Sei sulla pagina 1di 108

Martin Heidegger

Vita, Opere, biografia

1
2
Martin Heidegger:
VITA:
Martin Heidegger (1889-1976) studia filosofia “classica” presso
l'Università di Friburgo, ma l’impronta decisiva per la sua
formazione gli viene data dal suo maestro, E. Husserl, dal quale
attinge il metodo fenomenologico e con il quale imposterà la sua
opera maggiore “Essere e tempo” (dedicata allo stesso Husserl), che
lo classificherà come filosofo dell’esistenza.
Intorno al 1930 l’indagine di Heidegger subisce una svolta decisiva:
non riguarderà più l’analisi esistenziale, tesa alla ricerca dell’essere;
bensì si trasforma in una ricerca che riconosce all’essere stesso
l’iniziativa dello svelamento dell’essere.
La seconda fase del suo pensiero è caratterizzata dalla volontà di
sfondare le categorie della metafisica occidentale e trovare una
nuova dimensione del pensiero.
Afferma Heidegger “Filosofia e poesia devono incontrarsi”.
Questa seconda fase si esprime con opere come “Che cos’è la
metafisica?” e “Lettera sull’umanesimo”.
Nel 1933 (anno dell’ascesa al potere di Hitler) Heidegger diventa
rettore dell’università di Friburgo, ciò implica una più o meno

3
implicita adesione al regime, che dopo la fine della guerra lo porterà
ad allontanarsi dal mondo accademico.
IL PENSIERO FILOSOFICO:
Il pensiero filosofico di Heidegger si suddivide in due fasi segnate da
una netta svolta (il kehre), che mantiene però una continuità di
fondo legata all’essere.
In “Essere e Tempo” il problema dell’essere viene affrontato a
partire dall’esistenza umana.
Tra gli enti, le realtà che sono, l’uomo (il dasein o l’esserci) è l’unico
ente in relazione con l’essere e aperto all’essere: quindi la ricerca
filosofica del senso dell’essere deve passare necessariamente
attraverso un’interrogazione dell’esistenza umana ( Dasein è un
termine composto: da = lì sein = essere).
L’uomo è sempre collocato in una situazione che non ha scelto, ma
è comunque un ente aperto all’essere: l’uomo può scegliere che
cosa diventare, “non come il fiore che rimarrà sempre fiore”.
“Essere e Tempo” rimane però un’opera incompleta perché cercare
il senso dell’essere attraverso l’esserci si rivela impraticabile. Questo
percorso rappresenta ciò che Heidegger definisce analitica
esistenziale, ossia un’analisi dell’esistenza umana e un’ontologia
esistenziale: attraverso l’esistenza umana si ricerca il senso
dell’essere.
L’analitica esistenziale viene condotta attraverso un metodo
fenomenologico: si parte dall’esperienza concreta vissuta dal
singolo, per cogliere delle strutture essenziali e costitutive
dell’umanità in quanto tale. Il punto di arrivo di Heidegger non è
l’uomo singolo, ma è l’uomo in quanto tale.

4
La differenza ontologica:
Vi è una differenza sostanziale tra enti che manifestano l’essere, ma
non sono l’essere, e l’essere stesso. L’essere è quello sfondo
intelligibile che si nasconde dietro gli enti.
L’essere non è qualcosa altrimenti verrebbe ridotto ad ente; l’essere
è rappresentato al niente, ovvero non-ente, nessun ente.
Aver dimenticato la differenza ontologica è la caratteristica della
metafisica e della filosofia occidentale. Heidegger si propone di
superare la metafisica occidentale, accusandola di aver dimenticato
l’essere a favore degli enti, essendo essi qualcosa di ben definito
che l’uomo può gestire completamente. L’essere è invece oscuro e
non dominabile.
Per esempio, Dio è stato ridotto dalla cultura occidentale al primo
anello della catena degli enti, infatti cercando di ridurlo alle nostre
categorie (orthotes) è stato trasformato nel primo ente
(ontoteologia).
Aletheia: verità come disvelamento (non è mai una chiara
manifestazione, ma è un gioco di luce e ombra). L’essere non si
svela completamente, ma in parte rimane oscuro, e questa
caratteristica deve essere mantenuta per evitare che l’essere si
riduca ad ente.
Orthotes: verità come corrispondenza ad uno schema razionale.
La filosofia occidentale ha sempre cercato di “catturare” l’essere
(begriffen à begriff), proprio perché essendo esso indominabile e
sfuggevole, ha cercato di ridurlo a schemi razionali (à dionisiaco di
Nietzsche).

5
Nella logica di aletheia l’uomo non cattura l’essere, ma lo lascia
sussistere.
Le categorie dell’esistenza:
Heidegger, nella sua analisi delle strutture dell’esistenza, individua
due categorie costitutive fondamentali: gli esistenziali (strutture
fondamentali dell’esistenza stessa)
 l’essere nel mondo
 l’essere con altri cura
L’essere nel mondo:
Il dasein è gettato nel mondo, che è una totalità di enti utilizzabili.
La critica a Husserl consiste nel fatto che, secondo Heidegger, il
dasein non è pura soggettività distaccata, “il puro occhio del
mondo”, ma esiste un rapporto di coinvolgimento più profondo con
gli altri enti. L’uomo è gettato nell’esperienza e comprende il
significato degli enti in base al loro utilizzo pratico. Il coglie il senso
degli enti nella misura in cui li utilizza e li inserisce nel suo progetto.
n.b. Il dasein manifesta il senso delle cose, essendo aperto
all’essere, ma non è ciò che dà senso ad esse.
L’essere con gli altri:
Il mondo è la totalità dei significati, in quanto gli enti prendono
significato nella misura in cui utilizzati. Il mondo della totalità di
significati è un mondo condiviso originariamente con altri. Ogni
dasein è in relazione con altri dasein, che hanno diverse aperture
all’essere e diversi progetti nel mondo. Il problema consiste nel far
convivere pacificamente le diverse aperture dei dasein rispetto
all’essere.
6
La cura:
L’insieme degli esistenziali costituisce la cura, che è insieme un
rapporto teoretico e pratico.
Il dasein si prende cura degli enti e ha cura degli altri dasein.
La cura è insieme comprensione degli enti alla luce dell’essere
(dimensione teoretica) e progetto (dimensione pratica).
La cura in sostanza è il metodo che il dasein utilizza per entrare in
relazione con gli enti o con gli altri dasein, e ciò avviene progettando
la propria esistenza. L’uomo può progettare la sua esistenza perché
è aperto all’essere e ad infinite possibilità, ma progettare significa
comprendere il senso d’essere degli enti. La cura è la cifra sintetica
dell’esistenza, ciò che consente al dasein di rapportarsi con ciò che
lo circonda.
La cura nasce sempre a partire da una determinata situazione
emotiva o tonalità affettiva, perché l’uomo è sempre emotivamente
ad affettivamente influenzato. La sua capacità di entrare in
relazione con gli enti non è neutrale e l’imparzialità è un’illusione.
L’uomo è gettato nel mondo in una situazione sempre emotiva, che
limita la sua prospettiva, ma che gli dà colore. Questo aspetto fa
parte dell’ambito esistenzialista che considera l’uomo come un
essere concreto carico di affetti.
La cura può essere vissuta in modo autentico o in autentico.
L’esistenza è sottoposta ad una duplice scelta:
autenticità: il dasein si realizza autenticamente come dasein
inautenticità: è una forma degradata di autenticità
La seconda scelta è meno originaria rispetto la prima. Heidegger
non vuole esprimere nessun giudizio morale (la prima è una buona
7
scelta mentre la seconda no), ma vuole sottolineare come la prima
possa realizzare il dasein, mentre la seconda no.
L’esistenza inautentica:
Heidegger descrive l’esistenza inautentica come un’esperienza
anonima (quella di tutti e di nessuno), impersonale, conformistica,
appiattita sulla dimensione del “si”, ovvero quella dove il “si dice” o
“il si fa” domina incontrastato. In essa, tutto è livellato,
convenzionale, mediocre, normale.
Nell’esistenza inautentica il dasein non è un individuo unico ed
irripetibile, è tutti e nessuno, perché è ciò che sono tutti.
Il dasein decade a livello delle cose; questo degrado è definito
deiezione:
il dasein si riduce ad uno dei tanti enti presenti, in quanto si spegne
la sua apertura all’essere.
Il linguaggio, che per sua natura è la manifestazione dell’essere,
diventa, a questo livello, chiacchiera, un puro vociare, dominato
dalla curiosità, non per l’essere delle cose ma per la loro apparenza
visibile, e dall’equivoco, perché tutto è dato per scontato.
L’esistenza autentica:
L’esistenza autentica coincide con l’essere per la morte, con la
decisione anticipatrice della morte.
Quando Heidegger parla di “morte” non intende l’evento conclusivo
dell’esistenza, ma intende il morire come mortalità, per sottolineare
che l’esistenza umana è finita, che l’essere è esposto alla possibilità
del morire.

8
Heidegger, infatti, definisce la morte come possibilità autentica e
autentica possibilità.
Innanzitutto la morte è autentica possibilità perché il dasein vive la
propria morte sempre e solo come possibilità, mai come realtà.
Infatti, nel momento in cui la morte diventa un fatto reale il dasein
non esiste più, si annulla e non la può vivere. Di conseguenza, la
morte incide come una possibilità a cui l’esistenza è sospesa.
La morte è però anche la possibilità più autentica del dasein.
Mentre tutte le altre possibilità che si dispiegano al dasein sono
possibilità di essere in un modo piuttosto che in un altro, la morte è
unica. La morte è l’unica possibilità che sicuramente si realizzerà, è
una possibilità intrascendibile, assolutamente certa.
Non riguarda un certo modo di essere, ma riguarda il “ci”
dell’esserci, cioè il fatto che il dasein esista oppure no. La possibilità
della morte getta una luce negativa su tutte le altre possibilità, le
nullifica in quanto sono tutte legate a quest’ultima.
Anticipare la morte non vuol dire suicidarsi ma vivere
autenticamente tutte le possibilità dell’esistenza solo come
possibilità, nella consapevolezza che tutte queste sono agganciate
alla possibilità autentica più estrema che è la morte, la morte.
L’angoscia:
Per l’essere che vive per la morte il sentimento emotivo
caratteristico è l’angoscia.
L’angoscia è un sentimento metafisico, molto diverso dalla paura,
non ha infatti come oggetto qualcosa di determinato ma è generato
da quell’abisso oscuro che lascia, nel dasein, la condizione di
finitezza e fragilità dell’esistenza.

9
Nell’esistenza inautentica la morte viene come appiattita del suo
valore e vista come un fatto fra tanti altri, che non tocca
direttamente la mia esistenza ma è la morte degli altri (“si muore”).
Il dasein ha paura della morte perciò cerca di non parlarne. La paura
è la “versione inautentica” dell’angoscia.
Tempo e temporalità:
Esercitare in modo autentico la cura significa anticipare la propria
morte, avere coscienza della propria finitezza.
Coincide con l’essere per la morte Cura Temporalità progetto
comprensione degli enti alla luce dell’essere.
Attraverso il concetto di cura si esplicita il concetto di temporalità,
che è il senso ontologico della cura. Infatti, la cura autentica è
temporalità e la temporalità è il senso d’essere della cura.
Vivere autenticamente la propria cura significa cogliere e vivere la
propria esistenza come un tutto, cioè in ogni sua dimensione senza
appiattirla al solo presente.
La vita si dispiega in tutte le direzioni, vivendo solo il presente il
dasein si riduce a un ente del mondo (deiezione).
Il termine temporalità implica differenti sfumature di possibilità.
Heidegger, sull’esempio di Bergson che distinse il tempo della
scienza dal tempo della coscienza, introduce una distinzione tra
tempo e temporalità.
Il tempo è misurabile, ordinabile, ontico (riguarda gli enti), è il
tempo dell’orologio.
È concepito come una serie di “ora”:
passato a non più ora
10
presente a ora
futuro a non ancora ora
Le tre dimensioni sono come tre punti distinti, sono tre dimensioni
estrinseche.
Il presente prevale, come ora. Gli enti sono chiusi in se stessi.
La temporalità coincide con la temporalità del dasein. È temporalità
esistenziale.
Nella dimensione della temporalità:
futuro a advenire
presente a essere presente
passato a essere stato
La temporalità si orienta a partire dal futuro, perché è la
temporalità del dasein, che è un ente progettante e quindi teso
verso il futuro (advenire).
Nella temporalità il passato non è ciò che non è più, ma si ritrova
nel presente così come il futuro.
Pertanto le tre dimensioni della temporalità si coappartengono, non
sono l’una senza le altre, e sono legate grazie alla progettualità,
ovvero grazie all’apertura all’essere.
Heidegger definisce tali dimensioni come estasi temporali perché
“estasi” letteralmente significa “ciò che sta al di fuori”. Infatti, le
dimensioni che costituiscono la temporalità estatica hanno senso
solo in quanto sono fuori da sé, e sono in relazione alle altre.
Il senso dell’essere:
Temporalità = esistenza autentica = essere per la morte
11
Il senso dell’esistenza autentica, che coincide con l’essere per la
morte, è lo scorrere della temporalità: il tempo, il continuo scorrere,
che alla luce dell’essere per la morte va a declinare e a perdersi nel
nulla.
Quindi, in ultima analisi, il senso dell’essere si rovescia nel nulla
(ottica nichilista).
La svolta: “il secondo Heidegger”:
“Essere e Tempo” è stato interrotto per il “venir meno del
linguaggio”.
Heidegger si rende conto che questa ricerca dell’essere a partire dal
dasein è impraticabile, poiché questi non fa che nullificare il senso
dell’esistenza.
Ma soprattutto percepisce che qualsiasi ricerca e approfondimento
sul rapporto essere-tempo (quindi sul senso dell’essere) sarebbe
stata gravata da un limite fortissimo.
Infatti, avrebbe dovuto usare le categorie, i termini e il linguaggio
della metafisica occidentale, che lui avversa, in quanto ha
dimenticato la differenza ontologica e ha ridotto l’essere a un ente
manipolabile.
Cerca così una nuova strada di pensiero, che recuperi il senso
originario della verità, che sveli la verità come aletheia, e che
mantenga il fondo di oscurità in cui l’essere deve essere preservato.
Elabora così un pensiero non concettuale, che non si modella su
schemi fissi e rigidi: il pensiero rammemorante o poetante.
Con questo, Heidegger si propone di riscoprire la ricchezza di senso
dell’essere.

12
Il linguaggio poetico diventa la “casa” dell’essere, l’ambito originario
in cui l’essere si manifesta.
Nella poesia è l’essere che parla.
Il pensiero rammemorante:
Rammemorante a “memoria” = ricordo di ciò che è assente
Il pensiero rammemorante fa memoria dell’essere e non tenta di
ridurlo ad un ente presente, ma lo lascia sussistere nella sua
assenza, oscurità e differenza rispetto gli enti.
Attraverso un pensiero concettuale l’uomo pretende di diventare il
padrone dell’essere (che diventa ente dominabile). Attraverso il
pensiero rammemorante, invece, il dasein è il pastore dell’essere, il
suo custode in quanto lascia che questo si manifesti senza alcuna
pretesa di dominio.
Dunque Heidegger cambia radicalmente il suo pensiero: non è più
l’uomo che manifesta il senso dell’essere, ma è l’essere stesso che si
rivela all’uomo.
Il pensiero poetante:
Heidegger individua nella poesia, e nel suo linguaggio di immagini e
suggestioni, la forma più originaria della manifestazione dell’essere.
I versi della poesia hanno una capacità infinitamente superiore di
cogliere l’essere rispetto alla tecnica:
il linguaggio poetico non è la parola dell’uomo sull’essere ma è
quella dell’essere sull’uomo stesso.
L’uomo deve abbandonarsi all’essere lasciare che questo si
manifesti liberamente senza pretendere di racchiuderlo in schemi
totalizzanti.
13
L’essere viene concepito come un dono: l’essere non “è” ma si “da”.

Propriamente, però non è l’essere a donarsi.


L’essere si dona negli enti: si manifesta in essi e allo stesso tempo si
sottrae in quanto non si esaurisce in nessun ente.
La logica dell’abbandono è pertanto profondamente diversa dalla
logica della metafisica occidentale.
uomo e essere:
L’essere non è il fondamento delle cose, poiché il fondamento è
sempre un ente, e l’essere non lo è.
Heidegger riscopre il rapporto tra uomo e natura come insieme di
significati che non si aprono direttamente dall’uomo.
L’uomo accede agli enti, li scopre e li comprende solo in quanto si
trova già da sempre inserito in un’originaria apertura di significati, il
“mondo”, che non risale direttamente dall’uomo, ma dipende
dall’essere stesso, che si rivela manifestandosi attraverso gli enti.
Il mondo è inteso da Heidegger quasi come il grembo materno,
ricco di sfondi oscuri, scopribili ma non dominabili; mentre la
metafisica l’ha ridotta a materiale neutro, plasmabile, dove ha
introdotto i propri significati.
La fine della metafisica:
Heidegger cerca di mettere in evidenza i limiti della tecnica in
quanto dominio degli enti.
Tutti gli squilibri, i problemi che la tecnica ha portato sono la
conseguenza della crisi della ragione occidentale, come razionalità

14
calcolante che ha costruito un mondo misurabile, che non si addice
alla manifestazione dell’essere.
Per Heidegger era inevitabile che il pensiero occidentale andasse
verso il declino, portando avanti contraddizioni e incoerenze, che
nonostante tutto hanno aperto la via al rinnovamento.
Articolo di giornale:
L’impianto e la tecnica:
La metafisica Occidentale, che fa tutt’uno con la tecnica, ha ridotto
l’essere a un impianto, ossia ad un oggetto funzionante, una
struttura attraverso la quale è possibile dominare la natura stessa.
Ma nonostante lo abbia ridotto a ciò, si vede un “lampeggiare
improvviso dell’essere” (uomo).
Vi sono tre opinioni sulla tecnica:
 visione totalmente positiva
 visione neutrale: il valore della tecnica dipende dalla
capacità umana di governarla e orientarla in una direzione
piuttosto che in un’altra; dipende dagli scopi.
 visione totalmente negativa
Heidegger non condivide nessuna delle tre posizioni.
Critica le due posizione estremiste in un senso e nell’altro, ma
anche quella neutrale poiché vede la tecnica come uno strumento e
non coglie la sua essenza che sta nel fatto di manifestare l’essere
(anche se in modo imperfetto).
La logica dell’impianto è una sistematica riduzione delle cose a
risorse.

15
Chiarire il significato degli enti in funzione della propria funzione
occulta l’essere.
L’uomo deve dare il proprio contributo aprendo nuove strade per la
manifestazione dell’essere.
Anche nell’orizzonte della tecnica, che riduce l’essere ad impianto
può lampeggiare improvvisamente e inaspettatamente il senso
dell’essere, può diventare evidente ciò che salva (Hölderlin).
n.b.: più volte nei sui scritti Heidegger fa riferimento all’essere come
ciò che salva, facendo quindi un indiretto riferimento alla rivelazione
cristiana (interpretazione religiosa del pensiero di Heidegger).
L’arte:
L’alternativa alla riduzione dell’essere a impianto, ossia l’alternativa
alla tecnica può è essere rappresentata dall’arte (come la poesia)
che è in grado di manifestare gli enti nel loro senso d’essere,
secondo un’apertura ontologica e non ontica.
L’esempio può essere portato dal commento al quadro di Van Gogh,
che rappresenta le scarpe di una contadina (“L’Origine dell’opera
d’arte”).
Commentando il quadro, Heidegger fa capire come l’arte possa
esprimere e manifestare il senso dell’essere: l’arte è la forma più
autentica di pensiero rammemorante.
L’opera d’arte rivela ciò che sono realmente le scarpe: il mezzo
attraverso cui si rivela un infinita apertura di significati che
rimandano al significato oscuro dell’essere.
Autore non indicato nel documento di origine del testo

16
Il pensiero filosofico di Martin Heidegger in “Essere e tempo”
1.
La meditazione filosofica di Martin Heidegger, tedesco del Baden,
nella Foresta Nera, attraversa l’epoca delle Guerre mondiali e quindi
la duplice tragedia della Germania, essendo nato nel 1889 e morto
nel 1976.
Dopo essere divenuto libero docente presso l'università di Friburgo,
divenne assistente di Husserl, il fondatore della corrente filosofica
che prende il nome di fenomenologia. Prese allora il via un periodo
di grande intesa tra i due filosofi. A Friburgo, Heidegger tenne
seminari e corsi sulla filosofia classica e medievale. Lascia Friburgo
per andare ad occupare la cattedra di filosofia dell'università di
Marburgo. Qui tiene lezioni su Kant, Aristotele, Platone e Cartesio
“Essere e Tempo” fu pubblicato nel 1927.
Nel 1928 fu nominato successore di Husserl alla cattedra di
Friburgo.
Nel 1933 Heidegger fu Rettore dell’università di Friburgo e
dapprima sostenne il nuovo corso politico della Germania. L’anno
dopo, dimessosi dall’incarico di rettore per incompatibilità con il
nuovo regime, fu sospettato dalle autorità Naziste e tenuto sotto
sorveglianza e censura.
Nel 1945 invece fu il Governo Militare Americano di occupazione a
impedirgli di continuare ad insegnare nell’Università e persino di
pubblicare.
Egli continuò tuttavia a insegnare “privatamente” all’Università
negli anni successivi, pubblicando i suoi corsi e influenzando
profondamente tutta la cultura europea e mondiale.

17
Morì nel 1967 nella cittadina natale, Messkirch nella Foresta Nera.
2.
La filosofia di Heidegger raccoglie indubbiamente alcune domande
essenziali legate al clima culturale dell’Europa intorno alla Prima
guerra mondiale.
Da un lato si poneva l’esigenza di affrontare il problema della
scienza e della tecnica, che incidevano ormai in tutti i sensi nei
costumi e nella vita delle popolazioni, e che (1927) avevano
mostrato anche la loro terribile potenza distruttiva nel conflitto
mondiale.
Si trattava pure, perciò, di impegnarsi nella ricerca di significati più
originari, che rivelassero all’uomo la sua dimensione autentica
rispetto alla civiltà meccanica.
C’era inoltre il problema di comprendere l’uomo alla luce della sua
storicità e temporalità, come categorie più vere della vita, rispetto
all’astrattezza di una concezione che non tenga conto
dell’esperienza concreta. A questo riguardo era affiorata nella
cultura europea intorno alla Guerra mondiale una Kierkegaard
Renaissance, cioè una ripresa dell’interesse per il filosofo danese
che aveva concepito l’esperienza umana come un’esperienza nella
categoria temporale della possibilità.
3.
Heidegger ripropone la domanda fondamentale della filosofia, cioè
la domanda sull’essere. La domanda sull’essere si configura così:
che senso ha “essere”? Questo significa tentare la comprensione
della realtà nel modo più originario e radicale, a partire cioè non da
determinate regioni dell’essere già disegnate (come fanno le scienze

18
specifiche, es. la biologia il cui oggetto è il mondo organico), ma dal
fondamento stesso d’ogni realtà.
4.
Egli nota come per l'intera ontologia tradizionale del passato
l'essere è qualcosa che si dà per scontato che esista, al di là
dell'apparenza del mondo, per cui l'essere è una presenza che mai si
mostra ma che si intende fondare come qualcosa di necessario in
modo da impedire una caduta nel niente degli enti, i quali, secondo
una distinzione platonica, sono corruttibili nel mondo fisico mentre
sono incorruttibili (una loro parte essenziale) in un mondo
metafisico al di là dell'apparenza.
Tutti parliamo comunemente di “esseri”, di “enti”. Sappiamo che in
questo modo possiamo riferirci a qualsiasi realtà. Ma cosa vuol dire,
alla fine, questo “essere” evocato dalla parola “ente” e che serve a
designare qualsiasi cosa? Cos’è precisamente l’essere dell’ente?
5.
Fra tutti gli enti del mondo, è l’uomo l’ente che pone la domanda
sull’essere. Heidegger dice che l’uomo pone la domanda ontologica.
L’uomo possiede già infatti una comprensione implicita dell’essere
dell’ente, e proprio per questo pone la domanda. Ognuno di noi ha
già, fin da sempre, una comprensione “media e vaga” dell’ente nel
suo essere.
Dunque per porre la domanda sull’essere dell’ente, conviene
interrogare, fra gli innumerevoli enti che ci sono, proprio quell’ente
che pone la domanda.
6.
Va dunque precisato che:

19
l’essere è sempre l’essere di un ente. Cercare l’essere vuol dire
indagare comunque un ente.
l’ente che pone la domanda sull’essere è l’uomo, poiché l’uomo è
già fin dall’inizio aperto all’essere.
Si tratta allora di interrogare l’ente interrogante (cioè l’uomo).
6.
Ma cosa vuol dire interrogare l’ente che interroga (cioè l’uomo)?
Le varie scienze (antropologia, psicologia, biologia ecc.) considerano
l’uomo come un ente tra gli altri. Esse perciò considerano l’uomo
(dice Heidegger) in senso ontico, non ontologico. Invece la filosofia
considera l’uomo come l’ente ontologico, cioè quello che pone la
domanda sull’essere.
7.
Da questo punto di vista, l’uomo non è un che cosa, ma un chi. Cioè:
una esistenza.
8.
Cosa vuol dire una “esistenza”? Esistenza deriva da ex-sistere,
sporger fuori. L’uomo è nel mondo eppure non è nel mondo come
la parte di un tutto, come l’acqua dentro un bicchiere per esempio.
L’uomo è nel mondo come apertura ad esso.
Cioè come perenne possibilità.
Esistere significa infatti per Heidegger "ex-sistere", ovvero non
essere più "un permanere", ma costantemente andare oltre questo
permanere, verso la possibilità aperta, verso la novità degli
accadimenti che permettono all'esistenza di mutare nel corso del
tempo (esistere è divenire). Esistere, per l'uomo, significa quindi
tendere sempre verso una nuova sistemazione della realtà.

20
L'esistenza è una possibilità di rapporti che l'uomo può
determinare, è trascendersi, progettarsi.
Si noti invece come l'essere immutabile della metafisica classica sia
invece un in-sistere, ovvero un permanere entro la propria
condizione, senza possibilità di mutamento.
9.
Infatti, fra tutti gli enti, l’ente-uomo ha una cosa particolare. Mentre
noi pensiamo alle “cose” che incontriamo come a delle presenze
oggettive, l’uomo non è mai una semplice presenza. Anzi. L’indagine
attenta mostra che l’uomo è temporalità. Perché questo?
6.
L’uomo è nel mondo nella dimensione del progettare. Questo
termine non vuol dire che l’uomo necessariamente calcola,
programma, prevede. Vuol dire che l’uomo è sempre in azione sul
mondo, o meglio che incontra il mondo nella situazione in cui egli si
trova, e che è sempre una situazione interessata, influente e
condizionante. Non esiste mai per l’uomo un mondo “neutrale”
oppure una propria neutralità al mondo. L’uomo è Dasein, esser-ci.
7.
Esserci. L'analitica dell'esserci non è studiare il soggetto invece
dell'oggetto, poiché l'esserci è costitutivamente apertura al mondo
e comprensione di esso. L'esserci è essere-nel-mondo, rapporto con
esso, e l'esserci è la totalità del rapporto, non solo un polo di essa.
8.
Il termine tedesco Da-sein indica proprio il fatto che l’uomo e-siste
solo e sempre nel senso di “essere aperto” o anche di “essere
l’apertura”. Apertura a che cosa? Alla totalità del possibile (Welt,
cioè “mondo” nel senso di totalità del possibile).
8.
21
Tuttavia il Da-sein è apertura entro una (determinata) situazione.
“Situazione” vuol dire che l’uomo è situato, cioè immesso in un
certo contesto particolare in cui si trova ad agire. Ma questo agire è
progetto, perché in realtà l’uomo, in ogni situazione, incontra
sempre un “mondo”, cioè una possibilità a cui è aperto.
9.
L’uomo è progetto, nel significato di pro-gettare, sporgersi fuori da.
Concepito come progetto nel senso di interesse condizionante gli
oggetti che incontra, l’uomo non ha a che fare con “cose” che
innanzitutto sono così come sono, nella loro indipendenza e
oggettività, ma con mezzi o strumenti del proprio essere proiettato,
del proprio sporgersi in avanti e oltre.
10.
Il Mondo a cui il Da-sein si apre non è la somma o l’insieme delle
cose semplicemente presenti in esso, o di eventi isolati nello spazio
e nel tempo, secondo l’immagine “naturale” delle scienze. La
considerazione oggettiva delle cose, cioè l’essere inteso come
semplice presenza, proprio delle scienze, consiste in una messa tra
parentesi delle caratteristiche del progetto, cioè dell’interesse,
dell’emotività ecc.
11.
Dunque l’uomo è situato e insieme aperto nel progetto: questa
condizione viene definita da Heidegger con il termine cura. L’uomo
ha sempre a che fare con le cose e la “cura” è la situazione di
comprensione e di affettività che caratterizza il suo aver a che fare
con le cose.
12.
Ma in realtà ciò con cui ha che fare il Da-sein è sempre designato
come significatività, perché ha sempre a che fare con cose “a sua

22
disposizione”, con cose cioè che “servono” a qualcosa, come la
matita per disegnare o il martello per battere.
Questa condizione dell’uomo, che Heidegger definisce nel progetto
situato e nella cura, mette in luce il fatto che
la sua essenza (ciò che l’uomo è) è l’esistenza.
Infatti l’essenza di un ente è data dalla sua definizione. Ma non si
può dare, dell’uomo, altra definizione che quella di essere sempre in
una situazione, nella dimensione del progetto.
13.
Di qui la ripresa della categoria della possibilità, come modo di
essere essenziale dell’uomo. L’uomo è poter-essere. Ma è poter-
essere, in rapporto non a qualche compiutezza già assegnatagli (che
si tratta per lui di raggiungere o non raggiungere). E’ radicalmente
poter-essere, nel senso che il suo essere consiste proprio nel poter-
essere.
14.
Poiché l’uomo è ex-sistenza, i modi in cui è aperto al mondo
saranno dunque modi esistenziali.
15.
Essi si distinguono in situazione emotiva, comprensione e discorso,
che articola i primi due.
16.
L’uomo ha una certa tonalità emotivo-affettiva e comprende.
Ebbene, il suo comprendere corrisponde al poter-essere, che è
l’apertura in cui l’uomo sempre si trova. L’uomo è originariamente
aperto e tale apertura è apertura all’essere. E la tonalità affettiva
significa la stessa cosa, l’essere aperto e quindi il trovarsi sempre
situato in una particolare condizione emotiva. Per Heidegger anche
gli stati emotivi sono il modo di rivelarsi dell’essere. “Situato” e

23
“aperto” coincidono perché esprimono il poter-essere, che non è
una libertà originaria indeterminata, ma il trovarsi sempre in una
situazione nella forma del progetto.
17.
Heidegger dice anche che l’uomo è gettato nel mondo. Esso è
rivelato dalla situazione emotiva e indica insieme la comprensione e
il progetto.
Il progetto, quindi, non è paragonabile all’escogitazione di un piano
mentale, ma piuttosto alla possibilità non dispiegata davanti ma
implicita in una condizione già da sempre data. L’uomo comprende
non nel senso di intuire ciò che gli sta davanti come oggetto, ma a
partire da una pre-comprensione implicita e originaria che orienta
tutto il nostro sapere. Perciò l’uomo parte da una apertura che è la
situazione in cui è gettato.
18.
La cura è l’essere del Da-sein umano, che insieme alla significatività
del mondo ne svela anche la radicale finitezza esistenziale, cioè il
suo essere ogni volta assegnato al mondo e dipendente da esso.In
quanto gettato nel mondo, l’uomo è condizionato dalla situazione in
cui viene a trovarsi. Perciò è comunque in quella condizione di
inautenticità che Heidegger chiama deiezione.
19.
La deiezione (dal lat. deicere, gettar giù) è la condizione per l’uomo
è sempre già nel mondo: in altre parole la sua libertà (poter-essere)
è comunque situata, non indefinita come se l’uomo fosse libero a
partire da una condizione assoluta. L’inautenticità di tale condizione
corrisponde al fatto che si è immersi nei condizionamenti culturali
del proprio ambiente, nelle opinioni comuni ecc. L’uomo è sempre
un individuo nato in un certo luogo, tempo, stato sociale ecc. Perciò

24
il suo poter-essere è compromesso dalla condizione di estraneità a
se stesso.
18.
Il senso della cura è quello della temporalità. Non si tratta qui del
tempo inteso volgarmente come una successione di istanti o una
datazione di eventi, ma dell’unità estatica del passato, presente e
futuro che si apre nel progetto. Estatica vuol dire “che si apre”, che
trascende.
19.
Il problema dell’essere, visto attraverso il Da-sein cioè l’ente che
pone la domanda sull’essere (domanda ontologica), conduce
all’orizzonte del tempo.
Il pensiero greco ha compreso l’ente (in generale) come esser-
presente, cioè come presenza, a partire dunque dal tempo
presente. Tale comprensione si è cristallizzata e irrigidita nel tempo
presente, oscurando la cooriginarietà di passato, presente e futuro
e il legame tra essere e tempo. Questo sta all’origine della deiezione
del Da-sein, che vive in un tempo in autentico, cioè caratterizzato
dal si impersonale e dal mondo spersonalizzato della pubblica
opinione, della civiltà di massa e dei mass-media.
20.
Nell’inautenticità della deiezione l’uomo comprende se stesso
come io-cosificato tra le cose-oggetto, cioè come enti-presenti. L’io-
cosificato è un io senza mondo, isolato come soggetto o coscienza
caratterizzato dalla chiacchiera quotidiana.
21.
La civiltà della tecnica che domina il mondo contemporaneo è
un'estremizzazione del pensiero metafisico classico, in cui vi è un
soggetto (l'uomo) che intende dominare, con la sua volontà di

25
potenza sulle cose, degli oggetti che sono altro da sé. L'essere degli
enti si identifica allora con il ruolo e la funzione che vengono loro
assegnati all'interno del sistema della tecnica.
22.
La tecnica moderna si configura invece come dominio dell'uomo
sulle cose, l'uomo crede che l'essere delle cose sia soggetto al suo
dominio, in realtà l'uomo non è il padrone dell'essere, l'uomo è
tutt'al più il "pastore" dell'essere, ovvero il custode di quella
dimensione che rende possibile agli enti di manifestarsi, custoditi
nell'esistenza stessa dell'uomo, la quale si manifesta proprio entro
l'orizzonte aperto dall'essere. L'essere sopravvive al tentativo di
dominio della tecnica perché non è un ente concreto, l'essere è
solamente la condizione in cui gli enti si manifestano, e la tecnica
può solo occuparsi degli enti concreti (quindi non dell'essere).
23.
Ma in cosa consiste allora l’autenticità della sua condizione? Nella
decisione anticipatrice della morte. Perché? La morte non è un fatto
estraneo all’esistere, anzi! Essa è la possibilità, fra tutte le altre, più
autentica, perché non consiste in una determinazione qualsiasi. La
morte è quella possibilità che, accadendo, si annulla davvero e
definitivamente come possibilità, e insieme annulla ogni altra
possibilità. La morte è la possibilità dell’impossibilità di ogni
possibilità, la possibilità dell’impossibilità dell’esistenza. Mentre
ogni altra possibilità tende a determinarsi e riaprire la possibilità
stessa, la morte no, nega tutte le possibilità: perciò la morte rende
ogni progetto della vita, cioè ogni sforzo che facciamo di
determinarci e definirci, puramente precario e provvisorio. Perciò la
morte illumina il carattere di radicale possibilità dell’esistenza
umana, prima e oltre qualsiasi nostra determinazione. La decisione

26
anticipatrice della morte non è certo il suicidio, ma il progettarsi
dell’esistenza in questa illuminazione.
22.
La morte è ciò che è proprio in maniera autentica di ciascuno. La
decisione anticipatrice della morte apre tutte le altre possibilità in
modo autentico, le rende veramente proprie di chi le sceglie e
perciò libere.
23.
Per Heidegger (e qui vi si possono leggere forti analogie con
Kierkegaard) l'angoscia è la paura che nasce dalla consapevolezza
che con la morte tutto si annulla. L'angoscia che deriva quindi dalla
consapevolezza della nostra finitezza, oltre ad essere uno stato
emotivo indissolubilmente legato all'esistenza autentica è anche un
sentimento positivo, necessario a dare significato autentico alla
nostra vita (chi vive nell'esistenza inautentica tende invece a
dimenticare la morte e ad allontanare l'angoscia).
24.
Heidegger afferma che la nostra vita può svolgersi entro un
orizzonte autentico solamente se le nostre scelte sono rapportate
alla nostra finitezza. Egli pone la "vita-per-la-morte" come concetto
positivo: solo la consapevolezza della nostra finitezza è in grado di
produrre quel significato e quell'attenzione per le cose del mondo
che non potremmo avere se, perduti nell'eternità, avessimo la
consapevolezza di potere goderne in eterno.
autore: Deo gratias
Fonte:
http://www.istituto-santanna.it/Pages/LiceoScientifico/HEIDEGGER.
doc

27
HEIDEGGER

Fu la prima grande figura dell'esistenzialismo contemporaneo.


Venne influenzato da Husserl, al quale dedicò la sua opera Essere e
Tempo. Fu prima professore, poi rettore nell'Università di Friburgo,
ma per breve tempo perché successivamente si tenne lontano dal
mondo universitario e condusse una vita appartata in seguito ad
aver pronunciato nel 1933 il discorso di apertura dell'anno
scolastico, nel quale trasparivano i suoi legami con il nazismo. Nel
discorso diceva di essere contento che Hitler fosse stato eletto, però
non si sa in realtà il legame che aveva con il regime, visto che dopo
la guerra non prese più posizione quando venne intervistato su
questo argomento.
La sua opera più importante è appunto Essere e Tempo, che è
incompiuta: essa doveva essere completata con una terza sezione
chiamata Tempo ed Essere.
A partire dagli anni '30, l'indagine di Heidegger vede una svolta. Egli
si allontana dall'indagine esistenzialistica per la determinazione del
senso dell'essere in generale.
Lo scopo della filosofia di Heidegger è la costituzione di un'ontologia
che arrivi ad una determinazione completa del senso dell'essere.
Egli parte dalla domanda: Che cos'è l'essere? Nella quale si possono
distinguere 3 cose:
1) ciò che si domanda
2) ciò a cui è domandato
3) ciò che si trova domandando
Ciò che si domanda è l'essere stesso, ciò che si trova domandando è
il senso dell'essere, mentre ciò a cui si domanda non può essere che
un ente, visto che l'essere è sempre proprio di un ente. Il primo

28
problema dell'ontologia è quello di determinare qual è l'ente che
dev'essere interrogato. Heidegger spiega che questo ente è l'uomo
stesso, il quale ha un primato ontologico sugli altri enti (ad esempio
animali e piante), visto che è lui che viene interrogato, e il quale
viene designato da Heidegger con il termine Esserci (o Dasein).
L'analisi del modo d'essere dell'Esserci è dunque essenziale, perché
solo interrogandolo si può conoscere cos'è l'essere e trovarne il
senso. Il modo d'essere dell'Esserci è l'esistenza e quindi il primo
compito del filosofo sarà conoscere le caratteristiche dell'esistenza.
1. La prima caratteristica dell'esistenza è la possibilità di rapportarsi
in qualche modo con l'essere;
2. La seconda caratteristica dell'esistenza consiste nella possibilità
d'essere. l'esistenza non è una realtà fissa e predeterminata, ma un
insieme di possibilità tra le quali l'uomo deve scegliere.
3. L'esistenza è quindi progetto. Mentre le cose sono ciò che sono,
ossia delle semplici-presenze, l'uomo è ciò che "ha da essere", cioè
ciò che lui progetta e sceglie di essere. L'esistenza va intesa nel
senso etimologico del termine ex-sistere, cioè trascendere la realtà
in vista della possibilità.
4. Ogni scelta che l'uomo deve fare lo porta a quella che Heidegger
chiama comprensione, che può essere di due tipi:
- Esistentiva od ontica: che concerne l'esistenza concreta di ogni
singolo uomo;
- Esistenziale od ontologica: che indaga teoricamente sulle
strutture fondamentali dell'esistenza, sul senso dell'essere.
Poiché l'esistenza è sempre individuata e singola, cioè non è mai di
un uomo in generale, ma sempre mia, tua, sua esistenza, è evidente
che l'indagine di Heidegger si fonderà sulla comprensione ontica.
5. La comprensione dell'esistenza deve assumere come metodo

29
quello fenomenologico, che ha come scopo quello di descrivere le
strutture esistenziali in modo obbiettivo e imparziale, cioè ha il
compito di descrivere le cose come si manifestano, senza aggiunte o
alterazioni;
6. L'analisi esistenziale di Heidegger esamina l'uomo nella sua
"quotidianità", ossia nelle situazioni in cui l'Esserci si trova
"innanzitutto e per lo più".
L'essere-nel-mondo e l'esistenza inautentica: l'uomo è innanzitutto
essere-nel-mondo, ossia un prendersi cura delle cose che gli
occorrono. Tale cura ha le caratteristiche della trascendenza e del
progetto: l'Esserci trascendendo la realtà di fatto come si presenta a
prima vista, progetta la realtà attraverso un insieme di strumenti
utilizzabili da lui stesso, ad esempio la casa per abitare, la penna per
scrivere. Il prendersi cura delle cose significa utilizzarle, cioè
subordinarle ai propri scopi e ai propri bisogni e l'esistenza di
queste ultime è in relazione all'utilizzazione.
L'essere-nel-mondo è anche essere tra gli altri. Se il rapporto tra
l'uomo e le cose è un prendersi cura delle cose, allora il rapporto tra
l'uomo e gli altri è un prendersi cura degli altri. Esso può assumere
due forme diverse: può significare sottrarre agli altri le loro cure;
oppure aiutarli ad essere liberi di prendersi cura di loro. Nel primo
caso l'uomo non ci cura tanto di aiutare gli altri, ma piuttosto di
procurare a loro le loro cose, nel secondo caso invece l'uomo da agli
altri lo strumento con il quale siano in grado di prendersi cura di se
stessi. La prima è la forma inautentica ed è un semplice stare
insieme, mentre la seconda è la forma autentica e il vero coesistere.

La forma inautentica è il fondamento della vita anonima. Essa è la


vita di tutti e di nessuno; è l'esistenza del "Si". Il linguaggio che è per

30
sua stessa natura lo svelamento dell'essere, ciò con cui l'essere si
esprime e prende corpo, nell'esistenza anonima diventa la
chiacchiera inconsistente. Si fonda sul "si dice" e si fonda
sull'espressione: "la cosa sta così perché così si dice". Un'esistenza
così vuota cerca di riempirsi attraverso la curiosità, che è il
vociferare continuo non di ciò che è, ma di ciò che sembra. E dalla
curiosità nasce l'equivoco, che è il terzo contrassegno dell'esistenza
anonima, corrisponde nel non sapere neanche più di cosa si sta
parlando.
Heidegger non condanna comunque l'esistenza anonima, anche
perché gli esistenzialisti non si spingono a pronunciare giudizi; egli
dice che essa fa parte della struttura esistenziale dell'uomo, è una
delle possibilità tra le quali l'uomo può scegliere.
Alla base di questo poter scegliere però c'è quella che Heidegger
chiama deiezione, cioè la caduta dell'essere dell'uomo nel mondo,
essa fa parte essenziale dell'essere dell'uomo. Le emozioni che
accompagnano la consapevolezza di questa deiezione sono la paura
(inautenticità) e l'angoscia (autenticità), l'uomo si sente
abbandonato ad essere ciò che è di fatto, cioè conosce la noia, che è
l'abbandonarsi agli eventi. Essa nasce dalla precarietà delle scelte,
dalla troppa preoccupazione che abbiamo e che alla fine si dimostra
vana.
L'esistenza è possibilità, cioè un progettarsi in avanti, ma questo
progetto in avanti non fa che cadere all'indietro, su ciò che
l'esistenza è di fatto. Visto che l'uomo è libero di progettare la sua
vita nel futuro, ma non ha potuto scegliere ad esempio se nascere
maschio o femmina.
L'esistenza autentica: finora Heidegger ha concentrato l'attenzione
sulla quotidianità e sull'inautenticità, ora considera l'Esserci nella

31
sua totalità e autenticità. Il concetto fondamentale della vita
autentica è la morte. La morte per l'uomo non è un termine finale,
essa è per l'Esserci la possibilità più certa, più incondizionata e
insuperabile. Soltanto nel riconoscere la possibilità della morte,
l'uomo ritrova il suo essere autentico e comprende veramente se
stesso. L'angoscia è la situazione emotiva che accompagna la
consapevolezza della morte, essa colloca l'uomo davanti al nulla.
L'uomo però non deve avere paura della morte, anche perché
fuggire di fronte alla morte fa parte dell'esistenza anonima e
inautentica. L'uomo che vive la vita autentica deve scegliere di
vivere per la morte, deve essere-per-la-morte. Questo però non
vuol dire che l'uomo deve cercarla con il suicidio e non deve essere
neanche un'attesa, perché anche l'attesa mira alla realizzazione. La
morte è la certezza alla quale non possiamo sottrarci ed è anche la
possibilità che rende impossibili le altre possibilità. L'uomo farà le
stesse cose che faceva prima, ma con una nuova consapevolezza.
Colui che vive la vita autentica non se la prende per cose inutili,
perché ha sempre in mente l'atto conclusivo. Questo lo libera dalla
noia, dall'angoscia e dall'anonimato, ossia dalla vita inautentica.
La voce della coscienza: è l'Esserci che comprende la propria nullità:
1. Nel fatto che l'uomo pur essendo fondamento di se stesso, grazie
al progetto, non può essere fondamento del proprio fondamento,
ossia del proprio essere;
2. Nel fatto che l'uomo nel progettare determinate possibilità, ne
esclude e ne nega altre. Questo coincide con un senso di colpa che
spinge l'uomo a decidere per il nulla.
Fonte: http://www.scicom.altervista.org/etica/HEIDEGGER.doc
Autore: non indicato nel documento di origine del testo

32
Martin Heidegger
1. Vita e opere
L'esponente principale della Filosofia dell'esistenza è Martin
Heidegger. Nato a Messkirch nel 1889, studiò teologia e filosofia Nel
1927 esce il lavoro fondamentale di Heidegger Essere e tempo. Nel
1933 Heidegger, che aveva aderito al nazismo, divenne rettore
dell'Università divenne rettore dell'Università di Friburgo e
pronunciò il discorso L'autoaffermazione dell'università tedesca.
Dalla carica di rettore si dimise poco dopo. Heidegger è morto nel
1976.
2. Dalla Fenomenologia all'Esistenzialismo
Lo scopo dichiarato di Essere e tempo è quello di una ontologia
capace di determinare in maniera adeguata il senso dell'essere. Ma,
per raggiungere tale scopo, occorre analizzare chi è colui che si
pone la domanda sul senso dell'essere. E se Essere e tempo sirisolve
in un'analitica esistenziale, suquell'ente (l'uomo) che si interroga sul
senso dell'essere, gli scritti che vanno dal '30 in poi abbandonano
l'impostazione originaria: non si tratta più di analizzare quell'ente
che cerca vie d'accesso all'essere, ma si punta sull'essere stesso e
sulla sua autorivelazione.
3. L'Esserci e l'analitica esistenziale
Il problema del senso dell'essere pone subito questo interrogativo:
«Presso quale ente deve venir carpito il senso dell'essere?».
Ebbene, prosegue Heidegger, «se il problema dell'essere deve venir
esplicitamente posto in tutta la sua trasparenza, allora [ ... ] si rende
necessaria la messa in chiaro delle maniere di penetrazione
nell'essere, di comprensione e di possesso concettuale del suo

33
senso, nonché la delucidazione della possibilità di una retta scelta
dell'ente esemplare e l'indicazione dell'autentica via d'accesso a
questo ente. Penetrazione, comprensione, delucidazione, scelta,
accesso, sono momenti costitutivi del cercare e nello stesso tempo
modi di essere di un determinato ente, e precisamente di
quell'enteche, nol che cerchiamo, già siamo ». Per tutto ciò,
«elaborazione del problema dell'essere, viene dunque a significare:
rendersi trasparente di un ente, porre il cercante nel suo essere». E
in ciò consiste l'analitica esistenziale. L'uomo è, dunque, l'ente che
si pone la domanda sul senso dell'essere. Per questo, una corretta
impostazione del problema del senso dell'essere richiede una
esplicitazione preliminare di quell'ente che si pone la domanda sul
senso dell'essere: e «questo ente che noi stessi già sempre siamo, e
che ha, fra le altre possibilità di essere, quella di cercare, noi lo
indichiamo col termine Esserci (Dasein)». L'uomo, considerato nel
suo modo di essere, è appunto Da-sein, esser-ci; e il «ci» (da) sta ad
indicare il fatto che l'uomo è sempre in una situazione, gettato in
essa, e in rapporto attivo nei suoi confronti. L'Esserci, cioè l'uomo,
non è soltanto quell'ente che pone la domanda sul senso
dell'essere, ma è anche quell'ente che non si lascia ridurre alla
nozione di essere, accettata dalla filosofia occidentale che identifica
l'essere con l'oggettività, ossia, come dice Heidegger, con la
semplice presenza. Le cose sono certamente diverse una dall'altra,
ma tutte sono oggetti (ob -jecta) posti davanti a me: e in questo loro
essere presente la filosofia occidentale ha visto l'essere. Ma l'uomo
non può ridursi ad un oggetto puro e semplice nel mondo; I'Esserci
non è mai una semplice-presenza, giacché esso è proprio quell'ente
per cui le cose sono presenti. Il modo di essere dell'Esserci è
l'esistenza: «la "natura", l' "essenza" dell'Esserci consiste nella sua

34
esistenza». E l'essenza dell'esistenza è data dalla possibilità, che non
è una vuota possibilità logica né una semplice contingenza empirica.
L'essere dell'uomo è sempre una possibilità da attuare, e di
conseguenza l'uomo può scegliersi, può cioè conquistarsi o
perdersi.
4. L'essere-nel-mondo
L'uomo è quell'ente che si interroga sul senso dell'essere. L'uomo
non può ridursi ad un puro oggetto, cioè ad un semplice esser-
presente. Il modo di essere dell'uomo è l'esistenza. L'esistenza è
poter-essere. Ma poter-essere vuol dire progettare. Per questo
l'esistenza è essenzialmente trascendenza, identificata da Heidegger
con l'oltrepassamento. L'uomo è progetto e le cose del «mondo»
sono originariamente utensili in funzione del progettare umano.
Tutto questo ci introduce alla trattazione di quel carattere
fondamentale del I'uomo che Heidegger chiama l'essere-nel-
mondo. L'uomo è-nel-mondo. Il mondo è un complesso di strumenti
«per» l'uomo,un insieme di utensili, vale a dire di cose da
adoperare, alla mano, e non di cose da contemplare come presenti.
L'esistenza è poter-essere, progetto, trascendenza verso il mondo:
essere-nel-mondo significa, dunque, originariamente fare del
mondo il progetto delle azioni e dei possibili atteggia menti
dell'uomo. La trascendenza istituisce il progetto o l'abbozzo di un
mondo: essa è un atto di libertà, anzi, per Heidegger, è la libertà
stessa. Tuttavia, se è vero che qualsiasi progetto si radica in un atto
di libertà, è pur vero che ogni progetto limita immediatamente
l'uomo che si ritrova dipendente da bisogni e limitato dall'insieme di
quegli utensili che è il mondo. Essere-nel-mondo, quindi, vuol dire
per l'uomo prendersi cura delle cose che occorrono ai suoi progetti,

35
avere a che fare con una realtà-utensile, mezzo per la sua vita e per
le sue azioni.L'essere delle cose equivale al loro essere utilizzate
dall'uomo. L'uomo non è pertanto uno spettatore del gran teatro
del mondo: l'uomo è nel mondo, coinvolto in esso, nelle sue
vicende. E trasformando il mondo, egli forma e trasforma se stesso.
Le cose sono sempre strumenti: se conviene, potranno essere viste
come strumenti che soddisfano un piacere estetico; ma, se lo si
ritiene utile, potranno venir viste «obiettivamente», cioè
scientificamente, sullo sfondo di un progetto totale. L'uomo capisce
una cosa quando sa che cosa farsene, come capisce se stesso
quando sa che cosa può fare di sé, quando cioè sa che cosa può
essere.
5. L'essere-con-gli altri
Se l'essere-nel-mondo (in der- Welt-sein) è un esistenziale, anche
l'essere-con gli altri (Mit-sein) è un esistenziale. Non c'è «un
soggetto senza mondo», e parimenti non c'è «un io isolato senza gli
altri. Essendo l'esistenza costitutivamente apertura, fin dall'origine
gli altri io, in quanto tali, sono partecipi dello stesso mondo nel
quale io vivo. D'altro canto, come l'essere-nel-mondo dell'uomo si
esprime nel prendersi cura delle cose, così il suo essere-con-gli altri
si esprime nell'aver cura degli altri . E l'aver cura degli altri può
prendere due direzioni: nella prima si cerca di sottrarre gli altri dalle
loro cure, nella seconda li si aiuta ad acquistare la libertà di
assumersi le loro cure. Nel primo caso si ha un semplice «essere
insieme» e siamo davanti ad una forma inautentica di coesistenza;
nel secondo caso, invece, si ha un autentico «coesistere».
6. L'essere-per-la morte, esistenza inautentica ed esistenza
autentica

36
L'esserci c'è e ha da essere; l'uomo cioè si trova sempre in una
situazione, e fronteggia questa situazione con il suo progettare. Ma
in quanto rivolge la sua « cura» al piano «ontico» o «esistentivo»,
cioè al piano degli enti nella loro fattualità, l'uomo rimane
nell'esistenza inautentica. In questa, l'uomo adopera le cose, le
utilizza, e stabilisce rapporti sociali con altri uomini. Ma tutti questi
progetti, in una sorta di moto vorticoso, rigettano l'uomo al livello
dei fatti. L'utilizzazione delle cose si ritrasforma in fine a se stessa. Il
linguaggio allora si trasforma nella chiacchiera dell'esistenza
anonima che sottostà all'assioma «la cosa sta così perché così si
dice». Una siffatta esistenza anonima cerca di riempire il vuoto che
la caratterizza rincorrendo di continuo il nuovo: essa annega nella
curiosità. E, infine, oltre la chiacchiera e la curiosità, la terza
caratteristica dell'esistenza inautentica è l'equivoco: l'individualità
delle situazioni, in una esistenza divorata dalla chiacchiera e dalla
curiosità, svanisce nella nebbia dell'equivoco. L'esistenza
inautentica è un'esistenza anonima: è l'esistenza del «si dice» e del
«si fa». L'analisi esistenziale rivela che l'esistenza anonima è un
costitutivo poter essere dell'uomo; e alla base di tale poter essere
c'è, dice Heidegger, la deiezione, vale a dire la caduta dell'uomo sul
piano delle cose del mondo. Senonché, esiste la voce della
coscienza che richiama all'esistenza autentica, allorché ci si pone
non più sul piano «ontico» o «esistentivo», bensì su quello
«ontologico» o « esistenziale» e si cerca il senso dell'essere degli
enti, il senso cioè del loro esistere. La voce della coscienza riporta
l'uomo travolto dalla cura davanti a se stesso, richiamandolo alla
questione di ciò che egli è nel più profondo e che non può
occultare. L'esistenza, come già sappiamo, è poter-essere.
I progetti e le scelte dell'uomo sono, in fondo, tutti equivalenti:

37
posso dedicare la mia vita al lavoro, allo studio, alla ricchezza o a
qualunque altra cosa, ma posso essere uomo sia scegliendo una
possibilità sia scegliendo l'altra. E per tale ragione che,
considerando come ultima e decisiva una di queste scelte o
possibilità, l'uomo si decide per e si disperde in una esi stenza
inautentica. Tuttavia, tra le varie possibilità ce n'è una diversa dalle
altre a cui l 'uomo non può sfuggire: si tratta della morte. Difatti,
posso decidere di spendere la vita per uno scopo o per un altro,
posso scegliere una professione o un'altra, ma non posso non
morire. Allorché la morte diventa realtà, l'esistenza non c'è più. Ciò
fa capire che, finché c'è l'esistenza, la morte è una possibilità
permanente ed es sa è la possibilità che tutte le altre possibilità
divengano impossibili. La voce della coscienza ci richiama, dunque,
al senso della morte, e svela la nullità di ogni progetto: dalla
prospettiva della morte tutte le situazioni singole appaiono come
possibilità che possono diventare impossibili. In questo modo la
morte proibisce il fissarci su di una situazione, mostra la nullità di
ogni progetto, fonda la storicità dell'esistenza. L'esistenza autentica,
pertanto, è un essere-per-la-morte. E soltanto comprendendo la
possibilità della morte come impossibilità dell'esistenza, soltanto
assumendo questa possibilità con una decisione anticipatrice,
l'uomo ritrova il suo essere autentico.
7. Il coraggio dinanzi all'angoscia
Il «vivere per la morte» costituisce, pertanto, il senso autentico
dell'esistenza. Il «vivere-per-la-morte» ci stacca dall'essere
sommersi nei fatti e nelle circostanze. L'anticipazione della morte
(che non significa affatto il realizzarla con il suicidio) dà senso
all'essere degli enti, attraverso l'esperienza del loro nulla possibile.

38
Tale esperienza, tuttavia, non si ha ad opera di un atto intellettivo,
quanto piuttosto attraverso quello specifico sentimento che è
l'angoscia. «L'essere-per la-morte è essenzialmente angoscia».
L'angoscia pone l'uomo davanti al nulla, al nulla di senso, cioè al
nonsenso dei progetti umani e della stessa esistenza. Esistere
autenticamente implica avere il coraggio di guardare in faccia alla
possibilità del proprio non essere, di sentire l'angoscia dell'essere-
per-la-morte. L'esistenza autentica, dunque, significa l'accettazione
della propria finitezza. E questa l'accettazione cui richiama la voce
della coscienza: I'accettazione della propria finitezza e negatività.
L'esistenza inautentica e anonima, invece, ha paura dell'angoscia di
fronte alla morte, talché, per sfuggire all'angoscia, l'esistenza
anonima si affaccenda con le cose e sprofonda nel regno del si
(man): «I'esistenza anonima e banale non ha il coraggio
dell'angoscia dinanzi alla morte». E questo si vede già nel fatto che
l'esistenza anonima banalizza l'angoscia nella paura.
8.Il tempo
Dato che l'esistenza è possibilità e progettazione, tra le
determinazioni del tempo (passato, presente, futuro) quella
fondamentale—scrive Heidegger in Essere e fempo—è il futuro:
«Ilprogettarsi-in-avanti- sull'"in-vista-di-se-stesso", progettarsi che si
fonda sull'avvenire, è un carattere essenziale della esistenzialità. Il
suo senso primario è l'avvenire». Tuttavia, la cura, che anticipa delle
possibilità, sorge dal passato e lo implica. E tra passato e futuro c'è
quell'affaccendarsi con le cose che è il presente. Queste tre
determinazioni del tempo trovano il loro significato nel loro esser «
fuori di sé»: il futuro è un protendere, il presente è un essere presso
le cose, il passato è un ritornare ad una situazione di fatto per

39
accettarla. E questa la ragione per cui Heidegger chiama i tre
momenti del tempo estasi, da intendersi in senso etimologico di
«stare fuori». In ogni caso, le tre determinazioni del tempo mutano,
ciascuna, in base al fatto che si tratti di tempo autentico o di tempo
inautentico, dove il tempo autentico è quello dell'esistenza
autentica e quello inautentico è tipicizzato dalla preoccupazione per
il successo, è l'attenzione alla riuscita; mentre nell'esistenza
autentica, che assume la morte come possibilità qualificante
dell'esistenza, il futuro è un vivere per la morte che non permette
all'uomo di venir travolto nelle possibilità mondane. E se il passato
autentico è non l'accettare passivamente la tradizione, ma un
affidarci alle possibilità che la tradizione ci offre e rivivere le
possibilità del l'uomo che è già stato, il presente autentico è
l'istante, in cui l'uomo ripudia il presente inautentico (dove l'uomo è
assorbito senza requie nelle cose da fare) e decide il suo destino. Da
questa analisi del tempo derivano, tra altre, alcune conseguenze di
rilievo nel pensiero di Heidegger. 1) I significati del tempo usati nel
pensiero comune e nella scienza (la databilità e la misura scientifica
del tempo) sono tempo inautentico, giacché rimandano all'esistenza
gettata tra le cose del mondo. 2) L'esistenza autentica è l'esistenza
angosciata che vede l'insignificanza di tutti i progetti e i fini
dell'uomo. L'uomo che vive autenticamente seguita a vivere la vita,
per così dire, banale del suo tempo e del suo popolo, ma la vive con
tutto quel distacco proprio di chi ha avuto, attraverso l'esperienza
anticipatrice della morte, la rivelazione del nulla degli umani
progetti e della esistenza umana.
9. La metafisica occidentale come «oblio dell'essere»

40
Il compito dichiarato di Essere e tempo è quello della
determinazione del senso dell'essere. Senonché, questa
interrogazione—che si è snodata nell'analitica esistenziale, cioè
nell'analisi delle strutture dell'esistenza—ha dato come risultato che
il senso dell'essere non si può ottenere attraverso l'interrogazione di
un ente. L'analisi dell'esistenza fa vedere che l'esistenza autentica è
il nulla di ogni progetto e il nulla della stessa esistenza. L'analisi
dell'Esserci, cioè di quel l'ente privilegiato che si pone la domanda
del senso dell'essere, non rivela il senso dell'essere, bensì il nulla
dell'esistenza. Queste considerazioni vengono esplicitate da
Heidegger nella sua Introduzione alla metafisica (1956) che si
presenta come una critica radicale alla metafisica classica. La
metafisica classica, da Aristotele a Hegel e allo stesso Nietzsche, ha
fatto ciò che l'analitica esistenziale ha mostrato essere impossibile:
ha cercato il senso dell'essere indagando gli enti. La metafisica ha
identificato l'essere con l'oggettività, cioè con la semplice-presenza
degli enti. In questo modo essa non è metafisica ma una «fisica»,
assorbita dalle cose, che ha obliato l'essere, e che anzi conduce
all'oblio di questo oblio. Platone, dice Heidegger, è stato il primo
responsabile della degradazione della metafisica a fisica. I primi
filosofi (Anassimandro, Parmenide, Eraclito) avevano concepito la
verità come un dis-velarsi dell'essere, come testimonierebbe il
senso etimologico di alétheia, dove lantháno (velare) è preceduto
dall'a privativo. Senonché, Platone ha respinto la verità come «non-
nascondimento» dell'essere ed ha capovolto il rapporto tra essere e
verità, fondando l'essere sulla verità, nel senso che la verità
starebbe nel pensiero che giudica e stabilisce rapporti tra i propri
«contenuti» o «idee», e non nell'essere che si svela al pensiero. In

41
tal modo l'essere dovrebbe finitizzarsi e relativizzarsi alla mente
umana, anzi al suo linguaggio.
10. Il linguaggio della poesia come linguaggio dell'essere
E ben vero che siamo noi a «parlare il linguaggio», ma quel
patrimonio di parole, di regole logiche, grammaticali e sintattiche
che è il linguaggio pone limiti invalicabili a quel che possiamo dire. Il
linguaggio dell'uomo può parlare degli enti, non dell'essere. Per
questo la rivelazione dell'essere non può essere l'opera di un ente,
seppur privilegiato come l'Esserci, ma può aversi soltanto attraverso
l'iniziativa dell'essere stesso. Qui sta la «svolta» del pensiero di
Heidegger. L'uomo non può svelare il senso dell'essere. Egli ha da
essere il pastore dell'essere e non il padrone dell'ente: e la sua
dignità «consiste nell'esser chiamato dall'essere stesso a far da
guardia alla sua verità». Per questo occorrerà risollevare la filosofia
dalla sua deformazione «umanistica» al «mistero» dell'essere, al
suo originario disvelarsi. Ma dov'è che avviene questo svelarsi
dell'essere? L'essere, dice Heidegger, si svela nel linguaggio, ma non
nel linguaggio scientifico proprio degli enti, o nel linguaggio
inautentico della chiacchiera, bensì nel linguaggio autentco della
poesia. Nella forma aurorale della poesia, la parola ha un carattere
«sacrale»: la poesia, lingua originaria, dà nome alle cose e fonda
l'essere. Questa fondazione dell'essere, però, non è opera
dell'uomo, bensì un dono dell'essere. Nel linguaggio del poeta non è
l'uomo che parla, ma il linguaggio stesso e in questo l'essere. Di
conseguenza, il giusto atteggiamento dell'uomo nei confronti
dell'essere è quello del silenzio per l'ascolto dell'essere;
l'abbandono (Gelassenheit) all'essere è il solo atteggiamento
corretto. L'uomo, pertanto, deve rendersi libero per la verità,
concepita come svelamento dell'essere. E con ciò, libertà e verità si
42
identificano. E, come la verità, anche la libertà è un dono dell'essere
all'uomo, una iniziativa dell'essere.
11. La tecnica e il mondo occidentale
Sono, dunque, i «pensatori essenziali» (quali Anassimandro,
Parmenide, Eraclito, Holderlin) ad essere testimoni o ascoltatori
della voce dell'essere, e non la metafisica occidentale. Il padrone
dell'ente non è il pastore dell'essere. Ma l'uomo occidentale, proprio
in forza di quella «fisica» che ha preteso di essere «metafisica», si è
trasformato in padrone dell'ente. La realtà, per Heidegger, è che la
tecnica è l'esito scontato di quello sviluppo per cui l'uomo, obliando
l'Essere, si è lasciato travolgere dalle cose, rendendo la realtà puro
oggetto da dominare e da sfruttare. E questo atteggiamento, che
non si fermerà nemmeno quando arriva—come oggi accade—a
minacciare le basi della vita stessa, è un atteggiamento ormai
onnivoro; si tratta di una fede, della fede nella tecnica come
dominio su tutto.
Tratti essenziali e sviluppi dell'Esistenzialismo
1. Lineamenti generali
1.1. L'esistenza è «poter-essere», cioè «incertezza, rischio e
decisione»
L'Esistenzialismo o Filosofia dell'esistenza si afferma in Europa
appena dopo la prima guerra mondiale, si impone nel periodo tra le
due guerre e si sviluppa ancora e si espande sino a diventare una
moda soprattutto nei due decenni successivi alla seconda guerra
mondiale. Esprime e porta a consapevolezza la situazione storica di
una Europa dilaniata fisicamente e moralmente da due guerre; di
una umanità europea che, tra le due guerre, sperimenta in mol te
delle sue popolazioni la perdita della libertà con regimi totalitari
43
che, benché di segno opposto, I'attraversano dagli Urali
all'Atlantico, dal Baltico alla Sicilia. L'epoca dell'Esistenzialismo è
un'epoca di crisi: della crisi di quell'ottimismo romantico che per
tutto l'Ottocento e il primo decennio del Novecento «garantiva», in
nome della Ragione, dell'Assoluto, dell'Idea o dell'Umanità, il senso
della storia, «fondava» valori stabili e «assicurava» un Progresso
sicuro e inarrestabile. L'Idealismo, il Positivismo e il Marxismo sono
tutte filosofie ottimistiche che presumono di aver colto il principio
della realtà e l'assoluto senso progressivo della storia.
L'Esistenzialismo, invece, considera l'uomo come un essere finito,
«gettato nel mondo», continuamente lacerato in situazioni
problematiche o assurde. La non identificazione della realtà con la
razionalità si accompagna come elemento caratterizzante ad altri
tre punti nodali del pensiero esistenzialista che sono: 1) la centralità
dell'esistenza come modo di essere di quell'ente finito che è l'uomo;
2) la trascendenza dell'essere (il mondo e/o Dio) cui l'esistenza si
rapporta; 3) la possibilità come modo di essere costitutivo
dell'esistenza e quindi come categoria insostituibile nell'analisi
dell'esistenza stessa. L'uomo sarà quello che egli ha deciso di
essere. Il suo modo di essere, l'esistenza, è un poter-essere, un uscir
fuori—così ha scritto Pietro Chiodi—verso la decisione e
l'autoplasmazione, un ex-sistere. L'esistenza è, dunque, un poter-
essere e, pertanto, è «incertezza, problematicità, rischio, deci sione,
slancio in avanti». Ma: slancio verso che cosa? E proprio qui—dice
ancora Chiodi—che cominciano a dividersi le correnti
dell'Esistenzialismo, a seconda delle risposte che sono: Dio, il
mondo, se stesso, la libertà, il nulla.
1.2. Presupposti remoti e prossimi dell'Esistenzialismo

44
Precisati, pur se rapidamente, i preliminari tratti concettuali,
occorre fissare ancora alcuni punti:-~ 1) L'Esistenzialismo—dalla
prospettiva della storia delle idee—si presenta come una delle
manifestazioni della grande crisi dell'Hegelismo, manifestazioni che
si sono espresse nel pessimismo di Schopenhauer, nell'umanesimo
di Feuerbach e nella filosofia di Nietzsche e che, per altro verso,
trovano il loro corrispettivo nell'opera letteraria, così intrisa di tanto
profonda problematicità umana, di Dostojevskij e di Kafka. 2) Alla
radice dell'Esistenzialismo si trova il pensiero di Kierkegaard. 3) Se
Kierkegaard è la radice remota dell'Esistenzialismo, la
Fenomenologia ne è la radice prossima. L'Esistenzialismo si articola,
infatti, in un continuo esercizio di analisi dell'esistenza, e delle
relazioni dell'esistenza umana con il mondo delle cose e quello degli
uomini. 4) L'analisi dell'esistenza non è stata oggetto soltanto di
opere filosofiche, come è il caso dell'analitica esistenziale condotta
col metodo fenomenologico da Heidegger in Essere e tempo, ma
anche di una vasta opera letteraria (teatro, romanzi) che soprattutto
con Sartre, Camus e Simone de Beauvoir ha sottolineato i tratti
meno nobili, più tristi e dolorosi delle umane vicende.
I pensatori più rappresentativi dell'Esistenzialismo
I rappresentanti più prestigiosi dell'Esistenzialismo sono Martin
Heidegger e Karl Jaspers in Germania; Jean-Paul Sartre, Gabriel
Marcel, Maurice Merleau-Ponty e Albert Camus in Francia; Nicola
Abbagnano in Italia.
Fonte:
http://www.adripetra.com/DidatticaDispense/TerzoTr/Filosofia/Hei
degger.doc
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
45
Martin Heidegger vita opere biografia riassunto
L'Essere secondo Heidegger
La concezione dell’essere proposta da Heidegger riveste una
particolare importanza, in quanto essa ha improntato di sé tutto il
dibattito su questo tema condotto dalla filosofia del nostro secolo.
Heidegger contrappone la sua concezione metafisica imperniata
sull’essere in generale a quella prevalente fondata sulla distinzione
tra essere ed ente e si chiede se “è questa distinzione che ha il
proprio fondamento nella natura dell’uomo”, come voleva Kant, o
se è “la natura dell’uomo che si fonda su questa distinzione”. Infatti,
poiché a partire da Cartesio solo la ragione può rappresentarsi una
simile distinzione, e, poiché tutta la filosofia precedente, e non solo
quella moderna, ha riconosciuto nella razionalità l’essenza
dell’uomo, ne discende che questa distinzione metafisica non fa
altro che giustificare la “soggettività” dell’uomo[2].
In particolare, per Leibniz, l’unità dell’essere, ovvero la ragion
sufficiente dell’essere in generale, può ritrovarsi solo in un principio
di identità, che in realtà è ricalcato sulla individuità della sostanza.
L’essere sorge già dalla individuità della cosa, perciò per Leibniz
essere e vero essere coincidono, ma, nello stesso tempo, proprio
perché l’individuità rimanda subito all’essere e alla sostanza, la
verità non può che risultare trascendentale. In quanto verità, tale
trascendentalità viene colta dalla ragione dell’uomo. In tal modo, si
afferma la centralità dell’uomo, in quanto soggettività e in quanto
razionalità. A questa ragion sufficiente e a questa trascendentalità
Heidegger ne contrappone altre e dice che l’autentica ragion
sufficiente è data dalla libertà, non dalla razionalità. Inoltre, il dis-
velamento si attua non conoscendo ma stando emotivamente nel
46
mondo e progettandolo, cioè “slanciandosi in avanti”.
L’unità dell’essere è già anticipata dalla costituzione dell’Esserci, il
quale “è coinvolto nell’ente in modo tale che, facendone parte, è
accordato ad esso”. Ontologicamente questa possibilità dell’Esserci
viene assicurata dalla “Cura”, a partire dalla quale si concretizza una
prima comprensione dell’essere, completamente diversa, però, dal
conoscere teoretico[3].
La “Cura”, infatti, predispone ad una condizione estatica che supera
la duplicità di un dentro e di un fuori, o, se si vuole, di un soggetto e
di un oggetto, e, pertanto, si può acquisire al di là del “punto di vista
della “soggettività” e della “sostanza”, così come sono concepite dal
pensiero[4].
Dunque, Heidegger vuole superare l’artificiosa distinzione tra essere
ed ente, ma, si badi bene, con ciò non intende occultare la
contrapposizione tra essere ed onticità dell’ente. L’unità tra essere
ed ente è pensabile solo in quanto l’ente manifesta l’essere, mentre
viene esclusa qualsiasi considerazione scientifica dell’ente, il che
significa che si nega una piena autonomia all’ente preso
singolarmente, dato che questo viene subito situato
ambientalmente, o riportato alla totalità dell’ente.
L’ente situato e la totalità dell’ente anticipano e manifestano
l’essere in generale. La preclusione dell’autonomia dell’ente
particolare, però, pregiudica anche l’autonomia delle singole
relazioni tra le cose e le loro strutture determinate, poiché queste
ultime hanno senso solo se vengono collocate nella struttura più
complessiva della “cura” e della utilizzabilità globale, quali si
riscontrano nella temporalità lunga della continuità di vita. La stessa
singola emozione ha valore solo se coglie esteticamente questa
totalità di enti e di usi, e solo se unifica, di nuovo esteticamente, le

47
temporalità disperse. L’onticità dell’ente, in quanto tale, viene
equiparata ad una colpa, alla colpa originaria dell’esser gettati in un
mondo di semplici presenze e in una socialità dominata dalla
chiacchiera del “Si”. Perciò, l’atteggiamento autentico da assumere
nei confronti dell’ente così configurato non può che essere il
“rifiuto”. Solo così l’ente rivela la sua vera essenza che è quella del
“nulla”, il quale non è assimilabile al “niente”, perché non ignora
l’ente ma lo “oltrepassa” come “oggetto”, rendendolo atto a
rivelare l’essere[5].
Annullare l’ente onticamente inteso, per valutarne la sua portata
esistenziale ed ontologica, questo è il programma di Heidegger. Ora,
vedremo che così come si privilegia una particolare dimensione
dell’ente, quella totalizzante, a scapito di un’altra, quella della sua
identificazione; allo stesso modo, si svaluterà sia la soggettività, sia
la socialità, intese nella loro specificità ed autonomia, per
prospettare una nuova categoria: quella della ipseità.
L’ipseità rappresenta un “poter-esser-se-Stesso autentico” che si è
liberato dall’abbraccio asfissiante del “Si”. L’ipseità, dice Hiedegger,
è una trascendenza che oltrepassa qualcosa e si muove 'da’
qualcos’altro'.
A questo proposito, provvisoriamente, il filosofo tedesco ammette
la possibilità di utilizzare il termine “soggetto”, ma poi precisa che
forse è opportuno evitare tale denominazione, perché, in realtà,
con la ipseità non viene superato né l’oggetto soltanto, né la
“relazione fra soggetto e oggetto”. Questo non perché Heidegger
escluda qualsiasi rapporto tra i due fattori, ma perché questo
rapporto è sempre situato in una “visione ambientale preveggente”,
che struttura la relazione, intesa in senso stretto, in un contesto più
ampio.

48
Ciò che viene confutato, quindi, è la reciproca posizione autonoma
del soggetto e dell’oggetto all’interno di questa struttura più ampia.
In particolare, “ciò rispetto a cui” si verifica l’oltrepassamento è
costituito dal mondo, perché l’Ipseità deve superare, ad un tempo,
il soggetto e l’ente che egli non è, cioè “la natura”.
Lo sradicamento del soggetto è completo proprio perché colpito nel
suo fondamento, cioè nella possibilità di riferirsi autonomamente e,
quindi, secondo Heidegger, prepotentemente rispetto al mondo.
Ma, inevitabilmente, colpendo “la relazione fra soggetto e oggetto”,
si colpisce anche l’autonomia del mondo. Heidegger, a dire il vero,
attua sì una distinzione tra uomo e mondo, ma essa non diventa mai
un riconoscimento della loro piena autonomia. Anzi, il suo progetto
è quello di annullare contestualmente il soggetto ed il mondo,
onticamente intesi. Se l’uomo, perciò, vuole veramente “esser-
fondamento”, deve attingere al suo fondamento, che è quello della
libertà. Per progettare bisogna esser liberi da se stessi e dal mondo.
L’Ipseità consiste appunto in questo “agire” su se stessi e sul mondo
per oltrepassarli entrambi[6].
Rimettere in discussione, quindi, la distinzione della metafisica
moderna fra ente ed essere significa reimpostare radicalmente il
tema della soggettività e del suo rapporto col mondo, per negare
che già a livello esistenziale possa sussistere una qualsiasi
distinzione di ruoli tra soggetto e oggetto.
Questa differenziazione, pertanto, ancor meno potrà sussistere a
livello metafisico, o, meglio, essa può presentarsi nella forma di
rapporto inscindibile tra uomo e totalità dell’essere prima e
dell’ente poi, solo dopo aver scoperto il “fondamento dell’essenza
dell’Esserci”, cioè la libertà colta in trascendenza. La trascendenza
introduce la differenza, perché “comprendendo l’essere, si rapporta

49
all’ente”[7].
Heidegger, dunque, suggerisce di ripartire dall’unità dell’essere,
annullando la sua moltiplicazione fenomenica, ma questo significa
voler progettare e progettarsi a partire da una totalità assoluta, che,
successivamente, si manifesterà a livello fenomenico come totalità
dell’ente storicamente noto. L’uomo, di fatto, non può che smarrirsi
di fronte a questo “abisso”, cioè di fronte a questo scarto tra la sua
particolarità e la totalità dell’essere prima e dell’ente dopo. La
differenziazione post-trascendentale tra essere ed ente riguarda
soprattutto due totalità.
Solo a livello esistenziale, prima dell’illuminazione dell’essere,
l’uomo si differenzia all’interno dell’ente (qualcosa di ingannevole in
tal senso avviene con le pretese della conoscenza teorica). Ma, si
badi bene, questa differenziazione non porta mai ad una
autonomia, bensì ad una individualità di carattere emotivo
determinata dall’angoscia, per cui il progettarsi vorrà dire ritrovare
la dimensione trascendente dell’essere unitario oltrepassante.
Come vedremo, tra esistenza e trascendenza si instaura un circolo
di rimandi reciproci, che, però, assumono solo un aspetto formale e
mai veramente sostanziale, cioè compiutamente progettuale.
Verifichiamo queste affermazioni, procedendo con ordine, a partire
dal ruolo dell’individuo. Per comodità d’esposizione distingueremo
tra individualità e soggettività, anche se Heidegger non ha mai
introdotto questa distinzione, e attribuiremo alla individualità quel
ruolo positivo, esistenziale, che il filosofo tedesco riconosce esser
necessario, mentre conserveremo l’accezione negativa
heideggeriana data al termine “soggettività”. Quando, infatti,
Heidegger si riferisce ad una “soggettività” che accoglie
“l’oggettività” del richiamo, sciogliendo subito il soggetto in questo

50
richiamo esistenziale e trascendentale, non fa altro che distinguere
l’individualità dell’Esserci, cioè una singolarità, dalla soggettività
classicamente intesa, e lo fa fondandola su una distinzione tra
emotività estatica e conoscenza teorica. Perciò, si può anche parlare
di centralità dell’uomo ma solo a condizione che venga “posto il
problema della sua nullità nell’insieme dell’ente”, dato che
“l’estaticità dell’essenza” dell’Esserci è incompatibile con qualsiasi
“concezione ‘antropocentrica’”[8].
Heidegger parla anche di colpa originaria dell’uomo, perché, se vi è
un colpevole, questo non può ritrovarsi nel mondo e negli oggetti
presenti ma solo ed esclusivamente nell’uomo, ed, in particolare,
nell’uomo che si assoggetta al “Si”. L’individualità dovrà rompere già
a livello esistenziale con questa continuità con il “Si”.
L’essere se stessi significa assumere una cura di sé che fuoriesca
dalle soluzioni deiettive in cui il “Si” ci ha gettato. Il “se-stesso”,
infatti, “è... per lo più, un se-stesso inautentico, un Si-stesso”.
La comunità degli uomini, d’altronde, non può costituire “il filo
conduttore” dell’esistenza umana, dato che essa va riportata entro
una “totalità strutturale” più ampia, tale da ricomprendere
l’insieme del mondo. Perciò, il richiamo all’angoscia come forma
essenziale dell’apertura dell’Esserci non può che essere intesa come
richiamo alla individualità del “se-Stesso”. Heidegger, dice a tal
proposito, che occorre “semplificare” l’Esserci e non confondere o
mettere sullo stesso piano, perciò, l’angoscia con “la volontà, il
desiderio, la tendenza e l’impulso”[9].
Nulla da obiettare a questa impostazione metodologica, purché
questa semplificazione, preliminarmente necessaria, costituisca il
fondamento di una valorizzazione piena delle altre facoltà ed un
riconoscimento della loro autonomia. Inoltre, bisognerebbe

51
verificare se a questa semplificazione dell’Esserci non si accompagni
una semplificazione delle relazioni con la realtà esterna.
A questo proposito, Heidegger contrappone l’intenzionalità alla
consapevolezza di sé, perché “l’esistenza non consiste nell’essere
un Selbst, né viene determinata da questo”; invece, “l’intenzionalità
risulterà possibile solo sul fondamento della trascendenza”, pur non
coincidendo con questa[10].
Perciò, quando Heidegger parla anche di coscienza e di volontà ne
circoscrive subito la portata. Infatti, chiedendosi in che senso
possiamo parlare di colpa, dice che essa risiede nella “nullità” del
progetto esistensivo, il quale esercita la libertà dell’uomo in
maniera limitata e limitante, riconducendola alla “scelta di una
possibilità” che esclude di per sé tutte le altre. Rispetto a questa
colpa, il “voler-aver-coscienza” non si riferisce a colpe particolari,
ma alla scelta operata, cioè all’aver scelto aprioristicamente e
“senza coscienza” di escludere altre possibilità.
Verso questo peccato non si può che “lasciarsi agire” dal se-Stesso.
Solo in tal modo e solo in tal senso ci possiamo ritenere
“responsabili”.
La stessa volontà “non può essere intesa come un volere
determinato”, che si contrapponga “ad altri comportamenti umani
come la rappresentazione, il giudizio, la gioia”, dato che tutti i
comportamenti si radicano nella trascendenza. La volontà è volontà
di libertà, la quale soltanto “rende possibile l’imposizione e la
sopportazione di un’obbligazione determinata”. Si potrebbe dire
che la libertà è la “causa” della responsabilità dell’esistenza storica
del Se-stesso, ma, anche qui, bisogna escludere “un’interpretazione
particolare” del concetto di causa, per considerarla, invece, nel suo
carattere di fondamento. Quindi, non vi è originariamente colpa

52
determinata né colpa cosciente, ma solo una colpa che nasce dal
“con-esse(re) con gli Altri sul nullo fondamento del suo nullo
progettare”[11].
Noi scegliamo una sola possibilità (tra l’altro tra quelle socialmente
già prefigurate) perché la coscienza pubblica si comporta e si è
sempre comportata così, e ha, di conseguenza, indotto le singole
persone a fare altrettanto. Occorre, perciò, prendere coscienza
rispetto a questa mancanza di coscienza, ed il primo atto
responsabile in tal senso consiste nel liberarsi dalle costrizioni e dai
conformismi del “Si”.
Tuttavia, questa precondizione, che è certamente indispensabile, a
mio parere, resta perennemente indeterminata e, perciò,
difficilmente efficace. Anche quando sfocia nell’emotività, questa
decide di decidersi ma non su che cosa decidere.
Per Heidegger, la “Cura” riguarda l’Esserci nella sua “totalità” e,
pertanto, non può riferirsi a una “sintesi” delle diverse facoltà,
successiva ad una loro dialettica. La decisione che ne scaturisce,
secondo il filosofo tedesco, non è “indeterminata”, ma neanche può
esprimersi in un “rappresentarsi cognitivamente una situazione”,
dato che si è già “insediati in essa”, ragion per cui si può dire che “in
quanto deciso l’Esserci agisce già”, anche se il termine “agire” è
inopportuno.
Pertanto, l’affermazione secondo cui “il decidersi è, in primo luogo
l’aprente progettamento e la chiara determinazione delle possibilità
di volta in volta effettive” e non soltanto come “assunzione passiva
di possibilità offerte e raccomandate”, va interpretata in riferimento
alla situazione. Questa sopravanza le “opportunità più prossime”
offerte al “Si” e apre ad appagatività proprie “delle circostanze nella
loro concreta effettività”.

53
Ma per quanto determinate siano le possibilità che si aprono e per
quanto effettive siano le circostanze, in realtà si tratta solo di
“accidenti” che “possono accadere” alla decisione. Accadono
agendo e stando nella situazione, per cui è vero che esse non sono
offerte, nel senso che siamo noi ad aprirci alla situazione e nel senso
che tale apertura dipende da una nostra decisione, però sono
offerte anche in un altro senso e cioè nel senso che si affacciano di
per sé nell’ambito della situazione aperta.
La determinazione della decisione rappresenta, pertanto, un
letterale superamento dell’indecisione del “Si” “dominante”. La
nostra decisione si chiude là dove si apre e là dove apre, cioè viene
illuminata da una situazione che ne porta così a galla tutte le sue
potenzialità, ma rispetto alla loro pratica attuazione, alla selezione
delle possibilità, alla scelta dei mezzi, alla analisi dei risultati, alle
eventuali correzioni di condotta, ai comportamenti da assumere nei
confronti degli altri, alla continuità da dare a questi risultati; rispetto
a tutto ciò, la decisione rinvia ad un ulteriore agire, che a questo
punto non può che essere automatico, escludendo qualsiasi
riesame razionale[12].
Cosicchè, l’agire, in primo luogo, fa accadere ed apre alla situazione
ed apre la situazione, anche se è questa che in ultima analisi offre le
concrete possibilità di agire. E, tuttavia, questo agire fallisce nel suo
intento progettuale, perché il vero progetto risiede altrove, nella
trascendenza dell’essere e nel suo fondamento.
L’agire, nella sua autenticità, non può che rimandare a questo
progetto più autentico e più totale di qualsiasi altro progetto,
ancorchè esistenziale. Allo stesso modo, la volontà o la desisione,
secondo Heidegger, ad un tempo, discende da un’emotività e
predispone ad essa, ma questa a sua volta non si attiva in una

54
volontà determinata, né in una presa di coscienza effettiva della sua
progettualità, bensì perviene ad una totalità estatica.
La aporia kantiana tra dover essere ed essere, tra pretesa infinità
della conoscenza ed effettiva infinità empirica, su un altro piano,
resta ancora irrisolta, perché non si affronta il tema della relazione
con l’esteriorità e con la sua autonomia, per cui questa discrasia
non può che sfociare in una nuova metafisica, quella del progetto
dell’essere, però, così vago e indefinito da rappresentare una
sovrastruttura rispetto al mondo.
A questo grado di purezza dell’essere anche il dire può manifestarsi
in maniera originaria e contrapporsi alla chiacchiera del “Si”.
Il “Si”, infatti, si appoggia ad una presunta voce della coscienza che
avrebbe carattere obbligante ed universale e che giustificherebbe il
costituirsi di una “coscienza pubblica”. Rispetto a questa pretesa e a
questa obbligatorietà assiomatica, la “Cura” “deve tornare indietro
a riprendersi dall’essersi-perduto nel Si”, facendo comprendere
all’Esserci la sua colpevolezza. Ciò che riscatta da questa
colpevolezza è la decisione[13]. Ma, in concreto, è possibile
riscattare gli altri, riscattarsi con gli altri o tramite gli altri, oppure
ritrovarsi riscattato insieme ad altri, anch’essi riscattatisi per proprio
conto?

La risposta di Heidegger a tal proposito non è sempre chiara.


Escluso preliminarmente che ci si possa risollevare tramite gli altri,
dato che la decisione “è sempre propria di un singolo Esserci”, ne
dovrebbe conseguire che non è possibile nemmeno riscattare gli
altri, i quali dovrebbero seguire lo stesso percorso individuale.
Eppure Heidegger dice che “l’Esserci che ha già deciso” può divenire
“la coscienza” degli Altri”, e parla anche di un “aver cura degli Altri”.

55
In tal senso, la decisione non isola proprio per il suo carattere di
apertura. Ma più propriamente “l’avente cura degli Altri” è un “con-
essere”. Questo “con-essere” comporta da un lato il “divenire libero
per il proprio mondo”, dall’altro dà all’Esserci “la possibilità di
lasciar “essere” gli Altri che ci-sono-con nel loro poter-essere più
proprio”. “Altri”, i quali, a partire da questa loro irriducibilità,
potranno costituire il “con-aprire questo poter essere”, ma pur
sempre essendo “liberi per la propria Cura”.
Altrove, Heidegger aggiunge che solo trascendendo “il tutto
dell’ente” e allontanandoci da esso noi potremo sentire le cose più
prossime a noi.
La conquista della trascendenza ritrova, a questo punto, un ritorno
nella storia e nella temporalità dell’Esserci e fa sì che ora si possa
“rispondere all’appello della coesistenza”[14]. Ci si può ritrovare
insieme non perché abbiamo preso tutti esattamente la stessa
particolare decisione, ma perché ci siamo orientati tutti verso la
trascendenza e verso la libertà, vale a dire abbiamo posto tutti le
stesse precondizioni progettuali.
Il “con-essere” di Heidegger ha questo significato e anche qui indica
una convivenza di per sé possibile in forza di un medesimo
atteggiamento verso il mondo.
Si presuppone così una ricaduta storica automatica, conseguenziale
e, per di più, condivisa da tutti coloro che hanno raggiunto lo stesso
grado di libertà e la stessa autenticità della decisione. Perciò, si può
essere al tempo stessi liberi per la propria cura e con-essere con gli
altri avendone cura; ci si cura reciprocamente, non solo perché ci si
rafforza reciprocamente, ma anche perché tutti si propongono la
stessa cura, pur facendolo a partire da una decisione e da una cura
propria. Per quelli che, invece, non possiedono gli stessi mezzi, gli

56
uomini autentici rappresenteranno “la coscienza degli Altri”.
Heidegger, in definitiva, propone la costituzione di un nucleo più
rappresentativo e più qualificato che agisca come in un processo di
fusione nucleare, in cui i diversi atomi fondendosi producono
energia ma subito ritornano alla propria individualità, per poi dare
corso ad una nuova fusione, in una catena di reazioni che si
susseguono ormai inevitabilmente, ripetutamente, invariabilmente.
La sua idiosincrasia, abbandonata provvisoriamente durante il
periodo nazista, per i concetti di popolo e di razza, definiti dal
semplice requisito della nazionalità o della stirpe, emergerà con
chiarezza più tardi, quando parlerà, a tal proposito, di una sete di
dominio e di egoismo, che, sotto i panni del popolo e della razza,
non nascondono altro che un “egoismo soggettivo” ed un
rafforzamento della “soggettività”[15].
Heidegger vuole individui che, liberamente e singolarmente, si
trascendano in una totalità comprendente sia l’umanità che il
mondo, non vuole soggetti, ed, in particolare, non vuole soggetti
che si distinguano dal mondo per poi assoggettarlo, nè vuole
soggetti sociali ed istituzionali che si sostituiscano all’individuo o lo
rappresentino. Infatti, solo l’angoscia e l’inclusione nell’Esserci della
“possibilità della morte” conducono ad una decisione che supera
tutte le altre e le trascende. Si tratta, perciò, di una decisione
individuale, in quanto già motivata individualmente. Questo
“autodecidersi libero” non può essere determinato
“anteriormente”, ma si apre alla “determinabilità”. E, tuttavia,
siamo ancora ad una precondizione, dato che, in pratica, “la
certezza del decidersi significa mantenersi libero per la propria
ripresa possibile e sempre necessaria in linea di fatto”[16].
Perciò, parlando della verità, Heidegger afferma che essa non può

57
essere “soggettiva”, se con ciò si designa “ciò che è nell’arbitrio del
soggetto”, ma assume solo carattere esistenziale. Solo perché
l’Esserci è si può scoprire la verità, ed essendo l’Esserci può
ritrovare la verità che si manifesta. In tal senso, “non siamo noi a
presupporre la ‘verità’”, ma è questa, il suo esistere originario, che
ci rende possibile il fatto che noi la presupponiamo.
L’uomo, perciò, non può pretendere di rappresentare la verità a
priori, di possedere già in sé gli a priori della verità; egli può “auto-
presupporsi” solo nel senso di assumere la decisione di aprirsi alla
situazione, può presupporre solo questa sua capacità[17].
Da qualsiasi punto di vista si affronti la questione, l’impostazione e
l’esito risultano sempre gli stessi: l’uomo deve individualmente
trascendersi per poter comprendere l’essere in generale in modo
pieno ed autentico.
La stessa comprensione non è di carattere teoretico; non lo è né a
livello esistenziale, né tanto meno metafisico. Di conseguenza,
anche il progetto non può che avere i connotati della totalità e
dell’immediatezza, di una totalità immediata. Il “che cosa” di cui
parla il “chi” consiste proprio in una totalità estatica, sia essa
situazionale o metafisica.
La “chiamata”, dice Heidegger, si rivolge all’ “Esserci singolo”, e,
come tale, non può risolversi in una conoscenza “ideale e
universale”. Tuttavia, anche in questa determinatezza singolare, la
chiamata “non afferma nulla, non dà alcuna informazione sugli
eventi mondani, non ha nulla da dire”. Ma per quanto “non dia
nulla”, essa non solo assume un carattere critico ma ha anche un
valore “positivo”; questo, però, nel senso che “apre il poter-essere
più originario dell’Esserci in quanto esser-colpevole”[18].
Solo armato di questa comprensione di se stesso, l’uomo può porsi

58
positivamente di fronte ad un mondo strutturato come totalità.
Altrimenti, il destino dell’individuo sarebbe segnato da una
incomprensione di sé dovuta all’immersione nel Si, la quale gli
oscurerebbe l’essere che si manifesta nella totalità dell’ente.
Come si vede, comunque, l’individualità diventa Ipseità solo se si
rapporta ad una totalità; l’ipseità consiste nel decidersi di farlo.
L’esserci è una totalità e questa condizione, dice Heidegger, “risale a
una possibilità ontica dell’Esserci”, dato che in qualche modo
traspare già nella “quotidianetà”. Tra quotidianità ed esistenzialità,
però, si interpone un atto decisivo. La “decisione anticipatrice”,
infatti proviene dal “voler-aver-coscienza” della morte. Cosa deriva,
a questo punto, da tale atto decisivo? Heidegger non cessa mai di
dirci che un simile atteggiamento non implica “distacco” o “fuga dal
mondo” e che l’Esserci non può che vivere nella storia e nel tempo.
Ma di questa storia e di questo tempo ci fornisce solo le coordinate
essenziali, per così dire, “ideali”. Il loro compito consiste nel
condurre all’affrancamento dell’Esserci, portando ad una “decisione
dell’ “agire”. L’uomo deve progettare la sua storia e nello stesso
tempo deve dimenticare la sua storia attuale, perché, di fronte alle
“novità” della chiacchiera del Si, l’Esserci sceglie di “poter-essere
isolato”, compiaciuto della sua “gioia imperturbabile”.
Heidegger, il filosofo che con più acume di qualsiasi altro pensatore
ha colto i tratti essenziali, le contraddizioni e i temi fondamentali
della nostra epoca, suggerisce all’uomo di intuire soltanto le
coordinate di massima della sua condizione storica, senza perdersi e
disperdersi in analisi e progetti particolareggiati. L’uomo deve
comprendere esclusivamente la totalità della sua condizione e la
totalità della sua decisione. Di fatti, aprirsi al mondo per l’uomo
significa “abbracciare” “oltre all’essere dell’ente che esso stesso è...

59
l’essere dell’ente scoperto dentro il mondo, benché non
tematicamente”.
Il progetto, quindi, richiede “un esame”, ma questo avviene “per lo
più inesplicatamente” ed il suo contenuto consiste in un “autentico
poter-essere-un-tutto”, perché rinvia alla “totalità dell’insieme
articolato delle strutture della Cura nell’unità dell’articolazione” che
ne risulta (ma risultata per chi? Per tutti? Ne dubito). Perciò,
Heidegger afferma che il progetto “non comporta una
comprensione precisa di ciò che è progettato”, ma si limita a
“procurarsi” “una raffigurazione (immagine) che, anche se non
compresa esplicitamente e dettagliatamente, funge da
prefigurazione per il tutto dell’ente rivelatesi”, di cui l’Esserci stesso
in definitiva fa parte. Il progetto per Heidegger può essere
contestualmente trascendente e storico, perché sia la trascendenza
che la storia, secondo punti di vista distinti, riguardano entrambi
l’ente nella sua totalità[19].
La totalità, per Heidegger, ammette un’articolazione ma non una
dialettica, per questo i suoi momenti non possono essere colti
autonomamente, prima ancora che distintamente, e neanche
possono essere condotti ad una sintesi, che diventerebbe
accessibile ad una conoscenza. Al contrario, è possibile solo ad una
raffigurazione schematica immediatamente comprensibile. Totalità
e mancata coscienza e/o conoscenza si rinviano a vicenda.
E’ probabile che lo stesso filosofo tedesco abbia colto la difficoltà
della definizione del progetto così impostato, oltre che della sua
concreta realizzabilità. Infatti, riguardo a questo ultimo aspetto, egli
precisa che è problematica la stessa affermazione di una prospettiva
filosofica nel corso stesso della vita del pensatore che l’ha
sostenuta.

60
Ad una domanda non succede immediatamente una risposta, per
cui, per il momento, non resta che ascoltare la voce dell’essere,
divenendo la “guardia della verità dell’essere”. Bisogna, perciò,
entrare nell’ordine di idee che per “l’uomo storico” si prospetti,
relativamente alla pensabilità dell’essere, “l’assenza di necessità
come necessità”; condizione, d’altronde, “salutare”, in quanto
permette di “prende(re) con sé e reclude(re) la dimensione aperta
del sacro”[20].
A mio parere, questo approdo sacro è conseguenziale ed inevitabile
rispetto ad una impostazione che ha sempre tenuto di vista la
totalità, esistenzialmente articolata ma mai autonoma, e che sin
dall’inizio ha mirato ad una totalità assoluta ed indistinta. Nessuna
filosofia può sfuggire ad un esito sacrale finchè si costruisce in
funzione di una metafisica che non abbia effettiva presa sulla storia.
Heidegger temeva che un’oggettivazione aprioristica delle cose
finisse con l’oggettivizzare anche l’uomo; eppure, anche lui è finito
col cadere in una nuova oggettivazione dell’uomo, non nello Spirito
di un popolo o dello Stato, come voleva Hegel, ma nell’unità
dell’essere in generale.
Incidentalmente, si può notare come, su un altro piano, anche lo
strutturalismo prospetta una unificazione dell’essere e parla, come
l’esistenzialismo di Heidegger, di una raffigurazione, ma questa, in
quanto legata al desiderio inconscio, si ricollega ad un immaginario,
che è in qualche modo rappresentabile.
La novità introdotta da questo movimento filosofico risiede nel
ruolo privilegiato da essa assegnato all’uomo. Questi ha in sé
potremmo dire degli a priori, vale a dire la capacità di rappresentare
in trascendenza l’unità dell’essere (innanzi tutto nel rapporto
immediato tra l’Altro e la madre), così come possiede i processi

61
necessari per concatenare automaticamente i diversi significanti.
Per quanto riguarda l’articolazione dell’ente, questa, pur
riconosciuta, resta alienante fino a che l’individuo non abbia,
attraverso il desiderio inconscio, riunificato il proprio corpo e
superato l’insufficienza della prematurazione specifica della nascita.
Solo un individuo completato può ritornare sulla molteplicità
dell’ente e riunificarlo sotto l’egida di un desiderio, di per sé
proiettato verso l’alterità e di per sé unitario.
Allo stesso modo, il desiderio può stringere in un patto di alleanza il
singolo agli altri. Al desiderio, quindi, risale questo potere di
riunificazione di se stessi e del mondo, inteso come natura e come
società.
Ma, così, lo strutturalismo, rispetto all’esistenzialismo, registra una
novità rilevante, dato che è l’unità antropologica e sociale
dell’uomo che ricompone in una unità più ampia anche la natura. Il
passaggio dalla metafisica (questa unità progettata
anticipatamente), alla storia per lo strutturalismo si realizza
“effettivamente” nella rappresentazione simbolica operata dal
desiderio inconscio.
A mio parere, però, difficilmente, si può sostenere che la
rappresentazione simbolica inveri di sé immediatamente e
automaticamente la storia del mondo. Per lo strutturalismo, come
per l’esistenzialismo, resta, dunque, inevasa l’esigenza della presa
d’atto della complessità dell’uomo e della storia, e, perciò, si
avversa l’unità conquistata storicamente, attraverso una sintesi
dialettica.

NOTE
[2] M. Heidegger: Nietzsche, cit.; pp. 731-735.
62
[3] M. Heidegger: Essere e tempo, cit. Le citazioni sono tratte,
nell’ordine, dalle seguenti pp.: 637, 675. 139.
[4] M. Heidegger: Che cos’è la metafisica?, Firenze 1995; p. 75.
[5] Per il riferimento alla “colpa” si veda: Essere e tempo, cit.; p.
425; mentre per la concezione dell’ente come “nulla” si veda:
Sentieri interrotti, Firenze 1984; p. 101.
[6] M. Heidegger, Essere e tempo, cit.; pp. 400, 633-641, 677.
[7] Ivi; p. 636.
[8] Ivi; pp. 414, 665.
[9] Per quanto riguarda il riferimento al rapporto Se-stesso/si-
stesso, si veda: Essere e tempo, cit.; pp. 287-288. Sullo stesso
argomento, altrove, Heidegger afferma che “la chiamata al Se-
stesso ignora il Si” (ivi, p. 407) e che tale richiamo contesta “al Si il
suo predominio” (ivi, p. 414). Il riferimento al ruolo dell’angoscia è
tratto dalla stessa opera (si veda: p. 288).
[10] Per questo argomento si veda: Che cos’è la metafisica, cit.; p.
77, e: Essere e tempo, cit.; p. 636.
[11] Per il tema della colpa e del “voler aver coscienza” si veda:
Essere e tempo, cit., pp. 417 e 427. Per il rapporto tra volontà e
libertà si veda: Essere e tempo, cit.; pp. 666-667.
[12] Per questi argomenti si veda: Essere e tempo, cit.; pp. 440-444.
[13] Ivi; pp. 414 e 425.
[14] Per le questioni relative alla decisione del singolo che apre al
“con-essere” si veda: Essere e tempo, cit.; pp. 439-440. Per i
rapporti tra trascendenza e storia si veda: ibidem; pp. 677-678.
[15] M. Heidegger, Sentieri interrotti, cit., pp. 96-97.
[16] M. Heidegger, Essere e tempo; pp. 438 e 452.
[17] Ivi; pp. 343-346.
[18] Ivi; pp. 417, 407, 427.

63
[19] Per il tema delle possibilità offerte dalla quotidianità e dalla
conseguente decisione si veda: Essere e tempo, cit., pp. 454-455.
Per il tipo di esame richiesto in ordine al progetto si veda: ivi, p. 473.
Per la raffigurazione progettuale si veda: ivi, p. 661.
[20] M. Heidegger, Nietzsche, cit.; pp. 398, 562, 858.
HEIDEGGER
RIASSUNTO DI ESSERE E TEMPO
Essere e Tempo I
Domanda sull'essere. Heidegger si pone la domanda "cos'è
l'essere?". In tal domanda possiamo individuare un cercato (ciò che
si domanda), un ricercato (ciò che si trova), e un interrogato (ciò a
cui si domanda); il nostro cercato è l'essere, il nostro ricercato è il
senso dell'essere, l'interrogato non può che essere un ente, in
quanto l'essere è sempre di un ente; questo ente è l'esserci
dell'uomo, poiché è costitutivamente apertura all'essere, dunque ne
ha sempre una comprensione preconcettuale. Interrogare l'esserci
significa studiare le strutture del suo modo d'essere, cioè
l'esistenza.
Esistenza. L'esistenza è una possibilità di rapporti che l'uomo può
determinare, è trascendersi, progettarsi.
Comprensione ontica ed ontologica. L'uomo posto di fronte alle
scelte che deve compiere, ha dapprima una conoscenza ontica del
mondo, cioè lo assume come dato, poi però riflettendo si perviene
ad una conoscenza ontologica cioè delle strutture dell'esserci che
danno un senso al mondo.
Esserci. L'analitica dell'esserci non è studiare il soggetto invece
dell'oggetto, poiché l'esserci è costitutivamente apertura al mondo
e comprensione di esso. L'esserci è essere-nel-mondo, rapporto con

64
esso, e l'esserci è la totalità del rapporto, non solo un polo di essa.
Mondo. il mondo in cui l'esserci è, per Heidegger, non è né l'insieme
degli enti intramondani, né una cornice che li circonda, ma è il
campo d'apparizione degli enti che accompagna la comprensione; il
mondo è un esistenziale, cioè una struttura dell'esserci, non un ente
esso stesso.
Essere-nel-mondo. L'essere dell'esserci è essere-nel-mondo, il che
significa prendersi cura degli enti, utilizzarli e maneggiarli,
progettare trascendendoli per realizzare un progetto che fa capo
all'esserci stesso.
Enti. Gli altri enti dunque hanno il loro essere nella loro utilizzabilità
da parte dell'esserci. Fra l'altro, la semplice-presenza degli enti, cioè
il fatto di prenderli come dati, è anche essa una forma di utilizzo,
utilizzo per il puro conoscere.
Il prendersi cura ha una circospezione, cioè una precomprensione
dei rimandi degli enti fra loro: un ente rimanda sempre ad un altro e
lo significa in rapporto ad un fine ultimo; tutti questi rimandi fanno
capo all'esserci, , il quale ha una precomprensione della totalità dei
rimandi, totalità che costituisce il mondo.
Coesistenza. Rispetto agli altri, l'esserci ha cura di essi, e questo può
darsi in due modi: o togliere loro le cure, o aiutarli a prendersi cura
delle loro cose.
Modi di essere-nel-mondo. L'uomo si trova in una situazione
affettiva, nella quale sente di essere-gettato, sente la sua fatticità,
ed è una modalità passiva. Poi è nel comprendere, cioè nel
progettare; infine è nel parlare.
Esistenza inautentica. Alla base di questa c'è una comprensione
ontica, che prende il mondo come dato. È l'esistenza del Si (si dice,
si fa), l'esistenza in cui uno è tutti e nessuno, in modo fittizio e

65
convenzionale. Questa esistenza è determinata dalla chiacchiera (il
linguaggio che originariamente svela l'essere si banalizza), dalla
curiosità (la ricerca del nuovo per l'apparenza visibile), dell'equivoco
(non si capisce chi è il "si dice").
Deiezione. La deiezione è quella che permette all'uomo, avendo
commerci coi fatti, di ritenersi un fatto, poiché si sente un essere-
gettato; la situazione emotiva, che per natura fa sentire il proprio
essere gettato, lo fa sentire abbandonato a ciò che è.
Cura e circolarità della Cura. La Cura è la totalità delle strutture
dell'esserci, che si prende cura e ha cura. La struttura di questa cura
è circolare; infatti mentre da una parte progetta in avanti, nel
futuro, dall'altra la situazione emotiva gli fa sentire la propria
gettatezza che lo fa tornare indietro.
Essere e Tempo II
Morte. L'esserci è determinato dall'incompiutezza, dalla mancanza.
Fra ciò che manca c'è anche la sua fine, la morte. La morte non va
concepita in modo epicureo come scomparsa dell'io, né in modo
inautentico come fatto. La morte è una possibilità dell'esserci, è la
possibilità più propria (concerne l'essere stesso), incondizionata
(l'uomo vi si trova davanti da solo), insormontabile (si eliminano
tutte le altre possibilità), certa.
Con la anticipazione della morte, l'uomo comprende
autenticamente sé stesso, ma ha anche la situazione emotiva
dell'angoscia, che lo pone di fronte al nulla della morte, che è
possibilità dell'impossibilità di possibilità.
Essere-per-la-morte. La morte non va rifuggita, ma affrontata con la
decisone anticipatrice di essa: non è il suicidio o l'attesa (forme di
realizzazione che tolgono il carattere di possibilità), ma è tenere
presente che questa possibilità c'è sempre: così l'uomo si considera

66
come poter-essere e vede le cose come possibilità, vede la sua
possibilità di realizzarsi.
Voce della coscienza. Quello che porta l'uomo alla decisione
anticipatrice e all'inizio della vita autentica è la voce della coscienza
che lo richiama alla sua nullità. L'esserci è nullità: sia perché è
fondamento di sé, ma essendo gettato, è infondato; sia perché nella
scelta nullifica altre possibilità; sia perché sarà nullificato dalla
morte. L'esserci è il nullo fondamento di un nullificante. Tale nullità
non è privazione ma è il nulla assoluto che precede tutto. La voce
della coscienza richiama a tale nulla e spinge a sceglierlo, cioè a
scegliere la morte, per progettarlo.
Temporalità. La Cura, cioè l'essere dell'esserci, è temporalità. Il
progetto è il futuro, l'essere-gettato è il passato e la deiezione è il
presente; si parla di essere-avanti-a-sé, di essere-stato e di essere-
presso. Questa temporalità dell'essere ha poi originato la
temporalità della progettazione, quella ordinaria.
Storia. L'esserci, è storicizzarsi, è determinare mondi storici nel lasso
di tempo fra la vita e la morte; è progettare, è tornare indietro alle
possibilità ricevute in eredità, e tramandarne di nuove.
Circolarità di vita autentica ed inautentica e differenze con la
circolarità della Cura. Un esserci può passare tutta la vita
nell'esistenza del Si o percorrere un circolo fra vita autentica ed
inautentica. L'esistenza è possibilità, ma le possibilità sono istituite
dall'uomo; quindi quando ci si chiede il proprio senso, o lo si cerca
nel mondo (valore dell'universo all'interno del quale io mi trovo), o
in me stesso come dato (io padrone di me faccio delle scelte perché
ho un valore di me intrinseco). L'esserci si sente gettato quando
capisce che il mondo non ha senso e nemmeno lui stesso; ma
sentendosi gettato, sostituisce un progetto assolto, un valore

67
assoluto, un senso assoluto con un altro di assoluto, ma in questo
modo non entra affatto nella vita autentica. Questa circolarità della
Cura è ben diversa dalla circolarità di vita autentica-vita inautentica.
Essere-per-la-morte non significa sentirsi gettato, ma significa
considerare che tutte le scelte non sono assolute ma destinate a
essere superate; l'uomo deve scegliere con una riflessione sulla
morte, deve pensare che quello che sceglie non va elevato a valore
assoluto. Tuttavia, in questa situazione, rischia di rimanere
paralizzato, perché nulla assurge ad assoluto; allora cade nell'errore
opposto, cioè progettandoti considera il suo progetto come un
assoluto, ma ciò è necessario, poiché per fare qualcosa bisogna
crederci. In questo modo però si eleva una scelta a valore assoluto,
e così ricadi nella vita inautentica.
Il problema della terza sezione di Essere e Tempo
Il rovesciamento. Heidegger, una volta evidenziato che la
temporalità era il senso dell'essere dell'esserci, avrebbe dovuto
vedere l'essere in quanto tale e la sua temporalità; dopo aver
studiato il rapporto dell'esserci con l'essere, avrebbe dovuto
studiare il rapporto dell'essere con l'esserci. Quindi non si trattava
più di andare dall'ente all'essere come aveva fatto finora e come
avevano fatto i metafisici tradizionali, poiché in questo modo
l'essere risulta sempre in misura dell'ente. Heidegger doveva
andare dall'essere all'ente. Ma, appunto, questo era un processo
che la metafisica non aveva mai fatto, e dunque Heidegger non
aveva la terminologia adatta al percorso che si riproponeva.
Verità. L'essere per Heidegger è infatti qualcosa che mette in luce gli
enti, che ne fa da sfondo. L'essere è verità, ma non come
adaequatio rei et intellectus , cioè uguaglianza di essere e verità,
fondando l'essere sulla verità; la verità per Heidegger è aletheia ,

68
disvelamento, apertura. La verità si disvela, e disvelandosi si apre,
cosicché in essa uomo ed enti si possono incontrare. Ma se è
disvelamento, c'è anche una parte celata: l'essere stesso, che è
niente (= non-ente), implica una parte negata, nascosta. Si capisce
perché Heidegger parli di verità chiaroscurale.
Ontologia. Heidegger vuole fare dell'ontologia, cioè vuole esporre il
pensiero dell'essere, il pensiero che viene pensato dall'essere, il suo
disvelamento. Le strutture esistenziali, riferite prima all'esserci,
andranno all'essere. L'esserci ora potrà conoscere ma solo perché è
in un mondo che fa capo all'essere e in cui ci sono altri enti
illuminati dall'essere; l'esserci deve dunque aprirsi all'essere,
abbandonarvisi, e interpretarsi come appartenente all'essere; ma
l'essere ha bisogno dell'uomo come termine del suo disvelarsi;
l'uomo è il pastore dell'essere, custode della sua verità rivelata.
Critica alla metafisica
Storia. Per Heidegger l'essere, come l'esserci, si storicizza nella
forma dell'invio; l'uomo è sempre rinviato ad un mondo storico che
ha già una sua comprensione dell'essere. La successione dei mondi
è la storia dell'essere; ma tale storia è fatta di epoche, cioè di
momenti di sospensione del disvelamento dell'essere. L'essere è
evento, poiché si storicizza, e l'evento di questo non-disvelamento,
di questo oblio dell'essere nel mondo occidentale è la metafisica.
Metafisica. La storia della metafisica è storia dell'oblio dell'essere.
La metafisica e il suo oblio dell'essere è il corrispondente
dell'alienazione di Marx, della reificazione di Lukács, cioè è la causa
dello scadimento della società occidentale. La metafisica, più in
particolare, come oblio, è oblio della differenza ontologica fra
essere ed ente; differenza di cui si è tenuto conto, che ha operato,
ma mai fatto oggetto di attenzione. Heidegger vuole superare la

69
metafisica tornando alla verità chiaroscurale dell'essere.
Storia della metafisica. Dapprima i metafisici hanno stabilito l'essere
come essere oggettivo, poi hanno posto l'uomo al punto massimo,
poi hanno reso l'oggettività un prodotto del soggetto, e infine
l'uomo è stato elevato ancora più in alto, spezzando ogni legame
colla realtà. La metafisica comincia con Platone, il quale nasconde il
carattere chiaroscurale della verità e la definisce conformità
intelletto-oggetto. Con Cartesio l'essere-vero è certo per il soggetto,
poiché il pensiero viene assolutizzato. Hegel riconduce tutto allo
Spirito. Nietzsche infine parla di volontà di potenza che esaurisce
tutta la realtà; Nietzsche fa metafisica sbagliata (a differenza di
Heidegger che fa una metafisica più corretta), poiché in lui non c'è
esistenzialismo, non c'è uno scarto fra essere ed esserci, ma la
volontà di potenza viene posta come assoluto. Dopo Nietzsche la
metafisica non può più espandersi.
Tecnica
La tecnica per Heidegger è il compimento della metafisica, poiché la
tecnica ritiene l'uomo capace di utilizzare tutto l'ente, fino in fondo
(imposizione). Ma la stessa imposizione è svelamento dell'essere.
Opera d'arte
Un'opera d'arte non è un ente intramondano nella rete dei rimandi,
ma ente che dischiude un suo mondo, istituisce un mondo di valori
e di significati, che provengono dalla materialità fisica della terra. La
terra è il tratto di chiusura implicato in un'apertura, ma è una
chiusura che contiene molti altri significati per epoche e culture
successive.
Linguaggio
La poesia è un arte molto importante, poiché si avvale della parola,
cosa che schiude mondi nuovi. Il linguaggio è la casa dell'essere,

70
perché l'incontro degli enti può avvenire solo col linguaggio. Però
non si può parlare del linguaggio: infatti, parlando del linguaggio
siamo già in esso, che ci ha preceduto. Esiste una circolarità
ermeneutica fra uomo e linguaggio: infatti, usare il linguaggio per
parlare di qualcosa significa che già abbiamo una comprensione di
quel qualcosa come un mondo, e la comprensione non può avercela
fornita che il linguaggio. Tale circolarità si articola come chiamata e
ascolto: il linguaggio che pensiamo di usare, in verità viene prima di
noi, poiché senza di esso nemmeno possiamo pensare, dunque
essere uomini.
HEIDEGGER
ESSERE ED ESISTENZA
Il termine essere può essere impiegato in molti significati, nel senso
di esistere oppure di essere vero o come copula che collega un
soggetto e un predicato. Il problema è se esista un significato
primario che consenta di pensarli tutti nella loro unità.
Generalmente, quando si usa il termine essere, si privilegia un
determinato tempo verbale, il presente, ma si può dire che l'essere
si riduca soltanto a ciò che è presente? Il tempo si articola in
passato, presente e futuro e si può quindi porre la domanda: il
tempo appartiene al senso dell'essere? Nel momento in cui si pone
questa domanda l'equivalenza fra essere e essere semplicemente e
costantemente presente non è più ovvia. Tale domanda, tuttavia,
ad avviso di Heidegger, è stata dimenticata dopo Platone e
Aristotele. Solitamente si dice che essere è il concetto più generale
di tutti: di qualunque cosa, infatti, si può dire che è. Ma se è il
concetto più generale, esso no può essere definito, dal momento
che una definizione richiede l'esibizione del genere entro il quale
l'oggetto da definire viene distinto mediante una differenza
71
specifica; ma l'essere, essendo il concetto più generale, non può
essere incluso in un genere più ampio. Per giungere al concetto di
essere occorre allora percorrere un'altra strada. La domanda
sull'essere, come ogni domanda, comporta che ci sia qualcosa che
viene cercato (in questo caso l'essere) e qualcos'altro che viene
interrogato (ossia un ente), ma ciò che è interrogato sul senso
dell'essere non può essere un ente qualsiasi tra gli altri. Infatti,
perché sia possibile il problema del senso dell'essere occorre che sia
possibile la comprensione dell'essere ; quindi deve esserci un ente,
al cui modo di essere appartenga la comprensione dell'essere. Tale
ente, che detiene pertanto questo primato tra gli altri enti, è quello
che Heidegger chiama esserci (Dasein, 'l'essere qui'), come modo di
essere proprio dell'uomo. Heidegger usa questo termine in un
significato diverso da Jaspers, per il quale esserci indica non solo
l'uomo, ma tutte le cose in quanto semplicemente presenti al
mondo. Rispetto agli altri enti, l'esserci ha per Heidegger la
peculiarità che ' nel suo essere, ne va di questo essere stesso ', ossia
il suo essere non è qualcosa di dato stabilmente, ma è sempre in
gioco. Ciò significa che l'esserci si rapporta al proprio essere, è
aperto ad esso: avendo una comprensione dell'essere, l'esserci non
è semplicemente un ente (ossia, nel linguaggio heideggeriano, non
è soltanto ontico), ma ha la prerogativa di essere ontologico, ossia
di poter condurre un ricerca esplicita sul senso dell'essere, cosa che
gli altri enti non sono in grado di fare. Kierkegaard aveva definito
esistenza questo rapportarsi all'essere: per Heidegger l'esistenza è
l'essere o essenza dell'esserci. Heidegger asserisce che ' l'esserci
comprende sempre se stesso in base alla sua esistenza, cioè alla
possibilità che gli è propria di essere o non essere se stesso '.
Attraverso l'interrogazione dell'esserci in rapporto al suo essere, si

72
ricercano le strutture fondamentali dell'esistenza: l'indagine che
cerca di portare alla luce queste strutture è chiamata da Heidegger
analitica esistenziale , antecedente a ogni psicologia, antropologia o
biologia. Il metodo da impiegare, secondo Heidegger, deve essere
fenomenologico, nel senso già chiarito di ' lasciar vedere da se
stesso ciò che si manifesta, così come si manifesta da sé ': si tratta
cioè di fare in modo che le strutture dell'esistenza si manifestino
alla comprensione propria dell'esserci. Occorrerà, dunque, scegliere
modalità di accesso a tali strutture, che consentano all'esserci di
mostrarsi da sé, dapprima com'è per lo più, nella sua quotidianità
media . L'esserci, come si è visto, è definito dal fatto che per lui ne
va sempre del suo essere, cosicchè l'esserci è sempre la sua
possibilità, non possiede il suo essere come un proprietà
semplicemente presente. Ciò significa che l'esserci può conquistarsi
o perdersi: nel primo caso si ha l'esistenza autentica e nel secondo
quella inautentica, dove "autentico" e "inautentico" significano
letteralmente "appartenente o no a se stesso". Nella quotidianità
media, l'esserci si manifesta nel modo dell'inautenticità e quindi, a
questo livello, si può pervenire soltanto ad una chiarificazione
preparatoria, non ancora ad una risposta circa il senso dell'essere in
generale; tuttavia, anche in seno alla quotidianità media e pertanto
in maniera inautentica, si manifestano, secondo Heidegger, le
strutture dell'esistenza. Infatti, l'esserci si è formato all'interno del
modo di comprendere l'essere, che si è consolidato in una
tradizione, anche se per lo più questa dimensione storica e
tramandata del suo modo di comprendere l'essere resta nascosta
all'esserci e non viene tematizzata. Si tratta allora di cogliere
l'essere dell'esserci contro la sua tendenza all'inautenticità:
l'analitica esistenziale ha, dunque, secondo Heidegger, un carattere

73
violento, in quanto va contro la tendenza dell'esserci nella sua
quotidianità a dimenticare o fuggire se stesso. Il primo passo
dell'analitica esistenziale consiste nel mostrare qual è la struttura
fondamentale dell'esserci nella sua quotidianità media. In questa
situazione l'esserci, anziché giungere al possesso di sé, tende a
interpretare se stesso a partire dal fatto che per lo più si disperde
nella cura del mondo. Per questo aspetto, l'esserci è erede
inconsapevole di una tradizione risalente alla metafisica greca, nella
quale il senso dell'essere è determinato come ousìa , cioè come
sostanza e, quindi, compreso a partire da un determinato modo del
tempo, il presente. Ciò significa che il punto di partenza dell'
autocomprensione dell'esserci nella sua quotidianità è dato dal
mondo, come insieme degli enti semplicemente presenti. L'esserci
per lo più tende a comprendere il proprio essere in base agli enti
con i quali si rapporta costantemente, ma in tal modo gli rimane
nascosto il suo specifico modo di essere. In generale, dunque,
l'esserci si configura come essere-nel-mondo , dove essere-nel-
mondo significa, più che il semplice trovarsi spazialmente presenti
dentro o a contatto con qualcosa, essere presso, abitare, essere
familiare con: tutte queste espressioni indicano, secondo
Heidegger, modi del prendersi cura (in tedesco Sorge ) del mondo.
L'esserci, dunque, non ha un rapporto puramente conoscitivo col
mondo, come rapporto tra soggetto e oggetto: su questo punto
Heidegger si allontana nettamente da tutte le impostazioni
filosofiche, in particolare neokantiane, che avevano assegnato una
posizione privilegiata al problema della conoscenza. Il mondo, al
quale l'esserci si rapporta nella sua quotidianità media, è chiamato
da Heidegger mondo-ambiente: esso è costituito dalle cose intese
come utilizzabili, cioè come strumenti, mezzi in vista di

74
qualcos'altro. Questo spiega perché nei confronti del mondo
l'esserci abbia non un atteggiamento esclusivamente teoretico,
consistente nel vedere e rappresentarsi in maniera puramente
disinteressata gli enti che lo popolano, bensì quella che Heidegger
chiama visione ambientale preveggente . Questa consiste, infatti,
nel prendersi cura pratico delle cose, che, in quanto utilizzabili, si
mostrano vicine all'esserci non solo in senso spaziale, ma "a portata
di mano" in vista di determinati fini. Quando, invece, l'esserci si
limita a osservare e considerare le cose nella loro semplice
presenza, si genera l'atteggiamento teoretico, che è dunque
soltanto un modo secondario e particolare del prendersi cura del
mondo. Il mondo, tuttavia, è costituito non soltanto dalle cose
utilizzabili o semplicemente presenti, ma anche da enti che sono tali
e quali l'esserci che li comprende, ossia dagli altri uomini, cosicchè
l'essere-nel-mondo è anche sempre essere-con (in tedesco mit-
sein ) altri. L'esserci ha sempre cura degli altri, anche se di fatto per
lo più non se ne cura o crede di poterne fare a meno; anzi per lo più
si muove nella soggezione agli altri, non è autenticamente se stesso.
Nella quotidianità, infatti, ciascuno è intercambiabile e ciò che
domina è il Si ( man ), indeterminato e anonimo, in cui tutte le
possibilità si trovano livellate e ricondotte all'uniformità. Nelle
pagine che Heidegger dedica a questo tema è avvertibile la critica,
diffusa nella Germania del suo tempo, alla massificazione e
spersonalizzazione prodotto dalla moderna civiltà tecnica. L'essere
autenticamente se stessi equivale, invece, a sottrarsi al dominio del
"si" impersonale per aprirsi alle proprio possibilità. Questo avviene
nei due modi essenziali dell'esistenza, che Heidegger chiama
esistenziali: essi sono il sentirsi situato ( Befindlichkeit ) e il
comprendere ( Verstehen ). L'esserci si avverte sempre

75
emotivamente situato nel mondo, gettato in esso, senza che ciò
dipenda dalla sua iniziativa. Nel sentirsi un essere-gettato nel
mondo , cosa che Heidegger chiama anche effettività, per
distinguerla dalla semplice presenza nel mondo, l'esserci incontra se
stesso più nella forma della fuga che in quella della ricerca di se
stesso. La struttura propria del sentirsi situato viene alla luce nella
paura, perché solo l'esserci, per cui ne va del suo essere, può
spaventarsi e si sente aperto al rischio. D'altra parte, avvertendosi
situato, l'esserci comprende se stesso, anche se tende a reprimere e
occultare questa sua comprensione. Questa struttura esistenziale
della comprensione è chiamata da Heidegger progetto, nel senso
letterale di "gettare avanti"; la comprensione, infatti, progetta
l'essere dell'esserci nel suo poter essere, che non è qualcosa di già
dato. D'altra parte, progetto non equivale al semplice escogitare
piani, perché l'esserci si comprende giò sempre a partire da
possibilità date. Quando sviluppa la comprensione, l'esserci giunge
all' interpretazione , che consiste nell'appropriarsi di ciò che ha
compreso e quindi nell'elaborare el possiblità progettate nella
comprensione. Il discorso , a sua volta, è l'articolazione del sentirsi
situato e della comprensione. Che carattere assumono nella
quotidianità la comprensione, l'interpretazione e il discorso?
Heidegger non intende muovere contro la quotidianità e l'esistenza
inautentica, a cui essa approda, una critica materialistica; il suo
intento è invece di mettere in luce le strutture proprie
dell'interpretazione che abitualmente l'esserci dà di sé, entro le
quali l'esserci è cresciuto e si è formato e alle quali non può mai
definitivamente sottrarsi. La chiacchiera è il modo di essere della
comprensione o interpretazione propria dell'esserci nella sua
quotidianità, il quale si regola sul si : ' Le cose stanno così perché

76
così si dice '. La chiacchiera è la possibilità di comprendere tutto
senza appropriarsi preliminarmente della cosa da comprendere:
essa diffonde una comprensione indifferente, per la quale non
esiste più nulla di incerto, ma in tal modo l'esserci smarrisce la sua
apertura alla possibilità. La tendenza al "vedere", caratteristica della
quotidianità, è la curiosità : essa non si prende cura di vedere per
comprendere ciò che vede, ma soltanto di vedere, è incapace di
soffermarsi e cerca continuamente la distrazione e il nuovo sol
ocome trampolino per cercare un altro nuovo e così via. In questa
situazione sembra che tutto sia compreso, ma non lo è: l' equivoco
è la comprensione dell'esserci fondata nel "si", la quale finisce per
non sapere neppure a che cosa si riferisca il "si". Nella connessione
di chiacchiera, curiosità ed equivoco si rivela il modo fondamentale
dell'essere della quotidianità: Heidegger lo chiama la deiezione
dell'esserci, ossia lo scadere dell'esserci al livello di un fatto, il suo
disperdersi nel mondo e nella dimensione pubblica del "si". Qui
l'esserci vive non come autenticamente se stesso, ma come "si" vive
ed è nella tranquillizzante presunzione di possedere e raggiungere
tutto. In tal modo l'esserci è nell'inautenticità, la quale tuttavia non
è uno stato di fatto, com'è presupposto, invece, dalla dottrina
cristiana della corruzione della natura umana dovuta al peccato
originale, ma è una possibilità. Proprio in quanto l'inautenticità è
una possibilità e non un dato di fatto necessario, ne risulta che
l'esserci può anche essere autentico.
MARTIN HEIDEGGER E L'ESISTENZIALISMO LAICO (1889-1976)
Premessa
H. si pone sulla scia di Husserl perché esamina l'esistenza dell'uomo,
osservando ciò che si rivela immediatamente alla sua coscienza, alla
sua vita concreta (i fenomeni), ma si allontana da Husserl perché

77
colloca l'esistenza (temporale e contingente) nel mondo, evitando
di ricercare il significato dell'essere nelle essenze universali e
necessarie (nelle forme eidetiche). L'ultimo Husserl s'era posto il
problema di concretizzare il soggetto trascendentale, ma era finito
su posizioni idealistiche. Alla fenomenologia dell'essenza, H. oppone
una fenomenologia dell'esistenza o dell'esistente (ontologia
fondamentale), la quale però non vuole essere una filosofia
esistenziale, in quanto -a suo giudizio- il problema centrale è quello
ontologico dell'essere (che coincide col senso dell'uomo o esserci,
Dasein).
In questo tentativo di superare la fenomenologia, H. in realtà mira a
superare tutta la metafisica razionalistica occidentale, che secondo
lui s'è persa nell'oggettività, degradandosi a conoscenza scientifica e
tecnica, identificandosi con la logica, offrendo un essere come
"semplice presenza" (evidenza), mentre l'esigenza più vera è quella
di fondare la filosofia sulla condizione drammatica dell'esistenza, sul
modello di Kierkegaard, Nietzsche e Dilthey, le cui opere si erano
molto diffuse nella Germania degli anni precedenti la I guerra
mondiale.
Non dobbiamo però dimenticare che H. cercò anche di elaborare
una risposta filosofica, in chiave borghese-reazionaria, alla crisi del
movimento operaio tedesco (vedi la repubblica di Weimar) e alla
riuscita della rivoluzione russa.
Biografia
Nasce nel 1889, nel Baden. Nel 1909 s'iscrive all'università di
Friburgo, diventando un allievo di Rickert. Nel 1913 si laurea con
una tesi sullo Psicologismo (pubblicata a Lipsia nel 1914), che viene
contestato dal punto di vista della fenomenologia di Husserl. Lo
psicologismo, che si riallaccia a Mill, dominava nella cultura

78
filosofica tedesca post-hegeliana. H. rivendica la validità della logica,
contro la pretesa di ridurre le leggi logiche a leggi empiriche sul
funzionamento della mente umana: preferisce la logica perché gli
offre garanzie di stabilità e immutabilità.
Nel 1915 diventa libero docente all'università di Friburgo con una
dissertazione su Duns Scoto. La prolusione invece è sul concetto di
Tempo nella storiografia. Nella dissertazione pone il problema della
fondazione della validità obiettiva delle categorie nella vita della
coscienza, caratterizzata da temporalità e storicità. H. cioè rivendica
la necessità di un passaggio oltre la logica, rifiutando di considerare
le categorie solo come funzioni del pensiero (nasce la polemica anti-
neokantiana).
H. non era ancora avverso a Husserl, perché mentre il neokantismo
privilegiava la scienza, nel suo carattere costruttivo e
matematizzante (come unica forma di conoscenza valida), per
Husserl invece l'atto conoscitivo si risolveva nell'intuizione delle
essenze, che non si riduce alla conoscenza scientifica, ma è un
incontrare le cose. La fenomenologia appare quindi a H. come un
modo per allargare il discorso neokantiano in direzione della
storicità, della concretezza.
Nel 1916 Husserl viene chiamato all'università di Friburgo. H. ne
diviene assistente. Dal '17 al '23 lavora intensamente col maestro su
Kant, Aristotele, Fichte, Mistica medievale, Fenomenologia della
religione, Agostino e Neoplatonismo... Dal '23 al '27 è professore a
Marburgo: tiene corsi e seminari su Platone, Aristotele, Kant, Hegel,
Cartesio, Droysen, sull'ontologia medievale, sul concetto di Tempo...
Nel '27 pubblica la prima e unica parte di Essere e tempo. Rompe
con la filosofia di Husserl, ma contrasti ve n'erano stati anche prima,
poiché Husserl mal sopportava l'antisemitismo di H. Nel '28 gli

79
succede a Friburgo. Nel '29 pronuncia la prolusione Che cos'è la
metafisica? Pubblica anche Kant e il problema della metafisica e
L'essenza del fondamento.
Nel '33 è nominato rettore dell'università di Friburgo; aderisce al
partito nazista, pronunciando il discorso Autoaffermazione
dell'università tedesca (vedi anche l'Appello agli studenti tedeschi),
ma l'anno dopo, per dissensi col governo, si dimette a cessa di
occuparsi di politica. Pur tenendo regolarmente i corsi accademici,
non pubblica quasi nulla fino al 1942. Oggi nessuno sostiene che
l'esplicita adesione al nazismo sia stata una casuale sbandata di un
impolitico. Fin dagli anni '20 H. aveva manifestato aperte simpatie
verso i cd. "resistenti" tedeschi al trattato di Versailles del 1919; non
solo, ma egli intendeva anche che il suo pensiero avesse
un'espressività pubblica di carattere politico.
H., proprio come il nazismo, criticherà sia il liberalismo che la
democrazia, espressioni per lui del moderno soggettivismo, cioè
dell'integrale nichilismo: il liberalismo, perché finge la democrazia,
tenendo il popolo in una situazione di chiacchiera, curiosità ed
equivoco; la democrazia, perché rappresenta il dominio della massa
sul pensiero (qui H. ripete Kierkergaard e Nietzsche). Tuttavia egli si
distaccò dal nazismo perché non ne condivideva il biologismo
razzista (vedi la lettera a Jaspers del 1950).
Naturalmente nella critica della democrazia H. includeva anche
quella del socialismo. Come tutti i tedeschi di destra degli anni '20 e
'30, chiamava "socialismo" solo la socialdemocrazia della SPD (di
Kautsky e Hilferding), mentre chiamava "bolscevichi" tutti i
comunisti, compresi quelli tedeschi. In realtà i conflitti interni al
comunismo non gli sono mai interessati. Il marxismo, per lui, non
era che una forma di soggettivismo esasperato (il collettivismo

80
forzato come sublimazione dell'umanesimo astratto). Sarà nel '47
che tenterà una cauta rivalutazione del marxismo definendolo una
teoria dell'alienazione come allontanamento dall'origine (le origini
tradite o rovesciate nel loro contrario). Tesi per cui l'ultimo H.
affermerà: "Solo un Dio può ancora salvarci!".
Durante il suo rettorato nel '33-'34 chiese alle autorità naziste di
revocare, con "destituzione", dall'insegnamento il collega H.
Staudinger, chimico di fama internazionale (poi premio Nobel nel
1953), adducendo il suo atteggiamento "pacifista" e
"antinazionalista" durante la I guerra mondiale e quindi la sua
inaffidabilità per il nazismo. H. si oppose anche a mantenere
nell'insegnamento E. Baumgarten, da lui denunciato per i suoi
rapporti con alcuni ebrei. Rompe anche con K. Jaspers, i cui rapporti
erano stati mantenuti dal '20 al '33.
Il secondo H. inizia con un corso di Introduzione alla metafisica, del
'35, pubblicato nel '53. La svolta non è politica, perché sia qui che
nel Discorso del '33, H. assegna alla Germania nazista il compito di
salvare i valori della tradizione europea dalla barbarie tecnocratica
degli USA e dall'ideologia comunista dell'URSS. Ma è di tipo
filosofico, in quanto il tema fondamentale diventa quello del nulla,
per il quale l'esserci prova solo angoscia. H. cioè mira a trovare un
fondamento dell'essere nel nulla. H. comincia a dare della
metafisica occidentale un giudizio assolutamente negativo, mentre
in Essere e Tempo aveva avuto la pretesa di riformarla. Non
dobbiamo però dimenticare che Essere e Tempo -a detta dello
stesso H.- era rimasto incompiuto perché la metafisica tradizionale
non aveva il linguaggio adatto per concluderlo. Nell'analisi dei
concetti di nulla e di angoscia H. dipende in toto da Kierkegaard (già
in Essere e tempo s'era capita questa dipendenza). Il pensiero del

81
secondo H. diventa meno organico, appunto perché si presenta
come tentativo di superare la metafisica (questa esigenza verrà
ripresa da tutta la Scuola di Francoforte). H. si rifiuterà di trovare
una definizione esaustiva dell'essere; l'essere anzi risulta
indefinibile, in quanto coincide col nulla; per cui il pensiero deve
adeguarsi in modo diverso all'essere, non in maniera concettuale,
per definizioni, ma in maniera contemplativa, apofatica, mettendosi
in ascolto, poiché l'essere si nasconde.
La svolta prosegue nel biennio '35-'36, allorché gli interessi di H. si
spostano sul terreno dell'arte , dell'estetica, della poetica e del
linguaggio. Tiene una conferenza a Roma su Hölderlin e l'essenza
della poesia e due conferenze a Friburgo e Zurigo sull'Origine
dell'opera d'arte (che costituisce il nucleo del più ampio saggio
pubblicato in Sentieri interrotti).
Dal '36 al '42 tiene una serie di corsi e seminari su Nietzsche,
pubblicati nel '61. Nel '42 esce anche La dottrina platonica della
verità.
Dal '44 al '51 un divieto delle potenze occupanti in Germania gli
impedisce qualunque attività accademica. Nel '52 scrive una lettera
al suo fedele amico W. Petzet affermando, appena dopo essere
stato reintegrato nell'insegnamento, che era pronto a rinunciarvi se
avessero affidato al filosofo K. Löwith (già suo allievo) una cattedra
nella Germania occidentale. (Löwith, al tempo del nazismo, era
emigrato prima in Giappone, poi negli USA). Jaspers si pronunciò
contro la reintegrazione di H.
Pubblica L'essenza della verità nel '43, un libro di saggi su Hölderlin
nel '44, la famosa Lettera sull'umanismo nel '47, in cui dichiara di
non aver nulla a che fare con l'esistenzialismo francese, e Senteri
interrotti nel '50. Sempre nel '50 tiene una conferenza sul

82
Linguaggio. Dal '51 al '58 riprende, dapprima in forma privata, corsi
e seminari all'università, su Parmenide, Hegel, Aristotele, Leibniz e
sul Linguaggio. Muore nel 1976.
Analisi di ESSERE E TEMPO
Il problema ontologico
In Essere e tempo vi è la critica della metafisica occidentale, da
Platone in poi. H. mette in dubbio che tale metafisica abbia mai
saputo possedere l'essere. Le risposte ch'essa ha dato alla domanda
"che cos'è l'essere?", sono state tre: 1) l'essere è il concetto più
generale, trascendente le categorie (Hegel disse "immediato
indeterminato"); 2) il concetto di essere è indefinibile, incapace di
dualizzarsi per lasciarsi comprendere; 3) l'essere è un concetto
evidente.
In realtà, dice H., non si può parlare dell'essere senza parlare
immediatamente dell'uomo (esserci) che si pone degli interrogativi
sull'essere. L'esserci, nella metafisica classica, si chiede cosa sia
l'essere dandone per scontata la presenza. Ciò significa che la realtà
dell'essere è a un tempo oscura e desiderata. Chiedersi cos'è
l'essere significa, in verità, chiedersi qual è il senso dell'esserci. Il
rapporto dell'esserci all'essere è determinato dall'esistenza e
l'esistenza è caratterizzata dalla temporalità. Questo rapporto è
ontologico: è un rapporto antecedente alla relazione conoscitiva
dell'esserci coll'essere, è un rapporto che la metafisica tradizionale
ha sempre nascosto. L'ontologia, a differenza della metafisica, è
quella scienza che descrive le strutture e i caratteri dell'essere a
partire dall'esserci, cioè impedisce di dare una qualunque
definizione di essere che non tenga conto dell'esserci. Essa quindi
non è che una analitica esistenziale. La metafisica che identifica
l'essere con la semplice-presenza non ha senso, poiché l'esserci, che

83
dovrebbe identificarsi con l'essere, non ha le caratteristiche
dell'oggettività.
Per compiere tale critica H. s'è servito di Dilthey (con la sua
riduzione delle filosofie ad espressività temporali), di Nietzsche (che
ha mostrato che il fondamento dell'essere dipende dalla volontà del
soggetto), di Kierkegaard (che ha sottratto il soggetto a definizioni
astratte).
L'esserci come essere nel mondo
Secondo H. le caratteristiche fondamentali dell'esserci sono le
seguenti:
1) l'uomo come progetto. La riproposizione del problema dell'essere
si avvale dell'analisi delle maniere (media statistica) in cui i singoli
uomini si determinano quotidianamente nel mondo. Si scopre così
che l'uomo si determina sempre come poter-essere, in quanto egli
fa continuamente delle scelte. Il problema dell'essere è legato
all'esistenza e alla categoria della possibilità. L'esistenza non è che
un trascendere la realtà per realizzare una nuova possibilità,- cioè
noi esistiamo come un continuo tendere verso una diversa
sistemazione della realtà. Essere significa progettare. La
conseguenza di ciò è che le cose non possono essere considerate
come puri oggetti, nel loro essere in sé, indipendentemente da noi e
dai nostri interessi. Le cose non sono mai in sé, ma sempre come
strumento per l'uomo, che le modifica continuamente, senza
astrarle dal contesto cui appartengono. Infatti la totalità degli
strumenti è il mondo. La manipolazione delle cose è relativa al
modo in cui l'esserci si rapporta al mondo. Le cose dunque esistono
non per se stesse ma per l'uomo che le trasforma e le inserisce,
come strumenti, in un progetto. Esse dunque vengono all'essere
solo in virtù dell'uomo. Il mondo rimane la condizione perché le

84
cose siano, non è la somma delle cose. L'oggettività delle cose
dipende dall'esserci, non è in sé. Prima del mondo c'è l'esserci. La
strumentalità delle cose è manifesta attraverso il linguaggio e in
generale attraverso i segni. Il segno non ha altro uso che quello di
rimandare a qualcos'altro. Il rimando del segno è comprensibile
attraverso il linguaggio.
Fin qui H. ripercorre strade già battute dall'idealismo tradizionale e
dalla fenomenologia. L'unica differenza di rilievo sta nel fatto che
mentre per la metafisica tradizionale il soggetto ha anzitutto con la
realtà un rapporto conoscitivo (per poterla meglio trasformare),
l'esserci di H. invece è un soggetto che apprende anzitutto
emotivamente (precomprensione emotiva), nel senso che il
rapporto affettivo col mondo è il primo modo d'essere dell'esserci.
L'esserci fa già parte del mondo prima ancora di distinguersi da esso
attraverso la conoscenza. H. fa qui una distinzione precisa tra
comprendere il significato delle cose (che ci è possibile in quanto il
significato è in noi) e interpretare il mondo (che è in fondo
un'autointerpretazione. L'uomo ha in sé una pre-comprensione
originaria che attraverso l'interpretazione gli fa scoprire le cose che
sono già in lui. E' il circolo ermeneutico, di derivazione platonica). La
situazione affettiva è una specie di pre-comprensione più originaria
della comprensione stessa. Le cose, per H., hanno un significato
teorico e una valenza emotiva: noia, gioia, paura, disperazione...
che non dipendono sempre dal soggetto, ma anche dall'esterno che
lo condiziona. Questo condizionamento viene chiamato deiezione o
essere-gettato.
2) L'esistenza come progetto gettato. L'esserci che progetta il
mondo progetta se stesso. L'esserci è anche un progetto "gettato"
(consegnato) sul mondo (cioè progettato in modo da aderire ad una

85
certa strumentazione del mondo già esistente). Questo mondo
orientato strumentalmente e linguisticamente assume l'esserci e si
sottopone a trasformazione. Proprio perché l'esserci è gettato nel
mondo, il suo progetto ha dei limiti invalicabili: l'uomo si trova ad
essere senza averlo deciso, è in un mondo che condiziona
radicalmente le sue scelte, ha di fronte la prospettiva della morte. Il
problema per H. è quello di vedere come tale finitezza può
condizionare positivamente l'uomo (cosa che la metafisica
tradizionale s'era sempre rifiutata di fare). H. vuole dimostrare che
solo perché l'uomo è "finito", chiuso tra la nascita e la morte, può
fare la storia.
3) Autenticità e inautenticità dell'esserci. Con la nozione di essere-
gettato si apre la tematica esistenzialistica vera e propria. Nel
progettare il mondo e se stesso, l'esserci si trova di fronte a delle
possibilità equivalenti. Una sola è obbligata: quella della morte. La
differenza tra la morte e le altre opzioni di vita è che la morte resta
permanentemente una possibilità (quando diventa realtà, l'esserci
non c'è più). La morte così rende impossibili per l'esserci le altre
possibilità. La possibilità più autentica quindi è quella della morte.
Tutte le altre sono inautentiche.
Generalmente però l'esserci rifiuta di mettersi costantemente in
rapporto con la morte, e preferisce assolutizzare delle possibilità
particolari, cadendo nell'inautenticità (l'esperienza dell'anonimo
"SI"). Nel mondo del "SI" (MAN) l'esserci si disperde nella CURA
delle cose, per cui si lascia dominare dalla CHIACCHIERA (banalità),
dalla CURIOSITA' (oziosa e gratuita), dall'EQUIVOCO (fra ciò che è
autentico e non). Le opinioni comuni si condividono appunto perché
comuni. L'esserci insomma è deietto.
Viceversa, esistere autenticamente significa assumere come

86
possibilità-base la morte, la quale ha il compito di relativizzare le
scelte particolari, di trascenderle continuamente, tanto nessuna di
esse potrà realizzarsi secondo il nostro progetto, poiché esso resta
condizionato dal passato e dal presente.
In sostanza il nulla di tutte le realizzazioni particolari viene
smascherato dall'angoscia che l'esserci prova di fronte alla morte.
Chi non prova questa angoscia teme la morte e la fugge, ma così ha
un atteggiamento illusorio, poiché la morte non può essere fuggita.
L'esserci insomma deve trascendere il particolare, non per rifugiarsi
in un ideale astratto, ma per non lasciarsi trascinare dal particolare
in un'esistenza inautentica. La metafisica quindi sta proprio ad
indicare l'essere-per-la-morte dell'esserci. La realtà dell'uomo sta
nel saper scegliere la morte prima che la morte scelga l'uomo. La
scelta è per l'autenticità, in quanto se l'uomo non scegliesse, la
morte lo coglierebbe di sorpresa. L'uomo non può rinunciare allo
stato di colpa (angoscia) che è in lui, può soltanto assumerselo
consapevolmente. Il contenuto dell'essere è quindi il nulla (la morte
è il nulla); il tempo stesso lo indica, poiché nel tempo tutte le cose,
anche quelle progettate, muoiono. La temporalità può essere
considerata il senso dell'essere dell'esserci. La storicità dev'essere
sostituita con la destinalità. (Che il nulla sia il contenuto dell'essere,
verrà detto esplicitamente in Che cos'è la metafisica).
Essere e tempo si conclude con la IIa sez. della Ia parte; la IIIa sez.
era intitolata "Tempo ed essere" e doveva essere quella più
concreta e propositiva, ma non è mai stata scritta. La IIa parte
doveva riguardare l'analisi di Kant, Cartesio e Aristotele. H. disse che
l'opera rimase incompiuta per il venire meno del linguaggio,
condizionato dalla metafisica tradizionale. La conclusione insomma
di Essere e Tempo è che proprio la metafisica impedisce una vera

87
comprensione dell'essere.
Il problema linguistico
Il fallimento di Essere e tempo induce H. ad approfondire il
problema del linguaggio: il linguaggio infatti condiziona la possibilità
dell'esserci di fare esperienza del mondo e di elaborare i problemi.
Nella conferenza sull'Essenza della verità (1930) H. dirà che se è
vero che è l'uomo a parlare il linguaggio, è anche vero che il
patrimonio di parole di cui disponiamo (incluse le regole
grammaticali, sintattiche, logiche) pongono dei limiti invalicabili a
ciò che possiamo pensare e dire. Il linguaggio non possiamo
modificarlo nella sostanza, ma solo nella forma.
In questo senso l'essere non è né l'esserci, né il mondo, ma una
"luce" (avvento illuminante-proteggente) in cui uomini e cose
possono incontrarsi e capirsi. L'essere quindi fa apparire le cose, gli
enti, la storia, ma senza rivelarsi, anzi nascondendosi. L'ontologia
deve avere un atteggiamento apofatico nei confronti dell'essere,
altrimenti lo fa coincidere, banalizzandolo, con le cose (essere come
semplice-presenza). La dialettica tra ente ed essere va sostituita con
la differenza ontologica.
La tradizionale metafisica ha obliato l'essere livellando tutto sul
piano dell'oggettività misurabile e organizzabile (di qui il trionfo
della tecnica). L'esponente più coerente di questa metafisica -
secondo H.- è Nietzsche, che ha fatto dell'essere un valore posto dal
soggetto per la propria espansione vitale. L'uomo ha prodotto un
essere a sua immagine (in virtù soprattutto della tecnica).
L'ontologia deve invece restare in ascolto dell'essere decodificando
il linguaggio con cui esso si esprime (soprattutto nella poesia e
nell'arte). Al limite l'esserci deve rimanere in silenzio lasciando che
sia solo l'essere a parlare. La verità è rivelazione del nascondimento

88
dell'essere. L'essere che noi conosciamo è solo quello che permette
d'essere conosciuto.
Riassunto
Dopo aver pubblicato, nel 1927, Essere e tempo (la sua opera
principale), H. si distacca da Husserl, di cui era assistente
universitario, e fonda l'ontologismo esistenziale, cioè il tentativo di
trovare un senso all'essere (metafisico) a partire dall'esistenza
dell'esserci (umano). (Husserl era un fenomenologo, ma i contrasti
con H. vertevano anche sull'antisemitismo di quest'ultimo).
Il tentativo, in Essere e tempo, fallirà, poiché H. riuscirà a scrivere
solo la prima parte, ove critica quasi tutta la metafisica occidentale,
da Platone in poi, sostenendo ch'essa ha sempre parlato dell'essere
senza tener conto dell'esserci. Di conseguenza l'essere è diventato
un concetto astratto o indefinibile oppure così evidente da risultare
ovvio, scontato, mentre in realtà esso è molto problematico.
H. sostiene che non si può rispondere al senso dell'essere se prima
non si risponde al senso dell'esserci, la cui esistenza è caratterizzata
dalla temporalità, cioè da qualcosa che impedisce di stabilire una
qualunque oggettività. Tuttavia, H., al momento di spiegare qual è il
senso dell'esserci interrompe il libro, dicendo che il linguaggio era
"venuto meno".
Nel '28 H. diventa docente universitario. Nel '33 rettore
dell'Università di Friburgo. Aderisce al partito nazista, pretendendo
che il suo pensiero abbia una rilevanza pubblica. H. farà espellere
dall'Università due docenti pacifisti e antinazionalisti. Egli d'altra
parte era convinto che solo la Germania nazista potesse salvare i
valori della tradizione europea dalla "barbarie" tecnocratica degli
USA e dal bolscevismo dell'URSS. Sennonché l'anno dopo, per
dissensi col governo (sul suo progetto di riforma universitaria e

89
anche sul biologismo razzista), si dimette e non si occupa più di
politica. Tiene regolarmente i corsi accademici, ma non pubblica
nulla fino al 1942. Sempre netto il suo dissenso da liberalismo,
democrazia e socialismo.
Nel '35, con Introduzione alla metafisica (pubblicata nel '53), si ha
una svolta nel suo pensiero. La metafisica non va "riformata", come
in Essere e tempo, ma "superata". L'essere non può essere definito,
poiché ogni definizione lo limita. L'essere in un certo senso coincide
col nulla, poiché non c'è nulla che possa comprenderlo. Di fronte al
nulla l'esserci non può che angosciarsi e attendere in maniera
contemplativa che l'essere si sveli spontaneamente. La metafisica
non ha davvero alcun senso. Gli interessi filosofici e culturali di H. si
spostano verso l'arte, l'estetica, la poetica e il linguaggio. Autori
preferiti: Parmenide, Holderlin e Nietzsche.
Dal '44 al '51 un divieto delle potenze occupanti in Germania gli
impedisce qualunque attività accademica. Ma nel '52 viene
reintegrato.
In Essere e tempo le caratteristiche fondamentali dell'esserci sono
le seguenti:
A. L'uomo come progetto, come poter-essere, in quanto fa
continuamente delle scelte. Primato della categoria della possibilità.
La realtà non è mai oggettiva, perché soggetta a continue
modifiche. Le cose esistono solo per l'esserci che le usa (inserendole
in un progetto). Prima del mondo c'è l'esserci, che dà significato alle
cose.
B. L'esistenza come progetto gettato. L'esserci è costretto a
scegliere, perché viene "gettato" (consegnato) sul mondo senza
volerlo. Il mondo condiziona radicalmente le sue scelte. Questo
limite però garantisce la storicità all'esserci, che è chiuso tra la vita e

90
la morte.
C. L'autenticità dell'esserci. Se l'esserci dovesse pensare solo alla
vita, ogni possibilità scelta sarebbe equivalente a un'altra, perché
non esiste nella vita un criterio oggettivo che ci dice quando una
scelta è migliore di un'altra. L'unica scelta che rende autentico
l'esserci, perché esclude tutte le altre, è quella per la morte.
Scegliendo per la morte, la possibilità resta possibilità, perché la
morte, quando diventa realtà, fa sparire l'esserci. La morte
relativizza le scelte particolari, destinate all'insuccesso, poiché il
nostro progetto resta sempre condizionato dal passato e dal
presente.
D. L'essere per la morte. Di fronte alla morte l'esserci non deve
fuggire, altrimenti la morte lo coglierà di sorpresa, ma deve provare
angoscia, nella convinzione che il senso della vita sta nella morte
che vanifica ogni progetto particolare. Chi fugge cade nel mondo
generico del "Sì" e si disperde nella cura delle cose, per cui si lascia
dominare dalla chiacchiera (banalità), dalla curiosità (oziosa) e
dall'equivoco (circa l'autenticità delle cose).
E. Conclusione: la metafisica, pur avendo sempre avuto come
oggetto l'essere, ne impedisce letteralmente la comprensione,
perché lo considera al di fuori dell'esserci. Non avendo accettato il
presupposto che la temporalità dell'esserci è l'unica dimensione
della sua vita, essa non è mai arrivata a capire che l'essere coincide
col nulla (Che cos'è la metafisica?).
Il fallimento di Essere e tempo porterà H. ad approfondire il tema
del linguaggio (Essenza della verità), nella speranza di poter chiarire
meglio il significato (positivo) dell'essere. Tuttavia, H. arriverà solo
ad affermare che l'essere è "luce" (avvento illuminante-
proteggente). L'ontologia deve restare in ascolto (apofatismo)

91
dell'essere, che si rivela nascondendosi. L'essere che conosciamo è
solo quello che permette d'essere conosciuto. Poco prima di morire
dirà che solo un "dio" avrebbe potuto salvarci dall'autodistruzione,
in quanto né la filosofia né alcun'altra scienza potranno mai
modificare il mondo.
Storia della critica
La vera storia della critica heideggeriana comincia solo negli anni
'50, quando Essere e tempo non è più l'unica opera cui potersi
riferire, com'era successo negli anni '30, allorché di quest'opera,
soprattutto in Francia, con Sartre, Marcel, Lavelle, Le Senne, Wahl,
Berdjaev..., si evidenziarono i temi esistenzialistici, mettendo in
secondo piano quelli ontologici.
Nella Francia degli anni '30 lo studio dell'esistenzialismo di H.
rientrava nell'interesse che si era maturato per quello di
Kierkegaard e di Jaspers. Essere e tempo veniva valorizzato in
termini antropologici e persino religiosi. Quest'interpretazione
riduttiva venne messa in crisi dallo stesso H., con la pubblicazione
nel '47 della Lettera sull'umanismo, che è un manifesto
antiesistenzialistico.
Di H. i francesi avevano colto soprattutto i temi dell'angoscia, della
morte, del nulla, della cura e dell'appartenenza al mondo come
totalità. Forse l'unico francese che ne recuperò anche l'ontologismo
fu Lévinas. Il rifiuto di considerare l'ontologismo non dipese dalla
scarsa propensione della filosofia francese per le astrazioni
metafisiche, quanto dalla convinzione che negli aspetti esistenziali
Essere e tempo offriva più materiale di riflessione, in quanto
maggiore era il realismo che non nell'ontologia, che pareva
destinata a fondarsi sul nulla e sull'impotenza.
Non solo, ma fu proprio l'interpretazione esistenzialistica di H.

92
ch'ebbe il pregio di mettere in crisi il neokantismo tedesco e il
neoidealismo italiano. In Germania l'influsso più positivo
dell'esistenzialismo di H. è riscontrabile nella teologia demitizzante
di Bultmann.
In Italia H. viene recepito negli anni '50 e '60 sull'onda delle
traduzioni di P. Chiodi e della lettura esistenzialistica di N.
Abbagnano. Il successo di H. esistenzialista è avvenuto proprio dopo
il 1947, anno in cui H. si distaccava dall'esistenzialismo. In Italia
l'analitica esistenziale del finito è stata utilizzata contro l'idealismo
crociano e gentiliano, e per fondare un'autocoscienza filosofica di
tipo laico (più moderata e conformista in Abbagnano, più radicale e
antifascista in Chiodi). Il tentativo era quello di creare una sorta di
"terza via" tra il neotomismo (e spiritualismo) del cattolicesimo di
Pio XII da un lato e il marxismo gramsciano (e storicistico) di
Togliatti dall'altro. Quando le traduzioni del IIo H., quello della
svolta, fatte da Chiodi, resero insostenibile questa interpretazione, il
pensiero esistenziale dell'autosufficienza dell'individuo laico gettato
nel mondo, prese atto che H. non serviva più, e lo trasformò in un
irrazionalista tardoromantico, nemico della scienza e della tecnica.
L'esistenzialismo italiano rimproverà sempre ad H. di aver ceduto
troppo alla metafisica e di aver tenuto in scarsa considerazione
l'assiologia e lo stesso esistenzialismo. L'ontologia addirittura
appariva come una sorta di idealismo hegeliano rovesciato. Cioè, in
quanto esistenzialista H. appariva progressivo, poiché rivendicava la
finitezza (temporalità) dell'esserci (la sua concretezza storica, solo in
virtù della quale ha senso porsi il problema dell'essere), ma in
quanto ontologista H. appariva regressivo, perché l'impianto
costruttivo che avrebbe dovuto dare fondamento all'essere, restava
metafisico, idealistico. Anche Löwith condividerà questa analisi. Per

93
alcuni critici italiani, il carattere negativo e apofatico
dell'ontologismo, approdando a una via senza sbocchi
(irrazionalismo, nazismo, oppure mistica, mitologia), farà desiderare
un ritorno a Husserl.
Una rinascita di Heidegger è avvenuta in Italia nella seconda metà
degli anni '70 ad opera di alcuni intellettuali vicini o interni al Pci:
Cacciari, Vattimo, Boffa... Costoro hanno letto il IIo H. in chiave
nichilistica, post-moderna, antidialettica, differenzialistica,
paragonandolo a Nietzsche. Il che rovesciava la lettura laico-
razional-esistenziale di Chiodi e Abbagnano. In comune però c'era
l'avversione a Hegel e al Marx economista. In verità, nei confronti di
H. il giudizio del marxismo, (così come quello della Scuola di
Francoforte) è sempre stato pesantemente negativo: Lukács lo
definiva un sintomo della crisi del soggettivismo borghese, Adorno
invece una sorta di adeguamento alla società massificata, giudicata
immodificabile. Non a caso l'uso più produttivo dell'ontologismo è
avvenuto in campo teologico-ermeneutico (Gadamer è il principale
continuatore di H.), oppure in campo estetico-ermeneutico.
La problematica del Linguaggio è stata ripresa da Wittgenstein che
prevede però il silenzio solo sulle questioni metafisiche, come unico
atteggiamento ragionevole, mentre l'unico linguaggio valido resta
quello scientifico. Anche Derrida affermerà che nella metafisica
razionalistica il significante, nell'ambito del segno, è tutto
subordinato all'idealità astratta del significato.
Rilievi critici
H. era partito bene quando intuì che il problema dell'essere è in
fondo il problema dell'esserci: in questo senso egli eredita la critica
dell'idealismo condotta da parte della sinistra hegeliana e
soprattutto di Kierkegaard. Si può dire anzi che H. non abbia fatto

94
altro che laicizzare l'esistenzialismo religioso di Kierkegaard,
sostituendo al rapporto del singolo con dio il rapporto dell'esserci
col mondo.
Tuttavia, l'identità di essere ed esserci, se può essere usata contro la
concezione di essere che aveva l'idealismo (in cui l'esserci finiva col
perdere la propria identità umana, vinta dalla conservazione dei
rapporti esistenti, che erano borghesi o caratterizzati, come in
Germania, dal blocco junkers-borghesia), non poteva però essere
usata per rifondare una nuova concezione dell'essere, poiché né la
sinistra hegeliana né Kierkegaard hanno mai considerato equivalenti
i due elementi, ma hanno preferito concedere a uno dei due,
l'esserci, il primato assoluto, trasformando l'essere in una sua mera
proiezione. Anche H. riproduce il forte soggettivismo
(piccolo)borghese della opposizione all'idealismo hegeliano, ma,
come Kierkegaard, perde il senso oggettivo della realtà, quel senso
che gli avrebbe permesso di capire che le contraddizioni del
capitalismo non possono essere superate in maniera individualistica
e tanto meno in maniera filosofica.
L'identità quindi di essere ed esserci dal punto di vista dell'esserci
può essere utilizzata in un primo momento, per distaccarsi
dall'essere astratto, formalizzato e conservatore dell'idealismo
hegeliano, ma subito dopo va affermata una nuova identità, in cui vi
sia tra i due elementi un rapporto dialettico, in grado di
salvaguardare l'autonomia, la specificità di entrambi. Non essendo
riuscito a farlo, H. si trova alla fine costretto ad ammettere che il
suo esserci è incapace di essere: non solo nel senso che non riesce a
conformarsi allo sviluppo del capitalismo monopolistico, ma anche
perché non riesce ad opporsi a questo sviluppo. Egli affermò che
Essere e tempo rimase incompiuto per il venir meno del linguaggio;

95
in realtà è venuto meno l'esserci, il quale, non sentendosi
determinato da un essere alternativo a quello borghese (idealista,
hegeliano), non poteva avere un linguaggio adeguato alla
problematica dell'essere. Tutto lo sviluppo posteriore a Essere e
tempo non fa che girare attorno a questo problema senza mai
risolverlo: ecco perché Essere e tempo resta l'opera più significativa.
Esso è la testimonianza (più o meno indiretta) che nell'ambito della
filosofia borghese una qualunque pretesa di autenticità dell'esserci,
che voglia restare in tale ambito, non può che portare
all'irrazionalismo (teorico, come appunto in Heidegger, o pratico,
come in Kierkegaard e soprattutto in Nietzsche, verso i quali H. ha
sempre avvertito una forte attrattiva, specie per il secondo, poiché
più coerente e ateistico). Da questo punto di vista Essere e Tempo
è, a un tempo, il tentativo e il fallimento del tentativo di superare la
crisi dell'identità borghese dal punto di vista borghese. Esso quindi è
anche la testimonianza che dopo l'idealismo hegeliano, la filosofia
borghese può essere solo una filosofia della crisi e che la crisi di
questa filosofia è appunto data dalla crisi della società borghese,
che non è riuscita a realizzare gli ideali di democrazia per i quali è
nata.
L'esserci di H. non è in grado di vivere per la vita (per la
trasformazione della vita), ma solo per la morte. La vita è troppo
insignificante per essere vissuta. Nella vita tutte le cose si
contraddicono a vicenda, sono soggette al fluire del tempo, si
banalizzano. Solo la morte (la possibilità della morte) resta
veramente. L'esistenza dell'esserci consiste nel rassegnarsi a questa
evidenza, per evitare possibili illusioni su di sé e sulla realtà che
vive. La rassegnazione non deve essere superficiale, ma con
angoscia, che è l'atteggiamento filosofico di fronte al nulla della vita

96
(o dell'essere). Essere e nulla coincidono dal punto di vista del nulla.
Come si può vedere, il concetto di morte viene usato da H. per
impedire la vita, anche se nelle sue intenzioni doveva servire solo
per impedire le illusioni sulla vita. In realtà, le conseguenze del suo
discorso sono disperate: "siccome c'è la morte, nessuna esperienza
liberante, se non quella dell'angoscia per la morte, è possibile o
merita d'essere vissuta". Questa posizione è chiusa,
intellettualistica, aristocratica, pregiudizievole nei confronti di ogni
alternativa al sistema dominante. H. è qui un esistenzialista con
ambizioni metafisiche (tipicamente tedesche, e quindi idealistiche).
Il suo è il modo di vedere l'esistenzialismo dal punto di vista di un
tedesco idealista che non può più credere nella metafisica
tradizionale, in quanto ne scorge le contraddizioni interne.
Il miglior H. è quello che sostiene che la stessa metafisica impedisce
di scorgere la realtà dell'essere. Interessante anche il discorso
dell'essere come "luce" e il discorso del silenzio come
atteggiamento di ascolto nei confronti dell'essere, ma questo
discorso può anche portare a una forma di irrazionalismo mistico.
Guida alla lettura di Heidegger: «Che cos’è metafisica?»
L’essere non è ma accade, è evento
Ermetis – Oggetto di questa lettura è la celebre prolusione tenuta
da Heidegger il 29 luglio del 1929 all’Università di Friburgo, la
lezione inaugurale con cui egli prendeva possesso della prestigiosa
cattedra che era stata di Edmund Husserl.
Com’è costantemente nostra cura, il tempo e il luogo di
quell’evento saranno ora analizzati.
Il dibattito filosofico tedesco era in quegli anni pienamente
sintonizzato sul grande tema della Crisi, che dominava il
palcoscenico culturale della Repubblica di Weimar dall’inizio degli
97
anni Venti. Come un’onda sismica continentale, quel movimento
tellurico aveva minato profondamente tutto il sistema delle scienze
occidentale, dando luogo a una critica radicale del trionfalismo
positivista e all’esigenza di una revisione dei fondamenti stessi del
metodo scientifico, cioè dei principi costitutivi della matematica e
della fisica.
Apprendista – Ci fu un cambiamento di paradigma, no? Si
presentarono certi fenomeni che non potevano più essere spiegati
con i vecchi schemi di riferimento, mi pare… cioè con la fisica
newtoniana.
Ermetis – La scienza, malgrado alcuni focolai di resistenza sparsi qua
e là, aveva da secoli imposto modello epistemologico che
pretendeva di dettare l’unico possibile criterio di determinazione
della verità. Di fondare la conoscenza oggettiva della realtà.
Secondo apprendista – E quando c’è conoscenza oggettiva, c’è la
possibilità di dominare le cose, di averle a disposizione, di agire sulla
realtà. È a questo che serve la conoscenza oggettiva.
Ermetis – Ora, quando una dittatura vacilla, quando l’oppressore
manifesta debolezza e instabilità, per gli oppressi si aprono vie di
fuga e zone di autonomia, brecce attraverso le quali organizzare la
propria riscossa. Nella lotta per la libertà si ricostituisce soprattutto
la propria dentità. E dunque, tutto il Pensiero che era imprigionato
nella gabbia razionalistica dell’epistemologia cartesiana, venendo a
crollare i solidi muri in cui era rinchiuso, comincia a correre di qua e
di là alla ricerca di se stesso. L’arte e la filosofia si trovano nel vuoto
di un nuovo inizio, nella necessità di ripetere se stesse a partire dal
loro inizio originario, nella necessità di ritrovare se stesse dopo che
per secoli erano state schiacciate sotto un unico modello di
pensiero.

98
Terzo apprendista – Probabilmente questo nell’arte era già
successo. Voglio dire: la rivoluzione romantica era poi stata quasi la
stessa cosa.
Ermetis – Già, ma faccia caso: era stata la ribellione di una parte
subordinata del Pensiero, e per quanto violenta era stata comunque
domata e riassorbita. Aveva creato scompiglio, come un esercito
spartachista, ma aveva dovuto misurarsi contro la forza ancora
impressionante del Potere Centrale, del modello filosofico
razionalista. Per dirla in termini filosofici: l’Idealismo fu importante,
ma incise più alla fine che all’inizio dell’800, più a lungo termine che
nell’immediato.
Quarto apprendista – Intende dire, Maestro, che ogni disciplina
dovette cercarsi il proprio punto di riferimento, che era venuto a
mancare il modello culturale centrale?
Ermetis – La cosa è più complessa. Stiamo sempre alla filosofia: per
essa non si trattò (ma questo vale anche per l’arte) di una semplice
restaurazione dei propri principi, di un ritorno all’antico, perché nel
frattempo Nietzsche – con il celebre annuncio "Dio è morto" –
aveva decretato la morte anche della metafisica, che da Aristotele
in poi era stata praticamente il sinonimo di "filosofia". La "nuova"
filosofia doveva da capo rispondere alla domanda: "cosa è
metafisica?", dopo che essa stessa ne aveva sancito la fine.
Primo apprendista – Mi sembra un po’ un’esagerazione. A me pare
che la filosofia sia poi abbastanza sempre la stessa. Nel senso che se
ci si domanda "che cos’è la metafisica?", vuol dire che si resta
sempre nel suo solito orizzonte, che non ci si muove da una certa
logica. Non ci vedo quel gran terremoto che Lei dice.
Quarto apprendista – E cosa dovrebbe chiedersi?
Primo apprendista – Che ne so…cos’è la vita? Che senso ha questo

99
mondo; non quell’altro, ideale ed eterno, a cui fa sempre
riferimento. Questa mi pare che sarebbe una svolta! Occupiamoci
delle cose, occupiamoci di noi, dei nostri problemi…
Ermetis – La conversazione ha preso una strana piega, ha
manifestato una delle sue qualità più sorprendenti. Quello che è
stato detto con spirito scettico se non polemico, la parola che è
stata gettata in mezzo per interrompere il cammino, diventa invece
l’occasione e lo stimolo per un’altra e più incisiva tappa. Per
riconoscere la meta accanto a cui camminiamo. Lei ha tutte le
ragioni caro amico… non ci sarebbe stato nessun rinnovamento se
la filosofia avesse continuato a parlare semplicemente di metafisica,
a fare della metafisica. Il fatto è un altro. Il fatto è che qualcuno, in
questo caso Heidegger – il nostro "Pastore della Selva nera" – si è
chiesto: "che cos’è metafisica?". Cioè ha preso quella parola e l’ha
tolta dalla sua scontatezza, l’ha guardata come se la vedesse per la
prima volta, l’ha messa in mezzo al discorso chiedendole ragione del
suo stesso esistere. Le ha chiesto di manifestarsi. Certo la filosofia
non può essere diversa da se stessa. Vorrà pur dire qualcosa il fatto
che mantenga il suo nome, che conservi gelosamente memoria del
suo passato, della propria identità. Sempre, quando il desiderio di
cambiare, di rinnovarsi, è sincero e profondo, non fa che portare più
profondamente che mai verso… se stessi. Nessun cambiamento è
più vero di quello che ci fa essere totalmente noi stessi.
Primo apprendista – Perché dice che ho dato un nuovo impulso alla
conversazione?
Ermetis – Perché, guarda caso, la filosofia tedesca del primo 900 si
pose proprio le domande che dice Lei. Si pose il problema della vita,
si pose il problema del "mondo".
Quarto apprendista – Cioè assunse un atteggiamento scientifico e

100
non più metafisico? Non capisco. Non aveva detto che la filosofia si
era liberata dal dominio della scienza?
Ermetis – Secondo Lei, in cosa consisteva il cosiddetto "dominio
della scienza"?
Quarto apprendista – Nella scelta delle cose di cui occuparsi,
evidentemente. La contemplazione di stampo platonico e idealista
di fattori speculativi, è l’atteggiamento "metafisico"; la sistemazione
metodologica del campo del sapere e dei suoi costituenti oggettivi,
diciamo l’alternativa aristotelica, è l’atteggiamento scientifico. Più o
meno.
Ermetis – Quindi la scienza si occuperebbe del "Mondo" e la
filosofia – diciamo la metafisica – no?
Quarto apprendista – A grandi linee…
Ermetis – Quindi una filosofia che guarda al "Mondo" è una filosofia
che fa proprio il modello epistemologico scientifico, dell’oggettività?
Terzo apprendista – E in effetti Cartesio fu prima di tutto un
matematico, Kant un cultore della scienza; cioè filosofi razionalisti…
Primo apprendista – "Succubi della scienza…"
Ermetis – Allora, dicendo che le filosofie del Primo 900 si staccarono
dal modello scientifico perché portavano il loro sguardo alla vita e al
mondo, entriamo in una plateale contraddizione!
Quarto apprendista – Già. Chi è che sta sbagliando?
Quinto apprendista – Dovremmo riflettere sul concetto di scienza.
Che cosa intendiamo quando parliamo di scienza?
Ermetis – Proprio così. C’è un modo corrente e semplificato di
intendere la "scientificità", e vi è invece quello appropriato e
filologicamente fondato; entrambi accomunano una parte dei
filosofi e degli scienziati in due schieramenti contrapposti. Mi
spiego. Il modello epistemologico del pensare scientificamente è

101
quello che si sviluppa dalla rivoluzione copernicana e attraversa
tutta la storia del pensiero occidentale. È il modello cartesiano,
newtoniano, kantiano, ed è un’idea di scienza che ha al proprio
centro quel principio di evidenza che è proprio delle leggi
matematiche. In base a questo modello, il rigore autoreferenziale
della matematica diventa l’ideale supremo a cui dovrebbe guardare
tutto il pensiero. La matematica è costituita da processi la cui
evidenza non ha bisogno di nessuna giustificazione trascendente,
così come di nessuna "prova dei fatti". Che 2 + 2 sia uguale a 4 è di
per sé evidente ed è fondato esclusivamente su principi il cui
fondamento non richiede nessun atto di fede. Cioè non avete
bisogno di credere in me, basta applicare certi processi di
ragionamento che sono uguali per tutti. Se poi rifiuti questo modo
di pensare, sei libero di farlo, ma non potrai mai accusare chi lo
pratica di falsità o ignoranza; dovrai "uscire fuori" dal recinto della
ragione, abbracciare l’irrazionale e isolarti dalla comunità degli
esseri pensanti. In questo senso l’irrazionalità è solitudine, è
incomunicabilità.
Quinto apprendista – Questo modo di pensare scientificamente non
guarda certo al "Mondo", o alla vita.
Ermetis – È il più puro atto di speculazione intellettuale che si possa
immaginare. La matematica è innanzi tutto e per lo più
un’astrazione dalle cose "così come sono", una riduzione della
realtà a un mondo di pure grandezze. Molta filosofia, fin dal 600, e
abbiamo anche detto quale, guardò a questo modello come al
proprio supremo ideale razionale, riducendo il proprio interesse ai
meccanismi interiori del pensiero, a quei processi razionali che
presentano il maggior grado di generalizzazione e astrazione e che
sovrintendono non alla vita come tale ma alla pura e semplice

102
conoscenza. Il modello dominante della filosofia occidentale ha
ridotto il pensiero – direi l’essere umano – alla pura conoscenza.
Tutto il resto, sensibilità, emotività, immaginazione, intuito, poiché
non è governato da regole certe ed evidenti, non è niente. Non è
pensiero.
Secondo apprendista – Ma Lei diceva che ci sono due modi di fare
scienza…
Ermetis – L’altro è il filone aristotelico. Perché, ricordatevi bene,
non c’è niente di più platonico di quel pensare che riduce la realtà a
puri nessi matematici. Ecco invece Bacone, e un certo aspetto del
metodo galileiano, ma soprattutto gli Empiristi e poi i Positivisti. Con
questi la matematica ha poco a che fare: conta l’esperienza, il
vedere, il fare.
Quarto apprendista – Non è più la scienza pura, ma applicata. Qui il
mondo c’è, eccome!
Ermetis – Certo, ma quale mondo? O meglio, quale aspetto del
mondo?
Quarto apprendista – Le cose così come sono, le cose che si
vedono, la realtà che ci circonda…
Quinto apprendista – Quello che ci sta davanti.
Terzo apprendista – Ho capito! Si discrimina ciò che è "davanti a
noi" da ciò che è "dentro di noi". Il primo costituisce il "Mondo"
oggettivo, il secondo il mondo (?) soggettivo. Ciò che è oggettivo è
scientifico, ciò che è soggettivo non lo è. È così?
Quinto apprendista – Beh, c’è un modo di rendere oggettivo anche
quello che abbiamo dentro: pensiamo alla psicologia. Anche l’uomo
può diventare oggetto, oggettivo.
Ermetis – Queste categorie, "davanti", "dentro", parlano chiaro, mi
sembra. Se per un biologo o un astrofisico guardare il mondo è

103
porsi davanti alle cose, la filosofia come traduce questo
atteggiamento? Come fa la filosofia ad essere scientifica in questo
senso?
Quinto apprendista – Si pone "davanti al mondo", solo che lo
prende tutto insieme, nel suo insieme, e non parcellizzato in diversi
settori "naturali". Si occupa della realtà in quanto tale, ma della
realtà oggettiva…
Ermetis – Domanda: si può vedere la "realtà nel suo insieme", tutta
la realtà "in quanto tale"? Me la può indicare, per favore?
Primo apprendista – Hic Rhodus, hic salta.
Quarto apprendista – È un circolo vizioso, Maestro. Non se ne esce
più. La filosofia che matematizza è platonica e perciò quanto di più
lontano ci sia dal mondo. Idem per la scienza pura, che quindi non
guarda alla vita, al mondo. Adesso mi dice che neppure la filosofia
empirista guarda al mondo, almeno non nel modo in cui lo fanno le
scienze che prende a modello, cioè la biologia, la medicina. Quindi è
vero che in un certo senso la filosofia non ha mai guardato al
mondo, alla vita… Ma se è così, come possiamo dire che essa sia
stata dominata dal modello epistemologico della scienza?
Ermetis – Possiamo dirlo perché parliamo senza dare peso alle
parole che usiamo. Cos’è "mondo", cos’è "vita"? Non è forse il
momento di interrogarci su questo? Nel corso della conversazione
sono emerse diverse parole con cui pensavate di dire più o meno la
stessa cosa: il mondo, le cose, l’oggetto, ciò che ci sta davanti… Ma
così facendo, voi vi siete fatti dominare dalle parole, vi siete fatti
portare da loro, più che esprimere il vostro pensiero. È ovvio, a
rifletterci solo un attimo, che "il mondo" è cosa ben diversa dalle
semplici "cose", perché caso mai le "cose" le troviamo "nel mondo";
ed è ben impegnativo affermare che "ogni cosa è un mondo". E poi:

104
le "cose" sono sempre solo "oggetti"? Cosa dico quando dico:
"questa cosa mi fa soffrire", o "questa cosa non mi piace"? Ma
tuttavia, non è per caso che chi parla veda tra tutte queste parole
un qualche nesso, percepisca tra loro qualcosa di comune.
Cerchiamo allora di individuare, tra di esse, la più fondamentale,
quella che le dice tutte…
Primo apprendista – A questo punto faccia Lei, Maestro, così non
perdiamo tempo.
Ermetis – È chiaro che il senso che le abbraccia tutte è racchiuso
essenzialmente nell’espressione dello "stare davanti": il mondo,
come le cose e gli oggetti, è "ciò che ci sta davanti". Ciò che è
presente davanti a noi.
Quinto apprendista – Chiaro. Ma la filosofia? In che senso la
filosofia concepisce lo "stare davanti" tipico di ciò che è oggettivo?
A che cosa sta davanti la filosofia?
Ermetis – All’essere. A che cos’altro, se no? Ecco come la filosofia,
da Platone e Aristotele in poi, si è fatta irretire dall’illusione
prospettica dell’oggettività. Dell’essere si dimenticò la natura di
origine, o la natura originaria, per ridurlo all’essenza – o
fondamento, o permanenza immutabile – di tutto ciò che è "davanti
a noi", che è presente. Questo per il primato che i Greci conferivano
alla "theoria", cioè all’atteggiamento dell’osservare e del
contemplare come fonte della conoscenza.
Secondo apprendista – Forse non tutti… Eraclito per esempio…
Ermetis – Certo, ma questo è un altro discorso.
In sintesi: la "metafisica della presenza" è all’origine dello "spirito
oggettivante" del cosiddetto "pensiero scientifico". E anche se si
tende a dimenticarlo, tanto che i logici moderni nutrono non di rado
un solenne disprezzo per quelle che chiamano "barzellette", è

105
piuttosto evidente quanto affermò Heidegger, che cioè la scienza
moderna non è che l’esito estremo e più radicale della metafisica
sorta col pensiero greco.
Primo apprendista – Quindi siamo al capovolgimento di quanto si
diceva all’inizio: che la scienza si è imposta sulla filosofia…
Ermetis – Non proprio. Quello della scienza è un modo di pensare
che ebbe la sua origine storica nella filosofia greca; ma non c’è un
unico modo di pensare. Diciamo che il modello "oggettivante", la
metafisica della presenza, si impose su altre concezioni dell’essere,
mettendo ai margini modelli filosofici alternativi.
Quarto apprendista – E poi venne la crisi. Ma se la filosofia
cominciò a occuparsi della vita e del "mondo", come si può dire che
sia andata in crisi la metafisica?
Ermetis – È la grande intuizione di Heidegger, così come emerge
dalle pagine di Essere e tempo. Più che "occuparsi della vita", egli
fece della metafisica – o meglio del problema dell’essere – qualcosa
di vivo. E come? Se l’essere si riduce semplicemente a ciò che è
presente davanti a noi – all’essenza immutabile delle cose –
ebbene, l’essere viene schiacciato su una sola delle tre dimensioni
possibili che appartengono al tempo. Se noi diciamo che qualcosa
"è presente", necessariamente attribuiamo a questa cosa una
qualità temporale, una temporalità che però risulta mutilata. Quello
che conta è l’"ora", che è anche il "qui". E il passato? E l’avvenire?
Ecco due categorie che non sono imputabili alle cose in quanto
oggetti, ma che appartengono esclusivamente alla vita, alla vita in
quanto esistenza, in quanto storia. Heidegger restituì all’essere la
pienezza del Tempo, che è pienezza di vita, sottraendolo al controllo
e al dominio del soggetto, del "pensiero oggettivante", della
"ragione".

106
Quinto apprendista – L’essere non è qualcosa che dominiamo, ma
qualcosa in cui ci troviamo?
Ermetis – Forse è più esatto dire: qualcosa da cui veniamo.
Primo apprendista – Però tutto questo è in Essere e tempo. Adesso
ci tocca la lettura di Cos’è metafisica? Cos’altro dobbiamo
aspettarci?
Ermetis – L’apparizione di un nuovo stile. Il nuovo stile di Heidegger,
dal fatidico 1929, è quello di una filosofia dell’evento. La filosofia
deve impegnarsi a partire dalla Vita, ma non dalla vita come
oggetto, bensì dalla vita come evento, come situazione. E come
enuncia Essere e tempo, da una situazione emotiva. Da lì in poi,
compito della filosofia è di interrogare quella situazione, di
interpretarla.
Heidegger ritiene che da una parte la metafisica faccia parte della
“natura dell’uomo”, in quanto essa è “l’accadimento fondamentale
dell’esserci”, dall’altra che essa sia costantemente insidiata
dall’errore piú radicale.
M. Heidegger, Was ist Metaphysik, [Che cos’è la metafisica] Bonn,
1929, trad. it. di F. Volpi, Segnavia, Adelphi, Milano, 1987, pagg. 76-
77
La domanda del niente mette in questione noi stessi che poniamo la
domanda. Si tratta di una domanda metafisica.
L’esserci umano può comportarsi in rapporto all'ente solo se si tiene
immerso nel niente. L'andare oltre l'ente accade nell'essenza
dell'esserci. Ma questo andare oltre è la metafisica. Ciò implica che
la metafisica faccia parte della “natura dell'uomo”. Essa non è un
settore della filosofia universitaria, né un campo di escogitazioni
arbitrarie. La metafisica è l'accadimento fondamentale nell'esserci.

107
Essa è l'esserci stesso. E poiché la verità della metafisica dimora in
questo fondo abissale, essa è costantemente insidiata da vicino
dalla possibilità dell'errore piú radicale. Questa è la ragione per cui
non c'è rigore scientifico che eguagli la serietà della metafisica. La
filosofia non può mai essere misurata col parametro dell'idea della
scienza.

108

Potrebbero piacerti anche