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S.O.S.

STUDENTI SUD – CAMPANIA NO PROFIT

INDIPENDENZA DELLA MAGISTRATURA E


SEPARAZIONE DEI POTERI
ORAZIOABBAMONTE

Dobbiamo considerare che le sentenze dei giudici sono quelle a più diretto contatto con le
conflittualità che si manifestano nelle comunità e in costante svolgimento al loro interno.
Le leggi, certamente, dettano regole e dettarle significa intervenire sui processi da
disciplinare. Per definizione, tuttavia, esse sono generali ed astratte, non realizzano
alcunchè. Perché le situazioni conflittuali che sono chiamate ad integrare trovino
effettiva sistemazione sulla base dei criteri delineati dalle norme, è necessario un
ulteriore segmento: l’intervento del giudice. Del resto il legislatore può anche non
prendere posizione, così come lo scienziato del diritto non produce effetti immediati
con la sua opera. Per il giudice la cosa è ben diversa, in primis perché egli non sceglie
l’oggetto delle sue pronunce: il giudice è chiamato nel conflitto quando questo giunge
ad un certo grado, e di regola non può negarsi. Nel far ciò, tuttavia, il giudice
potrebbe trovarsi di fronte ad ulteriori conflitti all’interno dello stesso conflitto di
interessi: basti pensare alla possibilità di sollevare una questione di legittimità C’è un
lemma centrale a proposito della Magistratura, che è quello di “indipendenza”, e che si
lega ad un sintagma “separazione dei poteri”: l’una espressione sostiene l’altra, al fine di
assicurare quella neutralità del giudice che è la proprietà peculiare della sua funzione.
Infatti il giudice giudica nell’interesse della risoluzione del conflitto e nulla della sua
azione è condiviso con le parti, se non l’ambiente artificiale del processo. Insomma il
giudice non potrebbe assolvere ai compiti che gli sono assegnati in un regime
sinceramente democratico, se fosse sottoposto ai condizionamenti degli altri poteri. In
sostanza indipendenza e separazione tra i poteri vanno associate ad una concezione
evolutiva del diritto, aperta a cogliere il nuovo e quindi l’“anticonformista”. È indubbio
poi che tale endiadi sia andata incontro ad un mutamento di significato nel corso del
tempo.

L’IDEOLOGIA DELLA MAGISTRATURA TRA


OTTO E NOVECENTO
ANDREA PERRONE CAPANO
Per fare una riflessione sull’ambiente della magistratura italiana tra Otto e Novecento
bisogna parlare necessariamente di ideologia. Bobbio parla di “ideologia debole”,
indicando con essa un “sistema di credenze e valori che viene utilizzato nella lotta
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politica per influire sul comportamento delle masse per orientarle in una direzione
particolare”. In tale accezione, l’ideologia rappresenta una costituzione concettuale non
neutrale che consente di motivare le proprie decisioni. E dunque essa costituisce uno
strumento interpretativo per cogliere delle convinzioni presenti e condivise all’interno
di una comunità e che di fatto ne condizionano le scelte. Per Abbamonte non è giusto
parlare di ideologia,

soprattutto con riguardo ad ambiti ristretti e professionali quali la giurisdizione,


perché essa non coglie a pieno il rapporto tra le convinzioni indotte e le disposizioni
dell’azione. Sarebbe più appropriato parlare di habitus, secondo le parole di Pierre
Bourdieu: se è vero infatti che “l’agente sociale non è mai completamente il soggetto
delle sue pratiche”, nel senso che non è mai lui completamente a decidere, influendo
sulle sue opzioni mentali che ha progressivamente acquisito nell’ambiente in cui si è
formato, è altresì erroneo inclinare, come fa l’ideologia in senso forte, verso
concezioni deterministiche per le quali “l’azione sarebbe l’effetto di cause esterne
cogenti”. Insomma lo strumento dell’habitus sarebbe più plastico e capace di
rispecchiare la realtà giudiziaria poiché esclude comportamenti passivi. Nonostante
ciò si continua a parlare di ideologia per ragioni di chiarezza.

L’OLEOGRAFIA (RAPPRESENTAZIONE) OTTOCENTESCA. Nell’Ottocento le


testimonianze sulla rappresentazione (ed autorappresentazione) della
magistratura riflettono quel che è stato chiamato “Stato monoclasse”, in cui l’unico
destinatario delle garanzie era il ceto agiato, unico ad essere realmente rappresentato in
parlamento. Adeodato Bonasi ci dice che il giudice è strumento attraverso cui la
borghesia mantiene il controllo dell’evoluzione sociale, e questo ruolo conservatore
della magistratura viene declinato in una rigida rivendicazione della separazione dei
poteri. Dunque, mentre all’amministrazione è consentito assumere una funzione
propulsiva, il giudice ottocentesco deve custodire gli assetti raggiunti.
Ecco perché egli “è vincolato al precetto della legge come ad una formula algebrica”,
anche quando la sua personale convinzione possa indurlo verso una decisione “più
equa e opportuna”. Per il pensiero dominante al giudice è assegnato un “ufficio
sublime”, rivestito di santità e in diretto contatto con la legge: una vera e propria
ideologia sacerdotale. Giovanni Pacifico nel suo testo ripete tutti i clichè
dell’ideologia ottocentesca della magistratura: soggezione alla legge, indifferenza alla
politica, distanza dalla pubblica opinione, neutralità, sacrificio, sacralità e così via. Il
magistrato deve essere contro il progresso che è connaturato all’uomo: se istanze di
progresso devono esservi, queste devono “schiudersi altra via” per raggiungere la
forza che loro s’invoca, e cioè la legge.
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la separazione dei poteri viene colta a sostegno di un’accezione rigidamente conservatrice


del magistrato: l’indipendenza del giudice serve a renderlo indifferente alle “preminenze
popolari”, le quali altro non sono se non “insidie al vero spirito sublime ed incrollabile del

magistrato”, in quanto baluardo dell’ordine costituito.


Tuttavia già all’inizio degli anni Sessanta ci si interrogò sulla sufficienza di tale prospettiva:
in uno storico convegno a Firenze Giuseppe Maranini pose un provocatorio interrogativo:
“Magistrati o funzionari?”. Del resto l’oleografia ottocentesca era andata incontro ad
incrinature dovute alle combattive richieste dell’Associazione generale dei magistrati
italiani, nata nel 1909 proprio come espressione di un’irrequietezza che rompeva la
piena intesa tra elites politiche e giudici. Con la caduta del fascismo, tali rivendicazioni
rialzarono la testa. Guido Dorso riporta che le retoriche ottocentesche sulla sacerdotalità
della Magistratura fossero ormai insostenibili dopo l’esperienza di commistioni con il
regime fascista. Dietro quell’atteggiamento di austerità e di distacco dalla realtà, i critici
coglievano ormai un atteggiamento corrivo al potere, che consegnava le aule
giudiziarie allo squallore burocratico.
Domenico Peretti-Griva dimostra come l’epoca di una magistratura incrollabile
punto di riferimento e riparo dalle instabilità sociali stia cedendo il passo ad un ceto
che vede in se stesso debolezze e che rivendica a sua volta protezione, nonché
capace di cogliere l’interazione tra la sua condizione sociale e la qualità delle
decisioni. E così egli, essendo un magistrato, pretende un congruo trattamento
patrimoniale della categoria, in quanto le ristrettezze economiche possono portare
(anche inavvertitamente) a scelte tendenziose nell’esercizio della funzione
giudiziaria; egli auspica che il magistrato non appartenga a nessun partito, non
intendendo con ciò che egli non possa avere sensibilità politica, ma che la disciplina
di ogni partito si è fatta oppressiva; lo stesso senso religioso dovrebbe non essere
troppo appariscente, perché ciò non favorirebbe il senso di fiducia nel pubblico,
composto anche da atei o di altri credenti. Insomma da un’ideologia idealizzante si
passa ad un’osservazione disincantata della realtà, in cui la neutralità della
giurisdizione è pura illusione.

Con L’ENTRATA IN VIGORE DELLA COSTITUZIONE


tutto cambia. Il quadro costituzionale consente di legittimare la funzione politica
dell’attività interpretativa. Le norme costituzionali, infatti, sono “per natura norme
aperte, che rinviano ad altro fuori di sé” ed impongono al giudice di partecipare “alla
vita
della società in cui opera” (Zagrebelsky). Questo rappresenta un forte momento di presa
di coscienza delle necessità di rinnovamento della giustizia. Ripercussioni si ebbero
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anche nell’ambiente interno alla magistratura: nel 1964 fu fondata a Bologna
Magistratura democratica, mentre nel 1965 a Gardone si tenne un convegno
dell’Associazione nazionale magistrati dove per la prima volta si pose il tema del
rapporto tra “indirizzo politico e magistratura”. Giuseppe Borrè, tra i fondatori di
Magistratura democratica, sintetizza i motivi della sua nascita: il rifiuto del
conformismo e l’insofferenza per la mancata protezione. Borrè ricorda come la cultura
giudiziaria dell’epoca fosse dominata dal formalismo giuridico: l’ordinamento era
considerato autoreferenziale, perfetto, capace di auto-completamento; la legge era vista
come unico punto di riferimento; la sua interpretazione era rappresentata come
operazione meramente ricognitiva. Parallelamente a ciò, la magistratura rifiutava ogni
rapporto con l’esterno. Insomma nel dilemma di Maranini, la magistratura era
sicuramente in quel tempo burocrazia, funzionariato. E dunque proprio contro la falsa
neutralità del giudice “bocca della legge” nasce Magistratura democratica, con lo
scopo fondamentale della demistificazione. Del resto la politicità discende già dall’art.
101 Cost., secondo il quale i giudici “sono soggetti soltanto alla legge”: tale norma non
intende il giudice come bocca della legge, perché l’accento è posto sull’avverbio
“soltanto” e dunque, prima ancora che la fedeltà alla legge, essa comanda la
disobbedienza a ciò che legge non è. Ricciotti racconta che i lettori dei grandi quotidiani
si sconvolsero a leggere che nel congresso dell’Associazione nazionale magistrati
tenutosi nel 1965, veniva attribuita una funzione di indirizzo politico al singolo giudice
ed alla magistratura: l’opinione pubblica fu scossa dall’approccio crudo dei progressisti,
che proposero varie mozioni, che vennero però battute da quelle di Magistratura
indipendente.
Ne venne così fuori una mozione concordata tanto tradizionalista che fu definita “un
insieme di luoghi comuni”, riaffermando la fedeltà alla legge. Lo stesso Ricciotti
sottolinea come i progressisti presentano la Costituzione non solo come tavola di
fondazione della democrazia, ma come la “consegna” della democrazia: si immagina
cioè che, accanto e sopra la Costituzione, ci sia una specie di democrazia fluida,
inespressa, che i giudici devono realizzare. La mozione approvata afferma invece
che il giudice deve essere pur sempre consapevole
degli “invalicabili confini della subordinazione alla legge”.
Le tensioni ideologiche trovarono sfogo attraverso la pratica giurisdizionale quando fu
approvato LO STATUTO DEI LAVORATORI, L.300/70. Fu questa l’epoca dei c.d. pretori
d’assalto, giovani magistrati, prevalentemente di sinistra, che scelsero l’impegno nelle
sezioni
lavoro delle preture proprio per poter lì esprimere al meglio la loro tensione ideale e
utilizzare la funzione giurisdizionale per contribuire all’appianamento degli squilibri sociali.
Romano Canosa ribadisce che molti giudici trovarono subito che la legge consentiva
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loro di fare quello che avrebbero voluto fare anche in precedenza, ma che non avevano
potuto fare: lo statuto fu l’occasione per riequilibrare il divario sociale. Si è trattato di
un processo che, una volta avviato, non si è più arrestato per lungo
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tempo: nell’arco di 30 anni il ruolo del giudice è mutato radicalmente, passando da


conservatore dell’ordine sociale ad anticipatore di scelte altrove incompiute.
Si iniziò ad acquisire consapevolezza della centralità della giurisdizione nella società,
spingendo il giudice a quello che fu chiamato il ruolo di supplenza. Negli ultimi tempi
sembra però vada affacciandosi una prospettiva diversa: complice l’incapacità della
macchina
giudiziaria di offrire risposte tempestive alle domande che vengono ad essa rivolte,
l’impegno del giudice sembra volto oggi a valorizzare l’efficienza, con l’obiettivo di
assicurare rapide certezze piuttosto che decisioni politicamente marcate. Questo
processo prende forma anche attraverso il confronto di due circolari, emanate da due
presidenti della Corte di Cassazione, LE CIRCOLARI DEL 1989 e 2011, con cui si sono
fornite indicazioni per invitare alla concisione nella redazione delle sentenze della
Corte Suprema, eliminando argomentazioni non indispensabili per la decisione.
Antonio Brancaccio, nella prima, spiega che la concisione è necessaria negli atti
autoritativi; infatti molte sentenze, per la troppa motivazione, hanno prestato
maggiormente il fianco alla critica. Invece, nel 2011 Ernesto Lupo coglie la giustizia in
termini pratici: il problema è che si deve superare l’arretrato, il contenimento dei
tempi (ragionevole durata dei processi). La motivazione deve essere semplificata, non
più concisa, perché deve offrire una risposta del servizio di giustizia efficiente e
tempestiva.

CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA (C.S.M.) Il Consiglio superiore


della magistratura è stato creato dalla Costituzione per garantire all’autorità giudiziaria
autonomia ed indipendenza rispetto agli altri poteri dello stato, in particolare
quello esecutivo. L’autonomia guarda qui soprattutto alla struttura organizzativa, e si
concreta nel fatto che i provvedimenti afferenti la progressione in carriera e lo status
dei magistrati (trasferimenti, promozioni, assegnazioni di funzioni e provvedimenti
disciplinari) siano attribuiti, differentemente da quanto accadeva in precedenza, ad un
organo del tutto estraneo al potere esecutivo. L’indipendenza concerne invece
soprattutto l’aspetto funzionale dell’attività giurisdizionale, garantita da norme che
tutelano la funzione decisoria del giudice da intromissioni di qualsiasi natura. Uno dei
primi presidi cui si pensò già prima del regime repubblicano fu quello relativo al
regime dei trasferimenti, essendo stata prevista l’inamovibilità dei magistrati già nel
1851 con la legge Siccardi. Nel 1880 invece venne istituito un embrionale organo
gestionale, la Commissione consultiva, presieduta dal Ministro della giustizia e costituita
da magistrati eletti dalla Corte di cassazione, con il compito di esprimere pareri sulla
promozione dei magistrati
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inamovibili e sui casi di trasferimento senza consenso. La denominazione di Consiglio


superiore della magistratura è usata però per la prima volta solo con LA LEGGE
ORLANDO, L. 511/1907, seppure solamente con funzioni consultive ed
amministrative. Il Consiglio di allora era formato da 20 membri e rispondeva ad una
concezione tipicamente gerarchico-elitaria, essendo composto esclusivamente dai
rappresentanti dei più altri gradi della giurisdizione e presieduto dal Primo
Presidente della Cassazione, che insieme al Procuratore Generale ne era membro di
diritto. Può dirsi che le funzioni del C.s.m. previsto dalla legge Orlando siano rimaste
grossomodo invariate fino all’avvento della Costituzione. Si dovette attendere la
caduta del fascismo perché l’eleggibilità del
C.s.m. fosse introdotta con il r.d.lg. 511/1946, ad iniziativa del Guardasigilli del tempo,
Palmiro Togliatti. Il decreto Togliatti manifesta due anime: una di rottura degli aspetti
di dipendenza della magistratura dall’esecutivo; l’altra di continuità con la tradizionale
organizzazione gerarchica dell’ordine giudiziario. Dunque fu parzialmente stabilito il
principio dell’indipendenza c.d. esterna della magistratura, mentre non fu scalfita affatto
la gerarchia interna dell’ordine giudiziario e, attraverso questa, l’ingerenza del
Ministro. Ma posizioni così conservatrici erano destinate a durare poco, dato l’avvento
della Costituzione: l’indipendenza esterna della magistratura è posta dall’art. 104 co. 1°
(“La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro
potere”); l’indipendenza interna si desume dall’accentuazione dell’avverbio “soltanto”
nell’art. 101 co. 2° (“I giudici sono soggetti soltanto alla legge”). Il C.s.m. previsto dagli
artt. 104 e 105 Cost. conserva la denominazione tradizionale, ma si differenzia
radicalmente dagli organismi precedenti. Ecco le modifiche: - l’attribuzione di tutte le
competenze in tema di status dei magistrati (sottratte al ministro della giustizia) - la
presidenza del presidente della Repubblica - la composizione mista (c.d. togati e laici, in
rapporto di due terzi/un terzo) - l’elettività dei componenti magistrati (dai magistrati
i primi e dal parlamento in seduta comune i secondi).
Ma il problema dell’indipendenza è ben lungi dal potersi dire chiuso e infatti si ripresenta nelle
discussioni sulla legge ordinaria di istituzione del C.s.m., attraverso l’idea di un organo di
propulsione e coordinamento dell’attività del Consiglio. Il congresso dell’A.n.m. di
Firenze del 1948 propone infatti l’istituzione di una giunta del C.s.m. sotto la presidenza
del Presidente della Cassazione.

... E ASSOCIAZIONE NAZIONALE DEI MAGISTRATI (A.N.M.) Dunque cospirano contro


l’attuazione del C.s.m. da un lato le resistenze della Cassazione di fronte alla prospettiva
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di perdere il ruolo di unico vertice della magistratura, dall’altro i timori dei governi
dell’epoca di veder scemare il controllo del Ministro della giustizia sulla
magistratura. Così Calamandrei parlò addirittura di “ostruzionismo di maggioranza”.
Del resto, da una parte la larga maggioranza della classe dirigente italiana si era
formata durante il regime fascista e quindi non aveva dimestichezza con gli istituti
pluralisti propri di una moderna democrazia; dall’altra il periodo che va dall’entrata
in vigore della Costituzione ai primi anni ’60 vede l’Italia impegnata in un’opera di
ricostruzione che lasciava pochi spazi ad evoluzioni. L’associazione nazionale
magistrati italiani, sin dal IV congresso del 1948 a Firenze (il primo dopo lo
scioglimento del 1925), si pone come obiettivo la riforma dell’ordinamento
giudiziario ed, in particolare, l’attuazione del C.s.m. Così nel 1951 propose uno
“schema legislativo sul C.s.m.”, poi largamente disatteso dalla legge del 1958, secondo
il quale: - i suoi componenti venivano ripartiti nelle categorie di Cassazione, appello
e tribunale - il Consiglio presentava al Ministro segnalazioni e proposte sulla giustizia -
esso esprimeva altresì un parere obbligatorio sui disegni di legge relativi
all’ordinamento giudiziario e un parere facoltativo sui disegni di legge in materia
civile e penale - infine presentava ogni anno al parlamento e al governo una relazione
sul funzionamento della giustizia nell’anno precedente.
Peraltro nel 1948 la cultura egemone nell’A.n.m.i. era ancora quella della Cassazione
di una magistratura costruita secondo un modello gerarchico e chiusa rispetto al
dibattito della società. Solo la rilettura della Costituzione porta ad un mutamento di
prospettiva: fondamentale in tal senso fu la MOZIONE APPROVATA NEL 1957 al
Congresso di Napoli. Il testo esordiva con la proclamazione della “assoluta parità” di
tutti i magistrati, e, quanto al C.s.m., che esso “abbia pieno e libero potere di
iniziativa, senza che questa soffra alcuna limitazione dalle facoltà conferite al
Ministro della giustizia; che abbia composizione paritaria tra le varie categorie dei
magistrati; che sia accolto il sistema di elezione diretta dei componenti magistrati,
assicurando la parità di voto a tutti gli elettori”. Appena due settimane dopo tale
congresso, la Cassazione si riunì per approvare un documento che ribadisse il
principio gerarchico. Si comprende come, l’attuazione del CSM, sia stata
contrastata dalla Cassazione che temeva di perdere il ruolo di unico vertice della
magistratura: è per questo che fino al 1958 la Costituzione rimarrà ancora
inattuata. Essa stabilisce infatti che i magistrati si distinguono tra di loro solo
per le funzioni: non esiste
magistratura alta o bassa.
Bisognerà attendere la L. 195/1958 perché sia attuato il dettato costituzionale ed
istituito il
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C.s.m. Il problema non riguardava tanto la composizione dell’organo, quanto


piuttosto il fatto che il nuovo assetto tendesse a spezzare la rigida verticalizzazione
che aveva caratterizzato per oltre un secolo la magistratura e nella quale la Cassazione
aveva svolto un ruolo centrale. Un ruolo non solo di indirizzo, collegato alla sua
funzione nomofilattica, ma di vero e proprio controllo dell’attività giurisdizionale. La
legge del 1958 previde una composizione del C.s.m. di 14 membri eletti dalla
magistratura, e 7 membri di nomina parlamentare, la presidenza del presidente della
repubblica e 2 membri di diritto (il primo presidente e il procuratore generale della
Corte di cassazione), per un totale di
24 membri. La composizione era ancora sbilanciata a favore della corte di Cassazione, ciò
comportava dubbi di costituzionalità. Secondo l’art. 104 Cost. i componenti del C.s.m. di
nomina parlamentare sono scelti tra professori ordinari di università in materie
giuridiche ed avvocati dopo 15 anni di esercizio. La rappresentanza della magistratura
all’interno del C.s.m. era garantita dalla presenza di 6 magistrati di Cassazione eletti in
un unico collegio nazionale, nonché di 4 magistrati di Corte d’appello e di 4 di Tribunale
eletti in 4 collegi territoriali. Dunque si trattava ancora di una composizione
evidentemente sbilanciata a favore dei magistrati di Cassazione. Per quanto riguarda il
sistema di elezione della componente togata del C.s.m., è stato nel tempo
ripetutamente modificato: nel 1967 si introdusse un sistema a due turni; poi nel 1975 e
infine nel 1990 si adottò un sistema proporzionale per cui i magistrati erano scelti
mediante scrutinio di lista nell’ambito di 4 collegi territoriali, per l’elezione di 18
magistrati di merito, e di un unico collegio nazionale, per l’elezione di 2 magistrati di
legittimità. In questo modo non solo venne superata la divisione dei magistrati in
categorie anche dal lato attivo, prevedendo che ogni magistrato avesse diritto
di votare per qualsiasi altro magistrato indipendentemente dalle funzioni svolte, ma fu
così riequilibrato anche il peso della Cassazione. Questa scelta è stata confermata anche
dalla l.
44/2002, con la quale si sono avute diverse modifiche: è stato ridotto il numero dei
membri elettivi del Consiglio da 30 a 24, di cui 16 togati e 8 laici è stato abbandonato il
precedente criterio distintivo basato sui diversi gradi della giurisdizione, tenendo
invece conto delle diverse funzioni, requirente e giudicante. Perciò 2 posti sono
assegnati ai magistrati della Cassazione che svolgono funzioni di legittimità, 4 posti a
magistrati che svolgono attività di pubblico ministero e 10 a magistrati che esercitano
la funzione di giudici di merito è stato modificato il meccanismo elettorale della
componente togata, prevedendo la candidatura dei magistrati a titolo individuale e
non più nell’ambito di liste ed
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istituendo tre collegi nazionali distinti.


Nel 2006 con la l. 150/2005 (c.d. riforma Castelli) fu prevista l’istituzione della scuola
superiore della magistratura, preposta all’organizzazione e alla gestione del tirocinio e della
formazione degli uditori nonché dei corsi di aggiornamento dei magistrati, da frequentare
obbligatoriamente ogni 5 anni. Al termine di questi corsi la scuola dava una
valutazione ad ogni candidato circa l’idoneità all’assunzione delle funzioni
giudiziarie. Tuttavia con la l. 111/2007 (c.d. legge Mastella) avvenne un recupero
da parte del C.s.m., a svantaggio della nascente Scuola, delle competenze relative
alla valutazione delle carriere e all’aggiornamento professionale (rimane però la
formazione permanente, con obbligo di frequentare un corso almeno ogni 4 anni),
nonché del potere di definire le modalità concrete di svolgimento del tirocinio e,
quel che più conta, di emettere in via esclusiva il giudizio finale di idoneità
all’assunzione delle funzioni giudiziarie. Può parlarsi in effetti di una sorta di
controriforma.

GIURISDIZIONE, POTERE LEGISLATIVO E


POTERE ESECUTIVO
DANIELA BIFULCO
L’interpretazione della legge è prospettiva eccellente da cui tematizzare i rapporti tra
legislativo, esecutivo e giudiziario: la semplice attività intellettuale di attribuzione di
senso a un testo giuridico può assumere invero la forma di una lotta per il controllo
dei risultati ermeneutici. Ammesso che vi sia stato un tempo in cui era possibile
ritenere il giudiziario il più debole fra i poteri individuati da Montesquieu, perché
potenzialmente chiamato a svolgere un ruolo di mera ripetizione della volontà del
legislativo, oggi una simile prospettiva apparirebbe impossibile. Del resto la famosa
espressione del “giudice bocca della legge” attribuita all’illuminista è oggetto di
equivoci, essendo priva di contestualizzazione. La chiave di volta del suo pensiero sta
piuttosto nell’affermazione che “non c’è libertà se il potere giudiziario non è separato
dal potere legislativo e da quello esecutivo”, per cui il suo sguardo è alle degenerazioni
prodotte dall’assolutismo e non ad una generale svalutazione dell’attività interpretativa
in sé. E così il potere legislativo deve essere svolto da molti; composto da nobili sarebbe
perfetto per regolare e moderare il potere giudiziario. Il corpo legislativo non deve
riunirsi di propria iniziativa: deve avere volontà soltanto quando è riunito. Il potere
esecutivo deve essere nelle mani di un monarca, essendo quasi sempre necessaria
un’azione istantanea. Senza monarca sarebbe affidato ad un certo numero di persone,
scelte dal corpo legislativo e non ci sarebbe più libertà perché i due poteri sarebbero
riuniti. Il potere giudiziario non deve essere attribuito ad un senato permanente, ma
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a persone scelte tra il popolo. Tuttavia i nobili devono essere giudicati da altri nobili,
essendo sempre esposti all’invidia. Per Montesquieu bisogna che la giustizia sia: -
illuminata, abbandonando i costumi selvaggi - tempestiva, in quanto spesso la durata
della causa fa più torto di un verdetto sfavorevole - che non sia troppo rigida, in quanto il
giudice deve sempre tener conto del popolo in ogni suo dubbio - che sia universale,
cioè riguardare tutte le sedi, tutti i punti di vista, tutte le persone e in tutte le
circostanze.
Avendo come termine di paragone l’Inghilterra, Montesquieu guarda ad un sistema in
cui il ruolo procedurale del giudice era confinato in margini ben definiti, più nettamente
di quanto accadesse nel processo di matrice liberale: la questione di fatto era affidata
alla valutazione della giuria, la questione di diritto alla valutazione del giudice. Il
giudice inglese allora si atteggiava davvero a bocca della legge, potendo intervenire
per verificare il rispetto formale della procedura, ma non anche sostituirsi ad
avvocati e giudici nella valutazione della questione di fatto. Diversamente Tocqueville
guardava addirittura oltreoceano, ammirando la nascita di un sistema per rendere la
legge più equa, agganciandone la sostanza ad una legge superiore, la Costituzione (c.d.
judicial review). Il fatto rivoluzionario era dato dall’essere quel giudizio affidato non
ad una corte ad hoc, ma alla generalità dei giudici, così come affermato nella sentenza
Marbury v. Madison del giudice Marshall nel 1803: conferire il potere di interpretare
le leggi sulla base non del loro testo, ma di quello della costituzione aveva
significato porre un argine contro il dispotismo della legge stessa, cioè della
maggioranza. Quindi gli
americani hanno attribuito ai 5 tribunali un immenso potere politico, ma, obbligandoli ad
attaccare le leggi solo con mezzi giudiziari, hanno molto diminuito i pericoli: se il giudice
avesse potuto censurare il legislatore, egli sarebbe diventato il campione o l’avversario
di
un partito. Ma quando il giudice attacca una legge solo in un oscuro dibattito e
su di una particolare applicazione, allora egli tocca con la sua sentenza solo un
interesse individuale, per cui la legge non è distrutta. La sua forza morale è
diminuita, ma il suo effetto materiale non è affatto sospeso. Solo poco a poco, sotto
i colpi ripetuti della giurisprudenza, essa soccombe. Neumann analizza il caso del
tradimento della separazione dei poteri nella repubblica di Weimar.
Quando la giustizia diviene politica provoca odio e disperazione, come successe nella
repubblica tedesca di Weimar: il potere dei magistrati crebbe a scapito di quello del
parlamento. Sicuramente il declino del parlamento rappresenta una tendenza generale
nell’Europa postbellica: la nascita dei partiti di massa comportò fratture all’interno
dell’assemblea così che si resero necessari “governi di esperti”,
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che si dichiaravano al di sopra dei partiti. Il secondo indice di tale declino va


ricercato nel carattere dello statuto stesso: la complessità della macchina
legislativa spinse il Reichstag a stabilire solo vaghi principi orientativi e ad
assegnare al gabinetto il potere finale di eseguirli. Ma la chiave di volta di qualsiasi
sistema parlamentare è il diritto del corpo legislativo a controllare il bilancio, e
questo diritto viene meno durante la repubblica di Weimar.
Parallelamente al declino del parlamento si accrebbero i poteri del presidente, eletto
dal popolo ma indipendente dai partiti. Hamilton definisce il potere giudiziario come il
più debole e il meno pericoloso tra i tre poteri: “non ha forza né volontà, ma soltanto
giudizio”, dovendo ricorrere all’aiuto dell’esecutivo perché i suoi giudizi abbiano
efficacia. Allo stesso tempo esso appare però anche come il più importante potere nella
tutela della libertà contro il possibile arbitrio del legislatore: per questo esso necessita di
particolari garanzie di indipendenza, a cominciare dalla nomina vitalizia per i giudici
della Corte suprema. È per questo che sono fondamentali le costituzioni, che pongano
dei limiti.

L’INTERPRETAZIONE Può succedere che il potere legislativo limiti l’autonomia


interpretativa del giudice, come una sorta di attitudine concorrenziale. Tale
fenomeno può verificarsi quando il legislatore interviene con una legge di
interpretazione
autentica al solo scopo di incidere sui processi in corso, avvalendosi dell’effetto
retroattivo delle stesse. Già decenni fa Rolando Quadri criticava l’abuso
dell’interpretazione autentica, “categoria estremamente equivoca che può camuffare
leggi autenticamente retroattive”. Ma più in generale, prescindendo dal caso delle leggi
di interpretazione autentica, si può notare come il legislatore tenda a limitare l’attività
ermeneutica del giudice. Diversamente, nei paesi di common law la fonte principale di
norme sull’interpretazione è la giurisprudenza stessa, anche se non manca una prassi di
leggi mirate a coadiuvare l’interprete (c.d. interpretation acts). La volontà di
“imbrigliare” l’interpretazione giudiziale è dimostrata dai precedenti storici dell’art. 12
delle Preleggi del 1942, norma questa definita da Rolando Quadri come “la più
pretenziosa” di tutte le disposizioni, mirando ad imporre i “criteri di mediazione tra
il comando legislativo e la sua attuazione nella vita sociale”. Così, prima di essa, nel
Codice civile albertino del 1837 l’art. 14 e nelle Preleggi al codice civile del 1865 l’art. 3.
In effetti l’art. 12 riproduce quasi interamente quest’ultima disposizione, che (come
dimostra la relazione della Commissione reale che accompagnò la riforma) era volta
“a guidare e frenare
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l’interpretazione, ad evitare il pericolo di interpretazioni cervellotiche”. Inoltre lo


Statuto albertino del 1848 prevedeva all’art. 78 che l’interpretazione delle leggi
spettasse obbligatoriamente ed esclusivamente al potere legislativo, così sancendo
l’obbligatorietà dell’interpretazione autentica. Su queste basi, l’art. 12 delle Preleggi
oggi ci dice che “nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso se
non quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la
connessione di esse, e dall’intenzione del legislatore”.
La competizione per il primato dell’interpretazione non si conclude qui: in realtà oggi non può
parlarsi solo di rapporti tra i tre poteri, ma si deve far riferimento anche al dialogo tra giudici
comuni, Corte di cassazione, Corte costituzionale e corti sovranazionali. La
crescente articolazione del sistema delle fonti nazionali e sovranazionali suggerisce,
infatti, una rilettura sia del principio di separazione dei poteri sia del principio di legalità
giurisdizionale ex art. 101 co. 2° Cost. Possiamo ancora dire che “il giudice è soggetto
soltanto alla legge” ma aggiungendo “a condizione che questa sia conforme al diritto
convenzionale, comunitario, alla Costituzione, al diritto giurisprudenziale nonché al
diritto come interpretato dal Parlamento in sede di interpretazione autentica”. È quindi
necessario verificare di volta in volta la misura d’indipendenza del giudice rispetto alla
soggezione non solo alla legge ma anche agli altri parametri normativi e
giurisprudenziali. Importante in tal senso è l’art. 117 Cost. secondo il quale “la potestà
legislativa è sottoposta al rispetto non solo della Costituzione, ma anche dei vincoli
derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. Vi sono dunque
molti motivi per ripensare il ruolo del giudice. Ad esempio la Corte costituzionale con le
sentenze 348 e 349/2007 ha insistito sulla valenza prescrittiva del precedente
(posto dalla corte di
Strasburgo)
per il giudice interno: è vero che le pronunce di tale corte non sono vincolanti ai fini del
controllo di costituzionalità delle leggi nazionali, ma è anche vero che tale giudizio deve
operarsi in modo da verificare “se effettivamente vi sia un contrasto non risolvibile in via
interpretativa tra le norme censurate e le norme della Cedu come interpretate dalla
Corte europea”. Comunque dobbiamo ricordare che nel nostro ordinamento non vige
né un vincolo di stare decisis nei confronti della giurisprudenza interna, né rispetto
a quella di Strasburgo. Tensioni non dissimili sorgono con riguardo al giudice di
Lussemburgo: si può maturare l’impressione che la Corte di giustizia ragioni come se
una sorta di stare decisis informasse il suo dialogo con i giudici nazionali. D’altra parte
la Corte stessa ha dimostrato di non ritenersi vincolata alla propria giurisprudenza.
Inoltre non esiste nel contesto comunitario un rapporto
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gerarchico tra le corti (nazionali e comunitarie) e più in generale quei fattori


istituzionali che fanno convergere un sistema giuridico verso la regola del
precedente giurisprudenziale (come avviene ad es. in Inghilterra).

CINQUE GIURISDIZIONI FANNO UN SISTEMA?


MASSIMO TITA

Nel 1920 Calamandrei si parlava circa il nostro ordinamento giudiziario di “proporzionata


semplicità”, di un modello lineare, una grande piramide culminante nella Corte di
cassazione. Cinquant’anni dopo il sistema appariva non più come un “Palazzo
rinascimentale”, ma piuttosto come “un complicato labirinto di giurisdizioni speciali create
a capriccio, con quel barocco ammasso di soprastrutture giudiziarie venute su senza
disegno e senza arte”. Calamandrei indicava il motivo principale dell’involuzione
nell’immobilismo del legislatore: “ogni nuova giurisdizione speciale è un meschino
ripiego adottato dai legislatori che vivono alla giornata e che, non avendo l’ardire di
rinnovare dalle fondamenta l’ordinamento giudiziario e di buttare apertamente tra i ferri
vecchi un codice di procedura che non serve più, si limitano a creare per certe
categorie di controversie organi di giustizia più agili e meno dispendiosi di quelli
ordinari”. Addirittura Massimo Severo Giannini arriva a dire che non abbiamo un sistema
giurisdizionale, ma un non sistema giurisdizionale: il non sistema è una stratificazione
storica, in cui ogni periodo successivo ha conservato il periodo precedente. La
conseguenza è che “il nostro non sistema è una delle peggiori strutture che esistano, al
punto che anche Stati del Terzo mondo sono avanti a noi”. L’occasione per un
cambiamento fu data dalla Costituzione, ove in effetti gli artt.102 e 103 e l’art. 6
Disposizioni transitorie affermano il principio dell’“ordine” giudiziario. Il progetto della
costituzione era chiaro: unità della giurisdizione, senza sacrificare la specializzazione che
rappresenta una direttrice del progresso umano. In realtà non sarà così, perché dietro la
facciata c’è il compromesso: si mantengono organi giurisdizionali come il Consiglio di
stato, la Corte dei conti, la giurisdizione militare e quella tributaria, più una sesta
giurisdizione (che però è fuori quadro), quella della Corte costituzionale. Come notò Barile
“è esatta allora l’affermazione secondo la quale il mantenimento in vita delle vecchie
giurisdizioni speciali contrasta col principio dell’unità della giurisdizione. Ma la notazione
non è sufficiente a provare che il costituente abbia voluto la soppressione automatica di
tali organi anche in assenza di intervento del legislatore: non è sufficiente perché, da
un lato, l’art.102 Cost. vieta solo l’istituzione in futuro di giurisdizioni speciali e non dice
(come ben poteva dire) che quelle esistenti sono abolite, e dall’altro l’art. VI Cost. non
dice (come ben poteva dire) che tali organi devono ritenersi soppressi ipso iure e non
(come dice) sottoposti a revisione nel termine di 5 anni.” Insomma la Costituzione
propende per una abolizione graduale. Del resto la stessa Assemblea costituente
rimproverò il progetto che pure approvò “di aver realizzato troppo blandamente il
principio dell’unità”. E così oggi abbiamo: - giudice ordinario - giudice amministrativo -
giudice contabile - giudice tributario - giudice militare È chiaro che con cinque
giurisdizioni diverse non possono che verificarsi due condizionamenti negativi. Il primo di
questi è quello dei conflitti di giurisdizione, con il pericolo della paralisi giudiziaria.
Infatti la pluralità alimentava l’incertezza e determinava la nascita di una zona grigia in cui
la tutela dei diritti era “assente, insufficiente, ineffettiva”. Si dovette aspettare fino alla
sentenza 77/2007 perché la Corte costituzionale stabilisse che la tutela dei singoli non
potesse essere limitata da espedienti processuali. Guardando all’estero basti pensare che
qualche anno dopo la Germania emanò la costituzione di Bonn, che istituiva un unico
organo giurisdizionale, riunendo giudice civile, penale, tributario, amministrativo e del
lavoro.Ancora oggi ci si continua ad interrogare sulle motivazioni di tutte queste
giurisdizioni, soprattutto della giurisdizione militare, che creava problemi enormi di
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costituzionalità, individuati da Giovanni Conso nel 1975: - per il mancato riordinamento
del Tribunale supremo militare. Ciò continua a sottrarre i provvedimenti dei giudici
militari al controllo della Cassazione, che invece l’art. 111 Cost. vorrebbe esteso ad ogni
possibile violazione di legge - per la prassi giurisprudenziale che considera
appartenente alle forze armate anche chi sia in congedo illimitato, il che mal si adegua
al carattere eccezionale della giurisdizione militare - per la non completa
indipendenza dei giudici militari. Infatti il presidente non è un primus inter pares, ma
un generale in servizio effettivo, mentre il giudice relatore dipende dal procuratore
generale militare della Repubblica. Eppure questa giurisdizione fu mantenuta perché era
necessario affidarsi a giudici “che fossero padroni dello spirito e delle esigenze della vita
militare” e punire senza ritardi quei reati. Riformate o no, tali giurisdizioni durano
ancora, a causa dell’inerzia dell’esecutivo nell’attuazione dei programmi costituzionali.
Allora non resta che chiedersi se esistevano alternative. Chiovenda aveva immaginato sin
dal primo ‘900 la possibilità di un giudice unico: per lui solo con l’abbandono dell’attuale
procedimento si può sperare in una giustizia rapida, semplice ed economica. Il progetto si
ispira a principi dell’oralità, dell’immediatezza e della concentrazione. In anni recenti si è
però notato che l’unità potrebbe essere realizzata con le norme vigenti, senza invocare
una futura revisione costituzionale, che finirebbe per complicare il problema anziché
risolverlo: basterebbe rendere eguali tutti i giudici per autonomia.
Secondo Francesco Carnelutti in realtà quella che si è chiamata “unità della giurisdizione”, in
antitesi con la pluralità delle giurisdizioni, voleva dire “uniformità”. Affinchè questa sia
possibile, tenendo insieme i diversi organi giudicanti, bisogna mettere al posto del
giudice uomini “idonei al loro ufficio”. Si tratta in primo luogo di idoneità tecnica, ma
questa da sola è insufficiente: deve aggiungersi una “idoneità morale” o meglio
“idoneità spiriturale”. Torrente l’ha individuata nell’imparzialità, eppure Carnelutti nota
che il giudice, in quanto uomo, è sempre una parte che deve però elevarsi sopra le
parti: a lui si richiede insomma di essere più di un uomo. Perciò il vero problema non
sono tanto le garanzie, quanto la ricerca di “uomini superiori”. In secondo luogo deve
crearsi un ambiente favorevole: il giudice deve essere circondato da prestigio. Inoltre, la
questione economica (tanto cara in passato) passa in secondo piano, in quanto è sì
necessario che egli abbia una posizione tale da poter vivere con dignità, ma non è
sufficiente: occorre che egli si senta chiamato “a sopportare i sacrifici del suo ufficio”. A
tal fine ovviamente deve sussistere una collaborazione delle parti: “affinchè il giudice
possa salire sopra le parti, bisogna che le parti lo aiutino ad arrampicarsi sulle loro
spalle”. In passato a contrastare la giustizia ordinaria vi era quella commerciale,
archetipo della giurisdizione speciale, come oggi lo è quella amministrativa.
L’abolizione della giustizia commerciale è stata una tappa importante per l’unità
dell’ordinamento e l’uguaglianza tra i consociati. Il senatore Tito Cacace elencò le
argomentazioni di coloro che difendevano tali tribunali speciali. Innanzitutto si ricordava
che essi esistevano sin dai tempi dei Greci e dei Romani. Inoltre per decidere le
controversie commerciali si avrebbe bisogno di giudici i quali conoscano gli usi e le
consuetudini commerciali da applicare in mancanza della legge scritta. Ancora, solo i
giudici commerciali sarebbero in grado di assicurare la celerità richiesto dal
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commercio. Infine, i giudici commerciali giudicherebbero con celerità, equità e
gratuitamente (equiter, breviter, gratis) poiché non sono retribuiti come quelli ordinari.
Ma secondo Cacace: quanto al primo problema, le controversie devono pur sempre
essere risolte con le regole dell’ermeneutica legale, che sono ignote a giudici non
giusperiti; quanto agli altri due problemi, essi sono in realtà problemi di procedura.
Ma un cenno meritano anche ulteriori giurisdizioni speciali da tempo abolite. Basti
ricordare la giurisdizione speciale per gli emigranti. L’emigrante non era visto come un
cittadino qualunque, in quanto in condizioni morali ed economiche singolarissime. Si
riteneva necessario dunque un giudice tecnico, con cognizioni e attitudini speciali.
Ricordiamo altresì che la L. 1024/38 ha istituito il c.d. Tribunale della razza: non si tratta
in realtà di una giurisdizione speciale, ma di una Commissione che pronuncia delle
sentenze inappellabili, nominata dal Ministero dell’Interno. La Commissione dava pareri
motivati e segreti al Ministro, il quale pronunciava con decreto non motivato
insindacabile, avente valore solo per la dichiarazione di razza, che era annotata a
margine dell’atto di nascita della persona.

L’ECCESSO DI MOTIVAZIONE
MASSIMO TITA

La motivazione ha subito fondamentali cambiamenti negli ultimi tempi, tanto da far ritenere
che quell’antica garanzia di intelligibilità e certezza si sia trasformata in una causa di opacità
del giudizio: le troppe parole di cui essa oggi si compone equivalgono all’assenza di
comunicazione. Per comprendere il fenomeno abbiamo due tipi di cause: uno culturale,
l’altro politico. Quanto al primo profilo, la storia del diritto continentale ha visto il
ruolo dei giudici contrastato da quello degli studiosi: la giurisprudenza qui segue ed è
dominata dalla dottrina, esattamente al contrario di quel che accade nei sistemi di
common law. Così, “mentre i grandi nomi della common law sono quelli dei giudici, i
grandi nomi della civil law sono quelli dei dottori della legge”. La conseguenza è che la
forma e lo stile delle sentenze italiane imita pedissequamente gli scritti dottrinali: il
giudice scrive sentenze che dimostrano la sua abilità a muoversi nell’ambiente
dottrinale, così che nelle sentenze predominano l’astrattezza e il concettualismo della
dottrina. La nostra è, in definitiva, una giurisprudenza imitativa e non creativa, con un
assetto esattamente opposto a quello anglosassone: caratterizzata da estese motivazioni
che riproducono la dottrina. Per capire perché le nostre sentenze somiglino a trattati
dobbiamo spingerci fino al ‘700 e porre un confronto con la Francia. Qui si nota che gli
illuministi diedero nulla o scarsa attenzione al tema dei motiva: Montesquieu
nell’“Esprit des lois” scriveva una pagina sulla sola “maniera di formare le sentenze”;
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Diderot e D’Alambert nell’“Encyclopedie” non prevedevano la voce “motivazione”;
Rousseau nel “Contratto sociale” dedicava poche notazioni alla magistratura, sebbene
sarebbe stato nella logica del contratto sociale imporre al giudice di dover giustificare
la propria sentenza; Voltaire non si preoccupò di sapere come si formulasse una
sentenza. Eppure ben presto in Francia l’obbligo di motivazione delle sentenze
divenne una delle istanze più solide dell’illumismo.
In Italia il livello della discussione era più avanzato: a Napoli, già dal 1745, Bernando
Tanucci affermava che giustizia potesse esservi solo “ove i giudici giudicassero colle
ragioni, e non usassero i geroglifici, gli incantesimi, la superstizione”; sulla stessa
scia, Gaetano Filangieri affermava che “i magistrati, liberi di giudicare a loro talento,
sono un corpo di despoti”. Ancora Niccola Nicoloni ritenne che la motivazione
fosse un conto reso dai magistrati al governo ed al pubblico. Eppure, quando nel
1774 fu emanata una legge che obbligava a motivare le sentenze, l’opposizione fu
fortissima. Fino a quel momento la facoltà riconosciuta ai giudici di non rivelare le
ragioni dei loro responsi provocava per il sistema giurisdizionale una chiusura di
tipo scientifico e sociale: il non motivare le sentenze ha rappresentato per lungo
tempo uno schermo dietro al quale la magistratura potesse svolgere la propria
azione senza controlli. Perciò con l’obbligo della motivazione, la situazione mutò
radicalmente: sul piano teorico la motivazione assolveva la funzione di persuasione
degli sconfitti, sul versante pratico quella ad evitare impugnazioni o a consentire il
controllo della legittimità e del merito delle decisioni. Affinchè possa avere questa
funzione, però, bisogna che la decisione giudiziaria sia definitiva, chiara, razionale
e logica; “non deve mai fondarsi su di una petizione né ammettere per dimostrato
ciò che si deve dimostrare: la questione non va risolta con la questione”. La
motivazione così diventa e resta uno strumento di legalità e un mezzo di giustizia
unico. In definitiva, usando le parole di Roberto Vacca, certamente la ratio decidendi
rappresenta in primis un mezzo per provare l’esattezza delle operazioni logiche
che dovrebbero giustificare la decisione: la motivazione dovrebbe cioè avere lo
stesso valore logico della dimostrazione di un teorema. In secondo luogo la
motivazione è altresì un indice della mentalità dei giudici, in quanto riproduzione
del procedimento psicologico svoltosi nella mente del giudice. Eppure, “chiunque
abbia una certa esperienza del modo con cui si viene effettivamente formando
l’opinione dei giudici, può facilmente comprendere da quale ammasso di
incoerenze, incertezze, dubbi dovrebbe essere costituita la motivazione delle
sentenze”. Succede che in realtà “solo quando l’opinione è già formata interviene il
ragionamento che deve giustificarla”. “Nella maggior parte dei casi, infatti, il giudice
medio non si cura affatto della corrispondenza tra l’intimo convincimento e
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l’espressione scritta, ma si limita a raccogliere in dottrina e giurisprudenza quegli
argomenti che possono dare alla tesi da lui sostenuta un aspetto esteriore di
coerenza logica”. Diverso è allora il caso di giudici dotati di una mentalità molto
superiore o molto inferiore alla media: i primi hanno il coraggio di fare una scelta
tra gli argomenti, rigettando quelli che non li persuadono sebbene comuni; i
secondi non esitano a riferire nelle loro motivazioni anche gli argomenti più
assurdi. Eppure in entrambi i casi le motivazioni godono di maggior spontaneità, e
permettono quindi di ricostruire la mentalità del singolo giudice (c.d. equazione
personale del giudice).
Nei paesi continentali l’obbligo di motivazione è nato da una diffusa sfiducia nel potere
giudiziario, al contrario in Inghilterra non esiste obbligo di motivazione: ciò può giustificarsi
per il prestigio di cui godono i giudici in seno alla società. Quindi, mentre le motivazioni
sono state introdotte nel nostro sistema per limitare il potere dei giudici, al
contrario in Inghilterra sono state volute dai magistrati delle giurisdizioni superiori
per assumere una funzione scientifica e didattica, ben delineata da Renè David.
Infatti “quando il giudice inglese spiega le sue ragioni non lo fa solo a beneficio delle
parti di quel processo, ma il suo discorso è rivolto altresì agli studenti di diritto” che
studiano attraverso la lettura dei precedenti. Si spiegano così la
consuetudine propria dei
giudici superiori di motivare le sentenze e la ricchezza delle argomentazioni, a volte perfino
eccessiva. Tuttavia permangono delle differenze tra i sistemi di civil law e common law a
proposito delle motivazioni: nei primi il modello della giustificazione è deduttivo,
perché il diritto parla attraverso un codice completo ex ante; al contrario nei secondi
è affidato alle motivazioni un ruolo creativo, in quanto il diritto è percepito come un
fenomeno storico in continua evoluzione.

IL GIUDIZIO COSTITUZIONALE
DARIO LUONGO

Il presidente della Commissione dei 75, Meuccio Ruini, definì il confronto in corso sulla
Corte costituzionale “un tumulto improvvisato di discussioni”: esso era reso ancor più
difficoltoso dalla mancanza di precedenti nell’esperienza costituzionale italiana e di univoci
punti di riferimento in quelli degli altri Paesi. Con la redazione di una costituzione
rigida l’Italia si poneva sulla scia del nuovo costituzionalismo del ‘900, abbandonando il
legicentrismo tipico del pensiero illuministico. I testi costituzionali emanati in seguito
alla Rivoluzione francese avevano previsto il primato della legge come espressione della
volontà generale, rifiutando l’idea di un giudice costituzionale, e dunque l’emergere di
quella “sovranità della costituzione” che si ebbe invece negli Stati Uniti. L’idea del primato
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della costituzione fu sostanzialmente estranea anche all’‘800, per poi rappresentare il
perno della teoria di Hans Kelsen. Del resto, ai primi del ‘900, con l’irrompere del
pluralismo (partiti, sindacati, associazioni) era entrata in crisi la tradizionale visione
monistica della sovranità: occorreva ricomporre la frattura ad un livello più alto, facendo
della costituzione la cornice entro cui far vivere il pluralismo. Un primo elemento di
rigidità fu introdotto nell’ordinamento italiano già in epoca fascista, con la l.
2693/1928, che prescrisse l’obbligatorietà del parere del Gran consiglio del fascismo sulle
questioni costituzionali, senza però prevedere che le leggi riguardanti quelle materie
acquistassero un’efficacia superiore a quelle ordinarie. Dopo la caduta del fascismo,
molti partiti proposero programmi per la creazione di una corte costituzionale:
Democrazia cristiana, Partito d’azione, Partito repubblicano, Uomo qualunque, Partito
liberale, Partito socialista. La più grande opposizione era quella del Partito comunista, che
riteneva necessario non consentire che la funzione legislativa potesse essere condizionata
da un organo che non fosse espressione della sovranità popolare. Ma quel punto di vista
dipendeva, oltre che dalla convinzione che nel ceto giuridico fossero dominanti
orientamenti politici di impronta conservatrice, da un insufficiente apprezzamento della
rilevanza del momento giuridico-istituzionale. Ecco perché il Partito comunista
propendeva per l’affidamento del controllo di costituzionalità ad un organo politico e non
giurisdizionale, avente caratteristiche non dissimili dall’Assemblea costituente. Ma anche
tra coloro i quali appoggiavano la Corte, gli orientamenti erano del tutti diversi.
Calamandrei riteneva che non potesse del tutto escludersi la magistratura dal controllo di
costituzionalità delle legge e che ogni giudice dovesse avere il potere di decidere se
risolvere il dubbio di costituzionalità autonomamente o rimandarlo alla corte. Inoltre la
stessa pronuncia di incostituzionalità, secondo Calamandrei, doveva essere meramente
indicativa, perché dovevano essere le assemblee legislative, su impulso del governo, a
poter caducare o modificare la disposizione. Attribuire alla corte una potestà di
annullamento delle leggi avrebbe comportato infatti una violazione del principio della
separazione dei poteri. Per il democristiano Cappi, invece, la corte poteva essere adita
qualora le parti non concordassero sulla pronuncia del giudice in merito alla questione
di costituzionalità. Un altro democristiano, Leone, dissentiva apertamente dalle teorie di
Calamandrei, essendo tra i primi a configurare la Corte costituzionale come un organo
abilitato ad annullare le leggi in quanto posto al di fuori dei tre tradizionali poteri. Vi erano
poi discussioni delicate anche sulla composizione. La proposta di Calamandrei di far
eleggere dalla magistratura stessa dei magistrati che sarebbero diventati la metà dei
componenti fu respinta. Prevalse la tesi per cui avrebbe dovuto essere eletta
dall’Assemblea nazionale. Nel testo approvato dalla commissione dei settantacinque era
previsto che i suoi componenti fossero per metà magistrati, per un quarto avvocati e
professori universitari e per un quarto cittadini eleggibili agli uffici politici; inoltre fu
previsto che il giudizio di costituzionalità potesse essere attivato sia in via incidentale
che in via principale(ad opera del Governo, di 50 deputati, di un Consiglio regionale o
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di almeno 10000 elettori). Il liberale Einaudi dissentì apertamente dal testo approvato,
propendendo per un sindacato diffuso: secondo Einaudi, il succedersi di pronunce di
incostituzionalità di una stessa legge da parte dei giudici comuni non avrebbe potuto non
indurre il legislatore ad abrogarla. E ancora, quando nel marzo 1947 si tenne il
dibattito sul testo della Costituzione, contro la Corte si levarono autorevoli voci critiche,
in primis due ex Presidenti del consiglio, Nitti e Orlando: il primo affermò polemicamente
di non aver compreso cosa fosse la Corte; il secondo espresse il proprio scetticismo
sulla possibilità che i magistrati, che avrebbero dovuto costituire la metà della corte,
avessero sufficiente energia per contrastare il potere politico. Quando, poi, nel dicembre
dello stesso anno, si affrontò la discussione sulla Corte costituzionale, Nitti ribadì le sue
critiche circa quell’organo che appariva come “una mischianza di giudici e di politicanti”,
preferendo affidare il giudizio di costituzionalità alla Cassazione e al Consiglio di Stato. Ma
vi furono anche voci favorevoli: il democristiano La Pira sostenne che l’istituzione della
corte fosse inevitabile conseguenza della scelta di una costituzione proiettata verso
l’avvenire; il socialdemocratico Paolo Rossi escludeva che le magistrature più elevate
(Cassazione e Consiglio di Stato) potessero costituire un saldo presidio a tutela delle
istituzioni democratiche, memore del sostegno dato al consolidamento del fascismo. Per
quanto riguarda la composizione, il comunista Gullo sostenne la necessità che la corte
avesse una connotazione politica, non giurisdizionale, fino a proporre che i suoi
componenti non assumessero neanche la qualifica di giudici. In netta opposizione
Costantino Mortati proponeva di attribuire al Presidente della Repubblica il potere di
nomina dei componenti dell’intera Corte, cancellando del tutto il potere di nomina
parlamentare. Si arrivò ad un tentativo di mediazione con Tommaso Perassi, con un
emendamento che proponeva che la Corte fosse nominata per 1/3 dal presidente della
Repubblica, per 1/3 dal Parlamento e per 1/3 dal C.s.m. (sostituito poi, nella successiva
formulazione del testo, dalle supreme magistrature ordinaria e amministrative). Lo stesso
emendamento prevedeva, inoltre, che la corte fosse composta da professori ordinari di
materie giuridiche, (nella successiva formulazione magistrati delle giurisdizioni superiori
ordinaria e amministrative) e da avvocati con 20 anni di esercizio. Era un assetto che non
poteva essere condiviso dalle sinistre (comunisti e socialisti), perché era un
arretramento rispetto al quadro delineatosi fino a quel momento: i comunisti, quindi,
proposero che la Corte fosse nominata per 1/3 dalla Camera, per 1/3 dal Senato e per
1/3 dai Consigli regionali; i socialisti per 1/3 dal Presidente della Repubblica, per 1/3
dalla Camera e per 1/3 dal Senato. Quanto invece alla composizione della Corte, i
comunisti proposero che le nomine dovessero essere del tutto libere; i socialisti
proposero che avessero una specifica qualificazione tecnica i soli componenti nominati
dal Presidente. Ma le proposte di entrambi i partiti furono respinte. Permanevano però
incertezze sull’opportunità di attribuire alla Corte piena potestà di annullamento.
Per Mortati le sentenze di accoglimento dovevano determinare la sospensione,
non la cessazione di efficacia delle leggi. Per Perassi doveva essere indicato da parte
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della Corte un termine entro cui cominciava ad avere effetto la cessazione di
efficacia della legge. Nessuna delle due proposte fu accolta. A fare chiarezza sulle
modalità con cui avrebbe dovuto essere attivato il sindacato di legittimità intervenne
la L. COST. 1/1948, la quale sancì che il ricorso poteva essere promosso solo in via
incidentale. Restava da decidere il quorum necessario per la nomina dei membri
eletti dal Parlamento: Tesauro, Sturzo e più in generale la Democrazia cristiana
appoggiavano l’idea di una maggioranza semplice, che avrebbe finito per tagliare
fuori le opposizioni. Così la L. 87/1953 stabilì piuttosto che l’elezione dei giudici
avvenisse col quorum dei 3/5 dei componenti del
Parlamento nelle prime due votazioni e dei 3/5 dei votanti nelle successive.
Le elezioni della componente parlamentare si protrassero per quasi 3 anni, per cui l’entrata
in funzione della corte fu rinviata al 1956. Durante questo periodo il sindacato di
costituzionalità, in base alla VII disposizione transitoria della Costituzione, era stato svolto
dalla
magistratura (peraltro ridimensionando sensibilmente la portata innovativa della Carta,
soprattutto in merito all’esercizio delle libertà). L’Avvocatura dello Stato, infatti, faceva
sue due tesi: innanzitutto quella secondo cui erano prive di efficacia immediata persino
le disposizioni della Costituzione attinenti alla libertà personale; in secondo luogo
quella secondo cui le questioni di legittimità costituzionale relative alle leggi anteriori
all’entrata in vigore della Costituzione erano inammissibili, dovendo essere risolte dai
giudici comuni secondo il criterio cronologico. Entrambe le tesi furono confutate dalle
prime sentenze della Corte costituzionale, che attennero specialmente a disposizioni del
T.U. di pubblica sicurezza del 1931, al fine di superare quella parte della legislazione
precostituzionale che maggiormente rifletteva una concezione autoritaria del potere.
E così la Corte affermò la propria competenza esclusiva “a giudicare sulle controversie
relative alla costituzionalità delle leggi e degli atti aventi forza di legge” e che l’art. 13
Cost. era una disposizione precettiva (non programmatica) “compiuta, completa e
categorica” (sent. 1/56). Una sentenza interpretativa di rigetto fu già quella in tema di
responsabilità del direttore del giornale per fatto altrui ex art. 57 c.p. La Corte di certo
non temeva di porsi in contrasto col governo, ma piuttosto di poter finire per creare
dei vuoti normativi. Così la sentenza interpretativa di rigetto veniva usata per
plasmare gli orientamenti interpretativi della giurisprudenza, per svolgere “un’opera di
pedagogia costituzionale”. Qualora poi i giudici non si fossero uniformati
all’interpretazione della Corte, sarebbe stato sempre possibile adottare in seguito una
sentenza di accoglimento: ecco dunque la prassi delle c.d. doppie pronunce (sent.
3/1956). Questo attivismo provocò contrasti molto accesi tra la Corte di cassazione e la
Corte costituzionale. In particolare ci fu una sentenza riguardante l’assenza del difensore
all’interrogatorio dell’imputato (sent. 190/1970), che scatenò una vera e propria guerra
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fra corti. Era stata eccepita, per violazione dell’art. 24 Cost., l’illegittimità dell’art. 303
c.p.p. che consentiva la partecipazione del p.m. all’interrogatorio dell’imputato. Il p.m.
del processo a quo sosteneva la mancanza dell’oggetto stesso di una pronuncia della
Corte, non essendovi in materia una norma attributiva di poteri al difensore e non
potendo il sindacato costituzionale
esercitarsi su 11
una norma inesistente. Ma la Corte si avvalse della tecnica della DECISIONE MANIPOLATIVA,
sindacando la disposizione legislativa non per quello che prevedeva, ma per quello che non
prevedeva: dichiarò illegittimo l’art. 304 bis c.p.p. limitatamente alla parte in cui
escludeva il diritto del difensore di assistere all’interrogatorio. La Corte di cassazione
rifiutò di adeguarsi alla pronuncia della corte costituzionale, tanto che dovette
intervenire il governo con un decreto legge per imporre il rispetto della pronuncia della
Corte costituzionale. Ma accanto all’impiego della tecnica della manipolazione, divenne
sempre più massiccia l’ATTIVITA’ MONITORIA della Corte, consistente nel dettare
indirizzi e suggerimenti al legislatore. Infatti, già durante il primo periodo della sua
attività, nelle sentenze interpretative di rigetto il salvataggio della disposizione si
accompagnava spesso all’invito rivolto al Parlamento a disciplinare la materia in modo
da escludere ogni dubbio di incostituzionalità. Negli anni seguenti si giunse alla
predisposizione di veri e propri “decaloghi” rivolti al legislatore. Si ebbe così una tecnica
non dissimile da quella delle doppie pronunce, sperimentata nei confronti della
magistratura: la Corte dichiarava l’infondatezza della questione di legittimità
costituzionale, ma si riservava di dichiarare incostituzionale quella stessa legge in caso
di inerzia del legislatore. Discorso a parte merita il REFERENDUM ABROGATIVO, che
aveva conosciuto attuazione con la L.352/1970, ma che per la lacunosità della
disciplina fu integrato dalle sentenze della Corte costituzionale. Con la sent. 16/1978 la
Corte estese l’inammissibilità del referendum ben oltre le categorie previste dall’art. 75
co. 2°, escludendo che potessero esserne oggetto le leggi costituzionali e quelle a
contenuto costituzionalmente vincolato. Altro limite era l’impossibilità di effettuare un
referendum abrogativo su materie eterogenee.
Proprio le sentenze degli anni ’70 permisero a Stefano Rodotà di segnalare il rischio
che la Corte costituzionale potesse riscrivere intere discipline legislative, come aveva già
fatto per il referendum, assumendo una posizione orami stabile negli equilibri politici.
Modugno sosteneva che le forme assunte dalla presenza della Corte erano inevitabile
conseguenza dei caratteri della Costituzione: era stata l’abbondanza di clausole
generali e i vari principi a renderla tale; per questo egli non riteneva censurabile il
comportamento della Corte, ma riteneva che dovesse esercitare il suoi poteri in modo
più trasparente, senza nascondersi dietro vaghe formulazioni di principio. Zagrebelsky
invece era molto critico verso le c.d. “sentenze-leggi” della Corte, pronunce
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caratterizzate da un alto tasso di creatività. Distingueva inoltre due tipi di tali sentenze:
quelle che la Corte adottava per evitare di produrre lacune a causa dell’inerzia del
legislatore, e quelle che essa utilizzava come pretesti per poter imporre un proprio
orientamento legislativo. Nel primo caso la Corte avrebbe dovuto avere maggiore
coraggio, adottando sentenze di accoglimento pure e semplici; nel secondo maggiore
cautela adottando sentenze di rigetto pure e semplici. Tuttavia di recente lo stesso
Zagrebelsky ha visto in quelle sentenze manipolative un elemento di armonizzazione
fra ius e lex, teso a ribadire i valori giuridici. Dalla seconda metà degli anni settanta sono
diventati sempre più frequenti i richiami della corte al diritto vivente, quello
effettivamente applicato nei tribunali. Già nel Congresso dell’A.n.m. tenutosi a Gardone
nel 1965 era stata approvata una mozione che attribuiva ai giudici il compito di
avvalersi del parametro costituzionale nell’interpretazione della legge e di applicare
direttamente la Costituzione: insomma si volle sensibilizzare i magistrati all’esigenza di
effettuare interpretazioni costituzionalmente orientate. Nella prima metà degli anni
ottanta la Corte dovette fare i conti con esigenze di natura pratico-organizzativa (legate
alla necessità di smaltire il cospicuo arretrato), e perciò si registrò un aumento del
ricorso alle dichiarazioni di inammissibilità, prima ben più rare. A partire dagli anni
novanta, invece, la Corte fu costretta a rapportarsi con la crisi della finanza pubblica:
divenne frequente l’opera di bilanciamento di interessi e di valori costituzionali, tesa a
contemperare l’attuazione del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost. con la
disponibilità di risorse economiche pubbliche. Per ridimensionare l’impatto delle sue
pronunce sulla finanza pubblica, iniziò persino ad adottare sentenze d’incostituzionalità
sopravvenuta, così da evitare costi della retroattività, e sentenze additive di principio
(sentenze di accoglimento che rinviavano al legislatore la scelta di tempi e modi per
reperire le risorse necessarie a darvi
attuazione).
Problemi sorsero circa i rapporti tra Corte costituzionale e magistratura ordinaria a proposito
del
c.d. caso Englaro. Nel 2007, infatti, la Corte di cassazione aveva individuato in via
interpretativa le condizioni che avrebbero potuto consentire d’interrompere
l’alimentazione e l’idratazione artificiale e la Corte d’appello di Milano ne riscontrò le
condizioni. Il Parlamento quindi elevò un conflitto di attribuzione per lesione delle
attribuzioni legislative, per cui l’autorità giudiziaria si sarebbe avvalsa di una funzione
giudiziaria per modificare la legislazione vigente. La Corte costituzionale ritenne
inammissibile il ricorso del Parlamento. Ma in generale, la corte costituzionale, si era e si
è sempre mostrata rispettosa delle prerogative parlamentari. A differenza dei casi
precedenti, nel conflitto relativo al caso Englaro era in gioco la salvaguardia della libertà
interpretativa della magistratura dalle ingerenze del Parlamento. Libertà interpretativa
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che la Corte di cassazione non ha mai smesso di rivendicare nei confronti della stessa
Corte costituzionale anche di
recente: le
sentenze interpretative della Corte costituzionale, per la Corte di cassazione, non sono da
ritenere un’interpretazione autentica della legge e non impongono di sollevare una nuova
questione di costituzionalità al giudice che non ritenga possibile conformarsi
all’orientamento
interpretativo in esse accolto, costituendo nient’altro che un precedente autorevole
quando siano sorrette da argomentazioni persuasive. Ricordiamo inoltre la sent.
356/1996, con cui la Corte costituzionale aveva sancito l’obbligo
dell’interpretazione conforme a Costituzione, precisando che “le leggi non si
dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni
incostituzionali, ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali”. La
dottrina, però, non nasconde che il criterio dell’interpretazione conforme potrebbe
portare ad un arbitrio giurisdizionale. Ma comunque non sono mancati frutti
positivi, così che oggi non si dubita della bontà della “scelta coraggiosa” dei
costituenti di dar vita ad un organo che incrinasse il mito legicentrico.

IL GIUDICE IN BILICO: TRA TUTELA DEL


DIRITTO E CONSIDERAZIONE DEL
FATTO
GIAN PAOLO TRIFONE
Prima che si pervenisse all’istituzione dell’UNICA CORTE DI CASSAZIONE si
susseguirono vari progetti, fino a quello definitivo di
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Zanardelli della L. 5825/1888, che avrebbe unificato le cassazioni penali e favorito


la convergenza degli indirizzi giurisprudenziali in materia civilistica e commerciale.
Successivamente coll R.D. 2786/1923 recante il T.U. delle disposizioni
sull’ordinamento giudiziario si concluse il definitivo assetto del sistema giudiziario.
Fino a quel momento c’era sempre stata disomogeneità nel sistema, che
constava di ben cinque corti regionali di cassazione (Milano, Torino, Napoli,
Palermo e Roma). Inoltre il sistema era misto, cioè si rifaceva: - al modello
francese per la funzione del giudizio di legittimità - al modello tedesco per la
terza istanza , cioè un ulteriore grado di giudizio di merito avente ad oggetto
l’interpretazione giurisprudenziale nella valorizzazione delle autonomie per cui,
affianco alla struttura ripartita o unica, anche la natura del giudizio era
diversificata. Occorreva dunque compiere una scelta definitiva tra una pluralità di
corti decentrate e la Cassazione unica in Roma, conseguentemente assorbente
delle abolite 5 corti regionali. Solo il progetto Orlando rimase favorevole alla
pluralità delle corti di cassazione, dato che a parere del Guardasigilli l’uniformità
dell’indirizzo giurisprudenziale sarebbe stato un obiettivo comunque utopistico.
Occorreva scegliere poi tra il modello francese e quello tedesco: quasi a dire che
l’un modello valesse l’altro, purchè si scegliesse. Giuseppe Vacca, procuratore
generale della corte di cassazione di Napoli, propendeva per l’unificazione delle
corti e per il modello francese, in quanto solo la Cassazione a suo giudizio può
assicurare l’uniformità della giurisprudenza e cioè “custodire inviolata la legge e
l’integrità delle forme giudiziarie”. Anzi Vacca sottolinea come la potenziale
unificazione delle corti debba essere comunque successiva alla definitiva riforma
dell’ordinamento giudiziario. Anche Vincenzo Calenda di Tavani, procuratore
generale presso la corte di cassazione di Torino, si dimostrò a favore di un’unica
corte. E ciò per motivi di “spirito”, intendendo con esso “le leggi applicate in
modo uniforme a tutti i cittadini”. Infatti, se la Cassazione è al vertice della
piramide, è evidente che di vertice può essercene solo uno: se quindi l’uniforme
interpretazione della legge serviva a “forgiare” il popolo nella sua unità, la
molteplicità delle corti avrebbe significato nient’altro che disordine. Tavani rifiuta
poi il modello del giudice di terza istanza, che pure era già stato importato in
Lombardia dagli Austriaci, quale rimedio ordinario contro due sentenze difformi o
come rimedio straordinario contro due sentenze conformi, ma impugnate per
nullità o manifesta ingiustizia. In entrambi i casi il giudice di terza istanza avrebbe
dovuto decidere anche nel merito, sovrapponendosi alla pronuncia delle
magistrature inferiori, per non parlare delle lungaggini che ciò avrebbe comportato
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al processo. Ma soprattutto, nota Tavani, così facendo la Cassazione non poteva


“fermare la giurisprudenza e dare norme autorevoli di diritto ai giudici inferiori”,
negando quella sua funzione di uniformazione della giurisprudenza. Così la sua
proposta è quella di un solo ed ultimo esame di legittimità, e non di fatto.
Giovanni Carcano giunse invece a conclusioni esattamente opposte, schierandosi
a favore della terza istanza che, a differenza del modello francese, tutelerebbe gli
interessi dei cittadini e non quelli della legge, la quale è mera astrazione “che
non provvede a nessuno e non regola nulla”. A differenza di Tavani, che si
concentrava sull’interesse pubblico, egli reputava la difesa degli interessi dei
privati un principio liberale inconfutabile: lo Stato è al servizio dei cittadini e non
viceversa. Il modello francese aspirerebbe al solo vanto di controllare le opinioni
dei giudici minori per mantenere l’uniformità della giurisprudenza, non
considerando gli interessi dei privati. “Dove sono le parti, dato che la Cassazione,
non provocata da nessuno se non dal p.m., sorge non per assolvere o
condannare nessuno, ma solo per proclamare un’interpretazione di questo o di
quell’articolo di legge?” Ma del resto non si poteva essere neanche sicuri dell’infallibilità della
cassazione, perché pur di uomini si tratta. È per questo che egli appoggia la terza istanza, perché
essa non si arroga prerogative sacrali e assolute, ma mira a far giustizia nei
singoli casi. In sostanza la legge (e la cassazione che la difenderebbe) finisce
per rappresentare strumento della politica accentratrice di uno Stato nemico delle
diversificazioni territoriali. In occasione del centenario della corte di cassazione di
Napoli, Enrico Pessina intervenne appoggiando l’idea di una pluralità di corti, al
fine di tutelare tradizioni e particolarità territoriali: non doveva esserci nessuna
sottoposizione gerarchica delle corti regionali a quella di Roma, a cui andava
riconosciuta una superiorità puramente morale che lasciasse alle altre corti la
libertà del proprio giudizio nella materia ad esse affidata. Figlia era favorevole alla
pluralità delle corti ed inoltre era favorevole alla terza istanza: l’eliminazione delle
diversità poteva portare ad un’onnipotenza collettiva. Motivo, questo della unità
nella diversità, già esposto da Enzo Cosenza, giudice della corte di cassazione di
Firenze, secondo il quale la magistratura di grado inferiore doveva giudicare
secondo equità in rispetto dei principi, ma non appena ci fosse un’interpretazione
più larga, spettava ai magistrati superiori porre limiti (“servare modum finesque
tenere). Insomma al giudice di merito spettava solo assecondare le evoluzioni del
diritto, mentre la certezza che la giustizia fosse giusta era di altra competenza.
Come anticipato, però, le corti regionali caddero sotto i colpi della legge Zanardelli del 1888,
sebbene può dirsi che negli anni ‘50 il dibattito era ancora aperto. Una novella del 1950 aveva
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infatti esteso il controllo del giudice di diritto sul merito. Insomma ormai, secondo
alcuni critici, l’unica differenza tra la Corte di cassazione e la Corte suprema di
revisione era che la prima non poteva modificare la sentenza impugnata. Ma
c’era da auspicare la possibilità di riforma immediata della sentenza d’appello per
ragioni di puro diritto, che avrebbe potuto eliminare tutta quella perdita di tempo
che deriva dal giudizio di rinvio. Ludovico Mortara, uno dei più importanti
presidenti della Corte di cassazione, era cosciente del fatto che in Italia la
dimensione effettiva del diritto poteva essere garantita solo dall’interprete, una
volta che la legge si fosse staccata dal legislatore, per “prendere vita” attraverso
l’interpretazione “evolutiva” della Cassazione. Ciò non mutava il ruolo della Corte,
ma si prendeva coscienza del fatto che la legge non ha sussistenza prima del
suo momento applicativo e l’interpretazione interviene a ravvivarne il significato: si
trattava dunque di una renovatio. Mortara aveva due opinioni diverse
sull’accentramento della cassazione civile e di quella penale: - quanto alla prima,
essa perseguiva “la dichiarazione della verità”. Secondo Mortara il giudizio
d’appello funzionerebbe soltanto come continuazione del giudizio di prima istanza,
senza che vengano aggiunti nuovi elementi di fatto: ciò sulla base
dell’uguaglianza delle condizioni tra lo stato della controversia in primo grado e in
appello (si parla di “doppio esame ed unico giudizio”). Infatti, laddove si fosse
ammessa l’introduzione di nuove prove nel contraddittorio di appello, si sarebbe
resa possibile la correzione del giudizio in tale sede rispetto alla prima istanza, in
contrasto con quanto previsto dall’art. 490 c.p.c. del 1865. A parere di Mortara,
l’unico mezzo di riesame della questione giuridica doveva essere la Cassazione: è
solo in Cassazione che la controversia rimane immutata in modo da poter
accertare se il giudice inferiore abbia emesso una statuizione corretta. Andava
quindi eliminata la pratica del rinvio ad un tribunale diverso da quello che aveva
pronunciato la sentenza cassata. - quanto alla seconda, perseguiva piuttosto “la
persuasione della sicurezza”. Per questa materia, Mortara era favorevole alla
conservazione delle corti regionali, data la minore ampiezza del campo, così che
la giustizia penale potesse restare più vicina ai cittadini. Mariano D’Amelio, primo
presidente della Corte suprema di cassazione dal 1923 al 1941, sostiene che la
cassazione, a differenza degli altri organi giurisdizionali, completa la legge.
Persino la distinzione tra revisione tedesca e cassazione perderebbe importanza,
dato che entrambe registravano esigenze sociali in trasformazione, essendo la
giurisprudenza un “organismo vivente”. Insomma la giurisprudenza è
inevitabilmente soggetta ad evolversi, per cui le divergenze in essa presenti non
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devono preoccupare; piuttosto quelle che vanno evitate sono le difformità


inconsapevoli tra le diverse sezioni dell’alta magistratura, che è chiamata a
provvedere all’uniformità del suo significato. Anche secondo Piero Calamandrei la
distinzione suddetta perdeva importanza: si trattava in entrambi i casi di quella
“funzione pretoria” per cui il giudicare secondo equità della Corte conduceva alla
formulazione di principi giuridici corrispondenti alla coscienza del tempo. Il che
doveva escludere il riesame del fatto da parte della Cassazione, cui Calamandrei
si opponeva nettamente. Secondo il suo “modello puro”, la Cassazione avrebbe
dovuto essere unica e il suo sindacato limitarsi ai soli errori in iudicando, per
l’uniforme interpretazione della giurisprudenza (senza cognizione degli errores in
procedendo, ovvero i vizi di attività). Lo sconfinamento nel campo del fatto
provocherebbe nient’altro che l’accumulazione dei ricorsi. È evidente quindi che
Calamandrei propendesse per una Cassazione nell’interesse dello Stato: lo ius
ligatoris (il diritto della parte alla soddisfazione della sua istanza) sarebbe
strumentale allo ius constitutionis (l’interesse pubblico a che la legge sia
correttamente ed uniformemente applicata). Nel pronunciarsi, poi, in merito alla
questione se quello di Cassazione sia un giudizio di legittimità o di merito, Calamandrei
riconosce i vantaggi del modello tedesco, per cui la cognizione del giudice supremo non si limita
alla sola violazione di legge eccepita dalla parte ricorrente, il che esclude la
moltiplicazione dei ricorsi di legittimità sulla medesima causa. Tuttavia la revisione
non offre le stesse garanzie della cassazione in fatto di uniformità della
interpretazione giurisprudenziale. Il modello di Calamandrei andò incontro alle
critiche di Giuseppe Chiovenda, le cui tesi furono ampiamente recepite nel c.p.c.
del 1940. “Bisogna guardarsi dal credere che le questioni e il giudizio di diritto
comprendano solo ciò che risulta dalla parola della legge. Ogni norma suppone
infatti per la sua applicabilità una quantità di giudizi generali di fatto, cioè di
giudizi formati sull’osservazione di quanto comunemente avviene, massime di
esperienza. Questi giudizi di fatto sono compresi nel giudizio di diritto rivedibile
dalla Cassazione. Oltre a ciò la Corte può rivedere il giudizio anche di fatto, dal
punto di vista della completezza e coerenza della motivazione È quindi necessario
che la cassazione analizzi la presunta impossibilità di circostanze di fatto, fatti
illogici, contraddittori o incompleti, per cui essa compie delle vere e proprie
indagini di fatto. Trattasi dei vizi di attività, che Calamandrei vedeva esclusi dalla
competenza del giudice di legittimità: diversamente, secondo Chiovenda, “anche le
attività difettose, in quanto contrarie alla legge, costituiscono violazione di legge
(processuale)”. Secondo Salvatore Satta vi erano ragioni ambientali e sociali oltre
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che giuridiche perché la Cassazione abbandonasse “l’originario misticismo”, e cioè


superi il giudizio di legittimità per investire la considerazione del merito. Questi
fattori sociali sono da individuare nella crescita della popolazione, dei traffici e
degli affari giudiziari, nel minor rendimento dei giudici di merito e nello scadere
della funzione legislativa. La verità è, secondo Satta, che un interesse pubblico
alla nomofilachia non esisterebbe affatto “oggettivato”, essendo sempre
soggettivato, cioè dipendente dal ricorso del singolo per la soddisfazione del suo
interesse privato. Non esisterebbe dunque uno scopo della Cassazione al di fuori
della forma assunta dalla pretesa di parte. Il che portò Satta a chiedersi se
esistesse davvero una distinzione tra giudizio di fatto e di diritto che non fosse
meramente relativa ai limiti entro i quali la Cassazione posse muoversi: la
soluzione è che piuttosto il giudizio è unico e al più le considerazioni di fatto e di
diritto sono due momenti inscindibili dello stesso. Infatti, partendo dalla norma,
rimane da accertare se l’accadimento rientri nell’ipotesi da essa prescritta, il che
è sempre un giudizio sul fatto, svolto attraverso massime di esperienza. Michele
Taruffo in tempi più recenti ha riesaminato la questione alla luce dei principi
costituzionali. L’art 111 Cost. infatti generalizza la garanzia del ricorso per
cassazione per violazione di legge contro le “sentenze”. Da un lato ciò comporta
che per “violazione di legge” si intendano tutti i motivi di ricorso elencati nell’art.
360 c.p.c. Ciò significa che diventano rilevanti non solo i vizi consistenti nella
“violazione e falsa applicazione di norme di diritto”, in funzione dei quali verrebbe
esercitato il controllo sull’uniforme applicazione della legge, ma anche quelli
consistenti nella specifica violazione nel singolo processo di norme relative a quel
procedimento. L’oggetto del giudizio della Corte, dunque, non è tanto
l’interpretazione della norma sostanziale data dalla sentenza impugnata, quanto il
procedimento di formazione della sentenza. Dall’altro lato, oggi la Corte interpreta
la garanzia del controllo di legittimità come un diritto specificamente individuale
esistente in capo ad ogni soggetto titolare di un diritto soggettivo su cui abbia
inciso un provvedimento giudiziale: ciò che viene in rilievo allora non è tanto la
violazione della regola di diritto in sé considerata, quanto la lesione di una
specifica situazione soggettiva individuale. Insomma il giudizio di Cassazione
assume sempre più i requisiti di un terzo grado sul caso concreto, a dispetto
dell’originaria nomofilachia. Ad onta del modello puro di Calamandrei, la funzione
della Cassazione sembra avvicinarsi sempre più a quella della Corte di revisione
tedesca, che per l’appunto verifica la legalità della decisione nel singolo caso.
Peraltro questa “privatizzazione”, questa “individualizzazione” del giudizio di
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Cassazione tende inevitabilmente a modellare l’interpretazione della norma sulla


particolarità della fattispecie concreta: tanto più essa tiene conto di tali peculiarità,
tanto meno sarà estensibile a casi analoghi. Diventa perciò oltremodo ampia la
discrezionalità nell’impiego ex post del precedente da parte delle altre corti.
L’art. 384 c.p.c. (relativo al ricorso ex art. 360 per violazione o falsa applicazione di norme di
diritto) è stato riformato nel 1990. Tale riforma ha risposto ad esigenze di economia
processuale: il legislatore ha stabilito che la Cassazione decide nel merito quando
non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto (escludendo quindi il giudizio di
rinvio). Ma un’altra esigenza è quella di evitare il procrastinarsi della composizione
della controversia in seguito ad un ulteriore ricorso in cassazione contro la
sentenza emanata nel giudizio di rinvio. Con un'altra riforma del 2005 è stata
estesa l’ipotesi di decisione nel merito anche nel caso di violazione di norme
processuali. Infine nel 2006 è stato introdotto un comma 2° dell’art. 384, che
conferma che “la Corte cassa la sentenza rinviando la causa ad altro giudice, il
quale deve uniformarsi al principio di diritto o a quanto statuito dalla Corte,
ovvero decide la causa nel merito quando non siano necessari ulteriori
accertamenti di fatto”. Si recepisce, quindi, la prassi per cui il giudice di legittimità
decide anche nel merito. Ciò ci porta alla necessità di attualizzare il confronto tra
corte italiana e tedesca: dopo queste riforme, la differenza fondamentale sta nella
facoltà data al giudice di revisione di riesaminare il rapporto controverso nella sua totalità, senza
essere legato dagli errores in iudicando rivelati dalla parte, mentre il giudice di
Cassazione non può superarli. Tuttavia la Cassazione italiana ha più ampi margini
rispetto alla Corte tedesca di ritenere la “maturità” della sentenza senza necessità
di rinvio al giudice del merito: “più ampi sono i margini delle questioni sindacabili,
maggiori sono non solo le ipotesi di annullamento della sentenza impugnata, ma
anche le ipotesi in cui, annullata la sentenza, la Corte ritenga che la causa sia
matura per la decisione definitiva.”
Con una riforma del 2012 è stata attribuita al giudice d’appello la facoltà di dichiarare
inammissibile l’impugnazione quando non ci sia una ragionevole possibilità che venga accolta
(inammissibilità in appello). L’inammissibilità assume la forma di un’ordinanza che
può essere impugnata tramite ricorso per cassazione nei limiti dei motivi esposti
con l’atto di appello. La riforma introduce limitazioni importanti alla possibilità di
ricorrere per cassazione per vizio di motivazione: ciò al fine di combattere la c.d.
inflazione della giustizia.

L’INDIPENDENZA DELLA MAGISTRATURA:


NORME, IDEE, PRASSI
ILEANA DELBAGNO
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L’ordinamento giudiziario nel regno d’Italia, regolamentato dal r.d. 2626/1865 era
sottoposto a notevoli critiche e proposte di revisione complessiva circa la reale
divisione dei poteri e l’indipendenza della magistratura. Il potere giudiziario poteva dirsi
ben separato dal potere legislativo, grazie all’art. 73 dello Statuto albertino:
“l’interpretazione delle leggi spetta esclusivamente al potere legislativo”. Al contrario la
separazione rispetto al potere esecutivo non appariva netta: nei confronti dei giudici
agivano infatti strumenti di pressione collegati al governo, quali la struttura gerarchico-
piramidale interna e l’ambigua figura del P.M., “rappresentante del potere esecutivo” e suo
braccio attivo. Inoltre vi era una forte sorveglianza da parte del Guardasigilli, contemplata
dalla normativa post-unitaria e investente la sfera delle nomine, delle promozioni e delle
ammonizioni, il che rendeva il ministro “onnipotente e irrispondevole”. Ulteriore
sfavorevole situazione per i magistrati era che essi divenivano inamovibili solo dopo i
primi 3 anni di servizio, e solo relativamente allo status (grado e stipendio), mentre non
v’era tutela circa la sede. Si aprì dunque un animato dibattito dottrinale e parlamentare
per la ricerca di rimedi idonei al raggiungimento di un’effettiva indipendenza.
Veniva in soccorso l’analisi comparatistica, guardandosi al sistema anglosassone, ove
il giudice aveva conquistato un’elevata dignità ed indipendenza, ma a seguito di un
percorso differente e di antica tradizione. Del resto tale problema dell’indipendenza,
derivante dall’assetto dello Statuto, era stato persino aggravato dal citato regio
decreto del 1865. A parere del senatore Giuseppe Musio, esso comportava pericolose
sovrapposizioni di figure e di ruoli, capace di violare l’essenza della magistratura e
così “ogni guarentigia di libertà politica e civile”. Un altro senatore, Giovanni Siotto-
Pintor indicò 5 “condizioni essenziali” al raggiungimento dell’indipendenza della
magistratura: - universalità del giudizio: il magistrato giudica tutto e tutti, mentre i
tribunali eccezionali sono indice di governi assoluti - “trattamento sufficiente”,
specialmente in riferimento al governo - perpetuità dell’ufficio, in quanto “potere
che non si perpetua da sé non è potere”
- esclusività, a condanna dell’intromissione governativa - inamovibilità, in quanto
“potere che non è inamovibile non è potere” Nonostante la dichiarata costruzione
di garanzie magistratuali, sul finire del secolo la situazione non sembra evolversi,
essendo ancora saldo l’ancoraggio alla volontà del governo. Basti pensare ad una
sentenza della cassazione di Roma nel 1888: la Corte, che era istituita per “mantenere
l’esatta osservanza delle leggi”, riconosceva validità all’emergente “potestà
straordinaria” dell’esecutivo, assolutamente non autorizzata dallo Statuto. La
Cassazione romana si mostrava dunque decisamente indulgente verso le coeve
necessità e pratiche operative della gestione politica: secondo la corte, il
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potere esecutivo, “ammessa l’urgenza e la riserva, interpreta il Parlamento” e ne


anticipa l’azione. Ma sull’urgenza non può giudicare l’autorità giudiziaria, perché
finirebbe per sconfinare in una valutazione politica in cui nessun “potere inferiore”
può intervenire. Secondo la Corte, “questo principio non è scritto nello Statuto, ma
da ciò non si può dedurre che esso vada negato, anzi esso esplica e compie lo
Statuto”. La Corte aggira l’ostacolo posto dall’art. 6 dello Statuto aggrappandosi ad
un argomento di legislazione comparata, cioè richiamando le costituzioni straniere, le
quali prevedevano esplicitamente la possibilità di tale genere di ordinanze. Del resto
si può ben obiettare che, quando le Carte non le disciplinano, il loro silenzio sia
volto ad escludere tali ordinanze piuttosto che a renderle possibili. Tale impostazione
della Corte fu criticata anche da Giuseppe Codacci Pisanelli, il quale sottolineò che così
facendo la Corte non aveva fatto
altro che mutare il potere esecutivo in potere legislativo.
A distanziare realmente sotto vari profili l’ordine giudiziario dagli altri poteri intervennero
prima la riforma Zanardelli del 1890 (la quale fissò nuove regole per le ammissioni e gli
avanzamenti di carriera dei magistrati) e poi la più dettagliata riforma Orlando tra il 1907 e
1908 (la quale sancì l’inamovibilità della sede ed introdusse le prime forme di
autogoverno con un Consiglio superiore). Si ricordi a tal proposito l’intervento di
Vincenzo Miceli, il quale presenta una rilettura del ruolo della magistratura dopo tali
riforme: mentre in precedenza il fatto che la giustizia emana dal Re e le frequenti
ingerenze del governo inducevano a ritenere che il potere giudiziario non fosse un vero
potere autonomo, tali interventi legislativi pongono nuove garanzie per i giudici (a
cominciare dall’inamovibilità), che peraltro vengono estese finalmente anche ai pretori.
Contemporaneamente andavano maturando elaborazioni dottrinali volte a concepire
l’indipendenza dei giudici. I tempi stavano cambiando e così la posizione del potere
giurisdizionale: esso, non più “accozzaglia di impiegati che hanno l’obbligo di far
sentenze”, iniziava ad avere una valenza moderatrice di fronte ai possibili eccessi
degli altri poteri. Nel 1909 fu fondata un’Associazione generale tra magistrati italiani,
che rappresentò luogo aperto di discussione e di confronto, munendosi anche di una
testata periodica “La Magistratura”. La categoria infatti aveva bisogno di rinnovarsi
anche al suo interno: accanto alle mere rivendicazioni di status (prevalentemente di
carattere economico), occorreva instaurare vincoli di solidarietà, intensificare “unità
morale e spirito di colleganza”. Con l’avvento della Repubblica, la tutela e la garanzia dei
diritti fondamentali del cittadino trovano alcuni irrinunciabili capisaldi proprio
nell’apparato normativo che attiene all’ordinamento giurisdizionale. Il testo della
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Costituzione aprì immediatamente nuovi scenari e nuovi spunti di riflessione. La


“soggezione alla legge” si configurava come una precipua garanzia per la società, ma
Andrea Torrente nel 1957 ne volle svelare i punti nebulosi. Comunemente, infatti, il
giudice è rappresentato nel duello processuale quale portatore di una volontà
superiore alle parti in conflitto, come colui che ius dixit semplicemente attingendo
all’ordinamento. Tuttavia è proprio questa pretesa neutralità della sua mediazione a
vacillare: la sua era pur sempre un’opera interpretativa fatta di scelte e valutazioni,
in cui insomma entrava in gioco la sfera interiore della sua coscienza. È questo il
dramma della funzione del giudice: il dover superare sé stessi e i limiti della propria
umanità in vista di una suprema indipendenza spirituale. Nei primi anni ‘60, dopo
l’insediamento del C.s.m., quale organo garante dell’autonomia e canale di raccordo
tra l’ordine giudiziario e glia altri poteri, si assisté alla formazione di varie fazioni
all’interno dell’Associazione nazionale magistrati. In particolare ad agitare l’orizzonte
ideologico della categoria fu fu la fondazione di Magistratura Democratica, che (sulla
scia della critica marxista) denunciò il dogma classico della neutralità del giudice
come una mistificazione poco aderente alla realtà. Il disegno di tale corrente era quello
di capovolgere quel falso principio, optando per un’indipendenza della magistratura
che le consentisse di essere attenta alle dinamiche sociali. Tale concezione si
riassumeva in 3 sottoprincipi: - indipendenza non vuol dire separatezza della
magistratura, ma al contrario lotta per la correttezza e la trasparenza della funzione
giudiziaria, al fine di maggiori controlli sull’esercizio della giurisdizione - indipendenza
non vuol dire spoliticizzazione del giudice, data la distinzione tra il farsi portatori di
interessi di parte e l’impegnarsi a realizzare la Costituzione - difesa
dell’indipendenza non vuol dire difesa indifferenziata di tutta la magistratura, come se
tutto il bene fosse da una parte (i giudici) e tutto il male dall’altra (i partiti) È
evidente quindi che Magistratura democratica mirava ad instaurare un
legame con la carta costituzionale, ai fini della sua completa attuazione.
Recenti studi comparatistici dimostrano come il percorso intrapreso negli ultimi decenni
dalla nostra magistratura abbia creato una connotazione del sistema giudiziario italiano
abbastanza singolare nel panorama europeo. Come ha opportunamente osservato Giuseppe
Di Federico, “il caso italiano riveste particolare interesse per 3 ragioni: - tra i paesi di
civil law l’Italia è senza dubbio quello in cui l’indipendenza della magistratura ha
raggiunto i più elevati riconoscimenti, sia con riferimento alle norme tese a tutelarla,
sia al modo in cui tali norme sono state interpretate - il caso italiano dimostra che,
quando il valore dell’indipendenza della magistratura
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viene perseguito come fine a se stesso, a spese di altri importanti valori, si generano
effetti marcatamente negativi per il funzionamento dell’apparato giudiziario - l’Italia
è l’unico paese democratico dove i p.m. godono delle stesse garanzie di indipendenza
dei giudici. Ma è sintomo della diversità già lo stesso termine “magistrato”, che è
utilizzato sia in Italia che in Francia per designare sia giudici che P.M., mentre in
Inghilterra è riferito solo ai giudici che hanno specifiche funzioni e in Spagna
indica i due libelli superiori della carriera dei
giudici. Tuttavia è la posizione del nostro C.s.m. a segnare uno dei principali distinguo: i
suoi elevati poteri deliberanti e l’alta percentuale di componenti togati, tra l’altro eletti dai
colleghi dei gradi inferiori, consente collegamenti personali e aspettative di casta, con larghi
margini di manovra su carriere e trasferimenti. Tra i magistrati italiani si è così
diffuso il convincimento che per ottenere decisioni consiliari favorevoli alle proprie
aspettative è opportuno evitare comportamenti o dichiarazioni in contrasto con gli
orientamenti in materia di ordinamento giudiziario dell’A.n.m. e dei suoi
rappresentanti al C.s.m.: sembra questo l’unico motivo per cui il C.s.m. potrebbe
bloccare la promozione del magistrato, data la scarsa rilevanza attribuita da
sempre da parte del C.s.m. alla previa valutazione dei candidati. Altrove, per
correggere queste situazioni pericolose e diluire legami di appartenenza, non si
utilizza solo il meccanismo del concorso ma si affiancano anche forme di accesso
laterale, aperte a professionisti già affermati. In Italia, così come in altri paesi
dell’Europa continentale, i giovani laureati senza previa esperienza professionale
vengono reclutati per soddisfare indistintamente le esigenze funzionali dell’intero
sistema di uffici giudiziari del paese: si presume cioè che i neo-reclutati possano
indifferentemente svolgere in maniera adeguata una varietà di funzioni giudiziarie,
che di fatto richiedono capacità alquanto diverse fra loro. Ecco perché in molti
paesi europei sono state istituite apposite scuole che forniscono una formazione
iniziale e continua, volta all’aggiornamento professionale e ad agevolare le
riconversioni professionali quando i magistrati passando da una funzione
giudiziaria ad un’altra. Capita spesso in Italia che i magistrati finiscano per
esercitare attività extra-giudiziarie, fenomeno che dagli anni ’70 in poi ha assunto
dimensioni sempre maggiori: basti pensare agli incarichi di dirigente dei vari
dipartimenti del Ministero della giustizia, di membri di uffici legislativi dei vari
ministeri, alle consulenze a governi locali e nazionali, alle nomine a commissioni
di studio o agli incarichi di insegnamento. Il caso italiano appare deviante rispetto
agli altri non solo per il numero e la varietà delle attività extra-giudiziarie
consentite, ma anche per la confusione tra magistratura e classe politica che ne
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discende. Basti guardare al sistema anglosassone: qui è la struttura stessa del sistema ad
impedire che il fenomeno delle attività extra-giudiziarie assuma una qualche dimensione.
Infatti i giudici sono di norma reclutati tra avvocati di esperienza per ricoprire uno
specifico ruolo vacante, per cui la destinazione ad altre attività farebbe inevitabilmente
sorgere il problema del funzionamento delle corti di appartenenza. In Francia il Ministro
di giustizia dirige il reclutamento e la formazione dei giudici, ha un notevole peso nel
C.s.m. e riguardo le attività del P.M., e infine ha un ruolo importante nella fissazione
delle politiche criminali del suo paese. In Italia, invece: - il C.s.m. è del tutto autonomo
nell’assumere l’iniziativa in tutte le materie che rientrano nella sua competenza decisoria
(reclutamento, promozioni, trasferimenti, incarichi direttivi, ecc.). Al contrario la sezione
del C.s.m. francese che delibera sullo status dei magistrati può decidere solo a seguito di
una richiesta del ministro - il Ministro della giustizia non è membro del Consiglio: può
partecipare alle sue riunioni, ma senza diritto di voto - il Ministro della giustizia è
escluso anche dalla possibilità di concordare a livello internazionale le scelte di politica
criminale. Deve presumersi che questa limitazione dei suoi poteri rispetto ai suoi
colleghi stranieri diverrà sempre più evidente man mano che si farà più cogente
l’esigenza di coordinare le politiche criminali tra i Paesi dell’UE.

IL GIUDICE “GIUDICATO”. LA MAGISTRATURA


AL VAGLIO DELL’OPINIONE
PUBBLICA
MARIANNA PIGNATA
Le forti incomprensioni che si creano tra la magistratura e la classe politica non
sono causate da particolari meccanismi delle istituzioni giudiziarie, né dalla volontà di
determinati gruppi di magistrati, ma dal formarsi di condizioni nuove sia nella società,
sia nelle istituzioni politiche rappresentative e quindi dalla nuova natura della
legislazione e della domanda di giustizia che ne consegue. In effetti non sussiste più
quella dialettica, volta alla mediazione tra mondo della vita e sistema, tra le due
strutture portanti del
sistema: i partiti politici,
ormai ridotti a mere “organizzazioni portatrici di un proprio e parziale disegno strategico di gestione
e di conquista del potere”, e la sfera pubblica, oggi più che mai ostacolata e limitata. Se in
passato la magistratura era politicamente ascoltata ed influente, oggi sussiste un
profondo disagio: non c’è più dialettica tra le due.
Seguiremo allora un rapido excursus dall’attualità a ritroso: nel novecento ci sarà una forte
polemica su natura e limiti del potere giudiziario e sul suo rapporto con la politica, soprattutto
negli anni del fascismo e poi quelli di entrata in vigore della Costituzione. A metà
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ottocento ci fu una forte normazione che richiedeva l’opera di interpretazione“secondo
norme precise e precostituite”. Le origini del problema però si ritrovano nell’illuminismo
settecentesco: periodo di apoteosi della supremazia e dell’assoluta oggettività della
norma, in cui il potere giudiziario era funzionale a neutralizzare la parzialità politica
della legge. Tutta questa dialettica tra magistratura e politica ha trovato il proprio trait
d’union nell’opinione pubblica, che ha avuto un ruolo centrale. Lo stesso concetto
classico di opinione pubblica è ormai in via di esaurimento a causa proprio della
“progressiva differenziazione funzionale della stessa prodotta dalla modernità”. Uno
svuotamento di funzione politica che finisce per rendere inattuale la concezione di
Habermas di opinione pubblica legata ad una funzione critica rispetto al potere
politico e a quello dell’amministrazione: concezione che ha fatto posto alla più modesta
funzione di “produzione del consenso”. In questo scenario, “il giudice si è andato
trasformando irreversibilmente, anche per la crescente incapacità dei partiti di
trasmettere le domande della società e per il generale venir meno del ruolo delle
opposizioni, da agente della legge in interprete dei diritti dei cittadini e in
intermediario tra società e Stato, entrando obiettivamente (ma sempre più spesso
anche soggettivamente) in conflitto con i rappresentanti politici. Questi ultimi, ridotti
ad una funzione sempre più residuale, sono spesso tentati di compensare il loro
potere declinante procurandosi rendite illegali, con ciò sollecitando la funzione di
controllo della virtù da parte delle magistrature (che evidentemente travalica i limiti
della stretta legalità)”. Più in generale la funzione politica dei giudici sta nel fatto che
essi, facendo ricorso alla forza che l’ordinamento pone a loro disposizione, correggono
le deviazioni dalle regole imposte, tenendo così o consociati allineati ai valori
prevalenti in un dato momento storico e tradotti in norme giuridiche. Se l’Ottocento è
stato il secolo dei parlamentari e il Novecento quello dei partiti, quello attuale è
quello dell’opinione pubblica: i cittadini devono conoscere per controllare chi esercita il
potere politico, giudiziario, economico, così che si
affaccia una funzione costituzionale dell’informazione.
Basti ricordare alcuni celebri casi di cronaca giudiziaria: i casi di Lusi e Belsito, per sottrazione di
denaro pubblico proveniente dai c.d. rimborsi elettorali, o all’ancor più famoso “caso Ruby”
che coinvolgeva l’allora Presidente del Consiglio Berlusconi. A quest’ultimo
proposito si sono poste due correnti: una innocentista, che continua ad accusare
la magistratura di aver per un ventennio strumentalizzato le inchieste a suo danno
per ostacolare il progetto di riforma (del processo breve) che aveva promesso; e
l’altra giustizialista, che consacra la magistratura per aver salvato il paese dal
baratro dell’amoralità cui si andava incontro dato il venir meno delle motivazioni

ideologiche nell’attività politica. Da questi dati si coglie come ci sia una vera e
propria deformazione della giurisdizione: tema, questo, che ci riporta alla
tormentata stagione di Mani Pulite, la quale ha visto il delinearsi, agli occhi
dell’opinione pubblica, di una magistratura che si proponeva come legislatore, o
meglio preparava silenziosamente la riforma del legislatore con la sua
interpretazione evolutiva. E allora la figura del giudice-uomo pubblico trova largo
consenso sociale perché portavoce del bisogno di legalità del Paese. Il pericolo
ivi nascosto è quello del rispetto delle garanzie dell’individuo. A tal proposito si
potrebbero ricordare processi quale quelli ad Andreotti e a Cusani. Il primo,
tenutosi a porte chiuse, vedeva protagonista Andreotti, accusato di concorso
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esterno in associazione mafiosa: egli fu assolto in primo grado, mentre nel 2003
la Corte d’appello di Palermo lo ha assolto per i fatti successivi al 1980 e ha
dichiarato il non luogo a procedere per i fatti anteriori a quell’anno, caduti in
prescrizione (sentenza poi confermata in Cassazione). Il secondo processo citato
fu addirittura trasmesso in diretta Rai, sebbene l’imputato non fosse figura di
primo piano, ma solo strumento di denuncia di un fenomeno di finanziamenti
illegali ai partiti. Con queste testimonianze clamorose, in cui si coglie una
combinazione di lunghezza d’istruzione, spostamento di sedi, ricorsi e ribaltamento
di verdetti, nonché le pressioni di una stampa di un’opinione pubblica fortemente
manipolata e manipolatrice, prendono forma due costruzioni artificiali: la verità
giornalistica e la verità giudiziaria, le quali finiscono facilmente per sovrapporsi
interferendo l’un l’altra. E tutto questo soprattutto a causa di una totale mancanza
di “un assetto realmente pluralistico dei mezzi di informazione, di una deontologia
professionale dei giornalisti attenta alla trasparenza delle fonti, non disponibile ad
alcuna subordinazione, non incline al sensazionalismo, e professionalità adeguate
ad un settore così delicato”. In un articolo Giovanni Valentini descrive bene quelli
che sono i pericoli di cortocircuito tra mass media e 19 magistratura, specialmente per
la diffusione di notizie private e spesso infondate. Chi fa informazione dovrebbe tendere ad ottenere
il massimo di elementi per poter assolvere ad un ruolo di propulsione alla ricerca della
verità, ma in realtà ciò che si verifica è un pericolo per la “riservatezza
necessaria delle indagini giudiziarie e il rispetto del segreto d’indagine”. È dunque
fondamentale nella nostra analisi rilevare se e in che misura, il diritto
all’informazione, cioè il diritto di acquisire notizie, sia prescritto dall’art 21 Cost., il
quale tutela la libertà di espressione. È essenziale, infatti, in uno stato che si
professa democratico e pluralista un’opinione pubblica che sia informata e
documentata, che non corra il rischio di manipolazioni. Sia la giurisprudenza
costituzionale che quella ordinaria hanno svolto sul tema un ruolo attivo di
supplenza all’inerzia del legislatore, sia in ambito generale per il riconoscimento
del diritto di informazione sia in particolare per la disciplina delle comunicazioni
radiotelevisive. Le loro decisioni hanno mirato ad armonizzare i diritti sanciti
dall’art. 21 Cost. con la pluralità di interessi, principi e valori di rango
costituzionale potenzialmente confliggenti. Secondo Enzo Cheli, il primo dato che
colpisce chi affronti l’esame di questo settore della giurisprudenza costituzionale
attiene all’attivismo della Corte sui temi dell’informazione e della comunicazione di
massa. Occorre interrogarsi allora sui motivi di tale attivismo: la dottrina ha
evidenziato in particolare il contenuto limitato e per certi aspetti datato di questa
disciplina. È infatti indubbio che i costituenti, quando affrontarono il tema della
libertà di espressione e dei mezzi del suo esercizio, furono mossi più dalla
S.O.S. STUDENTI SUD – CAMPANIA NO PROFIT
preoccupazione di rimuovere gli strumenti di controllo sulla stampa che erano stati
introdotti dal regime fascista (ad es. la censura e il sequestro degli stampati) che
di tracciare le linee generali di un moderno sistema dell’informazione. Ecco
perché nell’art. 21 Cost. non si trova alcun accenno né a quei mezzi di
comunicazione di massa che già allora risultavano pienamente affermati (come la
radio o il cinema), né al rapporto essenziale tra stampa e potere economico, né
al profilo passivo dell’informazione, cioè alla libertà e al diritto del cittadino di
ricercare e ricevere notizie. Il pregio dell’art. 21 Cost. sta allora nella sua
flessibilità, in particolare al co. 1°, ove con una clausola aperta si fa riferimento a
tutti i possibili mezzi di diffusione indipendentemente dalle tecnologie trasmissive
adottate. In un siffatto quadro, gli orientamenti più innovativi della Corte hanno
seguito 3 direttive: - il riconoscimento dell’esistenza di un diritto all’informazione,
quale risvolto passivo della libertà di informare (sent. 153/1987) - l’individuazione
del pluralismo come valore primario sotteso all’intero sistema dell’informazione - la
definizione dei caratteri fondamentali del servizio radiotelevisivo, inteso come
“servizio pubblico essenziale”, ma destinato ad operare entro la cornice
costituzionale della libertà di espressione del pensiero.
Ritornando a quella linea temporale anticipata, nel primo Novecento il fenomeno di
“fascistizzazione” dello Stato o meglio di “normalizzazione del partito fascista avvenne proprio
attraverso un radicale controllo dell’informazione e dei media per creare una
società contrassegnata da un prevalente “consenso passivo borghese”. Ciò
naturalmente si ripercuoteva sulla magistratura. Fu Calamandrei a denunciare le
condizioni e il disagio morale in cui si trovava ad operare il potere giudiziario e
ad individuare quattro forme di ingerenza della politica nella giustizia: - preventiva,
legata alla dipendenza gerarchica del p.m. dal Ministro di grazia e giustizia - ex post,
tramite le amnistie, le grazie e il riconoscimento ad organi amministrativi di poteri che
incidessero sull’esecuzione delle sentenze - un’ingerenza sulla carriera dei giudici - il
moltiplicarsi delle giurisdizioni speciali, che sminuivano il primato del giudice La
conseguenza inevitabile fu l’asservimento del giudice alle logiche
del regime.
Di segno differente ma egualmente singolare fu il ruolo dell’opinione pubblica nell’Ottocento: essa
era vista come “forza” o addirittura “potere costituzionale” dello Stato liberale, data la sua
presenza stabile nelle corti di giustizia sotto forma di giuria. Questa istituzione
giudiziaria trovò tra i suoi oppositori proprio la magistratura e molti esponenti della
Scuola positiva che criticavano questa “desacralizzazione” del processo e
“generalizzazione” della giustizia. Così il rapporto tra giudice ed opinione pubblica
era evidentemente conflittuale: il primo esplicava una funzione giudicante ma del
tutto subordinata alla seconda che era spettatrice, ma anche succube
dell’aggressività della stampa, che “attizza pericolosamente il fuoco che cova sotto
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la cenere delle inquietudini e delle paure collettive”. Quanto al Settecento,
l’opinione pubblica aveva assunto un ruolo e un peso politico senza precedenti.
Questa poteva, come dice Cesare Beccaria, turbare la “pubblica tranquillità” e
perciò necessitava di un serrato controllo.
STORIA DELLA MAGISTRATURA NEL SECONDO
DOPOGUERRA
MASSIMO TITA

Nel 1950 può dirsi che una storia della magistratura italiana è ancora inesistente. Il
cambiamento avvenne nel 1960, quando (complici il centenario dell’Unità e il clima
del tempo, segnato da una ridefinizione del ruolo del giudice) nacque un vero e
proprio filone di storiografia specializzata, che gravita verso rapporti tra magistratura e
potere politico e la c.d. ideologia dei magistrati. Questi elementi valsero dunque come
nuovo inizio, se si pensa che Luigi Granata nel 1960 diceva: “una storia della
magistratura italiana non esiste e nessuno ha mai finora pensato potesse essere oggetto
di attenzione o almeno di una efficiente progettazione”. Pochi anni dopo Paolo Ungari
poteva dire invece: “la storia della magistratura data da meno di un quinquennio”. La
svolta storiografica avvenne grazie a tre grandi opere, rispettivamente di Mario D’Addio,
di Piero Marovelli e di Neppi Modona, ma possiamo citare ancora Calogero, Gorla, Cozzi,
Ajello, Lombardi, Tufo, Troisi. In aggiunta ai molti libri degli storici di professione,
segnarono quel decennio gli interventi di giudici che si fecero storici. Cominciò così una più
consapevole e matura osservazione di sé da parte della categoria, quasi l’autoanalisi
sociale e politica di un ceto: finalmente si guardò a quell’ordine nella sua qualità di
potere antagonista e protagonista, di entità politica e sociale, finalmente spogliato della
sua aurea di neutralità o di suprema indifferenza. Insomma il punto di vista privilegiato, il
poter guardare dal di dentro le cose di giustizia, veniva impiegata per cogliere non più
solo il senso di singoli problemi o istituti ma di un’intera vicenda: tutto ciò nasceva
anche da una profonda insoddisfazione culturale. Importanti furono però non solo i
libri, ma anche la partecipazione di giudici a riviste e congressi.
Quanto alle riviste, esemplare è una vicenda comune a “Il Ponte” (periodico voluto
da Calamandrei) e a “La Magistratura” (mensile dell’A.n.m.). Infatti nel 1968 entrambe
ammisero estranei al loro interno: la prima accolse i giudici di Magistratura
democratica, la seconda avvocati e giuristi di cattedra. Eventi questi che dimostrano
maggiore apertura al mondo esterno nonché maggiore dinamismo intellettuale. Ma un
ruolo fondamentale in questa “presa di coscienza” è stato svolto dalla rivista
“Democrazia e diritto”. Basti pensare al suo primo numero nel 1960, che esordiva:
“Potrà forse destare sorpresa in alcuni lettori che una rivista giuridica accosti al diritto
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la democrazia togliendogli così quel carattere di agnosticismo dinanzi al mutevole
corso della storia con cui tradizionalmente le scienze giuridiche sono state presentate e
assunte”. Altra vicenda esemplare è quella della nascita di “La rassegna dei
magistrati”, rivista fondata dall’U.m.i. (Unione nazionale magistrati), associazione
nata dalla scissione dei giudici di Cassazione dall’A.n.m. La pubblicazione della rivista
mostra un tono “esitante”, come tale inconciliabile con la dichiarata volontà della
categoria di attuare il dettato costituzionale. Insomma l’unità tra i giudici si ruppe,
così il binomio era tra chi difendeva lo status quo e chi intendeva riformarlo. Quanto
ai congressi, notevole impatto ebbero quelli del 1965 a Firenze e a Gardone (voluto
dall’A.n.m.) e quello del 1966 a Terracina (voluto dall’U.m.i.). Il primo fu organizzato
di giuristi cattolici, che sottolinearono come la giurisdizione dovesse garantire il
rispetto di regole democratiche. Il secondo si svolse intorno al quesito “Magistrati o
funzionari?”, cui era chiara la risposta: la magistratura si pose alla testa del
movimento rinnovatore, uscendo dall’isolamento in cui viveva e abbandonando il
passato formalismo (anche interno). Nell’ultimo l’U.m.i. discuteva di cause e
responsabilità della crisi della giustizia. Ma ancora nel 1969 l’Unione dei giuristi
cattolici rifletteva su “diritto e la moralità pubblica in Italia” e l’U.m.i. affrontava il tema
dei contrasti esistenti nella magistratura italiana. In definitiva in alcuni campi (come
diritto del lavoro e di famiglia) si produssero risultati concreti, mentre in altri (si pensi
alle libertà) il divario con il resto dell’Europa si colmò solo in parte. Più in
generale può dirsi che da un lato furono attuati molti dei valori che fondarono il
patto sociale della nuova Repubblica, dall’altro si produsse

la politicizzazione dell’esperienza giuridica e di alcuni tra i suoi massimi protagonisti.


Negli anni Settanta, dato il proliferare di conflitti sociali, l’ordine dei discorsi si spostò verso
il versante ideologico: Romano Canosa dedicherà addirittura un saggio alla magistratura di
sinistra, mentre Giovanni Tarello sarà il primo a parlare dell’ideologia giuridica del
diritto del lavoro. Si iniziò a non tollerare il nostro ritardo storico, gli anacronismi
normativi, gli arcaismi giudiziari e specialmente l’inattuazione dei principi democratici:
si arrivò persino a dubitare della realtà di questa democrazia, data per apparente e
fittizia. Era inevitabile che la compattezza ideologica della magistratura ne risentisse,
frantumandosi: “la magistratura è una solo perché tutti i magistrati esercitano lo
stesso potere, ma non vi è alcun altro elemento di coesione”. La politicizzazione di una
parte della magistratura si manifesterà sui periodici, nei convegni e naturalmente
nell’esercizio della funzione fino a toccare punte estreme. Dall’altra parte vi erano
giudici meno propensi all’innovazione: basti pensare a Luigi Bianchi d’Espinosa (allora
procuratore generale di Venezia), il quale osservò che “è assurdo servire il sistema che
si vuole distruggere”, trattandosi di una contraddizione logica e morale. Questa
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contestazione globale era da lui ritenuta incompatibile con la difesa dell’ordinamento
giuridico che è propria del magistrato. Sulla stessa scia si pone Luigi Urso, il quale
sottolinea che l’A.n.m. “non ha alcuna collocazione nello schieramento politico, ma
solo un proprio programma d’azione, di difesa di interessi di categoria e prestigio della
funzione”. La convinzione moderata di Bianchi d’Espinosa e Urso aveva con ogni
probabilità dalla sua parte un buon numero di magistrati ma il diverso orientamento
“movimentista” finì per prevalere. Sono stati due gli aggettivi per definire tale fenomeno:
democratico e alternativo. In particolare quest’ultimo ha avuto massima fortuna, avendo
Pietro Costa definito tale giurisprudenza come “giurisprudenza alternativa”. Gli anni ’60
e ’70 registrarono così una felice confluenza di sguardi sul tema della funzione
giudicante: libri sulla storia della magistratura si alternarono a ricerche sui problemi
generali della giustizia, sulla mentalità e l’ideologia del giudice e su singoli istituti. In
definitiva, la storiografia finì per registrare l’orientamento vincente e ha legato il
nuovo interesse per la funzione giudicante al crescere della
“domanda politica e sociale”.
La storiografia giuridica. Richiamati i grandi mutamenti degli anni ‘50 e ’60, non resta
che osservare il vero e proprio percorso della storiografia della magistratura italiana. In
effetti fu un libro di Carlo Dionisotti del 1881 a segnare l’avvio del percorso storiografico:
“La storia della magistratura piemontese”. Egli dedicava intere pagine a ricostruire la
funzioni, carriera, formazione e profilo biografico degli appartenenti alle diverse
magistrature degli antichi stati sabaudi. Vi comparivano altresì le biografie di mille
giuristi (prevalentemente magistrati ma anche avvocati, professori e politici). Nella
vasta produzione degli anni successivi si staglia l’intervento di Lodovico Mortara che
riassume i termini del nuovo rapporto tra lo Stato unitario e il sistema giudiziario ne
“Lo Stato moderno e la giustizia”, e a cui si fa risalire la nascita della nozione di
autogoverno della magistratura. La stagione fascista offrì poi alla storiografia giuridica
materiale di primissima importanza per sondare il versante ideologico del dicere ius: il
ruolo ancillare del p.m. all’esecutivo, l’adesione dei giudici al duce, la specificità della
giurisdizione sul lavoro, l’allargamento delle fonti normative e l’osmosi tra documenti
politici e leggi giuridiche. Infine gli ultimi tre decenni hanno visto affiorare nelle
riviste specializzate un moto di interesse per problemi un tempo trascurati, come quello
dell’efficienza. Nel 1982 il Congresso nazionale dei magistrati fu interamente dedicato al
tema. Così, accanto alla questione centrale (per la giustizia come per l’economia) dei
tempi di giudizio, restarono naturalmente quelle classiche: stipendiale e
dell’indipendenza. Tale ultimo tema fu affrontato nel Convegno del 1983, ove si ebbero
accenti “autocritici” e si giunse all’evidenza della necessità di una indipendenza, oltre
che interna ed esterna, anche morale e personale. I tempi più vicini a noi
manifestano, oltre alla persistenza dei temi classici (diritti fondamentali, famiglia,
cittadinanza), il profilarsi di argomenti dettati dai mutamenti sociali: il diritto comune
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europeo, quello regionale, il rapporto tra diritti nazionali e la lex mercatoria, ecc. Il
periodico dell’A.n.m. negli ultimi 25 anni rileva una forte attenzione al tema delle
riforme ed in particolare alle necessità della giustizia civile e penale, oltre che
dell’assetto costituzionale.

IL GIUDICE TRA REGOLA E COSTUME


FILOMENA D’ALTO

La giuridicità deve ormai considerarsi qualità intrinseca dell’agire sociale, potendo


riservare al solo ambito della legalità quel giudizio di valore (politico),
necessariamente successivo al verificarsi del fatto. Ecco perché fatto giuridico e
fatto sociale potrebbero essere usati sinonimicamente. La sociologia del diritto
nasce appunto come sociologia, cioè come scienza descrittiva che, a differenza di
quella giuridica, mira ad analizzare l’ordinamento dall’esterno e assume un punto
di vista empirico nel verificare le modalità di interazione tra le norme e la società
nella quale operano. In particolare, il campo di indagine della sociologia del diritto
si è diramato in due indirizzi: - uno più teoretico, diretto all’approfondimento di
tipici temi della teoria generale del diritto, quale la funzione del diritto nella società
- uno più analitico, rivolto all’analisi degli aspetti positivi e organizzativi della
produzione e dell’applicazione del diritto, quali le problematiche della normazione
o della giurisdizione. Quindi nessuna delle due prospettive, né quella del giurista
né quella del sociologo, esaurisce la conoscenza della materia. Il diritto infatti
esprime la necessità di regolare un fatto sociale per poter assolvere il suo fine
ordinante: deve definire gli assetti emergenti dalle strutture della società, in modo
da attribuire rilievo legale ad alcuni interessi. La sociologia del diritto, invece,
per
assolvere la sua funzione, deve arrestarsi prima, a quel livello sociale di emersione del
comportamento non ancora normativizzato per verificare la corrispondenza (continuamente in
evoluzione) del dato normativo a quello sociale. Il giudice diventa, dunque, trait d’union
tra i due approcci, in quanto mediatore di istanze sociali.
La funzione giudicante. L’organo della giurisdizione è il tribunale, che può definirsi come “una
persona o un insieme di persone che hanno il compito di comporre una controversia cui sono
estranee, esprimendo un giudizio sul suo oggetto”. Dunque ciò che tipizza la
funzione giurisdizionale rispetto a quella legislativa o esecutiva è che essa si esplichi
all’interno di un processo in una situazione di passività, da cui derivano corollari quali
terzietà e imparzialità. Occorre guardare a questi aspetti della funzione
giurisdizionale per individuarne la struttura. Innanzitutto il fine ordinante e
stabilizzante: il processo nasce quando si genera una crisi del diritto, ovvero quando
le regole poste dal legislatore, miranti alla pacifica convivenza, non sono sufficienti a
raggiungere lo scopo. Infatti il diritto non avrebbe ragione di essere in assenza di
conflitto. E così il diritto (soggettivo) non esiste senza azione, cioè senza la
possibilità di renderlo effettivo tramite un giudizio. Altro elemento tipizzante la
funzione giurisdizionale è il processo e il relativo giudicato, espressione ultima di
questo meccanismo. Il processo sembra che voglia svincolare addirittura l’attività
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giudicante dalla sua umanità, richiedendogli una neutralità inumana. Ma ciò non è
sufficiente affinchè si garantisca l’affermazione del diritto- giustizia: è altresì
necessario che il procedimento imbrigli il giudice, ne incanali il percorso logico-
deduttivo, quasi che il giudizio si compia attraverso chi giudica, ma non grazie a lui. In
questo modo la decisione dovrebbe presentarsi come l’unica conclusione possibile.
Tali limiti che si pongono all’interpretazione giudiziale non sembrano incidere sulla
natura della funzione giudicante, esprimendo più propriamente una scelta politico-
istituzionale, che tradizionalmente si traduce in un approccio più o meno positivista.
Tuttavia, una volta compiuta la scelta politica, cioè una volta disegnato il piano
istituzionale dello Stato e la funzione del giudice, necessariamente essa si modula
anche in ragione dei limiti che si pongono all’interpretazione del diritto, poiché
soprattutto in quelli si risolve la sua indipendenza. Ma, anche ragionando a
contrario, si comprende come prevedere l’indipendenza dal potere politico sia stato
necessario proprio perché diversamente il rapporto con quel potere sarebbe stato
inevitabile. L’evoluzione del ruolo del giudice, infatti, è andata di pari passo con la
consapevolezza del ceto magistratuale della propria funzione politica. Del resto Stato
e società appaiono termini di un’equazione continuamente in fieri, con una crescente
preponderanza della seconda sul primo. Ma soprattutto oggi quel che si è
strutturalmente modificato è il modo di intendere l’uomo nella società: questa
modifica si è tradotta in un processo di normazione dei diritti individuali e sociali.
I diritti sociali, così, non esprimono semplicemente il quadro di valori
caratterizzanti una determinata società, ma scaturiscono direttamente dal valore
uomo. E al giudice, ancor prima che al legislatore, si può chiedere che quelle
formulazioni astratte e generali trovino puntuale risconto nella realtà. In definitiva,
la necessità che il giudice venga adito da chi abbia interesse, lo rende strumento
ideale per soddisfare i bisogni dell’individuo nella società contemporanea.

IL GIUDICE NELLA LETTERATURA


FRANCESCO SERPICO

Marcel Jouhandeau nel 1955 partecipò come giurato ad una sessione della Corte
d’assise e a seguito di quell’esperienza riconobbe che la realtà delle aule di
giustizia era diversa da come la immaginava: come egli stesso confessa, la funzione
del giudice gli era sempre sembrata così poco conforme alle responsabilità che un
uomo può assumersi nei confronti di un suo simile da considerarla tracotante e
prevaricatoria. Al contrario aveva trovato invece comprensivo e ricco di tatto il
giudice, così come moderato il procuratore. La confessione di Jouhandeau sembra
esprimere una sorta di familiare diffidenza del letterato nei confronti del giudice:
un sentimento nato dalla consapevolezza che l’immaginario letterario e quello
della giustizia siano intrecciati e quasi sovrapponibili, poiché entrambi connessi al
tema del giudizio e quindi alla continua definizione delle categorie di bene e
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male. E così generazioni di autori hanno raccontato spazi, tempi e forme del
processo: Aristofane, Eschilo, Cervantes, Dickens, Dostoevskij, Brecht, Sciascia, ecc.
In effetti sono stati i giuristi stessi, ancor prima dei teorici e critici letterari, a
fornire spunti di riflessione sui continui scambi e incroci che investono i due
ambiti. Il binomio “Diritto e letteratura”, o “Law and literature”, rinvia ad un
indirizzo di studi nato all’interno dell’università statunitense e sviluppatosi in
seguito al libro “The legal immagination” di James Boyd White del 1973. Le basi
di tale indirizzo sono da rinvenire nel senso di profonda sfiducia nella credenza
che il diritto fosse davvero un sistema concettuale completo, formale e ordinato.
La teoria tradizionale veniva additata come un esempio di concezione ingenua
circa i rapporti tra diritto e cultura, dal momento che considerava la sfera giuridica
deputata a recepire semplicemente valori sociali. In realtà la capacità creativa
del
diritto è ben maggiore poiché lo stesso partecipa alla creazione di quegli stessi valori
che intende tutelare. Esso è in sostanza un’attività creativa al pari dell’arte e della letteratura.
Così il nucleo dell’indirizzo giuslitterario sta nella constatazione secondo cui diritto e
letteratura costituiscono due sfere parallele: entrambe legate alle problematiche relative
al linguaggio, alla retorica, all’ambiguità, all’interpretazione, entrambe attività tese a
circoscrivere, definire e mettere in discussione la realtà sociale attraverso il linguaggio.
Date queste premesse, la ricerca delle convergenze tra diritto e letteratura si è
sviluppata in due direttive: il diritto nella letteratura ed il diritto come letteratura. Il
primo (Law in literature) analizza la presenza di temi letterari legali all’interno del
panorama letterario: ad es. “Il processo” di Kafka o “Il mercante di Venezia” di
Shakespeare. Il secondo (Law as literature) utilizza strumenti presi dalla critica
letteraria per analizzare la struttura e la retorica dei testi giuridici. E così autori come
Jerome Bruner hanno rivolto la loro attenzione ai modelli ricostruttivi che si attuano
all’interno del processo, ai racconti di testimoni, avvocati o giudici in base alle
strutture delle narrazioni e del confronto tra le varie ricostruzioni: secondo l’autore
citato, “un racconto giudiziario non è altro che un racconto narrato in tribunale”.
Poiché all’interno del processo la questione di fatto che ha dato origine alla controversia
non può esistere a prescindere dalle versioni fornite dalle parti, il compito
dell’avvocato è proprio quello di costruire, a partire dal racconto del proprio cliente, una
storia lineare e convincente. Ma del resto anche il provvedimento del giudice può
essere analizzato sulla base della propria connotazione narrativa: il giudice deve offrire
una propria ricostruzione della vicenda narrata che spieghi eventi di causa, ne garantisca
una collocazione coerente, attribuisca ai personaggi specifiche azioni
ed intenzioni e riconosca una disposizione di legge per la sua soluzione.
I testi letterali caratterizzati dalla presenza di temi attinenti alla giustizia possono diversi in 4
categorie: - opere connotate dalla rappresentazione di un procedimento legale o di una sua
significativa articolazione (ad es. “Il mercante di Venezia” di Shakespeare, “I
fratelli Karamazov” di Dostoevskij, “Lo straniero” di Camus) - opere caratterizzate dalla
presenza centrale di un uomo di legge, tramite una narrazione orientata (ad es. i
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romanzi di Dickens) - opere nelle quali una legge o un precetto normativo si
configurano come un tratto strutturale della trama - opere in cui il tema narrativo è
costituito dal rapporto stesso tra giustizia ed individuo e giustizia e società (ad es. “Il
processo” di Kafka) La seconda metà dell’Ottocento coincide con la nascita del romanzo
giudiziario. Non che il processo faccia la sua comparsa solo in questo momento
all’interno dell’immaginario letterario (basti pensare a “Moll Flanders” di Defoe). Tuttavia
è solo dal XIX sec. in poi che si assiste ad una significativa inversione di polarità: le
scritture sulla criminalità, che si incentravano sulla figura del delinquente, cedono il
passo ad una narrazione in cui è la dimensione del processo ad essere centrale. Alla
base di questo mutamento si può scorgere non solo l’effetto della penetrante presenza
della stampa, ma anche di quel processo che costituisce il fulcro della riflessione di
Michel Foucault sulle tecniche disciplinari in cui la pena, da fatto pubblico e spettacolare
(“lo spettacolo dei supplizi”), si tramuta con l’uso massiccio della detenzione
carceraria in un fatto privato e individuale. Il processo diviene dunque un nuovo mezzo
di divulgazione narrativa. È significativo che in Italia la progressiva acquisizione di
centralità del tribunale come contesto per la produzione di storie coincida a livello
cronologico con la nascita dello Stato unitario. Il processo di creazione nazionale portava
con sé i grandi problemi relativi all’unificazione delle mentalità, delle abitudini,
dell’immaginario istituzionale dei soggetti a vario titolo coinvolti nello Stato unitario. E
tale esigenza poteva trovare proprio nel tribunale il luogo simbolo di costruzione
della cittadinanza proprio per la capacità del processo di elaborare le singole storie
presenti sullo sfondo della costruzione dello Stato unitario. A parte l’ambientazione
processuale, il tratto caratteristico di questi romanzi giudiziari fu la moltiplicazione dei
piani narrativi e delle diverse versioni dei fatti che si sviluppavano all’interno della
trama. A differenza dei romanzi gialli in cui il fulcro della storia sta nel risponde alla
domanda “chi ha fatto cosa”, in questi la narrazione si articola intorno alla domanda
“perché l’ha detto”. Il lettore infatti conosce assai presto l’autore del delitto ed è
orientato a soffermarsi sul caso di giustizia attraverso la pluralità di voci che il processo
mette in campo: il ruolo del giudice e quello del lettore finiscono per identificarsi.
Naturalmente vi erano poi anche variazioni sul tema. Particolarmente significative sono
state le rappresentazioni letterarie della figura del magistrato, visto come dotato di
penetranti poteri di ricostruzione e di accertamento del fatto: l’esempio è quello di
Porfirij Petrovic in “Delitto e castigo” di Dostoevskij. Ancora, l’ambientazione processuale
si lega a volte alla denuncia dell’inefficienza della giustizia, della farraginosità delle
procedure, della macchinosità dei suoi apparati: l’esempio è stavolta quello de “I
fratelli Karamazov” dello stesso Dostoevskij. Questa stessa suggestione è presente anche
nel naturalismo francese e in particolare in Emile Zola. In effetti proprio il tema toccato
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da Zola della relazione tra malattia e devianza era destinato ad alimentare in Italia il
dibattito della c.d. scuola positiva
di Ferri, Lombroso e Garofalo.
Nel Novecento, col venir meno tutti i valori tradizionali, si verifica altresì una crisi di
credibilità del mondo giudiziario: la goffa maestosità della macchina giudiziaria diviene il
simbolo di una profonda incomunicabilità delle ragioni della giustizia. Sicuramente la maggior
testimonianza in tal senso è il “Processo di Kafka”, ma si può citare anche “Lo
straniero” di Camus, in cui si mette in scena quel sentimento di estraneità e
dell’impossibilità di attribuzione di senso al sistema della legge e dei suoi
meccanismi. Dopo la caduta del regime fascista , la letteratura italiana affrontò i
traumi prodotti dalla dittatura e il senso di profonda incertezza in cui versava il
Paese: il tema è quello della giustizia di transizione, del processo come strumento
per ristabilire la verità storica e come meccanismo per chiudere i conti col passato
(si pensi al processo di Norimberga). Ma gli anni del dopoguerra sono segnati
soprattutto da storie narrate dagli stessi attori del mondo della giustizia, da cui si
evince quell’ansia di partecipazione connessa a quella “rivoluzione promessa
(secondo l’espressione di Calamandrei) legata alla Costituzione. È questo il caso del
“Diario di un giudice” di Dante Troisi, dolente e appassionato resoconto della sua
carriera di pretore. C’è però un altro autore fondamentale che si lega
indissolubilmente alle tensioni connesse al tema della giustizia nell’Italia
repubblicana: Leonardo Sciascia, il quale tratta del rapporto tra giustizia e politica e
di quello tra autorità e libertà.

IL PALAZZO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PENA: ARCHITETTURA E


GIURISDIZIONE La città inventa la magistratura. Weber individua due condizioni
essenziali della vita sociale: - un giuramento collettivo, patto tra uomini che sceglievano
di vivere insieme - un giudice, cioè l’affidamento ad alcuni tra loro di
una potestà importante: giudicare le violazioni dell’accordo sociale.
Nel medioevo le mura della città rappresentavano, così, anche il limite della giurisdizione. Ma
tutte queste considerazioni perdono senso, perché non riescono a comprendere a pieno il
senso essenziale del fenomeno urbano. La città, per le sue dimensioni e le sue
complessità, diventa altro rispetto al foro ed al mercato; ma è comunque necessario il
legame tra queste per comprenderla. La città-mercato diventa un ponte che unisce i
suoi abitanti all’organismo che la contiene. Infatti, a seguito dello sviluppo
dell’economia di mercato, l’intensificazione degli scambi, la

circolazione monetaria, si è entrati in un mondo astratto e rappresentativo della merce.


Nell’epoca più moderna, la dicotomia stato-città è meno netta: le magistrature
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diventarono altro rispetto a quanto previsto nell’atto della loro fondazione: le corti
supreme e quelle di cassazioni rendevano partecipe il magistrato al potere politico. Si
svilupparono
grandi tribunali per dare uniformità all’applicazione della legge: ma comunque le
corti di giustizia intermedie e di grado inferiore erano strettamente legate alla
città, perché i primi giudici erano i soli ad amministrare la giustizia (il processo
non arrivava al secondo grado per mancanza di impugnazione o perché erano
incaricati loro stessi a decidere sull’appello). Le funzioni dei magistrati erano
assimilabili a quelle di un mandato; i giudici di vertice si relazionavano con gli
altri poteri, perché rappresentavano lo stato, e non solo il ceto.

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