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G.

Pascoli

Il fanciullino

Anno: 1897, 1903 Nella stesura ultima (1903), il saggio si compone di 20 capitoli; qui si propone
Genere: saggio una scelta di passi significativi.
Argomento:
l’esposizione della
poetica pascoliana

Il poeta dà voce al “fanciullino” che si trova in ogni individuo, e che crescendo viene relegato in un angolo
della nostra personalità. È davvero in ognuno di noi. La prospettiva del fanciullino consente di scoprire un
inedito volto del mondo. Così concepita, la poesia acquista anche un ruolo civile e sociale perché unisce tutti
gli esseri umani, in virtù del fanciullo che è il loro, e dunque invita alla fratellanza, al di là delle barriere di
classe.

Secondo Pascoli in ogni uomo si cela un “fanciullino”, ovvero la capacità di guardare con stupore a quanto
circonda; ma gli uomini comuni, diventando adulti, tendono a perdere, a differenza del poeta, questa
particolare sensibilità dell’infanzia. L’intento di Pascoli è di sottolineare come, per cogliere la realtà nella
sua pienezza, si debba tentare di retrocedere verso un linguaggio infantile, preconscio, dove il suono assume
maggiore forza e significato. Il “poeta fanciullo” vede tutto con meraviglia, come per la prima volta; si
sottrae alla logica ordinaria grazie all’attività fantastica, parla “alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole,
alle stelle”, piange e ride “senza perché, di cose che sfuggono si nostri sensi e alla nostra ragione”, scopre
legami inconsueti tra le cose, rovescia le proporzioni e rimpicciolisce “per poter vedere” o ingrandisce “per
poter ammirare”. La poesia, come ricordo del momento magico dell’età infantile non inventa nulla, ma
scopre nelle cose quotidiane gli echi dell’interiorità e delle inquietudini della coscienza.

La “maraviglia” che scopre il mondo


Il fanciullino-poeta è in grado di attingere a una percezione incontaminata della realtà. Il poeta scopre
negli oggetti segrete affinità che sfuggono allo sguardo comune. La poesia non è invenzione ma scoperta
di qualche cosa che vive nelle cose, di quel particolare che si può cogliere soltanto liberandosi dal peso
delle convenzioni. La poesia non è rappresentazione razionale né cognizione logica, ma intuizione,
improvvisa illuminazione, visione, forma di coscienza intuitiva e rivelatrice. La poesia non è esercizio
formale, ma è rivelazione di sentimenti, è modo nuovo di vedere le cose. Guardare con “maraviglia” vuol
dire guardare le cose con occhi liberi dalla patina dell’abitudine, da convenzioni e preconcetti

Il linguaggio analogico
Per esprimere questa nuova visione della realtà è necessario un linguaggio nuovo. Occorre un linguaggio
non imperfetto ma oggettivo, che tuttavia, attraverso le analogie, trasformi il volto della realtà. Il particolare
oggettivo è il termine tecnico non hanno funzione realistica: nonostante la precisione e la puntigliosa
accuratezza con cui le cose vengono nominate, esse si prestano, per le loro connessioni analogiche, a
liberare la carica visionaria, allusiva, della poesia. Il fanciullino-poeta riesce a percepire segrete
corrispondenze che sfuggono allo sguardo comune; è maestro del gioco poetico delle analogie.

La poesia “migliora e rigenera l’umanità”


Pascoli sostiene che la poesia non deve proporsi finalità pratiche, contenuti morali, civili e religiosi, ma deve
essere pura. Appare qui la volontà di Pascoli di prendere le distanze dalla poesia enfatica e patriottica di
Carducci, come da quella preziosa, aulica, estetizzante di D’Annunzio. Il poeta autentico, senza farlo
apposta, migliora e rigenera l’umanità, come la vera poesia è ispiratrice di “buoni e civili costumi di amor
patrio familiare umano”. La poesia, che è autentica voce del fanciullino, pur senza porsi scopi pratici, rende
migliore l’umanità, perché ispira “buoni costumi”, risponde a una funzione etica e civile.
G. Pascoli, Myricae

Lavandare

Anno: 1892-94 Il testo (risale al periodo 1892-94) fa parte del gruppo di sedici madrigali che
Metro: madrigale costituisce la sezione “l’ultima passeggiata” (1894). Dietro l’apparente aspetto
formato da due terzine, descrittivo-oggettivo, il paesaggio e gli oggetti di vita contadina (il campo
legate dalla rima centrale mezzo arato, un aratro abbandonato sui solchi, voci di lavandaie il lontananza,
(pare / lavandare), e da l’acqua di un canale), collocati quasi fuori dello spazio del tempo, legati da
una quartina di una trama sottile di corrispondenze foniche, assumono risalto emblematico di
endecasillabi (schema: una condizione di solitudine e di abbandono. Il titolo è variante regionale di
ABA CBC DEDE) “lavandaie“.
Argomento: un
paesaggio rurale fa da
sfondo e immagini di
solitudine.

Passeggiando tra i campi in una giornata autunnale il poeta ode in lontananza il canto di un gruppo di
lavandaie e sente una segreta corrispondenza tra quella triste canzone d’amore e la malinconica solitudine
del paesaggio autunnale, sintetizzata da un aratro dimenticato in mezzo alla campagna.

La struttura
Il testo si presenta diviso in tre sezioni distinte: nella prima terzina, l’immagine del paesaggio autunnale è
affidata a impressioni di carattere visivo; nella seconda, intessuta di voci onomatopeica, prevalgono le
sensazioni uditive; nella quartina finale è per intero occupata dal canto delle lavandaie. L’immagine
dell’aratro abbandonato apre e chiude circolarmente la lirica.
Dall’impressionismo al simbolismo
Tipico esempio del cosiddetto “impressionismo pascoliano”, il testo è costituito con dati descrittivi
presentati nella loro immediatezza visiva, secondo una prospettiva non gerarchica, ma giustapposti l’uno
accanto all’altro. Le prime due terzine restituiscono una visione concreta della natura. I colori del campo,
l’aratro, la nebbia e rumore delle lavandaie si succedono senza alcuna mediazione apparente.

L’immagine dell’aratro
Tuttavia, è proprio l’ultima strofa a creare legami con le prime due terzine, attraverso la ripresa nell’ultimo
verso, dell’immagine dell’aratro abbandonato. La ripetizione dell’aratro rivela il senso simbolico sotteso agli
aspetti oggettivi della campagna. Il campo arato a metà suggerisce un senso di incompletezza. Il messaggio
che i versi comunicano è allora la smarrita solitudine dell’individuo, sperduto in una natura desolata.

Gli effetti ritmici e fonici


Il testo è costituito con un fitto tessuto di rimandi e di echi ritmici e fonici, che suggeriscono sensazioni di
lentezza di calma, per creare un’atmosfera di abbandono. Si noti, nella prima terzina, la cadenza len ta dei
versi, ottenuta mediante la ripetizione («mezzo [..] mezzo»), le pause (dopo «nel campo», dopo «buoi»,
dopo «dimenticato») e il forte enjambement «pare / dimenticato», che, isolando la parola-chiave
(«dimenticato»), conferisce al participio un tono di stanca tristezza. Lo stesso uso della rima interna tra il v.
3 e il v. 4 («dimenticato» : «cadenzato») e tra i primo e il secondo emistichio del v. 5 («sciabordare, :
«lavandare») contribuisce a creare un ritmo ripetitivo di cantilena, rafforzata dall'aggettivo «lunghe», che
suggerisce il senso d'una tristezza senza fine, monotona, uguale. Allo stesso effetto concorrono, nella
seconda terzina, il ritmo disteso dei quadrisillabi («cadenzato», «sciabordare», «lavandare», «can- tilene»),
l'insistita allitterazione (specie ai vv. 4-6 di vocale + liquida), la presenza dell'enjambement (vv. 4-5:
«viene / lo sciabordare»), le cesure molto marcate dei vv. 6 e 7, rilevate entrambe dal chiasmo («con tonfi
spessi e lunghe cantilene», «il vento soffia e nevica la frasca») e l'iterazione («come [...] come»). Al
medesimo intento evocativo rimandano l'armonia imitativa delle parole dal suono grave e ritmo lento
(«cadenzato», «gora», «tonfi spessi», «lunghe» ecc.) con la disseminazione dei fonemi r ed s («gora»,
«sciabordare», «lavandare», «spessi»), la presenza della stessa vocale tonica (la e) nelle parole-rima «nero»,
«viene», «paese», i legami fonici fra arATrO, dimentiCATO, cadenzATO, sciabordARE, lavandARE e la
consonanza interna «partisti» : «rimasta» (v. 9). Questo calco del ritmo lento e monotono del canto popolare
intende riprodurre sul piano del significante il carattere faticoso, ripetitivo del lavoro delle lavandaie e, più
in generale, della condizione umana.
G. Pascoli, Myricae

Novembre

Anno: 1891 Questa lirica fu pubblicata nella rivista fiorentina “La Vita Nuova“ nel
Metro: ode saffica febbraio 1891, la lirica, che Carducci ha giudicato “bellissima“, entra nella
composta di tre strofe di prima edizione di Myricae nella sezione “in campagna“. La scelta della “ode
quattro versi ciascuna, a saffica” è un omaggio al maestro Carducci con le sue “odi barbare”
rime alternate, caratterizzate dalla proposizione della metrica quantitativa degli antichi.
endecasillabi i primi tre,
quinario l’ultimo Il paesaggio è, come altre volte, una realtà a doppio fondo: sotto un’apparenza
(schema: ABAB) di armonia e di positività possono nascondersi, e spesso in effetti si
Argomento: la nascondono, la presenza e la minaccia della morte. Qui una giornata mite e
descrizione di una serena trasmette per un attimo l’illusione di essere in primavera, ma si è in
limpida e serena giornata realtà a novembre. In questo mesa cade infatti la cosiddetta “estate di San
novembrina. Martino” (l’11)m in cui si possono avere alcune giornate quasi estive; e cade
però anche la ricorrenza dei morti (il 2); così che il poeta può fondere i due
aspetti (quello dell’apparenza estiva e quello dell’autunno reale) nella
conclusione, definendo il clima quale “estate […] dei morti”.

La bella giornata novembrina sembra evocare la primavera, con l’aria tanto limpida da far pensare che il
biancospino sia già fiorito. Ma non è così: tutt’intorno vi sono rami secchi e terreno gelato; l’unico suono è il
quasi impercettibile cadere delle foglie. Non è primavera, me la falsa estate di San Martino.

La realtà dietro alle apparenze


La poesia è incentrata sul contrasto fra l’illusione realtà: ci sono segnali di primavera, subito negati da
inequivocabili presagi d’inverno. Il contrasto apparenza/realtà implica anche quello vita/morte, implicito
nelle immagini dei rami stecchiti, del cielo vuoto di uccelli, esplicito nel riferimento finale alla festa dei
morti. La poesia sviluppa il motivo del rapporto apparenza-realtà, attraverso il contrasto tra la cristallina
limpidezza di una bella giornata novembrina, che sembra evocare la primavera, e la realtà dell’inverno che
isterilisce la natura nell’immobilità del gelo. Pascoli pone l’accento sull’illusorietà delle apparenze,
sull’inganno della natura che nasconde la fredda realtà della morte. Il “Ma“ (v. 5) spezza subito l’incanto e
introduce la vera realtà del presente.

L’assenza dell’io
Questi temi psicologici sono tutti risolti in pure immagini che determinano una successione di sensazioni
olfattive, visive e uditive dell’orecchio attento a cogliere le voci più segrete della natura: l’odore del
prunalbo è amaro (v.3), una sinestesia che preannuncia la svolta triste del componimento; il cielo, prima
limpido come un vetro, sembra ora frantumato in mille pezzi dalle nere trame delle stecchite piante (vv. 5-
6); invece dell’atteso canto degli uccellini primaverili, intorno c’è soltanto silenzio (v.9), talmente profondo
che si potrebbe sentire il rumore di una foglia che cade in lontananza. Immagini e sensazioni sembrano
sussistere di per sé, staccate da una coscienza soggettiva: notare che nella poesia non compare un “io”, e
l’illusione dell’estate è attribuita a un “tu” generico.

La dialettica vita-morte
Le immagini di vita, di luce, di calore, nella prima quartina, sono rese dalla successione di suoni chiari e
aperti (“gemmea”, “aria”, “chiaro”) e dalla trama di rime, assonanze (“sole”-“fiore”), consonanze
(“chiaro”-“fiore”, “amaro”-“cuore”). Ma l’impressione di dolcezza primaverile è smentita dal “Ma” che
presenta la fenomenologia di una natura minacciosa e ostile.

Il fonosimbolismo
Alla musicalità del primo verso, si sostituisce, nella seconda strofa, un timbro caratterizzato dall’asprezza
delle sibilanti (“secco”, “stecchite”, “segnano”, “sereno”, “sonate”, “sembra”) e delle allitterazioni
consonantiche (r: “pruno”, “nere”, “trame”, “terreno”; v: “vuoto”, “cavo”) che rafforzano il senso di arida
durezza. L’idea della morte si riassume nell’ossimoro “estate, /fredda, dei morti”, posto in chiusura del
componimento con l’aggettivo “fredda” in posizione simmetrica a “gemmea” (v.1). L’accostamento,
sottolineato dal forte enjambement, tra l’estate di san Martino e la ricorrenza celebrativa dei defunti sigilla il
senso della poesia: l’inganno dei sensi dinnanzi a una realtà che illude e delude, dinnanzi a una natura che
nasconde dietro immagini di vita la presenza della morte.

Significato allusivo dei colori


La dialettica vita-morte è resa anche con opposte notazioni cromatiche. L’aggettivo “gemmea” trasmette
luminosità alla quale si rimanda il calore del sole, gli albicocchi in fiore e il prunalbo (bianco). Ma ecco poi
il “pruno” ovvero il “prunalbo” al quale è sottratta la “bianchezza”. E subito compaiono immagini di
“nerezza”, di negazione, assenza, vuoto: la natura è priva di vita (“secco” è il pruno, “stecchite” le piante,
“vuoto” il cielo, “cavo” il terreno) e di suoni (il cielo è privo del canto degli uccelli). Non c’è, in tutta la
seconda strofa, un sostantivo che sottragga alla qualificazione negativa; fa eccezione “sereno”, che rileva
però ambiguità semantica. Anche nella strofa finale la parola “estate” è subito azzerata dall’aggettivo
“fredda”.

Il valore simbolico del dato naturale


Anche in questa poesia si riscontra la consueta valorizzazione simboli- ca del paesaggio naturale. Alla
contrapposizione, presentata nel paesaggio, tra primavera (apparente) ed autunno (reale), oppure tra estate ed
autunno, si sovrappone la contrapposizione vita-morte: all’apparente rinascita della vita corrisponde in realtà
la morte incombente. Questa corrispondenza non appartiene al dato naturale in se stesso, ma scaturisce
appunto dalla sua simbolizzazione. L’idea della morte si impone attraverso una serie di allusioni simboliche:
il terreno risuona sotto i piedi così da apparire «cavo» (v. 7), suggerendo dunque la sensazione del vuoto e
del mondo sotterraneo, dove stanno i morti; il cade- re delle foglie è definito «fragile» (v. 11), aggettivo che
invita il lettore a passare dall’oggettività alla soggettività, dalla caducità delle cose a quella degli uomini. In
tal modo il riferimento esplicito alla morte nella conclusione del testo risulta una logica conseguenza di ciò
che prece- de, anche se resiste l’ambiguità della condizione naturale (ed esistenziale) negli *ossimori
«estate,/fredda» ed «estate [...] dei morti».
G. Pascoli, Myricae

Myricae
La prima edizione della prima raccolta pascoliana che comparve nel 1891, comprendeva 22 poesie; nelle
successive edizioni la raccolta fu via via arricchita, fino alla quinta, del 1900, che presenta il numero
definitivo di 156 componimenti. Myricae contiene dunque testi composti in momenti diversi, riveduti e
corretti nel corso delle successive edizioni, e in parte anche posteriori a quelli confluiti in altre raccolte; ma
nell’ordinamento generale della propria opera Pascoli propone questo libro come un ideale “primo tempo”
della sua poesia.

Arano

Anno: 1896 Arano è il primo di una serie di sette quadretti di vita rustica pubblicati nel
Metro: madrigale, 1896 col titolo “L’ultima passeggiata”, che diventò in seguito il titolo di una
composto da due terzine sezione di Myricae, aumentata a sedici componimenti, tutti di uguale forma
e una quartina di metrica.
endecasillabi.
Il madrigale era in
origine un
componimento per
musica; Pascoli ne adotta
la forma metrica
medievale.
Primato delle sensazioni
Il tema del quadretto di vita campestre è di illustre tradizione letteraria, ma Pascoli ne fa qualcosa di
completamente nuovo. In primo luogo elimina qualsiasi considerazione morale, qualsiasi risvolto
soggettivo: è una poesia di pure immagini, in cui l’io è assente. Non sono in primo piano i sentimenti o le
riflessioni ma le sensazioni: la poesia si apre con una notazione di colore (le foglie di vite che rosseggiano)
seguita da un’altra sensazione visiva (la nebbia che si alza lenta), e passando per i rumori dei lavori agricoli
(le grida dei contadini, l’urto della zappa sulle zolle) e si chiude giocando raffinatamente su un suono (il
cinguettio del pettirosso).

Abolizione delle gerarchie


In secondo luogo la visione pascoliana tende ad abolire ogni gerarchia tra gli esseri: uomini, animali, cose
partecipano della stessa vita. Si può notare in particolare che:
- L’unico essere a cui viene attribuito uno stato psicologico è paradossalmente un animale, il
pettirosso: l’uomo è costretto a subire il peso della natura perché nel momento in cui cerca di
seminare, il pettirosso impedisce all’uomo di seminare, in questo senso la natura prevale sull’uomo.
- La figura retorica dell’ipallage (v.5 “vacche spinge: altri semina”) che rappresenta una forma di
virtuosismo poetico, coinvolge un attrezzo nella stessa fatica di uomini e vacche.

Un linguaggio antico e moderno


Il linguaggio ha un delicato equilibrio fra tradizione e innovazione: i termini letterari (“roggio”,
“mattinal”che sono termini danteschi) si legano con naturalezza con quelli più usuali (“vacche”).
Compare poi, già perfetta, la maestria tipica di Pascoli nel trattare gli effetti ritmici e fonici in funzione di
riproduzione dell’oggetto rappresentato. La lentezza silenziosa della scena mattutina è sottolineata dal forte
iperbato iniziale (“Al campo… arano” vv. 1-4) e dalla ripetizione dell’aggettivo “lente” (v.4). Questa
lentezza iniziale è animata improvvisamente dalla presenza degli uccelli: ma mentre il passero è immobile e
silenzioso, il pettirosso canta portando gioia, e la parola “oro” chiude il componimento con una nota
luminosa.
Come spesso in Myricae, Pascoli rende irriconoscibile all’orecchio l’endecasillabo, il verso della tradizione
letteraria “nobile”, o frantumandolo attraverso la punteggiatura o allungandolo oltre i suoi confini per mezzo
dell’enjambement.

Pascoli e Carducci
Per valutare la novità della poesia pascoliana, può essere utile confrontare questo paesaggio autunnale con
quello ritratto da Carducci in “San Martino”. Tuttavia, la poetica pascoliana risulta più innovativa rispetto a
quella di Carducci.

Impressionismo
Il primato della sensazione e la riduzione di uomini, animali e oggetti a puri elementi figurativi, non ordinati
gerarchicamente, sono gli aspetti della poesia pascoliana per cui si può parlare di “impressionismo”, con un
termine mutuato dalla contemporanea pittura francese. Un esempio è la scelta della parola finale “oro” per
conferire una sorta di luminosità alla lirica.
G. Pascoli, Myricae

Il lampo

Anno: 1894 Pubblicata nella terza edizione di Myricae (1894), nella sezione “Tristezze” è
Metro: ballata piccola, la raffigurazione impressionistica di un evento atmosferico, il lampo, che
composta di illumina cielo e terra, nel silenzio sospeso che precede il tuono. Nello
endecasillabi, con la sconvolgimento della natura in tumulto s’intravede la precarietà del suo
ripresa costituita da un destino dell’uomo e la realtà rivela il suo volto spaventoso e angosciante.
solo verso (schema A
BCBCCA)
Argomento: l’inizio di
un temporale.

L’improvviso bagliore del lampo, che illumina la notte, assume la forza di una visione allucinata, di una
fulminea rivelazione. Il cielo e la terra, nell’attimo che squarcia d’un tratto il buio della notte, rivelano il loro
volto tragico. Una casa bianca appare e poi scompare, illuminata per un attimo, come un occhio che si apre e
si chiude.

La metafora degli ultimi istanti di vita del padre


La genesi della poesia non è, come potrebbe sembrare a prima vista, impressionistica. Il lampo è stato infatti
concepito quale metafora degli ultimi istanti di vita del padre agonizzante.

La segreta verità delle cose


L’improvvisa apparizione del lampo, che sconvolge gli aspetti della natura, assume la forza di una visione
allucinata, di una fulminea rivelazione. Il cielo e la terra, nell’attimo improvviso del bagliore che illumina
d’un tratto la notte, rivelano il loro volto tragico. Il verso iniziale, introdotto dalla congiunzione “E” enuncia
una tragica verità, anticipata dai due punti. La luce improvvisa del lampo mette infatti a nudo, anche se solo
per un attimo, la vera essenza dell’universo: il mondo non appare più come compatto e ordinato, bensì
tragicamente lacerato e ferito.
Gli aggettivi
La terra è descritta con espressioni che fanno penare all’agonia di un essere vivente: “ansante, livida, in
sussulto”; il cielo con aggettivi che trasmettono l’idea di una catastrofe imminente e insieme alludono alla
sofferenza umana.

Un nido fragile nel “tacito tumulto”


Allo sconvolgimento degli elementi naturali si contrappone la casa, segno di presenza umana, ultimo rifugio
prima dello scatenarsi della tempesta. Consueto simbolo del nido, essa non si presenta però come un luogo
sicuro e protettivo, ma appare fragile e precaria nel “tacito tumulto” (ossimoro e allitterazione insieme),
nel silenzio allucinato che precede lo scoppio del tuono. La casa affiora per un attimo per poi essere
anch’essa inghiottita dalle tenebre. Lo stesso colore “bianca bianca” che la qualifica, rafforzato dalla
ripetizione, diventa pallore spettrale e allude alla fragilità umana.

L’ultimo sguardo di un morente


Questa impressione culmina nell’associazione analogica, sottolineata dall’improvviso apparire-sparire di
entrambi i termini della similitudine (“apparì sparì”; “s’aprì si chiuse”), tra la casa e l’occhio, che rimanda
allusivamente all’ultimo sguardo del padre che apre gli occhi, con espressione di terrore, per richiuderli
subito nella buia oscurità della morte (“notte nera”).

La tragica assurdità dell’universo


In punto di morte, nel momento della verità, ogni mito consolatorio cade e l’universo si rivela nella sua
tragica assurdità. Con l’immaginazione allucinata dell’occhio largo ed esterrefatto, la deformazione della
realtà raggiunge il culmine e il poeta riesce nell’intento di proiettare sul mondo esterno la sua visione
disperata e la sua tormentata soggettività.
Censura dell’autobiografia esplicita
Il trauma della morte del padre è occultato come esplicita occasione biografica. La tragicità della circostanza
biografica diventa esperienza conoscitiva: il trauma personale è proiettato in senso simbolico nei versi, tanto
da coinvolgere l’intera natura, fissata nei rapidi segmenti di una sconvolta allucinazione.

L’aspetto fonico e il ritmo


Il testo presenta una trama fonica molto ricca: rime interne ai versi, assonanze, consonanze, allitterazioni:
terra ansante; bianca bianca; apparì sparì; tacito tumulto; s'aprì si chiuse; notte nera.

Il ritmo presenta un andamento alterno: un ritmo lento corrisponde alla rappresentazione iniziale della
natura, avvolta dal nero della notte, sconvolta, violentata dalla bufera che si addensa su di lei (e dalla vista
del tremendo crimine); nei versi 2-3 il ritmo è rallentato dalla presenza della virgola e da parole trisillabiche,
due delle quali sdrucciole (livida; tragico). Nei due versi successivi l’accostamento per asindeto (bianca
bianca; apparì sparì) rende il ritmo concitato, per poi rallentare nuovamente nel sesto verso. Al centro del
testo si colloca la rapidità della visione di una casa, che appare intensamente illuminata dal lampo per poi
immediatamente sparire, come l’aprirsi sbalordito di un occhio che subito si richiude. L’attimo di terrore e
stupore è come sospeso e dilatato dall’aggettivo esterrefatto che, unitamente alle virgole, rallenta il ritmo. La
chiusura del verso 7 sembra contrapporre alla rapidità della visione (s’aprì si chiuse), il buio inesorabile
della notte (della morte).

Figure retoriche principali


Tra le figure retoriche, da notare: il climax ascendente dei versi 2 e 3, che sono disposti a chiasmo rispetto
al primo verso; l’ossimoro tacito tumulto, che indica il silenzio angosciato dell’attimo che precede il tuono;
la similitudine tra l’apparire della casa e l’aprirsi dell’occhio. Poiché il rapporto tra i due elementi è legato
alla repentina visione della casa, che subito scompare ed all’aprirsi e richiudersi, altrettanto rapido,
dell’occhio, l’elemento di connessione sembra essere il lampo, che permette la visione della casa.
G. Pascoli, Myricae

X Agosto

Anno: 1896, 1897 La poesia è apparsa per la prima volta nel “Marzocco” del 9 agosto del1896,
Metro: sei quartine di alla vigilia dell’anniversario dell’uccisione del padre, avvenuta, in circostanze
decasillabi e novenari, rimaste oscure, il giorno di San Lorenzo (il 10 agosto), quasi trent’anni prima
con rime alternate (1867). Entra. Nella quarta edizione di Myricae (1897).
(schema ABAB)
Argomento: il ricordo
dell’uccisione del padre
Il poeta rievoca l’assassinio del padre, ucciso il 10 agosto 1867, nel giorno dell’anno in cui si manifesta con
maggiore intensità il fenomeno delle stelle cadenti, viste come lacrime versate dal cielo per la cattiveria del
genere umano. Una rondine viene uccisa mentre tornava al nido con la cena per i suoi piccoli, che aspettano
invano. Allo stesso modo è stato ucciso il padre di Pascoli, che tornava a casa con due bambole in dono, che
ora restano rivolte verso il cielo lontano, mentre nella casa solitaria lo aspettano inutilmente. La tragedia
domestica e il dolore personale diventano vicenda universale. Il cielo infinito, che sfavilla con mille luci e
che non conosce l’angoscia della morte, inonda d’un pianto di stelle la Terra, questo piccolo pianeta opaco,
dominato dal dolore e dalla sofferenza per la malvagità degli esseri umani.

Rigorose simmetrie
Una stretta corrispondenza lega da un lato la prima e l’ultima strofa, dall’altro la seconda e la quarta, e
ancora la terza la quinta. La strofa iniziale quella finale si corrispondono sotto il profilo sia tematico sia
grammaticale. La Terra non è che un minuscolo frammento intriso di male e il cielo, che non conosce
sofferenza né morte, può solo ricoprirla d’un “pianto di stelle”.

Una rondine e un uomo


Rigorosa anche la simmetria tra le strofe centrali, costituite, due a due, sul parallelismo tra l’uccisione della
rondine e l’assassinio del padre, rafforzato dalla ripetizione, attraverso procedimenti anaforici, di formule
identiche o molto simili. Si osservi, all’interno della simbologia del nido cara Pascoli, lo scambio tra mondo
umano e animale: il nido della rondine è un “tetto”, la casa dell’uomo un “nido”. Da notare anche
l’associazione sinestesica al v.15 (“restò negli aperti occhi un grido”): a un’immagine di tipo visivo (la
smorfia di terrore stampata sul viso dell’ucciso) ne corrisponde una di tipo uditivo (il grido).

La simbologia cristiana
Il padre e la rondine diventano emblemi della sofferenza e dell’ingiustizia che dominano la vita sulla
Terra. L’immagine della rondine abbattuta, che cade tra gli “spini” con le ali aperte “come in croce” (v.9), e
l’ultima parola dell’uomo che morendo perdona i suoi uccisori, sono allusioni al sacrificio di Cristo. Ma qui
il sacrificio delle vittime senza colpa non comporta, come quello di Cristo, una prospettiva di salvezza, non
diviene mezzo di redenzione del male. Neanche la fede data dal sacrificio di Cristo è in grado di fornire
risposte al dolore universale.

Motivi e fonti
La proiezione analogica delle stelle cadenti come pianto del cielo rimanda da un lato alla leggenda popolare
che fa delle stelle le lacrime di San Lorenzo, dall’altro a modelli come un madrigale di Tasso (“Qual rugiada
o qual pianto, / qual lagrime eran quelle / che sparger vidi”) o il madrigale dannunziano “Tristezza d’una
notte di primavera”. La similitudine della rondine è presente in una stesura della “Pentecoste” manzoniana.
Altre reminiscenze manzoniane sono gli aggettivi “immobile”, “attonito” (v.19), ripresi dalla prima strofa
del “Cinque maggio”.
G. Pascoli, Myricae

L’assiuolo

Anno: 1897 Ritenuto uno degli esempi più significativi e maturi del simbolismo
Metro: tre doppie pascoliano, L’assiuolo è pubblicato per la prima volta nel gennaio 1897 sul
quartine di novenari, a “Marzocco” e viene incluso lo stesso anno nella quarta edizione di Myricae. È
rima alternata (schema: ritenuta una tra le liriche più rappresentative del simbolismo di Pascoli, la cui
ABABCDCD), seguite poetica è ormai matura.
da un monosillabo
onomatopeico.
Argomento: le
sensazioni suscitate da
un verso di un assiuolo,
in un suggestivo notturno
di luna (che non si vede)

In un paesaggio notturno, silenzioso, illuminati dal chiarore di un’invisibile luna (c’è ma non si vede), in
prossimità del mare e nell’imminenza di un temporale, il poeta percepisce lievi rumori e misteriosi suoni
naturali. In particolare, è colpito dal verso di un assiuolo, rapace uccello notturno, che risuona nell’aria come
un singhiozzo, come un messaggio di morte.
Dal Naturalismo al Simbolismo
L’occasione da cui prende avvio la lirica è priva di particolare rilievo (il verso di un uccello nella notte). Ma,
attraverso una libera trama di corrispondenze analogiche e l’adozione della tecnica fonosimbolica, il
poeta dissolve i contorni del quadro, sfuma gli oggetti, suggerisce dietro di essi il movimento di presenze
inquietanti. Il suono del vento in particolare porta all’annuncio di morte, si determina l’unione del
simbolismo alle credenze popolari: gli elementi della natura in un paesaggio notturno fanno emergere una
riflessione sul mistero della morte attraverso la rappresentazione di una realtà oggettiva dietro la quale si
cela una soggettività che Pascoli esprime con il suo fonosimbolismo.

Un paesaggio stregato
Cogliendo lo spunto offertogli dalle credenze contadine, secondo cui il canto dell’assiuolo annuncia
disgrazie, il poeta istituisce una corrispondenza tra il verso dell’uccello e il suo lugubre annuncio, come tra
i suoni delle cavallette e quelli dei sistri, strumenti rituali usati nelle cerimonie funebri dell’attico Egitto.

La struttura
Il disegno del quadro non segue una successione logica, ma procede per rapide intuizioni, per circolari
ritorni (il ritornello “chiù”), che suggeriscono la percezione di un turbativo mistero. Le tre strofe sono
strutturate secondo uno schema simile: alle immagini tranquille e serene della prima parte (“l’alba di perla”
del v.2, le stelle che rilucono nel chiarore diffuso della “nebbia di latte” e il “cullare del mare” dei vv. 9-11)
si sostituiscono nella seconda immagini più angoscianti e misteriose (“soffi di lampi” al v.5, il rumore che
proviene dalle fratte al v.12) che si materializzano nel lugubre verso dell’assiuolo. Anche nell’ultima strofa,
l’immagine della luce lunare è accostata a note non liete (il sospiro tremante del vento, il luttuoso suono dei
“sistri” delle cavallette). A sottolineare l’incertezza e l’ambiguità torna, come in apertura, una domanda che,
rafforzata dall’avverbio “forse” e dai puntini di sospensione, introduce l’enigmatica immagine delle
“invisibili porte” che sono probabilmente quelle della morte. E infine, il verso dell’assiuolo si trasforma in
un autentico “pianto di morte”.

Una raffinatissima trama fonica


Dall’onomatopea del “chiù” e del “fru fru” delle cavallette, il fonosimbolismo si estende all’intero tessuto
del testo, per comunicare il senso di mistero e di inquietudine. Numerosissime appaiono le allitterazioni con
valore onomatopeico (esempio l’alliterazione r in “fru fru tra le fratte”) nel sintagma «finissimi sistri»
l'insistenza sulla vocale dal suono sottile i e sulla sibilante s rende fonica- mente l'impressione dello stridulo
verso delle caval- lette. Come accade spesso nella poesia pascoliana, la voce «tintinni» viene poi
«disseminata» nei versi circostanti («fINIssIMI SIstrI d'argeNto / TINTINNI INvisibili porte»). Si noti
l'insistenza in tutta la lirica sulla u («luna», «nubi», «lucevano», «cullare», «fru fru», «sussulto»,
«singulto»), sonorità tematica delle parole che rimanda a suono del «chiù». Il grido lamentoso dell'assiuolo
finisce così per condensare ogni altra immagine intorno a un'unica voce di tristezza cosmica. Ne deriva
l'intuizione del vivere come dolore, come fatale precipitare verso la morte. Per quanto riguarda le rime, la
vocale tonica è comune nei primi quattro versi di ogni strofa: -elo, -erta; -are, -atte; -ette, -ento. Ľ’ultimo
verso di ciascuna strofa, monosillabico, è sempre il richiamo dell'assiolo, il ritornello «chiù», che rima con il
sesto verso di ogni strofa.
G. Pascoli, Canti di Castelvecchio

Il gelsomino notturno

Anno: 1901-03 La poesia è elaborata in pochi giorni in occasione delle nozze dell’amico
Metro: sei quartine di Gabriele Briganti, nel luglio 1901. I versi presentano il gelsomino notturno, un
novenari, a rima alternata fiore straordinario che apre i suoi petali al crepuscolo per chiuderli all’alba.
(schema ABAB)
Argomento: il
concepimento di una

Il poeta osserva nella notte due scene parallele: il ciclo erotico-sessuale della fecondazione dei fiori, che si
conclude simbolicamente con l’immagine dei petali sgualciti, e l’intimità di una prima notte di matrimonio,
nell’interno di una casa. L’alba porta una feconda promessa di felicità. Al poeta, che osserva dall’esterno,
spetta il ruolo di chi si sente escluso dal rapporto con gli altri e con il mondo.
Poesia d’amore
È una poesia d’amore e, insieme, di esclusione dall’amore, di ambigua contemplazione dell’amore altrui,
quale può essere consentita a un poeta ossessionato dal “nido” originario, sul ricordo dei propri familiari
defunti, quindi turbato dall’impossibilità di stabilire con gli altri un rapporto costruttivo.

Eros naturale, eros umano


Tra eros naturale (la fecondazione dei fiori) ed eros umano è stabilito uno stretto parallelismo: l’unico
estraneo è il poeta che pensa ai suoi cari (v.2). Questo canto alla vita si rivela dunque, per l’autore, una
tormentata mediazione sulla propria vita non vissuta.

Un linguaggio simbolico
La dimensione temporale collocata in un presente fuori dal tempo si unisce alla complessa trama di analogie
e sinestesie (“l’odore di fragole rosse”, “La Chioccetta per l’aia azzurra / va col suo pigolìo di stelle”).
L’attacco con la congiunzione “E” allude a una continuità con qualcosa che precede. Notevole è l’uso della
metonimia (il contenente per il contenuto) e sineddoche (la parte per il tutto).

Simbologia floreale
La simbologia floreale presenta una particolare valenza erotica. L’aprirsi del gelsomino, con cui ha inizio la
lirica, insieme al diffondersi di un intenso profumo è un invito all’amore. I puntini di sospensione che
seguono lo spegnersi della luce al primo piano (v.20) esprimono la reticenza del poeta di fronte all’atto
amoroso.

Amore e morte
Il componimento è percorso dalla compresenza dialettica di amore e morte a indicare la complementarietà
dei due momenti. L’apertura dei “fiori notturni” (v.1) è seguita dal richiamo alla memoria dei defunti
(“nell’ora che penso a’ miei cari”, v.2), ai fiori dei “viburni” (v.3) segue l’immagine delle “farfalle
crepuscolari” (v.4), che la credenza popolare avverte come presagio di morte. Nella terza strofa le immagini
suggeriscono il mistero della vita che si rinnova, con una luce ancora accesa (“Splende un lume là nella
sala”, v.11), mentre nel verso seguente l’erba che nasce “sopra le fosse” (v.12) allude alla continuazione
della vita, al suo imporsi oltre alla morte.

L’esclusione
Il poeta intende esorcizzare il suo difficile e sofferto rapporto con la sessualità attraverso il richiamo alla
memoria dei morti e la regressione all’infanzia. Edificare un proprio “nido”, diverso da quello originario,
significherebbe tradire un vincolo sentito come sacro e inviolabile. Al motivo dell’esclusione, ribadita dalla
ripetizione dell’avverbio “là” (“là solo una casa bisbiglia”, “splende un lume là nella sala”), allude
l’immagine dell’ “ape tardiva” che ha trovato già prese le celle e si aggira in desolata solitudine. Questo
mancato coinvolgimento nella continuazione della vita esprime il rammarico per l’insoddisfatto desiderio
di paternità, più volte confessato da Pascoli.

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