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EVOLUZIONE TEORICA E NUOVI MODELI PER LO STUDIO DELA DEVIANZA E

DELA CRIMINALITÀ

Comportamento, azione, attività

Un primo chiarimento necessario è la distinzione fra tre termini comunemente


considerati sinonimi o affini: comportamento, azione, attività.
Il comportamento è una sequenza, un insieme di movimenti fisici, che da soli
non rappresentano la complessità di intenzioni, motivazioni e obiettivi.
Il comportamento costituisce una manifestazione, direttamente osservabile e
facilmente misurabile in termini oggettivi.
Unʼazione e trattino in questo senso-un comportamento caratterizzato da
“intenzionalità” e da “significati” che ne consentono la lettura e
lʼinterpretazione da parte degli altri.ciò significa che unʼazione comprende
specifici obiettivi e tiene conto del contesto in cui si svolge, delle regole e delle
attribuzioni che-reciprocamente-gli attori sociali (si) riferiscono.
Per unʼanalisi dellʼazione, è innanzitutto necessario interrogarsi sulle specificità
del contesto in cui essa ha luogo (entrare con unʼarma in un poligono è cosa
ben diversa che in qualunque altro luogo), sulle regole, sulle culture che in quel
contesto sono rappresentate, sul significato che tutti gli elementi che
corredano lʼazione hanno in quella specifica situazione.

Psicologia e teorie dellʼazione

Le cornici di significato conferiscono al comportamento una dignità quale


oggetto di studio della psicologia sociale della devianza: al di fuori di tali
cornici, infatti, un comportamento non potrebbe essere considerato deviante,
né essere perseguito penalmente, perché queste possibilità rinviano alle
definizioni del comportamento adesso preesistenti (una norma sociale è un
codice penale) e allʼintenzionalità dellʼattore intesa come capacità di agire e,
poi, come volontà di raggiungere lo scopo antigiuridico normativamente
indicato.
Il comportamentismo, la corrente che nella prima metà del novecento ha
orientato gli sforzi teorici e le spiegazioni epistemologiche sulla natura del
comportamento (umano e animale), a postulato questʼultimo come una
conseguenza diretta di uno o più stimoli esterni (provenienti dallʼambiente).
Per quanto riguarda lo specifico ambito della devianza e della criminalità,
lʼesigenza di produrre conoscenza e teorizzazioni è stata colta dapprima dalla
medicina, in particolare dalla psichiatria, dalla neurologia, dalla biologia e dalla
genetica, poi dalla sociologia. Ciascuna di queste discipline condivideva con le
altre il modello “causalistico“ e oggettivista di base, ricercando le cause del
comportamento (criminale, violento, depravato) ora nellʼaspetto esteriore (noti i
lavori di Cesare Lombroso) o in anomalie genetiche, ora in fattori sociali
ambientali, ora in pulsioni interne che sfuggono al controllo cosciente della
persona (secondo il modello della psicoanalisi).
In ambiti disciplinari come la psicologia giuridica, per risalire al soggetto, si
indaga alla sua storia, alle sue relazioni significative e alle sue appartenenze,
per produrre spiegazioni, conoscenze e per progettare e verificare interventi.
Fra le prospettive che hanno introdotto la dimensione sociale nellʼanalisi
psicologico-giuridica dellʼazione, citiamo, in particolare, le teorizzazioni
proposte da H. S. BECKER [1963], secondo il quale esiste un complesso
sistema di interlocutori che costituiscono per lʼindividuo una presenza
costante, simbolica, attiva nella sua mente come referenza, suggerimento e
verifica del comportamento.
Sono le interazioni che continuamente interessiamo con gli altri a delineare gli
ambiti dei significati che lʼazione rappresenta.
La rivoluzionaria transizione da un modello determinista (sintetizzabile in
formule tipo “il comportamento è causato da…“) a un approccio costruzionista
(“la realtà sociale, inclusa lʼazione umana, è costruita da…“), è contenuto nel
volume La spiegazione del comportamento sociale, in cui Harré e Secord
propongono il manifesto di un nuovo paradigma, identificabile nel provocatorio
“modello antropomorfico di uomo: unʼaperta critica alle abitudini del pensiero
scientifico di trattare gli essere umani al pari di altri oggetti, mossi
meccanicamente dai loro congegni, reattivi alle forze esterne e diretti da quelle
interne, al di fuori di mediazioni simboliche, di significato, regolative dei
processi mentali e di quelli implicati nelle interazioni con gli altri. A partire da
quel manifesto viene rivalutata la capacità dellʼindividuo di essere non solo
artefice delle proprie azioni, ma funzionalmente orientato a produrle secondo i
propri scopi, ad anticiparne le conseguenze, a seguirne gli sviluppi in modo
attivo.
È lʼavvio di un nuovo modo di guardare allʼattore sociale, in merito alla realtà
che non subisce ma costruisce e, per questo mezzo, di avvicinarsi allo studio
del suo agire e cioè non come “semplice“ comportamento, ma come
configurazione complessa di comportamenti motivati, pianificati e diretti a uno
scopo.
Autori come von Cranach e Harré 1982, evidenziano lʼimportante concetto di
“significato sociale“ dellʼazione.un semplice gesto con la mano include un
movimento dellʼapparato scheletrico, nervoso e muscolare, ma può implicare
unʼintenzionalità che si costruisce ed è costruita in termini di significato: stiamo
parlando di un saluto.
Le regole hanno a che fare con la dimensione del rapporto fra lʼintenzionalità
umana e gli universi condivisi di significato: rappresentano le coordinate
dellʼazione, quelle cui lʼattore fa riferimento per costruire e per predisporre, di
conseguenza, azioni coerenti con tale lettura.

Lʼazione diretta allo scopo

Una proposta teorica sullʼazione che ad oggi è la più nota per lo studio della
devianza è la Goal-Directed Action (azione diretta allo scopo o GDA), Viene
rappresentata attraverso un triangolo concettuale composto dalle dimensioni:
comportamento manifesto; cognizioni (coscienti); significati sociali.
Gli scopi, centrali nel modello della GDA, sono presenti in tutte le azioni.di fatto
le azioni senza scopo non esistono, semmai si può distinguere fra azioni con
scopo esplicito e azioni con scopo implicito.
La cognizione cosciente, si riferisce ai seguenti aspetti cognitivi:
– obiettivi e scopi: sono organizzati gerarchicamente in funzione della meta,
ma non sempre lʼattore ne ha consapevolezza; molti riconducono a
movimenti routinari, abitualizzati, ed emergono come obiettivo solo nel
caso di imprevisto;
– piani di azione e strategie: hanno a che fare con le scelte, con i processi di
selezione degli elementi funzionali al raggiungimento degli obiettivi;
– intenzione: è la qualità che conferisce allʼazione una maggiore concretezza
in termini di attribuzione di responsabilità allʼautore;
– monitoraggio delle mete di processo: è costituito dalla definizione delle
tappe intermedie verso il raggiungimento dellʼobiettivo principale, che
consentono una continua ristrutturazione la verifica in itinere rispetto al
perseguimento degli obiettivi;
– emozioni: precedono, accompagnano e seguono lʼazione.
Tali aspetti sono di rilievo sotto diversi profili: del monitoraggio dellʼazione e dei
cambiamenti di direzione connessi a ciò che avviene in situazione (pensiamo a
una rapina: imprevista o non controllata reazione del negoziante, omicidio non
anticipato allʼinizio dellʼazione); dei nessi cognitivi fra momento del resoconto e
il momento dellʼesecuzione; in quanto criteri rielaborativi del modo in cui la
persona si garantisce continuità in ogni processo dʼazione che la vede
attivamente coinvolta.
Alle cognizioni coscienti e deputato il compito di guidare (sia in maniera
conscia che subconscia) il comportamento sociale.
A proposito del controllo consapevole dellʼazione, la psicologia sarebbe una
scienza due livelli, che si occupa da una parte del controllo consapevole e
dallʼaltra e dei meccanismi automatici sottostanti.
Il significato sociale è la terza dimensione della GDA. Esso rappresenta il senso
dellʼazione, il quale comprende aspetti di controllo sociale dellʼazione, regole e
norme cui lʼattore riferisce le proprie scelte.
La dimensione dei significati sociali richiama lʼimportanza del contesto in cui
lʼazione attuata: le azioni acquistano significato a seconda del contesto in cui si
svolgono.
Parlando di azione bisogna evocare anche il concetto di interazione: si
sottolinea, in questo caso, che quando agiamo lo facciamo sempre in risposta
alle azioni altrui, anche nel senso anticipatorio e simbolico delle risposte che
riteniamo che le nostre azioni sollecitino nellʼaltro.le azioni sono perlopiù co-
prodotte dallʼinterazione: chiamiamo “convenzioni“ quelle azioni sociali in cui la
componente cognitiva è comune e condivisa come significato sociale, “le
convenzioni sono dei modi di pensare condivisi“.
Le cognizioni dellʼattore -i suoi scopi, i valori, le emozioni, lʼintenzione, piani e
strategie- derivano dai significati sociali cui la mente dellʼattore è
strutturalmente e costantemente rivolta. Le cognizioni determinano il contenuto
e la forma del comportamento. In altri termini, i significati sociali esercitano il
controllo delle cognizioni che organizzano e orientano il comportamento.

Correlati metodologici per lo studio dellʼazione

Lo studioso e lʼoperatore della giustizia dispongono dellʼazione in un tempo, in


un luogo e in un contesto di attribuzioni diverse e distanti da quelli in cui
lʼazione stessa è stata compiuta, ma il tempo, il luogo, il sistema di attribuzioni
attuali (rispetto al momento della rilevazione) non costituiscono una lente
deformante di ciò che è stato: essi possono fornire, piuttosto, i criteri per uno
sguardo retrospettivo capace di cogliere la continuità processuale dei sistemi di
significato entro i quali si muove la soggettività dellʼattore sociale.
Il focus dellʼanalisi può essere posto sullʼazione attraverso il resoconto
(account), che può essere considerato il principale strumento per
lʼorganizzazione dellʼesperienza.un resoconto dʼazione non è mai cronaca dei
fatti, Ma una loro forma rappresentativa che, a partire dalle cognizioni del
soggetto, Si propone in modo coerente con la situazione sociale nella quale
viene effettuato. Al poliziotto, al perito, al giudice, allo studioso del
comportamento verranno offerte diverse possibilità interpretative delle azioni al
momento in cui le stesse si sono svolte: non si tratta di versioni diverse dei fatti,
ma di percorsi differenziati, attraverso i quali accedere a criteri di riferibilità
compresenti al momento dellʼazione e, quindi, ai significati sociali cui il
soggetto, in quel momento e rispetto a quellʼazione, ha riferito le proprie scelte
situate.

La teoria dellʼazione ragionata e la pianificazione del comportamento

La teoria dellʼazione ragionata di Ajzen e Fishbein, fornisce una struttura di


base che mira a spiegare e comprendere come si vengono a concretizzare i
comportamenti degli individui. Il modello è molto generale e non fa riferimento
a comportamenti specifici. Gli autori sostengono lʼimportante ruolo svolto
dallʼintenzione rispetto alla probabilità che lʼattore attui un certo
comportamento.
In questʼottica, il comportamento e considerato come determinato da diversi
fattori:
-Lʼatteggiamento verso il comportamento, vale a dire le credenze che lʼattore
nutre, in particolare, con riguardo alle sue conseguenze;
-la norma soggettiva, intesa sia come percezione del soggetto delle valutazioni
degli altri (soprattutto persone significative) riferite a quel comportamento (le
pressioni che sente), sia come orientamento a soddisfare o a deludere tali
aspettative percepite.
Lʼintenzione si configura come variabile che media fra lʼatteggiamento e le
norme soggettive, da una parte, e il comportamento effettivo, dallʼaltra.
In sintesi, il modello ipotizza questa catena causale: il comportamento è
determinato dallʼintenzione che la persona ad intraprenderlo; lʼintenzione è
determinata dallʼatteggiamento verso il comportamento e verso le norme
soggettive; lʼatteggiamento è determinato dalle credenze sugli esiti del
comportamento e dalle valutazioni di questi esiti; le norme soggettive sono
determinate dalla credenza che altre persone ritengano che quel
comportamento sia o no da mettere in atto e dalla motivazione che la persona
ha a compiacere il giudizio degli altri.
Il potere di influenza sul comportamento da parte dei vari fattori va però
considerato in relazione alla specificità del comportamento della situazione.

Il contributo di Bandura per lo studio dellʼazione

Il modello proposto da Bandura indica la condotta umana come la risultante di


unʼinterazione multipla e complessa fra lʼambiente/contesto, la persona, il suo
comportamento. Lʼattenzione è posta allʼinterazione con lʼambiente esterno e
alla mediazione autoregolativa operata dal soggetto sulla base dellʼesperienza
valorizzando, quindi, la componente ambientale in interazione con le
caratteristiche della persona e la proprietà della mente umana, per cui essa è in
grado non solo di reagire a stimoli esterni e biologici, ma anche di agire
attivamente nel mondo.
Secondo questa prospettiva, la persona diventa “soggetto“ (per sé e per gli
altri, in quanto dotato delle capacità di attribuirsi-e la possibilità che gli venga
attribuita-lʼorigine delle proprie azioni), “individuo“ (in quanto fonte unitaria e
coerente, non-divisibile, delle proprie azioni) e “attore sociale“ (in quanto entità
protagonista è caratterizzata da una capacità di azione significativa in un
contesto popolato da altri attori sociali).

Lʼazione deviante come forma di comunicazione

La prospettiva di un soggetto intenzionale ha guidato gli autori a ragionare su


quali effetti, attraverso lʼazione deviante o criminale, lʼattore si aspetta di
produrre.
Sì sono venute così differenziando due principali tipologie di effetti, intesi come
anticipazioni che orientano lʼazione: effetti pragmatici-strumentali ed effetti
espressivo-comunicazionali.
Gli effetti strumentali riguardano ciò che la persona anticipa di ottenere in
senso concreto, tangibile, strumentale, appunto.pensiamo a una rapina.
Si tratta di effetti che non appartengono esclusivamente al comportamento di
tipo criminale; costituiscono lʼideazione stessa di ogni nostra azione. Ma ogni
nostra azione è guidata anche da altre anticipazioni, quelle di tipo espressivo,
appunto. Sono gli effetti che riguardano il sé e le relazioni, il modo in cui ci
poniamo di fronte agli altri, il senso di identità e di unicità che produciamo
agendo, la “maschera“ [Goffman 1959]con cui esibiamo noi stessi nelle diverse
situazioni.
In ambito criminologica e psicologico-giuridico, la prima tipologia di effetti ha
svolto unʼimportante funzione: quella di guardare al crimine come azione che
produce rilevanti conseguenze sociali, sul piano pratico, per la vittima, per il
suo autore, per la collettività.
Unʼaffermazione già di David Matza -noto sociologo della devianza, sostenitore
di una modalità di ricerca volta ad analizzare il fenomeno “dal di dentro“, dal
punto di vista del soggetto- è che la devianza possiede uno strutturale potere
di amplificare la comunicazione, di evidenziare i messaggi, di attivare
attenzioni. La trasgressione, con le sue conseguenze, mobilità interesse,
sollecita risposte, perché irrompe nellʼovvio; la devianza rappresenta una
modalità per rendere più evidente il messaggio dellʼautore, per aumentare la
probabilità di diffondere i significati.
Il comportamento deviante manda determinati messaggi e riceve, a sua volta,
dei messaggi che riguardano non solo lʼazione ma la persona e il significato
sociale di sé stessa.
Dallʼanalisi del piano espressivo-comunicazionale è stata elaborata la teoria
dellʼazione deviante comunicativa.
Abbiamo qui quattro principali effetti espressivi che lʼattore sociale anticipa
attraverso la devianza: effetti Sé, effetti di relazione, effetti di controllo, effetti
di cambiamento.
Gli effetti Sé sono effetti che lʼazione produce sul sistema agente e sulla sua
organizzazione. Lʼazione, infatti, è un modo attraverso cui lʼindividuo
sperimenta se stesso, definisce la propria soggettività in interazione, lascia
tracce personali e assume feedback che rimandano al processo continuo di
elaborazione dellʼidentità.
Nella lezione di Goffman, chiunque agisce “esibisce se stesso“: nellʼazione la
persona “deposita“ indicatori del proprio sé, della propria storia, del proprio
stile di relazione di interazione.
Il sé ha due dimensioni specifiche degli effetti: cosa/come lʼattore comunica a
sé; cosa/come comunica di sé.
Leo e Patrizi ipotizzano una funzione, in particolare, rispetto al senso di
autoefficacia, quando-in condizioni di problematicità percepita
nellʼaffermazione di sé in aree legittime di attività-il soggetto individua nella
devianza una sfera di gestione apparentemente “semplificata” delle strategie
atte al raggiungimento di obiettivi altrimenti considerati preclusi. E, dʼaltro
canto, risultati di ricerche svolte nellʼambito della teoria sociale-cognitiva hanno
evidenziato che gli adolescenti con scarsa autoefficacia regolatori a vengono
più facilmente coinvolti dalle sollecitazioni dei pari verso comportamenti
trasgressivi, mentre il senso della propria efficacia interpersonale è stato
identificato come fattore protettivo rispetto al rischio di comportamento
antisociale.
Gli effetti di relazione appaiono strettamente connessi agli effetti Sé.
In ogni nostra interazione si attua una comunicazione centrata su un doppio
livello: di contenuto e di relazione. Comunicare qualcosa allʼinterno della
relazione significa, ad esempio, (ri)definirla, stabilirne obiettivi, ruoli e
dimensioni di potere personale.
Gli effetti di relazione possono riguardare direttamente la vittima o ciò che essa
rappresenta (pensiamo ai reati omicidiari di tipo seriale, dove la vittima è
spesso un bersaglio simbolico), ma possono essere rivolti ad altri sistemi di
relazione dellʼautore -significativi nella sua attuale fase di vita o rispetto alla sua
storia passata-, per confermare appartenenza e adesione o, al contrario,
affermazione di autonomia, contrasto, potere in termini di posizionamento
personale, di ruolo, vantaggio psicologico e di relazione.
Gli effetti di controllo possono essere considerati come una categoria interna
agli effetti relazionali.
Li indichiamo separatamente per la rilevanza che si assumono nelle azioni
devianti, dove i messaggi sono orientati, in senso specifico, alle agenzie di
controllo (famiglia, forze dellʼordine) e alle regole (formali e non) imposte da
queste interiorizzate dallʼattore.
Si può dire che lʼazione sociale è sempre guidata da regole; ma lʼazione
deviante, in particolare, nel seguire delle regole deve necessariamente
trasgredirne altre in contraddizione con le prime.
Gli effetti di cambiamento riconducono a una concettualizzazione di taglio
sistemico. La profonda rivisitazione dei rapporti fra variabili ha portato ad
affermare la rilevanza della loro interdipendenza VS le caratteristiche di ogni
singola variabile: lʼinterdipendenza definisce la totalità (lʼinsieme qualcosa di
diverso dalla somma delle singole parti), ciascuna parte è funzionale al sistema
e il cambiamento di una delle parti produce cambiamenti nella sua
organizzazione. Così, talune forme di devianza possono essere funzionali al
mantenimento di un equilibrio o, al contrario, possono essere dirette a
innescare meccanismi di cambiamento. È questo che intendiamo parlando di
effetti di cambiamento.
Anche la devianza nellʼadolescenza spesso effetti comunicativi di cambiamento
rispetto a situazioni familiari disfunzionali o addirittura violente: dallʼuccisione
del “padre carnefice”, come azione estrema, a trasgressioni che, proprio grazie
alla loro ridondanza e, talora, incontenibilità, consentono di evidenziare
condizioni patologiche altrimenti protette entro pericolosi quanto in accessibili
<segreti di famiglia>.

Coordinate teoriche dellʼattività

Il concetto di attività costituisce un approfondimento e un perfezionamento del


concetto di “azione“, intesa come comportamento finalizzato verso uno scopo.
Lʼazione è costituita da una serie di comportamenti finalizzati verso un
obiettivo; ciascun obiettivo ha un significato che il soggetto agente condivide
con altri in un sistema sociale più ampio: la natura la qualità degli obiettivi
contribuiscono a denotare di significati i singoli comportamenti individuali.

Azioni e carriere

Da una prospettiva interazionista e costruzionista, si deve al contributo di


Becker lʼavvio più sistematico dello studio sulle carriere devianti. Lʼautore
sostiene che nello sviluppo di un percorso di devianza si compiono diverse
tappe: il primo passo consiste nella trasgressione della norma con un atto non
conforme alle regole. Allʼinterno di questo percorso, uno dei passi decisivi,
verso un modello di comportamento deviante, consiste nellʼessere “preso“ ed
etichettato pubblicamente come deviante; conseguenza principale è il
verificarsi nel soggetto di un drastico cambiamento dellʼidentità sociale.
Ultimo passo, nel processo di formazione della carriera deviante, è “lʼentrare a
far parte di un gruppo deviante organizzato“, per cui lʼindividuo si trova ad
avere qualcosa in comune con altre persone che hanno effettuato la stessa
esperienza: ciò porta a un rafforzamento dellʼidentità deviante.
La devianza qui non è più considerata un semplice effetto di cause connesse in
modo lineare con la storia individuale, ma come un processo dominato da una
sua organizzazione, con regole riferibili a diversi livelli di realtà: individuale,
sociale, istituzionale.
Gli autori, De Leo e Patrizi, suggeriscono che il processo che conduce
allʼassunzione di unʼidentità deviante e a una possibile evoluzione di carriera in
tal senso è un percorso articolato in tre fasi.
La prima fase può essere definita in termini di antecedenti storici, riferendosi
alle condizioni iniziali del soggetto, alle sue eventuali mancanze e deprivazioni e
a tutti i possibili problemi avuti, con particolare riferimento alla storia familiare.
Tali condizioni antecedenti possono essere considerate come indicatori di
rischio.
Il secondo pericolo, che si svolge in un arco temporale definito “breve ed
intenso“, come una specie di crisi che si attua mediante episodi percepiti
devianti, rappresenta la fase più rischiosa dellʼintero processo, poiché è proprio
ora che i rischi della prima fase possono acquisire una loro specificità
direzionata verso la devianza.
Lʼultima fase del processo può essere definita come stabilizzazione e indica la
probabilità di fissazione della devianza; in questa fase lʼagire deviante viene
considerato, utilizzato, “confermato” sia dei contesti di appartenenza
dellʼindividuo, sia dei sistemi normativi.
La devianza è dunque il risultato di un percorso che la persona costruisce in
modo attivo, passando per diverse fasi, ciascuna sottoposta ad attribuzioni di
significato.
Sintetizzando le tre tappe principali del processo che conduce alla devianza:
inizio, collocato nella fase precedentemente definita crisi; prosecuzione;
stabilizzazione (o interruzione).
La prima tappa è caratterizzata da costrutti quali: lʼincontro con possibilità di
devianza.
La prosecuzione comporta: la scoperta dei vantaggi strumentali o
lʼaffermazione di vantaggi già esperiti, il riconoscimento da parte degli altri del
proprio saper fare nella devianza.
La stabilizzazione riconduce allʼidea dellʼincastro: la persona sperimenta “con
successo“ un luogo, quello della trasgressione penale, dove il confronto fra le
attese altrui, le sfide proposte e le proprie capacità di gestione appare, seppure
pericoloso, più “semplice“ e immediato.

A partire dalla storia di vita dei soggetti sono stati individuati dei “fattori di
rischio“.
Il primo fattore identificato come altamente problematico è lʼetà in cui il
comportamento delinquenziale insorge: Farrigton e colleghi hanno sottolineato
che quanto più precoce è lʼesordio nella commissione di reati, maggiore sarà la
probabilità di strutturare un percorso di vita che stabilizza le dimensioni di
problematicità e antisocialità. il coinvolgimento criminale passato riduce sia le
inibizioni interne sia quei vincoli esterni che potrebbero limitare la commissione
di nuovi reati, oppure aumenta la motivazione a commetterne di nuovi: il
passato criminale faciliterebbe il comportamento delittuoso futuro.

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