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IL TRAMONTO DELLE MILLE BARENE

Capitolo 1 pag. 3
Capitolo 2 pag. 13
Capitolo 3 pag. 31
Capitolo 4 pag. 41
Capitolo 5 pag. 52
Capitolo 6 pag. 67
Capitolo 7 pag. 76

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CAPITOLO 1

L’odore dei libri impregnava l’aria della biblioteca e qualche studente sbuffava per la calura precoce
di maggio. I corsi erano alla fine e lasciavano spazio alle sessioni d’esame. A un tratto la
bibliotecaria ricevette una telefonata. Ispezionò la sala con un rapido sguardo, si alzò e si sporse al
di là del bancone alla ricerca di un docente che amava rintanarsi tra gli scaffali e i banchi da lettura.
Scrisse un biglietto e lo portò al professor Molin.
Mosè si voltò con un largo sorriso. Le date degli esami erano state fissate, mentre gli incontri
culturali sul genocidio armeno slittavano a settembre.
Mosè Yaritsan Molin era alto, magro, dal portamento nobile. I capelli erano curati, leggermente
lunghi, sistemati dietro gli orecchi. Gli zigomi erano alti e il naso dritto e fine. Aveva occhi
grandi, verdissimi, delineati da sopracciglia così scure che tradivano le origini armene.
Il professor Molin, filosofo, discendeva dagli armeni fuggiti dalle persecuzioni ottomane dei
primi anni del Novecento.
In un certo senso si sentiva custode della memoria del suo popolo, per questo aveva organizzato
un ciclo di incontri in occasione del centenario dell’olocausto.
Gli si avvicinò Marilena Biason, la laureanda di cui era relatore, per chiarimenti e la consegna
delle bozze. Aveva un debole per il Professore, per questo l’aveva scelto per la tesi. Aveva scelto
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il tema del Male e il genocidio armeno per accattivarsene le simpatie. Così almeno credeva.
Mosè, per parte sua, era ovviamente lusingato, ma da filosofo gestiva con distacco le passioni.
Marilena iniziò a parlare e il Professore ne scrutava gli occhi. Cercava la sincerità in quello
sguardo, mentre annuiva alle sue parole. In realtà non ascoltava. Pensava quant’era bella questa
ragazza e il pensiero corse alla moglie che se ne era andata con un altro. Già una volta la
bellezza l’aveva tratto in inganno. Presa copia, della tesi si congratulò con l’allieva e uscì
dall’università con l’unico desiderio di prendere una boccata d’aria.

Gli piaceva passeggiare per Verona e scese per il corso affollato. Numerose bancarelle erano
state poste ai lati della strada ed erano gremite di persone; il brusio si mescolava al vociare dei
bambini. I colori del tramonto striavano un cielo turchese pronto a prendere sonno e una leggera
brezza rendeva il clima fresco ed accogliente. Dalla via centrale entrò nel portone di casa. Era
uno stabile antico, con un cortile da opera d’arte. Salì al secondo piano, dove alloggiava in
affitto in un appartamento elegante. Un fastidioso odore di fumo di sigaretta usciva dalla porta
del vicino e inondava il ballatoio, mettendo in difficoltà Mosè che iniziò a tossire. Entrò, si
sistemò sul divano, il luogo che prediligeva maggiormente, pose le scarpe a lato e rimase ad
ascoltare il silenzio. L’appartamento risultava caldo e accogliente, anche per le tonalità di beige
con le quali erano state tinteggiate le pareti. I due balconi davano un tocco di classe, infatti uno
era rivolto sopra la corte interna, mentre l’altro si affacciava sull’Adige, offrendo un ampio
panorama della città. Verona era signorile ai suoi occhi, ma dopo l’abbandono della moglie, che
lo aveva portato in questa città, sentiva nostalgia per la sua Venezia. Tale nostalgia aumentava
inesorabilmente con il trascorrere del tempo. Sempre più gli tornavano memorie dell’infanzia,
della famiglia, soprattutto della sorella Maria e del fratello Gabriele.
Alzò il telefono.
- Ciao Maria! Come va il tuo mestiere di madre.
- Alice l’ha fatta nel pannolino, Filippo ha la febbre, Luigi si lancia sul divano e io sono al
settimo mese.
- Bella notizia!
- Lo sai che da neocatecumeni crediamo in una famiglia numerosa.
- Certo, ma almeno tu ti sei realizzata. Disse lui che avrebbe voluto un figlio.
- A volte invidio la tua tranquillità. Rispose lei quasi a consolarlo.
- Beh! La solitudine non vuol dire per forza tranquillità. Claudia mi ha piantato in asso per un
musicista qualunque…neanche fosse Benedetti Michelangeli e poi la mia casa è così
silenziosa che a volte mi sembra di essere in una tomba.
- Con tutte le donne che hai, non lamentarti e se vuoi vivere nel casino ti assumo come baby
sitter.
Ancora una volta, mentre la sorella parlava, si distrasse; lo sguardo gli cadde sulla macchia di
muffa nell’angolo della stanza; la mente allora cominciò a pensare da quanto tempo fosse lì e
perché non se ne fosse mai accorto. Si ripromise di riverniciare. L’estate rovente avrebbe
favorito il lavoro.
- Se è maschio, lo chiamerò Gabriele. A mio marito piace molto e quello dopo lo chiamerò
Mosè come te.
Il nome del fratello lo richiamò alla conversazione. Chiese se avesse notizie di Gabriele e della
sua carriera militare.
- Quello è scappato di casa appena ha potuto, del resto come abbiamo fatto noi; disse Maria.
- Io non sono scappato, mi sono sposato. Rispose Mosè
- Sta bene, ogni tanto mi manda una cartolina.
- Meno male, ma ci ha sempre fatto tribolare, forse è un bene che sia entrato nell’esercito.
Mosè non era certo convinto di quello che diceva, anarchico com’era, ma lo disse nel
tentativo di chiudere quell’argomento che ancora gli procurava dolore; tuttavia la sorella non
percepì il crescente disagio del filosofo e continuò
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- È nato quando i nostri erano vecchi e certamente non è stato aiutato dalla prematura morte
della mamma e dalla matrigna. Forse il papà non avrebbe dovuto risposarsi o sposare una
così stramba. Era prevedibile che Gabriele avrebbe cercato altrove una famiglia e la sua
scelta è ricaduta sull’esercito.
- Io però ho tentato di trattenerlo. Per me la divisa è stata un obbligo e un ostacolo alla mia
carriera universitaria.
- Sì, ma per lui è stata una liberazione. La matrigna l’ha fatto scappare. Rincarò lei.
- Ma non mi ha voluto dare ascolto. Replicò un Mosè ancora contrariato dalla scelta del
fratello.
- Beh, tu da filosofo sei stato troppo dogmatico, non hai saputo ascoltare le sue ragioni.
Maria non intendeva certo offendere Mosè, ma aveva toccato un nervo scoperto.
- Ecco, adesso è colpa mia. Commentò amaro Mosè che aveva litigato con il fratello per
questa scelta. I due non si parlavano da anni.
- Non offenderti. Ha seguito il suo destino. Ha fatto quello che gli piaceva. Aggiunse Maria,
guardando i suoi tre bambini per terra.
- Lo chiamerò, lo dico sempre, poi mi dimentico. In cuor suo pensò di non averne il coraggio.
Concluse un Mosè dispiaciuto
- Torni a Venezia quest’estate? Domando Maria.
- Non lo so, non ho ancora deciso. Forse affitterò a Pellestrina così sono vicino a papà e lo posso
visitare tutti i giorni. E pensò tra sé, “ma abbastanza lontano da non vedere la matrigna e i suoi
parenti, che si approfittano di casa nostra per farsi le vacanze gratis”.
Erano sedici anni che non dormiva nella casa paterna. La sorella invece tornava qualche volta ai
luoghi dell’infanzia.
La prima ad andarsene da casa era stata lei. Si era sposata ed era diventata subito mamma. Il
distacco di Mosè era stato più graduale di quello di Maria. Durante l’università aveva cercato
comunque di sostenere Gabriele nel suo percorso scolastico, ma poi era comparsa Claudia e il
matrimonio li aveva spinti a Verona.
Gabriele, rimasto con la matrigna, che detestava, si era arruolato lasciando il vecchio in balia
della moglie.
Maria concluse la telefonata:
- Guarda che a noi una bambinaia fa sempre comodo. Se ti andasse, ti accoglierei a braccia
aperte. Al mare non andrò. Sono avanti con la gravidanza, non vorrei mi capitasse qualcosa.
- Non so. È un periodo che non mi sento troppo bene. Ho sempre un po’ di mal di schiena. Ti
farò sapere.
- Non sarai diventato uno scansa fatiche. Scherzò lei.
Sorrisero e si salutarono.
In effetti da qualche settimana Mosè sentiva sul fianco sinistro a mezza schiena una sofferenza,
un peso, non un dolore intenso e insopportabile, ma come di una presenza estranea nel suo
corpo. Si passò la mano sulla parte dolorante e si avvicinò alla finestra pieno di pensieri.
Riflettendo sulla conversazione, Mosè pensò che tra lui e Maria non c’era quella sintonia che a
volte c’è tra fratelli. Forse c’era stata da bambini, ma dopo i rispettivi matrimoni i legami si
erano disgregati. Mosè, in cuor suo, rimproverava alla sorella poca vicinanza nei due periodi
decisivi per la sua vita: lei non aveva dato un contributo all’educazione di Gabriele, e non gli era
stata di aiuto e conforto durante la depressione dovuta al divorzio.
Rimase a fissare l’angolo ammuffito della sala, nella speranza che i batteri scomparissero per
incanto. Si alzò, scese e montò in auto. Era deciso ad acquistare l’occorrente per la tinteggiatura.
Mosè non era privo di abilità manuali. Se la cavava nelle faccende domestiche e non disdegnava
affatto il lavoro manuale. Cucinava, cuciva ed eseguiva le riparazioni del caso. Nemmeno
l’elettricità lo spaventava e si destreggiava nella meccanica. Aveva lavorato un po’ ovunque, per
mantenersi agli studi e aveva sostituito la mamma all’interno della propria famiglia.
Nell’uscire dall’appartamento notò la vicina affacciata sulle scale.
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Sembrava che lo stesse aspettando come in un’imboscata. Gli chiese un passaggio all’ipermercato;
un modo per potergli stare vicino. Entrambe erano compiaciuti da quella relazione di amicizia e
Mosè non disdegnava le attenzioni dell’avvocatessa prosperosa quanto intraprendente. Lei era una
donna impegnata in politica, sempre elegante; curava la forma nell’aspetto e nel linguaggio. Reduce
da un turbolento divorzio, si era trasferita in centro a Verona, ma era originaria di Bologna.
I due spesso insieme e discutevano di tutto anche di politica e non era infrequente che i due
trascorressero la notte insieme. Lucia era una donna generosa e suadente e queste due
caratteristiche facevano di lei un’amante ideale.
Attraversarono una città affollata fino al supermercato. Mosè acquistò rullo, pennello e tuta da
lavoro, mentre Lucia si perdeva nel giardinaggio uscendone poi con il veleno per gli insetti che
le mangiavano le piante.
Tornando a casa in automobile i due continuarono a punzecchiarsi.
- Non ricordavo avessi piante. Disse lui guidando.
- Le voglio comprare.
- Non capisco, perché compri il veleno prima delle piante?
- Così minaccio i batteri che prendono paura e non vengono. Rispose una sempre più divertita
avvocatessa innamorata del suono della voce di Mosè.
- Non me la racconti giusta. Rispose il filosofo
- Sei tu che non ti sei fatto più vedere! Sono gelosa delle tue giovani studentesse e delle tue
colleghe rampanti, abito sempre sopra di te.
- Lo so, ma gli impegni sono tanti, e anche il tuo lavoro è impegnativo.
- Ma pensavo che mi avresti cercato? Non ti piaccio più? L’attacco della donna si era fatto
serrato.
- No no, ma … Balbettò un Mosè in difficoltà.
- Ma cosa? La mano di lei si appoggiò sul ginocchio di lui. Questo segnale fu recepito bene da
Mosè. Lucia sapeva farsi intendere con gesti, occhiate e sorrisi, che non lasciavano alcun dubbio
sulle sue intenzioni.
Quella sera non gli fu permesso di tinteggiare; Lucia lo rapì e lo introdusse nel suo
appartamento. La fragranza, che lei indossava, stimolava Mosè al punto da togliergli i freni
inibitori; gli piaceva, la intrigava, ma sentiva che non era la donna della sua vita, ma lei era così
invitante…
Il professore era un uomo sanguigno, passionale e le donne lo interessavano tutte, tuttavia nel
cuore era rimasta la moglie di un tempo con la quale aveva condiviso una storia intensa.
Chiudeva gli occhi e ne rivedeva i seni morbidi culminanti in capezzoli color ambra e la vita
stretta. L’aveva baciata e ribaciata con l’entusiasmo dell’adolescente che gusta una primizia.
Ora baciava Lucia che lentamente si denudava, mostrando il proprio corpo generoso. Mosè la
guardò addormentarsi tra le sue braccia. Le labbra semichiuse e ben disegnate spiccavano sulla
perfetta carnagione e due piccoli nei sullo zigomo rendevano il volto ancora più intrigante. La
accarezzò e le cinse la spalla col braccio destro, facendo scivolare la testa di Lucia sul proprio
petto. Passò tutta la notte con lei, immaginando come sarebbe stata la propria vita se avesse
sposato questa donna.

Avevano lo stesso vissuto, ma lui non era più in grado di legarsi ad un'altra persona poiché
la moglie Claudia se ne era andata. L’aveva abbandonato con la stessa disinvoltura con la quale
si lascia cadere un vestito vecchio in una discarica. Mosè era consapevole che non avrebbe
sopportato una nuova delusione; il divorzio infatti l’aveva portato ad una tale depressione che
per mesi non era stato in grado di lavorare. Non riusciva ad accettare l’idea che la sua donna
fosse di un altro, ma soprattutto non trovava spiegazione per quella separazione che ai suoi
occhi era apparso inopinato e ingiustificabile.
Verso le cinque del mattino raccolse i suoi vestiti e seminudo scese la rampa delle scale ed entrò
nel suo appartamento. Si preparò un caffè e si coricò un attimo sul divano. Alzò gli occhi al
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soffitto e guardò quell’angolo sporco con un senso di sfida. Quel giorno avrebbe aperto la
battaglia contro la muffa.
“Non c’è fretta però, posso fare con calma e poi non posso certo svegliare il palazzo perché
voglio tinteggiare”.
Si riappisolò, ma non fu un sonno dolce e riposante, bensì pieno d’angosce, di incubi e di sensi
di colpa: sentiva la notte d’amore con l’avvocatessa un tradimento nei confronti di Claudia.
Certo erano rimorsi ingiustificati e irrazionali, ma ne soffriva.
Si svegliò sudato. La schiena gli doleva leggermente, un male leggero ma insistente, una
pressione dall’interno sulle vertebre.
Sorrise: forse era la troppa attività amorosa…però era la prima volta che succedeva.
Si vestì per tinteggiare, aprì le finestre e fu investito da un caldo secco che avrebbe rapidamente
asciugato le pareti. Verona si era già animata e la gente camminava lungo l’Adige. Avvicinò i
mobili, li coprì e tinteggiò. Non si accorse del passare delle ore. Finito il lavoro, scese dalla
scala e cercò di spostare la credenza, ma sentì nella schiena dolorante la fatica della giornata.
Sistemò la stanza, ripulì dalle inevitabili gocce cadute sul pavimento e si lavò per bene. Accese
il computer e navigò in internet per scoprire qualche rimedio naturale per la sua schiena.
L’odore di vernice impregnava l’aria a tal punto che si ricordò di tutte le volte che lui insieme al
cugino di secondo grado Gigi aveva lavorato per l’impresa del padre a riparare e tinteggiare le
case dei vicini.
Luigi era più di un parente, era un fratello aggiunto e in lui scorreva sangue armeno. Questa era
forse la ragione del loro profondo legame. Era un ragazzo semplice, che non amava stare sui
banchi e, dopo la terza media, aveva lavorato come manovale, barelliere in ospedale e anche
come cameriere. Sapeva arrangiarsi, aveva voglia di lavorare e tutti sull’isola lo chiamavano per
qualsiasi cosa: riordinare i giardini, per qualche lavoro di manutenzione idraulica o di muratura.
A sei anni aveva perso i due genitori ed era vissuto con i nonni. Spesso ospite in casa dei Molin,
si era innamorato di Maria, la sorella di Mosè, ma non era mai stato in grado di esternarle il
proprio affetto.
Mosè si alzò e controllò il muro, era rimasto un piccolo alone. Diede ancora un po’ di vernice e
finì il lavoro. Soddisfatto, ripose il pennello e controllò di non aver sporcato. Era un uomo che
amava far bene le cose e nelle sue faccende ci metteva impegno e cura. “Se devi farlo fallo
bene, anche se non vorresti farlo”. Questa era una delle regole che gli aveva trasmesso l’amato
nonno per il quale aveva avuto una grande venerazione.
A sera, mangiò poco, senza appetito e con un senso di nausea. Si sdraiò con il dolore che gli
teneva compagnia; un compagno discreto, non invadente. Stanco, cercò di riposare, ma la
nausea, che non l’abbandonava, cominciò a preoccuparlo più del dolore.

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Il mattino seguente si recò dal medico di base, perché avvertiva una fitta alla schiena verso
l’addome. Pensò in un primo momento di avere fatto indigestione, ma, poiché aveva mangiato
pochissimo, non riusciva a individuare l’alimento che avrebbe potuto procurargli queste fitte.
A sorpresa notò che c’era un giovane sostituto alle prime armi. Il ragazzo appariva impacciato.
Mosè lo scrutò e, da buon osservatore quale era, si accorse che dietro a quella goffa immagine,
vi era un medico coscienzioso.

Il giovane dottore specializzato in endocrinologia, lo visitò accuratamente dalle unghie alla


lingua. Fu una visita veramente approfondita, come non si vedeva da anni. Quindi, con viso
pensieroso, si sedette alla scrivania e avvicinò la sedia lentamente. Era così concentrato che non
si accorse che il telefono stava squillando. Non guardò negli occhi il Professore, per nascondere
un po’ di timidezza, ma anche un sospetto. Prescrisse degli esami generali, due specifici
riguardanti il pancreas e degli antidolorifici; infine gli propose di rimanere a casa dal lavoro
qualche giorno per poter recuperare le forze.
Mosè non acconsentì, poiché i colleghi avrebbero trovato difficoltà nella sostituzione a sessione
di esami avviata. Nello scrivere la ricetta il medico raccomandò al filosofo di sottoporsi agli
esami prescritti nel volgere di una settimana, non perché sospettasse nulla di grave, ma per
togliersi ogni dubbio sul fatto che non avesse nulla di grave. Quindi in modo molto gentile
chiamò il reparto di endocrinologia all’ospedale di Verona e chiese di poter far visitare Mosè. Il
medico rivoltosi al professore disse
- Avrà capito che mi sono appena specializzato. Lavoro come supplente dei medici di base in
attesa del concorso. Mi sono rimasti parecchi amici all’interno del reparto, che possono
visitarla in modo più approfondito. Appena ha gli esiti, non torni qui, perderebbe tempo, si
rivolga a questo reparto. Deve comporre tale numero; gli porse un biglietto con i nominativi
a cui riferirsi.
Mosè fu profondamente riconoscente nei confronti del giovane dottore per avergli risparmiato le
lungaggini della burocrazia italiana; e pensò tra sé “È proprio vero che non è l’età a donare la
sensibilità e la saggezza”. I modi del dottore l’aveva comunque messo in ansia e tale ansia
crebbe durante la notte. Mosè era turbato, come se avesse dei brutti presagi.
Al mattino cercò istintivamente di incontrare Claudia; per la verità capitava molto spesso che
Mosè si trovasse nel parco davanti alla nuova casa della ex moglie e del suo compagno, ma
sempre in modo discreto. Voleva solo vedere se stesse bene o forse in cuor suo sperava in un
riavvicinamento. Anche quella mattina, raccolto tutto il coraggio, si diresse nel quartiere dove
abitava Claudia, ma stavolta tentò di vederla. In fondo avrebbe voluto riaggiustare ciò che non
c’era più. Lei era ormai innamorata di un altro e lui un ricordo ormai lontano. Si erano sposati a
ventiquattro anni, ma a trentadue erano già divorziati. Lei si era rapidamente risposata con un
uomo con il quale viaggiava per le tournée musicali, poiché erano entrambi due strumentisti di
una importante orchestra.
Si sedette sulla panchina del parco e aspettò. Dei brividi di emozione gli crescevano dall’anima
e gli rendevano le mani fredde. Fluivano in lui le lacrime per il suo amore perduto, ma aveva
smesso di piangere da tempo.
L’abitazione della ex moglie e del compagno era elegante, una villa nel quartiere residenziale
alle porte del centro storico. Mentre aspettava, gli si avvicinò una ragazza con un cane e si
sedette sulla panchina di fronte, con la chiara intenzione di attaccare bottone.
Era una trentenne, palestrata, single con cane al seguito.
Mosè era infastidito, poiché aveva perso la visuale dell’ingresso della casa di Claudia.
La signorina iniziò una conversazione nel modo più banale e più semplice
- Bella giornata, vero?
- Certo signorina. Rispose un preoccupato Mosè, che vedeva il cane avvicinarsi per segnare in
modo umido il territorio.
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- Non l’ho mai vista qui!
La ragazza si era seduta in modo da mettere ben in evidenza il fisico.
- Ho fatto una lunga passeggiata e sono giunto in questo quartiere, ma sono del centro. Rispose
in modo distaccato Mosè, come se stesse sostenendo un colloquio di lavoro. Non voleva essere
scortese, si sentiva lusingato, ma non era il momento e cercava di mostrarlo senza alcuna
intenzione di offenderla.
- Tutte le mie amiche sono del centro. Rispose lei, cercando qualche cosa che li accomunasse.
In quel momento uscì la ex moglie con il nuovo compagno, e subito Mosè allungò il collo, si
spostò per avere una miglior visuale e vide che la ex moglie era in stato interessante. Una
pugnalata gli trafisse il fegato, ebbe un forte dolore al ventre. Capì che era finita, ma non
avrebbe mai creduto che gli causasse un tal dolore anche fisico.
-Si sente male? Mi sembra un po’ giallognolo, un po’ pallido. Disse la ragazza.
Un sudore superficiale aveva coronato la sua fronte, un sudore che gli aveva dato un senso di
debolezza e di freddo. Abbozzò un sorriso di circostanza e disse
- Torno a casa signorina.
- L’accompagno, ho parcheggiato qui a lato.
- Accetto. Rispose secco.
Mosè sentiva un aggressivo dolore all’addome e il continuo sudore sembrava indebolirlo.
Si sedette in auto e la ragazza lo accompagnò a casa. Lei cercava di coinvolgerlo con dei
discorsi, ma lui era restio a rispondere perché il dolore lo preoccupava seriamente.
- Dove abita?
- In centro, dove c’è la pasticceria sul lungo fiume.
Mosè avrebbe già voluto essere sdraiato a letto e quei due chilometri gli parvero un’eternità.
La ragazza era contenta di poter aiutare qualcuno, si sentiva utile e ciò rivelava di lei uno spirito
generoso. Mosè la scrutò: bella, atletica, gentile, un tipo curioso, anche se un po’ infantile con
quell’orsacchiotto sul cruscotto e il bambolino appeso allo specchietto retrovisore. La ragazza
gli chiese il numero di telefono, ma un Mosè dolorante nell’anima e nel corpo scese dall’auto
senza rispondere, ma ringraziandola gentilmente. Raccolse tutte le energie, si congedò, aprì il
portone e salì in ascensore. Entrò in casa e si lasciò scivolare sul letto ancora completamente
vestito. Dormì per ore e si svegliò all’alba. Il dolore al ventre era scomparso, ma rimaneva
sempre il dolore alla schiena e il dolore all’anima.
Aprì la finestra e una ventata d’aria fresca lo avvolse; si sedette poi sulla bella panca del
balcone sotto una coperta e si mise a pensare.
Claudia non aveva voluto avere figli quando era sposata con lui. Gli diceva che questo avrebbe
interrotto la sua carriera in un momento decisivo. Non era quindi il caso di perdere tante
occasioni lavorative per un figlio.
“Però con lui il figlio l’hai fatto, troia”. Questo era quello che gli rimbombava nella mente e poi
subito la giustificava.
“Forse avrei dovuto convincerti. Forse ho sbagliato qualcosa”.
La rabbia nei confronti della ex moglie si rivolgeva contro sé stesso e poi contro il mondo.
“Se la società aiutasse le donne”. Pensava, “non ci sarebbero tanti divorzi e tanti problemi di
coppia”.
“Avrebbe potuto suonare e accudire il bambino o magari avrei potuto accudirlo io”.
Claudia non era pronta alla maternità e forse non era nemmeno pronta al matrimonio. Tanti
erano i pensieri che gli offuscavano la mente e tante erano state le ore perse a cercare una logica
a quegli eventi, ma le cose forse nel suo caso erano terribilmente più semplici. Claudia si era
innamorata di un uomo che le viveva sempre accanto.
L’alba era vicina e le acque del fiume sembravano prendere più vita all’aumentare della
luminosità. Alcune persone frettolosamente si dirigevano al lavoro, o lentamente rincasavano
dopo il turno notturno. Si ricordò di non aver mangiato, tuttavia si sentiva sazio.
Rimase a digiuno e provò un certo sollievo.
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Poi si diresse all’università, cercando le segretarie per completare le formalità di turno.
Quella mattina era più fresca del solito e un vento sbarazzino raccontava di grandinate non
troppo lontane. Il sole bucava qua e là un cielo disposto a dar battaglia, tuttavia le nuvole
cariche d’acqua sembravano concedere una tregua, almeno per qualche ora.
Si diresse in biblioteca e iniziò ad aiutare le studentesse che preparavano la tesi di laurea. I loro
lavori non funzionavano e dovette faticare non poco a correggere forme di un italiano talvolta
sconosciuto e soprattutto passaggi logici inesistenti.
Le sue discenti non opponevano resistenza, si lasciavano modificare tutti i paragrafi, come se il
verbo del Professore fosse un dogma. Mosè non poteva evitare di osservare i loro piccoli vestiti
e, per non creare malelingue, le riceveva in biblioteca e non nello studio privato.
Marilena Biason aveva approfondito la concezione del Male alla luce dell’olocausto armeno e
questa tesi aveva appassionato a tal punto Mosè che aveva inserito la giovane addirittura come
relatrice al ciclo di conferenze che si sarebbero tenute a settembre.
La ragazza aveva trattenuto a stento la gioia, non già per le conferenze, ma perché avrebbe
avuto l’occasione di frequentare i docenti migliori ed in particolare Mosè. Credeva infatti che,
frequentando i Professori, potesse avere delle opportunità di carriera all’interno dell’università.
La tematica del primo genocidio della storia era scottante, ma Mosè la illustrava con un distacco
scientifico, senza rancore nei confronti dei turchi e della loro pervicacia a negare tale sterminio.
L’immagine delle donne crocifisse rendeva evidente la crudeltà dei tiranni turchi, ai quali era
stata risparmiata una giusta Norimberga. La sua passione nel raccontare era coinvolgente.
Persino la bibliotecaria si era seduta ad ascoltare la discussione accademica che si era
proficuamente accesa tra lui e le ragazze. La donna, di circa sessant’anni, lo apprezzava per
l’impegno e la passione; in quei momenti Mosè era come una locomotiva del sapere, alla quale
bisognava solo agganciarsi per viaggiare nel tempo.
Egli aveva studiato filosofia e storia affascinato dai racconti del nonno, che era riparato a
Venezia con alcuni sacerdoti cattolici armeni e alcuni sopravvissuti. Nel paradiso naturale della
laguna veneziana, a Lio Piccolo, gli armeni avevano costruito una torre campanaria simbolo
della loro fuga e della loro voglia di sopravvivere.
I racconti del nonno avevano reso Mosè sensibile alle tematiche dell’impegno sociale e civile, e
lo avevano educato alla verità da perseguire a ogni costo, ma sempre con metodi pacifici. Le
lunghe passeggiate tra le barene, le discussioni tra i due avevano cementato un rapporto
interrotto solo dalla morte del nonno. Quando il giovane Mosè voleva meditare, si rifugiava in
questo angolo di mondo. Montava la tenda sui prati e rimaneva a osservare la laguna, la gente, i
ritmi sacri tra mare e terra, tra agricoltura e pesca, tra cielo e paradiso. La storia era rimasta
lontana da questi luoghi quasi deserti.
Da qui si potevano osservare i mille soli di barena, quello specchiarsi del sole nelle infinite
vasche da pesca. Questo era il luogo dove Mosè si sentiva al sicuro e questo era il luogo che lo
avrebbe richiamato.
Finita la spiegazione, la bibliotecaria mostrò un libro scritto e pubblicato dal professor Molin e
gli chiese una dedica con autografo. Mosè sorrise.
- Porta male! Ma per lei, che tiene aperta la biblioteca per noi, scriverò un pensiero.
Aprì la copertina e vergò sulla prima pagina.
“Se ho aiutato qualcuno a scoprire la verità, ho raggiunto lo scopo della mia vita”.
La bibliotecaria si commosse e chiese di poterlo baciare sulla guancia, ma prima ancora di
ricevere la risposta gli scoccò un bacione.
Persino il bel Mosè divenne rosso di fronte a suoi studenti.
All’uscita dell’università, Marilena con i libri al petto lo affiancò con il desiderio di
accompagnarlo e di discutere ancora un po’ con lui.
La ragazza metteva in mostra delle gambe perfette da ballerina, due colonne scolpite nella
giovinezza e un décolleté immacolato seminascosto da una giacca blu. L’obiettivo della giovane
era quello di intrappolare nella rete Mosè.
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La studentessa sapeva che, specializzandosi con lui, l’avrebbe rivisto e ne era compiaciuta
perché avrebbe avuto più tempo per corteggiarlo.
Lo guardava come tutte le ragazze guardano il proprio eroe, con quella devozione che promette
fedeltà eterna. Mosè la osservava e le invidiava non solo la giovane età, ma quella voglia di
vivere che si poteva leggere nei suoi occhi.
Mosè, conscio del valore della studentessa, continuava imperterrito ad insegnarle modo e
metodo per poter affrontare tutte le questioni scientificamente. Non perdeva tempo nell’istruirla
su quali fossero le fonti migliori.
- In un mondo dove le informazioni sono diventate innumerevoli, è indispensabile compiere
una cernita accurata e nello stesso tempo rapida dei dati, altrimenti le ricerche rischiano di
naufragare. Continuava a ripetere ai suoi alunni e a lei in particolare aggiungeva.
- Il contatto con i documenti originali è fondamentale, non si può studiare solo ed
esclusivamente sulle ricerche di altri. Visitate gli archivi, aprite tutte le filze che potete e non
abbiate remore nel portare alla luce tutti i dettagli, anche quelli che potrebbero apparirvi
scomodi.
Improvvisamente Marilena chiese.
- Ma l’amore in quel periodo? Anche in quel periodo la gente si innamorava! Come
sopravviveva l’amore, in mezzo a tanto odio? La macrostoria è interessante, ma le microstorie e
soprattutto le microstorie d’amore chi le ha mai studiate?
Per microstorie la giovane intendeva i fatti che riguardavano una ristretta cerchia di persone,
mentre per macrostoria intendeva lo studio degli eventi maggiori e il fluire dell’evento
principale nella sua essenza.
Mosè si fermò, la guardò stupito perché la domanda nella sua semplicità era di una devastante
importanza. Non ci aveva mai pensato prima. Come era possibile innamorarsi in quell’inferno?
Eppure era sicuro che qualche scintilla di Bene in quel mare di Male era pur scoccata. Si sentì a
disagio e candidamente rispose
- Si concentri per ora sul Male, valuterà se preparare un approfondimento sull’amore per le
conferenze. Certo dovrebbe trovare lettere, documenti che possano testimoniare la nascita di
storie d’amore in quella situazione; farebbero da coreografia allo studio del genocidio armeno.
- Tutti quei legami spezzati dallo sterminio. Disse lei con l’intento di sostenere la sua idea.
Quando furono soli, lei tolse la giacca e gli si sedette di fronte. Mosè si sentì assediato poiché lei
non indossando il reggiseno mostrava parte di sé sotto la maglia.
Mosè aveva capito le intenzioni della giovane donna, che indossava i suoi anni migliori, ma
rimase prudente, in fondo era ancora una studentessa e riprese in modo professionale.
- Finisca la tesi e per le conferenze provi ad approfondire la tematica dell’amore.
- Mi dia una concezione di amore in modo che io sia in grado di guidare la ricerca. Chiese la
laureanda
La ragazza si riferiva all’amore che lei mostrava di provare per lui e che più di una volta lei
aveva esternato. Mosè guardò quegli occhi dolci, diventati occhi da innamorata sfidante, e
rispose.
- È il sacrificio per l’altro, questa è la mia definizione d’amore. Rispose lui.
Lei rimase in silenzio, non commentò, avrebbe cercato tutti i fenomeni di altruismo eroico tra
gli armeni e poi riprese
- Dice che ho le capacità di affrontare una platea in una conferenza?
- Certo! Sei scrupolosa e preparata. Non cercare sguardi che potrebbero distoglierti dalla tua
relazione mentre intervieni alla conferenza.
- Mi aiuterà? La ragazza intendeva nella carriera universitaria.
- Sicuro. Concluse lui perentoriamente, riferendosi alla tesi e al ciclo di conferenze. Mosè non era
un barone, infatti era un uomo onesto e pertanto non aveva né la forza né la volontà di
raccomandare qualcuno.

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La ragazza scivolò alla fermata, salì sul bus e guardò dall’alto il proprio cavaliere, mandandogli
un cenno con la mano. Mosè le sorrise e la salutò. Sapeva, in cuor suo, che quella bellissima
giovane avrebbe potuto compiere una splendida carriera solo all’estero.

Capitolo 2

Il caldo iniziava a non dar tregua e i ventilatori portati da casa non riuscivano a refrigerare né gli
alunni né i Professori. Non ci fu nessun battibecco tra i Docenti e gli alunni più politicizzati
della facoltà, anche se Mosè era sempre pronto e disposto a mediare, utilizzando la sua
diplomazia che gli conferiva una certa autorevolezza. Gli esami di giugno finirono il 24, senza
intoppi particolari. Il caldo afoso e un po’ di nausea gli avevano tolto l’appetito e i colleghi gli
chiedevano scherzosamente se fosse in stato di gravidanza; in effetti il panino lasciato a metà
come la birra lo rendevano uno schizzinoso. In una settimana perse un kilo, ma non ci badò
molto, anzi ne fu stupidamente contento.
Si diresse verso casa e decise di allungare la strada per vedere l’elegante centro con le
commesse indaffarate a preparare le vetrine con i saldi di stagione. Lo sguardo di Mosè
scivolava leggero sul mondo, era pronto per le vacanze. Nel percorrere il Lungo Adige Re
Teodorico, sentì dei passi affrettarsi alle sue spalle. Lo affiancò una donna che indossava dei
tacchi alti, tali da mettere in evidenza la splendida figura.
Il tailleur grigio chiaro sopra una camicetta rosa rendeva ancora più elegante una figura già
bella.
La ragazza allungò il passo e appena superò il filosofo si volse indietro per guardarlo e per farsi
riconoscere.
- Salve! si ricorda di me. Disse in modo diretto. Passò una mano nei capelli per mostrare bene
il volto
- No… cioè sì! È la signorina che mi ha accompagnato a casa. Rispose lui porgendole la
mano.
- Non ci siamo presentati bene la volta scorsa, sono Elena e lei? Chiese con forza.
- Mosè Molin.
- Sta meglio? Mi sembrava molto sofferente.
11
- Si! Sto bene. Nulla di che, ma devo proprio ringraziarla.
- Prende un caffè? Domandò lei con tono garbato, ma deciso.
- Perché no? Come posso rifiutare un tal invito.
- Grazie, fermiamoci al ponte di pietra, conosco un bar meraviglioso.
- Signorina Elena, diamoci del tu!
Mosè si sentiva gratificato dall’essere preso in considerazione dalle donne, poiché lo sentiva
come una rivincita nei confronti di Claudia.
La ragazza iniziò a parlare della propria vita, a raccontare delle sue molteplici esperienze. Era
piacevole, educata e gesticolava gentilmente; sapeva gestire bene la conversazione e Mosè
pensò che fosse un’impiegata in un ufficio vendite.
Rimasero insieme fino a sera, quindi Elena invitò Mosè a un concerto di musica classica. Dopo
il fallito matrimonio con una musicista, Molin aveva un po’ di allergia alla musica, ma quel seno
prosperoso lo convinse a seguirla. Dopo lo spettacolo, la giovane non voleva lasciarlo e lo
tratteneva con tutti i discorsi possibili, parlando perfino di politica, una rarità per donne di
quella età.
Lei voleva sapere tutto di lui, ma egli era combattuto tra impegnarsi seriamente o trascorrere
una fugace notte d’amore.
Optò per la seconda scelta, visto che si sentiva in forze, ma non aveva alcun desiderio di legarsi.
La ospitò a casa. La ragazza ebbe un’impressione positiva di quell’appartamento, ma soprattutto
dell’arredamento e di come Mosè l’avesse organizzato. Stampe d’epoca occupavano le pareti a
sinistra, mentre quelle a destra erano vivacizzate da quadri di pittori veronesi emergenti. Lo
studio del filosofo era caratterizzato da mobilio del Settecento con delle poltrone imbottite e
ricoperte da una stoffa pregiata di color verde smeraldo del medesimo secolo. Non mancava la
presenza di un moderno portatile, ma l’ambiente dava l’impressione di essere caldo e antico.
Pose la borsetta e la giacca sulla seggiola e si sedette sul divano accarezzandolo, quasi a
prendere contatto con l’ambiente di Mosè. Non volle vedere altre stanze, si tolse le scarpe e si
sdraiò. Mosè estrasse degli oli aromatici e le propose un massaggio per rilassarsi un po’. Era la
tecnica per entrare in contatto con il corpo dell’altro sesso; lei lo guardò e mostrò subito di avere
più ardire di lui, scoprendosi il seno.
Il mattino seguente Elena uscì presto, ma incontrò Lucia sulle scale. Le due donne si diedero
un’occhiata di reciproca valutazione e Lucia pensò che quello fosse il motivo per cui Mosè non
si era fatto più sentire. Nella sua testa si coagularono una serie di pensieri e di sentimenti
contrastanti, ma alla fine giustificò Mosè: in fondo gli voleva bene e poi quella ragazza era
veramente bella, nessuno poteva resisterle.

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Il professore si sottopose alle analisi prescritte dal supplente del medico di base presso
l’ospedale, ma fu subito contattato telefonicamente dal reparto specialistico del nosocomio
affinché incontrasse il medico indicatogli.
Fu felice di questa efficienza, ma col passare delle ore crebbero in lui dei timori riguardo alla
gravità della situazione. “Perché chiamarmi subito dal reparto? Forse il giovane medico l’aveva
segnalato ai suoi amici?”
Giunto all’ospedale, si sedette ad aspettare. All’improvviso una voce tonante lo chiamo:
- Mosè, Mosè Yaritzan Molin.
Si alzò e abbracciò il Dottore che lo chiamava, era l’amico Riccardo Corini promosso a vice
Primario del reparto di endocrinologia all’ospedale di Verona. Corini e i fratelli Molin erano
cresciuti insieme, stesso campo da beach volley, stesso oratorio e stesso catechismo. Si erano
poi mantenuti in contatto fino al matrimonio che aveva portato Mosè a Verona.
- Sono in attesa di una visita. Esclamò il filosofo.
- Stanno arrivando tutti i medici, devi aspettare solo pochi minuti.
- Da quanto tempo sei a Verona? Chiese Mosè.
- Un mese, non di più. Sto ancora cercando un appartamento, per ora vivo nella seconda casa
di una collega.
- Eh, bravo! È la tua fidanzata?
- No, non c’è amore, legame economico, ma pago troppo e meno male che ho trovato lei.
- Tu sei dimagrito, alla nostra età è un buon segno. Aggiunse Corini, che in qualche modo
cercava di consolare l’amico visibilmente preoccupato.
- Ho portato tutte le analisi, mi hanno controllato tutto: sangue, urine e feci.
- Dammele, vado in ufficio dal Primario, prima che inizi il giro dei pazienti e ti faccio
chiamare; concluse risoluto Riccardo. L’ho visto entrare nello spogliatoio, fra poco sarà
pronto.
Mosè gliele diede e il Dottore entrò in una stanza piena di camici bianchi. Il corridoio
dell’ospedale era freddo nei colori e nella temperatura, tanto da mettere i brividi. Ricordava certi
corridoi dei manicomi con vetrate smerigliate che impedivano di vedere nelle sale adiacenti. Il
pavimento era di linoleum grigio e bianco. Dal reparto di sala operatoria uscivano persone in
stato comatoso e questo aveva messo un po’ di apprensione a Mosè.
Verso le undici il corridoio si popolò di volti angosciati, erano i pazienti in attesa del proprio
turno per le visite specialistiche. Alcuni, con gli occhi bassi, sembravano agnelli pronti al
sacrificio, altri consumavano la paura, chiacchierando degli argomenti più disparati e
camminando nervosamente. Non mancava il parente di turno che, dopo aver perso un’ora di
lavoro per aiutare il proprio congiunto ad arrivare in ospedale, si lamentava senza pudore in
presenza dello stesso.
Venti minuti dopo si sentì chiamare. Si alzò, entrò e si accomodò: i volti erano tesi e l’amico si
sedette al suo fianco.
“Brutto segno” pensò Mosè, “Mi devono dare una pessima notizia”.
Il Primario domandò.
- Come si sente in questo momento, mi dica tutto senza trascurare nulla.
Mosè annuì e indicò il dolore alla schiena, nonché il dolore che aveva avuto al ventre.
- Da quanto tempo avverte questi dolori? Continuò il Dottore.
- Un mesetto, ma dopo pranzo diventano più intensi quelli all’addome; e indicò la zona destra.
- Domani la sottopongo a un esame specifico, si prepari psicologicamente a un trattamento con
chemioterapia, poiché per me è un tumore al pancreas.
Il Primario era risoluto e poco incline alla diplomazia e al tatto.
Riccardo gli pose una mano sulla spalla, ma Mosè aveva capito che quelle parole erano una
chiara sentenza di morte.
- Quanto tempo mi resta?

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- Difficile dirlo, direi che, grazie alla diagnosi precoce, alcuni mesi, due anni al massimo, non
abbiamo purtroppo riscontri positivi per questo tipo di tumore; rispose il Primario.
Mosè scosse la testa e guardò l’amico. Corini cercò di dargli coraggio e conforto, ma le sue
parole non riuscivano a nascondere la funerea espressione del viso.
- Proviamo il possibile, ma non garantiamo nulla. Domani ha in programma un esame
specifico, poi inizierei le cure del caso ricoverandola, concluse il Primario. Il filosofo annuì
meccanicamente e guardò istintivamente gli altri dottori quasi a chiedere conferma, ma
nell’incrociare lo sguardo di Riccardo capì che gli esami erano proprio i suoi e che la
diagnosi non era certo sbagliata.
Mosè si alzò, usci dalla porta, l’aria sembrava ghiacciata, mentre i Dottori erano rimasti muti. I
rumori si erano fatti ovattati e il vociare delle persone in attesa era diventato un rumore
indistinto e di fondo. Si toccò le tasche e gli parve di non trovare il portafogli, quindi tornò
indietro e sentì.
- È quasi morto, non arriverà a ottobre.
Captare quella frase lo colpì, tuttavia non era certo che fosse riferita a lui.
Il mattino seguente fu sottoposto all’esame per capire quanto fosse grave la situazione e
successivamente fu ricoverato nel centro ospedaliero. Condotto in reparto, si sedette sul letto e
aspettò.
A un tratto entrò in camera l’amico che cercò di parlargli, ma Mosè provava una tal ira nei
confronti del mondo che non riusciva a proferire una risposta sensata. Poi entrò il Primario con
le infermiere e gli spiegò la strategia di attacco al cancro.
- Riccardo, chiedo formalmente che tu non dica a nessuno quello che ho.
- Non ti preoccupare, la riservatezza è un mio dovere, ricorderò anche agli altri Dottori e a
tutti gli infermieri di rispettare scrupolosamente tale dovere, nessuno verrà a sapere nulla.
- Voglio essere io a informare amici e parenti.
Riccardo aveva capito, mise una mano sulla spalla del Professore e con uno sguardo gli
confermò la promessa.
Il Dottore uscì dal reparto con un passo rapido. Mosè si guardò attorno, i suoi compagni di stanza
erano malconci e nessuno di loro sembrava in grado di comunicare.
Il 22 rimetteva e rimetteva, il 23 era sdraiato con la bocca aperta e giallo in volto, anche il 24
sembrava dormire ma era pallido e poi lui, quello messo meglio.
La prima notte fu lunga, lunghissima. Il ragazzo del 22 si lamentava e, voltandosi verso il muro,
rimetteva saliva e qualcosa di verde in una bacinella. Il volto era piegato dalla sofferenza, le
fleboclisi e le cure prescritte non sembravano aver alcun effetto. A volte emetteva versi quasi a
riprendere un respiro che rimaneva comunque affannoso. Verso l’una il 23 emise un gemito più
profondo, cessò di rantolare e i piedi si piegarono di traverso. Morì solo, senza il conforto di una
voce o il contatto di una mano. “Certo, in coma com’era, chi avrebbe potuto confortarlo” pensò
Mosè. Di fronte alla morte la paura divenne panico e quindi chiamò a gran voce gli infermieri.
Constatato il decesso, questi ultimi isolarono il cadavere, lo cambiarono e lo prepararono per la sala
mortuaria. Nel finire il lavoro, videro che il 24 aveva definitivamente perso coscienza e decisero
pertanto di telefonare all’hospice, il reparto per i degenti terminali. Mosè sentì un’onda di terrore
attraversagli le budella e nacque un rifiuto per quella situazione. A un tratto dal fondo della stanza
udì una voce.
- Sei nuovo? Chiese il 22 con una voce stridula per il vomito.
- Sì. Rispose Mosè.
- Allora Filippo è morto. Commentò sconfortato, come se avesse perso un grande amico.
La solidarietà tra i malati gravi nasce spontanea e immediata; solo nei momenti estremi l’uomo
mostra il meglio di sé.
- Morto chi? Domandò Mosè.
- Quello che c’era al tuo posto, l’hanno operato ieri. Era tutto speranzoso. Rispose il 22.

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- Sarà in rianimazione. Come ti chiami? Chiese Mosè, cercando di consolarlo e di cambiar
discorso.
- Mario, Mario Casi. Disse il giovane, ruotando il corpo verso Mosè per vederlo meglio
- Hai il cancro come me? domandò Mosè, come se non volesse affrontare la stessa terapia.
- Non so cosa tu abbia, ma preferirei morire piuttosto che subire un’altra chemio. Sentenziò il
giovane, sedendosi sul letto e afferrandosi il piede come un bambino.
- Ma cosa ti fanno?
- Beh, provano, magari trovano la formula magica.
Il ragazzo prese il pappagallo e cercò di urinare, ma alla fine preferì mestamente andare ai
servizi. Prima di entrare in bagno fu raggiunto da un’ultima domanda di Mosè
- C’è speranza?
- No!
E chiuse dietro di sé la porta, tenendo la flebo con la sinistra.
Mosè guardò il muro bianco e sentì con forza gli intensi odori di vomito che provenivano dal
letto di Mario. Un forte senso di nausea lo colpì, si sdraiò guardando davanti a sé. Il muro
sembrava proprio una tavolozza sulla quale non potevano essere stesi colori, una tavolozza dove
nessuno avrebbe potuto scrivere parole di speranza. I parenti visitavano i malati e cercavano di
incoraggiarli, ma lui pensava “Altro che coraggio! Ci vuole dell’eroismo per affrontare questo
martirio. Anzi, non si tratta neppure di un martirio perché il martirio è una scelta deliberata, al
contrario qui è imposta”. Due specializzandi si fermarono sulla porta con le cartelle e si
avvicinarono per analizzarlo. Mosè lasciò che lo toccassero, in fondo si sentiva utile per la
scienza.
Il primario lo visitò verso le cinque del pomeriggio attorniato da due assistenti e da Riccardo.
- Abbiamo una diagnosi certa e nefasta. Direi che possiamo iniziare il ciclo di chemio domani
alle undici.
- Non c’è margine d’errore?
- No.
- Ma non ci sono cure alternative? Un intervento chirurgico?
- Questo è il protocollo. Sono le cure che statisticamente danno il risultato migliore.
Mosè scosse la testa.
Il Primario si rivolse agli assistenti, diede indicazioni e quindi continuò il giro dei pazienti
La sera non arrivava mai, ma le ore piccole sembravano ancora più lunghe. Venne l’una con i
rumori dei malati, poi le due con il solito giro di infermieri, quindi le tre, con il silenzio
interrotto da un’urgenza. Le quattro con i primi risvegli e l’odore di urina, infine le cinque con i
prelievi del sangue. Mosè si addormentò poco prima delle sette, allorquando fu risvegliato dalle
infermiere per la colazione. A quell’ora Mosè aveva cambiato sguardo e presa una decisione
incontrovertibile.
Poco dopo si alzò, si diresse verso la segreteria di reparto e firmò le sue dimissioni. A nulla valsero
le resistenze dei Dottori di turno.
- Se devo morire, non voglio che sia qui, non in questo modo. Tornerò a casa, sarà il mio ultimo
viaggio.
Riccardo lo chiamò al telefono per farlo desistere, ma con una speranza di vita di una ventina di
mesi quella fuga sembrava una disperata mossa per non arrendersi all’inevitabile. Con rabbia uscì
dall’ospedale, si diresse a casa, si sdraiò sul pavimento e pianse. Non si capacitava, non voleva
arrendersi, sembrava una notizia irreale. I pensieri erano numerosi, ma il primo fu per la ex moglie.
“Si sarebbe sicuramente dispiaciuta nel sentire della sciagura che aveva colpito il suo Mosè”. Non
riusciva ancora a comprendere che lui non aveva più spazio nel cuore di Claudia. Si sedette e cercò
di scrivere ai suoi cari, ma le lacrime gli oscuravano occhi e mente. Impugnò energicamente
l’agenda dove annotava gli impegni e scrisse: “Cambia tutto, i miei programmi sono cancellati,
stravolti dai piani di chi ha deciso che il mio tempo è finito, il biglietto per l’ultimo viaggio è ormai
staccato e non può essere rimborsato”
15
Non sapeva come comportarsi, a chi dirlo e come comunicare agli altri l’inizio della fine. Guardò il
soffitto nella speranza di ricevere dei suggerimenti da una provvidenza che sembrava avergli tolto
ogni speranza.
“Cosa voglio fare di questa poca vita che mi resta? Non so nemmeno le condizioni di salute che si
prospettano”.
“Se voglio morire nella mia terra, devo avere a disposizione dei soldi. Non posso morire a casa di
mio padre perché c’è la matrigna. Affitterò qualcosa a Venezia”.
Andò in banca e chiese di poter sciogliere gli investimenti, ma si sa che le banche italiane pongono
mille ostacoli quando si tratta di ritirare del contante. Alla fine ebbe per le mani 5 assegni circolari
da 100 mila euro che depositò in una cassetta di sicurezza. Il direttore della filiale cercò di impedire
tutte quelle operazioni, soprattutto i prelevamenti in contanti. Andava dicendo infatti che tutte le
operazioni sarebbero state vagliate dalla guardia di finanza e che avrebbe dovuto segnalare i prelievi
di oltre mille euro per l’antiriciclaggio. Ovviamente le minacce non sortirono alcun effetto, Mosè
indossava il tipico sorriso di chi non ha ormai paura di nulla. Aprì due conti con 50 mila euro a
testa, chiese e ottenne due bancomat e due carte di credito. Prelevò contanti per quindicimila euro e
uscì dalla banca.
Si diresse a casa e chiamò un amico per aiutarlo a liberare l’appartamento delle sue cose. Alberto, il
collega di fisica, era un uomo dall’acume particolare e aiutava Mosè nelle sue ricerche
sull’Universo.
- Che cosa succede? Ti trasferisci. Chiese gentilmente Alberto.
- Sono rimasto a Verona nella speranza di ricucire con mia moglie, ma forse è tempo di
guardare in faccia la realtà.
- Quando mi hai chiamato, ho pensato al peggio, come se tu fossi malato, e mi sono preoccupato
per te.
Con questa battuta il collega di fisica dimostrava un intuito formidabile.
- Ma cosa dici? Mettiamo i vestiti in questi scatoloni e collochiamoli in cantina, poi
impacchettiamo il televisore e questi due elettrodomestici ed è fatta.
- È un peccato che tu te ne vada, non avevi appena tinteggiato?
- Sì, si vede che i batteri mi han dato lo sfratto. Loro han vinto la guerra. Sentenziò un Mosè
che pareva aver perso un po’ la pazienza.
“Ma perché tinteggiare per poi andare via?” pensò Alberto.
- Ma è successo un fatto nuovo? Non per essere curioso, ma mi mancherai, finalmente avevo
trovato un grande amico.
- Prendo un anno di aspettativa e mi guardo intorno, lo faccio da casa, intendo da Venezia,
sarà da lì che ripartirò, oppure mi fermerò. Rispose il filosofo con tono pacato e gentile,
quasi a scusarsi per l’altra risposta.
Alberto era molto perspicace, ma anche rispettoso; non fu convinto della risposta, ma sapeva di
non poter oltrepassare il confine che Mosè gli aveva posto. Il filosofo provava una sincera
ammirazione per Alberto e per tutti i fisici che conoscevano le leggi dell’universo e la sua
evoluzione. Si erano trovati spesso negli ultimi anni a parlare di spazio curvo, di velocità della
luce e relatività. Mosè era ben conscio che un vero filosofo non poteva evitare certi studi di
fisica e, grato delle discussioni serali, aveva deciso di regalargli tutti i suoi libri che possedeva a
Verona.
- Saranno libri per migliaia di euro. Valutò Alberto, mostrando una difficoltà nel ricevere tutti
quei regali. Mosè mise una mano sulla spalla dell’amico, quasi a incentivarlo a prenderli
tutti.
- Tranquillo, a Venezia ne ho tantissimi.
- Ma non vuoi portarli con te? Sicuro?
- Certo. Chiudo con Verona, la mia Giulietta non è stata fedele, forse dovevo essere un
Casanova e non un Romeo.
Rimase in silenzio, poi riprese.
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- Accettali come segno della mia amicizia, ho trascorso con te momenti culturalmente
indimenticabili: conferenze, attività, progetti e persino viaggi.
- Mosè, mi son proprio divertito con te.
- Ti eri accorto per primo che la collega Silvia Marelli voleva scappare con me. Disse il
filosofo
- Ti ho invidiato.
Mosè appoggiò la schiena al muro e con il braccio in alto, come un attore pronto alla battuta
finale, disse
- Che mi dici di Luisa, la segretaria del Rettore?
- Luisa Tassi? Alberto abbassò il tono di voce.
- Proprio lei.
Il tono di Mosè era sempre più solenne abbassando il capo per accompagnare quel monosillabo.
- Non ho mai visto un essere così bello e mi sorprende tuttora per bravura e bontà.
- Le tre b: brava bella e buona.
Tutte le volte che Mosè voleva sottrarsi a un discorso, spingeva la conversazione sulle donne;
una tecnica efficace tra gli uomini. Alberto raccolse quindi i libri donati, li considerò una sorta
di ricompensa per essere stato un amico fedele e un utile collega.
Mentre parlavano, Mosè meditava sull’opportunità e sulla modalità di informare i familiari
dell’evento. Decise che l’avrebbe detto a suo padre de visu e avrebbe informato la sorella via
telefono. A Gabriele non avrebbe detto nulla, l’avrebbe solo salutato.
Appena l’amico uscì di casa, telefonò a Maria, chiedendo dei nipoti e della gravidanza e tentò di
informala
- Maria, sono Mosè, volevo sentirti.
- Qui c’è una tale confusione che finirò in manicomio.
- Volevo dirti che ho i risultati degli esami.
- Smettila di tirare i capelli a tua sorella. Disse lei rivoltasi ai bambini.
Sentiva delle urla concitate di bambini scatenati, ma riprese con più calma.
- Sono stato in ospedale e ho incontrato Corini.
- Corini chi? E smettila di mordere il divano. Scusami, ma sono diventati delle bestioline.
- No, figurati! Falli giocare, il mal di schiena è un’ernietta! Nulla di preoccupante. Ti
racconterò…E tu?
- Ma, spero di entrare in ospedale per partorire, almeno riposerò due giorni.
- Non avere paura, sarà un bellissimo bimbo. Concluse Mosè.
Non ebbe il coraggio di aggiungere nulla in fondo Maria non poteva essergli di conforto nella
situazione in cui versava.
Le loro vite si erano separate tanti anni prima, quando lei aveva deciso di aderire ai
neocatecumeni e di conseguenza di sposare uno di loro.
All’epoca Mosè l’aveva sentito come un tradimento o un abbandono. Dopo nove anni dalla
morte della mamma, Maria ad appena diciannove anni si era sposata con un ingegnere,
lasciandolo con un fratellino da crescere e una matrigna improponibile.
Si decise di telefonare a Gabriele, ma a lui non avrebbe mai voluto dir nulla, non avrebbe mai
voluto sentire dalla sua bocca parole di commiserazione. Soppesò a lungo il telefono, ma alla
fine l’affetto prevalse sull’orgoglio e così chiamò il fratello.
- Gabriele, sono Mosè.
Al sentire il fratello, Gabriele si irrigidì, tra i due i rapporti erano saltati da tempo. La differenza
di età, il rapporto conflittuale e l’opposizione alla scelta del giovane di intraprendere la carriera
militare avevano creato un solco profondo. Gabriele con tutte le forze si era dedicato al corpo
dei paracadutisti e si era trovato dalla parte opposta del filosofo pacifista Mosè. Il giovane aveva
cercato una famiglia nell’esercito, delle regole che non aveva potuto avere in una casa
sfilacciata. Il secondo matrimonio del padre aveva fatto dell’ultimo nato un pulcino senza
chioccia e, come tutti i pulcini che crescono soli, si era sentito allo sbando.
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- Gabriele! sono Mosè, tuo fratello. Ripeté il Professore.
- Lo so che sei mio fratello, ma non mi hai chiamato nemmeno a Natale, e poi leggo il numero
sul display. Se devi dirmi qualcosa…dimmelo.
Mosè rimase in silenzio, Gabriele aveva ragione. Ferito nell’orgoglio, avrebbe voluto chiudere
la telefonata.
- Volevo salutarti e dirti che in fondo tutti abbiamo le nostre stupidità e non si riesce sempre
ad aiutare gli altri come si desidererebbe.
Gabriele era diventato nervoso, ma capiva lo sforzo del fratello, qualcosa doveva essere
successo e chiese.
- Sta male il papà?
- No, no! Lui è sano come un pesce, volevo solo salutarti, credimi.
Ora Mosè voleva troncare la telefonata poiché il fratello lo aveva indisposto e forse anche
scoperto, ma non voleva litigare o disvelare la propria condizione.
- Qui è difficile comunicare perché mi trovo in missione all’estero in una zona con poco
campo per i cellulari.
- Ti penserò Gabriele, stai attento ai pericoli.
La telefonata si interruppe poiché il giovane fu richiamato in servizio. Gabriele si sistemò e uscì
di pattuglia sul veicolo blindato e pensò a quale vita avrebbe avuto se avesse seguito i consigli
di Mosè. “Studiare le lingue e viaggiare per il mondo, forse sono io l’imbecille, forse Mosè
aveva ragione” pensò infilandosi l’elmetto. Ma questa è la vita: una volta tracciata la strada è
difficile cambiare.
Mosè si era preso cura del fratellino, lo portava all’asilo, lo accompagnava a scuola, lo aiutava
nei compiti, ma soprattutto lo educava e talvolta lo riprendeva anche aspramente. Da
adolescente, Gabriele aveva compiuto gesta da monello, corretto dal fratello anche con qualche
salutare schiaffo, ma ciò aveva reso conflittuale la relazione tra i due.
Il ragazzo preferiva ovviamente la sorella Maria, apparentemente più accomodante e meno
litigiosa.
Era mancata la figura materna e purtroppo la matrigna non era stata in grado di sostituire la
mamma, forse era troppo giovane. Per la verità era mancato anche il padre nell’educazione.
Aveva un carattere troppo remissivo e le molte ore al lavoro lo rendevano un genitore assente.

La casa Molin era un sincero vincolo di affetti tra i fratelli Yaritzan e Gigi, ma di affetti istintivi,
privi di una necessaria guida. Era impensabile che tre adolescenti riuscissero a gestire un
bambino.
Dopo la telefonata Mosè rimase sul divano pallido in volto e accarezzando il tessuto pensò alla
persona che avrebbe occupato il suo posto, forse sarebbe stata una ragazza gentile, oppure una
vecchia col cane.
Aprì vari cassetti, cercando fotografie e ricordi soprattutto della ex moglie.
L’aveva conosciuta alla caffetteria dell’università, lei violoncellista dell’orchestra, lui laureando
in filosofia, capitato casualmente al concerto di apertura dell’anno universitario. Si erano visti,
guardati e ritrovati davanti a un caffè attratti come due magneti. Lei aveva dei capelli raccolti in
una coda, gli occhi pungenti, un fisico asciutto e spalle esili. Lui era il più bello, vestito in modo
elegante con un completo che metteva in risalto le spalle. Le porse un biglietto da visita ridendo,
un tovagliolino con il suo numero. “Fu una storia d’amore travolgente, che non avrebbe mai
potuto funzionare per i continui spostamenti della giovane al seguito dell’orchestra” pensò
Mosè.
Gli anni del fidanzamento furono di complicità e segnati dall’erotismo, ma la monotonia della
vita di coppia continuamente spezzettata dalla lontananza fu l’inevitabile fine del loro rapporto.
Due giorni dopo ricevette una visita senza preavviso e, aperta la porta, comparve Riccardo
- Perché sei venuto?
- Sono venuto a trovare il mio paziente.
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- Non cambio idea, ormai ho deciso di non tornare in ospedale. Mosè si era messo
inconsciamente in posizione di sfida, quasi di duello.
- Lo so! ti conosco.
Il Dottore entrò in cucina e appoggiò la borsa sul tavolo. Estrasse numerosissime fiale e
parecchie scatole delle siringhe per diabetici.
- Che cosa sono?
- Morfina! Serve per lenire il dolore, ma se tu non dovessi più sopportarlo, recati subito in
ospedale e accetta il ricovero senza esitazioni. Non utilizzarle finché il dolore è sopportabile
perché provocano delle allucinazioni; perciò assumile generalmente prima di dormire. Penso
che quest’estate potresti non averne troppo bisogno, ma a ottobre sicuramente dovresti essere
costretto a utilizzarle. I tempi di fratello cancro sono diversi per ciascuno di noi, quindi confido
nel tuo e nel suo buon senso.
Mosè sorrise alla parola allucinazioni, poiché gli sembrava già di impazzire e fu incuriosito
dalla definizione poetica che l’amico usava per la malattia.
- Non ti sembra troppo francescana l’espressione, fratello cancro, non credi?
- Può darsi, ma tutti passiamo di lì è questione di tempo.
Mosè annuì, sapeva che Riccardo aveva ragione, si avvicinò alle fiale e ne prese una in mano
osservandola bene. La pose tra pollice e indice e la scosse leggermente.
- Come le hai avute?
- Sono quelle che ci restituiscono i familiari dei pazienti morti, molte te le manda il Primario, il
quale mi ha detto che ti capisce e, se vuoi tornare, ti accoglie sempre a braccia aperte.
- Ringrazialo da parte mia. Ora mostrami come si inietta la morfina.
- Hai dolore?
- Un po’, ma sopportabile.
- Te ne inietto un quarto di fiala e scompare qualsiasi fastidio. Falla nel braccio, ma sottopelle.
Riccardo insegnò all’amico e una lacrima gli cadde sul volto.
- Ehi, Riki! Che succede? Piangi per me?
- È dall’asilo che ti conosco, siamo cresciuti insieme, che pretendi!? È toccato proprio a me
darti la brutta notizia.
- Chi meglio di te poteva dirmelo, io sono felice di questo.
Il malato cercava di consolare il Dottore, anche con una pacca sulla testa, reclinata per non
mostrare le lacrime.
- Allora prima mentivi, quando lo chiamavi fratello cancro.
- Tutti abbiamo un parente bastardo e lui è il bastardo dell’umanità.
Alla risposta di Riccardo, Mosè rise di gusto e poi domandò seriamente
- Riccardo, come andrà? Come morirò?
- Difficile dirlo o fare previsioni. Quel che ti posso raccontare è quello che ho visto nel
maggior numero dei casi.
- Sono pronto a conoscere il fratello bastardo. Esclamò Mosè.
- Comincerai ad avere dei momenti di assenza sempre più frequenti e infine non ti accorgerai di
nulla. Spero solo che il cancro non penetri nelle ossa, altrimenti non so se basterà la morfina.

- Mia madre è morta per fibrillazione ventricolare, in tre minuti, non si è praticamente accorta.
Potrei morire nello stesso modo, magari risparmiandomi dolori e morfina?

- La morfina dovrai comunque iniettartela, ma mi auguro che tu assomigli a tua madre.


L’amico pensò che quella avrebbe potuto essere la morte perfetta, evitando un calvario di inutili
dolori al povero filosofo.
- Senti Riccardo, ti piacerebbe questo appartamento? Io sarei contento se lo prendessi tu.
Torno a casa, torno a lido, matrigna permettendo.
Riccardo si guardò intorno: bello, grande, luminoso, e soprattutto in posizione strategica.
19
- Posso vedere la vista?
- Certamente. Mosè si alzò dal divano dove si era seduto e gli spalancò la finestra sul lungo
Adige.
Le grandi foglie degli alberi si scuotevano al venticello e un fresco salutare li accolse.
- Si, mi piace molto, anzi moltissimo. Rispose il medico.
- Ti mostro anche l’altro balcone, che si affaccia sulla corte interna.
- Magnifico, magnifico.
- Allora parlerò con il proprietario e gli dirò di prenderti come affittuario.
- Grazie Mosè, ma mi sembra di cacciarti via, di avere un ingiusto vantaggio dalla tua
malattia, mi sembra insomma di essere uno sciacallo.
- Ma cosa dici! Dopo aver visto Claudia in stato interessante, ho deciso di andarmene. Ormai
ha sposato un altro. In fondo il cancro, fratello cancro, mi ha dato la spinta per partire. Forse
devo fare qualcosa a Venezia. Forse qualcosa di nuovo mi attende.
- Sei un buon cristiano a dir così, sai accettare il volere di Dio.
In quella battuta emergevano le tante ore di dottrina che avevano seguito da adolescenti. Mosè
annuì e riprese.
- Ti regalo mobili, stampe e quadri, non lasciarli al padrone di casa. Mi ha affittato
l’appartamento vuoto. C’era solo il letto, me lo ricordo bene. La televisione e gli
elettrodomestici li ho imballati perché pensavo di dover traslocare. Ti lascio anche i vestiti;
tanto hai sempre avuto la mia taglia.
- No, non posso accettare, ti pago tutto. Conosco bene il valore di certi oggetti e in fondo un
po’ di spicci possono farti comodo.
- Devi accettare, perché io non ho eredi e perché tu hai scelto di rientrare nella mia vita.
- Posso tenerteli in custodia, oppure posso comprarteli. Ribatté il medico in difficoltà.
- Certo, facciamo così! Te li lascio in custodia e, quando guarirò, tornerò a prenderli. Ti lascio
in custodia anche l’automobile. A Venezia non serve, lo sai.
Mosè non voleva sentir parlare di denaro, era un argomento che l’aveva sempre irritato, come lo
irritavano le persone che per gli affari erano disposte a rovinare gli affetti.
Riccardo rimase a fargli compagnia e i due iniziarono a parlare degli anni adolescenziali. Tutti i
ragazzi e le ragazze partecipavano al grest estivo, un modo per stare insieme e per imparare a
convivere con l’altro nel rispetto delle diversità. Non mancavano certo i litigi, ma tutto si
ricomponeva spesso con una risata che favoriva la riconciliazione. I sacerdoti amavano condurli
sulle Dolomiti e organizzare dei ritiri spirituali lontani dal mondo caotico.
All’oratorio si organizzavano interminabili partite di beach volley. Si cominciava la mattina e si
terminava al tramonto, quando il pallone svaniva tra le ombre del crepuscolo. A Gigi, Riccardo,
Maria, Mosè si univano altri ragazzi, come Pietro e Paolo, per giocare interminabili sfide con i
turisti tedeschi. Sembravano vere e proprie finali mondiali, con punteggi combattuti, poiché
nessuno voleva perdere nell’infinito derby tra Italia e Germania.
- Ti ricordi l’ultima partita che abbiamo giocato? Chiese Mosè.
- L’estate della maturità, poi lentamente ci siamo sfilacciati. Rispose Riccardo
- L’ultimo set non terminava mai, ma alla fine Gigi fu devastante. Lui era un campione, forse
troppo ribelle per giocare in un team professionista, ma un vero campione. Ricordò Mosè.
- Quelle erano estati serene. Sospirò il dottore.
- Perché siamo andati via? Cosa ci mancava? Cosa ci spingeva?
In queste domande Mosè mostrava del rammarico per aver abbandonato Lido, sacrificando
quegli amici e quei momenti per lo studio.
- Semplice: la vita.
- O un’illusione di trovare il paradiso che avevamo già per le mani?
Il tono di Mosè si era fatto amaro, come una medicina imbevibile
- E di tuo cugino Gigi che ne sai? Chiese Riccardo

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- Gigi è rimasto a Lido. Disse Mosè che non lo sentiva da anni e precisamente da quando il
suo matrimonio era andato in frantumi.
Durante il divorzio con Claudia, Mosè si era ritirato dal mondo. Non aveva più voluto
incontrare nessuno e aveva trascorso un anno in malattia curando la depressione da uno
psichiatra; aveva reciso ogni legame con i suoi parenti, perché si vergognava di essere stato
tradito e abbandonato.
Cercando di respingere i brutti ricordi Mosè riprese.
- Degli altri che puoi dirmi?
Paolo e Pietro sono medici come me, ma Paolo è finito in Olanda e Pietro credo sia a Treviso.
Aggiunse Riccardo.
- Mia sorella è incinta, lo sai vero?
- Tua sorella è sempre incinta e meno male che qualcuno mette al mondo bambini.
I due sorrisero e Mosè aggiunse
- Mio cognato è insemineitor, come tocca mia sorella divento zio.
I due si conoscevano da troppo tempo per non giocare con qualche battuta, nonostante il
momento fosse a dir poco complicato.
- E di tuo fratello, il monello.
- Mi ha fatto impazzire.
- Nato senza mamma, cosa si poteva pretendere. Disse Riccardo
- Abbiamo dovuto seguirlo noi; intendo io, Maria e Gigi.
- Ce ne combinava di tutti i colori, spaccava vetri, sporcava i muri delle case lanciando
pallottole di fango. Usava i petardi per spaventare gli animali domestici dei vicini
- Ha sgonfiato le ruote della mia auto almeno due volte. Ricordò Riccardo.
- Mi dispiace, ti chiedo scusa.
- Reato prescritto, ma un calcio in culo glielo darei.
Mosè riprese a raccontare
- Dopo la morte di mia madre, la situazione divenne ingestibile. Siamo cresciuti da soli; io
Maria, e il piccolo Gabriele e meno male che certi personaggi dei servizi sociali non l’hanno
portato via.
- Sarebbe stata la fine per quel piccolo. Esclamò il dottore.
- Quando Maria si è sposata, ho attraversato il periodo peggiore. Allora stavo ancora con
Francesca.
- La tua ex compagna di scuola; quella che poi è diventata cuoca. Precisò Riccardo.
Mosè annuì e riprese
- Sono rimasto solo a gestire l’educazione di mio fratello, con la matrigna che non voleva
saperne di lui. Solo Luigi veniva a ad aiutarmi. Pensa, un venticinque di aprile, giorno di
San Marco, mio fratello si era allontanato dalla festa volontariamente e aveva tentato di
fuggire da casa andando alla stazione. Gigi, con grande intuito, l’aveva rintracciato, mentre
tentava di salire sul diretto per Monaco, peraltro senza biglietto.
- Hai avuto dei grandi problemi, ma sei stato bravo anche a prenderti cura di quel bambino
così pestifero. Intervenne Riccardo.
Molin scosse la testa.
- Io e Gabriele a stento ci parliamo e Gigi sarà rimasto deluso perché non mi sono fatto più
sentire.
Si confessò un Mosè che capiva di aver perso più di un amico.
- Ma non poteva che essere altrimenti, La vita va avanti e crescendo gli interessi erano
diventati troppo diversi. Disse Riccardo e aggiunse.
- Molti di noi intraprendono un percorso che porta lontano.
- Ma dove ha portato questo sentiero? Cosa ho ottenuto? La solitudine!

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- Non dire così, sei un grande professore di filosofia e puoi combattere per la memoria degli
armeni.
Mosè capiva che l’amico si sforzava di consolarlo, ma ormai in Mosè si era consolidata l’idea
che la sua vita era stata una sequenza di vanità.
Si convinse che doveva riannodare i fili della prima vita, forse irrimediabilmente tranciati.
- Questa frase non mi consola Riccardo. Sono colpevole di aver perso uno come Gigi, uno
cresciuto con me dalla scuola alla casa. Studiavamo insieme, svolgevamo i compiti e
giocavano fino al rientro di mio papà. Talvolta Gigi rimaneva a cena. Tra noi due non c’era
solo un legame di amicizia, ma anche un legame di sangue, che per molte culture è
importante, soprattutto per quella armena.
Riccardo non voleva andarsene, si era creata un’atmosfera dolce; un viaggio nel passato. Mosè
raccontando si rilassava e gli pareva di rivivere quelle serate che da adolescenti si trascorrevano
al chiosco di bibite dell’oratorio.
Riccardo riprese,
- Non potrò mai dimenticare quell’escursione che tuo nonno organizzò a Lio Piccolo, nel
mese di ottobre.
- Ci si divertiva un sacco. Esclamò Mosè.
- Ho nel cuore quel tramonto tra le mille barene. Partimmo una mattina di ottobre, con una
nebbia fitta che sembrava aver inghiottito tutto. Non si vedeva nulla se non delle sagome
ingannevoli. Verso le nove apparve una sorta di lampione, era un pallido sole che tentava di
bucare quell’ovatta. Quella luce svelò una chiesetta con la torre armena. Pescammo tutto il
giorno e nel pomeriggio il sole e il vento vinsero la nebbia. Egli ci fece salire in cima e con
il viso rivolto a Ovest vedemmo un tramonto specchiarsi nelle valli d’acqua.
“Quello era il posto più bello per chi voleva incontrare un po’ di pace: poca gente e lontano dal
mondo” pensò Mosè. La notte stava invecchiando e Riccardo decise di dormire a casa
dell’amico. Si sdraiarono sul letto vestiti, ma nessuno dei due desiderava prendere sonno.
Parlarono delle gite sulle Dolomiti e di quelle notti che trascorrevano insieme nelle camerate. Si
svegliavano sottosopra e qualcuno mostrava qualche piccolo livido per le cuscinate ricevute.
Guardando il soffitto al buio, continuavano sfogliando l’album dei ricordi.
- Riccardo! E quella volta in cui il prete si arrabbiò perché lasciammo fuori Paolo al freddo?
- Caspita! Continuava a profumare l’aria. Gli avevo detto di non mangiare fagioli e cipolle.
- Come l’avevi chiamato?
- Paolezzo. Olezzo di Paolo
- Che olezzo! Confermò Mosè, che avrebbe dovuto dormire accanto a Paolo.
Mosè si sentiva sereno e notò che avevano parlato in veneziano tutta la sera; con un colpo di
spugna erano sparite tutte le lezioni di italiano. La lingua musicale della laguna aveva preso il
sopravvento e aveva accorciato gli spazi temporali. Era come essere a Venezia vent’anni prima.
Mancava solo il Borin a rinfrescare la pelle. Si ricordarono di alcune partite memorabili di
beach volley, una finale persa tra le urla di Gigi e le risate di chi sa giocare solo per
divertimento.
Si andava per i paesini sperduti della campagna veneta, lungo il Piave o il Tagliamento alla
ricerca dei tornei di pallavolo più premiati, con il camper di Gigi.
Lo aveva ereditato e, nonostante fosse omologato per quattro posti, lo riempiva con sei giovani
dell’oratorio e scorrazzava in lungo e in largo. Mosè ricordò una sconfitta in finale, proprio per
una sua leggerezza. Un tiro in battuta che aveva colpito la nuca di Gigi. Quest’ultimo, che
amava solo vincere, l’aveva lasciato in quel paesino sperduto.
Mosè dovette non solo tornare a casa in autostop, ma, per essere reintegrato in squadra, si
dovette inginocchiare sotto la rete e chiedere scusa, tra le risate dei compagni.
- Ma non avrete esagerato? Chiese il filosofo.
- Caro Mosè, c’era in palio un premio da seicento mila lire, un centone a testa. Mi sarei
pagato 3 libri universitari.
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- Con Gigi non potevi discutere, vincere e basta.
- Lui avrebbe vissuto per il Beach volley.
- Pensa che, pur di rimanere a Lido, non volle accettare le proposte di squadre blasonate.
Al mattino l’amico si congedò. Mosè aprì l’agenda e annotò due righe.
“Dio mi ha mandato un angelo consolatore, è segno che dovrò bere tutto il calice fino in fondo.
Non che mi aspettassi un finale diverso, ma vedere il calice mette paura”. Lasciava queste
parole per liberarsi la mente e avere la forza di abbandonare Verona prima e il mondo poi.
Mosè si vestì di tutto punto con completo e gilè in cotone, era il vestito che la ex moglie gli
aveva regalato alla festa del primo anno di matrimonio. Era convinto che quell’abito avrebbe
potuto in qualche modo riavvicinarli, poiché era stato scelto da lei per lui. Nell’indossarlo si
accorse di essere dimagrito ancora, poiché i pantaloni erano larghi in vita. Uscì di casa e si
diresse al supermercato che la ex moglie era solita frequentare e aspettò. A un tratto la vide
entrare e la seguì.
Come lei lo riconobbe, ebbe una smorfia di disapprovazione, subito celata da un sorriso di
circostanza.
- Ciao Claudia.
- Perché mi hai cercato? Ormai sono risposata e in stato interessante.
Allargò le braccia lungo il corpo per mostrare una pancia al quarto mese.
- Volevo dirti che… tartagliò Mosè.
Non riuscì a dire altro, bloccato, impaurito, ma soprattutto consapevole che non c’era proprio
più nulla da dirle. Aveva sempre cullato il desiderio e l’illusione di poter in qualche modo
ricucire un matrimonio dissolto.
Il ricordo di lei che lo fissava come se fosse stato un dio e che lo faceva sentire un re tra gli
uomini spariva di fronte a questa realtà. Tanti anni di depressione sembravano ora un tempo
trascorso inutilmente. Davanti a quel cupo silenzio, persino lei rimase imbarazzata.
- Coraggio, allora, cosa c’è? Siamo persone civili, e poi in fondo ci siamo lasciati bene.
In questo modo lei cercava di sbloccarlo da quell’impaccio più per curiosità femminile che per
sincera comprensione umana.
Era sul punto di allontanarsi, ma venne bloccato dal carrello di una maldestra signora e fu così
costretto a dare una risposta.
- Volevo dirti che mi trasferisco a Venezia, torno a casa, sono passato per salutarti.
Mosè aveva indossato una calma apparente, ma in verità era profondamente scosso.
- Allora l’hai superata? Disse lei mostrando di essere contenta di quel trasloco.
- Si supera tutto, persino la morte.
- Il solito filosofo.
Lei era indispettita da queste frasi, che le parevano frutto di arroganza e di stupidità.
- Sei venuto solo per dirmi che te ne vai? Non hai altro da dirmi?
- Prima di congedarmi per sempre, vorrei sapere perché mi hai lasciato, qual è il vero motivo.
Claudia lo guardò e rispose.
- Non avevamo gli stessi interessi: io una musicista, tu che non sai cos’è un Fa diesis.
- E sciogli un giuramento per un Fa diesis?
- Ma cosa vuoi che sia un giuramento di quel tipo. Il matrimonio è un rito consumistico. Volevo
la festa, l’abito bianco, l’automobile da cerimonia con l’autista. Per di più i miei desideravano
quel tipo di matrimonio, così li accontentai.
- A volte giurare è importante.
- Ecco di nuovo il filosofo che vuol farti la morale. Ti è scappato il fratello e pure la moglie per
questo tuo atteggiamento superiore. Lei sapeva di ferirlo riguardo al fratello e non aveva mai
perso l’occasione per farlo.
- Che c’entra mio fratello, lascia stare.
Mosè si adirò, e a stento riuscì a trattenere una risposta ancora più dura. In fondo non era lì per
litigare, ma per congedarsi dal mondo e da quella che era stata sua moglie.
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- Mi hai trascurata. Mi hai lasciata sola, e quando sei sola, magari in tournée con gli amici, può
succedere ed è successo.
Con questa frase lei volle colpire ulteriormente Mosè, poiché sapeva della sua gelosia e voleva
addossargli la responsabilità del fallimento del matrimonio per aumentare in lui i sensi di colpa.
Claudia rivelava in questo modo una personalità non solo vendicativa, ma anche un po’
intellettualmente disonesta. Lei aveva tradito e lei aveva voluto il divorzio.
Lui si passò una mano tra i capelli, tolse gli occhiali per pulirli, anche se non ce ne era bisogno.
Si sentiva impotente di fronte a tale battuta, sconfitto e umiliato. Chissà quante volte era stato
tradito.
- Ma per quanto tempo siamo stati una coppia fedele?
-Senti! Siamo stati una coppia moderna, e poi anche tu a casa da solo, chi può dire se sei stato
un uomo fedele?
L’insinuazione di Claudia lo feriva, ma lo rendeva consapevole del fatto che lei non l’aveva
conosciuto.
“Come puoi vivere accanto a una persona e tradirla senza rimorso, e soprattutto come puoi
vivere accanto a una persona senza provare a conoscerla?” Questo pensava un professore ormai
ammutolito.
All’inizio Mosè restò in silenzio, ma poi pronunciò la prima bugia della sua vita e, come tutti i
dilettanti alla prima esperienza, riuscì a recitare benissimo.
- Sì, è vero. Sono stato con tua sorella, mentre tu eri a Mosca, e lei aveva perso il fidanzato,
anche con Elisabetta, la tua testimone di nozze. Era un tipo eccentrico, ma con delle tette da
urlo. Dovevi vedere che combinava!
Alzò le mani in segno di fatica per aver consolato tutte e due.
Vedendo che questa battuta aveva messo di cattivo umore la ex moglie, rincarò la dose.
- Ti ricordi tua cugina Erika, che voleva imparare tutta la filosofia di questo mondo in un mese,
proprio il mese in cui tu eri a Sidney? Ecco venne da me per delle lezioni di filosofia? Avresti
dovuto vedere che biancheria di pizzo indossava. Aggiunse questo dettaglio per rendere più
veritiero il racconto, sfruttando il ricordo del bucato steso dalla cugina di Claudia.
Lei ebbe un moto d’ira, divenne paonazza e con un tono di voce greve disse.
- Allora, che senso avevano quelle scenate di gelosia? Per tanti anni mi hai dipinto come una
troia e ora mi racconti che hai impollinato tutta la mia famiglia.
Le parti si erano ribaltate, e la ex moglie reagiva con rabbia.
Mosè le sorrise, allungò la mano per congedarsi e lei non gliela strinse e stizzita si allontanò.
Una coppia si era attardata ad ascoltare quella discussione e tra gli ortaggi rideva divertita.
Mosè si voltò guardando intorno, afferrò fulmineo due sacchetti di patatine e cominciò
nervosamente a sgranocchiarli fino a casa.
Aveva voglia di qualcosa di salato, ma non esagerò. Si mise sul divano e iniziò a leggere un
romanzo, ma il pensiero andava a quei momenti che lui aveva ritenuto meravigliosi con Claudia.
Quel giorno che li aveva trovati sulla spiaggia, le gite per i boschi, dove era facile trasgredire
alle regole del comune pudore.
I suoi occhi, le sue mani: correvano i pensieri sempre più lontani.
Uscì sul balcone e si fermò a fissare il fiume che rapidamente portava a valle i detriti delle
piante. Tronchi piccoli, foglie e arbusti scendevano con la fresca brezza del fiume.
“Ora devo solo aspettare; non ho proprio più nulla, la sabbia nella clessidra si sta esaurendo.
Non voglio morire in ospedale e non voglio morire qui. Desidero tornare a casa”. Annotò questo
sull’agenda, poi, come tutte le persone che non hanno un futuro, si mise a guardare al passato.
Aprì l’album di nozze e lo sfogliò. Apparivano proprio felici, con o senza fa diesis. C’erano
proprio tutti gli amici: Riccardo, Gigi, Paolo, Pietro e tanti altri. Erano stati invitati per un
matrimonio all’antica. Finito di sfogliare le pagine, scese e lo buttò nel cassonetto dei rifiuti
posto sul lungo Adige. In fondo il giuramento di Claudia valeva pure quel gesto. Si ricordò che

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portava al collo la fede del matrimonio. La tolse e la guardò, lesse i due nomi, i loro nomi incisi
sulla parte interna.
“Mosè e Claudia, Claudia e Mosè…” La fece scorrere tra le dita e la lasciò cadere nel fiume.
L’Adige avrebbe capito, non si sarebbe offeso. Iniziava ora una nuova vita, una vita a tempo.
Avrebbe dovuto ragionare sui minuti, programmare le ore, scegliere bene le attività e soprattutto
sperare di non star troppo male. Sospirò e rientrò attraversando la corte. Si connesse alla rete e
cancellò tutti gli account pubblici che lo legavano al mondo dei social.
Si accorse di avere due libri della biblioteca universitaria da restituire e così a passo veloce
tornò in facoltà. Nella sala lettura vide seduta di spalle Marilena. Si avvicinò, ma un giovane
studente le si sedette accanto, mettendole una mano sulle cosce. Istintivamente si ritrasse e si
diresse a restituire i libri alla segretaria.
Una giovane ragazza li ritirò e lo ringraziò. Non l’aveva mai vista, quindi non si perse in saluti.
Sul punto di andarsene si voltò per osservare Marilena. Il giovane le aveva stretto la mano, con
una stretta appassionata e lentamente avvicinava il suo viso a quello della ragazza. Marilena si
lasciò baciare e Mosè sentì come se un laccio che lo tratteneva in questo mondo fosse stato
reciso di netto. Si sentì sollevato, la storia di quella ragazza non l’avrebbe più riguardato. Si
voltò e tornò a casa con la consapevolezza che tutto ciò che osservava lo stava osservando per
l’ultima volta. Il distacco da quelle persone alle quali sorrideva e rivolgeva un cenno di saluto
era definitivo, definitivo come la morte.
Rincasò, preparò lo stesso zaino che, tanti anni prima, aveva utilizzato per compiere il cammino
di Santiago.
Chiamò il proprietario di casa, pagò in anticipo sei mesi di affitto, raccomandandogli di
prendere Corini al suo posto. Era forse un modo per conservare un po’ di sé in quella casa.
Il proprietario, con in mano un bel po’ di soldi, non chiese nulla.
Bussò quindi alla vicina per salutarla. L’avvocatessa era così contenta di vedere Mosè che lo
trattenne, ma lui non era certo dell’umore opportuno. La baciò intensamente, come fosse
l’ultimo bacio della sua vita, e si congedò.
Lei lo rincorse sul ballatoio.
- Non ti rivedrò più?
- No, non credo proprio.
- Ti sei innamorato di quella donnina che ho visto uscire dal tuo appartamento l’altra mattina?
- No, certo che no.
- Era un bel bocconcino, scappi con lei?
- Non essere gelosa Lucia, ma non posso essere io il tuo uomo ideale.
- Non esistono gli uomini ideali, esistono gli uomini più o meno veri; e tu sei un vero uomo.
- Non scappo con lei e non scappo per lei, ma scappo per me.
- Per salvarti da lei? Lucia sorrise della sua battuta, ma capiva che qualcosa era accaduto.
- Grazie per quello che hai fatto per me, per tutte le volte che sei stata con me e mi hai
consolato. Grazie per tutte le volte che mi hai salvato, ma ora devo affrontare un viaggio, un
viaggio diverso.
Lucia pensò che se ne sarebbe andato in India o in qualche cammino per Santiago, ma
leggeva una tristezza infinita nello sguardo di Mosè.
- Tornerai da me, posso aspettarti?
- No, ma chi mi sostituirà è un ragazzo fantastico. È cresciuto con me e io gli voglio bene
come a un fratello. Ti piacerà.
- Ma nel mio cuore ci sei tu. Disse lei.
Mosè tornò indietro, la guardò negli occhi, la accarezzò e le diede un nuovo bacio, leggero e
delicato.
- Ho deciso di cambiare vita o forse la vita mi ha già cambiato.
- Vai in convento? Lascia perdere i preti, la religione e Dio.
- Addio Lucia!
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Mosè si voltò, scese le scale e uscì di casa. Nel cortile prelevò la bicicletta grigia ed elegante.
Chiuse il portone con tutte le mandate e, mentre lo chiudeva, il cuore si indurì, il labbro si serrò
e trattenne un’imprecazione. Rivolse la bicicletta verso la porta della città con lo zaino in spalla,
restituì le chiavi al proprietario e lo informò di aver venduto all’amico il mobilio e che quindi
non c’era bisogno di alcun trasloco. Questo piacque molto al locatore, poiché lo toglieva da ogni
impiccio. Si salutarono e si diresse alla stazione dei treni. Abbandonava una città ricca di storia
e cultura, ma senza rimpianti perché gli ricordava la sconfitta più bruciante: il divorzio. Aprì
l’agenda e annotò “lascio questa città sapendo che non tornerò, ho perso il mio amore, ma
queste sono le regole”. Pensò che il suo essere stato educato al cattolicesimo fosse di
impedimento alla felicità.
In fondo se fosse stato ortodosso, avrebbe potuto divorziare almeno un paio di volte; se fosse
stato musulmano, avrebbe potuto addirittura ripudiare la moglie; e se non avesse avuto un Dio
avrebbe potuto agire liberamente. Ma essere cattolico significa non tradire e tenere fede al
giuramento, amare e basta. Si vergognò di essersi lamentato della propria fede e pedalò più
velocemente, quasi a voler sfuggire a quei brutti pensieri. Mosè, nonostante gli studi in filosofia
e le frequentazioni marxiste, non era riuscito a diventare né un ateo né un agnostico. Era sempre
stato colpito dalla religiosità della madre, che fino all’ultimo aveva recitato il rosario. Laura, la
mamma di Mosè, aveva dimostrato una fede incrollabile anche se lui la riteneva una fede
semplice.

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Capitolo 3
Padova era la prima meta. Desiderava vedere la sorella e salutarla. Aveva ancora la speranza di
potersi confidare con lei sulle pene che avrebbe dovuto sopportare. Chissà come avrebbe reagito
alla notizia, forse non era il caso di dirglielo visto l’imminente parto. Tutto il viaggio avrebbe
pensato alla formula magica per informarla senza addolorarla.

La stazione dei treni di Verona era un via vai di persone in cerca della propria meta per le
vacanze. Quelli vestiti come Heidi erano diretti in Alto Adige. Quelli vestiti da spiaggia erano
diretti sull’Adriatico. Alcuni, cartina alla mano, si dirigevano a Venezia. I top manager
affrontavano il caldo viaggio verso l’infuocata Milano e non mancavano i ragazzini diretti verso
i parchi divertimenti. Il vociare era disordinato, a tratti sguaiato, ma Mosè era troppo coinvolto
nei pensieri per essere distratto. Il treno era in orario, ma molto affollato. Pose la bicicletta nello
scomparto prenotato e cercò di raggiungere la sua carrozza. Il treno era talmente pieno per la
festività del Santo che presto dovette rinunciare a raggiungere il suo posto. Si viaggiò come
sardine e il filosofo si pose in piedi, lungo il corridoio, appoggiato alla bella e meglio. Sentì
qualcuno mettergli la mano sulla spalla per mantenersi in equilibrio.
- Scusi. Disse una voce maschile. Mosè si voltò contrariato e vide un vecchio sulla settantina.
- Si figuri. Rispose il filosofo infastidito più dal dover rispondere che non dall’inconveniente.
Mosè si strinse per lasciarlo passare, ma il vecchio si appoggiò al finestrino e cercò una
posizione di equilibrio ancorando la mano al vagone.
Era magro, con un braccio robusto, come se avesse svolto mansioni di forza. La mano era
grande e callosa e indossava un vestito intero a quadri, così fuori moda da sembrare un
materasso ambulante.
“Ma gli manca un braccio” pensò Mosè, rattristatosi per non essere stato gentile con
quell’invalido.
- Sto andando a Padova. Disse lui.
Mosè non rispose, poiché incrociando un altro treno il rumore divenne così assordante che non
si poteva udire nulla.
- Sto andando all’ospedale dei bambini. Ripeté il vecchio.
- Sa dov’è? Lei conosce Padova? Potrebbe indicarmi la strada? Gli domandò in rapida
successione.
Mosè rimase in silenzio, quasi a concentrarsi sul nome delle vie da percorrere. Poi osservando
lo sguardo del vecchio disse.
- L’accompagno, mia sorella abita vicino all’ospedale pediatrico.
- Sì, devo andare proprio lì.
La sorella di Mosè abitava da tutt’altra parte, ma quel vecchio spuntato dalla profonda
campagna veneta avrebbe intenerito chiunque.
Il vecchio riprese.
- Che lavora fa?
- Insegno filosofia.
- È un Professore. il vecchio lo disse compiaciuto. Era contento di avere scelto un Professore
per le informazioni e si compiacque di averlo individuato tra decine di persone.
- Sì. Annuì Molin.
- Allora la sa lunga sul mondo.
Mosè rimase infastidito dalla battuta, ma capiva che l’uomo era sincero. Sicuramente aveva
frequentato le elementari, ma non era andato oltre.
- Mai abbastanza come voi veci che ne avete viste di tutti i colori.
Il vecchio considerò quella risposta come un segno di intelligenza e provò stima per il suo
illustre interlocutore. Poi si fece corrucciato e disse.
- Vado a trovare la mia nipotina
- Come si chiama?
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- Anna, Annabella per la precisione. Ma è bella davvero, purtroppo è malata.
Mosè avrebbe voluto vomitare. Non gli serviva farsi carico di altro dolore, ma il vecchio aveva
bisogno di sfogarsi.
- Ha una malattia rara…ami..amio non ricordo, io non ho studiato. Ma qualcosa si deposita
sugli organi e li distrugge.
Mosè restò in silenzio, ma qualche smorfia gli si dipingeva sul volto.
- I vecchi non dovrebbero sopravvivere ai giovani, ma talvolta accade anche questo.
Bofonchiò il contadino.
Mosè sembrò adirarsi contro un’entità astratta
- Ci sono cure? Ci sono rimedi? Mi dica qualcosa, visto che mi ha detto di sua nipote.
- No, non c’è nulla da fare. Il problema sarà consolare mia figlia.
- Ma vedrà che scopriranno qualcosa. Mosè era sconvolto e avrebbe voluto sgridare il vecchio
per avergli regalato una nuova sofferenza. Si sentiva accerchiato dai malati e dalla malattia,
dalla sofferenza e dalla morte. Non era pronto, non si sentiva pronto per affrontare tutto
questo e provava moti di ribellione tanto inutili quanto dannosi per il suo stato d’animo.
- La vede questa. Il vecchio alzò la sua unica mano.
- Me la farei tagliar via; le garantisco che fa meno male un’amputazione che vedere mia figlia
piangere ricurva su Annabella.
Mosè guardò fuori e rimase in silenzio, poi per non essere scortese disse.
- L’accompagno volentieri.
- Grazie professore!
- Mi aspetti sulla banchina perché devo recuperare la bicicletta.
Durante il viaggio il paesaggio scorreva e i campanili delle chiese erano sempre più appuntiti
come matite, indicando la vicinanza a Venezia.
Nell’arrivare lo avvolse il caldo afoso della pianura padana. Scese con la bici, e con il vecchio a
fianco, si diresse verso l’ospedale.
- Dopo andrò al santuario. Non si può venire a Padova senza vedere il Santo, le pare? Disse il
vecchio.
- Se ci crede.
- Non costa nulla credere, e poi aiuta.
- Non ha aiutato sua nipote.
Il vecchio restò in silenzio e abbassò gli occhi ingialliti per l’età e Mosè si sentì in colpa per
aver distrutto la sua unica speranza.
- Lei come si chiama?
- Mosè.
- Grazie per avermi accompagnato e che il tuo Dio, se ne hai uno, possa aiutarti.
Il vecchio si voltò e velocemente entrò nell’ospedale. Mosè non ebbe nemmeno il tempo di
chiedergli il nome, ma in fondo poco importava. Le loro due vite si erano già divise, dopo
essersi casualmente intrecciate per un’ora.

Mosè imboccò la via che lo portava verso la sorella sotto un sole cocente. Nell’attraversare il
centro di Padova, vide la basilica e decise di rifugiarsi lì poiché era il luogo più fresco della
città.
Si sentiva in colpa per le parole dette al vecchio, ma qualcuno doveva pur dargli una svegliata.
Così pensava combattuto tra l’ateismo, l’agnosticismo e comunque la propria cultura religiosa.
Il suo animo sembrava davvero un guazzabuglio di passioni, idee che emergevano e si
inabissavano nel suo cuore. Entrò comunque in chiesa.
Aveva intenzione di refrigerarsi e aveva l’idea di salutare e litigare con quel Dio che sembrava
ora abbandonarlo, ora accoglierlo, a seconda dei suoi oscillanti stati d’animo. Mose entrò in
basilica, si sedette in disparte. Rimase seduto senza pregare, quasi che il miracolo di
un’eventuale guarigione non lo riguardasse più. Non aveva voglia di parlare, ma un frate
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polacco uscì dal confessionale e si diresse verso di lui. Alto e grosso, sembrava un soldato
dell’esercito, incuteva un po’ di soggezione, ma con un sorriso enorme esclamò
- Vieni fratello.
Mosè si voltò per essere sicuro che si rivolgesse proprio a lui. Quindi lo segui senza sapere il
perché.
- Sono pronto, ti ascolto. Il prete spalancò il confessionale.
- Non ne ho voglia.
- E allora perché sei nella casa di Dio?
- Cercavo solo il fresco.
- Solo?
- Anche consolazione, ma dubito…Provocò Mosè
- Sei nel posto giusto. Rispose il sacerdote.
- Ma lei non è la persona giusta…
- Non mi ritieni all’altezza fratello? Esclamò il confessore un po’ offeso.
- Non è che non abbia fiducia in lei, non ne ho più in quel Dio che voi chiamate amore.
- Il tuo dolore è profondo.
Mosè taceva. Il frate lo incalzò.
- Davvero figliolo credi che Dio non sia amore? Dubito anch’io talvolta. Il consacrato era
sincero, sapeva che il proprio mestiere era quello di prestare orecchio alle miserie umane e
di ristabilire un legame tra l’uomo e Dio.
Mosè era barricato nel silenzio e covava un’ira alimentata anche dalla calura afosa della
pianura.
- Ormai non si confessa più nessuno. Sorrise il frate.
- Cosa direbbe lei se fosse condannato a morte?
Mosè percepì dal silenzio l’imbarazzo del prete e si compiacque della provocazione. Riprese
con più foga. Di colpo ebbe voglia di scaricare amarezza e rancori sul religioso. Poi si
vergognò.
- Vede, la malattia è il minore dei miei mali. Mi brucia l’amore perduto. Mi brucia non aver
capito l’inganno della mia donna…
- C’è un amore che non inganna.
- Non mi dica che è l’amore di Dio. È il suo amore che mi regala il cancro?
- Figliolo, non bestemmiare.
- Questa non è bestemmia, è la pura verità. Mi spieghi lei, che la sa lunga, il male che patisce
la gente, i tradimenti, gli imbrogli, per non parlare delle catastrofi naturali e delle violenze
perpetrate dal genere umano.
- Ma che dice del peccato originale che ha scatenato l’ira dell’Altissimo?
- E non ci perdona per così poco?
- Lui ha fatto di più: è morto ed è risorto.
- Bella forza, non è morto lui, ha fatto macellare suo figlio.
- Che Dio perdoni, con la sua infinita misericordia, la tua bestemmia. Il peccato della
disperazione finale grida vendetta al cospetto dello Spirito Santo. È uno dei tre peccati che non
trova perdono in Dio. Amico mio, chi sono io per giudicarti?
Mosè tacque. Sentì nel profondo un moto di compassione per quel prete e per la sua ingenua
religiosità. Riprese con tono conciliante.
- In realtà la mia disperazione è tutta umana.
- Perché? Ti senti tradito? Il giuramento vale se i due credono in quello che dicono.
Sembrava che il frate avesse ascoltato la conversazione tra Claudia e Mosè al supermercato e
avesse assistito all’elogio di Claudia all’infedeltà.
- Vede frate, non posso più farci nulla, ma mi chiedo dov’era e dov’è Dio nei momenti di
maggior tristezza.

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- E tu? dov’eri? Molta gente mi chiede perché due guerre, violenze e fame e Dio dov’era? Ma
noi dove eravamo? Questa vita è difficile. Gesù non ci ha detto e non ci ha promesso che
sarebbe stata facile. Le risposte le avrai fra poco. Coraggio! Incontrerai il Dio che qui ti ha
mandato e che ora ti richiama a sé. In un difficile italiano il prete polacco si faceva capire
bene e con forza dava un esempio di cristianesimo.
Mentre il prete continuava, Mosé si perse nei pensieri:” Dov’era Dio mentre Claudia lo tradiva?
Ricordava gli anni della depressione e dell’umiliazione. Vedere Claudia insieme a un altro lo
consumava. Aveva aiutato la sua carriera per quanto possibile, l’aveva sostenuta nelle difficoltà
della vita. Non aveva fatto mancare il sostegno ai suoceri malati mentre lei era in tournée.
Perché era stato lasciato? Perché Dio non era intervenuto? Ci furono mesi in cui la depressione
l’aveva distrutto a tal punto che aveva abbandonato studi e ricerche. Per mesi si era trascurato,
come solo possono fare gli uomini che non hanno più ragioni per vivere. Solo l’avvocatessa
Lucia, peraltro atea, l’aveva accolto tra le braccia. Lo aveva consolato e guarito.
Irritato dalle chiacchiere del confessore, Mosè lo interruppe bruscamente.
- Mi dice un po’, come valuta una divinità onnipotente che crea l’universo, l’esercito dei suoi
angeli servitori, senza accorgersi che sta creando il proprio nemico che voi chiamate diavolo?
Non solo, ma crea degli esseri umani ai quali infliggerà ogni tipo di tormento. Che colpe hanno i
bambini dell’ospedale pediatrico?
- Ma figliolo!
- No, mi ascolti! I casi sono due: o il Dio onnipotente è malvagio e questo spiega il perché del
Male, o non è onnipotente e il Male ha la stessa potenza del Bene.
-Ti compiango. Commentò il frate.
Mosè non uscì rinfrancato e ristorato dalla casa di Dio. Sentiva dentro di sé un furore che lo
ribolliva. Un furore rivolto più contro sé stesso che verso il prete poiché, pur non essendo più
religioso, in realtà sentiva un aldilà oltre la vita. Questo non gli permetteva di negare
categoricamente l’esistenza di un qualcosa dopo la morte. E poi sentiva di aver tradito la madre,
le sue preghiere nel letto, mentre tentava di portare a termine la gravidanza. Si sentiva di aver
tradito quell’ultima benedizione che lei gli aveva impartito prima di salutarlo, per poi non far
più ritorno a casa. Bestemmiò con furore, ma stavolta contro sé stesso, poiché aveva finito
quelle contro le divinità.
Quindi si diresse a casa della sorella per un’ultima volta. Era così sconvolto che non sapeva
cosa le avrebbe detto. Rimase venti minuti davanti all’ingresso per calmarsi. Prese una
bottiglietta d’acqua, la bevve tutta e infine suonò il citofono del palazzo. Entrato nel corridoio,
pose la bicicletta nella griglia. Gli corse incontro il nipote più grande che si buttò a corpo morto
tra le sue braccia. Lui lo afferrò al volo, ma la schiena resistette a fatica. Entrò
nell’appartamento e si sedette sul divano. Accolse anche gli altri due che gli mettevano le mani
in faccia per attirare l’attenzione. I bambini erano divertiti a vedere uno zio tanto simile alla
mamma, infatti Maria e Mosè si assomigliavano molto.
- Partorirò entro fine agosto, il termine è proprio il ventuno d’agosto. Sono preoccupata, temo
che non ci sia un bravo Dottore di guardia.
- Non saranno tutti in vacanza, non ti preoccupare.
- Mi preoccupo il fatto che la mia ostetrica non sarà presente e in quei momenti c’è bisogno di
una persona di esperienza.
- Sento che non avrai difficoltà, se poi assomiglierà a Gabriele, il nascituro sarà tosto.
Lo disse riferendosi alla scelta del nome del nuovo bimbo. I minuti trascorrevano veloci e
Mosè tentò di dirle che stava morendo, ma tutte le volte veniva interrotto dai bambini che lo
usavano come gioco e gli impedivano di parlare.
Seduto sul divano, uno si era messo a cavalcioni davanti e gli prendeva il viso, l’altra si era
messa a stringergli il collo con le sue piccole manine e il terzo urlava correndo intorno alla
tavola.

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- Resti qui per cena? Domandò la sorella mettendosi ai fornelli, nonostante avesse una pancia
ingombrante.
- No, sono di viaggio.
- Lo sai che non è un problema ospitarti, anzi una gioia.
- No, mi sto dirigendo verso Chioggia, da lì passerò a Pellestrina e alloggerò in qualche locanda
o al massimo piazzerò la tenda in qualche punto strategico.
- Senti, ti lascio la chiave della cassetta di sicurezza. Appena torno la riprendo. Ho paura di
perderla.
- Maria non si pose troppe domande, infilò la chiave nel mazzo. Non si insospettì di nulla,
distratta dal baccano dei figli.
Lui si alzò dal divano e abbracciò Maria e tutti i bambini abbracciarono i due fratelli come un
pacchetto di mischia da rugby.
- Alla prossima volta cara e voi comportatevi bene perché la mamma ha bisogno di voi.
- Zio, zio, e i regali?
Mosè si sentì scoperto e anche alla sorella parve strano, ma non era nelle condizioni di percepire
altro se non riguardo alla sua maternità, quindi rivolgendosi ai bambini disse.
- Non è stagione di Santa Lucia.
- Sì, la prossima volta resto e mi farò portare da Santa Lucia i doni. Attenzione che vi guarda,
quindi non fate tribolare la mamma. Vedrete che festa.
Uscì con passo svelto per non piangere davanti alla sorella. Non era il caso di caricarla di
ulteriori problemi. Maria era uscita dalla sua vita, quando si era sposata o meglio quando aveva
conosciuto i neocatecumeni, che lui considerava una setta, o peggio una loggia massonica.
Lei aveva seguito giustamente la propria vita, ma il prossimo, descritto dal Vangelo, era anche
Gabriele, anche lui. In fondo quel gruppo di cattolici fanatici che amavano distinguersi dagli
altri cattolici avevano rapito la sorella. Mosè li odiava perché si aiutavano solo tra di loro e
avevano messo in difficoltà la famiglia Molin.
Avrebbe voluto essere aiutato nell’educazione di Gabriele almeno dalla sorella, che poteva
sostituire il calore materno della mamma.
Avrebbe voluto poi essere aiutato nel difficile momento del divorzio e della conseguente
depressione, ma Maria non era stata in grado di percepire la profonda difficoltà del fratello,
ormai troppo immersa nella sua nuova famiglia.
Anche questa volta la sorella aveva altro per la testa e Mosè avrebbe dovuto affrontare la morte
da solo. Gli venne in mente quell’uomo in coma al quale nessuno dava la mano e lo invidiò.
“Spero di morire come lui inconsapevole di tutto” pensò, tuttavia riprese, “ma sarà stato
veramente inconsapevole?” Un brivido di paura lo scosse e si sedette sulle panchine, in fondo si
muore da soli, come da soli si è vissuti. Anche con una sorella gemella si può rimanere soli tutta
la vita. Non era una critica a Maria, era una constatazione, che subito rivolse su di sé. Anche io
ho lasciato mio padre, mio fratello e Gigi poiché cercavo una libertà nelle mie azioni e forse
avrei dovuto rinunciare a un po’ di libertà per non abbandonarli. Riemergeva quindi un senso di
colpa per aver abbandonato la casa materna, senza aver mantenuto dei forti legami con i propri
familiari. Questi ricordi e queste riflessioni lo distolsero dal pensiero della morte e gli diedero
un po’ di aggressività per continuare il viaggio verso casa. Il dolore e lo sconforto erano mutati
in rabbia, quindi in voglia di reagire.

Solo, imboccò la via dei vivai e iniziò a percorrere quei sessanta chilometri che lo conducevano
alla cittadina lagunare. Pedalare lo sfogava e l’aria sulla faccia lo faceva sentire vivo, quasi in
salute.
Mentre l’odore del mare si avvicinava, la brezza fredda dei temporali mitigava un sole tagliente.
Mosè si sentì felice poiché tornava a casa. Non avrebbe più vissuto a Verona accanto a una ex
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moglie che non lo voleva più. Si sentì sollevato e il dolore per il divorzio si era finalmente
dissolto, come un ingorgo oscuro di un lavandino. Gli vennero in mente i cammini di Santiago
percorsi con gli amici a piedi o in bicicletta; si ricordò di quella via spettacolare e stretta per
Potes che si infila tra le montagne schiacciate su un fiume limpidissimo della Cantabria. Gli
venne voglia di fermarsi in un bar per bere e scambiare due parole e donare una gioia che gli
nasceva da un ventre pur malato. Cercò un contatto umano per condividere un sorriso, che
finalmente gli aveva dato buon umore.
Si fermò a metà strada. Non era particolarmente affaticato e il mal di schiena pur presente non
lo disturbava troppo. Legò la bicicletta con il lucchetto ed entrò nel bar.
La barista aveva un viso simpatico e il sovrappeso non oscurava una bellezza accattivante. Si
rivolse in veneto stretto chiedendo.
- Mangia qualcosa? O beve uno spritz? Le preparo un’insalatina e un po’ di crudo con un bel
bianchetto?
Mosè annuì e si sedette felice, per un momento non aveva intenzione di commiserarsi. Mangiò
con calma, masticò lentamente e conversò in veneto con la signora. Non voleva metterla a
disagio.
- Da dove viene?
- Verona, ma sto tornando a casa.
- Sì, e di dov’è? La domanda richiedeva una risposta precisa perché l’inflessione dialettale di
Mosè era chiarissima.
- Lido di Venezia.
- Caspita! Che bei ricordi! Che bella gente!
- Conosce la zona?
- Sì, sicuro. Mio marito mi ha chiesto di sposarlo proprio lì. Confidò la giovane signora,
mentre mostrava una fede ancora splendente.
- Sapeva che non avrebbe potuto risponderle con un no in uno scenario da favola.
- Mi ha sedotta con una serata magica.
Vide l’ombra di un uomo transitare davanti al bar, ma non ci fece caso.
Si alzò, pagò e uscì contento, ma non trovò la bicicletta. Rientrò e disse candidamente.
- Quale autobus arriva da queste parti? Mi hanno rubato la bici. Esclamò il filosofo.
- Mi spiace, vuole che chiami i carabinieri? Chiese lei gentilmente.
- Quelli si muovono solo se c’è un cadavere. Stia tranquilla.
- Devo trovare il modo per giungere a Chioggia.
- C’è la fermata dell’autobus, ma deve percorrere un kilometro con lo zaino in spalla. Lo
informò lei.
Mosè non era troppo alterato per il furto, in fondo la bicicletta l’avrebbe presto lasciata in
eredità, ma aveva un intoppo nel viaggio e non sapeva se avrebbe avuto dolori più forti con uno
sforzo maggiore.
Decise di chiedere un passaggio a quelli che percorrevano la strada.
Si fermò un tale che lo caricò.
- Dove stai andando?
L’accento forestiero lo rendeva simpatico.
- Verso Chioggia.
- Io non vado propriamente lì, ma con una piccola deviazione ti porto io.
Il tono amichevole dell’autista era di buon auspicio.
Contento di aver trovato un’anima buona, salì sul veicolo e i due si diressero verso la piccola
Venezia.
La strada era spettacolare, poiché attraversava un mare diventato verde smeraldo per
l’avvicinarsi di un temporale. Giunti all’ingresso della cittadina, in prossimità di una rotonda,
Mosè lo ringraziò, ma nello scendere dall’automobile l’uomo sbottò.
- Bello…Sono 200 euro. Disse con il ghigno del truffatore di professione.
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- Cosa?
Mosè era incredulo. Si materializzavano i tanti racconti che aveva udito per anni e che lui
riteneva dicerie.
- Non ti ho portato qui per il tuo visino.
Il tono e il modo dell’altro erano diventati aggressivi al punto che gli misurò la destra sul volto.
Mosè si sentì imbrogliato, cercò di estrarre il portafogli dalla tasca posteriore, ma il peso sulle
gambe dello zaino non glielo consentiva. Scese dal veicolo, ma l’altro si innervosì e lo seguì
- Dai bello, sono 200 euro, non rompere. E con le mani fece scorrere l’indice sul pollice come
a voler riscuotere un debito.
Deluso, tradita la propria fiducia nelle persone, estrasse un biglietto giallo da 200 euro, ma
prima di darglielo ebbe un sussulto d’orgoglio e lo stracciò. Lo spezzò in tanti piccoli pezzettini
e glieli lanciò in faccia. L’altro si accanì su Mosè, colpendolo più volte alla testa, mentre il
Professore era incapace di reagire. Quattro pescatori seduti al bar ad angolo videro la situazione
e il più vecchio tra loro decise di intervenire seguito dai più giovani. I tre si misero a proteggere
il malcapitato, mentre il vecchio con delle mani che sembravano remi rapidamente rovesciò le
sorti dello scontro; il truffatore risalì in automobile e si dileguò.
Mosè era rattristato e anche un po’ pesto, ma finalmente libero.
Si sedette sul marciapiede e vide arrivare le forze dell’ordine.
Il naso sanguinava copiosamente e il fazzoletto sembrava non bastare. Gli ematomi erano diffusi
e la testa era dolorante. Un ragazzo prese un altro fazzoletto e gli schiacciò il naso in modo
deciso.
Un uomo in divisa, con il medesimo accento del truffatore, chiese
- Che è successo?
- Un tale grande e grosso mi ha offerto un passaggio, ma poi ha preteso 200 euro, una truffa!
Mosè cercò di sintetizzare l’accaduto mentre si toccava la testa dolorante.
- Se è una truffa, lo lasci dire a me. Rispose un indispettito carabiniere, il cui profilo
denunciava tutta l’inerzia.
- Vuole sporgere denuncia?
- No, no. Sono cose che capitano.
Mosè capì che non era il caso di riempire moduli in caserma, soprattutto con un carabiniere
ostile.
- Ecco, bravo. Queste sono cose normali, non si può ingolfare la giustizia per un fatto da
poco.
- E voi che dite? Rivoltosi ai pescatori con il tono di chi ha un piccolo potere e lo ostenta
stupidamente.
- Quell’uomo ha sferrato al ragazzo dei pugni e l’abbiamo allontanato. Rispose il più giovane,
più per farla finita che per informare il classico dipendente pubblico che ritira lo stipendio
senza colpo ferire.

L’agente si diresse verso l’automobile di servizio e salito disse al collega in modo che lo
sentissero.
- Il solito stronzo egoista veneto, che, avendo due soldi, tratta male un padre di famiglia che
arrotonda la giornata, facendogli pure un piacere.
Tutti i presenti ebbero una strana impressione, forse il carabiniere conosceva questo malvivente,
ma alzate le spalle sperarono di non avere più a che fare né con il delinquente né con il
carabiniere per il resto della loro vita.
Il vecchio pescatore, un uomo che aveva superato la cinquantina, dalle mani dure come la pietra,
rimise in piedi Mosè, lo guardò in volto e gli disse con la voce calda di un familiare.
- Sei di Lido!
- Sì.
- Sei lo straniero, il foresto, l’ebreo! Disse il vecchio.
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- No, di origini armene.
- Va bene, non star lì a spiegarmi storia. Sei il nipote di quello che riparava le reti da pesca.
Precisò il pescatore, passando una mano sulla testa di Mosè per capire la gravità delle ferite
del giovane.
Il pescatore non voleva mancare di rispetto a una o all’altra minoranza, era solo che non era mai
stato a scuola e non aveva studiato molto. Per lui Venezia era un porto di mare, tanti arrivavano
e tanti andavano, parlavano un po’ tutti straniero e quindi, e quindi chi li capiva, ma per tutti
c’era un po’ di lavoro da sbrigare e una fetta di polenta da guadagnare.
- Mi ricordo di tuo nonno.
- Davvero? Rispose esterrefatto il filosofo.
- Era alto, magro, una carnagione da marinaio bruciata dal sole, un po’ come la mia. Era un
marinaio. Raccontò lui.
Da queste parti non è facile stringere amicizia, ma Amilcare, questo era il nome del pescatore,
vedeva in Mosè uno del branco. Forse uno che aveva tradito le sue origini, ma sempre del
branco. Mosè si sentiva lusingato e accolto nella sua terra come un esule che torna in patria alla
fine di un regime e viene accolto con tutti gli onori.
- Forse non lo sai, ma tuo nonno un tempo era un formidabile pescatore, in coppia con mio
padre erano imbattibili! Poi ebbe un terribile incidente di pesca; due imbarcazioni della
flotta si scontrarono per la nebbia e lui rimase schiacciato nella stiva. Rimase in coma per un
bel po’ di tempo, ma ripresosi iniziò a riparare le reti con la moglie, la carissima Marta
Molin, compare d’anello di mia nipote. Lei aveva fatto la sarta in una famosa bottega di
Burano.
Il pescatore, raccontando questi eventi, creava un legame con Mosè, come se lo ripescasse nella
rete della sua storia, come se lo riportasse sulla barca che avrebbe dovuto guidare la vera vita di
Mosè.
Proprio così, Mosè ora si sentiva un naufrago ripescato e Amilcare sembrava l’amico che
protende la mano per salvarti.
Nella vita non si può essere da soli, non si può contare sempre solo sulle proprie forze. Un
cireneo serve sempre, un uomo che si volta indietro e raccoglie i feriti, i dispersi nella battaglia
della vita.
Fissò quel generoso pescatore che, facendosi passare il vento tra i capelli, capiva dove sarebbero
andate le correnti. Gli sguardi si incrociarono e i due si sentivano connessi.
Mosè capì il motivo per cui era intervenuto così energicamente contro il truffatore. Era scattato
il richiamo del gruppo, quel richiamo che è tipico delle piccole comunità.
Aveva cicatrici sulle braccia e gli mancavano due falangi della sinistra. Una bocca larga e due
occhi un po’ sporgenti, come fosse ipertiroideo. I calli sulle mani sembravano cuscinetti di
gomma e le unghie nere dicevano che si arrangiava pure nella meccanica della nave. Gli occhi
erano di un nocciola chiaro e le sopracciglia fini. Al timone del peschereccio si mosse per
Pellestrina.
- Tuo nonno abitò in quella casa per alcuni anni in affitto dalla famiglia Scarponi. disse
alzando il braccio e indicando una casa verde.
- Poi abitò nella stessa casa dei miei e infine si spostarono nella casa che oggi è di tuo padre.
- Raccontami di più. Mi piace sentire dei miei antenati. Chiese un Mosè avido di nutrirsi della
pianta che l’aveva generato.
- Han fatto la guerra partigiana insieme e sono diventati come fratelli.
- Certe esperienze ti formano e ti cambiano.
- Avranno avuto paura, ma si sentivano obbligati a fare qualcosa. Disse Mosè
- Era facile per loro distinguere il bene dal male. Esclamò Amilcare.
- Era pericoloso però fare certe scelte. Precisò Mosè.
- E questo gli rende ancora più merito.

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- Ma la gente di mare è sempre coraggiosa. Sentenziò il pescatore gonfiandosi il petto.
Poi aggiunse indicando il mare.
- Guarda con cosa abbiamo a che fare e pensa che oggi è tranquillo.
Il vecio aveva iniziato a parlare liberamente e descrisse la fratellanza tra i pescatori. Descrisse la
solidarietà che si crea tra gli uomini di mare che li porta a condividere gioie e dolori.
- La nostra è una vita di solidarietà, quando il mare gioca brutti scherzi, se non hai amici in
terra e soprattutto in cielo, non ti salvi.
Mosè rimase ad ascoltare in silenzio per un po’, avrebbe voluto confidare la propria malattia
quasi a cercare consiglio e i pensieri andarono a quelle sedute che aveva subito dallo psicologo.
Poi, per non sembrar scortese, disse.
- Ricordo che mio nonno mi portava a pescare nelle barene di Lio Piccolo, un posto così
lontano dal mondo che era possibile raggiungerlo solo a piedi.
- Era bello andare sia a pesca che a caccia da quelle parti, ma io che vivo in mare tanto tempo
non ho bisogno di estraniarmi quando torno a casa. Ricarico le pile con mia moglie. Sai è
bello essere sposati e soprattutto sposati con una donna come la mia. Tu sei sposato?
- Divorziato, ci siamo lasciati da un po’.
- Mi dispiace. Ci vuole fortuna, ma da noi si dice che la donna o pianta o sradica.
- Cosa vuol dire?
- È la donna che dà il passo alla famiglia, il ritmo.
- E l’uomo?
- L’uomo segue il ritmo.
- Un po’ come nel ballo, uno guida l’altro segue. Ecco nel matrimonio è la donna a dare i
tempi e l’uomo deve adeguarsi. Ma se l’uomo non si adegua o la donna non ha ritmo, il
matrimonio va a puttane.
- Credo di aver capito. Disse Mosè e pensò ai tanti soldi spesi da uno psicologo per avere una
sintesi perfetta da un pescatore.
- Dovrei risposarmi secondo te? Chiese un incuriosito Mosè che voleva capire la profondità
dell’intelligenza di quell’uomo. Non era certo infatti interessato ad una nuova avventura
viste le sue precarie condizioni.
- Non si fanno due errori nella stessa vita. Non è il tuo carma. O hai scelto la donna sbagliata
e quindi non sei capace di scegliere o tu non sei adatto a danzare e quindi siediti e astieniti
dall’incasinarti la vita.
- Castità? Chiese provocatoriamente Mosè.
- Non ho detto questo, schiacciò l’occhio il pescatore e sorrise divertito.
- Andrò a meditare a Lio Piccolo. Rispose Mosè.
- Oggi la strada è asfaltata, ma è meglio un motorino, un posto dove resti solo con i tuoi pensieri e
con le zanzare. Concluse l’amico ridendo.
Mosè si mise a guardare l’orizzonte in quel punto dove il mare incontra il cielo, dove l’azzurro
diventa bianco sfumando nella luce.
Là, in fondo, si potevano scorgere due strade: la via dell’oblio e la via della libertà e forse le due
coincidevano. Dimenticare tutto e affrontare l’ultimo viaggio, il viaggio del distacco dal mondo.
Forse alla fine di quel tunnel di luce c’era il passaggio in una nuova dimensione, forse lo
aspettava sua madre, certamente l’avrebbe scoperto presto. Respirò profondamente e chiuse gli
occhi.

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Capitolo 4
Arrivato a Pellestrina, scese dalla barca e si fermò. Guardò a destra, a sinistra e accompagnò con
lo sguardo quell’uomo che si allontanava. Si avvicinò al muro di contenimento e salito guardò
l’orizzonte sul mare aperto.
Le onde erano frequenti, basse e gentili, solleticate da un vento frizzante che le spumeggiava; un
po’ di sabbia si sollevava, senza dar particolare fastidio; rami secchi e cespugli si confondevano
e qualche lucertola prendeva il sole sulla massicciata. Mosè si collocò in un’ansa del bianco
muro di pietra, aprì la tenda, si spogliò e si tuffò in quell’acqua salata, volendosi riappropriare
dei profumi del mare e della natura. Si sdraiò e guardò l’acqua che senza stancarsi accarezzava
la sabbia. Il profumo di vita marina lo inebriava e il contatto con la natura lo rigenerava. Si mise
ad accarezzare la sabbia, un gesto che gli riportò alla mente delle ore meravigliose trascorse con
una donna fantastica.
Ben presto riaffiorarono i ricordi di Anja, una ragazza di Berlino Est, che aveva conosciuto
presso un seminario di filosofia. Avevano trascorso molti momenti insieme e un pomeriggio si
erano trovati stanchi ad aspettare il tramonto sulla spiaggia.
Anja era alta e i colori rivelavano le sue origini: una pelle chiara e due occhi smeraldo, due gote
rosse e capelli biondi, un corpo esile e spalle ben distese.
Avevano discusso soprattutto di Dio, poiché Anja, non battezzata a causa del regime della DDR,
cercava una religione o un essere perfetto o forse una guida. Orfana di un confronto spirituale, la
giovane aveva carpito da alcuni atteggiamenti di Mosè che avrebbe potuto trovare in lui
qualcuno che almeno le spiegasse il proprio travaglio interiore. Forse cercava solo delle regole a
cui appigliarsi, forse la caduta del comunismo con le sue certezze l’aveva colta impreparata.
Mosè aveva capito che Anja cercava dei nuovi comandamenti da sostituire ai comandamenti del
partito. Probabilmente quella splendida creatura aveva bisogno di nuove categorie dove inserire
le proprie esperienze e rileggerle alla luce del nuovo mondo. Sdraiati sulla sabbia, spalla a spalla
discutevano animatamente e lei gli confidava di sentire una sorta di dolore spirituale, una sorta
di angoscia per un Dio che le era stato negato.
Il padre, infatti, per non rischiare durante il regime comunista, non l’aveva battezzata e non le
aveva insegnato nemmeno il senso del peccato e del Male. Lei sentiva di aver vissuto da sola,
senza una guida e non le sembrava giusto. Avrebbe voluto ricevere degli insegnamenti, forse
criticabili, ma che potessero aiutarla come punto di partenza. Forse in seguito li avrebbe
abbandonati, ma avrebbe sempre avuto un porto dove ormeggiare la sua barca spirituale.
Mosè era allibito dalla facilità con cui quella donna apriva il suo cuore e scavava senza remore
nella profondità della sua anima, facendolo partecipe dei suoi pensieri più intimi.
Il filosofo si ricordava di non voler dichiarare immediatamente la propria fede, perché non
l’avrebbe reso un intellettuale alla page, ma Anja era disarmante, ansiosa di capire cosa la
tormentava e chi era quel Dio che la incuriosiva. Soprattutto Anja era libera dai pregiudizi
ideologici che avevano caratterizzato la cultura italiana e che avevano relegato i credenti nel
mondo delle scimmie.
Mosè non capiva perfettamente tutti i termini specifici di tedesco, i vocaboli erano difficili, ma,
utilizzando anche il latino e l’inglese, era riuscito ad articolare numerose risposte. Le domande
sui comandamenti e sulla figura di Gesù erano serrate e Mosè non si sentiva all’altezza poiché
non era un teologo, ma un filosofo. “Ci vorrebbe un prete con le idee chiare per questo strizza
cervelli”, pensava mentre cercava le parole giuste per spiegarsi.
Il filosofo cercò di intrecciare fede, sapere, filosofia e pedagogia, ma la sfida fu ardua. Lei era
troppo intelligente e istruita per essere liquidata con semplici battute. Lo guardava ammirata
pendendo dalle sue labbra e ogni tanto lo accarezzava creando una connessione corporea.
Anja era felice, perché percepiva che Mosè si impegnava per lei e questo la stimolava ad aprirsi
maggiormente. Così fece un bel sospiro di sollievo, prese coraggio ed iniziò a raccontare degli
effetti della pedagogia nera su di lei e su molti ragazzi della Germania dell’Est.
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Mosè ebbe compassione per quella donna quando sentì la sua storia.
- Non sai cos’è la pedagogia nera?
- No, non lo so. Rispose lui candidamente.
- La prima volta che mia madre mi ha abbracciato avevo 21 anni.
- Perché?
- Non ho mai trovato nelle parole dei miei genitori espressioni come amore, comprensione,
bisogno, compassione, coccola, riposo. Si confidò con dolore.
- Non conosco questa pedagogia. Ribatté Mosè
- A Berlino est si è fatto un bell’esperimento: applicare un tipo di pedagogia, la pedagogia
nera, basata sulla punizione e sulla correzione del bambino.
Mosè rimase attonito e dispiaciuto.
Capì quanta stupidità ci fosse nel mondo e ricordò quel vecchio proverbio che diceva che
ognuno porta la propria croce, anche se invisibile agli altri. In effetti Anja pareva, a una prima
occhiata distratta, la donna perfetta, nel fisico e nell’intelligenza, mentre con questa confessione
mostrava tutte le proprie insicurezze e paure.
- Non si pensava mai alla felicità e alla serenità dei bambini. Bisognava solo essere perfetti in
tutto. Eravamo delle cavie per adulti folli.
- Volevano costruire a tavolino un mondo perfetto. Borbottò il filosofo.
- Sì, ma gli esseri umani non sono animali da allevamento. Tutti abbiamo l’aspirazione ad essere
felici, ma per vie diverse.
- La Germania est è stata un laboratorio. Aggiunse Mosè
- Invidio gli italiani e i veneziani. Ribatté lei.
- Perché?
- Invidio la vita a contatto con il mare e la laguna. Invidio i vostri legami sociali, la vostra vita
all’aperto. Sai cosa vuol dire un cielo grigio per mesi tra i casermoni della D.D.R?
- Vieni a vivere in Italia!
- Prima sistemo alcune cose in Germania e poi forse…
Non c’era più nulla da dire, lei aveva confidato quelle dolorose esperienze che l’avevano
segnata, così Mosè le si avvicinò. I loro occhi si scrutarono in modo diretto, quasi a penetrarsi
l’anima l’un l’altro. Si accolsero tra le braccia diventando un corpo solo e furono felici almeno
per alcuni giorni.
L’accompagnò all’aeroporto. Si salutarono e si promisero di tenersi in contatto, ma senza una
ragione, lei smise di scrivergli. Per mesi Mosè si interrogò sul fatto di aver incontrato un’anima
simile alla sua, con la quale si potesse discutere a lungo e di tutto. Nel ricordarla si domandò
dove fosse finita. “Certi incontri sembrano non avere un senso. Non si capisce perché una
persona allacci con te una relazione per poi non vederla più”.
Nel muoversi sentì una fitta alla schiena quasi a ricordargli che quel’ incontro con Anja non era
stato indolore poiché aveva segnato la fine di un altro rapporto.
Si toccò il fianco si vestì, ma una nuova fitta dapprima gli ricordò fratello cancro e poi gli
ricordò le lacrime di Francesca. L’avventura con la bella ragazza tedesca non era stata indolore
per tutti, proprio perché l’uomo è un pezzo di un puzzle più grande.
Mosè dopo aver fatto all’amore con Anja, aveva deciso di lasciare definitivamente la sua
fidanzata adolescenziale. Per la verità i loro incontri si erano diradati da mesi a causa dello
studio, ma la ragazza che lo aveva accompagnato nella sua prima giovinezza lo amava ancora.
Si ricordò di quel viso tradito e se ne dispiacque poiché Francesca avrebbe voluto sposarlo.
Pensò che quello fosse stato il vero errore della sua vita. Perdeva una ragazza seria e affidabile,
con la quale costruire una solida famiglia, per avventurarsi in storie effimere che l’avrebbero
illuso prima e deluso dopo.
Le nubi correvano sotto la frusta del vento, un vento fresco che suggeriva tempesta. Pensò che
fosse una buona idea cercare un bed and breakfast per avere un letto comodo sul quale poter
riposare una schiena affaticata.
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Non ritenne opportuno iniettarsi dosi di morfina poiché il dolore non era costante, ma piuttosto
delle fitte discontinue e distanti nel tempo.

Mosè si mise in cammino per individuare un alloggio a buon prezzo, si fermava e domandava
informazioni alle signore del luogo. Tutto sembrava occupato e nessuno era in grado di indicargli
una soluzione.
Risalì sulla massicciata a osservare il mare aperto. Le onde vivaci si schiacciavano sull’arenile,
troppo piccolo per ospitare folle di turisti.
Verso sera vide una donna in costume nero intero. Si rinfrescava alla calura e, uscita dall’acqua, si
diresse verso le scalette del muro di contenimento con passo deciso.
Mosè non resistette
- Signorina, Signora…cerco in affitto una casa o un appartamento per le vacanze.
La donna lo guardò, tentennò, ma con il tipico piglio dei veneziani gli rispose.
- Ho avuto una rinuncia. Se vuole una camera con bagno posso affittargliela.
Mosè imbracciò il bagaglio fatto di zaino e materassino e poche altre cose e la seguì.
Scesero le scalette, camminarono per qualche metro ed entrarono in una casetta a tre piani.
- Mi chiamo Mosè Molin.
- Io mi chiamo Verbena.
Ma, vedendo che il filosofo non capiva, ribadì.
- Verbena, come il fiore.
- Certo.
Mosè non aveva mai sentito nominare quel nome, ma non voleva dare una brutta impressione.
Lo sguardo del Professore era caduto sulle sue esili caviglie inzaccherate di sabbia di mare, e come
tutti gli uomini, aveva apprezzato la figura della donna nascosta dall’asciugamano. Entrarono in un
salone pulito, lei afferrò una chiave sul bancone della reception e gliela porse.
- In cima c’è una stanza col bagno, pronta per lei. Ha una vista sul mare e una sulla laguna. La
affittava sempre un Professore universitario.
- Come si chiama?
- Un certo Fabiano Rossi.
Il prof Rossi, quello di storia contemporanea, con il quale aveva litigato proprio sul genocidio degli
armeni. Lui negava un accanimento sul popolo armeno anche per motivi religiosi. Per lui era un
tabù parlare del massacro degli armeni di fede cristiana perpetrato dai turchi di fede mussulmana,
poiché avrebbe potuto favorire, ai suoi occhi, dei partiti di destra. Mosè non accettava questo modo
di ragionare, poiché non rendeva scientifico lo studio della storia. I pregiudizi, secondo Mosè, non
potevano aiutare la ricerca della verità e la verità stessa.
Verbena si accorse che lo conosceva e si dispiacque che la sua lingua fosse stata più veloce della sua
mente. Non avrebbe voluto infatti violare la privacy del suo cliente.
Mosè, volendo conoscere meglio il suo interlocutore, si rivolse a Verbena e le chiese.
- Ma era un tipo eccentrico il Professore? Sa, è stato mio collega di storia contemporanea.
Verbena non voleva offenderlo così rispose.
- Un po’, voleva ritrovare la camera identica anno dopo anno. Ma non so dirle altro. Non sono
pettegola.
Mosè si sentì punto, come se “quel pettegola” fosse rivolto a lui, e per togliersi dall’impaccio
estrasse delle banconote per pagarla.
Lei gentilmente disse.
- Solo alla fine della vacanza. Quanto vuole rimanere?
Mosè rimase senza parole, poiché non sapeva quante settimane aveva da vivere.
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Non era più nella condizione di poter programmare.
- Diciamo trenta giorni, quattro settimane, poi si vedrà, magari resto fino all’apertura dell’anno
accademico.
- Il periodo successivo a Ferragosto non è un problema, ma se lei dovesse cambiare idea e lasciare
la camera anticipatamente, cerchi di farmelo sapere subito.
- Capisco signorina Verbena.
- Certamente, se dovessi avere delle proposte chiedo prima a lei, anche se a questo punto della
stagione devo ammettere che è raro avere altri ospiti.
Poi riprese.
- Anche lei è un professore? E cosa insegna?
- Filosofia, nella stessa Università del professor Rossi.
- La disciplina di Kant e Hegel.
- È interessata alla mia disciplina?
- Ho avuto l’occasione di studiarla a scuola. E poi aggiunse.
- Venga, le mostro la strada.
Verbena salì le scale, gli indicò quale fosse la stanza e nel congedarsi gli ricordò che la colazione
iniziava alle sei e trenta per dar modo agli escursionisti di mangiare prima di partire.
- Se succedesse qualcosa, qui c’è la camera di mia madre e in fondo al corridoio la mia.
In quel momento uscì da una stanza la mamma di Verbena, con il cambio lenzuola. Una donna
energica e volitiva che scrutò Molin come fosse una minaccia per la figlia.
Mosè salutò e si ritirò nella camera. La stanza era così fresca tanto da mettere i brividi, fatto che lo
costrinse a infilarsi sotto il lenzuolo prendendo sonno. Alle quattro del mattino lo svegliò un po’ di
nausea, che divenne più intensa col passare dei minuti tanto da togliergli la voglia di alzarsi. Si
ricordò di non aver mangiato molto. Pensò di mangiare un boccone di pane conservato nello zaino,
ma una fitta alla schiena lo impaurì. Si sedette sul letto, afferrò siringa e fiala e imprudentemente si
iniettò due dosi di morfina che gli attutirono il dolore. Mosè credeva che gli avrebbe tolto subito
quel pugnale nella schiena e non pensò agli effetti collaterali.
Rimase sofferente in camera per il resto del giorno e, dopo aver perso lucidità, cominciò ad avere le
prime allucinazioni. Affioravano ricordi misti a immagini soprattutto dell’infanzia. Le passeggiate
lungo le valli da pesca, le risate tipiche dei bambini. Sdraiato nel letto, vaneggiava e muoveva le
braccia come stesse giocando a pallavolo, come se fosse inserito in un immaginario team. Alzava le
braccia, chiamava e accarezzava l’amico Gigi e poi Riccardo.
Sgridava il fratello Gabriele per il possesso di marjuana. Gesticolava molto, con tutte e due le mani
e a volte scattavano pure le gambe all’inseguimento di qualche fantasma.
La fronte era ricoperta di goccioline di sudore e il cervello continuava ad aprire le scatole dei
ricordi.
Le lacrime gli bagnarono il viso poiché rivide la madre seduta a cucire pizzi e merletti. Cominciò a
parlare, ma la saliva gli usciva dalla bocca e ciò che diceva era incomprensibile.
L’infanzia, precedente alla morte della madre, era stato il periodo più spensierato di tutta la vita.
Aveva goduto di estati gioiose all’oratorio e riaffiorava il ricordo del suo primo amore Francesca,
che aveva lentamente lasciato nel frequentare gli ambienti universitari e che forse avrebbe potuto
salvarlo da tanti dolori.
Forse quelli erano stati i veri errori: iscriversi all’università e lasciare quella fanciulla semplice nei
modi, ma profonda nello spirito.
Francesca era una ragazza timida, gentile, ma con scarso interesse per gli studi. Voleva diventare
una cuoca in un Hotel di Venezia, sposarsi quanto prima e avere una famiglia con dei bambini. I
suoi programmi erano chiari e lucidi, non aveva bisogno di nessuno che glieli spiegasse né tanto
meno glieli stravolgesse. Aveva desiderato che Mosè non si allontanasse da Lido o da Venezia, ma
l’ambiente universitario aveva separato i loro destini.
“Ho creduto di realizzarmi nello studio e invece avrei vissuto una vita più serena rimanendo a
fianco delle persone più genuine. Perché cercare un lavoro lontano? Si poteva guadagnare di più e
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meglio stando vicino a casa. Perché lasciare il mare e seguire una chimera come la professione
universitaria? Perché dimenticarsi di Francesca? Davvero aveva pensato che studiare l’avrebbe
migliorato? In questo caso aveva peggiorato le sue condizioni di vita.

La mente amava ricordare le gite domenicali con il nonno e quel momento magico al tramonto.
Salivano sulla torre costruita dagli armeni e osservavano il sole specchiarsi in tutte le valli da pesca
riproducendosi infinite volte. Il nonno gli aveva mostrato il suo angolo di pace, in fondo a Lio
Piccolo le guerre e le persecuzioni si potevano considerare storie lontane.
Mosè rimaneva ad ascoltare le vicende degli armeni che avevano coinvolto il nonno.

- Mio papà fu convocato dall’esercito turco per essere arruolato, ma non diede più notizie.
Mia madre, capito il pericolo, mi consegnò a un prete che mi mise su una nave diretta in
Europa. Raccontava amaramente il vecchio, nel rammarico che suo padre si fosse fidato di
quella banda di delinquenti.
- Ma nonno che successe?
- Di tutto. Per le donne fu l’inferno fino alla crocifissione, per altri una marcia a chi moriva
prima fino a un deserto infernale. Per noi fu coniata la parola genocidio, cioè la scomparsa
di un popolo.
Nella frase del nonno c’era tutta l’impotenza, tutta la disperazione di chi si è salvato e non si
capacita di aver perso tutti.
- Come per gli ebrei?
- Si, ma nessuno ha pagato per questo. Ipocrisia, realpolitik, e tante altre cose.
- Ma perché è successo questo massacro?
- Perché chi comanda vuole determinare la vita degli altri. Gli uomini considerati
singolarmente non sono così malvagi, non farebbero del male agli altri. Ma gli uomini al
potere cambiano la loro natura. Si sentono onnipotenti e cominciano a giustificare gli abusi;
si sentono investiti da chissà quale divinità a guidare il popolo che loro chiamano bue. Il
nonno era diventato un anarchico, dopo aver visto gli orrori degli stati nazionali e
nazionalisti.
Non vedendolo uscire per colazione e non incontrandolo per tutto il giorno, Verbena bussò alla
porta e domandò se stesse bene. Mosè si fece forza e uscì per risponderle e rassicurarla. Lei lo
guardò e gli parve pallido e febbricitante per via di quel sudore che gli coronava la fronte.
Decise di preparagli qualcosa di caldo per ristorarlo.
Si avvicinò anche sua mamma Angela e domandò se volesse cenare con loro, visto che aveva saltato
la colazione. Tale gentile proposta non poteva essere rifiutata e Mosè acconsentì. Si sistemò e gli
parve di star meglio, quindi scese in cucina. Verbena con tratto gentile lo accolse e chiese
- Vuole del brodo leggero.
A tanta gentilezza domestica non era più avvezzo, ma era la natura genuina di questa gente,
generosi uomini di mare e donne capaci di sopportare e aspettare. Si sedettero per cenare e
Mosè fu messo a capotavola. Si sentì a disagio stretto tra le due donne che avrebbero voluto
sapere tutto di lui.
Mentre Verbena non proferiva parola, la mamma Angela era scatenata.
- Lei ha un accento familiare.
- Sono Molin Yaritsan, sono il nipote dell’armeno, sono di Lido. Rispose con orgoglio,
cercando di accattivarsi la signora Angela.
- Allora stai tornando a casa? Perché non alloggi da tuo padre? Si permise di dargli del tu
perché lo considerava uno del paese.
- Conosce mio padre?

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Mosè era stupito che lei lo conoscesse, e raccolse i capelli dietro gli orecchi pronto a subire
l’imminente interrogatorio. Angela infatti si era addirittura avvicinata, quasi per cogliere
eventuali bugie o incongruenze.
- Di vista. Siamo pochi. Il siamo pochi stava a significare: attento a non cadere in
contraddizione perché posso verificare.
- Si è risposato purtroppo. Rispose Mosè, sottolineando l’avverbio con il tono di voce in
modo da far intuire ad Angela il motivo della sua permanenza al Bed and Breakfast.
- Sì, ma tanti anni fa, è un reato prescritto. Disse lei.
- Chiaro, ma la matrigna non è di mio gusto, perciò preferisco alloggiare altrove. Con questa
frase Mosè sperò di aver concluso.
- Capisco. Disse Angela.
- Mia mamma non si fa i fatti suoi. Interruppe Verbena.
- Scusa, è di Lido! È come se fosse un parente, respiriamo la stessa aria ci bagniamo nello
stesso mare. Si giustificò Angela con la figlia, ma, guardando la reazione di Mosè, vide che
l’ospite era un po’ impacciato.
- Perché non ci siamo mai incontrati? Rincarò Angela.
- Ma mamma? Sembra un interrogatorio della Gestapo.
- Figurati, per una domanda così innocente… Rispose Angela.
- Non saprei, dopo l’università a Venezia mi sono sposato e sono finito a Verona, la città di
mia moglie. Rispose Mosè, alzando il ciglio sinistro, a sottolineare che il matrimonio non
era stata una grande idea.
- Ah, è sposato?! Disse la madre.
- Perché non l’ha detto subito? Domandò rapidamente.
- Cosa? Rispose Mosè.
- Che era sposato?
Mosè allargò le braccia
- Subito quando?
- Quando ha incontrato mia figlia!
- Mamma dai…Intervenne Verbena.
- Ma, allora, perché non porta la fede?
- È finita nel fiume. Rispose Mosè
- Dov’è sua moglie? Insistette la signora.
Neppure le occhiatacce di Verbena riuscivano a fermarla. Angela aveva trovato un varco nelle
difese di Mosè e si gettava all’interno della vita di quell’ospite indifeso.
Egli ridendo rispose.
- In fondo al fiume con la fede.
- Come? Ribatté lei stupita.
- L’ho suicidata. Mosè sorrise alla sua strana battuta.
A questo punto intervenne Verbena decisa e disse.
- Mamma è divorziato, quindi, è un argomento che non si tocca, vuoi che tutti gli uomini
prendano paura?
Mosè annuì e sorrise per la risolutezza della figlia.
- Signora, io avevo giurato alla mia ex amore eterno, ma lei pensava a un matrimonio
moderno.
- Il matrimonio è matrimonio. Sentenziò Angela.
- Ma sa, qualcuno giura con la bocca, ma chissà dove ha la testa, ma non vorrei tediarla.
- Non mi tedia, anzi. Disse Angela affamata di pettegolezzo.
- Mia moglie voleva la festa, ma non voleva sposarsi e io ho capito di aver recitato un ruolo
da marito con lei regista della mia vita. Il divorzio era il giusto epilogo finale.
- Ma lei non ha cercato di trattenerla, di battersi per il proprio amore?

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- Credo di aver fatto tutto il possibile alla luce di una serena analisi e sono giunto alla
convinzione che è la donna che pianta o spianta il matrimonio.
Mosè era felice di aver utilizzato il proverbio dell’amico pescatore e gli sembrava di aver risolto
nel migliore dei modi quell’interrogatorio, ma le due donne si sentirono punte e reagirono.
- Ma anche gli uomini hanno le loro responsabilità. Disse Verbena e aggiunse.
- Devono aiutare ad affrontare le difficoltà. Devono essere un punto di riferimento per noi
donne. Devono essere forti e sicuri.
- Non essere come i fuchi che servono solo per impollinare. Aggiunse Angela.
Mosè ripiegò prontamente dicendo
- Certo! Ma è la donna che guida le danze e l’uomo deve seguirla. La donna dà il ritmo di
quel ballo chiamato matrimonio.
- Lo dice per accontentarci. Esclamò Angela
- Per captatio benevolentiae. Aggiunse Verbena
- Ci racconti ancora della sua vita. Domandò ancora Angela che pareva un segugio non
disposto a mollare la preda.
La mamma di Verbena non intendeva essere invadente, ma protettiva nei confronti della figlia.
Aveva posto quelle domande per mettere subito a nudo la situazione di Mosè. Non era stata
diplomatica, ma, giunta a quell’età e nella propria casa, si sentiva libera di domandare tutto a
tutti. Questo indicava in fondo che Mosè le era piaciuto per Verbena, ma che bisognava andare a
fondo nella conoscenza di questa persona. Certo a favore di Mosè giocava il fatto di essere della
stessa città, bello, acculturato e non foresto. Sì, insomma moglie e buoi dei paesi tuoi.
- E tu, ti sei sposata? Domandò Mosè a Verbena, aggiustandosi gli occhiali sopra il naso, come a
dire, ora tocca a me inquisire.
Subito intervenne la madre a protezione dell’unica figlia.
- Perché non lo chiede a me se sono sposata?
- Immagino sia vedova. Una volta, da queste parti, bisognava essere sposati per avere una
figlia. Quindi, non vedendo suo marito, ho pensato che fosse morto. Chi mai potrebbe
abbandonare una splendida signora indifesa? Rispose Mosè.
La risposta piacque alla madre, ma soprattutto a Verbena, la quale iniziò a ridere di gusto. Mosè
non era ben conscio, ma quello era stato il maggior successo della serata. La mamma di Verbena
lo guardò con riconoscenza, perché l’ospite aveva compiuto un miracolo: Verbena appariva
serena e sollevata, sembrava essersi tolta in un sol colpo uno zaino pesantissimo.
Mosè cambiò discorso dicendo.
- Di me posso dirvi che ho ascendenze armene, mio nonno riparò a Lio Piccolo.
- Dove c’è il campanile! Disse Angela.
- Certo, lo conosce?
- Mio marito amava portarmi in quei luoghi per la classica gita fuoriporta.
- Io non l’ho mai visto questo campanile. Esclamò Verbena.
- Potremmo organizzarci e andare tutti e tre.
Le due donne acconsentirono in modo generico, pur sapendo che non avrebbero mai potuto
prendersi contemporaneamente delle vacanze con tanti clienti.
- Signor Mosè, a me ha fatto piacere averla a cena, se vuole la invito tutte le sere, una manina
di pasta in più o in meno non fa la differenza.
Angela disse così perché il professore aveva mangiato come un usignolo e pensò che volesse
mantenere la linea per sposarsi di nuovo. Pensava che fosse un bel partito per la figlia, certo non
ricco, ma intelligente, bello e pulito.
- Signora, non posso rifiutare, poiché la compagnia e il cibo sono ottimi, ma mi consenta di
pagarla, almeno con un adeguato obolo.
- Ma quale obolo? Se proprio vuole, mi pagherà in natura.
- Ma mamma che vai dicendo.

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- Potrebbe aiutarmi quando vado a fare la spesa. Non sembra, ma se potessi avere un
collaboratore, potrei rifornirmi maggiormente.
A Mosè piacque quella proposta e accettò volentieri; fu così che cominciò a frequentare le
signore.
Una settimana dopo Verbena, mentre sua madre era intenta nel servire gli ospiti, decise di
confidarsi con Mosè e disse.
- Il mio uomo, che viveva qui con noi a sbafo, mi ha lasciata per una ragazzina più giovane di
me di quindici anni. Mi son sentita una pezza da piedi, poiché gli ho donato me stessa.
- Perché hai resistito così a lungo? Chiese Mosè.
Verbena si annodò i capelli e volle affrontare la conversazione, perché aveva bisogno di
esternare una volta per tutte il dolore. In fondo Mosè aveva vissuto la stessa situazione, perciò
poteva capirla e in qualche modo consigliarla.
Appoggiò i gomiti sul tavolo ed eresse il busto, come se volesse farsi forza.
- Ho tentato di resistere per amore… Due lacrime gonfiarono gli occhi.
- O perché non volevi vedere il tuo fallimento, come del resto ho fatto io.
Rispose Mosè senza diplomazia. In fondo la diplomazia in questi argomenti fa rima con
ipocrisia; questa era la convinzione del professore e poiché era un uomo onesto amava dire ciò
che pensava.
- Mi diceva che mi avrebbe sposata e che si sarebbe cercato un lavoro.
La mamma, non vedendo Verbena in sala a disposizione degli ospiti, diede un’occhiata in cucina
e intuì la difficoltà emotiva della figlia, ma non intervenne.
Aveva colto l’effetto positivo che Mosè trasmetteva alla sua bambina.
Decise quindi di sbrigarsela da sola e soprattutto di attardarsi con i clienti per non interromperla
mentre parlava con Mosè
Ogni tanto rientrava in cucina per prendere qualcosa, ma diceva.
- Tranquilla, stai lì, stasera non servi proprio. Se ne usciva quindi cercando comunque di
captare i segnali che i due si lanciavano l’un l’altra.
- Non volevo che finisse così. Riprese Verbena
- Ma quando ti sei accorta che non era l’uomo per te?
- Quando ho scoperto che mi tradiva.
- No, quello è stato il momento in cui tu hai deciso di tagliare, ma quando ti sei accorta che
non ti amava?
- Forse fin da subito.
- Abbiamo fatto lo stesso errore Verbena, anch’io in fondo mi ero accorto che mia moglie
voleva un altro, voleva un musicista.
- Siamo stati stupidi.
- Abbiamo perso la nostra vita a cercare di cambiare coloro che non ci amavano.
Mosè rivedeva il proprio dolore e decise di rimanere in silenzio lasciando che si sfogasse. Tentò
di mordersi la lingua, ma non avrebbe resistito molto.
Verbena continuò
- Tutti gli anni era la stessa storia: piccoli lavoretti, tante fughe nella città d’origine, mai un
lavoro stabile. La verità è che non vedevo o non volevo vedere l’uomo che avevo davanti.
Aveva un’altra chissà dove. Gli ho fatto da puttana.
Mosè ebbe una reazione istintiva e le strinse la mano.
- No, non dire così.
- Le persone non si usano, meglio la solitudine. Sentenziò una Verbena che mostrava un
carattere d’acciaio.
- Io sono stato in cura psichiatrica a causa di mia moglie. Lei in tournée mi tradiva. Forse la
lontananza da casa non ha giocato a favore della nostra relazione e forse avrò fatto degli
sbagli.
- Volevo dire che non ho avuto altri uomini. Interruppe Verbena senza una apparente logica.
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La donna giocava a carte scoperte, l’innocenza dell’adolescenza era svanita da tempo e con essa
l’illusione di incontrare l’uomo della propria vita. Quella sera aveva deciso di espellere il fiele
che ancora portava nel cuore contro l’ex compagno, ma soprattutto contro sé stessa. Non si
perdonava la prolungata ingenuità che l’aveva legata a quell’uomo.
- Io vedevo mia moglie ovunque. Fin dalla mattina la vedevo riflessa nello specchio. La
incontravo negli sguardi delle mie studentesse e tra la folla, tra i tavolini dei bar. Mi
scoprivo a parlare con la sua ombra di quello che era accaduto durante la giornata, e mi
addormentavo con il desiderio di sognarla.
Tra i due si era creata un’atmosfera di solidarietà, sembravano due reduci di chissà quali
battaglie.
- Non so se sarei in grado di fidarmi di nuovo. Verbena disse questa frase guardando negli occhi
Mosè, quasi a sondarne le intenzioni.
Rientrò la madre, volendo ora interrompere quella discussione, che a suo dire, si era protratta
troppo a lungo.
- Verbena, l’animo umano è così volubile. Disse Mosè
- Chi mai è così certo dei propri sentimenti e della loro durata? Aggiunse Lui.
- Un tempo si sceglieva a sedici anni e si rigava dritti. Commentò Angela
- La realtà è cambiata signora.
- Le persone sono cambiate! Non vi abbiamo educato bene. Disse la mamma.
- Il consumismo dei beni si è riflesso sui rapporti umani, generando il consumismo degli affetti,
forse meno dispendioso, ma certamente assai più doloroso; non si è più cercata l’evoluzione di
un rapporto, ma rapporti monodose, usa e getta. La nostra società è in sostanza ricca di uomini
Peter Pan, mai cresciuti, e donne Barby poco inclini a diventare madri e mogli. Sintetizzò il
filosofo.
- Non mi interessano più le analisi filosofiche, vorrei azzerare ciò che è stato ed avere la forza di
ripartire. Ribatté Verbena.
- Impossibile azzerare ciò che è stato. È parte della tua vita. Mi piace però pensare che tutti gli
eventi che abbiamo vissuto ci abbiano portato ad essere qui insieme.
Verbena rimase felicemente stupita del punto di vista di Mosè. Le dava la forza di ricominciare
e soprattutto sentiva di non essere giudicata.
Angela aprì le tende della cucina. La laguna, testimone dei loro discorsi, era un incanto, placida
e accogliente, uno specchio di luce che andava affievolendosi al tramonto. Il fresco aveva preso
coraggio e la gente lentamente usciva nelle piazze per raccontarsi la giornata. I pescatori
discutevano animatamente, come solo da queste parti accade, ma senza mai scadere in litigi
violenti. Un buon vino bianco sa in fondo mettere tutti d’accordo. Al di là del muro di
contenimento, il mare schiacciava schiaffi sulla piccola riva, ricordando a tutti che una tempesta
si stava avvicinando. Mosè rientrò in camera con dei libri a disposizione dei turisti lasciati sullo
scaffale in corridoio. Si sdraiò e scelse di leggere “I promessi sposi”.
A un tratto ricevette la telefonata di Riccardo che interruppe la lettura.
- Mosè come stai?
- Ti anticipo che non torno. Sento che potrei vivere in eterno Scherzò Mosè.
- Te lo auguro, ma non strafare. Potresti alternare a ottimi periodi rovinose e inaspettate
cadute. Se i dolori sono forti, vai in ospedale.
- Certo, non ti preoccupare. Parli con un serio professore di filosofia.
- Ti inietti morfina? Quanta?
- Generalmente non la prendo, ma mi è capitato di dover assumere anche due dosi.
- Ti consiglio una fiala al giorno in un’unica soluzione oppure due metà al dì. Non esagerare
con la dose e non strafare!
Riccardo non era contento della risposta, perché l’amico, senza accorgersene, aveva iniziato a
percorrere l’ultimo piano inclinato; avrebbe rapidamente concluso la corsa della vita.
- Hai conosciuto Lucia, l’avvocatessa del piano di sopra?
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- Bellissima donna, affascinante. Mi sono già presentato come l’amico di Mosè.
- Come sta?
- È molto dispiaciuta per la tua lontananza e ha intuito che hai qualcosa. Disse Riccardo.
- È una donna intelligente. Non le ho detto nulla, altrimenti non avrei potuto trattenere le
lacrime. Precisò Mosè che aggiunse.
- Quando sarà tutto finito, le racconterai la mia storia.
Si salutarono e si ripromisero che si sarebbero risentiti.
Lesse alcune pagine del romanzo di Manzoni, ma la memoria non andava all’adolescenza
quando in seconda classe si era costretti a leggere l’opera, bensì alla grande tribolazione, come
la chiamava lui, di costringere suo fratello a studiare.
Mosè cercava con tutte le sue forze di leggere e ripetere all’adolescente il testo fondante della
letteratura moderna italiana, ma Gabriele ostinatamente si scontrava con Mosè. Sembrava che lo
facesse apposta di litigare e di buttarsi sul divano leggiucchiando qua e là. Il ragazzino
prolungava lo scontro quasi a voler trattenere a sé il fratello. In quel periodo infatti Mosè aveva
preso in affitto a Mestre un appartamento per poter studiare meglio e tornava a casa solo per
aiutare nello studio il monello. Gabriele non l’aveva e non l’avrebbe mai detto, ma si era sentito
abbandonato da Mosè.
Le ore al Bed and Breakfast trascorrevano serene, anche se Mosè perdeva peso inesorabilmente.
Il sole si alzava e con esso cresceva la temperatura di un’estate a tratti torrida. Mosè leggeva
avidamente tutti i libri della biblioteca di casa e notava che Verbena e la madre si alzavano alle
cinque. Preparavano delle brioches fresche fatte a mano, poi come di consueto la figlia affettava
prosciutto e formaggio, mentre la madre cucinava carne e uova. Le due donne erano due
macchinari in simbiosi che si dividevano i compiti senza discutere, come se uno sapesse ciò che
doveva fare accanto all’altro.
Mosè si sporse dalla porta della cucina e le salutò.
La mamma di Verbena non poteva che registrare come un apparecchio sismico le vibrazioni
della figlia, che reagiva a quella presenza.
- Desideri qualcosa? Posso offrirti una spremuta d’arancia? Ti preparo un caffè o due uova?
Chiese lei, guardandolo.
- Non tutto insieme, ma un caffè sì.
Verbena interruppe il lavoro con una smorfia di disapprovazione della madre. Angela avrebbe
voluto preparare tutto per le quattro famiglie di tedeschi che ospitavano, ma la figlia era troppo
felice di averlo vicino.
Mosè osservava le mani veloci di Verbena e volle contribuire al gioco di squadra.
- Se vuole posso preparare un sorbetto al limone.
- Ma lei è un ospite dalle mille sorprese, e poi è veramente in grado di preparalo? Domandò
Angela incuriosita da quell’uomo che sembrava perfetto.
- Mi basta il freezer e gliene confeziono uno casalingo in poco tempo.
Chiaramente voleva sorprendere le due donne, la tipica malattia degli uomini che vogliono
pavoneggiarsi di fronte all’altro sesso.
Verbena si voltò a osservare la madre che alzò le spalle, quasi ad accettare una proposta stramba
a quell’ora del mattino.
Mosè si mise al lavoro, con un’abilità insospettabile, e la mamma Angela disse.
- Ma che capacità nascoste Professore: o vuole essere assunto o vuole fare colpo su di me.
- Signora, desidero semplicemente rendere il mio soggiorno meraviglioso, non solo bello e
guardò Verbena che, senza alzare gli occhi, sorrise, continuando a preparare le colazioni.
- Potrete offrirlo ai tedeschi. Se volete, vi posso aiutare a preparare un po’ di gelato, ma
servirebbe un mantecatore.
- Lo sai che sei in Veneto, la macchina ce l’ho. Disse la signora.

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Mosè impugnò la gelatiera, la smontò e sistemò le guarnizioni irrigidite dal tempo. Ripulì poi il
motorino dall’inevitabile polvere e sistemò la ventola.
Con carta e penna calcolò abilmente le proporzioni per un gelato alla panna. Pesò gli ingredienti
con certosina precisione, mentre le donne lo osservavano come se fosse un alchimista.
- Ma dove ha imparato? Chiese Angela, che l’avrebbe sposato subito, se non ci avesse pensato la
figlia.
- Signora, vorrei dirle, che per sopravvivere ho dovuto ingegnarmi parecchio.
La tipica frase fatta di chi si è impegnato a fondo, senza aspettare uno Stato che aiuta tutti,
tranne quelli che ne hanno bisogno.
- Cucinavo io in casa, perché la matrigna era di festa. Mi metta alla prova e le cucino anche un
pranzetto che non dimenticherà.
disse strizzandole l’occhio.
I tedeschi gradirono molto la sorpresa del sorbetto e ringraziarono.
- Al vostro rientro vi offriremo del gelato fresco. Promise Verbena prendendo per il braccio
Mosè, come per includerlo nella squadra del bed and breakfast.

Intanto Gabriele meditava sulle parole pronunciate da Mosè e intuiva che qualcosa era successo
o era sul punto di accadere.
Le divergenze che avevano avuto non gli consentivano di richiamarlo telefonicamente, così
chiamò la sorella.
- Ho sentito Mosè. Mi spieghi che succede. Si è convertito al militarismo? Vuole muovermi a
compassione?
Il tono e il modo di Gabriele era sempre un po’ tra il beffardo e il monello, ma la sorella
riusciva in qualche modo a smorzarne l’aggressività.
- È preoccupato per me. Avendo un po’ di mal di schiena, non è sicuro di potermi aiutare.
Maria con questa frase metteva in luce che il suo punto di appoggio rimaneva Mosè, oltre
che suo marito e non certo Gabriele che alla famiglia aveva preferito l’esercito.
- No, intendevo, se fosse successo qualcosa al papà? Trovo strano che Mosè mi abbia
chiamato, tutto qua? Continuava un Gabriele spiazzato dal leggero vittimismo della sorella.
- Se ti chiama…non va bene perché ti chiama, se non ti chiama… non va bene perché non ti
chiama. Mettiti un po’ d’accordo con te stesso e poi con lui.
- Mettersi d’accordo con Mosè? Impossibile. Crede di saper tutto lui.
- Come non detto; io sono al quarto figlio. So cosa mi aspetta. Resta dove sei e non ti
preoccupare per noi. Cerca di non farti sparare addosso.
Il modo era apparentemente gentile, ma liquidatorio, di chi conosce le leve per farti sentire in
colpa quel tanto che basta da rompere ogni tua resistenza.
- Ricordati che hai anche me. Dovesse succedere qualcosa, chiamami. Disse Gabriele.
- Certo, ora riposo, sai è tutto così difficile nelle mie condizioni. Chiuse la sorella.
La telefonata fu breve, ma lasciò contristato Gabriele, perché le parole di Maria avevano seminato
nel suo animo pesanti sensi di colpa; lui non aveva mai assistito la sorella in nessuna delle quattro
gravidanze e si era sempre guardato bene dal proporsi come eventuale sostegno. Ripensò a quei
litigi che aveva avuto con Mosè e le botte che il filosofo gli aveva dato, quando l’avevano pescato
con la marjuana. Sì, le tante botte che Mosè insieme a Gigi gli avevano dato sul sedere, tanto da
farglielo divenire bello moro.
Però gli vennero in mente anche le volte che il fratello si alzava la notte a cambiarlo, perché aveva
bagnato il materasso e tutte le volte che Mosè lo ospitava nel suo letto asciutto senza lamentarsi.
Si ricordò di tutte quelle volte che Gigi e Mosè lo portavano con loro a giocare, senza che lui avesse
tante capacità e destrezza con la pallavolo.

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“Certo, mi sono comportato male qualche volta: ho risposto alla Professoressa con una bestemmia e
ho travolto il cane del vicino con il motorino, ma sempre ragazzate, in fondo nulla di grave”.
Gabriele tendeva sempre ad autogiustificarsi, come tutti i bambini che non vogliono crescere, ma
nel pensare a questo qualcosa gli rodeva dentro. Si sentiva ora, a causa della telefonata con la
sorella, un corpo estraneo alla famiglia. La scelta della carriera militare aveva trovato in Mosè un
fiero, ma leale oppositore e nella sorella una subdola avversaria capace di ostracizzarlo.
Maria pareva accondiscendente, ma la sua militanza tra i neocatecumeni la faceva un’antimilitarista
più feroce del fratello filosofo.
Si ripromise di chiedere dei giorni di licenza per settembre con l’intenzione di tornare a casa e
controllare con i propri occhi che tutto andasse bene.
Con il passare dei giorni Verbena aveva iniziato a indossare qualcosa di più elegante che
metteva in risalto un fisico statuario.
La mamma vedeva e osservava con gioia lo schiudersi del cuore di Verbena mentre Mosè le
sembrava un nuovo vento fresco in una casa stantia.
Iniziarono a trascorrere molte ore insieme. Al mattino Mosè si alzava prestissimo e, dopo mezza
dose di morfina, iniziava la giornata con loro; si era ritagliato un ruolo in cucina come gelatiere
e pasticcere. Si era messo a disposizione dei turisti come guida gratuita per mostrare loro la
Venezia sconosciuta. Chi meglio di lui poteva guidarli sull’isola degli armeni? Mostrare loro
uno dei siti più importanti al mondo per la salvaguardia di quella cultura?
Venezia si era sempre mostrata generosa con chi fuggiva dalle persecuzioni e non aveva fatto
eccezione certo con quel piccolo popolo macinato dal nazionalismo turco.
Così al mattino proponeva delle escursioni che venivano accolte con favore dai turisti.
Pedalavano per tutta Pellestrina, prendevano il traghetto e sbarcavano agli Alberoni e
percorrevano tutta Malamocco. Quando giungevano di fronte all’isola di San Lazzaro degli
Armeni, trovavano la collaborazione di Amilcare che si prestava a traghettarli dove un sacerdote
li aspettava a braccia aperte sapendo delle origini del professore.

Capitolo 5
Verbena era veramente felice e sembrava ringiovanita. Una sera, alla fine della giornata, chiese
a Mosè di accompagnarla alla spiaggia. L’acqua del mare era calda e i due si immersero insieme
e insieme trascorsero una serata solitaria. Mosè non ebbe la percezione di quanto l’inizio di
quella storia avrebbe potuto danneggiare Verbena. Non era nelle condizioni di percepire il Bene
o il Male che avrebbe potuto compiere. Desiderava egoisticamente un sorso di felicità, non
prevista dal tracciato finale della sua vita. Il più debole avrebbe sicuramente pagato un conto e il
più debole era Verbena.
Decisero di ritagliarsi del tempo per poter stare insieme nei giorni successivi; in genere tra le
due e le cinque. Inforcata la bicicletta, si lasciavano andare a viaggi lunghi per la laguna, aiutati
dai vaporetti. Fu così che, arrivati a Tre Porti, percorsero la via per la torre armena. La via era
stretta, a tratti angusta, e serpeggiava in una laguna che appariva infinita. Gli specchi d’acqua
erano ovunque interrotti da una terra desiderosa di emergere. Si potevano osservare quattro
casupole a segnare un avamposto di umanità in un brulicare di vita ibrida: tra terra e stagno,
palude e mare, in cui era impossibile capire dove prevaleva l’acqua salata e terminava l’acqua
dolce.
I due appoggiarono le biciclette dietro la torre e salirono a vedere il panorama. Da qui si
potevano osservare stradine, che come piccole ragnatele delimitavano le barene cinte da una
vegetazione spontanea. Il blu cedeva il passo a un tenue verde che poi diventava più intenso e di
nuovo impallidiva sostituito da un nuovo blu d’acqua.

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Fu lei a voltarsi su quella torre e a baciare Mosè. Fu lei che lo strinse senza via di scampo.
Sarebbe stata lei a soffrirne.
I due nascosti da qualsiasi sguardo cedettero ai loro sentimenti e dopo quel giorno l’amore parve
prendere il sopravvento. Rientrarono velocemente, poiché Verbena doveva lavorare, non
riuscendo a godere dello spettacolo del tramonto.
Si erano organizzati bene, sembravano una famiglia felice. Mosè lavorava con impegno e le due
donne sentivano il loro carico alleggerirsi. Mosè non lasciava nulla al caso e, avendo lavorato in
alcune gelaterie, sapeva che il segreto della cucina è l’ordine e la pulizia immediata. Seguiva
come un segugio Verbena e Angela, passava a loro i prodotti e lavava immediatamente le
stoviglie e le posate.
Non si dedicava alle pulizie delle camere perché aveva paura che riemergesse il dolore alla
schiena, ma si prodigava a riparare le biciclette per i turisti e a preparare itinerari culturali per
gli ospiti.
Il sogno di Verbena, di una famiglia unita e collaborativa, si era avverato. Quest’uomo le
sembrava un dono di Dio, per la verità, Mosè le sembrava un dio venuto a salvarla.
La mente gioca brutti scherzi alle persone che hanno dato tanto e ricevuto poco. Credono di
essere ricambiate o meglio ricompensate in qualche modo dalla vita, ma questa non è una regola
del mondo.

In quei giorni la sorella di Mosè aveva telefonato al padre, chiedendogli se avesse ricevuto
notizie da parte del gemello e se fosse già andato a visitarlo. Al diniego del padre, Maria si
insospettì poiché conosceva bene le premure di Mosè per tutti, ma soprattutto per papà.
Decise allora di telefonare direttamente al fratello, nella speranza di capire cosa stesse
succedendo.
- Mi preoccupi Mosè. Disse lei.
- Perché? Sono un bravo ragazzo. Lo disse ridendo per allietare subito la sorella.
- Quel rompiballe di nostro fratello mi ha telefonato e mi ha trasmesso dell’agitazione.
- Ma no! Avrà avuto bisogno di affetto.
- Ma tu stai bene? Chiese Maria.
- Ho trovato una donna bellissima.
Il filosofo sapeva che con quella frase avrebbe smontato qualsiasi dubbio della sorella e
continuò dicendo
- È alta, slanciata, ma soprattutto intelligente.
In quei giorni Mosè sembrava avere una remissione dei dolori, uno scherzo delle malattie
cancerogene, che ti illudono prima del colpo mortale. Così la voce appariva forte ed euforica
anche a causa della morfina.
Al sentirlo così felice, Maria fu sollevata e tornò alla sua preoccupazione quotidiana.
- Sono in ritardo con il parto, probabilmente hanno sbagliato i calcoli.
- Non succederà nulla, la tua fede ti aiuterà. Come sta tuo marito?
Cercò nuovamente di cambiare discorso. Il professore conosceva bene la sorella e sapeva che
era un po’ ipocondriaca.
- Tuo marito sarà felice di avere un altro figlio. Non agitarti e ricorda le parole della mamma.
- Ho sofferto per tutti voi. Confermò Maria sospirando.
- Quindi puoi star tranquilla.
Maria fu felice nel rammentare queste parole e riprese.
- Mio marito lavora molto, ma dalla prossima settimana sarà a casa con me.
- Sei in buone mani, ora devo uscire con lei. Disse un baldanzoso Mosè per mostrarsi
convintamente felice e soprattutto per chiudere la telefonata. Meno parole diceva e minore
era la possibilità di cadere in contraddizione.
- Dimmi almeno il suo nome.
- Verbena, Verbena come il fiore.
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- Certo che lo so, non sono un uomo, so come si chiamano i fiori.
Stavano per chiudere la telefonata ridendo, e ciò avrebbe rallegrato molto il professore perché
questo era il ricordo che avrebbe voluto lasciarle, ma lei domandò ancora.
- Ma non sarà la Verbena Ballarin?
Ci fu un attimo di silenzio da parte di Mosè, che avrebbe voluto rimangiarsi tutto, ma non
sapendo pronunciare bugie rispose.
- È lei, sì è lei.
- È stata la miss del nostro liceo, poi l’ho rivista a Padova mentre frequentava giurisprudenza.
- Avresti potuto presentarmela…
- Caro fratellino, non la conoscevo personalmente, per di più stavi per lasciare Francesca e avevi
avuto quella storia con Anja; allora, con gli ormoni che avevi, ragionavi poco. Avresti dovuto
anche tu entrare nei neocatecumeni, ti avrebbe creato l’occasione giusta.
- Mai e poi mai; sono un senza dio. Rispose ridendo, ma celando un po’ di fastidio.
Ormai Verbena desiderava essere sempre accompagnata da Mosè, mostrandosi a tutti come una
donna felice. A Pellestrina non si parlava d’altro: la bella Verbena aveva trovato un compagno.
Spesso si vedevano passeggiare per le stradine dell’isola, un ambiente da cartolina. Chi abita le
isole venete non ha nemmeno la percezione del paradiso in cui vive. Sono case e strade sospese
sull’acqua, come le case degli angeli sono sospese sulle nuvole. Muri colorati emergono
dall’azzurro e sembrano dipinti su tela. Verbena e Mosè passeggiavano e parlavano di tutto,
senza che nessuno potesse infrangere il loro mondo. Non avevano l’età per le smancerie, non
andavano muovendosi mano nella mano, ma ogni tanto cercavano un contatto fisico, quasi a
rincuorare vicendevolmente anche le rispettive corporeità.
Per ventotto giorni vissero felici e in armonia e per ventotto cortissimi giorni Verbena e Mosè
furono come marito e moglie. Sarebbero stati ventotto giorni indelebili scolpiti in un cuore di
carne femminile.
Capitò che un giorno si fermarono lungo il litorale, dove la vegetazione lentamente lascia lo
spazio alla sabbia di mare. Erano sdraiati uno accanto all’altra a parlare di come avrebbero
potuto allietare i turisti. Verbena avrebbe voluto preparare qualcosa di speciale per il quindici
agosto, quindi cercava consiglio dal suo uomo. Mosè rimase per un istante muto e un pensiero
triste gli passò per la mente. In fondo non poteva sapere che condizioni di salute avrebbe avuto
per quel giorno. Verbena se ne accorse e gli pose la mano sul collo quasi a tirarlo a sé per
rincuorarlo. Lui le mise la testa sulla pancia, come un bambino, e lei gli confessò che avrebbe
voluto essere mamma. Mosè annuì e, alzata la maglietta, le baciò l’ombelico. Verbena non
trattenne un sorriso, ma lui non alzò lo sguardo. Tale discorso l’aveva inquietato.

I due rientrarono in casa. Lei lo invitò in camera. La pelle era liscia, con nei disegnati su un
corpo angelico. Mosè la scoprì e si impossessò della sua biancheria. Da questo momento
Verbena aveva legato consapevolmente il proprio destino a quest’uomo. Tutta notte rimasero
insieme e il corpo di lei lo consolava, ma al mattino i dolori erano forti, a ricordargli che quella
donna non sarebbe stata sua per molto tempo. Si sfilò dalla camera e si diresse rapidamente
nella propria stanza, iniettandosi una dose intera di morfina.
Verbena pensò che non volesse rendere ufficiale la propria relazione davanti alla madre e agli
ospiti. Ne fu un po’ delusa, tuttavia pensò che fosse anche naturale un po’ di ritrosia da parte di
Mosè nell’ufficializzare tale rapporto.
Quella mattina il professore tardò. In un mese era passato da mezza fiale a una e mezza al dì, e
non riuscì a preparare né il sorbetto né il gelato. Mamma e figlia si parlavano e parlavano di lui.
Lei si confidava con la madre di come si fosse concessa. Voleva vivere con lui. In fondo
meritava anche lei un uomo serio e lavoratore, non quello che si era fatto mantenere per anni.
Mosè era onesto, trasparente e senza misteri.

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- Voglio un uomo come lui, anzi voglio lui. Sentenziò Verbena. Mamma Angela annuì e
approvò, non perché ce ne fosse bisogno, ma per sostenere la decisione di una figlia che era
tornata a vivere.
Mosè uscì dalla camera, percepì la gravità dei discorsi tra madre e figlia, e capì di aver
combinato un guaio. Come avrebbe ora potuto scomparire da quella meravigliosa vita? Come
avrebbe potuto spiegarle la menzogna? Si sentì male. Un conato di vomito lo colpì. Risalì in
camera e, aperto il bagno, si inginocchiò e vomitò dell’acido. Si sedette sul letto, pianse e,
guardandosi allo specchio, non trovò giusto il modo in cui si era comportato.
Si passò le mani nei capelli e guardò l’orizzonte, avrebbe voluto sparire senza lasciare traccia.
Avrebbe voluto polverizzarsi, pur di non dover vedere la tristezza sul volto di Verbena.
Il suo cuore ebbe un sussulto, una fibrillazione leggera, ma ventricolare. Gli mancò il fiato.
Sentì come un chiodo piantarsi nei polmoni, rimanendo in attesa di un respiro che non arrivava.
Si scosse, scese come se nulla fosse, e fece colazione scusandosi. Si lavò il viso e si diresse a
Lido. Voleva vedere gente che conosceva per parlare e sfogarsi, ma, vedendolo uscire, Verbena
lo seguì e gli propose di accompagnarlo. Lui non poté rifiutare poiché lei l’aveva già afferrato
sottobraccio. Non se la sentì di lasciarla a casa e così si diressero a Lido, ai campi di beach
volley che Mosè aveva frequentato da giovane. Da lontano scorse una figura alla terza rete che
troneggiava sugli altri giocatori. La prestanza fisica non impediva a quest’uomo di essere veloce
e agile. Si lanciava in tuffo a raccogliere palloni giudicati ormai persi da tutti e si compiaceva
dei suoi voli d’angelo. Il viso era affilato, il naso dritto con zigomi alti, assomigliava a Mosè. La
capigliatura era folta e ricciola e i muscoli delle braccia mostravano tutta la loro potenza nelle
schiacciate, che parevano colpi di cannone. Si batteva partita dopo partita, punto su punto, per
lui un set non era mai perso fino all’ultimo. La pallavolo e il beach volley erano la sua vita,
anche se non aveva mai giocato da professionista.
Come Mosè e Gigi si videro, si abbracciarono con un affetto storico, anche se Gigi non riuscì a
nascondere un certo disappunto sul volto.
- Siete in due, uno per parte e si parla mentre si gioca. Sentenziò un burbero Luigi felice di
rivedere Mosè, ma altrettanto arrabbiato per non averlo mai visto in dieci anni.
I due non poterono dire di no, da queste parti il beach volley è una religione, si alzava e si
schiacciava, si murava e si saltava a ritmo indemoniato.
Verbena era brava come Mosè e questo aveva reso felice Gigi.
- Hai finalmente trovato la donna giusta. Sa persino giocare a pallavolo.
- So fare tutto. Disse lei.
- Ha ragione, sa far tutto e farlo bene, è veneta!
Quella giornata che Mosè avrebbe voluto utilizzare per allontanarsi da lei aveva invece
complicato maggiormente la situazione. Quando furono nella stessa squadra, Verbena e Mosè
mostrarono una simbiosi meravigliosa, infatti risultavano anche una coppia formidabile nel
gioco. Lei alzava lui, schiacciava, lui avanti lei a proteggere. Lei dava il meglio di sé come
alzatrice, il suo secondo tocco era speciale: per un Gigi che sembrava un bazooka o per Mosè
che amava piazzare la palla nel campo avversario.
Gigi si divertiva come negli anni dell’adolescenza. Al tempo riuscivano a giocare fino a tardi
alle luci dei faretti, sotto gli attacchi di stormi di zanzare, come solo da queste parti possono
avvenire.
Stremati si sedettero sul muricciolo, Gigi estrasse delle birre dal porta vivande poi le distribuì.
- Amico, pensavo che non ti avrei più rivisto. Dove sei stato? mi sei mancato!
Gigi sapeva che Mosè aveva dovuto attraversare il tunnel della depressione causata dal divorzio,
ma non capiva perché il suo amico non fosse tornato da lui.
- La vita mi ha trascinato in un vortice. Ammise il filosofo per giustificarsi.
- Bella scusa! Eravamo meglio dei ragazzi di via Pal.
Quello era l’unico libro che Gigi era riuscito a leggere completamente.
- Ho studiato tanto, sono diventato un professore, mi sono sposato e mi sono divorziato.
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- Non ne hai azzeccata nemmeno una, sei un fallito. Rispose Gigi sghignazzando.
- È bravo in cucina però. Intervenne Verbena per difendere il suo uomo.
- Tu e gli altri avete fatto male a studiare. Ma non stavate bene qui? Venezia e la laguna sono
il paradiso. Perché tu e gli altri siete andati via? Il grido di Gigi era sincero, aveva sofferto
la perdita degli amici distribuiti ormai per tutto il mondo, ma soprattutto aveva perso Mosè;
un amico, un parente.
- Ora sono qui. Disse Mosè.
- Non sparisci più, vero? Domandò Gigi.
A Mosè si era fatto un nodo in gola, ora sentiva di aver commesso un errore più grande nel
tornare a Lido. Accarezzò i capelli dell’amico seduto al suo fianco e appoggiò la testa su quella
enorme spalla del gigante buono. Anche Verbena rimase scioccata da quelle parole. Era stata
lontana dalla laguna per sette anni, a Padova, dove aveva conosciuto quel poco di buono dell’ex
ragazzo.
Forse anche lei non avrebbe dovuto laurearsi in sociologia, in fondo cosa le era servito quel
pezzo di carta chiamato laurea?
Verbena si alzò e si diresse alla toilette, Gigi si voltò e si rivolse all’amico.
- Le persone tornano per l’eredità dei vecchi, oppure tornano per morire. Tu perché sei
tornato? Perché sei qui?
Mosè rimase muto, incapace di esprimere una parola. Il mento si muoveva leggermente a
manifestare un forte disagio. Guardò Gigi con gli occhi di chi chiede di poter esentarsi dalla
risposta.
- Ho frequentato solo la terza media, ma ho fatto il barelliere all’ospedale. Non ho studiato sui
libri, ma ho osservato a lungo le persone. Tu hai un colorito giallognolo, il tuo occhio è
opaco. Puoi ingannare chi non ti conosce bene, ma oggi non hai mai schiacciato di potenza,
solo palloni messi a terra. Noi sei magro, sei debole. I tuoi muscoli non ricordano nemmeno
quello che eri solo dieci anni fa.
Mosè abbassò il capo tra le ginocchia, come se gli fosse stato posto un macigno sulla nuca.
- Lei sta tornando, ne parliamo dopo.
- Ma, non sa nulla?
- No e poi… Si interruppe sorridendo a Verbena che raccolse la palla pronta a riprendere il
gioco. Si formarono le squadre e si decise per un tre contro tre.
Lei avanti ad alzare e i due ai lati pronti a schiacciare.
Giocarono insieme due partite, poi Verbena diede un bacio a Mosè e gli disse.
- Ti aspetto! Intendo a casa. Resta pure qui a giocare con Gigi. Devo preparare qualcosa per
gli ospiti. Rivoltasi a Gigi disse.
- Trattamelo bene!
Lasciata andare Verbena, Luigi giocò ancora un poco, ma era curioso di sapere cosa avesse
portato Mosè a Lido, così dopo un paio di set decise di interrompere. Salutò tutti e si diresse
accompagnato dall’amico Mosè verso casa.
- Da che parte comincio. Chiese Mosè, cercando aiuto.
- Dalla fine!
Gigi era sbrigativo, non amava i giri di parole.
- Non ho molto, un anno o due se mi curo.
Gigi restò in silenzio. L’amico di infanzia, peraltro suo cugino, con il quale aveva vissuto tante
vicissitudini era tornato, ma solo per morire.
Camminarono per un po’ senza parlare.
- Perché non mi hai chiamato? Io ero il tuo amico, io sono il tuo amico. Io sono un armeno come
te, io e te siamo radici della stessa pianta.
- Solo Riccardo lo sa, nessun altro, nemmeno la mia gemella. Lei è in attesa del quarto figlio,
non posso oberarla di questo.
- Nemmeno tuo padre? Chiese Gigi.
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- Ma no! Lo sai che è un emotivo, morirebbe come mia madre. Qui lo sai solo tu. Rispose Mosè
che sentiva dei brividi lungo le gambe forse dovuti all’uso della morfina.
- E quel bastardo di tuo fratello.
- Lascialo perdere, lo considero il matto delle carte.
- Era un vero tormento per tutti. Fortunatamente se ne è andato a combinare guai da altre parti.
Mosè sapeva che Gabriele era indifendibile e che Luigi aveva tutte le ragioni per parlare in quel
modo; da adolescente gli aveva pure sottratto la Ducati e l’aveva ridotta ad un ammasso di
rottami. Da quel momento Gigi aveva considerato Gabriele il bastardo della comunità.

I passi divennero più lenti, come se la camminata si fosse appesantita, come se la camminata
fosse diventata una via crucis.
- Mi prenderò cura io di te. Lo sai che ti ho sempre voluto bene.
Gigi non aveva remore a manifestare con le parole quello che veramente sentiva. Il suo affetto
era sincero. Non era possibile dimenticare un’amicizia nata nei grembi delle rispettive madri e
proseguita per anni.
- Allora sei tornato per farti seppellire a Venezia?
- Voglio rivedere il sole delle mille barene.
Gigi rimase immobile, lo guardò perché quel sole ricordava tempi felici. Pose la mano sopra la
testa di Mosè e lo accarezzò con la forza di un gigante. Voleva trasmettergli quella forza che lo
caratterizzava, voleva guarirlo come uno sciamano.
-Ti porterò io a vederlo, anche se tu dovessi essere infermo. Io ti caricherò sulle mie spalle e ti ci
porterò.
Entrarono in casa, non c’era un tavolo decente e il mobilio era quello dei nonni di inizio
Novecento. Il gigante si era comprato un televisore così grande da coprire una parete.
- Gigi, ma tu non spendi mai un soldo, che ti sei comprato?
- Ero stanco di verniciare la parete, prende troppa muffa, ho visto lo schermo e ho detto, basta
muffa ed eccolo lì. Non vorrai che si ammuffisca il video?
Si accomodarono su due vecchie poltrone e iniziarono a ricucire un rapporto durato anni.
Scavarono nei ricordi, come pirati in cerca di un tesoro. Più scavavano e più ritrovavano le
esperienze che li avevano indissolubilmente legati.
- Ho sofferto molto l’abbandono di mia moglie Claudia. Mi sembrava di impazzire. Quattro anni
in analisi per capire che non era la donna giusta per me. Ora devo morire e purtroppo mi sono
legato a Verbena. Ho commesso l’ennesima imprudenza. Non ho riflettuto abbastanza sulla
sofferenza che procurerò a lei.
- È veramente un essere piacevole. Non hai proprio speranze?
- Pancreas. Sono già morto. Non potevo rimanere a Verona. Volevo rivedervi tutti, per salutarvi.
Non so, forse volevo recuperare una vita che ho perduto.
- Mi sei mancato, come mi è mancata tua sorella. Disse Luigi.
- Non ti sei sposato?
- Perché avrei dovuto?
- Una donna, dei figli.
- Non mi sono mai posto il problema.
- Mi sarebbe piaciuto avere dei figli. Ribadì Mosè.
Gigi alzò le spalle, non capendo perché avrebbe dovuto desiderare dei figli.
- Se Dio te li manda, li prendi, altrimenti…e allargò le braccia poi aggiunse.
- Le cose vanno come devono andare. L’unico rammarico è che hai perso anni con Claudia.
Mosè pensò che l’amico avesse ragione. Troppi anni buttati per una donna che non aveva la
stessa idea di amore.
- Come farai con Verbena? Stavolta sarai tu ad andartene. Riprese Gigi.
- Non lo so. Oggi avrei voluto darle un segnale di distanza e invece…
- Sembrate Giulietta e Romeo.
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- Sì, andiamo d’accordo. Forse perché sono a tempo e con lei gusto gli ultimi sorsi di vita.
- Forse, ma davate l’impressione di essere una coppia anche in campo. Cosa fa di bello nella
vita?
- Gestisce un bed and breakfast a Pellestrina, vicino all’imbarco. Si chiama Rosa Blu.
- L’ho visto ancora, lo conosco, ci passavo tutti i giorni quando facevo il manovale a
Chioggia.
Mosè ricevette due messaggini da Verbena, il primo verso le nove di sera che mostrava
dell’ansia. Si percepiva da tale messaggio una certa apprensione nel non vederlo. Il secondo,
verso le 11 di sera, rivelava una preoccupazione perché non fosse già tornato.
Mosè rispose con un semplice, “ho perso il vaporetto, arriverò tardi, non aspettarmi” e rivoltosi
all’amico disse.
- Il cappio si è stretto. Non posso far finta di nulla. Dovrò affrontarla, ma ho paura. Uno
scomposto battito del cuore gli strozzò le parole in gola.
Gigi, visto Mosè pensieroso, riprese.
- Dovrai trovare le parole giuste. Comunque, per qualsiasi cosa, io ti aiuterò. Se vuoi venire a
dormire da me, sono pronto ad accoglierti.
- Grazie, ti telefonerò.
Mosè tornò a casa tardi e trovò Verbena che dormiva.
A colazione raccontò alla madre come lei e Mosè avessero sbaragliato gli avversari a pallavolo.
Sembrava un’adolescente per l’entusiasmo che mostrava.
- Mamma, avresti dovuto vederci che coppia che eravamo.
- Signora, è una vera campionessa, mi creda.
Mosè cercò di dissimulare le preoccupazioni che offuscavano i suoi pensieri, ma le donne
sentivano le sue vibrazioni e Verbena era troppo sensibile per non vederle sul volto del suo
amato.
- Devi fare qualcosa oggi?
- Voglio vedere Burano, mi piacerebbe rivedere la bottega dove lavorava mia madre.
- Pensavo tu volessi giocare ancora a Beach Volley? Con questa battuta lei rivelava di essere
gelosa di quel rapporto privilegiato che Mosè aveva con Luigi. Lei, da innamorata, voleva
essere l’unico pensiero e l’unica persona per Mosè.
- Ho intenzione di raccogliere dei pensieri filosofici, magari costruendo una sorta di romanzo, ma
non ho ancora chiaro cosa voglio scrivere.
- Bene, ho un amato dalle infinite risorse. Rispose lei.
- Vuoi venire a Burano? Chiese il filosofo, sperando in una risposta negativa.
- Ho da fare stamattina, ho il cambio ospiti. Rifaccio i letti con mia madre e pulisco le camere.
Vai tu, ci andremo insieme un altro giorno, magari un infrasettimanale.
Mosè fu sollevato, voleva rimanere solo per un po’. Voleva riordinare le idee e soprattutto
trovare quelle parole speciali che fossero in grado di dirle addio senza ferirla troppo.
Mosè si imbarcò di buon mattino per Burano, forse per rimanere solo e forse anche per
congedarsi da un’amica.
Come scese dal traghetto, si incamminò per la via che tutti i giorni percorreva sua madre per
giungere alla bottega. Lei aveva lavorato molti anni per quelle sarte a cucire pizzi, buranelli e
merletti come tutte le donne della famiglia; la visita su quell’isola era un tentativo di rivivere
qualche momento dell’infanzia. Le case colorate dei pescatori rendevano gioiosa la vista. Tante
barche ormeggiate accompagnavano chiunque per la calle. Avrebbe voluto assaporare uno di
quei biscotti tipici dell’isola, ma ebbe paura di non sentirsi bene. Si diresse verso la piazzetta. Si
sedette sulla panchina e rimase seduto ad aspettare i ricordi e non solo.
- Mosè, Mosè!
Mosè si voltò e vide Francesca con il figlio. Si rallegrò poiché voleva anche rivedere
quell’amica per salutarla. Lei ebbe un sussulto e lo inondò di domande.
- Che ci fai a Burano? Sono passati molti anni. Sei sciupato, l’amore, non è vero?
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- Sì sì, tanto amore. Tu sei sempre bella.
- Certo. Ti conosco. Non sei capace di dir bugie. Rispose con ironia lasciando scivolare i
capelli sul viso quasi a coprire una cicatrice sullo zigomo.
Mosè non disse nulla, ma non ricordava quel segno sulla guancia dell’amica, sicuramente se
l’era fatto di recente poiché era un po’ rosso.
- Lui è il mio Alberto. Indicò il figlio a fianco. Un bel ragazzetto tutta salute.
Mosè pensò che avrebbe potuto essere suo figlio. Gli porse la mano per salutarlo e il bambino,
dopo essersi pulito il naso con le dita, gliela strinse.
Il filosofo sorrise e Francesca sospirò.
- Questa età è difficile. Disse lei volendosi scusare.
- Tutte le età sono difficili, forse la loro è più semplice della nostra.
Francesca annuì, non c’era più molto da dirsi. Le scelte giuste o sbagliate erano state prese e le
vite si erano separate. Poi lei, come a trattenerlo, riprese.
- Lavoro in un Hotel e mio marito è un pescatore di Burano.
- È sempre stato il tuo sogno.
- Avevo troppi limiti a scuola, non ero un genio come te.
- Non è vero! Non eri interessata a certi discorsi.
- Sei sempre stato buono. Ma sono consapevole di non essere così intelligente. Ricordo il tuo
entusiasmo per quella ragazza tedesca. Si chiamava Anja, vero?
In quella frase c’era tutto il dolore che lei aveva provato e che ora dimostrava di aver superato.
- Si, come fai a ricordarti? Chiese stupidamente Mosè.
- Da come parlavi di lei, capii che non avrei mai potuto competere con donne di quel genere.
Mosè rimase stupito da quella frase che svelava la gelosia di Francesca.
- Sapevo di averti perso, ma in fondo al mio cuore ho coltivato la speranza di riaverti. Almeno
finché non ho conosciuto mio marito
- Sono io ad essermi sbagliato. Credimi.
Mosè non andò oltre con le parole. Era bloccato dalla presenza di Alberto. Ci fu un istante di
silenzio, e il bambino iniziò a tirare la mamma verso casa. Francesca lo quietò e domandò
- E tu?
- Insegno filosofia e sono divorziato. Rispose come uno sconfitto.
Francesca si dispiacque per Mosè e lui lesse sul viso di lei questo dolore e ne fu sorpreso.
Quella donna semplice era realmente rattristata per lui. Lei ne conosceva l’animo buono, forse
un po’ bizzarro, ma buono. Il ricordo che Francesca serbava di Mosè era un ricordo positivo.
Non l’aveva ingannata e non le aveva fatto perdere tempo. Lei, molto amica della gemella di
Mosè, sapeva della situazione familiare dell’ex fidanzato. Aveva quindi capito e perdonato
quella fuga da Venezia, che li aveva inesorabilmente divisi.
Mosè abbracciò Francesca con il rammarico di non averla sposata, ma fu contento di vederle in
volto dell’affetto sincero.
- Sono felice di averti rivisto. Disse lei.
Mosè sorrise e annuì.
- Vieni a cena da noi, magari con tua sorella.
- Sì, verrò in settembre.
- Ti aspetto. Abito in quella piazzetta. Non puoi sbagliare. La casa è quella blu. Ricorda che
sono cuoca e puoi venire senza prenotare. Ti fermi e mi suoni il campanello.
Mosè ricordò la proverbiale generosità dell’amica, salutò e si allontanò. Si sedette in un bar.
Mentre aspettava il traghetto esposto alla brezza marina, iniziò a ragionare sui suoi amori; lui
aveva dato del dolore a Francesca. Claudia l’aveva fatto soffrire, Lucia l’aveva salvato dalla
depressione e ora lui tornava a ferire una donna. Cosa avrebbe fatto Verbena senza di lui? Si
sarebbe ripresa da una seconda delusione? Mosè comprendeva che la vita era dolore, ma non
avrebbe voluto essere fonte di dolore. Un pensiero emergeva nella mente: sarebbe stato
possibile vivere senza far soffrire gli altri. Scosse la testa e formulò una preghiera a Dio.
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- Salva Verbena, falle incontrare un uomo che la possa amare.
Mentre si imbarcava, osservava tutti gli uomini pensando a chi tra loro avrebbe ereditato quella
donna. Era geloso, ma consapevole che la sua Verbena sarebbe stata di altri.
Ormai l’obiettivo di staccarsi da lei era diventato impossibile.
Avrebbe voluto morire senza causarle dolore, una vera e propria illusione. Si era comportato da
egoista, aveva coinvolto nella sua storia mortale una persona che non c’entrava. Sarebbe stato la
causa di un’altra sofferenza.
Intanto la madre di Verbena, mentre riordinava i sacchi della spazzatura, si accorse che c’erano
delle siringhe per insulina riconducibili alla stanza di Mosé.
Rientrata la figlia, le diede la notizia, come se fosse un agente segreto.
- Mosè è diabetico! Ho trovato una siringa per diabetici, ecco perché è così attento al cibo e a
volte sta male.
- Mamma! Non devi frugare nella spazzatura dei clienti.
- Lui non è come gli altri. Se deve diventare mio genero voglio sapere tutto di lui.
- Gli chiederò più avanti, ma non è un problema, ti pare? Non correre con il matrimonio!
- No, ma meglio saperlo, e se ci sviene?

Mosè rientrò alle cinque del mattino, un po’ sbronzo, e si diresse in camera senza passare a
salutare Verbena. Le mandò un messaggio di scuse per non poterla aiutare quella mattinata,
poiché avrebbe dormito causa sbornia. Si chiuse in camera e collocò sulla maniglia esterna della
porta l’avviso di non essere disturbato.

Mosè sentiva i dolori aumentare sia al ventre che alla schiena. Si iniettò un po’ di morfina e si mise
a dormire. Non era un sonno normale, ma un dormiveglia misto a visioni e allucinazioni. Tra i
ricordi emergeva sempre la mamma che lo soccorreva e la matrigna che lo angustiava. Ripercorreva
le fasi della vita rapidamente come in un vortice di ricordi. Riaffiorarono le mani del nonno alle
quali si aggrappava da piccolo. Le avvicinava al naso per sentire l’odore di tabacco lasciato dalle
sigarette senza filtro. Erano sigarette del popolo che dipingevano indice e medio del vecchio
armeno. Mani rovinate dalla pesca e le unghie consumate nel riparare le reti. Ricorreva sempre lo
stesso ricordo: il nonno che lo portava sulla torre armena, nella speranza che conservasse le radici
del suo popolo. Gli mostrava i tramonti delle mille barene che lo incantavano e lo rapivano in
un‘altra dimensione. Tale momento era magico perché il riflesso del sole nelle tante valli d’acqua
era accecante. In quel momento si veniva investiti da una luce rossastra, che creava un alone rosso
attorno a Venezia.
La luce che attraversava la finestra della camera gli ricordava la stessa luce che aiutava la mamma a
cucire pizzi e merletti per le fabbriche di Burano. Era una donna bellissima: alta, castana, una
principessa con un viso sottile e grazioso. Gli occhi grandi nascondevano un’anima premurosa,
adatta a gestire una famiglia. Con lei i bisticci dei figli duravano un soffio e la serenità era la
melodia della casa. Le inevitabili discussioni di coppia erano gestite con il marito nella camera da
letto, e in camera risolte. Lei era la spina dorsale della famiglia e il papà Germano amava
consigliarsi con lei. Non decideva nulla senza essersi consultato con la moglie. Germano era un
uomo remissivo ed emotivo, ma con lei al suo fianco diventava coraggioso e forte. Sembrava che lei
fosse la sua energia vitale.
Quando la morfina agiva in profondità nel suo cervello, le allucinazioni si facevano angoscianti;
Mosè rivedeva la mamma distesa nel letto matrimoniale in stato interessante. I due gemelli le si
sdraiavano accanto e rispondevano al rosario.
Mosè pregava e pregava per la guarigione della mamma, ma dopo quella morte la sua fede divenne
fiacca. Non divenne ateo per rispetto della madre, tuttavia si allontanò dalle pratiche religiose.
Amava evitare quei discorsi, troppa infatti era stata la delusione.

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Finito l’effetto della morfina, Mosè era sudato ed emanava un odore tipico di tale farmaco. Si
ricordò di quanto dovette consolare la gemella che non si aspettava la morte della madre. Si ricordò
il giorno in cui il papà tornò a casa con un fagottino di nome Gabriele.
Si alzò dal lento e si accorse che il dolore aveva deciso di non dargli tregua. Si sedette allo scrittoio
e prese l’agenda annotando alcune righe.
“Senza un punto di riferimento come la mamma non c’è famiglia e il clima in una casa non può che
deteriorarsi”.
Mosè si accorse che nel profondo della sua mente c’era l’infanzia e l’adolescenza. Il cervello non
aveva riportato alla memoria Claudia, bensì tutta la travagliata vicenda della sua famiglia d’origine.
Mosè ricordò il precoce matrimonio della sorella e di quanto si fosse sentito abbandonato da Maria;
aveva cercato di convincerla a rimandare quell’unione, perché Gabriele aveva bisogno di una figura
femminile, ma Maria voleva fuggire da quella situazione e soprattutto voleva fuggire l’entrante
matrigna.
L’unica figura femminile che rimase era quella di Antonia, la giovane moglie di papà, che preferiva
la vita mondana ad una vita di casa; come biasimarla, crescere un figlio non suo era difficile,
tuttavia Germano non aveva nascosto la sua situazione familiare. Antonia non aveva certo
intenzione di essere mamma e forse non aveva nemmeno intenzione di essere una moglie. Un
atteggiamento festaiolo di questo tipo salassava una famiglia non benestante e creava disordine.
Il padre, da uomo senza polso, pur comprendendo ciò che stava accadendo, non riuscì a reagire
utilmente; anche Mosè cominciò a pensare di lasciare quella casa e cercò in tutti i modi la fuga
tramite gli studi.
Mosè si fece una nuova dose tentando di scacciare il dolore e riprese con le allucinazioni.
Quando la morfina raggiunse il massimo effetto, il cervello rielaborò confuse immagini nella mente.
Parlava a braccio ad una inesistente platea di studenti e biascicando esponeva problemi
epistemologici confusi.

Angela, nell’attraversare il corridoio, udì delle frasi sconnesse, pensò stesse telefonando a qualcuno,
ma, quando sentì il filosofo alzare la voce ebbe un comprensibile timore e si rattristò.
- Era troppo tutto perfetto, vedrai che nasconde qualcosa, magari un’amante. Bofonchiò.
Scese le scale velocemente per preparare la sala e cercò di non incontrare lo sguardo di Verbena,
per non rivelare il proprio stato d’animo.
La seconda dose gli sembrò più efficace. Si alzò, aprì la finestra e l’odore del mare lo inebriò.
Decise di scrivere ancora per lasciare qualche ricordo della sua vita al mondo e intitolò quella
pagina “Gabriele”. Il suo desiderio recondito era quello di lasciargli delle scuse o quantomeno un
messaggio d’addio.
“Non ero in grado di gestirti nelle piccole cose, figuriamoci in quelle grandi; perdonami perciò per
tutte le volte che ho perso la pazienza e ti ho pestato. Mi dispiace per quella volta che ti ho fatto
sanguinare il labbro con due sberloni sonori, ma volevo che tu non entrassi nel tunnel della droga.
Trovarti con la marjuana per me era stato uno schok e non potevo permetterti di cederla alla tua
fidanzata. Anche per me, come per te e per Maria la famiglia era diventata un peso, un peso
difficile. Io mi son dato con foga agli studi in modo da evitare quella casa. Finché non mi sono
sposato, facendo il mio più grande errore”.
Nel vergare quei ricordi pensò che l’errore di essersi sposato nasceva dal fatto che cercava una
via d’uscita a quella situazione, forse non era amore, ma voglia di evadere. Poi riprese e
aggiunse.
“Anche tu in fondo sei fuggito da casa. Ti sei buttato nell’esercito e quindi voglio scusarmi con
te per aver osteggiato la tua scelta. Spero che tu possa perdonare il mio atteggiamento da
pacifista quando leggerai queste righe. Perdonami quindi tutte le volte in cui ti ho chiamato
fascistello”.
Smise di scrivere e incredibilmente si accorse di quanto gli volesse bene.
A sera Mosè si sentiva consumato da quei pesanti sogni e si intristì.
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Verbena gli fece uno squillo per sentire come stava e questo lo turbò un po’, ma gli diede una
carica per reagire. Si alzò lestamente e rispose.
- Scendo Verbena, scendo subito.
- Si lavò il viso e con prudenza si sistemò.
La sofferenza si era impadronita del suo volto, ma cercò di indossare un sorriso per Verbena.
- Ho fatto una sbornia colossale con Luigi.
Lei sorrise, continuando ad apparecchiare la sala per gli ospiti.
- Mi fai compagnia mentre apparecchio?
- Certo!
- Ti vedo volentieri. Si avvicinò e lo baciò rapidamente per continuare il suo lavoro.
Mosè si sedette e pensò che la vita non era stata tutta infelice. Fino ai dieci anni in fondo aveva
avuto un’infanzia serena.
- Perché non ricordare i bei momenti? Si chiese borbottando.
I tantissimi amici erano stati una seconda famiglia, che nei momenti di difficoltà l’avevano
consolato.
Si decise di scrivere alcuni episodi allegri sul diario per indirizzare i sogni e possibilmente
anche le sue allucinazioni. Risalì in camera, prese la sua agenda e si sedette in cucina da dove
poteva osservare Verbena.
- Prendi appunti per il tuo romanzo? Chiese lei.
- Sì, vorrei che nel mio testo ci fosse tutta la bellezza della Venezia sconosciuta ai più, ma non
ho ben chiaro se scrivere un saggio, una raccolta di pensieri o elaborare un romanzo.
- Comincia con la tua vita. In fondo gli autori scrivono ciò che han vissuto. Inizia dalle cose
semplici, quelle dell’infanzia e della spensieratezza.
- Sai, io e Gigi partecipavamo ai tornei estivi di beach volley nelle sagre paesane lungo il
Tagliamento e il Piave in paesini sperduti. Giocavamo interminabili sfide sulla spiaggia
dalla mattina fino all’ultimissimo spiraglio di luce del crepuscolo.
Raccontò di una speciale sera e fissò le sensazioni.
- Immagina la sabbia fresca del tramonto a tenerci compagnia, il vento alle spalle, le mani
raccolte pronte a una battuta sibilante, la mia difesa, il secondo alza, Gigi buca il muro
avversario ed è parità. Poi tocca a me.
Vado in battuta, confido nel vento, la tiro corta, così corta che sembra non arrivare, ma il vento
è dalla mia parte e un suo soffio la manda nel campo avverso. L’avanti alza le mani sorpreso, ma
ferma la palla attaccato alla rete; vantaggio!
Ribatto con forza senza strafare. Gli avversari si organizzano, ricevono, alzano e schiacciano.
Pietro salva, io alzo per Gigi, ma stavolta è corta e lui è costretto a piazzarla. Gli avversari
recuperano la palla, si organizzano, alzano e schiacciano. Paolo respinge, ma la palla vola
lontano. Gigi scatta e si lancia in tuffo. La prende al volo e la ributta dall’altra parte. È un vero
miracolo. Loro si organizzano, alzano e preparano una schiacciata troppo meditata. Tocca a me!
Faccio tre passi e alzo le braccia e muro. La palla cade nel campo avversario. Vittoria.
Mentre raccontava, riscrivendo quelle righe, Verbena si era fermata, ponendo il braccio sul
fianco. Non capiva cosa Mosè volesse dirle, ma percepiva la chiara intenzione dell’amato di
voler lasciare traccia di sé per mezzo di quelle righe.
- Sembra quasi che tu voglia scrivere le tue memorie?
- Le mie memorie. Sorrise come fosse una battuta, sapendo che quello che diceva era vero.
- Tutti hanno una storia da raccontare.
Verbena annuì e gli fece cenno di continuare a scrivere.
Di quella partita Mosè ricordava lo sguardo di ammirazione di Luigi per la sua bravura, aveva
dato il massimo per dimostrare a Gigi la sua dedizione.
Si appoggiò allo schienale della seggiola e sentì l’odore di morfina sopra la sua pelle.
- Mi faccio una doccia per svegliarmi. Ma in realtà voleva togliersi l’odore di fratello cancro.
- Ti aspetto per cena, voglio che mi racconti ancora.
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La morfina aveva impregnato anche la canotta. La tolse e si diresse in bagno, la lavò nel
lavandino e la stese sui fili al di là del davanzale. Si fece la doccia e si profumò cercando di
travisare qualsiasi indizio. Scese e si sistemò in cucina dove l’aspettava Verbena e sua madre.
- Racconta ancora e mi raccomando, scrivi.
Impugnata la penna si mise a vergare nuovamente poiché lo metteva di buon umore e voleva
raccontare a Verbena la sua vita. Forse sarebbe arrivato al punto in cui le avrebbe detto che si
era ammalato.
- Affrontiamo un trio olandese fantastico composto da tre ragazze di una bellezza eccezionale
con fisici pazzeschi.
- Uhm…questo mi incuriosisce. Lo disse alzando l’indice e aggiunse.
- Ma attento a quello che dici.
- Il primo set è subito perso. Il secondo lo stanno per vincere. Ci guardano da cerbiatte e Gigi
chiede il time out. Ci sprona un po’; rientriamo e lui va in battuta. Fa sette punti e ci fa
vincere il secondo set. Chiede collaborazione e il torneo è nostro. A sera usciamo con le
ragazze olandesi…lui vorrebbe la piccoletta, ma lei ha paura dell’omone. È costretto a
prendersi la lunga, a me tocca la più carina in viso, o meglio, mi sceglie lei, e la piccola va a
Pietro. Ci mettono sotto, si vendicano della sconfitta con il nostro consenso. Pietro si
innamora e finirà per accasarsi proprio in Olanda.
- E tu? Cosa hai combinato?
- Eh...non l’ho sposata.
Qualsiasi cosa avrebbe detto Mosè andava bene, Verbena voleva solo sentire la sua voce.
Angela ascoltava in silenzio, era rimasta disturbata dal vociare che usciva dalla camera di Mosè.
Immaginò che lui avesse due facce: una buona che presentava a tutti e una quantomeno strana
nell’intimità.
Il filosofo continuò.
- Ma non in tutti i tornei riuscivamo a essere vincitori. Gigi aveva ereditato un camper per sei
persone, viaggiavamo sempre e comunque in otto e cercavamo tutti i tornei di volley lungo
la via della Sisley Treviso.
Erano gli anni della storica nazionale di Julio Velasco e volevamo imitare le gesta dei nostri
campioni. Ma la sera, l’età, la voglia di vivere non sempre potevano essere imbrigliate in partite.
Nelle sagre di paese si incontravano ragazze che non aiutavano certo nella concentrazione del
gioco. Tra una partita e l’altra si poteva incontrare una venere, bere una birra con lei e con lei
passare una serata.
- Insomma, se avessi accettato gli inviti delle amiche a giocare a beach, ti avrei incontrato
anni prima. Interruppe Verbena rammaricata, ma io andavo per mare con la barca a vela.
- Giocare è un bel modo per far conoscenza. Disse Angela-
Mosè annuì e riprese.
- Era un attimo, uno scambio di numeri telefonici, una rapida promessa e via in campo,
magari alticci. Durante una finale, sbagliai tutte le battute e tutte le ricezioni. La squadra
perse. Ero troppo intento a pavoneggiarmi e forse ero troppo pieno di alcool. Gigi si adirò e
come tutti i veneti che si rispettino disse alcune imprecazioni. Successivamente mi indicò il
camper con l’indice nodoso. Ricordo ancora le sue parole. Strinse la mia testa fra le mani e
mi fissò negli occhi e disse
- Io voglio solo vincere.
Si interruppe e rivoltosi a Verbena disse.
- Questo me lo annoto bene sulla mia agenda, vorrei che fosse ricordato nella storia del
mondo. Rise di gusto.
- Ho visto l’ardore che ci mette Gigi in partita e non faccio fatica a credere a ciò che mi stai
raccontando, ma tu cosa facesti?
- Sorrisi prima e poi risi di gusto. Ero proprio ubriaco.
Quella sera dovetti dormire all’aperto per punizione.
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- Domani andrò a Lido per cercare i miei ricordi, spero di trovare l’ispirazione.
- Mi dispiace non poterti seguire, ma domenica ho sempre qualcosa in più da fare, mi
racconterai.
Quando Mosé si ritirò in camera, tornò ad appuntare i ricordi più felici; quella calza appesa al
camino piena di dolci e l’ansia di ricevere i doni. Le notti insonni a parlare con la gemella che
desiderava un principe azzurro per la vita. Le corse con gli amici; Gigi, Pietro Paolo e Riccardo
che si lanciavano su ogni pallone, imitando i campioni. Gli inviti delle bambine a giocare a
elastico e a mondo, che sognavano di danzare alla Fenice.
Il filosofo annotò altre considerazioni.
“In queste piccole località tutti sono parenti e queste relazioni favoriscono i rapporti, che
vengono ulteriormente cementati anche dal fatto che tanti rischiano la vita in mare”.
Quando le due donne furono sole, Angela si avvicinò a Verbena e le disse.
- Strani questi intellettuali, una ne pensano e cento ne fanno.
- È un uomo profondo, che ha rielaborato tanto. Riflette e aiuta a riflettere. Lo considero non
solo intelligente, ma anche buono.
- Non esagerare. Lo conosci da poco, chissà com’è, l’ho sentito ciarlare in modo strano,
mentre era in camera.
- Forse sarà stato al telefono, non preoccuparti!
Verbena, finiti i mestieri, si ritirò in camera. Fece la doccia e andò da Mosè.
Lo trovò addormentato con l’agenda aperta.
Sbirciò e lesse un piccolo frammento.
“Il primo giorno di scuola eravamo vestiti con il grembiule blu della prima elementare mano
nella mano con la gemella dalle lunghe trecce. L’ingresso in un’aula già affollata, con gli occhi
di Gigi sbarrati e increduli, come fosse un detenuto condannato all’ergastolo. Avevo percepito
che la scuola non era più l’asilo. Non avevo paura, ma avevo capito di essere diventato un
ometto, che dovevo rispettare gli impegni, la maestra, i compagni e le loro cose.
Fui messo proprio accanto a Gigi, che a sei anni aveva già un’altezza doppia degli altri. Gigi era
un bambino da aiutare in tutto e per tutto. Non aveva il diario, il quaderno era mancante di
diversi fogli e i sopravvissuti erano rosicchiati, come se ci fosse stata una invasione di topi. Egli
era un bocia che avrebbe volentieri vissuto su una barca in balia delle onde, piuttosto che in
classe, in balia delle consegne scolastiche”.
Verbena rimase compiaciuta della bellissima grafia di Mosè e nel leggere questi appunti capì
che non poteva essere gelosa di Luigi. Troppo antico era il loro legame.
Fortunatamente non riuscì a leggere molte righe perché fu interrotta da Mosè che nel frattempo
si era svegliato. Allungò le mani e le accarezzò la gamba. Lei si alzò e si spogliò
completamente. Rimase nuda di fronte a lui. Sembrava che dicesse.
“Eccomi per quello che sono, mi sono spogliata di tutto”.
Lui le tese la mano e alzando il lenzuolo le fece spazio. Lei si sentì accolta e i due si trovarono
nel letto abbracciati. Forse lui avrebbe dovuto confessarsi in quel momento, ma non ne ebbe il
coraggio. Al mattino lei si alzò presto contenta di quella nuova vita, mentre lui rimase nel letto
fingendo di dormire. Appena lei uscì dalla camera, guardò fuori dalla finestra e gli apparve il
mare con le briciole d’argento. Si sedette e fissò ancora un concetto sulla sua agenda.
“Ho sbagliato tutto, forse aveva ragione Gigi. Perché studiare filosofia e finire in un mondo di
parole costruito sull’aria?”. “Perché perdersi il paradiso dello stare insieme, qui dove sabbia,
acqua e cielo si incontrano in un connubio straordinario?”.
Mosè ormai era convinto che l’aver studiato l’aveva portato lontano dagli affetti. E forse
studiare era stato un mezzo per sfuggire alle proprie responsabilità. Avrebbe dovuto combattere
per la sua famiglia, rimanendo vicino a suo padre e difendendolo dalla matrigna.
Questo ragionamento lo intristì e per un attimo l’umore divenne terribilmente nero. Rimase in
stanza per una buona mezz’ora. Si vestì, lasciò tutto, ma prese i contanti. Fece una rapida

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colazione, baciò appassionatamente Verbena e uscì con la sua agenda di appunti. Prese il
traghetto in cerca dei suoi ricordi sparsi per la laguna.
- Torna presto, i turisti ti pretendono.
- Certo, cercherò di essere veloce.

Capitolo 6
Si diresse a Chioggia dove poteva contare sull’esistenza di numerosi esercizi commerciali. Si
comprò un cambio per i vestiti e un paio di scarpe comode. Iniziò a scrivere molto, anche se
appuntava numerosi e diversificati pensieri per far credere a Verbena che stesse scrivendo sul
serio. In realtà finiva sdraiato sulla sabbia di Lido di Malamocco a guardare il mare aperto.
In quei luoghi, dove la vegetazione combatte con il mare per ogni palmo di sabbia, lui cercava
quella serenità che l’avrebbe condotto nella valle dei morti.
Mosè rimase tre ore sdraiato e seminascosto, poi si alzò e si diresse da Luigi.
- Voglio tagliare con Verbena, senza farle del male.
- Come farai, è impossibile.
- Mi sono inventato che sto scrivendo un libro di filosofia o un romanzo, basato sulla mia
esperienza, e che mi serve concentrazione.
- E allora?
- Si abitua a rimanere senza di me.
- Ma sei scemo, così è peggio.
- Perché?
- Ma di donne non hai mai proprio capito nulla.
- Perché?
- Perché la tua mancanza farà crescere in lei il desiderio per te.
- Che faccio allora?
- Devi trovare le parole per dirle che stai per morire, se vuoi glielo dico io.
Sentire quei suggerimenti da parte dell’amico fraterno lo gettarono nell’angoscia.
- Tienimi qui un paio di giorni, dirò a Verbena che sono in giro e poi tornerò da lei magari
giovedì.
- Non pensare che il suo amore affievolisca e poi si vede che anche tu ne sei innamorato. La
vicenda nella sua drammaticità è semplice. Non renderla un casino.
- Non voglio renderla un casino, ma vorrei vivere. In fondo quando uno non è morto è vivo.
Mosè rivelò la sua speranza irrazionale di guarire. “Chi è condannato a morte e non è ancora
morto è vivo” e questo lo annotò sulla sua agenda e aggiunse “Chi è vivo non può concepire la
morte fino in fondo”.
- Credi sia facile dover dire addio per sempre.
Mosè non lo diceva per rimproverare Luigi lo diceva ad alta voce, ma a sé stesso e questo Luigi
lo capiva e perciò non si adirava.
- Chiaro che no, ma cerchiamo di capire cosa vuoi e cosa vuoi fare in questo modo ti potrò
aiutare. Comunque, ricordati, qualsiasi intenzione tu avessi, io la supporterò.
- Vorrei rimanere fuori per un po’ in modo da trovare le parole, magari…
Tentennò, ma alla fine lo disse
- Magari guarire per qualche miracolo. Lo disse col cuore, anche se il cervello gli mandava
segnali di dolore dalla schiena.
Le parole del filosofo contristarono Luigi, che si alzò di scatto, guardò in faccia Mosè e gli disse
- Guarirai! Continua a scrivere! Ci organizzeremo al meglio. Ti lascio un paio di chiavi, la più
lunga è del cancello, la più corta della porta di ingresso. Entra quando vuoi, noi non abbiamo
segreti. Mi raccomando non farti scrupoli e non avere remore io sono qua per te.
- Tornerò al bed and breakfast e le dirò tutta la verità. In fondo la verità rende liberi.

60
Si alzò, abbracciò l’amico e con passo sicuro si diresse verso l’embarcadero, tuttavia ad ogni
passo che faceva, la sicurezza scemava e i piedi si facevano sempre più pesanti. Quando fu al
porticciolo, non ebbe il coraggio di tornare e prese un traghetto che andava dalla parte opposta
di Pellestrina. Sbarcò a Sant’ Erasmo. Iniziò a passeggiare per l’isola tra gli orti e ogni tanto
qualcuno, tra i più vecchi, lo salutava. Si fermò a conversare con un anziano. Egli stava seduto
fuori dalla porta di casa sua ad osservare il mare che attraverso la bocca penetrava in laguna.
- Signor Molin come sta? Devo forse chiamarla professore? Disse il vecchio.
- Mi conosce?
- Certamente, è il nipote dell’armeno, il figlio di Germano. Suo padre ci parla sempre di lei. È
fiero che suo figlio sia diventato un grande professore.
- Lo sa che i genitori esagerano sempre.
- Tutti vorrebbero avere un figlio istruito come lei, che ha dimostrato la propria intelligenza e
capacità
- Grazie, ma io non mi ricordo di lei.
- Io conosco suo papà. Lui ed io abbiamo lavorato molto insieme. Sono un ottimo muratore
anch’io e come tuo padre tinteggio pure. Sono Guido, Guido Vianello. Andavamo insieme a
comprare l’attrezzatura. Suo padre lavorava tantissimo e mi ha aiutato a salvare alcuni lavori
quando mi sono rotto il braccio. Lavorava al posto mio, sa?
- Non me l’ha mai detto.
- Quando ci mettemmo in proprio perché l’azienda era fallita, eravamo diventati due
padroncini pure concorrenti. Quando mi ruppi il braccio, lui non se ne approfittò, anzi mi
aiutò a conservare gli appalti presi. Si faceva un sacco di ore. Lavorava per due. Qui i Molin
Yaritzan saranno sempre i benvenuti.
Mosè rimase stupito da questo incontro occasionale e volle trascrivere due righe sul suo blocco.
Quale vento l’aveva spinto su Sant’Erasmo?
- Tuo padre è un galantuomo, del resto come lo era tuo nonno. Devi essere orgoglioso di loro.
- Certo, certo.
Vianello sapeva delle vicende familiari del suo amico Germano e sapeva che Germano aveva
commesso un errore che non riusciva a perdonarsi. Quello di essersi risposato.
Guido voleva in qualche modo che Mosè sapesse dell’amore e della stima che suo padre nutriva
per lui e dell’onestà di suo padre. Un uomo in fondo non può essere giudicato per l’unico errore
compiuto durante una vita, ma bisogna tener conto del contesto e delle tante cose buone fatte.
- Hai già visto tuo papà?
- Non ancora, vado a trovarlo in questi giorni.
- Non sei ancora andato?
- Ma veramente stavo con la mia ragazza.
- La Verbena del Ballarin, quello che stava a Pellestrina. Ha ancora il Bed and Breakfast?
- Sì, ma come fa a saperlo?
- In laguna carissimo, le notizie non le portano solo le donne, ma anche il vento, il mare e gli
uccelli migratori. Il vecchio rise di gusto alla sua battuta.
Si salutarono con la promessa generica di rivedersi e il Professore si incamminò sulla via per
l’imbarcadero. La calura era forte e l’umidità si era fatta pesante. Riparò in una chiesa
freschissima e si nascose in fondo all’ultimo posto, dietro ad una colonna all’ombra del
confessionale, come l’ultimo tra i peccatori. Si inginocchiò e iniziò a pregare.
- Voglio guarire perché voglio Verbena.
Mosè, non aveva usato giri di parole con il Dio di sua mamma. Voglio tutto, voglio il massimo,
altrimenti non mi inginocchierei. Nel dire queste parole, si accorse che ai piedi della statua alla
sua sinistra c’era un leggio con un libro bianco aperto dove sopra i fedeli chiedevano le grazie.
Si avvicinò e lesse. Tante erano le richieste, ma una la incuriosì poiché l’inchiostro bagnandosi
con delle lacrime aveva sporcato il foglio di blu.
- Dio ti prego, fa che la smetta di picchiarmi!
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Mosè ne fu turbato, la sua anima anarchica avrebbe voluto reagire, ma non c’era nulla da fare
come per il suo cancro.
Tornò dietro la colonna senza parlare, ad un tratto entrò Francesca si diresse verso il libro e
scrisse la sua preghiera. Una lacrima le cadde dal viso e l’inchiostro si sparse un poco, poi, dopo
una breve preghiera, uscì senza vederlo.
Mosè soffrì moltissimo e dei battiti scomposti al cuore lo costrinsero a sedersi. Gli fu subito
chiaro il significato di quella cicatrice sul volto della sua amica, ma si sentì impotente e inutile.
Gli venne da vomitare e uscì dalla chiesa sboccando al di là della strada.
Commosso si diresse al bed and Breakfast, ma gli mancò nuovamente il coraggio. Scese a Lido
e si diresse alla casa di Gigi, entrò con le chiavi e si sedette ad aspettare l’amico.
- Gigi che ne sai del matrimonio di Francesca?
- Lo sanno tutti che le prende dal Barca. Rispose lui come fosse una roba normale.
- Non possiamo far nulla per lei? Chiese Mosè.
- Deve divorziare! Oggi divorziano tutti. Aprì le braccia in segno di resa.
- Non capisco perché lei debba soffrire. Sentenziò Mosè.
- Certe donne non capiscono che gli uomini non si cambiano.
- Lei ha sempre avuto dei complessi di inferiorità. Ha sempre creduto di non essere all’altezza
di uomini come te.
- Non ho più la forza di intervenire, mi sento in colpa e vorrei fare qualcosa.
- Ognuno ha la propria vita, vedrai che troverà la forza di reagire e di andarsene.
Mosè scosse la testa, sapeva che Francesca avrebbe sopportato fino a morire quell’uomo, era
una donna capace di soffrire. Si rattristò e nascose il suo volto tra e mani.
Gigi al vedere quell’espressione disse.
- Ti prometto che interverrò, non ti preoccupare.
- Lo farai per me?
- Certo, la convincerò ad andarsene, ma a dir la verità, non sono molto bravo con le parole.
Passarono la notte insieme, ma al mattino tornò al bed and breakfast.

Capitolo 6
Verbena si avvicinò a Mosè e gli chiese perché non fosse più venuto a trovarla in camera. Lui restò
freddo e trasmise questo cambio repentino a Verbena che ne soffrì. “Come è difficile non potersi
spiegare; non avere le parole” pensò Mosè, che si sentiva in colpa per aver illuso quella splendida
donna. Tentò di trovare le parole, ma dire che devi morire deve essere proprio difficile, poiché Mosè
farfugliò
- Sono veramente in difficoltà con il mio libro. Non riesco a trovare la concentrazione. E
aggiunse.
- Pensavo di andare per un po’ a casa dei miei.
Verbena non disse nulla e tra sé pensava “in fondo chiunque ha diritto di essere e agire come
desidera”, ma gli parve strano poiché Mosè non amava la matrigna.
Lei gli sorrise comunque e gli propose la tazza del solito caffè; poi, con un po’ di morte nel cuore,
riprese le sue faccende.
Angela si avvicinò a Mosè e lui capì che voleva dirgli qualcosa; così si offrì per aiutarla a portar via
la spazzatura. Usciti dal Bed and Breakfast, la signora non fece molti giri di parole.
- Verbena è la mia unica figlia.
Ci fu un attimo di silenzio. Respirò profondamente e prese coraggio.
- Verbena è una donna meravigliosa.

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Si interruppe nuovamente. Mosè tentò di toglierla dall’impaccio, ma mentre stava per aprir
bocca lei alzò l’indice per bloccarlo. Toccava a lei.
- Mosè, se hai un’altra, non le dia dolore. Non la illuda. Ho visto un cambiamento di
atteggiamento.
Rimasero in silenzio. Angela osservò il Professore.
- Tu stai scappando!
- Non tradirei mai la fiducia di nessuno. Figuriamoci di Verbena. Disse Mosè.

- Ha sofferto troppo per un uomo che ha frequentato questa casa. Si è stancato di lei, l’ha
abbandonata come un ferro vecchio.
Mosè si sentiva debole, il sudore gli bagnava la fronte. La digestione, anche di poco, era ormai
un’impresa. La madre riprese,
- Se è interessato a mia figlia la sposi, ma non la illuda. Non vorrei vederla come l’ho già
vista. Altrimenti la lasci in pace. Non la tenga come un animale in gabbia.
Mosè scosse la testa e prese un po’ di coraggio e disse.
- Signora, dica a Verbena che non potrò essere il suo di compagno di vita; le dica che a settembre
non tornerò a insegnare. Ho deciso di cambiare vita e di cambiare mondo.
- Glielo dica lei, ma che uomo è?
- Non riesco. Ho deciso di cambiare vita e cambiare mondo. Ribadì con forza. Nel sentire
Angela domandargli che uomo fosse, gli venne in mente il poco coraggio che il padre aveva
nell’affrontare la matrigna e nel suo cuore iniziò a perdonarlo. “Forse assomiglio proprio a
mio padre” pensò.
La donna lo incalzò.
- È per via di quelle siringhe che ho visto nella spazzatura?
Il filosofo scosse la testa, ma non riusciva a rispondere nulla.
Angela si fermò per un attimo e poi gli scoccò una domanda diretta con un tono violento.
- Sei un drogato?
- No, Forse, sì
- Cosa vuol dire?
La signora nella sua ingenuità non capiva quello che Mosè pensava, poi giocando il tutto per
tutto disse.
- Hai programmi particolari? Posso aiutarvi!
Mosè scosse la testa e stavolta abbassò lo sguardo. Avrebbe voluto dirle tutto, ma non ne aveva
il coraggio. Non sapeva mentire e questa non è una qualità tra gli uomini.
- Non credo, signora.
- Ho due risparmi. Posso darli tutti a Verbena, e poi possiamo vendere il Bed and Breakfast.
Mosè non rispondeva, sembrava un’aquila catturata in una rete. Continuava a muoversi, senza
riuscire a trattenersi.

- Darò tutto a mia figlia, così potrete rifarvi una vita chissà dove.
La signora continuava a incalzare Mosè, voleva convincerlo. Voleva solo la gioia di Verbena.
- Mia figlia potrà seguirla. Io ho una buona pensione, sono in salute e posso vivere da sola,
senza Verbena.
La mamma sapeva di interpretare i desideri della figlia ed era disposta a tutto, pur di vederla
contenta.
Mose guardò la laguna calma e il cielo che si specchiava beato, incurante della sua malattia. Si
sedettero alle panchine della chiesa di fronte ai pescherecci.
- Verbena è già innamorata di me e purtroppo io di lei. Non è stato difficile in quest’ isola di
paradiso.
Alla madre non interessava questa battuta. Voleva solo un sì o un no e nervosamente si muoveva
sulla panchina come se stesse bruciando.
63
- Signora, toccherà a lei consolarla. Ribatté Mosè.
- Vattene subito allora, un taglio netto sanguinoso, Verbena non deve soffrire una vita.
La signora mise le mani sulle gambe e si alzò.
- Vattene stanotte e non lasciare nulla ti prego. Vattene come sei venuto, come uno qualunque.
Non salutarla, non prometterle ciò che non accadrà mai. Non te ne faccio una colpa, se è
così che deve andare che vada così.
- Lei troverà un altro, uno migliore di me. Disse Mosè, sinceramente addolorato, ma
impotente di fronte alla morte che si avvicinava.
- Cosa troverà lei non sono più affari tuoi. Vai in pace e che la provvidenza possa seguirti.
Chiuse Angela, voltandosi di scatto e dirigendosi verso casa.
- Signora! Mosè allungò la mano per afferrarle il braccio, ma lei si voltò di nuovo e gli disse.
- Vattene senza dire nulla.
Lei era visibilmente adirata e, non capendo cosa stesse accadendo, si sentiva frustrata. Pensò
che quella fosse una generazione senza spina dorsale, incapace di scelte decise e decisive, ma
sentiva che Mosè non era un bugiardo. Doveva esserci ancora sotto qualcosa.
- Sarà lei a doverla aiutare. Riprese un Mosè che cercava pietà.
- Accadrà anche stavolta. È mio dovere, è il dovere di ogni mamma e di ogni persona che
ama.
- Domani parto per due giorni. Disse Mosè asciugandosi la fronte con un fazzoletto di carta.
- La preparerò a ogni eventualità. Rientriamo per non insospettirla, in fondo si merita solo la
verità. Disse Angela, portando l’indice contro il naso in segno di silenzio.
Mosè decise quindi di visitare il padre, si concentrò per non far trasparire nulla e gli telefonò. Si
diedero appuntamento alle 6 del mattino sul lungo mare. A notte fonda Mosè entrò nella camera
di Verbena. La luce della luna che penetrava dalle persiane lo illuminò. Lei allungò la mano
come a invitarlo e lui sdraiò il proprio corpo su quello di lei, non lasciandole via di scampo.
Fecero all’amore. Verbena pensava di aver riconquistato il suo uomo, mentre Mosè pensava di
aver perso la sua donna.

Dormì fondo, ma poco dopo, la lasciò nel letto e tornò in camera. Estrasse ottomila euro e li
lasciò nel comodino, come forma di pagamento per il soggiorno. Si vestì, ma lasciò tutto
nell’appartamento, perché non era ancora certo di rinunciare a rivedere Verbena. Quindi si
diresse a Lido per incontrare il padre. Erano le cinque del mattino e il sole aveva iniziato a
colorare il cielo, come un bambino che sporca il foglio di mille colori.
Il padre sapeva che Mosè non voleva vedere la matrigna e viceversa; così, sfruttando l’abitudine
della moglie e dei parenti di alzarsi tardi, si incamminò presto lungo la spiaggia verso Sud. La
sabbia era fine, fresca e penetrava dolcemente tra le dita dei piedi. Poche erano le persone in riva al
mare, per il vento che rendeva l’aria frizzante. Si videro da lontano e Mosè affrettò il passo. Lo
abbracciò con forza. Il vecchio era ancora energico e pose una mano sul collo del figlio, come a
ricondurlo all’ovile. Camminarono tra l’acqua e le conchiglie. Il padre era un fiume in piena, aveva
troppi rimorsi e troppe paure.
Aveva numerose rughe sulla fronte alta, una grigia capigliatura sconvolta dal vento e gli occhi un
po’ ingialliti dall’età. Aveva una corporatura robusta, due spalle enormi capaci di portare sacchi di
cemento pesanti. Aveva lavorato come manovale tutta la vita.
- È un po’ che sei a Venezia, le voci corrono.
- Sì, ma ho avuto qualche cosa da fare.
- Capisco, ma una telefonata potevi farmela.
- Scusa papà, lo sai che quando mi faccio prendere da una cosa non ragiono più.
Il padre lo guardò e gli sorrise poiché lo conosceva bene.
Si guardò intorno e vide solo un vecchio con un cane che correva qua e là tra i tronchi spiaggiati.

64
- Mi ha abbandonato senza dirmi nulla e io mi sono trovato solo. Iniziò in questo modo, come
se avesse meditato a lungo un pensiero e avesse detto solo la parte finale della propria
meditazione.
- Papà, non capisco. Rispose in modo logico Mosè.
- La mamma è morta lasciandomi con due figli grandicelli e un neonato. Tra l’altro il medico
le aveva detto di abortire, perché rischiava la vita. Raccontò il padre
Mosè rimase impietrito, non aveva mai saputo di questo fatto.
- Voi eravate troppo piccoli per capire, ma la malformazione cardiaca era stata individuata
prima e si sospettava che non avrebbe retto. Non vi dissi mai nulla per non farvi soffrire.
Aggiunse il vecchio Germano.
Agli occhi di Mosè sua madre assunse i connotati di un’eroina, e riconsiderò l’errore del padre
di risposarsi per dare una famiglia a Gabriele. Si sentì anche in colpa nei confronti del fratello
per non averlo protetto, curato come la mamma forse si sarebbe aspettata da lui. E non ultimo si
sentì in colpa nei confronti del sentimento religioso della mamma. Provò rabbia verso Dio che
non l’aveva ascoltata, ma provò rabbia nei confronti di sé stesso che considerava la religiosità
della madre un po’ ingenua. Il senso di colpa aumentò quando il padre disse.
- Non pregava per sé stessa, ma perché Gabriele arrivasse a termine.
Sapeva che sarebbe morta improvvisamente da un giorno all’altro. Lo sapeva poiché i tracciati
dell’ecocardiogramma parlavano chiaro, tuttavia sperava di morire un secondo dopo il parto.
Fu come una fucilata in pieno viso. Dio l’aveva accontentata, aveva salvato Gabriele. Scosse la
testa, abbracciò il padre e lo strinse forte. Restarono abbracciati per un istante. Erano stati nove
mesi lunghi e in quei nove mesi Mosè e la gemella erano diventati adulti. Aiutavano in casa,
pulivano e cucinavano. Assistevano la mamma come potevano. La famiglia si era cementata nel
dolore. Poi volle cambiare discorso.
- Ma tu quella, come l’hai trovata? Chiese Mosè ridendo. La domanda non era in tono di
rimprovero, poiché ormai il reato era prescritto, ma per conoscere da che parte proveniva
quella biglia che aveva buttato per terra tutti i birilli della famiglia.
- Portando dal pediatra tuo fratello. Antonia era l’infermiera del Dottore. Sembrava si
piacessero, intendo Gabriele e la matrigna. Rispose candido il vecchio.
- Ma non ti pareva troppo giovane?
- Mi piaceva, mi pareva sincera. Credevo fosse sufficiente una donna per una famiglia.

- Papà, quello che hai fatto, l’hai fatto per noi. Ti voglio bene! Disse queste parole perché non
voleva lasciare altri segni sull’animo del padre.
- Sapessi le corna che ho mangiato. Mi verrebbe voglia di divorziare. Disse in tono di
ribellione.
- Divorzia, non commettere il mio stesso errore: cercare di resistere il più possibile. Non sei
nato solo per soffrire. Divorzia e basta. Ora siamo tutti adulti. Mosè disse queste parole per
incoraggiare un padre che andava sempre sostenuto nelle decisioni. Aveva un carattere
veramente arrendevole, che non lo rendeva sufficientemente forte di fronte alla matrigna.
Il padre guardò il piglio del giovane che lo consigliava energicamente come un vero adulto. Si
sorprese poiché Mosè aveva sempre taciuto di fronte al genitore per rispetto, ma stavolta quel
confine era stato superato con forza.
- Divorzia e mandala nella sua terra. Avrà l’amante che la consolerà. Non avere scrupoli, lei
ha ricevuto più di quello che ha dato.
Si sedettero su due tronchi abbandonati da una burrasca lontana e Mosè riprese.
- Vedi papà, anche io non dovevo sposare Claudia; forse l’ho fatto per sfuggire alla situazione
difficile che si era creata in casa. Forse è questo il motivo del fallimento del mio
matrimonio. Claudia se ne è andata lentamente ma inesorabilmente giorno dopo giorno,
finché il nostro rapporto è diventato irrecuperabile.
Il vecchio aveva appoggiato i gomiti sulle ginocchia riflettendo sulla vita. Guardò Mosè e disse.
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- Tu mi hai aiutato con Gabriele, un bambino monello e bastian contrario.
- Ma se non sono riuscito a convincerlo a rimanere a casa. È partito per l’esercito, come se
fosse l’Eldorado. Rispose Mosè.
- Dovevo farmi sentire con maggior vigore anch’io. Aggiunse il padre.
- Non so, ma se dovesse cambiare idea e dimettersi dall’esercito, bisogna aiutarlo
finanziariamente. Suggerì Mosè.
- Certo, ma non ho molto denaro. Sai quanto mi è costata la seconda moglie. Quello che
guadagno lo consuma in un mese.
- Ascolta papà, ho avuto una soffiata finanziaria, guadagnerò un bel gruzzoletto e lo
accantonerò, magari in una cassetta di sicurezza. Se Gabriele dovesse decidere di licenziarsi
dall’esercito, gli daremo metà di quei soldi e l’altra metà alla mia gemella.
- E tu, Mosè?
- Papà, io ormai ho un tesoro che nessuno può portarmi via.
Il padre sorrise, credette che avesse guadagnato altri soldi con qualche attività e riprese.
- Devo liberarmi di un peso che grava sulla mia coscienza. Riguarda anche voi. Disse
mestamente il padre, che non sapeva da che parte iniziare il discorso.
- Dimmi papà?–
- Ho bisogno del tuo perdono.
- Non devo perdonarti nulla.
- Due anni orsono ho regalato ad Antonia la mia quota della nostra casa. Non so cosa mi sia
successo. Ho ceduto ai suoi ricatti psicologici.
Mosè rimase perplesso e inizialmente contrariato. Non era dispiaciuto per la casa, ma perché
Antonia aveva raggirato il padre.
- Lei continuava a dirmi di aver sprecato la sua vita per me.
- Si chiama matrimonio infatti. Rispose sarcastico Mosè.
- Non ho davvero resistito. So che la mia quota avrebbe dovuto essere vostra, ma mi sono
trovato in una difficile situazione.
Mosè si adirò, poiché si immaginò il padre in un angolo, indifeso e in balia di una strega, ma,
vistolo in lacrime e con il volto basso, lo accarezzò e lo baciò.
Germano era stupito da tale atteggiamento, poiché quei gesti affettuosi non erano di Mosè, ma il
figlio, non sapendo se l’avrebbe più rivisto, intendeva lasciare al padre almeno un sereno
ricordo.
- Papà, si lascia tutto su questa terra, lo sai meglio di me. Forse i miei fratelli non
apprezzeranno la cessione della tua quota, ma la casa era la tua. Se lo desideri, ti dico che sei
perdonato. Anzi assolto.
- Grazie, grazie che non mi giudichi, grazie che non mi condanni, mi vuoi proprio bene.
- Mi hai insegnato tu a dare il giusto valore ai soldi e poi anche tu mi perdoni sempre; anche
quando non ti telefono.
Germano si era seduto a fianco di Mosè, come un pulcino che cerca il calore della chioccia. Si
stupiva che il figlio fosse diventato così forte. Si stupiva di aver generato un uomo forte, lui così
debole e arrendevole. Ebbe un moto di orgoglio per quel figlio bello, intelligente e istruito.
Mosè non era nemmeno adirato con la matrigna Antonia, che si era sposata con il papà a
ventisette anni. Nel proprio cuore il filosofo desiderava cercare delle giustificazioni per Antonia,
poiché non voleva morire in collera con nessuno. Quello che era stato era stato. Gli eventi non si
potevano più cambiare.

- Avrà pensato di essere in grado di reggere una famiglia con tre bambini, ma ben presto si
sarà accorta di non essere adatta. La scusò Mosè.
- Non è riuscita a ritagliarsi un ruolo di educatrice per voi giovani. Avrebbe forse dovuto
puntare sul ruolo di sorella maggiore, ma vistasi inadatta…Rispose il padre che aveva
intuito nel figlio un tono conciliante.
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- Diciamo che poi si è dedicata ad attività ludiche e artistiche. Mosè sorrise, afferrò
sottobraccio il padre e ritornarono al punto di incontro. Si sedettero in un bar e iniziarono a
parlare di sport. Mosè non tentò nemmeno di dire quello che aveva, preferì passare una bella
giornata guardando il padre sereno. Si scaldarono e si rifocillarono. Ordinarono un buon
cappuccino che li avrebbe consolati. Germano notò che il figlio non aveva ordinato alcuna
brioche e si stupì, perché lo ricordava goloso.
- Non sei dimagrito Mosè?
- Un po’.
- Stai bene?
- La mia donna pretende gli straordinari.
Il padre sorrise. Mosè sapeva come distrarlo. In quel momento Germano avrebbe creduto a tutto
ciò che gli diceva il figlio poiché riconoscente del perdono. Parlarono delle olimpiadi e di tutto
quello che era accaduto nel mondo sportivo.
In verità a Mosè non interessava lo sport, ma gli piaceva vedere il padre muovere le braccia e le
gambe nel tentativo di mimare qualche campione. Aveva cambiato idea sulla vita, forse ormai
era tardi, ma ora preferiva vedere l’altro contento. Voleva vedere l’altro felice, non gli
interessava più nulla, se non ciò che interessava all’altro.
Lo vedeva appassionarsi nel ricordare Pantani sulle montagne, la sua forza, il suo ardire. In quel
momento colse un aspetto del padre che non aveva mai considerato. A Germano piaceva uno
sport dove la fatica solitaria prevale sul gioco di squadra, uno sport capace di esaltare le gesta di
un uomo che si trova da solo contro una montagna. E pensò “Mio padre si sentì solo con tre
figli, un uomo solo contro una montagna di problemi”. Germano avrebbe voluto essere Marco
Pantani, che, nonostante le disavventure, gli incidenti, toltasi la bandana, attaccava e vinceva in
modo spettacolare.
Ogni minuto passava troppo velocemente e presto arrivò anche l’ultimo. Il padre si alzò, portò
all’imbarcadero il figlio e lo guardò allontanarsi, non sapendo che quello sarebbe stato proprio
l’ultimo saluto.
- Non ti va proprio di rivedere la casa? Chiese il padre conoscendo la risposta negativa.
- Vado da una bella donna, si chiama Verbena, Verbena come il fiore. Rispose il figlio,
motivando il rifiuto in modo esaustivo agli occhi di un uomo.
- Fammi sapere se la storia proseguirà bene? Disse il padre, e Mosè per veder ridere quel
vecchio gli rispose.
- Se dovessero cercarmi donne in gravidanza o con bambini da riconoscere, tu devi dire che
non mi hai visto.
Il padre gli sorrise e Mosè guardò quel volto allegro stampando nella memoria quell’immagine.
Si voltò e si imbarcò per San Marco.
Il traghetto scivolava sulla laguna striandola di bianco e un leggero rollio lo cullava
addormentandolo. Mosè sognò la madre, una donna sempre in silenzio, seduta alla finestra a
cucire per bene e a rammendare quello che distruggevano i figli. Si sedette sulle gambe della
mamma. Lei iniziò a dondolarlo con una dolce cantilena veneta che gli dava conforto, poi lo
condusse in cucina, dove trovò una torta. La tavolata era imbandita di altri dolci e il padre in
poltrona giocava con il piccolo Gabriele. La gemella comparve da sotto il tavolo ridendo e si
misero a cenare.
La madre gli chiese.
- Aiuta Gabriele, aiutalo.
Un dolore alla pancia lo svegliò. Si toccò il ventre e si fermò un minuto a prendere fiato.
Ormai la mattinata volgeva al termine e il pensiero si rivolse ancora a Gabriele. Fece un‘altra
telefonata appena giunto in piazza si sedette al bar.
- Gabriele, sono Mosè, ho appena visto il papà, sta bene
- Grazie, ma l’avrei comunque chiamato.

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Gabriele non riusciva a comunicare con Mosè senza attaccarlo in qualche modo, ma percepiva
una remissione nel fratello che lo insospettiva, così chiese ciò che gli altri non avevano chiesto.
- Stai male? Stai così male da chiamarmi? Stai forse morendo? Lo disse un po’ ridendo, ma
con qualche sospetto.
Mosè pensò tra sé “è proprio intelligente, lo sapevo che era mio fratello”.
- Figurati! Volevo dirti di licenziarti da quei coglioni in divisa che girano come babbei per il
mondo.
- Rischiamo la vita anche per voi e per la vostra sicurezza.
- Certo, ma per me puoi tornare a casa.
Gabriele, ribelle per temperamento, già meditava di lasciare l’esercito, ma non voleva darla
vinta al fratello, così diede una risposta dura e chiuse la telefonata.
Allora Mosè lo richiamò. Gabriele lasciò squillare il telefono numerose volte, ma alla fine
accettò la chiamata.
- Gabriele, voglio scusarmi. Disse un Mosè arrendevole.
- Va bene. Rispose Gabriele sempre più sospettoso.
- Ti ho provocato, ma non succederà più.
- Mi consideri adulto? Finalmente.
- Si, ho sbagliato e mi scuso di nuovo.
Mosè lo salutò, poiché aveva paura di litigare ancora.
Questa telefonata tormentò il militare per tutta notte. Ebbe dei cattivi presagi. Il fatto che il
fratello maggiore si fosse scusato non gli andava proprio giù. Non era da lui e poi lui le scuse
non le voleva. Gli sembravano un segno di debolezza, lui preferiva un Mosè battagliero. Chi era
quel Mosè che gli aveva appena telefonato?
Mosè aveva visto crescere il fratellino e sapeva che prima o poi sarebbe uscito da un sistema di
ordini di quel tipo, quei 250 mila euro lo avrebbero aiutato a cambiare lavoro. In una giornata
aveva salutato padre e fratello, ma doveva affrontare Verbena e la propria gemella, senza
piangere e senza farsi compatire.
La sorella l’avrebbe contattata in giornata, ma contattare Verbena era difficile, poiché Angela gli
aveva chiesto un taglio netto e forse aveva ragione. Le farfalle dell’amore che popolano lo
stomaco degli innamorati si erano mutate in vespe che dolorosamente lo pungevano. Verbena
sarebbe stata di qualcun altro e lui ne soffriva egoisticamente. Lei rappresentava l’ultimo filo
che lo legava alla terra e al quale disperatamente si aggrappava. Si imbarcò per Pellestrina, dove
alloggiava, con l’intento di salutarla, ma capì di non poterla affrontare e di non avere le parole
per congedarsi. Guardò da lontano il Bed and Breakfast, ma non si avvicinò. Gli sembrò di
vederne la sagoma. Tornò sui suoi passi e si diresse a Lido da Gigi.

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Capitolo 7
Mosè quindi non salutò Verbena e, senza dire nulla a nessuno, si diresse a casa dell’amico.
Sembrava che il gigante lo aspettasse. Gli indicò la camera che era stata dei genitori e gli
preparò qualcosa da mangiare. Avrebbe preparato tutto per l’amico, tutto ciò che poteva.
- Gigi, devo chiamare Maria. Disse Mosè.
- Sicuro? Magari lei ne soffre così tanto che perde il bambino, o peggio muore come tua
madre.
- Devo salutarla, non me lo perdonerebbe, sai cosa vuol dire essere gemello di una ragazza?
Dovrò salutarla senza lasciar trasparire nulla. Disse preoccupato il filosofo.
Mosè compose il numero, ma rispose la voce di una donna anziana.
- Pronto, chi parla?
Mosè sospirò, non era sicuro che sarebbe riuscito a trattenere le lacrime.
- Sono Mosè, il fratello di Maria. Mia sorella è in casa? Domandò, schiarendosi la voce.
- No, lei è all’ospedale. Stamattina ha avuto il primo episodio di doglie. Io sono la suocera.
Sono qui a fare un po’ da baby sitter.
- Va bene, richiamerò mia sorella sul cellulare domani, anzi le mando un messaggino così
potrà leggerlo domani. Per favore, la informi comunque che andrò a visitarla la settimana
prossima. Le dica che sono in vacanza con Verbena e lei capirà.

Chiuse la telefonata spense il telefonino. Si voltò verso l’amico Gigi e disse.


- Devo morire in sei giorni, altrimenti li ho tutti qui.
In effetti Riccardo cominciò a tempestarlo di telefonate. Trovò il cellulare sempre spento ed era
combattuto tra il rispettare il diritto alla privacy dell’amico con il diritto del medico di
intervenire, almeno per lenire il dolore.
Intanto Verbena sentiva crescere un fuoco insaziabile dentro di sé che la divorava. A stento
riusciva a trattenere quell’energia. Tre giorni dopo che non vedeva Mosè e che non riusciva a
contattarlo, decise che l’avrebbe cercato.
69
Si svegliò alle quattro del mattino, anticipando di un’ora e mezza sua mamma, e preparò tutte le
colazioni per gli ospiti, poi, seduta al computer, cercò l’indirizzo della casa paterna di Mosè.
Non trovando nulla, come vide la madre le chiese dove abitassero gli Yaritsan.
Lei non rispose, tergiversò. Allora la figlia si alzò e le si mise davanti.
- Mamma sto male, devo vederlo.
- Non so dove abitano e poi ha deciso di cambiare vita.
- E tu che ne sai?
- Mi ha detto che a settembre non tornerà a insegnare, partirà.
- Per dove, e perché non me l’hai detto?
- Non so dove andrà, ma ha abbandonato la stanza, lasciando dei soldi e alcuni vestiti.
- Perché non me l’hai detto? L’avrei fermato!
La madre tacque e la figlia riprese.
- Dovevi dirmelo, l’avrei fermato!
- Gli ho detto che avevo dei risparmi e che te li avrei dati purché tu potessi seguirlo, ma lui…
E si interruppe scuotendo la testa. Poi riprese.
- Ma lui mi sembrava un animale disperato. Nei suoi occhi, pur vedendo la sincerità, ho visto
una tristezza che mi ha impietosito, tanto che non sono stata in grado nemmeno di trattarlo
male, come avrebbe meritato.
- Vado a cercarlo. Tu bada agli ospiti. Ci teniamo in contatto.
Verbena, indossato un bel vestito e delle scarpe comode, si diresse velocemente all’imbarco e
cercò la casa del padre di Mosè. Non fu difficile trovarla, poiché bastava pronunciare la parola
Yaritsan l’armeno e tutti più o meno sapevano indicarle la via.
Arrivò nel quartiere situato vicino alla spiaggia nella zona dove si celebra il festival del cinema.
Un netturbino le indicò una villetta verde a due piani con un giardino piantumato. Si sistemò i
capelli e nervosamente le maniche del vestito. Guardò le scarpe, non erano delle migliori, ma
l’ansia di conoscere il destino di Mosè era più forte della preoccupazione di mostrarsi bella di
fronte a quello che avrebbe potuto essere suo suocero.
Suonò il campanello e apparve Germano dietro le tende. Lui vide quella figura di donna e aprì la
porta di ingresso. Verbena istintivamente afferrò con le mani le verghe del cancello di ferro,
quasi come se fosse in una gabbia di sofferenza e tentasse disperatamente di uscirne. Il padre la
guardò e vide che era bellissima, fine, dolce, proprio le donne che piacevano a Mosè, un
connubio di amanti, mamme e spose condensate in un’unica figura.
- Desidera? Chiese gentilmente Germano.
- Sono un’amica di Mosè, mi stavo chiedendo dove fosse, è un po’ che non lo vedo?
- Come si chiama?
- Verbena.
- Come il fiore. Disse il padre guardandola negli occhi.
- Sì. Sorrise lei.
- Appena lo sento, la faccio chiamare, glielo prometto.
- Ma non è venuto da lei? Non vi siete già visti?
- Sì, l’ho visto due giorni fa, ma qua non verrà più. Ci sono dei brutti ricordi ai quali non
vuole più assistere.
- Stava male? Non le ha parlato di me?
- No, è dimagrito, ma è bello.
- E cosa le ha detto di me.
- Nulla di particolare, ma che sarebbe venuto da lei.
- Gli dica che … Avrebbe voluto dire “Gli dica che lo amo”, ma ebbe vergogna, del resto
Germano glielo lesse negli occhi.
Lei salutò e si diresse verso l’imbarco situato di fronte a Venezia. Guardò i turisti e a un tratto
vide un uomo alto come Gigi.

70
“Ecco dov’è Mosè! È da Gigi” pensò. Tornò sui suoi passi e si diresse verso la spiaggia,
cercando i campi di beach volley, vicino alla chiesa. Vide molti ragazzi e con lo sguardo cercò il
gigante.
-Cosa desidera. Sentì alle sue spalle.
Si voltò, vide un ragazzo gentile e rispose.
- Sto cercando Mosè e il suo amico Gigi.
- Mosè non lo conosco, ma Gigi lo conosco benissimo ed è veramente strano che non ci sia.
Tutti si erano accorti alla spiaggia che mancava Gigi, poiché le partite non presentavano un
risultato scontato.
- Si sarà innamorato. Disse un altro.
- Ma Gigi dormirebbe qui in mezzo al campo, sarà influenzato. Sentenziò una giovane.
- Influenzato d’estate? E poi chi l’ha mai visto malato? Esclamò una ragazza.
- Forse viene oggi. Disse il primo ragazzo.
- Sapete dove abita? Chiese Verbena.
- In fondo alla via, quella casa che sarebbe gialla e che avrebbe bisogno di una verniciata, giù
in fondo, non può sbagliare è la casa più trasandata del quartiere. Disse un adolescente.
Verbena si incamminò inseguita dai commenti maschilisti dei ragazzi e da un po’ di invidia delle
ragazze presenti, che si sarebbero fatte consolare volentieri da Gigi.
Arrivata davanti al cancello, cercò con lo sguardo Mosè o Luigi. Aveva vergogna di suonare il
campanello a quell’uomo, e la casa incuteva un certo timore, come se fosse una casa degli
spiriti, ma il fuoco che le ardeva dentro era troppo intenso. Verbena suonò.
Gigi spiò dalla finestra del bagno per non farsi vedere, non aspettava nessuno e quindi non
poteva che essere un impiccio. Si diresse in camera e vide Mosè dormire; avrebbe voluto
svegliarlo, avrebbe voluto in quel momento che salutasse Verbena, era un uomo buono Gigi, ma
vide l’amico così spossato che decise di risolvere a suo modo.
Si spogliò nudo, si tolse persino le mutande e si mise un asciugamano attorno alla vita, in modo
da coprire i genitali, ma che si vedesse che era senza biancheria.
Aprì la porta e mostrò una faccia assonnata e disse.
- Ciao Verbena, sono occupato, sai ho qui …Lasciò in sospeso la frase, conciato come era non
c’era bisogno di concluderla.
- Scusa, ma cerco Mosè, per caso sai dov’è finito?
- No. Non saprei.
- Non lo vedo da un po’, mi sono preoccupata.
- Ah, ma no!-
- Non sai dov’è andato, magari è in difficoltà, o non sta bene .Verbena strinse con le mani le
sbarre della ringhiera, come un carcerato stringe le sbarre della propria cella.
- Ho continuato a chiamarlo, ma ha staccato il telefono.
- Se ti ha detto che torna, tornerà. Avrà le sue menate filosofiche, se sta scrivendo qualcosa, si è
isolato come un eremita, non mi preoccuperei se fossi in te.
- Non mi ha detto nulla, è sparito. Ha lasciato alcune cose nella stanza e tanti soldi. Non ti ha
accennato nulla? Pregò una Verbena che straziava il cuore del gigante.
- Se ti ha lasciato delle cose, tornerà a riprenderle sicuramente.
- Ma i soldi. Perché lasciare tanti soldi?
Gigi non avrebbe retto un secondo di più a quella sofferenza e disse.
- Appena lo sento ti faccio chiamare, adesso devo proprio andare. Salutò rapidamente e chiuse
la porta. L’asciugamano gli cadde e restò nudo. Si sedette e non si compiacque di aver
mentito, ma la vista dell’amico nel letto lo consolò. In fondo aveva risparmiato a Verbena un
dolore più grande, vedere Mosè delirante.
Verbena disperata percorse la stradina laterale a fianco della casa in modo da scrutare attraverso
le finestre eventuali indizi della presenza di Mosé, ma, vedendo che i vecchi del quartiere seduti
al sole la osservavano sospettosi, tornò all’imbarcadero e quindi a casa.
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Quando Gigi vide Mosè iniettarsi nuovamente la morfina, ricordò di aver visto la stessa scena
mentre lavorava come barelliere all’ospedale di Venezia. Percepì che quelli erano gli ultimi
giorni di vita dell’amico e si sedette sulla poltrona per tenergli compagnia e assisterlo.
La voce di Mosè non era nitida, ma aveva iniziato a barbottare qualcosa.
- Oggi mi sposo.
- Sono Gigi, come stai?
- Sono preoccupato, non ho la fede nuziale e oggi viene Claudia.
- Perché viene? Domandò Luigi.
- Devo sposarla, non ricordi?
- Sì. Rispose Gigi.
- Mi fai da testimone di nozze?
- Certo.
- Dici che sarà un bel matrimonio?
- Certo.
- Ma perché mi ha tradito allora?
- Non lo so, ma non puoi sapere che ti ha tradito se devi ancora sposarla.
- Sai che sono stato male? Sono stato persino dallo psichiatra, che mi ha dato una cura. La
cura mi faceva ridere per tutte le cose.
- Perché non sei tornato prima?
- Avevo vergogna, mi sentivo umiliato. Il battito di Mosè si era velocizzato, sembrava quello
di un cavallo in fuga.
Gigi si inginocchiò e baciò sulla fronte l’amico e gli disse.
- Ma ora stai con Verbena, quella meravigliosa perla.
Al sentire tale nome Mosè fu come sollevato, Verbena scalzava Claudia anche nella profondità
della mente.
Gigi asciugò la fronte e si sedette sul pavimento, tenendogli la mano.
Due ore dopo sentì una sorta di imprecazione o preghiera da parte dell’amico. Si avvicinò, lo
accarezzò e gli disse.
- Morirei al posto tuo.
Mosè che era appoggiato sul fianco destro per comprimere istintivamente la parte dolente, voltò
il collo con una certa fatica e da quella posizione scomoda lo scrutò. L’effetto della morfina era
diminuito e la coscienza aveva ripreso possesso del corpo.
- Ma hai un sacco di anni davanti, che vai dicendo, non vorrei mai che tu prendessi il mio posto.
Vorrei solo che Dio la smettesse di giocare al gatto con il topo.
- Dio, Dio. Esclamò Luigi.
- A questo punto chi vuoi che mi aiuti? Domandò Mosè.
Gigi lo interruppe
- La vita Mosè è come un tuffo, c’è chi ha il trampolino a due metri, chi a quattro chi a otto e
chi fin a 40, e c’è chi si lascia cadere, chi spicca un salto ed esegue capriole e avvitamenti,
ma alla fine tutti si spiaccicano su un fondo di piscina senza l’acqua. Vuota insomma.
- Ma tu non hai studiato filosofia e ora eserciti la mia professione?
- Io non ho proprio studiato sui libri, ma ho osservato le persone, non saprò certe leggi, ma
conosco le regole. E schiacciò l’occhio per mostrare all’amico un certo acume.
- Sei buono. Disse Mosè dolorante.
72
- Potevate rimanere qui, invece di lasciarmi solo con i pivelli a giocare a pallavolo.
- Non esiste solo la pallavolo, esiste anche la filosofia, la storia…
- Ma la pallavolo descrive come deve essere una vita. C’è un obiettivo da raggiungere: la
vittoria. C’è la collaborazione con il prossimo rappresentata dalla tua squadra e infine c’è la
giocata da solista, che rappresenta la bravura di uno al servizio della collettività. Cos’altro
c’era da imparare?-
Mosè rimase stupito e interdetto. Non aveva capito che l’amico si era sentito abbandonato
sull’isola di Lido da tutti quelli che avevano studiato e poi si erano dispersi per il mondo. Paolo
in Olanda, Riccardo e lui a Verona, la Gemella a Padova “ma Padova non è lontana” pensò
Mosè, ma per un isolano come Gigi, Padova era quasi al confine del mondo. Mosè capì di
avergli fatto un torto.
- Io grande e grosso e per questo considerato un calorifero senza cuore e senza cervello. Tua
sorella non mi ha mai guardato perché avrà pensato che ero enorme, l’olandesina manco a
parlarne, anche io ho un cuore ed è più grande del vostro.
La modalità sorridente di Luigi aveva creato un’atmosfera più serena e aveva sollevato Mosè
dal dolore che ormai, quando si manifestava, diventava sempre più acuto.
- Vorrei essere portato alla torre armena, prima di morire non so quanto mi manca.
- Se te la senti, andiamo stasera.
- No, non riesco. Andiamo domani.
- Riposa più che puoi, domani starai meglio.
- Sì, sì. Ma il dolore sembra permanere.
- Vedrai che passerà.
- Ho paura.
Gigi restò in silenzio. Avvicinò una seggiola e si sedette al suo fianco. Sapeva di dovergli stare
accanto. Gli pose una mano sulla testa per tranquillizzarlo. Il gigante non era un uomo di parole
perciò in quel momento si sentì inutile.
Gigi pensò fosse giusto chiamare Riccardo, in fondo credeva o sperava in qualche miracolo
della scienza. Prese il telefonino di Mosè e lo riaccese e vide le numerosissime chiamate di
Verbena e Riccardo. Fece partire la chiamata verso il Dottore.
- Pronto Mosè, come stai? Domandò il Dottore.
- Riccardo, sono Luigi.
- Mosè? È lì con te?
- Sì, ma sta delirando. Cosa posso fare per lui?
- Non c’è più nulla che tu possa fare se non portarlo all’ospedale a morire.
- Lui non vuole andarci, vuole rimanere lontano dai camici bianchi.
- Allora continua con la terapia del dolore e speriamo che questo martirio duri poco.
- Spegnerò il telefono e mi raccomando, massima privacy.
- Va bene.
Gigi si mise a leggere l’agenda di Mosè per passare il tempo e scoprì di aver avuto un ruolo
importante per il suo amico. Ne fu veramente felice, tuttavia certe espressioni lo turbavano.
Capiva che la morte avrebbe fatto visita anche a lui e questo lo rattristava.
Si alzò e preparò del brodo con la verdura. Voleva essere pronto nel caso in cui l’amico
desiderasse qualche cosa. Mosè si svegliò alle 11 di sera, stanco, nauseato e con i dolori alla
schiena e al fianco. Non volle nulla da mangiare, ma solo un bicchiere d’acqua. Lo prese e si
bagnò il becco come un canarino.
- Cosa posso fare per te Mosè?
- Morfina.
Gigi preparò la fiala e gli iniettò ancora una dose sottocutanea e dopo venti minuti circa Mosè
cominciò a gesticolare, come se vedesse qualcuno. Chiese a Gigi chi fossero tutte quelle persone
in campo. Gigi rispose che c’era un grande torneo e bisognava organizzare le squadre.

73
- Starai con me Gigi, vero? Voglio vincere.
- Certo, come al solito, chi ti ha mai lasciato.
Le lacrime di Gigi scendevano copiose, ricordava le situazioni che avevano coinvolto i suoi
familiari. Lo passava con una salvietta asciutta sulla fronte nella speranza di fargli sentire che
non era solo e che non sarebbe morto solo.
La prima notte tentò di dormire sul divano, ma gestire due metri non è facile, così si sdraiò
accanto a Mosè.
All’una l’amico si riprese, sette ore dopo l’ultima fiala era tornato in sé.
- Devo proprio morire. Disse nel vuoto del buio, mirando un soffitto che non si vedeva.
- Lo so, ma non andrai solo, c’è Gigi.
- Sento che devo morire. Domani mi porterai a vedere il tramonto dalla torre armena, è
l’ultimo desiderio, poi mi piacerebbe morire.
- Sì, ti porto. Andiamo a Punta Sabbioni e con l’auto, piano piano, giungiamo a Lio Piccolo.
Partiremo dopo le sette.
- Dille che non volevo farla soffrire, che l’amo, ma che non avrei voluto coinvolgerla.
- Capirà, lo sai che le donne di mare sono più forti.
- Dille che mi dispiace.
- Certo, certo sta calmo e riposa.
- Me lo prometti?
- Si, puoi stare tranquillo. Mi conosci.
- Cerca di convincere Francesca a scappare, dille che non è intelligente resistere alle botte. Fa
qualcosa per lei.
- Farò il possibile e cercherò di dirglielo. Rassicurò Gigi e aggiunse.
- Riposati bene perché domani faremo una bella gita fuori porta.
Così il giorno seguente verso sera i due partirono. Sbarcarono il veicolo a Punta Sabbioni e si
diressero verso la località. La strada era così stretta che a mala pena ci passava un’automobile,
ma era a doppio senso. Stava alla bravura e all’esperienza delconducente permettere anche
all’altro di passare, pur provenendo dal senso opposto. Per questo erano stati costruiti dei piccoli
slarghi ai lati della strada, dove posizionare la propria auto e attendere il passaggio dell’altra.

Intanto nel Bed and Breakfast la preoccupazione e lo stupore crescevano. Le due donne
lavorarono tutta mattina fianco a fianco. Le parole erano poche, poiché risultavano inutili. Dopo
pranzo Angela propose a Verbena di assumere una lontana parente. Verbena accettò poiché era
consumata dall’angoscia. Frugò tra i bagagli di Mosè con l’intento di scoprire qualche indizio e
notò che la mazzetta di soldi era composta tutta da banconote nuovissime e numerate in ordine
progressivo.
Ipotizzò che il suo filosofo avesse deciso di farla finito o che si fosse suicidato per qualche
nascosto problema, magari per debiti di gioco, ma le parve tutto così strano.
Preparata la cena per gli ospiti, salutò sua madre e ringraziò la parente. Preso il vaporetto, tornò
alla casa di Gigi e suonò il campanello. Non ricevette risposta. Si diresse ai campi da Beach e
rimase ad aspettarlo. Dopo un’ora d’attesa, tornò alla casa del gigante e suonò di nuovo. Le
pareva strano non trovarlo, era in ferie e un uomo come lui non era avvezzo a lasciare Lido.
Camminò tutt’intorno alla casa e vide il bidone della spazzatura semiaperto. Si avvicinò e notò
all’interno di una borsa, utilizzata per l’immondizia, una siringa di insulina. Un moto di rabbia,
mista a indignazione la pervase. Si avvicinò, estrasse la borsa dei rifiuti dal contenitore. La aprì
e vide che all’interno c’erano delle fiale di morfina vuote.
Rimase interdetta, provò a suonare il campanello. Ma nessuno le rispose, scavalcò la recinzione
e si avvicinò alle finestre, ma non riuscì a vedere nulla di particolare.
Rientrò a casa confusa. Chiaramente Gigi le aveva mentito, ma non sapeva quello che fosse
accaduto a Mosè. Ritornò dalla madre, quasi per farsi consolare, poiché quell’uomo pareva

74
prendersi gioco di lei, un gioco macabro. Verbena sentiva che qualcosa di irreparabile sarebbe
successo e che l’avrebbe portata alla sofferenza.
Come la mamma la vide le domandò.
- Hai notizie di Mosè?
- Il suo amico mi ha mentito, era da lui, infatti ho trovato nella spazzatura le stesse siringhe
che avevamo trovato. Disse lei, dispiaciuta più che adirata.
- Degli uomini non ci si può fidare. Scandì la mamma.
Verbena trattenne il braccio della madre, quasi a volerne fermare lo sfogo.
Non si sentiva tradita, non mostrava rancore, poiché nel proprio cuore sapeva che lui non
l’avrebbe mai ingannata per darle un dolore. Questo in fondo, però, la metteva ancor più in
angoscia riguardo alle sorti del suo amore. Sentiva un dolore così intenso da capire che Mosè
stava affrontando la morte.
Non parlò della morfina, poiché la mamma l’avrebbe associata alla droga e non agli
antidolorifici. Verbena voleva preservare il ricordo di un uomo moralmente integro.
I due amici, giunti a Lio Piccolo, trovarono la chiesa aperta. Salutarono il piccolo Cristo con un
segno di croce istintivo, come fosse la cosa più naturale del mondo, e salirono sulla torre. Le
gambe di Mosè tremavano più per la mancanza di sali minerali che per una vera e propria
stanchezza. Sentiva infatti nei muscoli un tremolio di debolezza che non era in grado di gestire.
Arrivati in cima, Gigi si sedette al terzultimo gradino, mentre Mosè si affacciò dal campanile e
sorrise. Qui nulla era cambiato e sembrava tutto così immutabile, il tempo pareva non
trascorrere e la vita non avere un termine. La laguna gli parve infinita: acqua e terra, cielo e
mare “Forse Gigi aveva ragione, dove volevo andare?” pensò. Infilò le dita nella grata, che
impediva ai piccioni di entrare, e strinse come a stringere una mano. Restò ad aspettare il
tramonto che puntualmente arrivò. Il rosso era acceso all’orizzonte e le striature di luce
tendevano al blu. Le barene riflettevano l’unico sole come migliaia di specchi, amplificando una
luce che pareva immensa. Mosè ebbe una fibrillazione ventricolare come sua madre causata
dall’emozione, poi crollò in ginocchio. Gigi si avvide, lo raccolse nelle sue braccia, scese le
scale e, uscito nel campo, lo pose a terra e gli fece un massaggio cardiaco. Tentò di rianimarlo,
ma gli parve inutile. Afferrò il cellulare e chiamò un’autoambulanza, ma sapendo di essere alla
fine del mondo, caricò in automobile l’amico. Guidò per quelle viuzze, finché una giovane
sprovveduta e poco pratica non si mise di traverso con la sua vettura. Lasciò l’auto dov’era tra le
strilla della ragazza, si caricò un bianco Mosè sulle spalle e con la forza della disperazione si
mise a correre verso Tre Porti. Mentre correva, non riusciva a pensare a nulla. Sentiva dei
rantolii indistinti, che non riusciva a interpretare come buoni o cattivi segnali. All’imbocco del
paese trovò l’autoambulanza e cominciò a gridare. Scesero in due, il primo disse.
- Arresto cardiocircolatorio.
Gigi coricò a terra Mosè, gli infermieri lo spogliarono e gli diedero una scossa che sembrò
rianimarlo. Lo caricarono sull’autoambulanza, impedendo a Luigi di salire poiché era troppo
ingombrante.
- Dove lo portate?
- Jesolo. Rispose un Medico prima di chiudere.
Gigi si passò le mani nei capelli, tornò a recuperare l’automobile e si diresse a casa del padre di
Mosè. Non aveva chiaro cosa avrebbe detto, non aveva chiaro nulla. Suonò il campanello e nel
vedere Germano non proferì parola, alzò il ciglio quasi a scongiurare il pianto e chiaritasi la
voce lo informò. Sostenne l’anziano con il braccio e lo condusse all’ospedale di Jesolo dove
avevano trasportato Mosè.
Arrivati, lo cercarono nei reparti, tra i ricoverati, chiedendo all’ingresso. Non risultando nulla, si
diressero al pronto soccorso, dove potevano averlo ricoverato. Passarono nei corridoi
velocemente e chiesero di lui. Un infermiere gentile si avvicinò e indicò la sala mortuaria. Mosè
era stato posto a lato, a sinistra, coperto solo da un lenzuolo e dal grembiule delle operazioni.

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- I vestiti sono lì dentro, in quella sacca. Disse l’infermiere che mise una mano sopra la spalla
del padre. Fischiava un’aria fredda attraverso gli spifferi della finestra. Pareva ci fosse
buriana.

Gigi chiese a Germano in cosa potesse essere d’aiuto.


- Avvisa gli amici e chi gli ha voluto bene. Io devo chiamare i miei due figli. Rispose il padre.
Il primo pensiero andò a Verbena, Gigi salì sul primo traghetto del mattino, al freddo di una
sferzata d’autunno anticipata. Vestito alla buona, con la barba incolta si diresse verso il Bed and
Breakfast. Entrò, persino l’aria era in attesa di Mosè.
La signora Angela lo scrutò, con quell’altezza Gigi era riconoscibile ovunque e infatti gli parve
di averlo già incontrato.
- Desidera?
- Mi chiamo Luigi. Nell’iniziare a parlare con quella vociona, Verbena si precipitò di corsa dalle
scale e si fermò sul ballatoio. Lesse la verità sulla faccia di Gigi e il volto di lei mutò.
Verbena non pianse, forse aveva già pianto, ma rimase immobile e domandò con voce ferma.
- Dov’è? Dove è stato?
- Ora è a Jesolo. Prima è stato da me.
Si interruppe. Luigi lasciò il tempo a Verbena di sgridarlo per averle mentito. Ma Verbena non
lo rimproverò, a lei non interessava rimproverare nessuno, a lei interessava Mosè.
Luigi riprese.
- Non voleva morire qui, per la verità pensava di avere più tempo, ma non ce l’ha fatta a
dirtelo.
Lei scese lentamente i gradini dell’ultima rampa di scale guardando il pavimento.
Angela tentò di afferrarla per un braccio, ma lei la scostò con un cenno della mano. La salutò e
le disse di farsi aiutare dalla parente. L’avrebbe pagata il doppio. Indossò qualcosa di più
pesante e si diresse con Gigi all’obitorio.
Non proferì parola, seduta al sedile del vaporetto. Lo sguardo rivolto verso il campanile di San
Giorgio era fisso e la mente cercava di capire come tanta bellezza riuscisse a convivere con
tanto dolore. Venezia è assurda in questi momenti, tutti sono allegri, tutto è bello e io ho la
morte nell’anima. Me ne andrò via, ormai ho troppi brutti ricordi.
Al vederlo, il cuore parve fermarsi. Gli passò la mano nei capelli e si sedette accanto. Il padre
non chiese nulla era stanco. I due non si parlarono, come se vivessero due dolori separati e
distinti.
Gigi tornò a casa, si sedette sul divano e cercò tra i ricordi d’infanzia tutto ciò che l’aveva unito
all’amico. Sfogliò fotografie, album, quaderni delle elementari finiti negli scantinati e tutto
quello che aveva avuto in comune con lui. Quindi prese un bidone di ferro, vi inserì tali oggetti
e diede fuoco, osservando le fiamme che divoravano quelle testimonianze. Tenne solo l’agenda
di Mosè, quella no, non era la sua, ma del suo amico.
Il padre prese il telefono e contattò Gabriele.
- Mosè è morto, non ce l’ha fatta.
- Di cosa, ma come? Papà? Che stai dicendo.
- Vieni a casa se puoi, almeno per il funerale.
- Ci provo, ma sono lontano.
Al padre si strozzò il saluto in gola e Gabriele rimase incredulo.

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Finale

Una mattina presto Gigi si diresse verso la spiaggia a meditare e forse a piangere. Vide una
barca e un uomo lavorarci dentro. Riconobbe il marito di Francesca. Rimase per un istante
pensieroso sul da farsi; si avvicinò ulteriormente. Avrebbe voluto dirgli qualcosa per farlo
ragionare, ma con certi tipi non si può parlare e poi lui non sarebbe stato in grado di spiegarsi.
Così da uomo semplice com’era e soprattutto fedele al giuramento per l’amico, decise di fare
qualcosa per Francesca. Mentre il pescatore mise una gamba sul bordo della barca per scendere,
lui gli sferrò un pugno violentissimo nei testicoli. Il pescatore crollò a terra. Lui lo trascinò
verso il bagnasciuga e salì con le ginocchia sulla sua schiena, comprimendogli la testa nella
sabbia che periodicamente veniva coperta dalle onde. Al pescatore parve di morire annegato, ma
Gigi lo alzò per il coppino e lo ributtò nella barca.
- Non avevi motivo di picchiarmi. Disse il pescatore. Luigi, che aveva bisogno, a modo suo di
sfogarsi e di tener fede al giuramento fatto, gli sferrò un altro pugno violentissimo sul volto.
Istintivamente il pescatore si coprì la faccia. A Luigi piacque la parte del giustiziere e
cominciò a pestarlo.
Dopo una scarica violentissima se ne andò soddisfatto senza dir nulla.
Gigi continuava nella sua vita, ma era profondamente cambiato. Molti pensieri affollavano la
sua mente riguardo alla vita, la morte e la malattia. Immaginò di essere al posto di Mosè, solo
nel letto e ammalato e un brivido di paura lo fece sobbalzare. Chi si sarebbe preso cura di lui nel
caso in cui si fosse ammalato?
Luigi vinse subito questo timore, avendo una pistola nel comodino. Non avrebbe lasciato a
nessuno il diritto di gestire il suo corpo, ma questo pensiero andava contro alla sua morale
cristiana che gli era stata insegnata dai genitori. Disse una preghiera di scuse a quel Dio che non
capiva e si avviò a tinteggiare alcune case; Guido Vianello infatti gli aveva chiesto un aiuto.
Anche Guido si sentiva affranto per la morte di Mosè e soprattutto non sapeva come consolare
Luigi.
- Andiamo a visitare Germano. Gli propose il vecchio.
- Quella casa non porta bene. Disse Luigi scuotendo la testa.
- Antonia se ne è andata, forse l’aria è più respirabile. Aggiunse Guido.
- Era il momento di rimanere con Germano e lei si è data alla fuga. Ribatté Gigi con
disprezzo.
- Sembra che si sia fatta liquidare con un bel po’ di soldi. Precisò il più vecchio.
- E dove li hanno trovati? Luigi sorrise alla propria domanda, capendo che l’amico filosofo
aveva lasciato in eredità un bel gruzzoletto ai suoi fratelli.
- Mosè era un uomo molto intelligente e aveva le capacità di guadagnare schei. Esclamò Luigi,
che, vinta la ritrosia, volle incontrare Germano.
I tre si trovarono il sabato e Luigi decise di portare un sorriso a quel vecchio parente.
- Mettiamo in piedi un’azienda, facciamolo per Mosè. Propose Guido.
- E come la chiamiamo. Domandò Germano incuriosito da questa proposta.
- Se non è Mose l’è Mosè. Disse Luigi.
Tutti sorrisero e cercarono di parlare di quei ricordi che mettevano allegria, ma inevitabilmente
si ricadde sui vivi.
- Che fine ha fatto Gabriele? Domandò Guido.
- È adirato con noi, crede che gli abbiamo nascosto la verità. Rispose Germano.
- Ma non si è più visto? Chiese Luigi.
- Non riuscendo a venire al funerale, ha deciso di concludere la missione, poi vedrà il da farsi.

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- Si congeda? Domandò Guido, credendo fosse opportuno coinvolgere Gabriele in una nuova
eventuale società.
- Non so nulla, non mi chiama e sembra abbia tagliato i ponti con noi. È triste questa casa
perché la figlia è lontana, Mosè e sua madre sono morti e l’altro non torna.
- Ci sono io. Gli disse generosamente Gigi.
- Lo so che sei come mio figlio. Lo abbracciò con affetto.
- Se hai bisogno di qualcosa sai dove trovarmi zio.
- Pensateci seriamente all’ idea di una nuova ditta, mi darebbe slancio, e tu Gigi pensa a
sposarti. Propose Guido.
- Chi?
- Mia figlia. Ribatté Guido a uno stupito gigante.
- Mia figlia è diventata una bella donna. Aggiunse orgogliosamente.
- Creeremo l’occasione. Rispose Germano divertito e con la voglia di reagire al suo lutto e
chiese.
- Che ne è stato di Verbena?
- Sparita, nessuno l’ha più vista. Rispose Guido, che era informato su tutto.
- Non si può resistere a un tal dolore. Sentenziò Luigi, che aveva un cuore romantico.
Guido e Luigi si congedarono e il vecchio chiese al gigante di accompagnarlo sull’isola di Erasmo.
Si diressero alla chiesa per combinare un primo casuale incontro tra sua figlia Isabella e Luigi nella
flebile speranza che scattasse la scintilla dell’amore.
Luigi seguì Guido divertito, entrò in chiesa e si sedette nell’angolo del peccatore, dietro la colonna
da dove poteva vedere il libro delle preghiere. Guido attraversò la chiesa e si diresse in sacrestia,
dove la figlia Isabella e la moglie erano solite deporre le scope dopo aver pulito le navate.
Entrò Francesca e si inginocchiò davanti al Sacro Cuore, pregò e scrisse delle righe sul libro aperto,
ma con la coda dell’occhio intravvide Luigi, troppo grosso per nascondersi dietro una colonna.
Riprese la biro e aggiunse qualcosa alla preghiera. Poi velocemente si dileguò, fingendo di non
vederlo.
Luigi si incuriosì e uscito dall’ombra lesse ciò che aveva scritto.
“Per grazia ricevuta; Grazie San Luigi”. Gigi fu fiero di quello che aveva fatto, ma si ripromise di
tener monitorata la situazione. Rimase un istante in piedi e nel voltarsi il suo sguardo incontrò il
volto di una ragazza bellissima. I due rimasero ipnotizzati per un istante, quindi con passo sicuro lei
si diresse verso l’abside con uno straccio in mano.
- Dov’eri? Ti stavo cercando. Chiese Guido a sua figlia.
- Stavo cercando un panno per lavare i pavimenti.
- Volevo presentarti il mio nuovo socio. Indicando alla ragazza quella figura che sembrava un
bronzo greco.
Isabella si compiacque che fosse proprio quell’uomo all’ingresso e pretese che il padre lo
invitasse spesso a cena. Guido dal principio si mostrò restio, disse alla figlia che non voleva
mescolare il lavoro con la famiglia per non portare dentro casa le tensioni esterne. Poi
acconsentì, con malcelato dispiacere, in fondo lei avrebbe potuto tenere la contabilità. Luigi
trovò conforto in quel serio rapporto amoroso e riprese a giocare a beach volley con un’intensità
incredibile. Stimolato dalla nuova compagna, decise di organizzare un team ufficiale.
Un pomeriggio si presentò a lato del campo Gabriele.
- Tornato bel giovane? Gli disse in tono poco gentile, ricordandosi che non era riuscito a
partecipare ai funerali di Mosè.
- Sono uscito dall’esercito, mi sono congedato. Esclamò candidamente il giovane.
- Guarda che va via uno, parliamo mentre giochiamo, entra in campo. Il tono e il modo non
erano stati amichevoli, ma risoluto. Gabriele avvezzo all’esercito non comprese bene la
tensione che si era annidata nell’animo di Gigi.
- Sì, ma non sono molto bravo. Si giustificò un impacciato Gabriele.

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- Non sei nemmeno un gran fratello. Gli disse a bruciapelo Gigi, usando tutta la cattiveria del
caso, e continuò.
- Sai la gente torna per due motivi: o per morire o per l’eredità.
Gabriele allungò la mano per colpire Gigi, ma il gigante gli torse il braccio con una tal forza che
l’altro dovette buttarsi a terra per non farselo spezzare. Poi gli misurò un indice sul naso, come a
dire “bada bene”. Gabriele se ne andò pieno di rancore e si diresse alla casa di suo padre. Gigi
mise la mano ai fianchi e lo guardò allontanarsi senza proferire parola. Non voleva aggravare la
situazione, ma quello che gli aveva detto doveva essere detto. “Non si può far finta di nulla”
pensò. I giorni passavano e Luigi trascorreva con Isabella, buona parte delle sue giornate ai
campi da beach volley. Ora evitava di avvicinarsi alla casa degli Yaritzan poiché aveva in
antipatia Gabriele con il quale si era scontrato. Gli sembrava un usurpatore, aveva l’irrazionale
idea che fosse lui ad aver cacciato dal mondo Mosè. Arrivò a pensare che fosse quel bastardello,
con il suo egoismo, ad aver fatto ammalare Mosè.
Il venti di agosto mentre Luigi stava giocando, vide una famigliola, vestita in modo elegante,
avvicinarsi ai campi da gioco. Un uomo teneva in braccio una bambina e accompagnava una
donna che spingeva un passeggino a due posti. Non li riconobbe subito, ma gli parve strano
vedere delle persone così eleganti ai margini della sabbia di mare. Poi si sentì chiamare.
- Gigi! Gigi! Sono Verbena.
Gigi strabuzzò gli occhi. Non avrebbe mai potuto credere che la donna di Mosè si fosse già
accasata con un altro. Non la prese bene. Pensò che fosse una puttana, e rispose.
- Devo finire il set, ci vedremo un'altra volta. L’utilizzo del futuro indicava un appuntamento
così in là nel tempo che sicuramente non sarebbe mai avvenuto.
Verbena, capito il linguaggio liquidatorio, si schiarì la voce e disse.
- Vieni, devo mostrarti i figli di Mosè.
Gigi fermò il gioco, prendendo al volo la palla, e la schiacciò tra le mani, imprecando nella
propria mente contro sé stesso e si avvicinò. Gli altri giocatori lo guardarono, ma non dissero
nulla, in fondo la palla era la sua e con il gigante c’era poco da discutere.
L’uomo intervenne come per presentarsi
- Siamo come due vedovi, io ho una bambina di cinque anni lei due gemelli, abbiamo deciso
di unire le forze.
- Insegna ai bimbi che sono armeni. Gli rispose secco Gigi.
- Non vuoi sapere come si chiamano? Disse una mamma orgogliosa della scelta.
- Presentameli. Rispose Gigi che, inginocchiatosi quasi a chiedere scusa, guardava quelle
testoline muoversi sotto dei cappellini azzurri.
- Mosè e Luigi.
Gigi restò in silenzio a guardarli. Poi si avvicinò a lei e la strinse a sé. Verbena scomparve
nell’abbraccio di quell’uomo che la baciò sulla testa e le bisbigliò le ultime parole di Mosè. Poi
domandò.
- Perché sei tornata? Ti trasferisci a Lido?
- Ho creduto che Germano, il padre di Mosè avesse diritto di vederli.
Gigi annuì e approvò
- Ti fermi a Pellestrina?
- No, abbiamo venduto tutto; mia madre mi seguirà in Germania dove mio marito ha trovato
lavoro.
- Allora i piccoli vivranno tra i turchi? Disse lui con un tono di disapprovazione.
- No, staremo a Berlino un paio d’anni, quindi tornerò a Verona, la città dove sono nato. Disse
lui.
- Verona, Verona, la fatal Verona. Disse così perché Mosè aveva vissuto in quella città. Diede
la mano al marito di Verbena, un bacino ai due bambini e commosso rientrò a giocare, ma si
ricordò dell’agenda di Mosè.

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- Ho l’agenda che Mosè ha usato negli ultimi giorni della sua vita, penso che sia giusto che
l’abbia tu e che i bambini possano leggerla una volta grandi.
- Sicuramente. Rispose Verbena.
Gigi tornò a casa e le diede l’agenda, contento di restituirla ai figli di Mosè.
Il ventiquattro di agosto, anniversario della morte dell’amico, ricomparve Gabriele con un viso
così tirato che nessuno osava rivolgergli la parola. Entrò nel campo da pallavolo e pretese di
giocare contro Gigi, ma nessuno in quella squadra voleva cedergli il posto. Una ragazza, un po’
stanca, gli cedette il posto nel team di Gigi e lui fu costretto al turno in battuta nella stessa
squadra. La tensione era alta e il gigante gli dava le spalle senza girarsi, per non incontrarne lo
sguardo, in posizione d’attacco. Le forti mani del più giovane tremavano di rabbia, colpì la palla
e con essa la nuca di Gigi, il quale si voltò di scatto. Lo guardò feroce, ma ricordandosi dello
stesso sbaglio di Mosè, non proferì parola.
Si voltò verso gli avversari ai quali era stata consegnata la palla per la nuova battuta.
Senza guardare Gabriele, al quale dava le spalle, disse
- Io voglio solo vincere, quindi se vuoi rimanere, impegnati come tuo fratello, altrimenti esci dal
campo.
Ci fu silenzio. Gli avversari batterono una palla lunga che Gigi lasciò passare senza guardare
dove finisse e scommettendo sulla presenza di Gabriele.
Gabriele rispose in ricezione. Il centrale alzò e Gigi schiacciò così forte che per tutta la partita
rimase il buco nella sabbia. Si diedero il tocco di mano per la splendida azione come se nulla
fosse mai accaduto, come se tutto potesse iniziare di nuovo.
In quel momento Gigi capì che Gabriele aveva sostituito Mosè e da quel momento lo accolse
nella sua vita.

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