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I PROMESSI SPOSI

Introduzione
Manzoni sostiene di aver appreso la storia di Renzo Tramaglino e di Lucia Mondella, i suoi Promessi sposi,
da un manoscritto anonimo del Seicento, che egli aveva ritrovato. Si tratta di una finzione letteraria assai
diffusa ai suoi tempi, utile a dare parvenza di "veridicità" vicende ambientate in contesti storici remoti. In
questo manoscritto, redatto in un goffo stile altisonante, zeppo di maiuscole, di doppie, di perifrasi
complesse e di ardite figure retoriche, si narra, però, una storia molto bella, ambientata nella Lombardia
dei primi anni del XVII secolo, all'epoca della dominazione spagnola. I protagonisti sono dei poveri
popolani, vittime e spettatori di forze che, all'anonimo, paiono "diaboliche". Una storia così bella, pensa
Manzoni, meriti di essere divulgata, ma come riuscire a far accettare ai lettori moderni una forma tanto
stravagante? Una lingua tanto lontana da quella d'uso comune? Un'enfasi retorica tanto fastidiosa quanto
inutile? Si potrebbe "rifarne" la dicitura, pensa l'Autore, sostituendo la lingua del tempo, i numerosi errori
e le espressioni "sguaiate" e "dozzinali" con una forma accessibile e comprensibile ai suoi contemporanei.

I capitolo
Il romanzo inizia con un'ampia e particolareggiata descrizione del territorio di Lecco, lungo le sponde
meridionali del lago di Como. In quelle terre, il 7 novembre 1628, un anziano prete (curato di un borgo di
cui l'anonimo tace il nome), di ritorno dalla sua consueta passeggiata, viene fermato e minacciato da due
malviventi (detti, allora, "bravi" ): don Abbondio, questo il nome del prete, non dovrà celebrare il
matrimonio fra Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, giovani promessi sposi del paese. Inutili le deboli
proteste del curato: l'ordine arriva direttamente da don Rodrigo, potente signorotto locale. Terrorizzato,
don Abbondio torna di corsa a casa, ove trova ad attenderlo, curiosa, la fedele Perpetua. Ne segue un
acceso battibecco nel corso del quale, fra accenti di spavento, toni minacciosi, consigli non graditi e
raccomandazioni al silenzio, don Abbondio confida l'accaduto alla donna, quindi si ritira terrorizzato in
camera propria, a meditare sul da farsi.

II capitolo
Don Abbondio si dibatte, per tutta notte, fra pensieri cupi e incubi terrificanti: disobbedire a don Rodrigo e
quindi festeggiare le nozze, non è nemmeno pensabile; d'altro canto, anche Renzo ha un carattere capace
di incutere serio timore: impetuoso e irruente, può diventare violento se qualcuno cerca di contrastarne i
piani. La mattina dopo, infatti, le Oscure argomentazioni con cui il curato tenta di rinviare di qualche giorno
la cerimonia nuziale non ottenne altro effetto che fare arrabbiare il giovane: Renzo riesce a trattenere la
propria impulsività e accetta di mala voglia la proroga. Poi, uscito dalla dimora del parroco, chiacchiera con
Perpetua e intuisce la verità. Le parole della donna, infatti, non concedere adito a dubbi: qualcuno sta
cercando di prevenire il matrimonio con la forza. Egli allora torna da don Abbondio e lo costringe a
confessare l'accaduto. Saputo il nome del prepotente, si reca da Lucia, tormentato dai propositi di
vendetta nei confronti di don Rodrigo e ansioso di sapere se la sua giovane promessa sposa è al corrente
dell'insana passione del nobiluomo.

III capitolo
La vicenda di questo capitolo prende le mosse dalla narrazione di Lucia, che svela alla madre e a Renzo ciò
che, fino a quel momento, ha confidato nel segreto del confessionale soltanto a fra Cristoforo. Don
Rodrigo, nel racconto della giovane, si rivela un signorotto arrogante e prepotente, che da alcuni giorni
insidia e tormenta la fanciulla più per gioco che per passione, facendone l'oggetto di un'infame scommessa.
Proprio per questo lei, su consiglio di fra Cristoforo, ha cercato di affrettare il matrimonio. Che tariffa? La
lotta che si profila, fra “poverelli" e signori, è impari: conviene mettersi nelle mani di qualcuno “che abbia
studiato", suggerisce Agnese, di qualcuno che sappia muoversi nel vasto mondo del diritto e della giustizia.
Renzo, che sulle prime rischia di cedere alla tentazione della violenza, accetta di recarsi a Lecco, per
incontrare Azzeccagarbugli: avvocato di fama e "cima d'uomo", nelle parole di Agnese; individuo meschino
e corrotto, alla pro- va dei fatti. Le donne, intanto, approfittano della visita di un frate cercatore, fra
Galdino, per mandare a chiamare il confessore di Lucia, fra Cristoforo: lui saprà trovare un rimedio
all'infelice situazione!
IV capitolo
Il capitolo è dedicato interamente a padre Cristoforo: l'aspetto fisico, temperamento acceso, l'indole in-
quieta e la dolorosa, tragica storia della sua monacazione. Lodovico – questo il suo nome di battesimo- è
figlio di un ricco mercante, il quale, al culmine del successo, smanioso di promozione sociale, lascia gli affari
e tenta di dimenticare (e far dimenticare) un passato di lavoro considerato ormai vergognoso. Il giovane
cresce, quindi, “contraendo abitudini signorili" e ai signori si rivolge, ricercando la loro amicizia. Invano:
rifiutato come plebeo proprio da coloro ai quali egli si sente più affine, Lodovico prende a "competer con
loro di sfoggi e di magnificenza", ad assumersi l'incarico di raddrizzare torti e vendicare offese, diventando
alla fine “un protettor degli oppressi, e un vendicatore de' torti". Inevitabile che una tale scelta di vita lo
ponga in contrasto con i potenti locali e lo obblighi, di conseguenza, a com- portarsi come loro,
circondandosi di bravi, vivendo "co' birboni", operando anch'egli inganni e raggiri. Più volte il disgusto della
vita condotta gli suggeri- Scono la soluzione di farsi frate, ma tale impulso non avrebbe seguito se, un
giorno, una lite degenerata in duello, non lasciasse al suolo, uccisi, due uomini: un nobile rivale e il fedele
servitore Cristoforo. Spogliarsi dei propri beni, prendere il saio, domandare perdono pubblicamente alla
famiglia dell'ucciso e mutare radicalmente vita sono l'inevitabile conseguenza della fatale giornata.

V capitolo
Informato sui fatti, fra Cristoforo, dopo aver vagliato e scartato varie ipotesi d'azione, decide di incontrare
personalmente don Rodrigo, nel tentativo di farlo recedere dall'infame proposito o, almeno, di scoprire fino
a che punto sia determinato a perseguirlo. Si reca, quindi, al palazzotto del signore e viene introdotto nella
sala da pranzo, ove si trovano radunati sei commensali: il padrone di casa; suo cugino, il conte Attilio; il
podestà; il dottor Azzecca-garbugli; due parassiti intenti solo a mangiare e a sorridere. Il podestà e il conte
Attilio sono infervorati in una discussione di cavalleria: se sia o meno legittimo bastonare il portatore di una
sfida a duello. A dare il proprio parere viene invitato anche padre Cristoforo il quale, però, esprime
un'opinione che appare assurda a tutti gli astanti: che non ci siano né sfide, né portatori, né bastonate. La
conversazione, poi, si sposta su altri due argomenti di stretta attualità: la sụcessione del ducato di Mantova
- conteso fra Francia e Spagna, cioè fra rispettivi sovrani: Luigi XIII e Filippo IV; o meglio, fra i loro ministri:
Richelieu e l'Olivares – e la carestia, inesistente secondo i presenti, i quali attribuiscono la penuria di pane
alle manovre degli incettatori e dei fornai, che andrebbero puniti in maniera esemplare.

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