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Alla ricerca dell’arcobaleno

Non era un padre qualunque, era il padre, con tutto ciò


che c’è da odiare in un padre, e tutto ciò che c’è da amare.
Philip Roth, Il patrimonio

Questa è Only You, Only You dei Platters, esclama mio padre con entu-
siasmo. La conosci? mi chiede.
Papà, c'è di buono che questa canzone, quando hanno cominciata a can-
tarla… non ero ancora nata.
Bella la mia stella, giovane come l’acqua.
Cerchiamo con lo sguardo e vediamo, poco più avanti, due musicisti: un
sassofonista e un chitarrista.
Sai, mi dice con un certo compiacimento, e anche ’sta volta gli è scattato
l’amarcord, Only You, la ballavamo ai tempi del liceo, le prime feste, pen-
sa, le facevamo di pomeriggio, in casa di qualche compagno di scuola. Le
luci soffuse, gli sguardi indagatori, i primi tremori. Ma andavamo a ballare
anche nei locali pubblici, feste di paese o balere di periferia. Le donne sta-
vano in cerchio, tutte intorno alla pista da ballo, come aragoste in bella vi-
sta, e noi, come partiva la musica, scattavamo e chiedevamo a quella che
avevamo puntato: Signorina, permette?
Davvero? Che scena buffa. E se diceva di no?
Facevi la figura del pinguino o della trota in carpione. Magari tra le lab-
bra mormoravamo qualche insulto, modesto e a bassa voce, come puoi
immaginare. Solo più tardi ho imparato, me l’ha insegnato Pilar, una balle-
rina di tango di Buenos Aires, che si invita con la mirada, anche se l’avevo
capito per conto mio. Il cavaliere deve agganciare lo sguardo della balleri-
na, è sufficiente farle un piccolo cenno e vedere come reagisce: se a sua
volta risponde con un sorriso, è fatta, altrimenti è meglio lasciar perdere.

Siamo a Milano, seduti al dehors del Morgante, vicino al vicolo dei La-
vandai: mio padre vuol tornare sempre lì, gli ricorda i tempi dell’università.
Secondo me, precisa ogni volta, il Morgante si chiamava in un altro modo.
Ho appena ordinato un caffè d’orzo mentre lui ha chiesto il solito maroc-
chino, solo schiuma, niente latte, molto cacao e zucchero di canna: è il suo
refrain abituale.
Francesca, tu hai ereditato da tua madre questa attenzione indefettibile
per tutto ciò che mangi o bevi, nemmeno un buon caffè vi permettete.
Tu invece, caro Felicino (si chiama Felice, per la cronaca), per ordinare
un marocchino…

Presto attenzione alla musica: in questo momento, mi informa mio padre,


stanno suonando Besame Mucho. E mi spiega pure: c’è una base musicale
che accompagna e dà loro il tempo, poi parte l’assolo del sassofono che si
alterna con quello della chitarra.
Però, commento, approvando con uno sguardo ammirato che accentua
vistosi cenni del capo, che bello avere un padre così preparato…
Ah, la mia Francesca!

Anche questa è una canzone che conosco bene, è sempre mio padre che
parla, potrebbe essere Body and soul anzi, la è, la è, suonata da Coleman
Hawkins.
Mi giro per osservare meglio i due musicisti. Non sono la sola a essere
affascinata, si fermano persone di ogni tipo e di ogni età. Alcuni lasciano
cadere monete dentro un cappello posato sopra una cassa acustica sul mar-
ciapiede davanti a loro. Molti seguono il ritmo, muovendosi piano o bat-
tendo il tempo. Si ferma anche, vicino ai musicisti, un uomo di circa ses-
sant’anni, i capelli grigi e un viso duro, segnato da rughe profonde, vestito
di nero. Mi colpisce il gesto con cui butta via la cicca della sigaretta in
mezzo alla strada, sembra infastidito. Per il tempo in cui è rimasto lì, verso
i due musicisti ha gettato occhiate oblique.

Poi arriva Amapola. Amapola, mio padre ormai è lanciato, la imperdibi-


le, straordinaria, hearthbreaking (come direbe Jhonny, il suo amico ameri-
cano) Amapola.
La mia mogliettina, che poi sarebbe anche la tua esimia madre, agli inizi
della nostra storia mi aveva regalato un CD con diciotto versioni di Ama-
pola. Questa, prosegue, non te l’ho mai raccontata: siamo atterrati da poco
a Linate, di ritorno da Parigi dove abbiamo fatto un lungo weekend per Pa-
squa. Ci fermiamo all’autogrill, felici di rientrare, risaliamo in auto, fac-
ciamo pochi metri: spengo il motore, inserisco il CD di Amapola a volume
alto, scendo, vado all’altra portiera, la apro e, facendo un piccolo inchino,
le chiedo: voulez vous dancer? Lei mi guarda sorpresa, lì per lì vorrebbe
forse dire no, poi ci ripensa, sorride, scende dicendo Bien sur, e comincia-
mo a ballare. Per tutto il viaggio di ritorno sentiamo solo quel CD.

Pi, facciamo il gioco psico?


Ah, volentieri.

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Adesso sto osservando le persone che mi sfilano davanti. Dimmi come ti
vesti e ti dirò chi sei. Fammi vedere come cammini e ti dirò chi sei. È pro-
prio vero, noi comunichiamo sempre, anche quando non siamo consapevoli
di comunicare: la comunicazione è inesorabile. A osservare tutte queste co-
se insieme, si potrebbe fare un profilo psicologico di una persona, anche
senza scambiare una parola. Queste cose me le ha insegnate mio padre, era
un gioco che facevamo spesso.
Per esempio, oggi mi sembra, dice con convinzione, di notare una nume-
rosa presenza di donne sole. Quella che sta guardando il chitarrista, mi
chiede, che te ne pare?
Ha qualcosa nel modo di vestire, rispondo, che vuole attirare
l’attenzione: una spilla appariscente, una cintura colorata in vita, una borsa
giovanilista portata forse con troppa disinvoltura, ha le mèches e una petti-
natura curata. Potrebbe essere davvero una donna sola.
Brava Francesca, bravissima. Io le noto non tanto perché sono sole nel
momento in cui passano davanti a me, magari mariti o compagni in
quell’ora del giorno sono al lavoro, quanto per lo sguardo che incontra il
mio e indugia per quei pochissimi secondi in più che fanno la differenza ri-
spetto a uno sguardo disinteressato, come quello di tutte le giovani che in-
crocio e per le quali io sono trasparente.
Allora, gli dico compiaciuta, devo aggiungere al tuo insegnamento un al-
tro possibile indizio, ancora più illuminante: fammi vedere come mi guardi
e ti dirò chi sei.
Iniziano ad arrivarci le note di un valzer lento: anche questa canzone la
conosco, mi dice, sì, è Fascination: quando resto sola con te, non mi sento
padrona di me. A ripensarmi oggi, mi sembra di rivedermi, un ragazzo
composto, con la sua bella giacca e la camicia bianca, i capelli ordinati e
una precisa scriminatura laterale...
Sta passando davanti ai due musicisti un gruppo di turisti che si fermano
ad ascoltare: una giovane donna, forse la guida del gruppo, sta mimando di
ballare una canzone con un cavaliere in carne e ossa, tenendo le braccia di-
sposte e leggermente ripiegate in avanti, come se lo stesse abbracciando.
È una béguine, commenta mio padre, mi sembra la famosissima Night
and Day di Cole Porter.
Lei la balla bene, disinvolta, lì, in mezzo alla strada, davanti ai due mu-
sicisti, il chitarrista sorride, il sassofonista fa un gesto di approvazione con-
tinuando a suonare, lei ha la leggerezza di una rondine, la naturalezza di un
cuore senza ingombri e una faccia di quelle che sono fatte per sorridere.

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Una donna interessante, dice mio padre ammirato, e questa è una da
chiederle subito, avessi vent’anni di meno lo farei: vuoi ballare con me, per
sempre e un giorno?
Il suo gruppo la applaude: lei prende qualche moneta da una borsa che
tiene a tracolla, le posa nel cappello nero con delicatezza, un inchino misu-
rato rivolto ai musicisti, poi si allontana salutando.
A volte, nella vita, vivi piccoli episodi che fanno bene al cuore, com-
menta, se abbiamo gli occhi per vederli.
Oggi mio padre sta molto bene, è loquace più del solito.
Ah, questa la riconosco anch’io, gli dico, è Over the Raimbow, la canta
quel giovane hawaiano bravissimo anche ad accompagnarsi con una chitar-
rina minuscola, che sembrava ancora più piccola vicino al suo corpo enor-
me: è morto molto giovane, affetto da una grave forma di obesità.
Questa canzone mi commuove sempre, è uno dei miei ricordi più piace-
voli, un episodio di molti anni fa, vissuto con mio padre.
Lui mi guarda con aria interrogativa.
Te la racconto io, pi. Vediamo cosa mi ricordo.
Vediamo, stella.
Sono in auto con te, io ho nove o dieci anni. In quel periodo ci diverti-
vamo molto ad andare in auto, facevamo lunghi giri senza meta, e siccome
mi piaceva veder partire e arrivare gli aeroplani, anche quella volta erava-
mo andati nelle pianure intorno a Milano, oltre Linate. Compare
d’improvviso un arcobaleno gigantesco, sembra voglia toccare la volta del
cielo. Papà, guarda che bello! Dove comincia l’arcobaleno? ti chiedo.
Tu eri in quell’età, interviene mio padre che oggi non riesce a stare zitto,
in cui i figli credono ancora che i genitori siano in grado di dare risposte
soddisfacenti alle loro domande.
Aspetta, gli dico, lasciami proseguire. Cambia ogni volta, amore, mi a-
vevi risposto, si forma quando nell’atmosfera ci sono goccioline d’acqua
che riflettono i raggi del sole. Sì, ma questo di fronte a noi, dove comincia?
E tu mi hai risposto: non lo so, ma possiamo cercare dove comincia, cosa
ne dici? Sì, sì, andiamo, pi, andiamo a scoprirlo, ti avevo risposto con entu-
siasmo. Comincia la nostra esplorazione, la prendiamo sul serio. A ogni
curva l’arcobaleno si sposta, come volesse giocare o renderci più difficile il
ritrovamento. Scompare per riapparire più in là. Sembrava volesse divertir-
si anche lui. Un inseguimento emozionante. Io ti davo le indicazioni, o al-
meno così mi sembrava: Pi, adesso devi andare a destra! Attento, ora è pro-
prio dritto davanti a noi! Intanto mi racconti una leggenda irlandese: alla
fine dell’arcobaleno c’è una pentola d’oro. Davvero? Allora dobbiamo tro-
varla. E tu hai aggiunto: la leggenda dice che a guardia della pentola c’è

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uno gnomo che impedisce alle persone cattive di prendere l’oro. Ma noi
possiamo prenderlo, avevo detto, noi non siamo cattivi. Proseguiamo anco-
ra la ricerca per una decina di minuti, poi l’arcobaleno comincia a dissol-
versi pian piano e così siamo costretti ad abbandonare. Ogni volta che vedo
un arcobaleno, mi torna in mente la ricerca della pentola d’oro.
Mio padre mi guarda compiaciuto, forse commosso, ma si riprende subi-
to e, come sua abitudine, spiega: quando nell'arcobaleno prevale il rosso,
dice, si prevede un'annata buona per il vino; se prevale il giallo, l'annata sa-
rà favorevole per il frumento; se invece prevale il verde, allora sarà propi-
zia per l'olio.
Che fortuna, avere un padre così sapiente!
Ah, la mia Francesca, che si burla del suo vecchio genitore!

Grazie ai due musicisti, e alle loro canzoni, penso, è stato bello ricordare
le cose belle. Quando ricordi, è come se il cuore si mettesse a battere in
piena consapevolezza, e non silenzioso, modesto e operoso come sempre,
fin dal giorno in cui sei nato. Quando ero al liceo, con i miei compagni a-
vevamo calcolato i battiti, ormai il mio ha macinato, più o meno, un buon
miliardo di battiti.
A fronte del diverso modo con cui la gente passa davanti ai due musici-
sti, mi convinco che il mondo si potrebbe dividere in due: quelli che amano
la musica e quelli che non la amano o, peggio, la ignorano.
Manco a farlo apposta, ecco che si stanno avvicinando due signore di
mezz’età, intente a mangiare con avidità quel che resta di un gelato in cop-
pa: con la loro paletta stanno cercando, incurvandosi appena, di prendere il
poco ancora rimasto. Sono vestite in modo simile (e improbabile), si muo-
vono anche a tempo, potrebbero essere sorelle o forse madre e figlia, diffi-
cile dirlo, appartengono a quella specie di persone delle quali è quasi im-
possibile valutare l’età. Non si accorgono della musica. Continuano con
una ferocia insopportabile a raschiare il fondo delle loro coppette. Provo
una forte avversione nei loro confronti che, mentre incuranti del mondo che
le circonda e preoccupate solo del loro gelato, proseguono rapide il loro
cammino, e mi lasciano in balia della mia insofferenza. Lo so bene ormai
che al mondo esiste l’estetica ma anche il suo contrario, l’anti-estetica o
l’indifferenza: oggi ho avuto un’altra prova provata della loro esistenza. E
so anche che le due signore possono essere due bravissime persone. Fran-
cesca, non fare la razzista, per favore!

Sto facendo le mie belle riflessioni quando mio padre: Stella, ci man-
giamo un boccone?

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Volentieri.
Ma mi è venuta un’ideina, dice.
Oh, no! esclamo. Ormai lo sappiamo in famiglia: le sue ideine sono
sempre guai per gli altri. E sarebbe?
Noi mangiamo un boccone, ma lo offriamo anche ai nostri due musicisti.
Ai musicisti?
Certo, penso che gradirebbero un bel panino e una birra con noi, non
credi?
Sì, in effetti penso di sì. Stavolta l’ideina, mi dico, non è stata tanto pe-
regrina.
E tu cosa dovresti fare? mi chiede.
Mangiare con loro, rispondo.
Certo, ma prima bisogna invitarli. Tu ti avvicini e, appena hanno finito
un pezzo, li inviti.
No, l’ideina è tua, e li inviti tu.
Mio padre resta in silenzio, ma ha tirato fuori quello sguardo benevolo
che è peggio di un ordine, che smonta ogni resistenza.
Pensa che felicità per quei due, dice, vedersi arrivare una principessa che
li invita a pranzo.
Eh, adesso divento principessa! Va bene, va bene, e cosa gli dico?
Che li invitiamo a pranzare con noi, e indichi me che li saluto.

Sono passati pochi minuti, i musicanti hanno risposto entusiasti, in un at-


timo hanno riposto gli strumenti nelle custodie e si sono avvicinati sorri-
denti. Si sono presentati: siamo spagnoli, di un paese vicino a Madrid, il
chitarrista si chiama Ferdinando, il sassofonista Pedro.
Mio padre li accoglie bene, in questo è bravo, per la capacità relazionale
ho avuto un maestro come si deve, rivolge loro qualche domanda discreta,
così che iniziano a raccontare dei loro studi musicali, del desiderio di girare
il mondo, sono già stati in Francia, a Torino, adesso qualche giorno a Mila-
no, poi andranno a Genova, Firenze, Roma…
Lo guardo, mentre conversa piacevolmente, con la benevolenza che si
può riservare, immagino, a un bambino o un fratello minore (io sono figlia
unica e spesso mi firmo la prediletta), lo osservo senza darlo a vedere.

Sono contenta di questa nuova compagnia, mio padre lo sembra ancora


di più, fa domande e approva, sorride, mi guarda e approva. Sempre con
quel sorriso che un po’ indaga, un po’ ammicca, un po’ perdona.

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