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Finché Notte Non Sia Più (Italian Edition)
Finché Notte Non Sia Più (Italian Edition)
è stabilita dopo il fatale incontro con un turista francese. Nel borgo, antico
come un aratro, sembra che il tempo non calchi mai la mano: campi coltivati
a orzo, frutteti per trarvi conserve e marmellate, forni a legna dove cuocere
il pane dal sapore acidulo del lievito madre, tutto sembra ubbidire a un
placido scorrere degli anni e delle ore.
Capelli biondo ruggine e, dipinta sul volto, la bellezza senza compromessi
della gioventù, Caterina ha lasciato Roma, con i suoi androni scrostati e le
strade chiassose, per sfuggire all’abbraccio soffocante di sua madre e trovare
la propria via nel mondo. Conclusi gli studi, ha raggiunto zia Liliana con la
prospettiva di un lavoro in un poliambulatorio e l’idea di dare una mano
nella conduzione del Liliane Coiffure, un lindo salone di parrucchiera dalle
poltroncine viola che la zia ha aperto in quel borgo nel sud della Francia.
Un giorno capita nel salone un vecchio signore con una massa scompigliata
di capelli e una mano tremante abbandonata lungo la gamba. Si è ferito alla
fronte nel tentativo di accorciarsi da solo i capelli, ed è in imbarazzo tra
quelle poltroncine viola, i vasi di ranuncoli e le riviste di moda impilate
negli angoli. Fuggirebbe, se non fosse per l’accoglienza che gli riserva
Caterina, che si prende subito cura di lui.
Come due anime che si sfiorano e si riconoscono, Caterina e Delio, il
vecchio signore, comprendono all’istante che il filo del destino li unisce. La
sera stessa la ragazza riempie una valigia e si stabilisce nel casolare accanto
alla casa di Delio. Il vecchio vive solo, circondato da una terra dura, con
malerbe che crescono ovunque e cumuli di sterpaglie affastellati lungo i
camminamenti dell’orto, quell’orto che sua moglie Teresa coltivava con cura
prima che la malattia se la portasse via. Caterina non tarda a capire che
un’altra mancanza grava sul cuore malandato del vecchio: Daniele, il figlio
che la foto sulla credenza raffigura come un giovane uomo prestante, coi
capelli un po’ lunghi e un’aria sfrontata, è assente da casa da più di quattro
anni. In paese, dove tutti parlano di lui e qualche ragazza lo nomina con il
rimpianto di una ex innamorata, si sussurra che una grave offesa l’abbia
spinto a rifiutare ogni contatto col padre.
Quando, però, dopo una caduta, Delio cede alla vecchiaia e si mette a letto
col volto scavato dalla stanchezza della vita, Daniele compare sull’uscio di
casa. E Caterina, tormentandosi una ciocca di capelli, lo accoglie con un
sorriso di disagio, il cuore impazzito.
Appassionante romanzo sull’educazione sentimentale di una giovane donna,
scritto con una prosa delicata capace di ritrarre magistralmente i moti più
profondi dell’animo, Finché notte non sia più costituisce una splendida
conferma del talento dell’autrice di Dentro c’è una strada per Parigi.
Novita Amadei è nata a Parma e vive in Francia. Lavora da anni nell’ambito
delle migrazioni internazionali e dell’asilo politico come ricercatrice,
formatrice e coordinatrice di progetti. Dentro c’è una strada per Parigi, il suo
romanzo d’esordio, è stato finalista alla prima edizione del Premio Letterario
Nazionale di Letteratura Neri Pozza. Il romanzo si è classificato anche fra i
finalisti dei premi Bottari Lattes Grinzane e Corrado Alvaro e ha vinto il
XXVIII premio Massarosa. Finché notte non sia più è il suo secondo romanzo.
I NARRATORI DELLE TAVOLE
DELLO STESSO AUTORE
Dentro c’è una strada per Parigi
NOVITA AMADEI
Emily Dickinson
I primi giorni di gennaio scorrevano nella geometria allungata degli inizi
d’anno. A Caterina sembravano particolarmente lenti in quel borgo della
campagna francese dove il rollio del tempo non calcava mai la mano. A
Roma sarebbe stato impossibile tanto vuoto, pensava osservando la strada
desolata. Della città conosceva bene il quartiere Monti, i fori e Trastevere,
androni scrostati e vie buie la sera ma sempre chiassose. Dei pochi musei
che aveva visitato con la scuola e dei parchi monumentali dove qualche
volta si era ritrovata a passeggiare conservava un ricordo di folla ed
eternità. Roma era caotica, ignota, cadente e civettuola, nulla aveva a che
fare con quel borgo, antico come un aratro, che lei conosceva da sempre ma
che non aveva mai veramente abitato e che le sembrava ora reale, ora
sogno, come un déjà-vu.
Il telefono squillò. Liliana andò a rispondere, fissò l’appuntamento per
una messa in piega, augurò buon anno e tornò nel retrobottega a
inventariare le rimanenze e a preparare gli ordini. Era un’incombenza che
non amava e dopo anni di lavoro temeva ancora di sbagliare. Liliana era
parrucchiera, come Gina, sua sorella, la madre di Caterina. Come lei aveva
la mano svelta e precisa, ma nient’altro di quel mestiere le accomunava, né i
rispettivi saloni né le loro chiacchiere. Anche le mode e le richieste dei
clienti erano diverse nel negozio di Gina, a Roma, e da Liliana, nel sud-ovest
della Francia. E lo erano loro. Rispetto a Liliana, per esempio, Gina eseguiva
l’inventario con grande scrupolo e segreta soddisfazione, anche se diceva
che l’affaticava. Lo diceva anche di Roma e di molto altro della sua vita. Le
pesava soprattutto l’incapacità di trovare i gesti e le parole per tenere unita
la famiglia. E la solitudine di non aver altri che loro, sua sorella, il marito e
una figlia, quella figlia che era rimasta per così poco sua.
«Non c’è anima viva oggi» commentò Liliana dal ripostiglio. «Vuol dire
che la piega resiste alle feste».
Caterina sorrise e appoggiò la fronte alla vetrina su cui stava scivolando
il panno nero della notte. L’alone del fiato si allargò e si ritirò. Le campane
della chiesa suonarono le cinque. Infilò il cappotto e disse a Liliana che
sarebbe uscita a prendere una boccata d’aria.
La settimana prima a Roma, a quell’ora, scendendo via dei Serpenti per
andare a salutare sua madre al salone, si era unita a un gruppo di visitatori
radunati nella piazzetta della Madonna dei Monti. Le piaceva, di tanto in
tanto, fermarsi ad ascoltare una guida, ma non le era mai capitato in quella
piazza, dove da piccola giocava sui gradini della fontana. «La chiesa di Santa
Maria dei Monti è stata costruita su un antico monastero di clarisse poi
destinato ad abitazioni private» aveva spiegato la guida, una ragazza della
sua età, probabilmente fresca di studi come lei. «Si dice che un giorno di
aprile, nel 1579, mentre alcuni operai stavano demolendo il muro di un
fienile, la terra iniziò a tremare e una voce pregò di non far male al
bambino. I muratori, allora, tolsero i mattoni con le mani, a uno a uno, e
scoprirono un affresco della Vergine con il Bambino». Non raccontava,
recitava, con le pause e l’enfasi degli attori teatrali. «La notizia,
naturalmente, si sparse per tutta Roma richiamando molta gente, fra cui una
donna cieca che, di fronte all’immagine sacra, riacquistò la vista. Il ripetersi
delle guarigioni e dei miracoli, le elemosine raccolte tra i fedeli e la gran
folla che ogni giorno si accalcava al fienile convinsero papa Gregorio XIII a
dare l’assenso per la costruzione di una chiesa». La ragazza era passata
oltre, seguita dal gruppo di turisti, Caterina invece era entrata in chiesa a
osservare l’affresco che non vedeva da anni. La Madonna, seduta in trono,
teneva sulle ginocchia il Bambino con i piedi scalzi e il capo riccio ornato da
una corona ardente. La pelle candida della Vergine contrastava con la tunica
cobalto punteggiata di stelle, l’espressione assorta e il gesto con cui si
rivolgeva al figlio avevano una grazia soprannaturale. Caterina aveva
attraversato la navata laterale. I ceri accesi sotto dipinti di Cristi d’oro e
l’altare di fresie bianche offrivano una visione di dolore e magnificenza
insieme. Aveva lasciato un’offerta e preso una cartolina della Madonna con
il Bambino per sua mamma, che negli ultimi anni era diventata più devota.
Gina l’aveva gradita molto e a sua volta aveva tirato fuori dal portafoglio
un santino dai bordi smangiati: «San Camillo de Lellis, santo dei malati e
degli infermieri» aveva recitato. «C’è chi dice che sia sant’Irene la
protettrice delle infermiere, ma don Luca mi ha detto che è san Camillo».
«Lo tenevi nel portafoglio per me?» aveva domandato Caterina con stupore
e tenerezza. «Per papà e me ho santa Maria Maddalena, patrona delle
parrucchiere, delle pedicure e degli idraulici. Abbiamo la stessa santa. Buffo,
no?» Caterina si era chiesta quando sua madre avesse cominciato ad aderire
alla fede popolare dei santi, se anche suo padre la condivideva o se andava
da sola dal parroco, dopo la messa, a chiedere ragguagli su patroni, beati e
protettori. Aveva messo il santino in borsa per non offenderla e per
scaramanzia. O forse perché stava andando via. Quelli a ridosso della
partenza erano stati giorni di insolita intimità ed erano passati in un attimo,
senza presente.
Attraversò i vicoli del borgo raccolti nel buio e fu sorpresa di trovare il
Café de la gare pieno di gente. Sedette al bancone e chiese un cappuccino.
L’uomo accanto a lei ordinò un altro pastis. Il barista servì prima l’uno poi
l’altra, assolvendo con alcol e latte peccati che nemmeno conosceva. L’uomo
sfogliava il quotidiano locale bofonchiando che i giornali non davano un
buon esempio e che non c’era motivo di scrivere male quando si poteva
scrivere in modo corretto. Si schiarì la voce, chiese al barista una biro e
cominciò a segnare gli errori dell’articolo che aveva sotto gli occhi. Poi gettò
sprezzante la penna sul bancone e bevve. «La grammatica non le dà pace,
eh, professore?» scherzò il barista recuperando la biro e andando via senza
dargli il tempo di controbattere.
Era facile indovinare che si trattava di un professore in pensione, più che
per il tono pedante, per l’affetto compulsivo che mostrava per la lingua. Era
così anche la sua professoressa di francese del liceo, pensò Caterina. «Non
rinunciate alla lingua!» li aveva ammoniti quella volta che aveva trovato
incisa su un banco la frase: “Sei il mio tesò, il mio ammò, n’bijoux”. «Non è
sbagliato, prof, è romanesco» aveva obiettato un ragazzo. «Bijou va al
singolare, asino!» Si erano alzate risate fra i banchi. «La lingua è la vostra
provenienza, la vostra casa. Non avete niente di più intimo e prezioso: non
umiliatela, soprattutto quando decidete di renderla oscenamente pubblica».
«Trova osceno un messaggio d’amore, prof?» aveva rimbeccato lo studente.
«Trovo osceno deturpare un banco con errori grammaticali. Aggiungete ai
compiti per la prossima volta una pagina di frasi d’amore, in francese
ovviamente. Non scopiazzatele da Internet, non scrivete banalità e non
infilateci errori, le frasi d’amore non li ammettono». La fedeltà alla lingua
era un argomento a lei caro che tirava in ballo in ogni occasione, in
particolare quando si ritrovava a parlare di libertà nazionali: «Le dittature si
manifestano innanzitutto con l’imposizione della lingua del tiranno su
quella del popolo, perché la lingua è veicolo di pensieri, affetti, memorie. È
fondamentale che ne facciate tesoro, per la vostra identità e la vostra
civiltà». Concludeva quei monologhi sempre con le stesse esortazioni, che
nessuno capiva. Avrebbero capito poi, diceva, magari dopo venti o
trent’anni, magari solo alcuni di loro, ma anche se fosse stato uno soltanto,
non avrebbe parlato invano.
«Mi scusi» Caterina si rivolse al professore. Dovette toccargli un braccio
per avere la sua attenzione. «Non sono francese e mi piacerebbe fare
conversazione con un madrelingua. Lei dà lezioni private?»
«No» rispose e solo allora sembrò accorgersi di lei. La fissò in silenzio per
un lungo momento.
Per divincolarsi dal suo sguardo Caterina raccolse con il cucchiaino la
schiuma del cappuccino rimasta sul bordo della tazza e cercò le monete nel
portafoglio.
«Non sono bravo a conversare, tendo a fare lezione» le disse prima che
lei se ne andasse.
«Mi va bene lo stesso».
«Venga di venerdì, nel tardo pomeriggio e porti una frase. Partiremo ogni
volta da lì». E le appuntò l’indirizzo su un sottobicchiere.
Caterina corse al salone a dire alla zia che aveva appena trovato un corso
privato di francese. La sua eccitazione contagiò anche Liliana, anche se non
ne capiva il motivo, e spiegò alla nipote che l’uomo incontrato al caffè era il
professor Marthelot. Da quando il barbiere del paese aveva chiuso, di tanto
in tanto andava in negozio da lei. Era una persona taciturna e schiva.
Dicevano che aveva lasciato una carriera ben avviata in un’università di
Parigi e si era trasferito in provincia per una donna, un amore tardivo e
infelice. Si erano separati alcuni mesi dopo il matrimonio, ma lui era rimasto
lì a insegnare lingua e letteratura francese nei licei.
Mentre parlava, Liliana fece cenno a Caterina di sedersi al lavandino e
iniziò a lavarle i capelli riferendole i pettegolezzi che passavano per il
salone, poche frasi per vite intere, tutte bianche o solo nere. Caterina non
ascoltava, cercava la frase da portare alla prima lezione e passava in
rassegna il programma di letteratura francese del liceo e le letture indicate
dalla sua prof.
Al biennio, Antonietta Ruggero era una professoressa agguerrita e
brillante. Dalla terza liceo, invece, per motivi che non si erano mai venuti a
sapere, aveva avuto i primi ricoveri per depressione. Quando ritornava in
classe, sembrava quella di sempre, ma aveva lo sguardo fisso, la pelle opaca
e il carattere meno combattivo. Il portamento era incerto, il cappotto
abbottonato storto e il carré trascurato. Di lei si sapeva poco, aveva
cinquant’anni, viveva da sola dalle parti della tangenziale est ed era quel
genere d’insegnante che non amava essere contraddetta. In quarta, si diceva
che durante le vacanze di Pasqua avesse tentato il suicidio gettandosi dalla
finestra, nell’autunno della quinta, si era assentata definitivamente. Caterina
doveva a lei la passione per la letteratura francese e per quella frangetta, alla
francese appunto, che si era tagliata così corta da sembrare una caricatura,
ma, soprattutto, doveva a lei quel minimo di coraggio e autostima che era
riuscita a tirare fuori. «Qualunque forma prenderà la vostra vita, siatene
fieri e fate in modo che sia motivo di orgoglio anche per gli altri. Allora
saprete di non aver sbagliato». Caterina aveva capito che quella frase era il
suo saluto e che non l’avrebbe più rivista. L’aveva rincorsa fuori dalla scuola
e le aveva chiesto qual era la sua frase d’amore preferita. «“Amare è una
malasorte contro cui, come nelle favole, nulla si può finché l’incantesimo
non sia cessato”. Proust».
Liliana le massaggiava la testa e il tocco fermo e delicato la allontanò
poco alla volta da quel ricordo. Aveva la stessa mano di sua mamma. Ci
sono sorelle che si assomigliano nel carattere o nella voce, loro si
assomigliavano nella punta delle dita. Liliana le tamponò i capelli con una
spugna e la fece sedere davanti allo specchio. «Ti stai facendo crescere la
frangia, vero? Allora, se vuoi, te la lascio piena sul davanti e scalo un po’ i
lati. Come Brigitte Bardot» propose allegra e spostò qualche ciocca per darle
un’idea dell’effetto finale. La guardò nello specchio. Con i suoi capelli
biondo ruggine, Caterina era di una bellezza senza compromessi, talmente
perfetta che per un attimo ebbe paura che potesse succederle qualcosa.
Le luci del tramonto duravano ancora in lontananza, il giardino invece era
già buio. Liliana, dalla finestra, fissava i rami scuri delle piante. La nostalgia,
con il tempo, era diventata un’abitudine cara, che tornava, la sera, come una
madre dal lavoro, senza mostrarsi mai di faccia, in un silenzio denso
d’immagini. Liliana attendeva che l’occhio si abituasse all’oscurità e quando
cominciava a distinguere l’ombra delle rose rampicanti chiamava sua
sorella.
Gina aspettava con il telefono in mano, la faccia stanca, bagnata
dall’insegna al neon della lavanderia di fronte. Dalla cucina, nei rari istanti
di silenzio che possono cadere su Roma, riusciva ancora a sentire l’acqua
della fontana in fondo alla via, nella piazzetta dove lei e Liliana giocavano
da bambine. Via della Madonna dei Monti è una strada stretta e scomoda,
solo i motorini la attraversano a una velocità assurda. Liliana li sentiva
correre dietro la voce della sorella e anche di quelli, ogni tanto, provava
nostalgia, ma solo la domenica sera, quando la schiuma dei ricordi che
vanno e vengono lascia una traccia.
«Ciao. Cosa stavi facendo?»
«Indovina... Aspettavo la tua telefonata». Il tono era ingiustamente duro.
Liliana sospirò, poi disse, debolmente: «Mi chiedo se a volte preferiresti
che non telefonassi».
Gina non rispose. In strada, un cane pisciava contro il muro, i tacchi di
una donna risuonarono lungo la via.
«Dai, rispondimi» la esortò con delicatezza.
«Sì, a volte mi pesa, perché non ho niente da dirti ma tu chiami lo
stesso».
«Neanch’io, sai? Devo forzarmi a telefonare e non è che non ho niente da
dire in genere, non ho niente da dire a te. Ma penso sia normale e
continuerò finché sarò talmente vecchia da non riuscire più a usare il
telefono».
«Perché?» Gina si trattenne dall’alzare la voce. «Perché avremo sempre
Caterina di cui preoccuparci, di cui parlare? Sono più di vent’anni che
parliamo di lei!» C’era del rancore nella sua voce. Capitava di rado che lo
mostrasse, ma quel rancore Gina lo covava da tempo. Quando Caterina era
piccola e giocava sul pavimento del negozio ad avvitare e svitare i tappi dei
flaconi vuoti dello shampoo, la sentiva sua. Poi – non avrebbe saputo dire
quando – era diventata avulsa da lei e il suo amore per la figlia si era fatto
maldestro. La stessa cosa era successa con Liliana che, quando aveva
lasciato Roma, da sorella, gemella quasi, era diventata un’estranea e l’affetto
che la legava a lei un’incombenza. «Allora? Perché?» riprese. «Perché
continuerai a chiamare?»
«Perché la domenica sera, dal muro fradicio del giardino, sale il profumo
delle rose, anche adesso che non sono in fiore. È lo stesso profumo che a
Monti entrava dalla finestra della nostra camera, quando da bambine ci
addormentavamo nello stesso letto recitando il Padre nostro. Sarà la
nostalgia, non so, so solo che non fa male a nessuno. Esiste e basta».
Il nuovo ristorante era simile a tutti gli altri che frequentavano, quattro
tavolini addossati al muro e il bancone con i piatti che prendeva l’altra metà
del locale, ma avendo appena aperto, il bagno era pulito e i muri non ancora
unti. Un quadro delle cascate del Niagara, sopra la cassa, emetteva cinguettii
elettronici mentre l’acqua si colorava di rosa, arancione e giallo. Il filo
elettrico usciva dalla cornice ed entrava in una presa multipla a terra. Una
donna stendeva dischi di pane su un ripiano infarinato mentre il marito
grigliava gli spiedini.
«Cos’ha di speciale questo posto?» chiese Daniele mettendosi al tavolo
che gli indicava Amir.
«Una ragazza. L’altra sera, quando eri fuori a suonare, facevo un giro da
queste parti e ho visto che avevano aperto questo ristorante. Butto un
occhio dentro e a quel tavolo... Quello lì, vedi? C’era una ragazza bellissima,
bruna, con la pelle di seta...»
«Foulard?»
«Foulard. E occhi chiari incantevoli, le labbra sembravano disegnate tanto
erano perfette. Era sola. Probabilmente aspettava un’amica, perché non si va
in giro da sole così. Sono entrato e mi sono seduto qui, dove siamo noi ora, e
non c’era nessuno ai tavolini in mezzo, così eravamo praticamente l’uno di
fronte all’altra ed era quasi imbarazzante. Beveva tè alla menta, aveva preso
anche un dolce, una baklava, credo. Cercavo di non fissarla ma era
impossibile. Lei, però, è stata gentile, ha abbassato gli occhi e ha lasciato che
la guardassi. È venuta la signora a chiedermi cosa volevo. Niente, non
volevo niente, solo stare lì a contemplare la mia regina. “Le porto un
assortimento di mezzé?” mi fa la donna. “Sì”. “E da bere?” “Un tè alla
menta”. Ho ricominciato a osservarla, ma per non sembrare insistente, ho
fatto finta di telefonare, così mentre parlavo mi guardavo attorno e potevo
adocchiare anche lei».
«E con chi facevi finta di parlare?»
«Con te, ma ti parlavo in arabo».
«Ah sì? E cosa mi dicevi?»
«Un sacco di cose... Dicevo no, sì, ridevo anche, ti davo dello stronzo...»
«Come si dice stronzo in arabo?»
«اﻷﺣﻤﻖ. Poi ho sorriso in un modo che non si capiva se mi rivolgevo a lei
o a te al telefono, e lei, mordendo l’ultimo pezzetto di dolce, ha sorriso a sua
volta. Allora ho continuato a parlare e a ridere, un perfetto attore, avresti
dovuto vedere! Finché, a un certo punto, il telefono ha suonato davvero!»
Daniele scoppiò a ridere.
«Volevo scomparire dalla faccia della terra!»
«E lei?»
«Lei sorrideva, non poteva trattenersi, e se n’è andata nascondendo il
sorriso dietro la mano».
«Non le hai chiesto il numero di telefono?»
«E con che faccia?»
La signora, da dietro il banco, domandò se avevano scelto e Daniele, per
cominciare, ordinò un assortimento di mezzé e due lattine di Coca-Cola.
«Le mie storie d’amore finiscono ancora prima dello scambio dei numeri
di telefono. Due anni fa, quando sono tornato a casa per le vacanze, era la
fine del Ramadan. Andiamo in giro a festeggiare, la notte è appena
cominciata e sono tutti fuori, arrivano amici e amici di amici e nel gruppo
c’è una ragazza super carina, più giovane di me, la conoscevo di vista, ma
era da un po’ che non la vedevo. Mi dicono che non è fidanzata, mi avvicino
con discrezione, parliamo, le racconto un sacco di cose. Parigi è il mio
cavallo di battaglia. Intanto ci scostiamo dagli altri e rimaniamo un bel
pezzo così, soli al mondo, finché le sue amiche la chiamano per tornare a
casa. Prima di partire mi chiede il numero di telefono e – bang! – corto
circuito, vuoto assoluto, nessuna idea di quale potesse essere il mio numero
tunisino. Cerco il cellulare nell’ansia più completa, non ce l’ho, devo averlo
dimenticato a casa o da qualcuno, ma non posso lasciarla così e le do il
numero di casa, il solo che conosco a memoria, a parte quelli di emergenza.
Mia madre non ha mai capito perché abbia passato il resto delle vacanze
chiuso in casa...»
La signora portò i coperti e le bibite. «Mette di buon umore vedervi,
ragazzi» disse. «Siete così allegri!»
«Si sbaglia» rispose Amir. «Parliamo di pene d’amore».
«Fate proprio bene, allora, a riderci su! Continuate finché potete!» Era
una donna ben messa, indossava un pastrano color cammello e un foulard
leopardato che le fasciava la testa. Parlava un francese essenziale ma
corretto e negli occhi aveva l’espressione di una bambina che ha combinato
un danno e sa che non verrà punita.
Daniele aspettò che si allontanasse. «Ho una cosa da dirti». Si fece serio.
«Da qualche mese sono entrato a far parte dell’unione sindacale di Rungis».
Amir gli lanciò un’occhiata guardinga e cominciò a tormentare la
linguetta della Coca mentre Daniele gli spiegava che l’unione sindacale
riunisce tutte le organizzazioni professionali che rappresentano i diversi
settori del mercato – frutta e verdura, fiori, carni, pollame e selvaggina, la
pescheria, le società di servizi – e che in quel momento erano in corso delle
discussioni su certi provvedimenti importanti che riguardavano il contratto
collettivo dei commerci all’ingrosso.
Amir lo interruppe: «Sono bravo, adesso. Quando bisogna trattare le
commissioni di ristoranti un po’ importanti, li danno a me perché taglio i
filetti della grammatura esatta richiesta dagli chef e li faccio tutti uguali. Mi
passano le ordinazioni di Le Grand Café Capucines o Le Pergolèse nel
sedicesimo. Sono stelle Michelin, ora so cosa vuol dire. E poi sono svelto, il
più svelto, lì dentro». E concluse: «Il mio lavoro mi va bene così. Non voglio
casini. E non voglio parlarne più».
«Non ti sto chiedendo d’iscriverti, vorrei solo che accettassi serenamente
il fatto che ne faccio parte e questo non fa di me un traditore o una spia.
Anche perché il principio del sindacato non è metterti i bastoni fra le ruote,
ma proteggere i tuoi diritti».
«Mio padre diceva che erano dei maneggioni, i sindacati, e non aveva
torto. Quando mio fratello ha avuto l’incidente non abbiamo ricevuto niente
di quello che ci avevano promesso. Il mio posto al Pavillon de la Marée me
l’ha trovato lui, mio fratello, e non ho niente di cui lamentarmi. È molto
difficile da capire?»
«Cercare di tutelare i propri interessi è contro la famiglia? Tuo fratello ti
manderebbe il malocchio, tua madre ti ripudierebbe? Non faresti torto a
nessuno, Amir, né a loro né a te. Sto parlando di diritto comune, di
condizioni di lavoro e garanzie sociali. Ti sei mai posto il problema degli
effetti del freddo e del lavoro notturno sulla tua salute?»
«Basta! Stai dicendo delle stronzate! Come cazzo fai a trattare il pesce in
un ambiente caldo o a lavorarlo a mezzogiorno, se a mezzogiorno deve
essere nel piatto dei clienti? Ci hanno tenuto alcuni corsi di formazione
sulla logistica del prodotto deperibile, la catena del freddo e via dicendo.
Non ci sono mille soluzioni!»
«Dove sono i due simpatici ragazzi che erano seduti qui un attimo fa?» li
interruppe la signora appoggiando sul tavolino le mezzé e un cestino di pita
calde.
Iniziarono a mangiare senza dirsi più niente.
Fu Amir il primo a mollare, quella volta. Non amava covare rancore a
tavola, era convinto che non si digeriva bene. Prese a citargli alcuni fatti
della vita di Miles Davis e a tempestarlo di domande finché Daniele non si
decise a rispondergli e a parlargli delle varie correnti del jazz, delle influenze
che un artista aveva avuto su un altro, della fine di una band o di un pezzo
che aveva segnato un’epoca. Amir l’aveva ascoltato suonare un milione di
volte ma non l’aveva mai sentito parlare di musica e rimase impressionato
dalla quantità di cose che sapeva. Daniele nominava quei musicisti come se
li avesse conosciuti di persona, con un’ammirazione che non aveva pari.
Andarono avanti per un pezzo, ordinarono due lahmacun di manzo che la
donna fece al momento e servì caldi e piccanti come piacevano a loro.
«Quand’è che hai iniziato a suonare?»
«Mio nonno era trombettista nella banda del paese. Ho imparato
ascoltandolo. Mi portava con sé fin da piccolo, tanto che quando mi ha
messo in mano la tromba sapevo già come tenerla. Per i miei cinque anni mi
ha regalato la mia prima tromba e a partire da quel giorno mi ha insegnato a
posizionare le labbra e a tirare fuori il fiato. Per un anno non ho fatto altro
che scale, poi mi ha permesso di suonare i primi pezzi».
«Suonavate jazz?»
«No! Quella di mio nonno era una banda di paese, un piccolo paese
italiano dove neanche ora sanno cos’è il jazz. Il jazz l’ho scoperto dopo, alle
superiori, qui in Francia. Con alcuni compagni di scuola avevamo formato
una fanfara, ci eravamo fatti conoscere nella zona suonando per strada e ai
mercati, poi hanno cominciato a chiamarci per le feste, i matrimoni...
All’inizio facevamo il jazz classico, di New Orleans, poi, poco alla volta,
abbiamo diversificato il repertorio, folk, punk, rock...»
«Senza discriminazioni».
«Solo quelle essenziali. Ci ritrovavamo al bar, il Café de la gare,
decidevamo insieme i pezzi da inserire nel repertorio e dovevamo esserne
convinti tutti, era l’unica condizione. A volte le discussioni s’infervoravano
tanto che sembrava un dibattito politico, invece era Hotel California. I vecchi
che giocavano a carte ai tavoli vicini scuotevano la testa, credevano fosse il
nostro modo di ammazzare il tempo. Non capivano che era l’unico modo
che avevamo per sentirci vivi».
«Tuo nonno doveva essere fiero della tua band».
«Non mi ha mai sentito suonare con loro. Allora non vivevo più in Italia.
I miei avevano deciso di riprendermi con loro in Francia. Lo devono al
gruppo se non sono scappato per tornare dai nonni».
«E ora, quando suoni al Comptoir Jazz, non ti piace?»
«Non molto, i musicisti cambiano in continuazione, non si crea nessuna
complicità. Spesso sono io il primo a dare forfait. La fanfara era un’altra
cosa, nella musica condividevamo tutto, era il nostro spirito a suonare, lo
spirito dei nostri sedici anni. Era energia, divertimento allo stato puro».
Pagarono all’uomo alla cassa. La signora, di nuovo occupata a stendere
dischi di pane, li salutò facendosi promettere di non collezionare altre pene
d’amore.
«Inshallah» rispose Amir.
«Inshallah» gli fece eco lei.
Senza bisogno di consultarsi andarono a prendere Jolly, lo scooter di
Amir. Lo chiamavano così quando lo usavano per andare in giro per la città,
altrimenti era solo “lo scooter”. «Jolly Jumper è il cavallo di Lucky Luke e
Lucky Luke è un cowboy solitario» aveva parafrasato Daniele ad Amir. E lo
prendeva in giro: «Mi chiedo che infanzia è stata la tua senza Lucky Luke».
«La stessa della tua senza...» Non gli era venuto in mente nessun cartone
animato, solo la fiumana di bambini scalzi che correva dietro al pallone e la
polvere che si alzava dal terreno. Daniele aveva scaricato da Internet tutte le
serie di Lucky Luke che avevano guardato una dopo l’altra sul divano
mangiando noodles ai gamberetti. Alla fine di ogni puntata Amir andava in
camera fingendo di cavalcare contro il sole che tramontava, si toglieva il
cappello e salutava Daniele recitando: «Je suis un pauvre cow-boy solitaire et
bien loin de ma maison». «Fin» rispondeva lui e in questo modo si erano dati
la buonanotte per mesi.
In sella allo scooter finivano per sentirsi davvero dei cowboy solitari e, in
qualche modo, lo erano. Qualunque direzione prendessero si ritrovavano
sempre da “quella puttana della Tour Eiffel”, come la chiamava Amir. La
sera luccicava di mille paillettes e loro la contemplavano ogni volta come
fosse la prima. «Quando la guardo mi sembra di non aver più paura di
niente» aveva detto Amir una sera. «E di cosa dovresti aver paura?» «Di
tutto». «Perché?» Amir non aveva risposto. Daniele aveva pensato al mare
di Framura, quando nuotava al largo, l’acqua azzurra, buia in profondità,
acqua ovunque e il respiro degli abissi. E là in mezzo, lontano da tutto,
poteva succedere qualsiasi cosa. Per Amir doveva essere lo stesso, si era
detto, la paura non aveva bisogno di motivi, era dappertutto, in quella sua
vita al largo.
Si fermarono su una panchina sul Pont des Arts. La Senna era nera, la
Tour Eiffel scintillante e la gente passava davanti a loro come in un provino.
Era tardi quando tornarono a casa, entrarono ciascuno nella propria
camera senza salutarsi.
«Ehi, il tuo sindacato sarebbe capace di raddoppiarmi il salario?» gli
gridò a un certo punto Amir dal letto. Quella faccenda gli era rimasta in
testa come una spina.
«Come no? Basta chiedere! Perché, cosa ci faresti con un salario in più?»
«Ci stavo pensando».
«Andremo alla Mecca».
«’Fanculo! Questo è poco ma è sicuro!»
Daniele sorrise e si girò dall’altra parte.
«Mate?» gridò Amir dopo un po’.
«Che c’è?»
«Sai cosa ci faccio con quei soldi? Mi compro una macchina. Non
un’utilitaria del cazzo, una BMW, musica a palla e torno a casa!»
«Sì, bravo. Un coupé di grossa cilindrata, alettoni e cerchi cromati, così
centri in pieno il cliché dell’emigrante magrebino».
«E perché no?»
«Già... Perché no?»
Tornò il silenzio.
«No, mate, hai ragione tu: usciamo dal cliché. Ma senza rinunciare al
macchinone».
«Come fai allora?»
«Con la musica: a palla ci metto Miles Davis!»
E risero fino a perdere il sonno.
Per due volte il professore non rispose al citofono e Caterina, dando prova
di un orgoglio di cui non si credeva capace, decise di non andare più. Fu
Liliana, con sorpresa della nipote, a insistere che riprovasse e il venerdì
dopo riprovò.
La accolse in un completo blu che la mise in soggezione, le chiese la frase
e Caterina tirò fuori dalla tasca del cappotto cinque pezzetti di carta, li
spiegò sulla scrivania e gliene porse uno: «Questo è quello di oggi».
Lui prese anche gli altri e li lesse uno alla volta.
La calligrafia era precisa e la frase centrata nel foglio, come se la ragazza
avesse fatto delle brutte copie prima di arrivare a quel risultato. Erano
citazioni che riportavano in parentesi l’autore e l’opera da cui erano tratte.
Caterina doveva aver pensato che se la frase in sé non avesse detto niente al
professore, il libro o lo scrittore avrebbero potuto essere uno spunto. Lui
intuì quell’attenzione e ricordò che a scuola c’erano studenti che si
prendevano cura dei professori che mostravano segni di cedimento,
evitando di vessarli ripetutamente, per esempio, o accettando di fare i
compiti e magari di farli con un minimo di attenzione.
Spostò su un lato della scrivania i foglietti delle lezioni passate e declamò
la frase di quel pomeriggio. Poi, per un gioco di associazioni sconosciute,
tenne un discorso appassionante e disperato sulla morte del romanzo. La
volta precedente, decine di autori, case e oggetti di tutti i giorni
traboccavano di narrazioni e diventavano la letteratura di un paese, quel
venerdì, invece, il romanzo finì. In mezzo erano passati la guerra e il
collaborazionismo e la scrittura era diventata refrattaria, incapace di riferirsi
al reale. «Nessun testamento ha guidato la successione, non abbiamo
ricevuto alcun mandato, alcuna consegna, non sappiamo nemmeno quale
eredità rivendicare se non quella della parola vuota».
Cadde il silenzio e s’infranse sulla scrivania a cui si stringevano entrambi
come a una boa. Il professore si appoggiò allo schienale della sedia e
Caterina si figurò il suono della parola vuota, lo stesso che rimane dentro al
bicchiere di cristallo quando si passa il dito bagnato sul bordo, e si chiese
perché bisogna sempre considerarsi generati dal passato quando ci si
potrebbe sentire figli dell’avvenire.
Aveva parcheggiato davanti a Liliane Coiffure per controllare che il salone
fosse frequentato anche da una clientela maschile. Conosceva il paese come
le sue tasche ma non aveva mai fatto caso a quel negozio. Il lunedì era
giorno di chiusura settimanale, com’era indicato nell’orario affisso sulla
porta. Il poster di una ragazza castana occupava buona parte della vetrina e
a fianco, su un treppiede, erano in mostra i prodotti della pubblicità. Delio
sbirciò all’interno. Nell’angolo in fondo, accanto ai caschi asciugacapelli, si
alzava una pila di riviste e alle pareti erano appese fotografie di modelle
variamente acconciate. Le poltroncine all’ingresso erano viola e sul bancone
spiccava un vaso di ranuncoli colorati.
Andò a fare la spesa al supermercato di fronte e, anche se conosceva la
risposta, domandò alla cassiera se in paese c’erano barbieri. Lei gli indicò
Liliane Coiffure, di là dalla strada: «È unisex» disse.
«Sono brave, sa?» s’intromise la signora in fila dietro di lui salutandolo.
Si conoscevano di vista, come tutti. «Uomini e bambini possono presentarsi
senza appuntamento. Ci ho portato mia nipote la scorsa settimana, doveva
solo spuntare la frangia, ma l’hanno fatto subito, in cinque minuti. Sono
svelte, tutt’e due. Anche la ragazza è dotata e molto discreta. Ma è una
dipendente?»
«Non credo, c’è solo di tanto in tanto» rispose la cassiera.
«Dev’essere un’apprendista, allora. Da dove viene?»
«È italiana. Come Liliane. Ho sentito dire che è sua nipote».
«Liliane è italiana?» le interruppe Delio.
Infilò la spesa nei sacchetti e pagò. Caricò tutto quanto nel baule e
proseguì. Passò dal ferramenta, dal macellaio e al vivaio, che però trovò
chiuso. «Niente piantine, Ramingo, avevo dimenticato che il lunedì la serra
fa apertura pomeridiana» disse scocciato, rimettendosi al volante. «Mi dici a
cosa serve chiudere di lunedì mattina? Allora, tanto vale chiudere tutto il
giorno!» Sul retro del furgoncino c’era la coperta di lana sdrucita, ma il cane
era rimasto a casa. Quando vide l’auto entrare nel vialetto si alzò e andò
incontro al padrone per un residuo d’istinto canino che persisteva
nonostante la pigrizia, l’età e i malanni. Delio si accorse solo allora di non
averlo portato con sé e scaricando la spesa, gli riassunse l’esito della
mattinata: «Dobbiamo tornare dal ferramenta perché non avevano la
fascetta d’acciaio della misura che serve a me, al vivaio, che il lunedì
mattina è chiuso, e dal benzinaio perché ho dimenticato di riempire la tanica
per il trattorino. In sostanza, l’uscita di oggi non è servita a niente, se non
per la spesa. Vorrà dire che ci mangeremo una bella bistecca, in macelleria
ci sono andato, e dopo pranzo andremo a fare un giro al canale. Che ne
dici?»
Nelle belle giornate d’inverno, quando i campi davano meno lavoro, lui e
Teresa passeggiavano sull’argine, di chiusa in chiusa. Erano i posti in cui
Daniele si avventurava da bambino a raccogliere tesori nel suo sacchetto di
stoffa. Non ci erano mai stati tutti e tre insieme. Andava con Ramingo, ora,
e il cane gli camminava talmente vicino che Delio rischiava d’inciampare.
Lo sgridò, ma quello non si allontanava, come se temesse che, scostandosi
un po’, una distanza incolmabile potesse introdursi fra loro e separarli per
sempre. Delio gli agganciò il guinzaglio al collare, lo prendeva raramente,
ma quella volta era stato un bene, l’animale ne fu immediatamente
rassicurato. Da tempo, ormai, il cane non correva, non saltava, le
articolazioni si erano irrigidite, gli occhi non vedevano quasi più e vagavano
rassegnati. Davanti a un dislivello minimo del terreno o a un intralcio
qualsiasi si bloccava e procedeva con grande cautela, oppure aspettava che il
padrone andasse in suo soccorso.
«Una cinciarella! Guarda che bella, Ramingo!» gridò Delio indicandogli
un uccellino dalla livrea blu cobalto e zolfo che salterellava sul ramo basso
di un platano. Notò che a una zampa mancava un dito. Chissà come si
ferivano gli uccelli e dove andavano a morire, si chiese. Un colpo di vento
scrollò il ramo e la cinciarella volò via. «Cinciarella... Cinciarella...» chiamò
lui. Udì il suo verso cristallino, ma non la rivide. Cinciarella era il nome
italiano, non conosceva il corrispondente francese. Era una bella parola e la
ripeté, cinciarella. Il suono gli schiumò nella bocca. Cinciarella, aroma,
sonnellino, battibecco, magnolia... Era così dolce quella lingua, ormai non la
parlava più con nessuno, nemmeno con suo figlio.
Gli uccelli avevano sempre avuto nomi italiani per lui e Teresa, come
un’infinità di altri animali, erbe e fiori che avevano conosciuto da bambini e
che non avevano avuto bisogno di tradurre. Teresa, poi, non aveva mai
veramente imparato il francese, lo parlava che sembrava parlasse italiano.
Daniele la correggeva e, se gli altri non la capivano, traduceva per loro.
«Conosce tre lingue» diceva di lui Teresa. «L’italiano, il francese e il
francese di sua madre, che è una lingua à part entière». I primi tempi,
appena arrivata, andava a fare conversazione con una vecchietta del paese,
per impratichirsi un po’. Non si era accorta che l’anziana non c’era del tutto
con la testa e attribuiva le incomprensioni a un problema di lingue. Le frasi
più banali diventavano fonte di equivoci. Se Teresa, per esempio, voleva
sapere come si diceva “domanda” in francese e con il dito le disegnava in
aria un punto interrogativo, la vecchietta rispondeva: «Dito». Ma Teresa
sapeva che “dito” era qualcos’altro e per accertarsene le chiedeva: «E cos’è il
contrario?» rifacendo il segno del punto interrogativo. La vecchia ci
pensava: «Il contrario?... La mano». Tante volte ridevano e la conversazione
spesso si trasformava in un rebus senza soluzione. Teresa diceva con
rammarico di non sognare in francese ma di sognare il francese, come si
sogna un vestito o una casa, tuttavia si era sempre impegnata affinché
quella lingua straniera non intralciasse la sua lingua materna.
Delio arrivò all’argine in corrispondenza della chiusa. L’erba del
terrapieno aveva le tinte dell’inverno, i tronchi dei platani mostravano
croste più scure e i rami si piegavano sulla superficie immobile dell’acqua.
Camminò verso la chiusa successiva, ma più procedeva più si sentiva a
disagio, da solo, perso in mezzo alla natura. Strattonò Ramingo e tornò
indietro affrettando il passo, quasi correndo. Aprì la porta di casa e si lasciò
cadere in poltrona senza nemmeno levarsi il giaccone. Aspettò che l’affanno
passasse, guardò la mano frenetica sulla gamba e si rialzò. Fece il bucato,
spazzò e si accasciò di nuovo in poltrona. Ramingo strusciò il muso sulle sue
scarpe. «Che c’è? Vuoi una coccola? A forza di stare insieme abbiamo finito
per assomigliarci, tu ti sei preso un po’ della mia anima e io un po’ della tua.
E sai cosa ti dico? Di noi due vorrei essere il primo ad andarmene, perché la
solitudine la sopporto a stento, a te, invece, appartiene di natura. Quando
morirò, tornerai allo stato selvatico e l’affetto che hai provato per me sarà
solo una svista, un momento strano della tua vita che dimenticherai. Se
morissi prima tu, invece, ne soffrirei».
Liliana rientrò a casa e chiamò subito sua sorella. Non era domenica e a
Gina prese un colpo quando sentì la sua voce, sebbene fosse squillante.
«Non sarai mica incinta?» scherzò.
«Sì, uno straordinario caso di gravidanza in menopausa avanzata e
accertata sterilità».
Risero molto durante quella telefonata, senza motivo, la telefonata stessa
non ne aveva. Liliana non dovette misurare le parole né valutare la sincerità
di quelle della sorella. Gina era sempre stata capace di nascondere i propri
sentimenti, a eccezione, forse, dell’invidia nei suoi confronti. Quando Liliana
si era trasferita in Francia, l’inevitabilità del loro stare insieme fu sostituita
dalla lontananza. I sensi di colpa di Liliana avevano trovato in Gina reazioni
di apatia, rivalsa, commiserazione e autocommiserazione. Nemmeno la
maternità le aveva regalato un’impressione di fortuna o appagamento, non
aveva compensato il vuoto di una sorella, di una stagione, che non sarebbe
tornata più. Liliana, dal canto suo, aveva imparato a tacere le sue gioie e non
aveva smesso di domandarsi quanto, della donna che era diventata, fosse
frutto di sue scelte o della mancanza di scelta, se l’aver lasciato Roma
l’aveva resa differente da Gina o se quella diversità la nutriva già dentro di
sé.
«Devo andare, ora, abbiamo gente a cena e sono indietro con i
preparativi».
«Cosa fai di buono?»
«Ho fatto un aspic al salmone, ma temo che non mi sia riuscito».
«Che cavolo è un aspic? Ma preparagli una buona carbonara a quei
francesi, saranno più contenti! E poi la carbonara non puoi sbagliarla!»
Di venerdì in venerdì, mentre l’inverno si estingueva senza sussulti, il
professor Marthelot dispensava a Caterina lezioni dalla prosa sapiente e la
scrivania si riempiva di appunti e libri che lui impilava disordinatamente
all’arrivo della ragazza. Indossava completi che Caterina imparò a
riconoscere e anche lei cominciò a presentarsi vestita in modo meno sciatto.
Il professore la accoglieva con un’espressione increspata, che durante le
dissertazioni diventava ironica e a tratti esultante. A volte spiegava con tale
intensità che perdeva il senso del tempo, preso dall’intelligenza degli autori
e dalla bellezza delle opere. Affrontava i soggetti con lucidità, genialità
quasi, e con un fervore che cercava sfogo nelle falcate con cui attraversava il
salotto avanti e indietro. Quando s’impadroniva di un argomento il suo
spirito crepitava, scardinava, attraversava paesaggi di pensiero forse mai
battuti prima in un’esplorazione acuta che rifiutava ogni prêt-à-penser. Si
gettava in un corpo a corpo con Foucault, sfidava il pensiero esuberante di
Barthes, incalzava l’insolenza di Lacan e in ogni considerazione metteva
tutta la sua anima.
Caterina rimaneva sbalordita da quella straordinaria capacità di parlare a
ruota libera senza ripetere lo stesso termine due volte. Se non fosse stato
che il professore improvvisava sulle frasi che lei gli portava di volta in volta,
poteva credere che preparasse quelle lezioni in anticipo. Doveva aver avuto
un’ottima reputazione di insegnante e di studioso sia fra i colleghi che fra
gli studenti. E lo immaginava lanciarsi nei dibattiti con la sua dialettica
brillante e senza compromessi, incurante dell’interlocutore al punto da
essere capace di perdere delle amicizie in nome della grande letteratura.
Chissà poi, in quel suo mondo d’intellettuali scomparsi, che posto avevano
avuto le donne per lui e com’erano passate sotto il giudizio intransigente di
Simone de Beauvoir, Colette o Yourcenar. Mai, nemmeno per un attimo, il
professore si era distratto a parlare di sé, non un solo riferimento al suo
passato o al presente, come se la narrativa fosse l’unico decoro di una vita
altrimenti caotica, come se tutta la sua persona si riducesse a quel perdersi
ininterrotto negli scritti altrui.
«L’estate si preannuncia torrida» riferì Caterina dopo aver riattaccato. Lei e
sua madre si telefonavano regolarmente e Gina le teneva cronache
minuziose sul tempo. Alla televisione aveva scoperto un canale che
trasmetteva solo il meteo e appena sveglia controllava le previsioni a Roma
e in un punto non ben definito del sud-ovest francese. E se Caterina la
smentiva, non sapeva se diffidare della figlia o della meteorologia. Caterina
trovava insensate quelle conversazioni, ma partecipava comunque perché
tutto ciò che avevano in comune, in quel momento, erano le previsioni del
tempo.
«Lo è già questo inizio di primavera» controbatté Delio. Smuoveva l’aria
con il giornale e la mano aveva smesso di tremare. Caterina controllò
istintivamente anche l’altra. Da qualche giorno, infatti, il tremore si era
trasmesso alla mano sinistra. Aveva notato inoltre che, quando Delio era
emozionato, se sgridava Ramingo, per esempio, o se il telegiornale
trasmetteva le immagini di qualche disastro, la vibrazione si accentuava.
Caterina si sforzava di non fare diagnosi, ma quel tremore lo conosceva
bene, lo aveva incontrato nei manuali di geriatria e in certi pazienti del
reparto. Si era imposta di non preoccuparsene finché non se ne fosse
preoccupato Delio, ma lui non ci dava alcun peso.
«Ultimamente, invece di contemplare il tramonto mi sono messo a
contare i secondi che impiega il sole a scomparire. Lo facevo anche da
ragazzino, nel mio paese. Allora non avevo ancora il senso della poesia del
mondo, adesso devo averlo perso» disse riportando alla memoria la spiaggia
di Framura, la montagna e il borgo, luoghi lontani di anni, della stessa
sostanza della salsedine, che non si ravvisa ma increspa i capelli. Per un
attimo, gli sembrò di sentirlo quell’odore, penetrante, saturo, l’odore intenso
dello iodio che colmava l’aria di Framura, di scorgere l’argento dei banchi di
acciughe sulla superficie dell’acqua. E in cuor suo si scusò ancora con il
figlio per averlo portato via di là.
«Non ha mai desiderato tornare?» gli domandò a bruciapelo Caterina.
«Era un progetto che avevamo io e Teresa e che saltava fuori a ogni
cambio di stagione. Ma il tempo passava e tornare diventava sempre più
difficile. All’inizio, lontani dal nostro paese, ci sembrava che la vita potesse
crollare da un momento all’altro, come un castello di carte, poi, negli anni, il
castello di carte è diventata la nostra casa. Per lungo tempo ho fatto un
sogno ricorrente: mi venivano offerti nuovi terreni intorno al podere, le
colture erano già avviate ed erano rigogliosissime e mi sarebbero state date
gratuitamente se promettevo che non avrei mai più rimesso piede a
Framura. Strinsi il patto, ma poi me ne dimenticai e ci tornai per andare a
prendere Daniele dai miei genitori. Divenni polvere». Le mani sbattevano
sulle gambe. Dagli occhi, che alla fine del racconto aveva chiuso, scivolò
qualche lacrima. «Il nervo delle origini rimane scoperto» proseguì, «ma
tornare è un’altra cosa, ci vuole troppo coraggio. Non spetta più a me il
ritorno, ormai. Era il progetto di mio figlio, se non glielo avessi reso
irrealizzabile». Deglutì e cambiò tono. «Bernard, il mio barbiere, diceva che
gli italiani all’estero sono più italiani degli italiani d’Italia e spesso si
divertiva a domandarmi se mi sentivo più italiano o francese. Anche alcuni
clienti all’officina mi facevano la stessa domanda. All’inizio rispondevo
convinto che ero italiano, poi la convinzione cominciò a vacillare.
“Cinquanta e cinquanta?” suggeriva allora Bernard. “Ottanta e ottanta”
dicevo io per scherzare. Ma la risposta giusta è che la frontiera me la porto
dentro: sono un italiano all’estero, un migrante, e questa è un’identità con i
suoi connotati, un’identità à part entière come direbbe Teresa che adorava
quest’espressione».
«Teresa le manca sempre, vero?» disse Caterina, e non era una domanda,
voleva essere una carezza.
«Ero molto più vecchio di lei e la mia situazione incerta... Se penso che
tentai di convincerla a non sposarmi... Avrei commesso l’errore più grosso
della mia vita! E credo che in fondo lei fosse affascinata proprio dai miei
dieci anni di più e dalla possibilità di vivere in un paese straniero».
Uno stormo di uccelli migratori disegnò nel cielo un lungo moto ondoso
senza provenienza né destinazione. Si disperdeva e ricomponeva in forme
diverse, sfumava diradandosi e ravvicinandosi anneriva. Poi scomparve,
all’improvviso, com’era apparso. Caterina e Delio trattennero il fiato
aspettando che tornasse, ma non tornò. La trombetta di Rose risuonò due
volte e li distolse da quella suggestione.
«Peccato che Rose si sia occupata della cena» disse Caterina. «Avrei
voluto proporle una prelibatezza questa sera».
«Sentiamo».
«Pizza da asporto».
«Sì, davvero un peccato» ironizzò Delio, che non aveva mai mangiato
una pizza in realtà, lo considerava un cibo troppo moderno e veloce per
essere buono. «Vieni con me da Rose?» le propose e gli suonò
particolarmente gradevole rivolgere la domanda a lei e non a Ramingo, che
si tirò su comunque e s’incamminò con loro.
Quando Amir aveva voluto sapere dell’incontro con lei, Daniele aveva
detto: «Tuo cugino è uno stronzo». Era partito dall’epilogo. «Ha avuto dei
problemi col suo professore all’università» aveva commentato Amir. «Lo
giustifichi ancor prima di sentire cos’ha fatto». «Sto solo dicendo che anche
lui ha i suoi casini». «È paradossale il senso di protezione che hai nei
confronti della tua famiglia». Amir aveva lasciato cadere la provocazione e
aveva continuato: «I suoi genitori stanno bene economicamente, sono
proprietari di un grande negozio di elettrodomestici a Tunisi, ma mantenere
un figlio a Parigi non è una spesa di poco conto neanche per loro e lui non
può permettersi di non riuscire negli studi o di perdere tempo. Nel weekend
lavora alla reception di una casa di riposo a Porte de Vanves, lo pagano con
i pasti e un letto in una stanza senza riscaldamento due piani sotto terra, fra
i magazzini e la lavanderia del ricovero. Sottoterra è difficile orientarsi verso
La Mecca per fare la preghiera». Si era interrotto, ma aveva ripreso subito:
«Alla fine degli studi vorrebbe tornare in Tunisia a fare politica. Ne avrebbe
la stoffa. All’università di Tunisi era rappresentante degli studenti, animava
le assemblee, prendeva la parola e parlava bene. Una volta, però, fece
riferimento alla Rivoluzione francese e ricevette una lettera di avvertimento:
un’altra allusione analoga e sarebbe stato espulso dall’università. È stato
dopo quell’episodio che i suoi lo hanno mandato a finire gli studi qui». «È
da un po’ che non passa. Non vi vedete più?» «Da qualche tempo meno. Ho
provato a telefonargli, dopo il messaggio della ragazza, ma il numero risulta
inesistente. L’ultima volta mi aveva accennato a una grossa lite col suo prof.
Era convinto di aver ragione e non riusciva a dargliela vinta. Dev’essere una
cosa seria, perché si era lasciato sfuggire che rischiava di perdere l’anno».
Daniele allora gli aveva riferito il racconto di Klara, quella sera, al Comptoir
Jazz. E di Nadira, una studentessa araba che abitava in una residenza
universitaria. Hamza viveva qualche giorno con l’una e qualche giorno con
l’altra, la promessa sposa e l’amante, finché Nadira non aveva trovato nella
borsa di Hamza la busta di una clinica medica. Aveva aspettato che andasse
a farsi una doccia e l’aveva aperta, pensando che si trattasse di una malattia
di cui lui non aveva avuto il coraggio di parlarle. Aveva trovato l’ecografia
di una gravidanza, invece, il nome della paziente era quello di Klara, ed
erano indicati i suoi contatti. Klara e Nadira avevano deciso di scoprire a
che gioco stava giocando. Erano andate alla casa di riposo dove diceva di
lavorare nei giorni in cui non stava da loro ed erano venute a sapere che era
stato licenziato da diversi mesi. Avevano parlato con alcuni studenti della
sua facoltà e scoperto che aveva lasciato l’università da un anno. Lo
avevano seguito. Hamza mangiava alla mensa dello studentato con la
tessera di Nadira o di altre ragazze che adescava e si portava a letto, così,
oltre al pasto, aveva anche da dormire e da lavarsi. Probabilmente rubava
loro qualche soldo o cosette da poco che poi regalava a Klara. «Dov’è
adesso?» lo aveva bloccato Amir, le mascelle contratte. «Non lo sanno.
Quando Nadira gli ha detto che era al corrente di Klara, dell’ecografia e di
come usava le ragazze, si è precipitato da lei. Klara si è barricata in casa
minacciando di chiamare i suoi padroni che abitano di sotto, ha fatto
cambiare la serratura e per evitare che la aspettasse in strada si è trasferita
da un’amica. Nadira ha affisso la foto di Hamza in tutta la residenza
universitaria e ha parlato di lui all’amministrazione, che ha cambiato i
codici d’acceso. Non l’hanno più rivisto, nessuna delle due». «Come hanno
avuto i nostri numeri di telefono?» «Quando è corso da Klara, Hamza ha
dimenticato il cellulare nella camera di Nadira». Il volto di Amir era
diventato inespressivo, le mascelle irrigidite. «Hai detto che la ragazza,
Klara, è polacca?» aveva chiesto. «Sì». «La Polonia è nell’Unione Europea?»
«Perché?» «È o non è nell’Unione Europea?» «Lo è». «Klara era il suo
permesso di soggiorno». Il sentimento di smarrimento che era andato
crescendo in lui mentre Daniele parlava era poi diminuito, come una rabbia
troppo grande per essere rivolta a qualcuno, una rabbia verso la vita.
Daniele avrebbe ricordato con una precisione sconcertante la faccia di
Amir impallidire e diventare di fuoco, prima d’immobilizzarsi in una
smorfia di amarezza. Anche quel sabato notte di fine marzo, mentre suonava
senza nessuna partecipazione ripensando a quella storia, lo rivide come se
l’avesse davanti. Eppure erano passati diversi mesi da allora. Cercò di fare il
conto, ma il barista appoggiò sul palco delle birre fresche e si presero una
pausa. Daniele scambiò due parole con gli altri musicisti, bevvero a grandi
sorsi, pulirono i fiati e diedero un’occhiata alla scaletta. Per l’ultima parte
della serata erano programmati pezzi che gli piacevano di più, ma non
ritrovò la concentrazione. Aveva solo voglia di prendere una boccata d’aria
e di camminare nell’umido della notte.
«Cosa cazzo ci fai sveglio?» gli chiese Amir alle sette e mezzo, rientrando
a casa. «Ti sei già svegliato, o non sei ancora andato a letto?»
«No».
«No cosa?»
«Non sono ancora andato a letto».
«Perché?»
«Non lo so, ti aspettavo».
«Be’, per me possiamo andare».
«Ok».
«Oh!» lo richiamò dalla camera. «Volevi dirmi qualcosa?»
«No».
«Perché mi hai aspettato, allora?»
«Non so, non avevo sonno».
«Io muoio di sonno invece. Spero di dormire fino a stasera o a domani
mattina. Anche dopodomani andrebbe bene». Attese, Daniele non reagì.
«Davvero non avevi niente da dirmi?»
Daniele avrebbe voluto chiedergli notizie di Hamza, ma sapeva che
l’argomento lo avrebbe maldisposto. L’ultima volta che ne avevano parlato,
Amir gli aveva riferito che era stato visto lavorare alla reception di un hotel
per scambisti a Pigalle. «Starà facendo di tutto per andare negli Stati Uniti.
Era fissato con la green card e quel sistema del cazzo della lotteria che hanno
gli americani. Mi aveva fatto vedere il sito dell’ambasciata: “Partecipate alla
lotteria e approfittate dell’occasione che vi offre il Governo degli Stati Uniti
d’America! Potrete vincere un permesso di residenza permanente,
l’occasione per voi e le vostre famiglie di vivere e lavorare in America!”
Vengono sorteggiate cinquantamila persone all’anno, l’iscrizione è gratuita.
“Cinque minuti che potrebbero cambiare la vostra vita” c’era scritto alla
fine, in grande, con tre punti esclamativi». Si era rivolto anche a una società
che faceva da intermediaria, ma poi si era accorto che era una truffa.
«No, non ho niente da dirti, davvero. È che non avevo sonno, allora ti ho
aspettato» ripeté Daniele.
«Sicuro? Casini al lavoro?»
«No».
«Al sindacato?»
«No».
«Non avrai suonato in casa?»
«No».
«Sei gay?»
«Neanche».
«Allora dormiamo. E poi ce ne andiamo a mangiare fuori. Oh!» lo chiamò
per la terza volta.
«Che c’è?»
«Puzzo di pesce?»
«Come faccio a sentire da qui?»
«No, in generale, dico».
«Non mi sembra, perché?»
Amir sprofondò nel sonno. Daniele, invece, sentì il sonno montare come
una marea e confondergli i pensieri prima di sommergerli: Amir nel suo
buco di camera intasato di roba, il “re della savana”, la periferia che non
dormiva e s’ingrandiva, il Comptoir fumoso, la banda di suo nonno che
apriva il corteo solenne del Venticinque aprile quando i partigiani si
tenevano a braccetto e guardavano verso il cielo per ricacciare indietro le
lacrime, la marcia solenne per la festa del patrono, i Cristi di legno morenti,
bardati di stoffe e ninnoli d’oro, i portantini sudati, i borghi stretti, vocianti,
i rosari al polso delle donne e quell’odore di fiori recisi, di vestiti delle belle
occasioni, quell’odore di mare che saliva con il vento.
In maggio, i capelli di Caterina divennero color corniola e si arricciolavano a
ogni movimento, soprattutto quando, all’imbrunire, pedalava fra gli argini e
le strade basse e l’aria maturava una promessa di caldo umido e di notti
insonni. Allora rallentava la corsa e il respiro, l’ultima scheggia di pensiero
scompariva e rimaneva solo il richiamo dei tordi.
Un pomeriggio, di ritorno da uno di quei giri in bicicletta, trovò Aron ad
aspettarla all’imbocco dello sterrato che portava ai poderi. «Oggi Delio è
caduto nell’orto» esordì senza premesse.
«Cosa?»
«È caduto nell’orto, di schiena, e non riusciva più a rialzarsi».
«Non capisco... Era cosciente?»
«Sì, aveva solo bisogno di una mano per tirarsi su».
«Ma cos’ha avuto? Un malore? Un giramento di testa?»
«Non so, l’ho solo aiutato a rialzarsi».
«Non gliel’ha chiesto?!»
Aron parlava della caduta di Delio senza allarme, come se il fatto di
trovarlo capovolto tra le fave fosse naturale.
«Perché mi ha aspettato per dirmelo?» lo incalzò Caterina.
«Perché è già successo qualche giorno fa».
«Che è caduto?»
«Sì. Quattro giorni fa».
«E perché non mi ha detto niente?»
«Ho pensato si trattasse di un incidente. Ti avverto adesso, comunque,
nel caso capiti ancora».
«Sì...» disse lei confusa, incapace di capire se era normale la sua
preoccupazione o l’impassibilità di Aron.
«Se non riesci a rialzarlo da sola, chiamami».
Caterina annuì di nuovo. «Chiederò il suo numero a Delio» disse, dopo
un momento d’esitazione.
«Non ho il telefono».
«Non ha il cellulare?»
«No, e neanche il telefono in casa».
«E come faccio a chiamarla?»
«Basta che vieni, oppure usi una trombetta, come Rose, ma con un altro
suono, così non le confondo».
Caterina lasciò che Aron la precedesse e rientrò a passo lentissimo, la bici
per mano. Le cadute potevano iscriversi nel quadro clinico che si era fatta
della malattia di Delio, ma altri sintomi erano comuni a diverse patologie
degenerative del sistema nervoso e lei, fresca di studi, non se la sentiva di
azzardare una diagnosi, anche se ce l’aveva ben chiara in mente.
Il profumo di rosmarino riempiva la cucina, Delio si stava asciugando le
mani in un canovaccio, visibilmente soddisfatto: «Eccoti finalmente! Ho
appena infornato un galletto che dev’essere una delizia!» Intuì
immediatamente che c’era qualcosa che la turbava e la interrogò, ma lei fece
finta di niente e si mise ad apparecchiare la tavola. «Ti si legge in faccia che
hai dei pensieri. Coraggio, dimmi cosa c’è, così, poi, possiamo goderci il
galletto» insistette lui.
«Ho visto Aron».
«Immagino che non sia uno di quegli incontri che infondono una gioia
istintiva, ma non devi rattristarti più del dovuto» scherzò.
Caterina non riuscì a sorridere. «Mi ha detto che è caduto nell’orto».
Delio scoppiò in una risata fragorosa. «Ed è questo che t’impensierisce
tanto?»
«Cos’ha avuto?» chiese lei seria.
«Non so, sarà stato un capogiro».
«Ne è soggetto?»
«Può capitare, no?»
«Si è ripetuto due volte in pochi giorni. Non si è chiesto a cosa potrebbe
essere dovuto?»
«A dire il vero, no. Dev’essere stato il caldo. Di pomeriggio nell’orto non
si respira».
«E perché non ci va al mattino, nell’orto? Cosa le cambia?» Aveva alzato
un po’ la voce, se ne dispiacque.
Delio non rispose. Tacquero per qualche istante, poi Caterina riprese, più
controllata: «Lo sa anche lei che non può essere il clima».
«Di solito funziona, però. Il tempo o lo stress sono dei passe-partout per
spiegare ogni male... Dimenticavo però di essere in presenza di un esperto.
D’accordo, sentiamo il tuo parere...»
«Ha perso l’equilibrio. Se la prossima volta le capitasse quando è sulla
scala o mentre ha le cesoie in mano... Perché non ne parla al suo dottore?»
Delio si allontanò dal forno e si riempì un bicchiere d’acqua.
«E intanto che c’è, potrebbe mostrargli anche le mani» arrischiò lei. Non
riuscì a suggerirgli più esplicitamente che le cadute, il tremore alle mani e la
grande lentezza dei movimenti potevano rientrare nello stesso quadro
clinico.
«Questo tremolio non m’impedisce di fare nulla» sbraitò sbattendo il
bicchiere sul tavolo. «Posso lavorare e tirarmi su la cerniera dei pantaloni!
Si ferma da solo, quando uso le mani. Cosa dovrei andare a dire al medico?
E per le cadute, ti ho detto che è stato un incidente, non è successo niente e
molto probabilmente non si ripeteranno neanche più. Non vedo di cosa
s’impicci Aron, né tu, del resto». Il tremore non era mai stato tanto forte
come in quel momento e dalle dita si propagava fino al braccio. Delio
nascose le mani in tasca, poi sotto il canovaccio, ma quelle si dimenavano
incontrollate, come abitate da spiriti. Allora sciacquò il bicchiere e si mise a
riordinare le posate nel cassetto, cercando di far cessare il tremito con un
gesto qualsiasi.
«Mi scusi. Non volevo farla arrabbiare». Era la frase di una bambina che
ha provocato un danno a cui non sa rimediare.
«Non sono arrabbiato» disse lui, pentito di aver gridato contro di lei. E si
chinò a girare le patate nel forno.
«Vorrei sapere solo una cosa, poi non le chiederò più niente» insistette
Caterina. «Non ha avuto paura?»
Delio capì cosa gli stava chiedendo, cosa avrebbe dovuto temere
realmente, non tanto le cadute in sé, quanto l’idea di una vita senza le sue
evidenze più ovvie. Sedette a tavola: «Non mi sono spaventato quando sono
caduto, mi sono spaventato dopo, quando non riuscivo più ad alzarmi. Mi
sentivo come un coleottero rivoltato sulla corazza che zampetta a vuoto. In
quella posizione non mi veniva neanche fuori la voce per chiedere aiuto.
Avrei voluto ridere e piangere insieme. Sentivo i sassi premere contro la
carne. Entrambe le volte sono caduto così, nel bel mezzo dell’orto. Disteso a
terra, guardavo il cielo e ho scoperto che il mondo rovesciato ha una sua
orrenda e incantata bellezza. Lassù, ho pensato, c’è la mia Teresa. Un giorno
mi ha detto che la vita è il tentativo di chi aspira al cielo e mai lo rinnega. E
me l’ha ripetuto mentre si affacciava dal cielo e mi sorrideva. Indossava la
camicia viola col colletto dalle punte asimmetriche che si era confezionata
da sola. Ogni tanto acquistava del tessuto e si metteva alla macchina da
cucire per farsi una vestaglia o una gonna. Quella era l’unica camicetta in
cui si era cimentata. “Fare una camicia è un lavoro da matti!” si lamentava
disfacendola in continuazione. Doveva averle preso tutto l’inverno e il
risultato era un insieme d’imperfezioni che lei portava con grande
soddisfazione. No, non ho avuto paura. Smarrimento, forse, all’inizio, poi
solo sassi e cielo, finché un arcangelo, gigantesco visto dal basso, l’arcangelo
Aron, in due mosse mi ha rimesso in piedi, proprio come si fa con gli insetti,
che basta la spintarella di un dito».
Fu Caterina allora a rimescolare le patate per nascondere nell’ondata di
calore del forno l’affetto che provava per lui.
Mangiarono con appetito. Il silenzio era rotto solo dai rumori di Ramingo
che leccava la ciotola. Non parlarono più, si erano detti tutto.
Qualche giorno dopo, Caterina trovò Delio sotto una catasta formata dal
materasso, il cuscino e una sedia. In un angolo erano ammonticchiate tende
e lenzuola insieme allo spray per i vetri e a fogli di giornale. La sentì entrare
in casa, seguì i suoi passi fermarsi sulla soglia della stanza e poi correre,
spostare Ramingo che gli si era sdraiato accanto, asciugare la chiazza di pipì
sul pavimento e liberarlo dalle cose che gli erano finite addosso. Delio era
supino, rigido come un pezzo di legno, senza un lamento. Caterina
s’inginocchiò, gli prese un braccio, se lo mise intorno al collo e lo raddrizzò
con cautela. Poi attese. Delio annuì impercettibilmente, si fece forza sulle
gambe e si alzò. Il lamento fu involontario, come un guaito. Caterina aspettò
che le ginocchia si stabilizzassero, avvicinò la sedia con un piede e lo fece
sedere. Delio fece un respiro profondo, con lo sguardo la implorò di non
chiedere spiegazioni e lei non gliene chiese. Disse solo: «Ha un taglio allo
zigomo. Vado a prendere l’occorrente».
L’escoriazione era superficiale, ma lo zigomo e l’orbita erano gonfi. Lo
disinfettò e gli esaminò il naso. «Non mi sembra ci siano fratture». Era di
una delicatezza che faceva male. Sistemò il materasso sopra la rete del letto
e aiutò Delio a coricarsi. Cercò del ghiaccio in freezer e, non trovandolo,
avvolse in un canovaccio pulito un sacchetto di piselli congelati. «Temo sia
troppo tardi per evitare il gonfiore, ma il freddo può ridurre il dolore» disse
appoggiandogli l’involto sulla faccia. Raccolse da terra il prodotto per i vetri
e i giornali vecchi e pulì le finestre. Delio non glielo impedì. Distolse lo
sguardo e ascoltò lo strofinio della carta sul vetro.
Quando Caterina finì, gli chiese se aveva bisogno di andare in bagno e lui
fece cenno di no con la testa. «Più tardi, quando si alza, rifacciamo il letto».
«Mi alzo subito, sono stato coricato abbastanza per oggi» disse a bassa
voce, ma non si mosse.
«Aspetti ancora un attimo, il tempo che i piselli si scongelino. Li
mangiamo per cena nel risotto». Raccolse le lenzuola sporche e chiuse piano
la porta.
La penombra si spinse sui piedi di Delio, avanzò sul letto. Dietro ai vetri
apparve l’acqua stellata della notte e si addormentò.
Dopo un’ora Caterina bussò. «Sono venuta a prendere i piselli» sussurrò.
«Sente male da qualche parte?»
«Sono solo un po’ debole». Il volto di Delio sembrava più emaciato, ma
gli occhi erano tornati espressivi.
«Ha pranzato, oggi?»
Delio fece cenno di no. «Mi dispiace che tu abbia assistito a questa scena
penosa... Stamattina avevo pensato di fare le pulizie di primavera, un po’ in
ritardo, certo...» Non provò neanche a sorridere. «Avevo messo il materasso
a prendere aria e tolto le lenzuola da lavare... Avevo appena tirato giù le
tende per pulire le finestre quando sono caduto».
«Non si preoccupi, non mi deve nessuna spiegazione» lo interruppe lei.
Ma lui continuò: «Mi ero riproposto di fare pulizia in tutta la casa, poco
alla volta. Vivi qui anche tu ora, e ci terrei che fosse in ordine. E poi, se mio
figlio tornasse, non voglio che trovi la casa trascurata. Anche se sono
quattro anni che non viene».
Caterina lo interruppe con la scusa della cena. Non era il momento di
parlare di Daniele. In quell’unica foto che stava sulla credenza era bello
come un angelo, e come un angelo viveva nascosto. «La aspetto di là
quando vuole. Mi chiami se ha bisogno» gli disse prendendo il canovaccio
con i piselli.
Delio cercò di mettersi seduto, ma elastici invisibili trattenevano i suoi
arti e scompose l’atto dello scendere dal letto in ogni singola mossa. Fece
scivolare la gamba sinistra giù dal materasso finché il piede non toccò il
pavimento e posizionò i gomiti, inclinò il busto di lato, adagio, poi spostò
anche l’altra gamba e si sedette. Quindi, facendo forza con i pugni sul letto,
si alzò. Non ebbe nessun capogiro, solo la sensazione di un corpo di legno. I
primi passi furono brevi, i piedi sembravano rincorrersi. Il bastone era
appoggiato allo stipite della porta, lo afferrò e andò di là.
Caterina scodellò un risotto morbido e fumante, che cosparsero di
abbondante parmigiano.
Delio mangiava lentamente, il tremore ormai non lo abbandonava più,
neanche quando le mani erano in attività. Ripulì minuziosamente il piatto e
parlò: «Anche al lavoro sei così premurosa? Intendo il lavoro da
infermiera».
«Non è premura» rise lei. «Faccio quello che c’è da fare, come mi hanno
insegnato in reparto. Ora sta meglio? Ha dolore?»
«Il dolore è finito, anche se col passare degli anni non finisce più».
Caterina cercò di interpretare la sua espressione. «Ha o non ha male?»
«Sto bene, sto bene. Disteso per terra tutto il giorno, però, ho avuto modo
di riflettere. Finché si è giovani si soffre per qualcosa di preciso, da vecchi,
invece, il dolore è dappertutto, si dilata fino alle lacrime. Fa paura, crea
nuovo dolore in una spirale che non ha pace... Dopo la morte di Teresa
credevo che il destino mi fosse debitore, ma m’ingannavo, e il dolore è
diventato definitivo... Lascia stare, parlo a vanvera, ho pensato troppo,
oggi...» Le sorrise. «Non darmi retta, Caterina, a una certa età i sensi si
fanno più fragili, il cuore si riempie di spifferi e ci si abbandona a riflessioni
stupide. Vieni, piuttosto, ho una cosa da mostrarti». Si alzò, raggiunse la
porta e si voltò a cercare il bastone.
I primi tempi lo aveva usato con disciplina, poi aveva cominciato a
scordarlo o a tenerlo al braccio senza adoperarlo. Amava usarlo per
punzecchiare Ramingo quando sonnecchiava al sole. Anche il puntale
antiscivolo che ci aveva messo Caterina era praticamente nuovo.
Nell’aria aleggiava il profumo intenso dei limoni che Delio e Aron
avevano spostato sotto il portico per la bella stagione. Il camper stava nel
mezzo, Delio tirò via il telo che lo copriva e invitò Caterina a entrare. Non
aveva mai visto l’interno di un camper, ma notò che c’era qualcosa di
strano. Mancavano i fornelli e il ripiano di lavoro della cucina era ridotto a
una mensola lunga e stretta. I pensili erano stati sostituiti da una grande
specchiera della stessa lunghezza della mensola. L’occhio le cadde su tre
poggiapiedi fissati a una spanna dal suolo e sul lavandino, che aveva un
incavo per la testa e un miscelatore a doccetta.
«È sotto l’oblò, ma metteremo un punto luce anche lì» spiegò Delio. «E
nell’angolo di fronte ci starà il casco asciugacapelli con la sua poltroncina. Il
bagno è quello originale, ma al posto della doccia c’è un ripostiglio dove
stoccare i prodotti. All’ingresso, invece, io toglierei il tavolino, così
sembrerebbe di più una saletta d’attesa, ma Aron dice di tenerlo e di
rimuovere invece la panca, sostituendola con un separé di ottanta
centimetri, un metro, per dividere la sala d’attesa dalla zona del lavaggio.
Dando un po’ di profondità al separé e con qualche mensola si possono
appoggiare riviste, tazze e un bollitore elettrico. Cosa ne pensi?»
Lo stupore le impediva di parlare. Avevano pensato a ogni minimo
particolare. Fece qualche passo, estrasse il doccino dal lavandino, manovrò il
rubinetto, completò mentalmente lo spazio con gli arredi che mancavano:
era un salone da parrucchiere a tutti gli effetti.
Delio le raccontò che quando faceva il meccanico avrebbe voluto adibire
un furgone a officina per riparazioni in loco, convinto che la domanda non
sarebbe mancata. Ma il suo capo non era d’accordo e lui non se l’era sentita
di assumersi il rischio da solo. Forse era per questo sogno irrealizzato che
l’idea del salone itinerante, saltata fuori quel pomeriggio con Liliana, gli era
rimasta in testa. E una notte, mentre cercava di prendere sonno, aveva
pensato che in qualche modo avrebbe potuto realizzare quel sogno con il
camper di Teresa. Era andato a parlarne con Liliana al salone e quando
anche lei si era convinta che, con i dovuti adattamenti, era un progetto
fattibile, aveva chiesto la collaborazione di Aron. Così, da un mese
all’incirca erano iniziati i lavori.
«Aron e la zia ne sono al corrente?» domandò Caterina.
«Al corrente? Aron ci lavora con un entusiasmo da non credere! Al
mattino lo trovo sempre qui, controlla dalla finestra quando parti per andare
in ambulatorio e si mette al lavoro. Tua zia ci ha guidati nelle modifiche
necessarie per trasformarlo in un salone ed è lei che si sta occupando
dell’attrezzatura specialistica».
A Caterina salirono le lacrime agli occhi, anche perché realizzò che per
poter lavorare al camper in sua assenza, Delio si occupava dell’orto nelle ore
più calde della giornata. Avrebbe voluto scusarsi per averlo rimproverato,
ma lui non gliene diede il tempo: «Lunedì vado a ritirare l’assicurazione, ma
ci vorranno ancora un paio di settimane di lavoro prima di metterlo in
strada. Pierre ha contattato tre comuni nei dintorni, Castanet, Bellegarde e
Vauvet, che si sono dimostrati interessati. Vi concedono d’installare il
camper nel centro del paese e se poi ci sarà una buona risposta fra la gente
potrete chiedere l’allaccio alla rete elettrica pubblica, ma questo te lo
spiegherà meglio tuo zio. Un’ultima cosa» aggiunse, «Liliana mi ha detto
che all’ambulatorio hai un contratto a termine e che a fine anno ritornerai a
Roma. È molto preoccupata che tu possa vivere questa attività come un
condizionamento a restare. Il salone è solo una prova, non devi in nessun
modo sentirti obbligata. Se ti piace, deciderai tu se continuare, altrimenti ci
rimetteremo il telo sopra. Non vuole essere una trappola per trattenerti, per
noi è stato solo un piacere. Avrei dovuto aspettare loro per mostrartelo, ma
non ce l’ho fatta. Dopo la giornata di oggi, poi».
Delio non smetteva di parlare e Caterina di piangere. Lui frugò nelle
tasche dei pantaloni alla ricerca di un fazzoletto, ma ne uscì uno talmente
malridotto che lo ricacciò in tasca. Caterina rise, e con lei Delio che in quella
risata allontanò la memoria delle cene con Teresa nel camper.
Riordinarono la cucina pensando al nome da dare al salone. Mescolavano
l’italiano e il francese, inventavano neologismi e si sfidavano in giochi di
parole scimmiottando i due accenti. Poi Caterina rientrò nella propria
stanza, Delio la sentì parlare fitto al telefono con Liliana e si fermò ad
ascoltare da dietro il muro. Andò a coricarsi felice e non diede peso
all’incidente di quel giorno. Nemmeno Caterina rimuginò sulla malattia di
Delio. Aveva in mente soltanto l’insegna del salone e il colore della scritta, il
pannello che avrebbero esposto fuori e la carta fedeltà che dava diritto, dopo
dieci tagli, a uno gratis. Pensava anche alla possibilità di proporre laboratori
brevi sulla cura dei capelli o su “il giusto taglio per il tuo viso”. Aveva stilato
una bozza di listino prezzi e scriveva e riscriveva mentalmente le frasi
promozionali del volantino sottolineando la convenienza dei prezzi, la
comodità di un salone sotto casa, l’ambiente familiare, gli orari liberi e senza
obbligo di prenotazione, manicure e trucco a richiesta, consigli estetici
gratuiti, “la stima di sé passa dai capelli...”
Klara lo aspettava davanti al portone. Aveva labbra sottilissime e la stessa
pelle lattea di quando l’aveva vista la prima volta al Comptoir Jazz. Lo
ringraziò del favore che le stava facendo accompagnandola all’Ikea e per il
resto del tempo non disse altro. Daniele caricò gli imballaggi in macchina, li
trasportò nel sottotetto della camera di Klara e si mise a montare la
cassettiera. Lei gli confidò che si sentiva in grado di tornare a vivere da sola,
che aveva ripreso il ciclo e si era fatta impiantare la spirale. Glielo diceva
come se stesse leggendo il foglietto illustrativo di un farmaco, e lui fissava le
viti nel truciolato per non alzare la faccia e vederla. Klara si accorse del suo
disagio e tornò a tacere, ma prima che partisse volle ringraziarlo anche per
la notte che l’aveva vegliata in clinica, dopo l’aborto, scambiando la
gratitudine per amore e l’amore per bisogno di accettazione.
«Non ero io» le confessò Daniele e lei si sentì definitivamente persa.
«L’infermiera mi aveva parlato di un giovane. Avevo pensato fossi tu,
nessun altro ragazzo era al corrente del mio ricovero» balbettò quasi a
volersi giustificare. Si sentiva umiliata per aver creduto di essere amata.
Rimase immobile davanti a lui, lottando contro quella sensazione d’inganno.
Daniele avvertì l’urgenza di separarsi da lei, da quel volto desolato,
inutilmente bello, e dal bisogno che lei aveva di averlo vicino per accollargli
la sua tristezza. Ma non se ne andò e quando Klara iniziò a chiamarlo, il
sabato sera, saliva i sette piani che portavano alla chambre de bonne dove, se
pioveva, le gocce picchiavano sul tetto di zinco che sembrava un temporale
e quando le temperature si alzavano si soffocava. A volte facevano l’amore,
poi Klara diceva di aver bisogno di dormire e capitava che anche lui si
addormentasse. Quando si svegliavano, lei lo osservava lavarsi, accendere il
bollitore e rivestirsi. Anche mentre beveva il caffè non smetteva di muoversi
per la stanza e, per non intralciarlo, rimaneva sul letto. La salutava con un
bacio a labbra strette e usciva correndo giù per le scale. Allora lei si alzava e
si metteva a studiare.
«Ehi, mate. What news? Dove sei stato stanotte? Tieni una donna
nascosta da qualche parte, eh? Allez, dimmi chi è!»
Daniele sapeva che sarebbe stato meglio evitare l’argomento,
nascondergli che Klara si addormentava tra le sue braccia e la mattina lo
pregava di trattenersi ancora. «Sei il mio riscatto» gli aveva bisbigliato una
volta e neanche allora era riuscito a spiegarle che non c’era piacere né
amore fra loro, solo necessità. «Mi vedo con Klara» gli confessò invece.
Amir s’incupì. «Certo, come ho fatto a non pensarci?» disse con
disprezzo. «Arabi con arabi e occidentali con occidentali. L’arabo abusa, il
cattolico salva».
«Cosa stai dicendo, Amir? Avrei dovuto parlartene prima...»
«Perché? È da un po’ che vi vedete? Stai da lei quando non torni?»
«Non credevo di doverti rendere conto se rientro o no a dormire».
«No, certo, tu non devi rendere conto a nessuno».
«Si può sapere cos’hai? Sei geloso? Sei incazzato perché ho trascurato
qualcuna delle nostre cenette tête-à-tête?»
Amir gli tirò un pugno. Non sentì i nervi avvampare, i muscoli contrarsi,
agì prima. Daniele invece si scansò tardi e prese il colpo di traverso, sulla
mascella. Si portò istintivamente la mano sulla parte colpita. Lo guardò, lo
oltrepassò. Andò a prendersi una Coca in frigo e se l’appoggiò sulla faccia,
ne mise un’altra sul tavolo, per lui, e cercò qualcosa da mangiare per cena.
C’erano alcune confezioni aperte di pasta, ceci e sardine, della passata di
pomodoro, couscous e scatolame vario lasciato dagli ospiti di Amir. L’unica
cosa che non mancava era una riserva di ras el hanout, una miscela di spezie
magrebine che Amir portava dalla Tunisia. Scaldò un po’ d’olio in una
padella e cercò dell’aglio nel cassetto del frigo.
Amir entrò in cucina, sedette al tavolo e giocherellò con la linguetta della
lattina. «È il mio sangue tunisino» disse.
«Non lo conoscevo».
«Ero un bambino irrequieto e un adolescente violento. È stato difficile
mandarmi a scuola. Per questo ho smesso subito dopo l’obbligo. La mia
rabbia non era improvvisa, ma una volta provocata non potevo trattenerla.
A volte faceva paura anche a me. Non è stato facile imparare a controllarla.
Ce l’ho ancora» si stupì. «Credevo che la Francia avesse soffocato ogni
impulso».
L’aglio sfrigolava nella padella. Daniele aggiunse qualche cucchiaiata di
salsa di pomodoro e una presa abbondante di ras el hanout, “il prodotto di
punta del droghiere magrebino” come lo definiva Amir. Non gli era mai
piaciuta la pasta bianca. Prese la confezione di spaghetti e controllò il tempo
di cottura, otto minuti al dente.
«Ha più rivisto Hamza?» gli chiese poi Amir.
«Klara? No, non credo. E tu?»
«No». Capovolse la lattina e la fece rotolare sotto il palmo della mano.
«Le ragazze destinate a lui, però, stanno passando a me».
Daniele gli lanciò un’occhiata interrogativa.
«Quelle che sua madre gli proponeva in sposa, adesso la mia le propone a
me» spiegò.
«Cosa significa?»
«Non puoi capire».
«No, infatti, non so neanche perché parliamo».
Sospirò. «Sono un buon partito. Vivo e lavoro a Parigi, guadagno più di
un amministratore di banca o di un qualsiasi quadro tunisino
pluridiplomato. Certo, non ho la testa di Hamza, ma alla fine tanta
intelligenza non l’ha aiutato ed è andata meglio a me che a lui». Non c’era
arroganza nelle sue parole, piuttosto, un tono di rinuncia che Daniele non
gli aveva mai sentito.
«In Tunisia esistono ancora i matrimoni combinati?»
«Non ufficialmente. Ma cosa c’è di male, in fondo? Sempre meglio che
finire con una di queste, che la danno a tutti. Prendi Klara, cazzo, neanche
un anno fa aveva in pancia il figlio di Hamza e adesso scopa con te».
«Non sapevo che ci tenessi a lei».
«Non ci tengo infatti».
«Perché te la sei presa tanto, allora?»
Amir aprì la lattina, bevve e cambiò discorso: «Lo scooter mi ha lasciato
ancora a piedi e Hussein non è riuscito a darci un’occhiata».
«Peccato, era una serata da farci un giro. Andiamo lo stesso, in metró o a
piedi».
«A piedi fino alla Tour Eiffel? Che cazzo dici? Se ci vuole mezz’ora solo
per andare alla stazione del metró! Questo è un atteggiamento tipico vostro,
di voi occidentali: potete prendere i mezzi ma preferite andare a piedi, avete
la macchina, ma poi vi fate chilometri in bici. Ma perché? È più cool?»
Mangiarono due piatti enormi di spaghetti e andarono a Parigi a piedi. In
due ore e cinquantasette minuti erano sotto la Tour Eiffel. Avevano
attraversato Vitry in linea retta, poi Ivry fino alla cintura della città, si erano
persi due volte, ma avevano entrambi un buon senso dell’orientamento e
non era stato difficile riprendere la direzione giusta. Parlarono molto,
misero a confronto le periferie di Parigi, Hollande e Sarkozy, tirarono fuori
Obama, la Cina e il terrorismo. C’era una luce che sembrava non avrebbe
annottato mai più. Poi Amir cominciò a lamentarsi che non sentiva più le
gambe ed era quasi alla disidratazione. Daniele allora attaccò con il discorso
delle macchine, di quel BMW coupé con il quale Amir sarebbe tornato in
Tunisia per fare un matrimonio da principe del Bahrein. Si sdraiarono
sull’erba del Champ de Mars. Parecchia gente era uscita all’aperto per
assistere alla primavera che digradava definitivamente nell’estate.
«A Parigi l’inverno è eterno e l’estate dura un giorno» sentenziò Amir.
«Non è vero, può arrivare la canicola e ammazzare i vecchi nelle case di
cura».
«Tanto meglio, così costano meno allo Stato».
«Quand’è che ci sono stati un sacco di morti nelle case di riposo? Nel
2003? Ne era saltato fuori un mezzo scandalo perché erano state inumate
una sessantina di persone e le spoglie non erano state reclamate da
nessuno».
«D’estate la gente va in vacanza».
«Chirac ci era andato, alla cerimonia».
«In che cimitero le hanno sepolte?»
«A Thiais».
«Il cimitero dei poveri, dov’è mio padre».
Passò un venditore ambulante, Daniele comprò una bottiglia d’acqua che
si passarono l’un l’altro fino a finirla. Rimasero parecchio tempo stesi su
quel prato striminzito di città fra la gente che ritardava il momento di
rincasare.
«Andiamo, dai, la mia sveglia suona all’una e mezzo» disse Amir. «Ma
ricordiamolo: “L’avvenire appartiene a quelli che si alzano presto”. Me lo
dice sempre uno dei vecchi, al lavoro, quando mi vede arrivare con una
faccia da fine del mondo. Una volta gli ho risposto che se l’avvenire
appartiene a chi si alza presto, la notte è di chi si addormenta tardi, e ne è
venuto fuori un gran casino perché nessuno sapeva dire cosa spettasse a
noi, che attacchiamo alle due e andiamo a letto alle sette del mattino. Alcuni
pensano che ci prendiamo tutti e due, la notte e l’avvenire, altri niente.
Dipende se sono le due del mattino o di notte, ma anche se fossero le due di
notte, noi a quell’ora ci svegliamo, non ci addormentiamo, quindi la notte
non ci spetta comunque... È il grande dibattito di noi filettatori e salta
sempre fuori, è un rompicapo. Ha fatto nascere anche dei soprannomi
assurdi, tipo “Nottetempo”, “Bianca” da notte bianca, “Dalloggialdomani” e
stronzate del genere».
«E a te, come ti chiamano?»
«“Avvenire”».
«Avvenire?» rise Daniele.
«Non provarci: fuori di lì, a nessuno è concesso chiamarmi così».
«Non preoccuparti, per me tu sei “Il principe” o “Il condottiero”» lo
sfotté.
«Meriteresti un altro destro».
Mentre Amir era in bagno, Daniele gli lasciò sul tavolo della cucina le
chiavi della sua macchina. “Il tempo che Hussein ti aggiusti lo scooter” gli
aveva scritto su un post-it. Non gliele voleva dare di persona, Amir avrebbe
rifiutato, anche se rientrava dal lavoro prima che lui partisse.
Amir si rigirava nel letto cercando inutilmente il sonno. «Daniele?
Dormi?» Lo chiamava per nome rarissime volte.
«No».
«Perché stai con Klara?»
«Perché pensa che sia la persona giusta per lei e che siamo innamorati».
«E non è così?»
«No».
Per un momento nessuno dei due parlò.
«È gentile comunque da parte tua» riprese Amir.
«Cosa?»
«Starle vicino».
«Dovrebbe farlo qualcuno che la ama davvero».
«No, non è detto».
Delio sentì un tuffo al cuore nel vedere il camper prendere la strada
strombazzando, con il nome della sua Teresa pitturato in pervinca sui lati,
La Caravane de Thérèse-Coiffure. Alzò lo sguardo al cielo come a chiederle
se lo vedeva anche lei e se da lassù poteva darci un occhio. Il camper era
grosso, le strade strette e Caterina inesperta nella guida. Avevano fatto un
bel lavoro, Aron soprattutto, che si metteva all’opera di primo mattino e il
resto della giornata lo passava a stanare pezzi e ad adattarli alle loro
necessità con un’abilità rara. Era stato macchinista, ma quel talento non si
apprende col mestiere, doveva averlo nel sangue. Anche lui era uscito per
assistere alla partenza della Caravane. Fece un cenno di saluto a Caterina e
mentre rientrava per dare da mangiare alle galline sorrise. Solo le galline se
ne accorsero.
Liliana aveva tenuto chiuso il negozio per andare con la nipote a Castanet
al mattino e a Bellegarde il pomeriggio. Le sedeva accanto e si sentiva
realizzata, ancora giovane. Tirò fuori dalla borsa gli occhiali da sole e
sistemò sulla testa il foulard che teneva al collo come Susan Sarandon in
Thelma & Louise. Abbassò il finestrino e appoggiò il gomito di fuori.
Quando la radio trasmetteva una canzone che conoscevano, la cantavano a
squarciagola.
Quel giorno non si presentò nessuno, benché avessero preparato un
buffet inaugurale e lasciato aperto fino all’ultimo minuto. Lo stesso fecero
l’indomani mattina, a Vauvet, mentre il pomeriggio lo passarono a
distribuire volantini nei paesi circostanti, poi raggiunsero Pierre per la cena
al ristorante dove aveva prenotato un tavolo per celebrare l’esordio della
Caravane. Erano stanche, ma brindarono e scherzarono sul fiasco di quel
week-end inaugurale. Rientrarono tardi, un po’ ubriache.
La luce della cucina era accesa, Delio aspettava con una bottiglia di
champagne. Caterina brindò anche con lui, “ai debutti”. Non finì il flûte,
però, lo abbracciò forte e andò a letto. Puntò la sveglia e si addormentò
all’istante. Liliana, invece, andando a dormire, si accorse che la spia rossa
della segreteria telefonica di casa lampeggiava. Le prese il batticuore, era
domenica e non aveva chiamato la sorella.
Alle sette del mattino, il cielo era una carta velina. La notte, ritirandosi,
aveva lasciato indietro alcune stelle. Erano bianche, respiravano appena.
«Gina, sono io. Ti ho svegliata?»
«No».
«E Mario?»
«È appena uscito».
Rimasero in silenzio.
«Inizia a far fatica a tirarsi su al mattino» continuò Gina. «Mi fa pena...
Del resto, sta davanti al televisore fino all’una... Dice che tanto non
riuscirebbe ad addormentarsi prima... Io, invece, già alle dieci, crollo».
«Dove sei?»
«Sono in cucina, alla finestra. C’è la signora Maria che alza la saracinesca
della lavanderia... Cerca la chiave della porta... Entra... E spegne l’insegna. Il
lunedì mattina mi piace da matti vedere gli altri andare a lavorare e
starmene in vestaglia e ciabatte fino a tardi. Dev’essere la stessa
soddisfazione che provano gli altri, il sabato mattina, quando dalla finestra
mi vedono tirare su la serranda».
«Scusami per ieri. Ho dimenticato di chiamarti».
«Vuol dire che non sei un mostro».
Liliana sorrise.
«Hai ascoltato i messaggi che ti ho lasciato in segreteria?» domandò
Gina. «Ho avuto dei brutti pensieri ieri sera».
«È colpa mia, mi dispiace. Non volevo spaventarti».
«Dov’eravate? Il telefonino di Caterina non prendeva, a casa tua scattava
la segreteria...»
«Annotati il mio numero di cellulare».
«No, non ce n’è bisogno. Se ricapiterà, penserò che ti sei rincoglionita e
cercherò di non fare cattivi pensieri. Non ho dormito, stanotte».
«Scusa» ripeté ancora Liliana che aveva passato anche lei la notte
insonne. «Siamo rientrati tardi e non mi sembrava il caso di chiamare a
quell’ora».
«Si può sapere dove siete stati?»
«Pierre ci ha portato a mangiare al ristorante».
«Pierre compie gli anni il mese prossimo, se non sbaglio. Non era il
compleanno di nessuno di voi tre».
A Liliana fece tenerezza quell’osservazione. Sua sorella andava a
mangiare fuori solo per le occasioni speciali, alla taverna del quartiere, in
via Leonina. Così, le raccontò tutto dall’inizio, che avevano inaugurato un
salone itinerante da parrucchiera ricavato da un camper messo a
disposizione da Delio e che quel primo fine settimana non avevano visto
l’ombra di un cliente ma avevano voluto festeggiare lo stesso. Gina la
ascoltò senza fiatare, poi la tartassò di domande. Diversi aspetti infatti non
quadravano: perché il vecchio era stato tanto generoso, per esempio, quanto
ci avevano investito e quanto prevedevano di guadagnarci, ma, soprattutto,
chi avrebbe portato avanti l’attività una volta che Caterina fosse tornata a
Roma. Liliana le rispondeva pazientemente, ma Gina continuava a non
afferrare il senso di quell’operazione.
«Non capisci perché cerchi l’utile. Questo salone non è stato messo in
piedi per il tornaconto di qualcuno» concluse Liliana.
«E per cosa allora?» domandò Gina seccata. «Cos’è? Un teatrino per
Caterina parrucchiera? Un’opera buona nei confronti degli anziani che
vivono isolati? Un diversivo per quel Delio?»
«Sì».
«Sì, cosa?»
«Sì tutte queste cose insieme. È stato un divertimento per tutti noi e
spero che continui a esserlo. Perché, cosa c’è che non va?» si spazientì
Liliana. «Non abbiamo fatto niente di male, no?»
«Beate voi che non avete nulla da fare» sbottò Gina sfottente. «Ora devo
andare. A domenica, sempre che non rientriate tardi dal ristorante».
Liliana avrebbe voluto provocarla: “Ci andremo senz’altro, ma
cercheremo di rientrare prima e meno brilli” o “Non preoccuparti, domenica
prossima ce ne staremo a casuccia, mezzo chilo di carbonara e via a letto”.
Sarebbe stato fin troppo facile prenderla in giro o fare come lei, dire pane al
pane e vino al vino anche a costo di essere brutali. Perché Gina era così, la
voce sarcastica del rione. Quella conversazione dava la misura della distanza
che si era venuta a creare fra loro. Il pensiero la sollevò: «A domenica, Gina.
Passa una buona settimana».
Caterina e Delio preparavano la cena discutendo della Caravane. Era
diventato il principale argomento di conversazione da quando aveva preso
vita. La salute di Delio rimaneva un tabù, anche se si erano verificate altre
cadute minori di cui Caterina era stata informata da Aron. S’interrogavano
per l’ennesima volta su come attrarre la clientela, dato che il volantinaggio
non era stato sufficiente. Caterina escludeva di ridurre i prezzi, già molto
bassi rispetto a un qualsiasi negozio, aveva preso in considerazione l’ipotesi
di offrire una giornata di taglio gratis o una manicure promozionale alla
prima visita, di un annuncio pubblicitario sui giornali locali e di girare con
un altoparlante per preannunciare i giorni e i luoghi di passaggio. «Si
direbbe che sono invisibile! Le piazze di Castanet o di Vauvet non sono
Tienanmen! Il camper è lì, lo vedono tutti, ma non si avvicina nessuno! E
non è che manchi gente, anzi, è giornata di mercato e ci va tutto il paese a
fare spesa in piazza. Cosa devo fare per attirare l’attenzione, mettere su uno
spettacolo da circo? Sparare fuochi d’artificio? Dirigibili?» Quando era
agitata, l’inflessione romana le screziava la voce e i gesti.
Delio la osservava girare la minestra con una foga insolita per lei. Era la
prima volta che la vedeva accalorata e se inizialmente si compiaceva della
passione che la motivava, ora si sentiva responsabile della sua delusione. Il
televisore era a volume bassissimo, ai titoli del telegiornale Delio alzò, ma
nessuno dei due ascoltò. Quando Caterina arrivò al fondo del piatto, lui era
riuscito a mandare giù solo un paio di cucchiaiate. Allontanò la scodella e
disse: «L’esperimento è finito». Cercò con lo sguardo il bastone per andare
al fienile a mettere la copertura sul camper, ma Caterina lo trattenne e lo
esortò a mangiare. Delio fissò la minestra, le mani in grembo come passeri
in inverno. Parlò senza alzare gli occhi, disse che aveva ragione Rose
quando sosteneva che credere di sapere ciò che è giusto o sbagliato per gli
altri è solo presunzione, che non basta agire in buona fede. Aveva messo in
piedi il salone senza neanche domandarle il suo parere, come se non la
riguardasse. Per niente al mondo avrebbe voluto metterla in difficoltà o
darle motivo di frustrazione e preferiva chiuderla, la Caravane. Si prese la
testa fra le mani incerte, non era la prima volta che si ritrovava a
riconoscere in ritardo i suoi errori.
Caterina attese che le raccontasse di Daniele. E Delio lo fece.
La casa di Framura era di suo padre. Ci era cresciuto lui e, dopo di lui,
Daniele. Era nato al podere, Daniele, ma l’avevano portato là ancora
neonato, era stato allattato da una balia del posto e finché non divenne un
ragazzino, l’avevano sballottato avanti e indietro senza che potesse capire
quale paese fosse casa, dove stava la partenza e dove il ritorno. Forse un
giorno ci aveva provato davvero a lasciare l’Italia, ma era stata l’Italia,
allora, a non staccarsi da lui. E quando, da adulto, il marchio di quella vita in
bilico fra due mondi stava finalmente sbiadendo e il lutto dei morti era stato
assolto, Daniele aveva deciso di rilevare la sua eredità, ma Delio l’aveva
fatta distruggere.
Così disse e si voltò verso la foto sulla credenza. Daniele doveva avere
sedici o diciassette anni, portava dei pantaloni a zampa d’elefante e una
maglietta a maniche corte, un po’ stretta per il suo corpo magro ma di
ragazzo cresciuto. Era nel frutteto con Teresa. Lei, in posa, sorrideva
all’obiettivo, lui, dietro, sembrava arrivare in quell’istante. Guardava dritto
davanti a sé, altrove.
Quando Delio era tornato a Framura per i funerali dei suoi genitori la
decadenza del paese gli era sembrata evidente. Le mura del borgo
spurgavano pus e licheni e i pesci avevano abbandonato il mare. La casa si
stava sgretolando, schiaffeggiata dal mare e spinta dalla montagna. Si
consumava, come le persone o i sassi. Non spettava a lui, però, deciderne la
fine, perché quella era “la casa di Daniele” e suo figlio ci tornava appena
poteva e portava fiori freschi al cimitero. Il figlio gli aveva anche detto che
avrebbero dovuto metterla a posto, ma lui non aveva dato peso a quel
proposito, anzi, se n’era dimenticato. Eppure Daniele aveva parlato al
plurale, di un dovere che poteva diventare anche un progetto comune, il
primo, l’unico della loro storia di padre e figlio. Per legge, però, l’erede
diretto, il responsabile della proprietà era Delio, perché alla legge non
importava che la considerassero “la casa di Daniele”, la legge bada al sangue
non alle voci e la raccomandata dell’ordinanza sindacale di demolizione era
stata spedita a lui.
L’immagine era di un colore patinato che le foto moderne non hanno. I
vestiti di Teresa e Daniele avevano tinte che non esistevano più e forse non
esisteva nemmeno il bianco opaco dei fiori di pruno che cadevano a pioggia
sui loro capelli. Quelli di Teresa erano lisci, raccolti in uno chignon basso,
Daniele li aveva mossi, spettinati, come il padre. Stava facendo un passo per
mettersi accanto a lei o per oltrepassarla e Delio, distratto da quel
movimento, o dal sorriso della moglie, non aveva fatto attenzione
all’inquadratura, che era venuta storta.
Delio non aveva risposto in tempo alla notifica e il Comune aveva dato
l’ordine di demolizione. Si era dato anima e corpo alla costruzione
dell’appartamento per il figlio, nell’ala bassa del casale, illudendosi di poter
rimediare allo sbaglio, di sostituire una casa con l’altra, il nuovo con il
vecchio. Ma non c’era compensazione possibile. Così, insieme alla casa di
Framura, aveva perso anche lui.
«Io lo trovo bellissimo, quell’appartamento!» esplose Caterina. «È fatto
con gusto e molta cura e ci sto bene come in nessun altro posto». Per
qualche ragione che non sapeva spiegarsi stentava a trattenere l’emozione.
Si alzò, sparecchiò, riempì la caraffa dell’acqua e la ciotola di Ramingo,
prese una mela e la morse, in piedi, vicino al lavandino, poi tornò a tavola e
disse a Delio che la Caravane non avrebbe chiuso finché lei non avesse
tagliato almeno una testa. E l’immagine di una Caterina guerriera che
brandiva lo scalpo di un cliente, li fece sorridere.
Quella notte Caterina ripensò a lungo al racconto di Delio e concluse che
Daniele era troppo severo con lui. Eppure non riusciva a detestarlo. Quel
giovane spregiudicato, di una decina d’anni più grande di lei – la stessa
differenza d’età che c’era fra Delio e Teresa –, quel suonatore di tromba dal
destino spaesato, la attirava da impazzire. S’infilò il suo pigiama, che non
aveva mai reso a Delio, e spegnendo la luce tornò a sognarlo.
Con il passare del tempo le lezioni divennero briose e il professore
disinvolto. All’arrivo del caldo aveva rinunciato alla giacca, e le maniche di
camicia risvoltate, il volto accalorato, lo facevano sembrare particolarmente
in forma. Ogni venerdì la scrivania traboccava di quaderni e libri e Caterina
non trovò più bicchieri abbandonati ai piedi della poltrona o bottiglie vuote
dimenticate qui e là. Sul leggio del piano erano aperti degli spartiti di Bach e
sul pavimento di cotto rosso scivolavano i giochi di luce del sole fra le
boccette vuote di profumo.
Benché il professore continuasse a essere preso dalle sue dissertazioni,
mostrava piccole attenzioni nei confronti della ragazza. Al suo arrivo le
scostava la sedia dalla scrivania e non dimenticava di accompagnarla alla
porta quando se ne andava. Una volta le aveva chiesto se le dava fastidio la
finestra aperta, un’altra le aveva offerto dell’acqua. Quel giorno, vedendola
disattenta, gliene chiese il motivo. Non era per riprenderla, Caterina lo capì,
ma avvampò. L’aveva distratta l’idea che il professore avesse potuto avere
Daniele per studente e, mentre lui procedeva nella disamina dell’influenza
della psicoanalisi sulla narrativa francese, lei cercava di calcolare le
probabilità che avessero frequentato lo stesso liceo negli stessi anni.
Provava a immaginarli, l’uno più giovane e l’altro studente, confrontarsi su
qualche argomento del programma, studiarsi a distanza, nutrire stima
reciproca ma senza mostrarlo.
«Mi scusi, la sua lezione era appassionante. Sono io che mi sono persa nei
miei pensieri».
«In una bella giornata come questa, è tedioso affrontare certi argomenti».
Il professore andò alla finestra e gettò un’occhiata fuori. «Che ne dice di
una bevanda fresca?» E senza aspettare la risposta, scomparve in cucina a
prendere acqua e succo di menta.
In giugno, i primi caldi resero irrespirabile il sottotetto della chambre de
bonne. Daniele si presentò da Klara con un ventilatore e lei ci si mise
davanti. Sarebbe stata capace di rimanere per ore a prendere l’aria in faccia,
con i capelli che le svolazzavano sulle spalle come briglie sciolte. Daniele la
osservava e rimpiangeva di non sentire per lei quello che doveva aver
provato Amir la notte in cui l’aveva vegliata, un amore fatto di venerazione
e semplice sbalordimento. Aveva superato i trent’anni e un pensiero
molesto lo spingeva a credere che non sarebbe più stato in grado di trovare
qualcuno né di adattarsi a una qualsiasi relazione, perché c’è un’età per
scegliere e un’età per aggiustarsi con quello che si ha e lui si sentiva fuori da
entrambe. Klara, scostandosi dal getto d’aria, gli disse che il ventilatore era
un regalo utile, ma che avrebbe preferito un anello. Lui capì di aver lasciato
intendere troppe cose e volle ferirla: «Cosa cerchi da me? Non sono il tuo
principe azzurro, né tuo padre o un fratello. Sono solo uno che divide il letto
con te una notte alla settimana».
«Perché vieni, allora, quando ti chiamo?»
«Per riguardo, il riguardo che non ho avuto quando ne avevi più bisogno:
la notte dopo l’aborto, all’ospedale, c’era Amir con te. Il ragazzo che ti ha
vegliato era lui, io non ci avevo neanche pensato a venire».
«Il cugino di Hamza? Perché?» Per alcuni secondi si sentì solo il ronzio
del ventilatore. «Preferivo pensare di essere da sola». Era confusa ma si
controllava. Era una ragazza forte, non sarebbe riuscita altrimenti a dare un
colpo di spugna alla storia con Hamza e a rimanere salda nella perfetta
solitudine delle sue ambizioni.
«Non dovresti dirlo, sei ingiusta» ribatté Daniele in difesa di Amir.
«Ingiusta? In questa vicenda, sono la sola a essere onesta. Cosa vuoi che
ti dica? Ringrazialo tanto da parte mia? Portagli i miei saluti?» Scattò in
piedi, il viso congestionato e le mani strette a pugno. Poi sedette di nuovo e
con voce misurata disse: «Non ci voglio più pensare. Non voglio avere a che
fare con nessuno di loro. Nemmeno Nadira vedo più».
«Amir non c’entra e Nadira è tua amica».
«Certo, stava dalla mia parte e senza di lei non avrei scoperto chi era
realmente Hamza, ma è spaventosa la sua abilità a fare il doppio gioco. È
arrivata a conoscere ogni minimo dettaglio del piano di Hamza, stava con
lui, ma tramava alle sue spalle per smascherarlo, per eliminarlo. Persone
come lei, se le hai contro, sono capaci di farti fuori senza che te ne renda
neanche conto. Nadira e Hamza giocavano ruoli opposti, ma le strategie e i
mezzi erano gli stessi e se con Hamza mi sono fatta l’idea che i magrebini
sono infidi, con Nadira ne ho ricevuto la conferma». Daniele cercò di
opporsi, ma lei glielo impedì. «No, aspetta, fammi finire» disse, con tono
completamente pacificato. «L’unica cosa bella che ho avuto da questa storia
sei tu e non m’importa se non è amore, il nostro. Anche se è solo premura o
tenerezza, mi basta. Mi basta che tu venga. Il sabato sera è l’unica notte in
cui dormo. Non ti chiedo molto, in fondo».
Klara lavorava come baby-sitter fino all’ora di cena e la notte studiava.
Era iscritta al dipartimento di Studi slavi della Sorbona, aveva discusso
brillantemente la tesi di dottorato e stava preparando un progetto per una
borsa di studio che aveva alte probabilità di ottenere. Parlava raramente
dell’università, ma a quel posto teneva sopra ogni cosa, era la sua carta per
restare in Francia. E si commosse quando Daniele le disse che, se fosse stato
il suo professore, avrebbe scommesso su di lei. Klara lo definì il più bel
complimento che potesse ricevere.
Daniele si era laureato in Economia e Commercio presentandosi
all’università solo quando doveva sostenere gli esami. Era arrivato alla
laurea senza sforzo e senza interesse, più che per il titolo, per far contento
suo nonno che si era messo in testa di volergli pagare gli studi,
costringendolo di fatto a laurearsi e in fretta. Suo nonno aveva incorniciato
la pergamena della laurea nell’ingresso e a quelli che entravano diceva,
picchiettando sul vetro: «Vedete questo? È il mio riscatto. Questo è il mio
diploma!»
Anche Klara aveva usato quel termine con lui, “sei il mio riscatto” gli
aveva detto una volta riferendosi all’umiliazione subita con Hamza. Ma il
suo bisogno di riscatto, in realtà, era precedente, riguardava la sua famiglia,
il paese, certe povertà di cui Daniele aveva sentito dire solo dai vecchi di
Framura. Quando Klara parlava della Polonia, i ricordi le franavano addosso
come argilla secca ed erano ricordi di strade infangate e pozzi, ruberie,
litanie, allagamenti e altri scherzi di Dio. Li rievocava come si presentavano,
con contorni ora incerti ora tremendamente nitidi e secondo le connessioni
apparentemente casuali di cui è capace la mente. I suoi occhi allora si
sgranavano nello sforzo di distinguere ombre in lontananza, esattamente
come la volta che l’aveva incontrata al Comptoir Jazz e l’aveva creduta
lucida e ubriaca insieme.
«I regali di Natale erano uguali per tutti, un anno c’era un gioco di
società, un altro anno i pattini... Ma era già tanto avere un regalo. C’era la
fila davanti al negozio e alcuni rimanevano senza. L’anno dei pattini, li
avevo ricevuti di un paio di taglie più grandi della mia. Mio papà, allora,
aveva detto che erano pattini da hockey e io li avevo trovati subito speciali.
Ce li ho ancora, sono appesi a un chiodo nella cantina dei miei... In cantina
mia nonna imbottiva i cuscini con le piume d’oca. Aveva trovato al mercato
nero della stoffa per le federe, una stoffa dura, impossibile da cucire a mano.
Mio nonno le aveva comprato una macchina da cucire. Me la ricordo
ancora, una macchina polacca, nuova di zecca, che nessuno ha mai saputo
come si fosse procurato. Ma la nonna non aveva voluto saperne di usarla.
Allora, lui, col libretto delle istruzioni in mano, mi aveva detto: “Se non
vuole usarla lei, la userai tu”... L’ho lasciata là. Odora di metallo e di olio. I
miei nonni invece sanno di farina e di bosco...»
Gli parve di sentire parlare di sotto, ma era convinto che fosse ancora
notte, che si trattasse di un sogno, e si tirò il lenzuolo sopra la testa. E
quando Delio gli chiese le chiavi per spostare la macchina pensò a un
inganno del sonno, anche se la voce proveniva dalla stanza e la mano che lo
scuoteva era reale. Non lo stava scuotendo, in verità, si appoggiava alla sua
schiena con piccoli colpetti: «Daniele, ci sarebbe da spostare la tua auto. Se
mi dici dove sono le chiavi posso farlo io». Era la voce di Delio. Quando
Daniele tirò fuori la testa, però, nella penombra non vide suo padre, ma un
uomo smagrito, dalle mani tremanti, che gli diceva cose senza senso. La
richiesta incalzante di spostare l’auto, il gesto di porgergli i jeans, lo
convinsero che quella non era un’ombra. Di sotto, inoltre, qualcuno chiamò
Delio, e Daniele riconobbe la voce della segreteria telefonica. «Non avevo
visto che avevi lasciato la macchina sul vialetto, stanotte, altrimenti te
l’avrei fatta tirare via» gli ripeté Delio. «Bisogna spostarla, altrimenti non
può venire fuori col camper».
«Chi?» riuscì infine a chiedere Daniele.
«Caterina».
«È la tua compagna?»
Delio scoppiò in una grande risata. «Vieni, te la presento» disse e non
smetteva di ridere.
Caterina aspettava in fondo alle scale tormentandosi una ciocca di capelli
dai riflessi ora ramati, ora castani, ora dorati. Rivolse a Daniele un sorriso di
disagio, il cuore impazzito. Si presentarono e si voltarono verso Delio,
ancora sulla scala. Scendeva a rilento un gradino alla volta e Daniele capì
che l’impressione di poco prima non era stata falsata dal sonno, suo padre
era realmente un fantasma, con il corpo minuto e goffo e le mani
tormentate. Portava una fasciatura alla spalla sinistra, le braccia però erano
libere e pendevano lungo le gambe con l’appendice delle mani tremanti. La
vecchiaia si era impossessata di lui, gli si era gettata addosso come un
sortilegio e aveva scavato i suoi lineamenti con i tratti calcati delle
maschere. Daniele si chiese quando si fosse ridotto così, in quale stagione,
quale giorno di quegli ultimi anni che aveva passato senza fargli visita.
Interrogò con lo sguardo la ragazza e lei annuì, a confermargli che era vero
quello che vedeva.
«Coraggio» li esortò Delio quando li raggiunse, e si avviò alla porta.
Fu Caterina, incespicando nelle parole, a spiegare a Daniele cosa stava
succedendo: «Delio mi ha detto che sei arrivato nella notte... Mi dispiace
averti svegliato. Io... Cioè, il camper...»
«Il camper è stato adattato a salone itinerante da parrucchiera» tagliò
corto Delio. «E la parrucchiera è lei, e occasionalmente sua zia, che però ha
il negozio giù in paese. Il salone apre a Castanet e a Bellegarde il sabato, e la
domenica a Vauvet».
«Il camper è quello dei tuoi genitori» precisò Caterina. «E c’è un’altra
cosa» aggiunse passando sotto le finestre di camera sua. «Abito qui».
Il mattino dopo, Daniele si svegliò alle sei, raccolse le sue cose e sgusciò
fuori come un ladro.
«Stai andando via?» gli chiese Caterina, sporgendosi dal finestrino
dell’auto.
Non pensava di rivederla. «E tu dove vai, a quest’ora?»
«Al lavoro. Sempre che la macchina voglia partire. Senti?» Girò la chiave,
il motore s’ingolfò.
Daniele posò la borsa per terra e mise la testa nell’abitacolo. Caterina
sapeva di acqua. «Prova a spegnere e a riavviare».
Lei eseguì. «Non va, vedi?»
«Devi mettere la prima» suggerì rialzandosi.
Caterina avvampò e uscì dalla macchina con un sorriso mezzo
imbarazzato e mezzo divertito che cercava di nascondere stropicciandosi gli
occhi. Era rientrata tardi, la sera prima avevano festeggiato il compleanno di
Pierre.
«Dove sei diretta?» Glielo aveva già chiesto, ma non doveva aver capito,
non era possibile che un negozio da parrucchiere aprisse a quell’ora.
«Vado in paese, al lavoro».
«A quest’ora?»
«Apriamo alle sette».
Non si spiegava come, in un paesino di poche migliaia d’anime, un
parrucchiere potesse fare quegli orari, ma non volle insistere. Guardò
Ramingo che sonnecchiava con la testa fuori dalla cuccia e cambiò discorso.
«È sempre più pigro quel cane» commentò.
«È sempre più vecchio».
«Già».
«Ho trovato invecchiato anche mio padre» riprese lui. «L’uno lo specchio
dell’altro».
«È da molto che manchi?»
«Sì» ammise e ci fu un momento di silenzio.
«Com’era l’ultima volta che lo hai visto?»
«Come sempre in questi anni, immalinconito dalla morte di Teresa, ma
fisicamente in forma. Non aveva quei tremori e non era così lento. A volte si
direbbe che non ricordi di dover mettere un piede dopo l’altro per
camminare».
Daniele aveva i capelli folti e scompigliati di suo padre, ma spalle robuste
e lineamenti più fini.
«La malattia ha un decorso molto rapido in lui, l’ho notato anch’io che
sono qui solo da qualche mese».
«Che malattia?» chiese Daniele. La voce era agitata.
«Credo sia Parkinson, ma solo gli esami neurologici e
l’elettroencefalogramma possono stabilirlo con esattezza. I medici,
all’ospedale, non si sono voluti pronunciare. I risultati, comunque,
arriveranno in questi giorni. Delio si era opposto ai controlli, voleva evitare
di preoccuparsi finché i sintomi non fossero diventati invalidanti. Prima
s’interviene meglio è, invece, e per il Parkinson ci sono farmaci efficaci. Ora,
come ha accettato di fare gli esami, dovrebbe accettare anche di seguire la
terapia perché potrebbe davvero alleviare i suoi disturbi motori». Quel
discorso, Caterina lo aveva ripetuto decine di volte nella sua testa per
convincere Delio a farsi curare. Lo fece a Daniele, non per allarmarlo, ma
perché sapesse anche lui di quella malattia. Perché restasse.
Daniele la assalì, con aggressività e paura, l’aggressività della paura: «Di
cosa parli? Chi ti credi di essere?»
Caterina sgranò gli occhi. «Scusa...» si affrettò a dire. «È solo
un’opinione, in effetti... Dai sintomi che ho visto in lui...»
«Sintomi? Ma cosa cazzo stai dicendo? Cosa ne sai tu?»
«Sono infermiera. Ma posso essermi sbagliata, hai ragione. I medici
sapranno darti la diagnosi esatta».
Daniele rimase interdetto. «Come? Non capisco, non fai la
parrucchiera?»
Caterina sorrise. «Credevo che Delio te l’avesse detto. Mi sono laureata a
Roma in Infermieristica con una specializzazione in geriatria. Dopo lo stage,
ho lasciato il Policlinico e sono venuta all’ambulatorio giù in paese, per una
sostituzione annuale. Quello della parrucchiera è solo un passatempo, ho
imparato in famiglia». Caterina controllò l’ora. «Devo veramente andare,
adesso» disse rientrando in macchina. «Metto la prima, allora» ironizzò.
L’occhio le cadde sul borsone ai piedi di Daniele. «Sei in partenza?»
«No» rispose lui. «Ho ancora tutta la settimana di ferie. Lo stavo solo
portando in macchina» mentì. Aveva mille domande da farle sul Parkinson
e su di lei e si sarebbe voluto scusare per averla aggredita. Stava per
chiederle a che ora sarebbe tornata, ma la macchina si mise in moto al
primo colpo.
«Ti sta bene quel taglio» disse lei passandogli davanti.
«Quanto rimarrai qui?»
«Fino a Natale».
«Cosa ci fai con quella borsa? Stai andando via?» urlò Aron mentre dava
da mangiare alle galline.
Daniele gli fece cenno di no.
«Hai una faccia che sembra che ti abbiano dato una botta in testa. Il
mattino non è proprio il tuo momento».
«Non fai sfoggio di parole, ma sai sempre usare quelle giuste».
Ci prendevano gusto a battibeccare come zitelle ed erano maestri
nell’evitare di rispondere alle domande, nel provocarsi senza cadere nella
provocazione dell’altro. Videro Delio andare al pollaio.
«È l’ora dello zabaione!» commentò Daniele. «Vieni a mangiarlo, le uova
sono freschissime! Delio ha certe ovaiole che sono un portento!»
«Come fa a non piacerti lo zabaione? Hai proprio qualcosa che non va,
tu».
I risultati delle analisi arrivarono il giorno seguente e la diagnosi fu quella di
Parkinson.
Rientrando a casa dall’ospedale, Delio si guardò attorno come se si fosse
assentato da anni e stentasse a riconoscere quelle stanze. Appoggiava lo
sguardo ora su una cosa ora sull’altra, con gli occhi lenti di una mente
assente, a tratti assiepata di memorie. Posò le ricette sulla credenza, sotto la
foto di Teresa e Daniele. Non erano passati dalla farmacia, non era convinto
di voler iniziare il trattamento e aveva finto di aver dimenticato la tessera
sanitaria a casa. E si chiuse in camera.
I giorni successivi trascorse gran parte del tempo a letto, uscendo solo per
andare in bagno o quando lo chiamavano per mangiare, e a tavola non
parlava a meno che non lo interrogassero. Lo sorpresero più di una volta a
fissare il bastone. Sembrava richiedergli un certo sforzo ricordare il motivo
per cui lo possedeva e dava l’impressione di realizzare solo a posteriori di
essere malato, non nella spalla, che si era ormai ristabilita, più in profondità.
Era una malattia definitiva, su cui il neurologo aveva speso parecchie parole
che gli era sembrato di capire, mentre le pronunciava, ma appena fuori
dall’ambulatorio erano diventate fumose. La causa della malattia è
sconosciuta, questo lo ricordava con chiarezza. «Per la sindrome di
Parkinson, come per altre patologie» aveva detto, «la comunità medico-
scientifica non è in grado di stabilire l’eziologia». Gli venne da sorridere
all’espressione “comunità medico-scientifica”, sembrava una muraglia
indistruttibile, invece, nel suo caso, faceva acqua. Gli era rimasto impresso
anche che la malattia è dovuta alla morte delle cellule in una regione del
cervello che si chiama sostanza nera e se la raffigurò come una pallina
molle, leggermente limacciosa, da cui si staccavano minuscole particelle che
cadevano e si dileguavano senza suono. Le cellule, pensò, devono essere
come gli uccelli, che quando muoiono non si sa dove vanno a finire. Del
lungo discorso del dottore, poi, gli erano rimaste in mente certe parole
isolate che aveva ripetuto più volte: dopamina, levodopa,
neurodegenerativa. Non la smetteva più di parlare e anche dopo che si
erano congedati, mentre Daniele era andato a prendere la macchina, aveva
tirato fuori un articolo sui “disordini del movimento” e aveva tenuto a
specificare che si chiamava “malattia” o “sindrome”, non “morbo”, come si
usa correntemente. «Il termine “morbo” si riferisce a patologie a decorso
fatale e non è il caso del Parkinson» così aveva detto.
Quelle spiegazioni tornavano a intermittenza, frasi sconclusionate che
avevano dato però concretezza ai suoi sintomi e cominciò a spaventarsi
delle mani instabili e del pavimento che rischiava di franare a ogni passo.
Esaminava il suo corpo con apprensione e più si sforzava di controllarlo più
quello rispondeva con reazioni impedite. Anche il gesto più ovvio non era
scontato, sfuggiva alla sua volontà e alla spontaneità. Aveva paura di se
stesso e questa paura provocava commozioni immotivate impossibili da
trattenere. Piangeva se il bastone gli scivolava di mano, se Caterina lo
prendeva sottobraccio, lo commuoveva vedere Aron lavorare nell’orto o
sentire il rumore delle ruote dell’auto di Liliana che veniva a fargli visita.
Una mattina, uscendo dalla camera, trovò Daniele che gli stava
preparando uno zabaione. A vederlo con la frusta in mano, gli si riempirono
gli occhi di lacrime.
«Adesso ti calmi!» gli disse Daniele alzando la voce. «Non c’è niente di
cui piangere. L’ho fatto solo perché stavamo accumulando troppe uova, lo
faccio per Aron. E poi è uno schifo, guarda, non si è montato, ci sono isole
di albume che galleggiano sul vino e mi è venuto un crampo a forza di
sbattere!»
Delio si sporse sulla tazza e rise. Rideva e piangeva. «Gettalo via» gli
ordinò asciugandosi gli occhi. «E passami un contenitore pulito e delle altre
uova, le più fresche però, altrimenti non ne vale la pena. E una forchetta,
non riesco a usare il frustino».
Si impegnò a montare lo zabaione con una precisione di cui Daniele non
lo avrebbe creduto capace. Più girava, più divenne chiaro a entrambi che
quella era una questione di principio: se lo zabaione non fosse riuscito,
Delio non sarebbe più riuscito in niente. Fissarono in apnea i cerchi sottili
che la forchetta formava nella crema, il colore che cambiava, la spuma che si
gonfiava. Incorporò il liquore e riprese. Si fermò di colpo. «Mettilo in
quattro bicchieri» disse. «È venuto». E si alzò.
«Dove stai andando?» gli chiese Daniele vedendolo avviarsi alla porta.
«Vado a chiamare Aron, così vedo anche cosa sta combinando nel mio
orto».
Non riuscì ad arrivare fino all’orto. A metà strada tornò indietro e sedette
sulla panca sotto il portico. Ramingo lo raggiunse. «Ho mentito, sai?» gli
bisbigliò Delio. «Ho detto a tutti che eri stato tu a farmi cadere, ma i dottori
l’hanno capito che non c’entravi, che era la malattia. Ti ho preso come
capro espiatorio, è da codardi, perdonami, anche se avrei preferito che fossi
stato tu». Prima per il ricovero, poi per l’arrivo di Daniele, era da un po’ di
tempo che non parlava con il suo cane e quelle chiacchiere gli mancavano.
«Sei un caro cane, Ramingo... Come siamo messi male... Stabilire chi stia
peggio fra noi due è dura. La spalla è guarita in breve tempo, la malattia
invece me la porterò nella tomba, anzi sarà lei a portare me. Il neurologo mi
ha fatto una lista di personaggi celebri che hanno sofferto della malattia,
Hitler, Mao Tse Tung, Giovanni Paolo II e artisti e attori che non avevo mai
sentito. Ne parlava come se fosse quasi normale avere il Parkinson... E io
pensavo a quel pover’uomo, il signor Parkinson, che nessuno ricorda più
per quello che era, ma per la malattia che ha scoperto e che porta il suo
nome... Di cui però non ha trovato le cause, né la cura... Lasciamo perdere...
Guarda, Aron sta arrivando. Da quando mi sono fatto male alla spalla, non
c’è giorno che non si occupi dell’orto e del frutteto. Di sicuro non c’è stato
neanche bisogno di chiederglielo, ci si sarà messo spontaneamente. Deve
continuare, però. Anche se la spalla è a posto, non tutto lo è».
Nemmeno nei giorni successivi andò nell’orto. Se ne stava seduto sotto il
portico lasciando che l’orto si allontanasse di ora in ora fino a diventare
irraggiungibile. All’imbrunire, quando il calore si attenuava, Caterina gli
proponeva di fare due passi. Camminavano su e giù lungo lo stradello, lei gli
parlava dell’ambulatorio o di Roma e lui perlopiù taceva. Daniele non gli
offriva di passeggiare, ma mostrava comunque molte attenzioni nei suoi
confronti. Se Delio si tratteneva in bagno più a lungo del dovuto, per
esempio, si avvicinava alla porta per accertarsi che non fosse caduto e
quando usciva lo seguiva con lo sguardo o lo raggiungeva per portargli il
bastone. Daniele e Caterina si muovevano attorno a lui come comparse,
attenti a sostenerlo senza forzarlo, a incoraggiarlo ma senza fare al posto
suo, e prima di prendere una qualunque iniziativa si consultavano con lo
sguardo.
Caterina sedeva sul gradino che separava il portico dal prato. Aspettò che
Daniele si avvicinasse e gli disse: «Sai come avevano chiamato il Parkinson
in origine? Paralisi agitante». Si slacciò i sandali e li abbandonò nell’erba.
Aveva piedi talmente lisci che Daniele avrebbe voluto accarezzarli. «Il
neurologo, mentre eri andato a prendere la macchina, ha ripetuto che in
Delio il decorso della malattia è anomalo, anche se ha riconosciuto che c’è
una grande variabilità da paziente a paziente. I sintomi motori considerati
alla base della malattia, come il tremore a riposo, la lentezza e la rigidità dei
movimenti, sono ancora relativamente deboli in lui, il che farebbe pensare a
un esordio della malattia. Anche quel modo di camminare per passi brevi e
strascicati che a noi sembra esagerato, in realtà è ancora solo accennato. La
perdita dell’equilibrio, invece, si manifesta di solito in fase avanzata».
«Quindi lui è all’inizio o alla fine?»
«Non si sa. Però il medico è stato incoraggiante sugli effetti dei farmaci.
Anche in questo caso la reazione varia da una persona all’altra, ma ha
assicurato un miglioramento radicale nella mobilità, perlomeno per i primi
tempi».
«E quanto è “i primi tempi”? Mesi? Anni?»
«Non si può dire, non si può prevedere come Delio reagirà alle medicine.
Per questo si comincia con un dosaggio basso, che si potrà aumentare
gradualmente e adattare alle necessità, ma è importante che Delio inizi».
Fece una pausa. Daniele sapeva cosa gli avrebbe chiesto. «Spetta a te
convincerlo».
«Abbiamo passato una vita a restare lontani e adesso gli sono talmente
vicino da sentire l’odore che ha in bocca». Si mise a giocare con gli steli
d’erba.
«Perché non sei restato qui? È casa tua, questa».
«No. Mia madre era pazza, sapeva occuparsi solo della terra, non era in
grado di stare dietro a un bambino piccolo. Delio ha dovuto scegliere, o me
o lei, così mi ha portato dai suoi, a Framura, e mi hanno cresciuto loro.
Quella era casa mia».
«Non ci credo» azzardò lei. «Non era veramente pazza, tua mamma,
esageri. Dovresti sentire come ne parla Delio».
«La cosa più bella di mia madre era l’amore che Delio provava per lei».
A quelle parole, a Caterina venne la pelle d’oca. Gli chiese di loro e non lo
interruppe più.
Teresa era figlia unica, veniva da una famiglia piuttosto agiata, era andata
a scuola fino alla terza media e i suoi desideravano per lei un buon
matrimonio. Delio era di dieci anni più grande e aveva un destino da
migrante. Suo padre era contadino e tuttofare per i genitori di Teresa e la
madre governante presso di loro. Si portavano il figlio appresso e gli
affidavano vari compiti. Delio e Teresa erano cresciuti insieme. Quando le
famiglie si accorsero che erano innamorati era già troppo tardi. I genitori di
Teresa avevano offerto una grossa somma al padre di Delio perché
mandasse il figlio all’estero e lui era andato prima a Lione, come muratore,
poi nel sud-ovest, come meccanico. Credevano di aver risolto il problema,
nessuno si aspettava che Teresa scappasse da lui.
Caterina si ravvoltolava una ciocca di capelli intorno al dito. Pendeva
dalle sue labbra, le stesse labbra sfuggenti di quando aveva sedici anni nella
foto sulla credenza.
Un po’ per amore e molto per orgoglio, Teresa non aveva mai messo in
discussione la propria scelta e non era tornata dai suoi. Era diventato
pressante, per lei, dimostrare alla famiglia di non aver sbagliato, di non aver
perso niente andandosene via. Aveva iniziato a coltivare la terra del podere
che Delio aveva comprato con i propri risparmi, a venderne i prodotti e a
reinvestire i guadagni. Ed era riuscita nell’impresa. Aveva differenziato le
produzioni e si era potuta permettere anche di pagare dei lavoratori
stagionali. Aveva avviato perfino un commercio di conserve. Era rimasta
incinta quando era all’apice dell’attività. Delio era al colmo della gioia, lei,
invece, non avrebbe voluto avere figli. Aveva portato avanti la gravidanza
perché allora non si abortiva e perché un figlio poteva rientrare in quel
disegno di riuscita che si era prefissata. Ma quel disegno era diventato
un’ostinazione immotivata. La sua famiglia, infatti, dopo averle inutilmente
intimato di tornare, l’aveva diseredata. Teresa era rimasta delusa di scoprire
che un bambino non è un melo: era in grado di restare in piedi notti intere
ad accendere i falò nel frutteto per evitare che gelate tardive mettessero in
pericolo l’annata, ma non riusciva ad alzarsi per allattare. Le erano venute
febbri alte e dolori che né i dottori né le anziane dei dintorni erano stati
capaci di calmare. Rifiutava di occuparsi del figlio, non ne sopportava i
pianti. La notte si rifugiava nel casotto degli attrezzi e di giorno non si
alzava dal letto. Per Delio era insopportabile vederla in quello stato e portò
via il neonato, a Framura, dai suoi.
«Teresa non era fatta per essere madre. Appena me ne andai, si riprese.
Delio venne a riprendermi quindici anni dopo per riportarmi
definitivamente qui».
«E allora lei com’era?»
«Non aveva perso l’abitudine di armeggiare in giardino, in piena notte,
come se non avesse bisogno di dormire come tutti gli esseri viventi. Quando
rientravo da una serata con gli amici, mi salutava con i guanti e
l’innaffiatoio in mano. Non avevamo niente in comune, se non il fatto di
essere gli unici in piedi a quell’ora».
«Come mai ti hanno ripreso con loro?»
«Non è stata una decisione dei miei, è stato per volontà di mio nonno.
Con i loro risparmi e i soldi che gli mandava Delio i nonni avevano smesso
di lavorare sotto padrone e si erano comprati il pezzo di terra dietro casa
che coltivavano a ortaggi. Erano stati anni felici, in cui avevano raggiunto
una certa stabilità economica, e potevano crescermi senza farmi mancare
niente, come non avevano potuto fare con mio padre. Poi, però, i tempi
cambiarono di nuovo. Non riuscirono a fare fronte alla concorrenza,
vendettero le terre, vennero raggirati e persero un sacco di soldi. Si
ritirarono in pensione, sfiduciati, sentendosi improvvisamente troppo
vecchi. Una notte mio nonno mi svegliò, andammo su in terrazza, da dove si
vedevano le coltivazioni che erano state sue fino a poco tempo prima. Mi
indicò un uomo che, in fondo all’appezzamento, stava rubando dei meloni.
“Eravamo amici da piccoli, abbiamo la stessa età” mi spiegò. “Si è ridotto a
rubare meloni”. Restammo lì finché il ladro non se ne andò, poi il nonno
disse: “L’Italia è diventato un paese disperato. Non voglio che ti sfiori il
dubbio che vivere onestamente sia da stupidi o da vigliacchi. Ho parlato con
tuo padre, continuerai gli studi in Francia”». Daniele strappò una gramigna,
guardò Caterina di sbieco, le sorrise, uno dei suoi sorrisi brevi. «Ecco, la
storia è finita».
«È Delio che te l’ha raccontata?» chiese lei.
«No, è stata Rose. Non usò queste parole, ovviamente, Rose non dà
giudizi. Le parole sono le mie, ma i fatti sono fatti. Dopo la maturità sono
tornato di nuovo in Italia, ma in realtà non sapevo più stare neanche là.
Studiavo, lavoravo, viaggiavo come se stessi sperimentando una libertà
vertiginosa, invece era solo un gran casino. Questa non è casa mia,
comunque. È un posto meraviglioso dove trascorrere le vacanze» disse
ironicamente. «C’è mio padre che ha la faccia di uno che sta per annegare,
tallonato da Ramingo, ormai una carcassa su quattro zampe, Aron che in
quanto a compagnia la sa lunga e Rose, la vecchia fata turchina».
«Adesso ci sono anch’io».
«Già, e tu».
Caterina gli sfilò di mano l’erba con cui stava giocando e si accorse
dell’ora, all’orologio che lui aveva al polso. Era tardi. Indossò rapidamente i
sandali spiegando che aveva lezione e scappò via. Daniele non riuscì a
chiederle lezione di cosa. Strappò un altro ciuffetto d’erba, e non gli rimase
che andare da Rose.