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LETTERATURA INGLESE

02.03.2021

Shakespeare, uomo del suo tempo, scrive avvalendosi delle coordinate storiche del suo tempo. Quando
parla di malinconia, non fa riferimento ad una depressione, perché si tratta di due concetti molto diversi. Il
modo in cui arriva ai suoi lettori è diverso da quello con cui arriva un drammaturgo di oggi al suo pubblico.
Un punto in comune tra i due blocchi didattici è proprio questo del literary markplace (?), ovvero in che
modo le opere arrivavano ai lettori, come veniva trasmesso il testo e quanto questi meccanismi di
trasmissione del testo influenzavano anche il tipo di scrittura dell’autore.

Shakespeare ebbe tre figli: i gemelli Hamnet e Susanne, e Judith, l’unica che gli sopravvisse. Hamnet morì
ad undici anni e qualcuno avanza l’ipotesi che ci sia un riferimento con Hamlet, quindi che Shakespeare
abbia scritto la tragedia pensando al figlio morto quattro anni prima: nei registri parrocchiali di Stratford-
upon-Avon questi due nomi di battesimo parevano essere sovrapponibili. Da qui, potrebbe trovare
giustificazione l’atmosfera tragica e di lutto che aleggia in tutta l’opera. Nel romanzo non c’è nessuna
pretesa di scientificità, per cui si sfrutta questa conoscenza storica e la si elabora in maniera creativa.
Shakespeare, da autore, diventa anche protagonista di versioni cinematografiche e romanzi. Di
conseguenza, le riscritture riguardano le sue opere, ma anche testi in cui l’autore diventa il personaggio
principale.
Quale versione di “Hamlet” leggiamo? Non c’è un’unica versione dell’opera, ce ne sono ben tre, piuttosto
diverse tra loro:

 FIRST QUARTO, opera letta solamente dai filologi. Un “Hamlet” minore, testo estremamente breve
che presenta alcune differenze, come nei nomi dei personaggi. Il perché questo testo sia così breve
e così diverso dagli altri non è ancora ben noto.
 SECOND QUARTO e FOLIO, testi molto simili tra loro e complementari. Il primo è una versione più
lunga dell’opera, ma riporta alcuni passi in meno che, contrariamente, sono inseriti nel secondo. La
critica shakespeariana ha tentato di collazionarli entrambi, usando il second quarto come copy text,
ovvero come testo base, e l’ha arricchito con ciò che il folio riportava in aggiunta.

Il motivo di questa tripartizione non è noto, ma parrebbe più giusto rispettare la scelta dell’autore e leggere
i testi considerandoli come singoli.

AUTOCENSURA. L’autocensura può riguardare il tipo di linguaggio l’autore sceglie di utilizzare, ma può
riguardare anche un altro elemento, ovvero la trasmissione del testo. Un autore, che desidera far arrivare a
tutti la sua opera, autocensura il suo linguaggio; se desidera, invece, esprimere liberamente i suoi pensieri,
in un linguaggio che lo rispecchi maggiormente, si preoccupa di controllare esclusivamente la diffusione del
testo. Molte opere di molti autori, infatti, furono privately printed, ovvero stampate in forma privata in un
numero limitato di copie, destinate soltanto a coloro che non avrebbero mai sporto denuncia alle autorità.
Un accorgimento in più rispetto all’autocensura consisteva nell’omissione del nome dell’autore, oppure
l’utilizzo di uno pseudonimo. Per cui, i modi per aggirare rischi derivanti da determinati contesti erano
molteplici: gli autori si servivano di linguaggio allusivo, delle figure retoriche ed in particolare della
reticenza o non detto. Le opere con un linguaggio più aperto e crudo – anche di carattere pornografico –
invece, avevano una circolazione molto limitata. Con pochi altri termini, censura contenuto e censura per il
linguaggio del testo.

TEMA DEL SUICIDIO. Nel primo monologo di “Hamlet”, nel primo atto, seconda scena, il protagonista
annuncia già il suo desiderio di morte, ma non sappiamo qual è il motivo della sua tristezza. In ciò somiglia
un po’ al personaggio de “The Merchant of Venice”, Antonio: “In sooth, I know not why I am so sad”. Il suo
malessere va al di là della morte del padre e della scoperta che sia stato lo zio ad ucciderlo. Il tema del
suicidio è presente in varie forme: quando pronuncia “to be or not to be”, Amleto sta pensando ad una
difficoltà a proseguire la sua esistenza, o la morte di Ofelia, raccontata dall’esterno a Laertes, fratello della
giovane, dalla regina Gertrude, la quale avanza l’ipotesi di un incidente: è caduta mentre cercava di
avvicinarsi ad un ramo, ma, in realtà, nella sua versione c’è già qualcosa che fa pensare ad un quasi suicidio.
Inizialmente, viene sorretta dalle vesti, quasi con il piacere di abbandonarsi, che però s’impregnano d’acqua
e si appesantiscono tanto da trascinarla giù. Questa versione dei fatti, dovuta alla sua pazzia, diventa un po’
più giustificabile, accettabile per l’etica cristiana che condannava il suicidio come gesto contro Dio e
contronatura; c’è quasi una non volontà di salvarsi. L’altra versione della sua morte viene data, oltre che
dalla regina, dai becchini, i quali sostengono che, addirittura, le sia stata riservata una sepoltura migliore e
molto più nobile di quella che le sarebbe toccata, perché si è suicidata. Se non fosse appartenuta al suo
rango sociale, sarebbe stata seppellita in terra non consacrata. L’altro personaggio legato al tema del
tentato suicidio è Orazio, compagno fedele di Amleto, che dinnanzi al suo amico morente, sente il dovere di
togliersi la vita. Si tratta di un suicidio “d’onore”, desiderato non perché è stanco di vivere, ma come atto di
fedeltà e amicizia; una morte onorevole che acquista una valenza positiva. Denominato anche “suicidio
romano” ed inserito anche in “The Tragedy of Julius Caesar”. Shakespeare, quindi, condanna un suicidio che
nasce dalla disperazione, da una passione molto forte e dall’incapacità di controllare i propri sentimenti, ma
condivide il suicidio nobile, d’onore, quello di chi non ha paura di finire e affronta la morte in maniera
impavida, per una determinata causa.
Orazio, alla fine, non si suiciderà perché lo stesso Amleto glielo impedisce: Orazio ha il compito di narrare ai
posteri la storia del suo amico. Da qui, consideriamo un “primo Amleto” riprodotto per la messa in scena,
poi un “secondo Amleto”, postumo, la cui memoria potrebbe essere tradita e raccontata in maniera
inappropriata. La sopravvivenza di Orazio è, dunque, fondamentale affinché ciò non accada: come se il
personaggio venisse quasi trasformato in uno storiografo.

QUESTIONE FILOLOGICA. “O, se questa carne troppo straziata potesse liquefarsi”.

Nel primo monologo del second quarto, Amleto esordisce in questo modo: “O that this too too
sullied/sallied flesh would melt”. La sua mente ed il suo corpo sono tormentati, assaliti (“sullied/sallied”),
vorrebbe che si liquefacessero (“melt”, verbo che appartiene al campo semantico dei metalli; essi si
sciolgono in una fornace). Nel first quarto, quello brevissimo, il protagonista dice: “O that this too much
greved and sullied/sallied flesh would melt”; mentre nel folio dice: “O that this too too solid flesh would
melt”. Dal punto di vista dell’isotopia testuale, ovvero la coerenza semantica, “solid” funziona molto meglio
nella frase: un corpo solido che poi si liquefa, così come un metallo in una fornace, restituisce
perfettamente l’idea della morte; il corpo che si disfa e finisce nel nulla. Il termine “ sullied/sallied” si
riferisce sta a significare anche “sporco”, e nel testo abbondano immagini di sporcizia, che da una
dimensione fisica viene trasportata in quella psicologica: all’epoca, gli uomini si sentivano impuri a causa
delle colpe che li accompagnavano dalla nascita e la morte diventava il simbolo del rifiuto di questa
sporcizia. Da qui, l’importanza dell’aspetto filologico di un testo, che permette un’analisi in modo
estremamente sofisticato; in questo modo, la filologia diventa anche interpretazione del testo. Le tre
differenti letture, che trasportano tre differenti varianti linguistiche, propongono interpretazioni diverse del
primo monologo, di cui non può essere confermata la versione originale, perché non esistono i testi
shakespeariani autentici da cui trarre certezza: il caso di “sallied” e “solid” potrebbe essere il frutto
dell’errore del copista, che ha male interpretato la scrittura dell’autore, o di un ripensamento dello stesso
Shakespeare. Il dovere di un filologo è quello di cercare di capire il perché di un testo così crudo e operare
delle scelte riguardo al testo, con la consapevolezza che non saranno mai definitive.

MOBILITÀ DELLA PAROLA DRAMMATICA. All’epoca di Shakespeare non esisteva un diritto d’autore, ma
soltanto quello d’editore: questi, quando entrava in possesso di un testo, poteva scegliere di pubblicarlo
anche se non l’aveva ricevuto direttamente dall’autore, se l’aveva recuperato in maniera impropria o se il
testo era stato modificato; tutto ciò mette in dubbio l’autenticità e l’esistenza di una versione originale
delle opere. Un primo problema da affrontare è la trasmissione del testo, che oggi risulta essere un
procedimento molto lineare: un autore approva il testo e lo manda all’editore che lo pubblica. Nei secoli
scorsi, invece, questi passaggi erano molto più complessi, in quanto gli stadi compositivi erano in numero
maggiore: il primo stadio compositivo era quello dei foul papers, ovvero una prima scrittura elaborata
dall’autore, un primo copione dell’opera che, successivamente, sottoponeva alla compagnia con cui
lavorava per la messa in scena. Il risultato era una “brutta copia personale”, o draft autoriale. Il secondo
stadio compositivo era il book of the play, ovvero il testo approvato dall’intera compagnia che interveniva
sulla scrittura, cambiando ciò che era meno convincente, o dando più spazio ad un attore particolarmente
in gamba: il lavoro poteva essere anche collettivo e la voce di Shakespeare, in parte, si mescolava a quella di
altri compositori. Ciò accade anche oggi: l’editor può suggerire dei cambi nel titolo o in altre parti del testo.
Questo controllo finale, all’epoca, non c’era e quindi era molto più forte l’elemento esterno. Entrambi i testi
venivano, poi, trascritti da un copista – transcripts – in un terzo intervento, con un’ulteriore mediazione
grafica, che poteva riportare anche numerosi errori rispetto al testo “originale”. Per questo motivo, le
opere shakespeariane che oggi leggiamo sono in parte congetturali, perché non sappiamo con certezza se
sono totalmente un prodotto autentico dell’autore e se ciò che è riportato tra le pagine rispecchia il
messaggio che voleva realmente comunicare. Tutto questo rende estremamente mobile la parola
grammatica. Lo stesso procedimento lo ritroviamo in “Romeo and Juliet”: è probabile che il first quarto sia
un foul paper, e lo capiamo perché alcuni elementi sono ancora provvisori, probabilmente il testo non era
ancora stato approvato dalla compagnia e non definitivamente sistemato. Un elemento indicativo sono i
nomi dei personaggi non costanti: la madre di Juliet, ad esempio, viene identificata sia con “wife” che con
“Lady Capulet”; ma c’è anche la ripetizione di una stessa scena, in cui le battute sono ripetute due volte.
Mentre il second quarto sembrerebbe essere la versione del book of the play, più coerente e ordinata.
L’ultimo step è quello della stampa – print –, a cui mette mano il tipografo.

MONTALE, L’ESISTENZIALISMO ED AMLETO. Con la percezione soggettiva del mondo e le immagini di


sporcizia, Shakespeare anticipa Eugenio Montale. Oggi parleremmo di depressione, lui parlava di
malinconia, che non è la stessa cosa, ma esprime uno stato d’animo simile. Non si era ancora realizzato
l’intervento di Freud ed il termine non era stato ancora inventato e, inoltre, la malinconia era legata alla
teoria degli umori: Amleto è malinconico perché ha prevalenza di bile nera e perché suo padre è morto
assassinato, si sente incapace di compiere il ruolo che gli è stato affidato. Indossa la sua malinconia: i suoi
abiti non sono quelli che indosserebbe un principe, al contrario sono sempre neri e rimandano
continuamente al lutto. Assume le sembianze del pazzo, lo splendido personaggio del teatro
shakespeariano che fa capire ciò che nessun altro vede, perché in realtà è un saggio. Alcuni elementi
dell’opera portano all’Esistenzialismo del Novecento, che autori francesi chiamano “conscience
malheureux”. Il personaggio esprime un disaggio in termini che sicuramente arrivano anche a noi, ma che
vanno radicati nella cultura dell’epoca. I versi di Montale ed Amleto hanno in comune il rifiuto di un mondo
oggettivo in favore di uno esclusivamente soggettivo, infatti il principe dice: “Per me ciò che appare non
esiste, esiste soltanto ciò che è dentro di me”; il mondo è bello, ma è una cornice che si trasforma in uno
sterile promontorio. Nel testo sono presenti riferimenti sia al mondo reale che del teatro dell’epoca, la cui
volta stellata fungeva da cielo: esso è il riflesso del mondo reale, ma è diventato un ammasso terribile e
pestilenziale di vapori.

03.03.2021

È possibile supporre che gli autori delle compagnie non avessero interesse a pubblicare le loro opere
teatrali perché un testo alla portata di tutti avrebbe potuto dissuadere il pubblico dall’andare al teatro;
inoltre aleggiava il timore che compagnie rivali potessero appropriarsi del copione autentico della
messinscena. Economicamente parlando, quindi, sarebbe stata una scelta poco conveniente. Chiaramente,
si tratta di una questione assai più complessa. Possiamo distinguere due versioni di un testo teatrale:

 Bad quarto: un testo, molto probabilmente, abusivo e di cattiva qualità, ricondotto dai filologi a due
possibili ipotesi, ovvero quelle della “memorial reconstruction” e dell’intervento di uno stenografo.
La prima suppone che ci possa essere stato un traditore della compagnia che abbia venduto il testo
del dramma: un attore che recitava un ruolo nella messinscena ricordava perfettamente tutte le
battute del suo copione, vagamente quelle degli altri personaggi, ma cercava in ogni caso di
riscostruire la storia per grandi linee. L’affidabilità, quindi, non era pienamente garantita. Questa
versione, pubblicata dall’editore, era indicata con la sigla “NRA”. La seconda ipotesi è quella
dell’intervento di uno stenografo, quindi una persona del pubblico, rapida e dotata di grande
capacità di trascrizione, che trascrive tutto il dramma durante lo spettacolo e ne vende il testo, col
risultato che qualcosa può mancare, o essere stata fraintesa.
 Good quarto: versione più o meno autorizzata dall’autore, fondata su un effettivo manoscritto
dell’autore o un draft autoriale.

È stato ipotizzato che la brevità del primo Amleto rispetto al secondo, quasi il doppio, possa essere
giustificata da un uso diverso del dramma. Ad esempio, lo studioso Giorgio Melchiori sostiene, nel suo
saggio, che il first quarto sia una acting version, ovvero una versione designata alla messinscena, e perciò
più breve. Uno spettacolo teatrale in epoca elisabettiana aveva una durata massima di due ore, dato che lo
stesso Shakespeare sottolinea nel prologo sia di “Romeo and Juliet” che di “Henry V”. Il second quarto,
invece, essendo un testo molto più lungo, sembrerebbe composto per la lettura, quindi una reading
version. Se adottiamo la seguente teoria, possiamo pensare che Shakespeare possa aver tagliato il second
quarto, troppo lungo per adattarlo al teatro, o viceversa, possa averlo allungarlo per adattarlo alla lettura. È
probabile che il primo Amleto fosse un testo abusivo e non autorizzato dall’autore, più breve e imperfetto.
In questo suo saggio, Melchiori fa riferimento anche ad un’annotazione di Gabriel Harvey, uno studioso
elisabettiano noto per la sua amicizia con Edmund Spencer. Le edizioni che oggi possediamo delle opere di
Chaucer, anche quelle marginali, sono quelle possedute da Harvey, il quale tra le pagine aveva scritto
qualcosa anche a proposito dell’Amleto di Shakespeare: “The younger sorte takes much delight in
Shakespeare’s Venus, & Adonis: but his Lucrece & his tragedie of Hamlet, Prince of Denmarke, have it in
them, to please the wiser sort”, ovvero che “ai più giovani piace il “Venus & Adonis” di Shakespeare, ma i
più saggi, o i più maturi e colti, si dilettano e apprezzano maggiormente la sua Lucrezia e la tragedia di
Amleto, principe di Danimarca”. Questa nota interessante è un piccolo tassello da aggiungere a
completamento dell’ipotesi dello studioso, relativa alla possibilità che Amleto fosse stato scritto sia per il
teatro che per la lettura.

Dell’“Hamlet” esistono tre versioni differenti:

 First quarto del 1603, edizione molto diversa dalle altre due, pubblicata in vita;
 Second quarto del 1604-1605, più lunga del folio, parti mancanti, pubblicata in vita;
 Folio del 1623, più breve del Q2, ma con parti aggiunte, edizione postuma, pubblicata sette anni
dopo la sua morte.

La versione del testo attualmente pubblicata è il Q2, alla fine della quale vi sono additional passages.

Nel “title page”, ovvero il frontespizio, del Q2 dell’Amleto, possiamo leggere che si tratta di un’edizione
ristampata ed allargata di quasi del doppio rispetto a quella precedente, in accordo con quella autentica:
sembra si voglia dire che l’editore sia venuto in possesso di una copia autorizzata del testo, che riproduce
una versione originale della tragedia. Su di esso compare il nome dell’autore, dato interessante perché
solitamente non veniva riportato o, alle volte, risultava essere diverso. L’ortografia e la grammatica
dell’inglese, come vediamo, sono cambiate e state normalizzate, perché erano assolutamente irregolari così
come la firma dell’autore: a volte si firmava “Shakespere”, altre volte “Shakespeare”. L’intervento
dell’editore, perciò, si traduce nella ricostruzione dell’opera senza interferenza con la voce autorale, e deve
rendere fruibile il testo al lettore del ventesimo secolo. In questo senso, un’operazione moderna è la
suddivisione in atti, presente nel folio, ma non nei due quartos precedenti. Quindi, dando per scontato di
non poter realizzare una collazione tra le edizioni, potremmo chiederci quale testo è quello che leggiamo
praticamente. La risposta è che le varie ipotesi da cui si parte condizionano anche le scelte filologiche degli
editori. Nell’ultima edizione Oxford del 2016, ad esempio, c’è solo soltanto l’edizione Q2, in quanto lo
spazio per tutte le versioni del testo sarebbe stato insufficiente, mentre in un’edizione precedente redatta
da Wells e Taylor, al contrario, è stata pubblicata la versione del folio, senza aggiunta di Q2, per la brevità
del testo. Ciò perché i due studiosi erano convinti del fatto che Shakespeare scrivesse soltanto per il teatro.
Allora, è piuttosto naturale chiedersi se i drammi di Shakespeare siano testi da leggere o da mettere in
scena, testi letterari o copioni per il teatro. David Scott Kastan, uno dei grandi studiosi shakespeariani e tra i
general editors dell’edizione Arden, nel 2001 scrive un volume, “Shakespeare and the Book”, in cui sostiene
che l’autore scriva esclusivamente per il teatro perché è interessato alla lettura, per cui le edizioni da
leggere sono state realizzate indipendentemente dal suo volere.

In vita, di Shakespeare furono pubblicati diciassette drammi, abbastanza pochi se consideriamo che ne
scrisse più di quaranta, pubblicati in quartos, e alcuni di questi in più edizioni. Il diciottesimo dramma è
“Othello” pubblicato in quarto nel 1622, e poi in folio nel 1623, sette anni dopo la sua scomparsa, in
un’edizione di lusso di formato più ampio, che conteneva trentasei drammi. Perché, quindi, i pubblicati in
vita sono soltanto diciassette? Mentre Kastan considerava unicamente il teatro come destinazione della sua
scrittura, Lukas Erne pubblicò, due anni dopo, un volume per lo stesso editore, “ Shakespeare as Literary
Dramatist”, in cui esprimeva una tesi opposta, per cui Shakespeare abbia scritto opere destinate anche alla
lettura; un po’ come aveva sostenuto anche Melchiori esclusivamente per l’Amleto, senza impiegarla come
chiave di lettura di tutta la produzione shakespeariana. Quindi, l’idea che l’autore fosse interessato alla
pubblicazione di tutte le sue opere, in quanto aveva prodotto anche poesie e sonetti, e poemetti in cui
figurava anche la dedica: sarebbe strano pensare che volesse pubblicare soltanto una parte dei suoi
capolavori. Lukas Erne aggiunge, con riferimento al Q2 di “Hamlet”, che si tratta di un’opera così ampia da
eccedere in una messinscena, un testo di “unactable lenght”, troppo lungo per poter essere adattato al
teatro. Da qui, la stesura di più edizioni: destinate ad un pubblico colto e raffinato di lettori o per un gruppo
di rozzi spettatori.

Un altro riferimento alla lettura viene fornito nell’“Edward III”, opera di collaborazione: nell’epilogo,
durante il suo speech finale, il Black Prince protagonista tesse un elogio a se stesso, al suo eroismo e alle
sue gesta così virtuose e valorose, affinché possano servire d’esempio ai futuri lettori del testo, che si
sentiranno spronati a compiere le sue stesse prodezze (“when they read”). Quindi, mentre in alcuni drammi
sono presenti riferimenti interni alla messa in scena e al teatro, come nel prologo di “Romeo and Juliet” e
“Henry V”, in questo dramma il riferimento è esplicito alla lettura, quasi come a voler creare un ponte
temporale: un esempio per il presente, ma anche per il futuro.

04.03.2021

È interessante confrontare tra loro segmenti testuali di Shakespeare, perché ci permettono di approfondire
il discorso sul fine della sua produzione. In “Henry V” e in “Romeo and Juliet”, il prologo è un address che
l’autore rivolge ad un pubblico di spettatori che assiste ad una messa in scena, un pubblico di teatro: in
queste porzioni testuali si mette in atto la virtualità scenica contenuta nella parola drammatica, che si
attualizza nella performance. Mentre nelle suddette l’autore si rivolge ad un pubblico di spettatori,
nell’epilogo di “Edward III”, c’è un personaggio che diventa portavoce dell’autore ed il “tu” a cui si indirizza
è composto da un pubblico di lettori.

HENRY V: dramma storico e celebrativo della grande figura di Henry V; il prologo è recitato da un coro, che
troviamo in ogni atto e che ha funzione diegetica: ci sono eventi impossibili da mettere in scena, che perciò
da esso sono raccontati. Inoltre, rappresenta l’autore e la sua difficoltà a mettere in scena un tema epico
così importante come la grande vittoria militare inglese nella Guerra dei Cent’anni contro la Francia (1337-
1453), la quale culmina nella drammatica battaglia di Agincourt. L’appello è rivolto al pubblico, affinché
possa colmare con l’immaginazione ciò che non è possibile trasportare sulla scena: per sineddoche, un
singolo soldato rappresenterà tutti i soldati e l’angusto spazio del palcoscenico elisabettiano si trasformerà
nei terreni sterminati dove si combatterono le battaglie. Quindi, da un lato l’imperfezione del mezzo
teatrale che non può rappresentare un’azione storica così nobile e dall’altro la grandezza dell’evento stesso
che, comunque, lo rende doppiamente rappresentabile. Bisogna svelare i meccanismi dietro la parola
teatrale e la messa in scena e renderli palesi, affinché gli spettatori con lo sforzo dell’immaginazione
possano colmare il gap esistente tra la parola teatrale e la realtà storica.

Gli ultimi due versi del prologo costituiscono un distico, come in genere capita nel dramma shakespeariano:
spesso contengono una rima che segnala proprio la loro funzione di conclusione.

“O, potessi avere una musa di fuoco capace di ascendere il cielo più luminoso dell’invenzione, un regno per
un palcoscenico, principi a recitare e monarchi a contemplare la scena grandiosa; allora il bellicoso Enrico,
da par suo, assumerebbe il portamento di Marte e alle sue calcagna, legati come cani la carestia, la spada
ed il fuoco si apposterebbero pronti ad entrare in azione”.

Rimando alla musa dell’Antica Grecia e al fuoco, uno tra i quattro elementi della terra, secondo la visione
dell’epoca. Questa musa permetterebbe di incarnare teatralmente ciò che l’autore non riesce ad incarnare
e rappresenta il primo momento della composizione retorica, così come della poetica. Quintiliano aveva
distinto le varie fasi dell’orazione: inventio, dispositio, locutio. Il primo momento è l’ideazione del tema, la
che in poesia diventa invention, sia dell’oratore che si prepara ad esprimere un discorso, sia del poeta. Il
secondo momento riguarda la scelta di un tema e stabilire una sequenza utile, congegnare le parole
secondo un ordine argomentativo efficace. Il terzo momento, infine, riguarda l’appropriatezza dello stile
rispetto all’argomento.
La parola teatrale ha valenza metaforica: il palcoscenico rappresenta il regno e lo spettatore deve
interpretarlo come tale, mentre Enrico assume il carattere bellicoso di Marte, dio della guerra, cui seguono
la carestia, la spada ed il fuoco, risultato delle battaglie combattute: il poeta potrebbe rendere ben visibile il
grande valore del sovrano, ma anche tutte le catastrofi della guerra. Lemmi fanno riferimento al campo
semantico del teatro, altri alla guerra, altri ancora alla realtà extra testuale.

“Ma tutto questo non ce l’ho, non ho una musa di fuoco e, quindi, perdonatemi, voi tutti gentili, gli spiriti
piatti incapaci di sollevarsi, che hanno osato portare su questo indegno palco un oggetto così grande”.

Avversativa che identifica la consapevolezza di queste mancanze. Il teatro fa da mediatore del mondo
esterno, ma riesce a rappresentarlo in modo molto imperfetto. Allo stesso tempo, questo limite della
rappresentazione è apparente perché la grandezza del teatro sta proprio nella sua capacità simbolica e
l’autore è consapevole di questo gioco di immaginazione di qualcosa che viene messo in scena. Quindi,
prima un auspicio, poi la richiesta al pubblico del suo contributo interpretativo. Il termine “gentili” con cui
l’autore si riferisce al pubblico, in realtà, non lo rappresenta pienamente: i teatri erano frequentati anche e
soprattutto dal popolaccio, ma vi si poteva riferire in altri termini. L’appellativo riguarda sia lo stato sociale,
sia la raffinatezza dei modi presupposta negli spettatori: si potrebbe supporre che il pubblico dell’Henry V
fosse più alfabetizzato rispetto ad altro, essendo esso un dramma più complicato.
Il prologo mostra anche riferimenti al teatro dell’epoca, a com’era fatto e come funzionava: c’era un
tavolaccio di legno su cui recitavano gli attori, uno spazio teatrale estremamente ridotto, in
contrapposizione alla vastità dei cambi di battaglia.

“Può questa tavola contenere i vasti campi della Francia? Possiamo, forse, gremire dentro questa O di legno
quegli stessi caschi che atterrirono l’aria di Agincourt? Perdonatemi, dal momento che una cifra tonda può
evocare in un piccolo spazio un milione e lasciate che facciamo appello alla vostra immaginazione come zeri
in questo grandioso rendiconto. Immaginate che in queste mura cinte siano racchiuse due possenti
monarchie, i cui fronti alti e superbi lo stretto e pericoloso oceano divide. Supplite alle nostre imperfezioni
con i vostri pensieri e immaginazione, dividete un uomo in cento parti e create i vostri eserciti immaginari.
Pensate quando parliamo di cavalli e li vedete mentre stampano i loro orgogliosi zoccoli nella tenera terra,
perché sono i vostri pensieri che, adesso, devono equipaggiare i nostri re, spostarli qua e là, saltando
attraverso i tempi, negli intervalli di tempo, condensando gli svolgimenti di molti anni nel volgere di una
singola ora. Per sopperire alla durata molto breve dell’azione teatrale, accettatemi come coro in questa
storia che, a mo’ di prologo, invoco la vostra umile pazienza di ascoltare gentilmente e giudicare
benevolmente la nostra rappresentazione”.

Seguono una serie di domande retoriche che sottolineano l’impossibilità della scena di contenere la vastità
della realtà: lo spazio teatrale estremamente ridotto, in contrapposizione alla vastità dei campi di battaglia
francesi (sineddoche, parte per il tutto). Serie di riferimenti relativi al tavolaccio di legno che evoca i terreni
battuti dai soldati e ad una “O di legno”, forma circolare del teatro. Anche il numero 0, che assomiglia
graficamente alla lettera O, evoca lo spazio del teatro: 0 perché c’è un solo soldato sulla scena, ed
anteponendo ad esso il numero 1, si ottiene 10, con l’aggiunta di due zeri un cento, e così via. Un solo
soldato può figurarmi anche un intero esercito, attraverso l’apporto dell’immaginazione del pubblico (in
linguistica, funzione conativa). Lo 0 suggerisce anche un altro concetto, ovvero lo scarso valore dell’autore:
“siamo zeri in confronto a questo grandioso rendiconto, all’elevatezza di questo evento”. Lo spazio a cui si
fa riferimento non è quello del palco, ma sono le mura dell’edificio teatrale: le due potenti monarchie, la
Francia e l’Inghilterra, sono divise dall’immensità dell’oceano. In un’operazione inversa, successivamente,
l’autore chiede al suo pubblico di dividere un solo uomo per cento, per creare tante unità separate. Il teatro
non può portare in scena dei cavalli reali, perciò essi possono essere solo evocati dalle parole del coro
(digressione narrativa tra mimesi e diegesi): un dato su cui riflette anche la poetica del tempo elisabettiano,
che si porta dietro una scena estremamente povera e simbolica, che nei secoli viene arricchita.
Oltre all’inadeguatezza dello spazio, anche quella del tempo, perché un evento tanto grande deve
rispettare un’unità temporale di un’ora. Il coro interrompe la presenza scenica e si rivolge al pubblico per
chiedere indulgenza e benevolenza del giudizio, lo prega di non essere troppo esigente.

ROMEO AND JULIET: prologo che ha sia qualcosa in comune, sia qualcosa di diverso con quello di Henry V.
Ancora una volta, è presente l’appello all’indulgenza dell’autore drammaturgo al pubblico del teatro, e
l’invito a cogliere oltre ciò che la scena può rappresentare. Il prologo è più breve, contiene quattordici versi
e si tratta di un sonetto. Vi è una discrasia tra contenuto e forma: il contenuto fa riferimento all’ hic et nunc
di una rappresentazione, mentre la forma è tipicamente letteraria, quindi appartiene alla poesia.
Nonostante non ci sia un pubblico di lettori, il sonetto viene usato anche per il teatro e torna anche in altre
parti dell’opera, e ciò fa pensare che questo sia un testo dedicato anche alla lettura, oltre che al teatro. Il
sonetto è un sonetto shakespeariano di tre quartine a rima alternata ed un distico finale.
Entra di nuovo in scena il prologo con funzione di coro, che deve spezzare la finzione e svelare la
messinscena; l’autore, ancora una volta, si rivolge al pubblico, ma ciò non avviene spesso in Shakespeare: in
Henry V e Romeo and Juliet il coro appare, per lo più, all’inizio e alla fine.

“Due casate, pari per dignità e nobiltà, nella bella Verona dove poniamo la nostra scena, da odio antico si
sollevano verso una nuova guerra, dove il sangue dei cittadini sporca le mani di altri cittadini. Dai lombi
fatali di questi due nemici, prendono vita un paio di amanti vessati dalle stelle, i cui contraccolpi sfortunati e
pietosi seppelliscono, con la loro morte, la lotta dei loro genitori. La traiettoria spaventosa del loro amore
segnato da morte e il persistere dell’odio delle loro casate, che nient’altro se non la morte dei figli poté
azzerare, è adesso l’oggetto della durata della nostra rappresentazione. Se voi ascolterete con orecchie
pazienti ciò che qui mancherà, il nostro sforzo cercherà di porvi riparo”.

L’oggetto della presente scena teatrale è la bella Verona, contesa tra due potenti famiglie, i Capuleti e i
Montecchi, il cui odio inveterato e mai sopito sfocia in una nuova aggressione. I due amanti, protagonisti
della vicenda, nascono sotto una cattiva stella: il dramma si dispiega a causa dell’influenza astrale, ed anche
per l’odio tra le rispettive famiglie. Qualcosa di vessante, un fato già scritto nella nascita e l’odio delle
casate li ha costretti ad un tragico destino: morte sacrificale. L’atto del dare vita, e quindi l’amore che li ha
generati, è, però, mortale perché già contiene i segni dell’odio per la casata opposta (contrapposizione tra
eros e thanatos). La sepoltura reale di Romeo e Giulietta porta, metaforicamente, anche alla sepoltura
dell’odio delle loro famiglie. Il riferimento al tempo scenico è di due ore d’azione, in cui si condensa la storia
non di anni, ma di giorni, ristretta entro i limiti di una singola azione teatrale. Il soggetto, dunque, non è
epico, ma familiare, si tratta una storia d’amore. Il riferimento allo stage, invece, è reso dal “traffic”, il
trambusto della scena, che evoca l’ascolto più che la vista: i suoni suggeriscono ciò che la scena non può
rappresentare fisicamente. Il coinvolgimento dello spettatore è sempre un aspetto fondamentale; non si
parla di lettori, anche se il sonetto suggerisce qualcosa che va oltre la rappresentazione teatrale e sfocia
nella lettura.

C’è una scena in cui i servi delle due famiglie contrapposte si fronteggiano e Shakespeare attua una
mescolanza di alto e basso, sia in quanto linguaggio, che in funzioni sociali; rompe le regole del decoro, per
le quali doveva esistere uniformità del linguaggio e separazione di stili. La sua grandezza sta proprio in
questa rottura delle convenzioni. Il linguaggio basso e scurrile si mescola ad un linguaggio alto, il che fa
risaltare per contrasto il pathos dell’azione, che in alcuni casi tocca e si accosta al comico e al grottesco.

Ci sono anche tanti altri riferimenti nel teatro di Shakespeare sul play within the play, ovvero il dramma nel
dramma, in cui attori spiriti vengono convocati, come ad esempio per celebrare le nozze tra Ferdinand e
Miranda; poi spariscono, allo stesso modo di una rappresentazione teatrale che, in realtà, si rivela essere
una specie di sogno (Sogno di una notte di mezza estate). Riferimento al globo e al Globe, il teatro.

EDWARD III: epilogo, non più prologo. Speech finale rivolto allo spettatore, envoy, che troviamo in alcuni
drammi di Shakespeare; esso può essere sia pronunciato dall’attore, con una rottura dell’illusione scenica,
sia da uno dei personaggi. In questo caso, è il Black Prince che si rivolge al padre, Edward III, ma in realtà si
sta rivolgendo al pubblico, che non è fatto di spettatori, ma di lettori (“when they read”). Dramma storico di
collaborazione, non incluso nel folio. Questa scena, la n.18, è particolare, perché forse non è stata scritta
unicamente da Shakespeare, c’è piuttosto un collaboratore che si rivolge ai lettori: la stampa di queste
opere presuppone l’esistenza di qualcuno che possa fruirne. Mentre in “Henry V” e “Romeo and Juliet” c’è
un appello rivolto agli spettatori, in questo epilogo il riferimento è ai lettori. Il protagonista, oltre al re
Edward III, è il Black Prince, Eduardo Principe del Galles. Il giovane sta parlando a suo padre e, consapevole
del suo grande valore, auspica che anche altri nobili inglesi mostrino altrettanto coraggio ore per difendere
l’Inghilterra dai suoi nemici.

“E per parte mia, le cicatrici sanguinose che porto, le notti stanche in cui ho vegliato nei campi di battaglia,
le guerre pericolose a cui ho partecipato e le spaventose minacce che mi sono state rivolte, il caldo e il
freddo e tutte le cose spiacevoli che ho sopportato, vorrei che tutto fosse raddoppiato per venti volte, così
che le età future, quando leggeranno il doloroso trambusto della mia tenera giovinezza, possano essere
infiammati ad azione, cosicché non solo i territori della Francia, ma ugualmente la Spagna, la Turchia e gli
altri paesi che giustamente provocano l’ira della bella Inghilterra, possano alla loro presenza tremare e
ritirarsi”.

Forma dell’exemplum, genere letterario che si sviluppa fortemente del Medioevo, ma che ha origini molto
più antiche; suggerisce un valore esemplare alla narrazione. L’azione storica è quella della Guerra dei
Cent’Anni, quindi viene rappresentato un tempo storico passato, in cui si fa riferimento anche riferimento
al presente: i nemici di cui si parla nel dramma sono i francesi, ma alla fine del Cinquecento, non erano più
quelli del tempo rappresentato, quanto piuttosto la Spagna e la Turchia. Non esistono molte testimonianze
di questa messinscena, ma la storia trae ispirazione da fonti e scritti storici che Shakespeare e chi con lui
collaborò ebbero attenzione di consultare. L’opera ha un finale patriottico e rappresenta il caso più forte di
un invito rivolto ad un pubblico di lettori, i quali dovranno essere infiammati dalle parole e trovare il
coraggio per agire contro i nemici del loro tempo. Closet drama: si afferma anche nell’età elisabettiana, un
dramma da leggere al chiuso, in una stanza. Quelli di Shakespeare non lo sono, hanno una costruzione
teatrale, eppure una doppia versione di questi drammi ci fa pensare che egli avesse in mente anche un
pubblico di lettori, oltre a quello di spettatori.

OPERE DI COLLABORAZIONE DI SHAKESPEARE: nel 1623, viene pubblicato un folio con 36 drammi. Alcuni ne
sono esclusi, perché forse perché gli autori volevano includere solo quelli composti interamente da lui, ma
qualcheduno è già presente come frutto di una collaborazione, per esempio Henry VIII, perciò si suppone
che fossero stati preferiti quelli in cui il suo intervento era stato maggiore e più incisivo. Contrariamente,
Ben Johnson, quando fece pubblicare un folio delle sue opere, volle che il folio celebrasse se stesso come
poeta, contiene sia i drammi che le poesie.

CRITERI GENERALI DI ATTRIBUZIONE: in alcune opere non ci sono internal evidences come la firma od il
nome della compagnia, né un’external evidence che dichiari che quell’opera sia da attribuire a Shakespeare,
ma sono presenti soltanto il titolo del dramma ed il nome dello stampatore. La prima attribuzione arriva
soltanto nel Settecento, raggiunta grazie ad un’evidenza interna testuale, per elementi stilistici e testuali.
Oggi si tende a considerarla parzialmente shakespeariana; ci sono molte affinità verbali con i sonnets. Nel
dramma “Edward III” c’è, in particolare, un verso “i gigli che imputridiscono puzzano molto più nelle
erbacce”, presente anche in uno dei sonetti, il n. 94. Oltre a questo verso, ci sono molti altri etimi verbali
affini. La storia è sempre ambientata durante la Guerra dei Cent’Anni, ma racconta anche di un re, Edgard,
che s’innamora di una donna, ed il suo linguaggio amoroso somiglia molto a quello proprio dei sonetti. Il re
è colpevole perché, essendo sposato, corteggia una dama a sua volta sposata. I gigli rappresentano, in
questo caso, una regalità cattiva, perché egli compie un delitto contro Dio e la sacralità del vincolo
coniugale, gesto tanto più riprovevole per un sovrano. Stesso riferimento anche nell’Amleto, in cui Ophelia
sostiene che il re sia l’oggetto dello sguardo di tutti i sudditi, che lo prendono d’esempio, per cui le azioni
che compie hanno una risonanza ampia. Le azioni riprovevoli sono condannabili in tutti, ma commesse da
un re assumono un peso ancora maggiore (in questo senso, il re puzza più del popolo).

09.03.2021

Il 1595 sembrerebbe essere la data presunta di composizione di “Romeo and Juliet”. I criteri per stabilire la
datazione di un’opera sono congetturali e molto ipotetici, e si basano su un’internal evidence ed
un’external evidence: dati che sembrano oggettivi hanno, in ogni caso, un certo grado di dubbio,
nonostante siano maggiormente affidabili rispetto ai criteri interni stilistici. “Romeo and Juliet” è un’opera
giovanile, prodotta prima di “Hamlet”, e presenta molte affinità con altre produzioni shakespeariane: l’idea
della bellezza non sfruttata, che diventa uno spreco di vita, è un concetto che si può ritrovare nella prima
parte dei sonetti, perciò è probabile che ci sia una convergenza temporale. Questi furono pubblicati nel
1609, ma erano stati già composti molti anni prima; la loro datazione è piuttosto incerta. L’opera è
pervenuta in due edizioni in quarto, Q1 e Q2. Esistono anche Q3, Q4 ed il folio, ma si tratta di edizioni
corrette e ristampate, non testualmente indipendenti.

 Q1 del 1597: l’editore era in possesso di un documento diverso da quello del second quarto, più
breve e testualmente meno accurato. Il frontespizio riporta la dicitura: “as it had been often with
great applause plais publiquely”, lasciando intendere che si tratti di una acting version, pubblicata
così com’è stata messa in scena. Poiché non esisteva il diritto d’autore, l’editore stampava il testo a
prescindere dall’autorizzazione dello scrittore. Questa considerazione è riscontrabile nella cattiva
qualità del testo, lacunoso e pieno di errori. Una delle ipotesi accordate è che si tratti di un bad
quarto, secondo A. Pollard: un testo arrivato per vie traverse, magari ricostruito a memoria da un
attore che aveva recitato più ruoli e aveva venduto il testo all’editore, oppure il testo di uno
stenografo. Possiamo anche immaginare che la sua brevità derivi dal fatto che questa versione
fosse un performance text, ovvero per la scena e non da destinare alla lettura. Addirittura, un testo
ancor più breve era redatto per le rappresentazioni nelle province, mentre al pubblico di Londra era
riservata la performance più ampia.
 Q2 del 1599: il frontespizio riporta la dicitura: “newly corrected, argumented, and amended: as it
had been sundry times publiquely acted”, si tratta anche in questo caso di un performance text e,
soprattutto, di un foul paper, e ciò è deducibile dal fatto che ci sono alcuni errori riguardanti i nomi
dei personaggi, ma quello più grossolano è una sequenza recitata da Romeo, stampata due volte. Il
Q2 è un copy text, edizione autorevole utilizzata come base per le edizioni moderne dell’opera.
Nell’edizione Arden, per esempio, compare la suddivisione in atti, cosa che non esisteva all’epoca di
Shakespeare. Nell’edizione Oxford, invece, si tengono fede e accuratezza storica alla divisione in
scene.
 Q3, Q4 e folio non sono edizioni indipendenti dalle prime due, ma sono solo semplici ristampe con
piccole e minime correzioni.

I teatri elisabettiani andarono tutti distrutti: il Globe fu incendiato durante una rappresentazione di Enrico
VIII, a causa di un colpo d’arma che ridusse l’intera struttura in cenere. Il Globe è stato ricostruito a Londra,
grazie al supporto di stampe ed attestazioni grafiche.

ATTO I, SCENA I. Shakespeare opera il mescolamento dei generi, ma in questa prima scena c’è dominanza
del grottesco, della comicità, generata dalla presentazione di personaggi di bassa estrazione sociale, che
recitano ruoli particolari. La scena è aperta dai servi della famiglia dei Capuleti e da quelli dei Montecchi, il
cui scontro diventa prolettico, ovvero anticipa ciò che verrà svelato nel dramma successivamente. Il
mescolamento non avviene solo nel linguaggio, ma anche nello stile e nel decoro: alto e basso, registro
epico e tragedia, registro comico e commedia. L’amore lacrimoso dei protagonisti e la faida tra le famiglie
hanno delle analogie con la storia di Piramo e Tisbe, il cui mito Shakespeare riprende dalle “ Metamorfosi”
di Ovidio: le famiglie dei giovani innamorati sono rivali ed essi possono comunicare soltanto attraverso un
foro nella parete. Tisbe scappa, indossa un velo bianco, e s’imbatte in una tigre affamata che ha appena
ucciso una preda, e che finisce per imbrattarla di sangue. Piramo la insegue, trova il velo macchiato di rosso
e crede che Tisbe sia stata uccisa dal felino, così si toglie la vita. La giovane ritorna e si accorge del gesto
commesso dall’amante, così decide di raggiungerlo. Shakespeare racconta la stessa storia anche in
“Midsummer night’s dream”, in quanto gli attori mettono in scena questa tragedia lacrimosa in chiave
comica.

La prima scena del dramma si divide in tre parti:

 vv. 1-78;
 vv. 79-101;
 vv. 114.

In apertura si realizza la lite tra i servi dei Capuleti e quelli dei Montecchi, in una scena comica e prolettica,
che anticipa la faida tra le famiglie e la fine tragica dello spettacolo. Nell’intermezzo entra in scena Escalus,
Principe di Verona ed esponente di una famiglia nobile della città, che sta a simboleggiare la giustizia.
Interviene per dividere coloro che litigano, ma non è coinvolto direttamente nell’azione, è un personaggio
con una funzione metateatrale. Nella parte finale, appare un Romeo innamorato e non corrisposto, che
esprime le sue pene d’amore per Rosaline in un linguaggio cortese e petrarchesco.
La comicità della scena viene generata dal fatto che tutte le guasconate di Sanson sono mediate
dall’intervento di Gregory, che fraintende appositamente le sue parole e lo smonta, fingendo di non capire
ciò che il compagno in realtà, vuole dire. Sminuisce il suo valore, il coraggio ed anche la sua prestanza
sessuale: Sanson non soltanto vuole sfidare a duello i Montecchi, ma vuole anche godere di tutte le donne
della famiglia. Sul piano stilistico, poetico e tematico dell’opera, è proprio la figura di questo buffone a
svelare la verità delle cose. La comicità è affidata anche ad altri personaggi del dramma, come la balia di
Juliet, che si fa portatrice del concetto di sensualità, al contrario di quanto, invece, diciamo di Romeo.

ATTO I, SCENA I.
Sanson: “Gregory, sulla mia parola non ci lasceremo sporcare, non tollereremo offese”.
Gregory: “No, perché in quel caso saremmo facchini”.
Sanson: “Intendo dire che se ci faranno arrabbiare, tireremo fuori le spade”.
Gregory: “Sì, finché vivi, cerca di tenere il tuo collo lontano dal cappio”.

È complicato per gli interpreti ricreare il doppio senso delle parole. “Carry coals” ha un significato
idiomatico, fa parte di una serie di locuzioni proverbiali, letteralmente “non porteremo il carbone”. Gregory
finge continuamente di non capire il vero senso delle parole di Sanson, il quale si rende conto di esser stato
frainteso e cerca di spiegarsi. Le spade sono palesi e oscene allusioni di tipo sessuale. “An” sta per “if”.
Gregory mette in guardia Sanson sul rischio di poter essere arrestato e giustiziato, se non rispetta le regole
civili. Questi primi versi, quindi, riportano l’odio tra le famiglie, incarnato sul versante comico dalle
spacconate dei loro servi.

Sanson: “Io colpisco prontamente, se vengo provocato”.


Gregory: “Ma non ti offendi velocemente”.
Sanson: “Un cane della casa dei Montecchi mi fa arrabbiare”.
Gregory: “Muoversi significa colpire, essere valorosi significa rimanere fermi. Pertanto, se ti muovi, significa
che corri”.
Sanson: “Un cane di quella casata mi farà restare fermo. Metterò al muro qualsiasi uomo o donna dei
Montecchi”.
Gregory: “Questo dimostra che sei un codardo, perché il più debole si fa mettere al muro”.
Sanson: “È vero, e pertanto le donne, essendo i vasi più deboli, sono spinte verso il muro. Pertanto, spingerò
lontano dalle mura i Montecchi e verso le mura le donne”.
Gregory: “La lite è tra i nostri padroni e noi, i loro uomini”.
Sanson: “È la stessa cosa, sarò un tiranno. Quando avrò combattuto con gli uomini, sarò crudele con le
donne e taglierò le loro teste”.
Gregory: “Le teste delle donne?”
Sanson: “Sì, o le loro teste, oppure la loro verginità, prendila come preferisci”.
Gregory: “Devono prenderlo le donne nel modo in cui più piace a loro”.
Sanson: “Le metterò al muro e mi serviranno fisicamente. E si sa, sono un bel pezzo di carne”.
Gregory: “Buon per te che non sei un pesce, perché se lo fossi, saresti un baccalà. Tira fuori il tuo arnese,
ecco che vendono due della casata dei Montecchi”.
Sanson: “Il mio nudo arnese è fuori: provocali, ti guardo le spalle”.
Gregory: “Come? Vuoi girare le spalle e correre via?”
Sanson: “Non avere paura”.
Gregory: “No, per carità, paura di te?”
Sanson: “Restiamo dal lato della legge, aspettiamo che siano loro a provocarci”.
Gregory: “Io aggrotterò le sopracciglia mentre passo vicino a loro, e la intendano come vogliono”.
Sanson: “Non la prenderanno come vogliono, ma come osano. Mi morderò il pollice che sarà una vergogna
per loro se lo sopportano”.

Il verbo “move” può avere più significati: individua il movimento, ma anche la provocazione. Chi agisce in
modo lento ad un’offesa, è più codardo di quanto non crede, perché soltanto colui che è coraggioso resta
fermo. “To move” in opposizione a “to stand”. I due servi giocano con le parole e c’è la continua allusione al
sessismo: le donne sono il sesso debole e vanno messe al muro per soddisfare gli istinti maschili. Le loro
teste simboleggiano, in realtà, la loro verginità, essendo tutte quasi molto giovani (Juliet non ha nemmeno
quattordici anni). Gioco di parole, carne e pesce: Sanson è prestante sessualmente, è “un bel pezzo di
carne”, ma “carne” anche in riferimento all’alimento (“flesh”). Entrano in scena i due servitori della casata
dei Montecchi, uno di loro è Abraham. Le parentesi quadre inserite riportano alcune precisazioni fatte
dall’editore, che non sono presenti nel testo originale. Sanson utilizza un linguaggio di sfida, cerca di essere
aggressivo anche nella mimica, in realtà è un coniglio, tanto che chiede a Gregory di anticiparlo e provocarli
per ottenere una reazione: “back”, infatti, sta per “spalleggiare”, ma anche per “darsela a gambe”,
scappare. In questo modo, ridicolizza il linguaggio d’onore.

[Entrano ABRAHAM e BALTHASAR]

Abraham: “Vi mordete il dito per noi, signore?”


Sanson: “Mi mordo il dito, signore”.
Abraham: “Vi mordere il dito per noi, signore?”
Sanson [da parte a Gregory]: “La legge è dalla nostra parte, se dico di sì?”
Gregory: “No”.
Sanson: “No, signore. Non mi mordo il dito per voi, signore, ma mi mordo il dito, signore”.
Gregory: “Intendete litigare, signore?”
Abraham: “Litigare? No, signore”.
Sanson: “Se volete, signore, sono qui per voi: sono un bravo servo come voi”.
Abraham: “Non migliore”.
Sanson: “Bene, signore”.

Entra Benvolio

Gregory: “Digli ‘migliore’: arriva uno dei parenti del mio padrone”.
Sanson: “Sì, migliore, signore”.
Abraham: “Voi mentite”.
Sanson: “Tirate fuori le spade, se siete uomini. Gregory, preparati ad assestare il tuo colpo”.

L’atteggiamento aggressivo dei servi continua a manifestarsi, ma è velato di timore; si consultano sulla cosa
più giusta da dire o da fare. Poi cominciano a combattere e la lite degenera: dal linguaggio del corpo
giungono a sguainare le spade. D’improvviso, entra Benvolio, della famiglia dei Montecchi, che invece cerca
di calmarli.

[Combattono]

Benvolio: “Separatevi, sciocchi! Riponete le vostre spade; sapete cosa fare”.

[Entra Tebaldo]

Tebaldo: “Come, vi lasciate tirare in mezza da questi impavidi servi? Tira fuori la spada, Benvolio, e guarda
in faccia la tua morte”.
Benvolio: “Cerco soltanto di mantenere la pace: metti giù la tua spada, oppure usala dividere questi uomini
insieme a me”.
Tebaldo: “Come, tieni in pugno la spada, e parli di pace! Odio questa parola, così come odio l’inferno, tutti i
Montecchi, e te: prendi questo, codardo!”

[Combattono]
[Entrano alcuni da entrambe le casate, che si aggiungono all’azzuffa; poi entrano i cittadini, con i bastoni]

La lite può essere ridimensionata se si ascoltano le parole della saggezza e del buon senso incarnati da
Benvolio, ma degenera se ci si adegua al codice dell’onore, della sfida, linguaggio incarnati da Tebaldo,
cugino di Giulietta, rissoso e attaccabrighe, che reputa Benvolio un fifone, un pavido e timoroso. I cittadini
che si uniscono alla mischia non parteggiano per una casata in particolare, ma vorrebbero che le rivalità
fossero appianate e che ritornasse la serenità tra le strade della città.

Primo Cittadino: “Bastoni, picconi, e partigiani! Colpite! Abbatteteli! Abbattete i Capuleti! Abbattete i
Montecchi!
[Entrano il signor Capuleti, in abito lungo, e sua moglie]

Signor Capuleti: “Cos’è questa confusione? Datemi la mia lunga spada”.


Signora Capuleti: “Una gruccia, una gruccia! Che te ne fai di una spada?”
Signor Capuleti: “La mia spada, dico! Il vecchio Montecchi è arrivato, e agita la sua lama contro di me”.

[Entrano il signore e la signora Montecchi]

Signor Montecchi: “Tu villano di un Capuleti, – Non trattenermi, lasciami andare”.


Signora Montecchi: “Non muoverai un piede per scontrare il nemico”.

[Entra il principe con il suo seguito]

Principe: “Voi, sudditi ribelli, nemici della pace, che profanate le spade con il sangue cittadino - ehi voi, non
volete ascoltarmi? Dico a voi, uomini, bestie, capaci di spegnere il fuoco della vostra rabbia pericolosa nelle
rosse fontane che sgorgano dalle vostre vene! Se non volete esser torturati, aprite quelle mani piene di
sangue e lasciate cadere quelle armi mal dirette: ascoltate la condanna del vostro Principe sdegnato! Già
tre scontri, nati da parole piene di vento, per colpa tua, vecchio Capuleti, e tua, vecchio Montecchi, hanno
per tre volte disturbato la quiete delle nostre strade e costretto gli anziani di Verona a deporre i loro abiti
severi per impugnare armi, vecchie come le loro mani e ormai arrugginite dalla pace, al fine di dividervi, voi,
arrugginiti nei vostri odi. Se mai disturberete ancora le nostre strade, la vostra vita sarà il prezzo della pace
distrutta. Per questa volta, via tutti. Voi, Capuleti, verrete via adesso con me, e voi, Montecchi, venite
questo pomeriggio al vecchio castello di Villafranca, dove amministriamo la giustizia, così saprete
ufficialmente ciò che ho deciso su questo caso. Adesso, e lo ripeto per l’ultima volta, tutti gli uomini se ne
vadano via, pena la morte.”

Entrano anche i Capuleti, l’alto si mescola col basso. I due capifamiglia sono invecchiati, non riescono più a
competere nel combattimento con i più giovani, e le donne li trattengono dall’immischiarsi, ironizzando
sulla loro condizione: il linguaggio militare viene riprodotto in chiave parodica (“crunch”) e si ripercuote
ancora una volta su un’allusione a sfondo sessuale, perché i vecchi sono impotenti. Entrano i Montecchi, la
signora madre di Romeno trattiene suo marito. L’intervento che scioglie la lite viene dall’entrata in scena di
Escalus, Principe di Verona, che rappresenta i Della Scala. Escalus è un personaggio super partes, ha il
compito di giudizio morale e legale sulla scena e funzione metateatrale di giudizio esterno. In un’analessi,
ha memoria del passato: già per tre volte le due casate hanno portato scompiglio in città. Inizialmente
rivolge alla platea una minaccia generale, poi convoca singolarmente famiglie, per far sì che venga
recuperato un clima di pace.

[Escono tutti, tranne i signori Montecchi e Benvolio]

Signor Montecchi: “Chi ha rimesso in piedi questa vecchia contesa? Parla, nipote, sei stato tu a
cominciare?”
Benvolio: “Qui c’erano i servi del tuo avversario ed i tuoi servi a combattere prima che io arrivassi: ho
cercato di dividerli: in un istante è arrivato il furioso Tebaldo, con la sua spada sguainata, ha cominciato a
gridarmi parole di sfida, agitando la lama sopra la testa e fendendo il vento, che, incolume, gli rispondeva
con fischi di scherno. E mentre ci scambiavamo affondi e colpi, si fece avanti un mucchio di gente
schierandosi chi di qua, chi di là, finché è arrivato il Principe, che ha diviso le parti”.

Benvolio si è accorto della lite tra i servitori e ha cercato di sedarla, ma il furioso e l’aggressivo Tebaldo gli si
è scagliato contro, costringendolo a battersi. In questo punto comincia la terza parte della scena.

11.03.2021

Il first quarto di “Romeo and Juliet” viene pubblicato nel 1597. Sul frontespizio comparivano il nome dello
stampatore e della compagnia che aveva messo in scena il dramma: “plaid publiquely, by the right
Honourable the L. of Hunsdon his Servants”, ovvero “messo in scena dai servi dell’onorevole Lord
Hunsdon”. In epoca elisabettiana, le compagnie si affidavano ad un patrono, i cui servi diventavano gli
attori. La compagnia di Shakespeare era quella dei Lord Chambelain’s Men, fino al 1603, quando cambiò in
King’s men, ma in un intervallo molto breve in cui smise di servire il Lord Ciambellano, diventò, appunto, la
compagnia di Lord of Hunsdon, tra il 1596 ed il 1597. Il fatto che compaia il nome della compagnia nel
frontespizio, così come si configurava tra il ‘96 ed il ‘97, fornisce un’informazione in più: abbiamo certezza
del nome della compagnia nelle date indicate, ma non si sa molto degli anni precedenti (criterio esterno
della narrazione). Un altro elemento interessante che emerge nel first quarto è quello del cast: gli attori che
avevano messo in scena il first quarto erano in numero minore rispetto a quelli del second quarto, perché
quest’ultimo possiede un numero maggiore di personaggi, o probabilmente perché gli interpreti avevano
uno spazio più ridotto per recitare. Le compagnie erano formate soltanto da attori maschi e tra loro era
diffusa la pratica del doubling, ovvero un attore poteva interpretare più ruoli, il che permetteva un
risparmio anche in termini di spazio. È possibile congetturare quali e quanti attori recitavano in più ruoli
guardando all’organizzazione delle battute di cui i critici si sono ampiamente occupati (Romeo e Juliet, non
sono tra questi ruoli, perché diversamente non avrebbero potuto esibirsi insieme sul palco). Delle
rappresentazioni teatrali esiste anche qualche resoconto redatto dal pubblico dell’epoca, come quello di
uno spettatore svizzero sul dramma di “Julius Caesar”, oltre quelli ricavati dai teatri, da stampe e incisioni.

LE FONTI. Altra questione fondamentale è quella delle fonti: in inglese, distinguiamo tra sources e
analogues, ovvero le fonti e i modelli letterari. Quest’ultime sono fonti simili al testo drammatico, ma di cui
non c’è certezza che siano state prese d’esempio – come nel caso del mito di Piramo e Tisbe: Shakespeare
conosceva con certezza il mito perché, in “Midsummer night’s dream”, attori molto improvvisati lo mettono
in scena in modo lamentevole, con un mix di tragico e grottesco, ricreato dall’incapacità degli attori di
recitare bene, e conosceva molto bene l’autore, grazie alla traduzione del 1567 di Arthur Golding, “ Ovid’s
Metamorphoses”, di cui, in vari testi non c’è un plagio, ma una ripresa molto ravvicinata dei versi di
quest’opera. Altre fonti sono quelle all’intreccio e allo stile. Oltre al plot, Shakespeare usa modelli letterari
preesistenti anche nella scelta dello stile e del linguaggio, influenza del petrarchismo. Possiamo distinguere
tra fonti dirette e fonti indirette: la storia di Romeo e Giulietta viene raccontata da tanti, a partire da Dante,
di cui Shakespeare, probabilmente, non sapeva nulla. Al contrario, aveva letto il poemetto di Arthur Brooke,
il quale riprende la storia dei due innamorati. In origine, le due famiglie in contrasto erano quella ghibellina
veronese dei Montecchi e quella cremonese guelfa dei Cappelletti, di cui c’è un primo riferimento nel
Purgatorio della “Divida Commedia”, canto VI, v. 106: “vieni a veder Montecchi e Cappelletti”. Quindi,
l’unica fonte diretta utilizzata da Shakespeare è il poemetto di Brooke. In più, ci sono la versione di Luigi da
Porto del 1530, “Historia… di due nobili amanti” e di Matteo Bandello, nelle “Novelle” del 1554, la cui
influenza notevole si ripercuote nella novellistica inglese: la storia è ambientata in una Verona trecentesca,
durante il governo di Bartolomeo dalla Scala, nonostante fosse stata scritta due secoli dopo, nel
Cinquecento. Chiaramente, Bartolomeo dalla Scala diventa Escalus in Shakespeare; il nome di questo
governatore, ancora oggi, è simbolo della città e dei suoi cittadini (veronesi, o scaligeri). È possibile che il
nome Escalus, che ritorna anche in un’altra opera di Shakespeare, abbia un ulteriore significato: quello della
bilancia. Escalus, infatti, è il simbolo della giustizia, che soppesa le ragioni e i torti delle due famiglie rivali.
Un altro riferimento alle fonti è William Painter che, in “The Palace of Pleasure” del 1567, traduce in inglese
le novelle di Matteo Bandello, il quale, a sua volta, attinge dalla “Tragical history of Romeus and Juliet” di
Arthur Brooke del 1562, poi ristampato, composto da più di tremila versi. Quindi, ancora una conferma del
fatto che l’unica fonte diretta di Shakespeare sia Brooke, da cui riprende una serie di dettagli non sono
presenti nell’opera di Painter.
Come sappiamo, Shakespeare non era inventore di intrecci originali, piuttosto ne riprendeva alcuni
preesistenti e gli dava vita totalmente nuova, arricchendoli con dettagli, personaggi e caratterizzazioni
psicologiche rinnovate, che cambiavano anche il senso del testo: per esempio, introduce la figura della balia
che dà una visione del tutto personale dell’amore, attribuendogli un valore meramente fisico, in netto
contrasto con la visione cortese che, invece, avanza Romeo con le sue sofferenze da innamorato.
Ugualmente Mercutio, che fornisce una sua versione tutta sua degli stilemi della poesia cortese; si tratta di
un personaggio comico, con un’arguzia particolare, che parodia totalmente questi stilemi. Quindi,
l’elemento parodico metatestuale del dramma nasce anche dall’avere sviluppato questi personaggi che, in
origine, in Brooke avevano uno spazio minore.

1.1. Diegesi e mimesi. Il passaggio più importante del testo è quello dalla forma poetica a quella
drammatica: il lettore o lo spettatore riescono a ricostruire la trama del racconto attraverso lo scambio
dialogico tra i personaggi (mimesi), non più con la mediazione di un personaggio che racconta ciò che
sta accadendo (diegesi). Da qui, una compressione temporale: secondo la visione aristotelica espressa
nella “Poetica”, l’opera teatrale doveva rispettare le unità di tempo, luogo e spazio, ciò che non accade
nel dramma dei due innamorati: la storia si dispiega in cinque giorni negli scenari cittadini di Verona e
Mantova. Anche nel poemetto di Brooke queste unità non vengono rispettate, ma gli eventi si
sviluppano nel corso di molti anni, per cui il tempo dell’opera shakespeariana è più breve rispetto a
quello della fonte diretta: è dalle battute dei personaggi che si coglie il flusso del tempo. Questa brevità
e la compressione temporale hanno un significato molto particolare: l’amore ardente e così forte di
Romeo e Giulietta è una fuga verso la morte, all’intensità della loro passione è legato il finale tragico del
dramma.
1.2. Giudizio dell’opera. Il giudizio che Arthur Brooke dà all’inizio del suo poemetto, in realtà, non coincide
totalmente col senso dell’intera opera: nella preface, l’autore dà una sua lettura della storia che sembra
smentirsi a mano a mano che gli eventi vengono illustrati. In Brooke c’è qualcosa di simile a ciò che
succede in “Moll Flanders” di Defoe, del 1722: il testo è la storia di una prostituta, che successivamente
diventa una ladra, di cui vengono descritte le vicende con un certo piacere. In realtà, ciò che traspare
dalla prefazione è il monito dell’autore per il lettore a non comportarsi allo stesso modo di questa
donna. Allo stesso modo, Brooke mostra una sorta di empatia per i giovani innamorati, ma nella
prefazione afferma che la loro punizione sia giusta perché ribelli, lussuriosi e portatori di un “ unhonest
desire”: “And to this end (good reader) is this tragical matter written, to describe unto thee a couple of
infortunate lovers, thralling themselves to unhonest desire, neglecting the authority and advice of
parents and friends, conferring their principal counsels with drunken gossips, and superstitious friars…
using auricular confession…”, ovvero vengono puniti per aver disubbidito all’autorità, ai loro genitori e
agli amici, per aver ascoltato i consigli sbagliati di comari ubriacone e frati superstiziosi, per aver fatto
un uso scorretto della confessione auricolare. Quest’ultimo è un dato molto interessante: nel
confessionale, il sacerdote ascolta i fedeli, ma non è in grado guardarli in viso, perciò gli concede il
perdono soltanto quando percepisce come vero il pentimento, spontaneo. I giovani protagonisti del
dramma, però, non sono assolutamente pentiti e piuttosto che l’assoluzione, chiedono al frate consiglio
su come poter sfuggire all’astio delle famiglie per vivere il loro amore liberamente. Ne deriva, così, un
uso un po’ distorto e abusato, quasi blasfemato del sacramento. Il tragical matter è quasi un
exemplum: gli amanti lussuriosi sono stati condannati ed il lettore non deve comportarsi come loro,
non deve agire in modo così immorale, perché potrebbe spettargli la stessa tragica fine. Come
anticipato, però, l’interpretazione moralistica non coincide con il poemetto, più morbido e meno
censorio nei confronti degli innamorati.

MODELLI TRAGICI. Secondo la critica ottocentesca, esistono due filoni particolari d’indagine che si pongono
il problema dell’identificazione del dramma shakespeariano: di quale genere fa parte? Possiamo parlare di
tragedy of fate oppure di tragedy of character? Entriamo nei dettagli di un dilemma tutt’ora attuale: ciò che
accade è scritto nel fato, nel destino, nelle stelle, oppure è il risultato di un errore, di un comportamento
umano sbagliato? Con riferimento alla storia dei due amanti, il prologo del dramma sembrerebbe
protendere verso una lettura in chiave più metafisica dei fatti, considerandolo, perciò, una tragedy of fate.
Ma adottando il punto di vista di Arthur Brooke, dovremmo ritenerlo una tragedy of character, in cui
l’errore attribuito ai giovani, o ai genitori, genera la tragedia finale. L’idea del fato si ramifica in ulteriori
letture: esiste un’entità soprannaturale che condiziona tutti gli eventi. L’uomo crede di essere libero ma, in
realtà, il suo destino è già scritto. Tuttavia, non è possibile approdare ad una soluzione definitiva, in quanto
nelle varie opere che ha composto, Shakespeare non sempre parla in modo consistente di fato, di stelle o di
destino, per cui il modo giusto di leggere il testo, probabilmente, passa per la valutazione di entrambe le
modalità.
Per ritornare al concetto di fato, è possibile leggervi anche l’intervento della fortuna nel suo senso
medievale: la tragedy of fortune ha qualche assonanza con il concetto greco di fato, ma non è la stessa
cosa; essa esisteva nel medioevo, non come genere drammatico, ma come genere narrativo. La tragedia
come genere drammatico, insieme alla commedia, nasce in Inghilterra nella seconda metà del Cinquecento
su imitazione dei modelli classici, e “Gorboduc” del 1562, di Thomas Norton e Thomas Sackville, viene
considerata la prima vera tragedia inglese. Nelle epoche precedenti, il teatro era di tipo religioso ma,
nonostante ciò, spunti tragici erano già presenti nei vari racconti di Geoffrey Chaucer.

Quindi, la fortuna shakespeariana ha un retaggio diverso, legato all’orizzonte medievale. I riferimenti sono
anche alle stelle: in virtù dello studio rinascimentale dell’astrologia, l’idea che il destino è legato
all’influenza del cielo, all’influsso dei pianeti che condiziona tutto ciò che accade. C’è un momento del
dramma in cui Romeo afferma di voler sfidare le stelle per riappropriarsi della propria autonomia e del
proprio libero arbitrio, per poter cancellare qualcosa che è già stato stabilito da un’entità ingovernabile.
Anche il caso è un altro elemento chiave della narrazione e si traduce in una concatenazione di eventi non
necessaria o predeterminata, contrariamente al fato, che si configura come un insieme di eventi che
seguono necessariamente una direzione già stabilita. Il caso condiziona la vita dall’esterno, ma secondo un
orizzonte casuale: un elemento può cambiare l’intero corso della storia, in positivo o in negativo. In
“Romeo and Juliet” il caso è presente già all’inizio della seconda scena, quando Romeo incontra il servo
analfabeta dei Capuleti, mandato dal suo signore per invitare tutti ad una festa che sarà celebrata il giorno
seguente nella loro casa. Nell’elenco che possiede il servo, tra i nomi di tutti gli invitati, il giovane scorge
anche quello di Rosalina, la donna di cui è follemente innamorato, ma che non ricambia i suoi sentimenti.
Così, decide di presentarsi alla festa mascherato, in modo da non essere riconosciuto, e lì vede Giulietta e
se ne innamora perdutamente. Se Shakespeare non avesse pensato all’incontro tra Romeo ed il servo dei
Capuleti, la tragedia non avrebbe potuto realizzarsi. Ancora: una lettera avrebbe dovuto avvisare il giovane
Romeo che Giulietta giaceva addormentata nella cripta della sua famiglia dopo aver bevuto la pozione che
frate Lorenzo le aveva consigliato di bere per evitare il matrimonio anticipato con Paride, e che in realtà
non era morta, ma il frate che la porta con sé viene bloccato durante il cammino dal sopraggiungere della
peste e non riesce a raggiungere in tempo Romeo, che ha già fatto ritorno da Mantova per ricongiungersi
con la sua amata. Il giovane compra una fiala di veleno e al suo arrivo nella cripta, sul corpo immobile e
freddo di Giulietta, la beve e muore. Pochi istanti dopo, la ragazza si risveglia e, alla vista del corpo senza
vita di Romeo, gli estrae il pugnale dalla cintola e si uccide. L’equivoco, quindi, è la principale condizione che
genera la tragedia finale e sfocia nella morte, insieme ad un tempismo impreciso.

Il “character” è un personaggio, ma anche un riferimento alla lettera alfabetica, in cui è inciso l’essenza di
ognuno. Nella tragedy of character, la colpa ricade su qualcuno – l’odio delle rispettive famiglie – o su
qualcuno – la lussuria dei giovani o un errore umano: non vi è dimensione religiosa, non c’è un giudizio
moraleggiate, ma tutto è letto in chiave laica.

I modelli tragici da cui trae spunto la vicenda sono quelli della hybris e della nemesis, ovvero della vendetta:
secondo lo schema riconducibile alla tragedia greca di colpa e conseguenza della colpa, la punizione inflitta
dagli dèi in seguito ad un’azione di hybris, può trasformarsi in espiazione anche per chi non è responsabile
del peccato, infatti i giovani innamorati sono coloro che scontano la colpa dei genitori. La nemesi è una
vendetta divina, ma possiamo anche guardarla in un senso meno strettamente religioso, di un’espiazione,
sulla base di un’interdipendenza tra piano umano e ultraterreno.
Nella preface di Arthur Brooke si parla, quindi, di tragedy of character, ma questa definizione calza molto
meno per Shakespeare, perché la lettura prevalente dell’opera condanna l’astio furioso tra le famiglie,
mentre i giovani amano di un amore puro ed innocuo. In inglese, questo odio è reso col termine feud, “odio
feudale”, perché il motivo risiede nella contesa del potere sulla città, è determinato da questioni
economiche. In quest’ottica, Romeo e Giulietta non sono peccatori, ma vittime di costrizione sociale,
costretti a nascondersi e a vivere il loro amore clandestinamente. L’altra lettura della tragedy of character
segue l’hamarthìa: in inglese, parleremmo di tragedy flaw, non di un peccato o una colpa, ma un “errore di
valutazione” commesso in buona fede, come quello del frate che consegna a Giulietta la pozione per farla
addormentare, senza considerare le conseguenze del suo gesto. Tutto il fatto assume un’accezione negativa
non sul piano morale, ma solo strategico. Allo stesso modo, se Romeo avesse evitato di uccidere Tebaldo
nonostante le sue provocazioni, non sarebbe stato allontanato da Verona e avrebbe potuto,
probabilmente, salvarsi insieme alla sua amata. Questo codice dell’odio e dell’onore sono incarnati, più che
dai vecchi, da Tebaldo, che estremizza ed esaspera questo sentimento. Anche Benvolio è parte di una delle
due famiglie in conflitto ma, al contrario di Tebaldo, cerca di smorzare le ostilità in favore della pace, pur
mantenendo un rapporto di inimicizia.

Un’altra lettura parzialmente affine a quella di Brooke è quella di Marjorie Garber esplicata in “ Coming of
Age in Shakespeare” del 1981, la quale attribuisce la causa dell’intera tragedia agli innamorati, ma non nel
senso di un giudizio moralistico: l’autrice analizza i riti di passaggio dei giovani all’età adulta, ovvero realizza
ciò che per noi è un romanzo di formazione. Nel soffermarsi su Romeo e Giulietta, sottolinea un eccesso di
ardore, identifica una tragedia della giovinezza, dell’inesperienza, un amore troppo avventato e veloce che
non viene condannato, ma che a causa della sua impulsività li ha portati alla morte.

Non intervenendo direttamente sul dramma di Romeo e Giulietta, Jonathan Dollimore, nella sua “Radical
Tragedy” del 1984, realizza uno studio sulla tragedia elisabettiana, e com’è intuibile dal titolo, ne deriva una
lettura politica della tragedia, non dovuta al fato ma al potere: determinate condizioni sociali si portano
dietro esiti tragici e luttuosi. Se applichiamo questa visione dell’autore alla storia dei due innamorati, ciò
che genera la tragedia finale non può esser altro che la lotta tra Montecchi e Capuleti. Anche in questo
caso, quindi, ci troveremmo al cospetto di una tragedy of character, che non ha nulla di religioso, ma tutto
in termini di potere ed interessi economici, che inevitabilmente condizionano le esigenze di ognuno e
rendono più fragile qualcuno.

GIUDIZI CRITICI. Kiernan Ryan, in “Romeo and Juliet. Dal testo alla scena” del 1986, a cura di Mariangela
Tempera, precede lo studio sulla tragedia di Dollimore, ma incarna qualcosa che lo stesso autore avrebbe
potuto sottoscrivere: “L’intera forza della tragedia è nella messa in discussione della legittimità di un
mondo la cui legge priva uomini e donne di un amore senza vincoli […]. La tragedia ci costringe a guardare
[…] gli spaventosi costi, in termini di possibile felicità umana, delle restrizioni materiali e costrizioni
ideologiche che sono alla base della rovina degli innamorati”. Non si tratta di una tragedia del fato e del
destino, ma una tragedia i cui protagonisti sono vittime dell’odio, lotte di potere, interessi economici e
condizionamenti sociali: nessun uomo e nessuna donna può vivere un amore senza vincoli.

John Lawlor in “Romeo and Juliet” del 1961 scrive: “What we see in the close of Romeo and Juliet is not
simply a renewal of a pattern dis-turbed, but its re-ordering; life is not continued merely: it is regenerated.
Only thus do we experience the quality of a ‘Beauty too rich for use, for earth too dear’. It is earth, the realm
of Fortune, that is the loser…. So this love is placed, fittingly, at once beyond reach and beyond change ”.
Un’altra chiave di lettura è che le tragedie di Shakespeare, spesso, si concludono con un renewal: i due
giovani muoiono, ma le loro famiglie si riappacificano; sono vittime dell’odio dei loro genitori, ma la loro
scomparsa consente il ripristino della pace in un’ottica di una morte sacrificale. Lawlor parla, in questo
studio, anche del rapporto tra eros e thanatos, ovvero di amore e morte: viviamo nell’illusione che i nostri
amori non finiscano, ma che piuttosto mantengano un saldo rapporto con coloro che non ci sono più, e la
scena finale del dramma, così come molte altre, riproduce proprio questo rapporto: l’amore di Romeo e
Giulietta riesce a resistere anche alla morte.

IMAGERY. Nella seconda scena del primo atto del dramma, entra in scena il conte Paride, un parente dei
Capuleti, che chiede la mano di Giulietta a suo padre, il quale si mostra favorevole a questa richiesta, ma fa
notare al giovane che sua figlia è ancora troppo giovane per sposarsi e gli chiede di posticipare le nozze.
Accetta, comunque, che il ragazzo la corteggi. Nelle varie versioni dell’opera c’è una differenza d’età per il
personaggio di Giulietta: infatti, nel poemetto di Arthur Brooke Giulietta ha sedici anni, nelle novelle di
Bandello è diciottenne, mentre in Shakespeare non ha ancora compiuto quattordici anni. Questo dettaglio
contribuisce a dare il senso di una passione giovanile, molto adolescenziale. Per Paride, la giovane è pronta
a prendere marito, infatti afferma che altre più giovani di lei s’erano già sposate e addirittura avevano figli,
per cui non era affatto un passo inconsueto per una ragazza della sua età: “Summers wither in their pride”
(I, 2, 10) aggiunge, “le estati essiccano nel loro orgoglio”, perché se da un lato rappresenta rigoglio e
l’esplosione della vita, ma dall’altro indica arsura e siccità, perciò, il suo eccessivo orgoglio può portarla
anche ad appassire. Il padre, in realtà, sostiene la necessità di un’attesa più lunga, affinché Giulietta possa
maturare ancora e non commettere errori dettati dalla sua inesperienza. La metafora, perciò, diventa
prolettica rispetto all’intreccio, perché anticipa una preoccupazione che finirà per decretare la loro morte.
Non rare nei testi shakespeariani, le metafore vengono utilizzate, appunto, con una valenza prolettica o di
riassunto del plot. In questo discorso del vecchio Capuleti c’è una forma di ironia drammatica: non bisogna
essere troppo impulsivi, bisogna meditare e pensare, perché “too soon marred are those so early married”
(I, 2, 13), “si rovinano velocemente quelli che si sposano troppo presto”, come accadrà ai due giovani
innamorati.

Romeo soffre le pene dell’amore non ricambiato, rappresenta l’amante disilluso, dolente, affetto da umore
nero e malinconia. In questa parte del dramma, emergono il codice amoroso petrarchesco ed il linguaggio
cortese.

CONTINUO: ATTO I, SCENA I.

Signora Montecchi: “Dov’è romeo, l’avete visto oggi?”


Signor Montecchi: “Sono ben contento che non era presente in questa rissa”.
Benvolio: “Signora, un’ora prima che l’adorato sole spuntasse dalla finestra dorata d’Oriente, un animo
turbato mi ha spinto a vagare all’esterno, dove in un boschetto di sicomori che sono radicati ad occidente
della città, camminando così di buon’ora ho visto vostro figlio. Mi sono avvicinato, ma lui si è accorto di me
e si è rifugiato nella parte più nascosta del bosco. Ed io, misurando il suo stato d’animo attraverso il mio,
che mi spinge a cercare luoghi dove nessuno può trovarmi essendo di troppo a me stesso, ho inseguito il mio
umore, non seguendo il suo, e ho felicemente schivato chi felicemente fuggiva da me”.
Signor Montecchi: “Più volte è stato visto lì, ad aumentare con le sue lacrime la rugiada fresca del mattino
e ad aggiungere nuvole alle nuvole con i suoi sospiri. Ma non appena il sole che rallegra ogni cosa comincia
a tirar fuori dal lontano Oriente le tende dell’Aurora, dalla luce si allontana verso casa, il mio pesante figlio,
a si chiude nella sua stanza privata, chiude le finestre, chiude fuori la luce del giorno e si crea una notte
artificiale. Questo umore si dimostrerà nefasto e prodigioso, a meno che qualche buon consiglio non ne
rimuova la causa”.
Benvolio: “Mio nobile zio, conoscete la causa?”
Signor Montecchi: “Né la conosco, né posso apprenderla da lui”.
Benvolio: “L’avete importunato in qualche modo?”
Signor Montecchi: “Sia io, che molti altri amici; ma lui è il consigliere delle sue proprie afflizioni – non dirò
che quanto sia vero – ma è così segreto e chiuso in se stesso, così lontano dall’aprirsi o dal mostrarsi, come
un germoglio di un fiore morso da un insetto invidioso, prima di stendere all’aria i suoi dolci petali o
dedicarle la sua bellezza. Se potessimo sapere da dove derivano i suoi affanni, potremmo porvi rimedio
come possiamo”.
[Entra Romeo]

Benvolio: “Sta arrivando. Per favore, fatevi da parte. Gli chiederò cosa lo affligge, o lo metterò alle strette”.
Signor Montecchi: “Sia la tua determinazione così fortunata da poter ascoltare la verità. Andiamo via, mia
signora”.

[Escono i signori Montecchi]

Benvolio: “Buongiorno, cugino”.


Romeo: “È ancora così presto?”
Benvolio: “Ma sono scoccate le nove”.
Romeo: “Ahimè, le ore tristi sono così lunghe. Era mio padre quello che è andato via così velocemente?”
Benvolio: “Era lui. Quale tristezza allunga le ore di Romeo?”
Romeo: “Non ho ciò che, se avessi, le renderebbe più brevi”.
Benvolio: “Sei innamorato?”
Romeo: “Privo”.
Benvolio: “D’amore?”
Romeo: “Privo del favore di colei di cui sono innamorato”.
Benvolio: “Ahimè, che l’amore così gentile nell’aspetto debba rivelarsi così crudele nella prova”.
Romeo: “Ahimè, che l’amore, la cui vista è bendata, debba senza occhi trovare la via al suo desiderio. Dove
ceneremo? Cos’è successo, che mischia c’è stata qui? Ma non dirmelo, perché ho già sentito tutto. Questo
ha molto a che vedere con l’odio, ma ancora più con l’amore. Ebbene allora, o amore rissoso, o odio
amoroso, o cosa che è stata creata dal nulla, o leggerezza pesante, vanità seriosa, caos deforme di forme
all’apparenza armoniose, piuma di piombo, fuoco freddo, salute ammalata, sogno ad occhi aperti che non è
ciò che è. Questo è l’amore che io sento, che non ho nessun amore nel sentirlo. Non ridi?”
Benvolio: “Piuttosto piango”.
Romeo: “Buon cuore, per cosa?”
Benvolio: “Per l’oppressione del tuo buon cuore”.

Versi di una tragedia lirica, in cui i sentimenti dell’amore sono presenti anche sul piano delle scelte
metriche. Benvolio confessa al padre di Romeo di aver visto il cugino nelle prime ore del giorno rifugiarsi
dalla luce, sia dalla compagnia degli uomini. L’ha visto e ha cercato di parlargli, ma avendo intuito la sua
sofferenza, si è allontanato, molto probabilmente perché il suo animo è inquieto allo stesso modo; forse,
anche Benvolio è innamorato. L’albero, sotto la cui ombra si rifugia Romeo, è il sicomoro, e associato alla
malattia d’amore forse per l’assonanza tra le parole. Il termine “steal”, oltre che “rubare” sta per “muoversi
furtivamente”. Benvolio ha capito romeo tramite il suo stato d’animo. L’”humor”, all’epoca, aveva un
doppio significato: indicava uno stato d’animo, ma anche il fluido organico che lo determinava, secondo la
teoria degli umori. Infatti, ritorna anche il tema della liquidità, in relazione alle lacrime versate da Romeo e
ai sospiri che alimentano le nuvole, secondo l’iconografia classica dell’innamorato sofferente. Romeo è
“heavy” perché gravato dall’umore nero, è pesantezza e oppresso a causa della bile nera, quindi continua a
fuggire la luce e la compagnia degli altri, rintanandosi al buio nella sua stanza. Il padre legge nella
pesantezza del suo animo un presagio funesto, perciò spera possa affidarsi ai consigli di Benvolio per
risollevarsi. Romeo è reticente, non vuole parlare, all’esterno sembra star bene, ma all’interno qualcosa lo
rode, come un germoglio morso da un insetto invidioso. Benvolio gli chiede qual è la causa del suo
malessere, e soltanto alla fine sceglie di raccontargli cos’è che lo fa soffrire. Il tempo dell’orologio ed il suo
tempo interiore differiscono, c’è una percezione soggettiva che dipende dagli stati d’animo. “Out” perché è
fuori dall’amore di colei che ama. C’è una riflessione sull’ambivalenza dell’amore, forse in riferimento
all’iconografia classica: Cupido è dolce, gentile, un bambino nudo e grazioso, ma è crudele quando colpisce.
La grande distanza tra apparenza e realtà prepara un lungo discorso del giovane sull’amore d’ispirazione
petrarchesca: l’amore è una sintesi di opposti, sia secondo Petrarca che Catullo (“Odi et amo…”). Questo
contrasto si ripercuote nel linguaggio, reso con antitesi e ossimori che imperniano le parole dell’innamorato
con sensazioni opposte all’amore. L’amore è bendato e deve scagliare la sua freccia, trovare il giusto
percorso fino al suo desiderio. Anche Benvolio è sofferente, e per questo motivo ben comprende lo stato
d’animo del cugino.

16.03.2021

MODELLO PETRARCHESCO. È presente in vari punti del dramma e, soprattutto, nella terza parte del primo
atto. Esso si traduce in una continua contraddittorietà, perché l’innamorato vive sentimenti in opposizione,
è felice e disperato allo stesso tempo (rimando al Carme 85 di Catullo, “Odi et amo”), ed in una discrepanza
tra l’essere e l’apparire, perché l’amore ha un aspetto gentile, ma è tiranno. Il riferimento viene anche dalle
parole di Benvolio, ispirato dall’iconografia della tradizione classica, presente in tutta la letteratura del
Rinascimento inglese: il dio Cupido, raffigurato come un bambino nudo e dolce, è anche crudele, in quanto
la sua bellezza reca sofferenza a chi è innamorato. In più, nonostante sia bendato, deve essere
estremamente preciso a scoccare la sua freccia. L’ossimoro è una tra le figure retoriche preferite da
Shakespeare, perché adatta a rendere questi contrasti. Questa procedura per opposizioni risale all’antichità
ed è molto nota, figura soprattutto nel sonetto 132 del “Canzoniere” di Petrarca: “S’amor non è, che
dunque è quel ch’io sento? Ma s’egli è amor, perdio, che cosa et quale?”: se da un lato l’amore fa
avvampare di calore, dall’altro fa raggelare di tristezza, d’angoscia, il cuore tormentato dell’innamorato.
Ancora, nel sonetto 134 scrive: “Pace non trovo et non ò da far guerra”. Il modello petrarchesco
sembrerebbe arrivare in Inghilterra con molto ritardo, ovvero nel Cinquecento, ma questa teoria è vera
soltanto in parte, perché già Chaucer conosceva il Petrarca e questo è evidente in alcuni racconti de
“Canterbury Tales”. In particolare, in “Troilus and Criseyde” si racconta dell’amore infelice di Troilo e
Criseide: in una prima parte della storia, Criseide ricambia l’amore di Troilo, ma in seguito lo tradisce
perché, scortata nell’accampamento dei greci, viene corteggiata da Diomedea (concetto di incostanza e
volubilità femminile). In questo poemetto, sul piano narrativo Chaucer riprende una storia raccontata da
Omero, mentre dal punto di vista della forma fa suo il modello petrarchesco della contrarietà dello stato
amoroso. In un passaggio, identificato proprio come “Canticus Troili”, Troilo esprime la sua condizione di
innamorato tormentato, attraverso una serie di metafore mutuate da Petrarca, che sono proprio una fedele
ripresa del sonetto 132: “If no loue is, O god, what fele I so? And if loue is, what thing and which is he?”,
però non lo traduce nella sua forma originaria, quanto piuttosto lo espande in una sequenza di ventuno
versi, adattandolo allo “Rhyme royal”, ovvero tra stanze da sette versi ciascuna. Il contenuto e la
traduzione, quindi, sono abbastanza fedeli, ma la forma metrica è diversa. Oltre all’intervento di Chaucer,
traduzioni del sonetto 134 di Petrarca, nella stessa forma, sono quelli di Wyatt e Surrey, prodotti all’inizio
del Cinquecento, durante il regno di Enrico VIII; anch’essi riprendono la contraddittorietà ed il suo
linguaggio. Quindi, quando Romeo definisce l’amore “come una piuma di piombo”, sta adeguandosi a
questa convenzione inaugurata da Petrarca, ripresa da Chaucer, proseguita da Wyatt e Surrey, e giunta fino
a Shakespeare. Gli autori riscrivono il sonetto, ma ne rielaborano lo schema metrico introducendovi
quattordici versi, ripresi anche dal sonetto shakespeariano in tre quartine e un distico finale.
Romeo riprende la retorica petrarchesca e, al contrario, Mercutio tende ad ironizzarla: afferma addirittura
che Laura, la donna che Petrarca ama, sembra una sguattera di cucina, se paragonata alla bellezza di
Rosalina, amata di Romeo; lo accusa scherzosamente di giocare a fare l’innamorato. Da qui, una lettura
dell’amore cortese in chiave parodica. Anche la solitudine di Romeo è intesa come convenzionale: ancora
una volta, riferimento a Petrarca, al suo “solo et pensoso”, oppure al sonetto 189, “Passa la nave mia colma
d’oblio per aspro mare, a mezza notte il verno, enfra Scilla et Caribdi”, in cui l’immagine dell’innamorato è
quella di un pioniere che deve guidare la sua nave tra le tempeste della vita, ma ha perso la rotta, e allo
stesso modo l’amore gli ha fatto perdere la ragione. Anche questo sonetto, noto nella tradizione
rinascimentale inglese, è stato tradotto da Wyatt.

Il dramma di Romeo e Giulietta viene introdotto dal linguaggio umile e basso dei servi (o clown), che non
rappresenta soltanto una scelta stilistica, ma anche del contenuto, in quanto perché l’“alto” coincide con la
parte superiore del corpo ed il “basso” con quella inferiore. Proseguendo nella lettura, si svelano due
concezioni opposte, ma complementari, dell’amore: quello fisico e carnale e quello spirituale, incarnati nel
testo da diversi personaggi. Forse, si può leggere tra le righe l’impossibilità dell’amore cortese di esprimere
ciò che si prova quando si è innamorati. Queste due forme sono compresenti in Romeo: inizialmente, con
Rosalina, è portatore di una concezione cortese e platonica dell’amore, mentre successivamente, con
Giulietta, il sentimento si trasferisce anche in una dimensione fisica, secondo le necessità e la legittimità del
corpo che non può essere messo in disparte. Come anticipato, il carattere convenzionale dell’amore di
Romeo nei confronti di Rosalina è parodiato da Mercutio, nella prima scena del secondo atto. Romeo è
malinconico, affetto da bile nera e Mercutio ritiene che ci sia qualcosa di artificioso, finto nel suo
atteggiamento di innamorato, seppur non consapevole.

ATTO II, I SCENA.

[Entra Romeo da solo]

Romeo: “Come posso andare avanti, se il mio cuore è qui? Torna indietro, stupida terra, e trova il tuo
centro”.

[Si ritira]

[Entrano Benvolio e Mercutio]

Benvolio: “Romeo, cugino mio, Romeo!”


Mercutio: “È furbo, e sulla mia vita, è scappato a casa per andare a letto”.
Benvolio: “È corso via e ha saltato il muro di questo giardino. Chiamalo, buon Mercutio”.
Mercutio: “No, gli scongiurerò. Romeo, malinconico, pazzo, appassionato, amante, appari nelle sembianze
di un sospiro, pronuncia soltanto una rima e sarò soddisfatto, pronuncia ‘ahimè’, pronuncia soltanto
‘amore’ e ‘cuore’, dì alla comare Venere soltanto una parola, un soprannome per il figlio cieco ed erede, il
giovane e nudo, vagabondo Cupido, che fece centro quando il re Coreuta s’innamorò della bella
mendicante. Non sente, non si muove, non risponde. Dev’essere morto quello scemo. Ti scongiuro, per gli
occhi luminosi di Rosalina, per la sua fronte alta e le sue labbra scarlatte, per il suo sottile piede, per la
lunga gamba, per la coscia ondeggiante e ciò che con essa confina, di comparire davanti a noi”.
Benvolio: “Se ti sente, lo farai arrabbiare”.

La parodia operata da Mercutio sottintende un amore che va oltre lo spirito. Il termine “ conjure” è sia una
supplica in senso stretto, sia un’esortazione a ricomparire, perché Romeo si è dileguato. Lo stesso termine
viene utilizzato anche per indicare un fantasma nella tradizione gotica. Nel discorso di Mercutio, le parti del
corpo femminile vengono autonomizzate con metafore quasi stantie, sempre secondo i canoni della lirica
cortese, ma sfociano in un commento parodico perché, in linea la tradizione cortese, le gambe, i piedi e le
cosce erano parti fisiche che non potevano essere menzionate. Anche questa operazione parodica ha
affinità con i sonetti, come quello che Shakespeare compone per una “dark Lady”, il 129, “The expense of
spirit”, dove “expense” sta anche per “eiaculazione” maschile, oppure il 130, dove viene riportata
l’anatomia del corpo femminile, ma in un’ottica rovesciata: gli occhi della donna amata non sono luminosi
come il sole ed il corallo è molto più rosso delle sue labbra; l’autore-poeta ne è innamorato, nonostante la
sua imperfezione, e la ama più di quanto si possa fare per quelle donne elogiate con false metafore. Quindi,
l’espressione di una nuova etica amorosa, in un nuovo linguaggio. Romeo, infatti, sembra nutrirsi più di un
sentimento libresco che reale, sterile e manieristico (la Madame Bovary di Flaubert vorrebbe vivere un
amore come quello che legge nei romanzi). Un’altra affinità con il linguaggio del sonetto 130 è evidente in
un altro punto del dramma, quando Shakespeare fa raccontare a Romeo della sua Rosalina come di una
bellezza casta, pura, che non vuole concedersi, e lo fa utilizzando un “linguaggio economico”, nel senso di
una bellezza che viene sprecata. Concetto, anch’esso, esplicato nei sonetti: l’autore fa riferimento ad un
giovane di grande bellezza che però, da narciso qual è, pensa solo a se stesso e non bada a sposarsi, per cui
non permette che questa sua dote fisica passi alla sua prole e, di conseguenza, si tramandi di generazione in
generazione. Allo stesso modo, Rosalina fa della sua graziosità uno spreco, non soltanto per Romeo, ma
anche per l’intera umanità.

CONTINUO: ATTO I, SCENA I, v. 180

Benvolio: “No, in realtà, io vorrei piangere”.


Romeo: “Buon cuore, per cosa piangi?”
Benvolio: “Per l’oppressione del tuo cuore”.
Romeo: “Ebbene, tale è la trasgressione dell’amore. I miei dolori giacciono pesanti nel mio petto, i quali
aumenteresti se li moltiplicassi aggiungendovi i tuoi. Questo amore che hai mostrato nei miei confronti non
ha da aggiungere più dolore a quello che già provo. L’amore è un fumo fatto di vapori; se si dirada, diventa
un fuoco sfavillante negli occhi dell’innamorato; se si addensa, diventa un mare nutrito delle sue lacrime.
Cos’altro è l’amore? Una follia molto saggia, una bile che fa soffocare e una dolcezza che sa guarire. Bene,
allora”.

Le pene d’amore sono pesanti (visione organica), Romeo è grato per l’empatia di Benvolio, ma non
vorrebbe che il cugino aggiungesse altro dolore al suo. Parole simili tornano anche nel discorso della regina
Isabella, in “Richard II”: l’empatia degli altri, piuttosto che dare conforto, grava di un ulteriore dolore.
L’amarezza della bile si mescola ad una dolcezza che può guarire.

Benvolio: “Un momento, vengo anch’io; e se mi lasci in questo modo, mi fai un torto”.
Romeo: “Scusa, mi sono perso. Non sono qui. Questo non è Romeo, lui è da qualche altra parte”.
Benvolio: “Dimmi, in tutta la tua tristezza, chi è che ami?”
Romeo: “Come, vuoi che te lo dica piangendo?”
Benvolio: “Piangere? Perché, no, ma dimmelo senza scherzare”.
Romeo: “Diresti forse ad un moribondo di far testamento senza scherzare? Sarebbe indelicato parlare così
ad uno gravemente ammalato. In tutta serietà, cugino, amo una donna”.
Benvolio: “Avevo ben pensato che tu fossi innamorato”.
Romeo: “Hai fatto centro, ed è bella colei che amo”.
Benvolio: “Un bel bersaglio, caro cugino, è più semplice da colpire”.
Romeo: “Ed è qui che ti sbagli. Lei non verrà colpita dalla freccia di Cupido. Ha la saggezza di Diana, ed è
armata di una forte castità, perché vive senza lasciarsi affascinare dall’arco infantile e debole dell’amore.
Non sopporta l’assedio delle parole amorose, schiva l’incontro di occhi assalitori ed apre il suo grembo
all’oro che seduce i santi. O, lei è ricca in bellezza, ma sarà povera quando morirà, perché la sua bellezza
morirà con lei”.
Benvolio: “Quindi ha giurato che continuerà a vivere casta?”
Romeo: “Sì, l’ha giurato, e questo suo risparmiarsi è un enorme spreco, perché la sua bellezza lasciata a
digiuno per un eccesso di rigore morale, taglia la bellezza a tutti i posteri. Lei è molto bella, troppo
saggiamente bella per meritare il paradiso, mandando me all’inferno. Ha pergiurato di non amare, ed in
quel voto io vivo morto, e ora vivo per raccontarlo”.
Benvolio: “Ascolta il mio consiglio, dimentica di pensarla”.
Romeo: “Insegnami come dovrei dimenticare di pensare!”
Benvolio: “Dando libertà ai tuoi occhi. Ammira altre bellezze”.
Romeo: “In questo modo, richiamo la sua, squisita, ancora di più. Le maschere felici che baciano il viso delle
belle donne, essendo nere, ci fanno pensare che nascondano una candida bellezza. Colui che è accecato,
non può dimenticare un prezioso tesoro come lei. Mostrami una donna che sia sufficientemente bella, a
cosa serve la sua bellezza se non come una nota che io potrei leggere di colei che ha superato quella
bellezza appena sufficiente?”
Romeo: “Addio, non puoi insegnarmi come dimenticare di pensarla”.
Benvolio: “Te lo insegnerò, o morirò per ripagare il mio debito”.
Romeo ha perso se stesso. Come in altre scene del dramma, persiste una doppia valenza del linguaggio:
“centrare il bersaglio” vuol dire “intuire, colpire nel segno”, ma ha anche un significato osceno, quello cioè
di possedere una donna. Benvolio fa quello che in semiotica si chiama “salto d’isotopia”, ha pensato che
Romeo potesse aver già conquistato la donna che ama, ma Rosalina è casta e non cede agli sguardi, alle
parole di chi vuole corteggiarla, ha giurato che vivrà la sua vita senz’amore e la sua bellezza sarà uno spreco
per chi la vive e per i posteri. Benvolio gli suggerisce di imparare a non pensarla, di concentrarsi sulle altre
infinite bellezze del mondo e, in effetti, è così che accadrà, perché alla festa dei Capuleti Romeo sarà
attratto dalla bellezza di Giulietta. Ma non ha ancora questa consapevolezza, non è convinto che guardare
altre donne possa fargli dimenticare Rosalina e la mancanza di lei. Il riferimento alle maschere è una scena
prolettica, anticipo della festa che si svolgerà il giorno seguente a casa Capuleti: pensiamo che possano,
esse, nascondere la bellezza delle donne, ma in realtà potrebbero anche rivelarsi brutte.

Il secondo atto si divide in due momenti: in una prima parte, entrano il padre di Giulietta e il conte Paride,
un parente di Escalo, ed entra un servo, che nella didascalia viene identificato come “ clown”. Nella seconda
parte, ad un servo viene consegnata la missiva con tutti degli invitati alla festa dei Capuleti, ma egli è un
illetterato, perciò chiede aiuto ai passanti per leggerne i nomi. S’imbatte proprio in Romeo e Benvolio, che
di buon grado accettano di aiutarlo, ed è in questa stessa scena che il giovane Romeo legge il nome di
Rosalina sulla missiva e sceglie di imbucarsi alla festa mascherato, per non farsi riconoscere. Il pessimo
tempismo e la lettera sono il primo motore della tragedia, insieme all’altra, spedita da frate Lorenzo a
Romeo per avvisarlo del fatto che Giulietta è viva ed è soltanto addormentata. Dunque, Paride chiede la
mano di Giulietta e Capuleti padre accetta volentieri la proposta perché il giovane è un buon partito, ma gli
dichiarerà che la decisione finale spetterà a sua figlia. Si mostra, così, un personaggio comprensivo nei
confronti della ragazza, e per niente rancoroso nei confronti dei Montecchi, nei confronti dei quali mostra
una certa apertura. La scena si apre con un dialogo che sembrerebbe già iniziato, come se il
lettore/spettatore non avesse potuto ascoltare. È il momento del valzer, e i Capuleti hanno già scambiato
qualche battuta con il giovane Paride.

ATTO II, SCENA I.

Signor Capuleti: “Ma il Montecchi è legato come me alla stessa pena, e non è difficile, credo, per uomini
della nostra età mantenere la pace”.
Paride: “Siete entrambi di un rango onorevole ed è peccato che abbiate vissuto così tanto tempo in questa
discordia, ma adesso, signore, cosa rispondete alla mia richiesta?”
Signor Capuleti: “Ti ripeto ciò che ho detto prima: la mia bambina è ancora una straniera in questo mondo,
non ha ancora compiuto quattordici anni. Lascia che due estati ancora si secchino nel loro orgoglio prima di
pensare che possa essere matura come sposa”.
Paride: “Donne più giovani di lei sono già madri felici”.
Signor Capuleti: “E coloro che si sposano troppo presto, si rovinano prima. Lei è l’unica ragazza in cui
ripongo le mie speranze sulla terra. Ma corteggiala, gentile Paride, conquista il suo cuore. Il mio volere non
è che una parte del suo consenso e, se lei accetta, nella sua scelta incontrerà il mio dolce accordo. Questa
notte tengo la solita festa, alla quale ho invitato molti ospiti a cui tengo; e tu tra questi sei uno in più, il più
benvenuto, che ne accresce il numero. Nella mia umile casa guarda, questa notte, tutte le stelle terrene che
illuminano l’oscurità del cielo. Con lo stesso ardore che i giovani vogliosi sentono quando l’aprile raggiunge
le calcagna dell’inverno zoppicante, proprio quell’ardore tu erediterai tra questi freschi germogli”.

Paride è interessato esclusivamente alla proposta di matrimonio rivolta al Capuleti e vorrebbe sposare
subito Giulietta, nonostante la sua giovane età, perché altre donne più giovani di lei sono già madri felici.
“Suit” sta sia per “domanda, proposta” che per “corteggiamento”. Capuleti padre gli dà il permesso per
corteggiare sua figlia e lo invita alla festa che ha organizzato a casa sua, consigliandogli di guardarsi intorno
per ammirare tutte le bellezze che ivi troverà prima di decidere definitivamente di voler sposare la sua
unica bambina – le donne sono stelle che illuminano il buio della notte. Riferimento all’estate che avanza e
che, seccando, porta a compimento un processo di maturazione, ma anche accostamento della tragica fine.
Rimando anche all’imagery del veleno consegnato a Giulietta da frate Lorenzo; simbolo di un amore nocivo.
Il commento prolettico di Capuleti anticipa il concetto dell’amore precipitoso dei due giovani che li
condurrà alla morte. Immediatamente dopo il v. 13, nell’edizione Arden c’è un verso espunto, che l’editor
ha deciso di eliminare un po’ com’è accaduto per la questione della scena doppia di Romeo: “La terra ha
ingoiato tutte le mie speranze, tranne lei”. L’affermazione fa pensare che i Capuleti abbiano perso tutti gli
altri figli, e che Giulietta sia l’unica sopravvissuta. I due versi sono molto simili ed entrambi sono presenti
nel second quarto. È possibile che Shakespeare abbia riscritto, riformulato il secondo verso, che alcune
edizioni trattengono ed altre tolgono. Dunque, si mostra favorevole al corteggiamento della ragazza, anche
se successivamente ritratterà la sua posizione in quella di padre austero ed offensivo.

17.03.2021

*Postilla sul giudizio di Gabriele Baldini sull’ibridazione degli stili e sul rapporto tra alto e basso, in un’opera
notevole intitolata “Manualetto shakespeariano”. Egli è un importante filologo e studioso di Shakespeare,
ma il suo pensiero non viene condiviso da molti, perché dal punto di vista stilistico, ritiene che il dramma
dei due giovani innamorati sia, in realtà “un esperimento fallito: ché i vari moduli – eufuistico, fiammingo,
senechiano e, infine, realistico - ...non pervengono ad armonizzarsi tra loro, ma restano vistosamente
isolati”. Quando parliamo di critica letteraria, lo studioso può avvicinarsi all’opera sia per descriverla che
per emettere un giudizio di valore, sempre abbastanza soggettivo; effettuare, quindi, una critica valutativa
di un testo. Il giudizio di Baldini sembra riprendere un po’ quello di Sir Philipe Sydney, nella sua “ Defense of
Poetry”, in cui il mescolamento di “re e clown” tradiva i principi del decoro. A distanza di quattro secoli,
Baldini è anch’egli fermo a questa visione neoclassica, sostenendo che gli i criteri stilistici di “Romeo and
Juliet” non armonizzino tra di loro. Potremmo non concordare con il Baldini per questo aspetto valutativo,
ma possiamo sicuramente accettare altro della sua critica, come il tentativo di capire quali sono gli stili del
dramma, che si configura come un’opera pluristilistica e pluridiscorsiva, in cui amore e morte sono
rappresentati da voci singolari e personaggi molto diversi l’uno dall’altro; quest’insieme può rivelarsi una
ricchezza grazie alle molteplici letture e punti di vista diversi di uno stesso argomento. Gli stili individuati da
Baldini sono quello eufuistico, fiammingo, senechiano e realistico.

MODELLO EUFUISTICO. L’aggettivo “eufuistico”, dal greco, vuol dire “colui che dice bene”, e compare già in
un’altra opera del 1578, “Euphues, or the anatomy of wit”, di John Lyly, in cui si racconta della storia di
questo personaggio, il cui tratto distintivo è un “parlar bene”, in un linguaggio molto complesso. Il suo
eccesso di arguzia, però, anche per le leggi del decoro diventa un vizio di stile. Lo stile eufuistico, quindi, è
barocco, concettoso, lo stile dell’esasperazione della ricercatezza stilistica, dell’arguzia, che diventa
facilmente parodiabile. Nel dramma shakespeariano, c’è un riferimento a questo modello, che viene
parodiato, ed è presente anche in altre opere: il first quarto riportava la dicitura di “tragedia congettosa”,
ma nel titolo l’aggettivo scompare. Un esempio di eufuismo è riscontrabile nella seconda scena del primo
anno, quando Benvolio tenta disperatamente di stravolgere la convinzione di Romeo che Rosalina sia
l’unica donna più bella sulla terra e gli chiede di guardarsi attorno alla festa dei Capuleti, ma il ragazzo è così
accecato dal suo amore, che associa i suoi occhi pieni di lacrime a due fuochi ardenti, perché se mai
dovesse accorgersi della presenza di una donna più bella di Rosalina, allora essi lo starebbero ingannando e
sarebbero condannati al rogo per eresia.

MODELLO FIAMMINGO. L’interno della casa dei Capuleti è dipinto come quello di una casa borghese,
arricchita di molti dettagli (Jan van Eyck fu un noto pittore fiammingo che dipingeva interni borghesi).

MODELLO SENECHIANO. Tutte le tragedie elisabettiane nascono da questo modello, a partire dalla prima,
“Gorboduc”. Seneca è menzionato più volte da Shakespeare nei suoi drammi, nell’“Amleto”, così come in
“Romeo and Juliet”, in cui il pattern tragico, realistico e osceno è affidato ai servi, alla balia, ed in parte a
Mercutio. Come già ribadito, l’opera ha stili e registri molto diversi tra loro.
L’atteggiamento aperto di Capuleti padre è visibile anche in altri drammi di Shakespeare, come ne “ La
Bisbetica domata”, in cui sembra che il volere del padre sia subordinato a quello delle figlie, ma alla fine
non si rivelerà così. La scena seconda del primo atto si conclude con due sestine, una pronunciata da
Romeo e l’altra da Benvolio. Romeo fonde il linguaggio religioso con quello romantico e cortese, spinto
dall’amore per Rosalina: c’è tutta una tradizione di fusione di questi linguaggi, di mistiche trecentesche che
chiedono a Dio di essere amate, di essere possedute. Una dimensione che, inevitabilmente, da sacra passa
ad essere profana, e si esprime nel linguaggio della passione.

Seconda parte della scena, entra in scena il servo, a cui nel second quarto ci si riferisce con il termine
“clown”. In questa parte, si passa dai versi alla prosa, passaggio molto raro nel dramma, in cui i versi rimati
sono preferiti. Il servo ha ricevuto la lista degli di coloro che interverranno alla festa dal signor Capuleti e
deve provvedere all’invito, ma ha la difficoltà a leggere i nomi perché è analfabeta.

ATTO I, SCENA II, v.33

Signor Capuleti: “Andiamo, vieni con me. Andiamo, signore, cammina per le strade della bella Verona;
cerca coloro i cui nomi sono scritti qui, e dì loro che a casa mia sono i benvenuti, se avranno piacere di
esserci”.

[Escono il signor Capuleti e Paride]

Servo: “Cerca coloro i cui nomi sono scritti qui! C’è scritto che il calzolaio dovrebbe misurare col metro e il
sarto con le scarpe, il pescatore usare il pennello ed il pittore le sue canne da pesca, e io sono stato mandato
a cercare queste persone i cui nomi sono scritti in questa lista, e non potrò mai capire che nomi ha scritto
qui colui che ha scritto la lista. Devo chiedere a coloro che sanno leggere. Alla buon’ora!”

[Entrano Benvolio e Romeo]

Benvolio: “Su, ragazzo, un fuoco brucia un altro fuoco, un dolore è addolcito da un altro dolore più grande.
Mettiti a girare, e se ti viene il capogiro, aiutati girando in senso contrario. Una pena disperata si cura con il
languore di un’altra. Prenditi una nuova infezione agli occhi, e l’acre veleno della precedente morirà”.
Romeo: “La tua foglia di piantaggine è eccellente per quello”.
Benvolio: “Per cosa, ti prego?”
Romeo: “Per il tuo stinco rotto”.
Benvolio: “Perché, sei impazzito?”
Romeo: “Non sono impazzito, ma legato più di quanto lo sia un pazzo; chiuso in prigione, affamato,
frustrato e tormentato e – Buonasera, buonuomo”.
Servo: “Che Dio vi mandi una buona sera. Vi prego, signore, sapete leggere?”
Romeo: “Ahimè, so leggere la mia sorte nella mia sventura”.
Servo: “Forse avete imparato a farlo senza libro. Ma vi prego, potete leggere ciò che vedete?”.
Romeo: “Sì, se conosco le lettere e la lingua”.
Servo: “Siete sincero; arrivederci”.
Romeo: “Restate, buonuomo, so leggere. (Legge la lettera)”.

[…]

Servo: “Te lo dico senza che tu me l’abbia chiesto. Il mio signore è il grande e ricco Capuleti, e se non fai
parte della casata dei Montecchi, ti prego di venire e di assaggiare un bicchiere di vino. Statemi bene”.

[Esce]

Il servo esce per poter spedire gli inviti ai signori, ma è disperato perché non sa leggere, e potrebbe
confonderne i nomi (associa un mestiere con l’attività di un altro). Entra in gioco l’elemento del caso (la
lettera è una sliding door) perché s’imbatte proprio in Romeo e Benvolio, non sapendo della loro
appartenenza alla famiglia dei Montecchi. Benvolio cerca di convincere Romeo che la sofferenza per
l’amore non corrisposto di Rosalina può guarire con un altro amore, guardando gli occhi e la bellezza di
un’altra donna, ma il giovane è ostinato. Nel momento in cui incontra il servo, si offre per leggere la lista e
scopre che anche la sua amata è stata invitata, e sarà presente alla festa. Rosalina è una nipote di Capuleti,
e quindi cugina di Giulietta. Benvolio, a quel punto, invita Romeo ad imbucarsi alla festa per ammirare le
altre donne e confrontarle con la sua amata. I due giovani fanno uno scambio di battute in sestina, formata
da una quartina e un distico in rima alternata, quindi un mezzo sonetto.

Benvolio: “A questa tradizionale festa dei Capuleti ci sarà anche la bella Rosalina che tu amo, con tutte le
altre ammirevoli bellezze di Verona. Vacci anche tu, e con occhi imparziali compara il suo viso con quello di
colei che io ti mostrerò, e ti farò vedere che il tuo cigno è un corvo”.
Romeo: “Quando la devota religione dei miei occhi affermerà una tale falsità, allora le mie lacrime si
trasformeranno in fiamme e questi occhi, che spesso pur annegando, non sono mai morti, diventeranno
eretici trasparenti e saranno bruciati per le loro bugie. Una più bella del mio amore! Il sole che tutto vede
non l’ha mai vista una sua pari da che il mondo è cominciato”.
Benvolio: “Suvvia, l’hai vista bella perché non c’è nessun’altra accanto a lei, l’hai paragonata con se stessa
da un occhio all’altro. Ma sui piatti di cristallo di una bilancia pesa l’amore che provi per lei e un’altra donna
splendente che ti mostrerò alla festa, e ti sembrerà mediocre quella che ora ti pare la migliore”.
Romeo: “Verrò, non perché mi mostri la tua visione delle cose, ma soltanto per ricaricare di splendore la
mia”.

Romeo utilizza un linguaggio estremamente concettoso, basato sulla doppia isotopia, prima acquatica e poi
ignea: gli occhi non annegano, nonostante le lacrime, ma se diranno il falso, saranno bruciati come eretici.
Benvolio risponde con un'altra sestina, secondo uno stile che definisce fedelmente il testo come tragedia: il
coro comincia con un sonetto, qui sono presenti le sestine, ed altri sonetti ancora compaiono in altre scene.
I personaggi, quindi, inglobano nel loro discorso forme liriche ben individuate dalla tradizione. Per la loro
concettosità, questi versi si affiancano alla poesia metafisica di John Donne. Romeo è estremamente
convinto della bellezza assoluta della sua Rosaline soltanto perché non la confronta con altre donne, l’unico
piatto della sua bilancia sono i suoi occhi.

La scena successiva, la terza, è quella dominata dalle donne: entrano in scena Giulietta, la balia e sua
madre; sono visibili gli interni fiamminghi di una casa borghese. Lo scambio di battute si realizza in una
domenica sera, e lo sappiamo perché ai vv.101 e 102 della stessa scena si sta parlando della cena che sarà
servita durante la festa (la tragedia comincia, invece, una domenica mattina ed il tutto si apre e conclude
nell’arco temporale di cinque giorni). La signora Capuleti ha il compito di informare Giulietta della proposta
di corteggiamento e matrimonio che Paride ha fatto a suo padre. Come nella conversazione con il vecchio
Capuleti, anche in questo caso viene ribadito che Giulietta non è ancora pronta per il matrimonio, ma la
madre sostiene di averla concepita e partorita proprio alla sua stessa età. La madre non le riferisce subito
della conversazione del padre con Paride, la scena è molto lunga e c’è una lunga riflessione della balia, a cui
inizialmente viene chiesto di andare e successivamente di rimanere, considerando la sua importanza nella
crescita della ragazza. Le tre voci sono ben identificate tra loro: la madre utilizza un linguaggio alto, formale,
in linea con il loro status sociale e con quello di Paride, di rango più prestigioso, che, attraverso il
matrimonio non può far altro che nobilitare e arricchire ancor di più la famiglia dei Capuleti. La balia, al
contrario, è portatrice di una concezione più fisica e terrena del matrimonio, resa con i temi della maternità
e della sessualità: è colei che ha allattato Giulietta, fa riferimenti al capezzolo ricoperto di assenzio quando
la bambina deve essere svezzata. Ricorda anche, con certo compiacimento, un episodio in cui la bambina,
compiuti i tre anni, correndo cade a pancia in giù e comincia a piangere spaventata, e suo marito, avendo
assistito alla caduta, le dice che è caduta male perché di pancia, ma che da grande imparerà a cadere di
schiena, alludendo alla posizione della donna che si prepara all’accoppiamento. La balia ripete il racconto
dell’accaduto per tre volte, ma stufe di riascoltarlo, la signora Capuleti e la ragazza la fermano. Il
riferimento al matrimonio di qualcosa che viene aggiunto allo status della ragazza viene inteso dalla balia
anche in un altro senso: una donna in età da marito è anche proiettata a generare dei figli. La signora tesse
un elogio alla bellezza di Paride come in un sonetto, ed invita sua figlia a leggerla come farebbe con un
libro, da rilegare insieme. Dopo svariati ricordi e battibecchi, la madre di Giulietta le confessa l’intenzione di
Paride, e la ragazza, che non è ancora innamorata e mossa da grosse passioni, in un linguaggio semplice
confessa di esser pronta ad accettare, per dovere di figlia, l’invito dei genitori nei limiti previsti dal decoro,
senza eccedenze e senza farsi avanti per prima. Questa scena succede a quella in cui Paride, appunto, si
propone al signor Capuleti come marito per la sua dolce bambina.

18.03.2021

Ricostruiamo la sequenza temporale della storia attraverso le battute dell’autore: nel prologo si parla di
“two hourglass”, che sono il tempo del racconto, mentre il tempo della storia rientra in un arco di tempo di
cinque giorni. Al v. 63, la signora Capuleti riesce finalmente a parlare con sua figlia della proposta di Paride.

ATTO I, SCENA III.

Signora Capuleti: “Dov’è mia figlia? Falla venire da me”.


Balia: “Sulla mia verginità a dodici anni, le ho detto di venire. Ai miei piedi! Nel nome di Dio, dov’è questa
ragazza? Dove, Juliet!”
Giulietta: “Chi è che mi chiama ora?”
Balia: “Sua madre”.
Giulietta: “Signora, sono qui. Qual è il vostro volere?”
Signora Capuleti: “Il fatto è che, – Balia, lasciaci un momento, dobbiamo parlare in confidenza. Balia,
ritorna di nuovo qui. Ci ho ripensato, puoi ascoltare le nostre parole. Conosci mia figlia da che era una
bambina”.
Balia: “In verità, posso dire la sua età senza sbagliare di un’ora”.
Signora Capuleti: “Non ha ancora quattordici anni”.
Balia: “Scommetto quattordici dei miei denti, e lo dico con dispiacere perché non ne ho che quattro, che lei
non ha ancora quattordici anni. Quanto manca per la festa del raccolto?”
Signora Capuleti: “Poco più di quindici giorni”.
Balia: “Un po’ di più, un po’ di meno, quando verrà celebrata questa festa, la sera della vigilia, lei avrà
compiuto quattordici anni. Susanna e lei, Dio doni ristoro a tutte le anime cristiane, erano coetanee. Beh,
Susanna è con Dio; era troppo buona per me. Ma come ho detto, alla sera della vigilia della festa del
raccolto, lei avrà compiuto quattordici anni, sicuramente! Lo ricordo bene. Dal terremoto ad oggi sono
passati undici anni, e lei fu svezzata, non potrò mai dimenticarlo, tra tutti i giorni dell’anno proprio in quel
giorno. Allora avevo messo dell’assenzio sul mio capezzolo per svezzarla, mentre ero seduta al sole
appoggiata al muro accanto alla parete della colombaia. Il mio signore e voi eravate a Mantova. Sì, ho
ancora una buona memoria. Ma come ho detto, quando assaggiò l’assenzio sul mio capezzolo e lo sentì
amaro, povera sciocchina bisognava vederla, arrabbiata lottava con il mio capezzolo! E da allora poteva
stare in piedi da sola; anzi, per la croce, poteva correre e sgambettare tutt’intorno, che proprio il giorno
prima s’era rotta la fronte. E allora mio marito – Dio l’abbia in gloria, era un uomo molto allegro – prese la
bambina: ‘Hey’, esclamò lui, ‘sei caduta di faccia? Cadrai sulla schiena quando sarai più saggia, non è vero,
Giul? E per la Madonna, la bambina smise di piangere e disse ‘sì’. Vedere come quel gioco sta per diventare
realtà! Lo ribadisco, anche se vivessi mille anni, non potrei mai dimenticarlo. ‘Non è vero, Giul?’
esclamò lui, e la piccola sciocchina, smise di piangere e disse ‘sì’”.
Signora Capuleti: “Adesso basta, ti prego, resta un po’ in silenzio”.
Balia: “Sì, signora, non posso fare a meno di ridere, a pensare che smise di piangere e disse ‘sì’; e che, ve lo
garantisco, aveva sulla fronte un bernoccolo grande quanto il testicolo di un galletto; una botta pericolosa,
e piangeva amaramente. ‘Hey’, esclamò mio marito, ‘sei caduta di faccia? Cadrai di schiena quando avrai
raggiunto l’età giusta, non è vero, Giul?’ Lei smise di piangere e disse ‘Sì’”.
Giulietta: “E smettila anche tu, ti prego balia, ti dico”.
Balia: “Va bene, ho finito. Che Dio ti protegga, eri la bambina più bella a cui abbia mai fatto da balia. E se
potessi vivere abbastanza da vederti sposata, avrò esaudito il mio desiderio”.
Signora: “Il matrimonio, è proprio ciò di cui sono venuta a parlarti. Dimmi, Giulietta, figlia, che ne pensi del
matrimonio?”
Giulietta: “È un onore che non sogno”.
Balia: “Un onore! Se non fossi stata io la tua balia, direi che hai succhiato saggezza dalla mia tetta”.
Signora Capuleti: “Bene, pensiamo al matrimonio adesso. Più giovani di te, qui a Verona, donne di buon
rango sono già madri. Se non sbaglio i calcoli, io ero già tua madre durante questi anni in cui tu sei adesso
una ragazza. Dunque, allora, in breve: il valoroso Paride vuole sposarti”.
Balia: “Un uomo, giovane ragazza; ragazza, un uomo come quelli del mondo – perché, lui è un uomo di
cera”.
Signora Capuleti: “L’estate di Verona non ha un fiore così bello”.
Balia: “Sì, è un fiore, proprio, un vero fiore”.
Signora Capuleti: “Che dici, puoi amare questo gentiluomo? Stanotte puoi incontrarlo alla nostra festa.
Leggi il volume del bel viso di Paride, e trova la delizia lì scritta con la penna della bellezza; esamina ogni suo
lineamento e vedi come l’uno con l’altro sono armonizzati; e ciò che è oscuro nella bellezza del suo volume
trovalo scritto nel margine dei suoi occhi. Questo prezioso libro d’amore, questo libero amante, per essere
ancora più bello manca soltanto di una copertina. I pesci vivono nel mare, ed è motivo di grande orgoglio
per chi è bello fuori nascondere chi è bello dentro. Quel libro agli occhi degli altri avrà più valore se i
fermagli doro chiuderanno la storia dorata. Così, erediterai tutto ciò che egli possiede, avendolo, perché non
ti rende inferiore”.
Balia: “Inferiore? Piuttosto, superiore – le donne crescono grazie agli uomini”.
Signora Capuleti: “Dì in breve, puoi accettare l’amore di Paride?”
Giulietta: “Vedrò di farmelo piacere, se guardare spinge a piacere, ma non spingerò il mio sguardo più di
quanto il tuo consenso mi dia forza di farlo volare”.

Gioco di parole, “teen” è anche dolore, dispiacere. La festa del raccolto colloca la tragedia nel tempo: essa
si svolge tra la metà del mese di giugno e l’inizio di luglio, e nella notte della sua vigilia Giulietta compirà
quattordici anni – non avverrà, perché la giovane morirà pochi giorni dopo l’inizio di tutti gli eventi. La balia
recupera il ricordo della figlia Susanne, morta quando aveva la stessa età di Giulietta. Susanne è anche la
figlia di Shakespeare, gemella di Hamnet, il quale muore ad undici anni. Probabilmente, si tratta di una
reminiscenza personale perché Shakespeare può aver appositamente invertito il gemello morto. La balia
utilizza il pronome personale soggetto neutro “it”, perché usato, forse, per bambini molto piccoli; lei lo usa
per un riferimento a Giulietta ed introduce il ricordo di un giorno in cui la bambina cadde di pancia e si ferì
la fronte, sulla quale spuntò un enorme bernoccolo: allusione sessuale al momento in cui una ragazza cade
sulla schiena per accogliere il seme maschile che genererà un figlio. “Holydom” starebbe per “per la
santità”, ma la balia lo interpreta come se fosse un riferimento alla Madonna. Da qui, occorrerebbe aprire
un discorso molto ampio sulla cattolicità di Shakespeare: l’Inghilterra è di fede anglicana dal 1534, per cui il
passaggio da una religione x ad una y deve avvenire gradualmente e ricadere sul piano legale, ovvero è
possibile impedire ai cittadini di praticarla, ne vengono eliminati i simboli sacri, ma non è possibile
intervenire sulla coscienza delle persone sotto costrizione. Perciò, si pensa che Shakespeare fosse ancora
un cattolico: nelle sue opere ritornano diverse immagini del Purgatorio, che non esiste nella religione
anglicana, e molti termini ad esso collegati, come in “Hamlet in Purgatory” di Stephen Greenblatt, in cui
l’anima del re Claudio sembra essere purgatoriale, un concetto ripreso dalla tradizione cristiana cattolica;
anche il verbo “to purge” può essere inteso sia come “purificarsi dal peccato”, sia in chiave più specifica
come qualcosa che viene dal Purgatorio. Il racconto della caduta della bambina suscita il riso, perché è
impensabile come ella abbia potuto anticipare una maturità sessuale tipica degli adulti, essendo così
piccola. La balia ripete per tre volte l’accaduto e si ferma soltanto dopo che Giulietta le ha chiesto di
interrompersi. Dopo questa lunga digressione, finalmente la madre può rendere la ragazza partecipe della
notizia. La ragazza non sembra essere ancora interessata al matrimonio e la balia, con autoironia, dichiara
che una saggezza simile è strana, dal momento che lei stessa non è dotata di grande intelligenza e la
bambina non ha potuto cibarsi dal suo seno di tale senso spiccato.
La signora Capuleti, allora, prende a narrarle di Paride, paragonandolo ad un bel libro non ancora rilegato,
che manca della copertina per essere completo: il riferimento è inserito anche nell’Amleto, in cui i caratteri
di un libro vengono associati al carattere, alla personalità del protagonista. Questa descrizione della signora
occupa quattordici versi in una sequenza di distici, di cui tutti terminano in rima baciata, tranne i primi due.
Secondo la madre di Giulietta, il matrimonio è un arricchimento in termini di notorietà e status sociale,
mentre la balia, sempre filtrando un linguaggio del corpo e alla maternità, allude alla gravidanza – il ventre
di una donna lievita dopo i rapporti con un uomo. In questa parte del dramma, Giulietta è ancora un po’
marginale, è obbediente ed è pronta a compiere i suoi doveri di figlia. I lineamenti del volto di Paride si
armonizzano tra loro, è molto bello, allo stesso modo in cui parrebbe la loro unione: così come il mare
nasconde la bellezza della fauna marina nei suoi abissi, un bel marito facoltoso non può non nascondere
una moglie altrettanto bella e nobile. L’intervento della “penna della bellezza” è un elemento molto
ricorrente nei sonetti. La giovane è disposta a farsi corteggiare da Paride, a patto che non si sfoci oltre il
decoro e senza farsi avanti per prima.

[Entra il servo]

Servo: “Signora, gli invitati sono arrivati, la cena è servita, è richiesta la sua presenza, quella della mia
giovane signora, la balia è richiesta in cucina, e tutto è in subbuglio. Io devo, dunque, servire; vi prego di
seguirmi subito”.
Signora Capuleti: “Ti seguiamo. Giulietta, il conte è qui”.
Balia: “Vai, ragazza, cerca notti felici per giorni felici”.

Si chiude la terza scena, comincia la quarta. C’è uno switch dagli spazi interni a quelli esterni, Romeo e
Mercutio, insieme a Benvolio, hanno incontrato il servo e hanno saputo della festa, e vi si imbucano
mascherati nella speranza di non essere riconosciuti. Famoso è il discorso di Mercutio sulla regina Mab,
figura del folclore e regina piccolissima delle fate che, quando si posa sul volto e sul naso di chi dorme, fa sì
che la persona sogni ciò che vuole. Mercutio, quindi, fa un’analisi del sogno inteso come proiezione di un
desiderio, conclusione a cui approderà Freud qualche secolo più tardi. Sulla scena figurano anche altri
personaggi: i masquers e i torchbearers, che non sappiamo se coincidono o meno tra loro. Nella parte
iniziale del commento dell’edizione Arden dell’opera, c’è una riflessione particolare su come viene
rappresentata la scena: per illuminare il buio della sera, ci sono personaggi in maschera che portano in
mano delle torce, le quali creano un certo effetto scenico, in un gioco di luci e ombre. Possiamo immaginare
come tutto questo si svolga in un teatro e come la parola drammatica diventa si trasformi in
rappresentazione. Questi personaggi sono, forse, una dozzina e non si sa se sono interpretati dagli stessi
attori o meno. Considerando la scena precedente, anche il servo sicuramente sarà interpretato da un attore
che ha più ruoli.

ATTO I, SCENA IV.

[Entrano Romeo, Mercutio, Benvolio ed altri cinque o sei mascherati, coloro che reggono le torce]

Romeo: “Dovremo fare un discorso di scuse, oppure entrare senza fare apologia?”
Benvolio: “Non c’è più tempo per questa prolissità, non avremo nessun Cupido bendato con una sciarpa,
che porta un arco di legno tartaro dipinto, che spaventa le donne come uno spaventapasseri; né con un
prologo senza libro, recitato debolmente su indicazione del suggeritore, entreremo. Ma lasciate che ci
giudichino come vogliono, li misureremo con un ballo e ce ne andremo”.
Dal “what” iniziale nella battuta di Romeo è possibile ipotizzare che i personaggi abbiamo già cominciato a
dialogare prima che lo spettatore/lettore potesse subentrare nella storia. All’epoca, poteva capitare che gli
attori recitassero in modo estemporaneo quando non avevano imparato la loro parte, e chiedevano l’aiuto
di un suggeritore. Anche questa festa a casa dei Capuleti ha in sé qualcosa di teatrale, testimoniato anche
dalla presenza della maschera (in questo caso, si tratta di una festa dell’amore e perciò il travestimento da
Cupido): secondo una convenzione del tempo, gli ospiti preparavano un discorso da recitare prima di
entrare nel luogo dell’evento per scusarsi del disturbo che arrecavano al padrone di casa, e così Romeo
chiede a Benvolio se anche loro devono prepararne uno, ma questi afferma che si tratta di una prassi ormai
trita e vecchia, e che non c’è bisogno né di un discorso che li presenti, né di un travestimento per prendere
parte alla festa, per cui entreranno come “un prologo senza il suo testo”, contrastando le convenzioni con
ironia. Per cui, Benvolio non è preoccupato per il giudizio che gli altri invitati potrebbero avere di loro;
“measure” ha sia un significato di “giudizio”, sia identifica un tipo di ballo.

Romeo: “Andiamo a questa festa con delle buone intenzioni, ma non è saggio andarci”.
Mercuzio: “Perché, se posso chiedere?”
Romeo: “Ho fatto un sogno stanotte”.
Mercuzio: “Allo stesso modo io”.
Romeo: “Bene, qual era il tuo?”
Mercuzio: “Che i sognatori spesso mentono”.
Romeo: “I sognatori giacciono a letto mentre sognano cose vere”.
Mercuzio: “O, dunque vedo che la Regina Mab è stata da te. Lei è la levatrice delle fate e si mostra in una
forma non più grande di un’agata sull’indice di un consigliere, trainata da un gruppo di piccole creature sui
nasi delle persone mentre sono addormentate. Il suo cocchio è un guscio di noce vuoto, fatto dallo
scoiattolo falegname o dal vecchio lombrico, da tempi immemorabili i carrozzieri delle fate; i raggi delle
ruote sono fatti delle lunghe zampe dei ragni, la cappotta è fatta delle ali delle cavallette, le redini sono
fatte delle più sottili ragnatele, le bardature sono fatte dei liquidi raggi di luna, la sua frusta dell’osso di un
grillo, la sferza di una pellicola impercettibile, il suo cocchiere un piccolo moscerino dalla livrea grigia non
tanto grande quanto quel vermiciattolo rotondo colto dal dito pigro di una fanciulla. Ed in questo stato
galoppa notte dopo notte attraverso il cervello degli innamorati, e allora essi sognano d’amore; sulle
ginocchia dei cortigiani, che sognano continue riverenze; sulle dita degli avvocati, che sognano di riscuotere
le parcelle; sulle labbra delle donne, che sognano i baci, che spesso la pirata Mab appesta di bollicine,
perché i loro respiri sono contaminati dai dolci. Qualche volta galoppa sul naso di un cortigiano, e lui sogna
di annusare una supplica; e alle volte viene con la coda di un porcellino della decima, solleticando il naso di
un curato mentre dorme, e lui sogna un altro beneficio. Qualche volta si poggia sul collo di un soldato, che
sogna di tagliare le gole dei nemici, di brecce, imboscate, lame spagnole, e brindisi profondi cinque braccia;
e poi all’improvviso gli suona il tamburo nelle orecchie, al che lui si sveglia e si alza, ed essendo così
spaventato, recita una o due preghiere e si riaddormenta. Questa è la stessa Mab che intreccia le criniere
dei cavalli di notte, ed impasta i riccioli dei luridi capelli, che snodarli porta molta sfortuna. Questa è la
strega, che quando le vergini giacciono sulla schiena, comprime il loro ventre ed insegna loro a partorire,
rendendole donne di buon portamento. Questa è lei-”.
Romeo: “Basta, basta, Mercuzio, basta, stai parlando del nulla”.
Mercuzio: “Vero, parlo dei sogni, che sono i figli di un cervello ozioso, generati da nulla se non dalla vana
fantasia, che è una sostanza sottile tanto quanto lo è l’aria, e più inconsistente persino del vento che anche
ora sta soffiando verso il gelido seno del nord ma, essendo arrabbiato, sbuffa via da lì, dirigendosi verso il
sud umido di rugiada”.
Benvolio: “Questo vento di cui parli ci soffia via da noi stessi; la cena è servita, e noi arriveremo troppo
tardi”.

Per quanto mascherati, Romeo e gli altri uomini potrebbero essere riconosciuti, per cui presentarsi a casa
dei Capuleti è stata una mossa un po’ imprudente, ma Benvolio cerca di rassicurarli promettendogli di
andar via subito dopo un ballo veloce. La scena si configura come presagio negativo: Romeo ha sognato che
la loro presenza a questa festa avrà delle conseguenze tragiche sulla vita di tutti loro e Mercuzio gli chiede
perché, poi passa a raccontargli di Mab, la minuscola regina delle fate, figura buona ma dispettosa del
folclore – appare anche in “Midsummer Night’s Dream” – che genera i sogni ed è legata ai temi dell’amore
e della sessualità. Mercuzio ne dà una descrizione minuziosa, così come del suo cocchio e di ciò che
permette alle persone di sognare. Il moscerino che le fa da cocchiere non è più grande del vermiciattolo
colto dal pollice di una fanciulla: il pollice, a differenza delle altre dita della mano, ha un’articolazione
singola anziché doppia e sta ad indicare la pigrizia, la mancanza di laboriosità. Il termine “ pricked” è uno dei
tanti accenni alla sessualità, infatti significa anche “fallo”. Ogni parte del corpo è associata ad un preciso
desiderio: l’amore ha sede nel cervello e perciò la fata, poggiandosi sulla fronte degli innamorati, li fa
sognare; si poggia sulle gambe dei cortigiani, che per servilismo si inginocchiano e sognano continue
riverenze, per ottenere qualcosa; sulle dita degli avvocati che non vedono l’ora di riscuotere le parcelle e
sulle labbra delle fanciulle che sognano i baci; con la coda di un porcellino, solletica il naso dei curati, che
sognano di ricevere dei benefici – all’epoca, una pratica comune era quella di regalare ai parroci prodotti
agricoli o animali; il “porcellino della decima” perché il rapporto era di un decimo della produzione. Il
riferimento al brindisi riprende l’elemento acquatico, il tema della liquidità: Shakespeare menziona anche la
Spagna, nemico marittimo dell’Inghilterra. Secondo la credenza popolare, ciò che la regina Mab annoda non
deve essere snodato, altrimenti porta sventura. Infine, l’ambivalenza del portamento delle donne: esse
devono essere eleganti nei modi, ma anche abili a portare il peso dell’amore di un uomo (tema ricorrente
della gravidanza). Il vento soffia da nord a sud, così come la fantasia trasporta la mente verso orizzonti
lontani: essa è associata ad un elemento inconsistente come l’aria. Quindi c’è una doppia interpretazione
del sogno: Romeo crede che esso riveli la vera realtà delle cose, mentre Mercuzio crede che sia
esclusivamente la proiezione di un desiderio, di ciò che non vediamo, anticipando la lettura psicoanalitica
freudiana di qualche secolo più tardi. Romeo interrompe il quasi monologo di un Mercuzio infervorato, che
quasi dimentica di chi gli sta intorno, perché dal suo punto di vista sta parlando del nulla. Questa
caratteristica appartiene un po’ anche alla balia: più che ascoltare gli altri, adora parlare.

23.03.2021

Il discorso di Mercuzio sulla Queen Mab, artefice dei sogni, delinea il carattere aereo della fantasia. La
descrizione così vivida e dettagliata del sogno rimanda anche a Midsummer Night’s Dream: Puck, un folletto
minuscolo, dorme tra le foglie di una primula, è benefico ma dispettoso, e ha molti tratti in comune con la
regina Mab. Mercuzio e Romeo hanno una visione opposta del sogno: il primo crede che i sogni siano, in
una sorta di compensazione di ciò che manca, una proiezione dei desideri; il secondo, invece, crede che
ognuno sogni una realtà che prima o poi si realizzerà, come una profezia. Per Mercutio i sogni sono figli di
un cervello ozioso, partoriti mentre noi dormiamo (idle, sia nel senso di addormentati, sia inteso come un
cervello pigro che produce immagini non vere). Secondo la scienza medica del tempo, i sogni sono il frutto
di una fantasia aerea, così come la malinconia è liquida, poiché generata dalla bile nera. A differenza della
nostra distinzione binaria tra anima e corpo, la distinzione all’epoca era ternaria: anima, corpo e spirito.
Quest’ultimo è un corpo sottile dell’anima, una sostanza intermedia il cui rivestimento è fatto d’aria.
L’immaginazione era il corpo sottile dell’anima e aveva un carattere aereo; in greco pneuma, esso risale alla
filosofia dei greci, Marsilio Ticino lo chiamava “veste dell’anima”, perché l’avvolge e la trascina nel viaggio
che è il sogno. Quando sogniamo, l’anima abbandona il corpo e viene avvolta da un soffio. Il motivo per il
quale la fantasia è definita aerea è questo: essa è resa possibile dal viaggio dell’anima portata da questo
spirito, qualcuno lo definisce peregrino, perché corpo fermo ma viaggio dell’anima. Questo pneuma, soffio
è definito dalla scienza medica greca anche ope (veicolo), è ciò che fa muovere l’anima, la porta versa
l’aldilà. Lo spirito è capace di staccarsi dal corpo terreno e stabilire soprattutto nel sogno contatti
sovrannaturali, ciò significa due cose: se durante il sonno, un individuo ha contatti sovrannaturali, egli può
avere una visione più chiara e nitida di ciò che l’esperienza terrena gli mostra, ma la sua immaginazione può
anche essere distorta, perché la meta di questo viaggio dell’anima è sconosciuta. Anche il corpo dei demoni
è aereo, secondo la demonologia elisabettiana: per esempio, lo è il fantasma del padre di Amleto (l’affinità
aerea e fantasmatica tra il sogno e l’immaginazione e ciò che appare come visione demoniaca). I demoni
sono plasmabili, assumono la forma che vogliono e possono riprodurre cose reali o ingannarci. Il termine
pneumatologia deriva dal greco e identifica la scienza dello spirito: infatti, “fantasma” significa
“apparizione”, e questa disciplina di occupa di analizzare le visioni rese possibili dallo pneuma, da questo
soffio. Questo panorama storico così ramificato, che ha origine nell’Antica Grecia, è stato ricostruito da
Robert Klein nel saggio “Spirito Peregrino”, contenuto nel volume La forma e l’intelligibile. In Shakespeare,
sono molti gli esempi che si rifanno a questa caratteristica. In Midsummer Night’s Dream (commedia
contemporanea a Romeo and Juliet), il personaggio Pesio parla di “lunatic, lover e poet”, tre figure in cui
prevalgono l’immaginazione e la fantasia sulla percezione: il folle vede ciò che non esiste e costruisce una
realtà idealizzata, il poeta realizza mondi alternativi e l’innamorato vede continuamente l’immagine della
donna amata anche in sua assenza, così come affermava Andrea Cappellano. Se nel poeta prevale
l’immaginazione ed essa è aerea, anche lo spettacolo teatrale è qualcosa che si associa al mondo della
fantasia, ha quindi carattere aereo. Qui agisce l’immaginazione. In The Tempest, uno degli ultimi drammi,
Prospero allestisce un mask e, quando si dilegua, commenta dicendo che gli attori sono come spiriti che
hanno una sostanza aerea, e lo spettacolo si dissolverà perché ha la stessa natura aerea della fantasia.
Spesso, in Shakespeare, c’è affinità, analogia tra lo spettacolo teatrale e il mondo dell’immaginazione:
anche il teatro ha un carattere aereo, è una baseless fabric, ovvero un edificio privo di fondamenta. In veste
di spettatori, quindi, assistiamo ad uno spettacolo che si dissolve nel nulla, come se somigliasse ad un
sogno. In Midsummer Night’s Dream, c’è un envoy agli spettatori, ai quali Shakespeare fa dichiarare che
tutto ciò che hanno visto, in realtà, è un soltanto un sogno. Ancora, sempre in The Tempest, c’è uno spirito
dell’aria, Ariel, che induce i naufraghi dell’isola ad avere delle allucinazioni e a percepire la realtà come
distorta. Per ritornare al saggio di Klein, esso parte dallo studio della scienza medica greca e giunge fino a
Dante: gli uomini riescono ad avere determinate visioni, con il supporto della fantasia, perché durante il
sogno l’anima lascia il corpo e viene avvolta da uno spirito aereo che la trascina in mondi che,
diversamente, non potrebbe conoscere: un contatto con l’aldilà, che durante la esperienza terrena non
riusciremmo a stabilire (carattere profetico del sogno, rivelazione di qualcosa che sta per accadere o
chiarimento di ciò che è accaduto), ma è anche un sogno ingannatore, perché le sue immagini potrebbero
essere illusorie, e il fatto stesso che svaniscono lascia un certo turbamento, che porta a riflettere sulla
attendibilità di ciò che si è visto. In un poemetto medievale, un padre vede in sogno lo spirito della figlia di
due anni, morta, che gli appare e gli chiede di non stare più male, perché lei è stata accolta in Paradiso.
Anche nell’Hamlet è presente questo carattere aereo nell’immagine di un demone, ovvero il fantasma di
suo padre, sulle cui confessioni il ragazzo ha qualche dubbio. Lo spirito pellegrino di Dante, invece, arriva
nell’aldilà e lo guida alla scoperta della selva.

ATTO I, SCENA IV, vv. 106-114.

Romeo: “Temo che arriveremo troppo presto, perché la mia mente ha cattivi presagi; qualche evento,
ancora appeso nelle stelle, avrà amaramente il suo terribile inizio con la festa di questa notte e farà scadere
il termine di una vita disprezzata chiusa nel mio petto dalla vile condanna di una morte prematura. Ma ma
colui che ha il timone del mio viaggio, diriga il mio corso. Avanti, baldi gentiluomini”.
Benvolio: “Batti, tamburo”.

Il “too early” di Romeo è una ripresa al contrario del “too late” di Benvolio. “Misgives”, -mis è un prefisso
negativo ed il verbo può essere sia transitivo che intransitivo; nell’edizione Arden, è seguito dal punto e
virgola ed è intransitivo, mentre in alcune edizioni il punto e virgola non appare ed il soggetto del verbo
diventa “some consequences”. Romeo è triste perché il suo amore non è ricambiato da Rosalina e avverte
cattivi presagi, che spera non si realizzino una volta entrano alla festa. Romeo sembra un po’ delegare
l’esito delle sue azioni ad un agente esterno, parla di qualcuno che dirige l’esito del suo destino; in qualche
modo, se ne deresponsabilizza. Abbiamo visto che l’opera può essere intesa come tragedy of character o
tragedy of fate, in cui due elementi sono centrali: ciò che è scritto nelle stelle e un’occasione (la festa).
Dunque, in questo caso, diremmo muoviamo all’interno di una tragedy of fate, ma l’elemento “umano”
della festa, in qualche modo accelera e incide sul corso degli eventi. Il linguaggio che utilizza Romeo è
economico e contrattuale: così come scade un contratto, allo stesso modo scadrà la sua vita, se gli eventi
precipiteranno negativamente.

ATTO I, SCENA V. La quinta scena si svolge nella casa dei Capuleti, con un’apertura in chiave comico-
realistica: c’è qualcuno che mangia la cena e qualcuno che la prepara; si delinea anche la prospettiva dei
servi e si commenta la scarsa attenzione di chi si occupa dell’igiene delle stoviglie. Secondo una prospettiva
generazionale, che si estende un po’ in tutta la tragedia, il vecchio Capuleti ripercorre, attraverso i ricordi, i
momenti della sua giovinezza e i suoi primi corteggiamenti: durante la festa, i più anziani riflettono sul
passato, mentre i giovani vivono nel presente la stagione dei corteggiamenti e degli amori. Anche in questa
scena sono racchiusi i temi principali dell’opera: lo scontro generazionale, l’odio tra due famiglie e l’amore
ostacolato dei due ragazzi. Questi temi hanno un senso più ampio in tutta la tragedia. Possiamo
sicuramente affermare che sono anche questi stessi personaggi a determinare l’esito tragico della vicenda,
e tra loro anche Tebaldo, che vive secondo i dettami di un suo personalissimo codice d’onore: dopo aver
riconosciuto Romeo, inizia a rivolgergli delle minacce, ma viene fermato dal vecchio Capuleti. Personaggi
come Tebaldo, e in parte Mercuzio, non riescono a controllare la propria aggressività; se Romeo è
dominato dalla malinconia, Tebaldo dalla collera, prodotta dalla bile gialla. Per Tebaldo, uccidere il nemico
significa dimostrare il proprio onore, ma Capuleti a lui oppone il codice della moderazione e
dell’accoglienza, perché non si può uccidere un ospite ad una festa. La parte più importante di tutta la
scena è il sonetto a due voci recitato da Romeo e Giulietta, nel momento del loro primo incontro: Romeo è
sicuro che non vedrà donna più bella di Rosalina, ma si ricrederà alla vista di Giulietta e riterrà giusto ciò
che aveva detto Mercuzio, ovvero che Rosalina è un corvo tra le colombe e che Giulietta è colei che brilla. Il
linguaggio religioso e quello erotico-amoroso si mescolano, il sonetto non è soltanto un insieme di parole,
ma genera il bacio tra i due giovani. La prima quartina si chiude con “ kiss” e la successiva comincia allo
stesso modo.

ATTO I, SCENA V, vv.1-5

[Entrano in scena, e i servitori arrivano con dei fazzoletti]

Maggiordomo: “Dov’è Pentolaccia, che non aiuta a sparecchiare? Mai che cambi un piatto o pulisca un
tagliere!”.
Primo servo: “Quando le buone maniere sono riposte nelle mani di una o due persone, e queste sono anche
sporche, anche la faccenda diventa sporca”.
Maggiordomo: “Via con gli sgabelli, spostate anche la credenza, attenti all’argenteria. Da bravo, tu
conservami un pezzo di marzapane e, poiché mi vuoi bene, lascia che il portiere faccia entrare Susan
Grindstone, e Nell, Anthony e Pentolaccia”.
Secondo servo: “Si, signore, sono pronto”.
Maggiordomo: “Ti cercano, e ti chiamano, e chiedono di te, e domandano di te, nella grande sala”.
Terzo servo: “Non possiamo essere qui ed anche lì. Dai, ragazzi, svelti, e quello che resiste di più prende
tutto”.

[Escono]

[Entrano il signor Capuleti, la signora Capuleti, Giulietta, Tebaldo, la balia, il Conte Paride, il cugino Capuleti,
il paggio di Tebaldo, assistenti e tutti gli invitati e i gentiluomini con le Maschere]

Signor Capuleti: “Benvenuti, gentiluomini. Le donne che non hanno gli alluci valghi danzeranno a turno con
voi. Ah, mie signore, chi tra voi tutte adesso si rifiuterà di danzare? Lei che si fingerà schiva, lei, lo giurerò,
ha gli alluci valghi. Devo avvicinarmi per scoprirlo? Benvenuti, gentiluomini. Ho visto anch’io il giorno in cui
indossavo una maschera e potevo sussurrare una storia nell’orecchio di una bella dama, che le facesse
piacere. Questo tempo è andato, questo tempo è andato, questo tempo è andato. Siete i benvenuti,
gentiluomini. Andiamo, musicisti, suonate”.

[La musica comincia e danzano]

Signor Capuleti: “Largo, largo! Fate spazio e danzate, ragazze. Più luce, voi servi, e girate sottosopra i tavoli
e toglieteli dalla pista da ballo, e spegnete il fuoco, la stanza sta diventando troppo calda. Ah, dite, questa
inaspettata occasione è la benvenuta. No, sedete, sedete, buon cugino Capuleti, per me e voi i giorni
danzanti sono passati. Quanto tempo è passato da quando l’ultima volta io e voi eravamo in maschera?”
Cugino Capuleti: “Per la Madonna, trent’anni”.
Signor Capuleti: “Come, signore, non è così tano, non è così tanto: è dalle nozze di Lucenzio, venga presto
quanto vuole la Pentecoste, circa venticinque anni fa, e ci mascherammo”.
Cugino Capuleti: “È di più, è di più, suo figlio è più grande, signore, suo figlio ha trent’anni”.
Signore Capuleti: “Ma che dici? Suo figlio non era che un bambino due anni fa”.
Romeo [ad un servo]: “Chi è quella dama che arricchisce la mano di quel giovane cavaliere?”
Servo: “Non lo so, signore”.
Romeo: “O, lei insegna alle torce a bruciare scintillanti. Sembra che penda dalla guancia della notte come
un ricco gioiello sull’orecchio di Etiope, una bellezza troppo ricca da usare, troppo cara per la terra. Tale
appare una candida colomba in mezzo a un branco di cornacchie, così la giovane donna si mostra tra le sue
compagne. Finito il ballo, guarderò dove si siede e, toccando la sua, renderò benedetta la mia ruvida mano.
Il mio cuore ha amato finora? Smentitelo, occhi, perché non ho mai visto la vera bellezza fino a questa
notte”.
Tebaldo: “Questi dalla voce dovrebbe essere un Montecchi. Portami la mia lucida spada, ragazzo”.

[Esce il paggio]

Tebaldo: “Come, osa lo schiavo venire qui, con il viso coperto da una finta maschera, per ridere e prendersi
gioco della nostra solennità? Adesso per la nobiltà e l’onore della mia pelle, non considero un peccato se lo
colpisco a morte”.
Signor Capuleti: “Perché, com’è, nipote, cos’è che ti fa infuriare così?”
Tebaldo: “Zio, questi è un Montecchi, il nostro nemico, un villano che è qui venuto questa notte con
l’intenzione di prendersi gioco della nostra solennità”.
Signor Capuleti: “È il giovane Romeo?”
Tebaldo: “È lui, quel villano Romeo!”.
Signor Capuleti: “Contieniti, gentile nipote, lascialo solo. Si comporta come un degno gentiluomo e, a dire il
vero, Verona lo ritiene un giovane educato e virtuoso. Per il bene della nostra città, non lascerò che qui in
casa mia gli fosse fatto un torto. Perciò sii paziente, non dargli retta. È il mio volere, il quale se tu rispetti,
mostrati di buona presenza e togli via questo cipiglio, un’espressione non consona ad una festa”.
Tebaldo: “È appropriata quando un tale villano è un ospite. Non lo tollererò”.
Signor Capuleti: “Deve essere tollerato. Cosa, buon ragazzo, deve esserlo, va’ via! Sono io qui il signore o
tu? Va’ via! Non lo tollererai? Dio protegga la tua anima, creeresti discordia tra i miei ospiti, vorresti dar
sfogo alla tua ira!”
Tebaldo: “Perché, zio, questa è una vergogna”.
Signor Capuleti: “Va’ via, va’ via, sei un ragazzo impudente. Non è così, invece? Il tuo comportamento
inappropriato ti recherà danno, io so in che modo. Vorresti contraddirmi! – Forza, è il momento, ben detto,
ragazzi miei. – Tu sei un insolente, vai, stai tranquillo, o – Più luce, più luce! – per la vergogna, ti farò stare
buono io. – Come, forza, ragazzi!”
Tebaldo: “La pazienza forzata che si incontra con la collera fa tremare la mia carne per la loro natura
opposta. Mi allontanerò, ma questa intrusione, che ora sembra dolce, si convertirà in amaro fiele”.
[Esce]

La festa viene raccontata dal punto di vista degli ospiti ed anche dei servi, impegnati a sparecchiare e
servire gli invitati, che imprecano a causa di qualcuno tra loro che non collabora. Come già anticipato,
Romeo and Juliet è una delle tragedie in cui è presente maggiormente la comicità del linguaggio, di fatti
qualcuno reputa l’opera una tragicommedia. Dopo lo scambio di battute tra i servi e di Capuleti padre con il
cugino, il focus si concentra su Romeo, il quale ha visto Giulietta stringere la mano di un uomo che non
conosce. Secondo alcuni, si tratta di Paride; secondo altri di Tebaldo. Il dramma lascia questo aspetto
indeterminato. Il linguaggio è abbastanza affine a quello dei sonetti, in cui la bellezza viene giudicata anche
mediante il filtro di un linguaggio di tipo economico, ma la conclusione è agli antipodi: nei sonetti vi è
l’invito a concedersi, perché la bellezza non vada sprecata, mentre nel dramma usarla sarebbe uno spreco.
Toccare la mano di Giulietta, per Romeo, equivale al tocco di un pellegrino che sfiora una reliquia: è il gesto
di un innamorato, una carezza alla persona amata, ma allo stesso tempo un segno di devozione. La
luminosità di Giulietta diventa l’elemento centrale dell’atto successivo, nella scena del balcone. Nella
seconda parte della scena, Tebaldo ha riconosciuto la voce di Romeo al di sotto della maschera che indossa
e lamenta la sua presenza allo zio Capuleti, tanto che vorrebbe colpirlo con la sua spada, per vendicarsi
(immotivatamente) delle sue risate, in linea con i principi forzati del suo codice d’onore. Nel concludere la
battuta, la rima dà maggiore enfasi alla minaccia. Il codice dell’onore è anche in questo lemma “kin”, la
fedeltà alla casata: uccidere un nemico di un’altra casata non è un peccato, ma, secondo il codice
cavalleresco, è un gesto onorevole. Capuleti cerca di frenare la sua collera e lo invita alla moderazione. Nel
v.88, il lemma “choler” si riferisce sia alla collera e alla bile gialla, sia al malinteso senso dell’onore. Al v.92,
si segna l’inizio del sonetto recitato dai due innamorati.

Romeo: “Se io profano con la mia indegna mano questa reliquia sacra, il gentile peccato è questo: le mie
labbra, due pellegrini arrossiti, saranno pronte a levigare quel ruvido tocco con un tenero bacio”.
Giulietta: “Buon pellegrino, voi fate decisamente troppo torto alla vostra mano, che mostra in questo tocco
una devozione educata, in quanto i santi hanno mani che le mani dei pellegrino toccano, e palmo contro
palmo è un sacro bacio di palmieri”.
Romeo: “Non anno anche i santi e i palmieri le labbra?”
Giulietta: “Sì, pellegrino, labbra che devono usare in preghiera”.
Romeo: “O allora, cara santa, lascia che le labbra facciano ciò che fanno le mani – esse pregano; concedilo,
prime che la fede si trasformi in disperazione”.
Giulietta: “I santi non si muovono, anche quando esaudiscono le preghiere”.
Romeo: “Allora non muoverti mentre predo l’effetto delle mie preghiere”.

[La bacia]

Romeo: “Così dalle mie labbra alle tue il mio peccato è espiato”.
Giulietta: “Così le mie labbra hanno il peccato che hanno preso dalle tue”.
Romeo: “Peccato dalle mie labbra? O colpa dolcemente provocata! Dammi di nuovo il mio peccato”.

[La bacia]

Giulietta: “Baci come in un libro”.


Balia: “Signora, vostra madre vuole scambiare una parola con voi”.

[Giulietta si avvicina a sua madre]

Romeo: “Chi è sua madre?”


Balia: “Diamone, giovanotto, sua madre è la signora della casa, e una buona signora, e saggia e virtuosa. Io
ho fatto da balia a sua figlia con cui tu hai parlato. Ti dico, colui che può giacere stretto a lei deve essere
ricco”.
Romeo: “È una Capuleti? O dura resa dei conti! La mia vita è il debito con il mio nemico”.
Benvolio: “Via, andiamo, il gioco è giunto al suo meglio (il meglio della serata si è svolto)”.
Romeo: “Sì, così temo; vedere di più sarebbe per me irrequietezza”.
Signor Capuleti: “No, gentiluomini, non preparatevi per andare via; abbiamo un modesto banchetto in
arrivo”.

[Sussurrano al suo orecchio]

Signor Capuleti: “È davvero così? Perché allora, vi ringrazio tutti. Vi ringrazio, onesti gentiluomini,
buonanotte. Più torce qui! Andiamo allora, andiamo a letto. Ah, su, davvero, si fa tardi. Andrò a riposare”.

[Escono tutti tranne Giulietta e la balia]

Giulietta: “Vieni qui, balia. Chi è quel gentiluomo?”


Balia: “Il figlio ed erede del vecchio Tiberio”.
Giulietta: “Chi è quello che ora sta uscendo dalla porta?”
Balia: “Diamine, penso che sia il giovane Petruccio”.
Giulietta: “Chi è colui che segue lì, che non ha voluto danzare?”
Balia: “Non lo so”.
Giulietta: “Vai a chiedere il suo nome”.

[La balia va via]

Giulietta: “Se è sposato, la mia tomba sarà come il mio letto nuziale”.
Balia [ritornando]: “Il suo nome è Romeo, e un Montecchi, l’unico figlio del vostro grande nemico”.
Giulietta: “Il mio unico amore deriva dal mio unico odio, sconosciuto che troppo presto io vidi, e troppo tardi
conobbi! La nascita portentosa dell’amore è per me amare un nemico esecrato”.
Balia: “Cos’è? Cos’è?”
Giulietta: “Una rima che ho appena imparato da colui con cui ho danzato”.
Balia: “Presto, presto! Andiamo, andiamo via, gli stranieri sono tutti andati”.

[Escono]

Per farsi perdonare per il tocco ruvido della sua mano, Romeo deve rimediare con un bacio, che funge da
espiazione. Nella prima quartina del sonetto c’è il lemma “kiss”, la seconda quartina si chiude con lo stesso
lemma e, infine, il sonetto termina con un vero e proprio bacio che mette in atto il bacio verbale che
conclude le due quartine. Si ibrida il linguaggio religioso con quello erotico. Tradizione molto antica, le
mistiche invocavano Dio di possederle, nel linguaggio religioso spesso l’amore, in quanto religione, può
convergere con l’amore in quanto appetito sessuale. La devozione religiosa può avere qualcosa in comune
col desiderio erotico. Il lemma “sin” potremmo considerarlo una metonimia, come effetto del peccato che
contiene un’espiazione. Il rosso delle labbra riprende il fervore religioso dei pellegrini. C’è un doppio gesto
devozionale: il tocco diventa una carezza, così come il bacio diventa una preghiera. Romeo cerca espiazione
per questo primo peccato. Giulietta recepisce la metafora, lui stesso è un pellegrino. Mentre Romeo utilizza
l’informale “thou”, Giulietta gli si rivolge con “you”. Non c’è nulla di blasfemo nel tocco della sua mano, lo
ha apprezzato. Gioco di suoni, omofonia tra “palm” e “palmers”, ovvero colui che porta la palma, che
consente di portare avanti il duplice linguaggio erotico-religioso). Si chiude con un “kiss” che ribadisce la
reciprocità del sentimento di Giulietta nei confronti di Romeo. “Grant” ha sia valenza religiosa che erotica:
in riferimento al santo, Romeo chiede a Giulietta di esaudire il suo desiderio; in riferimento alla donna
amata, le chiede di concedersi fisicamente. Allo stesso modo, anche “faith” e “despair”. Romeo bacia
Giulietta, ma lei non si ritrae. Il linguaggio religioso ed erotico si uniscono attraverso una serie di lemmi
comuni (rossore delle labbra che può essere quello del pellegrino, il tocco delle mani che può essere quello
devoto, le labbra che si muovono in preghiera possono anche essere labbra che si baciano); rispetto alla
letteratura mistica, qui prevale una chiave ironica, il linguaggio religioso è un pretesto per baciarsi. Romeo
la ribacia. Dopo questo breve incontro, entrambi chiedono l’uno dell’altra. Giulietta chiede di Romeo con
timidezza femminile, non vuole dimostrare alla balia di tenerci a lui, ma quando scopre che si tratta di un
Montecchi, riflette sull’esito di tutto: ha baciato qualcuno di cui è innamorata, aspro nemico della sua
famiglia, e ciò risulterà fatale per tutti e due.

Il coro era stato definito “inutile” da Samuel Johnson. Ma nel caso di questa tragedia, la sua funzione non è
quella di narrare tutta la storia, bensì di riepilogare semplicemente ciò che è già accaduto. Inizialmente,
l’amore è a senso unico, perché Romeo non è ricambiato da Rosalina, ma adesso la situazione è cambiata: il
suo amore è ricambiato da Giulietta, ma su di esso incombe un divieto, che tuttavia sarà superato dalla
passione. Il coro anticipa qualcosa di ciò che accadrà successivamente: Romeo riuscirà a raggiungere il
giardino della casa dei Capuleti ed si apposterà sotto il balcone di Giulietta, sorpassando il muro che lo
divide dal loro orto.

24.03.2021

Un altro espediente utilizzato nella tragedia è l’uso del paradosso, una delle modalità retoriche preferite
soprattutto dai poeti metafisici, come John Donne, il quale compone, tra i tanti, un famoso sonetto sulla
morte, che si conclude con il verso “death, thou shalt die”, ovvero “morte, tu morirai”: il paradosso si fonda
su un circuito logico che sostiene che il corpo è mortale, a differenza dell’anima eterna, secondo le
convinzioni della religione cristiana. Dunque, la morte non sarà in grado di distruggerci, ma sarà lei a
soccombere. Un altro paradosso nella poesia di Donne è quello della pulce, che morde la gamba della
donna amata e s’ingrossa di sangue in una sorte di gravidanza: perché soltanto lei può cibarsi della ragazza
e partorire amore, mentre il poeta no?

Il paradosso, nella seconda scena del secondo atto di “Romeo and Juliet” si realizza quando Romeo è
arrivato nel giardino della casa dei Capuleti e vorrebbe avvicinarsi a Giulietta, dopo averla incontrata e
baciata alla festa. La paragona ad un astro più luminoso della luna, che la invidia, perché lei è il Sole ed è
l’Oriente. Il meccanismo paradossale si basa sulla strategia retorica della discussione di due piani discorsivi
non paralleli, uno letterale e l’altro metaforico, ovvero il piano della percezione (la luna) e
dell’immaginazione (Giulietta è come il Sole).

In Italia, il paradosso è proprio anche di un famoso sonetto di Giuseppe Artale dedicato alla Maddalena,
relativo all’episodio la donna bagna i piedi di Cristo piangendo e asciuga le sue lacrime con i capelli. Gli
occhi di Maddalena sono dei fuochi luminosi, come degli astri, e i suoi capelli sono come il Tago, come un
fiume: il paradosso nasce nell’associazione della liquidità ai capelli, piuttosto che agli occhi; ella bagna col
Sole (gli occhi) ed asciuga con i fiumi (i capelli). I versi contenuti in questo sonetto sono considerati quasi un
orrore del Barocco, in Italia visto come una forma poetica mal riuscita a causa di un eccesso di maniera ed
artificio. Invece, nell’Inghilterra rinascimentale questo movimento artistico e culturale era molto
apprezzato, tant’è che è stato studiato nelle sue funzioni poetiche e conoscitive nella poesia inglese, e
proprio John Donne è la prima figura ad esso associato. Uno studio della tradizione del paradosso nella
poesia inglese del Rinascimento è quello elaborato da Rosalie Colie, intitolato “Paradoxia Epidemica”, in cui
esamina tutta una serie di paradossi, colmi di una funzione conoscitiva che la poesia, col suo linguaggio,
cerca di veicolare. In John Donne, il paradosso viene inteso come una figura filosofica, un modo per scoprire
nuovi orizzonti di conoscenza, di portare il ragionamento alle sue conclusioni estreme.

ATTO II, SCENA II.

Romeo: “Si beffa delle cicatrici colui che non si è mai ferito. Ma piano, quale luce irrompe attraverso la
finestra lassù? È l’Oriente, e Giulietta è il sole. Sorgi, bel sole, e uccidi la luna invidiosa, che è già malata e
pallida di dolore perché tu sei la sua vestale molto più bella di lei. Non essere la sua ancella, perché lei è
invidiosa; il suo abito vestale è malaticcio e verde, e nessuno se non dei pazzi lo indosserebbero. Gettalo
via”.

[Entra Giulietta in alto]

Romeo: “È la mia donna, o, è il mio amore! O, se solo sapesse di esserlo! Parla, ma tuttavia non dice nulla.
Cos’è? I suoi occhi parlano, gli risponderò. Sono troppo audace, non è a me che parla. Due delle stelle più
belle di tutto il cielo, avendo qualche faccenda da sbrigare, chiedono ai suoi occhi di brillare nelle loro sfere
fin quando esse ritornano. E se i suoi occhi fossero in quelle sfere, e le stelle sul suo viso? La brillantezza
della sua guancia recherebbe vergogna a quelle stelle come la luce del giorno ne reca ad una lampada. I
suoi occhi nel cielo attraverso la regione dell’aria scorrerebbero così brillanti, che gli uccelli canterebbero
pensando che non fosse notte. Guarda come poggia la sua guancia sulla mano. O, potessi essere io un
guanto su quella mano, così da poter toccare quella guancia!”
Giulietta: “Povera me”.
Romeo: “Parla. O parla di nuovo, angelo luminoso, perché sei così gloriosa in questa notte, volando sulla
mia testa, come un messaggero alato del paradiso nei bianchi e stupiti occhi dei mortali che cadono indietro
per guardarlo mentre varca le pigre e paffute nubi a naviga sul grembo dell’aria”.
Giulietta: “O Romeo, Romeo, perché sei tu Romeo? Rinnega tuo padre e rifiuta il tuo nome, o se non lo
farai, almeno giura sul mio nome che mi ami, ed io non sarò più una Capuleti”.
Romeo: “Devo ascoltare altro, o posso rispondere a questo?”
Giulietta: “A questo, ma il tuo nome è mio nemico. Tu sei te stesso, non un Montecchi. Cos’è un Montecchi?
Non è una mano né un piede, né un braccio né un volto, né nessun’altra parte che appartiene ad un uomo.
O sii un altro nome! Cosa c’è in un nome? Che ciò che chiamiamo rosa, con un altro nome profumerebbe
ugualmente; così Romeo, se non si chiamasse Romeo, possiederebbe quella cara perfezione che ha senza il
suo nome. Romeo, butta via il tuo nome, e per il tuo nome, che non è parte di te, prendi tutta me stessa”.
Romeo: “Ti prendo sulla parola. Chiamami solo amore ed io sarò nuovamente battezzato. D’ora in avanti,
non sarò più Romeo”.
Giulietta: “Che uomo sei tu che così schermato dalla notte inciampi nei miei pensieri?”
Romeo: “Con un nome non so dirti chi sono. Il mio nome, cara santa, risulta odioso a me stesso, perché è
per te un nemico. L’avessi scritto, strapperei la parola”.
Giulietta: “Le mie orecchie non hanno ancora ascoltato centinaia di parole pronunciate dalla tua lingua, che
già ne conosco il suono. Sei tu Romeo, e un Montecchi?”
Romeo: “No, bella fanciulla, se questo ti dispiace”.

[…]

Giulietta: “Con quale suggerimento hai trovato questo posto?”


Romeo: “Con quello dell’amore, che per primo mi ha indirizzato a cercarlo. Mi ha dato questo consiglio, ed
io gli ho prestato i miei occhi. Non sono un timoniere, ma fossi stata tu così lontana come quella vasta
spiaggia bagnata dal mare più lontano, mi sarei avventurato per tale mercanzia”.
Giulietta: “Tu sapevi che la maschera della notte è sul mio viso, altrimenti un rossore verginale tingerebbe le
mie guance per quello che mi hai sentito dire stanotte. Davvero vorrei indugiare sulle forme, davvero,
davvero vorrei rinnegare ciò che ho detto; ma addio, buone maniere. Mi ami? So che dirai ‘Sì’, e ti prenderò
in parola; ancora, se tu giurassi, potresti provare il falso. Agli spergiuri degli innamorati, dicono, Giove ride.
O gentile Romeo, se mi ami, dillo sinceramente, o se pensi che io sia stata vinta troppo in fretta, sarò
accigliata e ti dirò di no, così potrai corteggiarmi di nuovo, ma non lo farei per nessun’altra cosa al mondo.
In verità, bel Montecchi, sono troppo innamorata, e perciò potresti pensare che il mio comportamento sia
leggero. Ma fidati, gentiluomo, mi dimostrerò più sincera di quelle che hanno più astuzia a fare le ritrose.
Avrei dovuto essere più cauta, devo confessarlo, ma prima che me ne accorgessi, tu hai ascoltato la mia
sentita dichiarazione d’amore. Perciò perdonami, e non imputare questa mia rapidità ad un amore
effimero, che la notte buia ha scoperto”.
Romeo: “Signora, sulla alta e fortunata luna io giuro, che copre d’argento tutti quei frutti sulla cima
dell’albero – ”.
Giulietta: “Non giurare sulla luna, l’incostante luna, che cambia mensilmente nella sua orbita circolare,
rischiando che il tuo amore si provi, allo stesso modo, variabile”.
Romeo: “Su cosa dovrei giurare?”
Giulietta: “Non giurare affatto, o se lo farai, giura su te stesso, grazioso, che sei il dio della mia idolatria, e ti
crederò”.
Romeo: “Se il caro amore del mio cuore –”.
Giulietta: “Bene, non giurare. Anche se provo affetto per te, non provo gioia per lo scambio verbale di
questa notte; è troppo veloce, troppo inaspettato, troppo rapido, come il lampo che cessa di essere dove
uno dice ‘ci sono i lampi’”.

[…]

Romeo esprime il suo rammarico per colui che si beffa delle cicatrici di un innamorato, perché non sa cosa
voglia dire soffrire, ed indirettamente risponde al commento di Mercuzio, nella scena immediatamente
precedente, in cui l’uomo commenta ironicamente l’amore del cugino. Il giovane si accorge di una luce che
traspare dalla finestra, e forse intravede Giulietta, che metaforicamente paragona ad un Sole splendente,
che fa invidia anche alla luna, la quale splende della sua luce riflessa. Primo paradosso della scena: è notte,
c’è la luna, ma Giulietta splende come il Sole. Diana è la dea della luna e della notte e, in quanto tale, è
accompagnata dalle sue vestali. Tra queste c’è anche Giulietta, ma siccome appare più luminosa della dea,
dovrebbe rifiutarsi di seguirla e gettare via il suo abito da ancella. A questo punto, la ragazza appare sul
balcone e Romeo si accorge di lei senza, tuttavia, farsi notare. Secondo paradosso: inizialmente, Giulietta
offusca la luna col suo splendore solare; adesso, invece, prende il posto delle stelle che, per qualche
impegno urgente, si sono allontanate e hanno chiesto ai suoi di brillare nella loro orbita fino al loro ritorno.
La ragazza ha poggiato il gomito sul davanzale e si tiene la guancia con la mano, questa immagine
presuppone, in scena, l’esistenza di una finestra e di un davanzale che riproducono l’aspetto icastico della
parola. Il desiderio di trasformarsi in un oggetto che ha il privilegio di toccare una determinata parte del
corpo della persona amata è un topos classico molto antico, ripreso anche in altri punti del dramma.
Giulietta sospira e Romeo, che fino ad allora l’aveva soltanto guardata, la sente parlare. Anche la ragazza è
ignara della presenza del suo innamorato e gli confessa il suo amore in una specie di monologo, in cui si
realizza tutta una riflessione sul nome di Romeo, o meglio sul suo cognome, il senso a cui esso è legato.
Questa riflessione è spiegata in modo esteso anche in uno studio di Germana Rutelli, ovvero “Romeo e
Giulietta; l’effabile”: Giulietta riflette sulla convenzionalità del linguaggio, il nome di Romeo le è ostile, ma in
fin dei conti, che cos’è un nome? Esso è qualcosa che viene stabilito artificiosamente, non ha valenza
naturale e non ha nulla a che vedere con il sentimento dell’amore: opposizione tra res e verba, ovvero cose
e parole, che finiscono per scollarsi; in una discrepanza tra logos ed essenza, quest’ultima trionfa.
Inoltre, mentre Romeo, da innamorato di Rosalina si perdeva negli stilemi dell’amore cortese, Giulietta dà
dell’amore una definizione più pragmatica. Chiede a Romeo di rinnegare il suo nome, suo nemico, perché
non è qualcosa che gli appartiene intrinsecamente come, invece, le appartiene lei, che ne è innamorata; gli
chiede di accettare il suo amore, il suo corpo, e di rinnegare l’identità a cui è vincolato.
Romeo vorrebbe giurare sulla luna che per amor suo accetterà di rinnegare il suo nome, ma Giulietta gli
intima di non giurare su di essa perché è incostante, come le sue orbite, e di non fare giuramento alcuno,
perché l’amore va al di là delle parole. Quindi, posizione diametralmente opposta a quella dello studio della
Rutelli, per cui l’amore è, invece, effabile, pronunciabile. Giulietta rinnega tutta questa tradizione, già messa
in dubbio da Mercutio, sostenitore della carnalità e della corporeità, con il suo linguaggio osceno e la beffa
degli stilemi cortesi ormai triti. Giulietta rifiuta il cognome di Romeo ma, in realtà, più della parola in quanto
tale, si trasforma in una richiesta di rifiuto in accezione un po’ più ampia (sineddoche): rifiuta il tuo nome
per poter rifiutare la rivalità delle nostre famiglie e vivere liberamente il nostro amore.
Giulietta non sa di essere ascoltata e quando Romeo interrompe il suo quasi monologo, ne rimane
sconcertata. Nella visione epocale, l’amore era legato soprattutto allo sguardo; quella del timoniere che
tenta di governare una barca in balia delle onde, è un’immagine cara al petrarchismo: l’innamorato è in
preda alla disperazione di un amore non ricambiato che si traduce nell’ira di un mare in tempesta. Romeo,
al contrario, è riuscito ad affrontare il suo viaggio e a scovare la casa di Giulietta grazie alla forza del suo
amore ricambiato. La ragazza, a questo punto, sembra inizialmente mostrarsi un po’ pentita della profonda
confessione che si è lasciata sfuggire, non per mancanza d’intensità del suo sentimento, ma perché ha
infranto il codice amoroso nei ruoli sociali, si è spinta oltre ciò che le è concesso perché si è dichiarata
apertamente senza attendere che l’uomo facesse il primo passo, come di norma; è scissa tra due possibilità,
ovvero l’audacia del suo sentire ed il rispetto delle forme. Di conseguenza, ha timore di essere giudicata
leggera da Romeo per essersi lanciata così, senza remore, nella sua confessione, anche se cerca di
giustificarsi perché ignara di qualcuno fermo ad ascoltarla. Inoltre, ha il timore che questo sentimento così
rapido abbia un finale tragico: ritorno di un presagio negativo e senso di un eccessivo ardore ed
avventatezza, che ci porterebbero a leggere il dramma come una tragedy of character.

25.03.2021

La novella di Bandello spiega molto della tragedia shakespeariana. Ad esempio, perché dopo l’esilio di
Romeo a Mantova, Giulietta non lo ha seguito? Sono regolarmente sposati e potrebbe farlo, ma sceglie uno
stratagemma macchinoso. In Shakespeare non c’è una risposta a questo quesito, a differenza di quanto
emerge nella fonte sopracitata: Giulietta, dopo il matrimonio e l’esilio, propone a Romeo di seguirlo,
indossando abiti maschili da paggio per evitare di farsi riconoscere, ma Romeo rifiuta questa proposta in
quanto il duca Bartolomeo della Scala, – in Bandello il setting temporale è più specifico, siamo agli inizi del
Trecento – ovvero Escalo nel dramma shakespeariano, dopo un anno gli permetterà di tornare a Verona. Il
problema si accentua quando la madre di Giulietta, scorgendo le lacrime sempre più frequenti della figlia e
la sua tristezza dovuta alla sua condizione di sposa separata, le propone di sposare Paride, credendola triste
inizialmente per la morte di Tebaldo, e poi perché, a differenza delle sue amiche, non è ancora sposata. In
Bandello, Giulietta ha già diciotto anni e Paride apparirà soltanto successivamente. Così, la ragazza, chiede
aiuto a Frate Lorenzo, proponendo anche a lui, per la seconda volta, di seguire Romeo a Mantova, vestita in
abiti maschili, ma il frate la dissuade dall’idea perché le porte della città sono custodite, reputa che sia
molto pericoloso così come le strade di Verona di notte lo sono per una ragazza fragile come lei, vissuta
nella bambagia e senza conoscenza del mondo. In più, se il padre dovesse scoprirla, le infliggerebbe dure
punizioni.
A questo punto, Giulietta chiede di darle un veleno per morire, ma il frate rifiuterà anche questa proposta,
perché il suicidio è contro Dio e lui è un uomo di chiesa, perciò le dà la pozione per farla addormentare.
Un’altra differenza tra i due testi è il personaggio della balia, che in Bandello è una vecchia che vive con
Giulietta, con poca risonanza, mentre in Shakespeare è un personaggio di grande invenzione. Ancora,
Mercuzio si chiama Marcuccio, e non viene ucciso da Tebaldo. Piuttosto, è quest’ultimo a morire per mano
di Romeo, che cerca di calmare la sua ira e lo invita a lasciare le armi, che hanno già versato il sangue di
molti, ma senza riuscirci, e durante un duello con la spada lo ferisce a morte. Un elemento in comune, al
contrario, è il fatto che sia Marcuccio che Mercuzio hanno sempre le mani molto fredde, e questo dato è
rintracciabile nella scena della festa a casa dei Capuleti, in cui un uomo regge la mano di Giulietta, e che
nella versione shakespeariana non è riconoscibile. Anche la prefazione di Bandello, sulla stessa scia di
quella di Brooke, è un aspetto interessante: si tratta di una lettera a Girolamo Fracastoro, in cui osserva che
questa novella deve servire da ammonimento ai giovani, affinché si comportino in modo più prudente. Ma
entrambi, sia Bandello che Brooke, in fin dei conti, mostrano un atteggiamento molto meno ostile e
perentorio nei confronti dei giovani ragazzi, nonostante la presenza di un tono sempre moraleggiante e
educativo.
Nella parte finale della seconda scena, sul piano speculativo della riflessione, Romeo e Giulietta conversano
e progettano anche il loro matrimonio. In contrasto con le convenzioni imposte dal tempo alle donne, è
Giulietta a chiedere a Romeo di prenderla in sposa il giorno successivo al loro incontro; i ragazzi
chiederanno l’aiuto di due figure esterne, ovvero frate Lorenzo e la balia. Romeo, nella scena
immediatamente successiva, seppellisce il suo vecchio amore per Rosalina in favore del nuovo sentimento
per Giulietta; la scena è prolettica, un anticipo della sua sepoltura, oltre che di quella della giovane ragazza.

Giulietta: “Ancora tre parole, caro Romeo, e poi davvero buonanotte. Se l’intenzione del tuo amore è
onorevole, se il tuo obiettivo è il matrimonio, mandami parola domani tramite qualcuno che mi procurerò di
mandare da te, dove e a che ora vorrai performare il rito, e tutte le mie fortune ai tuoi piedi porrò, e ti
seguirò mio signore per tutto il mondo”.
Balia [da dentro]: “Signora!”
Giulietta: “Arrivo, un momento! – Ma se non intendevi questo, bene, allora ti prego –”.
Balia [da dentro]: “Signora!”
Giulietta: “Tra un attimo, arrivo! – di tentarmi e lasciarmi al mio dolore. Domani invierò qualcuno”.
Romeo: “Allora tenta la mia anima –”.
Giulietta: “Mille volte buonanotte”.
Romeo: “Mille volte cattiva, la notte, ora che manca la tua luce. L’amore va verso l’amore così come i
ragazzini scappano dai loro libri, ma l’amore che scappa dall’amore è come andare verso la scuola con una
faccia pesante”.

[Entra Giulietta di nuovo]

Giulietta: “Ehi, Romeo, ehi! O, se avessi la voce del falconiere per far ritornare indietro questo falcone dolce
– colui che è legato è rauco e non potrebbe parlare a voce alta, altrimenti farei crollare la grotta dove Eco
risiede e renderei la sua lingua aerea più rauca della mia, ripetendo il nome del mio Romeo”.
Romeo: “È la mia anima che risponde a nome mio. Quanto dolce suona la lingua argentea degli amanti di
notte, come la musica più leggera per orecchie che l’ascoltano.”
Giulietta: “Romeo!”
Romeo: “Mio falchetto?”
Giulietta: “A che ora domani dovrei mandarti qualcuno?”
Romeo: “Alle ore nove”.
Giulietta: “Non mancherò. Saranno venti anni fino ad allora. Ho dimenticato perché ti ho chiesto di
ritornare indietro”.
Romeo: “Lasciami stare qui fino a quando non li ricordi”.
Giulietta: “Dovrei dimenticarmene per avere te ancora qui, ricordando quanto amo la tua compagnia”.
Romeo: “E io resterei ancora per fartene ancora dimenticare, dimenticando qualunque altra casa ma non
questa”.
Giulietta: “È quasi mattina. Vorrei che fossi già andato, ma non più lontano di un uccellino, che un bimbo
cattivo lascia saltare un po’ dalla sua mano, come un piccolo prigioniero tra le sue fettucce intrecciate, e con
un filo di seta lo tira di nuovo indietro, così amabilmente geloso della sua libertà”.
Romeo: “Vorrei essere quell’uccellino”.
Giulietta: “Dolce, lo vorrei anch’io, ma potrei ucciderti per le troppe carezze. Buonanotte, buonanotte.
Dividerci è un così dolce dolore che potrei dire buonanotte fino a domani”.
Romeo: “Dimori il sonno sui tuoi occhi, la pace nel tuo petto; vorrei essere il sonno e la pace, così da
riposare dolcemente”.

[Esce Giulietta]

Romeo: “Il mattino dagli occhi grigi sorride alla accigliata notte, distinguendo le nubi orientali con strisce di
luce, e l’oscurità, macchiata, come un ubriaco si allontana barcollando dal sentiero del giorno attraversato
dalle ruote del carro di Titano. Di qui me ne andrò alla piccola cella del mio frate confessore, per chiedere il
suo aiuto e raccontargli la mia sorte”.
Giulietta chiede a Romeo se desidera qualcosa in più all’amore fisico ed è colei che rompe gli schemi,
perché si propone per prima al suo innamorato, come sposa, e gli promette di seguirlo in giro per il mondo.
Per ritornare al rapporto con le fonti, nel dramma shakespeariano Giulietta accenna soltanto a questa sua
volontà di seguire il marito, mentre nel testo di Bandello la questione viene approfondita maggiormente.
Inoltre, Romeo ha venti o ventuno anni, mentre nella tragedia shakespeariana non è dato saperlo.
Sul piano filologico, in Q1 e Q2, e nel folio si parla rispettivamente di “ the rite” e “that rite”, mentre in Q3 il
termine è “the right”, come “diritto, oppure “giusto”; si tratta di un errore riscontrabile dal confronto con il
copy text, ovvero il Q”, che nonostante sia la versione più affidabile del dramma, può riportare, in ogni caso,
alcuni errori. Come anticipato, non necessariamente una versione è più affidabile dell’altra, quanto
piuttosto essere il prodotto di revisioni e cambiamenti maturati e voluti dall’autore.

I due innamorati non riescono a separarsi neanche per un breve lasso di tempo e continuano a salutarsi
dalla finestra. Romeo augura a Giulietta di dormire serena ed in pace e vorrebbe, egli stesso, impersonare il
sonno e la pace, come se fossero degli dèi, per poter dolcemente dormire con lei (altro paradosso e senso
erotico) Alla notte accigliata, subentra un’alba ancora grigia, in cui fasci di luce dissipano le ombre e sembra
quasi riprendere il passo incerto di un ubriaco: la notte non è ancora andata via del tutto, quasi si volesse
ancora trattenere, ed il giorno giunge lentamente. Romeo utilizza una metafora inconsueta e molto ardita,
in un linguaggio metafisico, tipico della poesia di John Donne: una metafora a lui attribuita è anche quella di
due innamorati che sono come un compasso, essi hanno in comune un vertice fisso.

L’ultimo distico introduce la scena successiva, in cui Romeo decide di recarsi da frate Lorenzo per chiedergli
di concordare l’ora ed il luogo del matrimonio.

ATTO II, SCENA III. Ampiamente filosofica, come quella in cui Giulietta riflette sulla funzione del logos; qui è
frate Lorenzo che elabora la sua riflessione sulla natura naturans: in un continuo ed incessante mutamento,
le sue creature nascono e muoiono nel duro ciclo della vita. Ogni suo elemento ha un suo fine interno e
rispettarlo, significa rispettare la natura stessa. Questo fine è uno dei fili conduttori in tutto il dramma, e
rappresenta un’anticipazione dell’esito tragico dell’amore dei due giovani. Nelle parole di frate Lorenzo, la
natura è “grembo”, ma anche “tomba”, per associazione fonologica e semantica. Quest’ultima appare nella
cripta della famiglia Capuleti, dove Giulietta bacia Romeo agonizzante, prima di pugnalarsi: in questo modo,
il sepolcro diventa anche letto nuziale. I frati si nutrono dei prodotti del giardino del convento, frate
Lorenzo è francescano e coltiva anche delle erbe, mediche e letali allo stesso tempo. Fa da mediatore tra il
mondo dei giovani innamorati e quello degli anziani genitori, che li ostacolano a causa della loro datata
rivalità per il potere sulla città di Verona. Dunque, nella prima parte del monologo, il frate espone la sua
riflessione sulla natura ed il creato e, molto probabilmente, raccoglie le erbe che destinerà a Giulietta
nell’infuso per farla addormentare ed evitare il matrimonio con Paride. Romeo lo raggiunge, è possibile
anche seguire l’evoluzione temporale del dramma: siamo in un lunedì mattina nel giardino di erbe.

Scelta dell’editor, nelle didascalie in cui romeo entra. “È lunedì mattina nell’orto di un’abazia di una
cattedrale di Verona”. (?)

ATTO II, SCENA III.

[Entra frate Lorenzo da solo, con un cesto]

Frate: “Ora, prima che il sole faccia avanzare il suo occhio ardente per rallegrare il giorno e asciugare
l’umida rugiada della notte, devo riempire questo nostro cesto di vimini con erbe nocive e fiori dal succo
prezioso. La terra che è la madre della natura è la sua tomba, ciò che il suo sepolcro, è anche il suo grembo;
e dal suo grembo troviamo creature diverse che succhiano dal suo petto naturale, molte eccellono per molte
virtù, nessuna non ne ha neppure una, e tuttavia tutte diverse. O, grande è la grazia potente che risiede
nelle piante, nelle erbe, nelle pietre e nelle loro vere qualità, perché nulla di ciò che vive sulla terra, è così
vile da non portare nulla di speciale alla terra stessa, non c’è nulla di così buono nell’ordine terreno che, non
sviato dal suo uso appropriato, si rivolti contro il suo ordine inciampando nell’abuso. La virtù stessa si
trasforma in vizio, se viene applicata male, ed il vizio a sua volta viene trasformato dall’azione”.

[Entra Romeo]

“All’interno della tenera scorza di questo debole fiore risiede un veleno ed un potere medicinale, poiché
esso, se viene odorato, con quella parte rallegra la parte con l’annusa, se viene assaggiato, paralizza tutti i
sensi insieme al cuore. Due re antagonisti accampati negli uomini così come nelle erbe, sono la grazia e la
rozza volontà, e dove predomina il peggiore immediatamente il verme della morte mangia quella pianta”.
Romeo: “Buongiorno, padre”.
Frate: “Che Dio ti benedica. Quale lingua mattutina così dolcemente mi saluta? O giovane figlio, è prova e
dimostrazione di una mente turbata dare il buongiorno così presto al tuo letto. L’inquietudine fa da
sentinella nell’occhio di tutti i vecchi, e dove alloggia la preoccupazione, il sonno non arriva mai; ma dove la
gioventù spensierata con una mente svuotata dalle preoccupazioni posa le sue membra, lì un sonno d’oro vi
regna. Pertanto, il tuo essere così mattiniero mi fa capire che tu sei turbato da una qualche inquietudine;
oppure se non è così, colpisco bene nel segno, il nostro Romeo non è stato a letto stanotte”.
Romeo: “L’ultima è vera, il più dolce riposo è stato il mio”.
Frate: “Dio perdoni il tuo peccato! Sei stato con Rosaline?”
Romeo: “Con Rosaline, mio padre spirituale? No, ho dimenticato quel nome e che è doloroso.”
Frate: “Questo è il mio buon ragazzo; ma dove sei stato allora?”
Romeo: “Te lo dirò se me lo chiedi di nuovo. Mi sono battuto col mio nemico, e colui che all’improvviso mi
ha ferito è stato ferito da me. Entrambi i nostri rimedi risiedono nel tuo aiuto e nelle tue sante erbe. Non
provo odio, uomo benedetto, per nessuno, e anzi la mia intercessione ugualmente favorisce anche il mio
nemico”.
Frate: “Sii chiaro, buon figliolo, e sii anche semplice nella tua confessione; una confessione enigmatica trova
una assoluzione enigmatica”.

L’orto del convento dove vive frate Lorenzo è ambivalente, i suoi prodotti sono sia salvifici, perché
leniscono il dolore e le malattie, sia nocivi, perché avvelenano e uccidono. Ma non solo, perché la stessa
pianta può essere salvifica o letale a seconda della quantità assunta: per esempio, un fiore annusato può
guarire, ma se viene assaggiato potrebbe uccidere. Si dispiega qui una riflessione sul farmaco, che risale alla
filosofia greca, come rimedio, veleno o capro espiatorio; nel dramma, esso sarà rimedio contro l’ostilità
delle due famiglie, ma diventerà un veleno che provocherà la morte dei due giovani innamorati. Al
contrario, è un capro espiatorio nel senso purificatore del termine: così come un membro di una comunità
può essere allontanato o addirittura ucciso per riportare la pace, così Giulietta e Romeo, con la loro morte,
porteranno fine all’ostilità delle loro famiglie. Anche il matrimonio tra i due giovani avrebbe potuto sedare
l’inimicizia dei Montecchi e dei Capuleti, ma questo non verrà celebrato, anche a causa della morte di
Tebaldo, avvenuta per mano di Romeo; saranno proprio i genitori a definire i relativi figli vittime sacrificali
del loro odio. Al contrario, il matrimonio si realizza in “The Tempest”, in cui la figlia di Prospero, spodestata
da Milano, sposerà il figlio di Ferdinando, sovrano del Regno di Napoli, in un’unione che farà riavvicinare i
due sovrani.
La scena si apre con lo stesso albeggiare con cui si chiude quella precedente. Frate Lorenzo si riferisce al
chiostro con il possessivo “nostro” anche se a parlare è da solo, perché esso rientra in una visione più
ampia della vita comunitaria. Il frate afferma che la terra è popolata da varie e molte creature che traggono
sostentamento dal suo grembo, figli di diverso genere perché la natura non genera soltanto gli uomini.
Anche le più infime creature hanno virtù, anche se molto nascoste; questa riflessione rientra nella visione
elisabettiana, ancora molto attuale. La natura può essere sbagliata, può essere corretta, ma non può essere
totalmente stravolta, secondo un rapporto di uso e abuso, di natura e arte: l’uomo può usare la natura, ma
non può abusarne. A tal proposito, un personaggio assolutamente innovativo e comico nei racconti di
Chaucer è la comare di Bach, la quale si sposa sei volte e giustifica il suo “peccato” affermando che la
natura ha dotato molte delle sue creature di organi sessuali, di conseguenza il loro utilizzo non è in nessun
modo blasfemo. Se gli esseri della terra rispettano le regole, vengono salvate, ma se si lasciano trascinare
dal male e dall’istinto, corrono incontro alla morte. Tutto questo porta anche alla riflessione di Pico della
Mirandola, per il quale l’uomo è una creatura che può plasmare se stessa: se coltiva l’istinto, si abbassa al
livello infernale, mentre s’innalza al livello delle figure celesti, se persegue la via del bene. Perciò, oltre
all’inclinazione naturale, anche l’esercizio e la pratica determinano l’essenza degli uomini.
Frate Lorenzo continua il suo monologo senza accorgersi che Romeo è giunto nell’orto, ma al suo saluto si
sorprende di vederlo nelle prime ore del mattino, perché un giovane come lui, senza preoccupazioni,
dovrebbe riuscire a dormire serenamente e per più tempo, perciò ipotizza che possa non essere andato a
dormire, e che abbia trascorso la notte con Rosaline. Romeo nega, gli racconta del suo incontro con
Giulietta e del loro colpo di fulmine, e poi gli chiede aiuto per la celebrazione del rito nuziale; gliene parla,
però, dapprima per linee generali e soltanto successivamente, sotto invito del frate a maggiore chiarezza,
sceglie di nominare il suo nemico e Giulietta. Ritorna anche tra questi versi l’influsso della teoria umorale: il
cattivo equilibrio degli umori produce l’animo turbato di Romeo, nonostante il suo amore adesso sia
ricambiato – la ferita a lui inflitta è la stessa da lui inflitta.

“Plainly” come “plainly style”, ovvero un livello letterale e basso del discorso, in opposizione ad “artificial o
courteous style”, ovvero un livello più metaforico, enigmatico, complesso. Il linguaggio della poesia può
seguire sia l’uno che l’altro stile, e quello utilizzato da Romeo, in questi versi, è quello letterale, perché sta il
suo discorso è privo di particolari e molto generale.

30.03.2021

La faida tra le famiglie riguarda gli adulti, ma chi la infervora in modo aspro sono dapprima i servi, e poi
Tebaldo, che morendo diventa una delle cause scatenanti della tragedia. Un altro elemento caratteristico è
la non-conoscenza: Mercuzio si mostra aggressivo nei confronti di Tebaldo, perché non sa che Romeo ha
sposato Giulietta. Quindi, i personaggi conoscono una realtà diversa e si comportano di conseguenza.
Anche la morte apparente di Giulietta inganna Romeo, il quale berrà una fiala di veleno per ricongiungersi a
lei. Questa serie di equivoci porta alla fine inesorabile. Così il testo potrebbe configurarsi come una
commedia degli errori, che generano un effetto comico e portano a un lieto fine, a patto che essi vengano
risolti nel tempo giusto; diversamente, come accade nel dramma, conducono ad una fine tragica. Mercuzio
è convinto che Romeo sia ancora innamorato di Rosalina e la paragona a figure della letteratura e del mito,
come la Laura di Petrarca o Tisbe. Il riferimento è esplicito, a differenza di quanto accade nelle scene
precedenti, in cui il linguaggio petrarchesco viene soltanto riconosciuto. Il paragone avviene tramite
mediazione testuale: qualcuno racconta una storia, che viene letta e poi riscritta, e a sua volta dà origine ad
altre storie simili, senza alcun contatto tra loro, che vengono definite universali narrativi. Questi figurano
anche in Midsummer Night’s Dream: anche in questo caso, si tratta di una storia tragica con elementi
parodici, i cui protagonisti sono degli artigiani, che decidono di voler diventare attori, molto scalcinati, che
mettono in scena il mito di Piramo e Tisbe. In questo modo, Shakespeare parodia l’attività delle compagnie
di attori dell’epoca che non erano in grado di recitare. Un altro elemento importante è l’ accordo
matrimoniale: secondo il codice dell’epoca, una giovane non poteva andarsene in giro liberamente,
soprattutto di notte, per cui c’era bisogno della mediazione di qualcuno che permettesse a Giulietta di
incontrare Romeo. Così, la balia lascia la casa dei Capuleti per recarsi da Romeo e comunicarle il luogo e
l’ora stabiliti per il matrimonio. Il passo successivo, chiaramente, è l’organizzazione della prima notte di
nozze: l’unione dei due ragazzi è un segreto e tale deve rimanere fin quando non potranno fuggire via
insieme, perciò Romeo realizza una scala di corda, che la balia dovrà far pendere dalla finestra della camera
della sua sposa, e che gli permetterà di ricongiungersi a lei. Questo motivo ritorna anche nelle fiabe, come
in quella di Petrosinella, di Giambattista Basile: una donna gravida desidera del prezzemolo, che viene
rubato da un’orchessa, la quale glielo cede soltanto in cambio della futura nascitura. La bambina viene
rinchiusa in una torre, dalla quale verrà salvata da un giovane in grado di scalare le sue altre mura. Nel
sistema di classificazione Aarne-Thompson, la bambina si chiama Raperonzolo.

ATTO II SCENA IV. Mercuzio e Benvolio non sanno che Romeo è innamorato di Giulietta, ma pensano che lo
sia ancora di Rosalina, per cui quando si allontana, credono che vada a corteggiare lei.

ATTO II SCENA IV.

Mercuzio: “Dove diavolo può essersi cacciato questo Romeo? Non è tornato a casa stanotte?”
Benvolio: “Non a casa di suo padre; ho parlato con il suo uomo”.
Mercuzio: “Perché, quella stessa ragazzina pallida, dal cuore duro, quella Rosalina, lo tormenta così tanto
che sicuramente diventerà pazzo”.
Benvolio: “Tebaldo, il parente del vecchio Capuleti, ha mandato una lettera a casa di suo padre”.
Mercuzio: “Una sfida, sulla mia vita”.
Benvolio: “Romeo risponderà”.
Mercuzio: “Ogni uomo che sa leggere dovrebbe rispondere ad una lettera”.
Benvolio: “No, lui risponderà al mandante della lettera, in quanto sfida essendo stato sfidato”.
Mercuzio: “Ahimè, povero Romeo, è già morto, pugnalato dagli occhi neri di una fanciulla, percorso
attraverso le orecchie da una canzone d’amore, proprio al centro del cuore colpito dalla forte freccia del
giovane bendato – ed è un uomo in grado di affrontare Tebaldo?”
Benvolio: “Perché, chi è Tebaldo?”
Mercuzio: “Più del Principe dei Gatti. O, lui è il coraggioso capitano dei complimenti: combatte allo stesso
modo pungente in cui tu canti; prende tempo, distanza e proporzione. Prende una pausa nella sua minima
durata, una, due e la terza sferzata nel tuo petto; il vero macellaio dal bottone di seta, un duellante, un
duellante, un gentiluomo dei migliori della città, della prima e della seconda causa. Ah, la famosa stoccata,
la punta riversa, l’hai!”
Benvolio: “Il cosa?”
Mercuzio: “Il vaiolo a tutti questi buffi, educati, artificiosi, assurdi ed irrazionali pazzi, questi nuovi ragazzi
dall’accento spurio! Per Cristo, uno spadaccino davvero bravo, un uomo davvero valoroso, una gran
puttana! Perché, non è cosa lamentevole, gran sire, che dovremmo essere afflitti da questi bizzarri parassiti,
questi mercanti di moda, questi pardonnez-moi (impertinenti e artificiosi galanti che scimmiottano il
francese) che insistono così tanto sull’ultima etichetta da non potersi sedere sulla nuova panca? O, le loro
ossa, le loro ossa!”

[Entra Romeo]

Benvolio: “Arriva Romeo, arriva Romeo!”


Mercuzio: “Senza il suo sperma, come un’arringa secca. O, carne, carne, come ti sei trasformata in pesce!
Ora è tutto per quei versi che Petrarca compose con molta fluenza. Laura era una sguattera di cucina in
confronto alla sua donna – accidenti, aveva un amore migliore che la pregava in rima – Didone, una donna
vestita squallidamente, Cleopatra una zingara, Elena ed Ero buone a nulla e puttane, Tisbe dagli occhi grigi,
ma non importa. Signor Romeo, bonjour: ecco un saluto francese per le sue braghe francesi. La scorsa notte
ti sei preso gioco di noi con una fregatura”.
Romeo: “Buongiorno ad entrambi. Che fregatura vi ho dato?”
Mercuzio: “Moneta falsa, signore, moneta falsa, non capisci?”
Romeo: “Perdonami, buon Mercuzio, i miei affari erano seri, e in un caso (case = genitali femminili) come il
mio, un uomo dovrebbe mostrare sensibilità”.
Mercutio: “Questo è come dire, che un caso come il tuo costringe un uomo a stringere le chiappe”.
Romeo: “Intendi un inchino”.

[…]
Ancora una volta, continui rimandi al codice d’onore e all’aggressività di Tebaldo, che si mostra
pienamente: il giovane ha mandato una lettera di sfida a casa del vecchio Montecchi, alla quale Romeo
risponderà, perché non può ignorarla. Mercuzio, però, finge di aver capito che Romeo risponderà alla
lettera, piuttosto che alla sfida, e c’è un abbassamento tipico del linguaggio del foul. Di nuovo, la lettera ha
una funzione importante: si pensi a quella di frate Lorenzo, scritta per avvisare Romeo dell’apparente
morte di Giulietta, o di quella in cui sono riportati i nomi degli invitati alla festa di casa Capuleti, tra i quali
Romeo scorge quello di Rosalina. Riferimenti al Petrarca e alla sua Laura che, paragonata a Rosalina, è una
sguattera di cucina. Mercuzio riprende il suo linguaggio comico: nomina altre figure femminili, come Tisbe
dagli occhi grigi o Cleopatra che diventa una zingara, simboli di bellezza comunque inferiori alla donna di
Romeo. Quando il ragazzo entra in scena, incalza con le allusioni sessuali, perché è stato fuori casa tutta la
notte e, probabilmente, è giaciuto con Rosalina. Nella seconda parte della scena, entra la balia,
accompagnata dal suo servo Pietro. Mercuzio si prende gioco di lei con una serie di battute a sfondo
sessista, a cui lei risponde offesa e risentita, per poi ritirarsi in disparte per definire insieme a Romeo le
condizioni del suo incontro con Giulietta, ma non lo ascolta, elude le sue affermazioni, e perciò ne viene
fuori nuovamente un battibecco in un linguaggio comico e grottesco.

v. 165

Romeo: “Balia, raccomandami alla tua signora e padrona. Io ti giuro solennemente –”.
Balia: “Sei un caro ragazzo, e ti giuro che le dirò tutto quanto. Signore, signore, sarà una donna molto
felice”.
Romeo: “Cosa le dirai, balia? Tu non presti attenzione a ciò che dico”.
Balia: “Le dirò, signore, che voi lo giurate, che, per come lo intendo io, è un’offerta da vero gentiluomo”.
Romeo: “Dille di trovare qualche mezzo per venire a confessarsi questo pomeriggio, e lì alla cella di frate
Lorenzo sarà confessata e sposata. Questo è per il tuo disturbo”.
Balia: “No, davvero, signore, nemmeno un centesimo”.
Romeo: “Prendili, dico che devi”.
Balia: “Questo pomeriggio, signore? Bene, sarà lì”.
Romeo: “E resta, buona balia, dietro il muro dell’abbazia. In un’ora il mio uomo sarà con te e ti porterà
delle corde fatte come una scala, che alla sommità della mia gioia devono essere il mio convoglio nella
notte segreta. Addio, sii fedele, e io ti lascerò la tua ricompensa. Addio, raccomandami alla tua signora”.
Balia: “Ora che il Dio nei cieli ti benedica! Ascolti, signore”.
Romeo: “Cos’hai detto, mia cara balia?”
Balia: “Il tuo uomo è discreto? Hai mai sentito dire: ‘Due mantengono un segreto, facendone fuori uno’?”
Romeo: “Te lo garantisco, il mio uomo è fedele e stabile come il metallo”.
Balia: “Bene, signore, la mia signora è la donna più dolce. Signore, signore, quando era una bambinetta che
borbottava – O, c’è un nobiluomo in città, un certo Paride, che volentieri la corteggerebbe per poi sposarla,
ma lei, buonanima, preferirebbe felicemente incontrare un rospo, un vero rospo, piuttosto che incontrare
lui. Io mi arrabbio con lei alcune volte e le dico che il conte Paride è l’uomo più appropriato, ma vi garantirò,
quando dico ciò le sembra pallida quanto una nuvola nel cielo. Non cominciano rosmarino e Romeo con la
stessa lettera?”
Romeo: “Sì, balia, e allora cosa, cominciano entrambi con ‘R’”.
Balia: “Ah, furfante, quello è il verso del cane che abbaia. ‘R’ sta per – no, so che comincia con qualche altra
lettera, e lei è la più brava in questo, con voi e il rosmarino, che vi piacerebbe sentirla”.
Romeo: “Raccomandami alla tua signora”.
Balia: “Sì, un migliaio di volte”.

[Esce Romeo]
Balia: “Pietro!”
Pietro: “Subito”.
Balia: “Vai prima tu, e presto”.

[Escono]

La balia è preoccupata per l’onore della sua signora, non vorrebbe che un servo rivelasse il loro segreto,
inducendoli alla vergogna pubblica. ‘Non hai mai sentito dire che due uomini mantengono un segreto, se
uno dei due viene tolto da mezzo?’ Shakespeare usa molti proverbi dell’epoca. La balia è illetterata, chiede
conferma del fatto che “Romeo” e “rosmarino” cominciano con la stessa lettera, perché è con questo
nomignolo affettuoso che Giulietta si riferisce al suo innamorato.

ATTO II, SCENA V. Giulietta è impaziente perché la balia non ritorna immediatamente a casa dopo l’incontro
con Romeo: è uscita alle nove del mattino, ma scoccate le dodici non è ancora rientrata. Il tempo ha una
valenza soggettiva: la ragazza innamorata è sulle spine, le ore scorrono lente fino a che conoscerà la
risposta del suo amato e la balia non l’aiuta perché, giunta a casa con estrema calma, comincia a
tergiversare e a parlare di cose tutt’altro che importanti. Comincia a lamentarsi dei suoi dolori, del fatto che
i giovani, con il loro impeto, stancano rapidamente i più anziani e che è così esausta dalla passeggiata, che
non riesce a parlare per dire a Giulietta della sua conversazione con Romeo. Chiaramente, linguaggio
comico.

ATTO II, SCENA V.

Giulietta: “L’orologio ha suonato le nove quando ho mandato la balia; mi ha promesso di ritornare in


mezz’ora. Forse non ha potuto incontrarlo. Non è così. O, lei è zoppa! I messaggeri dell’amore dovrebbero
essere pensieri che scivolano dieci volte più veloci dei raggi del sole, cacciando indietro le ombre sui fianchi
delle colline. Perciò, le colombe dalle ali veloci tirano il carro d’amore, e perciò Cupido ha ali veloci come il
vento. Adesso il sole si trova sul lato più alto del colle del corso di questa giornata, e dalle nove alle dodici
sono tre lunghe ore, e lei non è ancora arrivata. Avesse lei affetti e caldo sangue giovanile, sarebbe
altrettanto veloce nel suo moto come una palla e le parole la lancerebbero al mio dolce amore e le sue da
me, ma i vecchi, molti fingono di essere morti, incerti, lenti, pesanti e pallidi come il piombo”.

[Entrano la balia e Pietro]

La lentezza del passo della balia che non ha alcun desiderio particolare, ed è in opposta alla fretta di
Giulietta. Nell’iconografia classica, il cocchio di Venere, dea dell’Amore, era trascinato dalle colombe, e le ali
di Cupido sono veloci come il vento, perché l’amore è impaziente. La stessa impazienza sarà osservata da
frate Lorenzo quando, nella scena successiva, Giulietta raggiungerà la sua cella.

Giulietta: “O Dio, arriva. O dolce balia, quali notizie? L’hai incontrato? Manda via il tuo uomo”.
Balia: “Pietro, resta sotto la porta”.

[Esce Pietro]

Giulietta: “Adesso, buona e dolce balia – O Signore, perché sembri così triste? Se le notizie sono tristi, allora
dille con felicità. Se sono buone, mi sciupi la musica di dolci notizie suonandomele con quella faccia così
mogia”.
Balia: “Sono così stanca, dammi un attimo. Ahi, quando mi fanno male le ossa. Che percorso faticoso ho
fatto!”.
Giulietta: “Vorrei che avessi le mie ossa e io le tue notizie. No, vieni, ti prego, parla, brava, buona balia,
parla”.
Balia: “Gesù, che fatica! Non puoi aspettare un attimo? Non vedi che sono senza fiato?”
Giulietta: “Come fai ad essere senza fiato quando hai fiato per dirmi che sei senza fiato? La scusa che mi dai
per questo indugio è più lunga del racconto con cui devi scusarti. È la tua novità buona o cattiva? Rispondi a
ciò, di’ qualcosa, e aspetterà per i particolari. Lasciami essere soddisfatta, è buona o cattiva?”
Balia: “Ebbene, avete preso una sciocca decisione. Non sapete come scegliere un uomo. Romeo? No, non
lui. Anche se il suo viso è migliore di quello di altri uomini, anche le sue gambe eccellono più di quelle di altri;
e le sue mani e i piedi ed il corpo, anche se non c’è di cui parlare, non c’è paragone. Non è il fiore della
cortesia, ma garantisco che è gentile quando un agnellino. Va’ per la tua strada, ragazza, servi Dio. Cosa,
avete pranzato già in questa casa?”
Giulietta: “No, no. Ma tutto ciò lo sapevo già prima. Cosa dice del nostro matrimonio, cosa dice di quello?”
Balia: “Dio, quanto mi fa male la testa! Che testa che ho! Mi batte come se cadesse in venti pezzi. E anche la
mia schiena, ah, la mia schiena, la mia schiena! Accidenti al vostro cuore che mi spinge verso la morte ad
andare su e giù”.
Giulietta: “In fede, mi dispiace che tu non stia bene. Dolce, dolce, dolce balia, dimmi, cosa dice il mio
amore?”
Balia: “Il vostro amore dice, come un onesto gentiluomo, e un cortese, e un buono, e un bellissimo, e, lo
garantisco, un virtuoso – Dov’è vostra madre?”
Giulietta: “Dov’è mia madre! Perché, è dentro. Dove dovrebbe essere? Quanto sono strane le tue risposte!
‘Il tuo amore dice, come un onesto gentiluomo’, ‘Dov’è tua madre!’”
Balia: “O Vergine di Dio, cara, vi scaldate così tanto? Accidenti, abbiate pazienza. È questo il balsamo per le
mie ossa doloranti? D’ora in avanti, prendetevi i vostri messaggi da sola”.
Giulietta: “Quante storie fai! Andiamo, cosa dice Romeo?”
Balia: “Avete avuto il permesso di andare a confessarvi oggi?”
Giulietta: “Ce l’ho”.
Balia: “Allora affrettatevi da qui alla cella di frate Lorenzo; lì c’è un marito che vi renderà moglie. Ora
comincia a salirvi sulle guance il sangue voglioso; saranno di un rosso accesso ad ogni notizia. Affrettatevi in
chiesa; io devo prendere un’altra strada, per appendere una scala di corda con la quale il vostro amore deve
arrampicarsi presto fino al nido degli uccelli quando è notte. Sono la sgobbona e faccio il lavoro duro per la
vostra felicità, ma sarai tu a portare il carico grosso stanotte. Va’, io andrò a pranzare. Affrettati alla cella”.
Giulietta: “Mi affretto verso un’alta fortuna! Onesta balia, addio”.

[Escono]

Giulietta ha il permesso per andare a confessarsi, perciò uscirà nel pomeriggio per recarsi alla cella di frate
Lorenzo e ricongiungersi con Romeo. La balia, come accade in tutta la tragedia, è colei che riporta il senso
fisico dell’amore: dopo aver riferito a Giulietta del piano ordito da Romeo, infatti, sarà la ragazza a portare
addosso il peso del loro piano, perché con una scala di corda Romeo la raggiungerà per consumare la loro
prima notte di nozze. Questo aspetto è destinato ad essere raccontato dai personaggi come la balia o
Mercuzio, come delle voci corali, in quanto un coro vero e proprio in Shakespeare non c’è, al contrario di
quando accadeva per la voce narrante in Bandello.

ATTO II, SCENA VI. Nella scena successiva, il rito matrimoniale viene celebrato dal frate. Romeo osserva,
ancora una volta, che avverte dei presagi negativi e che la rapidità del loro amore sicuramente porterà ad
un esito tragico, ma qualsiasi cosa accada, a lui interessa soltanto di sposare la sua Giulietta. ‘Amor vincit
omnia’, ovvero l’amore che vince su tutto e va oltre la morte; il lutto e la tragedia vengono stemperati dalla
potenza dell’amore. In Bandello, in questa stessa scena, i due innamorati si baciano attraverso una fessura,
quando sono ancora nella cella del frate, in un chiaro rimando al mito di Tisbe e Piramo, riferimento che in
Shakespeare non è presente. C’è un confronto con i sonetti 21 e 23, in cui si riflette sulla distanza tra le
parole ed il sentimento amoroso: i poeti tradiscono l’amore usando parole troppo artificiose. All’inizio della
scena appaiono soltanto Romeo e frate Lorenzo, poi vi giunge Giulietta che, piuttosto che camminare,
sembra volare, leggera grazie alla forza del suo sentimento.

[Entrano Frate Lorenzo e Romeo]


Frate Lorenzo: “Dunque possano i cieli sorridere su questo santo atto in modo che le ore successive non ci
puniscano col dolore.”
Romeo: “Amen, amen, ma giunga qualsivoglia dolore, che non potrà scambiarsi con la gioia che anche un
solo minuto mi dà la sua vista. È sufficiente che tu chiuda le nostre mani con parole sacre, così la morte che
divora l’amore faccia ciò che osa fare, mi basta poterla chiamare mia”.
Frate Lorenzo: “Queste violente felicità hanno esiti violenti e muoiono nel loro trionfo, come il fuoco e la
polvere che, baciandosi, si consumano. Il miele più dolce è ostile alla sua stessa dolcezza, e il sapore rovina
l’appetito. Perciò, amate moderatamente; perché così fa un amore lungo; chi va troppo veloce arriva tardi
come chi va troppo lento”.

[Entra Giulietta in modo rapido, e abbraccia Romeo]

Frate Lorenzo: “Arriva la signora. O, un piede così leggero (veloce) non consumerà mai la pietra perenna;
un amante può cavalcare la ragnatela che ozia nella calda aria estiva, e tuttavia non cadere, così leggera è
la vanità”.
Giulietta: “Buonasera al mio padre confessore”.
Frate Lorenzo: “Romeo deve ringraziarti, figlia, per entrambi”.

[Romeo la bacia]

Giulietta: “Ed io ringrazio lui, se no avrà troppo da ringraziare”.

[Giulietta lo bacia]

Romeo: “Ah, Giulietta, se la misura della tua gioia è piena come la mia, e se la tua abilità di celebrarla
verbalmente è superiore alla mia, allora addolcisci con il tuo respiro l’aria circostante, e lascia che la musica
preziosa della tua lingua riempia la felicità immaginata che entrambi riceviamo l’un l’altra da questo caro
incontro”.
Giulietta: “L’idea più ricca nella materia che nelle parole è orgogliosa della sua sostanza, non
dell’ornamento. Non sono che mendicanti coloro che possono raccontare la loro verità, ma il mio amore
vero è cresciuto ad un tale eccesso, che non posso esprimere neanche la metà della sua ricchezza”.
Frate Lorenzo: “Venite, venite con me, e finiremo in fretta, perché, con il vostro permesso, non potete
restare da soli finché la santa chiesa non vi incorpora due in uno”.

[Escono]

Romeo, da innamorato, utilizza delle metafore convenzionali, molto artificiose per descrivere la potenza del
suo sentimento, ma Giulietta rifiuta questo linguaggio complesso, perché crede che l’amore sia qualcosa da
sentire, che va oltre la verbalizzazione, così si rifiuta di descrivere a parole cosa prova per lui. Il linguaggio di
Romeo è abbastanza affine a quello del sonetto 130, che Shakespeare dedica ad una ‘dark lady’, in cui
esprime la stessa indicibilità del sentimento amoroso anticipata da Giulietta. Ciò nonostante, i sonetti
appaiono estremamente diversi gli uni dagli altri, per una serie di visioni contrastanti.

ATTO III, SCENA I, p. 233. Scena centrale, nonché punto di non ritorno per la sorte dei due ragazzi, in quanto
la morte segue immediatamente il loro matrimonio e distrugge la loro felicità nuziale. Benvolio cerca di
persuadere Mercuzio a rientrare a casa per evitare di incontrare per strada i Capuleti, ma Mercuzio non
l’ascolta ed incomincia una scaramuccia con Tebaldo, che lo uccide. Romeo, a sua volta, sfidato a duello da
Tebaldo, è costretto ad ucciderlo. Così viene esiliato dal principe Escalo e deve allontanarsi da Verona per
raggiungere Mantova, pagando così il prezzo per la morte di entrambi (linguaggio religioso/feudale), cui
seguiranno altre sciagure.

ATTO III, SCENA I.

[Entrano Mercuzio, il suo paggio, Benvolio, e altri uomini]


Benvolio: “Te ne prego, buon Mercuzio, ritiriamoci; la giornata è calda, i Capuleti sono in giro, e se li
incontriamo potremmo non evitare una lite, perché ora, in questi giorni afosi, gli animi già caldi ribollono”.
Mercuzio: “Tu sei come uno di quei ragazzi che, quando entra dalla porta delle taverne, mi sbatte la spada
sul tavolo e dice ‘Dio mi manda perché non ha bisogno di te!’; e per l’effetto intossicante del secondo calice
la punta al cameriere, quando invece non ce n’è bisogno”.
Benvolio: “Sono come un ragazzo?”
Mercuzio: “Vieni, vieni, che quando sei arrabbiato hai una testa calda come non ce ne sono altre in Italia;
tanto velocemente provocato, quanto velocemente ti arrabbi per esserlo stato”.
Benvolio: “E per cosa?”
Mercuzio: “Per niente, se ci fossero due così, in breve tempo non ce ne sarebbe più nessuno, perché l’uno
ucciderebbe l’altro. Tu – perché, tu litigheresti con un uomo che ha nella barba un pelo in più o un pelo in
meno a quelli che hai tu. Tu litigheresti con un uomo perché sta rompendo delle noccioline, senza avere
nessun’altra ragione se non che tu hai gli occhi marroni. Quali occhi se non i tuoi farebbero esplodere una
lite simile? La tua testa è piena di litigi come un uovo pieno di tuorlo e albume, e ancora la tua testa è stata
battuta così tanto come un uovo dai litigi. Hai litigato con un uomo perché ha tossito per strada, perché ha
svegliato il tuo cane che giaceva addormentato al sole. Non hai per caso litigato con un sarto per aver
indossato il suo nuovo abito prima di Pasqua, con un altro per aver provato le sue nuove scarpe con vecchie
stringhe, e ancora mi vuoi tutelare dai litigi!”.
Benvolio: “Se io fossi così incline ai litigi come lo sei tu, qualunque uomo dovrebbe comprare il feudo della
mia vita per un’ora e un quarto”.
Mercuzio: “Il feudo della tua vita? Quanto sei ingenuo!”

[Entrano Tebaldo e Petruccio e altri]

Benvolio: “Sulla mia testa, ecco che arrivano i Capuleti”.


Mercuzio: “Per il mio calcagno, non mi interessa”.
Tebaldo: “Statemi vicini, perché voglio parlare con loro. Gentiluomini, buonasera, una parola con uno di
voi”.
Mercuzio: “Soltanto una parola con uno di noi? Accoppiala con qualcos’altro, rendila una parola e un
colpo”.
Tebaldo: “Mi trovereste incline abbastanza per questo, signore, se me ne date l’occasione”.
Mercuzio: “Non sapresti prenderti l’occasione senza che noi te la diamo?”
Tebaldo: “Mercuzio, tu sei nella compagnia di Romeo”.
Mercuzio: “‘Compagnia’? Cosa, ci fai dei menestrelli? Se ci ritieni tali, aspettati di ascoltare nient’altro che
note stonate. Ecco l’archetto del mio violino, ecco ciò che ti farà danzare. Andiamo, ‘compagnia’!”
Benvolio: “Parliamo in una piazza pubblica. O ci spostiamo in qualche posto più appartato, o ragioniamo
con calma le nostre sofferenze, o ci separiamo altrove. Qui tutti gli occhi sono puntati su di noi”.
Mercuzio: “Gli occhi degli uomini sono fatti per guardare, e lasciamo che ci puntino. Non mi sposterò per il
piacere di nessun uomo, io”.

L’atmosfera è calda non soltanto perché lo è il clima, ma perché gli animi di tutti sono infervorati.
Linguaggio grottesco di Mercuzio, che riversa le sue caratteristiche di attaccabrighe (fasullo) su Benvolio. Ad
un tratto, entrano in scena Tebaldo e i suoi uomini e la lite s’infervora. Riferimento a due elementi fisici: la
testa è una trasposizione dell’altro, mentre il calcagno del basso. Dopo un iniziale scambio di battute, gli
uomini cominciano a duellare, e Mercuzio travisa tutto quello che gli viene detto da Tebaldo (pensa che li
abbia etichettati come un gruppo di menestrelli o che gli parli come ad un servo, ‘ man’). Romeo non vuole
combattere, confessa a Tebaldo di provare affetto per lui, ma non può ancora spiegargli il motivo, così tenta
di placare la rissa. Intanto, Mercuzio, si getta nel combattimento e tenta di difendere l’onore di Romeo, ma
viene ferito a morte da Tebaldo, che scappa via.

[Entra Romeo]
Tebaldo: “Bene, la pace sia conte, signore, arriva il mio uomo”.
Mercuzio: “Ma sarò impiccato, signore, se indossasse la sua livrea. Accidenti, scendete in campo prima di
lui per duellare, se osate, perché lui vi seguirà; solo allora vostra signoria potrà chiamarlo ‘uomo’”.
Tebaldo: “Romeo, l’amore che ti porto non mi permette di usare nessun termine migliore di questo: sei un
farabutto”.
Romeo: “Tebaldo, il motivo che io ho per amarti smorza di molto la rabbia suscitata da un tale saluto. Io
non sono un farabutto, quindi addio. Vedo che non mi conosci”.
Tebaldo: “Ragazzo, tutto ciò non può smorzare le offese che tu mi hai rivolto; pertanto, voltati ed impugna
la spada”.
Romeo: “Ribadisco che io non ti ho mai offeso, ma ti amo anche più di quanto tu possa immaginare, finché
tu non verrai a sapere la ragione del mio amore. E quindi, buon Capuleti, il cui nome amo quanto il mio,
ritieniti soddisfatto”.
Mercuzio: “O calma, disonorevole, vile sottomissione! Colpo di stoccata, trascinala via!”

[Sferza la spada]

Mercuzio: “Tebaldo, acchiappa ratti, mi seguirai?”


Tebaldo: “Cosa vuoi da me?”
Mercuzio: “Buon Re dei Gatti, nessuna se non una delle tue nove vite. Perché intendo ucciderti e, in base a
come ti comporterai con me, battere anche le restanti otto”.
Tebaldo: “Sono tutto tuo”.

[Sferza la spada]

Romeo: “Gentile Mercuzio, metti via la spada”.


Mercuzio: “Ecco, signore, il suo affondo!”

[Combattono]

[Romeo sferza la spada]

Romeo: “Sferza la spada, Benvolio, abbassiamo le loro armi. Gentiluomini, vergogna, smettete questo
oltraggio. Tebaldo, Mercuzio, il Principe ha espressamente proibito questo scontro per le strade di Verona.
Fermati Tebaldo! Buon Mercuzio!”

[Tebaldo sotto il braccio di Romeo colpisce Mercuzio e fugge via]

Petruccio: “Via, Tebaldo!”


Mercuzio: “Sono ferito. Una piaga sulle vostre casate! Sono spacciato. È andato via e non ha nulla?”
Benvolio: “Cosa, sei ferito?”
Mercuzio: “Sì, sì, un graffio, un graffio. Accidenti, è abbastanza. Dov’è il mio paggio? Vai, screanzato,
chiama un dottore”.
Romeo: “Coraggio, ragazzo, la ferita non può essere così grave”.
Mercuzio: “No, non è così profonda, né così ampia quanto la porta di una chiesa, ma è abbastanza, lo sarà.
Chiedete di me domani e troverete un uomo nella tomba. Sono rovinato, lo garantisco, su questo mondo.
Una piaga su entrambe le vostre casate! Cristo, un cane, un ratto, un topo, un gatto, per graffiare a morte
un uomo! Un furfante, un gretto, un villano, che combatte secondo il libro di aritmetica! Perché il diavolo ti
ha messo fra noi? Son stato ferito al di sotto del tuo braccio”.
Romeo: “Pensavo andasse tutto per il meglio”.
Mercuzio: “Aiutatemi in qualche casa, Benvolio, o svengo. Una piaga su entrambe le casate! Hanno fatto di
me carne per vermi. Sono spacciato, letteralmente. Le vostre casate!”

31.03.2021
Scena nel Globe, 2.6 (video al 40° minuto): la scena è un po’ differente rispetto al testo. Mancano alcuni
versi, perché non è prevista la rappresentazione dell’intero dramma. Anche la conclusione è un po’ diversa:
nel testo, a Giulietta viene chiesto di verbalizzare il suo amore, ma lei si dichiara incapace. Questo elemento
è riscontrabile anche in alcuni sonetti, in cui l’io lirico si paragona ad un attore in scena, paralizzato dalla
paura. L’uomo è innamorato, e quindi spaventato (Q2). La scena rappresentata nel Globe, invece, si ispira a
Q1 (p. 378): si chiude con alcune battute ripetute da Romeo e con il gesto del prete che li separa,
impedendogli di baciarsi prima del matrimonio.

Le morti di Mercuzio e poi di Tebaldo segnano un punto di non ritorno, una progressione inevitabile verso
la morte. Ad esse segue l’esilio di Romeo a Mantova e la scena in cui Giulietta berrà la fiala datale da frate
Lorenzo per evitare il matrimonio con Paride. Romeo sente che accadrà qualcosa di negativo, che una
giornata segnata dal destino nefasto sarà la causa scatenante di molte altre tragedie. Quest’idea la
troviamo anche in altre opere shakespeariane, come in Hamlet, in cui la regina Gertrude osserva che i
dolori: “sono così veloci che la punta del dolore tocca il calcagno di quello precedente”. Gli eventi sono
concatenati: un delitto provoca una morte che, a sua volta, ne genera una successiva e collegata. Benvolio
definisce la situazione un “fatal brawl”, mentre Romeo pensa di essere un “fortune’s foul”, perciò si torna
alla definizione iniziale di “tragedy of fate”: si ritiene un “burattino della fortuna”, nel senso latino e greco
del concetto. Successivamente, invece, pensa di poter addirittura sfidare l’influenza astrale (“O, I defy you
stars”), spostando l’attenzione sulla definizione di “tragedy of character”. Escalo viene informato del
duplice omicidio di Mercuzio e Tebaldo e, in quanto giudice di Verona, ha il compito di giudicare i crimini e
punire i malfattori, ma una delle due morti lo tocca personalmente, perché Mercutio è un suo parente, un
kinsman. Romeo pagherà per l’uccisione di entrambi con l’esilio a Mantova. Il linguaggio di Escalo, oltre che
di tipo economico, è di tipo cristologico: Cristo cerca di riscattare l’umanità e per farlo deve pagare col suo
sangue, in un’ottica sacrificale che intreccia una lettura greca e cristiana. L’antropologo René Girard
sottolinea il principio per cui uccidere è un sacrilegio, ma è proprio il sacrificio che innalza la vittima.

ATTO III, SCENA III, v. 111, p. 241

Romeo: “Questo gentiluomo, l’alleato più vicino del Principe, il mio vero amico, ha ricevuto questa ferita
mortale al mio posto; la mia reputazione è stata macchiata dalla calunnia di Tebaldo – Tebaldo, che da
un’ora è diventato mio cugino. O dolce Giulietta, la tua bellezza mi ha reso effemminato e ha addolcito la
virtù ferrea del mio carattere”.

[Entra Benvolio]

Benvolio: “O Romeo, Romeo, il coraggioso Mercuzio è morto. Quello spirito galante, che troppo
prematuramente ha disprezzato la terra, è salito verso il cielo”.
Romeo: “L’infausta sorte di questo giorno dipende da molti altri, essa comincia la sofferenza che molti
porteranno a termine”.

[Entra Tebaldo]

Benvolio: “Arriva di nuovo il feroce Tebaldo”.


Romeo: “Vivo, in trionfo, e Mercuzio morto! Sali al cielo, parziale gentilezza, e furia dagli occhi di fuoco sii
tu la mia condottiera adesso. Ora, Tebaldo, riprenditi indietro il ‘farabutto’ che per ultimo mi hai dato, che
l’anima di Mercuzio non è che poso sopra le nostre teste, aspettando che tu gli tenga compagnia. O tu o io,
o entrambi, dobbiamo andare con lui”.

Mercuzio è stato ucciso da Tebaldo, che in un primo momento si allontana e poi ritorna furente sulla scena,
con un tono più sprezzante di prima, in linea con il suo personaggio.

Tebaldo: “Tu, ragazzo sciagurato, che ti sei unito qui con lui, dunque lo farai anche lì”.
Romeo: “Questo lo determinerà”.
[Combattono. Tebaldo cade e muore]

Benvolio: “Romeo, via, va’ via! I cittadini sono arrivati e Tebaldo è morto. Non restare lì imbambolato. Il
Principe ti condannerà a morte se verrai catturato. Presto, va’ via, via!”
Romeo: “O, sono il buffone della fortuna”.
Benvolio: “Perché resti qui?”

[Esce Romeo]

Cittadini: “In che direzione è corso via colui che ha ucciso Mercuzio? È Tebaldo, l’assassino, colui ch’è corso
via?”
Benvolio: “Lì giace Tebaldo”.
Cittadini: “Su, signore, venga con me. Ve lo ordino nel nome del Principe, obbedite”.

[Entrano il Principe, il vecchio Montecchi, il vecchio Capuleti e le loro mogli e tutti]

Principe: “Dove sono i vili iniziatori di questa faida?”


Benvolio: “O nobile Principe, io posso raccontare tutti gli sfortunati eventi di questa tragica lite. Lì giace
l’uomo, ucciso dal giovane Romeo, che ha ucciso il tuo parente, il coraggioso Mercuzio”.
Signora Capuleti: “Tebaldo, cugino mio. O il figlio di mio fratello! O Principe, o cugino, marito, o, il sangue
del mio caro parente è versato! Principe, tu che sei la verità, per il nostro sangue spargi il sangue del
Montecchi. O cugino, cugino!”
Principe: “Benvolio, chi ha cominciato questa rissa sanguinosa?”
Benvolio: “Tebaldo, qui morto, la cui mano di Romeo ha colpito, Romeo, che gli ha parlato con gentilezza,
lo ha pregato di riflettere su quanto fosse insignificante la lite, e allo stesso tempo puntava sul tuo grande
dispiacere. Tutto ciò, pronunciato con un tono gentile, sguardo calmo, ginocchia umilmente piegate, non ha
potuto resistere al feroce atteggiamento di Tebaldo sordo al richiamo della pace, che ha infilzato con il
pungente metallo della sua spada il petto del coraggioso Mercuzio, che, furente allo stesso modo, ha mosso
spada contro spada e, con un colpo marziale, con una mano spazza via la fredda morte, e con l’altra la
rimanda indietro a Tebaldo, la cui destrezza la respinge. Romeo, strilla forte ‘Fermatevi, amici, amici,
separatevi!’, e più veloce della sua lingua il suo agile braccio blocca i loro colpi fatali, e si frappone tra loro;
sotto il cui braccio un colpo malizioso sferrato da Tebaldo ha minato la vita del coraggioso Mercuzio, poi
Tebaldo è fuggito via. Ma una volta ritornato da Romeo, che ha appena riconsiderato la vendetta, subito
essi più veloci della luce si spingono verso di essa, e prima che potessi dividerli, Tebaldo era morto, e
siccome era caduto, Romeo si è girato ed è fuggito via. Questa è la verità, o mettete Benvolio a morte”.
Signora Capuleti: “Lui è un parente dei Montecchi. L’affetto lo rende falso; non dice la verità. Circa una
ventina di loro hanno combattuto in questo mortale scontro, e tutti e venti non hanno ucciso che una sola
vita. Chiedo giustizia, che voi, Principe, dovete dare: Romeo ha ucciso Tebaldo, Romeo non deve vivere”.
Principe: “Romeo ha ucciso lui, lui ha ucciso Mercuzio, chi pagherà adesso il prezzo della loro cara morte?”
Signor Montecchi: “Non Romeo, Principe, lui era amico di Mercuzio. La sua colpa conclude soltanto ciò che
la legge avrebbe dovuto finire, la vita di Tebaldo”.
Principe: “E per quest’offesa immediatamente lo esiliamo da qui. Sono interessato alle azioni della vostra
nefasta famiglia per il potere. Il mio sangue per le vostre rudi sfide è stato versato, ma vi punirò con una
fine così forte che dovrete pentirvi della mia perdita. Sarò sordo alle suppliche e alle scuse, niente lacrime,
né preghiere che dovrebbero riscattare gli abusi, perciò non fatene uso. Lasciate che Romeo vada via da qui
in fretta, se sarà trovato da qualche altra parte, quell’ora sarà la sua ultima. Portate via il suo corpo, e
aspettate il nostro volere. La grazia è assassina, se perdona quelli che uccidono”.

Benvolio è molto pragmatico, cerca di spiegare correttamente com’è nata la rissa e di chi è la colpa. Entrano
i cittadini, riprendendo una dimensione corale spesso estranea al dramma. Benvolio riferisce loro che
Mercuzio è stato ucciso da Tebaldo, che a sua volta è morto per mano di Romeo, ma questo ancora non lo
sanno, perciò cercano l’assassino del parente del Principe Escalo. Mercuzio, prima di morire, viene portato
fuori scena nel tentativo di salvargli la vita, ma senza esito. In scena giace il cadavere di Tebaldo. Il Principe
Escalo chiede, ancora una volta, a Benvolio di spiegargli la realtà dei fatti. Il padre di Romeo, Montecchi
cerca di difendere il figlio, perché il giovane era amico di Mercuzio e la legge dovrebbe incolparlo e punirlo
soltanto per la morte di Tebaldo. Perciò, Escalo lo esilia da Verona e lo spedisce a Mantova. Il Principe
ricorre continuamente ad un linguaggio economico, dice di essere interessato e immischiato nelle lotte di
potere tra le due casate, e che anche la sua famiglia è stata macchiata dal colore del sangue (immagine
ridondante). Non accetterà preghiere o suppliche di alcun genere per salvare Romeo dalla sua condanna,
perciò invita i Montecchi a non sprecarsi: se la grazia perdona un assassino per aver privato un uomo della
sua vita, allora sarà complice di tutte le morti che seguiranno, perché non prevederà una punizione ad un
gesto tanto ignobile. Contrapposizione implicita tra ‘law’ e ‘mercy’: da un lato, il rigore della legge, per un
verso, potrebbe essere smussato dall’azione della misericordia. La ‘mercy’ ritorna varie volte nelle opere
shakespeariane, il discorso più famoso è quello di Marzia, in Venice’s Merchant.

08.04.2021

Doppio suicidio che rimanda alla specularità dell’amore; come nel mito di Piramo e Tisbe. Un esempio in
più lo troviamo nella scena finale ed anche in una che anticipa quella finale, nella cappella dei Capuleti. Il
tema del suicidio è stato studiato molto, è presente in Hamlet, in altre opere di Shakespeare ed è
condannabile. Un altro tipo di suicidio è quello romano, in opposizione a quello d’onore, che si realizza
quando un amico si propone di suicidarsi per fedeltà ad un altro. Onorevole, per esempio, è il suicidio di
Bruto nel “Giulio Cesare”, il quale si rende conto di aver sbagliato ad ordire una congiura contro suo padre.

ATTO III, SCENA II. La scena precedente segna un punto di non ritorno. Frate Lorenzo cercherà di rimediare,
ma a vuoto. C’è un motivo quasi sacrificale della morte nelle parole pronunciate da Escalo: “ Who now the
price of his dear blood doth owe?”. In questa scena è molto interessante, anche da un punto di vista
psicologico, il personaggio di Giulietta, molto indipendente e oltre le convenzioni del femminile. La ragazza
si rivolge ai cavalli che trascinano la notte, unico momento in cui può stare con il suo Romeo. Presenta il suo
desiderio in modo diretto, senza nessuna censura, nonostante sia un argomento intoccabile (alcuni
elementi rimandano all’atto sessuale): per Giulietta, Romeo è soprattutto un corpo, non un nome. Anche in
Bandello il rapporto tra i giovani era vissuto alla pari, sia dalla donna che dall’uomo, e questo desiderio di
entrambi era affidato al racconto del coro. Qui, invece, Giulietta recita un monologo in prima persona. Il
matrimonio è difficile da consumare, appartengono a due famiglie rivali e devono aspettare il
sopraggiungere della notte per poter giacere insieme senza essere visti. Invoca i cavalli del sole che portano
andare da Oriente a Occidente il sole, facendolo tramontare per far giungere le ore più liete per il suo
cuore. Il verbo “to come” ha una connotazione precisa sessuale, vuol dire “venire” fisicamente, in ambi i
sensi. Nella scena domina un rapporto tra lentezza e velocità, tra desiderio e assenza di questo, che
contrasta con la scena precedente, in cui la balia, con i suoi movimenti mogi suscita l’impazienza di Giulietta
che, al contrario, freme. Sul piano tematico, quindi, si realizza la proporzione
“gioventù:velocità=vecchiaia:lentezza”; sul piano narrativo, la velocità e l’ardore hanno un significato
particolare, perché sono mortiferi: infatti, il matrimonio celebrato il giorno dopo il primo incontro finirà per
essere fatale per entrambi, così come la decisione repentina di Capuleti di far sposare Giulietta con Paride.
Questo meccanismo impedisce a Romeo di apprendere della non-morte della sua amata, perché la realtà è
più veloce della comunicazione che, spesso, viene sbarrata. L’invocazione di Giulietta ai cavalli del giorno,
forse, rimanda, in modo diretto o indiretto, anche a “The Tragedy of History of Doctor Faustus” di
Christopher Marlowe, scritta tra il 1589 e il 1592, in cui il protagonista vende la sua anima al diavolo in
cambio della conoscenza assoluta, per un tempo lungo ventiquattro anni. Soltanto successivamente si
pente, è costretto ad affrontare la morte e viene condannato in eterno. Fausto vorrebbe rallentare l’arrivo
della notte: “O lente lente currite noctis equi”, ovvero “O cavalli della notte correte lentamente”; si tratta di
un ossimoro, un’invocazione opposta a quella di Giulietta. In questa scena, vi sono anche immagini
mitologiche, come Fetonte, il cocchiere di Febo, figlio del Sole, che deve spronare i cavalli a far arrivare
presto la notte, e molte immagini allusive del corpo femminile sul piano cromatico, come quella del sangue
che scorre nelle vene di Giulietta o la perdita della verginità. La modernità di questa scena non è
rappresentata soltanto dal riferimento all’atto sessuale, ma anche dalla consapevolezza che non c’è nulla di
male nell’accoppiamento di due giovani innamorati che, nel matrimonio, si abbandonano al piacere fisico:
“Think true love acted simple modesty” “Si pensa che il vero amore messo in atto non è altro che
modestia”.

Riferimento p. 247: ultima similitudine felice. Giulietta paragona il suo desiderio di godere dell’abbraccio di
Romeo, impaziente come una bimba che ha un vestito nuovo e non vede l’ora di indossarlo per una festa. Il
monologo è come quello del verso di Faust, composto da un’invocazione e da una sequenza di imperativi,
come un’ode alla notte. Il matrimonio non può essere consumato, se non nelle ore più buie.

Giulietta: “Galoppate velocemente, voi destrieri dai piedi di fuoco, verso la casa di Febo. Un cocchiere come
Febonte vi sferzerebbe fino ad Occidente e a portare immediatamente la notte oscura. Spalanca le tue
tende, notte dedicata all’amore, cosicché gli occhi dei vagabondi si possano chiudere, e Romeo possa
balzare tra queste braccia, senza che nessuno lo senta e lo veda. Gli innamorati riescono a vedere e a
compiere i loro riti amorosi attraverso la loro bellezza reciproca; o, se l’amore è cieco, si accorda meglio con
la notte. Vieni, notte severa, tu sobria matrona vestita tutta di nero, e insegnami come perdere una partita
già vinta, giocata da una coppia di vergini innocenti. Copri il mio inesperto sangue, che affiora sulle mie
guance, con il tuo mantello nero, fino a che l’amore mai sperimentato divenga audace e giudica che il vero
amore messo in atto non è altro che semplice modestia. Vieni, notte, vieni, Romeo, vieni, tu giorno nella
notte, perché tu giacerai sopra le ali della notte più bianco della fresca neve sula groppa di un corvo. Vieni,
gentile notte, vieni, amorevole notte dalla fronte nera, dammi il mio Romeo, e quando morirò taglialo in
piccole stelle, e lui renderà il volto del cielo così grazioso che tutto il modo s’innamorerà della notte e non
baderà più al chiassoso sole. O, io ho comprato il palazzo di un amore ma non l’ho ancora posseduto, e
benché io sia venduta, non sono stata ancora posseduta. Così tedioso è questo giorno così come la notte
prima di una festa per una bambina impaziente che ha nuovi abiti e non può indossarli”.

Febo è il dio del Sole, Giulietta lo invoca affinché possa raggiungere la sua dimora e allontanarsi per portare
la notte. Il primo imperativo riguarda la velocità, così come il secondo, ma in questo caso il significato
prevalente è la segretezza, perché la notte copre ciò che il giorno rivela: essa deve giungere presto perché
Giulietta deve ricongiungersi al suo Romeo e allo stesso tempo nascondere la loro unione segreta. Il
termine “curtain” si riferisce alle cortine che la notte deve spalancare, ma è anche un riferimento alle tende
del baldacchino che devono nascondere l’amplesso dei due innamorati, il cui amore illumina in qualche
modo la l’oscurità. Giulietta incita la notte e Romeo a venire, “come”, che sta anche a identificare il
momento in cui entrambi perderanno la verginità, perché il loro amore è totalmente puro e ignaro, a causa
dell’inesperienza. Giulietta usa un linguaggio fisico e diretto, desidera ardentemente Romeo e ritiene che
non ci sia niente di sconveniente in una donna che prova affetto e desiderio per il suo uomo. Romeo si
fonde con la notte stessa e con la sua luce la illumina. Numerose immagini rimandano all’atto sessuale,
come il corvo nero che ricorda il pube femminile, in un’allusione di bianco e nero. Anche l’insistenza della
ragazza è allusiva, nel senso orgasmico del termine. Nei versi successivi c’è un riferimento al matrimonio
non ancora consumato: esso è come un contratto, l’acquisto dell’uno o dell’altro, ma senza ancora averne
usufruito. Ad interrompere il monologo di Giulietta è la balia, che entra in scena per portare notizie; è
irrequieta e Giulietta comprende dalla sua smania che qualcosa non va. La balia resta sempre coerente con
il suo personaggio e finisce per ingannare la ragazza, manipolando la verità e facendole addirittura credere
che ad essere morto sia Romeo, e non Tebaldo.

[Entra la balia torcendosi le mani, con la scala di corde in grembo]

Giulietta: “O, arriva qui la mia balia, e porta notizie, ed ogni lingua che pronuncia se non il nome di Romeo
parla di un’eloquenza divina. Ora, balia, che notizie hai? Cos’hai lì, le corde che Romeo ti ha detto di andare
a prendere?”
Balia: “Sì, sì, le corde”.
Giulietta: “Ahimè, che notizie porti? Perché ti torci le mani?”
Balia: “Ah che giornata infausta, è morto, è morto, è morto! Siamo rovinate, signora, siamo rovinate. Ahimè
il giorno, è andato, è ucciso, è morto”.
Giulietta: “Può il cielo essere così malevolo?”
Balia: “Romeo può, anche se non può il cielo. O Romeo, Romeo, chi l’avrebbe mai pensato – Romeo!”
Giulietta: “Che demonio sei tu che mi tormenti così? Questa tortura dovrebbe ruggine nell’inferno più
squallido. Per caso Romeo si è ucciso? Di’ nient’altro che ‘Sì’, e quella nuda vocale ‘i’ avvelenerà più
dell’occhio assassino di un basilisco. Non sono più io se ci sarà un tale ‘Sì’, o quegli occhi chiusi che ti fanno
rispondere ‘Sì’. Se è morto, di’ di ‘Sì’, o se non lo è, ‘No’. Suoni brevi decidono della mia gioia o del mio
dolore”.
Balia: “Ho visto la ferita, l’ho vista con i miei occhi – Dio ci protegga – qui sul suo petto virile, un corpo
pietoso, un corpo pietoso insanguinato, pallido, pallido come cenere, tutto schizzato di sangue, tutto in un
sangue rappreso. Sono svenuta al vederlo”.
Giulietta: “O spezzati, mio cuore, impoverito, spezzati subito! In prigione, occhi, non vedrete mai più la
libertà. Vile terra ritorna alla terra, finisci qui i tuoi movimenti, e tu e Romeo premete una sola e pesante
bara”.
Balia: “O Tebaldo, Tebaldo, il miglior amico che avevo! O cortese Tebaldo, onorevole gentiluomo, che mai
dovessi vivere per vederti morto!”
Giulietta: “Che tempesta è questa che soffia in una direzione contraria? Romeo è stato ucciso e Tebaldo è
morto, il mio caro cugino e il mio caro signore? Dunque, la terribile tromba suona il giudizio universale, per
chi vive se quei due sono morti?”
Balia: “Tebaldo è morto e Romeo bandito, Romeo che l’ha ucciso, è bandito”.
Giulietta: “O Dio, la mano di Romeo ha versato il sangue di Tebaldo?”
Balia: “Lo ha fatto, lo ha fatto, ahimè questo giorno, l’ha fatto”.
Giulietta: “O cuore di serpente nascosto con un volto fiorito! Ebbe mai un drago una grotta così bella?
Bellissimo tiranno, angelico demonio, corvo con penne di colomba, agnello assetato come un lupo, sostanza
spregevole dall’aspetto divino, sei il giusto contrario di ciò che sembravi, un santo dannato, un onorevole
villano. O natura, cosa avevi da fare all’inferno quando hai incastonato lo spirito d’un demonio nel paradiso
mortale di un corpo così dolce? Un libro così bene rilegato ha mai contenuto un racconto così vile? O,
quell’inganno dovrebbe dimorare in un palazzo così sontuoso”.
Balia: “Non c’è fiducia, nessuna fede, nessuna onestà negli uomini – tutti pregiudicati, tutti rinnegati, tutti
cattivi, tutti dissimulatori. Ah, dov’è il mio uomo? Dammi un po’ di acqua vitae. Queste sofferenze, questi
dolori, queste preoccupazioni mi rendono vecchia. Che l’ignominia raggiunga Romeo!”
Giulietta: “Che la tua lingua si riempia di vesciche per un tale desiderio! Non è nato per soffrire delle
disgrazie; sulla sua fronte il peccato si vergogna di sedersi perché essa è un trono dove l’onore dovrebbe
essere incoronato come unico monarca del globo universale. O, che bestia sono stata a imprecare contro di
lui!”
Balia: “Parlerai bene di colui che ha ucciso tuo cugino?”
Giulietta: “Dovrei parlar male di lui che è mio marito? Ah, povero mio signore, quale lingua riscatterà il tuo
nome quando io, tua moglie da tre ore, l’ho lacerato? Ma perché, villano, hai ucciso mio cugino? Quel vile
cugino avrebbe ucciso mio marito. Indietro, stupide lacrime, ritornate indietro nei miei occhi, le vostre gocce
che, sbagliando, offrite come omaggio alla gioia, appartengono al dolore. Mio marito vive, che Tebaldo
avrebbe voluto uccidere, e Tebaldo è morto, che avrebbe voluto uccidere mio marito. Tutto questo è un
sollievo. Dunque, perché piango? Una parola, peggiore della morte di Tebaldo, mi ha uccisa. La
dimenticherei in fretta, ma o, mi preme nella memoria come un orrendo delitto pesa sull’anima del
colpevole. Tebaldo è morto e Romeo bandito; quel ‘bandito’, quell’unica parola ‘bandito’, ha assassinato
diecimila Tebaldo. La morte di Tebaldo sarebbe stata un dolore sufficiente, se fosse finita qui; o, se l’amaro
dolore si diverte in compagnia e bisognoso sarà affiancato da altri dolori, perché non ha continuato con ‘tuo
padre’ e ‘tua madre’, o entrambi, che lamentazioni d’obbligo avrebbero dovuto muovere? Ma con un
‘Romeo è bandito’ che segue come una retroguardia la morte di Tebaldo – pronunciando quella parola sono
padre, madre, Tebaldo, Romeo, Giulietta, tutti assassinati, tutti morti. ‘Romeo è bandito’ – non c’è fine,
nessun limite, misura, legame, alla morte che porta quella parola; nessuna parola può esprimere quel
dolore. Dove sono mio padre e mia madre, balia?”
Balia: “Piangendo e lamentandosi sul corpo di Tebaldo. Andrai da loro? Ti porterò là”.
Giulietta: “Lavano con le lacrime le sue ferite? Le mie saranno versate, quando le loro sono asciutte, per il
bando di Romeo. Tieni queste corde. Povere funi, siete state ingannate, entrambe io e voi, perché Romeo è
esiliato. Lui vi ha fatte come strada maestra fino al mio letto, ma io, una signora, muoio una vergine
vedovata. Venite, corde, vieni, balia, andrò al mio letto nuziale e la morte, non Romeo, prenderà la mia
verginità”.
Balia: “Affrettati nella tua stanza. Cercherò Romeo per confortarti. Io so bene dov’è. Ascolta, il tuo Romeo
sarà qui stanotte. Andrò da lui; è nascosto nella cella di frate Lorenzo”.
Giulietta: “O, trovalo, da’ questo anello al mio fedele cavaliere e chiedigli di venire a prendersi il suo ultimo
addio”.

Tragedy of errors: non c’è soluzione agli equivoci che portano all’esito tragico. La balia tormenta la povera
Giulietta facendole credere che sia morto Romeo, e non Tebaldo. Tutto ciò che dice la balia e ogni domanda
che la giovane le rivolge, tutto nasce da un fraintendimento che anticipa ciò che accadrà successivamente.
Dopo l’esilio, pensa di morire vedova e vergine, perché non è riuscita a consumare il matrimonio con il suo
sposo (ossimoro). Ay, eye, I: omofonia. “Io non sono io, se ci sarà un tale ‘sì’” vuol dire che semmai Romeo
dovesse essere davvero morto, Giulietta morirà dal dolore, non esisterà più; specularità dell’amore: l’una
non vive senza l’altro. Granville-Barker ritiene questa successione – ay, eye, I – un delirium of puns, ovvero
un momento di tossico eccitamento che culmina alla fine della tragedia con il suo suicidio.

ATTO III, SCENA III. Scena tutta al maschile, in cui Romeo si confronta con frate Lorenzo. Non sa ancora che
è stato bandito, considera la sua punizione come una condanna a morte. Il frate cerca di tranquillizzarlo,
proponendogli un piano: cercherà di rendere pubblico il loro matrimonio per il bene delle casate. Questa
scena è importante sul piano filosofico, perché contiene la concezione rinascimentale dell’uomo. Quando
Romeo vuole togliersi la vita per essere stato bandito, perché non riesce a stare senza Giulietta, frate
Lorenzo lo rimprovera per le sue lacrime proprie di una donna, non da uomo; inoltre, il suicidio è un atto
ignobile che tradisce la vita. Significa andare contro il proprio essere. Il frate usa tre lemmi: birth, heaven,
earth quando parla di Romeo. Birth: nascita e convergenze astrali, c’è una data particolare, e l’unione del
cielo con la terra. L’uomo è l’unione di tutti questi elementi. Si parla quindi di influenze astrali. Dice che
Romeo è una specie di calco di cera: concezione della realtà elaborata da filosofi come Aristotele, noi siamo
unione di materia e forma (artigiano che fa una sfera di bronzo), la realtà è l’incontro tra materia e forma.
La cera è malleabile, ed è essenza del tutto. Ilemorfismo. Materia che assume una determinata forma. È
una visione laica, ma viene presa anche da Sant’Agostino. C’è una finalità interna per ogni individuo. Si
parla di abuso del proprio corpo, si rischia di deviarlo dal suo scopo principale. Sono concetti che si
affrontano anche nel Rinascimento. La scena si chiude col tentativo del frate di trovare una soluzione,
impedendo a Romeo di suicidarsi. C’è un servo fidato, che userà per portare le notizie a J. Ma fallirà perché
è lento, creerà equivoci.

ATTO III, SCENA III, p. 257

[Entra frate Lorenzo]

Frate Lorenzo: “Romeo, vieni avanti, vieni avanti, tu uomo timoroso. L’afflizione si è innamorata delle tue
parti, e tu sei sposato con la calamità”.

[Entra Romeo]
Romeo: “Padre, quali notizie ci sono? Qual è la sentenza del Principe? Quale dolore che ancora non conosco
desidera stringere la mia mano?”
Frate Lorenzo: “La compagnia di tali dolori è così familiare al mio caro figlio. Io ti porto notizie della
sentenza del Principe”.
Romeo: “Quanto meno severa del giudizio universale è la sentenza del Principe?”
Frate Lorenzo: “Una sentenza più lieve è uscita dalle sue labbra: non la morte del corpo, ma il bando del
corpo”.
Romeo: “Ah, l’esilio? Siate pietoso, dite ‘morte’, perché l’esilio ha più terrore nello sguardo, molto di più,
che la morte. Non dite ‘esilio’”.
Frate Lorenzo: “D’ora in poi da Verona sei bandito. Sii paziente, perché il mondo è fuori e ampio”.
Romeo: “Non c’è mondo oltre le mura di Verona se non purgatorio, tortura, inferno stesso. D’ora in poi
essere bandito vuol dire essere bandito dal mondo, e l’esilio dal mondo equivale alla morte; allora, ‘esilio’ è
la parola sbagliata per indicare la morte. Chiamando la morte ‘esilio’, mi tagli la testa con un’ascia d’oro e
sorridi sul colpo che mi assassina”.
Frate Lorenzo: “O peccato mortale, o rude ingratitudine! La tua colpa la nostra legge chiama morte, ma il
buon Principe, prendendo le tue parti, ha messo da parte la legge, e ha trasformato quella nera parola
‘morte’ nell’esilio. Questa è generosa pietà, e tu non lo vedi”.
Romeo: “Questa è tortura e non pietà. Il Paradiso è qui dove Giulietta vive, ed ogni gatto e cane e piccolo
topo, ogni indegna cosa, vive qui nel Paradiso e può guardarla, ma Romeo non può. Più valenza, più onore,
più cortesia per un insetto che vola intorno ad un cadavere che per Romeo. Possono cogliere la meraviglia
bianca della mano della cara Giulietta e rubare doni immortali dalle sue labbra, che anche in una pura e
verginale modestia arrossiscono sempre, pensando ai loro baci come un peccato. Ma Romeo non può, è
bandito. Gli insetti possono farlo, ma io da ciò devo volare; essi sono uomini liberi, ma io sono bandito: e sei
ancora convinto che l’esilio non è morte? Non hai nessuna mistura velenosa, nessun coltello dalla lama
affilata, nessun mezzo rapido per morire, neanche molto semplice, che ‘l’esilio’ per uccidermi? Bandito! O
frate, i dannati usano quella parola all’inferno; urla strazianti l’accompagnano. Come puoi avere il coraggio,
essendo un uomo di Dio, colui che assolve dai peccati, e mio amico dichiarato, di violentarmi con quella
parola ‘esilio’?”
Frate Lorenzo: “Tu stupido e pazzo uomo, ascolta il poco che ti dico”.
Romeo: “O, tu parlerai di nuovo di esilio”.
Frate Lorenzo: “Ti darò un’arma per stare alla larga da quella parola, il dolce miele delle avversità, la
filosofia, per confortarti mentre sei bandito”.
Romeo: “Ancora esiliato? Impicca la tua filosofia! Fino a che la filosofia non può creare Giulietta, spiantare
una città, capovolgere la sentenza di un Principe, non aiuta, non prevale. Non parlare oltre”.
Frate Lorenzo: “O, a quanto vedo i pazzi non hanno orecchie”.
Romeo: “Come potrebbero, quando gli uomini saggi non hanno occhi?”
Frate Lorenzo: “Lascia che discuta con te della tua situazione”.
Romeo: “Non puoi parlare di ciò che non provi. Se fossi giovane come me, Giulietta il tuo amore, sposato se
non da un’ora, Tebaldo assassinato, innamorato come me e come me esiliato, allora potresti parlare, allora
potresti strapparti i capelli e cadere al suolo come faccio io adesso, misurando una fossa ancora da
scavare”.

[Romeo cade]

[La balia bussa dentro]

Frate Lorenzo: “Alzati, qualcuno bussa. Buon Romeo, nasconditi”.


Romeo: “Non io, fino a che il respiro dei miei gemiti disperati, simile a nebbia, non mi nasconderà agli occhi
che mi cercano”.

[Bussano]
Frate Lorenzo: “Ascolta come bussano. – Chi è lì? – Romeo, alzati, sarai catturato. – Aspettate un attimo! –
Alzati.”

[Bussano più forte]

Frate Lorenzo: “Corri nel mio studio. – Eccomi, eccomi! – per Dio, che sciocchezza è questa? – Arrivo, arrivo!
Chi bussa così forte? Da dove vieni? Cosa desideri?”

[Entra la balia]

Balia: “Lasciami entrare e saprai il mio messaggio. Vengo per conto della signorina Giulietta”.
Frate Lorenzo: “Benvenuta dunque”.
Balia: “O santo frate, o, ditemi, santo frate, dov’è il marito della mia signora, dov’è Romeo?”
Frate Lorenzo: “Lì sul pavimento, ubriaco delle sue stesse lacrime”.
Balia: “O, è nella stessa situazione della mia signora, proprio nella stessa. Che armonia dolorosa, situazione
che pietosa! Anche lei giace così, piangendo e singhiozzando, singhiozzando e piangendo. Alzati, alzati,
alzati e sii uomo. Per l’amore di Giulietta, per amor suo, sollevati e alzati! Perché dovresti cadere in una O
così profonda?”

[Romeo si solleva]

Romeo: “Balia –”.


Balia: “Ah, signore, ah, signore, la morte è la fine di tutto”.
Romeo: “Parli di Giulietta? Come va con lei? Pensa che io sia un vecchio assassino, ora che ho macchiato la
l’infanzia della nostra gioia togliendole che un po’ del suo sangue? Dov’è lei, e come sta, e cosa dice la mia
sposa segreta del nostro amore cancellato?”
Balia: “O, non dice nulla, signore, ma singhiozza e singhiozza, e ora cade sul suo letto, e poi si alza, e chiama
Tebaldo, e poi piange per Romeo, e poi cade di nuovo”.
Romeo: “Così come quel nome, sparato dalla canna mortale di una pistola, l’ha uccisa, allo stesso modo la
mano maledetta di quel nome ha ucciso il suo parente. O, dimmi, frate, dimmi, in quale vile parte del mio
corpo il mio nome si trova? Dimmi, che devo devastare l’odiosa parte”.

[Fa per pugnalarsi, ma la balia tira via il pugnale]

Frate Lorenzo: “Trattieni la tua mano disperata! Sei un uomo? La tua forma grida che lo sei. Le tue lacrime
sono da femmina, i tuoi selvaggi gesti denotano l’irragionevole furia di una bestia. Sconveniente donna con
le sembianze di un uomo, una bestia incongrua con entrambe le sembianze! Tu mi hai meravigliato. Per il
mio santo ordine, io pensavo che il tuo comportamento fosse meglio temprato. Hai ucciso Tebaldo?
Ucciderai te stesso, e ucciderai la donna che vive in te, compiendo un gesto d’odio autodistruttivo? Perché
maledici la tua nascita, il cielo e la terra, dacché nascita, cielo e terra si sono ricongiunti in te in una volta, e
in una sola volta vorresti perderli? Vergogna, tu rinneghi la tua forma, il tuo amore, il tuo ingegno, di cui ne
avevi in abbondanza, e come un usuraio, al contrario non ne hai fatto buon uso, che dovrebbe adornare la
tua forma, il tuo amore, il tuo ingegno. La tua nobile forma non è che una forma di cera, che si allontana
dalla virtù di un uomo; il tuo caro e giurato amore diventa un voto spergiuro, uccidendo quell’amore che hai
giurato di rallegrare; il tuo ingegno, quell’ornamento di forma e amore, distorto nel suo gesto di condurli
entrambi, come polvere nella fiaschetta di un soldato senza abilità è messo a fuoco dalla tua stessa
ignoranza, e sei smembrato dalla tua stessa difesa. Che diamine, svegliati, ragazzo! La tua Giulietta è viva,
per il cui caro amore un attimo fa non eri che morto: sei fortunato. Tebaldo avrebbe potuto ucciderti, ma
l’hai ucciso tu: sei fortunato. La legge che ha minacciato morte diventa la tua amica e la trasforma in esilio:
sei fortunato. Un insieme di benedizioni t’illumina le spalle, la felicità ti corteggia col suo miglior abito, ma
come una ragazzina scontrosa e viziata tu metti il broncio alla tua fortuna e al tuo amore. Stai attento, stai
attento, per questo si muore miserabilmente. Vai, recati dal tuo amore come deciso. Sali alla sua camera,
dunque, confortala, ma attento a stare fino a che non ci sarà il cambio di guardia, perché potresti non
passare per raggiungere Mantova, dove vivrai fino a che troviamo un momento per dichiarare apertamente
il tuo matrimonio, riconciliare i tuoi amici, supplicare il perdono al Principe e richiamarti con una
duecentomila volte più grande del dolore con il quale sei partito. Vai per prima, balia. Raccomandami alla
tua padrona e chiedile di sollecitare tutti ad andare a letto, già disposti dal grande dolore. Romeo arriva
subito”.
Balia: “O signore, avrei potuto stare qui tutta la notte per ascoltare i tuoi buoni consigli. O, cos’è la
sapienza! Mio signore, dirò alla mia signora che verrete”.
Romeo: “Fallo, e chiedi alla mia dolcezza di prepararsi a rimproverarmi”.

[La balia fa per andarsene e si volta di nuovo]

Balia: “Qui, signore, un anello che lei mi ha chiesto di darvi, signore. Affrettatevi, fate presto, perché si sta
facendo davvero tardi”.

[Esce]

Romeo: “Quanto bene la mia consolazione si è ravvivata per questo”.


Frate Lorenzo: “Vai dunque, buonanotte, e così è come stanno le cose: o sarai andato via prima del cambio
di guardia, o per la fine del giorno andrai via da qui travestito. Soggiorna a Mantova. Troverò il tuo uomo, e
ti riporterà di tanto in tanto ogni buona occasione per te che si presenti qui. Dammi la mano. È tardi. Addio.
buonanotte”.
Romeo: “Se una gioia più grande non chiedesse di me, sarebbe un dolore separarmi da te così in fretta.
Addio”.

[Escono velocemente]

13.04.2021

ATTO III, SCENA 5. Uso della rima frequente. Dopo la balcony scene, la aubade (allodola/usignolo) scene è la
scena più famosa: quella del matrimonio consumato. C’è uno scambio dialogico tra i due innamorati dopo
la notte d’amore trascorsa insieme. Il momento è quello dell’alba, ma c’è qualche dubbio sul tempo:
Giulietta è convinta di sentire il canto dell’usignolo (simbolo della notte), mentre Romeo quello dell’allodola
(simbolo del giorno). Se si tratta di quest’ultima, il giovane è costretto ad allontanarsi da Verona e dal loro
letto nuziale, e i due giovani devono separarsi malvolentieri. Perciò Giulietta, che vorrebbe ancora che
Romeo rimanesse con lei, finge che il canto sia dell’uccellino notturno. Se il primo momento di incertezza
riguarda il senso dell’udito, il secondo momento riguarda quello della vista: il cielo è dipinto da strisce che
Romeo identifica con l’arrivo dell’alba, mentre Giulietta una meteora notturna. La scena ha in sé una
visione molto poetica, lo scambio dialogico suggerisce ancora una volta la soggettività del tempo: il tempo
dell’orologio è distante dal tempo interiore. Nel momento in cui devono necessariamente costatare che è
giorno, Romeo si cala giù dal balcone con la scala di corda e Giulietta ha quasi un presagio macabro, perché
vede in anticipo ciò che accadrà alla fine: Romeo, di un pallore mortale, si cala dal balcone e le sembra
quasi che stia scendendo in una cripta. Quando Romeo si è allontanato dal giardino, la signora Capuleti
entra nella stanza di Giulietta e si rende conto che la ragazza piange; crede che sia per la morte di Tebaldo.
Come nella scena precedente, c’è un’ambiguità di fondo che nasce dall’ellissi del referente: così come la
balia fa credere a Giulietta che Romeo sia morto, a causa del suo parlare sconnesso, la madre crede che
soffra per la dipartita del cugino. Ci sono, quindi, una biforcazione dell’intreccio, che dovrebbe sanare i
problemi, ma che in realtà finisce per peggiorarli irrimediabilmente, ed un doppio livello comunicativo,
perché quando Giulietta parla della loss, della perdita, lo spettatore sa che si riferisce a Romeo, ma sua
madre crede che si stia riferendo a Tebaldo. Donna Capuleti, nella non-conoscenza di ciò che è realmente
accaduto, crede di portarle buone notizie, che possano risollevarla dalla sua tristezza, e le parla del
matrimonio che il padre ha progettato per lei con il giovane Paride. Anche Capuleti padre ribadisce
l’importanza della loro unione.

ATTO III, SCENA V, p. 270

[Entrano Romeo e Giulietta in alto alla finestra]

Giulietta: “Vuoi già andare via? Non è ancora giorno. Era l’usignolo, e non l’allodola, che ha penetrato la
timorosa cavità del tuo orecchio. Di notte canta su quell’albero di melograno lassù. Credimi, amore, era
l’usignolo”.
Romeo: “Era l’allodola, la messaggera del mattino, non l’usignolo. Guarda, amore, quali strisce invidiose
ricamano le nubi che si stanno aprendo laggiù ad Oriente. Le candele della notte sono completamente
consumate e il giorno allegro avanza in punta di piedi sulle cime nebbiose delle montagne. Devo andare via
e vivere oppure rimanere e morire”.
Giulietta: “Quella luce laggiù non è la luce del giorno; lo so, io. È qualche meteora che il sole esala affinché
sia per te come un portatorcia e ti illumini sulla tua strada per Mantova. Perciò resta ancora; non hai
bisogno di andar via”.
Romeo: “Lasciami esser catturato, lasciami esser messo a morte. Sono contento se è questo ciò che vuoi. Ti
dirò che quel grigio laggiù non è l’occhio del mattino, che non è altro che il pallido riflesso della fronte di
Cinzia, né che non è l’allodola le cui note suonano nella volta del cielo così in alto sulle nostre teste. Ho più
voglia di restare che desiderio di andare. Vieni, morte, e benvenuta! Giulietta lo desidera. Che c’è, anima
mia? Parliamo; non è giorno”.
Giulietta: “Lo è, lo è! Presto dunque, va’ via, via! È l’allodola che canta così stonata, sforzando note dure e
discordanti e suoni così acuti e sgradevoli. Alcuni dicono che l’allodola crea una dolce divisione; non fa
questo, perché ci ha divide. Alcuni dicono che l’allodola e l’aborrito rospo si scambino gli occhi. O, ora io
vorrei che avessero fatto anche cambio voce, dacché da braccio a braccio quella voce ci ha strappati,
cacciandoti da qui con la serenata al giorno. O, adesso va’ via! Si fa sempre più luce”.
Romeo: “Più luce giunge, più bui sono i nostri dolori”.

[Entra la balia velocemente]

Balia: “Signora!”
Giulietta: “Balia?”
Balia: “La vostra signora madre sta arrivando nella vostra stanza. È giunto il giorno. State attenti,
guardatevi intorno”.

[Esce]

Giulietta: “Dunque, finestra, lascia entrare il giorno e uscire la notte”.


Romeo: “Addio, addio. Un bacio, e scenderò”.

[Scende giù]

Giulietta: “Sei andato via così, amore, signore, o marito, amico? Devo sapere di te ogni ora del giorno,
perché in un minuto ci sono molti giorni. O, stando a questi calcoli io sarò anziana prima di stringere di
nuovo il mio Romeo”.
Romeo: “Addio. Non mi perderò alcuna opportunità che potrebbe portarti mie notizie, amore”.
Giulietta: “O, pensi che ci rincontreremo di nuovo?”
Romeo: “Non ne dubito, e tutti questi dolori serviranno come dolci discorsi nei tempi che verranno”.
Giulietta: “O Dio, ho un’anima che presagisce il male! Sembra di vederti adesso, sei così in basso, come un
morto sul fondo di una tomba. O la mia vista m’inganna, o sembri pallido”.
Romeo: “E fidati, amore, ai miei occhi anche tu lo sembri. Un arido dolore ci succhia il sangue. Addio,
addio!”
[Esce]

Giulietta: “O Fortuna, Fortuna, tutti gli uomini ti chiamano volubile. Se sei volubile, cosa fai con colui che è
rinomato per la sua fedeltà? Sii volubile, Fortuna, perché dunque io spero che non lo tratterrai a lungo, ma
rimandalo indietro”.

Percezione diversa del tempo. Giulietta cerca di convincere Romeo che sia ancora notte, perché vuole
trattenerlo un altro po’. Prima l’udito e poi la vista devono indicare che ore sono del giorno, o della notte.
Beyond è sia un dimostrativo, che un avverbio di luogo. A conferma di ciò che sostiene Romeo, le strisce del
sole nascente dividono le nuvole. Cinzia è la dea della luna. C’è un gioco di parole tra division e divided:
l’allodola ha fatto una dolce divisione delle sue note, ma non è così perché divide. Secondo una leggenda, il
rospo ha una voce acuta, mentre l’allodola no. Entra la balia ad avvisare Giulietta del fatto che sta arrivando
sua madre nella sua stanza, quindi Romeo deve scappare per non correre il rischio di farsi vedere. Dopo
essersi scambiati un ultimo bacio, Romeo si cala giù dalla finestra con la scala di corde. Giulietta è
impaziente di poterlo stringere di nuovo tra le braccia e vorrebbe avere sue notizie molto frequentemente,
più volte al giorno. Con l’uso del paradosso si mettono sullo stesso livello due piani discorsivi: se Giulietta
conta a suo modo, diventerà vecchissima molto presto perché, dal suo punto di vista, in ogni minuto ci
sono tantissimi giorni. Questa scena è una delle tante in cui la fantasia macabra di Giulietta sarà prolettica
rispetto a ciò che accadrà: mentre il suo innamorato si cala giù nel giardino, lo vede pallido quasi come un
cadavere sul fondo di una bara. Anche Romeo sostiene lo stesso, perché il dolore li ha resi pallidi,
prosciugando tutto il loro sangue, che non affiora più sulle loro guance. In un primo appello alla fortuna,
Giulietta si meraviglia che un concetto così incostante possa associarsi a Romeo, un amante costante e
fedele, quindi vi è un primo paradosso; poi, aggiunge che la sua incostanza va comunque bene, dato che
essa è loro ostile ugualmente, perché così, in un momento favorevole, potrà andare loro incontro.

[Entra la Signora Capuleti da dentro]

Signora Capuleti: “Su, figlia, sei sveglia?”


Giulietta: “Chi è che chiama? È la signora mia madre. Non è scesa così tardi o è sveglia così presto? Quale
causa insolita la induce qui?”

[Scende giù dalla finestra]

Signora Capuleti: “Perché, come va, Giulietta?”


Giulietta: “Signora, non sto bene”.
Signora Capuleti: “Ancora piangere per la morte di tuo cugino? Dunque, lo tirerai fuori dalla tomba con le
tue lacrime? E se tu potessi, non dovresti renderlo vivo; perciò, smettila. Un dolore mostra tanto amore, ma
molto dolore mostra sempre mancanza di ingegno”.
Giulietta: “Ma lasciatemi piangere per una perdita così sentita”.
Signora Capuleti: “Così sentirai la perdita, ma non l’amico per cui piangi”.
Giulietta: “Sentendo così tanto la perdita, non posso scegliere che piangere per sempre l’amico”.
Signora Capuleti: “Bene, ragazza, allora non hai pianto così tanto per la sua morte, quanto perché il villano
che l’ha ucciso ancora vive”.
Giulietta: “Quale villano, signora?”
Signora Capuleti: “Quel malvagio di Romeo”.
Giulietta: “Tra la malvagità e lui sono miglia distanti. – Dio lo perdoni! Io lo faccio, con tutto il mio cuore,
eppure nessun uomo come lui addolora il mio cuore”.
Signora Capuleti: “Questo perché il traditore assassino vive”.
Giulietta: “Sì, signora, lontano da queste mie mani. Che nessun altro se non io vendichi la morte di mio
cugino!”
Signora Capuleti: “Avremo vendetta per questo, non temere. Perciò non piangere più. Invierò un uomo a
Mantova, dove lo stesso fuggitivo esiliato vive, gli darò un’insolita dose di veleno che andrà subito a tener
compagnia a Tebaldo; e allora spero che sarai soddisfatta”.
Giulietta: “Invece, non sarò mai soddisfatta di Romeo fino a che non lo stringo. Morto – è il mio povero
cuore così afflitto per un parente. Signora, se potessi trovare che un solo uomo per rimediare un veleno, lo
preparerei io, cosicché Romeo possa, avendolo ricevuto, giacere in pace rapidamente. O, quanto aborre il
mio cuore ad ascoltare il suo nome e non poterlo raggiungere, per sfogare l’amore che nutrivo per mio
cugino sul corpo che l’ha ucciso”.
Signora Capuleti: “Trova i mezzi e io troverò un uomo. Ma ora ti racconterò gioiose novità, ragazza”.
Giulietta: “E la gioia è ben accetta in un momento di così tanta desolazione. Quali sono le notizie, vi prego
vossignoria?”
Signora Capuleti: “Bene, bene, hai un padre premuroso, bambina, uno che, per distrarti dai tuoi dolori, ha
scelto un giorno improvviso di gioia che non ti aspetti, che neanch’io cercavo”.
Giulietta: “Signora, che fortuna; di che giorno si tratta?”
Signora Capuleti: “Ebbene, bambina mia, al mattino presto del prossimo giovedì, il galante, giovane e
nobile gentiluomo, il Conte Paride, nella chiesa di San Pietro ti renderà felicemente una gioiosa sposa”.
Giulietta: “Ah, per la chiesa di San Pietro e Pietro stesso, non può rendermi lì una gioiosa sposa! Sono così
sorpresa da questa fretta, che devo sposarmi prima che colui che dovrebbe essere marito viene a
corteggiarmi. Vi prego di dire al mio signore e padre, signora, che non mi sposerò ancora; e quando lo farò,
giuro che sarà con Romeo, che voi sapere io odio, piuttosto che con Paride. Queste, invece, sono notizie!”
Signora Capuleti: “Arriva tuo padre; diglielo tu stessa, e vedi come la prenderà”.

[Entrano il Signor Capuleti e la balia]

Signor Capuleti: “Quando il sole tramonta, la terra spilla rugiada, ma per il tramonto del figlio di mio
fratello piove a dirotto. Come, una fontana, ragazza? Come, ancora in lacrime, sempre a piangere? In un
piccolo corpo ti fingi braca, mare e vento, perché nei tuoi occhi, che potrei chiamare mare, crei un flusso e
riflusso con le lacrime. La barca è il tuo corpo, che naviga in questa marea salata; i venti i tuoi sospiri, che,
correndo con le tue lacrime ed esse con loro, se non vengono subito calmati travolgeranno il tuo corpo
scosso dalla tempesta. E dunque, moglie, le hai indirizzato le nostre decisioni?”
Signora Capuleti: “Sì, signore, ma non le rispetterà, vi ringrazia. Vedrei bene che questa sciocca fosse
sposata alla sua tomba”.
Signor Capuleti: “Calma, parla affinché possa capirti, parla affinché possa capirti, moglie. Come non le
accetterà? Ci ringrazia? Non è orgogliosa? Non considera la fortuna, indegna com’è, che le abbiamo
procurato di essere la moglie di un così degno gentiluomo?”
Giulietta: “Non sono orgogliosa che l’abbiate fatto, ma riconoscente. Non potrò mai essere orgogliosa di ciò
che odio, ma riconoscente per un odio che significa amore”.
Signor Capuleti: “Come, come, come, come, fai la sofista? Che vuol dire ciò che dici? ‘Orgogliosa’ e ‘vi
ringrazio’, e ‘non vi ringrazio’, e ancora ‘non orgogliosa’? Piccola signorina, tu, non darmi a bere grazie e
non grazie, orgogli e non orgogli, ma prepara i tuoi bei piedini per giovedì prossimo per andare con Paride
alla chiesa di San Pietro, o ti trascinerò lì su un carretto. Fuori, verdognolo cadavere! Fuori, sgualdrina, tu
faccia bianca!”
Signora Capuleti: “Calma, calma, ma sei impazzito?”
Giulietta: “Buon padre, ti supplico in ginocchio, ascoltatemi con pazienza per farmi dire una sola parola”.

[Si inginocchia]

Signor Capuleti: “Impiccati, giovane sgualdrina, disgraziata disobbediente! Ti dico una cosa: va’ in chiesa
giovedì o non guardarmi mai più in faccia. Non parlare, non rispondere, non domandarmi. Le mie dita
prudono. Moglie, pensavamo che Dio ci avesse benedetto scarsamente dandoci una sola figlia, ma adesso
vedo che quest’unica è anche troppo, e che abbiamo ricevuto un castigo avendola. Fuori, sgualdrina!”
Balia: “Dio nei cieli la benedica! Siete da biasimare, mio signore, per trattarla così”.
Signor Capuleti: “E perché, mia Signora Saggezza? Tenete ferma la lingua, Signora Prudenza, andate ad
infarinarvi con i pettegolezzi, andate”.
Balia: “Non vi ho mica tradito”.
Signor Capuleti: “O, che Dio vi mandi una buona serata!”
Balia: “Non si può più parlare?”
Signor Capuleti: “Basta, sciocca brontolona! Pronunciate le vostre saggezze su un bicchiere mentre
scambiate gossip con le vostre compagne, perché qui non ne abbiamo bisogno”.
Signora Capuleti: “Vi scaldate troppo”.
Signor Capuleti: “Per il corpo di Cristo, mi fa diventare matto. Ogni giorno, ogni notte, ogni ora, durante il
lavoro, il riposo, da solo, in compagnia, è sempre stata mia cura accoppiarla; e avendo adesso procurato un
gentiluomo di nobile parentato, con belle tenute e terreni, giovane e di lignaggio nobile, pieno fino all’orlo,
come dicono, di cose onorevoli, proporzionato come si desidererebbe in un uomo, ritrovarsi invece ad avere
una sciocca disgraziata e lamentosa, una debole sempliciotta, che quando la fortuna le si presenta sul piatto
d’argento, lei risponde ‘non mi sposerò, non posso amarlo, sono troppo giovane, vi prego di perdonarmi’.
Ma se non ti sposerai, ti perdonerò! Pascola dove vorrai, non dimorerai con me. Guarda, pensa a questo;
non sono solito scherzare. Giovedì è vicino. Metti una mano sul cuore, pensaci bene. Se sei davvero mia
figlia, ti darò ad un mio amico; ma se non lo sei, impiccati, mendica, muori di fame, muori per le strade,
perché, sull’anima mia, non ti conoscerò mai più, né ciò che è mio ti farà mai del bene. Fidati di questo,
pensaci; non sarò rinnegato”.

[Esce]

Giulietta: “Non c’è pietà seduta tra le nuvole che guarda nel profondo dei miei dolori? O mia dolce madre,
non scacciatemi! Ritardate questo matrimonio di un mese, una settimana, o se non lo fate, mettere il letto
nuziale in quell’oscuro monumento dove Tebaldo giace”.
Signora Capuleti: “Non parlarmi, perché non dirò una parola, fai come desideri, perché ho finito con te”.

[Esci]

Giulietta: “O Dio! O balia, come si poteva prevedere? Mio marito è sulla terra, la mia fede nei cieli. Come
potrà ritornare di nuovo sulla terra quella fede, se non sarà mio marito a mandarmela dal cielo lasciando
questa terra? Confortami, consigliami. Ahimè, ahimè, quei cieli ordirebbero stratagemmi su una persona
così fragile e debole come me. Cosa dici? Non hai neanche una parola di gioia? Un po’ di conforto, balia”.
Balia: “Fede, ecco tutto. Romeo è bandito, e scommetto tutto il mondo per ricevere nulla in cambio che non
lui non oserà mai più tornare indietro per rivendicarti; o se lo fa, c’è bisogno che sia con un gesto furtivo.
Allora, dato che le cose stanno così, io penso che sarebbe meglio se ti sposassi con il Conte. O, è un
adorabile gentiluomo! Romeo è un semplice straccio in confronto. Un’aquila, signora, non ha occhi così
verdi, così vispi, così belli come quelli che ha Paride. Che il diavolo prenda il mio buon cuore, io penso che
siate fortunata con questo secondo matrimonio, perché eccelle sul vostro primo; o se non lo è, il vostro
primo marito è morto, o sarebbe meglio che lo fosse vivendo voi qui e con nessuna possibilità di vederlo”.
Giulietta: “Parli con il cuore?”
Balia: “E anche con la mia anima, o che siano entrambi dannati”.
Giulietta: “Amen”.
Balia: “Cosa?”
Giulietta: “Bene, mi hai confortato meravigliosamente bene. Vai, e dì alla mia signora che sono andata via,
avendo creato dispiacere a mio padre, alla cella di frate Lorenzo, per confessarmi ed essere assolta”.
Balia: “Ebbene, andrò, questa è una cosa saggia”.

[Esce]

[Giulietta cerca la balia]


Giulietta: “Dannata vecchia! O il demonio più malvagio! È un peccato più grande desiderare che io
spergiuri, o che io disprezzi mio marito con la stessa lingua che lo ha esaltato così tante migliaia di volte al
di sopra di ogni confronto? Va’ via, consigliere, tu e i miei più segreti pensieri sarete stranieri l’uno per
l’altro. Andrò dal frate per conoscere il suo rimedio. Se qualunque altra cosa fallisce, io stesso ho il potere di
morire”.

[Esce]

Entra la signora Capuleti in scena e trova Giulietta in lacrime, perché Romeo è scappato via. Continua il
procedimento del doppio livello comunicativo, allo stesso modo della balia a proposito della morte di
Tebaldo. La madre le intima di smettere di piangere, le sue lacrime sono inutili e bisogna rassegnarsi perché
Tebaldo non tornerà, ma sarà presto vendicato, perché il suo assassino è Romeo, esiliato a Mantova. In
realtà, Giulietta lamenta la sua lontananza, non la morte del cugino, e dichiara di volerlo stringere (morto)
tra le braccia, di voler vendicare lei stessa il suo parente. In seguito, la madre le annuncia le nozze con
Paride, come una buona sorte, regalo di un padre premuroso e generoso, che ha subito un cambio
repentino: inizialmente era favorevole al matrimonio di sua figlia con il giovane Paride, ma a patto che
Giulietta accettasse il corteggiamento; adesso, invece, è assolutamente perentorio e glielo impone, e la
rimprovera per tutte le lacrime che ha versato, per il suo pianto continuo oltre i limiti consentiti del lutto.
Anche lui è convinto che la ragazza pianga per la morte di Tebaldo e ribadisce che il matrimonio potrà
essere la sua occasione per risollevarsi. Al contrario, questo matrimonio le aggiunge altro dolore: il corpo di
Giulietta, inondato di lacrime, è come una barca in mezzo alla tempesta, i suoi sospiri sono come venti che
scuotono questa nave; una nave in balia di se stessa, che ha perso la sua direzione (rimando al Petrarca).
Similitudine parziale: quando tramonta il sole c’è un po’ di rugiada sulla Terra, ma quando muore Tebaldo,
c’è un mare di lacrime, senza fine. C’è un’altra scena prolettica: la madre vorrebbe che fosse sposata al suo
sepolcro, perché la ragazza rifiuta la decisione dei genitori di darla in moglie al conte Paride. Giulietta cerca
di opporre resistenza, ma l’alternativa sarebbe essere diseredata e cacciata via di casa. Cerca confronto nei
consigli della balia, con cui ha maggiore confidenza, l’unica che sa delle sue nozze con Romeo. La balia le
suggerisce di sposarsi, Romeo è stato bandito e deve arrendersi alla sua sorte di sposina vedova, che potrà
riacquistare il suo valore con un secondo matrimonio. Sofferente, si allontana per recarsi presso la cella di
frate Lorenzo, con la speranza di giungere ad un piano differente, che le permetterà di posticipare il
matrimonio. Dal frate, infatti, riceverà il farmaco che la farà cadere in una morte apparente (sempre
l’ambivalenza delle erbe). La giovane preferirebbe morirebbe, piuttosto che sposare Paride, e così accadrà.

ATTO IV, SCENA I. Si svolge nella cella di frate Lorenzo, di martedì pomeriggio. Giulietta incontra Paride, che
recatosi in cella per confessarsi per la cerimonia, cerca di manifestarle il suo amore, ma la giovane gli
risponde in modo piuttosto ambiguo. Nella seconda parte della scena, Paride verrà congedato e Giulietta
chiederà di confessarsi. Il frate le suggerisce di bere la fiala soporifera che riprodurrà un effetto di morte
per quarantadue ore, dopodiché Romeo correrà a liberarla per condurla a Verona come sua sposa. Il
matrimonio anticipato sarà un evento mortifero, perché la fretta porterà con sé tutte le ambivalenze del
caso e si concluderà con la morte dei due innamorati. C’è un momento, in disparte, in cui si interrompe la
comunicazione orizzontale tra personaggio e personaggio, perché frate Lorenzo comunica col pubblico in
una riflessione sul tempo, da ritardare o accelerare; sa che questa fretta sarà mortale, ma non lo espone né
Paride, né agli altri personaggi.

[Entrano frate Lorenzo e il conte Paride]

Frate Lorenzo: “Di giovedì, signore? È un tempo davvero breve”.


Paride: “Mio padre Capuleti vorrà così, e io non sono per niente lento da ritardare la sua fretta”.
Frate Lorenzo: “Dici di non conoscere il pensiero della signora? Il corso degli eventi non fila liscio; non mi
piace”.
Paride: “Lei piange immoderatamente per la morte di Tebaldo, e perciò ho parlato poco d’amore, perché
Venere non sorride in una casa di lacrime. Ora, signore, suo padre crede che sia dannoso che lei dia ai suoi
dolori così tanto sfogo, e nella sua saggezza ha affrettato il nostro matrimonio per fermare l’inondazione
delle sue lacrime, che, troppo coltivate da lei in solitudine, potrebbero essere fermate dalla compagnia.
Adesso conosci la ragione di questa fretta”.
Frate Lorenzo [a parte]: “Vorrei non sapere perché dovrebbe essere rallentata. – Guardi, signore, arriva la
signora verso la mia cella”.

[Entra Giulietta]

Paride: “Felice d’incontrarvi, mia signora e mia moglie”.


Giulietta: “Potrebbe esserlo, signore, quando sarà una moglie”.
Paride: “Ciò che può essere deve essere, amore, il prossimo giovedì”.
Giulietta: “Ciò che deve essere sarà”.
Frate Lorenzo: “Questo è senza dubbio vero”.
Paride: “Sei venuta a confessarti da questo padre?”
Giulietta: “Per risponderti, dovrei confessarmi con te”.
Paride: “Non negargli che mi ami”.
Giulietta: “Ti confesserò che lo amo”.
Paride: “Così confesserai, ne sono sicuro, che mi ami”.
Giulietta: “Se lo farò, avrà molto più valore se detto alle due spalle piuttosto che dinnanzi al tuo viso”.
Paride: “Povera anima, la tua faccia è stata rovinata dalle lacrime”.
Giulietta: “Le lacrime hanno avuto una piccola vittoria, perché il mio volto era abbastanza brutto anche
prima del loro torto”.
Paride: “Tu rechi più torto delle lacrime con queste parole”.
Giulietta: “Non c’è offesa, signore, nella verità, e ciò che dico, me lo dico in viso”.
Paride: “Il tuo viso è mio, e l’hai offeso”.
Giulietta: “Potrebbe essere, perché non mi appartiene.”

“For Venus smiles not in a house of tears”: non c’è spazio per l’amore in un luogo in cui ci sono soltanto
lacrime, ma il riferimento è anche al pianeta Venere, in quanto ognuna delle dodici parti dello zodiaco in cui
è diviso il cielo si chiama “casa”, e gli amanti della tragedia sono “ star-crossed lovers”, ovvero “amanti
sfortunati”, vessati dall’influenza delle stelle, del destino. Una volta giunta nella cella del frate, Giulietta
incontra Paride, che cerca di palesarle tutto il suo affetto, ma il discorso della ragazza è molto tautologico, è
reticente e non ricambia il suo affetto, è molto cauta e mantenuta nelle sue parole, perché non può svelare
l’amore che prova per Romeo e la loro unione in matrimonio.

14.04.2021

Per ritornare alla prefazione di Brooke, in cui i due innamorati vengono puniti con la morte perché il loro
comportamento è lussurioso, non ascoltano i consigli dei genitori e a causa di balie ruffiane e frati
superstiziosi, usano in modo improprio lo strumento della confessione come sacramento. Quest’ultimo,
piuttosto, diventa un momento di confidenza e opportunità per escogitare varie scappatoie. Giulietta,
infatti, si reca da frate Lorenzo per trovare conforto e riuscire a liberarsi della promessa matrimoniale con
Paride. Anche in questa scena, la ragazza anticipa inconsapevolmente la scena di morte finale, perché
ammette di essere disposta a morire piuttosto che sposare il suo promesso, mostrando al frate un pugnale
con il quale vorrebbe suicidarsi, se non riuscirà a trovare un modo pe posticipare le nozze. Inoltre, è già
sposata con Romeo, per cui ha un motivo ulteriore per non sposare Paride. Quindi, è fedele al suo amore,
ma legalmente anche a quello di Dio. “Bloody knife” è una metonimia: il pugnale non è sanguinante, né
insanguinato, ma dovrà sicuramente esserlo successivamente; altra scena prolettica. Frate Lorenzo, al
vedere Giulietta così ferma nella sua volontà di sfuggire alla sua sorte, le propone il suo stratagemma: bere
un intruglio che non sarà effettivamente letale, ma la lascerà per quarantotto ore in un sonno mortale; una
situazione estrema richiede estremo coraggio. Ritorna l’immaginario macabro di Giulietta, che ha qualche
convergenza nell’Amleto. Frate Lorenzo consegna la fiala a Giulietta, la quale scappa via.

Giulietta: “Avete tempo libero, santo padre, adesso? Oppure ritornerò per la messa serale?”
Frate Lorenzo: “Il mio tempo libero è proprio adesso, o figlia pensosa. Mio signore devo chiedervi di
lasciarci da soli”.
Paride: “Dio mi vieti di disturbare la devozione! Giulietta, giovedì presto verrò a svegliarti; fino ad allora,
addio, e prendete questo sacro bacio”.
Giulietta: “O, chiudete la porta, e dopo che l’avrete fatto, venite a piangere con me, oltre la speranza, oltre
la cura, oltre l’aiuto”.
Frate Lorenzo: “O Giulietta, io già conosco il tuo dolore; mi sconvolge oltre il raggio della mia
comprensione. Ho sentito che devi, e niente potrebbe prorogarlo, essere sposata a questo Conte il prossimo
giovedì”.
Giulietta: “Non ditemi, frate, che avete sentito di questa notizia, se non mi dite come posso prevenirla. Se
nella vostra saggezza non potete darmi nessun aiuto, allora non definite che saggia la mia decisione,
[mostrando il suo pugnale] e con questo pugnale io la porterò immediatamente a termine. Dio ha unito il
mio cuore e quello di Romeo, voi le nostre mani; e prima che questa mano, da voi sigillata a quella di
Romeo, sia il patto di un'altra clausola, o che il mio cuore sincero con una rivolta traditrice si volti verso un
altro, possa questo uccidere entrambi. Pertanto, alla luce della vostra saggezza acquisita negli anni datemi
qualche consiglio immediato, oppure osservate, tra le mie sventure e me questo coltello sanguinante agire
come un giudice, decidendo che l’autorità e la saggezza in voi investite dai vostri anni non possono portare
a nessuna soluzione di vero onore. Non siate così lento a parlare. Io muoio così lentamente, se ciò che dite
non riguarda una soluzione”.
Frate Lorenzo: “Ferma, figlia, io intravedo uno scorcio di speranza, che richiede un tentativo disperato tanto
quanto disperato è ciò che dobbiamo prevenire. Se invece di sposare il conte Paride tu hai l’ardire di
ucciderti, allora è probabile che tu affronterai una cosa come la morte per allontanare questa vergogna, per
sfuggire alla quale sfideresti la morte stessa; e se oserai, ti darò la soluzione”.
Giulietta: “O ordinami di gettarmi, piuttosto che sposare Paride, dai merli di una qualunque torre, o di
camminare in percorsi infestati da ladri, oppure ordinami di nascondermi dove ci sono i serpenti. Incatenami
con orsi ruggenti, o nascondimi di notte in un ossuario, completamente coperta dalle ossa scricchiolanti di
uomini morti, con stinchi putridi e teschi gialli privi di mandibole; oppure ordinami di scendere in una fossa
appena scavata, e nascondini con un uomo morto nella sua tomba, cose che, ad ascoltarle, mi hanno fatto
tremare, e io le farò senza paura o dubbio, per vivere come una moglie immacolata con il mio dolce amore”.
Frate Lorenzo: “Ferma dunque: va’ a casa, sii gioiosa, dai il consenso a sposare Paride. Mercoledì è domani.
Domani notte guardati bene dal dormire da sola. Non lasciare che la balia dorma con te nella tua camera.
Prendi questa fiala, mettendoti poi a letto, e bevi tutto questo liquore distillato, quando immediatamente
attraverso tutte le tue vene correrà un pesante e lento liquido, che il polso non potrà mantenere il suo
battito naturale, e si fermerà. Nessun calore, nessun respiro, testimonierà che vivi. Le rose sulle tue labbra e
sulle gote sfumeranno in pallida cenere, le finestre dei tuoi occhi cadranno come morte, quando chiude il
giorno della vita. Ogni parte, privata di ogni controllo del movimento, apparirà fredda, rigida e dura come la
morte, e in queste sembianze prese in prestito dalla secca morte, tu continuerai per ventiquattro ore, e poi ti
risveglierai come da un piacevole sonno. Poi, quando lo sposo arriva di mattina a svegliarti dal tuo letto, tu
sarai morta. Allora, com’è costume nel nostro paese, nei tuoi abiti migliori, scoperta sulla bara, sarai
portata a quella stessa antica volta dove giacciono tutti i parenti dei Capuleti. Nel frattempo, prima che ti
sarai svegliata, Romeo saprà dalle mie lettere del nostro piano, e verrà qui. E lui ed io ti guarderemo mentre
ti svegli, e quella stessa notte Romeo ti porterà lì a Mantova. E questo ti libererà dalla tua attuale vergogna,
se nessun capriccio o paura di donna abbatterà il tuo valore mentre si realizza tutto questo”.
Giulietta: “Datemela, datemela, o, non parlatemi di paura!”
Frate Lorenzo: “Prendi! Va’, sii forte e prosperosa nella tua soluzione; io invierò rapidamente un frate a
Mantova, con le mie lettere per il tuo signore”.
Giulietta: “Amore mi dia la forza, e la forza mi aiuterà a riuscire nel mio intento. Addio, caro padre”.

[Escono]

ATTO IV, SCENA II. Uno dei livelli di analisi del testo è quello del tempo, percepito diversamente dai vari
personaggi: tempo interiore e tempo dell’intreccio che non converge con le azioni, da cui dipende l’esito
tragico della vicenda. L’elemento principale di questo sfacimento temporale è la lettera di frate Lorenzo che
non giunge in tempo tra le mani di Romeo: il servo che deve consegnargliela viene bloccato prima
dell’entrata a Mantova dalla peste. L’altro tema caro a questa scena è il rapporto padre – figlia: vi è una
forma di controllo anche dal punto di vista del corpo, sessuale della giovane; in alcuni casi, la convergenza
dei desideri paterni con quelli della figlia porta ad un happy ending, come in The Tempest. Mentre in
Midsummer Night’s Dream, Egeo si reca da Teseo, il duca di Atene, perché vorrebbe denunciare sua figlia
Ermia che si rifiuta di convolare a nozze con Demetrio, l’uomo che suo padre ha scelto per lei, e fugge
insieme al suo innamorato Lisandro nel bosco, luogo in cui si realizzano i desideri degli uomini, al contrario
di quanto accada in città; il bosco è popolato da folletti e fate che, a volte si dimostrano dispettosi, altre
volte corrono in aiuto degli uomini. Il rapporto tra Egeo ed Ermia è abbastanza simile a quello tra Giulietta e
Capuleti padre, che inizialmente è predisposto ad accettare il matrimonio della ragazza con Paride a patto
che lei accetti il corteggiamento del gentiluomo, ma successivamente si dimostra perentorio nella sua
situazione. Metafora della wax: secondo una visione esoterica del rapporto tra materia e forme, la cera
rappresenta qualcosa di malleabile, su cui una forma si imprime. Aristotele, nel “Degenerationae
Animatum”, riprende il pensiero di Teseo: “Be advised, fair maid:/ to you your father should be as a god,/
one that composed your beauties, yea, and one/ to whom you are but as a form in wax,/ by him imprinted
and within his power/ to leave the figure or disfigure it”, ovvero che il seme, lo sperma è maschile, mentre
l’ovulo è femminile; quest’ultimo prende forma con l’aiuto dello sperma maschile, quindi l’uomo ha potere
sul corpo della donna. Secondo Teseo, quindi, Ermia è stata plasmata dal padre e per questo motivo, è una
sua proprietà. Il risultato è una visione molto patriarcale della vita e della società che, però, non deve
necessariamente essere propria anche di Shakespeare, infatti il personaggio di Giulietta sembra essere
tutt’altro che disposta a sottomettersi alla volontà di suo padre, ha un carattere molto ribelle e autonomo.
Dopo aver preso la fiala nella cella del confessore, Giulietta torna a casa e s’inginocchia al cospetto del
padre, chiedendogli scusa per essersi comportata in modo irrispettoso. Il padre, allora, stabilisce che il
matrimonio si celebri il mercoledì, per timore che la ragazza possa di nuovo cambiare idea. Sua madre è un
po’ contrariata, preoccupata di non riuscire ad organizzare in tempo la festa per il giorno successivo. Entra
in scena un servo, che regge tra le mani un elenco di invitati per la festa nuziale della ragazza. Questa scena
dà coralità alla scena drammatica, perché viene presentata la città nel suo insieme, mix di cittadini e servi.

15.04.2021

ATTO VI, SCENA II, p. 296

[Entrano il Signor Capuleti, la Signora Capuleti, la balia e i servi, due o tre]

Signor Capuleti: “Invita tanti ospiti quanti ne sono scritti qui. Forza, vai a cercarmi venti cuochi esperti”.
Servo: “Non ne avrete nessuno incapace, signore, perché proverò se possono leccarsi le dita”.
Signor Capuleti: “Come puoi provarlo?”
Servo: “Oddio, signore, perché è un cattivo cuoco quello che non può leccarsi le dita; perciò, colui che non
può leccarsi le dita, non verrà con me”.
Signor Capuleti: “Vai, va’ via. Non saremo molto organizzati per questa volta. Come, mia figlia è andata da
frate Lorenzo?”
Balia: “Sì, proprio così”.
Signor Capuleti: “Bene, potrebbe avere la possibilità di fare qualcosa su di lei. È un’insignificante e testarda
puttanella”.

[Entra Giulietta]

Balia: “Guardate che torna dalla confessione con uno sguardo felice”.
Signor Capuleti: “Eccoti, mia testarda, dove sei stata a perdere tempo?”
Giulietta: “Dove ho imparato a pentirmi del peccato di disobbediente opposizione a voi e ai vostri ordini, e
sono stata persuasa dal santo Lorenzo a cadere prostrata qui per chiedere il vostro perdono. Perdono, vi
scongiuro; d’ora in poi sarò per sempre da voi governata”.

[S’inginocchia]

Signor Capuleti: “Mandate a chiamare il Conte, andate a dirglielo. Voglio che questo nodo sia intrecciato
domani mattina”.
Giulietta: “Ho incontrato il giovane signore alla cella di frate Lorenzo e gli ho mostrato tutto l’amore che
posso provare per lui, senza oltrepassare i limiti della modestia”.
Signor Capuleti: “Bene, sono felice di questo, ben fatto. Alzati; non dovresti essere in ginocchio. Lasciati
guardare – il Conte! Sì, per Dio, va’, ti dico, e portalo qui. Adesso, davanti a Dio, questo santo reverendo
frate, tutta l’intera città nostra deve essergli grata”.
Giulietta: “Balia, verrete con me nel mio armadio, per scegliere tanti ornamenti necessari quanti credi che
vadano bene per agghindarmi domani?”
Signora Capuleti: “No, non fino a giovedì; c’è abbastanza tempo”.
Signor Capuleti: “Vai, balia, va’ con lei; andremo in chiesa domani”.

[Escono la balia e Giulietta]

Signora Capuleti: “Dobbiamo essere veloci nelle nostre disposizioni. È quasi notte”.
Signor Capuleti: “Macché, mi impegnerò, e tutte le cose andranno bene, te lo garantisco, moglie. Vai con
Giulietta, aiutala ad adornarsi. Non andrò a letto stanotte. Lasciami solo, sarò io la padrona di casa per
questa volta”.

[Esce la Signora Capuleti]

Signor Capuleti: “Cosa, Dio! Sono tutti via. Bene, andrò da solo dal conte Paride per prepararlo a domani. Il
mio cuore è straordinariamente leggero da quando quella stessa ostinata ragazza si è rinnovata”.

ATTO IV, SCENA III. Giulietta dorme sola nella sua stanza, beve la fiala intera. Ritorna la visione macabra
della sua sorte nefasta, perché vede se stessa insieme a Romeo in un sepolcro. La ragazza ha delle
premonizioni più chiare, più esplicite rispetto a quelle di Romeo, che sembra al contrario non percepirle a
pieno nella loro negatività. Il genio shakespeariano sta nella sua capacità di mostrare, attraverso la quarta
parete, ciò che è accaduto in un momento in cui lo spettatore non è presente: per esempio, introduce
conversazioni già cominciate, che sembrano sottintendere qualcosa che non si ha potuto ascoltare prima.
La balia sta aiutando Giulietta a scegliere l’abito giusto per la cerimonia, ma deve lasciarla sola nella sua
stanza subito dopo, affinché possa chiedere perdono a Dio per i suoi peccati (la balia crede che voglia
discolparsi perché sista per sposare una seconda volta, in realtà, la ragazza deve commettere un finto
suicidio); quindi, solitudine funzionale ai fini dell’intreccio, perché in questo modo Giulietta potrà bere la
fiala e addormentarsi. Questa solitudine della ragazza sta anche ad indicare il suo ruolo di personaggio
tragico, di eroina che affronta la morte da sola (al contrario, nella commedia, la morte è un momento di
community, di associazione). Giulietta ha timore di bere la fiala, perché potrebbe non avere l’effetto
desiderato e lei sarebbe costretta a sposare Paride l’indomani, o perché potrebbe contenere un veleno che
frate Lorenzo le ha dato per ucciderla e liberarsi dalla vergogna di aver celebrato un matrimonio bigamo;
ancora, teme che Romeo non arrivi in tempo per il suo risveglio e che lei possa ritrovarsi in una fossa
insieme a cadaveri freschi nella cripta della sua famiglia, circondata dai loro scheletri e dalle loro ossa
scricchiolanti (immaginario sepolcrale, oltre che un po’ di follia, perché amore e morte sono inscindibili).
Questi versi ricordano la Graveyard scene nell’Hamlet, in cui i becchini giocano con le ossa dei morti, ma qui
il riferimento è in chiave diversa, perché questa visione può far ammattire dall’impressione e dalla paura. Le
sembra addirittura di vedere il fantasma di Tebaldo rincorrere Romeo che l’ha ucciso infilzandolo con la
punta della sua spada. A questo punto, beve la pozione e cade di peso sul suo letto dietro alle cortine del
baldacchino.

ATTO IV, SCENA III, p 298

[Entrano Giulietta e la balia]

Giulietta: “Sì, questi abiti sono i migliori. Ma, gentile balia, ti prego di lasciarmi da sola per stanotte, perché
ho bisogno di molte orazioni per chiedere ai cieli di sorridere alla mia condizione che, tu conosci bene, è
complicata e piena di peccati”.

[Entra la Signora Capuleti]

Signora Capuleti: “Come, sei impegnata, dunque? Hai bisogno del mio aiuto?”
Giulietta: “No, signora, abbiamo riunito tante cose quante sono necessarie per la condizione di domani.
Dunque, per favore, lasciatemi da sola adesso, e lasciate che la balia questa notte stia con voi, perché sono
sicura che avete le mani impegnate con tutto questo da fare improvviso”.
Signora Capuleti: “Buonanotte. Mettiti a letto e riposa, che ne hai bisogno”.
Giulietta: “Addio”.

[Escono la Signora Capuleti e la balia]

Giulietta: “Dio sa quando ci incontreremo di nuovo. Ho un timore debole freddo che mi attraversa le vene,
che quasi mi congela il calore della vita. Le richiamerò di nuovo per farmi confortare. Balia! – Cosa dovrebbe
fare qui? Ho bisogno di recitare da sola la mia calamitosa scena. Andiamo, fiala. E se questa mistura non
funzionasse per niente? Sarò sposata poi sposata domani mattina? No, no! Sarà proibito. Giaci qui.
[Appoggia un coltello] E se fosse un veleno che il frate tradendomi ha dispensato per farmi morire, per
paura di essere disonorato con questo matrimonio, perché per primo mi ha sposata con Romeo? Temo che
sia così, e ancora penso che non lo sia, perché ha sempre dimostrato di essere un santo uomo. E se quando
io giaccio nella tomba, mi sveglio prima che Romeo venga a salvarmi? Questo è un punto spaventoso. Non
mi sentirei soffocare nella cappella, nella cui bocca disgustosa non giunge un respiro d’aria pura, e lì morire
strangolata prima che il mio Romeo arrivi? O se vivo, non è davvero probabile che l’orribile immagine di
morte e notte, insieme con il terrore che incute il posto, come in una cripta, un antico sotterraneo dove per
centinaia di anni le ossa di tutti i miei antenati sepolti sono ammucchiate, dove il sanguinoso Tebaldo,
appena seppellito, giace putrefacendosi nella sua tomba, dove, come dicono, a certe ora della notte gli
spiriti resuscitano – ahimè, ahimè, non è che io, svegliandomi così presto, con odori disgustosi, e urla come
mandragore strappate alla terra, che i vivi, ascoltandole, impazzirebbero – o, se mi sveglio, non sarò
sconvolta, circondata da tutte queste odiose paure, tanto da mettermi a giocare follemente con le ossa dei
miei progenitori, e strappare lo straziato Tebaldo dal suo sudario e, in questa rabbia, con qualche grande
osso del mio parente, come con una clava, farmi schizzare il mio disperato cervello? O, guardate, mi sembra
di vedere il fantasma di mio cugino inseguire Romeo che ha trafitto il suo corpo con la punta di una spada.
Fermo, Tebaldo, fermo! Romeo, Romeo, Romeo, ecco il liquido. Io bevo a te”.

[Cade sul suo letto all’interno delle cortine]


ATTO IV, SCENA IV. Intermezzo comico realistico: in scena ci sono la balia e la signora Capuleti, con delle
spezie; si torna alla normalità dei preparativi del pranzo nuziale, per alleggerire la drammaticità della scena
precedente, satura di immagini crude e di morte. Questa scena è corale, perché appaiono anche i servi, con
le loro pratiche preoccupazioni. La signora Capuleti indugia, non vuole andare ancora a letto perché ha
molte altre cose da preparare, me nonostante ciò la balia le consiglia di andare per non essere troppo
stanca l’indomani. Anche Capuleti padre vuole essere d’aiuto, abituato a rimanere sveglio di notte per altre
questioni (con riferimento alle scorribande giovanili).

ATTO IV, SCENA IV, p. 301

[Entrano la signora Capuleti e la balia con le erbe]

Signora Capuleti: “Tieni, prendi queste chiavi e porta più spezie, balia”.
Balia: “Chiedono datteri e mele cotogne in cucina”.

ATTO IV, SCENA V. Scena di lamentazione funebre. Paride è pronto, è giù che aspetta di potersi
ricongiungere con la sua sposa, mentre la balia si reca nella stanza di Giulietta per svegliarla e farla
preparare per le nozze: all’inizio si meraviglia dell’estrema sonnolenza della giovane, che non è abituata a
dormire così tanto; sostiene che la ragazza sta anticipando il sonno che la prima notte insieme a Paride da
novella sposa le sottrarrà. Soltanto in un secondo momento, la balia si accorge che la ragazza non accenna a
svegliarsi e conclude, quindi, che è morta. La notizia viene diffusa in tutta la casa, fino ad informare Paride.
Arriva anche frate Lorenzo, che sulla scena ha un punto di vista differente, perché è l’unico a sapere che
Giulietta, in realtà, non è morta, ma spinge comunque agli altri ad una sorta di rassegnazione cristiana, ad
accettare che c’è una vita dopo la morte e che l’anima della ragazza vivrà in eterno. La scena è
completamente tragica, si fa largo uso della ripetizione, quasi come se la scena assumesse un carattere
musicale (la balia ripete spesso “che giorno doloroso”). La lettura è anche tragicomica, in quanto i
personaggi piangono una morte che non è una morte effettiva, reale. Le parole di Capuleti padre
riallacciano eros e thanatos, la morte d’amore o amore nella morte: usa un linguaggio sessuale perché
Giulietta è stata strappata alla vita dalla morte che si è personificata, ha preso il posto di Paride e l’ha
deflorata. La balia cerca di svegliare invano la ragazza, vuole che sia il conte a trovarla a letto, anche se
questo la farebbe spaventare. Dopo aver costatato che la giovane è morta, chiede dell’acqua vitae, ma non
è comprensibile se per lei o per Giulietta. Entra la signora Capuleti che si unisce alle lamentazioni della
balia. Il padre, invece, non ha ancora capito che la figlia è deceduta e si lamenta del suo ritardo di giulietta,
è vergognoso far aspettare lo sposo. Anch’egli, dopo, si aggiunge al dolore delle due donne, ma mentre le
altre piangono, lui non riesce a parlare. Giulietta è morta giovanissima, la morte l’ha deflorata
(sessualizzazione della morte) personificandosi, e adesso è suo genero e suo erede. A questo punto entrano
frate Lorenzo e il conte Paride, quindi il matrimonio si trasforma in un funerale, tutti insieme urlano,
piangono e si torcono le mani. Nel discorso di frate Lorenzo aleggia il paradosso, il termine ‘confusione’
viene usato in due modi diversi: il rimedio a questa confusione, nel senso di ‘calamità’, non vive in questa
confusione, nel senso di ‘lamenti’. Questi ultimi non serviranno da cura, non restituiranno Giulietta alla vita.
Anche il gap di conoscenza di frate Lorenzo è evidente. Capuleti osserva che ogni cosa si trasforma nel suo
contrario, tutti i preparativi della festa diventano quelli per un funerale. Frate Lorenzo dice loro che hanno
un ruolo determinante nella morte di Giulietta e che anche i cieli s’incupiscono per qualche loro colpa,
perché farebbero meglio a non intralciare più i loro piani.

ATTO IV, SCENA V, p. 304

Balia [va verso le cortine]: “Signora, come, signora! Giulietta! Veloce, ve lo garantisco, lei – Ebbene,
agnellino, ma come, signora! Vergogna, dormigliosa! Come, amore, dico io! Signora! Dolcezza! Ma come,
sposa! Cosa, non una parola? Stai sfruttando al massimo il tuo affare adesso. Dormi per una settimana,
perché la notte prossima, ve lo garantisco, il conte Paride ha puntato tutto sul fatto che riposerete poco. Dio
mi perdoni, amen. Sembra che sia addormentata. Devo svegliarla. Signora, signora, signora! Su, lasciate che
il Conte vi alzi dal letto. Vi spaventerà, in fede. Non è così? Ma come, vi siete vestita, e nei vostri abiti vi siete
di nuovo coricata? Vi devo svegliare. Signora, signora, signora! Oddio, oddio, aiuto, aiuto! La mia signora è
morta! O questo giorno che mi fa desiderare di non essere mai nata! Un po’ di acqua vitae, su! Mio signore,
mia signora!”

[Entra la signora Capuleti]

Signora Capuleti: “Che rumore c’è qui?”


Balia: “O che giorno doloroso!”
Signora Capuleti: “Che succede?”
Balia: “Guardate, guardate! O che giorno doloroso!”
Signora Capuleti: “Oddio, oddio, la mia bambina, la mia unica vita! Rinvieni, guardami, o morirò con te.
Aiuto, aiuto, chiamate aiuto!”

[Entra il signor Capuleti]

Signor Capuleti: “Che vergogna, portate Giulietta qui; il suo signore è arrivato”.
Balia: “È morta, deceduta, è morta, ahimè questo giorno!”
Signora Capuleti: “Ahimè questo giorno, è morta, è morta, è morta”.
Signor Capuleti: “O, lasciate che la veda. Oddio, ahimè, è fredda. Il suo sangue ha smesso di scorrere e i suoi
arti sono rigidi. La vita e queste labbra sono state da molto separate. La morte giace su di lei come una
brina prematura sul fiore più dolce di tutto il campo”.
Balia: “O che giorno doloroso!”
Signora Capuleti: “O che doloroso momento!”
Signor Capuleti: “La morte che l’ha presa da qui per farmi piangere, lega la mia lingua e non mi permetterà
di parlare”.

[Entrano frate Lorenzo e il conte Paride]

Frate Lorenzo: “Andiamo, è pronta la sposa per andare in chiesa?”


Signor Capuleti: “Pronta per andare, ma per ritornare mai più. O figlio, la notte prima del tuo matrimonio la
notte è giaciuta con tua moglie. Giace lì, un fiore com’era, da lei deflorata. La morte è mio genero, la morte
è mia erede, mia figlia l’ha sposata. Morirò e le lascerò tutto; la vita, il mio vivere, appartiene alla morte”.
Paride: “Ho pensato così tanto di vedere in viso questo giorno, e lui mi dona una vista del genere?”
Signora Capuleti: “Maledetto, infelice, disgraziato, odioso giorno! L’ora più miserabile che il tempo abbia
mai visto nel lungo percorso del suo fiacco viaggio! Soltanto una, una povera, una povera e amabile figlia,
l’unica cosa per cui rallegrarsi e trovare conforto, e la crudele morte l’ha cacciata via dalla mia vista.
[All’improvviso piange e si torce le mani]”.
Balia: “O dolore, o doloroso, o doloroso, doloroso giorno! Il giorno più doloroso, il più doloroso giorno di
sempre, che io abbia mai visto! O giorno, o giorno, o giorno, o giorno odioso! Non avevo mai visto un giorno
nero come questo. O giorno doloroso, o giorno doloroso!”
Paride: “Tradito, divorziato, offeso, sprezzato, ucciso! La morte più detestabile, da te tradito, da te così
crudele, da te distrutto. O amore, o vita, non vita ma amore nella morte”.
Signor Capuleti: “Disprezzato, angosciato, odiato, martoriato, ucciso! Tempo che porti tristezza, perché sei
venuto ad uccidere, uccidere la nostra solennità? O bambina, o bambina, la mia anima e non solo la mia
bambina! Sei morta, ahimè, la mia bambina è morta, e con la mia bambina le mie gioie sono sepolte”.
Frate Lorenzo: “Pace, o, vergogna! Il rimedio a questa tragedia non vive in queste agitazioni. Il cielo e voi
avevate una parte di questa bella donna; adesso il paradiso ha tutto, ed è molto meglio per lei. La vostra
parte non avete strappato dalla morte, ma il paradiso ha preso la sua parte nella vita eterna. Ciò che più
desideravate per lei era la sua elevazione sociale, perché sarebbe stato il vostro paradiso che lei si elevasse.
E ora piangete, vedendo che si è sollevata tra le nuvole, tanto in alto quando il paradiso? O, amate di un
amore così malato la vostra bambina che siete diventati matti vedendo che sta bene. Non è ben sposata
colei che vive sposata per molto tempo, ma è meglio sposata colei che muore sposata giovane. Asciugatevi
le lacrime, e spargete il vostro rosmarino su questo bel corpo, e, com’è costume, nel suo miglior abito,
portatela in chiesa; perché se la sciocca natura ci spinge al lamento, allora le sue lacrime sono motivo di
felicità”.
Signor Capuleti: “Tutte le cose che abbiamo ordinato per la festa si trasformano in un nero funerale: i nostri
strumenti in campane malinconiche, i nostri brindisi per le nozze in un triste rito di sepoltura, i nostri inni
solenni cambiano in lugubri lamenti; i fiori della sposa servono per un corpo da seppellire, e tutte le cose
cambiano nel loro contrario”.
Frate Lorenzo: “Signore, andate dentro e, signora, andate con lui. E andate, signor Paride. Ognuno si
prepari per seguire questo bel corpo nella sua tomba. I cieli sembrano più scuri su di voi per qualche colpa;
non provocateli più incrociando il loro alto volere”.

[Tutti tranne la balia vanno via, spargendo rosmarino su Giulietta e chiudendo le cortine]

[Entrano i musicisti]

Primo musicista: “In fede mia, possiamo riporre i nostri pifferi e andare via”.
Balia: “Onesti buoni ragazzi, ah, posate, posate, perché sapete bene che questo è un caso pietoso”.
Primo musicista: “Sì, ma nel mio caso, si può fare ammenda”.

[Esce la balia. I musicisti si preparano ad uscire]

[Entra Pietro]

Pietro: “Musicisti, o musicisti, ‘La pace del cuore’, ‘La pace del cuore’! O, e mi avrete vivo, suonate ‘La pace
del cuore’”.
Primo musicista: “Perché ‘La pace del cuore’?”
Pietro: “O musicisti, perché il mio cuore stesso suona ‘Il mio cuore è pieno’. O, suonate qualche felice
melodia lamentosa per confortarmi”.
Musicisti: “Nessuna melodia lamentosa! Non è il momento di suonare adesso”.
[…]

ATTO V, SCENA I. Siamo a Mantova, Baldassarre informa Romeo che Giulietta è morta. Romeo, allora,
progetta di tornare a Verona per raggiungerla, ma prima si ferma da uno speziale per acquistare un veleno
con il quale ha pensato di uccidersi sulla sua tomba. Affinità tra lo speziale e frate Lorenzo, e tra il veleno di
Romeo e la fiala soporifera di Giulietta. All’inizio di questa scena, Romeo pronuncia un monologo su un
sogno premonitore, in cui vede un futuro roseo con Giulietta, ma seppur roseo, ugualmente di morte:
sogna di essere baciato da Giulietta e di resuscitare, ma non accadrà. Segue l’incontro con lo speziale. In un
momento in cui non ne aveva ancora bisogno, Romeo aveva scorto la bottega di questo speziale
poverissimo e perciò decide di tornarci quando scopre della morte di Giulietta. Approfitta della povertà
dello speziale, che non vorrebbe venderglielo, ma così affamato e povero, deve per forza cederglielo.
Questa scena si chiude con una riflessione sul denaro e sul suo carattere negativo, perché è qualcosa che
corrompe l’uomo e lo induce anche ad azioni malvage (è stato, quindi, lui ad avvelenare lo speziale
pagandolo, e non il contrario). Introduce, poi, una riflessione sulla felicità di avere un amore ricambiato.
Prolessi: nella scena finale, Giulietta bacia davvero le labbra di Romeo quando è morto avvelenandosi,
prima di pugnalarsi. Baldassarre avverte il giovane della morte della sua amata e Romeo, furioso, chiede
inchiostro e penna per scrivere a suo padre che si è sposato, e fa testamento al suo servo fedele perché il
suo volere è quello di uccidersi. Chiede a Baldassarre di noleggiare dei cavalli perché, nella stessa notte,
lascerà Mantova per raggiungere Verona e giacere morto insieme a Giulietta.

ATTO V, SCENA I, p. 313


Romeo: “Se posso avere fiducia nella verità duratrice del mio sonno, i miei sogni presagiscono delle notizie
allegre a portata di mano. Il padrone del mio petto siede sul suo trono con leggerezza, e da tutto il giorno un
insolito spirito mi eleva dal pavimento con felici pensieri. Ho sognato che la mia signora venisse e mi
trovava morto – un sogno strano che dà ad un uomo morto adito di pensare – e mi inspirava una tale vita
con i baci sulle mie labbra che io rinascevo ed ero un imperatore. Ahimè, quanto è dolce l’amore posseduto
da se stesso, quando soltanto le sfumature dell’amore sono così ricche di gioia”.

[Entra Baldassarre, l’uomo di Romeo, in stivali]

Romeo: “Novità da Verona! Come va, Baldassarre, non mi porti lettere dal frate? Come sta la mia signora?
Mio padre sta bene? Come sta la mia Giulietta? Di cui chiedo ancora, perché niente può andar male se lei
sta bene”.
Baldassarre: “Allora lei sta bene e niente può andare male. Il suo corpo dove nella cripta dei Capuleti, e la
sua parte immortale vive con gli angeli. L’ho vista giacere nella volta dei suoi parenti, e l’ho subito lasciata
per venire a dirtelo. O, perdonatemi perché vi porto queste cattive notizie, giacché avete lasciato a me
l’affare, signore”.
Romeo: “È così, dunque? Allora vi sfido, stelle. Voi conoscete dove abito. Portatemi foglio e inchiostro, e
noleggiate dei cavalli. Sarò lì stanotte”.
Baldassarre: “Vi scongiuro, signore, abbiate pazienza. Le vostre sembianze sono pallide e sconvolte, e
questo comporta qualche disavventura”.
Romeo: “Cavolo, tu ti sbagli. Lasciami, e fa’ ciò che ti chiedo di fare. Non hai nessuna lettera per me dal
frate?”
Baldassarre: “No, mio buon signore”.
Romeo: “Non importa. Vattene, e noleggia dei cavalli. Verrò con te stanotte”.

[Esce Baldassarre]

Romeo: “Bene, Giulietta, giacerò con te stanotte. Cercherò il modo. O perdizione, sei veloce ad entrare nei
pensieri di un uomo disperato. Ricordo uno speziale, che da queste parti dimora, e che ho notato
recentemente, in stracci a brandelli, con una fronte aggrottata, raccogliendo erbe mediche. Magro era il
suo aspetto, indossava sulle ossa un’acuta miseria, e nel suo povero negozio teneva una tartaruga appesa,
un alligatore ripieno, e altre pelli di pesci dalla forma strana; e sopra i suoi scaffali una quantità miserabile
di scatole vuote, vasi di terracotta verde, vesciche e semi ammuffiti, rimanenze di spago e vecchie torte di
petali di rossa erano sparsi sottilmente per fare scena. Notando questa miseria, ho detto a me stesso ‘e se
un uomo adesso avesse bisogno di un veleno, la cui vendita è morte istantanea a Mantova, qui vive un
miserabile disgraziato che potrebbe venderglielo’. O, questo stesso pensiero non faceva che alimentare la
mia necessità, e questa stesso uomo bisognoso doveva vendermelo. Per quel che ricordo, questa dovrebbe
essere la casa. Essendo festa, il negozio del mendicante è chiuso. Hei, là, hei speziale!”

[Entra lo speziale]

Speziale: “Chi chiama così forte?”


Romeo: “Vieni qui, uomo. Vedo che sei povero. Tieni, qui ci sono quaranta ducati. Lasciami avere un po’ di
veleno, così veloce nell’azione da circolare attraverso tutte le vene, tanto che colui che stanco della vita lo
prende possa cadere morto, e tanto che la gola possa essere priva di respiro sparato fuori così
violentemente come la frettolosa polvere scappa via dalla fatale canna di un cannone”.
Speziale: “Ho una droga così letale, ma la legge di Mantova prevede la morte per chiunque la vende”.
Romeo: “Tu sei così nudo e pieno di disgrazia, e hai paura di morire? La carestia è sulle tue guance, la
povertà e l’oppressione affamano i tuoi occhi, il disprezzo e la mendicanza pendono dalla tua schiena, il
mondo non è tuo amico, né la legge del mondo; il mondo non ti offre nessuna legge per renderti ricco, allora
non essere povero, ma infrangila e prendi i soldi”.
Speziale: “La mia povertà ma non la mia volontà acconsente”.
Romeo: “Io pago la tua povertà e non la tua volontà”.
Speziale: “Metti questo in qualsiasi cosa liquida vorrai e bevilo tutto; e se anche avessi la forza di venti
uomini, ti distruggerebbe subito”.
Romeo: “Qui c’è il tuo oro, il peggior veleno per l’anima degli uomini, che commette più assassini in questo
ripugnante mondo di quanti ne faccia questa droga che non potresti vendere. Io ti vendo il veleno; tu non
me ne hai venduto. Addio, compra del cibo, e metti peso”.

[Esce lo speziale]

Romeo: “Andiamo, bontà e non veleno, vieni con me alla tomba di Giulietta, per la quale io devo usarti”.

20.04.2021

ATTO V, SCENA I. Ci troviamo a Mantova dove Romeo è stato bandito, dove lui fa un sogno
apparentemente positivo, ma che è anche un preannuncio di morte, dove lui moriva e veniva resuscitato da
un bacio di Giulietta, ma che non andrà così. Lui non capisce questa previsione. Ricordiamo il discorso con
Mercutio sui sogni, dove diceva che erano un’illusione, che i sognatori mentono secondo Mercutio, mentre
Romeo ha una visione più positiva. E così nel suo sogno fa una sorta di previsione, anche se non avrà una
buona fine. Moriranno entrambi, c’è una sacralizzazione dei giovani, verranno erette delle statue in loro
memoria, dove verranno in qualche modo “eternalizzati” in questo senso.
Tema dello speziale: va a prendere del veleno, dopo la notizia appresa da Balthasar, che Giulietta era
morta, e Romeo non può vivere senza di lei. Andrà a comprare del veleno che è illegale, si basa
sull’indigenza estrema dello speziale, cercando di convincerlo nel vendergli il veleno. Conclude il discorso
con un paradosso: “non sei stato tu a vendermi il veleno, bensì io”, comprandolo con i soldi, che è il vero
veleno, perché lo speziale non voleva, ma aveva esigenza perché era povero. Tipico in Shakespeare il
discorso dei soldi, il povero è costretto a vendere uno strumento di morte, altrimenti morirebbe di fame,
riflessione sull’ingiustizia sociale, dei poveri che non hanno un’indipendenza e non possono fare quello che
vogliono. È vero che il denaro è oggetto di scambio, ma qualora si sia poveri, si trasforma in veleno. Solo
alla fine gli intrecci si ritrovano, ma con conseguenze fatali.
Al v. 17 Balthasar dice: “Then she is well, and nothing can be ill” ci sono due Giuliette: una dorme, dal pdv di
balthasar è un eufemismo, perché lei dorme, ma è morta. Ci sono due piani narrativi attivi in questo
momento: morta, ma effettivamente dorme. La sua parte immortale, l’anima, vive con gli angeli, ossia la
sua parte migliore. C’è un sonetto di Shakespeare in cui descrive che i suoi sonetti sono come la sua anima,
sono lo specchio suo, la sua parte migliore. Fra Giovanni non riesce a portare la lettera perché fu fermato
per quarantena (aveva incontrato la peste andando a visitare dei malati, così gli ufficiali di Mantova hanno
preferito non farlo uscire dalla struttura).

- I defy you, stars! > ribellione nei confronti del destino. Romeo scriverà una lettera al padre su quel che è
accaduto, del matrimonio e di un testamento a favore di Balthasar > grazie a questo elemento gli intrecci si
risanano. Baldassarre si preoccupa delle azioni di Romeo. Egli, inoltre, si domanda se ha la lettera da parte
del Frate, ma non gli arriva la vera lettera che gli dice che Giulietta non era morta. (Frate Giovanni era
incaricato di portare la lettera di Romeo, ma venne bloccato per quarantena a Mantova).
ROMEO: Well, Juliet, I will lie with thee to-night. > sia in senso sessuale che in senso letale, ma anche
erotico: si baciano a vicenda, necrofilia. Gli inner thoughts di Romeo sono per capire come rientrare a
Verona visto che è stato esiliato.
I do remember an apothecary simmetria della scena, con Giulietta che va da frate Lorenzo per la pozione –
analogia delle due scene. Solo che per Giulietta sarà una morte fittizia.
Romeo nella descrizione dello speziale mostra la completa miseria del venditore, ciò si ricollega ai versi 76-
86 dello stesso scambio di battute. “In stracci lacerati, con la fronte aggrottata” sono segni di povertà e
disperazione, “Il suo sguardo era scavato. L’acuta miseria lo aveva ridotto a pelle e ossa.” si capiva che era
povero anche dal suo negozio il quale significa morte, appunto per gli animali morti.
Cannon’s womb > metafora, personificazione del cannone, con il grembo di morte, cenere, a cui si ritorna).
Anima che si allontana dal corpo come la palla dal cannone. Analogia con Hamlet con il veleno e la
stanchezza di vivere, motivo specifico in Romeo & Juliet, con il motivo per cui si è stanchi di vivere. Hamlet
vuole suicidarsi per la morte del padre. Stanchezza di vivere protoesistenziale -> Hamlet.
La vendita di veleno mortale a Mantova è illegale > lo speziale muore, lo dirà Brooks, qui invece non viene
menzionata la sua fine.
I pay thy poverty, and not thy will I sell thee poison; thou hast sold me none. > paradosso: piano letterale e
figurato messi a confronto, sullo stesso livello discorsivo veleno: denaro.
Come, cordial and not poison, go with me To Juliet’s grave; for there must I use thee > il cordiale serve per
quando si sta per svenire, la tomba di Giulietta è la personificazione del veleno.

ATTO V, SCENA II. Frate Lorenzo e Frate Giovanni, che appartengono all’ordine dei frati francescani, non sa
che la lettera di fra Giovanni non è arrivata a destinazione, tema dello sliding door, degli imprevisti, con lo
scollamento temporale che determina la tragedia. Frate Giovanni non conosce l’importanza di questa
lettera. Facendo visita di infermi, potevano contagiarsi, così gli ufficiali di Mantova hanno deciso di isolarli.
Fra Giovanni non sa nemmeno cosa ci sia scritto nella lettera. Frate Lorenzo ancora non pensa al peggio, è
soltanto preoccupato che Giulietta possa svegliarsi in quella tomba e spaventarsi, e che Romeo non abbia
avuto notizia della sua morte momentanea. Ambivalenza di vita e morte, resa dalle erbe di Frate Lorenzo.

21.04.2021

Lingua di Shakespeare. Esiste una Shakespearian Grammar, del 1870, tutt’ora valida. C’erano alcuni
elementi differenti, come il pronome personale tu e voi separato, thou e thee, invece di you utilizzato per
entrambe le persone. C’era il pronome possessivo Thy e Thyne, nonostante l’uso non era coerente, non era
normativa come oggi. Poi abbiamo per il plurale you come soggetto e ye come oggetto e complemento
indiretto, ma anche qui non c’è un uso coerente. Il tu e il voi, corrisponde come l’italiano, thou è più
formale, e thee più informale. Ma questa differenza di grado non è sempre utilizzata. Esiste la differenza,
ma il suo uso non è sempre coerente. La seconda persona singolare ha la desinenza est, st alla fine dei
verbi. Questa desinenza differisce negli ausiliari tipo art, wilt, dost ecc. la s della terza persona singolare,
alcune volte è usata anche al plurale, altri casi abbiamo il th, es. does – doth. Ere, ad esempio lo si trova
ancora nell’800, che sta per before, methink, acaught. La lingua era instabile non solo nel parlato, ma anche
nella scrittura, dove capitava che una parola poteva essere scritta in più modi, era normale per il tempo,
che i libri non erano ancora molto diffusi, ma regnava ancora la trasmissione orale, man mano si
regolarizza, e tenderà anche a regolarizzarsi la punteggiatura. Il compito dell’editore era anche quello di
modernizzare un’opera. Man mano c’è un leggero intervento da parte dell’editor, e lo spelling verrebbe
leggermente modernizzato. Punteggiatura ed ortografia verrebbero modificate ogni tanto, per renderle
comprensibili al giorno d’oggi. Ma le vecchie edizioni sono sempre disponibili per gli studiosi. Persino
Shakespeare scriveva il suo cognome in diversi modi, ha lasciato testamenti, cause legali firmandosi con la
a, o senza la e ecc.

ATTO V, SCENA III. Ultima scena di Romeo e Giulietta, della doppia morte, del doppio suicidio che consiste in
una specularità, prima l’avvelenamento e poi la pugnalata di Giulietta. C’è solo una leggera dissimmetria:
Romeo pensa che Giulietta sia morta, uccidendosi veramente a sua volta. Di conseguenza, Giulietta si
pugnala: sono indispensabili l’uno per l’altra. Solo con una morte apparente si ha la morte vera dell’altro.
Come Piramo e Tisbe.

Tema sacrificale: viene ristabilita la pace tra le loro famiglie, ma questo viene gradualmente. Il rapporto tra
la loro morte e la ricomposizione successiva è tipico. Nelle tragedie barbariche sono tipiche scene dedicate
al sacrificio. Le carneficine portano pace, come Romani e Goti (tragedie greche, dilaniamento e
smembramento dei corpi, morte necessaria per rigenerare la pace). In Romeo e Giulietta il tema è più
indiretto ovviamente. Rimane solo sul piano simbolico, rimane nella struttura narrativa, non è un fattore
esplicito nell’opera. Non si può dire che la loro morte è stata necessaria, ma quantomeno una presa di
coscienza da parte delle loro famiglie, e che quindi non è stato qualcosa di casuale. Possiamo pensare che la
loro morte casuale porti alla pace, oppure che sia necessaria ad essa. Questa struttura narrativa la troviamo
in Shakespeare, c’è sempre una morte, a cui segue una rigenerazione della collettività. Segue il tema del
capro espiatorio, tipico nelle culture arcaiche, ma che svanisce dal livello semantico, resta solo nella
struttura narrativa. Il tema è esplicito solo nella sua prima opera, Tito Andronico. In Hamlet, con diverse
morti si ricompone l’ordine in Danimarca. Non che il governo sarà migliore di quello precedente, ma che
comunque sarà necessario. Romeo si fa accompagnare dal suo servo, ha bisogno di manodopera per aprire
la cripta di Capuleti, ma non vuole che lui assista, dopo che lo ha aperto, deve andarsene per non fargli
impedire di compiere l’azione finale. La scena si può dividere in tre parti principali:

 vv. 1 – 147: Romeo prende il veleno e si suicida nel vedere Giulietta morta. Uccide Paride, che stava
a portare dei fiori a Giulietta. Ci sarà un duello tra Paride e Romeo. Analogia Hamlet: oltre al veleno,
c’è il duello come nella graveyard scene dov’è sepolta Ophelia, duello con Laherte. Tema sacrificale:
personificazione come la morte divoratrice, come la morte che deflora per Capuleti. La morte che si
ciba dei corpi degli uomini, “affamato cimitero”, la terra si ciba degli uomini. Questo tema ci porta
nella dimensione sacrificale e spiritualistica, che si sacrifica per produrre una nuova vita.
Meccanismo continuo di vita e di morte.
 vv. 148 – 170: Giulietta si risveglia, vede lui morto. Vuole morire anche lei, non può vivere senza di
lui. Lui non avrebbe mai potuto pensare fosse morta davvero. La sua morte apparente porta la
morte vera per lui, e a seguire la sua morte vera, lei si trafigge il petto, quindi la conduce a morte
vera. Il pugnale decise di portarlo prima, perché se qualcosa andasse male, lo avrebbe utilizzato, ma
in realtà ha utilizzato quello di Romeo, poiché non aveva trovato del veleno. Specularità delle morti,
come Piramo e Tisbe, dove lei non è morta, Piramo la vede insanguinata pensandola morta per il
leone, e nella convinzione che lei sia morta, lui si uccide. E Tisbe al vedere Piramo morto, si
ammazza a sua volta. Umberto Curi analizza questo mito molto particolare, non era facile trovare
questo intreccio di un suicidio singolo uno dietro l’altro, con una prima delle due morti apparenti,
all’inizio. Specularità anche nel loro amore: senza l’altro non si può vivere.
 vv. 171 – fine: epilogo. Le famiglie vengono informate, sorpresi nel sapere che Giulietta non era
morta davvero. Restano nella scena Frate Lorenzo e Baldassare con tutte le lettere, con le loro
testimonianze pronti a colmare quei gaps presenti nella storia. Il resoconto viene confermato alla
fine, anche di quella lettera di Romeo che scrisse per il padre, e provvede anche al futuro di
Baldassarre. Hanno una funzione testimoniale come Horatio in Hamlet, per permettere la
ricostruzione degli eventi. Il gap di conoscenza si annulla grazie a loro. Il sacrificio dei giovani si è
rivelato necessario per ristabilire la pace nelle loro famiglie. Entreranno nella dimensione del sacro,
poiché verranno erette le statue a Verona in memoria loro. Girar - Convergenza violenza e sacro:
criminale uccidere la vittima, ma la vittima non sarebbe sacra se non la si uccidesse.

ATTO V, SCENA III, p. 320

[Entrano il conte Paride e il suo paggio con dei fiori, acqua dolce e una torcia
]

Paride: “Dammi la tua torcia, ragazzo. Via da qui, e mantieni un po’ di distanza. Anzi, spegnila, perché non
voglio essere visto. Sotto quegli alberi di tasso laggiù stenditi in lungo, tenendo teso l’orecchio alla terra
vuota. Così nessun piede calpesterà il cimitero, essendo vivo, sconvolto dallo scavo delle tombe, che tu non
potrai sentire. Allora fammi un fischio, come segnale che hai avvertito qualcosa avvicinarsi. Dammi questi
fiori. Fa’ come ti chiedo, vai”.
Paggio [a parte]: “Sono così spaventato di aspettare da solo qui nel cimitero, che mi avventurerò. [Si ritira]”

[Paride cosparge la tomba di fiori]


Paride: “Dolce fiore, di fiori il tuo letto nuziale io cospargo, o dolore, il tuo baldacchino è di polvere e pietre,
che con acqua dolce tutte le notti inzupperò, o, volendo, con lacrime distillate dai lamenti. Le esequie che
terrò per te, tutte le notti saranno cospargere la tua tomba e piangere. [Il paggio fischia] Il ragazzo mi sta
avvertendo che qualcosa si avvicina. Quale maledetto piede percorre questa strada stanotte, per incrociare
le mie esequie e il rito del vero amore? Come, con una torcia? Avvolgimi, notte, per un po’. [Si ritira]”.

Paride vuole piangere e rendere onore a quella che avrebbe dovuto essere la sua sposa; si è recato alla sua
tomba e sente dei rumori, così si nasconde. Ha cosparso la sua bara con dei fiori, trasformando il loro
matrimonio nel suo funerale. Nel frattempo, anche Romeo si sta facendo accompagnare da Baldassarre,
nella cripta, per ricongiungersi a Giulietta. Come anticipato, il tema della lettera è molto importante,
ricorrente in tutta la tragedia, a partire dall’invito della festa a quella del testamento, perché genera l’esito
tragico del finale.

[Entrano Romeo e Baldassarre con una torcia, una zappa e un corvo di ferro]

Romeo: “Dammi la zappa e il piede di porco. Tieni, prendi questa lettera. Domattina presto vedi di spedirla
al mio signore e padre. Dammi la luce. Sulla tua vita ti ordino, qualunque cosa tu abbia sentito o visto, di
restare distante, e di non interrompermi nel mio corso. Il perché io discendo in questo letto di morte è in
parte per vedere il viso della mia signora, ma prima di tutto per portare via dal suo morto dito un prezioso
anello, un anello che devo usare per un affare importante. D’ora in poi da qui, va’ via. Ma se tu, sospettoso,
ritorni a spiarmi per vedere cos’altro intenderò fare, per il cielo, ti strapperò giuntura per giuntura e
cospargerò questo cimitero scarno con i tuoi arti. Il tempo e le mie intenzioni sono assolutamente feroci, più
feroci e più inesorabilmente lontane di quelle di tigri affamate o del mare ruggente”.
Baldassarre: “Sarò andato, signore, e non ti darò problemi”.
Romeo: “Così mi dimostrerai la tua amicizia. Prendi questi. [Gli dà denaro] Vivi e sii prospero, e addio, buon
compagno”.
Baldassarre [a parte]: “Per tutto questo, mi nasconderò nei dintorni. Temo il suo sguardo, e dubito delle sue
intenzioni”.

[Si ritira e Romeo apre la tomba]

Romeo: “Tu gola detestabile, tu grembo di morte, rimpinzata con il boccone più caro della terra, così io
forzo le tue mascelle marce ad aprirsi, e anche se sei già pieno ti riempirò ancora di cibo”.
Paride [a parte]: “Questo è quell’orgoglioso bandito Montecchi che ha ucciso il cugino del mio amore, con il
cui dolore si suppone che la bella creatura sia morta, e qui è venuto per compiere qualche villana vergogna
sui corpi morti. Lo arresterò [Cammina verso di lui]. – Ferma il tuo lavoro sconsacrato, vile Montecchi! Può
la vendetta essere perseguita più della morte? Villano condannato, ti arresto. Obbediscimi e vieni con me,
perché devi morire”.
Romeo: “Infatti devo, e perciò sono venuto qui. Buon gentile giovane, non tentare un uomo disperato. Vai
via da qui e lasciami. Pensa a questi morti e lascia che ti spaventino. Ti scongiuro, giovane, non porre un
altro peccato sulla mia testa istigandomi alla furia. O, va via! Per tutti i cieli, ti amo più di me stesso, che
sono venuto qui armato contro me stesso. Non restare, va’ via; vivi, e dopo dici che la pietà di un uomo
matto ti ha chiesto di correre via”.

Thou detestable maw, thou womb of death > ricorda una bocca che mangia i morti, la terra è madre, ma
inghiotte anche le sue creature. Metonimia, è marcio ciò che la tomba ha ingoiato, non le mascelle in sé, la
metonimia sostituisce la causa con l’effetto. Paride ritarda leggermente la sua morte, perché lo incontra e si
imbatte in lui, Paride costringe Romeo a battersi, che morirà. Paride non saprà mai che Giulietta non è
morta veramente, perché morirà prima, quindi non avrà il quadro della fabula chiaro. Romeo è costretto ad
addossarsi la colpa anche della sua morte.
I must indeed > il ‘die’ è sottinteso, Paride intende che Romeo deve morire per quello che sta facendo,
mentre Romeo intende che deve raggiungere Giulietta.

Paride: “Io sfido la tua solenne supplica e ti arresto perché qui sei un villano”.
Romeo: “Mi provocherai? Allora prendi questo, ragazzo!”

[Combattono]

Paggio: “O signore, combattono. Andrò a chiamare la guardia”.


Paride: “O, sono ucciso! Se sei pietoso, apri la tomba, fammi giacere con Giulietta”.

[Paride muore]

Romeo: “In fede, lo farò. Lasciami esaminare questo viso. Il parente di Mercuzio, il nobile conte Paride!
Cosa ha detto il mio uomo quando la mia anima in tumulto non l’ha ascoltato mentre cavalcavamo? Penso
mi abbia detto che Paride avrebbe dovuto sposare Giulietta. Non ha detto così? O l’ho sognato? O sono
ammattito, ascoltandolo parlare di Giulietta, da pensare che era così? O, dammi la tua mano, scritta con la
mia nell’amaro libro della sfortuna. Ti seppellirò in una tomba trionfante. Una tomba – O, no, una lanterna,
giovane massacrato, perché qui giace Giulietta, e la sua bellezza rende questa cappella una festosa
presenza piena di luce. Morte, giaci lì, interrata da un uomo morto. Quanto spesso, quando gli uomini sono
sul punto di morire, sono stati felici, al punto tale che i loro guardiani lo chiamano la felicità prima della
morte. O, come posso chiamarla felicità? O mio amore, mia moglie, Morte, che ha succhiato il miele del tuo
respiro non ha ancora il potere sulla tua bellezza. Non ti ha conquistata. La bandiera della bellezza è ancora
cremisi sulle tue labbra e sulle tue guance, e la pallida bandiera della morte non è ancora arrivata lì.
Tebaldo, giaci tu qui nella tua distesa di sangue? O, quale altro favore posso farti se non con quella mano
che ha tagliato la tua giovinezza in due tagliare la sua che era tua nemica? Perdonami, cugino! Ah, cara
Giulietta, perché sei ancora così bella? Crederò che la morte inconsistente sia amorevole, e che lo scarno
aborrito mostro ti tiene qui nel buio per essere la sua amante? Per paura di questo resterò sempre con te e
non andrò mai più via da questo palazzo della notte buia. Qui, qui io rimarrò con i vermi che sono le tue
ancelle. O, qui io stabilirò il mio riposo eterno, e scuoterò il giogo delle malaugurate stelle da questa carne
vessata dal mondo. Occhi, guardatela un’ultima volta; braccia, abbracciatela un’ultima volta, e labbra, o voi
che siete le porte del respiro, sigillate con un bacio virtuoso il contratto senza scadenza con la morte che
divora. Vieni, amaro veleno, vieni, guida sgradevole. Tu disperato pilota, adesso in una sola volta fai
infrangere sulle rocce affilate la tua barca sfinita dal mare! Questo è per il mio amore [Beve]. O caro
speziale, i tuoi veleni sono veloci. Così con un bacio io muoio [Cade e muore]”.

In questa ode si rivolge sia a Giulietta (la cui bellezza è rimasta intatta), a Tebaldo (è morto) e alla morte. I
loro destini sono segnati, la tomba sarà illuminata dalla bellezza di Giulietta, ecco perché sarà gloriosa, c’è
un paradosso, un morto vivente che seppellisce un morto – Romeo. La morte non ha ancora avuto potere
sulla tua bellezza perché ovviamente Giulietta è ancora viva. Paradosso: cimitero affamato, la morte
affamata, che è innamorata di Giulietta. Queste allusioni sessuali le fece anche il padre Capuleti, della
morte che deflorava Giulietta. La morte, essendo innamorata di Giulietta, non ha voluto infierire sulla sua
bellezza. Romeo, a maggior ragione deve uccidersi: è geloso, deve proteggerla.

v. 112, si rivolge alle sue parti del corpo personificate.

v.116, un’ulteriore immagine di morte, una barca che si scontra contro gli scogli, immagine ripresa, del
capitano che si scontra negli scogli.

Frate Lorenzo è arrivato sul luogo, teme per Giulietta, ma non sa che Romeo sta per uccidersi, non
immagina nemmeno che sia arrivato lì. Arriva lì per salvarla. Incontra Balthasar, e lo informa che Romeo è lì,
e si preoccupa ancora di più. Baldassarre aveva detto a Romeo del matrimonio di Giulietta con Paride,
ma lui non aveva prestato attenzione più di tanto.
[Entra frate Lorenzo con una lanterna, il piede di porco e una spada]

Frate Lorenzo: “San Francesco assistimi! Quanto spesso questa notte i miei vecchi piedi sono inciampati
nelle tombe. Chi va là?”

[Baldassarre si avvicina]

Baldassarre: “Qui c’è un uomo, un amico, uno che tu conosci bene”.


Frate Lorenzo: “La gratitudine sia su di te! Dimmi, mio buon amico, che torcia è quella laggiù che
vanamente presta la sua luce alle larve e agli scheletri senza occhi? Da come distinguo, brucia nella cappella
dei Capuleti”.
Baldassarre: “Lo fa, santo signore, e lì c’è il mio capo, uno che ami”.
Frate Lorenzo: Chi è?”
Baldassarre: “Romeo”.
Frate Lorenzo: “Da quanto tempo è qui?”
Baldassarre: “Un’ora e mezza piena”.
Frate Lorenzo: “Vieni con me nella cappella”.
Baldassarre: “Non oso, signore. Il mio capo sa che sono andato via da qui, e paurosamente mi ha
minacciato di morte se fossi rimasto a vedere le sue intenzioni”.
Frate Lorenzo: “Resta allora, andrò da solo. La paura viene con me. O, molto temo qualche cattiva dannosa
cosa”.
Baldassarre: “Quando ho dormito qui sotto questo albero di tasso, ho sognato che il mio capo e un altro
combattevano, e che il mio capo lo uccideva”.
Frate Lorenzo: “Romeo! [Il frate si ferma e guarda il sangue e le armi] Ahimè, ahimè, che sangue è questo
che stagna l’entrata di pietra di questo sepolcro? Cosa significano queste spade cruente senza il loro capo
che giacciono coperte di sangue in questo posto di pace? Romeo! O, pallido! Chi altri? Cosa, anche Paride, e
intriso di sangue? Ah, quale ora malevola è colpevole di questo lamentevole evento! La ragazza si agita”.

[Giulietta si sveglia]

22.04.2021

ATTO V, SCENA III, p.329, vv. 148-fine

Giulietta: “O rassicurante frate, dov’è il mio signore? Ricordo bene dove dovrei essere, e sono qui. Dov’è il
mio Romeo?”
Frate Lorenzo: “Ho sentito dei rumori. Signora, scendi da quel nido di morte, di contagioso e innaturale
sonno. Un grande potere che possiamo contraddire ha ostacolato i nostri intenti. Vieni, vieni via. Tuo marito
lì sul tuo petto giace morto, e anche Paride. Vieni, ti sistemerò in una confraternita di sacre monache. Non
restare impalata, che la guardia sta arrivando. Vieni, andiamo, buona Giulietta. Non oso restare oltre”.

[Esce il frate]

Giulietta: “Vai, allontanati da qui, che io non verrò via. Cos’è successo qui? Una fiala stretta nella mano del
mio vero amore? Veleno, io vedo, è stata la sua fine precoce. O miserabile, l’hai bevuto tutto, e non hai
lasciato neanche un’amichevole goccia per aiutarmi dopo? Ti bacerò le labbra. Forse un po’ di veleno
ancora pende da esse per aiutarmi a morire con ristoro. [Lo bacia] Le tue labbra sono calde!”

[Entrano il paggio di Paride e le guardie]

Capo delle guardie: “Guidaci, ragazzo. Qual è la strada?”


Giulietta: “Cosa, rumore? Allora sarò rapida. O felice pugnale! [Prende il pugnale di Romeo]. Questa è la
tua guaina; qui arrugginisci, e lasciami morire [Si pugnala, cade e muore]”.
Il piano di Frate Lorenzo non è andato a buon fine: si ricordino la Tragedy of character e la Tragedy of fate,
che in questo caso ha preso il sopravvento, perché sono eventi che non si possono controllare. Giulietta
non osa andar via con Frate Lorenzo, sebbene sappia che Romeo è morto e se ne rende conto poco dopo.

Il bacio di Giulietta a Romeo è un bacio di addio, ma anche di necrofilia che pervade tutto il dramma. Die si
usa anche per indicare il raggiungimento del piacere carnale. Giulietta nota il pugnale nella guaina sul fianco
di Romeo, lo prende e si uccide (immagine già prevista).

Questa è la tua guaina, arrugginisci qua e lasciami morire (si riferisce al suo petto) -> rimanda all’amplesso
sessuale, pugnale come simbolo fallico che penetra il suo petto, che è una guaina. C’è scritto “ rust”, ma non
sappiamo se c’è stato un errore di trascrizione o un ripensamento di Shakespeare su “rest”.

Inizio terza parte. La tragedia può considerarsi conclusa. Sono morti i protagonisti. Ora c’è l’epilogo, con
una doppia funzione: prima di informare il resto dei personaggi (perché hanno gap di trama), gli intrecci si
congiungeranno finalmente, ci saranno valutazioni, colpe da ammettere, Escalo giudicherà chi sarà
colpevole e che punizione dargli, infine c’è la pace tra Montecchi e Capuleti. Una pace sancita anche da due
statue d’oro per onorare la memoria di Romeo e Giulietta. La loro morte li collocano anche nella
dimensione sacra, di ricordo e di venerazione nei loro confronti. Finché si ricorderanno di Verona, si
ricorderanno anche della città di Romeo e Giulietta, archetipi dell’amore innocente, c’è consapevolezza del
futuro dei loro nomi, che si ricorderanno in eterno, grazie a questa opera. Shakespeare scriveva per essere
acclamato, ma anche per essere ricordato, e proprio perché Romeo e Giulietta verranno ricordati ci
suggerisce che sarà trasmesso per sempre, essendo anche opere da leggere. Stessa cosa per Troilo come
archetipo di uomo fedele, Clessira come donna volubile ecc. i personaggi celebrano loro stessi ma anche
che il loro ricordo sia trasmesso alle generazioni future.

Paggio: “Questo è il posto, lì dove la torcia illumina”.


Capo delle guardie: “Il pavimento è coperto di sangue. Cercate nel cimitero. Andate, qualcuno tra voi;
chiunque trovate, attaccatelo”.

[Escono alcune guardie]

Capo delle guardie: “Che vista pietosa! Qui giace ucciso il Conte, e Giulietta sanguinante, calma e morta da
poco, che qui è giaciuta sepolta negli ultimi due giorni. Andate, ditelo al Principe, correte dai Capuleti,
svegliate i Montecchi. Qualcun altro cerchi ancora. [Escono altre guardie] Vediamo il terreno dove giacciono
questi dolori, ma le vere ragioni di tutti questi dolori pietosi non possiamo vedere senza discernere le
circostanze”.

Doppio uso di ground per due significati diversi, poliptoto > terreno, ragioni per cui (true ground). I prossimi
personaggi hanno una funzione da testimoni, sono sospettati.

[Entra Frate Lorenzo e un altro uomo della guardia]

Terza guardia: “Qui c’è un frate che trema, sospira e piange. Abbiamo preso questo piccone e questa spada
da lui che stava venendo da questo lato del cimitero”.
Capo delle guardie: “Un grande sospettato! Arrestate anche il frate”.

[Entrano il Principe e gli assistenti]

Principe: “Che sventura si è sollevata così presto, che sveglia la nostra persona dal nostro riposo
mattutino?”

[Entrano il signore e la signora Capuleti]

Signor Capuleti: “Cosa sarebbe accaduto da gridare così tanto?”


Signora Capuleti: “O, le persone per strada gridano ‘Romeo’, alcuni ‘Giulietta’, e alcuni ‘Paride’, e tuti
corrono a grandi grida verso la nostra cappella”.
Principe: “Che paura è questa che colpisce ne vostre orecchie?”
Capo delle guardie: “Signore, qui giace il conte Paride morto, e Romeo morto, e Giulietta, morta prima,
calda e nuovamente uccisa”.
Principe: “Cercate, guardate, e scoprite chi ha commesso questo orribile omicidio”.
Capo delle guardie: “Qui c’è un frate, e il servo di Romeo ucciso, che hanno portato con loro degli strumenti
per aprire le tombe di questi uomini morti”.
Signor Capuleti: “O cielo! O moglie, guarda la nostra bambina sanguina! Questo pugnale si trova nel posto
sbagliato, poiché ecco, il suo fodero è vuoto sulla schiena di Montecchi, ed è custodito nel petto di mia
figlia”.
Signora Capuleti: “Ahimè, la vista della morte è come una campana che guida la mia vecchia età al
sepolcro”.

[Entrano il signor Montecchi e gli assistenti]

Principe: “Venite, Montecchi, perché vi siete svegliato presto per vedere vostro figlio ed erede adesso per
terra così presto”.
Signor Montecchi: “Ahimè, mio signore, mia moglie è morta stanotte; il dolore per l’esilio di mio figlio ha
fermato il suo respiro. Quale altro dolore cospira contro la mia età?”
Principe: “Guardate, vedere voi stesso”.
Signor Montecchi: “O tu screanzato! Che modo è questo, di affrettarti prima che di tuo padre alla tomba?”
Principe: “Chiudete la bocca della disperazione per un momento, fino a che possiamo chiarire queste
ambiguità e conoscerne l’origine, il loro corso, il loro vero sviluppo, e poi sarò il generale dei vostri dolori e vi
guiderò anche fino alla morte. Nel frattempo, trattenetevi, e lasciate che la sfortuna sia schiava della
pazienza. Portate avanti i sospettati”.
Frate Lorenzo: “Io sono il più grande, capace almeno, ed il più sospettato, in quanto il tempo ed il luogo
sono contro di me, per questo terribile omicidio. E qui io sto, sia per difendermi che per purificarmi,
condannare me stesso e me stesso scusare”.
Principe: “Dicono che tu sappia ciò che è accaduto”.

Frate Lorenzo ha una funzione testimoniale che serve a sanare un gap conoscitivo, che solo il pubblico
conosce, ciò che ha agito sulla scena, ora si trasforma in racconto, simile alla funzione di Horatio
nell’Amleto, con la sua funzione testimoniale che deve raccontare ai personaggi. Frate Lorenzo dirà tutto
quello che sa e che si immagina, ad esempio il suicidio di Giulietta.

Frate Lorenzo: “Sarò breve, perché il breve tempo del mio respiro non è lungo quanto questo tedioso
racconto. Romeo, qui morto, era marito di Giulietta, e lei, qui morta, è la fedele moglie di Romeo. Li ho
sposati, e il loro rapito giorno del matrimonio è stato il giorno del giudizio di Tebaldo, la cui prematura
morte ha bandito il fresco sposo da questa città; per il quale, e non per Tebaldo, Giulietta soffriva. Voi, per
rimuovere quella carica di dolore da lei, l’avete promessa e l’avrete sposata forzatamente al conte Paride.
Allora è venuta da me, e con occhi ferini mi ha chiesto di trovare un modo per sbarazzarsi di questo secondo
matrimonio, o lì nella mia cella si sarebbe uccisa. Così le ho dato, istruito dalla mia arte, una pozione
soporifera, che le ha portato l’effetto che volevo, tanto che le ho impresso la forma della morte. Nel
frattempo, ho scritto a Romeo che sarebbe dovuto venire qui in questa terribile notte per aiutarmi a
portarla fuori dalla sua tomba prestata, essendo giunto il tempo in cui la forza della pozione sarebbe
cessata. Ma colui che portava la mia lettera, frate Giovanni, è stato fermato da un incidente, e ieri notte la
mia lettera è tornata indietro. Allora, tutto solo, all’ora prefissata del suo risveglio sono venuto a prenderla
dalla cripta della sua famiglia, con l’intenzione di tenerla più vicina alla mia cella in modo da poterla
convenientemente inviarla da Romeo. Ma quando sono arrivato, qualche minuto prima del suo risveglio, qui
prematuramente giacevano il nobile Paride e il leale Romeo morti. Lei si sveglia, e l’ho supplicata di venire
qui e sopportare il volere del cielo con pazienza. Ma poi un rumore mi ha spaventato dalla tomba, e lei,
troppo disperata, non ha voluto venire con me, e, da ciò che sembra, ha reso violenza a se stessa. Questo è
tutto ciò che conosco, e del matrimonio la sua balia è informata; e se ho una colpa in tutto questo, lasciate
che la mia vecchia vita sia sacrificata qualche ora prima del suo tempo sotto il rigore della legge severa”.
Principe: “Ti abbiamo sempre conosciuto come un uomo santo. Dov’è l’uomo di Romeo? Cosa può dire di
tutto questo?”
Baldassarre: “Io ho portato al mio signore notizie della morte di Giulietta, e poi in fretta è venuto da
Mantova in questo stesso posto, in questa stessa cappella. Questa lettera mi ha chiesto di far recapitare
presto a suo padre, e mi ha minacciato di morte, se fossi andato nella cripta, se non fossi andato via e
l’avessi lasciato lì”.
Principe: “Dammi la lettera; la guarderò. Dov’è il paggio del Conte che ha svegliato la guardia? Dimmi, cosa
ci faceva il tuo signore in questo posto?”
Paggio: “È venuto con dei fiori da cospargere sulla tomba della sua signora, e mi ha chiesto di restare a
distanza, e così ho fatto. D’un tratto qualcuno con una luce è venuto per aprire la tomba, e subito il mio
signore ha cacciato la spada e poi sono corso via a chiamare la guardia”.
Principe: “Questa lettera conferma le parole del frate, la loro storia d’amore, le notizie della morte di lei. E
qui lui scrive che ha comprato un veleno da un povero speziale, e con quello è venuto in questa cripta, per
morire e giacere con Giulietta. Dove sono questi nemici? Capuleti, Montecchi, guardate quale maledizione è
scesa sul vostro odio, tanto che i cieli cercano modi per uccidere la vostra gioia con l’amore; e anche io,
avendo chiuso gli occhi sulla vostra discordia, ho perso un paio di parenti. Siete tutti puniti”.
Signor Capuleti: “O fratello Montecchi, dammi la tua mano. Questa è la dote di mia figlia, per la quale non
posso rivendicare di più”.
Signor Montecchi: “Ma io posso darti di più, perché ereggerò la sua statua in oro puro, finché Verona sarà
conosciuta con quel nome, che nessuna figura sarà stimata così tanto come quella della leale e fedele
Giulietta”.
Signor Capuleti: “Ugualmente ricca sarà quella di Romeo che giace accanto alla sua donna, piccoli sacrifici
per la nostra inimicizia”.
Principe: “Una triste pace questa mattina porta con sé. Il sole per il dolore non mostrerà il suo viso.
Andiamo via, c’è altro da dire in merito a questi tristi avvenimenti. Qualcuno sarà perdonato e qualcuno
punito, perché non ci fu mai una storia più dolora di quella di Giulietta e del suo Romeo”.

Si intende sia che sono vittime del loro, sia che la loro morte sia servita per placare l’odio delle famiglie,
possono essere stati sia causa, che effetto. Brooke invece dà un verdetto più preciso: la balia verrà punita
con l’esilio, e lo speziale impiccato. Frate Lorenzo verrà perdonato invece. C’è un rendere immortale questa
storia, che saranno ricordati come archetipi.

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