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autonomia dell’arte

Si possono trovare dei precedenti del moderno concetto di autonomia dell’arte già
nell’estetica antica, in particolare nel pensiero di Aristotele. Negli ultimi capitoli della Poetica
aristotelica si trova infatti il principio secondo cui diversi devono essere i criteri con cui si
giudicano scienza o storia da una parte e poesia dall’altra; a differenza della storia e della scienza,
la poesia preferisce il ‘credibile non-verosimile’ al verosimile che non sia credibile: com'è il
caso di Pindaro che ci descrive una credibilissima – e quindi poetica – cerva con le corna, mentre
nella realtà le cerve femmine non hanno le corna (Poet. 1460 b 29-30).
Altri anticipi del concetto di autonomia dell’arte si possono trovare nel 1500: sia in
commentatori italiani di Aristotele (Ludovico Castelvetro), che riprendono le teorie aristoteliche,
sia nell’inglese sir Philip Sidney, secondo cui la poesia “nothing affirms and therefore nothing
lies”, non è tenuta ad alcuna verosimiglianza ed esattezza su quanto dice. La nascita vera e propria
del concetto di autonomia dell’arte, in ogni modo, non può farsi risalire a prima del Settecento.
Soltanto in questo secolo, infatti, si comincia a diffondere un concetto di arte inteso nel senso delle
‘belle arti'; l’esistenza di questo concetto è condizione indispensabile per il sorgere dell’idea
dell’autonomia dell’arte. Nel Settecento si afferma, inoltre, l’idea del gusto, come organo creatore
e fruitore dell’arte, rendendo possibile una distinzione, già sul piano psicologico, tra attività
artistica e altre attività umane.
Le prime teorizzazioni esplicite dell’autonomia dell’arte vanno ricercate nell’estetica del
Settecento inglese. F. Hutcheson, nel suo Inquiry into the Original of our Ideas of Beauty and
Virtue (Ricerca sull’origine delle nostre idee di bellezza e di virtù, 1725) distingue il ‘senso
morale’, proprio dell’etica, dal ‘senso interiore’, proprio dell’arte. Il ‘senso interiore’ non ci serve a
distinguere la virtù dal vizio, bensì a conoscere il bello inteso come il senso dell’ordine e
dell’armonia. In maniera non diversa E. Burke, nel saggio A Philosophical Inquiry into the Origin
of our Ideas of the Sublime and the Beautiful (Ricerca filosofica sull’origine delle nostre idee del
bello e del sublime, 1756), sottolinea, con un esempio divenuto famoso, come un pittore che
dipinga un nudo non andrà giudicato sulla base di un trattato di anatomia, giacché un eventuale
errore anatomico del pittore non incide sul valore del suo dipinto.
Per vie diverse, ma con risultati analoghi, anche alcune correnti estetiche del Settecento
tedesco giungevano ad affermare l’autonomia dell’arte. Fondamentale, in proposito, l’Aesthetica
(1735) di Alexander Gottlieb Baumgarten, che venne poi estremamente valorizzata da Benedetto
Croce. A differenza dei teorici inglesi, con il loro presupposto di una facoltà non teoretica né etica,
cioè del ‘gusto’, il Baumgarten fa derivare l’arte da una conoscenza sensibile, distinta da quella
intellettuale, priva di una distinzione razionale, sebbene in possesso di una sua chiarezza
espressiva. Perciò l’estetica, che è la dottrina della valutazione dell’arte, è estranea alla logica
intellettuale; essa non riguarda il vero o il falso, bensì il verosimile: “Est ergo veritas aesthetica, a
potiori dicta verisimilitudo, ille veritatis gradus, qui, etiamsi non evectus sit ad completam
certitudinem, tamen nihil contineat falsitatis observabilis” (Aesthetica, § 483).
Circa negli stessi anni Giovan Battista Vico, nella Scienza nuova seconda (1730),
enunciava un’analoga formulazione del concetto di autonomia della poesia (meno esatto sarebbe,
nel caso del Vico, parlare di ‘autonomia dell’arte’ perché in lui non è ancora chiaro il concetto
delle ‘belle arti’): la poesia si distingue dalla storia, dalla scienza e dalla filosofia per il fatto che
non impiega degli universali ragionati (cioè logico-filosofici), bensì degli universali fantastici,
cioè creazioni che, pur essendo di validità universale, sono opera della fantasia e non

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dell’intelletto.
Decisivo, per lo sviluppo del concetto di autonomia dell’arte, l’apporto della Kritik der
Urteilskraft (Critica del giudizio) di Kant, apparsa nel 1790. Kant legittimò teoreticamente la
possibilità dell’autonomia dell’arte, postulando l’esistenza di una facoltà umana non conoscitiva né
pratica, capace di un ‘giudizio riflettente’, il quale scopre l’intrinseca finalità delle cose, a
differenza del ‘giudizio determinante’, proprio della facoltà conoscitiva, il quale determina la
struttura gnoseologica della realtà. Dal ‘giudizio riflettente’ sorge la facoltà del gusto, la capacità,
cioè, di giudicare un oggetto o una rappresentazione traverso un piacere o un dispiacere privi di
ogni interesse, oltre che di implicazione gnoseologica o etica. Di qui la fondamentale asserzione
che Kant compie nella sua analitica del bello: “E’ bello ciò che piace universalmente senza
concetto”, da porre in rapporto con l’altra definizione della bellezza come “forma della finalità di
un oggetto, in quanto essa vi è percepita senza la rappresentazione di uno scopo”.
La dottrina della Critica del giudizio kantiana diede l’avvio a quella che può considerarsi l’età
aurea del concetto di autonomia dell’arte, cioè il romanticismo. Sebbene il romanticismo sostenga
anche la tesi opposta, ovvero quella dell’eticità dell’arte, la sua estetica con maggior vigore di ogni
altra afferma l’autonomia dell’arte, attraverso i concetti dell’arte come fantasia, come sentimento,
come emotività, come intuizione, come genialità. Queste idee si trovano soprattutto nel
romanticismo tedesco: tanto in Friedrich Schlegel quanto in Friedrich Schelling, in Johann
Christian Hölderlin, in Arthur Schopenhauer. Ma colui che, nell’ambito del romanticismo tedesco,
le espresse con maggior vigore fu il Novalis, presso cui si trova una delle più recise asserzioni
dell’autonomia dell’arte; si legge infatti nei suoi Frammenti (trad. it. Milano, 1948): “Se noi
avessimo una fantastica, come abbiamo una logica, allora l’arte di inventare sarebbe trovata. Alla
fantastica apparterrebbe anche l’estetica, come la dottrina dell’intelletto appartiene alla logica”. A
questo proposito va ricordato che, per una via diversa, già Johann Georg Hamann nella sua
Aesthetica in nuce (1762) aveva già precorso queste idee, considerando l’arte come un'esplosione
di emotività fantastica.
Anche il romanticismo inglese giunse a diverse formulazioni del concetto di autonomia dell’arte.
Agli inizi dell’Ottocento Samuel Taylor Coleridge, nella sua Biographia Literaria, enunciò il
principio secondo cui la poesia si contrappone alla scienza e alla storia, perché consiste in una
sorta di composizione che si propone come scopo il piacere anziché la verità.
Contemporaneamente divulgava in Inghilterra i principi della Critica del giudizio kantiana,
traverso il saggio On the Principles of Genial Criticism Concerning the Fine Arts (Sui princìpi
della critica del genio, relativi alle arti belle, 1814). Pochi anni dopo Edgar A. Poe, in The Poetic
principle (Il principio poetico) gettava le basi di una concezione autonomistica della poesia,
destinata a incontrare grande successo in Gran Bretagna: “Mentre la coscienza insegna l’obbligo
del dovere e la ragione c’insegna la sua convenienza, il gusto si limita a mostrarcene il fascino,
facendo guerra al vizio soltanto sul terreno della sua bruttezza, della sua mancanza di proporzioni,
del suo odio contro il conveniente, l’appropriato, l’armonioso insomma contro la bellezza”.
Queste codificazioni romantiche possono considerarsi come le teorizzazioni fondamentali del
concetto di autonomia dell’arte. Tuttavia anche nel secondo Ottocento, nell’ambito della cultura
postromantica e positivistica, si ebbero notevoli contributi a favore dell’autonomia dell’arte; degno
di rilievo, in particolare, quello dell’estetica cosiddetta ‘dell’empatia’ (in tedesco Einfühlung). Sia
il primo ideatore, Robert Vischer, sia i suoi continuatori Theodor Lipps e Johannes Volkelt,
interpretarono l’arte come il prodotto di una particolare, autonoma attività psicologica, consistente
nel proiettare i sentimenti sulle cose esteriori, le quali poi, così umanizzate, vengono rappresentate
artisticamente. Sempre nell’ambito del positivismo postromantico, una posizione interessante,

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limitata alla sola musica, fu sostenuta da E. Hanslick nel saggio Vom Musikalisch-Schönen (Il
bello nella musica, 1854), dove si sostiene la tesi secondo cui la musica va ascoltata con un ascolto
solo musicale, in quanto essa non esprime idee o pensieri come quelli di altre espressioni umane,
bensì soltanto ‘pensieri musicali’, Nel secondo Ottocento, infine, anche gli scritti di Friedrich
Nietzsche sostengono una forma di autonomia dell’arte; Nietzsche infatti considera l’arte
un’attività superiore a tutte le altre, sia nella forma ‘apollinea’ (cioè contemplativa) sia in quella
‘dionisiaca’ (cioè tumultuosa e attiva).
Nel Novecento, l’unico notevole teorizzatore dell’autonomia dell’arte fu Benedetto Croce. Nella
sua Estetica del 1905 si trova una decisa asserzione dell’autonomia dell’arte: “L’arte è
indipendente sia dalla scienza sia dall’utile e dalla morale. Né si nutra timore che, con ciò, si riesca
a giustificare l’arte frivola o fredda, perché ciò che è davvero frivolo o freddo, è tale solo in quanto
non è stato innalzato a espressione”. Nelle formulazioni più mature della sua estetica Croce
attenuò l’unilateralità di questa posizione, attraverso il concetto della ‘circolarità’ delle forme dello
spirito, secondo cui la conoscenza e l’etica, pur essendo estranee al giudizio estetico, non sono
però estranee alla creazione dell’opera d'arte, giacché ne costituiscono il presupposto.
Nel complesso, l’estetica contemporanea si può dire avversa all’idea dell’autonomia
dell’arte, vedendo in essa l’ultimo portato della romantica concezione asociale dell’individuo
‘creatore’, Tra le critiche rivolte a questa tesi, le più notevoli sono quelle di J. Dewey in Art as
Experience (1934), di U. Spirito in La vita come arte (1941) e di G. Della Volpe in Critica del
gusto (1960).
(Armando Plebe)

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