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Riassunto

Psicologia dinamica – Le teorie cliniche

Capitolo 1: la psicopatologia psicoanalitica

1.1 La psicopatologia del conflitto: etiopatologia sessuale delle nevrosi da difesa e delle nevrosi d’angoscia

La teoria dell’isteria di Breuer e Freud, che implica la trasposizione sul piano psicologico di un modello di
funzionamento autoregolativo usato in precedenza da Breuer per le sue ricerche di fisiologia, costituisce il
fondamento del complesso modello neurodinamico del funzionamento mentale articolato da Freud nel
Progetto per una psicologia scientifica. La necessità di dare una spiegazione psicodinamica per una serie di
disturbi che si dimostravano sensibili alla cura “del parlare”, inventata con Breuer, sospingeva l’autore a
una ri-classificazione dei disturbi mentali, inserendosi in un filone della psichiatria tedesca che elaborava
nosografie nella seconda metà del XIX secolo. La psichiatria tedesca era in quel periodo dominata
dall’impostazione di Griesinger, che aveva sostenuto le cause fisiologiche delle malattie mentali: “la
psichiatria e la neuropatologia non sono che un settore solo, nel quale si parla un solo linguaggio e in cui
vigono le medesime leggi”. La psicologia fisiologica di Herbart e di Wundt ebbe notevole influenza su
Meynert e Wernicke, studiosi dell’anatomia cerebrale che costituirono punti di riferimento importanti nella
formazione di Freud, nonché sull’impostazione di Kraepelin, che introdusse nella psichiatria il laboratorio
fisiologico e una nosologia psicologica descrittiva. La classificazione dei disturbi mentali introdotta da
Kraepelin, distinguendo le patologie mentali gravi in due grandi classi, i disturbi esogeni, curabili, e quelli
endogeni, dovuti ad alterazioni cerebrali, incurabili restò per lungo tempo dominante nella psichiatria
tedesca ed europea. Kraepelin classificava come malattia endogena la “dementia praecox”, mentre definiva
esogeni i disturbi maniaco-depressivi, ivi compresa la “melancolia”. Krafft-Ebing, un altro psichiatra
tedesco, pubblicava uno studio approfondito delle perversioni sessuali e si dedicava allo studio delle
“psiconevrosi”, mentre gli studi di Wernicke sulle afasie presentavano la distinzione fra alterazioni della
memoria causate da malattie organiche e quelle causate da stati psicotici funzionali. Beard aveva introdotto
la definizione di "neurastenia" per indicare un complesso di sintomi somatici che denunciavano una sorta di
"esaurimento nervoso" e che venivano attribuiti a cause sociali e alle limitazioni dell'affettività. Gli interessi
della psichiatria dinamica francese erano invece rivolti alla messa a punto di due quadri clinici "modello",
quello dell'isteria e quello delle personalità multiple. Charcot aveva coniato la definizione di "paralisi
dinamiche" per indicare la differenza tra le paralisi organiche, determinate da lesioni cerebrali, e le paralisi
funzionali che insorgevano nell'isteria, ma anche in condizioni post-traumatiche o in seguito a suggestione
ipnotica. Successivamente il suo allievo Janet, sviluppò un'approfondita descrizione clinica delle patologie
nevrotiche.

La teoria delle nevrosi di Freud poggia su due postulati fondamentali: 1) la concorrenza di più fattori causali,
espressa dalla "equazione etiologica" che prevede nella genesi di ogni nevrosi una condizione (disposizione
costituzionale), una causa specifica (trauma o nevrosi infantile), una causa concorrente o accessoria
(emozioni traumatiche recenti o situazioni di stress) e infine una causa scatenante; 2) l'esistenza di un
principio quantitativo che regola i conflitti tra motivazioni contrapposte e che determina la capacità di
resistenza del sistema nervoso: il superamento della soglia di tale difesa provocherà l'insorgenza del
sintomo; la forma del sintomo sarà connessa al fattore etiologico specifico. Sulla base di questi due
postulati, Freud propone una nuova classificazione che distingue le "psiconevrosi da difesa" dalle cosiddette
"nevrosi semplici" o "attuali", cioè la nevrastenia e la nevrosi d'angoscia, dove la causa specifica
risiederebbe nella presenza attuale di "pratiche sessuali nocive" che creano un accumulo di eccitamento
somatico: laddove non avvenga una rielaborazione psichica di questa eccitazione, si avrà la trasformazione
della libido in angoscia. Le prime, invece, sono caratterizzate dalla repressione di affetti patogeni e dalla
rimozione dei corrispondenti ricordi risalenti all'infanzia e comprendono: l'isteria, dove l'affetto represso
viene convertito nel sintomo somatico oppure in angoscia; la nevrosi ossessiva, dove l'affetto risulta
spostato sulle idee che costituiscono il nucleo patogeno dei pensieri ossessivi e che sono sempre
autoaccuse mascherate; la paranoia, dove le autoaccuse sono rimosse attraverso un processo di proiezione,
che genera il sintomo di difesa della sfiducia negli altri, dà accesso alla formazione di idee deliranti e
allucinazioni visive e uditive. Secondo Freud, la rimozione, in quanto esclusione di pensieri o ricordi dalla
coscienza, si applica soltanto ai processi cognitivi, mentre il corrispettivo psichico della carica energetica,
l'affetto non può venire eliminato, ma continua ad agire nell'organismo psichico in quanto represso, o
spostato, o proiettato. L'ipotesi di un collegamento generale fra tutte le forme di nevrosi e l'attività sessuale
permetteva di dare conto sia del fattore quantitativo sia di una componente biologica peculiare, che
riconnetteva ereditarietà ed esperienza. La quantità di affetto è infatti il punto di partenza per
l'elaborazione del concetto di "pulsione", il cui funzionamento sulla base di aumento e scarica della
tensione è stato da molti autori commentato come analogo allo svolgimento dell'attività sessuale. La teoria
della seduzione infantile come causa necessaria per giustificare una predisposizione al successivo insorgere
di una psiconevrosi nell'adulto, oltre a rendere conto di molti casi in cui gli episodi di seduzioni traumatiche
erano confermati da testimonianze attendibili, consentiva di distinguere l'etiologia traumatica delle
psiconevrosi da difesa dall'etiologia tossicologica delle nevrosi attuali e appariva coerente con l'ipotesi di
specifici ricordi rimossi che continuavano ad agire al di fuori della coscienza. Gradualmente, tuttavia, Freud
cominciò a dubitare della validità dei ricordi raccontati in analisi e a ipotizzare che una fonte di quei
racconti fossero le fantasie isteriche. Con i "Tre saggi sulla sessualità" (Freud 1905), l'etiopatologia dei
disturbi mentali che compaiono in età adulta viene fatta risalire allo sviluppo della sessualità infantile,
caratterizzato da precise tappe biologiche e da vicende relazionali con le figure genitoriali che accudiscono
il bambino e sollecitano le sue zone erogene: la fissazione a periodi specifici dello sviluppo inibisce il
percorso successivo e crea una condizione per fenomeni di regressione in età adulta. La psicopatologia
freudiana stabiliva dunque un rapporto diretto fra la fase infantile della fissazione libidica da un lato e il tipo
specifico, e la specifica gravità, della nevrosi dall'altro. Jung elaborò una teoria etiopatogenetica della
dementia praecox fondata sulla prevalenza di un complesso di rappresentazioni a tonalità affettiva, che
veniva a invadere il funzionamento dell'Io limitandone e distorcendone le funzioni percettive e cognitive.
Jung parla di "unità funzionali", che comprendono percezioni, ricordi, giudizi e tono affettivo, così unite tra
loro da costituire le molecole della vita psichica. La teoria dei complessi è sviluppata successivamente da
Jung lungo due filoni divergenti: l'uno indirizzato a ipostatizzare nella biologia e nella storia delle culture
l'ipotesi di invarianti immaginali inconsce; l'altro sviluppa una prospettiva costruttivista sottesa all'ipotesi
della molteplicità dei centri di coscienza e dell'organizzazione gerarchica del Sé. L'interesse storico di questa
spiegazione sta, in primo luogo, nel tentativo di ampliare l'impostazione psicodinamica della teorizzazione
freudiana alla patologia psicotica, considerando normalità, patologia isterica e schizofrenia lungo una sorta
di continuum, dove gli stessi meccanismi difensivi vengono innescati dalla necessità di gestire la vita
affettiva mantenendo un'integrazione del Sé. In secondo luogo, Jung gettava il seme di una serie di ipotesi
che poi riceveranno maggior credito nelle teorie psicopatologiche post-freudiane: la centralità degli affetti
nell'organizzazione dei complessi di idee patogene; il funzionamento mentale dissociato come elemento
fondante della alienazione del paziente psicotico dalla realtà; la rilevanza di un evento traumatico o di gravi
problemi di adattamento alla realtà nella catena causale delle patologie psicotiche. Freud, in polemica con
Jung, rivendica la generalizzabilità della sua teoria dello sviluppo sessuale anche alla genesi della "dementia
paranoides", delle cosiddette "nevrosi narcisistiche" e della "melanconia". Il concetto di "narcisismo",
definito come ritiro della libido sull'Io, serve a distinguere le psicosi dalle nevrosi di transfert; la scelta della
patologia dipende sia dal punto di regressione libidica che dal tipo di difesa con cui viene strutturato il
conflitto. Malgrado il primato attribuito alla realtà interna delle fantasie soggettive, Freud non aveva mai
abbandonato l'idea che la fantasia elaborasse elementi di una realtà storica, di fatti, cioè oggettivamente
accaduti: al punto che ricorre all'ipotesi delle fantasie primarie, che riprodurrebbero nell'attività mentale di
tutti noi, fin dall'infanzia, eventi conflittuali condensati nella memoria storica delle passate generazioni.
Questo concetto può essere accostato a quello di Ferenczi di traumi originari. Ferenczi, infatti, definiva il
trauma come uno scambio di contenuti intrapsichici fra due inconsci, quello della vittima e quello
dell'aggressore e riteneva che fosse connesso con il tramandarsi di storie familiari dove vige la legge del
silenzio psichico, cioè la proibizione di pensare. Ferenczi introduce il concetto di "introiezione" per
differenziare uno stile di relazione con gli oggetti tipico dei nevrotici da quello degli psicotici. Secondo
l'autore, l'introiezione di certe caratteristiche amate dei propri genitori non sarebbe altro, che una parte di
quel normale processo di identificazione che conduce il bambino dall'amore oggettuale dell'infanzia alla
modalità di rapportarsi con se stesso e con gli altri in età adulta. Abraham invece sottolinea l'ambivalenza
affettiva delle prime relazioni infantili e collega le nevrosi a possibili spostamenti sintomatici degli affetti,
mentre le psicosi deriverebbero dal completo ritiro degli affetti (demenza precoce) o dalla proiezione dei
sentimenti ostili (delirio paranoide) o dalla identificazione con gli oggetti su cui sono stati proiettati affetti
ambivalenti (psicosi maniaco-depressiva).

Con il concetto di "esame di realtà", Freud propone una soluzione positivistica e riduzionistica del
complesso problema della distinzione fra stimoli di provenienza esterna e stimoli di provenienza interna.
Questo concetto permette di estendere la teoria del conflitto alla spiegazione di manifestazioni abnormi di
comportamento disadattivo, come il delirio o la confusione tra ricordi e percezioni attuali. La differenza
fondamentale tra nevrosi e psicosi sta nel fatto che il nevrotico tende a modificare se stesso, limitando
l'espressione dell'Es e riducendo parzialmente la sua memoria e la sua libertà associativa, mentre lo
psicotico tende a rinnegare completamente la realtà e a rimpiazzarla con le percezioni allucinatorie, con i
pensieri deliranti, con un comportamento manipolatorio nei confronti degli altri. Il conflitto, che in
entrambi i casi deriva dalla ribellione dell'Es contro il mondo esterno, nel primo caso si struttura come
conflittualità permanente fra la pulsione rimossa e le difese dell'Io, e nel secondo come una strenua lotta
fra le strategie egoiche di trasformazione della realtà e quella parte della realtà che è stata rigettata e che
torna continuamente ad imporsi alla vita psichica.

1.2 I meccanismi di difesa e l'organizzazione gerarchica della personalità

I collegamenti fra esperienze infantili e vicende patogenetiche delle età successive appaiono meno
deterministicamente lineari, in quanto mediati dalla progressiva costruzione di un equilibrio precario fra le
tre strutture psichiche e soprattutto dalla organizzazione ed eventuale sclerotizzazione di strategie di
adattamento definite in termini di "meccanismi di difesa". Il motore che aziona tali meccanismi è l'angoscia,
che nel corso dello sviluppo normale funge da segnale efficace, consentendo all'Io di mobilitare,
riorganizzare in un nuovo contesto, le risorse adattive strutturate fin dall'infanzia e poi nell'adolescenza
secondo modalità di funzionamento peculiari che riflettono le differenze individuali e appaiono
generalizzabili come caratteri o strutture di personalità diversificate. L'efficacia dei segnali d'angoscia e la
successiva riuscita dei meccanismi di difesa nel ripristinare un equilibrio della personalità, nella sua vita
psichica interiore come nei suoi rapporti con l'esterno, dipendono sia dall'intensità della situazione
traumatica che genera l'angoscia, sia dal grado di maturazione dell'organizzazione psichica nel suo
complesso. Fenichel distingue tra i motivi scatenanti delle difese l'angoscia, utilizzata come segnale di un
pericolo di sopraffazione da parte degli impulsi dell'Es, e il senso di colpa, utilizzato come segnale di un
pericolo di annichilimento da parte del Super-io: nel primo caso, il conflitto tra l'Io e l'Es vede il Super-io
affiancare le funzioni egoiche come inibitore degli impulsi; nel secondo caso, il funzionamento del Super-io
è più radicato nelle pulsioni istintuali e l'Io si trova in conflitto anche contro i sensi di colpa più primitivi.
Tale distinzione sembra implicare una differenziazione fra prevalenza delle motivazioni sessuali e
prevalenza delle motivazioni autodistruttive. Mentre Jones definisce il pericolo primario come un pericolo
di sovraeccitazione, che nella prima infanzia corrisponde alle sensazione di impotenza rispetto al
soddisfacimento dei bisogni: una forte eccitazione senza sollievo, nel bambino piccolo, corrisponderebbe
alla distruzione della capacità stessa di ottenere sollievo, minacciando così la sopravvivenza stessa del
nucleo attivo della persona. La psicologia dell'Io, non solo ha evidenziato una stretta connessione fra le
funzioni di difesa e le funzioni adattive dell'Io, ma ha anche segnalato la complessità dei rapporti fra
organizzazione delle difese, funzione sintetica dell'Io e adattamento a un ambiente medio tipico, quali
criteri fondamentali per la valutazione della salute psichica. Anna Freud, ribadendo che tutti i meccanismi di
difesa sono al tempo stesso al servizio della limitazione interna delle pulsioni e dell'adattamento esterno,
rifiuta qualsiasi distinzione fra difese normali e patologiche, indicando invece dei criteri di funzionalità: a)
l'adeguatezza dell'età, in cui uno specifico meccanismo viene impiegato, in relazione alla successione
cronologica normale; b) l'equilibrio fra i diversi meccanismi di difesa, che dovrebbero essere utilizzati in
maniera ottimale in differenti situazioni; c) l'intensità in cui le difese vengono esercitate, dal momento che
ogni eccesso di restrizione pulsionale, conduce inevitabilmente a risultati nevrotici; d) la reversibilità, cioè la
capacità di disattivare specifici meccanismi di difesa quando cessino dall'essere funzionali.

Un tentativo di sistematizzazione delle difese basato sulla ricerca clinica fu sviluppato da Sandler e dai suoi
collaboratori. Nelle discussioni con Sandler, Anna Freud ampliava la possibile lista dei meccanismi fino a
venti e riprendeva la sua classificazione evolutiva: i primissimi meccanismi di difesa dell'Io erano considerati
la regressione, la trasformazione nel contrario e il rivolgimento contro il sé, in quanto risulterebbero
indipendenti dallo stadio di sviluppo; proiezione e introiezione appaiono invece dipendenti da una iniziale
differenziazione del Sé dal mondo esterno; mentre la rimozione e la sublimazione richiedono una
differenziazione strutturale più articolata. La discussione clinica, tuttavia, finiva per dimostrare l'incertezza
di qualsiasi classificazione cronologica delle difese e soprattutto la difficoltà di collegare le situazioni di
pericolo (fonti dell'angoscia) con l'utilizzazione di singoli meccanismi di difesa. Essenziale nella
concettualizzazione delle difese e del loro rapporto con la psicopatologia è l'idea di una loro organizzazione
gerarchica in termini di adattività, che si accompagna alle ipotesi sulla continuità evolutiva dei fattori
etiopatogenetici, nonché a quelle sulla relativa persistenza delle strutture psichiche: si tratta di due criteri
guida che si intersecano nella valutazione della funzione adattiva e della qualità delle differenti strategie
difensive. L'incrocio fra i diversi criteri ha dato origine a una distinzione fra difese più mature e difese meno
mature o più primitive. E' importante sottolineare che la presenza di una specifica strategia difensiva non
può essere considerata, se presa isolatamente, un indicatore diagnostico sufficiente.

Gli studi clinici e le ricerche empiriche hanno messo in luce che proposizioni causali lineari del tipo: "se le
difese prevalenti sono più precoci, allora saranno meno efficaci, quindi la patologia sarà più grave" risultano
troppo astratte e generalizzate per rendere conto della complessità dei quadri clinici, e ancor meno
utilizzabili per fare previsioni di rischio psicopatologico nel corso dello sviluppo. Gli elementi che risultano
tuttora supportati da una relativa convergenza dei dati sono i seguenti: -il benessere psichico soggettivo e la
qualità delle relazioni interpersonali sembrano essere correlate con l'uso di difese sufficientemente
"mature" (sviluppate nel corso dell'adolescenza); -difese di tipo "immaturo" (sviluppate prima dei 5 anni)
risultano adattive nei bambini e negli adolescenti fino a 15 anni e possono comunque essere presenti anche
in adulti nevrotici o in condizioni di stress acuto; -la discriminazione fra patologia più grave e meno grave
non sempre può essere fatta sulla base dei tipi di difese impiegate, ma occorre fare sempre ricorso a una
valutazione della costellazione difensiva prevalente e al contesto. Modell, per esempio, teorizzava la difesa
del "non-rapporto" come tipica delle personalità narcisistiche: tale difesa si esplica nelle relazioni come una
fuga attiva e continuata dalla comunicazione affettiva con gli altri, e viene considerata un esasperato
tentativo di mantenere il controllo sulle proprie emozioni, ma anche sugli altri, in risposta a precoci traumi
infantili. La definizione più clinica dei meccanismi di difesa potrebbe essere quella di strutture specializzate
nella soluzione di conflitti: il concetto di struttura psichica si ridefinisce come una organizzazione affettivo-
cognitiva tendenzialmente stabile; tale definizione permette di rendere conto di un funzionamento psichico
basato su un'organizzazione gerarchica ed evolutiva.

1.3 Gli stati psicotici della mente

Le ipotesi relative alla formazione dei sintomi psicotici proposte da Jung, Freud, Abraham e Ferenczi
generalizzavano il modello esplicativo psicodinamico a forme molto diverse di patologia, contribuendo a
rendere più sfumata non solo la distinzione fra normalità e patologia nevrotica, ma anche quella fra nevrosi
e psicosi. Lo stesso concetto di patologia del carattere o di personalità psicopatologica permetteva di
considerare anche i cosiddetti "stati psicotici" della mente (disturbi cognitivi come deliri e allucinazioni) e gli
stati affettivi abnormi (come la cosiddetta "anedonia", la depressione e l'eccitazione maniacale) come
epifenomeni di organizzazioni strutturali della personalità e delle sue difficoltà nel processo di adattamento
all'ambiente. In un articolo su Psicoanalisi e psichiatria, Jones afferma che le cause di ogni disturbo mentale
possono essere definite in termini di un insuccesso da parte dell'Io nell'affrontare in modo risolutivo certi
conflitti intrapsichici fondamentali e che tale fallimento comporta inevitabilmente uno stato di schizofrenia,
inteso come una risposta attiva ai pericoli che minacciano l'auto-conservazione dell'Io. L'approccio
psicodinamico si estendeva allo studio della schizofrenia e di altre patologie gravi, permettendo di
approfondire l'indagine sui complessi meccanismi intrapsichici dello sviluppo e sulle modalità di costruzione
e destrutturazione dei processi di apprendimento e delle operazioni cognitive superiori. Tausk, per
esempio, cercando di interpretare il delirio della "macchina influenzatrice", propone di considerarlo una
rappresentazione simbolica di un'esperienza dell'Io: l'Io dello psicotico percepirebbe se stesso come
alterato e trasformato in una parte che agisce meccanicamente, al di fuori del controllo soggettivo, come
animata da una volontà indipendente. Tale esperienza non sarebbe che la riproduzione patologica di quello
stadio psichico in cui l'individuo tentava di scoprire il proprio corpo mediante proiezione, ed esprimerebbe
così una regressione alla primissima infanzia. Anche Federn, sottolineando l'impoverimento della vitalità e
del senso di integrità del soggetto psicotico, si sofferma sull'ipotesi della regressione e ne definisce tre
specie che spiegherebbero la fenomenologia patologica: ciò che avviene è prima di tutto una regressione
dell'Io a stadi di sviluppo anteriori, testimoniata da una destrutturazione delle funzioni cognitive e da una
mancata integrazione delle emozioni; tale regressione è a sua volta accompagnata da una regressione del
pensiero alla realtà, dovuta alla perdita dei confini fra Io e realtà esterna, che rende conto della duplice
incapacità di oggettivazione e di introspezione del pensiero schizofrenico; infine si produrrebbe una
regressione delle idee che esistono sotto specie di rappresentazione al singolo vissuto originario,
regressione quest'ultima che spiegherebbe il pensiero concreto degli psicotici e il simbolismo idiosincratico
del linguaggio schizofrenico, entrambi fondati su una frammentazione dell'esperienza affettiva e cognitiva.

Mentre in Europa la possibilità di estendere la teoria dei conflitti psichici a tutte le forme di patologia
psichiatrica veniva supportata dalle indagini condotte sulla formazione dell'Io e delle sue difese nel corso
dello sviluppo, negli Stati Uniti si assisteva all'instaurarsi di un rapporto sempre più stretto fra psichiatria e
psicoanalisi, al punto che la diffusione di quest'ultima sul terreno americano avvenne grazie allo sviluppo di
una psichiatria interpersonale e ne fu condizionata. Sullivan formulava una teoria interpersonale della
schizofrenia, fondata sull'ipotesi che l'etiopatogenesi della patologia schizofrenica fosse individuabile negli
eventi che contano nella vita di un individuo, e cioè negli avvenimenti che hanno contrassegnato le
relazioni significative dell'infanzia. Sullivan propone due chiavi di lettura rilevanti per l'approccio
contemporaneo alla schizofrenia e anche allo studio psicopatologico: a) l'attribuzione di un ruolo
all'esperienza soggettiva delle difficoltà nello svolgimento dei compiti evolutivi, difficoltà che, sul piano
oggettivo possono avere origine sia nella costituzione biologica del soggetto, sia nell'ambiente sociale in
senso lato, sia nell'ambito più ristretto delle relazioni familiari; b) l'importanza degli eventi significativi
lungo l'intero arco della vita, poiché i mutamenti di condizioni, interne ed esterne, richiedono sempre nuovi
tentativi di adattamento, del tipo soluzione di problemi. Dal punto di vista clinico non è possibile stabilire
un nesso lineare tra quelli che Pao definisce "i disturbi basici" dell'esperienza infantile e "la cristallizzazione
conclusiva nella malattia schizofrenica", poiché i processi evolutivi presentano una tale complessità e
plasticità individuale da rendere inattendibile ogni genere di previsione. Per quanto riguarda
l'interpretazione evolutiva di qualsiasi patologia, possiamo stabilire una relazione causale di carattere
deduttivo, e cioè solo con la costruzione a-posteriori di ipotesi circa una probabile esperienza dell'infanzia.
Le esperienze di vita di tipo traumatico nella prima infanzia sono considerate cause primarie di certe
carenze nelle capacità adattive dimostrate in seguito da una persona: le successive crisi evolutive, nel corso
della seconda infanzia, dell'adolescenza e dell'età adulta, possono concorrere nel minare ulteriormente le
funzioni regolative degli affetti nell'organizzazione del comportamento, fino a provocare una rottura con la
realtà che assume la funzione di ultima barriera difensiva, per conservare nella fantasia quelle possibilità di
adattamento che la persona non riesce a concretizzare nella vita quotidiana.

Anche Winnicott sostiene che la psicosi indica "un'organizzazione di difese" nei confronti di una minaccia di
confusione, spesso determinata da una famiglia a sua volta scarsamente integrata. Rosenfeld, psicoanalista
inglese che viene considerato fra i pionieri della tecnica kleiniana, invita a tener conto della "circolarità"
della relazione disturbata: non solo i problemi emotivi della madre condizionano il suo comportamento nei
confronti del bambino, ma anche la percezione di peculiari reazioni di un bambino "difficile" può disturbare
gravemente la madre, così da indurla a un ritiro affettivo, che a sua volta innescherà un circolo vizioso, per
cui il bambino tenderà a sentirsi onnipotentemente responsabile delle difficoltà materne. L'ipotesi
etiopatogenetica proposta da Rosenfeld è che parti psicotiche della personalità possano essere scisse nella
primissima infanzia, mentre altre parti del sé possano svilupparsi apparentemente in modo normale. Le
parti psicotiche scisse possono erompere in superficie, spesso producendo una psicosi acuta, per esempio
una schizofrenia. L'ipotesi dell'esistenza di parti psicotiche, che sopravvivono nell'organizzazione psichica
dell'adulto in modo scollegato dagli altri nuclei funzionali e da altri contenuti mentali, è un'ipotesi centrale
nei lavori di Rosenfeld ed è fondata sui concetti di scissione e di identificazione proiettiva del modello Klein-
Bion; l'autore appare tuttavia consapevole della insostenibilità di una relazione lineare, o addirittura
causale, tra modalità di funzionamento infantile e parti psicotiche della personalità adulta. I due Rosenfeld,
infatti, per spiegare la riattivazione di identificazioni primitive in età successive, ricorrono all'ipotesi che un
qualche intoppo evolutivo abbia prodotto una sorta di incistamento di queste aree dell'esperienza; solo così
si spiegherebbe l'isolamento o la disconnessione di queste aree dalla continua riorganizzazione delle
diverse funzioni nel corso dello sviluppo.

Dal punto di vista clinico, risulta di grande interesse la notazione di Rosenfeld circa il ruolo da attribuire alle
vicende reali e traumatiche dell'infanzia, spesso evidenti nella ricostruzione della patologia: gli stessi
psicotici tendono ad attribuire tutte le cause delle proprie sofferenze ad agenti esterni e spesso concreti
(malattie fisiche e traumi di vario genere subiti nell'infanzia). E' quindi importante mantenere nella
relazione terapeutica l'attenzione al fattore soggettivo, onde evitare di colludere con la teoria delle colpe
altrui che spesso i pazienti hanno costruito per dare una spiegazione tollerabile del loro malessere. Gli studi
sulle psicosi hanno aperto due grandi capitoli di ricerca clinica nel settore della psicopatologia
psicodinamica: il primo, relativo allo studio dell'adolescenza come tappa evolutiva significativa
nell'organizzazione della personalità e di eventuali formazioni patologiche successive; il secondo, dedicato
alla valutazione diagnostica e alla psicoterapia di alcune situazioni cliniche "al limite". L'adolescenza e i suoi
compiti evolutivi sono considerati da molti autori elementi centrali dello studio sulla formazione di
psicopatologie gravi, tanto più che gli studi epidemiologici indicano il valico tra adolescenza ed età adulta
come l'età di più elevata incidenza sia per i tentativi di suicidio che per l'esordio della patologia
schizofrenica. Searles dedicò una monografia alla relazione dei pazienti nevrotici e psicotici con "l'ambiente
non-umano", sottolineando come il completamento del graduale processo di differenziazione dell'individuo
umano dal contesto non-umano in cui vive si possa collocare appunto nell'adolescenza, dove il ragazzo e la
ragazza non solo diventano un uomo e una donna, ma conquistano anche la consapevolezza della loro
condizione di esseri umani, nei confronti del resto del mondo; tale maturazione implica, secondo Searles,
che in quel periodo evolutivo gli adolescenti tendano a ritrarre il loro interesse dalla natura per rivolgerlo
agli altri esseri umani e ai problemi etici e sociali che ne regolano i rapporti.

Per quanto riguarda l'attenzione rivolta ai disturbi adolescenziali, ricordiamo soprattutto il collegamento
stabilito da Mahler fra le caratteristiche della crisi evolutiva in adolescenza e le manifestazioni di fenomeni
patologici di tipo borderline. Secondo la teoria mahleriana dello sviluppo della personalità, l'adolescenza
porterebbe a compimento quel processo che inizia con la crisi del riavvicinamento verso il secondo anno di
vita, cioè una graduale integrazione delle rappresentazioni degli altri come persone che suscitano
sentimenti di amore e di odio, nonché della percezione della propria autonomia e dei propri bisogni di
relazione: la pubertà richiede infatti una nuova integrazione sia delle nuove capacità biologiche e sociali che
le trasformazioni corporee e cognitive comportano, sia degli affetti ambivalenti verso le immagini
modificate di se stesso e delle figure genitoriali, laddove le esperienze con la famiglia possono facilitare o
viceversa ostacolare questa seconda ripresa del processo di separazione-individuazione. Se sul piano clinico
la principale conseguenza di una specifica attenzione rivolta alla necessità di un intervento precoce in
adolescenza comporta una maggiore articolazione della tecnica, che include il trattamento familiare nelle
prospettive terapeutiche della psicoanalisi, sul piano etiopatogenetico tale attenzione contribuisce a
spostare l'accento dall'organizzazione intrapsichica all'organizzazione più ampia del contesto evolutivo: si
parla per esempio di un "funzionamento regressivo" della famiglia quando i membri di una famiglia
condividono a livello inconscio l'assunto che la separazione e la differenziazione fra loro equivalga a una
perdita intollerabile, poiché le diverse componenti familiari rappresentano diverse parti di una identità
familiare diffusa, dove i ruoli predefiniti assumono una funzione di difese reciprocamente condivise.

1.4 Patologia borderline e disturbi di personalità

Un 'ampia area di studi clinici e di ricerche nella psicopatologia psicoanalitica riguarda la


concettualizzazione degli "stati al limite", successivamente definiti come "personalità borderline". Si tratta
di un gruppo di pazienti che a prima vista sembravano nevrotici, ma che nel corso del tempo mostravano
differenze significative e inesplicabili nella struttura del carattere, nella sintomatologia e nel decorso clinico:
tali pazienti, definiti come appartenenti a un'area al limite tra nevrosi e psicosi, permisero di ampliare la
valutazione diagnostica e di modificare il paradigma della cosiddetta "tecnica classica".

Fairbairn aveva introdotto per primo l'attenzione sul fatto processi mentali di natura schizoide
caratterizzassero il funzionamento di alcune patologie, non necessariamente schizofreniche: egli distingue il
carattere schizoide (che presenta tratti di introversione uniti a un atteggiamento di distacco dagli altri e a
un atteggiamento di onnipotenza) dalle personalità psicopatiche di tipo schizoide, suggerendo una
parentela tra forme di patologia pre-psicotica e le cosiddette psicopatie, definite da comportamenti
antisociali. Deutsch aveva definito personalità "come se" alcuni tipi di disturbi emotivi in cui la relazione
emozionale dell'individuo con il mondo esterno e con il proprio io appare impoverita o assente. Winnicott,
attento all'importanza dei fattori ambientali nello sviluppo di un sé sano, introduce una nuova definizione
per descrivere un tipo di disturbi non sovrapponibili ai classici disturbi sintomatici delle nevrosi e definibili
piuttosto in termini di una costellazione caratteriale. Winnicott ipotizza che un comportamento della madre
eccessivamente intrusivo e poco rispettoso dei bisogni autentici del bambino induca in quest'ultimo un
appiattimento delle proprie esperienze emozionali e l'espressione di risposte falsamente compiacenti alle
richieste avanzate dalle persone significative; si sviluppa così una modalità difensiva che opera una vera e
propria distorsione dell'io, allo scopo di proteggersi dall'angoscia generata dal non ricevere risposte
adeguate ai propri segnali e al contenimento delle proprie emozioni. Il risultato è una incapacità di
simbolizzare le esperienze affettive, riscontrabile negli adolescenti e negli adulti che presentano la patologia
del falso Sé: queste persone possono essere descritte come persone che non riescono più a sentirsi in
sintonia con le proprie emozioni, né sembrano essere in contatto con i propri bisogni relazionali, fino al
punto da sviluppare talvolta anche gravi impulsi suicidi. In altri casi, il paziente falso Sé può anche avere un
buon successo sociale, ma si presenterà in analisi con la motivazione di sentirsi irreale e comunque
insoddisfatto malgrado un adattamento apparentemente riuscito; questo tipo di patologia costituisce nella
classificazione di Winnicott un ponte fra psiconevrosi e psicosi, laddove la psicosi sarebbe originata dal
verificarsi delle deficienze ambientali in uno stadio precedente a quello in cui il bambino diventa
consapevole dei fallimenti dell'ambiente. Nella concezione winnicottiana della psicopatologia, una mancata
integrazione fra l'esperienza dei propri bisogni vitali e quella del contenimento materno condurrebbe a un
blocco dello sviluppo della funzione simbolica nel bambino e a gravi carenze nel funzionamento creativo
della mente.
Bollas definisce la "personalità normotica" come un disturbo di personalità caratterizzato dalla parziale
distruzione del fattore soggettivo, e cioè da una continua de-simbolizzazione dei propri contenuti mentali.
In contrapposizione alla psicosi, che risulterebbe da una simbolizzazione idiosincratica, la normosi
esprimerebbe la tendenza a essere qualcuno di anormalmente normale, confinato nel mondo oggettivo di
una realtà solo esterna. L'introduzione nella diagnosi clinica della patologia borderline aveva inizialmente lo
scopo di raccogliere in un unico contenitore disturbi eterogenei e vagamente identificati, come dimostra lo
stesso termine "patologia di confine", che indica una sorta di categoria residuale, i cui membri risultano
definiti dal semplice fatto di non rientrare né al di qua né al di là del confine. Successivamente, Gunderson e
Singer descrivono un "disturbo borderline di personalità", indicando criteri operativi per l'identificazione
della sindrome: tali indicatori diagnostici risultano più restrittivi rispetto a quelli proposti da Kernberg, che
si riferisce piuttosto a una "organizzazione borderline di personalità", in termini di una distinzione, in chiave
sia psicopatologica sia evolutiva, fra diversi livelli di funzionamento.

Dal punto di vista psicosociale, la categoria borderline abbraccia un'ampia gamma di problematiche relative
allo sviluppo del Sé e all'inserimento nelle istituzioni sociali: vari autori ritengono che specifici fattori sociali,
quali la perdita di coesione e di stabilità di istituzioni tradizionali e consolidanti (famiglia, scuola, religione
ecc.), siano responsabili dell'incremento della patologia borderline nel mondo occidentale degli ultimi
decenni, dove i giovani crescono come ribelli senza causa, incapaci di fare a meno dei comfort materiali
dell'ambiente familiare, incapaci di esternalizzare la propria insoddisfazione interna e inserirla in un quadro
generale.

Dal punto di vista clinico, il paziente borderline viene considerato una persona che, diversamente dallo
psicotico, conserva dei comportamenti sufficientemente congrui nelle relazioni sociali e, diversamente dal
nevrotico, tende a perdere il proprio livello di rendimento lavorativo e la continuità nei suoi stati affettivi.
Nel paziente borderline, la capacità di distinguere realtà esterna e mondo interno, tendenzialmente intatta
sul piano delle funzioni cognitive, viene continuamente offuscata e contraddetta dalla incapacità di
riconoscere il nesso fra le proprie emozioni e gli eventi della sua vita, che si manifesta in analisi nella
difficoltà di dare significato psichico a ciò che gli accade, cioè di simbolizzare i movimenti affettivi propri e
altrui. Per spiegare questa difficoltà di interpretare adeguatamente gli eventi, Giovacchini ipotizza la
presenza di "lacune psichiche": una sorta di vuoti nel contenuto psichico e nell'organizzazione mentale
delle emozioni, che lascia lo spazio per una traduzione immediata delle vicende emozionali nell'espressione
corporea.

Searles individuava invece nel funzionamento del paziente borderline una sorta di molteplicità di nuclei
organizzativi, che si rivelano a un attento ascolto nelle stesse formulazioni verbali che il paziente utilizza per
comunicare con il terapeuta. Attraverso significative pause e inversioni nell'ordine grammaticale delle frasi,
infatti, è possibile cogliere significati inconsci che rivelano implicitamente specifiche distorsioni del paziente
rispetto alla propria identità, al tempo, alle proprie emozioni, alla percezione degli altri.

Mentre i pazienti nevrotici combattono contro la tendenza a identificarsi con una figura parentale
importante, quindi con una sola persona della storia passata, i pazienti più gravi mostrano questa
incontrollabile identificazione con personaggi multipli, vicini sia nel presente che nel passato, come appare
evidente nelle involontarie imitazioni che gli schizofrenici ricoverati fanno del personale infermieristico o di
altri pazienti. Esistono due definizioni della cosiddetta patologia borderline, abbiamo la definizione del
"disturbo di personalità borderline", introdotta dal DSM III nell'ambito di quelli che la psichiatria
internazionale ha definito disturbi dell'Asse II, perché, nella misura in cui indicano una configurazione del
carattere relativamente stabile, costituiscono una sorta di "sfondo psicologico", accanto ad altre
caratteristiche mediche e sociali del paziente, su cui i disturbi psichiatrici assumono connotazioni e
risonanze specifiche. Il disturbo borderline rientra dunque fra le costellazioni durature di esperienze
interiori e di comportamenti che deviano dalle aspettative della cultura cui il soggetto appartiene; è definito
da otto criteri empirici, che sono stati raggruppati in clusters: 1) un cluster degli impulsi, che include
l'impulsività in due o più aree e ripetuti comportamenti autolesivi; 2) un cluster degli affetti, che include
manifestazioni di rabbia incontrollata, instabilità delle relazioni interpersonali, labilità dell'umore; 3) un
cluster dell'identità, che include la diffusione di identità, presenza di sensazioni di vuoto e di noia, scarsa
tolleranza della solitudine.

Clarkin e Kernberg hanno precisato i rapporti fra BPD (Borderline Personality Disorder) e BPO (Borderline
Personality Organization), sottolineando che il concetto di organizzazione rende conto anche della
sovrapposizione massiccia fra diversi disturbi di personalità nel corso dello sviluppo della stessa persona,
sovrapposizione segnalata dagli stessi manuali psichiatrici, che vanifica a volte l'utilità della diagnosi
specifica per quanto riguarda le indicazioni di cura. La classificazione di organizzazione di personalità
borderline implica la distinzione, rispettivamente, da una organizzazione nevrotica e da una organizzazione
psicotica: secondo la proposta di Kernberg, la condizione normale e la nevrosi sono caratterizzate da
un'organizzazione di personalità che funziona a livello alto, mentre l'organizzazione della patologia al limite
funziona a livello intermedio e l'organizzazione psicotica a livello basso, lungo un continuum che presenta
oscillazioni e molteplici sfumature fra i diversi livelli. Questi tre tipi di organizzazione si distinguono sulla
base di tre criteri strutturali che costituiscono dimensioni continue: l'integrazione dell'identità (che nel
borderline presenta carenze e contraddizioni nella rappresentazione di se stesso); le operazioni difensive
(caratterizzate dalla prevalenza di difese immature, come la scissione, l'identificazione proiettiva,
l'idealizzazione primitiva ecc.); l'esame di realtà, che nel paziente borderline risulta sufficientemente
conservato nel suo insieme, anche se con momenti in cui l'esperienza della realtà può essere sentita come
alterata.

Il concetto di organizzazione di personalità proposto da Kernberg lascia tuttavia aperti una serie di
problemi. In primo luogo, i tre tipi di organizzazione di personalità descritti non risultano omogenei rispetto
ai criteri strutturali indicati dall'autore: infatti, mentre la differenza fra organizzazione nevrotica e
organizzazione borderline appare definita, sia in termini della classica distinzione evolutiva fra una relazione
oggettuale di tipo pre-edipico e una relazione oggettuale di tipo edipico, sia in termini del livello di maturità
delle difese utilizzate in maniera prevalente, la differenza fra organizzazione borderline e psicotica, invece,
è piuttosto centrata sugli indicatori di presenza/assenza dell'esame di realtà. In secondo luogo, il concetto
di organizzazione di personalità risulta oggi difficilmente conciliabile con una concezione relazionale della
psicopatologia, che impone una accurata considerazione dei contesti che appaiono disturbati e delle
reciproche interazioni fra personalità e ambiente relazionale.

1.5 L'organizzazione dei modelli interpersonali: da una psicopatologia della personalità a una psicopatologia
della relazione

Lo studio delle patologie gravi e dei disturbi affettivi e mentali nell'infanzia e nell'adolescenza ha portato in
primo piano, nell'evoluzione della psicopatologia psicoanalitica, quegli aspetti delle interazioni primarie e
della regolazione reciproca degli affetti nelle relazioni familiari che contribuiscono alla strutturazione di
disfunzioni relazionali e di comportamenti disadattivi. L'ottica evolutiva contribuisce a spostare l'attenzione
degli psicoanalisti sullo studio delle origini e dell'evoluzione dei modelli individuali di adattamento nei
diversi contesti relazionali; nella psicoanalisi contemporanea, il disturbo non può più essere considerato
una caratteristica dell'individuo e la diagnosi deve includere come parametro fondamentale un contesto
relazionale, o meglio una serie di contesti gerarchicamente organizzati che rappresentano i sistemi di
regolazione cui il singolo individuo partecipa.

Sulla base dell'ipotesi che le difese siano sostanzialmente dei meccanismi di adattamento organizzati per
far fronte a eventi o situazioni interpersonali stressanti, vari autori sottolineano oggi la necessità di
ridefinirle in termini di strategie relazionali adottate ad hoc in situazioni problematiche ricorsive. Alcune
ricerche hanno sostenuto l'ipotesi che non esiste una correlazione biunivoca fra l'attivazione di processi
difensivi e specifici conflitti, rendendo più labile la relazione fra diagnosi psicopatologica e organizzazione
delle strategie di coping. L'approccio clinico ai processi di adattamento suggerisce quindi di rivolgere
l'attenzione alle funzioni interpersonali piuttosto che a quelle intrapsichiche delle difese. Decisiva appare la
svolta concettuale introdotta da Bowlby, con il supporto dei risultati prodotti dalla ricerca empirica sullo
sviluppo; Bowlby ha sottolineato l'importanza della distinzione fra cause e funzioni del comportamento: in
particolare, applicando tale distinzione alla concettualizzazione dell'angoscia, riconduce quest'ultima alla
organizzazione mentale che deriverebbe da ripetute esperienze di paura. La paura, cioè, causata da
situazioni che soggettivamente possono essere percepite come pericolose e traumatiche, ha tuttavia una
funzione di protezione nei confronti del soggetto che la sperimenta, poiché attiva a sua volta
comportamenti e strategie cognitive rivolte a migliorare l'adattamento in presenza delle condizioni che
attivano la paura. Il concetto di difesa risulta così tradotto da Bowlby in termini di strategie cognitive,
fondate sull'esperienza affettiva, che organizzano e programmano il comportamento, diventando col tempo
automatizzate. Il principale meccanismo identificato da Bowlby come responsabile dell'automatizzazione di
programmi o modelli interpersonali disadattivi è quello dell'esclusione selettiva dell'informazione, con
riferimento tanto agli studi della psicologia cognitiva quanto alla teoria dell'informazione. Questo
meccanismo può venire utilizzato in chiave difensiva se viene attivato nei confronti di informazioni che
comportano un qualche tipo di sofferenza e di paura. L'esclusione difensiva comporta a sua volta una
disattivazione di specifici sistemi organizzativi (affetti, pensieri, ricordi, aspettative) che mediano il
comportamento, con conseguenze centrali nella formazione della psicopatologia: se l'esclusione difensiva
dell'informazione è sistematica e duratura, infatti, le reazioni soggettive appaiono disconnesse dalle
situazioni interpersonali che le hanno provocate, suscitando nel soggetto stesso o negli altri una percezione
di follia e di inspiegabilità. Secondo Bowlby, la patologia ha in gran parte origine da queste disconnessioni:
qualora le reazioni cognitive, affettive e comportamentali di una persona non vengano collegate alla
situazione in cui sono state innescate, quella persona potrà tentare di attribuire le proprie reazioni a
un'altra situazione interpersonale, oppure ridirigerà le proprie azioni verso altre persone.

L'ampliamento della ricerca nel settore clinico ha dimostrato che i criteri fondati sulla presenza di
comportamenti aberranti da parte dei genitori, come violenze fisiche e sessuali, o sull'assenza di figure di
attaccamento provocata da lutti o altro, risultano eccessivamente restrittivi: è possibile, per esempio, che
veri e propri disturbi dell'attaccamento si manifestino in una relazione stabile ma malsana, anche in assenza
di gravi carenze o maltrattamenti; così come è possibile, peraltro, che una relazione gravemente disturbata
con un genitore non arrivi a impedire al bambino di sviluppare relazioni di attaccamento soddisfacenti con
l'altro genitore, o con altri adulti, o più tardi con i pari. Le più recenti ricerche sulle associazioni fra processi
di attaccamento e problemi di adattamento nell'infanzia e nella prima adolescenza hanno finora mostrato
che i fattori di rischio agiscono piuttosto secondo un modello quadridimensionale con effetti di feed-back
che non sulla base di una semplice causalità lineare. Il disadattamento infantile, cioè risulterebbe dalla
combinazione di almeno quattro fattori che possono potenziarsi o viceversa attenuarsi a vicenda: atipicità
delle caratteristiche del bambino alla nascita (vulnerabilità biologica, difficoltà neurocognitive o
temperamentali); attaccamento insicuro o disorganizzato (nella prima infanzia); strategie di accudimento e
socializzazione inefficaci da parte dei genitori; situazioni di alto rischio nella famiglia in relazione al suo
contesto ecologico (rischio sociale della famiglia, avversità nella storia della famiglia allargata, mancanza di
risorse).

Circa le conseguenze di situazioni traumatiche in età evolutiva, molti autori sono oggi d'accordo sul fatto
che l'esperienza ripetuta di micro-traumi cumulativi risulta più dannosa di singoli eventi traumatici e
condiziona sistematicamente l'approccio dell'adulto al suo mondo interpersonale così come il transfert del
paziente nella psicoterapia.

Il modello delle relazioni oggettuali, la psicologia del Sé e successivamente il paradigma intersoggettivo


hanno sottolineato come le differenze fra femminilità e mascolinità non abbiano tanto a che vedere con la
realizzazione di un "destino anatomico" quanto piuttosto con la costruzione soggettiva di una
rappresentazione di sé e di specifici modelli di regolazione dell'esperienza affettiva con un partner, modelli
strettamente connessi alle esperienze infantili e adolescenziali delle interazioni con le due figure genitoriali.
Così, anche nell'etiopatogenesi dell'isteria l'accento posto da Freud sul conflitto sessuale ha ceduto il posto
all'ipotesi di un'organizzazione cognitiva fondata prevalentemente sul pensiero desiderante, tale da
comportare: un mancato riconoscimento della realtà; una tendenza a convincere l'altro delle proprie
ragioni; l'identificazione con un oggetto fantastico; un atteggiamento di dipendenza possessiva ma sterile
nelle relazioni interpersonali. All'origine della tendenza alla dissociazione dell'isterico si cerca un trauma
psichico in termini di comportamenti genitoriali seduttivi, nel senso che genitori inaffidabili, inducendo un
rovesciamento dei ruoli nel bambino o nella bambina che cerca di instaurare un legame di attaccamento,
rischiano di traumatizzarlo nella misura in cui gli o le affidano una responsabilità psichica che il piccolo non
è in grado di tollerare. Indipendentemente dalla propria identità di genere, il preadolescente potrebbe
restare intrappolato in un conflitto fra la lealtà nei confronti della madre (che lo spingerebbe a mantenere
una profonda identificazione con lei) e la lealtà nei confronti del padre (che lo indurrebbe a sviluppare
caratteristiche specificamente maschili); di qui la competizione con entrambi i sessi, descritta in letteratura,
e l'ipotesi di un'accentuata aspirazione inconscia alla bisessualità.

Per quanto riguarda gli aspetti patologici delle modalità di interazione, Khan evidenzia come l'eccitazione
sessuale precoce e continuativa sostituisca un senso di Sé integrato, consentendo l'attuazione di una
tecnica del restare vuoti e assenti da se stessi; mentre Brenman sottolinea che la strategia dominante
dell'isterico è piuttosto l'uso della menzogna per convincere l'altro della verità della propria versione
(fondata sul diniego e la trasformazione della realtà). Yarom ribadisce tuttavia l'opportunità di distinguere
diversi livelli evolutivi nella prevalenza di specifici meccanismi di difesa e conserva l'ipotesi kernberghiana
secondo la quale l'isteria, può comunque presentarsi in organizzazioni della personalità appartenenti a
diversi livelli di maturazione psicologica: si può così concludere che le strategie relazionali isteriche possono
essere identificate in pazienti molto diversi tra loro, classificabili a loro volta lungo un continuum che va
dalla patologia psichica più grave a quella meno grave.

I pericoli principali delle teorie classiche, al di là della radicalizzazione del dibattito fra cause intrapsichiche e
cause sociali, consistono in due modalità di approccio: a) in primo luogo, in entrambi i casi il clinico tende a
cercare un modello ideale di funzionamento e finisce per focalizzare la sua attenzione su ciò che manca
nelle esperienze piuttosto che su ciò che è presente; b) in secondo luogo, in entrambi i modelli il mal-
funzionamento e i presunti fattori causali vengono attribuiti alle infrastrutture della personalità del
soggetto, perdendo di vista l'importanza delle relazioni attuali del paziente, le caratteristiche di auto-
rinforzo successivo dei circoli viziosi avviati a un certo punto del percorso evolutivo, e infine il bias costituito
dal punto di vista dell'osservatore e dalla sua teoria di riferimento nel definire la patologia.

Nella teorizzazione kohutiana, gli affetti di amore e di odio nei confronti degli oggetti primari non sono
determinati da energie pulsionali ma vengono plasmati nello sviluppo della prima infanzia dalle capacità di
rispecchiamento, da parte dei genitori, nei confronti dei bisogni affettivi del bambino, caratterizzati
dall'esigenza di fare esperienza di un sé grandioso e di altri idealizzabili. La patologia narcisistica è appunto
il risultato prodotto nella struttura psichica del bambino da una mancata responsività dell'ambiente
interpersonale: secondo la formulazione di Kohut, mentre nei casi semplici di nevrosi il nucleo centrale
della psicopatologia è costituito da conflitti strutturali concernenti pulsioni libidiche e aggressive, il nucleo
psicopatologico centrale dei disturbi narcisistici della personalità concerne invece in maniera primaria il Sé
e gli oggetti narcisistici arcaici. Questi pazienti, anche se a volte presentano sintomi transitori di tipo
ipocondriaco o di tipo depressivo, adducono sempre motivazioni vaghe e confuse alla loro richiesta di aiuto
psicologico. L'unica costante che traspare dal racconto della loro vita è una grave incapacità di autoregolare
l'autostima e un estremo bisogno di riconoscimenti narcisistici anche nell'età adulta. Otto Kernberg
dedicava una parte dei suoi studi alla definizione del "narcisismo maligno", da lui considerato una variante
specifica della organizzazione borderline di personalità, che spesso risulta socialmente meglio adattata
grazie alla conquista di una nicchia ecologica: l'esperienza soggettiva di vuoto interiore e di mancanza di
senso riferita dai pazienti narcisistici viene spiegata da Kernberg come il risultato di una mancata
integrazione della rappresentazione di Sé e dei propri oggetti interiorizzati; l'origine di tale integrazione
mancata può essere ricondotta alla frustrazione dei bisogni primari in un'età in cui i confini tra sé e gli
oggetti esterni sono ancora fragili e instabili. Secondo Kernberg, la grandiosità difensiva del paziente
narcisista copre un'incontenibile rabbia impotente, che tende a colorare negativamente la maggior parte
delle relazioni con gli altri, altri che quasi sempre diventano disprezzabili o a volte anche persecutori, e che
si esprime nel transfert con atteggiamenti distruttivi verso il legame e verso la figura stessa del terapeuta;
solo un'interpretazione precoce degli impulsi distruttivi e una confrontazione costante con gli aspetti scissi
delle rappresentazioni di se stesso e degli altri riattivate nella relazione terapeutica potrà aiutare il paziente
a integrare gli affetti positivi con quelli ostili e a ristrutturare i confini della propria identità. Secondo Kohut,
invece, il paziente narcisista utilizza le sue idee di grandiosità per mascherare la fragilità della propria
autostima e continua in realtà a ricercare negli altri dei possibili "oggetti-sé" da idealizzare e dai quali farsi
ammirare: il transfert narcisistico descritto da Kohut, infatti, esprime una sorta di disperato aggrappamento
a un terapeuta idealizzato che può rimandare al paziente un'immagine di sé più forte e stimabile,
aiutandone lo sviluppo verso l'autonomia. Dietro queste interpretazioni cliniche vi sono due differenti
spiegazioni psicodinamiche della patologia narcisistica: mentre Kernberg assegna un ruolo etiologico
primario all'insorgere di una devastante aggressività in un contesto relazionale dominato dall'estrema
dipendenza del bambino e dalle carenze ambientali, aggressività che ostacola l'integrazione delle
esperienze e quindi lo sviluppo dell'identità, per Kohut lo stesso contesto darebbe origine primariamente a
un deficit dell'integrità del Sé, dovuto ai fallimenti del rispecchiamento empatico e dei bisogni di
idealizzazione; solo secondariamente tali fallimenti produrrebbero la rabbia e le difese connesse.

Fiscalini e Grey indicano tre principali difficoltà teoriche e semantiche nel concetto psicoanalitico di
narcisismo: 1) i problemi inerenti al concetto originale di Freud di un narcisismo libidico; 2) lo sforzo dei
teorici post-freudiani dell'Io e delle Relazioni oggettuali di attenersi alla metafora libidica e la loro incapacità
di ridefinire specificamente il concetto in termini congruenti con l'emergente connotazione interpersonale
delle loro idee; 3) la diffusione del significato di narcisismo.

Gli interpersonalisti contemporanei hanno utilizzato il termine narcisismo nell'accezione quotidiana del
linguaggio comune, descrivendo con esso alcuni atteggiamenti patologici, quali: una "estensione del sé",
per cui gli altri sono sperimentati simbioticamente come parti di se stessi; una forma di "egocentrismo",
cioè una sorta di attenzione assorbente rivolta a se stessi che rende gli altri separati di nessuna importanza;
una "inflazione del sé" che si esprime con sentimenti di grandiosità e auto-incensamento; infine, una
"perfezione del sé", che si esprime in sentimenti di euforia e di beatitudine simbiotica. Gli stessi autori
propongono una tipologia delle relazioni narcisistiche che rinvierebbe a diversi fattori etiologici
interpersonali: 1) "il bambino vergognoso", dove una cronica disapprovazione e una prematura delusione
da parte dei genitori comportano lo sviluppo di sentimenti di inadeguatezza, di vergogna e di
preoccupazione ansiosa che si riflettono anche sulle immagini genitoriali: questo pattern etiologico dà
origine al "narcisista timido". 2) "il bambino viziato", dove al contrario i genitori non si aspettano molto dai
figli, che crescono infantilizzati o diseducati, con pretese egocentriche e comportamenti dispotici nei
confronti degli altri: questo pattern conduce a manifestazioni narcisistiche esplicite, anche se talvolta
accompagnate da sentimenti di inferiorità e inadeguatezza, che riguardano soprattutto le oscillazioni fra
un'assertività aggressiva e una idealizzazione difensiva nelle relazioni; questi pazienti sono diagnosticati
anche come isterici o depressi, qualche volta con tendenze all'acting out; 3) "il bambino speciale", dove
l'interazione fra genitori e figlio combina i due modelli precedenti: spesso i genitori sono rifiutanti o troppo
occupati dalle proprie esigenze per rispondere appropriatamente ai bisogni del bambino, mentre tendono a
utilizzarlo narcisisticamente come un oggetto ideale, sovrastimandone le risorse; si crea così uno squilibrio
nell'esperienza del figlio fra un "falso sé" idealizzato e un "vero sé" disprezzato, che conduce al tipo di
paziente narcisista descritto in letteratura, dove l'esperienza di sicurezza personale e grandiosa autostima si
nutre di continui rinforzi da parte di persone che li considerino altrettanto speciali, ma risulta
continuamente minacciata dalla disistima per la propria inaccettabile "banale" umanità.

Benjamin propone una ridefinizione degli indicatori diagnostici utilizzati dal DSM IV per i diversi disturbi di
personalità in termini interpersonali, codificandoli sulla base del modello SASB (Structural Analysis of Social
Behaviour). Tale modello, che implica la descrizione di interazioni tipiche e di affetti prevalenti nei rapporti
del soggetto con gli altri, viene utilizzato per offrire una "ipotesi patogenetica" per ogni tipo di disturbo,
sulla base del postulato centrale e generalizzato che la struttura interpersonale delle prime esperienze
contribuisca a dare forma alla struttura degli stili interpersonali dell'adulto.

1.6 Modelli diagnostici: i rapporti fra la diagnosi psichiatrica e la valutazione psicodinamica

In anni più recenti, i manuali psichiatrici adottati a livello internazionale hanno abbandonato l'impostazione
teorizzante dei trattati tradizionali per adottare un approccio descrittivo fondato su basi empiriche e il più
possibile ateoriche. A partire dalla III edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali
ritroviamo però l'utilizzazione di ipotesi psicodinamiche per descrivere i criteri diagnostici dei disturbi di
personalità sull'Asse II, per definire in parte i Disturbi Affettivi, d'Ansia, Psicosomatici, Dissociativi e
Psicosessuali e per sottolineare aspetti evolutivi e relazionali nelle patologie dell'infanzia e dell'adolescenza.
Clarkin e Lenzenweger ritengono che la combinazione dell'esigenza di maggiore attendibilità della
classificazione diagnostica con un approccio ateorico non sia intrinsecamente necessaria, e che sia stata
suggerita piuttosto da esigenze di natura politica, allo scopo di veder adottato il sistema diagnostico in
maniera indipendente dagli interessi parrocchiali delle diverse scuole di psicoterapia e di pratica clinica.
Nelle versioni successive (DSM III-R e DSM IV), oltre ai criteri di valutazione del funzionamento globale,
troviamo nell'Appendice B una illustrazione del razionale dei diversi stili difensivi con una scala per valutare
appunto i meccanismi di difesa e il livello del loro funzionamento, nonché una scala per la valutazione
globale del funzionamento relazionale, ispirata ai dati della clinica sistemico-relazionale ma collegabile
anche ai recenti sviluppi della clinica psicoanalitica.

Si assiste oggi a un parziale recupero dell'approccio psicodinamico nella nosologia psichiatrica, così come a
una rinnovata attenzione della letteratura psicoanalitica verso gli sviluppi della moderna psichiatria
biologica. Ne sono espressione alcuni volumi pubblicati nell'ultimo decennio, rivolti alla formazione degli
operatori psichiatrici: in particolare, il manuale di "Psichiatria psicodinamica" di Gabbard, il testo di Nancy
McWilliams, rivolto a una nuova sistematizzazione della diagnosi psicoanalitica, e infine l'antologia curata
da Clarkin e Lenzenweger, in cui vengono messi a confronto ben cinque modelli diagnostici dei disturbi di
personalità, che privilegiano dimensioni diagnostiche e spiegazioni teoriche differenti. Accanto alla teoria
psicoanalitica di Otto Kernberg e alla teoria interpersonale di Lorna Benjamin, vengono presentate una
teoria cognitiva, una teoria evolutiva e una teoria neurobiologica. Tutte le prospettive convergono in larga
misura su alcune ipotesi generali: a) il sistema di classificazione psichiatrica multiassiale permette di
rendere conto delle differenze di significato fra le manifestazioni psicopatologiche osservabili in strutture o
stili di personalità differenti; b) tali strutture sono meglio definibili in termini di "modelli" o "schemi", che
implicano una descrizione longitudinale di tipo evolutivo, fondata sugli eventi biologici e sociali che hanno
caratterizzato lo sviluppo dei pattern (emozionali, neurocomportamentali, cognitivi, difensivi,
interpersonali) e una descrizione trasversale di tipo strutturale che implica in tutti i modelli teorici una
definizione di caratteristiche comportamentali (cioè oggettivabili, come specifiche sequenze di interazioni o
livelli di attività dopaminergica o serotoninergica ecc.) ed esperienziali (cioè soggettive, in termini di
rappresentazioni di sé e degli altri, di pensieri ricorrenti, di esperienze emotive ecc.); c) la distinzione fra
normalità e patologia, così come la differenziazione fra livelli diversi di gravità della psicopatologia, non può
essere basata soltanto sulla quantità di indicatori patologici presenti, né sui tradizionali criteri statistici
offerti dagli studi epidemiologici, ma esige una fondazione teorica che preveda un modello di
funzionamento sano e una serie di ipotesi etiopatogenetiche, che consentano di spiegare diverse modalità
e diversi livelli di disfunzione; d) per costruire una teoria psicodinamica dei disturbi di personalità
empiricamente e clinicamente fondata, occorre integrare di versi approcci di ricerca, tenendo conto sia dei
fattori genetici sia dei processi biologici, psicologici e sociali che possono determinare continuità e
discontinuità fra sviluppo della personalità e formazione dei cosiddetti "modelli disfunzionali".

1.7 I rapporti fra psicoanalisi e psicobiologia: verso una psicopatologia integrata

La prospettiva intersoggettiva inquadra il problema delle relazioni fra mente e corpo nello studio
dell'esperienza soggettiva di un sé come radicato nel corpo. Stolorow e Atwood riprendono la descrizione
winnicottiana di un sano sviluppo affettivo precoce come costituzione di una unità "psiche-soma",
sottolineando che l'unità mente-corpo resta legata all'esistenza di un ambiente di oggetto-Sé che la
sostenga lungo tutto l'arco della vita: sono cioè i contesti intersoggettivi che stabiliscono i confini tra la
mente e il corpo in quanto soggettivamente sperimentati. La psicopatologia comporta una rottura di tale
unità, con conseguenze di grave spersonalizzazione e disintegrazione mente-corpo qualora l'insufficienza
della regolazione interpersonale dei bisogni fin dalla prima infanzia abbia ostacolato il radicamento
dell'esperienza mentale nel corpo, cioè nelle emozioni e nei programmi sensomotori ad esso collegati.

Lo sviluppo di una unità mente-corpo nella esperienza soggettiva, come la percezione di un sé differenziato
dagli altri, nasce dunque all'interno di una matrice intersoggettiva che condiziona qualsiasi sviluppo
individuale. I rapporti fra psicobiologia e psicopatologia sono così sistematicamente mediati, nell'approccio
psicodinamico contemporaneo, dallo studio dei processi di apprendimento e di integrazione psicosociale
che accompagnano e determinano lo sviluppo psicologico. Un volume del 1995, curato da Pennebaker (un
ricercatore dell'area psicofisiologica con interessi clinici), presenta diversi studi clinici e sperimentali che
evidenziano una ricorrente associazione fra emozioni inespresse e stati psicopatologici. Wilma Bucci, in un
contributo a quel volume, sottolinea come, indipendentemente dall'origine della stimolazione che attiva i
circuiti emotivi, l'attivazione degli schemi emozionali, che sono schemi costruiti sulla memoria delle
interazioni come tutti gli altri, comporta comunque effetti fisiologici e motori. Bucci costruisce un modello
di ricerca sul processo psicoterapeutico basato sullo studio della simbolizzazione e della comunicazione
verbale delle emozioni. La sua tesi principale è che lo studio dei processi emozionali e delle modalità
organizzative degli schemi emotivi permetta oggi di rendere conto del concetto psicoanalitico di inconscio
dinamico e dei dati clinici prima spiegati in termini di scissione e rimozione dei contenuti mentali con un
modello teorico, quello appunto che ipotizza l'esistenza di schemi emotivi multifattoriali.

Philippot e Rimé propongono un modello operativo dell'emozione che consenta di considerare i processi
emozionali come fenomeni di lunga durata e così metterli in relazione con i fenomeni psicopatologici: il
modello considera le emozioni come processi complessi e articolati nel tempo, dove la sequenza evento -
reazione emotiva - regolazione e adattamento si intreccia continuamente con i processi cognitivi e affettivi
connessi alla memoria e con i processi di socializzazione; sia i primi che i secondi, sono responsabili della
riattivazione di analoghi processi emozionali in momenti successivi nel corso del tempo, rievocazione che
può comportare a sua volta sia "ruminazione intrapsichica" che "condivisione sociale". Gli studi sulle
credenze valutative connesse ai processi emozionali hanno aperto nuove possibilità di comunicazione fra
l'approccio clinico psicodinamico e quello cognitivo. Così come i cognitivisti riconoscono che i disturbi
affettivi, pur essendo definibili in termini di disturbi cognitivi, non sono necessariamente generati a livello
cognitivo, ma affondano le loro radici a livello biologico o nelle situazioni interpersonali traumatiche
dell'infanzia, anche gli psicoanalisti sottolineano l'importanza dei processi di apprendimento e del
funzionamento cognitivo nella strutturazione dei comportamenti psicopatologici: si pensi, per esempio,
alla ricerca di credenze patogenetiche fondamentali nella valutazione dei modelli affettivi e
comportamentali patologici proposta da Weiss e Sampson o alla traduzione dei processi di
"simbolizzazione" in termini di interazione fra diversi livelli di elaborazione mentale delle informazioni
operata dalla stessa Bucci.
Le ricerche neurologiche sulla relazione fra sistema limbico ed esperienza affettiva hanno messo in luce i
complessi rapporti esistenti nei mammiferi fra l'attività del tronco cerebrale, il sistema endocrino, il sistema
limbico e la neo-corteccia nei vissuti e nelle espressioni delle emozioni, nell'attribuzione di valore affettivo
alla memoria e ai processi di apprendimento e infine nell'organizzazione di complessi comportamenti
sociali, come i comportamenti di attaccamento, le reazioni alla separazione.

Altri studi, tesi a indagare le localizzazioni delle strutture neurali coinvolte e dell'architettura biochimica
rilevante per i comportamenti di attaccamento, sembrano sostenere l'ipotesi che la sintonizzazione della
comunicazione affettiva nella diade madre-bambino, o viceversa la sua mancanza, possano comportare
modifiche nella struttura neurale che risultano critiche per l'eventuale stabilità a lungo termine della vita
emozionale di un individuo. Le più recenti teorie della memoria sottolineano l'importanza, per un
funzionamento mentale adeguato, di un'appropriata relazione fra memoria operativa e memoria esplicita a
lungo termine: una difficoltà di conservare l'attenzione focalizzata può rendere labile il funzionamento della
memoria operativa e così diminuire le potenzialità di immagazzinamento dei ricordi. La funzione
dell'ippocampo risulta a sua volta determinante sia per la codifica delle informazioni sia per il loro
successivo recupero nella memoria esplicita a lungo termine.

I prototipi affettivi stabiliti attraverso le prime esperienze con i caregivers della prima infanzia sarebbero
responsabili , attraverso la strutturazione neurale della memoria implicita a livello limbico, della formazione
di pattern disadattivi e dell'applicazione automatica e involontaria di regole derivate da un ambiente
particolare anche ad altri contesti, in assenza di una riflessione valutativa. Anche al di fuori dell'ambito
dell'attaccamento, diverse ricerche negli ultimi decenni hanno messo in luce: a) la necessità di
un'interconnessione tra fattori genetici e "stressors" ambientali (eventi traumatici, condizioni di vita ecc.)
perché si producano disturbi psichici gravi come, per esempio, gli episodi di depressione maggiore; b)
l'importanza della "emotività negativa" nella diminuita capacità di rilevazione delle informazioni sensoriali,
dal momento che alti livelli di emozioni negative risultano associati a una ridotta produzione della
noradrenalina; c) la conferma che i comportamenti disturbati sono connessi a caratteristiche del
funzionamento generale, sia dal punto di vista psicologico che neurobiologico; d) l'esistenza di "finestre
temporali", nel corso dello sviluppo individuale, cioè di periodi sensibili allo sviluppo e all'espressione di
fattori genetici, dove tale espressione risulta condizionata dalla presenza o assenza di determinati fattori
ambientali.

Più in generale, una teorizzazione psicologica del funzionamento mentale normale e dei suoi difetti può
avvalersi degli studi neurologici e neurobiologici per supportare ipotesi relative allo sviluppo dell'esperienza
mentale soggettiva e alla formazione di quelli che i clinici chiamano "simboli" o "rappresentazioni mentali",
purché tali ipotesi siano state costruite inizialmente sulla base della ricerca psicologica. Le conoscenze
attuali sull'attività dei circuiti cerebrali, per esempio, confermano la rivoluzionaria ipotesi della clinica
psicoanalitica che esista un continuo reciproco scambio fra cognizione ed emozioni: il modo in cui la mente
crea le rappresentazioni e vi attribuisce valore è inestricabilmente connesso con i processi emozionali. La
sostituzione di un modello modulare o connessionista delle funzioni superiori del cervello alla vecchia
concezione piramidale di funzioni gerarchicamente organizzate ha detronizzato l'idea che i comportamenti
umani siano frutto di una intenzionalità unitaria regolata da qualche centro organizzativo superiore agli
altri. Gli studi sullo sviluppo del cervello sembrano tuttavia evidenziare un reciproco collegamento fra le
diverse mappe corticali, così che, in un funzionamento ottimale, le aree sensoriali afferenti appaiono come
le molte lenti di un occhio composto, assemblate in modo da focalizzare la luce della coscienza verso un
unico punto, il centro della consapevolezza di un singolo soggetto.

Capitolo secondo - La teoria della tecnica psicoanalitica

2.1 Breve storia della tecnica psicoanalitica


Gli psicoanalisti inglesi della scuola delle relazioni oggettuali avevano sottolineato fin dai primi anni
Cinquanta che, se la teoria costruita sulle pulsioni presentava un modello esplicativo fondato su un
approccio "unipersonale" alla psicologia, considerando in primo piano gli eventi che si verificano all'interno
di un unico individuo, la tecnica psicoanalitica inventata dallo stesso Freud assumeva un'impostazione
decisamente "bipersonale", nella misura in cui si occupava dell'interazione di due individui nella situazione
terapeutica.

Sulla base di nuove convergenze, originate dall'esigenza sempre più matura di un dialogo scientifico fra i
diversi indirizzi della psicologia clinica e fra questa e la ricerca di base, nascono anche proposte tecniche di
una psicoterapia integrata, come l'approccio psicodinamico ciclico di Wachtel che propone una psicoterapia
più specificamente orientata da un punto di vista psicodinamico, ma tale da ospitare elementi sistemici e
cognitivo-comportamentali.

Lo spostamento dell'attenzione sulla teoria clinica, da cui hanno preso avvio i diversi filoni di ricerca
empirica sul processo psicoanalitico, ripropone la domanda circa la corrispondenza fra una certa modalità
di lavoro clinico e il modello psicoanalitico di intervento. Infatti, una volta stabiliti dei criteri di valutazione
dell'efficacia di una psicoterapia sulla base di canoni ufficialmente riconosciuti da una comunità scientifica,
la questione se un certo tipo di analisi sia da considerarsi selvaggia oppure correttamente condotta
travalica l'interesse privato delle associazioni psicoanalitiche. Dal punto di vista della comunità scientifica,
l'appartenenza a un modello teorico-clinico comporta anche l'uniformità di criteri e di regole per la
formazione degli psicoterapeuti, il che presenta problemi strettamente connessi non solo con la tecnica, ma
anche con la definizione dell'identità culturale e professionale delle diverse istituzioni. La soluzione
proposta dallo psicoanalista americano Wallerstein era la seguente: il modo di leggere i dati clinici (per
esempio, chiedersi che cosa senta un paziente nell'attuale interazione con l'analista) risulta fondato su una
teoria clinica consensuale, che risale alla definizione di psicoanalisi data da Freud e che consiste in una
teoria del transfert e della resistenza, del conflitto e della difesa. Anche Merton Gill, nel suo saggio del 1982
sulla "Teoria e tecnica dell'analisi del transfert" indicava appunto nell'interpretazione del transfert il filo
rosso che rappresenterebbe la continuità della tecnica psicoanalitica da Freud a oggi, attraverso le
molteplici innovazioni teoriche e le modifiche apportate a questo o all'altro dei principi tecnici di base. Se
Modell si interroga sul valore interpretativo delle azioni dell'analista, lo stesso Gill sottolinea ripetutamente
che il transfert non può essere interpretato senza tener conto del contributo dell'analista alla relazione
terapeutica, Hoffman ribadisce che il coinvolgimento personale dell'analista è una variabile indipendente
del processo terapeutico e infine Aron indica che la rivoluzione della teoria della tecnica nella psicoanalisi
contemporanea relazionale e intersoggettiva consiste nell'attribuire alla soggettività dell'analista un ruolo di
base nei suoi interventi tecnici. Fin dalle origini, del resto, la psicoanalisi ha posto al centro sia della
teorizzazione sia della cura la comprensione delle dinamiche relazionali psicopatologiche e ha cercato di
costruire una griglia teorica che permettesse di collegare la realtà storica (le interazioni passate e presenti
in quanto osservabili da un osservatore esterno) con la realtà psichica,cioè con quella dimensione
squisitamente soggettiva dell'esperienza, che sovente gli psicologi esistenzialisti hanno rivendicato in
polemica contro gli psicoanalisti classici. In contrasto con Aron, che sancisce il definitivo tramonto di una
tecnica del modello di base, strettamente correlato con l'abbandono di una unica metapsicologia di
riferimento, riteniamo preferibile l'operazione unificante proposta da Gill sulla base di un modello più
generalizzato. Abbiamo individuato alcuni parametri di questo modello di base, che svilupperemo in questo
capitolo: 1) la valutazione diagnostica in termini di qualità e livello evolutivo dell'organizzazione gerarchica
delle funzioni nel corso dello sviluppo, nonché della presenza di tendenze inconsce alla ripetizione di
strategie relazionali disadattive; 2) la definizione degli obiettivi terapeutici in termini di riorganizzazione
della regolazione affettiva e di una maggiore flessibilità delle strategie relazionali; 3) l'interpretazione di
significati affettivi impliciti (cioè non esplicitamente presenti alla coscienza) come strumento tecnico
fondamentale; 4) la relazione transfert-controtransfert come esperienza generata dal lavoro analitico, che
diventa palestra di trasformazione se opportunamente utilizzata.
2.2 La valutazione psicodinamica: il setting e la tecnica del colloquio

Il problema della diagnosi coinvolge una complessiva visione del metodo conoscitivo e terapeutico della
psicoanalisi: nella misura in cui la cura implica un'acquisizione di conoscenze e una comprensione del
funzionamento psichico del paziente reciprocamente condivisa fra questo e il terapeuta, gli stessi colloqui
di valutazione diagnostica devono necessariamente avvalersi della attiva collaborazione del paziente e
acquistano una finalità terapeutica. Kohut metteva in guardia gli analisti dal creare configurazioni coerenti e
significative per mezzo di un'abile manipolazione degli innumerevoli singoli dati e indicava come specifico di
un atteggiamento diagnostico coerente con il metodo della cura psicoanalitica la capacità di rimandare le
definizioni, di applicarle solo in via provvisoria, di osservare le reazioni dell'analizzando alle nostre proposte
interpretative, e di tenere in considerazione la più grande varietà di spiegazioni possibile. Freud
raccomandava di selezionare accuratamente i pazienti, ai fini di un buon esito del trattamento, sulla base di
una serie di indicatori: l'esclusione di categorie diagnostiche come le psicosi, gli stati confusionali e la
depressione profonda, l'assenza di fenomeni pericolosi che richiedevano una eliminazione più rapida dei
sintomi, ma anche l'esistenza di una domanda spontanea basata sulle sofferenze personali del paziente.
Freud affermava che un'accettazione solo provvisoria del paziente, orientata a compiere un sondaggio per
conoscere il caso e per decidere se era adatto alla psicoanalisi, poteva ridurre eventuali errori di valutazione
e soprattutto permettere al paziente di interrompere il lavoro senza la penosa impressione di un tentativo
di guarigione fallito. Riteneva peraltro del tutto legittima una motivazione diagnostica del terapeuta e si
limitava a raccomandare che fin dall'inizio venissero seguite le regole della cura psicoanalitica, limitando il
proprio atteggiamento interpretativo ai chiarimenti strettamente indispensabili.

Fin dalle origini, dunque, un approccio psicodinamico alla consultazione o ai colloqui iniziali di valutazione
clinica si configura come una ricerca di dati relativi al profilo anamnestico e all'attuale contesto relazionale
del paziente, con una particolare attenzione agli aspetti motivazionali e alle capacità introspettive; la
tecnica del colloquio appare fondata sui due pilastri della tecnica terapeutica, cioè le libere associazioni del
paziente e l'attenzione liberamente fluttuante dell'analista. La sospensione dell'attività direttiva da parte
del clinico è la condizione indispensabile al manifestarsi delle prime reazioni transferali del paziente: su
questo tipo di fenomeni deve centrarsi la valutazione, poiché costituiscono il più chiaro messaggio circa i
conflitti inconsci del paziente. Obiettivo principale della valutazione, nel modello tradizionale della tecnica
psicoanalitica, è quello di selezionare i pazienti sulla base della loro analizzabilità. Con l'ampliarsi degli
ambiti di applicazione e con la crescente flessibilità della tecnica di base, i criteri dell'analizzabilità si
spostano da limiti più strettamente connessi alla gravità della psicopatologia a fattori relativi alla qualità
della relazione umana: le motivazioni terapeutiche e anti-terapeutiche del paziente diventano oggetto
privilegiato di indagine, in relazione alle motivazioni per cui quel particolare analista potrebbe prendere in
terapia quel particolare paziente. Greenson elenca una serie di criteri di analizzabilità: il livello di
funzionamento sociale e la flessibilità dei meccanismi di difesa; la qualità delle relazioni interpersonali e la
capacità di assumersi responsabilità nei fallimenti relazionali; la tolleranza e la modulazione degli stati
affettivi; l'attenzione per i propri stati mentali e per i conflitti interni, nonché la capacità di controllare gli
impulsi; la motivazione a sostenere i costi emotivi della cura; la possibilità di provare piacere e di essere
soddisfatti di sé almeno in alcune circostanze.

Le coordinate teorico-tecniche proposte da Gill, Newman e Redlich per il primo colloquio sono le stesse che
ritroviamo in formulazioni più recenti come l'intervista strutturale di Kernberg o il colloquio per una
diagnosi psicodinamica operazionalizzata. Il filo conduttore di questo approccio al colloquio di valutazione
consiste nel tentare una mediazione fra le esigenze oggettivanti di una raccolta di dati che siano in qualche
modo confrontabili sia tra diversi operatori sia fra diversi momenti del percorso terapeutico e le esigenze
soggettive dell'intervistatore di favorire il dispiegarsi spontaneo delle dinamiche relazionali nella situazione
clinica allo scopo di valutare la motivazione terapeutica e la qualità della collaborazione dell'intervistato a
un eventuale trattamento. Gli autori indicano quattro principali determinanti di un primo colloquio: 1) la
struttura di personalità di entrambi i partecipanti, cioè quei fattori che potremmo oggi definire come i
modelli operativi che si attivano in una situazione relazionale di questo tipo sulla base di aspettative,
motivazioni e strategie interpersonali di base; 2) il modo in cui ciascuno di loro considera il proprio ruolo e
quello dell'altro, cioè le componenti cognitivo-emotive della particolare relazione transfert-controtransfert
attivata da questo specifico campo interattivo; 3) gli obiettivi (consci e inconsci) che ciascuno dei due
persegue; 4) la tecnica utilizzata dall'intervistatore, che include i suoi riferimenti teorici ma anche la
relazione che lo psicologo clinico ha con la sua formazione e la sua professione.

Il colloquio diagnostico modificato, nella formula tecnica definita da Gill e collaboratori, affida al clinico la
responsabilità di condurre il colloquio secondo la propria teoria, tenendo conto che tutto ciò che accade nel
colloquio accade nell'ambito della relazione terapeuta-paziente e può essere compreso solo in termini di
quella relazione. In stretta connessione con gli obiettivi conoscitivi dello scambio comunicativo (la natura
del disturbo, la motivazione al trattamento, la capacità di collaborare e gli eventuali fattori della vita del
paziente che potrebbero facilitare od ostacolare un successivo percorso terapeutico), gli autori indicano
due obiettivi che potremmo definire interattivi e che ritroviamo in tutta la letteratura più moderna sul
colloquio psicodinamico finalizzato a una valutazione per la psicoterapia: a) condividere, ed eventualmente
rinforzare, le motivazioni consce e inconsce della richiesta di aiuto e b) ottenere un primo feed-back dal
paziente in risposta alle prime interpretazioni formulate nel corso del colloquio.

Gli interventi del clinico, sintonizzati sulla situazione attuale, possono attirare l'attenzione del paziente
verso gli aspetti fantastici della sua vita mentale o verso esperienze del passato e costituire un potente
stimolo per l'inconscio. Thoma e Kachele suggeriscono che un'accurata analisi dei codici sociali e linguistici
delle comunicazioni verbali di un paziente di estrazione sociale o culturale diversa da quella del clinico può
ridurre le distanze attese da entrambi i partecipanti al colloquio con un attivo venire incontro da parte
dell'intervistatore: pazienti psicosomatici, per esempio, o di bassa estrazione sociale, hanno bisogno di
trovare un accordo iniziale su un livello concreto di comunicazione per accedere più tardi ai significati
affettivi. Kernberg propone una sorta di traccia semi-strutturata per il colloquio diagnostico, che può
estendersi fino a coprire anche due o tre colloqui prima di dell'inizio del vero e proprio contratto
terapeutico: la definizione di intervista strutturale proposta dall'autore, evidenzia che l'obiettivo è valutare
la struttura di un'organizzazione di personalità, piuttosto che produrre una classificazione sindromica. Con
questo obiettivo, la tecnica del colloquio diagnostico è centrata sull'applicazione di ipotesi specifiche circa il
tipo di relazione transferale precoce che l'intervistato mette in atto nel corso del o dei colloqui iniziali,
costruite sulla base di un'osservazione puntuale delle interazioni comunicative verbali e non verbali: le
modalità in cui un soggetto risponde alle domande più generali circa il motivo del colloquio, la natura e le
possibili cause delle sue sofferenze e infine la natura degli affetti e delle esperienze che lo legano alle
persone significative della sua vita, diventano anche i dati da indagare per inferire la natura del legame che
quella persona sta costruendo con l'intervistatore e che probabilmente trasferirà successivamente nel
setting psicoterapeutico. Kernberg, inoltre, suggerisce di utilizzare le risposte del paziente a confrontazioni
e interpretazioni da parte del terapeuta come validi indicatori prognostici per la scelta fra psicoanalisi e
psicoterapia, o fra psicoterapia espressiva e supportiva. Più recentemente, l'intervista strutturale è stata
ulteriormente elaborata nella forma di colloquio proposta dagli autori della diagnosi psicodinamica
operazionalizzata (OPD), le cui linee-guida sono formulate in modo da rispettare le esigenze di un primo
colloquio analitico e dell'intervista strutturale, perseguendo l'obiettivo di condurre una esplorazione
psichiatrica accanto alla costruzione di ipotesi psicodinamiche, con un particolare riguardo per la storia
delle relazioni interpersonali del soggetto. Così il colloquio OPD si presenta come un colloquio aperto nella
fase iniziale, dove l'unico limite è dato dal tempo e dalla richiesta di aiuto; successivamente, il clinico dovrà
collaborare a strutturare il colloquio secondo le dimensioni diagnostiche rilevanti: dalle dinamiche
motivazionali che caratterizzano le relazioni del paziente con gli altri al tipo di esperienza di sé e dei propri
disturbi o problemi di adattamento, fino alla motivazione e alle aspettative specifiche nei confronti di una
psicoterapia. Per quanto riguarda l'articolazione del colloquio, l'intervistatore è invitato a seguire gli
argomenti introdotti dal paziente, invitandolo in alcuni casi ad approfondirli. La valutazione psicodinamica
effettuata nel corso di alcuni colloqui diagnostici è indispensabile per decidere quali condizioni proporre a
un determinato paziente per l'eventuale prosecuzione del lavoro esplorativo in un vero e proprio contratto
psicoterapeutico: tali condizioni, che corrispondono a quegli elementi del contratto definiti come
componenti del setting analitico, assumono un valore fondamentale per lo svolgimento del processo stesso,
nella misura in cui costituiscono i confini del campo bi-personale in cui si svolgeranno le successive
interazioni fra paziente e analista. La frequenza e la durata delle sedute, l'uso del divano o della poltrona, la
lunghezza del trattamento e le modalità di regolare il pagamento costituiscono una sorta di imprinting alla
matrice relazionale che si attiverà nel corso della terapia: Gill insiste sull'opportunità che l'analista consideri
attentamente le circostanze di realtà in cui si stipula il contratto e che le decisioni relative al tempo e al
denaro siano decisioni da prendere insieme. Vari autori, fra cui Gill e Casement hanno sottolineato la
necessità che l'analista controlli il più possibile ciò che egli stesso introduce nello "spazio analitico"; poiché
ogni suo contributo all'interazione con il paziente può favorire la possibilità di analizzare ciò che sta
accadendo nella relazione analitica, oppure può far deviare l'analisi e creare confusione nella comprensione
analitica. Per "spazio analitico", Casement intende riferirsi a quello "spazio interno" che l'analista riserva
nella propria mente al paziente e che dovrebbe manifestarsi nel corso del lavoro come capacità di
sospendere il giudizio e mantenere costantemente aperta la riflessione sul materiale offerto dal paziente.

2.3 Le libere associazioni e i sogni del paziente: i significati affettivi delle narrazioni

Una volta presa la decisione di intraprendere un lavoro psicoterapeutico e stabilite concordemente le


condizioni di setting in cui si svolgerà il lavoro, la tecnica psicoanalitica prevede l'applicazione di due regole
fondamentali: la comunicazione verbale di associazioni libere da parte del paziente e l'ascolto guidato da
una attenzione liberamente fluttuante da parte del terapeuta. Freud definiva il corretto atteggiamento
analitico come un'attenzione costante ma non focalizzata e precisava che esso costituisce il corrispettivo
della regola psicoanalitica fondamentale enunciata per l'analizzato. E' opportuno precisare il significato
clinico del concetto di associazione libera, ancora oggi utilizzato in un'accezione modificata relativamente al
mutato paradigma teorico. Nella originaria definizione freudiana, la proposta innovativa del fondatore della
psicoanalisi era di considerare un principio-guida delle associazioni fra contenuti mentali diversi che non
fosse riconducibile alla coscienza, ma che esprimesse piuttosto le spinte motivazionali inconsce, orientate
dalle emozioni e dai conflitti affettivi. Le successive elaborazioni del concetto in termini metapsicologici
suggerivano che, se il paziente si lascia andare a dire ciò che gli viene in mente, si produce in lui una
regressione al servizio dell'Io, per cui il suo pensiero si sposta così verso il processo primario.

Gill sottolinea che le associazioni del paziente sono invariabilmente guidate dall'interazione con lo stesso
analista: il filo conduttore che collega i racconti e le riflessioni prodotti in analisi è da ricercare nell'esigenza
di quel paziente di comunicare qualcosa a quell'analista in quello specifico contesto relazionale che è la
situazione terapeutica presente in quella fase dell'analisi. Ciò implica che i contenuti delle verbalizzazioni
saranno organizzati secondo le modalità comunicative del paziente, ma anche in sintonia con le modalità
interattive dell'analista. Vari autori hanno notato che da sempre l'ascolto analitico ha selezionato semi-
automaticamente quelle componenti drammatiche nelle narrative dei pazienti, che tendono a ripetersi
trasversalmente rispetto agli attori e ai tempi delle azioni: l'esperienza clinica insegna che gli episodi
raccontati in maniera fresca e vivace, ancorché appartengano a ricordi lontani o a sogni o a fantasie a occhi
aperti, rivelano nell'intensità della partecipazione affettiva la presenza di un'esperienza transferale. Il
termine "associazione libera", evidente eredità della psicologia associazionistica nella formazione di Freud,
oggi viene spesso sostituito dal termine "narrativa", termine che evidenzia il fatto che le produzioni verbali
dei pazienti sono per lo più racconti di episodi realmente avvenuti, oppure sognati, o immaginati, temuti o
desiderati nella vita di tutti i giorni o in situazioni particolari del passato.

Sembra che un ascolto focalizzato sullo scambio interattivo di comunicazioni consenta all'analista di
comprendere meglio i significati affettivi attivati nella relazione terapeutica in quel momento, e al paziente
di connettere le proprie narrazioni e le immagini ricordate con le emozioni e l'esperienza affettiva che
sottende tale scambio. Stern, Sander e altri definiscono la produzione delle narrative nello scambio
interattivo attuale come un processo preparatorio, che attiva la conoscenza implicita e la memoria
procedurale delle relazioni, consentendo il ripetersi di quei momenti di incontro altamente specifici e densi
di esperienza emozionale, che costituirebbero una proprietà emergente che altera il contesto soggettivo,
operando il cambiamento terapeutico. La funzione che le narrative del paziente assumono nel connettere
ricordi e riflessioni personali con gli eventi interpersonali e le esperienze affettive che caratterizzano il
processo terapeutico ci permette di riformulare il concetto di associazioni libere nei termini seguenti: man
mano che il paziente acquista fiducia nella funzione terapeutica della sua relazione con l'analista e man
mano che egli apprende, attraverso l'indagine del terapeuta, a riflettere sulle emozioni e sulle reazioni
affettive che orientano le proprie strategie selettive e organizzative in relazione agli altri, compreso il
terapeuta, i contenuti dei suoi racconti esprimeranno una crescente capacità di associare, cioè di collegare
emozioni e ricordi, affetti e pensieri, esperienze di relazioni con altri ed esperienze della relazione analitica.
Wolstein evidenzia che il ruolo terapeutico svolto dalla nuova esperienza che il paziente fa dell'altro
alimenta contemporaneamente una nuova esperienza di sé, come soggetto che ha capacità auto-
generative in quanto autore di percezioni e di significati. L'esperienza che il paziente vive in analisi,
un'espansione della conoscenza di sé, condurrebbe a una forma autentica e creativa di coscienza (collegata
a insight, letteralmente "visione interiore"), ben diversa dall'ambiziosa meta proposta come conoscenza di
se stessi e spesso fraintesa come verità su di sé. Un ruolo particolare nell'attivazione di questo tipo di
esperienza giocano i sogni che il paziente ricorda e racconta nel corso delle sedute analitiche.

La concezione del sogno che prevale nell'uso clinico contemporaneo delle narrative oniriche è più vicina alla
teoria del sogno proposta da Jung che a quella di Freud: infatti, mentre Freud riteneva che i sogni
rivelassero il loro significato affettivo solo se l'interpretazione riusciva a risalire fino ai pensieri latenti del
sogno, ignorandone il contenuto manifesto, Jung rivalutava i fenomeni onirici nella loro natura stratificata
come manifestazioni di modalità di pensiero complesse, radicate nella vita emotiva attuale dell'individuo,
ma connesse con le fantasie collettive che animano la produzione culturale dei miti. Il sogno rappresenta la
situazione emotiva di chi sogna e può essere usato clinicamente per facilitare a un paziente l'accesso alle
proprie emozioni e ai propri sentimenti verso situazioni specifiche. Walter Bonime, un analista americano
di impostazione interpersonale, discuteva per esempio la riduttività delle interpretazioni classiche dei sogni,
che, andando alla ricerca di un simbolismo sessuale, trascuravano proprio il significato affettivo espresso
nell'atmosfera narrativa e nel contenuto manifesto del sogno.

Nella teorizzazione più recente di Kohut, i sogni rispecchiano lo stato del sé: quando una persona arriva in
seduta con una condizione emotiva di irritabilità esasperata e racconta qualcosa che ha a che fare con
frustrazioni più o meno gravi subite recentemente, è anche probabile che racconti un sogno caotico, che
indica che le cose stanno andando in pezzi. Ella Sharpe, analista britannica, scrive nel 1937 un bel saggio
sull'analisi dei sogni, in cui, pur conservando l'ipotesi centrale di Freud secondo la quale i sogni
costituirebbero la via di accesso privilegiata alla fantasia inconscia e al serbatoio di ricordi ed esperienze
originate nell'infanzia del sognatore, propone di considerare i meccanismi onirici come analoghi agli
espedienti retorici con cui vengono costruite le produzioni poetiche e letterarie. La Bucci ritiene che i sogni,
come altre forme di narrazione prodotte in analisi, siano il risultato di un processo referenziale che opera
attraverso stadi successivi: 1) in un primo stadio il sognatore è preoccupato dai problemi e dagli eventi del
giorno prima e l'attivazione del sistema subsimbolico, che elabora le informazioni sensoriali ed emozionali
in maniera continua e parallela, risulta accessibile nello stato neurofisiologico del sonno REM; 2) si attiva
così uno schema emozionale, che fa parte delle strutture di significato inconsce già organizzate nella mente
del sognatore e che seleziona le immagini più adatte alla rappresentazione simbolica di quei significati:
questo è il processo di simbolizzazione, che opera attraverso unità discrete e fornisce significato simbolico
agli schemi (dissociati) il cui significato era andato perduto; 3) a questo punto le immagini discrete del
sogno manifesto possono essere verbalizzate e il processo di simbolizzazione continua il suo lavoro di
connessione organizzando le rappresentazioni oniriche non-verbali secondo i principi organizzatori del
sistema verbale, che includono l'imposizione di una struttura sintattica, la sequenzialità degli episodi e delle
immagini, nonché una varietà di espedienti narrativi e comunicativi. Il sogno acquista una funzione
comunicativa che va contestualizzata, come le altre comunicazioni verbali del paziente all'analista,
nell'ambito della relazione terapeutica. Il sogno è un pensiero con una modalità speciale, rivolto a funzioni
di adattamento e di problem solving, che ha la peculiare funzione di comunicare emozioni e riflessioni allo
stesso sognatore, nella misura in cui il messaggio si forma al di fuori dei suoi processi coscienti. Nella
psicoterapia, i sogni che il paziente racconta possono costituire messaggi che indicano al terapeuta che
cosa preoccupa il paziente, cioè quale sarebbe il focus problematico che il paziente vorrebbe trattare, ma
che non si sente pronto ad affrontare a livello conscio; oppure può presentare un'immagine che il paziente
ha del terapeuta e che non ha il coraggio di esprimere apertamente. In tutti i casi, è possibile ritenere che il
paziente si serva inconsapevolmente del racconto dei sogni come di una forma comunicativa per
trasmettere all'analista quali siano i suoi bisogni di cura e quali le sue aspettative o i suoi timori nei
confronti del lavoro terapeutico.

2.4 Interpretazione e costruzione: gli interventi dell'analista

La logica della tecnica interpretativa è estremamente lineare: il paziente presenta del materiale guidato,
suo malgrado, dai nessi associativi degli affetti inconsci; il terapeuta, raccogliendo senza pregiudizi tutti gli
elementi, ne può gradualmente selezionare i significati inconsci prevalenti, grazie alle proprie ipotesi
relative allo sviluppo e all'etiopatogenesi delle nevrosi; a questo punto, l'analista è in grado di fornire a sua
volta al paziente la ricostruzione più appropriata degli eventi e delle reazioni emozionali vissute dal
paziente nel suo più lontano passato. La ricostruzione delle origini di quegli stessi conflitti infantili caduti
nell'inconscio che hanno alimentato le difficoltà di adattamento, dovrebbe consentire al paziente di
ripristinare a livello conscio le corrette catene associative e facilitare una ricanalizzazione delle risorse
affettive e cognitive nelle funzioni di adattamento alla realtà.

Un recente saggio di revisione della teorizzazione freudiana (Macmillan 1997) mette in discussione il rigore
scientifico dei presupposti del metodo psicoanalitico, sia per quanto riguarda la presunta oggettività dei
dati ottenuti con le associazioni libere, sia per quanto riguarda validità e attendibilità del metodo in quanto
tale. L'autore denuncia in primo luogo lo scarso numero e l'insufficiente rilevanza degli studi empirici finora
prodotti a sostegno della presunta scientificità del metodo interpretativo come metodo di raccolta di dati
per la costruzione di ipotesi esplicative. Inoltre, Macmillan confuta alcune fondamentali proposizioni
freudiane sopravissute a lungo nella teoria della tecnica psicoanalitica: a) non esistono in realtà associazioni
libere, poiché la formulazione dell'intervento da parte dello sperimentatore o la semplice presenza di
un'altra persona nella stanza influenzano le associazioni libere prodotte; b) l'attendibilità
dell'interpretazione risulta messa in discussione dagli studi sulla mancanza di accordo fra psicoanalisti che
fanno ricorso a diverse teorie circa i fattori causali della psicopatologia; c) la validità di contenuto
dell'interpretazione, che Freud tentava di sostenere con il ricorso alla metafora archeologica, risulta in
realtà smentita sulla base della constatazione che non esiste un secondo scritto che consenta di misurare la
corrispondenza della nuova trascrizione rispetto a un altro test già decodificato in una lingua nota, e
dunque non possono esistere regole per l'interpretazione; d) il tentativo di restituire validità al metodo
interpretativo sulla base di criteri di appropriatezza e coerenza narrativa propri della prospettiva
ermeneutica non risolve il problema dell'accuratezza della spiegazione proposta; questo rinvia a sua volta
alla soggettività nella selezione dei dati scelti per determinare l'accuratezza di una certa spiegazione
rispetto a un'altra.

L'evoluzione della teoria della tecnica, con lo spostamento progressivo dell'attenzione sugli elementi
relazionali del contesto terapeutico, condusse a una moltiplicazione dei criteri di adeguatezza clinica
dell'interpretazione. In un famoso articolo, Strachey segnalava le interpretazioni di transfert come le uniche
mutative rispetto agli assetti mentali e affettivi del paziente e suggeriva di considerare tutti gli altri tipi di
interpretazione solo degli ausilii, da usare con parsimonia, onde rendere più precisa e più efficace
l'interpretazione del transfert, considerata strumento principe della tecnica analitica. La tesi principale a
sostegno di questa raccomandazione tecnica poggiava sulla definizione del compito del terapeuta in termini
di un Super-io ausiliario: se l'analista fosse stato in grado di cogliere le identificazioni transferali che il
paziente gli attribuiva, avrebbe permesso di depotenziare l'angoscia persecutoria o colpevole che quei
sentimenti richiamavano dalle fantasie inconsce dell'infanzia, consentendo all'analizzato di accedere a una
distinzione fra relazioni con oggetti interni e relazione attuale con l'analista.

Nella psicologia dell'Io, se da una parte Eissler ribadiva che solo l'interpretazione poteva considerarsi un
intervento corretto da parte del terapeuta in una tecnica psicoanalitica, dall'altra veniva raccomandato agli
analisti di procedere con cautela nel porgere le interpretazioni, muovendo dalla superficie (cioè
interpretare inizialmente i processi adattivi peculiari del soggetto, poi i suoi meccanismi di difesa strutturati)
verso il profondo (solo successivamente ri-costruire i conflitti affettivi attuali e le loro radici nei conflitti
nucleari dell'infanzia). Nella prospettiva della loro ricerca sullo sviluppo del riconoscimento di una realtà
psichica nel bambino fra i due e i tre-quattro anni, Fonagy e Target hanno evidenziato l'importante ruolo
che il riconoscimento della finzione e del fatto che persone diverse possano avere diverse opinioni anche
sulla stessa realtà esterna svolgono nello sviluppo di una teoria della mente nei bambini: la teoria della
mente si costruirebbe, nel bambino come nel paziente adulto, grazie alle ripetute interazioni con un
caregiver o con un terapeuta che siano in grado di attribuire significati soggettivi, interpretando l'esperienza
psichica del bambino o del paziente. Sono queste interazioni che creano un collegamento fra una modalità
di percepire l'altro come oggetto in un mondo fatto solo di oggetti concreti (la modalità dell'equivalenza fra
rappresentazioni mentali e percezione sensoriale) e una modalità in cui la propria vita mentale viene
riconosciuta come totalmente separata dall'altro e come prigioniera di un mondo fantastico (la modalità
della finzione). Si crea cioè, attraverso le interpretazioni dell'analista come attraverso le attribuzioni del
genitore, quella dimensione simbolica dell'esperienza emozionale che Winnicott definiva transizionale e
che gli autori contemporanei preferiscono descrivere come quella capacità di "mentalizzazione" che
consente agli esseri umani di riflettere sui propri pensieri e di mettersi nei panni degli altri.

La posizione più marcatamente interattiva nella discussione del significato della interpretazione e della sua
applicazione tecnica è quella di Gill e di Hoffman: considerando cioè il metodo terapeutico della psicoanalisi
come un processo di apprendimento attraverso la decodifica di significati affettivi non riconosciuti,
l'interpretazione è un'attività di selezione ed elaborazione delle informazioni reciprocamente scambiate
che avviene, sia pure a diversi livelli di consapevolezza, in entrambi i partecipanti alla relazione analitica.
Dunque anche il paziente può considerarsi un interprete dell'analista, anche se, nell'accezione ristretta del
termine tecnico, interpretare è compito esclusivo del terapeuta. Per evitare un approccio stereotipato al
lavoro analitico, quello cioè basato sull'applicazione della teoria esplicativa al singolo caso clinico, è
necessario che il terapeuta proceda nell'interpretazione seguendo strategie euristiche, e cioè aggiornando
continuamente le ipotesi costruite sulla base dei propri modelli teorici grazie ai continui feed-back del
paziente: in questo caso, l'interpretazione sarà rivolta a facilitare un processo in cui analista e paziente
collaborano per comprendere sempre meglio il paziente stesso. Nella nuova concettualizzazione la
neutralità dell'analista risiede esclusivamente nel suo livello di consapevolezza di quanto sta accadendo
nella relazione terapeutica e nella sua intenzione di esplicitarlo all'analizzato: l'interpretazione, nella misura
in cui comunica tale consapevolezza, resta il veicolo privilegiato della funzione neutrale dell'analista, pur
rappresentando al contempo uno strumento di manipolazione, involontaria ma inevitabile, della relazione
terapeutica. L'interpretazione diventa una co-costruzione dei due partecipanti alla relazione, poiché è
costruita sulla base degli apporti di entrambi allo scambio affettivo-cognitivo che chiamiamo relazione
terapeutica. L'analista non ha una conoscenza precostituita che gli permetta di distinguere fra oggetti
vecchi e oggetti nuovi nell'esperienza del paziente; l'interpretazione è appunto efficace proprio perché
consente una ricerca congiunta sulle somiglianze e differenze fra esperienze di transfert ed esperienze
passate: paziente e terapeuta collaborano nella ricostruzione di una continuità storica.
2.5 La relazione transfert-controtransfert

La scoperta dei fenomeni transferali (clinicamente rilevati come risposte emozionali impropriamente rivolte
all'analista) avvenne per caso fin dal primo trattamento ipnotico riportato negli "Studi sull'isteria", grazie
alla gravidanza isterica sviluppata da Anna O. nel corso della cura con Breuer. Sia nella versione freudiana
che in quella kleiniana del transfert il concetto risulta strettamente ancorato a quello di ripetizione di affetti
e di fantasie relazionali vissute dal paziente nella sua storia personale trascorsa: la comparsa di reazioni
transferali di una certa intensità emotiva è collegata tradizionalmente con una regressione del paziente e
dunque con il raggiungimento di una fase relativamente avanzata del processo terapeutico. La definizione
del transfert propone un primo paradosso: si tratta di un vissuto antico del paziente, eppure assume un
significato e una funzione nel qui-e-ora della relazione analitica. Una delle più brillanti intuizioni cliniche di
Freud fu la scoperta della natura ripetitiva degli affetti e delle reazioni di tipo automatico e abituali; nello
stesso tempo, lo stesso padre della psicoanalisi pulsionale cominciò a rilevare la funzione adattativa e
terapeutica dei comportamenti ripetuti. Un secondo paradosso di questo concetto consiste nel fatto che il
transfert è considerato la resistenza più forte e più difficile da superare nel lavoro analitico e, nello stesso
tempo, come il campo decisivo nel quale compiere l'analisi. Greenson, da un lato segnala il nesso
significativo fra transfert e regressione terapeutica controllata, dall'altro parla della funzione difensiva di un
transfert ego-sintonico che impedirebbe l'attivazione e il riconoscimento di emozioni regressive nella
situazione analitica. Il transfert è stato identificato come una resistenza nella misura in cui offre un agire
all'osservazione dell'analista, invece delle libere associazioni prescritte come compito analitico
all'analizzando; d'altra parte, le reazioni transferali portano nel campo osservativo dell'analisi proprio quelle
esperienze affettive inaccessibili al ricordo e al riconoscimento. Il termine "acting out" è stato spesso usato
solo per indicare le ripetizioni patologiche che si manifestano attraverso agiti o comportamenti, una
cosiddetta messa in atto, per lo più al di fuori del setting psicoterapeutico. Nell'accezione originaria di
Freud, tuttavia, questo termine ha piuttosto il senso di ciò che oggi definiamo "attualizzazione" di
un'esperienza emotiva, che non comporta necessariamente il ricorso all'azione motoria. Gli analisti inglesi
hanno introdotto il termine "enactment" per sottolineare che il paziente, oltre a dire qualcosa, fa qualcosa
nei confronti dell'analista, e così esprime le sue esperienze traumatiche, i suoi bisogni affettivi ecc. A questa
seconda contrapposizione se ne lega una terza, che è la contrapposizione freudiana fra "transfert positivo"
(caratterizzato da sentimenti sublimati d'amore e favorente il mantenimento della relazione terapeutica,
dunque da incoraggiare e da non interpretare) e "transfert negativo" (caratterizzato da sentimenti negativi,
come odio, rabbia, invidia nei confronti del terapeuta, oppure dalla trasformazione dell'amore in un
desiderio erotico, in entrambi i casi potente ostacolo al proseguimento del lavoro analitico). Per meglio
rendere conto della contemporanea presenza di funzioni adattive e difensive dell'Io del paziente nella
relazione terapeutica, Greenson preferiva distinguere l'insieme dei sentimenti positivi orientati al compito
adattivo dell'analisi e alla collaborazione con l'analista, da lui definito "alleanza di lavoro" dalle reazioni
transferali nevrotiche, che, in quanto portatrici di conflitti e di patologia, risulterebbero improprie e di
ostacolo al lavoro terapeutico.

La definizione del controtransfert ha subito vicende analoghe: la contrapposizione rappresenta quelle


reazioni emotive improprie che l'analista sperimenta e agisce inconsciamente nella relazione analitica in
quanto derivanti dai conflitti non risolti del proprio passato. Troviamo un precoce ampliamento del
concetto di controtransfert in un saggio di Reich: l'autrice riportava il caso di un analista, la cui analisi
personale aveva messo in luce motivazioni narcisistiche e un patologico legame simbiotico con la madre
all'origine dei suoi interessi per la medicina e poi per la psicoanalisi. Annie Reich così concludeva: il
controtransfert è un requisito indispensabile per l'analisi; se non è presente mancano il talento e l'interesse
necessario, esso deve però rimanere in ombra e sullo sfondo. Successivamente anche per il controtransfert
viene accentuata la dimensione relazionale, indicandone il valore come strumento di ricezione delle azioni
emotive proposte dall'analizzando nel transfert: viene così identificata nel controtransfert, accanto alla
funzione difensiva che può comportare il ricorso a difese patologiche da parte dell'analista, una funzione
relazionale che induce nel terapeuta risposte affettive specifiche alle comunicazioni affettive del paziente.
Tali risposte possono essere di natura simile ai vissuti del paziente oppure di natura simmetrica: nel primo
caso, Racker le attribuisce a una identificazione concordante con l'analizzando, che peraltro è la base della
comprensione; nel secondo, a una identificazione complementare con l'oggetto proiettato dal paziente sul
terapeuta.

In un articolo lo psicoanalista americano Schafer discute gli aspetti intersoggettivi dell'esperienza del
controtransfert, proponendosi di esaminare, quanto le stimolazioni-provocazioni indotte dal paziente
sottopongano a continui rimaneggiamenti il funzionamento della memoria dell'analista. Schafer conclude
invitando i colleghi a focalizzare l'attenzione sulla propria involontaria attività di selezione nel ricordare i
temi portati dal paziente, onde esplorare con maggiore accuratezza le strategie interpersonali che quel
paziente privilegia: i pazienti, infatti, tenderebbero a limitare anche il funzionamento autonomo della
memoria del terapeuta, inducendolo a ricordare meglio specifici elementi passati e presenti del loro lavoro
comune. Tale descrizione della dinamica della relazione terapeutica risulta quasi sovrapponibile a quella
che viene proposta dall'interpersonalista Mitchell con il concetto di "matrice relazionale": le esperienze
affettive e trasformative che avvengono fra i due partecipanti al dialogo psicoanalitico nel corso del
processo sono il risultato degli scambi interattivi organizzati sulla base dei rispettivi modelli relazionali,
stratificati nel tempo, che costituiscono la realtà psichica di ciascuno di noi. La teorizzazione più chiara di
questa visione moderna della relazione transfert-controtransfert si trova nel libro di Gill sull'analisi del
transfert e in un articolo di Hoffman. Entrambi sottolineano che transfert e controtransfert si costituiscono
nel corso della terapia in una relazione circolare e reciproca, mescolando insieme elementi intrapsichici
originati nelle rispettive storie personali con elementi interpersonali costruiti nella reciproca esperienza
delle interazioni attuali.

Gli affetti positivi e negativi, continuamente presenti nelle vicende interattive che organizzano le
motivazioni e le azioni interpersonali del paziente e del terapeuta, possono risultare congrui o viceversa
incongrui rispetto al patto terapeutico stabilito dal contratto iniziale. Modell descrive, per esempio, la
riattivazione nel transfert di categorie affettive incongrue e conflittuali che conducono a un'assenza di
comunicazione da parte del paziente, e ne indica un significato interattivo come richiesta al terapeuta di
funzionare da "protesi". E' compito del terapeuta uscire periodicamente dalla propria immersione nella
relazione emozionale transfert-controtransfert attraverso l'atteggiamento interpretante, che, con il ruolo di
"osservatore partecipe", gli consegna la responsabilità ultima della comprensione dei significati prodotti
dalle interazioni nella mente del paziente e delle dinamiche relazionali nella coppia analitica. Tale
atteggiamento implica una posizione empatica nell'accezione kohutiana del termine, nel senso cioè di
pensare e sentire se stessi nella vita interiore di un altro.

Gli studi sulle interazioni comunicative, nonché le nostre attuali conoscenze sul funzionamento dei processi
cognitivi e delle strategie interpersonali, hanno dimostrato l'irriducibilità della soggettività dell'analista. E'
praticamente impossibile distinguere, in una specifica interazione con l'analizzando, quanto della risposta
dell'analista sia informato soltanto dal materiale analitico di quel paziente e quanto derivi da pensieri,
affetti, ricordi, aspettative personali e professionali di cui in quel preciso momento comunque l'analista non
ha né può avere consapevolezza. Resta comunque il fatto che il terapeuta si trova a rispondere
soggettivamente alle comunicazioni del paziente, proprio come quest'ultimo risponde soggettivamente agli
interventi del terapeuta: ciò implica la possibilità di un controllo reciproco della dimensione soggettiva
grazie alla ricerca del consenso fra i due interlocutori, che diventa un obiettivo primario dell'analista in
questo modello tecnico. Il recupero di una dimensione oggettiva nell'esperienza affettiva che l'analista fa di
un particolare paziente rimanda a un'accezione pragmatica di oggettività: Gill considera possibile oggetto di
verifica la negoziazione continua dei significati affettivi nella reciproca esperienza della relazione; Renik
evidenzia come, se i due co-partecipanti si accordano sugli obiettivi negli scambi comunicativi, l'analista
sarà in grado di mettere in relazione l'esperienza soggettiva con ciò che osserva nella situazione; Aron
sottolinea che l'esistenza di una teoria e di un modello formativo nella mente dell'analista, assolvendo la
funzione di terzo nella coppia terapeutica, consente appunto di trovare una prospettiva esterna che
considera ciascuno dei due partecipanti un oggetto per l'altro.

2.6 Le resistenze al cambiamento e i fattori terapeutici

Nella tecnica classica il concetto di "resistenza" (nel senso letterale di "movimento oppositivo") è coerente
con la teoria etiopatogenetica, che vede il conflitto intrapsichico all'origine delle nevrosi: le difese
strutturate dal paziente contro gli impulsi si manifestano nel corso della cura opponendosi al cambiamento.
Freud aveva introdotto il concetto di resistenza in relazione al "non voler ricordare" delle pazienti isteriche.
Successivamente collegò la resistenza alle manifestazioni di transfert e al ripetere come sostituto dei
ricordi: a questo proposito, Freud giustificava tali resistenze sottolineando la pericolosità del metodo
psicoanalitico che poteva far riemergere situazioni sintomatiche o aprire il varco a nuovi moti pulsionali che
fino a quel momento non erano stati avvertiti.

Nel saggio di Gill sul transfert, l'autore riporta il concetto di resistenza al lavoro interpretativo sul transfert.
Nella misura in cui, il transfert risulta pervasivo nella relazione analitica, anche le manifestazioni di
resistenza alla terapia possono essere raggruppate in tre grandi categorie: la resistenza alla presa di
coscienza del transfert, la resistenza alla risoluzione del transfert e infine la resistenza al coinvolgimento nel
transfert. Mentre quest'ultima corrisponde a un rifiuto totale di entrare nella relazione analitica, la prima
forma di resistenza corrisponde alle strategie relazionali che il paziente mette in atto per non riconoscere i
pensieri e le reazioni emotive relative all'analista e al suo comportamento e la seconda corrisponde invece
all'ostinazione con cui il paziente, una volta riconosciute le proprie reazioni transferali, le attribuisce
esclusivamente all'interazione analitica, evitando di riconoscerne il carattere illusorio e di ricollegarle con le
proprie strategie più antiche. Dal punto di vista tecnico, per superare l'impasse creata dalle resistenze, è
necessaria la rielaborazione, che dovrebbe consentire al paziente di transitare dall'insight al cambiamento.

Il termine "rielaborare" (in inglese "to work through") fu introdotto da Freud nei suoi scritti sulla tecnica
accanto a "ricordare" e "ripetere" per descrivere gli elementi fondanti della cura psicoanalitica intesa come
una battaglia contro la rimozione. Come l'insight causato dall'interpretazione può modificare i ricordi di un
paziente in un determinato momento, la rielaborazione, frutto di cicliche esperienze di ripetizioni di
transfert e di interpretazioni delle stesse, giunge a modificare gradualmente ciò che viene ripetuto. Vari
autori hanno infatti sottolineato come quella parte del lavoro analitico che ancora oggi viene definito
"working through" si rivolga più specificamente a un processo di rielaborazione del passato che trasforma la
ripetizione in ri-creazione o in ri-trascrizione.

Gli studi sulla tecnica psicoanalitica hanno gradualmente spostato l'attenzione dall'insight come principale
fattore di cambiamento all'esperienza di una efficace regolazione affettiva reciproca come fattore
determinante per il consolidamento del senso di identità e la riorganizzazione di un Sé non adeguatamente
sviluppato. Anche la ricerca empirica sullo sviluppo delle motivazioni e della mente nella prima infanzia,
d'altra parte, ha contribuito a segnalare l'importanza della regolazione diadica degli affetti per
un'armoniosa costruzione del senso di Sé, indicando il fattore esperienziale come probabile nucleo
fondante del processo terapeutico. Balint affermava che il nuovo orientamento della tecnica, che egli
definisce "orientamento alla relazione oggettuale, consisteva nel prestare attenzione, accanto ai contenuti
delle libere associazioni , agli elementi formali del comportamento del paziente nella situazione analitica,
intendendo per formali sia gli aspetti rituali che quelli non verbali delle interazioni terapeutiche. Pochi anni
dopo, Winnicott, distinguendo fra i pazienti tradizionalmente analizzabili e i pazienti che presentano una
patologia "falso Sé", suggeriva che non è necessario alterare la tecnica di base, ma semplicemente occorre
dare più rilievo al setting. In uno scritto degli anni Settanta, Greenson ritornava a valorizzare le esperienze
di abreazione come ripetizione di intensi affetti connessi a episodi traumatici del passato nel corso delle
sedute analitiche. Quali sono le implicazioni tecniche della rivalutazione dell'esperienza affettiva versus
l'interpretazione tra i fattori terapeutici? Dal punto di vista del paziente, il fattore "regressione terapeutica"
diventa fondamentale perché alle libere associazioni si accompagni un'effettiva esperienza di transfert, con
la ricreazione di una realtà illusoria trasformativa. Il concetto di regressione, originariamente legato al
modello freudiano dello sviluppo psicosessuale, viene ripreso dai clinici di orientamento relazionale in
connessione con una spiegazione etiopatogenetica di tipo traumatico, per cui i fallimenti ambientali hanno
dato origine a un arresto evolutivo. L'argomentazione di Winnicott a favore dell'ipotesi che sia necessaria
una regressione a una condizione di dipendenza emotiva dal terapeuta è appunto basata sull'opportunità di
utilizzare una relazione sicura con l'analista in funzione di un nuovo sviluppo del sé: questo a sua volta
porterebbe a un rafforzamento dell'Io che consentirebbe al paziente di risperimentare ed esprimere la
rabbia provocata dai fallimenti ambientali precoci, con la conseguenza di un più libero e vitale sviluppo dei
bisogni e dei desideri più genuini. Un'altra modalità di descrivere il conseguimento di un'esperienza
emozionale trasformativa all'interno della relazione terapeutica è quella proposta da Weiss: se il terapeuta
fornisce un'esperienza di sicurezza emotiva adeguata, il paziente riuscirà a esprimere le proprie angosce
patogene mettendo il suo interlocutore alla prova rispetto alle proprie convinzioni patogenetiche originate
dalle relazioni significative dell'infanzia.

Per quanto riguarda la funzione dell'analista nella relazione, viene sottolineata da più parti l'esigenza di
quel "contenimento" (holding) che Winnicott associava al modo in cui la madre tiene fisicamente in braccio
il proprio neonato, dando forma al suo corpo e alla sua mente con il proprio corpo e la propria mente.
Recentemente Stern, Sander, Nahum e altri studiosi dello sviluppo infantile, hanno ribadito che al di là
dell'interpretazione esiste un fattore non-interpretativo che produce un cambiamento terapeutico, e
questo va ricercato nell'instaurarsi di una nuova esperienza di regolazione reciproca fra paziente e analista.
Questi autori, ridefinendo come obiettivo primario di un lavoro terapeutico il progressivo ampliamento
della conoscenza procedurale implicita, fondata sulle regole dettate dalle pregresse esperienze di "essere-
con" un altro che danno vita ai cosiddetti modelli operativi interni, sostengono che la conoscenza
procedurale influenza le reazioni affettive e comportamentali in misura preponderante rispetto alla
conoscenza dichiarativa, fondata sui modelli organizzati dal linguaggio. Perché il processo terapeutico possa
risultare efficace, esso deve dare accesso al livello degli schemi semi-automatizzati con cui rispondiamo ai
problemi di adattamento relazionale proposti dalla vita quotidiana. Tale accesso, a sua volta, è subordinato
alle capacità empatiche con cui un terapeuta è in grado in quel momento di monitorare l'esperienza
affettiva di quel paziente in relazione alla propria, modificando il modo di "essere-con" previsto da modelli
disfunzionali. Alcuni autori americani, riprendendo l'enfasi posta da Sullivan sull'ipotesi che una continua
attività di esplicito monitoraggio della situazione fosse una condizione indispensabile al procedere di un
lavoro psicoterapeutico, ribadiscono che la neutralità analitica non deve spingersi a negare la
partecipazione relazionale del terapeuta alla situazione analitica. Una partecipazione collaborativa implica
che il terapeuta sia in grado di registrare le proprie reazioni a ciò che accade nelle sedute, ma anche di
sentirsi libero di percepire il paziente al di là del proprio ruolo di analista. Implica altresì che l'analista
formuli delle precise strategie per affrontare argomenti che appaiono centrali ma disturbanti e che vada poi
a verificarne gli effetti indagando esplicitamente circa le reazioni del paziente.

Mentre alcuni analisti sostengono che il mantenimento dell'anonimato favorisce l'idealizzazione del
terapeuta da parte del paziente enfatizzando la posizione di autorità del primo, altri sottolineano che,
proprio nella misura in cui la relazione è per statuto asimmetrica, lo svelamento delle opinioni dell'analista
rischia di essere considerato una sorta di autorevole verità. Aron suggerisce che in alcuni casi è il tono
interrogativo a garantire un corretto atteggiamento conoscitivo, laddove un'interpretazione chiusa sembra
esprimere un giudizio apodittico. Nella letteratura contemporanea spesso ricorre la prescrizione che
l'interpretazione, per essere correttamente connessa all'esperienza affettiva del paziente nel qui-e-ora,
deve essere empatica: Kohut, per esempio, ritiene che molti cambiamenti terapeutici non includono un
effettivo insight, nel senso di un ampliamento della coscienza, ma consistono nella costruzione di una
struttura psichica in grado di tollerare le frustrazioni ottimali e che questo avviene grazie all'esperienza del
rispecchiamento empatico da parte dell'analista. Altri autori sottolineano invece che l'empatia è un pre-
requisito per entrambe le parti, che facilita per l'analista la comprensione del paziente e per quest'ultimo
l'attivazione dei fattori terapeutici.

2.7 Gli obiettivi della cura: differenze tra psicoanalisi e psicoterapia psicodinamica

Con la nascita del metodo psicoanalitico e con la visione di molti autori contemporanei l'analisi è in primo
luogo rivolta alla cura: in quanto cura psicologica, tuttavia, non segue la logica medica della remissione
sintomatica, poiché riduttiva e ingannevole. Pone dunque al centro del procedimento terapeutico
l'attivazione di processi psicologici di tipo cognitivo e affettivo come strumenti di cura, o meglio come
obiettivi processuali. I risultati della cura, inoltre, non vengono concettualizzati come guarigione, ma
vengono descritti in modi diversi a seconda dell'impostazione teoretica: così può venire enfatizzato lo
sviluppo della creatività e delle risorse personali, o piuttosto il miglioramento delle relazioni interpersonali
e dell'adattamento all'ambiente, o ancora la capacità di tollerare i propri limiti e le frustrazioni inevitabili
della vita.

L'originaria definizione di Freud, rendere conscio l'inconscio, era legata a un modello psicopatologico
centrato sul conflitto intrapsichico fra pulsioni e difese e implicava una terapia finalizzata al disvelamento
dei contenuti rimossi, attraverso quella tecnica del levare o eliminare le sovrastrutture costituite dalla
censura e dai processi devianti di socializzazione che avevano impedito un sano sviluppo della sessualità
adulta. La successiva modifica del concetto di cambiamento, espressa come la conquista progressiva dell'Es
da parte dell'Io, era a sua volta connessa a una revisione della teoria psicopatologica in termini di
organizzazione strutturale dei conflitti pulsionali e comportava uno spostamento di accento dalla scoperta
dell'inconscio alla riorganizzazione di un equilibrio intrapsichico, effettuata attraverso l'assunzione di un
ruolo specifico da parte del terapeuta nel transfert e nello sviluppo di un'alleanza di lavoro. In un'ottica
psicodinamica moderna, il cambiamento strutturale viene considerato come una graduale evoluzione
dell'organizzazione delle soluzioni adattative, tale da indurre il paziente ad abbandonare le precedenti
soluzioni "distoniche" (cioè, fonte di sofferenza psichica) e a elaborare modi alternativi di affrontare i
conflitti preesistenti, che diventino a loro volta nuove soluzioni strutturate. La definizione teorica del
benessere psicologico e di conseguenza la meta del lavoro psicoterapeutico, si sposta dal piano dei
contenuti (l'accessibilità alla coscienza di specifici ricordi o percezioni) al piano delle funzioni (la flessibilità
delle modalità di pensiero e delle reazioni affettive in circostanze diverse). Ciò implica che l'obiettivo
terapeutico venga descritto in termini processuali, considerando aspetti diversi del processo: a) la capacità
di monitorizzare i propri pensieri tenendo presenti almeno due punti di vista (il proprio e quello
dell'interlocutore); b)una riorganizzazione delle modalità di regolazione affettiva che consenta di attenuare
le conseguenze soggettive di situazioni stressanti; c) l'attivazione di nuove risorse e di una maggiore
flessibilità nelle strategie di relazione interpersonale; d)infine, la mobilitazione di creatività e di
progettualità vitali.

Un valido indicatore per riconoscere il momento adatto alla decisione di porre fine alla cura viene
considerata la comparsa in un paziente di nuove capacità di indagine introspettiva nel corso delle sedute
analitiche, poiché tale comparsa denuncerebbe l'acquisizione di una "funzione auto-analitica", necessaria
per garantire l'avvenuto cambiamento terapeutico. Per una valutazione consensuale degli obiettivi
terapeutici raggiunti, è fondamentale considerare che il raggiungimento dell'obbiettivo di una sostanziale
espansione del Sé comporta che la conoscenza che il paziente ha di se stesso venga quasi a coincidere con il
modo in cui egli si comporta effettivamente con gli altri.

Oggi viene universalmente riconosciuta la stretta interconnessione fra interpretazione e regolazione


interattiva come fattori che concorrono al cambiamento terapeutico, mentre in passato il primato
tradizionalmente attribuito all'uso dell'interpretazione come elemento tecnicamente responsabile
dell'insight rendeva sconsigliabile l'applicazione della tecnica psicoanalitica a pazienti che non fossero
sufficientemente capaci di introspezione e di collaborazione attiva. Tali capacità risultavano connesse sia
con una minore gravità della patologia del paziente, sia con un elevato livello di motivazione consapevole;
d'altra parte, era convinzione diffusa che la cura psicoanalitica richiedesse anche caratteristiche
standardizzate del setting formale, quali una frequenza di quattro o cinque visite settimanali e l'uso del
divano, caratteristiche più facilmente compatibili con un contratto terapeutico privato. L'esigenza di
estendere l'ambito di applicazione della tecnica psicoanalitica a forme più gravi di patologia, cioè a pazienti
meno consapevoli della propria sofferenza e meno inclini a collaborare, accanto ad altre esigenze di natura
sociale e istituzionale, hanno suggerito la possibilità di adattare la tecnica a forme modificate di cura
psicologica, conservando tuttavia la specifica impronta di un atteggiamento analitico. Nascono diverse
denominazioni: la psicoterapia esplorativa di Gill, la psicoterapia psicoanalitica espressiva e la psicoterapia
supportiva del progetto Menninger, la psicoterapia dinamica breve di Weiss e Sampson, la psicoterapia
psicoanaliticamente orientata di Oremland. Se il paziente o le condizioni della sua cura non consentono lo
sviluppo di un autentico insight e di quella radicale trasformazione della personalità che dovrebbe
conseguirne, molti autori ritengono che sia opportuno abbandonare la psicoanalisi propriamente detta e
adottare una tecnica basata sul rinforzo narcisistico e sul sostegno empatico (Kohut), così da consentire al
paziente lo sviluppo di una maggiore tolleranza alla frustrazione e, di conseguenza, migliorare la sua
capacità di insight attraverso un paziente lavoro di contenimento.

Gedo e Goldberg propongono un modello di strategie terapeutiche differenziate e gerarchicamente


organizzate per rispondere alle diverse esigenze di pazienti che corrispondono ai cinque stadi evolutivi
dell'organizzazione del funzionamento mentale da loro stessi proposti: - una tecnica fondata sulla
"pacificazione", che prevede anche il ricorso a farmaci o all'uso di ambienti protetti, si rivolge ai pazienti più
regrediti, che presentano un'organizzazione psichica regolata dalla scarica immediata degli impulsi, e si
basa sulla regolarità del setting e sulle possibilità catartiche insite in ogni cura con le parole; - una tecnica
rivolta alla "unificazione" si rivolge alla psiche frammentata delle condizioni psicotiche acute, dove il
contenimento offerto dai gruppi o da tipologie di cura basate sulla continuità della relazione dovrebbe
garantire al paziente una riorganizzazione della coesione del sé; - quando il funzionamento del paziente è al
livello dei disturbi narcisistici, con il tipico rifiuto delle costrizioni della realtà, allora la tecnica deve essere
fondata sulla "disillusione ottimale", che si avvale del rispecchiamento empatico di Kohut e di un graduale
avvicinamento all'interpretazione; - solo con i pazienti più maturi, che sono caratterizzati dalla conflittualità
e dall'ambivalenza tipiche della nevrosi, diventa utile la tecnica interpretativa fondata sulla "introspezione",
che consente di pervenire a un livello ottimale di organizzazione, caratteristico del funzionamento mentale
dell'adulto sano.

In generale, la psicoterapia psicoanalitica è ritenuta compatibile con sedute meno frequenti e con l'uso
della posizione vis-à-vis, poiché si preferisce scoraggiare le tendenze regressive e dipendenti del paziente,
sottolineando le caratteristiche interattive del processo e le capacità autonome del paziente. Se da una
parte questi suggerimenti tecnici sono generalmente adottati per evitare uno scivolamento incontrollabile
verso la psicosi in soggetti particolarmente fragili nella loro organizzazione di personalità, è pur verso che
autori come Kohut e Winnicott sembrano sostenere viceversa che proprio con i pazienti più gravi sia
necessario attraversare una fase iniziale di profonda regressione per arrivare a risultati più stabili. Langs
propone delle regole generali per una "psicoterapia psicoanaliticamente orientata" suggerendo la
frequenza di una seduta settimanale solo in alcuni casi, con pazienti particolarmente rigidi o poco inclini
all'indagine psicologica; indica due sedute la settimana come la frequenza adatta a qualunque paziente
idoneo, non ospedalizzato, e infine consiglia tre sedute settimanali per pazienti con spiccate tendenze alla
messa in atto o alla regressione, per esempio a crolli psicotici, episodi panici, ma anche per pazienti con un
Io forte. Gill propone di considerare interazione e interpretazione come due poli ideali di un continuum che
comprenderebbe tutti gli strumenti della tecnica psicoanalitica. Sulla base di questa concettualizzazione, si
può definire la psicoterapia supportiva quella forma di intervento più vicina al polo interattivo, e viceversa,
si può collocare la psicoanalisi vera e propria vicino al polo interpretativo; tra queste due forme di cura si
collocherebbero le diverse varianti di quella che Gill suggerisce di chiamare "psicoterapia intermedia" e che
diventa una "psicoterapia esplorativa".

Capitolo terzo - Ricerca empirica e psicoterapia psicoanalitica

3.1 Validità e attendibilità del metodo: problemi di efficacia

In polemica con una psicologia strettamente sperimentale, Freud ha sempre sottolineato la peculiarità del
laboratorio clinico come osservatorio privilegiato per il suo campo di ricerca, assumendo un atteggiamento
diffidente nei confronti delle proposte di verifica empirica e rischiando così di chiudere le possibilità di
dialogo e di confronto scientifico con altri settori della ricerca psicologica e con altri orientamenti
psicoterapeutici. L'impostazione metodologica freudiana presenta infatti un vizio di fondo nella misura in
cui identifica nell'interpretazione sia il metodo terapeutico con cui modificare i sintomi e le disfunzioni
mentali, sia il metodo di osservazione, raccolta e organizzazione dei dati clinici su cui edificare le ipotesi
teoriche relative al funzionamento mentale normale e patologico. Nella psichiatria statunitense, invece, già
nel 1927 Sullivan auspicava che la ricerca sperimentale apportasse un valido ausilio all'arte della
psicoterapia e precisava: il campo comune fra attività di ricerca e attività clinica in psichiatria è da ricercare
nell'osservazione dei pazienti. Dal momento che l'osservazione, tuttavia, si avvale in gran parte del racconto
esperienziale, occorre tenere conto delle complicazioni e delle interferenze create dall'introduzione di
quella grande variabile che è il fattore linguistico. Si deve anche al'influenza di Sullivan sulla psicoanalisi
americana se proprio negli Stati Uniti, si sviluppa l'esigenza di sottoporre a verifica empirica la consistenza
delle ipotesi teoriche costruite nel laboratorio del "lettino analitico", nonché la validità dei risultati ottenuti
dalla riapplicazione clinica di quelle ipotesi nella diagnosi e nel trattamento psicologico delle persone
mentalmente e affettivamente disturbate. Esponente di questa esigenza è David Rapaport che, pur
rivendicando la specificità del metodo psicoanalitico come metodo storico-clinico, ribadiva tuttavia
l'appartenenza della psicoanalisi alle scienze nomotetiche, e invocava dalla ricerca fondata su osservazioni
empiriche le necessarie garanzie per i risultati della terapia psicoanalitica. Il progetto di ricerca sulla
psicoterapia portato avanti per tre decenni presso la Menninger Clinic di Topeka nacque in seguito
all'impulso che lo stesso Rapaport aveva dato alla ricerca clinica, con l'obiettivo di mettere a punto una
diagnosi psicodinamica sulla base di strumenti quantitativi e più oggettivi rispetto al colloquio clinico, e di
confrontarla con altri modelli diagnostici per giungere a individuare le specifiche caratteristiche delle
patologie cui sarebbe stato proficuo applicare una cura psicoanalitica. In polemica con l'egemonia della
metodologia comportamentista, che in quegli anni rivendicava l'esclusiva dell'utilizzazione del metodo
empirico nella progettazione dell'intervento psicoterapeutico e nella valutazione dei risultati, Sargent,
psichiatra e psicoanalista che collaborava al progetto di ricerca Menninger, indicava la possibilità di validare
empiricamente anche la psicoanalisi, pur riconoscendo la necessità di individuare metodi specificamente
appropriati per il quadro teorico di riferimento: se per valutare un cambiamento terapeutico in termini di
adattamenti appresi o di interazione sociale sarà necessaria e sufficiente l'osservazione del comportamento
in particolari contesti, per valutare un cambiamento definito in termini di benessere soggettivo occorrerà
considerare le autodescrizioni degli stati d'animo; infine, per valutare un cambiamento dell'Io, quale è
teorizzato dalla psicoanalisi, non basteranno valutazioni basate sul resoconto verbale o sul comportamento,
ma andranno identificate specifiche variabili quali gli equilibri dinamici e le funzioni dell'Io, costruendo gli
opportuni metodi di indagine.

Le principali modifiche al paradigma pulsionale originario della psicoanalisi freudiana sono connesse, non
solo alle innovazioni apportate alle teorie cliniche sulla base dell'osservazione di diversi tipi di pazienti in
diverse matrici culturali, ma anche ai pionieristici tentativi di sottoporre a rigorosa verifica alcune ipotesi
teoriche e costrutti clinici attraverso: a) confronti sistematici fra diversi strumenti diagnostici, fra diversi
gruppi di pazienti e fra diverse modalità tecniche di intervento terapeutico; b) studi sperimentali condotti al
di fuori del setting terapeutico con l'ausilio di metodologie approntate in altri settori di ricerca, quali la
psicologia sperimentale cognitiva, la psicofisiologia ecc.: si vedano le ricerche di Fisher sul sogno, di Klein sul
riconoscimento delle percezioni subliminali, di Pine sulle trasformazioni preconsce della stimolazione
incidentale; c) il confronto con altre ipotesi e metodi di indagine, derivati da aree diverse della psicologia,
come per esempio dalle ricerche empiriche sullo sviluppo infantile e sui processi di apprendimento, ma
anche da altre discipline, come l'antropologia, la teoria del informazione, la neurofisiologia, la stessa
psichiatria clinica.

Numerose, tuttavia, sono state le critiche rivolte da epistemologi e filosofi della scienza, come anche da
studiosi di altri settori della psicologia, sia alla teorizzazione che alla prassi psicoanalitica: la prima perché
ritenuta dogmatica e insufficientemente fondata sulle osservazioni empiriche, la seconda perché
autoreferenziale e priva di dimostrazioni adeguate circa l'efficacia del metodo di cura. Molte sono state,
nella tradizione psicoanalitica, le resistenze e le difficoltà ad accettare che la falsità o veridicità di un'ipotesi
psicodinamica fosse valutata attraverso metodi di indagine diversi dalla tradizionale introspezione clinica,
condotta per mezzo delle libere associazioni e dell'interpretazione del transfert; ancora maggiore è stata
l'opposizione alla registrazione delle sedute e alla valutazione delle interazioni cliniche da parte di
osservatori esterni, anche invocando comprensibili motivazioni deontologiche relative alla privacy dei
pazienti. Un'argomentazione che spesso ricorre nel dibattito sui rapporti fra psicoanalisi clinica e ricerca
empirica riguarda l'annosa diatriba circa la collocazione della psicoanalisi fra le scienze storiche o fra le
scienze naturali. Un'altra posizione è quella che ritiene preferibile considerare la psicoanalisi come
disciplina ermeneutica, governata da canoni specifici per lo studio dei significati soggettivi. Robert Holt
proponeva di considerare la ricerca clinica esplorativa come elettiva per l'approccio psicoanalitico, ma
anche per un più generale approccio di tipo clinico, incluso quello comportamentale, in quanto si interroga
sulle cause psicologiche dei disturbi mentali e offre spiegazioni dinamiche sia per la psicopatologia sia per la
tecnica di intervento clinico: diversamente da una ricerca sperimentale fondata sulla verifica e sul controllo
delle ipotesi, la ricerca esplorativa mira alla costruzione di nuove ipotesi e può proporre un esame
sistematico del giudizio clinico, per esempio attraverso la formalizzazione dei testi trascritti degli scambi
verbali tra paziente e analista oppure attraverso la somministrazione di test e questionari ai pazienti e ai
terapeuti, cercando di individuare punti deboli e punti forti delle inferenze prodotte nel lavoro clinico,
nonché di scoprire che cosa manca e che cosa si può migliorare nelle modalità di intervento.

Lo slittamento del focus teorico dalla metapsicologia alla teoria clinica ha contribuito a spostare
l'attenzione, nelle discussioni sulla scientificità delle teorie psicoanalitiche, da problema della validità
teorica al problema dell'efficacia clinica, riproponendo tuttavia la problematica della validazione empirica
rispetto al metodo terapeutico e ai suoi risultati. I concetti psicoanalitici più direttamente connessi alle
osservazioni cliniche e alla teoria della tecnica (come per esempio i concetti di transfert e controtransfert,
ma anche quello di trauma psichico e delle sue conseguenze psicopatologiche) sono considerati da alcuni il
terreno comune su cui possono incontrarsi le divergenze teoriche manifestate dalle diverse scuole,
malgrado manchino ancora prove convincenti che gli effetti terapeutici di questa psicoterapia siano migliori
di quelli di altri interventi. Concordiamo tuttavia con Eagle nell'avanzare qualche dubbio circa l'opportunità
di abbandonare definitivamente la curiosità scientifica che sorreggeva l'esigenza freudiana di costruire una
teoria generale del funzionamento psichico, in favore di un'esclusiva predilezione per lo studio dei
fondamenti del processo terapeutico. Shevrin e altri auspicavano che la psicoanalisi nel suo secondo secolo
di vita riuscisse a riorganizzare lo sviluppo di una disciplina sufficientemente ampia e comprensiva,
appoggiandosi sui punti saldi del suo metodo clinico, sulla ricerca in psicoterapia, e sui metodi sperimentali
che ora rendono possibile esplorare le sue ipotesi fondamentali.

Oggi la ricerca empirica nell'area della psicologia dinamica può considerarsi in notevole sviluppo
specialmente per quanto riguarda due filoni principali, che spesso presentano inevitabili linee di
sovrapposizione e di convergenza: un filone extra-clinico, relativo alla ricerca sullo sviluppo dei processi
cognitivi e affettivi nell'infanzia e nell'adolescenza, condotta con metodi osservativi e semi-sperimentali,
attraverso studi longitudinali, interculturali ecc.; un filone intra-clinico, relativo alla ricerca sul processo e
sugli esiti della psicoterapia psicoanalitica, condotta con metodi statistici ed empirici, nonché con raffinate
metodologie di analisi del linguaggio o dei contenuti delle comunicazioni verbali e non-verbali, attraverso
studi epidemiologici, di confronto fra gruppi clinici, studi sul caso singolo ecc. Un elemento rilevante nella
valutazione dell'opportunità e dei limiti della ricerca empirica in psicoterapia è l'impatto che la psicoterapia
e la sua concezione scientifica può avere sulla concezione che una determinata società o epoca storica ha
dell'uomo, delle sue risorse e delle sue fragilità. Come scrive Cushman, gli studi degli analisti non sono dei
luoghi privilegiati che trascendono l'influenza delle distinzioni linguistiche e delle organizzazioni politiche di
un'epoca; così, in termini sullivaniani, occorre tenere a mente che il linguaggio privato della psicoterapia si
trasfonde nel linguaggio pubblico di una comunità sociale, così come dal pubblico derivano linguaggio,
ideologie e valori della psicoterapia. Una prospettiva empirica e oggettivante nello studio della prassi clinica
può contribuire a mettere in luce i presupposti ideologici che inevitabilmente sottendono tanto i modelli
teorici cui la psicoterapia fa riferimento, quanto le specifiche modalità tecniche che ogni terapeuta assume
come standard nel corso della sua formazione e della sua esperienza clinica.

3.2 Le ricerche empiriche sui risultati della cura psicoanalitica: i confronti fra psicoanalisi e psicoterapia

Il problema della ricerca sugli esiti presenta un'interfaccia privato/pubblico: se, nell'ambito delle
associazioni private, gli analisti e gli psicoterapeuti a orientamento psicodinamico hanno bisogno di
verificare sia la solidità delle ipotesi teoriche che il grado di efficacia del metodo per poter rispondere ai
propri dubbi e risolvere i problemi proposti dalle situazioni cliniche, in ambito pubblico la società esterna
richiede, sul piano del confronto scientifico come sul piano della competitività economica fra diversi metodi
di cura, una dimostrazione della validità e della affidabilità di questo tipo di psicoterapia.

Come sottolineano Roth e Fonagy, le istituzioni preposte al finanziamento dell'assistenza sanitaria e sociale
si preoccupano dell'efficacia della psicoterapia in termini del rapporto costi/benefici e sono soprattutto
interessate a garantire l'efficienza degli interventi socio-sanitari su quella fascia di popolazione dove il
disturbo mentale grave provoca un disagio sociale ed economico sia a chi ne è portatore che al suo
contesto familiare e sociale. Questa posizione ha una duplice conseguenza per l'attività psicoterapeutica: in
primo luogo, se la psicoterapia, non solamente quella psicodinamica, è un trattamento di elezione per
pazienti con disturbi moderatamente gravi, richiederà un contenimento degli investimenti finanziari da
parte delle strutture pubbliche; in secondo luogo, i finanziatori saranno comunque poco sensibili ai
problemi posti dai clinici di orientamento dinamico, che segnalano la scarsa affidabilità delle
generalizzazioni dei dati e l'esigenza di programmare l'intervento di volta in volta in base alle caratteristiche
del singolo caso. Gli autori più recenti sembrano lanciare un richiamo sempre più forte alla necessità del
continuo monitoraggio della propria attività esplorativa e interpretativa da parte dell'analista: nella misura
in cui si riconosce l'apporto, pregiudiziale ma inevitabile, della teoria di riferimento e dell'esperienza
personale del terapeuta alla costruzione dei dati clinici, diventa fondamentale mettere a punto criteri di
osservazione almeno parzialmente correttivi per aumentare l'attendibilità delle osservazioni e produrre
indici di validità pubblicamente condivisibili per sostenere la competitività della cura psicoanalitica rispetto
a diverse situazioni cliniche e a differenti metodi di cura.

La complessità della definizione del cambiamento terapeutico nell'approccio psicoanalitico ha indotto a


scegliere metodologie qualitative piuttosto articolate, dove la soggettività del giudizio clinico risulta
difficilmente controllabile con misure esterne e indipendenti di valutazione del buon processo analitico. Per
esempio, nel lavoro di ricerca sui protocolli clinici condotto presso la Columbia University, alla valutazione
del beneficio terapeutico si accompagnava una valutazione della analizzabilità del paziente, espressa a
posteriori sulla base di dimensioni complesse e non operazionalizzate, quali la capacità di considerare gli
aspetti psicologici, l'uso delle risorse al termine del trattamento e le manifestazioni di transfert durante la
terapia. Tale valutazione non si dimostrò significativamente correlata con la valutazione iniziale in base alla
quale era stata consigliata ai pazienti l'analisi o la psicoterapia; invece, la dimensione "analizzabilità"
correlava significativamente con la durata del trattamento, indipendentemente dalla scelta tecnica.
Una ricerca longitudinale fu condotta presso la Clinica Menninger di Topeka a partire dal 1954: si tratta del
"Progetto di Ricerca sulla Psicoterapia" che coinvolse 42 pazienti, di cui 21 curati con la psicoanalisi
intensiva e 21 con psicoterapia espressiva o supportiva. Si tratta di un campione "naturalistico", osservato
in una situazione ambulatoriale di tipo istituzionale, che perciò non può considerarsi rappresentativo della
popolazione che si rivolge agli analisti. La durata dei trattamenti, tutti senza termine prefissato, variava da 6
mesi fino a 12 anni. Obiettivo della ricerca era quello di indagare quali cambiamenti avvengono e come
questi cambiamenti hanno luogo, intrecciando l'indagine sui risultati a quella sul processo secondo un
procedimento definitorio che appare tipico della filosofia del trattamento psicodinamico. In particolare, le
ipotesi iniziali riguardavano le differenze fra psicoanalisi e psicoterapia psicoanalitica, differenze previste
teoricamente nella tecnica e dunque negli esiti dei trattamenti. Più precisamente, le due diverse modalità
di cura: a) si rivolgevano a pazienti diversi per patologia e struttura del carattere; b) miravano a obiettivi
differenziati per ampiezza e profondità, sulla base della distinzione fra tecniche interpretative ed
esplorative versus tecniche supportive; c) avrebbero ottenuto risultati diversi in termini di qualità e di
stabilità nel tempo dei cambiamenti.

Nel campione studiato non emersero differenze significative fra psicoanalisi e psicoterapia nel produrre un
cambiamento strutturale, poiché in entrambi i casi vennero riscontrati cambiamenti che erano valutati
come più profondi rispetto alla modificazione dei sintomi e dei comportamenti osservabili. Un confronto fra
gli esiti terapeutici e le previsioni iniziali indicava che quasi tutti i pazienti sottoposti a terapia supportiva
avevano ottenuto miglioramenti al di là del previsto, mentre i pazienti sottoposti a trattamenti analitici
intensivi avevano raggiunto risultati inferiori rispetto a quelli attesi. Inoltre, il cambiamento strutturale non
appariva connesso alla risoluzione dei conflitti, ma sembrava piuttosto una conseguenza degli interventi di
tipo supportivo: lo studio dei protocolli clinici, infatti, dimostrava che questi interventi prevalevano
quantitativamente sia nelle due forme di psicoterapia che nelle analisi.

Uno studio successivo di Blatt, che ha rianalizzato i dati di questa ricerca, ha permesso di rivalutare una
distinzione una distinzione che potrebbe ottimizzare la scelta fra psicoanalisi e psicoterapia analitica: se si
dividono i pazienti del gruppo Menninger in due categorie diagnostiche, includendo nella prima i pazienti
definiti "anaclitici" (la cui patologia sarebbe caratterizzata dalla facilità a rompere le relazioni interpersonali
e dall'uso prevalente di difese di tipo evitante) e nella seconda i pazienti definiti introiettivi (caratterizzati da
problematiche relative all'autostima e all'autonomia, con l'uso prevalente di difese di tipo contro-reattivo), i
dati dimostrano che il primo tipo di pazienti ottiene risultati migliori con la psicoterapia e il secondo tipo
con la psicoanalisi. Questo confermerebbe le formulazioni diagnostiche e prognostiche elaborate da
Kernberg e dal suo gruppo di ricerca circa le differenti indicazioni terapeutiche per pazienti con
organizzazione di personalità di livello superiore (assimilabile per grandi linee ai pazienti "introiettivi")
versus quei pazienti che presentano un'organizzazione di livello inferiore (più simili ai pazienti che Blatt
definisce "anaclitici").

Wallerstein, iniziando negli anni Ottanta un secondo programma di ricerca sulla psicoterapia in
collaborazione con un gruppo di clinici e ricercatori del Langley-Porter Institute di San Francisco, esplicita
l'esigenza di una più precisa definizione del concetto di "cambiamento strutturale", tenendo conto delle
differenti formulazioni proposte nella letteratura da coloro che aderiscono a diverse posizioni teoriche in
psicoanalisi. Gli autori della ricerca costruiscono così 17 scale indipendenti per valutare le "capacità
psicologiche", definite in termini operativi come "risorse psicologiche accessibili", costrutto che dovrebbe
risultare predittivo rispetto ai comportamenti delle persone in situazioni diverse. Ciascuna di queste
capacità psicologiche può essere presente in gradi diversi nei diversi individui e ogni grado di presenza per
ciascuna capacità si ipotizza essere associato a specifici pattern comportamentali, interpersonali e sociali,
così come a particolari significati e vissuti psicologici individuali. Wallerstein presenta un elenco puntuale
dei numerosi problemi di definizione suscitati dall'esigenza di affrontare il compito di dimostrare l'efficacia
della psicoanalisi e delle psicoterapie psicodinamiche con dati empirici validi e attendibili. Riteniamo utile
riportarlo a epilogo di questa discussione per evidenziare i punti qualificanti per la ricerca sugli esiti della
psicoterapia dinamica, molti dei quali sono requisiti necessari per qualsiasi ricerca sulla psicoterapia in
generale. Per impostare una ricerca in questo settore occorre stabilire: 1. Quali siano gli obiettivi della
forma di psicoterapia che si vuole studiare, sia in termini ideali che pratici. 2. Quali siano i criteri di
inclusione e di esclusione per la trattabilità di un caso. 3. Quali siano le indicazioni e le controindicazioni per
la scelta appropriata di diverse modalità tecniche (per esempio, per una psicoterapia espressiva versus una
psicoanalisi intensiva). 4. Quali procedure e sistemi diagnostici sia più opportuno adottare in modo da
ottenere una formulazione del caso che consenta di orientare il lavoro terapeutico e di effettuare una
valutazione prognostica. 5. Come definire gli esiti in termini predittivi, così da presentare formulazioni
confrontabili con il risultato raggiunto al termine della psicoterapia..

3.3 La ricerca sugli esiti: il confronto fra modelli psicoterapeutici e con diversi metodi di cura

Negli ultimi quarant'anni la nascita di molteplici e concorrenziali scuole di psicoterapia ha provocato una
diffusione ad ampio raggio della ricerca sugli esiti, con lo scopo di valutare la maggiore o minore
adeguatezza delle diverse forme di psicoterapia per la cura dei diversi tipi di pazienti, tenendo conto anche
del bilancio tra fattori di rischio e fattori protettivi presente in diverse condizioni sociali e ambientali; d'altra
parte, l'estensione della pratica psicoterapeutica a situazioni istituzionali e pubbliche ha stimolato la più
pragmatica esigenza di valutare oggettivamente i rapporti costi/benefici nell'impiego delle cure
psicologiche versus altri tipi di trattamento (come per esempio l'uso di psicofarmaci e di tecniche
riabilitative), nella scelta di una specifica tecnica psicoterapeutica invece di un'altra, oppure
nell'applicazione della psicoterapia individuale piuttosto che della psicoterapia familiare, gruppale ecc.

La storica diffidenza per la validazione empirica segnalata nella tradizione psicoanalitica, solo parzialmente
motivata da oggettive difficoltà di commisurare le spiegazioni psicodinamiche del cambiamento con la
minore sofisticatezza dei metodi empirici disponibili, è responsabile del fatto che per le psicoterapie a
orientamento psicodinamico si hanno ancora oggi pochi studi in grado di dimostrare l'opportunità della
loro applicazione a specifiche situazioni cliniche, anche se gli scarsi dati pubblicati finora non hanno offerto
prove contrarie all'efficacia di questo tipo di psicoterapie. L'ampia rassegna della letteratura relativa alla
ricerca sugli esiti nelle differenti psicoterapie pubblicata da Roth e Fonagy organizza la presentazione del
materiale raggruppando le circa 400 forme di psicoterapia esistenti in riferimento a sei orientamenti
fondamentali: le psicoterapie psicodinamiche (che comprendono le varie forme più recenti di terapie focali,
come quelle di Malan, di Luborsky ecc.), le psicoterapie cognitivo-comportamentali (che spaziano dalle
tecniche di desensibilizzazione e di condizionamento fino alla più moderna psicoterapia cognitiva fondata
sulla modifica delle credenze e delle aspettative, nonché sullo sviluppo della metacognizione), la
psicoterapia interpersonale (basata sul modello di terapia breve focale proposto da Sullivan, attualmente
presenta nuovi sviluppi di matrice dinamico-relazionale), le psicoterapie strategiche o sistemiche (che
includono la tecnica strategica di Haley insieme ai diversi orientamenti più sistemici, come quelli di Bateson,
Minuchin ecc.), le psicoterapie supportive ed esperienziali e, infine, le varie forme di psicoterapia di gruppo.
I confronti fra gli esiti delle psicoterapie a orientamento dinamico e le altre forme di psicoterapia per le
differenti diagnosi cliniche risultano tuttavia ancora poco sistemici e di difficile interpretazione, non solo per
la scarsità di studi attendibili ma anche perché più spesso sono stati effettuati da ricercatori che privilegiano
un orientamento diverso. Riportiamo comunque i dati più significativi della rassegna:

-per la depressione esistono studi che riguardano la psicoterapia dinamica breve, che risulta di efficacia
inferiore alla terapia comportamentale e cognitiva, ma di pari efficacia ad altre forme di psicoterapia se
associata ai farmaci o al placebo; la psicoterapia interpersonale risulta produrre cambiamenti più stabili con
trattamenti di 12 sedute nel disturbo distimico;

- per i disturbi d'ansia, risulta dimostrata l'efficacia delle terapie comportamentali che ricorrono al
rilassamento e all'esposizione (in particolare per i sintomi fobici e gli attacchi di panico); non risultano
consigliabili interventi psicodinamici se non in presenza di disturbi di personalità o in caso di fallimento
delle tecniche privilegiate; - ancora nell'ambito dei disturbi d'ansia, per il disturbo ossessivo-compulsivo
sembra ipotizzabile l'efficacia di tecniche espressive, mentre per il disturbo post-traumatico da stress gli
interventi psicodinamici risultano efficaci sulla base di alcuni studi comparativi;

- per i disturbi da dipendenza da alcool, la psicoterapia psicodinamica non è utilizzabile come indicazione di
primo livello, ma può intervenire utilmente nella cura della comorbilità psichiatrica una volta cessata la
dipendenza; mentre nei disturbi dell'alimentazione la letteratura suggerisce che interventi più strutturati,
come la psicoterapia dinamica, interpersonale o cognitiva, siano più efficaci rispetto alle psicoterapie
supportive;

- per i disturbi sessuali, viene messa in luce la tendenza a offrire terapie multimodali, non classificabili fra i
principali modelli teorici;

- per quanto riguarda la schizofrenia, gli studi sperimentali controllati hanno dimostrato la quasi inutilità
degli interventi psicologici nella riduzione dei sintomi: finora è stata dimostrata una relativa efficacia degli
interventi familiari e di riabilitazione sociale nel ridurre il tasso di ricaduta, ma nella grande maggioranza
questi pazienti sono curabili solo con neurolettici;

- per quanto riguarda infine la cura dei disturbi di personalità, esistono diversi studi che utilizzano
psicoterapie analitiche o dinamiche che valutano i risultati anche con indagini di follow-up:

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