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Atto di forza

https://www.ilcineocchio.it/cinema/dossier-atto-di-forza-di-paul-verhoeven/
(09/06/2020 recensione film di Francesco Chello)

Il 31 maggio del 1990 avveniva, a Los Angeles, la premiere di Total Recall. Prima tappa di
un percorso distributivo che inizia dagli Stati Uniti per poi proseguire a livello
internazionale fino ad arrivare in Italia, il successivo 13 dicembre, dove debutta come Atto
di Forza. Trent’anni nel 2020 per il cult di Paul Verhoeven, anniversario che ci offre lo
scusa per fare due chiacchiere a riguardo. L’appellativo cult non è utilizzato a caso. Atto di
Forza lascia un segno che dura negli anni, andando oltre l’epoca della sua uscita. Questo
avviene grazie ad una mescola vincente di vari elementi. L’azione dello schwarzy
movie tipica di quel periodo, la visione e il tratto distintivo di un regista non omologato
come Paul Verhoeven, la fantascienza di Philip K. Dick.
Il film ha una genesi di lunga data che risale al 1974, quando lo sceneggiatore Ronald
Schusett opziona i diritti di We Can Remember It For You Wholesale (conosciuto in Italia
come Ricordiamo per Voi), un racconto breve (23 pagine) di Philip K. Dick pubblicato per
la prima volta nell’aprile del 1966 su The Magazine of Fantasy & Science Fiction. La cifra è
a buon mercato, Dick non godeva ancora della fama che avrà più o meno da Blade
Runner in poi, l’intenzione di Schusett è quella di trarne (almeno vagamente) uno script
insieme all’amico e collaboratore Dan O’ Bannon.
I due si rendono conto presto che il progetto avrebbe bisogno di un budget considerevole
oltre che di mezzi probabilmente fuori portata per l’epoca, così decidono di rimandare e
‘ripiegare’ su un’idea di O’Bannon relativa ad un mostro extraterrestre che terrorizza
l’equipaggio di una nave spaziale. Quell’idea di riserva è Alien, il resto è storia (che
probabilmente conoscete).
Ma Schusett e O’Bannon non abbandonano le loro intenzioni e negli anni ’80 tornano
prepotentemente su Atto di Forza che sembra aver trovato il suo carburante nello studio
di Dino De Laurentiis. Il film entra addirittura in una fase di pre produzione in Australia,
per la regia viene approcciato inizialmente David Cronenberg, che si dimostra interessato
arrivando persino a rifiutare la regia di La Mosca (ricredendosi in seguito), il regista però
aveva una visione molto diversa dalle intenzioni della produzione che decide di ripiegare
su Bruce Bereford che viene fuori da una lista che comprende anche Richard Rush, Lewis
Tague e Rusell Mulchay, mentre il ruolo da protagonista finisce a Patrick Swayze dopo
aver sondato negli anni nomi come Jeff Bridges, Matthew Broderick, Mark Harmon, Tom
Selleck, Christopher Reeve e Richard Dreyfuss (Cronenberg, invece, voleva William Hurt).
Dicevo, ‘sembra’, perché gli intoppi non sono certo finiti: De Laurentiis finisce in bancarotta
sgretolando la concretezza che l’adattamento di Total Recall stava lentamente
raggiungendo. Ed è qui che arriva finalmente la svolta decisiva. Ovvero l’entrata in campo
di Arnold Schwarzenegger, che conferma una delle abilità del suo periodo d’oro, vale a
dire quella di sapersi scegliere (quanto meno il più delle volte) i progetti giusti, che fossero
allo stesso tempo potenziali successi al botteghino e compatibili con le sue caratteristiche.
L’austriaco ne aveva già parlato con De Laurentiis ai tempi di Codice Magnum (che il
produttore aveva distribuito) senza però convincerlo a farsi affidare la parte, dopo aver
accennato la cosa anche a Joel Silver (durante la lavorazione di Predator) decide di fare
pressione su Mario Kassar ed Andrew Vajna affinché rilevino (per circa 3 milioni di dollari) i
diritti dello script da De Laurentiis attraverso la loro Carolco Pictures.
Lo star power di Arnold Schwarzenegger è a livelli altissimi e gli permette di ottenere un
lauto ingaggio e, soprattutto, un certo controllo sulla produzione, che include il potere di
veto su scelte produttive, registiche, di sceneggiatura e campagna promozionale. E’
Arnold, quindi, a suggerire il nome di Paul Verhoeven, i due avrebbero potuto lavorare
insieme in occasione di RoboCop nel 1987 ed è proprio in seguito alla visione di quel film
che l’attore si convince ulteriormente a voler lavorare col regista olandese. Ed avrebbero
dovuto lavorare insieme anche dopo Atto di Forza, in occasione di Crusade, film (mai
realizzato) sul tema delle Crociate, se la Carolco non fosse fallita in seguito al flop
di Corsari del 1995.
La sceneggiatura ha bisogno di una nuova revisione, a quel punto pare fossero già 42 le
bozze esistenti. Così Arnold Schwarzenegger, ancora lui, chiede a Gary Goldman di
affiancare Schusett per sviluppare il final draft, in particolare per lavorare su un terzo atto
che si stava rivelando parecchio rognoso. Nel frattempo, Dan O’Bannon aveva avuto dei
dissapori con Paul Verhoeven, che aveva chiesto di rimuovere buona parte del dark
humour presente nella sceneggiatura per inserire maggiori dosi di violenza estrema. La
storia si dimostra perfettamente funzionale allo scopo. Approccio futuristico (siamo su
Marte, nel 2084), una trama che possa affiancare azione ed intrattenimento a intrigo,
mistero e magari anche qualche riflessione di natura etico/sociale. Il fulcro di Atto di Forza
è chiaramente l’action hero impegnato in una complicata missione salvatutti (contro tutti).
Intorno viene costruito abilmente un clima di mistero (e ricostruzione dei tasselli) che gioca
molto sulla questione realtà/ricordi/innesti di memoria per un meccanismo che può offrire
svolte e colpi di scena capaci di rendere il piatto più speziato. L’intenzione è quella di
giocare con lo spettatore insinuandogli costantemente il dubbio su cosa sia più o meno
reale, fino alle battute conclusive dell’ultimo fotogramma che, per ammissione dello stesso
Paul Verhoeven, cercano di far scricchiolare le certezze che a quel punto lo spettatore
pensa di aver ormai acquisito. Per la serie ‘pareri che non ha chiesto nessuno’, se posso
dire la mia (leggermente spoiler) sul finale, io sono sempre stato portato a pensare si tratti
sul serio della realtà, anche perché se fosse un sogno / innesto difficilmente avremmo
visto i momenti in cui non compare il protagonista.
Ad ogni modo, come dicevo in precedenza, c’è tempo in Atto di Forza anche per un po’ di
critica sociale, le vicende (che sembrano rifarsi vagamente alla situazione politica degli
anni ’60 / ’70) parlano di malgoverno, repressione, regime dittatoriale, affarismo ed abuso
di potere mirato al profitto, lotta di classe a discapito dei più poveri, ma anche questioni di
tipo ambientale che ricordano l’effetto serra – vedi gli effetti nocivi dell’atmosfera (alterata)
di Marte.
Abbiamo abbondantemente detto dell’importanza di Arnold Schwarzenegger off screen,
ma il suo è ovviamente un ruolo determinante anche sullo schermo. Il personaggio di
Douglas Quaid (che l’attore propone di presentare come operaio a differenza della
versione precedente dello script in cui era un contabile di nome Quail) sembra essere
cucito sulle sue spalle larghe. Dal punto di vista action non si fa mancare nulla, dalle
sparatorie ai corpo a corpo, con Schwarzy che non tira mai indietro di fronte a stunt e
impegno fisico, come dimostrano alcuni infortuni, tipo un dito rotto o un taglio profondo
su una mano.
Il pluricampione di bodybuilding si presenta in forma, leggermente meno massa (che
riprenderà l’anno dopo per Terminator 2), ma adeguatamente tirato, appare a suo agio in
una parte che prevede cambi di profilo e di tono, visto che Douglas tranquillo uomo
comune scopre un passato da agente segreto di cui lentamente riaffiorano i ricordi.
Senza dimenticare carisma e presenza scenica, ironia e battute a effetto tipiche
dell’austriaco, come quando chiede il divorzio alla moglie dopo averle sparato in fronte.
Tornando al dietro le quinte di Atto di Forza, c’è da sottolineare il modo in cui Arnold
Schwarzenegger gestisce con intelligenza e rispetto il suo potere decisionale; in tanti
avrebbero potuto strafare e farsi prendere da smanie di protagonismo controproducenti,
cosa che invece il futuro Governatore della California evita saggiamente di fare,
supportando in toto il team creativo con cui collabora e si confronta ma non interferisce,
anzi sfrutta la sua influenza produttiva per spalleggiare e tutelare Paul Verhoeven e la sua
crew, come in occasione della sequenza del treno in cui viene mostrato l’esterno di Marte,
che in pre produzione il regista stava per tagliare a malincuore a causa delle difficoltà di
realizzazione; oppure in fase di lancio, quando chiese alla TriStar (che distribuiva il film)
di modificare il trailer promozionale, che a suo dire non rendeva l’idea del reale
potenziale, così come a Kassar e Vajna di intensificare (investendo ulteriormente) la
campagna promozionale da lui ritenuta troppo tiepida.
Atto di Forza indovina anche il cast di supporto: Ronny Cox è Cohaagen, viscido e
corrotto governatore della colonia marziana (voluto da Paul Verhoeven che lo aveva
diretto in RoboCop e gli offre un ruolo per certi versi vicino a quello di Dick Jones); al suo
servizio c’è Richter, spietato luogotenente affidato a Michael Ironside – dopo aver
valutato Robert Davi e Kurtwood Smith (che rifiuta per le troppe analogie col suo Clarence
Boddicker), innamorato (e sofferentemente geloso) della sua Lori, una ambigua Sharon
Stone – il regista olandese la richiamerà per Basic Instinct proprio per questa sua capacità
di cambiare repentinamente tono ed essere credibile sia come amante amorevole che
come diabolica assassina – che deve fingersi moglie di Quaid e che per la sua dedizione
nelle sequenze d’azione (frutto di sessioni di pesi e lezioni di Tae Kwon Do) riceverà il
riconoscimento di membro onorario dalla Stunt Woman Association, non per niente una
delle candidate al ruolo era stata l’attrice marziale Cynthia Rothrock.
La spalla del protagonista (nonché vero love interest) è Rachel Ticotin, che interpreta
Melina – per la quale erano state considerate anche Nicole Kidman e Alexandra Paul,
un tipo di bellezza non a caso diametralmente opposto a quello della Stone per
accentuarne un conflitto che diventerà persino fisico in un avvincente catfight tra le due
donne.
Un film del genere per funzionare in questo modo ha bisogno di una direzione chiara e
personale come sa essere quella di Paul Verhoeven, a cui va un’importante fetta dei meriti
di Atto di Forza. Il regista si dimostra all’altezza di un blockbuster che in quel momento si
presenta come uno dei più costosi della storia (si parla di 65 milioni di dollari), affronta e
vince la sfida con la sua visione, il suo taglio registico, la sua predisposizione per
spettacolarizzazione e violenza (spesso spettacolarizzazione DELLA violenza).
Dirige l’azione con ritmo e visione d’insieme, valorizzando un asso come Arnold
Schwarzenegger, messo in condizioni di rendere al meglio, così come il resto del cast
evidentemente a proprio agio. La violenza è esplicita – il bodycount tocca quota 77
vittime, Verhoeven si diverte a sottolinearla come di consueto, motivo per il quale Total
Recall aveva inizialmente ottenuto un X rating poi divenuto R in seguito a piccole ma
opportune modifiche.
Senza dimenticare il look visivamente impattante dei mutanti così come le trasformazioni
fisiche quasi da body horror, che il regista si diverte puntualmente a evidenziare. Il
merito di trucco, effetti prostetici ed animatronics (come il tassista robotico Johnnycab –
doppiato da Robert Picardo) è del genio creativo di Rob Bottin (anche lui nella crew
di RoboCop), che insieme a Eric Brevig, Tim McGovern e Alex Funke vincerà un Oscar per
gli effetti speciali realizzati su Atto di Forza. Il campionario dei mutanti è variegato, dalla
prostituta con tre seni (che avrebbero potuto essere quattro!), ai visi deformati di donne e
bambini, per arrivare all’apice rappresentato da Kuato (Marshall Bell), mostruoso leader
della resistenza per la cui animazione sono necessari 15 burattinai.
E ancora, congegni che escono dalle narici, occhi fuori dalle orbite e Schwarzy che spunta
dal faccione di una simpatica donna corpulenta. Uno degli ultimi blockbuster hollywoodiani
ad essere realizzato quasi interamente con effetti vecchia scuola e largo uso di
miniature, dove il quasi sta per un’unica sequenza (quella dello scanner a raggi-X) che lo
rende anche uno dei primi ad includere effetti in CGI.
Menzione obbligatoria per il comparto scenografico, che sfodera un design coerente e
accattivante. La produzione sceglie di girare in Messico (tra marzo e agosto del 1989), sia
per una questione economica che architettonica; Città del Messico offre un look ideale,
futuristico, freddo, dominato dal cemento armato, scuro, massiccio. Integrato poi da circa
45 set costruiti in sei mesi di lavoro.
Una scelta che però comporterà difficoltà di tipo pratico, tra smog e intossicazioni
alimentari (a cui sfuggirà solo Arnold Schwarzenegger, che si fa mandare il cibo da Los
Angeles e ha uno chef personale), saranno in molti a necessitare di cure mediche.
Completa il quadro la colonna sonora di un Jerry Goldsmith libero di sperimentare come
poche volte prima di allora e che, per questo motivo, considera Total Recall uno dei lavori
migliori della sua carriera.
Con i suoi 261 milioni di dollari di incasso, il film si rivela un grosso successo
commerciale. Si pensa inevitabilmente a un sequel che avrebbe dovuto basarsi su un
altro racconto di Philip K. Dick, ovvero The Minority Report. Per la regia, Mario Kassar
aveva approcciato Ronny Yu nel 1994 e Jonathan Frakes nel 1998, questo prima che il
progetto morisse definitivamente in seguito – ironia della sorte – al sopracitato fallimento
della Carolco.
A sopravvivere è lo script, che dopo una robusta revisione e drastici cambiamenti (inclusa
una maggiore dose di elementi presenti nel racconto originale) finirà per essere utilizzato
da Steven Spielberg nel suo  Minority Report del 2002, con Ronald Schusett e Gary
Goldman che non vengono accreditati come sceneggiatori (per il limitato materiale
residuo), bensì come executive producer – viste le regole severe della Writers Guild of
America sulla quantità di sceneggiatura scritta da un autore necessaria a ottenere
un writing credit. Secondo alcuni esisterebbe anche un remake uscito nel 2012, in realtà si
tratta di un innesto della Rekall che tenta di confondervi le idee, non fidatevi!
Total Recall / Atto di Forza, ribadisco, conserva ancora oggi il suo status di cult. Paul
Verhoeven trova il giusto compromesso tra violenza, design, mindgames ed azione
frenetica e lo mette al servizio di un mattatore come Arnold Schwarzenegger nel pieno del
suo periodo d’oro. Con una cornice di apprezzabile follia che rende la corsa ancora più
entusiasmante. Grazie per l’attenzione e buona permanenza su Marte.
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http://scheggedivetro.org/paul-verhoeven-un-olandese-a-hollywood-parte-2-robocop-e-atto-di-
forza/?doing_wp_cron=1640769275.2842381000518798828125#forza
(31/07/2019 recensione film di Tomas Avilla)

Da anni a Hollywood si cercava di realizzare un adattamento cinematografico del racconto


Memoria totale di Philip K. Dick, pubblicato per la prima volta nel 1966.
Il progetto era passato di mano in mano, la sceneggiatura era stata riscritta più volte e, tra
gli altri, era stato coinvolto anche David Cronenberg.
Inizialmente il progetto era nelle mani del produttore De Laurentiis ma, dopo il flop di Dune
di David Lynch e il collasso della compagnia De Laurentiis, passò a Schwarzenegger che
convinse la casa produttrice Carolco a realizzare il film. L’attore contattò personalmente
Paul Verhoeven, dopo aver visto Robocop.
Così la produzione cominciò nel 1989 in Messico.
Nel 2084, desideroso di compiere un viaggio su Marte, l’operaio edile Doug Quaid si
rivolge all’agenzia Recall che vende viaggi e avventure di turismo virtuale, ma scopre di
essere già stato su quel pianeta come Hauser, agente segreto al servizio dello spietato
dittatore locale, e si unisce al movimento popolare di rivolta. (da Mymovies)
Con Atto di forza, Verhoeven firma il suo secondo cult americano, con un notevole
successo ai botteghini, nonostante al film fosse stato assegnato inizialmente un rating X,
poi trasformato in R in seguito a dei tagli nelle scene più violente.
In effetti, per essere un film da circa 65 milioni di dollari di budget, ci troviamo davanti a
una violenza inusuale e in generale di fronte a un’opera che, nonostante si possa
considerare un blockbuster fantascientifico, è completamente fuori dagli schemi.
Per prima cosa, a distanza di quasi trent’anni, si può notare come Atto di forza sia stato
precursore di tutta una serie di film che sarebbero usciti da metà anni ’90 in poi, incentrati
sulla realtà virtuale.
Due anni dopo uscì Il tagliaerbe e nel 1999 uscirono contemporaneamente eXistenZ,
Matrix e Il tredicesimo piano.

Certo, non si può dire che Atto di forza sia il primo film a trattare il tema della realtà
virtuale. Già Blade Runner, per esempio, insinuava dubbi sulla realtà della nostra
esistenza, senza però ancora entrare nel campo della realtà virtuale.
Bisogna andare indietro fino al 1973 per trovare quello che forse è il vero precursore di
tutto il filone della realtà virtuale: Il mondo sul filo, di Rainer Werner Fassbinder (tratto dallo
stesso romanzo alla base di Il tredicesimo piano).
In ogni caso, Atto di forza inaugura il decennio degli anni ’90, intercettando già dal
principio quelle che sarebbero state le paure che accompagnarono le tecnologie digitali in
vertiginoso sviluppo.
Quindi, se già in Robocop il protagonista recuperava delle memorie che gli erano state
rimosse e con queste riscopriva la sua vera identità, qui siamo decisamente oltre.
Il personaggio interpretato da Schwarzenegger è un operaio edile, un uomo qualunque,
che si ritrova invischiato in una sorta di fantascientifico Intrigo internazionale di
Hitchcockiana memoria.
Anzi, sarebbe più corretto parlare di intrigo interplanetario, visto che la storia si sposta
velocemente dalla Terra su Marte.
Fin dall’inizio però si nota, complice la splendida fotografia di Jost Vacano, fedele
collaboratore del regista fin dal suo periodo olandese, una sensazione di finzione. Tutto
sembra di plastica, costruito. Una realtà fittizia come quella di The Truman Show (altro film
imprescindibile sulle realtà virtuali), troppo patinata, come quella di Society- The Horror.
Presto si capirà il perché.
Verhoeven, come sempre, gioca con i corpi, su più livelli. Ci sono quelli di Sharon Stone
(qui ancora prima della celebrità datale da Basic Instinct) e Rachel Ticotin, corpi femminili
oggetto del desiderio sessuale, del protagonista come dello spettatore. C’è il corpo
statuario di Schwarzenegger, qui usato in chiave ironica e quasi metacinematografica,
perché lo spettatore si rende immediatamente conto che non può essere un semplice
operaio edile.
Ci sono poi i corpi deformi dei freaks marziani, un circo degli orrori che inevitabilmente
rievoca quelli del Freaks di Tod Browning e dell’universo di Lynch, ma anche il body horror
di Cronenberg che, come abbiamo visto, avrebbe inizialmente dovuto dirigere il film.
Come Browning, Lynch, Del Toro, Burton, Alex de La Iglesia e tutti gli arti registi affascinati
dai freaks, anche Verhoeven sta dalla loro parte e questi diventano la metafora degli
esclusi e degli emarginati di una spietata società arrivata a capitalizzare addirittura
sull’ossigeno che respiriamo.
Come non notare poi il modo in cui avanguardisticamente Verhoeven intuisce la deriva
che avrebbe preso la società americana (ormai mondiale). Fin dall’inizio il regista ci
presenta un mondo dominato dall’immagine, pervaso da schermi che producono una
versione alternativa, e più piacevole, della realtà.
La società dell’immagine, che sarebbe poi giunta alla sua massima espressione con i
social network, è già al centro di Atto di forza.
Si pensi alle pareti della casa del protagonista, tappezzate di schermi che mostrano un
ameno paesaggio naturale o alla filosofia che sta alla base della Rekall, una sorta di
compagnia turistica che si occupa di impiantare ricordi virtuali di viaggi mai avvenuti in
realtà.
Perché quello che conta, come ormai ben sappiamo, non è la realtà ma l’immagine.
Dunque, Verhoeven, presagendo questo mondo sempre più etereo, sempre meno carnale,
non può che farci stare dalla parte dei ribelli marziani, corpi deformi, la nuova carne, per
dirla a la Cronenberg, unica forma di resistenza a una società consumistica con l’idolo
dell’immagine.
Come già detto, il film fu un grande successo e si pensò immediatamente a un sequel, che
sarebbe stato ispirato al racconto di Dick “Rapporto di minoranza”. Non se ne fece nulla e
il racconto venne trasposto cinematograficamente solo nel 2002 da Spielberg, col ben
noto Minority Report.
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http://www.i400calci.com/2020/12/buon-30esimo-compleanno-atto-di-forza/
(21/12/2020 recensione film di Nanni Cobrett)

Atto di forza.
Secondo me il problema non era tradurre “Total recall” (richiamo totale, o ricordo totale, o
memoria totale, quel che preferite) quanto il fatto che nessuna traduzione possibile urlava
abbastanza “C’È SCHWARZENEGGER”.
Il problema però è che diventa ridicolo mantenere lo stesso titolo in un remake in cui
hanno rimpiazzato Arnold con Colin Farrell.
Come si risolvono casi del genere?
Noi consigliamo sempre la stessa cosa da anni: guardare al mercato ispanofono.
Là l’hanno chiamato El vengador del futuro.
Che vi avevo detto? Impeccabile.
Comunque: Atto di forza esce in Italia il 13 dicembre 1990, ma io lo vidi al cinema (me lo
ricordo come se fosse ieri) il primo gennaio 1991, quindi per quel che mi riguarda non
siamo in ritardo, siamo in anticipo.
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“Due settimane”

Altro che due settimane, il progetto girava da svariati anni.


Si trattava di un racconto di Philip K. Dick intitolato Do Martians Dream of Red Sheeps?
We Can Remember It For You Wholesale (in Italia Ricordiamo per voi) di cui esisteva una
sceneggiatura firmata da Ronald Shusett e Dan O’Bannon, duo meraviglia già
responsabile di Alien i quali, dopo aver girovagato per qualche anno a vuoto, l’avevano
venduta a Dino De Laurentiis.
Il protagonista della storia doveva essere un insospettabile impiegato, e il primo nome
della lista era Richard Dreyfuss, seguito da Jeff Bridges.
La trama grossomodo raccontava di un tizio ossessionato da Marte che visita un’agenzia,
la Rekall, specializzata nell’impiantare memorie fasulle di avventure virtuali: scopre che tali
memorie si sovrappongono con la sua vera identità di agente segreto che gli era stata
sovrascritta, e che il nuovo trattamento gli risveglia. Oppure no?
Per la regia a un certo punto De Laurentiis aveva ingaggiato David Cronenberg, il quale
voleva William Hurt e si era inventato il personaggio di Kuato e della combriccola di
mutanti prima di litigare con Shusett e O’Bannon e abbandonare la nave.
A questo punto entra in scena Schwarzenegger che si innamora dello script, ingaggia
personalmente Paul Verhoeven e convince De Laurentiis a vendere il progetto alla
Carolco.
Verhoeven si porta dietro Gary Goldman, che riadatta il copione ad Arnold e riscrive il
terzo atto, ma rimane anche in buoni rapporti con Shusett e O’Bannon chiamandoli a far
presenza fissa sul set. Sono tutti contentissimi, al punto che iniziano a volare già idee per
un sequel incentrato maggiormente sui mutanti e basato su un altro racconto di Dick
intitolato Minority Report.
Nella traccia di commento sul dvd di Atto di forza Verhoeven racconta anche di come
volesse da tempo lavorare con Michael Ironside e di come l’avesse già contattato ai tempi
di Robocop: davo per scontato che intendesse il ruolo di Clarence Boddicker, interpretato
dal molto somigliante Kurtwood Smith, e invece Ironside era proprio la prima scelta per
Robocop stesso al posto di Peter Weller.
Per cui sì, in un mondo parallelo esiste una versione di Minority Report diretta da
Verhoeven, interpretata da Schwarzenegger e intitolata Atto di forza 2, e una versione di
Robocop con Michael Ironside dentro la corazza d’acciaio del cyber-poliziotto: un giorno
vorrei visitarlo. Il mondo parallelo col Total Recall con Richard Dreyfuss invece mi
interessa sinceramente meno.

Lo ammetto, a me la sospensione dell’incredulità salta subito appena lui si sogna un’altra


nonostante sia sposato con Sharon Stone

“Se io non sono io, allora chi diavolo sono?”

Quando Arnold entra in campo, va cambiato tutto.


Il protagonista originale, nello script di Shusett e O’Bannon, era un modesto impiegato
ricalcato vagamente su Walter Mitty, e doveva diventare una specie di Indiana Jones tanto
avventuroso quanto umano.
Con Arnold, serve un compromesso tra “rimodelliamo il protagonista sulla forma
sovrumana di Schwarzenegger” e “non diciamo a Schwarzenegger che il suo protagonista
non è esattamente l’uomo medio”.
Tanto per iniziare, da modesto impiegato diventa operaio in cantiere addetto al martello
pneumatico. È il minimo.
Dopodiché è più che altro questione di coreografie, e di sfumature che si perdono.
Dopo essere scappato dalla Rekall, “Doug Quaid” si scopre improvvisamente a suo agio a
sparare e nelle risse uno contro tanti. La prima cosa ci può stare, della seconda non se ne
accorge nessuno.
Non ho letto il primo draft di Shusett e O’Bannon, ma sono disposto a scommettere che la
scena verso la fine in cui Arnold si libera dal trono di metallo in cui era incatenato
semplicemente sradicando il bracciolo nella versione con Richard Dreyfuss non c’era.
Ma Schwarzenegger pesa anche sulla colonna sonora: il tema di Jerry Goldsmith inizia
ricalcando pari pari le prime battute di quello di Conan il barbaro di Basil Poledouris, prima
di aprirsi in qualcosa di completamente diverso, meno eroico e più da classica sci-fi
distopica.
È un inizio che urla “questo è un film con Schwarzenegger”, e anche un po’ “questa è la
consacrazione di Schwarzenegger”, visto che Arnold era fresco reduce da quello che
allora era il suo più grande successo al botteghino di sempre (I gemelli – l’avreste detto?)
e si apprestava proprio con Atto di forza a girare il suo primo vero kolossal: un omaggio ad
Arnold ma anche a Poledouris, un “allievo” di Goldsmith che aveva già lavorato due volte
con Verhoeven quando quest’ultimo non poteva ancora permettersi l’originale.

Arnold & Paul BFF

“Consideralo un divorzio”
Paul Verhoeven, che come dicevamo era stato scelto a mano da Arnold dopo aver visto
Robocop, si diverte come un bambino.
Nessuno come lui è capace di sabotare Hollywood dal suo interno, e nelle sue mani Atto di
forza diventa una specie di anti-Commando: se Commando usava il corpo esagerato di
Arnold per spingere il genere verso una surreale ma benevola caricatura autoironica, Atto
di forza ne abusa per spingerlo verso l’autodistruzione.
Verhoeven è come mesmerizzato da Arnold, e lo maltratta sistematicamente.
All’inizio lo mette a operare il martello pneumatico, che è forse il modo più ridicolo per
evidenziarne i bicipiti ma è anche, al minuto 5, l’ultima volta che li mostra: da lì in poi, per
la prima volta nella carriera dell’ex-leggendario campione di body building, verranno
costantemente nascosti da una camicia a maniche lunghe.
Poi procede a massacrarlo o denigrarlo nei modi più fantasiosi: lo fa colpire ripetutamente
nelle palle, lo fa girare con un buffo turbante in testa, gli fa infilare una sonda nel naso, lo
traveste letteralmente da signora, gli porta due volte la fazza sull’orlo dell’esplosione
nell’atmosfera di Marte e in generale non perde un’occasione per deformargli il volto e
fargli un primo piano durante le sue smorfie più imbruttite.
Arnold è contento: alcune cose lo gasano in quanto amante della violenza, altre perché lo
fanno sembrare un uomo normale. Altre probabilmente non le coglie e basta.
Ma non è tutto: alla fine di un decennio in cui il botteghino era stato dominato da violente
fantasie escapiste da Rambo in giù, una trama che aveva al suo stesso centro una
fantasia escapista metteva Verhoeven nelle condizioni di tirare più di una frecciatina.
Il suo metodo, dall’interno di un film che aspirava a sfondare il botteghino, era
semplicemente alzare la violenza e la cattiveria ai massimi livelli consentiti (qualcosa gli
venne fatto segare per evitare divieti maggiori) e, in un contesto che glorificava le azioni
dell’eroe e lo spettacolo della morte, indugiare ogni tanto su quei dettagli che gli altri film
sapientemente evitavano per non spezzare la magia: le vittime collaterali, e l’indifferenza
dei personaggi principali nei loro confronti.
La scena della sparatoria alla stazione della metropolitana, con Arnold che si fa scudo di
un civile e i cattivi che calpestano i cadaveri, è esemplare: nella traccia di commenti del
dvd Arnold si mette semplicemente a ridere e dice “Del resto che altro fai in una situazione
del genere?”.

Chi non ci è passato.

“Preparatevi a una sorpresa!”

È bellissima la tesi dell’ambiguità.


È vera avventura o è un ricordo impiantato?
È un agente segreto! Conquista una patata brunetta! Salva Marte facendo venire il cielo
azzurro! Non era esattamente la stessa cosa che gli avevano promesso alla Rekall? È
sogno o realtà? La trottola sta ancora girando? Titoli di coda prima di svelarlo!
Atto di forza è disseminato di indizi furbi, ma non è realmente ambiguo, o almeno non è
formalmente rigoroso tipo Inception o I soliti sospetti.
È piuttosto un film che molto più comunemente semina delle esche, e non ha problemi a
imbrogliare pur di essere sicuro che lo spettatore caschi a ognuna di esse nel giusto
ordine seguendo un flusso di pensieri ben preciso: in quanto tale, funziona ad ogni visione
superficiale e funziona finché tenti di operare il debunking a ritroso contando solo sulla tua
memoria approssimativa, ma scivola se vai a controllare davvero.
La tesi per cui è tutto vero – quella migliore per godersi davvero la storia avvertendo il
giusto senso di pericolo – è l’unica che funziona: l’altra, molto banalmente, dovrebbe
formalmente crollare nel momento in cui vediamo scene in cui il personaggio di
Schwarzenegger non è presente, tipo quando gli impiegati della Rekall lo mettono sul
JohnnyCab e lui non ricorda come ci è finito, o i dialoghi fra Cohaagen e Richter che
servono unicamente allo spettatore.
La tesi del sogno in compenso è divertentissima appena ti rendi conto che ha un vago
senso soltanto se l’impianto di memoria è comunque riuscito male e lui sta davvero
vivendo un’illusione imperfetta che lo porterà alla lobotomia: perché, altrimenti, l’impiegato
della Rekall cercherebbe di confondergli le idee? E perché mai dovrebbe far parte del
pacchetto della Rekall l’idea di sua moglie (Sharon Stone!) che tenta di ucciderlo? O
anche Cohaagen, persona reale che vediamo al telegiornale anche prima che il nostro
protagonista vada alla Rekall? E ora che ci penso: perché mai la Rekall dovrebbe venderti
una memoria finta in cui fai venire i cieli azzurri su Marte? Che succede quando poi il
giorno dopo guardi il TG e sono ancora rossi? Westworld ha i suoi problemi ma mi sembra
molto più sicuro.
Insomma, esistono solo due versioni plausibili: Arnold vive felice con Melina sotto i cieli
azzurri di Marte, o l’ultima inquadratura è identica a quella di Brazil.
Un sequel avrebbe comunque ammazzato definitivamente anche questa seconda
versione.
Il film è ovviamente divertentissimo lo stesso, nonché un ottimo esempio di come dei
famigerati “buchi di sceneggiatura” non ce ne dovrebbe fregare assolutamente nulla.

Braziiiiil…

“Lei non è realmente in piedi davanti a me.”

Visivamente, Atto di forza è sempre stato un film particolare.


65 milioni di budget per l’epoca erano lo sforzo delle migliori occasioni, ma si trattava di un
film con mille esigenze e si cercò di risparmiare dove si poteva.
Ad esempio, fu girato in gran parte in studios in Messico, comodi per diversi motivi ma
piccoli, il che dà un’atmosfera stranamente claustrofobica per un film di queste dimensioni.
Erano già possibili effetti digitali all’avanguardia, tipo la scena al metal detector in cui si
vedono scheletri che camminano, ma il grosso della faccenda erano gli animatronics di
Rob Bottin, che includevano diverse versioni della fazza di Schwarzenegger in diverse
smorfie, notevoli soprattutto nella scena dell’estrazione della sonda dal naso, in cui
devono sorreggere un primissimo piano.
Ma Atto di forza merita una visione anche solo perché uno degli ultimissimi kolossal di
fantascienza a dover puntare ancora in gran parte su effetti pratici, che se non fosse che
Terminator 2 li avrebbe consegnati appena un anno dopo a un’agonizzante obsolescenza
sarebbero rimasti esemplari. Il team si portò a casa un meritatissimo Oscar.

Così impari a uscire di casa senza mascherina in zona rossa.

“Ho cinque figli da mantenere”

Atto di forza incassa in scioltezza il doppio del suo budget e finisce settimo nella classifica
totale di fine anno: l’obiettivo si può dire raggiunto.
Ma il sabotaggio da parte di Paul Verhoeven non passa inosservato: il film viene
aspramente criticato per le sue scene di violenza ritenute gratuite, e inizia una seria
conversazione.
L’anno successivo esce Terminator 2, che pur essendo decisamente violento si disturba a
inserire una clausola morale nella scena in cui John Connor insegna a Terminator a non
uccidere indiscriminatamente: da lì in poi il robot interpretato da Schwarzenegger si
limiterà a ferire gli avversari sparando ad altezza gambe.
Il film successivo di Arnold? Il suo primo PG-13 d’azione: Last Action Hero.
In compenso, Paul Verhoeven si mette a girare un film molto meno impegnativo chiamato
Basic Instinct, per il quale, dopo la rinuncia di svariate attrici famose, si ricorda di colpo di
Sharon Stone.

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