Sei sulla pagina 1di 5

DURRENMATT E LA RAI, NON SOLO COMMISSARIO BARLACH

Parlando dei lavori di Friederich Durrenmatt che hanno ispirato produzioni Rai, pensiamo subito ai due
sceneggiati con protagonista il commissario Barlach, personaggio magistralmente interpretato da Paolo
Stoppa, messi in onda nel 1972. Il rapporto tra il celebre scrittore svizzero di lingua tedesca e la televisione
italiana è però di più antica data, risale addirittura a dieci anni prima. Il due luglio 1962, sull'allora
giovanissimo secondo canale Rai-all'ottavo mese di vita- inizia alle 21:10 una serata dedicata a
Durrenmatt. Dopo una breve intervista concessa dal drammaturgo elvetico al giornalista, scrittore e critico
teatrale Roberto De Monticelli, vengono messi in onda due lavori. Il primo è "Operazione Vega",
trasposizione televisiva di un testo originariamente concepito, nel 1954, per un radiodramma, tradotto in
italiano dal critico letterario, scrittore e giornalista Italo Alighiero Chiusano. Diretto da Vittorio Cottafavi,
regista anche cinematografico ma particolarmente prolifico in campo televisivo, il film-tv può contare su
un cast di primordine, nel quale spiccano Aldo Giuffré, Arnoldo Foà e Gastone Moschin. Operazione Vega
è, a tutti gli effetti, una narrazione fantascientifica. Si ipotizza un futuro piuttosto prossimo, nel quale il
potere sulla Terra è appannaggio di due superpotenze, le quali, non paghe di essersi spartito il pianeta,
intendono competere per il controllo sull'intero sistema solare. Nell'ambito di questo conflitto, uno dei due
contendenti intende installare su Venere, pianeta utilizzato dai terrestri come colonia penale per detenuti
politici, una base missilistica. I deportati, ormai legati alla colonia da un sentimento quasi patriottico, e tra
di loro da un vincolo di solidarietà che va oltre le contrapposizioni ideologiche, si ribellano a questa
decisione, sulla base di principi universali di pace e di libertà, declamati dalla magistrale interpretazione di
Arnoldo Foà. E' evidente, nella trama, la critica della logica dei blocchi e l'evocazione dei rischi della
guerra fredda: tema allora quanto mai attuale, considerando che solo l'anno prima, il 1961, la crisi dei
missili a Cuba stava per innescare un conflitto planetario. Man mano che si sviluppa il racconto emerge
però un'altra tematica, spesso ricorrente nella riflessione e nella produzione letteraria di Durrenmatt: quella
della concezione del crimine, del contrasto tra nozione formale e sostanza reale dell'atto criminoso, tra il
concetto di giustizia borghese degli apparati polizieschi e giudiziari, e quello di giustizia universale della
persona umana. Tema sul quale si basa il lavoro trasmesso subito dopo, "Colloquio notturno con un uomo
disprezzato": altro adattamento di un radiodramma, sempre diretto da Cottafavi. La traduzione del testo
tedesco si deve all'opera di Aloisio Rendi, raffinato germanista, filologo, studioso di Robert Musil,
prematuramente e tragicamente scomparso. Adolfo Geri e Vittorio Sanipoli interpretano i due unici
personaggi di questo inusuale racconto, sostanzialmente un dialogo grottesco, surreale, tra un boia
incaricato dal governo di attuare un'esecuzione privata, segreta, in fondo nulla di più di un assassinio, ed
un condannato innocente, uno scrittore perseguitato politico. Al termine di un pacato, a tratti tragicomico
colloquio tra il boia, un esperto professionista con mezzo secolo di attività alle spalle, e l'urbanissimo
condannato, che gli offre una grappa (il boia declinerà altrettanto urbanamente l'offerta per ragioni di
serietà professionale), i due converranno sull'assoluta ingiustizia e assurdità del sistema illiberale che li
schiavizza entrambi. Il 13 febbraio 1968, Durrenmatt passa dal canale "sperimentale" a quello
"istituzionale" della Rai. Va infatti in onda sul primo canale, alle 21, "I fisici". Il Nostro scrisse questa
commedia in due atti tra il 1959 e il 1961. Rappresentata per la prima volta a Zurigo nel 1962, "I fisici"
diventa ben presto un'opera teatrale di grande successo. La "prima" teatrale italiana risale al febbraio 1963,
quando allo Stabile di Palermo, Sandro Bolchi, basandosi sulla traduzione italiana del già incontrato Italo
Alighiero Chiusano, dirige un solido cast, nel quale notiamo Tino Bianchi, Leonardo Severini (il Bennet
Hatch de "La freccia nera") e Alessandro Ninchi, nipote della più celebre Ave. Esattamente cinque anni
dopo, viene trasmesso l'adattamento televisivo, elaborato e diretto da Franco Enriquez, prolifico regista
che merita almeno un veloce ricordo. Nato da una relazione clandestina nell'ambiente della bella musica -il
padre direttore d'orchestra, la madre concertista- Enriquez può contare su un'ottima scuola, iniziando
giovanissimo come aiuto di Luchino Visconti e Giorgio Strehler. Ad appena 27 anni, dirige la prima opera
teatrale trasmessa dalla Rai, proprio nel giorno dell'esordio ufficiale della programmazione televisiva nel
nostro paese, il 3 febbraio 1954: era "L'osteria della posta", di Goldoni. Franco Enriquez si produsse in
innumerevoli direzioni di lirica e prosa, in teatro e in televisione, fino a quando un male crudele lo uccise a
soli 52 anni. Ne "I fisici" il drammaturgo svizzero riprende i temi affrontati in "Operazione Vega", ma la
sua passione per il grottesco fa sì che l'intreccio si sviluppi in un istituto psichiatrico. Uno scienziato,
l'inquietante Moebius (interpretato dal grande Gianrico Tedeschi, che ci ha lasciati, centenario, appena
l'anno scorso), consapevole dei pericoli che possono derivare all'umanità da un uso sbagliato delle sue
scoperte, cerca di proteggersi fingendosi pazzo e facendosi internare in una casa di cura. Le superpotenze
che intendono sfruttare le sue conoscenze non mollano però l'osso, e ricorrono allo stesso stratagemma. Un
agente segreto americano (Ernesto Calindri) finge di credersi Newton, un suo collega sovietico opta per
Einstein, ed entrambi si fanno ricoverare nella stessa clinica. Al termine della tragicomica competizione -
durante la quale alcune incolpevoli infermiere finiranno strangolate, tanto per rendere credibili le finte
pazzie dei protagonisti - a mettere le mani sulle formule segrete sarà la direttrice della clinica: lei sì, pazza
davvero! Una curiosità: lo pseudo-Einstein viene interpretato da Carlo Enrici, all'anagrafe Carlo Conso.
Era il fratello di Giovanni Conso, il noto giurista, accademico e presidente della Corte Costituzionale.
Nel 1971 i telespettatori assistono al primo incontro sul palcoscenico tra Durrenmatt, Paolo Stoppa e
Daniele D'Anza. Come prima trasmissione di un ciclo di sei dedicato al teatro contemporaneo (seguiranno
lavori di Walser, Osborne, Sartre, Miller) il 23 aprile di quell'anno va in onda, sul "Secondo Programma",
l'adattamento televisivo di "Romolo il grande", commedia in quattro atti scritta dal drammaturgo svizzero
nel 1949, rappresentata in Italia per la prima volta nel 1962 al "Mercadante" di Napoli, con la traduzione
italiana curata dal già citato Aloisio Rendi. Romolo Augustolo fu l'ultimo sovrano dell'Impero Romano
d'Occidente, deposto nel 476 d.C. dal re barbarico Odoacre. Poco sappiamo, di questo ultimo imperatore:
le scarsissime fonti disponibili ci dicono che non esercitò mai il potere effettivo, detenuto dal padre Flavio
Oreste, già magister militum dell'imperatore Giulio Nepote, al quale si ribellò, costringendolo alla fuga
nella natìa Dalmazia. Dopo aver catturato e ucciso Oreste, il re sciro Odoacre depose il figlio Romolo e lo
esiliò a Napoli nel Castellum Lucullanum, l'antica villa di Lucullo, oggi conosciuta come Castel
dell'Ovo.Nel mettere alla berlina l'ipocrisia e la vanità del potere, Durrenmatt dà libero sfogo alla sua
inesauribile vena sarcastica raccontando un Romolo Augustolo consapevole della propria inadeguatezza,
intento alla pollicoltura in Campania, con le sue galline dai nomi pretenziosi e allusivi (Domiziano, Marco
Aurelio, Tiberio, Odoacre, Oreste), completamente disinteressato al potere: a tal punto da rifiutare le
diverse vie d'uscita che gli vengono proposte di fronte alle pretese di Odoacre, e anzi consegnando
pacificamente al re barbarico il potere, felice di ritirarsi definitivamente in campagna con i suoi polli, e
trascorrendo così una vita felice. Daniele D'Anza dirige un autentico parterre de roi: oltre al protagonista
Stoppa, i telespettatori possono ammirare all'opera Arnoldo Foà, Anna Maria Guarnieri, Giancarlo Dettori,
Ferruccio De Ceresa, Stefano Satta Flores, Mauro Feliciani. Nel 1955 Friedrich Durrenmatt scrive il
dramma "La visita della vecchia signora", unanimemente considerato dalla critica una delle sue opere più
significative, forse il suo capolavoro. Rappresentata l'anno dopo a Zurigo, con la parte della protagonista
affidata alla celebre attrice tedesca Therese Giehse, la commedia (tale terrà sempre l'autore a definirla,
nonostante i molti aspetti drammatici in essa presenti) diventa subito un testo di successo: viene allestita in
Germania, Austria, Stati Uniti (grande successo a Broadway) e Francia. A Parigi vince il premio Molière
per la migliore commedia dell'anno. Al 31 gennaio del 1960 risale la "prima" italiana, al Piccolo di
Milano, dove Giorgio Strehler dirige, tra gli altri, Tino Buazzelli, Tino Carraro, Luigi Pistilli e, nella parte
della protagonista, Sarah Ferrati, una delle più solide professioniste del teatro italiano. La Ferrati è
protagonista, ben tredici anni più tardi, anche dell'adattamento televisivo della commedia, ancora opera di
Mario Landi, che dirige un buon cast comprendente tra gli altri, oltre alla Ferrati, Gianni Santuccio, Mico
Cundari, e quel Francesco Mulé, la cui voce era a noi bambini ben nota: doppiava il personaggio dei
cartoni animati Orso Yoghi. Durrenmatt sviluppa anche in questo lavoro i temi dell'ipocrisia perbenista
della società borghese, del potere del denaro, della corruttibilità dell'uomo, della fallacia della giustizia
degli uomini. Protagonista della commedia è una ricchissima signora che fa ritorno dopo tanti anni al
piccolo, modesto paese natìo, di nome Gullen (in tedesco: "letamaio". A buon intenditor...). E' un proposito
di vendetta, quello che spinge la signora Claire a ricomparire in paese. In gioventù, il suo indegno
fidanzato, si era rifiutato di assumersi la paternità del bambino che Claire stava aspettando, giungendo a
corrompere due loschi figuri affinché questi dichiarassero in tribunale di avere avuto rapporti occasionali
con la giovane, la quale fu così espulsa dal paese. La giovane donna, grazie a una serie di ben nove
matrimoni molto fortunati, diventa ricchissima: è proprio profondendo parte delle sue notevoli risorse
finanziarie che riesce ad ordire un complotto, corrompendo praticamente tutta la popolazione locale, per
rovinare il vecchio, fedifrago fidanzato, che finisce ucciso durante un'assemblea cittadina. Per concludere,
c'è da ricordare che il testo di Durrenmatt dà vita ad altri adattamenti di successo. E' lo stesso autore a
trarne, anni dopo, un libretto per musica: con la partitura scritta dal compositore austriaco Gottfried von
Einem, l'opera, in 3 atti, esordisce nel 1971 nel più famoso teatro di Vienna, lo "Staatsoper". Nel 1964
arriva la trasposizione cinematografica, con il titolo "La vecchia signora". Il regista Bernhard Wicki dirige,
oltre ai protagonisti Ingrid Bergman e Anthony Quinn, un ricco cast con molte presenze italiane: Valentina
Cortese, Paolo Stoppa, Romolo Valli, Renzo Palmer, Fausto Tozzi. Si tratta, del resto, di una coproduzione
statunitense, francese, tedesco-orientale e italiana, interamente girata nel nostro paese: gli interni a
Cinecittà, gli esterni a Capranica e Sutri, in provincia di Viterbo. Altri adattamenti cinematografici furono
realizzati nel 1989 dal regista russo-israeliano Mikhail Kozakov e nel 1992 dal senegalese Djibril Diop
Mambéty, con l'appropriato titolo "Iene". Il testo di Durrenmatt è entrato anche nel mondo del musical,
con il titolo "The visit", rappresentato per la prima volta a Chicago nel 2001 e giunto a Broadway,
ampiamente rielaborato, nel 2015.
Nel 1958 il prolificissimo Durrenmatt scrive soggetto e sceneggiatura de "Il mostro di Magendorf", film
diretto dal regista ungherese, naturalizzato spagnolo, Ladislao Vajda. Nel film, il ruolo del protagonista
viene interpretato da Gert Frobe, attore che diventerà popolarissimo, pochi anni dopo, con l'interpretazione
del malvagio Goldfinger nell'omonima pellicola della saga di 007. Il drammaturgo svizzero riprende in
mano la sceneggiatura ricavandone un romanzo, "La promessa", la cui edizione italiana vede la luce
appena un anno dopo, pubblicata da Feltrinelli in una innovativa collana, "Le comete", dedicata alla
narrativa internazionale contemporanea. Giusto vent'anni dopo, nel 1979, lo scrittore e giornalista
Gianfranco Calligarich (già autore della sceneggiatura di "Ritratto di donna velata", un grandissimo
successo) elabora l'adattamento televisivo de "La promessa", diretto dal già affermato regista Alberto
Negrin, e trasmesso sulla Rete 1 della Rai l'11 e il 18 dicembre. Forse per le immagini a colori, forse per la
presenza nel cast di attori stranieri (per quanto ben noti al pubblico italiano: gli ottimi Raymon Pellegrin e
Macha Meril) o per l'appartenenza del regista ad una generazione successiva a quella dei D'Anza e dei
Landi, lo sceneggiato risulta un prodotto piuttosto diverso rispetto ai precedenti. Non a caso, è stato
piuttosto trascurato e dimenticato, non risulta sia mai stato replicato. E pensare che nel 2001 la storia è
stata portata sul grande schermo da Sean Penn, con protagonista Jack Nicholson! Nello sceneggiato Rai, è
invece Rossano Brazzi ad interpretare il ruolo del protagonista, il commissario Matthai: un investigatore
ben diverso dal suo "collega durrenmattiano" Hans Barlach, che si muove sempre con una pacata
sicurezza, forte della sua razionale, disincantata padronanza degli eventi. Matthai si lascia invece
coinvolgere emotivamente da un drammatico caso di rapimento e uccisione di una bambina, entra in
disaccordo con i superiori e lascia la polizia, conducendo da privato cittadino un'indagine che diventa per
lui l'unica, maniacale, ossessiva ragione di vita, e che lo conduce all'alcolismo e alla follia. Con questo ben
triste finale, la vasta e prestigiosa produzione di Friedrich Durrenmatt si congeda dal pubblico televisivo
italiano.

Friedrich Dürrenmatt, i cento anni del Kafka svizzero tra letteratura, pittura e cinema –
Eusebio Ciccotti
 
Ha proiettato un prisma di luci e ombre sulle vicende quotidiane del nostro novecento
esistenzialista. Abile nel romanzo come nel testo teatrale e nella pièce radiofonica, lo
svizzero Friedrich Dürrenmatt (5 gennaio 1921 – 14 dicembre 1990), ci ha lasciato una poetica
tra assurdo quotidiano e giallo filosofico, in cui sovente la giustizia, asfissiata dalla logica, fa fatica
a trovare la luce nel contraddittorio mondo degli uomini. E se talvolta pare che il ragionare stia
diradando le nebbie ecco che inaspettatamente la logica va in blocco: è arrivato, inatteso, il caso,
come poi nel cinema di Krzysztof Kieślowski, a risolvere tutto con un finale accettabile ma illogico
(La promessa, romanzo del 1957).

Dalla contestazione al successo

Ad una gioventù affidata alla contestazione, con alcol e droghe, e ad un forte impegno politico, farà
seguito, per il giovane intellettuale svizzero, una brillante laurea in filosofia, il ritiro dalla scena
pubblica, e la prorompente passione per la scrittura, con cui riuscirà a mantenersi. Due romanzi
ricevono una accoglienza entusiasta: Il giudice e il suo boia (1950) e La promessa (1957). Anche le
sue pièces teatrali s’impongono tra il pubblico e la critica, tanto da divenire uno degli autori più
rappresentati sin negli anni sessanta. I suoi testi (La panne, I fisici, Operazione Vega, ed altri) che
raccontano vicende logicamente illogiche lo hanno fatto porre, dallo studioso Martin Esslin,
accanto ai grandi autori del teatro dell’assurdo (Samuel Beckett, Harold Pinter, Eugène
Ionesco, Arthur Adamov). Trasposizioni dei suoi romanzi in film, a partire dagli anni settanta, lo
hanno reso ancora più conosciuto tra il pubblico. A completare il felice eclettismo di Dürrenmatt va
aggiunto che è stato pittore e, occasionalmente, sceneggiatore e attore di cinema.
Il giudice e il suo boia (Der Richter und sein Henker, 1950): dal romanzo al film
Se il “teatro dell’assurdo”, come lo definì Martin Esslin nel 1962, si fa iniziare con l’opera
teatrale La cantatrice calva (1950) di Eugène Ionesco, tale primato, a nostro parere, andrebbe
condiviso, sul versante della “narrativa dell’assurdo”, con il romanzo Der Richter und sein
Henker (1950) di Dürrenmatt: un romanzo pienamente kafkiano, nel senso più letterale del termine.
Scovare l’assassino di un giovane vicecommissario Schmidt, sarà il compito del vecchio e malato
commissario Barlach. Investigatore che, nel film-tv Rai del 1972, Il giudice e il suo boia (Daniele
D’Anza) è un calmo e raziocinante Paolo Stoppa (memore della recitazione in Il Gattopardo,
1963, di Luchino Visconti, 1963). Il film accolto positivamente dal pubblico di allora, oggi,
naturalmente, mostra i limiti delle molte riprese in interni (il budget degli “originali televisivi” era
limitato). Il racconto, si fa, però, più plastico negli esterni, Berna e la provincia montana, grazie al
ricorso a panoramiche e zoom, come l’estetica del decennio richiedeva.
Decisamente più cinematografica e coinvolgente nel ritmo (anche grazie al colore e ai brevi esterni
girati in Turchia) è Il giudice e il suo boia (1975) di Maximilian Schell. Qui Barlach è un
eccellente, introverso e aristotelico, Martin Ritt (anche a lui si ispirerà Jack Nicholson); il giovane
poliziotto assassino è l’antipatico Jon Voigt, mentre la fidanzata vedova di Schmidt è Jacqueline
Bisset, disinvolta nell’elaborare il lutto in camera da letto con l’assassino del suo uomo. La
sceneggiatura è firmata anche da Friedrich Dürrenmatt: egli si riserva una bella scena. È il
professore di storia medievale presso cui si reca il commissario Barlach per le sue indagini. Sta
giocando a scacchi da solo, con “un altro da me che si sente superiore a me”. Nello studio del
professore (è quello di Dürrenmatt), alle pareti si possono ammirare suoi grandi dipinti
espressionisti.

La promessa (Das Versprechen, 1957): dal romanzo al cinema


Das Veshprechen irrompe sulla scena della letteratura di lingua tedesca due anni prima di Il
tamburo di latta del berlinese Günther Grass, ma non ottenne la stessa eco. Solo anni dopo il
romanzo di Dürrenmatt verrà considerato un capolavoro, alla stregua del romanzo di Grass, pur
essendo confinato nel sottogenere del “giallo esistenzialista”. Alla fine degli anni settanta
contribuisce a una rivalutazione piena del testo il film-tv italiano La promessa (1979) di Alberto
Negrin, sotto silenzio il primo adattamento, Il mostro di Mägendord (1958), del bravo Ladislavo
Vajda (quello di Marcellino pane e vino, 1955). Con la terza trasposizione, piuttosto libera, firmata
da Sean Penn (The Pledge, 2001), con Jack Nicholson, le copie disponibili in libreria del romanzo
andranno a ruba in pochi giorni. Il film di Negrin, fedele al romanzo, gode di un adattamento
letterario sincopato nei tempi a firma dello sceneggiatore Gianfranco Calligarich.
Negrin alterna esterni ed interni con i giusti tempi; la ricostruzione della trama nel paesaggio alpino
trasporta lo spettatore tra i boschi, nelle locande di montagna, e contestualizza il passato e il
presente con accenni preziosi tramite comparse, figuranti e la musica. Eccellente la direzione della
bambina, Anna Maria, l’eventuale vittima del maniaco, soprattutto quando è pressata
dall’improvviso interrogatorio di Matthäi e del procuratore. La promessa deve la sua felice
trasposizione soprattutto alla superba prova di Rossano Brazzi. Restituisce in pieno il personaggio
profondo, riflessivo e misterioso, creato da Dürrenmatt. Ci pare che Sean Penn, nella sua versione,
abbia tenuto conto del film di Negrin. Infatti, Nicholson mantiene lo sguardo indagatore e, a volte,
perduto nel vuoto, di Brazzi; purtroppo, in alcuni momenti, in accordo con lo stile recitativo
hollywoodiano, l’attore accentua il lato psicologico a discapito di quello esistenziale. Avremmo
voluto vederci, nella parte, Clint Eastwood, che ha vissuto in Europa.
L’assurdo del teatro
L’assurdo teatrale di Dürrenmat, come anticipato, di altissima resa narrativa e scenica, da esser
paragonato al teatro di Beckett, Ionesco e Pinter, sarà messo in scena in diversi paesi. Qui ci
limitiamo a ricordare I fisici (Die fisiker, 1963) e In panne (1956, prima racconto e poi
radiodramma). Nel primo dramma abbiamo la storia di Jobam Möbius, fisico, che si rifiuta di
rivelare la sua scoperta a chi ne farebbe un cattivo uso, e, fingendosi matto, si fa ricoverare in un
manicomio. Ma lì è inseguito, segretamente, da due spie, anch’esse si fingono folli: qui c’è tutto il
dadaismo svizzero e il surrealismo di un Luis Buñuel. Esilarante la scena in cui Jobam Möbius
riceve in manicomio la moglie: la donna gli presenta il suo nuovo marito, un pastore, felice di
allevare i tre figli di Möbius, più i suoi tre, senza che Möbius fosse a conoscenza di aver subito un
divorzio.
Nella pièce La panne, Traps, un agente di vendita in viaggio di lavoro, ha un problema con l’auto,
mentre attraversa un villaggio alpino. Deve lasciare la vettura. Qualcuno gli propone di
accompagnarlo alla stazione, ma decide di prendersi un po’ di svago, e accetta l’ospitalità in una
signorile casa da parte di un rispettabile anziano proprietario. Più tardi sopraggiungono due amici
dell’ospite: i tre, giudici in pensione, giocano a inscenare processi storici (a Gesù, a Marx, ecc.). La
loro teoria è dimostrare, attraverso un logico dibattimento, che tutti siamo colpevoli. Così, per
gioco, Traps (in inglese significa “trappole”) si ritrova a recitare l’imputato, sicuro della propria
innocenza. Pian piano, riconoscerà una colpa morale nei confronti del suo capo, e, andato nella sua
stanza, anche annebbiato dall’alcol, si impiccherà. Il tema squisitamente kafkiano è reso con
perfetta originalità nella trama e nei tempi narrativi. Ettore Scola, con Alberto Sordi, nei panni del
malcapitato, ne trasse un film, purtroppo non all’altezza del testo dürrenmattiano: La più bella
serata della mia vita (1972).

Potrebbero piacerti anche