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STORIA DELL’ARTE BIZANTINA

Subito dopo l’anno 1000 è documentata la presenza di mosaicisti bizantini in Italia:


- cattedrale di Torcello (1050)
- basilica di San Marco a Venezia (1063)
- abbazia di Montecassino (1066)
Su Torcello e Venezia le fonti scritte a nostra disposizione sono molto scarse, mentre su Montecassino ci
possiamo avvalere di un testo d’eccezione: la cronaca di Leone Marsicano che descrive la chiesa e l’abbazia
rinnovate da Desiderio tra il 1066 e il 1071, con il coinvolgimento di artisti chiamati da Costantinopoli. Oggi
restano pochi frammenti dell’abbazia medievale ma è possibile ricostruirne la struttura proprio sulla base
della cronaca di Leone.

Come erano le chiese bizantine nell’XI sec contemporanee all’abbazia cassinese?


Per quanto riguarda la struttura architettonica, la tipologia dominante nel periodo medio-bizantino è quello
della pianta centrale con cupola, che può assumere a seconda dei casi e delle aree geografiche delle forme
diversificate:
- chiesa a croce greca inscritta con cupola su pennacchi e 4 colonne libere (Panaghia ton Chalkeon,
Salonicco, 1028);
- chiesa a croce greca inscritta con cupola su imposta ottagonale sostenuta da 4 trombe angolari che
smussano gli spigoli del quadrato di base (tipologia meno diffusa, il nucleo dell’edificio si allarga e lo spazio
centrale assume maggiore rilievo) (Katholikon, Hosios Lukas, Focide, 1011);
- chiesa a naos quadrato semplice (senza navate laterali) con cupola su imposta ottagonale e trombe
angolari (è una tipologia di chiesa più piccola e semplificata, la cupola poggia direttamente sulle pareti
perimetrali della chiesa) (Nea Moni, Chios, 1042-1055 realizzata su committenza dell’imperatore Costantino
IX Monomaco);
Per quanto riguarda, invece, il sistema decorativo adottato per ricoprire l’interno di questi edifici, dobbiamo
ricordare che ci troviamo davanti a programmi iconografici che corrispondono ad un sistema canonizzato,
messo a punto sotto il controllo della chiesa ortodossa dopo la fine della lotta iconoclasta (dunque dopo
l’843). Il programma delle chiese di questo periodo è un programma gerarchico, rigorosamente organizzato
dall’alto verso il basso e suddiviso fondamentalmente in 3 livelli:
1) cupola: allude al concetto della natura divina di Cristo, è dominata al centro dalla figura del Pantocrator
circondato da angeli e profeti (Katholikon di Dafni presso Atene);
2) abside, pennacchi, trombe: le raffigurazioni alludono alla natura umana di Cristo, al concetto
dell’incarnazione, per questo al centro dell’abside è raffigurata sempre la Theotokos, la madre di Dio;
seguono le scene cristologiche, dall’Annunciazione in poi, che sono disposte nelle quattro trombe angolari e
nella parte alta dei quattro bracci della croce (queste scene estendono il discorso della natura umana di
Cristo con il racconto della sua vita);
3) volte, parti inferiori: zone riservate ai santi della chiesa ortodossa, sono a più stretto contatto con i fedeli
che trovano nelle loro figure degli intercessori tra l’uomo e Cristo;
4) nartece: troviamo collocate le scene della Passione di Cristo che concludono quindi il racconto
evangelico.

Il mosaico parietale era in questo periodo una sorta di monopolio esclusivo degli artisti bizantini; nel 1066
Desiderio decise di convocare a Montecassino degli artisti che provenivano da Costantinopoli.
Le informazioni sulla tecnica del mosaico derivano dall’osservazione ravvicinate delle opere e da quanto è
emerso negli interventi di restauro. L’unità di base nella realizzazione del mosaico sono le tessere con le
quali l’artista costruisce l’immagine inserendole nell’intonaco fresco della parete sul quale,
precedentemente, è stato realizzato un disegno preparatorio. Le tessere possono essere: di vetro, e sono la
quantità maggiore nei mosaici parietali; ma ci sono anche tessere di pietra, utilizzate nelle loro varie
colorazioni naturali; talora s’incontrano tessere di mattoni, un materiale ovviamente più povero, dalla
colorazione più limitata, ma che veniva scelto per particolari esigenze dal punto di vista della resa generale
della tessitura musiva; infine ci sono le tessere in vetro con foglia d’oro o d’argento che connotano i mosaici
parietali bizantini. Nel caso delle tessere d’oro o d’argento, il vetro è trasparente e, tra i due strati
trasparenti, viene inserita una foglia metallica sottilissima inserita in una posizione asimmetrica per
raggiungere particolari effetti cromatici. Infine, in casi molto rari, possiamo trovare delle tessere in materiali
semipreziosi come la madreperla (ad esempio nella cupola della roccia di Gerusalemme, sono a forma di
goccia o di perle circolari).
Il muro, che poteva essere in pietra, in mattoni o in materiali misti, doveva essere predisposto con la stesura
di 3 strati preparatori dopo che era stato scalpellato per permettere una maggiore adesione:
1)arriccio: il primo strato di intonaco è composto da calce e paglia triturata, ha uno spessore di circa 2,5 cm.
All’interno di questo strato venivano inseriti dei lunghi chiodi di ferro per farlo aderire maggiormente al
muro sottostante (chiodi di ancoraggio) tuttavia questi chiodi costituiscono una delle cause più pericolose di
degrado per i mosaici, infatti col passare dei secoli si arrugginiscono, aumentano di volume e determinano
con la loro pressione dall’interno il distacco della superficie delle tessere dal muro sottostante (durante i
lavori di restauro questi chiodi vengono rimossi e sostituiti con nuovi chiodi di materiale più stabile); la
paglia triturata aveva la funzione di rendere l’intonaco più elastico. Il primo strato di intonaco veniva
intaccato con la cazzuola per far meglio aderire lo strato successivo;
2) è simile al primo strato ma più sottile e presenta una lavorazione più fine dei materiali;
3) è composto di calce e polvere di marmo ed è lo strato sul quale vengono allettate le tessere; su di esso
viene eseguito anche il disegno preparatorio con vari colori (rosso, giallo, verde e azzurro), queste stesure
colorate hanno una funzione fondamentale perché, una volta allettate le tessere, servono a mascherare le
giunture tra una tessera e l’altra perché se l’intonaco fosse bianco creerebbero un effetto a ragnatela.
Questo strato di intonaco non veniva steso tutto insieme, a differenza degli altri, veniva preparato
velocemente a pezzi che corrispondono alle cosiddette giornate, cioè le porzioni di intonaco fresco sulle
quali l’artista lavorava prima che l’intonaco si asciugasse (a fine giornata le parti di intonaco non utilizzate
venivano rimosse e rifatte fresche l’indomani).
Le tessere non venivano inserite piatte ma avevano un’inclinazione diversificata determinando riflessi
differenziati della luce e un effetto di movimento sulla superficie dell’intero mosaico. Le dimensioni
andavano dai 7 ai 10 millimetri circa a seconda delle esigenze. La tavolozza delle tessere vitree era
amplissima (Santa Sofia 177 sfumature). Le tessere venivano ricavate da lastre grandi e spesse , le
cosiddette pizze o lingue, che venivano tagliate con scalpelli metallici per ottenere le tessere (la mezza pizza
ritrovata nel Duomo di Monreale è stata ritrovata nella parte alta dell’abside all’interno di una nicchia,
questo ci documenta che le pizze non erano tagliate solamente a terra ma venivano portate anche in alto al
di sopra dei ponteggi). La superficie delle tessere può essere lucida o opaca a seconda del punto della pizza
in cui è stata tagliata: la tessera è opaca quando è ricavata dal punto esterno della pizza a contatto con la
fornace; è scintillante quando corrisponde allo spessore della pizza.
Le tessere d’oro e d’argento avevano due spessori diseguali di vetro trasparente: se il mosaicista allettava la
tessera dalla parte con l’oro e l’argento più vicino alla superficie determinava un riflesso luminoso più
intenso; nel caso in cui inseriva la tessera con la foglia metallica più lontana ne attenuava la luminosità e la
brillantezza. La stesura dei fondi aurei può essere a filari orizzontali o a semicerchi sovrapposti che formano
una tessitura a conchiglia; all’interno delle aureole le tessere venivano inserite a filari circolari concentrici.
Tuttavia, a proposito delle aureole, possiamo incontrare soluzioni diverse: filari circolari concentrici
(procedimento più adoperato), filari orizzontali. Quando si accostano le tessere d’oro al bordo delle figure
vengono disposte in modo particolare, formano cioè un contro contorno con un doppio filare d’oro (in
alcuni casi può essere anche semplice).
Le tessere d’oro tengono conto del punto di vista dell’osservatore, se sono osservate da sotto in su vengono
inclinate verso il basso e allettate in filari molto distanziati fra di loro realizzati in economia con un alto
strato di malta intermedia.

Schizzo preparatorio o sinopia, costituisce un aspetto interessante nella procedura esecutiva dei mosaici.
Durante i lavori di restauro, quando i mosaici vengono distaccati si trovano sinopie che corrispondono
all’immagine del mosaico finito ma, in alcuni casi, esse si presentano diverse e quindi documentano dei
cambiamenti di programma iconografico o decorativo avvenuti in corso d’opera (es. mosaico absidale della
chiesa di Sant’Apollinare in Classe presso Ravenna, durante i lavori condotti nel 1970-73 venne ritrovata
sotto il fascione che separa il cilindro dal catino absidale una bellissima sinopia con un disegno seriale che
presenta grandi canestri di frutta e di fiori affiancati ciascuno da due uccelli in posizione araldica. Questa
sinopia attesta un progetto che poi non è stato eseguito nel mosaico portato a termine, infatti, il mosaico
finito presenta degli elementi decorativi più semplici: due cornici gemmate e una cornice centrale più
grande a calici e palmette vegetali).

Organizzazione generale del cantiere: i lavori si svolgono sempre dall’alto verso il basso con la progressiva
rimozione dei ponteggi sui quali gli artisti lavoravano. La procedura del mosaico parietale, fino al momento
in cui vengono allettate le tessere, coincide con la tecnica della pittura murale, dunque ogni mosaicista
bizantino era anche un pittore murale e, se consideriamo che le opere parietali si realizzavano solo nella
bella stagione per consentire una rapida asciugatura del muro, dobbiamo pensare che quetsi professionisti
nella stagione fredda, nelle loro officine, si dedicavano ad altre attività, principalmente la pittura su tavola.
L’unità di misura del lavoro del mosaicista è la cosiddetta giornata: una giornata di lavoro equivale a circa 1,5
metro quadrato e può arrivare a 3,5 metri quadrati a seconda della complessità del disegno che doveva
essere realizzato, la complessità è minima nei fondi ma diventa massima nei dettagli e particolari delle
figure. Sui ponteggi, in genere, lavoravano affiancati l’uno all’altro due persone attive
contemporaneamente: uno lavorava sui fondi, l’altro sulle parti più dettagliate ed egli era un magister, un
artista dalla preparazione più evoluta.

Analisi abbazia Montecassino al tempo di Desiderio


Il nuovo complesso monastico fu ricostruito per volontà del grande abate nel 1066 e, la campagna edilizia e
decorativa, fu conclusa nel 1071 quando il 1 ottobre la chiesa venne solennemente inaugurata alla presenza
del papa Alessandro II, di Ildebrando di Soana (futuro papa Gregorio VII) e della maggiori autorità civili ed
ecclesiastiche del tempo. Sappiamo dalla cronaca di Leone Marsicano, e da altre fonti, che alla cerimonia
intervennero la marchesa Matilde di Canossa, il principe Riccardo di Capua, Sergio duca di Napoli e il duca
Landolfo di Benevento, era assente invece la figura politicamente più importante quella del normanno
Roberto il Guiscardo che era impegnato nell’assedio della città di Palermo (dopo una lunga campagna di
conquista fu sottratta agli arabi).
Il bombardamento del febbraio 1944 rase al suolo il grande complesso architettonico che, dopo la 2° guerra
mondiale, sarà ricostruito in forme grosso modo corrispondenti alla sua ultima fase di vita. Fortunatamente
c’è una grande quantità di notizie storiche e letterarie che ci vengono fornite soprattutto dalla Chronica
monasterii Casinensis scritta da Leone Marsicano, bibliotecario dell’abbazia ma anche testimone oculare di
quei lavori (la descrizione di Leone è molto ricca di dettagli).
I dati testuali che la cronaca ci offre vanno incrociati con altri tipi di fonte di informazione: i dati archeologici
emersi dagli scavi svolti durante la ricostruzione, i resti di opere d’arte conservati in loco o gli indizi che si
possono ricavare da monumenti del territorio che presero a modello l’abbazia cassinese, infine ci sono i
documenti iconografici antichi (mettendo insieme questi 4 tipi di informazione potremmo farci un’idea del
monumento perduto).
Desiderio era nato nel 1027 dalla famiglia dei duchi longobardi di Benevento, era divenuto abate di
Montecassino nel 1058, rimase abate fino al 1086 quando fu eletto papa con il nome di Vittore III. desiderio
era entrato a Montecassino (nel 1055-56) assieme ad un altro personaggio importante, Alfano futuro
arcivescovo di Salerno. Miniatura in cui Desiderio offre il codice a S. Benedetto: lo sfondo presenta edifici e
portici che alludono alla ricostruzione dell’abbazia promossa da Desiderio; i volumi sontuosi rilegati in rosso
e blu sono un riferimento alla ricchissima biblioteca abbaziale; le chiese, i terreni e gli specchi d’acqua sono
invece un’evocazione dei possedimenti di Montecassino, l’abbazia infatti era anche un grande potentato
territoriale nell’Italia centromeridionale. Desiderio, raffigurato con il nimbo quadrato dei viventi, è
accompagnato dalla scritta che riferisce le parole da lui pronunciate come donatore e rivolte a S. Benedetto.

Leone Marsicano era nato nel 1046 ed era entrato nel monastero a 14 anni (nel 1060). Desiderio presenta a
S. Benedetto Giovanni Marsicano mentre Leone è inginocchiato: Leone è a quel tempo ancora molto
giovane (aveva 26 anni ma era già bibliotecario di Montecassino), lo vediamo ai piedi del santo mentre offre
la stoffa che serviva a proteggere il codice che veniva donato da suo zio Giovanni.

Come racconta Gregorio Magno nei Dialogi, Montecassino venne fondata attorno al 529 da San benedetto
da Norcia all’interno di un santuario pagano dedicato ad Apollo che si trovava in cima al monte (alcune
strutture forse pertinenti a questo tempio sono emerse a seguito degli scavi condotti dopo la 2° guerra
mondiale condotti da Angelo Pantoni uno studioso benedettino). La prima cellula di quella che divenne in
seguito una delle più spettacolari cittadelle monastiche del Medioevo, era costituita da pochissimi ambienti
per i monaci raccolti attorno a due piccole chiese dedicate a S. Giovanni Battista e a S. Martino. La chiesa di
S. Giovanni Battista, risalente al VI-VII sec, era di modeste dimensioni e presentava un impianto ad unica
navata monoabsidata.
L’abbazia fu abbandonata verso la fine del VI sec a causa delle distruzioni provocate dalle incursioni dei
longobardi di Benevento; i monaci ripararono a Roma presso il complesso del Laterano. Dopo un secolo, nel
717-18, il cenobio ritornò a nuova vita per opera dell’abate Petronace che provvide a restaurare l’abbazia;
dopo questa ricostruzione crebbe anche il prestigio dell’abbazia a cui furono destinati privilegi da parte dei
papi e delle importanti donazioni fondiarie da parte dei duchi di Benevento (questi beni costituirono il
primo nucleo di un ingente patrimonio territoriale sui quali l’abate esercitava dei veri e propri poteri
giurisdizionali, era la cosiddetta Terra Santi Benedicti). Durante l’VIII sec Montecassino divenne anche luogo
di incontro e di vita monastica per alcuni personaggi illustri, tra le sue mura, per esempio, si ritirò il re
longobardo Ratkis; lo scriptorium dell’abbazia aveva un’intensissima attività dedita soprattutto alla raccolta
e trascrizione di testi classici e cristiani; negli anni 781-82 Paolo Diacono, il celebre storico dei longobardi,
diresse all’interno del monastero una scuola. Il culmine di questa fase di rinascita si ebbe tra il 797 e 817
sotto il governo dell’abate Gisulfo che procedette ad un radicale rinnovamento della chiesa di S. Giovanni
Battista all’interno della quale era custodito il corpo del santo fondatore:l’antico oratorio diventò un edificio
di grandi dimensioni a tre navate.
Il 4 settembre 883 una nuova sciagura si abbatté sul cenobio: i saraceni misero a ferro e fuoco l’abbazia e la
comunità fu costretta per la seconda volta a lasciare Montecassino trovando rifugio nella città di Capua.
Questo esilio forzato durò quasi 70 anni, fino al 949-950, quando l’abate Aligerno, dopo aver provveduto a
risistemare le fabbriche monastiche, ritornò alla primitiva sede; da questo momento in poi l’abbazia
recuperò gradualmente prosperità. Subito dopo il 1000 va ricordato un importante intervento
architettonico, quello promosso dall’abate Atenolfo il quale aggiunse a occidente un campanile centrale
fiancheggiato da due oratori molto alti a forma di torri (è una soluzione architettonica che si ispira al
cosiddetto massiccio occidentale o westwerk diffuso nell’architettura carolingia e ottoniana del nord
Europa). Il successore Teobaldo costruì davanti alla fronte occidentale della basilica un atrio che terminava
con due torri; poi l’abate Richerio vi costruì dei portici (il transetto continuo non doveva esistere).
Le notizie che ci interessano si trovano nel III libro della Cronaca di Leone Marsicano, questa parte dell’opera
si può dividere in 5 sezioni principali:
1) dedicata all’architettura della chiesa, ne descrive la struttura e ne dà le misure;
2) presentazione dei mosaici e degli affreschi, quindi della decorazione della basilica;
3) intermezzo: leone ostiense scrive una sorta di cronaca della cerimonia di consacrazione della basilica
avvenuta il 1 ottobre 1071 (essa occupa una parte abbastanza lunga nel libro, racconta l’importanza di
questo evento che aveva grande valore politico e religioso);
4) descrizione dell’arredo liturgico della chiesa;
5) visione a volo d’uccello degli altri edifici del monastero;
La cronaca racconta che nel nono anno del suo governo, cioè nel 1066, Desiderio, per ispirazione divina,
decide di varare il grande progetto di ricostruzione. Come prima cosa l’abate fa demolire la vecchia chiesa di
S. Giovanni Battista ritenuta ormai inadeguata; successivamente fa spianare la cima del monte per ampliare
e livellare il piano d’appoggio dei nuovi edifici; poi decide di partire per Roma per acquistare marmi antichi
(è la prima volta che un acquisto è documentato; acquista colonne, basi, capitelli=spolia destinati ad essere
reimpiegati), l’imponente quantità di materiali viaggiò per via acquatica: da Roma ad Ostia lungo il Tevere,
da qui alla foce del fiume Garigliano via mare, successivamente lungo il Garigliano fino alla località di Suio,
infine via terra su carri trainati da animali i marmi giunsero faticosamente alla cima del monte. Il reimpiego
voluto da Desiderio non fu un reimpiego di carattere funzionale dal momento che marmi del genere
potevano essere anche prelevati dalla città antica di Cassino o dai siti classici del territorio, ma la scelta di
Desiderio fu di carattere fortemente ideologico basato sulla concezione dell’antico come modello e
strettamente legato all’idea di Roma come città apostolica e culla del cristianesimo delle origini. Che forma
aveva il nuovo edificio fatto realizzare da Desiderio? Stando alla varie fonti si trattava di una basilica a 3
navate con 3 absidi divisa da due file di 10 colonne; aveva un transetto sopraelevato ma non sporgente
lateralmente (elemento novo a Montecassino di derivazione romana); il presbiterio era rialzato su 8 gradini;
la facciata aveva tre ingressi ed era preceduta da un quadriportico chiamato da Leone “paradysus” termine
con cui era definito a Roma l’atrio della basilica di San Pietro in Vaticano; il quadriportico era affiancato da
una torre campanaria. La chiesa misurava 22 m di larghezza e quasi 50 di lunghezza (gli scavi hanno
confermato queste misure). Il modello architettonico scelto da desiderio non era quello bizantino (croce
inscritta con cupola), piuttosto quello di origine paleocristiana-romana che si ispirava alle grandi chiese
apostoliche della capitale della cristianità -> era in sintonia con l’ideologia della riforma gregoriana di
rinnovamento delle forme architettoniche.
Leone racconta che durante i lavori di livellamento della cima del monte venne trovata la tomba di San
Benedetto, Desiderio pertanto decise di non eliminare il dislivello tra navata e presbiterio, come invece era
stato progettato, il sepolcro di Benedetto venne lasciato lì dov’era e monumentalizzato con un’arca di
marmo pario, forse un antico sarcofago di reimpiego proveniente anch’esso da Roma; dunque non venne
introdotta una cripta. Della chiesa desideriana conosciamo anche parecchi frammenti del pavimento in opus
sectile realizzato da maestranze bizantine. Il disegno generale del pavimento delle navate è stato riprodotto
da Gottola nel 1733, manca però la zona del transetto: esso presentava uno sviluppo a tappeti geometrici
nelle navate minori, a grandi pannelli con dischi circolari e annodature nella navata centrale e nella prima
sezione della navata sinistra verso la facciata. Esempi di pavimenti bizantini coevi a quelli di Montecassino
sono piuttosto rari, si possono fare dei confronti con i pavimenti di di Chios, di Hosios Lukas e della chiesa
della Dormizione di Nicea dove in particolare troviamo i caratteristici motivi a cerchi annodati presenti
anche a Montecassino (motivo di origine bizantina che proprio a partire da Montecassino si diffonderà in
tutta Italia dal XII sec; avrà particolare successo a Roma all’interno delle botteghe dei Cosmati e dei
Vassalletto). Sulla sinistra della chiesa si appoggiavano la sagrestia e le cappelle di San Nicola e San
Bartolomeo; l’atrio era preceduto da due torri-cappelle dedicate a San Pietro e a San Michele; più in basso si
apriva un vestibolo inferiore. Dei 3 ingressi principali della chiesa restano oggi solo due portali marmorei
(entrambi riprodotti nell’opera di Gattola): il portale centrale presenta una decorazione con una larga
cornice a lacunari romboidali e rosette di ispirazione sicuramente classica ma completata con un gusto
medievale come si vede dal fondo a mosaico d’oro; il portale minore presenta un architrave con motivi ad
intreccio di ascendenza altomedievale, mentre i due montanti laterali decorati con steli vegetali e uccelli
sono due raffinatissimi pezzi di spoglio antichi che facevano probabilmente parte del carico di marmi
acquistato a Roma da Desiderio.

L’architettura della basilica cassinese rientra pienamente nella tradizione latina ma l’abate Desiderio fece
delle scelte diverse per quanto riguarda la decorazione dello spazio interno: Leone Marsicano (capitoli 27-
28) riferisce che Desiderio invia a Costantinopoli ambasciatori che ingaggino maestri esperti nella
lavorazione del mosaico (arte musiaria) e dei marmi (arte quadrataria) alcuni per rivestire l’abside con l’arco
trionfale e il vestibolo della chiesa maggiore, altri per ricoprire il pavimento dell’intera chiesa con pietre di
qualità diversa (viene sottolineata l’eccezionale bellezza e qualità dell’immagine facendo ricorso al concetto
dell’arte come mimesis, come imitazione della natura). Nulla resta dei mosaici e delle pitture che
decoravano le pareti, anche la cronaca qui è piuttosto vaga; il mosaico doveva essere totalmente ispirato
alla tradizione romana (Desiderio importò artisti bizantini non per creare un mosaico bizantino bensì uno
paleocristiano). Il programma decorativo doveva essere modellato su quello delle basiliche di Roma, infatti il
mosaico era limitato alla zona privilegiata dell’altare, cioè abside e arco trionfale, le immagini erano
accompagnate da tituli, lunghe iscrizioni, che furono appositamente composte da un raffinato letterario:
Alfano. Leone non ci informa in modo puntuale sul soggetto scelto da Desiderio per l’abside, dice solo che
erano raffigurati S. Giovanni Battista e S. Giovanni Evangelista e l’iscrizione si poteva leggere sotto i piedi dei
due santi; un’ipotesi è che il catino presentasse una serie di santi che convergevano al centro in una figura
divina con le due figure dei santi citati alle estremità (come per esempio il mosaico absidale della chiesa di
S. Marco a Roma), un’altra ipotesi è che i due santi potessero trovarsi nei pennacchi dell’arco al di fuori del
catino vero e proprio. Quanto al soggetto sono state fatte delle ipotesi anche tematiche: una prima ipotesi è
che vi potesse essere collocata l’ascensione di Cristo, tema ricorrente nelle chiese del territorio di
Montecassino; seconda ipotesi è che ci fosse una traditio legis, quindi Cristo tra i santi Pietro e Paolo, poteva
essere affiancato da S. Giovanni Battista e S. Giovanni Evangelista. È sicuro che derivava da Roma il testo
dell’iscrizione che ci viene fornito da Leone Marsicano “questa casa (cioè Montecassino) è simile al Sinai”, è
un’esatta riproduzione dell’epigrafe che si leggeva a Roma nell’abside di S. Giovanni in Laterano. Sempre da
Roma, ma questa volta dalla basilica di S. Pietro, proveniva il testo di un’altra iscrizione (oggi perduta),
quella posta sul semicerchio dell’arco trionfale che celebrava il committente dell’opera: “affinché sotto la
tua guida (di S. Benedetto) possa raggiungere e ottenere il regno destinato ai giusti, il padre Desiderio fondò
per te questo tempio”. Poiché a S. Pietro l’arco conteneva un mosaico contente un mosaico con Costantino
visto in atto di offrire un modellino della chiesa da lui fondata, si può ipotizzare che a Montecassino
Desiderio si fosse fatto ritrarre anche lui con un plastico dinanzi a Cristo e a S. Benedetto ->in S. Angelo in
Formis, fondata sempre da Desiderio, presso Capua è rappresentato l’abate in atto di offrire il modello della
chiesa; dunque potremmo immaginare che una figura simile fosse raffigurata a Montecassino in alto presso
l’arco.
Leone Marsicano non dice nulla di preciso nemmeno sul resto del programma interno della basilica, si sa
solo che era stato eseguito ad affresco, questa è per noi una gravissima omissione; Otto Demus ha suggerito
che quest’omissione non esclude che all’interno della basilica cassinese il ciclo testamentario potesse
proseguire e che ci fossero anche delle scene del santo fondatore, cioè di San Benedetto; l’ordine delle
scene non sarebbe stato diverso da quello che possiamo vedere oggi nella chiesa di S. Angelo in

, è un sistema narrativo non bizantino che si ispira invece ai grandi cicli paleocristiani di Roma del tempo di
Leone Magno (metà V sec). infine la cronaca precisa che la tecnica del mosaico era adoperata anche
all’esterno della chiesa: parte alta del vestibolo, lunette al di sopra delle 3 porte d’ingresso. [Il modello delle
lunette decorate a mosaico fece scuola nel territorio, lo ritroviamo infatti nella chiesa di S. Maria della
Libera ad Aquino dove c’è la Vergine Odegitria]

Cerimonia di consacrazione 1 ottobre 1071; attraverso gli illustri personaggi presenti la basilica di Desiderio
cominciò a diventare un modello largamente imitato.

Capitolo 32. Leone descrive i suoi ornamenti.


Il primo e più preziosi degli arredi menzionati è l’antependio (oggi perduto), il paliotto dell’altare, eseguito in
oro e smalti con rappresentazione di scene evangeliche e della vita di S. Benedetto. Esso non doveva
corrispondere ad una tipologia bizantina ma ad una occidentale già carolingia; era stato realizzato a
Costantinopoli, un monaco era stato inviato portando con sé 30 libbre d’oro per la realizzazione dell’opera.
Per quanto riguarda la rappresentazione della vita di S. benedetto, è probabile che le scene si disponessero
in modo molto simile a quelle che possiamo vedere nel Codice Vaticano latino 1202 che contiene una
sezione con la vita illustrata del santo. Per immaginare l’aspetto che poteva avere l’antependio cassinese
prendiamo ad esempio un’opera simile: la Pala d’oro di S. Marco a Venezia che nella sua forma primitiva era
un antependio con scene evangeliche e scene del santo titolare (Marco).
Un altro elemento dell’arredo liturgico cassinese doveva essere la barriera anteriore del coro, una sontuosa
iconostasi collocata a metà della navata; il recinto era presentava lastre di marmo bianco, verde e porfido,
aveva un doppio architrave: quello di sotto in legno dipinto in oro e porpora sorretto da 6 colonne
d’argento, quello di sopra in bronzo sosteneva dei candelabri e vi erano appese delle lampade; alla trave
lignea inferiore erano appese 5 icone rotonde negli intercolumni, al di sopra vi erano 13 icone quadrate di
argento dorato massiccio (di queste 10 erano state fatte a Costantinopoli, 3 a Montecassino all’interno di
quel cantiere-scuola impiantato da Desiderio) (le 5 icone rotonde erano tutte frutto ella perizia greca, cioè
della abilità bizantina, erano delle icone a colori a tempera su tavola con cornici d’argento).
Una seconda pergula d’argento si doveva trovare sotto l’arco trionfale, dunque immediatamente davanti
all’altare maggiore.
Come possiamo immaginare queste due iconostasi? Per quanto riguarda la prima possiamo riferirci ad una
chiesa sempre di ambito benedettino, S. Maria in Valle Porclaneta in Abruzzo, dove troviamo un’iconostasi
con parte superiore in legno e inferiore in pietra, inoltre nella parte basse dell’architrave ci sono degli spazi
rotondi che un tempo erano dipinti a tempera.
L’arredo liturgico era completato da un grande ambone di legno affiancato da un candelabro pasquale. Da
sottolineare è che l’ambone è unico rappresentando il punto finale di un’antica tradizione di origine
altobizantina (in futuro gli amboni saranno due e paralleli).

Nell’ultimo capitolo della sua descrizione Leone delinea una mappa a volo d’uccello degli edifici che
occupavano l’acropoli monastica cassinese. Leone riferisce che tutti questi edifici (dormitorio, refettorio,
sala capitolare) erano decorati da pitture murali o pavimenti realizzati con la tecnica dell’opus sectile alla
maniera bizantina (tra questi la camera dell’abate). Anche la basilica minore di S. Martino aveva un mosaico
absidale, un pavimento di marmo, un antependio d’argento per l’altare e una porta di bronzo. Sulla porta di
bronzo della chiesa di S. Martino Leone non ci dice nulla, soffermandosi invece su quella della chiesa
abbaziale. La porta bronzea, ancor oggi conservata seppur malridotta, presenta 18 pannelli ognuno è
riempito con iscrizioni latine che elencano la lista dei possessi dell’abbazia; in basso al centro ci sono altre
due iscrizioni latine che sono più grandi delle altre e diverse, ognuna delle due iscrizioni è inserita tra due
croci fogliate che ricordano il nome del committente della porta, Mauro, esponente di una ricca famiglia
positana. Leone ci racconta che nel 1065 Desiderio era sceso ad Amalfi per acquistare dei doni preziosi in
previsione della visita dell’imperatore Enrico IV all’abbazia, in quell’occasione aveva visto all’ingresso della
cattedrale la porta bronzea bizantina proveniente da Costantinopoli, ne era rimasto talmente colpito da
ordinarne una simile per l’abbazia di Montecassino (inviò a Costantinopoli le misure della vecchia chiesa).
Cosa aveva di speciale la porta di Amalfi? Essa presentava 24 pannelli, 20 sono ricoperti di croci fogliate, i 4
pannelli centrali sono invece figurati con quattro personaggi in piedi al di sotto di arcate: Cristo benedicente,
la Vergine Haghiosoritissa (cioè nella posa dell’intercessione), S. Andrea (titolare della cattedrale di Amalfi),
S . Pietro (fondatore della chiesa cristiana). Queste figure sono eseguite con la tecnica dell’agemina, cioè
con fili e lamine di metallo di diverso colore; questa è la raffinatissima decorazione che incantò gli occhi di
Desiderio. Le iscrizioni che leggiamo documentano che questa porta fu commissionata da un personaggio
appartenente alla stessa famiglia del committente della porta di Montecassino: Pantaleone de Comite
Maurone, figlio di Mauro (egli si era trasferito a Costantinopoli diventando un personaggio di primo piano).
Nella porta di Amalfi non è più possibile osservare l’effetto dei fondi e delle cornici che non sono fusi in vero
e proprio bronzo bensì in oricalco, una tenue lega dorata composta di rame, piombo, zinco e una minima
percentuale di stagno, questa lega è equivalente all’ottone e conferiva alla superficie della porta la
brillantezza e il fulgore degli oggetti in oro che spesso ornavaano le grandi chiese di Costantinopoli (di
questa lavorazione è rimasta qualche traccia solamente nelle zone rimaste coperte). Quando Mauro, che
era amico di Desiderio, sentì che Desiderio voleva ordinare una porta simile per Montecassino, si offrì di
inoltrare la richiesta tramite suo figlio prendendosi anche l’onere del pagamento e diventando lui il
committente. [i battenti di Amalfi costituiscono il primo esemplare di una porta bronzea costantinopolitana
arrivata in Italia nell’XI sec. Esempio di manufatto che ebbe grande fortuna in Italia durante l’età dei
comneni]
Nel 1065 Desiderio non aveva ancora deciso di ricostruire la chiesa, ecco perché la porta rimane così bassa;
infatti in basso vennero aggiunti due pannelli per adattarla alla nuova altezza della chiesa. La porta di
Montecassino, ad eccezione della presenza di 4 croci fogliate, si presentava completamente diversa dalla
porta di Amalfi, infatti i pannelli non presentano immagini ma iscrizioni. Dopo il bombardamento del 1944,
quando i monaci andarono a scavare per recuperare i frammenti della porta, scoprirono che 9 pannelli
riportavano sul rovescio delle figure, quindi erano stati reimpiegati e rovesciati per incidervi sopra le
iscrizioni con la lista dei possessi dell’abbazia. Le figure rappresentate erano patriarchi e apostoli realizzati
con la tecnica bizantina ad agemina, la stessa della porta di Amalfi.
- La porta desideriana del 1066 ebbe una vita piuttosto breve, già al tempo dell’abate Oderisio II (attorno al
1124) venne fatta una nuova porta di bronzo, ma era una porta fatta sfruttando il rovesciamento dei
pannelli più antichi della porta di Desiderio per incidervi la lista dei possedimenti dell’abbazia. Alla porta di
Oderisio II si affiancavano altre due porte su cui continuava l’elenco dei possessi dell’abbazia. Tuttavia i
pannelli rovesciati non appartengono tutti alla porta di Desiderio: durante il terremoto del 1349 la porta
centrale e le due laterali furono gravemente danneggiate e subito dopo si decise di ricomporre in un’unica
porta ciò che restava di tutte e 3 le porte originarie che erano state danneggiate.
- Le 9 formelle figurate scoperte sul verso vennero inquadrate in maniera diversa dal punto di vista storico-
artistico: inizialmente gli studiosi le considerarono opere costantinopolitane, ovvero residuo della porta di
Desiderio; più tardi fu detto che queste formelle provenivano dalla porta della chiesa di S. Martino opera di
allievi cassinesi, dunque se queste formelle venivano da quella chiesa non rispecchiavano la mano e lo stile
della porta fatta a Costantinopoli per Desiderio. Nel 2006 sono state esaminate le formelle: queste che
erano state giudicate come un nucleo unitario, si sono rivelate diverse tra di loro per tecnica, epigrafia, stile.
Infatti, guardandole con attenzione, si capisce che la serie dei patriarchi e quella degli apostoli hanno
caratteri differenti nello stile e nelle rifiniture, anche se sostanzialmente la procedura tecnica è affine,
dunque è verosimile che questi pannelli provengano da due porte distinte: i patriarchi, realizzati con uno
stile elegante, aulico e monumentale, provengono dalla porta desideriana del 1066 commissionata da
Mauro a Costantinopoli; gli apostoli dalla porta più tarda, quella di S. Martino, probabilmente eseguita a
Montecassino dagli allievi locali all’interno del cantiere-scuola aperto da Desiderio.

Le porte bronzee bizantine in Italia


Le porte che si sono conservate giunsero da Costantinopoli, su specifica richiesta dei committenti italiani, in
un arco di tempo di circa 50 anni (dal 1060 al 1110 circa).
Le bizantine in origine erano 10 ed erano collocate quasi tutte in Italia centromeridionale: Amalfi,
Montecassino, Roma, Monte Sant’angelo, Atrani, Salerno; a Venezia si trovano le ultime due porte della
serie poste all’ingresso della basilica di San Marco. Un altro esemplare oggi perduto, quello di Pisa, fino alla
fine del ‘500 era in facciata e vi era arrivata nel 1099 come dono di Goffredo di Buglione, il primo re latino di
Gerusalemme, che in questo modo ringraziava i pisani per averlo sostenuto durante la prima crociata (allora
Pisa non era ancora proiettata nei commerci con il Mediterraneo orientale, e proprio in questo periodo
iniziò la sua escalation nel levante).
Un gruppo di ben quattro porte, quelle di Amalfi, Montecassino, Roma e Monte Sant’Angelo, condividono i
donatori, si tratta di Pantaleone e suo padre Mauro della famiglia amalfitana De Maurone Comite (Amalfi,
Roma, Monte Sant’Angelo = Pantaleone; Montecassino = Mauro).
In Campania ci sono altre due porte legate a due diversi committenti:
1) porta della Cattedrale di Salerno del 1085, voluta da Landolfo Butrumile e sua moglie Guisana. Il
coinvolgimento femminile nella committenza è raro vederlo dichiarato quando si è in presenza di un
donatore maschio. Landolfo era salernitano ma risiedeva a Costantinopoli dove ricoprìun’importantissima
carica, quella di comandante della flotta bizantina.
2) porta di San Salvatore ad Atrani del 1087, venne dotata da Pantaleone Viarecta.
A Venezia Leo da Molino fu il committente della porta centrale di San Marco. Egli apparteneva ad un’antica
e illustre famiglia della Serenissima, e aveva la carica di procurator di rispetto della basilica di San Marco.
Queste porte erano quasi sempre corredate di minuziose informazioni scritte che ci tramandano l’anno, il
luogo di fabbricazione, i nomi e i ritratti dei donatori (vediamo ad esempio alcuni di loro in piedi o in
proskynesis), talora troviamo le firme degli artisti che lavorarono alle porte. Insomma si tratta di una
circostanza fuori dalla norma corrente che ci consente di ricostruire una pagina della produzione artistica
dei primi cinquant’anni dell’età comnena.
Cornice storica in cui si inserisce il fenomeno delle porte bizantine: la moda dei battenti bizantini iniziò a
delinearsi solo dopo lo scisma del 1054 che determinò la separazione tra chiesa cattolica e ortodossa, tra
occidente e oriente. La sfera della cultura e dell’arte dimostra di non risentire di questa profonda frattura,
anzi sembra quasi ignorarla, infatti in questo periodo gli scambi artistici tra Bisanzio e l’Italia si infittiscono.
Per quanto riguarda l’iconografia, le porte presentano soluzioni varie motivate dalle esigenze
rappresentative e cultuali del monumento di appartenenza. Nonostante le varianti si possono ricondurre a
due gruppi fondamentali:
1) soluzione proposta dalle porte di Amalfi, Atrani e Salerno: le ante presentano poche figure di carattere
iconico circondate da croci (soluzione più semplice);
2) programmi ciclici di Roma e Monte Sant’Angelo: le croci scompaiono a favore dei pannelli figurati, o
passano in secondo piano (soluzione più complessa);
Nel primo gruppo le croci fogliate vanno intese come simbolo del potere salvifico del sacrificio del Messia, e
la piccola base sagomata sotto la croce allude appunto al Golgota; mentre, le formelle collocate nella zona
centrale o nel registro mediano contengono le figure di Cristo, della Vergine e dei santi titolari delle
rispettive chiese. Il ruolo attribuito alla Vergine e ai santi è quello di intercessori in favore del donatore che
viene sempre nominato nelle iscrizioni, invece in altri casi, il donatore può essere anche raffigurato di lato o
ai piedi del santo titolare.
Il riferimento semantico fondamentale sotteso ai programmi delle porte è quello al Vangelo di Giovanni in
cui Cristo applica a sé stesso la metafora della porta “io sono la porta… se uno entra attraverso di me, sarà
salvo”. Questo concetto conferisce ai battenti bizantini il valore di porte del paradiso, soglia dello spazio
sacro in cui il fedele ottiene il perdono e l’ingresso alla salvezza; la porta dunque funziona come
un’iconostasi e le formelle sono come icone a cui rivolgere la preghiera. Per intendere questo valore della
porta come soglia è indicativa l’immagine della Vergine Haghiosoritis, essa ricorda l’iconografia di omologo
significato della Vergine paraklesis che rivolge al figlio una supplica scritta (immagine diffusa soprattutto in
epoca medio bizantina).
In occasione del convegno di Roma del 2006 sulle porte bizantine, è stato possibile completare il quadro dei
dati sulle leghe utilizzate nelle porte bizantine in Italia.

Tecnica dell’agemina o damaschinatura: intarsio eseguito a freddo con metalli diversi, condotto sulle lastre
già fuse. In occasione dei restauri di Atrani e Salerno è stato rilevato che, diversamente da quanto si
credeva, i solchi di contorno delle figure e degli ornati non sono stati realizzati in fusione: i relativi cartoni
venivano trasferiti sulle lastre a freddo con uno strumento a doppia punta o doppia rotella che tracciava una
sorta di binario entro il quale poi venivano incisi i solchi veri e propri realizzati con una sezione a coda di
rondine. Questi solchi a loro volta venivano riempiti sempre a freddo con fili metallici, d’argento, rame o
altre leghe metalliche, che venivano martellati nell’alloggiamento; oppure questi solchi potevano essere
colorati con paste colorate o niello.
Per comprendere meglio il procedimento esecutivo si possono confrontare il Cristo benedicente di Amalfi e
il Cristo benedicente di Salerno; quello di Salerno consente di osservare una fase intermedia della
lavorazione, cioè quando i solchi erano stati già tracciati ma non ancora riempiti.
Il profeta Davide della porta di Leo da Molino di S. Marco conserva addirittura alcune delle finiture finali
realizzate in rosso cinabro.
Visi, mani e campiture più larghe dei panneggi erano trattati in modo differente con
l’inserimento di laminette argentee sagomate che venivano poi a loro volta sottilmente
incise e riempite con il niello di colore nero per far risaltare i dettagli disegnativi.
Le ante non sono realizzate a fusione massiccia come accade nelle porte carolingie o
ottoniane dove i personaggi sono resi quasi a tutto tondo. Le porte bizantine presentano
una caratteristica struttura composta da singole unità piatte e rigorosamente modulari di
taglio piuttosto piccolo che poi nel montaggio finale venivano fissate per mezzo di chiodi
metallici su un’anima interna di legno.
1 pannelli rettangolari di fondo che potevano essere lisci, figurati o con iscrizioni;
2 croci fogliate, elementi indipendenti applicati sui fondi rimasti lisci;
3 cornici piatte di due formati, a T o ad U; con questi le parti della porta venivano
ingabbiate;
4 chiodi con le relative borchie di copertura che servivano a fissare i pezzi al supporto di
legno;
A questi quattro elementi si potevano aggiungere i coprigiunti verticali delle ante, che
potevano avere la forma di una colonnina o di un cordone ritorto.
Le porte bizantine non presentano parti in rilievo ad eccezione delle teste leonine di
impronta classicheggiante che sostengono gli anelli delle maniglie.
Le figure, sottilmente incise, emergevano solo per la loro definizione cromatica determinata dalle
incroststazioni metalliche, impiego del niello o paste colorate che venivano inserite nei fondi. Gli artisti
bizantini scelsero di fondere le loro porte con il metodo della fusione in sabbia o a staffa, metodo impiegato
per la fabbricazione di oggetti pieni e particolarmente indicato per la fusione in serie.
Colori rintracciati nelle porte bizantine: il rosso corrisponde al cinabro; il blu (si trova solo ad Atrani) è forse
un colore organico combinato con il carbonato di calcio; il verde chiaro (solo sulla porta di Monte
Sant’Angelo) costituisce ancora una questione aperta poiché potrebbe essere un materiale introdotto
successivamente durante un restauro; il nero è niello.
Nella porta di Monte Sant’Angelo i pigmenti cromatici sono stati stesi all’interno dei solchi impegando come
legante un olio siccativo secondo una pratica molto frequente nella pittura su tavola ma in epoca più tarda.

Le tre porte di Pantaleone de Maurone Comite


Egli fu il committente, dopo la porta di Amalfi, per i battenti di S. Paolo fuori le Mura (1070), per quelli di
Monte Sant'Angelo per il santuario di S. Michele (1076).
La porta di S. Paolo, nonostante i gravissimi danni di un incendio, è ancora in gran parte conservata ed è
stata oggetto di recenti restauri e puliture che hanno consentito di recuperare la decorazione dorata del
metallo che, come sappiamo, è oricalco. La porta è corredata da una serie di iscrizioni: l'epigrafe a destra,
con la data 1070, ricorda che le porte furono fatte a Costantinopoli al tempo di Ildebrando di Soana (futuro
Gregorio VII), con il contributo di Pantaleone qualificato qui come console. Qui Pantaleone è presente, oltre
che per iscritto, anche per immagine con la formella in cui appare in proskynesis mentre S. Paolo lo
sospinge ai piedi di Cristo; si tratta del primo caso a noi noto dell'immagine di un committente su una porta
bronzea bizantina. L'iscrizione che vi si legge insiste sul consueto concetto dell'intercessione richiesta ai
santi ma indirizzata a Cristo. La porta presenta 54 formelle istoriate,senza elementi in rilievo, con un ciclo di
scene del vecchio e del nuovo testamento (la sua configurazione è ben diversa da quella della porta di
Amalfi che presentava solo 4 formelle figurate); molto probabilmente qui i committenti romani (ricordiamo
che siamo nel periodo della riforma) vollero intenzionalmente rifarsi a un modello paleocristiano: porta
lignea di Santa Sabina. Di queste 54 formelle se ne possono isolare 6: 2 contengono iscrizioni, 4 elementi
decorativi. Nella riga centrale (la 5 sia dal basso che dall'alto) troviamo due iscrizioni e subito accanto due
croci fogliate, queste ultime sono incise direttamente sulla lastra e sono anche croci gemmate con un
significato dunque salvifico e trionfale. In basso, a destra e a sinistra, compaiono due aquile (motivo
chiaramente ispirato alle celebri stoffe imperiali mediobizantine, allusione alla fabbricazione della porta
nella città imperiale di Costantinopoli). I restanti 48 pannelli sono invece tutti istoriati: possiamo dividerli in
quattro gruppi di 12 distribuiti in:
- 12 figure di profeti con cartigli iscritti (in basso a destra);
- 12 scene della vita di Cristo (in alto a sinistra);
- 12 figure di apostoli alternate con 12 scene del martirio o della sepoltura degli stessi;
Secondo Herbert Bloch questa sarebbe la distribuzione originaria del programma elaborato a Roma da
Ildebrando di Soana ed eseguito a Costantinopoli dai bronzisti bizantini. Le scene sarebbero divise
grossomodo in 4 quadranti e tra di loro vi sarebbe una corrispondenza in diagonale:
i profeti tengono in mano i cartigli con le profezie relative alle scene della vita di Cristo = in basso a destra –
in alto a sinistra.
gli apostoli e le scene del loro martirio = in basso a sinistra – in alto a destra.
Tuttavia l'idea di Bloch non appare convincente, si nota un certo disordine a cominciare dalla zona centrale
(5° riga) della porta in cui troviamo, in una posizione fuori sede, il martirio di S. Paolo affiancato alla figura di
Mosè, mentre S. Paolo e Cristo, che dovrebbe essere collegato alla scena del martirio, si trova separato nella
6° riga. Sempre in questa riga seguono: San Pietro, e il martirio di S. Pietro, poi compaiono i profeti senza
evidenti rapporti con le scene precedenti. Probabilmente (secondo Livia Bevilacqua) i pannelli della porta,
dopo un'operazione di pulitura, sono stati spostati assumendo la distribuzione attuale. Le formelle sono
prive di qualsiasi contrassegno numerico del rovescio, elemento che ci avrebbe aiutato a restituire il loro
ordine originario.
La porta di S. Paolo è un unicum per l'estensione del suo ciclo, quindi bisogna ragionare sulla base dei
sistemi iconografici di opere d'arte anteriori o coevi: ci aiutano il Codice Purpureo di Rossano (V-VI sec) e gli
affreschi della chiesa benedettina di S. Angelo in Formis (XI sec), che sono più o meno contemporanei alla
porta di S. Paolo, dove i profeti con i cartigli in mano profetizzano episodi della vita di Cristo rappresentati al
di sopra sulla parete. Un sistema del genere doveva essere adottato anche nella porta di S. Paolo dove tutti i
profeti presentano cartigli con iscrizioni che erano stati probabilmente scelti in rapporto a precise scene
cristologiche; la loro disposizione originaria sui battenti doveva dunque essere tale che ogni profeta si
trovasse vicino all'episodio evangelico a lui collegato: si pensa che, a partire dall'altro, le file orizzontali
composte da 6 profeti e da 6 episodi evangelici si alternassero tra di loro creando in verticale un
abbinamento preciso tra ciascun profeta e ciascuna scena evangelica; la stessa cosa doveva accadere nella
metà inferiore della porta per gli apostoli e le loro scene di martirio; tra i due gruppi la separazione doveva
essere assicurata dalle 6 formelle con le aquile, le iscrizioni e le croci, collocate su una fila unica. In tal modo,
la sezione con i profeti del vecchio testamento e le scene della vita di Cristo, si sarebbe venuta a trovare
secondo il concetto gerarchico dei programmi bizantini, nella parte superiore delle due ante con una
disposizione a file alternate; nella parte inferiore, invece, si sarebbero trovati sempre a file alternate gli
apostoli e le scene dei loro martirii, in una posizione di maggiore Visibilità ma anche nella logica di un
programma dell'età della Riforma. Infine si può ipotizzare che la formella con S. paolo che presenta
Pantaleone a Cristo, vista la sua importanza, fosse collocata al centro della 6° fila abbinata a quella dell'altro
principe degli apostoli, S. Pietro, e che subito al di sotto figurassero le rispettive scene del martirio.
Nella porta di S. Paolo si conserva anche un'iscrizione relativa agli artisti: la prima era bilingue, in greco e
siriaco, e ricordava il fonditore (è andata perduta durante un incendio ma si conosce tramite una copia); la
seconda, in greco, si trova in una posizione nascosta (è stata scoperta recentemente) ossia nello spessore di
una delle placchette rettangolari del coprigiunto centrale e ricorda il disegnatore.
La porta del santuario di S. Michele a Monte S. Angelo, presenta un'iscrizione, che occupa un intero
pannello, che ricorda il suo committente ma non c'è il suo ritratto; una seconda iscrizione, che è un vero e
proprio unicum, è un ammonimento di tipo tecnico (una sorta di istruzioni per l'uso) rivolto ai rectores
(responsabili) del santuario, essa recita “vi prego ed imploro...affinché una volta all'anno facciate pulire
queste porte così come ora vi abbiamo fatto vedere, in modo tale che siano sempre lucide e splendenti”.
Quest'iscrizione consente di raccogliere un dato interessante sull'organizzazione produttiva e sul trasporto
di questi manufatti bronzei: si ricordi che le porte bizantine viaggiavano suddivise in unità modulari, leggere,
per poi essere montate una volta arrivate in loco, e probabilmente vi era anche un tecnico della bottega di
origine che, non solo effettuava la consegna, ma seguiva l'operazione di assemblaggio e forniva
accorgimenti per la cura del prezioso rivestimento metallico.

L'origine della tecnica delle porte ageminate


Questa tecnica non possiede attestazioni anteriori all'XI sec. Negli studi più autorevoli dedicati
all'argomento si è ripetutamente sostenuto che tali porte costituiscono un'innovazione dell'età dei comneni
e che sono state eseguite a Costantinopoli ma, considerata la loro committenza tutta italiana, sarebbero
state confezionate all'interno di laboratori amalfitani (probabilmente le officine navali sul Corno d'oro di cui
i Mauroni sarebbero stati proprietari). Il linguaggio che impronta queste opere, nel quale confluiscono lo
stile bizantino e una tecnica come l'agemina (largamente adoperata a quel tempo in ambito islamico),
sarebbe il risultato dell'introduzione dell'agemina stessa a Costantinopoli forse proprio attraverso la
mediazione degli amalfitani.
Non vanno ignorati i precedenti tardoantichi della tecnica ad intarsio metallico policromo e la continuità che
questi hanno avuto in oggetti di piccole dimensioni → esempi: peso monetale (VI sec) di piccole dimensioni
in argento, realizzato con un procedimento che nella piccola scala risulta certamente semplificato ma è lo
stesso che ritroveremo nelle porte dell'XI sec; croce enkolpion (X sec) è un reliquiario con figure e iscrizioni
in agemina, argento e niello su una base di bronzo, esso ci fornisce una spia abbastanza significativa del
fatto che forse la tecnica dell'agemina veniva praticata, o aveva cominciato ad essere praticata, nella
Costantinopoli dell'età macedone. Antonio Iacobini ha effettuato ulteriori ricerche individuando una pezza
d'appoggio che aiuta a riportare molto indietro nel tempo l'origine della tecnica delle porte figurate
mediobizantine: si tratta di una miniatura del Codice delle Omelie di Gregorio Nazianzeno (manoscritto fatto
fare a Costantinopoli verso l'880), che racconta su tre registri i momenti principali della vita di Gregorio; ci
interessa la scena intermedia della Consacrazione di Gregorio Nazianzeno a vescovo di Costantinopoli, essa
è ambientata a S. Sofia, edificio reso illusivamente senza copertura e senza navata, ma il miniatore si limita a
riprodurre la zona del bema con recinzione marmorea nella cui metà vediamo una porta metallica a due
ante ciascuna suddivisa in due formelle con cornici lisce con all'interno 4 figure erette e nimbate, vediamo
anche al centro il coprigiunto verticale a forma di colonnina => gli elementi costituivi della porta,
nonostante la misura ridottissima, sono gli stessi che ritroviamo quasi due secoli più tardi nelle porte di età
comnena; sembra essere la stessa anche la tecnica con cui sono eseguite le figure in cui viene trasposto
l'effetto dell'intarsio metallico che spicca sul fondo lucente dell'oricalco.

Tornando a Montecassino parliamo di Alfano da Salerno (1015/20-1085) uno dei personaggi più colti della
cerchia cassinese. Quando nel 1080 fu avviata la ricostruzione della cattedrale di Salerno, Alfano seguì le
orme di Desiderio perchè aveva dato ilo suo contributo nella basilica di Montecassino. Come documenta
l'iscrizione la cattedrale di Salerno fu finanziata da Roberto il Guiscardo attingendo al suo patrimonio
personale; Alfano non viene menzionato ma l'impresa co9struttiva della cattedrale ebbe in realtà due
autori: il duca Roberto il Guiscardo e il coltissimo arcivescovo Alfano (Alfano trasmise a Roberto i suoi ideali
e la sua visione culturale). L'iscrizione è importante anche perchè documenta un uso completamente nuovo
della scrittura monumentale, la scrittura esposta come mezzo di diffusione ed espressione di un messaggio
politico; la scrittura è in lettere capitali all'antica enormemente ingrandite per essere visibili da terra.
Oggi la facciata della cattedrale di Salerno si presenta con alcune modifiche di epoca tardo-barocca.
Nella cattedrale di Salerno e nella basilica di Montecassino troviamo gli stessi elementi distintivi a partire
dalla forma architettonica che è di tipo neopaleocristiano con quadriportico, navate a tetto e transetto
sopraelevato non sporgente; poi ci sono gli spolii antichi (fregi, capitelli, colonne e sarcofagi) il cui riuso ha
un'impronta fortemente ideologica; c'è anche una porta di bronzo bizantina; infine la presenza di un
mosaico nell'abside di cui rimangono solo alcuni frammenti (riferibili agli animali dei simboli degli
evangelisti: rimangono parzialmente leggibili l'angelo di Matteo e l'aquila di Giovanni*). Tra i due edifici
vanno però sottolineate anche alcune differenze: la cattedrale di Alfano ha dimensioni molto maggiori
rispetto alla basilica cassinese (quest'ultima era limitata dalla superfici della cima del monte); il rapporto tra
navata centrale e navate laterali a Salerno è di 2 a 1 mentre a Montecassino è di 3 a 1; infine a Salerno è
presente un'ampia cripta per le reliquie di San Matteo, a Montecassino invece si rinunciò alla cripta per non
spostare dalla posizione originaria la tomba di S. Benedetto.
*in origine i simboli dei profeti erano collocati in posizione scalare attorno all'arco ed erano accompagnati
da due figure di profeti in posa stante nei pennacchi; probabilmente c'era anche una Vergine con il figlio
seduta in trono (confronto con mosaico di Capua per avere un'idea).
I perduti mosaici desideriani di Montecassino furono sicuramente alla base della ripresa della tecnica del
mosaico parietale della Roma nell'età della riforma a partire dai primi anni del XII sec. La più antica
testimonianza di questa stagione figurativa è il celebre mosaico absidale della basilica di San Clemente.
Rapporti tra Montecassino e Roma => nomina di Desiderio a pontefice con il nome di Vittore III; inoltre il
ruolo importante assunto da Leone Marsicano all'interno della curia romana che divenne cardinale di Ostia
e di Santa Cecilia in Trastevere.
San Clemente: architettura a palinsesto che comprende un vertiginoso sovrapporsi di epoche diverse.
L'attuale basilica risale al XII sec ma essa sorge al di sopra di una chiesa del IV sec insediatasi a sua volta su
edifici di epoca romana (un tempio del dio Mitra). La chiesa paleocristiana a tre navate continuò ad essere
usata ininterrottamente dal IV all'inizio del XII sec, lo attestano gli affreschi di epoca altomedievale e quelli
della fine dell'XI sec. Nel 1084 le truppe di Roberto il Guiscardo provocarono un vasto incendio in questa
zona e la chiesa fu danneggiata; tra il 1084 e il 1089 si procedette al consolidamento e rinnovamento della
basilica paleocristiana, ne fu committente Raniero di Bieda, un monaco bedettini che era cardinale titolare
della chiesa. Durante questi lavori, per ragione statiche, vennero tamponati alcuni intercolumni della
basilica inserendo dei pilastri rettangolari che furono ricoperti di affreschi, queste pitture fanno parte del
ciclo con le storie di san Clemente e Alessio (opera fondamentale della pittura romana della fine dell'XI sec).
→ il Salvataggio del fanciullo: secondo le fonti agiografiche san Clemente era stato gettato in mare dai suoi
persecutori con un'ancora legata al collo, e per custodire ill suo corpo gli angeli avevano costruito un
sepolcro sottomarino che era possibile vedere una volta all'anno quando le acque si ritiravano; durante una
delle visite una madre dimenticò lì il figlioletto che venne inghiottito dalle acque ma dopo un anno venne
ritrovato sano e salvo nello stesso luogo. Al centro della scena vediamo la madre che si china per prendere il
bambino e subito a sinistra la rivediamo mentre lo stringe affettuosamente, più un là un gruppo di sacerdoti
assiste all'evento. Al centro in un grande clipeo c'è il santo che ha compiuto il miracolo ritratto a mezzo
busto. In basso ai piedi sono effigiati i committenti dei dipinti: Beno de Rapiza e sua moglie Maria macellaria
con i due figli di cui il maschio si chiama proprio Clemente, all'estrema sinistra c'è anche un'altra donna.
→ Messa di San Clemente e miracolo della colonna: commissionato sempre da Beno e Maria, l'originale è
molto degradato. In alto c'è san Clemente in trono circondati da santi; sotto la rappresentazione della
messa; infine c'è il celebre episodio che racconta il miracolo della colonna, ovvero il fallito tentativo di
imprigionare S. Clemente da parte dei suoi persecutori (i servi del prefetto romano credono di aver
catturato il santo ma stanno trascinando una pesantissima colonna, sono visibilmente affannati).
Dopo il 1099 l'edificio del IV sec venne abbandonato e interrato producendo un innalzamento di quota per
l'appoggio di una nuova costruzione. I muri della nuova basilica poggiano in parte sui muri del IV sec;
l'edificio rispetto a quello precedente ha una forma più allungata; c'è una separazione spaziale tra laici e
clero; ci sono due pulpiti (uno più grande per la lettura de vangelo, uno più piccolo per la lettura delle
epistole); l'arredo della nuova basilica offre anche uno dei primi esempi di recupero integrali di marmi
antichi nella fattispecie si parla di marmi paleocristiani perchè vengono montati i plutei costantinopolitani
del VI sec che provenivano dalla chiesa inferiore. Il pavimento è un esempio della ricezione a Roma del
modello bizantino-cassinese anche se andato perduto il tappeto con i 5 cerchi annodati.
Il mosaico dell'abside di S. Clemente rappresenta, all'inizio del XII sec, il primo esempio di rinascita di una
tecnica che nell'urbe era stata da lungo tempo interrotta: la grande produzione musiva che aveva
caratterizzato la Roma paleocristiana e poi altomedievale, si era arrestata all'età carolingia alla metà del IX
sec. Unica eccezione, ma si tratta di un episodio isolato, è il mosaico della tomba di Ottone II nelle Grotte
Vaticane risalente alla seconda metà del X sec: è un'opera di modeste dimensioni, oggi molto restaurata ma
comunque resta un unicum. In S. Clemente lo scintillante catino a fondo oro è occupato da 5 ordini di
racemi di acanto abitato che formano 5 file orizzontali e 10 colonne verticali; il fulcro della composizione è
costituito da una crocifissione con Maria e Giovanni evangelista ai lati e 12 colombe bianche sui bracci della
croce corrispondenti agli apostoli. La croce nasce da un cespo di acanto che le conferisce l'aspetto di una
croce fogliata, ovvero di un albero della vita il cui significato è quello di una rigenerazione dell'umanità dal
peccato originale avvenuta tramite il sacrificio di cristo; non è un caso che alla base del cespo troviamo il
cervo e il serpente che, secondo il simbolismo espresso dal più antico bestiario cristiano, si possono
identificare rispettivamente con Cristo (cervo) e Satana (serpente); poi ci sono i 4 fiumi del paradiso; infine
due cervi che si abbeverano, ovvero le anime dei fedeli che anelano a Cristo secondo la corrispondenza
espressa dal salmo 42. A S. Clemente la croce non è quella tradizionale aurea gemmata diffusa nelle absidi
romane, per es. S. Giovanni in laterano, a S. Clemente la croce assume una nuova intonazione patetica
ripresa dall'arte bizantina con l'inserimento del Cristo crocifisso tra Maria e Giovanni. L'iscrizione è una vera
e propria guida alla comprensione del mosaico: “paragoniamo la Chiesa di Cristo a questa vite che la Legge
fa disseccare ma che la Croce vivifica” = la sterile legge del vecchio testamento è qui contrapposta al
sacrificio del messia sulla croce da cui germoglia la vite che simboleggia l'ecclesia; viene espressa dunque un
equivalenza tra acanto, vite e albero della vita. Dunque lo scenario del mosaico è l'Eden, come dimostrano i
4 fiumi che si trovano alla base della composizione. La vittoria sul peccato è ribadita anche sulla sommità
del catino dove vediamo la dextera Dei, cioè la mano divina, e ritroviamo anche il Salvatore che ricompare
in veste trionfale all'interno di una cornice stellata.
Nell'arco absidale, ai lati di Cristo, figurano i 4 simboli degli evangelisti che portano libri e corone: si tratta di
una rielaborazione di un modello paleocristiano, cioè quello dell'arco absidale di S. Paolo fuori le mura. Nel
fascione inferiore i 12 agnelli si collegano sempre alla tradizione paleocristiana (confronto con il mosaico
della chiesa dei Ss. Cosma e Damiano). Nei pennacchi compare una nuova sistemazione iconografica
suddivisa in due livelli: nel livello più basso ci sono due profeti, Isaia a sinistra e Geremia a destra; nel livello
più alto due coppie di santi seduti, a sinistra Paolo e Lorenzo (quest'ultimo tiene in mano la croce del
martirio e sotto i suoi piedi c'è il suo attributo, la graticola), a destra ci sono Pietro e Clemente (quest'ultimo
ha l'ancora e sotto i suoi piedi la nave da cui era stato gettato in mare); Pietro e Clemente essendo stati
rispettivamente il primo e il quarto papa sono anche rappresentanti dell'autorità papale romana. Nelle
iscrizioni di Pietro e Paolo la parola santa è espressa con la parola latina “agios”, questa formula bilingue ha
un precedente nell'altomedioevo: la troviamo nei vangeli di Lindisfarne realizzati in Inghilterra alla fine del
VII sec, gli evangelisti sono accompagnati da discalie simili a quelle di Paolo e Pietro.
Le lettere capitali dell'iscrizione latina che corre sul fondo blu presentano forme alla greca, queste hanno
fatto ipotizzare la presenza nel cantiere di uno scriptor di cultura greca proveniente forse da Montecassino.
Il programma di S. Clemente costituisce una novità assoluta, non ha precedenti e non ha seguito; la parte
più originale è il catino la cui lettura è molto complessa perchè obbedisce ad una doppia prospettiva
generale e particolare, ciascuna di esse si lega al punto di osservazione degli spettatori (questi nel Medioevo
erano distinti in due gruppi: da una parte i fedeli dislocati a una certa distanza, soprattutto nella prima metà
della navata della chiesa, dall'altra i canonici e i religiosi che si ponevano nel coro e nella zona pi vicina
all'altare. La croce, vista da lontano e marcata dal colore blu scuro, assume le sembianze di un'enorme croce
fogliata a cui è sovrapposta la scena della crocifissione di Cristo → la croce fogliata e la crocifissione sono i
due temi iconografici tipici del rivestimento delle stauroteche bizantine. È come se l'artista avesse fuso in
un'immagine unica il recto e il verso di una stauroteca = abside come reliquiario
(confronto/esemplificazione con la stauroteca bizantina conservata a Venezia nel Tesoro di San Marco).
L'iscrizione inferiore del mosaico ricorda la presenza sotto il corpo di Cristo di reliquie della croce dei Ss.
Giacomo e Ignazio.
Se si osserva da vicino il mosaico, si vedono affiorare tra i girali, quelle che potremmo definire immagini
nascoste, si tratta di immagini che hanno un valore di allegorie morali: oltre il cervo, il serpente, e i fiumi, c'è
la donna che sparge il becchime (= madre chiesa che nutre e protegge i fedeli), il buon pastore con il gregge
(scena che si ripete per 3 volte = il clero che guida il gregge del popolo cristiano); 4 dottori della chiesa
vestiti con l'alba bianca e il mantello nero (= funzione docente della chiesa) queste figure sono precedute da
gruppi di altre persone: la famiglia (madre padre e figlio), la rappresentazione dei ceti sociali (il ricco, il
cittadino medio e il contadino resi rispettivamente con una figura con un sontuoso mantello purpureo, un
personaggio non connotato ma messo in una posizione intermedia, un uomo rappresentato in movimento
con il mantello sollevato) → il precedente più plausibile è quello dell'atrio del battistero lateranense: il
catino è a fondo blu, ci sono girali d'acanto ma privi di figure all'interno che vengono fuori da un cespo
centrale, manca la croce. Questo mosaico a sua volta riprende un tema decorativo e compositivo molto
diffuso nell'arte romana e ben attestato nei rilievi dell'Ara pacis dell'età di Augusto (ricordiamo che in
origine i marmi erano rifiniti in colore).
Quindi potremmo dire che i modelli del mosaico absidale di S. Clemente sono due: il Battistero lateranense
aveva due absidi, una di fronte all'altra, decorate a mosaico, una di esse è andata distrutta ma abbiamo
degli acquerelli e descrizioni per cui sappiamo che c'erano delle scenette bucoliche → un mosaico fu
impiegato come modello primario, l'altro come modello secondario. Da un mosaico si ricava lo schema
ordinatore a girali vegetali; dall'altro alcune immagini specifiche come per esempio i pastori con il gregge. In
questo modo si fondono insieme diversi elementi in una nuova creazioni, senza precedenti qual è il mosaico
di S. Clemente.
Perchè è stato scelto come modello l'abside del Battistero lateranense? Sia il mosaico lateranense che
quello di S. Clemente avevano una prerogativa comune, cioè il riferimento a importanti reliquie (a S.
Clemente sotto il corpo di Cristo crocifisso erano custodite le reliquie della croce e dei corpi dei Ss. Giacomo
e Ignazio; nel Battistero si conservava la reliquia della santa lancia (essa veniva riferita al battesimo perchè
dalla ferita al costato era scaturita anche l'acqua del battesimo; per questo suo valore la lancia germoglia
così come il legno della croce) + ipotesi del thyrsos bacchico.
Chi fu il colto compositore del programma del mosaico di S. Clemente? È stato proposto Leone Marsicano
perchè era stato incaricato dal cardinale di S. Clemente, Anastasio, di scrivere la vita e la traslazione delle
spoglie del santo titolare proprio negli anni in cui la basilica veniva ricostruita (dunque un legame tra Leone
e i lavori in corso a S. Clemente in effetti c'è).
Aspetti tecnici: il mosaico negli anni 1994-95 è stato oggetto di restauro da parte dell'ICR. È emerso che in
parte le tessere sono di reimpiego e potrebbero provenire dal mosaico smantellato della chiesa inferiore; il
catino è stato realizzato dall'alto verso il basso da due squadre di mosaicisti che si sono suddivise il lavoro a
destra e a sinistra dell'asse verticale centrale; sono stati individuati anche i contorni delle giornate (esse
sono di forma quadrata in corrispondenza delle pecore, circolari in corrispondenza degli avvolgimenti di
acanto); le tessere sono di materiali diversi (vetro, pietra ma anche madreperla).

Dopo Montecassino il massimo polo di irradiazione della cultura bizantina nell'Italia del sud fu la Sicilia dei
Normanni.
Cappella Palatina di Palermo del tempo di Ruggero II
Cattedrale di Monreale eretta per volere di Guglielmo II
I normanni ricevono dai pontefici il riconoscimento dell'autorità regia su Sicilia, Calabria, Basilicata, Puglia e
Campania alla fine della loro espansione territoriale nel 1130 con l'incoronazione di Ruggero II (1130-1154)
Ruggero II è un sovrano ambizioso ma la dinastia da lui fondata ebbe vita breve, infatti dopo il figlio
Guglielmo i e il nipote Guglielmo II che muore senza eredi diretti, la nobiltà normanna rivolge le sue
simpatie verso il cugino di Guglielmo II, Tancredi che nel 1189 è proclamato re. Nel frattempo però per le
travagliate sorti del regno di Sicilia si era aperta anche una via alternativa: Costanza, la figlia più giovane di
Ruggero II e ultima discendente legittima degli Altavilla, sposa nel 1186 Enrico VI di Svevia figlio del
Barbarossa e trasferendo il regno di Sicilia a suo figlio Federico II salderà l'eredità normanna al Sacro
Romano Impero.
Quando Ruggero Ii viene incoronato nella cattedrale di Palermo riceve oltre al titolo di re, anche il titolo di
legato papale per l'Italia meridionale e la Sicilia: questa speciale prerogativa, già concessa a suo padre
Ruggero I, consentiva al normanno di legiferare in materia religiosa controllando l'elezione dei vescovi;
dunque nella persona di Ruggero II si trovavano concentrati il potere regale laico e il potere ecclesiastico
(fusione tra regno e sacerdozio). → pannello musivo della chiesa di S. Maria dell'Ammiraglio a Palermo con
Ruggero II incoronato direttamente da Cristo; riprende fedelmente una delle rappresentazioni imperiali,
cioè l'avorio con Costantino VII Porfirogenito risalente alla metà del X sec. Come dichiara il pannello musivo,
il sovrano normanno dichiara di riconoscersi nel potere monarchico bizantino, una sorta di teocrazia di
origine divina quindi un'idea antitetica alla Roma della Riforma che poneva il sovrano in posizione
subalterna rispetto al pontefice il quale aveva anche la facoltà di deporre e di sciogliere il loro sudditi dal
vincolo di fedeltà. Ruggero, alla stregua del basileus bizantino, è raffigurato come somiglianza/immagine di
Dio in terra, non a caso presenta un volto simile a quello di Cristo, è per così dire il suo alter ego
(meccanismo simile lo ritroviamo nell'avorio Barberini: Giustiniano trionfante, in cui l'artista si serve della
somiglianza per esprimere l'origine divina dell'imperatore).
L'immagine di Ruggero II come basileus bizantino ricoperto dall'ampia sciarpa gemmataè ampiamente
diffusa nel regno e fuori attraverso monete e sigilli; in particolare in questi ultimi il re è accompagnato da
un'iscrizione in greco. Questo rifarsi a modelli orientali non deve meravigliarci poiché il nuovo regno
normanno di Sicilia, proiettato nel Mediterraneo, è orientato verso un'originalissima osmosi tra culture
(latina, bizantina, islamica); è un legno multietnico e multilingue e anche la sua vita di corte trae spunto da
paradigmi diversi (quelli dei grandi regni nordeuropei, di Costantinopoli e dell'Egitto dei fatimidi).
Da dove venivano i normanni di Sicilia? Normanni = uomini del nord che provenivano dalla Normandia, la
regione più settentrionale della Francia, ma anch'essa non era la loro patria, essi erano arrivati dalla
Scandinavia e un piccolo nucleo di loro si era stanziato nella Francia settentrionale già dall'VIII sec. Poi nel
911, in cambio della loro conversione alla religione cristiana, il re di Francia Carlo III aveva ceduto al capo
normanno Rollone i territori della contea di Rouen e ne aveva fatto un suo vassallo. Nell'XI sec si assiste ad
una grande espansione dei normanni in Europa, sia verso il nord che verso il Mediterraneo. Subito dopo il
1000 essi arrivano come cavalieri mercenari nel sud dell'Italia dove conquistano terre e potere erodendo
man mano la provincia bizantina della longobardia. Nel 1066 con Guglielmo il Conquistatore, i normanni si
impossessano dell'Inghilterra strappandola agli anglosassoni a seguito della vittoriosa battaglia di Hastings
→ tappezzeria di Bayeux 1066-1082, è un fregio figurato fatto su committenza normanna (di Oddone
vescovo di Bayeux e conte di Kant (era il fratellastro di Gugliemo il conquistatore)) nell'Inghilterra appena
conquistata dalle mani di ricamatrici anglosassoni attive a Canterbury. La destinazione originaria di questo
lungo arazzo è molto discussa: si pensa che fosse stata fatta per la cattedrale di Bayeux, ma studi più recenti
optano per una sistemazione dell'opera in una grande sala di una delle residenze di Oddone nel Kant,
inoltre l'opera poteva essere arrotolata e spostata da una residenza all'altra. I sostenitori della seconda
ipotesi osservano che il ricamo è concepito per essere visto ad altezza d'occhio, cosa che non sarebbe
potuta avvenire nella cattedrale di Bayeux; tuttavia anche in una grande sala sorgerebbero i problemi per
una sistemazione continua soprattutto in rapporto alle aperture. In ogni caso, se la tappezzeria si trovava in
Inghilterra, essa potrebbe essere arrivata in Francia poco più tardi come eredità di oddone alla sua
cattedrale e qui, a Bayeux è stata conservata per secoli prima di essere trasferita nell'attuale museo
appositamente costruito per la sua esposizione. In un libro recentissimo è stata messa in discussione la
datazione del ricamo alla fine dell'XI sec, proponendo che si tratterebbe di un'opera commemorativa delle
gesta di Guglielmo realizzata all'inizio del XII sec,dunque a distanza di tempo. Il racconto figurato è lungo e
fittissimo (58 scene) e celebra la conquista normanna dell'Inghilterra e gli eventi che l'avevano preparata
visti dalla parte dei vincitori e ponendo particolare enfasi sul ruolo svolto da Oddone. Si tratta di una
narrazione che possiamo definire moralizzata in cui il normanno Guglielmo viene presentata come
personaggio positivo e buono mentre il cattivo è Aroldo II, conte anglosassone che era stato inviato dal suo
re, Edoardo il confessore, come ambasciatore presso il duca di Normandia; tuttavia durante questa missione
Aroldo II tradisce il re alleandosi con Gugliemo e giurando si sostenerlo durante il suo progetto di conquista
dell'Inghilterra. Il racconto poi si sposta sull'isola: il re Edoardo muore, Aroldo ne eredita la corona e infine
c'è la battaglia decisiva, quella appunto di Hastings.
Il ricamo di Bayeux può essere interpretato come un documento storico, ma come tale va interpretato con
cautela dato che in ultima analisi costituisce lo strumento visuale scelto dai conquistatori per giustificare la
propria conquista; in ogni caso riveste un'importanza straordinaria dal momento che ritrae in maniera
particolareggiata non solo il modo di vivere del tempo ma anche alcuni eventi eccezionali: è il caso della
cometa di Halley (vediamo un gruppo di 6 figure che indicano con stupore una stella in cielo con una coda
orizzontale infuocata e sfrangiata; si tratta veramente della cometa che fu osservata in cielo dal 24 aprile al
1 maggio del 1066), questa scena è inserita subito dopo l'incoronazione di Aroldo e la stella è stata
normalmente interpretata come un presagio negativo per il traditore Aroldo che di lì a poco sarebbe stato
ucciso. Tuttavia è da ricordare che per gli uomini medievali la cometa è da intendersi come un annuncio di
eventi meravigliosi o terribili, positivi o negativi, ma anche di grandi cambiamenti, dunque la stella potrebbe
riferirsi anche alla successiva conquista normanna dell'Inghilterra e quindi sarebbe un evento positivo
(vittoria riportata da Gugliemo).
Arrivo dei normanni nell'Italia del sud: dal punto di vista della storia bizantina siamo sotto il regno di Basilio
II, si nota una frammentazione politica che è indice di instabilità. I primi nuclei di normanni arrivano intorno
al 1000, forse seguendo le strade di pellegrinaggio verso la terra santa; erano abili cavalieri e coraggiosi
soldati che proprio per le loro capacità vengono arruolati nel 1016 dai pugliesi nel tentativo di ribellione da
loro organizzato contro l'impero bizantino sotto la guida di Melo da Bari, il tentativo fallì ma la sua azione
ebbe la conseguenza di sdoganare la presenza normanna nel sud. Infatti, da questo momento in poi, i
normanni cominciarono a scendere in Italia sempre più e la loro strategia vincente fu quella di entrare a
servizio dei piccoli stati del meridione sfruttandone a loro vantaggio la debolezza politica. Nel 1030
ottennero in concessione dal duca di Napoli Sergio IV, il territorio della Contea di Aversa di cui prese il
controllo Rainolfo Drengot (fu il primo stanziamento stabile normanno in Italia). Nel 1042 la casata degli
Altavilla riuscì a costituire il Ducato di Puglia; nel 1059 fu stipulato il concordato di Melfi con il quale il papa
Niccolò II, Roberto il Guiscardo (Altavilla) e Riccardo d'Aversa (Drengot), confermarono la nuova situazi9ne
che si era definita in Italia meridionale e in cambio il pontefice ottenne da loro un giuramento di fedeltà alla
chiesa di Roma. Successivamente però a guadagnare potere sarà solo una delle due casate, quella degli
Altavilla con Roberto il Guiscardo e Ruggero II il gran conte che si spartiranno i territori (l'unificazione
avverrà con Ruggero II nel 1130 costituendo il nuovo Regno di Sicilia). La Sicilia, prima dell'arrivo dei
normanni, era un'isola araba e prima dell'amministrazione islamica rientrava nell'impero bizantino del quale
fece parte dal tempo di Giustiniano nel 554 con la fine della guerra greco-gotica. Dunque la Sicilia era da
due secoli in mano agli arabi e i normanni ne fecero un obiettivo di conquista militare che attuarono con
una sorta di crociata destinata a strappare agli infedeli quelle terre che un tempo erano state cristiane. A
partire dal 1061, anno dello sbarco, iniziò una vera e propria guerra santa che aveva l'appoggio della chiesa
di Roma; nel 1071 fu espugnata Catania, nel 1072 Palermo (le varie fasi di conquista dell'emirato furono
narrate da Goffredo Malaterra). La riorganizzazione dell'isola strappata agli arabi fu innanzitutto una
riorganizzazione militare come testimoniano le nuove fortificazioni per il controllo del territorio: es. mastio
o maschio di Paternò, è una torre munita di una cinta muraria tipica dell'architettura normanna. Ci fu anche
una riorganizzazione ecclesiastica realizzata con la fondazione di nuove diocesi cattoliche con le loro
cattedrali, ma anche con la ricostruzione e il restauro di numerosi monasteri greci (manifestazione della
politica ellenofila degli Altavilla).
La prima capitale venne fissata a Messina, poi trasferita a Palermo che si avviò al suo nuovo ruolo di
baricentro mediterraneo della politica normanna; rispetto alla Palermo araba tutta orientata sul porto e sul
mare, la città normanna si rivolge verso il nucleo residenziale del palazzo adiacente alle mura. Il complesso
del palazzo reale oggi appare profondamente stratificato da interventi e restauri ma vi si possono ben
riconoscere molte parti realizzate da Ruggero II a partire dal 1130 (ci sono due blocchi residenziali, la torre
Pisana, la sala di Ruggero, la Cappella Palatina).
La Cappella Palatina imponente costruzione di pianta basilicale a 3 navate avviata nel 1130 (assieme al
palazzo) e consacrata nel 1140 quando il re le concesse molti privilegi. Oggi la cappella risulta chiusa
all'interno di corpi di fabbrica più tardi ma in origine era sopraelevata: al pian terreno si trovava la prima
piccola cappella palatina (S. Maria de Hierusalem) che oggi corrisponde alla chiesa inferiore o cripta (quindi
fu interamente integrata nella nuova costruzione). Si conserva il documento della sua consacrazione datato
al 28 aprile 1140; di questo documento venne redatta una seconda versione lussuosa su pergamena
purpurea con scrittura inchiostro d'oro riprendendo una consuetudine imperiale bizantina (Ruggero II si
rifaceva volutamente alla figura del basileus orientale). Nel Medioevo le cappelle palatine, cappelle di
palazzo, hanno particolari caratteristiche giuridiche come l'esenzione dalla locale autorità ecclesiastica
grazie al diretto patrocinio dei sovrani. Questo genere di costruzioni ha dei prototipi tardoantichi o bizantini,
per esempio le cappelle del grande palazzo di Costantinopoli; esse si diffondono in tutta Europa a partire
dall'epoca altomedievale sia come edifici a pianta centrale che a pianta longitudinale; nella tipologia a
pianta centrale rientra la cappella palatina di Aquisgrana, nella tipologia longitudinale rientra la Camara
Santa di Oviedo e la Sainte-Capelle di Parigi.
La cappella Palatina di Palermo è il monumento più emblematico del sincretismo e dell'ibridismo culturale
dei normanni; in origine mancava l'atrio che fu aggiunto più tardi; ha colonne e capitelli antichi di reimpiego
il cui uso è fortemente ideologico; gli archi sono acuti con piedritti molto rialzati di tipo islamico; il
pavimento in opus sectile comprende motivi decorativi a rote (di tipo bizantino cassinese) e a intrecci
spezzati (di matrice islamica); il soffitto è di legno con una complessa struttura ad alveoli, a muqarnas di tipo
squisitamente islamico; la zona del presbiterio costituisce un corpo a sé, sopraelevato, separato dalla
navata, con una pianta centrale e una copertura a cupola di tipo bizantino; le pareti sono completamente
rivestite di mosaici, opera di maestranze bizantine appositamente chiamate da Costantinopoli. Il risultato di
questo incontro di culture diverse è qualcosa di completamente nuovo che non confronto altrove ed è il
risultato degli artisti che lavorarono fianco a fianco traendo ispirazione gli uni dagli altri = linguaggio siculo
normanno.
Modo di presentarsi del re Ruggero, o meglio del suo apparire in pubblico → mantello di Ruggero II (1133-
1134) ricamato in oro su tessuto bizantino in seta rossa. L'iscrizione si presenta come un testo molto
elaborato e fornisce molte informazioni. Questo mantello, con il matrimonio di Costanza d'Altavilla ed
Enrico VI, passò in Germania assieme ad altre insegne dei re normanni, e da quel momento in poi venne
impiegato come mantello nelle incoronazioni imperiali a cominciare da quella dello stesso Federico nel
1220. Per la forma questo mantello si ispira ai mantelli del Sacro Romano Impero di epoca ottoniana,
confronto con il mantello delle costellazioni dell'imperatore Enrico II. Esaminiamo l'iconografia del mantello
di Ruggero: l'asse della composizione è una palma che allude all'albero della vita; ai suoi lati due giganteschi
leoni rampanti atterrano due cammelli bardati, i leoni sono gli animali araldici degli Altavilla, i cammelli si
riferiscono probabilmente agli arabi da loro sottomessi = questa iconografia potrebbe esprimere un
riconoscimento incruento dei reali rapporti di forza, i normanni ottennero il potere politico ma il valore della
cultura degli arabi non fu affatto intaccato e la loro religione fu tollerata. Il tema della zoomachia (lotta tra
animali) può talora assumere un significato cosmico simboleggiando la lotta tra le costellazioni o tra la luce
e le tenebre e sembra che questa valenza cosmica sia presente nella decorazione del mantello di Ruggero,
infatti i cerchi e le rosette corrisponderebbero alla posizione degli astri nel segno zodiacale del leone (una
rappresentazione simile si può vedere in un mappamondo di bronzo realizzato in Egitto nel 1225) dunque
l'intenzione di Ruggero sarebbe stata quella di rivestire la sua persona di un mantello celeste che fa
riferimento all'universalità del suo potere. Se il mantello per la sua iscrizione e lo stile rientra nella cultura
islamica, per la forma rientra nella tradizione occidentale e per la seta rossa alla base del ricamo nella
produzione bizantina, tuttavia nel suo insieme è qualcosa di totalmente nuovo. Il tessuto in seta rossa è
ricamato con fili d'oro e i contorni sono evidenziati da doppi fili di perle; il tessuto è tinto con il kermes, un
pigmento estratto da insetti; in corrispondenza dello scollo presenta due borchie circolari d'oro e di smalti
applicate su un fondo quadrilobato con gemme su una filigrana a vermicelli, quest'ultima è una tecnica
orafa esclusiva delle officine palermitane che consiste nella copertura del fondo con una trama a riccioli
d'oro a nastro ritorto. Questo prezioso capo di vestiario non era quello indossato all'incoronazione di
Ruggero che si era svolta il giorno di natale del 1130.

Cappella palatina = risultato di culture diverse: romana, bizantina, islamica. La cappella al tempo di Ruggero
II si presentava diversa di come appare oggi, essa era stata progettata e realizzata con un'impostazione che
non si percepisce più e per ricostruirla bisogna procedere ad un'operazione filologica. Gli studi degli anni 90
del '900 hanno dimostrato come nella cappella siano stratificate due edizioni differenti dello stesso edificio:
la cappella di Ruggero II, e la cappella di Guglielmo I l quale fece ornare l'interno con meravigliose immagini
di mosaico (quindi altri mosaici e anello stesso tempo ne modificò l'impostazione).
Al tempo di Ruggero II lo spazio obbediva a due distinte funzioni, aveva una doppia polarità:
1) la zona liturgica, l'aula dei, cioè la chiesa vera e propria si limitava al presbiterio cupolato separato e
sopraelevato, solo in questa zona il re volle che fosse realizzato un ciclo di mosaici che obbedisce ad un
programma gerarchico di impronta bizantina: all'apice sta il Pantokrator circondati dagli arcangeli che si
alternano tra loro con abiti differenziati: due sono in veste militare, due in vesti imperiale a significare che
essi compongono sia la corte che l'esercito celeste. 8 profeti a mezzo busto con i cartigli srotolati, 4 profeti a
figura intera tra cui Giovanni Battista. Nelle trombe troviamo i 4 evangelisti in atto di scrivere, leggere o
riflettere. L'Annunciazione, scena che dà inizio alla vita di Cristo. Il programma tu disposto secondo un
ordine nuovo tenendo conto della prospettiva del re, così si spiegano le correzioni ottiche → tra le correzioni
ottiche rientra la figura dell'Odeghitria che è decentrata a destra proprio per essere inquadrata più
comodamente dalla loggia reale. La scena della Natività è posta proprio sull'angolo come un libro aperto.
Fusti di colonna a spirale = secondo la tradizione Costantino aveva fatto trasportare le colonne tortili del
santuario ebraico nella basilica di S. Pietro a Roma per sostenere la pergula posta sulla tomba del principe
degli apostoli.
Nell'abside si ripete la figura del Pantokrator, si pensa che sia stato inserito posteriormente mentre nella
prima fase doveva trovarsi la figura di Maria.
2) la zona longitudinale delle navate funzionava invece come aula regis, sala del trono, era priva di mosaici
ed era decorata solo da marmi nella parte bassa e forse da stoffe preziose che erano appese più in alto. La
zona culminava sulla parete occidentale dove c'era una piattaforma rialzata con parapetti laterali di marmo
su cui veniva sistemato il trono del re (il mosaico con Cristo tra Pietro e Paolo fu introdotto al tempo di
Guglielmo II). Questa zona era coperta dal soffitto ligneo a muqarnas che costituiva l'unico elemento
decorativo di questa zona: sono 20 cassettoni a forma di stella ad 8 punte intervallati da elementi intermedi
cruciformi = è una sorta di grande cielo dipinto. L'iconografia delle pitture, eseguite a tempera su un
sottilissimo strato di gesso, è totalmente profana e sviluppa temi legati alla glorificazione del sovrano, sono
rappresentati i piaceri della vita di corte (caccia, musica, danza, banchetti) ma anche soggetti simbolici (sole
e la luna, combattimenti tra animali). Le raffigurazioni sono più di 750 e sono accompagnate da una serie di
iscrizioni arabe tutte di contenuto augurale. Particolare collocazione di alcuni soggetti: es. raffigurazioni del
sole e della luna sul carro che sono poste direttamente sopra alla piattaforma del trono, esse alludono al
potere cosmico del re seduto proprio lì sotto. Le immagini non erano state concepite per essere guardate
singolarmente, ma forse per gruppi che creano alcuni temi. In età medievale nel cleristorio, cioè sulla parte
superiore del lato nord della navata, si apriva un palchetto sospeso che permetteva ad alcuni membri della
corte di seguire le cerimonie che si svolgevano nello spazio sottostante (questa piccola loggia era collocata
ad una stanza di cui restano alcune tracce); da questo palchetto, che costituiva un punto di osservazione
privilegiato, le scene dipinte venivano guardate da vicino. Un'altra questione importante riguarda la
provenienza degli artisti che è sempre stata considerata costantinopolitana, è probabile che provenissero
dall'Egitto fatimide; ma un islamista italiano ha proposto che probabilmente si trattasse di pittori persiani;
altri studiosi anno pensato invece ad una maestranza locale islamica di Sicilia, cosa che potrebbe spiegare la
presenza di alcune iconografie di ascendenza occidentale; infine altri studiosi hanno proposto la
provenienza dei pittori dall'Ifrikiyya (cioè Africa settentrionale). Un medievista svizzero ha avanzato l'idea
suggestiva che i pittori potessero essere arabi cristiani.
La moda islamica, a quel tempo, era diffusa anche nella moda bizantina dei comneni → sala del
Mouchroutas nel Grande Palazzo di Costantinopoli che aveva un soffitto ligneo a muqarnas, decorato con
scene di corte e banchetti (stile molto simile a quello palermitano), eseguito da un artista persiano.
La carpenteria del soffitto ligneo della cappella palatina: ad ogni muqarnas e ad ogni cassettone dipinto
corrisponde in negativo uno scheletro. La decorazione del mantello di Ruggero dialogava con il soffitto.
Il corrispettivo a terra del soffitto è il pavimento marmoreo in opus sectile eseguito in un'unica campagna di
lavori per tutta l'estensione della cappella; si fondono motivi decorativi a quinconce e a rotae di tipo
bizantino-cassinese e motivi a intrecci spezzati di matrice islamica, questi sono quelli dominanti.
* medaglione con il Pantokrator al centro della cupola: la figura a mezzo busto è circondata da una doppia
cornice rossa che contiene un'iscrizione tratta dal libro di Isaia. Il clipeo a fondo oro è del tutto
smaterializzato, non esiste una finta, come negli esempi più antichi, una modanatura marmorea o una
classica corona o ghirlanda vegetale; sembra conservarsi l'idea di un grande oculos sulla volta, una finestra
che fa soglia tra l'uomo e Dio.
I mosaici del presbiterio della cappella palatina rappresentano bene la fase comnena classica della pittura
bizantina tra il 1120 e il 1150. Testimonianza coeva = pannello di Giovanni II Comneno e Irene (1122-1134);
nei volti si notano delle somiglianze che riguardano sia la tecnica che lo stile e che dunque ci permettono di
affermare che le maestranze attive nella cappella erano maestranze di altissimo livello chiamate con ogni
probabilità dalla capitale bizantina grazie alle illimitate possibilità economiche del sovrano normanno.
Per quanto riguarda la cronologia, in base all'iscrizione della cupola che riporta la data del 1143, si deduce
che i lavori della parte più alta devono essersi svolti tra il 1140 e il 1143, questa cronologia rimane molto
dibattuta. Ai mosaici del transetto è stata data una datazione tra il 1143 e il 1150.
Le immagini (quasi come un horror vacui) diventano lo strumento consapevole della politica di
rekatholisierung perseguita dalla dinastia normanna.
Omelia di Filagato: soffitto lavorato a forma di piccoli canestri (è un preciso riferimento tecnico ai
muqarnas), appare come un cielo punteggiato di stelle; colonne che sollevano il soffitto a un altezza
incredibile (allusione ai piedritti molto slanciati degli archi); il pavimento somiglia ad un prato primaverile;
preziose stoffe di seta (appese come arazzi e dovevano costituire l'unico ornamento delle navate che non
erano state ancora rivestite di mosaici).
I mosaici vennero realizzati in una seconda fase, al tempo di Guglielmo I, ma il dibattito sulla loro datazione
è ancora aperto. I mosaici delle navate sono corredati tutti da iscrizioni in latino, le figure rivelano un senso
di movimento più accentuato, le scenografie presentano fondi architettonici.
Uno svizzero, sulla base di nuove osservazioni ha suggerito una sostanziale revisione della cronologia: la
cappella, come la vediamo oggi, sarebbe stata progettata al tempo di Ruggero II mentre con Guglielmo i
sarebbero stati realizzati solo i mosaici delle due navate laterali; tutti i lavori si sarebbero svolti a partire dal
1138 circa fino al 1143, poi sarebbero proseguiti nella navata centrale fino ad arrivare al 1145-46. i
mosaicisti all'opera nel presbiterio e nella navata maggiore farebbero parte della stessa bottega bizantina,
quest'ipotesi ha trovato il suo primo punto d'appoggio nell'analisi tecnica e stilistica dei volti delle figure
che, per la stretta somiglianza, sembrerebbero confermare una continuità nel cantiere piuttosto che
un'interruzione e una ripresa a distanza di diversi anni. Altra questione è quella della royal box (della loggia
reale), lo spazio riservato al re si sarebbe trovato in basso tra l'abside sinistra e l'abside centrale dove
all'interno di una recinzione con lastre di porfido doveva essere collocato il trono su cui sedeva Ruggero
durante la liturgia.

Il secondo grande monumento che vide la partecipazione di maestranze costantinopolitane è la Cattedrale


di Cefalù. L'enorme edificio sarebbe stato eretto come ex voto, nel luogo ijn cui il sovrano, di ritorno in mare
da Salerno, sarebbe miracolosamente scampato da un naufragio nel 1130; fonte di questa notizia, che è
ammantata di leggenda e fu forse confezionata a posteriori, è il cosiddetto Libro rosso della Cattedrale (non
ci sono riscontri nei documenti di età normanna).
Romoaldo da Salerno nella sua Cronaca riferisce che Ruggero fece costruire a sue spese la chiesa di S.
Salvatore, proprio come aveva fatto Roberto il Guiscardo con la Cattedrale di Salerno, quindi l'edificio è nato
per decisione e impegno personale del sovrano → documento del 1131 che riferisce della dedica al
Salvatore, precisa anche che Ruggero fonda la chiesa in suffragio dell'anima di suo padre, il conte Ruggero I,
e di sua madre la regina Adelasia. Tuttavia i sepolcri dei suoi genitori erano sistemati altrove. Nel 1145
Ruggero elegge la cattedrale di Cefalù a luogo della propria sepoltura e quindi a Panthon reale, destinando
ad essa due preziosi sarcofagi di porfido.
Il progetto originario della chiesa formava una grande croce; la costruzione ebbe inizio simultaneamente dai
lati est, nord e ovest. Nella zona est vennero realizzati: il presbiterio, i pastofori e il corpo trasversale
compreso l'arco trionfale; a seguire il fianco della navatella nord; poi le due torri angolari con al centro la
facciata incompiuta, le parti alte delle coperture erano rimaste ancora da completare ma si verificò un
cedimento strutturale nel muro del braccio sud che venne sanato con l'inserimento di robusti contrafforti
ma quest'episodio determinò un blocco e poi anche la rinuncia a portare avanti la costruzione con il
progetto iniziale ambizioso che si era rivelato rischioso. Nel 1154 circa le tre navate vennero realizzate da
nuove maestranze ad una quota molto meno elevata, questo comportò la costruzione di un secondo arco
trionfale più basso e strutturalmente indipendente dal primo, poggiante su due colonne addossate ai piloni
di quello originario (il primo arco, non più utilizzato, svetta sul tetto della navata centrale). Anche per la
conclusione del transetto si abbandonò ogni arditezza architettonica, e le intersezioni vennero coperte con
tetti lignei leggeri. È probabile che in questa fase si decise anche di cambiare i sostegni della navata centrale,
essa infatti presenta 7 intercolumni che non vanno d'accordo con le 9 finestre delle navatelle che erano
state costruite secondo il primo progetto (=segno di cambiamento); allo stesso modo la navata venne
coperta, diversamente dalle intenzioni originarie, con un semplice tetto ligneo a due spioventi. I lavori si
conclusero probabilmente nel 1240, data che si trova incisa nel finestrone della facciata; il portico a tre
arcate tra le torri del prospetto ovest venne realizzato nel XV sec in età tardogotica. Inoltre, al fianco della
navatella nord, si conserva l'unica corsia dell'originario chiostro normanno che in base alle sculture dei suoi
capitelli si può datare agli anni 50 del XII sec quindi probabilmente ancora ad età ruggeriana.
Il progetto originario che venne elaborato per questo edificio è tutto di stampo latino-nordico di ascendenza
franco normanna come attestano le due torri in facciata e la zona del capocroce con il suo accentuato
verticalismo. La pianta di Cefalù rientra nel gruppo cosiddetto benedettino cluniacense con largo transetto e
coro profondo, con absidi scalate nella loro sporgenza, gradonate con termine tecnico (modello Cluny II).
Tornando al momento in cui Ruggero II consacrò la cattedrale a luogo della propria sepoltura, furono
collocati nei bracci del transetto due sarcofagi in porfido: quello a sinistra per custodire le sue spoglie,
quello a destra era stato concepito come cenotafio simbolico (il signficato delle parole del re non è ancora
chiaro). Tuttavia il progetto di chiesa-mausoleo non si concretizzò mai, poiché alla morte del re i lavori non
erano ancora conclusi ed egli fu sepolto provvisoriamente nella cattedrale di Palermo. Perciò i due
preziosissimi manufatti porfiretici rimasero inutilizzati all'interno dell'edificio. Nel 1170 i canonici di Cefalù
indirizzarono una supplica al re Guglielmo II chiedendogli di realizzare le intenzioni espresse da suo nonno
nel 1145, ma rimasero inascoltati. Mezzo sec dopo fu Federico II a mettere gli occhi sui due sarcofagi e,
contro la volontà del vescovo della città, li fece trasportare nella cattedrale di Palermo per utilizzarli come
sepoltura per sé e per suo padre Enrico VI e lì sono ancora conservati. Tuttavia la sistemazione che
ricevettero all'inizio del '200 non esiste più, oggi essi sono raggruppati assieme ad altre due sepolture sotto
baldacchini, anch'esse di porfido. Al tempo di Federico II la loro collocazione era nel presbiterio,
precisamente nel braccio destro del transetto che veniva chiamato Augustum coemeterium, fu allora che ai
sarcofagi presi a Cefalù vennero affiancati gli altri due: quello di Ruggero II e quello di Costanza d'Altavilla
(che fu copiato dagli esemplari di Cefalù). Questa solenne sistemazione dei sarcofagi, con al di sopra il
baldacchino, riprendeva quella già esistente a Cefalù che a sua volta si ispirava ad un modello normanno
anteriore: cioè alla tomba a baldacchino di Alberada (prima moglie di Roberto il Guiscardo morta nel 1111)
che si trova nella chiesa della Santissima trinità a Venosa. La forma delle due vasche fatte per Cefalù e il tipo
dei sostegni fatti con zampe leonine, si ispirano volutamente a modelli imperiali romani antichi, in
particolare al sarcofago di età adrianea che nel medioevo era collocato nel pronao del Pantheon a Roma e
che poi nel 1740 fu utilizzato come tomba del papa Clemente XII in S. Giovanni in Laterano.
I due sarcofagi di Cefalù vennero eseguiti con materiale di spoglio ricavato da enormi fusti di colonne, ad
opera di officine siciliane specializzate nella lavorazione del porfido. I
l sarcofago di Enrico VI (quello che era stato pensato come Cenotafio) era molto semplice, aniconico e
presenta una decorazione con l'emblema di una corona al centro del timpano (forse in origine immaginata
come un riferimento alla corona dell'ecclesia che a quel tempo veniva iconograficamente personificata
come una regina); sulla vasca c'è un semplice anello con una foglia d'edera.
Il sarcofago di Federico II è invece figurativamente complesso e mostra sul coperchio tre clipei a rilievo da
ognuna delle due parti: i clipei centrale raffigurano il Pantokrator e la Madonna Odegitria; ai lati di questi
due soggetti si aggiungono i simboli degli evangelisti, due per parte. La decorazione prosegue con una
corona nel timpano e sul fianco della vasca con protomi leonine sorreggenti un anello; i due sostegni sono
costituiti da potenti coppie di leoni con le code intrecciate che atterrano figure umane e animali.
Tornando alla cattedrale di Cefalù, è probabile che nel suo progetto architettonico originario, non
prevedesse una decorazione a mosaico la cui idea sarebbe subentrata proprio nel 1145 in coincidenza con
l'attribuzione alla chiesa della sua nuova funzione rappresentativa di pantheon reale. Un indizio a favore di
quest'ipotesi è la chiusura delle finestre circolari dell'abside, che sono ancora visibili all'esterno ma che
all'interno sono accecate proprio dalla stesura degli intonaci dei mosaici; inoltre è stato scoperto, sotto il
rivestimento musivo del catino, una cornice di pietra completamente scolpita che è stata anch'essa appunto
obliterata dalla decorazione a tessere vitree. Come nella cappella palatina, anche qui i mosaici sono limitati
alla terminazione orientale. A Cefalù gli artisti bizantini dovettero adattarsi a lavorare in uno spazio
architettonico del tutto inconsueto, costituito da una vertiginosa campata rettangolare coperta a crociera
costolonata, ciò gli costrinse a smembrare e ricomporre il canonico programma ortodosso: infatti, in assenza
della cupola, l'immagine del Pantokrator slitta nel catino e il mezzo busto, in modo assolutamente nuovo
rispetto alle consuetudini bizantine, si allarga fino ad assumere una scala colossale come se si affacciasse dal
cornicione del cielo (= trasformazione dell'idea bizantina dell'oculos, della finestra ultraterrena) → nasce
una tipologia figurativa peculiare della Sicilia. Successivamente nel registro più alto del semicilindro absidale
troviamo la Vergine orante vista nel suo ruolo di mediatrice ed affiancata da 4 arcangeli in ambiti imperiali:
Michele, Gabriele, Raffaele e Euriele. Più in basso, nei dure registri ai lati della finestra centrale, compaiono
le due figure degli apostoli. Alla sommità, nelle vele della crociera, ci sono 4 busti di angeli e 4 cherubini e
serafini su un fondo d'oro solcato da nubi colorate = questo è il cielo in cui ha sede il Pantokrator e le
gerarchie angeliche costituiscono la sua corte celeste. Le pareti laterali del presbiterio formano due
grandiosi prospetti a più piani popolati da una galleria di figure stanti: in cima ci sono due medaglioni con
Abramo e Melchisedec, ciascuno accompagnato da 5 profeti; sotto si trovano 4 santi diaconi (a sinistra) e 4
santi guerrieri (a destra); al livello più basso compaiono i padri della chiesa latina (a sinistra) e i padri della
chiesa greca (a destra); i titoli delle figure sono sia in greco che in latino. A Cefalù mancano completamente
le scene cristologiche ed è assente qualsiasi elemento di carattere narrativo. Qual è stata la ragione che ha
portato ad un ciclo privo di scene narrative? Forse questa scelta esclusivamente iconica (con immagini
iconiche) fu concepita in funzione della vicina sepoltura del committente: la Vergine orante potrebbe essere
intesa come la mediatrice delle preghiere rivolte da Ruggero a Cristo in vista dell'espiazione dei suoi peccati;
la scritta latina è espressamente riferita al tema del giudizio, il Pantokrator è un Cristo giudice e, dal
momento che la collocazione originaria del sarcofago con il corpo di Ruggero era proprio nel braccio nord, il
corpo del re si sarebbe trovato alla destra di Cristo, cioè dalla parte degli eletti nel giorno del giudizio.
Nel presbiterio erano collocati due troni e probabilmente anche a Cefalù, come nella Palatina, veniva
applicato un principio di visibilità assiale → episcopal and royal views = il sovrano vedeva la figura di
Abramo, il patriarca biblico di cui si dice che sarebbero discesi dei re, infatti egli è accompagnato da Davide
e Salomone che sono i proverbiali archetipi veterotestamentari della regalità. I santi guerrieri più in basso
alludono alle prerogativa da condottiero del re. Il vescovo vedeva Melchisedec sorreggente il calice con la
mano velata, riferimento alla funzione sacerdotale. I padri della chiesa latina in basso vanno interpretati
come un riferimento all'origine romana dell'autorità del vescovo.
I mosaici non vennero realizzati tutti in un'unica campagna, gli studiosi hanno individuato due fasi esecutive:
1) l'iscrizione del 1148 si riferisce al rivestimento della crociera, a quello del catino, del semicilindro absidale
e della parte più alta delle due pareti laterali. I colori sono sfavillanti, la tecnica esecutiva è estremamente
minuziosa; si tratta di elementi stilistici che si possono allineare al filone classicista dell'arte bizantina che
discende dai mosaici di Dafni.
2) intervento nel cantiere di una nuova maestranza: le figure sono più angolose, le proporzioni si allungano.
Probabilmente alla morte di Ruggero nel 1154 i lavori dovettero subire un'interruzione, e vennero ripresi
poi al tempo di Guglielmo I.
Per quanto riguarda il rapporto tra architettura e mosaici, va detto che questi ultimi tendono a coprire con
effetto illusionistico anche le membrature e gli elementi strutturali (colonne, cornici, capitelli) = tessuto
musivo coprente, ma ciò non avviene in maniera regolare: in alcuni casi le colonne scanalate si abbinano a
capitelli corinzi eseguiti a mosaico, in altri casi capitelli veri di marmo o di porfido si uniscono a fusti di
colonna realizzati con tessere vitree. Calcolando il punto di vista normale dell'osservatore, gli artisti hanno
creato un gioco molto sofisticato tra realtà materica e illusione pittorica.
Nei mosaici è stata individuata una particolarità che costituisce un unicum assoluto: volto e mani del
Pantokrator presentano in alcuni punti sulla superficie delle tessere una rifinitura condotta con pigmenti
pittorici che vanno a sovrapporsi alla tessitura musiva. In particolare la goccia lacrimale dell'occhio destro è
tracciata con pigmenti di colore nero sopra le tessere rosate dell'incarnato; la linea rossa dipinta che disegna
il contorno del labbro superiore; i contorni rossi che delineano le unghie delle dita. La presenza a Cefalù di
questa procedura così atipica era stata rilevata già da un restauratore (Rosario Riolo) nel 1860 quando era
intervenuto sui mosaici della cattedrale; in quell'occasione realizzò dei rifacimenti ma senza nasconderli
(lasciò data e firma). In questo caso si tratta di un restauro del restauro, ovvero Riolo realizza una figura che
era già stata rifatta nel 1517. La presenza di stesure pittoriche non era stata però analizzata.
A Cefalù le tessere non vengono colorate in anticipo, ma è il tessuto musivo già compiuto a fare da supporto
a quest'ultima rifinitura a pennello di tipo pittorico.

Santa Maria dell'Ammiraglio il fondatore fu un alto esponente della corte: l'ammiraglio Giorgio di Antiochia.
Quest'edificio, noto anche come il nome di martorana, è forse il monumento più greco fra quelli della Sicilia
normanna a partire dalla sua architettura che è a croce inscritta con cupola centrale sorretta da 4 colonne.
Giorgio d'Antiochia si fa rappresentare in proskynesis, secondo una tipologia bizantina, davanti alla Vergine
Maria, titolare della chiesa, in un pannello di dedica che, in origine, si trovava all'interno del nartece. In alto
a destra, sopra il donatore, c'è il Cristi benedicente a mezzo busto a cui Maria si rivolge come intermediaria
a nome di Giorgio per trasmettergli le sue preghiere. La Vergine tiene in mano un lungo cartiglio con una
scritta greca in versi “chi ha costruito dalle fondamenta questa mia casa, Giorgio, il primo di tutti i
comandanti, o Figlio, preservalo con la sua gente da ogni male e donagli il perdono dei peccati: perchè tu ne
hai il potere come Dio Unico, o Verbo”. Più in basso, sopra la figura in proskynesis corre un'iscrizione in una
sola riga “preghiera del tuo servo Giorgio l'ammiraglio”. La scena è unica ma comprende in realtà tre distinti
momenti temporali ma concatenati, che partono dal basso e poi fanno un percorso all'inverso: punto di
partenza è l'umile supplica di Giorgio, segue l'accoglimento della supplica da parte di Maria con la mano
aperta verso il basso e la sua intercessione verso Cristo, poi c'è la risposta positiva di Cristo senza parole
scritte ma con il gesto della benedizione; sempre tramite Maria ritorna indietro al supplicante.
La piccola chiesa era parte integrante della sua residenza e dunque funzionava come cappella di Palazzo ma
con una differenza rispetto alla cappella Palatina: quest'ultima era infatti una parrocchia mentre S. Maria
dell'Ammiraglio doveva essere una chiesa privata.
Durante i lavori di restauro condotti alla fine dell'800 vennero scoperti i blocchi di pietra che componevano
un'epigrafe in greco frammentaria, ma in origine rifinita con il colore, che era collocata sul cornicione
esterno dell'edificio: essa riporta il nome del fondatore ma non c'è nessuna informazione cronologica.
Giorgio era di origine siriana (era nato ad Antiochia), era cristiano ortodosso, alcuni cronisti arabi ci
informano che intraprese una brillante carriera nel campo del fisco pubblico, svolgendo quest'attività in
diverse città del suo paese d'origine; l'abilità con cui ricoprì tali incarichi fecero sì che il principe di Madia lo
chiamasse alla sua corte affidandogli l'amministrazione dell'erario, però il re che gli succedette non andava
d'accordo con Giorgio, e questi, temendo per la sua sorte, si rifugiò con tutta la sua famiglia in Sicilia
trovando protezione presso Ruggero II. Alla corte normanna, grazie al suo bilinguismo e alla sua esperienza,
Giorgio fu incaricato di una delicata missione commerciale presso i fatimidi in Egitto, riportando un successo
tale da fargli guadagnare il favore del nuovo sovrano. Nel 1123 Giorgio divenne il capo della flotta regia; nel
1133 risalgono due documenti in cui viene menzionato come admiratus admiratorum che dovrebbe essere
il corrispettivo del nostro primo ministro; l'ascesa di Giorgio in Sicilia fu assicurata soprattutto dalle imprese
militari da lui guidate fra il 1134 e il 1139 in Africa del nord e in Grecia. Giorgio fu un uomo di grande cultura
e, essendo di professione ortodossa, ebbe in Sicilia una politica spiccatamente ellenofila favorendo i
monasteri greci. In campo artistico dovette essere un mecenate molto attivo, nel 1127 fondò a Mazara del
Vallo il Monastero di San Michele, mentre a Parlemno nel 1131 fece erigere un grande ponte in pietra a
sette arcate sul fiume Oreto (ancora oggi esistente).
La chiesa di Santa Maria dell'Ammiraglio e l'annesso palazzo sono situate nella parte più settentrionale della
città, verso il mare, in prossimità dell'asse stradale che portava alla cattedrale. Oggi l'edificio è in parte
nascosto da una facciata eretta in epoca barocca, più a destra si vede la chiesetta più tarda a tre cupole di S.
Cataldo. In origine la chiesa presentava una pianta tipicamente bizantina a croce inscritta in un perimetro
quadrato con cupola centrale, all'esterno si presentava come una geometrica architettura a cubo di gusto
islamico da cui emergevano in altezza solamente il tamburo e la calotta; la sua planimetria ricorda quella
delle chiese dell'Italia meridionale bizantina: es S. Pietro a Otranto. Successivamente la chiesa venne
ampliata aggiungendo un nartece rettangolare a tre campate. Subito dopo al nartece fu attaccato un atrio
aperto di forma trapezoidale circondato sui tre lati da portici a colonne. Infine, nella seconda metà del sec,
quando Giorgio era ormai defunto, lo spazio esterno venne ristretto e suddiviso in 9 colonne con colonne e
coperto a volte; a questo spazio venne appoggiata la torre campanaria (la struttura dovette essere
terminata prima del 1184). Si è pensato che il campanile della martorana potesse essere una precoce
derivazione da modelli nordici, come ad esempio le torri di facciata della cattedrale francese di Laon. In
origine la parte superiore della torre si concludeva con una cupoletta centrale emisferica circondata agli
angoli da calotte più piccole che formavano un fastigio a 5 elementi a quinconce.
La chiesa, con la sua pianta bizantina, offre dunque ai mosaici un'ideale ambientazione proprio grazie ai suoi
nuclei spaziali suddivisi e alle superfici curve delle volte e della cupola che accolgono in modo variato i
riflessi numerosi. I lavori di decorazione si sarebbero svolti a partire dal 1143, anno di una pergamena
firmata da Giorgio da cui si ricava che la chiesa era finita, ma non andando oltre il 1151 dal momento che
Giorgio, che morì proprio in quell'anno, è rappresentato ancora vivo nel pannello di dedica del nartece.
Tuttavia questa cronologia è stata messa in discussione da studi molto recenti. [Nel 2007 una studiosa,
basandosi su un documento dell'aprile 1140 in cui Ruggero II vende alle monache della chiesa della
santissima Teotokos, denominata della krisèe, l'ultimo pezzo di una vigna, sostiene che questa chiesa in
realtà sia la chiesa di S. Maria dell'Ammiraglio denominata d'oro per i mosaici e dunque nel 1140 dovevano
essere già stati realizzati. La loro esecuzione sarebbe stata avviata molto prima di quanto tradizionalmente
creduto, cioè già dopo il 1130, anno di incoronazione di Ruggero, e si sarebbe conclusa entro il 1140.
Accanto alla chiesa si sarebbe trovato il monastero femminile in cui si sarebbe ritirata Teodula la madre di
Giorgio. Sulla base di questa nuova datazione non si può più sostenere che la chiesa si sia ispirata alla
cappella palatina ma piuttosto il contrario: la prima doveva essere già finita quando la seconda venne
consacrata]
Nella struttura attuale dell'edifico sono andati perduti l'abside e il nartece della chiesa medievale: l'abside
fu demolita e sostituita da una grande cappella corale, il nartece venne privato delle pareti per essere
collegato al resto dello spazio interno. Del nucleo più antico della chiesa rimane un bellissimo pavimento in
opus sectile, è suddiviso in 6 pannelli maggiori e 5 più piccoli; il repertorio adottato è prevalentemente di
matrice bizantino-cassinese, però due pannelli posti a ovest presentano una decorazione a intrecci spezzati
di ascendenza islamica. Il tappeto posto sotto la cupola contiene, negli intervalli tra i cerchi, dei grandi calici
con motivi fitomorfi, zoomorfi e figurati: ci sono coppe da cui fuoriescono steli con una doppia palmetta,
coppe con due leoni, o anche due pavoni che si abbeverano, oppure coppe sovrastate da un acrobata a
testa in giù ; si tratta di motivi molto rari sia per la tecnica che per l'iconografia per i quali si può trovare un
aggancio nella produzione sectile della capitale bizantina → confronto con la chiesa del Pantokrator, sul cui
pavimento ci sono scene raffigurate e decorazioni fitomorfe e zoomorfe. Tuttavia ciò non significa che la
matrice culturale di questi motivi presenti nella chiesa di Palermo sia esclusivamente bizantina, infatti nella
prima metà del XII sec gli scambi artistici tra Bisanzio e l'occidente sono molto intensi in entrambe le
direzioni e la presenza di temi figurati nei pavimenti di Costantinopoli può anche essere un contatto con
l'Europa romanica o con i regni crociati d'oltremare. In particolare il tema dell'acrobata presente a Palermo
trova un confronto nel repertorio della miniatura bizantina di epoca comnena, in un libro di Vangeli
confezionati negli stessi anni (1125-1150), il Codex Ebnerianus: nella pagina con i ritratti di Eusebio e
Carpiano, tra l'architrave e i capitelli delle colonne che sorreggono l'arcata sono inserite delle imposte
troncopiramidali (come dei pulvini) decorate con vivaci scenette profane tra cui, a sinistra, un acrobata a
testa in giù (i pulvini decorati, insoliti a Bisanzio, possono ricordare i grandi capitelli figurati romanici che
spesso erano anche colorati, dunque possiamo vedere una conferma di quell'ampia circolazione di cultura
tra Oriente e Occidente che è tipica della civiltà comnena).
Esaminiamo il programma iconografico dei mosaici, le superfici ridotte determinarono una drastica
riduzione del programma che fu incentrato solo su temi mariani, in sintonia con la dedica della chiesa a
Maria. L'abside perduta doveva contenere la Madonna con Bambino, come di regola nel mondo bizantino; a
lei si rivolgevano i due arcangeli che vediamo a sinistra, perfettamente conservati, sulla volta a botte del
bema; le conche laterali recano le immagini a mezzo busto di Gioacchino e Anna, genitori di Maria. Anche le
scene evangeliche presenti al di sotto della cupola hanno sempre per protagonista la Madre di Dio:
l'Annunciazione e la Presentazione al tempo; le uniche due feste rappresentate sono la Natività di Cristo e la
Dormizione di Maria (due temi che nella letteratura religiosa vengono spesso retoricamente abbinati e
contrapposti per la specularità dei loro contenuti). La cupola è strutturalmente simile a quella della cappella
Palatina, anche se qui il tamburo è più alto e contiene due file di finestre mentre la calotta è cieca: il
soggetto scelto per la cupola è iconograficamente molto particolare, infatti non troviamo il classico
Pantokrator bizantino a mezzo busto ma un Cristo in trono a tutta figura che è rarissimo nel mondo greco;
subito sotto 4 arcangeli a mani velate in posa di omaggio in un movimento che allude alla liturgia celeste.
Tra la calotta il tamburo si interpone un elemento insolito: una serie di tavolette di legno di abete disposte a
cerchio sulle quali è dipinta un'iscrizione in lingua araba che contiene però una preghiera cristiana che è
coerente con l'iconografia della cupola. Nel tamburo compaiono i 12 profeti con il braccio sollevato in alto
verso Cristo, nel registro inferiore ci sono invece gli evangelisti scriventi in nicchie affiancate da alberi verdi
che costituiscono quasi un motivo firma dei mosaicisti di S. Maria dell'Ammiraglio. Sulle volte dei bracci
nord e sud non ci sono scene narrative ma 8 immagini statuarie di apostoli che, sommate a quelle dei 4
evangelisti nelle trombe, compongono il collegio apostolico. In uno degli ambienti del nartece era
probabilmente collocato il sepolcro del fondatore e, al di sopra di esso, verosimilmente doveva trovarsi il
mosaico con il suo ritratto mentre dalla parte opposta doveva esserci il mosaico del re incoronato da Cristo.
Oggi però lo spazio del XII sec non esiste più, eliminato dai lavori cinquecenteschi che unificarono l'interno
della chiesa, in quell'occasione le pareti su cui insistevano i due pannelli vennero abbattute e i mosaici,
staccati a massello (con uno strato di muro dietro), furono trasferiti agli spigoli del corpo anteriore
all'interno di cornici di marmo che quasi li trasformarono in pale d'altare (l'operazione fu traumatica e
provocò dei danni nella zona inferiore delle due composizioni. Andò sicuramente perduto il suppedaneo su
cui in origine poggiavano le due figure divine). L'iconografia di entrambe le scene si rifà a modelli bizantini.
Cefalù, la chiesa di Santa Maria dell'Ammiraglio e la cappella Palatina (monumenti principali del periodo
realizzati tutti nell'arco di 5/6 anni), ci consentono di toccare con mano una realtà lontana e perduta: quella
dei cantieri musivi e delle maestranze di Costantinopoli alla metà del XII sec.
La chiesa di S. Maria dell'Ammiraglio (“detta dell'antiocheno”)fu definita la più bella del mondo dallo
scrittore andaluso Ibn Giobayr.

A partire dal tempo di Ruggero II si moltiplicarono nella capitale anche i palazzi, le residenze e gli edifici
profani in genere che erano spesso inseriti all'interno di parchi lussureggianti popolati di animali rari. Tra
questi il cosiddetto Genoard, posto a nord della città subito extra moenia, di cui rimane una rara
raffigurazione della fine del XII sec nel Liber ad honorem Augusti di Benedetto da Eboli. L'immagine più
celebre di questa rete di architetture e parchi, che dovette essere un vanto nella Palermo degli Altavilla, ce
la fornisce il viaggiatore Ibn Giobayr il quale, parlando della città come fosse una donna, scrive che: “i
palazzi del re ne circondano il collo, come i monili cingono i colli delle ragazze dal seno ricolmo”. Questi
edifici, e le loro decorazioni, costituiscono lo specchio della vita di corte della Palermo del XII sec, modellata
su prototipi bizantini e islamici (da una parte la corte comnena, dall'altra quella fatimide = due grandi poli di
riferimento dei normanni nel Mediterraneo)
Palatium novum, Palazzo reale all'interno del quale si sono conservati due grandi ambienti rivestiti di
mosaici. Uno di questi si trova nella Torre della Joaria, si tratta della sala di Ruggero la cui decorazione, a
prescindere dal nome, viene attribuita al regno di Guglielmo; lo spazio, di forma rettangolare, presenta due
finestre su un lato e una porta su ciascuno degli altri, ad essa si affianca un ambiente quadrato la cosiddetta
Sala dei Venti. Nella sala di Ruggero l'odierna porta nord è di restauro e va a sostituire un'apertura originaria
che doveva essere più larga e più alta; i due archi che sovrastano questo ingresso mostrano un girale
vegetale e una serie di quadrilobi con un cervo, un antilope e poi altri animali provvisti di corna che vanno
intesi come possibili prede di caccia: infatti la caccia è il tema principale illustrato sulle pareti della stanza.
Sul lato sud ci sono in alto due centauri ai lati di una palma nell'atto di scagliare una freccia, il tema degli
arcieri è molto diffuso nel repertorio tradizionale delle scene orientali copte, siriache o bizantine, dove le
figure in genere abbinate sono spesso rappresentate ai lati di una palma come simbolo dell'albero della vita.
È da questi modelli che deriva la fissità e la specularità delle nostre composizioni dove le immagini sono
simmetriche e tutte riportate in primo piano. In questo caso l'artista può essersi ispirato anche
all'iconografia astronomica classica di saggittarius, cioè la costellazione dell'arciere rappresentato in forma
di centauro come accade in un manoscritto carolingio. In basso la lunetta è completata da due leopardi e
due pavoni ai lati di alberi stilizzati. Le due pareti più lunghe presentano una decorazione di tipo
spiccatamente araldico con le figure intercalate a un asse di riferimento centrale costituito da alberi
anch'essi speculari tra di loro; in alto, in entrambe le lunette, ci sono due arcieri inginocchiati seguiti dai loro
cani che prendono di mira due cervi; nel registro inferiore a ovest ci sono due pavoni che bevono da una
coppa sopra la porta e ai lati sequenze di cigni tra alberi, a est invece c'è una coppia di leoni con una palma
centrale. Le parti di restauro sono piuttosto consistenti.
Il soffitto presenta uno schema che contrasta in modo deciso con le pareti: il disegno generale è costituito
da intrecci spezzati che si uniscono a cerchi, a ovali e a elementi polilobati annodati tra loro. 9 scomparti con
fondo oro fanno da cornice a figure di animali: un aquila, al centro, 4 leoni e 4 grifoni alati. Lo scomparto
con l'aquila che tiene una lepre tra gli artigli è di cronologia discussa, secondo Kitzinger è un emblema
aragonese inserito in sostituzione di un soggetto originario, l'Andaloro ha avanzato l'idea che possa risalire
al tempo di Federico II in base a un confronto con una scultura del castello di Barletta. Nel corso dei sec la
stanza ha subito ripetuti restauri che tuttavia non hanno alterato l'ordine rigorosamente simmetrico del
programma normanno; l'elemento di maggior disturbo è la lunetta con i due pavoni nel lato nord che
costituisce un'aggiunta ex novo nel punto in cui, in origine, si trovava una grande apertura (per approfondire
gli elementi di restauro occorre ancora effettuare ricerche archivistiche e fare un rilievo delle superfici).
Nella seconda metà dell'800 anche Rosario Riolo (il restauratore di Cefalù) e suo figlio Gaetano, scrivono
della necessità di fare dei lavori in questa stanza ma non sappiamo se effettivamente realizzarono qualcosa.
Le lunette presentano figure araldiche, semplificate come stemmi, preziose per il colore e per l'atmosfera
favolosa; sono tutte basate su un ordinamento paratattico delle figure e certamente si ispirano a modelli
trasmessi da tessuti orientali. Il tema generale è quello del giardino e l'azione della caccia allude alla virtus
del sovrano, proprietario della stanza; la caccia è intesa come metafora della sua forza e della sua
invincibilità laddove il nemico è rappresentato dal mondo animale → il tema è ben noto nell'iconografia
imperiale bizantina sin dall'epoca dell'iconoclastia; motivo comune è anche l'albero della vita al centro delle
scene, attributo per eccellenza del potere sovrano (presente anche sul mantello di Ruggero II).
Il repertorio profano, composto da coppie di animali e fantastici, scene di caccia, uccelli che si abbeverano, è
ampiamente diffuso anche nella miniatura bizantina: sia nel libri laici che in quelli religiosi, dove tali motivi
reinterpretati in chiave simbolica, frequentemente ornano le tavole dei canoni, cioè gli indici di concordanza
dei vangeli. Singoli soggetti, come l'arciere inginocchiato, sono presenti nei cofanetti eburnei a rosette che
costituiscono uno dei prodotti più ricercati dell'industria artistica di epoca macedone. Dunque i manoscritti
e gli oggetti in avorio possono aver costituito i più efficaci veicoli di diffusione di questo tipo di immagini. Ad
esempio i sottarchi a rosoni della Sala di re Ruggero, rientrano in un repertorio ampiamente impiegato a
Costantinopoli in ambito librario: il richiamo è alla pagina del Codex Ebnerianus.
La seconda sala rivestita da una decorazione parietale a mosaico, purtroppo molto frammentaria, si trova
nella Torre Pisana (essa prende il nome da una parola di origine persiana che significa portico, vestibolo, sala
d'ingresso, da collegarsi probabilmente a una delle funzioni che la torre svolgeva rispetto al palazzo), essa
rispetto a tutto il complesso medievale costituiva il corpo più avanzato verso la città (il geografo Idrisi ne
fornisce una descrizione).
Ricostruzione Zoric = La struttura della torre appartiene al tipo architettonico a doppia camicia, poiché essa
è stata realizzata costruendo due torri quadrate concentriche, distanziate tra loro da un corridoio
intermedio che fa da intercapedine; l'alzato aveva 3 piani e terminava con una terrazza da cui sporgeva un
quarto piano rialzato più stretto, una sorta di lanterna, mentre sopra si sviluppava una seconda terrazza
merlata come quella sottostante.
Ricostruzione Longo = Al di sopra del quarto livello ci sarebbe stata un'ulteriore cella, ancora più stretta, con
una cupoletta terminale.
Al secondo piano c'era la sala del tesoro in cui era conservato l'erario pubblico. Al piano nobile si sviluppava
una magnifica sala ad andamento verticale alta 15 metri che doveva essere il salone di rappresentanza, e le
sue dimensioni dovevano sbigottire lo spettatore; in origine le pareti erano completamente ricoperte di
mosaici ma alla fine del XVIII sec l'ambiente venne suddiviso in 3 piani per ricavare nuove stanze per
l'appartamento reale borbonico, determinando l'inizio della rapida perdita di quanto rimaneva del ciclo
medievale. Subito dopo la fine della 2 guerra mondiale, quando i solai vennero eliminati e la sala fu
unificata, riemersero dei piccoli frammenti che si erano salvati perchè si trovavano in corrispondenza dei
punti di appoggio dei pavimenti settecenteschi. In alcune parti sono visibili le zampe e gli zoccoli di cavalli
poggianti su un fondo verde che convergono verso il centro; in altre si vedono resti di edifici e di muri a
blocchetti di pietra (scenario architettonico che doveva comporre un fregio orizzontale continuo lungo tutti i
lati della sala). Anche la volta a crociera centrale doveva essere coperta a mosaico. Kitzinger ha analizzato
questi frammenti che ha fornito una datazione al tempo di Guglielmo I; l'anticipazione cronologica coinvolge
anche la sala di Ruggero che, in effetti, potrebbe rientrare nella stessa fase. Longo ha ipotizzato che nella
sala fosse illustrata la conquista di Palermo da parte degli Altavilla.

La Zisa, il palazzo di caccia, circondato da un parco, che Guglielmo I fece costruire alle porte di Palermo e
portato a termine dal figlio Guglielmo II. La Zisa deriva il suo nome dall'epiteto arabo al aziz, splendido, che
si poteva leggere nell'epigrafe araba un tempo presente in facciata. In quest'epigrafe viene esaltato il
committente e, secondo un gusto e una retorica tipicamente arabi, viene celebrata la bellezza
dell'architettura e del suo compenetrarsi con l'ambiente naturale circostante. L'edificio è un parallelepipedo
suddiviso in 3 piani i cui prospetti sono tutti elegantemente incisi da una serie di arcature cieche a ghiera
multipla; dai lati corpi si proiettano all'esterno due avancorpi a torre che collegano verticalmente i piani e
funzionavano da colonne di ventilazione. Al piano terra, la sala a centrale voltata a crociera, terminava con
una grande nicchia con fontana coperta a muqarnas; l'ambiente si apre poi all'esterno collegandosi a un
largo vestibiolo trasversale che forma in pianta un dispositivo a T rovesciata. La Sala della fontana accoglieva
banchetti, concerti e feste, ed era uno spazio pubblico nettamente separato dagli appartamenti laterali ad
uso riservato. La Zisa era una dimora di riposo, usata dal re e dalla corte soprattutto nella stagione calda, ed
era circondata da frutteti, giardini con diverse fontane e peschiere. La sala del pianterreno, provvista di una
bocca d'acqua con uno scivolo diagonale e attraversata longitudinalmente da un canaletto scoperto,
alludeva al giardino del Corano e alla sua sorgente; questo canaletto andava ad alimentare un bacino
rettangolare posto all'esterno (di cui restano i muri di fondazione), al centro del quale si trovava un piccolo
padiglione raggiungibile con un ponticello. Inoltre il palazzo era collegato, tramite una galleria voltata, ad
una cappella dedicata alla santissima Trinità: un piccolo spazio a navata unica coperto con volte a crociera e
provvisto nella zona del santuario di una copertura a cupola emisferica sostenuta sui lati da muqarnas. →
Pannello rettangolare che si trova sul muro di fondo collegato su un fregio anch'esso a mosaico: tre cerchi
annodati su fondo oro che fanno da cornice a 3 scene speculari, al centro due arcieri in piedi ai lati
dell'albero della vita popolato di uccelli, ai lati coppie di pavoni rivolti verso una palma da datteri. L'aquila a
tessere d'oro che spicca sul fondo al centro della fontana, è l'unica parte a mosaico di epoca post normanna
(datazione al tempo di Federico II in base all'accostamento con la decorazione del fodero della spada
dell'imperatore oggi custodita nel tesoro di Vienna).
I maestri attivi in queste imprese profane sono tutti di perfetta formazione bizantina e non sono diversi da
quelli presenti nei cantieri religiosi coevi; essi dimostrano di saper maneggiare con disinvoltura un
repertorio esotico, orientale di radice islamica.

Cattedrale di Monreale, voluta dall'ultimo re normanno come nuova sede arcivescovile. Il grande complesso
edilizio che comprende: cattedrale, palazzo del vescovo, monastero benedettino e palazzo reale si trova alle
falde del monte Caputo. Un sito mons regalis compare per la prima volta nella bolla del papa Lucio III nel
1183, il pontefice che elevò a sede arcivescovile la chiesa monastero di Santa maria Nova. Non si ha nessuna
notizia di un agglomerato urbano esistente nella zona prima della fondazione dell'edificio, salvo forse un
piccolo villaggio agricolo di origine araba che fu presto sostituito dal borgo che sorse qui al tempo di
Guglielmo II. Oltre al complesso della cattedrale l'unica altra struttura certamente medievale di quest'area è
il cosiddetto Castellaccio sulla cima del Monte Caputo, si tratta di una fortezza (oggi allo stato di rudere)
documentata a partire dalla fine del XII sec e presumibilmente contemporanea ai lavori avviati a Monreale
per volontà di Guglielmo II. Il Castellaccio presenta una pianta turrita a forma di parallelogramma ed è
dotato anche di una cappella con absidi; la muratura presenta una tecnica caratteristica a pezzame calcareo,
molto simile a quella impiegata nella cattedrale.
La chiesa fu fondata da Guglielmo II con lo scopo di creare un mausoleo dinastico, su modello di quanto
aveva già tentato Ruggero II a Cefalù, sia di istituire un nuovo arcivescovado più potente e più fedele alla
corona di quello di Palermo, che proprio negli stessi anni stava promuovendo la ricostruzione della
cattedrale. I lavori dovettero avere inizio nel 1172 come viene emanato in un privilegio del re; nel 1176 si
insediò nel complesso appena costruito una comunità di monaci benedettini; la data del 1185 risulta
dall'iscrizione della porta di bronzo principale firmata da Bonanno Pisano (a questa data il cantiere si può
considerare sostanzialmente concluso e comunque esso non oltrapassò il 1189, anno di morte di Guglielmo
II). La facciata medievale della chiesa è preceduta da un portico settecentesco che sostituisce l'originale, ed
è affiancata da due torri a pianta quadrata, scandite in 4 piani (una è incompleta). L'interno presenta un
corpo basilicale con pianta longitudinale a 3 navate separate tra loro da colonne con fusti e magnifici
capitelli antichi di reimpiego (sono sia corinzi semplici che figurati) provenienti tutti da Roma; i capitelli sono
sormontati da pulvini rivestiti a mosaico su cui si impostano le arcate a sesto acuto. Il reimpiego di forme
antiche portate dall'urbe rivela la forte carica ideologica sottesa al progetto, e le aspirazioni per così dire
imperiali di Guglielmo II per la nuova chiesa-mausoleo degli Altavilla. Transetto e santuario hanno la stessa
larghezza e dal punto di vista architettonico costituiscono un unico corpo autonomo, quasi a pianta centrale,
rispetto allo sviluppo delle navate; questa parte della chiesa, che spicca nettamente anche in alzato, è
coperta nei bracci laterali da volte a crociera, mentre nella campata del bema c'è una volta a botte a sesto
acuto; la campata d'incrocio, sopraelevata, è invece coperta da un tetto ligneo. Il transetto e la zona
presbiteriale rappresentano il punto di snodo dell'intero complesso fungendo, oltre che da santuario anche
da unica zona di collegamento coperta tra il palazzo reale e l'episcopio con il monastero.
Architettonicamente la struttura della chiesa ripropone, in scala monumentale, la soluzione già adottata
nella cappella palatina di Palermo con la caratteristica fusione di un corpo occidentale a navate di matrice
latina, e una zona centralizzata di matrice bizantina. La decorazione esterna è particolarmente ricca e
vistosa nel prospetto delle absidi (è la prima parte del complesso che si vede salendo a Monreale): la
partitura è suddivisa in tre ordini sull'abside maggiore e in due ordini sulle absidi laterali, ed è costituita da
archi ciechi ogivali intrecciati tra loro, al loro interno sono ricavate specchiature rettangolari e ad arco
decorate con dischi policromi; questo sistema ornamentale, probabilmente ispirato a modelli elaborati in
Campania, gioca principalmente sul contrasto cromatico tra la pietra lavica nera, il fondo dorato del calcare
locale e alcune profilature realizzate in laterizi rossi.
Originariamente le strutture edilizie erano protette da un recinto fortificato che oggi sopravvive solo per
pochi tratti, ed era coronato da una merlatura simile a quella che si conserva oggi nella parte alta del
transetto della chiesa. Il chiostro ha pianta quadrata e presenta 4 gallerie con copertura lignea a uno
spiovente verso il cortile centrale; 3 filari di blocchetti formano lo zoccolo sul quale poggiano le colonnine
binate del portico che sostengono archi a sesti acuto e a doppia ghiera decorati con motivi geometrici a
tarsie di colore bruno e di tufo vulcanico di colore nero; nell'intradosso degli archi è presente una
caratteristica cordonatura pensile a sezione semicircolare che è stato ipotizzato servisse per il montaggio di
telai di legno che servivano a chiudere la parte bassa del portico. In un angolo è collocato un lavabo, inserito
all'interno di un chiostrino, che ha le stesse caratteristiche architettoniche del chiostro principale. Sui 3 lati
del cortile non adiacente alla chiesa si dispongono gli edifici del monastero: sala capitolare absidata,
dormitorio, refettorio (erano due).
Per quanto riguarda la scultura in funzione architettonica, l'insieme più ricco e originale è costituito dai
capitelli del chiostro monastico dove si susseguono 228 colonnine di marmo con base a tre tori, abbinate
lungo i lati o raggruppate a 4 negli spigoli; esse sorreggono capitelli a coppia oppure a 4 elementi anch'essi
in marmo; i fusti sono alternatamente lisci e decorati con incrostazioni musive a zig zag, a rombi, a fasce
verticali, spiraliformi; le colonnine angolari sono interamente scolpite in marmo bianco con motivi vegetali,
putti e animali di intonazione spiccatamente classica. I capitelli offrono una varietà di temi: figure di
guerrieri, esseri fantastici (come la sirena), virtù, profeti, simboli degli evangelisti, ma anche rarissimi
soggetti di origine classica come il dio Mitra che uccide il toro; alcuni capitelli angolari sono magnificamente
istoriati quasi a fregio continuo con episodi tratti dal vecchio e dal nuovo testamento (Annunciazione,
Natività, viaggio e adorazione dei Magi →questi capitelli sono disposti nel chiostro senza alcun nesso logico
narrativo e perciò è stato suggerito che il loro valore sia quello di exempla). Un capitello illustra la dedica
della cattedrale con il committente, re Guglielmo II, che offre alla Vergine il modello della chiesa sorretto
sulle spalle da un angelo in volo; si tratta di un caso di grande interesse per la valenza ambientale che
l'artista ha attribuito a questa scultura: il plastico architettonico non è raffigurato solo con fedeltà al vero,
ma è anche riprodotto da un punto di vista che coincide esattamente con quello in cui si trova l'osservatore
all'interno del chiostro. Quanto allo stile delle sculture, le ipotesi avanzate nel tempo sono state molteplici:
a seconda delle parti c'è stato chi ha visto una matrice culturale campana, provenzale, emiliana oppure un
linguaggio eclettico sensibile addirittura allo stile bizantino dei mosaici che venivano realizzati all'interno
della cattedrale; la più recente critica sostiene che operarono qui due botteghe che avrebbero lavorato una
dopo l'altra: la prima sarebbe la bottega locale e coincideva con quella che aveva eseguito i capitelli del
chiostro di Cefalù, la seconda invece proverrebbe da Salerno dove aveva già realizzato il pulpito minore del
duomo.
Accanto alle sculture del chiostro l'elemento più spettacolare è il ciclo di mosaici parietali bizantini che
coprono integralmente l'interno della chiesa (6400 metri quadrati, è il più grande realizzato nel corso del
Medioevo). Dal punto di vista del programma il loro modello è la cappella palatina nella veste che l'edificio
assunse sotto Guglielmo II con l'introduzione nelle navate dei cicli dell'antico testamento e delle storie dei
Ss. Pietro e Paolo (more romano); la palatina viene dunque a costituire l'indispensabile premessa per
comprendere l'ultima grande impresa della dinastia normanna. In Sicilia non erano presenti squadre di
artisti capaci di portare a termine un programma così vasto e, per giunta, in tempi brevi, pertanto si fece
ricorso ancora una volta all'opera di botteghe appositamente chiamate da Costantinopoli. Monreale è
un'impresa che nella storia del mosaico bizantino si dimostra doppiamente significativa: in primo luogo
perchè costituisce una testimonianza quasi unica del nuovo linguaggio dinamico dell'età tardocomnena
(essendo andati perdute le opere di Costantinopoli, rimane di quest'epoca solo un frammento di pochi cm
quadrati = la figura dell'arcangelo Michele); secondo motivo dell'importanza dei mosaici di Monreale è che
essi ci consentono di vedere materialmente all'opera in più parti dello stesso edificio squadre distinte che
sul piano organizzativo lavorano con un altissimo grado di flessibilità e di capacità di adattamento alle
richieste della committenza. L'immenso edificio era di fatto una copia normanna delle basiliche apostoliche
di Roma, era privo di cupole e volte e presentava pareti rettilinee da mosaicare, da ciò deriva quello che
Demus ha definito un “sistema decorativo ad arazzo”. Cicli così vasti e dettagliati erano estranei al mondo
bizantino, erano tipici della tradizione latina che avevano il loro remoto archetipo nei cicli di S. Pietro e S.
paolo fuori le mura che risalivano al tempo di Leone Magno. Anche rispetto a questi antichi modelli,
Monreale rappresenta qualcosa di completamente nuovo poiché qui vengono tradotte integralmente in
mosaico tutte quelle scene e cicli che a Roma per tradizione erano realizzati con tecniche diverse a seconda
delle parti dell'edificio: mosaico e affresco (sistema che abbiamo visto applicato anche nella perduta basilica
desideriana di Montecassino). Con questa grande impresa avviata forse nel 1173 e compiuta prima della sua
morte nel 1189, il sovrano volle ricalcare quanto aveva fatto suo nonno Ruggero II, questa volontà appare
confermata da almeno due indizi: il mosaico con l'incoronazione del re nel presbiterio che è abbinato ad un
pannello che illustra la donazione della chiesa da parte del re a Maria (Il pannello con Guglielmo II
incoronato da Cristo, riprende chiaramente quello di Ruggero a S. Maria dell'Ammiraglio, anche se qui Cristo
è seduto e in alto compaiono due angeli con i segni del potere lo scettro e il globo che stanno per essere
conservati al sovrano); dobbiamo poi ricordare che Monreale, come Cefalù, nacque come urbs regia e la
nuova chiesa era cattedrale e insieme mausoleo dinastico. Inoltre bisogna osservare che il programma
iconografico interno offre una sintesi dei precedenti cicli siciliani: la zona dell'abside è modellata sui mosaici
di Cefalù, le navate invece riprendono la cappella palatina. Nell'abside a Monreale, rispetto a Cefalù, le
scene sono disposte su due anziché tre livelli, questo conferisce alle immagini una monumentalità e visibilià
eccezionali: al centro della volta del bema c'è l'etimasia, il trono vuoto del giudizio, accompagnato dagli
angeli; nel catino il gigantesco Pantokrator (la stoffa è un vero pezzo di bravura in stile dinamico
tardocomneno); subito sotto la Vergine in trono con il bambino accompagnata dai 12 apostoli che, a
differenza di Cefalù, si dispongono tutti sullo stesso livello 6 per parte andando ad occupare anche le pareti
del presbiterio (fuoriescono dal semicilindro absidale); più in basso, ai lati della finestra centrale, si
susseguono 14 figure di santi, vescovi, diaconi e monaci e appare per la prima volta in un ciclo
monumentale Thomas Becket l'arcivescovo di Canterbury (un santo nuovissimo. La sua presenza si spiega
con la devozione del re, ma soprattutto quella di sua moglie la regina Giovanna d'Inghilterra e l'ondata
entusiastica di venerazione per il nuovo martire che si diffuse in tutta Europa dopo la sua canonizzazione), è
da notare che la sua posizione è assolutamente privilegiata perchè è molto vicino al centro dell'abside ed è
addirittura inserito prima di S. Nicola, S. Benedetto e S. Stefano.
Nuclei narrativi delle navate e del transetto: 1 storie della genesi, 2 storie di Cristo, 3 miracoli di Cristo, 4-5
storie di Pietro e Paolo + piccolo ciclo agiografico dei SS. Casto, Cassio e Castrenze nella controfacciata (si
tratta di un omaggio a tre venerate figure le cui reliquie erano state offerte alla cattedrale di Monreale
proprio dal re Guglielmo II).
A Monreale il racconto delle scene segue molto da vicino il modello iconografico della cappella palatina, è
interessante notare che i mosaicisti fecero solo pochissime aggiunte preferendo dilatare le composizioni al
di sopra delle superfici più vaste conferendo una visibilità e monumentalità del tutto nuova, quasi
cinematografica. La leggibilità delle scene dal basso venne inoltre accresciuta dall'adozione di un originale
dispositivo spaziale, i singoli riquadri infatti non sono mai delle unità isolate ma trovano un fattore
unificante nella linea ininterrotta del terreno d'appoggio che diventa una sorta di palcoscenico sul quale
questi attori biblici si muovono, agiscono, avvicendandosi nella continuità del racconto. Il nuovo linguaggio
adottato dagli artisti è il cosiddetto stile dinamico dell'età tardocomnena. Le diverse equipes di mosaicisti a
lavoro seguivano un grande progetto unico, garantendo l'unità tematica e l'omogeneità stilistica; allo stesso
tempo però si spiega quella che l'Andaloro ha definito una pluralità di scritture, cioè la presenza di sigle
riconoscibili delle singole maestranze che operarono nelle diverse zone dell'edificio. I mosaici dell'area
absidale, che furono probabilmente i primi a essere realizzati, si distinguono per uno stile dinamico molto
solenne e monumentale; invece le scene cristologiche, che corrispondono ad una fase più avanzata,
mostrano una scrittura carica di cadenze e amplificazioni, cioè quello stile dinamico “barocco” (questo era il
linguaggio della pittura di Costantinopoli di cui nella capitale non rimane più alcuna testimonianza).

Nel palazzo reale di Palermo erano presenti le nobiles officinae, laboratori di corte, specializzate nelle arti
suntuarie, fondati al tempo di Ruggero II e attive ancora al tempo di Guglielmo II, citate da Ugo Falcando.
Questa produzione non era riservata solo al sovrano ma aveva anche un enorme successo di vendita e di
esportazione. Si ricordano: la Coperta di evangelario di Alfano (1173-1182), si tratta di un'opera donata
dallo stesso Guglielmo II ad Alfano di Capua; e la Croce stauroteca della cattedrale di Cosenza (metà XII sec)
che secondo una tradizione sarebbe stata offerta dall'imperatore Federico II alla cattedrale di Cosenza nel
giorno della sua consacrazione avvenuta nell'anno 1222. La stauroteca è bifronte: presenta nella faccia
principale un ricettacolo centrale per la reliquia del sacro legno e poi 5 medaglioni con il Pantokrator al
centro e i 4 evangelisti alle estremità, il fondo della croce è decorato con la filigrana a vermicelli; sulla faccia
opposta i medaglioni recano le figure di Maria e del Battista, in alto un arcangelo, in basso l'etimasia mentre
sui bracci c'è l'immagine del Cristus patiens corredato da iscrizioni greche.

Venezia: la Serenissima in questo periodo costituisce il massimo centro economico e culturale dell'area alto-
adriatica. Qui, a differenza del sud Italia, il controllo politico dell'impero d'oriente era progressivamente
venuto meno nell'alto Medioevo, trovando il suo evento conclusivo nell'anno 751 con la caduta di Ravenna
in mano longobarda. Già da due secoli però, l'invasione dei longobardi (avvenuta nel 568) aveva impresso
un'accelerazione al processo di dissolvimento dell'assetto territoriale giustinianeo provocando un
consistente spostamento di popolazioni dall'interno della X regio romana, la Venetia et Histria, verso il mare
Adriatico (la Venetia et Histria corrisponde alle attuali regioni del Veneto e del Friuli Venezia Giulia). Gli
antichi centri urbani dell'entroterra erano stati lentamente abbandonati in favore di stanziamenti più sicuri
sia sulle isole che sulle coste della laguna → spostamento della capitale da Oderzo ad Eraclea (fatta costruire
dall'imperatore Eraclio da cui prende il nome). Sulla costa vi erano già centri importanti come Grado,
l'antico porto di Aquileia; in questa sfera di grandi cambiamenti Grado venne riqualificata e rinnovata e
venne inoltre promossa a sede arcivescovile. Ma contemporaneamente vennero create anche città nuove
come Caorle e Torcello che divennero sedi episcopali.
A Grado il vescovo Elia fece costruire una nuova basilica dedicata a S. Eufemia, consacrata nel 579 (è il
massimo monumento della città): è celebre per il suo pavimento musivo di circa 1000 m quadrati in cui si
leggono i nomi di numerosi donatori che contribuirono alle spese per le sue realizzazioni (si tratta di
esponenti delle elite civili, ma soprattutto militare bizantina). Nel tesoro della basilica è presente una
stauroteca in argento dorato risalente all'inizio del VII sec, proprio al tempo dell'imperatore Eraclio: al di
sopra della lamina su 4 monogrammi in lettere greche si legge la preghiera di un magister officiorum, un
alto funzionario della corte bizantina.
L'influsso culturale di Costantinopoli rimase intenso soprattutto a Venezia, che nel IX e nel X sec assunse una
posizione di assoluto primato in quest'area, anche grazie ai suoi rapporti politici con Costantinopoli. Dopo il
1000 il legame tra Venezia e Costantinopoli si strinse ulteriormente, sia sul piano diplomatico che su quello
militare; da ricordare il matrimonio del doge Domenico Selvo con una sorella dell'imperatore Michele
Dukas, e l'intervento determinante della flotta veneziana, in aiuto dei bizantini, contro i normanni. Come
ringraziamento per questa prova di fedeltà, l'imperatore Alessio I comneno accordò alla repubblica
l'esenzione dalla tasse doganali nei propri mari e nei propri porti, e le concesse un quartiere residenziale a
Costantinopoli e uno scalo sul Corno d'oro. Questo è il momento in cui i veneziani gettarono le basi della
loro successiva fortuna coloniale nel Mediterraneo orientale, che ebbe il suo apice dopo la 4° crociata del
1204.
Per quanto riguarda la storia ecclesiastica, bisogna ricordare che nel 1053 si era svolto un concilio nel quale
la carica di metropolita di quest'area era stata trasferita dal patriarca di Aquileia a quello di Grado, cioè la
stessa Venezia poiché il presule gradese aveva spostato la sua residenza proprio a Rialto.
Dal punto di vista artistico tra XI e XII il luogo di maggior presenza di maestranze bizantine fu senz'altro il
cantiere della Basilica di San Marco,ricostruita in forme grandiose a partire dal 1063 per iniziativa del doge
Domenico Contarini. Tuttavia San Marco non fu in ordine di tempo il caso più precoce, in laguna, dell'attività
di artisti provenienti da Costantinopoli; essa fu preceduta dalla cattedrale di Santa Maria Assunta a Torcello
risalente in anni immediatamente successivi al 1000 nella quale operarono due equipes di mosaicisti
bizantini. Probabilmente Torcello era già abitata in epoca romana quando sorgevano ville di aristocratici;
successivamente fu coinvolta da cataclismi che travolsero la presenza umana; dopo dovette verificarsi un
ripopolamento di quest'area e sono state trovate tracce archeologiche. Al 639 risale la prima traccia
documentaria effettiva: l'iscrizione dell'esarca di Ravenna Isacio; il testo è lacunoso in alcuni punti e oltre al
nome dell'esarca essa riporta il nome dell'imperatore bizantino regnante (Eraclio) la dedica della basilica a
Santa Maria madre di Dio, forse il nome di un magister militum che fu costruttore della chiesa (Maurizio). In
passato qualche studioso ha messo in dubbio che l'epigrafe si riferisca alla basilica di Torcello, ma il legame
con il monumento è stato pienamente confermato nel 2010 da uno studio.
Le dimensioni della cattedrale ci fanno pensare ad una città popolata; fino alla fine del '500 conservava altre
sedi religiose, dunque Torcello medievale è oggi una città scomparsa. Oggi dell'edificio eretto nel 639, quello
dell'epigrafe di Esacio, restano solo alcune tracce a livello di fondazioni e le dimensioni della chiesa
originaria dovrebbero coincidere con quelle attuali, salvo le tre absidi emergenti che inizialmente dovevano
essere incluse in un muro rettilineo. Tra VII e VIII sec la basilica venne dotata di un battistero circolare con
un deambulatorio a colonne, oggi restano solo due nicchie e la porta centrale di comunicazione con il
portico della chiesa. Il battistero, in asse con la facciata, qualifica la chiesa come sede vescovile e riprende
un modello architettonico diffuso in area alto-adriatica sin dall'epoca paleocristiana e paleobizantina. Il
portico di facciata e la cosiddetta quarta navata (che inizialmente era un portico poi chiuso e suddiviso)
ebbero una destinazione funeraria. Nel IX sec sono attestati altri lavori riferiti dalla Cronaca di Giovanni
Diacono. Ma è a partire dall'anno 1008 che la fabbrica assume il suo aspetto attuale, l'intervento si deve al
doge Pietro II Orseolo ed è anch'esso documentato dalla Cronaca di Giovanni Diacono; il verbo “recreare”
viene usato nello spirito di un recupero dei modelli paleocristiani come dimostrano le grandi archeggiature
di mattoni e le ghiere che circondano le finestre nonché le colonne con capitelli corinzi (all'interno). Sono
importanti anche i 4 plutei della recinzione presbiteriale: due presentano coppie di pavoni che si
abbeverano a un cantaro, due con coppie di leoni affrontati all'albero della vita; si tratta di opere di
eccezionale qualità che traducono nel marmo modelli bizantini in avorio (cofanetti del periodo
macedone/miniature di manoscritti). Il pavimento in opus sectile presenta una decorazione rigorosamente
astratta, esso presenta semplici specchiature rettangolari nelle navatelle, un grande quinconce nella sezione
del bema e un originale tappeto a esagoni allungati e sovrapposti subito davanti all'iconostasi (motivo di
ascendenza islamica). La totale assenza di motivi figurati distingue questo pavimento dagli altri esemplari
veneziani e fa discutere sulla sua datazione che oscilla tra l'XI e il XII sec. Le pitture del catino absidale, in
precedenza, presentavano un finto zoccolo in opus sectile, sovrastato da figure dei padri della chiesa ,
eleganti ed allungate, che poi furono soppiantate dal programma decorativo a mosaico. La cattedrale di
Torcello costituisce il primo importante cantiere lagunare dell' XI sec, in cui si trovarono ad operare
simultaneamente due distinte botteghe di artisti bizantini. La tipologia dell'edifico impose ai mosaicisti greci
un adeguamento forzato ad uno spazio architettonico che per essi era desueto; inoltre il programma
iconografico che i committenti chiesero di realizzare è un compromesso tra idee ed elementi latini da una
parte ed iconografie di tradizioni greca dall'altra. I mosaici si concentrano nei due punti chiave della navata:
l'abside con l'arco che la incornicia, e la parete di controfacciata; non risulta che fosse prevista una
decorazione sulle pareti rettilinee. Al centro del vasto catino dorato c'è l'Odighitria, affiancata dalla scena
dell'Annunciazione nell'arco; nel semicilindro sottostante si dispongono invece gli apostoli; il timpano che
corona la parete era occupato da una sintetica scena di Ascensione, oggi perduta, con il mezzobusto di
Cristo in mandorla sollevato da due angeli → la sua posizione attesta un evidente slittamento del soggetto
ad uno spazio diverso da quello canonico nei programmi di matrice bizantina: in mancanza della cupola, che
è il luogo destinato all'Ascensione, a Torcello essa passa nella zona gerarchicamente più alta del bema.
Per la decorazione della controfacciata vennero tamponati i due oculi e le due monofore visibili all'esterno,
segno che in origine il programma decorativo doveva seguire una diversa disposizione o forse non era
affatto presente. Subito sotto la capriata del tetto c'è la Crocifissione, seguita da una gigantesca Anastasis
fiancheggiata dai due arcangeli; più in basso si svolge su 4 registri il Giudizio finale: vediamo Cristo in trono
con le braccia aperte a mostrare le ferite della passione affiancato da Maria e il Battista, poi si dispongono
gli apostoli seduti in trono, le figure dei cherubini con le ruote infuocate; dalla base del trono di Cristo
sgorga il fiume di fuoco che andando verso la sinistra di Cristo va ad alimentare le fiamme dell'inferno; nel
secondo registro è rappresentato il trono vuoto dell'Etimasia, ai lati sono rappresentati in ginocchio Adamo
ed Eva, a destra vediamo un angelo che arrotola i cieli ad indicare la fine dei tempi, accanto altri due angeli
con le trombe che fanno risorgere i morti dal mare i cui corpi spuntano dalle bocche dei pesci, a sinistra ci
sono gli animali selvaggi della terra che restituiscono anch'essi i corpi dei defunti; sopra la porta, al centro
del terzo registro, è collocata una scena fondamentale cioè la Psicostasia (la pesatura delle anime) e
vediamo un angelo che regge la bilancia mentre i demoni tentano di inclinare uno dei piatti dalla loro parte
facendo crescere il peso dei peccati con lo scopo di far entrare all'inferno un anima in più; nella lunetta la
Vergine orante intercede per le sorti dell'umanità, ai lati sono rappresentati i giusti con le mani alzate in
preghiera e i dannati spinti da due angeli nel grande stagno infernale dominato al centro dalla nera figura di
Satana; nel registro più basso è rappresentato il paradiso con Abramo, la Madonna orante, il buon ladrone
con la croce e San Pietro con le chiavi, dall'altra parte l'inferno diviso in 6 zone secondo il testo del Vangelo
di Marco.
Il diaconico venne rivestito di mosaici: nel catino fu inserito un Cristo in trono, nel semicilindro i dottori della
chiesa latina, nella volta campeggia al centro un agnus dei entro un clipeo sorretto da 4 angeli disposti a
croce su un fondo di girali abitati (uno schema di chiara ascendenza ravennate = volta del presbiterio della
basilica di S. Vitale).
In una seconda fase dei lavori venne totalmente sostituita l'Hodighitria del catino, sostituita da una figura
slanciata che si staglia su un amplissimo fondo dorato, probabilmente venne rifatta anche la perduta
Ascensione del timpano; anche nella controfacciata troviamo evidenti segni di rifacimenti risalenti alla fine
del XII sec. Durante i lavori dell'800 i restauratori non si limitarono a rifare le parti del mosaico medievale
ma, sfruttando le loro capacità tecniche, si spinsero anche in un'attività illecita: staccarono
clandestinamente numerose teste originali ben conservate e le sostituirono con delle copie fatte da loro
(riconosciute come tali in studi più recenti); i mosaici staccati e trafugati venivano poi messi in vendita nel
mercato antiquario internazionale dell'epoca questo spiega perchè questi frammenti siano conservati in
collezioni private o in raccolte di musei (New York).
Martyrum di Santa Fosca vicino alla cattedrale, normalmente datato al XII sec, presenta una struttura
considerata un antecedente di San Marco: pianta centralizzata con un nucleo a croce greca inscritto in un
quadrato smussato all'esterno da nicchie e circondato da un portico; nella zona est si innesta un bema a tre
absidi che raddoppia la profondità del braccio orientale. I bracci della croce sono voltati a botte, mentre le
piccole campate angolari sono voltate a crociera e poggiano a due a due su un pilastro a muro e due
colonne libere formando un originale soluzione di sostegno per la copertura centrale. In alzato gli spigoli del
nucleo quadrato sono tagliati da trombe angolari, creando un passaggio dall'imposta quadrata della base a
quella circolare della cupola che forse non venne mai terminata. La pianta dell'edificio è molto particolare, il
modello di partenza è indubbiamente orientale ma interpretato con una certa libertà. All'esterno dell'abside
le colonnine binate, in basso con capitellini troncopiramidali, ricordano quelle dell'interno del katholikon
della Nea Moni a Chios. È importante un documento notarile del 1111 di un lascito fatto da due sorelle della
città, Bona e Fortunata, da intendersi come un contributo economico per la costruzione.

Basilica di San Marco: Antefatto della prima chiesa in onore dell'evangelista è l'arrivo del suo corpo nella
città, trafugato da Alessandria d'Egitto da mercanti veneziani nell'828. Nell'832 viene eretta la prima chiesa,
probabilmente già a croce greca, di cui forse restano alcune tracce incapsulate nell'organismo architettonico
odierno; essa ha funzione sia di cappella ducale che di martyrum. Nel 976 l'edificio viene danneggiato da un
incendio sicchè la struttura è oggetto di consistenti restauri. Nel 1063 il doce Domenico Contarini decide di
avviare una ricostruzione integrale, nasce così San Marco, detta, dal nome del doge, contariniana.
La nuova struttura in età medievale è oggetto di una serie di interventi che proseguono in tutta l'età
moderna con un'opera continua di arricchimenti e restauri. L'edificio presenta una grandiosa struttura a
croce libera, coperta a volte e coronata da 5 cupole con i 4 bracci divisi in 3 navate e originariamente
provvisti di gallerie; si tratta di un edificio eccezionale nell'XI sec, non solo per la scala dimensionale ma
anche per la sua tipologia che non ha confronti né nell'architettura coeva di Bisanzio né in quella europea.
Infatti il modello di San Marco è un monumento costantinopolitano di cinque secoli prima: la chiesa
giustinianea dei SS. Apostoli, oggi perduta ma accuratamente descritta da Procopio di Cesarea; il riferimento
ai santi apostoli è espressamente dichiarato da una fonte veneziana dell'inizio del XII sec: la Translatio Sancti
Nicolai scritta a pochi decenni di distanza dall'inizio dei lavori; l'autore ci dice che l'illustre modello
scomparso fu imitato già nel VI sec nella chiesa di S. Giovanni ad Efeso che ancora esiste.
È importante sottolineare che i veneziani con un'intenzione retrospettiva trassero ispirazione da un illustre
exemplum del passato (greco in questo caso), in tal modo riuscirono a conferire alla nuova San Marco
un'impronta all'antica in linea con l'ideologia di primato e confermava visivamente le presunte ascendenze
apostoliche della loro sede ecclesiastica. Rispetto all'edificio de tempo di Giustiniano (SS. Apostoli), quello
veneziano comporta l'adozione di alcuni aggiustamenti spaziali funzionali che tuttavia non alterano il suo
carattere di copia architettonica (carattere tipico dell'età medievale; nella mentalità del Medioevo la copia non è da
intendersi come copia in tutto e per tutto identica all'originale, ma piuttosto come una riproduzione che si può
rapportare ad esso anche solo per alcune analogie fondamentali). Dobbiamo però tener presente che la basilica
veneziana ha subito delle aggiunte successive che ne hanno modificato l'architettura contariniana: i bracci
nord e sud dell'atrio sono stati costruiti nel XIII e XIV sec e dunque dobbiamo idealmente eliminarli dalla
pianta dell'XI sec che si presentava a croce libera; inoltre le 5 cupole sono state trasformate nel loro alzato
esterno, esse inizialmente erano molto più basse e larghe, nel corso del '200 su di esse vennero realizzate
delle sovracupole metalliche con un'incastellatura lignea di sostegno molto ardita → ragione per la quale
venne introdotta questa modifica: furono condotti dei lavori urbanistici che interrarono il canale che correva
di fronte alla basilica ed era stata creata una grande piazza, ciò rendeva la basilica visibile anche a distanza
ed esigeva per la sua struttura un maggiore sviluppo in altezza.
Novità che presenta l'edificio contariniano rispetto al suo modello: innanzitutto, a differenza dei SS. Apostoli
che hanno uno sviluppo equilatero con 4 bracci uguali, S. Marco è orientata in senso longitudinale, infatti il
braccio anteriore è più lungo, il braccio del presbiterio è contratto e dotato di 3 absidi, l'altare viene
spostato nel presbiterio, il presbiterio è sopraelevato e subito al di sotto c'è una grande cripta che si estende
per tutto il braccio est; anche i bracci nord e sud sono un po' accorciati; l'atrio presenta una particolare
struttura sporgente lateralmente.
Sotto il rivestimento di marmi preziosi e sotto la cortina di mosaici interni, è possibile individuare dei brani
che ci consentono di ricostruire la sua immagine dell'XI sec. (1° punto di osservazione) Visto di scorcio il
fianco della basilica lascia spuntare al di sopra del rivestimento duecentesco, il paramento intatto in laterizio
dell'edificio contariniano con i suoi timpani curvilinei, le cornici a dentelli, le arcate a ghiere multiple, tutti
elementi tratti dal lessico dell'architettura bizantina. (2° punto di osservazione) Esterno zona corale da cui si
inquadra l'abside originaria con il suo monumentale prisma scavato da due ordini di arcate, con le sue
caratteristiche nicchie in mattoni e calotte a spina di pesce, si tratta di un elemento di origine bizantina che
però è talmente presente a S. Marco da costituire quasi un motivo firma del cantiere architettonico
contariniano. (3°) Angolo settentrionale della facciata presso la porta di Sant'Alipio dove indagini
archeologiche svoltesi nel corso di restauri hanno rivelato l'originaria articolazione del prospetto in laterizio
della chiesa: c'erano dei grandi pilastri polistili con elementi semicircolari e triangolari alternati; le nicchie,
che potevano essere basse, o molto slanciate; infine comparivano numerose aperture a oculo → ne emerge
un lessico architettonico sconosciuto in occidente che trova i suoi confronti più convincenti nei monumenti
coevi di Costantinopoli, in particolare nella chiesa di S. Giorgio delle Mangane che presentava pilastri
polistili identici a quelli ritrovati a S. Marco. (4°) Parte superiore del grande pilastro dell'iconostasi: al di
sotto della superficie è emersa, durante un restauro, l'antica parete in mattoni scandita da un'archeggiatura
cieca; questa rifinitura attesta che il muro in laterizio era stato fatto per essere a vista, e che dunque
originariamente la chiesa non prevedeva una decorazione totale a mosaico.
Le sculture in funzione architettonica rivelano un rapporto molto stretto con la produzione orientale, sia
contemporanea che antica: lastre marmoree che fanno da paramento alle gallerie; plutei dell'XI sec che
riprendono soluzioni tipiche dell'età giustinianea. Sempre al corredo della basilica dell'XI sec appartiene
anche la porta bronzea di S. Clemente, oggi montata in uno degli ingressi laterali ma situata in origine
probabilmente nell'ingresso centrale dell'atrio, essa rientra nel gruppo dei battenti decorati ad agemina,
prodotti in oriente e importati in Italia (probabilmente arrivò in città nel 1082 come dono di Alessio I
comneno in ringraziamento per l'aiuto che i bizantini avevano ricevuto dalla flotta veneziana in funzione
antinormanna).
La decorazione a mosaico dell'XI sec => l'Apostoleion dell'XI sec si presentava completamente ricoperto di
mosaici, per S. Marco invece si fece una scelta del tutto diversa che non coincide con l'aspetto che l'edificio
assunse nei sec successivi; l'edificio nella sua prima versione non prevedeva una decorazione a copertura
totale. Sotto le lastre marmoree sono emersi due frammenti di un grande pannello a mosaico con le Pie
donne e gli Angeli piangenti, essi sono forse la parte residua di una scena con la Deposizione di Cristo dalla
croce, a cui forse corrispondeva una scena con il Compianto sul Cristo morto.
Come si configurava il programma più antico di S. Marco e quanto ne resta ancora? Per ora si possono
indicare solamente altri due punti chiave che rientrano sicuramente nella prima fase decorativa: l'esedra del
portale centrale dell'atrio, e l'abside maggiore. L'esedra costituisce probabilmente la parte più antica; le
nicchie che circondano il portale, contenenti le immagini della Vergine con il bambino, degli apostoli e degli
evangelisti, mostrano uno stile severo, geometrizzante che si avvicina a quello degli apostoli dell'abside di
Torcello; se consideriamo i circa 20 anni che separano le due imprese (Torcello e Venezia) è più probabile
che si tratti a Venezia, non dell'opera diretta della maestranza di Torcello, quanto piuttosto di una bottega
locale veneziana educata alla scuola di Torcello. Inoltre sembra logico supporre che a Venezia fossero
presenti contemporaneamente più squadre di mosaicisti, e questo può giustificare quell'apparente
mancanza di unità stilistica che caratterizza le testimonianze delle origini. Infatti nell'abside sembra
emergere un linguaggio più moderno (il Pantokrator in trono del catino non appartiene alla fase originaria
dal momento che è stato rifatto nel 1506); i 4 santi patroni (S. Nicola, S. Pietro, S. Marco e S. Ermagora)
documentano il nuovo stile monumentale del primo periodo comneno, dunque siamo davanti all'opera di
una nuova maestranza greca arrivata nella laguna veneziana. Questa parte dell'abside dovrebbe risalire a
prima del 1094 (anno della collocazione delle reliquie), tuttavia Demus ha ipotizzato che le figure di Marco
ed Ermagora possano essere state rifatte dopo l'incendio della basilica del 1106, ma recentemente un
accurato esame tecnico delle superfici ha confermato che l'esecuzione del fascione è assolutamente
unitaria e che dunque dovrebbe appartenere tutto alla decorazione primitiva anteriore al 1094. Dal punto di
vista iconografico l'abside maggiore si presenta come un testo figurativo di straordinario interesse e
sottintende una scelta decisamente nuova dal punto di vista ideologico e della committenza soprattutto se
pensiamo ai temi piuttosto neutri che erano stati scelti per decorare la cattedrale di Torcello. Le 4 colossali
figure dei patroni costituiscono non solo una selezione specificamente veneziana, ma un vero e proprio
manifesto politico-religioso legato alle presunte origini apostoliche del patriarcato e alla sua politica di
potenza ecclesiastica. Ricordiamo che da pochi decenni Venezia era stata promossa a metropoli e sede
patriarcale della Venezia et Histria. Osservati a distanza, i 4 patroni, sembrano formare una semplice
sequenza di immagini iconiche per giunta senza un asse figurativo visto che il centro dell'abside è occupato
da una finestra, ma avvicinandosi si capisce che gesti e posizioni legano tra loro le 3 figure che si trovano a
destra all'interno di una scena autonoma alla quale fa da spettatore, fuori campo, San Nicola il protettore
della flotta veneziana: il protagonista della scena è S. Marco nell'atto di ricevere da Pietro e di passare a sua
volta ad Ermagora, l'incarico di fondare la chiesa di Aquileia sotto forma di libro; dunque Ermagora, il primo
vescovo aquileiese, riceve il libro che simboleggia la sua autorità da San marco cioè dalla sede di Venezia,
questa è una dichiarazione di superiorità della politica dal punto di vista ecclesiastico.
Il Cristo in trono del catino costituiva l'apice della composizione, ma in origine era anche il centro dell'intera
decorazione della basilica perchè i mosaici non proseguivano più in alto. Dunque i mosaici erano concentrati
solo in alcuni punti chiave dell'edificio e il programma non formava un ciclo sistematico ma comprendeva
solo una serie di pannelli devozionali isolati (nella parte bassa), poi venivano i mosaici dell'abside e quelli
dell'esedra d'ingresso, lo spazio interno era dominato dalle volte e dalle cupole in mattoni e l'unico altro
elemento che lo qualificava dal punto d vista cromatico era l'imponente pavimento marmoreo in opus
sectile.
A distanza di circa 70 anni dalla conclusione della fase contariniana, negli anni 1150-1160, matura a Venezia
la decisione di avviare una decorazione sistematica della basilica di S. Marco. Il nuovo progetto prevedeva
un rivestimento musivo totale abbinato a lastre marmoree nella parte bassa delle pareti secondo una
consuetudine bizantina; a questa gigantesca operazione parteciparono sia artisti bizantini che veneziani.
L'inizio dei lavori si può fissare verso il 1160, infatti un'iscrizione del 1159 nella cappella di S. Clemente
ricorda che, in quegli anni un certo Petrus, cominciava a rivestire le pareti con lastre di marmo; questa
notizia, sebbene si riferisca solo a questa cappella, si può interpretare come una conferma che anche nel
resto dell'edificio era stata avviata un'analoga trasformazione generale dell'interno.
Contestualmente all'avvio del nuovo programma decorativo vennero introdotte delle modifiche anche nella
struttura architettonica: partendo dal presbiterio si procedette ad eliminare i pavimenti lignei delle gallerie
che fino ad allora avevano suddiviso le navate laterali in due piani sovrapposti (le ragioni di questo
intervento non sono chiare, forse si volevano diminuire i rischi di incendio all'interno della basilica), questo
intervento determinò un radicale cambiamento sia per quanto riguarda la disponibilità di nuove superfici
per il mosaico, sia per quanto riguarda l'illuminazione e la migliore visibilità dell'interno (la luce arrivava
abbondante anche in basso nelle navatelle). In questa fase si dovettero creare anche le condizioni pe run
ricambio delle maestranze: dopo una fase di relativa autarchia con il dominio delle botteghe locali,
dovettero sopraggiungere maestranze greche; una conferma ci viene fornita da un documento dell'anno
1153 che ricorda la presenza in città di un certo Marcus Grecus magister musileon.
A S. Marco manca un vero e proprio programma organico, infatti la decorazione è una summa di soggetti
cristologici, mariani, agiografici che non ha nulla a che vedere con i programmi iconografici delle chiese
bizantine né con quello della chiesa dei SS. Apostoli di Costantinopoli. L'unico elemento bizantino che
accomuna i due edifici è la scelta del rivestimento totale dell'interno. Per comprendere le linee tematiche
generali dei nuovi mosaici si può fare riferimento ad un'iscrizione presente nella cappella di S. Pietro, che
enumera i 4 punti chiave del programma espressi nelle parole speranza, passato, presente e futuro. La
speranza si può riferire alla cupola al di sopra dell'abside che ha per soggetto l'Emanuele circondato da 13
profeti con cartigli che si riferiscono appunto alla speranza della venuta del Messia. Il passato allude
all'esistenza storica di Cristo rappresentata sui 4 arconi della zona d'incrocio e culminante nell'Ascensione
della cupola centrale. Il presente si riferisce alla chiesa cristiana istituita durante la Pentecoste che è
appunto la scena che domina nella cupola ovest. La parola futuro potrebbe alludere infine alla
rappresentazione del giudizio finale nella volta occidentale in prossimità della controfacciata, oggi però
risulta sostituito da un mosaico moderno. Questo percorso iconografico segue uno svolgimento assiale,
dall'abside verso la facciata, è di matrice latina.
Cosa sappiamo dell'ideatore del programma e delle iscrizioni che accompagnano i mosaici; mancano
informazioni sicure: alcuni testi del XIV sec tramandano la leggendaria notizia del coinvolgimento dell'abate
calabrese Gioacchino da Fiore che sarebbe, a questo scopo, approdato in laguna; tuttavia come ha
osservato Demus il suo coinvolgimento, anche per ragioni cronologiche, sarebbe da escludersi anche se la
successione delle 3 cupole sembra evocare la teoria delle 3 età del mondo di Gioacchino (età del Padre =
passato, del figlio = presente, dello Spirito = futuro). Demus ha attirato l'attenzione su un personaggio
alternativo che poteva svolgere il ruolo di programmatore: si tratta di Jacopo Venetico Greco, canonico di S.
Marco, traduttore di Aristotele e di altri autori antichi, particolarmente versato nella teologia, che soggiornò
anche a Costantinopoli.
Si può affermare che i lavori si svolsero da est a ovest e, salvo eccezioni, procedendo dall'alto in basso. I
lavori iniziarono a partire dal 1160 a partire dalle cappelle laterali del presbiterio, mentre la conclusione si
colloca nel 1250 con la realizzazione della controfacciata. Anche se ci sono pareri diversi sulla cronologia
esatta della cupola dell'Emanuele, resta fermo che è proprio da questa parte dell'edifico che inizia la nuova
campagna decorativa; la decisione di rivestire di mosaico la cupola est non si può considerare un episodio
più antico e isolato, ma deve segnare l'inizio di quel programma totale che è alternativo a quello della prima
fase. Sempre negli anni 1160-70 vennero eseguite le volte e le cupole dei due bracci laterali da attribuirsi a
maestranze veneziane: la cupola di S. Leonardo, la cupola di S. Giovanni Evangelista (sistema di narrazione
circolare); cupola dell'Ascensione (realizzata da una personalità geniale che importa nell'ambiente lagunare
lo stile costantinopolitano tardocomneno caratterizzato da un'agitata energia lineare, si tratta del linguaggio
dinamico di cui nulla resta a Costantinopoli (di questo stile abbiamo già trovato una testimonianza nella seconda
campagna decorativa di Torcello)) → Di questo linguaggio il maestro dell'ascensione di S. Marco dà
un'interpretazione molto personale riconoscibile per l'intenso gusto cromatico, la gestualità patetica e il
gioco dei panneggi; la parte centrale è imperniata su una composizione ad andamento centripeto.
L'Ascensione segue l'iconografia bizantina, ma le personificazioni delle virtù (che si trovano nell'anello più
esterno) sono di matrice occidentale.
Nelle monumentali scene dell'arcone della Passione il maestro raggiunge un registro espressivo diverso e
nuovo; qui vediamo susseguirsi pannelli rettangolari di fortissimo impatto plastico che sono come dei grandi
bassorilievi. La straordinaria carica narrativa e scenografica va molto al di là della cultura bizantina d'origine
di quest'artista e giunge a una dimensione comunicativa senza precedenti, in particolare nel doppio
pannello con il “Tradimento di Giuda e la Derisione”, nel quale il Cristo sofferente si staglia isolato sulla
scena. Qui oltre i tradizionali tituli orizzontali, compaiono in mano alle figure dei grandi cartigli parlanti che
teatralizzano il racconto e conferiscono agli episodi un valore di figurazioni devozionali, cioè quelle immagini
della passione che avranno grandissima diffusione nel tardomedioevo.
Una prima reazione positiva delle botteghe veneziane al nuovo linguaggio del maestro dell'Ascensione si
può rintracciare nell'ultima cupola dell'asse centrale, quella della Pentecoste, nel cui stile si osserva un forte
linearismo. La proposta cronologica di Zuliani rovescia quella di Demus e di altri che preferiscono datare la
cupola della Pentecoste a metà del XII sec, addirittura prima di quella dell'ascensione. Questo spostamento
di data sembra più coerente sia con la progressione dei lavori da ovest verso est, sia con un più razionale
allestimento dei ponteggi all'interno dei cantieri. In ogni caso si può ritenere che il rivestimento a mosaico
degli arconi delle cupole fosse concluso entro gli anni '70, si può prendere come convenzionale riferimento
un evento politico che ebbe come teatro la basilica marciana: l'incontro tra il papa Alessandro III e
l'imperatore Federico Barbarossa. In questa circostanza i procuratori dovevano aver fatto tutto il possibile
per portare avanti il lavoro di decorazione, di modo che non ci fossero impalcature tra i piedi.
Restavano, invece, da sistemare le superfici resesi libere dall'eliminazione dei pavimenti di legno delle
gallerie:
- il grande pannello dell'Orazione nell'orto, eseguito prima del 1218, è l'invenzione di un unico grande
artista sebbene fu realizzato da tre maestri distinti. Probabilmente l'ideatore era un veneziano che ebbe
esperienza diretta della pittura bizantina coeva, o almeno una conoscenza approfondita attraverso i libri di
modelli. L'autore di questo mosaico documenta l'arrivo a Venezia del nuovo stile monumentale che intorno
al 1200 stava soppiantando a Bisanzio il linearismo estenuato di fine secolo della tarda età comnena.
L'ideatore rivela anche un aggiornamento delle più moderne esperienze europee di quegli anni, come lo
stile 1200.
- le 10 icone parietali in stile prezioso con l'Emanuele e la Vergine orante tra profeti.
Dopo la 4° crociata del 1204, la basilica si arricchisce ulteriormente e i lavori continuano; le tappe successive
con cui arriva a conclusione l'impresa di decorazione totale della basilica che era iniziata nel lontano 1160
sono: la decorazione dei bracci nord e ovest dell'atrio e più tardi il battistero.

Duomo di Monreale: la nuova lingua figurativa parlata dai mosaici è lo stile dinamico tardo comneno,
diffuso da Costantinopoli a Cipro, dalla Macedonia all'Italia. In Sicilia esso non rimase circoscritto all'ambito
monumentale ma dovette diffondersi anche agli altri settori artistici: la pittura su tavola (di cui rimane
pochissimo) e le arti suntuarie. Anche i manoscritti latini prodotti nell'isola documentano l'adesione a
questo stile dinamico: uno degli esempi più interessanti è il codice 52 della biblioteca nazionale di Madrid
probabilmente eseguito nello scriptorium di Messina alla fine del XII sec, al tempo dell'arcivescovo inglese
Richard Palmer → grande miniatura a prima pagina con la Vergine in trono con il bambino, panneggio a
pieghe tormentate; l'immagine rientra nella caratteristica iconografia bizantina della Eleusa (Vergine della
tenerezza) con madre e figlio strettamente abbracciati e i visi con le guance accostate (secondo la tradizione
ortodossa è il momento in cui Cristo rivela all'orecchio della madre il tragico destino di morte che lo
attende, da questo deriva l'intonazione del volto della madre che guarda davanti a sé sofferente); si tratta di
un'immagine mariana che si diffonde a Costantinopoli dall'XI sec ma che ha la sua prima attestazione verso
il 950 in una pittura murale della Cappadocia, nella chiesa nuova di Tokali a Goreme. Nello stesso
manoscritto un'altra rappresentazione di stampo tardocomneno è quella della crocifissione corredata da un
titulus in greco: forte intonazione patetica del Cristo che rivela un codice espressivo e gestuale molto vicino
a quello delle Stauroteca di Cosenza.
Intorno al 1190, quando i lavori di Monreale furono terminati e le squadre di mosaicisti si sciolsero, molto
probabilmente non tutti gli artisti bizantini approdati in Sicilia fecero ritorno a Costantinopoli. La situazione
critica della dinastia normanna non poteva assicurare loro concrete possibilità di coinvolgimento di nuove
imprese, tuttavia la fama per la straordinaria capacità di queste maestranze doveva essersi diffusa in tutta
Italia determinando l'arrivo di offerte esterne ancora a lavori in corso. La perdita di opere e documenti non
consente più di ricostruire la mappa territoriale degli spostamenti compiuti dai mosaicisti monrealesi, ma
come rilevò già Demus sono molti gli indizi che ci autorizzano a parlare di una “dissemination of the sicilian
mosaic style” dalle regioni meridionali d'Italia allo stato della chiesa. Va detto che gli artisti (chiamati
convenzionalmente) monrealesi si dovettero adattare ad incarichi più numerosi nel campo della pittura
murale che non nella tecnica costosa del mosaico: lo dimostra il ciclo del portico della basilica benedettina
di Sant'Angelo in Formis eseguito verso il 1190. La chiesa sorge in posizione eminente su un terrazzamento
alle falde del monte Tifata ed è dedicata a S. Michele Arcangelo; il più antico documento che attesta la
presenza di un monastero risale al 943-44; nel 1066 Riccardo I, principe di Capua e conte di Aversa, dotò la
fondazione di ricchi privilegi, nel 1072 la offrì all'abate Desiderio. Il luogo occupato dalla chiesa coincide
esattamente con il perimetro del tempio di Diana Tifatina risalente al IV- I sec aC. La chiesa è un edificio
basilicale senza transetto, eretto in blocchetti di tufo e coperto da un tetto ligneo; l'interno è in 3 navate
terminanti con absidi. Gli affreschi che ornano l'interno della basilica costituiscono uno dei complessi più
integri arrivati a noi dell'età medievale, e la più importante testimonianza della cultura pittorica campana
degli ultimi decenni dell'XI sec e delle nuove tendenze figurative del tempo di Desiderio. Il ciclo venne
eseguito in una campagna di lavori unitaria e sviluppa un vasto programma narrativo incentrato su episodi
del vecchio e del nuovo testamento. Perno della decorazione è il Cristo dell'abside centrale rappresentato in
trono tra i simboli degli evangelisti, al di sotto del quale è effigiato S. Michele arcangelo con le ali verdi,
affiancato da Gabriele, Euriele, l'abate Desiderio e San Benedetto (il fondatore dell'ordine). La maestà di
Cristo si rispecchia nel Giudizio finale della controfacciata, mentre le pareti della navata centrale sono
occupate da episodi neotestamentari disposti su 3 registri e corredati da tituli in latino. Esternamente, alla
facciata della chiesa, si appoggia un portico voltato a 5 fornici acuti, di cui quello centrale è più alto e
spazioso; il portico originario lo si vede nel modellino dell'edificio tenuto da Desiderio nell'affresco
dell'abside. A destra della basilica sorge libero un campanile a pianta quadrata, originariamente scandito in
3 livelli, anch'esso risale alla seconda metà dell'XI sec. Nel 1190 si intervenne a restaurare il portico esterno
e si provvide alla decorazione che prevede 6 lunette: le due poste sopra il portale centrale presentano San
Michele Arcangelo e la Madonna regina sollevata in un clipeo da due angeli in volo (le figure, di proporzioni
allungate, sono corredate da iscrizioni in greco); mentre le 4 lunette delle campate laterali narrano le storie
degli eremiti Antonio e Paolo di Tebe corredate da iscrizioni in latino =>
1) la prima lunetta comprende due episodi distinti: Antonio dopo aver ricevuto una voce dal cielo parte per
la Tebaide per andare a perfezionarsi presso l'eremita Paolo; lungo il viaggio si imbatte nelle tentazioni del
demonio che prende le forme di un satiro. Nel secondo episodio Antonio arriva da Paolo, quest'ultimo è
seduto su una roccia ed indossa una veste di foglie di palma; in questo momento Paolo non ha ancora
riconosciuto il suo visitatore e sospetta che sia Satana.
2) un unico episodio mostra l'abbraccio tra i due eremiti all'interno della grotta con la palma e la sorgente al
centro;
3) ripete lo scenario precedente, gli episodi rappresentati sono due: a destra dall'alto arriva il corvo che
quotidianamente porta a Paolo del pane, in basso i due santi si dividono il cibo.
4) Antonio sta ritornando a Tebe con un panno rosso appeso al braccio; Paolo aveva espresso il desiderio di
essere sepolto avvolto dalla veste di Sant'Atanasio e manda Antonio a prenderla, l'eremita però muore e il
suo compagno ha una visione del defunto che sta salendo al cielo dentro una mandorla ovale trasportata da
due angeli.
Questo piccolo ciclo si deve ad un artista un po' diverso a quello che ha eseguito le lunette sopra il portale
centrale.

Sempre in Campania, nella costiera amalfitana, troviamo un altro monumento che testimonia il successo di
questa corrente pittorica: si tratta della cripta della chiesa dell'Annunziata a Minuto databile intorno al
1200. La cripta di forma rettangolare, luminosa, non ipogea, è suddivisa in 3 campate coperte a crociera. Il
Pantokrator occupa lo spicchio centrale della volta, è affiancato da 4 figure in piedi: S. Giovanni Battista, S
Giovanni evangelista e i profeti Daniele e Davide. Nel livello sottostante ci sono 3 lunette dedicate alla
Vergine Maria con la scena della Natività di Gesù (grande composizione di matrice bizantina) in cui attorno
alla grotta, sagomata come una montagna, si snodano diversi episodi: in alto c'è un affollato coro di angeli
sotto la stella di Betlemme, a sinistra l'annuncio ai pastori, a destra la lavanda del Bambino e Giuseppe
seduto. Sotto si trovano due episodi di un miracolo postumo compiuto da S. Nicola: un fanciullo
Basilio/Adeodato viene partito da un emiro saraceno e trasportato a Creta, grazie all'intervento del santo il
fanciullo viene restituito ai suoi genitori. Alla fine dell'800 le teste delle figure principali vennero strappate
dalle pareti e mai più ritrovate. Nelle lunette delle pareti brevi troviamo i due episodi evangelici
immediatamente precedenti: l'Annunciazione (perduta), e la Visitazione (anch'essa mutilata in
corrispondenza dei volti). Dal punto di vista dello stile questi affreschi sono stati collegati alla diffusione del
linguaggio tardocomneno; tuttavia le proporzioni allungatissime di alcune figure hanno fatto pensare a un
collegamento con le pitture di Kurbinovo e a possibili rapporti della Campania con pittori provenienti dalla
Macedonia.

Ancora in Campania troviamo una delle tracce più precoci della presenza di mosaicisti monrealesi fuori dalla
Sicilia: la frammentaria decorazione dell'arco absidale della cattedrale di San Matteo a Salerno. Nel
ricostruire la cattedrale Alfano seguì le orme di Desiderio; presenta una forma architettonica
neopaleocristiana, transetto sopraelevato non sporgente, spolia antichi (il cui riuso è fortemente
ideologico), una porta di bronzo bizantino, infine un mosaico absidale di cui rimangono solo alcuni
frammenti nell'arco (scoperto nel sottotetto). Realizzati prima del 1085 (anno della morte di Alfano), questi
mosaici frammentari sarebbero la testimonianza più vicina, dal punto di vista del linguaggio e dello stile, ai
perduti mosaici bizantini della basilica di Montecassino; non a caso essi presenterebbero significative
affinità con il mosaico di San Clemente a Roma, anch'esso dipendente dal perduto mosaico desideriano.
Durante i restauri del 1981-82 sono emersi dati interessanti: sotto il mosaico con l'angelo di Matteo è stato
rinvenuto un oculo tamponato, mentre sotto le tessere è stata accertata la presenza di un intonaco colorato.
Da ciò sono state fatte deduzioni che vanno in due direzioni diverse: (Monsignor Carucci)ciò indicherebbe
che i mosaici sarebbero stati fatti al tempo di Alfano II e che l'intonaco dipinto corrisponderebbe ad una
decorazione provvisoria a fresco allestita per la prima consacrazione della cattedrale nel 1084; il secondo
filone (Francesco Aceto) afferma che i mosaici che vediamo sarebbero stati fatti in una campagna di lavori
non documentata dell'inizio del '200, l'oculo tamponato indicherebbe che in quella zona non erano previsti
mosaici. Per inquadrare i mosaici di Salerno bisogna guardare ai mosaici di Monreale.
Il testo sembra riferirsi ad Alfano per evocarlo post mortem come padre fondatore della cattedrale. Com'era
decorata l'abside fino al 1180-90? Non poteva restare vuota. Per rispondere a questa domanda bisogna fare
un passo indietro: fra maggio e ottobre del 1085 scomparvero Alfano I e Roberto il Guiscardo e la mancanza
di fondi dovette determinare un blocco nel cantiere della nuova cattedrale che era stata da poco iniziata. Il
mosaico absidale doveva essere stato certamente previsto, ma il costo molto alto della sua realizzazione
non consentì, dopo la morte dei due committenti, la sua esecuzione, forse si dovette ripiegare su una
soluzione più economica, quella dell'affresco. Il mosaico fatto nel 1180-1190 potrebbe aver ricalcato
l'affresco precedente e aver ripreso l'iscrizione con il nome di Alfano per commemorare l'arcivescovo che
aveva voluto la costruzione della cattedrale. Dunque la pittura murale sarebbe stata usata come disegno
preparatorio e i resti di intonaco dipinti potrebbero essere pertinenti proprio a questa pittura. Se le cose
andarono così, quale può essere stato il contesto storico in cui avvenne quest'intervento nell'abside? A fine
XII sec Salerno è dominata da due personaggi in stretto rapporto con la corte normanna: il primo è
l'arcivescovo Romualdo II Guarna (che muore nel 1181, è Romualdo da Salerno), il secondo è Matteo
d'Aiello vicecancelliere di Guglielmo II. Essi furono i committenti di impegnativi lavori condotti in Cattedrale,
in particolare il sontuoso arredo liturgico (pulpito e candelabro), con cui vollero emulare le ambiziosi
realizzazioni di Guglielmo a Monreale. A Salerno poteva essersi installato un cantiere parallelo che
riproponeva in piccolo le modalità operative, gli orientamenti formali e anche gli artisti di quello attivo negli
stessi anni nell'ultima cattedrale normanna di Sicilia.

Tornando a Roma, gli anni prima e dopo la 4° crociata sono anni cruciali per l'urbe: è il momento in cui il
papato, in particolare sotto Innocenzo III, vive la fase trionfante e il patrimonio monumentale della città
diventa oggetto di un ambizioso programma di rinnovamento che investe le due basiliche apostoliche, San
Pietro in Vaticano e San Paolo fuori le mura. I nuovi mosaici absidali dei due edifici furono progettati, anche
se non portati entrambi a termine, al tempo di papa Innocenzo, e costituiscono il documento più rilevante
di questa fortunata fase storica, inoltre sono anche una testimonianza di quella nuova ondata bizantina che
riveste l'area romana: prima con l'arrivo di maestranze provenienti dalla Sicilia normanna, poi con la
chiamata di mosaicisti veneziani. Dunque nella città si incontrano le due maggiori correnti bizantine presenti
in quel tempo sul territorio della penisola: quella meridionale proveniente dal cantiere tardocomneno di
Monreale con il suo stile dinamico barocco, e quella settentrionale di provenienza lagunare che incarna
invece il nuovo linguaggio monumentale di inizio '200 che recepisce al suo interno anche la componente
classicista del contemporaneo gotico europeo. Da queste premesse scaturirà un connubio linguistico
originale.
La prima testimonianza di maestranze monrealesi nei territori papali si trova nel monastero greco di Santa
Maria a Grottaferrata, dove fu realizzato, all'inizio del pontificato di Innocenzo III, il nuovo mosaico della
chiesa abbaziale. L'opera occupa l'arco absidale ma in origine comprendeva anche il catino, e ha come tema
la Pentecoste (discesa dello spirito Santo); esso rappresenta un punto fermo nell'itineranza degli artisti
provenienti dalla Sicilia. La badia di Grottaferrata oggi appare all'esterno come una fortezza grazie alle
poderose mura e alle torri erette alla fine del '400. il cenobio venne fondato nel 1004 da San Nilo di
Rossano, e la sua prima chiesa venne consacrata nel 1024; nel 1163, a causa delle lotte tra la città di Albano
e i conti di Tuscolo, i monaci furono costretti a trasferirsi a Subiaco in esilio per 30 anni; nel 1191 rientrarono
nella loro sede, anno in cui fu avviato un generale restauro del monastero concluso forse nel 1204 quando
risulta che il papa promulgasse indulgenze in favore dell'abbazia. La chiesa, di forma basilicale a 3 navate,
corrisponde in gran parte a questa fase; la navata centrale fu aumentata in altezza, ce lo indicano gli archetti
pensili; l'abside originaria è stata eliminata nel 1577 e sostituita da un coro rettangolare profondo; il
rifacimento dell'interno, che si presenta oggi con le colonne medievale racchiuse dentro i pilastri, risale al
1754. nel 1904 sono stati scoperti gli affreschi risalenti alla seconda metà del '200 e realizzati in coincidenza
con la sopraelevazione della navata centrale.
Il mosaico dell'arco absidale è stato a lungo considerato (da Toesca e Bettini) come una precoce
testimonianza dell'attività svolta a Roma di artisti dalla provenienza veneziana; un lettera del 1218 di papa
Onorio III al doge di Venezia, Pietro Ziani, chiedeva l'invio a Roma di altri due mosaicisti per accelerare la
conclusione dell'abside di San Paolo fuori le mura che era allora in corso di esecuzione. Nel 1904 uno
studioso tedesco ha sottolineato l'intima affinità dell'opera con i mosaici del duomo di Monreale;
quest'ipotesi tuttavia tardò a farsi strada, infatti nel 1949 Otto Demus mise a confronto gli apostoli di
Grottaferrata con quelli della Pentecoste del transetto di Monreale, osservando come se ne potesse trarre
quasi l'impressione che alcuni dei mosaicisti si fossero trasferiti nel monastero greco eretto alle porte di
Roma. Tra Grottaferrata e Monreale in effetti, colori, tipi facciali, andamento nervoso e calligrafico dei
panneggi, risultano quasi sovrapponibili. L'ascendenza siciliana della maestranza appare anche confermata
dal modus operandi degli artisti: tra le caratteristiche comuni è stata individuata la forma delle tessere e la
loro tessitura che sfrutta la discontinuità degli interstizi per dare vivacità alla superficie. Il mosaico di
Grottaferrata si è conservato sostanzialmente inalterato. Esso è sviluppato tutto in orizzontale e punta sullo
scenografico effetto paratattico dell'assemblea degli apostoli, rappresentati seduti con le fiammelle sul capo
mentre ricevono lo Spirito Santo che li raggiunge sotto forma di 12 raggi discendenti dal cielo stellato.
L'iconografia è solo apparentemente bizantina, infatti al centro della composizione troviamo un trono vuoto
con l'agnus dei e non il trono divino con clamide, libro e colomba; (in ambito ortodosso si conosce una
rappresentazione della Pentecoste svolta in orizzontale, quella del Salterio Kludov di Mosca). Il trono vuoto
con l'agnus dei di Grottaferrata sono due elementi assolutamente nuovi che derivano dalla tradizione
iconografica apocalittica di Roma, e alludono alla fine dei tempi suggerendo una sorta di equazione
semantica tra la Pentecoste e il giudizio finale. Tuttavia è stato osservato che l'agnello è raffigurato con il
libro tra le zampe e non il rotolo sigillato dell'apocalisse, e inoltre l'iscrizione greca lo qualifica con “amnos”,
termine che non compare nell'apocalisse ma nella liturgia per alludere al pane dell'eucarestia →significato
liturgico.
In questo periodo l'attività di maestranze di culture bizantine è ben riconoscibile anche in un ciclo pittorico
(in cattivo stato di conservazione) presente nell'abside della chiesa di S. Basilio ai Pantani nel Foro di
Augusto, fondazione appartenuta anch'essa come Grottaferrata ai monaci basiliani. I lacerti rimasti (staccati)
testimoniano un'opera il cui livello doveva essere piuttosto alto: pannelli che riportano i 4 apostoli e la
Vergine con un angelo (l'angelo ha il viso elegantemente scorciato).
Dopo il mosaico di Grottaferrata, l'equipe si assicurò un nuovo prestigioso incarico: il rinnovamento
dell'abside di San Pietro. Ne fu promotore papa Innocenzo III. La grande composizione venne gelosamente
conservata e restaurata fino al pieno Rinascimento, ma nel 1592 fu totalmente demolita.; tuttavia lo spirito
di ossequio che si aveva per le antichità cristiane all'epoca della Controriforma, indusse a realizzare due
importanti operazioni: riprodurre e documentare tutto quanto esisteva prima della distruzione; salvataggio
materiale di alcuni frammenti ritenuti particolarmente importanti per ragioni storiche (sono 3: busto del
committente; volto che apparteneva alla personificazione dell'Ecclesia; tondo con una fenice nimbata. Essi
provengono dalla stessa zona del mosaico cioè al fascione in basso.) Come attestano le copie antiche, la
decorazione era distribuita su due livelli: il catino culminava nella mano dell'eterno ed era occupato al
centro da una Maiestas Domini con Cristo in trono affiancato da Pietro e Paolo; questi, rappresentati in
piedi, erano accompagnati da scritte bilingue in greco e in latino. Al di sotto dei piedi di Cristo ci sono due
cervi che si accostano al monticello con i 4 fiumi del paradiso. Nella balza inferiore due schiere di agnelli
fuoriuscivano dalle città di Gerusalemme e Betlemme e convergevano verso il secondo trono con la croce e
l'agnello, ai lati del quale si trovavano le immagini a tutta figura di Innocenzo con la tiara e dell'Ecclesia
incoronata che reggeva lo stendardo con le chiavi di Pietro. (non sappiamo quale fosse l'iconografia
dell'abside paleocristiana che precedeva quella innocenziana, è stata proposta una Traditio legis, su modello
della cassettina di Samagher che sarebbe rispecchiata anche dall'affresco di San Silvestro a Tivoli). La nuova
versione innocenziana del mosaico introduceva delle importanti varianti di programma, la più vistosa era la
sostituzione dell'antica Traditio legis con il tema regale della Maiestas: il Cristo acclamante in piedi
diventava infatti la figura in trono benedicente. Ma le innovazioni iconologiche più rilevanti riguardavano il
fascione dove, se in origine c'erano gli apostoli, essi vennero eliminati mantenendo invece il gruppo centrale
trono-agnello; al posto degli apostoli subentrarono gli agnelli fuoriuscenti dalle due città, mentre al centro
venne introdotta una coppia di figure che costituisce la grande novità, quello che potremmo definire un
apax della composizione destinato a dare espressione visiva al concetto dell'autorità del pontefice romano.
Innocenzo e l'Ecclesia fanno quasi da capofila alle due schiere di agnelli, e sono in una posizione assiale con
il Cristo della Maiestas superiore, a significare la concessione dall'alto del loro potere.
Rispetto all'antica tradizione delle absidi romane, la presentazione della figura del papa comportava almeno
due grosse novità: da una parte il pontefice si trovava ad assumere una posizione di centralità senza
precedenti che gli faceva superare il ruolo di donatore che gli veniva normalmente attribuito; dall'altra
svincolandosi dalla dimensione individuale egli acquistava un valore paradigmatico, la sua figura diventava
una figura universale e ciò era confermato dal suo abbinamento alla figura trionfale dell'Ecclesia. La
pregnanza politica oltre che ecclesiologica che il tema veniva ad assumere, era sottolineata anche dalle
insigne: l'Ecclesia reggeva il vessillo ed era incoronata come un'imperatrice; Innocenzo, contrariamente alla
consuetudine di rappresentare i papi a capo scoperto, indossava il frigium, la tiara (che Costantino aveva
conferito a Silvestro al momento della donazione). Il papa vuole esprimere per immagini il suo concetto di
autorità nel luogo simbolico per eccellenza di tutti i cristiani; il binomio papa-eccelsia viene appositamente
impiegato per esprimere la dottrina dei due poteri che il papa stesso ha elaborato: Innocenzo nel 3°
sermone ci spiega che il papa, in quanto vicario di Cristo, si unisce misticamente in matrimonio con la
chiesa; queste nozze spirituali procurano in dote al pontefice la plenitudo potestatis, la pienezza del potere
cioè quella facoltà esclusiva che lo “colloca tra Dio e l'uomo, in una posizione intermedia, al di qua del
divino ma oltre l'umano”. Il potere papale secondo Innocenzo III non proviene solo da Pietro, ma attraverso
Pietro da Cristo stesso. L'idea innocenziana dell'autorità papale è confermata anche dal titulus che
accompagnava il mosaico che esaltava l'Ecclesia romana e il primato della sede vaticana: “questa è la sede
suprema di Pietro, la sacra dimora del Principe degli apostoli, madre, ornamento e onore di tutte le chiese”.
Per quanto riguarda lo stile dell'opera, in passato si è molto discusso sulla fisionomia dei 3 piccoli frammenti
rimasti e attraverso questi anche sull'originale perduto; all'inizio del '900 alcuni studiosi ipotizzarono una
possibile ascendenza veneziana, basandosi sempre sulla lettera di Onorio III del 1218; ma un altro studioso
nel 1966 ricondusse l'opera alla tradizione romana di metà XII sec; tuttavia nel 1949 Demus ne aveva già
proposto l'inserimento nel più ampio fenomeno della diaspora degli artisti monrealesi in Italia
centromeridionale, e aveva anche suggerito un confronto tra il ritratto del papa e quello di Guglielmo II
(mosaico di Monreale) = è proprio in questa direzione che vanno cercate le origini degli artisti attivi a S.
Pietro. Secondo Antonio Iacobini i frammenti vaticani riportano al cantiere di Grottaferrata, infatti il
manieristico linguaggio monrealese viene riproposto in una versione più severa espressivamente contenuta,
che sembra essere la necessaria tappa di avvicinamento che porterà al linguaggio più grafico e semplificato
di S. Pietro. Nel trattare il problema dello stile vaticano non bisogna dimenticare che gli elementi a
disposizione sono limitatissimi, e che i 3 frammenti non appartenevano alla parte principale della
composizione che era il catino; non possiamo dire se la partecipazione degli artisti di Grottaferrata fosse
stata più evidente. Il papa è effigiato con i baffi che sicuramente non portava ancora alla fine del 1204, e che
sappiamo non porterà pi dal 1209/12 quando si farà crescere la barba.
I Gesta Innocentii, le gesta di Innocenzo, una biografia redatta da un personaggio della curia, documenta
che era intenzione del papa restaurare anche il mosaico absidale di San Paolo fuori le mura. Forse
l'operazione rientrava in un unico programma di rinnovamento delle due basiliche pensato in funzione
dell'imminente scadenza del concilio lateranense convocato per l'anno 1215. A differenza di San Pietro, il
progetto di San Paolo rimase ad uno stato iniziale, se non addirittura a livello delle semplici intenzioni, e
venne concretamente avviato solo dal successore di Innocenzo: Onorio III. Il subentrare del nuovo
committente determinò però un cambio nelle maestranze: gli artisti monrealesi che avevano dominato i
cantieri musivi dell'età innocenziana abbandonarono la scena romana; ciò è documentato sempre dalla
lettera di Onorio III al doge Ziani, da cui si apprende che l'impresa musiva di S. Paolo era stata affidata già da
tempo a un maestro veneziano che aveva bisogno di rinforzi. Non conosciamo le ragioni che avevano
determinato la chiamata a Roma di un capomastro dal cantiere di S. Marco, ma non sembra azzardato
ipotizzare che il nuovo pontefice volesse prendere le distanze con il suo predecessore con il quale aveva
avuto rapporti molto problematici. Il mosaico di S. Paolo era giunto pressochè integro fino al rovinoso
incendio della basilica del 1823, e ne era uscito senza danni irreparabili, furono i successivi interventi di
ripristino a determinare la distruzione e il rifacimento di quanto era sopravvissuto; pertanto anche per S.
Paolo siamo costretti a dare una valutazione del mosaico solo sulla base dei pochi frammenti originari
superstiti che sono in parte staccati e in parte incorporati all'interno della grande copia che fu realizzata a
partire dal 1836. La composizione presenta, come quella vaticana, un alto fascione alla base e reca al centro
del catino il Cristo in trono; ai suoi piedi si genuflette, minuscolo, il papa committente, mentre ai lati si
trovano gli apostoli Paolo, Luca, Pietro e Andrea che poggiano tutti su una balza di terreno fiorito da cui si
ergono le due palme. Nel registro più basso si snoda una serie di figure minori comprendente i restanti
apostoli ed evangelisti; al centro c'è un etimasia, il trono vuoto. Subito al di sotto si aggiungono altre 5
figurette, sono i santi innocenti le cui reliquie erano conservate nella basilica di S. Paolo; a destra e a sinistra
ci sono due monaci benedettini inginocchiati: Adinolfo e l'abate Giovanni Caetani, quest'ultimo curò il
completamento dell'opera dopo la morte di Onorio III. L'unica parte del mosaico che è rimasta inalterata è
stata salvata dall'esistenza, al momento dell'incendio, del grande altare marmoreo di Clemente VIII che
funzionò quasi come uno scudo a protezione della parte di mosaico che si trovava subito al di dietro. A
questa porzione originale dell'opera si devono aggiungere i 7 frammenti che erano stati staccati in
precedenza dal mosaico (non sappiamo per quali ragioni), ed erano stati murati nell'antisacrestia della
basilica: sono 3 teste di apostoli e 4 segmenti decorativi con piante e uccelli. Demus ha ricongiunto a questi
frammenti superstiti un'altra testa di apostolo imberbe che era stata trasferita nelle Grotte Vaticane. A
differenza della basilica vaticana, per S. Paolo non sappiamo assolutamente nulla sull'organizzazione
iconografica del mosaico paleocristiano, si può supporre che nel rifacimento si volesse mantenere la
riconoscibilità della composizione più antica e che dunque già il mosaico paleocristiano fosse basato su uno
schema a 5 figure. Onorio non volle fare del nuovo mosaico di S. Paolo un manifesto politico ed
ecclesiologico, anzi il tema teocratico qui retrocede completamente dinanzi a componenti spirituali nuove.
Lo dimostra innanzitutto il tema generale che non è come sembra a prima vista una semplice Maiestas
Domini: il Cristo è infatti quello della seconda venuta e la composizione rappresenta una messinscena
dell'inno liturgico gloria in excelsis deo; il canto viene intonato dai due angeli centrali proseguito dagli
apostoli, chiedendo clemenza e misericordia per l'umanità. Al giudizio si collega anche l'iscrizione del libro
del Redentore tratta dal Vangelo di Matteo. Altrettanto nuovo e diverso rispetto a S. Pietro appare il ritratto
del pontefice: Onorio appare qui umilmente in proskynesis senza tiara, mentre compie il rituale bacio del
piede. Tuttavia l'effige che vediamo oggi non corrisponde al progetto originario, non è il primo ritratto di
Onorio, esso dovrebbe essere il risultato di una modifica fatta in secondo tempo: la morte di Onorio era
sopraggiunta nel 1227, prima che il mosaico fosse finito, e questo dovette motivare lo spostamento del
ritratto e il cambiamento della sua iconografia; il papa in origine doveva essere rappresentato in piedi,
quello che vediamo oggi sarebbe un ritratto commemorativo, per questo mancherebbe anche il frigium che
sarebbe l'attributo dell'autorità del papa da vivo quando è in carica. Quanto all'iconografia, Gandolfo ha
suggerito una ripresa della tradizionale immagine romana del pontefice prostrato ai piedi di Maria, come
nel mosaico di S. Maria in Domnica; secondo Antonio Iacobini non è da escludere che via stratificato anche
il riferimento a un modello visuale diverso, inteso a sottolineare il profilo morale e soprattutto l'umiltà del
pontefice => la particolare iconografia potrebbe essersi ispirata a quella bizantina dell'umiltà diffusa
soprattutto nei testi monastici.
Gli studiosi si sono interrogati sue due punti fondamentali:
1) la consistenza della squadra di artisti veneziani attivi nella basilica.
2) quale fosse la loro fisionomia culturale rispetto al cantiere di provenienza (la basilica di San Marco).
La ricostruzione di Demus, basata sulla lettera papale del 1218 e sullo stile dei frammenti superstiti,
proponeva di riconoscere nella maniera dei due mosaicisti di San paolo il primo e il secondo maestro
dell'Orazione nell'orto arrivati a Roma in due momenti diversi. Però una ventina d'anni fa la tesi di Demus è
stata messa in seria discussione da Gandolfo, che ha fatto osservare in primis che i due nuovi maestri chiesti
dal papa nella sua lettera poterono anche non avere mai raggiunto Roma, non abbiamo riscontri; poi ha
fatto osservare che nei frammenti di San Paolo sarebbe da individuarsi un'unica mano veneziana, quella di
un artista a suo avviso ancora un po' arcaizzante, di stampo tardocomneno, vicino piuttosto al Maestro della
cupola dell'Ascensione. Rispetto a queste due posizioni così diverse è necessario fare alcune osservazioni: il
riferimento all'arcone della Passione non sembra un'alternativa convincente; è ben vero che a S. Paolo
emergono componenti formali tardocomnene, ma esse sono riassorbite ed elaborate in un nuovo stile
plastico volumetrico che ci orienta verso una soglia linguistica decisamente più avanzata, di cui non c'è alcun
sentore nell'arcone della Passione e che semmai si avvicina di più all'Orazione nell'orto. Anche il linguaggio
monumentale del 1° maestro dell'Orazione è venato infatti di cadenze tardocomnene; inoltre sia nella parte
più antica di S. Paolo, sia in quella del 1° maestro dell'Orazione è possibile rintracciare alcune convenzioni
tecniche che risultano comuni: nei visi degli apostoli l'ombreggiatura a scacchiera, o certe soluzioni
particolari adottate nella resa degli alberi (foglie e frutti dentro una compatta chioma nera con il
caratteristico profilo dentellato). Secondo Antonio Iacobini lo stile del ritratto del papa rivela che a S. Paolo
c'era un nuovo maestro veneziano, infatti la figura di Onorio non è attribuibile all'artista che realizzò più in
basso i due monaci benedettini e i 5 santi innocenti; l'effige elegante del papa è lontana dal ductus
geometrico e semplificato con cui sono realizzati i due monaci, il suo volto è intenso, plasticamente
modulato, appena accigliato, con occhi piccoli e incassati nelle orbite, ben lontani dai tipici occhi a bulbo
che derivano dalla figura di Innocenzo del mosaico vaticano. Nella figura di Onorio sono particolarmente,
specialmente la casula bianca che è tutta percorsa da ombreggiature grigi filiformi e anche la tunica dello
stesso colore che termina con la caratteristica piega a profilo ondulato; da notare infine la decorazione delle
stoffe che sono cosparse di ricami d'oro a circoletti, croci o stelle. Antonio Iacobini crede che la figura del
papa ci permetta di ricollegare la parte finale del mosaico di S. Paolo ad un'altra fase duecentesca del
cantiere di S. Marco quella delle icone murali in stile prezioso; il ritratto del papa fu dunque affidato, non al
collaboratore romano che eseguì le figure dei due monaci benedettini, ma al maestro che allora
sovrintendeva al cantiere (con tutta probabilità un artista veneziano che doveva essersi trasferito a Roma
nella fase finale dei lavori).
La chiamata a Roma di mosaicisti provenienti da Venezia rappresenta comunque sul piano storico un evento
fondamentale.

[1 lezione seminariale ] La riscoperta dell'Italia bizantina tra Otto e Novecento, un percorso


storiografico (Giovanni Gasbarri)
In che modo si è iniziato a studiare l'arte bizantina in Italia e quali sono stati i primi studiosi che si sono
dedicati all'argomento. Ricostruire alcuni dei percorsi, dei processi culturali più importanti, che in età
moderna hanno consentito di individuare il patrimonio artistico bizantino in Italia, riconoscerne
l'importanza, e trasformarlo in un legittimo oggetto di studio. Da decenni ormai l'esistenza e l'importanza di
un Italia bizantina è un dato di fatto, è un ramo di ricerca distinto; si organizzano mostre incentrate sui
rapporti e gli scambi artistici tra Bisanzio e l'Italia; vengono pubblicati molti volumi (“I bizantini in Italia”,
“Andare per l'Italia bizantina”). Se ripercorriamo la storiografia ci accorgiamo che questa situazione non è
stata sempre così, il processo di riconoscimento è stato molto travagliato, ha spesso sollevato dibattiti
infuocati soprattutto in Italia. L'arte bizantina in Italia ha costituito una sorta di patrimonio sommerso.
Durante l'800 si verificarono specifiche circostanze che contribuirono in maniera fondamentale a questo
processo di riconoscimento. I monumenti e le opere bizantine su suolo italiano non erano sconosciuti alle
comunità locali, antiquari, intenditori d'arte, ma questo tipo di conoscenza non si può considerare
sistematica né per completezza né per metodologia . Oggetti di derivazione o ascendenza bizantina che
popolavo le chiese, soprattutto in Italia meridionale, come le icone che erano spesso al centro di una
devozione speciale; nel 600 e 700 erano diffusi opuscoli che descrivevano la storia delle icone ed
elencavano le lunghe liste di miracoli → Madonna della Madia che si venera nella cattedrale di Monopoli, di
probabili origini cipriote.
Edward Gibbon è ricordato per essere stato l'autore di quella che possiamo considerare la prima storia
dell'impero bizantino intitolato “Storia della caduta e del declino dell'impero romano”.
Goethe il 10 aprile 1787 visita Monreale ma non entra nel duomo, descrive il paesaggio. Un altro
viaggiatore tedesco Johann Hermann von Riedesel visita Monreale e scrive che “a Monreale merita di
essere veduta la cattedrale, a motivo di due altre urne funerarie di porfido che vi si trovano. Esse sono belle,
e di una grandezza considerevole, e racchiudono le ceneri di Guglielmo il malo e Guglielmo il buono, tutti e
due re della Sicilia […] Ne passo sotto silenzio i mosaici gotici siccome poco degni di occuparvi,a ma di cui i
siciliani menano tanto rumore.” Dunque i sarcofagi sono più importanti dei metri e metri di mosaici, e li
definisce in modo dispregiativo gotici anche se dice che i siciliani li considerano inspiegabilmente parte della
loro storia.
Jean Baptiste Seroux d'Agincourt, nato in Francia ma si era stabilito in Italia vivendo molti anni nella città di
Roma; aveva stretto contatti con eruditi che gli spedivano calchi di opere. Pubblicò un'opera “La storia
dell'arte attraverso i monumenti, dalla sua decadenza nel IV secolo fino al suo rinnovamento nel VI”; aveva
lo scopo di illustrare un'enorme quantità di monumenti suddivisi secondo le 3 arti maggiori e in ordine
cronologico: architettura, pittura, scultura. Si ricorda in particolar modo l'impressionante quantità di
illustrazione, era carica di tavole incise tratte da disegni inediti spesso inviati a Seroux d'Agincourt dai
corrispondenti che aveva in ogni parte d'Italia e supervisionati attentamente dagli autori (queste incisioni
sono studiate ancora adesso dagli specialisti perchè forniscono informazioni sullo stato di conservazione di
queste opere nella seconda metà del '700, o consentono di ricostruire opere andate perdute o
compromesse).
Nei primi decenni dell'800 Bisanzio, in quanto civiltà del tutto medievale, beneficiò in qualche modo delle
nuove istanze culturale del romanticismo: riscoperta e revival del Medioevo, si restaurano le cattedrali
romaniche e gotiche, si esaltano i santi nazionali del Medioevo. Tuttavia Bisanzio non è mai riuscita a
trovare pienamente posto, se riflettiamo Bisanzio è una realtà politica cancellata dalla storia con l'invasione
turca.
1 entrata in scena della Russia nel quadro dell'Europa geopolitica dell'800. La Russia inaugura una politica di
espansionismo verso l'oriente. La Russia aveva fondato la sua identità sulla continuità con Bisanzio. Non è
un caso che ad uno studioso russo, Nikodim Pavlovich Kondakv, si deve la prima trattazione della storia
dell'arte bizantina “Storia dell'arte bizantina considerata attraverso soprattutto la miniatura” (1876).
2 diffusione della cromolitografia, cioè litografia a colori, tecnica popolarissima per la riproduzione a stampa
di immagini anche per la stampa d'arte. Gli studiosi si accorsero subito come la possibilità di ottenere
immagini a colori avesse potenzialità enormi, e cercarono di inserire un numero sempre più alto di
cromolitografie nelle loro pubblicazioni.
3 importanza delle arti “industriali”
la cromolitografia derivava dall'interesse per le arti decorative industriali, le arti applicate; questi sono i
decenni delle grandi esposizioni universali che raccoglievano testimonianze delle arti industriali e
ricostruzioni delle civiltà provenienti da tutto il mondo. Nel Crystal Palace venne costruito un padiglione
dedicato a Bisanzio, in particolare alla corte bizantina.

Demetrio Salazaro storico dell'arte, molto devoto alla causa dell'Unità d'Italia, pubblicò “Studi sui
monumenti dell'Italia Meridionale dal IV al XIII secolo”; costituisce un'opera di ampio respiro dedicata
all'arte medievale del mezzogiorno italiano. Salazaro parla di Monreale, Palermo, Cefalù e le considera
espressioni artistiche molto importanti “in cui visse un popolo, una nazione”; i mosaici siciliani vengono
molto lodati, forte esaltazione della qualità di queste opere, ma proprio per questo nella sua ottica non
possono essere state concepite dai bizantini. Quindi Salazaro sottraeva all'autorevolezza bizantina tutte le
principali testimonianze bizantine in Italia, e negava che Bisanzio potesse aver avuto un ruolo fondante per
determinare le vicende artistiche nel medioevo in Italia.
Domenico Benedetto Gravina “Il Duomo di Monreale illustrato”: cromolitografie che riproducono i mosaici
da una prospettiva frontale; qualche volta degli elementi giudicati interessanti venivano isolati e riprodotti
su altre tavole (con un approccio quasi anatomico). Gravina era molto interessato agli aspetti iconografici
ma anche ai caratteri stilistici di questi mosaici. Ci racconta come erano stati copiati questi mosaici dal vero
in modo da ottenere poi le cromolitografie: un disegntore troppo abile non sarebbe stato adatto perchè non
sarebbe stato capace di riprodurre “la maniera rozza ed incompleta dell'antico”, pertanto si rivolge a
bambini e ragazzi.
Una decina d'anni più tardi, a Venezia, troviamo una seconda impresa editoriale ancora più imponente di
quella di Gravina a Monreale: Ferdinando Ongania, imprenditore veneziano e proprietario di una casa
editrice molto celebre all'epoca, è noto per essere stato l'artefice di una delle più importanti pubblicazioni
d'arte dell'inizio dell'800. Quest'impresa fu affidata a Camillo Boito che chiamò un grandissimo numero di
illustratori e incisori, perchè l'opera era composta soprattutto da numerosi album di cromolitografie e
eliolitografie che esploravano ogni angolo della basilica di San marco comprendendo non solo l'edificio e la
sua decorazione musiva ma anche l'arredo liturgico. Le tavole erano organizzate in maniera molto varia e
rispondevano a diverse funzioni. Era un'opera costosissima, lussuosa che porto Ongania quasi sulla
bancarotta, furono stampate solo 500 copie; si trattava di volumi di grande formato, poco maneggevoli e
pensate per un pubblico abbiente che le avrebbe tenute come oggetto da collezione nella propria biblioteca
privata →“La Basilica di San Marco in Venezia illustrata nella storia e nell'arte” 1878-1893.

Studiosi francesi che si dimostrarono molto interessati agli argomenti, tra cui Charles Diehl “L'arte bizantina
nell' Italia meridionale” 1894, è la oorima volta che troviamo sulla copertina di una monografia
un'associazione diretta ed esplicita tra l'arte bizantina e un territorio vasto dell'Italia meridionale cioè tutto
il mezzogiorno; tra i suoi vantaggi era il fatto che aveva un formato molto piccolo, trasportabile e che aveva
finalità divulgative. In questo periodo la fotografia è ancora una tecnica molto costosa e Diehl, per ridurre i
costi, aveva sacrificato la qualità delle illustrazioni e al posto delle cromolitografie lussuose che abbiamo
visto nei decenni precedenti, troviamo qui delle semplici incisioni in bianco e nero. Queste incisioni erano
state affidate ad artisti non professionisti, come amici dell'autore.

L'ultimo decennio dell'800 e i primissimi anni del '900 rappresentano un momento fondamentale per la
storiografia italiana.
Adolfo Venturi è considerato il fondatore della moderna storia dell'arte in Italia: nel 1901 viene creata e a lui
affidata la prima cattedra di Storia dell'Arte Medioevale e Moderna in Italia; Venturi sicuramente non fu mai
uno specialista nel Medioevo sebbene fu molto interessato →”Storia dell'Arte in Italia”, nei primi 4 volumi
tratta della storia dell'arte medievale, includendo moltissimi monumenti di arte bizantina (la copertina è
eseguita su imitazione degli avori bizantini della cattedra di Massimiano a Ravenna). Venturi è stato il primo,
e quello che in maniera più convinta, ha assorbito l'arte bizantina presente sul territorio italiano dentro la
nostra identità nazionale; fa di questo riconoscimento un fattore identitario per dire a tutti gli italiani che i
mosaici di Monreale, Santa Maria Antiqua, i monumenti di Ravenna, fanno parte della nostra cultura.
Gli allievi di Venturi: Pietro Toesca, Antonio Muñoz => prima mostra al mondo esclusivamente dedicata
all'arte bizantina.

[2] Aspetti della committenza di età macedone: alcune opere nei musei italiani (Livia Bevilacqua)
Alcuni oggetti preziosi che sono stati prodotti nelle manifatture di Costantinopoli, opere suntuarie. La
rinascenza macedone è caratterizzata dal recupero delle immagini antiche; la ripresa dei modelli antichi è
stato un problema che è stato molto dibattuto dagli storici dell'arte.
→ Calamaio del calligrafo Leone: conservato al museo diocesano di Padova; piccolo contenitore (5 cm di
altezza) dotato di un coperchio, di argento dorato e lavorato a sbalzo, in origine aveva la funzione di
contenere l'inchiostro per la scrittura. Sappiamo che aveva questa funzione da due iscrizioni: la prima recita
“il calamaio è per Leone l'unica risorsa”, la seconda “Leone amabile prodigio tra i calligrafi”; dunque
sappiamo che Leone era uno scriba, non sappiamo altro. In passato si è pensato si potesse trattare di un
oggetto assimilabile a una pisside; non ci sono altri confronti perchè è l'unico calamaio bizantino che ci sia
giunto, non ci sono nemmeno testimonianze iconografiche. (in ambito islamico ci sono pervenuti numerosi
oggetti di questo tipo)
Il calamaio di Padova è stato pubblicato per la prima volta da Pietro Toesca, il primo a darne una descrizione
dettagliata e anche ad analizzare le figure rappresentate. I soggetti sono di tema profano, chiaramente
individuabile in modelli antichi. Quest'oggetto arriva a Padova attorno al 1428 portato da Pietro Donati,
nuovo vescovo della città che era stato per molto tempo arcivescovo di Creta. Il coperchio presenta una
bellissima testa di Medusa; sui fianchi compaiono un piccolo personaggio maschile con una cetra poggiata
su una colonnina e che tiene nella mano destra un oggetto che potrebbe essere un plettro, questa figurina
potrebbe essere Apollo citaredo; segue poi una figura virile semisdraiata che potrebbe essere Dioniso; poi
c'è una figura di anziano seminudo che con le mani tiene una spada e uno scudo, si riconosce il prototipo di
questa figura nel cosiddetto Ares Ludovisi; infine vediamo un cupido con in mano un oggetto; coppie di
serpenti, basilischi, annodati.
→ Coppa di vetro dipinto: si conserva nel tesoro di San Marco; è un oggetto molto raro proprio per il
materiale in cui è realizzato, dovrebbe essere giunta come bottino di guerra a seguito della 4° crociata; è di
color viola scuro ed è dipinta con figure in color rosa chiaro. Vediamo 7 medaglioni con bordi di rosette
dipinte in vari colori: un personaggio con una toga con un bastone ricurvo; un personaggio maschile in piedi
con due bastoni; poi una figura maschile nuda, vista di spalle, appoggiata ad una colonnina con un
ramoscello; figura seduta con la barba e con in mano un disco su cui c'è un volto (potrebbe essere il volto di
Medusa e in questo caso il personaggio potrebbe essere Zeus); un personaggio seduto; poi c'è un
personaggio seduto con Cupido che gli porge qualcosa; infine una figura muscolosa tra due colonne che
potrebbe essere Eracle. Nella parte interna c'è una decorazione a caratteri pseudocufici; anche alla base
troviamo questa decorazione. L'effetto dovrebbe essere quello di riprodurre un vaso antico.
Chi erano i committenti di queste opere? Certamente gli imperatori, ma anche tutti quei personaggi
facoltosi che avevano le possibilità economiche e la cultura per potersi permettere queste commissioni. Uno
di questi è Basilio I (Basilio Parakoimomenos), committente di manoscritti, e aveva fatto anche costruire un
monastero a Costantinopoli dove è probabile ci fosse uno scrittorio, dunque si pensa che avesse uno scriba
di fiducia identificato con quel Leone a cui è stato donato il calamaio.

[3] Icone agiografiche da Bisanzio all'Italia (Irene Caracciolo)


Icone di grandi dimensioni, nel mondo bizantino conosciamo circa 20 icone agiografiche che vengono dalla
Terra santa, dalla Grecia continentale e da Cipro.
Il primato di questa tipologia d'immagine era stato assegnato alla pittura italiana del '200 → San Francesco
e storie della vita di Bonaventura Berlighieri, conservata nella chiesa di San Francesco a Pescia; è firmata e
datata; è un'opera molto importante perchè segue di pochissimo l'arco agiografico del santo. Fino all'800
quest'opera si trovava incorniciata in una tela di Alessandro Bardelli Gloria con angeli.
→ Santa Caterina e storie della sua vita, Sinai Monastero di S. Caterina: le grande dimensioni fanno pensare
che si tratta di immagini pensate per essere viste anche da più lontano.
→ San Nicola e storie della sua vita
→ San Giorgio e storie della vita, Atene Museo Bizantino e Cristiano: caso quasi unico di immagine che
unisce due medium quali il rilievo scultoreo e la pittura.
→ Santa Margherita e storie della vita e San Nicola e storie della vita: entrambe provenienti dalla chiesa di
Santa Margherita di Bisceglie; queste icone presentano sia un linguaggio bizantino che quello dell'Italia
meridionale.

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