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ELICONEA JUNIOR

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TRE MELE CADUTE DAL CIELO
56 fiabe popolari armene

Raccontate da Giovanni Calcagno

Illustrazioni di Giuseppina Maurizi

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Finito di stampare nel mese di marzo 2018
presso Creative 3.0 - Reggio Calabria

ISBN 978-88-7728-432-7

Proprietà artistiche e letterarie riservate


Copyright © 2018 – Gruppo Editoriale Bonanno s.r.l.
Acireale-Roma

www.aebeditrice.com
gebonanno@gmail.com

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Tre mele sono cadute dal cielo:
una per il narratore di questa storia,
una per chi ti ha ascoltato,
e un’altra per chi ha seguito le parole del narratore.

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Il teatro della vita

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Tre cose necessarie

Fu chiesto a un uomo saggio: “Di che cosa ha bisogno un


uomo per vivere pienamente la sua vita in questo mon-
do?” “Tre cose sono essenziali per la comunità: il con-
tadino ha bisogno dell’aratro, lo scienziato della penna,
e il soldato della spada. La combinazione di queste tre
cose assicura la prosperità del mondo, la brillantezza della
mente e la sicurezza della vita”, rispose il saggio.

La Quercia e la Zucca

Un seme di zucca cadde sotto una Quercia e cominciò


a germogliare. L’arbusto della zucca crebbe molto rapi-
damente e si attorcigliò alla Quercia. Non molto tempo
dopo raggiunse la cima dell’albero e disse alla Quercia:
“Quanti anni hai impiegato per crescere così tanto?”
“Trecento”, disse la Quercia. “E io ti ho raggiunto in tre
mesi. Presto ti supererò”. “Tu hai raggiunto la mia altezza
attorcigliandoti a me invece di crescere da sola. Come ti
sarà possibile superare le avversità dell’inverno?” “Vedre-
mo”, disse la Zucca sprezzante.
Alla fine dell’autunno, la Zucca, che era stata al sole e
al caldo, cominciò a sentire freddo, raggrinzì tremante e
cadde dall’albero. La Quercia guardò in basso dalla sua
altezza e vide che l’enorme Zucca si era spaccata ed era
completamente vuota.

Vedere attraverso gli occhi di un contadino

Un re chiamò un artigiano e gli ordinò: “Cambiami le


finestre del palazzo dimodoché splendide vedute possano
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allargarsi davanti a me dovunque io guardi, e ogni cosa
sia luminosa e gioiosa nel mio mondo”. Un saggio dia-
cono disse: “Maestà, voi non dovreste guardare il mondo
attraverso quelle finestre, dovreste guardarlo attraverso gli
occhi dell’uomo che guida l’aratro”.

L’avido

Un uomo avido non aveva mai diviso con nessuno nem-


meno una crosta di pane. Comunque sia, prima della sua
morte, diede ordine a suo figlio di incidere sulla sua pie-
tra tombale una pagnotta e un grande bicchiere di vino.
Quando i contadini tentarono di cancellare l’incisione,
Dio li rimproverò dall’alto: “Non fatelo, brava gente. L’a-
varo ha lasciato al mondo la sola cosa della quale si è pri-
vato per tutta la vita”.

Quando l’accusato parla oro

Un fabbro fece un reclamo contro un bottegaio che aveva


preso in prestito del denaro da lui e non glielo aveva re-
stituito. Il giudice ascoltò le rimostranze del fabbro; poi
chiese al fabbro un’ascia affilata per poter dare un giu-
dizio equo. Il fabbro gli diede l’ascia, non dubitando di
riavere indietro il suo denaro. Ma non aveva idea che il
bottegaio, a sua volta, aveva promesso dell’oro al giudice.
Vedendo che il processo veniva ritardato, il fabbro ricor-
dò al giudice il suo regalo. “Vostro onore, perché trascina-
te ancora la questione? Tagliatela con l’ascia subito e una
volta per tutte”. “Oh, amico mio, sospirò il giudice, come
posso tagliare con un’ascia quando l’accusato parla oro”.

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Il Mullah troverà la legge nella Sharia

Un armeno perse la sua vacca. Mentre la cercava, conti-


nuava a mormorare “Possa il Mullah non trovare la mia
vacca! Possa il Mullah non trovare la mia vacca!” “Perché
preghi per questo?” gli dissero. “Il Mullah riuscirà a trova-
re una qualche legge nella Sharia attraverso la quale pro-
verà di non essere colpevole di averla mangiata. Ma se un
ladro o un rapinatore l’ha presa, ci sarà sempre qualche
speranza di riaverla indietro”, disse l’armeno.

L’asino è rimasto lo stesso asino

Un gruppo di persone stava lodando un tale che era stato


all’estero e aveva viaggiato in tanti posti e aveva acqui-
sito un’ampia conoscenza di tutte le cose. “Perché non
andiamo anche noi?” chiese uno di loro. “Cristo viaggiò
in molti paesi su di un asino, ma questo è rimasto ugual-
mente un asino”, disse l’altro.

L’immagine del diavolo

L’immagine del Diavolo con lunghe corna, grandi denti


e una faccia minacciosa era raffigurata sulla porta di uno
stabilimento balneare. Alcune persone che erano lì riu-
nite, la guardarono e cominciarono a ridere. Uno di loro
disse: “Non sapevo che il Diavolo fosse così brutto”. Il
Diavolo, che si trovava vicino a loro in sembianze umane,
disse: “Non si deve pensare che il Diavolo è così; chi ha
dipinto questa immagine è il figlio di Adamo, ed egli è
colui che ha carta, inchiostro e pennello a disposizione.
Così ha dipinto il suo nemico come gli piaceva”.
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L’ignorante divenuto ricco

Una volta un fannullone si rivolse all’ufficio locale, spe-


rando di trovare lavoro. Gli promisero di fargli suonare le
campane di una chiesa, ma venne fuori che il suonatore di
campane doveva almeno un poco saper leggere e scrivere.
“Io non so leggere e neppure scrivere”, disse il fannullone.
“Di conseguenza, visto che al momento non abbiamo un
posto di lavoro adatto a te, e dato che tu non puoi essere
un suonatore di campane, ti daremo del denaro così al-
meno potrai fare qualche affare e procurarti il tuo pane
quotidiano. Cerca di avere un po’ di pazienza perché Dio
è onnipotente”, gli dissero, e non appena gli diedero il de-
naro, lui partì. Allora con il denaro il fannullone comprò
della merce e la rivendette e ancora ricomprò altra merce
e la rivendette. In conseguenza di ciò fece una fortuna.
E così, riuscendoci continuamente, divenne l’uomo più
ricco della città. Ben presto ognuno ebbe modo di cono-
scere le sue immense ricchezze, le sue sconfinate proprietà
e i suoi innumerevoli sottoposti.
Una volta questo riccone si recò in banca per esegui-
re un’operazione finanziaria al posto del suo funzionario.
Quando venne il momento di firmare, fece ogni sforzo
per scarabocchiare qualcosa ma senza successo. Sorpreso
di ciò, l’impiegato di banca gli disse: “Onorevole signore,
ho visto che avete difficoltà a firmare. Se voi siete sta-
to capace di fare una tale fortuna e raggiungere questa
posizione, questo significa che sareste capace di acquisire
una educazione appropriata”. “Caro amico, se fossi stato
capace di leggere e scrivere, anche solo un po’, Dio ne è
testimone, adesso sarei stato un suonatore di campane. La
storia della mia vita è la chiara dimostrazione di questo”
disse l’ignorante, traendo il suo ‘saggio’ finale in un modo
molto presuntuoso e compiaciuto.
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Oh, il mio sedere!

Un pover’uomo era stato colpito alla testa e si lamentava:


“Oh, il mio sedere!” Un astante gli domandò: “Ma non
sei stato colpito alla testa? E allora perché dici ‘Oh, il mio
sedere’?” “Cos’altro potrei fare? Se avessi avuto qualcuno
che mi stava dietro, non sarei stato colpito alla testa”.

L’arcangelo Gabriele e i sette fratelli

Sette fratelli stavano pranzando con il loro cognato, quan-


do a un tratto saltò fuori l’Angelo della Morte e disse: “Io
sono l’Arcangelo Gabriele e sono venuto per portare due
delle vostre anime con me. Ora vi è consentito di scegliere
quali anime mi porterò”. I sette fratelli furono terrorizzati
e fissarono subito il loro ‘caro’ cognato. “Va bene, ho ca-
pito che sarò uno dei due e sono pronto a rendere la mia
anima”, disse il cognato freddamente, “ma l’Arcangelo
Gabriele è venuto per portarsi via due anime, dopotutto.
Adesso dovete decidere alla svelta chi sarà l’altro”.

Il ricco e il ladro

Un ladro andò da un uomo ricco e gli chiese: “Quanti


anni ci vogliono perché si scopra la colpa di un ladro?”
“Trent’anni”, disse il ricco. Il ladrò sogghignò. Più
tardi, nella notte, andò a derubare il ricco. Portò fuori
dalla stalla i suoi cavalli, caricò della merce su di loro e li
condusse via. Sulla strada, mentre passava un burrone, il
ladro cadde da cavallo, si ruppe una gamba e si ritrovò nel
burrone in cerca d’aiuto. L’indomani, il ricco si svegliò e
si accorse che la sua proprietà era stata derubata. Prese i
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suoi servi, montò a cavallo e si mise sulle tracce del ladro.
Appena raggiunsero il burrone, il ricco vide i suoi beni
caricati sui cavalli e il ladro caduto a terra con la gamba
rotta che urlava di dolore.
Quando il ladro vide il ricco disse: “Perché mi hai
mentito? Perché mi hai ingannato?” “Non ti ho inganna-
to. È il peccato che tuo padre ha commesso trent’anni fa
a farti soffrire adesso. Fra trent’anni, tuo figlio soffrirà per
il peccato che tu hai commesso oggi”, disse il ricco.

Dio e l’uomo

Il mare era in tempesta. Un uomo era bloccato su di una


imbarcazione e stava lottando contro le onde. Improvvi-
samente apparve una nave e venne a prendere il naufrago.
“Grazie, ma mi salverà il mio Dio Salvatore. Andate via”,
disse l’uomo. Successivamente arrivò una seconda nave e
dopo una terza, e tutte ebbero la stessa risposta. Nel silen-
zio della notte, l’uomo sentì di stare affondando e invocò
Dio ad alta voce, ma Dio urlo seccato: “Pazzo, ho avuto
pietà di te e ti ho inviato tre barche per salvarti, e tu hai
rifiutato il mio aiuto. Cos’altro dovrei fare?”

La peggiore cosa nel mondo

Tre uomini stavano parlando. “Non c’è niente di peggio


al mondo di essere senza casa” disse il primo. Il secondo
disse: “Non è così difficile prendere casa, non è così? Se
non hai soldi, dovresti lavorare, fare un po’ di soldi, e
comprare una casa. Così potrai risolvere il problema. La
cosa peggiore è l’incessante dipendenza da qualcuno”. Il
terzo disse: “Questo non è niente, c’è ancora una via d’u-
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scita. Si può fuggire via, o se i soldi sono la causa della
dipendenza, uno li può guadagnare in qualche modo e
pagare il suo debito e divenire libero. Ma la peggior cosa
nel mondo è avere un cattivo fratello o vivere da schiavo
nel proprio paese. Da queste cose non ti potrai mai libe-
rare, sia scappando via sia vendendo”.

La casa

Una donna e suo figlio vivevano in una casa squallida. Un


piccolo ruscello scorreva nel loro giardino. Ogni giorno
le rane gracidavano, gli aceri rumoreggiavano al vento e il
figlio si lamentava con la madre: “Sono annoiato a morte,
mamma, ogni giorno le rane gracidano e gli alberi fru-
sciano, farò un viaggio intorno al mondo. Non appena
avrò trovato un bel posto, tornerò e ti porterò con me”.
Così il ragazzo intraprese il suo viaggio. Andò molto in
giro e molto vide ma nessun posto gli entrò nel cuore.
Tornò a casa dalla sua vecchia madre molto ansioso e de-
presso e le disse: “Mia carissima madre, ho viaggiato in
molti posti, ho visto tanti grandi palazzi e incontrato tan-
te persone abbienti, ma nessuno di loro mi ha invitato a
entrare per scaldarmi e mangiare un pezzo di pane. Non
cambierò mai la mia piccola e squallida casa, il mio pic-
colo e bel giardino, il mormorio del mio ruscello, le mie
rane che gracidano e il fruscio degli alberi per nessuna
cosa al mondo”.

Uno scontento è sempre uno scontento

Un monaco cieco continuava a lamentarsi e a vessare tut-


ti giorno e notte: “Mangiano, bevono, si vestono e non
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condividono mai niente con me. L’abate ordinò di fare
un agnello al forno e del riso e di metterglielo davanti per
vedere di cos’altro si sarebbe lamentato. Quando l’intero
agnello fu posto davanti al cieco, ed egli lentamente lo ta-
stò con le dita, disse con insoddisfazione: “Se a un uomo
cieco viene dato un agnello intero, immagino quanti
agnelli avranno quelli sani”.

Possa essere benedetto il giardino dal quale gli orsi


sono tenuti alla larga

Un capo di provincia fu informato: “Alcuni abitanti di-


sobbedienti della tua provincia si sono offesi con te e
sono partiti per un altro paese”. “Possa essere benedetto il
giardino dal quale gli orsi sono tenuti alla larga”, rispose
egli con calma.

I vivi non sono apprezzati

“Andiamo a rendere onore al nostro eroe nazionale. Oggi


si celebra il suo funerale”, disse un uomo ai suoi amici.
“Certamente potremmo andare”, disse uno di loro,
“non paghiamo i nostri debiti ai vivi, almeno paghiamoli ai
morti. O loro possono esigere qualcosa da noi. Possono?”

Il benefattore

Un uomo era stato condotto in strada perché gli fosse


tagliata una mano.
Qualcuno chiese: “Perché gli vogliono tagliare la
mano?”
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“Ha preso cento sterline in prestito e non ha potuto
pagare il suo debito”.
Quest’uomo allora versò le cento sterline e salvò la
mano di quell’uomo.
Da allora, ogniqualvolta il soccorritore vedeva l’uomo
gli diceva: “Cosa avresti fatto se non ti avessi salvato la
mano dal taglio?”
Un giorno l’uomo si trovava sulla strada di casa dopo
una giornata di lavoro, si sentiva terribilmente stanco ed
esausto, quando incontrò di nuovo il suo benefattore, e
quest’ultimo gli ripeté la domanda. Il pover’uomo era
stufo di quel benefattore fastidioso, così allungò la mano
e disse: “Mio generoso benefattore, dal giorno che mi hai
aiutato, la mia mano non mi ha reso felice; così, ti prego,
prendila e tagliala! Così ch’io possa sbarazzarmi finalmen-
te del fardello assassino del tuo favore”.

Il calunniatore

Dissero a uomo:
“Lo sai che il tuo amico dice di te calunnie dovunque?”
Lui rispose:
“Un minuto, per favore. Lasciatemi ricordare cosa gli
ho fatto di bene”.

Il piatto non è più caldo della zuppa che contiene

Fu detto a un uomo:
“Tuo fratello ti va calunniando malignamente e spar-
ge pettegolezzi su di te, al contrario, uno straniero ti va
lodando”.
Lui rispose:
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“Nessuno ha mai visto un piatto più caldo della zuppa
che contiene”.

Ognuno misura con il suo metro

Un viaggiatore nel suo cammino verso una città chiese a


un passante:
“Che tipo di persone sono gli abitanti di questa città?”
“Sono esseri diabolici”, disse il passante.
Egli incontrò un altro uomo e gli fece la stessa domanda:
“Sono persone gentili”, si sentì rispondere.
E quando incontrò il terzo, gli rispose:
“In città ci sono sia esseri diabolici che gentili”.
Il viaggiatore entrò in confusione: a quali parole avreb-
be dovuto credere?
Quando incontrò il quarto uomo e gli confidò di sen-
tirsi smarrito a causa delle precedenti tre risposte, l’uomo
disse:
“Ciascuno ti ha dato la sua propria idea di misurazione
dei cittadini con il proprio metro”.

Il parente e il nemico

Mentre stava trattando con un suo amico in un negozio,


un immigrato stava scegliendo le merci da comprare e
diceva:
“Questo per il mio parente e questo per il mio nemico,
quest’altro per il mio parente e quest’altro ancora per il
mio nemico”.
Stupito da tutto ciò, il suo amico gli chiese:
“Chi è il tuo parente e chi è il tuo nemico? E perché tu
compri qualcosa proprio al tuo nemico?”
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L’uomo rispose:
“Il mio parente è mia moglie, mentre mia madre è il
mio nemico. Ogni volta che parto per paesi stranieri mia
moglie dice: ‘Possa mio marito tornare sano e salvo e por-
tarmi tanti regali’. E mia madre dice: ‘È meglio che mi
stia zitta su quello che potrebbe accadere a mio figlio.
Meglio che il mio bambino ritorni sano e salvo e a mani
vuote piuttosto che si faccia male’”.
La gente ha così sintetizzato questa storia nel prover-
bio:
“Signore, lascia che si avverino i pensieri di mia mo-
glie, ma mai quelli di mia madre”.

Dio e gli Armeni

Dio vide dall’alto che i Turchi avevano imbracciato le


armi, mentre gli Armeni danzavano e festeggiavano. Stu-
pito dalla calma degli Armeni, Dio infastidito disse:
“Perché questi stupidi confidano sempre su di me?”

La ragione e la fortuna

Un giorno la Ragione e la Fortuna viaggiavano insieme.


Dopo aver viaggiato per un po’, si stancarono e vollero
riposarsi un po’. La Fortuna si stese sulla strada e si addor-
mentò. La Ragione le disse:
“Se ti è cara la vita, vieni via dal mezzo della strada.
Stendiamoci sull’erba e dormiamo in pace là”.
La Fortuna non volle ascoltarla, se ne stava stesa e
dopo un po’ cominciò a russare.
La Ragione venne fuori dalla strada e si addormentò
pacificamente sull’erba.
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Dopo un po’ venne fuori una macchina, e il condu-
cente, vedendo qualcuno disteso sulla strada, sterzò bru-
talmente, uscì fuori di strada, si diresse verso la Ragione
e la uccise.

Legatelo alla lingua

Cinque o sei cavalieri, nel passare tra le case di alcuni


montanari, chiesero a un uomo un po’ d’acqua. L’uomo
gliela diede e gentilmente gli disse:
“Smontate da cavallo, riposatevi un po’ e mangiate
qualcosa”.
I cavalieri smontarono immediatamente da cavallo e si
rivolsero all’ospite.
“Dove possiamo legare i nostri cavalli?”
“Legateveli alla lingua!” disse il montanaro, con l’ar-
gento vivo addosso.

Uno strabico interrogato

Chiesero a uno strabico:


“È vero che uno strabico vede due cose invece che
una?”
A queste parole un gallo stava passando. Lo strabico
disse:
“Se fosse vero il gallo che passa mi sembrerebbero due”.

Il consiglio di Salomone bambino

Un uomo che aveva perso la sua sposa voleva sposarsi di


nuovo, ma non sapeva come sceglierne un’altra.
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Si persuase allora di andare a chiedere consiglio a un
bambino chiamato Salomone. L’uomo andò e vide il
bambino che cavalcava su un lungo bastone come se fosse
un cavallo. Salutò il bambino e gli chiese:
“Figliolo, sono venuto a chiederti un consiglio. Se pos-
sibile, ferma il tuo cavallo per un momento e ascolta la
mia richiesta, per favore. Dopo la morte di mia moglie,
mi voglio sposare per la seconda volta. Posso scegliermi
la sposa fra tre casati. La prima è una giovane vergine, la
seconda è vergine ma non più giovane, e la terza è vedova.
Quale mi consigli di sposare?”
Il bimbo saggio rispose:
“Se sposerai la prima, lo saprai, se sposerai la seconda,
allora lei lo saprà, mentre la vedova… ah ah ah” disse
continuando a cavalcare il suo cavallo di legno, “Ti dico,
uomo, tieniti lontano, altrimenti anche il mio cavallo ti
prenderà a calci”.
L’uomo non capì nulla e chiese al bambino una spiega-
zione di quelle parole. Il bambino rispose:
“La giovane ti obbedirà, farà tutto quello che desideri;
quanto alla vergine non più giovane, non potrai miglio-
rarla in nulla perché farà quello che gli è stato insegnato.
Per quanto concerne la vedova, tieniti lontano da lei altri-
menti ti prenderà a calci”.

Fare amicizia con Dio

Un contadino sognò di fare amicizia con Dio e di se-


minare il grano insieme alla sola condizione di dividersi
equamente il raccolto.
L’accordo fu concluso. Il contadino andò al lavoro,
arò, seminò e coltivò la terra. La bella stagione gli portò
un’abbondante messe. Lui così mieté il grano, lo separò
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dalla crusca e lo raccolse facendone un monticello. Dopo
che ebbe preso un contenitore, cominciò a pesare e a divi-
dere il raccolto in due parti uguali. Dopo che ebbe finito
di dividere, guardò prima la sua parte e poi quella di Dio.
“No, così non va”, disse, “Dio non ha moglie e figli.
Cosa ne deve fare di tutto questo grano? Mi prenderò un
po’ della sua parte”.
Pesando il grano e aggiungendone poco a poco, il con-
tadino azzerò la parte riservata a Dio, non lasciando nien-
te al suolo per lui. E proprio per dargli qualcosa, raduno
con la scopa gli avanzi della trebbiatura e li ammucchiò
nel mezzo.
“Ecco, questa è la tua parte, Dio”.
Ma improvvisamente una nuvola grande quanto una
palma apparve nel cielo. Così che tutto si oscurò e diven-
ne sempre più grande e piovve a catinelle.
In un istante, i flussi della pioggia inondarono colli-
ne e burroni. Non rimase neanche un singolo chicco del
grano tagliato. Poi cominciarono a piovere fulmini e a
lampeggiare. E il contadino, fuggendo con difficoltà, si
nascose in una buca.
“Che ti succede, fratello contadino?” gli chiese il vici-
no.
“Oh, non chiedermelo”, gli disse il contadino, “per dir-
ti la verità ho cercato di fare amicizia con Dio. Per prima
cosa, mi ha portato via la mia proprietà, e come se non
bastasse, adesso mi perseguita lanciandomi dei fulmini”.

L’avaro e il facchino

Un vecchio avaro aveva acquistato un baule pieno di


stoviglie e aveva chiesto a un facchino di portare i suoi
acquisti a casa a condizione che, invece del pagamento,
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gli avrebbe impartito tre lezioni su come diventare ricchi
e non essere più poveri. Tenendo conto della veneranda
età del vecchio, il giovane bracciante accettò e si caricò il
pacco sulle spalle. Dopo aver camminato un po’, si fer-
mò e disse: “Adesso, mio buon vecchio, impartiscimi la
prima lezione”. “Figliolo, chiunque ti dica che un uomo
non ha bisogno di danaro, non gli credere! Questa è la
mia prima lezione. Dunque, ricaricati il baule sulle spalle
e andiamo. Dopo ti dirò dell’altro. “Il facchino si rimise
il baule in spalla e dopo un po’ si fermò ancora e disse:
adesso, mio buon vecchio, dammi la seconda lezione”.
“Figliolo, chiunque ti dica che ti procurerà del denaro in
tarda età, non credergli. Adesso andiamo. Ti darò la mia
ultima lezione a casa mia”. Quando raggiunsero la porta
della casa del vecchio, il facchino gli domandò di poter
ascoltare l’ultima lezione. L’avaro disse: “Figliolo, chiun-
que ti dica che un povero intelligente è meglio di un ricco
stupido, non credergli”. Il giovane facchino salì sulle scale
con il baule sul dorso, quando fu arrivato al pianerottolo
gridò: “Mio caro vecchio, eccoti il tuo baule!” Il vecchio
corse per afferrarlo, ma il facchino non lo aspettò e fece
cadere il baule dicendo: “Mio vecchio saggio, chiunque
ti dica che è rimasto ancora qualche piatto non rotto nel
tuo baule, non credergli!”

Il destino del povero

C’era una volta un pover’uomo che non aveva mai avuto


alcun successo né guadagno in ogni affare che aveva in-
trapreso. I suoi amici e le persone che lo conoscevano ne
provavano una gran pena e volevano aiutarlo in qualche
modo, ma quell’uomo era troppo orgoglioso per accetta-
re un aiuto da qualcuno. Qualche anno dopo, quest’uo-
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mo mise su famiglia e, dato che era sfortunato, la moglie
e i figli cominciarono a patire la fame. Fu così che i ricchi
della sua città trovarono il modo di aiutarlo: attraversan-
do il ponte, vi lasciarono una borsa d’oro, così che il po-
ver’uomo l’avrebbe trovata e portata a casa per sfamare i
suoi cari. Ma sfortunatamente quel giorno il diavolo ci
mise lo zampino, e invece di considerare lo stato di pover-
tà della sua famiglia, lui cominciò a fantasticare sulla ceci-
tà. “Mi meraviglio di come un cieco possa attraversare il
ponte”, e per saperne di più, chiuse gli occhi e cominciò
a brancolare, attraversando il ponte in qualche modo, ma
non accorgendosi della borsa d’oro. I ricchi, che avevano
visto la scena da lontano, non ci capirono nulla e anda-
rono da lui chiedendogli confusi: “Ma sei cieco, non hai
visto la borsa d’oro sul ponte?” “Non sono cieco, ma ho
attraversato il ponte a occhi chiusi per vedere se può farlo
un cieco”. Cos’altro si poteva fare! Le persone non sono
capaci di aiutare lo sfortunato nonostante le buone inten-
zioni; ogni volta che ci provano, il diavolo interferisce e si
prende la sua mente.

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Il canto degli animali

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L’elefante e il leone

Una volta un elefante chiese a un leone: “Perché attacchi


e sbrani gli animali indifesi?” “Io voglio portare la pace;
sono loro a non essere d’accordo”, rispose il leone. “E
come hai intenzione di portare la pace?” “Con il metodo
ereditato dai mie antenati: dentro il mio stomaco”.

L’orso a cui piaceva leggere

Un uomo decise di insegnare a leggere a un orso di mon-


tagna. Così l’uomo mise dell’uvetta sulle pagine di un
libro, cercando di insegnare all’orso a girare le pagine
quando voleva trovare l’uvetta e mangiarla. L’orso gradì
la dolcezza dell’uvetta così tanto da sfogliare le pagine di
ogni libro che si trovava davanti, sperando di ritrovarla.
Ogni qualvolta non ne trovava, gettava via il libro con
disappunto. Fu così che smise di leggere.

L’asino e il lupo

Un asino era molto malato e un lupo non voleva lasciar-


lo. “Fratello lupo, perché hai abbandonato ogni cosa per
stare con me in questi giorni?” chiese l’asino. “Cos’altro
posso fare, fratello asino? Ti vedo molto malato. Potresti
morire e non avere nessuno che ti fa il funerale”. “Oggi il
dottore mi ha visitato e mi ha assicurato che non morirò
nei prossimi tre giorni. Così, se hai altro da fare, vai e
torna tra tre giorni”. “Non preoccuparti, amico mio, non
ho niente di importante da fare nei prossimi tre o quattro
giorni. Non ti lascerò da solo”, disse il lupo.

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Il gatto e i topi

Una volta fu detto al gatto: “I topi ti hanno eletto loro


re”. Il gatto aggrottò le sopracciglia. “Perché sei triste in-
vece di essere felice?” “Temo che se ne pentiranno”.

La paura dell’orso

Chiesero a un orso: “Perché ringhi?” “Mi spavento”. “E


che cos’è quel suono che viene fuori dal tuo didietro?” “È
dovuto alla mia, ehm, paura”.

Il lupo affamato

Era un inverno freddo, tempestoso. Un lupo stanco e af-


famato stava ululando e camminava a passo lento su di
una montagna innevata. Alcune persone ben nutrite si
affollarono sulla porta della chiesa del villaggio e diede-
ro una particolare interpretazione dell’ululato del lupo.
“Guarda l’euforia di una creatura senza vergogna! Chissà
la casa di chi ha devastato! Questo animale spudorato ha
mangiato così tanto che non può più camminare”. Come
dice il proverbio: “Il sazio non può comprendere l’affa-
mato”.

La volpe e il cane

Una volta chiesero a una volpe: “Preferiresti vedere il cane


per prima o piuttosto essere vista da lui?” “Per l’amor di
Dio, preferirei non vedere il cane e che neanche lui veda
me”.
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Il cane e la sua catena

Un giorno chiesero a un cane: “Perché non ti vuoi scio-


gliere e liberare?” “Se fossi ripreso, sarei legato più stretto
e la mia razione di cibo sarebbe ridotta. Faccio meglio a
lasciare tutto così com’è”.

L’asino ha un puledro

Dissero a un asino: “Congratulazioni, Dio ti ha concesso


un puledro!” Lui rispose: “Lo so, ma il mio carico è an-
cora sulla mia schiena, è comparso solo un mediatore”.

La pulce interrogata

Chiesero a una pulce: “Preferiresti che ti catturi un cieco


o un uomo con la vista?” “Se Dio mi ama, non lascerà che
nessuno dei due mi catturi”.

Il cacciatore e il cane da caccia

Un cacciatore si imbatté in un branco di cervi. “Vai, vai,


saltagli addosso, disse il cacciatore al cane, se tu riuscirai
a prenderne almeno uno che delizierà moltissimo i miei
bambini, ti darò da mangiare ossa per cena”.
Il cane corse attraverso la foresta, ma non riuscì ad ac-
chiapparne nemmeno uno. I cervi correvano veloci come
saette e si dileguarono nei loro nascondigli. Il cane tor-
nò indietro a mani vuote. “Non ti vergogni?”, lo riprese
il cacciatore, “non sei riuscito a correre tanto veloce da
prenderne almeno uno”. “Padrone mio, disse il cane, io
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stavo correndo per il tuo stomaco, mentre loro lo stavano
facendo per salvarsi la vita”.

Gli indifesi

Una volta chiesero a un corvo:


“Perché cammini ondeggiando?”
“Io sono una pernice”.
“E allora perché mangi nefandezze?”
“Cos’altro potrei fare?”

Le felicitazioni della volpe

Una volta una volpe incontrò una gallina e le gridò da


lontano:
“Ho saputo che hai avuto un figlio. Felicitazioni!”
“Grazie per le tue felicitazioni, disse la gallina, ma
stammi lontano”.

Un giogo è sempre un giogo

Fu posto un giogo sul collo di bue robusto e poi lui fu


frustato con una bacchetta per fagli arare una terra incol-
ta. Non essendoci abituato, il bue soffriva molto e disse:
“Ma quanto pesa questo giogo! Ehi, uomo, ma di che
cosa è fatto?”
“È fatto con il ramo di una quercia”.
“Ascoltami, e Dio ti ascolterà: il giogo di legno di
quercia è pesantissimo. Sostituiscilo con un altro giogo”.
L’uomo fece ciò che gli disse il bue e sostituì il giogo

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fatto di legno di quercia con uno fatto di carpine e lo pose
sul collo del bue.
Il bue ne soffriva ancora. Il lavoro andava oltre le sue
possibilità, perché il giogo di legno di carpine era pesante
come quello fatto con la quercia.
Così dopo un po’ il bue tornò a dire:
“Dicono che il legno di noce sia più leggero, per favo-
re, costruisci un giogo di legno di noce!”
L’uomo fece ancora quello che il bue gli aveva chiesto,
costruì un giogo di noce e glielo pose sul collo.
Il bue, tutto sudato, tentò allora con tutte le sue forze
di andare avanti per fare i solchi, ma non ne fu capace.
Dio, che era rimasto a guardare dall’alto tutto il tem-
po, disse:
“Il giogo è sempre pesante: non è importante se è fatto
di legno di quercia, di carpine o di noce. E un giogo va
sempre avanti con una frusta”.

Ciascuno sogna secondo le sue proprie voglie

Il cane disse:
“Spero che il mio padrone abbia sette figli e che ognu-
no di essi mi dia un pezzo di pane”.
La gallina disse:
“Spero che la casa del mio padrone sia abbattuta co-
sicché io possa raccogliere il granoturco tra i rifiuti a mio
piacimento”.
Il gatto disse:
“Spero che tutta la famiglia si ammali, così potrò avere
una più grossa porzione di cibo”.

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Sfrutta il tuo vitello

Un contadino aveva un solo bue. Durante la semina andò


a prendere uno dei tre buoi della vedova del suo vicino.
Quando guardò attraverso il recinto, vide il cavallo del
moroso della vedova legato in giardino. Così realizzò che
la vedova era impegnata in questioni d’amore. Aspettò
per un bel po’ e quando vide che quelle questioni non
finivano, tornò a casa biasimandosi, e imbrigliò il suo vi-
tello di due anni insieme al bue e cominciò ad arare. Uno
dei passanti lo rimproverò e lo derise:
“Svergognato, come puoi imbrigliare il tuo vitello di
due anni con il tuo bove maturo?”
“Sì, sì, è così, meglio che uno attacchi il suo vitello al
carro piuttosto che fare affidamento sul bue di una putta-
na”, disse seccato il contadino.

Il cane e il vecchio

C’era un cane randagio che usava abbaiare ogni mattina


a un vecchio sulla strada della chiesa. Per un po’ di volte
il vecchio ammonì il cane di non abbaiargli contro, ma il
cane non voleva saperne.
“Tu, cane, se hai un po’ di sale in zucca, taci; altrimenti
ti darò un nome così cattivo che non riuscirai a liberar-
tene”.
“Un nome peggio di ‘Cane’? C’è un altro nome peg-
giore di questo?”
Il vecchio non disse niente e se ne andò.
La domenica, dopo la messa, la gioventù del villaggio
si radunò lì dove il cane ricominciò ad abbaiare al vecchio.
Il vecchio perse le staffe e comiciò a gridare piangendo:
“Ragazzi, questo cane è diventato matto da alcuni
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giorni. È un cane rabbioso. Uccidetelo, altrimenti infet-
terà i vostri cani che diverranno anch’essi matti”.
I ragazzi lì riuniti lapidarono il cane e lo uccisero. Il
vecchio raggiunse il cane morente e gli disse:
“Hai visto, cane rabbioso, che esiste un nome peggiore
di cane in questo mondo?”

La divisione della volpe

Una volpe, un leone e un lupo cominciarono a sentire


fame durante il loro viaggio. Il lupo fu inviato presso il
villaggio a prendere una pecora. Il lupo svolse volentieri
la commissione. Il leone incaricò il lupo di dividere la
preda dicendo:
“La preda è tua, ti tocca di dividerla”.
Il lupo tenne la parte più buona e gustosa per sé e al
leone diede le ossa e la pelle, mentre non riservò niente
per la volpe.
Il leone non fu soddisfatto della divisione, colpì così
ferocemente il lupo con una zampa che quello vide le
stelle e si accucciò vicino al muro gemendo amaramente.
Così la divisione fu assegnata alla volpe. La volpe allo-
ra selezionò con calma i pezzi migliori e li diede al leone
dicendo:
“Oh signore e sovrano, ecco una divisione equa”.
“Chi ti ha insegnato a fare questa sorta di divisioni?”
chiese il leone alla volpe.
“Gli occhi lamentosi del lupo me lo hanno insegnato”,
disse la volpe.

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Il mondo dei re

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L’ex-re

Fu chiesto a un ex-re: “Perché sei stato bandito dal tuo


regno?” “Sono stato bandito perché ho conferito alte fun-
zioni e compiti importanti a persone mediocri e indegne,
mentre le questioni senza importanza le ho affidate a uo-
mini saggi ed eminenti”.

Il diritto del maggiore

Uno Shah persiano andò a caccia con alcuni nobili del


suo seguito. Verso sera, dopo aver ucciso una quantità di
cervi e di camosci, lo Shah ordinò di fermarsi presso una
fresca fonte e provare la carne di cervo. Mentre prepara-
vano la carne, si accorsero che non avevano portato con
loro il sale. Lo Shah ordinò allora a uno dei suoi ministri
di montare a cavallo e di andare a prenderlo presso il vil-
laggio più vicino. Prima che questi partisse, lo Shah gli
ordinò severamente di pagare il sale in ogni modo.
Uno dei nobili chiese allora allo Shah: “Maestà, come
può un umile contadino prendere del denaro dal suo
Shah per una manciata di sale? Perché il signore e padro-
ne di questa terra non vuole prendere una manciata di
sale da un suo suddito senza pagarla?”
“Io non temo i miei sudditi e la loro vanteria riguar-
do alla generosità nei confronti del loro Shah per avergli
regalato una manciata di sale. Io temo che i miei nobili,
non appena lo Shah raccoglie una mela dal giardino di un
suddito, il giorno successivo non solo spezzeranno i rami
ma estirperanno tutti gli alberi del giardino”.

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Certa gente scava la sua stessa tomba

Un gruppo di uomini andò dal principe, implorandolo di


fare in modo che il loro capo trattasse bene le persone. Il
principe li ascoltò e poi chiese: “Ma perché si comporta
in questo modo?” “Lui era povero, ma dopo aver raggiun-
to una certa posizione sociale ed essere diventato ricco,
è rimasto intossicato dalla sua ricchezza e dalle sue pro-
prietà tanto da non prestare più attenzione a nessuno e da
essere rude e sprezzante con tutti”, rispose il messaggero.
Il principe scosse il capo e disse: “Non date importan-
za a uno che si ubriaca con le sue proprietà. Non durerà a
lungo. Presto o tardi, si scaverà la sua stessa fossa”.

Quando il re dorme

Un contadino viaggiò con il suo carro carico tutta la not-


te. Quando si fece mattino, cominciò a sentirsi stanco,
così sciolse i suoi buoi e li lasciò pascolare. Dopodiché
si gettò sul carro e s’addormentò. Quando si svegliò, si
accorse che i buoi erano spariti. Dopo averli cercati per
un po’ senza trovarli, s’arrabbiò e andò dal re dicendogli:
“Maestà, restituiscimi i miei buoi”!
“Quali buoi, uomo, quali buoi dovrei darti?” “I miei
buoi: sono stati rubati”. “Dimmi come è successo”. “Ma-
està, ho viaggiato tutta la notte e all’alba ho cominciato a
sentirmi stanco. Ho così deciso di riposarmi. Ho sciolto
i buoi e li ho lasciati pascolare. Poi mi sono buttato sul
carro e mi sono addormentato. Quando mi sono sveglia-
to, ho scoperto che i miei buoi erano spariti. Così sono
venuto a chiederti i miei buoi”.
“Tu, uomo! Hai dormito beatamente lasciando che i
tuoi buoi se ne andassero via, e adesso vieni a domandar-
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meli!” “Maestà, io pensavo che il signore e padrone della
mia terra fosse sveglio, e per questo ho dormito sereno.
Se avessi saputo che stava dormendo, non mi sarei ad-
dormentato di sicuro, e i miei buoi non sarebbero stati
rubati”.
Il re, a queste parole, balzò sulla sedia e si adirò e, dopo
aver chiamato i suoi ministri, ordinò di trovare con ogni
mezzo i ladri e restituire i buoi al padrone. Così, secondo
gli ordini del re, i ladri vennero catturati e puniti e il con-
tadino riebbe indietro i suoi buoi.
“Maestà, d’ora in poi dirò a tutti di dormire tranquil-
lamente in pace, perché il nostro re è sveglio”, disse il
contadino, che prese i suoi buoi e si diresse verso casa.

Il re pazzo e i suoi ministri

L’astronomo del re aveva saputo dalle stelle che avrebbe


piovuto per sei giorni continuativi e che la pioggia si sa-
rebbe miscelata con quella del fiume, e che chi avrebbe
bevuto quell’acqua sarebbe diventato stupido.
Allora andò dal re e glielo disse: lo avvisò di immagaz-
zinare acqua fresca altrimenti il re e i suoi ministri sareb-
bero diventati matti.
Essi fecero quello che lui disse. Iniziò a piovere e la
predizione si avverò, la gente ammattì e cominciò a di-
spiacersi dicendo:
“Avete sentito che il re i suoi ministri e il suo astrono-
mo sono diventati matti?”
Il re atterrì nel sentire queste cose e, adiratosi, chiamò
l’astronomo e gli disse:
“Cosa mi hai fatto? Ti farò tagliare la testa!”
“Non si irriti, maestà. Aggiusterò ogni cosa in un at-
timo”.
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Così andò a prendere l’acqua caduta dal cielo, la mi-
scelò con quella che il re, lui e i suoi ministri avevano
usato e diede da bere loro questa mistura. Essi la bevvero
e divennero come i loro sudditi. Così cominciarono di
nuovo a intendersi reciprocamente in modo perfetto. La
gente si calmò e disse rinfrancata:
“Che felicità! Il nostro re e i suoi ministri alla fine han-
no ritrovato la saggezza!”

Le mele dell’immortalità

C’era e non c’era una volta un re che aveva tre figli. Un


albero di mele dell’immortalità cresceva nel suo giardi-
no, e che giardino era! Alberi e fiori da ogni parte del
mondo, e uccelli di ogni colore glorificavano i cuori
degli uomini con il loro canto. Ma l’albero più bello e
più di valore nel giardino del re era l’albero delle mele
dell’immortalità. Quando l’albero di mele fioriva, la fra-
granza dei suoi boccioli rosa e bianchi si spargeva per
tutto il regno. Le persone che sentivano questo profumo
non avevano più desiderio di mangiare né di bere; tutto
ciò che volevano era respirare profondamente quell’odo-
re. L’albero di mele dell’immortalità era la meraviglia di
tutto il mondo.
I giardinieri del re avevano grande cura di quest’albero,
ma il re non riusciva a mangiare mai le sue mele per resta-
re giovane, in quanto, ogni anno, quando erano mature
abbastanza per essere raccolte, qualcuno si introduceva
nel giardino e le rubava.
Un giorno il re radunò i suoi tre figli e gli disse: “Oh
figli miei, miei giovani leoni, così non può andare avanti,
dobbiamo prendere il ladro”.
Il figlio più grande disse: “Oh padre, noi siamo per-
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plessi come te. Il fatto di non essere capaci di prendere il
ladro disonora il nome della nostra famiglia. Lasciami a
guardia dell’albero di mele per tutto quest’anno; quando
metterò le mie mani sull’uomo che ha rubato le nostre
mele, lo ridurrò in pezzi”.
“Spero che lo prenderai, figlio”.
Il principe allora andò fuori nel giardino per sorveglia-
re quell’albero giorno e notte. L’ultima notte, quando le
mele erano mature e lui aveva preso la decisione di rac-
coglierle la mattina successiva, i suoi occhi si abbandona-
rono a un sonno profondo. Lottò duramente per restare
sveglio. Il cielo scintillava di stelle e gli alberi ondeggian-
do nella brezza, sussurravano nelle sue orecchie: “Dormi,
principe, dormi”. A mezzanotte si addormentò, e quando
si risvegliò, al mattino seguente, vide che non una sola
mela era rimasta sull’albero, che era stato spogliato anco-
ra una volta. Allora tornò a casa pieno di vergogna e disse
a suo padre ciò che era accaduto.
“Non sono stato sveglio per non più di un’ora!” Diceva
piangendo.
L’anno successivo il figlio mezzano disse al re: “Oh pa-
dre, adesso è il mio turno di fare la guardia all’albero di
mele”.
“Molto bene, tu sarai il nostro guardiano quest’anno”.
Il figlio mezzano andò allora fuori del giardino per vi-
gilare sotto l’albero di mele, e anche lui cadde nel sonno
non appena si sdraiò sull’erba guardando le stelle e ascol-
tando l’usignolo.
Al mattino tutte le mele erano sparite. Lui aveva pau-
ra di affrontare il padre ma doveva dire al re ciò che era
successo.
“Tu e il tuo fratello maggiore siete uguali, parlate tanto
e non concludete niente”, disse il re e lo licenziò dalla sua
presenza.
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Allora il figlio più giovane disse: “Oh padre, adesso è il
mio turno di guardia all’albero delle mele”.
“Figlio mio, come puoi pensare di acchiappare il ladro
quando i tuoi fratelli più grandi hanno già tentato e fal-
lito?”
Il giovane insistette e il re acconsentì. Il figlio più gio-
vane uscì nel giardino dove stette a guardia dell’albero di
mele per una, due, tre settimane, fino a che le mele fu-
rono completamente mature. “Le raccoglierò domani di
buon mattino”, disse a se stesso e come si sdraiò sull’erba,
tenendo un occhio attento sull’albero, anche per lui fu
difficile restare sveglio in una chiara notte d’agosto con il
cielo acceso dalla Via Lattea, la luna che sorgeva da dietro
le montagne con tutta la grazia di una nuova sposa, e i
freschi venticelli di montagna carichi della fragranza delle
mele e delle rose sbocciate sul suo volto. Si addormentò
per un attimo, ma subito si risvegliò, e ferendosi il dito
con il suo coltello tascabile spargendo del sale su quella
ferita, riuscì a restare sveglio per tutta la notte.
All’improvviso, alla fine del giorno, ci fu un gran fra-
gore nel giardino e il giovane figlio del re vide un gigante-
sco mostro con sette teste venire tra grida e passi pesanti
attraverso gli alberi e girare attorno all’albero di mele. Il
giovane sguainò la sua spada e colpì il mostro così violen-
temente da staccargli quattro delle sue gigantesche teste, e
l’enorme mostro cadde con fragore, ma si rizzò in piedi e
cominciò a correre prima che il figlio del re lo avesse ucci-
so. Il mostro correva e correva con il giovane principe alle
calcagna. Il giovane perdette le sue tracce nell’oscurità,
ma seguendo le tracce del sangue che il mostro aveva la-
sciato dietro di sé, fu di nuovo sui passi del gigante, prima
che il mostro saltasse dentro un pozzo e vi sparisse con
gran fragore. Il giovane gettò allora un’occhiata dentro
al pozzo, ma era così profondo che non poteva vedersi il
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fondo. Allora marcò il posto con la punta di una freccia e
tornò al frutteto. Raccolse le mele e le portò a suo padre.
Il re lo ringraziò, lo baciò sulla fronte e disse: “I tuoi
fratelli sono senza valore, tu sei il mio vero successore”.
“Oh padre, dobbiamo uccidere quel mostro altrimenti
tornerà la prossima estate”, disse il figlio più giovane.
I tre fratelli presero allora una lunga corda e si recaro-
no presso il pozzo per uccidere il mostro gigante.
“Lasciatemi andare per primo”, disse il più vecchio.
Gli legarono la corda attorno alla vita e lo calarono
dentro al pozzo, ma dovettero tirarlo su quando comin-
ciò a gridare: “Non posso sopportare questo calore! Sto
bruciando, mi sto cuocendo”!
Allora calarono il fratello mezzano dentro al pozzo, ma
anche lui cominciò a gridare: “Tiratemi fuori, presto, mi
sto arrostendo!”
Anche dopo aver sentito gridare i suoi fratelli, il figlio
più giovane del re non ebbe paura di scendere nel pozzo
e disse: “Non prestate attenzione ai miei lamenti. Non
tiratemi su, non importa quanto io gridi per il calore.
Calate la corda fino a quando non avrò raggiunto il fondo
del pozzo”.
Così egli andò giù giù, e li chiamò dal fondo del poz-
zo: “Fratelli, adesso potete tirare su la corda, ho raggiunto
il fondo e proseguirò oltre verso il mostro, per finirlo”.
Diede uno sguardo intorno e vide una porta nel muro
del pozzo. La aprì e si trovò nella camera di un castello
sotterraneo dove vide una vergine meravigliosa seduta su
una poltrona che stava ricamando. Sul vassoio d’oro da-
vanti a lei, un cane d’oro inseguiva una volpe d’oro. Il
mostro dalle sette teste dormiva, con le sue rimanenti tre
teste che giacevano sul grembo della vergine.
La vergine sbigottì quando vide il giovane figlio del re:
“Ma come sei riuscito a introdurti qui dentro? Nessun
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serpente ha osato strisciare sulla propria pancia fino a qui,
nessun uccello ho osato volare con le sue ali in questo
luogo. Di grazia, cosa ti porta?”
“L’amore che provo per te”, disse il giovane figlio del
re.
“Possa tu essere sempre innamorato! Ma non hai paura
del mostro dalle sette teste? Al suo risveglio ti inghiottirà
in un sol boccone”.
“Non ho paura dei mostri. Sono qui per ucciderlo.
Sveglialo. Combatteremo”.
La vergine si disperò, ma alla fine svegliò il mostro gi-
gante.
Il giovane figlio del re, con un solo colpo di spada,
tranciò via le teste che rimanevano al mostro.
“Se tu sei così forte e senza paura, ti sfido a uccidere
anche suo fratello”, disse la vergine, lieta di vedere il mo-
stro morto”. Lo troverai nella prossima camera con la mia
sorella mezzana”.
Allora il giovane figlio del re si introdusse nell’altra ca-
mera e vide una vergine ancora più bella seduta su una
sedia d’oro, occupata con ago e filo. Una gallina d’oro e
un’anatra d’oro svolazzavano sul vassoio d’oro davanti a
lei. E il mostro dalle dodici teste era addormentato con le
sue teste poggiate sul grembo della vergine.
Anche lei sbigottì nel vedere l’audace giovane. “Come
sei arrivato fin qui? Nessun serpente ha osato strisciare fin
qui sulla propria pancia, nessuno uccello sulle sue stesse
ali ha osato volare fin qui. Dimmi, cosa ti ha condotto?”
“L’amore che provo per te”, egli disse.
“Possa tu essere sempre innamorato! Ma non hai paura
del mostro dalle dodici teste? Non appena si sveglierà, ti
ridurrà come carne macinata. Ti prego, vattene via da qui
prima che sia troppo tardi”.
Il giovane figlio del re disse: “Non mi fanno paura i
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mostri. Sono venuto per ucciderlo. Sveglialo, così com-
batteremo”.
Nella sua disperazione, la vergine svegliò il gigantesco
mostro. Il giovane figlio del re tagliò tutte le sue teste e il
mostro cadde morto ai suoi piedi.
La vergine piangeva di gioia: “Oh, se tu sei così forte
e senza paura ti sfido a uccidere anche suo fratello. Lo
troverai nella prossima camera con la mia sorella più gio-
vane”.
Il giovane figlio del re aprì allora la porta della camera
successiva e vi entrò, trovandovi una vergine così incre-
dibilmente bella che avrebbe potuto ammirarla per set-
te giorni e sette notti senza mangiare né bere, lasciando
banchettare i suoi occhi sulla sua meravigliosa bellezza.
La ragazza sedeva su una sedia d’oro e anche lei cuciva,
con una coppia di pernici d’oro che svolazzavano sul vas-
soio d’oro davanti a lei. La vergine sembrava dire: “Sole,
ritirati, lasciami venire fuori per splendere al tuo posto”.
Era una vista capace di mandare un uomo fuori di testa.
Il mostro dalle quaranta teste dormiva con le sue teste
appoggiate sul grembo della vergine.
Ella non poteva credere ai suoi occhi quando vide il
giovane senza paura. “Tu, un terrestre mortale, qui nella
mia camera? Cosa farai quando il mostro dalle quaranta
teste si sveglierà? Ti prego, sei così giovane, vattene via di
qui velocemente e salva la tua vita prima che il mostro ti
mangi”.
“Non ho paura dei mostri. Sono venuto per ucciderlo.
Sveglialo e combatteremo”.
La vergine cadde in disperazione, ma vide che lui ave-
va realmente intenzione di uccidere il mostro dalle qua-
ranta teste.
“Assicurati di tagliargli le teste con un singolo colpo”,
lo avvisò.
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Quando il mostro ti dirà di colpirlo ancora, non farlo!
Il mostro risusciterà, se lo colpirai ancora”.
La terrà tremò quando il mostro dalle quaranta teste
e il giovane figlio del re cominciarono a combattere nel
castello sotterraneo, e i rumori che provocarono arrivava-
no da quel mondo inferiore come rombi di tuono. Tutte
e quaranta le teste del gigante caddero con un solo colpo
di spada del giovane.
Il mostro lo supplicò: “Ragazzo, colpiscimi ancora!”
“Un solo colpo è sufficiente. Non sono nato due volte
da mia madre per colpirti due volte”.
Il gigante stramazzò a terra ai suoi piedi. La vergine
corse verso il principe senza paura e gli gettò le braccia al
collo piangendo di gioia: “Tu sei mio e io sono tua”!
Il giovane figlio del re abbassò la sua spada e la pose
nel fodero. Si sedette e cominciò a parlare con la vergine
che lo guardava come fosse il suo salvatore. “Noi siamo
tre sorelle figlie di un re”, disse. “Questi mostri ci hanno
rapito e costretto a diventare le loro mogli. Per anni ab-
biamo sofferto nelle loro mani. Tu sei arrivato giusto in
tempo per salvarci”.
“Tutto si è rivelato per il meglio”, disse il giovane figlio
del re.
“Noi siamo tre fratelli, tutti e tre celibi. Mio fratello
maggiore può sposare tua sorella maggiore, il mezzano
può sposare tua sorella mezzana e tu sei mia”.
Allora andarono nelle altre camere e le tre sorelle aiu-
tarono il giovane a trasportare il tesoro dei mostri giganti
verso il centro del pozzo.
” Fratelli, calate la corda”, gridò il giovane figlio del re
dal fondo del pozzo, “ho trovato tre mostri e li ho uccisi
tutti e tre. Tirate fuori il loro tesoro. Per di più, ho anche
tre splendide spose per noi”.
I suoi fratelli furono molto lieti di calare la corda e is-
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sare su il tesoro. Successivamente lui legò la corda ai fian-
chi della sorella maggiore. “Qui c’è la sposa per il nostro
fratello maggiore”.
La tirarono su.
“Quest’altra è per il nostro fratello mezzano”.
Tirarono su anche questa.
Adesso era il turno della sorella più giovane. Allora lei
disse: “Sali tu per primo, io aspetterò”.
“No, vai prima tu”, insistette lui.
“Non mi fido dei tuoi fratelli. Se dovessero lasciati solo
in questo pozzo, vai alla sorgente qui è vicina e aspetta tre
montoni, uno nero, uno bianco e uno rosso, che vengo-
no ogni venerdì a dissetarsi. Salta in groppa al montone
nero. Il montone nero ti scaraventerà sulla groppa del
montone rosso, e il montone rosso su quella del montone
bianco, e il montone bianco ti porterà al mondo di sopra.
Assicurati di saltare per primo sulla groppa del montone
nero e non su quella del montone bianco, perché il bian-
co ti trasborderà sul rosso, e il rosso sul nero, e il nero ti
porterà nel mondo di sotto.
La ragazza si tolse il suo amuleto, una pietra focaia, e
gliela diede.
“È il mio talismano. Prendilo. Potresti averne bisogno.
Quando percuoterai questa pietra focaia, ti troverai da-
vanti i nostri tre vassoi d’oro”.
I fratelli di lui calarono la corda, lui la legò ai fianchi
della ragazza e li chiamò: “Qui c’è la mia sposa!”
Quelli la tirarono su e videro che era la più bella di
tutte. “Cosa penserà nostro padre quando saprà che il no-
stro fratello più giovane ha ucciso i mostri e conquistato
la sposa più bella?”, borbottarono con invidia. “Cadremo
in disgrazia”.
Allora calarono la corda e il giovane figlio del re la legò
ai suoi stessi fianchi.
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“Fratelli, potete tirarmi su, sono pronto a salire”.
Allora quelli lo tirarono su soltanto a metà e improv-
visamente tagliarono la corda, così il giovane figlio del re
cadde sul fondo del pozzo. I suoi fratelli si presero tutto il
tesoro e anche le tre bellissime sorelle che lui aveva salvato
dai mostri giganti, e ritornarono al palazzo reale.
“Figli miei, dov’è vostro fratello più piccolo?” chiese
il re.
“I mostri se lo sono mangiato prima che noi potessimo
salvarlo”, dissero quelli. “Abbiamo ucciso quei mostri e
abbiamo preso tutto quello che possedevano, ma abbia-
mo perso nostro fratello”.
Lasciamoli qui e torniamo al giovane figlio del re ab-
bandonato dai suoi stessi fratelli nel pozzo.
Vide, dunque, che non c’era alcuna via di uscita. Ma
trovò la sorgente, e aspettò i tre montoni, sperando che
uno di essi lo avrebbe riportato su verso la luce del gior-
no. I montoni vennero di venerdì, uno nero, uno bianco,
uno rosso, ognuno impressionante e perfetto come gli
altri, e bevvero dalla sorgente così come gli aveva detto
la sorella più giovane. Quando i montoni si girarono per
andarsene, egli saltò in fretta sulla groppa del montone
bianco che lo trasbordò su quella del montone rosso che
lo trasbordò su quella del montone nero. E il montone
nero lo portò giù, nel buio del mondo più basso.
Il giovane figlio del re vagò triste in quel mondo fino a
quando una vecchia gli diede riparo, dopo che lui le ebbe
consegnato un pugno di monete d’oro.
“Nonnina, potresti darmi dell’acqua? Non bevo da tre
giorni”.
Allora la vecchia gli diede una ciotola di acqua fangosa.
“Come potete bere quest’acqua?”
“Figliolo, è l’unica qualità di acqua che abbiamo a di-
sposizione qui, e qualche volta non ne abbiamo per nien-
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te. Perché dovrei nascondertelo, se non lo posso nascon-
dere a Dio. C’è una grande penuria d’acqua in questa
città. Il drago dalle sette teste sta a guardia della nostra
sorgente e noi dobbiamo dargli in pasto una vergine a
settimana affinché lui ci permetta di avere un po’ d’acqua.
Oggi è il turno della figlia del re di essere data in pasto al
dragone, che ha mangiato migliaia di vergini come lei”.
“Non potete uccidere il dragone?”
“Figliolo, nessuno può uccidere questo terribile drago-
ne. Anche il nostro re è impotente contro di lui”.
Allora il giovane si allontanò dalla casa della vecchia e
corse verso la sorgente dove i cortigiani, gli amici e i servi
del re si erano già radunati, e i servi avevano trasportato
vassoi di cibo prelibato per la folla. La gente aspettava
con la brocca in mano e, quando la figlia del re, vestita di
nero, fu condotta cerimoniosamente dal dragone, il gio-
vane seguì la principessa. Il dragone spalancò le sue ma-
scelle aspettandoli tutti e due, lieto di sapere che avrebbe
avuto un pasto di due persone anziché una, ma il giovane
figlio del re sguainò la sua spada e lo colpì così forte da
tagliarlo in due. “Ragazzo, colpiscimi ancora” gli urlò il
dragone, contorcendosi in una pozza di sangue.
“No, io sono nato da mia madre una sola volta, e col-
pisco una sola volta”.
Il dragone allora cadde morto di fronte a lui, e il gio-
vane figlio del re salvò la principessa.
Egli non la vide immergere la mano nel sangue e stam-
pargliela sul dorso.
L’acqua scorreva, e la gente riempì le proprie brocche
e ritornò a casa, lieta di sapere di essersi liberata per sem-
pre dal dragone, e che le figlie sarebbero state salve e che
ci sarebbe stata abbondanza d’acqua per tutti. Anche la
principessa torno a casa felice, e raccontò ai suoi genitori
di come un giovane che non aveva mai visto prima avesse
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infilzato il dragone e salvato la sua vita. Non aveva idea di
chi fosse. “Potresti riconoscere il ragazzo se lo rivedessi?”,
le chiese il re pieno di gioia.
“Sicuramente lo potrei fare», rispose la principessa.
Gli araldi del re proclamarono per la città che tutti
gli uomini avrebbero dovuto radunarsi davanti al Palazzo
Reale, e non un singolo uomo avrebbe dovuto mancare,
nella folla radunata in piedi di fronte al re.
“Dai una buona occhiata a tutti questi uomini e vedi
se puoi riconoscere il ragazzo che ti ha salvato la vita”,
disse il re a sua figlia.
Lei gettò uno sguardo su quella folla di uomini e lo
vide immediatamente.
“È là, è quel ragazzo!”
Gli uomini del re lo condussero di fronte a lui.
“Oh padre, disse la principessa, ho marchiato il suo
dorso con il sangue del drago, usando la mia mano”.
E tutti lo videro sulla schiena del giovane, e il re disse:
“Fissa la tua ricompensa, mio ragazzo coraggioso, e sarà
tua”.
“Lunga vita al re, non voglio alcuna ricompensa”.
Disse allora il re: “No, io voglio ricompensarti per il
tuo coraggio. Ti piacerebbe avere mia figlia come sposa,
o forse è metà del mio regno che tu desideri? Dimmi ciò
che desideri, e sarà tuo”.
“Possa il re vivere a lungo, il mio solo desiderio è di
ritornare al mondo di sopra. Non desidero altra ricom-
pensa da voi”.
“Questo, figliolo, potrebbe essere molto difficile. Non
posso condurti al mondo di sopra e non c’è neppure un
saggio nel mio regno che conosce la strada. Solo l’uccello
di smeraldo può condurti lì. Questo uccello si è lamenta-
to con me di un dragone che gli ha mangiato i figli anno
dopo anno. Se tu puoi uccidere anche quel drago, sono
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sicuro che anche l’uccello di smeraldo farà per te ciò che
vuoi”.
E così il re disse al giovane dove avrebbe potuto trovare
quell’uccello. Il giovane attraversò sette montagne e sette
valli alla ricerca dell’uccello di smeraldo. Si sdraiò sotto
un grande albero per riposarsi. I suoi rami raggiungevano
il cielo, e il suo fogliame era così fitto che neppure un
barlume di luce poteva penetrarlo. All’improvviso vide
un gigantesco dragone, grande quanto una montagna,
strisciare sull’albero mostrandogli le zanne. Fu allora che
il giovane figlio del re ridusse il drago in pezzi con la sua
spada e, spossato, cadde addormentato sotto l’albero.
L’uccello di smeraldo venne volando attraverso la fo-
resta per nutrire i suoi piccoli e pensò che l’uomo disteso
sotto l’albero, tutto coperto di sangue, avesse mangiato
i suoi piccoli. Allora l’uccello scese in picchiata per col-
pirlo col becco, ma i suoi piccoli gli strillarono dall’alto
sbattendo le loro piccole ali in cima all’albero: “Lui ci ha
salvato dal dragone, madre!”
Allora l’uccello spiegò le sue immense ali per fare da
ventaglio e da scudo ai suoi piccoli che dormivano. E
quando il giovane figlio del re si svegliò l’uccello di sme-
raldo gli disse: “Amico mio, hai salvato i miei neonati dal
dragone. Ti darò qualsiasi cosa tu voglia”.
“Tutto ciò che io voglio è ritornare al mondo di sopra”.
“Peccato che tu mi abbia incontrato in tarda età. Sa-
rebbe stato un gioco da ragazzi nella mia giovinezza. Ma
vecchia come sono farò del mio meglio per portarti nel
mondo di sopra. Chiedi al re di darti quaranta grossi otri
d’acqua e quaranta grasse code di pecora. Tu mi dovrai
cibare e dare da bere durante il volo verso il mondo di
sopra”.
Il giovane ricevette queste forniture dal re del mondo
di sotto e le caricò sul gigantesco volatile.
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“Adesso salimi in groppa. Siamo pronti per partire.
Quando dico ‘Boo’, dammi una delle pelli cariche d’ac-
qua, e quando dico ‘Ghee’, getta una coda di pecora den-
tro la mia bocca”. Il potente uccello volò via e si librò
verso al mondo di sopra, mentre il giovane lo nutriva con
le code di pecora e lo dissetava con l’acqua, fino a quando
non videro la luce del sole. Egli scese sul regno di suo pa-
dre e s’incamminò verso la sua città. L’uccello di smeraldo
volo giù verso il mondo di sotto.
Sulla strada verso la città il giovane figlio del re incon-
trò un pastore.
“Buongiorno, fratello pastore”.
“Buongiorno, consanguineo del re”.
“Ti andrebbe di scambiare i tuoi vestiti con i miei,
fratello pastore? Ti pagherò per questo”.
Il pastore fu lieto di dare via i suoi stracci e indossare
gli indumenti regali del figlio del re e, per giunta, essere
pagato. Travestito da povero pastore, il giovane figlio del
re entrò in città e cominciò a vagare nel mercato. Si fer-
mò davanti al negozio dell’orafo del re che gli chiese cosa
volesse.
“Maestro, io sono uno straniero alla ricerca di lavoro.
Non andrei in giro affamato se potessi imparare un buon
mestiere come il tuo”.
“Ti piacerebbe lavorare come mio apprendista?”
“Sicuro che mi piacerebbe, caro maestro, e vi bacerei
la mano per questo”.
Così l’orafo del re se lo prese come apprendista.
Andiamo adesso a vedere cosa successe ai suoi fratelli
più grandi.
Il re sospettava qualche tradimento e inviò messaggeri
in molti paesi con l’ordine di trovare il suo figlio più gio-
vane e, nel frattempo, non consentì ai suoi figli maggiori
di sposarsi finché non fosse stato ritrovato il più giovane.
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Gli uomini del re cercarono il giovane principe dap-
pertutto. Passò un anno, due, tre, e non c’era nessun se-
gno del ragazzo. Il ciambellano disse allora al re: “Quan-
do vi deciderete a lasciare che i vostri due figli si sposino?
Hanno aspettato per tre anni. Che ne pensate?”
“Molto bene, allora che si sposino”, sospirò il re.
Il figlio maggiore sposò la sorella maggiore e il figlio
mezzano sposò la sorella mezzana. Dopo il doppio matri-
monio il re prese a parte la sorella più giovane e le disse:
“Figlia mia, non abbiamo trovato il tuo fidanzato, e non
sappiamo cosa gli sia successo, deve avere sofferto qual-
che disgrazia. Il mio figlio più giovane non tornerà più.
Adesso devi pensare a te stessa. Non puoi rimanere nubile
per sempre. C’è per caso qualche altro uomo che ti pia-
cerebbe sposare?”
“Possa il re vivere a lungo, qualunque altro uomo voi
sceglierete sarà a me gradito”.
“Ti piacerebbe sposare il figlio del mio ciambellano?”
“Sì, se voi lo desiderate”.
“Così è deciso. Ti darò in sposo il figlio del mio ciam-
bellano, e annuncerò il tuo fidanzamento”.
“Lunga vita al re, ho tre richieste da farvi prima di
prendere in sposo il figlio del ciambellano”.
“Mia bambina, acconsentirò volentieri a ogni richiesta
che mi farai”.
“Possa il re vivere a lungo, voglio da voi tre vassoi d’o-
ro. Uno con una coppia di pernici d’oro che vi svolazzano
sopra. Un altro con una gallina e un’anatra d’oro anch’es-
se, e sul terzo un cane d’oro a caccia di una volpe d’oro”.
“Chiamerò immediatamente il mio orafo e ordinerò
questi vassoi per te”.
E così il re convocò il suo orafo e gli diede quest’ordine.
“Ti farò tagliare la testa se non consegnerai questi vas-
soi in un mese”.
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L’orafo tornò al suo negozio con il cuore pesante e il
suo apprendista gli chiese: “Che succede maestro? Perché
sembrate così triste e preoccupato?”
L’orafo non gli disse il perché e cominciò a lavorare
all’ordine del re, distruggendo ciò che aveva fatto. E poi
ricominciando di nuovo, fino a che non rimasero soli due
giorni e, malgrado i suoi sforzi, non aveva ancora niente
da mostrare al re.
“Mio caro maestro, cosa state cercando di fare, qual è
il problema? Ditemelo!”
“Non seccarmi con le tue domande sciocche. Sono af-
fari miei, non tuoi”.
“Forse io posso aiutarvi”.
Così l’orafo, alla fine, gli rivelò quale era stato l’ordine
del re.
“È tutto qui? Non c’è nulla di cui preoccuparsi. Questi
vassoi saranno pronti per domani mattina… Lasciatemi
solo una borsa di noci e una di noccioline e permettetemi
di dormire in bottega. Potrete tornare al mattino e vedere
se avrò mantenuto la mia promessa”.
“Quel ragazzo è un folle a pensare di potercela fare, ma
lo lascerò tentare comunque”, disse l’orafo a se stesso, e
consegnò al suo apprendista le due borse di frutta secca
che gli aveva chiesto.
L’orafo lo lasciò stare in bottega tutta la notte per lavo-
rare all’ordine del re, chiuse la porta del negozio dietro di
sé e se ne andò a casa.
Il suo apprendista passò la notte a rompere e a mangia-
re le noci. E solo poco prima dell’alba tirò fuori la pietra
focaia che la più giovane delle sorelle gli aveva dato come
talismano e la sbatté sul muro. Istantaneamente i tre vas-
soi con sopra gli oggetti d’oro apparvero nel negozio, di
fronte a lui.

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L’orafo stava aspettando fuori, non osando entrare pri-
ma che il suo apprendista lo avesse chiamato.
“Maestro, potete entrare, è tutto pronto”.
Allora l’orafo entrò nel negozio e non poteva credere ai
suoi occhi quando vide i tre vassoi d’oro. Baciò il suo ap-
prendista sulla fronte e gli disse: “Mi hai salvato il collo!
Ti darò una grande ricompensa per questo”.
Era l’ultimo giorno del mese. L’orafo prese i vassoi d’o-
ro e corse a palazzo. Il re ne fu deliziato e l’orafo tornò al
suo negozio con una grande ricompensa avuta dal tesoro
del re.
Il re chiamò la sorella più giovane al suo fianco e le chie-
se: “Bambina mia, sono questi i vassoi che desideravi?”
“Sì, mio sovrano”.
Lei si morse il dito pensando: “È tornato, il mio fidan-
zato è vivo! Gli ho dato il mio talismano e so che nessun
altro tranne lui avrebbe potuto fare questi vassoi”. Tirò
un gran sospiro di sollievo e disse al re che il suo giovane
figlio era ancora vivo e che stava lavorando molto proba-
bilmente presso la bottega dell’orafo.
Il re allora fece chiamare l’apprendista. Il ragazzo ven-
ne a palazzo, baciò la mano di suo padre e gli raccontò
tutto.
“Boia!”
I boia entrarono e si chinarono di fronte al re.
“Prendete quei fratelli traditori e tagliate loro la testa!”
Ma il giovane figlio del re si inginocchiò e implorò il
padre di risparmiare le loro vite. “Padre, non voglio che i
miei fratelli soffrano alcun male, possa essere Dio il loro
giudice”.
“Risparmierò le loro vite per amore tuo”.
Il re scese dal trono e fece in modo che ci salisse il fi-
glio. Annullò il fidanzamento del figlio del ciambellano
con la sorella più giovane due giorni prima che fossero
55
celebrate le nozze, e quella splendida vergine sposò il gio-
vane ragazzo e divennero la nuova regina e il nuovo re,
per la gioia di tutti. La festa di matrimonio, alla quale
tutti i sudditi vennero invitati, durò sette giorni e sette
notti ed essi realizzarono i loro desideri.
Possa tu allo stesso modo realizzare tuoi.
Tre mele sono cadute dal cielo: una per il narratore di
questa storia, una per chi ti ha ascoltato, e un’altra per chi
ha seguito le parole del narratore.

Il guardiano di porci

C’era e non c’era una volta un re.


Questo re era un signore molto potente e aveva la pas-
sione della caccia. Un giorno, mentre cacciava nei boschi,
vide una strana bestia che risplendeva come la luce del
sole. Allora disse al suo ciambellano: “Catturiamola viva,
sarebbe un peccato uccidere questa splendida bestia”.
Così sistemarono una trappola, la catturarono e la por-
tarono al castello.
“Costruite una gabbia di vetro così che il popolo pos-
sa venire a vederla”, ordinò il re. E così tutti quelli che
vedevano la bestia ne erano stupefatti. Era la meraviglia
dell’intero reame.
Il re aveva un solo figlio che aveva appena compiuto
tredici anni. Un bel giorno il ragazzo ruppe la gabbia di
vetro con una freccia scoccata dal suo arco. Chiese di ria-
verla indietro, ma la bestia non gliela restituì.
“Non prima che tu mi abbia fatto uscire di qui”, disse.
“Prendi la chiave che tuo padre tiene sotto il cuscino e
apri la gabbia. Io non dimenticherò mai la cortesia, se mi
lasci libero”.
Il ragazzo si dispiacque per la bestia che scintillava
56
come la luce del sole, andò a prendere la chiave e aprì la
porta della gabbia di vetro.
“Vieni da me, se dovessi avere dei guai con tuo padre”,
disse la bestia. “Mi troverai vicino alla grande fonte nel
bosco”. E corse via.
Il re si infuriò quando seppe che la bestia che lui tan-
to apprezzava era fuggita dalla gabbia di vetro, e che era
stato proprio suo figlio a liberarla. Così ordinò ai boia di
tagliare la testa del ragazzo.
Il ciambellano urlava per l’orrore: “È l’unico figlio che
avete. Come potete ucciderlo per una simile sciocchezza?
Banditelo dal regno. Sarà una punizione sufficiente”.
Il re allora chiamò il figlio del ciambellano e gli diede
molti soldi per le spese di viaggio e gli disse: “Porta il ra-
gazzo lontano da qui, non mi interessa ciò che farai con
lui. Non è più mio figlio e non voglio che lasci ancora
l’orma delle sue scarpe sul mio regno”.
E così i due ragazzi partirono per il loro viaggio e men-
tre attraversavano la foresta, sulla strada per un altro re-
gno, il figlio del ciambellano disse al figlio del re: “Dam-
mi il tuo bracciale oppure ti ucciderò”.
“Prendilo, non mi serve”, disse il figlio del re, e gli la-
sciò prendere il bracciale regale. Il figlio del ciambellano
se lo mise al braccio e disse: “Da ora in poi io sono il figlio
del re e tu il mio servo. E non dire niente del nostro patto
a nessuno”.
Il figlio del ciambellano si sdraiò sotto un albero e si
addormentò. Il figlio del re si allontanò e, mentre vagava
nella foresta, incontrò la bestia che aveva liberato. Questa
era, abbagliante e scintillante, vicino a una fonte. Il ra-
gazzo cominciò a piangere di gioia e raccontò alla bestia
i suoi guai.
“Non preoccuparti”, disse la bestia. “Bevi dell’acqua
da questa fonte e tutto si aggiusterà”.
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Il ragazzo bevve l’acqua e la bestia disse: “Adesso scuoti
quest’albero”.
Il giovane scosse l’albero e così facendo lo sollevò dal
suolo.
“Bevine ancora!”
Il ragazzo ne bevve ancora.
“Adesso scuoti quell’albero laggiù”.
Il giovane lo scosse e, così facendo, lo sradicò.
“Sei soddisfatto, o vuoi essere ancora più forte?”
“Preferirei essere ancora un po’ più forte”.
“Allora bevi ancora un po’”.
Il ragazzo bevve ancora e sradicò un albero due volte
più grande degli altri due.
“Sei soddisfatto ora?”
“Oh, così va bene. Grazie”.
E così il ragazzo tornò dal figlio del ciambellano, che
adesso si era svegliato, e insieme continuarono il viaggio.
È dura dire quanto lontano dovettero andare prima di
raggiungere la prima città di un altro regno. Il figlio del
ciambellano mandò avanti un messaggero per informare
il re del suo arrivo insieme al proprio servo, e il re lo rice-
vette a palazzo con tutti gli onori regali. Al re piacquero
entrambi i ragazzi, tanto che disse al figlio del ciambella-
no: “Ti darò in sposa la mia seconda figlia e da oggi tu sa-
rai mio genero. Quanto al tuo servo, sarò lieto se lavorerà
per me. Che tipo di lavoro mi suggeriresti per lui?”
“Oh, non è importante. Qualsiasi cosa voi abbiate in
mente andrà bene”.
“Vi piacerebbe essere il mio guardiano di porci?”, disse
il re al ragazzo.
“Non mi dispiacerebbe”, rispose il ragazzo.
E così divenne il porcaro del re. Il suo compito era
di portare fuori i porci al pascolo al mattino e riportarli

58
indietro al tramonto. Lui dormiva in una piccola catapec-
chia puzzolente vicino al porcile.
Il mattino seguente si svegliò presto, raccolse un tron-
co da terra e salì sulla loggia del re cominciandolo a batte-
re insistentemente sulla balaustra come fosse un bastone
da passeggio, svegliando tutti con quel rumore.
“Cosa vuoi?”, gli chiesero i servi del re.
“Datemi una moneta di rame per comprarmi qualche
noce”, disse.
Il re disse: “Ecco, ragazzo, prendi questa moneta d’ar-
gento e comprati tutte le noci che vuoi”.
“Non voglio una moneta d’argento. Dove posso an-
dare a cambiarla per avere degli spicci? Tutto quello che
voglio è una moneta di rame”.
Prese la moneta di rame, andò al mercato e bussò alla
porta di un negozio dopo l’altro per avere delle noci.
Dopo aver preso esattamente una moneta di noci,
condusse la mandria ai pascoli reali. Quando riportò i
porci indietro a sera, salì dal re e gli disse: “Oh re, ordina
un bastone di ferro per me”.
“Non è grande abbastanza il tuo tronco?”
“Oh, questo è niente, solo un esile germoglio. Ho bi-
sogno di un bastone che pesi almeno mille libbre”.
Il re gli promise che ne avrebbe ordinato uno per lui.
Il mattino successivo il ragazzo svegliò di nuovo tutti
con il suo rumoroso bussare, mentre marciava sulla bal-
conata con il suo ceppo battendo sulla balaustra.
Chiese di avere un’altra moneta di rame per comprare
le noci.
Gli diedero la moneta, comprò una moneta di noci, e
condusse la mandria al pascolo.
Il suo bastone di ferro fu pronto il mattino seguente. Il
ragazzo lo soppesò tra le mani. “Proprio ciò che volevo”,

59
disse, se lo mise sulle spalle e condusse la mandria al pa-
scolo fino alle terre del Demone gigante.
La porta della dimora del Demone era chiusa. La ri-
dusse in frantumi con due colpi del suo bastone di ferro, i
pezzi volavano a destra e a manca, e condusse i suoi porci
a pascolare dentro al giardino del demone. Li rese liberi
di cibarsi dei meloni e si sdraiò sotto un albero di frutta
molto ombroso per schiacciare un pisolino.
Il demone nero tornò all’ora di pranzo e vide che qual-
cuno si era introdotto dentro la sua casa e che i porci
avevano rovinato il suo giardino.
“Chi ha osato fare tutto ciò?”, ruggì, e corse furioso
nel giardino, cercando il trasgressore. Trovò il porcaro che
dormiva sotto un albero.
“Ehi, tu, mortale terrestre, svegliati!”
Il ragazzo faceva intanto finta di non sentirlo.
“Il serpente non osa strisciare nel mio giardino, nessun
uccello osa sorvolarlo e tu osi sconfinarvi?”
Il ragazzo sbadigliò.
“Non puoi essere un po’ più discreto, così da farmi
godere il mio pisolino prima di combattere?”
“Quando ti avrò sovrastato, non sarai altro che carne
macinata, e il pezzo più grosso che rimarrà di te sarà il
tuo orecchio”.
Il porcaro allora si rizzò in piedi. “A noi due!”, ordinò.
“Chi colpisce per primo?”, chiese il demone.
“Colpisci tu, io sono tuo ospite”.
Il demone lanciò la sua mazza e il porcaro si perdette
nella tempesta di polvere sollevata dal colpo clamoroso.
“Sarebbe stato meglio avere il braccio rotto, prima di
lanciare la mazza”, disse il demone. “Almeno avrei potuto
mangiare le sue orecchie”.
“Adesso è il mio turno”, disse il porcaro quando la pol-
vere venne giù. “Non sono ancora morto”.
60
Colpì il mostro con il bastone di ferro alla base del
collo così forte che la testa del demone sta ancora volteg-
giando in cielo.
Il porcaro gli girò intorno roteando il bastone, fino a
quando entrò dentro alla casa del mostro, dove vide dieci
cavalieri armati nella stalla, tutti vestiti di nero.
“Chi siete?”, gli chiese.
“Siamo prigionieri del demone nero”, risposero. “Se ci
lasci liberi, ti promettiamo che ti verremo in aiuto ogni
volta che vorrai”.
“Ma ricordate che il cavallo del demone nero è mio”,
disse il porcaro. E così legò un completo di abiti neri sul-
la sella del cavallo del mostro, pensando che li avrebbe
potuti indossare un giorno. Dopo strappò un crine dalla
criniera di ciascun cavallo nella stalla e disse a quei cava-
lieri che erano liberi. Questi lo ringraziarono e galopparo-
no via, portandosi dietro il cavallo del mostro. Il porcaro
tornò a casa con i porci e si accorse che l’intera città stava
festeggiando al suono di zampogne e tamburi.
“Che succede?”, domandò.
“La figlia del re sta per sposare il figlio del re che è
arrivato qui recentemente da un’altra terra”, gli risposero.
Allora condusse la mandria nel porcile e andò nella sua
camera. Fu allora che arrivò la giovane figlia del re.
“Che cosa vuoi?”, le disse.
“Sono venuta solo per parlarti”.
“Io non sono altro che un porcaro, perché dovresti vo-
ler parlare con me? O sei venuta perché ti piace il fetore
dei porci? Vattene via”.
La giovane figlia del re se ne andò via piangendo, e
poco dopo tornò con un vassoio ricolmo di cibo e bussò
alla porta. Lui si alzò e andò ad aprirle.
“Che c’è adesso?”
“Ti ho portato delle buone pietanze. Ceniamo insieme”.
61
“Ti ho già detto di non preoccuparti per me”, e così
dicendo prese il vassoio e la spinse fuori dalla baracca. Lei
se ne andò piangendo.
Il mattino seguente, il porcaro era di nuovo sulla bal-
conata del re a battere la sua bacchetta di ferro.
“Che vuoi, ragazzo?”
“Datemi un’altra moneta di rame per comprare le
noci”.
Gli diedero la moneta di rame che voleva, e lui portò
la mandria al pascolo.
Quando tornò al tramonto, trovò l’intera città nel panico.
“Che cosa è successo adesso?”, domandò.
“I demoni sono arrivati in forze e hanno richiesto la
figlia maggiore del re. Il re sta radunando le sue truppe
per combatterli”.
La giovane figlia del re tornò alla sua porta piangendo
rumorosamente.
“Per cosa sono queste lacrime?”
“I demoni stanno portando via mia sorella”.
“Perché lo vieni a dire a me? Che cosa posso fare?”
“Puoi salvarla”.
“Guarda che io sono solo un guardiano di porci e ho
molto da fare al momento, cercando di prendermi cura
dei maiali del re. Perché non chiedi a suo marito di salvar-
la. È il figlio di un re”.
“Lui non può combattere”.
“Vattene, lasciami solo, non mi seccare con questa fac-
cenda dei demoni”.
E la principessa se ne andò via piangendo.
Il mattino seguente, il porcaro stava ancora battendo
sulla balconata, mentre tutti erano in lacrime: “I demoni
sono qui, che cosa potremo fare?”
“Ho fretta”, disse ai servi del re, “Datemi la mia mone-
ta che mi devo avviare”.
62
Si mise in tasca la moneta, comprò le sue noci e se ne
andò verso i pascoli con la mandria. Lasciò i porci liberi
nel prato, tirò fuori i crini dalla tasca e li bruciò. I dieci
cavalieri che aveva lasciato liberi galopparono verso di lui
con il cavallo del demone nero e il completo di vestiti
ancora legato sulla sella. Il porcaro si cambiò di abito e
vestì in nero come gli altri, balzò sullo splendido stallone
e condusse i guerrieri in battaglia. Il re stava muovendo
contro i demoni con tutte le sue truppe, ma i mostri era-
no troppi per lui, prima che il porcaro guidasse l’attacco,
sbaragliando il nemico con la velocità della luce. Solo un
mostro sopravvisse al macello. Il porcaro lo catturò, gli
strappò i denti e glieli infilò in testa come una corona di
perline dicendogli: “Adesso vallo a dire al tuo padrone”.
Il re voleva ricompensare questi guerrieri valorosi, ma
essi girarono i cavalli e sparirono prima che quegli potesse
scoprire chi fossero.
Il porcaro smontò da cavallo, si cambiò i vestiti, conge-
dò i suoi uomini, radunò i suoi porci, e ritornò al porcile.
Tutta la città intanto si rallegrava della vittoria con
danze e canti al suono delle zampogne e al ritmo dei tam-
buri.
Il porcaro si ritirò nella sua fetida baracca e di nuovo
la giovane figlia del re venne a bussare alla sua porta, por-
tando un bel vassoio di delizie da bere e da mangiare.
“Bene, che c’è adesso?”
“Mi sei mancato tanto. Ti ho portato la cena. Mangia-
mo insieme”.
“Ti ho già detto di non seccarmi. Vattene”.
Prese il vassoio, la spinse fuori dalla baracca e chiuse
la porta.
La principessa andò via piangendo.
Il mattino seguente il porcaro ricevette un’altra mo-
neta di rame, si riempì la tasca di noci, condusse i porci
63
al pascolo, ed entrò nelle terre del demone rosso. Sfondò
la porta della dimora del mostro con due colpi della sua
bacchetta di ferro e spedì i pezzi volanti verso Aleppo e
Chi-Ma-Chin. Dopo lasciò i suoi porci liberi di pascolare
nel giardino e si buttò sotto un albero di frutta per schiac-
ciare un pisolino.
Il demone rosso tornò per pranzo e gli ribollì il sangue
quando vide la porta sfondata e il suo giardino rovinato
dai porci. Corse in giro alla ricerca del colpevole e vide il
porcaro dormire sotto un albero.
“Ehi tu, mortale terrestre, svegliati!”
Il porcaro aprì gli occhi e vide il demone rosso torreg-
giare su di lui.
“Ho bisogno di riposare, sciocco. Perché mi hai sve-
gliato, stupidone?”
“Tu osi parlarmi con questa voce seccata dopo i danni
che mi hai provocato? I miei denti desiderano ardente-
mente un po’ di carne umana e tu potresti essere un pasto
perfetto”.
Il porcaro balzò in piedi imbracciando il suo bastone
di ferro: “Stai indietro e colpisci!”, gli ordinò.
Il demone rosso lanciò la sua mazza e il porcaro sparì
in una nube vorticosa di polvere.
“Peccato”, si lamentò il mostro. “Non rimane niente
di lui e non posso masticarmi le sue orecchie”. Quando
la polvere si depositò e il porcaro poté di nuovo vedere,
disse: “Adesso è il mio turno”.
Allora roteò il suo bastone di ferro e colpì il mostro
così forte alla base del suo collo che lui stesso sentì la sua
testa pesante volare in aria e fracassarsi sul monte Ararat,
che per l’urto cominciò a oscillare.
Il porcaro entrò nella casa del demone e vide un altro
gruppo di dieci cavalieri nella stalla, tutti vestiti di rosso.
“Chi siete?”
64
“Siamo prigionieri del demone rosso. Liberaci e verre-
mo in tuo aiuto ogni volta che sarai in pericolo”.
Il cavallo del demone rosso, un focoso destriero, lo re-
clamò per lui il porcaro. Legò sulla sella un completo di
abiti rossi, pensando che li avrebbe potuti indossare un
giorno, staccò un crine dalla criniera di ogni cavallo e li
lasciò andare. Al tramonto tornò al porcile con i porci.
Trovò allora tutta la città che stava celebrando il fidan-
zamento della seconda figlia del re. La più giovane delle
figlie andò a casa sua e gli disse: “Vieni, andiamo a casa
mia. Stanotte tutti mangeranno, berranno e faranno alle-
gria. Che fai qui tutto solo?”
“Vattene via. Cosa ho a che fare io con te? Sono solo
un guardiano di porci, non adatto a stare con la famiglia
del re”.
“Tu sei il mio re! Ti amo!”
“Io rimango qui”. La spinse fuori dalla baracca e chiu-
se la porta.
Lei tornò con un altro vassoio di cibi, e aprì la porta
senza bussare.
“Andiamo! Alzati! Mangiamo questo cibo e godiamo-
ne insieme!”
E ancora una volta lui prese il vassoio e la spinse fuori
dalla porta.
“Vattene! Non è posto per te!”
Il mattino seguente lui era di nuovo sulla balconata a
battere con il suo bastone. E sgranocchiando le sue noci
era di nuovo ai pascoli con i porci. A sera trovò tutta la
città nel panico.
“Che è successo?”
“I demoni torneranno domani mattina per prendersi
la figlia mezzana del re”, gli disse la gente.
La giovane principessa si recò alla sua baracca con le
lacrime agli occhi.
65
“Mi affido a Dio in cielo e a te sulla terra”, gli disse.
“Lo so che hai salvato la mia sorella maggiore dai demoni.
Adesso puoi salvare la mia sorella mezzana”.
“Esci fuori! Perché non te ne vai dai tuoi cognati? Io
sono solo un guardiano di porci! Lasciami solo”.
“I miei cognati! Non possono fare niente. Tu solo puoi
salvare mia sorella”.
Lui la fece uscire dalla stanza e lei se ne andò via pian-
gendo.
Il giorno successivo prese i porci e li portò nei campi
aperti, bruciò i crini che aveva in tasca, e il cavallo del
demone rosso arrivò al galoppo con venti cavalieri alle
calcagna. Dopo aver indossato il completo rosso, il por-
caro guidò gli uomini in battaglia.
Il re, aspettando l’attacco dei demoni, vide una nube
di polvere sollevarsi sulla pianura e disse alle sue truppe:
“Rallegratevi, uomini, siamo salvi. Questi valorosi cava-
lieri stanno venendo in nostro aiuto”.
Passarono oltre l’esercito del re come strisce di fuoco. Il
nemico fu immediatamente annientato. Il porcaro tagliò
le orecchie dell’ultimo sopravvissuto e gli disse: “Adesso
vallo a dire al tuo padrone!”
I ventuno guerrieri girarono i cavalli e galopparono via
prima che il re li avesse potuti ringraziare per il loro valore
in battaglia.
“Mi piacerebbe sapere chi sono…”, sospirò.
Quella sera, mentre il porcaro tornava con i porci, tut-
ta la città stava celebrando la vittoria. La giovane figlia del
re andò correndo alla sua baracca e gli disse: “Vieni a casa
mia. Andiamo a mangiare, a bere e a far festa. Non vedi
che tutta la città mangia, beve e fa baldoria?”
“No, so dove stare. Sono solo un guardiano di porci.
Non cercare di trascinarmi nelle tue stanze. Non andrò
da nessuna parte. Me ne starò qui”.
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“Ti amo con tutto il mio cuore. Perché te ne stai in
questa sudicia baracca?”
“Lasciami solo. Un porcaro non è degno della tua
compagnia”.
La principessa allora se ne andò via versando lacrime
amare, ma tornò con un vassoio di cibi.
“Se tu non vuoi venire nei miei appartamenti, allora
potremo mangiare nei tuoi”.
“Vattene via, ti ho detto. Non puoi mangiare in questo
fetido posto”.
“Caro, non m’importa quanto puzzi questo posto fin-
tanto che posso stare con te”.
Lui la spinse fuori e chiuse la porta. E la principessa se
ne andò via piangendo.
Il mattino seguente portò i porci al pascolo e si inoltrò
nelle terre del demone bianco. Squassò la porta della casa
del mostro con il suo bastone di ferro che pesava mille
libbre, e lasciò che i porci pascolassero nel giardino. Poi
si lavò presso una fonte e si sdraiò sotto un albero per un
sonnellino.
Il demone bianco venne all’ora di pranzo e gli girò la
testa quando vide la porta fracassata e i porci che si stava-
no cibando dei suoi meloni. Questi avevano combinato
un putiferio e stavano ancora scavando nel suo giardino.
Il demone bianco andò a cercare il trasgressore e lo trovò
mentre dormiva sotto un albero.
“Ehi, mortale terrestre, svegliati!”
La terra tremava a ogni passo del mostro.
“Potresti avere un po’ più di considerazione e lasciarmi
dormire ancora un po’?”, disse il porcaro. “Perché sei così
nervoso, perché gridi?”
“Non mangio un uomo da sette anni. Alzati e combatti”.
Il porcaro si rizzò in piedi, impugnando il suo bastone
di ferro.
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“Prenditi la distanza e colpisci!”
Il demone bianco fece qualche passo indietro e lanciò
la sua mazza. Il porcaro scomparve nella polvere.
“Peccato”, sospirò il mostro. “L’ho seppellito e niente
rimane per deliziarmi i denti”.
“Basta vantarsi!”, disse il porcaro quando la polvere si
abbassò.
“Adesso è il mio turno”.
Roteò il suo bastone di ferro sopra la testa e colpì il
mostro alla base del collo, tagliandoli la testa. Sta ancora
rotolando… Si introdusse nella casa e vide dieci cavalieri
bianchi.
“Chi siete?”
“Prigionieri del demone bianco. Lasciaci liberi e torne-
remo ogni volta che avrai bisogno di noi”.
Legò un completo di abiti bianchi sul dorso del cavallo
del demone bianco, staccò un crine dalla criniera di ogni
cavallo e li lasciò andare. Poi tornò a casa con i porci.
La giovane figlia del re venne allora correndo alla sua
baracca e si lamentava dicendo: “Ti prego, vieni nei miei
appartamenti”.
“Quante volte ti devo dire che non verrò? Sono un
guardiano di porci, tu sei la figlia del re e non posiamo
fare coppia”.
“Oh mio amato, mi sei più caro di mio padre e di mia
madre. Sarei felice di sacrificare la mia vita per te. Ti amo
così tanto che tu sei l’intero mio mondo”.
“Vattene, non darmi il mal di testa con queste parole”.
La spinse ancora una volta fuori di casa e la principessa
andò via piangendo.
Tornò però con un altro vassoio di cibi, pieno di deli-
zie da mangiare.
“Lasciami il vassoio qui e vattene”, le disse lui.
“Non me ne andrò fino a quando mi ucciderai”.
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Ma lui la spinse ancora una volta fuori.
L’indomani, mentre tornava dai pascoli, la città era nel
panico. La giovane figlia del re corse al porcile in lacrime,
aprì la porta e si gettò ai suoi piedi.
“Hai salvato le mie sorelle, ma adesso devi salvare me
dai demoni!”, piangeva.
“Non mi importa se i demoni sono tornati. Non è af-
far mio quello che fanno”.
“Tu sei il solo che può salvarmi”.
“Perché vieni da me? Perché non chiedi ai figli del re
di salvarti?”
“I figli del re sono senza valore. Tu hai il tuo bastone di
ferro e so che puoi combattere. Loro no”.
Lui la spinse fuori ancora una volta e chiuse la porta.
Lei tornò con un altro vassoio di cibo.
“Bene, ora devi mangiare, e io voglio mangiare con
te”.
E così lui acconsentì di sedersi e mangiare con la prin-
cipessa.
Lei ingoiò il suo orgoglio e mangiò il suo cibo con le
lacrime agli occhi.
“Perché piangi adesso?”
“Ti ho già detto che i demoni verranno a prendermi
domani mattina”.
“Come hanno portato via le tue sorelle…”
“Non vuoi salvarmi?”
“Certo che ti salverò, ma tu non devi spifferarlo a nes-
suno. Devi tenerlo per te”.
La principessa tornò allora a casa, e la regina si rallegrò
di vederla sorridente e giuliva. “Che è successo?”, le chie-
se. “I demoni verranno a prenderti domani mattina per
portarti via, ma tu non sembri preoccupata”.
“Madre, non sono più preoccupata, sono salva. Lui ha
promesso di salvarmi”.
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“Chi te lo ha promesso?”
“Colui che ha salvato le mie sorelle”.
“E chi è?”
“Non lo dirai a nessuno?”
“No”.
“Il nostro porcaro”.
“No! Ma cosa dici, figlia mia?”
“Dio mi è testimone se dico il vero. Le ha salvate il
nostro porcaro”.
“Andrò a parlare con lui. A chiedergli aiuto”.
“No. Se sa che te l’ho detto, mi ucciderà, e ucciderà
anche te. Questo deve rimanere un segreto tra di noi”.
Il mattino seguente il re marciò contro i demoni con
tutto il suo esercito e guardava ansiosamente le monta-
gne per vedere se qualche cavaliere stesse venendo in suo
aiuto. Anche questa volta non dovette attendere a lungo.
“Rincuoratevi, uomini, e fate largo. Fate largo a questi
valorosi cavalieri!”, gridò il re alle sue truppe. I cavalieri
passarono oltre le truppe e si diressero verso i mostri. Che
strage! Solo uno dei demoni rimase in vita alla fine della
battaglia. Il comandante tagliò le orecchie del mostro e
anche il naso e gli disse: “Adesso vallo a dire al tuo pa-
drone”.
I guerrieri girarono i cavalli e galopparono via prima
che il re potesse fermarli, ma il loro valente condottiero
restò dietro, rallentando il galoppo. Il re corse a baciare il
muso del cavallo bianco e poi tirò giù la testa del cavaliere
e gli baciò la fronte.
“Il mio regno è tuo”, gli disse. Vide che il braccio del
cavaliere sanguinava. Tirò fuori il suo fazzoletto e glielo
legò alla ferita.
Il porcaro vestito di bianco spronò allora il suo cavallo
bianco e volò via prima che il re potesse riconoscerlo.
Lasciò libero il cavallo, radunò i porci e andò a casa.
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Vide grande gioia in città, e tamburi e zampogne, e fuo-
chi d’artificio, e feste, e canti e balli. La giovane figlia del
re gli portò un vassoio di pietanze e di bevande che gusta-
rono insieme con grande gioia.
Il re raccontò alla figlia di come un prode cavaliere
bianco fosse venuto con trenta guerrieri e avesse stermi-
nato i demoni. Le disse anche di aver fasciato il braccio
di questo guerriero, e che infine questo eroe senza paura
era scappato via prima che lui avesse potuto sapere il suo
nome.
La regina rideva fragorosamente.
“Perché ridi?”
“Il tuo guerriero valoroso è il tuo porcaro”.
“No. Ma cosa dici?”
“È la verità. Chiamalo domattina e chiediglielo”.
Il re mandò a chiamare il porcaro immediatamente e
vide che il braccio del porcaro era legato con il suo fazzo-
letto, sotto i vestiti.
“Cos’è questo? Non capisco”, disse il re.
“Quando il figlio di un re diventa un guardiano di por-
ci, e il figlio del ciambellano diventa il figlio del re, allora il
figlio del re si comporta come un pazzo, come ho fatto io.
Se non mi credi, chiama il tuo regale genero che è arrivato
qui con me e guarda se non indossa il mio bracciale”.
Il re convocò suo genero e vide che il bracciale che
indossava era infatti del porcaro. Batté allora le mani.
“Boia!”
I boia entrarono e si inchinarono.
Il re rimosse il bracciale regale e lo restituì al porcaro.
“La mia figlia più giovane ti appartiene”, gli disse. “Con-
siderala un regalo da parte mia”.
I festeggiamenti nuziali durarono sette giorni e sette
notti. Cinque giorni dopo, il figlio del re prese la sua spo-
sa e tornò al suo paese.
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Suo padre era morto ed egli ascese al trono come nuo-
vo re.
Essi realizzarono i loro desideri, possa anche tu realiz-
zarli.
Tre mele sono cadute dal cielo: una per il narratore
di questa storia, una per chi l’ha ascoltata, e un’altra per
colui che ha dato retta alle parole del narratore.

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