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“NOZIONI INTRODUTTIVE”

PROF. GIANLUCA D’AIUTO


Università Telematica Pegaso Nozioni introduttive

Indice

1 IL CODICE DI PROCEDURA PENALE --------------------------------------------------------------------------- 3


2 I MODELLI PROCESSUALI ----------------------------------------------------------------------------------------- 5
3 IL MODELLO MISTO DI PROCESSO PENALE ---------------------------------------------------------------- 8
4 IL CODICE VIGENTE: LA DISTINZIONE TRA PROCEDIMENTO PER LE INDAGINI
PRELIMINARI E PROCESSO ---------------------------------------------------------------------------------------------11
5 OGGETTO DEL PROCEDIMENTO E FUNZIONE DEL PROCESSO ------------------------------------14
6 LE GARANZIE DEL GIUSTO PROCESSO ----------------------------------------------------------------------19

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la
riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)

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1 Il codice di procedura penale


Lo studio del diritto processuale penale ha ad oggetto gli istituti che trovano la loro
disciplina essenzialmente nel codice di procedura penale.
Il codice è stato approvato con il d.p.R. 22 settembre 1988 n. 447 ed è stato emanato
contestualmente al d.p.R. 22 settembre 1988 n. 448, recante disposizioni sul procedimento penale a
carico di minorenni, e al d.p.R. 22 settembre 1988 n. 449, contenente le norme per l’adeguamento
dell’ordinamento giudiziario al nuovo processo penale. Sul piano delle fonti, i tre decreti
presidenziali sono stati integrati dal d.lgs. 28 luglio 1989 n. 271 (norme di attuazione, di
coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), dal d.lgs. 28 luglio 1989 n. 272 (norme
di attuazione, di coordinamento e transitorie del d.p.R. 22 settembre 1988 n. 448, recante
disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), dal d.lgs. 28 luglio 1989 n. 273
(norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del d.p.R. 22 settembre 1988, n. 449, recante
norme per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario al nuovo processo penale ed a quello a
carico degli imputati minorenni) e dal d.m. 30 settembre 1989 n. 334 (regolamento per l’esecuzione
del codice di procedura penale).
Il codice si divide in due parti, costituite, rispettivamente da quattro e sette libri, ciascuno
dei quali raggruppa gli articoli in titoli, distinti in capi che, a volte, si frazionano in sezioni.
La parte prima – che può essere definita “statica”, perché non enuncia ancora lo svolgimento
del procedimento penale – contiene un Libro I dedicato ai soggetti, che sono il giudice, il magistrato
del pubblico ministero, gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria, l’imputato – individuato, fino
ad un certo punto, come persona sottoposta alle indagini – la parte civile, il responsabile civile, il
civilmente obbligato per la pena pecuniaria, la persona offesa dal reato e il difensore; un Libro II
che disciplina gli atti – tra i quali, ovviamente, sono compresi i provvedimenti del giudice – la loro
documentazione e traduzione, le notificazioni, che sono procedure per portare gli atti nella sfera di
conoscibilità dei destinatari, i termini e le nullità; un libro III che si occupa delle prove, enunciando
i principi generali e descrivendo i singoli mezzi di prova e i singoli mezzi di ricerca della prova; un
libro IV con la previsione di misure cautelari, sia personali che reali.
La seconda parte è, per così dire, dinamica, in quanto descrive l’evoluzione dell’intero
procedimento penale, dalle attività di indagine – prodromiche all’esercizio dell’azione penale – sino
alla sentenza irrevocabile e alla sua esecuzione, compresa la disciplina degli eventuali rapporti con

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Autorità giudiziarie di altri Paesi. Pertanto, nel libro V ci si occupa della notizia di reato e delle
condizioni di procedibilità dell’azione penale, dell’iniziativa della polizia giudiziaria e dell’attività
del magistrato del pubblico ministero, dell’arresto in flagranza di reato e del fermo, della procedura
per l’incidente probatorio, della chiusura delle indagini preliminari, dell’udienza preliminare che
accerta l’utilità del giudizio dibattimentale, nonché delle vicende e delle modalità per la revoca
della sentenza di non luogo a procedere, eventuale esito dell’udienza stessa; nel libro VI si
prevedono meccanismi – denominati procedimenti speciali, ma definibili, più esattamente, riti
alternativi – studiati per una soluzione più celere del procedimento (giudizio abbreviato,
applicazione di pena su richiesta delle parti, giudizio direttissimo, giudizio immediato, decreto
penale di condanna). Segue, nel libro VII, la disciplina del giudizio pubblico (dibattimento) e, nel
Libro VIII, quella del processo davanti al Tribunale ordinario in composizione monocratica,
strutturato in forme parzialmente semplificate rispetto a quelle previste per i reati di competenza del
giudice collegiale (Tribunale ordinario in composizione collegiale e Corte di Assise). Si passa, poi,
al libro IX, dedicato alle impugnazioni (appello, ricorso per cassazione, revisione) e al libro X, che
disciplina l’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali, con specificazione delle attribuzioni degli
organi ad essa preposti, elencazione delle iscrizioni nel casellario giudiziale e regolamentazione
delle spese. Il libro XI, infine, disciplina, come accennato, i rapporti giurisdizionali con le Autorità
straniere, attraverso gli istituti dell’estradizione, delle rogatorie internazionali, degli effetti delle
sentenze penali straniere e dell’esecuzione all’estero di sentenze penali italiane.

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2 I modelli processuali
La storia del processo penale è stata caratterizzata dalla propensione della disciplina ora
verso modelli di stampo inquisitorio ora verso moduli di impronta accusatoria. Nella prevalenza
dell’uno o dell’altro schema si è, di volta in volta, manifestato il modo d’intendere il rapporto Stato-
individuo nella gestione del bene della libertà della persona sottoposta a procedimento penale.
Nella logica dei regimi autoritari il procedimento penale è sempre stato strumento di mera
repressione dei reati, prevalendo, sui diritti individuali, l’interesse dello Stato alla sollecita
ricostituzione dell’ordine giuridico violato dalla trasgressione del precetto. Il metodo di
accertamento di cui ci si avvale, di tipo inquisitorio, nega all’imputato ogni forma di tutela,
sottoponendolo ad una procedura segreta, avviata da un giudice impegnato anche nella funzione di
accusatore. L’efficacia del metodo si ritiene comprovata dalla puntuale confessione dell’inquisito,
consueto atto terminativo dell’investigazione, conferma dell’esattezza del teorema di accusa
prospettato dal giudice.
In una concezione democratica dello Stato, in cui la persona, con le sue prerogative
costituzionali, è al centro del sistema giuridico, la disciplina del processo penale evolve verso
tipologie che rifuggono dalla confusione tra accusatore e giudice e riconoscono all’imputato quei
diritti fondamentali che gli assicurano la legalità del trattamento.
I modelli che si contrappongono a quelli di tipo inquisitorio sono detti accusatori, per
sottolineare che non è il giudice ad inquisire l’imputato, alla ricerca della conferma della sua idea di
colpevolezza, ma è un soggetto distinto da lui, il titolare del potere di accusa, che avanza una
pretesa punitiva nei confronti dell’imputato e che, per ottenere il riconoscimento della pretesa, si
rivolge al giudice, al quale chiede di renderla fondata e di applicare, per l’effetto, la sanzione
penale.
I modelli inquisitori ed i modelli accusatori s’ispirano, rispettivamente, al sistema
inquisitorio ed al sistema accusatorio, che, storicamente, si sono proposti come sistemi in netta
antitesi tra di loro, espressione, ciascuno, di una ben definita epoca giuridica.
Espressione di una tradizione consolidatasi nella età dell’Impero del diritto romano, il
sistema inquisitorio – destinato ad assurgere a vertici di massimo splendore nel processo canonico –
si strutturava secondo i criteri della:
1) confusione nello stesso soggetto dei ruoli di accusatore e di giudice;

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2) attribuzione all’accusatore – giudice del compito di ricercare le fonti di prova;


3) impossibilità per l’accusato di partecipare all’attività di individuazione ed
assicurazione delle fonti di prova;
4) adozione del metodo della scrittura nell’acquisizione dei dati probatori;
5) conseguente trattazione segreta del processo;
6) previsione della carcerazione ante iudicium, in funzione cautelare.
Il sistema accusatorio – così come ci è stato tramandato e come appariva strutturato
nell’età repubblicana di Roma – si articolava, viceversa, sul modello della contesa tra le parti
– l’accusatore e l’accusato – in contrapposizione dialettica di fronte ad un terzo, con funzioni
di giudice.
Le sue regole esigevano:
1) la presenza di un accusatore, distinto dal giudice, operante in condizioni di
parità con l’accusato nella ricerca degli elementi di prova da offrire alla
valutazione del giudice;
2) l’imparzialità del giudice, chiamato, quale terzo sprovvisto di poteri
d’investigazione, a decidere sulla base di dati probatori acquisiti su
iniziativa delle parti;
3) la presunzione d’innocenza della persona accusata, sino alla decisione
irrevocabile di condanna;
4) la tutela del diritto di libertà della persona accusata in pendenza
dell’accertamento;
5) l’oralità – immediatezza, intesa come contatto diretto tra la fonte di prova
ed il giudice;
6) la pubblicità della procedura, non connotata o inframmezzata da attività
segrete, per consentire il controllo partecipativo della collettività.
In definitiva, la legge che regola il procedimento penale riflette l’assetto che ogni
sistema politico dà ai rapporti tra “autorità” e “libertà” ed assume, quindi, contenuti
strettamente rispondenti ai valori sentiti nel momento in cui viene promulgata.
In un sistema politico caratterizzato da una forte impronta autoritaria, non ci si
preoccupa di dare risalto ai diritti individuali: la convinzione che lo Stato sia in grado di
tutelare i cittadini rende superflua ogni affermazione sull’inviolabilità dei diritti
dell’uomo; se poi, dalla riconosciuta preminenza dell’interesse alla repressione dei reati

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consegue il sacrificio dei diritti di chi è coinvolto nel procedimento, quel sacrificio si
giustifica nel nome della intera collettività.
In un sistema che si ispiri, viceversa, ai principi della democrazia, l’obiettivo della
riaffermazione dell’ordine giuridico violato dalla trasgressione di un precetto penale si
consegue proprio nel rispetto delle garanzie della persona sottoposta al procedimento, i cui
diritti lo Stato riconosce e garantisce, fornendo i mezzi per un’adeguata difesa, essenziale
per assicurare il giudizio imparziale del giudice estraneo alla tesi dell’accusa.

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3 Il modello misto di processo penale


I due sistemi, oltre a caratterizzare le distinte epoche in cui sono stati in vigore, hanno finito
per costituire punto di riferimento ora per l’uno ora per l’altro legislatore, a seconda che la tendenza
politica si esprimesse per il riconoscimento dei diritti individuali o per la riaffermazione
dell’autorità dello Stato.
E’ questa la ragione per cui più che di sistema inquisitorio o di sistema accusatorio, con
riferimento alla legislazione processuale penale moderna si è soliti parlare di modelli a tendenza
accusatoria o di stampo inquisitorio.
Stante l’impossibilità di riproduzione delle condizioni socio-politiche che, nelle rispettive
epoche storiche, consentirono il formarsi del sistema accusatorio – che, nella versione originale,
prevedeva, peraltro, che l’accusa fosse portata direttamente dalla persona offesa dal reato – o del
sistema inquisitorio, nelle epoche successive i vari schemi che si sono avvicendati si sono
caratterizzati per la commistione dei criteri dell’uno e dell’altro sistema, proponendosi come
modelli tendenti all’accusatorietà, se presentavano un’accentuazione della differenziazione tra
accusatore e giudice e propendevano per il riconoscimento della presenza dialettica dell’accusato e
della sua difesa, oppure come modelli ispirati ad una concezione inquisitoria del processo, se la
segretezza dell’accertamento e l’iniziativa del giudice nella ricerca delle fonti di prova relegavano
la partecipazione difensiva entro spazi assolutamente marginali.
Più che la supremazia dell’un sistema sull’altro, la storia del procedimento penale ha fatto
registrare – quale risultato di plurime combinazioni dei caratteri dell’un modello con quelli
dell’altro – il ricorso ad un sistema c.d. misto, prescelto, a volte, come strumento di accentuazione
dei principi dell’accusatorietà, a volte, come mezzo di valorizzazione delle regole
dell’inquisitorietà.
Ogni codice di rito penale rivela una decisa impronta, che può essere accusatoria o
inquisitoria, e che si apprezza non tanto in relazione alla sua struttura organica, quanto, piuttosto,
con riguardo alla rilevanza che i suoi compilatori mostrano di assegnare alla fase che precede il
“processo”.
Differenziazioni strutturali rilevanti in ordine ai ruoli dei soggetti che intervengono –
magistrato del pubblico ministero, imputato, giudice, persona offesa e/o danneggiata dal reato,
difensore, cancelliere, segretario, ufficiale giudiziario, polizia giudiziaria, perito, consulente tecnico,

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interprete, operatori penitenziari, magistratura di sorveglianza e così via – non si ritrovano tra un
codice e l’altro. Anche gli atti, le cautele, le attività preparatorie del processo, il dibattimento, i
mezzi d’impugnazione, l’esecuzione della sentenza, i rapporti con le autorità giurisdizionali, poi,
continuano a proporsi come istituti e categorie costituenti il contenuto minimo della disciplina di
ogni accertamento penale.
Ogni codice deve prevedere una struttura complessa, preordinata allo svolgimento del
procedimento penale, che è un insieme di atti, strettamente consequenziali, regolati nella forma,
posti in essere da determinati soggetti, secondo ruoli e funzioni predeterminati dalla legge come
attività dovute o come esercizio dei diritti.
Ciò che può distinguere un codice dall’altro è il fine che muove le iniziative dei soggetti e la
proiezione dinamica del loro attivarsi, soprattutto con riguardo alla fase preparatoria del vero e
proprio “processo”.
E’ sul rapporto temporale tra epoca del fatto e epoca del processo che si notano le
differenziazioni di disciplina e si misura la diversità tra un codice e l’altro.
Se fosse possibile assicurare l’assoluta contestualità del processo rispetto al fatto, la
normativa sarebbe ridotta al minimo essenziale, perché sarebbe estremamente contenuta la quantità
di atti da compiere, così come sarebbero massimamente semplificate le attività da svolgere, per la
carenza di pericoli di dispersione, nel tempo, di quando si ritiene utile acquisire ai fini della
decisione.
Questo obiettivo non è, però, conseguibile, e si deve prevedere che il processo s’instauri a
distanza di tempi più o meno lunghi dal momento di commissione del fatto che deve formarne
oggetto.
Poiché non può esservi contestualità, i sistemi suggeriscono soluzioni diverse, che vanno
dalla predisposizione di attività meramente preparatorie ad attività sempre più specifiche, che
possono finire addirittura per relegare il momento del processo ad un intervento di verifica di pre-
giudizi già da altri espressi e cristallizzati in atti sostanzialmente vincolanti, sul piano della
formazione della prova.
L’alternativa è tra un’attività di carattere cautelare ed un’attività di valutazione preventiva.
Nel primo caso, tutto ciò che precede il processo è ad esso strumentale; nel secondo, si ha
una vera e propria istruzione, che, prima ancora che il processo si avvii, pone le premesse dei
contenuti di massima della decisione del giudice.

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Il legislatore del 1930 aveva scelto questa seconda strada, prevedendo – dopo gli
accertamenti di polizia giudiziaria, protesi a raccogliere tutti gli elementi utili al giudizio del giudice
– una fase d’istruzione affidata ad un organo giurisdizionale (il giudice istruttore) deputato ad
avviare il processo innanzi al giudice del dibattimento, all’esito della ricerca, dell’acquisizione e
dell’assunzione dei mezzi di prova che reputava essenziali all’accertamento della verità dei fatti.
Analoga era la struttura, qualora, per le ipotesi di accertamento facile e breve, l’attività di ricerca, di
acquisizione e di assunzione dei mezzi di prova, fosse riservata all’intervento del magistrato del
pubblico ministero.
Si attribuiva ad una istruzione preventiva la funzione di mediazione, nella normalità dei casi,
tra fatto e processo.
Più che come combinazione di criteri opposti, il modello cui s’ispirava il codice abrogato si
proponeva, nel compromesso tra inquisitorietà ed accusatorietà, con moduli intesi ad esaltare i
caratteri dell’inquisitorietà nel momento istruttorio, per relegare quelli dell’accusatorietà nel
successivo momento dibattimentale deputato allo svolgimento del vero e proprio processo.
Connotato dalle distinte fasi della istruzione e del dibattimento, il codice abrogato ha retto,
per un tempo lunghissimo, sull’equivoco di un’autonomia di fasi, tra loro, invece, necessariamente
interdipendenti. Solo in apparenza, infatti, nel corso del dibattimento, si realizzavano i caratteri
dell’accusatorietà, dal momento che la formazione della prova già aveva avuto luogo durante
l’istruzione e al giudice del dibattimento non rimaneva altro da fare che ottenere – sia pure nelle
forme della pubblicità e della oralità, nel contraddittorio delle parti – la conferma di quei contenuti
probatori che, nella fase dell’istruzione, caratterizzata, in prevalenza, da scrittura e segretezza,
l’istruttore aveva raccolto, spesso anche in carenza di partecipazione difensiva.

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4 Il codice vigente: la distinzione tra procedimento


per le indagini preliminari e processo
Il codice vigente muove da una prospettiva tutto affatto diversa da quella in cui si era posto
il legislatore del 1930, perché riserva alle attività precedenti il processo il valore di indagini
preliminari, da eseguire ai soli fini delle determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale.
L’obiettivo è raggiunto attraverso la fondamentale partizione tra procedimento per le
indagini preliminari e processo, intesa proprio a differenziare il ruolo del magistrato del pubblico
ministero dalla funzione del giudice, mediante la negazione del valore di prova agli elementi che il
primo raccoglie, nel corso delle indagini, e il conferimento del compito di formare la prova solo al
giudice, nel corso del processo.
Costituito dagli atti che la polizia giudiziaria e il magistrato del pubblico ministero
compiono, nell’ambito delle rispettive attribuzioni, per le determinazioni inerenti all’esercizio
dell’azione penale ed, eventualmente, dagli atti compiuti da un giudice in funzione di garanzia (il
giudice per le indagini preliminari), il procedimento per le indagini preliminari inizia con
l’acquisizione della notizia di reato – ad opera della polizia giudiziaria o del magistrato del pubblico
ministero – e si protrae per il tempo necessario al compimento delle indagini stesse.
Queste sono gestite dal magistrato del pubblico ministero, che si avvale dell’ausilio della
polizia giudiziaria, nella ricerca, individuazione, acquisizione degli elementi che si rivelino idonei a
determinarlo sul tipo di richiesta da formulare al giudice.
Ciò non vuol dire, tuttavia, che, durante le indagini preliminari, un interevento di un giudice
non sia previsto, perché ben può darsi il caso che debba assicurasi, per il compimento di uno o più
atti, la garanzia che la sua presenza comporta. Quel che occorre tenere ben a mente è che detta
presenza è meramente eventuale e si rende necessaria se ed in quanto occorra intervenire su diritti
costituzionalmente tutelati o si debba pre-acquisire un mezzo di prova.
Obbligati dalla legge ad approfondire tutti i filoni dell’indagine e non solo quelli che sono
propizi per l’accusa, dovendo svolgere anche accertamenti su fatti e circostanze favorevoli al
soggetto nei cui confronti si è attivato, il magistrato del pubblico ministero non può assumere, in
questa fase, la veste di parte. La posizione di preminenza che l’ordinamento gli riconosce sui
soggetti interessati allo svolgimento delle indagini – lo eleva a dominus delle indagini medesime.
Ne consegue che, in relazione alla singola notizia di reato, è il magistrato del pubblico ministero che

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individua gli accertamenti da eseguire – dando inizio alla fase investigativa, che potrà avere durata
più o meno lunga e complessità variabile - o prende atto che indagini non occorrono, perché la
notizia di reato si rivela, ictu oculi, infondata o è suffragata da elementi idonei a consentire
l’immediato esercizio dell’azione penale.
Quanto è legittimato a porre in essere non sempre è, dalla legge, vincolato nelle forme, posto
che la normativa, in materia, ne regolamenta solo in parte i compiti, affiancando ad atti tipici più
generiche attività d’indagine. Né ci si limita a fissare l’oggetto delle indagini nel compimento delle
investigazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale, ma si aggiunge che deve trattarsi di indagini
necessarie a tal fine. Ne deriva che la fase può avere un contenuto variabile in relazione alle singole
specifiche necessità (art. 358 c.p.p.).
Non si tratta, pertanto, di un procedimento a schema fisso, vincolati da passaggi obbligati,
tutti ineliminabili, cronologicamente e logicamente concatenati: se vanno compiute soltanto le
indagini che appaiono necessarie, la loro ampiezza ed entità dipende dalle peculiarità del singolo
accertamento e dalle scelte che, nell’esercizio del suo potere discrezionale, il magistrato del
pubblico ministero stabilisce di compiere, sia in rapporto al tipo d’indagine da effettuare sia in
rapporto all’ordine secondo cui le stesse indagini vanno svolte. Incide sul contenuto, in altri termini.
Un aspetto organizzativo di non trascurabile rilievo, che attinge la sua ragion d’essere
nell’attribuzione al magistrato del pubblico ministero di specifiche funzioni inquirenti.
Ne deriva che il procedimento per le indagini preliminari è la fase destinata al compimento
delle attività che il magistrato del pubblico ministero, coadiuvato dalla polizia giudiziaria, pone in
essere, una volta pervenuta od acquisita una notizia di reato, per verificarne la corrispondenza ad un
modello legale di incriminazione e determinarsi sul se richiedere l’archiviazione degli atti o
esercitare l’azione penale, formulando l’imputazione.
Non raccolta di dati probatori, quindi, da far confluire nel successivo dibattimento, ma
individuazione degli elementi di accusa utili a fondare le determinazioni del magistrato del pubblico
ministero in ordine al processo.
Diversamente, il processo è l’insieme degli atti che confluiscono nella decisione del giudice
sull’azione penale promossa dal magistrato del pubblico ministero, destinata ad acquisire carattere
di definitività. E’, altresì, processuale l’attività di controllo che il giudice esplica sulla richiesta di
archiviazione della notizia di reato presentata dal magistrato del pubblico ministero.
Il momento del passaggio dal procedimento per le indagini preliminari al processo è segnato
dalla investitura di un giudice: è al giudice che il magistrato del pubblico ministero si rivolge per

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chiedere il processo – vale a dire il giudizio giurisdizionale – sul merito dell’imputazione che eleva
a carico di uno o più soggetti, promuovendo quella azione penale il cui esercizio la Costituzione e la
legge processuale gli conferiscono in via esclusiva e monopolistica; allo stesso modo è al giudice
che, in via alternativa, il magistrato del pubblico ministero chiede il controllo sul giudizio di
inconsistenza delle condizioni per promuovere l’azione penale, che, all’esito delle indagini
espletate, ritiene di poter formulare mediante richiesta di archiviazione della notizia di reato.
Il legislatore ha voluto che la sistematica del codice si sviluppasse su questa fondamentale
matrice: l’attività d’indagine preliminare ha natura procedimentale, in quanto è il magistrato del
pubblico ministero – organo appartenente all’ordine giudiziario, ma privo di poteri giurisdizionali –
che la pone in essere, per raggiungere obiettivi che non sono propri della giurisdizione e consistono,
invece, nella determinazione sul come introdurla, mediante l’esercizio dell’azione penale o la
richiesta di archiviazione degli atti, mentre è nel processo che si attua la giurisdizione.
Solo il dibattimento è fase deputata all’assunzione dei mezzi di prova, per la verifica della
fondatezza delle ragioni dell’accusa e di quelle, in concreto, formulate dalla difesa, innanzi al
giudice, che, in posizione di assoluta estraneità ricostruisce il fatto sulla base della rappresentazione
che di esso gli offrono le parti.
Il procedimento penale, in senso lato inteso, è quindi, costituito tanto dall’insieme degli atti
integranti il procedimento per le indagini preliminari tanto degli atti costituenti il vero e proprio
processo.
Il termine procedimento descrive, insomma, distinti fenomeni, richiamando l’attività
d’indagine compiuta dal magistrato del pubblico ministero, ma anche l’intera estensione del
procedimento penale, comprensiva e delle indagini e del processo. Di qui, la necessità di ricorrere
alla locuzione procedimento per le indagini preliminari, per indicare le attività strumentali alle
determinazioni del magistrato del pubblico ministero e all’altra, procedimento penale, per
ricomprendere in essa il procedimento per le indagini preliminari e il processo.

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5 Oggetto del procedimento e funzione del processo

L’articolazione nelle distinte prospettazioni del procedimento per le indagini preliminari e


del processo consente di evidenziare meglio il fine al quale il procedimento penale tende e di
individuare la funzione che, nel suo ambito, è chiamato a svolgere il processo.
La punizione del colpevole – obiettivo che, pure il procedimento penale persegue – è,
indubbiamente, “diritto” che la persona offesa o la persona danneggiata dall’azione delittuosa vanta
nei confronti di chi di quell’azione viene indicato come autore, ma è indubitabile che l’accusato
della trasgressione di un precetto penale deve pretendere di essere giudicato secondo le regole
all’uopo fissate dall’ordinamento giuridico.
La duplicità di prospettive alimenta contrapposizioni solo in apparenza inconciliabili.
Quanto si destina un medesimo meccanismo giuridico – il procedimento penale – a
soddisfare tanto i diritti di chi – soggetto singolo o collettività – sia offeso dal reato – quanto quelli
di colui che del reato sia additato come l’autore, e gioco forza pretendere che il sistema sia
strutturato in maniere da non deludere né l’una né l’altra aspettativa.
L’interesse che la collettività vanta alla sua conservazione e la prevalenza, sui diritti del
singolo, delle ragioni della generalità dei consociati non possono, né debbono relegare la posizione
soggettiva in spazi di tutela residuale.
Il diritto di chi è sottoposto al procedimento penale deve ricevere protezione pari a quella
che si assicura alla collettività, non potendosi ammettere che l’ordinamento salvaguardi il primo
solo dopo aver offerto la massima cura alle istanze dell’altra.
Se ci si ponesse in quest’ordine di idee ci si dovrebbe pure accontentare di prendere atto che
ci sarà, allora, un diritto più garantito, ed accettare, altresì, l’eventualità che il riconoscimento
attenuato della posizione individuale possa degradare, via via, in una vera e propria carenza di
tutela.
La contrapposizione e la conseguente necessità di “mediazione” – compito, quest’ultimo del
diritto, deputato proprio a conciliare distinte esigenze – si attenuano quando, alla luce di
prospettazioni del tutto diverse, si muove dall’idea secondo cui, nel procedimento penale, entrambe
i diritti rispondono all’essere ed al modo di essere del procedimento penale medesimo.

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L’interesse all’irrogazione della sanzione e alla riaffermazione dell’ordine giuridico violato


origina dal diritto penale dalla stessa fonte, cioè che commina la pena a quanti non osservino il
precetto. Poco importa, dal punto di vista della persona – o dell’intera collettività – offesa dal reato,
come il meccanismo sia regolato. L’essenziale è che si avvii il procedimento e che si pervenga alla
decisone. L’interesse di chi è sottoposto a procedimento penale è tutelato, invece, dalla legge
processuale penale che lo disciplina secondo regole ben precise e alla luce di criteri conformi ai
valori maggiormente avvertiti nel momento storico in cui ha vigore.
La distinzione dalla quale bisogna muovere è quindi tra accertamento penale come evento
imposto dal diritto sostanziale e accertamento penale come fenomeno disciplinato dal diritto
processuale penale.
Il procedimento penale esiste perché è la norma penale che lo esige. Si svolge, però, secondo
le regole del diritto processuale penale.
Tra l’accertamento penale come esperienza (l’essere ) e l’accertamento penale come
manifestazione di quella esperienza (il modo di essere) si coglie la distinzione tra oggetto del
procedimento e scopo del processo e, nel contempo, si chiarisce il significato ed il contenuto del
diritto allo svolgimento del processo.
E’ riduttivo affrontare lo studio del diritto processuale penale muovendo dalla convinzione
che le sue regole siano null’altro che disciplina dei mezzi per l’attuazione, nel caso all’esame del
giudice, della legge penale. Vanno, viceversa, valorizzati discorsi diversi, avulsi dall’idea di una
pura strumentalità applicativa.
Eppure l’idea più diffusa del procedimento penale è quella che lo vede come un meccanismo
complesso, certamente non fine a se stesso, da approfondire, tuttavia, nella sua strumentalità: è
l’ottica del procedimento penale come strumento di difesa sociale, intendendo per tale un
meccanismo che, pur ispirato al rispetto di garanzie individuali, sia preordinato, comunque,
all’accertamento della trasgressione del precetto penale ed all’applicazione della sanzione per essa
prevista. Il che vuol dire che la tutela dei diritti della persona non può essere così diffusa da
rappresentare un intralcio alla rapida punizione del colpevole.
L’idea è fuorviante, perché l’asserita, inequivoca, strumentalità dell’accertamento finisce col
connotare il procedimento penale unitamente in chiave di mera consequenzialità rispetto ad un fatto
realizzatosi nel mondo degli avvenimenti esteriori.
Nessuno nega che la sua celebrazione possa essere recepita dalla comune esperienza come
rappresentativa di un momento di crisi del diritto. Nessuno nega, altresì, che la domanda di

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punizione del colpevole sia la prima, immediata reazione ad ogni episodio di criminalità. Inevitabile
è pensare ad esso come mezzo necessario per ristabilire l’ordine giuridico violato e per riaffermare,
in risposta alla violazione di una norma giuridica, il valore cogente del diritto. Di ben altra portata
debbono essere i rilevi che si formulano quando si ricercano le ragioni che fanno del procedimento
penale un meccanismo disciplinato dal diritto. La punizione del colpevole è premessa troppo
vincolante per non determinare anche la convinzione che presupponga e dia per scontato una
trasgressione. Si assegna per tale via al meccanismo una funzione esecutiva, intesa, appunto, ad
applicare con la forza del provvedimento del giudice, le conseguenze che in astratto la legge
ricollega alla mancata osservanza di un comando o alla violazione di un divieto.
Effetto indotto della prospettiva è l’enunciazione di una scala di valori che vede all’apice la
necessità del ripristino dell’ordine giuridico violato: non è stata osservata una prescrizione, vi è
stata lesione o esposizione al pericolo di un bene giuridicamente protetto e l’ordinamento, che ha
assunto il compito di proteggere quel bene perché lo ha ritenuto degno di tutela, non può rimanere
indifferente. Il comando è stato disatteso. La sanzione non ha avuto sufficiente forza di
intimidazione, la pena va applicata.
Se, però, si prova, per un momento, ad escludere che l’aggettivo penale valga solo ad
indicare che il procedimento penale è strumento per l’irrogazione della pena e si prova a tener conto
anche della possibilità che esso non qualifichi lo scopo, ma fissi soltanto l’oggetto
dell’accertamento, ben può affermarsi che, occupandosi di fatti penalmente rilevanti – fatti, cioè,
corrispondenti a comportamenti sanzionati dal diritto penale – il procedimento è penale perché è di
rilevanza penale ciò di cui in esso si tratta.
L’individuazione dell’oggetto consente di ritenere che del procedimento penale
principalmente ci si avvale, secondo schemi rituali, per l’accertamento di fatti che si assumono
integrare modelli legali di incriminazione. Tuttavia questa constatazione non autorizza a concludere
che fine dell’intervento giurisdizionale è la punizione del colpevole. Una deduzione del genere
vanificherebbe il valore di garanzia che esprime la giurisdizione. Del resto, non sempre l’esito si
verifica con il ripristino dell’ordine giuridico violato, non conseguendo, al procedimento penale,
inevitabilmente l’affermazione di illiceità del fatto e di responsabilità del suo presunto autore.
Accanto a formule terminative del giudizio attestanti l’avvenuta violazione della legge ed
affermative di responsabilità (le sentenze di condanna) esistono formule escludenti ogni addebito
(sentenze di assoluzione e/o di proscioglimento), perché, ad esempio, si accerta che l’imputato non

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ha commesso il fatto, il fatto non sussiste, in quanto privo dei contenuti minimi di materialità per
esso richiesti, non costituisce reato, non è previsto dalla legge come reato.
Lungi dal porsi in posizione complementare o residuale rispetto a quelle di condanna le
formula liberatorie sono strutturate secondo criteri di eguale dignità, espressione, anch’esse, dei
possibili esiti del procedimento penale: una volta avviato questo può concludersi per infondatezza
della notizia di reato (archiviazione degli atti), per non luogo a procedere, per assoluzione
dell’imputato.
Indubbio è l’alone di garanzia che riveste un sistema così strutturato. L’avere escluso ogni
automatismo nell’irrogazione di pene e l’aver assicurato meccanismi che, anteponendo la condanna
del oggetto, la necessaria verifica dell’antigiuridicità della sua condotta e il preventivo
accertamento di colpevolezza, ben possono concludersi con l’esonero da responsabilità
dell’imputato, impedisce al procedimento penale di porsi come strumento di pura applicazione di
sanzioni.
Si coglie per questa via la distinzione tra oggetto del procedimento penale e scopo del
processo
Avviato per accertare se un fatto ha i caratteri dell’illecito, il procedimento penale si tramuta
da procedimento per le indagini preliminari in processo, per assicurare a chi è raggiunto da
un’imputazione, che l’accertamento si svolga nel rispetto di quelle garanzie che la tutela
costituzionale della persona individua come essenza della giurisdizione.
Il procedimento penale ha ad oggetto il fatto-reato e nel suo ambito, il processo assolve ad
una funzione di garanzia. La teoria del rapporto giuridico processuale, che – nella scia degli studi
sul processo civile (Bulow) – individuava il rapporto tra norma penale e norma processuale nel
raccordo tra reato e pena, ha giustificato in tempi passati la concezione del procedimento penale
come strumento di difesa sociale di fronte all’attacco proveniente dalla violazione del precetto
penale, perché alla giurisdizionale penale era devoluta esclusivamente una funzione di repressione.
Il ruolo assegnato al procedimento penale ed alla giurisdizione era chiaro: supplire in via
surrogatoria e secondaria alla protezione dei diritti e degli interessi che le disposizioni sostanziali
violate non avevano potuto garantire; consentire l’esplicazione del potere di punire per bilanciare
l’inosservanza della norma incriminatrice; difendere la società, placando l’allarme suscitato
dall’illecito penale, mediante l’assoggettamento del reo alla sanzione; retribuire il danno cagionato
alla collettività, ma anche prevenire, con l’esemplarità ed indefettibilità del giudizio, la possibile
ripetizione dell’infrazione. La dottrina moderna ha separato l’idea del procedimento penale dal

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rapporto che in esso si svolge – che degraderebbe la funzione giurisdizionale, riducendo il giudice
ad un burocrate, con una discrezionalità meramente amministrativa (Foschini) – ed ha concentrato
ogni attenzione sull’attività procedimentale in se considerata (Conso), esplorando le “segrete
dimensioni interiori” dell’esperienza giudiziale (Cordero), per valorizzare i profili logici del
ragionamento del giudice (Giuliani, M. Massa, De Luca, Gius, Sabatini, Vassalli, Nobili). Ha
accolto, cioè, l’invito a tornare al giudizio (Carnelutti), per recuperare il contrassegno più sapiente
del “mistero del processo” (Satta), che è “un far ricomparire presente quello che è passato, un far
tornare immediato quello che è sparito nella sua immediatezza, nel far ripresentare vivi i sentimenti
che sono spenti ed insieme, più singolare ancora far tornare integre una situazione che si è
scomposta” (Capograssi).
Il passaggio dalla “procedura penale” al “diritto processuale penale” testimonia la rilevanza
che, nell’ambito della disciplina dell’accertamento penale, assumono i diritti inviolabili della
persona. Non è senza significato la circostanza che le carte fondamentali dei diritti – ad esclusione
della Costituzione, che è l’unica a fissare anche il principio di obbligatorietà dell’azione penale (art.
112) – enunciano, con riferimento al procedimento penale, soltanto le garanzie irrinunciabili della
persona e non avvertono il bisogno di affermare anche la necessità che il delitto non resti impunito e
l’autore del fatto illecito sia perseguito per l’inflizione della pena che merita.

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6 Le garanzie del giusto processo


La costituzione repubblicana – approvata dall’assemblea costituente il 22 dicembre 1947,
promulgata dal Capo provvisorio dello Stato il 27 dicembre 1947 ed entrata in vigore il 1° gennaio
1948 – quale legge fondamentale dello Stato, posta all’apice della gerarchia elle fonti del diritto,
ricollega i diritti, che riconosce come inviolabili, al principio di uguaglianza di tutti i cittadini
dinanzi alla legge.
La premessa dell’intero assetto della funzione giurisdizionale è nell’affermazione di
principio che, davanti alla legge, tutti i cittadini hanno pari dignità, senza distinzione di sesso, di
razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali ed è compito
della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, impeditivi del pieno
sviluppo della persona (art. 3 Cost.).
In attuazione del principio, è prescritto che anche ai non abbienti siano assicurati, con
appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione e che la legge determini
le condizioni ed i modi per la riparazione degli errori giudiziari (art. 24 Cost.).
La parità di trattamento è obiettivo che si persegue a mezzo di prescrizioni intese a definire i
compiti dell’organo che dà impulso all’accusa, il ruolo del soggetto investito della funzione
giurisdizionale, la posizione di chi è raggiunto da un’accusa e le regole del processo.
Accusa, giudizio, difesa si pongono quali poli primari di aggregazione della rilevanza, anche
costituzionale, delle regole che governano il procedimento penale e danno contenuto al dovuto
processo legale o giusto processo, espressione, questa, che esalta l’aspirazione ad assicurare un
modello accertativo ispirato a principi di civiltà, perché la giurisdizione in generale, e quella penale
in particolare, si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge (art. 111 comma 1 Cost.).
Quanto al magistrato del pubblico ministero - che gode delle garanzie dettate a tutela della
funzione dalle norme di ordinamento giudiziario (art. 107 Cost.), stabilisce con legge (art. 108
Cost.) – è prescritto che ha l’obbligo di esercitare l’azione penale (art. 112 Cost.) e, a tal fine,
dispone – nella sua qualità di autorità giudiziaria – direttamente della polizia giudiziaria (art. 109
Cost.).
Titolare di funzioni diverse e distinte è, invece, il giudice, preposto all’esercizio della
funzione giurisdizionale, che amministra in nome del popolo, come soggetto soltanto alla legge (art.
101 Cost.) e, quindi, come giudice terzo ed imparziale (art. 111 comma 2 Cost.). Della funzione

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svolta il giudice deve dar conto alla sovranità popolare: le sue decisioni devono essere motivate e
contro le sentenze e i provvedimenti sulla libertà personale è sempre ammesso ricorso per
cassazione, per violazione di legge (art. 111 commi 6 e 7 Cost.).
Per quel che concerne la persona accusata di un reato, compete ad essa il diritto alla
giurisdizione e la sua difesa è inviolabile in ogni stato e grado del procedimento (art. 24 commi 1 e
2 Cost.).
A tal fine, la legge deve far si che detta persona sia informata, nel più breve tempo possibile
ed in maniera riservata della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico; disponga del
tempo e delle condizioni necessarie per preparare la sua difesa; abbia la facoltà, davanti al giudice,
di interrogare o far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, ottenere la
convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e
l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore; disponga di un interprete se non
comprende o non parla la lingua impegnata nel processo (art. 111 comma 3 Cost.).
Il riconoscimento deve avere valore effettivo nel senso che l’imputato non può essere
distolto dal giudice naturale precostituito per legge (art. 25 Cost.) e non può essere considerato
colpevole fino alla condanna definitiva (art. 27 Cost.).
La sua libertà personale è inviolabile: sono consentite forme di detenzione, d’ispezione e di
perquisizione personale o qualsiasi altra restrizione unicamente con atto motivato dell’autorità
giudiziaria da emanarsi nei soli casi e nei modi previsti dalla legge. La decisone motivata del
giudice è richiesta anche quando il provvedimento sia del tutto provvisorio, come accade per quelli
adottati, in casi eccezionali di necessità, pure indicati tassativamente dalla legge, dall’autorità di
pubblica sicurezza. Le iniziative urgenti vanno comunicate entro 48 ore all’autorità giudiziaria e, se
non sono convalidate entro le successive quarantotto ore, si intendono revocate e restano prive di
ogni effetto. La carcerazione preventiva, che così si instaura, non può superare in durata, i limiti
massimi che, per legge, devono essere previsti (art. 13 Cost.).
Quanto alle regole del processo – la cui durata deve essere ragionevole – è la legge a dover
garantire che, nel suo corso, sia assicurato il contraddittorio nella formazione della prova, stante il
divieto di provare la colpevolezza dell’imputato sulla base di dichiarazione rese da chi, per libera
scelta, si sia sempre e volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo
difensore (art. 111 commi 2 e 4 Cost.).
Al principio del contraddittorio nella formazione della prova, così fissato si può derogare
solo in casi tassativamente previsti dalla legge, individuati nell’ipotesi di consenso dell’imputato

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ad una prova non formata in contraddittorio, nell’accerta impossibilità di natura oggettiva a


formare la prova in contraddittorio o nell’effetto di provata condotta illecita (art 111 comma 5
Cost.).

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