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Piccola Biblioteca Einaudi

PBE 763
Arte. Architettura. Teatro. Cinema. Musica

Entrare nell’immagine: un desiderio che accompagna l’umanità


dall’alba dei tempi, perdendosi nelle nebbie del mito. Un deside-
rio che nei secoli ogni cultura visuale ha cercato di realizzare con
i mezzi di volta in volta disponibili. E che oggi le tecnologie di realtà
virtuale promettono di soddisfare: l’immagine si fa ambiente im-
mersivo, ci avvolge a 360 gradi, è presenza in carne e ossa. Sal-
tano le cornici che la confinavano in un mondo a parte. Persino il
medium in cui si concretizza sembra farsi trasparente. Una volta
aperto il passaggio fra il mondo reale e il mondo iconico, dobbia-
mo però aspettarci un varco percorribile nei due sensi: penetria-

Pinotti
mo nel mondo dell’immagine, ma l’immagine esonda nel nostro
mondo. Al desiderio si accompagna il timore per tale tracimazio-
ne. Questo libro esplora quel doppio movimento, e ricostruisce la
storia di quel desiderio-timore, delle fantasie che ha innescato e
delle strategie escogitate per corrispondervi: dal proto-immersivo

Alla soglia dell’immagine


Narciso ai caschi VR, passando per il trompe-l’œil e le sculture
viventi, gli specchi e le architetture illusionistiche, i panorami e le
fantasmagorie, l’arte-ambiente, il cinema in 3D. Indugiando sul-
la soglia che al contempo separa e congiunge quei due mondi, ne
subiamo il fascino, e ne apprezziamo il rischio.
Sommario:
Prologo. – i. I due Narcisi. ii. Lo specchio di Alice. iii. Pigmalione in Westworld.
iv. L’immagine-ambiente. v. Il soggetto in causa. vi. In/Out. vii. Empathy Machine?
– Epilogo. – Indice dei nomi.

Andrea Pinotti insegna Estetica all’Università Statale di Milano, dove coordina il Andrea Pinotti
progetto ERC «An-Icon». Fra le sue pubblicazioni, Estetica della pittura (2007)
ed Empatia. Storia di un’idea da Platone al postumano (2011). Per Einau-
di ha pubblicato Cultura visuale (con A. Somaini, 2016) e curato Aura e choc
di Walter Benjamin (con A. Somaini, 2012), Costellazioni. Le parole di Walter
Alla soglia dell’immagine
Benjamin (2018), Stile moderno di Georg Simmel (con B. Carnevali, 2020). Da Narciso alla realtà virtuale
In copertina: Francesca Woodman, Self-deceit #1, stampa alla gelatina ai sali d’argento,
Roma, 1978. © 2021 Woodman Family Foundation / Artists Rights Society (ARS), New
York / SIAE.

ISBN 978-88-06-24442-2
Einaudi

Piccola Biblioteca Einaudi


y 25,00 9 788806 244422

COP_Pinotti.indd 1 02/09/21 08:02


Andrea Pinotti
Alla soglia dell’immagine
Da Narciso alla realtà virtuale

Piccola Biblioteca Einaudi


Arte. Architettura. Teatro. Cinema. Musica
Indice

p. vii Elenco delle illustrazioni


ix Elenco delle tavole fuori testo
xi Prologo
xix Ringraziamenti

Alla soglia dell’immagine


i.
I due Narcisi
3 1. L’ingenuo e il consapevole
6 2. Polarità iconografiche
10 3. Narcisismi
15 4. Narcosi mediale
19 5. Apnea

ii.
Lo specchio di Alice
27 1. Perturbanti inversioni
31 2. Doppi e simulacri
35 3. Strada a doppio senso
42 4. Il medium riflettente
47 5. Virtual Alice

iii.
Pigmalione in Westworld
55 1. Agalmatofilia
60 2. Animazione dell’inanimato
65 3. Inanimazione dell’animato
71 4. Andreidi
76 5. Androidi

iv. L’immagine-ambiente

91 1. Zeusi in HD
99 2. Scorniciamenti
105 3. Dalla piramide alla sfera
109 4. ramamania
vi indice
v.
Il soggetto in causa
p. 121 1. Un gioco di sguardi
125 2. Quarta parete addio
128 3. Interpellazione e soggettiva
133 4. Avatāra

vi. In/Out

143 1. Sindrome cinese
146 2. Attraverso lo schermo
152 3. Attenti al treno!
158 4. La prua della Potëmkin
163 5. Cinema totale
167 6. Morel Reloaded

vii.
Empathy Machine?
177 1. La VR come catalizzatore empatico
183 2. La fine dell’altro
187 3. Il caveat del pipistrello
192 4. Bolle di sapone
195 5. Oltre la soglia

209 Epilogo

213 Indice dei nomi


Prologo

Scorniciamento. Presenza. Immediatezza. È sotto questi


tre titoli – tra loro intimamente correlati – che oggi facciamo
esperienza dell’immagine attraverso quei dispositivi che co-
stituiscono la frontiera piú avanzata nelle strategie di image
making: gli ambienti immersivi virtuali.
Una prima caratteristica che colpisce l’utilizzatore di ca-
schi di realtà virtuale è il fatto che il campo visivo è saturato
a 360 gradi dall’immagine. Non è cioè piú possibile esegui-
re un’operazione che, per quanto possa sembrare banale, è
invece cruciale: focalizzare lo sguardo su ciò che immagine
non è, sul fuori-immagine. Un’operazione che si può anco-
ra compiere quando l’immagine è il mosaico o il dipinto, la
scultura o la fotografia, il film proiettato sullo schermo ci-
nematografico o visibile sullo schermo della televisione o
del computer. Questa circostanza ci conduce a riflettere su
una proprietà tradizionale dell’immagine – il suo essere in-
corniciata, la sua framedness –, che consiste nell’occupare un
ritaglio del campo visivo all’interno del quale vigono leggi
spazio-temporali, regole sintattiche, riempimenti semantici
altri rispetto a quelli vigenti nel mondo extra-iconico, nel
campo fuori-immagine. L’immagine ritagliata è una presen-
za nel mondo reale (si tratta pur sempre di un oggetto, sup-
portato da un medium materiale: la tela o la carta, il marmo
o il vetro) che ci introduce a una specie di irrealtà. Se posso
dire che mi trovo a due metri dal quadro appeso alla parete
della mia stanza, ha molto meno senso dire che mi trovo a
venti metri dall’uomo raffigurato nella stanza rappresentata
in prospettiva in quello stesso quadro.
Nell’esperienza che faccio una volta indossato il casco di
realtà virtuale, invece, non mi trovo piú di fronte al quadro
xii prologo
o allo schermo che mi offrono un’immagine; sono piutto-
sto dentro, appunto immerso in un ambiente che mi solleci-
ta azioni e movimenti, mi offre affordances e possibilità di
agencies (e nel caso di ambienti interattivi me le offre come
possibilità pratiche concrete), come se mi trovassi presente
in uno spazio reale. Perdo una libertà: la possibilità di guar-
dare fuori-campo, fuori-immagine. E ne guadagno un’altra:
proprio perché immerso in una condizione di unframedness,
posso dare autonomamente a me stesso il frame, libero come
sono di inquadrare nel campo visivo quel che piú mi aggrada.
Naturalmente si può subito obiettare che l’esperienza
dell’incorniciatura non è affatto annullata nell’esperienza di
realtà virtuale, ma solo riformulata: decido di indossare il ca-
sco, entro nel mondo virtuale, termino l’esperienza, mi tolgo
il casco. È una temporalità specifica che si ritaglia nel flusso
temporale reale; ed è un tempo, in piú, durante il quale sen-
to sulla testa il peso del casco stesso. Ma, se consideriamo i
rapidi sviluppi in campo nanotecnologico e biotecnologico,
possiamo facilmente aspettarci un sempre maggiore allegge-
rimento dei dispositivi e una corrispondente loro progressiva
«innervazione»: da wearable devices che ancora indossiamo
si evolveranno in protesi biotecniche che assimileremo nella
nostra anatomia, con il conseguente ulteriore indebolimento
della capacità di distinguere un ambiente virtuale da un am-
biente reale appoggiandoci a quei contrassegni che ancora ci
offrono un appiglio per operare efficacemente tale distinzione.
Una seconda caratteristica, direttamente correlata con lo
scorniciamento, è la presentness, la forte sensazione di pre-
senza, di esser-ci, elicitata dagli ambienti immersivi virtuali.
Si tratta qui di una presenza che va intesa nel doppio senso
correlato della presenza del fruitore (ormai, in virtú delle im-
plicazioni multisensoriali di tali ambienti, piú un complessivo
experiencer che un osservatore o uno spettatore riguardante)
nell’ambiente virtuale – being there –, e della presenza degli
oggetti virtuali nell’ambiente reale. Una volta indebolita, e
idealmente annullata, la soglia che separa immagine e real-
tà, quello che era prima un confine diviene un passo carraio
attraverso il quale si verificano passaggi nelle due direzioni,
in virtú dell’istituzione di un continuum spazio-temporale
prologo xiii
comune e condiviso. Già con la pittura illusionistica gli ele-
menti raffigurati venivano percepiti come parte integrante
del mondo-ambiente reale. A maggior ragione negli ambienti
virtuali digitali questi effetti vengono potenziati; con una im-
portante differenza: nella realtà virtuale immersiva si viene a
creare un mondo simulato alternativo al mondo reale che mi-
ra a proporsi come altrettanto complesso e convincente; nel-
la realtà aumentata si apre la possibilità di una integrazione
fra virtualità e realtà, e l’ente digitale emerge nell’ambiente
ai fini di una sempre piú efficace presa protesica su di esso.
La proprietà della presenza (l’effetto di «presentificazio-
ne», di render-presente l’ambiente all’experiencer e l’expe-
riencer all’ambiente) sembra minare alle fondamenta un pa-
radigma che ha informato le principali teorie dell’immagine
a partire dall’antichità, evolvendosi e articolandosi in diver-
se varianti fin dentro la contemporaneità: il paradigma della
rappresentazione. Secondo la sua formulazione classica, ri-
conducibile a Platone, l’immagine è mimesis, imitazione piú
o meno fedele di una realtà che le pre-esiste e che le è supe-
riore tanto dal punto di vista ontologico quanto da quello
gnoseologico. Il modello rappresentazionalistico sotteso alla
teoria della mimesis, tipicamente concretizzato nell’esempio
del ritratto come rap-presentazione (ri-presentazione) che
sta al posto del soggetto rappresentato, sarebbe stato infini-
tamente variato nei secoli successivi, fino a riemergere con
forza inesausta nelle teorie contemporanee dell’immagine:
la semiotica di Peirce, la fenomenologia della coscienza di
immagine di Husserl, l’iconologia di Panofsky, la teoria del-
la depiction elaborata dai filosofi analitici. Fatte salve le dif-
ferenze specifiche di questi approcci, ciò che li accomuna è
appunto la convinzione che l’immagine sia «immagine-di»,
rappresentazione di una realtà che le pre-esiste e che sussi-
ste indipendentemente dall’immagine che la raffigura: una
convinzione che gli ambienti virtuali immersivi, proprio in
virtú della loro potenza di presentness, sembrano per contro
apertamente sfidare.
Questa sfida lanciata dagli ambienti immersivi virtuali alla
referenzialità rappresentazionale ci conduce direttamente alla
loro terza proprietà fondamentale, forse quella piú parados-
xiv prologo
sale: l’immediateness, l’apparenza di immediatezza, di non-
mediatezza, che viene ottenuta tramite un impiego massiccio
di mediazioni tecnologiche di natura complessa. Immediato
appare l’accesso che gli ambienti immersivi scorniciati ci con-
sentono alla presenza: ci sentiamo immediatamente in pre-
senza di enti per cosí dire «in carne e ossa», e non con loro
rappresentazioni. Inoltre (ed è l’aspetto piú problematico),
l’immediatezza si declina come «trasparenza» del medium,
che nega la propria opacità, dissimulandosi a tutto vantaggio
di ciò che dal medium stesso viene esibito.
Anche sotto questo rispetto gli ambienti virtuali immer-
sivi sembrano difficilmente riconducibili al paradigma rap-
presentazionalistico difeso dalle principali teorie occidentali
dell’immagine. Queste hanno infatti variamente sostenuto
che, di fronte a un’immagine, il fruitore ha sempre la possibi-
lità di focalizzare la propria attenzione ora su ciò che l’imma-
gine rappresenta, ora sul supporto materiale che la concretizza
come oggetto nello spazio (per esempio: ora sul paesaggio che
mi appare nel dipinto, ora sulla tela e sui pigmenti che vi so-
no depositati; ora sul volto che mi appare nella fotografia, ora
sulla grana della carta fotografica). La brezza estiva che agita
il telo del cinema all’aperto, deformando insieme il volto degli
attori; il raggio di sole che colpisce lo schermo del computer
mentre guardo un film in treno, offrendomi il mio stesso vol-
to che si rispecchia nel vetro: si tratta di momenti in cui sono
costretto a prendere atto del supporto, e conseguentemente a
rendermi conto dello statuto iconico di quel che sto guardan-
do. È proprio questa presa di coscienza che il casco di realtà
virtuale tende a rendere sempre piú difficoltosa.
La distinzione husserliana fra immagine-cosa e immagi-
ne-oggetto, quella fra stadio pre-iconografico e iconografico
introdotta dall’iconologia panofskyana, la coppia figurativo/
plastico nella semiotica greimasiana, la twofoldness di Richard
Wollheim, la differenza iconica di Gottfried Boehm: mutatis
mutandis, si tratta sempre di salvaguardare quella possibilità.
Al contrario, gli ambienti immersivi virtuali mirano proprio
a obnubilare, fino idealmente ad annullare, la nostra capa-
cità di orientare lo sguardo sull’uno piuttosto che sull’altro
livello, facendoli collassare nell’indistinzione.
prologo xv
I potenti effetti di immediatezza e trasparenza prodotti
dagli ambienti immersivi virtuali portano con sé una serie di
implicazioni non solo teoriche, ma anche politiche: in virtú
di quegli effetti quel che viene promosso è il convincimen-
to di un accesso diretto e senza mediazioni al reale, privo di
manipolazioni e interferenze, garante di un’apertura senza
filtri alla verità stessa. Nel caso di falsi storici, se l’interven-
to manipolatorio sulle fotografie (immagini indessicali che
par excellence erano incaricate di testimoniare da un punto
di vista documentario l’avvenimento storicamente accadu-
to) poteva essere smascherato proprio investigando le alte-
razioni alle quali erano stati sottoposti i supporti, ora questa
possibilità di demistificazione sembra ridursi radicalmente.
Se le immagini (= icone) pre-virtuali si caratterizzavano
per il loro essere incorniciate, rappresentazionali e mediate,
il fatto che le immagini virtuali tendano a negare tali con-
trassegni in virtú della loro unframedness, presentness e imme-
diateness ci suggerisce di riconoscerle come «an-icone», cioè
come immagini che, in modo del tutto paradossale, si sfor-
zano di negare se stesse e il proprio statuto di immagini, per
presentarsi a noi come se fossero la realtà di cui sono la rap-
presentazione. Per quanto ampiamente abusato nella termino-
logia filosofica contemporanea, il trattino «-» in «an-icona»
si rende necessario per sgombrare fin da subito il campo dal
dubbio che qui si voglia negare la natura iconica e rappresen-
tazionale di tali enti e salutare (o stigmatizzare) la definitiva
scomparsa della distinzione tra immagine e realtà: sono, ov-
viamente, immagini che a loro modo (come vedremo nei ca-
pitoli che seguono) sono ben incorniciate, rappresentazionali
e mediate. In altri termini, è l’effetto che mirano a produrre
sul fruitore (la loro fenomenologia) a essere «an-», ma la loro
natura (la loro ontologia) rimane «-icona».
L’«an-iconologia» come esplorazione di questa tensione
tra fenomenologia e ontologia delle immagini che negano se
stesse deve integrarsi con l’archeologia dei media. La VR non
salta fuori dal nulla, né le «an-icone» sono esclusivo appan-
naggio del nostro presente. Piuttosto il contrario: la condizio-
ne an-iconica attuale è stata preparata da una storia millenaria
in cui, di volta in volta con le tecnologie rappresentazionali e
xvi prologo
mediali a disposizione (dalla pittura in trompe-l’œil al cinema
in 3D, passando per le statue animate, il teatro partecipativo,
i dispositivi proiettivi del pre-cinema), ciascuna epoca ha mi-
rato alla produzione di immagini che negano se stesse. O le ha
sognate: nel mito, nell’aneddotica, nella letteratura fantasti-
ca, nelle varie forme di esternalizzazione dell’immaginazione.
Situandosi all’incrocio fra l’approccio an-iconologico e quello
media-archeologico, questo libro presta attenzione tanto ai di-
spositivi an-iconici effettivamente realizzati quanto alle fan-
tasie che li hanno variamente immaginati: se non altro perché
(come vedremo) non di rado le ultime hanno euristicamente
fertilizzato il terreno sul quale i primi hanno potuto emergere.
Prendendo le mosse dalla leggenda di Narciso, il sogget-
to proto-immersivo che si tuffa nella sua stessa immagine ri-
flessa, questo libro tende un arco che giunge fino al nostro
tempo virtualizzato. Attraversando mito e storia, arti e tec-
niche, all’inseguimento di un desiderio peculiare che per il
suo essere trans-culturale e trans-storico sembra potersi dire
antropologicamente universale: il desiderio di indugiare sul-
la soglia che separa e al contempo congiunge l’immagine e la
realtà; di offuscare la nostra capacità di distinguere l’una e
l’altra dimensione, per costringerci a riflettere su quel che le
accomuna e su quel che le divide.
Tendendo questo arco, corro dunque il rischio di abbrac-
ciare un’ingenua linearità teleologica? Di presentare cioè
l’ambiente immersivo virtuale contemporaneo come l’esito
ultimo e il (per ora) piú compiuto inveramento di un obiettivo
strategico messo a fuoco nella cultura visuale antica (o forse
fin dalle grotte paleolitiche) e passato di mano in mano come
una staffetta lungo i secoli senza soluzione di continuità? È
difficile negare la problematicità insita nella sdrucciolevole
logica basata su precursori e precorrimenti; altrettanto arduo
resistere però alla tentazione di riconoscere un impulso «an-
iconico» nell’illusionismo pittorico antico, o nelle camerae
pictae a 360 gradi del Rinascimento, nel panorama ottocen-
tesco o nel cinema stereoscopico.
Del resto, non propongo una teoria generale, né una storia
generale, dell’immagine tout court. Le an-icone non esaurisco-
no certo l’esperienza iconica. E vi sono classi di immagini che
prologo xvii
per cosí dire fanno di tutto per essere riconosciute come tali,
affermando – se posso esprimermi con una grossolana perso-
nificazione – orgogliosamente la propria natura di immagini.
Basti pensare alle avventure dell’arte cosiddetta astratta (me-
glio definibile come «non-oggettuale»), che lascia cadere ogni
rinvio dell’immagine a un referente esterno per affermarne la
piena autonomia: in questa immagine (e solo grazie a essa) vie-
ne per la prima volta al mondo un determinato senso, che non
le pre-esiste e che non può essere altrimenti espresso.
Detto questo, resta il fatto che la classe delle an-icone nelle
loro molteplici manifestazioni storiche occupa un posto non in-
differente nell’esperienza umana dell’immagine: un posto che
oggi le nuove tecnologie di realtà virtuale immersiva ci inco-
raggiano a riconoscere in tutta la sua portata, e a inquadrare
teoreticamente e storicamente, prendendone in carico la loro
doppia valenza, che è tanto estetica quanto politica. Una va-
lenza estetica, non tanto nel senso di una riflessione filosofica
sull’arte o sul bello, quanto piuttosto nel senso etimologico
del termine, come indagine delle implicazioni che le an-icone
comportano per l’aisthesis, l’esperienza sensibile: occorre do-
mandarsi, cioè, quale impatto le nuove tecnologie virtuali im-
mersive stanno avendo e avranno sul nostro modo di stare al
mondo come corpi, di percepire e di agire. Negli anni Trenta
del secolo scorso Walter Benjamin – tra i primi filosofi a occu-
parsi di quelli che allora erano i nuovi media – aveva caratteriz-
zato l’avvento della fotografia come una forma di progressiva
tattilizzazione dell’immagine, un suo diventare «alla mano»,
manipolabile. Quella che all’epoca poteva apparire un’osser-
vazione bizzarra (in fondo una fotografia è pur sempre un og-
getto da guardare con gli occhi) assume oggi una lungimiranza
profetica se, col senno di poi, leggiamo quelle sue pagine alla
luce della rivoluzione digitale (anche qui da intendere innan-
zitutto nel senso etimologico, dal latino digitus: dito) e della
diffusione dei touch screens: oggi fare esperienza dell’immagi-
ne significa insieme guardarla e toccarla, e un’immagine che
non si possa ruotare, zoomare, rimpicciolire e modificare con
le dita quasi non sembra piú un’immagine. Nel giro di pochi
anni siamo diventati soggetti touch, e le nuove generazioni so-
no già da qualche tempo ormai touch native.
xviii prologo
Dobbiamo porci la stessa domanda per quanto riguarda
gli ambienti virtuali immersivi: in che modo trasformeranno
(stanno già trasformando) la nostra esperienza delle immagi-
ni e la nostra esperienza tout court? Se consideriamo il cospi-
cuo numero di ore che passiamo oggi davanti a uno schermo
(che sia di un televisore, di un computer, di un tablet, di uno
smartphone, di un megaschermo in stazione o in aeroporto),
dobbiamo chiederci che cosa accadrà quando, un domani
forse non troppo lontano, durante queste ore e magari an-
che per piú tempo non saremo piú davanti, ma dentro quello
schermo. Come si modificherà, cioè, il nostro sensorio se il
touch native si evolverà in un immersive native, con casco VR
integrato all’ovetto per neonati? (tav. i).
Alla valenza estetica si accompagna una valenza politica,
anche qui da comprendere nell’ampio senso etimologico della
polis, del vivere in comune, dello stare insieme. Piattaforme
social come Facebook stanno ormai da tempo implementando
versioni immersive gestibili via casco in cui interagire con i
contatti in uno spazio virtuale. Gli avatar (i nostri rappresen-
tanti digitali nel mondo virtuale) stanno dischiudendo nuove
forme di intersoggettività e conquistando spazi sempre piú
significativi della scena politica. Qual è il significato di tali
fenomeni? In che modo trasformeranno (stanno già trasfor-
mando) la nostra concezione ed esperienza della politica e
del vivere comune?
Si tratta evidentemente di domande che ci suggeriscono
in maniera inequivocabile come la questione del modo in cui
ci relazioniamo alle nuove tecnologie di produzione e consu-
mo delle immagini (modificandole e venendone modificati)
non sia affatto un problema astratto o meramente teorico,
ma un orizzonte pratico ed esistenziale assai concreto. Un
orizzonte rispetto al quale è urgente prepararsi criticamente.
Lontano tanto dagli apocalittici tecnofobici (che paventano la
dissoluzione del reale nel virtuale) quanto dagli euforici tec-
noentusiasti (che salutano nel virtuale la risoluzione definiti-
va delle angustie che affliggono il reale), questo libro getta le
basi di una critica an-iconologica nel senso di un esame delle
possibilità e dei limiti delle immagini che negano se stesse.

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