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IV • Musica, corpo, estetica

Roberto Agostini

4.1. L’altra musica, l’altra estetica

Recentemente alcuni musicologi italiani, interrogandosi sulla relazione


tra popular music ed estetica, hanno sostenuto che l’oggetto privilegiato
di studio dell’estetica – intesa come disciplina nata all’interno della filo-
sofia della modernità occidentale, verso la metà del Settecento, quando
Alexander Baumgarten pubblica il celebre Aesthetica (cfr. Baumgarten
2000) – è la musica d’arte occidentale (Pozzi 2003; Cecchi 2003; Borio
2003). Distinguendo tra arte e consumo, essi convergono sull’idea che solo
nella musica d’arte sia possibile riscontrare le caratteristiche fondamentali
dell’esperienza estetica, quali la presenza di un autore consapevole e libero
da condizionamenti, di un fruitore disinteressato, critico e distaccato, e di
un’opera unica, irripetibile, autonoma, nuova, frutto di sperimentazione.
Il processo di legittimazione avviato da questi autori, che estende il canone
della musica d’arte al jazz e a “certo rock”, poco cambia dal punto di vista
teorico: certe musiche rimangono escluse dall’ambito dell’estetica e delle
arti (i due ambiti vengono perlopiù fatti coincidere) a meno che in esse
non sia possibile rilevare i principi dell’estetica della modernità.
È possibile qui riconoscere la tendenza, comune in estetica, a esaurire
in sé il novero delle esperienze artistiche ed estetiche legittime sulla base
di alcuni elementi riscontrabili nell’insieme di opere che durante la mo-
dernità hanno contribuito a delineare l’estetica in quanto disciplina, un
insieme dai confini sfumati e oggetto di costante negoziazione che, nel
tempo, si è esteso fino a comprendere opere create nelle epoche precedenti
e seguenti la modernità. Questa impostazione, che negli studi musicali si
consolida a partire da fine Ottocento nel pensiero di autori quali Hans
Hanslik e Theodor Adorno, è oggi al centro di critiche. L’idea di fondare
una riflessione sull’estetica e sull’arte unicamente sulla tradizione estetica
consolidata sembra infatti riduttiva. Negli studi musicali, ad esempio,
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Paolo Gozza e Antonio Serravezza avvertono che «ove si concepisca la


storia della riflessione sulla musica nella prospettiva egemonizzante del-
l’estetica, non solo si creano problemi nella ricostruzione delle sue fasi più
lontane, ma si rischia di rendere marginali anche momenti della ricerca
filosofica coevi alla stagione della “vera e propria” estetica» (Gozza –
Serravezza 2004, p. 11). Più in generale, Władysław Tatarkiewicz fa
notare che lo studio della storia delle riflessioni sull’arte, sull’estetica e
sul bello mostra che le concezioni dell’estetica moderna hanno radici
antiche e non sono, né sono mai state, un corpus omogeneo di idee e
concetti. E precisa che «lo storico sa che le teorie generali dell’arte o del
bello rivelatesi insoddisfacenti si sono tuttavia dimostrate corrette in un
campo più ristretto, per alcuni ambiti artistici, per certe forme del bello.
Nella loro formulazione generale, assoluta, sono errate: forniscono tuttavia
una spiegazione di alcune forme del bello e dell’arte e in tal senso sono
utili» (Tatarkiewicz 2006, p. 344).
In questa prospettiva, Richard Shusterman (2000, pp. 46-9) pro-
pone l’idea che verso la metà del Settecento la riflessione filosofica si
sia coagulata intorno a una certa esperienza, riconoscendovi un tipo
peculiare di esperienza estetica in stretta relazione con il concetto di arte
(ma non solo). Dunque nasceva una disciplina, l’estetica, che metteva
in una nuova luce problemi discussi da secoli, contribuendo al rico-
noscimento e allo sviluppo di una certa esperienza estetica, e ponendo
così le fondamenta di una tradizione artistica di cui non intendo certo
mettere in discussione la grande rilevanza storico-culturale. Ciò che
vorrei mettere invece in discussione è la tendenza egemonizzante di tale
tradizione, che pretende di sancire i confini tra l’insieme delle esperienze
estetiche e di quelle non estetiche, e tra l’insieme degli oggetti in grado
di suscitare esperienze estetiche e quello degli oggetti non in grado di
farlo, assolutizzando i propri principi.
L’estetica odierna non ignora certo queste problematiche ed è an-
che ben consapevole che le trasformazioni del mondo contemporaneo
– industrializzazione, emergere delle democrazie, sviluppo tecnico ecc. –
hanno inciso nelle arti in modo così profondo da problematizzare concetti
quali quelli di arte, bello, autore, opera e così via, giungendo perfino a
mettere in crisi il paradigma dell’estetica della modernità1. A me sembra
però che negli studi musicali la riflessione continui a eludere le questioni

1
Cfr. per la musica Fubini 1995 e Garda 2007.
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più spinose, prima fra tutte quella delle musiche “altre”. Ora, come nota
Michela Garda, se è vero che «l’estetica musicale, almeno fino a oggi,
è indissolubilmente legata alla tradizione della musica d’arte» (Garda
2007, p. 11), è altrettanto vero che «l’apertura dell’orizzonte estetico
alla molteplicità delle “culture” musicali sarà un compito ineludibile»
(ibid.). In effetti, tale compito comincia già a contare parecchi contri-
buti2. In questa sede, piuttosto che affrontare il dibattito in tutte le sue
complesse sfaccettature, vorrei approfondire un aspetto specifico, quello
della relazione tra musica, estetica e dimensione corporeo-affettiva.

4.2. Pratiche popolari

Nella nostra società, le persone comuni frequentano poco teatri e


musei (se non in occasione delle “grandi mostre” o delle “prime”), sono
poco interessate ai monumenti storici e alle opere d’arte contemporanea,
e sono anche scarsamente preoccupate sia della conservazione dei beni
culturali sia delle condizioni dell’arte contemporanea. In breve: le persone
comuni non sono molto interessate al mondo dell’arte propriamente
detta e preferiscono cercare piacere e bellezza nelle pratiche popolari,
ovvero in pratiche culturali tradizionali irreversibilmente trasformate e
riformulate all’interno dell’odierno contesto socio-economico industria-
lizzato e massmediatico.
Si tratta di pratiche per le quali a volte si rivendica lo statuto di arte
e dove la ricerca del bello – ormai in disuso nell’arte contemporanea –
assume un ruolo cruciale. Spesso tali pratiche sono accusate di scarso
valore, conformismo e standardizzazione a causa del loro seguire gli
ideali di bellezza proposti dal mondo mediatico e del legame con un
piacere che molti considerano effimero e superficiale. Per questo sono
fortemente avversate da molti intellettuali e artisti, che tendono a distin-
guere tra esperienze artistico-estetiche centrate su opere autonome, frutto
di sperimentazione, e pratiche sociali centrate su oggetti di consumo
standardizzati, finalizzati a produrre profitto.
La quantità di energie, tempo e denaro che le persone investono in
queste pratiche deve però farci riflettere: interpretare la diffusione delle

2
Cfr. il dibattito sviluppatosi a partire dagli anni Novanta nel «Journal of Aesthe-
tics and Art Criticism» e studi quali Gracyck 1996, 2007; Frith 1996; Davies 2001;
Marconi 2005.
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pratiche popolari come semplice “consumismo”, o addirittura come


frutto di bisogni indotti tramite pressioni massmediatiche a una massa
alienata e passiva, mi sembra infatti riduttivo. Questo non soltanto
perché l’industria non è quell’oliata macchina in grado di pianificare e
controllare il mercato che si crede3, ma anche e soprattutto perché tale
visione cerca di risolvere un problema reale – quello dell’autenticità e del
valore delle attività culturali nel mondo industrializzato – sulla base di
una gerarchia estetica emersa con l’industrializzazione stessa, nota come
dualismo “alto/basso”, della quale vari studiosi hanno rilevato il portato
ideologico (Frith 1996; Levine 1988).
In effetti, «se si confondono i valori estetici con i processi socio-
politici, si perde il filo del discorso e le idee si confondono» (Baroni
2003, p. 329): se una pratica è inserita all’interno dell’economia di
mercato, questo non significa che sia alienante in sé; allo stesso modo,
se una pratica non risponde ai dettami dell’estetica della modernità, ciò
non significa che non abbia alcun valore e che non risponda ad alcuna
esigenza (né tantomeno che sia la causa della marginalità della musica
d’arte). Se accettiamo questo, diventa prioritario verificare se e a quali
esigenze rispondono le pratiche popolari e in che cosa consiste il loro
valore. Ora, nella convinzione che una delle risposte a questa domanda
possa essere ricavata considerando le potenzialità estetiche di tali pratiche,
mi concentrerò sulla relazione tra queste e l’esperienza estetica.

4.3. Distacco e immediatezza

Il mio approccio si basa sul concetto di esperienza estetica, «un termi-


ne tardo per fenomeni discussi da almeno duemila anni» (Tatarkiewicz
1996, p. 314) che comincia a circolare nel XVIII secolo. Porsi in questa
prospettiva significa mettere al centro dell’attenzione l’esperienza piut-
tosto che l’opera, e considerare dunque l’estetica un processo relazionale
che vede un soggetto entrare in relazione con un oggetto4. L’attenzione

3
Questo luogo comune è stato sfatato da varie ricerche che hanno sottolineato da
un lato il ruolo dell’appropriazione popolare (cfr. Agostini 1994), dall’altro la scarsa
razionalità delle strategie industriali (cfr. Negus 1999).
4
Per un primo approfondimento sul concetto di esperienza estetica, cfr. Agostini
1994. Oltre ai riferimenti lì menzionati, cfr. Shusterman 1997; Shusterman-Tomlin
2008; Tatarkiewicz 2006, cap. XI; Marconi 2005.
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degli autori che si sono occupati dell’esperienza estetica si è concentrata


sull’idea che questa rappresenti un momento distinto dalle esperienze
quotidiane, dal carattere molto più significativo del semplice piacere
sensoriale passeggero o dell’apprezzamento superficiale della bellezza,
come i suoi detrattori sostengono. Essi hanno messo in luce che si trat-
ta piuttosto di un’esperienza composita e processuale che ha a che fare
con un profondo coinvolgimento, con l’immaginazione, il giudizio, la
relazione, con uno stimolo pregnante e con il vivere un processo di tra-
sformazione interiore. I teorici hanno però opinioni diverse sulla relativa
importanza che nell’esperienza estetica assumono i processi cognitivi,
affettivi e cinetici, su quale ruolo abbia in essa la soggettività, su come
incidano in essa la società, i valori, la morale, se e come sia possibile
parlare di un giudizio sull’esperienza.
La tradizione estetica consolidata considera l’esperienza estetica distac-
cata, autonoma, disinteressata, centrata sulla percezione della forma. In
breve, l’esperienza estetica è interpretata in modo intellettuale. Tale idea
è fondata sulla scissione tra mente e corpo che è alla base della tradizione
filosofica occidentale. Questa prevede la separazione delle forme di cono-
scenza umana in due sfere separate – mente/corpo, spiritualità/carnalità,
intelletto/emozione, intelliggibile/sensibile, ragione/sensorialità – e il
primato della mente sul corpo. Ora, come abbiamo detto, l’estetica della
modernità colloca il piacere estetico nella sfera intellettuale e, proprio
per questo, lo considera separato e superiore al piacere sensoriale, che
è fondato sulla dimensione sensibile: il piacere raffinato, disinteressato,
distaccato, alla portata di pochi in grado di godere del valore intrinseco
di un’opera è sentito come superiore al piacere rozzo, interessato e im-
mediato suscitato da espressioni culturali basate sul piacere sensoriale e
corporeo-affettivo. L’impegno e l’abnegazione richiesti dal piacere estetico
si oppongono allo spirito edonistico e d’evasione del piacere sensoriale.
Anzi, la dimensione corporeo-affettiva, annullando la distanza estetica, che
è il prerequisito per una fruizione critica e attiva, spingerebbe il fruitore
ad abbandonarsi alle piacevolezze di un’immediatezza acritica e passiva,
diventando facile preda delle manipolazioni dell’industria culturale.
Dunque, se il termine estetica è stato proposto da Baumgarten fa-
cendo riferimento al termine greco che indica il sensibile, Baumgarten
stesso e molta estetica moderna si sono poi dimenticati che la percezione
sensoriale dipende anzitutto dal corpo (Shusterman 1999). Questo è
vero anche nell’estetica musicale e, nonostante la consapevolezza che le
parole sensus e ratio costituiscano una «duplicità che percorre la cultura
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musicale occidentale fin dalle sue più remote origini» (Gozza 2003,
p. 154), nell’estetica moderna la dimensione sensibile e corporeo-affettiva
è rimasta assente, o perlomeno secondaria, non solo per motivi di scuole
di pensiero, ma anche per motivi religiosi e morali.

4.4. Performatività e media

Vari autori, da vari ambiti disciplinari, stanno proponendo teorie


alternative a questa visione scissa. Ripercorrendo il filo di una tradizione
filosofica parallela a quella consolidata – che parte dall’antica Grecia per
giungere fino ai giorni nostri, passando da Dewey, Nietzsche, Focault e
Merleau-Ponty – attingendo dalle scienze sociali e naturali, e approfon-
dendo la tradizione filosofica asiatica, tali autori mettono in luce come
il dualismo tra mente e corpo, così com’è stato tematizzato finora, vada
superato riconsiderando il ruolo della dimensione corporeo-affettiva5.
Shusterman (1999, 2000), ad esempio, propone l’idea di somaestetica:
una branca dell’estetica volta a studiare e valorizzare il potenziale estetico
del corpo concepito sia nelle sue qualità esteriori rappresentative, sia nella
sue qualità esperienziali interiori e performative (Shusterman 1999, p. 2).
Ricordandoci che tra esperienza estetica ed esperienza artistica non c’è
corrispondenza, Shusterman nota che non si deve riconoscere l’esigenza
di vivere esperienze estetiche somatiche solo nelle pratiche di fruizione
delle opere d’arte propriamente dette. Anzi, al giorno d’oggi tale esigenza
si esprime soprattutto nelle pratiche popolari il cui statuto artistico è
una questione controversa. Shusterman, inoltre, nota che l’esperienza
estetica somatica si realizza sia nella fruizione di artefatti culturali e
fenomeni naturali, sia nelle attività che richiedono un coinvolgimento
pratico, un “fare”. Quest’osservazione assume particolare importanza in
musica, perché ci suggerisce che l’esperienza estetica può essere ricono-
sciuta anche nel “fare musica”.
Vorrei approfondire questo punto prendendo in considerazione
le tesi del teorico del teatro Marco De Marinis (2001) e quelle del
filosofo e sociologo Davide Sparti (2007), che sviluppano argomen-
tazioni convincenti su come la teoria estetica della modernità sia in

5
Cfr. Tatarkiewicz 2006, Sparti 2007, Lisciani – Petrini 2007, Higgins 2008, De
Marinis 2001, Molino 2003, Caporaletti 2005 e i vari scritti di Shusterman. Nelle mie
argomentazioni attingerò molte idee da questi autori.
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stretta relazione con la mentalità scritta e videocentrica occidentale, che


genera e favorisce il distacco dall’oggetto svalutando nello stesso tempo
il ruolo del corpo e dell’affettività. Di fatto, questa mentalità è alla base
di schemi culturali cruciali per l’estetica musicale, quali la tripartizione
produzione/opera/fruizione e il dualismo composizione/interpretazione,
e ha spinto alcuni studiosi a sostenere che la conoscenza sensoriale della
musica è secondaria o addirittura superflua. Non a caso, dunque, l’estetica
consolidata esclude esperienze quali ballare, partecipare con canti e balli
a un concerto o anche improvvisare un assolo, attività immediate dove il
coinvolgimento collettivo e l’estemporaneità rendono il concetto di opus
non pertinente, annullano la distinzione tra compositore e interprete
e a volte sciolgono nell’azione collettiva la distinzione tra esecutore e
pubblico. Ora, autori come De Marinis e Shusterman, approfondendo
lo studio della dimensione orale/aurale di attività performative quali la
danza, il teatro e la musica, mostrano che, accanto all’esperienza este-
tica distaccata, esiste almeno anche un altro tipo di esperienza estetica,
basata sull’immediatezza e sul fare, caratterizzata dall’attivazione della
dimensione corporeo-affettiva. Vale la pena aggiungere che tali studi
vanno integrati con considerazioni riguardo al modo in cui le pratiche
orali sono mutate nell’attuale contesto mediatico6.
Un’interessante lettura di queste problematiche in ambito musicologico
è stata recentemente avanzata da Luca Marconi (2005). Egli riprende
la distinzione nietzschiana tra apollineo e dionisiaco (Nietzsche 1994)
e pone la prima come rappresentativa dell’estetica moderna distaccata
e la seconda come rappresentativa di alcune esperienze musicali della
popular music spesso definite immediate in quanto orientate verso
la corporeità e l’affettività. Egli avanza poi un modello di esperienza
estetica basato sull’intreccio tra processi cognitivi, affettivi e cinetici
che mostra come le due esperienze delineate, quella distaccata e quella
immediata, possono entrambe sfociare in esperienze estetiche, che sa-
ranno naturalmente diverse tra loro. Marconi conclude che «il ruolo
cruciale giocato dalle inferenze […] suggerisce che l’immediatezza
della popular music è un “effetto di senso” fondato su processi mediati
culturalmente […] non meno che la non-immediatezza della musica
colta» (Marconi 2005). In questo modo, Marconi raggiunge conclusioni

6
Ho discusso il carattere “mediatico” della musica d’oggi in Agostini 2004. I riferimenti
bibliografici lì riportati possono essere integrati con Sparti 2007; Gracyck 1996, 2007;
Fisher 1998 e vari saggi del «Journal of Aesthetics and Art Criticism» citati in nota 2.
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in linea con gli autori sopra citati, mostrando che l’esperienza estetica
musicale non è mai autonoma, ma sempre culturalmente mediata, che
possiamo ritrovare esperienze estetiche musicali in molti generi musi-
cali, non solo nel canone della musica d’arte, che la popular music può
far vivere vari tipi di esperienza estetica, anche quelli della tradizione
artistica occidentale, e infine che buona parte della popular music pos-
siede un grande potenziale estetico basato sull’attivazione del corpo e
dell’affettività, un potenziale assai ricercato che, quando non negato,
è stato considerato dalla musicologia esterno alla storia della musica.
Non a caso, Marconi pesca i suoi esempi di esperienze musicali soma-
tiche e affettive in pratiche di danza quali il rave e la polka, o nell’ascolto
che immagina tali pratiche. La danza, infatti, basata sulla performance
e sul coinvolgimento attivo dei partecipanti, mette in secondo piano la
distinzione tra autore e fruitore e porta in primo piano la ricerca delle
relazioni con il comportamento di altri soggetti percepiti e/o immaginati,
dove «tutte le facoltà umane sono attivate: non solo quelle percettive
e intellettuali, ma anche quelle relative al sistema motorio, all’apparato
propriocettivo e alle facoltà affettive» (Marconi 2005). A conclusio-
ni simili giungono anche Shusterman (2000, cap. 8; 2006 ) e Sparti
(2007), che hanno svolto le loro ricerche musicali nell’ambito del jazz
e dello hip-hop, musiche afroamericane che si realizzano propriamente
nella performance e nell’oralità mediatica dove è facile cogliere il ruolo
rilevante della dimensione corporeo-affettiva.

4.5. Fare pratica

L’esperienza corporeo-affettiva fondata sull’oralità riformulata all’in-


terno del mondo industrializzato e sui processi performativi – che la
tradizione artistico-estetica definisce immediata, interessata o edonistica
mettendone in dubbio l’esteticità e l’artisticità – è centrale nelle pratiche
di espressione culturale della maggior parte delle persone nella nostra
società e in varie riflessioni che ne hanno rilevato le potenzialità estetiche.
Si tratta di attività significative volte a scandire la vita sociale, attività
dove rigenerarsi e provare un senso di benessere, dove sentirsi bene nel
e con il proprio corpo, dove provare un senso di bellezza propriocettiva
nella propria esperienza somatica, dove vivere intense emozioni, dove
trovare momenti ricchi di potenziale bellezza, di meraviglia, di piacere,
di trasformazioni interiori.
38 Musica e educazione estetica

Lungi da me, però, concludere affrettatamente che le pratiche mu-


sicali popolari suscitino sempre e comunque esperienze estetiche, che
siano tutte uguali e dello stesso valore, o che siano più importanti di
altre. Lungi da me, anche, l’idea che la musica della tradizione artistica
occidentale sia meno importante delle pratiche popolari o che non abbia
valenze educative. Tutt’altro: la valorizzazione della tradizione artistica
è sacrosanta ed è una battaglia culturale che dobbiamo compiere; una
strategia basata sull’imposizione dei principi dell’estetica moderna laddove
si cercano risposte a esigenze diverse, interpretando queste esigenze come
alienanti, consumistiche e prive di valore, è però rischiosa e limitata,
e credo sia destinata non solo a non ottenere gli effetti desiderati, ma a
causare guai peggiori.
Certo, è necessario tenere conto che l’attuale assetto politico-economico
ha dirottato per i propri fini l’esigenza di vivere esperienze corporeo-
affettive, che portino benessere e trasformazioni interiori, verso l’obbligo
di essere sempre costantemente informati ed esteriormente adeguati,
di rappresentare piuttosto che di vivere esperienze. Questo fa sì che la
costante ricerca di intensi stimoli corporeo-affettivi che caratterizza la
società contemporanea, evidente nella diffusione di pratiche come il
body building, le arti marziali, il piercing, l’uso di droghe, la danza
e altre attività potenzialmente somaestetiche, si tramuti spesso in una
ricerca puramente esteriore e standardizzata di prestazioni aberranti ed
“estreme”, che considerano il corpo solo nelle sue potenzialità rappresen-
tative. Anzi, in un gioco al rialzo, la nostra società incita all’esposizione
a livelli stimolatori sempre più esagerati e continui, intorpidendo così i
sensi e la consapevolezza corporea e affettiva degli individui in un gioco
perfettamente in linea con gli interessi di chi sfrutta politicamente ed
economicamente i bisogni sociali (Shusterman 2008, p. 39). Quello che
tali pratiche aberranti hanno dimenticato e non riescono a recuperare,
a causa del dualismo mente/corpo in cui l’umanità è lacerata, sono le
potenzialità estetiche esperienziali interiori del corpo e le sue potenzialità
estetiche performative.
A questo proposito, è interessante rilevare che molte delle pratiche
portate come esempio dello scarso valore estetico della popular music, e
addirittura della pericolosità, possono essere interpretate proprio come
casi di incapacità di gestire l’esigenza di vivere esperienze estetiche basate
sul corpo e sull’affettività. Mi riferisco qui, ad esempio, a quei ragazzi che
passano ore e ore “sotto cassa” ai rave party, oppure ai ragazzi che stanno
ore e ore a fare headbanging a un concerto metal. In queste pratiche il corpo
IV • Musica, corpo, estetica 39

è ridotto a un oggetto puramente esteriore, rappresentativo, staccato dagli


elementi esperienziali. Che queste attività siano dannose e pericolose per
il corpo è un fatto. Che rappresentino esperienze estetiche è davvero poco
probabile. La mia lettura di queste attività è però diversa dalla condanna
senza appelli: credo che siano sintomi di un’incapacità di sentire, usare
e gestire le potenzialità estetiche del proprio corpo e della propria vita
affettiva, incapacità che spinge i soggetti a cercare esperienze “estreme”.
Anche nelle pratiche centrate sul fare musica è possibile riscontrare casi
simili: basti pensare a quei musicisti metal o jazz che passano intere
giornate ad allenarsi come se fossero in palestra, cercando la prestazione
virtuosistica estrema, e tralasciando di concentrarsi su quello che rappre-
senta l’elemento cruciale del fare musica nei generi quali quelli da loro
scelti: quello della ricerca della propria “voce” e dell’integrazione di essa
all’interno di una pratica intrinsecamente performativa e collettiva dove
la dimensione corporeo-affettiva assume cruciale importanza7.
In conclusione, «la cecità dei critici della cultura ai tratti somatici del-
l’esperienza è comprensibile e assai diffusa. Questo perché la somaestetica
della rappresentazione rimane assai importante e dominante nella nostra
cultura, una cultura largamente fondata sulla divisione del corpo dallo
spirito, ed economicamente guidata dal capitalismo dell’esibizionismo
consumistico alimentato dal marketing delle immagini del corpo. Eppure
è precisamente per questa ragione che il campo della somaestetica […]
necessita un’attenzione più accurata e ricostruttiva […]» (Shusterman
2008, p. 28). È dunque urgente che le pratiche popolari musicali venga-
no studiate anche con gli strumenti della musicologia e della tradizione
filosofica, non solo con quelli delle scienze sociali ed economiche. Ma non
basta, in linea con il pensiero di molti degli autori qui citati, accanto alla
ricerca scientifica credo sia importante dedicarsi anche alla pratica delle
attività estetiche immediate al fine di sviluppare la capacità di partecipar-
vi in modo consapevole ed efficace. Insomma, allenarsi per controllare,
migliorare e affinare la qualità delle proprie esperienze corporeo-affettive,
non per raggiungere prestazoni “estreme” fini a loro stesse.
Intendiamoci: non sostengo l’idea di salvaguardare né tantomeno di
inserire nell’educazione musicale le pratiche musicali esistenti in quanto
tali. Non si tratta di impostare un’educazione musicale che segua pedis-
sequamente gli interessi dei discenti. In educazione è infatti necessario

7
Sparti 2007, p. 80 e sgg.; sul concetto di “voce”, p. 103.
40 Musica e educazione estetica

stare attenti a non fare confusione tra interessi, bisogni (Delfrati 2008,
p. 124) e diritti (Stefani 1989), un nodo problematico ancora irrisolto il
cui approfondimento, dopo quanto argomentato in questo testo, risulta
essere assai urgente.
Proprio per questo, educare al corpo, all’affettività e alle relative po-
tenzialità estetiche rappresenta un percorso tutto da costruire destinato
ad avere conseguenze sia a livello teorico sia pratico: gli esiti della riap-
propriazione dell’esperienza estetica immediata coincideranno con una
radicale trasformazione e riorganizzazione delle attività musicali odierne.

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