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Russia, gli errori dell’Occidente che

hanno risvegliato l’Orso


Gli errori occidentali hanno favorito la riscossa
del nazionalismo a Mosca Il libro di Sergio
Romano sulle vicende che hanno portato
all’ascesa di Putin
di FRANCO VENTURINI

Tornata protagonista sulla ribalta internazionale, la Russia guidata da


Vladimir Putin risulta essere troppo spesso, e per troppi, un oggetto
misterioso. In Occidente si preferisce considerarla minacciosa e
imprevedibile come in effetti talvolta è, ma mentre con pericolosa
leggerezza viene annunciata la prossima «guerra fredda» nessuno ammette
errori occidentali che pure esistono a fronte di quelli russi, e nessuno pare
interessato a ripercorrere una storia che contiene, a beneficio di chi vuole
esserle amico o avversario, l’identità della Russia di oggi. Colmare questa
lacuna culturale e politica è necessario più che mai in un periodo di
contrapposizioni come l’attuale, e l’ultimo libro dell’ambasciatore Sergio
Romano Putin e la ricostruzione della Grande Russia (Longanesi) offre a
questo proposito un contributo di rilievo. Con la meticolosità dello storico e
lo stile del narratore, Romano ci accompagna dallo smembramento
dell’Unione Sovietica alle odierne tensioni tra Mosca e Washington,
destinate forse a stemperarsi con l’elezione di Donald Trump, in una
carrellata veloce ma estranea alle narrazioni di parte e ricca di riflessioni
stimolanti.
«Putin e la ricostruzione della Grande Russia» (Longanesi, pp. 156, euro 18)

Il capitolo che maggiormente ci interessa per provare a capire


Vladimir Putin e la sua Russia è quello delle due presidenze di
Boris Eltsin. L’Urss è da poco crollata, l’economia pianificata è stata
sconvolta dalle privatizzazioni del governo Gaidar, è nata la Comunità degli
Stati indipendenti. La Russia, centro motore dell’impero sovietico ora
dissolto, tenta il passaggio alla democrazia. La guida da eleggere è ovvia:
quel Boris Eltsin che nell’agosto del 1991 ha dato prova di grande coraggio
scongiurando un golpe firmato Kgb prima di liquidare, ma senza violenza,
un Gorbaciov ormai impopolare.

Eltsin, nel suo primo mandato, crea le istituzioni di una


democrazia. Una nuova Costituzione, un nuovo Parlamento formato da
due Camere, le unità amministrative che dovranno governare gli oblast
(regioni), gli okrug (circondari), le Repubbliche autonome e le grandi città
dell’ancora immensa Federazione. Il passo è di grande rilievo, anche se la
cornice istituzionale non basta, in assenza di una nuova classe politica e di
una sufficiente consapevolezza democratica. Piuttosto a farsi strada è una
nuova casta che salta sul cavallo delle privatizzazioni e fa incetta di
ricchezza e di potere: nascono gli oligarchi, che avranno una parte
essenziale nell’ascesa di Putin.
Sergio Romano (nella foto) presenterà il suo libro a BookCity

Ma il protagonista, per ora, è ancora Eltsin. La sua salute peggiora.


Il presidente beve sempre di più, e alcune disastrose esibizioni pubbliche
non lo aiutano. Il suo cardiochirurgo americano gli annuncia nel 1996 la
necessità di un delicato intervento, ma «corvo bianco» decide egualmente
di candidarsi a un secondo mandato. La campagna elettorale è caotica, ed
esiste il pericolo di un ritorno dei comunisti. Le interferenze esterne si
sprecano, e alla fine Eltsin viene rieletto proprio mentre è sotto i ferri. Ma
la Russia, nel frattempo, è cambiata di nuovo. Gli oligarchi sono diventati
poco a poco i «condomini del Cremlino», come nota Romano, e senza il
loro appoggio Eltsin non ce l’avrebbe fatta.

I vari Abramovic, Berežovskij, Gusinskij, Khodorkovskij,


Potanin, Deripaska, sono i nuovi padroni della Russia.
Controllano banche, giornali, reti televisive, dalle loro fortune dipende
talvolta il pagamento degli stipendi statali (anche quelli delle forze
armate), qualcuno, come Berežovskij, decide di entrare in politica. Eltsin
continua a stare male e a bere, mentre sotto i suoi occhi dilaga la
corruzione (anche quella della sua famiglia). Lo Stato russo pare dissolversi
un’altra volta, il peso di Mosca sulla scena internazionale diventa
trascurabile, crescono i nazionalismi locali e i pericoli di secessione.

Si deve partire da qui, per sapere da dove viene e dove vuole


andare Vladimir Putin. È molto probabile, scrive Sergio Romano, che
l’uscita di scena di Eltsin e l’avvento di Putin siano stati voluti e preparati
dal Fsb (erede del Kgb) per contrastare l’ascesa degli oligarchi e
l’indebolimento della Russia. Putin aveva un passato nel Kgb che l’autore
descrive con ricchezza di dettagli. Era nota la sua amarezza davanti alla
«Patria che non esisteva più». Ed è probabilmente nel segno di una volontà
di riscossa che Putin viene nominato primo ministro nell’agosto del 1999.
Guerra alla Cecenia separatista, primi altolà agli oligarchi, elezioni per la
Duma ed ecco che a Capodanno del 2000 uno Eltsin allo stremo lo designa
suo successore e si dimette.

Putin vince le elezioni di marzo, è presidente. Nel segno, allora


come oggi, di una Russia che rifiuta l’umiliazione e vuole risalire la china,
del ritorno dello Stato, di un autoritarismo radicato nella sua cultura, della
sopravvivenza degli atavici complessi della storia russa (assedio,
isolamento), di una politica estera ispirata da secolari legami nazional-
religiosi (Ucraina) o da solidi interessi strategici (Siria). Romano individua
ognuno di questi fattori, lo colloca nella giusta cornice, lo arricchisce con le
sue osservazioni e i suoi racconti. E aggiunge aspetti non secondari: la
Chiesa ortodossa che di Putin è grande alleata, per esempio. Oppure il
«problema Stalin», perché del vincitore della «Grande guerra patriottica»
contro il nazismo (almeno venti milioni di morti sovietici, contro nemmeno
un milione di americani e britannici sommati) non si può parlare soltanto
male.

Leggendo questo libro mi è capitato talvolta di non concordare


con l’autore, quando giudica severamente la «guerra delle
memorie» e gli «atti di contrizione» che invece a mio avviso
possono promuovere una auspicabile consapevolezza collettiva
(si pensi al caso dell’Olocausto), oppure quando, elencate le molte
debolezze dell’Occidente, si chiede se la democrazia possa ancora essere un
modello virtuoso da proporre a Putin (la mia risposta è sì, malgrado tutto).
Ma il lavoro di Romano, al di là delle opinioni su questo o quell’aspetto,
merita la nostra riconoscenza. Perché per salvare la pace bisogna sapere
chi si ha di fronte.

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