Sei sulla pagina 1di 99

A chi prova emozioni

e non ha paura di mostrarle.

Premessa

Nei pochi capitoli che seguono tro-


viamo una breve parte di vita della giovane
Margaret, una trentenne anarchica dal cuo-
re grande. Donna solitaria e troppo sensibi-
le. Terribilmente romantica, anche se a un
primo approccio non sembrerebbe. È solita
bere vino, alcol, soprattutto la sera, anche
se non deve lavorare no a notte fonda.
L’ambientazione del racconto subi-
sce spesso variazioni. È voluto, ma solo per
rendere al lettore la vita più complicata. I
principali protagonisti esistono nella vita
vera, i loro nomi sono volutamente di fanta-
sia così come i loro lavori nella maggior
parte dei casi. Lo stesso vale per i luoghi,
palazzi e città citati. Il resto è tutto frutto
della mia immaginazione.
Poche pagine in cui non si svela mai l’epoca
in cui si svolgono i fatti. E, sebbene la men-
zione di qualche etichetta potrebbe fornire
una traccia al lettore, l’idea è quella
di sviluppare temi attuali anche nei giorni
nostri, le cui vite sono controllate dai social
3

fi

media e la conoscenza di noi stessi passa


attraverso lo smartphone. Vite non paghe di
tumulti, pensieri. Il racconto vuole palesare
quanto il peso dell’attesa delle risposte che
vogliamo sia alienante.
I pensieri scambiati nutrono le vene,
bruciano e alimentano il sentimento.
Sarà solo con il confronto che si riuscirà a
trovare compimento.
Il titolo rappresenta il rammarico di
uno dei protagonisti, e il vedere sempre il
buono nelle persone di Margaret si con-
trappone ai seccanti e contraddittori com-
portamenti da cui trae ispirazione e slancio
per interrogarsi e continuare a sperare nel-
l’apertura al dialogo.
Una porta sempre aperta al cambiamento e
all’ascolto di altri punti di vista. Se questo
non avverrà, signi ca che di fondo ci po-
trebbe essere una presa di coscienza parzia-
le circa le proprie intenzioni o che l’interlo-
cutore sia costernato e volubile.

In un limbo tra volere e (non) potere. Per-


ché impegnato con se stesso, con i suoi ob-
4

fi

blighi morali. E sociali. Ma nulla vieta alla


mente di sognare e di fantasticare su incon-
tri e relazioni.

La vita di Margaret appare incom-


piuta no a quando non sceglie di uscire da
una situazione troppo ingarbugliata, appa-
rentemente priva di futuro. Una vita stan-
ziale, con un lavoro che la porta ad allonta-
narsi da quella che è la sua vocazione: tro-
vare risposte alle sue domande dinanzi fatti
e persone. I numerosi stimoli che le arriva-
no non le consentono di fermarsi e vivere i
suoi sentimenti, che si rimettono dunque al
giudizio di queste pagine essendo essi gli di
emozioni dif cili da dimenticare. Siano esse
sognate, non ancora vissute o realmente ac-
cadute.

Erika Mantovan

5

fi

fi

fi
CAPITOLO I

Solitudine al lavoro

1.

Ginevra

Il tintinnio della pioggia sui vetri si


confonde con quello delle mie dita sulla cal-
colatrice. Suona il telefono. È il sso. Un
telefono messo lì da poco. Una mezza rivo-
luzione. Uf cio in cui fondamentalmente
resto poco perché mi tocca andare in giro a
fare sopralluoghi. Preparare documenti. In-
fatti è quasi sempre sporco, ma l’andarci
rende la vita nel suo insieme un po’ più or-
dinaria. Una piccola casa abbinata a una
sensazione di stabilità.
Al telefono c’è Charles Ward, dall’Inghilter-
ra. Dopo tre mesi di ricerca era riuscito ad
acquistare diverse bottiglie di pregio e opere
d’arte da collezionisti privati. Una bella for-
tuna, di già che si parla di uno

fi

fi
dei più importanti titolari di Case d’Aste
internazionali. Una passione lentamente
ereditata dal padre.

«C’è un tempaccio a Londra. Novità?».


«Nessuna. Solita routine e lamentele gesti-
bili grazie a quella buonanima di tuo pa-
dre».

Mi richiamò ancora nel pomeriggio, per


altre carte e questioni burocratiche. Scuse
per risentirmi. Almeno credo. Aveva la voce
più impacciata del solito. Si stentava a cre-
dere a quel tono. Non ci vedevamo da mesi.
E quell’ultima sera prima della sua parten-
za per Londra non era propriamente in lui.
Era un po’ alticcio, la lingua si inciampava.
Parlava di una ipotetica “serata nostra” a
Le Chat-Botté, “Il Gatto con gli stivali”.
Avevo poi veri cato il nome del ristorante.
Pensavo mi stesse prendendo in giro.
Il ristorante esiste eccome. È uno stellato
della città con una cucina francese moder-
na.

fi

Cinque anni prima

È la sera della mia prima trasferta.


La mia prima asta. Con i Ward non si sa
mai dove si nisce, improvvisano quasi
sempre. Ed è bello così. Finita l’asta, ci
diamo appuntamento al Le 42, Champéry.
Parcheggiare è un delirio. La multa è assi-
curata. Poco importa, vista la vendita di 10
lotti, quasi tutti di Bordeaux 97 e 99, biso-
gnava far capire a Charles che presto
l’azienda avrebbe avuto bisogno di lui. Io
mi limitavo ad ascoltare. Conoscevo appena
i Ward, e Charles era poco più di un’ im-
magine. Ci raggiunse anche lui. La sua ve-
locità di ragionamento non lascia il tempo
di reagire. Parla in modo lento ma è un bot-
ta e risposta continuo con il fratello minore,
Edward. Due fratelli che si contendono l’at-
tenzione del padre, Paul. Dif cili da gestire
quanto da sopportare. Continuano a ordi-
nare bottiglie di champagne. Neanche un
vecchio millesimato di un piccolo vigneron
della Montagne de Reims riesce a placare
gli animi. Alla quarta sigaretta si inizia a
8

fi

fi
sparlare degli acquirenti, tra buoni e cattivi.
Chi con la doppia vita, chi con troppe so-
cietà, chi si nasconde dietro un prestanome.
Solo voci.
È tempo di rientrare, Charles mi offre un
passaggio.

«Quanto dobbiamo aspettare ancora per il


tuo ingresso in azienda?».
«Non saprei, ho ancora molte questioni in
sospeso con le banche. L’hai già aperta la
vineria?».

Come facesse a sapere che mi aveva-


no chiesto di aprire un locale resta un mi-
stero. Anche se sarei pronta a scommettere
sulla colf e le sue antenne sempre dritte.
«Nessun locale, non ho nessuna intenzione
di passare la vita in uno stesso posto».

Ci chiudiamo in un silenzio tombale.


Scesa da quella Berlina pensai che il mio
futuro con lui non sarebbe stato affatto faci-
le. Movimentato sì.

2.

Era arrivato il tanto atteso giorno


per Charles. Finalmente in azienda.
Alla sera c’era una s lata di bene cenza
alla Villa dei Robinson. Pioveva a dirotto.

«Vai con Edward, non voglio fare tardi. Da


qua a Lancy è troppo lontano».

Adesso, lontano… Ha una strana concezio-


ne del tempo e dello spazio.
Arriviamo zuppi. E più che una s lata sem-
bra un rave. Donne mezze nude che cam-
minano ovunque in mezzo alle piscine.
Grandi fontane illuminate in realtà. La se-
rata di bene cenza era una copertura per
poi dar libero sfogo ad altri incontri di lavo-
ro “occasionali”.
Ogni tre metri c’è un angolo bar. Guardia-
mo il lato positivo. E fortuna che piove.
Metà degli invitati non si sono presentati.
Edward in meno di un’ora ne carica una, io
nisco a fare l’attaccapanni in un salone.
Cerco invano facce amiche per mettermi a
10
fi

fi

fi

fi
fi

parlare della scarsa qualità dei drink. Mi


accompagnano in un altro giardino, una
sorta di privé. Ad accogliermi c’è la moglie
di Charles. Elisabeth, una borghese che fa
l’oca per non pagare il dazio. Ossigenata.
Mi squadra dall’alto in basso. E non fa che
fare domande. Una situazione per me inso-
stenibile dopo cinque minuti. Quando si
torna a casa?

Il secondo giorno di Charles nell’a-


zienda di famiglia inizia con una lunga atte-
sa. Essendo rientrati all’alba ci presentiamo
in uf cio nel pomeriggio. Ma la moglie
c’era, sarà abituato a questi tipi di racconti.
Riuscì a integrarsi in poco tempo. D’altra
parte si trattava di gestire i contatti del pa-
dre, avere gusto e trattare i prezzi delle ope-
re e dei vini.
3.

È Natale, ci sono luci dorate ovun-


que, la neve dilata il tempo di arrivo di
qualche dipendente al consueto pranzo
aziendale, uno dei pochi momenti dove si
11

fi

può stare felicemente assieme e sorseggiare


un bicchiere. L’unico vero scopo del pran-
zo, diciamolo senza vergogna. Nell’attesa si
stappa qualche rosso. Charles è già visibil-
mente ebbro. Scappa dopo un improvviso e
fortissimo abbraccio. Come quello di un
bambino alla madre che non vede da mesi.
Un abbraccio n irritante, che mi resterà
impresso per tutto il periodo delle vacanze.
Mi rintano nel mio mondo delle
idee, ammetto solo la voce alla radio. Trovo
qualche scusa per scrivergli, per cercare un
contatto. Mi rispondeva a monosillabi.
Mi ritornavano in mente i pettegolezzi con-
tinui sulle sue sbandate e presunte scorri-
bande a luci rosse fatte oltremare. Dagli
scontrini, le contabili riuscivano a creare
storie incredibili. Il mio fastidio era ferale.
Era fondamentalmente solo. Non si dava
di nessuno. Aveva bisogno di un alleato.
Riesco a dirgli tutte le magagne che vedo.
In poco tempo avevamo creato un buon
team di lavoro.

12

fi

fi

4.

Innsbruck

Otto mesi dopo era tempo di andare


ad aprire il cottage in montagna per qual-
che giorno di vacanza. Parecchie le strade
chiuse ma riesco a raggiungere nalmente
Innsbruck. Il tempo è clemente. Mia zia
Jane da quando si è separata si diletta a cu-
cire. Mia cugina Claire non perde tempo e
mi porta a cena. Mi racconta dell’ultimo
viaggio con Jacob.
Facevo nta di ascoltare e gioire di quei loro
tuf in mare dal caicco. È notte, faccio l’er-
rore di accendere il computer per scaricare
la posta. Una la di mail con toni sempre
più infuocati appaiono sullo schermo. Pare
ci sia stato qualche intoppo all’inaugurazio-
ne di una galleria d’arte a Roma. Era spari-
ta un’opera prevista all’asta d’autunno.
Devo avvisare Charles.

Suona il telefono.

13

fi
fi

fi

fi
«Grazie Margaret, abbiamo risolto».

Una freddezza polare. E che ne potevo io.


Da settimane è chiuso in se stesso. Sempre
più complicato stargli dietro. Non vedo
molte prospettive di carriera poi. Una car-
riera che nemmeno esiste. Un solo uomo al
comando. Tutti gli altri eseguono. Era me-
glio cambiare lavoro? Lo pensavo già prima
del suo arrivo.

5.

Ginevra

C’è davvero troppo silenzio anche
per persone solitarie come me. Non suona il
telefono neanche a piangere. Sopporterei
per no le lamentele più infauste degli ac-
quirenti pur di non dovere guardare l’oro-
logio. Se solo Charles fosse qui, si invente-
rebbe qualcosa da farmi fare.

14

fi

La settimana dopo se ne arriva in


fermento. Lo riconosco dalla brusca frenata
nel parcheggio.

«Margaret vieni nel mio uf cio. Ora».

Che agitazione.

«Andremo a Parigi per la prossima asta.


Non possiamo sbagliare nulla».
«Daremo il massimo Charles. Come sem-
pre».

Vado a casa sognante, già mi vedo cammi-


nare sulla Senna. E magari Charles si sa-
rebbe sciolto un po. Ma farà sesso con la
moglie? Mi è sempre venuto il dubbio. A
letto di certo non può sempre stare a toc-
carsi gli occhiali e i polsini della camicia.

6.

Parigi

15

fi

Arriva la mattina della presentazione


dell’asta, Charles si diverte a mettermi in
dif coltà, a giocare. Gira la mia sedia dalla
sua parte. Dannate sedie girevoli da uf cio
anni ottanta. Prossimo lavoro e uf cio chie-
derò una bella poltrona ssa. Volutamente
gli davo la schiena. Eravamo tutti agitati,
non era il momento di scherzare.
Suona il telefono.
Il suo mezzo sorriso si spegne del tutto.

«Edward è in coma a Lussemburgo. Pare


sia stato investito mentre veniva qui. Annul-
la tutto».
Si vaporizza.

Due giorni dopo apprendo dai giornali


l’ora del decesso e il giorno del funerale.
Ero rimasta in hotel due giorni in attesa.
Ecco Robert, l’autista, ha la valigia di Char-
les in mano.

«Fai sparire i giornali. Andiamo via. Lui ci


aspetta».

16

fi

fi

fi
fi

7.

Ginevra

Dall’incidente mando avanti solo più


le richieste di acquisto di opere che abbia-
mo nei saloni e quelle dei vini nel caveau.
Niente aste. Niente viaggi. Niente di niente.

«Paul, sa quando torna Charles?».


«La prossima settimana».

Gli era cresciuta la barba, sembrava


quasi più alto. Stava bene. Prima di tornare
a casa mi affaccio al suo uf cio. È rivolto
verso la nestra. La nuvola di fumo non mi
impedisce di vedere la bottiglia che ha in
mano. Poteva esser un Clos Rougeard, il
più grande Cabernet franc che io conosca.
L’etichetta è riconoscibilissima.

«Charles!».
«Margaret, vieni. Chiudi la porta. Bevi con
me».
17

fi

fi

C’è una presenza fruttata, carnosa,


anche l’acidità pare essere elettrizzata. Una
costola più vegetale attraversa tutto.

«È giovane».
«Non hai perso il tuo palato, Margaret».
«Mi tengo in allenamento».
«È ancora brillante, lo inseriremo sicura-
mente nella prossima asta.
Abbiamo parecchie bottiglie in stock. Io
parto domani, non so quando tornerò».

Si alza, mi da una pacca sulla spalla e va


via. Non una parola. E io resto lì, impalata
davanti alla bottiglia. Il bicchiere è ancora
mezzo pieno. Non resisto, lo nisco. Non si
poteva chiedere di meglio.

18

fi

CAPITOLO II

Andare oltre

8.

Chiasso, un anno dopo

Dopo aver lasciato Ginevra, e quel


rapporto con Charles, che de nire strano
era un complimento, avevo chiesto asilo a
mio zio1. Aveva rilevato un giornale e una
casa editrice a Chiasso. Il vino era una mia
passione, son cresciuta a suon di feste. Un
elemento imprescindibile nelle cene di fa-
miglia. E a nobili aperitivi con gli amici sin
dai tempi dell’Università. Si divertivano a
bearsi di me, gioivano quando li portavo in
nuovi posti. Bei tempi. Certe bottiglie sono
entrate in me, come una trasfusione di san-
gue. Mi ero messa a scrivere. E a furia d’in-
sistere, il mio nome sparì dalle colonne delle
“rubriche di gossip”. Alla sera andavo sem-

1 L’ex marito di zia Jane.


19

fi
pre a prendere un bicchiere da John, alle
Vecchie Cantine. Avrei potuto vendere i
vini al posto suo a quei pochi turisti che
passavano. Erano sempre quei cinque, tra
Nebbioli della Valtellina, Gewurtztraminer
altoatesini e Pinot neri dell’Oltrepò pavese.
Doveva cambiare, arricchire l’offerta. Lo
aiutai, qualche contatto lo avevo ancora.
Divenne un caso di successo in pochi mesi.
Un caso da prima pagina, seppur locale,
che mi fece guadagnare la ducia e il rispet-
to dei colleghi. Ai loro occhi ero pur sempre
un paracadutata che si improvvisava in un
mestiere non suo. Mi notarono altre testate.
Ora mi ritrovo a vagare per ristoranti e can-
tine vinicole per raccontare novità, fatti.
Persone. Mi sento realizzata, con uno sco-
po. Sempre in movimento. Le mie sensa-
zioni e ragionamenti sono al servizio di ter-
zi per rappresentare la realtà. Un vagheg-
giare che mi aveva portata anche a Saillans,
nel ristorante di Albert Morrow, giovane
chef in ascesa.

20

fi

9.
Lago di Verona

L’appuntamento è per oggi, lunedì


23 agosto, ore 17.00 a Punta San Virgilio.
Bisognava prendere quel tanto chiacchiera-
to gin tonic. Secco, con tanto ghiaccio. La
tonica rigorosamente a parte. Aspetto Al-
bert seduta su una panchina fuori da Villa
Guarienti, sullo sfondo solo un tiepido sole
specchiato sul lago e il ri esso di qualche
barca. I cipressi mi danno un senso di pro-
tezione. Mentre sono intenta a scrivere su
un quaderno gli appuntamenti della setti-
mana guardo l’ora, sono le 17.05. Forse
non verrà. Non ci sentiamo da settimane, si
trattava di un appuntamento fuori dal suo
ristorante, nell’ultimo suo giorno di vacanza
poi, mi aveva con dato che sarebbe partito
per una nuova avventura in Montenegro.
Il gin tonic servirà doppio in ogni
caso. Sono rimasta affascinata da Albert dal
primo piatto che mi ha portato allo chef ta-
ble, o come diavolo si chiama. Mi aveva ap-
pena s orato il gomito, l’avambraccio, pri-
21

fi

fi
fl

ma di ritirarsi nella sua cucina a vista. Una


falcata indimenticabile. Fiera, elegante ma
decisa. Mi piace la sua doppia veste, da un
lato c’è l’uomo che vuole farsi vedere forte e
invincibile, ma con una voglia sfrenata di
divertirsi, e dall’altra c’è lo chef, da poco
salito alla ribalta dopo un lungo trascorso in
ristoranti in giro per il mondo. È colmo di
sogni, si dedica totalmente a lui e alla sua
cucina. Mi intimorisce il suo passato. E il
suo futuro. Ho i morsi alla pancia come
quando lo avevo vicino. Occhi grandissimi,
di un verde mattone. Mani bellissime,
grandi e affusolate.

Ore 17.45, è chiaro che non verrà.

Ci speravo, una parte di me non nu-


triva grandi aspettative in realtà. Di certo
ero stata io quella a insistere. Il suo sguardo
è ben stampato nella mia testa, c’è tutta la
sua sicurezza quanto incertezza di chi deve
gestire per la prima volta un locale.
Il suo pro lo iniziava ad essere sotto la len-
te. Chiacchierato. Nell’ultimo nostro incon-
22

fi

tro era stato piuttosto chiaro: non c’era spa-


zio per altro nella sua vita in questo mo-
mento. Eppure ci sentivamo spesso, parla-
vamo del futuro. Sempre così gentile poi, ci
andava qualche minuto per tirare fuori la
sua parte più divertente. Bisognava sempre
ripartire da capo. Ma giustamente non si
dava, non aveva tempo da perdere. Nelle
ultime settimane si era sbilanciato un po’ di
più. Era più naturale. Sé stesso. Lo aspettai
per ore. Volevo farmi conoscere fuori dal
mio ruolo. Volevo vedere Albert senza il
cappello da cuoco. La tiriamo avanti da
mesi. Sono stata nel suo ristorante cinque
volte. Non potevo più nascondermi dietro
alla tastiera. C’era ancora un’ultima scusa
per tornare. Me l’aveva scritta: “Ho aggiun-
to dei piatti dopo la tua ultima visita. Sono
qui che ti aspettano, ma non so per quanto.
Mi piace cambiare, lo sai”.

In poco tempo sapevo già molto di


lui, nei suoi comportamenti contraddittori
si nasconde questo interrogativo perenne di
quello che potrebbe essere se solo ci si la-
23
fi

sciasse andare un po di più. Siamo attaccati


a protocolli dettati da professioni che non
consentono una libertà d’espressione totale.
Volevo farlo rilassare, per una sera, per
qualche ora. Distrarlo, portarlo in un
mondo parallelo che non fosse fatto di pen-
tole e piatti da fare uscire. Piatti perfetti, fo-
tografati e messi costantemente a giudizio.
Forse si era dimenticato di quella sensazio-
ne di libertà che si prova nello stare con una
persona? Da soli, senza dover fare troppi
sforzi? La mia è forse un’infatuazione che fa
star bene solo me? Fosse così sarebbe terri-
bile. Non potrei mai obbligare una persona
ad amarmi. Un mio desiderio non può es-
sere quello di un altro. I dubbi mi distrug-
gono. Lo hanno sempre fatto. Devo smette-
re di pensare. In lui vedo le mie stesse scelte
d’imposizioni e restrizioni. Di “no” a molte
cose se non prima di aver ottenuto una sta-
bilità economica e il riconoscimento del va-
lore umano prima ancora di quello lavora-
tivo. C’è chi vive per lavorare e c’è chi lavora per
vivere - una delle pochi frasi che ricordo di
mio padre. Oggi il lavoro è la mia vita.
24

Come per Albert, la cucina è casa sua. E


spende probabilmente più tempo a pensare
agli altri che a se stesso. Tutte cose che ho
carpito da quell’unico incontro fuori dalle
cucine in Rue du Boulevard. Ho ancora
quel foulard rosso comparato davanti all’
Eglise Saint-Géraud. Comprato solo per
darmi un po’ di colore. Di certo c’è che la
sua giusta dose di ego è bilanciata dalla sua
umiltà. Tutte cose che lo rendono incredibi-
le. Diverso dai suoi coetanei.

10.

L’essere diventata giornalista è stata


la mia più grande fortuna. Perfetto per me e
la noia che mi assale. Ma mi stuzzica co-
stantemente l’idea di avere qualcosa, qual-
cuno di stabile, indipendente, che desidera
me, e solo me, al suo anco alla ne della
giornata. Anche se per poco tempo. A certi
ritmi di vita non sono proprio le scelte
d’impiego del tempo a far la differenza? Mi
sono fatta domande e data risposte senza
25

fi

fi
nemmeno averlo visto. Da manicomio. Lui,
con la sua danza tra i fornelli, è il primo che
mi aveva fatto scoprire dei lati nuovi di me.
Non avrei mai pensato di arrivare a ringra-
ziare una persona che, a sua insaputa, mi
aveva portata a ragionare sul mio futuro. La
mia percezione e valore al tempo erano
cambiati per sempre.
Finisco il gin tonic. Così mi stordisco
per un po’, alla peggio chiederò all’impac-
ciato barman del Memoir di chiamare un
taxi. Il gin è buono. È italiano, di Canelli.
Ha note boisé, farà un passaggio in legno.
Le erbe usate dalla distilleria ripercorrono
la via del sale che attraversa Liguria e Pie-
monte. Un bella storia per una bella botti-
glia. La famiglia Bocchino riesce a stupire
anche con il gin oltre che con le grappe.

26

CAPITOLO III

Casualità perdute

11.

Due mesi dopo, Croazia

Sono salita su un treno che più sbi-


lenco non si può. Speriamo non si rompa.
Tra rumori di sottofondo e odori. Oltre a
quelli sgradevoli che emanano i servizi, si
aggiungono quelli di gomma bruciata, di
silicone. Come di plastica bruciata. Non
prendo un treno da mesi, non ci sono stati
motivi che giusti cassero una trasferta lun-
ga prima di oggi. Si aspetta questo congres-
so sulla cucina da due anni. Una giornata
per spiegare i valori nutrizionali degli in-
gredienti. E quindi le proprietà nutritive
che ci sono in un piatto, anche di alta cuci-
na. Ci saranno più medici che cuochi. Spe-
riamo di no. Faremo progressi in ogni caso.

27

fi

Un brutta frenata, c’è fumo. Il treno è fer-


mo. Ecco, lo sapevo. Ci fanno scendere, si
proseguirà in corriera.
Tutti di corsa manco fosse la fuga dal Tita-
nic. Aspetto seduta, scenderò quando si li-
bera il vagone.
Mah, dove siamo?

«Una volta a Zagabria salirete sul treno per


Vienna».

E sia, mettiamoci l’anima in pace.

12.

«Ore 12.40, binario 5, può esibire il


biglietto in suo possesso in caso di
controlli».
Avevano aggiunto altri vagoni per noialtri a
un treno proveniente da Sarajevo. Non oso
immaginare la sensazione di scocciatura dei
passeggeri a bordo. Ci stavano aspettando
da ore. Salgo qualche binario prima, sono
curiosa di vedere i treni di altri stati. Non
28

sembra di essere in un accampamento. Le


valigie tutte ben nascoste, ma c’è comunque
un ordine confuso. È la gente. I colori tutti
assieme che si ri ettono nei vetri, pulitissi-
mi. Peccato per la moquette grigia, non si
può vedere. La prima classe ha i sedili in
pelle, sono verdi e grandissimi. E si girano.
Ho un certo problema con le sedie che si
girano. Il vagone ristorante sembra davvero
un ristorante. Ci sono anche lampade so-
spese come ombrelli rovesciati. Di color
ocra. Tavoli in legno lucido. Niente mo-
quette qui, piccoli tappeti dividono e orga-
nizzano la sala. Che razza di posto è questo.
Sta a vedere che forse ci ho guadagnato.
Ecco il binario cinque. Apro a fatica un’an-
tipatica porta scorrevole. Mi sento un po’
strattonata. A metà del vagone trovo il mio
posto, vicino al nestrino.

«Questo deve essere suo».

«Il mio foulard!».

29

fi
fl

«Fortuna che è rosso, non lo avrei mai nota-


to».

Continuava a ssarmi. Apro il gior-


nale per nascondermi. Ci mancava solo lo
stalker.

«Prossima fermata, Vienna».

Finalmente. È anche l’ora dell’aperitivo.


Andiamo a vedere cosa offrono questi au-
striaci nell’orario dello svago. Mio zio va
sempre a Le Bar, sarà un luogo adatto non
solo per incontri d’affari conoscendolo. Si
accede al bar dalla hall del San Souci Wien.
Un grande albergo. Ci sono cento champa-
gne in carta. Però, non se la passano male
per davvero. La sala è luminosissima, piena
di specchi e arazzi. Raf nato è raf nato,
arazzi, velluti, specchi. Grandi vassoi.
Quanta sciccheria, n troppo. Mi dirigo
verso il bancone. Conto di restare qui, es-
sendo da sola è meglio di un triste tavolo.

«Madame, cosa poso fare per lei?».


30

fi
fi
fi

fi

Oh, quanta eleganza. Fa sentire quasi im-


portanti quel “Madame”.

«La signora prende un Old Fashioned».

Ero sconcertata. Non voglio voltarmi. Chi


poteva mai essere.

«Buonasera, Margaret. Ho faticato a rico-


noscerti. Hai tagliato i capelli?».
«Albert!?».
«Sono qui per il congresso».
«Ma guarda. Dormi sempre in alberghi così
lussuosi?».
«Ha fatto tutto l’organizzazione. Quando
sono arrivato al Memoir eri già andata via.
“C’era una bella ragazza col foulard rosso”
almeno così mi hanno detto».
«Perché non mi hai chiamata?».
«Sono arrivato tardi, ho avuto un problema
con un dipendente, dovevo assicurarmi
l’apertura del ristorante. Non sono riuscito
a chiamarti».

31

«Va bene va bene. Non importa. Eri venu-


to. Riesci quasi a farmi sentire in colpa
adesso».
«L’Old Fashioned serve a quello».
«Ah, una sorta di punizione perché non ti
ho aspettato a suf cienza?».

Ridiamo.

Io mi sentivo esattamente come


quando ho realizzato chi fosse la prima vol-
ta che l’ho visto al ristorante. Lo avevo
chiamato tre volte, nel giro di 24 ore, per
cambiare data e ora della prenotazione. Vo-
levo sotterrarmi. Io pensavo di parlare col
maître. Il ghiaccio nel drink si stava scio-
gliendo velocemente. Era appena tornato
da un viaggio in Giappone. Era stanco ma
con quegli occhi lì poteva fare cosa voleva.
Era mutato, ancora. Mentre lo guardavo
togliersi la giacca mi chiedevo quanto fosse
dif cile da decifrare il suo animo. Ascoltò
per un po’ i miei trascorsi prima di dirmi
che aveva un dannato bisogno di dormire.
Il fuso orario. Era già tanto fosse lì, non po-
32

fi

fi

tevo crederci. Era una cosa incredibile.


Qualche timida nota di pianoforte ci ac-
compagna all’uscita. Mi saluta con grande
garbo e calore. La nicotina. Ci voleva la ni-
cotina ora. Bisognava pur arrecare altro
caos alle vene. Per non smettere di pensare.

33

CAPITOLO IV

Confronti

13.

Palazzo Metternich, Vienna

Un palazzo degno di un’ambasciata,


“una delle più belle sedi diplomatiche ita-
liane”. Quindi ora mi ritrovo a entrare in
un’Ambasciata, italiana, per seguire un
congresso di cui non so praticamente nulla.
E c’è pure Albert, l’unica persona con cui
potrò parlare. Certo avranno disturbato
personaggi importanti. In principio era il
“palazzo d’estate2" del principe Metternich.
Un sogno. Un centro politico sociale con
tanto di giardino. Ci fanno fare tutto il per-
corso di visita, la villa si è ampliata nel tem-
po. Sono due gli architetti che in occasione
dell'ampliamento della città a metà ottocen-

2Fonte: https://ambvienna.esteri.it/ambasciata_vienna/it/ambasciata/
34

to lo concepiscono. Il palazzo è un blocco


squadrato. Ispirato al Palazzo Farnese di
Roma seppur diverso nelle proporzioni. Tre
i piani delle nestre, il cornicione a dentelli
prende la scena. C’è anche un "diritto di
catena" del Medio Evo, poi fatto sparire.
Rappresentava una netta e ineludibile divi-
sione tra borghesia e aristocrazia. Solo ai
primi del novecento Metternich diventa di
proprietà italiana, non prima di essere pri-
vato delle opere d’arte e arredi. Eh, certo.
Ma le “opere” sui muri ci sono ancora. Da
rettangolare la pianta è poi diventata a L.
Entriamo nel salone da ballo. Quanto mi
piacerebbe indossare un grande vestito,
lungo no a terra, e ballare sulle note di
Tony Bennet.
Rinfrescare un poco la storia era d’uopo.
La giornata dei lavori inizia nientedimeno
che con un drink di benvenuto, analcolico.
Meglio. D’altra parte sono le 11.00 e non
sono ancora arrivati tutti gli ospiti.

35

fi
fi

«Noiosa la visita?».
«Affatto. Illuminante piuttosto. Potremmo
certo allontanarci e tornare quando inizierà
davvero l’ambaradan».
«Donne come te hanno sempre idee intelli-
genti».

Iniziamo a camminare per il giardi-


no. Era chiuso al pubblico. Cosa lo tengono
pulito e ordinato a fare, se poi nessuno lo
può ammirare? Segreti che non capirò mai.
Una panchina in pietra circondata da una
sorta di arena fatta di piante e ori diventa
il nostro confessionale. Un luogo ideale per
la resa dei conti. Dovevo togliermi i dubbi.
Si era preso gioco di me?
«Come può un’anima pura come la tua,
essere rimasta sola? Hanno forse calpestato
o minacciato la tua idea di libertà? Un’inso-
lenza del genere sarebbe intollerabile».
«Io provo sentimenti per ciò che amo fare e
per le persone simili a me. Non nutro ran-
core ma non tollero chi non rispetta il mio
lavoro e i miei spazi».

36

fi

«Quindi ammetti che in passato la tua li-


bertà è stata minacciata. La tua scelta di
vivere in solitudine è una necessità quindi».
«Mi metti sempre in un angolo. Non riesco
a darti una risposta».
«Menti. La verità è che non riesci a sostene-
re il peso dei tuoi sentimenti. Non vuoi
esprimerli per paura di rimanerne intrappo-
lato. È una sensazione che conosco bene, io
da tempo ho scelto di non combatterla più.
E perché saresti venuto al lago allora? Una
gita scomoda per te».
«Mi sentivo come trascinato».
«Io non ti ho trascinato da nessuna parte.
La tua è un’anima oltremodo geniale quan-
to complessa. Lunatica. Piena d’interrogati-
vi. Dovresti fare chiarezza, darti priorità,
non restrizioni».
«Non riesco a darti le attenzioni che meriti.
Non ne ho la forza».

Quindi oltre alla conferma di un suo


sentimento per me sosteneva che gli fosse
dif cile manifestarlo. Il suo distinguersi dal-

37

fi

la massa comportava sacri ci. Isolamenti


obbligati per essere liberi di esprimersi.
Forse io e Albert non eravamo poi così tan-
to diversi. Non accettiamo compromessi
quando si tocca la nostra libertà.

«È meglio andare. Sta anche per piovere».

14.

Convegno dannatamente tecnico,


soporifero a tratti. Ma utile per certi aspetti.
Albert non lo vedo più. Si era dileguato.
C'era da aspettarsi pure quello. Il tutto si
concluse con una cena, in piedi. La mattina
seguente entrai nell'unico café aperto di
domenica, quello della stazione. Piccolo ma
accogliente, c'è pure il biliardo e un piccolo
tavolo da carte. Ci devono essere molti vec-
chi che prendono i treni. O magari vengo-
no qui solo a passare i pomeriggi. Oddio io
una partita a carte la farei, però, nell’attesa
del treno. E non sono mica vecchia. Quelli
delle carte sono giochi che non passeranno
38

fi

mai di moda. Guardo quel mollettone ver-


de esausto senza toccare nulla, ancora qual-
cuno mi chiede di fare una partita.

«Lei deve essere Margaret».


«Esattamente, lei?».
«Sono un amico di Albert, mi ha chiesto di
consegnarle questa».
«Oh, è molto che aspetta?».
«Un paio d'ore. Albert mi ha fornito una
accurata descrizione di lei, non è stato dif -
cile riconoscerla».

Un pacco. Piuttosto piccolo.

«Non lo apre?».
«Con lei davanti? Albert le ha chiesto di
guardare anche la mia reazione? E perché
non me l'ha dato di persona?».
«È dovuto partire. Non si staccherebbe mai
dal ristorante più di un giorno. Dovrebbe
saperlo».
«È scappato, non è partito».

39

f
Il tempo si trova per tutto. Anche per con-
segnare un pacchetto.
Lo apro, dentro ci sono un bel mucchio di
biglietti per arrivare a Podgorica, un fou-
lard e una lettera.

«Beh, non dice niente? Lo conosco da una


vita, non ha mai fatto una cosa del genere
per nessuna».
«Buon per lui. Ha risparmiato denaro».
Non capisco. Ieri mi ha detto che
non ha la forza di passare del tempo con
me e il giorno dopo mi regala dei biglietti?
Per raggiungerlo? Che ci abbia ripensato?
Valgono un mese, posso partire quando vo-
glio. Non posso certo dargli la soddisfazio-
ne. Tantomeno al suo amico, impalato da-
vanti a me in attesa che io dica qualcosa.
Devo essere algida, come i cubetti di ghiac-
cio dei miei drink. Che poi si sciolgono.
Nella lettera c’è una specie di scusa per la
brusca partenza. Nella pagina successiva mi
spiega il rapporto complicato con il padre.
Sparito quando aveva due anni. Lo aveva
abbandonato. Ma che razza di uomo è uno
40

che abbandona un glio? Lo deve avere vis-


suto come un ri uto. Ad un certo punto
deve essere tornato. Ma era tardi per fare il
padre. Una situazione dif cile da recupera-
re. Che abbia paura di essere abbandonato?
Oddio, chi non lo è. Aveva appena compra-
to una casa a sua madre, così da assicurarsi
di poterla andare a trovare. Un bell’impe-
gno, oltre al ristorante. Debiti e dipendenti,
20. A leggere le sue preoccupazioni non mi
sentivo tanto bene, lo avevo giudicato un
po’ troppo frettolosamente. D’altra parte il
volere tutto e subito è uno dei miei più
grandi difetti.
«Il suo nome?».
«Andreas».
«Bene, Andreas, tante care cose».

Salgo sul treno, direzione Chiasso.


Dovevo rientrare. Mio zio mi avrebbe
chiamata, e cosa gli dicevo? Non sapeva
nulla di Albert, nessuno sa nulla a parte
quell’Andreas. Che aria buffa che aveva. Lo
avevo trattato malissimo. Mi scoppiava la
testa, caddi in un sonno profondo.
41

fi

fi
fi

15.

Chiasso

Non riuscivo più a scrivere nulla.


Dovevo parlare con qualcuno. Questa cosa
mi stava sfuggendo di mano.
«Zio, vado via prima oggi».
«Margaret sei in ritardo con la consegna,
domani voglio tutti i tuoi pezzi sulla mia
scrivania».
Non pensiamoci, è meglio andare da John
ora. Mi metterò a parlare con un estraneo
se è impegnato.
La giornata nalmente svolta, Benny
Goodman in sottofondo. Quanta folla però.
Odio la folla.
«John, quanta gente!».
«C’è un concerto Jazz più tardi. Ragazza,
ma che ne hai fatto?».
«Ragazza, dici bene. Oh, John credo di
aver fatto uno sbaglio, un enorme errore di
valutazione».
«Chi è il fortunato? Non ti scurisci solo da-
vanti a un pessimo vino allora».
42

fi

fi

«John! Non so se sia fortunato, forse non mi


merito una persona così. Pur di non farmi
soffrire mi ha allontanata. Era stato vago,
poi mi ha fatto recapitare dei biglietti per
raggiungerlo».
«E sei ancora qui?».
«Ma chi lo dice a mio zio? Mi ha pratica-
mente salvato dal baratro in cui stavo -
nendo».
«Dai, ti faccio assaggiare un po' di cose
nuove, se parti potrò ricordarmi del tuo
sano cinismo. Mi rivendo sempre le tue cri-
tiche con i fornitori».
«John, la gente non vuole essere presa in
giro. Un vino quando è cattivo è cattivo.
Non bisogna essere esperti. Se poi lo versi a
una temperatura sbagliata sei sciocco due
volte. E se lo vendi caro sei fregato. Bene,
cosa beviamo?».

«Un Pinot nero e un Sauvignon».


«Francesi, spero».
«Margaret sei tremenda».
«Lo so».

43

f
Il locale era diventato un centro per
abbevazzati chic, tutti a darsi arie. John ini-
ziava a farsi apprezzare, gli consegnavano
campioni di bottiglie da più parti delle
mondo ogni settimana. C’era ancora qual-
cosa da sistemare ma non eravamo distanti
dalla mia descrizione: “Enoteca di riferimento
per divertirsi a scoprire curiosità dal mondo del
vino”.
Il Pinot aveva un tratto e una presa
tannica del tutto rare, poteva essere un vino
di Borgogna, dal legno, ma c’era qualche
imprecisione che lo rendeva lontano dalla
mitica Côte de Nuits. Coriaceo, poteva es-
sere un Nuits-Saint-Georges. Invece no.
Siamo in una zona fredda dell’Appennino
toscano. Quanta profondità. Podere della
Civettaja.
«Cosa mi dici Marg?».
«Che non posso neanche usarti come scusa
per restare. Oramai sei diventato un buon
selezionatore. È molto curioso, affabile.
Non ha paura di mostrarsi».
«Ha già qualche anno alle spalle. Ma parli
del vino o del fortunato?».
44

«Del rosso. Il fortunato oltretutto ha anche


molte altre bellezze».
«Passiamo al bianco. Se ti piace anche que-
sto mi dovrai consigliare qualche vino più
economico. Costano cari».
«La qualità si paga».
Il Sauvignon era esattamente quello che ci
voleva. Era teso, intarsiato dal cedro e dallo
iodio. Che bella luce. Domaine Didier Da-
gueneau. Blanc Fumé de Pouilly. Non so se
mi piace più il vino o l’etichetta con lo spar-
tito di una canzone del Maestro Georges
Brassens.

«Ti è tornato il sorriso. Marg, allora, che


stai combinando?».
«Cerco di capire come mettermi nella posi-
zione di poter lasciare il lavoro, la mia vita
qui».
«Sarà sempre casa tua questa, potrai torna-
re quando vuoi. Non farti consumare dai
dubbi».

Mi piace andare da John, non mi giudica


mai e sa come lenire le ferite. La sua positi-
45

vità contagiosa riesce a far dimenticare tut-


to. Comprerò un pacchetto di sigarette.
Devo stare sveglia e sfruttare questo mo-
mento in cui ho la mente sgombra per lavo-
rare.

Domani andrò a parlare con lo zio. Capirà.


Capirà?

46

CAPITOLO V

Viaggio in Montenegro

16.

Chiasso

«Perdio Margaret, sei uscita di sen-


no? Chi è questo ragazzo? Quando è acca-
duto? È una sbandata? Una cosa seria? E
cosa dico a mia sorella?».
«Mia madre? Mia madre? Sono adulta.
Quando potrò decidere cosa fare della mia
vita?».
«Devi dirlo anche lei, ti vuole bene. Mi
chiama tutte le settimane per sapere come
stai. Non posso lasciarti andare senza dirle
nulla».
«Ah, questa poi. Io ti chiedevo solo per il
lavoro. Posso lavorare dal Montenegro. Po-
trei diventare una reporter, o una cosa simi-
le. Non so nemmeno io cosa accadrà zio.
Non ho intenzione di trasferirmi. È un
viaggio».
47

«Per come eri partita non sembrava così».


«La durata della mia permanenza è inde -
nita al momento. Ho i biglietti di sola anda-
ta».
«Sei talmente testarda... Qualsiasi cosa ti
dicessi, servirebbe a qualcosa?».
«Sei il mio zio preferito».
«Ma se sono l’unico».
«Dovresti dare ripetizioni a tua sorella».
«Margaret chiama quando arrivi. E se poi
questo baldo giovane è la stella che dici,
vorrà dire che lo sbatteremo in prima pagi-
na».
«Zio!».
«Devo pur monetizzare la tua assenza in
qualche modo. E poi penso di avere capito
di chi si tratta. È originario di queste valla-
te».
«Uhm. Parto più tardi. Grazie zio».
Oddio, non sapevo neanche io cosa
stessi facendo. So solo che dovevo partire.
Albert mi aveva spiegato le sue ragioni, mi
aveva regalato i biglietti. Era stato chiaro,
per una volta. Sono tre giorni di viaggio
praticamente.
48

17.

Un mese dopo, Montenegro

Tra un cambio e l'altro sono riuscita


a leggere due libri e una mini guida sul
Montenegro. Ero rimasta a Titograd, non
Podgorica, la capitale ha cambiato nome.
Possibile? La parte medioevale è da vedere
assolutamente. Anche la torre dell'orologio
deve aver il suo perché. Bella la sensazione
di non sapere bene dove andare, avevo più
dubbi che certezze, alla peggio sarei andata
in quello che vien de nito come uno spetta-
colo della natura, la baia di Kotor. Ci sarà
un uf cio turistico a cui chiedere informa-
zioni. Io non so nemmeno l’indirizzo del
ristorante di Albert. Improvviserò.

Sono arrivata. Mi sembra di essere


via da settimane. È bene ristorare, una zup-
pa è quello che mi serve. Me la portano con
il pesce. Sono nella Stara Varoš, al centro
della capitale. Strade pittoresche, un muc-
chio di porte e case colorate. Si vedono an-
49

fi
fi

che se sono le nove di sera. Gli uf ci turisti-


ci non li cerco neanche. Cerchiano un bar.
"El Ron". Ah, beh, entriamo. Avranno
Rum buoni. Almeno uno. All’intero c’è un
poster disegnato direttamente sul muro. È
un vecchio modello di Ford, una macchina
rossa ammante. Non mi resta che ordinare
un Dork' n Stormy. Sperando che abbiano
un Rum scuro, inglese.
«Scelta bizzarra per una ragazza. Da dove
arriva?».
«Sto in giro da un po’. Sto cercando un
cuoco».
«Hanno provato per mesi ad aprire un ri-
storante vicino alla torre dell'orologio ma
poi non si è più saputo nulla».
«Ah, Albert Morrow. Lo conosce?».
«Non mi dice nulla, so solo che il centro era
diventato un cantiere e improvvisamente
hanno abbandonato i lavori».
«Si sono spostati a Budva».
«Buon vecchio Luis, sei sempre la solita
portinaia».
«È curioso che una ragazza così giovane,
sola, sia venuta qui per questo».
50

fi

fi

«Sono una reporter, devo fare una ricerca.


Dovrò cercare un posto per dormire, qual-
che idea?».
«Abbiano delle camere. Non si preoccupi».

La stanza è tutta in legno, calda,


profuma di spezie, di bosco, candele e oli
essenziali in bagno. C’è pure il baldacchino.
Mi è ancora andata bene.
Poche le ore di sonno, la mattina seguente
col tè bollente tra le mani cerco di non pen-
sare al fallimento dei lavori ed esco di sce-
na. Chiamo lo zio, sarà in pensiero. Per le
undici dovrei arrivare a Budva.

18.

Budva

Che posto magico. Montagne intor-


no, il centro storico è un gomitolo di stradi-
ne. Non c'e traccia di ristoranti o simili.
Almeno quello che mi aspetto da un ne
dining.
51

fi

Ecco l’uf cio turistico!


Salva. Sono salva. Mi pare di aver visto una
mecca.
«Salve, senta, le sto per fare una domanda
un po' bizzarra».
«Vediamo, magari è più facile di quel che
sembra. È tutto piuttosto ravvicinato qui».
«Sto cercando una persona, un cuoco. Ha
appena aperto un ristorante».
«Che tipo di ristorante?».
«Ecco, non lo so. Uno raf nato, curato, di-
verso. So solo che è aperto da poco».
«Non so nulla di questa storia. Chiediamo a
mia glia, lei è più vagabonda di me».
«Aspetto qui».

Era inutile vagare. Doveva pur essere da


qualche parte.

«A Sveti Stefan c'è un albergo che ha aper-


to un ristorante. È a un 5 chilometri da
qui».

L’ho trovato.
«Grazie, grazie, grazie!».
52

fi

fi

fi

Mi scaravento per strada, urla mi rincorro-


no.
«Signorina! Ma dove va! Non sa la strada!».

In effetti non sapevo da che parte andare.

«Tenga le mappe. È lunga a piedi. Non ci


sono mezzi che arrivano lì».
«Non importa. Mi piace camminare».

Si erano fatte le tredici. Ecco la Baia. Che


incanto. La sabbia scotta. Certo da un po-
sto così non ci si può allontanare nemmeno
un giorno. Aveva ragione Andreas. Ma Al-
bert resta fuori dal ristorante forse solo per
dormire. Se dorme.

Il complesso è moderno ma gli arre-


di sono inglesi, mobili antichi in ogni ango-
lo. Un tocco di design più contemporaneo
c’è nella scelta dei lampadari. Il cocktail bar
sembra uno speakeasy. Ombroso, il banco-
ne è di colore cenere, di marmo.
«Signorina, la posso aiutare? Si è persa?».

53

«Oh, no. Sto cercando una persona. Albert


Morrow. Mi dica che lavora qui».
«Sì, è il nostro chef».
«È qui allora!».
Nel mentre mi accasciai in terra.
Sentivo battermi sulle guance insistente-
mente. Acqua in faccia.
«Ah! Ma che succede!».
«Sicura di stare bene?».
«Si, grazie. Il caldo, un principio di sinco-
pe».
«Si metta qui. Avviso Albert».

L'attesa più snervante di tutte. Resto mezza


addormentata su una poltrona blu notte per
qualche ora.

«Margaret! Margaret, come hai fatto ad ar-


rivare qui. Sei matta! Ti avrei fatto venire a
prendere».
«Albert! Volevo farti una sorpresa, non dar-
ti pensieri. Poi, vuoi mettere l'adrenalina?
Mi avresti tolto tutto il divertimento!».
«Sei proprio incredibile».

54

«Sono stata a Podgorica, il tuo progetto era


diventato un cantiere a cielo aperto eh?».
«E chi te lo avrebbe detto? Ad ogni modo
sì, per motivi strutturali e permessi che tar-
davano ad arrivare abbiamo abbandonato
l’idea. Ma è stato un bene, si è sparsa la
voce e sono nito qui».
«Capisco. E con meno rischi di impresa.
Ma ti senti libero? Di fare, intendo».
«Margaret, sì. Guarda in che posto siamo.
Più tardi ti porto a fare un giro. Puoi met-
terti nell'appartamento che vedi in cima alla
scogliera. Ci arrivi della spiaggia
dell’hotel».
«La spiaggia rosa?».
«Sì, attraversi tutta la lingua di terra, rag-
giungi il borgo e nel punto più alto trovi
casa mia. E una piccola casa azzurra. Sei
arrivata no a qui non ti perderai di certo
ora».

La casa è una bomboniera, sembra


di essere in Grecia, e un po’ in Provenza.
Un terrazzo sul mare, nell'orizzonte le mon-

55

fi

fi

tagne. Tira aria fresca. Asciutta. Come in


montagna d’estate.
Dopo qualche ora si apre la porta.
Eccoci qui.

«Albert! È magni co».


«Mi fa molto piacere sapere che ti piace.
Sei pronta a vedere un po’ del mio mondo
qui?».
«Prendo il foulard».
«Mi sembra di conoscerlo».
«Fa pendant con la casa».
«Con i tuoi occhi».

19.

Non c'era più bisogno di dire nulla,


di parlare. Il fatto di essere qui spiegava tut-
to. E lui era cosi rilassato. Era a casa più qui
che altrove. Si era creato la sua forma di
equilibrio. Che invidia.
L’isolotto era una fortezza con tanto verde.
Per notti restai a guardarlo, avevo paura di
addormentarmi.
56

fi

Al mattino mi ritrovavo quasi sempre a


dormire sopra il suo petto. Erano passate
quattro settimane. Dovevo prendere una
decisione. Mollavo tutto così? Senza tornare
a casa?
Ma non posso tornare a casa ora.

«Albert, dovrei mettermi a fare qualcosa.


Potrei iniziare a scrivere sul Montenegro.
Almeno ho una scusa lavorativa per restare.
Non do mie notizie da troppo tempo».
«Puoi restare quanto vuoi. Ti organizzo un
tour da quello che io de nisco il “guardiano
di Budva”. È un tipo un po' strano, non ti
devi preoccupare. È il detentore di tutto lo
scibile di questo posto».

Strano era strano. Aveva un occhio


mezzo chiuso. Avrà avuto settant'anni, se
bastano. Si appoggiava a un bastone con la
punta in ottone, quel suo gilet verde era di-
ventato grigio. Macchie di sale o di chissà
cosa in ogni punto. Si girava su stesso con la
bussola in mano. Sembrava uscito da un
cartone animato. Dovevo diventare una
57

fi

spugna, assorbire il più possibile. L'idea era


quella di creare dei percorsi fruibili anche
in solitudine, bisognava raccontarli e vende-
re i contenuti ai tour operator. O alle catene
alberghiere. Quanto alla cucina di Albert,
ne avrei parlato quando me lo avrebbe
permesso.

Non mi dispiace il Vranac, è un vino


rosso che si fa bere volentieri. Dalla barca
mi perdo nei lari di vite. La Plantaže pare
sia proprietaria di una super cie vitata tra
le più grandi in Europa, duemila ettari. A
pranzo si beve spesso anche il Krstač, un
bianco molto agrumato, saporito. La visita
alle cantine era d'obbligo. Non resto delusa,
sono enormi, interamente scavate nella roc-
cia. Una galleria immensa, colma di barri-
que, è il cuore del percorso. Assomiglia a
quella di Elio Grasso nelle Langhe. Il prin-
cipio del percorso di visita ad anello è simi-
lare. Spazi immensi, si fanno oltre cento
micro vini cazioni. Non mi resta che scri-
verne.

58

fi
fi
fi
Otto mesi dopo

Avevo un ritardo di quattro giorni,


ho temuto per un attimo di essere incinta.
Non ho detto nulla ad Albert.
Suona il telefono.
«Margaret, mi chiedo quando scriverai an-
cora. Devi aggiornare i tuoi percorsi in
Montenegro. Ormai è quasi un anno che
sei lì, dovresti approfondire la parte più a
nord».
«Le vendite dei tour vanno bene. È già un
piccolo successo. Sai che tengo alla mia in-
dipendenza economica. Abbiamo anche
attivato una serie di collaborazioni con altri
alberghi. Mi sposterò appena riesco».
«Hai parlato di tutto, musei, città, spiagge,
spettacoli, gastronomie, bistrot. Giusto
qualche ristorante con una cucina locale. Di
tutto tranne che del ristorante per cui sei
andata lì. Perché?».
«Per Albert, tra poco inizierà l’alta stagione,
sta lavorando come non mai ora. Vuole fare
le cose con i suoi tempi. Ha messo a punto

59

la sua idea di cucina comunque. Almeno


credo».
«Veri cala. Se non esce dal guscio non sarà
mai notato. Ha paura di essere giudicato?».
«Tu non sai chi è lui. Non lo consoci. Non
sai il suo trascorso. Ha cucinato nei migliori
ristoranti del mondo».
«Devi fare una recensione, non costringerci
a mandare qualcuno».

Quando ci si metteva lo zio riusciva


a essere davvero antipatico. Che nervi, ave-
va ragione però. Avevo rispettato i tempi di
Albert sino a oggi. Ormai è pronto. Ma lo
era anche un anno fa. Non ne abbiamo mai
più parlato. Forse non gli interessa più. Non
capisco.
«Ti invierò qualcosa quanto prima».

Non andavo in giro per ristoranti importan-


ti da tempo. Non ero più aggiornata. Il
prezzo dell’amore? Beh, rifarei tutto.

«Albert, questa sera vengo a cena in hotel.


Nel tuo SS, il Sea Secret».
60

fi

«Che sorpresa! Va bene, penso a tutto io.


Così vedi le novità».

La cucina era in grande forma, tra


portate a base di funghi, alghe, una bella
spinta sulle parti amare. Fumo. La monta-
gna e il mare fermati in piatti leggeri, seb-
bene le portate non fossero piccole. A mia
insaputa mi aveva dedicato un menù musi-
cale. Ogni melodia, con il suo crescendo di
ritmo e acuti, riprende il gusto del piatto. Il
comportamento al palato è pressapoco si-
mile. Il pianoforte addolcisce, scioglie, per
poi mutuare quando arriva un’altra materia
ad aggiungersi al fondo o alla salsa. La por-
tata si compone assieme alla musica. Cam-
bia con la musica. Accelera. Rallenta. Tra
morsi piccanti o dolci. Le parole del testo
sono per la ricetta, per la sua essenza. La
batteria o il sassofono dettano il tempo.
Ho ascoltato Nora Jones, George Michael,
Bon Jovi, Elton John, Sting. Sui dolci, con
tanto di drink annesso, arriva una cover di
Marvin Gaye. Il menù cambia ogni due set-

61

timane. Ora capisco perché passiamo le


notti ad ascoltare la musica.

62

CAPITOLO VI

Non doveva nire così

20.

Ho nito il mio piccolo sunto. Poche


battute per dire di Albert e la sua nuova
idea di cucina. Mail inviata. Speriamo non
lo pubblichino subito. Non sono nemmeno
riuscita ad avvisarlo.
Le notizie corrono sempre più veloci
di noi. Due ore più tardi, saranno state le
nove, Albert mi chiama. Non lo fa mai in
servizio. È infuriato. Lo avevano contattato
dei colleghi. Il mio piccolo spoiler era nito
online. Il mondo è piccolo. Il mondo della
ristorazione oramai sapeva.
«Margaret, ti rendi conto di cosa hai fatto?
Come ti è venuto in mente? Senza dirmi
nulla poi».
«Ho fatto quello che andava fatto. È mesi
che non parliamo del tuo futuro. Non del
nostro.

63

fi
fi

fi
Dei tuoi sogni. Non doveva essere un perio-
do di transizione questo prima di aprire il
tuo ristorante?».
«Hai deciso per entrambi».
«Scommetto che la proprietà è contenta.
Arriveranno altre persone a scrivere di te.
Lo so che fai controllare tutte le prenota-
zioni. Banditi i giornalisti o pseudo tali.
Non puoi più nasconderti».
«È da mesi, dopo il nostro weekend a Pera-
st, che ho iniziato a rivedere quei sogni.
Non li ho abbandonati, sia chiaro. Ma ri-
cordi come siamo stati bene? Tutta quell’ar-
chitettura barocca. Che fretta c’era Marga-
ret».
«Non ti permetto di affogare i tuoi sogni
per me. O mi usi come scusa? Hai paura di
affrontare il successo? Di non saperlo gesti-
re?».
«Sai bene che ho gestito la pressione delle
stelle Michelin in più di un’occasione e per
periodi lunghi. Ma ero parte di un gruppo
di lavoro. Cucinare era diventato pesante, la
mia passione era soffocata. Qui sono solo

64

ma libero, senza tanti vincoli. Senza forza-


ture o pressioni».
«Senza stimoli. È troppo comodo così. Sei
in una campana. In una bolla che ti sei
creato. Hai spento la tua competitività?
Dov’è nito l’Albert di cui mi sono innamo-
rata?».

Che cosa gli avevo fatto? Bisognava pur


dare giustizia a questo suo talento.

«Margaret, non hai capito. Hai rovinato


tutto. Ho perso la ducia che avevo in te.
Avevamo un patto. Mi hai tradito. Hai idea
di cosa succederà ora? Sono venuto qui per
cercar silenzio, ora mi ritroverò più inguaia-
to di prima».
«Ti avranno dato per morto. Albert, non la
farei così tragica».
«Non sono morto, ma vorrei esserlo in que-
sto momento. Non ho ancora la brigata al-
l’altezza di gestire la pioggia di critiche che
arriveranno».
«Non saranno solo critiche. Ci hai pensato?
Stai esagerando. Prova a sforzarti, a impra-
65

fi

fi

tichirti. Parlarmi. Anche di quello che hai in


testa. Mi hai escluso da ogni tua decisione.
Ho assecondato tutte le tue scelte. Mi sono
inventata un lavoro pur di stare qui».
«Non ti ha obbligato nessuno».
«Se è questo che vuoi, il silenzio, lo avrai. Io
ho fatto il mio lavoro. E l’ho fatto per te.
Solo per te. Ma è giunta l’ora per me di
tornare a casa se questa è la tua posizione».
«Non doveva nire così».

21.

La valigia è fatta. Mi ero rifatta il


guardaroba stando qui. E lascerò qui un
sacco di cose. Vado a salutare la baia, la
mia amata sabbia rosa. C’è un acquilunio
come non mai. Ho forse sono le mie lacri-
me a crearlo. La marea ci mette del suo,
mette tutto in super cie. Cosa avevo sba-
gliato? Resto dell’idea di avere agito per il
suo bene. Lo conoscevo, pensavo almeno.
Non potevo averlo cambiato così tanto.
Non so più cosa sia giusto per me. Era stata
66

fi
fi

un’avventura quindi? Aveva ragione mio


zio? Avevo provato a vivere una vita che
non è nella mia natura sebbene non fossi in
trappola qui. Mi ero creata il mio spazio.
Ho bisogno di un po’ di tempo senza rego-
le. Obblighi. Sono uno spirito libero. Devo
ritrovarmi.
Per prima cosa andrò a visitare il monastero
di Ostrog, Albert me ne ha sempre parlato
ma non mi ci ha mai portata. È dentro la
roccia. Quasi nascosto dalla natura selvag-
gia. Ristrutturato dopo l’incendio del 1926.
Sarà il mio ultimo saluto a questo paese.

67

CAPITOLO VII

Ritorno a casa

22.

Praga

Non era proprio di strada, ma già


che c’ero ho allungato il viaggio di ritorno.
Praga lascia sempre qualcosa. La scalinata
al castello mi farà bene. La vista della città è
rigenerante. Non pensavo ma mi mancava-
no i palazzi. Un po’ di caos. Si sale prati-
camente tutti in la. Una scalata lunghissi-
ma. Non ero più abituata a fare gli scalini.
A Chiasso abitavo al 7° piano senza ascen-
sore, a Budva c’era solo un po’ di salita.
Mi fermo su un grande sasso per una pau-
sa. Davanti a me passano più vecchi che
giovani. Il turismo dei senior colpisce anche
qui. La mia pensione la vedo molto, molto
lontana. Non so nemmeno se voglio andar-
ci, in pensione. Ho bisogno di fare cose.

68

fi


Ora che ho ancora più tempo posso con-
centrarmi su di me.
Mi stavo illudendo, sentivo la man-
canza di Albert. Mi stavo convincendo che
fosse stata la scelta migliore quella di lascia-
re il Montenegro. Ma aveva perso ducia in
me, come potevo recuperarla? Non lo bia-
simo. Resta il fatto che non ha fatto nulla
per fermarmi. Non ho più acceso il telefo-
no. Se mi avesse chiamata sarei tornata in-
dietro? La mia scelta l’avevo presa. Mi rim-
bombano ancora in testa le sue parole, il
suo sguardo di disprezzo.
Dopo aver camminato per ore arrivo alla
“Casa Danzante”. In effetti il palazzo sem-
bra davvero rappresentare una coppia di
ballerini. Ci sarà la terrazza. Sicuramente.
Spunta del verde sul tetto. Ma io sono ten-
tata dal cocktail bar più che dal semplice
bar. Mi serve qualcosa di forte.
Belle vetrate, altissime, tavoli e arredi sono
minimal. La terrazza è come si immagina
da terra. Circolare. Una vista appagante
sulla città.

69

fi
«Un Long Island, per favore».
«Sono le quattro del pomeriggio, il cocktail
bar apre alle 18.00. Può ordinare dal bar
qualcosa che abbiamo al bicchiere».
«Può fare uno strappo alla regola? Resterò
qui no all’apertura, nessuno si accorgerà
di nulla».
«Giornata pesante?».
«Magari fosse solo la giornata».
«A tra poco».

Non distanti da me due signore fran-


cesi, distinte, in un piccolo tavolo mangiano
due foglie d’insalata accompagnate da una
ûte di champagne. L’effervescenza non si
ferma. L’insalata è triste, fosse stata almeno
una Cesar. Mi fanno comunque simpatia
per la scelta dello champagne.

Vodka, Tequila, Rum bianco, Triple sec e


ancora Gin. Succo di limone e sciroppo di
zucchero. Una bomba ad orologeria. Al se-
condo sorso sono già nella fase in cui non
penso. Accendo il telefono. Tre chiamate
ricevute. Una è di Albert, due di mio zio.
70
fl

fi

Suona il telefono. Giusto cielo.


«Margaret, ciao! Finalmente! È due giorni
che ti cerco. Mi hanno chiesto i tuoi contat-
ti. Il tuo Albert ha creato un bel po’ di cu-
riosità».
«Curiosità e scompiglio».
«Come come?».
«Niente. Sto tornando a casa. Ci vedremo
presto».
«Torni per restare?».
«Sì. No. Non lo so, zio. È complicato. Ho
fatto un pasticcio, forse è meglio così».
«Torna a casa».

23.

Il treno è di quelli economici, non


posso permettermi comodità, la prima clas-
se insomma. Viaggerò di giorno e di notte.
Sulla parte notturna signi ca che non si
dorme. S do qualcuno a fare più di tre fasi
rem su un treno cigolante. Di arrivare al
sonno profondo. Quello in cui tutto si fer-
ma tutto, tranne che cuore e cervello. Sono
71

fi

fi

stata in una bolla ambientale anch’io. Farò


incubi. Altro che sogni. Mi sembrava di
aver perso il contatto con la mia vita, e di
averne intrapresa una parallela. C’è una
mail di tal Philip Smith, mi vuole incontra-
re per sviluppare un progetto sul Mon-
tenegro. Io non voglio più sentire nominare
il Montenegro. Il viaggio scorre veloce, la
strada è libera. Ci fermiamo ogni quattro
ore. Mi metto a parlare con una vecchia
signora con la gamba fasciata. Si era rotta
la tibia, il perone era mal messo.

«Dopo l’operazione sembrava andare tutto


bene ma dopo tre mesi la mia gamba ha
ceduto. Il perone non ha retto il peso. Non
so bene cosa sia successo. In ospedale mi
hanno ricoverata subito. Oggi è il mio pri-
mo giorno fuori da questo incubo durato
sessanta giorni passati in un letto».
«Mi dispiace molto. Certo la sua è una le-
zione di vita. È stata forte a resistere così a
lungo, e alla sua età poi».
«Per dove è diretta?».

72

«Più che per dove è meglio dire per cosa.


Devo cercare di riprendere in mano la mia
vita».

Cos’era allora la libertà? Per la signora Smi-


th era già tanto potersi nalmente rialzare
da un letto. Fare una cosa che diamo sem-
pre per scontato. Mi sentivo improvvisa-
mente piccola come un formica.

Suona il telefono.
«Anna, ciao. Quanto tempo!».

Anna è la tutto fare della redazione.


Mio zio senza di lei è come una mosca che
gira su stessa. In cerca di non si sa bene
cosa. È una cara donna, sulla sessantina di
anni. Forme morbide. Il sorriso è per tutti.
Una mamma.
«Mia cara, la tua scrivania ti aspetta. È
come nuova. Prendi sempre il caffè lungo
alla mattina?».
«Anna sei una delle cose che non sono
cambiate. È una notizia!».

73

fi

«Ti aspettiamo, non avere paura. Abbiamo


sentito la tua mancanza».
«Anch’io. È stato dif cile».
«Non ne sarebbe valsa la pena fosse stato il
contrario. Buon viaggio».

Già. Peccato che non so neppure più io se


sia stato giusto. Il mio istinto mi fa prendere
tante di quelle di botte…Le conosco bene, e
mi presentano i conti a un certo punto.

Un messaggio non letto.


“Fa male”.

È di Albert. Che razza di messaggio. E ci


mancava solo il messaggio. Certo che fa
male. Vorrei fermare questo ammasso di
lamiera in movimento. Scendere, e tornare
indietro. Parte di me lo vorrebbe. Ma si era
rotto qualcosa. Non posso tornare. Dovrei
azzerare tutto. E tornerei a quel silenzio
imposto. Di quello che è meglio non dire
che il contrario. Solo perché “lo dice il
guardiano di Budva”. Albert lo difendeva
sempre. Ed era chiaro che non riuscissimo
74

fi

più a parlarci davvero da qualche tempo.


Ma cosa importa. Capirà che non può con-
trollare tutto e tutti. Non sono più un uten-
sile della sua cucina. Io sono per la parità
dei ruoli. Una crescita comune.

75

CAPITOLO VIII

Un pieno vuoto

24.

Chiasso

Sono tornata. Mi sembra già tutto


lontano. Sarà dif cile raccontare questo pe-
riodo.
Ma lo devo raccontare per forza? Mai, nel
caso, a piccole dosi. Da John dovevo andar-
ci subito. Avrei visto la vecchia guardia del-
la città. E bevuto un buon bicchiere.
La musica era sempre jazz ma più elettro-
nica. Decisamente elettronica. Dinamica.
Special guest St.Germain, direttamente da
Parigi. Che bellezza. Era il re del “French
Touch”, la sua è una deep house sensata.
D’ambiente. Ma il nome vero nome non
era Ludovic Navarre? Mi piacciono gli arti-
sti. Non hanno paura di mostrarsi.
Ora ricordo perché preferivo sempre muo-
vermi piuttosto che stare ferma in un posto.
76

fi

Il mio corpo è come cosparso di elettrodi.


Mi buttai nella mischia. Ballai nella folla.
Una bella serata nel cortile del locale adibi-
to a discoteca open air.
Sono le 6.05 del mattino, mi ritrovo
su un divano mezza dormiente con John
che conta i soldi per il corriere. Era appena
arrivato con pane e latte fresco.

«Ti sei divertita, spero».


«Ah, John non saprei. Ma serviva. Ora
vado in uf cio. E non dire nulla a mio zio!».
«Margaret, ci penseranno gli altri».
«Giusto».

Che guraccia. Non importa. Almeno tutti


sapevano che ero tornata in città. E poi, tut-
ti santi. Erano lì come me.
Cammino per quasi due ore. Per rinsavire.
Ecco il “palazzo delle notizie”, come lo
chiamo io. Scale. Dannate scale. Non ne
ricordavo così tante.
Apro la porta piano. Cerco di essere
un’ombra. Speriamo di non essere vista su-

77

fi

fi

bito, ho già mal di testa così, non sopporte-


rei lo starnazzo generale.
C’è una nuova centralinista. È la persona
perfetta a cui chiedere.
«Buongiorno, il signor Artur è già
arrivato?».
«Ha un appuntamento?».
«Sono sua nipote».
«Lo avviso. Prima porta a destra. Abbiamo
recentemente cambiato disposizione degli
uf ci».
«Grazie».

Poche porte. Pochi gli uf ci chiusi. Il resto è


diventato tutto un open space. Ogni posta-
zione ha comunque una sua dimensione e
privacy grazie a piccoli divisori. Fa tutto un
po’ ospedale ma anche mio zio era entrato
nell’epoca moderna. Incredibile!

Toc Toc.
«Zio! Non mi aspettavo tutti questi cam-
biamenti!».
«È solo l’inizio, nipote. Chiudi la porta».

78

fi

fi

«Come vanno le nanze? Il giornale? Tua


sorella?».
«Tua madre sta bene. È stata una tortura
tenerti a galla. Vai a parlarci. Mica ti man-
gia».
«Figurati se mi mangia. Non mi ascolta.
Non capisce».
«Qui bene. Le tue piccole guide hanno aiu-
tato. Le vendevamo al sabato, come specia-
le».
«Si è un visto un po’ turismo svizzero. Mi
ritengo soddisfatta».
«Ma come stai?».
«Davvero non lo so. Ho scritto la storia di
Albert ma non gli avevo detto nulla. L’hai
messa subito online e poche ore dopo lo
hanno chiamato. E in 24 ore la mia vita con
lui è cambiata».
«Hai fatto il tuo lavoro».
«Ma sono andata contro le sue volontà».
«Eri lì anche per quello. Era solo questione
di tempo. Non può essersela presa così tan-
to. Ti ha cacciata? Ti ha trattata male? Lo
vado a picchiare».

79

fi

«Ma zio! No, abbiamo discusso. Me ne


sono andata via. E ora mi sento così…».
«Così cosa. Margaret!».
«In sospeso. Una parte di me sente di avere
fatto bene, e l’altra sente di avere fallito».
«Fallito. Ahah. Margaret, è pieno il mondo
di uomini».
«Ma non sono Albert. Nessuno è come lui».
«Ti passerà. La prossima settimana vedrai
dei tuoi vecchi amici. I Ward hanno orga-
nizzato un’asta come mai prima. Dovrai
esserci».
«Fai tutto facile tu. Ci andrò certamente.
Sarà un bel ritorno per loro. Non organiz-
zano un’asta da quella annullata a Parigi».
«Ti faccio avere il materiale che abbiamo
trovato così ti prepari».

È una situazione al dir poco grotte-


sca. Avrei rivisto Charles. Chissà i lotti. Per
la prima volta sarei stata tra il pubblico e
non un’addetta ai lavori, dietro alle tende.
Avrei assistito assieme alla folla.

80

25.

Si tornava a Ginevra dunque. E


Charles, per il suo ritorno in scena aveva
scelto di giocare in casa. Fa bene. Avevo
due settimane per aggiornarmi. Mio zio mi
aveva piazzata in ogni evento della città.
Anche quelli d'arte e di musica. Non lo ave-
va mai fatto prima.

«Davvero devo andare in tutti questi


posti?».

«Così ti tieni impegnata. Devi respirare la


città, anche se non è poi cambiata così tan-
to».
Aveva ragione. Ero io a vederla con occhi
diversi. Notavo molte più cose, soprattutto
le reazioni delle persone, gli sguardi si inse-
diavano dentro di me. Mi aiutavano a capi-
re realmente me stessa. Avevo una sensa-
zione di tale vuoto.

«Margaret, vieni con noi a cena?».

81

No, ecco, le cene no. L'ultima mia cena


vorrei non ricordarla. Mi si paralizza il cer-
vello solo l'idea di trovarmi seduta al tavolo
di un ristorante.
 
«Margaret, allora?».
«Guarda, vi ringrazio, ma non me la
sento.»
«È perché mai? Non dobbiamo mica fare
una recensione. È per nostro piacere. Così
ci racconti del Montenegro!».
E chi glielo diceva ora che il Montenegro al
momento rappresentava appunto una cena
da dimenticare?
Ma qualcosa dovevo pur dirgli. Avrebbero
continuato a chiedere. I chiacchiericci da
bar nell’uf cio sarebbero aumentati. Era
meglio togliersi il dente.
«E che non c'è molto da dire in realtà, vi
racconterò dei luoghi che ho visto ma che
non ho scritto».
«Sei stata via un anno. Non farti pregare.
Qui, a parte l'uf cio, non è cambiato
nulla».
«Non fatico a crederci».
82

fi

fi

«Alle nove sotto l’uf cio. Ti accompagno


io».

George era un ccanaso ma in fondo


la sua era un’anima gentile. La serata al-
l’Express passò via agile, fortunatamente
non nominarono Albert. Il titolare aveva
capito tutto, era appena tornato da un lun-
go periodo alle Hawaii, e si vedeva in ogni
dettaglio. Foto di Honolulu. Il Pokè in pri-
ma la af ancato da versioni con altre ma-
terie prime di livello, principalmente italia-
ne, spagnole e nordiche.
Lo bloccai al tavolo per far passare quanto
più tempo possibile. Non si nominarono
ricette o ristoranti montenegrini. Che lo zio
gli avesse detto di non entrare nell'argo-
mento? Solo Mary tentò.
«Hai stupito tutti con il tuo ultimo articolo.
Tu zio è stato su di giri per settimane».
«Ora sono qui, possiamo concentrarci su
nuovi progetti».

Incredibile come non avessero altro


da dire se non sparlare di tutti. Pettegolezzi
83

fi
fi

fi
fi

e stupidaggini a secchiate. Una noia morta-


le. Che noiosi. Che piccoli. Non uscivano
mai dalla loro routine. Non concepivo il
perché di una vita così inutile, prevedibile.

84

CAPITOLO IX

Il giorno dell’asta

26.

Ginevra

Mi sembra di non respirare troppo


bene. Non è un giorno come gli altri. Un
po’ di passato si confonderà con il presente.
L’asta è nel Palazzo delle Nazioni, una
struttura imponente.
Immenso. Bianchissimo. Dai 377 progetti di
costruzione ne restarono solo cinque. L’o-
pera si concluse nel 1936. All’epoca il pa-
lazzo era secondo solo a Versailles. 
L’asta è nell’edi cio E, una parte costruita
negli anni settanta. 
Seguo i cartelli. Avrò incontrato duemila
persone. Ecco la sala. C’è coda, un buon
segno. Non sono in ritardo e nemmeno
troppo in anticipo. Venti persone, tutti uo-
mini e per la maggior parte svizzeri e ingle-
si. Gli inglesi li riconosci dal portamento e
85

fi

dai colori dei vestiti. Anzi dalle facce. An-


che se qualche volto nuovo mi pare di no-
tarlo. Non mancano i soliti industriali e
banchieri, Wright e Green sono una certez-
za per Charles.
Non mi riconosce nessuno. Dif cile per loro
ricordare. Ero quella che vedevano all'en-
trata e all'uscita. Le transizioni le vedeva
Charles. Io mi occupano del trasporto spe-
ciale dei vini e delle opere. Dell'assicurazio-
ne. Una vita fa. Lasciare quel lavoro è stata
una delle mie migliori scelte. Mi spiaceva
per Charles, non sarà stato un periodo faci-
le il suo, tra la perdita del fratello e la sotto-
scritta che lo aveva piantato all’improvviso.
Suo padre non fece una piega. Anzi. Mi de-
testava. Non si faceva più nulla. Era tutto
stagnante. Il suo carattere poi non lo ha mai
aiutato. Io da lui cercavo attenzioni che non
arrivavano mai e non sarebbero mai arriva-
te. Ero in trappola. E lui giocava, sapeva di
avere presa su di me. C'è anche quella stre-
ga di Monaco, Sarah Mair. Si è passata tutti
i direttori delle più importanti testate. Si era
guadagnata così la sua posizione. Almeno
86

fi
così dicevano le malelingue. “Una vipera da
starci lontano.” Mio zio mi ha sempre mes-
sa in guardia. 

27.

Di Charles non c'è traccia. Tipico


suo. Entra solo a sala piena, prima deve ac-
certarsi della presenza di chi gli aveva assi-
curato l’interesse per certi lotti. Piccole e
bianche poltrone, tutte in la. Sembra un
campo innevato. Un grande tappeto nero al
centro. Ampi tendoni rossi di velluto ai lati.
Al centro il palco con due quadri, rigoro-
samente coperti. Opere provenienti da una
collezione privata di un lord inglese. Ritratti
inediti della Regina Vittoria. A lato, una
lavagna, anch’essa coperta, che nasconde
l'elenco dei lotti e dei vini. Io non ero di
certo lì per comprare, ma per raccontare il
ritorno della famiglia Ward. E che ritorno!

Ore 11.00. Si comincia. Ecco Charles.

87

fi

Ha sempre lo stesso aspetto. Solo meno ca-


pelli. L’immancabile giacca blu doppio pet-
to. Era la sua divisa per le aste. Nonostante
 gli occhi un po' spenti, riesce ad essere bril-
lante. Una voce squillante tiene alta l’atten-
zione. 
Quando saliva sul palco si trasformava.
Riusciva sempre a stupirmi con questa sua
metamorfosi. Il buffo è che nessuno lo co-
nosceva per davvero. Nessuno a parte po-
chissimi. 
La verticale di Cheval Blanc rompe il
ghiaccio. Arriviamo a trentamila franchi.
Poi è la volta di Chateau Latour e vecchi
Yquem. Grandi Bordeaux si contendono la
scena, Margaux, La te, Mouton Roth-
schild. In ne un lotto è interamente dedica-
to al Clos Rougeard. Quello lo ricordo
bene.
Che adrenalina.
Si aggiudicano quasi tutto i due broker in-
glesi, che se tanto mi dà tanto si sono messi
d'accordo.
I quadri rappresentano tutta la magni cen-
za della regina. Uno la ritrae da giovane e
88

fi

fi
fi
un altro seduta, con diversi strati di vestiti
addosso. Accappatoi di color rosso e oro
lumeggiano anche l’orizzonte mostrante la
contea del Devonshire.
Opere vendute per 15.0000 franchi. Char-
les era tutto intento a stringere mani e a ri-
cevere complimenti.

28.

È arrivato il momento delle doman-


de. I giornalisti erano nel lato ovest. Occu-
pavamo le prime la così da non vedere chi
offriva di più. Lo spettacolo era per le orec-
chie. Che bellezza.  Ero in terza la.

«Iniziamo con le domande».

Una otta di mani si alzano davanti a me.


Saranno state una cinquantina. Chiedono
sulla tenuta delle bottiglie, dove e come fos-
sero state conservate. Come venivano quo-
tate. Il valore del mercato al momento del-
l’uscita del vino. Povero Charles. Ma era
abituato.
89

fl

fi

fi

«Ultima domanda. Si è fatto tardi, ci aspet-


ta un piccolo rinfresco».

Mi alzo di getto.
Io e Charles ci perforiamo gli occhi.
Panico, silenzio generale. Improvvisamente
sono tutti diventati mummie egizie.
«Prego, Margaret».
«Ecco, buongiorno a tutti. Margaret Jones,
del Notice. Signor Charles, come vede lo
sviluppo della sua attività? Mi risulta che
non ci siano eredi. Avete intenzione di ce-
dere l'attività o di fare subentrare investito-
ri?».
L’ambiente diventa tetro. Un cimitero. 
Mancava solo un rumore di una vecchia
porta scricchiolante. 
Mi guardano tutti. Charles si sistema gli oc-
chiali prima di rispondermi.
«La selezione delle opere e dei vini di pre-
gio, e la loro e vendita tramite asta, è una
attività, come dovrebbe sapere, della mia
famiglia consolidata da decenni. Al mo-
mento non abbiamo alcuna intenzione di
vendere o essere nanziati. Il futuro è sem-
90

fi

pre incerto ma la capacità attrattiva dell'ar-


te e dei migliori vini del mondo saranno
sempre in grado di attirare una piccola par-
te di appassionati. Un pubblico che giusti -
cherà sempre la nostra presenza. Impre-
scindibile, aggiungerei. Grazie per la sua
domanda. Insolita, ma fa vedere il futuro da
un'altra prospettiva».

Charles mi sta odiando. Magari qualche


nanziatore lo troverà sul serio.
Mi dileguo, come cenere al vento.

29.

Chiasso

La mia domanda all'asta aveva inne-


scato una reazione a catena che necessitò di
chiarimenti e dichiarazioni da parte di
Charles: “Non cerchiamo investitori e non
siamo in trattativa con nessuno. Sono voci
del tutto infondate.”
Ohi ohi. Che scossone.
91
fi

f
«Margaret, c'è una persona per te».
«Chi è?».
«Dice di essere un vecchio amico».

Che balla mai è questa? Non ho vecchi


amici.
Scendo le scale, attraverso il corridoio. E lo
vedo. Me lo sentivo. Era Charles. Mi scop-
piano un po' di vene. Ma siamo in posizioni
diverse ora. Non devo avere paura di lui.

«Complimenti per la tua carriera Marga-


ret».
«Ah, beh, non la de nirei carriera. È un bel
lavoro in cui riesco ad esprimermi. Cosa ti
porta qui?».
«Volevo salutarti. Sei sparita a Ginevra».
«Non volevo rubarti ulteriormente la sce-
na».
«Non ti ricordavo così…».
«Diretta? Non ci conosciamo in fondo».
«Potremmo ricominciare. Potresti tornare.
Ti raddoppio lo stipendio».
«Offerta allettante Charles, ma sto bene
qui. Tornare signi cherebbe ammettere di
92

fi
fi

avere fatto una miriade di scelte sbagliate.


Ti ringrazio, ma no, non posso accettare».
«Maggie Maggie. Sei diventata una
donna».
«Non perdiamoci di vista».
«Charles, mi è spiaciuto esser andata via
all’improvviso. Ma era diventato impossibi-
le».
«Ognuno prende le scelte che reputa mi-
gliori per sé stesso».

Un abbraccio chiudeva e apriva la strada


ad un nuovo rapporto destinato a diventar
migliore.

93

CAPITOLO X

Non c’è una ne 

30.

Chiasso

Non sentivo parlare di Albert da un


pezzo. Non mi ero neanche sforzata di cer-
care informazioni. Si era placata l’onda del-
l’entusiasmo generale circa il suo progetto.
Mi appariva il suo volto ogni volta che an-
davo al ristorante. Uno strazio. 
«Margaret, domani si sapranno i nuovi stel-
lati Michelin».
«Non me lo ricordare zio».
«Sei pronta?».
«Per fare?».
«Beh, vediamo chi c’è».
«Seguirò la cosa, vado a provare un nuovo
cocktail bar sul Lago Maggiore».

94

fi

31.

Arona

Davanti a me una piazza piena di


gente apparentemente felice. Le grida dei
bambini sono ancora moderate. Giocano a
nascondino. Le voci si perdono nel lago. La
musica soul è più alta, e decisamente più
coinvolgente. Una coppia di cinquantenni
davanti a una paella e un branzino sono
come in simbiosi nei movimenti. Meccanici.
Sincronizzati. Non si parlano nemmeno.
Dall’altra parte i miei occhi si fermano a
guardare una famiglia che gioca col cane.
Praticamente non si parlano nemmeno
loro. Era meglio stare in casa e comportarsi
come estranei lì, piuttosto che uscire e
sbandierare lo sconforto. Cose che non ca-
pirò mai. Quanta lontananza dalla mia idea
di vita.
Dopo qualche ora rimbalza la notizia:
“Guida Michelin, il Montenegro si conqui-
sta la sua prima stella: SS.”

95

Il mio cuore batte come se stesse facendo i


cento metri.

Suona il telefono.

«Margaret! Avrai saputo».


«Ho visto zio».
«Come ti senti? Non devi fare nulla se non
te la senti. Forse hai aperto gli occhi a qual-
cuno».
«Io ho fatto quello che mi hai chiesto.
L’ho pagata cara quella scelta».

32.

Una settimana dopo, Chiasso

«Posta. Un pacco. Arriva


dall'estero».
All’interno, sommersa in uno strato di pop-
corn da imballaggio, c’è una busta.
C’è un biglietto aereo: Milano-Podgorica.
Noi si legge il mittente. O meglio, si è can-
cellato. È rimasta qualche lettera. Lo man-
96

da una società. C’è anche una confezione in


tessuto con all’interno il mio foulard. Che
déjà-vu, scoppio a piangere. Ero fuggita
come una ladra. Avevo portato via poche
cose. Albert lo aveva tenuto per tutto questo
tempo.
Dopo 48 ore ero di nuovo lì. A
camminare sulla sabbia rosa. A guadare il
nostro isolotto. La cucina del SS si raggiun-
geva anche dalla piccola strada in pietra.
Cammino più lenta che posso. Arrivo alla
piccola strada in pietra circondata dal verde
e dalle rocce. Supero la grande palma. Ecco
la cucina. Vedo sagome muoversi. Pentole,
fuochi, pareti in acciaio. Sono così vicina. 
Mi sudano le mani, i piedi. Ma che dico,
tutto. Mi sto per sciogliere come un budino.
Ecco Albert, la sua schiena la riconoscerei
ovunque. Si volta. Alza la testa. Il sole lo
accieca. Si sposta. Rimaniamo imbalsamati
per secondi e secondi. Quanto riescono ad
essere lunghi i secondi se c’è un muro a se-
parare i corpi. Appoggio le mani sul vetro.
Lui fa lo stesso, incontrando le mie. 

97

Margaret non entrò mai all’SS ma ogni ri-


conoscimento di Albert sarà una conferma
e una scusa per trovarsi. E non viversi più.
Le due anime restano legate per sempre,
unite da un unico obiettivo: la libertà di po-
ter scegliere cosa fare con un unico ramma-
rico, non poter vivere appieno i propri sen-
timenti.

98

NOTE SULL’AUTORE

Erika Mantovan è una giornalista


pubblicista di Torino.
Nata e cresciuta a Torino nel 1987.
Durante gli studi universitari si appassiona
al mondo dell’enogastronomia e decide che
sarà la sua vita.
Viaggia, continua a studiare.
Cambia molti lavori prima di convincersi
che è la sola scrittura e renderla realmente
felice, in pace con se stessa.
Appassionata degli anni venti, dell’epoca
vittoriana e della pittura en plein air, scrive
ascoltando musica jazz, soul, black.
Ricerca il groove.
Collabora con diverse testate giornalistiche:
Le Guide Espresso,
Identità Golose, Beverfood.com, James
Magazine, Passione Gourmet,
Vertigo Maniac, Vert de Vin, Bubble’s.

99

Potrebbero piacerti anche