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CAPITOLO 1

EVOLUZIONE DEGLI OMINIDI E ORIGINE DEL LINGUAGGIO (Hublin)

Il problema del linguaggio si è imposto fin dagli inizi della paleoantropologia, nella seconda metà
del XIX secolo e in particolar modo con lo zoologo tedesco Ernst Haeckel che aveva proposto la
denominazione di Pithecanthropus alaus (uomo scimmia muto) per designare in via teorica un
essere a mezza via fra le scimmie e l’uomo vissuto a sud dell’Asia in un lontano passato. Oggi
l’idea di evoluzione è molto mutata da quei tempi e poggia sulla ricostruzione di un albero
complesso, che documenta la contemporaneità, durante tutto il Pliocene e Pleistocene, di diverse
specie di Ominidi (a macchia di leopardo). I primi indizi di una qualche traccia di linguaggio sono
stati ricercati nell’anatomia delle forme fossili e nelle manifestazioni tecniche e culturali degli
Ominidi. In particolare, l’evoluzione volumetrica dell’encefalo è un parametro di facile accesso, ma
si è anche cercato, a partire da calchi interni della scatola cranica, di analizzare l’evoluzione di certi
tratti anatomici dell’encefalo. Si è anche proceduto all’analisi dello sviluppo ontogenetico e delle
vascolarizzazione a partire da materiali fossili. Infine tutta una serie di argomenti sono stati desunti
dal gradi di complessità delle industrie litiche prodotte in epoche diverse, dalle ricostruzioni di
modelli sociali e dalle strategie di sfruttamento dell’ambiente, nonché dalle rappresentazioni
mentali e dalle loro manifestazioni grafiche.

L’uso di utensili in pietra più o meno complesso è attestato a partire da 2,6 mln di anni fa in Africa
Orientale (Hadar) . I complessi litici ritrovati (detti oldovaiani e composti da schegge di roccia)
sono generalmente attribuiti ai primi rappresentanti del genere Homo, risalenti per l’appunto alla
stessa regione e alla stessa epoca. E’ comunque difficile escludere gli Australopitechi (ominidi più
antichi ma anche contemporanei) dalla produzione delle primissime industrie litiche, per il fatto che
gli scimpanzé attuali sono in grado di utilizzare dei percussori e delle incudini per spaccare noci.
Verso 1,5 mln di anni fa emerge, sempre in Africa orientale, la tecnica acheuleana , caratterizzata
dalla produzione di oggetti di profilo e taglia varibili, principalmente bifacciali e rischiatoi destinati
ad essere tenuti a piene mani soprattutto per il taglio di carcasse di animali. Diversi studi hanno
portato alla composizione di liste che raggruppano gusti oggetti in varie tipologie e la lista-tipo di
F.Bordes per il Paleolitico inferiore e medio conta non meno di 63 tipi diversi che dipendono dal
loro scopo e dal materiale sul qual venivano utilizzati. Comunque c’è da dire che le industrie del
Paleolitico inferiore e medio, che continua in Europa fino a 30.000 anni fa, sono caratterizzate da un
livello di standardizzazione crescente ma sempre debole, mentre con l’Homo Sapiens (100.000 anni
fa la loro comparsa) si svilupperanno gradualmente industrie più differenziate, e il loro arrivo in
Europa 40.000 anni fa segnerà l’inizio del Paleolitico superiore le la rapida elevazione del livello di
standardizzazione degli utensili e delle armi. E’ proprio con l’individuazione di catene operative
(concatenarsi di gesti tecnici complessi) che si considera l’indizio dei primi processi mentali
complessi dell’uomo nel Paleolitico. In particolare è il caso della catena operativa Levallois
comparsa alla fine del P.inferiore. Il taglio Levallois, permette di produrre schegge (punte o
lamine?) di forma prestabilita. Si è subito pensato che l’apprendimento di questa serie di gesti
complessi indicasse l’esistenza di un linguaggio, utile alla trasmissione di generazione in
generazione della tecnica; presto però quest’osservazione si è dimostrata infondata: Ohnuma et al
hanno dimostrato che l’apprendimento di questa tecnica era possibile efficacemente anche per
imitazione, senza cioè supporto verbale. Con la sostituzione dell’homo neanderthalensis con quello
sapiens (di origine africana) si è parlato di rivoluzione biologica ma anche di innovazione tecnica e
comportamentale. Si osservano infatti trasformazioni di materie dure animali (osso, avorio, corna)
atti a costruire punte d’armi leggere da getto in grado di essere lanciate a lunga distanza. Queste
punte si conformano a standard tipologici ben stabiliti. Altra innovazione notevole la comparsa dei
microliti, cioè elementi di ritocco su lamelle che intervengono nella fabbricazione di oggetti
compositi con selce, osso e legno. Questa cosiddetta “rivoluzione culturale” del Paleolitico
superiore è stata prima di tutto una rivoluzione sociale e molto probabilmente linguistica. Il
trasporto di materie prime e di manufatti denunciano infatti un’organizzazione sociale abbastanza
diversa da quella prevalsa fino ad allora. Inoltre si assiste, in Europa, all’emergere di gruppi etno-
culturali ben definiti che coprono territori determinati e si organizzano in reti attive su grandi
distanze. Tra questi oggetti che circolano su grandi distanze si distinguono quelli che possono
essere serviti come parure. Inesistenti nel P.inferiore e medio, sono abbondati in quello superiore,
come probabili marcatori sociali che servivano ad identificare lo status di individui o di gruppi e
questo conferma ancor di più il mutamento comportamentale a cui si assiste nel P.Superiore. Altri
due aspetti che confermano questa rivoluzione sono le rappresentazioni figurative o astratte che
esplodono nell’arte rupestre e mobiliare denotando una necessaria presenza di credenze che senza
un supporto linguistico complesso sarebbero inesistenti, e le inumazioni umane ricche di materie
coloranti e depositi di oggetti. Ovviamente l’esame dei dati archeologici non permette di affermare
in modo certo la comparsa di un linguaggio complesso prima della comparsa dell’Homo Sapiens. Il
punto resta tuttavia di determinare quando i comportamenti “moderni” hanno fatto la loro reale
comparsa prima di apparire nel continente europeo fra 40 e 35 mila anni fa. Bisogna prendere infatti
in considerazione l’uscita dall’Africa di uomini anatomicamente moderni in un periodo che va fra
100 e 50mila anni fa verso il continente australiano. Sembra infatti difficile che un popolo in grado
di affrontare una simile traversata con imbarcazioni adeguata fosse sprovvisto di un qualche
linguaggio complesso che permettesse anche l’elaborazione di situazioni ipotetiche e le proiezione
nel tempo.

Solo negli anni Settanta, con Leitman, Crelin e Lieberman, si sono fatti i primi tentativi di
ricostruzione delle parti molle interessate nella produzione del linguaggio nelle specie di Ominidi
scomparsi. La base del cranio, durante il corso dell’evoluzione del genere umano, è interessata da
un fenomeno di flessione che è connesso alla crescita della massa dell’encefalo. Nel bambino, come
nella scimmia, questa flessione è debole mentre la faringe e le cartilagini ioidee sono in posizione
alta e questo permette una separazione migliore fra canale respiratorio e alimentare rispetto ad un
adulto ma non consente le stesse vocalizzazioni. Con la crescita la laringe si posiziona in basso
grazie alla flessione del basicranio e questa posizione permette una vocalizzazione più complessa.
Attraverso studi sui fossili si è scoperto che i neandertaliani presentano una morfologia immatura
rispetto agli standard moderni con la laringe non completamente discesa. Si è cosi messa in dubbio
la loro capacità di riprodurre certi suoni. Dal punto di vista dell’adattamento però non è certo che il
grande sviluppo verticale della faringe sia legato alla produzione del linguaggio. Infatti nell’uomo
lo sviluppo della laringe continua per tutta la pubertà fino all’età adulta, cosa che non accade nella
donna e la lunghezza delle corde vocali dipende dalla loro massa corporea: è possibile quindi che
l’allungarsi della faringe e delle corde vocali negli Ominidi maschi risulti dalla selezione di caratteri
favorevoli all’intimidazione vocale nelle rivalità interindividuali. Altri dati studiati sui fossili sono
stati il diametro del canale spinale nella regione dorsale ( la dilatazione del midollo nella regione
che corrisponde ad un alto grado di controllo riflesso dei muscoli del torace interessati al controllo
della respirazione si riscontra sia nell’uomo moderno che in quello di Neanderthal) e lo studio della
percezione dei suoni e dell’orecchio medio: questo presenza nell’Homo del Pleistocene differenze
minime rispetto a quello dell’uomo moderno anche se nell’Australopiteco la differenza con
l’orecchio moderno è netta nelle dimensioni e nella forma. Quello antico è molto più ridotto e
adatto alla percezione di frequenze più alte.

Nell’uomo, la capacità di sviluppare un linguaggio complesso è legata allo sviluppo


importantissimo del suo cervello e alla differenziazione delle aree implicate nella produzione e
comprensione del linguaggio. Esse sono: l’area di Broca e l’area di Wernicke che è implicata nella
decodificazione del segnale vocale. Si tratta comunque di una specializzazione di aree che
contribuiscono ad altri aspetti della cognizione (imitazione, vocalizzazione, memorizzazione) e non
sono quindi autonome e legate strettamente al linguaggio. Uno sviluppo particolare di queste aree p
stato identificato in Homo abilis a partire da 1,8 mln di anni fa anche se questo non fa un inidizio
certo della presenza del linguaggio articolato. Dal punto di vista della taglia del cervello si osserva
un aumento costante durante tutto il corso dell’evoluzione degli Ominidi, tuttavia tale
accrescimento è in parte legato all’aumentare della taglia e della massa corporea. Il coefficiente di
encefalizzazione aumenta dunque molto poco fra 3,5 e 0,5 mln di anni fa, al contrario a partire da
500mila anni fa, si osserva un aumento rapido di tale coefficiente che rappresenta una sfida
adattativi sotto molti punti di vista per gli Ominidi. Sotto quello fisiologico, visto che il cervello
necessita di una quantità alta di energia, forse il passaggio ad un’alimentazione a base di carne ha
risolto il problema nell’Homo ergaster. Un altro problema è legato alla gestazione e al parto poiché
il metabolismo basale della madre limita lo sviluppo encefalico del feto: l’uomo è un essere
“altriciale secondario” cioè ha delle modalità di crescita particolari che consistono in una
gestazione lunga, nella nascita di un bambino unico e con sensi funzionali che gli permettono di
interagire fin da subito col mondo circostante,in uno sviluppo motorio però ridotto e in un encefalo
di piccola taglia. Il cervello quindi accresce le sue dimensioni man mano che il bambino cresce ed è
durante questo lungo periodo che il bambino acquisisce il linguaggio. E’ dunque cruciale
determinare in quale momento dell’evoluzione degli Ominidi questo particolare dispositivo si è
attivato.Attraverso studi su fossili di microstrutture dentali si è scoperto che gli Ominidi del Plio-
Pleistocene non avevano una tappa giovanile prolungata, mentre condizione simile a quella
moderna possedevano Homo erectus ed ergaster. Anche se Dean ha poi smentito lìipotesi
sostenendo che anche queste specie non presentavano ancora una crescita lunga quanto quella
dell’uomo attuale. Dunque è essenzialmente nella finestra di tempo che va da 1 mln e 100mila anni
fa che il modella di crescita “umano” ha preso corpo.

Per concludere si può dire che tra 1,8 e o,6 mln di anni fa, nell’Homo ergaster e nell’Homo erectus,
si può accogliere l’ipotesi di un’assenza di linguaggio articolato. Tra 600mila e 40mila anni fa, si
verifica una svolta importante nell’Homo rhodesiensis, nell’Homo neanderthalensis, e nell’Homo
sapiens antico. Un protolinguaggio è molto probabilmente gia sviluppato. Meno di 400mila anni fa
e probabilmente molto prima in certe aree geografiche, l’Homo sapiens possiede un linguaggio
moderno.

CAPITOLO 2
MALATTIE MONOGENICHE E TURBE COGNITIVE E DEL COMPORTAMENTO
(Mandel)

Lo studio delle malattie legate alla disfunzione di un gene identificato costituisce un approccio
molto fruttuoso ai fini della comprensione del ruolo dei geni nel contesto dell’organismo umano.
Ciò è particolarmente importante per l’analisi dei meccanismi genetici legati alle funzioni cognitive.

Per definizione si parla di ritardo mentale quando un individuo presenta prima dei 18 anni un QI
inferiore a 70, con deficit del comportamento adattativi. Le cause del ritardo mentale sono di
diversa natura: genetica, biologica non genetica o multifattoriale, con la concausa di fattori genetici
e ambientali. Il ritardo mentale viene riscontrato come conseguenza di numerose malattie genetiche
e rivela che il pieno uso delle funzioni cognitive umane richiede un funzionamento ottimale del
nostro sistema nervoso centrale. Alcuni ritardi mentali di natura genetica sono la conseguenza di
anomalie legate allo sviluppo anatomico del cervello, ad esempio le lissencefalie. Un gene del
ritardo mentale non è in generale un gene che assicura una funzione nei meccanismi specifici dei
processi cognitivi. Le forme potenzialmente più interessanti per lo studio dei meccanismi della
cognizione sono quelle in cui i deficit cognitivi presenti nei pazienti appaiono i più selettivi.
Dal 1900 al 1960, numerosi studi hanno mostrato una prevalenza di circa il 20-30% di pazienti di
sesso maschile nelle strutture che accolgono handicappati mentali. Una prospettiva sociologica
costituirebbe una spiegazione possibile (supponendo che le donne con ritardo mentale fossero più
frequentemente custodite dalle loro famiglie). A partire dagli anni 70 però, è emerso il concetto di
ritardo mentale legato al cromosoma X. In effetti, le malattie recessive legate al cromosoma X
colpiscono in maniera selettiva i maschi (che hanno un solo cromosoma X), mentre nelle femmine,
che hanno due cromosomi X, la presenza dell’X normale compensa, in generale, una mutazione
presente nell’altro cromosoma X. L’identificazione di numerosissime famiglie in cui il ritardo
mentale è associato alla presenza del sito fragile sul cromosoma X conduce alla descrizione delle
caratteristiche fisiche e comportamentali e che definiscono la sindrome dell’X fragile.

La sindrome dell’X fragile è la causa più frequente di ritardo mentale ereditario monogenico.
Colpisce circa un uomo su 4000, provocando un ritardo mentale da medio e grave, con un Qui da
30 a 60. La trisomia 21 è nettamente più frequente ma si tratta di un incidente cromosomico molto
spesso sporadico. Nel caso dell’X fragile, si possono invece trovare frequentemente delle persone
colpite, in più rami, di una stessa famiglia. Le turbe cognitive legate alla sindrome dell’X fragile si
traducono inizialmente in un ritardo del linguaggio, successivamente in anomalie del linguaggio e
errori di articolazione, nonchè in iperattività, incapacità di sostenere lo sguardo, insistenza del
battito delle mani e ipersensibilità agli stimoli sensoriali. Le femmine affette presentano spesso
notevoli difficoltà di apprendimento (soprattutto in aritmetica), con un carattere timido e ansioso.

La sindrome dell’X fragile è dovuta ad una mutazione particolare presente in un gene chiamato
FMR1 che provoca l’assenza delle proteina codificata da questo gene, la FMRP. L’individuazione
della mutazione permette un’affidabile diagnosi postatale della sindrome in un paziente con ritardo
mentale. Nella famiglia del paziente, la ricerca della mutazione è in egual modo utilizzata per
l’individuazione di parenti senza deficit mentali, ma che hanno un forte rischio di trasmettere la
malattia ai loro figli. Negli ultimi anni, la ricerca e lo studio sistematico della famiglie che
presentano un ritardo mentale legato all’X non specifico, hanno condotto all’identificazione di una
dozzina di geni in cui la mutazione è suscettibile di provocare questo tipo di ritardo mentale.

Le sindromi da microdelezioni negli ultimi anni si sono rivelate responsabili di malattie importanti
per la loro frequenza, nonché complesse per le loro manifestazioni cliniche, riguardanti quasi
sistematicamente aspetti fisici, cognitivi e comportamentali. Tra queste:
La sindrome di Prader-Willi colpisce un bambino su 15000 ed è dovuta all’assenza, nella copia
paterna del cromosoma 15, di una regione comprendente 7 geni. I bambini hanno un ritardo mentale
da lieve a medio, con un carattere spesso iracondo, testardo e ossessivo. La memoria a lungo
termine, la percezione visuo-spaziale e la memoria visiva sono conservate meglio della memoria
uditiva a breve termine. I bambini affetti da questa sindrome manifestano una compulsione verso il
cibo permanente che provoca obesità considerevole in assenza di un appropriato controllo
nutrizionale e psico-educativo.
La sindrome di Smith-Magenis corrisponde alla delezione di più di 20 geni in una delle copie del
cromosoma 17. Questa sindrome, che colpisce un bambino su 25000, è caratterizzata da un ritardo
mentale lieve, turbe del comportamento (elevata iperattività, eccessi di collera, autoagressività) e
profondi disturbi del sonno.
La sindrome della delezione 22q11 è particolarmente frequente e colpisce un bambino su 5000. La
regione mancante, nella stragrande maggioranza dei pazienti, comprende 23 geni. Malformazioni
cardiache si riscontrano nel 75% delle persone colpite. Esistono difficoltà nell’apprendimento (QI
medio 70-80) e una relativa debolezza di percezione visuo-spaziale. Un ritardo mentale lieve è
presente nel 40% dei pazienti e nell’adulto sono possibili turbe psicotiche (soprattutto schizofrenia).
La sindrome di Williams è dovuta alla delezione di una regione del cromosoma 7 comprendente una
ventina di geni, e la sua frequenza è stimata come 1 su 20000 nascite. Una malformazione vascolare
si manifesta per la presenza del gene elastina nella regione rimossa. Ma sono le caratteristiche
cognitive dei pazienti affetti da questa sindrome che stanno all’origine di numerosi studi. I bambini
presentano un ritardo mentale lieve (QI 50-70), il linguaggio è conservato, con un vocabolario ricco
e con una memoria verbale molto buona. Essi manifestano un comportamento amicale, ma la
manifestazione caratteristica è un deficit della costruzione visuo-spaziale: questi bambini disegnano
un oggetto o un animale ma non riescono a collegare gli elementi che li compongono tra loro, anche
se sono capaci di nominarli con molta precisione. A dispetto di questo deficit essi posseggono un
buon livello di riconoscimento facciale basato però sull’analisi dei dettagli e non sull’aspetto
globale. Sembra che questo deficit si corregga gradualmente almeno in parte: si tratterebbe di un
disturbo dello sviluppo quindi piuttosto che di un’incapacità organica. Si è scoperto che causa di
questa sindrome sarebbe il gene LIMK1 (lim kinasi) localizzato nella regione rimossa, anche se il
punto rimane ancora controverso.

Nel 1990 una breve pubblicazione nella prestigiosa rivista britannica Nature, descrisse una grande
famiglia (KE) che presentava, su 3 generazioni di persone, una disfagia significativa accompagnata
da un deficit “grammaticale”, che sembrava legato ad una trasmissione di tipo autosomico
dominante. L’autore descrive in questi pazienti delle difficoltà apparentemente selettive
nell’utilizzo dei tempi e nella costruzione del plurale delle parole. Egli ipotizza che questi pazienti
abbiano difficoltà ad acquisire alcune regole grammaticali a partire da esempi e apprendano, di
conseguenza, il plurale dalle parole come un elemento lessicale indipendente. Nel 1991 Pinker,
indica che questa famiglia costituisce una prova che alcuni aspetti nell’uso della grammatica hanno
una base genica. In poche parole, potremmo dire che in questa famiglia risulta mutato un gene della
“grammatica”. Nel 1995 uno studio più dettagliato insiste soprattutto sulle difficoltà di articolazione
delle parole, sul controllo fine dei movimenti oro-facciali e sulla presenza di un deficit generale
della produzione e della comprensione del linguaggio. Un successivo studio rileva anomalie
strutturali e funzionali nella corteccia frontale e nel nucleo caudato dei pazienti. Lo studioso
francese Anthony Monaco localizza il gene mutato in una grande regione del cromosoma 7 che
sarebbe il FOXP2. Il FOXP2 sarebbe quindi coinvolto nei processi di sviluppo che culminano nella
parola e nel linguaggio. Altri studi comparativi hanno messo in luce che questo gene risulterebbe
più simile tra lo scimpanzé e il topo piuttosto che tra l’uomo e lo scimpanzé e che il genere è stato
soggetto a una pressione selettiva nel corso dell’evoluzione umana recente. Gli autori dicono che
uno dei due cambianti nella sequenza codificante sopraggiunto in questo gene coinvolto nella parola
e nel linguaggio, potrebbe aver permesso un migliore controllo dei movimenti oro-facciali, come
tappa nello sviluppo del linguaggio articolato. Essi datano la fissazione di questa modifica nella
popolazione umana a meno di 200000 anni fa, compatibile con un modello in cui l’acquisizione del
linguaggio parlato sarebbe stato un elemento motore dell’espansione della specie umana. Anche se
queste conclusioni restano ancora alquanto speculative.

Nel 1993 Brunner et al. hanno descritto una grande famiglia nella quale alcuni uomini presentavano
un leggero deficit intellettivo, con un comportamento deviato, aggressivo e talvolta violento,
soprattutto nelle situazioni di stress (piromania, tentativi di stupro, esibizionismo). Il modo di
trasmissione è legato all’X. Sembra che il gene responsabile sia il MAOA che mutato nei topi ha
dato risultati di aggressività. Eppure, sei anni più tardi, due studi su popolazione a bersaglio (con
turbe del comportamento) non hanno riscontrato alcuna mutazione del gene MAOA quindi è chiaro
che c’è ancora molta confusione su questo tipi di studi.
CAPITOLO 3
EVOLUZIONE CULTURALE: LO SPETTRO DEI POSSIBILI (Gayon)

Margaret Mead sosteneva che :”Per cultura s’intende l’insieme delle forme acquisiste di
comportamento che un gruppo di individui, unito da una tradizione comune, trasmette ai suoi figli”.
Così intesa, la cultura consiste in un insieme di habitus che hanno in comune tre caratteristiche:
sono forme tipiche di comportamento sociale, sono trasmissibili, e questa trasmissione avviene per
apprendimento e imitazione in un contesto di comunicazione sociale. Se accettiamo questa
accezione particolare della parola “cultura” il problema del rapporto tra geni e cultura s’impone in
virtù di un’analogia evidente. I geni sono le unità di trasmissione biologica dei caratteri, mentre la
cultura consiste in comportamenti-tipo trasmissibili nella società tramite apprendimento. Il parallelo
tra concetto fondamentale della genetica e concetto antropologico di comportamento culturale è
dunque forte. Si tratta però di sapere se lo studio dei fatti di cultura, cosi rigidamente separato dalle
scienze della natura nel corso del XX secolo, può trovare nelle conoscenze contemporanee
sull’evoluzione l’occasione di un rinnovamento teorico. Distingueremo allora quattro modalità
teoriche di ciò che oggi viene chiamata “evoluzione culturale”. Con tale termine bisogna intendere
ogni approccio a fatti di cultura che ammette che la teoria moderna dell’evoluzione biologica può
rinnovare in profondità il loro studio.

La prima questione è quella di sapere come la capacità culturale della specie umana si è costruita
nel tempo, e quali sono le sue basi genetiche e neurofisiologiche. Si tratta di ricostruire un certo
numero di attitudini universali di comportamento, di identificarne le basi genetiche e
neurofisiliogiche, e di ricostruire le condizioni particolari in cui si sono instaurate nel corso
dell’evoluzione. Da un punto di vista descrittivo conviene determinare ciò che è specificatamente
umano: l’etologia e la psicologia animale. Bisogna in secondo luogo spiegare le cose secondo due
diverse prospettive: una nomologica (di regole che fondano il comportamento culturale umano) e
una storica (quella evoluzionale). Sotto questo ultimo punto di vista è importante sapere in quali
condizioni ecologiche si sono formatele attitudini cognitive, comunicative ed etiche che sono alla
base del fenomeno culturale umano. Il programma è a priori neutro sulla questione dell’unione o
della separazione tra evoluzione biologica presente e storia culturale presente dell’umanità.
Evoluzione culturale in questo quadro di ricerca, significa in realtà evoluzione verso la cultura. Si
situa in una scala storica di ampia durata,che corrisponde alle origini dell’uomo moderno, grosso
modo 100mila anni fa.

La seconda modalità teorica dell’evoluzione culturale è agli antipodi della precedente. Corrisponde
al complesso di tentativi che sono stati fatti da circa 3 decenni per spiegare e descrivere il
cambiamento culturale attraverso concetti e modelli che si ispirano alla biologia delle popolazioni, e
più in particolare, alla genetica evolutiva. Il postulato metodologico è che esiste una profonda
analogia tra trasmissione genetica e trasmissione culturale, e di conseguenza tra evoluzione genetica
ed evoluzione culturale. La nozione di item culturale sta alla base della teorica evoluzionistica
culturale: le parole, le regole grammaticali, l’espressione facciale o gestuale delle emozioni, la
categorizzazione dei colori, gli oggetti tecnici, le abitudini amministrative, sono dei buoni esempi di
item culturali possibili di replicazione. Questi item sono trasmissibili sia in via verticale nel quadro
delle relazioni intergenerazionali (trasmissione del cognome nelle famiglie) sia orizzontale
(diffusione mediatica di un nome). Come i geni, questi item possono mutare, e le mutazioni
possono diffondersi in base a processi formalmente analoghi a quelli che controllano a diffusione
degli item genetici: selezione culturale, deriva aleatoria, migrazione. Sulla base di queste e di altre
analogie, biologi e specialisti in scienze sociali, a partire dagli anni Sessanta, hanno provato a
trasporre e adattare a diverse scienze sociali dei modelli matematici presi in prestito dalla biologia
delle popolazioni, tutto ciò in diversi campi del sapere come l’epidemologia delle idee, la
linguistica, l’economia. I tratti salienti di questo programma sono in sintesi: la deliberata volontà di
introdurre metodi e teorie quantitative nel campo delle scienze sociali, la fecondità euristica
intrinseca ai modelli della biologia delle popolazioni, che sono stati esportati in campi molto diversi
del sapere, l’aspetto secondo il quale la traduzione di questi modelli non implica in alcun modo che
i fenomeni cosi modellizzati siano ridotti o spiegati a partire dalla biologia dell’evoluzione, ed
infine l’estrema rapidità dei fenomeni descritti dai modelli. Negli organismi la replicazione dei geni
va di pari passo con la riproduzione degli organismi che li portano. Questa rapidità della diffusione
permette inoltre di comprendere che la dinamica globale di diffusione non è intenzionale, mentre gli
avvenimenti individuali di replicazione sono intenzionali. La scala temporale di questa modalità
dell’evoluzione dell’ordine culturale è limitata: da qualche ora, a qualche anno, a qualche decina
d’anni.

Una terza modalità dell’evoluzione culturale getta uno stretto ponte tra scienze biologiche e scienze
della cultura. Consiste nel mostrare come, in certi casi, l’evoluzione genetica delle popolazioni
umane e l’evoluzione culturale di alcuni dei loro tratti manifestano un forte parallelismo. Il
parallelismo tra evoluzione culturale ed evoluzione genetica delle popolazioni non implica
necessariamente un’interazione causale tra questi due modi evolutivi con riferimento a dei tratti
stabiliti. Rinvia piuttosto a una causa comune, che può essere a sua volta estrinseca o culturale, e
capace di influenzare le due serie. Questo modello non ha senso se non su scala temporale
intermedia: evoluzione lenta in rapporto ai tempi storici e delle civiltà, ma significativa sulla scala
dei tempi preistorici (1.000-10.000 anni).

La quarta opzione teorica è quella del connubio tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale. Si
tratta di una via esplorata da Wilson, e , sulle sue tracce, dalla sociobiologia umana. L’ipotesi vale
in particolare per la specie nella quale i comportamenti sociali hanno raggiunto un grado di
complessità ineguagliato, la specie umana. Wilson ha affrontato in maniera diretta e sistematica il
tema dell’evoluzione culturale. Lo ha fatto in un libro di stampo molto diverso dai precedenti, dal
titolo Gens, Mind and Culture. Lumsden e Wilson elaborarono una teoria generale della
coevoluzione tra geni e cultura costruendo un quadro teorico che, secondo loro, stabilisce la
possibilità logica di tale connubio e, sempre secondo loro, della sua forte verosimiglianza. I due
atori designano alcuni item culturologeni (indicano dei comportamenti-tipo trasmissibili che
generano la cultura, accessibili attraverso insegnamento e apprendimento). Essi ammettono la
possibilità teorica che la probabilità d’uso di un culturogene dato subisca l’interferenza di regole
epigenetiche a loro volta inquadrate dai geni. Questo corrisponde a ricusare l’idea diffusa che gli
item culturali sono in ogni circostanza l’oggetto di una trasmissione culturale pura. Secondo Wilson
“i geni tengono la cultura a guinzaglio” cioè ogni storia culturale è impossibile, mentre sono
possibili solo degli scenari compatibili con un adattamento ragionevole delle popolazioni umane al
loro specifico ambiente. L’ipotesi di una trasmissione culturale pura è secondo Wilson abbastanza
improbabile, perché significherebbe da un punto di vista biologico che le popolazioni umane
sarebbero incapaci di distinguere in un certo ambiente degli item culturali adatti e degli item
culturali deleteri. La conclusione del libro è che la coevoluzione dei geni e della cultura è una
proprietà ineluttabile della specie umana. In altre parole, l’emergere della cultura non ha arrestato
l’evoluzione biologica dell’umanità; al contrario, essa costituisce un elemento portante all’interno di
un’evoluzione biologica in atto. I comportamenti cognitivi e sociali che aumentano la capacità di
adattamento delle popolazioni umane tendono ad essere rinforzati da vincoli epigenetici a loro volta
controllati dai geni. Wilson e Lumsden si arrischiano a una stima del tempo necessario perché un
culturogene (item culturale) sia geneticamente fissato in una popolazione umana: cinquanta
generazioni, dunque circa mille anni.
CAPITOLO 4
L’EVOLUZIONE DEGLI ANIMALI E L’ORIGINE DEL CERVELLO (Balavoine)

La nostra buona conoscenza dell’albero genealogico dei vertebrati permette di comprendere come il
cervello si sia evoluto in maniera diversa in seno ai vertebrati. Per esempio, nei mammiferi la
corteccia si è sviluppata in maniera considerevole in correlazione all’aumento delle facoltà
cognitive. D’altro canto, con conosciamo praticamente nulla sull’origine evolutiva del cervello. Non
si trova tra i vertebrati attuali un vero e proprio “stadio intermedio” che potrebbe aiutare a
comprendere come questo organo si sia evoluto. Tradizionalmente si è sostenuto che il cervello si
sia evoluto progressivamente negli antenati diretti dei vertebrati, e che gli organi di tipo celebrale
che si incontrano in altri animali non hanno un rapporto diretto con l’encefalo dei vertebrati. Questa
teoria sembra fortemente assodata per il fatto che il cervello non si trova negli animali che sono
parenti più prossimi dei vertebrati, cioè ascidie e anfiossi (procordati che formano con i vertebrati il
gruppo dei cordati). Considerando esclusivamente i cordati, tutto sembra indicare che non soltanto
la presenza del cervello ma anche quella di una testa è una novità evolutiva propria dei vertebrati.

Il possesso di un cervello non è assolutamente appannaggio dei vertebrati. Se si definisce un


cervello semplicemente come una concentrazione del sistema nervoso al livello della testa di un
animale, ci si persuade che la maggior parte degli animali che posseggono una testa abbia anche un
cervello. Questi cervelli presentano, tuttavia, un’organizzazione anatomica molto diversa da quella
dei vertebrati, e appaiono a priori molto sofisticati. Il cervello dei vertebrati è un organo composito,
formato fondamentalmente da 4 parti: telencefalo o corteccia, il diencefalo, il mesencefalo e il
romboencefalo, che si formano in quest’ordine. Negli invertebrati, gli organi che possono essere
definiti come “cervelli” sono più generalmente designati con il nome di gangli cerebroidi.
L’anatomia di questi organi è estremamente diversa. Il cervello degli insetti, è molto sviluppato e
complesso ed è formato da un paio di gangli cerebrali divisi in tre lobi. I molluschi cefalopodi
presentano un cervello ben sviluppato composto dalla fusione di più gangli. I “cervelli” degli
invertebrati presentano un’anatomia notevolmente diversa rispetto all’encefalo dei vertebrati che è
una struttura divisa in più lobi, situata in posizione dorsale rispetto all’esofago, collegata ad un
ganglio sottoesofageo attraverso un anello nervoso. La domanda è: i cervelli degli invertebrati si
sono evoluti indipendentemente da quelli dei vertebrati?

Sono stati disegnati innumerevoli alberi filogenetici degli animali, sulla base del confronto di
caratteri morfologici ed embriologici. Da una quindicina di anni l’analisi e il confronto di sequenze
genetiche hanno permesso di ottenere tesi completamente indipendenti. Da li è nato il principio di
“filogenesi molecolare” e cioè: più le strutture dei geni confrontati sono simili, più gli organismi
indagati sono imparentati. I geni utilizzati per ricostruire la filogenesi degli animali su grande scala
sono al momento scarsamente numerosi per due motivi principali: primo i geni omologhi (ereditati
da un antenato comune) in tutti gli organismi viventi non sono cosi frequenti e secondo,
l’individuazione della struttura di un particolare gene in un campione di animali sufficientemente
significativo è una ricerca che necessita di molto tempo. I geni di gran lunga più studiati sono stati
quelli che codificano per l’RNA ribosomale. Questi sono geni universali che si trovano sia nei
batteri come negli elefanti. Il loro studio ha condotto qualche anno fa alla prima importante sintesi
sulla filogenesi degli animali, confermata poi in seguito da molti altri tipi di geni. La filogenesi
molecolare conferma gli aspetti più importanti delle ipotesi sviluppate dagli studiosi dopo il XIX
sec. Gli animali considerati più antichi, le spugne, si collocano alla base dell’albero. I polipi e le
meduse, di semplice organizzazione ma con cellule nervose si imparentano di più con gli animali
“superiori”. Tutti gli altri animali, in particolare quelli con un cervello complesso, fanno parte del
gruppo dei “bilateri” o a “simmetria bilaterale”: essi posseggono un tubo digestivo completo, una
testa dotata di organi sensoriali e un sistema nervoso concentrato con un conseguente stile di vita
più attivo. I bilateri sono a loro volta divisi in due gruppi: i deuterostomi (che raggruppano i
vertebrati e i loro parenti prossimi come gli echinodermi) e i protostomi (che comprendono
invertebrati con pochi punti in comune). I geni, di contro, indicano che i protostomi sono divisi in
due sottogruppi: gli ecdisozoari (animali a scheletro esterno e vermi cavitari) e i trocozoari
(molluschi, anellidi, vermi piatti). I primi animali, con un’organizzazione molto semplice, come le
spugne, non avrebbero posseduto cellule nervose. In seguito, la comparsa degli animali con
un’organizzazione più complessa, dotati di cellule muscolari, simili ai polipi e alle meduse, sarebbe
andata di pari passo con l’acquisizione di neuroni. Infine, l’acquisizione, negli antenati dei bilateri,
di un corpo allungato e di uno stile di vita attivo, sarebbe concomitante all’acquisizione di un
sistema nervoso più concentrato. Gli animali in cui il cervello è più sviluppato (vertebrati) sono
imparentanti anche con altri effettivamente privi di cervello (procordati ed echinodermi) Tutto
sembra concorrere ad indicare che i diversi tipi di cervelli si sarebbero evoluti indipendentemente
negli animali più attivi. Lo scenario di un’evoluzione separata di diversi tipi di cervello nei bilateri
può essere iscritto molto bene nei limiti della teoria tradizionale sull’evoluzione del piano di
organizzazione. Queste teorie considerano un ultimo antenato comune dei bilateri (detto
Urbilateria) con organizzazione semplice. Questa ipotetica forma ancestrale è tavolata dotata di un
protocervello, ma si tratta solo di una modesta concentrazione di cellule nervose a livello della parte
anteriore del corpo. Questo organo ridotto è adatto agli ipotetici bisogni minimi di questo animale,
generalmente un minuscolo verme. A partire da questo minuscolo animale è facile immaginare che
alcuni suoi discendenti saranno dotati di organi sensoriali più sofisticati, di un modo di locomozione
più efficace, e di conseguenza, di un cervello più sviluppato diviso in due regioni specializzate.

L’idea che l’antenato dei bilateri disponesse già di un cervello elaborato è lontana, al momento ,
dall’essere accettata dall’umanità. Infatti questo dibattito è strettamente legato alla questione della
complessità generale di Urbilateria. Per molti, le sorprendenti similitudini scoperte circa la funzione
dei geni durante l’ontogenesi tra gruppi distanti, non riflettono necessariamente il carattere
ancestrale delle strutture che essi determinano. In un certo qual modo, per le semplici funzioni che
questi geni assumerebbero, numerosi geni dello sviluppo sarebbero stati cooptati in più riprese in
gruppi distanti per assumere delle funzioni relativamente comparabili. Si può quindi in questo caso
mantenere l’ipotesi di un antenato semplice, sia anatomicamente che geneticamente; questo
antenato avrebbe già posseduto tutti gli strumenti che permettono di costruire una morfologia più
elaborata.

Secondo l’ipotesi di Arendt e Nubler-Jung la struttura del cervello si sarebbe considerevolmente


ridotta in un gran numero di gruppi animali. Una tale idea sembra andare a priori contro il buon
senso. Noi abbiamo la tendenza a ritenere che il cervello conferisce un vantaggio biologico decisivo
nella competizione per la vita. Lo stile di vita attivo che permette il funzionamento di un cervello
sarebbe naturalmente più efficace rispetto ad uno stile di vita più passivo. Perché in queste
condizioni immaginare la perdita secondaria di questi vantaggi? Infatti, quando si considerano i
gruppi di animali bilateri nei quali è assente un vero cervello, ci si persuade che questi gruppi
corrispondano spesso a degli animai fissi o poco attivi. E’ il caso delle ascidie e gli anfiossi, i più
vicini parenti dei vertebrati. Le funzioni assicurate da un cervello complesso negli antenati attivi di
questi gruppi non sono più necessarie negli animali che si sono adattati ad uno stile di vita
sedentario. La perdita della struttura che assicurava queste funzioni diviene quindi possibile. Un
altro corollario dell’ipotesi di un antenato Urbilateria complesso, è che è più facile immaginare
un’evoluzione rapida della diversità dei piani di organizzazione dei bilateri attuali, a partire da
questo antenato che ha gia accumulato una buona parte di strutture e organi complessi presenti nei
suoi discendenti. Questo antenato complesso potrebbe costituire una parte della soluzione
all’enigma dell’”esplosione cambriana”. Negli archivi fossili, gli animali bilateri appaiono
improvvisamente nel corso del Cambriano, circa 540-520 milioni di anni fa. I gruppi animali che
risalgono a quest’epoca ricoprono una buona parte della diversità attuale. E’ sorprendete il fatto che
una tale diversità di organismi compaia in un lasso di tempo geologico cosi ridotto. Nessun fossile
che possa essere interpretato come prossimo dell’antenato comune o del nostro Urbilateria ipotetico
è stato al momento scoperto prima del Cambriano.

CAPITOLO 5
LO SVILUPPO DELLA CONNESSIONE CEREBRALE: TAPPA ULTIMA
DELL’INDIVIDUAZIONE? (Bourgeois)

La corteccia cerebrale dell’Homo sapiens sapiens è il recettore, il produttore e il supporto materiale


delle rappresentazioni culturali. L’identificazione delle relazioni causali tra le rappresentazioni
culturali e i geni che costruiscono la corteccia cerebrale non più al di fuori della nostra portata. La
corteccia cerebrale è il prodotto di una storia evolutiva della specie e della storia dello sviluppo di
ogni individuo. Due storie qui brevemente delineate.

Diverse ipotesi concordano sull’idea che 280 mln di anni fa, in alcuni rettili della linea dei sinapsidi
(rettili mammaliani”), sarebbe comparsa un’espansione dei territori telencefalici con combinazioni
nuove di geni “dorsilizzanti”. Questo abbozzo di un nuovo tessuto neuronale si organizzerà a poco a
poco in sei strati cellulari uguali, l’isocortex (o neocortex) che costituirà successivamente il tessuto
cerebrale specifico dei mammiferi. Nei rettili sinapsidi, secondo l’ipotesi di J.Allman, il vantaggio
selettivo fornito dall’endotermia, seguito dall’omeotermia, la placentazione la lattazione dei
mammiferi che apparvero in seguito, aveva un costo: quello di una maggiore domanda energetica.
La coevoluzione della corteccia cerebrale nei rettili e nei loro discendenti mammaliani,
migliorando le loro capacità sensorio-motrici e cognitive, avrebbe dunque permesso di migliorare
l’approvvigionamento energetico. Sempre nell’ambito di questa ipotesi, queste prime reti
isocorticali sono capaci di memorizzare in maniera più efficaci le rappresentazioni delle interazioni
tra l’individuo e il suo ambiente. La stabilità metabolica assicurata dall’omeotermia, permettendo di
sottrarsi ai rapidi cambiamenti fisici dell’ambiente, è stata forse accompagnata da una stabilità
percettiva e cognitiva, a fronte delle sollecitazioni immediate e costanti dell’ambiente. La taglia dei
cervelli è rimasta relativamente piccola, con poco isocortex, sino alla comparsa dei primati, 70 mln
di anni fa. A partire da questa epoca, la superficie totale della corteccia cerebrale aumenta nel
numero complessivo delle aree corticali. Le aree sensoriali o motrici si moltiplicano, si separano, si
specializzano. Il numero totale di neuroni diviene immenso. Essi si differenziano a un punto tale
che diviene a volte difficile classificarli in categorie ben definite. Nuovi tipo di neuroni appaiono
anche nella corteccia cingolare degli ominidi. Pertanto aumenta la variabilità interindividuale.
Durante questi milioni di anni di evoluzione della corteccia cerebrale, variazioni interne al genoma
produrrebbero continuamente nuove configurazioni neurosinaptiche. Le prestazioni di queste reti
furono costantemente convalidate o sanzionate per la loro efficacia funzionale durante il loro
sviluppo e al momento della interazioni dell’individuo adulto con il mondo circostante. Il
miglioramento delle capacità rappresentative e mnesiche della corteccia cerebrale ha conferito ai
mammiferi dei vantaggi selettivi che non si sono mai arrestati sino alla produzione della corteccia
dei primati non umani e umani. Queste rappresentazioni si sono allora sviluppate sino alla
produzione culturale e alla simbolizzazione proprie dell’uomo.

In uno stesso organismo tutte le cellule posseggono esattamente gli stessi geni, ma i neuroni si
distinguono dalle altre cellule per un certo numero di caratteristiche. Il passaggio dell’uovo
fecondato, cellula unica, a questa popolazione immensa di neuroni organizzati in reti nero-
sinaptiche delle corteccia cerebrale, comprende tre tappe fondamentali:
1) La neurogenesi (produzioni, posizionamenti e differenziazione dei neuroni) nei primati ha
luogo durante la prima metà della gestazione. L’inizio della neurogenesi, controllato
geneticamente, ha luogo nell’età post-concepimento: a 11 giorni di vita embrionale nel topo,
43 nell’uomo.
2) Le odogenesi cominciamo molto presto durante la vita fetale dei primati. Si creano delle vie
di comunicazione assonali inter-emisferiche e intra-emisferiche tra le diverse aree corticali.
Nei primati queste grandi vie sono presenti, in quantità essenziale, prima della nascita.
3) Le sinaptogenesi finalizzeranno la maturazione della corteccia cerebrale perfezionando i
circuiti cerebrali. J.Kozloski ha mostrato che i circuiti neurosinaptici della corteccia
cerebrale sono organizzati specificatamente tra loro con grande precisione. Questa
organizzazione geometrica conferisce alla corteccia cerebrale le sue numerose e varie
attitudini nell’estrarre o fondere i segnali circolanti tra le sue reti. La densità di sinapsi
presenta anche una grande variabilità interindividuale.

La corteccia cerebrale della scimmia macao è utilizzata come modello animale sperimentale della
corteccia cerebrale umana. Gli studi mostrano che la cinetica della sinaptogensi nella corteccia
cerebrale comporta almeno cinque fasi ben distinte:
Le fasi 1 e 2 della sinaptogenesi hanno luogo molto precocemente. Nel macao, la cui gestazione
dura 165 giorni, tutte le prime sinapsi sono osservabili da 40 a 50 giorni dopo il concepimento.
Questa corteccia cerebrale fetale non riceve ancora segnali provenienti dal mondo esterno, ma
produce già spontaneamente un’attività fisiologica.
La fase 3, nella corteccia della scimmia macao, comincia due mesi prima della nascita e termina due
mesi dopo. E’ una fase di produzione rapida di contatti sinaptici. Tutte le prime ramificazioni
esplorano costantemente il loro ambiente tissutale e vi inviano due fini prolungamenti cellulari.
Questi filopodia aumentano in numero e mobilità durante i periodi di intensa sinaptogenesi. Le
mappe topografiche di diversi territori della corteccia cerebrale vengono affinate durante questa
fase.
La fase 4 è una fase “di plateau” durante la quale la densità media delle sinapsi nel tessuto corticale
è mantenuta al suo valore massimale, 900 milioni di sinapsi per millimetro cubo di corteccia
cerebrale, sino alla pubertà. Come nella fase 3, si osserva un’abbondante produzione di filopodia e
di sinapsi che si riorganizzano rapidamente. Durante queste due fasi, 3 e 4, l’individuo primate
compie i suoi apprendimenti sensoriali, motori e cognitivi. Apprende anche le regole sociali e
l’organizzazione gerarchica in seno al suo gruppo, saperi essenziali per il resto della sua vita. Poi,
durante la pubertà, il 40% di sinapsi scompare. La pubertà è una transizione difficile accompagnata
da una perdita definitiva di alcune capacità di apprendimento.
La fase 5 è una fase stazionaria che si prolunga durante tutta la vita adulta. La densità media di
sinapsi non diminuisce più in maniera significativa sino alla senescenza allorché viene osservata
una perdita massiva di sinapsi. Studi simili sono stati anche effettuati nella corteccia cerebrale
umana. Le osservazioni sono parziali e realizzate su tessuti post mortem, ma si ritrova una cinetica
globale identica. Nell’uomo, la sinaptogenesi inizia ancora prima nella vita embrionale e presenta
una maggiore estensione nel tempo (sesta-ottava settimana di vita embrioanale). Questa cinetica
globale viene controllata da meccanismi genetici altamente conservati nell’evoluzione.

Questa cinetica è un inviluppo di curve che comprende numerose onde di sinaptogenesi. Queste
onde si distinguono per la loro successione nel tempo e nello spazio di diversi compartimenti di
tessuto corticale. Esse coincidono con le successive maturazioni di numerose funzioni corticali.
Alcune onde si distinguono anche per la loro velocità o la loro durata: picco rapido e breve nello
strato corticale IVC, plateau prolungato nello strato III. Nella corteccia visiva primaria del cervello
umano, A.Burkhalter mostra che i circuiti neuronali organizzati verticalmente (implicati nel
trattamenti dei segnali in ogni punto dei campo recettori) si sviluppano durante l’ultimo terzo della
gestazione. Di contro, i circuiti nervosi organizzati orizzontalmente (implicati nel trattamenti sei
segnali del contesto) si sviluppano durante il rimo anno postnatale.

Nella corteccia dei primati i sono, dalla nascita, reti neurosinaptiche già molto organizzate e
capacità funzionali molto elaborate. Nei primati le aree corticali vengono stabilite durante la vita
fetale. Nel cervello umano alcune capacità apparirebbero molto precocemente. J-P. Lacaunet ha
mostrato che il feto è capace di riconoscere a voce materna prima della nascita. S.de Schoen osserva
che il neonato acquisisce rapidamente la capacità di riconoscimento dei volti. B. de Boysson-
Bardies, mostra come a 4 mesi e mezzo il neonato può percepire delle differenze linguistiche. La
lallazione appare nel neonato a 7 mesi e viene molto rapidamente “colorita” dalla cultura familiare
verso il decimo mese. I neonati umani hanno capacità innate ad apprendere velocemente, a
categorizzare gli oggetti del mondo e a simbolizzarli. Vengono avanzate due ipotesi. La prima
considera che queste capacità innate vengono supportate da reti neurosinaptiche totalmente
determinate geneticamente e pronte a funzionare sin dalla nascita. La seconda considera la lunga
evoluzione delle prestazioni delle reti neurosinaptiche per convalidare la messa in atto di “tramiti
sinaptoarchitettonici” a favore di capacità precoci di apprendimento. Queste capacità vengono
affinate fin dalle prime interazioni con l’ambiente attraverso processi selettivi al livello dei contatti
sinaptici. La loro analisi genetica e fisiologica sarà lunga perché sappiamo oggi che molti geni
partecipano all’elaborazione di una sola funzione, e che un solo gene può essere implicato in più
funzioni distinte.

Diverse condizioni sperimentali o neuropatologiche rivelano la notevole robustezza delle prime tre
tappe della sinaptogenesi. I contatti sinaptici si formano normalmente in questi tessuto corticali
modificati. L’insieme delle osservazioni suggerisce che i meccanismi che rilasciano queste prime
onde di sinaptogenesi sono intrinseci al tessuto corticale e sono comune all’insieme del mantello
corticale. La formazione iniziale di circuiti neurosinaptici è controllata dall’insieme di interazioni
intercellulari attraverso molecole di superficie, fattori trofici, neurotrasmettitoti, neuromodulatori e
l’attività spontanea.

La genetica della sinaptogenesi è solo agli inizi. In questi ultimi anni sono stati identificati i primi
geni implicati nella differenziazione di diversi compartimenti dei contatti sinaptici. Essi codificano
per molecole sinaptiche di ogni natura. Mutazioni di questi geni vengono ritrovate associate ad
alcune psicosi. Mutazioni della neuroligina sono associate a casi di autismo, e mutazioni della
sinapsina II vengono associate ad alcune forme di schizofrenia. Mutazioni genetiche di tali proteine
sinaptiche provocherebbero risposte inadatte di alcuni circuiti neurosinaptici all’ambiente, nel corso
dello sviluppo, traducendosi nella disorganizzazione della sinaptoarchitettura nelle aree corticali
prefrontale e cingolare. La corteccia cerebrale umana è il prodotto di numerose variazioni
istologiche la cui stabilità è convalidata o sanzionata dalle loro prestazioni.

La plasticità è l’attitudine di tutte le cellule a produrre cambiamenti strutturali e funzionali in


risposta a stimoli esterni, senza che i geni ne controllino tutti i dettagli. Esiste la plasticità sinaptica
sin dall’inizio della sinaptogenesi, indipendentemente dal mezzo circostante, poi diviene
progressivamente sensibile anche a stimoli provenienti dal mondo esterno o dalla corteccia
cerebrale. Al livello molecolare la plasticità si manifesta attraverso trasporti locali di molecole, di
sintesi locali, di modificazioni chimiche. Al livello morfologico si manifesta attraverso produzioni o
contrazioni delle ramificazioni assonali e dendritiche, la formazione (sinaptogensi) o l’eliminazione
(sinaptosi) di sinapsi, il rimdoellamento microanatomico delle spine dendritiche, o la
redistribuzione topologica dei contatti sinaptici. Recenti esperienze sui roditori mostrano che la
ricchezza di connessioni di alcuni circuiti neurosinaptici nell’adulto sembra essere
proporzionalmente all’abbondanza di cure materne prodigate al neonato.
Adulti, rassicuratevi, esiste ancora una certa plasticità nel vostro cervello! Essa si manifesta a più
livelli di organizzazione.
1. L’attività fisiologica stimolata attiva rapidamente l’espressione a cascata di numerosi geni nei
neuroni stimolati.
2. Il livello funzionale delle sinapsi può anche essere modificato nell’adulto
3. La sinaptogenesi può ancora avere luogo nella corteccia dell’adulto.

R.Dunbar ha recentemente constatato la presenza di una correlazione positiva tra la taglia della
corteccia cerebrale e a taglia del gruppo sociale per diverse specie di primati. In questa prospettiva,
la funzione dominante di una corteccia cerebrale essenzialmente connessa a se stessa sarebbe di
rappresentarsi il suo ambiente socioculturale, con la sua propria storia di rappresentazioni. Ad ogni
generazione, i geni costruiscono una corteccia cerebrale che si sviluppa in seno al gruppo sociale in
cui essa integra e “rappresenta” gli elementi culturali. Numerose combinazioni di rappresentazioni
formatesi nei circuiti neurosinaptici possono talvolta costruire associazioni originali che producono
nuovi elementi culturali. Nel migliore dei casi questi nuovi elementi culturali sono esplicitati,
trasmessi e aggiunti all’ambiente culturale. Nuova corteccia cerebrale propagherà a sua volta o
meno questi nuovi elementi culturali.

L’evoluzione della corteccia cerebrale non segue una scala natura, ma è consentito confrontare le
cinetiche delle sinaptogenesi in cortecce cerebrali di taglia nettamente diversa in diverse specie.La
fase rapida della sinaptogenesi comincia 2 giorni dopo la nascita nel ratto e circa 4,5 mesi prima
della nascita nell’uomo. Di fatto, l’inizio della fase rapida della sinaptogenesi (fase 3) che ne ratto è
un evento postatale, diviene un evento prenatale molto precoce nei primati (eterocronia). In
rapporto a questa fase 3, la nascita diviene un epifenomeno. Inoltre la durata della fase 3 aumenta
significativamente. Si ha un aumento di questa durata di almeno 30 volte dal ratto all’uomo. Tale
aumento diviene più spettacolare se consideriamo la fine della pubertà come marcatore temporale
della fine della maturazione della sinaptoarchitettura: 1 mese nel ratto, una quindicina d’anni
nell’uomo. Si verifica allora un fatto paradossale. La densità media delle sinapsi non è più grande
nel ratto che nell’uomo. La densità media delle sinapsi per neurone sempre più piccola nei primati
che in un roditore. Come spiegare quindi il paradosso che l’uomo necessita di un tempo 200 volte
superiore rispetto al ratto per realizzare la stessa densità di sinapsi in un millimetro cubo di tessuto
corticale adulto? L’ipotesi dell’epigenesi eterocronica (HEH), abbozzata nel 1997, propone che ad
aumentare maggiormente in un millimetro cubo di tessuto corticale, nel corso dell’evoluzione, sono
le eterogeneità istologiche e funzionali dei circuiti neurosinaptici, proporzionalmente alla quantità e
alla varietà dei neuroni della corteccia.

Nei primati le tre grandi tappe della costruzione della corteccia cerebrale, neurogenesi, odogenesi e
sinaptogenesi, cominciano molto presto durante la vita fetale. La maturazione della corteccia
cerebrale si protrae per molto tempo dopo la nascita, almeno sino alla fine della pubertà. I geni e
l’ambiente si completano. All’inizio dello sviluppo i geni controllano la messa a punto delle
connessioni corticali, le forme dei neuroni e lo sviluppo delle sinapsi. Pertanto, l’efficacia di ogni
sinapsi non è totalmente e definitivamente predeterminata; essa è modificata dall’esperienza vissuta
dall’individuo attraverso differenti tappe di sinaptogenesi. Le fasi 1,2 e 3 (all’inizio) delle
sinaptogenesi sono indipendenti dall’ambiente. Esse hanno luogo prima della nascita. Lo sviluppo
della corteccia cerebrale è controllato dalle interazioni del mondo esterno con la corteccia. Solo
delle perturbazioni anormali possono modificare la corticogenesi. In questo stadio i meccanismi di
sinaptogenesi sono comuni a tutti i mammiferi, eccetto la loro durata di tempo, che varia a seconda
della specie considerata. Le fasi 3 e 4 richiedono la presenza degli stimoli dell’ambiente. Esse
hanno luogo dalla fine della gestazione fino alla pubertà. Durante questi periodi critici i meccanismi
di stesura delle carte topografiche corticali sono comuni solamente a individui della stessa specie. I
campi cognitivi si impiantano nella corteccia con gli stessi meccanismi biologici. Nella specie
umana è proprio durante queste due fasi che vengono trasmesse le rappresentazioni iniziali della
cultura. Prima della “cristallizzazione” della personalità nella pubertà, queste rappresentazioni
culturali dovrebbero essere diversificate e largamente aperte all’alterità. E’ purtroppo allora che
esse sono spesso le più restrittive, con apprendimenti intra-culturali già chiusi in se stessi. Durante
la fase 5 esistono ancora delle sinaptogenesi, in scala ridotta. Non è più possibile cambiare
significativamente gli apprendimenti essenziali, correggere gli strabismi, apprendere una lingua
straniera senza accento o divenire virtuosi nel violino. Queste osservazioni mostrano che se la
plasticità sinaptica è presente sino al termine della vita, la sua ampiezza è sottomessa ad una
“chiusura” progressiva. Ma nel corso dell’evoluzione della corteccia cerebrale dei primati,
l’estensione della maturazione della sinaptoarchitettura, massima nell’uomo, modera tale “chiusura”
sino alla fine della vita. Nell’uomo l’individuazione sociale e culturale comincia prima della nascita
e dura tutta la vita. Incastrato tra i suoi geni e la sua cultura, l’individuo biologico singolare diviene
una persona unica. Oggigiorno la dimostrazione oggettiva di una neurogenesi massiva nella
corteccia cerebrale umana adulta non è stata ancora fornita.

CAPITOLO 6
NEURONI E APPRENDIMENTO (Shulz)

Tra geni e cultura, un miliardo di cellule nervose si agita nelle nostre scatole craniche ed essere
conversano tra loro attraverso mille miliardi di connessioni sinaptiche. Una minima parte di esse
mette in relazione il cervello con il mondo esterno. L’uomo, grande comunicatore , comunica
principalmente con se stesso, generando costantemente mondi virtuali, mondi rappresentati e
sospensivi, in attesa di essere convalidati, verificati o persino selezionati dal confronto col mondo
fisico. Questa interazione con l’ambiente porta, tuttavia, ad importanti riorganizzazioni anatomo-
funzionali che intervengono, in particolare, durante il periodo precoce della vita postatale, ma che
proseguono egualmente nel corso dell’apprendimento, durante tutta la vita adulta. I cambiamenti
nell’organizzazione delle connessioni del cervello superano il diktat genetico e permettono ad ogni
individuo di divenire “singolare” grazie allo sviluppo e al mantenimento della memoria delle
esperienze passate che gli sono propri e lo rendono unico.

Sono state proposte tre ipotesi principali concernenti la regolazione della funzione corticale
attraverso l’attività nervosa al momento dello sviluppo. La prima ipotesi, detta di “verifica
funzionale”, considera la rete neuronale precaria alla nascita, e l’esperienza, giocando un ruolo di
stabilizzazione dei contatti sinaptici, si stabilisce interamente sotto il controllo genetico. La seconda
consiste in un’implementazione, in termini neurali, delle tesi empiriste del XVIII secolo, e suppone
che l’attività del sistema determini interamente lo stato finale della connessione. Infine, l’ipotesi
della “stabilizzazione selettiva” fa intervenire l’eliminazione mediante l’attività della rete dei
contatti sinaptici ridondanti in un sistema geneticamente precario. Il ruolo dell’esperienza
consisterebbe nella selezione e nel rafforzamento di alcuni contatti sinaptici per eliminazione. C’è
inoltre un’altra teoria, quella delle “selezioni in gruppi di neuroni”, che spiega le funzioni cerebrali
superiori. Questa teoria implica che la caratterizzazione percettiva del mondo non etichettata
anticipatamente, in accordo con i bisogni adattativi dell’individuo, non è generata dall’istruzione o
dal trasferimento di informazioni dal mezzo verso il soggetto, ma dai processi di selezione di gruppi
di neuroni formati preliminarmente al momento dello sviluppo postatale. La variazione preesistente
e la selezione a opera dell’esperienza di popolazioni di neuroni giocherebbero ruoli maggiori nel
funzionamento del cervello.

L’acquisizione, lo stoccaggio e l’ulteriore utilizzazione di informazione attraverso il sistema


nervoso centrale sono processi essenziali per l’insieme di funzioni cerebrali e l’adattamento
comportamentale che ne risulta. Le discipline scientifiche che affrontano lo studio di questi
fenomeni, come neurobiologia dell’apprendimento, hanno conosciuto un importante sviluppo dopo
il XIX secolo. Questo sviluppo si è verificato tuttavia, in maniera indipendente e parallela a quello
di altre discipline, come la fisiologia sensoriale, avendo conosciuto egualmente un rapido
incremento nell’ultimo secolo. Malgrado la contraddizione apparente fra i livelli fisiologico e
psicofisico, il successo della fisiologia sensoriale nello studio della rappresentazione dell’ambiente
attraverso le cortecce sensoriali primarie, ha condotto ad una sopravalutazione della stabilità e delle
rappresentazioni sensoriali corticali. L’esistenza di una plasticità in quanto proprietà intrinseca delle
aree sensoriali corticali, sembra incompatibile con la necessità degli organismi di ottenere
un’immagine stabile del mondo in cui essi vivono. Questa concezione ha dunque rafforzato l’idea
che lo studio dell’apprendimento e della memoria comincia laddove finisce quello dell’analisi
sensoriale. Eppure, dagli anni Sessanta p stato mostrato che la corteccia visiva primaria ha un forte
potenziale di plasticità durante un periodo precoce della vita di un animale. Per esempio, la
distribuzione corticale dell’orientamento preferenziale dei neuroni visivi viene modificata
dall’esperienza precoce nell’animale giovane. Esperimenti hanno condotto alla definizione dei
periodi critici di plasticità ma anche all’idea di una fissità delle proprietà funzionali di cellule
sensoriali al di fuori di questi periodi, in particolare nell’adulto. Un ritorno d’interesse è apparso in
questi ultimi quindici anni nella ricerca delle interazioni tra la rappresentazione corticale sensoriale
e l’apprendimento comportamentale nell’adulto.

Gli studi pionieristici di Wilder Penfield hanno mostrato attraverso tecniche elettrofisiologiche che
ogni parte del corpo è rappresentata principalmente in due aree della corteccia cerebrale, la
corteccia somato-sensoariale che riceve gli impulsi nervosi dalla periferia tattile, e la corteccia
motoria che controlla i movimenti volontari. Le dita e la bocca, beneficiano nei due “omuncoli” e
cioè il sensoriale e il motorio, di una rappresentazione amplificata. E’ stato ritenuto per lungo tempo
che queste mappe corticali non potevano essere modificate che durante una fase precoce dello
sviluppo postatale, per divenire stabili nell’adulto. Dati recenti indicano, tuttavia, che le proprietà
dei campi recettori dei neuroni corticali individuali e l’organizzazione funzionale dei campi
sensoriali corticali possono essere modificate nell’adulto dopo una serie di manipolazioni più o
meno severe del sistema, come le lesioni periferiche o centrali, ma anche attraverso apprendimenti
comportamentali di tipo associativo. L’esempio più drammatico della plasticità adulta proviene da
esperienze di lesioni periferiche o deafferentazioni. Queste provocano in qualche settimana una
riorganizzazione anatomico-funzionale tale che la regione corticale, privata del uso normale
ingresso, è occupata da una rappresentazione di siti periferici adiacenti alla lesione. Ne risulta
un’espansione della rappresentazione di queste regioni vicine e, in certi casi, un movimento
d’insieme della rappresentazione di una superficie corporea data e osservata (avviene ad esempio
dopo l’amputazione di un membro). Tali riorganizzazioni sono state osservate ugualmente nella
corteccia visiva adulta, in cui proprietà dinamiche sono state messe in evidenza attraverso lesioni
retiniche che potrebbero essere confrontate, per esempio, con lesione foveali indotte nel caso della
degenerazione maculare legata all’età. In queste condizioni di deafferentazione sensoriale, appaiono
cambiamenti già nei minuti successivi alla lesione. Tali rimaneggiamenti dell’organizzazione
anatomo-funzionale della corteccia non richiedono necessariamente una perdita dell’ingresso
sensoriale nella periferia. Una modifica delle rappresentazioni corticali può essere indotta
dall’utilizzo delle superfici periferiche, in particolare dalla manipolazione della sincronia
d’attivazione sensoriale generata dalle zone cutanee vicine.

Malgrado questi risultati, sussiste oggi comunque un consenso sul fatto che il sistema nervoso
centrale di un animale giovane è capace di riorganizzarsi in modo funzionale attraverso l’esercizio
o l’apprendimento più facilmente che nell’adulto. In un recente lavoro di Knudsen, si è evinto che
un’esperienza audiovisiva anormale nell’animale giovane (nel suo caso la civetta dei campanili),
porta ad una riorganizzazione delle corrispondenze fra le mappe uditive e visive, mentre questa
stessa manipolazione non ha conseguenze funzionali nell’adulto. In altri termini, l’adulto non è
capace di adattarsi alle incoerenze tra le informazioni visive e uditive. Tuttavia, se gli animali
giovani che hanno avuto un’esperienza anormale precoce vengono sottoposti a questa stessa
esperienza da adulti, vengono osservati rimaneggiamenti corticali comparabili. L’esperienza
postatale precoce aumenta quindi il potenziale d’induzione di una plasticità funzionale che
altrimenti non si manifesterebbe nell’adulto, o in ogni caso non con la stessa facilità.

Al momento della normale interazione dell’animale con il suo ambiente, modifiche più specifiche e
limitate risultano da un utilizzo differenziale della superfici recettrici. Modifiche
dell’organizzazione funzionale corticale intervengono, ad esempio, nel momento di un
apprendimento di discriminazione sensoriale o di una procedura di condizionamento classico.
Nell’impossibilità di stabilire legami di causalità, generalmente vengono utilizzate due strategie per
lo studio di tali modifiche funzionali: quella in cui si stabilisce una correlazione tra l’apprendimento
comportamentale e la plasticità che viene indotta (correlazione cellulare), e quella che permette di
indurre artificialmente una plasticità cellulare simile a quella indotta dall’apprendimento ( analogia
cellulare). Il gruppo di Merzenich dell’Università della California ha condotta la sua ricerca sulla
plasticità della rappresentazione corticale della mano della scimmia utilizzando la prima strategia.
Nel loro insieme, questi lavori mostrano che la carta topografica nella corteccia somato-sensoriale
corrisponde a tracce mnesiche spaziali della componente temporale, in questo caso la
sincronizzazione, della stimolazione tattile. La corteccia utilizza la correlazione temporale
d’attivazione afferente per mantenere oppure per creare delle rappresentazioni spaziali.

L’implicazione del processo di associazione sensorio-sensoriale nel controllo della carte spaziali
ricorda teorie associazioniste delle quali William James è stato uno dei fondatori verso la fine del
XIX secolo. Più di mezzo secolo più tardi, Hebb sviluppa una prospettiva originale del
funzionamento del cervello durante la percezione e l’apprendimento, idea fondata sul concetto di
aggregato cellulare riverberante. Un aggregato è un insieme transitorio di neuroni attivi in un dato
istante. L’attività elettrica percorre questa rete e vi perdura dopo che l’evento sensoriale che lo ha
generato è scomparso, fenomeno chiamato riverbero. Secondo Hebb, i riverberi aiuterebbero a
produrre modifiche sinaptiche che permetterebbero all’aggregato cellulare di riattivarsi più
facilmente in assenza di stimoli iniziali. Le connessioni funzionali tra i neuroni appartenenti
all’aggregato cellulare si formerebbero e si rinforzerebbero secondo la legge della plasticità
sinaptica. Successivamente, quando due rappresentazioni mentali apprese (due aggregati cellulari)
vengono attivate contemporaneamente, essere stabiliscono delle associazioni tra loro secondo
diverse regole di apprendimento. L’implicazione, da una parte, di una retroazione di riverbero e,
dall’altra, di un rinforzo di connessioni sinaptiche che dipendono dall’utilizzo di una rete
multiconnessa, genera condizioni di retroazione positiva che conducono necessariamente ad un
aumento continuo sino a una saturazione dei pesi sinaptici. E’ la legge della plasticità sinaptica a
essere stata messa lla prova, e che ha condotto per la sua implementazione sperimentale alla
scoperta del fenomeno di potenziamento a lungo termine (PLT), considerato oggi come il candidato
più probabile del meccanismo sinaptico dell’apprendimento. Il PLT è un miglioramento
dell’efficacia di trasmissione dinastica tra due neuroni interconnessi e necessita di un appaiamento
tra il segnale presinaptico e l’emissione del potenziale s’azione postsinaptico.

Numerosi studi hanno messo in evidenza l’esistenza di una plasticità funzionale importante
nell’adulto. Rimane difficile dimostrare una relazione di causalità tra queste manifestazioni, cosi
come per l’apprendimento percettivo comportamentale. Grazie allo sviluppo di tecniche di
manipolazione genetica questi studi hanno mostrato che esistono deficit di plasticità corticale
concomitanti a deficit di plasticità sinaptica. Un approccio intermedio tra il livello sinaptico e la
plasticità di mappe corticali indotte in seguito a una lesione o apprendimento, consiste
nell’esaminare le modifiche funzionali di neuroni individuali sottoposti ad un condizionamento
associativo al momento della registrazione elettrofisiologia. Nel caso del sistema visivo,
osservazioni recenti suggeriscono che segnali extraretinici, legati a processi di attenzione, possono
giocare un ruolo di “segnale porta” nell’induzione e nell’espressione della plasticità sinaptica.

Nella corteccia visiva, i cambiamenti funzionali osservati nel corso dello sviluppo sono non soltanto
dipendenti dall’attività afferente e dall’attività corticale, ma sono egualmente regolati da segnali
extraretinici. Tali segnali di controllo hanno per origine diversi sistemi neuromodulatori.
Nell’adulto, l’implicazione degli stessi sistemi neuromodulatori nell’apprendimento associativo è
stata proposta sulla base di numerosi dati fisiologici e comportamentali. Questa ipotesi sui
meccanismi neuronali soggiacenti al controllo comportamentale della plasticità sinaptica è ispirata
da descrizioni di Crow e Kety, in cui fattori legati all’attenzione e al rinforzo colpiscono la
regolazione dei pesi sinaptici attraverso l’attivazione di sistemi diffusi ascendenti, che danno un
segnale di convalida o print now signal. L’influenza dei segnali comportamentali nella formazione
di una traccia mnesica della correlazione neuronale è stata messa in evidenza nella corteccia uditiva
della scimmia. Il contesto comportamentale condizione la plasticità corticale, questa stessa risulterà
dall’interazione tra i segnali interni che forniscono un controllo “dall’alto in basso” e segnali
esterocettivi propri di ogni esperienza.

L’innervazione neuromodulatrice del neocortex proviene da diverse strutture sottocorticali, in


particolare a partire da molteplici nuclei del tronco cerebrale. Gli assoni delle cellule
neuromodulatrici di tali nuclei raggiungono la corteccia cerebrale e vi liberano in maniera
diffusaneuromodulatori vari che sono sostanze implicate nella regolazione delle funzioni legate allo
stato di attenzione, alla detezione di uno stimolo nuovo nell’ambiente dell’animale ancora
all’aspettativa di una ricompensa. Alla luce di questi risultati e dei contributi di altri gruppi può
essere espressa l’ipotesi che l’informazione sul contesto comportamentale, cioè sul livello di
attenzione, la motivazione o ancora l’ottenimento di una ricompensa, che sembra soprintendere la
plasticità delle connessioni corticali, potrebbe essere cosi sottesa da una o più sistemi ascendenti
diffusi. Se questa ipotesi è corretta, sarebbe possibile indurre una plasticità corticale attraverso
l’associazione tra stimoli sensoriali e un’attivazione, imposta dallo sperimentatore, dei nuclei
neuromodulatori. Esistono tuttavia prove dirette che mostrano come segnali neuromodulatori siano
necessari all’induzione attraverso l’esperienza di una plasticità, nella corteccia sensoriale adulta. Per
esempio, nella corteccia somestetica, la plasticità indotta attraverso un’associazione sensorio-
sensoriale (una forma semplice di apprendimento) viene bloccata dall’applicazione intracerebrale di
un antagonista dei recettori muscarinici, l’atropina. Quest’ultimo lavoro è stato realizzato in un
sistema sensoriale, quello delle vibrisse o dei lunghi baffi del muso, nei ratti. Le risposte nervose
nella corteccia somatosensoriale del ratto adulto, struttura che riceve le informazioni tattili delle
vibrisse, mostrano un livello di plasticità importante. L’acetilcolina sembra necessaria all’induzione
della plasticità delle risposte corticali. Essa è tuttavia necessaria all’espressione della plasticità?
Alcuni studi hanno messo in evidenza una nuova forma di plasticità nella corteccia a colonne del
ratto in cui non soltanto l’induzione, ma egualmente l’espressione, dipendono dall’acetilcolina.
Quindi, cosi come il ricordo delle informazioni apprese dipende dal contesto sensoriale e dallo stato
fisiologico nel quale il soggetto si trova al momento dell’acquisizione delle informazioni,
l’espressione della plasticità delle risposte al livello del neurone corticale dipende dal contesto
neurochimico endogeno del cervello al momento dell’apprendimento neuronale.

Tutto il sistema conserva tracce delle sue esperienze passate, cioè modifiche che perdurano dopo
l’eliminazione delle sollecitazioni che le hanno provocate. I sistemi biologici si sono evoluti in
modo da poter trarre vantaggio dall’informazione cosi incamerata. La memoria permette agli
organismi viventi l’utilizzo del passato per adattarsi ad uno futuro sconosciuto e mutevole. Le
cortecce sensoriali primarie sono plastiche durante le fasi precosi dello sviluppo postatale, periodi in
cui l’animale interagisce in maniera privilegiata con il suo ambiente. Ben oltre i periodi ciritici il
sistema nervoso mostra tuttavia un livello importante di malleabilità. La riorganizzazione
funzionale delle mappe corticali e le modifiche dei campi recettori intervengono nell’adulto in
seguito a lesioni. Tutte queste modifiche anatomo-funzionali dipendono dall’attivazione delle reti
neuronali corticali attraverso la periferia sensoriale che sappiamo essere associati a stati interni,
come la motivazione, l’attenzione, la vigilanza, l’avversione. Questa reattività ineluttabile del
sistema nervoso a tutte le perturbazioni può provocare delle trasformazioni sensoriali drammatiche
come “arti fantasma” e sensazioni ectopiche che si verificano in seguito all’amputazione dei
membri.

CAPITOLO 7
LE TRADIZIONI VOCALI DEGLI ANIMALI: L’ISTINTO DI APPRENDERE (Marler)

In linea di massima si è concordi nel pensare che siamo abbastanza diversi dalle altre specie
esistenti, e che una sorta di unità genetica caratterizza l’Homo sapiens. La verità è che qualunque
cosa sia compiuta da un organismo vivente, in fin dei conti è il riflesso dell’attività genetica. Ogni
tratto che lo caratterizza è la manifestazione di una struttura distintiva di attivazione e di inibizione
genetica. La cultura umana è ciò che è in virtù delle differenze genetiche tra noi intesi come specie
e gli altri organismi. Il genoma umano è responsabile di ciò che caratterizza il nostro corpo, le
nostre attitudini, le nostre mani, le nostre emozioni, il nostro cervello, la nostra mente. Però il
genoma umano non è il solo responsabile di tutto questo, Come Schmalhausen ricordava molto
tempo fa, non c’è crescita senza contesto ambientale, e non c’è organismo senza genoma. I geni
sono sempre implicati in qualsivoglia tratto culturale. Fino a un certo grado, le culture prodotte da
una specie sono funzione del suo genoma . E’ evidente che le culture variano da popolazione a
popolazione e da individuo a individuo. Questa variazione a volte sottile e difficile da definire. Lo si
nota per alcuni dei 39 tratti culturali recentemente repertoriati nello scimpanzé, come i diversi modi
di utilizzare un bastone come utensile. A volte la variazione è più estrema, ed è allora che
cominciamo ad esitare nell’invocare una spiegazione genetica. Si tratta quasi di un assioma o di un
atto di fede: la variazione genetica all’interno di una specie non può spiegare le differenze tra le
culture. Ma l’assioma nasconde molti problemi. Anzitutto, geneticamente parlando, le popolazioni
che formano una data specie non sono omogenee fra loro. Differenze genetiche tra popolazioni
corrispondono abbastanza spesso a differenze culturali. I termini della questione mutano: i legami
tra geni e cultura sono di tipo causale o si danno nell’ordine della coincidenza? Questo interrogativo
è estremamente difficile da affrontare scientificamente nel caso dell’uomo, ma non è escluso che si
possa trattarlo passando attraverso il comportamento culturale degli animali, in particolare il
comportamento vocale. Prendiamo il canto degli uccelli: il passero nel Nord America, conosciuto
per gli stupefacenti dialetti che caratterizzano il suo canto relativamente semplice, controllato da
giovane in un laboratorio si scopre saper imitare qualsiasi dialetto locale ascoltando delle
registrazioni. Allevato senza ascoltare un adulto, un maschio sviluppa un canto decisamente
anormale, che non assomiglia al suo dialetto natale. Si può cosi dimostrare che il dialetto non è
innato, ma appreso, e che si trasmette di generazione in generazione come tradizione orale.
L’apprendimento vocale è un tratto non abituale negli animali. Negli uccelli lo si trova in solo tre
dei 24 gruppi tassonomici maggiori. Gli altri sono tutti geneticamente handicappati al riguardo. Il
loro cervello è incapace di effettuare i compiti legati a un sistema di comunicazione uditiva fondato
su vocalizzazioni apprese. La cosa è valida anche per i primati non umani, tra cui lo scimpanzé. Il
tipo di cultura che una specie sviluppa dipende dal tipo di cervello che possiede. Non esiste un
cervello animale, che sia in grado di sviluppare naturalmente una sintassi grammaticale o proferire
una frase vera e propria. Per esempio gabbiani, fagiani e rapaci possiedono repertori vocali estesi e
complessi, e anche se devono imparare ad utilizzarli, sono sprovvisti del patrimonio genetico che
permette di creare e trasmettere delle tradizioni vocali. Le culture si fondano su un certo numero di
esigenze di base, tra cui certi dettagli della struttura del cervello, una particolare architettura del
copro, e una certa motivazione a impegnarsi in attività culturali, a partecipare alle attività culturali
altrui e a trarre piacer nel raggiungere un certo grado di conformità e invenzione. Queste esigenze,
tutte presenti nel comportamento vocale degli uccelli, non sono soddisfatte in assenza del genoma
che le sottintende. L’eredità filogenetica di una specie pone dei limiti alle possibilità culturali. Ma
qual è la relazione tra geni e cultura nell’ambito definito della filogenesi? Sembra che esistano delle
possibilità quasi infinite di arricchimento culturale, in particolare in una specie cosi dotata e cosi
avida di esperienza come la nostra. Prendiamo di nuovo l’esempio delle specie di uccelli che
imparano a cantare. Hanno tutte le stesse potenzialità: si osservano infatti molti esempi di uccelli
indotti a cantare come uccelli di altre specie, uccelli che in natura non imitano quasi mai altre
specie. Sappiamo da molto tempo che certi uccelli possono cantare come altre specie. Nel 700 molti
uccelli selvaggi venivano portati sul braccio o messi in gabbie, non necessariamente con membri
della loro specie, ma con membri di altre specie. In tali circostanza non era raro che imparassero il
canto sbagliato. Inoltre gli uccelli possono imparare il canto di un’altra specie anche attraverso delle
registrazioni. Di conseguenza, all’inizio, si era portati a pensare che il canto degli uccelli fosse,
entro certi limiti, qualcosa di simile ad una tabula rasa. Si pensava che l’uccello aspettasse che gli si
insegnasse a cantare. Tuttavia, perché l’insegnamento eterospecifico riesca bene, bisogna impedire
all’uccello di ascoltare il canto della propria specie. Se ha accesso a canti intraspecifici, questi
diventeranno presto il centro quasi esclusivo della sua attenzione e i canti delle altre specie saranno
trascurati. Gli uccelli non possono cantare il canto della loro specie in modo innato, tuttavia
dispongono dell’attitudine a distinguere il proprio canto da quello delle altre specie con cui vivono e
con le quali può esserci confusione. Imparano a cantare e sono energicamente spinti a farlo, ma non
esiste tabula rasa. Imparano in modo selettivo e operano delle distinzioni privilegiando le strutture
cantate dalla loro specie. L’apprendimento del canto rappresenta dunque un caso straordinario
d’interazione profonda fra il processo di trasmissione culturale da un lato e le predisposizioni innate
dall’altro, predisposizioni che favoriscono l’orientamento che può prendere il cambiamento
culturale. Questo genere di scoperte ci ha indotti a pensare a ciò che abbiamo chiamato “istinti di
apprendere” (Gould e Marler). L’uccello è ansioso di imparare a cantare e di riprendere una
tradizione vocale particolare. E’ inoltre possibile che sia incline a ricamare su quanto ha appreso
inventando e improvvisando. Risultato: in un dialetto ci sono sempre delle differenze individuali.
Ma questo ricco potenziale di plasticità di sviluppo è un ritorno trasversale e condizionato da
predisposizioni innate, predisposizioni che devono avere fondamento genetico. Nel corso dello
sviluppo, certi uccelli aderiscono fedelmente al modello che i loro membri hanno sperimentato da
giovani, e altri se ne discostano nettamente, imponendo le loro proprie improvvisazioni individuali.
Il concetto di “istinto di apprendimento” serve a ricordarci che una specie può riuscire a trarre
partito dai vantaggi della diversità culturale, conservando al tempo stesso un certo grado di ciò che
potremmo chiamare “canalizzazione culturale”. Questa idea non potrebbe aiutarci a capire il
comportamento umano? Nelle ricerche sull’uomo non possiamo procedere ad analisi comparative
tra specie diverse. Se l’uomo di N. fosse sopravvissuto potremmo avere una prospettiva molto
diversa sulla nostra diversità culturale. In particolare per quanto riguarda il linguaggio, un caso
affascinante da un punto di vista biologico per la straordinaria rapidità con cui si è evoluto. Invece
dobbiamo affrontare il soggetto in maniera indiretta. Due sono le opzioni possibili. Se la cultura
crea per definizione la diversità, allora l’uniformità comportamentale deve implicare qualcosa di
diverso e di opposto. L’altra possibilità consiste nello studio di come si sviluppano i tratti culturali,
per vedere se le variazioni riscontrate determinano la forma che prende il nuovo comportamento.
Questi due approcci si sono rivelati illuminanti nello studio del linguaggio, in particolare quello
parlato. Da un lato, la diversità delle strutture umane della parola è immensa. E tuttavia sappiamo
che se giochiamo a fare i riduzionismi e selezioniamo la parola in elementi minimi essenziali,
scopriamo una quantità straordinaria di punti comuni tra tutte le lingue. A livello della struttura
delle parole e dei lessemi, incontriamo molti universali, che si fondano sul genoma umano.
Analogamente, gli stufi diacronici sullo sviluppo danno molte indicazioni sulle predisposizioni
particolari che un bambino mette in atto per imparare a produrre e capire le parole. Molte cose
nell’emergere della parola dipendono dal cervello del bambino, e non dall’esperienza o
dall’insegnamento ricevuto. Quindi il concetto di istinti d’apprendimento sembra valido sia per il
linguaggio umano che per il canto degli uccelli.

CAPITOLO 8
IL LINGUAGGIO E LE LINGUE TRA IL BIOLOGICO E IL SOCIALE (Hagège)

E’ interessante studiare gli spetti in base ai quali il linguaggio e le lingue sono degli oggetti
biologici e inoltre quelli in base ai quali questi oggetti fanno anche parte delle scienze sociali.
Il linguaggio è una facoltà caratterizzante l’umano, mentre le lingue sono le sue manifestazioni
concrete storicamente situate. Questa facoltà si è codificata nel genoma della specie umana nel
corso di un’evoluzione molto lunga e complessa. Il punto di arrivo è il periodo in cui compare una
nuova specie che non è più scimmiesca intorno a 2,4 mln di anni fa in Africa orientale. Per i più
prudenti, l’iscrizione della facoltà del linguaggio nel codice genetico non deve essere ascritta a
questo periodo, che è quello della comparsa dell’Homo habilis, ma piuttosto al medio Pleistocene.
Per costoro l’inscrizione genetica a pieno titolo non sarebbe anteriore a 1,5 mln di anni fa. Altri
sono favorevoli a una datazione ancora più recente, ma comunque stiano le cose è molto probabile
che dal Paleolitico meio, tra 100mila e 500mila anni fa, la parola fosse già un’acquisizione stabile in
grado di definire in modo peculiare la specie umana. Quanto alla manifestazione del linguaggio
sotto forma di lingue, si può considerare che i primi balbettii e in seguito la nascita vera e propria
delle lingue umane nelle loro forme arcaiche facciano la loro comparsa con l’Homo sapiens, alla
fine del Paleolitico superiore (tra 50mila e 15mila anni fa).

Certi linguisti pensano che le proprietà della Grammatica Universale, appannaggio di tutte le lingue
umane in quanto implicita del patrimonio genetico, costituiscano una componente ipotetica del
patrimonio genetico. Una volta che si adotti questo mutamento di prospettiva, questo aspetto della
linguistica entra a far parte della psicologia, e in definitiva, della biologia (Chomsky).La
Grammatica Universale di Chomsky postula l’esistenza di moduli dalle caratteristiche molto
specifiche. Uno di essi è la teoria della legatura, che riguarda il comportamento dei pronomi nella
relazioni che si stabiliscono, a distanza variabile, tra essi e i nomi cui si riferiscono. Altri due
moduli fanno parte della cosiddetta teoria degli spostamenti: secondo uno dei due, detto vincolo di
soggiacenza, non si può spostare un elemento appartenente a un nodo stretto, come ad esempio
quello che forma una preposizione relativa. Secondo l’altro modulo, detto principio delle categorie
vuote, mentre gli argomenti del verbo si possono estrarre dalla loro collocazione, non si può estrarre
un argomento da un’isola (dominio chiuso). I tre moduli sono iscritti in via ipotetica nel codice
genetico della specie umana. Non sappiamo se esiste una precisa zona celebrale che corrisponde
alle unità linguistiche e alla loro organizzazione nel sistema come nella catena parlata, e qual è il
tragitto che segue l’influsso nervoso che in teoria le sottende. Sappiamo solo che i circuiti possono
essere trasformati dall’apprendimento con creazione di nuove sinapsi e nuove connessioni. L’ipotesi
biologizzante trascura certi aspetti essenziali della relazione umana con il mondo, molti dei quali si
riflettono in modo particolare nel linguaggio. Si tratta di aspetti affettivi e culturali che guidano i
comportamenti fondamentali dell’uomo come ad esempio la memoria collettiva che è uno dei
fondamenti della Storia, o il sogno, o ancora la creazione artistica, o infine l’attività ludica. Certe
proprietà delle lingue e del linguaggio riflettono in modo interessante i meccanismi celebrali.
Eccone tre aspetti.
Sappiamo che tutte le lingue organizzano i propri mezzi di espressione secondo una distinzione di
base tra lessemi o morfemi. Questa differenza tra le due componenti di grammatica e lessico va
messa in relazione con una facoltà, condivisa dal cervello umano e dai computer che lo imitano, che
consiste nel limitare i costi energetici senza per questo limitare il rendimento. Il dispendio di
energia corrisponde qui a una durata di tempo: certe attività necessitano di meno tempo perché sono
di routine, mentre altre, più complesse e creative, si sviluppano su tempi più lunghi. Queste ultime,
proprio a causa della grande estensione temporale ed energetica, si situano a una grado di coscienza
più elevato rispetto alle precedenti. Infatti è più difficile individuare dei sinonimi di alcuni comuni
lessemi piuttosto che di comunissimi morfemi. Questo perché la scelta di un lessema attiva la
facoltà creativa dell’informatore, che per scegliere trai sinonimi che conosce, è abituato a una
grande investimento di tempo e di energia, mentre è abituato a un investimento ben inferiore per i
morfemi; infatti, la scelta che deve operare avviene tra elementi di un inventario limitato, e il suo
cervello non gli fornisce facilmente un equivalente perché, quando parla, egli ripete più o meno
inconsciamente il morfema di cui ha bisogno.

Un altro effetto dei vincoli fisici è quello che si suole chiamare legge del secondo peso. Nei binomi
a diverso grado di fissità (più o meno, presto o tardi qui e là..) l’elemento foneticamente più
pesante, tende a figurare al secondo posto piuttosto che in prima posizione. Di tratta di un vincolo
articolatorio e acustico, quindi fisico. Questo vincolo potrebbe entrare in conflitto con una logica
semantica che si basa sulla deissi (la prima posizione del binomio viene occupata dall’elemento che
in rapporto al locatore è più vicino nello spazio o nel tempo ed è più valorizzato). Quando accade
però che l’elemento prioritario secondo la deissi è anche quello più èesante sul piano fonetico allora
ha la tendenza ad occupare la seconda posizione (tarde o temprano). Cosi, un vincolo a base fisica,
legato alla configurazione del nervo uditivo e degli organi di articolazione che dipendono dalle aree
celebrali corrispondenti, prevalgono sulle esigenze stesse della produzione di senso.

Infine, l’antropologia culturale, è il fenomeno in base al quale un legame di provenienza storica si è


imposto in numerose lingue tra particelle diverse e i nomi di parti del corpo umano, come ad
esempio testa, piedi, panca, fronte, schiena, fornendo le fonti lessicali di particelle che significano
rispettivamente sopra, sotto, dentro, davanti, dietro.

Un altro aspetto ben studiato che testimonia il fondamento biologico del linguaggio è quello
illustrato da diversi tipi di patologie, dalle varie forme di afasia e disfagia, fino alla sindrome di
Down, la sindrome di Williams, e più in generale tutti i casi in cui un disturbo del linguaggio
corrisponde a una lesione celebrale sinistra ben localizzata. Lavori recenti condotti da specialisti,
stabiliscono che anche certe lesioni dell’emisfero destro provocano un deficit nella comprensione
degli atti di significazione che integrano tutto ciò che implica contenuti semantici che non sono
quelli della pura denotazione. Da qui il nome di disiponoesi (dal greco hyponoo “congetturare”).

Alcuni aspetti fanno emergere l’importanza del sociale nel linguaggio e nelle lingue. Uno di questi è
il rapporto tra organizzazione biologica ed intelligenza: la specie umana possiede la sorprendente
capacità di fondare il proprio adattamento all’ambiente non solo sulla propria organizzazione
biologica, che si è definita a partire dall’Homo Erectus, ma anche sulla propria intelligenza e sulla
vocazione a stringere relazioni interpersonali ed elaborare culture. L’uomo esercita sull’ambiente
un’attività cosciente con cui arriva a ridurre le pressioni selettive della natura, perché di fronte ad
esse la specie umana si caratterizza per una capacità fondamentale: la capacità di scegliere.

Quest’ultima è un altro aspetto importantissimo nella questione “linguaggio e lingue come oggetto
sociale” insieme alla natura vocale-uditiva delle lingue. Dalla diversità dei contesti ecologici e
dunque ecolinguistici in cui si installarono i discendenti dell’Homo habilis, seriva una visione
poligenetica delle lingue umane che si oppone a quella monogenetica, cioè di una lingua originaria
unica da cui deriverebbero tutte le altre. Fra 1,4 e 1,6 mln di anni fa, in Africa occidentale, Europa
occidentale e Asia orientale furono ritrovati resti di mascelle e ciottoli. Le società preistoriche
disperse su cosi vasta scala hanno scelto il canale vocale-uditivo come supporto materiale per
produrre senso, quando in effetti altri canali erano ugualmente possibili. Questo fenomeno non è
solo umano ma è caratteristico anche degli animali superiori, mammiferi e uccelli, con i quali sono
entrati in contatti gli antenati dell’uomo grazie alle migrazioni. Cosi, un tratto fondamentale degli
esservi viventi può essere emerso sotto la pressione dell’ambiente, e cioè la mimesis o pulsione
all’imitazione, che deve aver giocato un ruolo determinante. Ma oltre a ciò una serie di fattori
favorevoli ha consolidato le abitudine acquisite, e tali fattori spiegano il successo dell’elemento
sonoro nell’avventura umana delle lingue. Tra i vari sensi, alcuni, come il tatto, determinano una
ricezione a prossimità immediata, mentre altri agiscono come recettori a distanza, cioè autorizzano
una ricezione differita nello spazio. E’ il caso di vista e udito. Perché l’udito ha prevalso sulla vista?
Il canale visivo è ben presente nella comunicazione linguistica tra vedenti quando si produce
significato con i gesti; ed è l’unico canale verbale per i sordi. Ma esso non era e non è utilizzabile in
permanenza, perché i gesti non sono percepibili di notte e inoltre perché un ostacolo, un rilievo o
qualsiasi altro schermo blocca la vista ma non l’udito, a condizione certo che la distanza non sia
troppo grande. Lo sviluppo genetico predisponeva l’udito a giocare un ruolo centrale, ancor più
della produzione vocale: a livello dell’individuo, il bambino percepisce i suoni per via intra-uterina,
mentre impiegherà molto tempo (18 mesi) per arrivare ad una buona discesa della laringe
(presupposto per la comparsa della parola); sulla scala della storia della specie umana l’evoluzione
segue lo stesso percorso. Questo non significa che la facoltà del linguaggio, che è indipendente
dall’invenzione delle lingue (mentre l’inverso è falso), non sia apparsa molto prima della discesa
della laringe.

La specie umana è diagonale a tutti gli effetti. La comunicazione emerge fin dalla notte dei tempi
coma una pulsione di risposta a un’urgenza. Nel momento in cui diventa complessa,
l’organizzazione sociale presuppone un mezzo di comunicazione. Certi biologi considerano infatti
la dimensione sociale come secondaria. Secondo Changeux “Sembra probabile che lo sviluppo del
legame sociale, si amplifica enormemente nei primati superiore, sia all’inizio la conseguenza e non
la causa dell’espansione del neocortex... Non bisogna per altro escludere la possibilità di un effetto
di ritorno del contesto sociale sull’evoluzione genetica degli antenati diretti dell’uomo”. Del resto
Changeux aveva parlato di una “variabilità significativa dell’organizzazione della corteccia
cerebrale in relazione all’ambiente culturale”. Cosi, fin dagli inizi di un vero e proprio sviluppo
della vita di gruppo, bisogna ipotizzare che ‘interazione tra fattori cerebrali e fattori sociali diventa
permanente. Più in particolare, la “natura” dota la specie umana di una certa quantità di reti
neuronali che corrispondono a operazioni mentali definite. Ma l’ambiente opera una selezione tra
queste reti secondo il loro grado di funzionalità. Tutto questo è definito da Changuex
“stabilizzazione selettiva” delle sinapsi. L’innato e l’acquisito non hanno dominio stagnante di
sviluppo, ma si trovano in costante interferenza. Se si esamina l’evoluzione del bambino, si osserva
che possedere fin dalle prime settimane di vita una conoscenza delle strutture del mondo, e che
questa conoscenza, indipendente dal linguaggio, è connessa a dati biologici. Però le espressioni
linguistiche che il bambino impara ben presto a costruire con segni e combinazioni di segni, e che
diventa capace di applicare alla conoscenza che ha del mondo, non possono essere create in lui dal
nulla, contrariamente a quanto è potuto accadere all’alba della specie. Anche se è vero che la facoltà
del linguaggio non può essere appresa, una volta ridotta a se stessa come potrebbe rendere conto
dell’acquisizione del nocciolo duro della lingua tra 15-18 mesi e 3-4 anni, se l’imitazione degli
adulti, non giocasse un ruolo fondamentale? Non si fa certo avanzare il dibattito se si sostiene che la
mimesis è essa stessa inscritta nel codice genetico, perché di fatto i suoi effetti si combinano con i
dati ereditari. La tesi innatista sostiene inoltre che l’organizzazione gerarchica delle frasi nelle
lingue umane è geneticamente assegnata in virtù di principi come il ciclo trasformazionale
(Chomsky).Secondo tale principio, una stessa serie di trasformazioni viene applicata
successivamente, in lingue come l’inglese o il francese, per formare una frase complessa dalla
proposizione subordinata di ultimo grado fino alla principale. Questi vantaggi selettivi si articolano
sull’urgenza comunicativa. E’ rivelatore il fatto che certi innatismi negano alla lingua una funzione
fondamentale comunicativa, a dispetto della constatazione che ciascuno può fare dell’uso della
lingua nella comunicazione. La lingua non è anzitutto un mezzo di comunicazione. Possiede troppe
ambiguità, troppe ridondanze, troppi tratti specifici per essere un buon mezzo di comunicazione.

Le lingue presentano innumerevoli tracce dei fenomeni sociali che, inscrivendosi nel tessuto
materiale delle strutture linguistiche, creano dei vincoli lessicali e grammaticali altrimenti
inspiegabili con la sola dinamica interna. Ecco tre esempi illuminanti:

Le parole sono testimoni di fatti socioculturali. Un esempio ne sono l’indonesiano (lingua moderna)
che è formato sulla base del malese, una lingua antica. Si tratta di un fenomeno sociale che si
inscrive nel tessuto della lingua senza che intervenga alcun fattore che si possa ricollegare ai
meccanismi di una grammatica universale innata. Esiste una chiara tendenza nell’indonesiano
moderno, a utilizzare di più dei predicati attivi con il prefisso me- che con il prefisso ber-, che
funziona piuttosto come aggettivo. Questa tendenza della funzione predicativa a evolvere dalla
descrizione di una situazione a quella di un attività è parallela alla tendenza sociale che va verso
l’individualizzazione e il dinamismo del soggetto nella cultura indonesiana odierna, attraverso
l’influenza della cultura moderna.

La costruzione di vincoli formali come processo di ritualizzazione delle lingue. I fattori sociali
possono determinare delle forme che non rientrano nella necessitò organica delle lingue intese come
meccanismi mentali. Si può chiamare ritualizzazione il processo in base al quale, con il rinforzarsi
delle relazioni di solidarietà tra i membri di una comunità, vincoli sempre più stretti e più arbitrari
cominciano a pesare sulla traduzione linguistica del mondo e sulle categorie grammaticali che ne
sono alla base. Un esempio tipico è quello delle classi nominali: in molte lingue, gli elementi
dell’universo sono ripartiti in categorie marcate formalmente da morfemi speciali detti classificatori
per distinguere altrettante forme, dimensioni, usi, tipologie, ecc. di oggetti. Anche in questo caso
non si può invocare un determinismo legato all’organizzazione del dicibile in base ai vincoli innati
di una grammatica universale.

Le forme linguistiche come liturgie sociali. Il confronto tra Pidgin e lingue creole illustra la
differenza tra assenza e presenza di un legame sociale che consacra in senso liturgico
l’appartenenza identitaria dei membri di un gruppo. I Pigdin non hanno una funzione identitaria
perché la lingua è usata tra membri di gruppi che non parlano la stessa lingua nei mercati delle città
africane. La creolizzazione invece non ha per unico scopo quello di rispondere all’urgenza
comunicativa attraverso il mezzo più diretto per rapportarsi con gli altri a parole. Per questo nelle
lingue creole le complicazioni morfologiche sono strumenti che servono a marcare l’identità etnica.
Inoltre esse conservano tracce importanti delle lingue di sostrato, andando contro le tesi innatiste
che sostengono la presenza in esse di costruzioni nate spontaneamente dall’attitudine genetica degli
utilizzatori.

Il modello che potrebbe corrispondere alla doppia natura delle lingue (biologica e sociale) è quello
socio-operativo. In definiva l’essere umano compie nella società delle operazioni di costruzione
dell’enunciato. Nel corso del tempo fabbrica degli strumenti formali grazie ai quali può elaborare
un sistema linguistico e proiettarlo nello spazio-tempo del discorso, ma tutta questa attività
operativa ha come contesto permanente l’atto sociale della comunicazione. Si osserva inoltre che gli
strumenti formali che l’uomo fabbrica per comunicare, presentano differenze notevoli da una lingua
all’altra, anche all’interno della stessa famiglia genetica. Le comunità umane strutturano in modi
molto diversi la loro conoscenza del mondo. Questa diversità si spiega in una prospettiva socio-
operativa: l’essere umano può essere concettualizzato come un enunciatore psicosociale, cioè come
produttore e ricettore di parole in un processo di comunicazione a base biologica, ma plasmato in
continuo dal fattore sociale.

CAPITOLO 9
LALLAZIONE E CULTURA (Boysson-Bardies)

Come la lingua materna “coltiva” il cervello del bambino, geneticamente predisposto? Nel corso dei
primi 18 mesi di vita, il fatto di ascoltare la lingua materna permette al bambino di fare 3 “raccolti”
a partire dagli input linguistici: ricava un modello della struttura fonetica e prosodica della lingua;
scopre l’esistenza di parole che uniscono arbitrariamente suono e significato; riconosce dei modi di
produzione appropriati alla sua lingua e al suo contesto.

Questi raccolti non si fanno su un terreno vergine. Il bambino è in grado di fare distinzione raffinate
sulle dimensioni fonetiche. Cosi, i neonati sono sensibili alla maggior parte dei contrasti fonetici
presenti nelle lingue. Questa capacità è un prodotto dell’evoluzione perché se ne trovano degli
equivalenti in certe specie animali. Essa è generale perché permette di distinguere i contrasti di
valore fonologico nelle diverse lingue. E’ “linguistica” e non acustica. Accanto a queste capacità il
neonato dispone di processi che sviluppano in lui la sensibilità a organizzare prosodicamente la
parola, cioè in rapporto alle variazioni di durata e di altezza che producono il ritmo e l’intonazione
delle lingue. Dal primo mese di via il neonato risponde a questi marcatori che segmentano le
proposizioni nelle lingue. Nel bambino da 2 a 6 anni, ma solo per una decina di giorni, si osserva un
comportamento detto turn-talking (ciascuno a suo turno). Il bambino risponde molte volte di
seguito con piccole vocalizzazioni alle sollecitazioni vocali dell’adulto. Questo comportamento si
osserva anche nei bambini sordi, e mostra come i bambini siano programmati a reagire ai
movimenti della bocca in atto di parlare. Il turn-talking sembra segnare l’inizio di un
comportamento di comunicazione vocale. L’ascolto di una lingua è necessario perché questi doni in
potenza si traducano in atto, e perché si instauri il linguaggio e il desiderio di una comunicazione
parlata con le persone circostanti.

La prima “coltura” del cervello del bambino avviene ascoltando la lingua materna. Dal sesto mese
si comincia a notare una selezione dei dati forniti dall’ambiente linguistico. Questa selezione porta a
una specificazione delle capacità iniziali di distinzione e categorizzazione. A 6 mesi si nota una
percezione delle vocali modificata dall’ascolto di esempi di vocali trovate nella lingua adulta.
Tuttavia il neonato era in grado gia dal quinto mese di vita di associare i suoni delle vocali ai
movimenti della bocca; a circa 7 mesi un riconoscimento delle sillabe la cui struttura è conforme a
quella della lingua materna; sempre a 7 mesi una specificazione dei tratti indicanti le frontiere delle
frasi. Il neonato distingue solo quelli che segnano le frontiere della lingua materna. Il bambino
diventa inoltre sensibile alle posizioni degli accenti nelle lingue a stress. Le proprietà della lingua
materna hanno modificato l’udito del bambino. Il suo spazio percettivo iniziale si è sensibilizzato
alle priorità peculiari dei repertori fonetici e ritmici della propria lingua e le sue capacità di
discriminazione dei contrasti stranieri che non sono stati ascoltati nell’ambiente di vita vanno
progressivamente indebolendosi. I neonati sono introdotti nella loro lingua materna e aiutati nel loro
trattamento della parola dal modo in cui gli adulti si rivolgono a loro. Le intenzioni dei genitori
accompagnano lo sviluppo culturale del bambino. Altri meccanismi “automatici” accompagnano il
kit genetico per il linguaggio e favoriscono una rapida selezione delle forme e delle parole della
lingua. Uno di questi si basa sulla capacità del neonato di selezionare degli schemi fonetici su criteri
distributivi e di frequenza. Basta una presentazione di appena due minuti di una catena continua di
parole che consiste in 4 parole di 3 sillabe ripetuta in un ordine aleatorio a un tasso di 270 sillabe al
minuto perché il bambino possa estrarre da questo magma le parole a partire dal loro indice di
probabilità transizionale alle frontiere. Cosi la prima “coltura” legata all’ascolto della lingua
permette al bambino di 8-10 mesi di avere un modello preferenziale percettivo fondato sulle
caratteristiche fonetiche e prosodiche della sua lingua. La selezione dei dati acustico-fonetici della
lingua avviene prima che il bambino sia capace di produrre suoni linguistici. Il bambino comincia a
produrre delle sillabe simili a quelle adulte intorno ai 7 mesi: è l’inizio della lallazione. Le
produzioni della lallazione non sono indipendenti dall’acquisizione della parola e molto presto nella
lallazione si manifesta l’influenza della selezione percettiva effettuata nei mesi precedenti. Le
sequenze di sillabi della lallazione a 8 mesi si uniformano, in generale, ai pettern intonativi propri
della lingua. Verso i 9-10 mesi lo spazio vocalico delle produzioni della lallazione riflette quello
della lingua materna del bambino. Uno studio sull’analisi delle vocali di illazione dei bambini di 10
mesi francesi, inglesi, algerini e cantonesi mostra che gli spazi vocalici dei bambini tendono a
uniformarsi a quelli della distribuzione adulta. Sempre a 10 mesi il bambino produce sillabe che
tendono a riprodurre gli schemi più frequenti nella sua lingua. L’alternanza CVCV (consonante
vocale..)è generalmente la forma più frequente dei disillabi nella lallazione. Con la lallazione le
produzioni del bambino entrano a far parte del suo universo percettivo. Vengono associate
nell’esperienza della lingua alle produzioni adulte ed entrano a far parte del lessico del bambino.
Inoltre hanno un peso nel rimaneggiamento percettivo che si osserva alla fine del primo anni di vita.

La raffinata facoltà percettiva riscontrata nel bambino di meno di 8 mesi non include la
rappresentazione di “entità conoscitive”, cioè di forme sonore a cui sono legati significati. Molto
preso il bambino realizza che i suoni del linguaggio servono a comunicare presenze, stati d’animo o
situazioni, ma è solo intorno ai 9 mesi che capisce che i suoni formano parole, che ogni parola
corrisponde a un concetto, e che ogni concetto può essere nominato. Si tratta del momento in cui il
bambino comincia a chiedere parole, cioè a indicare gli oggetti di cui vuole conoscere il nome. Alla
fine del primo anno di vita arriviamo dunque a una tappa molto importante e relativamente poco
studiata rispetto alla precedente. Il bambino comincia a capire che i suoni formano delle parole con
un senso. Le raffinate capacità di distinzione riscontrare nel neonato sono parzialmente mascherate
dalla priorità accordata alla ricerca del significato delle forme acustiche. A 7 mesi il bambino
riconosce una forma sonora solo se è identica a quella che gli è stata precedentemente insegnata. A
10 mesi il bambino estrae dalle parole dal suo ambiente familiare, e queste parole sono riconosciute
anche se hanno subito un cambiamento di posizione o di articolazione della prima consonante. Il
bambino non cerca più l’identità con una forma udita in precedenza, ma una forma che possa essere
riferita a oggetti o persone note. A 14 mesi i bambini che imparano il significato delle parole, non
identificano le sottili variazioni fonetiche nelle sillabe quando debbono imparare o riconoscere il
significato di una parola. Continuano a identificare queste variazioni solo nel caso che debbano
operare una distinzione. Il compito di unire delle parole a degli oggetti è gratificante, e il bambino si
concentra sulla ricerca e la produzione di senso. Il bambino tra 10 e 16 mesi continua la lallazione
agevolando la produzione di forme della lingua materna, ma a circa 1 anno di vita produrrà le sue
prime parole. Le prime parole dei bambini sono foneticamente imprecise. I bambini costruiscono
allora rappresentazioni in sillabe o in parole prosodiche, delle gestalt che integrano al loro lessico
accettando cosi delle forme approssimative. Il bambino diventa creatore di parole. Questa seconda
“coltura” del cervello attraverso la lingua ha insegnato al bambino la relazione arbitraria tra suono e
senso.

Un terzo “raccolto” dovuto all’influsso strutturale e culturale della lingua si imprime tra il decimo e
diciottesimo mese sulle strategie di accesso al linguaggio e sulla scelta delle prime parole. I bambini
hanno imparato a distinguere, ma fanno delle scelte quando non possono memorizzare e controllare
tutto contemporaneamente. Nel periodo relativamente lungo di 4-5 mesi, che va dalle prime parole a
un vocabolario di circa 50 parole, si assiste allo sviluppo di modi peculiari di accesso al linguaggio.
Questi riflettono le scelte diverse che i bambini fanno sulle forme che organizzano la lingua: fonemi
salienti, sillabe, ritmo sillabico, vocali, intonazioni della frase. Il temperamento, le determinazioni
genetiche, gli influssi dell’ambiente fanno si che un bambino non assomigli ad un altro. Tuttavia
questa varietà di scelta non indipendente dalla struttura della lingua parlata nell’ambiente
circostante. L’influenza della cultura agisce nettamente anche al livello della scelta delle parole. Il
bambino cresciuto in un quadro culturale che ha i suoi costumi e le sue esigenze, parla “per” questo
tipo di entourage. Fin nel primo lessico, la distribuzione grammaticale delle parole e il loro
contenuto sono influenzati dalle divergenze tra le forme culturali d’inserimento sociale. Il bambino
si mostra “acculturato” fin dalle sue prime parole. I bambini hanno selezionato le parole che fanno
parte del loro spazio sociale. L’adulto trasmette inconsciamente la sua cultura attraverso le parole
che utilizza con gli altri, e in quelle che pensa utili insegnare al bambino inteso come interlocutore
sociale. La lingua come fenomeno culturale agisce fin dai primi mesi per modellare lo spazio
percettivo del bambino verso uno schema preferenziale della struttura fonetica e prosodica di tale
lingua. Intorno a 1 anno essa gli schiude il mondo della parole, orienta i suoi modi di accesso al
linguaggio e la scelta dei suoi primi vocaboli, gia selezionato da e per il contesto culturale che
circonda il bambino.

CAPITOLO 10
LE BASI CEREBRALI DI UN’ACQUISIZIONE CULTURALE: LA LETTURA (Dehaene)

Quando leggiamo un testo non siamo complessità delle operazioni che vengono messe in atto dal
nostro apparato visivo. Da un lato il nostro apparato visivo si adatta alle molteplici variazioni della
forma delle parole In questo modo possiamo riconoscere la parola “quattro” sia essa scritta in
minuscole o in maiuscole, in un carattere inusuale e qualunque siano le sue dimensioni. Siamo
inoltre capaci di leggere delle parole nelle quali una lettere sua due sia minuscola. Dall’altro, siamo
straordinariamente sensibili alle differenze grafiche minime che a volte distinguono parole molto
diverse. Infine, è chiaro che questa capacità deriva da un lungo apprendistato. Ciò che distingue due
parole in una lingua può essere irrilevante in un’altra. A seconda che impariamo a leggere il cinese,
l’ebraico o i geroglifici, il nostro cervello saprà riconoscere senza esitazione tali caratteri, o al
contrario vedrà in essi delle forme astratte impossibili da decifrare. Solo qualche migliaio di anni fa
l’umanità ha inventato la scrittura. La struttura del nostro cervello non ha dunque avuto la
possibilità di adattarsi alle particolari difficoltà poste dal riconoscimento delle parole scritte, e
tuttavia il nostro apparato visivo realizza delle prodezze tali da sembrare perfettamente adattato a
questo nuovo compito. La maggior parte dei ricercatori accoglie implicitamente il modello che si
potrebbe definire della plasticità generica e del relativismo culturale. Secondo tale modello il
cervello è considerato come un organo talmente plastico che non vincola in alcun modo le nostre
acquisizioni culturali peraltro cosi diverse tra loro. In base a tale ipotesi, il cervello, liberato dai suoi
vincoli biologici, a differenza di quello delle altre specie animali, sarebbe in grado di assorbire ogni
forma culturale per quanto varia. Alcuni studi molto interessanti tendono a proporre un modello
alternativo, che si oppone radicalmente al precedente. In base a tale ipotesi, la struttura del cervello
è molto vincolata: prende le mosse da una serie di limiti genetici, ma resta aperta a un margine di
variabilità. Le acquisizioni culturali sono allora possibili nella misura in cui si inseriscano in questo
margine, riconvertendo ad un altro uso le predisposizioni, cerebrali già esistenti. La variabilità
culturale è dunque ridotta, la sua ampiezza apparente è solo un’illusione legata alla nostra
incapacità di immaginare forme culturali diverse da quelle che il nostro cervello è in grado di
concepire.

L’analisi funzionale per immagini attraverso la risonanza magnetica (IRMf) perfette oggi di
visualizzare l’attività del cervello durante numerose operazioni cognitive. Sarebbe sbagliato pensare
che una sola area cerebrale si faccia carico di un’operazione cosi complessa come la lettura. Il
riconoscimento visivo, l’accesso al lessico mentale, il recupero del significato di ogni parola, la loro
integrazione nel contesto della frase, e infine la loro pronuncia mettono in moto più di una decina di
aree cerebrali ripartire della regione occipitale, temporale, parietale e frontale. Nelle tappe più
precoci della lettura entra in gioco una piccola regione che si chiama area della forma visiva delle
parole, fa parte della via visiva ventrale sinistra, una banda della corteccia cerebrale che si estende
alla base del cervello dal polo occipitale, interessato nell’analisi dei tratti visivi, fino alla regione
fusiforme anteriore dove si estrapola l’identità degli oggetti. Una prima sorpresa è data
dall’incredibili riproducibilità per immagini di questa regione da un individuo all’altro. La si trova
sistematicamente nella stessa posizione in ogni individuo, in una sezione del cervello detta solco
occipito-temporale. Numerose caratteristiche dimostrano che questa regione svolge un ruolo
particolare dell’identificazione visiva delle parole. Anzitutto si attiva solo con le parole scritte, e
non quando le parole sono in forma orale. Inoltre non sembra interessarsi al significato delle parole
ma unicamente alla loro forma visiva. Si pensa che questa regione effettui l’analisi delle lettere che
compongono le parole, e che fornisca alle altri regioni cerebrali una rappresentazione della loro
identità e della loro disposizione secondo un certo ordine. La lesione di questa regione, ad esempio
in seguito ad un incidente vascolare, genera una sindrome particolare, l’alessìa pura: il paziente non
è più in grado di leggere rapidamente le parole. Tutto questo dimostra che una frazione della
regione infero-temporale sinistra svolge un ruolo molto particolare nell’identificazione visiva delle
parole.

La regione della forma visiva delle parole si adatta attivamente alla lettura. Ne è prova il fatto che
no basta una serie qualunque di lettere per attivarla. La risposta della regione cerebrale in esame
non è determinata soltanto dagli stimoli visivi, ma dalla storia culturale dell’individuo che,
imparando a leggere, ha imparato a decodificare certe serie di lettere meglio di altre. In tutte le
culture, nonostante le forme di superficie variabile, sembra che le parole scritte si inscrivano nella
stessa regione cerebrale, con minime differenze legate forse alla forma e alla struttura interna dei
caratteri. Questo processo di condizionamento culturale può essere visualizzato in modo diretto
attraverso l’analisi del cervello del bambino durante le diverse tappe dell’apprendimento della
lettura. Sono nel bambino di 10 anni si cominciano a registrare delle risposte che somigliano a
quelle dell’adulto. E’ affascinante constatare che anche un bambino di 8 anni, che sa già leggere da
vari mesi o anche da anni, non attiva necessariamente in modo marcato la via visiva ventrale
sinistra. Non basta saper leggere: è la perizia nella lettura all’interno di una cultura data che porta a
una specializzazione di questa regione. In questo modo si osserva una correlazione forte tra il grado
di attivazione di questa regione e le performance di lettura.

La regione visiva ventrale sinistra estrapola una rappresentazione visiva invariante, capace di
codificare l’identità delle parole facendo astrazione dai parametri visivi non pertinenti. Una prima
forma di invarianza è spaziale. Le prime tappe dell’analisi visiva sono dette retinopiche perché
interessano dei punti specifici della retina. Tuttavia, l’analisi funzionale per immagini mostra che la
regione della forma visiva delle parole è la prima regione che, nell’analisi visiva, non è retinopica.
Risponde infatti in modo identico a parole presenti sia a sinistra sia a destra del campo visivo, cosa
che ci consente di leggere le parole qualunque sia la loro posizione. Questo implica una connettività
particolare. Le parole presenti a sinistra sono infatti trattate inizialmente da regioni visive
dell’emisfero destro, e viceversa. L’invarianza di posizione può dunque essere colta dalla regione
ventrale sinistra solo se questa regione raccoglie le informazioni visive da entrambi gli emisferi.
Esperimenti permettono di stimare che l’identità invariante delle parole è estrapolata in meno di un
quinto di secondo. Un secondo aspetto di questa invarianza riguarda il tipo di carattere e il formato
in cui i caratteri sono stampati. Siamo in grado di riconoscere la stessa parola scritta in maiuscole o
minuscole, in carattere Garamond o Arial. La regione della forma visiva delle parole è all’origine di
questa capacità. L’analisi per immagini dell’attività cerebrale ha mostrato che tale effetto traeva
origine nella regione visiva ventrale sinistra. L’attivazione di questa regione era più elevata quando
venivano mostrate due parole distinte che quando la stessa parola era mostrata due volte. Il che
suggerisce l’esistenza, in questa regione, di popolazioni di neuroni in grado di identificare la
ripartizione della stessa parola qualunque sia la sua forma, e di effettuare questa analisi invariante
automaticamente, al di là della consapevolezza del soggetto. Bisogna sottolineare che questo effetto
implica un apprendimento culturale. Siamo talmente abituati ad associale le lettere minuscole e
maiuscolo che non facciamo più attenzione al carattere arbitrario della loro forma. L’esistenza, nella
regione visiva ventrale, di neuroni capaci di rispondere in modo identico ad “a” e “A” non è dovuta
né al caso né all’organizzazione innata dell’apparato visivo. Risulta invece necessariamente da un
apprendimento che ha introdotto delle associazioni culturali nuove.

Leggere comporta numerosi aspetti culturali arbitrari. Non abbiamo una conoscenza innata delle
sequenze di lettere che formano le parole e di quelle non significano nulla. D’altro canto la lettura è
un’invenzione culturale troppo recente perché il nostro cervello abbia potuto adattarsi ad essa nel
corso della sua evoluzione. E tuttavia, in tutti gli individui e in tutte le culture, i meccanismi
dell’identificazione invariante delle parole si basano sulla stessa regione cerebrale, con variazioni di
solo qualche millimetro. Questa regione sembra particolarmente adatta alla funzione di identificare
le parole. Lo fa con una rapidità sorprendente e un’invarianza circa la posizione e la forma delle
lettere senza la quale non potremmo leggere. Nel primate, la regione infero-temporale è consacrata
nella sua totalità alle operazioni di identificazione visiva. Fa parte della via visiva “ventrale”, detta
via del “cosa”, che si oppone anatomicamente alla via “dorsale” detta via del “come” e del “dove”,
interessata all’azione e alla localizzazione spaziale. Anche nell’uomo, la regione ventrale risponde a
ogni sorta di stimoli visivi diversi dalle parole: volti, oggetti, luoghi. Anche se la risposta allo
stimolo raggiunge il suo apice con le parole, il fatto di presentare disegni al tratto evoca sempre una
risposta significativa. Appare dunque chiaro che la regione della forma visiva delle parole si
inserisce in un tessuto corticale più vasto il cui ruolo nel riconoscimento visivo è antico sul piano
filogentico. Attraverso l’analisi per immagini del cervello si è dimostrato che le regioni laterali della
corteccia cerebrale visiva ventrale rispondono di preferenza agli oggetti e alle parole, mentre le
regioni più vicine alla linea mediana rispondono di preferenza ai volti e a scene di esterni. Tali
preferenze coincidono con un gradiente di selettività per l’eccentricità dell’immagine: le regioni
laterali rispondono di preferenza ai dettagli minimi dell’immagine, mentre le regioni mediane
rispondono di preferenza alla configurazione globale e dunque alla periferia del campo visivo. Un
tale gradiente potrebbe essersi formato durante la formazione della corteccia cerebrale e potrebbe
spiegare il fatto che la codificazione visiva delle parole, che richiede una grande precisione visiva,
sia sistematicamente associata alle regioni laterali della corteccia cerebrale infero-temporale, e che
sia dunque cosi riproducibile da un individuo all’altro.

La storia evolutiva ha dotato il nostro apparato visivo di una regione nella quale i neuroni sono
sensibili a combinazioni elementari di tratti visivi presenti nella fovea, sono capaci di imparare delle
nuove combinazioni, hanno delle proprietà di invarianza di posizione, di dimensione e di forma, e
sono in connessione con altre aree dell’emisfero sinistro. Questa regione è più esattamente quella
che acquisisce, nel corso dell’apprendimento della lettura, un codice invariante di parole proprio al
sistema di scrittura che gli è inculcato. Cosi l’apprendimento della lettura riconverte o “ricicla” una
rete neuronale la cui funzione iniziale è abbastanza vicina. Il cervello non ha né la possibilità né il
bisogno di creare ex novo un’area cerebrale dalle proprietà originali. Nessuna area cerebrale si è
voluta per la lettura. Al contrario si può ipotizzare che sono i sistemi di scrittura che, nel corso
dell’evoluzione culturale, hanno subito una pressione selettiva che mirava ad adattarli ai vincoli del
nostro apparato visivo. In tutte le culture in cui ha fatto la sua comparsa, l’evoluzione della scrittura
ha cominciato con dei pittogrammi immediatamente riconoscibili da un qualunque primate.
Progressivamente i caratteri si sono stilizzati fino ad arrivare ad un disegno minimo, rapido da
tracciare, ma sempre riconoscibile dal nostro apparato visivo. Riassumendo, l’organizzazione del
nostro cervello ha condizionato l’evoluzione culturale della lettura, mentre la lettura non ha avuto la
possibilità materiale di modificare la struttura genetica del cervello. Un buon numero delle nostre
invenzioni culturali subiscono probabilmente dei condizionamenti neurofisiologici paragonabili a
quelli identificati nel caso delle parole scritte. Secondo tale ipotesi, le invenzioni culturali non sono
adottate se non nella misura in cui invadono delle regioni cerebrali inizialmente votate a delle
funzioni abbastanza simili. Questa ipotesi, detta della riconversione neronale, afferma in definitiva
che ogni oggetto culturale deve trovare la sua nicchia ecologica nel cervello, un circuito o un
insieme di circuiti il cui ruolo iniziale è adatto e la cui flessibilità è sufficiente per essere
riconvertito a questa nuova funzione. Questo meccanismi fa si che l’involucro genetico della specie
umana definisca una struttura cerebrale che delimita uno spazio di oggetti culturali accessibili. Le
variazioni culturali che la nostra specie è in grado di inventare non sono dunque illimitate ma
estremamente condizionate dalle rappresentazioni e dai meccanismi cerebrali che ereditiamo
dall’evoluzione e che definiscono la natura umana. La difficoltà di apprendimento di questo o di
quel concetto o di questa di o di quella tecnica nuova deve potersi spiegare, almeno in parte, con la
difficoltà più o meno grande incontrata nella riconversione neuronale e quindi con l’adattamento
più o meno efficace con le pre-rappresentazioni prodotte dal nostro cervello.

CAPITOLO 11
STORIA NATURALE, NEUROSCIENZE, SOCIETà (De Ricqlès)

Secondo Herriot “la cultura è ciò che resta quando si è dimenticato tutto”. Questa bella definizione,
un po’ paradossale, merita che ci si soffermi. Il “si” impersonale fa riferimento tipicamente a un
individuo, ma anche a una popolazione o a una nazione.. ossia all’intera umanità. In quest’ultimo
caso, il più generale, la cultura appare allora come un tratto autopomorfico dell’umani, cioè come
una carattere derivato non condiviso e specifico della nostra specie, carattere implicitamente
compreso come geneticamente determinato. L’uomo è per natura produttore di cultura. Il “si”
tuttavia può essere anche un individuo, una popolazione umana o animale, che manifesta tratti
cognitivi o comportamentali particolari e dunque culturalmente distinti da altri rappresentanti della
specie. La cultura può allora particolarizzarsi e relativizzarsi come un tratto distintivo all’interno
della specie, della popolazione, della famiglia e la natura del suo determinismo, acquisito o innato,
può in queste condizioni porre infiniti problemi. Aldilà dell’impossibile definizione di cultura, è
chiaro che il culturale emerge a partire da un certo livello d’evoluzione e di complessità del sistema
nervoso, dell’insieme dell’organismo, che incontreremo presso i vertebrati molto più evoluti quali
gli uccelli e i mammiferi.

Organismi pluricellulari (metazoi) sono indubbiamente conosciuti nel Vandiano 600mln di anni fa.
I metazoi complessi, i vertebrati, sono conosciuti con certezza nell’Ordoviciano, 450mln di anni fa.
Le termiti nel Carbonifero, 310mln di anni fa. Gli imenotteri e poi gli uccelli nel Giurassico,
150mln e 145mln di anni fa. Con questi diversi tipi di organismi, la natura dispone di “Piani di
base” a partire da cui potranno ulteriormente realizzarsi diverse modalità di sviluppo “culturale”.
Tra i mammiferi, i primati fanno la loro comparsa a partire dalla fine del Mesozoico, 70 mln di anni
fa. In questo ramo, bisogna attendere gli ultimi 6-4 mln di anni per vedere emergere con gli
australopitechi in senso lato segni certi di attività culturale. L’uomo di N., su cui studi recenti di
genetica molecolare sembrano confermare che si sia trattato di una specie distinta dalla nostra,
manifesta forse 100mila anni fa, una elaborata attività culturale. Utensili complessi, seppellimenti
rituali dei morti, e persino tracce di mutua assistenza e di commiserazione come rivela la
riparazione ossea di una mascella fracassata il cui proprietario, incapace ad alimentarsi da solo,
deve evidentemente essere stato curato e nutrito da suoi consimili. Se ne deduce che il culturale non
è appannaggio soltanto della nostra specie. In un altro ambito, quello etologico, molteplici
osservazioni non soltanto presso i primati ma anche presso altri gruppi di mammiferi e anche spesso
gli uccelli, impongono di estendere il dominio del culturale a un buon numero di linee. Conosciamo
l’uso di strumenti e l’importanza dell’imitazione e dell’apprendimento per diversi animali, uccelli
compresi. E’ chiaro che il genetico precede a tal punto il culturale che quest’ultimo, una volta
ricollocato nella storia a lungo termine della vita, appare quasi come un epifenomeno marginale.
Questa visione dell’evoluzione si situa evidentemente agli antipodi di un certo antropocentrismo
culturale caso alla nostra tradizione filosofica occidentale dove l’uomo è misura di tutte le cose. In
The Mismeasure of Man, Stephen Jay Gould avanza una visione particolare delle relazioni tra
nature and nurture, in altri termini tra determinismo genetico o , al contrario, ambientale delle
caratteristiche umane, segnatamente culturali. In teoria, i sostenitori delle due tendenze sembrano
tuttavia trovare un accordo ammettendo che la verità si troverebbe da qualche parte a metà strada tra
le due posizioni estreme. Gould e altri considerano l’ambiente come la determinante principale della
natura umana. Se la causa dell’intelligenza, dell’aggressività, dell’affettività o di ogni altro aspetto
del comportamento specificatamente umano non è davvero nei nostri geni, allora bisogna certo
cercarla nell’azione dell’ambiente. Ed è certo che l’ambiente ha un enorme potere. Gould scrive che
la base biologica del carattere unico dell’umano porta proprio a respingere un determinismo
biologico dell’intelligenza. Con ciò vuole dire che quanto sappiamo già della biologia umana
contraddice la possibilità che i nostri geni giochino un ruolo davvero importante nel modellare le
nostre caratteristiche cognitive e comportamentali in ciò che hanno di tipicamente umano. Questa
considerazione, visto quanto poco sappiamo delle basi biologiche reali delle nostre caratteristiche
comportamentali, sembra essere poco accettabile o comunque prematura. I fautori del primato delle
influenze ambientali ammettono perfettamente che i geni agiscono sul comportamento umano ma
aggiungono subito che queste influenza possono essere ampiamente controbilanciate, o modulate,
sotto l’effetto relativamente più potente delle condizioni dell’ambiente, in pratica dell’educazione e
dello status socio-economico. Manca in questa tesi uno studio sperimentale (evidentemente
impossibile). Sull’altro lato della linea del fronte, biologi evoluzionisti come Hernstein e Murray, o
sociologi e psicologi come Jensen e Pinker, sono convinti che la genetica e la selezione naturale
sono i fattori principali che modellano le caratteristiche fisiche e mentali di ogni organismo, uomo
incluso. Murray ritiene che l’azione dei geni sia cosi determinante da arrivare a suggerire, che i
governi non dovrebbero investire tempo e denaro per migliorare l’educazione e le condizioni
economiche perché questo non cambierà il posto delle persone nella società, posto determinato in
fin dei conti dal loro QI (quoziente intellettivo). Secondo quest’ottica, le persone intelligenti
tenderanno a rimanerlo e a trasmettere questo tratto, anche a dispetto di condizioni difficili, le altre
resteranno indietro, qualunque cosa la società faccia per loro. Wilson e Pinker, come i fautori del
primato dell’ambiente, sono pronti a concedere qualcosa al campo opposto, all’occorrenza che un
ambiente ottimale possa avere un certo effetto favorevole, anche se lo considerano relativamente
limitato in rapporto alla quasi onnipotenza che accordano al determinismo genetico. Gould e
Lewontin contestano il significato e l’uso dei test di tipo QI nella loro interpretazione corrente. In
breve, se diversi individui hanno costantemente gli stessi buoni (o cattivi) risultati a serie di test di
tipo QI è per il fatto che esiste una realtà soggiacente (l’intelligenza) che deve renderne conto. Nel
campo avverso i fautori dell’innato hanno sempre sostenuto che la prova più solida a favore
dell’influenza del genico sulle attitudini cognitive umane proveniva fagli studi rigorosi condotti su
coppie di geni omozigoti allevati insieme o separatamente. Comunque l’impossibilità pratica di
accedere a questo tipo di dati se non partendo da approcci molti indiretti, sembrano limitare
seriamente il valore delle argomentazioni contraddittore a confronto.

In definiva non è possibile dubitare seriamente che i geni influenzino lo sviluppo e il funzionamento
del cervello. Come il cervello e tutto il sistema nervoso determinano i comportamenti umani, è
incontestabile che il nostro comportamento è influenzato dai nostri geni. La prima caratteristica dei
comportamenti umano è la loro straordinaria plasticità. Di conseguenza, e indipendentemente da
ogni pesantezza ideologica, possiamo riprendere Gould per proporre che tutte le forme di pratica
educativa che facciano migliorare veramente le condizioni di apprendimento o che facciano
accrescere e mantenere le prestazioni cognitive hanno tutte le probabilità di avere successo.
Condizioni ambientali veramente favorevoli non potrebbero che ottenere lo sviluppo intellettuale.
La maggior parte delle caratteristiche umane, inclusi il comportamento e l’intelligenza, hanno in
qualche modo una base genetica, cosa che Gould non avrebbe mai ammesso. Non può essere
diversamente, tenendo conto di quanto sappiamo riguardo ai geni implicati nel funzionamento
dell’encefalo e anche di anomalie strutturalfunzionali del cervello nel comportamento. Anche se è
politicamente scorretto pensarlo e scriverlo non si può più escludere che esistano differenze
genetiche alla base dei diversi comportamenti tra individui, sessi, popolazioni.

CAPITLO 12
LA NEOLITIZZAZIONE DELL’EUROPA (Guilaine e Crubèzy)

La transizione dell’economia di caccia e raccolta a sistemi economici fondati sull’agricoltura e


l’allevamento costituisce uno dei cambiamenti essenziali della storia umana, all’origine stessa della
società rurali. Le modalità di questa trasformazione sono ancora oggetto di discussioni
approfondite. La fondazione delle prime comunità agropastorali del continente europeo costituisce
un vecchio dibattito della ricerca archeologica e antropologica. Dal XIX secolo, l’azione congiunta
di archeologi e dei botanici situa nel Medio e Vicino Oriente l’addomesticamento dei cereali (grano,
orzo) e la nascita di civiltà villaggio che estenderanno progressivamente i loro modi di vita ai
territori europei. La fondazione di comunità rurali costituisce il fondamento dell’identità europea,
rinvia alle origine culturali di questo spazio e alla costruzione dell’etnicità. In un’epoca
progressione demografica e sedentarizzazione si congiungono, si pongono le basi del popolamento
attuale dell’Europa. Dal canto loro, alcuni genetisti interpretano la distribuzione attuale dei geni in
Europa come rilevante per una buona parte degli effetti della neolitizzazione. Eventuali spostamenti
di popolazioni associati al trasferimento di tecniche e di termini nuovi, avrebbero potuto contribuire
alla diffusione di lingue o alla creazione di vocaboli arricchiti.

Se confrontiamo le prime espressioni del Neolitico della Siria settentrionale e nell’Anatolia sud-
orientale (che costituisce nel X-XI millennio a.C. l’epicentro della neolitizzazione del vicino
Oriente) con quelle della Penisola Iberica, per esempio, notiamo tra queste due aree delle profonde
differenze. SUll’alto Eufrate si osserva la presenza di villaggi con abitazioni ad assisi di pietra, di
edifici originali e sedili e pareti decorate, destinate a riunioni o pratiche rituali, sculture individuali
o collettive, di veri e propri centri cerimoniali, l’uso di tecniche particolari nella produzione litica,
vasi di pietra, figurine di pietra o argilla, il progressivo domesticamento del farro, della spelta,
dell’orzo e delle leguminose, un controllo sempre più forte dei suini, dei bovini, dei caprini, infine
una società marcata forse dai primi dislivelli sociali. Se ora guardiamo alle più antiche
manifestazioni del Neolitico all’altro capo del Mediterraneo, la situazione è molto diversa. Siamo
3000 anni più tardi e qui si notano delle fondazioni di case di legno e argilla, una sostenuta
frequentazione delle grotte e dei ripari secondo la tradizione mesolitica, assenza di sepolture
collettive ma rare tombe isolate, accette per l’abbattimento degli alberi, una industria della pietra
tagliata orientata verso la produzione di armi da taglio, recipienti di terracotta ornata da bande
impresse con l’ausilio di conchiglie, l’assenza di figurine, una economia basta sulla coltura dei
cereali, un allevamento dominato dai caprini, una caccia al cervo e al cinghiale ancora attiva,
differenze sociali più leggibili. In altri termini, due immagini culturali totalmente diverse. E tuttavia
il primo Neolitico spagnolo + in un certo senso il lontano discendente di un meccanismo emerso nel
Vicino Oriente. Parallelamente potremmo individuare questa variabilità culturale nelle prime civiltà
del Neolitico europeo geograficamente intermedie. La prima Europa agricola e sedentaria non è
dunque il semplice risultato della diffusione di un processo standard: essa è gia plurale.

Come si è costituita l’Europa Neolitica? Dal punto di vista archeologico, lo schema classico di
V.Gordon Childe considera il Vicino Oriente come il motore di una trasformazione del nostro
continente attraverso la via di migrazioni effettuate lungo due assi principali: il Mediterraneo e il
Danubio e i suoi affluenti. Questo modello è costruito sull’opposizione tra cacciatori-raccoglitori
indigenu, presto respinti o acculturati, e agricoltori migranti, dinamici e innovatori. Questa
dimostrazione brillante si basava tuttavia su cronologie troppo contratte. Essa soffrirà rapidamente
di anacronismo. A partire dagli anni 60, la generalizzazione delle datazioni con il radiocarbonio
porta s stabilire un quadro cronologico più disteso: si accorda al Neolitico europeo uno spiegamento
di circa 4 millenni (dal 7000 al 25000 circa). Riprendendo la questione su basi archeologiche e
genetiche, Ammerman e Cavalli-Sforza tentano di conciliare la teoria dello spostamento di
agricoltori con la crepita demografica necessaria a questo genere d’espansione. I primi agricoltori e
poi i loro discendenti che avanzavano verso l’interno del continente, si sarebbero mescolati con le
popolazioni indigente. Questo processo spiegherebbe perché le frequenze geniche delle popolazioni
dell’Europa dell’Est somigliano maggiormente a quelle della Mezzaluna fertile. All’opposto, le
immagini geniche dell’ovest del continente, più lontane dalla zona motrice del Neolitico, sarebbero
più vicine a quelle delle popolazioni mesolitiche e paleolitiche originarie.

Le tendenze recenti dell’archeologia hanno di fatto contribuito a riabilitare spesso nel processo di
neolitizzazione il ruolo dei cacciatori-raccoglitori indigeni, considerandoli non come passivi ma
come parte pregnante del processo stesso. L’approfondimento delle conoscenze perette di scorgere
una partecipazione attiva degli autoctoni alla dinamica della diffusione agricola, e non un
movimento unificatore che si liquida di colpo con l’assoggettamento degli indigeni. Tra i due tipi
di economia, i contatti e le interazioni avrebbero comportato scambi di materiali , di beni di
prestigio, o di soggetti; questa osmosi potè contribuire in particolare a modificare i comportamenti
economici e sociali in seno alla società di cacciatori-raccoglitori. La nozione di frontiera economica
e culturale tra i due tipi di economia, spesso portata avanti dal modello migrazionista, appare ormai
come una costruzione intellettuale troppo rigida senza rapporti con la probabile complessità delle
relazioni, perché i processi di contatti e di percolazione comportano ormai l’elaborazione di modelli
di interazione tra cacciatori e coltivatori in numerose regioni geografiche. Nello stesso tempo gli
archeologi analizzano il posto dell’evoluzione sociale nella costituzione e poi nello svolgimento del
Neolitico. I modelli elaborati dall’antropologia evoluzionista, che hanno fatto fortuna, sembrano
limitarsi troppo spesso a degli stereotipi. Attualmente, come eventuali motori della neolitizzazione
vengono portati avanti altri concetti, fondati sulla competizione, la rivalità, il prestigio, il rango, il
sistema di valori. Un altro approccio tende a valorizzare il ruolo dell’ideologia e delle credenze
nella formazione delle culture neolitiche e di nozioni relative all’ancestralità, la discendenza, il
sacro ecc. Dall’esame delle culture neolitiche si ricava l’impressione di una grande diversità: ogni
regione sembra costruire molto presto la propria storia.

Per quanto riguarda la questione della dinamica di propagazione del Nolitico nello spazio e e nel
tempo, Cavalli-Sforza e Ammerman consideravano degli spostamenti regolari, scaglionati su diversi
millenni lungo le generazioni: all’incirca 4000 chilometri, dal Medio Oriente all’Europa nord-
occidentale in 4000 anni. Di fatto questo modello, troppo generale, non tiene quasi conto della
variabilità culturale caratteristica già delle prime espressioni del Neolitico europeo. Ora, la
neolitizzazione dell’Europa presenta una serie di adattamenti a diversi contesti cui si
sovrappongono, in parallelo, rinnovamenti e trasformazioni del paesaggio culturale. Queste
metamorfosi hanno comportato, periodicamente, ricomposizioni più o meno profonde che hanno
inevitabilmente perturbato il ritmo degli spostamenti. La cronologia della diffusione non sembra
aver risposto a una progressione omogenea e regolare ma a un modello “aritmico”, segnato sia da
accelerazioni sia da assestamenti, Queste pause si sono operate proprio nelle aree di mutamento
culturale. E’ possibile identificare almeno tre di queste zone, in Anatolia centro-occidentale, nella
Grecia dell’Ovest, nel nord dei Balcani. Ogni volta il meccanismo è lo stesso: un grande insieme
culturale giunge al limite delle sue potenzialità ecologiche e sistemiche; sesso segna un tempo di
arresto; questo substrato, sotto l’effetto di influenze interne ed esterne, si evolve sul posto per fare
emergere nuovi tratti culturali. Una volta realizzatori questo rimaneggiamento creativo, si produce
un movimento di espansione rapida.
Sul dibattito a proposti dei rapporti fra cacciatori-raccoglitori autoctoni e agricoltori intrusivi si
possono addurre due esempi. Il popolamento sedentario dell’isola di Cipro (IX e VIII millennio
a.C.) si effettua principalmente a partire dalle migrazioni dal sud-est dell’Anatolia e dal Levante
settentrionale. Le popolazioni dell’isola si organizzarono subito per una forte brachicefalia,
carattere singolare rispetto alle popolazioni vicine. Questi aspetti molto particolari, probabilmente
imputabili agli effetti dell’insularità, potrebbero mostrare la rapidità di certi cambiamenti
morfologici al limitare del Neolitico. Il Neolitico nell’Europa centrale pone un problema del tutto
diverso. Se si ammette il modello diffusionista di gruppi umani provenienti dall’Anatolia attraverso
i Balcani, la morfologia dei primi agricoltori nella fase a ceramica a banda lineare dovrebbe
mostrare qualche vicinanza con quella delle popolazioni della zona d’origine. Ma l’analisi delle più
antiche necropoli neolitiche dimostra che non ce ne sono. A eccezione di una diminuzione della
statura, gli individui esaminati non presentano differenze morfologiche sensibili con la più vicina
popolazione di cacciatori-raccoglitori nei Balcani, ne con quella dei cacciatori raccoglitori
dell’Ucraina. In tutti i casi si nota una forte robustezza, caratteristica di un buon numero di
cacciatori-raccoglitori, una similarità cranio-facciale cosi come certe frequenze simili di variazioni
anatomiche del cranio. Sembra dunque che il fenomeno della statura potrebbe essere stato piuttosto
rapido all’inizio del Neolitico, molto più rapido della gracilizzazione dell’insieme dello scheletro
che si colloca, invece, nella lunga, molto lunga, durata.

Uno studio della distribuzione dei geni in Francia può servire da base ad una riflessione sugli aspetti
genetici della neolitizzazione. In ogni regione le frequenze geniche sono state calcolate a partire da
soggetti non imparentati nati essenzialmente da una popolazione rurale storicamente stabile. La
carta della prima componente principale redatta mette essenzialmente in opposizione il centro della
Francia e la metà occidentale dei Pirenei e i loro margini. Questa illustrazione può essere messa a
confronto con la carta, ottenuta a partire dallo studio dei nomi di famiglia, degli spostamenti
osservati in Francia sulla base dei registri della fine del XIX secolo alla prima Guerra Mondiale.
Questa componente rifletterebbe dunque episodi storici recenti: dal Medioevo e dalla fissazione dei
cognomi. Essa mostra dei movimenti centrifughi dal Massiccio centrale verso la periferia e dai
Pirenei verso sud-est. Possono essere osservate altre particolarità regionali. Curiosamente è la
seconda componente principale ad avvicinarsi di più all’interpretazione di Cavalli-Sforza.
Sembrano liberarsi due poli, uno intorno al Mediterraneo, l’altro a partire dalla Francia orientale,
che potrebbero riflettere l’opposizione tra le correnti neolitiche mediterranee (a sud) e danubiane (a
nord). La supposta originalità basca, tuttavia, ancora ben marcata nel Neolitico, qui si trova
totalmente cancellata. Si noterà che la prima componente principale che include il massimo di
variabilità sembra essere il riflesso di fenomeni storici piuttosto recenti e in ogni caso senza un
rapporto apparente con la geografia dei processi di neolitizzazione in Francia.

In definitiva si potrebbe dire che la comparsa delle prime società rurali in Europa è stato il risultato
di fenomeni complessi. D’altro canto, la variabilità culturale si presenta ampiamente al primo colpo.
Sulle cause di questa variabilità si possono proporre alcune ipotesi. Considerare, per esempio, che la
parte migrante della popolazione è quella meno attaccata alle tradizioni e dunque la più permeabile
a processi di influenze esterne e di rinnovamento culturale. Questa variabilità culturale messa in
moto si dagli esordi dagli agricoltori, con cesserà di riprodursi lungo i 4 millenni di storia neolitica
europea, ciascuno dei quali è marcato da una forte proliferazione di espressioni. E’ proprio questa
lunga durata del Neolitico, caratterizzata al contempo da un rinnovamento costante dei tratti
identitari propri di ciascuna delle sue aree geografiche, a impedire di considerare questo periodo
come un tutto e anche come parti di storia ben distinte. Cosi, ogni tentativo di globalizzazione per
quest’epoca ci sembra sospetto. Più precisamente si può approssimativamente considerare che il
dispiegamento medio di una “cultura” neolitica in Europa si pone nell’ordine di mezzo millennio
circa. Associare, a proposito di neolitizzazione, cultura materiale e circolazione dei geni presuppone
dunque che la risoluzione cronologica dei due approcci (archeologico e genetico) sia dello stesso
ordine.

CAPITOLO 13
IL GENE CHE CAUSA E LA NATURA CHE PARLA: NARCISO CONTRO CANDIDO?
(Guille-Escuret)

Ogni cultura implica in primo luogo una trasmissione del sapere e delle regole di condotta da una
generazione all’altra, con le trasformazioni derivanti dall’esperienza assimilata per ogni epoca.
L’avvento dei neodarwinismo fonda la biologia contemporanea e nasce rifiutando categoricamente
l’eventualità di una qualsivoglia eredità biologica dei caratteri acquisiti. La cultura, essendo
determinata da una eredità su cui la biologia non ha presa, dunque non è biologica.

E’ proprio perché certi caratteri acquisiti si trasmettono di generazione in generazione che viene
assicurata l’esistenza “metabiolgica” della cultura. Confrontare i geni e la cultura rimanda cosi a
tenere presenti cose definite e una complessità da chiarire. La prova migliore che conosciamo i geni
risiede nel fatto che ne affidiamo la manipolazione a tecnici e ingegneri. La loro definizione ha
subito progressivi rimaneggiamenti da parte dei naturalisti. E la cultura? Nel 1952, due antropologi
americani ne avevano censito più di trecento definizioni (Kroeber e Kluckhohn). Oggi quel corpus
potrebbe verosimilmente essere raddoppiato. Una di queste miscele merita una speciale menzione:
Cultura = l’insieme dei comportamenti e dell’informazione comunicati per via diversa dal DNA.
L’antagonismo è irresistibilmente condotto alla sterile complementarità dell’innato e dell’acquisito.
Cosi, la coppia geni/cultura colloca la fissa esplosione della realtà naturale all’impossibile
localizzazione di una ipotetica scissione. La causalità genetica non è a priori ostacolata da nessun
limite razionale mentre la cultura non offre da contemplare che una preda in attesa di cattura.

Di fronte alla querelle innato/acquisito etnologia e genetica erano incentrate in primo luogo, senza
opporsi, da una parte e dall’altra della demarcazione. Esse affrontavano in modo diverso le stesse
causalità all’interno di un sistema fai contorni definiti: l’organismo. In altri termini, in ciascuna
delle due discipline si sviluppava una stessa divergenza teorica. Il rapporto natura/cultura, dal canto
suo, si realizza in modi molteplici ma per avere una possibilità di particolarizzarsi è necessario che
si preveda l’incontro tra ginecologia e la sociologia comparata. L’ipotesi secondo cui certi geni
influenzerebbero direttamente la cultura, indipendentemente dunque da una azione nell’ecosistema,
dovrebbe attendere conferma dagli ecologisti prima di essere ammessa dai genisti e dagli etnologi.
L’ecologia resta l’unico luogo della biologia a partire dal quale alimentare un dialogo durevole con
la sociologia.

A questo stadio, è sufficiente che siano ricordati alcuni precetti da rispettare e che si imponga un
controllo alfine di esitare in proposizioni scientifiche deboli. Nessuna riflessione che scavalca la
frontiera tra natura e cultura, o nessun argomento che arranca tra geni e cultura, deve cercare una
causa a un sistema, o a una struttura, che non sia omogeneo. Se il ragionamento di fonda su realtà
individuabili e definite sul versante della natura, esso deve riferirle a una lista chiusa di elementi
ugualmente individuabili e definiti sul versante della cultura. E’ importante non confondere mai una
ricerca incentrata su ciò che ha generato il fenomeno della cultura nella storia della nostra specie e
una ricerca di che partecipa al normale funzionamento di un sistema culturale. Uno studio
sull’analisi dei geni deve cercare influenze contrarie o concorrenti; uno studio che parta da una
logica, culturale o d’altro tipo, deve confrontarsi con logiche contrarie o parallele. In una
argomentazione è pericoloso includere nello stesso tempo la questione di ciò che causa la cultura e
quella di ciò che la cultura causa. La nozione di cultura combina tre tipi di criteri: la potenzialità
(attitudini diverse), la trasmissione, differenziazione. Alcune rappresentazioni combinano le tre
entrate, fissandole al livello dell’organismo, a quello dei rapporti interindividuali o riferendoli in
generale a una collettività. Altre ne utilizzano solo una o due. Al cuore di questa incredibile
diversità, sembra resistere discretamente a queste derive e esplosioni, in filigrana, un interrogativo
nodale: la memoria. Ogni teoria, ogni tendenza, ogni prospettiva riservano un posto a questo
parametro stranamente stabile. La cultura non potrebbe rivendicare una autonomia se non fosse in
grado di sfoggiare una capacità di registrazione dei caratteri acquisiti più efficace a breve termine
della memoria biologica. Questa memoria intrinseca della cultura o è la lingua o niente: l’etnologia
le ha riconosciuto questo privilegio. La biologia, riduzionista o meno, ha ugualmente ammesso il
verbo come la suprema manifestazione della singolarità umana nel regno animale. Arriviamo infine
a un confronto equilibrato: geni e parole, genomi e vocabolario, genotipi e lingue. Per serenità di
coscienza, converrà verificare che le parole e le lingue siano, sul versante della cultura, gli unici
omologhi dei geni e dei genotipi. Con questa conferma si ritorna all’antropologia, nel senso più
ampio.

Accanto a Levi Strauss, che scrive che, come il linguaggio, il sociale è una realtà autonoma
sussurrando subito, che si tratta della stessa realtà, c’è un altro professore, Leroi-Gourhan che da
parte sua indaga la coevoluzione del gesto e della parola nella storia del nostro genere. I geni non si
intrattengono soltanto con delle parole. Essi entrano in contatto senza sosta soprattutto con delle
tecniche che li modificano: al punto da mettere, recentemente, un coniglio tra i parenti più prossimi
di un topo. Quando il gene sceglie la parola come unico interlocutore culturale e quando il verbo
decide di rappresentare isolatamente la cultura di fronte alle ambizioni del gene, la scienza fa fatica
a legittimare l’orientamento teorico che ne deriva: “culturale” se si vuole, certamente ideologico.
Quando il gene è posto in presenza del verbo, la psicologia si insinua tra biologia e sociologia e la
neutralità dell’intermediario lascia fatalmente a desiderare. Se il gene incontra il verbo in
compagnia delle pratiche tecniche, il tempo e lo spazio si concretizzano reclamando quadri di
riferimento espliciti, attraverso delle scale; in questo caso, come abbiamo visto, l’ecologia si
interpone tra biologia e sociologia. Che fine fa su questa strada il problema della memoria
culturale? Di nuovo, l’etologia degli scimpanzé fornisce indicazioni preziose: in Costa d’Avorio si è
proseguito a schiacciare noci per diverse generazioni, forse per molti secoli. La tentazione di
interpretare ciò in termini di “tradizione” è forte ma il contenuto della nozione non ne uscirà intatto:
questa tradizione è afona dal momento che si diffonde attraverso un apprendimento per imitazione
un insegnamento silenzioso. Superando i pregiudizi classici, Jack Goody ha decantato con maggiore
sottigliezza la formidabile trasformazione qualitativa della cultura che accompagna la divulgazione
sociale della scrittura. Essa concretizza una delle memorie tecniche che la cultura ha dato alla
lingua; questo avvicinamento era stato avviato nel Paleolitico superiore con l’arte e continua oggi
con l’informatica. L’idea di memoria nasce automaticamente con il linguaggio. La memoria
associata al linguaggio è una memoria nel senso degli psicologi e dei neurologi, pura insomma. La
memoria biologica dei geni deriva già dall’analogia. La memoria della dimensione tecnica non
accrescerebbe l’ampiezza di questo slittamento analogico. Può esserci: o l’idea di una memoria non
biologica che deve embricate le iniziative del gesto e della parola oppure bisogna distinguere una
memoria linguistica e una memoria tecnica da collocare in triangolo con la memoria genetica.
Levi-Strauss osa una congettura stupefacente cui conviene rendere omaggio per la sua audacia
liberatrice: “ Quali che siano stati il momento e le circostanza della sua apparizione nella vita
animale, il linguaggio è nato necessariamente tutto d’un tratto. E’ impossibile che le cose abbiano
cominciato a significare progressivamente. In seguito a una trasformazione, il cui studio non
dipende dalle scienze sociali, ma dalla biologia e dalla psicologia, si è verificato un passaggio da
uno stadio, in cui niente aveva senso, a un altro, in cui ogni cosa ne possedeva uno”. L’errore di L-S
consiste nell’aver opposto niente a tutto. Il senso non esiste senza struttura, dunque senza una lingua
capace ci coprire un mondo. Un mondo però non è il mondo. Da un lato i particolari di un mondo si
sono indubbiamente precisati con la lingua, dall’altro niente consente di affermare che il mondo
trattato dalla parola abbia sorvolato l’insieme delle attività umane. Il regno animare offre invece
qualche motivo di supporre il contrario: presso le specie dotate di una fine comunicazione
interindividuale e di una notevole attitudine a trasformare la materia inerte in prodotti utili è
notevole infatti che queste due attitudini riguardino molto spesso settori completamente distinti
della vita. Da quanto precede deriva un’ipotesi: presso i nostri antenati, la lingua si sarebbe affinata
fuori dalla vita tecnica e la stessa tecnica avrebbe progredito in silenzio. Sino a una certa epoca.
Continua L.S: “…Non è immaginabile che queste tecniche si siano potute trasmettere di
generazione in generazione senza essere oggetto di un insegnamento diretto. Tutte queste
considerazioni respingono l’apparizione del pensiero concettuale, del linguaggio articolato, dunque
della vita in società in tempi cosi lontani da non consentire di elucubrare ipotesi.” Grazie all’analisi
tecnica degli strumenti preistorici, le osservazione generali di Leroi-Gourhan, trent’anni dopo
l’intimazione di L-S, attendono ancora una smentita argomentata: “ Il solo fatto positivo è che
l’evoluzione degli strumenti è lenta tanto quanto quella del cranio e che l’accumulo delle
innovazioni resta modesto sino ai Neandertaliani inclusi”. Se il linguaggio era cosi performante
mezzo milione di anni fa, perché la demografia della nostra specie ha tanto ristagnato? Nell’insieme
le osservazioni di L-G hanno conservato il loro valore, benché alcuni studiosi di preistoria facciano
finta di credere che siano desuete: l’impressione di una rivoluzione che si svolge nell’arco di circa
venti millenni non può essere disprezzata. Assai lenta rispetto alla storia successiva, ma rapidissima
se rapportata all’evoluzione precedente. Inoltre ventimila anni sembrano sensibilmente più recenti
della comparsa di Homo sapiens moderno. Siamo arrivati dunque a una doppia ipotesi che le
contraddizioni secolari tra geni e linguaggio da una parte, simboli e strumenti dall’altra hanno
sistematicamente aggirato. 1. La connessione tra linguaggio e tecniche, con l’interpenetrazione dei
loro campi di attività, si è installata tardivamente nella nostra specie, grosso modo verso la fine del
Paleolitico medio, senza che, per il momenti, si possa dire, secondo quale ritmo e procedure.
2. L’autonomia culturale diviene completa nel momento in cui tra tecniche e linguaggio si sviluppa
un’interazione cronica e d’intensità crescente. Da una parte la comunicazione non è più suddita
della biologia dal momento che viene influenzata dalle tecniche, e dall’altra parte l’attività tecnica
si libera essa stessa della lentezza dell’evoluzione biologica grazie all’intrusione delle parole nella
catena operatoria. Detto questo, sarebbe azzardato affermare che le due liberazioni siano
perfettamente simultanee. I geni hanno storicamente causato la cultura: la fabbricazione avrà preso
loro quanto meno qualche milione di anni. E’ arrivato un momento durato qualche millennio, però,
un cui essi hanno dovuto rinunciare a crearla e si sono accontentati di parteciparvi; hanno mescolato
la loro primordiale articolazione con l’articolazione orale e gestuale. La capacità degli essere umani
di trasformare collettivamente e materialmente il loro ambiente è, ed è sempre stata uno dei tratti
salienti della cultura.

CAPITOLO 14
RAZIONALITà, EVOLUZIONE E GENESI DELLE ISTITUZIONI (Walliser)

L’economista, immune da ogni velleità di tuffarsi nelle radici biologiche del comportamento, resta
altrettanto insensibile all’idea di un condizionamento dell’ambiente sociale globale sul
comportamento. Egli è dunque portato a riformulare la questione che presume sia posta
dall’associazione dei due concetti(geni e cultura) . Da una parte, l’economista spiega i fenomeno
sociali a partire da comportamenti individuali e questi a partire dagli stati mentali dell’attore. E’
cosi che gli equilibri economici risultano dalla congiunzione delle azioni degli attori e queste azioni
sono generate da “determinanti di scelta” degli attori, essenzialmente dalle loro credenze e
preferenze. Poiché le preoccupazioni dell’economia vertono in primo luogo sul passaggio
dall’individuale al sociale, essa si fonda su una “psicologia minimale” che considera sufficiente per
i suoi scopi. Ciò non impedisce che si sia sviluppata una corrente evoluzionista in economia che
mira a concettualizzare i processi di cambiamento messi in atto in un sistema di produzione e
scambio. I processi evoluzionisti considerati riguardano allora direttamente gli stati mentali degli
attori, che si modificano nel corso del tempo sotto diverse influenze. L’approccio considerato,
tuttavia, non presuppone mai che si tratti di una evoluzione biologica che si proseguirebbe nel
campo sociale. Essa procede per analogia con l’evoluzione biologica, di natura darwiniana; si
qualifica come “approccio evoluzionario”. Essa si fonda su una evoluzione di tipo non biologico,
fondata per esempio su processi di apprendimento individuale; si qualifica dunque come
“approccio evoluzionista” e ingloba la precedente. L’economia considera l’esistenza di
“istituzioni” che vengono a mediare le relazioni tra gli attori con la funzione di coordinarne le
azioni. Queste istituzioni sono di due tipi: le istituzioni organiche, composte da raggruppamenti di
attori con uno scopo comune, le istituzioni concettuali, formate da regole, credenze, norme o
costumi. Le prime sono rappresentate dalle aziende, dai sindacati, dallo Stato; le seconde dalla
moneta, dalle nomenclature di beni o attività, o dai diritti di proprietà o di scambio. Le seconde in
generale sono considerate come parti integranti della cultura, senza tuttavia pretendere di esaurire il
concetto di cultura. La sua traduzione in termini economici è molto riduttiva poiché essa è
analizzata solo attraverso i suoi effetti. Una questione centrale posta dagli economisti riguarda la
genesi endogena delle istituzioni a partire dalle azioni individuali. Se, nell’analisi degli equilibri
economici di breve termine, le istituzioni possono essere considerate come esogene, non è cosi in
una prospettiva temporale più lunga. Lo studio della genesi delle istituzioni può essere condotto in
un quadro direttamente economico ma più spesso nel quadro della teoria dei giochi per due ragioni
essenziali. Si fonda su un formalismo più generale, in cui degli attori indifferenziati (ma eterogenei)
mettono in moto una qualche azione. Considera delle relazioni bilaterali (o multilaterali) dirette tra
attori non mediatizzati da istituzioni preliminari. La teoria dei giochi è dunque potenzialmente in
grado di rendere conto di istituzioni che vanno oltre il solo quadro economico.

Il problema della genesi delle istituzioni è trattato in un quadro d’individualismo metodologico che
considera che i fenomeni sociali devono trovare spiegazione a partire dalle sole azioni individuali.
Nell’approccio tradizionale, le azioni individuali hanno già influenza sui segnali istituzionali emessi
dalle istituzioni (e ne sono, a loro volta, influenzati). Sono tuttavia le stesse forme istituzionali a
dover essere spiegate strutturalmente dalle azioni individuali. In compenso, l’individualismo
metodologico è sempre più spesso temperato dall’accettazione dell’influenza di variabili
istituzionali sulle determinanti degli agenti, non più considerati autonomi e stabili.
Nell’esemplificazione, si ammette che le condizioni del mercato possono condizionare le credenze
e le preferenze degli agenti e farle evolvere. Più avanti ci si atterrà all’emergenza delle istituzioni
concettuali, dal momento che la formazione d’istituzioni organiche obbedisce a leggi proprie. La
funziona attribuita a queste istituzioni “regolative” è di sopperire a certe mancanze della situazione
che prevale in assenza di istituzioni. In un quadro economico, queste mancanze sono dovute a una
informazione imperfetta degli agenti, a esternalità fra agenti, o ad attriti nel meccanismo degli
scambi. Essi si traducono si una assenza di equilibrio , in una molteplicità d’equilibri, o in una
perdita di condizione ottimale dal punto di vista sociale. In un quadro di gioco, le mancanze sono
dovute parimenti a conflitti d’interesse tra attori o a problemi di informazione e di comunicazione
tra gli attori. Attenendosi alle mancanze indotte dalle preferenze degli agenti, si pongono tre
problemi di coordinazione. Il problema della “cooperazione” nasce dal fatto che un equilibrio può
non essere socialmente ottimale. Il problema “forte della co-selezione” nasce dall’esistenza
simultanea di due equilibri in un gioco, il primo favorevole a uno dei due giocatori, il secondo
all’altro. I problema “debole della co-selezione” nasce dall’esistenza di due equilibri, questa volta
equivalenti per i giocatori. Una prima modalità di genesi di una istituzione considera la sua
creazione cosciente e volontaria da parte degli attori. Può trattarsi della sua fondazione da parte di
un pianificatore onnisciente e onnipotente che ha il potere di deciderne. Può trattarsi anche di un
contratto stabilito tra gli attori alla fine di una negoziazione multilaterale. E’ cosi che sono stati
organizzati di tutto punto nuovi mercati finanziati da parte delle autorità di borsa o che sono state
negoziate nuove procedure d’offerta. Questa visione delle cose risulta però insoddisfacente per due
ragioni principali: essa presuppone che si disponga di un insieme prestabilito di istituzioni tra le
quali si opera, che gli effetti di queste istituzioni sugli agenti interessati possano essere previsti e
che possano essere espresse le preferenze su questi effetti. Essa necessita dell’esistenza di meta-
istituzioni capaci di far rispettare la sua applicazione attraverso meccanismi d’incitamento e
sanzioni, fatto che avvia una regressione all’infinito sull’esistenza delle istituzioni. Una istituzione
creta volontariamente, infatti, può essere socialmente ottimale (induce una situazione che non èuò
essere migliorata per tutti gli agenti) ma può esserlo individualmente (certi agenti migliorano la
propria situazione non rispettandola). Una seconda modalità di genesi di una istituzione considera
questa come risultato del comportamento spontaneo degli attori. Una istituzione dunque non può
più essere studiata come un’entità autonoma potenzialmente gia lì, ma appare “ in cavo” per i suoi
effetti sugli attori. E’ cosi quando norme di equità inducono preferenze altruiste o quando
convenzioni tassonomiche comportano credenze omogenee. I suoi effetti però possono esercitarsi
anche in modo più indiretto sulle regole d’azione degli attori. E’ cosi quando norme di prudenza o
di tradizione inducono un comportamento inerte. Tuttavia, nell’interpretazione di questi effetti
interviene una difficoltà: la stessa regola di comportamento può risultare da norme o costumi
diversi. Cosi, un comportamento di imitazione può derivare da norme di conformità ma essere
dovuto anche a esternalità preferenziali (utilità degli agenti che dipende dal numero di altri agenti
che compiono la stessa operazione) o informazionali (incitamento degli agenti a imitare l’altro
perché ritenuto più informato). In ogni caso, se si suppone che l’istituzione emerga dai
comportamenti individuali, essa sarà analizzata come la cristallizzazione di una situazione di
equilibrio tra gli agenti. Questo tipo di interpretazione è presente sin dagli esordi della teoria dei
giochi, perché Neumann e Morgenstern interpretano le strategie di equilibrio come degli “standard
di comportamento”. Nella teoria dei giochi come nella teoria economica esistono due modi
contrastanti di rendere conto della genesi degli equilibri: l’”approccio eduttivo” considera gli agenti
iperintelligenti e capaci di porsi in equilibrio attraverso il solo loro ragionamento; l’”approccio
evoluzionista” suppone che gli agenti abbiano una razionalità limitata e siano impegnati in un
processo dinamico che li conduce a un equilibrio.

Nell’approccio eduttivo, le ipotesi di comportamento dell’attore riguardano sia l’informazione


dell’attore sia le due forme di razionalità che lo animano, la razionalità cognitiva (capacità da parte
dell’attore di adeguare le informazioni in suo possesso alle credenze che si forgia), e la razionalità
strumentale (capacità da parte dell’attore di adeguare i mezzi in suo possesso agli obiettivi che
persegue). L’informazione dell’agente è perfetta nella misura in cui c’è una conoscenza comune
(ognuno sa, sa che l’altro sa e via di seguito sino all’infinito) della struttura del gioco
(essenzialmente, le determinanti di scelta degli attori) e della razionalità dei giocatori. La razionalità
cognitiva è forte nella misura in cui l’agente è capace di simulare perfettamente il comportamento
degli attori a partire dalle proprie informazioni. La razionalità strumentale è forte nella misura in cui
l’attore può calcolare la risposta migliore (nel senso della propria utilità) alla azione anticipata degli
altri, tenuto conto delle sue credenze. In quest’ottica, sono le credenze incrociate degli agenti sulle
loro rispettive caratteristiche a consentire di coordinare le loro azioni. Nella teoria economica, gli
agenti possono collocarsi in equilibrio concorrenziale effettuando una “anticipazione razionale! Dei
prezzi di equilibrio. Cosi facendo, essi non fanno che simulare il ruolo tradizionalmente attribuito al
“banditore di Walras”, che livella la domanda e l’offerta degli agenti con l’intermediazione dei
prezzi. Nella teoria dei giochi, i giocatori possono collocarsi in un equilibrio razionalizzabile, un
equilibrio correlato o almeno un equilibrio di Nash (in quest’ultimo, ogni giocatore gioca la propria
risposta migliore alla strategia d’equilibrio dell’altro). I giocatori si fingono allora l’uno al posto
dell’altro e scoprono di nuovo, attraverso il loro solo ragionamento, una posizione stabile. Se si
applica la prospettiva eduttiva alle istituzioni, ci si avvicina alla nozione di convenzione, una forma
particolare di istituzione concettualizzata da Lewis (1969). Una convenzione è una regolarità R in
seno a un sistema sociale, definita da quattro condizioni che si suppone siano di conoscenza comune
ai suoi membri. Ciascuno di essi preferisce a una conformità solo parziale una conformità totale a
R. Ognuno ha una ragione per preferire R se lo fanno gli altri. Ognuno si conforma effettivamente a
R. R non è l’unica regolarità che soddisfa le condizioni precedenti. Si può dimostrare che queste
condizioni impongono innanzitutto di trovarsi nel quadro di un gioco di coordinazione, ossia un
gioco che possiede più equilibri equivalenti per i giocatori. Esse inoltre sono equivalenti alle
condizioni epistemiche che singolarizzano un equilibrio di Nash: i giocatori non soltanto hanno una
conoscenza comune delle rispettive caratteristiche ma ogni attore conosce le intenzioni d’azione
degli altri. Possono essere forniti diversi esempi di istituzioni generare per via eduttiva. Nella teoria
economica, una istituzione, virtuale, consiste nella credenza da parte degli agenti in una
correlazione tra i prezzi e le macchie solari. E’ allora possibile dimostrare che se gli agenti adottano
questa credenza, essa di autoavvera, i prezzi finiscono cioè per dipendere effettivamente dalle
macchie solari. Nella teoria dei giochi, nel problema dell’incrocio, i semafori o la precedenza a
destra sono istituzioni che si fondano pure su credenze incrociate convergenti: un conducente passa
perché pensa che l’altro si fermerà perché pensa che lui passerà.

Secondo l’approccio evoluzionista, gli agenti hanno una informazione imperfetta e incompleta e
una razionalità limitata, essendo quest’ultima caratterizzata dal fatto che essi hanno capacità
limitate di raccolta e trattamento dell’informazione. Di conseguenza, gli agenti interagiscono in
modo sequenziale e il lavoro del tempo viene progressivamente a compensare le loro debolezze
computazionali. A governare i comportamenti e le relazioni tra gli agenti intervengono cinque
principi. Il principio di interazione precisa il calendario degli incontri e la vicinanza di interazioni di
ciascun agente. Il principio di informazione definisce le informazioni fattuali e struttuarali di cui
dispongono gli attori. Il principio di valutazione descrive il modo in cui l’agente aggrega le proprie
informazioni tanto sulle azioni altrui passate quanto sui risultati ottenuti con le proprie azioni. Il
principio di decisione esplicita la scelta di una azione in funzione delle informazioni
precedentemente aggregate. Il principio di soddisfazione infine indica quali sono gli effetti
congiunti delle azioni intraprese quali essi sono appresi dal modellizatore. Questi cinque principi
possono combinarsi. Nell’”apprendimento epistemico”, gli attori hanno una rappresentazione del
loro contesto che controllano nel corso del tempo, deducendone una anticipazione sul suo stato
futuro e scegliendo la risposta migliore. Nell’”apprendimento comportamentale”, gli attori
osservano solo i risultati passati delle loro azioni, costruiscono un indice di performance associato a
ciascuna azione, poi rafforzano le azioni più performanti e inibiscono le altre. Nel “processo
evoluzionario”, gli attori hanno una funzione di comportamento fissa, si incontrano in modo
aleatorio e si riproducono in funzione dell’utilità ottenuta. Se si applica la prospettiva evoluzionista
alle istituzioni, ci si approssima alla nozione di istituzione proposta da Elster (1989). Una entità X
caratterizzata sai suoi effetti Y su un sistema sociale è una istituzione quando siano soddisfatte
quatto condizioni. La relazione tra l’entità X e i suoi effetti Y è sconosciuta dagli agenti. Gli effetti
Y non sono considerati dalle azioni che producono X. Gli effetti Y sono vantaggiosi per gli agenti.
Gli effetti Y perpetuano l’istituzione X attraverso una retroazione causale che passa per i
comportamenti degli agenti. In pratica, questa definizione mette bene l’accento sul fatto che una
istituzione è una conseguenza non voluta (e dunque non prevista) delle azioni degli agenti e che
questa conseguenza è individualmente benefica.

I processi evoluzionisti di genesi si una istituzione rendono ben esplicito come possono apparire
regolarità di comportamento, assimilabili a istituzioni. Essi rimangono però a metà del guado
poiché non spiegano in che modo l’istituzione emerge come entità autonoma e accettata. Il
“problema della naturalizzazione” si interroga sul meccanismo secondo cui gli attori arrivano a
considerare una regolarità osservabile come entità indipendente e a determinarsi direttamente in
rapporto a questa entità piuttosto che alle azioni degli altri. Il “problema di legittimazione” si
interroga sul modo in cui gli attori riconoscono l’utilità sociale dell’istituzione e le danno
eventualmente un fondamento giuridico. Per colmare l’incompletezza di formalizzazione del
processo di istituzionalizzazione, è necessario tenere insieme gli approcci eduttivo ed evoluzionista,
dal momento che l’istituzione emerge attraverso un meccanismo inconscio prima di essere una
tabula rasa, come una pura emergenza, caso per caso, a partire dalle sole azioni individuali. Di fatto,
una istituzione non nasce in un vuoto istituzionale ma in seno a un sistema sociale già dotato di
istituzioni preliminari su cui può fondarsi. La nuova istituzione può ricevere, a monte, un esempio o
un supporto da altre istituzioni o vedere, a valle, i propri effetti rafforzati o legittimati da altre
istituzioni. Esistono due circuiti di interazione che esercitano su scale temporali diverse, l’una tra
livello comportamentale e livello istituzionale, l’altra tra livello mentale e livello istituzionale. Le
istituzioni foggiano gli stati mentali nello stesso tempo in cui risultano da questi stati mentali
attraverso i comportamenti da esse indotti. Riassumendo, l’economia tratta il problema della genesi
delle istituzioni applicando ai suoi oggetti dei modelli di apprendimento e di evoluzione “minimali”,
presi a prestito dalla biologia e dalla psicologia. Essa utilizza un approccio proiettivo mirando a
testare i suoi modelli sotto l’aspetto empirico, piuttosto che un approccio induttivo che miri a
estrarre delle regolarità dai dati accumulati.

CAPITOLO 15
CULTURA E MODULARITà (Sperber)

I membri di un gruppo umano sono legati gli uni agli altri da molteplici flussi di informazione.
Questa informazione è materializzata al contempo nelle rappresentazioni mentali degli individui e
nelle loro pratiche. L’informazione mentalmente rappresentata in un individuo è trasmessa ad altri
per il tramite delle sue azioni. Tra queste azioni, la produzione di rappresentazioni pubbliche gioca
un ruolo principale. Una gran parte dell’informazione tuttavia è comunicata in modo implicito,
senza cioè essere l’oggetto di una rappresentazione pubblica. Essa può essere trasmessa, anche
implicitamente, cosi come un novizio acquisisce un saper-fare per osservazione e imitazione del
comportamento altrui. La gran parte delle informazioni trasmesse tra gli esseri umani riguarda
circostanze locali e passeggere e non va quasi oltre. Certe informazioni, tuttavia, vengono trasmesse
in modo ripetuto e si propagano all’intero gruppo. Quando si parla di “cultura” si fa riferimento a
queste informazioni ampiamente distribuite in mezzo a una popolazione e alla loro distribuzione
materiale nei cervelli degli individui (sotto forma di rappresentazioni mentali) e nell’ambiente da
essi condiviso (sotto forma di comportamenti e di artefatti diversi e in particolare sotto forma di
rappresentazioni pubbliche). Per farsi interprete di un fenomeno culturale può essere sufficiente
studiare l’informazione condivisa da un gruppo umano senza preoccuparsi troppo delle sue
realizzazioni materiali. Non è lo stesso quando si vogliono spiegare le cause e gli effetti dei
fenomeni culturali. Diverse realizzazioni materiali, infatti, comportano differenze di distribuzione e
dunque di statuto culturale. Cosi la trasmissione orale e quella scritta favoriscono la diffusione di
contenuti molto diversi: la diffusione orale favorisce racconti e leggende, quella scritta cronache,
novelle e romanzi. Se vogliamo spiegare perché Pollicino si è diffuso in tutta l’area europea,
generazione dopo generazione, mentre altri racconti prodotti nella vita quotidiana non hanno
generato alcuna tradizione, bisogna rivolgere la propria attenzione al processo stesso della
tradizione orale, fatto di una miriade di microeventi mentali e pubblici. Se il racconto si è
stabilizzato perché ha reclutato, per ogni generazione, nuovi narratori in numero sufficiente, che
hanno voluto e saputo restituirlo abbastanza fedelmente. Se altri racconti non si diffondono è perché
gli ascoltatori non ne conservano un ricordo sufficiente per trasmetterli a loro volta, oppure non
sono motivati a farlo. Nel caso di un racconto di tradizione orale, si ha a che fare con una
concatenazione casuale di narrazioni e storie memorizzate. La resilienza culturale di Pollicino
riguarda in particolare il fatto che ogni episodio pubblico ha causato degli episodi mentali e che una
percentuale sufficiente di episodi mentali ha causato degli episodi pubblici, senza cui il racconto
sarebbe scomparso. Ogni individuo, avendo giocato un ruolo nella diffusione del racconto, ha
dovuto essere capace di comprendere, sintetizzare e memorizzare il contenuto di diverse narrazioni;
di riformulare la storia memorizzata sotto forma di narrazione e, certamente, ha dovuto essere
motivato a farlo, per esempio, per una richiesta dei suoi ascoltatori. Per spiegare il successo del
racconto bisogna mettere in evidenza cosa avrà potuto motivare gli ascoltatori a prestarvi attenzione
e i narratori a raccontarlo. I fattori che sarà possibile richiamare dipendono, in parte, dalle
condizioni locali della società e dei contesti in cui il racconto era trasmesso; in parte, dalle
disposizioni cognitive e motivazionali dello spirito umano. Si può pensare che i fattori generali qui
avranno da giocare un grande ruolo. Un racconto è un caso particolarmente semplice di fenomeni
culturale poiché la catena causale che assicura la sua distribuzione è fatta di una alternanza tra
rappresentazioni mentali e rappresentazioni pubbliche dello stesso racconto. La maggior parte dei
fenomeni culturali non presentano questa semplicità e anzi implica concatenazioni causali
complesse. Quale che sia la complessità, la spiegazione causale di un fenomeno culturale dovrà fare
appello a due tipi di episodi, mentali e pubblici, dovrà mostrare per ciascuno di essi in che modo
mette in moto gli episodi successivi nella catena causale, e fare appello per questo a fattori in parte
locali in parte propri alle disposizioni psicologiche generali degli esseri umani. Fattori locali sono
implicati nella spiegazione delle variazioni culturali. Fattori generali sono implicati nella
spiegazione della possibilità stessa della cultura e della sua variabilità.

La struttura di base delle catene causali della cultura consiste in una alternanza di episodi mentali e
pubblici. Come può, questo tipo di alternanza, assicurare la produzione dei contenuti trasmessi?
Sono stati richiamati due principali tipo di processo: l’imitazione e la comunicazione. L’imitazione
si scompone in un processo di produzione di un comportamento o di un artefatto simile a quello
osservato. Tra questi due c’è bisogno di un terzo processo, mentale, che converta l’osservazione in
piano d’azione. La comunicazione si scompone in un processo di produzione di una espressione
pubblica di una rappresentazione mentale e in un d’interpretazione mentale della rappresentazione
pubblica. Tra questi due, ne bisogna un terzo di stimolazione sensoriale dell’interprete attraverso la
rappresentazione pubblica. Idealmente, l’imitazione assicura la riproduzione di rappresentazioni
pubbliche mentre la comunicazione assicura la riproduzione di rappresentazioni mentali. Esse
possono accavallarsi e concatenarsi fra loro. L’imitazione e la comunicazione non sono meccanismi
di semplice copia. L’imitatore o l’interprete costruisce una versione piuttosto che una replica, di ciò
che imita o interpreta, e questo non soltanto perché la copia del modello in senso stretto, anche se
fosse realizzabile, non è ciò che interessa all’imitatore o interprete, in quanto l’imitazione o
l’interpretazione sono un mezzo piuttosto che un fine in sé. In secondo luogo, la produzione di
comportamenti o pensieri altrui mette tipicamente in gioco dei processi più costruttivi di quanto non
presuppongano i modelli usuali dell’imitazione o della comunicazione. L’imitatore spesso si ispira
più al modello che non alla copia. L’interprete sviluppa i propri pensieri per mezzo di quelli degli
altri senza necessariamente adottare questi ultimi e neppure preoccuparsi di interpretarli
esattamente. Per illustrare quanto appena detto, facciamo una deviazione con il caso delle culture
animali. Uno degli esempi più citati è quello delle cince inglesi. Al tempo in cui ogni mattino
veniva deposta, davanti a ogni porta delle case, una bottiglia di latte dal collo largo, coperto da una
capsula di cartone o di stagnola, questi uccelli avevano imparato a bucare la capsula con il becco e a
gustare la crema affiorata alla superficie del latte. Nell’arco di qualche anno, questo saper-fare si era
trasmesso di cincia in cincia per tutta l’Inghilterra. Se imitazione c’è, essa non riguarda la scelta del
tipo di oggetto da beccare. L’acquisizione del saper-fare è avviata dall’osservazione del
comportamento altrui, ma essa non consiste in una imitazione ma in una nuova costruzione di
questo saper-fare. Essa fa per gran parte appello a risorse già presenti nell’individuo. Piuttosto che
di imitazione, in questo caso si parla di valorizzazione dello stimolo e ancora di “emulazione”. Certi
animali sociali hanno delle pratiche culturali ma al di fuori di queste poche pratiche la loro vita
sociale non è affatto marcata dalla cultura. La vita umana è immersa nella cultura sin dalla prima
infanzia. Non solo le attività sociali ma anche quelle individuali e la vita mentale degli uomini
dipendono da ciò che possiamo chiamare il “tutto culturale”.

I contenuti delle rappresentazioni e delle pratiche culturali devono restare abbastanza stabili presso
una comunità affinché i suoi membri effettuino lo stesso rituale, condividano la stessa credenza,
mangino lo stesso piatto e comprendano lo stesso proverbio allo stesso modo. Senza una stabilità di
questo tipo la stessa cultura non potrebbe esistere. Questa stabilità è assicurata da processi di
riproduzione federe a livello delle microtransizioni. Senza le quali, sembra, l’effetto cumulato di
“errori di copia” anche minimi comporterebbe la stabilità e dunque il carattere propriamente
culturale dei contenuti trasmessi. Gli antropologi in generale, considerano come acquisto che le
capacità umane di imitazione, comunicazione e memoria sono abbastanza deboli al fine di garantire
una riproduzione fedele dei contenuti da esse trattati attraverso le comunità e le generazioni. Questo
argomento a priori cozza a un esame anche rapido dei fatti. A livello degli episodi individuali di
memorizzazione, rimemorazione, imitazione e comunicazione, le variazioni sono la norma piuttosto
che l’eccezione. E’ importante articolare il fatto incontestabile della stabilità culturale con
l’osservazione delle trasformazioni di contenuto che accompagnano la maggior parte delle
microtrasmissioni. Questi due compiti non solo possono ma devono essere svolti
contemporaneamente. Cercare di spiegare la diversità delle culture supponendo, come hanno fatto
gli antropologi, che lo spirito umano è indefinitamente malleabile significa privarsi di ogni mezzo
di spiegazione della stabilità culturale. Un individuo dotato di uno spirito indefinitamente
malleabile adotterebbe in ogni momento l’ultima opinione, l’ultimo stile, l’ultimo oggetto
incontrati. Egli sarebbe del tutto incapace di una adesione profonda e largamente inconsapevole a
una cultura che caratterizza l’esistenza umana. Le culture stesse, in queste condizioni, non
potrebbero realizzarsi. Si potrebbe tentare di spiegare la stabilità delle culture con la
predisposizione umana ad acquisire saperi culturali, una sorta di generalizzazione della facoltà di
linguaggio come l’ha concepita Noam Chomsky. In questa prospettiva, per esempio, Susan
Blackmore attribuisce agli umani una disposizione a imitare tale da fare delle “mèmes machines”.
Niente tuttavia conferma l’esistenza di una tale “facoltà di cultura”, basata o meno sull’imitazione.
Tipi diversi di competenze culturali sono acquisiti a ritmi diversi per raggiungere livelli diversi di
competenza. Ciascuna di queste competenze può essere rimessa in causa da diversi tipi di incidenti
cerebrali. In breve, tutto indica che l’informazione culturale non si fonda su un meccanismo di
acquisizione specifico e integrato. Inoltre, l’idea di una facoltà di cultura porrebbe il seguente
problema: mentre la specie umana moderna è emersa tra cento e duecento mila anni fa, l’esistenza
di una cultura onnipresente e riccamente simbolica non si è manifestata che quarantamila anni fa
circa. E’ concepibile che nel corso di una gran parte della sua storia Homo sapiens non abbia
disposto che di rudimenti di cultura, in particolare di saper-fare culturalmente trasmessi, e non di
quel “tutto culturale” che ci è familiare. Non ha dunque nulla di plausibile l’idea di una specie
intelligente e capace di comunicare, ma di comunicare solo sul qui e ora stabilizzando solo
frammenti di cultura. E’ possibile che nel corso di decine di miglia di anni Homo sapiens sia stato
proprio una specie di questo tipo.

Secondo la tesi della modularità lo spirito è composto in gran parte da un insieme di disposizioni
cognitive specializzate nel trattamento di diversi tipi di input. Questa ipotesi può sembrare
incompatibile con la diversità culturale; al contrario, essa può contribuire a spiegare questa
diversità. Un modulo cognitivo è un dispositivo mentale/cerebrale autonomo, caratterizzato da input
specifici da cui deriva output caratteristici per mezzo di procedure proprie. Tra gli esempi di moduli
più spesso richiamati, si possono citare: il riconoscimento dei visi, la paura del vuoto, l’attribuzione
di stati mentali e altri (o “teoria dello spirito”), la decodifica degli enunciati, la lettura e la scrittura.
Il quadro della lettura e della scrittura è a questo proposito interessante. A prima vista, si tratta di
competenze culturali certamente oggi ampiamente estese ma per le quali sarebbe assurdo
immaginare una base innata specifica. Competenze di questo tipo presentano i tratti funzionali dei
moduli (autonomia, automaticità, patologie specifiche ecc.) ma sembrano essere prive di legami con
le disposizioni innate. Se si guardano le cose da un punto di vista strettamente biologico, nel
genoma non c’è nulla che abbia la funzione di preparare alla scrittura o alla lettura. Se, al contrario,
le guardiamo da un punto di vista antropologico, allora possiamo vedere in questi sistemi delle
messe a frutto culturali di disposizioni naturali. Il successo stesso dei sistemi di scrittura e di lettura
diffusi nel mondo suggerisce che essi hanno potuto basarsi su disposizioni cognitive, percettive e
motrici preesistenti e, più in particolare, su una disposizione a reclutare dei tessuti cerebrali per
fissarvi competenze modulari appropriate. Lo spirito umano sarebbe dunque massicciamente
modulare. Per spiegare il ruolo svolto dai moduli in relazione alla diversità e alla stabilità culturale,
bisogna introdurre la nozione di “ambito di modulo”. Un modulo accetta un insieme specifico di
input. Per esempio, il modulo del riconoscimento dei visi accetta come input stimolazioni visive
tipicamente provocate dai visi. Certi visi presenti nel campo visivo possono non essere riconosciuti
come tali o non attirare l’attenzione, e dunque possono non attivarne il modulo di riconoscimento.
Inversamente, certi stimoli diversi da quelli dei visi, per esempio una roccia somigliante a un volto,
possono soddisfare le condizioni d’input del modello e dunque essere trattati da quest’ultimo.
Possiamo allora distinguere l’”ambito proprio” del modulo, e il suo “ambito effettivo”. Il primo è
l’insieme degli input che il modulo ha la funzione di trattare, che li tratti o meno. Nel caso del
modulo di riconoscimento dei visi, l’ambito proprio è costituito dall’insieme dei volti visibili. Il
secondo è l’insieme degli input effettivamente trattati, che appartengono al suo ambito proprio (nel
caso del riconoscimento dei visi sono gli stimoli visibili sufficientemente salienti e simili a un viso
al fine di attivare un modulo, che si tratti o meno effettivamente di visi). Come regola generale,
l’ambito proprio e l’ambito effettivo di un modulo si accavallano ma non sono strettamente co-
estensivi. Questa non-identità deriva innanzitutto dall’imperfezione dei meccanismi cognitivi e può
inoltre dipendere dalla sua funzione nonché dalla storia del contesto in cui il modulo verrà operato.
In alcuni casi la non corrispondenza tra ambito proprio e ambito effettivo di un modulo è accentuata
in un modo che risulta dallo sfruttamento del modulo di un organismo da parte di altri organismi.
Gli esempi più notevoli sono forniti dal mimetismo animale. La manipolazione dei moduli cognitivi
di un altro organismo può intervenire non solo nei rapporti interspecifici (come nel caso del
mimetismo), ma anche nei rapporti intraspecifici (come nel caso della selezione sessuale). Lo
spazio umano presenta sotto questo aspetto un caso estremo. Gli esseri umani infatti, non solo
utilizzano informazioni ma ne sono anche produttori massivi. In particolare, essi producono
informazione per influenzarsi reciprocamente. Per influenzare un altro per mezzo di
un’informazione, essa deve attirare la sua attenzione e essere trattata in modo prevedibile. Un modo
debole per attirare l’attenzione e di giudicare il processo cognitivo altrui consiste nel produrre una
informazione che soddisfi le condizioni d’input dei suoi moduli cognitivi. L’ambito effettivo dei
moduli cognitivi umani contiene non soltanto informazione che si trova accidentalmente a riempire
le sue condizioni d’input ma anche informazione prodotta da altri deliberatamente per attivare il
modulo e produrre effetti cognitivi particolari (ad esempio immagini di visi ma non visi). L’ambito
effettivo del modulo di riconoscimento dei volti può essere invaso da almeno tre tipi di input
culturali: ritratti, maschere che non appartengono all’ambito suo proprio, visi truccati che pur
appartenendo all’ambito proprio del modulo ne manipolano le valutazioni. Mentre gli input naturali
dei modelli cognitivi possono variare solo di poco da un ambiente all’altro, culture diverse possono
produrre input artificiali estremamente variabili e che pur nondimeno soddisfano le condizioni
d’input dei modelli stessi. Cosi né ritratti, né il trucco, né le maschere si trovano in tutte le culture e
laddove si trovano presentano tratti di grande diversità.

Altre ricerche hanno dimostrato come capacità cognitive modulari giochino un ruolo nello sviluppo
delle rappresentazioni del mondo vivente, dei numeri, delle categorie sociali, o delle idee religiose.
Queste ricerche mostrano come i moduli stabiliscano l’informazione che soddisfa le loro condizioni
d’input, che questa informazione appartenga o meno all’ambito loro proprio. Ben altri fattori,
storico-sociali, ecologici, psicologici, giocano un ruolo importante nella spiegazione dei fenomeni
culturali. L’ipotesti tuttavia della modularità dello spirito umano contribuisce in modo particolare a
spiegare congiuntamente la stabilità delle culture e la loro variabilità.

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