di Flaubert fin dall’adolescenza, lo
scenario sempre presente della Tentation de saint
Antoine. Ma soprattutto l’Oriente è l’universo di tutti gli
universi possibili, la Babele dei linguaggi e delle culture,
della ricerca infinita e delle grandi sintesi filosofiche e
religiose. A un presente reso intollerabile anche dalla
volgarità e dalla mediocrità borghese Flaubert intende
opporre un radicale spaesamento in una civiltà “altra”,
sentendosi libero di penetrare regioni ignote e proibite
della condizione umana.
Su questo immenso e complesso scenario, Cartagine
emerge dal nulla come in un acquerello di Turner, dura e
compatta, dorata, purpurea, sfavillante di suoni e
brulicante di forme, con i colori di Delacroix. È lo stile, la
capacità di vedere e di creare, il vero protagonista di
Salammbô. All’interno di una struttura narrativa che vive
di grandi opposizioni simboliche, conflittuali e dinamiche
(il banchetto dei Mercenari all’inizio del romanzo e lo
speculare banchetto dei Cartaginesi alla fine, Salammbô e
Matho simboli della Luna e del Sole, della notte e del
giorno, del femminile e del maschile, le folle dei Barbari e
dei Cartaginesi), tutto è risolto in rappresentazione. I
paesaggi, le grandiose scene di massa, i costumi, i minuti
frammenti di vita quotidiana, i dialoghi, le scene atroci,
sono concrezioni di materia oggettivata. Tutto è come
pietrificato, definitivo, immobile. I colori sono crudi,
violenti fino all’eccesso. Tutto è osservazione a distanza,
o comunque separata. Lo scenario di Salammbô è
sospeso nel vuoto, circondato dal vuoto, immerso in un
grande silenzio. Eppure quei paesaggi pietrificati, quelle
masse di armati, quelle scene di vita quotidiana strappate
al vuoto e al nulla sono dotate di movimento. A
muoversi, con ritmi e velocità diversi, ora con lentezza
estenuante ora con accelerazioni improvvise, è il punto di
osservazione. Il movimento nasce dall’incontro tra la
visione prospettica e l’oggetto, tra la descrizione e
l’azione.
Le parole sono oggetti, concrezioni da sfiorare, da
afferrare. Le frasi devono essere cesellate. I tempi dei
verbi svolgono un ruolo essenziale nel rendere eterna
un’azione (l’imperfetto) o nel bloccare un movimento
(l’alternarsi di imperfetto e perfetto). L’uso ricorrente di
congiunzioni e di avverbi crea effetti di accumulazione, di
ampliamento della visione o di accelerazione del
movimento. I termini tecnici, scrupolosamente ricercati
da Flaubert nei suoi libri di archeologia, non sono usati
tanto per restituire “colore locale” quanto piuttosto per
rafforzare effetti di “spaesamento”. Ne nasce quella prosa
«dura come il bronzo, lucente come l’oro» – l’espressione
è di Zola – che sarà ammirata da Gautier e dai
parnassiani. Quella prosa costruita come poesia,
compatta e lucente, duratura, che sfida la morte, non è
tuttavia il prodotto di astratti esercizi di stile. In
Salammbô Flaubert persegue anzitutto quella ricerca della
verità che ha iniziato nei primi scritti autobiografici. Con
grande coraggio, talvolta con feroce piacere, il chirurgo
che aveva dissezionato il cuore di Madame Bovary in
punta di bisturi, scende senza alcuna protezione nei
sotterranei sulfurei della sessualità, della violenza, della
crudeltà. Presenza di Sade? Certamente. Ma anche
elaborazione personale di uno scrittore che non ha mai
smesso di ricercare le ragioni profonde della propria
scrittura, e che si mette costantemente in gioco.
LANFRANCO BINNI
Salammbô
I
Il festino
Dodici ore dopo, dei Mercenari non restava altro che una
massa di feriti, morti e agonizzanti.
Amilcare, uscito all’improvviso dal fondo della gola,
era sceso lungo il pendio occidentale, dalla parte di
Ippozarito, e poiché in quel luogo lo spazio era maggiore
aveva fatto in modo di attirarvi i Barbari. Narr’Havas li
aveva circondati con la cavalleria; intanto il suffeta li
respingeva, li faceva a pezzi; inoltre erano sconfitti in
partenza a causa della perdita dello zaimf; anche quelli
che non se ne erano preoccupati avevano provato un
senso di angoscia e di indebolimento. Amilcare, che non
riponeva il suo orgoglio nel fatto di occupare il campo di
battaglia, si era ritirato un po’ più lontano, sulla sinistra,
su alcune alture da cui li dominava.
Si riconosceva la forma degli accampamenti dalle
palizzate inclinate. Un lungo ammasso di ceneri nere
fumava sull’insediamento dei Libici; il terreno sconvolto
era ondulato come il mare, e le tende, con la tela a
brandelli, sembravano vagamente navi naufragate sugli
scogli. Corazze, forconi, trombe, pezzi di legno, di ferro e
di bronzo, grano, paglia, indumenti, erano sparsi in
mezzo ai cadaveri; qua e là una falarica prossima a
spegnersi bruciava su una catasta di bagagli; in certi
punti il terreno spariva sotto gli scudi; carogne di cavalli
si susseguivano come serie di monticelli; si scorgevano
gambe, sandali, braccia, cotte di maglia e teste nei loro
elmi, trattenute dal sottogola, che ruzzolavano come
bocce; capigliature pendevano dai rovi; elefanti, col
ventre squarciato, rantolavano riversi con le loro torri in
un lago di sangue; si camminava su cose viscide e
c’erano pozze di fango, sebbene non fosse piovuto.
Quella confusione di cadaveri occupava, dall’alto in
basso, l’intera montagna.
I sopravvissuti non si muovevano più dei morti.
Accovacciati in gruppi ineguali, si guardavano atterriti,
senza parlare.
In fondo a una lunga prateria, il lago di Ippozarito
luccicava nel tramonto. Sulla destra, un gruppo di case
bianche spuntava da una cinta muraria; più in là si
stendeva il mare sconfinato; e, col mento appoggiato alla
mano, i Barbari sospiravano pensando ai loro paesi. Una
nube di polvere grigia ricadeva.
Soffiò il vento della sera; allora tutti i petti si
dilatarono; e a mano a mano che l’aria diventava più
fresca, si videro gli insetti abbandonare i morti che si
raffreddavano, e correre sulla sabbia calda. Sulla cima di
grandi massi, corvi immobili scrutavano gli agonizzanti.
Quando fu scesa la notte, cani dal pelo giallo, quegli
animali immondi che seguivano gli eserciti, giunsero
silenziosamente in mezzo ai Barbari. Dapprima leccarono
i grumi di sangue sui moncherini ancora tiepidi; ma ben
presto si misero a divorare i cadaveri, azzannandoli al
ventre.
I fuggitivi ricomparivano uno dopo l’altro, come
ombre; anche le donne si arrischiarono a tornare; ce
n’erano ancora, soprattutto tra i Libici, malgrado l’orribile
strage che i Numidi ne avevano fatto.
Alcuni accendevano dei pezzi di corda, e se ne
servivano come torce. Altri, incrociate delle picche, vi
caricavano sopra dei cadaveri per trasportarli altrove.
Erano stesi sul dorso in lunghe file, con la bocca
aperta, la lancia accanto; oppure erano ammucchiati alla
rinfusa e spesso, per trovare chi mancava, bisognava
scavare nel mucchio. Poi si faceva passare lentamente la
torcia sui loro volti. Armi orribili avevano prodotto ferite
complicate. Brandelli verdastri pendevano dalle fronti;
erano tagliuzzati, schiacciati fino al midollo, illividiti dagli
strangolamenti, squarciati dalle zanne degli elefanti.
Benché fossero morti quasi nello stesso momento,
c’erano differenze nella decomposizione. Gli uomini del
Nord erano turgidi di un gonfiore livido, mentre gli
Africani, più magri, sembravano affumicati e già si
disseccavano. I Mercenari si riconoscevano dai tatuaggi
sulle mani: i vecchi soldati di Antioco avevano uno
sparviero; quelli che avevano prestato servizio in Egitto,
una testa di cinocefalo; chi era stato presso i principi
dell’Asia, un’ascia, una melograna, un martello; chi aveva
servito le repubbliche greche, il profilo di una cittadella o
il nome di un arconte; e ce n’erano alcuni le cui braccia
erano interamente coperte da tutti questi simboli,
moltiplicati, che si confondevano con cicatrici e nuove
ferite.
Per gli uomini di razza latina, i Sanniti, gli Etruschi, i
Campani e i Bruzi, furono eretti quattro grandi roghi.
I Greci scavarono fosse con la punta delle spade. Gli
Spartani si tolsero i mantelli rossi e ne avvolsero i morti;
gli Ateniesi li stendevano col viso rivolto a oriente; i
Cantabri li seppellivano sotto un mucchio di sassi; i
Nasamoni1 li legavano piegati in due, con strisce di
cuoio, e i Garamanti andarono a seppellirli sulla spiaggia,
perché fossero bagnati dai flutti in eterno. Ma i Latini
erano desolati di non poter raccogliere le ceneri nelle
urne; i Nomadi rimpiangevano il calore della sabbia che
mummifica i corpi, e i Celti, tre pietre grezze, sotto un
cielo piovoso, in fondo a un golfo pieno di isolotti.
Si alzavano lamenti, seguiti da lunghi silenzi. Lo
facevano per costringere le anime a ritornare. Poi
ricominciava il clamore, a intervalli regolari, con
ostinazione.
Ci si scusava coi morti di non poterli onorare come
prescrivevano i riti: perché a causa di questa privazione
avrebbero dovuto errare per periodi infiniti attraverso
ogni sorta di situazioni e di metamorfosi; venivano
chiamati per nome, veniva chiesto loro cosa
desiderassero; alcuni li coprivano di ingiurie per essersi
lasciati vincere.
Il bagliore dei grandi roghi faceva apparire ancora più
pallide le figure esangui, riverse qua e là tra resti di
armature; e le lacrime suscitavano le lacrime, i singhiozzi
si facevano più acuti, i riconoscimenti e gli abbracci più
frenetici. Le donne si stendevano sui cadaveri, bocca
contro bocca, fronte contro fronte; bisognava batterle
perché se ne staccassero quando si gettava la terra. C’era
chi si anneriva le guance, chi si tagliava i capelli, chi si
toglieva del sangue e lo gettava nelle fosse; chi si
procurava ferite simili a quelle che sfiguravano i morti.
Tra il rumore dei cimbali scoppiavano ruggiti. Qualcuno
si strappava gli amuleti, ci sputava sopra. I moribondi si
rotolavano nel fango insanguinato, mordendo
rabbiosamente i pugni mutilati; e quarantatré Sanniti,
un’intera primavera sacra,2 si sgozzarono tra loro come
gladiatori. Presto mancò la legna per i roghi, le fiamme si
spensero, le fosse erano piene; e, stanchi di aver gridato,
esausti, vacillanti, si addormentarono accanto ai loro
fratelli morti; pieni di inquietudini quelli che volevano
vivere, e gli altri col desiderio di non svegliarsi più.
Alle prime luci dell’alba, apparvero al limite del campo
dei Barbari dei soldati che sfilavano con gli elmi sulle
punte delle picche; salutando i Mercenari, chiesero se
dovevano riferire qualcosa nei loro paesi.
Altri si avvicinarono, e i Barbari riconobbero alcuni dei
loro vecchi compagni.
Il suffeta aveva proposto a tutti i prigionieri di entrare
nel suo esercito. Molti avevano intrepidamente rifiutato;
deciso a non nutrirli ma neppure a lasciarli nelle mani del
Gran Consiglio, li aveva mandati via, con l’ordine di non
combattere mai più contro Cartagine. Quanto a coloro
che la paura dei supplizi rendeva docili, avevano ricevuto
le armi tolte al nemico; e ora si presentavano ai vinti, più
per orgoglio e curiosità che per convincerli a seguire il
loro esempio.
Prima parlarono del buon trattamento riservato loro
dal suffeta; i Barbari li ascoltavano con invidia, pur
disprezzandoli. Poi, alle prime parole di rimprovero, i
codardi si infuriarono; gli mostravano da lontano le
spade che erano state le loro, le loro corazze, e
insultandoli li incitavano ad andarsele a prendere. I
Barbari raccolsero dei sassi; tutti fuggirono; e sulla cima
della montagna si videro soltanto le punte delle lance che
spuntavano dalle palizzate.
Allora un dolore ancora più forte dell’umiliazione della
sconfitta oppresse i Barbari. Pensavano all’inanità del loro
coraggio, con gli occhi fissi e digrignando i denti.
Venne a tutti la stessa idea. Si precipitarono urlando
sui prigionieri cartaginesi. Per puro caso i soldati del
suffeta non erano riusciti a trovarli, e poiché si erano
ritirati dal campo di battaglia i prigionieri si trovavano
ancora nella fossa profonda.
Li allinearono per terra in un luogo pianeggiante. Delle
sentinelle formarono un cerchio intorno a loro, e si
lasciarono entrare le donne, in gruppi di trenta o
quaranta per volta. Volendo approfittare del poco tempo
loro concesso, correvano dall’uno all’altro, incerte,
palpitanti; poi, chine su quei poveri corpi, li colpivano
con tutta la forza delle loro braccia, come le lavandaie col
bucato; urlando i nomi dei loro sposi, li dilaniavano con
le unghie; e trafissero loro gli occhi con gli spilloni dei
capelli. Poi vennero gli uomini, e li suppliziavano
cominciando dai piedi, che tagliavano alle caviglie, fino
alla fronte, dalla quale strappavano corone di pelle per
poi mettersele in testa. I Mangiatori-di-cose-immonde
furono atroci nella loro immaginazione. Invelenivano le
ferite versandovi polvere, aceto e frammenti di ceramica;
altri erano in attesa dietro di loro; il sangue colava e loro
godevano, come vendemmiatori intorno ai tini fumanti.
Intanto Mâtho era seduto per terra, nello stesso luogo
dove si trovava alla fine della battaglia, i gomiti sulle
ginocchia, le tempie tra le mani; non vedeva nulla, non
udiva nulla, non pensava più.
Agli urli di gioia della folla, rialzò la testa. Davanti a
lui, un lembo di tela appeso a una pertica pendeva fino a
terra coprendo confusamente delle ceste, dei tappeti, una
pelle di leone. Riconobbe la sua tenda; e i suoi occhi
fissavano il suolo come se la figlia di Amilcare,
scomparendo, fosse sprofondata sottoterra.
La tela lacerata sbatteva al vento; talvolta i suoi lunghi
brandelli gli passavano davanti alla bocca, e così notò un
segno rosso, simile all’impronta di una mano. Era la
mano di Narr’Havas, il segno della loro alleanza. Allora
Mâtho si alzò. Prese un tizzone ancora fumante e lo gettò
sui resti della tenda, sdegnosamente. Poi con la punta del
coturno spingeva verso la fiamma gli oggetti meno vicini,
perché non restasse nulla.
A un tratto, senza che si potesse capire da dove
veniva, apparve Spendio.
L’ex schiavo si era legato sulla coscia due spezzoni di
lancia; zoppicava penosamente e si lamentava.
«Togliti questa roba», gli disse Mâtho. «So che sei un
valoroso!».
Era talmente oppresso dall’ingiustizia degli dèi che non
aveva più forza per indignarsi con gli uomini.
Spendio gli fece un cenno, e lo condusse nella cavità di
un poggio dove stavano nascosti Zarxas e Autarito.
Anche loro, come lo schiavo, erano fuggiti, l’uno
malgrado la sua crudeltà, l’altro malgrado il suo valore.
Ma chi avrebbe potuto aspettarsi, dicevano, il tradimento
di Narr’Havas, l’incendio dei Libici, la perdita dello zaimf,
l’attacco improvviso di Amilcare, e soprattutto le sue
manovre che li avevano costretti a ritornare
nell’avvallamento della montagna sotto i colpi immediati
dei Cartaginesi? Spendio non confessava il suo terrore, e
si ostinava a sostenere che aveva la gamba rotta.
Finalmente i tre capi e lo shalishim si chiesero quale
decisione convenisse prendere.
Amilcare chiudeva la strada di Cartagine; erano presi
in mezzo tra i suoi soldati e le province di Narr’Havas; le
città tirie si sarebbero unite ai vincitori; essi sarebbero
stati spinti sul litorale, e tutte quelle forze riunite li
avrebbero schiacciati. Ecco cosa sarebbe accaduto
immancabilmente.
Non c’era un solo modo di evitare la guerra. Dunque
dovevano proseguirla a oltranza. Ma come far capire la
necessità di una battaglia interminabile a quegli uomini
scoraggiati e con le ferite ancora sanguinanti?
«Me ne occupo io!», disse Spendio.
Due ore dopo, un uomo che arrivava da Ippozarito salì
di corsa la montagna. Agitava delle tavolette con le
braccia alzate, e siccome urlava a squarciagola i Barbari
gli si fecero intorno.
Quelle tavolette erano state spedite dai soldati greci
della Sardegna. Raccomandavano ai loro compagni
d’Africa di sorvegliare Giscone e gli altri prigionieri. Un
mercante di Samo, un certo Ipponatte, di ritorno da
Cartagine, li aveva informati di un complotto organizzato
per farli evadere, e si esortavano i Barbari a stare con gli
occhi aperti; la Repubblica era potente.
Lo stratagemma di Spendio non funzionò subito come
aveva sperato. La certezza di un nuovo pericolo, invece di
suscitare furore sollevò dei timori; e ricordandosi
dell’avvertimento che Amilcare aveva appena gettato in
mezzo a loro, ora si aspettavano qualcosa di imprevisto,
terribile. La notte passò in una grande angoscia; molti
addirittura si sbarazzarono delle armi per impietosire il
suffeta quando si sarebbe presentato.
Ma l’indomani, alla terza vigilia, apparve un secondo
corriere ancora più affannato e nero di polvere. Il Greco
gli strappò di mano un rotolo di papiro coperto di
scrittura fenicia. Vi si supplicavano i Mercenari di non
scoraggiarsi; i prodi di Tunisi stavano arrivando con
grandi rinforzi.
Spendio lesse subito la lettera tre volte di seguito; e,
seduto sulle spalle di due Cappadoci, si faceva trasportare
di qua e di là, e la rileggeva. Per sette ore arringò la folla.
Ricordava ai Mercenari le promesse del Gran
Consiglio; agli Africani, le crudeltà degli intendenti; a
tutti i Barbari, l’ingiustizia di Cartagine. La mitezza del
suffeta era soltanto una trappola. Quelli che si
arrendessero, sarebbero venduti come schiavi; i vinti
perirebbero tra i supplizi. Quanto a fuggire, per quale
via? Non un popolo li avrebbe accolti. Perseverando
invece nei loro sforzi, avrebbero ottenuto insieme la
libertà, la vendetta e il denaro! E non avrebbero atteso a
lungo, perché il popolo di Tunisi, la Libia intera si
precipitava in loro aiuto. E mostrava il papiro srotolato:
«Guardate! Leggete! Ecco le loro promesse! Non sto
mentendo».
I cani erravano qua e là, col muso nero tinto di rosso.
Il sole ardente scaldava le teste nude. Un odore
nauseabondo esalava dai cadaveri sepolti malamente.
Alcuni sporgevano da terra fino al ventre. Spendio li
chiamava a testimoni di quello che diceva; poi alzava i
pugni in direzione di Amilcare.
Del resto Mâtho lo osservava e, per coprire la propria
viltà, Spendio ostentava una collera dalla quale a poco a
poco veniva preso lui stesso. Offrendosi agli dèi, copriva
di maledizioni i Cartaginesi. Il supplizio dei prigionieri era
un gioco da ragazzi. Perché mai risparmiarli e continuare
a trascinarsi dietro quell’inutile mandria? «No! Bisogna
farla finita! I loro progetti sono noti! Uno solo di loro può
provocare la nostra perdita! Nessuna pietà!
Riconosceremo i migliori dalla velocità delle gambe e
dalla forza dei colpi».
Allora tornarono addosso ai prigionieri. Molti
rantolavano ancora; li finirono affondandogli un tallone
in gola, oppure pugnalandoli con la punta di un
giavellotto.
Poi pensarono a Giscone. Non lo vedevano da nessuna
parte; li prese l’inquietudine. Volevano convincersi della
sua morte, e nello stesso tempo parteciparvi. Finalmente
tre pastori sanniti lo scovarono a quindici passi dal luogo
dove prima si trovava la tenda di Mâtho. Lo riconobbero
dalla lunga barba, e chiamarono gli altri.
Steso sul dorso, le braccia lungo i fianchi, le ginocchia
serrate, aveva l’aspetto di un morto preparato per la
sepoltura. Tuttavia le sue magre costole si abbassavano e
risalivano, e gli occhi, spalancati in mezzo al volto
pallidissimo, avevano uno sguardo fisso e insopportabile.
I Barbari lo osservavano con grande stupore. Da
quando viveva nella fossa, l’avevano quasi dimenticato;
turbati da antichi ricordi, si tenevano a distanza e non
osavano alzare la mano su di lui.
Ma quelli che erano dietro mormoravano e si
accalcavano, finché un Garamante attraversò la folla;
impugnava una falce; tutti capirono cosa voleva fare; i
loro volti avvamparono e, sia pure vergognandosi,
urlavano:
«Sì! Sì!».
L’uomo col ferro ricurvo si avvicinò a Giscone. Gli
afferrò la testa, se la appoggiò su un ginocchio, e la segò
con pochi colpi veloci, finché cadde; due grossi getti di
sangue scavarono un buco nella polvere. Zarxas la afferrò
con un balzo, e più leggero di un leopardo corse verso i
Cartaginesi.
Poi, salito a due terzi della montagna, tirò fuori dalla
veste la testa di Giscone tenendola per la barba, roteò più
volte le braccia rapidamente, e la massa, finalmente
lanciata, descrisse una lunga parabola e scomparve dietro
il trinceramento punico.
Poco dopo si alzarono sopra la palizzata due stendardi
incrociati, segno convenuto per chiedere la restituzione
dei cadaveri.
Allora quattro araldi, scelti per l’ampiezza del torace,
percorsero il terrapieno con grandi trombe e, parlando
attraverso i tubi di bronzo, dichiararono che ormai tra i
Cartaginesi e i Barbari non c’era più fede, né pietà, né
dèi, e che respingevano preliminarmente ogni trattativa,
e che i messi sarebbero stati rimandati indietro con le
mani mozzate.
Subito dopo, Spendio fu inviato a Ippozarito per
chiedere viveri; la città tiria ne inviò quella sera stessa.
Mangiarono voracemente. Poi, quando si furono
ritemprati, raccolsero in fretta i resti dei loro bagagli e le
armi spezzate; le donne si riunirono al centro, e senza
curarsi dei feriti che piangevano dietro di loro, partirono
lungo il litorale, a passi veloci, come un branco di lupi
che si allontani.
Marciavano su Ippozarito, decisi a prenderla, perché
avevano bisogno di una città.
Amilcare, scorgendoli da lontano, ebbe un attimo di
sconforto, malgrado l’orgoglio che provava vedendoseli
fuggire davanti. Sarebbe stato necessario attaccarli subito
con truppe fresche. Un’altra giornata così, e la guerra
sarebbe finita! Se invece passava del tempo, sarebbero
ritornati più forti; le città tirie si sarebbero unite a loro; la
sua clemenza verso i vinti non era servita a nulla. Decise
che d’ora in poi sarebbe stato spietato.
Quella sera stessa inviò al Gran Consiglio un
dromedario carico di braccialetti tolti ai morti e, con
minacce orribili, ordinò che gli mandassero un altro
esercito.
Tutti, da molto tempo, lo credevano perduto; così, alla
notizia della sua vittoria, provarono uno stupore che
rasentava il terrore. Il ritorno dello zaimf, vagamente
preannunciato, completava la meraviglia. Così ora gli dèi
e la forza di Cartagine sembravano favorire il suffeta.
Nessuno dei suoi nemici osò avanzare una lamentela o
una recriminazione. Per l’entusiasmo degli uni e la
pusillanimità degli altri, un esercito di cinquemila uomini
fu pronto prima della scadenza stabilita.
Raggiunse rapidamente Utica per coprire la
retroguardia del suffeta, mentre tremila uomini tra i più
valorosi salirono sulle navi che li avrebbero sbarcati a
Ippozarito, da dove avrebbero respinto i Barbari.
Annone ne aveva accettato il comando; ma affidò
l’esercito al suo luogotenente Magdassan, per guidare
personalmente le truppe da sbarco, non potendo
sopportare gli scossoni della lettiga. La sua malattia gli
aveva corroso le labbra e le narici, scavandogli in mezzo
alla faccia un grande buco; gli si vedeva il fondo della
gola a una distanza di dieci passi, e lui sapeva di essere
così ripugnante che si metteva, come una donna, un velo
sulla testa.
Ippozarito non ascoltò le sue intimazioni, e neppure
quelle dei Barbari; ma ogni mattina gli abitanti calavano a
costoro dei canestri pieni di viveri e, gridando dall’alto
delle torri, si scusavano di non poter fare di più per la
Repubblica, e li scongiuravano di allontanarsi. Le stesse
rimostranze le rivolgevano per mezzo di segnali ai
Cartaginesi che stazionavano in mare.
Annone si contentava di bloccare il porto senza
rischiare un attacco. Tuttavia convinse i giudici di
Ippozarito ad accogliere trecento soldati. Poi andò verso
il Capo dell’Uva e fece un lungo giro per accerchiare i
Barbari, operazione inopportuna e anche pericolosa. La
sua gelosia gli impediva di andare in aiuto del suffeta;
fermava le sue spie, ostacolava tutti i suoi piani,
comprometteva l’impresa. Alla fine Amilcare scrisse al
Gran Consiglio di levarglielo di torno, e Annone tornò a
Cartagine furibondo per la viltà degli Anziani e la follia
del suo collega. Dunque, dopo tante speranze, ci si
ritrovava in una situazione peggiore di prima; ma si
cercava di non pensarci e di non parlarne neppure.
Come se non bastasse, si venne a sapere che i
Mercenari della Sardegna avevano crocifisso il loro
generale, si erano impadroniti delle piazzeforti e avevano
sgozzato dappertutto gli uomini di razza cananea. Il
popolo romano minacciò la Repubblica di aprire
immediatamente le ostilità se non pagava milleduecento
talenti e non cedeva l’intera isola della Sardegna. Aveva
accettato l’alleanza dei Barbari, e inviò loro delle chiatte
cariche di farina e carne secca. I Cartaginesi le
inseguirono, catturando cinquecento uomini; ma tre
giorni dopo, una flotta proveniente dalla Bisacena, che
portava viveri a Cartagine, affondò durante una
tempesta. Evidentemente gli dèi erano contro Cartagine.
Allora i cittadini di Ippozarito, col pretesto di un
allarme, fecero salire sulle mura i trecento uomini di
Annone; poi, giungendo improvvisamente alle loro
spalle, li afferrarono per le gambe e li gettarono giù dai
bastioni. I pochi che non erano morti furono inseguiti e
finirono annegati in mare.
Anche Utica sopportava male i soldati, perché
Magdassan aveva fatto come Annone, e secondo i suoi
ordini circondava la città, sordo alle preghiere di
Amilcare. A costoro gli Uticensi dettero da bere del vino
misto a mandragora, poi li sgozzarono nel sonno.
Contemporaneamente arrivarono i Barbari; Magdassan
fuggì, le porte si aprirono, e da quel momento le due
città tirie dimostrarono ai loro nuovi amici una tenace
devozione, e ai loro antichi alleati un odio irrefrenabile.
Questo abbandono della causa punica era un
ammonimento, un esempio. Le speranze di liberazione si
risvegliarono. Certe popolazioni ancora incerte non
esitarono più. Tutto stava crollando. Il suffeta lo venne a
sapere, e ormai non aspettava più nessun aiuto! Era
perduto, senza scampo.
Subito congedò Narr’Havas, che doveva proteggere le
frontiere del suo regno. Quanto a lui, decise di tornare a
Cartagine per prendervi nuovi soldati e ricominciare la
guerra.
I Barbari insediati a Ippozarito videro il suo esercito
mentre scendeva la montagna.
Dove andavano i Cartaginesi? Senza dubbio era la
fame a spingerli; e, impazziti per le sofferenze, malgrado
la loro debolezza venivano a dare battaglia. Ma poi
svoltarono a destra: fuggivano. Ora si potevano
raggiungere, e fare a pezzi. I Barbari si lanciarono al loro
inseguimento.
I Cartaginesi furono fermati dal fiume. Era in piena, e
il vento dell’ovest non aveva soffiato. Gli uni lo passarono
a nuoto, gli altri sugli scudi. Si rimisero in marcia. Scese
la notte. Non si videro più.
I Barbari non si fermarono; risalirono il fiume, alla
ricerca di un passaggio più stretto. La gente di Tunisi
accorse trascinando quella di Utica. A ogni macchia
cresceva il loro numero; e i Cartaginesi, sdraiandosi a
terra, udivano rimbombare i loro passi nelle tenebre. Di
tanto in tanto, per farli rallentare, Barca faceva lanciare
indietro scariche di frecce; molti rimasero uccisi. Quando
sorse il sole, si trovarono tra le montagne dell’Ariace,
dove la strada fa un gomito.
Allora Mâtho, che procedeva in testa, credette di
scorgere all’orizzonte qualcosa di verde sulla cima di
un’altura. Poi il terreno si abbassò e apparvero obelischi,
cupole, case! Era Cartagine. Si appoggiò a un albero per
non cadere, tanto il suo cuore batteva veloce.
Pensava a tutto quello che era accaduto nella sua
esistenza dall’ultima volta che vi era passato! Era una
sorpresa infinita, che lo stordiva. Poi l’idea di rivedere
Salammbô lo riempì di gioia. Ricordò le ragioni che
aveva di esecrarla; le allontanò in fretta. Fremente,
concentrando lo sguardo, scrutava oltre il tempio di
Eshmun l’alta terrazza di un palazzo, al di sopra delle
palme; un sorriso estatico gli illuminava il volto, come
raggiunto da una grande luce; apriva le braccia, mandava
baci nel vento e mormorava: «Vieni! Vieni!»; un sospiro
gli gonfiò il petto, e due lacrime, lunghe come perle, gli
caddero sulla barba.
«Chi ti trattiene!», esclamò Spendio. «Affrettati! In
marcia! Il suffeta ci sfugge! Ma le tue ginocchia vacillano
e tu mi guardi come un ubriaco!».
Fremeva d’impazienza; spingeva Mâtho; e,
ammiccando con gli occhi, come all’avvicinarsi di una
meta a lungo sognata:
«Ah! Ci siamo! Eccoci! Li ho in pugno!».
Sembrava così convinto e trionfante che Mâtho, scosso
dal suo torpore, si sentì trascinare. Quelle parole gli
giungevano nel momento del massimo sconforto,
incitavano la disperazione alla vendetta, indicavano uno
sfogo alla sua collera. Saltò su uno dei cammelli delle
salmerie, gli strappò la cavezza; con la lunga corda
colpiva i ritardatari con tutta la sua forza; e correva a
destra e a sinistra della retroguardia, come un cane che
spinge avanti il gregge.
Al tuonare della sua voce, le file si serrarono; perfino
gli zoppi affrettarono il passo; a metà dell’istmo
l’intervallo diminuì. I primi Barbari marciavano nella
polvere dei Cartaginesi. I due eserciti si avvicinavano,
stavano per entrare in contatto. Ma la porta di Malqua, la
porta di Tagaste e la grande porta di Khamon
spalancarono i battenti. Il quadrato punico si divise; tre
colonne sprofondarono nelle porte, tumultuosamente,
sotto i portici. Presto però la massa, troppo accalcata,
non riuscì più ad avanzare; le picche si urtavano in aria, e
le frecce dei Barbari si schiantavano contro le mura.
Sulla soglia della porta di Khamon si vide Amilcare. Si
girò e gridò ai suoi uomini di fare spazio. Scese dal suo
cavallo, e, pungendolo sulla groppa con la spada, lo
lanciò verso i Barbari.
Era uno stallone oringio, nutrito con polpette di farina,
e che piegava le ginocchia per far salire il suo padrone.
Perché lo scacciava? Era forse un sacrificio?
Il grande cavallo galoppava in mezzo alle lance,
rovesciava gli uomini, e inciampando con le zampe nelle
proprie viscere cadeva, poi si rialzava con salti furiosi; e
mentre i Barbari si scostavano, cercavano di fermarlo o
guardavano sbalorditi, i Cartaginesi si erano ricongiunti;
entrarono; l’enorme porta si richiuse dietro di loro
rimbombando.
Non cedette. I Barbari vi si gettarono contro; e per
qualche minuto l’esercito, in tutta la sua lunghezza, fu
percorso da un’oscillazione che lentamente si smorzò e
poi cessò.
I Cartaginesi avevano appostato dei soldati
sull’acquedotto; cominciarono a lanciare pietre, palle,
travi. Spendio fece presente che non era il caso di
insistere. Andarono ad accamparsi più lontano, decisi ad
assediare Cartagine.
Intanto la notizia della guerra aveva superato i confini
dell’impero punico; e, dalle colonne d’Ercole fin oltre
Cirene, i pastori ne fantasticavano custodendo le greggi,
e le carovane ne parlavano la notte, al chiarore delle
stelle. Esistevano uomini che osavano attaccare la grande
Cartagine, dominatrice dei mari, splendida come il sole e
terribile come un dio! Addirittura era corsa più volte la
voce della sua caduta; e tutti ci avevano creduto, perché
tutti la desideravano: le popolazioni sottomesse, i villaggi
tributari, le province alleate, le orde indipendenti, coloro
che la esecravano per la sua tirannia, o ne invidiavano la
potenza, o ne bramavano la ricchezza. I più coraggiosi si
erano presto uniti ai Mercenari. La disfatta del Macar
aveva fermato tutti gli altri. Poi avevano ripreso fiducia, a
poco a poco si erano fatti avanti, riavvicinati; e ora gli
uomini delle regioni orientali erano tra le dune di Clupea,
dall’altra parte del golfo. Appena videro i Barbari, si
mostrarono.
Non erano i Libici dei dintorni di Cartagine, che da
molto tempo costituivano la terza armata; erano i nomadi
dell’altopiano di Barca, i banditi del Capo Fisco e del
promontorio di Derna, quelli del Fezzan e della
Marmarica. Avevano attraversato il deserto
abbeverandosi ai pozzi salmastri murati con ossa di
cammello; gli Zuaeci, coperti di piume di struzzo, erano
venuti su quadrighe; i Garamanti, col volto coperto da un
velo nero, seduti sulle reni delle giumente dipinte; altri in
groppa ad asini, onagri, zebre, bufali; e alcuni si
portavano dietro le famiglie, gli idoli, il tetto della
capanna a forma di scialuppa. C’erano degli Ammoniti
con la pelle raggrinzita dall’acqua calda delle loro
fontane; dei Trogloditi, che seppelliscono ridendo i loro
morti sotto rami di alberi; e gli schifosi Ausei che
mangiano le cavallette; gli Achirmachidi che mangiano le
pulci, e i Gisanti, dipinti di cinabro, che mangiano le
scimmie.
Tutti si erano schierati sulla riva del mare, in una
lunga linea diritta. Poi avanzarono come vortici di sabbia
sollevati dal vento. A metà dell’istmo la folla si fermò,
perché i Mercenari, accampati davanti a loro vicino alle
mura, non volevano spostarsi.
Poi, dal lato dell’Ariana, apparvero gli uomini
dell’Occidente, il popolo dei Numidi. Infatti Narr’Havas
regnava soltanto sui Massilii; e del resto, poiché la
tradizione consentiva loro di abbandonare un re sconfitto,
si erano riuniti sulle rive dello Zaine,3 e l’avevano varcato
appena Amilcare si era allontanato. Si videro accorrere
per primi tutti i cacciatori del Maletut-Baal e del Garafo,
vestiti di pelli di leone, che guidavano con l’asta della
lancia i loro piccoli cavalli magri dalla lunga criniera; poi
venivano i Getuli, con le corazze di pelle di serpente; poi i
Farusii, con in testa alte corone di cera e resina; e i
Cauni, i Macari, i Tillabari, ognuno con due giavellotti e
uno scudo rotondo in pelle di ippopotamo.4 Si fermarono
sotto le Catacombe, tra le prime pozze della laguna.
Ma quanto i Libici si furono spostati, nel luogo prima
occupato da loro si vide, come una nube rasoterra, la
moltitudine dei Negri. Ne erano venuti dall’Harush
bianco, dall’Harush nero, dal deserto di Augile e perfino
dalla grande regione di Agazimba, a quattro mesi di
marcia a sud dei Garamanti, e da più lontano ancora!
Malgrado i gioielli di legno rosso, il sudiciume della loro
pelle nera li faceva sembrare delle more rotolate a lungo
nella polvere. Portavano brache di corteccia, tuniche di
erbe secche, musi di belve sulla testa, e, ululando come
lupi, agitavano sbarre guarnite di anelli e brandivano,
come stendardi, code di vacca in cima a bastoni.
Poi, dietro i Numidi, i Maurusii e i Getuli, si
accalcavano gli uomini giallastri che vivono sparsi oltre
Taggir nelle foreste di cedri. Dalle loro spalle pendevano
faretre di pelle di gatto, e portavano al laccio cani
enormi, alti come asini, e che non abbaiavano.
Infine, come se l’Africa non si fosse svuotata
abbastanza, e si fosse dovuto ricorrere agli scarti delle
razze per aumentare i furori, dietro tutti gli altri
avanzavano uomini dai lineamenti bestiali, che
sghignazzavano come degli idioti; miserabili devastati da
malattie ripugnanti, pigmei deformi, mulatti di sesso
ambiguo, albini i cui occhi rossi non sopportavano la luce
del sole; balbettando dei suoni incomprensibili, si
mettevano un dito in bocca per dire che avevano fame.
La varietà delle armi non era inferiore alla confusione
dei vestiti e dei popoli. Non mancava nessuno strumento
per uccidere, dai pugnali di legno, dalle asce di pietra e
dai tridenti d’avorio, fino alle lunghe sciabole dentate
come seghe, sottili, fatte di una lama di rame flessibile.
Maneggiavano coltellacci che si biforcavano in tanti rami,
come corna di antilope, e roncole legate a una corda,
triangoli di ferro, mazze, punteruoli. Gli Etiopi del
Bamboto nascondevano tra i capelli piccole frecce
avvelenate. Molti portavano sacchi di ciottoli. Altri, a
mani vuote, digrignavano minacciosamente i denti.
Quella moltitudine si agitava incessantemente, con una
sorta di moto ondoso. Dromedari imbrattati di catrame
come navi deponevano a terra le donne coi figli legati alle
anche. Si spargevano a terra le vettovaglie dalle ceste;
camminando si calpestavano pezzi di sale, balle di
gomma, datteri marci, noci di cola; e talvolta, su seni
coperti di sporcizia, penzolava da un esile cordone un
diamante che i Satrapi avrebbero bramato, una pietra
quasi favolosa e sufficiente ad acquistare un impero. La
maggior parte di loro non sapeva neppure che cosa
volesse. Li spingeva una curiosità inconsapevole; i
Nomadi, che non avevano mai visto una città, erano
spaventati dall’ombra delle mura.
Ora l’istmo scompariva sotto gli uomini; e quella lunga
estensione, dove le tende sembravano capanne in una
inondazione, giungeva fino alle prime linee degli altri
Barbari, tutte luccicanti di armi e disposte
simmetricamente sui due lati dell’acquedotto.
I Cartaginesi non avevano ancora superato lo spavento
dell’arrivo, quando videro avanzare verso di loro, come
dei mostri, come edifici – con i pennoni, le braccia, i
cordami, le articolazioni, i capitelli, le corazze – le
macchine d’assedio inviate dalle città tirie: sessanta
carrobaliste, ottanta onagri, trenta scorpioni, cinquanta
tollenoni, dodici arieti e tre gigantesche catapulte che
lanciavano massi del peso di quindici talenti. Le
spingevano masse di uomini aggrappati ai loro
basamenti; a ogni passo traballavano; e giunsero così
davanti alle mura.
Ma ci volevano ancora molti giorni per concludere i
preparativi dell’assedio. I Mercenari, istruiti dalle loro
sconfitte, non volevano rischiare in azioni inutili; e da una
parte e dall’altra non c’era fretta, perché tutti sapevano
che stava per iniziare un’azione terribile il cui risultato
sarebbe stato la vittoria o lo sterminio totale.
Cartagine poteva resistere a lungo; le sue larghe mura
offrivano una serie di angoli rientranti o sporgenti,
disposti in modo tale da respingere gli assalti.
Tuttavia, verso le Catacombe, ne era crollata una
parte, e nelle notti oscure si scorgevano le luci dei tuguri
di Malqua. In qualche punto dominavano l’altezza dei
bastioni. Era là che vivevano, con i loro nuovi sposi, le
donne dei Mercenari scacciate da Mâtho. Rivedendoli, il
loro cuore non si trattenne più. Da lontano agitarono le
sciarpe; poi venivano, nelle tenebre, a parlare coi soldati
attraverso le fessure del muro, e una mattina il Gran
Consiglio venne a sapere che erano tutte fuggite. Alcune
erano passate tra le pietre; altre, più coraggiose, si erano
calate con delle corde.
Finalmente Spendio decise di attuare il suo progetto.
La guerra, trattenendolo lontano, glielo aveva impedito
fino a quel momento; e da quando erano tornati davanti
a Cartagine gli sembrava che gli abitanti sospettassero le
sue intenzioni. Ma ben presto ridussero il numero delle
sentinelle dell’acquedotto. Gli uomini bastavano appena
per la difesa delle mura.
L’ex schiavo si esercitò per molti giorni a tirare con
l’arco sui fenicotteri del lago. Poi, una sera in cui
splendeva la luna, pregò Mâtho di accendere nel cuore
della notte un grande fuoco di paglia, e in quello stesso
momento i suoi uomini avrebbero dovuto gridare tutti
insieme; e, portando con sé Zarxas, se ne andò lungo la
riva del golfo in direzione di Tunisi.
All’altezza delle ultime arcate, puntarono diritti
sull’acquedotto; il luogo era scoperto: avanzarono
strisciando fino alla base dei piloni.
Le sentinelle della piattaforma passeggiavano
tranquillamente.
Divamparono alte fiamme; le trombe squillarono; i
soldati di vedetta, credendo a un assalto, si precipitarono
verso Cartagine.
Era rimasto solo un uomo. Appariva nero sul fondo
del cielo. La luna lo illuminava da dietro, e la sua ombra
smisurata sembrava, sulla piana, un obelisco che
camminasse.
Aspettarono di averlo di fronte. Zarxas afferrò la
fionda; per prudenza o per ferocia, Spendio lo trattenne.
«No, il sibilo del sasso farebbe rumore! A me!».
Allora tese l’arco con tutte le sue forze, appoggiandolo
in basso sull’alluce del piede sinistro; prese la mira, e la
freccia partì.
L’uomo non cadde. Scomparve.
«Se fosse ferito, lo sentiremmo!», disse Spendio; e si
arrampicò svelto di piano in piano, come aveva fatto la
prima volta, aiutandosi con una corda e un arpione. Poi,
quando fu in alto, vicino al cadavere, lasciò ricadere la
corda. Il Balearico vi legò un piccone e un mazzuolo, e
tornò indietro.
Le trombe non suonavano più. Ora tutto era
tranquillo. Spendio aveva sollevato una delle lastre, era
entrato nell’acqua, aveva rimesso la lastra al suo posto.
Calcolando la distanza dal numero dei passi, giunse
esattamente al punto dove aveva notato, dall’esterno, una
fessura obliqua; e per tre ore, fino al mattino, lavorò
senza sosta, furiosamente, respirando appena attraverso
gli interstizi delle lastre superiori, assalito dall’angoscia e
credendo venti volte di morire. Finalmente si udì uno
scricchiolio; una pietra enorme, rimbalzando sulle arcate
inferiori, ruzzolò fino a terra, e, di colpo, una cataratta,
un fiume intero, precipitò dal cielo nella pianura.
L’acquedotto, spezzato nel mezzo, si svuotava. Era la
morte per Cartagine, e la vittoria per i Barbari.
In un istante i Cartaginesi, svegliati, apparvero sulle
mura, sulle case, sui templi. I Barbari si spingevano,
gridavano. Danzavano in delirio intorno alla grande
cascata d’acqua e, presi da una gioia irrefrenabile,
venivano a bagnarvisi la testa.
Sulla cima dell’acquedotto si vide un uomo con una
tunica bruna, a brandelli. Si sporgeva chinato a guardare
sotto di sé, le mani sui fianchi, come stupito della sua
opera.
Poi si rialzò. Percorse l’orizzonte con un’aria fiera che
sembrava dire: «Tutto questo ora è mio!». Esplosero gli
applausi dei Barbari; i Cartaginesi, rendendosi conto del
disastro, urlavano disperati. Allora Spendio si mise a
correre sulla piattaforma da un capo all’altro e, come un
auriga trionfatore ai giochi olimpici, folle d’orgoglio,
alzava le braccia.
XIII
Moloch
I. IL FESTINO
II. A SICCA
III. SALAMMBÔ
V. TANIT
VI. A NNONE
IX. IN CAMPAGNA
X. IL SERPENTE
XII. L’ACQUEDOTTO
XIII. MOLOCH
XV. MÂTHO
SALAMMBÔ
I. Il festino
II. A Sicca
III Salammbô
IV Sotto le mura di Cartagine
V Tanit
VI Annone
VII Amilcare Barca
VIII La battaglia del Macar
IX In campagna
X Il serpente
XI Nella tenda
XII L’acquedotto
XIII Moloch
XIV La gola dell’Ascia
XV Mâtho
Note