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Dobbiamo considerare che le sentenze dei giudici sono quelle a più diretto contatto con le
conflittualità che si manifestano nelle comunità e in costante svolgimento al loro interno.
Le leggi, certamente, dettano regole e dettarle significa intervenire sui processi da
disciplinare. Per definizione, tuttavia, esse sono generali ed astratte, non realizzano
alcunchè. Perché le situazioni conflittuali che sono chiamate ad integrare trovino
effettiva sistemazione sulla base dei criteri delineati dalle norme, è necessario un
ulteriore segmento: l’intervento del giudice. Del resto il legislatore può anche non
prendere posizione, così come lo scienziato del diritto non produce effetti immediati
con la sua opera. Per il giudice la cosa è ben diversa, in primis perché egli non sceglie
l’oggetto delle sue pronunce: il giudice è chiamato nel conflitto quando questo giunge
ad un certo grado, e di regola non può negarsi. Nel far ciò, tuttavia, il giudice
potrebbe trovarsi di fronte ad ulteriori conflitti all’interno dello stesso conflitto di
interessi: basti pensare alla possibilità di sollevare una questione di legittimità C’è un
lemma centrale a proposito della Magistratura, che è quello di “indipendenza”, e che si
lega ad un sintagma “separazione dei poteri”: l’una espressione sostiene l’altra, al fine di
assicurare quella neutralità del giudice che è la proprietà peculiare della sua funzione.
Infatti il giudice giudica nell’interesse della risoluzione del conflitto e nulla della sua
azione è condiviso con le parti, se non l’ambiente artificiale del processo. Insomma il
giudice non potrebbe assolvere ai compiti che gli sono assegnati in un regime
sinceramente democratico, se fosse sottoposto ai condizionamenti degli altri poteri. In
sostanza indipendenza e separazione tra i poteri vanno associate ad una concezione
evolutiva del diritto, aperta a cogliere il nuovo e quindi l’“anticonformista”. È indubbio
poi che tale endiadi sia andata incontro ad un mutamento di significato nel corso del
tempo.
loro di fare quello che avrebbero voluto fare anche in precedenza, ma che non avevano
potuto fare: lo statuto fu l’occasione per riequilibrare il divario sociale. Si è trattato di
un processo che, una volta avviato, non si è più arrestato per lungo
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di perdere il ruolo di unico vertice della magistratura, dall’altro i timori dei governi
dell’epoca di veder scemare il controllo del Ministro della giustizia sulla
magistratura. Così Calamandrei parlò addirittura di “ostruzionismo di maggioranza”.
Del resto, da una parte la larga maggioranza della classe dirigente italiana si era
formata durante il regime fascista e quindi non aveva dimestichezza con gli istituti
pluralisti propri di una moderna democrazia; dall’altra il periodo che va dall’entrata
in vigore della Costituzione ai primi anni ’60 vede l’Italia impegnata in un’opera di
ricostruzione che lasciava pochi spazi ad evoluzioni. L’associazione nazionale
magistrati italiani, sin dal IV congresso del 1948 a Firenze (il primo dopo lo
scioglimento del 1925), si pone come obiettivo la riforma dell’ordinamento
giudiziario ed, in particolare, l’attuazione del C.s.m. Così nel 1951 propose uno
“schema legislativo sul C.s.m.”, poi largamente disatteso dalla legge del 1958, secondo
il quale: - i suoi componenti venivano ripartiti nelle categorie di Cassazione, appello
e tribunale - il Consiglio presentava al Ministro segnalazioni e proposte sulla giustizia -
esso esprimeva altresì un parere obbligatorio sui disegni di legge relativi
all’ordinamento giudiziario e un parere facoltativo sui disegni di legge in materia
civile e penale - infine presentava ogni anno al parlamento e al governo una relazione
sul funzionamento della giustizia nell’anno precedente.
Peraltro nel 1948 la cultura egemone nell’A.n.m.i. era ancora quella della Cassazione
di una magistratura costruita secondo un modello gerarchico e chiusa rispetto al
dibattito della società. Solo la rilettura della Costituzione porta ad un mutamento di
prospettiva: fondamentale in tal senso fu la MOZIONE APPROVATA NEL 1957 al
Congresso di Napoli. Il testo esordiva con la proclamazione della “assoluta parità” di
tutti i magistrati, e, quanto al C.s.m., che esso “abbia pieno e libero potere di
iniziativa, senza che questa soffra alcuna limitazione dalle facoltà conferite al
Ministro della giustizia; che abbia composizione paritaria tra le varie categorie dei
magistrati; che sia accolto il sistema di elezione diretta dei componenti magistrati,
assicurando la parità di voto a tutti gli elettori”. Appena due settimane dopo tale
congresso, la Cassazione si riunì per approvare un documento che ribadisse il
principio gerarchico. Si comprende come, l’attuazione del CSM, sia stata
contrastata dalla Cassazione che temeva di perdere il ruolo di unico vertice della
magistratura: è per questo che fino al 1958 la Costituzione rimarrà ancora
inattuata. Essa stabilisce infatti che i magistrati si distinguono tra di loro solo
per le funzioni: non esiste
magistratura alta o bassa.
Bisognerà attendere la L. 195/1958 perché sia attuato il dettato costituzionale ed
istituito il
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L’ECCESSO DI MOTIVAZIONE
MASSIMO TITA
La motivazione ha subito fondamentali cambiamenti negli ultimi tempi, tanto da far ritenere
che quell’antica garanzia di intelligibilità e certezza si sia trasformata in una causa di opacità
del giudizio: le troppe parole di cui essa oggi si compone equivalgono all’assenza di
comunicazione. Per comprendere il fenomeno abbiamo due tipi di cause: uno culturale,
l’altro politico. Quanto al primo profilo, la storia del diritto continentale ha visto il
ruolo dei giudici contrastato da quello degli studiosi: la giurisprudenza qui segue ed è
dominata dalla dottrina, esattamente al contrario di quel che accade nei sistemi di
common law. Così, “mentre i grandi nomi della common law sono quelli dei giudici, i
grandi nomi della civil law sono quelli dei dottori della legge”. La conseguenza è che la
forma e lo stile delle sentenze italiane imita pedissequamente gli scritti dottrinali: il
giudice scrive sentenze che dimostrano la sua abilità a muoversi nell’ambiente
dottrinale, così che nelle sentenze predominano l’astrattezza e il concettualismo della
dottrina. La nostra è, in definitiva, una giurisprudenza imitativa e non creativa, con un
assetto esattamente opposto a quello anglosassone: caratterizzata da estese motivazioni
che riproducono la dottrina. Per capire perché le nostre sentenze somiglino a trattati
dobbiamo spingerci fino al ‘700 e porre un confronto con la Francia. Qui si nota che gli
illuministi diedero nulla o scarsa attenzione al tema dei motiva: Montesquieu
nell’“Esprit des lois” scriveva una pagina sulla sola “maniera di formare le sentenze”;
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Diderot e D’Alambert nell’“Encyclopedie” non prevedevano la voce “motivazione”;
Rousseau nel “Contratto sociale” dedicava poche notazioni alla magistratura, sebbene
sarebbe stato nella logica del contratto sociale imporre al giudice di dover giustificare
la propria sentenza; Voltaire non si preoccupò di sapere come si formulasse una
sentenza. Eppure ben presto in Francia l’obbligo di motivazione delle sentenze
divenne una delle istanze più solide dell’illumismo.
In Italia il livello della discussione era più avanzato: a Napoli, già dal 1745, Bernando
Tanucci affermava che giustizia potesse esservi solo “ove i giudici giudicassero colle
ragioni, e non usassero i geroglifici, gli incantesimi, la superstizione”; sulla stessa
scia, Gaetano Filangieri affermava che “i magistrati, liberi di giudicare a loro talento,
sono un corpo di despoti”. Ancora Niccola Nicoloni ritenne che la motivazione
fosse un conto reso dai magistrati al governo ed al pubblico. Eppure, quando nel
1774 fu emanata una legge che obbligava a motivare le sentenze, l’opposizione fu
fortissima. Fino a quel momento la facoltà riconosciuta ai giudici di non rivelare le
ragioni dei loro responsi provocava per il sistema giurisdizionale una chiusura di
tipo scientifico e sociale: il non motivare le sentenze ha rappresentato per lungo
tempo uno schermo dietro al quale la magistratura potesse svolgere la propria
azione senza controlli. Perciò con l’obbligo della motivazione, la situazione mutò
radicalmente: sul piano teorico la motivazione assolveva la funzione di persuasione
degli sconfitti, sul versante pratico quella ad evitare impugnazioni o a consentire il
controllo della legittimità e del merito delle decisioni. Affinchè possa avere questa
funzione, però, bisogna che la decisione giudiziaria sia definitiva, chiara, razionale
e logica; “non deve mai fondarsi su di una petizione né ammettere per dimostrato
ciò che si deve dimostrare: la questione non va risolta con la questione”. La
motivazione così diventa e resta uno strumento di legalità e un mezzo di giustizia
unico. In definitiva, usando le parole di Roberto Vacca, certamente la ratio decidendi
rappresenta in primis un mezzo per provare l’esattezza delle operazioni logiche
che dovrebbero giustificare la decisione: la motivazione dovrebbe cioè avere lo
stesso valore logico della dimostrazione di un teorema. In secondo luogo la
motivazione è altresì un indice della mentalità dei giudici, in quanto riproduzione
del procedimento psicologico svoltosi nella mente del giudice. Eppure, “chiunque
abbia una certa esperienza del modo con cui si viene effettivamente formando
l’opinione dei giudici, può facilmente comprendere da quale ammasso di
incoerenze, incertezze, dubbi dovrebbe essere costituita la motivazione delle
sentenze”. Succede che in realtà “solo quando l’opinione è già formata interviene il
ragionamento che deve giustificarla”. “Nella maggior parte dei casi, infatti, il giudice
medio non si cura affatto della corrispondenza tra l’intimo convincimento e
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l’espressione scritta, ma si limita a raccogliere in dottrina e giurisprudenza quegli
argomenti che possono dare alla tesi da lui sostenuta un aspetto esteriore di
coerenza logica”. Diverso è allora il caso di giudici dotati di una mentalità molto
superiore o molto inferiore alla media: i primi hanno il coraggio di fare una scelta
tra gli argomenti, rigettando quelli che non li persuadono sebbene comuni; i
secondi non esitano a riferire nelle loro motivazioni anche gli argomenti più
assurdi. Eppure in entrambi i casi le motivazioni godono di maggior spontaneità, e
permettono quindi di ricostruire la mentalità del singolo giudice (c.d. equazione
personale del giudice).
Nei paesi continentali l’obbligo di motivazione è nato da una diffusa sfiducia nel potere
giudiziario, al contrario in Inghilterra non esiste obbligo di motivazione: ciò può giustificarsi
per il prestigio di cui godono i giudici in seno alla società. Quindi, mentre le motivazioni
sono state introdotte nel nostro sistema per limitare il potere dei giudici, al
contrario in Inghilterra sono state volute dai magistrati delle giurisdizioni superiori
per assumere una funzione scientifica e didattica, ben delineata da Renè David.
Infatti “quando il giudice inglese spiega le sue ragioni non lo fa solo a beneficio delle
parti di quel processo, ma il suo discorso è rivolto altresì agli studenti di diritto” che
studiano attraverso la lettura dei precedenti. Si spiegano così la
consuetudine propria dei
giudici superiori di motivare le sentenze e la ricchezza delle argomentazioni, a volte perfino
eccessiva. Tuttavia permangono delle differenze tra i sistemi di civil law e common law a
proposito delle motivazioni: nei primi il modello della giustificazione è deduttivo,
perché il diritto parla attraverso un codice completo ex ante; al contrario nei secondi
è affidato alle motivazioni un ruolo creativo, in quanto il diritto è percepito come un
fenomeno storico in continua evoluzione.
IL GIUDIZIO COSTITUZIONALE
DARIO LUONGO
Il presidente della Commissione dei 75, Meuccio Ruini, definì il confronto in corso sulla
Corte costituzionale “un tumulto improvvisato di discussioni”: esso era reso ancor più
difficoltoso dalla mancanza di precedenti nell’esperienza costituzionale italiana e di univoci
punti di riferimento in quelli degli altri Paesi. Con la redazione di una costituzione
rigida l’Italia si poneva sulla scia del nuovo costituzionalismo del ‘900, abbandonando il
legicentrismo tipico del pensiero illuministico. I testi costituzionali emanati in seguito
alla Rivoluzione francese avevano previsto il primato della legge come espressione della
volontà generale, rifiutando l’idea di un giudice costituzionale, e dunque l’emergere di
quella “sovranità della costituzione” che si ebbe invece negli Stati Uniti. L’idea del primato
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della costituzione fu sostanzialmente estranea anche all’‘800, per poi rappresentare il
perno della teoria di Hans Kelsen. Del resto, ai primi del ‘900, con l’irrompere del
pluralismo (partiti, sindacati, associazioni) era entrata in crisi la tradizionale visione
monistica della sovranità: occorreva ricomporre la frattura ad un livello più alto, facendo
della costituzione la cornice entro cui far vivere il pluralismo. Un primo elemento di
rigidità fu introdotto nell’ordinamento italiano già in epoca fascista, con la l.
2693/1928, che prescrisse l’obbligatorietà del parere del Gran consiglio del fascismo sulle
questioni costituzionali, senza però prevedere che le leggi riguardanti quelle materie
acquistassero un’efficacia superiore a quelle ordinarie. Dopo la caduta del fascismo,
molti partiti proposero programmi per la creazione di una corte costituzionale:
Democrazia cristiana, Partito d’azione, Partito repubblicano, Uomo qualunque, Partito
liberale, Partito socialista. La più grande opposizione era quella del Partito comunista, che
riteneva necessario non consentire che la funzione legislativa potesse essere condizionata
da un organo che non fosse espressione della sovranità popolare. Ma quel punto di vista
dipendeva, oltre che dalla convinzione che nel ceto giuridico fossero dominanti
orientamenti politici di impronta conservatrice, da un insufficiente apprezzamento della
rilevanza del momento giuridico-istituzionale. Ecco perché il Partito comunista
propendeva per l’affidamento del controllo di costituzionalità ad un organo politico e non
giurisdizionale, avente caratteristiche non dissimili dall’Assemblea costituente. Ma anche
tra coloro i quali appoggiavano la Corte, gli orientamenti erano del tutti diversi.
Calamandrei riteneva che non potesse del tutto escludersi la magistratura dal controllo di
costituzionalità delle legge e che ogni giudice dovesse avere il potere di decidere se
risolvere il dubbio di costituzionalità autonomamente o rimandarlo alla corte. Inoltre la
stessa pronuncia di incostituzionalità, secondo Calamandrei, doveva essere meramente
indicativa, perché dovevano essere le assemblee legislative, su impulso del governo, a
poter caducare o modificare la disposizione. Attribuire alla corte una potestà di
annullamento delle leggi avrebbe comportato infatti una violazione del principio della
separazione dei poteri. Per il democristiano Cappi, invece, la corte poteva essere adita
qualora le parti non concordassero sulla pronuncia del giudice in merito alla questione
di costituzionalità. Un altro democristiano, Leone, dissentiva apertamente dalle teorie di
Calamandrei, essendo tra i primi a configurare la Corte costituzionale come un organo
abilitato ad annullare le leggi in quanto posto al di fuori dei tre tradizionali poteri. Vi erano
poi discussioni delicate anche sulla composizione. La proposta di Calamandrei di far
eleggere dalla magistratura stessa dei magistrati che sarebbero diventati la metà dei
componenti fu respinta. Prevalse la tesi per cui avrebbe dovuto essere eletta
dall’Assemblea nazionale. Nel testo approvato dalla commissione dei settantacinque era
previsto che i suoi componenti fossero per metà magistrati, per un quarto avvocati e
professori universitari e per un quarto cittadini eleggibili agli uffici politici; inoltre fu
previsto che il giudizio di costituzionalità potesse essere attivato sia in via incidentale
che in via principale(ad opera del Governo, di 50 deputati, di un Consiglio regionale o
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di almeno 10000 elettori). Il liberale Einaudi dissentì apertamente dal testo approvato,
propendendo per un sindacato diffuso: secondo Einaudi, il succedersi di pronunce di
incostituzionalità di una stessa legge da parte dei giudici comuni non avrebbe potuto non
indurre il legislatore ad abrogarla. E ancora, quando nel marzo 1947 si tenne il
dibattito sul testo della Costituzione, contro la Corte si levarono autorevoli voci critiche,
in primis due ex Presidenti del consiglio, Nitti e Orlando: il primo affermò polemicamente
di non aver compreso cosa fosse la Corte; il secondo espresse il proprio scetticismo
sulla possibilità che i magistrati, che avrebbero dovuto costituire la metà della corte,
avessero sufficiente energia per contrastare il potere politico. Quando, poi, nel dicembre
dello stesso anno, si affrontò la discussione sulla Corte costituzionale, Nitti ribadì le sue
critiche circa quell’organo che appariva come “una mischianza di giudici e di politicanti”,
preferendo affidare il giudizio di costituzionalità alla Cassazione e al Consiglio di Stato. Ma
vi furono anche voci favorevoli: il democristiano La Pira sostenne che l’istituzione della
corte fosse inevitabile conseguenza della scelta di una costituzione proiettata verso
l’avvenire; il socialdemocratico Paolo Rossi escludeva che le magistrature più elevate
(Cassazione e Consiglio di Stato) potessero costituire un saldo presidio a tutela delle
istituzioni democratiche, memore del sostegno dato al consolidamento del fascismo. Per
quanto riguarda la composizione, il comunista Gullo sostenne la necessità che la corte
avesse una connotazione politica, non giurisdizionale, fino a proporre che i suoi
componenti non assumessero neanche la qualifica di giudici. In netta opposizione
Costantino Mortati proponeva di attribuire al Presidente della Repubblica il potere di
nomina dei componenti dell’intera Corte, cancellando del tutto il potere di nomina
parlamentare. Si arrivò ad un tentativo di mediazione con Tommaso Perassi, con un
emendamento che proponeva che la Corte fosse nominata per 1/3 dal presidente della
Repubblica, per 1/3 dal Parlamento e per 1/3 dal C.s.m. (sostituito poi, nella successiva
formulazione del testo, dalle supreme magistrature ordinaria e amministrative). Lo stesso
emendamento prevedeva, inoltre, che la corte fosse composta da professori ordinari di
materie giuridiche, (nella successiva formulazione magistrati delle giurisdizioni superiori
ordinaria e amministrative) e da avvocati con 20 anni di esercizio. Era un assetto che non
poteva essere condiviso dalle sinistre (comunisti e socialisti), perché era un
arretramento rispetto al quadro delineatosi fino a quel momento: i comunisti, quindi,
proposero che la Corte fosse nominata per 1/3 dalla Camera, per 1/3 dal Senato e per
1/3 dai Consigli regionali; i socialisti per 1/3 dal Presidente della Repubblica, per 1/3
dalla Camera e per 1/3 dal Senato. Quanto invece alla composizione della Corte, i
comunisti proposero che le nomine dovessero essere del tutto libere; i socialisti
proposero che avessero una specifica qualificazione tecnica i soli componenti nominati
dal Presidente. Ma le proposte di entrambi i partiti furono respinte. Permanevano però
incertezze sull’opportunità di attribuire alla Corte piena potestà di annullamento.
Per Mortati le sentenze di accoglimento dovevano determinare la sospensione,
non la cessazione di efficacia delle leggi. Per Perassi doveva essere indicato da parte
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della Corte un termine entro cui cominciava ad avere effetto la cessazione di
efficacia della legge. Nessuna delle due proposte fu accolta. A fare chiarezza sulle
modalità con cui avrebbe dovuto essere attivato il sindacato di legittimità intervenne
la L. COST. 1/1948, la quale sancì che il ricorso poteva essere promosso solo in via
incidentale. Restava da decidere il quorum necessario per la nomina dei membri
eletti dal Parlamento: Tesauro, Sturzo e più in generale la Democrazia cristiana
appoggiavano l’idea di una maggioranza semplice, che avrebbe finito per tagliare
fuori le opposizioni. Così la L. 87/1953 stabilì piuttosto che l’elezione dei giudici
avvenisse col quorum dei 3/5 dei componenti del
Parlamento nelle prime due votazioni e dei 3/5 dei votanti nelle successive.
Le elezioni della componente parlamentare si protrassero per quasi 3 anni, per cui l’entrata
in funzione della corte fu rinviata al 1956. Durante questo periodo il sindacato di
costituzionalità, in base alla VII disposizione transitoria della Costituzione, era stato svolto
dalla
magistratura (peraltro ridimensionando sensibilmente la portata innovativa della Carta,
soprattutto in merito all’esercizio delle libertà). L’Avvocatura dello Stato, infatti, faceva
sue due tesi: innanzitutto quella secondo cui erano prive di efficacia immediata persino
le disposizioni della Costituzione attinenti alla libertà personale; in secondo luogo
quella secondo cui le questioni di legittimità costituzionale relative alle leggi anteriori
all’entrata in vigore della Costituzione erano inammissibili, dovendo essere risolte dai
giudici comuni secondo il criterio cronologico. Entrambe le tesi furono confutate dalle
prime sentenze della Corte costituzionale, che attennero specialmente a disposizioni del
T.U. di pubblica sicurezza del 1931, al fine di superare quella parte della legislazione
precostituzionale che maggiormente rifletteva una concezione autoritaria del potere.
E così la Corte affermò la propria competenza esclusiva “a giudicare sulle controversie
relative alla costituzionalità delle leggi e degli atti aventi forza di legge” e che l’art. 13
Cost. era una disposizione precettiva (non programmatica) “compiuta, completa e
categorica” (sent. 1/56). Una sentenza interpretativa di rigetto fu già quella in tema di
responsabilità del direttore del giornale per fatto altrui ex art. 57 c.p. La Corte di certo
non temeva di porsi in contrasto col governo, ma piuttosto di poter finire per creare
dei vuoti normativi. Così la sentenza interpretativa di rigetto veniva usata per
plasmare gli orientamenti interpretativi della giurisprudenza, per svolgere “un’opera di
pedagogia costituzionale”. Qualora poi i giudici non si fossero uniformati
all’interpretazione della Corte, sarebbe stato sempre possibile adottare in seguito una
sentenza di accoglimento: ecco dunque la prassi delle c.d. doppie pronunce (sent.
3/1956). Questo attivismo provocò contrasti molto accesi tra la Corte di cassazione e la
Corte costituzionale. In particolare ci fu una sentenza riguardante l’assenza del difensore
all’interrogatorio dell’imputato (sent. 190/1970), che scatenò una vera e propria guerra
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fra corti. Era stata eccepita, per violazione dell’art. 24 Cost., l’illegittimità dell’art. 303
c.p.p. che consentiva la partecipazione del p.m. all’interrogatorio dell’imputato. Il p.m.
del processo a quo sosteneva la mancanza dell’oggetto stesso di una pronuncia della
Corte, non essendovi in materia una norma attributiva di poteri al difensore e non
potendo il sindacato costituzionale
esercitarsi su 11
una norma inesistente. Ma la Corte si avvalse della tecnica della DECISIONE MANIPOLATIVA,
sindacando la disposizione legislativa non per quello che prevedeva, ma per quello che non
prevedeva: dichiarò illegittimo l’art. 304 bis c.p.p. limitatamente alla parte in cui
escludeva il diritto del difensore di assistere all’interrogatorio. La Corte di cassazione
rifiutò di adeguarsi alla pronuncia della corte costituzionale, tanto che dovette
intervenire il governo con un decreto legge per imporre il rispetto della pronuncia della
Corte costituzionale. Ma accanto all’impiego della tecnica della manipolazione, divenne
sempre più massiccia l’ATTIVITA’ MONITORIA della Corte, consistente nel dettare
indirizzi e suggerimenti al legislatore. Infatti, già durante il primo periodo della sua
attività, nelle sentenze interpretative di rigetto il salvataggio della disposizione si
accompagnava spesso all’invito rivolto al Parlamento a disciplinare la materia in modo
da escludere ogni dubbio di incostituzionalità. Negli anni seguenti si giunse alla
predisposizione di veri e propri “decaloghi” rivolti al legislatore. Si ebbe così una tecnica
non dissimile da quella delle doppie pronunce, sperimentata nei confronti della
magistratura: la Corte dichiarava l’infondatezza della questione di legittimità
costituzionale, ma si riservava di dichiarare incostituzionale quella stessa legge in caso
di inerzia del legislatore. Discorso a parte merita il REFERENDUM ABROGATIVO, che
aveva conosciuto attuazione con la L.352/1970, ma che per la lacunosità della
disciplina fu integrato dalle sentenze della Corte costituzionale. Con la sent. 16/1978 la
Corte estese l’inammissibilità del referendum ben oltre le categorie previste dall’art. 75
co. 2°, escludendo che potessero esserne oggetto le leggi costituzionali e quelle a
contenuto costituzionalmente vincolato. Altro limite era l’impossibilità di effettuare un
referendum abrogativo su materie eterogenee.
Proprio le sentenze degli anni ’70 permisero a Stefano Rodotà di segnalare il rischio
che la Corte costituzionale potesse riscrivere intere discipline legislative, come aveva già
fatto per il referendum, assumendo una posizione orami stabile negli equilibri politici.
Modugno sosteneva che le forme assunte dalla presenza della Corte erano inevitabile
conseguenza dei caratteri della Costituzione: era stata l’abbondanza di clausole
generali e i vari principi a renderla tale; per questo egli non riteneva censurabile il
comportamento della Corte, ma riteneva che dovesse esercitare il suoi poteri in modo
più trasparente, senza nascondersi dietro vaghe formulazioni di principio. Zagrebelsky
invece era molto critico verso le c.d. “sentenze-leggi” della Corte, pronunce
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caratterizzate da un alto tasso di creatività. Distingueva inoltre due tipi di tali sentenze:
quelle che la Corte adottava per evitare di produrre lacune a causa dell’inerzia del
legislatore, e quelle che essa utilizzava come pretesti per poter imporre un proprio
orientamento legislativo. Nel primo caso la Corte avrebbe dovuto avere maggiore
coraggio, adottando sentenze di accoglimento pure e semplici; nel secondo maggiore
cautela adottando sentenze di rigetto pure e semplici. Tuttavia di recente lo stesso
Zagrebelsky ha visto in quelle sentenze manipolative un elemento di armonizzazione
fra ius e lex, teso a ribadire i valori giuridici. Dalla seconda metà degli anni settanta sono
diventati sempre più frequenti i richiami della corte al diritto vivente, quello
effettivamente applicato nei tribunali. Già nel Congresso dell’A.n.m. tenutosi a Gardone
nel 1965 era stata approvata una mozione che attribuiva ai giudici il compito di
avvalersi del parametro costituzionale nell’interpretazione della legge e di applicare
direttamente la Costituzione: insomma si volle sensibilizzare i magistrati all’esigenza di
effettuare interpretazioni costituzionalmente orientate. Nella prima metà degli anni
ottanta la Corte dovette fare i conti con esigenze di natura pratico-organizzativa (legate
alla necessità di smaltire il cospicuo arretrato), e perciò si registrò un aumento del
ricorso alle dichiarazioni di inammissibilità, prima ben più rare. A partire dagli anni
novanta, invece, la Corte fu costretta a rapportarsi con la crisi della finanza pubblica:
divenne frequente l’opera di bilanciamento di interessi e di valori costituzionali, tesa a
contemperare l’attuazione del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost. con la
disponibilità di risorse economiche pubbliche. Per ridimensionare l’impatto delle sue
pronunce sulla finanza pubblica, iniziò persino ad adottare sentenze d’incostituzionalità
sopravvenuta, così da evitare costi della retroattività, e sentenze additive di principio
(sentenze di accoglimento che rinviavano al legislatore la scelta di tempi e modi per
reperire le risorse necessarie a darvi
attuazione).
Problemi sorsero circa i rapporti tra Corte costituzionale e magistratura ordinaria a proposito
del
c.d. caso Englaro. Nel 2007, infatti, la Corte di cassazione aveva individuato in via
interpretativa le condizioni che avrebbero potuto consentire d’interrompere
l’alimentazione e l’idratazione artificiale e la Corte d’appello di Milano ne riscontrò le
condizioni. Il Parlamento quindi elevò un conflitto di attribuzione per lesione delle
attribuzioni legislative, per cui l’autorità giudiziaria si sarebbe avvalsa di una funzione
giudiziaria per modificare la legislazione vigente. La Corte costituzionale ritenne
inammissibile il ricorso del Parlamento. Ma in generale, la corte costituzionale, si era e si
è sempre mostrata rispettosa delle prerogative parlamentari. A differenza dei casi
precedenti, nel conflitto relativo al caso Englaro era in gioco la salvaguardia della libertà
interpretativa della magistratura dalle ingerenze del Parlamento. Libertà interpretativa
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che la Corte di cassazione non ha mai smesso di rivendicare nei confronti della stessa
Corte costituzionale anche di
recente: le
sentenze interpretative della Corte costituzionale, per la Corte di cassazione, non sono da
ritenere un’interpretazione autentica della legge e non impongono di sollevare una nuova
questione di costituzionalità al giudice che non ritenga possibile conformarsi
all’orientamento
interpretativo in esse accolto, costituendo nient’altro che un precedente autorevole
quando siano sorrette da argomentazioni persuasive. Ricordiamo inoltre la sent.
356/1996, con cui la Corte costituzionale aveva sancito l’obbligo
dell’interpretazione conforme a Costituzione, precisando che “le leggi non si
dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni
incostituzionali, ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali”. La
dottrina, però, non nasconde che il criterio dell’interpretazione conforme potrebbe
portare ad un arbitrio giurisdizionale. Ma comunque non sono mancati frutti
positivi, così che oggi non si dubita della bontà della “scelta coraggiosa” dei
costituenti di dar vita ad un organo che incrinasse il mito legicentrico.
infatti esteso il controllo del giudice di diritto sul merito. Insomma ormai, secondo
alcuni critici, l’unica differenza tra la Corte di cassazione e la Corte suprema di
revisione era che la prima non poteva modificare la sentenza impugnata. Ma
c’era da auspicare la possibilità di riforma immediata della sentenza d’appello per
ragioni di puro diritto, che avrebbe potuto eliminare tutta quella perdita di tempo
che deriva dal giudizio di rinvio. Ludovico Mortara, uno dei più importanti
presidenti della Corte di cassazione, era cosciente del fatto che in Italia la
dimensione effettiva del diritto poteva essere garantita solo dall’interprete, una
volta che la legge si fosse staccata dal legislatore, per “prendere vita” attraverso
l’interpretazione “evolutiva” della Cassazione. Ciò non mutava il ruolo della Corte,
ma si prendeva coscienza del fatto che la legge non ha sussistenza prima del
suo momento applicativo e l’interpretazione interviene a ravvivarne il significato: si
trattava dunque di una renovatio. Mortara aveva due opinioni diverse
sull’accentramento della cassazione civile e di quella penale: - quanto alla prima,
essa perseguiva “la dichiarazione della verità”. Secondo Mortara il giudizio
d’appello funzionerebbe soltanto come continuazione del giudizio di prima istanza,
senza che vengano aggiunti nuovi elementi di fatto: ciò sulla base
dell’uguaglianza delle condizioni tra lo stato della controversia in primo grado e in
appello (si parla di “doppio esame ed unico giudizio”). Infatti, laddove si fosse
ammessa l’introduzione di nuove prove nel contraddittorio di appello, si sarebbe
resa possibile la correzione del giudizio in tale sede rispetto alla prima istanza, in
contrasto con quanto previsto dall’art. 490 c.p.c. del 1865. A parere di Mortara,
l’unico mezzo di riesame della questione giuridica doveva essere la Cassazione: è
solo in Cassazione che la controversia rimane immutata in modo da poter
accertare se il giudice inferiore abbia emesso una statuizione corretta. Andava
quindi eliminata la pratica del rinvio ad un tribunale diverso da quello che aveva
pronunciato la sentenza cassata. - quanto alla seconda, perseguiva piuttosto “la
persuasione della sicurezza”. Per questa materia, Mortara era favorevole alla
conservazione delle corti regionali, data la minore ampiezza del campo, così che
la giustizia penale potesse restare più vicina ai cittadini. Mariano D’Amelio, primo
presidente della Corte suprema di cassazione dal 1923 al 1941, sostiene che la
cassazione, a differenza degli altri organi giurisdizionali, completa la legge.
Persino la distinzione tra revisione tedesca e cassazione perderebbe importanza,
dato che entrambe registravano esigenze sociali in trasformazione, essendo la
giurisprudenza un “organismo vivente”. Insomma la giurisprudenza è
inevitabilmente soggetta ad evolversi, per cui le divergenze in essa presenti non
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L’ordinamento giudiziario nel regno d’Italia, regolamentato dal r.d. 2626/1865 era
sottoposto a notevoli critiche e proposte di revisione complessiva circa la reale
divisione dei poteri e l’indipendenza della magistratura. Il potere giudiziario poteva dirsi
ben separato dal potere legislativo, grazie all’art. 73 dello Statuto albertino:
“l’interpretazione delle leggi spetta esclusivamente al potere legislativo”. Al contrario la
separazione rispetto al potere esecutivo non appariva netta: nei confronti dei giudici
agivano infatti strumenti di pressione collegati al governo, quali la struttura gerarchico-
piramidale interna e l’ambigua figura del P.M., “rappresentante del potere esecutivo” e suo
braccio attivo. Inoltre vi era una forte sorveglianza da parte del Guardasigilli, contemplata
dalla normativa post-unitaria e investente la sfera delle nomine, delle promozioni e delle
ammonizioni, il che rendeva il ministro “onnipotente e irrispondevole”. Ulteriore
sfavorevole situazione per i magistrati era che essi divenivano inamovibili solo dopo i
primi 3 anni di servizio, e solo relativamente allo status (grado e stipendio), mentre non
v’era tutela circa la sede. Si aprì dunque un animato dibattito dottrinale e parlamentare
per la ricerca di rimedi idonei al raggiungimento di un’effettiva indipendenza.
Veniva in soccorso l’analisi comparatistica, guardandosi al sistema anglosassone, ove
il giudice aveva conquistato un’elevata dignità ed indipendenza, ma a seguito di un
percorso differente e di antica tradizione. Del resto tale problema dell’indipendenza,
derivante dall’assetto dello Statuto, era stato persino aggravato dal citato regio
decreto del 1865. A parere del senatore Giuseppe Musio, esso comportava pericolose
sovrapposizioni di figure e di ruoli, capace di violare l’essenza della magistratura e
così “ogni guarentigia di libertà politica e civile”. Un altro senatore, Giovanni Siotto-
Pintor indicò 5 “condizioni essenziali” al raggiungimento dell’indipendenza della
magistratura: - universalità del giudizio: il magistrato giudica tutto e tutti, mentre i
tribunali eccezionali sono indice di governi assoluti - “trattamento sufficiente”,
specialmente in riferimento al governo - perpetuità dell’ufficio, in quanto “potere
che non si perpetua da sé non è potere”
- esclusività, a condanna dell’intromissione governativa - inamovibilità, in quanto
“potere che non è inamovibile non è potere” Nonostante la dichiarata costruzione
di garanzie magistratuali, sul finire del secolo la situazione non sembra evolversi,
essendo ancora saldo l’ancoraggio alla volontà del governo. Basti pensare ad una
sentenza della cassazione di Roma nel 1888: la Corte, che era istituita per “mantenere
l’esatta osservanza delle leggi”, riconosceva validità all’emergente “potestà
straordinaria” dell’esecutivo, assolutamente non autorizzata dallo Statuto. La
Cassazione romana si mostrava dunque decisamente indulgente verso le coeve
necessità e pratiche operative della gestione politica: secondo la corte, il
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viene perseguito come fine a se stesso, a spese di altri importanti valori, si generano
effetti marcatamente negativi per il funzionamento dell’apparato giudiziario - l’Italia
è l’unico paese democratico dove i p.m. godono delle stesse garanzie di indipendenza
dei giudici. Ma è sintomo della diversità già lo stesso termine “magistrato”, che è
utilizzato sia in Italia che in Francia per designare sia giudici che P.M., mentre in
Inghilterra è riferito solo ai giudici che hanno specifiche funzioni e in Spagna
indica i due libelli superiori della carriera dei
giudici. Tuttavia è la posizione del nostro C.s.m. a segnare uno dei principali distinguo: i
suoi elevati poteri deliberanti e l’alta percentuale di componenti togati, tra l’altro eletti dai
colleghi dei gradi inferiori, consente collegamenti personali e aspettative di casta, con larghi
margini di manovra su carriere e trasferimenti. Tra i magistrati italiani si è così
diffuso il convincimento che per ottenere decisioni consiliari favorevoli alle proprie
aspettative è opportuno evitare comportamenti o dichiarazioni in contrasto con gli
orientamenti in materia di ordinamento giudiziario dell’A.n.m. e dei suoi
rappresentanti al C.s.m.: sembra questo l’unico motivo per cui il C.s.m. potrebbe
bloccare la promozione del magistrato, data la scarsa rilevanza attribuita da
sempre da parte del C.s.m. alla previa valutazione dei candidati. Altrove, per
correggere queste situazioni pericolose e diluire legami di appartenenza, non si
utilizza solo il meccanismo del concorso ma si affiancano anche forme di accesso
laterale, aperte a professionisti già affermati. In Italia, così come in altri paesi
dell’Europa continentale, i giovani laureati senza previa esperienza professionale
vengono reclutati per soddisfare indistintamente le esigenze funzionali dell’intero
sistema di uffici giudiziari del paese: si presume cioè che i neo-reclutati possano
indifferentemente svolgere in maniera adeguata una varietà di funzioni giudiziarie,
che di fatto richiedono capacità alquanto diverse fra loro. Ecco perché in molti
paesi europei sono state istituite apposite scuole che forniscono una formazione
iniziale e continua, volta all’aggiornamento professionale e ad agevolare le
riconversioni professionali quando i magistrati passando da una funzione
giudiziaria ad un’altra. Capita spesso in Italia che i magistrati finiscano per
esercitare attività extra-giudiziarie, fenomeno che dagli anni ’70 in poi ha assunto
dimensioni sempre maggiori: basti pensare agli incarichi di dirigente dei vari
dipartimenti del Ministero della giustizia, di membri di uffici legislativi dei vari
ministeri, alle consulenze a governi locali e nazionali, alle nomine a commissioni
di studio o agli incarichi di insegnamento. Il caso italiano appare deviante rispetto
agli altri non solo per il numero e la varietà delle attività extra-giudiziarie
consentite, ma anche per la confusione tra magistratura e classe politica che ne
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discende. Basti guardare al sistema anglosassone: qui è la struttura stessa del sistema ad
impedire che il fenomeno delle attività extra-giudiziarie assuma una qualche dimensione.
Infatti i giudici sono di norma reclutati tra avvocati di esperienza per ricoprire uno
specifico ruolo vacante, per cui la destinazione ad altre attività farebbe inevitabilmente
sorgere il problema del funzionamento delle corti di appartenenza. In Francia il Ministro
di giustizia dirige il reclutamento e la formazione dei giudici, ha un notevole peso nel
C.s.m. e riguardo le attività del P.M., e infine ha un ruolo importante nella fissazione
delle politiche criminali del suo paese. In Italia, invece: - il C.s.m. è del tutto autonomo
nell’assumere l’iniziativa in tutte le materie che rientrano nella sua competenza decisoria
(reclutamento, promozioni, trasferimenti, incarichi direttivi, ecc.). Al contrario la sezione
del C.s.m. francese che delibera sullo status dei magistrati può decidere solo a seguito di
una richiesta del ministro - il Ministro della giustizia non è membro del Consiglio: può
partecipare alle sue riunioni, ma senza diritto di voto - il Ministro della giustizia è
escluso anche dalla possibilità di concordare a livello internazionale le scelte di politica
criminale. Deve presumersi che questa limitazione dei suoi poteri rispetto ai suoi
colleghi stranieri diverrà sempre più evidente man mano che si farà più cogente
l’esigenza di coordinare le politiche criminali tra i Paesi dell’UE.
ideologiche nell’attività politica. Da questi dati si coglie come ci sia una vera e
propria deformazione della giurisdizione: tema, questo, che ci riporta alla
tormentata stagione di Mani Pulite, la quale ha visto il delinearsi, agli occhi
dell’opinione pubblica, di una magistratura che si proponeva come legislatore, o
meglio preparava silenziosamente la riforma del legislatore con la sua
interpretazione evolutiva. E allora la figura del giudice-uomo pubblico trova largo
consenso sociale perché portavoce del bisogno di legalità del Paese. Il pericolo
ivi nascosto è quello del rispetto delle garanzie dell’individuo. A tal proposito si
potrebbero ricordare processi quale quelli ad Andreotti e a Cusani. Il primo,
tenutosi a porte chiuse, vedeva protagonista Andreotti, accusato di concorso
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esterno in associazione mafiosa: egli fu assolto in primo grado, mentre nel 2003
la Corte d’appello di Palermo lo ha assolto per i fatti successivi al 1980 e ha
dichiarato il non luogo a procedere per i fatti anteriori a quell’anno, caduti in
prescrizione (sentenza poi confermata in Cassazione). Il secondo processo citato
fu addirittura trasmesso in diretta Rai, sebbene l’imputato non fosse figura di
primo piano, ma solo strumento di denuncia di un fenomeno di finanziamenti
illegali ai partiti. Con queste testimonianze clamorose, in cui si coglie una
combinazione di lunghezza d’istruzione, spostamento di sedi, ricorsi e ribaltamento
di verdetti, nonché le pressioni di una stampa di un’opinione pubblica fortemente
manipolata e manipolatrice, prendono forma due costruzioni artificiali: la verità
giornalistica e la verità giudiziaria, le quali finiscono facilmente per sovrapporsi
interferendo l’un l’altra. E tutto questo soprattutto a causa di una totale mancanza
di “un assetto realmente pluralistico dei mezzi di informazione, di una deontologia
professionale dei giornalisti attenta alla trasparenza delle fonti, non disponibile ad
alcuna subordinazione, non incline al sensazionalismo, e professionalità adeguate
ad un settore così delicato”. In un articolo Giovanni Valentini descrive bene quelli
che sono i pericoli di cortocircuito tra mass media e 19 magistratura, specialmente per
la diffusione di notizie private e spesso infondate. Chi fa informazione dovrebbe tendere ad ottenere
il massimo di elementi per poter assolvere ad un ruolo di propulsione alla ricerca della
verità, ma in realtà ciò che si verifica è un pericolo per la “riservatezza
necessaria delle indagini giudiziarie e il rispetto del segreto d’indagine”. È dunque
fondamentale nella nostra analisi rilevare se e in che misura, il diritto
all’informazione, cioè il diritto di acquisire notizie, sia prescritto dall’art 21 Cost., il
quale tutela la libertà di espressione. È essenziale, infatti, in uno stato che si
professa democratico e pluralista un’opinione pubblica che sia informata e
documentata, che non corra il rischio di manipolazioni. Sia la giurisprudenza
costituzionale che quella ordinaria hanno svolto sul tema un ruolo attivo di
supplenza all’inerzia del legislatore, sia in ambito generale per il riconoscimento
del diritto di informazione sia in particolare per la disciplina delle comunicazioni
radiotelevisive. Le loro decisioni hanno mirato ad armonizzare i diritti sanciti
dall’art. 21 Cost. con la pluralità di interessi, principi e valori di rango
costituzionale potenzialmente confliggenti. Secondo Enzo Cheli, il primo dato che
colpisce chi affronti l’esame di questo settore della giurisprudenza costituzionale
attiene all’attivismo della Corte sui temi dell’informazione e della comunicazione di
massa. Occorre interrogarsi allora sui motivi di tale attivismo: la dottrina ha
evidenziato in particolare il contenuto limitato e per certi aspetti datato di questa
disciplina. È infatti indubbio che i costituenti, quando affrontarono il tema della
libertà di espressione e dei mezzi del suo esercizio, furono mossi più dalla
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preoccupazione di rimuovere gli strumenti di controllo sulla stampa che erano stati
introdotti dal regime fascista (ad es. la censura e il sequestro degli stampati) che
di tracciare le linee generali di un moderno sistema dell’informazione. Ecco
perché nell’art. 21 Cost. non si trova alcun accenno né a quei mezzi di
comunicazione di massa che già allora risultavano pienamente affermati (come la
radio o il cinema), né al rapporto essenziale tra stampa e potere economico, né
al profilo passivo dell’informazione, cioè alla libertà e al diritto del cittadino di
ricercare e ricevere notizie. Il pregio dell’art. 21 Cost. sta allora nella sua
flessibilità, in particolare al co. 1°, ove con una clausola aperta si fa riferimento a
tutti i possibili mezzi di diffusione indipendentemente dalle tecnologie trasmissive
adottate. In un siffatto quadro, gli orientamenti più innovativi della Corte hanno
seguito 3 direttive: - il riconoscimento dell’esistenza di un diritto all’informazione,
quale risvolto passivo della libertà di informare (sent. 153/1987) - l’individuazione
del pluralismo come valore primario sotteso all’intero sistema dell’informazione - la
definizione dei caratteri fondamentali del servizio radiotelevisivo, inteso come
“servizio pubblico essenziale”, ma destinato ad operare entro la cornice
costituzionale della libertà di espressione del pensiero.
Ritornando a quella linea temporale anticipata, nel primo Novecento il fenomeno di
“fascistizzazione” dello Stato o meglio di “normalizzazione del partito fascista avvenne proprio
attraverso un radicale controllo dell’informazione e dei media per creare una
società contrassegnata da un prevalente “consenso passivo borghese”. Ciò
naturalmente si ripercuoteva sulla magistratura. Fu Calamandrei a denunciare le
condizioni e il disagio morale in cui si trovava ad operare il potere giudiziario e
ad individuare quattro forme di ingerenza della politica nella giustizia: - preventiva,
legata alla dipendenza gerarchica del p.m. dal Ministro di grazia e giustizia - ex post,
tramite le amnistie, le grazie e il riconoscimento ad organi amministrativi di poteri che
incidessero sull’esecuzione delle sentenze - un’ingerenza sulla carriera dei giudici - il
moltiplicarsi delle giurisdizioni speciali, che sminuivano il primato del giudice La
conseguenza inevitabile fu l’asservimento del giudice alle logiche
del regime.
Di segno differente ma egualmente singolare fu il ruolo dell’opinione pubblica nell’Ottocento: essa
era vista come “forza” o addirittura “potere costituzionale” dello Stato liberale, data la sua
presenza stabile nelle corti di giustizia sotto forma di giuria. Questa istituzione
giudiziaria trovò tra i suoi oppositori proprio la magistratura e molti esponenti della
Scuola positiva che criticavano questa “desacralizzazione” del processo e
“generalizzazione” della giustizia. Così il rapporto tra giudice ed opinione pubblica
era evidentemente conflittuale: il primo esplicava una funzione giudicante ma del
tutto subordinata alla seconda che era spettatrice, ma anche succube
dell’aggressività della stampa, che “attizza pericolosamente il fuoco che cova sotto
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la cenere delle inquietudini e delle paure collettive”. Quanto al Settecento,
l’opinione pubblica aveva assunto un ruolo e un peso politico senza precedenti.
Questa poteva, come dice Cesare Beccaria, turbare la “pubblica tranquillità” e
perciò necessitava di un serrato controllo.
STORIA DELLA MAGISTRATURA NEL SECONDO
DOPOGUERRA
MASSIMO TITA
Nel 1950 può dirsi che una storia della magistratura italiana è ancora inesistente. Il
cambiamento avvenne nel 1960, quando (complici il centenario dell’Unità e il clima
del tempo, segnato da una ridefinizione del ruolo del giudice) nacque un vero e
proprio filone di storiografia specializzata, che gravita verso rapporti tra magistratura e
potere politico e la c.d. ideologia dei magistrati. Questi elementi valsero dunque come
nuovo inizio, se si pensa che Luigi Granata nel 1960 diceva: “una storia della
magistratura italiana non esiste e nessuno ha mai finora pensato potesse essere oggetto
di attenzione o almeno di una efficiente progettazione”. Pochi anni dopo Paolo Ungari
poteva dire invece: “la storia della magistratura data da meno di un quinquennio”. La
svolta storiografica avvenne grazie a tre grandi opere, rispettivamente di Mario D’Addio,
di Piero Marovelli e di Neppi Modona, ma possiamo citare ancora Calogero, Gorla, Cozzi,
Ajello, Lombardi, Tufo, Troisi. In aggiunta ai molti libri degli storici di professione,
segnarono quel decennio gli interventi di giudici che si fecero storici. Cominciò così una più
consapevole e matura osservazione di sé da parte della categoria, quasi l’autoanalisi
sociale e politica di un ceto: finalmente si guardò a quell’ordine nella sua qualità di
potere antagonista e protagonista, di entità politica e sociale, finalmente spogliato della
sua aurea di neutralità o di suprema indifferenza. Insomma il punto di vista privilegiato, il
poter guardare dal di dentro le cose di giustizia, veniva impiegata per cogliere non più
solo il senso di singoli problemi o istituti ma di un’intera vicenda: tutto ciò nasceva
anche da una profonda insoddisfazione culturale. Importanti furono però non solo i
libri, ma anche la partecipazione di giudici a riviste e congressi.
Quanto alle riviste, esemplare è una vicenda comune a “Il Ponte” (periodico voluto
da Calamandrei) e a “La Magistratura” (mensile dell’A.n.m.). Infatti nel 1968 entrambe
ammisero estranei al loro interno: la prima accolse i giudici di Magistratura
democratica, la seconda avvocati e giuristi di cattedra. Eventi questi che dimostrano
maggiore apertura al mondo esterno nonché maggiore dinamismo intellettuale. Ma un
ruolo fondamentale in questa “presa di coscienza” è stato svolto dalla rivista
“Democrazia e diritto”. Basti pensare al suo primo numero nel 1960, che esordiva:
“Potrà forse destare sorpresa in alcuni lettori che una rivista giuridica accosti al diritto
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la democrazia togliendogli così quel carattere di agnosticismo dinanzi al mutevole
corso della storia con cui tradizionalmente le scienze giuridiche sono state presentate e
assunte”. Altra vicenda esemplare è quella della nascita di “La rassegna dei
magistrati”, rivista fondata dall’U.m.i. (Unione nazionale magistrati), associazione
nata dalla scissione dei giudici di Cassazione dall’A.n.m. La pubblicazione della rivista
mostra un tono “esitante”, come tale inconciliabile con la dichiarata volontà della
categoria di attuare il dettato costituzionale. Insomma l’unità tra i giudici si ruppe,
così il binomio era tra chi difendeva lo status quo e chi intendeva riformarlo. Quanto
ai congressi, notevole impatto ebbero quelli del 1965 a Firenze e a Gardone (voluto
dall’A.n.m.) e quello del 1966 a Terracina (voluto dall’U.m.i.). Il primo fu organizzato
di giuristi cattolici, che sottolinearono come la giurisdizione dovesse garantire il
rispetto di regole democratiche. Il secondo si svolse intorno al quesito “Magistrati o
funzionari?”, cui era chiara la risposta: la magistratura si pose alla testa del
movimento rinnovatore, uscendo dall’isolamento in cui viveva e abbandonando il
passato formalismo (anche interno). Nell’ultimo l’U.m.i. discuteva di cause e
responsabilità della crisi della giustizia. Ma ancora nel 1969 l’Unione dei giuristi
cattolici rifletteva su “diritto e la moralità pubblica in Italia” e l’U.m.i. affrontava il tema
dei contrasti esistenti nella magistratura italiana. In definitiva in alcuni campi (come
diritto del lavoro e di famiglia) si produssero risultati concreti, mentre in altri (si pensi
alle libertà) il divario con il resto dell’Europa si colmò solo in parte. Più in
generale può dirsi che da un lato furono attuati molti dei valori che fondarono il
patto sociale della nuova Repubblica, dall’altro si produsse
Marcel Jouhandeau nel 1955 partecipò come giurato ad una sessione della Corte
d’assise e a seguito di quell’esperienza riconobbe che la realtà delle aule di
giustizia era diversa da come la immaginava: come egli stesso confessa, la funzione
del giudice gli era sempre sembrata così poco conforme alle responsabilità che un
uomo può assumersi nei confronti di un suo simile da considerarla tracotante e
prevaricatoria. Al contrario aveva trovato invece comprensivo e ricco di tatto il
giudice, così come moderato il procuratore. La confessione di Jouhandeau sembra
esprimere una sorta di familiare diffidenza del letterato nei confronti del giudice:
un sentimento nato dalla consapevolezza che l’immaginario letterario e quello
della giustizia siano intrecciati e quasi sovrapponibili, poiché entrambi connessi al
tema del giudizio e quindi alla continua definizione delle categorie di bene e
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male. E così generazioni di autori hanno raccontato spazi, tempi e forme del
processo: Aristofane, Eschilo, Cervantes, Dickens, Dostoevskij, Brecht, Sciascia, ecc.
In effetti sono stati i giuristi stessi, ancor prima dei teorici e critici letterari, a
fornire spunti di riflessione sui continui scambi e incroci che investono i due
ambiti. Il binomio “Diritto e letteratura”, o “Law and literature”, rinvia ad un
indirizzo di studi nato all’interno dell’università statunitense e sviluppatosi in
seguito al libro “The legal immagination” di James Boyd White del 1973. Le basi
di tale indirizzo sono da rinvenire nel senso di profonda sfiducia nella credenza
che il diritto fosse davvero un sistema concettuale completo, formale e ordinato.
La teoria tradizionale veniva additata come un esempio di concezione ingenua
circa i rapporti tra diritto e cultura, dal momento che considerava la sfera giuridica
deputata a recepire semplicemente valori sociali. In realtà la capacità creativa
del
diritto è ben maggiore poiché lo stesso partecipa alla creazione di quegli stessi valori
che intende tutelare. Esso è in sostanza un’attività creativa al pari dell’arte e della letteratura.
Così il nucleo dell’indirizzo giuslitterario sta nella constatazione secondo cui diritto e
letteratura costituiscono due sfere parallele: entrambe legate alle problematiche relative
al linguaggio, alla retorica, all’ambiguità, all’interpretazione, entrambe attività tese a
circoscrivere, definire e mettere in discussione la realtà sociale attraverso il linguaggio.
Date queste premesse, la ricerca delle convergenze tra diritto e letteratura si è
sviluppata in due direttive: il diritto nella letteratura ed il diritto come letteratura. Il
primo (Law in literature) analizza la presenza di temi letterari legali all’interno del
panorama letterario: ad es. “Il processo” di Kafka o “Il mercante di Venezia” di
Shakespeare. Il secondo (Law as literature) utilizza strumenti presi dalla critica
letteraria per analizzare la struttura e la retorica dei testi giuridici. E così autori come
Jerome Bruner hanno rivolto la loro attenzione ai modelli ricostruttivi che si attuano
all’interno del processo, ai racconti di testimoni, avvocati o giudici in base alle
strutture delle narrazioni e del confronto tra le varie ricostruzioni: secondo l’autore
citato, “un racconto giudiziario non è altro che un racconto narrato in tribunale”.
Poiché all’interno del processo la questione di fatto che ha dato origine alla controversia
non può esistere a prescindere dalle versioni fornite dalle parti, il compito
dell’avvocato è proprio quello di costruire, a partire dal racconto del proprio cliente, una
storia lineare e convincente. Ma del resto anche il provvedimento del giudice può
essere analizzato sulla base della propria connotazione narrativa: il giudice deve offrire
una propria ricostruzione della vicenda narrata che spieghi eventi di causa, ne garantisca
una collocazione coerente, attribuisca ai personaggi specifiche azioni
ed intenzioni e riconosca una disposizione di legge per la sua soluzione.
I testi letterali caratterizzati dalla presenza di temi attinenti alla giustizia possono diversi in 4
categorie: - opere connotate dalla rappresentazione di un procedimento legale o di una sua
significativa articolazione (ad es. “Il mercante di Venezia” di Shakespeare, “I
fratelli Karamazov” di Dostoevskij, “Lo straniero” di Camus) - opere caratterizzate dalla
presenza centrale di un uomo di legge, tramite una narrazione orientata (ad es. i
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romanzi di Dickens) - opere nelle quali una legge o un precetto normativo si
configurano come un tratto strutturale della trama - opere in cui il tema narrativo è
costituito dal rapporto stesso tra giustizia ed individuo e giustizia e società (ad es. “Il
processo” di Kafka) La seconda metà dell’Ottocento coincide con la nascita del romanzo
giudiziario. Non che il processo faccia la sua comparsa solo in questo momento
all’interno dell’immaginario letterario (basti pensare a “Moll Flanders” di Defoe). Tuttavia
è solo dal XIX sec. in poi che si assiste ad una significativa inversione di polarità: le
scritture sulla criminalità, che si incentravano sulla figura del delinquente, cedono il
passo ad una narrazione in cui è la dimensione del processo ad essere centrale. Alla
base di questo mutamento si può scorgere non solo l’effetto della penetrante presenza
della stampa, ma anche di quel processo che costituisce il fulcro della riflessione di
Michel Foucault sulle tecniche disciplinari in cui la pena, da fatto pubblico e spettacolare
(“lo spettacolo dei supplizi”), si tramuta con l’uso massiccio della detenzione
carceraria in un fatto privato e individuale. Il processo diviene dunque un nuovo mezzo
di divulgazione narrativa. È significativo che in Italia la progressiva acquisizione di
centralità del tribunale come contesto per la produzione di storie coincida a livello
cronologico con la nascita dello Stato unitario. Il processo di creazione nazionale portava
con sé i grandi problemi relativi all’unificazione delle mentalità, delle abitudini,
dell’immaginario istituzionale dei soggetti a vario titolo coinvolti nello Stato unitario. E
tale esigenza poteva trovare proprio nel tribunale il luogo simbolo di costruzione
della cittadinanza proprio per la capacità del processo di elaborare le singole storie
presenti sullo sfondo della costruzione dello Stato unitario. A parte l’ambientazione
processuale, il tratto caratteristico di questi romanzi giudiziari fu la moltiplicazione dei
piani narrativi e delle diverse versioni dei fatti che si sviluppavano all’interno della
trama. A differenza dei romanzi gialli in cui il fulcro della storia sta nel risponde alla
domanda “chi ha fatto cosa”, in questi la narrazione si articola intorno alla domanda
“perché l’ha detto”. Il lettore infatti conosce assai presto l’autore del delitto ed è
orientato a soffermarsi sul caso di giustizia attraverso la pluralità di voci che il processo
mette in campo: il ruolo del giudice e quello del lettore finiscono per identificarsi.
Naturalmente vi erano poi anche variazioni sul tema. Particolarmente significative sono
state le rappresentazioni letterarie della figura del magistrato, visto come dotato di
penetranti poteri di ricostruzione e di accertamento del fatto: l’esempio è quello di
Porfirij Petrovic in “Delitto e castigo” di Dostoevskij. Ancora, l’ambientazione processuale
si lega a volte alla denuncia dell’inefficienza della giustizia, della farraginosità delle
procedure, della macchinosità dei suoi apparati: l’esempio è stavolta quello de “I
fratelli Karamazov” dello stesso Dostoevskij. Questa stessa suggestione è presente anche
nel naturalismo francese e in particolare in Emile Zola. In effetti proprio il tema toccato
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da Zola della relazione tra malattia e devianza era destinato ad alimentare in Italia il
dibattito della c.d. scuola positiva
di Ferri, Lombroso e Garofalo.
Nel Novecento, col venir meno tutti i valori tradizionali, si verifica altresì una crisi di
credibilità del mondo giudiziario: la goffa maestosità della macchina giudiziaria diviene il
simbolo di una profonda incomunicabilità delle ragioni della giustizia. Sicuramente la maggior
testimonianza in tal senso è il “Processo di Kafka”, ma si può citare anche “Lo
straniero” di Camus, in cui si mette in scena quel sentimento di estraneità e
dell’impossibilità di attribuzione di senso al sistema della legge e dei suoi
meccanismi. Dopo la caduta del regime fascista , la letteratura italiana affrontò i
traumi prodotti dalla dittatura e il senso di profonda incertezza in cui versava il
Paese: il tema è quello della giustizia di transizione, del processo come strumento
per ristabilire la verità storica e come meccanismo per chiudere i conti col passato
(si pensi al processo di Norimberga). Ma gli anni del dopoguerra sono segnati
soprattutto da storie narrate dagli stessi attori del mondo della giustizia, da cui si
evince quell’ansia di partecipazione connessa a quella “rivoluzione promessa
(secondo l’espressione di Calamandrei) legata alla Costituzione. È questo il caso del
“Diario di un giudice” di Dante Troisi, dolente e appassionato resoconto della sua
carriera di pretore. C’è però un altro autore fondamentale che si lega
indissolubilmente alle tensioni connesse al tema della giustizia nell’Italia
repubblicana: Leonardo Sciascia, il quale tratta del rapporto tra giustizia e politica e
di quello tra autorità e libertà.