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Four-Monthly Magazine ISSN 2039-5426

Sensory Hiatus
L’opera architettonica nell’epoca della sua
riproducibilità digitale
di Antonio Mastrogiacomo

Il rapporto tra tatto e vista può essere considerato a partire dalla rappresentazione
dell’immagine architettonica. Secondo le indicazioni benjaminiane contenute nel saggio sulla
riproducibilità tecnica del 1936 individueremo nel render il luogo in cui i due sensi si toccano in
accordo ad una linguistica degli spazi che insista sulla biplanarità del segno architettonico,
diviso tra signi cato tattile e signi cante visivo.

Alla concezione dello spazio architettonico dell’età contemporanea è stata associata l’idea
dello spazio-tempo o quarta dimensione; non solo, ma poiché l’opera d’arte come dice
Benjamin, vive “nell’epoca della sua riproducibilità meccanica”, entrambe queste considerazioni
in uenzano lo stile-codice attuale e quindi la sua rappresentazione. […] Il carattere di
continuità che è peculiare all’idea di spazio-tempo e le più perfezionate tecniche di
rilevamento, in particolare quelle lmiche […], rendono meglio di ogni altra la continuità
percettiva delle immagini architettoniche (De Fusco, 1978: 163).

Proprio perché il render continua a suggerire la continuità percettiva delle immagini


architettoniche, l’opera architettonica si sposta dal piano dell’immaginazione a quello
dell’immaginario grazie alla produzione digitale di immagini in movimento. Il video perde infatti
la sua funzione di documentazione per attirare forze creative che si articolano nella non
necessaria concretizzazione del progetto.

Il linguaggio video oggi “parla il mondo” meglio di qualsiasi altro linguaggio e in questa sua
aderenza all’esistente è in grado di fare luce sui meccanismi che regolano la produzione di
senso realizzata attraverso le immagini (Fadda, 2017: 29).
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Partiamo dal lm per arrivare al render. Ok

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Prendiamo ad esempio gli opening credits di La Notte, lm del 1961 di Michelangelo Antonioni:
musica composta anche tramite tecniche di sintesi del suono e immagini di Milano ripresa a

partire dall’edilizia – a signi care quei primi anni del boom economico. Questo piccolo
segmento audiovisivo esempli ca il tema della continuità percettiva dell’immagine
architettonica: il movimento della telecamera svela l’immagine, che può completarsi solo a
partire dal suo carattere di continuità.

Questo carattere di continuità è stato preservato e potenziato nella ripresa dell’immagine


architettonica da parte di un drone, in grado di catturare la città a partire dal suo panorama,
tenendo fede alla vocazione aerea di Nadar. Eppure la realizzazione di un video non interviene
ormai solo in fase di documentazione – quando intavola un rapporto privilegiato con la
memoria – ma l’opera architettonica ha inaugurato con il render l’epoca della sua
riproducibilità digitale.

Lo schiacciamento sulla dimensione esclusivamente visiva propria del render approfondisce la


spaccatura tra tatto e vista, sensi che sono considerati da Benjamin come protagonisti della
ricezione delle costruzioni architettoniche. Questo tratto diventa decisivo per prendere atto di
come sempre più le costruzioni architettoniche possano essere immaginate e percorse (per
non dire prodotte) secondo le loro funzioni eppure spogliate del loro uso, sempre a partire dal
loro signi cante visivo – nessuno lamenterebbe poi l’assenza di un sonoro almeno verosimile,
tanto siamo abituati a vedere paesaggi spogli del loro paesaggio sonoro.

Si tratta quindi di ri ettere ancora sul potenziamento dell’esperienza visiva – più che tattile,
sonora, olfattiva – di un genere artistico che può essere usato solo se attraversato, eppure
producibile anche e già solo a vedersi. Questa condizione appunto viene adeguatamente
incoraggiata dal ricorso alle tecnologie. In altre parole, quelle di Rosa e Balzola:

Alcuni sensi nel contesto tecnologico appaiono decisamente discriminati. Il tatto, il gusto e
l’olfatto sono ridimensionati rispetto all’esperienza visiva e sonora; è a esse, infatti, che viene
delegata la maggior parte dell’acquisizione esperienziale di ciò che si ha intorno, in particolare
alla prima sia dal punto di vista della percezione sia rispetto allo sviluppo della complessità
dell’interazione con la tecnologia (Balzola Rosa, 2010: 63).

Questo impoverimento testimonia quella degradazione dell’Erfahrung in Erlebnis che risulta


una delle voci da tenere in considerazione quando si fanno i conti in tasca al Moderno. Tra gli
interpreti di questa condizione, Walter Benjamin. Si veda il passaggio in Schiavoni:

A distanza di circa un trentennio dallo Stunden-Buch rilkiano si collocano alcuni scritti del
losofo Walter Benjamin decisivi per la ri essione sul tema della povertà. Si resta sbalorditi –
alla luce anche del nostro presente, alla luce cioè dell’odierna standardizzazione
dell’esperienza in virtù dell’iterazione del “sempre-uguale” e della capacità di presa dei
moderni mass media – dinanzi alla perspicacia con cui questo raf nato saggista berlinese ha
scandagliato le forme del rarefarsi e del degradarsi dell’Erfahrung (intesa come esperienza
piena e autentica) nella Modernità, illustrando un processo a cui la loso a dell’epoca
moderna e le teorie scienti che più avanzate hanno preparato il terreno e che ha portato
l’uomo contemporaneo alla perdita di questa esperienza piena e autentica (Erfahrung) in una
società sempre più massi cata, e alla sua sostituzione con l’Erlebnis, in senso diltheyano,
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coinvolti dalla catastrofe del Moderno, che li condanna a una “povertà di
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ha eguale (Schiavoni, 2017: 321).
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cap. XVIII

Le architetture hanno accompagnato l’umanità dalle sue origini. Un gran numero di generi
artistici si sono sviluppati per poi svanire. […] Di contro, il bisogno umano di avere un alloggio
rimane costante. L’architettura non ha mai smesso di essere all’opera. La sua storia è più
antica di quella di qualunque altra arte ed è utile tener sempre conto del suo genere di
in uenza, qualora si voglia comprendere il rapporto delle masse con l’arte. Le costruzioni
architettoniche sono oggetto di una doppia modalità di ricezione: l’uso e la percezione, e
meglio ancora: il tatto e la vista (Benjamin, 2012: 39).

Questa scheggia testuale benjaminiana si trova nel capitolo in cui Benjamin individua “la massa
quale matrice da cui si genera il nuovo atteggiamento di fronte all’opera d’arte”. Si tratta del
penultimo capitolo dell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, quando
Benjamin si serve dell’architettura per spiegare quel ricorso all’abitudine che detta le
condizioni della ricezione nella distrazione intesa quale proprietà che permette alle masse di
ricevere il lm. L’architettura si avvale quindi di una componente percettiva che concerne il suo
utilizzo nel tatto, senso che risulta dalla sua concretezza – puoi immaginare qualcosa che non
puoi toccare ma non puoi toccare qualcosa che puoi immaginare.

Poiché non c’è niente della percezione tattile che corrisponda a ciò che è la contemplazione
nella percezione ottica. La ricezione tattile si effettua meno mediante l’attenzione che
mediante l’abitudine. E per quanto concerne l’architettura, l’abitudine determina in larga
misura la stessa ricezione ottica. Anch’essa, per sua essenza, si produce più in una
impressione fortuita che in un’attenzione sostenuta (Benjamin, 2012: 40).

I render si offrono alla pura contemplazione delle masse grazie all’unica ricezione possibile,
quella ottica, che si fonda appunto sulla continuità dell’immagine architettonica. Il tatto viene
estromesso dal gioco della ricezione delle architetture e viene così incoraggiata una sorta di
teologia dell’architettura fatta solo di immagini in grado di avvicinare le masse allo schermo
respingendole allo stesso tempo.

Benjamin non manca di evidenziare come i metodi di riproduzione tecnica costituiscano una
tecnica della riduzione che rende ogni oggetto o immagine più vicino, accessibile, dominabile
(Tavani, 2017: 218).

L’interesse di Benjamin per l’architettura è tanto noto quanto degno di nota: non opera solo in
funzione della teoria della percezione, ma diventa il motivo stesso della sua indagine
storiogra ca che si inspessisce nei Passages, risultato di un montaggio letterario in accordo
alla sua personale teoria della storia. Tra le cartelle dell’indice che cifrano una sorta di alfabeto
della modernità la cartella L, quella dedicata alle case di sogno della collettività, fa al caso
nostro per indicare quella povertà di esperienza di cui sopra, la cui traduzione si oggettiva nel
ricorso al video. Infatti, la parentela tra case di sogno della collettività e grandi opere sembra
incoraggiare una lettura del render quale luogo che anticipa e pubblicizza una familiarizzazione
ottica con la novità, laddove l’allontanarsi del tatto sterilizza l’architettura dall’esperienza
concreta. Il senso veloce della vista ne bene cia a discapito dei sensi più lenti: l’olfatto, nella
sua ricorrente stagionalità, viene estromesso al pari del sonoro perché considerati
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incompatibili con la contemplazione di un progetto architettonico. Dunque, il tatto – sebbene
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in azione grazie alla manipolazione delle informazioni a mezzo digitale (in altre parole, nasce
pur sempre tutto dal digitare alcune operazioni) – costruisce le immagini per poi scomparire

nelle immagini stesse.

Facciamo un esempio: “Succede solo a Napoli”. Con queste parole il ministro ai Trasporti e alle
infrastrutture Graziano Del Rio ha salutato la presenza dei venditori abusivi nel render del
nuovo molo Beverello che è stato presentato lo scorso febbraio in città. Questo banale fatto di
cronaca propone una lettura del render che si pone ben oltre la pura immagine
dell’architettura, per via di contenuti politici e sociali che straripano dallo schermo. Risulta
evidente come siano proprio le grandi opere a siglare con i render il trattato dell’esponibilità
pubblica, af dandosi alle immagini in movimento quali soglia di una esperienza futuribile
af data ad ologrammi che simulano una vita che scorre senza fretta. I render realizzano
dunque la misura di una utopia fatta di riproducibilità posta come modello della quotidianità.
Di differenza nella ripetizione non c’è traccia: solo ripetizione identica a sé stessa, come non si
addice ad un progetto architettonico – la necessità di sopperire alla staticità di un plastico con
una narrazione af data alle immagini in movimento evita ogni conato di immaginazione che
pur si deve spendere nel relazionarsi con una ipotesi architettonica.

Torniamo alle case di sogno della collettività, cartella che mette insieme almeno due interessi
massivi della produzione del losofo berlinese, dichiarati già a partire dalle puntate
radiofoniche che lo vedono impegnato agli inizi degli anni ’30. Sogno e collettività si ritrovano
stavolta coniugati in rapporto all’esigenza architettonica primaria, quella abitativa: case di
sogno viene a con gurare una palestra in cui poter de nire la ricezione della collettività in
rapporto all’architettura. Pensiamo alla nostra esperienza quotidiana, quando si consuma a
partire dalle grandi stazioni: la recente riquali cazione architettonico-urbanistica che ha
interessato le stazioni delle più grandi città italiane permette infatti di avvicinare questa
rilevazione “alla concreta situazione storica dell’interesse per il suo oggetto”. L’architettura
infatti incontra sempre più persone quando si comunica nel video: se non a tutti è dato di
leggere una pianta, una sezione, è pur vero che tutti possono vedere un palazzo, una stazione,
un ospedale se lo stesso si presenta nella misura di fotogrammi che scorrono: lo spettatore
diventa visitatore inconscio di quella architettura, come la toccasse al punto da attraversarla.
Così abbiamo conosciuto, abbiamo familiarizzato con quello che poi ci saremmo ridotti ad
usare, rilevando dunque “quell’abitudine di un’ottica che si approssima al tatto” con cui si
chiude il paragrafo del saggio benjaminiano con il quale ci siamo messi in rapporto, se non in
dialogo.

Ora, questa modalità di ricezione [l’impressione fortuita determinata dall’abitudine alla


ricezione ottica], elaborata a contatto con l’architettura, ha acquisito, in certe circostanze, un
valore canonico. Il motivo è questo: i compiti che, nei tornanti della storia, sono stati imposti
alla percezione umana non potrebbero quasi mai essere assolti dalla semplice ottica, ovvero
dalla contemplazione. Questi sono stati sempre progressivamente superati dall’abitudine di
un’ottica che si approssima al tatto (Benjamin, 2012: 40).

Il caso studio del render raccorda vista e tatto nella ricorsiva anticipazione l’uno dell’altro,
de nendo l’attuale condizione di ricezione dell’architettura. Se prima del render la sola
esperienza fatta poteva documentare la continuità dell’immagine architettonica, è proprio a
partire da questa che si delinea la sionomia del render, nuovo manifesto dell’esponibilità
pubblica dell’opera architettonica.
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L’espandibilità dell’immagine tecnicizzata rende qualitativa una riproducibilità meccanica che


potrebbe apparire solo quantitativa: produce cioè in breve tempo una trasformazione dei

rapporti di vita all’interno delle masse che da quelle immagini vengono investite e chiamate in
causa come produttori e ricettori distratti di prodotti e immagini. Per Benjamin la massa è
pronta nel suo insieme e in modo sostanzialmente indifferenziato ad accogliere l’opera
tecnologica nel suo grembo (Tavani, 2017: 218).

Distrattamente, la massa abbraccia le immagini che anticipano l’opera architettonica,


ritenendole genuinamente neutrali e familiarizzando con esse quasi percorrendole
inconsciamente. Ancora una volta “La massa, a causa della sua stessa distrazione, accoglie
l’opera d’arte nel proprio grembo, le trasmette il suo ritmo di vita e l’abbraccia con i suoi utti”.
Quella “ricezione nella distrazione che si afferma con crescente intensità in tutti i domini
dell’arte e rappresenta il sintomo di profonde trasformazioni della percezione” ha sì “trovato
nel lm il suo proprio campo di esperienza”, ma nel render ritrova l’originario riferimento
all’architettura quale “esempio tra i più impressionanti dal momento che in ogni tempo essa ha
offerto il prototipo di un’arte la cui ricezione destinata alla collettività si effettuava nella
distrazione”.

In de nitiva, questa capacità di inglobare e assimilare l’opera tecnologica da parte delle masse
è una circostanza che, al pari della distrazione che caratterizza la sua ricezione, è riprova di
una certa ducia nella situazione percettiva condivisa e al tempo stesso di una certa
con denza con il mezzo tecnologico, con la possibilità di acquisire una competenza suf ciente
a passare disinvoltamente dal ruolo del pubblico a quello di produttore-autore.

Conclusione

Segni, storia e progetto dell’architettura può essere considerato quasi un documento della
revisione linguistica che ha graduato le lenti con cui guardare le arti, stavolta nello speci co
architettonico: il contributo di Renato De Fusco resta infatti ancora decisivo nell’inquadrare la
progettazione architettonica in una prospettiva semiologica che

nasce da una ipotesi metodologica che associa la linguistica saussuriana alla teoria della pura
visibilità (Sichtbarkeit) e alle  ri essioni di vari autori che a questa si sono richiamati (De
Fusco, 1978: 11)

Adottata la prospettiva dello studioso napoletano, il contributo presentato ha provato a


ri ettere la condizione di biplanarietà propria dell’architettura nel suo continuo riferimento a
un signi cato tattile e un signi cante ottico – e al loro progressivo avvicinamento, secondo la
prospettiva benjaminiana discussa – come garanzia del segno architettonico.

Ho preso atto di come la rappresentazione digitale abbia prodotto uno scon namento dei
rapporti tra signi cante e signi cato la cui traduzione ha permesso quindi la costruzione di un
nuovo codice architettonico che rischia di porsi come autosuf ciente – tale che la realtà
aderisca al render, secondo un progressivo adeguamento al digitale digitale. Per questo motivo
studiare la vita quotidiana come rappresentazione a partire dai render – quale modello
politico-sociale nonché estetico-architettonico – permette di mettere insieme temi che la sola
progettazione architettonica non può considerare, a partire dal posizionamento della massa
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cui non solo tutto ciò che era direttamente

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vissuto, ma anche tutto quello che sarà direttamente vissuto si sia allontanato in una
rappresentazione è opportunamente rispettato dall’adesione al render quale principio della

costruzione architettonica – per riprendere Debord.

Per riscattare questa condizione ed in accordo alle regole del gioco esposte da Benjamin nel
saggio sulla riproducibilità tecnica, lo scrivente propone di manipolare i render nello spazio e
nel tempo – così da evitare la continuità dell’immagine architettonica – attraverso operazioni
di montaggio come nel video di seguito che vi lascio in conclusione.

RenderЯ (vous)
from | ant.mastrogiacomo |

34:04

Bibliogra a

Balzola, A. – Rosa, P., L’arte fuori di sé, Feltrinelli, Milano 2011.


Benjamin W., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Donzelli, Roma 2012.
De Fusco R., Segni, storia e progetto dell’architettura, La Terza, Bari 1978.
Fadda S., De nizione zero, Meltemi, Milano 2017
Schiavoni G., la povertà alla prova dell’esperienza. Due autori a confronto: Benjamin e Rilke, in
Spazio Filoso co, ISSN: 2038-6788, numero 20 Poverty, dicembre 2017
Tavani, E., Walter Benjamin e il potenziale politico delle immagini, in Tecniche di esposizione.
Walter Benjamin e la riproduzione dell’opera d’arte¸a cura di Maria Montanelli e Massimo
Palma, Quodlibet, Macerata, 2017

Antonio Mastrogiacomo collabora con diversi magazine, come Napolimonitor e


artapartofcult(ure), scrivendo contributi su diverse riviste. Dal 2017 cura d.a.t.
[divulgazioneaudiotestuale]. Insegna linguistica italiana presso la SSMLI di Benevento e storia
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Sviluppa la sua ricerca attraverso la pratica del montaggio (come nel disco ‘Suonerie’ nel
catalogo dell’etichetta Setola di Maiale). Ok

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