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Tasso

Essenziale per la cultura della corte estense, è la rivendicazione di una continuità con la precedente
tradizione locale, impostasi a livello nazionale grazie ad Ariosto. La corte estense presenta forti caratteri
laici, ed una cultura ricca di curiosità. Ama dilettarsi con immagini di pura evasione, in cui la vita quotidiana
si esalta in forme leggere e perfette, tende a scenografie dove trionfino le armi e gli amori, l’eroismo e il
cavaliere. L’ambiente letterario ferrarese partecipa intensamente ai dibattiti e agli esperimenti sul poema
eroico, sulla tragedia e sulla favola pastorale.

Tasso nacque a Sorrento l’11 marzo 1544. Dopo gli studi a Napoli, Tasso raggiunse il padre a Roma nel
1554, e li ebbe la notizia della morte della madre. Si trasferì a Urbino, dove iniziò le prime opere letterarie,
guardando i modelli cortigiani. Una data decisiva per la sua attività è l’ottobre del 1565, quando entrò come
cortigiano al servizio del cardinale Luigi d’Este. Arrivato a Ferrara per il matrimonio di Alfonso II, rimase
affascinato dalla città che gli appare come una meravigliosa e non più veduta scena dipinta e luminosa,
piena di forme e apparenze. Dopo la morte del padre nel ’70-’71, fece un viaggio in Francia, al seguito del
cardinale Luigi e stabilì importanti contratti con la corte francese. Seguirono anni intensi, e nel ’73 scrisse
l’Aminta. La figura di Tasso e le sue opere furono viste come segni di infelicità che il genio incontra nei
rapporti con il mondo e con le costrizioni sociali. Questo mito crebbe sempre di più fino alla sua massima
espressione nel ‘700-‘800, quando la vita del poeta si guardò come un’immagine esemplare del conflitto tra
il genio e i limiti imposti dalla realtà. Egli vide nell’attività letterario un valore assoluto, ne fece il luogo del
supremo riconoscimento di sé. Non era nuovo, lo avevano anche Dante e Petrarca, ma ciò che lo
diversificava era l’identificazione totale con le proprie opere, il confronto continuo con i valori sociali
dominanti, l’aspirazione al successo. Dante e Petrarca opponevano il valore della loro persona e dei loro
scritti alla società che li circondava, le loro esperienze biografiche non si esaurivano nella letteratura, Tasso
invece, la letteratura è tutto, è un modo di offrirsi interamente al pubblico. Il luogo per questo
riconoscimento era per Tasso la corte. Ariosto aveva una distanza dalla corte a cui offriva la sua opera ed
era consapevole dei suoi limiti, per Tasso invece quel mondo è tutto, egli aspira ad installare con la corte un
rapporto immediato, ad essere accolto dalla corte in modo felice e gratificante. Ma si accorge che ciò non è
possibile, ed ecco l’insoddisfazione, il non potersi riconoscere in nulla, il desiderio di fuga. Queste
affermazioni spingono sempre di più Tasso a tornare sulle lacerazioni affettive, il non avere una patria, la
morte del padre e della madre. L’atteggiamento di Tasso verso le autorità risulta ambiguo, in essa egli
scorge sempre qualcosa di paterno, accetta le autorità in tutte le sue forme, la coscienza del proprio valore
individuale lo induce a vagheggiare una libertà impossibile, contraddetta dalla sua sottomissione a sistemi
normativi. La sua malinconia e la sua follia sono l’esilio estremo di questi conflitti. Solo quando può
aggrapparsi a valori rassicuranti, Tasso può trovare momenti di pace. Tasso scrive un gran numero di
liriche. Un primo gruppo di liriche d’amore venne pubblicato nel 1567, in una raccolta di Rime de gli
Academici Eterei. La produzione lirica per Tasso si lega alle occasioni sociali più diverse, egli considera la
lirica come il primo livello della letteratura, come un modo naturale di mettere a punto il proprio stile. Nella
giovinezza, alle composizioni liriche affiancò riflessioni tecniche. Tasso individua nella piacevolezza, nella
gravità i caratteri essenziali della lirica, cerca un linguaggio fiorito che si allontani dall’astratto equilibrio di
Bembo, e si confronti col petrarchismo di Della Casa. Nella lirica di Tasso manca un centro, le rime non
ruotano attorno a un modello, ma seguono direzioni molteplici. Altra novità è il recupero del rapporto della
poesia con la musica. La sua sapienza stilistica si serve anche di cadenze proprie della poesia popolare, e gli
permette di raggiungere effetti fonici attraverso pause ed esitazioni sintattiche o ripetizioni di singole
parole. L’Aminta, favola pastorale scritta nel 1573, stampata solo nel 1580. Tasso attua una sintesi tra
dimensione pastorale e mondo cortigiano, l’immagine poetica tradizionale dei pastori, si trasforma in
specchio dell’elegante vita di corte. L’ organismo drammatico dell’Aminta sembra muoversi in 2 direzioni
opposte: da una parte esso suggerisce una scena naturale pura, una via semplice, che rappresenta una
felice evasione dalle illusioni del mondo cortigiano, dall’altra parte pare voler idealizzare gli aspetti più
frivoli della vita cortigiana, la ricerca del piacere e della dolce comunicazione amorosa. L’universo pastorale
permette di mettere in scena alcuni personaggi sotto i quali si celano esponenti della corte ferrarese, Tirsi è
l’autore, incline a una saggezza, sazio delle gioie, dei piaceri, turbato da un’insoddisfazione, e da desideri
non realizzabili. Vi è il personaggio femminile di Dafne, matura dama di corte, attraversata da un disincanto
più forte, dovuto alla coscienza della consapevolezza di perdere ogni bellezza. Queste figure osservano e
guidano la vicenda della favola, che presenta l’amore innocente del giovane pastore Aminta per la bella
ninfa Silvia. La vicenda sfiora e respinge la tragedia, nel gioco convenzionale delle morti apparenti degli
amanti. L’esempio del padre, impiegato nell’elaborazione dell’Amadigi, spinse Tasso, a interessarsi alla
narrazione in versi e ai poemi cavallereschi. Presto nacque in lui l’idea di un poema sulla prima Crociata e
sulla liberazione del Santo Sepolcro di Gerusalemme dagli infedeli. Tra il ’59 e il ’61 scrisse 116 stanze del
primo libro del Gerusalemme. Nel ’62 pubblicò il Rinaldo, che narra la giovinezza del paladino cugino di
Orlando. L’ingresso alla corte di Ferrara nel ’65 spinse Tasso ad approfondire il proprio poema col titolo di
Gottifredo. La prima stesura del poema, in ottave e in venti canti, terminò nel 1575, dopo ebbe il problema
della revisione. Dopo il problema che fu piratata e cos(leggi sul quaderno), Tasso la riscrisse, col titolo di
Gerusalemme conquistata, in 24 canti. Nel nuovo testo venivano espunti interi episodi del precedente e
respinti ai margini gli accenti più sensuali ed erotici, mentre si intensificavano le immagini di un eroismo
austero. La sua scrittura cerca sempre di confrontarsi con schemi programmatici e norme generali. Egli
risente a fondo dell’orientamento che la cultura letteraria aveva assunto con la diffusione delle poetiche
aristoteliche, un orientamento teorico che si incontra con il bisogno di giustificare il proprio
comportamento di uomo e di scrittore e di ottenere riconoscimenti sociali. Il problema che preoccupa fin
dall’inizio Tasso è quello del passaggio dal romanzo cavalleresco della tradizione ferrarese a un poema
eroico moderno, fondato sui canoni dell’epica classica. Tasso mira a un classicismo moderno,
appoggiandosi su nozioni tratte dalla poetica aristotelica e su altre derivate dalla tradizione retorica e da
quella platonica. Partendo dalla nozione di poesia come imitazione delle azioni umane, egli affronta il
problema relativo alla scelta della materia del poema eroico, sulla base dei rapporti tra poesia e tra vero,
verosimile e meraviglioso. La poesia epica deve rappresentare le azioni più nobili e illustri, gli effetti della
virtù più alta. La forma da dare alla materia, gli eventi vanno presentati non come sono effettivamente
accaduti, ma come dovrebbero essere accaduti, nel modo più verosimile, ma non travolgendo il nucleo
originario della storia. Questa concezione del poema eroico si regge su un difficile equilibrio tra termini
opposti come storia e finzione, verosimile e meraviglioso. Il tema della Gerusalemme liberata, la prima
crociata, rispondeva ad aspirazioni sia religiose che militari. L’assedio e la conquista di Gerusalemme da
parte dei crociati nel 1099 si presentava a Tasso come un evento unitario, che fondeva motivi bellici e
religiosi e che data la sua lontananza storica gli avrebbe permesso di aggiungere elementi di finzione. Si
narra solo della fase finale della crociata, come l’Iliade. Nei venti canti del poema le imprese, i desideri, gli
atti eroici, dei crociati, si alterano alle difese e agli inganni delle truppe islamiche. Goffredo di Buglione,
schierato dai cristiani, capitano. Ma a Gerusalemme si sono insidiate le forze maligne, le spingono i cavalieri
ad errare. La più grave è quella del giovane Rinaldo, il quale è destinato a contribuire alla distruzione della
selva di Saron, i cui incantesimi impediscono i cristiani di procurarsi il legno. Il movimento centrifugo e il
ritorno verso il centro mostrano come la liberata sia costruita su una peripezia. Questi le caratteristiche
della tragedia aristotelica, e Tasso ebbe ben presente lo schema classico della tragedia. Protagonista del
poema è l’esercito crociato, che incarna valori con cui l’autore e il suo pubblico si identificano. I pagani si
distinguono tra coloro che vengono presi d’assedio a Gerusalemme e coloro che agiscono altrove,
incarnano tutto ciò che è lontano dai valori morali. Il campo del bene e quello del male sono separati, non
come accadeva fino ad Ariosto che c’erano momenti di solidarietà tra i due popoli. In entrambi risaltano
alcuni personaggi che raggiungono una autonomia ignota alla tradizione cavalleresca. Gli eroi dell’epica
antica si trasformano in personaggi pieni di incertezze e contraddizioni. Essi si distinguono dalle masse
anche grazie alle loro qualità psicologiche, in ognuno di essi si trovano degli elementi autobiografici. Tra gli
eroi cristiani principali spuntano Goffredo, Rinaldo e Tancredi. Il rigore di Goffredo è spesso insidiato dal
dubbio, dalle difficoltà di prendere decisioni affrettate e di tenere unito l’esercito cristiano. Rinaldo,
rappresenta l’eroismo allo stato puro. Dopo essersi liberato dalla maga di Armida, trova facilmente la via
della purificazione, che gli permette di distruggere la selva infernale. Figura malinconica e notturna è
Tancredi, chiuso in un dramma interiore generato dall’amore per la guerriera pagana Clorinda. Si rende
protagonista di un errore sconvolgente, quando durante un duello uccide l’amata Clorinda. Turbato non
riesce a vincere i malefici della selva, alla fine risolve duellando con Argante. Gli eroi pagani sono invece
immagini di forza rovinosa, priva di prospettive morali e razionali. Su tutti emergono 2 figure, Argante e
Solimano. Un posto particolare spetta alle eroine pagane, che hanno la funzione di distogliere gli eroi
cristiani dai loro obiettivi. Con Clorinda, Armida e Erminia, Tasso crea tre figure che corrispondono ad
altrettante proiezioni sociali e individuali della donna. Clorinda è la figura della donna-guerriera, ma con un
lato segreto. Armida, la maga allettatrice che travia con la sua bellezza i cavalieri cristiani, è un’immagine
erotica. La bellezza di Erminia è raccolta in se stessa, sempre volta a mettersi da parte e nascondersi, il suo
amore inconfessato per Tancredi si nutre di ricordi e attese, il suo desiderio è quello di proteggere l’eroe
ferito, alla fine ci riesce. Il picciolo mondo rappresentato offre al lettore verità di situazioni, ricchezza di
colori, figure ed eventi. I molteplici temi del racconto si caricano di valore simbolico, mettono in circolo
fantasie sotterranee, nello stesso tempo affondano nella sensibilità dell’autore, nei suoi fantasmi personali,
nei desideri. È forse la prima volta che nella letteratura si ha un’opera cos’ psicologica. Pieno di risonanze è
il paesaggio, spesso definito lirico. Può essere dolcissimo o ambiguo, rassicurante o minaccioso. Tutte le
prove di coraggio, si scontrano con le condizioni materiali, lo spazio, il clima. Siamo lontani dalle imprese
dei cavalieri dei romanzi tradizionali, dalle facili carneficine in cui si esercitavano i paladini di Boiardo e
Arioso, qui le gesta eroiche sono segnate dallo sforzo, dalla paura della morte e del sangue. L’orizzonte
religioso è contraddistinto da una pietà rituale, tra messe e visioni angeliche. La religiosità di Tasso tende ad
evocare poteri nascosti celate sotto le varie forme della vita naturale. Alla magia positiva si oppone quella
negativa, fascio di forze che devia l’uomo dal proprio cammino. La magia più presente però è quella erotica,
che si esprime attraverso creature seducenti, sirene che promettono felicità senza limiti. Nella riflessione
teorica, Tasso pose grande attenzione all’elocuzione. Per suscitare nel lettore la meraviglia, fosse necessario
uno stile magnifico e sublime. La magnificenza doveva essere espressione del divino furore del poeta epico.
Il sublime doveva ricercare forme e suoni inconsueti. Il linguaggio della liberata realizza la magnificenza
attraverso l’uso di figure retoriche. La lirica di Della Casa rimane per Tasso modello essenziale per costruire
un parlar disgiunto. Il parlar disgiunto porta il linguaggio, fuori da ogni dimensione comune, suscitando
meraviglia. Il discorso e il ritmo dell’ottava procedono sovrapponendo movimenti contrastanti, che si
ripetono e divaricano. Le parole si avvolgono suadenti e musicali attorno alle figure. Molti attribuiscono alla
liberata un carattere tragico o lirico, quelle in chiave tragica insistono a ragione sulla cupa visione che nel
poema offre dell’intera vita umana, della fortuna. Queste letture permettono di cogliere la situazione di
crisi personale e sociale vissuta dall’autore, da questa crisi deriva l’immagine tassiana del mondo come
eterno fluire di illusioni e delusione, rispetto all’unica verità che è data dalla religione e dall’attesa di
un’altra vita. Tasso s’impegno nella stesura dei dialoghi a Sant’Anna, essi gli permettevano di mostrare
all’esterno la sua volontà di mantenere una conversazione col mondo colto.

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