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OPEN ACCESS: COS’E’ E COME UTILIZZARLO PER LA RICERCA

Nei tre saggi letti il messasggio che veniva più volte sottolineato era la grande utilità che la
risorsa Open Access offre al mondo della ricerca sia scientifica che umanistica.

Nel primo saggio viene brevemente spiegato cos’è l’Open Access e quali sono i suoi principi:
una risorsa nata da ricercatori per altri ricercatori, per la libera circolazione del sapere
attraverso internet; strumento che genera la “grande conversazione” che serve alla
comunicazione scientifica.
Sono già 700 le enti di ricerca nel mondo che si sono decise ad usare questa risorsa, facendola
utilizzare ai propri ricercatori. Tra queste enti possiamo trovare università come Harvard e
enti di ricerca come il CERN.
Negli ultimi anni sono stati scritti due manfiesti in favore di Open Access:
-la Dichiarazione di Berlino del 2003, dove si sottolineano due concetti fondamentali: la
corretta attribuzione della paternità intellettuale contro il plagio e il concetto della corretta
etica della ricerca scientifica;
- il Budapest Open Access Initiative, nel quale si esplica l’enorme potenziale di internet che
ha contribuito, e ancora lo sta facendo, alla ciroclazione del sapere e alla possibilità data alla
grande conversazione sulla ricerca.
Il termine Open Access si divide in due parole che hanno ognuna un significato profondo:
-OPEN= APERTO, termine che si riferisce a Tim Berners-Leet, ideatore del protocollo http,
che creandolo nel 1989 come strumento per gli scambi di documenti per i gruppi di lavoro del
CERN, decise di renderlo pubblico per poterlo far utilizzare anche da persone esterne;
- ACCESS= ACCESSO/ACCESSIBILE in rifermimento alla conoscenza; l’accesso alla ricerca
altrui permette di poter continuare la suddetta ricerca portandone miglioramenti e conferme.
Un esempio fatto è il caso delle conseguenze delle radiazioni fuoriuscite dal disastro di
Fukushima nel 2011.
La domanda provocatoria che chiude l’articolo è “Tutta la conoscenza è lì, perché non tutti
possono avere accesso?”.

Nel secondo articolo si parla della quantità di soldi che gira introno al mondo dell’editoria
scientifica e al modo in cui essa viene pubblicata.
Gli autori che scrivono per queste riviste non ricevono un compenso economico per le loro
ricerche, e nemmeno i revisori che controllano che la ricerca sia eticamente corretta e
decidono se farla pubblicare o no.
Eppure introno alla ricerca scientifica girano molti soldi e le enti di ricerca pagano fino a
quattro volte le proprie ricerche:
- pagano lo stipendio del ricercatore;
- finanziano la ricerca;
- pagano l’abbonamento alla rivista scientifica in cui è stata pubblicata la propria ricerca;
- il ricercatore deve pagare i diritti di riuso per i propri lavori.
I costi degli abbonamenti alle riviste dal 1986 al 2011 sono aumentati del 402% sottolinenado
il fenomento della “ serial cirsis”, ovvero la crisi delle biblioteche in tutto il mondo, fattore
scantenante del movimento del Open Access, con il quale si eliminerebbe del tutto il costo
degli abbonamenti alle riviste e garantirebbe accesso a tutti gli enti del sapere dando anche la
possibilità agli autori di poter avere accesso in maniera più semplice ai propri lavori e a quelli
degli altri.
I ricercatori non vengono pagati ne per revisionare ne per scrivere articoli, anche se si sa che i
guadagni nel campo dell’editoria sono comparabili a quelli dell’industria farmaceutica o
automoblisistica.
I fondi pubblici pagano gli editori per mettere sotto chiave le ricerche delle riviste scientifiche
e molti di questi soldi vanno a finire nelle tasche degli editori ( l’editore Elsevier gaudagna il
38% netto). Questo porta a una crisi globale di accesso ai contenuti che da vita a movimenti
“pirata” creati da ricercatori stanchi di pagare per le proprie ricerca. Un esempio è Sci-Hub,
sito della ricercatirce Alexandra Elbakian che è illegale ma viene usato da diversi ricercatori
che hanno anche inziato il progetto Who need access? raccogliendo testimonanze di
professionisti nei vari ambiti sul mancato accesso alla ricerca accademica.
Il mercato dell’editoria è indirizzato dal 1973 all’oliogopolio, ovvero al monopolio di pochi
gruppi editoriali per l’area scientifica e umanistica (Reed-Elvsevier, Wiley-Blackwell,
Springer, Taylor & Francis, American Chemical Society, Sage), i quali pubblicano il 53%
degli ariticoli di tutto il settore scientifico e il 51% per quello delle scienze umane e sociali.
Il mercato dell’editoria è compeltamente opaco nel quale le enti sono obbligante a accettare i
prezzi imposti dagli editori senza poter vedere quanti sono i costi effettivamente pagati.
Grazie alle clausole di riservatezza, i grandi gruppi editoriali possono imporre i prezzi alle
diverse nazioni e enti in modo totalmente arbitrario senza permettere una sana pratica di
concorrenza.
Altre sono poi le critiche mosse all’intero sistema , come i tempi lungi di pubblicazione
( che vanno dai nove ai dicotto mesi ), la prevalenza della pubblicabilità ( secondo cui le
riviste accettano solo argomenti di moda e distaccano il pubblicato dal vero ), la scaristà
aritificiale ( dove le riviste si fregiano di alti indici di rifiuto dei lavori proposti per
mantenere il prestigio ), la crisi della riproducibilità ( che si traduce con sempre meno studi
riproducibili a causa di dati mancanti in allegato e in un premio per la quantità più che per la
qualità o l’affidabilità delle ricerche ), la crisi della peer review ( cioè nella ritrattazione dei
articoli precedentemente pubblicati con la revisione doppio cieco, causando frodi ), e la crisi
degli indicatori di impatto ( critiche sugli argomenti utilizzati dalle riviste per accattivarsi il
pubblico anche non accademico ).
Vendendo tutto questo si può intuire come il sistema sia vicino al collasso e non goda più di
buona fede dal mondo accademico.
Munafò, nel Manifesto per la scienza riproducibile, stigmatizza la competizione sfrenata e
suggerisce l’idea del Open Scineze per uscire dalla crisi e riportare al centro dell’interesse la
comunicazione.
Nel terzo e ultimo articolo si spiega quali sono i due diversi modi per fare Open Access che si
dividono in Green Road e Gold Road.
Green Road, o via verde, descrive il deposito negli archivi Open Access. Gli autori
depositano in un archivio nel rispetto del copyright la versione finale, o postprint, del proprio
lavoro. Gli archivi Open Access possono raccogliere solo ricerche di determinate discipline,
come ArXiv, o istituzionali, cioè legati a enti di ricerca e raccogliere l’intera produzione.
Fondamentale per la Green Road è il rispetto del copyright, in accordo con i contratti stipulati
con gli editori, i quali hanno dichiarato in una banca dati chiamata SHERPA-RoMEO la loro
posizione verso il deposito negli archivi Open Access.
Gli autori che non possono depositare nulla possono comunque depositare i dati bibliografici
e l’abstract. In molti casi si può depositare la versione finale dell’autore che è identica a
quella pubblicata tranne che per la forma ( postprint ).
Il deposito è il più semplice e immediato modo per fare Open Access e ha dei vantaggi: è
subito fattibile; è a costo zero; è immediato; non modifica le abitudini editoriali.
Il deposito non lede l’autonomia accademica; ne esistono oltre 2000 di archivi aperti e sono
diversi dagli strumenti social accademici come Academia.edu, i quali sono semplici ma
presentano alcuni rischi: violano il copyright e sono caricati in versione non consentita.
Gli archivi Open Access sono al centro di una enorme svolta iniziata dal 2016 verso i
preprint, o prima bozza, seguendo l’esempio dei fisici che già la utilizzano su ArXiv dal
1991. Ne sono nati molti di progetti inerenti i vari ambiti disciplinari e si sono creati archivi
per depositare vari formati di dati ( software, tabelle, immagini) estendendo oltre l’articolo il
concetto di pubblicazione scientifica. L’obbiettivo finale è la massima condivisione di ogni
passo della ricerca.
La Gold Road è invece la pubblicazione su riviste o sedi editoriali Open Access. Possiamo
citare le riviste Plos, BioMedCentral, Hidawi, oltre a quelle direttamente collegate a gruppi di
ricerca e pubblicate con il software OJS.
Le riviste Open Access non sono da ricondurre alla Open choice adottata da editori
tradizonali che richiedono cifre inziali basse per un singolo articolo da rendere Open Access,
ma lasciano in abbonamento la rivista vera e propria. Le riviste Open Access vere e proprie si
differenziano dalle altre perchè non richiedono abbonamento e solo il 23% di tali riviste
richiede ai propri scrittori di pagare per pubblicare. Si potrebbe pensare che gli editori delle
riviste Open Access possano essere dei “predatori” che dietro pagamento pubblichino lavori
senza peer review. Un mito da sfatare grazie alla lista curata da Keffrey Beall, che faceva
comparire le pubblicazioni meno affidabili. Dal 2017 però la lsita è stata chiusa e dopo un
approfondito esame non la si era trovata né solida né scevra da pregiudizi gratuiti,
dimostrando acredine verso l’Open Access. Oggi si utilizza il servizio Think, Check,
Submit50 per valutare e giudicare le riviste Open Access più adatte.
Per essere sicuri dell’editore poi si può verificare se sia membro dell’ OASPA ( Open Access
Scholarly Publishers Association), che ha rigidi criteri di inclusione.
A conti fatti, possono esistere riviste poco serie sia nel mondo Open Access che in quello
tradizionale, ma nel primo caso possiamo trovare riviste in cui la peer review è
completamente trasparente e quindi più affidabile.

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