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All’alba di un nuovo anno, Caterina giunge in Francia dove sua zia Liliana si

è stabilita dopo il fatale incontro con un turista francese. Nel borgo, antico
come un aratro, sembra che il tempo non calchi mai la mano: campi coltivati
a orzo, frutteti per trarvi conserve e marmellate, forni a legna dove cuocere
il pane dal sapore acidulo del lievito madre, tutto sembra ubbidire a un
placido scorrere degli anni e delle ore.
Capelli biondo ruggine e, dipinta sul volto, la bellezza senza compromessi
della gioventù, Caterina ha lasciato Roma, con i suoi androni scrostati e le
strade chiassose, per sfuggire all’abbraccio soffocante di sua madre e trovare
la propria via nel mondo. Conclusi gli studi, ha raggiunto zia Liliana con la
prospettiva di un lavoro in un poliambulatorio e l’idea di dare una mano
nella conduzione del Liliane Coiffure, un lindo salone di parrucchiera dalle
poltroncine viola che la zia ha aperto in quel borgo nel sud della Francia.
Un giorno capita nel salone un vecchio signore con una massa scompigliata
di capelli e una mano tremante abbandonata lungo la gamba. Si è ferito alla
fronte nel tentativo di accorciarsi da solo i capelli, ed è in imbarazzo tra
quelle poltroncine viola, i vasi di ranuncoli e le riviste di moda impilate
negli angoli. Fuggirebbe, se non fosse per l’accoglienza che gli riserva
Caterina, che si prende subito cura di lui.
Come due anime che si sfiorano e si riconoscono, Caterina e Delio, il
vecchio signore, comprendono all’istante che il filo del destino li unisce. La
sera stessa la ragazza riempie una valigia e si stabilisce nel casolare accanto
alla casa di Delio. Il vecchio vive solo, circondato da una terra dura, con
malerbe che crescono ovunque e cumuli di sterpaglie affastellati lungo i
camminamenti dell’orto, quell’orto che sua moglie Teresa coltivava con cura
prima che la malattia se la portasse via. Caterina non tarda a capire che
un’altra mancanza grava sul cuore malandato del vecchio: Daniele, il figlio
che la foto sulla credenza raffigura come un giovane uomo prestante, coi
capelli un po’ lunghi e un’aria sfrontata, è assente da casa da più di quattro
anni. In paese, dove tutti parlano di lui e qualche ragazza lo nomina con il
rimpianto di una ex innamorata, si sussurra che una grave offesa l’abbia
spinto a rifiutare ogni contatto col padre.
Quando, però, dopo una caduta, Delio cede alla vecchiaia e si mette a letto
col volto scavato dalla stanchezza della vita, Daniele compare sull’uscio di
casa. E Caterina, tormentandosi una ciocca di capelli, lo accoglie con un
sorriso di disagio, il cuore impazzito.
Appassionante romanzo sull’educazione sentimentale di una giovane donna,
scritto con una prosa delicata capace di ritrarre magistralmente i moti più
profondi dell’animo, Finché notte non sia più costituisce una splendida
conferma del talento dell’autrice di Dentro c’è una strada per Parigi.
Novita Amadei è nata a Parma e vive in Francia. Lavora da anni nell’ambito
delle migrazioni internazionali e dell’asilo politico come ricercatrice,
formatrice e coordinatrice di progetti. Dentro c’è una strada per Parigi, il suo
romanzo d’esordio, è stato finalista alla prima edizione del Premio Letterario
Nazionale di Letteratura Neri Pozza. Il romanzo si è classificato anche fra i
finalisti dei premi Bottari Lattes Grinzane e Corrado Alvaro e ha vinto il
XXVIII premio Massarosa. Finché notte non sia più è il suo secondo romanzo.
I NARRATORI DELLE TAVOLE
DELLO STESSO AUTORE
Dentro c’è una strada per Parigi
NOVITA AMADEI

Finché notte non sia più


© 2016 Neri Pozza Editore, Vicenza
www.neripozza.it
Edizione digitale: novembre 2016
ISBN 978-88-545-1465-2
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Lenta - Notte - da consumare -
Come Granelli su una spiaggia -
Troppo impercettibili da notare -
Finché Notte - non sia più.

Emily Dickinson
I primi giorni di gennaio scorrevano nella geometria allungata degli inizi
d’anno. A Caterina sembravano particolarmente lenti in quel borgo della
campagna francese dove il rollio del tempo non calcava mai la mano. A
Roma sarebbe stato impossibile tanto vuoto, pensava osservando la strada
desolata. Della città conosceva bene il quartiere Monti, i fori e Trastevere,
androni scrostati e vie buie la sera ma sempre chiassose. Dei pochi musei
che aveva visitato con la scuola e dei parchi monumentali dove qualche
volta si era ritrovata a passeggiare conservava un ricordo di folla ed
eternità. Roma era caotica, ignota, cadente e civettuola, nulla aveva a che
fare con quel borgo, antico come un aratro, che lei conosceva da sempre ma
che non aveva mai veramente abitato e che le sembrava ora reale, ora
sogno, come un déjà-vu.
Il telefono squillò. Liliana andò a rispondere, fissò l’appuntamento per
una messa in piega, augurò buon anno e tornò nel retrobottega a
inventariare le rimanenze e a preparare gli ordini. Era un’incombenza che
non amava e dopo anni di lavoro temeva ancora di sbagliare. Liliana era
parrucchiera, come Gina, sua sorella, la madre di Caterina. Come lei aveva
la mano svelta e precisa, ma nient’altro di quel mestiere le accomunava, né i
rispettivi saloni né le loro chiacchiere. Anche le mode e le richieste dei
clienti erano diverse nel negozio di Gina, a Roma, e da Liliana, nel sud-ovest
della Francia. E lo erano loro. Rispetto a Liliana, per esempio, Gina eseguiva
l’inventario con grande scrupolo e segreta soddisfazione, anche se diceva
che l’affaticava. Lo diceva anche di Roma e di molto altro della sua vita. Le
pesava soprattutto l’incapacità di trovare i gesti e le parole per tenere unita
la famiglia. E la solitudine di non aver altri che loro, sua sorella, il marito e
una figlia, quella figlia che era rimasta per così poco sua.
«Non c’è anima viva oggi» commentò Liliana dal ripostiglio. «Vuol dire
che la piega resiste alle feste».
Caterina sorrise e appoggiò la fronte alla vetrina su cui stava scivolando
il panno nero della notte. L’alone del fiato si allargò e si ritirò. Le campane
della chiesa suonarono le cinque. Infilò il cappotto e disse a Liliana che
sarebbe uscita a prendere una boccata d’aria.
La settimana prima a Roma, a quell’ora, scendendo via dei Serpenti per
andare a salutare sua madre al salone, si era unita a un gruppo di visitatori
radunati nella piazzetta della Madonna dei Monti. Le piaceva, di tanto in
tanto, fermarsi ad ascoltare una guida, ma non le era mai capitato in quella
piazza, dove da piccola giocava sui gradini della fontana. «La chiesa di Santa
Maria dei Monti è stata costruita su un antico monastero di clarisse poi
destinato ad abitazioni private» aveva spiegato la guida, una ragazza della
sua età, probabilmente fresca di studi come lei. «Si dice che un giorno di
aprile, nel 1579, mentre alcuni operai stavano demolendo il muro di un
fienile, la terra iniziò a tremare e una voce pregò di non far male al
bambino. I muratori, allora, tolsero i mattoni con le mani, a uno a uno, e
scoprirono un affresco della Vergine con il Bambino». Non raccontava,
recitava, con le pause e l’enfasi degli attori teatrali. «La notizia,
naturalmente, si sparse per tutta Roma richiamando molta gente, fra cui una
donna cieca che, di fronte all’immagine sacra, riacquistò la vista. Il ripetersi
delle guarigioni e dei miracoli, le elemosine raccolte tra i fedeli e la gran
folla che ogni giorno si accalcava al fienile convinsero papa Gregorio XIII a
dare l’assenso per la costruzione di una chiesa». La ragazza era passata
oltre, seguita dal gruppo di turisti, Caterina invece era entrata in chiesa a
osservare l’affresco che non vedeva da anni. La Madonna, seduta in trono,
teneva sulle ginocchia il Bambino con i piedi scalzi e il capo riccio ornato da
una corona ardente. La pelle candida della Vergine contrastava con la tunica
cobalto punteggiata di stelle, l’espressione assorta e il gesto con cui si
rivolgeva al figlio avevano una grazia soprannaturale. Caterina aveva
attraversato la navata laterale. I ceri accesi sotto dipinti di Cristi d’oro e
l’altare di fresie bianche offrivano una visione di dolore e magnificenza
insieme. Aveva lasciato un’offerta e preso una cartolina della Madonna con
il Bambino per sua mamma, che negli ultimi anni era diventata più devota.
Gina l’aveva gradita molto e a sua volta aveva tirato fuori dal portafoglio
un santino dai bordi smangiati: «San Camillo de Lellis, santo dei malati e
degli infermieri» aveva recitato. «C’è chi dice che sia sant’Irene la
protettrice delle infermiere, ma don Luca mi ha detto che è san Camillo».
«Lo tenevi nel portafoglio per me?» aveva domandato Caterina con stupore
e tenerezza. «Per papà e me ho santa Maria Maddalena, patrona delle
parrucchiere, delle pedicure e degli idraulici. Abbiamo la stessa santa. Buffo,
no?» Caterina si era chiesta quando sua madre avesse cominciato ad aderire
alla fede popolare dei santi, se anche suo padre la condivideva o se andava
da sola dal parroco, dopo la messa, a chiedere ragguagli su patroni, beati e
protettori. Aveva messo il santino in borsa per non offenderla e per
scaramanzia. O forse perché stava andando via. Quelli a ridosso della
partenza erano stati giorni di insolita intimità ed erano passati in un attimo,
senza presente.
Attraversò i vicoli del borgo raccolti nel buio e fu sorpresa di trovare il
Café de la gare pieno di gente. Sedette al bancone e chiese un cappuccino.
L’uomo accanto a lei ordinò un altro pastis. Il barista servì prima l’uno poi
l’altra, assolvendo con alcol e latte peccati che nemmeno conosceva. L’uomo
sfogliava il quotidiano locale bofonchiando che i giornali non davano un
buon esempio e che non c’era motivo di scrivere male quando si poteva
scrivere in modo corretto. Si schiarì la voce, chiese al barista una biro e
cominciò a segnare gli errori dell’articolo che aveva sotto gli occhi. Poi gettò
sprezzante la penna sul bancone e bevve. «La grammatica non le dà pace,
eh, professore?» scherzò il barista recuperando la biro e andando via senza
dargli il tempo di controbattere.
Era facile indovinare che si trattava di un professore in pensione, più che
per il tono pedante, per l’affetto compulsivo che mostrava per la lingua. Era
così anche la sua professoressa di francese del liceo, pensò Caterina. «Non
rinunciate alla lingua!» li aveva ammoniti quella volta che aveva trovato
incisa su un banco la frase: “Sei il mio tesò, il mio ammò, n’bijoux”. «Non è
sbagliato, prof, è romanesco» aveva obiettato un ragazzo. «Bijou va al
singolare, asino!» Si erano alzate risate fra i banchi. «La lingua è la vostra
provenienza, la vostra casa. Non avete niente di più intimo e prezioso: non
umiliatela, soprattutto quando decidete di renderla oscenamente pubblica».
«Trova osceno un messaggio d’amore, prof?» aveva rimbeccato lo studente.
«Trovo osceno deturpare un banco con errori grammaticali. Aggiungete ai
compiti per la prossima volta una pagina di frasi d’amore, in francese
ovviamente. Non scopiazzatele da Internet, non scrivete banalità e non
infilateci errori, le frasi d’amore non li ammettono». La fedeltà alla lingua
era un argomento a lei caro che tirava in ballo in ogni occasione, in
particolare quando si ritrovava a parlare di libertà nazionali: «Le dittature si
manifestano innanzitutto con l’imposizione della lingua del tiranno su
quella del popolo, perché la lingua è veicolo di pensieri, affetti, memorie. È
fondamentale che ne facciate tesoro, per la vostra identità e la vostra
civiltà». Concludeva quei monologhi sempre con le stesse esortazioni, che
nessuno capiva. Avrebbero capito poi, diceva, magari dopo venti o
trent’anni, magari solo alcuni di loro, ma anche se fosse stato uno soltanto,
non avrebbe parlato invano.
«Mi scusi» Caterina si rivolse al professore. Dovette toccargli un braccio
per avere la sua attenzione. «Non sono francese e mi piacerebbe fare
conversazione con un madrelingua. Lei dà lezioni private?»
«No» rispose e solo allora sembrò accorgersi di lei. La fissò in silenzio per
un lungo momento.
Per divincolarsi dal suo sguardo Caterina raccolse con il cucchiaino la
schiuma del cappuccino rimasta sul bordo della tazza e cercò le monete nel
portafoglio.
«Non sono bravo a conversare, tendo a fare lezione» le disse prima che
lei se ne andasse.
«Mi va bene lo stesso».
«Venga di venerdì, nel tardo pomeriggio e porti una frase. Partiremo ogni
volta da lì». E le appuntò l’indirizzo su un sottobicchiere.
Caterina corse al salone a dire alla zia che aveva appena trovato un corso
privato di francese. La sua eccitazione contagiò anche Liliana, anche se non
ne capiva il motivo, e spiegò alla nipote che l’uomo incontrato al caffè era il
professor Marthelot. Da quando il barbiere del paese aveva chiuso, di tanto
in tanto andava in negozio da lei. Era una persona taciturna e schiva.
Dicevano che aveva lasciato una carriera ben avviata in un’università di
Parigi e si era trasferito in provincia per una donna, un amore tardivo e
infelice. Si erano separati alcuni mesi dopo il matrimonio, ma lui era rimasto
lì a insegnare lingua e letteratura francese nei licei.
Mentre parlava, Liliana fece cenno a Caterina di sedersi al lavandino e
iniziò a lavarle i capelli riferendole i pettegolezzi che passavano per il
salone, poche frasi per vite intere, tutte bianche o solo nere. Caterina non
ascoltava, cercava la frase da portare alla prima lezione e passava in
rassegna il programma di letteratura francese del liceo e le letture indicate
dalla sua prof.
Al biennio, Antonietta Ruggero era una professoressa agguerrita e
brillante. Dalla terza liceo, invece, per motivi che non si erano mai venuti a
sapere, aveva avuto i primi ricoveri per depressione. Quando ritornava in
classe, sembrava quella di sempre, ma aveva lo sguardo fisso, la pelle opaca
e il carattere meno combattivo. Il portamento era incerto, il cappotto
abbottonato storto e il carré trascurato. Di lei si sapeva poco, aveva
cinquant’anni, viveva da sola dalle parti della tangenziale est ed era quel
genere d’insegnante che non amava essere contraddetta. In quarta, si diceva
che durante le vacanze di Pasqua avesse tentato il suicidio gettandosi dalla
finestra, nell’autunno della quinta, si era assentata definitivamente. Caterina
doveva a lei la passione per la letteratura francese e per quella frangetta, alla
francese appunto, che si era tagliata così corta da sembrare una caricatura,
ma, soprattutto, doveva a lei quel minimo di coraggio e autostima che era
riuscita a tirare fuori. «Qualunque forma prenderà la vostra vita, siatene
fieri e fate in modo che sia motivo di orgoglio anche per gli altri. Allora
saprete di non aver sbagliato». Caterina aveva capito che quella frase era il
suo saluto e che non l’avrebbe più rivista. L’aveva rincorsa fuori dalla scuola
e le aveva chiesto qual era la sua frase d’amore preferita. «“Amare è una
malasorte contro cui, come nelle favole, nulla si può finché l’incantesimo
non sia cessato”. Proust».
Liliana le massaggiava la testa e il tocco fermo e delicato la allontanò
poco alla volta da quel ricordo. Aveva la stessa mano di sua mamma. Ci
sono sorelle che si assomigliano nel carattere o nella voce, loro si
assomigliavano nella punta delle dita. Liliana le tamponò i capelli con una
spugna e la fece sedere davanti allo specchio. «Ti stai facendo crescere la
frangia, vero? Allora, se vuoi, te la lascio piena sul davanti e scalo un po’ i
lati. Come Brigitte Bardot» propose allegra e spostò qualche ciocca per darle
un’idea dell’effetto finale. La guardò nello specchio. Con i suoi capelli
biondo ruggine, Caterina era di una bellezza senza compromessi, talmente
perfetta che per un attimo ebbe paura che potesse succederle qualcosa.
Le luci del tramonto duravano ancora in lontananza, il giardino invece era
già buio. Liliana, dalla finestra, fissava i rami scuri delle piante. La nostalgia,
con il tempo, era diventata un’abitudine cara, che tornava, la sera, come una
madre dal lavoro, senza mostrarsi mai di faccia, in un silenzio denso
d’immagini. Liliana attendeva che l’occhio si abituasse all’oscurità e quando
cominciava a distinguere l’ombra delle rose rampicanti chiamava sua
sorella.
Gina aspettava con il telefono in mano, la faccia stanca, bagnata
dall’insegna al neon della lavanderia di fronte. Dalla cucina, nei rari istanti
di silenzio che possono cadere su Roma, riusciva ancora a sentire l’acqua
della fontana in fondo alla via, nella piazzetta dove lei e Liliana giocavano
da bambine. Via della Madonna dei Monti è una strada stretta e scomoda,
solo i motorini la attraversano a una velocità assurda. Liliana li sentiva
correre dietro la voce della sorella e anche di quelli, ogni tanto, provava
nostalgia, ma solo la domenica sera, quando la schiuma dei ricordi che
vanno e vengono lascia una traccia.
«Ciao. Cosa stavi facendo?»
«Indovina... Aspettavo la tua telefonata». Il tono era ingiustamente duro.
Liliana sospirò, poi disse, debolmente: «Mi chiedo se a volte preferiresti
che non telefonassi».
Gina non rispose. In strada, un cane pisciava contro il muro, i tacchi di
una donna risuonarono lungo la via.
«Dai, rispondimi» la esortò con delicatezza.
«Sì, a volte mi pesa, perché non ho niente da dirti ma tu chiami lo
stesso».
«Neanch’io, sai? Devo forzarmi a telefonare e non è che non ho niente da
dire in genere, non ho niente da dire a te. Ma penso sia normale e
continuerò finché sarò talmente vecchia da non riuscire più a usare il
telefono».
«Perché?» Gina si trattenne dall’alzare la voce. «Perché avremo sempre
Caterina di cui preoccuparci, di cui parlare? Sono più di vent’anni che
parliamo di lei!» C’era del rancore nella sua voce. Capitava di rado che lo
mostrasse, ma quel rancore Gina lo covava da tempo. Quando Caterina era
piccola e giocava sul pavimento del negozio ad avvitare e svitare i tappi dei
flaconi vuoti dello shampoo, la sentiva sua. Poi – non avrebbe saputo dire
quando – era diventata avulsa da lei e il suo amore per la figlia si era fatto
maldestro. La stessa cosa era successa con Liliana che, quando aveva
lasciato Roma, da sorella, gemella quasi, era diventata un’estranea e l’affetto
che la legava a lei un’incombenza. «Allora? Perché?» riprese. «Perché
continuerai a chiamare?»
«Perché la domenica sera, dal muro fradicio del giardino, sale il profumo
delle rose, anche adesso che non sono in fiore. È lo stesso profumo che a
Monti entrava dalla finestra della nostra camera, quando da bambine ci
addormentavamo nello stesso letto recitando il Padre nostro. Sarà la
nostalgia, non so, so solo che non fa male a nessuno. Esiste e basta».

Gina e Liliana avevano solo un anno di differenza, erano cresciute nel


rione Monti e si erano giurate da bambine di restarci per sempre. Si erano
tagliate il mignolo con un coccio di vetro e avevano unito il sangue delle
ferite. «Per sempre» avevano ripetuto tre volte. Era un pomeriggio di fine
estate fra le rovine del Foro traiano, un sole rosso, enorme, calava a picco
dietro il Campidoglio e una luna gravida si alzava alle loro spalle. Erano
cresciute in condizioni modeste, quasi povere, ma non ne avevano sofferto.
Andavano a scuola insieme, giocavano con gli altri bambini del quartiere
nella piazza della Madonna dei Monti e avevano avuto le mestruazioni nello
stesso anno. Erano diventate entrambe parrucchiere e avevano inaugurato il
loro salone a due passi da casa, finché Liliana non si era innamorata di un
turista francese, l’aveva seguito in Francia ed era diventata Liliane. Aveva
aperto il suo negozio, Liliane Coiffure, in quel borgo di campagna dall’aria
fragrante. Per anni Gina aveva mantenuto l’insegna con i loro due nomi
sperando che la sorella sarebbe tornata. Poi aveva smesso di crederci e
aveva ristrutturato il locale, Da Gina.
Si erano sposate lo stesso giorno, in Campidoglio. Andava di moda,
allora, celebrare il matrimonio di più coppie insieme e avevano trovato
l’idea estremamente romantica. Gina era già avanti nella gravidanza e dopo
le nozze Liliana era restata con lei per aiutarla in negozio e attendere la
nascita della bambina. Alla terza volta che rimandava la partenza, Pierre era
andato a prenderla. Avevano organizzato una festa, cantato e ballato fino
all’alba, ma non erano riuscite a essere spensierate. Quella notte la culla era
rimasta nella stanza in fondo al corridoio, nessuno se n’era occupato. La
bambina aveva dormito profondamente, sospirando come se parlasse dentro
un sogno. Si era svegliata quando tutti se n’erano andati, mentre Mario
dormiva pesantemente e Gina piangeva soffocando i singhiozzi nel cuscino.
I primi tempi, Liliana la chiamava ogni giorno, diceva poco di sé e voleva
sapere tutto di loro. E Gina le parlava del salone e degli amici, le raccontava
di Caterina, ne era completamente assorbita, frastornata. Le poppate, le
ragadi, le notti insonni, Mario che non le era di aiuto e la neonata che
sembrava un angelo ma non dormiva, rigurgitava e non prendeva peso, però
cominciava a emettere i primi balbettii, i primi sorrisi. Liliana ascoltava
avidamente, desiderava con tutte le forze un figlio che non arrivava e non
sarebbe arrivato mai. Aveva ripetuto più volte gli esami finché gli specialisti
le avevano tolto ogni speranza. Gina, allora, aveva svezzato la bambina e
gliel’aveva portata per l’estate. Era stata l’unica volta che era andata dalla
sorella in Francia, ma da allora, tutte le estati, le affidava la figlia. Liliana
andava a prenderla in giugno e la riportava in settembre e Caterina, per
molto tempo, aveva creduto che l’estate fosse un cambiamento di salone,
prima che di stagione.
I due negozi erano una casa, per lei. Nel pomeriggio faceva il pisolo in un
lettino da campeggio dietro il bancone, per ninnananna aveva il brusio del
fon e per giocattoli mollette e bigodini. Era una bambina esile, dalla pelle
chiara e gli occhi grigi e intenti. Si meravigliava di tutto e si teneva occupata
da sola per ore, tanto che le clienti la guardavano con una certa
compassione. Dopo la scuola faceva i compiti fra le bolle di consegna dei
prodotti e le schede delle tinte, sbocconcellava la merenda dondolandosi
sulla sedia girevole e rispondeva educata alle domande. A dodici anni gli
occhi erano diventati chiari, i capelli ramati e sul viso le si era disegnato un
sorriso serio. Le signore, in negozio, si divertivano a dirle che i suoi
l’avevano promessa in sposa a un re lontano e lei amava immaginare la
nebbia di quella lontananza. Aiutava la madre a tenere in ordine il locale,
spazzava, riordinava i prodotti, puliva le spazzole, maneggiava con
spigliatezza pettini e piastre, e acconciava le sue compagne di classe delle
medie, poi delle superiori. Aveva scelto il liceo linguistico perché amava
segretamente il francese, la lingua delle sue estati che la zia adorata parlava
con incorreggibile accento romano. Caterina invece aveva acquisito fin da
piccola una padronanza tale della lingua che non la si distingueva dai
bambini del posto e nessuno le chiedeva da dove venisse. Amava le ore di
francese a scuola e amava la sua insegnante, la professoressa Ruggero, che
le aveva fatto conoscere Camus, Perec, Gary, nutrendo un’estraneità felice e
solo sua. Caterina si faceva mandare i libri in lingua dalla zia, che si
affrettava a leggerli prima di spedirglieli. Quei romanzi erano diventati un
nuovo motivo di complicità fra loro e ne parlavano al telefono come si parla
di amici comuni.
Liliana le faceva avere anche riviste francesi per parrucchieri e Caterina,
con le sue amiche, studiava le ultime tendenze e sperimentava tagli e
acconciature. Loro la lasciavano fare, anzi avevano piacere a essere lavate e
pettinate. A casa dell’una o dell’altra, mentre i genitori erano ancora fuori,
aprivano l’“atelier trucco-parrucco”, che era solo “parrucco”, in realtà,
perché le madri non volevano che si truccassero. E mentre Caterina le
acconciava, spettegolavano sui professori, ripetevano una lezione,
consideravano i loro seni troppo piccoli, le caviglie grosse o il naso storto
finché quelle confidenze, dai corpi, passavano agli amori. Il ricordo più
vivido di quegli anni erano i volti delle compagne riflessi nello specchio e i
loro capelli morbidi fra le dita, la finestra spalancata sul traffico della città, il
profumo dei gelsomini in fiore e una sensazione di incanto e disperazione.
In quegli anni, gli occhi le erano diventati verde scuro e oro e brillavano
sotto la frangia cortissima che si tagliava da sola. Quella moda in Italia non
era ancora arrivata e le ragazze della scuola la guardavano con un misto di
invidia e di avversione. La professoressa Ruggero però le aveva detto che le
donava e lei non l’aveva più cambiata.
Aveva cominciato ad aiutare regolarmente sua madre in negozio, a
sostituirla quando doveva assentarsi per acconciare una sposa, e andava lei
stessa se le spose erano delle sue amiche. Aveva continuato a pettinarle,
infatti, anche dopo il liceo, ma non si era iscritta alla scuola per parrucchieri
come si aspettavano da lei, voleva fare l’università, Psicologia. «Perché?!» le
aveva chiesto sua madre con ostilità. Erano al tavolo della cucina a mondare
il prezzemolo, aspettando che la tisana si raffreddasse. «Fin da bambina
giocavi a fare la parrucchiera! Con i tuoi risparmi ti eri comprata perfino un
set di spazzole, come se le mie non ti bastassero. Eri andata a prenderti una
Barbie, tutte le tue amiche ne avevano una, ma poi avevi scelto un set da
parrucchiera, “come la mamma” avevi detto al negoziante». Caterina se lo
ricordava, ma neanche allora avrebbe saputo dire perché aveva rinunciato
alla Barbie, forse per assecondare i sogni di sua madre, a volte i bambini si
sentono in dovere di proteggere i desideri degli adulti. «Ci sei cresciuta nel
salone, sapresti lavorare a occhi chiusi e i prodotti di ultima generazione li
conosci meglio di me. Vuoi buttare tutto all’aria?» aveva continuato Gina
bruciandosi la lingua con l’infuso bollente. Se Liliana fosse stata presente,
avrebbe ammiccato nascostamente alla nipote dal bordo della tazza per dirle
che la approvava ma non poteva prendere posizione contro sua sorella.
Anche allora che Caterina non era più una bambina, la guardava con
malinconia, come le donne che non possono avere figli guardano i figli degli
altri.
Erano usciti i risultati della maturità, Caterina aveva lasciato sul buffet i
moduli per l’immatricolazione a Psicologia ed era partita per il mare con le
sue amiche e poi era andata da Liliana e Pierre. Al ritorno, i documenti
erano stati gettati. I suoi, infatti, erano certi che durante l’estate le sarebbe
passata quella smania. Continuavano a essere convinti che il suo posto era
al salone, che sarebbe stato suo al pensionamento di Gina. «Ma non capisci
che hai la fortuna di avere già un lavoro?» urlava sua madre. «Il negozio è
avviato, rende bene, e il mestiere lo conosci. Dovresti ritenerti fortunata!»
«Non voglio fare la parrucchiera tutta la vita!» «Perché, cosa c’è di male? La
psicologa puoi farla in negozio, mentre lavori, se proprio ci tieni. Ascolti e
consigli le clienti mentre sistemi i capelli». «Le psicologhe non lavorano nei
saloni da parrucchiera!» Le grida si sentivano fino in strada e Mario, per
placarle, aveva suggerito alla figlia di fare l’infermiera, se proprio ci teneva
ad aiutare gli altri. L’aveva detto quasi per caso, ma l’aveva trovata un’idea
così sensata che era andato lui stesso a iscrivere Caterina al test
d’ammissione al Policlinico. «Per me non cambia niente, è solo un modo per
mettere a tacere le nostre discussioni, perché nessuna delle due abbia
ragione o torto» aveva detto Gina alla sorella. Liliana riteneva assurda la
deriva di quella lite, ma non aveva commentato, si era offerta soltanto di
aiutarli a sostenere le spese universitarie. Gina, gonfia d’orgoglio, aveva
risposto che spettava a loro mantenerla e che l’avrebbero fatto anche se si
fosse messa in testa di continuare a studiare per tutta la vita.
Caterina aveva superato il test ed era entrata a Infermieristica. I primi
tempi si aggirava per i corridoi dell’università con una sensazione di
tradimento nei confronti di sua mamma e d’inadeguatezza, poi si era
lasciata distrarre dal ritmo dei corsi e degli esami. Otteneva voti alti e borse
di studio con cui pagava le rette universitarie, affrancandosi poco alla volta
da quella madre arrabbiata che si era annidata in lei come un destino. Era
andata ad abitare in un appartamento con altre studentesse, a Trastevere,
dove salivano l’odore salmastro del fiume e il richiamo dei gabbiani, e le
buganvillee rimanevano fiorite fino al ponte dei Morti. Pagava l’affitto
lavoricchiando come parrucchiera a domicilio, dando lezioni di francese e
grazie alle buste che a Natale Liliana e Pierre infilavano in mezzo a un libro
di Prévert o di Duras. Frequentava i corsi di letteratura francese disponibili
in città e si deliziava di quella solitudine libera e affaccendata.
Anche Trastevere era un rione popolano, ma meno antiquato di Monti,
più ridanciano e superstizioso. In quel quartiere Caterina aveva capito che la
città non è uno sfondo alla vita della gente, ma la vita stessa, ansante,
sbruffona, ipocondriaca e, qualche volta, infinitamente bella. Nella sua
stanza c’erano solo il letto, la scrivania e una finestra sui rumori della città
che si rincorrevano e salivano a toccare il turchino scuro del cielo.
Comprava ancora le riviste per parrucchieri, per abitudine e per passione,
ma al salone da sua mamma non era tornata più. Gina si era rivolta a
tirocinanti provvisori e aveva dovuto rinunciare all’idea dell’insegna con il
nome della figlia accanto al suo. Confidava che Caterina si ravvedesse, che,
dopo essersi tolta lo sfizio del liceo linguistico e dell’università, tornasse sui
suoi passi. Sapeva, però, che si stava facendo delle illusioni, come anni
prima nei riguardi della sorella, e questa consapevolezza la stizziva. Si
sfogava rimproverando la figlia con pretesti minimi e ogni incontro finiva
con reciproco fastidio.
Caterina si era specializzata in Infermieristica geriatrica, si era laureata in
corso e aveva risposto all’annuncio per un incarico annuale
nell’ambulatorio del paesino dove Liliana aveva il salone. Era stata lei a
segnalarle quel posto, non era al corrente infatti dell’offerta che la nipote
aveva ricevuto dal Policlinico. Gina era andata su tutte le furie e non
mancava occasione per attaccare l’irragionevolezza della figlia o della
sorella. «Caterina fa le cose di testa sua: ci si aspetta che studi da
parrucchiera e sceglie Infermieristica, che si metta a lavorare e parte»
diceva tutta accalorata. «Non credi che sarebbe stato più comodo accettare il
posto che le avevano offerto qui? Era provvisorio, certo, ma coi tempi che
corrono non le capiterà più un’occasione del genere...» Liliana aveva cercato
di rappacificarsi con la sorella preoccupandosi del trasferimento di Caterina.
Le aveva trovato un monolocale di fianco all’ambulatorio e le aveva messo a
disposizione la sua macchina. «E sa che se vorrà trasferirsi da noi, sarà
sempre la benvenuta. È a mezz’ora d’auto, ma le lascio la mia». «E tu come
farai?» «Pierre me ne ha regalata una nuova». «Avete tre macchine in
due?» «Una potrà usarla lei» si era giustificata, certa che Gina si sarebbe
scandalizzata. Dopo tanto tempo e nonostante la distanza, Liliana provava
ancora vergogna a riconoscere con la sorella che Pierre guadagnava bene,
che abitavano in una casa con il giardino e avevano l’abbonamento a teatro.
E si chiedeva per quanto ancora avrebbe dovuto nascondere di essere
diventata una donna diversa da lei.
Caterina era partita il primo gennaio. Ancora si sentivano i botti di
Capodanno su Roma.
Il professore la accolse con i modi sbrigativi che aveva avuto qualche giorno
prima al caffè, la salutò con poche parole e non si offrì di prenderle il
cappotto. Caterina entrò nell’ampio soggiorno. Centinaia di libri coprivano
le pareti dal pavimento al soffitto, incastonando anche la porta d’ingresso. Il
televisore e un videoregistratore erano a terra, davanti alla libreria.
Dovevano essere arrivati più tardi rispetto al resto degli arredi e non
avevano mai meritato una sistemazione definitiva, i cavi uscivano da dietro i
libri e correvano spogli sul pavimento. Poco distante dalla TV era sistemato
un piccolo sofà fiorato, a lato cassette di giornali e riviste e un tavolinetto
con alcune bottiglie di liquore sul ripiano inferiore. In fondo, in un angolo,
un pianoforte a mezza coda. Due grandi finestre e la stampa di una
riproduzione di Picasso di Le déjeuner sur l’herbe occupavano la parete senza
libri, di mattoni a vista. Sotto la stampa una consolle colma di boccette di
profumo da donna vuote e cornici senza foto, e una scrivania con due sedie.
Quattro o cinque lampade dai diversi paralumi erano posate qua e là e
illuminavano l’ambiente con luci marginali e circoscritte.
Caterina fece un lento giro su se stessa, avrebbe voluto chiedere il
permesso di avvicinarsi alle varie cose, o dire semplicemente che trovava
quella stanza molto bella, ma lui la fermò ancor prima che aprisse bocca.
«Non c’è niente di affascinante, gli appartamenti sono solo un gioco
d’accumulazione, la parodia dell’abbondanza» disse severamente. Poi attese,
come a misurare il tempo che prendevano le sue parole a dissolversi. Quindi
la precedette alla scrivania.
Caterina sedette, con il cappotto sulle gambe e gli occhi alla libreria. Il
professore raggiunse il suo sguardo nel succedersi pedante dei dorsi dei
libri. «Ci cascano in molti nel desiderio delle cose» riprese con un tono più
condiscendente. «Balzac, per esempio, era un maestro dello sfarzo. La sua
casa, in rue Fortunée, a Parigi, oggi rue Balzac, era degna di un re: muri
decorati di stoffe, damaschi e boiserie d’oro, mobili in legno di rosa, intarsi,
tappeti, ceramiche, stampe, sete e mussoline. La sala da bagno era in marmo
blu decorata con bassorilievi raffiguranti Marcantonio e Cleopatra! Anche
Proust, in modo diverso, era uomo d’eccessi, il suo appartamento
assomigliava al deposito di un brocanteur. Accumulò a tal punto che si trovò
costretto a stoccare della mobilia in un magazzino a noleggio. Flaubert,
invece, non era come loro, ma lui non viveva la bulimia della capitale,
abitava una casa di famiglia in campagna, il suo studio dava sul giardino.
Forse ne soffriva, Il se sentit triste comme une maison démeublée scrisse in
Madame Bovary...» Il professore parlava ora in modo disinvolto e pago
picchiettando sul ripiano del tavolo il finire delle frasi. Si tratteneva
dall’alzarsi a misurare a grandi passi la stanza e a gesticolare più
diffusamente. Discorse per oltre mezz’ora delle abitazioni degli scrittori e di
oggetti entrati a far parte della letteratura seguendo i rimandi segreti che gli
suggerivano di volta in volta i diversi autori. Poi s’interruppe. La osservò
intensamente, come a cercare in lei qualcosa di suo scomparso da tempo.
Caterina arrossì. Non aveva ancora parlato da quando era arrivata e, per
evitare di guardarlo, si rivolse al salotto: «“Sarebbe una stanza di soggiorno,
lunga circa sette metri, larga tre. A sinistra, in una specie di alcova, un
ampio divano di pelle nera consunta sarebbe affiancato da due librerie di
ciliegio chiaro, nelle quali i libri si ammucchierebbero alla rinfusa”. La mia
prof di francese, in seconda liceo, ci aveva fatto imparare a memoria l’incipit
di Les choses, per il vocabolario».
«Non è stata una scelta sbagliata, lo ricorda ancora perfettamente».
«Non ho mai utilizzato la maggior parte di quelle parole, “agate e uova di
pietra, tabacchiere, bomboniere, portaceneri di giada... una conchiglia di
madreperla, un orologio da tasca d’argento, un bicchiere molato, una
piramide di cristallo, una miniatura dalla cornice ovale...”» ripeté in
automatico.
«Conosce Perec, però, e il ritmo della sua scrittura». Caterina gli aveva
offerto lo spunto per un nuovo discorso e il professore lo colse prontamente:
«Quell’appartamento che ha citato era dell’autore, quegli oggetti, quei
bibelot gli appartenevano, lo disgustavano, ma non riusciva a sottrarsene,
poteva solo prenderne le distanze, descrivendoli. Perec critica la seduzione
della società dei consumi, ma non vede possibilità d’uscita. Le cose si
riproducono in migliaia di esemplari identici, feticci con cui l’uomo,
acquirente, costruisce le sue appartenenze e le sue identità...» Questa volta
si alzò e fece la spola fra il sofà e la scrivania, fra lo scrittore e il critico
letterario. Nominò altri autori, senza mai cedere al giudizio né sbilanciarsi
per l’uno o per l’altro, come se li amasse tutti per la semplice ragione che il
Novecento non esisterebbe senza l’Ottocento, che la città si definisce in
rapporto alla provincia, la Resistenza alla guerra e l’amore all’assenza di
amore. Quello che più colpiva Caterina, però, era quel suo modo di parlare
degli scrittori come di personaggi intrappolati nelle vicende della loro
epoca, vite anche semplici di cui erano allo stesso tempo autore,
personaggio e trama.
Uscendo in strada, si accorse di avere in tasca il foglietto con la frase che
aveva preparato per quel primo incontro. Ci giocherellò avvolgendolo
intorno al dito. Per la settimana successiva ne avrebbe cercata un’altra.
Una sottile colonna di formiche usciva da un interstizio dietro lo stipite
della porta e procedeva sotto il tavolo della cucina dove si disperdeva, per
ricomporsi subito dopo. La riga nera, in realtà, era una doppia fila di
formiche che andavano e venivano trasportando granelli di zucchero. Delio
non ne aveva mai viste in gennaio e suppose che fosse stato lo zucchero ad
averle scosse dal letargo e attirate come una calamita. Non si era accorto
che gliene fosse caduto tanto la sera prima e con il piede ne ammonticchiò
un po’ da parte creando scompiglio fra le formiche che partirono in ogni
direzione. Attese che ripristinassero il pedante andirivieni e le disturbò
ancora per seguirne l’incolonnamento e la marcia al formicaio mentre il
chiarore dell’alba entrava piano dalla finestra e si appoggiava al pavimento.
Dovevano aver trasportato granelli di zucchero per tutta la notte, ora dopo
ora, mentre lui dormiva, o meglio, sonnecchiava, perché da qualche tempo
non dormiva più. Il pensiero di quell’attività laboriosa che fremeva sotto la
pelle fragilissima del suo sonno lo turbò. Era stato un crampo, il braccio si
era irrigidito all’improvviso e il pacco dello zucchero gli era scivolato di
mano. Aveva pulito il ripiano della cucina ma non si era preoccupato del
pavimento, che avrebbe spazzato la mattina seguente, con la luce. Non
aveva pensato alle formiche.
Teresa non lottava contro le formiche, si curava solo di non lasciare
briciole in giro. «In fondo le formiche sono solo questione di una stagione»
gli aveva detto una volta. «E la stagione delle formiche è la più bella». «Che
stagione è?» le aveva chiesto lui. «Quella che va da marzo a novembre». «E
i quattro mesi che restano?» «Si fermano, finalmente si fermano». Bastava
un niente perché pensasse a lei e il ricordo, con gli anni, invece di
attenuarsi, si faceva lancinante. Negli ultimi tempi gli capitava anche di
piangere. Era diventato così sensibile che perfino gli episodi di cronaca o le
guerre sconosciute che attraversavano i telegiornali diventavano per lui
insopportabili e durante la notte tornavano a minacciarlo nel sonno.
Prese la scopa, aprì la porta e spazzò via zucchero e formiche. Si buttò
sulle spalle il giaccone e sedette sulla panca sotto il portico. Respirò
lungamente l’odore intenso della terra, guardò gli alberi da frutto intrisi
dell’umido della notte e l’orto, in fondo, dove la nebbia era ancora rappresa.
Il vento feroce degli ultimi giorni aveva smesso di infierire e le piante
avevano ritrovato la quiete. Anche loro hanno bisogno di pace, pensò. Non
era un inverno freddo, ma molto ventoso. Sentì gli uccelli volare in
lontananza e avvertì la mano destra tremargli sulla gamba. Gridò verso la
rimessa: «Ramingo!» Solo alla terza volta il cane venne fuori, adagio, gli
occhi lacrimosi della cataratta. «Sei diventato sordo come una campana. O ti
ho svegliato? Ti ho svegliato, eh? Io perdo il sonno e tu ti prendi il mio». E
immaginò il sonno come un soffio che lasciava le sue lenzuola e si
mescolava al respiro del cane. «Se ti prendi il mio sonno, avrai anche i miei
sogni. Cos’hai sognato, che sogni ho?» Gli parlava bonariamente,
accarezzandogli la schiena e sfregandosi di tanto in tanto le mani sui
pantaloni del pigiama per liberarsi dalla peluria canuta che gli rimaneva fra
le dita. Ramingo era vecchio, il dorso perdeva il pelo e mostrava la pelle
sottile a tratti callosa. Il veterinario avrebbe parlato di tumori
dell’epidermide e Delio, per non sentirselo dire, non glielo portava. «Che
brutta bestia che è l’età, eh, Ramingo? Ma sei sempre stato malfatto tu e
anche se adesso perdi il pelo non peggiorerai di molto. Chissà che eredità ti
porti dentro, devi essere un bastardo di terza o quarta generazione».
Quando Delio gli parlava prendendogli la testa tra le mani, il cane
socchiudeva gli occhi. «È penoso invecchiare da soli, ma invecchiare con un
cane vecchio è paradossale. Cosa gli sarà saltato in mente a Daniele di
portarti qui? Non ti avrebbe lasciato in strada, però, credi a me, raccatta
tutto da terra, lui, lo ha sempre fatto. Da bambino, tornava dai suoi giri
carico di roba, partiva con un sacco perché le tasche non gli bastavano e
camera sua era piena zeppa di “ritrovamenti”. Anche Teresa era così, e
quella borsa di stoffa con cui lui andava in giro doveva avergliela cucita lei.
Raccoglieva rami, ghiande, sassi, foglie, insetti e Dio sa cos’altro... Non c’era
animale morto cui non desse sepoltura e quelli feriti o abbandonati li
portava a casa. Abbiamo ospitato quattro o cinque gatti e decine di uccelli,
perfino una capra che si era persa». Abbassò la voce e gli accarezzò la nuca
fra le orecchie. La mano aveva smesso di tremare. «Tu, però, sei arrivato
quando Teresa non c’era già più. Litigheremmo adesso, perché lei ti
curerebbe e io le direi che da che mondo è mondo gli animali se la sbrigano
da soli. Si sarebbe anche opposta a che ti chiamassimo Ramingo, che non è
un nome da vagabondo o da randagio, fa pensare solo alla malora. Del resto,
Daniele ti ha trovato vicino ai rifiuti. E poi, sarai stato anche un girovago,
ma adesso stai andando proprio in malora: sei calvo, mezzo cieco, puzzi,
senti che odore!» Ramingo aprì gli occhi. Delio lo accarezzò con più vigore,
era stato ingiustamente cattivo con lui, e il cane, riabbassando le palpebre,
attese che parlasse di nuovo. «Stavo cercando di calcolare i danni che ha
combinato il vento nel frutteto. Mi ci vorranno almeno tre giorni di lavoro
per sistemare tutto e poi, se il tempo si stabilizza, comincerò a dedicarmi
all’orto». Levò le ciabatte, prese le scarpe da lavoro da sotto la panca e
s’infilò il giaccone sopra il pigiama. Ramingo lo osservò allontanarsi e si
accucciò.
La terra era dura, cumuli di sterpaglie si erano affastellati lungo i
camminamenti dell’orto e le malerbe crescevano ovunque. La staccionata su
cui Teresa aveva fatto arrampicare i rovi delle more e dei lamponi era
caduta. Il vento, freddo e con raffiche violente, era durato quasi una
settimana. Di notte ululava. Vento d’autan, lo chiamava la gente del posto, e
diceva che rende pazzi: quando l’autan soffia, i matti danzano. Nel casotto
degli attrezzi controllò le sementi che gli rimanevano dall’anno passato e
stese mentalmente la lista delle piantine da comprare.
«Purché ci sia un orto» lo aveva pregato Teresa secoli prima e lui si era
messo a battere quella campagna in lungo e in largo alla ricerca di un
podere che avrebbero abitato insieme. Il trasferimento in Francia, per lei, era
stato un passaggio dolce, a una terra più fertile e a un cielo indulgente.
Teresa aveva imparato da bambina, dai contadini che lavoravano i campi
della sua famiglia, a potare, fare gli innesti e a produrre fertilizzanti naturali.
Aveva imparato anche quanto potesse essere inclemente il sole e capricciosa
la pioggia. Lì, invece, raccoglieva incredula cuori di bue grandi come i pugni
di un gigante. Conservava i semi migliori per l’annata successiva e tentava
esperimenti fra specie diverse. Ogni anno coltivava una striscia di terra in
più e i pomodori erano arrivati a essere di otto varietà. Non finivano mai di
sistemare la casa perché prima venivano l’orto e il frutteto, Teresa ci
passava le giornate e la sera si addormentava studiando la potatura dei
giovani albicocchi o il modo di eliminare le dorifore dalle patate senza
ricorrere ai pesticidi chimici. Considerava subdolo il prodotto chimico e le
dorifore le eliminava a mano, schiacciandole con le unghie, piantina dopo
piantina, all’alba, e al tramonto ripassava. Solo contro l’antonomo si era
rassegnata all’insetticida chimico. Lo chiamava per nome, antonomo, un
piccolo coleottero bruno che aveva attaccato i meli e i peri piantati da un
anno soltanto. «I fiori si seccano senza sbocciare» aveva riferito a Delio
allarmata. «Hanno deposto le uova nei boccioli e le larve, schiudendosi, li
svuotano dall’interno». Gli aveva mostrato il fiore bucato e il foro, nel
calice, dal quale erano sfarfallati i parassiti e aveva concluso: «È tutto
perduto». Avevano aspettato l’autunno e spazzolato i tronchi per rimuovere
gli insetti in letargo, avevano raccolto i rametti e le foglie cadute e le
avevano bruciate. In marzo, al momento della deposizione delle uova,
avevano spruzzato gli alberi con un composto chimico che gli aveva
indicato un contadino della zona. Delio aveva fabbricato un’imbragatura per
caricarsi sulle spalle la tanica dell’insetticida, Teresa manovrava la canna su
e giù, dalla scala, per vaporizzare anche i rami più alti. Tenevano un
fazzoletto davanti alla bocca, guanti fino al gomito e ampi abiti da lavoro.
Con quell’attrezzatura ingombrante, fra gli alberi spogli, sembravano due
astronauti rudimentali all’estremità del mondo. Per trattare tutta la
piantagione nello stesso giorno, iniziavano al sorgere del sole e finivano con
il tramonto, la domenica, quando Delio era a casa. Teresa controllava i meli
e i peri tutti i giorni, e per scrupolo anche i pruni, i peschi e gli albicocchi.
Legava un nastro rosso attorno ai tronchi in cui ravvisava ancora qualche
parassita e su quelle piante spruzzavano altro prodotto. Non ci dormiva la
notte e, quando in primavera erano spuntati i primi frutti, aveva pianto di
gioia. Aveva atteso che Delio rientrasse dal lavoro e avevano fatto l’amore
nel frutteto che era ancora chiaro. In un paio d’anni, gli alberi erano entrati
nel pieno della produzione, avevano una fioritura bianca, delicata, mele
croccanti e pere dalla polpa fondente che raccoglievano fra settembre e
ottobre, quando le altre piante avevano già finito di fruttificare. Teresa
teneva un banco al mercato la domenica mattina e già in capo a un anno si
era fatta la sua clientela e la gente andava di persona a comprare al podere
oppure passava l’ordine per telefono. Quando Delio rincasava, caricavano le
cassette nel furgoncino e le recapitavano ai clienti, e quelle consegne fatte
all’imbrunire, nella campagna quieta, con il profumo di frutta matura e di
erbe aromatiche, valevano per loro più di ogni guadagno. Anche un paio di
ristoratori avevano cominciato a rifornirsi da lei, e quando le avevano
commissionato la salsa di pomodoro, Teresa si era lanciata nella produzione
di conserve. Non si era limitata alla passata, faceva anche carciofi, zucchine
e melanzane sott’olio, marmellate, composte e succhi di mela. Il tavolo era
regolarmente coperto di pentole e barattoli e a Delio rimaneva solo un
angolo su cui mangiare, fra i vapori della cucina che sembrava un’officina.
«A ciascuno la sua» scherzava con Delio che si lamentava del caldo dei
fuochi sempre accesi. «Nella mia c’è più aria» ribatteva lui che,
all’autofficina, lavorava sotto le pale. E le aveva comprato un grosso
ventilatore, ultimo modello.
Rientrando dal suo giro di ricognizione, Delio trovò Ramingo che lo
aspettava. Il cane lo seguì dentro casa e si mise davanti alla ciotola. Lui
gliela riempì e sbatté due uova per sé. «Dovrò comprare delle altre galline.
Queste, ormai, covano sì e no un uovo alla settimana. E guarda quanto sono
piccole!» Salò, pepò e bevve le uova intingendoci il pane nero di Aron, un
pane robusto, dalla crosta spessa, che nella mollica conservava il sapore
acidulo del lievito madre. Aron lo preparava settimanalmente con una
miscela di farine integrali e lo cuoceva nel forno a legna. Ne dava uno a
Delio e uno a Rose. Erano vicini di casa da una vita, le terre dei poderi erano
confinanti, quelle di Rose coltivate a orzo da un contadino del posto, mentre
Aron non aveva mai fatto niente delle sue. Quando Teresa si era ammalata,
Aron aveva iniziato a dare una mano a Delio nel frutteto, mentre Rose
divideva con loro la sua produzione annuale di conserve e marmellate e di
tanto in tanto cucinava anche per loro. Da quando camminava a fatica,
appesantita dai mali dell’età e da tutti quei chili che si portava addosso, si
era consacrata interamente alla cucina. Avvertiva Delio e Aron con due
colpi di trombetta dalla finestra e loro andavano a ritirare una porzione di
coniglio arrosto, di tacchino farcito o la sua zuppa di cipolle e topinambur. Il
suono della trombetta si sentiva fino alla chiusa, ma solo Delio e Aron
sapevano che era Rose che li chiamava per un piatto pronto.
Il caffè borbottò nella moka, Delio lo sorseggiò bollente e amaro, con un
ultimo pezzo di pane. Nel riflesso del vetro della porta-finestra riordinò la
chioma scompigliata e si sforzò di non dar peso alla barba incolta e al volto
che si sciupava furtivamente. Così come cercava di ignorare la mano destra
che, da qualche tempo, a tratti, si era messa a tremare. Rifece il letto alla
bell’e meglio e non trovò altro da sistemare. La camera dava sulla cucina,
era uno stanzino spazioso e male illuminato che Teresa un tempo usava
come dispensa. La stanza da letto matrimoniale e quella di Daniele erano al
piano di sopra, insieme al bagno bello, come lo chiamavano loro, per
distinguerlo dal bagno-lavanderia del pianterreno. Poche settimane dopo la
morte di Teresa, Delio aveva liberato gli scaffali da vasi e bottiglie e ci aveva
riposto la sua biancheria, aveva accostato al muro la rete di un letto singolo
e appoggiato l’abat-jour su una cassetta di legno rovesciata che gli faceva da
comodino. Solo Daniele, quando tornava, andava ancora di sopra. Lui non ci
aveva più messo piede.
Si vestì, uscì, radunò cesoie, seghetti, un’ascia, un doppio paio di guanti,
la scala e avvertì Ramingo che sarebbe andato da Aron.
«Hai da fare?» gli chiese dalla finestra.
«No. Cosa c’è?»
«Ho bisogno di una mano per potare il frutteto. Il vento ha fatto parecchi
danni».
«Va’ avanti, arrivo fra cinque minuti».
Usavano dirsi solo l’essenziale, tanto che non si salutavano nemmeno. Le
interazioni erano fatte di silenzi più che di parole e le parole riguardavano il
lavoro e gli attrezzi per la terra. Delio, che di natura non era
particolarmente loquace, si era adeguato ai modi di fare di Aron, il cui
carattere burbero era stato scambiato spesso, da chi non lo conosceva, per
villania. Rose e Teresa si erano chieste più di una volta se era così scostante
perché era ebreo o perché aveva sempre vissuto da solo, ma con il tempo
avevano finito per abituarsi ai suoi modi selvatici e non se ne
scandalizzavano più.

Delio e Aron passarono la mattinata nel frutteto, con Ramingo che li


seguiva incurante degli sterpi che gli cadevano addosso. L’aria era tiepida e
lavorarono sodo fino alle due, quando Delio cedette alla stanchezza e
propose di continuare l’indomani. Mangiarono una minestra di pane, verza
in insalata e pecorino. Si scambiarono una parola solo alla fine del pasto,
quando Delio si lamentò che le sue galline non deponevano più.
«Cos’hanno?»
«Sono vecchie, credo».
«Allora ci puoi fare il brodo, gallina vecchia...»
«Non mi piace il brodo, m’interessano le uova».
«Ti porterò io un buon paio di ovaiole» concluse Aron e uscì senza
salutare.
Delio lasciò i piatti sporchi nel lavandino e si addormentò in poltrona di
un sonno breve ma ristoratore. Si svegliò con l’odore del cane sotto il naso.
Ramingo, infatti, da qualche tempo aveva preso ad accovacciarsi sui suoi
piedi. Delio lo scacciò: «Fuori, che puzzi! Senti che odore! E poi, dormire
tutto il giorno buttato da qualche parte come uno straccio è da vigliacchi!
Non sei ancora morto, perdio!» Lo trascinò con sé nell’orto e mentre
sradicava le erbacce con la vanga gli parlava, con il fiatone: «Da domani, mi
seguirai sempre, da Rose o giù in paese, un po’ di moto non può che farti
bene! Lo sanno anche i sassi che a una certa età è fondamentale fare
esercizio e non importa se hai undici anni e io settanta, anche perché, se è
vero che un anno di un cane corrisponde a sette di un uomo, abbiamo
all’incirca la stessa età». Si appoggiò alla vanga per prendere fiato. «Li porti
proprio male, Ramingo, i tuoi undici anni!» Ogni tanto sembrava prenderci
gusto a rimproverarlo, ma poi si faceva perdonare con un’infinità di pacche
affettuose.
Calò il sole e Delio si avviò verso casa con il cane fra i piedi. Era poco più
che un cucciolo quando Daniele glielo aveva portato. Doveva tenerlo al
guinzaglio perché correva dappertutto e aveva paura di perderlo. Ora,
invece, non si allontanava mai dalle sue gambe ed era difficile dire chi dei
due camminasse più stentatamente. «Stasera, Ramingo, sarei proprio
contento se Rose ci avesse preparato qualcosa per cena, magari quelle
polpettine di vitello che sa fare così bene, affogate in un mare di sugo, o una
grossa fetta di torta ai formaggi... Vabbè, sai cosa ci faremo invece? Un bel
piatto di pasta, che ne dici? Una doccia calda e spaghetti aglio, olio e
peperoncino. Ma prima devo radermi, mi dà fastidio la barba qui, sotto il
collo...»
Aron lo aspettava sotto il portico tenendo per le zampe due grosse galline
dal collo spelacchiato. «Dove le metto?»
«Non ho mai visto galline più brutte».
«Aspetta di vedere che uova fanno. Dove le metto?»
«Nel pollaio. Tira fuori le mie e portatele a casa, ci farai il brodo tu».
«Tienile pure».
«Non so cosa farmene di galline che non fanno le uova, e il brodo non mi
piace».
«Arrostiscile».
Delio non riusciva a confessargli che gli faceva orrore ammazzare le
galline, ma Aron dovette intuirlo. Gettò dentro la gabbia le sue ovaiole e
una alla volta tirò il collo a quelle di Delio. Chiese un sacco dell’immondizia
e, sotto la lampadina del portico, le spennò con una rapidità impressionante,
poi andò in cucina, le appoggiò su un tagliere e ne tranciò via le zampe e la
testa con colpi esatti, estrasse il gozzo, incise il ventre e c’infilò le dita per
levare le interiora. «Vuoi tenere qualcosa di questo?» chiese a Delio
mostrando la mano traboccante di organi.
Lui fece di no con la testa senza riuscire a parlare. Con Teresa avevano
sempre comprato la carne dal macellaio, anche quella di pollo, perché
trovavano insopportabile abbattere animali che avevano sotto gli occhi tutti
i giorni. Le loro galline avevano un nome e morivano di vecchiaia. «Se non
ti dispiace, vado a farmi la barba» riuscì a dire infine, nauseato da quella
barbarie e si rifugiò in bagno. Sedette un momento sul water, poi si rasò.
Avrebbe dovuto decidersi a tagliarsi i capelli, si ripeté, ma da quando
Bernard aveva chiuso, non sapeva dove andare, non c’erano altri barbieri in
paese. Si spogliò ed entrò nella doccia.
Non c’era una piuma in giro, non la minima macchia di sangue. Aron
aveva portato via gli scarti e aveva lasciato in frigo un pollo tagliato a metà
e ali, cosce e petti degli altri. Delio trasferì tutto in freezer, mise a scaldare
l’acqua per la pasta e accese il televisore. Mangiò senza appetito, riordinò e
spazzò il pavimento per evitare di attirare le formiche. Dovevano essere di
una specie che non andava in letargo, si disse, o una colonia che aveva fatto
il nido in un cunicolo in casa. Oppure avevano cominciato a uscire in pieno
inverno e l’inverno a farsi caldo, le rondini a non migrare e la frutta a
marcire prima di maturare. Si fermò davanti alla porta-finestra, il buio si era
schiacciato sui campi insieme al silenzio della notte. Per qualche ragione che
si perdeva in fondo al suo dolore, gli si riempirono gli occhi di lacrime e la
mano cominciò a tremargli insistente lungo la gamba. Chiamò Ramingo, lo
cercò sotto il tavolo, ai piedi della poltrona. Doveva essere andato fuori.
Delio teneva la porta accostata perché potesse entrare e uscire quando
voleva. Si buttò il giaccone sulle spalle e andò a cercarlo nella rimessa. Si
chinò su di lui, ravvoltolato nella cuccia, gli tolse alcuni fili d’erba secca dal
dorso e per un attimo pensò di spazzolargli il pelo. «Ciao, vecchio mio,
buonanotte» mormorò. Il cane lo guardò e si rannicchiò più stretto su sé
stesso. Lasciandolo, Delio si ripromise di mettergli nella cuccia un’altra
coperta perché aveva sentito dire che i cani, da vecchi, sentono di più il
freddo, i vecchi in genere.
Delio e Aron lavorarono nel frutteto tutta la settimana, finché gli alberi non
furono potati e il terreno rastrellato. La domenica mattina bruciarono le
ramaglie in fondo al campo. Sorvegliarono il fuoco seduti su una pietra,
assorti a guardare le fiamme e ad assorbirne il calore.
Delio ringraziò Aron per l’aiuto di quei giorni.
«La mangio anch’io questa frutta» rispose lui. «Anzi, dimmelo se hai
bisogno di una mano per vangare l’orto».
«Non è più l’orto di quando c’era Teresa, posso farcela anche da solo».
«Lo trovo ancora piuttosto grande, invece».
C’erano verdure che Delio non amava particolarmente ma che non
rinunciava a piantare perché piacevano a Teresa. Era un altro modo per
ricordarla, con una fila di rapanelli e di cavoletti di Bruxelles. «Vango col
trattorino, non mi ci vorrà niente. Piuttosto, le tue galline non mi hanno
fatto neanche un uovo finora».
«È normale, hanno cambiato pollaio. Ci vuole qualche giorno di
adattamento».
Delio lasciò Aron a sistemare gli attrezzi e si voltò a considerare il
risultato dei loro sforzi, il frutteto in ordine e gli alberi danneggiati risanati.
Benché in posizione protetta, infatti, le piante più esterne erano state colpite
e, anche se ormai erano vecchie e alla fine del ciclo produttivo, Delio aveva
voluto saldare i tronchi con pali tutori, come si fa per le pianticelle giovani.
«Ho un’altra cosa da chiederti» aggiunse prima di lasciarlo andare. «I
capelli te li tagli da solo?»
«Non si vede?»
«No, non mi pare. Come fai?»
«Col regola-barba. È facile, ma io ne ho pochi, non come te. Cosa ci fai,
tu, a quei capelli, li concimi?»
Si fecero una risata liberatoria, dopo giorni di lavoro assiduo e taciturno.
Li interruppe il suono della trombetta di Rose.
«Cade a proposito, ci voleva qualcosa di buono da mettere sotto i denti!»
commentò Aron. «Andiamo?»
Ma Delio preferiva cambiarsi e riposare un po’, il calore del falò lo aveva
intorpidito. Pranzò con pane e formaggio, si preparò un caffè lungo che
bevve intingendoci qualche biscotto e si appisolò in poltrona. Si risvegliò
poco dopo, irrequieto e per niente ristorato. La mano gli tremava. La fermò
sbucciando una pera che poi lasciò nel piatto e si riempì un bicchiere
d’acqua. Scavalcò Ramingo coricato davanti alla porta e andò nell’orto a
strappare le piante infestanti. «Sta’ attento a non spezzare le braccia della
gramigna» si raccomandava Teresa, «altrimenti si moltiplica e invade i
camminamenti». Teresa ci faceva un decotto, con la gramigna, aveva
proprietà depurative. Ramingo la masticava. Quell’erba, detta “dente
canino”, aveva effetti digestivi e i cani ne sentivano i benefici. Affilò il taglio
della zappa, controllò lo stato degli altri attrezzi, vangò le malerbe con
indolenza e rientrò. Si lavò e indossò una camicia pulita. Aveva sempre
addosso gli abiti da lavoro e vedersi in camicia gli fece un certo effetto.
Allora decise che la domenica si sarebbe vestito bene e quella decisione gli
diede serenità. Si sentiva inquieto, infatti, ma non sapeva perché. «Vieni,
Ramingo, andiamo a vedere cosa ci ha preparato Rose. Non abbiamo
nient’altro da fare, qui, per oggi». Il cane si tirò su e lo seguì mollemente.
«Tu cosa dici che avrà fatto? Mi ricordo quando cucinò il piccione: ero
scettico, ma mi sono dovuto ricredere, le era scappato un goccio di cognac
in più e non ci stava per niente male. Il piatto che preferisco, però, sono i
suoi porcini trifolati con lo scalogno e il prezzemolo, quelli di quest’anno,
poi, erano una favola! Rose, in cucina, è impareggiabile! Stasera, però, anche
un uovo mi andrebbe bene, non ho appetito».

«È permesso?» Delio fece accucciare Ramingo nell’ingresso e si affacciò


alla cucina.
Rose era ai fornelli a mescolare una crema inglese. «Entra, Delio,
accomodati. Scusami ancora un minuto, devo continuare a girare altrimenti
si attacca. Non ne avrò per molto. Vieni, siedi».
«Ti ho portato un po’ di verdura» le disse Delio. «Non un granché, a dire
il vero, i cavolfiori e i radicchi sono gli ultimi, le bietole, invece, ci sono
ancora». Posò la cesta ai piedi del tavolo e si mise a sedere. Della casa di
Rose conosceva solo la cucina, con il suo disordine di stoviglie e canovacci,
il calendario della parrocchia e le foto del marito e della figlia alle pareti. Si
stupiva ogni volta di come una vita intera potesse stare in qualcosa di così
piccolo come una cucina.
«Cécile ha ospiti a cena» spiegò lei. «Le ho preparato una torta di mele e
ho pensato che sarebbe stata più buona accompagnata con la crema. Come
piatto, invece, le ho cucinato le lasagne. Ne ho fatte in abbondanza. Aron è
passato a mezzogiorno a prendere la sua porzione, erano ancora fumanti,
non avrà avuto bisogno di scaldarle. Ecco fatto!» Sollevò il cucchiaio e lasciò
scorrere un filo di crema per valutarne la consistenza, quindi la travasò in
un contenitore. «Vi ho visti lavorare nel frutteto in questi giorni».
«È stata dura, ci abbiamo impiegato molto più del previsto. O forse siamo
noi che siamo diventati lenti».
«Gli scherzi della gioventù» commentò Rose allegramente. «Sapessi
com’ero svelta un tempo, facevo sempre due o tre cose alla volta! Adesso
non riesco nemmeno a parlare, se sono occupata a fare altro. Qualche
giorno fa, per esempio, è squillato il telefono mentre stavo preparando i
biscotti per il consiglio parrocchiale – ci riuniamo alle cinque, per l’ora del
tè –, avevo la cornetta senza filo e ho continuato a cucinare, ma quando ho
riattaccato non ricordavo più quanti misurini di zucchero avevo messo e se
avevo unito il lievito alla farina. Ho dovuto rifare tutto, ma prima ho
staccato il telefono. Quest’anno compio ottantadue anni, sai?» continuò.
«Lo so, le donne grasse sembrano sempre più giovani di quanto non siano,
ma li ho tutti: ottantadue anni, ottantadue chili e due donne delle pulizie.
Dallo scorso mese ne ho assunta un’altra, te l’ho detto? Quella che viene a
darmi una mano da sempre ha superato i settanta e non ce la fa più come
prima. Non me la sentivo di lasciarla a casa, però. Così vengono insieme, lo
stesso giorno, fanno tutto in una volta, due chiacchiere, un caffè e io sono a
posto per la settimana. Posso offrirti qualcosa?» Senza aspettare la risposta
mise a scaldare l’acqua per un tè.
Delio non aveva mai riflettuto sull’età di Rose, non avrebbe immaginato
che fosse tanto più vecchia di lui. Aveva capelli ariosi e bianchissimi, le gote
rosate, un cardigan azzurro come i suoi occhi. Daniele, da bambino, diceva
che Rose sembrava la moglie di Babbo Natale. I chili e l’artrosi le avevano
deformato le gambe, ma lei li portava con garbo, senza un lamento. Forse
chi ama cucinare è predisposto al buonumore, pensò Delio, perché Rose
guardava sempre tutto dal lato migliore e anche da seria aveva
un’espressione sorridente.
Rose servì il tè con i biscotti alla mandorla, ma non li mangiò, perché
cercava di fare attenzione, anche se, a pensarci bene, Delio non l’aveva
quasi mai vista mangiare.
In quel momento arrivò Cécile. «Ciao, mamma!» salutò con voce
squillante. «Delio! Che piacere vederti, è da un po’... Ti stai facendo crescere
i capelli?» rise, e Rose le lanciò un’occhiata di rimprovero. «Non ti ho
offeso, vero? Lo sai come sono fatta!»
«No, hai ragione» rispose Delio imbarazzato. «Devo decidermi a farli
tagliare, ma non so dove. Non ci sono più barbieri in paese».
«La parrucchiera è anche per uomo» intervenne Rose.
«Sì» confermò Cécile. «Liliane Coiffure. Puoi andare là».
I capelli erano una seccatura cui preferiva non pensare, ma non poteva
rimandare ancora a lungo e, se non voleva arrischiarsi a fare da solo come
Aron, non gli rimaneva che andare dalla parrucchiera, anche se uomini, là
dentro, non ne aveva mai visti.
«E Daniele? Quand’è che ripassa da queste parti? È una vita ormai che
non lo vedo!»
«Ti fermi a prendere una tazza di tè con noi?» la interruppe Rose,
togliendo Delio dall’imbarazzo di dover rispondere.
«No, non riesco, prendo la cena e scappo» e le schioccò un bacio sulla
guancia. Portò la teglia di lasagne in macchina e tornò a prendere la torta e
la crema inglese. Poi li salutò e ripartì alla stessa velocità con cui era
arrivata.
«Cosa dicevamo, prima, sulla sveltezza e la gioventù?»
«Puoi ben dirlo, è una furia!» confermò Rose. «Mi sembra di rivedere me
da giovane».
«È una ragazza in gamba» disse Delio e Rose assentì. «Passa a trovarti
tutti i giorni?» domandò, bevendo l’ultimo goccio di tè.
«Di solito fa un salto in pausa pranzo o dopo la chiusura della panetteria,
cinque minuti, come ora. È più il tempo che ci mette a venire che quello in
cui resta qui».
Delio pensò inevitabilmente a suo figlio. Non lo vedeva da quattro anni,
nemmeno a Natale scendeva più. Era un ramo fragile della sua vita, a cui
avrebbe voluto aggrapparsi e su cui invece rimaneva sospeso a sentire il
vuoto sotto.
«Anche Daniele è un bravo ragazzo» disse Rose leggendogli nel pensiero.
«Tornerà, Delio, arriverà il momento in cui tornerà, abbi fiducia». Era una
certezza, la sua, quasi una fede, basata sul niente ma capace di compiere
miracoli.
«Ho messo a posto l’ala bassa del casale per ricavarci un appartamentino
per lui. Ho murato la porta che lo collegava al mio perché fossero
indipendenti. I lavori sono venuti bene, è un bell’ambiente, Rose, dovresti
venire a vederlo, un giorno... Sono certo però che se anche tornasse non ci
metterebbe piede. Ma in fondo mi basterebbe che tornasse» concluse fra sé.
Rose posò la mano su quella di Delio, agitata. Provava una tenerezza
particolare per lui, la stessa che si prova nei confronti dei bambini a cui il
vento ha portato via il palloncino. La sua Teresa era volata via e lui
continuava a fissare il cielo per cercarla. Non aveva protestato ma era
invecchiato di cent’anni e l’unico pensiero a cui riusciva a dare voce era che
Teresa era molto più giovane di lui e non toccava a lei andarsene per prima.
Anche il figlio, poi, si era allontanato, per ragioni su cui Rose non aveva
indagato, e Delio ne aspettava il ritorno fino a tremare. «Hai fatto quello
che hai potuto, Delio, come tutti. Ci affanniamo a crescere i figli quando
invece crescono da soli. E guarda come vanno lontano, dove noi non siamo
mai stati, sono capaci di cose che non ci saremmo sognati. Le nostre mani
non sono più fatte per sostenerli, ma salutarli. Hai fatto quello che hai
potuto, credi a me».
«Sei buona, Rose, sapresti consolare anche Giuda Iscariota» disse e non
volle ricordarle che lui non aveva cresciuto suo figlio e quel rammarico se lo
portava dentro da una vita, e pesava, tanto che per stare su avrebbe avuto
bisogno di un palo come quelli che aveva legato attorno alle piante da
frutto. Le sue colpe, poi, non erano circoscritte all’infanzia di Daniele, ciò
che li aveva separati era molto più recente e definitivo.
Rose gli porse una vaschetta di lasagne: «Scaldale, mi raccomando,
altrimenti rischiano di rimanerti sullo stomaco».
Delio impilò le tazze e i piattini del tè e lei glieli prese di mano perché
non si disturbasse. «Non tormentarti» lo ammonì salutandolo e s’attardò un
momento sulla porta per fare prendere aria all’ingresso dove rimaneva
l’odore del cane. Guardandolo andare, le parve che la mano gli tremasse
particolarmente, ma era già distante e poteva sbagliarsi, oppure Delio stava
solo gesticolando mentre parlava con Ramingo. Si accorse anche che
camminava piegato in avanti, ma anche quella, forse, era solo
un’impressione, un gioco di ombre nel buio.
Caterina stava per andarsene quando il professore aprì il cancello. Fece di
corsa i due piani di scale e lo trovò sulla porta. La lasciò entrare con una
certa reticenza e s’infilò la giacca buttata sullo schienale del sofà. Lei si
sbottonò il cappotto senza toglierlo.
Il televisore era acceso.
«Nelly e Monsieur Arnaud» indovinò Caterina dalla scena che passava
sullo schermo.
«Claude Sautet» aggiunse lui. «Conosce il film?» le domandò
guardandosi attorno alla ricerca del telecomando.
Caterina annuì. «E lei, quante volte l’ha già visto?» chiese con un ardire
di cui si stupì, ma che lui non colse.
«Ho un’età in cui si guardano gli stessi pochi film più volte, per
parafrasare Arnaud» rispose imprecando contro il telecomando che non
saltava fuori.
«La scena che preferisco è quando Monsieur Arnaud le lascia le ultime
pagine della sua autobiografia da dattilografare dicendole qualcosa come:
“Ecco la fine. La legga, tagli, ma risparmi le frasi che mi piacciono. Le
riconoscerà, sono sottolineate”». E si rese conto, parlando, che il professor
Marthelot aveva lo stesso modo di fare rigoroso e galante di Monsieur
Arnaud, ma rigore e galanteria in lui si mescolavano fino a confondersi, fino
a confondere, come nell’acqua il pastis.
Non la stava ascoltando: raccolse il telecomando ai piedi della poltrona,
accanto al bicchiere, cercò il tasto per bloccare il film, e Caterina lo fermò:
«Non interrompa per me».
E lasciò che la porta le si chiudesse alle spalle.
«Signore e signori, ecco a voi Miles Davis! Nove volte vincitore del Grammy
Award, Miles Davis è l’uomo che ha rivoluzionato il jazz!»
«Piantala di dire cazzate».
«“Per me, la musica e la vita sono una questione di stile”».
«Hai finito la sua autobiografia?»
«Yes, mate, ieri sera».
«Complimenti. Ora, però, vatti a cambiare e tirati via di dosso quell’odore
di pesce».
«Quest’odore, mate, si chiama “Pavillon de la marée”, brevettato dal
Marché International de Rungis e qui in diretta per voi».
Daniele riprese a suonare, a improvvisare, e Amir si fermò ad ascoltarlo.
Trovava che l’amico avesse lo stesso carattere della sua musica, essenziale e
pudico, e ogni volta si meravigliava di come il suono della tromba, che
aveva sempre creduto rozzo, potesse invece essere elegante, toccante quasi.
«Ehi! Davis, Daniele: avete l’iniziale in comune!»
Daniele buttò la tromba sul divano e gli corse dietro. Amir sgusciò via
come un’anguilla e s’infilò nella doccia. «I vicini non si accontenteranno di
lamentarsi, prima o poi ci denunceranno per disturbo della quiete pubblica».
«Ma se non sono neanche le due del pomeriggio!»
«Non c’entra, non dovresti suonare in casa, fai troppo casino. E poi c’è
una consistente porzione di mondo che a quest’ora riposa: i vecchi, i neonati
e le madri che allattano la notte, i lavoratori che hanno finito il turno, i
depressi...»
«I depressi?»
«Non dormono più degli altri?... Be’, comunque... Non è solo una
questione di orario».
«E di cosa ancora?»
«Di strumento. Se suonassi il pianoforte o il violino, sono sicuro che
avremmo meno problemi».
«Prenderò lezioni di piano per fare contento il vicinato».
«Fossi in te, non sottovaluterei il razzismo contro gli strumenti musicali:
ci sono strumenti bianchi e neri, israeliani e palestinesi. La tromba è
eccessiva, fa casino. Le trombe sono arabe per eccellenza, hanno la voce
acuta anche quando parlano normalmente. Sono così di natura, e anche se
non fanno niente di male la gente s’incazza lo stesso, danno fastidio, è
un’impostazione predefinita. Prendi il piano invece... Oh! Ci sei? Sto
parlando da solo?»
«Mi sto radendo».
«Al tuo posto, prima di darmi al piano proverei a cambiare musica. Se
suonassi Johnny Hallyday, per esempio, magari ti sopporterebbero. Cioè,
forse non si tratta solo di strumento, ma anche di genere...»
Daniele taceva.
«Preferisci Céline Dion? Oppure i grandi classici, Jacques Brel, Yves
Montand... Oh! Je voudrais tant que tu te souviennes / Des jours heureux où
nous étions amis».
«Non vedo un cazzo, lo specchio è completamente appannato. Hai finito
con l’acqua calda?»
«En ce temps-là la vie était plus belle, / Et le soleil plus brûlant
qu’aujourd’hui... Canta, mate, il ritornello: C’est une chanson qui nous
ressemble. / Toi, tu m’aimais et je t’aimais / Et nous vivions tous deux
ensemble, / Toi qui m’aimais, moi qui t’aimais».
«Mais la vie sépare ceux qui s’aiment, / Tout doucement, sans faire de bruit
/ Et la mer efface sur le sable / Les pas des amants désunis» gli fece eco
Daniele.
«Ecco, con questa performance, ci daranno la palma d’oro
all’omosessualità».
«Chi?»
«I vicini. Non ti ho detto che è arrivata una nuova famiglia di tunisini?
Freschi freschi, from Ben Gardane».
«E allora?»
«Ben Gardane è il paese vicino al mio. Pensa se andassero a dire in giro
che io e te facciamo la doccia insieme».
«L’hai fatta tu, la doccia, io mi sono fatto la barba».
«Sì, ma pensa se dicessero che io e te facciamo la doccia insieme: mia
madre mi ripudierebbe e io mi ucciderei dalla disperazione».
«Credi davvero che degli sconosciuti appena sbarcati non abbiano
nient’altro a cui pensare che far arrivare a tua madre voci false sul tuo
conto?»
«L’enfer c’est les autres, mate...»
«E che dicano quello che vogliono, Amir! Perché se anche fossi gay, di
cosa devi rendere conto? Mantieni te stesso e la tua famiglia, cosa devi
dimostrare di più?»
«Non c’entra, la Sharia, la legge islamica, condanna l’omosessualità. È un
crimine. Ti sbattono in galera, capisci? E da noi ti va anche bene, in Arabia
Saudita c’è la pena di morte. È la mia famiglia, Daniele, mia madre invoca la
protezione di Dio perché io non cada in tentazione qui in Occidente... Se
sapesse che non faccio la preghiera cinque volte al giorno si ammalerebbe
dal dolore. Mio fratello ancora adesso si nasconde quando vuole fumare una
sigaretta, e ha quarantatré anni. Ti rendi conto?»
«Sì, ma...»
«No, non ti rendi conto. Non puoi capire».
«Allora vaffanculo».
Quando finivano per parlare di religione o di tradizioni, Amir lasciava
sistematicamente cadere il discorso, era convinto che il confine da superare
fosse troppo grande e che Daniele non potesse capire lui né il mondo da cui
veniva. Daniele invece se la prendeva perché aveva imparato a conoscere
Amir e gli era più vicino di quanto non fosse tutta quella schiera di fratelli,
cugini e zii a cui Amir mandava soldi regolarmente, che si presentavano a
casa loro senza preavviso, restavano per settimane e tutto quello che
lasciavano erano i loro peli nella doccia.
«Sei rientrato tardi» disse Daniele cambiando discorso. «Credevo di
trovarti a letto, a quest’ora».
«Mi si è fermato lo scooter appena imboccata la D274. Ho dovuto
spingerlo fino da Hussein e sono rimasto in officina ad aggiustarlo. È stata
dura, ma ha sette vite quello scooter».
«Deve aver raggiunto l’immortalità ormai. Perché non ti compri una
macchina? Un’utilitaria usata non costa niente. Almeno non congeleresti,
già che ci passi la giornata in un congelatore!»
«Una macchina per fare Vitry-Rungis? No, non ne vale la pena, Rungis
non merita tanto e poi non è una strada lunga e il freddo mi evita il colpo di
sonno».

Daniele e Amir si erano conosciuti a Rungis, il più grande mercato al


mondo di prodotti agroalimentari freschi, l’inferno freddo, come lo
chiamavano loro, perché qualunque fosse la stagione, lì dentro c’erano
sempre dieci gradi. Daniele, allora, faceva l’intermediario, riceveva l’ordine
dai ristoratori e andava al mercato all’apertura a cercare i prodotti migliori
da depositare poi, alle nove, nelle cucine dei ristoranti. Il padiglione ittico, il
Pavillon de la Marée, era il primo ad aprire. Amir puliva il pesce in uno
degli atelier di filettatura, dalle due alle sette del mattino, dal martedì al
sabato. Era il suo lavoro da quando aveva diciannove anni, ne avrebbe
compiuti ventotto. Quel posto glielo aveva trovato suo fratello, carrellista al
padiglione della frutta e della verdura. A causa di un incidente con il
muletto ci aveva rimesso un piede ed era tornato in Tunisia. Daniele aveva
occupato la sua stanza nell’appartamento dove abitava Amir. Anche il padre
di Amir aveva lavorato ai mercati, aveva iniziato a Les Halles prima che
venissero trasferiti a Rungis, aveva passato la vita al reparto polli e
gallinacei, e con i guadagni aveva aperto in Tunisia una polleria gestita dalla
famiglia rimasta al paese. Era morto d’infarto il primo giorno della
pensione, nel portafoglio un biglietto per Tunisi di sola andata. Era sepolto
al cimitero di Thiais, a due passi dal mercato di Rungis. Rimpatriare la salma
era troppo costoso e a Thiais c’erano due file gratuite, la 104 e la 105.
Daniele aveva lavorato come courtier poco più di un anno. Scovava i
prodotti che gli erano stati commissionati, li sapeva scegliere e consegnava
la merce puntualmente, ma era pessimo a trattare sui prezzi. Amir, un
giorno, lo aveva accompagnato e aveva negoziato per lui, per mostrargli
come si faceva, ma Daniele non ce l’aveva nel sangue e quando gli
abbassavano il prezzo era solo per bontà. Continuarono per scherzo a
contrattare fra loro e anche nel gioco l’aveva sempre vinta Amir. «Sei
dotato. Dovresti seriamente pensare di farlo come mestiere» gli aveva detto
Daniele varie volte. «Macché dotato!» rideva lui. «Sono un arabo, ecco
tutto, mio nonno era un venditore di tappeti e mio padre un commerciante».
Daniele non sapeva trattare, ma quello che più detestava di quel lavoro era
la notte a Rungis, i camion stipati intorno ai padiglioni e dentro, sotto i neon
abbaglianti, il formicaio di grossisti, ristoratori, intermediari, perfino turisti,
e pile di casse di polistirolo e ghiaccio per il pesce azzurro, quelle di legno
delle ostriche, retini di vongole, paguri, capesante ancora vive, pavimenti
bagnati, stivali di gomma e maglioni ingolfati sotto i grembiuli, venditori
che urlano, il rimbombo dei capannoni, i tagli di carne fresca, sangue, mele,
papaye e melanzane novembrine, e la notte sempre, dentro e fuori, anche al
caffè, dove beveva un sidro prima di rimettersi in strada. Poi, quando Parigi
si svegliava, Rungis chiudeva. Allora si formavano le prime code in
tangenziale, la città s’intasava di automobilisti rasati di fresco che
ascoltavano le notizie alla radio e facevano le prime telefonate. La giornata
iniziava e per lui finiva. «Come si fa a vivere così sfasati, che vai a letto
quando per il resto del mondo è ora di alzarsi?» «A me piace» gli
rispondeva Amir. «La gente è meno aggressiva di notte, è più sincera. Le
donne non perdono tempo a truccarsi prima di venire al lavoro». Daniele
aveva poi trovato un posto al servizio amministrativo-commerciale del
mercato, dove non gli veniva richiesto di contrattare e gli orari di lavoro
erano quelli d’ufficio.

Amir andò in camera a rivestirsi. Si annusò le mani, sapevano di sapone


ma anche di pesce, o forse era un’impressione. Doveva averlo nel naso
l’odore del pesce perché usava guanti e sopravvesti impermeabili. Non
voleva puzzare di pesce, di tutto fuorché di pesce, e si ripromise di capire se
Daniele lo prendeva in giro quando gli diceva di sentirne l’odore. Spostò il
libro di Davis che era rimasto sul cuscino, non conosceva nessuna delle sue
canzoni ma aveva divorato la sua autobiografia ed era forse il libro più
lungo che avesse mai letto. E crollò nel sonno.
In onore di Amir che si era sparato duecento pagine di autobiografia di
Miles Davis, Daniele mise le cuffie e ascoltò Kind of Blue dando un’occhiata
su Internet ai prezzi delle auto usate.
Dormiva ancora quando sentì Amir che lo chiamava dalla sua camera:
«Ehi! Sono le sette passate, mate!»
«Le sette? Ma quanto abbiamo dormito?» A un certo punto doveva
essersi tolto le cuffie e aver appoggiato il PC per terra ma non se lo
ricordava. «Mangiamo fuori?» propose.
«Non so, è pari o dispari oggi?»
«Andiamoci comunque» rispose Daniele. «Tanto offro io».
Si erano dati come regola di mangiare fuori i giorni dispari. Nessuno dei
due amava cucinare né tantomeno fare la spesa e così, almeno un giorno su
due, erano sicuri di riempirsi la pancia. Amir decideva il posto e Daniele
pagava. Le prime volte dividevano il conto poi, quando Daniele venne a
sapere che Amir mandava quasi tutto il suo stipendio in Tunisia, iniziò a
pagare per entrambi: «Sei la mia occasione di essere generoso» aveva
scherzato. Amir lo aveva trovato un gesto “molto musulmano” da parte sua
e aveva cominciato a ordinare senza badare alla colonna dei prezzi. «Me lo
posso permettere, non sono ristoranti Michelin, i nostri» aveva aggiunto
Daniele. «Non sono che?» «Non sono segnalati Michelin». «E chi cazzo è
Michelin?» La maggior parte delle volte, andavano da uno dei kebabbari di
Vitry, il cibo cinese o la pizza li prendevano da asporto per il weekend,
mentre il locale portoghese che faceva solo pollo alla griglia e patatine fritte
maison se lo riservavano come variante occasionale. Era il posto che
preferivano, in realtà, ma Amir dubitava che la carne fosse halal. Quando
l’aveva chiesto al gestore, quello gli aveva fatto sì con la testa, ma era chiaro
che non aveva capito la domanda. Amir allora diceva la basmala prima di
mangiare e si giustificava: «Lo so anch’io che non è una formula a rendere
halal la carne se non lo è, ma cosa ci vuoi fare?» E nel nome di Dio,
clemente e misericordioso, Amir cenava, perché gli capitava di saltarla, la
cena, soprattutto quando Daniele non era a casa.
«Stasera ti porto da un curdo che ha aperto da poco. È il top dei top» gli
disse Amir saltando giù dal letto.
«Cosa si mangia?»
«Come dal turco».
«E quand’è che andiamo a mangiare pesce? Ormai non ricordo neanche
più che sapore ha».
«Non esistono posti cheap che fanno pesce. E poi, dopo che sfiletti pesce
cinque ore al giorno, ti assicuro che l’ultima cosa che desideri è ritrovartelo
nel piatto, anzi, più manipoli pesce e più hai voglia di carne».
«Quando vivevo in Italia, dai miei nonni, lo mangiavo tutti i giorni».
«Se venissi da me, mia mamma ti cucinerebbe tanto di quel couscous di
pesce che ti passerebbe la voglia. Ma stasera curdo! Sbrigati che ho fame!»

Il nuovo ristorante era simile a tutti gli altri che frequentavano, quattro
tavolini addossati al muro e il bancone con i piatti che prendeva l’altra metà
del locale, ma avendo appena aperto, il bagno era pulito e i muri non ancora
unti. Un quadro delle cascate del Niagara, sopra la cassa, emetteva cinguettii
elettronici mentre l’acqua si colorava di rosa, arancione e giallo. Il filo
elettrico usciva dalla cornice ed entrava in una presa multipla a terra. Una
donna stendeva dischi di pane su un ripiano infarinato mentre il marito
grigliava gli spiedini.
«Cos’ha di speciale questo posto?» chiese Daniele mettendosi al tavolo
che gli indicava Amir.
«Una ragazza. L’altra sera, quando eri fuori a suonare, facevo un giro da
queste parti e ho visto che avevano aperto questo ristorante. Butto un
occhio dentro e a quel tavolo... Quello lì, vedi? C’era una ragazza bellissima,
bruna, con la pelle di seta...»
«Foulard?»
«Foulard. E occhi chiari incantevoli, le labbra sembravano disegnate tanto
erano perfette. Era sola. Probabilmente aspettava un’amica, perché non si va
in giro da sole così. Sono entrato e mi sono seduto qui, dove siamo noi ora, e
non c’era nessuno ai tavolini in mezzo, così eravamo praticamente l’uno di
fronte all’altra ed era quasi imbarazzante. Beveva tè alla menta, aveva preso
anche un dolce, una baklava, credo. Cercavo di non fissarla ma era
impossibile. Lei, però, è stata gentile, ha abbassato gli occhi e ha lasciato che
la guardassi. È venuta la signora a chiedermi cosa volevo. Niente, non
volevo niente, solo stare lì a contemplare la mia regina. “Le porto un
assortimento di mezzé?” mi fa la donna. “Sì”. “E da bere?” “Un tè alla
menta”. Ho ricominciato a osservarla, ma per non sembrare insistente, ho
fatto finta di telefonare, così mentre parlavo mi guardavo attorno e potevo
adocchiare anche lei».
«E con chi facevi finta di parlare?»
«Con te, ma ti parlavo in arabo».
«Ah sì? E cosa mi dicevi?»
«Un sacco di cose... Dicevo no, sì, ridevo anche, ti davo dello stronzo...»
«Come si dice stronzo in arabo?»
«‫اﻷﺣﻤﻖ‬. Poi ho sorriso in un modo che non si capiva se mi rivolgevo a lei
o a te al telefono, e lei, mordendo l’ultimo pezzetto di dolce, ha sorriso a sua
volta. Allora ho continuato a parlare e a ridere, un perfetto attore, avresti
dovuto vedere! Finché, a un certo punto, il telefono ha suonato davvero!»
Daniele scoppiò a ridere.
«Volevo scomparire dalla faccia della terra!»
«E lei?»
«Lei sorrideva, non poteva trattenersi, e se n’è andata nascondendo il
sorriso dietro la mano».
«Non le hai chiesto il numero di telefono?»
«E con che faccia?»
La signora, da dietro il banco, domandò se avevano scelto e Daniele, per
cominciare, ordinò un assortimento di mezzé e due lattine di Coca-Cola.
«Le mie storie d’amore finiscono ancora prima dello scambio dei numeri
di telefono. Due anni fa, quando sono tornato a casa per le vacanze, era la
fine del Ramadan. Andiamo in giro a festeggiare, la notte è appena
cominciata e sono tutti fuori, arrivano amici e amici di amici e nel gruppo
c’è una ragazza super carina, più giovane di me, la conoscevo di vista, ma
era da un po’ che non la vedevo. Mi dicono che non è fidanzata, mi avvicino
con discrezione, parliamo, le racconto un sacco di cose. Parigi è il mio
cavallo di battaglia. Intanto ci scostiamo dagli altri e rimaniamo un bel
pezzo così, soli al mondo, finché le sue amiche la chiamano per tornare a
casa. Prima di partire mi chiede il numero di telefono e – bang! – corto
circuito, vuoto assoluto, nessuna idea di quale potesse essere il mio numero
tunisino. Cerco il cellulare nell’ansia più completa, non ce l’ho, devo averlo
dimenticato a casa o da qualcuno, ma non posso lasciarla così e le do il
numero di casa, il solo che conosco a memoria, a parte quelli di emergenza.
Mia madre non ha mai capito perché abbia passato il resto delle vacanze
chiuso in casa...»
La signora portò i coperti e le bibite. «Mette di buon umore vedervi,
ragazzi» disse. «Siete così allegri!»
«Si sbaglia» rispose Amir. «Parliamo di pene d’amore».
«Fate proprio bene, allora, a riderci su! Continuate finché potete!» Era
una donna ben messa, indossava un pastrano color cammello e un foulard
leopardato che le fasciava la testa. Parlava un francese essenziale ma
corretto e negli occhi aveva l’espressione di una bambina che ha combinato
un danno e sa che non verrà punita.
Daniele aspettò che si allontanasse. «Ho una cosa da dirti». Si fece serio.
«Da qualche mese sono entrato a far parte dell’unione sindacale di Rungis».
Amir gli lanciò un’occhiata guardinga e cominciò a tormentare la
linguetta della Coca mentre Daniele gli spiegava che l’unione sindacale
riunisce tutte le organizzazioni professionali che rappresentano i diversi
settori del mercato – frutta e verdura, fiori, carni, pollame e selvaggina, la
pescheria, le società di servizi – e che in quel momento erano in corso delle
discussioni su certi provvedimenti importanti che riguardavano il contratto
collettivo dei commerci all’ingrosso.
Amir lo interruppe: «Sono bravo, adesso. Quando bisogna trattare le
commissioni di ristoranti un po’ importanti, li danno a me perché taglio i
filetti della grammatura esatta richiesta dagli chef e li faccio tutti uguali. Mi
passano le ordinazioni di Le Grand Café Capucines o Le Pergolèse nel
sedicesimo. Sono stelle Michelin, ora so cosa vuol dire. E poi sono svelto, il
più svelto, lì dentro». E concluse: «Il mio lavoro mi va bene così. Non voglio
casini. E non voglio parlarne più».
«Non ti sto chiedendo d’iscriverti, vorrei solo che accettassi serenamente
il fatto che ne faccio parte e questo non fa di me un traditore o una spia.
Anche perché il principio del sindacato non è metterti i bastoni fra le ruote,
ma proteggere i tuoi diritti».
«Mio padre diceva che erano dei maneggioni, i sindacati, e non aveva
torto. Quando mio fratello ha avuto l’incidente non abbiamo ricevuto niente
di quello che ci avevano promesso. Il mio posto al Pavillon de la Marée me
l’ha trovato lui, mio fratello, e non ho niente di cui lamentarmi. È molto
difficile da capire?»
«Cercare di tutelare i propri interessi è contro la famiglia? Tuo fratello ti
manderebbe il malocchio, tua madre ti ripudierebbe? Non faresti torto a
nessuno, Amir, né a loro né a te. Sto parlando di diritto comune, di
condizioni di lavoro e garanzie sociali. Ti sei mai posto il problema degli
effetti del freddo e del lavoro notturno sulla tua salute?»
«Basta! Stai dicendo delle stronzate! Come cazzo fai a trattare il pesce in
un ambiente caldo o a lavorarlo a mezzogiorno, se a mezzogiorno deve
essere nel piatto dei clienti? Ci hanno tenuto alcuni corsi di formazione
sulla logistica del prodotto deperibile, la catena del freddo e via dicendo.
Non ci sono mille soluzioni!»
«Dove sono i due simpatici ragazzi che erano seduti qui un attimo fa?» li
interruppe la signora appoggiando sul tavolino le mezzé e un cestino di pita
calde.
Iniziarono a mangiare senza dirsi più niente.
Fu Amir il primo a mollare, quella volta. Non amava covare rancore a
tavola, era convinto che non si digeriva bene. Prese a citargli alcuni fatti
della vita di Miles Davis e a tempestarlo di domande finché Daniele non si
decise a rispondergli e a parlargli delle varie correnti del jazz, delle influenze
che un artista aveva avuto su un altro, della fine di una band o di un pezzo
che aveva segnato un’epoca. Amir l’aveva ascoltato suonare un milione di
volte ma non l’aveva mai sentito parlare di musica e rimase impressionato
dalla quantità di cose che sapeva. Daniele nominava quei musicisti come se
li avesse conosciuti di persona, con un’ammirazione che non aveva pari.
Andarono avanti per un pezzo, ordinarono due lahmacun di manzo che la
donna fece al momento e servì caldi e piccanti come piacevano a loro.
«Quand’è che hai iniziato a suonare?»
«Mio nonno era trombettista nella banda del paese. Ho imparato
ascoltandolo. Mi portava con sé fin da piccolo, tanto che quando mi ha
messo in mano la tromba sapevo già come tenerla. Per i miei cinque anni mi
ha regalato la mia prima tromba e a partire da quel giorno mi ha insegnato a
posizionare le labbra e a tirare fuori il fiato. Per un anno non ho fatto altro
che scale, poi mi ha permesso di suonare i primi pezzi».
«Suonavate jazz?»
«No! Quella di mio nonno era una banda di paese, un piccolo paese
italiano dove neanche ora sanno cos’è il jazz. Il jazz l’ho scoperto dopo, alle
superiori, qui in Francia. Con alcuni compagni di scuola avevamo formato
una fanfara, ci eravamo fatti conoscere nella zona suonando per strada e ai
mercati, poi hanno cominciato a chiamarci per le feste, i matrimoni...
All’inizio facevamo il jazz classico, di New Orleans, poi, poco alla volta,
abbiamo diversificato il repertorio, folk, punk, rock...»
«Senza discriminazioni».
«Solo quelle essenziali. Ci ritrovavamo al bar, il Café de la gare,
decidevamo insieme i pezzi da inserire nel repertorio e dovevamo esserne
convinti tutti, era l’unica condizione. A volte le discussioni s’infervoravano
tanto che sembrava un dibattito politico, invece era Hotel California. I vecchi
che giocavano a carte ai tavoli vicini scuotevano la testa, credevano fosse il
nostro modo di ammazzare il tempo. Non capivano che era l’unico modo
che avevamo per sentirci vivi».
«Tuo nonno doveva essere fiero della tua band».
«Non mi ha mai sentito suonare con loro. Allora non vivevo più in Italia.
I miei avevano deciso di riprendermi con loro in Francia. Lo devono al
gruppo se non sono scappato per tornare dai nonni».
«E ora, quando suoni al Comptoir Jazz, non ti piace?»
«Non molto, i musicisti cambiano in continuazione, non si crea nessuna
complicità. Spesso sono io il primo a dare forfait. La fanfara era un’altra
cosa, nella musica condividevamo tutto, era il nostro spirito a suonare, lo
spirito dei nostri sedici anni. Era energia, divertimento allo stato puro».
Pagarono all’uomo alla cassa. La signora, di nuovo occupata a stendere
dischi di pane, li salutò facendosi promettere di non collezionare altre pene
d’amore.
«Inshallah» rispose Amir.
«Inshallah» gli fece eco lei.
Senza bisogno di consultarsi andarono a prendere Jolly, lo scooter di
Amir. Lo chiamavano così quando lo usavano per andare in giro per la città,
altrimenti era solo “lo scooter”. «Jolly Jumper è il cavallo di Lucky Luke e
Lucky Luke è un cowboy solitario» aveva parafrasato Daniele ad Amir. E lo
prendeva in giro: «Mi chiedo che infanzia è stata la tua senza Lucky Luke».
«La stessa della tua senza...» Non gli era venuto in mente nessun cartone
animato, solo la fiumana di bambini scalzi che correva dietro al pallone e la
polvere che si alzava dal terreno. Daniele aveva scaricato da Internet tutte le
serie di Lucky Luke che avevano guardato una dopo l’altra sul divano
mangiando noodles ai gamberetti. Alla fine di ogni puntata Amir andava in
camera fingendo di cavalcare contro il sole che tramontava, si toglieva il
cappello e salutava Daniele recitando: «Je suis un pauvre cow-boy solitaire et
bien loin de ma maison». «Fin» rispondeva lui e in questo modo si erano dati
la buonanotte per mesi.
In sella allo scooter finivano per sentirsi davvero dei cowboy solitari e, in
qualche modo, lo erano. Qualunque direzione prendessero si ritrovavano
sempre da “quella puttana della Tour Eiffel”, come la chiamava Amir. La
sera luccicava di mille paillettes e loro la contemplavano ogni volta come
fosse la prima. «Quando la guardo mi sembra di non aver più paura di
niente» aveva detto Amir una sera. «E di cosa dovresti aver paura?» «Di
tutto». «Perché?» Amir non aveva risposto. Daniele aveva pensato al mare
di Framura, quando nuotava al largo, l’acqua azzurra, buia in profondità,
acqua ovunque e il respiro degli abissi. E là in mezzo, lontano da tutto,
poteva succedere qualsiasi cosa. Per Amir doveva essere lo stesso, si era
detto, la paura non aveva bisogno di motivi, era dappertutto, in quella sua
vita al largo.
Si fermarono su una panchina sul Pont des Arts. La Senna era nera, la
Tour Eiffel scintillante e la gente passava davanti a loro come in un provino.
Era tardi quando tornarono a casa, entrarono ciascuno nella propria
camera senza salutarsi.
«Ehi, il tuo sindacato sarebbe capace di raddoppiarmi il salario?» gli
gridò a un certo punto Amir dal letto. Quella faccenda gli era rimasta in
testa come una spina.
«Come no? Basta chiedere! Perché, cosa ci faresti con un salario in più?»
«Ci stavo pensando».
«Andremo alla Mecca».
«’Fanculo! Questo è poco ma è sicuro!»
Daniele sorrise e si girò dall’altra parte.
«Mate?» gridò Amir dopo un po’.
«Che c’è?»
«Sai cosa ci faccio con quei soldi? Mi compro una macchina. Non
un’utilitaria del cazzo, una BMW, musica a palla e torno a casa!»
«Sì, bravo. Un coupé di grossa cilindrata, alettoni e cerchi cromati, così
centri in pieno il cliché dell’emigrante magrebino».
«E perché no?»
«Già... Perché no?»
Tornò il silenzio.
«No, mate, hai ragione tu: usciamo dal cliché. Ma senza rinunciare al
macchinone».
«Come fai allora?»
«Con la musica: a palla ci metto Miles Davis!»
E risero fino a perdere il sonno.
Per due volte il professore non rispose al citofono e Caterina, dando prova
di un orgoglio di cui non si credeva capace, decise di non andare più. Fu
Liliana, con sorpresa della nipote, a insistere che riprovasse e il venerdì
dopo riprovò.
La accolse in un completo blu che la mise in soggezione, le chiese la frase
e Caterina tirò fuori dalla tasca del cappotto cinque pezzetti di carta, li
spiegò sulla scrivania e gliene porse uno: «Questo è quello di oggi».
Lui prese anche gli altri e li lesse uno alla volta.
La calligrafia era precisa e la frase centrata nel foglio, come se la ragazza
avesse fatto delle brutte copie prima di arrivare a quel risultato. Erano
citazioni che riportavano in parentesi l’autore e l’opera da cui erano tratte.
Caterina doveva aver pensato che se la frase in sé non avesse detto niente al
professore, il libro o lo scrittore avrebbero potuto essere uno spunto. Lui
intuì quell’attenzione e ricordò che a scuola c’erano studenti che si
prendevano cura dei professori che mostravano segni di cedimento,
evitando di vessarli ripetutamente, per esempio, o accettando di fare i
compiti e magari di farli con un minimo di attenzione.
Spostò su un lato della scrivania i foglietti delle lezioni passate e declamò
la frase di quel pomeriggio. Poi, per un gioco di associazioni sconosciute,
tenne un discorso appassionante e disperato sulla morte del romanzo. La
volta precedente, decine di autori, case e oggetti di tutti i giorni
traboccavano di narrazioni e diventavano la letteratura di un paese, quel
venerdì, invece, il romanzo finì. In mezzo erano passati la guerra e il
collaborazionismo e la scrittura era diventata refrattaria, incapace di riferirsi
al reale. «Nessun testamento ha guidato la successione, non abbiamo
ricevuto alcun mandato, alcuna consegna, non sappiamo nemmeno quale
eredità rivendicare se non quella della parola vuota».
Cadde il silenzio e s’infranse sulla scrivania a cui si stringevano entrambi
come a una boa. Il professore si appoggiò allo schienale della sedia e
Caterina si figurò il suono della parola vuota, lo stesso che rimane dentro al
bicchiere di cristallo quando si passa il dito bagnato sul bordo, e si chiese
perché bisogna sempre considerarsi generati dal passato quando ci si
potrebbe sentire figli dell’avvenire.
Aveva parcheggiato davanti a Liliane Coiffure per controllare che il salone
fosse frequentato anche da una clientela maschile. Conosceva il paese come
le sue tasche ma non aveva mai fatto caso a quel negozio. Il lunedì era
giorno di chiusura settimanale, com’era indicato nell’orario affisso sulla
porta. Il poster di una ragazza castana occupava buona parte della vetrina e
a fianco, su un treppiede, erano in mostra i prodotti della pubblicità. Delio
sbirciò all’interno. Nell’angolo in fondo, accanto ai caschi asciugacapelli, si
alzava una pila di riviste e alle pareti erano appese fotografie di modelle
variamente acconciate. Le poltroncine all’ingresso erano viola e sul bancone
spiccava un vaso di ranuncoli colorati.
Andò a fare la spesa al supermercato di fronte e, anche se conosceva la
risposta, domandò alla cassiera se in paese c’erano barbieri. Lei gli indicò
Liliane Coiffure, di là dalla strada: «È unisex» disse.
«Sono brave, sa?» s’intromise la signora in fila dietro di lui salutandolo.
Si conoscevano di vista, come tutti. «Uomini e bambini possono presentarsi
senza appuntamento. Ci ho portato mia nipote la scorsa settimana, doveva
solo spuntare la frangia, ma l’hanno fatto subito, in cinque minuti. Sono
svelte, tutt’e due. Anche la ragazza è dotata e molto discreta. Ma è una
dipendente?»
«Non credo, c’è solo di tanto in tanto» rispose la cassiera.
«Dev’essere un’apprendista, allora. Da dove viene?»
«È italiana. Come Liliane. Ho sentito dire che è sua nipote».
«Liliane è italiana?» le interruppe Delio.
Infilò la spesa nei sacchetti e pagò. Caricò tutto quanto nel baule e
proseguì. Passò dal ferramenta, dal macellaio e al vivaio, che però trovò
chiuso. «Niente piantine, Ramingo, avevo dimenticato che il lunedì la serra
fa apertura pomeridiana» disse scocciato, rimettendosi al volante. «Mi dici a
cosa serve chiudere di lunedì mattina? Allora, tanto vale chiudere tutto il
giorno!» Sul retro del furgoncino c’era la coperta di lana sdrucita, ma il cane
era rimasto a casa. Quando vide l’auto entrare nel vialetto si alzò e andò
incontro al padrone per un residuo d’istinto canino che persisteva
nonostante la pigrizia, l’età e i malanni. Delio si accorse solo allora di non
averlo portato con sé e scaricando la spesa, gli riassunse l’esito della
mattinata: «Dobbiamo tornare dal ferramenta perché non avevano la
fascetta d’acciaio della misura che serve a me, al vivaio, che il lunedì
mattina è chiuso, e dal benzinaio perché ho dimenticato di riempire la tanica
per il trattorino. In sostanza, l’uscita di oggi non è servita a niente, se non
per la spesa. Vorrà dire che ci mangeremo una bella bistecca, in macelleria
ci sono andato, e dopo pranzo andremo a fare un giro al canale. Che ne
dici?»

Nelle belle giornate d’inverno, quando i campi davano meno lavoro, lui e
Teresa passeggiavano sull’argine, di chiusa in chiusa. Erano i posti in cui
Daniele si avventurava da bambino a raccogliere tesori nel suo sacchetto di
stoffa. Non ci erano mai stati tutti e tre insieme. Andava con Ramingo, ora,
e il cane gli camminava talmente vicino che Delio rischiava d’inciampare.
Lo sgridò, ma quello non si allontanava, come se temesse che, scostandosi
un po’, una distanza incolmabile potesse introdursi fra loro e separarli per
sempre. Delio gli agganciò il guinzaglio al collare, lo prendeva raramente,
ma quella volta era stato un bene, l’animale ne fu immediatamente
rassicurato. Da tempo, ormai, il cane non correva, non saltava, le
articolazioni si erano irrigidite, gli occhi non vedevano quasi più e vagavano
rassegnati. Davanti a un dislivello minimo del terreno o a un intralcio
qualsiasi si bloccava e procedeva con grande cautela, oppure aspettava che il
padrone andasse in suo soccorso.
«Una cinciarella! Guarda che bella, Ramingo!» gridò Delio indicandogli
un uccellino dalla livrea blu cobalto e zolfo che salterellava sul ramo basso
di un platano. Notò che a una zampa mancava un dito. Chissà come si
ferivano gli uccelli e dove andavano a morire, si chiese. Un colpo di vento
scrollò il ramo e la cinciarella volò via. «Cinciarella... Cinciarella...» chiamò
lui. Udì il suo verso cristallino, ma non la rivide. Cinciarella era il nome
italiano, non conosceva il corrispondente francese. Era una bella parola e la
ripeté, cinciarella. Il suono gli schiumò nella bocca. Cinciarella, aroma,
sonnellino, battibecco, magnolia... Era così dolce quella lingua, ormai non la
parlava più con nessuno, nemmeno con suo figlio.
Gli uccelli avevano sempre avuto nomi italiani per lui e Teresa, come
un’infinità di altri animali, erbe e fiori che avevano conosciuto da bambini e
che non avevano avuto bisogno di tradurre. Teresa, poi, non aveva mai
veramente imparato il francese, lo parlava che sembrava parlasse italiano.
Daniele la correggeva e, se gli altri non la capivano, traduceva per loro.
«Conosce tre lingue» diceva di lui Teresa. «L’italiano, il francese e il
francese di sua madre, che è una lingua à part entière». I primi tempi,
appena arrivata, andava a fare conversazione con una vecchietta del paese,
per impratichirsi un po’. Non si era accorta che l’anziana non c’era del tutto
con la testa e attribuiva le incomprensioni a un problema di lingue. Le frasi
più banali diventavano fonte di equivoci. Se Teresa, per esempio, voleva
sapere come si diceva “domanda” in francese e con il dito le disegnava in
aria un punto interrogativo, la vecchietta rispondeva: «Dito». Ma Teresa
sapeva che “dito” era qualcos’altro e per accertarsene le chiedeva: «E cos’è il
contrario?» rifacendo il segno del punto interrogativo. La vecchia ci
pensava: «Il contrario?... La mano». Tante volte ridevano e la conversazione
spesso si trasformava in un rebus senza soluzione. Teresa diceva con
rammarico di non sognare in francese ma di sognare il francese, come si
sogna un vestito o una casa, tuttavia si era sempre impegnata affinché
quella lingua straniera non intralciasse la sua lingua materna.
Delio arrivò all’argine in corrispondenza della chiusa. L’erba del
terrapieno aveva le tinte dell’inverno, i tronchi dei platani mostravano
croste più scure e i rami si piegavano sulla superficie immobile dell’acqua.
Camminò verso la chiusa successiva, ma più procedeva più si sentiva a
disagio, da solo, perso in mezzo alla natura. Strattonò Ramingo e tornò
indietro affrettando il passo, quasi correndo. Aprì la porta di casa e si lasciò
cadere in poltrona senza nemmeno levarsi il giaccone. Aspettò che l’affanno
passasse, guardò la mano frenetica sulla gamba e si rialzò. Fece il bucato,
spazzò e si accasciò di nuovo in poltrona. Ramingo strusciò il muso sulle sue
scarpe. «Che c’è? Vuoi una coccola? A forza di stare insieme abbiamo finito
per assomigliarci, tu ti sei preso un po’ della mia anima e io un po’ della tua.
E sai cosa ti dico? Di noi due vorrei essere il primo ad andarmene, perché la
solitudine la sopporto a stento, a te, invece, appartiene di natura. Quando
morirò, tornerai allo stato selvatico e l’affetto che hai provato per me sarà
solo una svista, un momento strano della tua vita che dimenticherai. Se
morissi prima tu, invece, ne soffrirei».

Il giorno dopo, Delio tornò al vivaio, si rifornì di carburante e ritirò la


fascetta dal ferramenta. Passando con l’auto davanti alla parrucchiera cercò
di dare un’occhiata dentro il negozio, ma non riuscì a vedere niente e decise
che si sarebbe tagliato i capelli da solo, era inutile tirarla tanto per le lunghe.
Rincasò a mezzogiorno ma preferì sistemare quella faccenda prima di
prepararsi qualcosa da mangiare. Tolse maglione e camicia, appoggiò una
salvietta sulle spalle e mise la testa sotto il rubinetto. Cercò un paio di
forbici nell’armadietto, non le trovò. Guardò nella scatola del cucito di
Teresa ma non erano nemmeno lì, allora pensò di prendere quelle da cucina,
le stesse che Aron aveva usato per sventrare i polli. Lo specchio gli restituì
un volto tirato, gocciolante. Si pettinò e si tagliò una ciocca in
corrispondenza dell’orecchio sinistro. Cercò di ricordare i gesti di Bernard, li
aveva visti tante volte ma non riusciva a replicarli. Tagliò un’altra ciocca, e
una terza, si spostò all’altro orecchio e diede qualche sforbiciata sommaria
senza controllare il risultato. Si schiacciò la frangia sulla fronte, stava per
tagliare ma il braccio s’irrigidì e la punta delle forbici urtò la tempia.
Insistette, più veloce, tagliò, si ferì di nuovo. Il braccio era pesante, il
respiro, d’un tratto, si era accorciato. Voleva finire almeno il davanti, per
liberare gli occhi, e si ostinò, ma il braccio non rispondeva, restava a
mezz’aria. Gli era già successo, con il pacco di zucchero. Forzò, tagliò a
casaccio, aveva la fronte bagnata d’acqua e di sudore. Un filo di sangue colò
sulla palpebra. Spostò le ciocche e scoprì diversi tagli, gettò le forbici nel
lavandino, si sciacquò, si passò l’asciugamano sulla faccia. Le punte dei
capelli si erano appiccicate alle ferite, quella al sopracciglio era profonda e
per quanto la tamponasse non smetteva di sanguinare. Andò a sedere in
poltrona e si gettò la salvietta sul viso come un sudario. Sentì Ramingo
accovacciarsi sui suoi piedi e realizzò che quello non era un modo per il
cane di cercare rassicurazione, ma per rassicurare lui. Sfilò le scarpe per
evitare che il ventre dell’animale stesse sul cuoio. Appoggiò la testa, la
stretta al braccio si era allentata, e si addormentò.

«Avete sentito che Marie è stata derubata?»


«Quale Marie?»
«Erano in due, si sono presentati come tecnici del gas che passavano di
casa in casa a esaminare i condotti».
«Marie chi?»
«Era da sola in casa?»
«Quella che lavorava in Comune, che abita nella casetta gialla verso la
provinciale. Hai presente?»
«E come sono entrati?»
«Di mattina, il cancello era aperto».
«Non si può più lasciare aperto, neanche di giorno, non c’è da fidarsi».
«Se vogliono entrare, entrano comunque».
Liliana accese il fon. «Facciamo la solita messa in piega con le punte
mosse e volume alle radici?»
«Sì, sì, come sempre».
Le signore ripresero a parlare a voce più alta. «Non è la prima volta che i
ladri vanno da lei, o sbaglio?»
«No, poveretta, è la terza. Aveva capito che si trattava di una truffa e
praticamente li ha lasciati entrare».
«Cioè?»
«Tu come l’hai saputo?»
«Me l’ha raccontato sua nuora perché la figlia, la nipote di Marie, è in
classe con il mio e capita d’incontrarci quando andiamo a prendere i
bambini a scuola. Be’, ha chiesto che intervento dovevano fare, se avevano
un’autorizzazione comunale... Con quelle domande li ha messi in difficoltà,
si sono innervositi e lei ha avuto paura, non tanto che la picchiassero, ma
basta uno spintone... Così li ha fatti entrare, gli ha detto dov’era la borsetta e
si è seduta in veranda. Aveva appena ritirato la pensione».
Liliana spense il fon, le voci si calmarono e per qualche secondo parlò
solo la radio. Caterina avvicinò il portariviste alla cliente sotto il casco e
chiamò la successiva. «Da qualche tempo ho i capelli molto rovinati» la
avvisò la signora. «Uso il balsamo a ogni lavaggio, ma restano opachi, sono
sfibrati. Eppure erano robusti, belli, non li ho mai tinti, non mi danno
fastidio i capelli grigi. Adesso però hanno questi riflessi giallognoli e mi
dicevo che forse dovrei iniziare».
«Sta seguendo una dieta particolare? La perdita di corposità del capello
può essere dovuta a quello».
«Ho scoperto di avere dei disturbi al fegato e il dottore mi ha prescritto
un’alimentazione particolare».
«Questo può spiegare perché i suoi capelli sono sciupati. Continui a usare
il balsamo perché nutre e idrata capelli e cuoio capelluto. In commercio, poi,
può trovare degli integratori alimentari o degli impacchi proteinici per
rafforzare il capello e ridare vigore alle radici».
Nel chiasso generale, il parlare pacato di Caterina suonava come una
confidenza.
«E per le sfumature giallastre?»
«Le faccio uno shampoo ravvivante in grado di rimuoverle. È un prodotto
naturale che contiene tensioattivi schiarenti e pigmenti che eliminano i
residui e bilanciano la tonalità dei capelli, così ritroverà la sua chioma
d’argento».
La radio passò una canzone di Brassens e la signora, a occhi chiusi, ne
mormorò la melodia. «Les passantes» disse alla fine. «Lo sa che è tratta dalla
poesia di un industriale, un capitano d’artiglieria nella prima guerra
mondiale? Brassens aveva scovato per caso il libretto di poesie al mercato
delle pulci e aveva contattato l’autore per chiedergli di poterla mettere in
musica, ma l’uomo morì la settimana prima del loro incontro e non sentì
mai questa canzone stupenda». E mentre Caterina la pettinava, lei la recitò
piano: «Je veux dédier ce poème / A toutes les femmes qu’on aime / Pendant
quelques instants secrets / A celles qu’on connaît à peine, / Qu’un destin
différent entraîne / Et qu’on ne retrouve jamais».
Caterina le risciacquò la testa, distribuì sui capelli una noce di crema
ricostituente e pettinò di nuovo.
«Dal vicino di casa di mia madre, invece, erano andati nel pomeriggio, un
giorno d’inverno che era già buio. Era un uomo forte, grande, ma costretto
su una sedia a rotelle. Aveva una moldava in casa che lo aiutava, e lo
sapevano, quei malviventi, conoscevano i suoi orari e hanno aspettato che
uscisse. Quando ha capito che non poteva essere lei, ha cercato di prendere
il telefono, ma nella foga la sedia a rotelle si è incastrata nella gamba del
tavolino. Sapete quelli cos’hanno fatto? L’hanno portato sul retro, gli hanno
legato le mani, l’hanno imbavagliato e hanno allacciato la carrozzina al tubo
di scolo. Poi gli hanno buttato sulla testa un sacco della spazzatura».
«Oddio!»
«Ma è terribile!»
«Quando la badante è tornata, l’ha trovato per terra mezzo congelato. È
morto in ambulanza».
«È spaventoso!»
«Sapete, la badante si era affezionata a lui e per il funerale gli aveva
messo sotto la camicia bianca una maglietta con la S di Superman che aveva
trovato al mercato, l’ha raccontato il prete durante la celebrazione dei
funerali. Era andato per l’estrema unzione e si era accorto della maglietta
che spuntava dalla camicia. Aveva chiesto alla badante perché non gli
avesse messo una canottiera bianca. “Quell’uomo era un eroe” aveva
risposto lei. “È facile essere eroi quando si vola e si vede attraverso i muri,
essere vecchi è ben più complicato”».
«Dove si compra questo shampoo che toglie il giallognolo dai capelli? Mi
scusi, ma questi discorsi mi angosciano, poi me li sogno di notte».
«No, nessun problema» la rassicurò Caterina. «Si chiama ravvivante, il
suo è quello per capelli bianchi, grigi o brizzolati. Lo vendono nei negozi
specializzati oppure glielo possiamo ordinare noi. Dopo, comunque, le do un
paio di campioni così intanto lo prova». Caterina disegnava con i
polpastrelli piccoli cerchi all’attaccatura dei capelli, procedeva dalla fronte
verso le tempie, attorno alle orecchie e sotto la nuca dove manipolò più a
lungo con movimenti incrociati, e la signora quasi si assopì.
«A proposito di magliette, se non piove, domani faccio un salto a vedere
quella che hai fatto per tua figlia».
«Perché, è prevista pioggia?»
«L’autan porta pioggia».
«Sentite questa ricetta: “Flan di zucca con fonduta”...»
Non sentirono lo scampanellio, videro solo la porta aprirsi e tacquero
contemporaneamente. Aveva la fronte fasciata in qualche modo, la benda
sporca di sangue. Nella massa scompigliata di capelli alcuni ciuffi sul
davanti e intorno alle orecchie erano mozzati, ma ciò che rendeva
quell’uomo simile a un paziente psichiatrico era lo sguardo allarmato e quel
suo stare immobile senza parlare, con il busto leggermente flesso in avanti e
la mano tremante abbandonata lungo la gamba.
Il casco asciugacapelli si spense con un suono acuto e le donne
sobbalzarono. Una sussurrò all’orecchio dell’amica che il vecchio era Delio,
quello che abitava ai poderi verso l’argine, l’altra annuì e passò il messaggio
alla terza. Caterina intanto si avvicinò: «Buongiorno. Ha bisogno?»
«Mi hanno detto che sistemate i capelli anche agli uomini» rispose Delio
articolando piano le parole. «Vorrei tagliarmeli».
Caterina gli indicò le poltroncine dove attendere il suo turno.
Sotto le luci del negozio gli parvero ancora più viola. «Aspetto fuori»
rispose e si voltò verso l’auto parcheggiata per metà sul marciapiede.
«Come preferisce. Verrò a chiamarla quando toccherà a lei. Vuole che le
porti qualcosa intanto? Un caffè, un tè?»
Delio rifiutò e tornò alla macchina con passo incerto. Gli avrebbe fatto
bene invece qualcosa di caldo, aveva preso freddo quando si era appisolato
in poltrona con la testa bagnata, ed era ancora tutto intirizzito. Si era
bendato i tagli alla bell’e meglio, «Vado e torno» aveva detto a Ramingo, e
una volta al volante si era ricordato di non aver pranzato. Guidava
lentamente, si sentiva debole e la benda gli cadeva sull’occhio. Il cuore
pulsava nella ferita, bruciava, la testa gli girava, ma aveva continuato a
guidare. Era sfinito quando aveva spento il motore davanti alla
parrucchiera. Gli ci erano voluti dieci minuti buoni per racimolare le forze e
aprire la portiera. Un tè gli avrebbe fatto bene, pensò. Vide una signora
uscire dal salone e poco dopo altre due. Camminavano impettite, fiere delle
loro nuove acconciature e parlavano ad alta voce. Teresa portava i capelli
raccolti in uno chignon basso. Li pettinava così da quando la conosceva.
Orientò lo specchietto retrovisore verso di sé e si tastò la garza con la punta
delle dita. La ragazza bussò al vetro. «Venga» disse, aprì la portiera e lo
aiutò a scendere. Lo prese sottobraccio posando la mano sulla sua, che
tremava. Gli succedeva alla mano destra, ma quando la usava, poi smetteva.
Non era un grande fastidio quindi, a volte non se ne accorgeva nemmeno.
«Buonasera» lo salutò Liliana.
«Che ore sono?» chiese lui.
«Le cinque e mezzo» rispose Caterina aiutandolo a sfilarsi il giaccone e
lui cercò di capire quando si era fatto così tardi, quanto aveva impiegato ad
arrivare in paese e quanto tempo aveva aspettato là fuori. Caterina lo
accompagnò al lavandino e reclinandogli delicatamente la testa indietro gli
disse che prima di lavargli i capelli gli avrebbe disinfettato la ferita.
«Non ce n’è bisogno» rispose brusco.
«No» mentì lei, «ma devo comunque togliere la fasciatura, si
bagnerebbe». Passò il batuffolo con il disinfettante sui tagli e sul resto del
viso, insistendo nei punti in cui il sangue si era rappreso, quindi gli lavò i
capelli.
L’acqua tiepida e le dita della ragazza gli procurarono un brivido che
dalla schiena scese fino alle gambe. Si accorse di piangere quando già stava
piangendo. Non era un riflesso nervoso, era commozione vera, perché da
tanto, da tantissimo tempo, nessuno si prendeva cura di lui.
Caterina gli porse un fazzoletto di carta, Delio lo prese senza dire niente.
«È da molto che fa questo lavoro?» le domandò mentre si lasciava portare
davanti allo specchio.
«Perché me lo chiede?»
«Mi sembra brava».
«Di solito non si giudica dallo shampoo, ma grazie».
Liliana si affacciò dal retrobottega e in italiano chiese alla nipote se
poteva occuparsi della chiusura, ne avrebbe approfittato per fare un paio di
commissioni prima di vedersi con Pierre a teatro. E si salutarono
mandandosi un bacio con la mano.
«Le farò un taglio molto corto, così risulterà uniforme e non si vedranno i
buchi. E poi, i tagli corti durano più a lungo».
«Siete italiane?» chiese lui, in italiano, e gli sembrò strano e naturale
ritrovare quella lingua. Si rese conto che una lingua non si dimentica, come
non si disimpara a guidare o ad andare in bicicletta, e non tornò più al
francese.
«Siamo di Roma, ma mia zia vive qui da quando era giovane, io rimango
solo per quest’anno».
Caterina era svelta, come aveva detto la cassiera del supermercato, e
precisa. Non assomigliava in niente a Bernard, che si perdeva in chiacchiere
e la tirava talmente per le lunghe che sembrava tagliasse un capello alla
volta. Dopo il taglio, installò il poggiatesta e gli fece la barba, e a lui venne
di nuovo da piangere.
Quando si guardò allo specchio, rimase colpito dai capelli corti e dalla
faccia sbarbata. Non gli sembrava neanche di vedere se stesso. «Sono tutto
pulito» commentò senza trovare parole migliori. «Ora posso confermarle
che è una brava parrucchiera».
Caterina sorrise. «Le ho messo una garza provvisoria perché i capelli non
le entrassero nelle ferite. Vede?» E la sollevò con un gesto. «Ora le faccio il
bendaggio definitivo». Prese la valigetta del pronto soccorso e lo medicò.
Il bruciore era diventato una sensazione diffusa, in sottofondo, incerta,
come il suo corpo molle.
«Ho finito. Riesce ad alzarsi?»
Delio non rispose.
«Sta bene?»
«Sì» scandì faticosamente.
«Il taglio al sopracciglio era da pronto soccorso, ma qui c’è tutto il
necessario: le ho messo dei cerotti di sutura così le ferite si rimarginano più
velocemente e non rimangono cicatrici. E li ho coperti con della garza
traspirante per evitare che si sporchino o s’infettino. Può alzarsi, ora?»
Delio raddrizzò il busto, adagio, ma non riuscì a mettersi in piedi.
«Bisognerebbe misurare la pressione» commentò Caterina. «Stia seduto,
le preparo un tè e la riporto a casa».
«No. Cioè, il tè volentieri, ma a casa vado da solo». Parlava a rilento e la
mano vibrava convulsamente.
Caterina mise nella tazza tre cucchiaini colmi di zucchero e lasciò che
Delio bevesse con calma. Spazzò, riordinò gli arnesi sotto le specchiere e
raccolse le riviste abbandonate in giro. Portava un pantalone abbondante e
una maglia stretta che le fasciava la vita e i seni. «Visto che non arriva
nessun altro cliente, possiamo andare» disse chiudendo l’agenda degli
appuntamenti.
«Il tè mi ha fatto bene. Posso tornare da solo, grazie, non c’è bisogno che
mi accompagni» insistette mentre lei lo aiutava ad alzarsi e a mettersi il
giaccone.
«Non mi è di nessun disturbo e la macchina potrà venire a prenderla
domani o gliela riportiamo io e Liliana».
«È sempre così risoluta?» le domandò.
«Quasi mai» rise lei.

Il tratto era breve, la campagna incontaminata. Delio le fece cenno di


svoltare in una stradina sterrata senza nome. C’erano tre poderi e un faggio
a metà del sentiero. Davanti a casa le chiese di attendere un momento. Uscì
goffamente aggrappandosi alla maniglia, oscillò, il cane lo raggiunse ma
Delio non gli diede retta. Raccolse in un cesto delle patate novelle, bietole,
radicchi, quattro cipollotti e un vasetto di fagioli secchi dell’annata
precedente, poi andò nel pollaio e avvolse quattro uova in un giornale
vecchio. «Tieni» le disse passando al tu. «Sono verdure dell’orto e uova
fresche, le prime delle mie galline. E poi, dimenticavo di pagarti. Quant’è?»
«Diciotto euro».
«Barba compresa?»
«La barba è in omaggio».
«È la prima volta che mi viene fatta la barba» confessò. Voleva proporle
di restare a cena, ma gli sembrò inopportuno. Prese i soldi dal portafoglio.
«Aspetta, ho dimenticato l’aglio. Lo tengo nella rimessa» e senza che
Caterina avesse il tempo di obiettare le fece cenno di seguirlo.
Quella che chiamava rimessa era un vecchio fienile dove teneva gli
attrezzi da lavoro ingombranti. Su un lato c’erano la cuccia del cane e alcuni
vasi di limoni a svernare. Sul fondo, coperto da un telo grigio, un camper.
«Sì, è un camper» confermò accorgendosi che Caterina lo guardava
interrogativa. «È nuovo di zecca. L’avevo regalato a Teresa, mia moglie, le
era sempre piaciuta l’idea di viaggi itineranti. L’ho comprato tardi, però, il
giorno che l’oncologo ci aveva confermato che non c’erano più speranze. Al
venditore avevo chiesto il miglior modello fra quelli disponibili subito, come
se quello avesse potuto impedire alla morte di venire a prendersela. Lo
tenevamo sotto il portico a promemoria dei viaggi che non avremmo fatto e
qualche volta, quando Teresa stava bene, ci abbiamo cenato». Tacque. «Non
ho avuto bisogno di assicurarlo». Staccò una treccia d’aglio da un chiodo e
gliela allungò. «Con questa terrai lontani i vampiri». Caterina rifiutò, gli
disse che era troppo, viveva sola, e lui ne staccò quattro teste e gliele mise in
mano: «Vieni a prenderne dell’altro, quando ti servirà. Guarda quanto ne
ho». Le propose di fermarsi a cena. «Preparo una pastasciutta veloce»
insistette Delio, «poi, se non te la senti di rientrare a casa col buio, puoi
fermarti qui a dormire. Vedi questa parte del casolare? È un appartamentino
indipendente. L’avevo fatto per mio figlio, ma vive a Parigi e non ha
intenzione di tornare. C’è un bel soggiorno con angolo cottura, e il bagno,
con una lavatrice ancora da installare. Non è grande, s’intende, ma non
manca niente...» Si accorse di aver parlato a vanvera e se ne dispiacque. Si
scusò dell’invadenza. «Non so cosa mi è preso» disse mortificato. «Va’ a
casa ora, è tardi».
«Tornerò un’altra volta» lo rassicurò lei. «Anzi, facciamo così, vengo per
toglierle i cerotti, fra otto o dieci giorni. Lei non tocchi la ferita, d’accordo?»
La macchina divenne un punto nero nel nero. Delio riempì la ciotola di
Ramingo, poi si preparò un abbondante piatto di pasta. «La cena mi ha
proprio rimesso in sesto, sai, Ramingo?» disse. «Ne avevo bisogno dopo la
giornata di oggi! Hai visto come ho rovinato la faccia provando a tagliarmi i
capelli? Mi sarei potuto accecare... A proposito, cosa dici del mio nuovo
taglio? Mi avevi riconosciuto quando sono tornato? Di’ la verità! Non ho
mai avuto i capelli così corti. Sono cambiato, eh? Adesso, comunque, per un
po’ sono a posto. Ha fatto un bel lavoro, quella ragazza, è brava. Si chiama
Caterina, è italiana». Sedette in poltrona e accese il televisore.

Quando la intravide dietro il vetro della porta-finestra gli sembrò un


fantasma. La luce del portico era spenta e la pelle di Caterina lattea. La
pioggia scendeva quieta e alcune gocce si erano appoggiate sui suoi capelli
senza cadere. Prima di aprire, Delio controllò che non fosse
un’allucinazione. «Vieni» disse infine prendendola per il polso, come una
bambina, e la fece entrare in casa, con la stessa precauzione che lei aveva
usato verso di lui. «Cos’è successo? Sono già passati dieci giorni? È il
momento di togliere la fasciatura?» scherzò per allontanare
quell’espressione impaurita dal suo volto.
«Piove» disse Caterina. «Lo dicevano, al salone, che il vento dei giorni
scorsi avrebbe portato pioggia».
«Cos’è successo?» ripeté lui.
«Sono venuti i ladri» sussurrò.
«Maledetti!» inveì e per un istante non riuscì a dire altro. «Mi dispiace»
riprese poi. «Hanno preso qualcosa di valore?»
«No. Hanno solo buttato tutto per aria».
«Vuoi che vada a sistemare? Oppure andiamo domani con la luce,
andiamo domani insieme. Va bene?»
«Parlavano anche di questo, oggi, al salone, della pioggia e dei ladri...»
Un brivido la scosse.
«Non preoccuparti, si sistemerà tutto» continuò lui. «Domani puliamo e
non rimarrà traccia del loro passaggio. Poi andiamo a sporgere denuncia.
Ma se vuoi, possiamo andare anche subito».
Caterina fece di no con la testa. Delio scostò una sedia dal tavolo e le fece
cenno di accomodarsi. Lei la guardò come se fosse un oggetto sconosciuto e
rimase in piedi. «Posso stare qui per questa notte?» domandò. Non avrebbe
mai pensato di chiedergli di restare. Non sapeva nemmeno perché era
tornata lì anziché andare da Liliana. Avrebbe potuto aspettarla davanti a
casa o direttamente fuori dal teatro. Aveva ritrovato facilmente la strada,
però. Aveva spento il motore vicino alla rimessa e udito il lamento di un
uccello notturno. Scendendo dalla macchina, aveva immerso i piedi nel buio
e si era diretta verso la luce che proveniva dalla finestra. L’immagine di
quell’uomo in poltrona con il cane addormentato sopra i piedi la rasserenò e
fu sopraffatta dalla tenerezza incredibile degli interni delle case di notte.
Delio le indicò il bagno e, mentre lei stava immobile sotto lo scroscio
d’acqua bollente della doccia, salì al piano di sopra a cercare un paio di
lenzuola di Daniele, meno lise delle sue. Passò davanti alla camera
matrimoniale ed entrò in quella del figlio. Richiuse le ante dell’armadio e la
fila dei barattoli allineati sopra traballò – “selci”, “argilla dell’ansa”,
“ghianda di quercia secolare”, “ghiande di querce giovani”, “rocce calcaree”,
“semi di girasole”. Solo allora Delio avvertì il freddo di quelle stanze, il
freddo dell’assenza. Tornò di sotto, accese il riscaldamento e spalancò le
finestre perché uscisse l’odore di chiuso. Entrò quello della pioggia.
Scaldò del latte e la fece aspettare davanti alla tazza fumante. Dopo aver
fatto il letto, la chiamò e le mostrò la sua camera. Le raccontò che quel
posto, in origine, era una porcilaia e le descrisse tutti i lavori che ci aveva
fatto. Era per suo figlio, le ripeté, per restituirgli una casa che gli aveva
tolto, ma Daniele non aveva considerato valido lo scambio. Per la seconda
volta, quella sera, si scusò di averla trattenuta con chiacchiere inutili e se ne
andò prima che lei potesse ringraziare.
Delio girò intorno al tavolo della cucina, spazzò perché non arrivassero le
formiche e si coricò sapendo che non avrebbe preso sonno al pensiero della
ragazza che dormiva di là e della bottiglia d’acqua che non le aveva portato.
Si chiedeva se aveva freddo, se si era addormentata e se, anche nel sonno,
conservava quell’espressione dolce e spaventata che le aveva visto quando
era apparsa alla finestra.
Caterina indossò il pigiama che Delio le aveva appoggiato sul cuscino, di
due o tre taglie più grandi della sua. Doveva essere del figlio, pensò, e cercò
d’immaginarlo, ma riuscì solo a sentire il profumo della saponetta tenuta
nell’armadio. S’infilò sotto le coperte e la tensione si sciolse nella
stanchezza. Le lenzuola tardarono a scaldarsi. Il buio invece si era già chiuso
da un pezzo intorno a quei muri che sapevano di intonaco fresco e bucce di
mandarino. Caterina si addormentò, custodita da un irragionevole senso di
sicurezza, una sensazione che avrebbe provato tutte le notti che avrebbe
trascorso lì, anche se quella casa stava in mezzo alla solitudine dei campi e il
proprietario era malato di malinconia.
La roba che aveva lasciato a Roma, nella cantina dei suoi, riempiva appena
cinque scatoloni: i manuali d’infermeria, i libri e le riviste che avevano
ispirato gli “atelier trucco-parrucco”, foto, peluche di bambina e qualche
vecchio vestito di cui non riusciva a disfarsi. Caterina era una ragazza di
poche cose. Da Delio si trasferì con una sola valigia, nemmeno troppo
grande, e la borsa a tracolla che conservava nella tasca interna il santino di
sua mamma. Andò a stare nell’appartamento del figlio, in stanze che
nessuno aveva abitato prima e dove non era possibile ricomporre i ricordi
né falsarli, solo inventarli o sognare. E capitava che lo sognasse, il figlio di
Delio, che tornava all’insaputa di tutti e la trovava nel suo letto. Non la
svegliava, però, si coricava accanto a lei, abbracciandola da dietro e
tenendole un seno nel palmo della mano. Quando Delio parlava di lui, lei si
sforzava di dargli un volto, un corpo, degli abiti, perdendosi in quelle
fantasie come in una città troppo grande. Sistemò le proprie cose e sentì
quelle stanze subito sue.
In quella campagna che aveva per padrone solo il vento, imparò a
spruzzare il verderame sui limoni e a riconoscere il profumo degli elicrisi,
scoprì che la coccinella è un ottimo predatore nella lotta biologica, mentre il
maggiolino può provocare grossi danni alle colture. Delio le raccontava le
mille cose della vita dei campi che aveva imparato negli anni, da bambino e
poi con Teresa. E Caterina ascoltava affascinata. Nutrirono presto l’uno per
l’altra un affetto che scaldava il cuore, per cui non si chiedevano niente ma
si rendevano ogni attenzione. Ogni tanto Delio le rimproverava di passare
troppo tempo in quel cimitero di vecchi, allora lei inforcava la bicicletta e si
spingeva lungo il canale, insieme ai platani. Raggiungeva villaggi ritirati
sulle colline e cimiteri custoditi da una cerchia di cipressi rugginosi. Più
correva più si sentiva libera e capace di un destino diverso da quello di sua
madre. Si era impegnata, con ostinazione, a non assomigliarle. Non si
vestiva e non si pettinava come sarebbe piaciuto a lei, aveva imparato lingue
straniere, era andata a vivere da sola e tutto questo lo doveva soltanto a se
stessa. Ma era soprattutto quell’anno all’estero a marcare la distanza con la
sua famiglia e il rione usurato dov’era nata, a renderla nuova anche a se
stessa.
«Sto bene qui» confidò a Liliana che, felice di vedere la nipote raggiante,
prese coraggio e le confessò di essere dispiaciuta che non si fosse trasferita
da loro la notte del furto. Caterina accennò al fatto che erano a teatro, che
pioveva e la strada per il podere l’aveva appena imparata. Ma poi aggiunse:
«So di poter contare su di voi. Ci siete, ma con discrezione, mi lasciate
andare e venire a mio piacimento e questo è tutto quello che desidero». Le
spiegò che ai suoi aveva sempre chiesto di essere ascoltata, non controllata,
snidata anziché trattenuta, cercava scambi straripanti di emozioni, più che
avari di parole. Loro, invece, decidevano per lei, forse perché educare un
figlio richiede tempo, il tempo dell’errore, del confronto, e loro quel tempo
non lo avevano. Non c’era amarezza nelle sue parole, solo la consapevolezza
che la famiglia nella quale si nasce è un cappotto di controsensi e l’infanzia
uno schiocco di dita. «Dovrei essere più riconoscente, eppure, da quando
abito in quel casale in mezzo ai campi, accanto a quell’uomo silvestre che
parla al cane, ho scoperto il piacere di vivere sciolta da ogni vincolo, da false
identità e dal dovere di farmi capire».
«Solo un genitore può giudicarne un altro e io non posso prendere
posizione, ma Gina mi ha permesso di averti, estate dopo estate, ti ha
condivisa con me da quando avevi appena un anno e per questo le sarò
sempre grata».
Caterina si considerò per la prima volta figlia di due madri, due madri
sorelle. La abbracciò e le chiese all’orecchio di andare a vedere come si era
sistemata da Delio. E non avendo altre prenotazioni, Liliana abbassò la
saracinesca del salone e la seguì.
Passeggiarono nel frutteto e si affacciarono sull’orto, Caterina le indicò la
casa di Rose, dal grazioso giardinetto, e quella scalcinata di Aron con le
galline che zampettavano tutt’intorno. Sedettero sotto il portico a osservare
i campi bagnati di una luce senza origine. Delio servì una bevanda a base di
succo di limone, miele e foglie di alloro che faceva Teresa e di cui amava il
gusto dolce acidulo. Ramingo li raggiunse e Delio lo scacciò. Negli ultimi
giorni, il cane aveva iniziato a fare pipì in giro e lui non voleva che gli
capitasse davanti all’ospite, ma non ebbe il tempo di allontanarlo e una
pozza si allargò in mezzo a loro.
«Faccio io» disse Caterina trattenendo Delio. Pulì, portò Ramingo
nell’erba e gli accarezzò il dorso sfilacciato di lana non cardata finché non si
appisolò.
«Da quando Caterina vive qui» disse Delio a Liliana, «Ramingo è più
vivace e anche a me fa bene la sua presenza, almeno ho qualcuno a cui
pensare e non resto solo con me stesso, con mio figlio assente e con i miei
defunti... A una certa età si hanno troppi ricordi da cui guarire...»
«Anche Caterina è contenta, glielo assicuro» affermò Liliana mentre la
ragazza tornava da loro. «Dirò a sua madre che è in buone mani».
«Come no! Non faccio un granché per lei, in verità, se non la cena ogni
tanto, ma mangia genuino, glielo posso garantire. E le dica anche che come
infermiera è sprecata. Cioè» disse rivolgendosi a Caterina «non metto in
dubbio le tue qualità di infermiera, ma come parrucchiera hai un talento
innegabile!»
Liliana e Caterina si scambiarono un’occhiata e scoppiarono a ridere:
«Ecco, questa è una cosa da non dire a Gina».
«Dico sul serio» insistette lui e passandosi le dita agitate fra i capelli
continuò: «Guardi che bel lavoro! Fatto in casa, poi, come se fossi una
sposa! Non mi era mai capitato. Dovreste andare a domicilio, non potete
immaginare a quante persone rendereste servizio: queste campagne sono
piene di case isolate e di villaggi a cui mancano i servizi fondamentali,
figuratevi i parrucchieri! Quando Bernard ha chiuso, per esempio, nessuno
ha ripreso l’attività e in paese non è rimasto neanche un barbiere.
Credetemi, qui intorno ci sono solo vecchi che hanno bisogno di farsi
tagliare i capelli, ma non sono in grado di prendere la macchina o di farsi
accompagnare da un parrucchiere giù in città».
«Purtroppo, proprio perché sono sola in paese, non potrò mettermi alla
guida di un salone ambulante» ribatté Liliana. E l’immagine di un
camioncino da parrucchiere che andava su e giù per quelle strade scorticate
attraversò la mente di tutti e tre, che si sorrisero.

Liliana rientrò a casa e chiamò subito sua sorella. Non era domenica e a
Gina prese un colpo quando sentì la sua voce, sebbene fosse squillante.
«Non sarai mica incinta?» scherzò.
«Sì, uno straordinario caso di gravidanza in menopausa avanzata e
accertata sterilità».
Risero molto durante quella telefonata, senza motivo, la telefonata stessa
non ne aveva. Liliana non dovette misurare le parole né valutare la sincerità
di quelle della sorella. Gina era sempre stata capace di nascondere i propri
sentimenti, a eccezione, forse, dell’invidia nei suoi confronti. Quando Liliana
si era trasferita in Francia, l’inevitabilità del loro stare insieme fu sostituita
dalla lontananza. I sensi di colpa di Liliana avevano trovato in Gina reazioni
di apatia, rivalsa, commiserazione e autocommiserazione. Nemmeno la
maternità le aveva regalato un’impressione di fortuna o appagamento, non
aveva compensato il vuoto di una sorella, di una stagione, che non sarebbe
tornata più. Liliana, dal canto suo, aveva imparato a tacere le sue gioie e non
aveva smesso di domandarsi quanto, della donna che era diventata, fosse
frutto di sue scelte o della mancanza di scelta, se l’aver lasciato Roma
l’aveva resa differente da Gina o se quella diversità la nutriva già dentro di
sé.
«Devo andare, ora, abbiamo gente a cena e sono indietro con i
preparativi».
«Cosa fai di buono?»
«Ho fatto un aspic al salmone, ma temo che non mi sia riuscito».
«Che cavolo è un aspic? Ma preparagli una buona carbonara a quei
francesi, saranno più contenti! E poi la carbonara non puoi sbagliarla!»
Di venerdì in venerdì, mentre l’inverno si estingueva senza sussulti, il
professor Marthelot dispensava a Caterina lezioni dalla prosa sapiente e la
scrivania si riempiva di appunti e libri che lui impilava disordinatamente
all’arrivo della ragazza. Indossava completi che Caterina imparò a
riconoscere e anche lei cominciò a presentarsi vestita in modo meno sciatto.
Il professore la accoglieva con un’espressione increspata, che durante le
dissertazioni diventava ironica e a tratti esultante. A volte spiegava con tale
intensità che perdeva il senso del tempo, preso dall’intelligenza degli autori
e dalla bellezza delle opere. Affrontava i soggetti con lucidità, genialità
quasi, e con un fervore che cercava sfogo nelle falcate con cui attraversava il
salotto avanti e indietro. Quando s’impadroniva di un argomento il suo
spirito crepitava, scardinava, attraversava paesaggi di pensiero forse mai
battuti prima in un’esplorazione acuta che rifiutava ogni prêt-à-penser. Si
gettava in un corpo a corpo con Foucault, sfidava il pensiero esuberante di
Barthes, incalzava l’insolenza di Lacan e in ogni considerazione metteva
tutta la sua anima.
Caterina rimaneva sbalordita da quella straordinaria capacità di parlare a
ruota libera senza ripetere lo stesso termine due volte. Se non fosse stato
che il professore improvvisava sulle frasi che lei gli portava di volta in volta,
poteva credere che preparasse quelle lezioni in anticipo. Doveva aver avuto
un’ottima reputazione di insegnante e di studioso sia fra i colleghi che fra
gli studenti. E lo immaginava lanciarsi nei dibattiti con la sua dialettica
brillante e senza compromessi, incurante dell’interlocutore al punto da
essere capace di perdere delle amicizie in nome della grande letteratura.
Chissà poi, in quel suo mondo d’intellettuali scomparsi, che posto avevano
avuto le donne per lui e com’erano passate sotto il giudizio intransigente di
Simone de Beauvoir, Colette o Yourcenar. Mai, nemmeno per un attimo, il
professore si era distratto a parlare di sé, non un solo riferimento al suo
passato o al presente, come se la narrativa fosse l’unico decoro di una vita
altrimenti caotica, come se tutta la sua persona si riducesse a quel perdersi
ininterrotto negli scritti altrui.
«L’estate si preannuncia torrida» riferì Caterina dopo aver riattaccato. Lei e
sua madre si telefonavano regolarmente e Gina le teneva cronache
minuziose sul tempo. Alla televisione aveva scoperto un canale che
trasmetteva solo il meteo e appena sveglia controllava le previsioni a Roma
e in un punto non ben definito del sud-ovest francese. E se Caterina la
smentiva, non sapeva se diffidare della figlia o della meteorologia. Caterina
trovava insensate quelle conversazioni, ma partecipava comunque perché
tutto ciò che avevano in comune, in quel momento, erano le previsioni del
tempo.
«Lo è già questo inizio di primavera» controbatté Delio. Smuoveva l’aria
con il giornale e la mano aveva smesso di tremare. Caterina controllò
istintivamente anche l’altra. Da qualche giorno, infatti, il tremore si era
trasmesso alla mano sinistra. Aveva notato inoltre che, quando Delio era
emozionato, se sgridava Ramingo, per esempio, o se il telegiornale
trasmetteva le immagini di qualche disastro, la vibrazione si accentuava.
Caterina si sforzava di non fare diagnosi, ma quel tremore lo conosceva
bene, lo aveva incontrato nei manuali di geriatria e in certi pazienti del
reparto. Si era imposta di non preoccuparsene finché non se ne fosse
preoccupato Delio, ma lui non ci dava alcun peso.
«Ultimamente, invece di contemplare il tramonto mi sono messo a
contare i secondi che impiega il sole a scomparire. Lo facevo anche da
ragazzino, nel mio paese. Allora non avevo ancora il senso della poesia del
mondo, adesso devo averlo perso» disse riportando alla memoria la spiaggia
di Framura, la montagna e il borgo, luoghi lontani di anni, della stessa
sostanza della salsedine, che non si ravvisa ma increspa i capelli. Per un
attimo, gli sembrò di sentirlo quell’odore, penetrante, saturo, l’odore intenso
dello iodio che colmava l’aria di Framura, di scorgere l’argento dei banchi di
acciughe sulla superficie dell’acqua. E in cuor suo si scusò ancora con il
figlio per averlo portato via di là.
«Non ha mai desiderato tornare?» gli domandò a bruciapelo Caterina.
«Era un progetto che avevamo io e Teresa e che saltava fuori a ogni
cambio di stagione. Ma il tempo passava e tornare diventava sempre più
difficile. All’inizio, lontani dal nostro paese, ci sembrava che la vita potesse
crollare da un momento all’altro, come un castello di carte, poi, negli anni, il
castello di carte è diventata la nostra casa. Per lungo tempo ho fatto un
sogno ricorrente: mi venivano offerti nuovi terreni intorno al podere, le
colture erano già avviate ed erano rigogliosissime e mi sarebbero state date
gratuitamente se promettevo che non avrei mai più rimesso piede a
Framura. Strinsi il patto, ma poi me ne dimenticai e ci tornai per andare a
prendere Daniele dai miei genitori. Divenni polvere». Le mani sbattevano
sulle gambe. Dagli occhi, che alla fine del racconto aveva chiuso, scivolò
qualche lacrima. «Il nervo delle origini rimane scoperto» proseguì, «ma
tornare è un’altra cosa, ci vuole troppo coraggio. Non spetta più a me il
ritorno, ormai. Era il progetto di mio figlio, se non glielo avessi reso
irrealizzabile». Deglutì e cambiò tono. «Bernard, il mio barbiere, diceva che
gli italiani all’estero sono più italiani degli italiani d’Italia e spesso si
divertiva a domandarmi se mi sentivo più italiano o francese. Anche alcuni
clienti all’officina mi facevano la stessa domanda. All’inizio rispondevo
convinto che ero italiano, poi la convinzione cominciò a vacillare.
“Cinquanta e cinquanta?” suggeriva allora Bernard. “Ottanta e ottanta”
dicevo io per scherzare. Ma la risposta giusta è che la frontiera me la porto
dentro: sono un italiano all’estero, un migrante, e questa è un’identità con i
suoi connotati, un’identità à part entière come direbbe Teresa che adorava
quest’espressione».
«Teresa le manca sempre, vero?» disse Caterina, e non era una domanda,
voleva essere una carezza.
«Ero molto più vecchio di lei e la mia situazione incerta... Se penso che
tentai di convincerla a non sposarmi... Avrei commesso l’errore più grosso
della mia vita! E credo che in fondo lei fosse affascinata proprio dai miei
dieci anni di più e dalla possibilità di vivere in un paese straniero».
Uno stormo di uccelli migratori disegnò nel cielo un lungo moto ondoso
senza provenienza né destinazione. Si disperdeva e ricomponeva in forme
diverse, sfumava diradandosi e ravvicinandosi anneriva. Poi scomparve,
all’improvviso, com’era apparso. Caterina e Delio trattennero il fiato
aspettando che tornasse, ma non tornò. La trombetta di Rose risuonò due
volte e li distolse da quella suggestione.
«Peccato che Rose si sia occupata della cena» disse Caterina. «Avrei
voluto proporle una prelibatezza questa sera».
«Sentiamo».
«Pizza da asporto».
«Sì, davvero un peccato» ironizzò Delio, che non aveva mai mangiato
una pizza in realtà, lo considerava un cibo troppo moderno e veloce per
essere buono. «Vieni con me da Rose?» le propose e gli suonò
particolarmente gradevole rivolgere la domanda a lei e non a Ramingo, che
si tirò su comunque e s’incamminò con loro.

Anche Aron aveva risposto all’appello, lo incontrarono sulla strada e


proseguirono insieme, senza scambiarsi una parola. Caterina avrebbe pagato
per conoscere i loro pensieri, penetrare il mistero di quell’amicizia
primitiva, un’amicizia di nessuna convenienza, solo intesa. Camminava fra
loro come una figlia, adattando il passo a quello di Delio che si era fatto
ancora più breve e lento. La sua ombra assomigliava a quella di un picco di
sbieco, quella di Aron, invece, era un masso che affiora dalla terra con i suoi
strati geologici sconosciuti. Ombre ancora per poco, poi la luce della luna le
avrebbe raggiunte e schiarite.
«I pellegrini sono arrivati!» annunciò Delio entrando in casa.
«Vi manca solo il bastone e potreste sembrare davvero un gruppo in
pellegrinaggio verso Lourdes» commentò Rose e, rivolgendosi ai due
italiani, si corresse: «O verso Roma». Poi guardò Aron.
«Il Tempio» disse lui leggendole nel pensiero. «Il luogo sacro degli ebrei
è il Tempio, a Gerusalemme, ma posso accompagnarvi, Lourdes e Roma
sono sulla strada».
Rose li fece entrare in cucina e improvvisò uno stuzzichino. Formaggi,
olive, vino rosso e una bottiglia di Porto che doveva essere stata di suo
marito. Divennero loquaci e si abbandonarono all’evocazione di piccoli
aneddoti della loro amicizia. Li raccontavano a Caterina, ma era un pretesto
per parlare fra loro e poco alla volta lei si tirò fuori dalla conversazione
senza che se ne accorgessero. Posò lo sguardo su ciascuno di quei tre magi,
vecchi come stelle cadenti, che davano forma ai ricordi come si dà forma al
pane. Il profumo della stufa spenta e la nenia delle loro voci nidificarono
nella sua testa fra i bicchieri vuoti e pieni e i noccioli d’oliva, i minuti
persero i contorni e la cucina, quella grande cucina gremita di utensili e
fotografie, si staccò e andò alla deriva. Cercò di ricordare come fosse
arrivata in quella campagna sperduta, attraversata solo da uccelli migratori
e dagli ultimi angeli, dove pioveva e spioveva e il silenzio vegliava su una
lunga storia di venti, di versi di animali, sul respiro del bosco e il lamento
delle campane al vespro, dove lei non si sentiva diversa da una ghianda o
una foglia.
Andò in salotto, si stese sul divano e per un attimo desiderò la città
caotica e così pateticamente anonima. Botteghe, Madonne, fattucchiere,
spigoli di palazzi e vie si ricomponevano in una mappa precisa della città.
Doveva dimenticare Roma per poter vivere fra quei tre poderi, cancellarla
dai suoi riferimenti mentali, perché visto da Roma quel posto era
impensabile. “Abbracciatevi finché siete in tempo” era scritto sul muro di un
vicolo che saliva al Gianicolo. Non ne ricordava il nome, ma avrebbe saputo
ritrovala a occhi chiusi, quella viuzza di gradini sconnessi, con l’edera che si
arrampicava verso la scritta. E si chiese cosa ne sarebbe stato di lei, allo
scadere di quell’anno.
Quando tornò in cucina, i piatti sporchi erano nel lavandino e c’era un
avanzo di maccheroni al formaggio che avevano tenuto da parte per lei.
Giocavano a carte ricordando le scorribande di Daniele, quella volta che
Rose gli aveva confidato di essere terrorizzata dai ragni e il ragazzo le aveva
riempito la casa di minuscole trappole che aveva realizzato lui stesso o
quando, dopo averlo cercato per ore, Aron lo aveva scovato nel fienile dove
Daniele, temendo una punizione per essersi avventurato lassù senza
permesso, era rimasto nascosto fino ad addormentarsi. E quando aveva
deciso di seguire il canale fino al mare ed era stato riaccompagnato in
macchina dal custode della darsena che aveva dovuto convincerlo che al
mare non poteva arrivarci a piedi. Non avrebbero mai dimenticato il
concerto che aveva organizzato con gli altri ragazzi della fanfara per il
funerale di Serge, il marito di Rose, a ripensarci gli veniva ancora la pelle
d’oca.
Caterina avrebbe voluto chiedere una buona volta a Delio dov’era,
Daniele, e perché non tornava, quale offesa lo spingeva a rifiutare il padre in
modo così assoluto. Avrebbe voluto sapere se i capelli li portava ancora un
po’ lunghi come nella foto che Delio teneva sulla credenza, se aveva una
ragazza, se suonava sempre la tromba e mille altre cose di lui che l’assenza,
anziché cancellare, rendeva presente. Quando accompagnava Delio in paese,
i negozianti non mancavano di chiedere di lui, e Cécile, la figlia di Rose, lo
nominava con il rimpianto di una ex innamorata. Non c’era giorno che non
lo sentisse nominare e notte che non ne sognasse l’arrivo.
Le mani di Delio tremarono fino a non reggere più le carte e diede forfait.
Rose raccolse il mazzo e li lasciò andare a malincuore.
L’aria era fredda, pizzicava in gola. Delio aveva il passo malfermo e si
aggrappò al braccio di Caterina. Gli sarebbe stato utile un bastone da
passeggio, pensò lei, ma non glielo suggerì per timore di offenderlo. Aron
procedeva sul ciglio della strada, dove i ciottoli diventavano grigio polvere.
Alla biforcazione andò dritto salutandoli con un cenno del capo. Appena
svoltati nel viottolo, Delio e Caterina avvertirono il profumo di mandorla
amara dei biancospini accanto a casa. Sui rami ritorti erano apparsi in poche
ore centinaia di fiori. Era stata Rose a regalare a Teresa quella pianta
quando si erano trasferiti lì. «Protegge dagli spiriti maligni» aveva detto e
quando Teresa era incinta ne aveva fatta attecchire un’altra accanto alla
prima. Gli arbusti erano diventati alberi e se non fosse stato per i tronchi
separati si sarebbero potuti credere una pianta sola tanto le chiome si erano
espanse e intricate l’una nell’altra. Dalle cure che Teresa dispensava al
biancospino Delio aveva capito che sua moglie viveva in comunanza con
l’invisibile e anche lui aveva preso a voler bene a quei cespugli, e cercava di
occuparsene come meglio poteva, soprattutto dopo la sua morte. Gli occhi
gli divennero d’un tratto gonfi. «L’intensità della sua presenza ha lasciato il
posto a un dolore altrettanto forte» disse fissando quel mucchio di fiori. «La
vita sembra cosa di poco conto finché non cambia direzione,
drammaticamente... Senza di lei sono rimasto allo scoperto, anche se sento
ancora il suono della sua presenza, un suono di acque profonde...» Si
appoggiò più forte al braccio della ragazza e si fece accompagnare dentro.
«Scusami, non volevo intristirti. Sei così giovane ancora» le disse sulla
porta, sfilando il braccio. «Adesso passa... È il vino... L’alcol prima rende
allegri, poi addolora».

Il mattino seguente, appoggiato sulla panca del portico, c’era un bastone


da passeggio in legno. Il manico, intagliato finemente, diventava più grezzo
verso il basso dov’erano incise le iniziali di Aron. Delio prese il bastone, lo
studiò, poi lo impugnò saldamente e si mise a passeggiare in tondo. Andò a
svegliare Ramingo stuzzicandolo con la punta, poi si diresse da Aron.
Mentre camminava sentiva il bastone diventare un’estensione del braccio e
s’impegnò affinché colpisse il suolo allo stesso tempo del piede. Che cosa
furba, pensò, divertendosi a sperimentare quel ritmo a tre gambe che non
era immediato, ma che gli stabilizzava il passo e tutto il corpo. E a mano a
mano che avanzava non sapeva se era più felice per il bastone che Aron gli
aveva fatto trovare o per la proposta che andava a fargli.
Da quando Daniele aveva aderito al sindacato, non aveva mancato una sola
riunione. I primi tempi si teneva in disparte, poi aveva iniziato a partecipare,
con moderazione e perspicacia, e se qualcuno diceva che tirava aria di
cambiamento, lui fiutava la direzione che avrebbe preso. In molti
apprezzavano quel suo atteggiamento attivo e prudente e quando si
accendeva un dibattito ci tenevano che prendesse la parola. Il sindacato era
in prima linea nelle negoziazioni su alcuni articoli del contratto collettivo
nazionale e Daniele, per la prima volta da quando lavorava a Rungis, si
sentiva parte integrante dell’ingranaggio, di un movimento di rinnovamento
che dava un senso e un po’ di entusiasmo per quel posto di merci e bolle di
consegna.
Era tardi quando uscì dalla riunione. Accese il cellulare e arrivarono tutti
in una volta una decina di messaggi di segnalazione di chiamate di Amir.
Non capitava mai che lo cercasse e telefonò immediatamente. Amir gridava
per l’eccitazione, aveva trovato un bellissimo armadio di legno, legno vero,
non truciolato, un mobile d’epoca. Era nel sedicesimo arrondissement e
aspettava che lo raggiungesse con la macchina perché non riusciva a
trasportarlo in scooter.
«Mi ci vorrà un po’, sono a Rungis» disse Daniele.
«Che cazzo ci fai ancora lì? Non importa, vieni quando vuoi, ma vieni. Mi
trovi all’uscita del metró Passy, rue de l’Alboni. Vedrai che roba!»
«Immagino...»
«Sfotti pure, ma questo, mate, è veramente un pezzo d’epoca».
«Di che epoca?»
«Cosa vuoi che ne sappia? Non sono mica un antiquario, ma i piedi sono
a zampa di leone».
Un giorno al mese, diverso per ogni quartiere della città, i residenti
deponevano in strada gli oggetti ingombranti di cui volevano disfarsi. Amir
conosceva il calendario e faceva il giro nelle zone bene prima dell’arrivo dei
netturbini. Aveva sentito dire che avrebbero istituito un numero di telefono
per la rimozione a domicilio, e quella, quindi, doveva essere una delle ultime
volte che poteva beneficiare del bendidio dei marciapiedi della capitale.
Pezzi di lusso, in realtà, non ne aveva mai trovati, ma non mancavano sedie,
treppiedi, specchiere e ogni genere di mobiletti di piccole dimensioni che
caricava sullo scooter e trasportava a casa. Aveva imparato da suo padre,
che recuperava la mobilia di scarto dei quartieri bene e la rivendeva ai
mercati dell’usato. A differenza del padre, però, Amir non portava i pezzi ai
mercati, e camera sua era strapiena di quegli arredi senza valore che Daniele
gli aveva vietato di mettere nelle parti comuni della casa. Le loro stanze
erano grandi uguali, ma quella di Amir sembrava molto più piccola talmente
era ingombra. Nonostante ciò erano arrivati a dormirci in otto, in una delle
varie visite della “famiglia” dalla Tunisia.
Aspettando che Daniele arrivasse, Amir finì di smontare i cassetti, le
mensole e le ante dell’armadio. Si era impratichito ed era svelto. Sotto la
sella dello scooter teneva pinze e cacciaviti apposta per quelle spedizioni.
Daniele lo trovò addormentato nella struttura vuota del mobile. «Come
fai a dormire lì dentro? Da lontano ti ho preso per un cane».
«Non arrivavi mai, cazzo! Intanto mi sono messo a dormire. Non ho
molto tempo prima di andare al lavoro e qui dentro non avrei rischiato di
non sentire gli spazzini portare via il mobile. Hai visto che roba? Bello, eh?»
«Ho un collega che forse ci potrebbe prestare un furgone. Posso
mandargli un messaggio».
«Eh?! Non posso mica restare di guardia finché non hai trovato un
furgone! Sbrighiamoci! Porta qui la macchina. Dove l’hai lasciata? I cassetti
e le mensole stanno dietro senza problemi, basta tirare giù i sedili, le ante e
l’armadio invece li leghiamo sul tetto». Parlava velocemente, con una
sicurezza tale che sembrava fosse il suo mestiere rimuovere mobili dai
marciapiedi. L’agitazione, invece, era dovuta al fatto che niente gli dava più
soddisfazione di scovare pezzi in buono stato e quello, effettivamente, lo
sembrava.
Daniele in qualche modo lo capiva, anche se quell’entusiasmo per le cose
trovate per terra non lo provava più da anni. «Questo lo venderai, però?»
gli chiese con un tono in bilico fra la domanda e l’affermazione.
«Non ci penso neanche! Non vedi che meraviglia? Lo mettiamo in sala, di
fronte al divano: il “re della savana” merita un posto d’onore».
«Quella parete è già occupata».
«Il ciarpame che è lì lo sposterò in camera mia. È un mobile d’epoca,
questo!»
Caricarono i pezzi sull’auto. Avevano dovuto lasciare aperti il portellone
e le porte posteriori e Daniele guidava piano sorvegliando di continuo nello
specchietto retrovisore quelle ali di legno. Oltre i cordoli di cemento della
tangenziale, la banlieue s’ingigantiva febbrilmente con barriere di edifici
logori, muri graffiati e parabole sui balconi.
«Ehi!» gli gridò Amir che lo seguiva con lo scooter.
Dallo specchietto, Daniele gli fece cenno di parlare.
«Sai cosa vuole dire Amir?»
«Eh? Non sento un cazzo!»
«Sai cosa vuol dire Amir?» urlò l’amico.
«Cosa?»
«Principe! Condottiero!»

A casa era cominciato un nuovo viavai di conoscenti di Amir. In quelle


occasioni Daniele preferiva stare fuori e aveva ripreso a suonare con una
certa regolarità al Comptoir Jazz. Il nome alludeva a un fascino che quel
locale piccolo e fumoso, frequentato perlopiù da habitué, non aveva mai
avuto, eppure resisteva nella cintura periferica della città, fra un cinema
porno e un supermercato aperto ventiquattr’ore su ventiquattro. Quell’anno
andava di moda un jazz acustico molto ritmato che a Daniele non piaceva,
ma lo distraeva e alcune volte lo divertiva anche.
Era lì che aveva incontrato per la prima volta Klara. «Cosa stai
bevendo?» le aveva chiesto. «Succo d’ananas». «Vodka e succo d’ananas,
non l’avevo mai sentito». «Non c’è vodka. È solo succo di frutta. Sono
astemia». Doveva essere quella la faccia di una donna che aveva deciso di
abortire, di una freddezza che tracima nell’assenza, avrebbe pensato Daniele
dopo aver saputo cosa le era successo. Aveva occhi asciutti, tesi, come se,
sotto, il corpo stesse camminando in equilibrio su un muro altissimo.
L’aveva messa incinta un cugino di Amir, Hamza, che lei aveva amato, e
forse anche lui le aveva voluto bene, anche se non era quello lo scopo. Klara
era seduta su un divanetto logoro contro la parete in fondo. Non riusciva a
impedirsi di ripensare alla sua relazione con Hamza. Si affermava, poco alla
volta, la consapevolezza del dolore e lei apparteneva a quel dolore come si
appartiene al temporale o al vento. E in quel preciso istante finalmente lo
stava sentendo, non prima, quando aveva saputo che Hamza la tradiva, e
nemmeno dopo, quando avrebbe abortito, perché la coscienza non coincide
con i fatti e solo nell’istante in cui si manifesta le cose accadono. «Il mio
corpo non conosce l’alcol» aveva aggiunto. «Non ne ho mai bevuto,
neanche un goccio. La prossima settimana però abortisco. Strano, no? Non
esiste una priorità, una cronologia, negli eventi. Solo casualità. Sono venuta
a Parigi per studiare alla Sorbona, sono l’orgoglio della mia famiglia. Vivo in
una chambre de bonne nell’ottavo arrondissement che mi dà in affitto la
famiglia da cui faccio la baby-sitter. E la prossima settimana abortisco.
Gliel’ho dovuto dire alla signora per cui lavoro, potevo mentire ma quando
mi ha chiesto perché prendevo quei due giorni di ferie infrasettimanali, che
li mettevo in difficoltà, allora gliel’ho confessato ed è stata comprensiva.
Sono sicura che si organizzerà per venirmi a trovare alla clinica». Parlava
con il tono assente di chi si è lasciato tutto alle spalle. «Devo rimanere una
notte in osservazione. Sono troppo avanti con la gravidanza. Sono talmente
avanti che avevo comprato anche i primi pigiamini». Si era interrotta,
l’aveva guardato. Daniele allora si era presentato, condivideva
l’appartamento con Amir, il cugino di Hamza. A Klara la sua voce arrivava a
intermittenza. Sentiva nella testa il fischio assordante di una sirena che la
faceva sbandare, sbattere contro volti familiari ormai sbiaditi, scelte
sbagliate, promesse buttate al vento. La parte chiara della sua vita, chiara
come il suo nome, si era ridotta a fiochi riflessi di luce minacciati da lunghe
ombre. Aveva chiamato tutti i numeri della rubrica di Hamza. Se rispondeva
una ragazza, ed erano la maggioranza, raccontava quello che le era successo,
per metterla in guardia, e se era un ragazzo lo malediceva. Così aveva fatto
con le segreterie telefoniche di Amir e di Daniele, aveva imprecato contro
Hamza e lanciato tutti gli insulti che conosceva. Amir l’aveva richiamata
chiedendole d’incontrarsi il giorno seguente al Comptoir Jazz, a inizio
serata, ma Klara era arrivata tardi, quando lui era già partito per Rungis.
«Era stata la nostra vicina, Dominika, a invitare mia mamma ad
assaggiare la prima banana. Suo marito comperava i prodotti dell’Occidente
in Germania e li rivendeva al nostro villaggio, era lui a portare queste
novità. La aspettavo alla finestra, impaziente di sapere com’era il sapore di
una banana. “Non ti sei persa niente” mi ha detto rientrando. “È come una
patata, anzi le patate sono più buone”. Adesso mi fa strano pensare che una
volta, nemmeno tanto tempo fa, non c’erano le banane, la TV, l’assistenza
medica gratuita... Sono cose così normali...» Farneticava, ma non sembrava
ubriaca, sragionava della Polonia comunista, di Hamza e di quel dolore che
le sibilava nelle orecchie e si calcificava alle pareti della testa. «La cosa più
dura sarà dirlo ai miei. Sarebbero in grado di sopportare qualsiasi disgrazia,
ma non la loro figlia che abortisce, che si è fatta scopare da un arabo. No,
quello no, perché Klara studia alla Sorbona, è una ragazza avveduta, il vanto
della famiglia. Ci sono disgrazie che hanno un senso, che feriscono, certo,
ma che possono trovare una giustificazione. Questa no». Poi aveva
concluso: «La cosa più dura sarà nasconderlo ai miei». E neanche allora
aveva pianto. Si era alzata chiudendosi il cappotto all’altezza del ventre e
Daniele l’aveva seguita per accompagnarla a casa.

Quando Amir aveva voluto sapere dell’incontro con lei, Daniele aveva
detto: «Tuo cugino è uno stronzo». Era partito dall’epilogo. «Ha avuto dei
problemi col suo professore all’università» aveva commentato Amir. «Lo
giustifichi ancor prima di sentire cos’ha fatto». «Sto solo dicendo che anche
lui ha i suoi casini». «È paradossale il senso di protezione che hai nei
confronti della tua famiglia». Amir aveva lasciato cadere la provocazione e
aveva continuato: «I suoi genitori stanno bene economicamente, sono
proprietari di un grande negozio di elettrodomestici a Tunisi, ma mantenere
un figlio a Parigi non è una spesa di poco conto neanche per loro e lui non
può permettersi di non riuscire negli studi o di perdere tempo. Nel weekend
lavora alla reception di una casa di riposo a Porte de Vanves, lo pagano con
i pasti e un letto in una stanza senza riscaldamento due piani sotto terra, fra
i magazzini e la lavanderia del ricovero. Sottoterra è difficile orientarsi verso
La Mecca per fare la preghiera». Si era interrotto, ma aveva ripreso subito:
«Alla fine degli studi vorrebbe tornare in Tunisia a fare politica. Ne avrebbe
la stoffa. All’università di Tunisi era rappresentante degli studenti, animava
le assemblee, prendeva la parola e parlava bene. Una volta, però, fece
riferimento alla Rivoluzione francese e ricevette una lettera di avvertimento:
un’altra allusione analoga e sarebbe stato espulso dall’università. È stato
dopo quell’episodio che i suoi lo hanno mandato a finire gli studi qui». «È
da un po’ che non passa. Non vi vedete più?» «Da qualche tempo meno. Ho
provato a telefonargli, dopo il messaggio della ragazza, ma il numero risulta
inesistente. L’ultima volta mi aveva accennato a una grossa lite col suo prof.
Era convinto di aver ragione e non riusciva a dargliela vinta. Dev’essere una
cosa seria, perché si era lasciato sfuggire che rischiava di perdere l’anno».
Daniele allora gli aveva riferito il racconto di Klara, quella sera, al Comptoir
Jazz. E di Nadira, una studentessa araba che abitava in una residenza
universitaria. Hamza viveva qualche giorno con l’una e qualche giorno con
l’altra, la promessa sposa e l’amante, finché Nadira non aveva trovato nella
borsa di Hamza la busta di una clinica medica. Aveva aspettato che andasse
a farsi una doccia e l’aveva aperta, pensando che si trattasse di una malattia
di cui lui non aveva avuto il coraggio di parlarle. Aveva trovato l’ecografia
di una gravidanza, invece, il nome della paziente era quello di Klara, ed
erano indicati i suoi contatti. Klara e Nadira avevano deciso di scoprire a
che gioco stava giocando. Erano andate alla casa di riposo dove diceva di
lavorare nei giorni in cui non stava da loro ed erano venute a sapere che era
stato licenziato da diversi mesi. Avevano parlato con alcuni studenti della
sua facoltà e scoperto che aveva lasciato l’università da un anno. Lo
avevano seguito. Hamza mangiava alla mensa dello studentato con la
tessera di Nadira o di altre ragazze che adescava e si portava a letto, così,
oltre al pasto, aveva anche da dormire e da lavarsi. Probabilmente rubava
loro qualche soldo o cosette da poco che poi regalava a Klara. «Dov’è
adesso?» lo aveva bloccato Amir, le mascelle contratte. «Non lo sanno.
Quando Nadira gli ha detto che era al corrente di Klara, dell’ecografia e di
come usava le ragazze, si è precipitato da lei. Klara si è barricata in casa
minacciando di chiamare i suoi padroni che abitano di sotto, ha fatto
cambiare la serratura e per evitare che la aspettasse in strada si è trasferita
da un’amica. Nadira ha affisso la foto di Hamza in tutta la residenza
universitaria e ha parlato di lui all’amministrazione, che ha cambiato i
codici d’acceso. Non l’hanno più rivisto, nessuna delle due». «Come hanno
avuto i nostri numeri di telefono?» «Quando è corso da Klara, Hamza ha
dimenticato il cellulare nella camera di Nadira». Il volto di Amir era
diventato inespressivo, le mascelle irrigidite. «Hai detto che la ragazza,
Klara, è polacca?» aveva chiesto. «Sì». «La Polonia è nell’Unione Europea?»
«Perché?» «È o non è nell’Unione Europea?» «Lo è». «Klara era il suo
permesso di soggiorno». Il sentimento di smarrimento che era andato
crescendo in lui mentre Daniele parlava era poi diminuito, come una rabbia
troppo grande per essere rivolta a qualcuno, una rabbia verso la vita.
Daniele avrebbe ricordato con una precisione sconcertante la faccia di
Amir impallidire e diventare di fuoco, prima d’immobilizzarsi in una
smorfia di amarezza. Anche quel sabato notte di fine marzo, mentre suonava
senza nessuna partecipazione ripensando a quella storia, lo rivide come se
l’avesse davanti. Eppure erano passati diversi mesi da allora. Cercò di fare il
conto, ma il barista appoggiò sul palco delle birre fresche e si presero una
pausa. Daniele scambiò due parole con gli altri musicisti, bevvero a grandi
sorsi, pulirono i fiati e diedero un’occhiata alla scaletta. Per l’ultima parte
della serata erano programmati pezzi che gli piacevano di più, ma non
ritrovò la concentrazione. Aveva solo voglia di prendere una boccata d’aria
e di camminare nell’umido della notte.

Klara non aveva informato la sua famiglia dell’aborto. Oltre a Daniele e


Amir, ne erano al corrente la signora da cui faceva la baby-sitter, Nadira e
l’amica polacca da cui si era trasferita, che si erano accordate per
accompagnarla e andarla a riprendere alla clinica. La notte che aveva
trascorso là, però, nessuna di loro era rimasta. C’era andato Amir. Aveva
preso un giorno di ferie, non l’aveva mai fatto prima, le ferie erano destinate
al mese di agosto in Tunisia. Aveva chiesto il numero della camera
all’infermiera e aveva mentito assicurandole che sarebbe andato via subito.
L’unica sedia era contro il muro e non l’aveva spostata per non fare rumore.
Si era seduto là, lontano da lei che dormiva. La vedeva per la prima volta e
la trovava bella da togliere il fiato. I capelli lunghi erano raccolti in una
treccia appoggiata sulla spalla, un braccio sotto il lenzuolo e l’altro, piegato
sul ventre, che saliva e scendeva con il suo respiro calmo. La carnagione era
così chiara che riverberava nella penombra. Non aveva mai visto una pelle
più immacolata. Era rimasto a contemplarla senza trovare un difetto e aveva
pensato che avrebbe voluto essere lui ad avere un figlio da lei, a starle
accanto. Non aveva nessun motivo per amarla, ma sentiva che avrebbe
potuto amarla anche senza una ragione. Quel pensiero gli aveva fatto salire
il sangue alla testa e per calmarsi aveva dovuto ripetersi che una ragazza
candida come lei non sarebbe mai potuta toccare in sorte a un filettatore di
pesce che lavora di notte al mercato di Rungis. E per la prima volta, la sua
vita, che si guadagnava a prezzo del sonno e della luce, gli era sembrata
poca cosa. La flebo finiva mentre il mattino si profilava fuori dalla finestra e
nel corridoio gli infermieri cambiavano il turno. Era uscito che Klara
dormiva ancora.
Un profumo di detersivo e di panni stesi colse Daniele fin dall’ingresso.
Era tutto in ordine, anche le stoviglie in cucina. Erano le grandi pulizie che
Amir faceva quando gli ospiti se ne andavano, il suo modo di riappropriarsi
della casa e di ricompensare Daniele della pazienza nei confronti di quegli
arabi che entravano senza chiedere il permesso, gridavano anziché parlare e
non passavano al francese in sua presenza. Amir non avrebbe mai rifiutato
loro l’ospitalità, anche se si trattenevano per periodi lunghi o se erano
cugini di cugini che non conosceva nemmeno. «“Nella casa dove non
entrano gli ospiti, non entrano gli angeli”» aveva detto a Daniele e, se
l’Islam considerava sacra l’ospitalità, non poteva certo essere lui a negarla.
Daniele prese una birra dal frigo e si stese sul divano. Poteva perfino
sembrare carino quell’appartamento quando era tenuto bene. Non si sarebbe
detto che la maggior parte dei mobili era stata raccattata dalla strada, pensò
osservando il “re della savana” che troneggiava in sala, dove lo aveva
sistemato Amir fin dal principio, vietando di riempirlo finché non ne avesse
fatto stimare l’epoca e il valore. Ed era rimasto vuoto con mucchietti di
cianfrusaglie ai piedi. Avrebbe voluto dire due cazzate con lui, ma il sabato
il mercato del pesce era aperto. Non aveva sonno, cercò il cellulare e trovò
un messaggio di Klara. Doveva averlo evocato pensando a lei tutta la sera, si
disse. Gli comunicava di essere tornata a vivere da sola e di avere bisogno di
una mano per andare a comprare una cassettiera all’Ikea. Daniele provò a
rifare il conto, erano passati all’incirca nove mesi dal loro incontro al
Comptoir Jazz, dall’aborto, e non si erano più visti né sentiti da allora.
Si fece una doccia e si cambiò, lasciò scorrere dell’acqua tiepida nel
lavandino, ci sciolse un po’ di sapone e vi immerse la tromba, tranne i
pistoni e le pompe che mise in ciotole a parte. Pulì il bocchino con uno
spazzolino e lo passò sotto l’acqua corrente finché il sapone non andò via
del tutto. Quindi si occupò del corpo dello strumento che girò e rigirò nel
lavabo, lo risciacquò dentro e fuori e lo tamponò con un panno pulito.
Strofinò pompe e pistoni con una pezza insaponata e li passò sotto il
rubinetto, attento a che i feltri non si bagnassero. Oliò la coulisse prima di
rimontarla e con uno straccio tolse l’olio in eccesso attorno alle giunture e la
lucidò, come gli aveva insegnato il nonno, con un panno che era stato suo.
La banda del paese, per il nonno, era un passatempo piacevole, ma
quando suonava per sé solo si rivestiva di musica e la musica diventava una
membrana che proteggeva quella parte della sua persona che non voleva
lasciare agli altri. A Daniele il nonno aveva insegnato a suonare e a vivere
senza concedere nulla al pregiudizio. «Le note migliori vengono fuori
allora».
Nonostante vivesse a Parigi da anni, non passava giorno che non
ripensasse a Framura. Tutti gli sforzi fatti per stabilirsi in Francia erano stati
sempre controbilanciati dal desiderio di tornare nella casa dei suoi nonni.
Fra di loro la chiamavano “la casa di Daniele”, perché era a lui che
l’avrebbero lasciata. Era l’ultima abitazione del borgo, aveva davanti il mare
e dietro la montagna, che spingevano l’uno contro l’altra e in quella lotta
muta era la montagna a vincere. Aveva divelto il grande orto di suo nonno e
negli ultimi anni si era spinta dentro al nastro di giardino coltivato a
oleandri che era l’orgoglio di sua nonna. L’ultima volta che Daniele ci era
andato, aveva trovato sulla porta un avviso del Comune che dichiarava la
casa inagibile. Non avevano chiuso gli allacci dell’acqua però, le stufe di
ghisa erano funzionanti, e lui era rimasto. Faceva legna sulla spiaggia, dove
passeggiava come quand’era bambino, alla ricerca di quell’infinità di oggetti
che il mare restituiva levigati e trasformati. Si stendeva a sentire il sole
d’inverno cadere mite nell’insenatura, il rumore delle onde scomparire sotto
i massi del molo e la sua infanzia solitaria consumarsi nella spirale di una
conchiglia. Quando abbandonava la battigia, saliva sul monte a osservare la
distesa d’acqua. Le case erano quadratini di un mosaico senza tempo e il
sale, in gola, gli faceva venire voglia di avere di nuovo sei anni ed essere un
pirata. E la sera, mentre una foglia di luna gialla sorgeva nel riquadro della
finestra della cucina, sentiva le voci del borgo pregare, bestemmiare, morire
e sragionare d’amore mentre la montagna taceva anche i più piccoli
mormorii e lo scroscio calmo e freddo delle onde. Dalla cassapanca tirava
fuori la muta, conservata nel talco, e s’immergeva nella notte del mare.
Scaldandosi davanti alla stufa, quell’ultima volta in cui era andato là, si era
pentito dell’incuria in cui aveva lasciato la casa e aveva promesso allo
spirito dei suoi nonni che gli addetti municipali non avrebbero sprangato la
porta, le crepe non avrebbero tagliato le mura, né le stanze sarebbero state
nidificate dalle colombe. Sarebbe tornato e avrebbe continuato a immergersi
in quel mare dove smarriva il senso del tempo e ritrovava il ritmo dei propri
battiti. Si era procurato al catasto la pianta dell’edificio e a Parigi aveva
consultato alcuni esperti per arrestare il movimento della montagna e
procedere con le ristrutturazioni necessarie. Il prestito era meno oneroso di
quanto pensasse e aveva deciso di lanciarsi nell’impresa. Non era mai stato
tanto motivato e determinato nei suoi progetti.
Ora, invece, non gli rimaneva più niente e quel niente pesava. Le giornate
si accatastavano come cassette di frutta al mercato e scorrevano simili a una
malattia a decorso fasico, di poche accelerazioni seguite subito da lunghe
remissioni.

«Cosa cazzo ci fai sveglio?» gli chiese Amir alle sette e mezzo, rientrando
a casa. «Ti sei già svegliato, o non sei ancora andato a letto?»
«No».
«No cosa?»
«Non sono ancora andato a letto».
«Perché?»
«Non lo so, ti aspettavo».
«Be’, per me possiamo andare».
«Ok».
«Oh!» lo richiamò dalla camera. «Volevi dirmi qualcosa?»
«No».
«Perché mi hai aspettato, allora?»
«Non so, non avevo sonno».
«Io muoio di sonno invece. Spero di dormire fino a stasera o a domani
mattina. Anche dopodomani andrebbe bene». Attese, Daniele non reagì.
«Davvero non avevi niente da dirmi?»
Daniele avrebbe voluto chiedergli notizie di Hamza, ma sapeva che
l’argomento lo avrebbe maldisposto. L’ultima volta che ne avevano parlato,
Amir gli aveva riferito che era stato visto lavorare alla reception di un hotel
per scambisti a Pigalle. «Starà facendo di tutto per andare negli Stati Uniti.
Era fissato con la green card e quel sistema del cazzo della lotteria che hanno
gli americani. Mi aveva fatto vedere il sito dell’ambasciata: “Partecipate alla
lotteria e approfittate dell’occasione che vi offre il Governo degli Stati Uniti
d’America! Potrete vincere un permesso di residenza permanente,
l’occasione per voi e le vostre famiglie di vivere e lavorare in America!”
Vengono sorteggiate cinquantamila persone all’anno, l’iscrizione è gratuita.
“Cinque minuti che potrebbero cambiare la vostra vita” c’era scritto alla
fine, in grande, con tre punti esclamativi». Si era rivolto anche a una società
che faceva da intermediaria, ma poi si era accorto che era una truffa.
«No, non ho niente da dirti, davvero. È che non avevo sonno, allora ti ho
aspettato» ripeté Daniele.
«Sicuro? Casini al lavoro?»
«No».
«Al sindacato?»
«No».
«Non avrai suonato in casa?»
«No».
«Sei gay?»
«Neanche».
«Allora dormiamo. E poi ce ne andiamo a mangiare fuori. Oh!» lo chiamò
per la terza volta.
«Che c’è?»
«Puzzo di pesce?»
«Come faccio a sentire da qui?»
«No, in generale, dico».
«Non mi sembra, perché?»
Amir sprofondò nel sonno. Daniele, invece, sentì il sonno montare come
una marea e confondergli i pensieri prima di sommergerli: Amir nel suo
buco di camera intasato di roba, il “re della savana”, la periferia che non
dormiva e s’ingrandiva, il Comptoir fumoso, la banda di suo nonno che
apriva il corteo solenne del Venticinque aprile quando i partigiani si
tenevano a braccetto e guardavano verso il cielo per ricacciare indietro le
lacrime, la marcia solenne per la festa del patrono, i Cristi di legno morenti,
bardati di stoffe e ninnoli d’oro, i portantini sudati, i borghi stretti, vocianti,
i rosari al polso delle donne e quell’odore di fiori recisi, di vestiti delle belle
occasioni, quell’odore di mare che saliva con il vento.
In maggio, i capelli di Caterina divennero color corniola e si arricciolavano a
ogni movimento, soprattutto quando, all’imbrunire, pedalava fra gli argini e
le strade basse e l’aria maturava una promessa di caldo umido e di notti
insonni. Allora rallentava la corsa e il respiro, l’ultima scheggia di pensiero
scompariva e rimaneva solo il richiamo dei tordi.
Un pomeriggio, di ritorno da uno di quei giri in bicicletta, trovò Aron ad
aspettarla all’imbocco dello sterrato che portava ai poderi. «Oggi Delio è
caduto nell’orto» esordì senza premesse.
«Cosa?»
«È caduto nell’orto, di schiena, e non riusciva più a rialzarsi».
«Non capisco... Era cosciente?»
«Sì, aveva solo bisogno di una mano per tirarsi su».
«Ma cos’ha avuto? Un malore? Un giramento di testa?»
«Non so, l’ho solo aiutato a rialzarsi».
«Non gliel’ha chiesto?!»
Aron parlava della caduta di Delio senza allarme, come se il fatto di
trovarlo capovolto tra le fave fosse naturale.
«Perché mi ha aspettato per dirmelo?» lo incalzò Caterina.
«Perché è già successo qualche giorno fa».
«Che è caduto?»
«Sì. Quattro giorni fa».
«E perché non mi ha detto niente?»
«Ho pensato si trattasse di un incidente. Ti avverto adesso, comunque,
nel caso capiti ancora».
«Sì...» disse lei confusa, incapace di capire se era normale la sua
preoccupazione o l’impassibilità di Aron.
«Se non riesci a rialzarlo da sola, chiamami».
Caterina annuì di nuovo. «Chiederò il suo numero a Delio» disse, dopo
un momento d’esitazione.
«Non ho il telefono».
«Non ha il cellulare?»
«No, e neanche il telefono in casa».
«E come faccio a chiamarla?»
«Basta che vieni, oppure usi una trombetta, come Rose, ma con un altro
suono, così non le confondo».
Caterina lasciò che Aron la precedesse e rientrò a passo lentissimo, la bici
per mano. Le cadute potevano iscriversi nel quadro clinico che si era fatta
della malattia di Delio, ma altri sintomi erano comuni a diverse patologie
degenerative del sistema nervoso e lei, fresca di studi, non se la sentiva di
azzardare una diagnosi, anche se ce l’aveva ben chiara in mente.
Il profumo di rosmarino riempiva la cucina, Delio si stava asciugando le
mani in un canovaccio, visibilmente soddisfatto: «Eccoti finalmente! Ho
appena infornato un galletto che dev’essere una delizia!» Intuì
immediatamente che c’era qualcosa che la turbava e la interrogò, ma lei fece
finta di niente e si mise ad apparecchiare la tavola. «Ti si legge in faccia che
hai dei pensieri. Coraggio, dimmi cosa c’è, così, poi, possiamo goderci il
galletto» insistette lui.
«Ho visto Aron».
«Immagino che non sia uno di quegli incontri che infondono una gioia
istintiva, ma non devi rattristarti più del dovuto» scherzò.
Caterina non riuscì a sorridere. «Mi ha detto che è caduto nell’orto».
Delio scoppiò in una risata fragorosa. «Ed è questo che t’impensierisce
tanto?»
«Cos’ha avuto?» chiese lei seria.
«Non so, sarà stato un capogiro».
«Ne è soggetto?»
«Può capitare, no?»
«Si è ripetuto due volte in pochi giorni. Non si è chiesto a cosa potrebbe
essere dovuto?»
«A dire il vero, no. Dev’essere stato il caldo. Di pomeriggio nell’orto non
si respira».
«E perché non ci va al mattino, nell’orto? Cosa le cambia?» Aveva alzato
un po’ la voce, se ne dispiacque.
Delio non rispose. Tacquero per qualche istante, poi Caterina riprese, più
controllata: «Lo sa anche lei che non può essere il clima».
«Di solito funziona, però. Il tempo o lo stress sono dei passe-partout per
spiegare ogni male... Dimenticavo però di essere in presenza di un esperto.
D’accordo, sentiamo il tuo parere...»
«Ha perso l’equilibrio. Se la prossima volta le capitasse quando è sulla
scala o mentre ha le cesoie in mano... Perché non ne parla al suo dottore?»
Delio si allontanò dal forno e si riempì un bicchiere d’acqua.
«E intanto che c’è, potrebbe mostrargli anche le mani» arrischiò lei. Non
riuscì a suggerirgli più esplicitamente che le cadute, il tremore alle mani e la
grande lentezza dei movimenti potevano rientrare nello stesso quadro
clinico.
«Questo tremolio non m’impedisce di fare nulla» sbraitò sbattendo il
bicchiere sul tavolo. «Posso lavorare e tirarmi su la cerniera dei pantaloni!
Si ferma da solo, quando uso le mani. Cosa dovrei andare a dire al medico?
E per le cadute, ti ho detto che è stato un incidente, non è successo niente e
molto probabilmente non si ripeteranno neanche più. Non vedo di cosa
s’impicci Aron, né tu, del resto». Il tremore non era mai stato tanto forte
come in quel momento e dalle dita si propagava fino al braccio. Delio
nascose le mani in tasca, poi sotto il canovaccio, ma quelle si dimenavano
incontrollate, come abitate da spiriti. Allora sciacquò il bicchiere e si mise a
riordinare le posate nel cassetto, cercando di far cessare il tremito con un
gesto qualsiasi.
«Mi scusi. Non volevo farla arrabbiare». Era la frase di una bambina che
ha provocato un danno a cui non sa rimediare.
«Non sono arrabbiato» disse lui, pentito di aver gridato contro di lei. E si
chinò a girare le patate nel forno.
«Vorrei sapere solo una cosa, poi non le chiederò più niente» insistette
Caterina. «Non ha avuto paura?»
Delio capì cosa gli stava chiedendo, cosa avrebbe dovuto temere
realmente, non tanto le cadute in sé, quanto l’idea di una vita senza le sue
evidenze più ovvie. Sedette a tavola: «Non mi sono spaventato quando sono
caduto, mi sono spaventato dopo, quando non riuscivo più ad alzarmi. Mi
sentivo come un coleottero rivoltato sulla corazza che zampetta a vuoto. In
quella posizione non mi veniva neanche fuori la voce per chiedere aiuto.
Avrei voluto ridere e piangere insieme. Sentivo i sassi premere contro la
carne. Entrambe le volte sono caduto così, nel bel mezzo dell’orto. Disteso a
terra, guardavo il cielo e ho scoperto che il mondo rovesciato ha una sua
orrenda e incantata bellezza. Lassù, ho pensato, c’è la mia Teresa. Un giorno
mi ha detto che la vita è il tentativo di chi aspira al cielo e mai lo rinnega. E
me l’ha ripetuto mentre si affacciava dal cielo e mi sorrideva. Indossava la
camicia viola col colletto dalle punte asimmetriche che si era confezionata
da sola. Ogni tanto acquistava del tessuto e si metteva alla macchina da
cucire per farsi una vestaglia o una gonna. Quella era l’unica camicetta in
cui si era cimentata. “Fare una camicia è un lavoro da matti!” si lamentava
disfacendola in continuazione. Doveva averle preso tutto l’inverno e il
risultato era un insieme d’imperfezioni che lei portava con grande
soddisfazione. No, non ho avuto paura. Smarrimento, forse, all’inizio, poi
solo sassi e cielo, finché un arcangelo, gigantesco visto dal basso, l’arcangelo
Aron, in due mosse mi ha rimesso in piedi, proprio come si fa con gli insetti,
che basta la spintarella di un dito».
Fu Caterina allora a rimescolare le patate per nascondere nell’ondata di
calore del forno l’affetto che provava per lui.
Mangiarono con appetito. Il silenzio era rotto solo dai rumori di Ramingo
che leccava la ciotola. Non parlarono più, si erano detti tutto.

Qualche giorno dopo, Caterina trovò Delio sotto una catasta formata dal
materasso, il cuscino e una sedia. In un angolo erano ammonticchiate tende
e lenzuola insieme allo spray per i vetri e a fogli di giornale. La sentì entrare
in casa, seguì i suoi passi fermarsi sulla soglia della stanza e poi correre,
spostare Ramingo che gli si era sdraiato accanto, asciugare la chiazza di pipì
sul pavimento e liberarlo dalle cose che gli erano finite addosso. Delio era
supino, rigido come un pezzo di legno, senza un lamento. Caterina
s’inginocchiò, gli prese un braccio, se lo mise intorno al collo e lo raddrizzò
con cautela. Poi attese. Delio annuì impercettibilmente, si fece forza sulle
gambe e si alzò. Il lamento fu involontario, come un guaito. Caterina aspettò
che le ginocchia si stabilizzassero, avvicinò la sedia con un piede e lo fece
sedere. Delio fece un respiro profondo, con lo sguardo la implorò di non
chiedere spiegazioni e lei non gliene chiese. Disse solo: «Ha un taglio allo
zigomo. Vado a prendere l’occorrente».
L’escoriazione era superficiale, ma lo zigomo e l’orbita erano gonfi. Lo
disinfettò e gli esaminò il naso. «Non mi sembra ci siano fratture». Era di
una delicatezza che faceva male. Sistemò il materasso sopra la rete del letto
e aiutò Delio a coricarsi. Cercò del ghiaccio in freezer e, non trovandolo,
avvolse in un canovaccio pulito un sacchetto di piselli congelati. «Temo sia
troppo tardi per evitare il gonfiore, ma il freddo può ridurre il dolore» disse
appoggiandogli l’involto sulla faccia. Raccolse da terra il prodotto per i vetri
e i giornali vecchi e pulì le finestre. Delio non glielo impedì. Distolse lo
sguardo e ascoltò lo strofinio della carta sul vetro.
Quando Caterina finì, gli chiese se aveva bisogno di andare in bagno e lui
fece cenno di no con la testa. «Più tardi, quando si alza, rifacciamo il letto».
«Mi alzo subito, sono stato coricato abbastanza per oggi» disse a bassa
voce, ma non si mosse.
«Aspetti ancora un attimo, il tempo che i piselli si scongelino. Li
mangiamo per cena nel risotto». Raccolse le lenzuola sporche e chiuse piano
la porta.
La penombra si spinse sui piedi di Delio, avanzò sul letto. Dietro ai vetri
apparve l’acqua stellata della notte e si addormentò.
Dopo un’ora Caterina bussò. «Sono venuta a prendere i piselli» sussurrò.
«Sente male da qualche parte?»
«Sono solo un po’ debole». Il volto di Delio sembrava più emaciato, ma
gli occhi erano tornati espressivi.
«Ha pranzato, oggi?»
Delio fece cenno di no. «Mi dispiace che tu abbia assistito a questa scena
penosa... Stamattina avevo pensato di fare le pulizie di primavera, un po’ in
ritardo, certo...» Non provò neanche a sorridere. «Avevo messo il materasso
a prendere aria e tolto le lenzuola da lavare... Avevo appena tirato giù le
tende per pulire le finestre quando sono caduto».
«Non si preoccupi, non mi deve nessuna spiegazione» lo interruppe lei.
Ma lui continuò: «Mi ero riproposto di fare pulizia in tutta la casa, poco
alla volta. Vivi qui anche tu ora, e ci terrei che fosse in ordine. E poi, se mio
figlio tornasse, non voglio che trovi la casa trascurata. Anche se sono
quattro anni che non viene».
Caterina lo interruppe con la scusa della cena. Non era il momento di
parlare di Daniele. In quell’unica foto che stava sulla credenza era bello
come un angelo, e come un angelo viveva nascosto. «La aspetto di là
quando vuole. Mi chiami se ha bisogno» gli disse prendendo il canovaccio
con i piselli.
Delio cercò di mettersi seduto, ma elastici invisibili trattenevano i suoi
arti e scompose l’atto dello scendere dal letto in ogni singola mossa. Fece
scivolare la gamba sinistra giù dal materasso finché il piede non toccò il
pavimento e posizionò i gomiti, inclinò il busto di lato, adagio, poi spostò
anche l’altra gamba e si sedette. Quindi, facendo forza con i pugni sul letto,
si alzò. Non ebbe nessun capogiro, solo la sensazione di un corpo di legno. I
primi passi furono brevi, i piedi sembravano rincorrersi. Il bastone era
appoggiato allo stipite della porta, lo afferrò e andò di là.
Caterina scodellò un risotto morbido e fumante, che cosparsero di
abbondante parmigiano.
Delio mangiava lentamente, il tremore ormai non lo abbandonava più,
neanche quando le mani erano in attività. Ripulì minuziosamente il piatto e
parlò: «Anche al lavoro sei così premurosa? Intendo il lavoro da
infermiera».
«Non è premura» rise lei. «Faccio quello che c’è da fare, come mi hanno
insegnato in reparto. Ora sta meglio? Ha dolore?»
«Il dolore è finito, anche se col passare degli anni non finisce più».
Caterina cercò di interpretare la sua espressione. «Ha o non ha male?»
«Sto bene, sto bene. Disteso per terra tutto il giorno, però, ho avuto modo
di riflettere. Finché si è giovani si soffre per qualcosa di preciso, da vecchi,
invece, il dolore è dappertutto, si dilata fino alle lacrime. Fa paura, crea
nuovo dolore in una spirale che non ha pace... Dopo la morte di Teresa
credevo che il destino mi fosse debitore, ma m’ingannavo, e il dolore è
diventato definitivo... Lascia stare, parlo a vanvera, ho pensato troppo,
oggi...» Le sorrise. «Non darmi retta, Caterina, a una certa età i sensi si
fanno più fragili, il cuore si riempie di spifferi e ci si abbandona a riflessioni
stupide. Vieni, piuttosto, ho una cosa da mostrarti». Si alzò, raggiunse la
porta e si voltò a cercare il bastone.
I primi tempi lo aveva usato con disciplina, poi aveva cominciato a
scordarlo o a tenerlo al braccio senza adoperarlo. Amava usarlo per
punzecchiare Ramingo quando sonnecchiava al sole. Anche il puntale
antiscivolo che ci aveva messo Caterina era praticamente nuovo.
Nell’aria aleggiava il profumo intenso dei limoni che Delio e Aron
avevano spostato sotto il portico per la bella stagione. Il camper stava nel
mezzo, Delio tirò via il telo che lo copriva e invitò Caterina a entrare. Non
aveva mai visto l’interno di un camper, ma notò che c’era qualcosa di
strano. Mancavano i fornelli e il ripiano di lavoro della cucina era ridotto a
una mensola lunga e stretta. I pensili erano stati sostituiti da una grande
specchiera della stessa lunghezza della mensola. L’occhio le cadde su tre
poggiapiedi fissati a una spanna dal suolo e sul lavandino, che aveva un
incavo per la testa e un miscelatore a doccetta.
«È sotto l’oblò, ma metteremo un punto luce anche lì» spiegò Delio. «E
nell’angolo di fronte ci starà il casco asciugacapelli con la sua poltroncina. Il
bagno è quello originale, ma al posto della doccia c’è un ripostiglio dove
stoccare i prodotti. All’ingresso, invece, io toglierei il tavolino, così
sembrerebbe di più una saletta d’attesa, ma Aron dice di tenerlo e di
rimuovere invece la panca, sostituendola con un separé di ottanta
centimetri, un metro, per dividere la sala d’attesa dalla zona del lavaggio.
Dando un po’ di profondità al separé e con qualche mensola si possono
appoggiare riviste, tazze e un bollitore elettrico. Cosa ne pensi?»
Lo stupore le impediva di parlare. Avevano pensato a ogni minimo
particolare. Fece qualche passo, estrasse il doccino dal lavandino, manovrò il
rubinetto, completò mentalmente lo spazio con gli arredi che mancavano:
era un salone da parrucchiere a tutti gli effetti.
Delio le raccontò che quando faceva il meccanico avrebbe voluto adibire
un furgone a officina per riparazioni in loco, convinto che la domanda non
sarebbe mancata. Ma il suo capo non era d’accordo e lui non se l’era sentita
di assumersi il rischio da solo. Forse era per questo sogno irrealizzato che
l’idea del salone itinerante, saltata fuori quel pomeriggio con Liliana, gli era
rimasta in testa. E una notte, mentre cercava di prendere sonno, aveva
pensato che in qualche modo avrebbe potuto realizzare quel sogno con il
camper di Teresa. Era andato a parlarne con Liliana al salone e quando
anche lei si era convinta che, con i dovuti adattamenti, era un progetto
fattibile, aveva chiesto la collaborazione di Aron. Così, da un mese
all’incirca erano iniziati i lavori.
«Aron e la zia ne sono al corrente?» domandò Caterina.
«Al corrente? Aron ci lavora con un entusiasmo da non credere! Al
mattino lo trovo sempre qui, controlla dalla finestra quando parti per andare
in ambulatorio e si mette al lavoro. Tua zia ci ha guidati nelle modifiche
necessarie per trasformarlo in un salone ed è lei che si sta occupando
dell’attrezzatura specialistica».
A Caterina salirono le lacrime agli occhi, anche perché realizzò che per
poter lavorare al camper in sua assenza, Delio si occupava dell’orto nelle ore
più calde della giornata. Avrebbe voluto scusarsi per averlo rimproverato,
ma lui non gliene diede il tempo: «Lunedì vado a ritirare l’assicurazione, ma
ci vorranno ancora un paio di settimane di lavoro prima di metterlo in
strada. Pierre ha contattato tre comuni nei dintorni, Castanet, Bellegarde e
Vauvet, che si sono dimostrati interessati. Vi concedono d’installare il
camper nel centro del paese e se poi ci sarà una buona risposta fra la gente
potrete chiedere l’allaccio alla rete elettrica pubblica, ma questo te lo
spiegherà meglio tuo zio. Un’ultima cosa» aggiunse, «Liliana mi ha detto
che all’ambulatorio hai un contratto a termine e che a fine anno ritornerai a
Roma. È molto preoccupata che tu possa vivere questa attività come un
condizionamento a restare. Il salone è solo una prova, non devi in nessun
modo sentirti obbligata. Se ti piace, deciderai tu se continuare, altrimenti ci
rimetteremo il telo sopra. Non vuole essere una trappola per trattenerti, per
noi è stato solo un piacere. Avrei dovuto aspettare loro per mostrartelo, ma
non ce l’ho fatta. Dopo la giornata di oggi, poi».
Delio non smetteva di parlare e Caterina di piangere. Lui frugò nelle
tasche dei pantaloni alla ricerca di un fazzoletto, ma ne uscì uno talmente
malridotto che lo ricacciò in tasca. Caterina rise, e con lei Delio che in quella
risata allontanò la memoria delle cene con Teresa nel camper.
Riordinarono la cucina pensando al nome da dare al salone. Mescolavano
l’italiano e il francese, inventavano neologismi e si sfidavano in giochi di
parole scimmiottando i due accenti. Poi Caterina rientrò nella propria
stanza, Delio la sentì parlare fitto al telefono con Liliana e si fermò ad
ascoltare da dietro il muro. Andò a coricarsi felice e non diede peso
all’incidente di quel giorno. Nemmeno Caterina rimuginò sulla malattia di
Delio. Aveva in mente soltanto l’insegna del salone e il colore della scritta, il
pannello che avrebbero esposto fuori e la carta fedeltà che dava diritto, dopo
dieci tagli, a uno gratis. Pensava anche alla possibilità di proporre laboratori
brevi sulla cura dei capelli o su “il giusto taglio per il tuo viso”. Aveva stilato
una bozza di listino prezzi e scriveva e riscriveva mentalmente le frasi
promozionali del volantino sottolineando la convenienza dei prezzi, la
comodità di un salone sotto casa, l’ambiente familiare, gli orari liberi e senza
obbligo di prenotazione, manicure e trucco a richiesta, consigli estetici
gratuiti, “la stima di sé passa dai capelli...”
Klara lo aspettava davanti al portone. Aveva labbra sottilissime e la stessa
pelle lattea di quando l’aveva vista la prima volta al Comptoir Jazz. Lo
ringraziò del favore che le stava facendo accompagnandola all’Ikea e per il
resto del tempo non disse altro. Daniele caricò gli imballaggi in macchina, li
trasportò nel sottotetto della camera di Klara e si mise a montare la
cassettiera. Lei gli confidò che si sentiva in grado di tornare a vivere da sola,
che aveva ripreso il ciclo e si era fatta impiantare la spirale. Glielo diceva
come se stesse leggendo il foglietto illustrativo di un farmaco, e lui fissava le
viti nel truciolato per non alzare la faccia e vederla. Klara si accorse del suo
disagio e tornò a tacere, ma prima che partisse volle ringraziarlo anche per
la notte che l’aveva vegliata in clinica, dopo l’aborto, scambiando la
gratitudine per amore e l’amore per bisogno di accettazione.
«Non ero io» le confessò Daniele e lei si sentì definitivamente persa.
«L’infermiera mi aveva parlato di un giovane. Avevo pensato fossi tu,
nessun altro ragazzo era al corrente del mio ricovero» balbettò quasi a
volersi giustificare. Si sentiva umiliata per aver creduto di essere amata.
Rimase immobile davanti a lui, lottando contro quella sensazione d’inganno.
Daniele avvertì l’urgenza di separarsi da lei, da quel volto desolato,
inutilmente bello, e dal bisogno che lei aveva di averlo vicino per accollargli
la sua tristezza. Ma non se ne andò e quando Klara iniziò a chiamarlo, il
sabato sera, saliva i sette piani che portavano alla chambre de bonne dove, se
pioveva, le gocce picchiavano sul tetto di zinco che sembrava un temporale
e quando le temperature si alzavano si soffocava. A volte facevano l’amore,
poi Klara diceva di aver bisogno di dormire e capitava che anche lui si
addormentasse. Quando si svegliavano, lei lo osservava lavarsi, accendere il
bollitore e rivestirsi. Anche mentre beveva il caffè non smetteva di muoversi
per la stanza e, per non intralciarlo, rimaneva sul letto. La salutava con un
bacio a labbra strette e usciva correndo giù per le scale. Allora lei si alzava e
si metteva a studiare.

«Ehi, mate. What news? Dove sei stato stanotte? Tieni una donna
nascosta da qualche parte, eh? Allez, dimmi chi è!»
Daniele sapeva che sarebbe stato meglio evitare l’argomento,
nascondergli che Klara si addormentava tra le sue braccia e la mattina lo
pregava di trattenersi ancora. «Sei il mio riscatto» gli aveva bisbigliato una
volta e neanche allora era riuscito a spiegarle che non c’era piacere né
amore fra loro, solo necessità. «Mi vedo con Klara» gli confessò invece.
Amir s’incupì. «Certo, come ho fatto a non pensarci?» disse con
disprezzo. «Arabi con arabi e occidentali con occidentali. L’arabo abusa, il
cattolico salva».
«Cosa stai dicendo, Amir? Avrei dovuto parlartene prima...»
«Perché? È da un po’ che vi vedete? Stai da lei quando non torni?»
«Non credevo di doverti rendere conto se rientro o no a dormire».
«No, certo, tu non devi rendere conto a nessuno».
«Si può sapere cos’hai? Sei geloso? Sei incazzato perché ho trascurato
qualcuna delle nostre cenette tête-à-tête?»
Amir gli tirò un pugno. Non sentì i nervi avvampare, i muscoli contrarsi,
agì prima. Daniele invece si scansò tardi e prese il colpo di traverso, sulla
mascella. Si portò istintivamente la mano sulla parte colpita. Lo guardò, lo
oltrepassò. Andò a prendersi una Coca in frigo e se l’appoggiò sulla faccia,
ne mise un’altra sul tavolo, per lui, e cercò qualcosa da mangiare per cena.
C’erano alcune confezioni aperte di pasta, ceci e sardine, della passata di
pomodoro, couscous e scatolame vario lasciato dagli ospiti di Amir. L’unica
cosa che non mancava era una riserva di ras el hanout, una miscela di spezie
magrebine che Amir portava dalla Tunisia. Scaldò un po’ d’olio in una
padella e cercò dell’aglio nel cassetto del frigo.
Amir entrò in cucina, sedette al tavolo e giocherellò con la linguetta della
lattina. «È il mio sangue tunisino» disse.
«Non lo conoscevo».
«Ero un bambino irrequieto e un adolescente violento. È stato difficile
mandarmi a scuola. Per questo ho smesso subito dopo l’obbligo. La mia
rabbia non era improvvisa, ma una volta provocata non potevo trattenerla.
A volte faceva paura anche a me. Non è stato facile imparare a controllarla.
Ce l’ho ancora» si stupì. «Credevo che la Francia avesse soffocato ogni
impulso».
L’aglio sfrigolava nella padella. Daniele aggiunse qualche cucchiaiata di
salsa di pomodoro e una presa abbondante di ras el hanout, “il prodotto di
punta del droghiere magrebino” come lo definiva Amir. Non gli era mai
piaciuta la pasta bianca. Prese la confezione di spaghetti e controllò il tempo
di cottura, otto minuti al dente.
«Ha più rivisto Hamza?» gli chiese poi Amir.
«Klara? No, non credo. E tu?»
«No». Capovolse la lattina e la fece rotolare sotto il palmo della mano.
«Le ragazze destinate a lui, però, stanno passando a me».
Daniele gli lanciò un’occhiata interrogativa.
«Quelle che sua madre gli proponeva in sposa, adesso la mia le propone a
me» spiegò.
«Cosa significa?»
«Non puoi capire».
«No, infatti, non so neanche perché parliamo».
Sospirò. «Sono un buon partito. Vivo e lavoro a Parigi, guadagno più di
un amministratore di banca o di un qualsiasi quadro tunisino
pluridiplomato. Certo, non ho la testa di Hamza, ma alla fine tanta
intelligenza non l’ha aiutato ed è andata meglio a me che a lui». Non c’era
arroganza nelle sue parole, piuttosto, un tono di rinuncia che Daniele non
gli aveva mai sentito.
«In Tunisia esistono ancora i matrimoni combinati?»
«Non ufficialmente. Ma cosa c’è di male, in fondo? Sempre meglio che
finire con una di queste, che la danno a tutti. Prendi Klara, cazzo, neanche
un anno fa aveva in pancia il figlio di Hamza e adesso scopa con te».
«Non sapevo che ci tenessi a lei».
«Non ci tengo infatti».
«Perché te la sei presa tanto, allora?»
Amir aprì la lattina, bevve e cambiò discorso: «Lo scooter mi ha lasciato
ancora a piedi e Hussein non è riuscito a darci un’occhiata».
«Peccato, era una serata da farci un giro. Andiamo lo stesso, in metró o a
piedi».
«A piedi fino alla Tour Eiffel? Che cazzo dici? Se ci vuole mezz’ora solo
per andare alla stazione del metró! Questo è un atteggiamento tipico vostro,
di voi occidentali: potete prendere i mezzi ma preferite andare a piedi, avete
la macchina, ma poi vi fate chilometri in bici. Ma perché? È più cool?»
Mangiarono due piatti enormi di spaghetti e andarono a Parigi a piedi. In
due ore e cinquantasette minuti erano sotto la Tour Eiffel. Avevano
attraversato Vitry in linea retta, poi Ivry fino alla cintura della città, si erano
persi due volte, ma avevano entrambi un buon senso dell’orientamento e
non era stato difficile riprendere la direzione giusta. Parlarono molto,
misero a confronto le periferie di Parigi, Hollande e Sarkozy, tirarono fuori
Obama, la Cina e il terrorismo. C’era una luce che sembrava non avrebbe
annottato mai più. Poi Amir cominciò a lamentarsi che non sentiva più le
gambe ed era quasi alla disidratazione. Daniele allora attaccò con il discorso
delle macchine, di quel BMW coupé con il quale Amir sarebbe tornato in
Tunisia per fare un matrimonio da principe del Bahrein. Si sdraiarono
sull’erba del Champ de Mars. Parecchia gente era uscita all’aperto per
assistere alla primavera che digradava definitivamente nell’estate.
«A Parigi l’inverno è eterno e l’estate dura un giorno» sentenziò Amir.
«Non è vero, può arrivare la canicola e ammazzare i vecchi nelle case di
cura».
«Tanto meglio, così costano meno allo Stato».
«Quand’è che ci sono stati un sacco di morti nelle case di riposo? Nel
2003? Ne era saltato fuori un mezzo scandalo perché erano state inumate
una sessantina di persone e le spoglie non erano state reclamate da
nessuno».
«D’estate la gente va in vacanza».
«Chirac ci era andato, alla cerimonia».
«In che cimitero le hanno sepolte?»
«A Thiais».
«Il cimitero dei poveri, dov’è mio padre».
Passò un venditore ambulante, Daniele comprò una bottiglia d’acqua che
si passarono l’un l’altro fino a finirla. Rimasero parecchio tempo stesi su
quel prato striminzito di città fra la gente che ritardava il momento di
rincasare.
«Andiamo, dai, la mia sveglia suona all’una e mezzo» disse Amir. «Ma
ricordiamolo: “L’avvenire appartiene a quelli che si alzano presto”. Me lo
dice sempre uno dei vecchi, al lavoro, quando mi vede arrivare con una
faccia da fine del mondo. Una volta gli ho risposto che se l’avvenire
appartiene a chi si alza presto, la notte è di chi si addormenta tardi, e ne è
venuto fuori un gran casino perché nessuno sapeva dire cosa spettasse a
noi, che attacchiamo alle due e andiamo a letto alle sette del mattino. Alcuni
pensano che ci prendiamo tutti e due, la notte e l’avvenire, altri niente.
Dipende se sono le due del mattino o di notte, ma anche se fossero le due di
notte, noi a quell’ora ci svegliamo, non ci addormentiamo, quindi la notte
non ci spetta comunque... È il grande dibattito di noi filettatori e salta
sempre fuori, è un rompicapo. Ha fatto nascere anche dei soprannomi
assurdi, tipo “Nottetempo”, “Bianca” da notte bianca, “Dalloggialdomani” e
stronzate del genere».
«E a te, come ti chiamano?»
«“Avvenire”».
«Avvenire?» rise Daniele.
«Non provarci: fuori di lì, a nessuno è concesso chiamarmi così».
«Non preoccuparti, per me tu sei “Il principe” o “Il condottiero”» lo
sfotté.
«Meriteresti un altro destro».
Mentre Amir era in bagno, Daniele gli lasciò sul tavolo della cucina le
chiavi della sua macchina. “Il tempo che Hussein ti aggiusti lo scooter” gli
aveva scritto su un post-it. Non gliele voleva dare di persona, Amir avrebbe
rifiutato, anche se rientrava dal lavoro prima che lui partisse.
Amir si rigirava nel letto cercando inutilmente il sonno. «Daniele?
Dormi?» Lo chiamava per nome rarissime volte.
«No».
«Perché stai con Klara?»
«Perché pensa che sia la persona giusta per lei e che siamo innamorati».
«E non è così?»
«No».
Per un momento nessuno dei due parlò.
«È gentile comunque da parte tua» riprese Amir.
«Cosa?»
«Starle vicino».
«Dovrebbe farlo qualcuno che la ama davvero».
«No, non è detto».
Delio sentì un tuffo al cuore nel vedere il camper prendere la strada
strombazzando, con il nome della sua Teresa pitturato in pervinca sui lati,
La Caravane de Thérèse-Coiffure. Alzò lo sguardo al cielo come a chiederle
se lo vedeva anche lei e se da lassù poteva darci un occhio. Il camper era
grosso, le strade strette e Caterina inesperta nella guida. Avevano fatto un
bel lavoro, Aron soprattutto, che si metteva all’opera di primo mattino e il
resto della giornata lo passava a stanare pezzi e ad adattarli alle loro
necessità con un’abilità rara. Era stato macchinista, ma quel talento non si
apprende col mestiere, doveva averlo nel sangue. Anche lui era uscito per
assistere alla partenza della Caravane. Fece un cenno di saluto a Caterina e
mentre rientrava per dare da mangiare alle galline sorrise. Solo le galline se
ne accorsero.
Liliana aveva tenuto chiuso il negozio per andare con la nipote a Castanet
al mattino e a Bellegarde il pomeriggio. Le sedeva accanto e si sentiva
realizzata, ancora giovane. Tirò fuori dalla borsa gli occhiali da sole e
sistemò sulla testa il foulard che teneva al collo come Susan Sarandon in
Thelma & Louise. Abbassò il finestrino e appoggiò il gomito di fuori.
Quando la radio trasmetteva una canzone che conoscevano, la cantavano a
squarciagola.
Quel giorno non si presentò nessuno, benché avessero preparato un
buffet inaugurale e lasciato aperto fino all’ultimo minuto. Lo stesso fecero
l’indomani mattina, a Vauvet, mentre il pomeriggio lo passarono a
distribuire volantini nei paesi circostanti, poi raggiunsero Pierre per la cena
al ristorante dove aveva prenotato un tavolo per celebrare l’esordio della
Caravane. Erano stanche, ma brindarono e scherzarono sul fiasco di quel
week-end inaugurale. Rientrarono tardi, un po’ ubriache.
La luce della cucina era accesa, Delio aspettava con una bottiglia di
champagne. Caterina brindò anche con lui, “ai debutti”. Non finì il flûte,
però, lo abbracciò forte e andò a letto. Puntò la sveglia e si addormentò
all’istante. Liliana, invece, andando a dormire, si accorse che la spia rossa
della segreteria telefonica di casa lampeggiava. Le prese il batticuore, era
domenica e non aveva chiamato la sorella.

La voce di Gina, in segreteria, era inespressiva: «Aspetto le tue telefonate


domenicali come un appuntamento inevitabile» diceva senza salutare. «Non
voglio pensare che non hai chiamato perché vi è successo qualcosa,
preferisco credere che ti sei ricordata in ritardo e non hai voluto disturbare,
anche se, rigorosa come sei, mi sembra difficile... Ho trascorso la serata col
cordless in mano, prima alla finestra, poi davanti alla TV... C’era quella
trasmissione sulla gente scomparsa e i familiari che vanno a testimoniare e a
lanciare un appello. Non mi ricordo come si chiama... Hai capito comunque,
la trasmettono sicuramente anche lì... Non l’avevo mai vista fino alla fine.
Prima di chiudere fanno l’elenco dei casi ancora in corso e di quelli
segnalati. Sono rimasta sconvolta, la lista era lunghissima! Guarda te quanta
gente nel mondo esce dai ranghi e non si fa più trovare, mi dicevo. Io non
ne sarei capace, non riuscirei a volatilizzarmi, a cancellare ogni traccia di
me, a...»
Il tempo in segreteria era finito e Gina aveva richiamato. «Stavo dicendo
che... Cioè... Lascio tracce di me dappertutto, in casa, al salone, nei negozi
dove faccio la spesa, e parlo con un sacco di gente tutti i giorni. Direi
sicuramente qualcosa che mi tradirebbe, mi confonderei... Poi però ho
pensato, non so perché, cioè... Forse per via che stasera non hai chiamato...
Ho pensato che invece voi potreste». Aveva ancora tempo, ma non aggiunse
altro. Si sentivano il suo respiro e il fruscio del nastro.
Non aveva richiamato subito. Fra il secondo e il terzo messaggio erano
passati sette minuti durante i quali Gina si era chiesta cosa ci facessero sua
figlia e sua sorella lontano da casa, così lontano che lei non sapeva più nulla
di loro. Poteva perfino pensarle scomparse e quell’eventualità le sembrava
plausibile. Trascorriamo la vita accanto a persone che in fondo non
conosciamo – si era detta – un momento le amiamo e il momento dopo le
detestiamo, senza sapere se siamo amati o odiati da loro. E la fatica che
spendiamo nel cercarne la vicinanza o nel respingerle è tale che a volte
vorremmo solo dimenticarcene.
«Ciao» aveva esordito alla terza chiamata. La voce esprimeva un
groviglio inestricabile di sentimenti. «Sono sempre io. Mario mi ha dato
della paranoica, ma spero davvero che non vi sia successo niente di grave e
che la tua serata sia stata migliore della mia. Adesso vado a letto, è tardi. Ci
sentiamo domani. Chiama pure quando ti svegli, tanto sarò sveglia anch’io».

Alle sette del mattino, il cielo era una carta velina. La notte, ritirandosi,
aveva lasciato indietro alcune stelle. Erano bianche, respiravano appena.
«Gina, sono io. Ti ho svegliata?»
«No».
«E Mario?»
«È appena uscito».
Rimasero in silenzio.
«Inizia a far fatica a tirarsi su al mattino» continuò Gina. «Mi fa pena...
Del resto, sta davanti al televisore fino all’una... Dice che tanto non
riuscirebbe ad addormentarsi prima... Io, invece, già alle dieci, crollo».
«Dove sei?»
«Sono in cucina, alla finestra. C’è la signora Maria che alza la saracinesca
della lavanderia... Cerca la chiave della porta... Entra... E spegne l’insegna. Il
lunedì mattina mi piace da matti vedere gli altri andare a lavorare e
starmene in vestaglia e ciabatte fino a tardi. Dev’essere la stessa
soddisfazione che provano gli altri, il sabato mattina, quando dalla finestra
mi vedono tirare su la serranda».
«Scusami per ieri. Ho dimenticato di chiamarti».
«Vuol dire che non sei un mostro».
Liliana sorrise.
«Hai ascoltato i messaggi che ti ho lasciato in segreteria?» domandò
Gina. «Ho avuto dei brutti pensieri ieri sera».
«È colpa mia, mi dispiace. Non volevo spaventarti».
«Dov’eravate? Il telefonino di Caterina non prendeva, a casa tua scattava
la segreteria...»
«Annotati il mio numero di cellulare».
«No, non ce n’è bisogno. Se ricapiterà, penserò che ti sei rincoglionita e
cercherò di non fare cattivi pensieri. Non ho dormito, stanotte».
«Scusa» ripeté ancora Liliana che aveva passato anche lei la notte
insonne. «Siamo rientrati tardi e non mi sembrava il caso di chiamare a
quell’ora».
«Si può sapere dove siete stati?»
«Pierre ci ha portato a mangiare al ristorante».
«Pierre compie gli anni il mese prossimo, se non sbaglio. Non era il
compleanno di nessuno di voi tre».
A Liliana fece tenerezza quell’osservazione. Sua sorella andava a
mangiare fuori solo per le occasioni speciali, alla taverna del quartiere, in
via Leonina. Così, le raccontò tutto dall’inizio, che avevano inaugurato un
salone itinerante da parrucchiera ricavato da un camper messo a
disposizione da Delio e che quel primo fine settimana non avevano visto
l’ombra di un cliente ma avevano voluto festeggiare lo stesso. Gina la
ascoltò senza fiatare, poi la tartassò di domande. Diversi aspetti infatti non
quadravano: perché il vecchio era stato tanto generoso, per esempio, quanto
ci avevano investito e quanto prevedevano di guadagnarci, ma, soprattutto,
chi avrebbe portato avanti l’attività una volta che Caterina fosse tornata a
Roma. Liliana le rispondeva pazientemente, ma Gina continuava a non
afferrare il senso di quell’operazione.
«Non capisci perché cerchi l’utile. Questo salone non è stato messo in
piedi per il tornaconto di qualcuno» concluse Liliana.
«E per cosa allora?» domandò Gina seccata. «Cos’è? Un teatrino per
Caterina parrucchiera? Un’opera buona nei confronti degli anziani che
vivono isolati? Un diversivo per quel Delio?»
«Sì».
«Sì, cosa?»
«Sì tutte queste cose insieme. È stato un divertimento per tutti noi e
spero che continui a esserlo. Perché, cosa c’è che non va?» si spazientì
Liliana. «Non abbiamo fatto niente di male, no?»
«Beate voi che non avete nulla da fare» sbottò Gina sfottente. «Ora devo
andare. A domenica, sempre che non rientriate tardi dal ristorante».
Liliana avrebbe voluto provocarla: “Ci andremo senz’altro, ma
cercheremo di rientrare prima e meno brilli” o “Non preoccuparti, domenica
prossima ce ne staremo a casuccia, mezzo chilo di carbonara e via a letto”.
Sarebbe stato fin troppo facile prenderla in giro o fare come lei, dire pane al
pane e vino al vino anche a costo di essere brutali. Perché Gina era così, la
voce sarcastica del rione. Quella conversazione dava la misura della distanza
che si era venuta a creare fra loro. Il pensiero la sollevò: «A domenica, Gina.
Passa una buona settimana».
Caterina e Delio preparavano la cena discutendo della Caravane. Era
diventato il principale argomento di conversazione da quando aveva preso
vita. La salute di Delio rimaneva un tabù, anche se si erano verificate altre
cadute minori di cui Caterina era stata informata da Aron. S’interrogavano
per l’ennesima volta su come attrarre la clientela, dato che il volantinaggio
non era stato sufficiente. Caterina escludeva di ridurre i prezzi, già molto
bassi rispetto a un qualsiasi negozio, aveva preso in considerazione l’ipotesi
di offrire una giornata di taglio gratis o una manicure promozionale alla
prima visita, di un annuncio pubblicitario sui giornali locali e di girare con
un altoparlante per preannunciare i giorni e i luoghi di passaggio. «Si
direbbe che sono invisibile! Le piazze di Castanet o di Vauvet non sono
Tienanmen! Il camper è lì, lo vedono tutti, ma non si avvicina nessuno! E
non è che manchi gente, anzi, è giornata di mercato e ci va tutto il paese a
fare spesa in piazza. Cosa devo fare per attirare l’attenzione, mettere su uno
spettacolo da circo? Sparare fuochi d’artificio? Dirigibili?» Quando era
agitata, l’inflessione romana le screziava la voce e i gesti.
Delio la osservava girare la minestra con una foga insolita per lei. Era la
prima volta che la vedeva accalorata e se inizialmente si compiaceva della
passione che la motivava, ora si sentiva responsabile della sua delusione. Il
televisore era a volume bassissimo, ai titoli del telegiornale Delio alzò, ma
nessuno dei due ascoltò. Quando Caterina arrivò al fondo del piatto, lui era
riuscito a mandare giù solo un paio di cucchiaiate. Allontanò la scodella e
disse: «L’esperimento è finito». Cercò con lo sguardo il bastone per andare
al fienile a mettere la copertura sul camper, ma Caterina lo trattenne e lo
esortò a mangiare. Delio fissò la minestra, le mani in grembo come passeri
in inverno. Parlò senza alzare gli occhi, disse che aveva ragione Rose
quando sosteneva che credere di sapere ciò che è giusto o sbagliato per gli
altri è solo presunzione, che non basta agire in buona fede. Aveva messo in
piedi il salone senza neanche domandarle il suo parere, come se non la
riguardasse. Per niente al mondo avrebbe voluto metterla in difficoltà o
darle motivo di frustrazione e preferiva chiuderla, la Caravane. Si prese la
testa fra le mani incerte, non era la prima volta che si ritrovava a
riconoscere in ritardo i suoi errori.
Caterina attese che le raccontasse di Daniele. E Delio lo fece.
La casa di Framura era di suo padre. Ci era cresciuto lui e, dopo di lui,
Daniele. Era nato al podere, Daniele, ma l’avevano portato là ancora
neonato, era stato allattato da una balia del posto e finché non divenne un
ragazzino, l’avevano sballottato avanti e indietro senza che potesse capire
quale paese fosse casa, dove stava la partenza e dove il ritorno. Forse un
giorno ci aveva provato davvero a lasciare l’Italia, ma era stata l’Italia,
allora, a non staccarsi da lui. E quando, da adulto, il marchio di quella vita in
bilico fra due mondi stava finalmente sbiadendo e il lutto dei morti era stato
assolto, Daniele aveva deciso di rilevare la sua eredità, ma Delio l’aveva
fatta distruggere.
Così disse e si voltò verso la foto sulla credenza. Daniele doveva avere
sedici o diciassette anni, portava dei pantaloni a zampa d’elefante e una
maglietta a maniche corte, un po’ stretta per il suo corpo magro ma di
ragazzo cresciuto. Era nel frutteto con Teresa. Lei, in posa, sorrideva
all’obiettivo, lui, dietro, sembrava arrivare in quell’istante. Guardava dritto
davanti a sé, altrove.
Quando Delio era tornato a Framura per i funerali dei suoi genitori la
decadenza del paese gli era sembrata evidente. Le mura del borgo
spurgavano pus e licheni e i pesci avevano abbandonato il mare. La casa si
stava sgretolando, schiaffeggiata dal mare e spinta dalla montagna. Si
consumava, come le persone o i sassi. Non spettava a lui, però, deciderne la
fine, perché quella era “la casa di Daniele” e suo figlio ci tornava appena
poteva e portava fiori freschi al cimitero. Il figlio gli aveva anche detto che
avrebbero dovuto metterla a posto, ma lui non aveva dato peso a quel
proposito, anzi, se n’era dimenticato. Eppure Daniele aveva parlato al
plurale, di un dovere che poteva diventare anche un progetto comune, il
primo, l’unico della loro storia di padre e figlio. Per legge, però, l’erede
diretto, il responsabile della proprietà era Delio, perché alla legge non
importava che la considerassero “la casa di Daniele”, la legge bada al sangue
non alle voci e la raccomandata dell’ordinanza sindacale di demolizione era
stata spedita a lui.
L’immagine era di un colore patinato che le foto moderne non hanno. I
vestiti di Teresa e Daniele avevano tinte che non esistevano più e forse non
esisteva nemmeno il bianco opaco dei fiori di pruno che cadevano a pioggia
sui loro capelli. Quelli di Teresa erano lisci, raccolti in uno chignon basso,
Daniele li aveva mossi, spettinati, come il padre. Stava facendo un passo per
mettersi accanto a lei o per oltrepassarla e Delio, distratto da quel
movimento, o dal sorriso della moglie, non aveva fatto attenzione
all’inquadratura, che era venuta storta.
Delio non aveva risposto in tempo alla notifica e il Comune aveva dato
l’ordine di demolizione. Si era dato anima e corpo alla costruzione
dell’appartamento per il figlio, nell’ala bassa del casale, illudendosi di poter
rimediare allo sbaglio, di sostituire una casa con l’altra, il nuovo con il
vecchio. Ma non c’era compensazione possibile. Così, insieme alla casa di
Framura, aveva perso anche lui.
«Io lo trovo bellissimo, quell’appartamento!» esplose Caterina. «È fatto
con gusto e molta cura e ci sto bene come in nessun altro posto». Per
qualche ragione che non sapeva spiegarsi stentava a trattenere l’emozione.
Si alzò, sparecchiò, riempì la caraffa dell’acqua e la ciotola di Ramingo,
prese una mela e la morse, in piedi, vicino al lavandino, poi tornò a tavola e
disse a Delio che la Caravane non avrebbe chiuso finché lei non avesse
tagliato almeno una testa. E l’immagine di una Caterina guerriera che
brandiva lo scalpo di un cliente, li fece sorridere.
Quella notte Caterina ripensò a lungo al racconto di Delio e concluse che
Daniele era troppo severo con lui. Eppure non riusciva a detestarlo. Quel
giovane spregiudicato, di una decina d’anni più grande di lei – la stessa
differenza d’età che c’era fra Delio e Teresa –, quel suonatore di tromba dal
destino spaesato, la attirava da impazzire. S’infilò il suo pigiama, che non
aveva mai reso a Delio, e spegnendo la luce tornò a sognarlo.
Con il passare del tempo le lezioni divennero briose e il professore
disinvolto. All’arrivo del caldo aveva rinunciato alla giacca, e le maniche di
camicia risvoltate, il volto accalorato, lo facevano sembrare particolarmente
in forma. Ogni venerdì la scrivania traboccava di quaderni e libri e Caterina
non trovò più bicchieri abbandonati ai piedi della poltrona o bottiglie vuote
dimenticate qui e là. Sul leggio del piano erano aperti degli spartiti di Bach e
sul pavimento di cotto rosso scivolavano i giochi di luce del sole fra le
boccette vuote di profumo.
Benché il professore continuasse a essere preso dalle sue dissertazioni,
mostrava piccole attenzioni nei confronti della ragazza. Al suo arrivo le
scostava la sedia dalla scrivania e non dimenticava di accompagnarla alla
porta quando se ne andava. Una volta le aveva chiesto se le dava fastidio la
finestra aperta, un’altra le aveva offerto dell’acqua. Quel giorno, vedendola
disattenta, gliene chiese il motivo. Non era per riprenderla, Caterina lo capì,
ma avvampò. L’aveva distratta l’idea che il professore avesse potuto avere
Daniele per studente e, mentre lui procedeva nella disamina dell’influenza
della psicoanalisi sulla narrativa francese, lei cercava di calcolare le
probabilità che avessero frequentato lo stesso liceo negli stessi anni.
Provava a immaginarli, l’uno più giovane e l’altro studente, confrontarsi su
qualche argomento del programma, studiarsi a distanza, nutrire stima
reciproca ma senza mostrarlo.
«Mi scusi, la sua lezione era appassionante. Sono io che mi sono persa nei
miei pensieri».
«In una bella giornata come questa, è tedioso affrontare certi argomenti».
Il professore andò alla finestra e gettò un’occhiata fuori. «Che ne dice di
una bevanda fresca?» E senza aspettare la risposta, scomparve in cucina a
prendere acqua e succo di menta.
In giugno, i primi caldi resero irrespirabile il sottotetto della chambre de
bonne. Daniele si presentò da Klara con un ventilatore e lei ci si mise
davanti. Sarebbe stata capace di rimanere per ore a prendere l’aria in faccia,
con i capelli che le svolazzavano sulle spalle come briglie sciolte. Daniele la
osservava e rimpiangeva di non sentire per lei quello che doveva aver
provato Amir la notte in cui l’aveva vegliata, un amore fatto di venerazione
e semplice sbalordimento. Aveva superato i trent’anni e un pensiero
molesto lo spingeva a credere che non sarebbe più stato in grado di trovare
qualcuno né di adattarsi a una qualsiasi relazione, perché c’è un’età per
scegliere e un’età per aggiustarsi con quello che si ha e lui si sentiva fuori da
entrambe. Klara, scostandosi dal getto d’aria, gli disse che il ventilatore era
un regalo utile, ma che avrebbe preferito un anello. Lui capì di aver lasciato
intendere troppe cose e volle ferirla: «Cosa cerchi da me? Non sono il tuo
principe azzurro, né tuo padre o un fratello. Sono solo uno che divide il letto
con te una notte alla settimana».
«Perché vieni, allora, quando ti chiamo?»
«Per riguardo, il riguardo che non ho avuto quando ne avevi più bisogno:
la notte dopo l’aborto, all’ospedale, c’era Amir con te. Il ragazzo che ti ha
vegliato era lui, io non ci avevo neanche pensato a venire».
«Il cugino di Hamza? Perché?» Per alcuni secondi si sentì solo il ronzio
del ventilatore. «Preferivo pensare di essere da sola». Era confusa ma si
controllava. Era una ragazza forte, non sarebbe riuscita altrimenti a dare un
colpo di spugna alla storia con Hamza e a rimanere salda nella perfetta
solitudine delle sue ambizioni.
«Non dovresti dirlo, sei ingiusta» ribatté Daniele in difesa di Amir.
«Ingiusta? In questa vicenda, sono la sola a essere onesta. Cosa vuoi che
ti dica? Ringrazialo tanto da parte mia? Portagli i miei saluti?» Scattò in
piedi, il viso congestionato e le mani strette a pugno. Poi sedette di nuovo e
con voce misurata disse: «Non ci voglio più pensare. Non voglio avere a che
fare con nessuno di loro. Nemmeno Nadira vedo più».
«Amir non c’entra e Nadira è tua amica».
«Certo, stava dalla mia parte e senza di lei non avrei scoperto chi era
realmente Hamza, ma è spaventosa la sua abilità a fare il doppio gioco. È
arrivata a conoscere ogni minimo dettaglio del piano di Hamza, stava con
lui, ma tramava alle sue spalle per smascherarlo, per eliminarlo. Persone
come lei, se le hai contro, sono capaci di farti fuori senza che te ne renda
neanche conto. Nadira e Hamza giocavano ruoli opposti, ma le strategie e i
mezzi erano gli stessi e se con Hamza mi sono fatta l’idea che i magrebini
sono infidi, con Nadira ne ho ricevuto la conferma». Daniele cercò di
opporsi, ma lei glielo impedì. «No, aspetta, fammi finire» disse, con tono
completamente pacificato. «L’unica cosa bella che ho avuto da questa storia
sei tu e non m’importa se non è amore, il nostro. Anche se è solo premura o
tenerezza, mi basta. Mi basta che tu venga. Il sabato sera è l’unica notte in
cui dormo. Non ti chiedo molto, in fondo».
Klara lavorava come baby-sitter fino all’ora di cena e la notte studiava.
Era iscritta al dipartimento di Studi slavi della Sorbona, aveva discusso
brillantemente la tesi di dottorato e stava preparando un progetto per una
borsa di studio che aveva alte probabilità di ottenere. Parlava raramente
dell’università, ma a quel posto teneva sopra ogni cosa, era la sua carta per
restare in Francia. E si commosse quando Daniele le disse che, se fosse stato
il suo professore, avrebbe scommesso su di lei. Klara lo definì il più bel
complimento che potesse ricevere.
Daniele si era laureato in Economia e Commercio presentandosi
all’università solo quando doveva sostenere gli esami. Era arrivato alla
laurea senza sforzo e senza interesse, più che per il titolo, per far contento
suo nonno che si era messo in testa di volergli pagare gli studi,
costringendolo di fatto a laurearsi e in fretta. Suo nonno aveva incorniciato
la pergamena della laurea nell’ingresso e a quelli che entravano diceva,
picchiettando sul vetro: «Vedete questo? È il mio riscatto. Questo è il mio
diploma!»
Anche Klara aveva usato quel termine con lui, “sei il mio riscatto” gli
aveva detto una volta riferendosi all’umiliazione subita con Hamza. Ma il
suo bisogno di riscatto, in realtà, era precedente, riguardava la sua famiglia,
il paese, certe povertà di cui Daniele aveva sentito dire solo dai vecchi di
Framura. Quando Klara parlava della Polonia, i ricordi le franavano addosso
come argilla secca ed erano ricordi di strade infangate e pozzi, ruberie,
litanie, allagamenti e altri scherzi di Dio. Li rievocava come si presentavano,
con contorni ora incerti ora tremendamente nitidi e secondo le connessioni
apparentemente casuali di cui è capace la mente. I suoi occhi allora si
sgranavano nello sforzo di distinguere ombre in lontananza, esattamente
come la volta che l’aveva incontrata al Comptoir Jazz e l’aveva creduta
lucida e ubriaca insieme.
«I regali di Natale erano uguali per tutti, un anno c’era un gioco di
società, un altro anno i pattini... Ma era già tanto avere un regalo. C’era la
fila davanti al negozio e alcuni rimanevano senza. L’anno dei pattini, li
avevo ricevuti di un paio di taglie più grandi della mia. Mio papà, allora,
aveva detto che erano pattini da hockey e io li avevo trovati subito speciali.
Ce li ho ancora, sono appesi a un chiodo nella cantina dei miei... In cantina
mia nonna imbottiva i cuscini con le piume d’oca. Aveva trovato al mercato
nero della stoffa per le federe, una stoffa dura, impossibile da cucire a mano.
Mio nonno le aveva comprato una macchina da cucire. Me la ricordo
ancora, una macchina polacca, nuova di zecca, che nessuno ha mai saputo
come si fosse procurato. Ma la nonna non aveva voluto saperne di usarla.
Allora, lui, col libretto delle istruzioni in mano, mi aveva detto: “Se non
vuole usarla lei, la userai tu”... L’ho lasciata là. Odora di metallo e di olio. I
miei nonni invece sanno di farina e di bosco...»

In luglio Klara sarebbe andata a Varsavia a raccogliere del materiale per il


progetto di ricerca e avrebbe continuato a lavorarci in campagna, dai suoi,
dove contava di trattenersi per tutto il mese di agosto. Si preparò alla
partenza con la stessa disciplina che applicava allo studio, comprando pochi
regali costosi e organizzando meticolosamente lo spazio in valigia. Il
biglietto del pullman, acquistato da mesi, lo custodiva in valigia con i
documenti. Aveva tutto sotto controllo ma, con l’avvicinarsi della partenza,
chiamava Daniele più spesso, gli chiedeva di vedersi anche durante la
settimana, aveva bisogno di ripetergli che era stato un anno difficile e le
faceva piacere ritrovare la sua famiglia. Voleva sapere anche se poteva
portare con sé il ventilatore perché le temperature, dai suoi, rischiavano di
essere alte e lo avvertiva che le telefonate internazionali erano carissime e
non era sicura di poter chiamare.
Anche Amir si preparava febbrilmente alle vacanze. Passava tutto l’anno
a organizzare il suo rientro estivo in Tunisia. «Vale la pena sgobbare undici
mesi per averne uno da spendere a casa» diceva con il tono di una sentenza
e sembrava non pesargli la quantità imprecisata di regali e soldi da
distribuire a familiari e amici. Ogni agosto partiva come se le ferie non gli
spettassero di diritto, ma fossero un omaggio del datore di lavoro e i giorni a
ridosso della partenza camminava a un metro da terra parlando di quanto si
vivesse meglio in Tunisia e dei piatti pantagruelici che sua madre gli
avrebbe preparato.
Negli ultimi quattro anni, invece, Daniele si era sempre fatto pagare le
vacanze perché, da quando suo padre aveva lasciato abbattere la casa come
fosse una bestia malata, aveva perso il suo unico punto di fuga. Lo metteva a
disagio, infatti, andare in posti che non conosceva. Aveva tanti di quei soldi
da parte che avrebbe potuto ristrutturare la casa di Framura dalle
fondamenta senza chiedere prestiti e terrazzare la montagna fino alla cima. I
lavori sarebbero già finiti da un pezzo e lui non sarebbe stato costretto a
rimanere lì, con la voglia di scappare da quella periferia e dalle sue esistenze
da talpa, da ragazzi violenti e osceni, dai clochard e dalle voci in strada che
urlano che uno è rimasto ucciso. Questione di bande o di droga, sangue per
terra, la polizia che delimita il marciapiede, odore di piscio, donne che
strillano e bambini strattonati. Bambini soli. E se se ne fosse andato, non si
sarebbe voltato indietro, Klara non gli sarebbe mancata e nemmeno Amir.
Nulla gli sarebbe mancato di quel posto che non era suo.

Non partì immediatamente, si prese un paio di giorni per chiudere alcune


pratiche in ufficio e partecipare alla riunione del sindacato. Il momento era
delicato, le negoziazioni si stavano prolungando oltre il previsto, segnate da
prese di posizione radicali e da forte tensione. Una parte del sindacato
invocava lo sciopero come una svolta obbligata e urgente, l’altra, fra cui
Daniele, non lo escludeva, ma proponeva di agire senza precipitazione,
soprattutto senza imprudenze e provocazioni.
Prima di partire, inoltre, voleva fare una sorpresa ad Amir. Da tempo
pensava di comprargli una Vespa, un 125. Dalla concessionaria la portò
direttamente a Hussein, all’officina, chiedendogli di sostituirla allo scooter
di Amir appena fosse andato a farglielo riparare. E come per una profezia
che si avvera, pochi giorni dopo Amir restò a piedi.
Quella volta Hussein si fece pregare per metterci le mani e ripeté che non
lo voleva più vedere quel trabiccolo, quella ferraglia buona solo da
rottamare. «Non c’è più niente da fare! Capisci? Lo vedi in che stato è? Ci
ho già speso troppe energie!» gli diceva dandogli le spalle per evitare di
guardarlo in faccia. «Ripassa stasera e prega perché riesca ancora a farci
qualcosa».
Amir se ne tornò a casa con l’aria di un cane bastonato, sconvolto dalla
reazione di Hussein e dall’idea che quella volta potesse aver ragione. Non
riuscì nemmeno a riposare, quel pomeriggio. Quando tornò all’officina e
Hussein gli mise fra le mani la Vespa nuova di zecca, lo considerò uno
scherzo di cattivo gusto perché, senza scooter, era davvero perso. Ma lui
insisteva che la prendesse e non la finiva più con quel gioco. «Eccola, tieni,
è stato facilissimo! Non mi ci è voluto neanche un minuto! Sono proprio un
mago» diceva. «Dai, prendila! È tua ti ho detto, non ci credi? Non ti piace la
Vespa?» E rideva da morire. Neanche quando si decise a dirgli che era un
regalo di Daniele, Amir si convinse a salirci sopra. Non aveva mai guidato in
vita sua uno scooter nuovo. Si asciugò le mani sudate sui pantaloni e le
appoggiò sulle manopole, ma neanche allora mise in moto. «Dovresti
vederti, sembri un bambino» lo canzonava Hussein e gli faceva delle foto
con il cellulare e rideva. «Yalla, dai, provala!»
«Ma quanto costa?»
«Un esemplare del genere? Boh».
Un esemplare, sì, proprio come un animale raro, un cavallo da
competizione, pensò Amir, e si accorse che Daniele l’aveva scelta bianca
come Jolly Jumper.
«Coraggio, metti in moto!» lo incitava Hussein.
«Dove l’ha presa?»
«E piantala! Cosa vuoi che ne sappia! Chiedilo a lui!»
«È partito».
Si era messo alla guida dopo il lavoro. C’erano quasi otto ore di strada da
Parigi e arrivò al podere all’una passata. La rimessa era occupata dalla
macchina di suo padre, da un’auto sconosciuta e dal camper che non era
sistemato sul fondo, dove stava di solito, ma sembrava pronto a partire.
Delio doveva aver finalmente deciso di venderlo o di usarlo, pensò Daniele,
e l’auto estranea poteva essere di una compagna, forse la stessa che gli
aveva lasciato in segreteria telefonica il messaggio che suo padre era stato
ricoverato. Non poteva essere qualcuno dell’ospedale, perché nel messaggio
erano nominati anche Ramingo e Rose, ma l’eventualità che Delio avesse
una donna era piuttosto remota. La voce era giovane e, se ne rese conto solo
in quel momento, parlava in italiano. Una ragazza alla pari, una badante
italiana per vecchi emigranti italiani, si disse, la crisi aguzza l’ingegno.
Cercò il messaggio sul cellulare: «Tuo papà è all’ospedale, è stato ricoverato
una settimana fa. È caduto mentre stava andando da Rose, si è lussato una
spalla. Dice che è stata colpa di Ramingo che gli stava fra i piedi e gli ha
fatto fare un passo falso. Cadendo ha messo male il braccio. È stata Rose a
chiamare i soccorsi, l’ha visto dalla finestra, disteso per terra, con Ramingo
che gli faceva la guardia. L’ortopedico ha detto che con la spalla non si sa
mai cosa può accadere, ma a Delio sembra essere andata bene, non si è rotto
niente, anzi, l’omero si è riposizionato naturalmente e hanno dovuto solo
immobilizzargli la spalla con un tutore che dovrà portare per un paio di
settimane. Lo hanno trattenuto, però, per fare degli accertamenti sulle cause
della caduta». Aveva parlato tutto d’un fiato, senza presentarsi, e non aveva
più richiamato. Nemmeno lui, del resto.
Lasciò la macchina nello stradello. Ramingo si affacciò dalla cuccia, gli
annusò i piedi e gli leccò le dita. «Ciao, bello. Mi hai riconosciuto?»
sussurrò Daniele accarezzandogli la schiena ricoperta da una peluria
inconsistente. «L’età non ti risparmia, vedo. Ma sei ancora in piedi, bravo,
vecchio mio». Il cane lo osservò col suo sguardo ovattato e lui gli fece
ancora qualche carezza prima di rimandarlo a dormire.
Il silenzio era assoluto. Il bagliore della luna gli permetteva di distinguere
il biancospino nero lucido, di pagana bellezza, la recinzione dell’orto coperta
di rovi e, oltre, le sagome degli alberi da frutto, il regno di sua madre. Piante
immerse nelle profondità del passato a recuperare spettri e perle. Cercò la
chiave di riserva nella fessura di una trave del tetto del portico. La porta non
era chiusa, però, com’era nelle abitudini di suo padre.
«Speravo che saresti tornato» sussurrò Delio sulla soglia della camera.
L’abat-jour, debolissima, gli rischiarava appena le spalle lasciando il volto in
ombra.
Nessuno dei due cercò l’interruttore della luce e rimasero al buio alle due
estremità della cucina.
Al riguardo e al risentimento che Daniele aveva sempre provato nei suoi
confronti, Delio rispondeva con un affetto trattenuto. Nel corso degli anni,
poi, ben prima di quell’ultima separazione, si erano chiusi in una patetica
impossibilità di parlarsi che era diventata un’abitudine.
«Quando sei uscito dall’ospedale?»
«Mi hanno dimesso questa mattina».
Si pentì di essere venuto, anche se era partito pensando che fosse la cosa
giusta da fare. Amir si era scandalizzato quando aveva saputo che suo padre
era all’ospedale. «E cosa ci fai qui? È impensabile una tale mancanza di
rispetto da parte di un figlio» aveva commentato. Non era mai entrato nel
merito dell’ostilità che c’era fra Daniele e Delio, ma la sua posizione era
chiara e la vigilia di Natale, per fare in modo che Daniele rispettasse almeno
la festa, dato che non rispettava la famiglia, gli preparava la cena a base di
pesce con il pescato che portava dal mercato. «Gesù non è nato per la mia
salvezza, ma per la tua» gli diceva a benedizione del pasto.
«Va’ a letto, adesso. È tardi» lo esortò Delio.
Da quando Teresa era morta si parlavano in francese, ma ora si era
rivolto a lui in italiano e quella lingua aveva il sapore dolce amaro di una
stanza disabitata e nota. Non gliene chiese la ragione. «Perché sussurri?»
domandò invece, anche lui a voce bassa.
«Ti spiegherò domani. Buonanotte».
«Buonanotte, Delio».
Non l’aveva mai chiamato papà.

Gli parve di sentire parlare di sotto, ma era convinto che fosse ancora
notte, che si trattasse di un sogno, e si tirò il lenzuolo sopra la testa. E
quando Delio gli chiese le chiavi per spostare la macchina pensò a un
inganno del sonno, anche se la voce proveniva dalla stanza e la mano che lo
scuoteva era reale. Non lo stava scuotendo, in verità, si appoggiava alla sua
schiena con piccoli colpetti: «Daniele, ci sarebbe da spostare la tua auto. Se
mi dici dove sono le chiavi posso farlo io». Era la voce di Delio. Quando
Daniele tirò fuori la testa, però, nella penombra non vide suo padre, ma un
uomo smagrito, dalle mani tremanti, che gli diceva cose senza senso. La
richiesta incalzante di spostare l’auto, il gesto di porgergli i jeans, lo
convinsero che quella non era un’ombra. Di sotto, inoltre, qualcuno chiamò
Delio, e Daniele riconobbe la voce della segreteria telefonica. «Non avevo
visto che avevi lasciato la macchina sul vialetto, stanotte, altrimenti te
l’avrei fatta tirare via» gli ripeté Delio. «Bisogna spostarla, altrimenti non
può venire fuori col camper».
«Chi?» riuscì infine a chiedere Daniele.
«Caterina».
«È la tua compagna?»
Delio scoppiò in una grande risata. «Vieni, te la presento» disse e non
smetteva di ridere.
Caterina aspettava in fondo alle scale tormentandosi una ciocca di capelli
dai riflessi ora ramati, ora castani, ora dorati. Rivolse a Daniele un sorriso di
disagio, il cuore impazzito. Si presentarono e si voltarono verso Delio,
ancora sulla scala. Scendeva a rilento un gradino alla volta e Daniele capì
che l’impressione di poco prima non era stata falsata dal sonno, suo padre
era realmente un fantasma, con il corpo minuto e goffo e le mani
tormentate. Portava una fasciatura alla spalla sinistra, le braccia però erano
libere e pendevano lungo le gambe con l’appendice delle mani tremanti. La
vecchiaia si era impossessata di lui, gli si era gettata addosso come un
sortilegio e aveva scavato i suoi lineamenti con i tratti calcati delle
maschere. Daniele si chiese quando si fosse ridotto così, in quale stagione,
quale giorno di quegli ultimi anni che aveva passato senza fargli visita.
Interrogò con lo sguardo la ragazza e lei annuì, a confermargli che era vero
quello che vedeva.
«Coraggio» li esortò Delio quando li raggiunse, e si avviò alla porta.
Fu Caterina, incespicando nelle parole, a spiegare a Daniele cosa stava
succedendo: «Delio mi ha detto che sei arrivato nella notte... Mi dispiace
averti svegliato. Io... Cioè, il camper...»
«Il camper è stato adattato a salone itinerante da parrucchiera» tagliò
corto Delio. «E la parrucchiera è lei, e occasionalmente sua zia, che però ha
il negozio giù in paese. Il salone apre a Castanet e a Bellegarde il sabato, e la
domenica a Vauvet».
«Il camper è quello dei tuoi genitori» precisò Caterina. «E c’è un’altra
cosa» aggiunse passando sotto le finestre di camera sua. «Abito qui».

Quando il camper svoltò, Daniele poté leggere l’insegna sulla fiancata, La


Caravane de Thérèse-Coiffure. Rimase imbambolato a guardarlo finché non
venne distratto da Aron che lo salutò da lontano. «Ehi! Chi non muore, si
rivede! Dovresti vedere che faccia hai!» disse avvicinandosi e ridendo sotto i
baffi.
«Non ci tengo» rispose Daniele dandogli una pacca sulla spalla. «Meglio
se vado a farmi una doccia».
«Intanto vi preparo una buona colazione» propose Delio.
«Sto andando in paese» disse Aron.
«Ci andiamo dopo insieme. Vieni a prendere un caffè con noi, adesso»
propose Daniele che non voleva rimanere solo con suo padre.
Ramingo li precedette in cucina, Delio gli riempì la ciotola e mandò Aron
nel pollaio a prendere delle uova. La fasciatura alla spalla non gli impediva
di fare piccoli lavoretti, lo zabaione, poi, avrebbe potuto farlo anche senza
braccia.
Dal bagno Daniele riconobbe il ticchettio della forchetta contro i bordi
della tazza e immaginò l’uovo gonfiarsi con lo zucchero e farsi poco alla
volta bianco e spumoso. Gli faceva schifo lo zabaione, da bambino si
sforzava di buttarne giù qualche cucchiaiata e lasciava il resto a sua madre.
Delio, invece, era sempre andato fiero del suo zabaione. Lo batteva per
mezz’ora, aggiungendo, poco prima della fine, tre mezzi gusci d’uovo di
passito. Glielo preparava tutte le domeniche mattina e al risveglio lo trovava
pronto in cucina con l’alcol che nel frattempo si era depositato sul fondo.
Raramente facevano colazione insieme e Daniele poteva buttarlo nel
lavandino facendo scorrere l’acqua per cancellare l’odore di frescume. Solo
il ricordo lo disgustò.
Sulla tavola c’erano pane nero e marmellata di albicocche. Delio servì il
caffè e divise lo zabaione in tre bicchieri. Si muoveva con una lentezza
innaturale, che non dipendeva dalla spalla, ma più probabilmente da quegli
accertamenti cui aveva accennato Caterina nel messaggio in segreteria. A
Daniele venne l’impulso di prendergli il cucchiaio di mano e di fare al posto
suo, ma né il padre né Aron sembravano disturbati da quei gesti eterni o
forse ci si erano abituati.
«Cos’è?» domandò Aron che si portava i cucchiaini di crema alla bocca
assaporando bene prima di deglutire.
Fu la prima volta che videro sul suo volto un’intensa espressione di
piacere.
«Si chiama zabaione» rispose Delio e avvicinandogli la scodella in cui
l’aveva montato gli offrì di tirare su quello che rimaneva. Notò che il figlio
non lo aveva toccato e Daniele si affrettò a dire di essere a posto con il pane
e la marmellata. Senza accorgersene, aveva cominciato a urtare
ritmicamente il tavolo con la gamba. «Di solito non batti il tempo col
piede?» notò Delio e lui smise immediatamente, stupito che suo padre se ne
ricordasse.
«Cos’è?» chiese di nuovo Aron con il cucchiaino a mezz’aria.
«Uova, zucchero e passito. È una banalità, basta sbattere bene, di polso».
Delio fece il gesto con la mano disegnando cerchi nell’aria.
Aron si esercitò a pronunciare quella parola, zabaione, come fosse una
formula magica.
«Non credo ci sia un corrispondente francese» rifletté Delio, a cui venne
in mente una serie di parole italiane che per lui non avevano traduzione. «Il
segreto, comunque, sta nelle uova, devono essere freschissime» continuò e
lodò le ovaiole che gli aveva portato quell’inverno. Ci avevano impiegato un
po’ a produrre, ma adesso, per numero e taglia delle uova, erano imbattibili.
C’era come una discrepanza fra l’umore allegro del padre e il suo corpo
sghembo, e Daniele non era abituato né all’uno né all’altro.
«Hai bisogno di qualcosa, in paese?» si ricordò di chiedergli alzandosi da
tavola.
«No, però passa a salutare Cécile alla boulangerie» rispose guardandosi
attorno alla ricerca del bastone.
C’erano elementi di quel mondo che per Daniele riprendevano a esistere
solo quando tornava lì o quando venivano nominati, e Cécile, la figlia di
Rose, era uno di quelli. Rose, invece, lo rappresentava tutto, quel mondo, e
anche Aron, in fondo, forse suo malgrado. Probabilmente neanche lui si
sarebbe aspettato di diventarne parte integrante, con quel suo procedere per
sottrazione. Non era stato in grado di prevedere che l’economia di parole
pagasse più del loro eccesso, che le terre lasciate all’incuria fossero ricche
quanto i campi coltivati e che il vuoto potesse diventare pieno.
Salirono in macchina, la testa di Aron sfiorava il tettuccio e Daniele
ricordò quanto si sentisse piccolo, da bambino, vicino a lui.
«Perché Delio ha il bastone?» gli chiese.
«Lo usa per camminare, quando se ne ricorda».
«Sì, ma cos’ha? Perché ha bisogno del bastone per camminare?»
«Non lo so, non me l’ha mai detto».
«Già, non so neanche perché lo chiedo a te». Evitò di fargli altre
domande su suo padre e sulla parrucchiera che viveva da lui. Avrebbe
chiesto a Rose.
Lo lasciò alle sue commissioni e si diresse da Florian, al Café de la gare,
dove da ragazzino si ritrovava con gli altri della fanfara. Il bancone era stato
ammodernato, sui muri ritinteggiati erano scomparsi i poster dei calciatori,
e le slot-machine avevano preso il posto del flipper. Il locale si era ampliato
integrando il negozio di fianco e, a giudicare dal menu esposto in vetrina, vi
si serviva anche da mangiare. Intravide Florian dietro al banco, la striscia di
capelli intorno alle orecchie e la nuca pelata, ma non entrò.
Il paese non era più quello dei suoi anni di liceo, si era svuotato. La
palestra delle scuole medie era stata adibita a sala per le tombole per gli
anziani, i magazzini comunali e tante piccole attività commerciali avevano
chiuso i battenti. Mancava all’appello un’intera generazione, la sua.
Qualcuno tornava, di tanto in tanto, a passare una domenica pomeriggio in
campagna, ma anche quella era cambiata. Molti poderi avevano perso i
padroni e sotto i faggi i tassi non scavavano più quelle incredibili tane che si
era allenato a riconoscere da piccolo. In modi diversi, i luoghi della sua vita
si decomponevano e scomparivano, uno alla volta, ciascuno con le proprie
persone, gli animali, le piante. Sul paese di suo nonno il mare s’infrangeva
in milioni di schegge abbaglianti e il boato delle raffiche si ripercuoteva fin
dentro la montagna, che resisteva risoluta. Il paese di suo padre, invece,
evaporava come nebbia al mattino. Forse era per sottrarsi a quel dissesto
che aveva scelto di abitare lo squallore già disfatto della periferia di Parigi.
S’incamminò verso la chiesa. Il campetto di calcio dell’oratorio aveva perso
le linee di demarcazione e le porte reggevano reti stracciate. Da ragazzi,
utilizzavano gli spogliatoi come sala prove, l’acustica era pessima tanto che
uscivano storditi, ma quel capanno dal tetto in lamiera, insieme al bar, era
tutto ciò che avevano, era il loro carattere, la loro anima. Entrò in
panetteria, Cécile era sempre rotonda e affabile come sua mamma. Uscì da
dietro il banco per salutarlo e in pochi minuti gli fece un riepilogo completo
di chi aveva cambiato lavoro, di chi aveva avuto figli o aveva divorziato.
Quindi gli mise in mano un vassoio di paste e gli raccomandò di tornare.

Quando Daniele rientrò a casa, Delio si stava riempiendo il secondo


bicchiere d’acqua. Non si era fatto la barba e a giudicare dalla faccia sudata
e stanca doveva essere stato nell’orto. La cucina era calda come un
fazzoletto sopra una fronte febbricitante, la TV senz’audio emetteva a
intermittenza luci colorate. Daniele affettò pane e salame e condì i
pomodori. Iniziò il telegiornale e Delio alzò il volume. Cominciarono a
mangiare senza dirsi niente. Daniele spiava il tempo infinito che il padre
impiegava a mangiare e non sapeva come chiedergli cosa gli stesse
accadendo, dove gli faceva male.
Delio sputò il nocciolo di un’oliva, si riempì il bicchiere di vino e gli parlò
delle circostanze che l’avevano portato a proporre l’appartamento a
Caterina. «Rimane sempre tuo, beninteso» ci tenne a precisare, ma poi
passò a raccontargli di come gli era venuta in mente l’idea della Caravane,
gli descrisse nel dettaglio i lavori che avevano fatto, come avevano
riutilizzato certi pezzi e il saldatore anteguerra di Aron che funzionava
ancora che era una meraviglia. Gli indicò, sulla credenza, i volantini che
Caterina aveva distribuito a destra e a manca e più parlava di quell’impresa
e di Caterina più si animava, e le sue mani si agitavano in un controcanto
come a volere anticipare il bello che gli restava da dire. Non accennò mai
alla caduta, alla spalla, o a quel corpo che assomigliava a un sacco vuoto, e
Daniele non lo interrogò. Era stanco, confuso. Sciacquò una mela e la morse.
Una mela del frutteto, rosa e acidula come solo lì poteva mangiarne. «Più
tardi vado a salutare Rose» disse al padre.
«Verrò anch’io. Ora, però, vado a riposare un po’. Va’ a coricarti anche
tu, stanotte sei arrivato tardi e ti abbiamo svegliato di buon’ora».
Né lui né Teresa si erano mai preoccupati se dormiva abbastanza, dove
andava la sera con i suoi amici o cosa mangiava quando non rientrava. Se
chiedeva loro qualcosa lo esaudivano e quando parlava pendevano dalle sue
labbra, ma lui parlava poco e non domandava niente.
Si svegliò a fine pomeriggio e trovò sul tavolo della cucina un biglietto in
cui era scritto, con una grafia così minuta che si leggeva a stento: “Ti
aspetto da Rose”.

Rose lo accolse a braccia aperte e lo abbracciò con un’energia tale che


sembrava volesse imprimerselo nel corpo: «Daniele! Che gioia! Quanto mi
sei mancato! Dio, come sei bello, non sei cambiato, sei sempre bellissimo!»
«Sei l’unica che me lo dice, Rose».
«Non ci credo».
«Tu, piuttosto, hai cambiato pettinatura?»
«Oddio, si vede molto? Stamattina mi sono montata i bigodini da sola...
Di solito me li fa la donna delle pulizie, ma questa settimana non aveva
tempo e ho fatto io». E si passò le dita fra i capelli per accomodarsi i ricci.
«No, no, non sei niente male, sembri più alta».
«Insolente!» rise lei.
Delio non scherzava con loro. Se ne stava seduto in punta alla sedia, con
le mani nervose sulle ginocchia e teneva d’occhio la finestra.
«La sta aspettando» mormorò Rose a Daniele. «Si preoccupa perché di
solito a quest’ora è già rientrata».
Delio infatti non si dava pace: «Rose, non trovi strano che non sia ancora
arrivata? Non vorrei che fosse successo qualcosa, Caterina non ha molta
esperienza nella guida, a Roma non ha neanche la macchina. E da quelle
parti le strade sono piuttosto strette».
«Si sarà fermata a prendere qualcosa con sua zia» lo rassicurò lei.
«Oppure avrà gente, il sabato è il giorno ideale per andare a farsi i capelli» e
fece l’occhiolino a Daniele indicandogli la sua vaporosa testa fai-da-te.
Daniele le voleva bene, era un affetto antico il loro, nato quando lui era
ancora bambino e discorreva con Rose per ore. Lei lo ascoltava come se
stesse apprendendo dei segreti e gli diceva che era proprio una persona
intelligente. Diceva persona, non bambino, e Daniele si sentiva davvero
grande. Rose era una donna buona, la più buona che conoscesse e una volta
glielo aveva detto: «Sei la migliore del mondo, molto più di Teresa e Delio».
Lei si era rabbuiata: «Proprio per questo ti sembro più brava, perché non
sono nessuno di loro. Un giorno ti accorgerai che vengo dopo i tuoi
genitori». Daniele non aveva capito, aveva protestato: «Invece no, tu sei la
prima!» «Avvicinati, mon coeur, ti voglio spiegare una cosa». Non doveva
sentirsi a suo agio a stare al primo posto in classifica, o forse era quel suo
modo di vedere il bene negli altri che la portava a sminuire se stessa. Aveva
riflettuto un po’, ma non aveva trovato le parole giuste, allora aveva svitato
il grosso barattolo di vetro delle meringhe e aveva lasciato che si abbuffasse.
Daniele preferiva quelle alle mandorle, poi quelle alla cannella e infine le
bianche. Ne aveva prese anche lei, all’acqua di rosa.
«Eccola!» gridò Delio vedendo il camper e si alzò di scatto. Andò alla
porta e Ramingo, che dormicchiava sullo zerbino, si tirò su
automaticamente e lo seguì.
«Va’ con lui» lo esortò Rose.
«Sono appena arrivato!» protestò Daniele.
«Ripasserai un’altra volta, ora va’. Guarda, ha dimenticato il bastone».
Delio camminava piegato in avanti, sembrava rincorrere il suo baricentro.
Voleva affrettarsi, invece correva restando quasi fermo. Daniele lo
raggiunse, Delio lo prese sottobraccio, lo afferrò, appoggiandosi con tutto il
peso di un corpo dall’equilibrio precario. Era in affanno, ma si mise a
parlare del dispiacere che provava per l’insuccesso del salone e dell’impegno
che ci avevano messo tutti loro, non ultima Caterina, che da un mese vi
dedicava tutti i fine settimana. E si augurava davvero che il ritardo di quel
giorno fosse dovuto a qualche cliente che finalmente si era presentato.
Daniele non apriva bocca, insofferente. Quel pezzetto di strada, che
normalmente richiedeva tre minuti, prese un tempo spropositato.
Il camper era nella rimessa, indenne. Daniele sfilò il braccio del padre dal
suo. Disse che non si sarebbe fermato a cena. Lui non rispose, proseguì
verso la ragazza. E Daniele si ripromise di partire già quel lunedì.
Sognò Delio battere le uova con gesti circolari per rendere lo zucchero
gonfio e soffice. Un movimento di polso, rapido e ininterrotto. Il capo chino,
concentrato in quell’incombenza. La striscia di passito bruno scompariva nel
composto, la mano continuava a girare meccanicamente e la crema
montava, fuoriusciva dalla tazza e gli colava sui piedi.
Quando scese, lo trovò in poltrona vestito di tutto punto, con le mani
conserte percorse dai loro tremori, le dita corte e nodose e le unghie tagliate
a filo della carne. Aveva sempre avuto unghie appena abbozzate e pulite,
anche se passava le giornate fra i motori e la terra.
«Non mangiarlo» gli disse indicando il bicchiere di zabaione sul tavolo.
«L’ho fatto troppo presto stamattina e il liquore si è separato dalla crema».
E fu lui stesso ad andarlo a gettare nel lavandino. Gli servì del caffè e gli
disse: «Poi, quando sei pronto, andiamo».
«Dove?»
«A farci tagliare i capelli».
«Ma se non li hai mai avuti così a posto! Oggi, poi, è domenica». Mentre
lo diceva, Daniele capì.
Sarebbero andati al salone per incoraggiare la gente a provarlo. Una sorta
di “comparsa pubblicitaria”, la definì Delio, e gli ripeté che, da quando la
Caravane era stata messa in strada, Caterina era rientrata ogni volta avvilita
per la mancanza di clienti. Decise quindi che sarebbero stati i primi e che
dopo essersi fatti sistemare la testa se ne sarebbero andati in giro per il
paese a fare propaganda.
Quella storia del salone iniziava a stufare Daniele, come la
preoccupazione eccessiva di suo padre per quella ragazza sbucata dal nulla
che Delio amava come una figlia. Ascoltò comunque il piano e alla fine si
chiese se suo padre non fosse andato fuori di testa, se quel malessere che
aveva nel corpo non avesse intaccato anche il cervello. Si lasciò convincere
solo quando Delio gli promise che sarebbero rientrati presto, per rimettere
in sesto la staccionata dell’orto piegata sotto il peso delle more e dei
lamponi. «Quella palizzata non trova pace, d’inverno il vento, ora i frutti...»
Si diressero a Vauvet. Il camper era su un lato della piazza, sull’altro
alcuni produttori locali vendevano miele, formaggi di capra, frutta e
verdura. Arredato con gusto dalle due donne, l’ambiente era accogliente e
fine e profumava di detergente. Delio illustrò a Daniele, con grande
orgoglio, com’erano intervenuti sulla struttura originale. Nel frattempo
Liliana preparò la schiuma da barba e lo invitò ad accomodarsi. Caterina,
allora, propose a Daniele di andare al lavandino e lui, non sapendo come
rifiutare, accettò.
Gli rimboccò una salvietta intorno al collo e cercò la giusta temperatura
dell’acqua, poi gli massaggiò lo shampoo sui capelli e lui perse il filo della
conversazione fra Delio e Liliana. Teneva gli occhi aperti ma non vedeva
niente, sentiva solo i polpastrelli di Caterina procedere lungo la curva della
nuca e disegnare piccole spirali, morbide e precise. Il getto d’acqua tiepida e
un secondo shampoo, un secondo massaggio. Benché gli fosse così vicina,
Caterina si sentiva stranamente calma e non si affrettò. Gli tamponò la
fronte e le orecchie con una salvietta e frizionò bene i capelli, lo precedette
alla poltrona davanti allo specchio e gli annodò la mantella nera. Incominciò
a pettinarlo, a tagliare e sfoltire. Liliana e Delio intanto erano usciti.
Parlavano all’ombra del tendone, alle spalle dell’insegna pervinca. Daniele
non se n’era accorto. Aveva notato però che Caterina non gli aveva chiesto
che taglio desiderasse e la lasciò fare, stupito dai gesti determinati e
disinvolti di quelle mani dalle dita lunghe e sottilissime. La osservava allo
specchio, cercando d’indovinare che età avesse e lei, incrociando il suo
sguardo, riabbassava gli occhi e arrossiva. Portava pantaloni larghi e una
canottiera molle sui seni, vestiti da niente, che disegnavano a china il suo
corpo dalla bellezza inconsapevole della donna non ancora fatta.
Caterina gli passò il fon sulla testa ormai asciutta e con la salvietta gli
pulì il collo per togliere i capelli rimasti attaccati. «Ho finito» disse.
«È da un po’ che fai la parrucchiera?» le chiese lui.
«È la stessa domanda che mi ha fatto tuo padre la prima volta che si è
presentato al salone».
«La salvietta sa di bucato» osservò allora, tanto per dire una cosa
qualsiasi. E aggiunse: «A Parigi i panni non sanno mai di fresco».
Caterina si portò la salvietta al naso e arrossì.
Delio non risparmiò i complimenti e Daniele si rese conto di non aver
prestato attenzione al taglio. Le rivolse uno dei suoi sorrisi brevi e seguì il
padre al ristorante sulla piazza.
Delio era su di giri, parlava a voce alta e indicava il camper ai camerieri e
ai clienti: «Quelle due donne sono eccezionali! E poi, che idea un
parrucchiere a domicilio! Scendi e in un attimo sei fatto!» Daniele non lo
aveva mai visto così loquace e spavaldo e si sentiva a disagio. Sollecitò il
servizio, ordinò un piatto che mangiò in fretta per poter andarsene al più
presto, ma il padre aveva chiesto un consommé ed era appena all’inizio. Il
braccio era lento, la mano vacillava e il brodo cadeva in parte nel tratto dal
piatto alla bocca e in parte durante la rotazione del cucchiaio. Delio non si
scoraggiava, con la mano sinistra reggeva il tovagliolo per preservare la
camicia dagli schizzi, incurante degli sguardi della gente.
«Non potevi prendere qualcos’altro?» domandò Daniele, che aveva
ricominciato a fare ballare la gamba sotto il tavolo.
Delio non glielo fece notare, non rispose nemmeno e continuò a sorbire il
brodo, cucchiaio dopo cucchiaio. Gli ci vollero venti minuti per terminare,
durante i quali Daniele finì per compiacersi dell’ostinazione del padre. «Era
buono?» gli chiese alla fine.
«Ottimo!» rispose lui. «Sarà perché non lo faccio mai, ma il brodo, di
tanto in tanto, è davvero gradevole!» Si pulì la bocca soddisfatto e ordinò
una costata di manzo con le patate.

Il mattino dopo, Daniele si svegliò alle sei, raccolse le sue cose e sgusciò
fuori come un ladro.
«Stai andando via?» gli chiese Caterina, sporgendosi dal finestrino
dell’auto.
Non pensava di rivederla. «E tu dove vai, a quest’ora?»
«Al lavoro. Sempre che la macchina voglia partire. Senti?» Girò la chiave,
il motore s’ingolfò.
Daniele posò la borsa per terra e mise la testa nell’abitacolo. Caterina
sapeva di acqua. «Prova a spegnere e a riavviare».
Lei eseguì. «Non va, vedi?»
«Devi mettere la prima» suggerì rialzandosi.
Caterina avvampò e uscì dalla macchina con un sorriso mezzo
imbarazzato e mezzo divertito che cercava di nascondere stropicciandosi gli
occhi. Era rientrata tardi, la sera prima avevano festeggiato il compleanno di
Pierre.
«Dove sei diretta?» Glielo aveva già chiesto, ma non doveva aver capito,
non era possibile che un negozio da parrucchiere aprisse a quell’ora.
«Vado in paese, al lavoro».
«A quest’ora?»
«Apriamo alle sette».
Non si spiegava come, in un paesino di poche migliaia d’anime, un
parrucchiere potesse fare quegli orari, ma non volle insistere. Guardò
Ramingo che sonnecchiava con la testa fuori dalla cuccia e cambiò discorso.
«È sempre più pigro quel cane» commentò.
«È sempre più vecchio».
«Già».
«Ho trovato invecchiato anche mio padre» riprese lui. «L’uno lo specchio
dell’altro».
«È da molto che manchi?»
«Sì» ammise e ci fu un momento di silenzio.
«Com’era l’ultima volta che lo hai visto?»
«Come sempre in questi anni, immalinconito dalla morte di Teresa, ma
fisicamente in forma. Non aveva quei tremori e non era così lento. A volte si
direbbe che non ricordi di dover mettere un piede dopo l’altro per
camminare».
Daniele aveva i capelli folti e scompigliati di suo padre, ma spalle robuste
e lineamenti più fini.
«La malattia ha un decorso molto rapido in lui, l’ho notato anch’io che
sono qui solo da qualche mese».
«Che malattia?» chiese Daniele. La voce era agitata.
«Credo sia Parkinson, ma solo gli esami neurologici e
l’elettroencefalogramma possono stabilirlo con esattezza. I medici,
all’ospedale, non si sono voluti pronunciare. I risultati, comunque,
arriveranno in questi giorni. Delio si era opposto ai controlli, voleva evitare
di preoccuparsi finché i sintomi non fossero diventati invalidanti. Prima
s’interviene meglio è, invece, e per il Parkinson ci sono farmaci efficaci. Ora,
come ha accettato di fare gli esami, dovrebbe accettare anche di seguire la
terapia perché potrebbe davvero alleviare i suoi disturbi motori». Quel
discorso, Caterina lo aveva ripetuto decine di volte nella sua testa per
convincere Delio a farsi curare. Lo fece a Daniele, non per allarmarlo, ma
perché sapesse anche lui di quella malattia. Perché restasse.
Daniele la assalì, con aggressività e paura, l’aggressività della paura: «Di
cosa parli? Chi ti credi di essere?»
Caterina sgranò gli occhi. «Scusa...» si affrettò a dire. «È solo
un’opinione, in effetti... Dai sintomi che ho visto in lui...»
«Sintomi? Ma cosa cazzo stai dicendo? Cosa ne sai tu?»
«Sono infermiera. Ma posso essermi sbagliata, hai ragione. I medici
sapranno darti la diagnosi esatta».
Daniele rimase interdetto. «Come? Non capisco, non fai la
parrucchiera?»
Caterina sorrise. «Credevo che Delio te l’avesse detto. Mi sono laureata a
Roma in Infermieristica con una specializzazione in geriatria. Dopo lo stage,
ho lasciato il Policlinico e sono venuta all’ambulatorio giù in paese, per una
sostituzione annuale. Quello della parrucchiera è solo un passatempo, ho
imparato in famiglia». Caterina controllò l’ora. «Devo veramente andare,
adesso» disse rientrando in macchina. «Metto la prima, allora» ironizzò.
L’occhio le cadde sul borsone ai piedi di Daniele. «Sei in partenza?»
«No» rispose lui. «Ho ancora tutta la settimana di ferie. Lo stavo solo
portando in macchina» mentì. Aveva mille domande da farle sul Parkinson
e su di lei e si sarebbe voluto scusare per averla aggredita. Stava per
chiederle a che ora sarebbe tornata, ma la macchina si mise in moto al
primo colpo.
«Ti sta bene quel taglio» disse lei passandogli davanti.
«Quanto rimarrai qui?»
«Fino a Natale».

«Cosa ci fai con quella borsa? Stai andando via?» urlò Aron mentre dava
da mangiare alle galline.
Daniele gli fece cenno di no.
«Hai una faccia che sembra che ti abbiano dato una botta in testa. Il
mattino non è proprio il tuo momento».
«Non fai sfoggio di parole, ma sai sempre usare quelle giuste».
Ci prendevano gusto a battibeccare come zitelle ed erano maestri
nell’evitare di rispondere alle domande, nel provocarsi senza cadere nella
provocazione dell’altro. Videro Delio andare al pollaio.
«È l’ora dello zabaione!» commentò Daniele. «Vieni a mangiarlo, le uova
sono freschissime! Delio ha certe ovaiole che sono un portento!»
«Come fa a non piacerti lo zabaione? Hai proprio qualcosa che non va,
tu».
I risultati delle analisi arrivarono il giorno seguente e la diagnosi fu quella di
Parkinson.
Rientrando a casa dall’ospedale, Delio si guardò attorno come se si fosse
assentato da anni e stentasse a riconoscere quelle stanze. Appoggiava lo
sguardo ora su una cosa ora sull’altra, con gli occhi lenti di una mente
assente, a tratti assiepata di memorie. Posò le ricette sulla credenza, sotto la
foto di Teresa e Daniele. Non erano passati dalla farmacia, non era convinto
di voler iniziare il trattamento e aveva finto di aver dimenticato la tessera
sanitaria a casa. E si chiuse in camera.
I giorni successivi trascorse gran parte del tempo a letto, uscendo solo per
andare in bagno o quando lo chiamavano per mangiare, e a tavola non
parlava a meno che non lo interrogassero. Lo sorpresero più di una volta a
fissare il bastone. Sembrava richiedergli un certo sforzo ricordare il motivo
per cui lo possedeva e dava l’impressione di realizzare solo a posteriori di
essere malato, non nella spalla, che si era ormai ristabilita, più in profondità.
Era una malattia definitiva, su cui il neurologo aveva speso parecchie parole
che gli era sembrato di capire, mentre le pronunciava, ma appena fuori
dall’ambulatorio erano diventate fumose. La causa della malattia è
sconosciuta, questo lo ricordava con chiarezza. «Per la sindrome di
Parkinson, come per altre patologie» aveva detto, «la comunità medico-
scientifica non è in grado di stabilire l’eziologia». Gli venne da sorridere
all’espressione “comunità medico-scientifica”, sembrava una muraglia
indistruttibile, invece, nel suo caso, faceva acqua. Gli era rimasto impresso
anche che la malattia è dovuta alla morte delle cellule in una regione del
cervello che si chiama sostanza nera e se la raffigurò come una pallina
molle, leggermente limacciosa, da cui si staccavano minuscole particelle che
cadevano e si dileguavano senza suono. Le cellule, pensò, devono essere
come gli uccelli, che quando muoiono non si sa dove vanno a finire. Del
lungo discorso del dottore, poi, gli erano rimaste in mente certe parole
isolate che aveva ripetuto più volte: dopamina, levodopa,
neurodegenerativa. Non la smetteva più di parlare e anche dopo che si
erano congedati, mentre Daniele era andato a prendere la macchina, aveva
tirato fuori un articolo sui “disordini del movimento” e aveva tenuto a
specificare che si chiamava “malattia” o “sindrome”, non “morbo”, come si
usa correntemente. «Il termine “morbo” si riferisce a patologie a decorso
fatale e non è il caso del Parkinson» così aveva detto.
Quelle spiegazioni tornavano a intermittenza, frasi sconclusionate che
avevano dato però concretezza ai suoi sintomi e cominciò a spaventarsi
delle mani instabili e del pavimento che rischiava di franare a ogni passo.
Esaminava il suo corpo con apprensione e più si sforzava di controllarlo più
quello rispondeva con reazioni impedite. Anche il gesto più ovvio non era
scontato, sfuggiva alla sua volontà e alla spontaneità. Aveva paura di se
stesso e questa paura provocava commozioni immotivate impossibili da
trattenere. Piangeva se il bastone gli scivolava di mano, se Caterina lo
prendeva sottobraccio, lo commuoveva vedere Aron lavorare nell’orto o
sentire il rumore delle ruote dell’auto di Liliana che veniva a fargli visita.
Una mattina, uscendo dalla camera, trovò Daniele che gli stava
preparando uno zabaione. A vederlo con la frusta in mano, gli si riempirono
gli occhi di lacrime.
«Adesso ti calmi!» gli disse Daniele alzando la voce. «Non c’è niente di
cui piangere. L’ho fatto solo perché stavamo accumulando troppe uova, lo
faccio per Aron. E poi è uno schifo, guarda, non si è montato, ci sono isole
di albume che galleggiano sul vino e mi è venuto un crampo a forza di
sbattere!»
Delio si sporse sulla tazza e rise. Rideva e piangeva. «Gettalo via» gli
ordinò asciugandosi gli occhi. «E passami un contenitore pulito e delle altre
uova, le più fresche però, altrimenti non ne vale la pena. E una forchetta,
non riesco a usare il frustino».
Si impegnò a montare lo zabaione con una precisione di cui Daniele non
lo avrebbe creduto capace. Più girava, più divenne chiaro a entrambi che
quella era una questione di principio: se lo zabaione non fosse riuscito,
Delio non sarebbe più riuscito in niente. Fissarono in apnea i cerchi sottili
che la forchetta formava nella crema, il colore che cambiava, la spuma che si
gonfiava. Incorporò il liquore e riprese. Si fermò di colpo. «Mettilo in
quattro bicchieri» disse. «È venuto». E si alzò.
«Dove stai andando?» gli chiese Daniele vedendolo avviarsi alla porta.
«Vado a chiamare Aron, così vedo anche cosa sta combinando nel mio
orto».
Non riuscì ad arrivare fino all’orto. A metà strada tornò indietro e sedette
sulla panca sotto il portico. Ramingo lo raggiunse. «Ho mentito, sai?» gli
bisbigliò Delio. «Ho detto a tutti che eri stato tu a farmi cadere, ma i dottori
l’hanno capito che non c’entravi, che era la malattia. Ti ho preso come
capro espiatorio, è da codardi, perdonami, anche se avrei preferito che fossi
stato tu». Prima per il ricovero, poi per l’arrivo di Daniele, era da un po’ di
tempo che non parlava con il suo cane e quelle chiacchiere gli mancavano.
«Sei un caro cane, Ramingo... Come siamo messi male... Stabilire chi stia
peggio fra noi due è dura. La spalla è guarita in breve tempo, la malattia
invece me la porterò nella tomba, anzi sarà lei a portare me. Il neurologo mi
ha fatto una lista di personaggi celebri che hanno sofferto della malattia,
Hitler, Mao Tse Tung, Giovanni Paolo II e artisti e attori che non avevo mai
sentito. Ne parlava come se fosse quasi normale avere il Parkinson... E io
pensavo a quel pover’uomo, il signor Parkinson, che nessuno ricorda più
per quello che era, ma per la malattia che ha scoperto e che porta il suo
nome... Di cui però non ha trovato le cause, né la cura... Lasciamo perdere...
Guarda, Aron sta arrivando. Da quando mi sono fatto male alla spalla, non
c’è giorno che non si occupi dell’orto e del frutteto. Di sicuro non c’è stato
neanche bisogno di chiederglielo, ci si sarà messo spontaneamente. Deve
continuare, però. Anche se la spalla è a posto, non tutto lo è».
Nemmeno nei giorni successivi andò nell’orto. Se ne stava seduto sotto il
portico lasciando che l’orto si allontanasse di ora in ora fino a diventare
irraggiungibile. All’imbrunire, quando il calore si attenuava, Caterina gli
proponeva di fare due passi. Camminavano su e giù lungo lo stradello, lei gli
parlava dell’ambulatorio o di Roma e lui perlopiù taceva. Daniele non gli
offriva di passeggiare, ma mostrava comunque molte attenzioni nei suoi
confronti. Se Delio si tratteneva in bagno più a lungo del dovuto, per
esempio, si avvicinava alla porta per accertarsi che non fosse caduto e
quando usciva lo seguiva con lo sguardo o lo raggiungeva per portargli il
bastone. Daniele e Caterina si muovevano attorno a lui come comparse,
attenti a sostenerlo senza forzarlo, a incoraggiarlo ma senza fare al posto
suo, e prima di prendere una qualunque iniziativa si consultavano con lo
sguardo.

Caterina sedeva sul gradino che separava il portico dal prato. Aspettò che
Daniele si avvicinasse e gli disse: «Sai come avevano chiamato il Parkinson
in origine? Paralisi agitante». Si slacciò i sandali e li abbandonò nell’erba.
Aveva piedi talmente lisci che Daniele avrebbe voluto accarezzarli. «Il
neurologo, mentre eri andato a prendere la macchina, ha ripetuto che in
Delio il decorso della malattia è anomalo, anche se ha riconosciuto che c’è
una grande variabilità da paziente a paziente. I sintomi motori considerati
alla base della malattia, come il tremore a riposo, la lentezza e la rigidità dei
movimenti, sono ancora relativamente deboli in lui, il che farebbe pensare a
un esordio della malattia. Anche quel modo di camminare per passi brevi e
strascicati che a noi sembra esagerato, in realtà è ancora solo accennato. La
perdita dell’equilibrio, invece, si manifesta di solito in fase avanzata».
«Quindi lui è all’inizio o alla fine?»
«Non si sa. Però il medico è stato incoraggiante sugli effetti dei farmaci.
Anche in questo caso la reazione varia da una persona all’altra, ma ha
assicurato un miglioramento radicale nella mobilità, perlomeno per i primi
tempi».
«E quanto è “i primi tempi”? Mesi? Anni?»
«Non si può dire, non si può prevedere come Delio reagirà alle medicine.
Per questo si comincia con un dosaggio basso, che si potrà aumentare
gradualmente e adattare alle necessità, ma è importante che Delio inizi».
Fece una pausa. Daniele sapeva cosa gli avrebbe chiesto. «Spetta a te
convincerlo».
«Abbiamo passato una vita a restare lontani e adesso gli sono talmente
vicino da sentire l’odore che ha in bocca». Si mise a giocare con gli steli
d’erba.
«Perché non sei restato qui? È casa tua, questa».
«No. Mia madre era pazza, sapeva occuparsi solo della terra, non era in
grado di stare dietro a un bambino piccolo. Delio ha dovuto scegliere, o me
o lei, così mi ha portato dai suoi, a Framura, e mi hanno cresciuto loro.
Quella era casa mia».
«Non ci credo» azzardò lei. «Non era veramente pazza, tua mamma,
esageri. Dovresti sentire come ne parla Delio».
«La cosa più bella di mia madre era l’amore che Delio provava per lei».
A quelle parole, a Caterina venne la pelle d’oca. Gli chiese di loro e non lo
interruppe più.
Teresa era figlia unica, veniva da una famiglia piuttosto agiata, era andata
a scuola fino alla terza media e i suoi desideravano per lei un buon
matrimonio. Delio era di dieci anni più grande e aveva un destino da
migrante. Suo padre era contadino e tuttofare per i genitori di Teresa e la
madre governante presso di loro. Si portavano il figlio appresso e gli
affidavano vari compiti. Delio e Teresa erano cresciuti insieme. Quando le
famiglie si accorsero che erano innamorati era già troppo tardi. I genitori di
Teresa avevano offerto una grossa somma al padre di Delio perché
mandasse il figlio all’estero e lui era andato prima a Lione, come muratore,
poi nel sud-ovest, come meccanico. Credevano di aver risolto il problema,
nessuno si aspettava che Teresa scappasse da lui.
Caterina si ravvoltolava una ciocca di capelli intorno al dito. Pendeva
dalle sue labbra, le stesse labbra sfuggenti di quando aveva sedici anni nella
foto sulla credenza.
Un po’ per amore e molto per orgoglio, Teresa non aveva mai messo in
discussione la propria scelta e non era tornata dai suoi. Era diventato
pressante, per lei, dimostrare alla famiglia di non aver sbagliato, di non aver
perso niente andandosene via. Aveva iniziato a coltivare la terra del podere
che Delio aveva comprato con i propri risparmi, a venderne i prodotti e a
reinvestire i guadagni. Ed era riuscita nell’impresa. Aveva differenziato le
produzioni e si era potuta permettere anche di pagare dei lavoratori
stagionali. Aveva avviato perfino un commercio di conserve. Era rimasta
incinta quando era all’apice dell’attività. Delio era al colmo della gioia, lei,
invece, non avrebbe voluto avere figli. Aveva portato avanti la gravidanza
perché allora non si abortiva e perché un figlio poteva rientrare in quel
disegno di riuscita che si era prefissata. Ma quel disegno era diventato
un’ostinazione immotivata. La sua famiglia, infatti, dopo averle inutilmente
intimato di tornare, l’aveva diseredata. Teresa era rimasta delusa di scoprire
che un bambino non è un melo: era in grado di restare in piedi notti intere
ad accendere i falò nel frutteto per evitare che gelate tardive mettessero in
pericolo l’annata, ma non riusciva ad alzarsi per allattare. Le erano venute
febbri alte e dolori che né i dottori né le anziane dei dintorni erano stati
capaci di calmare. Rifiutava di occuparsi del figlio, non ne sopportava i
pianti. La notte si rifugiava nel casotto degli attrezzi e di giorno non si
alzava dal letto. Per Delio era insopportabile vederla in quello stato e portò
via il neonato, a Framura, dai suoi.
«Teresa non era fatta per essere madre. Appena me ne andai, si riprese.
Delio venne a riprendermi quindici anni dopo per riportarmi
definitivamente qui».
«E allora lei com’era?»
«Non aveva perso l’abitudine di armeggiare in giardino, in piena notte,
come se non avesse bisogno di dormire come tutti gli esseri viventi. Quando
rientravo da una serata con gli amici, mi salutava con i guanti e
l’innaffiatoio in mano. Non avevamo niente in comune, se non il fatto di
essere gli unici in piedi a quell’ora».
«Come mai ti hanno ripreso con loro?»
«Non è stata una decisione dei miei, è stato per volontà di mio nonno.
Con i loro risparmi e i soldi che gli mandava Delio i nonni avevano smesso
di lavorare sotto padrone e si erano comprati il pezzo di terra dietro casa
che coltivavano a ortaggi. Erano stati anni felici, in cui avevano raggiunto
una certa stabilità economica, e potevano crescermi senza farmi mancare
niente, come non avevano potuto fare con mio padre. Poi, però, i tempi
cambiarono di nuovo. Non riuscirono a fare fronte alla concorrenza,
vendettero le terre, vennero raggirati e persero un sacco di soldi. Si
ritirarono in pensione, sfiduciati, sentendosi improvvisamente troppo
vecchi. Una notte mio nonno mi svegliò, andammo su in terrazza, da dove si
vedevano le coltivazioni che erano state sue fino a poco tempo prima. Mi
indicò un uomo che, in fondo all’appezzamento, stava rubando dei meloni.
“Eravamo amici da piccoli, abbiamo la stessa età” mi spiegò. “Si è ridotto a
rubare meloni”. Restammo lì finché il ladro non se ne andò, poi il nonno
disse: “L’Italia è diventato un paese disperato. Non voglio che ti sfiori il
dubbio che vivere onestamente sia da stupidi o da vigliacchi. Ho parlato con
tuo padre, continuerai gli studi in Francia”». Daniele strappò una gramigna,
guardò Caterina di sbieco, le sorrise, uno dei suoi sorrisi brevi. «Ecco, la
storia è finita».
«È Delio che te l’ha raccontata?» chiese lei.
«No, è stata Rose. Non usò queste parole, ovviamente, Rose non dà
giudizi. Le parole sono le mie, ma i fatti sono fatti. Dopo la maturità sono
tornato di nuovo in Italia, ma in realtà non sapevo più stare neanche là.
Studiavo, lavoravo, viaggiavo come se stessi sperimentando una libertà
vertiginosa, invece era solo un gran casino. Questa non è casa mia,
comunque. È un posto meraviglioso dove trascorrere le vacanze» disse
ironicamente. «C’è mio padre che ha la faccia di uno che sta per annegare,
tallonato da Ramingo, ormai una carcassa su quattro zampe, Aron che in
quanto a compagnia la sa lunga e Rose, la vecchia fata turchina».
«Adesso ci sono anch’io».
«Già, e tu».
Caterina gli sfilò di mano l’erba con cui stava giocando e si accorse
dell’ora, all’orologio che lui aveva al polso. Era tardi. Indossò rapidamente i
sandali spiegando che aveva lezione e scappò via. Daniele non riuscì a
chiederle lezione di cosa. Strappò un altro ciuffetto d’erba, e non gli rimase
che andare da Rose.

«Non hai bisogno di prepararmi un arrosto perché ti venga a trovare,


vengo lo stesso».
«Devo pur approfittarne finché sei qui. Poi partirai e chissà quando ti
farai rivedere».
«Parti con me».
«Insolente...» rideva lei.
«Potrei portarti in un sacco di posti».
«Dove vuoi che vada con queste gambe? D’altronde, non ho mai pensato
di andarmene, anche quando avevo le gambe buone. Non mi manca nulla
qui» e lo disse come se davvero non potesse desiderare vita migliore. Rose
era ostaggio dei suoi ottanta chili e di una forma incurabile di artrosi, ma
nessuno l’aveva mai sentita lamentarsi. Cécile e le due donne delle pulizie
erano le sue braccia verso il mondo, le facevano la spesa e le commissioni di
cui aveva bisogno e l’aiutavano per il bagno e la messa in piega settimanale.
La messa, la domenica, la seguiva alla radio e al crepuscolo recitava il
rosario. Non usciva mai di casa, ma in cucina non c’era niente che non
potesse fare e questo le bastava. «Daniele, io non sono come te che la vita
ha messo in viaggio ancora in fasce! Una volta, da bambino, ti chiesi se
preferivi l’Italia o la Francia e tu mi rispondesti: “Il paese che preferisco è il
mare, perché mi ci posso tuffare e andare sotto”. Mi davi risposte che
rendevano stupide le mie domande».
«Ti offendevo?»
«Al contrario, mi stupivi. Senti questa: avrai avuto sì e no quattro anni ed
eri arrivato da me trattenendo a stento le lacrime perché i bambini giù in
paese ti avevano detto che i moschettieri non esistevano più e tu, da grande,
volevi fare il moschettiere. Ho dovuto dare ragione a loro e te ne sei andato
pensieroso e sconsolato. Qualche giorno dopo, però, mi hai detto: “Sai, Rose,
cosa farò da grande, visto che non posso fare il moschettiere? Il supereroe!”
Scoppiai di gioia!»
Rimasero un bel pezzo a parlare e sulla porta, salutandolo, anche Rose,
come poco prima Caterina, gli chiese di aiutare suo padre. «Non conosco le
ragioni che ti hanno tenuto lontano negli ultimi anni, ma che Delio abbia
torto o ragione, nessuno merita di tremare a quel modo» disse.

Era ora di cena, ma Delio non aveva neanche provato ad apparecchiare.


Era rimasto in poltrona con la televisione ad alto volume per coprire il
ronzio del ventilatore. Daniele la spense, trasferì due fette dell’arrosto di
Rose nel piatto e si mise in tasca le ricette del neurologo. «Ora mangi» gli
ordinò. «E quando torno, inizi a prendere le medicine perché qui sono tutti
in pena per te e finché non muori, devi vivere al meglio che puoi, cazzo». Se
si fosse fermato a riflettere sulla banalità di quello che aveva detto forse ne
avrebbe riso, ma era troppo esasperato per farlo. «Dov’è la tessera
sanitaria?» continuò.
«Te lo dico a una condizione». La voce di Delio era atona. «Che aiuti
Caterina a farsi una clientela alla Caravane».
La finestra del salone del professor Marthelot era aperta e il suono che
scivolava in strada era così vicino da poterlo toccare. Caterina non volle
interromperlo e sedette sul muretto della cancellata ad ascoltare.
Il professore era un virtuoso del piano, non poteva essere altrimenti,
pensò lei, suonava come parlava, con audacia, intuito, con una tecnica e una
passione smisurate. Infilava un brano dietro l’altro e motivi impetuosi
seguivano ad arie più leggere, allegre, poi notturni, marce militari, funerali e
balletti sulle punte, sale di teatro, chiese, foreste burrascose, ampi spazi e
cieli. Caterina non conosceva la musica classica, non avrebbe saputo
indicare il compositore né giudicare l’interpretazione del professore. Lasciò
che quelle note evocassero in lei immagini libere e si mescolassero al
racconto che Daniele le aveva fatto poco prima di Delio e Teresa,
un’emigrazione di ragione e follia, e Daniele, la nostalgia del ritorno, due
generazioni per uno stesso viaggio in cui inizio e fine coincidono.
Quando si rese conto che il professore aveva smesso di suonare, si alzò.
Non avrebbe saputo dire se era stata la musica o quei pensieri a rapirla al
punto da non accorgersi dell’imbrunire. Andandosene, si voltò verso la
finestra. Si salutarono alzando la mano.
Non si accorse della musica, o meglio, se ne rese conto quando era ormai
vicina. Veniva da dietro le case e si avvicinava al centro del paese. I passanti
si fermavano e si voltavano cercando la direzione da cui proveniva il suono,
che s’irrobustiva e si propagava nei vicoli porosi. Le anziane si affacciavano
alle finestre e i bambini scommettevano da quale via sarebbero comparsi i
musicisti, nessuno avrebbe immaginato che cinque strumenti soltanto
potessero produrre tutta quell’intensità sonora. La fanfara arrivò al centro
della piazza, fece due giri intorno alla Caravane e vi si fermò davanti in un
inchino di musiche rock, country e gitane. I più piccoli osservavano gli
strumenti a occhi sgranati, le madri li trattenevano, due ragazze si misero a
ballare, altre guardavano i suonatori già innamorate. La gente compariva ai
davanzali, scendeva in strada come topi richiamati dal flauto del pifferaio, si
domandava chi avesse organizzato lo spettacolo, chi fosse quel gruppo. I
tavolini del bar si riempirono, si riempirono le panchine sotto i tigli e il
muretto che saliva alla chiesa. Fra un brano e l’altro i musicisti si
consultavano velocemente, lasciavano a Daniele le prime note e lo
seguivano sfrenati. Il loro affiatamento era contagioso e il pubblico
cominciò a canticchiare, a richiedere pezzi celebri o colonne sonore di film.
«Questa la sapete?» urlò un ragazzo intonando Lemon tree e loro gli
andarono dietro, e dopo di lui un altro e un altro ancora. Dal semicerchio di
spettatori uscì un signore che gli offrì un pacchetto di sigarette, una donna
applaudiva e rideva, un vecchio tirava la moglie per un braccio e quella
resisteva, due ragazzini infilarono gli occhiali da sole e imitarono i Blues
Brothers, qualcuno fischiettava, qualcuno ballava, qualcuno schioccava le
dita e lanciava monete, qualcuno si baciava. C’era aria di festa popolare e di
film, c’era odore d’estate. Il sax brillava di tutti i suoi piattelli e saltellava
infaticabile attorno alle percussioni, la bocca d’oro della tuba impauriva e
ammaliava i più piccoli. Daniele incontrò gli occhi di Caterina che arrossì.
Arrivarono altre persone, alla spicciolata. Salutavano, salterellavano,
ridevano. Poi i musicisti si fermarono, sudati e rossi in volto. Si passarono
una bottiglia d’acqua e qualcuno portò delle birre fresche. I bambini
ripresero a correre, voci sparse continuavano a chiedere un bis. Il gruppo li
accontentò e tra applausi e grida suonò tre brani scatenati. Quando
deposero gli strumenti il pubblico acclamò e protestò, ma i musicisti erano
esausti. Daniele riprese a suonare, da solo. Improvvisava fraseggi lunghi,
carichi di tensione e sensualità, suoni limpidi attraversati da pause
profonde. Era un jazz sobrio e meditativo che scavava nel fondo di ogni
nota. Suonava a occhi chiusi e attorno non esistevano più la gente, gli amici
che lo fissavano a bocca aperta, né Caterina incantata dalla sua malinconia.
Alcune nuvole bianche si appoggiarono al cielo, Daniele aprì gli occhi su
quei volti seri e propose un fraseggio più disteso prima di concludere. I suoi
amici s’inchinarono con deferenza. A Caterina venne la pelle d’oca. Poi
Daniele imitò lo strombazzare pomposo dei trombettisti alla corte del re e,
puntando la tromba verso di lei, gridò: «E per voi tutti, La Caravane de
Thérèse!»
Gli altri quattro, allora, lo imitarono, strombazzarono qualche nota e
rivolgendosi al camper con il braccio teso a stendardo strillarono a turno:
«E adesso, per voi, La Caravane de Thérèse!» «La professionalità e la
comodità al vostro servizio. Su quattro ruote!» «Non indugiate, la Caravane
de Thérèse è arrivata!» «La Caravane de Thérèse, a portata di mano, a
portata di portafoglio!»
Il paese intero si girò verso di lei e Caterina si alzò, avvampò e sentì il
cuore crepitare. Avrebbe voluto presentare i musicisti, ma non conosceva
nessuno di loro.
«Venite! Sì, entrate a visitare il salone!» Daniele e gli altri appoggiarono
gli strumenti sul tavolino e fecero girare i volantini, Caterina portò fuori il
bollitore e le tazze, e alcune persone si servirono, le ragazze innamorate
diedero un’occhiata al listino dei prezzi, i bambini schiacciavano
furtivamente i tasti del sax.
«Io suonerò la chitarra» disse uno.
«Io, invece, questo qui. Avete sentito com’era forte? E anche la batteria».
«Non puoi suonare tutti e due».
«E chi l’ha detto?»
«Allora non farai il pompiere».
«Sì che lo farò, il pompiere e il suonatore!»
«E io, allora, farò il calciatore e il suonatore!»
Il percussionista si tolse il cappellino ed entrò nel camper come se stesse
entrando in una chiesa. «È d’impatto» disse a Caterina facendole
l’occhiolino. «Se dopo aver attirato l’attenzione veniamo davvero a farci
tagliare i capelli, funziona da traino».
Lei gli lavò i capelli e glieli tagliò, pronta a farlo anche agli altri, ma dopo
di lui una signora chiese a Caterina quanto avrebbe dovuto attendere per
una messa in piega e lei la fece accomodare. Poi entrò una seconda che
accompagnava la madre e una terza a prendere informazioni sugli orari e le
permanenze del salone. Daniele e gli altri erano rimasti fuori a finire la
birra, chiacchieravano rumorosamente e ridevano.
«Questo sì che è marketing!»
«È che siamo una forza della natura!»
«Da quanto tempo non suonavamo insieme?»
«Dal matrimonio di Rémi, circa quattro anni fa».
«Di più! Saranno sei o sette!»
«Ma cosa dici?»
«Ha ragione, sua moglie era incinta quando si sono sposati e il figlio è in
prima elementare col mio».
«Dopo tutto questo tempo, non siamo andati mica male».
«Siamo andati da dio!»
«A parte quella stecca che ci hai piantato in Like a Rolling Stone».
«’Fanculo...»
«Dovremmo ricominciare».
«Sì, dai vent’anni».
«No, dai sedici».
«Cambierei tutto...»
Andarono al bar a bere un’altra birra ricordando i tempi passati.
Evocavano sempre gli stessi ricordi, ogni volta più belli. Una ghiandaia
attraversò la striscia di cielo sopra le loro teste e loro si unirono ad alcuni
ragazzi del paese per due tiri con il pallone.
Il piazzale intanto si era definitivamente trasformato in una festa
all’aperto. Le vecchie avevano portato le sedie da casa e parlavano in
crocchio all’ombra dei tigli in fiore, le ragazze si erano messe in fila sul
muretto che saliva alla chiesa. Alle quattro i bambini sciamarono su una
torta al cioccolato, poi comparvero fragole, albicocche, biscotti e succhi di
frutta. La gente non perdeva d’occhio il succedersi dei clienti nel camper,
faceva commenti su quelli che uscivano e il chiacchiericcio si diffondeva
come un’edera: «Sta meglio così, ha fatto un bel lavoro», «Ci voleva poco,
aveva una testa!», «È molto carina, quella ragazza, e poi mi ha dato dei
consigli per evitare che i capelli s’increspino», «Ma se sei uguale a prima!
Cosa ti ha fatto?», «Sono io che le ho chiesto solo una spuntatina», «Allora
non è una fattucchiera o cose del genere?», «Io credevo fosse una puttana»,
«Non costa niente, mamma, il tuo parrucchiere ti chiede il triplo! Perché
non ci sei andata prima? È qui tutti i sabati, santo cielo!», «Viene tutti i
sabati pomeriggio? La prossima volta, provo anch’io»...
I ragazzi della fanfara tornarono alla Caravane sporchi e disfatti dalla
stanchezza, ma eccitati come adolescenti. Salutarono Caterina, che li
implorò di fermarsi, era in debito, disse, ma una donna dell’Est, una badante,
la chiamò per sapere quanto tempo doveva mettere in conto per una tinta e
intanto loro presero gli strumenti. «Sappiamo dove trovarti!» gridarono
salutandola e corsero alle macchine sfidandosi a chi arrivava primo. Daniele
partì con loro.
Due ragazzine aspettarono che la fila di clienti si esaurisse e andarono a
fissare un appuntamento per un’acconciatura per la loro festa dei
diciott’anni, il mese successivo. Mostrarono a Caterina vari ritagli di
giornale, spiegandole cosa amavano di ciascun modello e come contavano di
truccarsi e di vestirsi. Lei esaminò le immagini, rispose alle loro domande,
tirò indietro i capelli dell’una, gonfiò quelli dell’altra in un effetto cotonato,
ragionò sul taglio degli occhi, delle sopracciglia, sulla forma dei loro visi.
Una delle due, che veniva da un villaggio più lontano, s’informò sul prezzo
di un servizio a domicilio e Caterina la rassicurò che non c’erano costi
supplementari, il camper era fatto apposta per spostarsi. Indicò, sul
volantino, il suo numero di cellulare dicendo di chiamarla se volevano fare
un’acconciatura di prova prima della festa. «E se vi interessa» aggiunse,
«organizzo anche laboratori “trucco-parrucco”... Venite con altre due o tre
amiche, è divertente!»

Erano quasi le otto quando si mise al volante. Telefonò a Liliana,


esultante: «Abbiamo sfondato!» e cominciò a raccontarle dell’umore nero
con cui era partita quel mattino, della fanfara, della gente, i clienti... Poi
chiamò anche Delio per avvertirlo che stava tornando, che aveva grandi
novità, ma il telefono suonò a vuoto. Lo immaginò nell’aria arancione della
sera che faceva rientrare le galline nel pollaio. Contò i clienti di quel
pomeriggio per riferirgli il numero esatto, rivedeva le loro facce allo
specchio, intimidite o vanitose come davanti a un obiettivo, e quelle due
ragazzine, che per schiettezza e fiducia le avevano ricordato le sue
compagne di scuola e lei stessa alla loro età. Perché Daniele aveva
organizzato tutto quello? Quando? Come? E dov’era ora? Non riusciva a
capacitarsi di quante cose fossero cambiate in una manciata di mesi, era
un’altra vita. Svoltò sulla carreggiata che portava al podere. L’auto che la
precedeva fece lampeggiare i fendinebbia posteriori. Era lui.
«Vedo che ti sei fatta la mano, col camper» la prese in giro scendendo. La
barba di un paio di giorni gli dava un’aria disinvolta. Doveva essere solo
un’impressione però, pensò Caterina, perché aveva qualcosa che lo
mangiava dentro e lo rendeva schivo. Doveva essere raro vederlo felice.
«Cosa c’è da sapere, come s’inserisce la prima?»
«Touché».
Lei sorrise, con gli occhi, con le labbra, la gola, le spalle. «Avevo sentito
dire che suonavi... Circolano voci su di te da queste parti...»
«Ah sì?»
«Rose parla di te come di un figlio, Aron ti chiama “il fuggitivo” e tuo
padre “uccel di bosco”... Lui parla poco di te, in realtà, fa un accenno e poi
smette. Forse, quando si aspetta intensamente qualcuno, si fa economia di
parole, per non distrarre il desiderio. Perché ti sei fatto attendere tanto?»
domandò a bruciapelo e non si capiva se parlava per Delio o per sé. Divenne
tutta rossa e si affrettò a dire: «Andiamo dentro, sarà in pensiero».

Il coperchio della pentola sbatacchiava, la tovaglia era a terra e, sotto, le


stoviglie, le posate, i tovaglioli, il cesto del pane, il vasetto del formaggio
grattugiato, il bastone e le gambe di Delio. Da un lembo sbucava la punta di
un coltello, la brocca d’acqua aveva creato un rivolo sul pavimento, la
bottiglia di vino, tappata, era rotolata via. Ramingo era accucciato accanto al
padrone. Una gamba della sedia capovolta dietro Delio gli costringeva la
testa di lato. In quella posizione non riuscì a vedere Caterina, raggiante e
traboccante di racconti, farsi in un secondo sgomenta, né il terrore del figlio.
Lei si precipitò, rimise in piedi la sedia e gli liberò le gambe dalla tovaglia. Si
smossero un mucchio di cocci. S’inginocchiò, si portò il braccio di lui
intorno al collo, gli raddrizzò il busto in modo che potesse poi sollevarsi e
cercò Daniele, paralizzato sulla porta. «Aiutami!»
Lui non usò le stesse precauzioni, prese il padre sotto le ascelle e lo tirò
su di peso, il peso di un corpo morto, morto ma vivo, molle e duro come un
burattino di legno. Lo lasciò cadere sulla sedia. Lo sforzo lo fece
indietreggiare e si appoggiò al ripiano della cucina.
Caterina esaminò la faccia di Delio, le orecchie e la nuca, poi guardò fra i
capelli, il collo, le mani, palmo e dorso, e tastò gli abiti per verificare che
non ci fossero pezzi taglienti. «Non si è fatto niente».
«No» confermò lui. Aspettava che glielo dicesse per convincersi che non
si era fatto male, perché gli doleva ogni punto del corpo, ogni articolazione.
«La accompagno a stendersi un momento, il tempo di sistemare qui. Ho
tantissime cose da dirle, Delio, la Caravane... Ce l’abbiamo fatta!» E la gioia
era sincera, commovente.
Delio annuì ripetutamente ma non riuscì a pronunciare una sola parola.
Era il garbo di Caterina, ancora una volta, a fargli più male. Forse sarebbe
stato in grado di reagire a un accesso di rabbia, a modi brutali, ma non a
tanta delicatezza. Si mise in piedi con lo scatto di un robot giocattolo, mosse
il primo passo, il secondo, e le lacrime scesero lunghe e mute. Sapeva che
Daniele, alle sue spalle, lo guardava barcollare e i suoi occhi erano lame.
Sapeva che la sera prima doveva aver girato per ore prima di trovare una
farmacia aperta. Gli aveva lasciato le scatole delle medicine impilate sulla
credenza e lui le aveva ignorate.
«Non accendere» le domandò entrando in camera.
Caterina gli sollevò le gambe sul letto, lui si coprì gli occhi con un
braccio, come per proteggersi da una luce accecante, la vergogna. Non ebbe
bisogno di chiederle di chiudere la porta uscendo.
Daniele non si era mosso, osservava una fila di formiche che circondava il
pane caduto per terra. «Succede spesso?» le chiese.
«Sì».
Sussurravano.
«Da quanto tempo era lì?»
«Tanto o poco, è comunque troppo». Evitò di guardarlo. Indugiò, poi
disse: «Non devi avercela con lui, non ha colpa. La raccomandata
dell’ordinanza comunale che imponeva la demolizione della casa è arrivata
con settimane di ritardo, i termini per fare ricorso erano scaduti. Del resto,
la strada per il podere non ha neanche un nome». Parlò d’un fiato, come nel
messaggio che gli aveva lasciato in segreteria telefonica, e si chinò a liberare
le stoviglie impigliate nella tovaglia.
Ci volle del tempo perché Daniele riuscisse a districare il senso da quelle
parole, ad associare Caterina a Framura e alle loro vicende familiari
inconfessate, a misurare la vicinanza che si era stabilita fra lei e Delio, a
chinarsi a sua volta. Avrebbe voluto toglierle di mano le posate che stava
raccogliendo dal pavimento e riprendere il discorso da capo, ma quando
appoggiò la mano sulla sua, le parole gli vennero meno, caddero sulla
tovaglia riversa, fra i cocci dei piatti. Le accarezzò la mano,
impercettibilmente. E loro finsero che quel movimento non gli appartenesse,
che quell’attrazione terribile non provenisse da quel contatto appena
accennato, capace di assorbire ogni urgenza, ogni dubbio, ogni segreto.
Un coltello scivolò.
Le loro dita si separarono.
Il piacere è il punto in cui due corpi si raggiungono e si frangono.
I farmaci ebbero un effetto immediato e Delio tornò nell’orto, a fianco di
Aron. La commozione, che fino a qualche giorno prima lo prendeva per un
nonnulla, si smorzò nella fatica sana della terra e nella vitalità che scorreva
in casa. Daniele aveva prolungato le ferie fino alla fine del mese e Caterina
sorrideva, sorrideva sempre. Si rallegrava con Delio per essere tornato
“padrone di sé” – espressione enfatica che a lui però piaceva – e gli
assicurava che i risultati erano evidenti: era più stabile nel camminare, i
movimenti erano sciolti e il tremore quasi del tutto scomparso. Si
complimentava anche dello scrupolo con cui si atteneva alla terapia, come
se quei progressi fossero merito esclusivo della sua buona condotta. Anche
il neurologo, alla visita di controllo, si congratulò e si dimostrò soddisfatto.
Li avvisò, comunque, che in futuro sarebbero potuti comparire effetti
collaterali e che miglioramenti eclatanti, nel tempo, si sarebbero ridotti.
Definì quei successi “luna di miele terapeutica”. Annuirono, tutti e tre, senza
dare peso a quei presagi da Cassandra che i medici hanno il dovere di
formulare.
Per festeggiare andarono a fare un giro con il camper su un saliscendi di
colline, macchie di paesi e un altopiano sul quale gli uccelli volavano bassi e
le sagome dei faggi si annerivano all’imbrunire. Tirarono fuori il tavolino e
sedettero sopra il crepuscolo mentre Caterina apparecchiava con pane,
pomodorini e formaggio e versava nei bicchieri lo spumante. Delio ne bevve
un sorso, con il volto rigato di lacrime, e lei, a quel pianto, si commosse.
Daniele disse: «Andiamo bene...» e per un istante risero. Delio allora si
calmò, anche se la sua mente andava e veniva, si spingeva ogni volta più
lontano e ogni volta tornava più faticosamente.
Caterina e Daniele lo lasciarono ai suoi pensieri e lo aspettarono nella
saletta d’attesa della Caravane con la porta aperta sulla sua schiena e su una
luce rosa che saliva dal basso. Guardavano fuori come nel fermo immagine
di un film, guardavano fuori per non cercarsi. Daniele premeva indice,
medio e anulare su tasti invisibili del ripiano del tavolo.
«Stai suonando?» chiese lei.
Lui sorrise e tornò alle sue poche note, le ripeté, ne aggiunse altre in una
frase musicale che si abbandonava alla sincope.
Daniele suonò e lei ascoltò senza perdere di vista le sue dita. «Bastano
solo tre tasti per fare tutte le note? Tre note per tutta la musica?» domandò.
«E il silenzio».
La gamba di Daniele cominciò a ballare sotto il tavolo e lo stomaco di lei
a chiudersi.
Delio si girò, aveva un’espressione soddisfatta. «Possiamo andare» disse.
Bevve d’un fiato un grosso bicchiere d’acqua e prese posto nel camper. Gli
era tornato l’animo leggero e divenne loquace. Attaccò un lungo discorso
sulle stagioni che non esistono più: «I grandi caldi e gli inverni rigidi
durano solo pochi giorni, il resto è brodaglia. Le piante sbocciano prima del
tempo e gli animali non vanno in letargo. Le formiche ci sono tutto l’anno
oramai. Mi sono accorto che non c’è più sincronia fra il germogliare delle
foglie del melo, la schiusa del bozzolo della falena e le uova della
cinciallegra. Le crisalidi si aprono prima delle foglie dei meli e dopo che i
piccoli delle cinciallegre sono nati. Risultato: falene e cinciallegre muoiono
di fame».
Caterina percepiva l’intelligenza delle sue parole, senza però afferrarne la
premonizione, come non si afferrano le nuvole, e Delio continuò a disquisire
degli afidi che rendevano i tigli collosi, del clima umido che a sera tinge le
montagne di blu e dei giorni di canicola in cui, dietro gli argini, si profila la
minaccia di un temporale che non arriva, rimane lì, come una fata Morgana,
poi dilegua e della pioggia resta solo il desiderio.
Daniele guidava e li ascoltava. Pensava che è così, probabilmente, che un
padre e un figlio si parlano. E per quanto gli sembrassero estranei insieme,
sentì tutta la bellezza di quel rapporto, una bellezza senza fine, tanto nel
dolore, quanto nella gioia.
I tre casali sembravano le uova di un nido, così uguali, vicini e soli.
Scesero dall’ultima collina come da uno scivolo. Delio andò in bagno e si
mise in poltrona ad aspettare il telegiornale, il ventilatore acceso e Ramingo
ai piedi. Caterina disse a Daniele che avrebbe dovuto dare un’occhiata
all’appartamento che gli aveva fatto suo padre. Aprì la porta, ma tutto
quello che Daniele vedeva erano i suoi capelli raccolti che le lasciavano
scoperto il collo e il profumo discinto della pelle nuda e giovane come si è
una volta sola nella vita. Caterina si girò verso di lui e il respiro le si fermò
in gola, il cuore accelerava. Pensò che era venerdì e aveva dimenticato di
andare dal professor Marthelot, che luglio era ancora lungo, lunghissimo, e
capì di non essersi mai innamorata prima. La frangia ormai cresciuta si
apriva in mezzo alla fronte e le ciocche ai lati s’impigliarono fra le dita di lui
quando le prese il volto e la baciò. Di là dal muro, Delio parlò a Ramingo e
Daniele si fermò. «Non è niente» bisbigliò Caterina stringendosi a lui. Delio
avvertì Ramingo che sarebbe iniziato il notiziario, Caterina si alzò sulle
punte dei piedi, il fianco contro i suoi pantaloni duri, Daniele la fece
indietreggiare verso il letto e lei si lasciò portare, senza peso, senza suono. I
titoli del telegiornale, il primo servizio. Si lasciarono cadere sul letto e Delio
urlò: «Daniele!»

«Rungis, violenti scontri al mercato internazionale» diceva il giornalista.


«Nella notte di ieri, un migliaio di persone e i rappresentanti delle
organizzazioni sindacali dei grossisti di Rungis si sono radunati davanti al
Pavillon de la Marée per protestare contro le condizioni di lavoro precarie e
insicure dei dipendenti. Le principali arterie di accesso ai mercati sono state
bloccate dai manifestanti. La situazione è degenerata quando un gruppo di
manifestanti, a volto coperto, ha dato il via a un fitto lancio di pietre, petardi
e oggetti contundenti contro la polizia, che ha risposto con lacrimogeni e
cariche di alleggerimento. Sono stati incendiati camion e contenitori della
spazzatura. Danni anche alle strutture del mercato. Alcuni manifestanti
sono stati identificati e denunciati per oltraggio a pubblico ufficiale. Il
bilancio è di trentadue feriti, di cui uno grave. Il mercato di Rungis, che ha
chiuso l’anno con un volume d’affari di otto miliardi e mezzo di euro, ospita
milleduecento imprese e serve una popolazione di diciotto milioni di
consumatori. Seimila tonnellate di prodotti agroalimentari freschi
provenienti da tutto il mondo transitano da qui. Mesi fa, l’unione sindacale
dei grossisti aveva denunciato la presenza di situazioni irregolari, impieghi
sottopagati e condizioni lavorative insalubri, dichiarazioni che avevano
portato a una rivisitazione di alcuni articoli chiave del contratto collettivo.
Nuove proteste dei lavoratori sono previste nei prossimi giorni in occasione
del summit dei ministri europei del Lavoro a Parigi».
Daniele fece la rampa di scale in due balzi, cercò fra le sue cose il
cellulare, spento da giorni, e chiamò Amir. Riprovò decine di volte, senza
attendere fra una chiamata e l’altra. “Numero spento o non raggiungibile”.
Forse era a letto, o da Hussein o in giro a perlustrare i marciapiedi di Parigi.
Si rifiutava di pensare che gli fosse successo qualcosa. Aveva cercato di
parlargli delle rivendicazioni in corso, aveva perfino lasciato un volantino in
cucina. I volantini, comunque, circolavano in tutto il mercato. Non aveva
insistito, però, il sindacato non era un argomento di cui si poteva parlare
con lui. Era una testa dura come pochi, Amir.
Si decise a telefonare a un collega del sindacato: pochi giorni dopo la sua
partenza, era stata indetta una riunione straordinaria dell’unione sindacale,
il dibattito si era infiammato subito, rischiando più di una volta di diventare
incontrollabile. L’assemblea era spaccata a metà. Lo sciopero era stato
approvato per un voto.
Il cielo si ruppe in un temporale e le cicale zittirono. Delio guardò Daniele
allontanarsi sotto la pioggia impazzita, in una luce afona. Caterina non uscì
a salutarlo, a chiedergli se sarebbe tornato, rimase a letto, trattenendo il
respiro finché non sentì l’auto scomparire. Avrebbe ripreso ad aspettarlo, a
fare i conti con la sua assenza, come tutti.
Aron entrò a portare al riparo le ceste di albicocche che erano rimaste ai
piedi degli alberi e la cucina s’inondò del profumo della pioggia battente e
della frutta bagnata.
Buttavano i noccioli e la frutta marcia dentro una cassetta rotta e le
albicocche direttamente nel pentolone della marmellata. Il cielo si era
scurito al punto da dover accendere la luce, ma subito dopo la spegnevano.
L’interruttore, i noccioli, le albicocche, le mani impiastricciate, la pioggia.
Misero la frutta a cuocere a fuoco basso e sterilizzarono i vasetti facendoli
asciugare a testa in giù sul tavolo coperto di canovacci, come per anni
avevano fatto Teresa e Rose. A mezzogiorno abbrustolirono del pane e lo
mangiarono con aglio e olio, senza mettere la tovaglia, ciascuno in un
angolo del tavolo. Aron tagliò la scorza dei limoni, Delio pesò lo zucchero.
Le albicocche iniziarono a sobbollire, a spurgare acqua e schiuma, a disfarsi.
Rimestarono bene il fondo. Ogni tanto davano un’occhiata a Ramingo e si
alternavano alla porta-finestra per controllare la pioggia che si riversava sui
campi. Poi Caterina e Aron si rassegnarono a tornare a casa loro. Delio uscì
sotto il portico, i lampi e i tuoni non cessavano e si chiese a che punto della
strada fosse arrivato suo figlio, e se il formicaio avrebbe retto tutta
quell’acqua o le formiche sarebbero annegate.

Per i primi cinquanta chilometri Daniele procedette a passo d’uomo,


proteso verso il parabrezza con i tergicristalli al massimo. Indugiò varie
volte pensando di tornare indietro, da quella ragazza e dal suo amore, da suo
padre, guarito dalla paura di essere orfano di figlio. Poi arrivò al casello.
L’autostrada era deserta, l’acquazzone diminuì e a tratti cessò. Un treno
passò nella direzione opposta alla sua e lui si domandò se la terra girava nel
senso del treno o del suo. E la immaginò girare, bianca e celeste, come nelle
foto dai satelliti. Girava fra le stelle mentre la pioggia cadeva e gli alberi
scricchiolavano, mentre la gente andava e veniva. Alcuni partono per
andare a vedere cosa c’è dietro la curva, altri invece si spostano appena,
perché stanno bene dove stanno. La terra gira senza che mai un punto ne
raggiunga un altro, le strade non arrivano a destinazione, le ombre si
allungano, i rumori della città si mescolano alle voci. Parte il primo treno del
mattino con i suoi pendolari e i paesaggi addormentati, e la terra gira. Nelle
ruote di un camion, nei mulinelli dell’acqua di scolo, nel dorso del gatto che
si morde la coda, nella ruota del lotto. Le auto si fermano al rosso, i fiumi
debordano, gli alberi crescono, i bambini dormono e le votazioni si
chiudono. Le auto riprendono la marcia, il podere si fa definitivamente
lontano. Il treno passa, i viaggiatori guardano fuori dai finestrini, Daniele li
vede, quella sera saranno a casa, quella sera Delio si rintanerà nello
sgabuzzino, la ragazza dagli occhi verde mare si coricherà nel letto di là dal
muro, e nelle grotte marine, sotto la montagna, si creerà la risacca, la
corrente lo spingerà, bambino, contro le rocce, il boccaglio e la maschera gli
si riempiranno d’acqua, berrà, si dibatterà dentro migliaia di bollicine e sarà
impossibile imboccare l’uscita o anche solo ritrovarla.
«Non potevo rispondere al telefono, mate, ero in coma. Sono stato in coma
quattordici ore, coma profondo, hanno detto. Ho sei costole rotte, il
polmone sinistro perforato e tre denti spezzati. Dovrei giocarli, questi
numeri... Il grosso comunque è il polmone: pneumotorace» scandì e si fermò
per respirare. Anche se non aveva fiato riprese subito, perché parlare era
più urgente di ogni altra cosa, e parlava in fretta, come faceva lui, sottovoce,
però, per fare economia d’aria. «Hanno fatto un bel lavoro, i dottori. Mi
stanno rimettendo in sesto, inshallah. Pensavo che sarei morto, sai? Mi
hanno talmente riempito di botte che credevo che ci avrei lasciato la pelle».
Respirò. «All’inizio qui è stata dura, non capivo niente, i medici cambiavano
di continuo, mi spostavano da un reparto all’altro e non sapevo neanche se
era giorno o notte... Ma ora va meglio. Rimane solo il dolore... Anche se a
volte è insopportabile...» Giocherellava con la cannula del drenaggio che gli
sbucava da una manica del camice operatorio, fissata da qualche parte nel
suo corpo, fra le costole. «Adesso, però, sei arrivato. Sta venendo anche mia
madre. Dovevo ridurmi in questo stato, per farla spostare di là. Credo sia la
seconda o la terza volta che mette piede fuori di casa». S’interruppe, cercò
dell’aria. «A un certo punto credevo di essere morto. Sono passato anche
alla TV, sai? È l’infermiere che è passato a dirmelo. Trentadue feriti di cui
uno grave, hanno detto al telegiornale, e quello grave sono io. Quattordici
ore di coma profondo, un pneumotorace, sei costole rotte, tre denti...»
«Cos’è successo, Amir?»
«Ci sono stati dei pestaggi».
«Con la polizia?»
«Sì, ma con me non è stata la polizia». Amir socchiuse gli occhi, inspirò,
soffiò fuori il fiato e si portò la mano al petto come per aiutarsi a respirare.
Il braccio e il viso erano pieni di lividi.
«Lascia stare, ne parleremo un’altra volta».
«No. Va bene». Per un attimo seguirono entrambi il percorso del sangue
nel tubicino che usciva dal polmone e fluiva in una sacca appesa alla sbarra
sul fianco del letto. «Quando ho visto che c’erano dei casini intorno al
Pavillon ho fatto un giro per cercare un posto sicuro dove lasciare lo
scooter. Non volevo ritrovarlo in fiamme... È nuovo, sai?» Accennò un
occhiolino, un sorriso. Non si erano più visti né sentiti, da allora. «L’ho
parcheggiato al padiglione dei fiori. Non succede mai niente là. Alla Marée
invece stava scoppiando il finimondo. I fiori, però, sono dalla parte opposta
e per non arrivare in ritardo mi sono messo a correre».
«Per non arrivare in ritardo... Al lavoro?»
«Correvo dalla parte opposta dei manifestanti, per quello ho attirato la
loro attenzione. Ero quasi davanti all’ingresso quando un tipo mi ha
afferrato per una spalla. “Cosa vuoi fare? C’è sciopero, stronzo!” mi ha
detto. “Vado al lavoro” gli faccio io. Si sono avvicinati altri due, mi hanno
sollevato da terra, mi hanno schiacciato contro il muro e hanno preso a
picchiarmi. “Dove cazzo vuoi andare?” urlavano. “Non l’hai visto che c’è
sciopero?” “C’è sciopero, stronzo! Lo sai cos’è lo sciopero?”» Amir inspirò a
bocca aperta, risucchiando l’aria in un sibilo. «I manifestanti erano a due
passi, li vedevo, centinaia di persone, e i poliziotti... Erano tutti lì, ma
nessuno li ha fermati mentre mi massacravano di botte. Uno dei tre lo
conoscevo di vista, lavora al pollame». Si fermò ancora a respirare. «A un
certo punto si sono fermati. Credevo avessero finito, invece se n’è aggiunto
un quarto. Ha cominciato a colpirmi anche lui. Le gambe non mi hanno più
retto. Mi sono accasciato a terra e sono diventato un pallone umano... Mi
prendevano a calci, a turno... Alla cieca... Non mollavano... Devo essere
svenuto... Il dolore non lo sentivo più già da un pezzo, ero arrivato a un
punto oltre il dolore...» Nei suoi occhi si formavano sprazzi d’immagini e lui
li socchiudeva. «Di quello che è successo dopo non ricordo quasi niente.
Qualcuno mi sentiva il battito sul collo, la sirena, l’ambulanza... “Al tre lo
tiriamo su...” “È messo proprio male...”» Il petto si alzava e riabbassava e la
mano copriva quel movimento che bruciava. «Non so che fine hanno fatto
quei bastardi... Non li ha fermati nessuno, nessuno mi ha soccorso... C’era
una folla enorme e poliziotti a decine... Non so neanche quanto tempo è
passato, prima dell’arrivo dell’ambulanza. Il cielo era chiaro, però, stava
venendo giorno, quello me lo ricordo». Fece tanti respiri brevi che si
esaurirono in un singhiozzo, poi in uno spasmo per ogni livido visibile e
invisibile, che non sapeva neanche localizzare. A tratti chiudeva gli occhi
per contenere le fitte, s’immobilizzava, e quando li riapriva erano una
fessura.
«Li devi denunciare».
Le labbra di Amir accennarono una smorfia sarcastica: «Chi dovrei
denunciare? Te e i tuoi amici sindacalisti che avete indetto lo sciopero?»
Daniele zittì, si sfregò la fronte. I confini della loro amicizia diventavano
sconnessi e scivolosi come non erano mai stati. «Devono esserci delle
registrazioni video».
«Sono sicuro che altri sono riusciti a entrare. Saranno andati prima del
solito, magari, per evitare i blocchi all’ingresso... Io non ci avevo pensato...
Abu, l’ivoriano, è entrato senz’altro, ci metterei la mano sul fuoco, sta
preparando la dote di sua figlia, il matrimonio è a settembre... Anch’io
volevo entrare... Ero quasi davanti... Sono mesi che la menate con la storia
degli indennizzi per il freddo, gli orari di lavoro e le pensioni... A me non
frega un cazzo! Non me ne frega un cazzo, capisci? Volevo lavorare come
tutti gli altri giorni, volevo solo andare dentro... Ne avevo il diritto, no? E
potete prendervela finché volete e fare mille manifestazioni per quello che è
giusto o sbagliato, ma a me quel posto basta e mi va bene com’è. Ci vado in
ferie, col mio lavoro...» La voce si esauriva in un soffio e in un rantolo
tornava. «Non volevano saperne, mi picchiavano come se avessi insultato le
loro madri, soprattutto quello che è arrivato per ultimo. Non so di che
padiglione fosse, forse era qualcuno della logistica o dell’amministrazione...
Non l’avevo mai visto... Non picchiava più forte degli altri ma ci metteva un
accanimento che gli altri non avevano... A un certo punto ha tirato fuori una
spranga e ha iniziato a colpirmi anche con quella. Era uno stecco, più di me,
sembrava me da ragazzino, anche se io non ho mai ridotto nessuno in
questo stato... Quattro contro uno... È da bastardi...»
«Devi denunciarli, Amir, anche se fossero già stati identificati, devi
parlare con la polizia e rilasciare la tua testimonianza» disse Daniele con
dolcezza.
Amir respirava appena, cercava affannosamente di racimolare dell’aria,
ma l’aria non gli bastava. Osservava il sangue scivolare nel tubicino. Era il
suo polmone, in cui era entrata la spranga di quel tipo, il suo polmone che
spurgava sangue. «Daniele» lo chiamò facendogli cenno di avvicinarsi.
Sussurrava. «Te lo dico solo una volta perché non ho la forza di discutere: io
non farò niente, né per loro né contro di loro. E nemmeno tu. Rimarrò
all’ospedale finché sarà necessario e poi a casa, in convalescenza. Prenderò
le medicine che mi diranno di prendere e m’informerò sulle indennità di
malattia. E tornerò al lavoro e lavorerò come ho sempre fatto, inshallah,
perché non sono stati i pesci a conciarmi così e neanche i miei colleghi,
sono stati degli stronzi come te, che organizzano gli scioperi».
Daniele non provò a controbattere, si limitò a dirgli di smetterla, che ne
avrebbero riparlato in un altro momento, ma Amir non mollava. Ansimava
quando disse: «E sai perché farò così? Non perché sono un arabo e gli arabi
sono testardi, ma perché sto mettendo dei soldi da parte, vorrei sposarmi,
avere una famiglia mia. Ho ventotto anni, cazzo, i miei amici, al paese, sono
tutti accasati. Non me ne frega un cazzo di fare l’emancipato, l’occidentale...
Guarda cos’è successo a Hamza... Guardati tu...»
«Va bene, basta». Daniele lo sentiva appena. «Va bene». Capisco, stava
per dire, ma si trattenne perché Amir gli avrebbe risposto che non poteva
capire, gliel’aveva ripetuto decine di volte, erano troppo distanti i loro
mondi, era tardi per capire.
Rimasero in silenzio, Amir a occhi chiusi, respiro chiuso, incapace di
placare il suo corpo, incapace perfino di avere coscienza di cosa ci facesse in
quel mondo. E Daniele, la faccia nelle mani, a chiedersi se poteva essere
stato qualcuno del sindacato ad averlo pestato, se il suo fottutissimo voto
avrebbe cambiato le cose. Si ripromise di lasciare il sindacato l’indomani
stesso, tormentandosi per aver fatto massacrare Amir a quel modo. Non si
era accorto che la gamba batteva contro il letto e lo faceva traballare.
«Da quando hai messo su questo tic?» gli domandò Amir, a occhi chiusi,
in un bisbiglio. «“Piantala con questo vibrato alla Henry James, non c’è
bisogno di far tremare le note, perché tremerai già abbastanza quando
invecchierai”».
Daniele alzò la testa. «Cosa?» sorrise. «Harry James, comunque... Hai
imparato a memoria delle frasi dell’autobiografia di Miles Davis?»
«Non le ho imparate a memoria, me le ricordo, tutto qui. Non ho mai
imparato niente a memoria, a parte il Corano».
Daniele aveva avuto modo di notare più di una volta che, quando
qualcosa lo incuriosiva, Amir s’appassionava e imparava in fretta, anche se
il motivo del suo interesse per Miles Davis non gli era chiaro. «Dimmene
delle altre» gli chiese, respingendo l’immagine di suo padre tremante che
d’un tratto aveva preso corpo nella sua testa.
«Quella che mi piace di più è: “Non suonare quello che conosci, suona
quello che ignori”. Forte, no?»
Rimasero un momento in silenzio.
Amir riprese fiato. «Un’altra volta, invece ha detto: “Lo assumo
immediatamente anche se è verde con il fiato rosso. Io assumo un figlio di
puttana per come suona, non per il colore che ha”».
«Di chi parlava?»
«Boh, di uno dei suoi musicisti. Un bianco, credo» mormorò e respirò. «È
diventato famoso per quello? Perché suonava senza il vibrato?»
«È diventato famoso perché ha creato una voce. Non eccelleva
tecnicamente ma la sua interpretazione era inconfondibile, si è distaccato
dal fraseggio melodico e ha inventato strutture minimali di poche note e di
pause di un’intensità sconvolgente».
«Lo dice, infatti, che voleva suonare solo le note più importanti».
«Può darsi».
«Sì, l’ha detto! Ma l’hai letto il suo libro?»
«No».
«No?» Amir sbarrò gli occhi. «Allora perché ce l’hai, stronzo?»
«Perché è un grande e tutti i trombettisti passano di lì per imitarlo o per
distaccarsene. Ma la sua autobiografia è troppo grossa, non mi è mai venuta
voglia di leggerla. Quante pagine sono?» lo punzecchiò. «Quattrocento,
cinquecento? Be’, puoi sempre dire di conoscere la vita di Maometto e di
Miles Davis».
Risero. Quella di Amir non aveva niente di una risata, ma lo era, e lo
sapevano. E sapevano anche che nulla sarebbe stato più come prima, fra
loro.
«Sono stanco».
«Certo» rispose Daniele.
«Fra pochi giorni sarei dovuto partire per la Tunisia... Aspetto tutto
l’anno il momento di tornarmene a casa...» Il petto si sollevava veloce, i
respiri andavano, venivano, a tratti mancavano. Fili di lacrime cadevano
dalla punta dei suoi occhi chiusi.
«Dormi, io rimango ancora un po’».
«No, vammi a prendere la Vespa» sussurrò. «Non voglio che rimanga
incustodita, anche se al padiglione dei fiori è al sicuro. Le chiavi sono fra le
mie cose, nell’armadietto».
C’erano la T-shirt sporca di sangue che indossava quella notte, un paio di
calze e una sola scarpa. Il cellulare era scarico, il display rotto. La chiave era
nella tasca dei jeans.
«Vacci subito».
«Ci vado subito».
«Ehi, mate... È bellissima» disse e voltò la faccia dall’altra parte in un
singhiozzo.
Si sentiva ormai sicura alla guida, alta, lassù, padrona di sé e di quei campi
verdi di sole. E si chiedeva se la Caravane non sarebbe potuta diventare il
suo mestiere, in giro fra chiese crepate e cascine in disfacimento, fra vecchi
che sapevano d’aria e di pioggia e capre dagli sguardi umani. Se si fosse
trattenuta oltre l’anno, sua madre sarebbe venuta a prenderla per i capelli,
rideva fra sé Caterina trovando l’immagine assolutamente verosimile. Gina
non avrebbe sentito ragioni, soprattutto non le sue basate su un’improvvisa
passione per la campagna e per genti solitarie capaci di trascorrere giornate
intere senza parlare con nessuno. Glielo aveva rivelato una delle sue prime
clienti, una donna non più giovane e non ancora vecchia: «La mia vita ha
avuto due tempi, il tempo della parola e quello del silenzio. Questo è il
tempo del silenzio e ogni tanto, quando mi capita di parlare con qualcuno,
quasi mi sorprendo della mia stessa voce, che invece usavo tutti i giorni,
tutto il giorno».
«Che lavoro faceva?» le aveva domandato Caterina.
«L’indovina».
Portava un ampio vestito color sabbia e orecchini di madreperla, un
fazzoletto di seta viola le cingeva il polso, e di viole profumava, un profumo
che a Caterina non piaceva, ma che su di lei non aveva trovato sgradevole.
«Non che qui sia in pensione, non credere... Chiamiamolo pre-
pensionamento». E aveva aggiunto: «Le ragioni della sorte sono più forti di
quanto non si pensi, anche in questo posto, in capo al mondo».
La donna non le aveva proposto di leggerle la mano o di farle le carte,
anche se, quando Caterina la pettinava, le ripeteva di non guardare troppo
in profondità, non voleva che vedesse quello che lei ancora non sapeva.
L’indovina non si era mai veramente aperta a nessuna confidenza, come
invece era capitato con altri clienti, donne e uomini. Ad alcuni bastava il
primo incontro, ad altri ne occorrevano tre o quattro, il tempo, diverso per
ognuno, della fiducia, dell’abbandono alla cura più elementare, lavarsi i
capelli, districare i nodi, farsi belli. Alla Caravane si presentavano le teste
più diverse, profumate di shampoo, per non fare brutta figura con
un’estranea, o sporche di settimane, chiome fiere, capelli stanchi, capelli
bianchi non tagliati da secoli, bruni e corti da ragazzino, brizzolati, robusti e
trascurati. Caterina aveva conosciuto un uomo che aveva diretto la filiale di
una banca e, stanco di quella vita, era tornato dallo zio a produrre
formaggio di pecora, una zitella che viveva con trenta gatti e portava piume
di pavone per orecchini, una madre di cent’anni che viveva con il figlio
ritardato, due fratelli che, da quando erano rimasti vedovi, erano tornati ad
abitare insieme. E poi una rabdomante, un signore che si curava la leucemia
con le punture delle api, un’ottantenne senza famiglia e senza vista che
aveva destinato la sua eredità all’autista di taxi che l’aveva riportata a casa
dal ricovero. Aveva ascoltato racconti di malattie rare e di morti scampate,
di amori fatali o del tutto accidentali, di proprietà, sogni, lune e pozzi. E
ciascuna di quelle storie era diventata la ragione a cui avrebbe legato il
destino della Caravane e il suo. Non ne parlava però a Delio, che l’avrebbe
sostenuta senza mezze misure, né ai suoi che, prima ancora di sentire cosa
aveva da dire, avrebbero tirato fuori la crisi e il timore del precariato che
non risparmiava nessuno, neanche suo padre e i suoi anni d’anzianità. Era il
nuovo argomento di sua mamma al telefono, dopo il tempo. Nominava la
crisi come se avesse tratti antropomorfi e ne parlava come di una sciagura
nota che però non si poteva capire del tutto né prevedere, bisognava solo
guardarsene e scongiurarla. La allertava, per il suo bene, e perché, come
diceva sempre, non è con la felicità che si pagano le bollette.
La felicità basta a se stessa, si diceva invece Caterina chiudendo il salone,
la felicità è scandalosa, arrogante, naïve, immorale. La felicità è un
privilegio. Mentre guidava tornando a casa, dopo la telefonata di rito con
Liliana, pensava ai racconti che avrebbe restituito a Delio, e avrebbe dato
l’anima perché, ad aspettarla, ci fosse anche Daniele. Esagerata, la definiva
quella felicità, spudorata, gialla, affrettata, indescrivibile, sconosciuta.
La madre di Amir arrivò i primi di agosto, vestita con una palandrana che le
arrivava alle caviglie, scarpe nere chiuse e la parte della fronte libera dal
velo bagnata di sudore. I tratti del volto erano talmente induriti che non era
possibile indovinare se in passato fosse stata bella. Non c’era alcuna
somiglianza con Amir, se non nel corpo asciutto e nella pelle olivastra e
coriacea. Daniele andò a prenderla all’aeroporto e la portò direttamente
all’ospedale.
Dalla terapia intensiva, Amir era stato trasferito in reparto, in una camera
con un altro paziente. L’uomo si lamentava con gli infermieri del tono di
voce della donna che, anziché parlare, gridava. Lei, allora, tacque, ma le fu
comunque vietato di restare con il figlio oltre l’orario di visita. Daniele la
accompagnava all’ospedale prima di andare in ufficio e tornava a prenderla
quando usciva dal lavoro. Fra un orario di visita e l’altro lei aspettava nella
saletta d’attesa in ingresso. La sera, a casa, spolverava, sfregava, lavava
come non era mai stato fatto lì dentro, mentre Daniele gironzolava per il
quartiere a cercarsi qualcosa da mangiare. «Le porto una cosa per cena?» si
preoccupava di domandarle lasciandola davanti al portone. «Ho mangiato
con Amir all’ospedale» rispondeva, oppure: «Mangerò quando Amir si sarà
ristabilito». Nei giorni che trascorsero insieme, i loro scambi si ridussero a
quelle poche battute. La donna aveva una voce piatta e stentata che non
aveva niente a che fare con quella imperiosa che usava con il figlio o forse
era il passaggio dall’arabo al francese a tradirla.
«Appena uscirò, non dovrai più sobbarcarti mia madre» gli assicurò
Amir. «Le indicherò i due o tre negozi dove andare a fare spese e farà da
sola, ma i mezzi di trasporto le fanno paura, soprattutto la metropolitana,
dice che sottoterra ci stanno solo i morti». Riprendeva a poco a poco a
parlare senza affanno e la voce stava riacquistando la sua inflessione
naturale.
«Dovrebbero dimetterti nel weekend, mi ha detto l’infermiera» gli
annunciò Daniele.
«Inshallah! Non che si stia male qui, ma credo di aver dato... Sai che mi
hanno offerto anche un supporto psicologico?»
«Hai accettato?»
«Preferirei che mi rifacessero i denti, non è chiaro se l’assicurazione li
copre. Il sostegno psicologico, invece, è compreso».
«E l’hai accettato?»
«Non sono mica pazzo! E se mi aiutano con i denti preferisco».
«Quanto ci vuole per i denti? Perché se hai bisogno...»
«No» lo stroncò. «Non voglio il tuo aiuto». Parlò in modo secco,
risolutivo. «Credevo che non si sbagliasse a essere generosi» continuò.
«Anzi, pensavo che ciascuno dovesse esserlo secondo le proprie possibilità e
mi sembravi un esempio in questo, invece la tua generosità è assillante... La
Vespa è stato un gesto da benefattore, cazzo... L’oggetto di maggior valore
che ho mai ricevuto è un pezzo da venti dinari tunisini, nove euro e mezzo,
quando è morto mio nonno... E adesso ti vuoi accollare i denti? Perché?
Perché vieni sempre in mio soccorso?»
Daniele rimase attonito, anche se aveva notato che, dall’arrivo della
madre, Amir era diventato più freddo con lui. Quella volta però non incassò
il colpo: «Non ti sei mai lamentato, anzi, non sei tu a chiamarmi se c’è da
tirare su un mobile dalla strada, o andare fuori a mangiare e poi lasciarmi
pagare? Lo faccio senza cercare il tornaconto, perché mi va, perché siamo
amici, tutto qua. Quando ho sentito al telegiornale degli scontri a Rungis ho
avuto paura che ti fosse successo qualcosa, ho preso la macchina e sono
venuto. Non avresti fatto lo stesso? E la Vespa... Be’, mi sono detto che è
normale voler approfittare della vita senza avere l’obbligo di spostarsi a
piedi. Me l’hai insegnato tu. Non ho mai pensato di volerti comprare o
cambiare o salvare o che cazzo ne so... Ma il problema è che non ce la fai a
uscire dalla diffidenza di merda che hai nei confronti degli altri. Credevo che
la nostra amicizia valesse qualcosa, invece starti vicino significa esporsi
ogni giorno al sospetto. Per te sono e sarò sempre un non-arabo incapace di
capirti, e non conta un cazzo se viviamo insieme, se in questi anni siamo
stati l’uno la famiglia dell’altro... Vaffanculo, Amir! Ma sarai contento, ora,
l’hai avuta vinta tu, tu e la tua fobia. È vero, non ti capisco, non potrò mai
farlo». Oltrepassò la madre che attendeva in corridoio e corse fuori.

Il calore era soffocante, la tangenziale, l’autostrada verso sud, il rumore


del motore e della rabbia, e un desiderio potente d’immergersi in acque
dense e scure, giù, in profondità, a stanare i polpi fra le rocce. Li conosceva
bene, i polpi, da bambino li prendeva in mano e quando li accarezzava con
un dito al centro della testa, quelli sollevavano i tentacoli a raggiera, come
un fiore. Non li pescava, non gli piaceva mangiarli, e loro dovevano sentire
che non li avrebbe catturati e si lasciavano toccare. Una volta, sugli scogli, si
era imbattuto in un gruppetto di ragazzini che ne squartavano uno per
estrarne i cuori. Ne trovarono solo due, il terzo dovevano averlo spappolato
mentre aprivano l’animale. Ricordava perfettamente i tentacoli rigidi e la
carne blu, e lo spavento che gli aveva preso la gola.
Si fermò a fare benzina, il volto devastato d’ombre. Desiderò Caterina, il
suo corpo liscio, dall’ossatura fine, la pelle che sapeva d’acqua. Una farfalla
notturna si appoggiò sulla pompa. Aveva paura delle falene, Caterina.
Ricordò la sera in cui una le era sfarfallata attorno e lei si era impaurita.
«Non punge» le aveva detto lui perplesso, quando il pericolo era
scongiurato. «I bambini del rione le catturavano» gli aveva spiegato.
«Strappavano le zampe e se le mettevano vive sulla lingua, poi ci venivano
davanti e spalancavano la bocca. Da allora, le farfalle mi fanno paura».
Tornò indietro. L’autostrada era vuota, l’alba prossima e violacea, la
periferia elettrica.
Ramingo era un cane timido. Chissà come doveva essere da cucciolo, si
chiese Caterina osservandolo avvicinarsi a passi strascicati. Non sollevava
completamente le zampe, ma non produceva nessuno scalpiccio. Il suo
corpo faceva pensare a quello di una iena e di un passero insieme. Il pelo del
dorso era scomparso, rimaneva una lanugine fine che il primo passaggio
d’aria avrebbe potuto sollevare e far volare via. La curvatura della colonna
vertebrale e le costole in evidenza, il ventre molle, la coda bassa, tutto in lui
contribuiva a creare un aspetto malato, soprattutto gli occhi infelici e opachi
della cataratta che formavano ai lati lacrime nerognole e collose. Caterina
notò, per la prima volta, che la sua andatura fiacca e insicura era percorsa
da scatti improvvisi, come se schivasse dei calci che forse aveva ricevuto da
cucciolo. Batté la mano per terra per fargli cenno di accucciarsi vicino a lei e
gli offrì il palmo da leccare. Era al telefono con sua madre che le riferiva che
la signora Maria cedeva l’attività dopo trentasette anni di lavoro: «Non
dev’essere per niente facile vendere un lavasecco al giorno d’oggi, è da un
mese che ha messo l’annuncio e dice di non aver ricevuto neanche una
chiamata. In tempo di crisi la gente fa da sé e se non sa stirare non stira. E
poi, ci sono le lavanderie a gettoni, con le asciugatrici, anche. Ce ne sono
diverse nel quartiere, io e tuo padre ne abbiamo contate quattro fra via
Panisperna e via Cavour. Forse, anziché l’attività, dovrebbe cedere solo il
locale, anche se poi le rimarrebbero i macchinari sul groppone... Caterina, ci
sei?»
«Sì». Non la stava ascoltando. Riusciva a prestare attenzione solo a una
cosa alla volta e la saliva del cane era più gradevole del gracidare di sua
madre.
Con l’arrivo di agosto era iniziata una canicola spossante. Delio si era
chiuso nella penombra della cucina con il ventilatore acceso e la televisione
che ripeteva le precauzioni da seguire in caso di grande calura. Squillò il
telefono di casa, un suono fortissimo. Caterina sussultò, poteva essere
Daniele. Da quando era partito chiamava regolarmente, ma sempre di
mattina o nel fine settimana, quando lei non era in casa. «Daniele ha
telefonato. Voleva sapere della Caravane» le riferiva Delio. «Perché
sorridi?» le domandava poi. «Stavo sorridendo?» E Delio capiva che Daniele
telefonava per sapere di lei e che lei, segretamente, lo aspettava.
Delio rispose al telefono, risposte meccaniche, monosillabi. Non doveva
trattarsi di Daniele. Caterina riprese a coccolare Ramingo. Le piastrelle del
portico erano in ombra ma ancora incandescenti. A tratti il cielo si apriva un
varco fra le nuvole d’afa e gli alberi e l’erba luccicavano.
Gina riprese a parlare, del tempo, questa volta. Disse che Roma era una
graticola, che vivevano con i condizionatori accesi e i vasi sul davanzale si
erano completamente rinsecchiti.
Delio riattaccò e si mise a sbaccellare le fave.
Se Daniele avesse chiamato quando lei era lì, pensò Caterina, gli avrebbe
raccontato che il salone andava a gonfie vele, la fanfara aveva fatto circolare
la voce come un’eco. Si presentava sempre parecchia gente, vecchi vestiti in
modo distinto o che sapevano di stalla, signore in ciabatte, bambine con la
ridarella e una manciata di monete in pugno per un’acconciatura da
principessa. Aveva perfino l’impressione che l’aspettassero. E mentre li
pettinava, loro si raccontavano. Le storie più intime non vengono fuori
guardando in faccia la gente. L’aveva constatato al salone da sua mamma e
da sua zia e all’ospedale. Alla Caravane era diverso, però, lei era straniera e
il camper arrivava e ripartiva. Eppure, forse per via dello spazio ristretto,
come quello di un confessionale, le confidenze si schiudevano naturalmente.
A Daniele avrebbe anche detto che la domenica sera, quando lei tornava,
Delio non mancava di farle festa e le ricordava che anche lui, da giovane,
avrebbe voluto aprire un’attività ambulante, ma era stato meglio che
l’avesse fatto lei, aggiungeva, perché della gente, al di là dei capelli, sentiva i
pensieri.
«Ma ci sei?» domandò Gina seccata.
«Sì».
«Si può sapere cos’hai?»
«Niente, perché?»
«Liliana mi ha detto che hai smesso anche di andare alle lezioni private di
francese».
«Già...» Non l’aveva neanche avvertito, il professore. Da quella volta in
cui avevano portato Delio a fare un giro con il camper non era più tornata.
«La Caravane m’impegna molto» mentì alla madre. «Riprenderò dopo
l’estate».
«Le ragazze della tua età, in questa stagione, si preoccupano solo di
trovare un ragazzo e tu, invece, guarda che pensieri hai. La Caravane!»
Caterina non reagì e Gina continuò: «Tu sei fatta così... I ragazzi ti trovano
carina ma hanno paura di te, perché all’inizio sei piacevole e intelligente,
poi ti chiudi in un mondo di pensieri e preoccupazioni tutto tuo».
Caterina seguì incuriosita il ragionamento di sua madre, cercando di
capire quali elementi avesse per affastellare quelle considerazioni. Non
aveva mai parlato con lei dei suoi amori e non si era più lasciata andare a
una sola confidenza da quella volta che le aveva confessato di prendere la
pillola. Era stata la ginecologa del consultorio a consigliarle di parlargliene e
Caterina, esitante, aveva aspettato che fosse sola per andare in camera da
lei. «Vorrei dirti una cosa» aveva detto con un filo di voce. «Mi sono
informata per la pillola». Caterina si aspettava che lei ricambiasse la sua
confidenza e le raccontasse come aveva fatto lei alla sua età, che si era
sposata giovane e incinta, o che le dicesse una cosa qualsiasi sui sistemi
contraccettivi. Invece Gina non aveva detto niente e Caterina aveva avuto la
sensazione di averla contrariata. Per un attimo aveva avuto paura che si
opponesse o, peggio, che le proponesse di parlarne con Mario. Ricordava
ogni particolare di quella sera, la stanza umida, il suo pigiama con il disegno
di un coniglietto che regalava una carota a una coniglietta, le dita dei piedi
gelate e lei che non si decideva a tornare in camera sua. «Va’ a letto» le
aveva poi detto Gina. Una frase troppo breve per capire se il tono era di
rimprovero, di rassegnazione o indifferenza. Prima di andarsene, sulla porta,
aveva domandato a sua madre se se l’era presa. Lei aveva risposto: «Ti
ricordi quando ti sono venute le mestruazioni per la prima volta? Eri in
piazzetta con i tuoi amici. Forse non te ne sei resa conto subito, ma poi
sicuramente qualche tua amica doveva avertelo fatto notare. Eppure non sei
voluta tornare a casa, sei rimasta a sanguinare davanti a tutti, a imbrattare i
jeans appena comprati, dei Levi’s. E mentre tornavi a casa, alla solita ora,
non prima, i tuoi amici ti gridavano delle oscenità e ridevano. Dio sa quanti
lavaggi ho fatto fare a quei pantaloni, ma la macchia non è mai andata via
del tutto». Aveva fatto una pausa, poi aveva aggiunto: «Abbiamo una
percezione diversa della vergogna io e te». Si era girata su un fianco e
Caterina era corsa in camera sua.
«Non farti idee strane sull’amore» le stava dicendo in quel momento.
«Dovresti solo cercare di essere meno seria, basta un filo di rossetto, un po’
di cura nel vestire... Liliana e io volevamo un matrimonio perfetto, ci siamo
occupate di ogni cosa noi due sole, il ristorante, la musica, i fiori, le
bomboniere... Le abbiamo fatte a mano, le bomboniere. Lavoravamo al
salone durante il giorno e ci dedicavamo ai preparativi della festa dopo cena.
Una sera tuo padre è passato mentre scrivevo gli inviti e vedendomi mi ha
detto che non avevo la faccia di una che si divertiva. “Preoccupati del vestito
e mi basta” gli ho risposto. E guarda da quanti anni siamo sposati! L’amore è
più semplice di quanto pensi, Caterina. Spesso non bisogna nemmeno
cercare, basta lasciarsi trovare, quello sì... Ma ormai non esistono più le
storie di tutta una vita e solo i gay vogliono sposarsi».
Caterina riattaccò. Non lo aveva mai fatto, e non si sarebbe sognata di
farlo, soprattutto con i suoi. C’erano principi elementari di educazione nei
quali era stata cresciuta e in cui credeva. Da bambina si costringeva a finire
il piatto anche quando non ne poteva più o mangiava cose che non le
piacevano per non risultare maleducata. Metteva i costumi di Carnevale che
le confezionava sua mamma per non darle un dispiacere, ma invidiava quelli
di negozio che avevano le altre bambine. E odiava le feste di Carnevale con
le loro schiere di principesse, Cenerentole e indianine, odiava anche i
compleanni a cui le altre invitate si presentavano in paperine laccate e
nastri di raso in fondo alle trecce portando regali che la festeggiata preferiva
al suo. Caterina non richiamò. Spense il cellulare e si sedette in cucina con
Delio a pulire le fave.
«Porta fortuna trovare un baccello con sette semi» le disse.
«Ne ha già trovati?»
«Adesso no».
«Chi era, prima, al telefono?» gli chiese.
«Una compagnia assicurativa per la promozione di un’assicurazione sulla
vita. Con la canicola selezionano i numeri degli anziani».
«Cosa gli ha detto?»
«Che ero già morto». Scoppiò a ridere, un riso esagerato, accalorato.
Affranto. Breve.
E si misero a cercare il baccello dai setti semi.
«Eri un giocherellone da piccolo, facevi certi salti per prendere il bastone
che sembravi una scimmia, ti ricordi? Che ricordi hai, Ramingo?... La cosa
più sorprendente, comunque, è che non ti facevi male, era come se riuscissi
ad anticipare di qualche secondo le conseguenze delle tue mosse e preparavi
il corpo ad atterrare sulle zampe. Ma come facevi, come si fa a cadere in
piedi? Quando mi sarò assuefatto a questo dosaggio, ricomincerò a perdere
l’equilibrio, e vorrei poter cadere come te, senza farmi male. Sarebbe come
tagliarsi senza che esca il sangue, un controsenso. Ma tu, ti ricordi quando
saltavi e correvi?» Delio lo accarezzava fra le orecchie. Aveva ricominciato
a tenergli lunghi discorsi, ma non gli prendeva più la testa fra le mani, e
nemmeno Ramingo lo chiedeva. Forse sentiva che era una posizione che
Delio non sopportava e probabilmente nemmeno lui la sopportava più.
Aspettava che il suo padrone si sedesse per coricarsi sui suoi piedi e lasciarsi
cullare di parole. «Quando sei arrivato qui eri un cane al contrario. Anziché
la carne, mangiavi il pane e le carote, e se arrivava qualcuno, invece di
abbaiare gli facevi strada, lo lasciavi entrare e poi mi morsicavi le caviglie se
mi intrattenevo con lui. Non eri per niente affettuoso, anche se eri un
cucciolo, e se cercavo di accarezzarti scostavi la testa e fuggivi via. Ti ci è
voluto poco, però, per perdere quel carattere scorbutico. E anch’io mi sono
abituato a te tanto che, se non eri tu a venirmi dietro, ero io a cercarti, come
ora... Sembrano passati secoli, invece sono poco più di una decina d’anni, da
quando Teresa non c’è più. Ora, comunque, se fossi vivace come quando eri
giovane non potrei starti dietro. Non fraintendermi, non che ti preferisca
malandato, ma così siamo pari ed è più facile tenerci compagnia. Per certi
aspetti mi precedi, preannunci la forma del mio degrado: incontinenza,
puzza, cecità... Basta con questi discorsi! Caterina è andata con i suoi zii
sulle colline a guardare le stelle cadenti, vediamo se ne becchiamo qualcuna
anche noi...»
Spense le luci del portico e trascinò la poltroncina di vimini sul prato.
Diede un’occhiata alla cascina di Aron, non vide l’amico, ma era sicuro che
fosse fuori a cercare un po’ d’aria, sarebbe stato capace anche di dormire
all’aperto, lui, in una notte come quella.
Dalla partenza di Daniele le temperature non avevano fatto che
aumentare. Era un caldo insolito per quella zona, oltremodo umido, e
sudavano anche da fermi, andavano a letto bagnati e si svegliavano fradici.
Le attività erano limitate al primo mattino o alla sera, dopo il tramonto. Il
resto del tempo lo passavano in casa, come in una tana.
Delio appoggiò la testa allo schienale della poltrona. Le stelle cadenti
erano così frequenti che sembrava uno scherzo. Caterina, a cena, aveva
detto che lo sciame di meteore della notte di San Lorenzo evocava i carboni
ardenti su cui il santo era stato martirizzato e che a Roma c’erano ben sei
basiliche dedicate a lui. Delio si era meravigliato di quanto lei conoscesse la
sua città, ma Caterina lo aveva smentito, conosceva solo tappe isolate di
percorsi turistici, e le chiese intitolate a san Lorenzo facevano parte di uno
di quelli. Si era immalinconita a parlare di Roma e Delio pensò che le città
possono suscitare profonde nostalgie in chi le lascia, e forse anche in chi le
abita. Caterina apparteneva a Roma, non sarebbe stato giusto cercare di
convincerla a restare oltre l’anno, anche se, in cuor suo, sperava che
avrebbe deciso da sola di continuare con la Caravane, aggiungendo magari
altri villaggi. «Chissà che non siano sole, le stelle. Sembrano tante ma forse
sono lontane le une dalle altre. E vedendoci, da lassù, devono pensare la
stessa cosa di noi, non sapranno capire se siamo tutti uniti o isolati. Basta,
ce ne sono troppe, Ramingo, danno il capogiro... Non ho mai visto una cosa
del genere! Non ho neanche un terzo dei desideri per tutte le stelle che
cadono stanotte...» Ramingo tentava di sottrarsi a una falena che gli
svolazzava intorno al naso. La pigrizia gli impediva di alzarsi e si limitava a
spostare il muso di qua e di là mugolando. Gliela allontanò Delio con una
manata e la osservarono vagare attorno a loro finché non la persero di vista,
inghiottita dal buio. «Teresa aveva letto che le farfalle notturne cantano,
sono canti inudibili per l’uomo, ultrasuoni, ma forse tu li senti». Ramingo
riappoggiò la testa sulle zampe e riprese a dormire. «Ce n’è una che allo
stadio larvale attacca le piante da frutto. Aspetta, se ci penso un secondo mi
torna in mente il nome... È un nome strano... Bombice dispari, ecco! Nel
manuale di Teresa era inserita fra le cento specie invasive più dannose al
mondo. E lei la teneva d’occhio perché c’è, qui da noi, anche se, per fortuna,
non si è mai rivelata infestante. Chissà cosa si sarebbe inventata per
combatterla senza ricorrere ai prodotti chimici! Se contagiasse le nostre
piante ora, non avrei la forza di lottare, lascerei perdere, lascerei fare alla
natura. Teresa non me lo perdonerebbe... Ma probabilmente non lo farei
davvero, chiamerei Aron e ci metteremmo al lavoro... Forse dovrei
esprimere questo desiderio alle stelle cadenti, che né il bombice dispari né
altri infestanti danneggino le nostre coltivazioni, perché non ce la farei a
combatterli, non ce la farei più...» E a ogni stella cadente chiedeva di
proteggere i suoi terreni: «Ecco, l’ho detto a tutte, così vale di più». Si
faceva aria con la mano, tollerava bene il caldo, ma quello era eccessivo
anche per lui. Aveva sempre ritenuto che i grandi caldi, come i freddi
intensi, avessero qualcosa di salutare e li accettava senza combattere. Con
Teresa, poi, aveva imparato che gli avversari più ostili erano invisibili. Ne
avevano conosciuti molti, loro, e si mise a rievocare mentalmente nomi di
parassiti, funghi e acari, date di siccità, fino al tumore di lei e ora al suo
Parkinson. «Siamo sotto una pioggia di stelle, ma finisco sempre per avere
pensieri tristi» confessò al cane. Aveva già notato che le medicine si erano
dimostrate efficaci contro la rigidità dei movimenti e i pianti incontrollati,
ma non contro i pensieri, che correvano dritti verso esiti cupi. Chissà se
questo dipendeva dalla malattia, dall’età o da Teresa che non c’era più, si
disse, da quello che si rompe e non si può aggiustare, da Caterina che se ne
sarebbe andata, come suo figlio. «Vado a coricarmi, probabilmente non
riuscirò a dormire, ma intanto mi distendo. Ho i piedi che sono due salsicce.
Guarda che roba! Va’ anche tu, va’ a cuccia, Ramingo. Ciao, bello. A
domani».
Una notte, rientrando a casa dal Comptoir Jazz, Daniele fu investito da un
odore di spezie, frittura e gente sconosciuta. Sul divano dormiva un uomo,
teneva le gambe sul bracciolo, a una delle due mancava il piede e la protesi
era appoggiata sul tavolinetto. Doveva essere il fratello di Amir, quello che
aveva avuto un incidente con il muletto quando lavorava a Rungis. Se
occupava il divano, significava che i materassi nella camera di Amir erano
stati destinati ad altri ospiti.
Dopo la madre, a metà agosto erano arrivati anche il fratello e altre due
donne che Daniele suppose essere una zia e una cugina. Passavano la
maggior parte del tempo in casa, perlomeno la sera, quando Daniele
rientrava dal lavoro. Non erano ostili nei suoi confronti, ma nemmeno
cortesi. Gli offrivano di servirsi il tajine ma non gli facevano posto a tavola,
rispondevano al suo saluto, ma non lo salutavano per primi e non passavano
al francese in sua presenza. La lingua rappresentava la forma di esclusione
più efficace, che lo rendeva estraneo a quella casa in cui, di suo, rimaneva
solo la stanza da letto. Buona parte del mobilio accatastato nella camera di
Amir occupava l’ingresso e l’antibagno. La sala era lo spazio del fratello, che
passava ore davanti alla TV, le sue cose erano sparse sul divano, dove la
notte dormiva, o nell’armadio dai piedi di leone che fino ad allora nessuno
aveva mai usato. La cucina era il regno delle donne. Avevano riorganizzato i
pensili, che si erano riempiti dei loro prodotti. Nell’aria aleggiava
costantemente un odore di cibo, nonostante le finestre rimanessero aperte
giorno e notte alla ricerca della minima corrente.
Amir era sotto antibiotico, da coricato era colto da forti accessi di tosse,
ma non aveva più febbre e il suo stato di salute migliorava di giorno in
giorno. Trascorreva gran parte della giornata in camera sua e quando si
alzava, la madre e le altre due donne lo seguivano come ombre. Daniele
invece cercava di trascorrere in casa il minor tempo possibile, si dimostrava
cortese con Amir e gli chiedeva sempre come stava. Otteneva solo risposte
brusche che lo dissuadevano dal trattenersi e appena se ne andava, il cerchio
di donne si richiudeva intorno al convalescente e riprendeva la sua parlata
strozzata.
Un giorno Daniele lo trovò in cucina da solo e ne approfittò per parlargli.
Amir si dimostrò distaccato, ma non si rifiutò di trattenersi con lui e lo
aggiornò. Aveva subito un interrogatorio della polizia, ma non aveva sporto
denuncia contro gli aggressori e il suo caso era stato classificato come
“incidente di tragitto sulla via per il lavoro”. Le spese sanitarie, denti
compresi, erano coperti al cento per cento dall’assicurazione e non aveva
più bisogno di andare all’ospedale, sarebbe stato il medico generico a
seguirlo. Mentre stavano parlando, la ragazza che soggiornava da loro si
presentò con un catalogo di abiti da cerimonia in mano, una piccola mano
tatuata all’henné. Fu allora che Daniele capì che non era una cugina ma la
futura moglie di Amir.
«Tu as fait ton choix?» gli chiese.
Amir s’adombrò, le rispose duro, in arabo, e lasciò la cucina mentre lei gli
andava dietro senza rumore.

Il fratello e le due donne tornarono in Tunisia i primi di settembre, la


madre invece restò finché Amir non riprese il lavoro. Anche dopo la sua
partenza, però, la situazione in casa non cambiò. Il mobilio non ritrovò la
disposizione originale e Amir non si liberò delle sue maniere schive e
riluttanti. Rispondeva a Daniele per monosillabi, diceva sempre di essere
stanco, di non sopportare i ritmi dell’atelier di filettatura come prima, e si
chiudeva in camera. Non mangiavano più insieme, né fuori né in casa, e
facevano di tutto per evitare d’incrociarsi. Usavano alternativamente la
cucina e il bagno, il salotto fu dimenticato e le porte delle camere chiuse.
Vivevano isolati nelle loro routine lavorative, ciascuno sfinito dall’altro e da
se stesso. Arrivò l’autunno e ancora non si parlavano.
Gli attacchi di tosse di Amir cessarono, sostituiti da concitate telefonate
in Tunisia che si prolungavano fino a tardi la notte. Una volta, dopo una di
quelle, Daniele lo sentì sbattere violentemente la porta della camera,
precipitarsi in sala e abbattersi su il “re della savana”. Lo colpì
ripetutamente con una sedia, sventrandolo, e lo scaraventò in strada. Quindi
si sbarazzò di tutti i mobiletti raccolti dai marciapiedi e conservati per anni.
La gente si affacciava, lo insultava e minacciava di chiamare la polizia.
«Smettila» gli gridò Daniele, raggiungendolo in strada, ma lui fece finta
di non sentirlo. Allora lo prese per un braccio. Amir si divincolò, un fascio
di nervi compatti e caldi, la stessa faccia pallida e immobile di quando aveva
ascoltato la vicenda di Klara e Hamza. «Cos’è successo?» gli chiese
tenendolo stretto.
Amir montò sulla Vespa e fece per mettere in moto, ma Daniele lo
trattenne e lui lo azzannò al polso, come un cane. Daniele lo tirò per i capelli
perché allentasse la presa e Amir mollò appena prima di strappargli un
pezzo di carne. «Sei un povero coglione» biascicò sputando per terra il
sangue che gli era rimasto in bocca e s’infilò il casco.
Aveva ragione, era un coglione, perché avrebbe dovuto buttarsi su di lui e
sbatterlo giù da quella fottuta Vespa. E picchiare, picchiare lui e la Vespa. Si
strinse il polso sanguinante.
Amir imprecava in arabo con una voce che non trovava il fiato, malata di
rabbia e di frustrazione. «Potresti fare della tua vita quel cazzo che ti pare»
gli disse Amir. «Invece rimani qui, in questo squallore. Ma guardati attorno,
guarda questa merda. Cosa ci stai a fare? Che ambizioni hai? Dov’è la tua
famiglia? Dov’è, cazzo?!» Aveva il respiro corto di quand’era all’ospedale e
dovette fare una pausa per riprendere fiato. «Hamza ce l’ha fatta» gli svelò,
mordendosi un labbro. «È in Canada, al confine con gli Stati Uniti». Il
labbro era bianco sotto la stretta dei denti, il sangue viola. «Abbiamo
lasciato la Tunisia insieme, pieni di sogni. Alla fine lui ce l’ha fatta e io ho
fallito, anche se a un certo punto sembravano essersi rovesciate le carte. Ho
goduto di un vantaggio che non mi apparteneva, che non mi appartiene di
nascita, ma il destino ha ripreso subito il controllo. Dillo a Klara che Hamza
ce l’ha fatta, che ci può andare, adesso, a far figli con lui, quando si stuferà
di te. È in Canada, quasi in America, e non tornerà indietro. Tempo quattro
o cinque anni e sarà qualcuno, là». Fece un’altra pausa, più breve.
Ansimava. «A me è stata passata la donna che era destinata a lui. Le nozze
sono previste dopo il Ramadan. Non ha ancora compiuto vent’anni, ma ha
imparato il francese a Tunisi e lo parla bene. L’hai vista. Bella, eh? Faremo
dei piccoli tunisini, dei moscerini, immigrati per la vita. Ripeterò lo stampo.
E i progetti che avevo partendo...»
Daniele sentì un gemito, forse un urlo soffocato. La chiave girò nella
toppa, le ali dei pipistrelli frusciarono sopra i tetti marci. Guardò i mobili
fracassati sul marciapiede. Amir partì e frenò di colpo qualche metro più
avanti. Si voltò per dire qualcosa che non disse. Aveva commesso il suicidio
di volere qualcosa che non gli apparteneva e che, come in un sogno, si
ritraeva finché non cessava di esistere. Il suicidio di essere partito. Aveva
messo la testa fuori dalla sabbia, respirato il cambiamento, aveva creduto di
poter scegliere, e che fosse lecito. Ogni sogno prima o poi tradisce. Ripartì,
schiacciando con rabbia l’acceleratore. Sembrava un fantasma senza spalle e
il casco un piombo sulla testa. “Non suonare quello che conosci, suona
quello che ignori”, quella frase gli era piaciuta perché descriveva i suoi
desideri. Aveva creduto di poterli realizzare, ma era stata l’illusione di un
attimo.
Si ripulì dal sangue, i segni dei denti di Amir rimanevano impressi nella
pelle. Coprì il polso con una garza. Tappò la tromba con una sordina e
suonò la desolazione di quelle stanze sfatte, suonò perché non riusciva a
fare a botte, suonò perché sapeva che Amir non ce l’aveva con lui ma con le
proprie origini che lo avevano stanato e risucchiato. Suonò gli anni che
avevano passato insieme e che non sarebbero tornati più, la felicità che
conosceva e non aveva. Suonò perché era tutto quello che sapeva fare.
Finché l’alba non crollò nel cielo.
Da quando era tornata dalla Polonia, Klara non si era fatta viva e non
rispondeva al telefono. Daniele andò a suonare alla porta della chambre de
bonne, ma nessuno aprì, l’aspettò sul marciapiede e non rientrò. Provò altre
due volte nei giorni seguenti, poi decise di bussare all’appartamento di
sotto, dove abitava la famiglia presso cui faceva la baby-sitter. La signora
guardò dallo spioncino, Daniele si presentò come un amico di Klara e la
donna aprì tenendo il catenaccio. Venne a sapere che Klara non aveva
ottenuto l’assegno di ricerca. Aveva preso le sue cose ed era ripartita per la
Polonia.
Anche Hamza era stato escluso dall’università, pensò di riflesso Daniele,
doveva averle passato la sua maledizione, oppure era lei, paradossalmente, a
ricalcare i suoi passi. E per un attimo, volle pensarli insieme in Canada, “al
confine con gli Stati Uniti”, “quasi in America” come aveva precisato Amir.
Klara e Hamza in una terra promessa a conquistare il riscatto sociale –
“tempo quattro o cinque anni” aveva detto Amir – e a partorire figli senza
appartenenze se non quelle che si sarebbero scelti loro stessi crescendo.
Forse, se Klara non avesse considerato un tradimento quello di Hamza, ma
un modo di sopravvivere, l’ultimo che gli era rimasto, forse sarebbe stata
capace di perdonarlo, perché l’aveva amato di un amore pari al dolore che
l’aveva devastata. E forse, ora, sarebbero salvi, insieme.
Amir aveva provato a spiegarglielo, quella notte all’ospedale, mentre lei
dormiva: «Hamza non poteva manifestarti la sua rovina, non ci è riuscito
con nessuno, neanche con me» le aveva detto a voce bassissima. «Voleva
risalire la china, ma non ce l’ha fatta e ha giocato l’ultima carta tentando
almeno di salvare le apparenze. Cercava di prendere tempo per aggiustare le
cose senza doverti perdere. Non fraintendermi, non voglio togliere niente
alla tua rabbia, Klara, cerco solo di farti capire che in fondo Hamza ti è stato
fedele. So che è difficile da accettare dalla tua prospettiva, ma è così, ti ha
mentito per salvarsi ai tuoi occhi, capisci? Per non rinunciare a te. Hamza
ha un’intelligenza acuta, è perspicace e passionale, ma ha ecceduto
nell’orgoglio, lo riconosco. Del resto, ci chiedono di vivere regolarmente, ma
anche da irregolari restiamo vivi, anche da irregolari abbiamo bisogno di
lavarci, di mangiare e pisciare. Ed è più facile incolpare uno come Hamza
che il suo professore, perché un irregolare per sua natura è dalla parte del
torto e un professore, per sua natura, da quella della giustizia. Hamza deve
essere stato insopportabile con lui, ne sono certo, e magari non aveva
nemmeno ragione, ma non si respinge qualcuno per una divergenza di idee,
non gli si compromette la vita, perché quello che Hamza chiedeva, in fondo,
è quello che chiedono tutti, anche tu: un posto. E quando è corso da te per
spiegarsi, per giustificarsi, forse per chiederti perdono, tu lo hai allontanato
completando la sua distruzione. Ti dico queste cose perché sono l’unico che
può raccontarti la storia da questo punto di vista e perché è quello che ti
avrebbe detto lui se lo avessi ascoltato. E te lo dico perché dormi e non mi
senti e sei così bella, Klara, che i miei ragionamenti ti scivolano addosso
come un velo».
Chissà se, fra le interpretazioni del comportamento di Hamza, lei aveva
considerato anche quella che Amir le aveva consegnato nel sonno. «Ogni
spiegazione che mi do, ormai, è solo speculazione. Non saprò mai la verità»
aveva detto a Daniele pochi giorni prima di partire per Varsavia. «È stato
gentile da parte tua starmi vicino. Se continuerai a farlo, ti chiedo solo un
piacere: se diventerò pazza non picchiarmi, tienimi ferma, con forza, e mi
passerà». Parlava con il tono indifferente di chi sa che la vita non è un
premio, e a tratti, brevissimi, una situazione passeggera di sogno. Hamza era
stato il suo sogno ed era durato qualche secondo di troppo, tanto da
sembrare vero.
Togliendo il catenaccio e aprendo un poco di più la porta, la signora gli
spiegò che all’ultimo momento, per giochi interni alla commissione, la borsa
era stata attribuita allo studente di un altro docente. Gli raccontò anche che
Klara era diventata catatonica quando aveva ricevuto la notizia, il giorno
stesso in cui era tornata dalla Polonia. «Si aggirava per la stanza che
sembrava un morto intorno alla bara». La signora si diceva convinta che
Klara, con il suo profondo senso del dovere, prima o poi avrebbe ottenuto
quello che voleva o comunque qualcosa di buono per il suo avvenire. «Ci
sono percorsi più tortuosi di altri» commentò. «E Klara non è stata
risparmiata. Dovrà sforzarsi di ricomporre un nuovo ordine di cose e di non
procedere per speranze, ma per occasioni». Due bambini schiamazzanti
attraversarono il corridoio alle sue spalle. Si toccò la pancia, era incinta del
terzo. «Mi sarebbe piaciuto poter affidare anche questo a lei» disse. «Era
molto affettuosa con i miei figli e capace di dire di no quand’era il caso». I
bambini gridavano, uno si mise a piangere, la signora disse loro di fare più
piano, che sarebbe arrivata subito. «Mi dica il suo nome» chiese a Daniele.
«Così quando Klara chiamerà per avere notizie dei bambini, le riferirò che è
passato».
«Fa lo stesso, è tardi, ormai».
Era da oltre quattro mesi che Caterina non si presentava dal professor
Marthelot, ma provò lo stesso a suonare e il cancello si aprì. Sul pianerottolo
dovette bussare alla porta. Il professore arrivò dopo un tempo che le sembrò
lunghissimo. Aveva la barba non fatta e il viso spento e segnato. Indossava
un completo marrone e un lembo della camicia usciva dai pantaloni. Fu quel
dettaglio, disperato, a portarle alla mente la sua prof di francese del liceo. E
ne ebbe paura.
«Venga» disse lui. La voce era impastata e l’alito sapeva di alcol.
Caterina entrò senza togliersi il cappotto, lo stesso che indossava quando
aveva cominciato a frequentare le sue lezioni. Era trascorso quasi un anno
ormai. Era passata per informarlo che sarebbe tornata a Roma e per
ringraziarlo di quelle lezioni appassionate. Lo considerava un insegnante
eccellente e avrebbe voluto dirglielo.
Nel salotto l’aria era viziata, nuvoli di polvere si erano accumulati lungo i
battiscopa, bicchieri e bottiglie vuote erano abbandonati qui e là. Caterina
sedette in punta alla sedia, al suo posto, a un lato della scrivania. Lo spiò
raccattare da terra qualche foglio, svogliatamente. Quando si rialzò, dovette
appoggiarsi alla scrivania per mantenere l’equilibrio. Non sedette, rimase
impalato davanti a lei, i capelli scompigliati, le borse gonfie sotto gli occhi.
«È dalla metà di luglio che non viene» disse torvo. «Oggi cos’è? Il 23, 24
novembre?»
«Mi dispiace» rispose Caterina. E aggiunse: «Prima, quando mi ha aperto
la porta, ho avuto la sensazione che mi aspettasse».
«È così, infatti».
Provò un profondo senso di colpa per non averlo avvertito delle sue
assenze. «Scusi» ripeté. «Mi sono distratta e il tempo è passato senza che
me ne rendessi conto». Arrossì e disse per giustificarsi: «Ho conosciuto
l’amore e aspettavo che tornasse». Si sentiva una pedina arrivata alla fine
del giro e rinviata alla casella del via, una pedina innamorata. Le era già
capitato, forse, d’innamorarsi, mai, però, in quel modo definitivo.
Il professore sbottò in una gran risata. «L’amore...» declamò a gran voce.
E rise di nuovo, forzatamente. Ma poi l’espressione si distese, divenne seria
e arrendevole. «Vous savez?... Aimer est un mauvais sort». S’interruppe e
riprese più lentamente: «“Amare è una malasorte contro cui, come nelle
favole, nulla si può finché l’incantesimo non sia cessato”». Tacque. La
memoria sembrava raggiungerlo da lontano, gonfia e confusa.
La carne deperisce ma la mente è forte, considerò Caterina, soprattutto la
mente di un insegnante, così piena di saperi, di ancore di salvezza. Fin
troppo forte, la sua, capace di resistere anche quando la dignità della
professione era degradata in debolezza, inadeguatezza o nell’alcol che mai
gli aveva regalato l’oblio. Le si ripresentò di nuovo davanti agli occhi
l’immagine della sua professoressa di liceo. Il suo ultimo giorno di lavoro
l’aveva rincorsa fuori dalla scuola per chiederle qual era la sua frase
d’amore preferita e lei le aveva citato la stessa che aveva appena recitato lui.
«Proust» disse Caterina, distraendo il suo sguardo fisso.
Lui la guardò. Annuì. Si chinò appena su di lei e allontanandole i capelli
dal viso, la accarezzò. Poi ritirò la mano, indietreggiò, urtò la consolle, una
delle cornici cadde. Fece per raggiungere il pianoforte, barcollò, e si fermò
davanti alla finestra. «Se ne vada» gridò.
Caterina si alzò di scatto, si strinse nel cappotto e bisbigliò disorientata:
«Non è niente». Era un’affermazione ma aveva il tono di una domanda e di
un bisogno di rassicurazione.
«Vada!» urlò lui, senza voltarsi.
Lei si avviò verso la porta.
«Mi ha ricordato qualcuno» aggiunse lui. Aveva parlato piano,
continuando a darle le spalle, e Caterina non capiva se si era rivolto a lei o a
se stesso. Fece di no con la testa, a ripetergli che non era stato niente.
Erano agli estremi opposti della stanza. Immobili. Il professore appoggiò
la fronte sul vetro, lei fece per parlargli, ma rinunciò e abbassò la maniglia
della porta.
«L’amore, la passione, sono una maledizione» disse appena prima che
uscisse. «Una paura che muta in euforia ma in cui sopravvive qualcosa di
oscuro». Si voltò verso di lei. Fece una pausa. «Non se ne difenda».
«Ramingo! Perché l’hai fatta per terra? È la quarta volta questa settimana!
Cosa ti prende? Non era aperta la porta?» Delio andò a controllare.
«Guarda, altroché se è aperta! Fuori c’è freddo, nevica, è vero, ma questo
non ti autorizza a pisciare in casa! Credi di poter sporcare la cucina per
tutto l’inverno?»
Caterina lo udì di là dal muro. Chiuse il libro e si mise in ascolto. Quando
era solo, Delio chiacchierava sempre con Ramingo ad alta voce, ma non lo
aveva mai ascoltato veramente. Lo udì allontanarsi verso il bagno, il bastone
ticchettava sul pavimento. Andava a prendere uno straccio. Tornò alla
parete che li divideva, dove Ramingo doveva aver fatto pipì.
«Non fare quella faccia, hai combinato una stupidata, ma non è grave...
Mi sono arrabbiato, ma mi è già passata, su! Il mese scorso, alla visita dal
neurologo, ho raccolto tutte le mie energie e ho dato il meglio di me, tanto
che non sembravo neanche malato. Potresti fare uno sforzo anche tu, no?»
Sfilò una sedia dal tavolo. «Vieni qui, bestiola». La voce si era addolcita e il
cane guaiva alle sue pacche bonarie. «Il dottore era contento, ma meno
entusiasta delle prime volte. Credo che non abbia capito che sfoggiavo la
mia forma migliore. Lo facevo per Caterina, glielo si legge in faccia che si fa
degli scrupoli per me, adesso che tornerà a Roma. C’è sempre Aron
comunque e, al limite, potrei rivolgermi a Liliana». Rifletté un momento. «E
a Daniele. Perché ci sono dei doveri, da vita a vita, no? E poi, come diceva
Rose, è un ragazzo con l’anima». S’interruppe di nuovo, Caterina sentì il
bastone procedere verso la porta-finestra e immaginò Delio guardare la
distesa di neve. Riprese a parlare dopo un lungo momento, a voce più alta,
perché Ramingo probabilmente era rimasto accucciato accanto al tavolo: «A
Framura la neve era rarissima. Ricordo solo un paio di nevicate... Chissà
cosa avrebbe fatto Daniele, se ci fosse ancora la casa, se sarebbe tornato a
vivere in quel buco di mondo dove non c’è neanche l’ufficio postale e il
dottore bisogna andare a cercarlo al paese vicino. Mi chiedo se ci è mai
arrivata la televisione...» Rise. «Che sciocchezze! Chissà come sarà cambiata
anche Framura...» Picchiò il bastone sul pavimento, lasciò la finestra e andò
verso il lavandino, svitò la moka, buttò il fondo di caffè e passò il filtro sotto
il getto d’acqua. «È l’ora delle pillole. Dove le ho messe?... Eccole... Dovresti
provarle, Ramingo, magari farebbero bene anche a te. No, caro, non metterti
in attesa, è presto per la cena! Sai che sei diventato insaziabile? Vuoi
riempire di crocchette il vuoto che la vecchiaia ti scava dentro? E perché no,
in fondo? Tieni, mangia, che male c’è?» Versò il cibo nella ciotola, accese la
TV e non parlò più.
Caterina riprese a leggere. Non riusciva a concentrarsi, pensava a
Daniele. Da quando se n’era andato non l’aveva nemmeno più sentito per
telefono. Sarebbe sceso per Natale, le aveva detto Delio, ma anche se fosse
arrivato prima della sua partenza, era sempre troppo tardi. Immaginò il suo
arrivo: Delio illuminato dalla gioia, Rose che lo chiamava con mille
nomignoli affettuosi e Aron che non perdeva occasione per prenderlo in
giro. E lei che avrebbe atteso solo il momento in cui lui, tenendole il viso fra
le mani, avrebbe bevuto alle sue labbra.
Trascorse quasi un’ora prima che Delio riprendesse a parlare. Dalla
direzione della voce, doveva essere di nuovo davanti alla porta-finestra. Il
tono era basso, sembrava parlasse fra sé. Caterina non sentiva bene, posò il
libro e si addormentò.
«Mia nonna mi guariva dalle malattie con l’olio di ricino. Tutti i bambini
di Framura lo prendevano quando si ammalavano e solo se non funzionava
si chiamava il dottore. Il dottore aveva certi baffi e un alito di vino che gli
valsero il nomignolo di Mangiafuoco. Era un brav’uomo, visitava a tutte le
ore, che si trattasse di un uomo o di una bestia. La prima motocicletta che
comparve a Framura era la sua. Quando la sentivo, correvo a guardarla e, se
ero certo che non mi avrebbe beccato, ci salivo sopra. Fu grazie a quella
motocicletta che giurai di diventare un meccanico, per poter toccare le
motociclette ogni volta che volevo. Com’è lontana Framura!... Eppure, se
non l’avessi cancellata con un colpo di spugna, la casa ci sarebbe ancora. E il
mare e la montagna. Teresa e io ci nascondevamo in una grotta a fare
l’amore, cioè, non facevamo proprio l’amore, ci baciavamo, ci toccavamo
per ore. Abbiamo imparato là dentro cosa sono il freddo e l’umidità, perché
c’era sempre umido e freddo, anche quando fuori si stava bene. Mi ricordo
tutto, perfino le vespe e i moscerini intorno all’albero di fico all’ingresso
della grotta, il latte colloso del frutto acerbo... Avevamo provato a piantarlo
anche qui, un fico, ma l’avevamo interrato troppo giovane e non aveva
passato l’inverno. Teresa non aveva voluto saperne di riprovare... Vedi,
Ramingo, è il corpo che barcolla, non la memoria, quella non cede niente.
Ricordo tutto, per questo non posso restare tranquillo, né al mattino,
quando la luce scivola dentro casa, né la sera, quando ammicca prima di
cedere al buio. Ricordo ogni momento, ogni momento mi circonda, anche i
più insignificanti. Questa è la vera malattia! Ma ora che sono vecchio posso
piangere senza vergogna e senza vergogna rido, anche. Mescolo fiori e
ortiche... Perché se una cosa ho capito – e me l’ha insegnato il tumore di
Teresa – è che non c’è nulla di più primitivo del dolore. Il dolore non ha
niente di sacro, niente di eroico o di colpevole, il dolore può solo andare e
tornare ed è quello che fa. Una volta ho provato a spiegarlo a Caterina, ma
non sono sicuro che mi abbia capito, del resto, è così giovane ancora... Vieni,
Ramingo, riportiamo dentro le galline, è buio. Sai che con questo freddo
stanno facendo pochissime uova? Sono pigre, come te, che non ti prendi
neanche la briga di andare fuori a pisciare. Ramingo? Vieni!... Già è stupido
parlare con un cane, parlare da soli, poi...» Nevicava lentamente, le galline
se ne stavano nel pollaio aggrappate ai trespoli. Ramingo si avviò verso la
rimessa lasciando impronte impalpabili sulla neve, ma Delio lo richiamò:
«Dove vai? Dai, vieni, starai più al caldo dentro. Non hai più l’età per
dormire fuori. Con questa neve, poi...» Prese alcune coperte dalla cuccia e le
buttò sotto la scala che portava alle stanze di sopra. «È solo per l’inverno,
beninteso, e i tuoi bisogni, comunque, li fai fuori, la porta rimane socchiusa.
Chiaro? Non farmi pentire di aver preso questa decisione!»
Era il 22 dicembre e nevicava. A memoria di anziano, negli ultimi
cinquant’anni non era mai nevicato tanto precocemente e i bambini
speravano che la neve rimanesse fino a Natale, come nei libri di fiabe. Aveva
iniziato al mattino presto e per tutto il giorno erano scesi fiocchi grossi e
fitti tanto che a sera ce n’era mezzo metro. Aron aveva passato la giornata
alla finestra aspettando che smettesse per poter andare a spalare. Spalare la
neve era uno dei lavori che gli dava più soddisfazione e che eseguiva con un
tale impeto da rischiare, alla sua età, di rimanerci. Aveva perfino telefonato
a Delio. «Faccio io anche la tua parte» gli aveva detto.
Era la prima volta che usava il telefono, glielo aveva portato Caterina
qualche giorno prima. Un cellulare che suo zio non usava più e che lei gli
aveva attaccato alla presa nell’ingresso come fosse un fisso. Glielo aveva
chiesto per piacere, di tenerlo. Sarebbe partita più tranquilla sapendo che
Delio aveva modo di chiamarlo, in caso di bisogno. Solo Delio conosceva il
suo numero, non doveva temere chiamate di altri. Per rispondere doveva
solo premere sul tasto con la cornetta verde e per chiamare bastava che
schiacciasse la cornetta verde e il tasto uno, dov’era memorizzato il numero
di Delio. Aveva cinquanta minuti di conversazione al mese, ma
«conoscendo la vostra loquacità, arriverete sì e no a due» aveva detto
forzando un sorriso. «Non lasci passare giorno senza averlo visto o sentito.
Me lo prometta» lo aveva supplicato. «È una promessa» l’aveva rassicurata
lui.
Accaparrarsi l’onere esclusivo di spalare la neve davanti a casa valse la
prima telefonata di Aron. E Delio gli assicurò che si sarebbe azzardato a
prendere in mano la pala solo se lo avesse visto stramazzare al suolo dalla
fatica.
Delio poi lo richiamò rientrando dal pollaio. «Non smette, eh?»
«No».
Non sapevano bene come portare avanti la conversazione, ma nessuno
dei due riattaccò. Fu Aron, allora, a ripetere: «Non smette. Non accenna
neanche».
E Delio a rispondere: «Sì».
«No invece! Guarda! Sta smettendo!»
«Non mi pare... Con questo buio vedo poco... Ah, sì, forse hai ragione...»
«Bene, allora domani spalo!» e riattaccò.
Delio rigirò la carne che aveva messo a marinare, del filetto di manzo che
era burro, gli aveva detto il macellaio. Era l’ultima cena con Caterina e le
voleva preparare qualcosa di buono. Ma mentre copriva il piatto con un
altro, gli venne in mente che avrebbero potuto mangiare una pizza. Più di
una volta Caterina aveva lanciato l’idea senza che lui le desse retta. Doveva
piacerle la pizza, si disse, e decise di farle una sorpresa. Cercò sull’elenco il
numero della pizzeria, chiese due pizze da asporto e dettò l’indirizzo
aggiungendo qualche spiegazione su come raggiungere il casale, dato che il
nome della strada non era indicato. Era stato facile passare l’ordine, pensò.
Ma l’uomo dall’altra parte del ricevitore, dopo averlo lasciato finire, diede in
escandescenze: «Mi sta prendendo in giro? Secondo lei, con tutta questa
neve mando fuori lo speedy pizza? E poi, anche senza neve, abita troppo
lontano! Siamo una pizzeria, mica il corriere espresso! O se le viene a
prendere oppure le mangia direttamente qui!»
La campagna era immersa nel silenzio, il silenzio assoluto dei campi sotto
la neve. Caterina stava finendo di preparare le valigie. Sentì un tonfo, come
di una coperta venuta giù dal cielo. Subito non ci fece caso e continuò, poi si
guardò attorno, andò alla finestra. Vide Delio bocconi nella neve, a braccia
aperte come un Cristo. Corse fuori, scalza. Lo girò in qualche modo, gli
sostenne la testa e gliela pulì. La neve gli era entrata anche in bocca.
«Venivo a chiederti se ti va di andare a mangiarci una pizza».
Quella scena sarebbe rimasta a lungo nella memoria di Caterina, come
l’immagine dell’auto sprofondata per metà nella distesa bianca e il sapore
disgustoso di quella pizza poco cotta. Rimase sullo stomaco a entrambi, ma
nessuno dei due lo ammise. Rientrando, parlarono solo di quella nevicata
straordinaria e di come tutto fosse silenzioso e immacolato.
Prima di darle la buonanotte, Delio le disse: «Non preoccuparti, starò
bene. Non chiamarmi neanche, sarai presa da mille altre cose e non voglio
che ti preoccupi per me. Quando andrò in paese, passerò da Liliana, mi darà
tue notizie e potrà farti sapere di me. Intesi? E poi, l’hai visto, le medicine
fanno miracoli!»
Delio non era inciampato, né Ramingo l’aveva intralciato. La caduta era
dovuta alla malattia, si era assuefatto al dosaggio e aveva ricominciato a
perdere l’equilibrio.
«Va bene? Ci sentiremo tramite Liliana?» insistette lui.
«Come vuole» rispose Caterina.
«Bene! E adesso vieni, voglio abbracciarti, e se piango come una fontana
fa’ finta di niente».
E prima di piangere, risero.
L’indomani mattina, Delio scivolò in bagno. Il dottore che venne a visitarlo
sostenne che si trattava di costole incrinate e insistette perché facesse una
radiografia di controllo, ma fu impossibile convincere Delio. Non poteva
rischiare che lo trattenessero all’ospedale, Daniele sarebbe arrivato da un
momento all’altro e voleva farsi trovare a casa. Il dottore gli fece un
bendaggio e gli lasciò degli antinfiammatori. Gli impose il riposo assoluto e
in tono fintamente minaccioso gli promise che sarebbe tornato appena dopo
le feste e se allora avesse giudicato necessario il ricovero in ospedale ce
l’avrebbe portato con la forza. Quindi gli fece gli auguri.
Nonostante gli spasimi che provava, Delio si sentiva felice come non era
da tempo. Cominciò a ripetere che quello sarebbe stato il Natale più bello,
suo figlio era di ritorno e Caterina gli aveva appena fatto sapere che sarebbe
rimasta per Natale. Gina non era d’accordo ma, una volta a Roma, avrebbe
avuto tutto il tempo per farle passare il malumore, oppure ci avrebbero
pensato Liliana e Pierre.
Caterina andò a dare una mano a sua zia al negozio, lasciando Delio alla
sorveglianza di Aron che faceva piazza pulita della neve attorno a casa.
«Cosa ti ha fatto per accanirti a tal punto?» lo prese in giro Daniele
imboccando con l’auto lo stradello. Si diedero una pacca sulle spalle e senza
perdere tempo Aron lo mandò dentro casa.
In cucina, Daniele fu investito da un odore di aceto talmente forte da
farlo tossire. Suo padre gli parlò dalla camera: «C’è una colonia di formiche
che di notte banchetta con i resti della cena».
Daniele si affacciò sulla porta. «Cosa ci fai a letto?»
«Avevo sentito dire che non sopportano l’aceto e ho chiesto a Caterina di
provarlo» continuò lui.
«Puro?»
«Molto concentrato».
Appoggiò la borsa per terra. «Come fanno a esserci le formiche se fuori
c’è un metro e mezzo di neve, a parte dove è passato Aron?»
«Devono aver nidificato dietro qualche battiscopa, in casa, e non sentono
le stagioni».
«E allora? Finché rimangono per terra, che problema è? Non fanno niente
di male, al limite basta una spazzata» insistette, trovando di gran lunga
peggiore quell’odore. E andò a mettere su un caffè.
«Mi sembra di sentire tua madre» commentò Delio. Evocava raramente
Teresa in sua presenza e sentendolo preparare la moka continuò: «Si alzava
sempre per prima, mi lasciava la caffettiera sul fornello e la tazzina già
pronta con un cucchiaino raso di zucchero. Non avevo che da accendere il
fuoco e aspettare che il caffè salisse. Lei non lo beveva, non le piaceva, ma
quello era il suo modo di stare con me mentre facevo colazione, perché
all’alba era già nell’orto. Dormiva pochissimo».
«A volte non dormiva affatto» ribatté Daniele chinandosi a salutare
Ramingo.
Delio tastò il comodino alla ricerca delle pastiglie che gli aveva preparato
Caterina e le buttò giù con un po’ d’acqua. Muoversi gli procurava fitte
lancinanti, ma non lo dava a vedere.
«Cosa ti è successo?»
«Mi sono incrinato le costole cadendo. Le pillole hanno smesso di
funzionare».
«Sarà stato un incidente» replicò lui. «Il neurologo aveva detto che in
alcuni casi il trattamento può addirittura arrestare l’avanzamento del
Parkinson e su di te, comunque, ha avuto un esito miracoloso. Guardati le
mani, non tremano».
No, non tremano, pensò Delio, ma la malattia sta comunque sfuggendo
alle maglie delle medicine, è così, non ci si può fare niente. Diceva “la
malattia” come avrebbe potuto dire la camicia o l’erba, ordinaria e vicina da
meritare solo il nome comune. «Sai cosa mi preoccupa più di tutto?» gli
disse. «La paura che procuro negli altri. Eppure, un uomo a terra non fa
niente di male» continuò parafrasando le parole che il figlio aveva usato
poco prima per le formiche. Anche gli insetti, quando sono zampe all’aria
fanno pena, pensò, ma non quanto gli uomini. Non è la morte di un
maggiolino a essere insopportabile, ma quella di un cane o di una persona.
Dev’essere una questione di taglia, concluse, e scosse la testa per
allontanare quei pensieri. «Quando avevi quattro o cinque anni, d’estate,
passavi i dopocena da Rose» raccontò. «Dicevi di andare a giocare con
Cécile, ma non avete mai giocato insieme voi due. Lei guardava la
televisione con Serge e tu facevi compagnia a Rose mentre rassettava in
cucina o rammendava. Facevate sempre discorsi lunghissimi e una sera sono
dovuto venire a chiamarti perché si era fatto tardi. Rose si scusò mille volte
per non averti mandato a casa prima e in quel momento andò via la luce.
Non doveva esserci la luna perché il buio era completo. Rose si spaventò e ti
strinse a sé. Serge scese in cantina a verificare il quadro elettrico mentre lei
non faceva che ripetere che la luce sarebbe tornata e non c’era da
preoccuparsi. Era terrorizzata. Piccole cose possono spaventarla a morte. Tu,
allora, per tranquillizzarla le avevi detto: “Non devi avere paura, Rose, il
buio è solo un colore”. Tornò la luce, e il buio che è solo un colore non l’ho
mai dimenticato. Voglio prenderla così, questa malattia, come una luce
buia». Daniele amò quel racconto e voleva dirglielo, ma suo padre continuò:
«Fra l’altro, quella tua frase mi ha sempre fatto pensare al modo in cui
anche Teresa prendeva le difficoltà della vita e mi piace cercare queste
corrispondenze fra te e lei, fra noi, credere che esista, in fondo, un’alleanza,
una fedeltà familiare, una qualunque forma di appartenenza, anche se, nel
nostro caso, l’appartenenza non ha coinciso con la famiglia e la tua rabbia è
sempre stata il mio dolore».
Daniele evitò il suo sguardo, ma andando a spegnere il fuoco sotto la
moka gli posò la mano sulla sua e calcò la stretta. Ripensò all’unica volta
che lo aveva visto a terra, in cucina, come una stoviglia. L’immagine gli si
era ripresentata spesso nei dettagli più insignificanti, le pieghe della
tovaglia, la punta di un coltello che aveva forato il tessuto, la chiazza
d’acqua e Ramingo di guardia a quella miseria. Si era chiesto varie volte a
cosa pensasse realmente Delio del Parkinson, se fosse afflitto, angosciato o
incazzato, perché era difficile indovinare i suoi pensieri, capire se
l’emotività incontrollata o l’apatia che lo prendevano alternativamente
fossero dovute alla malattia, ai farmaci o se erano il suo modo d’ingannare il
dolore.
L’odore di aceto si stemperò in quello del caffè e il rancore che aveva
covato durante tutta la vita di figlio gli apparve improvvisamente insensato.
Portò a Delio la tazzina fumante, lui la lasciò raffreddare e bevve a sorsi
minimi. Rialzò appena il busto per vedere meglio il figlio, seduto sulla sedia
ai piedi del letto: «Non ho fatto niente per evitare la demolizione della tua
casa a Framura. Avrei potuto, se mi fossi mosso in tempo. Invece avevo
perfino pensato che senza quella non avresti avuto altri posti dove andare,
fuorché qui».
Daniele ricordò quello che gli aveva detto Caterina, sorrise e sentì che
neanche per la casa di Framura provava più rancore. Volle prenderlo come
un incoraggiamento a seguire la propria strada senza guardarsi indietro,
come un padre che spinge il figlio nella vasca grande della piscina, una
spintarella dispettosa che gli dà la rabbia per continuare. Delio era un padre
che aveva speso la vita intera a costruirsi la propria strada e Teresa una
madre con l’anima ipnotizzata dal nuovo mondo, per lei di sogno e
disordine insieme. «È acqua passata, papà».
Delio non credette alle sue orecchie. L’aveva chiamato “papà”, “papà”
aveva detto. E pianse. Esiste, allora, un’età o anche solo un istante della vita
in cui si può provare vicinanza, la vicinanza di un padre e un figlio che forse
non sono nati tali, ma che in quel momento avevano scelto di esserlo.
«Verrà Mario a prendervi in aeroporto, io rimango a casa a sorvegliare
l’arrosto. Si farà trovare agli arrivi, va bene?»
«Non farlo disturbare, prenderemo un taxi».
«Un taxi? Stai scherzando? Ti viene a costare una follia! A Natale, poi!»
«Allora prenderemo i mezzi» insistette Liliana.
«Tutti gli anni è la stessa storia! Ci ritroveremmo comunque in casa a
pestarci i piedi l’una con l’altro, viene volentieri!»
«Va bene, grazie, allora».
«Figurati».
«Sai, Delio è immobilizzato a letto, ma il fatto di festeggiare il Natale con
Caterina gli ha alleviato un po’ la malinconia per la sua partenza. Ti
ringrazia, sa che non è cosa da poco. Quando sono passata a fargli gli auguri
mi ha riempito di lodi per Caterina. “La gente si abituerà a non vederla più,
ma ci vorrà molto tempo” ha detto “perché Caterina non è una persona che
si dimentica facilmente”. Si riferiva ai clienti della Caravane, ma parlava di
sé».
«L’attività quindi è chiusa?»
«Direi di sì, ossia gli ho proposto di cercare qualcuno, ma non sembrava
interessato».
«E a te dispiace che Caterina torni a Roma?»
«Non è un posto per lei, questo, non ci sono prospettive».
«Ti dispiace o no?»
«Mi è successa una cosa strana con lei qui, ho avvertito per la prima volta
di essere a casa, cioè, che questa è casa».
«Alla buonora!» la prese in giro Gina. «Sei lì da una vita!»
Liliana continuò a seguire i propri pensieri. «Credo sia stato il fatto di
tornare a parlare in italiano e con quell’accento romano che non ci leviamo
di dosso... Mi ha riportato indietro, alla mia vita prima del matrimonio,
quando tutto quello che dicevo e che pensavo era in italiano. È strano, mi
sembra una vita anteriore...»
«In qualche modo, lo è».
«Due lingue, due vite?»
«E due paesi» aggiunse Gina.
«Due persone: Liliana e Liliane. Sono gemelle».
«Ma piantala!»
«No, è vero!»
«Macché! Come si dice luna in francese?»
«Lune».
«Ecco, la “luna” e la lune sono diverse secondo te?»
«Sì, la luna è rotonda, come il Colosseo, la lune, invece, non è mai piena.
E anche Liliana e Liliane non sono le stesse, credimi. Quando mi esprimo in
italiano, per esempio, sono più lenta, se parlo in francese, invece, sono
sempre un po’ nervosa. Con Pierre avevamo iniziato a parlare in francese
perché lo imparassi più rapidamente, in vista del lavoro. Gliel’avevo chiesto
io ed è diventata un’abitudine. Anche quando Caterina veniva per l’estate
parlavamo in francese perché lo perfezionasse. In questi mesi, invece,
abbiamo parlato solo in italiano e mi sono resa conto che quando parlo
francese è come se indossassi abiti non miei e che non so portare. Mi sento
inadeguata, ancora adesso».
«Come quando si sogna di camminare per la strada e di accorgersi di non
avere addosso la gonna».
«Sì, proprio così!» confermò Liliana. «Perché il francese per me, è una
lingua senza infanzia, senza filastrocche, senza storie o modi di dire
familiari...»
«Oh, quante storie, Liliana! Parli come se fosse una sofferenza conoscere
una seconda lingua».
«È che ho vissuto nel timore di perdere la mia, di tradirla. Hai ragione,
comunque, la sto tirando troppo per le lunghe. Sono pensieri ad alta voce,
scusa».
«Tu e Caterina siete fatte così. Anche lei è piena di riflessioni tutte sue, di
nostalgie senza capo né coda... Ogni tanto penso che sia più figlia tua che
mia».
«Smettila di dire scemenze!»
«Non sto dicendo niente di male, è un pensiero terra terra. Una volta che
metti al mondo un figlio, non è più tuo. Non è così che si dice? È difficile
accettarlo, c’è qualcosa di lacerante in questo, ma fa parte della vita e una
madre lo sa, anche se non vuole ammetterlo».
«Sai, Gina, ti voglio bene».
«Adesso non esageriamo!» disse allegra. Aprì la finestra e appoggiò i
gomiti sul davanzale. Una ventata d’aria fresca la investì. Un motorino passò
a tutta velocità. «Ahò! Guarda ’ndo vai!» gli gridò un passante. Anche
Liliana lo sentì e rise. «Eccola, Roma, non ti puoi sbagliare!» disse Gina.
Chiuse la finestra. «Ora ti saluto, vado a stirare, ho una montagna di cose.
Allora, Mario si farà trovare in aeroporto. D’accordo?»
«Agli arrivi».
Delio morì la vigilia di Natale, in serata, mentre erano tutti impegnati nei
preparativi del cenone.
Rose stava grigliando i crostini di pane da accompagnare alla zuppa di
pesce, i filetti di salmone erano sotto marinatura dal mattino e li avrebbe
messi in forno direttamente da Delio. Quell’anno, infatti, non aveva seguito
Cécile dalla famiglia del compagno, non se l’era sentita di fare il viaggio, e
aveva preferito restare a casa a festeggiare fra vicini. In cucina non si era
risparmiata. Oltre alla zuppa e al piatto forte, aveva preparato ogni sorta di
antipasto: capesante alla crema di zafferano, involtini di gamberi e coda di
rospo, carpaccio di tonno all’arancia e spiedini di scampi al lardo. A ogni
piatto aveva associato un elemento decorativo: listarelle d’indivia, ciuffetti
di erba finocchina o foglie di prezzemolo fresco, rondelle di limone tagliate a
spirale, alchechengi. Da giorni la cucina era in fermento e lei teneva tutto
sotto controllo, anche se con l’avvicinarsi della vigilia si sentiva sempre più
eccitata, al punto da non sentire nemmeno la stanchezza. I ripiani del
frigorifero erano un incastro unico di recipienti di ogni forma e dimensione.
Per il trasbordo da Delio, aveva tenuto da parte delle cassette di legno e
dissotterrato dalla cantina due borse frigo che usavano per i picnic quando
Cécile era bambina. Aveva preparato anche un po’ di vasellame
supplementare che non era sicura di trovare di là e lo aveva avvolto in
un’infinità di canovacci. Le veniva da ridere a pensare alla faccia di Daniele
quando avrebbe visto tutta quella roba. Non le restava che indossare la
camicetta e il cardigan di mohair già preparati sul letto insieme al foulard,
spruzzato di profumo perché non si sentisse troppo. Aveva sempre trovato
volgare mettere il profumo a pelle.
Anche Aron avrebbe partecipato al cenone sebbene non avesse niente a
che fare con il Natale. Contribuì ai preparativi mettendo a punto un
complesso sistema di luminarie sulla Caravane. Aveva scovato chissà dove
metri di lucine che intrecciò su strutture di fil di ferro per formare una stella
cometa. Avrebbe poi portato il camper sotto il portico, così Delio poteva
vederlo senza bisogno di uscire.
Caterina se lo immaginò, Delio, emozionato fino alle lacrime che evocava
segretamente la sua Teresa, in quella comunione di vivi e di morti così
naturale, al podere. Lei doveva occuparsi della tavola, ma indugiava davanti
allo specchio. Si guardava con il vestito nuovo, comprato per l’occasione, lo
toglieva, lo indossava di nuovo. Si truccava e struccava, si raccoglieva i
capelli e subito dopo li scioglieva.
Finché Ramingo urlò. Un urlo greve, come se qualcuno lo stesse
trascinando via da questa terra. Perfino Rose, da casa sua, lo sentì e si
affacciò alla finestra della cucina senza capire che si trattava del lamento
disperato del cane. Aron abbandonò gli attrezzi e corse dentro, Caterina lo
precedette di un secondo. Ramingo guaiva sulla porta della camera di Delio,
un richiamo straziante che gli usciva dalle viscere, da quella pelle di
tamburo che gli ricopriva le ossa. Lanciò ululati lunghissimi, con gli occhi
semichiusi e il collo teso, poi si trascinò nella cuccia di coperte maleodoranti
che Delio gli aveva improvvisato per l’inverno sotto le scale. Si accovacciò e
lasciò cadere la testa come un sasso. Aron e Caterina sentirono l’urto del
cranio contro il pavimento. Pensarono che fosse morto, ma l’animale riprese
il suo lamento, prolungato, senza più forza, mentre dalla stanza di Delio non
proveniva alcun suono.
Giaceva composto. Un braccio sporgeva dal letto, a offrire la mano aperta
al cane. Il corpo riposava, libero da ogni dolore, dai tremori che lo avevano
scosso come un ramo vecchio. Le labbra sembravano accennare un sorriso, a
voler dire quello che da un paio di giorni non smetteva di ripetere, che era il
Natale più bello.
Daniele rincasò con la macchina piena di ogni bendidio. Caviale, foie
gras, formaggi e champagne, il tronchetto di Natale e i marron glacé della
pasticceria più rinomata della regione, il calendario del nuovo anno che
finanziava un’opera pia nel Terzo mondo e perfino un centrotavola di
vischio che gli avevano rifilato gli scout. Aveva battuto la città in lungo e in
largo fin dal mattino, senza sapere esattamente cosa cercare, con il desiderio
di esagerare, almeno per una volta. Trovò l’ambulanza davanti a casa, la
luce blu delle sirene bagnava i muri dagli scuri aperti. Si precipitò fuori
dall’auto con un grido negli occhi, anche se nessun viavai frenetico
proveniva da dentro, nessun sentore di pericolo. La cucina era deserta.
Nell’ex sgabuzzino, invece, la camera di suo padre, si muovevano alcune
sagome sconosciute.
«Cos’ha?» domandò prima ancora di vederlo, seminascosto dai due
infermieri che gli stavano riunendo le braccia lungo il corpo.
«Dev’essere stata un’emorragia interna» rispose uno di loro. «Una
costola fratturata che ha danneggiato dei vasi sanguigni».
«E perché lo lasciate lì? Corriamo all’ospedale!» sbraitò.
«È morto» rispose l’uomo avvicinandosi a lui in un gesto di condivisione.
Daniele lo afferrò per la casacca. «Corriamo all’ospedale» ripeté
scrollandolo.
L’altro infermiere gli disse di calmarsi, ma Daniele continuava a tenere
l’uomo per la collottola con tutta la forza che aveva, perché dietro di lui
aveva intravisto suo padre, immobile. Con la coda dell’occhio scorse
un’altra figura farsi avanti da un angolo della stanza e si sentì chiamare.
Riconobbe la voce di Aron, lasciò la presa e si girò verso di lui. Il suo
sguardo si smarrì in quello di Aron. Entrò Caterina con Rose, che trascinava
a fatica le sue grosse gambe. Avevano gli abiti della festa e l’espressione
della tragedia. Daniele uscì senza voltarsi.
I due soccorritori scambiarono ancora qualche parola con quella strana
famiglia e ripartirono a sirene spente. Rose raggiunse la sedia in fondo al
letto e si prese fra le mani una catenella della Vergine. Aron portò dalla
cucina un’altra sedia e si sedette di fianco a lei. Caterina distese il lenzuolo
che era rimasto sollevato sopra un ginocchio di Delio e gli accomodò i
cuscini dietro la testa in modo che la bocca non restasse aperta. Gli sistemò
un asciugamano sotto il collo e ne passò un altro, inumidito d’acqua calda,
sul viso. Preparò la schiuma, caricò il pennello e ne applicò uno spesso
strato. Lo rase, come la prima volta che si erano conosciuti, al salone da
Liliana. Passate brevi che via via si allungavano. La testa di Delio si spostava
sotto le sue dita, gli occhi, dietro le palpebre, seguivano automaticamente il
movimento. Caterina controllò il collo e le basette, ritoccò qualche punto, lo
asciugò, lo pulì con la spugna umida e gli mise la crema e qualche goccia di
dopobarba. Con il pettine gli ravviò i capelli che gli aveva tagliato pochi
giorni prima, in vista delle feste. Cambiò le federe e il lenzuolo di sopra,
sprimacciò i cuscini, sbarazzò il comodino dalle scatole di medicine e lo
spolverò, appaiò le ciabatte e le spinse sotto il letto. Gesti precisi, di un
copione che solo lei conosceva, che si autoimponeva. Quando non trovò
nient’altro da fare in camera, andò a prendere una bottiglia d’acqua e dei
bicchieri, ma Rose e Aron non bevvero. Tornò in cucina, riempì la ciotola di
Ramingo che non si mosse dalla cuccia, liberò lo scolapiatti dalle stoviglie e
distese i canovacci sul dorso delle sedie ad asciugare. Lo sguardo le cadde
sul cestino delle uova. Delio segnava la data sul guscio, a matita, per usare
crude solo le più fresche, da bere o per lo zabaione. A Trastevere, in via di
San Francesco a Ripa, c’era una chiesa conosciuta come chiesa delle Zitelle,
dedicata a Pasquale Baylon, il santo a cui si deve la ricetta dello zabaione. Le
venne in mente in quel momento e si rammaricò di non averlo mai
raccontato a Delio. L’avrebbe ascoltata meravigliato da quanto bene
conoscesse la sua città e lei, inutilmente, avrebbe cercato di convincerlo che,
in realtà, sapeva solo poche cose. Aveva sentito dire da una guida che la
tradizione popolare considera san Pasquale Baylon il protettore delle donne
da marito o di quelle sposate a uomini maneschi o incapaci di assolvere i
doveri coniugali. Il santo era apparso in sogno a una di queste e le aveva
dettato un rimedio per ridare il desiderio al marito, una ricetta a base di
uova e vino marsalato chiamata appunto “sanbaion” da cui “zabaione”.
Caterina ripensò allo zabaione di Delio, talmente spumoso che solamente un
cucchiaino riempiva tutta la bocca. Ci sono persone che passano nella vita
degli altri solo per brevi istanti, ma arrivano ad avere più peso di quelle che
vi sono installate da sempre, pensò. Si affacciò alla porta-finestra, che le
restituì la sua immagine nell’abito nuovo. Ma sotto quel vestito il suo corpo
era un guscio e se qualcuno l’avesse toccata si sarebbe rotta in mille pezzi e
da lei sarebbero uscite farfalle, forbici, grida e pezzi di vetro. Dal fienile
proveniva una luce gialla sconosciuta. Aron doveva aver lasciato accesa la
stella cometa. E pianse.
«Rose, di’ una preghiera anche per me» le chiese Aron. «Io non ne
conosco». Si sfilò dai pantaloni un lembo della camicia e ne strappò un
pezzetto, secondo la tradizione ebraica. Era ancora la camicia da lavoro, non
aveva fatto in tempo a cambiarsi.
Rose si asciugò gli occhi. Le sue lacrime erano rugiada, che si forma ma
non scorre. Sussurrò il rosario tenendo il conto dei Padre nostro e delle Ave
Maria sulle dita. Portava la camicia di seta e il cardigan del colore dei suoi
occhi nontiscordardimé. Dentro la scollatura, fra i seni grandi, cadevano
ciondoli di Vergini con il Bambino. Ricordò, nell’immagine di un attimo,
com’era una volta quello stanzino, con le conserve e le bottiglie di vino
impilate sugli scaffali. E le venne in mente quando veniva a dare una mano
a Teresa per fare la salsa, le pelli dure dei pomodori sulle pareti del
passaverdura, l’odore di rame e liquidi cotti, i grembiuli macchiati, le mani
gonfie dal calore, e Delio che rideva e diceva: «Ecco la fucina del Paradiso!»
Tornò a concentrarsi nella litania della preghiera, ma a un tratto il suono
della tromba li fece trasalire. Un suono forte, improvviso come prima l’urlo
di Ramingo. Proveniva da una delle stanze di sopra e premeva contro i muri,
rimbombava tra le pareti, entrava negli armadi, scuoteva gli oggetti. Poi,
poco alla volta, la musica divenne un dolore che si srotolava come un rullo
di stoffa scura, notte addensata sui tronchi del bosco, la tavola non
imbandita, la federa gelatinosa, le meduse rigettate dal mare nella schiuma
bianca dell’onda, l’inverno della neve nei fossi, il letargo dei rospi nei buchi
del terreno. E di nuovo un grido lancinante, animale. Quindi il silenzio. Rose
e Aron attesero, Caterina scongiurò che riprendesse a suonare e Daniele
riprese, celebrò la strada senza nome che portava al podere, le mani sapienti
di Delio dalle unghie tagliate a filo della carne, l’emorragia nascosta che
forse aveva sentito colare sotto la pelle e insanguinargli di ora in ora tutto il
corpo dentro. Forse l’aveva sentita, ma non aveva detto niente, perché
quello era il Natale più bello. La musica allora s’adombrò, s’impennò, si
contrasse in uno spasmo di rabbia, scemò nella delusione, la tenerezza e la
costernazione. Le note si fecero lunghissime, si assestarono, cicatrizzarono
lo sconforto e la consolazione, ma non cessarono.
Caterina portò una sedia in camera di Delio e si sedette vicino ad Aron e
Rose.
«È Daniele che suona» disse Rose quasi a volersi rassicurare che nessun
mostro stesse divorando il podere. La sua voce si udì a stento, travolta dalla
furia della tromba.
«Prega» disse Aron, ma nessuno lo sentì.
Piange, pensò Caterina che appallottolò il fazzoletto.
Non avrebbero saputo dire quanto tempo fossero rimasti a vegliare la
morte di Delio e la disperazione di Daniele. I vetri erano diventati pece,
potevano essere le nove o mezzanotte.
«Rimaniamo qui noi» decise Aron a un certo punto.
«Sì, va’ tu» continuò Rose, sporgendosi verso Caterina e accarezzandole
un ginocchio. «Va’ da Daniele, fallo smettere».
Delio era sereno come non l’avevano mai visto negli ultimi anni, quasi
felice. Le sue membra non temevano quella musica accanita, la assorbivano,
piano, come prima si erano impregnate di sangue. Caterina si alzò, toccò il
dorso della sua mano, l’anulare con la fede fredda, e una fila di lacrime
cadde sul lenzuolo. Poi sorrise a Rose e ad Aron, vicini come passeri sul filo
della luce. “Abbracciatevi finché siete in tempo” sembravano dire i loro
corpi grossi e indifesi.
Trovò Ramingo rannicchiato nella cuccia. Aveva preso il colore delle
coperte. Il cane la guardò con i suoi occhi impiastricciati, senza alzare il
muso. Sembrava schiacciato sotto il suono della tromba, ancora denso ed
esatto dopo ore. Un suono che penetrava la cavità della notte, che si
liquefaceva e si rizzava, incessante, spossante. «Non riesci a dormire?»
chiese chinandosi ad accarezzare l’animale e se non gli fosse stata così
vicina non avrebbe potuto sentirne i mugolii. «Dormi» lo esortò e lo coprì
con un lembo di coperta, come si fa con i neonati.
Salì le scale con il cuore che precipitava, la musica la investiva,
assordante. La porta della camera era aperta. Daniele suonava davanti alla
finestra spalancata. Se fosse stata chiusa, pensò Caterina, le pareti sarebbero
crollate. La stanza era gelata. Accostò la porta accentuando il colpo perché
si accorgesse di lei. Daniele continuò a suonare, i gomiti alti, la tromba al
cielo. Lasciò che lei si avvicinasse e appoggiasse la fronte sulla sua schiena
sudata. Caterina udì l’ultimo boato riecheggiare nel suo corpo. «Basta»
disse con una voce apprensiva, verde acqua come i suoi occhi. Il silenzio
stentò a tornare, un rimbombo sordo rimbalzava da muro a muro. Lui
abbassò le braccia, la tromba gocciolò, lei gliela sfilò di mano e la appoggiò
adagio per terra. Poi chiuse gli scuri e i vetri. Daniele si avvicinò le sue dita
alla bocca. Caterina abbassò la testa e lui gliela risollevò. Rabbrividì. Le
scostò i capelli dal viso con la tenerezza di un gesto che nessuno aveva mai
usato prima con lei. E la baciò, sotto i barattoli impolverati di selci e argille,
scarabei smeraldo, ghiande, quarzi e semi di lunaria. Si sfilò il maglione e lei
il vestito, lui i pantaloni, lei i collant, talmente vicini da sentire l’odore della
tromba impressa a fuoco sulla pelle di lui e il profumo di aria e sapone di lei.
Daniele la coricò sul letto e la cercò sotto la biancheria. C’era qualcosa di
eccitante e rassicurante nel suo modo di volerla e Caterina si abbandonò a
lui, al pensiero che sarebbero stati felici insieme. Sentirono Aron vagare per
la cucina, andare da Ramingo e poi uscire, forse a spegnere la stella cometa.
Aspettando che tornasse al capezzale di Delio, Daniele strinse Caterina a sé.
Abbracciandola, da dietro, le teneva un seno nel palmo della mano e lei si
sentiva una regina, debole e sicura come una regina sul finire della notte.
Gli baciò un lobo, la punta della spalla, il torace, e a lui parve, senza esserne
sicuro però, era solo un pensiero non formulato, che sarebbe potuto essere
felice con lei. Scese lungo il suo collo, fra i seni piccoli, scivolò sul ventre, il
pube. Lei s’incurvò di piacere, gemette, lo richiamò alla sua bocca. La
passione, pensò, una paura in cui sopravvive qualcosa di oscuro. “Non se ne
difenda”. La notte si fece di ghiaccio e civette, chiuse gli occhi, gli cinse la
vita con le gambe e si lasciarono andare al movimento perduto dei corpi
finché il desiderio li prese, li confuse, li vinse.
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