Sei sulla pagina 1di 410

Indice

Copertina
L’immagine
Il libro
L’autore
Frontespizio
Sei di corvi
GRISHA. Soldati del secondo esercito dominatori della piccola scienza
PARTE PRIMA. TRAFFICI NELL’OMBRA
1. JOOST
2. INEJ
3. KAZ
4. INEJ
5. KAZ
6. NINA
PARTE SECONDA. SERVA E MUSA
7. MATTHIAS
8. JESPER
9. KAZ
10. INEJ
11. JESPER
12. INEJ
13. KAZ
14. NINA
15. MATTHIAS
PARTE TERZA. DISPERATO
16. INEJ
17. JESPER
18. KAZ
19. MATTHIAS
20. NINA
PARTE QUARTA. IL TRUCCO PER CADERE
21. INEJ
22. KAZ
23. JESPER
24. NINA
25. INEJ
26. KAZ
PARTE QUINTA. IL GHIACCIO NON PERDONA
27. JESPER
28. INEJ
29. MATTHIAS
30. JESPER
31. NINA
32. JESPER
33. INEJ
34. NINA
35. MATTHIAS
36. JESPER
37. NINA
38. KAZ
PARTE SESTA. LADRI COME SI DEVE
39. INEJ
40. NINA
41. MATTHIAS
42. INEJ
43. NINA
44. JESPER
45. KAZ
46. PEKKA
RINGRAZIAMENTI
Copyright
Il libro

A Ketterdam, vivace centro di scambi commerciali internazionali, non c’è niente


che non possa essere comprato e nessuno lo sa meglio di Kaz Brekker, cresciuto
nei vicoli bui e dannati del Barile, la zona più malfamata della città, un ricettacolo
di sporcizia, vizi e violenza. Kaz, detto anche Manisporche, è un ladro spietato, bugiardo e
senza un grammo di coscienza che si muove con disinvoltura tra bische clandestine,
traffici illeciti e bordelli, con indosso gli immancabili guanti di pelle nera e un bastone
decorato con una testa di corvo. Uno che, nonostante la giovane età, tutti hanno imparato a
temere e rispettare.
Un giorno Brekker viene avvicinato da uno dei più ricchi e potenti mercanti della città e
gli viene offerta una ricompensa esorbitante a patto che riesca a liberare lo scienziato Bo
Yul-Bayur dalla leggendaria Corte di Ghiaccio, una fortezza considerata da tutti
inespugnabile. Una missione impossibile che Kaz non è in grado di affrontare da solo.
Assoldati i cinque compagni di avventura – un detenuto con sete di vendetta, un tiratore
scelto col vizio del gioco, uno scappato di casa con un passato da privilegiato, una spia che
tutti chiamano lo “Spettro”, una ragazza dotata di poteri magici –, ladri e delinquenti con
capacità fuori dal comune e così disperati da non tirarsi indietro nemmeno davanti alla
possibilità concreta di non fare più ritorno a casa, Kaz è pronto a tentare l’ambizioso
quanto azzardato colpo. Per riuscirci, però, lui e i suoi compagni dovranno imparare a
lavorare in squadra e a fidarsi l’uno dell’altro, perché il loro potenziale può sì condurli a
compiere grandi cose, ma anche provocare grossi danni...
Finalmente arriva in Italia il primo romanzo della duologia che ha consacrato Leigh
Bardugo come una delle voci più talentuose e autorevoli della narrativa fantasy. Una serie
ambientata in un mondo articolato e straordinario, il GrishaVerse, dove si muovono
personaggi sapientemente costruiti e sfaccettati. Una storia avventurosa ricca di colpi di
scena che vi mancherà nell’istante stesso in cui avrete letto l’ultima pagina.
L’autore

Leigh Bardugo, nata a Gerusalemme ma cresciuta a Los


Angeles, si è laureata a Yale e ha lavorato, tra le altre cose, nella
pubblicità e nel giornalismo. È una scrittrice conosciuta (e
amatissima) in tutto il mondo per le sue saghe ambientate nel
suggestivo GrishaVerse, dalle quali Netflix sta sviluppando una
serie tv.
Leigh Bardugo

SEI DI CORVI
GrishaVerse

Traduzione di Fabio Paracchini e Lorenza Pellegri


SEI DI CORVI

A Kayte,
arma segreta,
amica inaspettata
GRISHA
Soldati del secondo esercito dominatori della piccola scienza

CORPORALKI
Ordine dei Vivi e dei Morti
Spaccacuore
Guaritori
Plasmaforme

ETHEREALKI
Ordine degli Evocatori
Chiamatempeste
Inferni
Scuotiacque

MATERIALKI
Ordine dei Fabrikator
Tempratori
Alchemi
PARTE PRIMA
TRAFFICI NELL’OMBRA
1
JOOST

Joost aveva due problemi: la luna e i baffi.


Avrebbe dovuto fare la ronda a casa Hoede, ma era da quindici minuti che
gironzolava intorno al muro del giardino affacciato a sud-est, cercando di
pensare a qualcosa di intelligente e romantico da dire ad Anya.
Se soltanto gli occhi di lei fossero stati blu come il mare o verdi come lo
smeraldo. Invece, erano marroni – adorabili, un sogno... Cioccolato fuso? Pelo di
coniglio?
«Dille semplicemente che ha la pelle color chiaro di luna» gli aveva suggerito
il suo amico Pieter. «Le ragazze vanno matte per questo tipo di cose.»
Una soluzione perfetta, ma il tempo a Ketterdam non stava collaborando.
Quel giorno non aveva spirato alcuna brezza dal porto, e una nebbia grigia e
lattiginosa aveva avvolto d’umido i canali e i vicoli tortuosi della città.
Anche qui, tra i palazzi della Geldstraat, l’aria sapeva di pesce e acqua di
sentina, e il fumo delle raffinerie che arrivava dalle isole più esterne dell’abitato
aveva spalmato una foschia salmastra sopra il cielo scuro della notte. La luna
piena sembrava più una vescica purulenta in procinto di scoppiare che un
gioiello.
E se avesse adulato la risata di Anya? Peccato che non l’avesse mai sentita
ridere. Non era molto bravo a fare battute.
Joost diede un’occhiata al proprio riflesso in uno dei pannelli in vetro delle
doppie porte che dalla casa immettevano nel giardino laterale. Sua madre aveva
ragione. Anche nella nuova uniforme, sembrava ancora un bambino. Con
delicatezza, si strofinò il dito sul labbro superiore. Se solo gli fossero apparsi dei
veri baffi. Avrebbe giurato che li sentiva più folti del giorno prima.
Si era arruolato nella stadwatch da meno di sei settimane, e non era neanche
lontanamente così eccitante come si era immaginato. Sperava di rincorrere i ladri
lungo il Barile, di pattugliare i porti, di ispezionare per primo le navi cargo che
attraccavano nelle banchine. Ma da quando quell’ambasciatore era stato
assassinato nel municipio, il Consiglio dei Mercanti si era lamentato della
sicurezza. Così lui dov’era? Bloccato a girare in circolo attorno alla casa di
qualche fortunato mercante. Anche se non esattamente uno qualunque. Nessuno
poteva arrivare più in alto all’interno del governo di Ketterdam di quanto il
Consigliere Hoede era arrivato. Il genere di uomo in grado di fare carriera.
Joost si sistemò il cappotto e il fucile, poi diede una pacca al manganello che
gli pesava al fianco. Forse Hoede lo avrebbe preso in simpatia. “Occhio sveglio
e bastone veloce” avrebbe detto. “Quel ragazzo merita una promozione.”
«Sergente Joost Van Poel» sussurrò, assaporando il suono delle parole.
«Capitano Joost Van Poel.»
«Piantala di fissarti come un’idiota.»
Joost roteò su se stesso, le guance che prendevano fuoco, mentre Henk e
Rutger entravano spediti a grandi falcate nel giardino laterale. Erano entrambi
più vecchi, più grossi e più larghi di spalle di Joost, ed erano le guardie private
della casa del Consigliere Hoede. E ciò comportava che indossassero
un’uniforme verde pallido, che portassero ottimi fucili provenienti da Novyi
Zem, e che non permettessero mai a Joost di dimenticare la sua condizione di
umile soldato semplice della guardia cittadina.
«Trastullarti quel mucchietto di peluria non lo farà crescere più in fretta»
disse Rutger scoppiando a ridere.
Joost cercò di mantenere un minimo di dignità. «Devo finire il mio giro di
ronda.»
Rutger diede di gomito a Henk. «Significa che andrà a infilare la testa nella
bottega Grisha per dare un’occhiata alla sua ragazza.»
«Oh, Anya, perché non usi la tua magia Grisha per farmi crescere i baffi?» lo
scimmiottò Henk.
Joost girò sui tacchi, le guance in fiamme, e si avviò a passo di marcia verso
il lato orientale della casa. Lo provocavano da quando era arrivato. Se non fosse
stato per Anya, probabilmente avrebbe supplicato il suo capitano di assegnargli
un altro incarico. Lui e Anya si erano scambiati solo qualche parola durante i
suoi giri di ronda, ma lei era sempre la parte migliore della notte.
E poi doveva ammetterlo, gli piaceva anche casa Hoede, per quelle poche
sbirciate che era riuscito a dare dalle finestre. Hoede possedeva uno dei palazzi
più maestosi sulla Geldstraat: pavimenti lucidi a scacchiera, con riquadri bianchi
e neri di pietra, pareti in legno scuro e lucido illuminate da lampadari in cristallo
soffiato che galleggiavano come meduse nel soffitto a cassettoni. A volte Joost
fingeva che fosse casa sua, e fantasticava di essere un ricco mercante a passeggio
nel proprio raffinato giardino.
Prima di svoltare l’angolo, fece un bel respiro. Anya, i tuoi occhi sono
marroni come... la corteccia di un albero? Avrebbe trovato qualcosa. In ogni
caso, meglio essere spontanei.
Fu sorpreso nel vedere aperte le porte a pannelli di vetro della bottega Grisha.
Più delle mattonelle blu dipinte a mano della cucina o della mensola del camino
stracarica di tulipani in vaso, era questa bottega la vera prova della ricchezza di
Hoede. Avere un Grisha sul proprio libro paga non era cosa a buon mercato, e
Hoede ne aveva tre.
Ma Yuri non era seduto al bancone da lavoro, e Anya non si vedeva da
nessuna parte. C’era soltanto Retvenko, allungato su una sedia in una vestaglia
blu scuro, gli occhi chiusi, un libro aperto sul petto.
Joost gironzolò nell’atrio, poi si schiarì la voce. «Queste porte dovrebbero
essere chiuse a chiave di notte.»
«Casa è come fornace» disse Retvenko strascicando le parole e senza aprire
gli occhi, nel suo accento Ravkiano forte e avvolgente. «Di’ a Hoede quando
smetto sudare chiudo porte.»
Retvenko era un Chiamatempeste, più anziano degli altri Grisha a contratto, i
capelli corti striati d’argento. Girava voce che avesse combattuto per la fazione
perdente nella guerra civile di Ravka e che fosse fuggito a Kerch dopo la guerra.
«Sarò lieto di riportare le sue rimostranze al Consigliere Hoede» mentì Joost.
La casa era sempre surriscaldata, come se Hoede fosse obbligato a bruciare
carbone, ma non sarebbe stato Joost a tirar fuori la faccenda. «Fino a quel
momento...»
«Porti notizie di Yuri?» lo interruppe Retvenko, aprendo finalmente gli occhi
sotto palpebre pesanti.
Joost guardò a disagio la scodella piena di acini di uva rossa e i mucchietti di
velluto bordeaux sul tavolo da lavoro. Yuri stava studiando un modo per
impregnare le tende della Padrona Hoede con il colore rubino della frutta, ma
qualche giorno prima si era ammalato gravemente, e Joost da allora non l’aveva
più visto. La polvere aveva cominciato ad accumularsi sul velluto, e l’uva stava
andando a male.
«Non ho sentito niente.»
«Per forza non senti niente. Troppo occupato andare in giro con stupida
uniforme viola.»
Cosa aveva che non andava la sua uniforme? E perché Retvenko doveva
essere qui? Era il Chiamatempeste personale di Hoede e spesso viaggiava con i
carichi più preziosi del mercante, in modo da garantire venti favorevoli e
condurre le navi velocemente e al sicuro in porto. Perché ora non era via per
mare?
«Penso che Yuri potrebbe essere in quarantena.»
«Molto utile» disse Retvenko con scherno. «Puoi smettere di allungare collo
come oca giuliva» aggiunse. «Anya andata via.»
Joost sentì che la sua faccia era tornata a scottare. «E dov’è?» chiese,
cercando di suonare autorevole. «Dovrebbe essere dentro quando fa buio.»
«Un’ora fa, Hoede la prende. Come notte quando venuto per Yuri.»
«In che senso, “venuto per Yuri”? Yuri si è ammalato.»
«Hoede viene per Yuri, Yuri torna indietro malato. Due giorni dopo, Yuri
sparisce per sempre. Adesso Anya.»
Per sempre?
«Forse c’è stata un’emergenza. Se qualcuno ha avuto bisogno di essere
curato...»
«Prima Yuri, adesso Anya. Io sarò prossimo, e nessuno si accorgerà tranne
povero piccolo Poliziotto Joost. Vai adesso.»
«Se il Consigliere Hoede...»
Retvenko sollevò un braccio e una raffica d’aria spinse Joost indietro. Joost
barcollò, ma riuscì a restare in piedi, aggrappandosi allo stipite della porta.
«Ho detto adesso.» Retvenko disegnò un cerchio nel vuoto e la porta si chiuse
con violenza. Joost mollò la presa appena in tempo per evitare di ritrovarsi con
le dita spappolate, e cadde nel giardino.
Si rimise in piedi più in fretta che poté, ripulendo l’uniforme dal fango, con la
vergogna che gli strizzava le budella. Uno dei pannelli di vetro si era rotto per
via dell’urto. Joost, guardandoci dentro, vide che il Chiamatempeste stava
facendo un sorrisetto.
«Questo verrà detratto dal suo contratto» disse, puntando l’indice verso il
pannello rotto. Detestò il modo in cui la sua voce risuonò, meschina e petulante.
Retvenko gli fece ciao con la mano, e le porte sussultarono nei loro cardini.
Senza neanche pensarci, Joost fece un passo indietro.
«Vai a fare tuoi giri, piccolo cane da guardia» gridò Retvenko.
«Ti è andata bene» lo derise Rutger, appoggiato al muro del giardino.
Da quant’è che stava lì? «Non hai niente di meglio da fare che seguirmi?» gli
chiese Joost.
«Tutte le guardie devono presentarsi a rapporto alla rimessa. Anche tu. O sei
troppo occupato a farti dei nuovi amici?»
«Gli stavo chiedendo di chiudere la porta.»
Rutger scrollò la testa. «Non si chiede. Si ordina. Sono servi. Non ospiti di
riguardo.»
Joost prese a camminargli accanto, dentro di sé ancora in fiamme per
l’umiliazione. La cosa peggiore era che Rutger aveva ragione. Retvenko non
aveva il diritto di parlargli a quel modo. Ma lui cosa poteva fare? Anche se
avesse avuto il coraggio di mettersi a litigare con un Chiamatempeste, sarebbe
stato come attaccare briga con un vaso costoso. I Grisha non erano soltanto dei
servitori; erano le preziose proprietà di Hoede.
A ogni modo, che cosa aveva voluto dire Retvenko a proposito di Yuri e
Anya portati via? Stava forse coprendo Anya? I Grisha sotto contratto erano
tenuti a stare in casa per un buon motivo. Andare in giro per le strade senza
protezione voleva dire rischiare di essere rapiti da uno schiavista e scomparire
nel nulla. “Forse si vede con qualcuno” suppose tristemente Joost.
I suoi pensieri furono interrotti dal tripudio di luce e attività giù alla rimessa
che si affacciava sul canale. Sull’altra sponda poteva vedere altre eleganti
dimore di mercanti, alte e slanciate, i tetti acuti che stagliavano la loro sagoma
scura contro il cielo nero, i loro giardini e le loro rimesse illuminati dal chiarore
delle lanterne.
Qualche settimana prima, a Joost era stato detto che la rimessa di Hoede
sarebbe stata ristrutturata e quindi di escluderla dalla ronda. Ma quando lui e
Rutger vi entrarono, Joost non vide né vernici né ponteggi. Gondels e remi erano
stati spinti contro le pareti. Le altre guardie della casa erano là nelle loro divise
verdemare, e Joost riconobbe due guardie della stadwatch in viola. Tuttavia la
maggior parte dello spazio era occupata da una scatola gigantesca – una specie
di gabbia che sembrava fatta di acciaio rinforzato, i profili spessi e inchiavardati,
un’ampia finestra incastonata in una delle pareti. Attraverso il vetro, con una
curvatura ondulata, Joost vide una ragazza seduta a un tavolo, che si stringeva
forte le vesti di seta rossa attorno al corpo. Dietro di lei, una guardia della
stadwatch stava in piedi sull’attenti.
“Anya” realizzò Joost con un sussulto. Gli occhi di lei erano spalancati e
terrorizzati, il viso pallido. Il ragazzino che le stava di fronte sembrava
spaventato il doppio di lei. Aveva i capelli arruffati come se fosse appena sceso
dal letto, e le gambe gli penzolavano giù dalla sedia e scalciavano nervosamente
l’aria.
«Perché tutte queste guardie?» domandò Joost. Ce ne dovevano essere più di
dieci radunate dentro la rimessa. C’era anche il Consigliere Hoede, insieme a un
mercante che Joost non conosceva, entrambi vestiti in nero mercantile. Joost si
raddrizzò quando vide che stavano parlando al capitano della stadwatch. Sperò
di essersi tolto via dall’uniforme tutto il fango del giardino. «Di cosa si tratta?»
Rutger scrollò le spalle. «Chi se ne frega. Almeno è una novità.»
Joost si girò a guardare al di là del vetro. Anya lo stava fissando, ma lo
sguardo era fuori fuoco. Il giorno in cui lui era arrivato a casa Hoede, lei gli
aveva guarito un livido sulla guancia. Non era niente di che, la traccia
gialloverde di una botta che si era preso in faccia durante un allenamento, ma a
quanto pareva Hoede se n’era accorto e a lui non piaceva che le sue guardie
avessero l’aspetto di delinquenti. Joost era stato spedito nella bottega Grisha, e
Anya lo aveva fatto sedere in un quadrato di luce, disegnato dal tardo sole
invernale. Con le dita fresche gli aveva sfiorato la pelle e, anche se il prurito era
stato terribile, appena pochi secondi dopo era come se il livido non ci fosse mai
stato.
Quando Joost l’aveva ringraziata, Anya aveva sorriso e lui si era sentito
perso. Sapeva di essere un caso senza speranza. Anche se lei avesse avuto
qualche interesse per lui, Joost non si sarebbe mai potuto permettere di
acquistare il suo contratto da Hoede, e lei non avrebbe mai potuto sposarlo a
meno che Hoede non l’avesse permesso. Ma questo non l’aveva dissuaso dal
passare a trovarla per dirle ciao o dal portarle qualche regalino. Più di tutti le era
piaciuta la cartina di Kerch, un disegno bizzarro del loro paese, un’isola
circondata dalle sirene che nuotano nel Mare Vero e dalle navi sospinte dai
venti, raffigurati come uomini con le guance paffute. Era un souvenir di poche
pretese, di quelli che i turisti si compravano sullo Stave dell’Est, ma sembrava
averla resa felice.
Ora si azzardò ad alzare una mano in segno di saluto. Anya non accennò
alcuna reazione.
«Non può vederti, idiota» ghignò Rutger. «Il vetro è specchiato sul lato
opposto.»
Le guance di Joost si fecero rosse. «Come potevo saperlo?»
«Apri gli occhi e fai attenzione per una volta.»
Prima Yuri, ora Anya. «Perché hanno bisogno di una Guaritrice Grisha? Quel
ragazzo è ferito?»
«A me sembra a posto.»
Hoede e il capitano parevano aver raggiunto un qualche accordo.
Attraverso il vetro, Joost vide Hoede entrare nella gabbia e dare al ragazzo
una pacca d’incoraggiamento. Ci dovevano essere dei condotti di ventilazione
all’interno perché sentì il mercante dire: «Fai il bravo, e ci sarà qualche kruge
per te». Poi Hoede afferrò il mento di Anya con una mano punteggiata di
macchie dell’età. Lei si irrigidì, e le budella di Joost si attorcigliarono. Hoede
diede ad Anya una scrollatina. «Fai come ti è stato detto, e presto sarà tutto
finito, ja?»
Lei fece un sorrisino tirato. «Certamente, Onkle.»
Hoede sussurrò qualche parola alla guardia che era alle spalle di Anya, poi
uscì dalla gabbia. La porta si chiuse con un fragoroso suono metallico, e Hoede
fece scattare una pesante serratura.
Hoede e l’altro mercante presero posto quasi di fronte a Joost e Rutger.
L’uomo che Joost non conosceva disse: «Sei sicuro che sia saggio? Questa
ragazza è una Corporalki. Dopo quello che è successo al tuo Fabrikator...».
«Se si trattasse di Retvenko, sarei preoccupato. Ma Anya ha un’indole docile.
È una Guaritrice. Non incline all’aggressione.»
«E hai abbassato il dosaggio?»
«Sì, ma siamo d’accordo che se otterremo gli stessi risultati del Fabrikator, il
Consiglio mi ricompenserà? Non mi si può chiedere di affrontare quella spesa.»
Quando il mercante annuì, Hoede fece segno al capitano. «Procediamo.»
Gli stessi risultati del Fabrikator. Retvenko sosteneva che Yuri fosse sparito.
Era a questo che si riferiva Hoede?
«Sergente» disse il capitano, «siete pronti?»
La guardia dentro la gabbia rispose: «Sissignore». Ed estrasse un coltello.
Joost deglutì a fatica.
«Prima prova» disse il capitano.
La guardia si piegò in avanti e ordinò al ragazzino di arrotolarsi la manica.
Quello obbedì e tirò fuori il braccio, infilandosi in bocca il pollice dell’altro
mano. “Troppo grande per farlo ancora” pensò Joost. Ma il ragazzino doveva
essere molto spaventato. Joost aveva dormito con un orsacchiotto fatto con un
calzino fino a quasi quattordici anni, cosa per cui i suoi fratelli maggiori
l’avevano sfottuto senza pietà.
«Sentirai pungere leggermente» disse la guardia.
Il ragazzino tenne il pollice in bocca e annuì, gli occhi sgranati.
«Non è davvero necessario» disse Anya.
«Silenzio, per favore» replicò Hoede.
La guardia diede una pacca al ragazzino e poi fece un luminoso taglio rosso
nel suo avambraccio. Il giovane scoppiò immediatamente a piangere.
Anya provò ad alzarsi dalla sedia, ma la guardia, con severità, le piazzò una
mano sulla spalla.
«È tutto a posto, sergente» disse Hoede. «La lasci fare.»
Anya si sporse in avanti e prese la mano del ragazzino con delicatezza.
«Sssh» disse gentilmente. «Lascia che ti aiuti.»
«Farà male?» deglutì l’altro.
Lei sorrise. «Per niente. Solo un po’ di prurito. Cercherai di stare fermo per
me?»
Joost si ritrovò a sporgersi in avanti. Non aveva mai visto veramente Anya
guarire qualcuno.
Lei prese un fazzoletto dalla tasca e ripulì il sangue in eccesso. Poi le sue dita
sfiorarono con attenzione la ferita. Joost guardò stupefatto la pelle che
lentamente sembrava rigenerarsi e ricongiungersi.
Pochi minuti dopo, il ragazzino fece un gran sorriso e porse il braccio.
Appariva leggermente arrossato, ma era morbido e senza traccia di cicatrici.
«Era una magia?»
Anya gli diede un colpetto sulla punta del naso. «Più o meno. La stessa magia
che fa il tuo corpo quando gli dai un po’ di tempo e un pezzo di garza.»
Il ragazzino sembrava quasi deluso.
«Bene, bene» disse Hoede con impazienza. «Ora la parem.»
Joost aggrottò le sopracciglia. Non aveva mai sentito quella parola.
Il capitano fece cenno al sergente. «Seconda prova.»
«Tira fuori il braccio» disse quello al ragazzino per la seconda volta.
Lui scrollò la testa. «Non mi piace questa parte.»
«Muoviti.»
Il labbro inferiore del ragazzino tremò, ma eseguì l’ordine.
La guardia lo tagliò di nuovo.
Poi piazzò una bustina di carta cerata sul tavolo di fronte ad Anya.
«Inghiotti il contenuto del pacchetto» la istruì Hoede.
«Che cos’è?» chiese lei, la voce tremante.
«Questo non ti riguarda.»
«Che cos’è?» ripeté.
«Non ti ucciderà. Ti dobbiamo chiedere di svolgere dei semplici compiti per
valutare gli effetti della droga. Il sergente è lì per assicurarsi che tu faccia
soltanto quello che ti viene detto e nient’altro, capito?»
Anya serrò la mascella, ma annuì.
«Nessuno ti farà del male» disse Hoede. «Ma ricorda, se colpisci il sergente,
non hai vie di fuga da quella gabbia. Le porte sono chiuse dall’esterno.»
«Che cos’è quella roba?» sussurrò Joost.
«Non lo so» disse Rutger.
«Che cosa sai?» bisbigliò.
«Abbastanza da tenere il becco chiuso.»
Joost lo guardò storto.
Con le mani che le tremavano, Anya sollevò la piccola busta cerata e aprì la
linguetta.
«Vai avanti» disse Hoede.
Lei rovesciò la testa all’indietro e mandò giù la polvere. Rimase seduta per un
momento, in attesa, le labbra contratte.
«È solo jurda?» domandò, speranzosa. Anche Joost si ritrovò a sperarlo. La
jurda non era niente di pericoloso, una sostanza eccitante che tutti nella
stadwatch masticavano per rimanere svegli durante le ore di guardia notturne.
«Di che cosa sa?» chiese Hoede.
«Di jurda ma più dolce.»
Anya inspirò bruscamente. Con le mani afferrò il tavolo, le pupille dilatate al
punto che gli occhi sembravano quasi del tutto neri. «Oooh» disse, con un
sospiro. Ricordava le fusa di un gatto.
La guardia strinse la presa sulla sua spalla.
«Come ti senti?»
Lei fissò lo specchio e sorrise. La lingua, con macchie color ruggine, le fece
capolino tra i denti bianchi. Joost sentì improvvisamente freddo.
«Proprio com’è successo con il Fabrikator» mormorò il mercante.
«Guarisci il ragazzo» ordinò Hoede.
Lei agitò la mano nell’aria, con un gesto quasi sprezzante, e il taglio sul
braccio si rimarginò all’istante.
Il sangue si sollevò velocemente dalla pelle in tante goccioline vermiglie che
poi svanirono. La pelle appariva perfettamente liscia, ogni traccia di sangue e
ogni rossore spariti. Il ragazzino era raggiante. «Questa era proprio magia.»
«Fa sentire come se fosse magia» disse Anya con lo stesso sorriso
inquietante.
«Non l’ha neanche toccato» disse meravigliato il capitano.
«Anya» cominciò Hoede. «Ascolta attentamente. Ora diremo al capitano di
procedere con la prossima prova.»
«Mmh» mugugnò lei.
«Sergente» disse Hoede. «Amputa il pollice.»
Il ragazzino fece un urlo e ricominciò a piangere. Nascose le mani tra le
gambe per proteggerle.
“Dovrei fermare tutto questo” pensò Joost. “Dovrei trovare un modo per
proteggerla, per proteggerli entrambi.” Ma poi cosa sarebbe successo? Lui non
era nessuno, nuova recluta della stadwatch, nuovo in questa casa. “Oltretutto” si
scoprì a pensare pieno di vergogna, “voglio tenermi il mio lavoro.”
Anya sorrise appena e inclinò la testa all’indietro in modo da guardare il
sergente. «Rompi il vetro.»
«Che cos’ha detto?» domandò il mercante.
«Sergente!» tuonò il capitano.
«Rompi il vetro» ripeté Anya. Il viso del sergente si rilassò. Piegò la testa da
un lato come per ascoltare una melodia lontana, poi sollevò il fucile e lo puntò.
«Mettilo giù!» urlò qualcuno.
Joost si buttò a terra, coprendosi la testa mentre la raffica di spari gli riempì le
orecchie e pezzi di vetro gli piovvero sulle mani e sulla schiena.
I suoi pensieri erano in preda al panico. La mente cercava di negare, ma lui
sapeva cosa aveva appena visto. Anya aveva ordinato al sergente di rompere il
vetro. Lei glielo aveva fatto fare. Ma non poteva essere vero. I Grisha Corporalki
erano specializzati nel corpo umano. Potevano fermarti il cuore, rallentarti il
respiro, spezzarti le ossa. Ma non potevano entrarti in testa.
Per un momento ci fu silenzio. Poi Joost fu in piedi come tutti gli altri, alla
ricerca del proprio fucile. Hoede e il capitano gridarono nello stesso istante.
«Prendetela!»
«Sparatele!»
«Hai idea di quanto costa?» lo rimbeccò Hoede. «Qualcuno la blocchi! Non
sparate!»
Anya alzò le mani, le maniche rosse spalancate. «Aspettate» disse.
Il panico di Joost si dileguò. Sapeva di essere stato spaventato, ma la paura
adesso era lontana. Si sentiva pieno di speranza. Non era sicuro di quello che
sarebbe arrivato, o quando, solo che sarebbe arrivato e che era fondamentale
essere pronti a riceverlo. Avrebbe potuto essere qualcosa di buono o di cattivo.
Non gli importava veramente. Il suo cuore era libero da preoccupazioni e
desideri. Non si aspettava niente, non voleva niente, la mente era muta, il respiro
fermo. Doveva solo aspettare.
Vide Anya alzarsi e tirare su il ragazzino. La sentì canticchiargli teneramente
qualcosa, qualche ninna nanna Ravkiana.
«Apri la porta ed entra, Hoede» disse lei. Joost sentì le parole, le capì, le
dimenticò.
Hoede si incamminò e aprì la serratura. Entrò nella gabbia d’acciaio.
«Fai come ti viene detto, e presto sarà tutto finito, ja?» mormorò Anya con un
sorriso. I suoi occhi erano neri come piscine senza fondo. La sua pelle in
fiamme, splendente, incandescente. Un pensiero baluginò nella mente di Joost...
“Bella come la luna”.
Anya spostò il peso del ragazzino da un braccio all’altro. «Non guardare» gli
sussurrò all’orecchio. «Ora» disse rivolta a Hoede. «Prendi il coltello.»
2
INEJ

Kaz Brekker non aveva bisogno di un motivo. Questo era quello che si
sussurrava nelle strade di Ketterdam, nelle taverne e nelle caffetterie, nei vicoli
bui e dannati del quartiere del piacere noto come il Barile. Il ragazzo che
chiamavano Manisporche non aveva bisogno di un motivo più di quanto avesse
bisogno di un’autorizzazione per spaccare una gamba, per rompere un’alleanza,
o per cambiare le sorti di un uomo girando una carta.
Naturalmente si sbagliavano, considerò Inej mentre attraversava il ponte
sopra le acque nere del Beurskanal per dirigersi verso la piazza principale
deserta che fronteggiava la Borsa. Ogni atto di violenza era deliberato e a ogni
cortesia erano legati così tanti fili invisibili da mettere in scena uno spettacolo di
marionette. Kaz aveva sempre i suoi motivi. Inej non poteva mai essere certa che
fossero buoni. Specialmente questa notte.
Inej controllò i propri coltelli, recitando in silenzio i loro nomi come faceva
sempre quando pensava che avrebbe potuto trovarsi nei guai. Era un’abitudine
pratica, ma anche una consolazione. Le lame erano le sue compagne. Le piaceva
sapere che sarebbero state pronte per qualunque cosa la notte avesse portato con
sé.
Inej vide Kaz e gli altri radunati vicino al grande arco in pietra che segnalava
l’ingresso orientale alla Borsa. Tre parole erano state scolpite nella roccia sopra
di loro: ENJENT, VOORHENT, ALMHENT. Industriosità, Integrità, Prosperità.
Si tenne vicina alle vetrine con le saracinesche abbassate che costeggiavano la
piazza, evitando le sacche di luce a gas sfarfallante create dai lampioni. Mentre
avanzava, passò in rassegna la squadra che Kaz aveva portato con sé: Dirix,
Rotty, Muzzen e Keeg, Anika e Pim, e i suoi secondi per il convegno di stasera,
Jesper e Bolliger il Grande. Si spingevano e si buttavano l’uno contro l’altro,
ridendo, pestando i piedi contro il freddo improvviso che questa settimana aveva
sorpreso la città, l’ultimo colpo di coda dell’inverno prima che la primavera
iniziasse sul serio. Erano tutti grossi e rissosi, reclutati tra i membri più giovani
degli Scarti, la gente di cui Kaz si fidava di più. Inej fece caso al luccichio dei
coltelli infilati nelle cinture, ai tubi di ferro, alle catene pesanti, ai manici delle
asce decorati di borchie arrugginite e, qui e là, al bagliore di una canna di pistola
ben oliata. Inej scivolò silenziosamente nei loro ranghi, scrutando le ombre
vicino alla Borsa per capire se fossero spie delle Punte Nere.
«Tre navi!» stava dicendo Jesper. «Le hanno mandate gli Shu. Stavano
semplicemente ancorate al Primo Porto, con i cannoni spianati, le bandiere rosse
che volteggiavano, imbottite d’oro fino alle vele.»
Bolliger il Grande fece un fischio sottovoce. «Mi sarebbe piaciuto vederlo.»
«Mi sarebbe piaciuto rubarlo» replicò Jesper. «Mezzo Consiglio dei Mercanti
era laggiù ad agitarsi e a spiare, nel tentativo di capire cosa fare.»
«Non vogliono che gli Shu paghino i loro debiti?» domandò Bolliger il
Grande.
Kaz scrollò la testa, e i capelli neri brillarono alla luce dei lampioni. Era un
insieme di linee dure e spigoli inconfondibili – mascella squadrata, corporatura
muscolosa, giacca di lana attillata sulle spalle. «Sì e no» disse lui con la sua voce
roca. «È sempre bene avere un paese in debito con te. Rende le negoziazioni più
amichevoli.»
«Forse gli Shu hanno finito di essere amichevoli» disse Jesper. «Non
dovevano mandare quel tesoro tutto in una volta. Pensi che siano stati loro a
infilzare quell’ambasciatore?»
Gli occhi di Kaz scovarono subito Inej nella folla. Ketterdam era stata in
fermento per settimane a causa dell’omicidio dell’ambasciatore. Aveva quasi
distrutto le relazioni tra i Kerch e gli Zemeni e messo in subbuglio il Consiglio
dei Mercanti. Gli Zemeni incolpavano i Kerch. I Kerch sospettavano degli Shu.
A Kaz non interessava chi fosse il responsabile; l’omicidio lo affascinava solo in
quanto non riusciva a immaginare come fosse stato portato a termine. In uno dei
corridoi più affollati della Stadhall, davanti a più di dodici ufficiali del governo,
l’ambasciatore del commercio Zemeni era andato al gabinetto. Nessun altro ci
era entrato o ne era uscito, ma quando il suo assistente aveva bussato alla porta
pochi minuti dopo, non era arrivata nessuna risposta. Buttata giù la porta,
avevano trovato l’ambasciatore a faccia in giù sulle mattonelle bianche, un
coltello nella schiena, il rubinetto del lavandino ancora aperto.
A distanza di qualche ora, Kaz aveva mandato Inej a svolgere delle indagini
nei locali dell’edificio. Il gabinetto non aveva altri ingressi, niente finestre o
camini, e persino Inej non padroneggiava l’arte di infilarsi dentro le tubature.
Eppure l’ambasciatore Zemeni era morto. Kaz odiava i rompicapo che non
riusciva a risolvere, e lui e Inej avevano architettato un centinaio di teorie per
spiegare l’omicidio... nessuna delle quali li soddisfaceva. Tuttavia questa notte
avevano problemi più urgenti.
Inej vide Kaz fare segno a Jesper e a Bolliger il Grande di spogliarsi delle
armi. La legge della strada voleva che per un convegno di quel genere ciascun
vicecomandante fosse accompagnato da due dei propri soldati semplici e che
tutti fossero disarmati. Convegno. La parola suonava come un inganno –
curiosamente cerimoniosa, obsoleta. Non importava cosa la legge della strada
decretasse, questa notte sapeva di violenza.
«Avanti, metti giù quelle pistole» disse Dirix a Jesper.
Con un sospiro, quello si slacciò il cinturone dai fianchi. Inej dovette
ammettere che, senza, sembrava un po’ meno se stesso. Il tiratore scelto Zemeni
aveva le gambe lunghe, la pelle scura e non stava fermo un attimo. Premette le
labbra sul manico perlato delle sue preziose rivoltelle, donando a ciascuna un
bacio addolorato.
«Abbi cura delle mie bambine» disse Jesper mentre le porgeva a Dirix. «Se le
ritrovo con anche solo un graffio o una ammaccatura, scriverò “perdonami” sul
tuo petto con i buchi delle pallottole.»
«Non sprecheresti le munizioni.»
«E poi sarebbe morto a metà della parola “perdonami”» disse Bolliger il
Grande mentre nelle mani di Rotty lasciava cadere un’accetta, un coltello a
serramanico e la sua arma preferita: una spessa catena appesantita da un grosso
lucchetto.
Jesper roteò gli occhi. «Il punto è mandare un messaggio. Qual è il senso di
un tizio morto stecchito con la parola “perd” scritta sul petto?»
«Veniamo a un compromesso» rispose Kaz. «“Scusa” fa lo stesso effetto e
spreca meno pallottole.»
Dirix scoppiò a ridere, ma a Inej non sfuggì il fatto che reggeva le rivoltelle di
Jesper con grande attenzione.
«E quello?» domandò Jesper, indicando il bastone da passeggio di Kaz.
La risata di Kaz suonò bassa e priva di umorismo. «Chi negherebbe a un
povero storpio il suo bastone?»
«Se lo storpio sei tu, ogni uomo dotato di buon senso.»
«Allora è un bene che stiamo per incontrare Geels.» Kaz estrasse un orologio
dal taschino del gilè. «È quasi mezzanotte.»
Inej volse lo sguardo alla Borsa. Era poco più di un largo cortile rettangolare
circondato da magazzini e uffici di spedizione. Ma durante il giorno era il cuore
di Ketterdam, animato dal via vai dei ricchi mercanti che compravano e
vendevano azioni nei viaggi di lavoro che li conducevano nei porti della città.
Adesso che erano quasi dodici rintocchi di campana, la Borsa era deserta a
eccezione delle guardie che controllavano la recinzione e il tetto. Guardie
comprate a suon di mazzette per volgere gli occhi altrove durante il convegno di
questa notte.
La Borsa era una delle poche zone della città ancora non spartite e rivendicate
nelle lotte senza fine tra le bande rivali di Ketterdam. Era considerata territorio
neutrale. Ma a Inej non sembrava neutrale. Sembrava il silenzio dei boschi prima
dello scatto della tagliola e degli strilli del coniglio. Sembrava una trappola.
«È un errore» disse. Bolliger il Grande sussultò; non si era accorto che lei era
lì in piedi. Inej udì il nome che gli Scarti le avevano affibbiato passare tra i
ranghi in un sussurro: lo Spettro. «Geels sta tramando qualcosa.»
«Certo che sì» disse Kaz. La sua voce aveva la consistenza ruvida e raschiosa
di una pietra sfregata contro un’altra pietra. Inej si chiedeva ogni volta se Kaz
avesse avuto quella voce anche da bambino. Sempre che fosse mai stato un
bambino.
«Allora perché venire qui stanotte?»
«Perché così vuole Per Haskell.»
“Al vecchio piace fare le cose alla vecchia maniera” pensò Inej senza dirlo,
ed ebbe il sospetto che gli altri Scarti stessero pensando la stessa cosa.
«Ci farà uccidere tutti.»
Jesper stiracchiò le lunghe braccia sopra la testa e fece un gran sorriso,
mostrando i denti bianchi in contrasto con la pelle scura. Lui doveva ancora
rinunciare al suo fucile, la cui sagoma sulla schiena lo faceva assomigliare a un
uccello sgraziato dalle zampe lunghe. «Secondo la statistica, farà probabilmente
uccidere solo qualcuno di noi.»
«Non si scherza su queste cose» replicò Inej. Lo sguardo che le rivolse Kaz
era divertito. Lei sapeva come doveva sembrargli: rigida, pignola, come una
vecchia bacucca che lancia le sue tragiche profezie dal portico. Non le piaceva,
ma era anche certa di avere ragione. E poi le donne anziane qualcosa la sapranno
pure, sennò vivrebbero solo per accumulare rughe e berciare dalle loro porte di
casa.
«Jesper non sta scherzando, Inej» disse Kaz. «Sta calcolando le probabilità.»
Bolliger il Grande fece scrocchiare le sue enormi nocche. «Be’, io ho della
birra chiara e una padellata di uova che mi aspettano al Kooperom, per cui non
posso essere quello che muore stanotte.»
«Ti va di fare una scommessa?» chiese Jesper.
«Non scommetterò sulla mia morte.»
Kaz si girò il cappello in testa e fece scorrere le dita guantate lungo l’orlo in
un veloce saluto militare. «Perché no, Bolliger? Lo facciamo tutti i giorni.»
Aveva ragione. L’obbligo di Inej nei confronti di Per Haskell comportava che
lei scommettesse la propria vita ogni volta che accettava un nuovo lavoro o un
nuovo incarico, ogni volta che lasciava la propria stanza alla Stecca. Questa
notte non era diversa.
Kaz urtò il selciato con il bastone da passeggio quando le campane della
Chiesa di Barter iniziarono a battere i colpi. Il gruppo si fece silenzioso. Il tempo
delle chiacchiere era finito. «Geels non è astuto, ma è sveglio abbastanza da
essere un problema» disse Kaz. «Non importa cosa senti, tu non ti unisci alla
mischia finché io non do l’ordine. Stai attenta.» Poi rivolse a Inej un veloce
cenno del capo. «E stai nascosta.»
«Nessun rimpianto» disse Jesper mentre lanciava il suo fucile a Rotty.
«Nessun funerale» mormorò in risposta il resto degli Scarti. Tra di loro,
valeva come un “buona fortuna”.
Prima che Inej si mescolasse tra le ombre, Kaz le toccò il braccio con la testa
di corvo del suo bastone. «Dai un occhio alle guardie sul tetto. Geels potrebbe
essersele comprate.»
«Allora...» cominciò lei, ma Kaz era già sparito.
Inej alzò le mani in un gesto di frustrazione. Aveva un centinaio di domande,
ma come al solito Kaz stava dando una stretta alle risposte.
Inej trotterellò verso il canale che si affacciava sul muro della Borsa. Solo ai
vicecomandanti e ai loro secondi era permesso di entrare durante il convegno.
Però, nel caso le Punte Nere si fossero messe in testa strane idee, gli altri Scarti
avrebbero aspettato subito fuori dall’arco orientale con le armi sguainate. Sapeva
che Geels avrebbe avuto la sua squadra di Punte Nere ben armate radunata
all’ingresso occidentale.
Inej si sarebbe fatta strada tra di loro. Le regole della condotta leale tra bande
venivano dall’epoca di Per Haskell. In più, lei era lo Spettro – l’unica legge che
le si poteva applicare era la legge di gravità, e c’erano giorni in cui sfidava anche
quella.
Il piano inferiore della Borsa era occupato da depositi senza finestre, e Inej
individuò il tubo di una grondaia per arrampicarsi. L’attimo prima di
appoggiarvi sopra la mano, qualcosa la fece esitare. Estrasse dalla tasca un osso
di luce e lo scrollò, gettando un pallido bagliore verde sopra il tubo. Era coperto
d’olio. Seguì il muro, alla ricerca di un altro punto, e trovò a portata di mano un
cornicione di pietra che sosteneva una statua con i tre pesci volanti di Kerch. Si
sollevò in punta di piedi e con prudenza esplorò con la mano il bordo del
cornicione. Era stato ricoperto di cocci di vetro. “Mi stanno aspettando” pensò
con feroce piacere.
Si era unita agli Scarti meno di due anni prima, appena qualche giorno dopo il
suo quindicesimo compleanno. Era stata una questione di sopravvivenza, ma la
gratificava sapere che, in così poco tempo, era diventata qualcuno da gestire con
precauzione. Ciononostante, se le Punte Nere credevano che trucchetti come
questo avrebbero impedito allo Spettro di raggiungere il suo obiettivo, si
sbagliavano di grosso.
Estrasse due chiodi da arrampicata dalla tasca del corpetto imbottito e li
incastrò, prima l’uno e poi l’altro, tra le fessure del muro per spingersi in alto,
con i piedi che andavano alla ricerca delle prese e degli appigli più piccoli nella
roccia. Come un bambino che impara a stare in equilibrio sulla corda da
funambolo, lei era sempre andata a piedi nudi. Ma le strade di Ketterdam erano
troppo fredde e bagnate. Dopo qualche brutta caduta, aveva pagato un Grisha
Fabrikator che lavorava di nascosto fuori da un negozio di liquori sulla
Wijnstraat perché le fabbricasse un paio di scarpette di pelle con la suola di
gomma morbida. Le aderivano perfettamente ai piedi e le davano la certezza di
tenere la presa su ogni superficie.
Al secondo piano della Borsa, si issò sul davanzale di una finestra largo a
sufficienza soltanto per appollaiarcisi sopra.
Kaz aveva fatto del suo meglio per insegnarglielo, ma Inej non era ancora
brava quanto lui come scassinatrice, e le ci volle qualche tentativo per forzare la
serratura. Alla fine sentì un bel clic, e la finestra si aprì su un ufficio deserto,
dalle pareti tappezzate con cartine geografiche che evidenziavano le rotte
commerciali e lavagne che elencavano i prezzi di mercato e i nomi delle navi. Si
piegò per entrare dentro, richiuse con il chiavistello e si fece strada dietro le
scrivanie vuote, sulle quali i contratti erano impilati con ordine.
Attraversò la sala, raggiunse una serie di porte sottili e uscì su un balcone che
si affacciava sul cortile centrale della Borsa. Tutti gli uffici navali ne avevano
uno. Da qui, i messaggeri annunciavano partenze e arrivi delle scorte in
magazzino, o issavano la bandiera nera per segnalare che una nave era stata
persa al largo con tutto il suo carico. La sala contrattazioni della Borsa vomitava
un turbinio di traffici, i fattorini diffondevano le notizie in tutta la città, e il
prezzo delle merci, dei tassi di cambio e delle azioni nei viaggi in partenza si
alzava o si abbassava. Ma questa notte era tutto silenzioso.
Dal porto arrivò una folata di vento che recava con sé l’odore del mare, e
arruffò i capelli sfuggiti dalla treccia sulla nuca di Inej. Giù, vide la luce
oscillante delle lanterne e udì il bastone di Kaz battere sui sassi mentre lui e i
suoi secondi attraversavano la piazza. Sul lato opposto, notò un’altra serie di
lanterne che avanzavano verso di loro. Le Punte Nere erano arrivate.
Inej si alzò il cappuccio. Salì sopra la balaustra e balzò senza far rumore sul
balcone accanto, poi su quello successivo, seguendo gli altri lungo la piazza,
cercando di stargli il più vicino possibile. La giacca scura di Kaz si increspava
nell’aria salata, il suo passo zoppicante era più pronunciato questa notte, come
sempre quando il tempo era freddo. Inej riusciva a sentire Jesper, che teneva
accesa la conversazione, e i sogghigni di Bolliger il Grande, che echeggiavano
bassi.
Mentre si portava più vicino all’altro lato della piazza, Inej vide che Geels
aveva scelto di portarsi dietro come secondi Elzinger e Oomen – esattamente
come lei aveva previsto. Inej conosceva la forza e la debolezza di ciascun
membro delle Punte Nere, per non parlare dei Segugi di Harley, degli
Scoperchiati, dei Becchi di Rasoio, dei Centesimi di Leone, e di ogni altra banda
che operava nelle strade di Ketterdam. Era il suo lavoro sapere che Geels si
fidava di Elzinger perché erano cresciuti insieme tra le fila delle Punte Nere, e
perché Elzinger era solido come un ammasso di rocce: alto quasi sette piedi,
muscoloso, con una faccia larga e schiacciata che si incastrava in un collo spesso
come un traliccio.
Inej fu improvvisamente felice che Bolliger il Grande fosse con Kaz. Che lui
avesse scelto Jesper come uno dei suoi secondi non era una sorpresa. Nervoso
com’era Jesper, con o senza le sue rivoltelle, in un combattimento dava il meglio
di sé, e lei sapeva che avrebbe fatto qualunque cosa per Kaz. Era stata meno
sicura quando Kaz aveva insistito per Bolliger il Grande: faceva il buttafuori al
Club dei Corvi, ed era perfettamente attrezzato per gettare in strada ubriaconi e
perditempo, ma era troppo pesante e poco agile per essere di aiuto quando si
arrivava a una vera rissa. Comunque, era perlomeno alto abbastanza da guardare
Elzinger dritto negli occhi.
Inej non voleva pensare eccessivamente all’altro secondo di Geels. Oomen la
rendeva nervosa. Non era fisicamente minaccioso come Elzinger. Anzi, Oomen
aveva l’aspetto di uno spaventapasseri – non che fosse scheletrico, ma era come
se sotto i vestiti il suo corpo fosse stato messo insieme congiungendo le
articolazioni sbagliate. Si diceva che una volta avesse spaccato il cranio di un
uomo a mani nude, che si fosse ripulito i palmi sul davanti della camicia e che
fosse andato avanti a bere.
Inej cercò di mettere a tacere l’agitazione che montava dentro di lei, e si mise
ad ascoltare i convenevoli di Geels e Kaz in piazza, mentre i loro secondi si
perquisivano l’un l’altro per accertarsi che nessuno avesse portato con sé delle
armi.
«Cattivone» disse Jesper mentre estraeva un coltellino dalla manica di
Elzinger e lo lanciava dall’altra parte della piazza.
«Pulito» sentenziò Bolliger il Grande mentre finiva di perquisire Geels e
passava a Oomen.
Kaz e Geels discutevano del tempo e del sospetto che il Kooperom servisse
gli alcolici annacquati ora che l’affitto era stato alzato, girando attorno al vero
motivo per cui erano venuti qui stasera. In teoria, avrebbero chiacchierato, si
sarebbero chiesti scusa, si sarebbero detti d’accordo nel rispettare i confini del
Quinto Porto, poi tutti fuori a cercarsi qualcosa da bere insieme – almeno questo
era quello che Per Haskell aveva insistito che facessero.
“Ma che cosa ne sa Per Haskell?” pensò Inej mentre cercava con gli occhi le
guardie che pattugliavano il tetto di sopra, tentando di individuare la loro
sagoma nel buio. Haskell era a capo degli Scarti, ma in questi giorni preferiva
sedere al caldo del suo ufficio, a bere birra tiepida, a costruire modellini di navi,
e a raccontare le lunghe storie delle sue imprese a chiunque le volesse stare a
sentire.
Sembrava che pensasse che le guerre per il territorio potessero essere gestite
come una volta: con una piccola zuffa e una stretta di mano amichevole. Ma tutti
quanti i sensi di Inej le dicevano che non era quello il modo in cui le cose
sarebbero andate a finire. Suo padre avrebbe detto che le ombre erano al lavoro
questa notte. Qualcosa di brutto stava per accadere.
Kaz era in piedi con entrambe le mani infilate nei guanti e appoggiate sulla
testa di corvo intagliata in cima al suo bastone. Dava l’idea di essere totalmente
a proprio agio, il viso stretto tenuto in ombra dalla tesa del cappello. Per lo più, i
membri delle bande del Barile amavano vestire in modo appariscente: panciotti
vistosi, orologi da taschino incastonati di gemme false, pantaloni in ogni tessuto
e fantasia immaginabile. Kaz era l’eccezione, l’immagine della sobrietà, con i
suoi gilè scuri e i suoi pantaloni dal taglio semplice e su misura nel rispetto delle
linee più severe. All’inizio, Inej aveva pensato che fosse una questione di gusto,
ma poi era arrivata a capire che si trattava di uno scherzo che lui giocava ai
mercanti onesti. Gli piaceva sembrare uno di loro.
«Sono un uomo d’affari» le aveva detto. «Niente di più, niente di meno.»
«Tu sei un ladro, Kaz.»
«Non è quello che ho appena detto?»
Ora assomigliava a qualche specie di prete venuto a raccogliere in preghiera
un gruppo di acrobati da circo. “Un giovane prete” pensò in preda a un altro
attacco d’ansia.
Kaz aveva definito Geels vecchio e bollito, ma di certo non era come
appariva stasera. Il vicecomandante delle Punte Nere poteva anche avere delle
rughe che gli sgualcivano il contorno occhi e delle guance cascanti sotto le
basette, ma pareva sicuro di sé, competente. Accanto a lui Kaz sembrava... be’,
un diciassettenne.
«Siamo onesti, ja? Tutti noi vogliamo grattare via qualcosa in più» disse
Geels, tamburellando sui bottoni a specchio del suo panciotto giallo-verde. «Non
è giusto da parte tua prosciugare ogni turista pieno di soldi che scende da una
nave da crociera a Quinto Porto.»
«Quinto Porto è nostro» replicò Kaz. «Gli Scarti spennano per primi i polli
che arrivano a cercare qualche divertimento.»
Geels scrollò la testa. «Tu sei così giovane, Brekker» disse con una risatina
indulgente. «Forse non ti rendi conto di come funzionano queste cose. I porti
appartengono alla città, e noi abbiamo i nostri diritti come chiunque altro.
Dobbiamo tutti campare.»
Tecnicamente, era vero. Ma Quinto Porto era un luogo inservibile e quasi del
tutto abbandonato all’epoca in cui Kaz se ne era impadronito. Lui l’aveva
riportato alla luce, aveva ricostruito i moli e le banchine, e aveva dovuto
ipotecare il Club dei Corvi per farlo. Per Haskell aveva imprecato contro di lui e
lo aveva accusato di essere un pazzo ad affrontare dei costi simili, ma alla fine
aveva ceduto. Stando a quanto diceva Kaz, le esatte parole del vecchio erano
state: “Prendi tutta la corda e impiccati”.
Ma gli sforzi erano stati ripagati in meno di un anno. Ora Quinto Porto offriva
ormeggi tanto alle navi mercantili quanto alle barche che da tutto il mondo
portavano turisti e soldati desiderosi di scoprire le attrattive e assaporare i piaceri
di Ketterdam. Gli Scarti erano i primi ad accoglierli e a condurli – loro e i loro
portafogli – nei bordelli, nelle taverne e nelle bische di proprietà della banda.
Quinto Porto aveva reso il vecchio molto ricco, e aveva consolidato gli Scarti
come figure di spicco nel Barile in un modo che nemmeno il successo del Club
dei Corvi aveva ottenuto. Ma insieme ai profitti erano arrivate le attenzioni
indesiderate. Era da un anno che Geels e le Punte Nere creavano problemi agli
Scarti, sconfinando a Quinto Porto, andando a caccia di polli che non spettavano
a loro.
«Quinto Porto è nostro» ripeté Kaz. «Non sono qui per negoziare. Ti stai
intromettendo nel nostro traffico dalle banchine, e hai intercettato un carico di
jurda che avrebbe dovuto attraccare due notti fa.»
«Non so di cosa tu stia parlando.»
«So che ti viene facile, Geels, ma cerca di non fare il finto tonto con me.»
Geels avanzò di un passo. Jesper e Bolliger il Grande si irrigidirono.
«Piantala di mostrare i muscoli, ragazzino» disse Geels. «Lo sappiamo tutti
che il vecchio non ce l’ha lo stomaco per una vera scazzottata.»
La risata di Kaz suonò asciutta come il fruscio delle foglie secche. «Ma ci
sono io alla tua tavola, Geels, e non sono qui per darti solo un assaggio. Se vuoi
la guerra, farò in modo di farti mangiare fino a scoppiare.»
«E se tu non sei in circolazione, Brekker? Lo sanno tutti che sei tu la spina
dorsale dell’operazione Haskell: basta spezzarla e gli Scarti crollano a terra.»
Jesper sbuffò. «Stomaco, spina dorsale. Adesso a chi tocca? Alla milza?»
«Chiudi quella bocca» ringhiò Oomen. Le regole del convegno volevano che
soltanto i vicecomandanti potessero parlare una volta che le negoziazioni
avevano avuto inizio. Jesper mosse le labbra per formare la parola “scusa” ed
esasperò in modo esagerato il gesto di tapparsi la bocca.
«Sono ragionevolmente certo che tu mi stia minacciando, Geels» disse Kaz.
«Ma voglio essere sicuro al cento per cento prima di decidere cosa fare a
riguardo.»
«Sicuro di te, vero, Brekker?»
«Di me e di nessun altro.»
Geels scoppiò a ridere e diede di gomito a Oomen. «Ma senti questo
presuntuoso piccolo pezzo di merda. Brekker, queste strade non sono tue. I
bambini come te sono pulci. Ogni qualche anno salta fuori una nuova nidiata a
dare fastidio ai migliori, finché un cane grosso decide di grattarsele via. E lascia
che te lo dica, io sono piuttosto stanco di sentire prurito.» Incrociò le braccia,
con la soddisfazione che gli si riversava fuori in ondate compiaciute. «E se ti
dicessi che ci sono due guardie con i loro fucili d’ordinanza puntati contro di te e
contro i tuoi, proprio adesso?»
A Inej si strizzarono le budella. Era questo che intendeva Kaz quando aveva
detto che Geels forse si era comprato le guardie?
Kaz guardò in alto verso il tetto. «Assoldare le guardie cittadine per i tuoi
omicidi? Oserei dire che è un progetto costoso per una banda come le Punte
Nere. Non sono convinto che i tuoi fondi possano sostenere questo tipo di
spesa.»
Inej si arrampicò sulla balaustra e si lanciò, lasciando la sicurezza del balcone,
per puntare al tetto. Se fossero sopravvissuti a stanotte, ci avrebbe pensato lei a
uccidere Kaz.
C’erano sempre due guardie della stadwatch appostate sul tetto della Borsa.
Qualche kruge proveniente dalle tasche degli Scarti e delle Punte Nere aveva
fatto in modo che non interferissero con il convegno, una transazione abbastanza
comune.
Ma Geels stava insinuando qualcosa di molto diverso. Aveva davvero
corrotto le guardie della città per farle diventare i suoi cecchini? In questo caso,
le probabilità degli Scarti di sopravvivere alla notte si erano appena ridotte alla
punta di un coltello.
Come la maggior parte degli edifici di Ketterdam, la Borsa aveva un tetto
spiovente per far scivolare via la pioggia torrenziale, così le guardie lo
pattugliavano da una stretta passerella che dava sul cortile. Inej la ignorò. Era la
via più semplice, ma l’avrebbe esposta troppo. Invece si arrampicò sulle tegole
scivolose del tetto e iniziò a strisciare, con il corpo inclinato a un’angolazione
instabile, muovendosi come un ragno mentre teneva un occhio sulla passerella in
cui c’erano le guardie e un orecchio sulla conversazione di sotto.
Forse Geels stava bluffando. O forse due guardie erano curve sopra la
balaustra proprio in questo momento, e avevano Kaz o Jesper o Bolliger il
Grande sotto tiro.
«C’è costato un po’» ammise Geels. «Al momento, siamo ancora una piccola
impresa, e le guardie cittadine non sono a buon mercato. Ma il premio varrà la
pena.»
«Il premio sarei io?»
«Il premio saresti tu.»
«Sono lusingato.»
«Gli Scarti non dureranno una settimana senza di te.»
«Gli darei un mese, per pura inerzia.»
Quel pensiero si dibatté con rumore nella testa di Inej. Se Kaz morisse,
resterei? Oppure disonorerei il mio debito? Correrei il rischio con gli scagnozzi
di Haskell?
Se non si fosse data una mossa, l’avrebbe scoperto di sicuro.
«Piccolo ratto arrogante dei bassifondi.» Geels rise. «Non vedo l’ora di
cancellarti quello sguardo dalla faccia.»
«E allora fallo» disse Kaz. Inej si azzardò a guardare giù. La sua voce era
cambiata, ogni ironia sparita.
«Devo farti piantare una pallottola nella gamba buona, Brekker?»
“Dove sono le guardie?” si chiese Inej, accelerando il passo. Attraversò di
corsa la ripida pendenza del tetto. La Borsa si estendeva in lunghezza più o
meno quanto un isolato della città. Il territorio da controllare era troppo.
«Piantala di blaterare, Geels. Digli di sparare.»
«Kaz...» disse Jesper nervosamente.
«Avanti. Tira fuori le palle e dai l’ordine.»
A che gioco stava giocando Kaz? Se l’era aspettato? Aveva semplicemente
dato per scontato che Inej avrebbe raggiunto le guardie in tempo?
Guardò giù di nuovo. Geels era in trepidante attesa. Fece un respiro profondo,
gonfiando il petto. Inej vacillò, e dovette farsi forza per non scivolare dal bordo
del tetto. Sta per farlo. Vedrò morire Kaz.
«Fuoco!» gridò Geels.
Uno sparo spezzò l’aria. Bolliger il Grande si lasciò sfuggire un lamento e si
accasciò a terra.
«Dannazione!» sbraitò Jesper, piegandosi su un ginocchio accanto a Bolliger
e pigiando la mano sul buco della pallottola mentre l’omone gemeva. «Tu,
miserabile ciccione!» inveì contro Geels. «Hai appena violato il territorio
neutrale.»
«E chi lo dice che non avete sparato voi per primi?» replicò Geels. «E chi lo
verrà a sapere? Nessuno di voi uscirà vivo da qui.»
La voce di Geels suonava troppo alta. Stava cercando di mantenere il
controllo, ma Inej poteva sentire il terrore pulsare nelle sue parole, il convulso
battito d’ali di un uccello terrorizzato. Ma perché? Solo qualche istante prima si
era comportato da spaccone.
Fu allora che Inej si accorse che Kaz non si era ancora mosso. «Non hai un
bell’aspetto, Geels.»
«Sto bene» disse lui. Ma non era vero. Era pallido e malfermo. Gli occhi
sfrecciavano a destra e a sinistra come in cerca delle ombre sulla passerella del
tetto.
«Davvero?» chiese Kaz, come per fare conversazione. «Le cose non stanno
andando esattamente come previsto, giusto?»
«Kaz» disse Jesper. «Bolliger sta perdendo sangue.»
«Bene» replicò Kaz.
«Ha bisogno di un medico!»
Kaz rivolse all’uomo ferito il più freddo degli sguardi. «Quello di cui ha
bisogno è smettere di piagnucolare ed essere grato che non ho chiesto a Holst di
piantargli una pallottola in testa.»
Anche da lassù, Inej vide Geels trasalire.
«È il nome della sentinella, giusto?» domandò Kaz. «Willem Holst e Bert
Van Daal, le due guardie cittadine in servizio stasera. Quelle che ti sei comprato
dilapidando i fondi delle Punte Nere?»
Geels non disse niente.
«A Willem Holst» gridò Kaz, la voce che saliva fluttuando fino al tetto,
«piace scommettere quasi quanto piace a Jesper, così i tuoi soldi gli hanno fatto
gola. Ma Holst ha problemi molto più grossi... chiamiamoli desideri. Non
scenderò nei dettagli. Un segreto non è una moneta. Non ha più valore, una volta
speso. Ti basti sapere che farebbe rivoltare lo stomaco persino a te. Non è vero,
Holst?»
La risposta fu un altro sparo. Che colpì i ciottoli accanto ai piedi di Geels.
L’uomo si lasciò uscire un lamento scioccato e fece un salto indietro.
Questa volta Inej ebbe modo di rintracciare l’origine dello sparo. Il colpo era
partito da qualche parte nella zona occidentale dell’edificio. Se Holst era là,
voleva dire che l’altra sentinella – Bert Van Daal – si trovava a est. Kaz aveva
neutralizzato anche lui? Oppure stava contando su di lei? Salì di corsa sul tetto.
«Sparagli, Holst!» urlò Geels, con una disperazione evidente nella voce.
«Sparagli in testa!»
Kaz fece una smorfia di disgusto. «Pensi veramente che il segreto morirebbe
con me? Avanti, Holst» lo incalzò. «Mettimi un proiettile nel cranio. I corrieri
arriveranno di corsa alla porta di tua moglie e del tuo capitano prima ancora che
io tocchi terra.»
Niente spari.
«Come hai fatto?» chiese Geels in modo brusco. «Come sei venuto a sapere
chi sarebbe stato in servizio stanotte? Ho dovuto pagare un occhio della testa per
ottenere l’elenco dei turni. Non avresti potuto offrire di più.»
«Mettiamola così: la mia valuta unge meglio le ruote.»
«I soldi sono soldi.»
«Io smercio informazioni, Geels, le cose che gli uomini fanno quando
pensano che nessuno li stia guardando. La vergogna ha un valore che il denaro
non potrà mai avere.»
Stava attirando l’attenzione su di sé, Inej lo vedeva, così da guadagnare
tempo per lei, che intanto balzava sopra le tegole di ardesia.
«Sei preoccupato per la seconda sentinella?» Il buon vecchio Bert Van
Daal?» chiese Kaz. «Forse è quassù proprio ora, a domandarsi cosa fare. Sparare
a me? Sparare a Holst? O forse mi sono comprato anche lui, ed è pronto a farti
un buco nel petto, Geels.» Si sporse come se lui e Geels stessero condividendo
un grosso segreto. «Perché non dai l’ordine a Van Daal e non lo scopri?»
Geels aprì e chiuse la bocca come un pesce, poi strillò: «Van Daal!».
Non appena la guardia mosse le labbra per rispondere, Inej scivolò dietro di
lui e gli mise una lama alla gola. Aveva avuto a malapena il tempo di individuare
la sua ombra e slittare veloce giù per le tegole del tetto. Santi numi, a Kaz
piaceva farcela per un pelo.
«Sssh» sussurrò all’orecchio di Van Daal. Gli diede un colpetto nel fianco in
modo che lui potesse sentire la punta del secondo pugnale premuta sul rene.
«Ti prego» piagnucolò. «Io...»
«Mi piace quando gli uomini supplicano» disse lei. «Ma non è questo il
momento.»
Di sotto, il petto di Geels si alzava e si abbassava in preda al panico. «Van
Daal!» gridò di nuovo. Quando si girò verso Kaz, la sua faccia era stravolta dalla
rabbia. «Sempre un passo avanti, vero?»
«Geels, quando si tratta di te, mi vien da dire che parto avvantaggiato.»
Ma Geels fece un sorriso – un sorrisino, tirato e soddisfatto. “Il sorriso del
vincitore” realizzò Inej in preda a una nuova paura.
«Non è ancora finita.» Geels infilò una mano nella giacca ed estrasse una
grossa pistola nera.
«Era ora» disse Kaz. «La grande rivelazione. Finalmente Jesper può smetterla
di piangere su Bolliger come una vedova.»
Jesper fissò la pistola con uno sguardo scioccato e furibondo. «Bolliger l’ha
perquisito. Lui... Oh, Bol il Grande, sei un idiota» disse con un gemito.
Inej non riusciva a credere ai propri occhi. Alla guardia tra le sue braccia
scappò uno squittio. Per la rabbia e la sorpresa, aveva premuto un po’ troppo.
«Rilassati» gli disse, mollando leggermente la presa. Ma, per tutti i Santi,
accidenti se voleva infilare un coltello da qualche parte. Bolliger il Grande era
stato l’unico a perquisire Geels. Non poteva non essersi accorto della pistola.
Li aveva traditi.
Era per questo che Kaz aveva insistito nel portarsi dietro Bolliger il Grande
stanotte... per avere la prova pubblica che era passato dalla parte delle Punte
Nere? Era di certo quello il motivo per cui aveva lasciato che Holst gli piantasse
una pallottola in pancia. E allora? Adesso tutti sapevano che Bol il Grande era
un traditore. Ma Kaz aveva ancora una pistola puntata al petto.
Geels fece un sorrisetto. «Kaz Brekker, il grande artista della fuga. Come
farai a scappare questa volta?»
«Uscendo dalla stessa parte dalla quale sono entrato.» Kaz ignorò la pistola e
indirizzò la sua attenzione all’uomo grande e grosso che giaceva a terra. «Sai
qual è il tuo problema, Bolliger?» Pungolò la ferita nel ventre di Bol il Grande
con la punta del suo bastone. «Non era una domanda retorica. Sai qual è il tuo
problema più grosso?»
Bolliger si lamentò. «Nooo.»
«Prova a indovinare» sibilò Kaz.
Bol il Grande non disse niente, emise solo un altro guaito tremolante.
«D’accordo, te lo dico io. Sei pigro. Lo so io. E lo sanno tutti. Per cui mi sono
dovuto chiedere perché mai il più pigro dei miei buttafuori si alzasse la mattina
presto due volte alla settimana e si facesse a piedi due miglia in più per fare
colazione da Friggicilla, specialmente quando le uova del Kooperom sono molto
meglio. Bol il Grande diventa mattiniero, le Punte Nere iniziano a
spadroneggiare intorno a Quinto Porto e poi intercettano il nostro carico di jurda
più grosso. Non è stato un collegamento difficile da fare.» Kaz sospirò e disse,
rivolto a Geels: «Questo è quello che succede quando le persone stupide iniziano
a fare grandi progetti, ja?».
«Non importa granché ora, che dici?» replicò Geels. «Questa farà dei gran
brutti danni, sto per spararti da distanza ravvicinata. Forse le tue guardie
colpiranno me o i miei ragazzi, ma tu di sicuro non schiverai questo proiettile.»
Kaz fece un passo avanti, verso la canna della pistola, che ora premeva
direttamente contro il suo petto. «No di sicuro, Geels.»
«Tu credi che non lo farò.»
«Oh, io credo che tu lo faresti con gioia, sulle note di una canzone nel tuo
cuore nero. Ma non lo farai. Non stanotte.»
Il dito di Geels fremette sul grilletto.
«Kaz» disse Jesper. «Tutto questo “sparami” sta iniziando a preoccuparmi.»
Oomen non si disturbò a rinfacciare a Jesper il fatto che stesse parlando ad
alta voce. Un uomo era a terra. Il territorio neutrale era stato violato. L’odore
acre e pungente della polvere da sparo aleggiava ancora nell’aria – e in aggiunta
a tutto questo c’era una domanda, inespressa, come se la Signora con la Falce in
persona fosse in attesa della risposta: quanto sangue sarebbe stato sparso
stanotte?
Una sirena ululò in lontananza.
«Burstraat diciannove» disse Kaz.
Finora Geels aveva spostato leggermente il suo peso da un piede all’altro; ora
si immobilizzò.
«È l’indirizzo della tua ragazza, vero, Geels?»
L’altro deglutì. «Non ho una ragazza.»
«Oh sì che ce l’hai» lo sbeffeggiò Kaz. «È anche carina. Be’, carina il giusto
per una canaglia come te. Sembra dolce. Tu la ami, vero?» Persino dal tetto, Inej
riusciva a vedere il luccichio del sudore sulla faccia cerea di Geels. «Ma certo
che la ami. Nessun’altra altrettanto graziosa avrebbe mai rivolto lo sguardo due
volte a uno scarto del Barrel come te, ma lei è diversa. Ti trova affascinante. Un
chiaro segnale di follia, se vuoi il mio parere, ma l’amore, si sa, è strano. Le
piace appoggiare la sua testolina sulla tua spalla? Ascoltarti mentre le racconti
com’è andata la giornata?»
Geels guardò Kaz come se lo vedesse finalmente per la prima volta. Il
ragazzo a cui aveva parlato era stato presuntuoso, avventato, facile alle risate,
ma non spaventoso... non veramente. Ora il mostro era qui, con lo sguardo
spento e senza nulla da temere. Kaz Brekker era sparito, ed era arrivato
Manisporche a fare, appunto, il lavoro sporco.
«Vive al numero diciannove della Burstraat» continuò Kaz nella sua voce
rauca. «Al terzo piano, con i gerani alle finestre. Ci sono due Scarti in attesa
fuori dalla sua porta proprio ora, e se io non esco fuori di qui tutto intero e in
buone condizioni, daranno fuoco a quel posto dalle fondamenta al tetto. Le
fiamme saliranno nel giro di qualche secondo, incenerendo tutto da entrambi i
lati con la povera Elise intrappolata in mezzo. I suoi capelli biondi prenderanno
fuoco per primi. Come lo stoppino di una candela.»
«Stai bluffando» disse Geels, ma la mano che reggeva la pistola tremava.
Kaz alzò la testa e trasse un respiro profondo. «Si sta facendo tardi. Hai
sentito la sirena. C’è un odore salmastro nell’aria, di mare, di sale, e forse... è
fumo l’odore che sento?» C’era del piacere nella sua voce.
“Oh, in nome dei Santi, Kaz” pensò Inej tristemente. “Che cosa hai fatto?”
Di nuovo, il dito di Geels fremette sul grilletto, e Inej si irrigidì.
«Lo so, Geels. Lo so» disse Kaz comprensivo. «Tutto quel pianificare e
complottare e corrompere per niente. Ecco a cosa stai pensando in questo
momento. A quanto ti farà male tornare a casa sapendo quel che hai perso. A
quanto si arrabbierà il tuo capo quando ti presenterai a mani vuote e molto più
povero per niente. A quanta soddisfazione ti darebbe piantarmi una pallottola nel
cuore. Puoi farlo. Tira il grilletto. Possiamo cadere a terra insieme. Possono
portare fuori i nostri corpi e bruciarli alla Chiatta del Mietitore, dove vanno a
finire tutti i poveracci. Oppure il tuo orgoglio può incassare questo colpo e tu
puoi tornartene sulla Burstraat, adagiare la testa nel grembo della tua ragazza,
addormentarti mentre ancora respiri e sognare la tua vendetta. Sta a te, Geels. Ce
ne andiamo a casa stanotte?»
Geels cercò lo sguardo di Kaz, e qualunque cosa ci vide gli fece afflosciare le
spalle. Inej si sorprese a provare una fitta di compassione per lui. Era entrato qui
tutto gasato, spavaldo, un sopravvissuto, un campione del Barile. E ne sarebbe
uscito da vittima, l’ennesima, di Kaz Brekker.
«Un giorno avrai quello che ti meriti, Brekker.»
«L’avrò» disse Kaz, «se c’è una giustizia a questo mondo. E sappiamo tutti
quanto sia improbabile.»
Geels lasciò cadere il braccio. La pistola penzolava inutile al suo fianco.
Kaz fece un passo indietro, spazzolando il punto della camicia dov’era stata
appoggiata la canna della pistola. «Di’ al tuo generale di tenere le Punte Nere
alla larga da Quinto Porto, e che ci aspettiamo un risarcimento per il carico di
jurda che abbiamo perso, più il cinque per cento per aver estratto il ferro in
territorio neutrale e un altro cinque per cento per essere un così spettacolare
ammasso di teste di cazzo.»
Poi, all’improvviso, il bastone di Kaz roteò bruscamente e disegnò un arco.
Geels lanciò un urlo quando le ossa del polso gli si spezzarono. La pistola
sferragliò sul selciato.
«L’avevo abbassata!» strillò Geels, reggendosi la mano. «L’avevo
abbassata!»
«Puntamela contro un’altra volta e ti spacco tutti e due i polsi, così dovrai
assumere qualcuno che ti aiuti a pisciare.» Kaz si sollevò la tesa del cappello con
la cima del bastone. «O forse puoi chiedere alla tua adorabile Elise di darti una
mano.»
Kaz si accovacciò a terra accanto a Bolliger. L’omone uggiolò. «Guardami.
Ammesso che tu non muoia dissanguato stanotte, hai tempo fino al tramonto di
domani per andartene da Ketterdam. Se vengo a sapere che sei da qualche parte
attorno ai confini della città, ti ritroverai dentro un barile del Friggicilla.» Poi
guardò Geels. «Se scopro che lo stai aiutando, o che lavora per le Punte Nere,
stai tranquillo che vengo a cercarti.»
«Ti prego, Kaz» supplicò Bolliger.
«Avevi una casa, e ne hai distrutto la porta con una palla da demolizione. Non
cercare la mia comprensione.» Si rialzò e controllò l’orologio da taschino. «Non
mi aspettavo che andasse così tanto per le lunghe. Sarà meglio che mi incammini
o la povera Elise soffrirà un po’ il caldo.»
Geels scrollò la testa. «C’è qualcosa che non va in te, Brekker. Non so cos’è,
ma non sei a posto.»
Kaz piegò la testa di lato. «Tu vieni dalla periferia, giusto, Geels? Arrivato in
città per cercare fortuna?» Si lisciò il bavero della giacca con una mano guantata.
«Bene, io sono quel genere di bastardo che soltanto nel Barile sono capaci di
fabbricare.»
Kaz diede le spalle alle Punte Nere, nonostante ai loro piedi ci fosse la pistola
carica, e zoppicando si avviò sull’acciottolato verso l’arco orientale. Jesper si
accucciò vicino a Bolliger e gli diede un buffetto gentile sulla guancia. «Idiota»
disse con tristezza, e seguì Kaz fuori dalla Borsa.
Dal tetto, Inej continuò a guardare Oomen che raccoglieva la pistola di Geels
e la metteva nella fondina, e le Punte Nere che si scambiavano qualche parola
sottovoce.
«Non andartene» implorava Bolliger il Grande. «Non abbandonarmi.» Cercò
di aggrapparsi ai risvolti dei pantaloni di Geels.
L’uomo se lo scrollò di dosso. Lo lasciarono rannicchiato su un fianco, a
perdere sangue sul selciato.
Inej strappò il fucile dalle mani di Van Daal prima di lasciarlo andare. «Vai a
casa» disse alla guardia.
Lui gettò una singola occhiata terrorizzata da sopra la spalla e sparì di corsa
giù per la passerella.
Di sotto, Bol il Grande cercava di trascinarsi sul pavimento della Borsa.
Avrebbe potuto essere abbastanza stupido da rincrociare Kaz Brekker, ma era
sopravvissuto a lungo nel Barile, e per quello ci voleva una certa forza di
volontà. Poteva farcela.
“Aiutalo” disse una voce dentro di lei. Fino a pochi minuti prima, era stato
suo fratello d’armi. Sembrava sbagliato lasciarlo da solo. Avrebbe potuto
raggiungerlo, offrirsi di mettere fine alla sua sofferenza velocemente, tenergli la
mano mentre se ne andava. Avrebbe potuto andare a chiamare un medico per
salvarlo.
Invece disse una veloce preghiera nella lingua dei suoi Santi e iniziò a
scendere lungo il muro esterno. Inej aveva pietà del ragazzo che avrebbe potuto
morire da solo, senza nessuno che gli desse un po’ di conforto nelle sue ultime
ore, o che avrebbe potuto sopravvivere e trascorrere tutto il resto della vita in
esilio. Ma il lavoro di stanotte non era ancora finito, e lo Spettro non aveva
tempo per i traditori.
3
KAZ

Grida di giubilo accolsero Kaz mentre spuntava dall’arco orientale, con Jesper
subito dietro che, se non si ingannava, stava già mettendo il broncio.
Dirix, Rotty e gli altri si fiondarono da loro, urlando e sparando, le rivoltelle
di Jesper puntate in alto. La banda aveva visto poco di quello che era successo
con Geels, ma in compenso avevano sentito quasi tutto. Ora stavano scandendo
lo slogan: “La Burstraat va a fuoco! Gli Scarti non hanno acqua!”.
«Non riesco a credere che abbia infilato la coda tra le gambe» lo schernì
Rotty. «Aveva una pistola carica in mano!»
«Dicci cosa sapevi sulla guardia» supplicò Dirix.
«Non può essere una delle solite cose.»
«Ho sentito che c’era questo ragazzo a Sloken a cui piaceva rotolarsi nel
succo di mela e poi prendere due...»
«Non dirò niente» disse Kaz. «Holst potrebbe tornare utile in futuro.»
L’atmosfera era nervosa, e le risate avevano l’isteria tipica di quando il
disastro è imminente. Alcuni si erano aspettati uno scontro e non vedevano l’ora
che ce ne fosse uno. Ma Kaz sapeva che c’era qualcos’altro in ballo, e non aveva
mancato di notare che nessuno aveva menzionato Bolliger il Grande. Il suo
tradimento li aveva colpiti duramente – sia scoprirlo sia il modo in cui Kaz
l’aveva punito. Dietro tutte quelle urla e quegli spintoni, c’era paura. Bene. Kaz
contava sul fatto che gli Scarti fossero tutti assassini, ladri e bugiardi. Doveva
però essere sicuro che non prendessero l’abitudine di mentire a lui.
Spedì due di loro a controllare Bol il Grande, e ad accertarsi che se si fosse
rimesso in piedi avrebbe lasciato la città. Gli altri potevano tornare alla Stecca e
al Club dei Corvi ad affogare le preoccupazioni nell’alcol, a fare casino e a far
girare la voce di come si erano svolti gli eventi della notte. Avrebbero raccontato
cosa avevano visto, avrebbero ricamato il resto, e a ogni versione Manisporche
sarebbe diventato sempre più pazzo e spietato. Ma Kaz aveva degli affari da
sbrigare, e la sua prima tappa sarebbe stata Quinto Porto.
Jesper incrociò il suo cammino. «Avresti dovuto avvisarmi su Bolliger il
Grande» disse in un sussurro furioso.
«Non dirmi cosa devo fare, Jes.»
«Pensi che anch’io sia un venduto?»
«Se lo pensassi, adesso ti staresti infilando le budella nella pancia sul
pavimento della Borsa come Bolliger il Grande, quindi piantala di dare aria alla
bocca.»
Jesper scrollò la testa e mise le mani sulle rivoltelle che si era fatto restituire
da Dirix. Tutte le volte che era di cattivo umore gli piaceva accarezzare una
pistola, come un bambino che cerca il conforto del suo pupazzo preferito.
Sarebbe stato piuttosto facile fare pace. Kaz avrebbe potuto dire a Jesper che
sapeva che era pulito, ricordargli che si era fidato al punto da avere solo lui come
secondo in un conflitto che avrebbe potuto finire veramente male. Invece gli
disse: «Vai, Jesper. C’è un conto aperto che ti aspetta al Club dei Corvi. Gioca
fino a domani mattina o finché la fortuna ti volterà le spalle, qualunque cosa
arrivi prima».
Jesper lo guardò storto, ma non riuscì a tenere il barlume di cupidigia lontano
dai suoi occhi. «Un’altra mazzetta?»
«Sono una persona abitudinaria.»
«Buon per te, lo sono anch’io.» Esitò abbastanza a lungo da aggiungere:
«Non ci vuoi con te? I ragazzi di Geels saranno nervosi, dopo quello che è
successo».
«Lasciali venire» rispose Kaz, e svoltò sulla Nemstraat senza dire altro. Se
non eri in grado di camminare da solo per Ketterdam una volta calato il buio,
allora tanto valeva che ti appendessi al collo un cartello con scritto “smidollato”
e che ti sdraiassi a terra a prenderle.
Sentiva gli sguardi degli Scarti sulla schiena mentre si avviava verso il ponte.
Non aveva bisogno di ascoltare i loro bisbigli per sapere cosa si stavano dicendo.
Volevano bere insieme a lui, farsi raccontare come aveva fatto a scoprire che
Bolliger il Grande era passato dalla parte delle Punte Nere, ascoltarlo mentre
descriveva lo sguardo di Geels nel momento in cui aveva abbassato la pistola.
Ma erano situazioni che con Kaz non avrebbero mai vissuto, e se non gli stava
bene potevano cercarsi un’altra banda.
Indipendentemente da cosa pensavano di lui, stanotte avrebbero camminato a
testa più alta. Ecco perché restavano, perché gli offrivano la loro versione
migliore di lealtà. Quando era diventato ufficialmente un membro degli Scarti
aveva dodici anni, e la banda era lo zimbello della città, bambini di strada e
scrocconi senza futuro che facevano il gioco delle tre carte e altri imbrogli da
quattro soldi fuori da una baracca fatiscente nella zona peggiore del Barile. Ma a
lui non serviva una banda importante, piuttosto una banda che poteva diventare
importante – una banda che aveva bisogno di lui.
Ora avevano il loro territorio, la loro bisca, e quella baracca era diventata la
Stecca, un posto accogliente dove potevi mangiare un piatto caldo o rifugiarti
quand’eri ferito. Ora gli Scarti erano temuti. Era stato Kaz a dargli tutto questo.
Non era tenuto a dargli, in più, anche le chiacchiere.
E poi, ci avrebbe pensato Jesper a spianare le cose. Qualche bicchiere giù per
la gola, qualche mano alzata e il buon carattere del suo tiratore scelto sarebbe
riemerso. Reggeva il rancore tanto quanto reggeva l’alcol, e aveva il dono di far
sembrare le vittorie di Kaz come se fossero le vittorie di tutti.
Non appena si diresse verso uno dei canaletti che l’avrebbero portato dietro
Quinto Porto, Kaz si accorse che si sentiva – per tutti i Santi – quasi fiducioso.
Forse avrebbe dovuto farsi vedere da un medico. Le Punte Nere gli erano stati
alle calcagna per settimane, e ora lui li aveva costretti a compiere la loro mossa.
Anche la gamba non gli faceva troppo male, malgrado il freddo invernale. Il
dolore era sempre lì, ma questa notte pulsava solo leggermente. Ciononostante,
una parte di lui si domandava se il convegno fosse stato una specie di esame che
gli aveva preparato Per Haskell. Haskell era capacissimo di convincersi di essere
lui il genio che aveva fatto rifiorire gli Scarti, specialmente se uno dei suoi
compagni di merenda glielo andava sussurrando nell’orecchio. Quest’idea non lo
faceva stare tranquillo, ma Kaz si sarebbe preoccupato di Per Haskell il giorno
dopo. Per il momento, avrebbe verificato che tutto al porto stesse procedendo
come da programma e poi sarebbe tornato a casa alla Stecca per un po’ di
meritato riposo.
Sapeva che Inej lo stava seguendo come un’ombra. Era stata con lui per tutto
il tempo, dalla Borsa in poi. Non le chiese di uscire allo scoperto. Si sarebbe
fatta vedere quando fosse stata pronta. Di solito gli piaceva la quiete; anzi,
avrebbe cucito volentieri la bocca alla maggior parte delle persone. Ma quando
voleva, Inej sapeva come farti pesare il suo silenzio. Ti portava al limite.
Kaz riuscì a sopportarlo fino a dopo le ringhiere di ferro di Zentzbridge, con
l’inferriata ricoperta da piccoli pezzi di corda allacciati in nodi elaborati, le
preghiere per tornare a casa sani e salvi che lasciavano i marinai. Sciocche
superstizioni. Alla fine cedette e disse: «Sputa il rospo, Spettro».

La voce di lei arrivò dall’oscurità. «Non hai mandato nessuno sulla


Burstraat.»
«Perché avrei dovuto?»
«Se Geels non arriva là in tempo...»
«Nessuno sta dando fuoco al numero civico diciannove.»
«Ho sentito la sirena.»
«Una fortuita coincidenza. Ho colto l’occasione che mi si è presentata.»
«Stavi bluffando, quindi. Quella ragazza non è mai stata in pericolo.»
Kaz scrollò le spalle, non era disposto a darle una risposta. Inej cercava
sempre di cavargli fuori delle briciole di umanità. «Quando tutti pensano che sei
un mostro, non devi più perdere tempo a fare cose mostruose.»
«Perché mai hai acconsentito all’incontro se sapevi che era una trappola?»
Lei era da qualche parte alla sua destra, e si spostava senza far rumore. Kaz
aveva sentito gli altri membri della banda dire che lei si muoveva come un gatto,
ma lui sospettava che i gatti si sarebbero seduti attentamente ai suoi piedi per
imparare quelle tecniche.
«Definirei questa notte un trionfo» disse lui. «Tu no?»
«C’è mancato poco che tu rimanessi ucciso. E anche Jesper.»
«Geels ha svuotato le casse delle Punte Nere per delle bustarelle inutili. Noi
abbiamo fatto uscire allo scoperto un traditore, ristabilito i nostri diritti su Quinto
Porto, e io non ho un graffio. È stata una notte eccellente.»
«Da quant’è che sapevi di Bolliger il Grande?»
«Settimane. Per un po’ saremo a corto di personale. Il che mi fa venire in
mente che devi licenziare Rojakke.»
«Perché? Non c’è nessuno come lui ai tavoli da gioco.»
«È pieno il mondo di figli di puttana che sanno come far girare le carte.
Rojakke è un po’ troppo veloce. Sta facendo la cresta.»
«È un bravo croupier, e ha una famiglia da mantenere. Potresti dargli un
avvertimento, prendergli un dito.»
«A quel punto non sarebbe più tanto bravo come croupier, non credi?»
Quando un croupier veniva colto a fare la cresta in una bisca, il capo sala gli
amputava un mignolo. Era una di quelle punizioni assurde che in qualche modo
erano state codificate come regole delle bande. Toglieva abilità alla mano del
ladro, lo costringeva a rimparare come mescolare le carte, e faceva capire a ogni
futuro dipendente che sarebbe stato tenuto d’occhio. Ma lo rendeva anche
maldestro ai tavoli da gioco. Lo faceva concentrare sulle cose semplici, come i
gesti delle mani, invece di fargli osservare i giocatori.
Kaz non poteva vedere la faccia di Inej nel buio, ma avvertiva il suo sguardo
di disapprovazione.
«L’avidità è il tuo dio, Kaz.»
Lui per poco non scoppiò a ridere. «No, Inej. L’avidità si inchina di fronte a
me. È la mia serva e la mia musa.»
«E allora qual è il dio che onori?»
«Qualunque dio mi conceda la fortuna.»
«Non credo che gli dèi funzionino così.»
«Non credo che me ne freghi qualcosa.»
Inej sospirò esasperata. Nonostante tutto quello che aveva passato, lei credeva
ancora che i suoi Santi Suli la stessero proteggendo. Kaz lo sapeva, e per qualche
motivo gli piaceva farla innervosire. Adesso desiderò poter interpretare la sua
espressione. Era sempre così gratificante vedere quel piccolo solco tra le sue
sopracciglia nere.
«Come facevi a sapere che avrei raggiunto Van Daal in tempo?» domandò lei.
«Perché ci riesci sempre.»
«Avresti dovuto darmi qualche informazione in più.»
«Ho pensato che i tuoi Santi avrebbero apprezzato la sfida.»
Per un po’ lei non disse niente, poi la udì da qualche parte dietro di lui. «Gli
uomini deridono gli dèi finché non hanno bisogno di loro.»
Lui non la vide andar via, percepì solo la sua assenza.
Kaz, irritato, scrollò la testa. Se avesse detto che si fidava di Inej l’avrebbe
sparata grossa, ma a se stesso poteva ammettere che era arrivato a farci
affidamento. Era stata una decisione di pancia saldare il suo contratto con il
Serraglio, ed era costato tanto agli Scarti. Era stato necessario convincere Per
Haskell, ma Inej era stata uno degli investimenti migliori che Kaz avesse mai
fatto. Essere così abile a restare invisibile faceva di lei un’eccellente ladra di
segreti, la migliore nel Barile. Ma il fatto che potesse semplicemente scomparire
lo impensieriva. Non aveva neanche un odore. Tutte le persone ce l’hanno, e
quegli odori raccontano delle cose – una traccia di disinfettante sulle dita di una
donna o di legna bruciata tra i suoi capelli, la lana umida dell’abito di un uomo,
o il retrogusto di polvere da sparo che si trattiene sui polsini della sua camicia.
Ma non Inej. In qualche modo lei controllava l’invisibilità. Era una risorsa
preziosa. E allora perché non poteva semplicemente fare il suo lavoro e
risparmiargli i suoi malumori?
All’improvviso, Kaz seppe di non essere da solo. Si fermò, in ascolto. Aveva
tagliato per un vicoletto spaccato in due da un canale torbido. Non c’erano
lampioni e non c’era il minimo passaggio, nient’altro che la luna luminosa e le
barchette che sbattevano contro gli attracchi. Aveva abbassato la guardia,
lasciato che la sua mente vagasse distratta.
La sagoma scura di un uomo apparve in cima al vicolo.
«Cosa vuoi?» chiese Kaz.
La forma balzò verso di lui. Kaz mosse il bastone in un arco basso. Avrebbe
dovuto entrare a diretto contatto con le gambe del suo assalitore, invece andò a
fondo nello spazio vuoto. Kaz incespicò, l’equilibrio perso per via della forza del
colpo.
Poi, chissà come, l’uomo era in piedi proprio di fronte a lui. Un pugno entrò
in rotta di collisione con la sua mascella. Kaz scrollò via le stelle che facevano
fuochi artificiali nella sua testa. Ruotò il corpo indietro e diede un altro colpo di
bastone. Ma non c’era nessuno lì. L’impugnatura della canna da passeggio sibilò
nel nulla e si schiantò contro il muro.
Kaz si vide strappare il bastone dalle mani da qualcuno alla sua destra. Ce
n’era più di uno?
E poi una figura si fece avanti attraverso il muro. La mente di Kaz farfugliò e
vacillò, nel tentativo di spiegare che quello che gli era sembrato un banco di
nebbia diventava un mantello, degli stivali, la pallida carnagione di una faccia.
“Fantasmi” pensò Kaz. La paura di un bambino, ma arrivò con la certezza più
assoluta.
Alla fine, Jordie era venuto a prendersi la sua vendetta. È tempo di pagare i
tuoi debiti, Kaz. Non si ha mai niente per niente.
Il pensiero attraversò il suo cervello in un’onda umiliante e insensata di
panico, poi il fantasma gli fu sopra, e lui avvertì la puntura di un ago affondargli
nel collo. Un fantasma con una siringa?
“Follia” pensò. E subito dopo fu tutto buio.

Kaz si svegliò per via del forte odore di ammoniaca. La testa gli sobbalzò
all’indietro mentre riprendeva del tutto conoscenza.
L’uomo anziano di fronte a lui indossava la toga di un dottore universitario.
Aveva una bottiglietta di sali d’ammonio tra le mani e la sventolava sotto il naso
di Kaz. La puzza era quasi insopportabile.
«Stammi alla larga» gracchiò Kaz.
Il dottore lo fissò senza alcuna emozione, rimettendo i sali d’ammonio in un
borsellino di pelle. Kaz mosse le dita, ma era tutto quello che era in grado di
fare. Era stato legato a una sedia con le braccia dietro la schiena. Qualunque cosa
fosse quella che gli avevano iniettato, lo aveva lasciato intontito.
Il dottore si mosse di lato, e Kaz sbatté le palpebre due volte, cercando di
schiarirsi la vista e di dare un senso al lusso assurdo dell’ambiente che lo
circondava. Si era aspettato di svegliarsi nel covo delle Punte Nere o di qualche
altra banda rivale. Ma questa non era la tipica paccottiglia da quattro soldi del
Barile. Per agghindare una casa occupata abusivamente in quel modo ci voleva
del denaro vero. Pannelli di mogano affollati di intagli di onde schiumose e pesci
volanti, librerie ricoperte di libri, finestre istoriate, e Kaz era piuttosto sicuro che
ci fosse un vero DeKappel, uno di quei discreti ritratti a olio di donna con un
libro aperto in grembo e un agnello disteso ai piedi. L’uomo che lo osservava da
dietro un’ampia scrivania aveva l’aspetto di un ricco mercante. Ma se questa era
casa sua, perché c’erano i soldati armati della stadwatch di guardia alla porta?
“Dannazione” pensò Kaz, “sono in arresto?” Nel caso, questo mercante
sarebbe rimasto a bocca aperta. Grazie a Inej, aveva delle informazioni su ogni
giudice, ufficiale giudiziario e alto consigliere di Kerch. Sarebbe uscito dalla sua
cella prima dell’alba. Solo che non era in una prigione, era incatenato a una
sedia, per cui cosa diavolo stava succedendo?
L’uomo era sulla quarantina, aveva una faccia scavata ma bella e
un’attaccatura dei capelli che stava battendo la ritirata sulla fronte. Quando Kaz
incontrò il suo sguardo, l’uomo si schiarì la gola e congiunse le dita.
«Signor Brekker, spero che non si senta troppo indisposto.»
«Mandi via questa vecchia piaga. Sto bene.»
Il mercante fece un cenno con la testa al dottore. «Può andare. Per favore, mi
faccia avere la sua parcella. E, ovviamente, apprezzerei la sua discrezione al
riguardo.»
Il dottore chiuse la borsa e uscì dalla stanza. Subito dopo, il mercante si alzò e
sollevò un fascio di carte dalla scrivania. Indossava l’abito a redingote
perfettamente tagliato su misura di tutti i mercanti di Kerch – scuro, sofisticato,
volutamente serio e compassato. Ma gli accessori raccontavano a Kaz tutto
quello che gli serviva sapere: l’orologio da tasca era d’oro, con grosse maglie di
foglie d’alloro, e il fermacravatta era un enorme, perfetto rubino.
“Per avermi legato a questa sedia, staccherò quel brillocco dalla montatura e
userò il fermaglio per infilzare il tuo ricco collo” pensò Kaz. Ma tutto ciò che
disse fu: «Van Eck».
L’uomo annuì. Nessun inchino, ovviamente. I mercanti non si inchinavano
davanti alla gentaglia del Barile. «Mi conosce, dunque?»
Kaz conosceva i simboli e i gioielli di tutte le casate di mercanti di Kerch. Lo
stemma dei Van Eck era l’alloro rosso. Non bisognava essere dei luminari per
fare il collegamento.
«La conosco» disse Kaz. «Lei è uno di quei mercanti sempre pronti a fare una
crociata per ripulire il Barile.»
Van Eck fece un altro piccolo cenno di assenso con il capo. «Io cerco di
trovare un lavoro onesto alle persone.»
Kaz rise. «Qual è la differenza tra scommettere al Club dei Corvi e fare
speculazioni finanziarie alla Borsa?»
«Il primo è ladrocinio, l’altro è commercio.»
«Un uomo che perde il proprio denaro potrebbe far fatica a distinguerli.»
«Il Barile è un ricettacolo di sporcizia, vizi, violenza.»
«Quante delle navi che manda fuori dai porti di Ketterdam non tornano più?»
«Questo non...»
«Una su cinque, Van Eck. Un’imbarcazione su cinque che spedisce a cercare
caffè e jurda e rotoli di seta affonda negli abissi del mare, si schianta sulle rocce,
diventa bottino dei pirati. Una ciurma su cinque muore, i loro cadaveri dispersi
in acque straniere, cibo per pesci che nuotano nelle acque profonde. Non
parliamo di violenza.»
«Non discuterò di questioni etiche con un ragazzino del Barile.»
Kaz non si aspettava davvero che lo facesse. Stava solo guadagnando tempo
mentre controllava quanto fossero strette le manette che aveva ai polsi.
Con le dita tastò la lunghezza della catena fin dove riuscì, e intanto
continuava a scervellarsi per capire dove fosse. Anche se Kaz non l’aveva mai
incontrato prima di persona, aveva avuto i suoi motivi per studiare nel dettaglio
la piantina della casa di Van Eck. E dovunque fossero, non erano nel palazzo del
mercante.
«Dal momento che non mi ha portato qui per filosofeggiare, a che pro
allora?» Era la classica domanda che dava inizio a una riunione. Un convenevole
tra pari, non la supplica di un prigioniero.
«Ho una proposta per lei. O, meglio, il Consiglio ne ha una.»
Kaz nascose lo stupore. «Il Consiglio dei Mercanti è solito cominciare tutte le
negoziazioni con un pestaggio?»
«Lo consideri un avvertimento. E una dimostrazione.»
A Kaz tornò in mente la forma nel vicolo, il modo in cui era apparsa e
scomparsa come un fantasma. Jordie.
Si sforzò di riordinare le idee. Lascia perdere Jordie, idiota. Stai concentrato.
Lo avevano acciuffato perché si era fissato su una vittoria e si era distratto.
Questo era il suo castigo, e non era un errore che avrebbe fatto di nuovo. Il che
non spiega il fantasma. Per il momento, mise quel pensiero da parte.
«E in che modo potrei tornare utile al Consiglio?»
Van Eck sfogliò le carte che aveva in mano. «La prima volta che è stato
arrestato aveva dieci anni» disse, scorrendo la pagina.
«La prima volta non si scorda mai.»
«Due volte in quello stesso anno, due volte l’anno dopo. Quando aveva
quattordici anni è stato catturato dalla stadwatch durante un’irruzione in una
bisca, ma da allora non è più finito dietro le sbarre.»
Era vero. Nessuno aveva più pizzicato Kaz negli ultimi tre anni. «Ora sono
pulito» disse. «Ho trovato un lavoro onesto, la mia vita è tutta casa e chiesa.»
«Non sia blasfemo» replicò Van Eck gentilmente, ma con un rapido lampo
d’ira negli occhi.
“Un uomo di fede” notò Kaz, mentre la sua mente passava in rassegna tutto
quello che sapeva di Van Eck: agiato, devoto, un vedovo risposatosi di recente
con una donna non molto più grande di Kaz. E poi, ovviamente, c’era il mistero
del figlio.
Van Eck continuò a scorrere le pagine del dossier. «Lei gestisce le
scommesse dei combattimenti di pugilato, delle corse dei cavalli e dei giochi
d’azzardo di sua proprietà. È stato il capo sala del Club dei Corvi per più di due
anni. Il più giovane ad aver mai gestito una ricevitoria di scommesse, e in quei
due anni ha raddoppiato i profitti. Lei è un ricattatore.»
«Tratto le informazioni.»
«Un genio della truffa.»
«Creo opportunità.»
«Un ruffiano e un assassino.»
«Non sfrutto le prostitute e uccido solo per giusta causa.»
«E quale sarebbe questa giusta causa?»
«La stessa che ha lei, mercante. Il profitto.»
«Come ottiene le sue informazioni, signor Brekker?»
«Si potrebbe dire che sono un grimaldello.»
«Dev’essere un grimaldello molto dotato.»
«Lo sono eccome.» Kaz slittò leggermente indietro con la schiena. «Vede,
ogni uomo è una cassaforte, un caveau di segreti e desideri. Ora, ci sono quelli
che usano modi brutali, ma io preferisco un approccio più gentile: la giusta
pressione esercitata al momento giusto, nel posto giusto. È una cosa delicata.»
«Lei parla sempre per metafore, signor Brekker?»
Kaz sorrise. «Non è una metafora.»
Fu in piedi, libero, prima che le catene toccassero terra. Superò con un salto la
scrivania, con una mano agguantò un tagliacarte che vi era appoggiato sopra e
con l’altra afferrò la camicia di Van Eck. A Kaz girava la testa, e si sentiva
braccia e gambe intorpidite per essere rimasto bloccato a lungo sulla sedia, ma
con un’arma in mano tutto acquistava una luce migliore.
Le guardie di Van Eck lo fronteggiarono, con le pistole e le spade sguainate.
Poteva sentire il cuore del mercante battere forte sotto la lana dell’abito.
«Non credo di dover sprecare fiato con le minacce» cominciò Kaz. «Mi dica
come raggiungere la porta o verrà via dalla finestra con me.»
«Penso di riuscire a farle cambiare idea.»
Kaz gli diede una spintarella. «Non mi interessa chi è lei o quant’è grande
quel rubino. Non può trascinarmi via dalle mie strade. E non fa un patto con me
mentre sono legato.»
«Mikka» chiamò Van Eck.
E a quel punto accadde di nuovo. Un ragazzo entrò nella stanza dalla libreria
a muro. Era bianco come un cadavere e indossava una giacca blu ricamata da
Grisha Scuotiacque con un fiocco rosso e oro sul bavero a segnalare il suo
legame con la casa dei Van Eck. Ma nemmeno un Grisha poteva andare a spasso
attraverso le pareti.
“Drogato” pensò Kaz, cercando di dominare il panico. “Sono stato drogato.”
Oppure era un qualche numero di illusionismo, del genere che mettevano in
scena nei teatri dello Stave dell’Est – una ragazza tagliata in due, colombe che
uscivano da una teiera.
«Cosa diavolo è?» ringhiò.
«Mi lasci andare e glielo spiegherò.»
«Me lo può spiegare lì dov’è.»
Van Eck sbuffò fuori un breve respiro tremante. «Quelli che vede sono gli
effetti della jurda parem.»
«La jurda è solo uno stimolante.» I fiorellini essiccati erano coltivati a Novyi
Zem e venduti nei negozi di tutta Ketterdam. Nei primi tempi con gli Scarti, Kaz
l’aveva masticata per restare sveglio durante i turni di sorveglianza. Gli aveva
macchiato i denti di arancione per giorni. «È innocua» disse.
«La jurda parem è una sostanza completamente diversa, e sicuramente non è
innocua.»
«Quindi mi ha drogato.»
«Non lei, signor Brekker. Mikka.»
Kaz si rese finalmente conto del pallore malato sulla faccia del Grisha. Aveva
ombre scure sotto gli occhi, e la corporatura fragile e tremolante di qualcuno che
aveva saltato parecchi pasti e sembrava non importargli.
«La jurda parem è parente della jurda comune» continuò Van Eck. «Viene
dalla stessa pianta. Non sappiamo bene come funziona il processo per
sintetizzarla, ma un campione è stato mandato al Consiglio dei Mercanti di
Kerch da uno scienziato di nome Bo Yul-Bayur.»
«Uno Shu?»
«Sì. Voleva lasciare il suo paese, così ci ha mandato un campione per
convincerci degli straordinari effetti della droga. La prego, signor Brekker, è una
posizione davvero scomoda. Se non le dispiace, le faccio consegnare una pistola
così almeno ci sediamo e parliamo in maniera più civile.»
«Una pistola e il mio bastone.»
Van Eck fece cenno a una delle guardie, che uscì dalla stanza e ritornò dopo
un momento con il bastone da passeggio. Kaz era a dir poco felice che fosse
passato per una dannata porta.
«Prima la pistola» disse Kaz. «Lentamente.» La guardia sfoderò la propria
arma e la porse tenendola per il calcio. Kaz l’afferrò e la caricò velocemente in
un solo gesto, poi lasciò andare Van Eck, lanciò il tagliacarte sulla scrivania e
strappò il proprio bastone dalla mano della guardia. La pistola era più utile, ma il
bastone dava a Kaz un sollievo che non si poneva il problema di quantificare.
Van Eck fece qualche passo indietro, mettendo un po’ di distanza tra lui e
l’arma carica di Kaz. Non sembrava aver voglia di sedersi. Nemmeno Kaz, che
si portò vicino alla finestra, pronto a uscire da lì se necessario.
Van Eck fece un respiro profondo e cercò di sistemarsi i vestiti. «Quel
bastone è davvero un capolavoro, signor Brekker. È stato realizzato da un
Fabrikator?»
In effetti, era opera di un Grisha Fabrikator, imbottito di piombo e
perfettamente bilanciato per spezzare le ossa. «Niente che la riguardi. Vada
avanti a raccontare, Van Eck.»
Il mercante si schiarì la gola. «Quando Bo Yul-Bayur ci mandò il campione
di jurda parem, la somministrammo a tre Grisha, uno per ogni Ordine.»
«Volontari entusiasti?»
«Sotto contratto» ammise Van Eck. I primi due erano un Fabrikator e una
Guaritrice al servizio del Consigliere Hoede. Mikka è uno Scuotiacque. Lui è
mio. E ha visto cosa è in grado di fare sotto l’effetto di quella sostanza.»
Hoede. Perché quel nome gli diceva qualcosa?
«Non lo so cos’ho visto» ammise Kaz mentre lanciava un’occhiata a Mikka.
Lo sguardo del ragazzo era fisso su Van Eck come se stesse aspettando un altro
ordine. O forse un’altra dose.
«Uno Scuotiacque qualunque è in grado di controllare le correnti, di
raccogliere l’acqua o l’umidità dall’aria o da una superficie nelle vicinanze. Gli
Scuotiacque supervisionano le maree nei nostri porti. Ma sotto l’effetto della
jurda parem, possono modificare il proprio stato da solido a liquido a gassoso e
viceversa, e fare lo stesso con altri oggetti. Anche un muro.»
Kaz fu tentato di negare, ma non avrebbe potuto spiegare in altro modo quello
che aveva appena visto. «Come?»
«Difficile da dire. Ha presente gli amplificatori che indossano alcuni Grisha?»
«Li ho visti» rispose Kaz. Ossa di animali, denti, squame. «So che sono
difficili da trovare.»
«Alquanto. Ma gli amplificatori possono solo aumentare il potere di un
Grisha. La jurda parem altera la percezione di un Grisha.»
«E quindi?»
«I Grisha manipolano la materia ai suoi livelli più essenziali. Loro la
chiamano la Piccola Scienza. Sotto l’effetto della parem, queste manipolazioni
diventano più veloci e di gran lunga più precise. In teoria, la jurda parem è
soltanto uno stimolante come la sua banale cugina. Ma sembra accentuare e
perfezionare i sensi dei Grisha. Che riescono a creare connessioni a una velocità
straordinaria. Diventano possibili cose che non dovrebbero esserlo.»
«Cosa fa a quelli come noi?»
Van Eck sembrò irritarsi leggermente all’idea di essere paragonato a Kaz, ma
disse: «È letale. Una mente comune non può tollerare la parem nemmeno alle
dosi più basse».
«Ha detto che l’avete somministrata a tre Grisha. Gli altri due che cosa sono
in grado di fare?»
«Qui» disse Van Eck, allungando la mano verso un cassetto della scrivania.
Kaz sollevò la pistola. «Piano.»
Con esasperata lentezza, Van Eck infilò la mano nel cassetto ed estrasse un
mattoncino d’oro. «Questo era piombo.»
«Sì, certo, come no?!»
Van Eck si strinse nelle spalle. «Posso solo dirle ciò che ho visto. Il
Fabrikator ha preso un pezzo di piombo tra le mani, e dopo pochi istanti
abbiamo ottenuto questo.»
«Come fa a sapere che è autentico?» chiese Kaz.
«Ha lo stesso punto di fusione dell’oro, lo stesso peso e la stessa malleabilità.
Se non è identico all’oro in tutto e per tutto, la differenza ci è sfuggita. Lo faccia
valutare anche lei, se vuole.»
Kaz si infilò il bastone sotto il braccio e prese il pesante mattoncino dalla
mano di Van Eck. Se lo fece scivolare in tasca. Che fosse vero o solo
un’imitazione verosimile, con un bel pezzo giallo così grosso ci potevi comprare
un sacco di cose nelle strade del Barile.
«Potrebbe provenire da qualunque parte» puntualizzò Kaz.
«Porterei qui il Fabrikator di Hoede a mostrarglielo di persona, ma non si
sente bene.»
Lo sguardo di Kaz scattò alla faccia malaticcia di Mikka e alla sua fronte
sudata. Evidentemente, la droga aveva il suo prezzo.
«Ammettiamo che sia tutto vero e non un trucchetto da quattro soldi. Io che
cosa c’entro?»
«Ha forse sentito in giro la storia degli Shu che hanno estinto per intero il loro
debito a Kerch con un improvviso afflusso d’oro? L’omicidio dell’ambasciatore
del commercio di Novyi Zem? Il furto di documenti da una base militare a
Ravka?»
Quindi era quello il segreto dietro l’uccisione dell’ambasciatore in gabinetto.
E l’oro nelle tre navi Shu doveva essere opera di un Fabrikator.
Kaz non sapeva nulla dei documenti Ravkiani, ma annuì comunque.
«Secondo noi dietro tutti questi avvenimenti ci sono i Grisha, che stanno
agendo sotto il controllo del governo Shu e sotto l’effetto della jurda parem.»
Van Eck si strofinò una guancia con la mano. «Signor Brekker, vorrei che si
soffermasse un attimo a riflettere su quanto sto per dirle. Uomini in grado di
passare attraverso i muri... nessuna camera blindata e nessuna fortezza saranno
più al sicuro. Persone che possono trasformare il piombo in oro, o in qualunque
altra cosa se è per questo, che possono modificare l’essenza della materia di cui
è fatto il mondo... i mercati finanziari sprofonderebbero nel caos. L’economia
mondiale crollerebbe.»
«Estremamente eccitante. Che cosa vuole da me, Van Eck? Vuole che rubi
una spedizione? La formula?»
«No, desidero che lei ci porti quell’uomo.»
«Vuole che rapisca Bo Yul-Bayur?»
«Che lo salvi. Un mese fa ricevemmo un messaggio da Yul-Bayur in cui ci
pregava di dargli asilo. Era preoccupato dalle mire del suo governo sulla jurda
parem, e noi concordammo di aiutarlo a espatriare. Organizzammo un rendez-
vous, ma ci fu una schermaglia nel luogo dell’appuntamento.»
«Con gli Shu?»
«No, con i Fjerdiani.»
Kaz alzò un sopracciglio. I Fjerdiani dovevano avere spie dappertutto a Shu
Han o a Kerch se avevano saputo della droga e dei piani di Bo Yul-Bayur così in
fretta. «E allora fatelo sorvegliare da qualche vostro agente segreto.»
«La situazione diplomatica è un po’ delicata. È di vitale importanza che il
nostro governo non sia collegato a Yul-Bayur in alcun modo.»
«Sa meglio di me che probabilmente è già morto. I Fjerdiani odiano i Grisha.
Non permetteranno mai che la conoscenza di questa droga si diffonda.»
«Le nostre fonti sostengono che è vivissimo e che è in attesa di giudizio.»
Van Eck si schiarì la gola. «Alla Corte di Ghiaccio.»
Kaz fissò Van Eck per un lungo istante, poi scoppiò a ridere. «Bene, è stato
un piacere essere reso incosciente e tenuto prigioniero da lei, Van Eck. Può stare
tranquillo che la sua ospitalità sarà ripagata al momento opportuno. Ora mi
faccia condurre alla porta da uno dei suoi lacchè.»
«Siamo disposti a offrile cinque milioni di kruge.»
Kaz si mise la pistola in tasca.
Adesso non temeva più per la sua vita, era solo irritato che questo ciarlatano
gli avesse fatto perdere tempo. «La sorprenderà, Van Eck, ma noi ratti dei canali
teniamo alla nostra pellaccia quanto voi alla vostra.»
«Dieci milioni.»
«Cosa me ne faccio se non avrò più una vita per godermeli? Dov’è il mio
cappello... non è che il suo Scuotiacque l’ha lasciato nel vicolo?»
«Venti.»
Kaz si fermò. Ebbe l’inquietante sensazione che il pesce intagliato sui
pannelli di mogano si fosse bloccato nel bel mezzo di un guizzo per ascoltare.
«Venti milioni di kruge?»
Van Eck annuì. Non sembrava contento.
«Dovrei convincere una squadra a partire per una missione suicida. Non sarà
a buon mercato.» Questo non era del tutto vero. A dispetto di quello che aveva
detto, il Barile era pieno di gente che non aveva tutti questi motivi per vivere.
«Venti milioni di kruge le sembra un prezzo a buon mercato?» scattò Van
Eck.
«La Corte di Ghiaccio non è mai stata violata.»
«Questo è il motivo per cui abbiamo bisogno di lei, signor Brekker. È
possibile che Bo Yul-Bayur sia già morto o che abbia rivelato tutti i suoi segreti
ai Fjerdiani, ma noi crediamo di avere almeno un po’ di tempo per agire prima
che la formula della jurda parem sia divulgata.»
«Se gli Shu hanno la formula...»
«Yul-Bayur ha dichiarato di aver fatto in modo di sviare i suoi superiori e di
tenere segreti gli ingredienti della formula. Secondo noi stanno conducendo
degli esperimenti su una fornitura limitata che Yul-Bayur gli ha lasciato.»
L’avidità si inchina di fronte a me. Forse Kaz era stato un po’ presuntuoso al
riguardo. Ora l’avidità gli stava facendo accettare l’offerta. La musa era al
lavoro, stava vincendo le sue resistenze, lo stava rimettendo al suo posto.
Venti milioni di kruge. Che tipo di colpo sarebbe stato? Kaz non sapeva
niente di spionaggio o di controversie diplomatiche, ma perché portare via Bo
Yul-Bayur dalla Corte di Ghiaccio avrebbe dovuto essere diverso dal sottrarre
oggetti di valore dalla cassaforte di un mercante? “La cassaforte più
inespugnabile del mondo” ricordò a se stesso. Avrebbe avuto bisogno di una
squadra di superspecialisti, una squadra così disperata che non si sarebbe tirata
indietro davanti alla possibilità concreta di non fare mai ritorno. E non avrebbe
potuto attingere ai ranghi degli Scarti. Tra le loro fila non c’erano i talenti che
facevano al caso suo. E questo significava che avrebbe dovuto guardarsi le spalle
più del solito.
Ma se si fossero organizzati, anche dopo aver dato a Per Haskell la propria
parte, la fetta di Kaz sarebbe stata sufficiente per cambiare tutto, per far
finalmente avverare il sogno che aveva avuto sin da quando era strisciato fuori
da un porto gelido con la vendetta che gli scavava un buco ardente nel cuore. Il
suo debito verso Jordie alla fine sarebbe stato ripagato.
Ci sarebbero stati anche altri vantaggi. Il Consiglio di Kerch sarebbe stato in
debito con lui, per non parlare di quello che avrebbe fatto questo colpo alla sua
reputazione.
Introdursi nell’impenetrabile Corte di Ghiaccio e portar via qualcosa di
prezioso dalla roccaforte dell’aristocrazia Fjerdiana e della sua potenza militare?
Con un’impresa come quella all’occhiello e quel genere di ricompensa
sottomano, non avrebbe più avuto bisogno di Per Haskell. Avrebbe potuto
avviare un’attività per conto proprio.
Ma c’era qualcosa che non tornava. «Perché io? Perché gli Scarti? Ci sono
bande con più esperienza là fuori.»
Mikka iniziò a tossire, e Kaz vide del sangue sulla manica della sua camicia.
«Siediti» ordinò con gentilezza Van Eck a Mikka, aiutandolo a sedersi e
porgendogli un fazzoletto. Fece cenno a una guardia. «Dell’acqua.»
«Allora?» lo incalzò Kaz.
«Quanti anni ha, signor Brekker?»
«Diciassette.»
«Lei non viene arrestato da quando ne aveva quattordici, e dal momento che
so per certo che lei non è un uomo onesto più di quanto sia mai stato un ragazzo
onesto, posso semplicemente dedurre che ha la qualità che più di tutte mi serve
in un criminale: non si fa catturare.» A quel punto Van Eck sorrise leggermente.
«C’è poi anche la questione del mio DeKappel.»
«Sono certo di non sapere di cosa stia parlando.»
«Sei mesi fa, un dipinto a olio di DeKappel del valore di quasi centomila
kruge è sparito da casa mia.»
«Una grossa perdita.»
«Può ben dirlo, soprattutto perché mi avevano assicurato che la mia galleria
d’arte fosse inaccessibile e che le serrature alle porte fossero impossibili da
forzare.»
«Mi sembra di ricordare di aver letto qualcosa al riguardo.»
«Sì» ammise Van Eck con un piccolo sospiro. «L’orgoglio è una cosa
pericolosa. Ero impaziente di sfoggiare il mio acquisto e le precauzioni che
avevo preso per proteggerlo. Eppure, nonostante tutte le mie tutele, nonostante i
cani e gli allarmi e il personale di servizio più fidato di tutta Ketterdam, il mio
dipinto è scomparso.»
«Le mie condoglianze.»
«Deve ancora spuntare fuori da qualche parte sul mercato mondiale.»
«Forse il suo ladro aveva già pronto un acquirente.»
«Può essere, di certo. Ma sono più incline a credere che il ladro l’abbia preso
per un altro motivo.»
«E quale sarebbe?»
«Dimostrare che ne era capace.»
«Mi sembra un rischio stupido.»
«Be’, chi può conoscere i moventi dei ladri?»
«Io no di certo.»
«Da quel che so della Corte di Ghiaccio, chiunque abbia rubato il mio
DeKappel è proprio la persona che mi serve per questo lavoro.»
«Allora farebbe meglio ad assumerlo. O assumerla.»
«Assolutamente. Ma dovrò accontentarmi di lei.» Van Eck sostenne lo
sguardo di Kaz come se sperasse di trovarci una confessione scritta. Alla fine,
chiese: «Abbiamo un accordo, quindi?».
«Non abbia fretta. Che cosa mi dice della Guaritrice?»
Van Eck apparve confuso. «Chi?»
«Ha detto che avete somministrato la droga a un Grisha di ciascun Ordine.
Mikka è uno Scuotiacque, il suo Etherealki. Il Fabrikator che ha realizzato
quell’oro era un Materialki. Quindi cos’è successo alla Corporalki? La
Guaritrice?»
Van Eck trasalì leggermente, ma si limitò a dire: «Vuole accompagnarmi,
signor Brekker?».
Con cautela, tenendo d’occhio Mikka e le guardie, Kaz seguì Van Eck fuori
dalla sala e lungo il corridoio. La casa trasudava la ricchezza del mercante:
pannelli di legno scuro alle pareti, pavimenti rivestiti di piastrelle bianche e nere,
tutte di ottimo gusto, tutte impeccabilmente fatte a mano e perfettamente posate.
Ma aveva il calore di un cimitero. Le stanze erano deserte, le tende tirate, i
mobili coperti da lenzuola bianche tanto che ogni sala in ombra che
oltrepassavano sembrava un paesaggio marino abbandonato e riempito alla
rinfusa di iceberg.
Hoede. Ora il nome andò al suo posto. C’era stato un qualche tipo di
incidente al palazzo di Hoede sulla Geldstraat la settimana precedente. Tutta la
zona era stata isolata e pullulava di stadwatch. Stando alle chiacchiere che erano
arrivate a Kaz, era scoppiata un’epidemia di febbre bubbonica, ma nemmeno
Inej era riuscita a scoprire di più.
«Questa è la casa del Consigliere Hoede» disse Kaz, e gli venne la pelle
d’oca. Non voleva avere niente a che fare con la pestilenza, ma né il mercante né
le guardie sembravano minimamente preoccupati. «Pensavo che questo posto
fosse in quarantena.»
«Per noi, quello che è successo qui non è pericoloso. E se lei farà il suo
lavoro, signor Brekker, non lo sarà mai.»
Van Eck lo guidò attraverso una porta verso un giardino estremamente curato,
fitto di ciclamini profumati appena sbocciati. L’odore colpì Kaz come un pugno
in faccia. I ricordi di Jordie affiorarono all’istante, freschi e vividi, e per un
istante Kaz non stava più camminando nel giardino di un ricco mercante a lato di
un canale, ma era nell’erba alta fino alle ginocchia, il sole caldo che gli inondava
la faccia e la voce di suo fratello che lo chiamava a casa.
Kaz si scosse. “Mi serve una tazza del caffè più nero e più amaro che c’è”
pensò. “Oppure un vero cazzotto in faccia.”
Van Eck lo stava conducendo a una rimessa affacciata sul canale. La luce che
filtrava dalle persiane chiuse delle finestre disegnava delle forme sul sentiero del
giardino. Un solitario soldato della guardia cittadina scattò sull’attenti accanto
alla porta mentre Van Eck estraeva una chiave dalla tasca e la introduceva nella
pesante serratura. Kaz si portò alla bocca la manica non appena il tanfo
dell’edificio chiuso lo raggiunse – urina ed escrementi. Alla faccia dei ciclamini
appena sbocciati.
L’interno era illuminato da due lanterne alle pareti. Un drappello di soldati
era in piedi di fronte a una grande scatola in ferro, dai cui vetri rotti si spargeva
immondizia sul pavimento. Alcuni indossavano l’uniforme viola della
stadwatch, altri la divisa verde mare della casata di Hoede. Attraverso quella che
Kaz riconobbe come una finestra d’osservazione, vide un’altra guardia cittadina
davanti a un tavolo vuoto e a due sedie ribaltate. Esattamente come gli altri, la
guardia aveva le braccia penzoloni lungo i fianchi, la faccia inespressiva, gli
occhi aperti, persi nel nulla. Van Eck accese la luce di una lanterna, e Kaz vide
un uomo dentro una divisa viola che giaceva sul pavimento, gli occhi chiusi.
Van Eck sospirò e si accovacciò per rigirare il corpo. «Ne abbiamo perso un
altro» disse.
Era un ragazzino, con giusto un alone di baffi sul labbro superiore.
Van Eck diede ordine al soldato che li aveva lasciati entrare di sollevare il
cadavere e portarlo fuori dalla stanza con l’aiuto di una guardia della propria
scorta. Gli altri soldati non reagirono, continuarono semplicemente a fissare nel
vuoto davanti a loro.
Kaz riconobbe uno di loro, Henrik Dahlman, il capitano della stadwatch.
«Dahlman» lo chiamò, ma l’uomo non rispose. Kaz agitò una mano davanti al
viso del capitano, poi fece schioccare le dita vicino al suo orecchio. Nient’altro
che un lento, indifferente battito di ciglia. Kaz sollevò la pistola e la puntò
direttamente alla fronte del capitano. Tirò il cane della pistola. L’uomo non
trasalì, non reagì. Le sue pupille non si contrassero.
«È come se fosse morto» disse Van Eck. «Spari. Gli faccia saltare le cervella.
Non protesterà e gli altri non reagiranno.»
Kaz abbassò la pistola, e il gelo gli scese nella profondità delle ossa. «Che
cos’hanno? Che cosa gli è capitato?»
«La Grisha era una Corporalki sotto contratto a servizio presso la casa del
Consigliere Hoede. Dal momento che era una Guaritrice e non una Spaccacuore,
Hoede pensò di andare sul sicuro scegliendo lei per sperimentare la parem.»
Sembrava piuttosto sensato. Kaz aveva visto gli Spaccacuore al lavoro.
Potevano romperti le cellule, incendiarti il cuore nel petto, rubarti il fiato dai
polmoni, o rallentarti il polso finché non finivi in coma, e tutto senza neanche
metterti un dito addosso. Se quello che Van Eck aveva detto era vero anche solo
in parte, l’idea di uno di loro drogato di jurda parem era spaventosa. Per cui i
mercanti avevano preferito provare la droga su una Guaritrice. Ma a quanto
pareva le cose non erano andate secondo i loro piani.
«Lei l’ha drogata e la Grisha ha ucciso il suo padrone?»
«Non esattamente» disse Van Eck, schiarendosi la gola. «La tenevano in
quella cella sotto osservazione. Entro pochi secondi dall’assunzione della parem,
lei prese il controllo della guardia dentro la stanza.»
«Come?»
«Non lo sappiamo con certezza. Ma qualunque metodo abbia usato, le ha
permesso di sottomettere anche queste guardie.»
«Non è possibile.»
«No? Il cervello è solo un altro organo, un ammasso di cellule e impulsi.
Perché un Grisha sotto l’effetto della jurda parem non dovrebbe essere in grado
di manovrarlo?»
Lo scetticismo di Kaz doveva essere evidente.
«Guardi quegli uomini» insistette Van Eck. «La Grisha ha detto loro di
aspettare. E questo è esattamente quello che stanno facendo... è tutto quello che
hanno fatto finora.»
Kaz studiò più attentamente il gruppetto silenzioso. I loro occhi non erano
spenti o morti, i loro corpi non erano del tutto a riposo. Erano in attesa.
Soffocò un brivido.
Ne aveva viste di cose bizzarre, e straordinarie, ma niente di simile a quello di
cui adesso era testimone.
«Cos’è successo a Hoede?»
«La Grisha gli ordinò di aprire la porta, e quando lui obbedì, lei gli comandò
di amputarsi il pollice. Se noi sappiamo com’è andata è solo perché era presente
un ragazzino che lavora in cucina. La Grisha non lo toccò nemmeno, ma lui
sostiene che Hoede si sia affettato via il pollice sorridendo per tutto il tempo.»
A Kaz non piaceva l’idea di una Grisha che gli spostava le cose nella testa.
Ma non si sarebbe stupito se Hoede si fosse meritato tutto quello che gli era
capitato. Durante la guerra civile di Ravka, parecchi Grisha erano sfuggiti ai
combattimenti e avevano pagato il loro ingresso a Kerch finendo sotto contratto,
senza rendersi conto che si erano di fatto ridotti da soli in schiavitù.
«Il mercante è morto?»
«Il Consigliere Hoede ha perso una grande quantità di sangue, ma si trova
nelle stesse condizioni di questi uomini. È stato portato in campagna con la sua
famiglia e il personale di servizio della casa.»
«La Guaritrice Grisha è tornata a Ravka?» chiese Kaz.
Van Eck fece cenno a Kaz di uscire dall’inquietante rimessa e chiuse a chiave
la porta dietro di loro.
«Deve averci provato» disse mentre ripercorrevano i propri passi attraverso il
giardino e lungo il fianco della casa. «Sappiamo che si è procurata una piccola
imbarcazione, e sospettiamo che si sia diretta verso Ravka, ma abbiamo trovato
il suo corpo trascinato a riva due giorni fa vicino a Terzo Porto. Pensiamo che
sia annegata nel tentativo di rientrare in città.»
«Perché avrebbe dovuto tornare qui?»
«Per la jurda parem.»
Kaz pensò agli occhi brillanti di Mikka e alla sua pelle cerea. «Dà così tanta
dipendenza?»
«Sembra che basti una dose sola. Una volta che la droga ha fatto il suo corso,
lascia il corpo del Grisha spossato e con un desiderio intenso. È decisamente
debilitante.»
Decisamente debilitante suonava un po’ riduttivo. Il Consiglio delle Maree
controllava l’ingresso ai porti di Ketterdam. Se la Guaritrice drogata aveva
cercato di tornare di notte a bordo di una barchetta, non avrebbe avuto grandi
chance contro la corrente. Kaz pensò ancora alla faccia smunta di Mikka, al
modo in cui i vestiti gli cascavano addosso. Era stata la droga a ridurlo così. Era
strafatto di jurda parem e già in scimmia per la dose successiva. Sembrava anche
in procinto di avere un collasso. Quanto a lungo poteva reggere un Grisha?
Era una domanda interessante, ma irrilevante rispetto alla faccenda in
questione.
Erano arrivati al cancello principale. Era giunto il momento di parlare di
affari.
«Trenta milioni di kruge» disse Kaz.
«Abbiamo detto venti!» farfugliò Van Eck.
«Lei ha detto venti. È evidente che è disperato.» Kaz guardò verso la rimessa,
dove c’era una stanza piena di uomini che aspettavano semplicemente di morire.
«E ora posso capire perché.»
«Il Consiglio vorrà la mia testa.»
«Canteranno le sue lodi una volta che avrà Bo Yul-Bayur nascosto al sicuro
dovunque vorrà tenerlo.»
«Novyi Zem.»
Kaz si strinse nelle spalle. «Può infilarlo in una caffettiera per quel che me ne
importa.»
Lo sguardo di Van Eck catturò il suo. «Lei ha visto cosa può fare questa
droga. Le posso assicurare che questo è solo l’inizio. Se la jurda parem
circolasse nel mondo, la guerra sarebbe inevitabile. I nostri scambi commerciali
verrebbero distrutti, e i nostri mercati crollerebbero. Kerch non sopravvivrebbe.
Le nostre speranze sono riposte in lei, signor Brekker. Se lei fallirà, tutto il
mondo ne patirà.»
«Oh, anche peggio, Van Eck. Se io fallirò, non verrò pagato.»
L’espressione di disgusto sulla faccia del mercante era qualcosa che da sola si
meritava un dipinto a olio di DeKappel in commemorazione.
«Non sia così deluso. Consideri invece quanto sarebbe stato deprimente
scoprire che questo ratto dei canali cova dentro di sé una traccia di patriottismo.
Avrebbe dovuto togliersi quella smorfia di ribrezzo da sotto il naso e trattarmi
con qualcosa di simile al rispetto.»
«La ringrazio per avermi risparmiato quel disagio» disse Van Eck sdegnato.
Aprì la porta, poi si fermò. «Davvero mi domando cosa sarebbe diventato un
ragazzo della sua intelligenza se le circostanze fossero state diverse.»
“Lo chieda a Jordie” pensò Kaz con una fitta di rabbia. Ma si limitò a
scrollare le spalle. «Deruberei dei fessi di livello superiore. Trenta milioni di
kruge.»
Van Eck annuì. «Trenta. Un patto è un patto.»
«Un patto è un patto» disse Kaz. Si diedero la mano.
Mentre quella perfettamente curata di Van Eck stringeva le dita guantate di
Kaz, il mercante ridusse gli occhi a una fessura.
«Perché indossa i guanti, signor Brekker?»
Kaz alzò un sopracciglio. «Sono sicuro che conosce le storie che si
raccontano.»
«Una più mostruosa dell’altra.»
Anche Kaz le conosceva. Le mani di Brekker erano macchiate di sangue. Le
mani di Brekker erano coperte di cicatrici. Brekker aveva degli artigli al posto
delle dita perché era un mezzo diavolo. Il tocco di Brekker bruciava come il
fuoco: se solo avessi sfiorato la sua pelle nuda, la tua si sarebbe seccata e poi
sarebbe caduta.
«Ne scelga una» disse Kaz mentre spariva nella notte, i pensieri già rivolti ai
trenta milioni di kruge e alla banda che lo avrebbe aiutato a ottenerli. «Sono tutte
vere a sufficienza.»
4
INEJ

Inej seppe che Kaz era rientrato alla Stecca nell’istante in cui lui varcò la porta.
La sua presenza riecheggiò nelle stanze anguste e nei corridoi sbilenchi mentre
ogni delinquente, ladro, spacciatore e truffatore presente si mise in allerta. Il
vicecomandante preferito di Per Haskell era a casa.
La Stecca non era granché, un edificio qualunque nella zona peggiore del
Barile, tre piani accatastati uno sopra l’altro, con una mansarda e un tetto
aguzzo. In questa zona la maggior parte degli edifici era stata costruita senza
fondamenta, molti si ergevano direttamente sul terreno paludoso dove i canali
erano stati scavati a casaccio. Si appoggiavano l’uno all’altro come amici
ubriachi in un bar, inclinati ad angoli improbabili. Inej ne aveva visitati parecchi
durante le sue commissioni per gli Scarti, e non erano messi molto meglio
all’interno: freddi e umidi, l’intonaco scrostato dai muri, fessure alle finestre
grosse abbastanza da lasciar entrare pioggia e neve. Però Kaz aveva speso del
denaro di tasca propria perché gli spifferi della Stecca fossero eliminati e le
pareti coibentate. La Stecca era brutta, storta e affollata, ma era magnificamente
asciutta.
La stanza di Inej si trovava al terzo piano, una fetta striminzita di spazio a
malapena sufficiente a farci stare una brandina e un baule, ma con una finestra
che dava sui tetti appuntiti e sul guazzabuglio di comignoli del Barile. Quando il
vento arrivava a pulire la coltre di fumo di carbone sospesa sulla città, Inej
riusciva persino a vedere un pezzetto blu di porto.
Sebbene l’alba fosse distante ancora qualche ora, la Stecca era del tutto
sveglia. La casa era davvero silenziosa solo durante le lente ore pomeridiane,
questa notte inoltre tutti erano eccitati dalle notizie della resa dei conti tenutasi
alla Borsa, dalla punizione di Bolliger il Grande, e ora dal licenziamento del
povero Rojakke.
Dopo aver parlato con Kaz, Inej era andata direttamente a cercare il mazziere
al Club dei Corvi. Lui era al tavolo a dare le carte di Tre Uomo Mora per Jesper
e per un paio di turisti di Ravka. Quando ebbe finito di servire la mano, Inej gli
aveva proposto di scambiare due parole in uno dei privé per risparmiargli
l’imbarazzo di essere licenziato di fronte ai suoi amici, ma Rojakke non aveva
voluto.
“Non è giusto” aveva urlato nel momento in cui lei gli aveva riportato gli
ordini di Kaz. “Non sono un baro!”
“Prenditela con Kaz” aveva risposto Inej con calma.
“E abbassa la voce” aveva aggiunto Jesper, gettando uno sguardo ai turisti e
ai marinai seduti ai tavoli vicini. Le risse erano all’ordine del giorno nel Barile,
ma non tra le mura del Club dei Corvi. Se avevi qualcosa di cui lagnarti, la
risolvevi fuori, dove non rischiavi di interferire nella pratica sacrosanta di
separare i polli dal loro denaro.
“Dov’è Brekker?” aveva ringhiato Rojakke.
“Non lo so.”
“Tu sai sempre tutto di tutti” aveva detto il croupier in tono di scherno,
facendo un passo in avanti, l’odore di birra chiara e cipolle nell’alito. “Non è per
questo che ti paga Manisporche?”
“Non so dove sia o quando tornerà. Ma so per certo che non vuoi essere qui
quando lo farà.”
“Dammi la mia paga. Mi spetta, per il mio ultimo turno di lavoro.”
“Brekker non ti deve niente.”
“Non ha nemmeno il coraggio di dirmelo in faccia? Manda una ragazzina
come te a darmi il benservito? Forse devo scuoterti fino a farti uscire qualche
moneta.” Rojakke aveva allungato le braccia per afferrare Inej per il colletto
della camicia, ma lei lo aveva scansato facilmente. Lui aveva cercato di
afferrarla di nuovo.
Con la coda dell’occhio Inej vide Jesper alzarsi dal suo posto, ma lei gli fece
segno di no e strinse le dita intorno al tirapugni che teneva nella tasca sul fianco
destro. Con una rapida mossa, tirò un colpo sulla guancia sinistra di Rojakke.
La mano di lui era salita a toccarsi la faccia. “Ehi” aveva detto. “Io non ti ho
neanche toccata. Facevo per dire.”
Ora tutti stavano guardando, così lei lo colpì di nuovo. A prescindere dalle
regole del Club dei Corvi, questo aveva la priorità. Quando Kaz l’aveva portata
alla Stecca, l’aveva avvisata che lui non ci sarebbe stato a proteggerla, che
avrebbe dovuto cavarsela da sola, e lei se l’era cavata da sola. Sarebbe stato più
facile girarsi dall’altra parte quando la insultavano o quando si avvicinavano
furtivamente per ottenere una carezza, ma se avesse fatto così ben presto si
sarebbe ritrovata una mano dentro la camicetta o schiacciata contro un muro da
qualcuno che ci stava provando. Per cui non aveva mai permesso che le
piovessero addosso insulti o battute a doppio senso. Aveva sempre colpito per
prima e colpito duro. A volte aveva anche procurato qualche taglio. Era faticoso,
ma a Kerch non c’era niente di sacro tranne il commercio, così lei era andata
dritta per la sua strada, che consisteva nel rendere il pericolo più grosso del
premio quando si trattava di mancarle di rispetto. Con espressione stupita,
Rojakke si toccò con le dita il brutto livido che si stava formando sulla guancia,
come se fosse stato un po’ tradito. “Pensavo che eravamo amici” aveva
protestato lui. La cosa triste era che lo erano veramente. Ma per il momento, lui
era solo un uomo spaventato che cercava di sentirsi più grosso di qualcun altro.
“Rojakke” aveva detto lei. “Ho visto come fai andare il mazzo di carte. Puoi
trovarti un lavoro praticamente in ogni bisca. Vai a casa e sii grato che Kaz non
voglia indietro quello che gli hai preso di nascosto?”
Se n’era andato, un po’ traballante, ancora con la mano sul livido come un
moccioso scioccato, e Jesper l’aveva raggiunta.
“Ha ragione lui, e lo sai. Kaz non dovrebbe mandare te a fare il suo lavoro
sporco.”
“Sono tutti lavori sporchi.”
“Ma ci tocca farli comunque” aveva detto lui con un sospiro.
“Hai l’aria stanca. Non vai a dormire?”
Jesper le aveva fatto l’occhiolino. “Non finché le carte girano per il verso
giusto. Resta e fatti un giro. Offre Kaz.”
“Veramente, Jesper?” aveva detto lei, alzandosi il cappuccio. “Se volessi
vedere degli uomini scavarsi da soli la fossa, mi cercherei un cimitero.”
“Eddai, Inej” l’aveva chiamata indietro lui mentre lei varcava le doppie porte
per uscire in strada. “Tu mi porti fortuna.”
“Santi numi, se lo crede veramente dev’essere proprio alla frutta” aveva
pensato. Tutta la fortuna lei se l’era lasciata alle spalle, in un accampamento Suli
sulle sponde occidentali di Ravka. E c’era da dubitare che l’avrebbe ritrovata.
Ora Inej lasciò la sua stanzetta nella Stecca e si diresse al piano di sotto
usando i corrimani delle ringhiere. Non aveva motivo, qui, di celare i suoi
movimenti, ma il silenzio era ormai diventato un’abitudine, e i gradini tendevano
a squittire come topi che si accoppiavano. Quando raggiunse il pianerottolo del
secondo piano e vide la folla accalcarsi di sotto, esitò.
Kaz era stato via più a lungo di quanto chiunque si fosse aspettato, e non
appena varcò l’ingresso buio, fu abbordato da tutti quelli che volevano
congratularsi con lui per come aveva sconfitto Geels e che volevano notizie sulle
Punte Nere.
«In giro si dice che Geels stia già mettendo insieme i suoi per attaccarci»
disse Anika.
«Lasciamoglielo fare!» brontolò Dirix. «Ho il suo nome scritto sul manico
della mia ascia.»
«Geels non si farà vivo per un po’» disse Kaz mentre iniziò a percorrere il
corridoio. «Non ha i numeri per affrontarci in strada, e le sue casse sono troppo
vuote per reclutare altra gente. Non dovreste essere già in cammino per il Club
dei Corvi?»
Bastò il sopracciglio sollevato a far precipitare fuori Anika e a spedire Dirix
alle sue calcagna. Arrivarono altri a congratularsi o a lanciare minacce contro le
Punte Nere. Nessuno, però, si avvicinò al punto da dargli una pacca sulla spalla:
quello sarebbe stato un buon modo per perdere la mano.
Inej sapeva che Kaz si sarebbe fermato a parlare con Per Haskell, e così,
invece di scendere l’ultima rampa di scale, si avviò per il corridoio. Qui c’era un
armadio pieno di cianfrusaglie, vecchie sedie dagli schienali rotti, teli macchiati
di vernice. Inej spostò un cesto pieno di attrezzi per pulire che lei aveva piazzato
là proprio perché sapeva che nessuno della Stecca l’avrebbe mai toccato. La
grata che c’era dietro offriva una visuale perfetta dell’ufficio di Per Haskell. Si
sentì un po’ in colpa ad ascoltare Kaz di nascosto, ma era stato lui a farla
diventare una spia. Non puoi addestrare un falcone e poi aspettarti che non vada
a caccia.
Attraverso la grata Inej sentì Kaz bussare alla porta di Per Haskell e porgere i
suoi saluti.
«Di ritorno vivo e vegeto?» chiese il vecchio. Era seduto nella sua poltrona
preferita, a giocherellare con un modellino di nave che stava costruendo ormai
da un anno, e una pinta di birra a portata di mano, come sempre.
«Non avremo più problemi con Quinto Porto.»
Haskell grugnì e tornò al suo modellino. «Chiudi la porta.»
Inej sentì l’uscio sbattere e i rumori dal corridoio che si smorzavano. Riusciva
a vedere la punta della testa di Kaz. I suoi capelli neri erano umidi. Doveva aver
iniziato a piovere.
«Era più opportuno aspettare il mio permesso prima di punire Bolliger» disse
Haskell.
«Se avessi prima parlato con te, la voce avrebbe potuto spargersi in giro.»
«Secondo te avrei lasciato che accadesse?»
Le spalle di Kaz si sollevarono. «Questo posto non è diverso da tutti gli altri,
qui a Ketterdam. Ci sono delle fughe di notizie.» Inej avrebbe giurato che lui
guardasse dritto alla grata mentre lo diceva.
«Non mi piace, ragazzo. Bolliger il Grande era un mio soldato, non tuo.»
«Certamente» disse Kaz, ma entrambi sapevano che era una menzogna. Gli
Scarti di Haskell erano guardie malconce, truffatori e furfanti di vecchia
generazione. Bolliger era uno del giro di Kaz: sangue fresco, giovane e
impavido. Forse troppo impavido.
«Sei sveglio, Brekker, ma devi imparare l’arte della pazienza.»
«Sissignore.»
Il vecchio abbaiò una risata e gli fece il verso. «“Sissignore. Nossignore.”
Quando sei così rispettoso, è perché hai in mente qualcosa. Quindi cosa bolle in
pentola?»
«Un colpo» disse Kaz. «Potrei aver bisogno di un periodo di congedo.»
«La cifra è grossa?»
«Molto grossa.»
«Il rischio è grosso?»
«Anche, sì. Ma tu avrai il tuo venti per cento.»
«Tu non farai nessuna mossa senza il mio permesso, capito?»
Kaz doveva aver annuito perché Per Haskell si appoggiò allo schienale della
sedia e bevve un sorso di birra. «Saremo ricchi?»
«Ricchi come Santi con le corone d’oro.»
Il vecchio sbuffò. «Basta che io non debba vivere come uno di loro.»
«Parlerò con Pim» disse Kaz. «Può sostituirmi lui mentre io sarò via.»
Inej si accigliò. Dove doveva andare Kaz? Non le aveva accennato nessun
colpo grosso. E perché Pim? Il pensiero la mise un po’ in imbarazzo. Poteva
quasi sentire la voce di suo padre: “Sei così impaziente di diventare Regina dei
Ladri, Inej?”. Una cosa era fare il proprio lavoro e farlo bene. Un’altra era voler
far carriera. Lei non desiderava un posto a tempo indeterminato presso gli Scarti.
Voleva ripagare il suo debito e liberarsi di Ketterdam per sempre, allora perché
le importava così tanto che Kaz avesse scelto Pim per guidare la banda in sua
assenza? Perché sono più sveglia di Pim. Perché Kaz si fida più di me che di lui.
Ma forse Kaz non credeva che la banda avrebbe dato retta a una ragazza come
lei, che da due soli anni era fuori dai bordelli e non ne aveva ancora diciassette.
Portava le maniche lunghe e il fodero del coltello nascondeva quasi del tutto la
cicatrice all’interno dell’avambraccio sinistro, dove una volta c’era il tatuaggio
del Serraglio, ma tutti sapevano che era lì.
Kaz uscì dall’ufficio di Haskell, e Inej lasciò il suo osservatorio per aspettarlo
mentre lui zoppicava su per le scale.
«Rojakke?» chiese lui, mentre le passava accanto e iniziava a salire verso il
secondo piano.
«Andato» disse lei, mettendosi in fila dietro di lui.
«Ha opposto molta resistenza?»
«Niente che non potessi gestire.»
«Non ti ho chiesto questo.»
«Era arrabbiato. Potrebbe tornare qua attorno a cercare guai.»
«Quelli non mancano mai» disse Kaz mentre raggiungevano l’ultimo piano.
La mansarda era stata trasformata nel suo ufficio e nella sua camera da letto. Inej
sapeva che tutte quelle rampe di scale erano micidiali per la sua gamba malata,
ma lui sembrava apprezzare il fatto di avere tutto il piano per sé.
Entrò nel suo ufficio e senza girarsi verso di lei disse: «Chiudi la porta».
La stanza era quasi del tutto occupata da una scrivania di fortuna – la porta di
un magazzino appoggiata su due pile di cassette della frutta – sepolta dalle
scartoffie. Alcuni capibanda avevano iniziato a usare le calcolatrici, delle
macchine che facevano strani rumori metallici, piene di bottoni d’ottone e rotoli
di carta, ma Kaz faceva tutti i conti del Club dei Corvi a mente. Aveva dei libri,
ma solo per far stare tranquillo il vecchio e perché così aveva qualcosa su cui
puntare il dito quando accusava qualcuno di aver imbrogliato o quando era in
cerca di nuovi investitori.
Questo era uno dei grandi cambiamenti che Kaz aveva introdotto nella
gestione della banda. Ai negozianti qualsiasi e agli uomini d’affari onesti aveva
dato la possibilità di acquistare le azioni del Club dei Corvi. All’inizio erano stati
scettici, sicuri che si trattasse di una truffa, ma lui li aveva coinvolti con piccoli
interessi, e aveva fatto in modo di mettere insieme abbastanza capitale da
comprare il vecchio edificio fatiscente, dargli una rinfrescata e farlo funzionare.
Quei primi investitori erano stati ripagati molto bene. O così si raccontava. Inej
non poteva mai sapere con certezza quali delle storie che circolavano su Kaz
fossero vere e quali dicerie che lui stesso aveva messo in giro per i propri scopi.
Per quello che ne sapeva lei, Kaz aveva portato via a qualche povero onesto
commerciante i risparmi di una vita intera pur di far decollare il Club dei Corvi.
«Ho un lavoro per te» disse Kaz mentre scartabellava i conti del giorno
precedente. Ogni foglio veniva degnato a malapena di uno sguardo e
memorizzato. «Cosa ne diresti di quattro milioni di kruge?»
«Così tanti soldi sono più una maledizione che un dono.»
«Mia piccola idealista Suli. Tutto quello che ti serve è la pancia piena e la
strada libera?» disse lui, prendendola in giro.
«E il cuore leggero, Kaz.» Quella era la parte difficile.
Lui scoppiò a ridere apertamente mentre infilava la porta che dava sulla
piccola camera da letto. «Non c’è speranza, allora. Preferisco i soldi in contanti.
E tu li vuoi o no?»
«Fare regali non è il tuo lavoro. Di cosa si tratta?»
«Un colpo impossibile, morte quasi certa, ostacoli praticamente insuperabili,
ma se dovessimo farcela...» Si interruppe, le dita sui bottoni del gilè, lo sguardo
distante, quasi sognante. Era raro sentire così tanta eccitazione nella sua voce
rauca.
«Dovessimo farcela...?» lo imbeccò lei.
Lui le rivolse un gran sorriso, improvviso e impetuoso come un tuono, gli
occhi neri come il caffè amaro. «Saremo re e regine, Inej. Re e regine.»
«Mmh» fece lei in modo evasivo, fingendo di esaminare uno dei propri
pugnali, determinata a ignorare il sorriso di lui. Kaz non era tipo da sorridere a
vanvera e fare progetti con lei. Era un giocatore pericoloso che aveva sempre un
secondo fine. “Sempre” ricordò a se stessa con fermezza. Inej distolse lo sguardo
e sistemò una pila di fogli sulla scrivania mentre Kaz si levava gilè e camicia.
Non sapeva se essere lusingata o offesa dal fatto che lui nemmeno considerasse
la sua presenza.
«Quanto tempo staremo via?» chiese lei, lanciandogli un’occhiata attraverso
la porta aperta. Era ricoperto da muscoli e cicatrici, ma aveva soltanto due
tatuaggi: il corvo e il calice degli Scarti sull’avambraccio e una R nera sul
bicipite. Non gli aveva mai chiesto che cosa significasse.
Furono le mani ad attrarre la sua attenzione nel momento in cui lui si sfilò i
guanti di pelle e immerse un panno nel catino. Kaz si toglieva i guanti solamente
nelle proprie stanze e, per quel che ne sapeva, soltanto davanti a lei. Qualunque
malattia stesse nascondendo, lei non ne vedeva traccia, solo dita snelle e abili a
scassinare, e il segno lucido di una cicatrice che risaliva a qualche vecchia rissa
di strada.
«Qualche settimana, forse un mese» disse lui, mentre si sfregava il panno
sotto le ascelle e sui muscoli tesi del petto, con l’acqua che gli scorreva lungo il
torso.
“Per tutti i Santi” pensò Inej mentre le guance le prendevano fuoco. Aveva
perso quasi ogni senso del pudore ai tempi della sua permanenza nel bordello del
Serraglio, ma c’era un limite a tutto. Cosa avrebbe detto Kaz se lei si fosse
spogliata all’improvviso e avesse preso a lavarsi di fronte a lui? “Probabilmente
mi direbbe di non sgocciolare sulla scrivania” pensò aggrottando le sopracciglia.
«Un mese?» disse lei. «Sei sicuro che sia una buona idea partire con le Punte
Nere così su di giri?»
«È questa la mossa giusta da fare. A proposito, raduna Jesper e Muzzen. Li
voglio qui per l’alba. E mi serve che Wylan si presenti al Club dei Corvi domani
notte.»
«Wylan? Se è per un lavoro grosso...»
«Fallo e basta.»
Inej incrociò le braccia. Il minuto prima la faceva arrossire, quello dopo le
faceva venir voglia di ucciderlo. «Intendi spiegarmi qualcosa?»
«Quando ci saremo tutti.» Si infilò una camicia pulita, poi esitò mentre si
abbottonava il colletto. «Questo non è un incarico come gli altri, Inej. È un
lavoro che puoi prendere o lasciare come meglio credi.»
Dentro, le suonò un campanello d’allarme. Metteva a repentaglio la propria
vita ogni giorno nelle strade del Barile. Aveva ucciso per gli Scarti, rubato,
rovinato brava e brutta gente, e Kaz non aveva mai messo in dubbio, a ogni
incarico, che fosse un ordine a cui obbedire. Questo era il prezzo che aveva
accettato quando Per Haskell aveva acquistato il suo contratto e l’aveva liberata
dal Serraglio. Ma allora cosa c’era di diverso in questo colpo?
Kaz finì di allacciarsi i bottoni, indossò un gilè grigio scuro e le lanciò
qualcosa. Brillò alla luce, e lei lo prese al volo con una mano. Quando aprì il
pugno, vide un grosso fermacravatta di rubino circondato da foglie d’oro.
«Rivendilo» disse Kaz.
«Di chi è?»
«Ora è nostro.»
«Di chi era?»
Kaz rimase in silenzio. Raccolse la giacca e usò una spazzola per togliere il
fango che si era seccato sopra. «Qualcuno che avrebbe dovuto pensarci due volte
prima di aggredirmi alle spalle.»
«Aggredirti?»
«Mi hai sentito.»
«Qualcuno ti ha colto di sorpresa?»
Lui la guardò e annuì una volta. Una sensazione di malessere serpeggiò
dentro di lei e si attorcigliò in una spirale d’ansia. Nessuno prendeva Kaz in
contropiede. Era il tipo più duro e più pericoloso in giro per i vicoli del Barile.
Lei faceva affidamento su questo. E anche lui.
«Non accadrà più» promise Kaz.
Indossò dei guanti puliti, afferrò il bastone da passeggio e infilò la porta per
uscire. «Sarò di ritorno fra qualche ora. Metti in cassaforte il DeKappel che
abbiamo portato via dalla casa di Van Eck. Credo che sia arrotolato sotto il mio
letto. Ah, ordinami un cappello nuovo.»
«Per favore.»
Kaz tirò un sospiro e si preparò ad affrontare tre dolorose rampe di scale. Si
guardò alle spalle e disse: «Per favore, mia cara Inej, tesoro del mio cuore, vuoi
farmi l’onore di acquistarmi un cappello nuovo?».
Inej gettò un’occhiata eloquente al bastone. «Guardati le spalle» disse, poi
saltò sulla balaustra e andò giù un piano dopo l’altro, scivolando agile e sciolta
come burro in padella.
5
KAZ

Kaz seguì lo Stave dell’Est verso il porto, attraverso i confini del quartiere delle
bische del Barile. Il famigerato groviglio di stradine e corsi d’acqua secondari
noto come il Barile si infilava come una parentesi tra due canali importanti, lo
Stave dell’Est e lo Stave dell’Ovest, ognuno dei quali soddisfaceva i bisogni di
una clientela particolare. Gli edifici del Barile erano diversi da quelli di tutte le
altre zone di Ketterdam, più alti, più ampi, dipinti in colori sgargianti, a
reclamare l’attenzione dei passanti: lo Scrigno del Tesoro, l’Ansa d’Oro, il
Battello di Weddel. Le migliori case da gioco si trovavano a nord, nella zona di
lusso del Coperchio, la sezione del canale più vicina ai porti, in posizione
favorevole per attrarre turisti e marinai che arrivavano allo scalo.
“Ma non il Club dei Corvi” rifletté Kaz mentre alzava lo sguardo verso la
facciata nera e rosso cremisi. Ce n’era voluto per adescare turisti e mercanti
amanti del rischio e indurli ad andare a divertirsi così a sud. Ora le campane
stavano per suonare quattro rintocchi ed era ancora pieno di gente ammassata
fuori dal club. Kaz osservò la marea di persone fluire tra le colonne nere dei
portici, sotto l’occhio vigile del corvo d’argento ossidato che spiegava le ali
sopra l’entrata. “Benedetti polli” pensò. “Che siate benedetti, sempre pronti a
svuotare i portafogli nelle casse degli Scarti a cuor contento.” Gli imbonitori lì di
fronte urlavano ai potenziali clienti, offrendo loro bevute gratis, tazze di caffè
bollente e l’affare più onesto di tutta Ketterdam. Li salutò con un cenno del capo
e proseguì più a nord.
C’era solo un’altra bisca sullo Stave che gli interessava: il Palazzo di
Smeraldo, l’orgoglio e la gioia di Pekka Rollins. L’edificio era di un brutto
verde, addobbato da alberi sintetici carichi di monete d’oro e d’argento false. Il
posto era stato eretto come una specie di tributo all’eredità Kaelish di Rollins e
alla sua banda, i Centesimi di Leone. Anche le ragazze che lavoravano ai
banconi e ai tavoli da quattro soldi indossavano tubini aderenti in seta di un
verde scintillante, e si tingevano i capelli di un rosso scuro e innaturale per avere
l’aspetto delle ragazze dell’Isola Errante. Appena Kaz entrò allo Smeraldo,
guardò in alto verso le monete false e lasciò che la rabbia lo invadesse. Questa
notte gli serviva come promemoria di quello che aveva perso, e di quello che
voleva riguadagnare. Gli serviva per prepararsi a quest’impresa sconsiderata.
«Una cosa alla volta» mormorò tra sé. Erano le uniche parole che tenevano a
bada il suo furore, che gli impedivano di marciare attraverso le sgargianti porte
verde e oro dello Smeraldo, insistere per ottenere un incontro privato con Rollins
e tagliargli la gola. Una cosa alla volta. Era la frase che lo faceva dormire di
notte, che gli consentiva di andare avanti ogni giorno, che teneva lontano il
fantasma di Jordie. Perché una morte veloce sarebbe stata troppo generosa per
Pekka Rollins.
Kaz guardò il flusso di clienti entrare e uscire dalle porte dello Smeraldo e
intravide i propri strilloni, uomini e donne che aveva assunto per attirare i clienti
di Pekka a sud con la prospettiva di affari migliori, vincite più grosse, ragazze
più carine.
«Da dove arrivi, così pieno di soldi?» disse uno di loro, a voce più alta del
necessario.
«Appena uscito dal Club dei Corvi. Gli ho levato un centinaio di kruge in sole
due ore» rispose l’altro.
«Non mi dire!»
«Davvero! Ho risalito lo Stave per farmi una birra e vedere un amico. Perché
non ti unisci a noi, e ci torniamo tutti assieme?»
«Il Club dei Corvi! Chi l’avrebbe mai detto?»
«Avanti. Ti offro da bere. Offro da bere a tutti!»
E se ne andarono ridendo, lasciando che tutti i clienti abituali attorno a loro si
domandassero se non fosse il caso di affrontare qualche ponte, scendere per il
canale e scoprire se le probabilità di fare fortuna fossero migliori laggiù – mentre
la serva di Kaz, l’avidità, li conduceva come un pifferaio con il flauto in mano.
Kaz si era accertato che gli strilloni si alternassero e cambiassero connotati in
modo da non farsi scoprire dai buttafuori di Pekka, e cliente dopo cliente, come
una sanguisuga, aveva spremuto via il giro d’affari dello Smeraldo. Era uno dei
tanti piccoli modi che aveva trovato per diventare più forte a spese di Pekka:
intercettare i suoi carichi di jurda, fargli pagare il dazio per accedere a Quinto
Porto, batterlo sui prezzi degli immobili per tenere le sue proprietà sfitte, e
lentamente, molto lentamente, tirare i fili che tenevano insieme la sua vita.
Nonostante le menzogne che aveva fatto circolare e i proclami che questa
notte aveva fatto a Geels, Kaz non era un bastardo. Non era nemmeno di
Ketterdam. Lui aveva nove anni e Jordie tredici quando erano arrivati per la
prima volta in città, con un assegno che proveniva dalla vendita della fattoria del
padre cucito al sicuro nella tasca interna del vecchio cappotto di Jordie. Kaz si
vide com’era allora, mentre camminava lungo lo Stave con gli occhi sgranati, la
mano stretta in quella di Jordie per non essere portato via dalla folla. Odiava i
ragazzini che erano stati, due stupidi polli pronti per essere spennati.
Ma quei ragazzini erano spariti da un pezzo, ed era rimasto soltanto Pekka
Rollins ancora da punire.
Un giorno Rollins sarebbe andato da Kaz in ginocchio, implorando aiuto. E se
Kaz fosse riuscito a portare a termine questo lavoro per Van Eck, quel giorno
sarebbe arrivato molto prima di quanto avesse mai sperato. Una cosa alla volta,
ti distruggerò.
Ma se voleva avere delle possibilità di introdursi nella Corte di Ghiaccio,
doveva formare la squadra giusta, e le vicende delle prossime ore l’avrebbero
portato un po’ più vicino ad assicurarsi due pezzi decisamente cruciali del
puzzle.
Svoltò in un vialetto che costeggiava uno dei canali più piccoli. Ai turisti e ai
mercanti piaceva tenersi sulle strade principali ben illuminate, così il traffico a
piedi qui era scarso, e lui poteva fare prima. Presto apparvero le luci e la musica
dello Stave dell’Ovest, il canale ostruito da persone di ogni rango e paese in
cerca di distrazioni.
Dalle porte spalancate delle case d’appuntamento fuoriusciva la musica, e gli
uomini e le donne poltrivano sui divani con addosso poco più di qualche
scampolo di seta e qualche chincaglieria pacchiana. Gli acrobati penzolavano
dalle corde sopra il canale, i loro corpi flessuosi coperti da nient’altro che
lustrini, mentre gli artisti di strada suonavano il violino nella speranza di
raggranellare una moneta o due dai passanti. I venditori ambulanti urlavano
all’indirizzo delle slanciate gondels private dei ricchi mercanti, così come dei
grossi traghetti che dal Coperchio portavano turisti e marinai sulla terraferma.
Molti visitatori non entravano mai nei bordelli dello Stave dell’Ovest.
Venivano solo a osservare la folla, che era uno spettacolo di per sé. In parecchi
sceglievano di recarsi in questa zona del Barile in incognito: velati, mascherati o
sotto dei mantelli che lasciavano visibili solo il bianco degli occhi. Compravano
i costumi in una delle botteghe di articoli speciali nei pressi dei canali principali,
e a volte abbandonavano i loro compagni per un giorno o una settimana, o
comunque finché non esaurivano i fondi. Si travestivano da Signor Cremisi o da
Sposa Perduta, oppure indossavano la maschera, grottesca e dagli occhi
sporgenti, del Folle: tutti personaggi della Commedia Bruta. E poi c’erano gli
Sciacalli, un gruppo di teppisti, più o meno giovani, che scorrazzava per il Barile
con il viso coperto dalle maschere rosse laccate dei cartomanti Suli.
Kaz si ricordò di quando Inej aveva visto in vetrina per la prima volta le
maschere da sciacallo. Non era stata capace di trattenere il disprezzo. “I veri
cartomanti Suli sono rari e speciali. Sono uomini e donne infusi di santità.
Queste maschere, passate di mano in mano come giocattoli da festa, sono
simboli sacri.”
“Ho visto dei cartomanti Suli lavorare nei carrozzoni e sulle navi di piacere,
Inej. Non sembravano particolarmente santi.”
“Quelli fanno finta. Fanno i pagliacci per te e per quelli della tua risma.”
“La mia risma” e Kaz era scoppiato a ridere.
Lei aveva agitato la mano indignata. “Shevrati” aveva detto. “Zoticoni
ignoranti. Ridono di voi dietro quelle maschere.”
“Non di me, Inej. Io non ho mai allungato una moneta per farmi predire il
futuro da nessuno, ciarlatani o santi che fossero.”
“Il destino ha piani per tutti noi, Kaz.”
“Che destino era quello che ti ha portato via dalla tua famiglia e ti ha chiusa
in un bordello a Ketterdam? O è stata semplicemente sfortuna?”
“Non lo so ancora” aveva risposto lei con freddezza.
In momenti come quello, lui era certo che lei lo detestasse.
Kaz si fece largo tra la folla, un’ombra in un turbinio di colori. Tutte le case
di piacere più importanti avevano una specialità, alcune più ovvie di altre. Lui
passò accanto all’Iris Blu, alla Gatta Storta, agli uomini barbuti che lanciavano
occhiatacce dalle vetrine della Fucina, all’Obscura, al Frustino di Vimini, alle
bionde ingenue della Casa di Neve, e ovviamente al Serraglio, anche conosciuto
come Casa delle Creature Esotiche, dove Inej era stata costretta a indossare delle
finte vesti di seta Suli. Individuò Tante Heleen, con le sue penne di pavone e il
suo famoso girocollo di diamanti, circondata da ammiratori nel salotto dorato.
Gestiva il Serraglio, procurava le ragazze, faceva in modo che si comportassero
bene. Quando vide Kaz, ridusse le labbra a una sottile riga amara e sollevò il
calice di vino, in un gesto più di minaccia che di brindisi. Lui la ignorò e passò
oltre.
La Casa della Rosa Bianca era uno dei locali più lussuosi sullo Stave
dell’Ovest. Aveva un molo privato, e la facciata di scintillante pietra bianca le
dava più l’aspetto di un palazzo mercantile che di una casa di tolleranza. I
riquadri delle finestre rigurgitavano di rose bianche rampicanti in ogni stagione,
e il loro profumo denso e dolce avviluppava l’aria sopra questo tratto del canale.
L’ingresso era persino più profumato. Enormi vasi in alabastro traboccavano
di rose bianche, e uomini e donne – alcuni mascherati o velati, altri a viso
scoperto – aspettavano il loro turno su divani d’avorio, sorseggiando vino quasi
incolore e sbocconcellando dolcetti alla vaniglia affogati nel liquore alla
mandorla.
Il ragazzo all’ingresso indossava un abito di velluto color crema con una rosa
bianca all’occhiello. Aveva i capelli bianchi e gli occhi neutri. Fatta eccezione
per gli occhi, poteva sembrare albino, ma Kaz aveva scoperto che era stato
modificato da un Grisha per andare incontro al gusto della Casa.
«Signor Brekker» salutò il ragazzo. «Nina è con un cliente.»
Kaz annuì e scivolò lungo il corridoio dietro un cespuglio di rose in vaso,
resistendo alla tentazione di seppellire il naso nel colletto della camicia. A Onkle
Felix, il gestore della Rosa Bianca, piaceva dire che le ragazze della sua casa
erano dolci come i suoi boccioli. Ma era una battuta sarcastica. Quell’innesto
particolare di rose bianche, l’unico abbastanza robusto da sopravvivere
all’umidità di Ketterdam, non aveva odore. Tutti i fiori venivano spruzzati con
del profumo.
Kaz fece scorrere le dita su un pannello posizionato dietro il vaso con il
cespuglio e premette il pollice in un incavo del muro. Il pannello si aprì, e lui salì
per una scala a chiocciola di servizio.
La stanza di Nina era al terzo piano. La porta della camera da letto attigua era
aperta, così Kaz scivolò dentro, spostò di lato una natura morta e pigiò la faccia
contro il muro. Gli spioncini erano una peculiarità di tutti i bordelli. Erano un
modo per garantirsi la sicurezza e l’onestà dei dipendenti, e offrivano un brivido
a tutti quelli che godevano nel guardare gli altri darsi piacere. Kaz aveva visto
così tanti poveracci dei quartieri bassi sfogare i propri istinti negli angoli bui dei
vicoli che la cosa aveva perso il suo fascino. In più, sapeva che chiunque avesse
occhieggiato attraverso questo spioncino in particolare nella speranza di eccitarsi
sarebbe stato profondamente deluso.
Un omino pelato era seduto, completamente vestito, a un tavolo rotondo
drappeggiato con un panno color avorio, e teneva le mani ordinatamente
incrociate accanto a un vassoio da caffè in argento. Nina Zenik era in piedi
dietro di lui, avvolta nella kefta di seta rossa che promuoveva il suo stato di
Grisha Spaccacuore, il palmo di una mano pressato sulla fronte del cliente,
l’altro sulla nuca.
Era alta e solida come la polena di una nave intagliata da una mano generosa.
I due stavano in silenzio, quasi fossero stati congelati lì al tavolo. Non c’era
neanche un letto nella stanza, solo un piccolo sofà dove Nina si rannicchiava
ogni notte.
Quando Kaz aveva chiesto a Nina perché, lei aveva semplicemente risposto:
«Non voglio che qualcuno si metta in testa delle idee».
«A un uomo non serve un letto per mettersi in testa delle idee, Nina.»
Nina aveva fatto svolazzare le ciglia. «E tu cosa ne sai, Kaz? Togliti quei
guanti, e vediamo che idee ti vengono.»
Kaz aveva tenuto lo sguardo fisso sui suoi occhi finché lei non li aveva
abbassati. Non era interessato a flirtare con Nina Zenik, e sapeva che nemmeno
lei era minimamente interessata a lui. A Nina, semplicemente, piaceva provarci
con tutti e tutto. Una volta l’aveva vista fare gli occhi dolci a un paio di scarpe
nella vetrina di un negozio.
Nina e l’uomo pelato restavano seduti, senza parlare, mentre i minuti
scorrevano, e quando l’orologio scoccò l’ora, lui si alzò e le baciò la mano.
«Vai» disse lei in tono solenne. «Vai in pace.»
Il pelato le baciò la mano un’altra volta, con le lacrime agli occhi. «Grazie.»
Non appena il cliente fu nel corridoio, Kaz uscì dalla camera da letto e bussò
alla porta di Nina.
Lei aprì con cautela, senza togliere la catenella dal chiavistello. «Oh» disse
quando lo vide. «Sei tu.»
Non sembrava particolarmente contenta di vederlo. Niente di strano. Difficile
che Kaz Brekker alla porta fosse una buona cosa. Nina tolse la catenella e lasciò
che Kaz entrasse mentre lei sgusciava fuori dalla kefta rossa, mostrando una
sottoveste di raso così sottile che a malapena si poteva definire un indumento.
«Per tutti i Santi, come odio quest’affare» disse lei, calciando via la kefta e
prendendo da un cassetto una vestaglia logora.
«Cos’ha che non va?» domandò Kaz.
«Non è fatta bene. E prude.» La kefta era prodotta a Kerch, non a Ravka: era
un costume, non un’uniforme. Kaz sapeva che Nina non l’avrebbe mai indossata
per strada; semplicemente troppo rischioso per una Grisha. La sua appartenenza
agli Scarti faceva sì che chiunque le avesse fatto qualcosa di male avrebbe
rischiato una punizione da parte della banda, ma la vendetta non avrebbe contato
granché per lei se si fosse ritrovata legata su una nave di schiavi diretta chissà
dove.
Nina si buttò su una delle sedie attorno al tavolo e liberò i piedi dalle
scarpette ingioiellate, sprofondando le dita nel soffice tappeto bianco. «Aaah»
disse con soddisfazione. «Molto meglio.» Si cacciò in bocca uno dei dolcetti del
vassoio e biascicò: «Cosa vuoi, Kaz?».
«Ti sono finite delle briciole nella scollatura.»
«Chissenefrega» disse lei, addentando un altro pezzo di dolce. «Ho una
fame.»
Kaz scrollò la testa, divertito e impressionato da quanto in fretta Nina
smettesse di recitare la parte della sapiente sacerdotessa Grisha. Avrebbe dovuto
fare l’attrice, pensò. «Quello era Van Aakster, il mercante?» chiese Kaz.
«Sì.»
«Sua moglie è morta un mese fa, e da allora i suoi affari vanno a picco. Ora
che viene a farti visita, possiamo aspettarci un’inversione di rotta?»
A Nina non serviva un letto perché la sua specialità erano le emozioni. Lei
trafficava in gioia, calma, sicurezza. La maggior parte dei Grisha Corporalki si
concentravano sul corpo – per uccidere o per guarire – ma Nina aveva bisogno di
un lavoro che la mantenesse a Ketterdam e la tenesse fuori dai guai. Così, invece
di rischiare la vita e fare più soldi come mercenaria, rallentava i battiti cardiaci,
placava il respiro, rilassava i muscoli. Aveva un secondo lavoro piuttosto
redditizio come Plasmaforme, che consisteva nel prendersi cura delle rughe e dei
doppi menti della Kerch benestante, ma la sua principale fonte di reddito
proveniva dalla manipolazione degli stati d’animo. I suoi clienti si sentivano
soli, in lutto, tristi per nessun motivo al mondo, e se ne andavano rinfrancati, le
loro ansie sedate. L’effetto non durava a lungo, ma a volte solo l’illusione della
felicità bastava a farli sentire in grado di affrontare un altro giorno. Nina
sosteneva che avesse a che fare con le ghiandole, ma a Kaz non importavano i
dettagli finché lei era presente quando lui ne aveva bisogno e pagava in orario a
Per Haskell la sua percentuale.
«Mi aspetto che tu veda un cambiamento» disse Nina. Finì l’ultimo dolcetto,
si leccò le dita con gusto, poi mise il vassoio fuori dalla porta e suonò il
campanello per chiamare una cameriera. «Van Aakster ha iniziato a venire alla
fine della scorsa settimana e da allora è stato qui ogni giorno.»
«Eccellente.» Kaz si appuntò in testa di acquistare dei titoli a basso costo
della compagnia di Van Aakster. Anche se gli stati umorali dell’uomo erano
opera di Nina, le azioni sarebbero salite. Kaz esitò e poi disse: «Lo fai sentire
meglio, stemperi la sua angoscia e tutto il resto... ma saresti in grado di forzarlo
a fare qualcosa? Per esempio, scordarsi di sua moglie?».
«Alterare i percorsi della sua mente? Non essere assurdo.»
«Il cervello è un organo come gli altri» disse Kaz parafrasando Van Eck.
«Sì, ma è uno di quelli particolarmente complessi. Controllare o alterare i
pensieri di un’altra persona... be’, non è come abbassare le pulsazioni o rilasciare
una sostanza chimica per migliorare l’umore di qualcuno. Ci sono troppe
variabili. Nessun Grisha è in grado di farlo.»
“Eppure” pensò Kaz. «Per cui tu tratti i sintomi, non la causa.»
Lei fece spallucce. «Quel mercante sta evitando il dolore invece di elaborarlo.
Se io sono la sua soluzione, non supererà mai per davvero la morte della
moglie.»
«Quindi lo manderai per la sua strada? Gli consiglierai di trovarsi un’altra
moglie e di smetterla di mettere piede qui?»
Lei si passò la spazzola tra i lucenti capelli castani e lo guardò dallo specchio.
«Per Haskell ha in programma di cancellare il mio debito?»
«Assolutamente no.»
«Allora Van Aakster ha il permesso di piangere a modo suo. Ho un altro
cliente in agenda fra mezz’ora, Kaz. Vieni al punto.»
«Il tuo cliente aspetterà. Cosa sai della jurda parem?»
Nina fece di nuovo spallucce. «Ci sono delle voci, ma per me sono senza
senso.» Con l’eccezione del Consiglio delle Maree, i pochi Grisha che
lavoravano a Ketterdam si conoscevano tutti l’un l’altro e si scambiavano
informazioni di buon grado. Molti erano in fuga da qualcosa, attenti a evitare di
destare l’attenzione degli schiavisti o l’interesse del governo Ravkiano.
«Non sono solo voci.»
«Chiamatempeste che volano? Scuotiacque che si trasformano in vapore?»
«Fabrikator che trasformano il piombo in oro.» Si frugò nella tasca e le lanciò
il lingotto giallo. «È vero.»
«I Fabrikator producono tessuti. Si dilettano con metalli e intelaiature. Non
possono trasformare una cosa in un’altra.» Sollevò il lingotto alla luce. «Avresti
potuto trovarlo ovunque» disse, proprio come aveva detto lui a Van Eck poche
ore prima.
Senza essere invitato, Kaz si sedette sul divano morbido e allungò in avanti la
gamba malandata. «La jurda parem esiste, Nina, e se sei ancora la piccola brava
soldatessa Grisha che io penso tu sia, starai a sentire che cosa fa a quelli come
te.»
Lei si rigirò il mattoncino d’oro tra le mani, poi si strinse nella vestaglia e si
rannicchiò in fondo al divano. Di nuovo, Kaz rimase incantato dalla
trasformazione. In queste stanze, lei recitava la parte che i suoi clienti volevano
vedere in scena: la potente Grisha, sicura del proprio sapere. Ma seduta lì con le
sopracciglia aggrottate e i piedi raccolti sotto di sé, appariva per quello che
effettivamente era: una ragazza di diciassette anni, allevata nel lusso protetto del
Piccolo Palazzo, lontana da casa, faticando per tirare avanti ogni giorno.
«Dimmi tutto» acconsentì lei.
Kaz si mise a raccontare. Tenne per sé i dettagli della proposta di Van Eck,
ma le parlò di Bo Yul-Bayur, della jurda parem, e della sua capacità di dare
assuefazione, ponendo particolare enfasi sul furto dei documenti militari
Ravkiani.
«Se è tutto vero, allora Bo Yul-Bayur dev’essere eliminato.»
«Non è questo il lavoro, Nina.»
«Questo non ha a che fare con i soldi.»
Aveva sempre a che fare con i soldi. Ma Kaz sapeva che c’era bisogno di un
altro tipo di motivazione. Nina amava il proprio paese e il proprio popolo.
Riponeva ancora speranze nel futuro di Ravka e nel Secondo Esercito, l’élite
militare Grisha che era stata quasi disintegrata durante la guerra civile.
Gli amici di Nina che erano rimasti a Ravka credevano che fosse morta,
vittima dei cacciatori di streghe Fjerdiani, e per il momento lei preferiva lasciare
che lo pensassero. Ma Kaz sapeva che lei sperava di fare ritorno, un giorno.
«Nina, il nostro compito è recuperare Bo Yul-Bayur, e a me serve un
Corporalki per farlo. Voglio te nella mia squadra.»
«Dovunque si sia nascosto, lasciarlo in vita dopo che l’avrai trovato sarebbe
la più ignobile delle irresponsabilità. La mia risposta è no.»
«Non si è nascosto. I Fjerdiani lo tengono prigioniero alla Corte di Ghiaccio.»
Nina fece una pausa. «Allora è come se fosse morto.»
«Il Consiglio dei Mercanti non la pensa così. Non si prenderebbero questo
disturbo e non ci offrirebbero questo tipo di ricompensa se pensassero che è già
stato eliminato. Van Eck era preoccupato. Si vedeva.»
«Il mercante con cui hai parlato?»
«Sì. Sostiene che i loro servizi segreti sono affidabili. Se non lo sono, be’, ne
subirò le conseguenze. Ma se Bo Yul-Bayur è vivo, qualcuno dovrà farlo
evadere dalla Corte di Ghiaccio. Perché non noi?»
«La Corte di Ghiaccio» ripeté Nina, e Kaz sapeva che aveva iniziato a
mettere insieme i pezzi. «A te non serve solo un Corporalki, vero?»
«No. Mi serve qualcuno che conosca la Corte, dentro e fuori.»
Lei balzò in piedi e iniziò a camminare per la stanza, le mani sui fianchi, la
vestaglia che le sventolava attorno. «Sei uno stronzo, lo sai? Quante volte sono
venuta da te, a implorarti di aiutare Matthias? E ora che sei tu a volere
qualcosa...»
«Quella di Haskell non è un’associazione di beneficenza.»
«Non scaricare tutto sul vecchio» scattò lei. «Se avessi voluto aiutarmi,
avresti potuto farlo.»
«E perché avrei dovuto?»
Lei andò in confusione. «Perché... perché...»
«Quando mai ho fatto qualcosa gratis?»
Nina aprì la bocca e la richiuse.
«Lo sai quanti favori avrei dovuto chiedere? Quante mazzette avrei dovuto
pagare per tirare fuori di galera Matthias Helvar? Il prezzo sarebbe stato troppo
alto.»
«E adesso invece?» riuscì a dire lei, gli occhi ancora fiammeggianti d’ira.
«Adesso la libertà di Helvar vale qualcosa.»
«Qualc...»
Lui alzò una mano a interromperla. «Vale qualcosa per me.»
Nina si portò le mani alle tempie. «Anche se arrivassi a lui, Matthias non ti
aiuterà mai.»
«Si tratta solo di usare la leva giusta, Nina.»
«Non lo conosci.»
«Dici? È come tutti gli altri, motivato dall’avidità, dall’orgoglio e dalla
sofferenza. Dovresti capirlo meglio di chiunque altro.»
«Helvar è motivato dall’onore e solo dall’onore. Non puoi corromperlo o
minacciarlo.»
«Poteva essere vero un tempo, Nina, ma è stato un anno molto lungo. Helvar è
cambiato.
«L’hai visto?» Gli occhi sgranati, ansiosi di sapere. “Eccola lì” pensò Kaz, “il
Barile non ha ancora spento la tua speranza.”
«L’ho visto.»
Nina fece un respiro profondo, fremente. «Vuole la sua vendetta, Kaz.»
«Quello che vuole non è quello di cui ha bisogno» disse Kaz. «Per usare la
leva giusta, devi conoscere la differenza.»
6
NINA

La sensazione di nausea alla bocca dello stomaco non aveva niente a che fare
con il dondolio della barca a remi. Nina provò a fare dei respiri profondi, a
concentrarsi sulle luci del porto di Ketterdam che scomparivano dietro di loro e
sul tonfo regolare dei remi nell’acqua. Accanto a lei, Kaz si aggiustò la maschera
e il mantello, mentre Muzzen vogava in modo energico, senza sosta, per condurli
vicino a Terrenjel, una delle isolette esterne di Kerch, vicino all’Anticamera
dell’Inferno e a Matthias.
La nebbia aleggiava bassa sull’acqua, umida e avvolgente. Portava con sé
l’odore del catrame e dei cantieri navali sopra Imperjum, e qualcos’altro: il tanfo
dolciastro dei corpi in fiamme che arrivava dalla Chiatta del Mietitore, là dove
Ketterdam si sbarazzava dei morti che non potevano permettersi di venir
seppelliti nei cimiteri fuori dalla città. “Disgustoso” pensò Nina, stringendosi nel
mantello. Perché mai qualcuno volesse vivere in un posto come questo era al di
là della sua comprensione.
Muzzen canticchiava tutto contento mentre remava. Nina lo conosceva solo di
sfuggita: un buttafuori e un sicario, come quel disgraziato di Bolliger il Grande.
Lei evitava la Stecca e il Club dei Corvi il più possibile. Kaz l’aveva etichettata
come una snob per questo, ma lei non era particolarmente interessata
all’opinione che aveva Kaz Brekker dei suoi gusti. Si voltò per guardare le spalle
enormi di Muzzen. Si domandò se Kaz se lo fosse portato dietro solo per remare
o perché si aspettava guai stanotte.
Per forza ci saranno guai. Stavano per entrare in una prigione. Non era come
andare a una festa. E allora perché erano vestiti così?
A mezzanotte si era incontrata con loro a Quinto Porto, e quando era salita a
bordo della barchetta a remi, Kaz le aveva passato una cappa di seta blu e un
velo dello stesso colore: i simboli della Sposa Perduta, uno di quei costumi che i
libertini amavano indossare quando andavano a spassarsela nel Barile. Lui e
Muzzen si erano entrambi messi un grosso mantello arancione e una maschera
del Folle in bilico sopra la testa. Tutto quello che serviva loro era un
palcoscenico, e poi avrebbero potuto recitare in una di quelle cupe, crudeli
scenette tratte dalla Commedia Bruta che i Kerch sembravano trovare così
spassose.
Ora Kaz le diede una gomitata. «Abbassa il velo.» Anche lui si calò la
maschera; nella nebbia, il lungo naso e gli occhi sporgenti erano doppiamente
mostruosi.
Stava per arrendersi e per chiedere perché fossero necessari i costumi quando
si accorse che non erano soli. Attraverso la nebbia che si faceva di continuo più
o meno fitta, vide altre barche scivolare sull’acqua e trasportare le sagome di
altri Folli, altre Spose, un Signor Cremisi, una Regina Scarabeo. Che cosa ci
facevano queste persone all’Anticamera dell’Inferno?
Kaz si era rifiutato di metterla a parte dei dettagli del piano, e quando lei
aveva insistito, aveva detto soltanto: “Sali sulla barca”. Tipico di Kaz. Lui
sapeva che non era tenuto a dirle niente perché la speranza di liberare Matthias
aveva già spazzato via, in lei, ogni briciola di buon senso. Per quasi un anno
aveva tentato di convincere Kaz a farlo evadere. Ora lui era in grado di offrire a
Matthias qualcosa di più della libertà, ma il prezzo sarebbe stato molto maggiore
di quello che lei aveva previsto.
Quando si avvicinarono al fondo roccioso di Terrenjel, le luci visibili erano
poche. Per il resto, solo oscurità e onde che si infrangevano.
«Non potevi limitarti a corrompere il direttore della prigione?» borbottò Nina
verso Kaz.
«Non ho bisogno che lui sappia di possedere qualcosa che voglio.»
Quando lo scafo della barca grattò la sabbia, due uomini si precipitarono a
trascinarli sulla terraferma. Le altre barche stavano approdando nella stessa baia,
tirate a riva da uomini che grugnivano e imprecavano. Attraverso il velo le loro
fattezze risultavano vaghe, ma Nina intravide i tatuaggi sulle braccia: un gatto
selvatico dentro una corona, il simbolo dei Centesimi di Leone.
«I soldi» disse uno di loro quando sbarcarono.
Kaz porse un sacchetto di kruge e dopo che le monete furono contate, il
Centesimo di Leone fece loro cenno di andare.
Seguirono una fila di torce per un sentiero che saliva storto lungo il lato
sottovento della prigione. Nina reclinò indietro la testa per osservare le alte torri
scure della fortezza nota come Anticamera dell’Inferno, un pugno nero di pietra
che dal mare si proiettava verso il cielo. L’aveva vista da lontano in passato,
dopo aver pagato un pescatore per portarla sull’isola. Ma quando lei gli aveva
chiesto di avvicinarsi, lui si era rifiutato. «Là gli squali sono cattivi» aveva
sentenziato. «Hanno le pance piene di detenuti.» Nina rabbrividì al ricordo.
Una porta era stata tenuta aperta, e un altro affiliato dei Centesimi di Leone li
lasciò passare. Si ritrovarono in una cucina scura, sorprendentemente pulita, le
pareti ricoperte da enormi tinozze più adatte a una lavanderia che a una cucina.
La stanza aveva uno strano odore, un misto di aceto e salvia. “Come la cucina di
un mercante” pensò Nina. I Kerch credevano che il lavoro fosse simile alla
preghiera. Forse le mogli di un mercante venivano qui a sfregare pavimenti,
pareti e finestre, e a onorare Ghezen, il dio dell’industria e del commercio, con
l’acqua, il sapone e le loro mani rosse e irritate. Nina resistette alla tentazione di
fare una battutaccia. Potevano sfregare quanto volevano. Sotto quell’odore di
santità c’era l’indelebile olezzo di muffa, urina e corpi non lavati da tempo. Ci
sarebbe voluto un vero miracolo per rimuoverlo.
Attraversarono un’anticamera umida e malsana, e lei pensò che avrebbero
puntato verso le celle, invece superarono un’altra porta e salirono in alto per una
passerella in pietra che collegava l’edificio principale a quella che sembrava
un’altra torre.
«Dove stiamo andando?» bisbigliò Nina. Kaz non rispose. Si alzò il vento,
che le sollevò il velo e le sferzò le guance con l’acqua salata.
Mentre entrarono nella seconda torre, una figura emerse dall’ombra e Nina
soffocò a stento un urlo.
«Inej» disse, in un sussurro incerto. La ragazza Suli indossava le corna e la
tunica accollata dell’Imperatore Grigio, ma Nina la riconobbe comunque.
Nessun altro si muoveva a quel modo, come se il mondo fosse fatto di fumo e lei
ci stesse semplicemente passando in mezzo.
«Come sei arrivata qui?» le chiese Nina in un sussurro.
«Sono arrivata prima con una chiatta da carico.»
Nina digrignò i denti. «La gente va e viene dall’Anticamera dell’Inferno per
divertirsi?»
«Una volta alla settimana, sì» disse Inej, con le sue piccola corna che
andavano su e giù insieme alla testa.
«Che cosa intendi per una volta alla...»
«Fai silenzio» ringhiò Kaz.
«Non dirmi di stare zitta, Brekker» sussurrò Nina con furia. «Se è così facile
entrare all’Anticamera dell’Inferno...»
«Il problema non è entrare, è uscire. Ora taci e fai attenzione.»
Nina trattenne la rabbia. Doveva fidarsi di come Kaz stava conducendo il
gioco. Lui aveva fatto in modo che lei non avesse altra scelta.
Entrarono in una strettoia. Questa torre era diversa dalla prima: più vecchia,
con le mura di pietra grezza squadrate e annerite dalle torce fumanti. Qui la
puzza dei corpi e dei rifiuti era più intenso, intrappolato dall’umidità dell’acqua
di mare.
Iniziarono a scendere a spirale nelle viscere della roccia. Nina si aggrappò al
muro. Non c’era nessuna ringhiera, e anche se non si vedeva il fondo, nutriva
qualche dubbio sulla possibilità di cadere sul morbido. La discesa non durò a
lungo, ma quando raggiunsero la loro destinazione lei stava tremando, i muscoli
contratti, più per la consapevolezza che Matthias fosse da qualche parte in
questo posto orrendo che per lo sforzo. È qui. È sotto questo tetto.
«Dove siamo?» bisbigliò mentre abbassavano la testa per infilarsi dentro
angusti tunnel di pietra e passavano davanti a caverne buie chiuse da sbarre di
ferro.
«Questa è la prigione vecchia» disse Kaz. «Quando fu costruita la torre
nuova, fu lasciata in piedi.»
Lei udì dei lamenti provenire da una delle celle.
«Ci tengono ancora dei prigionieri qui?»
«Solo i peggiori.»
Nina sbirciò dentro le sbarre di una cella vuota. C’erano catene ai muri,
scurite dalla ruggine e da quello che doveva essere sangue.
Un rumore penetrò le pareti e le raggiunse le orecchie: colpi ritmici.
All’inizio pensò all’oceano, ma poi capì che era qualcuno che cantava.
Sbucarono nell’ansa di un tunnel.
Alla sua destra c’erano altre celle, ma la luce si riversava nel tunnel dagli
archi che si susseguivano a distanza ravvicinata sulla sinistra, e in mezzo vide
una folla chiassosa e turbolenta.
Il Centesimo di Leone li guidò lungo la galleria fino al terzo arco, dove si
trovava una guardia carceraria nella sua divisa blu e grigia, con il fucile a
tracolla sulla schiena. «Altri quattro per te» gridò il Centesimo di Leone per
sovrastare il rumore della folla. Poi si girò verso Kaz. «Quando vorrete uscire, la
guardia chiamerà una guida. Nessuno vaga qua in giro senza essere
accompagnato, intesi?»
«Ma certo, chiaro, non ce lo sogneremmo neanche» disse Kaz da dietro la sua
ridicola maschera.
«Divertitevi» disse il Centesimo di Leone con un brutto ghigno. La guardia
carceraria fece loro cenno di avvicinarsi.
Nina mosse un passo sotto l’arco e le sembrò di essere finita in uno strano
incubo. Si trovavano sopra un pianerottolo che sporgeva dalla roccia su un
anfiteatro ricostruito rozzamente. La torre era stata sventrata per fare posto a
un’arena. Erano rimaste soltanto le mura nere della vecchia prigione e la
porzione di tetto sopravvissuta alla caduta o alla distruzione, per cui lassù in alto
si vedeva il cielo notturno, fitto di nubi e privo di stelle. Era come stare nel
tronco cavo di un grosso albero, morto da tempo, pieno di echi.
Attorno a lei, uomini in maschera e donne velate, ammassati sugli spalti, che
pestavano i piedi mentre guardavano in basso. Le mura che circondavano il ring
erano illuminate dalle torce e la sabbia del pavimento dell’arena, là dove aveva
assorbito il sangue, era rossa e umida.
Davanti all’imboccatura di una caverna, un uomo barbuto e macilento in
catene era in piedi, vicino a una grossa ruota di legno, contrassegnata da quelli
che sembravano simboli di animali. Era evidente che un tempo era stato un
uomo forte, ma ora la pelle gli pendeva flaccida e i muscoli erano flosci.
Accanto a lui c’era un tizio più giovane, che aveva addosso una pelle di leone
spelacchiata a fargli da mantello e il viso era incorniciato dalle fauci del felino.
Tra le orecchie da leone era stata posizionata una sgargiante corona d’oro, e gli
occhi erano stati rimpiazzati da due luccicanti monetine d’argento.
«Gira la ruota!» ordinò quello più giovane.
Il prigioniero alzò le mani avvolte dalle catene e fece fare alla ruota un bel
giro. Un ago rosso ticchettava lungo i bordi mentre girava, e produceva un
allegro tintinnio metallico, finché lentamente la ruota si fermò. Nina non riuscì a
identificare il simbolo dell’animale, ma la folla ululò, e le spalle dell’uomo si
incurvarono mentre una guardia si fece avanti per sfilargli le catene.
Il prigioniero le gettò di lato nella sabbia, e l’istante dopo Nina lo sentì: un
ruggito che coprì persino i latrati eccitati della folla. La guardia e l’uomo con la
pelle di leone raggiunsero di corsa una scala di corda tramite la quale furono
tirati fuori dal ring e portati al sicuro su una sporgenza, mentre il prigioniero
afferrò un coltello dall’aspetto malandato da un mucchio di armi che giaceva
nella sabbia. Poi si allontanò dall’imboccatura del tunnel quanto più poté.
Nina non aveva mai visto prima una creatura come quella che strisciò fuori
dalla galleria. Era una specie di rettile, con il corpo massiccio ricoperto da
squame grigioverdi, la testa larga e piatta, gli occhi gialli a fessura. Si muoveva
lentamente, in modo sinuoso, scivolando pigramente con la pancia a terra. C’era
una crosta bianca attorno all’ampia mezzaluna che aveva per bocca, e quando
aprì le fauci per ruggire di nuovo, una specie di schiuma sgocciolò fuori dai suoi
denti aguzzi.
«Che cos’è quella cosa?» chiese Nina.
«Una rinca moten» rispose Inej. «Una lucertola del deserto. Il veleno che le
esce dalla bocca è mortale.»
«Non sembra veloce.»
«Sì. Non sembra.»
Il prigioniero si lanciò avanti con il coltello. La lucertolona si mosse così
velocemente che Nina non riuscì quasi a seguirla. L’istante prima l’uomo stava
correndole incontro; quello dopo, il rettile era dall’altra parte dell’arena. Pochi
secondi più tardi si era scagliata contro il prigioniero, bloccandolo a terra mentre
lui urlava, sgocciolandogli il veleno sulla faccia e lasciando dei buchi fumanti
dove entrava a contatto con la sua pelle.
La creatura si lasciò cadere di peso sulla vittima producendo uno scricchiolio
rivoltante e si mise a dilaniargli lentamente una spalla mentre lui giaceva là sotto
continuando a gridare.
La folla, delusa, fischiava.
Nina distolse gli occhi, incapace di guardare. «Che cos’è questo orrore?»
«Benvenuta allo Spettacolo Infernale» disse Kaz. «Un’idea di Pekka Rollins:
l’ha avuta qualche anno fa e l’ha venduta al membro giusto del Consiglio.»
«Il Consiglio dei Mercanti è al corrente?»
«Ovvio. Ci fanno dei gran soldi, qui.»
Nina si conficcò le dita nei palmi. Quando Kaz usava quel tono
condiscendente le faceva prudere le mani dalla voglia di tirargli un ceffone.
Conosceva bene il nome di Pekka Rollins.
Al momento era il re del Barile, il proprietario non di uno ma di due case da
gioco – una sfarzoso, l’altra accessibile ai marinai con le tasche semivuote – e di
parecchi bordelli di lusso.
Quando Nina era arrivata a Ketterdam un anno prima era senza un amico,
senza un soldo e lontana da casa. Aveva trascorso la prima settimana nei
tribunali di Kerch, ad affrontare le accuse contro Matthias. Ma una volta finito di
testimoniare, era stata scaricata senza tante cerimonie a Primo Porto con appena i
soldi sufficienti per tornare a Ravka. Malgrado la smania di rientrare nel proprio
paese, non poteva lasciare Matthias a marcire nell’Anticamera dell’Inferno.
Non sapeva cosa fare, ma la notizia che c’era una nuova Grisha Corporalki a
Ketterdam era già circolata in città. Gli uomini di Pekka Rollins la stavano
aspettando al porto per offrirle un posto sicuro dove stare. L’avevano portata al
Palazzo di Smeraldo, dove Pekka in persona aveva insistito perché si unisse ai
Centesimi di Leone, offrendole un lavoro alla Bottega delle Dolcezze. Era stata
lì lì per dire di sì, ridotta com’era senza un soldo e terrorizzata dagli schiavisti
che pattugliavano le strade. Ma quella notte, Inej si era intrufolata nella sua
stanza all’ultimo piano del Palazzo di Smeraldo con in mano una proposta di
lavoro da parte di Kaz Brekker.
Nina non era mai riuscita a capire come avesse fatto Inej ad arrampicarsi per
sei piani di pietra, resi scivolosi dalla pioggia, nel bel mezzo della notte, ma le
condizioni degli Scarti erano di gran lunga più favorevoli di quelle che le
offrivano Pekka e i Centesimi di Leone. Era un contratto che di fatto avrebbe
potuto ripagare in un anno o due se fosse stata brava a gestire i propri soldi. E
Kaz aveva mandato la persona giusta a sostenere la sua causa: una ragazza Suli,
più giovane di Nina solo di pochi mesi, che era cresciuta a Ravka e che aveva
passato un gran brutto anno vincolata per contratto al Serraglio.
«Che cosa mi dici di Per Haskell?» aveva chiesto Nina quella notte.
«Non molto» aveva ammesso Inej. «Non è né meglio né peggio della maggior
parte dei capi del Barile.»
«E Kaz Brekker?»
«Un bugiardo, un ladro, senza un grammo di coscienza. Ma terrà fede a
qualunque accordo prenderai con lui.»
Nina aveva percepito della convinzione nella voce di Inej. «Ti ha liberata dal
Serraglio?»
«Non c’è libertà nel Barile, solo condizioni migliori di altre. Le ragazze di
Tante Heleen non guadagnano niente per se stesse. Lei si accerta che non
succeda. Lei...» A quel punto Inej si era interrotta bruscamente, e Nina aveva
sentito la rabbia scorrere potente dentro di lei. «Kaz ha convinto Per Haskell a
pagare per il mio riscatto. Sarei morta al Serraglio.»
«Potresti ancora morire, con gli Scarti.»
Gli occhi scuri di Inej avevano scintillato. «Potrei. Ma morirei in piedi con un
pugnale in mano.»
La mattina successiva Inej aveva aiutato Nina a sgattaiolare fuori dal Palazzo
di Smeraldo. Si erano incontrate con Kaz Brekker, e nonostante i suoi modi
algidi e quegli strani guanti di pelle, lei aveva accettato di unirsi agli Scarti ed
esercitare la professione presso la Rosa Bianca. Neanche due giorni dopo una
ragazza morì alla Bottega delle Dolcezze, strangolata nel suo letto da un cliente
vestito da Signor Cremisi che non fu mai individuato.
Nina si era fidata di Inej e non se ne era mai pentita, anche se in quel preciso
momento era furibonda con tutti. Vide un gruppo di Centesimi di Leone
pungolare la lucertola del deserto con lunghe aste. Il mostro sembrava
soddisfatto del suo pasto; si concesse di tornare nel tunnel, spostando da una
parte all’altra il proprio corpo pesante con movimenti pigri e sinuosi.
La folla continuò a fischiare mentre le guardie entravano nell’arena per
rimuovere i resti del prigioniero, dalla cui carne martoriata si levavano ancora
piccoli tentacoli di fumo.
«Di cosa si lamentano?» domandò Nina con rabbia. «Non è per questo che
sono venuti qui?»
«Volevano un combattimento» disse Kaz. «Volevano che l’uomo durasse di
più.»
«È disgustoso.»
Kaz si strinse nelle spalle. «L’unica cosa disgustosa di questa faccenda è che
non ci ho pensato io per primo.»
«Questi uomini non sono schiavi, Kaz. Sono prigionieri.»
«Sono assassini e stupratori.»
«E ladri e truffatori. La tua gente.»
«Nina, dolcezza, non sono costretti a combattere. Fanno la fila per averne la
possibilità. In cambio ottengono cibo migliore, celle private, alcol, jurda,
rapporti sessuali con le ragazze dello Stave dell’Ovest.»
Muzzen si scrocchiò le dita. «Meglio di quello che abbiamo alla Stecca.»
Nina guardò le persone urlare e gridare e gli strilloni raccogliere le
scommesse tra gli spalti. I prigionieri dell’Anticamera dell’Inferno potevano
anche fare la fila per combattere, ma era Pekka Rollins a portare a casa i soldi
veri.
«Helvar non... Helvar non combatte nell’arena, vero?»
«Secondo te siamo qui per l’atmosfera?» disse Kaz.
Era oltre gli schiaffi. «Sei consapevole del fatto che potrei muovere le dita e
fartela fare nei pantaloni?»
«Vacci piano, Spaccacuore. Mi piacciono questi pantaloni. E se ti metti a
incasinarmi gli organi vitali, Matthias Helvar non rivedrà mai più la luce del
sole.»
Nina fece un sospiro e si risolse a non guardare in cagnesco nessuno.
«Nina» mormorò Inej.
«Non ti ci mettere anche tu.»
«Si risolverà tutto. Lascia che Kaz faccia quello che sa fare meglio.»
«È una persona orribile.»
«Ma efficiente. Essere arrabbiata con Kaz perché è spietato è come essere
arrabbiata con il fornello perché è caldo. Lo sai com’è fatto.»
Nina incrociò le braccia. «Ce l’ho anche con te.»
«Me? E perché?»
«Non lo so ancora. Ce l’ho e basta.»
Inej strinse rapidamente la mano di Nina, e dopo un momento lei ricambiò.
Con la testa nel pallone, sopportò fino in fondo il combattimento successivo, e
poi quello dopo ancora. Disse a se stessa che era pronta: a rivederlo, rivederlo
qui in questo posto brutale. Dopo tutto, era una Grisha e un soldato del Secondo
Esercito. Aveva affrontato di peggio.
Ma quando Matthias emerse dalla bocca della caverna, seppe che non era
vero niente. Nina lo riconobbe immediatamente. Ogni notte dell’anno passato si
era addormentata pensando al suo viso. Non poteva sbagliarsi con quelle
sopracciglia dorate e il taglio netto di quegli zigomi. Ma Kaz non aveva mentito:
Matthias era mutato. Il ragazzo che ricambiava lo sguardo della folla con occhi
furiosi era uno straniero.
A Nina venne in mente la prima volta in cui lo aveva visto in un bosco
Kaelish illuminato dalla luna. La sua bellezza le era sembrata ingiusta. In
un’altra vita, avrebbe potuto credere che lui era venuto a salvarla, un cavaliere
senza macchia e senza paura con i capelli d’oro e gli occhi dello stesso azzurro
chiaro dei ghiacciai nordici. Ma aveva capito come stavano le cose dal
linguaggio che usava, e dal disgusto sulla sua faccia ogni volta che i suoi occhi si
depositavano su di lei. Matthias Helvar era un drüskelle, un cacciatore di streghe
Fjerdiano incaricato di stanare i Grisha per sottoporli a processo e poi
giustiziarli, per quanto a lei fosse sempre parso un Santo guerriero, miniato
d’oro.
Ora appariva per quello che era veramente: un assassino. Il torso nudo
sembrava intagliato nell’acciaio e, anche se non era possibile, pareva più grande,
come se la struttura del suo corpo fosse cambiata nel profondo. Prima la sua
pelle era color miele; ora, sotto la sporcizia, era bianca come la pancia dei pesci.
E i suoi capelli: aveva capelli bellissimi, folti e dorati, che lui portava lunghi alla
maniera dei soldati Fjerdiani. Ora, come gli altri prigionieri, aveva la testa rasata,
probabilmente per evitare i pidocchi. La guardia che se ne era occupata aveva
fatto un disastro. Anche a distanza si vedevano i tagli e i graffi sul cuoio
capelluto, e piccole strisce di stoppa gialla nei punti in cui il rasoio non era
passato. E ciononostante, era ancora bellissimo.
Matthias guardò con aria truce la folla e diede alla ruota una spinta così forte
che per poco non la staccò dalla base.
Tic tic tic tic. Serpente. Tigre. Orso. Cinghiale. La ruota ticchettò
allegramente, poi rallentò e finalmente si fermò.
«No» disse Nina quando vide dove stava puntando l’ago.
«Poteva andargli peggio» replicò Muzzen. «Avrebbe potuto finire di nuovo
sulla lucertolona.»
Lei arpionò il braccio di Kaz attraverso il mantello e sentì i suoi muscoli
fremere. «Devi mettere fine a questa cosa.»
«Mollami, Nina.» La sua voce, ruvida come la ghiaia, era bassa, ma lei ci
sentì una minaccia reale.
Fece cadere la mano. «Per favore, tu non capisci. Lui...»
«Se sopravvive, porterò Matthias Helvar fuori da qui questa notte stessa, ma
ora tocca a lui.»
Nina scrollò la testa per la frustrazione. «Non ci arrivi.»
La guardia tolse le manette a Matthias, e non appena le catene caddero nella
sabbia saltò sulla scala a pioli e chiese di essere messo in salvo. La folla urlò e
pestò i piedi. Invece Matthias restò in silenzio, anche quando si aprì il cancello,
anche quando i lupi uscirono dal tunnel. Erano tre e ringhiavano, si azzannavano
e si rovinavano addosso l’un l’altro per raggiungerlo.
All’ultimo secondo Matthias si accovacciò, atterrando il primo lupo nella
polvere, poi rotolò alla sua destra per raccogliere il coltello insanguinato che il
combattente precedente aveva lasciato nella sabbia. Saltò in piedi, con la lama
puntata davanti a sé, ma Nina poteva percepire la sua riluttanza. Aveva la testa
inclinata da un lato, e lo sguardo che i suoi occhi azzurri lanciavano era di
supplica, come se stesse cercando di coinvolgere i due animali che gli ruotavano
intorno in qualche silenziosa trattativa. Di qualunque preghiera si fosse trattato,
rimase inascoltata. Il lupo sulla destra fece un balzo. Matthias si accucciò e ruotò
su se stesso, piantando il coltello nella pancia della belva, che emise un guaito
straziante. Matthias sembrò sussultare. Questo gli costò dei secondi preziosi. Il
terzo lupo fu su di lui, e lo scaraventò nella sabbia. Le zanne gli affondarono
nella spalla. Matthias rotolò, portandosi dietro l’animale. Le fauci scattavano su
e giù, e Matthias le serrò tra le mani. Poi le spalancò a forza, i muscoli delle
braccia che si flettevano, la faccia stravolta dalla ferocia. Nina chiuse forte gli
occhi. Ci fu un crac terribile. La folla ruggì.
Matthias si inginocchiò sopra il lupo, che aveva le mascelle spezzate e
giaceva a terra contorcendosi per il dolore. Prese una pietra e la schiantò con
violenza sul cranio del povero animale, che si immobilizzò. Le spalle di Matthias
crollarono. La gente ululava e pestava i piedi. Soltanto Nina sapeva cosa gli
costava, lui che era un drüskelle. I lupi erano sacri per il suo popolo, venivano
allevati per combattere, come i loro cavalli giganteschi. Erano amici e compagni,
e combattevano fianco a fianco con i loro padroni drüskelle.
Il primo lupo si era ripreso e gli stava girando intorno. “Muoviti, Matthias”
pensò lei disperatamente. Lui si rimise in piedi, ma i suoi movimenti erano lenti,
stanchi. Il suo cuore non era qui, in questo combattimento. I suoi nemici erano i
lupi grigi, vagabondi e selvaggi, e tuttavia cugini dei lupi bianchi del Nord.
Matthias non aveva in mano un coltello, solo la pietra insanguinata, e il lupo si
aggirava nella zona dell’arena che stava tra lui e il mucchio di armi.
La belva abbassò la testa e scoprì i denti.
Matthias si tuffò a sinistra. L’animale scattò, e gli affondò le zanne nel fianco.
Lui grugnì, e colpì forte il suolo. Per un momento, Nina pensò che avrebbe
mollato e lasciato che il lupo si prendesse la sua vita. Poi il ragazzo allungò un
braccio e scavò con la mano dentro la sabbia, alla ricerca di qualcosa. Le dita
strinsero i ceppi che gli avevano bloccato i polsi.
Li afferrò, avvolse la catena attorno alla gola del lupo e tirò, le vene del collo
tese come corde per lo sforzo. La faccia imbrattata di sangue era schiacciata
contro la gorgiera dell’animale, gli occhi erano chiusi, le labbra si muovevano.
Cosa stava dicendo? Una preghiera drüskelle? Un saluto di addio?
Le zampe posteriori del lupo raspavano la sabbia. Gli occhi roteavano,
bianchi e spaventati spiccavano luminosi sulla pelliccia arruffata. Un profondo
guaito gli si levò dal petto. E poi fu tutto finito. Il corpo della creatura si placò.
Entrambi i combattenti giacevano immobili nella sabbia. Matthias tenne gli
occhi chiusi, la faccia ancora seppellita nella pelliccia dell’animale.
La folla tuonò il suo apprezzamento. La scala a pioli fu abbassata e il
presentatore saltò giù, tirò in piedi Matthias, gli afferrò il polso e gli sollevò la
mano in segno di vittoria. Poi gli diede un colpetto con il gomito, e il ragazzo
alzò la testa. A Nina mancò il respiro.
La faccia sporca di Matthias era rigata dalle lacrime. La collera era sparita, ed
era come se una qualche specie di fiamma se ne fosse andata via con lei. Gli
occhi color mare del Nord erano più freddi che mai, vuoti e inespressivi,
spogliati di qualunque traccia di umanità. Ecco quello che gli aveva fatto
l’Anticamera dell’Inferno. Ed era colpa di Nina.
Le guardie afferrarono Matthias e tolsero i ceppi dalla gola del lupo per
chiuderli di nuovo ai suoi polsi. Mentre veniva condotto via, la folla intonò un
coro di protesta: «Ancora! Ancora!».
«Dove lo portano?» domandò Nina, la voce tremante.
«In una cella, a smaltire il combattimento» rispose Kaz.
«Chi gli controllerà le ferite?»
«Ci sono dei medici. Aspetteremo finché non saremo sicuri che sia da solo.»
“Io potrei curarlo” pensò Nina. Ma una voce si levò dentro di lei, cupa e
beffarda. “Nemmeno tu puoi essere così sciocca, Nina. Nessun Guaritore può
curare quel ragazzo. Sei stata tu a fare in modo che fosse così.”
I minuti se ne andavano in fumo e Nina non stava più nella pelle. Gli altri
guardarono il combattimento successivo: Muzzen avidamente, piegando le dita e
facendo previsioni sul risultato, Inej ferma e silenziosa come una statua, Kaz
imperscrutabile come sempre, preso dalle sue trame dietro quell’orribile
maschera. Nina si rallentò il respiro, costrinse le proprie pulsazioni a scendere e
cercò di calmarsi ma non poté fare nulla per zittire il tumulto che aveva in petto.
Finalmente, Kaz le diede un colpetto con il gomito. «Pronta, Nina? Per primo
il piantone.»
Lei lanciò un’occhiata alla guardia carceraria in piedi accanto all’arco.
«Quanto?» Era un modo di dire del Barile. Quanto male vuoi che gli faccia?
«Chiudigli gli occhi.» Fagli perdere conoscenza, ma non fargli veramente
male.
Seguirono Kaz verso l’arco dal quale erano entrati. La folla non ci fece quasi
caso, tutti gli occhi erano concentrati sui combattimenti.
«Avete bisogno della vostra guida?» domandò il piantone quando si
avvicinarono.
«Ho una domanda» disse Kaz. Sotto il mantello, Nina sollevò le mani per
sentire il sangue che scorreva nelle vene della guardia, il tessuto dei suoi
polmoni. «Su tua madre, mi chiedevo se siano vere le voci che girano.»
Nina sentì il battito cardiaco della guardia accelerare bruscamente e sospirò.
«Mai farla facile, vero, Kaz?»
La guardia fece un passo avanti, con la pistola alzata. «Che cosa hai detto?
Io...» Le sue palpebre crollarono, esauste. «Tu non...» Nina gli fece colare a
picco la pressione, e lui cadde in avanti.
Muzzen lo afferrò prima che finisse a terra mentre Inej lo infilò sotto il
mantello che era stato di Kaz fino a qualche istante prima. Nina fu solo
leggermente sorpresa di scoprire che Kaz indossava la divisa delle guardie
carcerarie.
«Non avresti potuto semplicemente chiedergli l’ora o qualcosa del genere?»
disse Nina. «E dove ti sei procurato quell’uniforme?»
Inej piazzò la maschera del Folle sul viso della guardia e Muzzen gli passò un
braccio attorno alla vita, tenendolo su come se quell’uomo avesse alzato un po’
troppo il gomito. Poi lo mollarono su una delle panche appoggiate al muro.
Kaz si tirò su le maniche della divisa. «Nina, la gente ama fidarsi degli
uomini vestiti bene. Possiedo uniformi della stadwatch e della polizia portuale, e
una livrea per ogni casa mercantile della Geldstraat. Andiamo.»
Discesero la passerella.
Ma invece di rifare la strada per la quale erano venuti, girarono in senso
antiorario attorno alla vecchia torre, lasciandosi sulla sinistra il muro dell’arena
che vibrava per le voci e per i piedi della folla.
I soldati di guardia agli archi li degnarono di poco più di uno sguardo ma
qualcuno fece un cenno di saluto a Kaz, che procedeva a passo spedito, la faccia
seppellita nel colletto della divisa. Nina era immersa così profondamente nei
suoi pensieri che per poco non inciampò quando Kaz sollevò una mano per
indicare loro di rallentare. Avevano svoltato in un passaggio tra due archi e si
trovavano al riparo di una grossa ombra. Davanti a loro, un medico stava
spuntando fuori da una cella accompagnato dalle guardie, e una reggeva una
lanterna. «Dormirà tutta la notte» disse il medico. «Assicuratevi che beva
qualcosa domani mattina e controllategli le pupille. Ho dovuto dargli un
sonnifero potente.»
Appena gli uomini si mossero nella direzione opposta, Kaz fece cenno ai suoi
di andare avanti. La porta incastonata nella roccia era di ferro ed era dotata solo
di una stretta fessura attraverso la quale venivano passati i pasti al prigioniero.
Kaz si chinò sulla serratura.
Nina fissò la porta. «Questo posto è incivile.»
«Quasi tutti i combattenti migliori dormono nella torre vecchia» replicò Kaz.
«Li tengono lontani dagli altri carcerati.»
Nina guardò a destra e a sinistra, dove la luce filtrava dagli ingressi
dell’arena. In questi varchi c’erano guardie in piedi, al momento distratte, ma
bastava che una sola girasse la testa. Se fossero stati catturati qui, i soldati si
sarebbero presi la briga di affidarli alla stadwatch per il processo, o li avrebbero
semplicemente buttati nell’arena per farli divorare da una tigre?
“Magari qualcosa di meno dignitoso”pensò senza speranza. “Un branco di
topi con la rabbia.”
A Kaz bastò il tempo di qualche battito per forzare la serratura. La porta si
aprì con un cigolio e loro si infilarono dentro.
La cella era al buio pesto. Dopo un breve istante, il freddo bagliore verde di
un osso di luce ebbe un guizzo di vita accanto a Nina. Inej reggeva in alto la
piccola sfera di vetro. La sostanza al suo interno era fatta dei corpi essiccati e
frammentati dei pesci luminosi d’alto mare. Gli ossi di luce erano piuttosto
diffusi tra i furfanti del Barile che non volevano essere colti alla sprovvista in un
vicolo scuro, ma non potevano neanche ritrovarsi impacciati dal peso delle
lanterne.
“Perlomeno è pulito” pensò Nina, appena i suoi occhi si abituarono
all’oscurità. “Vuoto e gelido, ma non sudicio.” Vide un giaciglio di coperte per
cavalli e due secchi contro il muro, da uno dei quali sporgeva uno straccio
insanguinato.
Questo era quello per cui gli uomini dell’Anticamera dell’Inferno facevano a
gara: una cella privata, una coperta, acqua pulita, un secchio per gli escrementi.
Matthias dormiva con la schiena rivolta al muro. Anche nel bagliore fioco
dell’osso di luce, lei poteva vedere che il viso stava iniziando a gonfiarsi. Sulle
ferite era stato spalmato qualche tipo di balsamo: calendula. Riconobbe l’odore.
Nina si mosse verso di lui, ma Kaz la fermò mettendole una mano sul braccio.
«Lascia che Inej valuti il danno.»
«Io posso...» cominciò Nina.
«Mi serve che tu lavori su Muzzen.»
Inej lanciò a Kaz il bastone con la testa di corvo che doveva aver nascosto
sotto il costume da Imperatore Grigio e si curvò sopra il corpo di Matthias con
l’osso di luce. Muzzen fece un passo avanti. Si tolse il mantello, la camicia e la
maschera da Folle. La testa era rasata, e indossava i pantaloni forniti dalla
prigione. Nina guardò Matthias e poi tornò a fissare Muzzen, e capì che cosa
aveva in mente Kaz. I due ragazzi erano più o meno alti e grossi uguali, ma la
somiglianza finiva lì.
«Non puoi davvero pensare che Muzzen possa prendere il posto di Matthias.»
«Non è qui per la sua brillante conversazione» replicò Kaz. «Tu devi
riprodurre le ferite di Helvar. Inej, cosa abbiamo in repertorio?»
«Nocche ammaccate, denti scheggiati, due costole rotte» disse Inej. «La terza
e la quarta a sinistra.»
«La sua sinistra o la tua?» domandò Kaz.
«La sua.»
«Non funzionerà» disse Nina in tono frustrato. «Io posso anche riprodurre i
danni riportati dal corpo di Helvar, ma non sono una Plasmaforme abbastanza
abile da far assomigliare Muzzen a lui.»
«Tu fidati di me e basta, Nina.»
«Non mi fiderei di te neanche per farmi allacciare le scarpe perché mi
ruberesti i lacci, Kaz.» Poi scrutò la faccia di Muzzen. «Anche se lo gonfio, non
passerà mai per Matthias.»
«Questa notte Matthias Helvar – o, piuttosto, il nostro caro Muzzen –
contrarrà la febbre bubbonica, e in particolare il ceppo portato dai lupi o dai cani.
Domani mattina, quando le guardie lo troveranno così ricoperto di pustole da
essere irriconoscibile, sarà tenuto in quarantena per un mese per vedere se
sopravvive alla febbre e per evitare il contagio. Nel frattempo Matthias sarà con
noi. Ci sei?»
«Vuoi che faccia in modo che Muzzen sembri malato di febbre bubbonica?»
«Sì, e fallo in fretta, Nina, perché nel giro di dieci minuti le cose si faranno
movimentate, qua attorno.»
Nina lo fissò. Che cosa stava tramando Kaz? «Qualunque cosa gli farò, non
durerà un mese. Non sono in grado di provocargli una febbre permanente.»
«Il mio contatto in infermeria farà in modo che lui rimanga malato quanto
basta. A noi serve soltanto che superi la diagnosi. E ora mettiti al lavoro.»
Nina squadrò Muzzen in lungo e in largo. «Ti farà male proprio come se fossi
stato tu a combattere» lo avvisò.
Lui serrò i denti, preparandosi alla sofferenza. «Posso sopportarlo.»
Lei roteò gli occhi, poi sollevò le mani, concentrandosi. Con un gesto veloce
della mano destra sopra quella sinistra, spezzò le costole di Muzzen.
Lui si lasciò sfuggire un grugnito e si piegò in due.
«Bravo ragazzo» disse Kaz. «Incassa come un campione. Adesso le nocche,
poi la faccia.»
Nina sparse lividi e tagli sulle nocche e sulle braccia di Muzzen, facendo
combaciare le ferite con la descrizione di Inej.
«Non ho mai visto la febbre bubbonica da vicino» disse Nina. Aveva
dimestichezza solo con le illustrazioni dei libri che si usavano a lezione di
anatomia nel Piccolo Palazzo.
«Ritieniti fortunata» disse Kaz tristemente. «Datti una mossa.»
Si basò sui ricordi, gonfiando e spaccando la pelle sul viso e sul petto di
Muzzen, finché le vesciche furono così piene di pus e le piaghe così malandate
che era diventato veramente irriconoscibile. L’omone gemette.
«Perché hai acconsentito a farti fare tutto questo?» mormorò Nina.
La carne tumefatta sulla faccia di Muzzen tremolò, e Nina pensò che stesse
provando a sorridere. «La paga era buona» disse lui con voce roca.
Lei sospirò. Per quale altro motivo tutti accettavano di fare qualunque cosa
nel Barile? «Buona abbastanza da finire rinchiuso all’Anticamera dell’Inferno?»
Kaz picchiò il bastone sul pavimento della cella. «Smettila di creare problemi,
Nina. Se Helvar collabora, lui e Muzzen riavranno entrambi la propria libertà
non appena il lavoro sarà finito.»
«E se non collabora?»
«In quel caso, Helvar torna dritto nella sua cella e Muzzen viene pagato
comunque. E io gli offrirò la colazione al Kooperom.»
«Posso avere le cialde?» biascicò Muzzen.
«Cialde per tutti. E whisky. Se questo colpo non va in porto, nessuno vorrà
starmi attorno da sobrio. Hai finito, Nina?»
Nina annuì, Inej prese il suo posto e bendò Muzzen come Matthias.
«Bene» disse Kaz. «Mettete Helvar in piedi.»
Nina si inginocchiò accanto a Matthias mentre Kaz era alle sue spalle con
l’osso di luce. Anche nel sonno, i lineamenti di Matthias erano agitati, le
sopracciglia chiare aggrottate. Lei sfiorò con la mano la linea ammaccata della
mascella, resistendo alla tentazione di trattenerla lì.
«Lascia perdere la faccia, Nina. Dev’essere in grado di muoversi, non
dev’essere bello. Dagli una sistemata veloce, per ora devi solo permettergli di
camminare. Non lo voglio vispo abbastanza da tormentarci.»
Nina abbassò la coperta e si mise al lavoro. “È solo un corpo come un altro”
disse a se stessa.
Riceveva di continuo chiamate di Kaz nel cuore della notte per guarire
qualche Scarto ferito che lui non voleva portare da medici veri: ragazze
accoltellate, ragazzi con le gambe rotte o con i proiettili in corpo, vittime di
scontri con la stadwatch o con un’altra banda. “Fai finta che sia Muzzen” si
disse. “Oppure Bolliger il Grande o qualche altro idiota. Tu non conosci questo
ragazzo.” Ed era così. Quello che conosceva lei poteva essere l’impalcatura, ma
sopra, nel frattempo, era stato costruito qualcosa di nuovo.
Gli toccò delicatamente la spalla. «Helvar» disse. Lui non si mosse.
«Matthias.»
Le salì un groppo in gola, e sentì le lacrime premere per uscire. Stampò un bacio
sulla sua tempia. Sapeva che Kaz e gli altri la stavano osservando e che stava
facendo la figura della scema, ma dopo così tanto tempo lui era finalmente lì, di
fronte a lei, e così malridotto. «Matthias» ripeté.
«Nina?» La voce era rude ma adorabile, così come se la ricordava.
«Oh, per tutti i Santi, Matthias» sussurrò lei. «Per favore, svegliati.»
Helvar aprì gli occhi, intontiti, dell’azzurro più chiaro che c’è. «Nina» disse
piano. Passò le nocche sulla guancia di lei; la mano ruvida circondò il suo viso a
tentoni, con fare incredulo. «Nina?»
Gli occhi di lei si riempirono di lacrime. «Sssh, Matthias. Siamo qui per
portarti via.»
Prima che potesse battere le ciglia, lui l’aveva presa per le spalle e l’aveva
bloccata a terra.
«Nina» ringhiò.
Poi le serrò le mani sulla gola.
PARTE SECONDA
SERVA E MUSA
7
MATTHIAS

Matthias stava sognando di nuovo. Stava sognando lei.


In tutti i suoi sogni le dava la caccia, a volte nei verdi prati in fiore di
primavera, ma di solito sulle distese ghiacciate, schivando massi e crepacci con
passo infallibile. La inseguiva sempre, e la catturava sempre. Nei sogni belli, la
sbatteva a terra e la strangolava, e con il cuore traboccante di vendetta guardava
la vita prosciugarsi nei suoi occhi: finalmente, finalmente. Nei sogni brutti, la
baciava.
In questi sogni, lei non lottava. Rideva come se la caccia non fosse altro che
un gioco, come se lei avesse sempre saputo che lui l’avrebbe inseguita, come se
l’avesse desiderato e come se non volesse stare in nessun altro posto che sotto di
lui. Lei era accogliente e perfettamente a proprio agio fra le sue braccia. Lui la
baciava, sprofondava il viso nell’incavo dolce del suo collo. I ricci di lei
sfregavano contro le sue guance, e lui sentiva che se solo avesse potuto stringerla
a sé un po’ di più, ogni ferita, ogni sofferenza, ogni bruttura si sarebbe dissolta.
«Matthias» sussurrava lei, il suo nome così soffice sulle sue labbra. Questi
erano i sogni peggiori, e quando si svegliava si ritrovava a odiare se stesso quasi
quanto odiava lei. Sapere che poteva tradirsi e tradire di nuovo il proprio paese
persino nel sonno, sapere che – dopo tutto quello che Nina aveva fatto – una
parte di lui, disgustosa, moriva dalla voglia di lei... era troppo.
Questa notte si trattava di un brutto sogno, bruttissimo. Lei aveva un vestito
di seta blu, di gran lunga più lussuoso di qualunque altra cosa le avesse mai visto
addosso; una specie di velo trasparente era agganciato ai suoi capelli, e la luce
dei lampioni vi si rifletteva come gocce di pioggia. Djel, profumava di buono.
L’umidità che sapeva di muschio c’era ancora, ma c’era anche il profumo. Nina
amava il lusso e questo era costoso: rose e qualcos’altro, qualcosa che il suo
naso da poveraccio non sapeva riconoscere. Lei premette le labbra soffici sulla
sua tempia, e lui avrebbe giurato che stava piangendo.
«Matthias.»
«Nina» cercò di dire lui.
«Oh, per tutti i Santi, Matthias» sussurrò lei. «Per favore, svegliati.»
E a quel punto lui aprì gli occhi, e seppe che era impazzito perché lei era lì,
nella sua cella, in ginocchio accanto a lui, la mano delicatamente posata sul suo
petto.
«Matthias, per favore.»
Il suono della voce di lei, che lo implorava. L’aveva sognato. A volte
chiedeva pietà. A volte erano altre le cose per cui lo supplicava.
Lui si tirò su e le toccò il viso: aveva la più morbida delle pelli. L’aveva presa
in giro, per questo, in un’occasione. Nessun vero soldato aveva una pelle come
quella, le aveva detto – viziata e coccolata. Aveva deriso il corpo rigoglioso di
lei, imbarazzato dalle proprie reazioni. Circondò con la mano la curva calda del
suo profilo, sentì il tocco lieve dei capelli. Così piacevole. Così reale. Non era
giusto. Poi si rese conto del sangue incrostato sulle proprie mani. Il dolore lo
investì di botto mentre tornava completamente cosciente: le costole rotte, le
nocche peste. Si era scheggiato un dente. Non sapeva bene quand’era successo,
ma a un certo punto si era tagliato la lingua passandocela sopra. In bocca aveva
ancora il sapore ramato del sangue. I lupi. Gli avevano fatto uccidere dei lupi.
Era sveglio.
«Nina?»
C’erano lacrime nei bellissimi occhi verdi di lei. La collera lo invase. Nina
non aveva nessun diritto alle lacrime, nessun diritto alla pietà.
«Sssh, Matthias. Siamo qui per portarti via.»
Che scherzo era quello? Quale nuova crudeltà? Aveva appena imparato a
sopravvivere in questo luogo mostruoso, e ora era apparsa lei a somministrargli
nuove torture.
Si lanciò in avanti e la gettò a terra, le serrò le mani attorno alla gola e si mise
a cavalcioni su di lei in modo che le ginocchia le bloccassero le braccia sul
pavimento.
Sapeva dannatamente bene che Nina con le mani libere era una creatura
letale.
«Nina» disse a denti stretti. Lei strinse le mani. «Strega» sibilò lui, chino su di
lei. Vide i suoi occhi spalancarsi e il suo viso farsi sempre più rosso.
«Supplicami» disse. «Supplicami di salvarti la vita.»
Sentì un clic, e una voce rauca ordinare: «Toglile le mani di dosso, Helvar».
Qualcuno alle sue spalle gli aveva puntato una pistola al collo. Matthias non
lo degnò di un’occhiata. «Avanti, sparami» disse. Affondò le dita ancora di più
nella gola di Nina: niente glielo avrebbe tolto. Niente.
Traditrice, strega, abominio. In lui affiorarono tutte queste parole, ma se ne
aggiunsero anche altre: bellissima, fata. Röed fetla, l’aveva soprannominata, e
cioè cardellino, per il rosso dell’Ordine Grisha a cui apparteneva. Il colore che
lei amava. Premette ancora più forte, per mettere a tacere quel cedimento della
volontà.
«Se sei davvero uscito di testa, sarà molto più difficile del previsto» disse la
voce rauca.
Sentì un fruscio, come se qualcuno, muovendosi, avesse spostato l’aria, poi
un dolore straziante attraversò la sua spalla sinistra. Era come se fosse stato
colpito da un pugno minuscolo, ma tutto il braccio gli divenne insensibile.
Grugnì mentre cadeva in avanti, una mano ancora serrata attorno alla gola di
Nina. Sarebbe finito direttamente su di lei, se qualcuno non l’avesse strattonato
indietro per il collo della maglia.
Un ragazzo con la divisa delle guardie era in piedi di fronte a lui, gli occhi
scuri scintillanti, una pistola in mano, un bastone da passeggio nell’altra.
L’impugnatura era intagliata in modo da sembrare una testa di corvo, con un
becco spietatamente appuntito.
«Datti una calmata, Helvar. Siamo qui per liberarti. Posso farti alla gamba
quello che ti ho appena fatto al braccio, e ti trasciniamo fuori da qui, oppure puoi
andartene da uomo, in piedi.»
«Nessuno esce dall’Anticamera dell’Inferno» disse Matthias.
«Questa notte sì.»
Matthias si sporse in avanti, cercando di orientarsi, stringendosi il braccio
paralizzato. «Non potete portarmi a spasso fuori da qui» latrò. «Non ho
intenzione di perdere i miei privilegi di lottatore per essere portato fuori, Djel sa
dove, da voi.»
«Sarai mascherato.»
«Se le guardie controllano...»
«Saranno troppo occupate per controllare» disse lo strano ragazzo pallido. E a
quel punto partirono le urla.
Matthias sobbalzò. Sentì il rombo dei passi provenire dall’arena, che salivano
di intensità come un’onda mentre la gente irrompeva nel corridoio davanti alla
sua cella.
Udì le grida delle guardie, e poi il ruggito di un grosso felino, e il barrito di un
elefante.
«Hai aperto le gabbie.» La voce di Nina era malferma per l’incredulità, per
quanto chi poteva sapere cos’era vero e cos’era finto con lei? Lui si rifiutò di
guardare dalla sua parte. Se l’avesse fatto, avrebbe perso ogni senso della realtà.
Già così riusciva a stento a mantenere un minimo di lucidità
«Jesper doveva aspettare fino alla terza campana» disse il ragazzo pallido.
«È la terza campana, Kaz» replicò una ragazzina dai capelli neri e la tipica
pelle bronzea dei Suli, dall’angolo della stanza. Una figura ricoperta da pomfi e
garze si appoggiava a lei.
«Da quando Jesper è puntuale?» si lamentò il ragazzo dando un’occhiata al
proprio orologio. «In piedi, Helvar.»
Gli offrì una mano guantata. Matthias la fissò. È un sogno. Il sogno più strano
che abbia mai fatto, ma di sicuro un sogno. O forse uccidere i lupi l’aveva alla
fine portato alla pazzia definitiva. Questa notte aveva assassinato la propria
famiglia. Nessuna preghiera per le loro anime selvagge avrebbe aggiustato le
cose.
Sollevò lo sguardo verso il demone pallido e le sue mani nei guanti neri. Kaz,
l’aveva chiamato lei. Avrebbe portato Matthias fuori da questo incubo o
l’avrebbe trascinato in un altro tipo di inferno? Scegli, Helvar.
Matthias strinse la mano del ragazzo. Se tutto questo era reale e non
un’illusione, sarebbe sfuggito a qualunque trappola queste creature avessero
preparato. Sentì Nina liberare un lungo sospiro: era sollevata? Esasperata? Lui
scrollò la testa. Se la sarebbe vista con lei più tardi. La ragazzina di bronzo gli
avvolse velocemente le spalle con un mantello e gli piazzò sulla testa una brutta
maschera con il naso a becco.
Nel corridoio fuori dalla sua cella c’era la baraonda. Uomini e donne in
costume premevano per cercare di uscire dall’arena, urlando e spingendosi l’un
l’altro. Le guardie avevano estratto le pistole, e si udivano colpi di arma da
fuoco. Lui si sentiva stordito, e il fianco gli faceva molto male. Il braccio sinistro
era ancora fuori uso.
Kaz indicò l’arco più a destra e a gesti spiegò che si sarebbero dovuti
muovere controcorrente rispetto alla folla, verso l’arena. Matthias non se ne
curò. Quello che avrebbe fatto lui, piuttosto, sarebbe stato immergersi nella
calca, farsi strada su per la scalinata e calarsi dentro una barca. E poi? Non
aveva importanza. Non c’era tempo per stare a pianificare.
Entrò nell’orda in piena e fu trascinato indietro all’istante.
«Quelli come te non sono fatti per avere delle idee, Helvar» disse Kaz.
«Quella rampa di scale conduce a una strettoia. Pensi che le guardie non
vorranno controllare sotto la maschera prima di farti passare?»
Matthias lo guardò torvo e seguì gli altri, la mano di Kaz sulla schiena. Se il
corridoio era stato una bolgia, l’arena era la follia. Matthias vide delle iene
saltare e scavalcare gli spalti. Una si stava sfamando, china su un corpo avvolto
da un mantello color cremisi. Un elefante caricò il muro dell’arena, sollevando
una nuvola di polvere e barrendo per la frustrazione. Vide un orso bianco e uno
dei grandi felini delle Colonie del Sud accucciato sui cornicioni, con le zanne
scoperte. Sapeva che c’erano anche dei serpenti nelle gabbie. Poteva solo sperare
che questo tizio di nome Jesper non fosse stato così incosciente da liberare anche
loro.
Si precipitarono sulla sabbia del ring dove Matthias negli ultimi sei mesi
aveva combattuto per ottenere dei privilegi, ma non appena imboccarono il
tunnel la lucertola del deserto sfrecciò verso di loro, con le fauci che
sgocciolavano schiuma bianca e velenosa e la grossa coda che frustava il terreno.
Matthias non fece in tempo a pensare a come muoversi che la ragazza di bronzo
aveva scavalcato la schiena della bestia e l’aveva fatta fuori conficcandole due
pugnali luminosi sotto la corazza. La lucertola emise un lamento e crollò su un
fianco. Matthias sentì una fitta di tristezza. Era una mostruosità, e non aveva mai
visto un lottatore sopravviverle, ma era anche una creatura vivente. “Non ho mai
visto un lottatore sopravviverle fino a ora” si corresse. “I pugnali della ragazza di
bronzo sono degni di nota.”
Aveva dato per scontato che avrebbero attraversato l’arena e avrebbero
risalito i gradini degli spalti per evitare la fiumana di gente che ostruiva il
passaggio, e con ogni probabilità avrebbero preso d’assalto le scale e sperato di
avere la meglio sulle guardie che li aspettavano in cima. E invece Kaz li
condusse giù per il tunnel dietro le gabbie. Queste erano vecchie celle che erano
state ristrutturate per ospitare ogni genere di bestia su cui i signori dello
Spettacolo Infernale mettevano le mani di settimana in settimana: animali da
circo, bestiame malato se necessario, creature catturate nelle foreste e nelle
campagne. Mentre passavano di corsa accanto alle porte aperte, colse un paio di
occhi gialli guardarlo in modo truce dall’ombra, e poi fu già oltre. Maledisse il
braccio paralizzato e il fatto di essere senza un’arma. Era praticamente indifeso.
Dove ci sta portando questo Kaz? Passarono dietro a un cinghiale che si stava
mangiando una guardia e a un leopardo che soffiò e sputò verso di loro ma non
si avvicinò.
E poi, tra l’odore muschiato degli animali e il tanfo dei loro escrementi,
Matthias udì il profumo forte e pulito dell’acqua di mare. Sentì il fragore delle
onde. Scivolò e scoprì che le pietre che aveva sotto i piedi erano bagnate. Non
gli era mai stato permesso di scendere così in profondità nel tunnel. Doveva
portare al mare. Qualunque cosa fosse quella che Nina e la sua gente avevano in
mente, lo stavano davvero strappando via alle viscere dell’Anticamera
dell’Inferno.
Dentro la luce verde proiettata dalle sfere in mano a Kaz e alla ragazza di
bronzo, Matthias scorse una barchetta ormeggiata davanti a loro. Sembrava che
ci fosse una guardia seduta all’interno, ma quella sagoma alzò una mano e fece
loro cenno di avvicinarsi.
«Eri in anticipo, Jesper» disse Kaz mentre spingeva Matthias verso la barca.
«Ero in orario.»
«Nel tuo caso, si chiama anticipo. La prossima volta che ti viene in mente di
sorprendermi, avvisami.»
«Gli animali sono in giro e ti ho recuperato una barca. È uno di quei casi in
cui un grazie sarebbe opportuno.»
«Grazie, Jesper» disse Nina.
«Ma non c’è di che, bellezza. Visto, Kaz? Ecco come si comporta la gente
civile.»
Matthias stava prestando ascolto solo in parte. Le dita della mano sinistra
avevano preso a formicolare e la sensibilità stava tornando. Non poteva lottare
contro tutti, non nel suo stato e non quando loro erano armati. Però Kaz e il
ragazzo dentro la barca, Jesper, sembravano gli unici con la pistola. Sgancia la
cima, disarma Jesper. Avrebbe avuto un’arma e il controllo della barca. “E Nina
ti fermerà il cuore prima che tu abbia toccato i remi” ricordò a se stesso. Allora
spara a lei per prima. Pianta un proiettile nel suo, di cuore. Resisti abbastanza a
lungo da vederla crollare a terra e poi falla finita con questo posto. Poteva
farcela. Sapeva che poteva farcela. Tutto quello di cui aveva bisogno era un
diversivo.
La ragazza di bronzo era in piedi giusto alla sua destra. Gli arrivava a
malapena alla spalla. Pur essendo ferito, avrebbe potuto buttarla in acqua senza
perdere l’equilibrio e senza arrecarle nessun vero danno.
Fai cadere la ragazza. Libera la barca. Neutralizza l’uomo armato. Uccidi
Nina. Uccidi Nina. Uccidi Nina. Trasse un respiro profondo e con tutto il peso si
buttò addosso alla ragazza di bronzo.
Lei fece un passo di lato come se avesse previsto la sua mossa, e con un gesto
lento e languido agganciò il tallone dietro alla sua caviglia.
Matthias emise un sonoro grugnito mentre rovinava a terra sulle pietre.
«Matthias...» disse Nina, avanzando di un passo. Lui scattò indietro, e per
poco non si buttò nell’acqua. Se lei avesse posato le mani su di lui un’altra volta,
Matthias avrebbe perso la testa. Nina si arrestò, offesa, e il dolore che le si
dipinse in volto era inequivocabile. Non ne aveva il diritto.
«Un po’ goffo, il tipo» disse, impassibile, la ragazza di bronzo.
«Mettilo a nanna, Nina» ordinò Kaz.
«No» protestò Matthias, e il panico si impossessò di lui.
«Sei così scemo da ribaltare la barca.»
«Stai lontana da me, strega» ringhiò Matthias alla volta di Nina.
Lei gli rivolse un veloce cenno del capo. «Con piacere.»
Alzò le mani, e Matthias sentì le palpebre farsi pesanti mentre lei lo spediva
nel mondo dell’incoscienza. «Ti uccido» biascicò lui.
«Dormi bene.» La voce di Nina era un lupo, e gli stava alle calcagna. Lo
inseguì fin nell’oscurità.

In una stanza senza finestre, drappeggiata di nero e rosso cremisi, Matthias


ascoltava in silenzio le strane parole che uscivano dalla bocca del bizzarro
ragazzo pallido. Sapeva com’erano fatti i mostri, e una sola occhiata a Kaz
Brekker gli aveva rivelato che era una creatura che aveva passato troppo tempo
al buio, e quando era riemerso alla luce si era portato con sé qualcosa di oscuro.
Matthias riusciva a percepirlo. Sapeva che gli altri si prendevano gioco della
superstizione Fjerdiana, ma lui si fidava della propria pancia. Perlomeno, l’aveva
fatto fino a Nina. Una delle conseguenze peggiori del suo tradimento era stato il
modo in cui si era visto costretto a dubitare di se stesso. Nell’Anticamera
dell’Inferno, dove l’istinto era tutto, il dubbio lo aveva quasi distrutto.
Matthias aveva sentito parlare di Brekker in prigione, e aveva udito quali
parole venivano associate al suo nome: genio del crimine, senza pietà, senza
morale. Lo chiamavano Manisporche perché non c’era peccato che non avrebbe
commesso per la giusta ricompensa. E ora questo demone parlava di introdursi
nella Corte di Ghiaccio, di indurre Matthias a tradire. “Di nuovo” si corresse
Matthias. “A tradire di nuovo.”
Teneva gli occhi fissi su Brekker. Era acutamente consapevole del fatto che
Nina lo stava osservando dall’altra parte della stanza. Riusciva ancora a
percepire il suo profumo di rosa nel naso e persino in bocca; l’intensa fragranza
fiorita persisteva sulla sua lingua, come se la stesse assaporando.
Matthias si era svegliato legato a una sedia in quella che sembrava una bisca
clandestina. Nina doveva averlo ridestato dallo stato di incoscienza in cui
l’aveva spedito. Lei era lì, a fianco della ragazza di bronzo. Jesper, il tizio
longilineo della barca, era seduto in un angolo con le ginocchia ossute al petto, e
un ragazzo dai riccioli rossi e oro scarabocchiava su un foglio davanti a un
tavolo rotondo fatto per giocare a carte, e ogni tanto si masticava un pollice. Il
tavolo era coperto da una tovaglia cremisi con disegnata sopra una serie di corvi
che si ripeteva, e una ruota, simile a quella usata nell’arena dello Spettacolo
Infernale ma con bersagli diversi, era stata piazzata contro un muro laccato di
nero. Matthias aveva la sensazione che qualcuno – probabilmente Nina – si fosse
occupato delle sue ferite mentre era incosciente. Il pensiero lo faceva stare male.
Meglio un onesto dolore della corruzione Grisha.
Poi Brekker aveva cominciato a parlare: di una droga chiamata jurda parem,
di una ricompensa così alta da non essere credibile, e dell’idea assurda di
provare a fare irruzione nella Corte di Ghiaccio. A Matthias non era chiaro se
tutto ciò fosse realtà o finzione, ma poco importava. Quando Brekker ebbe
finalmente terminato, rispose semplicemente: «No».
«Credimi, Helvar, se te lo dico: so bene che essere messi fuori gioco e
risvegliarsi in un ambiente sconosciuto non è il modo più amichevole per
iniziare una collaborazione, ma tu non ci hai dato molte altre opzioni, per cui
cerca di tenere la mente aperta a diverse possibilità.»
«Potresti anche chiedermelo in ginocchio, e la mia risposta sarebbe la stessa.»
«Tu ti rendi conto, vero, che posso farti tornare all’Anticamera dell’Inferno
nel giro di qualche ora? Una volta che il povero Muzzen sarà arrivato in
infermeria, scambiarvi è un attimo.»
«Fallo. Non vedo l’ora di raccontare al direttore del carcere il tuo ridicolo
piano.»
«Cosa ti fa credere che torneresti indietro insieme alla tua lingua?»
«Kaz...» protestò Nina.
«Fai quello che vuoi» disse Matthias. Lui non avrebbe tradito un’altra volta il
proprio paese.
«Te l’avevo detto» commentò Nina.
«Non fingere di conoscermi, strega» ringhiò lui, gli occhi fissi su Brekker.
Non l’avrebbe degnata di uno sguardo. Si rifiutava di farlo.
Jesper uscì dall’angolo. Ora che erano fuori dalle tenebre dell’Anticamera
dell’Inferno, Matthias poteva vedere che aveva la pelle scurissima degli Zemeni
e due occhi verdi che non c’entravano niente. Aveva la corporatura di una
cicogna. «Senza di lui, non se ne fa niente» disse Jesper. «Non possiamo
penetrare nella Corte di Ghiaccio alla cieca.»
Matthias voleva mettersi a ridere. «Non potete penetrare nella Corte di
Ghiaccio punto e basta.» Non era un edificio come gli altri. Era un’antica
fortezza Fjerdiana a più livelli, la dimora di una successione ininterrotta di re e
regine, il deposito dei loro più grandi tesori e delle loro reliquie religiose più
sacre. Era impenetrabile.
«Veniamo a noi, Helvar» disse il demone. «C’è sicuramente qualcosa che
vuoi. La causa è abbastanza nobile per un fanatico come te. A Fjerda credono di
aver catturato il drago per la coda, ma non saranno in grado di controllarlo. Una
volta che Bo Yul-Bayur avrà replicato la formula, la jurda parem invaderà il
mercato, ed è solo questione di tempo prima che anche altri comincino a
produrla.»
«Non succederà mai. Yul-Bayur sarà sottoposto a giudizio, e se sarà giudicato
colpevole verrà condannato a morte.»
«Colpevole di cosa?» chiese Nina a voce bassa.
«Di crimini contro le persone.»
«Quali persone?»
Matthias sentì la rabbia trattenuta a stento nella voce di lei. «Persone
normali» rispose. «Persone che vivono in armonia con le leggi di questo mondo
invece di piegarle per i propri tornaconti.»
Nina emise una specie di verso esasperato. Gli altri, semplicemente divertiti,
fecero un sorrisetto al povero e ingenuo Fjerdiano. Brum aveva avvisato
Matthias che il mondo era pieno di bugiardi, depravati, barbari senza fede. E
sembrava si fossero concentrati in questa stanza.
«Sei poco lungimirante, Helvar» disse Brekker. «Altri potrebbero arrivare a
Yul-Bayur per primi. Gli Shu. Magari i Ravkiani. Ciascuno con propri fini. Le
guerre di confine e le vecchie rivalità ai Kerch non interessano. Al Consiglio dei
Mercanti importa solo del commercio, e loro vogliono fare in modo che la jurda
parem rimanga una diceria e niente di più.»
«Quindi guidare dei criminali fin nel cuore di Fjerda per rapire un prigioniero
importante sarebbe un gesto patriottico?» domandò Matthias sprezzante.
«Ho come il sospetto che neanche la promessa di quattro milioni di kruge ti
smuova.»
Matthias sputò per terra. «Puoi tenerteli. Fino a strozzarti.» Poi un pensiero
gli attraversò la mente: un pensiero spregevole, inumano, ma era l’unica cosa
che gli avrebbe permesso di tornare all’Anticamera dell’Inferno con la pace nel
cuore, anche se non avesse più avuto la lingua in bocca. Si inclinò all’indietro fin
dove arrivavano le corde e concentrò tutta l’attenzione su Brekker. «Ti propongo
un patto.»
«Sono tutto orecchie.»
«Non verrò con voi, ma vi darò una mappa della Corte. Dovrebbe permettervi
di superare almeno il primo posto di blocco.»
«E cosa mi costerà questa preziosa informazione?»
«Non voglio i tuoi soldi. Ti darò la mappa gratis.» Dire quelle parole lo fece
vergognare, ma le disse comunque: «Se mi lasci uccidere Nina Zenik».
La piccola ragazza di bronzo emise un verso di disgusto, il suo disprezzo per
lui era evidente, e il ragazzo al tavolo smise di scarabocchiare, a bocca aperta.
Kaz, invece, non sembrava sorpreso. Semmai, compiaciuto. Matthias aveva la
spiacevole sensazione che il demone avesse sempre saputo come sarebbe andata
a finire.
«Ti darò di meglio» gli disse.
Cosa ci poteva essere di meglio della vendetta? «Non voglio nient’altro.»
«Posso farti tornare a essere un drüskelle.»
«Sei uno stregone, quindi? Uno spirito wej che esaudisce i desideri? Sono
superstizioso, non stupido.»
«Mah, sai com’è, potresti essere entrambi, ma non è questo il punto.» Kaz
infilò una mano nella sua giacca scura. «Ecco qua» disse, e diede un pezzo di
carta alla ragazza di bronzo. Un altro demone: si muoveva in modo
impercettibile, come se fosse scivolato giù in questo mondo da quell’altro e
nessuno avesse avuto il buon senso di rimandarlo indietro. Il demone gli mise il
pezzo di carta davanti al viso per permettergli di leggere. Il documento era
scritto in Kerch e Fjerdiano. Non sapeva leggere il Kerch – in prigione aveva
solo imparato qualche parola – ma il Fjerdiano era piuttosto chiaro, e mentre gli
occhi scorrevano il foglio, il cuore iniziò ad accelerargli.

Alla luce delle nuove prove, vengono revocate tutte le accuse relative al traffico di schiavi a
carico di Matthias Benedik Helvar. Il suddetto verrà rilasciato nella giornata odierna,
_______________, con le scuse della corte, e con grande sollecito si provvederà a trasferirlo
in patria o presso qualsivoglia destinazione a sua scelta. Le scuse più sincere di questo
tribunale e del governo di Kerch.

«Quali nuove prove?»


Kaz si appoggiò allo schienale della sedia. «Sembra che Nina Zenik abbia
ritrattato le sue dichiarazioni. Dovrà affrontare un processo per falsa
testimonianza.»
Ora sì che Matthias la guardò; non riuscì a trattenersi. Sulla sua gola graziosa
erano rimasti dei lividi. Se ne rallegrò con se stesso.
«Falsa testimonianza? Quanto ti toccherà scontare, Zenik?»
«Due mesi» rispose lei a bassa voce.
«Due mesi?» Ora sì che scoppiò a ridere, forte e a lungo. Il suo corpo si
contorse, come se un veleno gli facesse contrarre i muscoli.
Gli altri lo guardarono con interesse.
«Ma quant’è fuori di testa?» domandò Jesper, con le dita che tamburellavano
sul calcio di perla delle rivoltelle.
Brekker fece spallucce. «Non lo definirei un tipo affidabile, ma è tutto quello
che abbiamo.»
Due mesi. Probabilmente in qualche prigione confortevole dove avrebbe
sedotto tutte le guardie per farsi portare del pane fresco e sprimacciare i cuscini
ogni mattina. O forse li avrebbe semplicemente convinti a tramutare la pena in
una multa che i suoi ricchi custodi Grisha di Ravka avrebbero liquidato per lei.
«Non puoi fidarti di Nina, lo sai» disse a Brekker. «Quali che siano i segreti
che speri di estorcere a Bo Yul-Bayur, lei li rivelerà a Ravka.»
«Lascia che sia io a preoccuparmene, Helvar. Tu fai la tua parte, e i segreti di
Yul-Bayur, così come la jurda parem, saranno nelle mani delle persone più
adatte a fare in modo che rimangano chiacchiere.»
Due mesi. Nina avrebbe scontato la sua pena e avrebbe fatto ritorno a Ravka
con quattro milioni di kruge in più, per non dargli mai più nessun altro pensiero.
Ma se la grazia non era fasulla, anche lui avrebbe potuto tornare a casa.
Casa. Aveva fantasticato di scappare dall’Anticamera dell’Inferno tantissime
volte, ma non si era mai dedicato veramente a un piano di fuga. Che vita lo
avrebbe aspettato là fuori, con sulla testa l’accusa di essere uno schiavista? Non
avrebbe mai potuto tornare a Fjerda. Se anche avesse sopportato il disonore,
avrebbe vissuto ogni giorno della sua vita da ricercato del governo di Kerch, un
uomo segnato. Avrebbe potuto sbarcare il lunario a Novyi Zem, ma avrebbe
avuto senso?
La grazia era tutta un’altra cosa. Se quel demone di Brekker diceva la verità,
Matthias sarebbe tornato a casa. Il desiderio gli si aggrovigliò nel petto: sentir
parlare la sua lingua, rivedere gli amici, riassaporare la semla ripiena di pasta
alle mandorle, affrontare il morso del vento del Nord che arrivava ruggendo sul
ghiaccio. Tornare a casa ed essere accolto senza il peso del disonore. Con il suo
nome ripulito, poteva tornare alla sua vita di drüskelle. E il prezzo sarebbe stato
il tradimento.
«E se Bo Yul-Bayur fosse morto?» domandò a Brekker.
«Van Eck insiste a dire che non lo sia.»
Ma come faceva il mercante di cui parlava Kaz a comprendere appieno gli usi
e i costumi Fjerdiani? Se non c’era ancora stato un processo, ci sarebbe stato, e
Matthias non aveva difficoltà a prevedere il verdetto. Il suo popolo non avrebbe
mai concesso la libertà a un uomo in possesso di informazioni così spaventose.
«Ma se lo fosse, Brekker?»
«Avrai comunque la tua grazia.»
Anche se il loro bersaglio era già in procinto di passare a miglior vita,
Matthias avrebbe avuto indietro la propria libertà. A quale prezzo, però? Aveva
già commesso degli errori in precedenza. Era stato tanto pazzo da fidarsi di
Nina. Era stato debole, e si sarebbe portato dietro quella vergogna per il resto
della vita. Ma aveva già pagato per la sua stupidità con il sangue, lo squallore e il
tanfo dell’Anticamera dell’Inferno. E i suoi peccati erano stati veniali, le azioni
di un ragazzotto ingenuo. Questo era molto peggio. Rivelare i segreti della Corte
di Ghiaccio, rivedere la terra natia sapendo che ogni passo sarebbe stato un atto
di tradimento: poteva fare una cosa del genere?
Brum gli avrebbe riso in faccia, avrebbe ridotto la grazia in coriandoli. Ma
Kaz Brekker era sveglio. Era pieno di risorse. Che cosa sarebbe successo se
Matthias avesse detto di no e contro ogni previsione Brekker e la sua squadra
fossero comunque riusciti a penetrare nella Corte di Ghiaccio e rapire lo
scienziato Shu? Oppure se Brekker avesse avuto ragione e un altro paese fosse
arrivato per primo? Sembrava che la parem desse troppa dipendenza per essere
utile ai Grisha, ma cosa sarebbe successo se la formula fosse finita nelle mani
dei Ravkiani, e loro fossero riusciti in qualche modo a modificarla? E se
avessero reso i Grisha di Ravka, il loro Secondo Esercito, ancora più forte? Se
avesse partecipato alla missione, lui avrebbe potuto assicurarsi che Bo Yul-
Bayur non respirasse più una volta fuori dalle mura della Corte di Ghiaccio, o
avrebbe potuto allestire un incidente di qualche tipo nel viaggio di ritorno a
Kerch.
Prima di Nina, prima dell’Anticamera dell’Inferno, non l’avrebbe mai preso
in considerazione. Ora si scopriva in grado di stipulare un accordo del genere
con se stesso. Si sarebbe aggregato alla squadra dei demoni, avrebbe ottenuto la
grazia, e quando fosse stato di nuovo un drüskelle, Nina Zenik sarebbe stata il
suo primo obiettivo. Le avrebbe dato la caccia a Kerch, a Ravka, in qualunque
buco e in qualunque angolo del mondo lei avesse pensato di trovarsi al sicuro.
L’avrebbe stanata e gliel’avrebbe fatta pagare in ogni modo possibile. Darle
subito la morte sarebbe stato un gesto troppo clemente. L’avrebbe gettata nella
cella più orribile della Corte di Ghiaccio, dove non si sarebbe scaldata mai più.
L’avrebbe trattata come un giocattolo, così come aveva fatto lei con lui. Le
avrebbe promesso la salvezza e poi gliel’avrebbe negata. Le avrebbe donato
affetto e piccole gentilezze e poi gliele avrebbe strappate via. Avrebbe
conservato ogni lacrima che lei avesse versato e l’avrebbe assaporata con la
lingua, sostituendo il suo dolce profumo fiorato con il sale del dolore.
E tuttavia, le parole suonarono amare in bocca a Matthias quando disse: «Ci
sto».
Brekker fece l’occhiolino a Nina, e Matthias avrebbe voluto rompergli tutti i
denti.
Quando avrò dato alla vita di Nina una bella fetta di miseria, passerò a te.
Aveva cacciato le streghe; quanto diverso poteva mai essere uccidere un
demone?
La ragazza di bronzo ripiegò il documento e lo consegnò a Brekker, che lo
fece scivolare in un taschino sul petto. Matthias si sentì come se stesse
guardando un vecchio amico, uno che non aveva più sperato di rivedere, sparire
nella folla e lui non riuscisse a chiamarlo a gran voce.
«Stiamo per slegarti» disse Brekker. «Spero che la prigione non ti abbia
privato di tutte le buone maniere e del buon senso.»
Matthias annuì, e la ragazza di bronzo prese un coltello per recidere le corde
che lo legavano. «Immagino tu conosca già Nina» continuò Brekker.
«L’adorabile ragazza che ti sta liberando è Inej, la nostra ladra di segreti e la
migliore sul mercato. Jesper Fahey è il nostro tiratore scelto, con sangue Zemeni
nelle vene ma non prendertela con lui per questo, e questo è Wylan, il miglior
esperto di demolizioni del Barile.»
«Raske è più bravo» disse Inej.
Il ragazzo sollevò lo sguardo, con i capelli rosso oro che gli caddero sugli
occhi, e parlò per la prima volta. «Non è più bravo. È incosciente.»
«Sa il fatto suo.»
«Anch’io.»
«Poco» disse Jesper.
«Wylan è nuovo sulla scena» ammise Brekker.
«Per forza è nuovo, sembra che abbia dodici anni» ribatté Matthias.
«Ne ho sedici» disse Wylan con fare scontroso.
Matthias ne dubitava. Al massimo quindici. Il ragazzo pareva non avere
ancora cominciato a radersi. Infatti, con i suoi diciott’anni, Matthias aveva il
sospetto di essere il più vecchio del gruppo. Gli occhi di Brekker erano antichi,
ma non poteva essere più grande di lui.
Per la prima volta, Matthias guardò veramente le persone che gli stavano
attorno. Che razza di squadra è questa per una missione così rischiosa?
Il tradimento non sarebbe più stato un problema se fossero tutti morti. E solo lui
sapeva esattamente quanto infida avrebbe potuto dimostrarsi quest’impresa.
«Dovremmo usare Raske» disse Jesper. «È bravo sotto pressione.»
«Questa cosa non mi piace» concordò Inej.
«Non ho chiesto la vostra opinione» disse Kaz. «In più, Wylan non è solo
bravo a far saltare le cose. È la nostra assicurazione.»
«Da che cosa?» chiese Nina.
«Vi presento Wylan Van Eck» replicò Kaz Brekker mentre le guance del
ragazzino si facevano di fuoco. «Il figlio di Jan Van Eck, nonché la nostra
garanzia su trenta milioni di kruge.»
8
JESPER

Jesper fissò Wylan. «Ma certo, sei il figlio di un Consigliere.» Scoppiò a ridere.
«Questo spiega tutto.»
Si rendeva conto che avrebbe dovuto avercela con Kaz per averli tenuti
all’oscuro di un altro fondamentale tassello d’informazione, ma in quel preciso
momento si stava proprio godendo la scena della rivelazione dell’identità di
Wylan Van Eck, che si aggirava sbandando per la stanza come un puledro
scontroso che scalcia la polvere.
Wylan era rosso in viso e mortificato. Nina sembrava scioccata e infastidita.
Il Fjerdiano pareva semplicemente confuso. Kaz appariva totalmente
compiaciuto di se stesso. E, ovviamente, Inej neanche lontanamente sorpresa.
Lei raccoglieva i segreti di Kaz e li conservava. Jesper tentò di ignorare la fitta di
gelosia che provò a quel pensiero.
La bocca di Wylan si aprì e chiuse, la gola andò su e giù. «Lo sapevi?» domandò
avvilito.
Kaz si appoggiò allo schienale della sedia, con un ginocchio piegato e la
gamba malandata distesa davanti a sé. «Perché credi che ti tenga qua attorno?»
«Perché sono bravo a demolire.»
«Sei passabile a demolire. Ma come ostaggio sei una bomba.»
Era crudele, ma Kaz era fatto così. E il Barile era un maestro molto più
brutale di quel che Kaz avrebbe mai potuto essere. Perlomeno questo spiegava
perché Kaz si stesse coccolando Wylan e gli stesse passando dei colpi.
«Chissenefrega» disse Jesper. «Dovremmo comunque prendere Raske e
lasciare questo cucciolo di mercante sottochiave a Ketterdam.
«Non mi fido di Raske.»
«E ti fidi di Wylan Van Eck?» chiese Jesper in tono incredulo.
«Wylan non conosce abbastanza gente per poterci creare dei veri problemi.»
«Posso dire la mia?» si lamentò Wylan. «Visto che sono seduto qui?»
Kaz sollevò un sopracciglio. «Ti hanno mai svuotato le tasche, Wylan?»
«Io... non che io sappia.»
«Aggredito in un vicolo?»
«No.»
«Tenuto sospeso giù da un ponte con la testa nel canale?»
Wylan sbatté le palpebre. «No, ma...»
«Mai stato pestato fino a non poter camminare?»
«No.»
«E come mai, secondo te?»
«Io...»
«Sono tre mesi che hai lasciato il palazzo di papino sulla Geldstraat. Come ti
spieghi che il tuo soggiorno nel Barile sia stato così benedetto?»
«Fortuna, forse?» suggerì Wylan in maniera poco convinta.
Jesper sbuffò. «Si chiama Kaz la tua fortuna, mercantuccio. Ti ha messo sotto
la protezione degli Scarti: anche se sei così inutile che finora nessuno era riuscito
a spiegarsi il perché.»
«Lasciava perplessi» ammise Nina.
«Kaz ha sempre i suoi motivi» mormorò Inej.
«Perché sei scappato dalla casa di tuo padre?» domandò Jesper.
«Era tempo» disse Wylan in modo fermo.
«Idealista? Romantico? Rivoluzionario?»
«Idiota?» suggerì Nina. «Nessuno sceglie di vivere nel Barile se ha un’altra
opzione.»
«Non sono inutile» disse Wylan.
«Raske è il migliore a demolire...» iniziò Inej.
«Sono stato alla Corte di Ghiaccio. Con mio padre. Siamo andati a una cena
dell’ambasciata. Posso darvi una mano con la mappa.»
«Visto? Ha delle qualità nascoste.» Le mani guantate di Kaz tamburellarono
sulla testa di corvo del bastone. «E non voglio che la nostra unica leva su Van
Eck se ne stia al fresco a Ketterdam mentre noi ci dirigiamo a nord. Wylan viene
con noi. È bravo a sufficienza con le esplosioni e se la cava con gli schizzi,
grazie a tutti quei precettori cari come il fuoco.»
Wylan arrossì ancora di più, e Jesper scrollò la testa. «Suoni anche il piano?»
«Il flauto» disse Wylan sulla difensiva.
«Perfetto.»
«E dal momento che Wylan ha visto la Corte di Ghiaccio con i suoi occhi»
continuò Kaz, «ti darà una mano a essere sincero, Helvar.»
Il Fjerdiano lo guardò storto, e Wylan sembrò sentirsi male.
«Non preoccuparti» disse Nina. «Gli sguardi in cagnesco non sono letali.»
Jesper fece caso al modo in cui le spalle di Matthias si sollevavano ogni volta
che Nina apriva bocca. Non aveva idea di quale storia ci fosse tra i due, ma si
sarebbero probabilmente ammazzati a vicenda prima ancora di arrivare a Fjerda.
Jesper si massaggiò gli occhi. Era in debito di sonno ed esausto dopo
l’adrenalina dell’evasione, e ora aveva la testa in subbuglio al pensiero dei trenta
milioni di kruge. Anche dopo che Per Haskell avesse avuto il suo venti per
cento, sarebbero rimasti quattro milioni a testa. Cosa poteva farci con un
mucchio di soldi simile? Jesper poteva sentire suo padre dirgli: “Cacciati in un
sacco di merda grosso il doppio”. Santi numi, quanto gli mancava.
Kaz picchiò il bastone sul pavimento di legno lucido.
«Tira fuori una penna e un pezzo di carta, Wylan. Mettiamo Helvar al
lavoro.»
Wylan infilò la mano nella borsa a tracolla ai suoi piedi ed estrasse un sottile
rotolo di carta da macellaio, e a seguire un astuccio di metallo che custodiva un
set di pennini e boccette di inchiostro dall’aspetto estremamente costoso.
«Ma che bello» commentò Jesper. «Un pennino per ogni occasione.»
«Inizia a vuotare il sacco» disse Kaz al Fjerdiano. «È ora di pagare l’affitto.»
Matthias puntò uno sguardo furioso su Kaz. Proprio uno sguardo in cagnesco.
Era quasi divertente contrapposto a quello da squalo di Kaz.
Alla fine fu il Fjerdiano ad abbassare gli occhi, poi fece un bel respiro e disse:
«La Corte di Ghiaccio si trova su una scogliera che affaccia sul porto di
Djerholm. È stata costruita in cerchi concentrici, come gli anelli di un albero».
Parlava lentamente, come se ogni parola gli costasse sofferenza. «Per prime ci
sono le mura ad anello, poi c’è il cerchio esterno, che è diviso in tre settori. Al di
là c’è il fossato di ghiaccio, poi al centro di tutto quanto c’è l’Isola Bianca.»
Wylan si mise a disegnare. Jesper sbirciò da sopra la sua spalla. «Non sembra
un albero, sembra una torta.»
«In effetti, è più o meno una torta» disse Wylan sulla difensiva. «È tutto
costruito su un’altura.»
Kaz fece cenno a Matthias di proseguire.
«Le pareti della scogliera non si possono scalare, e la strada verso nord è
l’unica via per andare e venire. Bisogna attraversare un posto di blocco armato
prima di raggiungere le mura ad anello.»
«Due posti di blocco» lo interruppe Wylan. «Quando ci sono stato io, erano
due.»
«Ed eccole qua» disse Kaz a Jesper. «Competenze preziose. Wylan ti tiene
d’occhio, Helvar.»
«Perché due posti di blocco?» chiese Inej.
Matthias fissò le assi in noce scura del pavimento e disse: «È difficile riuscire
a corrompere due gruppi di guardie. La difesa della Corte si basa sempre su
sistemi multipli di sicurezza. Se arriverete fin lì...».
«Arriveremo, Helvar. Se arriveremo fin lì» lo corresse Kaz.
Il Fjerdiano alzò quasi impercettibilmente le spalle. «Se arriveremo fin lì, il
cerchio esterno sarà suddiviso in tre settori: la prigione, gli edifici dei drüskelle e
l’ambasciata, e ogni settore ha il suo cancello all’interno delle mura esterne. Il
cancello della prigione è sempre in funzione, ma è sempre sotto sorveglianza
armata. Degli altri due, solamente uno è operativo in qualsiasi momento.»
«In base a che cosa viene stabilito quale dev’essere il cancello operativo?»
domandò Jesper.
«Il programma cambia ogni settimana, e le postazioni delle guardie vengono
assegnate solo la notte prima.»
«Forse è una buona cosa» disse Jesper. «Se riusciamo a scoprire quale
cancello non è in funzione, non essendo presidiato o sorvegliato...»
«Ci sono sempre almeno quattro sentinelle in servizio anche quando il
cancello non è in funzione.»
«Con quattro sentinelle ce la possiamo fare, poco ma sicuro.»
Matthias scosse la testa. «I cancelli pesano migliaia di libbre e solo le
sentinelle possono aprirli e chiuderli da dentro le guardiole. E anche se si
riuscisse ad alzarne uno, aprire un cancello non previsto dal programma
innescherebbe il Protocollo Nero. Tutta la Corte sarebbe messa in sicurezza, e si
verrebbe localizzati subito.»
Un mormorio di agitazione attraversò la stanza. Jesper, a disagio, si mise a
camminare.
Se le espressioni sulle facce degli altri erano significative, erano attraversati
tutti dallo stesso pensiero: “In che cosa, esattamente, ci stiamo andando a
cacciare?”. Solo Kaz sembrava impassibile.
«Metti tutto su carta» disse Kaz, picchiettando sul foglio. «Helvar, mi aspetto
che più tardi tu descriva per filo e per segno tutti i meccanismi del sistema
d’allarme a Wylan.»
Matthias si accigliò. «Non so come funziona. È tutta una serie di cavi e
campanelli.»
«Digli quello che sai. Dove staranno tenendo Bo Yul-Bayur?»
Lentamente, Matthias si alzò e si avvicinò alle mappe che prendevano forma
sotto la penna di Wylan. Si muoveva in modo cauto e riluttante, come se Kaz gli
avesse detto di accarezzare un serpente a sonagli.
«Probabilmente qui» disse il Fjerdiano, mettendo il dito sulla carta. «Il settore
della prigione. Le celle di sicurezza sono al livello più alto. È dove tengono i
criminali pericolosi. Assassini, terroristi...»
«Grisha?» chiese Nina.
«Esattamente» rispose lui con un’espressione tetra.
«Ragazzi, ci regalerete momenti di vero spasso, lo sapete?» fece Jesper. «Di
solito, la gente ci mette una settimana per iniziare a odiarsi sul lavoro, ma voi
due vi siete portati avanti.»
Gli lanciarono due occhiatacce gemelle, e Jesper li ricambiò con un sorriso a
trentadue denti, mentre l’attenzione di Kaz era tutta sulle mappe.
«Bo Yul-Bayur non è pericoloso» disse pensieroso. «Almeno non in quel
modo. Non credo che lo tengano rinchiuso insieme alla gentaglia peggiore.»
«Secondo è in una fossa» disse Matthias.
«Parti dal presupposto che non sia morto. È un prigioniero prezioso, uno di
quelli che non deve finire nelle mani sbagliate prima del processo. Dove
potrebbe essere?»
Matthias guardò le mappe. «Gli edifici del cerchio esterno circondano il
fossato di ghiaccio, e nel centro del fossato c’è l’Isola Bianca, dove si trovano la
camera del tesoro e il Palazzo Reale. È il posto in assoluto più sicuro della Corte
di Ghiaccio.»
«È lì che si trova Bo Yul-Bayur» disse Kaz.
Matthias sorrise.
A dir la verità, era più uno scoprire i denti che un sorriso. “L’ha imparato
all’Anticamera dell’Inferno” pensò Jesper.
«Allora la tua ricerca è inutile» disse Matthias. «Un gruppo di estranei non ha
modo di arrivare all’Isola Bianca.»
«Non essere così compiaciuto, Helvar. Se noi non entriamo, tu non avrai la
tua grazia.»
Matthias fece spallucce. «Non posso cambiare la realtà delle cose. Il fossato
di ghiaccio è tenuto d’occhio da diverse torri di guardia sull’Isola Bianca e da un
posto di vedetta in cima all’Orologio Maggiore. L’unico modo per attraversarlo
è passare per il ponte di vetro, e l’unico modo per passare per il ponte di vetro è
avere l’autorizzazione.»
«Manca poco a Hringkälla» disse Nina.
«Stai zitta» scattò Matthias.
«Ti pregherei di non farlo più» commentò Kaz.
«Hringkälla. È il Giorno dell’Ascolto, quando i nuovi drüskelle vengono
iniziati sull’Isola Bianca.»
Le nocche di Matthias sbiancarono. «Non hai nessun diritto di parlare di
queste cose. Sono sacre.»
«Sono dati di fatto. La famiglia reale Fjerdiana dà una festa grande con ospiti
provenienti da ogni regione del mondo, e la maggior parte dell’intrattenimento
arriva dritto dritto da Ketterdam.»
«Intrattenimento?» chiese Kaz.
«Attori, ballerini, una troupe della Commedia Bruta, e i talenti migliori delle
case di appuntamento dello Stave dell’Ovest.»
«Ero convinto che i Fjerdiani non apprezzassero questo tipo di cose» disse
Jesper.
Inej arricciò le labbra. «Non hai mai visto i soldati Fjerdiani sugli Stave?»
«Intendevo quando sono a casa loro» si corresse Jesper.
«È l’unico giorno dell’anno in cui tutti smettono di comportarsi da asceti e si
godono un po’ la vita» rispose Nina. «E comunque, solo i drüskelle vivono come
monaci.»
«Godersi la vita non vuol dire ricorrere per forza al vino e... alla carne»
farfugliò Matthias.
Nina sbatté le lunghe ciglia lucide. «Tu, la vita, non te la godresti neanche se
ti si avvicinasse e ti si infilasse un lecca-lecca in bocca.» E tornò a guardare le
mappe. «Il cancello dell’ambasciata dovrà essere aperto. Forse non è il caso di
preoccuparsi di come penetrare nella Corte di Ghiaccio. Forse potremmo
semplicemente entrare camminando insieme agli artisti.»
«Non è lo Spettacolo Infernale» disse Kaz. «Non sarà così semplice.»
«Tutti i visitatori sono comunicati settimane prima del loro arrivo alla Corte
di Ghiaccio» fece Matthias. «I documenti di chiunque entri all’ambasciata
saranno controllati e ricontrollati. I Fjerdiani non sono stupidi.»
Nina alzò un sopracciglio. «Non tutti, almeno.»
«Non stuzzicare l’orso, Nina» disse Kaz. «Ci serve collaborativo. Quand’è
che si tiene la festa?»
«In questa stagione» rispose Nina, «durante l’equinozio di primavera.»
«Due settimane a partire da oggi» puntualizzò Inej.
Kaz piegò la testa di lato e puntò lo sguardo su qualcosa in lontananza.
«È la faccia che fa quando trama qualcosa» sussurrò Jesper a Inej.
Lei annuì. «Proprio quella.»
«La Rosa Bianca manderà una delegazione?» domandò Kaz.
Nina fece segno di no con la testa. «Non ne so nulla.»
«Anche se partiamo subito per Djerholm» disse Inej, «ci vorrà più di una
settimana per arrivare. Non c’è tempo per procurarsi dei documenti falsi, o
viaggiare sotto copertura in modo sicuro, e superare gli accertamenti.»
«Non entreremo dall’ambasciata» disse Kaz. «Colpire sempre dove il pollo
non guarda.»
«Come il pollo?» chiese Wylan.
Jesper scoppiò a ridere. «Oh, per tutti i Santi, sei un fenomeno. Il bersaglio, il
mammalucco, lo scemo che stai cercando di spennare.»
Wylan raddrizzò la schiena. «Posso non aver ricevuto la tua... istruzione, ma
sono certo di conoscere molte parole che tu ignori.»
«E anche il modo più appropriato di avvolgere un tovagliolo e danzare il
minuetto. Oh, e sei capace di suonare il flauto. Tutte competenze spendibili sul
mercato.»
«Nessuno danza più il minuetto» borbottò Wylan.
Kaz si appoggiò al muro. «Qual è il modo più semplice per rubare il
portafogli a qualcuno?»
«Un coltello alla gola?» suggerì Inej.
«Una pistola alla schiena?» disse Jesper.
«Del veleno nella tazza?» insinuò Nina.
«Siete delle persone orribili» disse Matthias.
Kaz roteò gli occhi. «Il modo più semplice per rubare il portafogli a qualcuno
è dirgli che state per rubargli l’orologio. Catturate l’attenzione e la indirizzate
dove voi volete che vada. Questo lavoro lo farà Hringkälla al posto nostro. La
Corte di Ghiaccio dovrà dirottare delle risorse per sorvegliare gli ospiti e
proteggere la famiglia reale. Non saranno in grado di guardare ovunque nello
stesso momento. È l’occasione perfetta per tirar fuori da lì Bo Yul-Bayur.» Kaz
indicò il cancello della prigione nel muro ad anello. «Ricordi cosa ti ho detto
all’Anticamera dell’Inferno, Nina?»
«È difficile tenere a mente tutte le tue perle di saggezza.»
«In prigione se ne fregheranno di chi entra, staranno attenti solamente a tutti
quelli che proveranno a uscire.» Il dito guantato scivolò di lato sul settore
successivo. «All’ambasciata se ne fregheranno di chi esce, saranno concentrati
soltanto su quelli che vogliono entrare. Noi entreremo dalla prigione e ce ne
andremo dall’ambasciata. Helvar, l’Orologio Maggiore funziona?»
Matthias annuì. «Batte ogni quarto d’ora. Anche i protocolli d’allarme sono
impostati così.»
«È preciso?»
«Ovviamente.»
«Alta ingegneria Fjerdiana» commentò Nina, acida.
Kaz la ignorò. «Allora useremo l’Orologio Maggiore per sincronizzare i
nostri movimenti.»
«Entreremo travestiti da guardie?» domandò Wylan.
Jesper non riuscì a non suonare sprezzante. «Soltanto Nina e Matthias parlano
Fjerdiano.»
«Io lo parlo» protestò Wylan.
«Scuola Fjerdiana, giusto? Scommetto che tu parli Fjerdiano più o meno
come io parlo la lingua degli alci.»
«La lingua degli alci è probabilmente la tua lingua madre» bofonchiò Wylan.
«Entreremo così come siamo» disse Kaz. «Vestiti da criminali. La prigione è
la nostra porta d’ingresso.»
«Fammi capire bene» disse Jesper. «Tu vorresti che i Fjerdiani ci chiudano in
prigione. Non è quello che cerchiamo di evitare?»
«I criminali hanno identità anonime, sfuggenti. È uno dei benefici di
appartenere alla classe sociale dei farabutti. Staranno a contare le teste al
cancello della prigione, staranno a guardare i nomi e i reati, ma non
controlleranno i passaporti e non verificheranno i sigilli dell’ambasciata.»
«Perché nessuno vuole andare in galera» disse Jesper.
Nina incrociò le braccia sopra la testa. «Non voglio essere rinchiusa in una
cella Fjerdiana.»
Kaz si diede un colpetto alla manica e tra le dita gli apparvero due sottili
bacchette metalliche. Gli ballarono in mano, tra una nocca e l’altra, e poi
sparirono nuovamente.
«Grimaldelli?» domandò Nina.
«Alle celle lasciate che ci pensi io» disse Kaz.
«Colpire dove il pollo non guarda» fece Inej, pensosa.
«Esatto» convenne Kaz. «E la Corte di Ghiaccio è come qualunque altro
pollo, un grande pollo bianco pronto per essere spennato.»
«Yul-Bayur ci verrà dietro senza battere ciglio?» domandò Inej.
«Van Eck sostiene che il Consiglio abbia dato a Yul-Bayur una parola
d’ordine la prima volta che hanno tentato di portarlo fuori da Shu Han, in modo
che lui potesse sapere di chi fidarsi: Sesh-uyeh. La parola d’ordine gli farà capire
che siamo stati mandati da Kerch.»
«Sesh-uyeh» ripeté Wylan, scandendo le sillabe in modo sgraziato. «Che cosa
significa?»
Nina fissò una macchia sul pavimento e disse: «Disperato».
«Si può fare» concluse Kaz «e saremo noi a farlo.» Jesper sentì che
l’atmosfera della stanza mutava a mano a mano che l’impresa diventava
plausibile. Era una sensazione sottile, che lui aveva imparato a percepire ai tavoli
da gioco: quel momento in cui un giocatore diventa consapevole del fatto che
potrebbe vincere la partita. Il senso di aspettativa lo ringalluzzì, un mix
spumeggiante di paura ed eccitazione che gli rendeva difficile stare fermo.
Forse anche Matthias la avvertì, perché incrociò le enormi braccia che si
ritrovava e disse: «Voi non vi rendete conto di cosa state per affrontare».
«Ma tu sì, Helvar. Lavorerai alle mappe della Corte di Ghiaccio ogni minuto
che c’è da qui a quando salperemo. Nessun dettaglio è insignificante o
irrilevante. Ogni tanto verrò a dare un occhio.»
Inej seguì con il dito il bozzetto che Wylan aveva tracciato, una serie di cerchi
concentrici. «Assomiglia davvero agli anelli di un albero» disse.
«No» replicò Kaz. «Assomiglia a un bersaglio.»
9
KAZ

«Qui abbiamo finito» disse Kaz agli altri. «Manderò un messaggio a ognuno di
voi dopo che avrò trovato una barca, ma preparatevi a partire entro domani
notte.»
«Così presto?» domandò Inej.
«Non sappiamo che razza di tempo ci toccherà, e abbiamo un lungo viaggio
davanti a noi. Hringkälla è la nostra occasione migliore per arrivare a Bo Yul-
Bayur. Non intendo rischiare di perderla.»
A Kaz serviva del tempo per riflettere a fondo sul piano che stava prendendo
forma nella sua testa. I punti fondamentali c’erano: da dove sarebbero entrati,
come sarebbero usciti. Ma la strategia che si era figurato prevedeva che non si
portassero dietro granché. Avrebbero dovuto cavarsela senza le loro solite
risorse. E questo voleva dire più variabili e molte più possibilità che le cose
andassero storte.
Con Wylan Van Eck al seguito potevano almeno essere sicuri che avrebbero
ricevuto la loro ricompensa. Ma non sarebbe stato facile. Non avevano nemmeno
lasciato Ketterdam e Wylan sembrava già un pesce fuor d’acqua.
Non era tanto più giovane di Kaz, ma in un certo senso sembrava un bambino
– la pelle liscia, gli occhi spalancati, un po’ come un cucciolo dalle orecchie
morbide dentro una stanza piena di cani da combattimento.
«Vedi di tenere Wylan fuori dai guai» disse a Jesper mentre li congedava.
«Perché io?»
«Perché sei così sfortunato da essere nel mio campo visivo, e perché non
voglio riconciliazioni improvvise tra padre e figlio prima che salpiamo.»
«Per questo non ti preoccupare» disse Wylan.
«Io mi preoccupo di tutto, mercantuccio. Ecco perché sono ancora vivo. E
anche tu devi tenere d’occhio Jesper.»
«Tenere d’occhio me?» disse Jesper, indignato.
Kaz fece scorrere di lato un pannello di legno scuro e aprì la cassaforte che
era nascosta dietro. «Sì, tu.» Estrasse quattro rotolini di kruge e ne consegnò uno
a Jesper. «Questi sono per i proiettili, non per le scommesse. Wylan, verifica che
non imbocchi misteriosamente la strada per una bisca mentre sta andando a
comprare le munizioni, ci siamo intesi?»
«Non ho bisogno di una bambinaia» sbottò Jesper.
«Direi piuttosto una dama di compagnia, ma se desideri che Wylan ti cambi i
pannolini e ti rimbocchi le coperte quando vai a nanna, sono affari tuoi.» Ignorò
l’espressione ferita di Jesper e distribuì qualche kruge a Wylan, per gli esplosivi,
e a Nina, per qualunque cosa servisse. «Fai la scorta solo per il viaggio» disse.
«Se andrà come penso, ci toccherà entrare nella Corte di Ghiaccio a mani
vuote.»
Vide passare un’ombra sul viso di Inej. Le piaceva stare senza pugnali come a
lui piaceva stare senza bastone.
«Bisogna che ti procuri dei vestiti pesanti» le disse. «C’è un negozio sulla
Wijnstraat per i cacciatori di pellicce: incomincia da lì.»
«Vuoi arrivare da nord?» chiese Helvar.
Kaz annuì. «Il porto di Djerholm pullula di doganieri, e sono pronto a
scommettere che stringeranno la sicurezza durante la vostra bella festona.»
«Non è una festa.»
«Ha tutta l’aria di essere una festa» disse Jesper.
«Non dovrebbe essere una festa» si corresse Helvar in modo scontroso.
«Che cosa facciamo con lui?» chiese Nina, indicando Matthias con un cenno
del capo. Lo chiese in tono disinteressato, ma era un’esibizione sprecata per tutti
tranne che per Helvar. Avevano visto le sue lacrime all’Anticamera dell’Inferno.
«Per il momento, se ne resta qui al Club dei Corvi. Voglio che tu vada a
ripescare nella tua memoria anche i dettagli, Helvar. Wylan e Jesper ti
raggiungeranno più tardi. Terremo questa stanza chiusa. Se qualche giocatore nel
salone si mette a fare domande, ditegli che è in corso una partita privata.»
«Dobbiamo dormire qui?» domandò Jesper. «Ho delle cose da controllare alla
Stecca.»
«Sopravvivrai» disse Kaz, anche se chiedere a Jesper di trascorrere la notte in
una bisca senza poter puntare neanche una volta era proprio una crudeltà. Si
voltò verso gli altri. «Non una parola con nessuno. Non si deve sapere che state
lasciando Kerch. State lavorando con me a un colpo in una casa di campagna
fuori città. Tutto qui.»
«Hai intenzione di dirci qualcos’altro del tuo incredibile piano?» domandò
Nina.
«Sulla nave. Meno sapete, meno spifferate in giro.»
«E intendi lasciare Helvar slegato?»
«Ti comporterai bene?» chiese Kaz al Fjerdiano.
Lo sguardo di Matthias era omicida, ma fece segno di sì con la testa.
«Chiudiamo la stanza e mettiamo una guardia.»
Inej soppesò la stazza da gigante del Fjerdiano. «Magari due.»
«Chiamate Dirix e Rotty, ma non entrate troppo nei dettagli. Loro salperanno
con noi, e posso sempre aggiornarli dopo. Wylan, io e te dobbiamo farci due
chiacchiere. Voglio sapere tutto della società commerciale di tuo padre.»
Wylan si strinse nelle spalle. «Io non so niente. Lui non mi coinvolge in
questo genere di discussioni.»
«Mi stai dicendo che non hai mai ficcato il naso nel suo ufficio? Che non hai
mai sbirciato nelle sue carte?
«No» ribatté Wylan, il mento leggermente sporgente. Kaz, a sorpresa, si
ritrovò a credergli.
«Che ti ho detto?» fece Jesper allegramente mentre si dirigeva alla porta.
«Inutile.»
Gli altri si accodarono e Kaz chiuse la cassaforte, girando la rotella della
serratura a combinazione.
«Devo parlarti, Brekker» disse Helvar. «In privato.»
Inej lanciò a Kaz un’occhiata di avvertimento. Kaz la ignorò. Pensava forse
che non fosse in grado di gestire una massa di muscoli campagnoli come
Matthias Helvar? Chiuse il pannello a muro e scrollò la gamba. Gli faceva male:
troppe notti insonni e troppo tempo in piedi.
«Vai pure, Spettro» disse. «Chiudi la porta quando esci.»
Non appena la serratura scattò, Matthias balzò su di lui. Kaz lo lasciò fare. Se
lo aspettava.
Matthias gli tappò la bocca con una mano sudicia. La sensazione della pelle
di lui sulla propria gli diede il voltastomaco, ma poiché aveva previsto l’attacco,
riuscì a tenere sotto controllo la nausea che lo invadeva. Con l’altra mano,
intanto, Matthias frugava nelle tasche del suo gilè, prima l’una e poi l’altra.
«Fer esje?» grugnì con rabbia in Fjerdiano. Poi, in Kerch: «Dov’è?».
Kaz gli regalò un altro istante di ricerca frenetica, poi abbassò il gomito e lo
affondò, costringendo Helvar a lasciare la presa. Kaz gli scivolò via facilmente.
Quindi lo colpì dietro la gamba destra con il bastone. Il grande e grosso
Fjerdiano crollò a terra. Quando cercò di rialzarsi, Kaz gli diede un calcio.
«Stai giù, patetico stronzo.»
Helvar tentò di sollevarsi un’altra volta. Era veloce, e la prigione lo aveva
irrobustito. Kaz lo colpì forte sulla mascella e poi, con la punta del bastone,
infilzò velocemente le enormi spalle di Helvar, proprio nei due punti di
pressione. Il Fjerdiano emise un grugnito mentre le braccia gli si afflosciavano
sui fianchi.
Kaz fece ruotare il bastone e premette la testa di corvo sulla gola di Helvar.
«Muoviti ancora e ti spappolerò la mandibola, così sarai costretto a mangiare
con la cannuccia per il resto della tua vita.»
Il Fjerdiano rimase immobile, gli occhi azzurri illuminati dall’odio. «Dov’è la
grazia?» ringhiò. «Ti ho visto metterla in tasca.»
Kaz si accovacciò accanto a lui e, da una tasca che sembrava vuota fino a un
attimo prima, estrasse il documento ripiegato. «Questa?»
Il Fjerdiano fece ciondolare le braccia paralizzate e inservibili, e si lasciò andare
a un verso animale quando Kaz fece sparire la grazia nell’aria. Il foglio gli
riapparve tra le dita. Lo girò una volta, mostrando per un attimo il testo, poi ci
passò la mano sopra, e mostrò a Helvar la pagina apparentemente bianca.
«Demjin» biascicò Helvar. Kaz non parlava il Fjerdiano, ma quella parola la
conosceva. Demone.
Per niente. Aveva imparato a fare i trucchi con le carte dai bari dello Stave
dell’Est, e passato ore e ore a fare pratica di fronte a uno specchio opaco che
aveva comprato con la prima paga settimanale.
Kaz diede un colpetto con il bastone, delicatamente, sulla guancia di Helvar.
«Per ogni trucco che hai visto, ne conosco altri mille. Pensi che un anno
all’Anticamera dell’Inferno ti abbia indurito? Che ti abbia insegnato a
combattere? A me l’Anticamera dell’Inferno sarebbe sembrata un paradiso
quand’ero bambino. Ti muovi come un bue: saresti durato sì e no due giorni
sulle strade dove sono cresciuto io. Questo era il tuo unico bonus, Helvar. Non
mettermi di nuovo alla prova. Fai cenno di sì con la testa per farmi vedere che
hai capito.»
Helvar serrò le labbra e annuì una volta.
«Bene. Mi sa che per questa notte ti metteremo i ceppi alle caviglie.»
Kaz si alzò, prese il cappello nuovo dalla scrivania su cui lo aveva
appoggiato, e diede al Fjerdiano un ultimo calcio nei reni per sicurezza. A volte
quelli grossi non sapevano quando abbassare la cresta.
10
INEJ

Il giorno dopo Inej vide che Kaz incominciava a muovere le pedine del suo
piano sulla scacchiera.
Era stata messa al corrente delle sue congetture insieme a ogni altro membro
della squadra, ma conosceva solo alcuni frammenti della trama.
Era il gioco che Kaz faceva sempre.
Se lui aveva dei dubbi su ciò che stavano per fare non li mostrava, e Inej
desiderava possedere le sue certezze. La Corte di Ghiaccio era stata costruita per
resistere alla carica di eserciti, assassini, Grisha e spie. Quando l’aveva fatto
notare a Kaz, lui aveva risposto semplicemente: «Ma non è stata costruita per
tenere fuori noi».
La sua sicurezza la turbava. «Cosa ti fa credere che ce la possiamo fare? Ci
saranno delle altre squadre là fuori, soldati addestrati e spie, professionisti con
anni di esperienza.»
«Questo non è un lavoro per soldati addestrati e spie. È un lavoro per ladri e
delinquenti. Van Eck lo sa, ecco perché ha tirato in mezzo noi.»
«Non puoi spendere il suo denaro da morto.»
«Indulgerò in vizi costosi nell’aldilà.»
«C’è differenza tra la sicurezza e l’arroganza.»
A quel punto lui si era voltato e aveva dato un brusco strattone a entrambi i
guanti. «Quando vorrò sentire una predica sull’argomento, saprò chi chiamare.
Se vuoi tirartene fuori, basta dirlo.»
Lei aveva raddrizzato la spina dorsale, l’orgoglio levato in propria difesa.
«Matthias non è l’unico membro insostituibile di questa banda, Kaz. Tu hai
bisogno di me.»
«Ho bisogno delle tue abilità, Inej. Non è la stessa cosa. Sarai anche il ragno
migliore che zampetta per il Barile, ma non sei l’unico. Farai bene a ricordartelo
se vuoi la tua parte di bottino.»
Lei non aveva ribattuto, non voleva fargli vedere quanto l’avesse fatta
arrabbiare, ma aveva lasciato il suo ufficio e da allora non gli aveva più rivolto la
parola.
Adesso, mentre si dirigeva verso il porto, si domandò che cosa la spingesse ad
andare avanti.
Avrebbe potuto lasciare Kerch in qualsiasi momento. Avrebbe potuto
viaggiare clandestinamente su una nave diretta a Novyi Zem. Avrebbe potuto
tornare a Ravka e mettersi in cerca della propria famiglia.
Se tutto era andato per il verso giusto, i suoi si erano messi in salvo a ovest
quand’era scoppiata la guerra civile, o forse si erano rifugiati a Shu Han. Le
carovane Suli facevano sempre le stesse strade da anni, e lei sarebbe stata capace
di rubare quello che le serviva per sopravvivere finché non li avesse trovati.
Ma questo avrebbe voluto dire non ripagare il proprio debito agli Scarti. Per
Haskell avrebbe dato la colpa a Kaz; Kaz sarebbe stato costretto a ripagare di
persona il prezzo del suo contratto, e lei l’avrebbe reso vulnerabile, sprovvisto
dello Spettro che carpiva per lui i segreti.
Ma lui non le aveva forse detto che l’avrebbe facilmente rimpiazzata? Se
fossero riusciti a portare a termine questo colpo e a tornare a Kerch con Bo Yul-
Bayur sano e salvo al seguito, la ricompensa che le spettava sarebbe stata più che
sufficiente a estinguere il debito e a comprarsi la via d’uscita dagli Scarti. A Kaz
non doveva niente, e non ci sarebbe stato più alcun motivo per restare.
Il sole sarebbe spuntato da lì a un’ora, ma le strade erano affollate mentre lei
si dirigeva dallo Stave dell’Est allo Stave dell’Ovest.
C’era un modo di dire Suli che faceva così: “Il cuore è una freccia. Richiede
un obiettivo da centrare con precisione”. Suo padre amava citarlo quando lei si
esercitava sul filo o al trapezio. “Schiarisciti le idee” diceva. “Devi sapere dove
vuoi andare se vuoi arrivarci.” Sua madre aveva riso ascoltandolo. “Non parla di
questo” aveva detto. “Tu riesci a togliere il romanticismo da qualsiasi cosa.” E
invece non era affatto così. Suo padre aveva adorato sua madre.
Inej ricordava che lasciava in giro piccoli mazzi di gerani selvatici perché lei
li trovasse ovunque, negli armadietti della credenza, nelle pentole da campo,
nelle maniche dei suoi costumi da circo.
“Vuoi che ti dica il segreto del vero amore?” le aveva domandato una volta
suo padre. “A un mio amico piaceva dire che le donne amano i fiori. Lui aveva
avuto molte avventure, ma non aveva mai avuto una moglie. E sai perché?
Perché è vero che le donne amano i fiori, ma c’è solo una donna che ama il
profumo delle gardenie di fine estate che le ricorda la veranda della nonna. E c’è
solo una donna che ama i boccioli degli alberi di melo dentro una tazza blu. E
c’è solo una donna che ama i gerani selvatici.”
“È la mamma!”aveva urlato Inej.
“Sì, la mamma ama i gerani selvatici perché nessun altro fiore ha quel colore
lì, e lei sostiene che quando recide lo stelo e infila un gambo dietro l’orecchio, il
mondo intero profuma d’estate. Molti ragazzi ti regaleranno dei fiori. Ma un
giorno ne incontrerai uno che imparerà a riconoscere qual è il tuo fiore preferito,
la tua canzone preferita, il tuo dolce preferito. E anche se sarà troppo povero per
regalarti quelle cose, non avrà importanza perché lui si sarà preso il tempo per
conoscerti come nessun altro. Solamente quel ragazzo si merita il tuo cuore.”
Sembrava che fossero passati cent’anni.
Suo padre si era sbagliato. I ragazzi che le avevano portato i fiori non c’erano
stati, soltanto uomini con mucchietti di kruge e borsellini pieni di monete.
Avrebbe mai rivisto suo padre? Avrebbe mai risentito sua madre cantare,
avrebbe mai riascoltato gli stupidi racconti di suo zio? Non sono sicura di avere
ancora un cuore, papà.
Il problema era che Inej non sapeva più bene qual era il suo obiettivo.
Quand’era piccola era facile: un sorriso di suo padre, un altro passo sulla corda
tesa, torte d’arancia avvolte nella carta bianca. Poi era stata la volta del
riconquistare la libertà da Tante Heleen e dal Serraglio, e dopo di quello,
sopravvivere ogni giorno, diventare un po’ più forte ogni mattina. Ora, invece,
non sapeva più quello che voleva.
“Questa volta, mi dovrà porgere le sue scuse” decise. “E non salirò a bordo
della nave finché non le avrò. Se Kaz non è veramente dispiaciuto, può fare
finta. Mi deve almeno la sua migliore imitazione di un essere umano.”
Se non fosse stata in ritardo, si sarebbe aggirata per lo Stave dell’Ovest o
sarebbe saltata da un tetto all’altro: era questa la Ketterdam che amava, vuota e
silenziosa, che stava in alto sopra la folla, una catena montuosa illuminata dalla
luna di tetti a punta e comignoli sbilenchi. Ma questa notte aveva poco tempo.
Kaz, all’ultimo minuto, l’aveva mandata a rovistare nei negozi alla ricerca di due
pezzi di paraffina. Non le aveva neanche spiegato a che cosa servivano o perché
erano così necessari. E gli occhialini da neve? Aveva dovuto fare visita a tre
botteghe diverse per trovarli. Era così stanca che non si fidava del tutto a scalare
i tetti, non dopo le due notti insonni e un giorno passato a trattare sul prezzo
delle provviste per il loro lungo viaggio fino alla Corte di Ghiaccio.
Ebbe il sospetto che si stesse anche mettendo alla prova.
Non aveva mai percorso lo Stave dell’Ovest da sola. Con gli Scarti al suo
fianco, poteva passeggiare davanti al Serraglio senza degnare di uno sguardo le
sbarre d’oro alle finestre. Ma stanotte il cuore le batteva all’impazzata, e sentì il
sangue pulsarle alle tempie quando le apparve davanti la facciata dorata. Il
Serraglio era stato costruito per sembrare una gabbia a più livelli, con i primi due
piani lasciati aperti se non per le sbarre d’oro ampiamente distanziate fra loro.
Era anche noto come la Casa delle Creature Esotiche. Se si aveva un debole per
una ragazza Shu o una gigantessa Fjerdiana, per una rossa dell’Isola Errante o
per una Zemeni dalla pelle scura, era il Serraglio la meta ideale. Tutte le ragazze
erano chiamate con un nome di animale: leopardo, cavallo, volpe, cornacchia,
ermellino, cerbiatto, serpente. Le veggenti Suli indossavano la maschera da
sciacallo quando leggevano le carte e sbirciavano nel destino delle persone. Ma
quale uomo avrebbe voluto andare a letto con uno sciacallo? Così le ragazze Suli
– e il Serraglio aveva sempre a disposizione una ragazza Suli – erano linci. Ai
clienti non interessavano le donne in quanto tali, ma solo la pelle scura Suli, il
fuoco dei capelli Kaelish, il taglio degli occhi gialli Shu. Gli animali rimanevano
gli stessi, invece le ragazze andavano e venivano.
Inej intravide delle penne di pavone nell’ingresso, e al suo cuore mancò un
battito. Era solo un particolare decorativo, un dettaglio della sfarzosa
composizione floreale, ma alla paura dentro di lei non importava. Il terrore
crebbe e le attanagliò il respiro. La gente era ammassata da tutte le parti, gli
uomini in maschera e le donne velate: o forse erano uomini con il velo e donne
in maschera. Era impossibile a dirsi. Le corna dell’Imperatore. Gli occhi
strabuzzati del Folle, la faccia triste della Regina Scarabeo in nero e oro. Gli
artisti amavano dipingere le scene dello Stave dell’Ovest, i ragazzi e le ragazze
che lavoravano nei bordelli, i libertini vestiti da personaggi della Commedia
Bruta. Ma non c’era nessuna bellezza nel Serraglio, nessuna vera allegria e
nessuna gioia, soltanto compravendite, gente in cerca di una fuga o di un oblio
colorato, qualche sogno di decadenza da cui potevano svegliarsi ogni qual volta
lo desideravano.
Inej si sforzò di guardare il Serraglio mentre ci passava davanti.
“È solo un luogo” disse a se stessa. “Solo un’altra casa.” In che modo
l’avrebbe guardato Kaz? Dove sono le entrate e le uscite? Come funzionano le
serrature? Quali finestre sono senza sbarre? Quante guardie sono in servizio, e
quali sembrano attente? Solo un edificio pieno di serrature da forzare, casseforti
da aprire, polli da gabbare. Ed era lei il predatore adesso, non Heleen nelle sue
piume di pavone, non gli uomini che camminavano per strada.
Non appena Inej si allontanò dal Serraglio, la morsa che aveva al petto e alla
gola iniziò ad allentarsi. Ce l’aveva fatta. Aveva percorso da sola lo Stave
dell’Ovest, era passata proprio davanti alla Casa delle Creature Esotiche.
Qualunque cosa la stesse aspettando a Fjerda, l’avrebbe affrontata.
Una mano arpionò il suo avambraccio e tirò, facendola incespicare.
Inej recuperò velocemente l’equilibrio. Girò sui talloni e cercò di staccarsi,
ma la presa era troppo forte.
«Ciao, piccola lince.»
Inej inspirò e liberò il braccio con uno strattone. Tante Heleen. È così che le
ragazze dovevano chiamare Heleen Van Houden se non volevano assaggiare il
dorso della sua mano. Per il resto del Barile lei era il Pavone, anche se Inej aveva
sempre pensato che fosse più un gatto pieno di sé che un uccello. I suoi capelli
erano di un color oro viscoso e sensuale, gli occhi nocciola e leggermente felini.
La sua corporatura alta e sinuosa era avvolta in un abito di vivace seta blu, la
profonda scollatura accentuata da piume cangianti che solleticavano il girocollo
di diamanti che come al solito le luccicava sulla pelle.
Inej si voltò per scappare, ma la strada era bloccata da un colosso, la giacca di
velluto blu strizzata sulle grosse spalle. Cobbet, lo scagnozzo preferito di
Heleen.
«Oh no, non lo farai, piccola lince.»
Lo sguardo di Inej si offuscò. Intrappolata. Intrappolata. Intrappolata di
nuovo.
«Non mi chiamo così» cercò di dire Inej con il respiro corto.
«Piccola testarda.»
Heleen afferrò la casacca di Inej.
“Muoviti” le urlò una voce dentro la testa, ma non ci riuscì. I muscoli erano
rattrappiti; la mente era invasa da un gemito acuto di terrore.
Heleen fece scorrere un artiglio curatissimo lungo la sua guancia. «Lince è il
tuo unico nome» cantilenò. «Sei ancora abbastanza carina da tirar su dei bei
soldi. Però gli occhi sono più duri: hai passato troppo tempo con quel
delinquente di Brekker.»
Un verso di umiliazione scaturì dalla gola di Inej, un rantolo strozzato.
«Io so di che pasta sei fatta, lince. So quanto vali fino all’ultimo centesimo.
Cobbet, forse dovremmo portarla a casa adesso.»
La vista di Inej si offuscò. «Non osare. Gli Scarti...»
«Posso aspettare il momento giusto, piccola lince. Indosserai ancora i miei
vestiti di seta, è una promessa.» Heleen lasciò andare Inej. «Goditi la serata»
disse con un sorriso, poi aprì il suo ventaglio blu e sparì nella folla portandosi
dietro Cobbet.
Inej rimase ferma, a tremare. Poi si immerse anche lei nella calca, impaziente
di scomparire. Voleva mettersi a correre, ma continuò ad avanzare in modo
regolare, senza scatti, spingendosi verso il porto. Mentre camminava slacciò i
ganci dei foderi fissati agli avambracci e sentì i manici dei pugnali scivolarle in
mano. Sankt Petyr, famoso per il suo coraggio, nella destra; la lama sottile e dal
manico di osso che aveva chiamato Sankta Alina nella sinistra. Recitò anche i
nomi di tutti gli altri coltelli che possedeva. Sankta Marya e Sankta Anastasia,
fissati con una cinghia alle sue cosce. Sankt Vladimir, nascosto in uno dei suoi
stivali, e Sankta Lizabeta, comoda alla cintura, la lama decorata con una fantasia
di rose. Proteggetemi, proteggetemi. Inej aveva bisogno di credere che i suoi
Santi vedessero e capissero quello che faceva per sopravvivere.
Cosa c’era che non andava? Lei era lo Spettro. Non aveva più niente da
temere da Tante Heleen. Per Haskell aveva riscattato il suo contratto. L’aveva
liberata. Non era più una schiava; era un valido membro degli Scarti, una ladra
di segreti, la migliore nel Barile.
Si affrettò dietro la luce e la musica del Coperchio e finalmente le apparvero i
porti di Ketterdam, e più si avvicinava all’acqua più i luoghi e i rumori del Barile
sbiadivano. Qui non c’erano gruppi di persone da urtare, profumi nauseanti o
maschere feroci. Fece un lungo respiro profondo. Da dove si trovava poteva
vedere la cima di una delle torri degli Scuotiacque, dove le luci delle torce erano
sempre accese. I grossi obelischi di pietra nera erano presidiati giorno e notte da
un gruppo prescelto di Grisha che tenevano costantemente alte le maree sopra il
ponte di terra che altrimenti avrebbe collegato Kerch a Shu Han. Persino Kaz
non era mai stato capace di scoprire chi formava il Consiglio delle Maree, dove
vivevano, o come era stata garantita la loro lealtà a Kerch. Gli Scuotiacque
controllavano anche i porti, e se dai capitani o dai marinai arrivava un segnale,
loro modificavano le maree e impedivano a tutti di partire. Ma quella sera non ci
sarebbe stato nessun segnale. Erano state date le bustarelle giuste agli ufficiali
giusti, e la loro nave doveva essere già pronta per salpare.
Inej si mise a correre, puntando verso le banchine galleggianti di Quinto
Porto. Era in ritardissimo, e non moriva dalla voglia di vedere lo sguardo di
disapprovazione di Kaz quando fosse arrivata al pontile.
Le piaceva la pace delle banchine, ma sembravano quasi troppo calme dopo il
fracasso e la confusione del Barile. Qui, le file di casse e di scatole colme di
merci erano impilate su entrambi i lati: tre, a volte quattro casse, una sull’altra.
Facevano sembrare questa zona della banchina un labirinto. Il sudore freddo le
imperlò il fondo della schiena. L’incontro inaspettato con Tante Heleen l’aveva
scossa, e la presenza confortante dei pugnali in mano non era sufficiente a
placare i suoi nervi scoperti. Sapeva che avrebbe dovuto abituarsi a portare una
pistola, ma il peso destabilizzava il suo senso dell’equilibrio, e poi le pistole
potevano incepparsi o scattare nel momento sbagliato. Piccola lince. I suoi
pugnali erano affidabili. E la facevano sentire come se fosse nata con gli artigli
giusti.
Attraverso la nebbiolina leggera che si stava sollevando sopra l’acqua, Inej
vide Kaz e gli altri che stavano aspettando vicino al molo. Indossavano banali
vestiti da marinaio: pantaloni di tela ruvida, stivali, giacche di lana pesante e
cappelli. Anche Kaz aveva rinunciato al suo abito tagliato su misura in maniera
impeccabile a favore di una pesante giacca di lana. I folti capelli neri erano
pettinati all’indietro, ai lati erano tagliati corti come sempre. Sembrava uno
scaricatore di porto, o un ragazzo che prendeva il largo per la sua prima
avventura in mare. Era un po’ come se lei stesse scrutando, attraverso una lente
d’ingrandimento, una realtà diversa e più piacevole.
Alle loro spalle vide la piccola goletta che Kaz aveva requisito: su un fianco,
a grosse lettere, c’era scritto Ferolind. Sventolava la bandiera con i pesci viola di
Kerch e quella colorata della Compagnia della Baia Haanraadt. A tutti, a Fjerda
o tra i flutti del Mare Vero, sarebbero semplicemente sembrati dei cacciatori di
pelli e pellicce che puntavano a nord. Inej accelerò il passo. Se lei non fosse stata
in ritardo, gli altri sarebbero già saliti a bordo o addirittura sarebbero stati in
viaggio fuori dal porto.
Avevano tenuto l’equipaggio al minimo, tutti ex marinai che si erano fatti
strada nei ranghi degli Scarti tra una sventura e l’altra. Attraverso la nebbia
contò velocemente chi c’era nel gruppo in attesa. Il numero non tornava.
Sarebbero dovuti esserci anche quattro membri in più degli Scarti per dare una
mano a mettere in mare la goletta dal momento che nessuno di loro conosceva
davvero le manovre da fare, ma non ne vedeva nessuno. Forse erano già a
bordo? Ma proprio quando il pensiero le attraversò la mente, i suoi stivali
toccarono qualcosa di morbido e inciampò.
Guardò in basso. Nella luce fioca dei lampioni del porto, vide Dirix, uno degli
Scarti che avrebbe dovuto viaggiare con loro. Aveva un coltello in pancia, e gli
occhi erano vitrei.
«Kaz!» urlò Inej.
Troppo tardi. La goletta esplose, buttando Inej a terra e riducendo la banchina
in fiamme.
11
JESPER

Jesper stava bene quando le persone gli sparavano. Non perché gli piacesse
l’idea di morire (anzi, quell’eventualità era sicuramente un inconveniente), ma
quando si preoccupava di rimanere vivo non poteva permettersi di pensare a
nient’altro. Quel suono – il veloce, scioccante rimbombo di uno sparo – faceva
concentrare la sua mente sbandata, irascibile e sempre a zonzo, come
nessun’altra cosa al mondo. Era meglio che stare seduto ai tavoli da gioco ad
aspettare di perdere, ed era meglio che stare in piedi alla Ruota della Fortuna di
Makker a veder uscire il proprio numero.
L’aveva scoperto durante il primo combattimento alla frontiera Zemeni. Suo
padre sudava, tremava, ed era a malapena in grado di ricaricare il fucile. Ma
Jesper aveva scoperto la propria vocazione.
Ora incrociò le braccia in cima alla cassa dietro cui si era riparato e fece
fuoco con entrambe le canne. Le sue rivoltelle erano di fabbricazione Zemeni,
potevano sparare sei colpi in rapida successione e non temevano confronti con
altre pistole a Ketterdam. Le sentì diventare calde nelle sue mani.
Kaz li aveva avvisati di anticipare la concorrenza perché altre squadre si
sarebbero date da fare per ottenere la ricompensa a ogni costo, ma erano appena
all’inizio della missione ed era un po’ presto perché le cose andassero già così
male. Erano circondati, almeno uno di loro era a terra, e la barca bruciava alle
loro spalle. Avevano perso il mezzo di trasporto per Fjerda, e se gli spari che gli
piovevano addosso volevano dire qualcosa, i nemici erano di gran lunga di più.
Però sarebbe potuta andare peggio; potevano essere sulla barca al momento
dell’esplosione.
Jesper si accucciò per ricaricare le pistole e quasi non poté credere ai propri
occhi. Wylan Van Eck era raggomitolato sul molo, e teneva le sue mani lisce da
mercante sopra la testa. Jesper tirò un sospiro, sparò qualche colpo per coprirsi e
balzò allo scoperto, fuori dal dolce, confortante rifugio della cassa. Afferrò
Wylan per il colletto della camicia e, a strattoni, lo trascinò al riparo.
Jesper gli diede una scrollata. «Fatti forza, ragazzino.»
«Non sono un ragazzino» bofonchiò Wylan, spingendo via le mani di Jesper.
«D’accordo, sei un grande statista. Sei capace di sparare?»
Wylan annuì lentamente. «Tiro al piattello.»
Jesper sollevò gli occhi al cielo. Si sfilò il fucile dalla schiena e lo spinse
verso Wylan, schiacciandoglielo sul petto. «Grandioso. Questo è proprio come
sparare ai piccioni di argilla, solo che fanno un rumore diverso quando ne prendi
uno.»
Jesper ruotò su se stesso, le rivoltelle in alto, mentre una figura gli appariva
nella coda dell’occhio, ma era solamente Kaz.
«Dirigetevi a est sul molo successivo e imbarcatevi all’attracco ventidue»
disse Kaz.
«Cosa c’è all’attracco ventidue?»
«La vera Ferolind.»
«Ma...»
«La barca che hanno fatto saltare era un’esca.»
«Tu lo sapevi?»
«No, ho preso delle precauzioni. È il mio lavoro, Jesper.»
«Avresti potuto dirci che...»
«E l’esca non avrebbe più avuto senso. Datti una mossa.» Kaz guardò Wylan,
che stava in piedi a cullare il fucile come se fosse stato un neonato. «E fai in
modo che lui arrivi alla nave tutto intero.»
Jesper osservò Kaz svanire nell’ombra, il bastone in una mano, la pistola
nell’altra. Anche con una sola gamba buona, era agile in modo sinistro.
A quel punto Jesper diede a Wylan un altro spintone. «Andiamo.»
«Andiamo?»
«Non hai sentito cos’ha detto Kaz? Dobbiamo arrivare all’attracco ventidue.»
Wylan annuì senza parlare. Aveva lo sguardo confuso e gli occhi così sgranati
che sembravano bicchieri.
«Stammi dietro e cerca di non farti ammazzare. Pronto?»
Wylan fece segno di no con la testa.
«Allora fai finta che non te l’abbia chiesto.» Piazzò la mano di Wylan sul
manico del fucile. «Avanti.»
Jesper sparò un’altra serie di colpi all’impazzata, qua e là, nella speranza di
mascherare la loro posizione. Con una pistola scarica, saltò fuori dalla cassa ed
entrò nell’ombra. Una parte di lui si era aspettata che Wylan non lo seguisse,
invece riusciva a sentire il mercantuccio dietro di lui respirare forte, un fischio
basso nei polmoni mentre puntavano alla pila successiva di barili.
Jesper sibilò mentre una pallottola gli sfrecciava accanto alla guancia,
abbastanza vicino da lasciare il segno della bruciatura.
Si gettarono dietro i barili. Da dove si trovava, vide che Nina era in mezzo a
due pile di casse. Aveva le braccia alzate, e quando uno dei suoi aggressori si
spostò dove lei poteva vederlo, gli sferrò un pugno. Il ragazzo si accasciò a terra,
stringendosi il petto. Tuttavia, in questo parapiglia, lei era in svantaggio. Gli
Spaccacuore avevano bisogno di vedere i loro bersagli per poterli buttare giù.
Helvar era accanto a lei con la schiena alle casse, le mani legate. Una
precauzione ragionevole, ma il Fjerdiano sarebbe stato un aiuto prezioso, e
Jesper ebbe solo un istante per chiedersi perché mai Kaz lo avesse lasciato in
quella situazione difficoltosa: subito dopo Nina estrasse un coltello dalla manica
e tagliò le corde ai polsi di Helvar. Quindi gli schiaffò una pistola in mano.
«Difenditi» disse con un ringhio, e tornò a concentrarsi sul combattimento.
“Stupida mossa” pensò Jesper. “Non si volta la schiena a un Fjerdiano
incazzato.” Helvar sembrava che stesse seriamente prendendo in considerazione
l’idea di spararle. Jesper sollevò la rivoltella, pronto a far crollare a terra il
gigante. Ma l’attimo dopo Helvar era in piedi accanto a Nina, a mirare verso il
labirinto di casse davanti. Proprio come se stessero combattendo fianco a fianco.
Kaz aveva lasciato Matthias insieme a Nina di proposito? Jesper non sapeva mai
se quella di Kaz era astuta pianificazione o fortuna sfacciata.
Fece un fischio acuto. Nina diede un’occhiata alle spalle e il suo sguardo
incontrò quello di Jesper. Lui mostrò due dita, due volte, e lei fece un rapido
cenno della testa. Nina aveva sempre saputo che l’attracco ventidue era la loro
vera meta? E Inej? Kaz lo stava facendo di nuovo: giocare con le informazioni,
tenere all’oscuro qualcuno, oppure tutti, costringerli a indovinare la mossa a
seguire. Era una cosa che Jesper detestava, ma non poteva negare che così
facendo avevano ancora la possibilità di arrivare a Fjerda. Se fossero riusciti a
imbarcarsi sulla seconda goletta.
Jesper fece segno a Wylan, e insieme continuarono a farsi strada dietro le
barche e le navi ormeggiate lungo la banchina, tenendosi più bassi possibile.
«Laggiù!» sentì una voce gridare da qualche parte dietro di lui. Erano stati
avvistati.
«Dannazione» disse Jesper. «Corri!»
Si precipitarono giù per la banchina. All’attracco ventidue c’era una goletta
con il nome Ferolind scritto su un fianco. Era inquietante quanto assomigliasse
all’altra. Non c’erano lanterne accese a bordo, ma non appena lui e Wylan
salirono sulla rampa, apparvero due marinai.
«Siete i primi ad arrivare» disse Rotty.
«Speriamo di non essere anche gli ultimi. Siete armati?»
Rotty annuì. «Brekker ci ha detto di rimanere nascosti finché...»
«Eccolo, il finché» concluse Jesper indicando gli uomini all’assalto che
puntavano verso di loro e riprendendosi il fucile che aveva dato a Wylan. «Devo
trovare un punto in alto. Respingeteli e teneteli impegnati il più a lungo
possibile.»
«Jesper» incominciò a dire Wylan.
«Non far passare nessuno. Se prendono questa goletta, siamo spacciati.» Gli
uomini che stavano dando loro la caccia non volevano soltanto impedire agli
Scarti di lasciare il porto. Li volevano morti.
Jesper sparò ai due tizi che guidavano l’assalto sulla banchina. Uno cadde,
l’altro rotolò a sinistra e si riparò dietro il bompresso di un peschereccio. Jesper
esplose altri tre colpi, poi scattò di corsa verso l’albero della barca.
Sotto di lui sentiva esplodere altri colpi di arma da fuoco. Salì per dieci piedi,
venti, gli stivali che si impigliavano nel sartiame. Avrebbe dovuto fermarsi per
levare di mezzo le cime. Aveva quasi raggiunto la coffa quando sentì una lama
rovente di dolore affondargli nella coscia. Scivolò e per un momento penzolò
sopra il ponte con nient’altro a reggerlo che i palmi sudati aggrappati alle cime.
Costrinse le gambe a darsi da fare e cercò un appiglio con la punta degli stivali.
La gamba destra era quasi inutilizzabile per via dello sparo, e dovette tirarsi su
per fare gli ultimi piedi che ancora mancavano, con le braccia tremanti per lo
sforzo e il cuore che pompava forte nelle orecchie. Tutti e cinque i sensi
sembravano in fiamme. Decisamente meglio di una serie fortunata al tavolo da
gioco.
Non si fermò per riposare. Agganciò la gamba ferita nel sartiame, ignorando
la sofferenza, puntò l’occhio nel mirino del fucile e cominciò a eliminare
chiunque si trovasse nel suo raggio d’azione.
“Quattro milioni di kruge” disse a se stesso mentre ricaricava il fucile e
cercava un altro nemico in vista. La foschia rendeva la visibilità difficile, ma
sparare era l’abilità che gli aveva permesso di restare negli Scarti anche dopo
che i suoi debiti si erano accumulati, ed era diventato evidente che Jesper amasse
le carte molto più di quanto la fortuna amasse lui. Quattro milioni di kruge
avrebbero cancellato i suoi debiti e l’avrebbero reso ricco per un bel pezzo.
Individuò Nina e Matthias che tentavano di farsi strada sul molo, c’erano
almeno dieci uomini sul loro cammino. Kaz sembrava che stesse correndo nella
direzione opposta, e Inej non si vedeva da nessuna parte, per quanto questo non
significasse granché trattandosi dello Spettro. Poteva essere appesa a due passi di
distanza da lui, per quel che ne sapeva.
«Jesper!»
Il grido arrivava da sotto, e a Jesper ci volle un momento per rendersi conto
che era Wylan che lo stava chiamando. Provò a ignorarlo e a riprendere la mira.
«Jesper!»
Lo ucciderò, quel piccolo idiota. «Che cosa vuoi?» gli gridò di rimando.
«Chiudi gli occhi!»
«Non puoi baciarmi da lì sotto, Wylan.»
«Tu fallo!»
«Sarà meglio per te che sia una cosa importante!» E chiuse gli occhi.
«Sono chiusi?»
«Dannazione, Wylan, sì, sono...»
Ci fu un urlo stridulo e penetrante, e poi un bagliore fiorì dietro le palpebre di
Jesper. Quando svanì, aprì gli occhi.
Di sotto, i nemici barcollavano, accecati dalla bomba luminosa che Wylan
aveva lanciato. Invece Jesper riusciva a vedere perfettamente. “Non male per
essere il figlio di un mercante” pensò, e aprì il fuoco.
12
INEJ

Prima ancora di mettere piede sulla corda da funambolo o anche solo su una da
allenamento, il padre di Inej le aveva insegnato a cadere: per proteggere la testa e
ridurre al minimo l’impatto non doveva opporsi allo slancio. Quando
l’esplosione al porto la sollevò da terra, lei si rannicchiò in modo da rotolare.
Andò a sbattere forte, ma era in piedi dopo pochi istanti, schiacciata contro il
fianco di una cassa, le orecchie che fischiavano, il naso che colava per colpa
dell’odore di polvere da sparo.
Inej diede a Kaz e agli altri giusto un’occhiata, poi fece quello che sapeva fare
meglio: svanì. Si lanciò su per le casse piene di merci, scalandole agile come un
insetto, con le suole di gomma che trovavano prese e appoggi.
La vista dall’alto era inquietante. Gli Scarti erano numericamente inferiori, e
c’erano uomini che si facevano strada sia a destra sia a sinistra.
Kaz aveva fatto bene a non rivelare agli altri quale fosse il vero punto di
partenza. Qualcuno aveva parlato. Inej ci aveva provato, a tenere sott’occhio il
gruppo, ma qualche membro della banda poteva aver ficcanasato. Kaz l’aveva
detto: a Ketterdam c’era sempre una fuga di notizie, in qualunque posto, inclusi
la Stecca e il Club dei Corvi.
Qualcuno stava sparando dall’albero della nuova Ferolind. Bisognava sperare
che Jesper ce l’avesse fatta ad arrivare alla goletta, e che lei dovesse solo far
guadagnare tempo agli altri in modo che ci arrivassero anche loro.
Inej corse leggera sopra le casse, facendosi largo tra le file, cercando i
bersagli da colpire di sotto. Era piuttosto facile. Nessuno di loro si aspettava
minacce dall’alto.
Scivolò a terra dietro due uomini che stavano per fare fuoco su Nina, e disse
una preghiera silenziosa mentre squarciava prima una gola, poi l’altra. Quando il
secondo cadde, lei gli si accucciò accanto e gli sollevò la manica destra: il
tatuaggio di una mano, con il primo e il secondo dito recisi all’altezza delle
nocche.
Le Punte Nere.
Era la rappresaglia per lo scontro tra Kaz e Geels, o c’era qualcos’altro in
ballo? Non potevano aver radunato tanta gente in così poco tempo.
Si spostò sulla pila successiva di casse, seguendo una mappa mentale delle
posizioni degli aggressori. Per prima, eliminò una ragazza che teneva in mano un
fucile enorme e difficile da maneggiare, poi trapassò l’uomo che avrebbe dovuto
guardarla ai fianchi.
Il tatuaggio di lui mostrava cinque uccelli disposti a cuneo: i Becchi di
Rasoio. Quante bande avevano contro?
L’angolo successivo era cieco. Doveva scalare le casse di merci per
controllare la posizione o rischiare che ci fosse qualcuno ad aspettarla sull’altro
lato? Fece un bel respiro, mandò giù l’aria lentamente e scivolò dietro l’angolo
con uno scatto. Stanotte i suoi Santi erano generosi: due uomini stavano facendo
fuoco sulla banchina dandole le spalle. Inej li eliminò con un paio di veloci
affondi di pugnale. Sei corpi, sei vite che si era presa.
Avrebbe dovuto fare un sacco di penitenza, ma aveva anche aumentato le
probabilità di successo degli Scarti. Ora doveva arrivare alla goletta.
Ripulì i pugnali sulle braghe di pelle e li rimise nei loro foderi, poi fece
marcia indietro e prese a correre verso il cassonetto più vicino. Non appena
toccò il bordo con le dita, sentì un dolore intenso sotto il braccio. Si voltò in
tempo per vedere la brutta faccia di Oomen divisa in due da una smorfia
accanita. Tutte le informazioni che aveva raccolto sulle Punte Nere le tornarono
in mente all’improvviso e le diedero il voltastomaco: Oomen, il macellaio di
Geels, l’unico in grado di spaccare crani a mani nude.
Lui la tirò giù, agguantò il suo corpetto e le infilò il coltello nel fianco,
applicando una brusca torsione. Inej lottò per non perdere i sensi.
Quando il cappuccio le ricadde sulle spalle, lui esclamò: «Ghezen! Ho preso
lo Spettro di Brekker».
«Avresti dovuto colpire... più in alto» rantolò Inej. «Hai mancato il cuore.»
«Non ti voglio morta, Spettro» disse lui. «Sei proprio un bel bottino. Non
vedo l’ora di sentire tutti i tuoi pettegolezzi su Manisporche, per non parlare di
tutti i suoi segreti. Vado matto per le belle storie.»
«Posso raccontarti come andrà a finire questa» disse lei con voce incerta. «Ma
non ti piacerà.»
«Davvero?» La sollevò e la sbatté con violenza contro le casse, e il dolore la
invase. Con le punte dei piedi sfiorava appena terra, mentre il sangue le sgorgava
dalla ferita sul fianco. Oomen la bloccava con un braccio davanti alle sue spalle.
«Lo sai come si fa a combattere con uno scorpione?»
Lui scoppiò a ridere. «Straparli, Spettro? Non morire troppo in fretta. Bisogna
farti rattoppare.»
Inej incrociò una caviglia dietro l’altra e sentì un clic rassicurante. Se
indossava le imbottiture alle ginocchia era per strisciare e arrampicarsi, ma c’era
anche un altro motivo: vale a dire le minuscole lame d’acciaio nascoste in
ciascuna delle due.
«Il segreto» ansimò «è non distogliere mai gli occhi dalla coda dello
scorpione.» Sollevò il ginocchio e spinse la lama tra le gambe di Oomen.
Lui urlò e la lasciò andare per portarsi le mani all’inguine sanguinante. Lei
tornò barcollando alla fila di casse. Sentiva gli uomini che si gridavano addosso,
e i botti degli spari che ora arrivavano a raffiche successive. Chi stava vincendo?
Gli altri erano arrivati alla goletta? Un’ondata di vertigini la travolse.
Quando si toccò il taglio sul fianco e ritrasse la mano, questa era bagnata.
Troppo sangue. Rumore di passi. Stava arrivando qualcuno. Non riusciva ad
arrampicarsi, non ferita a quel modo, non con tutto il sangue che aveva perso. Si
ricordò di quando suo padre l’aveva messa sulla scala a pioli per la prima volta.
Arrampicati, Inej.
In quel punto le casse erano impilate a piramide. Se fosse riuscita a scalarne
anche solo una, avrebbe potuto nascondersi al primo livello. Solo una. Poteva
arrampicarsi o poteva restare lì e morire.
Si costrinse a schiarirsi la mente e saltò su, aggrappandosi con le dita alle
casse imballate. Arrampicati, Inej. Si trascinò oltre il bordo fino al tetto di
lamiera del cassonetto.
Stava così bene sdraiata lì, ma sapeva di essersi lasciata dietro una scia di
sangue. “Ancora una” si disse. “Ancora una e sarai al sicuro.” Si costrinse a
mettersi carponi e a raggiungere la pila successiva.
La superficie su cui poggiava i piedi cominciò a oscillare. Sentì delle risate.
«Vieni fuori, vieni fuori, Spettro! Abbiamo dei segreti da confidarti!»
Con la forza della disperazione arrivò anche questa volta al bordo del nuovo
cassonetto e lo afferrò, lottando contro una sferzata potente di dolore mentre
quello sotto di lei crollava. A quel punto era appesa solo per le braccia, le gambe
penzolavano inutili sotto di lei. Non aprirono il fuoco; la volevano viva.
«Scendi, Spettro!»
Non sapeva da dove le arrivasse la forza, ma in qualche modo riuscì a portarsi
in cima. Si sdraiò sul tetto del cassonetto, ansimando.
Ancora una. Ma non ce la faceva più. Non ce la faceva a spingere sulle
ginocchia, non ce la faceva ad avanzare, non ce la faceva nemmeno a rotolare.
Faceva troppo male. Arrampicati, Inej.
«Non ce la faccio, papà» sussurrò. Persino in quel momento odiava deluderlo.
“Muoviti” si disse. “È un posto stupido per morire.” E tuttavia si levò una
voce, nella sua testa, a dirle che c’erano posti peggiori. Sarebbe morta qui,
libera, alle prime luci dell’alba. Sarebbe morta con onore, a seguito di un degno
combattimento, non perché degli uomini si erano stancati di lei o le avevano
chiesto più di quel che lei poteva dargli. Meglio morire qui, per mano del suo
stesso pugnale, che con la faccia truccata e il corpo avvolto in finte vesti di seta.
Qualcuno le afferrò la caviglia. Avevano scalato gli imballaggi. Come mai
non li aveva sentiti? Era messa così male? L’avevano catturata. La stavano
girando sulla schiena.
Si fece scivolare in mano lo stiletto che teneva nel fodero. Nel Barile, una
lama così piccola e affilata era chiamata l’acciaio gentile. Significava una morte
veloce. Meglio che ritrovarsi torturata, alla mercé delle Punte Nere o dei Becchi
di Rasoio.
Che i Santi mi accolgano. Spinse la punta dello stiletto sotto il seno, tra le
costole, come una freccia verso il cuore. Poi una mano le afferrò in malo modo il
polso, costringendola a lasciar andare la lama.
«Non è ancora il momento, Inej.»
Pietra che sfregava contro pietra. Spalancò gli occhi. Kaz.
Lui se la caricò in spalla e saltò giù dal cassonetto, atterrando bruscamente,
con la gamba malandata che cedette.
Lei gemette quando toccarono terra.
«Abbiamo vinto?»
«Sono qui, no?»
Stava correndo. Il corpo di Inej sobbalzava dolorosamente contro il fianco di
Kaz a ogni passo barcollante. Non poteva portare lei e usare il bastone allo
stesso tempo.
«Non voglio morire.»
«Farò del mio meglio per trovarti un’altra soluzione.»
Lei chiuse gli occhi.
«Continua a parlare, Spettro. Non sparire.»
«Ma è quello che so fare meglio.»
Lui la strinse più forte. «Cerca solo di arrivare alla goletta. Apri quei dannati
occhi, Inej.»
La ragazza ci provò. La vista si stava appannando, ma riusciva ancora a
vedere una cicatrice, pallida e lucida, sul collo di Kaz, proprio sotto la mascella.
Le venne in mente la prima volta che l’aveva visto al Serraglio. Lui pagava
Tante Heleen per avere delle informazioni: dritte finanziarie, chiacchiere da letto
sulla politica, tutte le cose che i clienti del Serraglio spifferavano quand’erano
ubriachi o intontiti dal piacere. Non faceva mai visita alle ragazze di Heleen,
malgrado ce ne fossero tante che sarebbero state felici di portarselo in camera.
Sostenevano che mettesse i brividi, che le sue mani, sotto quei guanti neri,
fossero sempre macchiate di sangue, ma lei coglieva il desiderio nelle loro voci e
sapeva in che modo lo seguivano con lo sguardo.
Una notte, mentre lui le era passato accanto nel salotto, lei aveva fatto una
pazzia, una cosa impulsiva. “Io posso aiutarti” aveva sussurrato. Lui l’aveva
guardata, poi aveva proseguito per la sua strada come se lei non avesse detto
niente. La mattina successiva era stata convocata nel salotto di Tante Heleen. Era
certa che le sarebbero arrivate altre botte o peggio, invece c’era Kaz Brekker in
piedi, appoggiato al bastone da passeggio con la testa di corvo, in attesa di
cambiare la sua vita.
«Io posso aiutarti» gli disse ora.
«Aiutarmi in che modo?»
Non riusciva a ricordare. C’era qualcosa che doveva dirgli. Ma non aveva più
importanza.
«Parlami, Spettro.»
«Sei tornato a prendermi.»
«Io proteggo i miei investimenti.»
Investimenti. «Sono contenta di sanguinare sulla tua camicia.»
«La metterò sul tuo conto.»
Ora si ricordò. Le doveva delle scuse. «Di’ che ti dispiace.»
«Per che cosa?»
«Tu dillo.»
Lei non sentì la sua risposta. Il mondo era diventato davvero molto buio.
13
KAZ

«Andiamo via da qui» urlò Kaz non appena arrancò zoppicando a bordo della
goletta con Inej fra le braccia. Le vele erano già pronte, e loro si ritrovarono
fuori dal porto nel giro di pochi istanti, ma neanche lontanamente alla velocità
che sarebbe piaciuta a Kaz. Sapeva che avrebbe dovuto assoldare dei
Chiamatempeste per il viaggio, ma era difficile come l’inferno trovarli. Sul
ponte era la baraonda: tutti urlavano e tentavano di far arrivare la goletta in mare
aperto il prima possibile.
«Specht!» gridò Kaz all’uomo che aveva scelto come capitano, un marinaio
con un certo talento per i lavori di lama che aveva passato momenti difficili ed
era finito nei ranghi più bassi degli Scarti. «Richiama il tuo equipaggio prima
che mi metta a spaccare qualche testa.»
Specht fece il saluto militare, poi sembrò rendersi conto che non era più nella
marina da tempo, e che Kaz non era l’ufficiale in comando.
Il dolore alla gamba di Kaz era terribile, il peggiore che avesse sofferto da
quando se l’era spezzata precipitando dal tetto di una banca vicino alla
Geldstraat. Era possibile che si fosse di nuovo fratturato l’osso. Il peso di Inej
non aiutava, ma quando Jesper si avvicinò per dargli una mano, Kaz lo spinse
via.
«Dov’è Nina?» ringhiò.
«Di sotto, a dare un occhio ai feriti. Si è già presa cura di me.» Kaz colse
appena il sangue essiccato sulla coscia di Jesper. «Wylan si è fatto male durante
lo scontro. Lascia che ti aiuti...»
«Togliti di mezzo» disse Kaz, e si precipitò superandolo giù per la rampa di
scale che portava sottocoperta.
Nina si stava occupando di Wylan in un’angusta cabina; le sue mani
vagavano sul braccio del ragazzo per ricongiungere insieme due lembi di carne
separati da un proiettile. Era a dir tanto un graffio.
«Spostati» ordinò Kaz, e Wylan saltò praticamente giù dal tavolo.
«Non ho finito» cominciò Nina. Poi si accorse di Inej. «Santi numi» imprecò.
«Cos’è successo?»
«Una ferita da pugnale.»
La minuscola cabina venne illuminata da una serie di lanterne, e una scorta di
bende pulite fu appoggiata su una mensola accanto a una bottiglia di canfora.
«Ha perso molto sangue» disse Nina in un soffio.
«Aiutala.»
«Kaz, sono una Spaccacuore, non una vera Guaritrice.»
«Ora che ne troviamo una sarà morta. Mettiti al lavoro.»
«Sei davanti alla luce.»
Kaz fece un passo indietro. Inej giaceva perfettamente immobile sopra il
tavolo, la sua luminosa pelle scura risultava spenta alla luce oscillante della
lanterna.
Lui era vivo grazie a Inej. Tutti erano vivi grazie a Inej. Erano riusciti,
combattendo, a cavarsene fuori solo perché lei aveva impedito che venissero
circondati. Kaz conosceva bene la morte.
Poteva sentire la sua presenza, ora, sulla barca, che incombeva su di loro,
pronta a portarsi via il suo Spettro. Era ricoperto del sangue di Inej.
«O ti rendi utile o te ne vai» disse Nina senza alzare gli occhi a guardarlo.
«Mi stai innervosendo.» Lui esitò, poi con passo pesante se ne tornò da dove era
venuto, prendendo nel frattempo una maglia pulita da un’altra cabina. Non
avrebbe dovuto essere così scosso per una rissa sul molo, e neanche per una
sparatoria, però lo era.
Si sentiva stressato e con i nervi scoperti. Era la stessa sensazione che aveva
provato da ragazzo, in quei primi giorni di disperazione dopo la morte di Jordie.
“Di’ che ti dispiace.” Era l’ultima cosa che Inej gli aveva detto. Per cosa
voleva che lui si scusasse? C’era l’imbarazzo della scelta. Un migliaio di
crimini. Un migliaio di battute stupide.
Sul ponte respirò a pieni polmoni l’aria marina e intanto guardò il porto e
Ketterdam sparire all’orizzonte.
«Che cosa diavolo è successo?» domandò Jesper. Era appoggiato alla
balaustra, il fucile accanto a lui. Aveva i capelli arruffati e le pupille dilatate.
Sembrava quasi ubriaco, o come se fosse appena rotolato fuori dal letto di
qualcuno.
Aveva sempre quell’aspetto dopo uno scontro. Helvar si piegò oltre il
parapetto e vomitò. Non era un uomo di mare, a quanto pareva. A un certo punto
avrebbero dovuto legargli di nuovo le gambe.
«Siamo caduti in un’imboscata» disse Wylan dal suo trespolo sul ponte di
prua. Aveva una manica arrotolata e stava passando le dita su una macchia rossa,
nel punto in cui Nina si era presa cura della ferita.
Jesper scoccò a Wylan un’occhiata feroce. «Professori universitari come
tutori privati ed è tutto qua quello che sai dire, ragazzino? “Siamo caduti in
un’imboscata”?»
Wylan arrossì. «Smettila di chiamarmi ragazzino. Abbiamo praticamente la
stessa età.»
«Non ti piacerebbero gli altri nomi che mi fai venire in mente. Lo so che
siamo caduti in un’imboscata. Ma questo non spiega come facessero a sapere
che eravamo là. Forse Bolliger il Grande non era l’unica Punta Nera infiltrata
negli Scarti.»
«Geels, da solo, non ha né il cervello né le risorse per reagire così duramente
e così in fretta» disse Kaz.
«Sei sicuro? Perché sembra proprio una gran bella reazione.»
«Chiediamoglielo.» Kaz andò zoppicando dove Rotty aveva scortato Oomen.
“Ho infilzato il tuo Spettro” aveva detto ghignando Oomen quando Kaz
l’aveva trovato piegato a terra. “L’ho infilzata per bene.” Kaz aveva dato
un’occhiata al sangue sull’inguine di Oomen e aveva risposto: “Sembra che
anche lei ti abbia infilzato”. Ma la mira doveva essere fuori uso, altrimenti
Oomen non avrebbe più avuto la possibilità di parlare con nessuno. Kaz l’aveva
steso e scaricato a Rotty mentre lui andava a cercarla.
Adesso Helvar e Jesper trascinarono Oomen, che aveva le mani legate, fino
alla balaustra.
«Fallo stare su.»
Con una sola enorme mano, Helvar mise Oomen in piedi.
Quello sorrise, i lunghi capelli bianchi e stopposi appiccicati sulla fronte
larga.
«Perché non mi dici cos’è che stanotte ha portato fuori le Punte Nere al
completo?» domandò Kaz.
«Te lo dovevamo.»
«Una sparatoria a cielo aperto e con trenta uomini? Non credo proprio.»
Oomen rise sotto i baffi. «A Geels non piace perdere.»
«Potrei far stare il cervello di Geels sulla punta dei miei stivali, e Bolliger il
Grande era l’unica spia che aveva dentro gli Scarti.»
«Forse.»
Kaz lo interruppe. «Voglio che ci pensi molto molto attentamente, Oomen.
Poco ma sicuro, Geels pensa che sei morto, per cui non ho le regole dello
scambio di ostaggi da rispettare. Posso fare quello che voglio con te.»
Oomen gli sputò in faccia.
Kaz prese un fazzoletto dal taschino della giacca e si ripulì con cura. Pensò a
Inej immobile sul tavolo, il suo peso leggero tra le braccia.
«Tenetelo» disse a Jesper e al Fjerdiano.
Kaz si sfiorò la manica della giacca e in mano gli apparve un coltellino per
sbucciare le ostriche. Kaz aveva sempre almeno due coltelli nascosti da qualche
parte nei vestiti. Su questo, per davvero, non aveva mai fatto affidamento: una
piccola lama cattiva.
Diede un taglio netto passando di traverso sull’occhio di Oomen – dal
sopracciglio allo zigomo – e prima ancora che quello potesse raccogliere il fiato
per urlare, diede una seconda rasoiata nella direzione opposta, una X quasi
perfetta. Adesso Oomen stava gridando a squarciagola.
Kaz ripulì il coltellino, lo rinfilò nella manica e gli cacciò le dita guantate
nell’orbita. Oomen strillò e si contorse mentre Kaz estrasse il bulbo oculare,
trascinandosi dietro la radice insanguinata. Il sangue sgorgò fuori dall’orbita e
zampillò sulla faccia di Oomen.
Kaz udì Wylan vomitare. Buttò il bulbo oltre il parapetto e infilò il fazzoletto
imbevuto di saliva nel buco che prima ospitava l’occhio di Oomen. Poi gli
afferrò la mascella, e i guanti gli lasciarono delle macchie rosse sul mento.
I suoi movimenti erano fluidi, precisi, come se stesse distribuendo le carte da
gioco al Club dei Corvi o forzando una serratura semplice, ma la rabbia che
provava era bollente e folle e sconosciuta. Qualcosa, dentro di lui, si era
scatenato.
«Stammi a sentire» sibilò, con la faccia vicinissima a quella di Oomen. «Hai
due scelte. Mi dici quello che voglio sapere, e ti scarichiamo nel primo porto che
incontriamo con le tasche piene di monete, sufficienti per farti ricucire e
comprarti un biglietto per tornare a Kerch. Oppure mi prendo anche l’altro
occhio e rifaccio lo stesso discorso a un uomo cieco.»
«Era solo un incarico» balbettò Oomen. «Geels ha ricevuto cinquemila kruge
per far uscire le Punte Nere al gran completo. Abbiamo assoldato anche qualche
Becco di Rasoio.»
«E allora perché non c’erano più uomini? Perché non raddoppiare le vostre
possibilità?»
«Dovevate essere sulla barca quando è esplosa. Noi dovevamo solo occuparci
degli eventuali ritardatari.»
«Chi vi ha assunto?»
Oomen esitò e si passò la lingua sul labbro, dove si raccoglieva il moccio che
gli colava dal naso.
«Non farmelo ripetere, Oomen» disse Kaz a bassa voce. «Chiunque sia stato,
in questo momento non può proteggerti.»
«Mi ucciderà.»
«E io ti farò desiderare di essere morto, per cui ti tocca soppesare queste due
opzioni.»
«Pekka Rollins» rivelò Oomen tra i singhiozzi. «È stato Pekka Rollins!»
Anche se sotto shock, Kaz notò l’effetto che il nome aveva fatto su Jesper e
Wylan. Helvar non ne sapeva abbastanza per farsi intimidire.
«Per tutti i Santi» gemette Jesper. «Siamo spacciati.»
«Rollins in persona guida la banda?» chiese Kaz a Oomen.
«Quale banda?»
«Quella verso Fjerda.»
«Non so niente di nessuna banda. Noi dovevamo solo impedirvi di uscire dal
porto.»
«Capisco.»
«Mi serve un medico. Mi portate da un medico ora?»
«Ma certo» disse Kaz. «Da questa parte.» Prese Oomen per il bavero della
giacca e lo sollevò da terra, schiacciandolo contro il parapetto.
«Ti ho detto quello che volevi!» urlò Oomen, dimenandosi. «Ho fatto quello
che mi hai chiesto!»
Nonostante la corporatura nodosa, era forte senza darlo a vedere. Un tipo da
fattoria come Jesper.
Probabilmente era cresciuto in campagna.
Kaz si sporse verso di lui in modo che nessun altro potesse sentirgli dire: «Il
mio Spettro avrebbe pietà. Ma grazie a te, non è qui per intercedere in tuo
favore».
E senza un’altra parola lo buttò in mare.
«No!» gridò Wylan, sporgendosi dal parapetto, la faccia pallida, gli occhi
sbarrati che seguivano Oomen tra le onde. Quando il suo volto mutilato
scomparve alla vista, stava ancora supplicando.
«Tu... tu hai detto che se ti avesse aiutato...»
«Per caso vuoi andargli dietro?» domandò Kaz.
Wylan respirò a fondo come per risucchiare il coraggio e sputacchiò: «Non
mi lancerai in mare. Io ti servo».
Perché la gente continuava a ripeterglielo? «Forse» ammise Kaz. «Ma non
sono molto ragionevole, al momento.»
Jesper mise una mano sulla spalla di Wylan. «Lascia perdere.»
«Non è giusto.»
«Wylan» disse Jesper, scrollandolo leggermente. «Forse i tuoi precettori non
te l’hanno insegnato, ma non si discute con un uomo ricoperto di sangue che ha
un coltello infilato nella manica.»
Wylan serrò le labbra fino a farle quasi sparire. Kaz non sapeva dire se il
ragazzino fosse terrorizzato o furioso, e non gli interessava granché. Helvar
stava in silenzio come una sentinella a osservare tutto, con la faccia di un color
verde malato sotto la barba bionda.
Kaz si voltò verso Jesper. «Trova delle catene che facciano stare buono
Helvar» disse mentre si dirigeva di sotto. «E procurami dei vestiti puliti e
dell’acqua fresca.»
«Da quando sono il tuo valletto?»
«Uomo con il coltello, ricordi?» gli disse senza nemmeno voltarsi.
«Uomo con la pistola!» gli urlò dietro Jesper.
Kaz rispose con un gesto rapido del dito medio e sparì sottocoperta.
Desiderava farsi un bagno caldo e scolarsi una bottiglia di brandy, ma si sarebbe
accontentato di ritrovarsi solo e libero dalla puzza di sangue per un po’.
Pekka Rollins. Quel nome, in testa, suonava come uno sparo. Tutto portava
sempre a Pekka Rollins, l’uomo che gli aveva tolto ogni cosa. L’uomo che ora
stava tra Kaz e il bottino più grosso su cui qualunque banda avesse mai tentato di
mettere le mani. Rollins avrebbe mandato qualcuno al proprio posto o avrebbe
guidato lui stesso la squadra incaricata di rapire Bo Yul-Bayur?
Tra le quattro pareti fiocamente illuminate della sua cabina, Kaz sussurrò: «Una
cosa alla volta». Uccidere Pekka Rollins era sempre un’allettante tentazione, ma
non gli bastava. Kaz voleva trascinare Rollins nel fango. Voleva che soffrisse
come aveva sofferto lui, come aveva sofferto Jordie. E soffiare trenta milioni di
kruge direttamente dalle sue spregevoli mani era un buon modo per iniziare.
Forse Inej aveva ragione. Forse era vero che il destino si preoccupava di quelli
come lui.
14
NINA

Nella piccola e soffocante cabina chirurgica, Nina cercò di rimettere a posto il


corpo di Inej, ma non era addestrata per quel tipo di lavoro.
Durante i primi due anni di istruzione nella capitale di Ravka, tutti i Grisha
Corporalki studiavano insieme, frequentavano le stesse lezioni ed eseguivano le
stesse autopsie. Ma successivamente il loro addestramento si differenziava. I
Guaritori apprendevano il complicato lavoro di guarire le ferite, mentre gli
Spaccacuore diventavano soldati: esperti a fare danni, non a ripararli. Era un
modo diverso di gestire quello che di fatto era lo stesso potere. Ma la vita
chiedeva di più della morte. Un colpo fatale esigeva decisione e determinazione.
Curare era invece un processo lento, ponderato, e quel ritmo pretendeva lo studio
attento di ogni piccola decisione. Gli incarichi che aveva svolto per Kaz durante
l’ultimo anno a qualcosa erano serviti, e in qualche modo anche il lavoro che
svolgeva presso la Rosa Bianca, che consisteva nel cambiare gli stati d’animo e
modificare le facce.
Ma guardando Inej, Nina si trovò a desiderare che il proprio addestramento
non fosse stato così breve. La guerra civile di Ravka era scoppiata quando era
ancora una studentessa al Piccolo Palazzo, e lei e i suoi compagni di classe erano
stati costretti a nascondersi. Dopo che la guerra fu finita e le acque si furono
calmate, re Nikolai era stato impaziente di riprendere l’allenamento sul campo
dei pochi soldati Grisha sopravvissuti, così Nina aveva frequentato soltanto per
sei mesi i corsi avanzati prima di essere spedita fuori per la sua prima missione.
All’epoca, era stata elettrizzata. Ora avrebbe benedetto anche solo una settimana
in più di scuola.
Inej era flessuosa, tutta muscoli e ossa fini, il corpo di un’acrobata. Il pugnale
l’aveva penetrata sotto il braccio sinistro. Ci era andato molto vicino. Fosse
scesa appena più in profondità, la lama avrebbe perforato il cuore.
Nina era consapevole del fatto che se avesse semplicemente sigillato la pelle
come aveva fatto con Wylan, la ragazza avrebbe continuato a perdere sangue
internamente, per cui aveva tentato di fermare l’emorragia da dentro. Credeva di
essersela cavata abbastanza bene, ma Inej aveva perso un mucchio di sangue, e
Nina non sapeva cosa fare a riguardo. Aveva sentito che alcuni Guaritori erano
in grado di mescolare il sangue di una persona con quello di un’altra, ma se la
miscela non veniva eseguita nel modo corretto, era come avvelenare il paziente.
Il processo era al di là delle sue abilità.
Finì di chiudere la ferita, quindi coprì Inej con un panno di lana leggera. Per il
momento, tutto quello che Nina poteva fare era controllarle il polso e il respiro.
Quando infilò le braccia di Inej sotto la coperta, Nina vide le cicatrici all’interno
dell’avambraccio. Con il pollice, sfiorò delicatamente bozzi e increspature. Lì
doveva esserci stata la piuma di pavone, il tatuaggio portato da chi lavorava al
Serraglio, la Casa delle Creature Esotiche. Chiunque fosse stato a rimuoverlo,
aveva fatto un gran brutto lavoro.
Curiosa, Nina sollevò l’altra manica. La pelle, lì, era morbida e senza segni.
Inej non aveva accettato di farsi marchiare con il corvo e il calice, il tatuaggio di
qualunque membro degli Scarti. Le alleanze si spostavano di qua e di là nel
Barile, ma la tua banda era la tua famiglia, l’unica protezione che aveva
importanza. Nina per prima portava due tatuaggi. Quello sull’avambraccio
sinistro era per la Casa della Rosa Bianca. Quello che contava era a destra: un
corvo che cerca di bere da un calice vuoto. Diceva al mondo che lei apparteneva
agli Scarti, che a scherzare con lei si rischiava la loro vendetta.
Inej era con gli Scarti da più tempo di Nina eppure non aveva il loro
tatuaggio. Strano. Era uno dei membri più stimati della banda, ed era evidente
che Kaz si fidava di lei – nei limiti in cui uno come Kaz poteva fidarsi di
qualcuno. Nina ripensò all’espressione sulla sua faccia quando aveva deposto
Inej sul tavolo. Era lo stesso Kaz – freddo, sgarbato, intrattabile – ma sotto tutta
quella rabbia lei credeva di aver visto anche qualcos’altro. O forse era soltanto
una romanticona.
Dovette ridere di se stessa. Nina non avrebbe augurato l’amore al suo
peggiore nemico: era l’ospite che accoglievi a braccia aperte e di cui poi non ti
liberavi più.
Scostò i capelli neri e lisci dal viso di Inej. «Per favore, riprenditi» sussurrò.
Odiò il tono debole e incerto con cui la propria voce risuonò nella cabina. Non
sembrava un soldato Grisha o una degli Scarti. Sembrava una ragazzina che non
sapeva cosa stava facendo. Ed era esattamente così che si sentiva. Il suo tirocinio
era stato troppo breve. Era stata mandata in missione troppo presto. Zoya l’aveva
detto ai tempi, ma Nina aveva implorato per andare, e loro avevano bisogno di
lei, così l’anziana Grisha aveva ceduto.
Zoya Nazyalensky – una Chiamatempeste potente, bella in modo assurdo, e
capace di annientare l’autostima di Nina con una sola alzata di sopracciglio.
Nina la adorava. Incosciente. Stolta. Testa per aria. Zoya l’aveva chiamata in
tutti quei modi e anche peggio.
«Avevi ragione, Zoya. Contenta adesso?»
«In estasi» rispose Jesper dalla soglia.
Nina, colta di sorpresa, trasalì e sollevò lo sguardo per vedere Jesper
dondolarsi avanti e indietro sulle piante dei piedi. «Chi è Zoya?» le chiese.
Nina si lasciò andare all’indietro sulla sedia. «Nessuno. Un membro del
Triumvirato Grisha.»
«Figo. Quelli a capo del Secondo Esercito?»
«Ciò che ne è rimasto.» I soldati Grisha di Ravka erano stati decimati durante
la guerra. Qualcuno aveva disertato. La maggior parte era stata uccisa. Nina si
stropicciò gli occhi stanchi. «Sai qual è il modo migliore per trovare un Grisha
che non vuole essere trovato?»
Jesper si grattò la nuca, mise le mani sulle pistole, tornò al collo. Sembrava
non stare mai fermo un attimo. «Non ci ho mai pensato» disse.
«Cerca i miracoli e ascolta le favole della buonanotte.» Bisognava seguire i
racconti di streghe e folletti, e gli avvenimenti inspiegabili. A volte erano solo
superstizioni. Ma spesso c’era della verità nel cuore delle leggende locali:
persone che erano nate con doni speciali che i loro paesi non comprendevano.
Nina era diventata molto brava a fiutare queste storie.
«Mi vien da dire che se i Grisha non vogliono essere trovati, dovremmo
semplicemente lasciarli stare.»
Nina lo guardò in modo cupo. «I drüskelle non li lasceranno mai stare. Danno
loro la caccia ovunque.»
«Sono tutti adorabili come Matthias?»
«Anche di più.»
«Devo trovare delle catene da mettergli alle caviglie. Kaz mi assegna i lavori
divertenti.»
«Vuoi fare cambio?» gli chiese Nina stancamente.
Tutta l’energia e la frenesia sembrarono abbandonare la figura smilza di
Jesper. Si immobilizzò in un modo che Nina non gli aveva mai visto, e lo
sguardo di lui si fissò su Inej per la prima volta da quando era entrato nella
cabina. “La sta evitando” si rese conto Nina. “Non vuole guardarla.” La coperta
si sollevava leggermente al ritmo del suo debole respiro. Quando Jesper parlò, lo
fece con voce tesa, come le corde di uno strumento accordato su una nota troppo
alta.
«Non può morire» disse. «Non in questo modo.»
Nina scrutò Jesper, disorientata. «In quale modo?»
«Non può morire» ripeté lui.
Nina sentì una fitta di frustrazione. Era lacerata: da una parte voleva
abbracciarlo stretto, dall’altra voleva urlargli che ci stava provando. «Santi numi,
Jesper» replicò. «Sto facendo del mio meglio.»
Lui si mosse e il suo corpo sembrò tornare a vivere. «Scusa» disse un po’
imbarazzato. «Tu stai andando alla grande.»
Nina sospirò. «Non mi hai convinta. Perché non vai a incatenare
l’energumeno biondo?»
Jesper le fece il saluto militare e abbassò la testa per uscire dalla cabina.
Per quanto fosse irritante, Nina fu quasi tentata di richiamarlo. Ora che Jesper
se n’era andato, non le restava nient’altro che la voce di Zoya dentro la testa, e la
consapevolezza che fare del proprio meglio non era abbastanza.
La pelle di Inej era troppo fredda al tatto. Nina appoggiò una mano su
entrambe le spalle della ragazza e tentò di migliorare il flusso sanguigno,
aumentando leggermente la temperatura del corpo.
Non era stata del tutto onesta con Jesper. Il Triumvirato Grisha non aveva
semplicemente voluto salvare i Grisha dai cacciatori di streghe Fjerdiani. Aveva
spedito i soldati in missione all’Isola Errante e a Novyi Zem perché Ravka aveva
bisogno di rinforzi. Si era messo sulle tracce dei Grisha che vivevano in segreto
e aveva provato a persuaderli a diventare cittadini di Ravka e a mettersi al
servizio della corona.
Ai tempi della guerra civile Ravkiana, Nina era troppo giovane per
combattere, per cui in seguito aveva disperatamente voluto contribuire alla
ricostituzione del Secondo Esercito. Era stato il suo talento per le lingue
straniere – Shu, Kaelish, Suli, Fjerdiano, persino un po’ di Zemeni – a vincere,
alla fine, le resistenze di Zoya. Aveva ceduto e permesso a Nina di
accompagnare lei e una squadra di Grisha Esaminatori all’Isola Errante.
Malgrado tutti i timori dell’anziana Grisha, Nina se l’era cavata alla grande.
Travestita da viaggiatrice, si intrufolava nelle taverne e nelle rimesse delle
carrozze per origliare le conversazioni e i pettegolezzi della gente del posto,
quindi riportava all’accampamento le loro chiacchiere.
Se sei diretto a Maroch Glen, vedi di viaggiare di giorno. Spiriti inquieti
vagano per quelle terre: le tempeste si scatenano dal nulla.
La Strega delle Colline esiste, proprio così. Un mio cugino di secondo grado
andò da lei per un attacco di tsifil e giura di non essere mai stato meglio. Che
cosa significa che non ha la testa a posto? Ce l’ha più a posto lui di te.
Avevano trovato due famiglie Grisha nascoste nelle presunte grotte fatate di
Instamere, e a Fenford avevano salvato da un’orda inferocita una madre, un
padre e due ragazzi – tutti Inferni, ossia capaci di controllare il fuoco. Avevano
anche fatto irruzione in una nave di schiavi vicino al porto di Leflin. Una volta
smistati i profughi, a quelli senza poteri era stato offerto un lasciapassare per
tornare a casa. A quelli i cui poteri erano stati verificati da un Grisha
Esaminatore era stato offerto asilo a Ravka. Soltanto la vecchia Spaccacuore
nota come la Strega delle Colline aveva scelto di restare. “Se vogliono il mio
sangue, lasciate che vengano a prenderselo” aveva detto ridendo. “In cambio, io
mi prenderò il loro.”
Nina parlava Kaelish da madrelingua e adorava mettersi alla prova e
assumere una nuova identità in ogni paese. Ma malgrado tutti i suoi trionfi, Zoya
non era contenta. “Essere brava con le lingue non basta” l’aveva rimproverata.
“Devi imparare a essere meno... ingombrante. Sei troppo rumorosa, troppo
esuberante, troppo facile da tenere a mente. Corri troppi rischi.”
“Zoya” aveva detto l’Esaminatore che viaggiava con loro. “Vacci piano.” Lui
era un amplificatore vivente. Da morto, le sue ossa sarebbero servite ad
aumentare il potere Grisha, in modo non diverso dai denti di squalo o dalle
unghie di orso che indossavano altri Grisha. Da vivo, era preziosissimo per la
loro missione, abile com’era a utilizzare il proprio dono per avvertire, attraverso
il tatto, la presenza del potere Grisha.
Il più delle volte Zoya era protettiva con lui, ma in quell’occasione i suoi
profondi occhi blu si ridussero a una fessura. “I miei insegnanti non ci sono
andati piano con me. Se Nina finirà per essere inseguita in un bosco da una
massa di contadini, dirai loro di andarci piano?”
Nina se n’era andata via a grandi falcate, mortificata nell’orgoglio,
vergognandosi delle lacrime che le riempivano gli occhi. Zoya le aveva urlato
dietro di non andare oltre il promontorio, ma lei l’aveva ignorata, volendo
ritrovarsi lontana dalla Chiamatempeste più che poteva – e finì dritta in un
accampamento drüskelle. Sei ragazzi biondi che parlavano Fjerdiano erano
raggruppati su una scogliera affacciata su una spiaggia di sabbia. Non avevano
acceso nessun falò ed erano vestiti da contadini Kaelish, ma lei aveva capito chi
erano dal primo momento.
Loro la fissarono per un lungo istante, illuminati soltanto dal chiaro di luna
color argento.
“Oh, grazie al cielo” aveva detto lei con la cadenza Kaelish. “Sto viaggiando
con la mia famiglia e mi sono persa nel bosco. Uno di voi può aiutarmi a
ritrovare la strada?”
“Mi sa che si è persa” aveva tradotto in Fjerdiano uno di loro per tutti.
Un altro sollevò la lanterna che aveva in mano. Era il più alto e, mentre le si
avvicinava, l’istinto di sopravvivenza le urlò di mettersi a correre. “Non sanno
chi sei” aveva ricordato a se stessa. “Sei solo una simpatica ragazza Kaelish che
si è persa nel bosco. Non fare niente di stupido. Conducilo lontano dagli altri,
poi stendilo.”
Lui sollevò la lanterna, e la luce illuminò i visi di entrambi. I capelli di lui
erano lunghi e color oro brunito, e gli occhi azzurro chiaro luccicavano come il
ghiaccio sotto il sole invernale. “Sembra un dipinto” aveva pensato lei, un Santo
miniato nella lamina d’oro sui muri di una chiesa, creato per impugnare una
spada di fuoco.
“Cosa stai facendo qui fuori?” le aveva domandato lui in Fjerdiano.
Lei aveva finto confusione. “Mi dispiace” aveva risposto in Kaelish. “Non
capisco. Mi sono persa.”
Lui balzò su di lei. Non si fermò a riflettere, semplicemente reagì, e alzò le
mani per attaccare. Lui era troppo veloce. Senza esitare buttò via la lanterna e le
afferrò i polsi, unendole con violenza le mani e rendendole impossibile fare
ricorso al proprio potere.
“Drüsje” aveva detto lui soddisfatto. Strega. Sorrideva come un lupo.
Il balzo di lui era stato un test. Una ragazza persa nel bosco avrebbe
indietreggiato; avrebbe cercato di recuperare un coltello o una pistola. Non
avrebbe usato le mani per fermare il cuore di un uomo. Incosciente. Precipitosa.
Ecco perché Zoya non aveva voluto portarla. I Grisha addestrati in modo
appropriato non facevano questi errori. Nina era stata una sciocca, ma non per
questo doveva essere anche una traditrice. Li supplicò in Kaelish, non in
Ravkiano, e non gridò per chiedere aiuto: non gridò quando le legarono le mani,
non gridò quando la minacciarono e non gridò quando la scaraventarono su una
barca a remi come un sacco di miglio. Lei voleva eccome urlare a squarciagola il
suo terrore, far accorrere Zoya, implorare qualcuno di salvarla, ma non avrebbe
messo a repentaglio le vite degli altri. I drüskelle la portarono, remando, su una
nave ancorata al largo e la gettarono in una gabbia sottocoperta piena di altri
prigionieri Grisha. Fu a quel punto che iniziò il vero orrore.
La notte si mescolava al giorno nella pancia umida e malsana della nave. Le
mani dei prigionieri Grisha erano legate strette per impedire loro di usare i
poteri. Venivano nutriti con dei pezzi di pane raffermo attaccato a dei punteruoli
– solo lo stretto necessario per tenerli in vita – e dovevano stare attenti a
razionare l’acqua dolce perché non sapevano mai quando ne avrebbero avuta
dell’altra. Non c’erano latrine, e il tanfo dei corpi e di tutto il resto era
insopportabile.
Di tanto in tanto la nave gettava l’ancora, e i drüskelle tornavano con un altro
prigioniero.
I Fjerdiani stavano in piedi fuori dalle gabbie, a mangiare e bere, e a deridere
i vestiti sudici dei prigionieri e la puzza che emanavano. Per quanto fosse
terribile, il pensiero di quello che li attendeva era di gran lunga più spaventoso:
gli inquisitori della Corte di Ghiaccio, le torture, e inevitabilmente la morte.
Nina sognava di essere bruciata viva su una pira e si svegliava urlando. Gli
incubi e la paura e il delirio per la fame erano un unico groviglio, e così smise di
distinguere quello che era reale da quello che non lo era.
E poi, un giorno, i drüskelle si erano radunati nella stiva con indosso le
uniformi nere e argento stirate di fresco, la testa di lupo bianco sulle maniche. Si
erano disposi in ranghi ordinati e scattarono sull’attenti quando il loro
comandante entrò. Come tutti loro, era alto ma aveva una barba ordinata, e i
lunghi capelli biondi erano grigi alle tempie. Percorse la lunghezza della stiva
per poi fermarsi davanti ai prigionieri.
“Quanti sono?” aveva domandato.
“Quindici” aveva risposto il ragazzo dai capelli d’oro brunito che aveva
catturato Nina. Era la prima volta che lo vedeva nella stiva.
Il comandante si era schiarito la gola e aveva intrecciato le mani dietro la
schiena. “Io sono Jarl Brum.”
Un brivido di terrore attraversò Nina, e lei lo sentì diffondersi tra i Grisha
nella gabbia, un grido di allarme che nessuno di loro era libero di ascoltare.
A scuola Nina era ossessionata dai drüskelle. Erano le creature che
affollavano i suoi incubi, con i loro lupi bianchi e i loro pugnali crudeli e i
cavalli che allevavano apposta per le battaglie contro i Grisha. Erano il motivo
per cui aveva studiato alla perfezione la lingua e la cultura Fjerdiane. Era stato
un modo per prepararsi a incontrarli, per lo scontro che prima o poi sarebbe
arrivato. E Jarl Brum era il peggiore di tutti.
Era una leggenda vivente, il mostro che ti aspetta acquattato nel buio. I
drüskelle esistevano da centinaia di anni, ma sotto la guida di Brum erano
diventati il doppio di numero e infinitamente più letali. Lui aveva modificato il
loro addestramento, sviluppato nuove tecniche per estirpare i Grisha da Fjerda,
aveva mandato degli infiltrati dentro i confini di Ravka e iniziato a perseguitare i
Grisha soli e isolati nelle altre terre, arrivando persino a scovare le navi degli
schiavisti per “liberare” i prigionieri Grisha con l’unico obiettivo di rimetterli in
catene e spedirli a Fjerda per il processo e la condanna a morte. Nina aveva
immaginato di ritrovarsi faccia a faccia con Brum, un giorno, nei panni della
guerriera vendicatrice o della spia astuta. Non aveva previsto di affrontarlo
ingabbiata, affamata, con le mani legate, ricoperta di stracci.
Senz’altro, Brum sapeva che effetto faceva il suo nome. Indugiò per un lungo
istante prima di dire, in un Kaelish eccellente: “In piedi davanti a voi si trova la
nuova generazione di drüskelle, il sacro ordine incaricato di eliminare la vostra
razza per proteggere la nazione sovrana di Fjerda. Loro vi porteranno a Fjerda ad
affrontare il processo e in questo modo si guadagneranno i gradi da ufficiali.
Loro sono i più forti e i migliori della nostra razza”.
“Bulli” aveva pensato Nina.
“Quando arriveremo a Fjerda, sarete interrogati e processati per i vostri
crimini.”
“La supplico” aveva detto uno dei prigionieri. “Io non ho fatto niente. Sono
un contadino. Non vi ho fatto alcun male.”
“Tu sei un insulto a Djel” aveva replicato Brum. “Una piaga di questa terra.
Tu parli di pace, ma che cosa mi dici dei tuoi figli, che potrebbero ereditare
questo potere demoniaco? E i loro figli? La mia pietà va agli uomini e alle donne
falciati dagli abominii Grisha.”
Aveva guardato in faccia i drüskelle. “Ottimo lavoro, ragazzi” aveva detto in
Fjerdiano. “Salperemo subito per Djerholm.”
I drüskelle sembravano scoppiare d’orgoglio. Non appena Brum lasciò la
stiva, si diedero pacche affettuose sulle spalle, ridendo di sollievo e di
soddisfazione.
“Ottimo lavoro, mi sembra il minimo” aveva detto uno in Fjerdiano. “Quindici
Grisha da consegnare alla Corte di Ghiaccio!”
“Se questo non ci fa ottenere i gradi...”
“Lo sai che accadrà.”
“Bene, sono stanco di farmi la barba ogni mattina.”
“Io me la farò crescere fino all’ombelico.”
Poi uno di loro aveva allungato il braccio tra le sbarre e afferrato Nina per i
capelli. “Questa qui mi piace, è ancora carina e in carne. Forse dovremmo aprire
la porta della gabbia e innaffiarla con la canna.”
Il ragazzo con i capelli dorati aveva schiaffeggiato la mano del camerata.
“Cosa ti prende?” aveva detto, ed era la prima volta che apriva bocca da quando
Brum se n’era andato. L’improvviso moto di gratitudine che Nina aveva provato
si era spento all’istante quando lui aveva aggiunto: “Vorresti fornicare con una
cagna?”.
“Dipende dall’aspetto della cagna.”
Gli altri si erano sbellicati dalle risate mentre si dirigevano di sopra. Quello
che l’aveva paragonata a una bestia fu l’ultimo ad avviarsi, e proprio mentre
stava per mettere piede nel corridoio, lei aveva detto in un perfetto, cristallino
Fjerdiano: “Quali crimini?”.
Lui si fermò, e quando si girò a guardarla, gli occhi azzurri erano lucidi di
odio. Lei si rifiutò di abbassare lo sguardo.
“Come fai a sapere la mia lingua? Hai prestato servizio ai confini a nord di
Ravka?”
“Sono Kaelish” aveva mentito lei, “e conosco tutte le lingue.”
“Un’altra stregoneria.”
“Sì, se per stregoneria intendi l’arcana pratica della lettura. Il tuo comandante
ha detto che saremo processati per i nostri crimini. Voglio che tu mi dica quali
crimini avrei commesso.”
“Sarete processati per spionaggio e crimini contro le persone.”
“Non siamo criminali” aveva detto un Fabrikator, in un Fjerdiano incerto,
seduto sul pavimento. Era lì da più tempo di tutti ed era troppo debole per
alzarsi. “Siamo gente qualunque... contadini, insegnanti.”
“Non io” aveva pensato Nina tristemente. “Io sono un soldato.”
“Avrete un processo” aveva detto il drüskelle. “Sarete trattati con più
giustizia di quella che la vostra razza si merita.”
“Quanti Grisha sono stati giudicati innocenti?” gli aveva domandato Nina.
Il Fabrikator aveva ribattuto: “Non provocarlo. Non gli farai cambiare idea”.
Ma lei aveva stretto le sbarre con le mani legate e aveva detto: “Quanti?
Quanti ne hai mandati sulla pira?”.
Lui le aveva dato le spalle.
“Aspetta.”
Lui l’aveva ignorata.
“Aspetta! Ti prego! Solo... solo un po’ d’acqua. Tratteresti così il tuo cane?”
Lui aveva esitato, la mano sulla porta. “Non avrei dovuto dirlo. I cani,
almeno, conoscono la lealtà. La fedeltà al branco. È un insulto ai cani chiamarti
così.”
“Ti darò in pasto a un branco di segugi affamati” aveva pensato Nina. Ma
tutto quello che aveva detto era stato: “Acqua. Ti prego”.
Lui sparì nel corridoio. Lei lo sentì salire la scala a pioli, e il portello si chiuse
sbattendo forte.
“Non sprecare fiato con quello” l’aveva consigliata il Fabrikator. “Non ti
mostrerà nessuna gentilezza.”
Ma poco dopo il drüskelle fece ritorno con una tazza di latta e un secchio di
acqua dolce.
Li piazzò nella gabbia e chiuse le sbarre senza dire una parola. Nina aiutò il
Fabrikator a bere, poi lei stessa trangugiò una tazza d’acqua. Le sue mani
tremavano così tanto che si rovesciò metà della tazza sulla camicia. Il Fjerdiano
si voltò e, con piacere, Nina si accorse che l’aveva messo in imbarazzo.
“Ucciderei per un bagno” l’aveva punzecchiato. “Potresti lavarmi tu.”
“Non parlarmi” aveva ringhiato lui, già diretto alla porta.
Lui non era più tornato, e loro erano rimasti senz’acqua per i tre giorni
successivi. Ma quando sarebbe arrivata la tempesta, quella tazza di latta le
avrebbe salvato la vita.

La testa di Nina crollò, e lei si svegliò di soprassalto. Si era addormentata?


Matthias era in piedi nel corridoio subito fuori dalla cabina. Riempiva con la
sua figura tutta la porta, troppo alto per stare comodo sottocoperta. Da quanto
tempo la stava osservando? Velocemente, Nina controllò le pulsazioni e il
respiro di Inej, e la sollevò scoprire che le sue condizioni erano stazionarie, al
momento.
«Stavo dormendo?» domandò Nina.
«Stavi sonnecchiando.»
Lei si stiracchiò, nel tentativo di far sparire la stanchezza. «Ma non stavo
russando, vero?» Lui non disse niente, si limitò a guardarla con quei suoi occhi
di ghiaccio. «Ti hanno lasciato in mano un rasoio?» fece Nina.
Lui si portò le mani incatenate alle guance rasate di fresco. «Ci ha pensato
Jesper.»
Jesper doveva aver pensato anche ai capelli di Matthias. I ciuffi biondi che
erano cresciuti in modo irregolare erano stati sistemati. Erano ancora troppo
corti, a malapena una peluria dorata che non riusciva a nascondere i tagli e i
lividi del suo ultimo combattimento all’Anticamera dell’Inferno.
Comunque, probabilmente era contento di non avere più la barba, pensò Nina.
Fino a che un drüskelle non aveva portato a termine una missione da solo e non
gli erano stati concessi i gradi da ufficiale, era tenuto a rimanere sbarbato. Se
Matthias avesse condotto Nina ad affrontare il processo alla Corte di Ghiaccio,
sarebbe stato autorizzato a farsela crescere. Avrebbe indossato la testa di lupo
d’argento che contrassegnava gli ufficiali drüskelle. Pensarci la faceva stare
male. Congratulazioni per il suo recente avanzamento come assassino di primo
grado. Quel pensiero le ricordò con chi aveva a che fare. Si raddrizzò sulla sedia
e sollevò il mento.
«Hje marden, Matthias?» domandò.
«Non farlo» rispose lui.
«Preferisci che io parli Kerch?»
«Non voglio che la mia lingua esca dalla tua bocca.» Gli occhi si spostarono
sulle labbra di lei, e Nina si sentì invadere da uno sgradito rossore.
Per il piacere di vendicarsi, disse in Fjerdiano: «Eppure ti è sempre piaciuto il
modo in cui parlavo la tua lingua. Dicevi che suonava pura». Era vero. Lui
adorava la sua dizione: parlava come una principessa, merito dei suoi insegnanti
al Piccolo Palazzo.
«Non sfidarmi, Nina» disse lui. Il Kerch di Matthias era brutto, sgraziato, e
aveva l’accento aspro dei ladri e degli assassini che aveva incontrato in prigione.
«Quella purezza è un sogno a cui è difficile stare aggrappati. Invece, il ricordo
della tua vita che si spegne tra le mie mani è molto più facile da conservare.»
«Mettimi alla prova» disse lei, la rabbia che divampava. Era stufa delle sue
minacce. «Non ho più le mani bloccate, Helvar.» Contrasse la punta delle dita, e
Matthias rimase senza fiato quando il suo cuore cominciò ad accelerare.
«Strega» sputò fuori, afferrandosi il petto.
«Sono sicura che puoi fare meglio di così. Avrai centinaia di insulti a cui
ricorrere, ormai.»
«Migliaia» grugnì lui, mentre il sudore gli imperlava la fronte.
Lei rilassò le dita, improvvisamente in imbarazzo. Cosa stava facendo? Lo
stava punendo? Stava giocando con lui? Aveva tutti i diritti di odiarla.
«Vai via, Matthias. Ho una paziente a cui badare.» Si concentrò sulla
temperatura corporea di Inej.
«Vivrà?»
«Ti importa?»
«Certo che mi importa. È un essere umano.»
Nina sentì la conclusione inespressa della frase. Lei è un essere umano, a
differenza di te. Per i Fjerdiani, i Grisha non erano umani. Non erano neanche
alla pari con gli animali, erano qualcosa di inferiore e di diabolico, un cancro del
mondo, un’aberrazione.
Lei sollevò una spalla. «Non lo so, davvero. Ho fatto del mio meglio, ma i
miei poteri sono altri.»
«Kaz ti ha chiesto se la Rosa Bianca manderà una delegazione a Hringkälla.»
«Conosci la Rosa Bianca?»
«Lo Stave dell’Ovest è uno degli argomenti di conversazione preferiti
all’Anticamera dell’Inferno.»
Nina si soffermò a riflettere per un istante. Poi, senza dire una parola, si
sollevò la manica della camicia. Due rose le si intrecciavano sull’avambraccio.
Avrebbe potuto spiegargli che cosa ci faceva, là, che non si era mai prostituita
per campare, ma non erano affari di Matthias quello che lei aveva fatto o non
fatto. Che credesse pure quello che voleva.
«È stata una tua scelta lavorare là?»
«Scelta è una parola grossa, ma sì.»
«Perché? Perché sei rimasta a Kerch?»
Lei si strofinò gli occhi. «Non potevo lasciarti all’Anticamera dell’Inferno.»
«Mi hai mandato tu all’Anticamera dell’Inferno.»
«È stato un errore, Matthias.»
La collera divampò negli occhi di lui e strappò via la patina di calma che li
ricopriva. «Un errore? Io ti ho salvato la vita e tu mi hai accusato di essere uno
schiavista.»
«Sì» disse Nina. «E ho passato quasi tutto l’ultimo anno a cercare il modo di
aggiustare le cose.»
«Le tue labbra hanno mai pronunciato una sola parola vera?»
Nina si afflosciò stancamente sulla sedia. «Non ti ho mai mentito. E non lo
farò mai.»
«Le prime parole che mi hai detto erano una menzogna. Pronunciate in
Kaelish, se ricordo bene.»
«Dette subito prima che mi catturassi e mi rinchiudessi in una gabbia. Era
quello il momento giusto per dire la verità?»
«Non dovrei fartene una colpa. Non puoi farci niente. È la tua natura,
dissimulare le cose.» Lui le sbirciò il collo. «I lividi sono andati via.»
«Li ho tolti io. Ti dà fastidio?»
Matthias non disse niente, ma Nina vide un barlume di vergogna passargli sul
viso. Matthias aveva sempre lottato contro il proprio senso della morale. Per
diventare un drüskelle aveva dovuto uccidere le cose buone che c’erano dentro
di lui. Ma il ragazzo che avrebbe dovuto essere era sempre lì, e lei lo aveva
intravisto nei giorni che avevano trascorso insieme dopo il naufragio.
Voleva credere che quel ragazzo ci fosse ancora, rinchiuso da qualche parte,
nonostante il tradimento di lei e tutto quello che aveva subìto all’Anticamera
dell’Inferno.
A guardarlo adesso, non ci avrebbe giurato. Forse era questo il vero Matthias,
e l’immagine di lui a cui lei si era aggrappata in quest’ultimo anno era stata
un’illusione.
«Devo occuparmi di Inej» concluse Nina, impaziente che lui se ne andasse.
Ma lui non se ne andava. Invece, disse: «Hai mai pensato a me, Nina? Ho mai
disturbato il tuo sonno?».
Lei fece spallucce. «Un Corporalki può dormire ogni volta che vuole.» E
tuttavia non poteva controllare i propri sogni.
«Il sonno è un lusso all’Anticamera dell’Inferno. Un rischio. Ma quando
dormivo, io sognavo te.»
La testa di Nina fece uno scatto.
«Proprio così» disse lui. «Tutte le volte che chiudevo gli occhi.»
«Che cosa succedeva nei sogni?» chiese lei, volendo una risposta ma
temendola anche.
«Cose orribili. Le torture peggiori. Tu mi affogavi lentamente. Mi incendiavi il
cuore nel petto. Mi accecavi.»
«Ero un mostro.»
«Un mostro, una fanciulla, una silfide di ghiaccio. Mi baciavi, mi sussurravi
delle storie all’orecchio. Mi cantavi delle canzoni e mi tenevi fra le braccia
mentre dormivo. La tua risata mi rincorreva fino a che mi risvegliavo.»
«Hai sempre odiato la mia risata.»
«Amavo la tua risata, Nina. E il tuo cuore impetuoso di guerriera. E avrei
potuto amare anche te.»
Avrebbe potuto. Una volta. Prima che lei lo tradisse. Quelle parole le
scavarono un buco di dolore nel petto.
Sapeva che sarebbe stato meglio non parlare, ma non poté resistere. «E tu
cosa facevi, Matthias? Che cosa mi facevi nei tuoi sogni?»
La nave sbandò leggermente. Le lanterne oscillarono. Gli occhi di Matthias
erano di un azzurro acceso. «Di tutto» rispose, mentre si girava per andarsene.
«Di tutto.»
15
MATTHIAS

Quando spuntò sul ponte, Matthias dovette dirigersi direttamente alla balaustra.
Tutti quei ratti cresciuti nei bassifondi si erano adattati facilmente alla vita di
mare, abituati com’erano a saltare da una barca all’altra sui canali di Ketterdam.
Soltanto quello tenero, Wylan, appariva in difficoltà. Sembrava conciato male
come Matthias.
All’aria aperta andava un po’ meglio, qui poteva tenere d’occhio l’orizzonte.
Come drüskelle, aveva affrontato dei viaggi per mare, ma si era sempre sentito
più a suo agio sulla terraferma, tra i ghiacci. Era umiliante che quegli stranieri lo
vedessero vomitare fuori dal parapetto per la terza volta in tre ore.
Almeno Nina non era lì ad assistere a quello spettacolo vergognoso.
Continuava a pensare a lei, dentro la cabina, ad accudire la ragazza di bronzo,
così preoccupata e gentile. E stanca. Sembrava esausta. “È stato un errore” aveva
detto. Averlo bollato come schiavista, caricato su una nave Kerch, e mandato in
prigione? Sosteneva di aver provato a sistemare le cose. Ma anche se fosse stato
vero, che importanza aveva? La razza a cui apparteneva era senza onore. Lei ne
era la dimostrazione.
Qualcuno aveva preparato il caffè, e lui osservò l’equipaggio sorseggiarlo
dalle tazze di rame con i coperchi di ceramica. L’idea di portare a Nina una tazza
di caffè entrò nella sua testa, e lui la fece a pezzi. Non doveva prendersi cura di
lei o dire a Brekker che la ragazza aveva bisogno di un po’ di riposo. Piegò le
dita e si guardò le nocche scorticate. Nina aveva piantato in lui i semi della
debolezza.
Brekker fece segno a Matthias di raggiungere lui, Jesper e Wylan sul ponte di
prua, dove si erano riuniti per studiare le mappe della Corte di Ghiaccio, lontani
dagli occhi e dalle orecchie del resto dell’equipaggio. Vedere quei disegni era
come un pugnale nel cuore, per lui. Le mura, i cancelli, le guardie. Avrebbero
dovuto dissuadere quei matti, ma evidentemente lui era matto quanto loro.
«Perché non ci sono nomi da nessuna parte?» domandò Brekker, indicando le
mappe.
«Io non conosco il Fjerdiano, e a noi servono informazioni corrette» disse
Wylan. «Helvar dovrebbe averle.» Si ritrasse quando vide l’espressione sul volto
di Matthias. «Sto solo facendo il mio lavoro. Smettila di fissarmi.»
«No» ringhiò lui.
«Tieni questo» disse Kaz, porgendogli un minuscolo disco trasparente che
ammiccava alla luce del sole. Il demone si era seduto su una botte, con la
schiena appoggiata all’albero, la gamba malandata sollevata su un rotolo di cime
e quel velenoso bastone da passeggio in grembo. Matthias fantasticava di ridurlo
in schegge da far ingoiare a Brekker una dopo l’altra.
«Che cos’è?»
«Una nuova invenzione di Raske.»
La testa di Wylan scattò in su. «Pensavo che si occupasse di demolizioni.»
«Si occupa di tutto» disse Jesper.
«Incastratevelo tra i denti in fondo» disse Kaz mentre distribuiva i dischi agli
altri. «Ma non morsicatelo.»
Wylan iniziò a sputacchiare e tossire, le mani alla gola. Sulle labbra gli era
apparsa una pellicola trasparente; la pellicola sporgeva come il gargarozzo di
una rana mentre lui tentava di respirare, con gli occhi che scattavano a destra e a
sinistra per il panico.
Jesper attaccò a ridere, e Kaz si limitò a scuotere la testa. «Te l’avevo detto di
non masticare, Wylan. Respira dal naso.»
Il ragazzo inspirò forte, allargando le narici.
«Piano, se non vuoi svenire» disse Jesper.
«Che cos’è?» chiese Matthias, con il dischetto ancora nel palmo della mano.
Kaz spinse il proprio in fondo alla bocca, muovendolo avanti e indietro tra i
denti. «Baleen. Avevo in programma di conservarli, ma dopo quell’imboscata
non so proprio in che razza di guai potremmo imbatterci in mare aperto. Se finite
sotto e non riuscite a risalire a galla, disincastrateli e masticateli. Sarà come
guadagnare dieci minuti d’aria. Di meno, se vi fate prendere dal panico» disse
dando uno sguardo significativo a Wylan. E diede al ragazzo un altro dischetto
di baleen. «Stai attento, questa volta.» Poi tamburellò sulle mappe della Corte di
Ghiaccio.
«I nomi, Helvar. Tutti.»
Controvoglia, Matthias prese penna e inchiostro. Wylan aveva disteso le carte
e iniziato a scrivere i nomi degli edifici e delle strade circostanti. Ma farlo in
prima persona, in un certo senso, era ancora più vile. Una parte di lui si chiedeva
se avrebbe potuto trovare un modo per separarsi dal gruppo una volta arrivati,
rivelare la loro posizione e in questo modo rientrare nelle grazie del governo.
Qualcuno, alla Corte di Ghiaccio, l’avrebbe riconosciuto? Con ogni probabilità
era ritenuto morto, affogato nel naufragio che aveva ucciso i suoi amici più cari
e il Comandante Brum. Non c’era nulla che provasse la propria vera identità.
Sarebbe stato uno straniero che non aveva niente a che vedere con la Corte di
Ghiaccio, e ora che qualcuno l’avesse ascoltato...
«Non ce la stai contando tutta» disse Brekker, gli occhi scuri puntati su
Matthias.
L’altro ignorò il brivido che lo attraversò. A volte era come se il demone gli
leggesse nel pensiero. «Vi sto dicendo quello che so.»
«La tua coscienza interferisce con la tua memoria. Tieni a mente i termini del
nostro accordo, Helvar.»
«D’accordo» disse Matthias, mentre la rabbia rimontava. «Vuoi un consiglio
professionale? Il tuo piano non funzionerà.»
«Neanche lo conosci, il mio piano.»
«Entrare dalla prigione, uscire dall’ambasciata?»
«Per cominciare.»
«Non è possibile. Il settore della prigione è completamente isolato dal resto
della Corte di Ghiaccio. Non è collegato con l’ambasciata. Non c’è modo di
raggiungerla da lì.»
«C’è un tetto, no?»
«Non puoi arrivare al tetto» disse Matthias tutto soddisfatto. «I drüskelle
passano tre mesi a esercitarsi con i prigionieri Grisha e con le guardie, fa parte
del loro addestramento. Sono stato nella prigione, e non c’è una via di accesso al
tetto esattamente per lo stesso motivo: se qualcuno dovesse evadere dalla propria
cella, non vogliamo che si metta a correre attorno alla Corte di Ghiaccio. La
prigione è totalmente isolata dagli altri due settori nel cerchio esterno. Una volta
che sei dentro, sei dentro.»
«C’è sempre una via d’uscita.» Kaz prese la cartina della prigione dalla
catasta di fogli. «Cinque piani, giusto? L’area di smistamento, e quattro piani di
celle. Quindi qui cosa c’è? Nel seminterrato?»
«Niente. La lavanderia e l’inceneritore.»
«L’inceneritore.»
«Sì, dove bruciano i vestiti dei condannati quando arrivano. È una
precauzione contro le epidemie ma...» Non appena pronunciò quelle parole, capì
cos’aveva in mente Brekker. «Santo Djel, vuoi che ci arrampichiamo per sei
piani lungo la canna fumaria dell’inceneritore?»
«Quando lo mettono in funzione?»
«Se ricordo bene, la mattina presto, ma anche senza il calore noi...»
«Non sta parlando di noi» disse Nina, affiorando da sottocoperta.
Kaz si tirò su a sedere. «Chi tiene d’occhio Inej?»
«Rotty» rispose lei. «Sarò di nuovo lì fra qualche minuto. Avevo solo bisogno
di un po’ d’aria fresca. E non fare finta di preoccuparti per Inej mentre
programmi di mandarla ad arrampicarsi dentro una canna fumaria alta sei piani
con solo una corda e una preghiera su cui fare affidamento.»
«Lo Spettro può farcela.»
«Lo Spettro è una ragazza di sedici anni che al momento giace priva di sensi
su un tavolo. Potrebbe non superare la notte.»
«La supererà» disse Kaz, e negli occhi gli si accese una furia selvaggia.
Matthias ebbe il sospetto che Brekker sarebbe arrivato a trascinare quella
ragazza fuori dall’inferno, se avesse dovuto.
Jesper prese il fucile e ci passò sopra un panno morbido. «Perché siamo qui a
parlare di scalare comignoli quando abbiamo problemi ben più grossi?»
«E quali sono?» chiese Kaz, anche se Matthias ebbe la netta impressione che
li conoscesse.
«Non ha senso andare a cercare Bo Yul-Bayur se c’è di mezzo Pekka
Rollins.»
«Chi è Pekka Rollins?» domandò Matthias, attorcigliando quelle ridicole
sillabe con la lingua. I nomi Kerch non erano dignitosi per i Fjerdiani. Sapeva
che l’uomo era a capo di una banda e che si riempiva le tasche con i soldi che
faceva con lo Spettacolo Infernale. Già questo era uno schifo, ma Matthias aveva
la sensazione che ci fosse altro in ballo.
Wylan rabbrividì, tirando la sostanza gommosa che aveva ancora sulle labbra.
«Soltanto il più grande e il più cattivo trafficone di tutta Ketterdam. Lui ha soldi
che noi non abbiamo, contatti che noi non abbiamo, e probabilmente anche un
vantaggio che noi non abbiamo.»
Jesper annuì. «Per una volta, quello che dice Wylan ha senso. Se per miracolo
riuscissimo a tirar fuori Bo Yul-Bayur prima che lo faccia Rollins, una volta che
lui avrà scoperto che siamo noi quelli che lo hanno fregato, saremo tutti morti.»
«Pekka Rollins è un boss del Barile» disse Kaz. «Niente di più, niente di
meno. Smettetela di dipingerlo come una specie di creatura immortale.»
“C’è qualcos’altro in ballo” pensò Matthias. Brekker non aveva più in corpo
quella carica di violenza che l’aveva guidato prima, quando aveva assassinato
Oomen. Ma c’era ancora in lui una certa aggressività, ed era trattenuta a stento
nelle sue parole. Matthias era sicuro che Kaz Brekker odiasse Pekka Rollins, e
non solo perché il boss aveva fatto saltare per aria la loro barca e assoldato dei
delinquenti per sparargli addosso. Aveva l’impressione che tra quei due ci
fossero vecchie ferite e cattivo sangue.
Jesper si allungò all’indietro e disse: «Non credi che Per Haskell ti farà
tornare sui tuoi passi quando scoprirà che hai tagliato la strada a Pekka Rollins?
Pensi che il vecchio voglia la guerra?».
Kaz scosse la testa, e Matthias lesse in quel gesto una frustrazione vera. «Pekka
Rollins non è venuto al mondo vestito di velluto e sguazzando nelle kruge. Tu
pensi ancora in piccolo. Pensi nel modo in cui pensa Per Haskell, nel modo in
cui uomini come Rollins vogliono che pensi. Portiamo a termine questo colpo,
dividiamoci il bottino e saremo noi le leggende del Barile. Saremo la banda che
le ha suonate a Pekka Rollins.»
«Forse dovremmo lasciar perdere l’idea di arrivare da nord» disse Wylan. «Se
la banda di Pekka ha un vantaggio su di noi, dovremmo veleggiare dritti su
Djerholm.»
«Il porto pullulerà di vigilanti, per non parlare di tutte le guardie abituali e
degli addetti alla dogana.»
«Il Sud? Attraverso Ravka?»
«Quel confine è chiuso a chiave» disse Nina.
«È un confine lungo» commentò Matthias.
«Ma non c’è modo di sapere in che punto è più vulnerabile» replicò lei. «A
meno che tu non sia magicamente a conoscenza di quali torri di guardia e quali
avamposti sono attivi. In più, se entrassimo da Ravka, dovremmo vedercela con i
Ravkiani e con i Fjerdiani.»
Quello che aveva detto Nina aveva senso, ma lo innervosì. A Fjerda le donne
non parlavano in quella maniera, non discutevano di questioni militari o
strategiche. Ma lei era sempre stata così.
«Entreremo da nord come da piano originario» disse Kaz.
Jesper picchiò la testa contro lo scafo e puntò gli occhi al cielo. «D’accordo.
Ma se Pekka Rollins ci ucciderà tutti, io andrò dal fantasma di Wylan a
chiedergli di insegnare al mio fantasma come si fa a suonare il flauto, così posso
far uscire di testa il tuo fantasma.»
Brekker arricciò le labbra e scoprì i denti. «E io assumerò il fantasma di
Matthias per prendere a calci in culo il tuo fantasma.»
«Il mio fantasma non vorrà avere niente a che fare con il tuo» disse Matthias
in tono elegante, e poi si chiese se l’aria di mare gli stesse facendo marcire il
cervello.
PARTE TERZA
DISPERATO
16
INEJ

Le faceva male tutto. E perché la stanza si muoveva?


Inej si risvegliò lentamente, i pensieri impastati. Si ricordava il pugnale di
Oomen che si faceva strada dentro di lei, l’arrampicata sulle casse, la gente che
gridava mentre lei penzolava nel vuoto, appesa solo per la punta delle dita.
Vieni giù, Spettro.
Ma Kaz era tornato da lei, per mettere in salvo il proprio investimento.
Dovevano avercela fatta, a salire sulla Ferolind.
Provò a voltarsi, ma il dolore era troppo intenso, per cui si accontentò di
girare la testa.
Nina stava sonnecchiando su uno sgabello nell’angolo accanto al letto, la
mano di Inej stretta nella sua.
«Nina» gracchiò. Le sembrava di avere la gola rivestita di lana.
Nina si svegliò di colpo. «Ci sono!» le scappò, d’impulso, poi fissò Inej con
occhi appannati. «Sei sveglia.» Si tirò su a sedere. «Oh, per tutti i Santi, ti sei
svegliata.»
E infine scoppiò a piangere.
Inej cercò di sollevarsi, ma riusciva a malapena a tirar su la testa.
«No, no» disse Nina. «Non muoverti, devi riposare.»
«Stai bene?»
Nina si mise a ridere e a piangere insieme. «Io sto bene. Sei tu quella che è
stata pugnalata. Non lo so, cosa mi prende. È che è molto più semplice uccidere
le persone che prendersi cura di loro.» Inej sbatté le palpebre, e poi scoppiarono
a ridere entrambe. «Oww» gemette Inej. «Non farmi ridere. Fa male da morire.»
Nina fece una smorfia imbarazzata. «Come ti senti?»
«Fa male, ma potrebbe essere peggio. Ho sete.»
Nina le porse una tazza di latta piena di acqua. «È fresca. L’abbiamo filtrata
ieri.»
Inej bevve piano, mentre Nina le teneva la testa. «Per quanto tempo ho
dormito?»
«Tre giorni, quasi quattro. Jesper ci sta facendo uscire pazzi. Credo di non
averlo mai visto fermo per più di due minuti di fila.» Si alzò di scatto. «Devo
dire a Kaz che sei sveglia. Noi pensavamo...»
«Aspetta» fece Inej, afferrando la mano di Nina. «Solo... possiamo non
dirglielo proprio adesso?»
Nina tornò a sedersi, perplessa. «Certo, ma...»
«Solo per stanotte.» Si interruppe. «È notte ora?»
«Sì. È appena passata la mezzanotte, per l’esattezza.»
«Sappiamo chi ci ha attaccato al porto?»
«Pekka Rollins. Ha assoldato le Punte Nere e i Becchi di Rasoio per
impedirci di uscire da Quinto Porto.»
«Come facevano a sapere da dove saremmo partiti?»
«Non lo sappiamo ancora.»
«Ho visto Oomen.»
«Oomen è morto. L’ha ucciso Kaz.»
«Kaz?»
«Ne ha fatti fuori parecchi. Rotty l’ha visto seguire le Punte Nere che ti
avevano spinta sulle casse. Mi sa che le sue parole esatte siano state: “Con tutto
quel sangue si poteva dipingere un fienile”.»
Inej chiuse gli occhi. «Troppa morte.» Nel Barile erano circondati dalla
morte. Ma lei non ci era mai andata così tanto vicino.
«Ha avuto paura per te.»
«Kaz non ha paura di niente.»
«Avresti dovuto vedere la sua faccia quando ti ha portata da me.»
«Sono un investimento prezioso.»
Nina restò a bocca aperta. «Non dirmi che ti ha detto così.»
«Ovvio. Be’, no, prezioso non l’ha detto.»
«Idiota.»
«Come sta Matthias?»
«Un altro idiota. Ce la fai a mangiare?»
Inej scosse la testa. Non aveva fame per niente.
«Sforzati» la incalzò Nina. «Non mi hai dato granché su cui mettere le mani.»
«Per ora voglio solo riposare.»
«Ma certo» disse Nina. «Spengo la lanterna.»
Inej le prese di nuovo la mano. «No. Non voglio tornare subito a dormire.»
«Potrei leggerti delle cose, se qui ci fosse qualcosa da leggere. C’è uno
Spaccacuore, al Piccolo Palazzo, in grado di recitare poesia epica per ore. A quel
punto vorresti solo morire.»
Inej rise e poi fece una smorfia di dolore. «Mi basta che rimani qui.»
«Va bene» disse Nina. «Visto che ti va di parlare, raccontami perché non hai
il calice e il corvo tatuati sul braccio.»
«Partiamo dalle domande facili?»
Nina incrociò le gambe e infilò il mento tra le mani. «Sto aspettando.»
Inej rimase in silenzio per un po’. «Hai visto le cicatrici.» Nina fece segno di
sì con la testa. «Quando Kaz convinse Per Haskell a comprare il mio riscatto al
Serraglio, come prima cosa mi feci togliere il tatuaggio della piuma di pavone.»
«Chiunque se ne sia occupato ha fatto un pessimo lavoro.»
«Non era un Corporalki e nemmeno un medico.» Solo uno dei tanti macellai
provvisto di qualche nozione che praticava il mestiere tra i disperati del Barile.
Le aveva offerto un sorso di whisky e poi le aveva fatto a fette la carne,
lasciandole sul braccio una serie di ferite slabbrate. Lei se n’era fregata. Il dolore
era una liberazione. Alla Casa delle Creature Esotiche non avevano fatto altro
che parlare della sua pelle. Era dolce come il caffellatte. Era come lo zucchero
caramellato. Era come seta. Lei aveva accolto con gioia ogni taglio del coltello e
ogni cicatrice che si era lasciato dietro. «Kaz mi disse che non avrei dovuto fare
niente, a parte rendermi utile.»
Kaz le aveva insegnato a scassinare le casseforti, a sfilare i portafogli dalle
tasche, a brandire un pugnale. Le aveva regalato la sua prima lama, quella che
aveva chiamato Sankt Petyr: un dono meno elegante di un mazzo di gerani
selvatici, ma decisamente più pratico.
“Chissà, forse la userò su di te” gli aveva detto.
Lui aveva sospirato. “Magari fossi così assetata di sangue.” Lei non aveva
capito se stava scherzando oppure no.
Si mosse leggermente sul tavolo. Faceva male, ma non era insopportabile.
Considerato quanto in profondità era andato il pugnale, i suoi Santi dovevano
aver guidato la mano di Nina.
«Kaz mi disse che se avessi dimostrato quanto valevo, avrei potuto unirmi
agli Scarti quando mi fossi sentita pronta. E l’ho fatto. Ma niente tatuaggio.»
Nina alzò un sopracciglio. «Non credevo che fosse facoltativo.»
«Tecnicamente, non lo è. Lo so che in molti non capiscono, ma Kaz mi ha
detto... ha detto che spettava a me scegliere, che non sarebbe stato lui a
marchiarmi di nuovo.»
Eppure lo aveva fatto, a suo modo, malgrado le migliori intenzioni. Provare
qualcosa per Kaz Brekker era la follia peggiore. Lei lo sapeva. Ma era stato
l’unico a salvarla, a vedere il suo potenziale. Aveva scommesso su di lei, e
questo voleva pur dire qualcosa... anche se lo aveva fatto per il proprio
tornaconto personale. L’aveva anche soprannominata lo Spettro.
“Non mi piace” aveva detto lei. “Mi ricorda un cadavere.”
“Un fantasma” l’aveva corretta lui.
“Non avevi detto che ero il tuo ragno? Cos’ha che non va il ragno?”
“È pieno di ragni nel Barile. E a parte questo, vogliamo che i tuoi nemici ti
temano. Non che pensino che possano schiacciarti con la punta dello stivale.”
“I miei nemici?”
“I nostri nemici.”
Kaz l’aveva aiutata a costruirsi una leggenda e a indossarla come
un’armatura, come qualcosa di più grande e di più spaventoso di chi la portava.
Inej sospirò. Non voleva più pensare a Kaz.
«Parla» disse a Nina.
«Ti crollano le palpebre. Dovresti dormire.»
«Non mi piacciono le barche. Brutti ricordi.»
«Anche per me.»
«Canta qualcosa, allora.»
Nina rise. «Ricordi quello che ti ho detto a proposito di voler morire? Ecco,
credimi, tu non vuoi che io canti.»
«Per favore.»
«Conosco solamente melodie popolari Ravkiane e canzoni Kerch da
ubriaconi.»
«Canzone da ubriaconi. Qualcosa di chiassoso, ti prego.»
Nina sbuffò. «Solo perché sei tu, Spettro.» Si schiarì la voce e attaccò. «Giovane
possente capitano, audace sul mare. Soldato e marinaio, ti piace il malaffare…»
Inej si mise a ridacchiare e si tenne il fianco. «Hai ragione. Non riesci a
imbroccare una nota neanche per sbaglio.»
«Te l’avevo detto.»
«Vai avanti.»
Nina faceva veramente schifo a cantare. Però aiutava Inej a tenere la propria
mente su quella barca, in quel momento. Non voleva ripensare all’ultima volta
che era stata in mare, ma i ricordi erano duri a morire.
Non doveva nemmeno trovarsi sul carrozzone la mattina in cui gli schiavisti
la catturarono. Aveva quattordici anni, e la sua famiglia stava trascorrendo
l’estate sulla costa di Ravka Ovest, godendosi la stagione e andando in scena in
una fiera alla periferia di Os Kervo. Lei avrebbe dovuto aiutare suo padre a
rammendare le reti. Ma aveva sonno, e se l’era presa comoda per dormire
qualche altro minuto, per sonnecchiare sotto le coperte di cotone fino e per
ascoltare le onde che si infrangevano con un sospiro.
Quando la sagoma di un uomo era apparsa sulla porta del carrozzone, lei non
aveva nemmeno capito di trovarsi in pericolo. Aveva semplicemente detto:
“Ancora cinque minuti, papà”.
Poi l’avevano presa per le gambe e trascinata fuori.
Sbatté forte la testa a terra. Loro erano in quattro, erano grossi, uomini di
mare. Quando provò a gridare, la imbavagliarono. Le legarono mani e polsi e
uno se la caricò in spalla, quindi si calarono in una scialuppa che avevano
ormeggiato nella baia.
Tempo dopo, Inej venne a sapere che la costa era un luogo molto bazzicato
dagli schiavisti. Avevano avvistato il carrozzone Suli dalla loro nave e l’avevano
raggiunto a remi subito dopo l’alba, quando l’accampamento era quasi deserto.
Il resto del viaggio era avvolto nella confusione. Fu gettata nella stiva della
nave insieme ad altri bambini: alcuni più grandi, alcuni più piccoli, per lo più
femmine, ma c’era anche qualche maschio. Lei era l’unica Suli, ma qualcuno
parlava Ravkiano, e le raccontarono com’erano stati catturati.
Una era stata rapita dal cantiere navale del padre; un’altra stava giocando a
saltare nelle pozzanghere e si era allontanata troppo dagli amici. Una era stata
venduta dal fratello maggiore per pagare i debiti di gioco. I marinai parlavano
una lingua che lei non capiva, ma uno dei bambini affermò che li stavano
portando nell’isola esterna più grande di Kerch, dove sarebbero stati venduti
all’asta a proprietari privati o a case d’appuntamento di Ketterdam e di Novyi
Zem.
La gente arrivava da tutto il mondo per fare un’offerta. Inej credeva che la
schiavitù fosse illegale a Kerch, ma evidentemente era ancora in vigore.
Non arrivò mai all’asta. Quando finalmente gettarono l’ancora, Inej fu
scaricata sulla banchina e consegnata a una delle donne più belle che avesse mai
visto, alta e bionda, con occhi color nocciola e una massa di capelli d’oro.
La donna aveva sollevato la lanterna e scrutato Inej dall’alto al basso: i denti,
i seni, persino i piedi. Aveva dato uno strattone ai suoi capelli aggrovigliati.
“Questi vanno rasati.” Poi aveva fatto un passo indietro. “Ossuta e piatta come
una tavola, ma ha una pelle perfetta.”
La donna si era girata dall’altra parte per trattare con i marinai e Inej era
rimasta in piedi sul molo, stringendosi al petto le mani legate, la camicia ancora
aperta, la gonna ancora sollevata fino alla vita. Inej poteva vedere la luce della
luna oltre le onde della baia. “Salta” si era detta. “Meglio in fondo al mare che
nel posto dove ti sta portando questa donna.” Ma non ne aveva avuto il coraggio.
La ragazza che sarebbe diventata un giorno avrebbe saltato senza pensarci
due volte, e forse avrebbe trascinato giù con sé uno degli schiavisti. O forse si
stava prendendo in giro da sola.
Era rimasta paralizzata dalla paura quando Tante Heleen l’aveva avvicinata
nello Stave dell’Ovest.
Non era stata più forte, non era stata più coraggiosa, era stata la stessa
ragazzina Suli terrorizzata e umiliata sul ponte di quella nave.
Nina stava ancora cantando, una canzonaccia su un marinaio che era stato
abbandonato dalla sua bella.
«Insegnami il ritornello» disse Inej.
«Devi dormire.»
«Ritornello.»
E così Nina le insegnò le parole, e cantarono insieme, farfugliando i versi,
stonate senza rimedio, finché le lanterne si spensero.
17
JESPER

Jesper era pronto a lanciarsi oltre il parapetto solo per spezzare la routine. Altri
sei giorni. Sei giorni su questa barca – se erano fortunati e il vento era
favorevole – e poi avrebbero dovuto toccare terra. La costa ovest di Fjerda era
tutta un susseguirsi di rocce pericolose e ripide scogliere. La si poteva
raggiungere in sicurezza soltanto a Djerholm e a Elling, e dal momento che
entrambi i porti erano strettamente vigilati, erano stati costretti a farsi tutto il
viaggio fino ai porti del Nord, quelli da dove partivano le baleniere.
In segreto Jesper sperava che venissero attaccati dai pirati, ma la goletta era
troppo piccola per trasportare merci di pregio. Erano un bersaglio senza valore e,
con le loro bandiere neutrali di Kerch, passavano indisturbati per le rotte più
trafficate del Mare Vero. Presto si erano ritrovati nelle acque fredde del Nord,
diretti a Isenvee.
Jesper si aggirava sul ponte, si arrampicava sulle sartie, cercava di convincere
l’equipaggio a giocare a carte con lui, puliva le proprie pistole. Gli mancavano la
terraferma, il cibo decente e la birra buona. Gli mancava la città. Se avesse mai
desiderato gli ampi spazi aperti e il silenzio, se ne sarebbe rimasto alla frontiera
e avrebbe fatto il contadino come sperava suo padre. C’era ben poco da fare
sulla barca, a parte studiare gli schemi della Corte di Ghiaccio, ascoltare
Matthias che brontolava e dar fastidio a Wylan, che era sempre intento a cercare
di ricostruire i meccanismi dei cancelli delle mura ad anello.
Kaz rimase colpito dai suoi disegni.
«Tu ragioni come un grimaldello» disse a Wylan.
«Non è vero.»
«Intendo dire che sei in grado di vedere lo spazio in modo tridimensionale.»
«Non sono un criminale» protestò Wylan.
Kaz gli rivolse un’occhiata quasi di compassione. «No, sei un flautista che è
finito in pessima compagnia.»
Jesper si sedette accanto a Wylan. «Impara a incassare i complimenti. Kaz
non ne dispensa molti.»
«Non è un complimento. Io non sono niente per lui. E non c’entro niente, io,
qui.»
«Nulla da obiettare.»
«E anche tu non c’entri niente.»
«Come hai detto, mercantuccio?»
«Stando al piano di Kaz non ci serve un tiratore scelto, per cui tu cosa fai, a
parte pedinare e far innervosire tutti?»
Jesper fece spallucce. «Kaz si fida di me.»
Wylan sbuffò e prese la penna. «Sicuro?»
Jesper si spostò, a disagio. Certo che era sicuro. Aveva passato così tanto
tempo a indovinare cosa passasse per la testa di Kaz Brekker. E se si era
guadagnato un po’ della sua fiducia, non lo meritava, forse?
Picchiettò i pollici sulle rivoltelle e disse: «Quando cominceranno a volare i
proiettili, scoprirai quant’è bello avermi intorno. Non saranno quei bei disegni a
tenerti in vita».
«Queste cartine ci servono. E nel caso te lo fossi scordato, una delle mie
bombe luce ci ha aiutati a uscire dal porto di Ketterdam.»
Jesper sbuffò. «Che strategia brillante.»
«Ha funzionato o no?»
«Hai accecato i nostri tanto quanto le Punte Nere.»
«Era un rischio calcolato.»
«Era un incrociamo-le-dita-e-speriamo-bene. Credimi, conosco la
differenza.»
«Così ho sentito dire.»
«Sarebbe?»
«Sarebbe che lo sanno tutti che non sei capace di stare lontano da una rissa o
da un tavolo da gioco, quali che siano le probabilità a tuo favore.»
Jesper puntò lo sguardo alle vele e strizzò gli occhi. «Se non nasci con la
camicia, devi imparare a cogliere al volo le occasioni.»
«Non stavo...» Wylan si interruppe e posò la penna. «Perché pensi di sapere
tutto di me?»
«Ne so a sufficienza, mercantuccio.»
«Buon per te. Io sento di non saperne mai abbastanza.»
«Su cosa?»
«Su tutto» mormorò Wylan.
Contro ogni previsione, Jesper si incuriosì. «Tipo?» insistette.
«Be’, tipo quelle pistole» disse lui, indicando le rivoltelle di Jesper. «Il
meccanismo di sparo è insolito, vero? Se potessi smontarle...»
«Non pensarci neanche.»
Wylan scrollò le spalle. «Oppure, tipo il fossato di ghiaccio» disse,
tamburellando le dita su una delle mappe della Corte di Ghiaccio. Matthias
aveva detto che il fossato non era solido, soltanto uno strato scivoloso e
sottilissimo di ghiaccio sopra l’acqua gelida, completamente esposto alla vista e
impossibile da attraversare.
«Che cosa c’è da sapere?»
«Da dove arriva tutta l’acqua? La Corte è situata su una collina, per cui dov’è
la falda acquifera o l’acquedotto che la porta in alto?»
«Ha importanza? C’è un ponte. Non ci serve attraversare il fossato di
ghiaccio.»
«Ma non sei curioso?»
«Santi numi, no. Dammi un sistema per vincere a Tre Uomo Mora oppure alla
Ruota della Fortuna di Makker. Quello sì che mi interessa.»
Wylan tornò al suo lavoro, evidentemente deluso.
Per qualche motivo, anche Jesper era un po’ deluso.

Jesper andava a controllare Inej tutte le mattine e tutte le sere.


L’idea che l’imboscata sul molo avrebbe potuto essere la fine per lei l’aveva
scosso.
Nonostante gli sforzi di Nina, si era convinto che lo Spettro non sarebbe
rimasto a lungo a questo mondo.
Ma una mattina Jesper arrivò e trovò Inej seduta, vestita di tutto punto:
pantaloni alla zuava, corpetto imbottito e casacca con cappuccio.
Nina era china su di lei, si stava sforzando di infilare i piedi di Inej in quelle
strane scarpette con le suole di gomma.
«Inej!» gracchiò Jesper. «Non sei morta!»
Lei sorrise leggermente. «Non più di chiunque altro.»
«Se sputi sagge e deprimenti sentenze Suli, allora vuol dire che stai meglio.»
«Non stare lì fermo» si lamentò Nina. «Aiutami a infilarle queste cose ai
piedi.»
«Se lasciassi fare a me...» provò a dire Inej.
«Tu non ti piegare» scattò Nina. «Non saltare. Non muoverti di scatto. Se non
giuri di andarci piano, ti rallento il cuore e ti tengo in coma finché non sono
sicura che ti sei ripresa del tutto.»
«Nina Zenik, non appena scoprirò dove hai messo i miei pugnali,
scambieremo due parole.»
«Sarà meglio che le prime siano “Ti ringrazio, grande Nina, per aver dedicato
ogni minuto di veglia di quest’orribile viaggio a salvare la mia miserabile vita”.»
Jesper si aspettava che Inej scoppiasse a ridere e rimase sorpreso quando lei
prese il viso di Nina tra le mani e le disse: «Grazie per avermi trattenuta in
questo mondo quando il destino sembrava determinato a trascinarmi in
quell’altro. Ti sono debitrice della mia vita».
Nina arrossì fino alla punta dei capelli. «Ti stavo prendendo in giro, Inej.» Si
fermò un attimo. «E penso che di debiti ne abbiamo entrambe sin troppi.»
«Questo è un debito che sono felice di avere.»
«Va bene, va bene. Quando torniamo a Ketterdam, mi porti fuori a mangiare
le cialde.»
Ora Inej scoppiò a ridere sul serio.
Lasciò cadere le mani e assunse l’aria di chi stava ragionando. «Dei dolci in
cambio di una vita? Non credo sia uno scambio equo.»
«Mi aspetto delle cialde pazzesche.»
«Conosco giusto un posto» disse Jesper. «Hanno questo sciroppo di mela...»
«Tu non sei invitato» replicò Nina. «Ora dammi una mano a farla alzare.»
«Posso alzarmi da sola» borbottò Inej mentre scivolava giù dal tavolo e si
metteva in piedi.
«Fai come ti dico.»
Con un sospiro, Inej si aggrappò al braccio che le offriva Jesper, e insieme si
fecero strada fuori dalla cabina e su per il ponte, con Nina che li seguiva.
«Questo è ridicolo» disse Inej. «Sto bene.»
«Tu sì» replicò Jesper, «ma io potrei collassare da un momento all’altro,
quindi fai attenzione.»
Giunti sul ponte, Inej gli strinse il braccio per farlo fermare. Reclinò la testa
all’indietro e respirò a fondo.
Era un giorno grigio come la pietra, il mare era una lastra scura solcata dalla
schiuma bianca, il cielo era increspato da nuvole dense di pioggia. Un vento
duro gonfiava le vele e spingeva il piccolo vascello sulle onde.
«Mi fa bene questo genere di freddo» mormorò lei.
«Questo genere?»
«Il vento nei capelli, gli spruzzi d’acqua sulla pelle. Il freddo di chi è vivo.»
«Due giri attorno al ponte» le ordinò Nina. «E poi vai di nuovo a letto.»
Quindi raggiunse Wylan a poppa. A Jesper non sfuggì che si era diretta verso il
punto della nave più lontano da Matthias.
«Hanno fatto così per tutto il tempo?» domandò Inej, guardando Nina e poi il
Fjerdiano.
Jesper annuì. «È come guardare due gatti selvatici che girano uno intorno
all’altro.»
Inej emise un rumore simile a un piccolo ronzio. «E cosa faranno quando si
salteranno addosso?»
«Si graffieranno a morte?»
Inej roteò gli occhi. «Non mi stupisce che perdi sempre al gioco.»
Jesper la guidò verso il parapetto, dove potevano fare la cosa che più
assomigliava a una passeggiata senza intralciare nessuno. «Ti minaccerei di
buttarti di sotto, ma c’è Kaz che ci osserva.»
Inej annuì. Non alzò lo sguardo a cercare Kaz in piedi accanto a Specht al
timone. Jesper invece sì, e con la mano gli fece un saluto allegro. L’espressione
di Kaz non cambiò.
«Lo ucciderebbe sorridere una volta ogni tanto?» sbottò Jesper.
«È altamente probabile.»
Ogni membro dell’equipaggio la salutò e le fece gli auguri, e Jesper si accorse
che a ogni “Evviva, lo Spettro è tornato!” Inej si rianimava. Persino Matthias le
fece un inchino impacciato e le disse: «A quanto mi dicono tu sei il motivo per
cui siamo usciti vivi dal porto».
«Ho il sospetto che i motivi siano stati più d’uno» disse Inej.
«Io sono uno di quelli» si offrì volontario Jesper.
«A ogni modo» disse Matthias, ignorando Jesper, «ti ringrazio.»
Andarono avanti, e Jesper vide un sorriso compiaciuto stirare le labbra di
Inej.
«Sorpresa?» le domandò.
«Un po’» ammise lei. «Trascorro così tanto tempo con Kaz. Immagino...»
«È una novità sentirsi apprezzati.»
Si lasciò sfuggire una risatina e si premette la mano sul fianco. «Ridere mi fa
ancora male.»
«Sono contenti che tu sia viva. Io sono contento.»
«Lo spero. È che non mi sono mai sentita veramente una degli Scarti.»
«Be’, non lo sei.»
«Grazie.»
«Siamo una banda dagli interessi limitati, e tu non scommetti, non bestemmi,
non bevi fino a sfondarti. Ma senti qui come si fa a diventare popolari: rischiare
la propria vita per salvare i compagni e impedire che siano fatti a pezzi in
un’imboscata. Metodo straordinario per farsi degli amici.»
«Basta che non mi tocchi iniziare a venire alle vostre feste.»
Quando raggiunsero il ponte a poppa, Inej si appoggiò al parapetto e guardò
l’orizzonte. «È mai venuto a trovarmi?»
Jesper sapeva che si stava riferendo a Kaz. «Tutti i giorni.»
Inej posò gli occhi scuri su di lui, poi scrollò la testa. «Non sai capire le
persone, e non sai bluffare.»
Jesper sospirò. Detestava deludere la gente. «No» ammise.
Lei annuì e tornò a guardare l’oceano.
«Secondo me è perché non gli piacciono i letti d’ospedale» disse Jesper.
«A chi piacciono?»
«Voglio dire, è stato difficile per lui starti vicino a quel modo. Il giorno in cui
sei stata ferita... ha un po’ perso la testa.» Gli costò caro riconoscerlo.
Kaz si sarebbe trasformato in un simile cane rabbioso se fosse stato Jesper
quello con un pugnale piantato nel fianco?
«Per forza. Questo è un colpo per sei persone, e Kaz ha evidentemente
bisogno di me per scalare la canna fumaria dell’inceneritore. Se io schiatto, il
piano fallisce.»
Jesper non si mise a discutere. Non riusciva a far finta di capire Kaz o quello
che lo faceva agire a quel modo. «Dimmi una cosa. Che razza di litigio c’è stato
tra Wylan e suo padre?»
Inej diede un’occhiata veloce a Kaz, poi si guardò alle spalle per accertarsi
che nessuno dell’equipaggio fosse nei paraggi. Kaz aveva specificato con
chiarezza che ogni informazione anche solo vagamente correlata con il colpo
doveva rimanere fra loro sei. «Non lo so» disse. «Tre mesi fa Wylan è apparso in
una stamberga vicino alla Stecca sotto falso nome. Kaz, che tiene d’occhio tutti i
nuovi arrivati nel Barile, mi ha chiesto di curiosare.»
«E?»
Inej si strinse nelle spalle. «La servitù di casa Van Eck è pagata bene e non è
facile da corrompere. Le informazioni che ho raccolto non aggiungono granché.
Secondo i pettegolezzi, Wylan è stato trovato a letto con uno dei suoi
precettori.»
«Sul serio?» disse Jesper incredulo. Ha delle qualità nascoste per davvero.
«Solo pettegolezzi. E comunque Wylan non è andato via di casa per
convivere con il suo amante.»
«E allora perché papà Van Eck l’ha buttato fuori?»
«Non credo sia andata così. Ogni settimana Van Eck scrive a Wylan una
lettera, e lui non apre neanche le buste.»
«Che cosa c’è scritto nelle lettere?»
Inej si appoggiò con cautela alla balaustra. «Stai dando per scontato che io le
legga.»
«Non lo fai?»
«Certo che lo faccio.» Poi aggrottò la fronte, ricordando. «C’è scritta sempre
la stessa cosa: “Se stai leggendo, allora sai quanto desideri riaverti a casa”.
Oppure: “Prego che tu legga queste mie parole e ti renda conto di tutto quello
che ti sei lasciato alle spalle”.»
Jesper alzò gli occhi per guardare Wylan, che stava chiacchierando con Nina.
«Il misterioso mercantuccio. Mi domando cos’abbia fatto di così brutto Van Eck
da spingere Wylan a mescolarsi con gentaglia come noi.»
«Adesso di’ tu qualcosa a me, Jesper. Chi te lo fa fare di partecipare a questa
missione? Lo sai quant’è rischioso il colpo, e quante sono le probabilità di
tornare indietro. E va bene che ami le sfide, ma questa è oltre, anche per te.»
Jesper fissò le onde grigie del mare che marciavano schierate verso
l’orizzonte, all’infinito. Non gli era mai piaciuto l’oceano, quella sensazione di
avere l’ignoto sotto i piedi, e che ci fosse qualcosa di affamato e pieno di denti
aguzzi in attesa di trascinarti di sotto. Sensazione che ormai aveva ogni giorno,
anche sulla terraferma.
«Sono pieno di debiti, Inej.»
«Sei sempre pieno di debiti.»
«No. Questa volta è peggio. Mi sono fatto prestare dei soldi dalla gente
sbagliata. Lo sai che mio padre possiede una fattoria?»
«A Novyi Zem.»
«Sì, a ovest. Ha iniziato a guadagnare qualcosa quest’anno.»
«Oh, Jesper, dimmi che non l’hai fatto.»
«Avevo bisogno del prestito. Gli ho detto che in questo modo posso finire gli
studi.»
Lei lo fissò. «Tuo padre crede che studi?»
«È il motivo per cui sono venuto a Ketterdam. Durante la mia prima
settimana in città scesi allo Stave dell’Est con altri studenti. Puntai qualche
kruge al tavolo. Fu un gesto d’impulso, una voglia improvvisa. Neanche sapevo
come si giocava alla Ruota della Fortuna di Makker. Ma quando il croupier
diede un giro alla ruota, fu il suono più bello mai sentito prima. Vinsi, e
continuai a vincere. Fu la notte più bella della mia vita.»
«E da allora non fai altro che cercare di riviverla.»
Lui fece di sì con la testa. «Avrei dovuto rimanere in biblioteca. Invece vinsi.
E poi persi. Persi ancora. Avevo bisogno di soldi, così iniziai a fare qualche
lavoretto per le bande. Una notte, due tizi mi saltarono addosso in un vicolo. Kaz
li cacciò via, e ci mettemmo a lavorare insieme.»
«Probabilmente assoldò lui quei tizi per aggredirti, così ti saresti sentito in
debito.»
«Non l’avrebbe mai fat...» Jesper si interruppe, e poi scoppiò a ridere. «Ma
certo che l’avrebbe fatto.» Si sgranchì le dita delle mani e si mise a fissare le
linee sui palmi. «Kaz è... Non lo so, è diverso da chiunque abbia mai conosciuto.
Mi stupisce sempre.»
«Sì. Come un nido di api nel cassetto del comò.»
Jesper rise forte. «Esattamente.»
«E quindi cosa ci facciamo qui?»
Jesper voltò le spalle al mare, con le guance che gli scottavano. «Puntiamo al
miele, direi. E preghiamo di non essere punti.»
Inej diede un colpetto con la spalla a quella di lui. «Perlomeno siamo in due a
fare la stessa sciocchezza.»
«Io non so quale sia la tua motivazione, Spettro. La mia è che davanti alla
sfortuna non so mai tirarmi indietro.»
Lei agganciò il braccio a quello di lui. «Questo fa di te un pessimo giocatore,
Jesper. Ma un ottimo amico.»
«Tu sei troppo per lui, lo sai.»
«Lo so. E vale anche per te.»
«Camminiamo?»
«Sì» disse Inej, facendo un passo accanto a lui. «E poi mi serve che tu
distragga Nina, così posso mettermi a cercare i miei pugnali.»
«Non c’è problema. Basta portare su Helvar.» Mentre scendevano dal lato
opposto del ponte, Jesper si girò a guardare il timone. Kaz non si era mai mosso.
Li stava ancora osservando, gli occhi duri, il viso imperscrutabile come sempre.
18
KAZ

Kaz ci mise due giorni ad avvicinare Inej, dopo l’apparizione di lei fuori dalla
cabina chirurgica. Sedeva da sola, a gambe incrociate, la schiena contro lo scafo
della nave, e sorseggiava una tazza di tè.
Kaz arrancò zoppicando da lei. «Voglio farti vedere una cosa.»
«Sto bene, grazie per avermelo chiesto» disse, guardando in su verso di lui.
«Tu come stai?»
Kaz arricciò le labbra. «Uno splendore.» In modo maldestro, si abbassò
accanto a Inej e mise il bastone di lato.
«Ti fa male la gamba?»
«È a posto. Guarda qui.» Distese tra loro il disegno che Wylan aveva fatto del
settore della prigione. Per lo più le mappe di Wylan mostravano la Corte di
Ghiaccio dall’alto, ma quella della prigione era una sezione trasversale che
mostrava i livelli dell’edificio disposti uno sopra l’altro.
«L’ho visto» disse Inej. Fece scorrere il dito su una linea retta, dal
seminterrato fino al tetto. «Sei piani su per la canna fumaria.»
«Ce la fai?»
Lei alzò le sopracciglia scure. «Ho delle alternative?»
«No.»
«Per cui se ti dico che non posso farcela ad arrampicarmi, tu dirai a Specht di
girare la barca e riportarci a Ketterdam?»
«Troverò un altro modo» disse Kaz. «Non so quale, ma non rinuncio a quel
bottino.»
«Lo sai che posso farcela, Kaz, e sai che non mi tirerò indietro. Allora perché
me lo chiedi?»
Perché sono due giorni che cerco una scusa per parlarti.
«Voglio essere sicuro che sai con che cosa hai a che fare, e che stai studiando
le mappe.»
«Potrò fare una prova?»
«Sì» disse Kaz. «E se non la superi ci ritroveremo chiusi tutti insieme in un
carcere Fjerdiano.»
«Mmh» disse lei, e bevve un sorso di tè. «E io sarò morta.» Chiuse gli occhi e
appoggiò la nuca contro lo scafo. «Mi preoccupa la via di fuga verso il porto.
Non mi piace l’idea che ci sia soltanto una via d’uscita.»
Anche Kaz si appoggiò allo scafo. «Nemmeno a me» ammise, allungando la
gamba dolorante. «Ma è per quello che i Fjerdiani l’hanno costruita in quel
modo.»
«Ti fidi di Specht?»
Kaz la guardò di sottecchi. «C’è un motivo per cui non dovrei?»
«Nient’affatto, ma se la Ferolind non dovesse aspettarci al porto...»
«Mi fido quanto basta.»
«È in debito con te?»
Kaz annuì. Si guardò attorno e poi disse: «La marina l’ha buttato fuori per
insubordinazione rifiutandosi di pagargli la pensione. Ha una sorella da
mantenere vicino a Belendt. Gli ho fatto avere il suo denaro».
«È stato bello da parte tua.»
Kaz ridusse gli occhi a due fessure. «Non sono il personaggio di una favola
per bambini che fa scherzi innocui e ruba ai ricchi per dare ai poveri. C’erano
soldi da fare e informazioni da ottenere. Specht conosce le rotte nautiche come le
sue tasche.»
«Mai fare niente per niente, Kaz» disse lei, lo sguardo fermo. «Lo so.
Comunque, se la Ferolind venisse intercettata, non avremmo vie d’uscita da
Djerholm.»
«Vi farò uscire. Lo sai.» Dimmi che lo sai. Aveva bisogno che lei glielo
dicesse. Questo colpo non era come quelli che aveva tentato prima. Ogni dubbio
che Inej aveva sollevato era lecito, e non faceva che riecheggiare i timori che lui
aveva in testa. Prima di lasciare Ketterdam, le aveva gridato addosso, le aveva
detto che si sarebbe trovato un altro ragno se lei pensava di non farcela. Doveva
sapere che per lei lui avrebbe potuto farcela, che per lei lui li avrebbe portati
dentro la Corte di Ghiaccio e li avrebbe riportati fuori tutti interi, proprio
com’era andata con altre bande per altri colpi. Doveva sapere che lei credeva in
lui.
Ma tutto quello che Inej disse fu: «Ho sentito dire che è stato Pekka Rollins a
spararci addosso al porto».
Kaz provò una fitta di delusione. «E con questo?»
«Non credere che non abbia notato come gli stai dietro, Kaz.»
«È solo un boss come un altro, l’ennesimo capobanda del Barile.»
«No, non è vero. Con le altre bande si tratta di affari. Ma con Pekka Rollins è
una questione personale.»
Più tardi si ritrovò a chiedersi perché mai glielo avesse detto. Non l’aveva
mai detto a nessuno, non l’aveva nemmeno mai detto ad alta voce. Ma in quel
momento tenne gli occhi fissi sulle vele sopra di loro e annunciò: «Pekka Rollins
ha ucciso mio fratello».
Non aveva bisogno di vedere la faccia di Inej per capire che era scioccata.
«Avevi un fratello?»
«Avevo un sacco di cose» mormorò lui.
«Mi dispiace.»
Aveva voluto la sua solidarietà? È per quello che gliel’aveva detto?
«Kaz...» Inej esitò. Che cosa avrebbe dovuto fare? Dargli una pacca di
incoraggiamento sul braccio? Dirgli che lo capiva?
«Pregherò per lui» commentò. «Perché trovi la pace, nell’altro mondo se non
in questo.»
Lui girò la testa. Erano seduti vicini, con le spalle che quasi si toccavano. Gli
occhi di lei erano così scuri, quasi neri, e per una volta aveva i capelli sciolti. Li
portava sempre tirati indietro in uno chignon legato stretto. Persino l’idea di
essere così vicino a qualcuno avrebbe dovuto fargli accapponare la pelle. Invece
pensò: “Cosa succede se mi avvicino ancora di più?”.
«Non voglio le tue preghiere» disse lui.
«Che cosa vuoi, allora?»
Gli vennero in mente le solite, vecchie risposte. Soldi. Vendetta. La voce di
Jordie nella mia testa che tace per sempre. Ma una risposta nuova, diversa,
ruggì dentro di lui, forte, insistente, e indesiderata. Te, Inej. Voglio te.
Fece spallucce e si voltò dall’altra parte. «Morire seppellito sotto tutto l’oro
che mi sono guadagnato.»
Inej sospirò. «Allora pregherò che tu abbia tutto quello che chiedi.»
«Altre preghiere?» domandò lui. «E tu cosa vuoi, Spettro?»
«Voltare le spalle a Ketterdam e non sentire mai più il suo nome.»
Bene. Avrebbe dovuto cercarsi un altro ragno, ma si sarebbe liberato di questa
distrazione.
«Con la tua fetta di trenta milioni di kruge puoi esaudire il tuo desiderio.» Si
rimise in piedi. «Quindi usa le preghiere perché il tempo sia buono e le guardie
siano stupide. E a me, tienimi fuori.»

Kaz zoppicò verso la prua, contrariato da se stesso e arrabbiato con Inej. Perché
l’aveva cercata? Perché le aveva parlato di Jordie? Era stato intrattabile e
distratto per giorni. Era abituato ad avere il proprio Spettro attorno – che dava da
mangiare ai corvi fuori dalle finestre, che affilava i pugnali mentre lui lavorava
alla scrivania, che lo rimproverava con i suoi proverbi Suli. Non voleva Inej.
Voleva indietro la loro routine.
Kaz si puntellò alla balaustra della nave. Desiderò non aver rivelato niente su
suo fratello. Anche quelle poche parole avevano destato i ricordi e reclamato
attenzione. Che cosa aveva detto a Geels alla Borsa? “Io sono quel genere di
bastardo che soltanto nel Barile sono capaci di fabbricare.” Un’altra bugia, un
altro pezzo di leggenda che aveva costruito a proprio uso e consumo.
Dopo la morte del padre, finito sotto un aratro con le budella sparpagliate per
il campo come un sentiero di umidi boccioli rossi, Jordie aveva venduto la
fattoria. Non per molto. I debiti e le ipoteche si erano mangiati quasi tutto. Ma
c’era rimasto abbastanza per farli arrivare sani e salvi a Ketterdam e per
mantenerli in condizioni modeste ma confortevoli per un bel po’.
Kaz aveva nove anni, gli mancava il suo papà ed era terrorizzato all’idea di
lasciare l’unica casa in cui aveva mai abitato. Aveva tenuto stretta la mano del
fratello maggiore mentre attraversavano la campagna dolcemente ondulata,
finché raggiunsero uno dei corsi d’acqua principali e saltarono su una bagnarola
che portava prodotti agricoli a Ketterdam.
“Cosa faremo quando saremo là?” aveva chiesto a Jordie.
“Mi procurerò un lavoro alla Borsa come fattorino, poi come commesso.
Diventerò un azionista e poi un mercante vero e proprio, e farò i soldi.”
“E io?”
“Tu andrai a scuola.”
“Perché tu non andrai a scuola?”
Jordie lo aveva preso in giro. “Io sono troppo vecchio per andare a scuola. E
troppo intelligente, anche.”
I primi giorni in città andarono come aveva promesso Jordie. Avevano
percorso tutta l’enorme ansa del porto nota come il Coperchio, e avevano
camminato lungo lo Stave dell’Est per vedere le più grandi case da gioco. Non si
erano avventurati troppo a sud poiché erano stati avvertiti che lì le strade
diventavano pericolose. Alloggiavano in una pensione, piccola e ordinata, non
lontana dalla Borsa e assaggiavano ogni cibo che non conoscevano,
ingozzandosi fino alla nausea con le mele candite. A Kaz piacevano le
bancarelle che vendevano le frittate dove si potevano scegliere gli ingredienti.
Tutte le mattine, Jordie andava alla Borsa a cercare lavoro e diceva a Kaz di
restare in camera. Ketterdam non era un posto sicuro per i bambini non
accompagnati. Era piena di ladri e borseggiatori, ma anche di uomini che
rapivano i ragazzini e li vendevano al miglior offerente. E così Kaz restava in
camera. Metteva una sedia sopra il secchio per lavarsi e vi si arrampicava sopra
in modo da guardarsi allo specchio mentre si esercitava a far sparire le monete,
proprio come aveva visto fare a un illusionista che si esibiva davanti a una bisca.
Kaz avrebbe potuto osservarlo per ore, ma dopo un po’ Jordie l’aveva trascinato
via. I trucchi con le carte erano belli, ma le monete che sparivano lo tenevano
sveglio la notte. Come aveva fatto il mago? Un momento prima era lì, e subito
dopo non c’era più.
Il disastro iniziò con un cane a molla.
Jordie era tornato a casa affamato e nervoso, demoralizzato da un altro giorno
andato a vuoto. “Dicono che non c’è lavoro, ma quello che intendono è che non
c’è lavoro per i ragazzi come me. Lì sono tutti cugini o fratelli o figli del miglior
amico di qualcuno.”
Kaz non era dell’umore giusto per tirargli su il morale. Era annoiato per aver
trascorso tutte quelle ore al chiuso, con soltanto le monete e le carte a tenergli
compagnia. Voleva scendere allo Stave dell’Est a vedere il mago.
Nel corso degli anni successivi, Kaz si sarebbe chiesto di continuo che cosa
sarebbe accaduto se Jordie non lo avesse accontentato, se in alternativa fossero
andati al porto a vedere le barche, o se semplicemente avessero fatto una
passeggiata sull’altro lato del canale. Voleva tanto credere che avrebbe fatto la
differenza, ma più cresceva e più dubitava che avrebbe avuto la minima
importanza.
Erano passati davanti allo sfarzo verde del Palazzo di Smeraldo, e proprio sul
portone successivo, di fronte al Colpo d’Oro, c’era un ragazzo che vendeva
cagnolini meccanici. I giocattoli venivano caricati da una chiave di bronzo e
camminavano sulle gambe rigide, sbattendo le orecchie di latta. Kaz si era
accucciato a terra e aveva girato tutte le chiavi per provare a far camminare i
cani insieme, e il giovane venditore ambulante aveva attaccato bottone con
Jordie. Venne fuori che era di Lij, un posto ad appena due città di distanza da
dove erano cresciuti Kaz e Jordie, e che conosceva un uomo alla ricerca di
fattorini: non alla Borsa, ma in un ufficio proprio in fondo alla strada. Jordie si
sarebbe dovuto presentare la mattina dopo, disse il ragazzo, e avrebbero potuto
andare insieme a farci due chiacchiere. Anche lui sperava di trovare lavoro come
fattorino.
Sulla strada verso casa, Jordie aveva comprato una cioccolata calda per
entrambi, non una da dividere come al solito.
“La fortuna sta girando” aveva detto mentre mettevano le mani attorno alle
tazze fumanti, i piedi che penzolavano giù da un ponticello, le luci dello Stave
che facevano i loro giochi sull’acqua. Kaz aveva guardato la loro immagine
riflessa sulla superficie brillante del canale e aveva pensato: “Io mi sento
fortunato adesso”.
Il ragazzo che vendeva i cagnolini meccanici si chiamava Filip, e l’uomo che
conosceva si chiamava Jakob Hertzoon, un piccolo commerciante che possedeva
una caffetteria vicino alla Borsa, nella quale organizzava incontri tra investitori
di basso profilo per dividersi le partecipazioni nei viaggi commerciali che
passavano da Kerch.
“Dovresti vedere quel posto” si era vantato Jordie con Kaz, dopo essere
arrivato a casa tardi quella sera. “C’è gente a tutte le ore, parlano e si scambiano
notizie, comprano e vendono azioni e contratti, gente qualunque, macellai e
fornai e scaricatori di porto. Il signor Hertzoon dice che ogni uomo può
diventare ricco. Tutto quello che gli serve è un po’ di fortuna, e gli amici giusti.”
La settimana successiva fu come un bellissimo sogno. Jordie e Filip
lavoravano per il signor Hertzoon come fattorini, portando messaggi avanti e
indietro dal molo e di tanto in tanto effettuando delle commesse per lui alla
Borsa e in altri uffici commerciali. Mentre loro erano impegnati, Kaz aveva il
permesso di stare nella caffetteria. L’uomo che riempiva i bicchieri da dietro il
bancone del bar lo lasciava sedere alla cassa a fare pratica con i trucchi da
prestigiatore, e gli dava tutta la cioccolata calda che riusciva a trangugiare.
Furono invitati a casa Hertzoon per cena, una dimora imponente sulla
Zelverstraat con un portone blu e tende di pizzo bianco alle finestre. Il signor
Hertzoon era un omone dalla faccia rubiconda e amichevole, con le basette
grigie e spesse. Sua moglie, Margit, pizzicò le guance di Kaz e gli diede da
mangiare l’hutspot con la salsiccia affumicata, e lui giocò in cucina con Saskia,
la loro figlia. Aveva dieci anni, ed era la ragazza più bella che Kaz avesse mai
visto. Lui e Jordie rimasero fino a tarda notte a cantare mentre Margit suonava il
pianoforte e il loro grosso cane grigio sbatteva la coda a un ritmo mogio. Kaz
non si era mai sentito meglio da quando il padre era morto. Il signor Hertzoon
aveva anche lasciato che Jordie investisse piccole somme di denaro nelle azioni
della compagnia. Jordie voleva investire di più, ma il signor Hertzoon gli
consigliava sempre prudenza. “Non facciamo passi più lunghi della gamba,
giovanotto.”
Le cose andarono persino meglio quando l’amico del signor Hertzoon tornò
da Novyi Zem. Faceva il capitano sulla nave di un mercante, e pareva che avesse
incrociato il proprio cammino con quello di un produttore di zucchero nel porto
di Zemeni. L’agricoltore era ubriaco e si lamentava perché i suoi campi, e quelli
dei suoi vicini, erano stati allagati. Al momento il prezzo dello zucchero era
basso, ma appena si fosse scoperto quanto sarebbe stato difficile procurarselo nei
mesi a venire, i prezzi sarebbero schizzati alle stelle. L’amico del signor
Hertzoon aveva intenzione di comprare tutto lo zucchero possibile prima che la
notizia arrivasse a Ketterdam.
“Sembrano chiacchiere” aveva sussurrato Kaz a Jordie.
“Non sono chiacchiere” aveva sbuffato il fratello. “Sono buoni affari. E come
farebbero le persone qualunque a farsi strada nel mondo senza un piccolo aiuto
extra?”
Il signor Hertzoon aveva detto a Jordie e a Filip di effettuare le commesse in
tre uffici commerciali diversi per evitare che un acquisto troppo grosso attirasse
attenzioni indesiderate. Le notizie del raccolto andato a male arrivarono e i
ragazzi, seduti in caffetteria, avevano visto i prezzi dello zucchero salire sulla
lavagna e contenuto a stento la gioia.
Quando il signor Hertzoon ritenne che le azioni non potevano salire più di
così, mandò Jordie e Filip a venderle e a riscuotere gli interessi. Tornati alla
caffetteria, il signor Hertzoon aveva consegnato loro la parte di guadagno che gli
spettava prendendola direttamente dalla cassaforte.
“Che cosa ti ho detto?” aveva chiesto Jordie a Kaz mentre si addentravano
nella notte di Ketterdam. “Fortuna e buoni amici!”
Solo pochi giorni dopo, il signor Hertzoon aveva raccontato di aver ricevuto
un’altra dritta da un amico che faceva il capitano, e che aveva sentito una storia
simile su un carico imminente di jurda. “Quest’anno le piogge fanno danni
ovunque” aveva detto il signor Hertzoon. “Però adesso non sono andati distrutti
soltanto i campi, ma anche i depositi sulle banchine a Eames. Ci saranno da fare
dei gran bei soldi, e io ho intenzione di andarci giù pesante.”
“Anche noi, allora” aveva detto Filip.
Il signor Hertzoon si era accigliato. “Questa volta temo di no, ragazzi.
L’investimento minimo è troppo alto. Ma ci saranno altri affari da fare!”
Filip si era infuriato. Aveva strillato contro il signor Hertzoon, gli aveva detto
che non era giusto. Disse che era come tutti gli altri mercanti della Borsa, che
voleva essere ricco solo lui, e lo aveva chiamato in modi che avevano messo Kaz
in imbarazzo. Quando se ne andò sbattendo la porta, tutti nella caffetteria
avevano fissato la faccia rossa e mortificata del signor Hertzoon.
Era tornato nel suo ufficio ed era sprofondato nella sua poltrona. “Io... non
posso farci niente se le cose funzionano così. Quelli che gestiscono la vendita
vogliono solo grossi investitori, gente che possa affrontare il rischio.”
Jordie e Kaz erano rimasti lì in piedi, senza sapere cosa fare.
“Anche voi siete arrabbiati con me?” aveva domandato il signor Hertzoon.
Certo che no, avevano assicurato loro. Era Filip quello ingiusto.
“Capisco perché è arrabbiato” aveva detto il signor Hertzoon. “Opportunità
come questa non arrivano spesso, ma non c’è niente che io possa fare.”
“Io ho del denaro” aveva detto Jordie.
Il signor Hertzoon aveva fatto un sorriso accondiscendente. “Jordie, sei un
bravo giovanotto, e non ho dubbi che un giorno sarai un re della Borsa, ma non
hai il capitale richiesto da questi investitori.”
Jordie aveva sollevato il mento. “Ce l’ho. Viene dalla vendita della fattoria di
mio padre.”
“E immagino che sia tutto quello che tu e Kaz avete per vivere. Non lo si
mette a rischio in un investimento, non importa quanto siano sicuri i profitti. Un
bambino della tua età non può...”
“Non sono un bambino. Se è un’opportunità, voglio coglierla.”
Kaz si sarebbe ricordato per sempre di quel momento, quello in cui aveva
visto l’avidità prendere possesso di suo fratello, una mano invisibile che lo
spingeva avanti, la musa al lavoro.
Ce n’era voluto, per persuadere il signor Hertzoon. Erano tornati tutti alla
casa sulla Zelverstraat e discusso della faccenda fino a notte fonda. Kaz si era
addormentato con la testa sul fianco del cane grigio e il nastro rosso di Saskia
stretto in mano.
Quando Jordie alla fine lo svegliò, le candele erano spente ed era già mattina.
Il signor Hertzoon aveva chiesto al proprio socio in affari di venire a firmare un
contratto per un prestito da parte di Jordie. Per via della sua età, Jordie avrebbe
prestato il denaro al signor Hertzoon, e lui l’avrebbe investito. Margit servì il tè
con il latte, e pancake caldi con marmellata e panna acida. Poi erano andati tutti
alla banca dove erano depositati i soldi ricavati dalla vendita della fattoria e
Jordie firmò il trasferimento di proprietà.
Il signor Hertzoon insistette per riaccompagnarli alla pensione, e sulla porta li
abbracciò. Consegnò il contratto del prestito a Jordie e gli consigliò di metterlo
al sicuro. “Ora, Jordie” aveva detto, “le probabilità che questo affare vada male
sono poche, ma pur sempre ci sono. Nel caso, conto su di te e sul fatto che non
userai quel documento per ritirare il tuo prestito. Dobbiamo assumerci il rischio
in due. Io mi sto fidando di te.”
Jordie era raggiante. “Un patto è un patto.”
“Un patto è un patto” aveva ripetuto orgogliosamente il signor Hertzoon, e si
strinsero la mano come dei mercanti veri e propri. Il signor Hertzoon porse a
Jordie un sacchettino di kruge. “Per festeggiare con una bella cena. Torna alla
caffetteria fra una settimana, e insieme guarderemo i prezzi salire.”
Quella settimana avevano giocato a ridderspel e a spijker nelle sale giochi del
Coperchio. Avevano comprato un cappotto nuovo per Jordie e per Kaz un paio
di stivali di pelle morbida. Avevano mangiato cialde e patatine fritte, e Jordie
aveva acquistato tutti i romanzi che desiderava in una libreria sulla Wijnstraat.
Quando la settimana volse al termine, si incamminarono mano nella mano verso
la caffetteria.
Era vuota. La porta d’ingresso era chiusa a chiave e sprangata. Quando
schiacciarono i visi sulle vetrine scure, videro che era sparito tutto – i tavoli, le
sedie, i grossi vasi di rame e la lavagna dove venivano segnate le cifre relative
alle transazioni del giorno.
“Abbiamo sbagliato negozio?” aveva domandato Kaz.
Ma sapevano di non aver sbagliato. In un silenzio carico di tensione, si
avviarono verso la casa sulla Zelverstraat. Quando bussarono al portone blu,
nessuno rispose.
“Sono solo andati via per un po’” aveva detto Jordie. Aspettarono sugli
scalini per ore, finché il sole cominciò a scendere. Non entrò e non uscì nessuno.
Nessuna candela illuminò le finestre.
Alla fine, Jordie si fece coraggio e andò a bussare alla porta dei vicini. “Sì?”
aveva detto la domestica che venne ad aprire, nella sua piccola cuffia bianca.
“Lei sa dov’è andata la famiglia che abita alla porta accanto? Gli Hertzoon?”
La domestica aggrottò le sopracciglia. “Erano solo in visita, per un breve
periodo, da Zierfoort.”
“No” aveva detto Jordie. “Vivono qui da anni. Loro...”
La domestica scrollò la testa. “La casa è rimasta vuota per circa un anno dopo
che l’ultima famiglia se ne andò. È stata affittata solo poche settimane fa.”
“Ma...”
Lei gli aveva chiuso la porta in faccia.
Kaz e Jordie non si dissero niente, né sulla via verso casa né quando salirono
le scale della pensione che portavano alla loro camera. Rimasero seduti a lungo
nell’oscurità crescente. Dal canale di sotto arrivavano fluttuando le voci delle
persone che erano in giro a sbrigare i loro affari notturni.
“Gli è successo qualcosa” aveva detto Jordie alla fine. “C’è stato un incidente
o un’emergenza. Ci scriverà presto. Ci manderà a prendere.”
Quella notte, Kaz tirò fuori il nastro rosso di Saskia da sotto il cuscino. Lo
arrotolò con cura in una spirale e lo strinse forte nel palmo della mano. Era
sdraiato a letto e cercava di pregare, ma tutto quello a cui riusciva a pensare era
la moneta dell’illusionista, che un momento c’era e il momento dopo non c’era
più.
19
MATTHIAS

Era troppo per lui. Non aveva previsto quanto sarebbe stato difficile rivedere la
propria patria per la prima volta dopo così tanto tempo. Aveva avuto più di una
settimana a bordo della Ferolind per prepararsi, ma la mente era stata occupata
dal pensiero del sentiero che aveva intrapreso, da Nina, dalla magia malvagia
che lo aveva tolto dalla prigione e messo su una barca spedita a tutta velocità a
nord sotto un cielo sconfinato, ancora legato non solo dalle catene, ma anche dal
peso di quello che era in procinto di fare. Avvistò per la prima volta la costa
settentrionale nel pomeriggio inoltrato, ma Specht decise di aspettare fino al
tramonto per approdare sulla terraferma, nella speranza che il crepuscolo
concedesse loro un po’ di copertura. Si vedevano villaggi di cacciatori di balene
lungo la costa, e nessuno era impaziente di farsi notare. Nonostante il
travestimento da cacciatori di pellicce, gli Scarti davano comunque nell’occhio.
Passarono la notte sulla barca. All’alba del giorno dopo, Nina trovò Matthias
intento a montare l’attrezzatura invernale che Jesper e Inej avevano distribuito.
Matthias era impressionato dalla capacità di recupero di Inej. Benché avesse
ancora dei cerchi scuri sotto gli occhi, non si muoveva in modo rigido, e se
aveva dei dolori li mascherava bene.
Nina gli mostrò una chiave. «Kaz mi ha mandata a toglierti le catene.»
«Me le rimetterai di notte?»
«Spetta a Kaz deciderlo. E a te, suppongo. Siediti.»
«Basta che tu mi dia la chiave.»
Nina si schiarì la gola. «Vuole anche che ti modifichi.»
«Cosa? Perché?» L’idea che Nina cambiasse il suo aspetto con la stregoneria
gli era intollerabile.
«Siamo a Fjerda ora. Kaz vuole che tu sembri un po’ meno... un po’ meno te
stesso, non si sa mai.»
«Hai idea di quanto è grande questo paese? Le probabilità che...»
«Le probabilità che tu venga riconosciuto saranno considerevolmente più alte
alla Corte di Ghiaccio, e io non riesco a fare modifiche al tuo aspetto tutte in una
volta.»
«Perché?»
«Non sono una Plasmaforme così brava. Ormai fa parte dell’addestramento di
tutti i Corporalki, ma io non ci sono portata.»
Matthias fece un verso.
«Che cosa c’è?» domandò lei.
«Non ti ho mai sentita ammettere che non sei brava in qualcosa.»
«Sai com’è, succede così raramente.»
Si rese conto con orrore che le labbra gli si stavano aprendo in un sorriso, ma
non fece fatica a reprimerlo pensando alla propria faccia ritoccata. «Cosa ti ha
chiesto di farmi Brekker?»
«Niente di radicale. Cambierò il colore degli occhi, i capelli... quelli che ti
restano. Non sarà permanente.»
«Non voglio.» Non ti voglio vicina a me.
«Non ci vorrà molto, e non ti farà male, ma se preferisci discuterne con
Kaz...»
«Come non detto» disse lui, preparandosi. Era inutile discutere con Brekker,
non quando poteva semplicemente deriderlo con la promessa della grazia.
Matthias sollevò un secchio, lo capovolse e ci si sedette sopra. «Ora posso avere
la chiave?»
Nina gliela porse e lui si liberò i polsi mentre lei si mise a rovistare nel
cofanetto che aveva portato con sé. Aveva una maniglia e tanti cassettini pieni di
polveri e di pigmenti. Nina tirò fuori da un cassetto un barattolo che conteneva
qualcosa di nero.
«Che cos’è?»
«Antimonio.» Fece un passo verso di lui e gli spinse indietro il mento con la
punta dell’indice. «Rilassa la mascella, Matthias. O ti sbriciolerai tutti i denti per
niente.»
Lui incrociò le braccia.
Nina iniziò a far cadere un po’ di antimonio sul cuoio capelluto di lui e fece
un sospiro sconsolato. «Perché il prode drüskelle Matthias Helvar non mangia la
carne?» domandò in tono melodrammatico mentre si dava da fare. «Questa è una
storia triste davvero, bambino mio. Una Grisha cattiva gli ha estratto tutti i denti,
e ora può mangiare solo budino.»
«Finiscila» brontolò lui.
«Di fare cosa? Tieni la testa inclinata all’indietro.»
«Che cosa stai facendo?»
«Ti sto scurendo ciglia e sopracciglia. Quello che fanno le ragazze prima di
andare alle feste.» Lui doveva aver fatto una smorfia perché lei scoppiò a ridere.
«Guarda che faccia che hai!»
Nina si sporse in avanti e i suoi capelli castani e ondulati gli sfiorarono le
guance intanto che l’antimonio gli colava sulle sopracciglia. La mano di lei gli
circondò la guancia.
«Chiudi gli occhi» sussurrò. Gli passò i pollici sulle ciglia, e lui si rese conto
che stava trattenendo il respiro.
«Non sai più di rosa» disse lui, poi desiderò prendersi a calci da solo. Non
avrebbe dovuto fare attenzione al profumo di Nina.
«Più probabile che sappia di acqua di sentina.»
No, aveva un buon profumo, dolce come... «Caramelle al latte?»
Lei spostò lo sguardo con fare colpevole. «Kaz ha detto di mettere in valigia
quello che ci serviva per il viaggio. Una ragazza deve pur mangiare.» Si mise la
mano in tasca ed estrasse un sacchetto di caramelle. «Ne vuoi una?»
Sì. «No.»
Lei fece spallucce e se ne infilò una in bocca. Rovesciò gli occhi e sospirò
felice. «Che buona.»
Era umiliante, ma avrebbe potuto guardarla mangiare per ore. Era una delle
cose che gli piacevano di più di Nina: lei gustava tutto, che fosse una caramella
o l’acqua fredda di un ruscello o la carne di renna essiccata.
«E adesso gli occhi» disse lei con la caramella in bocca mentre estraeva una
bottiglietta dal suo cofanetto. «Devi tenerli aperti.»
«Che cos’è quella roba?» chiese lui nervosamente.
«Una tintura realizzata da una Grisha che si chiama Genya Safin. È il modo
più sicuro per cambiare il colore degli occhi.»
Nina si sporse in avanti un’altra volta. Aveva le guance rosa per il freddo e la
bocca leggermente aperta. Le sue labbra erano a pochi pollici da quelle di lui. Se
Matthias si fosse messo a sedere più dritto, si sarebbero baciati.
«Devi guardare verso di me» gli spiegò lei.
Lo sto facendo. Lui spostò gli occhi su di lei. “Ti ricordi di questa costa,
Nina?” voleva chiederle, sebbene lei dovesse ricordarsela per forza.
«Di che colore me li fai?»
«Sssh. Questo è difficile.» Applicò qualche goccia sulla punta delle dita e le
avvicinò agli occhi di Matthias.
«Perché non le metti dentro e basta?»
«Perché non la smetti di parlare? Vuoi che ti accechi?»
Lui si zittì.
Alla fine Nina si ritrasse, lasciando vagare lo sguardo sui lineamenti di lui.
«Marroncini» disse. Poi gli fece l’occhiolino. «Come le caramelle al latte.»
«Cosa hai intenzione di fare a proposito di Bo Yul-Bayur?»
Lei si raddrizzò e si allontanò, l’espressione di chi sta per chiudersi in se
stesso. «Che cosa vuoi dire?»
Gli dispiacque veder sparire la Nina disinvolta di poco prima, ma non aveva
importanza. Si girò a guardare che nessuno stesse ascoltando. «Sai perfettamente
cosa voglio dire. Non ci credo neanche per un secondo che permetterai a questa
gentaglia di consegnare Bo Yul-Bayur al Consiglio dei Mercanti di Kerch.»
Lei rimise la bottiglietta in uno dei cassettini. «Per fissare il colore dovremo
ripetere l’operazione almeno altre due volte prima di arrivare alla Corte di
Ghiaccio. Raccogli le tue cose. Kaz ci vuole pronti a sbarcare allo scoccare
dell’ora.» Fece scattare il coperchio del cofanetto e raccolse le catene. Quindi si
dileguò.

Ora che salutarono l’equipaggio della barca, da rosa il cielo era diventato d’oro.
«Ci vediamo nel porto di Djerholm» urlò Specht. «Nessun rimpianto.»
«Nessun funerale» replicarono gli altri. Strana gente.
Con sua grande frustrazione, Brekker aveva tenuto la bocca cucita a proposito
di come, esattamente, avrebbero raggiunto Bo Yul-Bayur e di come, poi,
sarebbero usciti dalla Corte di Ghiaccio con lo scienziato al seguito, ma su una
cosa era stato chiaro: una volta messe le mani sull’obiettivo, la Ferolind sarebbe
stata la via di fuga.
La goletta era provvista dei documenti con i sigilli di Kerch, sui quali c’era
scritto che erano state pagate le imposte ed erano state presentate tutte le
domande da parte dei rappresentanti della Compagnia della Baia Haanraadt per
trasportare pellicce e altre merci da Fjerda a Zierfoort, una città portuale nella
parte meridionale di Kerch.
Il gruppo si mise in marcia per risalire dalla costa rocciosa al fianco della
scogliera. La primavera era in arrivo, ma il ghiaccio a terra era ancora spesso, ed
era una salita tosta. Quando raggiunsero la cima della scogliera, si fermarono a
riprendere fiato. La Ferolind era ancora visibile all’orizzonte, le vele gonfiate
dallo stesso vento che frustava le loro facce.
«Santi numi» disse Inej. «Lo stiamo facendo veramente.»
«Ho passato ogni minuto di ogni orrido giorno a desiderare di scendere da
quella barca» disse Jesper. «Allora perché improvvisamente mi manca?»
Wylan pestò i piedi dentro gli stivali. «Forse perché abbiamo già i piedi
congelati.»
«Quando avremo i nostri soldi, potrete bruciare le kruge per scaldarvi» disse
Kaz. «Andiamo.» Aveva lasciato il bastone con la testa di corvo a bordo della
Ferolind e l’aveva rimpiazzato con una canna da passeggio meno appariscente.
Jesper aveva rinunciato, con la faccia da funerale, alle sue pregiate rivoltelle con
i manici di perla a favore di un paio di pistole anonime, senza decorazioni, e Inej
aveva fatto lo stesso con il suo set di pugnali e stiletti, tenendosi solo quelli dai
quali avrebbe sopportato di separarsi quando fossero entrati nella prigione.
Scelte pragmatiche, ma Matthias sapeva bene che anche i talismani avevano il
loro potere.
Jesper consultò la bussola e il gruppo girò a sud, alla ricerca di un sentiero
che li avrebbe portati alla strada principale. «Io pagherò qualcuno per bruciare le
kruge al posto mio.»
Kaz prese a camminargli accanto. «Perché non paghi qualcuno che paghi
qualcuno per bruciare le kruge al posto tuo? È così che fanno i pezzi grossi.»
«Lo sai come fanno i pezzi veramente grossi? Pagano qualcuno che paghi
qualcuno che paghi...»
Le loro voci si affievolirono a mano a mano che avanzavano, con Matthias e
gli altri che li seguivano. Ma il Fjerdiano notò una cosa: ciascuno di loro si
lanciò un’ultima occhiata alle spalle, verso la Ferolind che si andava dileguando.
La goletta faceva parte di Kerch, era un pezzetto di casa loro, l’ultima cosa
familiare, e ogni istante che passava era sempre più lontana.
Matthias provò un po’ di compassione, ma mentre la mattina li guardava
procedere dovette ammettere che gli faceva piacere vedere i ratti dei canali, per
una volta, rabbrividire e muoversi con fatica. Pensavano di sapere cosa fosse il
freddo, ma il bianco Nord costringeva gli stranieri a riconsiderare il loro punto di
vista. Gli Scarti inciampavano e barcollavano, impacciati nei loro stivali nuovi,
sforzandosi di capire quale fosse il trucco per camminare nella neve così dura, e
presto Matthias si ritrovò alla guida del gruppo, a segnare il passo, anche se
Jesper continuava a tenere d’occhio la bussola.
«Mettiti gli...» Matthias si interruppe e dovette indicare Wylan. Non sapeva
come si dicesse “occhiali” in Kerch, e nemmeno “neve”, del resto. Non erano
parole utili in prigione. «Scherma gli occhi, o potresti danneggiarli in modo
permanente.» Gli uomini diventavano ciechi nel profondo Nord; perdevano
labbra, orecchie, nasi, mani e piedi. La terra era brulla e crudele, e la maggior
parte delle persone ci vedeva solo quello. Ma per Matthias era bellissima. Il
ghiaccio mostrava lo spirito di Djel. Aveva un colore e una forma e anche un
profumo, se si sapeva cercarlo.
Matthias avanzava, sentendosi in pace, come se qui Djel potesse sentirlo e
alleviare la sua mente turbata. Il ghiaccio faceva affiorare i ricordi d’infanzia a
caccia con il padre. Vivevano più a sud, vicino a Halmhend, ma in inverno
quella zona di Fjerda non era molto diversa da questa, un mondo bianco e grigio,
spezzato da boschetti di alberi neri e flessuosi e grappoli di rocce aguzze che
sembravano essere sbucate dal nulla, come relitti sul fondo nudo dell’oceano.
Il primo giorno di cammino fu purificante: chiacchiere e il bianco silenzio del
Nord che dava il bentornato a Matthias senza giudicarlo. Si era aspettato più
lamentele, ma persino Wylan si era limitato ad abbassare la testa e camminare.
“Sono tutti dei sopravvissuti” si rese conto Matthias. “Sanno adattarsi.” Quando
il sole andò giù, mangiarono la loro razione di gallette e carne essiccata e
crollarono nelle tende senza una parola.
Ma la mattina dopo segnò la fine della sua taciturna e fragile sensazione di
pace. Ora che erano smontati dalla nave e lontani dall’equipaggio, Kaz era
pronto a inoltrarsi nei dettagli del piano.
«Se facciamo tutto giusto, entreremo e usciremo dalla Corte di Ghiaccio
prima ancora che i Fjerdiani si accorgano che il loro prezioso scienziato è
sparito» disse Kaz mentre si rimettevano gli zaini in spalla e riprendevano a
puntare verso sud. «Quando entreremo nella prigione, saremo portati nell’area di
smistamento sotto il braccio delle celle maschili e femminili in attesa dei nostri
capi d’accusa. Se Matthias ha ragione e le procedure sono rimaste le stesse, la
ronda passerà davanti alle celle di detenzione preventiva tre volte al giorno per
fare la conta delle teste. Una volta fuori da lì, dovremmo avere almeno sei ore
per attraversare l’ambasciata, localizzare Yul-Bayur sull’Isola Bianca e farlo
arrivare giù al porto prima che si rendano conto che qualcuno è sparito.»
«E cosa mi dici degli altri prigionieri in attesa nelle celle di detenzione?»
domandò Matthias.
«Abbiamo un piano.»
Matthias si accigliò, ma non fu particolarmente sorpreso. Una volta in
prigione, Kaz e gli altri sarebbero stati estremamente vulnerabili. A Matthias
sarebbe bastato dire una parola alle guardie per mettere fine a tutte le loro trame.
È quello che avrebbe fatto Brum, la decisione che avrebbe preso un uomo
d’onore. Una parte di Matthias aveva creduto che tornare a Fjerda l’avrebbe fatto
rinsavire, che gli avrebbe dato la forza di rinunciare a questo progetto folle;
invece aveva solo reso più acuta la nostalgia di casa, e della vita che aveva
condotto con i suoi fratelli drüskelle.
«Dopo che saremo usciti dalle celle» continuò Kaz «Matthias e Jesper si
procureranno delle corde dalle stalle mentre io e Wylan faremo uscire Nina e
Inej dal braccio femminile. Ci ritroveremo nel seminterrato. È lì che c’è
l’inceneritore, e dopo che la prigione avrà chiuso per la notte non ci dovrebbe
essere nessuno nella lavanderia. Mentre Inej si arrampicherà, io e Wylan
passeremo al setaccio la lavanderia alla ricerca di materiale esplosivo. E nel caso
in cui i Fjerdiani avessero deciso di rinchiudere Bo Yul-Bayur nella prigione e
facilitarci la vita, Nina, Matthias e Jesper ispezioneranno le celle al piano
superiore.
«Nina e Matthias?» domandò Jesper. «Lungi da me dubitare della
professionalità di ognuno di noi, ma ti sembra l’abbinamento ideale?»
Matthias ingoiò la rabbia. Jesper aveva ragione, ma detestava che si dubitasse
di lui in quel modo.
«Matthias sa quali sono le procedure della prigione, e Nina può sistemare le
guardie senza far rumore. Il tuo compito è impedire che si ammazzino a
vicenda.»
«Perché sono il diplomatico del gruppo?»
«Non c’è nessun diplomatico nel gruppo. Ora ascoltate» disse Kaz. «Il resto
della prigione non è come l’area di smistamento. Le guardie che fanno la ronda
nel braccio delle celle si alternano ogni due ore, e noi non vogliamo correre il
rischio che qualcuno suoni l’allarme, quindi fate attenzione. Coordiniamoci in
base ai rintocchi dell’Orologio Maggiore. Saremo fuori dalle celle subito dopo i
sei rintocchi, saremo su per l’inceneritore e sopra il tetto entro gli otto rintocchi.
Nessuna eccezione.»
«E poi?» chiese Wylan.
«Attraversiamo il tetto del settore dell’ambasciata e da lì raggiungiamo il
ponte di vetro.»
«Ci ritroveremo al di là dei posti di blocco» disse Matthias, che non riuscì a
non far trapelare nella voce un accenno di ammirazione. «Le guardie sul ponte
daranno per scontato che siamo passati dal cancello dell’ambasciata e che i
nostri documenti sono stati controllati lì.»
Wylan aggrottò la fronte, dubbioso. «Vestiti con la divisa della prigione?»
«Fase numero due» disse Jesper. «L’imbroglio.»
«Giusto» convenne Kaz. «Io, Inej, Nina e Matthias prendiamo in prestito i
vestiti di qualche delegato, e qualcosina in più per quando troviamo il nostro
amico Bo Yul-Bayur, e ci facciamo una passeggiata sul ponte di vetro.
Recuperiamo Yul-Bayur e lo riportiamo all’ambasciata. Nina, se c’è tempo, tu
gli cambierai i connotati il più possibile, ma solo fino a quando non scatta un
allarme, tanto nessuno noterà uno Shu in più tra gli ospiti.»
A meno che Matthias non fosse riuscito ad arrivare per primo allo scienziato.
Se gli altri lo avessero trovato già morto, Kaz non avrebbe potuto prendersela
con lui. E lui avrebbe avuto comunque la propria grazia. E se non fosse mai
riuscito a separarsi dal gruppo? A Yul-Bayur sarebbe potuto capitare un
incidente di bordo durante il viaggio di ritorno.
«Insomma, quello che ho capito io» disse Jesper «è che sono incollato a
Wylan.»
«A meno che tu non abbia acquisito all’improvviso una conoscenza
enciclopedica dell’Isola Bianca, l’abilità di scassinare serrature, di scalare pareti
inscalabili o di farti spifferare informazioni strettamente confidenziali dagli
ufficiali di alto rango, sì. Inoltre, voglio quattro mani a fabbricare bombe.»
Jesper guardò desolato le proprie pistole. «Un potenziale simile sprecato.»
Nina incrociò le braccia. «Mettiamo che niente vada storto. Come usciamo?»
«Camminando» rispose Kaz. «È questo il bello del piano. Ricordi cos’ho
detto, a proposito del guidare dove si vuole l’attenzione di chi guarda? Al
cancello dell’ambasciata tutti gli sguardi saranno puntati sugli ospiti che entrano
nella Corte di Ghiaccio. Le persone che escono non sono un rischio per la
sicurezza.»
«E allora a cosa servono le bombe?» domandò Wylan.
«Precauzione. Ci sono sette miglia di strada tra la Corte di Ghiaccio e il porto.
Se qualcuno si dovesse accorgere che Bo Yul-Bayur è scomparso, dovremo
percorrerle di corsa.» Kaz tracciò una linea nella neve con il bastone. «La strada
principale incrocia un burrone. Se facciamo saltare il ponte, nessuno potrà
inseguirci.»
Matthias si prese la testa tra le mani, al pensiero dello scompiglio che queste
creature inferiori erano in procinto di scatenare nella capitale del suo paese.
«Si tratta di un prigioniero solo, Helvar» disse Kaz.
«E di un ponte» intervenne opportunamente Wylan.
«E di tutto quello che ci tocca far saltare in aria nel frattempo» aggiunse
Jesper.
«State zitti, tutti» ringhiò Matthias.
Jesper alzò le spalle. «Fjerdiani.»
«Non mi piace niente di tutto questo» disse Nina.
Kaz alzò un sopracciglio. «Be’, almeno tu e Helvar avete trovato qualcosa su
cui siete d’accordo.»

A mano a mano che si spostavano verso sud, la costa spariva e il ghiaccio


sempre più spesso era intervallato da squarci di foreste, assaggi di terra nera e
tracce di animali, prove che il mondo era vivo, che il cuore di Djel batteva
sempre. Le domande degli altri non finivano mai.
«Quante torri di guardia ci sono sull’Isola Bianca?»
«Pensi che Yul-Bayur sia nel palazzo?»
«Ci sono delle caserme sull’Isola Bianca. Che cosa facciamo se è in una delle
caserme?»
Jesper e Wylan discutevano di esplosivi, quali avrebbero potuto assemblare
partendo dai materiali a disposizione nella lavanderia della prigione, e si
domandavano se sarebbero riusciti a mettere le mani su un po’ di polvere da
sparo nel settore dell’ambasciata. Nina cercava di aiutare Inej a calcolare la
velocità con cui avrebbe dovuto scalare la canna fumaria dell’inceneritore per
avere il tempo sufficiente ad assicurare le funi e far arrivare tutti in cima.
Si pungolavano di continuo l’un l’altro con domande sull’architettura e le
procedure della Corte, sulla disposizione delle tre portinerie nelle mura ad
anello, ciascuna delle quali era costruita attorno a un cortile.
«Il primo posto di blocco?»
«Quattro guardie.»
«Il secondo posto di blocco?»
«Otto guardie.»
«I cancelli delle mura ad anello?»
«Quattro, quando i cancelli non sono in funzione.»
Erano come un esasperante stormo di cornacchie, che gracchiavano nelle
orecchie di Matthias: “Traditore, traditore, traditore”.
«Protocollo giallo?» domandava Kaz.
«Disordini nel settore» rispondeva Inej.
«Protocollo rosso?»
«Violazione del settore.»
«Protocollo nero?»
«Siamo tutti spacciati?» rispose Jesper.
«Direi che può bastare» disse Matthias, stringendosi il cappuccio e
arrancando avanti. Gli avevano anche fatto riprodurre la successione dei
rintocchi delle campane. Era necessario, ma si era sentito un cretino mentre
canticchiava: «Bing bong bing bing bong. No, aspettate, bing bing bong bing
bing».
«Quando sarò ricco» disse Jesper dietro di lui «andrò in un posto dove non mi
toccherà mai più vedere dell’altra neve. E tu, Wylan?»
«Non lo so esattamente.»
«Secondo me dovresti comprarti un pianoforte d’oro.»
«Un flauto.»
«E tenere dei concerti su una nave da crociera. Puoi ancorarla nel canale
proprio davanti alla casa di tuo padre.»
«Nina può fare la cantante» si inserì nella conversazione Inej.
«Faremo un duetto» corresse il tiro Nina. «Tuo padre sarà costretto a
traslocare.»
Nina faceva schifo a cantare. Matthias detestava l’idea di saperlo, ma non
poté fare a meno di guardare dietro di sé. Il cappuccio le era ricaduto sulle spalle
e i fitti capelli mossi le sbucavano dal colletto.
“Perché continuo a fare così?” pensò lui in un impeto di frustrazione. Era
successo anche a bordo della nave. Si diceva tra sé e sé di ignorarla, e subito
dopo la cercava con gli occhi.
Ma era assurdo fare finta di non pensare a lei. Avevano percorso a piedi
questa stessa terra insieme. Se i suoi calcoli erano esatti, erano stati trascinati a
riva ad appena poche miglia di distanza da dove aveva approdato la Ferolind.
Tutto era cominciato con una tempesta, e in un certo senso quella tempesta non
era mai finita. Nina era stata soffiata dentro la sua vita insieme al vento e alla
pioggia e aveva fatto ruotare il suo mondo. Da allora, lui non aveva più ritrovato
un equilibrio.

La tempesta era comparsa dal nulla, scuotendo la nave sulle onde come se fosse
un giocattolo. Il mare era andato avanti a trastullarsi finché non si era stancato, e
a quel punto aveva trascinato la barca sott’acqua, in un groviglio di cime e vele e
uomini urlanti.
Le ultime cose che Matthias si ricordava erano l’oscurità dell’acqua, il freddo
terribile, il silenzio degli abissi. La prima cosa di cui era tornato conscio era se
stesso che sputava gocce salate e rantolava per respirare. Qualcuno gli aveva
messo un braccio attorno alla vita, e insieme si stavano muovendo nell’acqua. Il
freddo era insopportabile, eppure in qualche modo lo stava sopportando.
“Svegliati, miserabile ammasso di muscoli.” Detto in un Fjerdiano pulito,
impeccabile, aristocratico. Girò la testa e fu scioccato nel vedere che la giovane
strega che aveva catturato sulla costa meridionale dell’Isola Errante lo aveva
preso sottobraccio e stava borbottando tra sé e sé in Ravkiano. Lui lo aveva
sempre saputo che lei non era veramente Kaelish. In qualche modo si era liberata
dalle catene ed era uscita dalla gabbia. Ogni cellula del corpo di lui andò nel
panico, e se fosse stato meno traumatizzato o intorpidito avrebbe cercato di
divincolarsi.
“Muoviti” gli aveva detto lei in Fjerdiano. “Per tutti i Santi, cosa vi danno da
mangiare? Pesi come un carro da fieno.”
Stava facendo una gran fatica, nuotando per tutti e due. Gli aveva salvato la
vita. Perché? Si era dimenato tra le braccia di lei e aveva scalciato per spingere
entrambi in avanti. Lei aveva emesso un flebile singhiozzo. “Grazie ai Santi”
aveva detto. “Nuota, stupido gigante.”
“Dove siamo?” aveva domandato lui.
“Non lo so” aveva risposto lei, e lui aveva sentito il terrore nella sua voce.
Aveva scalciato ancora per allontanarsi da lei.
“No!” aveva urlato lei. “Non staccarti!”
Invece lui spinse forte e mollò la presa. Nel momento in cui uscì dal suo
abbraccio, il freddo gli si avventò contro. Il dolore fu tagliente e improvviso, e
tutti gli arti gli si infiacchirono. Aveva usato la sua ripugnante magia per
riscaldarlo. La cercò nell’oscurità.
“Drüsje?” l’aveva chiamata, vergognandosi della paura che c’era nella sua
voce. In Fjerdiano voleva dire “strega”, e del resto lui non sapeva come altro
chiamarla.
“Drüskelle!” aveva gridato lei, e poi lui aveva sfiorato con le dita quelle di lei
nell’acqua nera. Si aggrappò e l’attirò a sé. Il suo corpo non era propriamente
caldo, ma non appena i due rientrarono in contatto il dolore che Matthias
provava nelle braccia e nelle gambe si attenuò. Fu preso da gratitudine e
ribrezzo.
“Dobbiamo arrivare a riva” aveva rantolato lei. “Non ce la faccio a nuotare e
a continuare a far battere i nostri cuori.”
“Nuoto io” aveva detto lui. “Tu... nuoto io.” Strinse la schiena di Nina al petto
e l’abbracciò come aveva fatto lei con lui solo fino a pochi istanti prima, come se
stesse affogando.
Ed era quello che stava succedendo, stavano entrambi affogando, o sarebbero
affogati presto se prima non fossero morti congelati.
Iniziò a scalciare nell’acqua a colpi regolari, cercando di non consumare
troppa energia, ma sapevano entrambi che con ogni probabilità era del tutto
inutile. Quando erano stati colpiti dalla tempesta non erano lontani dalla
terraferma, ma era buio pesto. Potevano essersi avvicinati alla costa o essere
finiti in mare aperto.
Non si sentiva altro che il loro respiro, lo sciabordio dell’acqua, il rollio delle
onde. Lui continuò a nuotare per entrambi – anche se per quel che ne sapeva
potevano benissimo essersi mossi in circolo – e lei continuò a tenerli in vita
entrambi. Chissà chi avrebbe ceduto per primo.
“Perché mi hai salvato?” le aveva chiesto lui alla fine.
“Non sprecare energie. Non parlare.”
“Perché l’hai fatto?”
“Perché sei un essere umano” aveva risposto lei con rabbia.
Menzogne. Se avessero raggiunto la terraferma, lei avrebbe avuto bisogno di
un Fjerdiano che l’aiutasse a sopravvivere, qualcuno che conosceva la zona, per
quanto fosse evidente che lei parlava la sua lingua.
Per forza. I Grisha erano tutti spie e imbroglioni, addestrati a prendere di mira
quelli come lui, quelli privi di poteri contro natura. Erano predatori.
Matthias continuò a scalciare, ma i muscoli delle gambe erano affaticati e
poteva sentire il freddo insinuarsi dentro di lui.
“Stai già mollando, strega?”
La sentì scrollarsi di dosso la stanchezza, e il sangue gli tornò a scorrere nelle
dita delle mani e dei piedi.
“Io non mollo mai, drüskelle. Se moriamo, sarai tu a portarne il fardello nella
prossima vita.”
Gli strappò un sorriso. Di sicuro non le mancava il carattere. Era stato chiaro
anche quand’era rinchiusa nella gabbia.
Fu quello il modo in cui tirarono avanti quella notte, punzecchiandosi ogni
volta che uno dei due vacillava. Tutto ciò che sapevano era che c’erano il mare,
il ghiaccio, e un tonfo occasionale che poteva essere un’onda oppure un essere
affamato che nuotava nell’acqua sotto di loro.
“Guarda” aveva sussurrato la strega quando venne l’alba, rosea e spensierata.
Là, in lontananza, Matthias riusciva appena a distinguere un promontorio di
ghiaccio che sporgeva e il benedetto squarcio nero di una spiaggia di ghiaia
scura. Terra.
Non persero tempo a tirare il fiato o a festeggiare. La strega tirò indietro la
testa, appoggiandola alla sua spalla mentre lui spingeva avanti, pollice dopo
maledetto pollice, mentre ogni onda li tirava indietro, come se il mare non fosse
disposto a mollare la presa.
Alla fine i loro piedi toccarono il fondo e a quel punto stavano per metà
nuotando e per metà strisciando sulla battigia. Si separarono, e il tormento invase
il corpo di Matthias quando si trascinò oltre le rocce nere, verso la terra brulla e
ghiacciata.
All’inizio camminare fu impossibile. Entrambi si muovevano a scatti, nel
tentativo di costringere gli arti a obbedire, rabbrividendo per il freddo.
Poi lui riuscì a mettersi in piedi. Pensò solo ad andarsene, a cercare un riparo
senza di lei. Lei era carponi, la testa abbassata, i capelli una matassa bagnata e
ingarbugliata che le copriva la faccia. Lui ebbe la netta sensazione che si sarebbe
accasciata e mai più rialzata.
Fece un passo, poi un altro. Poi tornò indietro. Qualunque fossero stati i
motivi per cui l’aveva fatto, quella notte lei gli aveva salvato la vita, e non una
volta sola, ma tante. Ed era un debito di sangue da onorare.
Lui barcollò per tornare da lei e le diede una mano da afferrare.
Quando lei sollevò lo sguardo su di lui, l’espressione sul suo viso era un
misto deprimente di odio e stanchezza. Dentro, lui ci vide la vergogna che si
univa alla gratitudine, e capì che in quel momento lei era lo specchio di lui.
Anche lei non voleva avere nessun debito con lui.
Avrebbe deciso Matthias per lei. Le doveva questo e altro. Allungò la mano e
la tirò su, e insieme, arrancando, lasciarono la spiaggia.
Si diressero verso quello che Matthias confidava fosse l’Occidente. Il sole,
così tanto a nord, faceva degli scherzi al suo senso dell’orientamento e non
avevano una bussola dalla quale farsi guidare. Era quasi buio, e Matthias aveva
già avvertito le prime avvisaglie di terrore vero quando finalmente individuarono
il primo degli accampamenti dei cacciatori di balene. Era deserto – gli avamposti
erano attivi solo in primavera – ed era poco più di un capanno rotondo fatto di
zolle di terra, ossa e pelli di animali. Ma era un riparo, e almeno sarebbero
sopravvissuti alla notte.
La porta non aveva la serratura. Loro per poco non la sfondarono.
“Grazie” aveva sussurrato con un gemito lei mentre crollò accanto al
focolare.
Lui non disse niente. Trovare l’accampamento era stata mera fortuna. Se si
fossero trascinati anche solo per poche miglia più in alto lungo la costa,
sarebbero stati spacciati.
I balenieri avevano lasciato nel caminetto la torba e la legna secca. Matthias
si diede da fare per accenderlo, cercando di fare più fuoco che fumo. Era
maldestro e stanco e affamato al punto che avrebbe addentato con gioia la pelle
dei suoi stivali. Quando sentì un fruscio dietro di lui, si voltò e per poco non
lasciò cadere il ciocco di legno che stava usando per alimentare la fiamma.
“Cosa stai facendo?” aveva tuonato.
Lei si era guardata alle spalle – delle spalle molto nude – e aveva detto: “C’è
qualcosa che sarei tenuta a fare?”.
“Rimettiti i vestiti!”
Lei aveva alzato gli occhi al cielo. “Non morirò congelata per salvaguardare il
tuo senso del pudore.”
Lui aveva dato un colpo secco al fuoco, ma lei aveva fatto finta di niente e si
era tolta tutto il resto – la tunica, i pantaloni, persino la biancheria intima – per
poi avvolgersi in una delle sudicie pelli di renna ammucchiate accanto alla porta.
“Per tutti i Santi, come puzza” si era lamentata lei, strisciando i piedi per
avvicinarsi e formando un nido davanti al fuoco con altre pelli e coperte. Tutte le
volte che si muoveva, la pelle di renna si apriva, mostrando per un attimo un
polpaccio rotondo, della pelle candida, un’ombra in mezzo ai seni. Era tutto
studiato. Lui lo sapeva. Stava cercando di irritarlo. Doveva concentrarsi sul
fuoco. Era quasi morto, e se non fosse riuscito ad accendere un fuoco come si
deve, avrebbe di nuovo corso il rischio. Se soltanto lei avesse smesso di fare
tutto quel rumore. Il ciocco di legno gli si spezzò in mano. Nina sbuffò e si
sdraiò nel nido di pelli, appoggiandosi su un gomito. “Per l’amor del cielo,
drüskelle, che problema hai? Voglio solo scaldarmi. Giuro che non ti violenterò
nel sonno.”
“Non ho paura di te” aveva detto lui in modo scontroso.
Lei aveva fatto un sorriso maligno. “Allora sei stupido come sembri.”
Matthias rimase accovacciato accanto al fuoco. Sapeva che avrebbe dovuto
stendersi accanto a lei. Il sole era tramontato, e le temperature stavano crollando.
Stava sforzandosi di non battere i denti, e avrebbero avuto bisogno l’uno del
calore dell’altra per arrivare vivi al giorno dopo. Non avrebbe dovuto
importargli, ma non voleva starle vicino. “Perché è un’assassina” aveva detto a
se stesso. “Ecco perché. È un’assassina e una strega.”
Si costrinse ad alzarsi e ad avvicinarsi alle coperte. Ma Nina alzò una mano
per fermarlo.
“Non pensarci neanche, ad avvicinarti a me tutto vestito. Sei bagnato
fradicio.”
“Tu puoi tenerci il sangue al caldo.”
“Sono esausta” aveva detto lei stizzita. “E dopo che mi sarò addormentata, ci
sarà solo quel fuoco a scaldarci. Ti vedo tremare da qui. Tutti così puritani voi
Fjerdiani?”
No. Forse. Davvero non lo sapeva. I drüskelle erano un ordine sacro. Erano
destinati a vivere in castità finché non prendevano moglie: delle brave donne
Fjerdiane che non andavano in giro a sbraitare e a togliersi i vestiti di dosso.
“Tutti così sfrontati voi Grisha?” aveva replicato lui sulla difensiva.
“Maschi e femmine si esercitano assieme fianco a fianco nel Primo e Secondo
Esercito. Non c’è molto margine per arrossire come delle signorine.”
“Non è naturale che le donne combattano.”
“Non è naturale che uno sia stupido tanto quanto è alto, eppure eccoti qui. Hai
nuotato per tutte quelle miglia solo per morire in questa baracca?”
“È un capanno, e non puoi sapere che abbiamo nuotato per miglia.”
Nina fece un sospiro esasperato e si rannicchiò sul fianco, rifugiandosi quanto
più vicino possibile al fuoco. “Sono troppo stanca per stare a discutere.” Chiuse
gli occhi. “Non riesco a credere che l’ultima cosa che vedrò prima di morire sarà
la tua faccia.”
Matthias si sentì sfidato. Rimase lì in piedi sentendosi uno sciocco e
detestandola per farlo sentire a quel modo. Le diede le spalle e velocemente si
tolse gli indumenti fradici che aveva addosso, per stenderli accanto al fuoco. Le
lanciò un’occhiata per assicurarsi che non stesse guardando, poi si avvicinò alle
coperte e si infilò dietro di lei, sempre cercando di mantenere le distanze.
“Più vicino, drüskelle” aveva cantilenato lei in modo romantico, prendendosi
gioco di lui.
Matthias le passò un braccio sopra e poi intorno alla schiena e l’attirò verso il
suo petto. Lei si lasciò scappare un verso di sorpresa e si mosse a disagio.
“Smettila di muoverti” aveva bofonchiato lui. Era già stato a stretto contatto
con delle ragazze – non molte, a dir la verità – ma nessuna come lei. Era rotonda
in modo indecente.
“Sei freddo e viscido” si era lamentata lei con un brivido. “È come stare
vicino a un calamaro gigante.”
“Me l’hai chiesto tu di avvicinarmi!”
“Rilassati un po’” gli aveva ordinato lei e quando lui lo fece, lei si girò per
guardarlo in faccia.
“Che cosa stai facendo?” aveva chiesto lui, arretrando terrorizzato.
“Calmati, drüskelle. Non ci sto provando con te.”
Lui ridusse gli occhi a due fessure. “Non mi piace il modo in cui ti esprimi.”
Le era passata sul viso un’ombra di dolore o se l’era solo immaginato? Come se
le sue parole potessero fare effetto su una strega simile.
Lei aveva fugato ogni dubbio dicendogli: “Credi che mi importi qualcosa di
quello che ti piace o non ti piace?”.
Nina appoggiò le mani sul petto di Matthias e si concentrò sul suo cuore. Lui
non avrebbe dovuto permetterglielo, non avrebbe dovuto mostrarsi così debole,
ma non appena il sangue tornò a scorrere e a scaldarlo, il sollievo e il conforto
che lo invasero erano troppo piacevoli per resistere.
Si lasciò andare e si rilassò un po’, pur riluttante, sotto il tocco delle mani di
lei. Lei si rigirò e si rimise il braccio di lui attorno alla vita. “Prego, non c’è di
che, gran pezzo di idiota.”
Aveva mentito. Gli piaceva parecchio il suo modo di parlare.

E gli piaceva ancora. La sentiva blaterare con Inej da qualche parte dietro di lui
mentre le insegnava delle parole Fjerdiane. «No, Hring-kaaalle. Devi accentare
un po’ l’ultima sillaba.»
«Hringalah?» provò Inej.
«Meglio, però... ascolta, è come se il Kerch fosse una gazzella, che saltella da
una parola all’altra» disse Nina, mimando la gazzella. «Il Fjerdiano è come un
gabbiano, che va giù in picchiata e si tuffa.» Le sue mani diventarono degli
uccelli che cavalcavano le correnti d’aria. In quel momento alzò lo sguardo e
sorprese Matthias che la fissava. Lui si schiarì la gola. «Non mangiate la neve»
raccomandò loro. «Vi disidraterà soltanto e vi abbasserà la temperatura
corporea.» Si precipitò avanti, impaziente di essere sulla collina e di mettere
della distanza tra se stesso e loro. Ma appena superò la salita, si fermò di colpo.
Si voltò e alzò le braccia. «Stop! Non volete...»
Ma era troppo tardi. Nina si tappò la bocca per non urlare. Inej fece qualche
gesto allarmato nell’aria. Jesper scrollò la testa e a Wylan andò di traverso la
saliva. Kaz diventò di pietra, con un’espressione indecifrabile.
Sulla scogliera era stata costruita una pira. L’artefice aveva provato ad
appiccare il fuoco nell’ansa di una roccia sporgente, ma il riparo non era bastato
a tener viva la fiamma contro il vento. Nel terreno ghiacciato erano stati
conficcati tre pali, a cui erano legati tre corpi carbonizzati. La loro pelle annerita
e squarciata stava ancora fumando.
«Ghezen» imprecò Wylan. «Cos’è?»
«È quello che i Fjerdiani fanno ai Grisha» disse Nina. Aveva un’espressione
devastata e gli occhi verdi fissi.
«È quello che fanno i criminali» disse Matthias, con le budella attorcigliate.
«Le pire sono illegali da...»
Nina si girò di scatto verso di lui e lo spinse via con una violenta manata sul
petto. «Non ti permettere» ringhiò schiumando per la rabbia, mentre la furia
divampava attorno a lei come un alone di fuoco. «Dimmi quand’è stata l’ultima
volta che qualcuno è stato condannato per aver dato un Grisha alle fiamme. O
chiamate assassini anche quelli che abbattono i cani?»
«Nina...»
«L’omicidio si chiama in un altro modo quando chi lo commette indossa
un’uniforme?»
Fu allora che lo sentirono: un gemito, simile a un sibilo scricchiolante.
«Santi numi» disse Jesper. «Uno è ancora vivo.»
Il suono, flebile e straziante, scaturì di nuovo dal teschio scuro del corpo più a
destra. Era impossibile capire se fosse il corpo di un maschio o di una femmina.
Il fuoco si era mangiato tutti i capelli e i vestiti si erano fusi con le membra. In
alcuni punti si erano staccati dei lembi di pelle nera, e sotto la carne era viva.
Dalla gola di Nina uscì un singhiozzo. Alzò le mani, ma stava tremando così
forte che erano inservibili, non sarebbe riuscita a usare il suo potere per mettere
fine alla sofferenza di quella creatura. Puntò gli occhi pieni di lacrime sugli altri.
«Io... vi prego, qualcuno...»
Il primo a scattare fu Jesper. Sparò due colpi, e il corpo si quietò. Jesper
rimise la pistola nella fondina.
«Dannazione, Jesper» ringhiò Kaz. «Hai appena annunciato la nostra
presenza a tutti nel raggio di miglia.»
«Penseranno che siamo qua fuori per una battuta di caccia.»
«Avresti dovuto lasciar fare a Inej.»
«Non ne avevo il desiderio» disse Inej a bassa voce. «Grazie, Jesper.»
Kaz contrasse la mascella, ma non aggiunse altro.
«Grazie» sussurrò Nina con la voce strozzata. Si lanciò in avanti sulla terra
gelata, seguendo la traccia del sentiero attraverso la neve. Stava piangendo, e
incespicava a ogni passo. Matthias le andò dietro. C’erano pochi punti di
riferimento, ed era facile finire per perdersi e girare in circolo.
«Nina, non devi allontanarti dal resto del gruppo.»
«Ecco a cosa stai facendo ritorno, Helvar» gli disse lei duramente. «Eccolo, il
paese che desideri servire. Ti rende orgoglioso?»
«Io non ho mai mandato un Grisha sulla pira. I Grisha vengono sottoposti a
un giusto processo.»
Lei si girò verso di lui, con gli occhiali sollevati e le lacrime congelate sulle
guance.
«E allora perché nessun Grisha è mai stato giudicato innocente alla fine dei
tuoi processi così giusti?»
«Io...»
«Perché il nostro crimine è esistere. Il nostro crimine è essere quello che
siamo.»
Matthias fece silenzio, e quando parlò si ritrovò diviso tra la vergogna per
quello che stava per dire e la necessità di pronunciare a voce alta quelle parole,
le parole con cui era cresciuto, le parole che ancora suonavano vere dentro di lui.
«Nina, ti è mai venuto in mente che forse voi... voi non dovreste esistere?»
Gli occhi della ragazza mandarono bagliori di fuoco verde. Fece un passo
verso di lui, e lui avvertì il furore che emanava. «Forse siete voi quelli che non
dovrebbero esistere, Helvar. Deboli e rammolliti, con le vostre brevi vite e i
vostri piccoli miserabili pregiudizi. Adorate i folletti dei boschi e gli spiriti del
ghiaccio che non si disturbano a farsi vedere, ma il potere vero, quello lo
ammirate e non vedete l’ora di estirparlo.»
«Non prendere in giro ciò che non comprendi.»
«Le mie prese in giro ti offendono? La mia gente accoglierebbe volentieri le
vostre risate al posto di questa barbarie.» Un’espressione di enorme
soddisfazione le attraversò il viso. «Ravka sta rinascendo. E anche il Secondo
Esercito, e quando saranno pronti io spero che vi sottopongano al giusto
processo che meritate. Spero che mettano i drüskelle in catene e li facciano stare
in piedi ad ascoltare l’elenco dei crimini che hanno commesso, in modo che il
mondo intero abbia chiara tutta la vostra malvagità.»
«Se muori dalla voglia di veder rinascere Ravka, perché non sei là adesso?»
«Voglio che tu ottenga la tua grazia, Helvar. Voglio essere qui quando il
Secondo Esercito marcerà a nord e invaderà ogni fazzoletto di questa landa
desolata. Spero che brucino ogni campo e spargano sale sulla terra. Spero che
mandino i tuoi amici e la tua famiglia a bruciare sulla pira.»
«L’hanno già fatto, Zenik. Mia madre, mio padre, la mia sorellina appena
nata. Soldati Inferni, i tuoi preziosi Grisha, così oppressi e perseguitati, hanno
ridotto in cenere il nostro villaggio. Non mi è rimasto niente da perdere.»
La risata di Nina risuonò amara. «Forse sei rimasto nell’Anticamera
dell’Inferno troppo poco, Matthias. C’è sempre qualcosa da perdere.»
20
NINA

Posso sentire il loro odore. Nina si scrollò i capelli e si diede delle pacche sui
vestiti mentre barcollava nella neve, cercando di reprimere i conati di vomito.
Non riusciva a smettere di vedere quei corpi, quegli involucri neri e abbrustoliti
da cui faceva capolino, come carboni ardenti, la carne color rosso vivo. Era
come se fosse stata cosparsa delle loro ceneri, immersa nel tanfo delle membra
bruciate. Non riusciva a respirare a fondo.
Stare attorno a Matthias le aveva fatto scordare chi fosse veramente, e cosa
pensasse veramente di lei. Lo aveva modificato un altro po’ giusto quella
mattina, sopportando sguardi torvi e brontolii. No, godendoseli, grata per avere
la scusa di stargli accanto, ridicolmente soddisfatta ogni volta che era lì lì per
strappargli una risata. Per tutti i Santi, perché mi interessa? Perché un singolo
sorriso di Matthias Helvar valeva come cinquanta sorrisi altrui? Aveva sentito il
cuore di lui accelerare quando lei gli aveva inclinato la testa all’indietro per
modificargli il colore degli occhi. Aveva pensato di baciarlo. Aveva desiderato
baciarlo, ed era piuttosto certa che per lui fosse lo stesso. Oppure stava
pensando di strangolarmi di nuovo.
Non si era dimenticata che cosa le aveva detto a bordo della Ferolind, quando
le aveva chiesto che intenzioni avesse riguardo a Bo Yul-Bayur, se veramente
volesse consegnare lo scienziato a Kerch. Se lei avesse sabotato la missione di
Kaz, avrebbe compromesso la sua grazia? Non poteva farlo. A prescindere da
cosa fosse lui, lei gli doveva la libertà.
Dopo il naufragio, aveva viaggiato con Matthias per tre settimane. Non
avevano una bussola e non sapevano dove stavano andando. Non sapevano
neanche in quale punto della costa settentrionale erano stati trascinati.
Avevano trascorso lunghe, interminabili giornate ad arrancare faticosamente
nella neve, e gelide notti a costruirsi un riparo rudimentale di qualunque genere,
o dentro le baracche abbandonate negli accampamenti dei balenieri quando
erano fortunati abbastanza da incrociarli.
Avevano mangiato alghe di mare arrostite e qualunque genere di erba o di
tubero trovati in giro. Il giorno in cui, in uno degli accampamenti, avevano
recuperato una scorta di carne di renna essiccata sul fondo di uno zaino, era stato
una specie di miracolo. L’avevano masticata in religioso silenzio, e il sapore li
aveva quasi ubriacati.
Dopo la prima notte, avevano dormito avvolti in tutti i panni asciutti e le coperte
che erano riusciti a trovare, ma ai due lati opposti del fuoco. Se non trovavano
legna da ardere, si raggomitolavano l’uno contro l’altra, toccandosi a malapena,
ma ora che si faceva mattina si ritrovavano pigiati vicini vicini, e respiravano in
sincrono, imbozzolati in un sonno intorpidito, come una singola falce di luna.
Tutti i giorni lui si lamentava che lei era impossibile da svegliare.
“È come cercare di rianimare un cadavere.”
“La morta ha bisogno di altri cinque minuti” diceva lei, e seppelliva la testa
sotto le pellicce.
Lui andava in giro sbattendo apposta i piedi, e raccoglieva le loro poche cose
facendo più rumore possibile, borbottando tra sé e sé. “Pigra, scandalosa,
egoista...” finché finalmente lei si alzava e si preparava.
“Qual è la prima cosa che farai quando tornerai a casa?” gli aveva chiesto lei
in uno di quegli interminabili giorni passati a camminare nella neve, nella
speranza di trovare qualche segno di civiltà.
“Dormirò” aveva risposto lui. “Farò il bagno. Pregherò per gli amici che ho
perso.”
“Ah, sì, quegli altri delinquenti e assassini. Come sei diventato un drüskelle, a
proposito?”
“Durante un’incursione Grisha, i tuoi amici hanno massacrato la mia
famiglia” aveva risposto lui freddamente. “Brum mi ha accolto e mi ha dato
qualcosa per cui combattere.”
Nina non aveva voluto crederci, ma sapeva che poteva essere. Le battaglie
scoppiavano, vite innocenti andavano perse negli scontri a fuoco. Altrettanto
inquietante era pensare a quel mostro di Brum come a una sorta di figura
paterna.
Non le sembrò il caso né di discutere né di scusarsi, e allora aveva detto la
prima cosa che le passò per la testa.
“Jer molle pe oonet. Enel mörd je nej afva trohem verret.” “Sono stato fatto
per proteggerti. Solo la morte potrà esimermi da questo giuramento.”
Matthias l’aveva guardata scioccato. “Questo è il giuramento drüskelle a
Fjerda. Come fai a conoscerlo?”
“Ho imparato quanto più possibile su Fjerda.”
“Perché?”
Lei aveva detto dopo una pausa: “Così non avrei avuto paura di voi”.
“Non sembri spaventata.”
“E tu, hai paura di me?” gli aveva chiesto lei.
“No” aveva risposto lui, ed era sembrato quasi sorpreso. Aveva già affermato
in passato che non la temeva. Questa volta lei gli credette. Tentò di rammentare
a se stessa che non era una buona cosa.
Erano andati avanti a camminare per un po’, e poi lui aveva domandato: “Qual è
la prima cosa che farai tu?”.
“Mangerò.”
“Mangerai cosa?”
“Di tutto. Cavoli ripieni, ravioli di patate, torte di ribes, tartine con la scorza
di limone. Non vedo l’ora di vedere la faccia di Zoya quando tornerò a piedi al
Piccolo Palazzo.”
“Zoya Nazyalensky?”
Nina si era fermata di colpo. “La conosci?”
“La conosciamo tutti. È una strega potente.”
Questa cosa la colpì. Per i drüskelle, Zoya era un po’ come Jarl Brum:
crudele, inumana, la creatura che aspettava nelle tenebre con la falce tra le mani.
Zoya era il mostro di questo ragazzo. Pensarci la mise a disagio.
“Come sei uscita dalla gabbia?»
Nina aveva sbattuto le palpebre. “Cosa?”
“Sulla nave. Eri legata e rinchiusa nella gabbia.”
“La tazza dell’acqua. Il manico si ruppe e usammo il bordo sbeccato per
tagliare le corde. Tornati con le mani libere...” La voce di Nina si era affievolita,
imbarazzata.
Matthias aveva abbassato le sopracciglia. “Avevate in programma di
attaccarci.”
“Ci saremmo mossi quella notte.”
“Ma poi arrivò la tempesta.”
“Sì.”
Un Chiamatempeste e un Fabrikator avevano fatto un buco proprio nel ponte,
e si erano buttati in mare. Ma qualcuno era sopravvissuto alle acque gelide?
Erano riusciti a raggiungere la terraferma? Nina rabbrividì. Se non avessero
capito come usare la tazza, lei sarebbe annegata chiusa in una gabbia.
“Che cosa mangiano i drüskelle?” gli aveva chiesto, allungando il passo. “A
parte i bambini Grisha, intendo.”
“Noi non mangiamo i bambini!”
“Grasso di delfino? Zoccoli di renna?”
Aveva visto che lui contorceva la bocca e si era domandata se fosse schifato o
se, invece, stesse sforzandosi di non ridere.
“Mangiamo un sacco di pesce. Aringhe. Baccalà. E sì, renne, ma gli zoccoli
no.”
“E cosa mi dici dei dolci?”
“Io non vado matto per i dolci. Mi domando se troveremo mai un terreno
comune” rispose facendo spallucce.
“Oh, avanti, drüskelle” aveva commentato lei. Non si erano ancora detti come
si chiamavano, e Nina non era certa che avrebbero dovuto farlo. Alla fine, se
fossero sopravvissuti, avrebbero raggiunto una cittadina o un villaggio. Non
sapeva cosa sarebbe accaduto a quel punto, ma meno lui sapeva meglio era, per
ogni evenienza. “Non stai rivelando qualche segreto governativo di Fjerda.
Voglio solo sapere perché non ti piacciono i dolci.”
“Mi piacciono eccome i dolci, ma non abbiamo il permesso di mangiarli.”
“Nessuno ce l’ha? O soltanto i drüskelle?”
“Soltanto noi. I dolci sono considerati una debolezza. Come l’alcol o...”
“Le ragazze?”
Lui era arrossito e aveva accelerato il passo. Era così facile metterlo a disagio.
“Se gli zuccheri e l’alcol ti sono vietati, probabilmente adoreresti il
pomdrakon.”
Non aveva abboccato subito e aveva continuato a camminare, ma alla fine
aveva rotto il silenzio. “Che cos’è il pomdrakon?”
“Scodella di drago” aveva detto Nina con entusiasmo. “Prima immergi i
chicchi di uvetta nel brandy, poi spegni le luci e gli dai fuoco.”
“Perché?”
“Perché così è difficile prendere i chicchi.”
“E cosa fai dopo che li hai presi?”
“Li mangi.”
“Non ti scottano la lingua?”
“Certo, ma...”
“E allora perché mai...”
“Perché è divertente, scemo. Hai presente ‘divertente’? C’è una parola per
dirlo in Fjerdiano, per cui dovrebbe esserti familiare.”
“Faccio tantissime cose divertenti.”
“Ah, sì? Cosa fai per divertirti?”
E andavano avanti così, a tirarsi le frecciatine, proprio come quella prima
notte nell’acqua, a tenersi vivi a vicenda, rifiutandosi di accettare che stavano
diventando sempre più deboli, che se non avessero trovato un villaggio al più
presto non sarebbero durati tanto a lungo. C’erano giorni in cui la fame e il
bianco accecante del ghiaccio del Nord li facevano girare in tondo, tornare
indietro, incespicare sui propri passi, ma non ne parlarono mai, non
pronunciarono mai la parola “persi”, come se sapessero entrambi che avrebbe in
qualche modo ammesso la loro sconfitta.
“Perché i Fjerdiani non lasciano combattere le ragazze?” gli aveva chiesto lei
una notte in cui giacevano rannicchiati sotto una tettoia, il freddo palpabile
attraverso le pelli che avevano gettato per terra.
“Le ragazze non vogliono combattere.”
“Come lo sapete? L’avete mai chiesto a una di loro?”
“Le donne Fjerdiane sono fatte per essere venerate e protette.”
“In effetti è una politica saggia.”
Ormai la conosceva abbastanza bene da rimanere sorpreso. “Lo pensi
davvero?”
“Pensa a come sarebbe imbarazzante per voi essere surclassati da una ragazza
Fjerdiana.”
Lui aveva sbuffato.
“Mi piacerebbe da matti vederti sconfitto da una ragazza” aveva detto lei
allegramente.
“Non in questa vita.”
“Be’, immagino che non arriverò a vederlo. Ma arriverò a vivere il momento
in cui io ti prenderò a calci in culo.”
Questa volta lui era scoppiato a ridere, una risata vera e propria che lei sentì
nella schiena.
“Santi numi, Fjerdiano, non sapevo che sapessi ridere. Stai attento però
adesso, vacci piano.”
“La tua arroganza mi diverte, drüsje.”
Ora era toccato a lei ridere. “Questo potrebbe essere il peggior complimento
che abbia mai ricevuto.”
“Dubiti mai di te stessa?”
“Di continuo” aveva risposto lei mentre scivolava nel sonno. “Solo, non lo
faccio vedere.”
La mattina dopo si fecero strada lungo una banchisa piena di crepacci
frastagliati, tenendosi sulle solide distese in mezzo ai burroni mortali e
discutendo delle abitudini notturne di Nina.
“Come fai a dire di essere un soldato? Dormiresti fino a mezzogiorno se io te
lo lasciassi fare.”
“E questo cosa c’entra?”
“Disciplina. Routine. Significano niente per te? Djel, non vedo l’ora di avere
di nuovo un letto tutto per me.”
“Come no” aveva detto Nina. “Lo sento proprio quanto ti dispiaccia dormirmi
vicino. Lo sento tutte le mattine.”
Matthias si era fatto scarlatto. “Perché devi sempre dire cose così?”
“Perché mi piace quando diventi tutto rosso.”
“Sei disgustosa. Non c’è bisogno di rendere tutto così volgare.”
“Se soltanto ti dessi una calmata...”
“Io non voglio darmi una calmata.”
“Perché? Cos’hai paura che succeda? Che potrei cominciare a piacerti?”
Lui non aveva detto niente.
Malgrado la stanchezza, Nina trotterellava davanti a lui. “È questo il punto,
non è vero? Non vuoi che una Grisha ti piaccia. Ti fa paura l’idea di ridere alle
mie battute o di rispondere alle mie domande, perché potresti cominciare a
credere che sono umana. Sarebbe così terribile?”
“Tu mi piaci.”
“Cos’hai detto?”
“Tu mi piaci” aveva ripetuto lui con rabbia.
Lei aveva sorriso, raggiante, e aveva sentito una sorgente di piacere sgorgare
dentro di sé. “Ora, davvero, è così brutta questa cosa?”
“Sì!” aveva risposto lui.
“Perché?”
“Perché sei terribile. Sei sfacciata e volgare e... infida. Brum ci ha messi in
guardia, ci ha detto che le Grisha possono essere seducenti.”
“Oh, capisco. Sono la perfida adescatrice Grisha. Ti ho ammaliato con le mie
astuzie Grisha!”
Gli aveva dato dei colpetti sul petto.
“Smettila.”
“No. Ti sto ammaliando.”
“Mollami.”
Lei aveva ballato nella neve girandogli attorno, punzecchiandogli il torace, la
pancia, il fianco. “Però! Sei davvero irremovibile. Sarà un duro lavoro.” Lui si
era messo a ridere. “Funziona! L’ammaliamento è iniziato. Il Fjerdiano ha
ceduto. Non sei in grado di resistermi. Tu...”
La voce di Nina si trasformò in un urlo quando il ghiaccio le cedette sotto i
piedi. Buttò avanti le mani alla cieca, alla ricerca di qualcosa, qualunque cosa
capace di arrestare la sua caduta, e con le dita raschiò il ghiaccio e la roccia.
Il drüskelle l’afferrò per un braccio, e lei gridò quando per poco non le
scivolò via la presa.
Rimase attaccata lì così, sospesa nel nulla, aggrappata alle dita di lui che
erano l’unica cosa che la divideva dalla nera cavità del ghiaccio. Per un istante,
guardandolo negli occhi, fu certa che il drüskelle l’avrebbe lasciata andare.
“Ti prego” aveva detto lei, con le lacrime che le scorrevano sulle guance.
Lui la trascinò oltre il bordo, e lentamente tornarono sul ghiaccio più solido.
Si sdraiarono sulla schiena, ansimando per lo sforzo.
“Ho avuto paura... ho avuto paura che mi avresti lasciata andare” aveva detto
lei.
Dopo una lunga pausa lui aveva replicato: “Ci ho pensato. Solo per un
attimo”.
Nina aveva sbuffato fuori una risatina. “Ci sta” aveva detto alla fine.
“Anch’io ci avrei pensato.”
Lui si era alzato in piedi e le aveva dato la mano. “Io sono Matthias.”
“Nina” aveva detto lei, prendendola. “Piacere di fare la tua conoscenza.”

Il naufragio era stato più di un anno fa, ma sembrava che fosse successo ieri.
Una parte di Nina voleva tornare indietro, all’attimo precedente a quando tutto
aveva cominciato a girare per il verso sbagliato, a quelle lunghe giornate sul
ghiaccio in cui erano stati Nina e Matthias invece di una Grisha e di un
cacciatore di streghe. Ma più ci pensava e più sapeva per certo che non c’era mai
stato un periodo così. Quelle tre settimane erano state un inganno a cui lei e
Matthias avevano dato vita per sopravvivere.
La verità era la pira.
«Nina» disse Matthias, correndole dietro. «Nina, ascoltami. Devi stare con gli
altri.»
«Lasciami.»
Quando lui la prese per un braccio, lei girò su se stessa e serrò la mano a
pugno, bloccando il passaggio dell’aria nella gola di lui. Un uomo qualunque
l’avrebbe lasciata andare, ma Matthias era un drüskelle addestrato. Afferrò
l’altro braccio di Nina e glielo bloccò lungo il fianco, poi la tenne stretta a sé in
modo che lei non potesse usare le mani. «Smettila» le disse dolcemente.
Lei si dimenò per divincolarsi dalla presa di lui, gelandolo con lo sguardo.
«Lasciami.»
«Non posso. Non mentre sei una minaccia.»
«Per te sarò sempre una minaccia, Matthias.»
Gli angoli della bocca gli si piegarono in un sorriso triste. Gli occhi erano
quasi malinconici. «Lo so.»
Lentamente, lui la lasciò andare. Lei fece un passo indietro.
«Che cosa mi toccherà vedere quando raggiungeremo la Corte di Ghiaccio?»
fece lei.
«Sei terrorizzata.»
«Sì» disse lei, il mento in alto con aria di sfida. Non aveva senso negarlo.
«Nina...»
«Dimmelo. Devo saperlo. Camere di tortura? Una pira che arde sul tetto?»
«Non si usano più le pire alla Corte.»
«Allora cosa? Sbudellamenti e squartamenti? Plotoni d’esecuzione? Il
Palazzo Reale si affaccia sulle forche?»
«Mi sono stancato dei tuoi giudizi morali, Nina. La devi finire.»
«Ha ragione lui. Non puoi andare avanti così.» Jesper era in piedi, fermo nella
neve insieme agli altri. Da quanto erano lì? L’avevano vista aggredire Matthias?
«Fatti gli affari tuoi» scattò Nina.
«Se voi due continuate a litigare ci farete ammazzare tutti, e io avrei in
programma un bel po’ di altre partite a carte da perdere.»
«Dovete trovare il modo di fare pace» disse Inej. «Almeno per un po’.»
«Questo non è un tuo problema» ringhiò Matthias.
Kaz fece un passo avanti, l’espressione pericolosa. «È un problema nostro
eccome. E attento a come parli.»
Matthias alzò le mani in segno di resa. «Siete stati tutti imbrogliati da lei.
Perché è questo quello che fa. Ti fa credere di essere tua amica e poi...»
Inej incrociò le braccia. «E poi cosa?»
«Lascia stare, Inej.»
«No, Nina» fece Matthias. «Diglielo. Una volta hai affermato di essere mia
amica. Ti ricordi?» Si girò verso gli altri. «Camminammo insieme per tre
settimane. Le salvai la vita. Ce la salvammo a vicenda. Quando arrivammo a
Elling, noi... Avrei potuto denunciarla ai soldati che c’erano là in qualunque
momento. Ma non lo feci.» Matthias iniziò a fare avanti e indietro e alzò la voce,
come se i ricordi avessero il sopravvento su di lui. «Mi feci, invece, prestare dei
soldi. Mi procurai un alloggio. Ero disposto a tradire tutto quello in cui credevo
per la sua incolumità. Poi la vidi giù al molo che cercava di prenotare un
passaggio, e c’era un mercante Kerch, pronto a salpare.» Matthias era
nuovamente là, in piedi sul molo con lei, Nina glielo leggeva negli occhi.
«Chiedetele che cosa fece a quel punto, questa nobile alleata, questa ragazza che
si permette di giudicare me e il mio popolo.»
Nessuno disse niente, tutti rimasero in attesa.
«Diglielo, Nina» insistette lui. «È giusto che sappiano in che modo tratti i tuoi
amici.»
Nina deglutì e si sforzò di guardarli negli occhi. «Dissi ai Kerch che Matthias
era uno schiavista e che mi aveva fatto prigioniera. Mi buttai ai loro piedi e li
implorai di aiutarmi. Avevo un sigillo, l’avevo preso da una nave schiavista che
avevamo saccheggiato vicino all’Isola Errante. Lo usai come prova.»
Non ce la faceva a guardarli. Kaz sapeva già tutto, ovviamente. Quando lei
aveva elemosinato il suo aiuto, aveva dovuto raccontargli quali erano le accuse
che aveva rivolto e che poi aveva cercato di ritrattare. Ma Kaz non aveva mai
indagato, non aveva mai chiesto spiegazioni, non l’aveva mai rimproverata. In
un certo senso, raccontargli tutto era stato un sollievo. Da un ragazzo
soprannominato Manisporche non potevano piovere critiche.
Ma adesso la verità era sotto gli occhi di tutti. In cuor loro, tutti i Kerch
sapevano che gli schiavi entravano e uscivano dai porti di Ketterdam, e che la
maggior parte dei lavoratori a contratto non erano altro che schiavi con un altro
nome. Ma pubblicamente biasimavano lo schiavismo ed erano obbligati per
legge a perseguitare chi lo praticava. Nina sapeva esattamente cosa sarebbe
accaduto appena avesse accusato Matthias di quel crimine.
«Io non capivo cosa stesse succedendo» disse Matthias. «Non parlavo il
Kerch, ma Nina sicuramente sì. Mi presero e mi misero in catene. Mi buttarono
nella cella di un brigantino e mi tennero là al buio per settimane mentre
attraversavamo il mare. Rividi la luce del sole quando mi condussero fuori dalla
nave, a Ketterdam.»
«Non avevo scelta» disse Nina con un nodo alla gola. «Tu non sai...»
«Dimmi solo un’altra cosa» la interruppe lui. La voce risuonava di collera ma
anche di qualcos’altro, una specie di supplica. «Se potessi tornare indietro, se
potessi cancellare quello che mi hai fatto, lo cancelleresti?»
Nina si costrinse a fronteggiarli. Aveva avuto i propri motivi per fare quello
che aveva fatto, ma che importanza avevano per loro? E chi erano loro per
giudicarla? Raddrizzò la schiena e sollevò il mento. Era un membro degli Scarti,
una dipendente della Rosa Bianca, e di tanto in tanto una ragazza incosciente,
ma prima di tutto era una Grisha e un soldato. «No» disse chiaramente, e la sua
voce riecheggiò sulla distesa sterminata di ghiaccio. «Rifarei tutto daccapo.»
Un brontolio improvviso scosse il terreno. Nina per poco non perse
l’equilibrio e Kaz si tenne in piedi grazie al bastone. I due si scambiarono
un’occhiata perplessa.
«Ci sono delle faglie attive quassù nel profondo Nord?» domandò Wylan.
Matthias aggrottò la fronte. «Non che io sappia, ma...»
Una placca di terra si sollevò da sotto i piedi di Matthias, facendolo cadere.
Un’altra esplose alla destra di Nina e la mandò gambe all’aria. Attorno a loro,
monoliti deformi di roccia e ghiaccio esplodevano verso l’alto, come se il
terreno stesse prendendo vita. Si levò un vento sferzante e turbinarono raffiche
di neve.
«Cosa diavolo succede?» gridò Jesper.
«Sembrerebbe una specie di terremoto!» urlò Inej.
«No» disse Nina, indicando una macchia scura che pareva galleggiare
indisturbata nel cielo, immune al vento ululante. «Ci stanno attaccando.»
Nina si mise a camminare a quattro zampe, alla ricerca di un riparo. Pensò di
essere impazzita. C’era qualcuno che volteggiava alto nel cielo sopra di lei.
Stava guardando qualcuno volare.
I Grisha Chiamatempeste erano in grado di controllare le correnti d’aria. Al
Piccolo Palazzo li aveva anche visti giocare a lanciarsi a vicenda nell’aria, ma il
livello di precisione e di forza che serviva per mantenere un volo sotto controllo
era inimmaginabile: o almeno lo era stato finora. Jurda parem. Non aveva
creduto granché a Kaz. Aveva persino sospettato che lui le avesse palesemente
mentito solo per convincerla ad accettare di partecipare al colpo. Ma a meno che
non avesse battuto la testa senza ricordarselo, quello che vedeva era reale.
Il Chiamatempeste volteggiò nell’aria, facendo infuriare la bufera e spedendo
in giro ghiaccio volante finché le trafisse le guance. Vedeva a malapena. Quando
un’altra lastra emerse dal terreno, cadde all’indietro. Il Chiamatempeste li stava
radunando, li stava spingendo a raggrupparsi e a diventare un bersaglio unico.
«Mi serve un diversivo!» urlò Jesper da qualche parte nella tempesta.
Lei udì un plinc metallico.
«A terra» gridò Wylan. Nina si appiattì sulla neve. Un boom le deflagrò sopra
la testa, e un’esplosione illuminò il cielo proprio alla destra del Chiamatempeste.
I venti attorno a loro calarono mentre il Grisha veniva scagliato via e costretto a
concentrarsi per raddrizzarsi. Gli ci volle giusto un attimo, ma a Jesper bastò per
puntare il fucile e fare fuoco.
Ci fu uno sparo, e il Chiamatempeste precipitò a terra veloce come una saetta.
Un’altra lastra di ghiaccio scivolò al proprio posto. Erano intrappolati in un
recinto come animali pronti per il macello. Jesper puntò tra le lastre, verso una
lontana macchia di alberi, e Nina si accorse che c’era un altro Grisha, un ragazzo
con i capelli scuri. Prima che Jesper potesse fare fuoco, quello spinse un pugno
verso l’alto e Jesper fu sbalzato via da un pilone di terra. Mentre cadde rotolò su
se stesso e sparò.
Il ragazzo in lontananza gridò e si piegò su un ginocchio, ma le braccia erano
ancora alzate e la terra brontolò e tremò di nuovo sotto di loro. Jesper sparò
un’altra volta e lo mancò. Nina alzò le mani e cercò di puntare al cuore del
Grisha, ma era troppo fuori dalla sua portata.
Vide Inej fare segno a Kaz. Senza una parola, lui si addossò alla lastra più
vicina e mise le mani a coppa all’altezza del ginocchio. Il terreno si piegò e
ondeggiò, ma lui rimase saldamente ancorato al suolo mentre Inej usava le mani
intrecciate di Kaz per lanciarsi in alto in un arco leggiadro. Sparì oltre la lastra
senza neanche un rumore. Un istante dopo, la terra si placò.
«Meno male che c’è lo Spettro» disse Jesper.
Erano in piedi, confusi, l’aria stranamente calma dopo il caos di prima.
«Wylan» ansimò Jesper, rimettendosi in piedi. «Portaci via da qui.»
Wylan annuì, tirò fuori un involto color stucco dal suo zaino e lo appoggiò
delicatamente alla roccia più vicina. «Tutti giù» ordinò.
Si accovacciarono raggruppandosi in un ammasso di corpi il più lontano
possibile dal recinto. Wylan azionò l’esplosivo e scattò via, incastrandosi tra
Matthias e Jesper mentre tutti si tappavano le orecchie.
Non accadde nulla.
«Stai scherzando?» disse Jesper.
Boom. La lastra esplose. Sulle loro teste piovvero pezzi di ghiaccio e di
roccia.
Wylan era coperto di polvere e aveva un’espressione leggermente confusa e
fuori di sé dalla gioia. Nina scoppiò a ridere. «Almeno provaci, a fare finta di
sapere che avrebbe funzionato.»
Uscirono incespicando dal recinto di lastre. Kaz fece un cenno a Jesper.
«Facciamo il giro. Assicuriamoci che non ci siano altre sorprese.» Si
incamminarono in direzione opposta.
Nina e gli altri trovarono Inej in piedi sopra il corpo tremante del Grisha.
Indossava dei vestiti verde militare e aveva gli occhi vitrei. Perdeva sangue dalla
ferita da proiettile, nella coscia, e sulla destra gli spuntava un pugnale dal petto.
Inej doveva averlo infilzato quando era uscita dal recinto.
Nina si inginocchiò accanto a lui.
«Me ne serve ancora» mormorò il Grisha. «Solo un po’.» Afferrò la mano di
Nina, e soltanto allora lei lo riconobbe.
«Nestor?»
Lui fremette al suono del proprio nome, ma non diede l’impressione di sapere
davvero chi fosse.
«Nestor, sono io, Nina.» Era stata a scuola con lui al Piccolo Palazzo. Durante
la guerra, erano stati mandati a Keramzin insieme. All’incoronazione di re
Nikolai, avevano rubato una bottiglia di champagne e al lago si erano sbronzati
fino a stare male. Lui era un Fabrikator, un Tempratore che lavorava con metalli,
vetro e fibre. Non aveva senso. I Fabrikator producevano tessuti, armi. Nestor
non poteva essere in grado di fare quello che lei aveva appena visto.
«Ti prego» implorò lui, con la faccia che si contraeva in una smorfia. «Me ne
serve ancora.»
«Parem?»
«Sì» singhiozzò lui. «Sì. Ti prego.»
«Posso guarire la tua ferita, Nestor, se stai fermo.» Le sue condizioni non
erano buone, ma se lei fosse riuscita a fermare l’emorragia...
«Non voglio il tuo aiuto» disse lui con rabbia, e si ritrasse.
Lei tentò di calmarlo, di abbassargli le pulsazioni, ma temeva di fermargli il
cuore. «Per favore, Nestor. Per favore, stai fermo.»
Ora lui stava urlando e si dimenava.
«Tenetelo giù» disse lei.
Matthias si mosse per dare una mano, e Nestor alzò le braccia.
Una porzione di terreno si sollevò e si increspò, spingendo indietro Nina e gli
altri.
«Nestor, per favore! Lascia che ti aiutiamo.»
Lui si alzò, barcollando sulla gamba ferita, strappandosi via il pugnale
conficcato nel petto. «Dove sono?» urlò. «Dove sono andati?»
«Chi?»
«Gli Shu!» gemette lui. «Dove sono andati? Tornate indietro!» Fece un passo
traballante, poi un altro. «Tornate indietro!» Cadde a testa in giù nella neve e
non si mosse più.
Nina si precipitò al suo fianco e lo voltò. Aveva la neve negli occhi e in
bocca. Gli mise le mani sul petto, cercando di recuperare il battito cardiaco, ma
il cuore si era fermato. Se il suo corpo non fosse stato devastato dalla droga,
avrebbe potuto sopravvivere alle ferite. Però era troppo debole, la pelle tirata
sulle ossa e talmente pallida da sembrare trasparente.
“Non va bene” pensò Nina tristemente. Praticare la Piccola Scienza rendeva i
Grisha più sani e più forti. Era una delle cose che amava di più del proprio
potere. E tuttavia il corpo aveva dei limiti.
Era come se la droga avesse spinto il potere di Nestor ad andare ben oltre la
velocità del suo corpo. Lo aveva semplicemente consumato tutto fino a esaurirlo.
Kaz e Jesper fecero ritorno, ansimando.
«Trovato qualcosa?» chiese Matthias.
Jesper annuì. «Un gruppo di persone dirette a sud.»
«Lui stava urlando il nome degli Shu» disse Nina.
«Sapevamo che gli Shu avrebbero mandato una squadra a recuperare Bo Yul-
Bayur» disse Kaz.
Jesper abbassò lo sguardo sul corpo inanimato di Nestor. «Ma non potevamo
immaginare che avrebbero mandato i Grisha. Come facciamo a sapere che non
sono mercenari?»
Kaz sollevò una moneta che aveva un cavallo inciso su un lato e due chiavi
incrociate sull’altro. «Questa era nella tasca del Chiamatempeste» disse lui,
lanciandola a Jesper. «È una wen ye Shu. La Moneta Lasciapassare. Questa è una
missione governativa.»
«Come ci hanno scoperti?» domandò Inej.
«Forse li hanno attirati gli spari di Jesper» disse Kaz.
Jesper fece un gesto di stizza e indicò Nina e Matthias. «O forse hanno sentito
questi due urlarsi addosso. Potrebbero averci seguito per miglia.»
Nina cercò di dare un senso a quelle parole. Gli Shu non assoldavano i Grisha
come soldati, e non erano come i Fjerdiani; per loro il potere dei Grisha non era
contro natura o ripugnante.
Ne erano affascinati. Però anche loro ritenevano che i Grisha fossero inferiori
agli umani. Da anni il governo Shu catturava i Grisha e conduceva esperimenti
sui prigionieri per cercare di individuare l’origine del loro potere. Non li
avrebbero mai usati come mercenari. O perlomeno così stavano le cose prima.
Forse la parem aveva cambiato le regole del gioco.
«Io non capisco» disse Nina. «Se hanno la jurda parem, perché inseguire Bo
Yul-Bayur?»
«Può darsi che ne abbiano una scorta, ma non siano capaci di sintetizzarne
dell’altra» rispose Kaz. «Il Consiglio dei Mercanti sembrava vederla così. O
forse vogliono solo essere certi che Yul-Bayur non dia la formula a qualcun
altro.»
«Secondo te useranno i Grisha drogati per penetrare nella Corte di Ghiaccio?»
domandò Inej.
«Se ne hanno degli altri, sì» rispose Kaz. «È quello che farei io.»
Matthias scrollò il capo. «Se hanno uno Spaccacuore, siamo morti.»
«C’è mancato un pelo già così» replicò Inej.
Jesper si mise in spalla il fucile. «Wylan si è guadagnato lo stipendio.»
A sentire il proprio nome, Wylan fece un saltino. «Davvero?»
«Be’, almeno l’acconto.»
«Muoviamoci» disse Kaz.
«Dobbiamo seppellirlo» lo fermò Nina.
«Il terreno è troppo duro, e non abbiamo tempo. La squadra Shu è in marcia
verso Djerholm. Non sappiamo quanti altri Grisha possano avere con loro, e la
squadra di Pekka potrebbe essere già dentro la Corte.»
«Non possiamo lasciarli in balia dei lupi» disse lei, con la gola chiusa.
«Vuoi costruirgli una pira?»
«Vai all’inferno, Brekker.»
«Fai il tuo dovere, Zenik» ribatté prontamente lui. «Non ti ho portata a Fjerda
per celebrare riti funerari.»
Lei alzò le mani. «Cosa ne dici se ti apro in due il cranio come un uovo di
pettirosso?»
«Credimi, non vuoi vedere quello che ho dentro la testa, cara la mia Nina.»
Lei fece un passo avanti, ma Matthias le si mise davanti.
«Smettetela» disse. «Lo farò io. Ti aiuterò a scavare la fossa.» Nina lo fissò.
Lui prese un piccone dalla propria borsa di arnesi e glielo porse, poi ne prese un
altro dall’equipaggiamento di Jesper. «Da qui procedete in direzione sud» disse
Matthias agli altri. «Conosco il territorio, e sono sicuro che vi riprenderemo
prima che faccia notte. Ci muoveremo più veloci per conto nostro.»
Kaz gli rivolse uno sguardo fermo. «Vedi di ricordarti quella grazia, Helvar.»
«Siamo sicuri che sia una buona idea lasciarli da soli?» domandò Wylan
mentre iniziavano a scendere lungo il pendio.
«No» rispose Inej.
«E lo facciamo lo stesso?»
«O ci fidiamo adesso o ci fidiamo dopo» disse Kaz.
«Vogliamo parlare della piccola rivelazione che ci ha fatto Matthias? A
proposito della lealtà di Nina?» chiese Jesper.
Nina colse appena la risposta di Kaz: «Sono certo che nessuno di noi ha le
parole fedeltà e sincerità incise sul proprio stemma». Sebbene avesse volentieri
preso a pugni Kaz, non poteva fare a meno di essergli anche un po’ grata.
Matthias si allontanò di qualche passo dal corpo di Nestor. Piantò il piccone
nella terra ricoperta di ghiaccio, lo estrasse e lo conficcò di nuovo.
«Qui?» domandò Nina.
«Preferisci da un’altra parte?»
«Non... non lo so.» Nina puntò lo sguardo sui campi ricoperti di bianco,
punteggiati da radi boschetti di betulle. «Mi sembra tutto uguale.»
«Conosci i nostri dèi?»
«Qualcuno» rispose lei.
«Ma conosci Djel.»
«La sorgente.»
Matthias annuì. «I Fjerdiani credono che tutto il mondo sia collegato dalle
acque: i mari, il ghiaccio, i fiumi e i ruscelli, la pioggia e i temporali. Tutto nutre
Djel ed è nutrito da lui. Quando moriamo, noi lo chiamiamo felötobjer, prendere
radice. Diventiamo come le radici del frassino, e beviamo da Djel ovunque
siamo stati seppelliti.»
«È per questo che i Grisha li bruciate invece di seppellirli?»
Lui aspettò un momento prima di rispondere, poi fece un veloce cenno di
assenso con la testa.
«Però mi aiuterai a far riposare qui Nestor e il Chiamatempeste?»
Lui annuì di nuovo.
Nina afferrò l’altro piccone e tentò di seguire i colpi ritmici di lui. Il terreno
era duro, quasi granitico, e ogni volta che veniva colpito dal piccone ricambiava
inviandole una scossa su per le braccia.
«Nestor non avrebbe dovuto poter fare quelle cose» disse lei, la testa ancora
in subbuglio. «Nessun Grisha può usare il proprio potere a quel modo. È tutto
sbagliato.»
Matthias rimase in silenzio per un istante, poi disse: «Hai capito, adesso? Hai
capito com’è, dover affrontare un potere così alieno? Trovarsi di fronte a un
nemico con una forza così anormale?».
Nina strinse la presa sul piccone. Nestor sotto l’effetto della parem era la
versione perversa di tutto quello che lei amava del proprio potere. Era così che
Matthias e gli altri Fjerdiani vedevano i Grisha? Un potere al di là della ragione,
il mondo naturale alla deriva.
«Forse.» Era il massimo che poteva concedergli.
«Hai detto che non avevi scelta al porto di Elling» disse lui senza guardarla. Il
piccone calò e si levò sempre a ritmo. «Perché ero un drüskelle? Avevi
organizzato tutto dall’inizio?»
A Nina tornò in mente il loro ultimo vero giorno insieme, l’euforia che
avevano provato quando avevano raggiunto la cima di una collina e avevano
visto il porto della cittadina spalancarsi sotto di loro. Era rimasta scioccata nel
sentir dire da Matthias: “Quasi quasi mi dispiace, Nina”.
“Quasi quasi?”
“Ho troppa fame per essere dispiaciuto fino in fondo.”
“Alla fine, stai soccombendo al mio fascino. Ma come faremo a mangiare
senza un soldo?” aveva chiesto lei mentre scendevano lungo la collina. “Potrei
vendere i tuoi bei capelli a un negozio di parrucche.”
“Non farti strane idee” aveva detto lui ridendo. Ridere, a mano a mano che
camminavano, gli era venuto sempre più facile, come se fosse diventato più
sciolto a parlare una nuova lingua. “Se questa è Elling, dovrei riuscire a
procurarci un posto per dormire.”
Lei a quel punto si era fermata, la cruda verità della loro situazione di nuovo
terribilmente chiara. Si trovava nel profondo del territorio nemico con nessun
altro alleato a parte un drüskelle che l’aveva rinchiusa in una gabbia solo poche
settimane prima.
Ma prima di riuscire a parlare, Matthias aveva detto: “Ti devo la mia vita,
Nina Zenik. Ti porteremo a casa sana e salva”.
Era rimasta sorpresa nello scoprire quant’era facile fidarsi di lui. E anche lui
si era fidato di lei.
Nina diede un colpo di piccone, sentì le vibrazioni risalirle su per le braccia e
le spalle, e disse: «C’erano dei Grisha a Elling».
Lui si fermò a mezz’aria. «Che cosa?»
«C’erano delle spie che stavano perlustrando il porto. Mi videro varcare
l’ingresso della piazza principale e mi riconobbero come una del Piccolo
Palazzo. Uno di loro riconobbe anche te, Matthias. Ti aveva visto durante una
schermaglia vicino al confine.»
Matthias rimase immobile.
«Quando tu andasti a parlare con il tenutario della pensione, loro mi
abbordarono» continuò Nina. «Li convinsi che anch’io, come loro, ero sotto
copertura. Volevano farti prigioniero, ma gli dissi che non eri da solo, che
sarebbe stato troppo rischioso catturarti subito. Gli promisi che ti avrei
consegnato loro il giorno dopo.»
«Perché non me l’hai detto?»
Nina buttò a terra il piccone. «Dirti che a Elling c’erano delle spie Grisha?
Magari con me avevi anche fatto pace, ma ti aspetti che io creda che non li
avresti denunciati?»
Matthias distolse lo sguardo, e dal modo in cui gli guizzò il muscolo della
mandibola lei capì che ci aveva preso.
«Quella mattina» disse lui «sul molo...»
«Dovevo far sì che andassimo via da Elling il più in fretta possibile. Pensavo
che se fossi riuscita a trovare una nave sulla quale viaggiare clandestinamente...
ma i Grisha dovevano aver tenuto d’occhio la pensione e ci avevano visti uscire.
Quando si presentarono sul molo, capii che stavano venendo a prenderti,
Matthias. Se ti avessero catturato, saresti stato portato a Ravka, interrogato e
forse condannato a morte. Individuai i mercanti Kerch. Tu sai quali sono le loro
leggi sullo schiavismo.»
«Certo che lo so» disse lui amaramente.
«Feci le mie accuse. Li pregai di salvarmi. Quello che sapevo è che ti
avrebbero messo sottochiave e portato in salvo a Kerch. Quello che non sapevo...
Matthias, io non lo sapevo che ti avrebbero sbattuto all’Anticamera
dell’Inferno.»
Gli occhi di lui erano freddi quando la guardò in faccia, le nocche delle mani
bianche sull’impugnatura del piccone. «Perché non hai preso le mie difese?
Perché non hai detto la verità quando siamo arrivati a Ketterdam?»
«Ci ho provato. Te lo giuro. Ho cercato di ritrattare tutto. Non mi
permettevano di vedere un giudice. Non mi permettevano di vedere te. Non
potevo spiegare il sigillo della nave schiavista né perché avessi fatto quelle
accuse, non senza svelare l’operazione di spionaggio di Ravka. Avrei messo in
pericolo i Grisha ancora in missione. Li avrei condannati a morte.»
«E quindi mi hai lasciato marcire nell’Anticamera dell’Inferno.»
«Avrei potuto tornarmene a casa a Ravka. Per tutti i Santi, era quello che
volevo. Ma rimasi a Ketterdam. Tutti i miei stipendi andarono nelle bustarelle,
presentai petizioni su petizioni al Tribunale.»
«Hai fatto di tutto tranne dire la verità.»
Aveva avuto l’intenzione di essere gentile e dispiaciuta, di dirgli che non
aveva fatto altro che pensarlo giorno e notte. Ma in testa aveva ancora fresca
l’immagine della pira. «Stavo cercando di proteggere la mia gente, il popolo che
tu provi a sterminare da tutta la vita.»
Lui fece una risata amara, girando il piccone tra le mani. «Wanden olstrum
end kendesorum.»
Era la prima parte di un modo di dire Fjerdiano: L’acqua sente e capisce.
Suonava abbastanza cortese, ma Matthias sapeva che a Nina era familiare anche
il resto.
«Isen ne bejstrum» finì di dire lei. L’acqua sente e capisce. Il ghiaccio non
perdona.
«E cosa farai adesso, Nina? Tradirai un’altra volta le persone che chiami
amici, per amore dei Grisha?»
«Che cosa?»
«Non dirmi che hai intenzione di tenere in vita Bo Yul-Bayur.»
Lui la conosceva bene. Con tutte le nuove informazioni che aveva appreso
sulla jurda parem, adesso era più che sicura che l’unico modo di proteggere i
Grisha era mettere fine alla vita dello scienziato. Ripensò a Nestor che con
l’ultimo fiato che aveva in gola implorava il ritorno dei suoi padroni Shu. «Il
pensiero del mio popolo fatto schiavo mi è insopportabile» ammise lei. «Ma
abbiamo un debito da onorare, Matthias. La tua grazia è la mia penitenza, e non
sarò io a separarti di nuovo dalla tua libertà.»
«Non la voglio, la grazia.»
Lei lo fissò. «Ma...»
«Forse il tuo popolo sarà ridotto in schiavitù. O forse diventerà una potenza
inarrestabile. Se Yul-Bayur vive e il segreto della jurda parem si diffonde, tutto
è possibile.»
Per un lungo istante, Nina e Matthias sostennero l’una lo sguardo dell’altro. Il
sole era basso nel cielo, la luce cadeva sulla neve in raggi dorati. Nina riusciva a
vedere le ciglia bionde di Matthias spuntare sotto l’antimonio nero che aveva
usato per tingerle. Presto avrebbe dovuto modificarlo di nuovo.
Nei giorni successivi al naufragio lei e Matthias avevano stipulato una tregua
precaria. Quello che era nato tra loro era diventato qualcosa di più forte
dell’affetto, era la profonda comprensione che, essendo entrambi soldati, in
un’altra vita avrebbero potuto essere alleati invece che nemici. Fu la sensazione
che provò ora.
«Significherebbe tradire gli altri» disse lei. «Non riceveranno la ricompensa
dal Consiglio dei Mercanti.»
«Vero.»
«E Kaz ci ucciderà entrambi.»
«Se scopre la verità.»
«Hai provato a mentire a Kaz Brekker?»
Matthias scrollò le spalle. «Moriremo come abbiamo vissuto.»
Nina guardò il corpo emaciato di Nestor. «Per una causa.»
«Siamo d’accordo, allora» disse Matthias. «Bo Yul-Bayur non lascerà vivo la
Corte di Ghiaccio.»
«Un patto è un patto» disse lei in Kerch, il linguaggio degli affari, una lingua
che non apparteneva a nessuno dei due.
«Un patto è un patto» ripeté lui.
Matthias alzò il piccone e lo calò giù inarcandolo con forza, in una specie di
dichiarazione. Lei sollevò il proprio e fece lo stesso. Senza dirsi altro, si rimisero
a scavare la fossa a un ritmo deciso.
Almeno su questo Kaz aveva ragione. Lei e Matthias avevano finalmente
trovato qualcosa su cui essere d’accordo.
PARTE QUARTA
IL TRUCCO PER CADERE
21
INEJ

Inej si sentiva come se lei e Kaz fossero diventati soldati gemelli, che
marciavano, facevano finta che andasse tutto bene e nascondevano ferite e lividi
al resto della banda.
Ci vollero altri due giorni di cammino per raggiungere le scogliere che
sovrastavano Djerholm, ma procedere era più facile adesso che puntavano a sud
verso la costa. Le temperature si erano fatte più miti, la terra era scongelata, e
Inej iniziò a vedere i primi segni della primavera. Aveva pensato che Djerholm
sarebbe stata simile a Ketterdam: un groviglio di strade nere, grigie e marroni,
fitte di nebbia e fumo di carbone, e navi di ogni genere nel porto, che
palpitavano per la fretta e per il trambusto commerciale. Il porto di Djerholm era
affollato di navi, ma le sue strade pulite portavano verso l’acqua in modo
ordinato, e le case erano dipinte di tutti i colori – rosso, blu, giallo, rosa – come
per sfidare le lande bianche e selvagge e i lunghi inverni del profondo Nord.
Persino i capannoni vicino alle banchine avevano colori allegri. Era così che da
bambina aveva immaginato le città, dove tutto era del colore delle caramelle ed
era al proprio posto.
La Ferolind stava già aspettando al molo, comodamente attraccata, con la
bandiera di Kerch che svolazzava e i simboli verde-arancio della Compagnia
della Baia Haanraadt? Se il piano fosse andato come sperava Kaz, domani notte
avrebbero passeggiato lungo il molo di Djerholm con Bo Yul-Bayur al seguito,
sarebbero risaliti sulla loro nave e sarebbero stati in mare aperto prima che
chiunque a Fjerda si accorgesse di qualcosa. Preferì non pensare a come sarebbe
stata la notte dell’indomani se il piano fosse andato storto.
Inej alzò lo sguardo sulla Corte di Ghiaccio, ferma come una grande
sentinella bianca sopra una scogliera imponente affacciata sul porto. Matthias
aveva definito inscalabili le sue mura, e lei doveva ammettere che
rappresentavano una bella sfida anche per lo Spettro. Sembravano
incredibilmente alte, e a distanza la loro superficie in calce bianca appariva
pulita e luminosa come il ghiaccio.
«Cannoni» disse Jesper.
Kaz sbirciò in alto verso l’artiglieria pesante puntata sulla baia. «Sono entrato
di nascosto in banche, depositi, palazzi, musei, camere blindate, una biblioteca di
libri rari, e una volta nella camera da letto di un diplomatico Kaelish in visita che
aveva una moglie con la passione per gli smeraldi. Ma non sono mai stato preso
a cannonate.»
«C’è sempre una prima volta» commentò Jesper.
Inej serrò le labbra. «Speriamo che non sia questa.»
«Quei cannoni sono là per fermare le navi da guerra nemiche» disse Jesper
con sicumera. «Sarà dura che riescano a colpire una piccola goletta striminzita
che si apre un varco tra le onde in cerca di fama e fortuna.»
«Citerò le tue parole quando una palla di cannone mi atterrerà in grembo»
disse Nina.
Scivolarono agilmente nel via vai di viaggiatori e commercianti, là dove la
strada della scogliera incrociava quella settentrionale che portava a Djerholm
Alta. La città alta era l’estensione scoordinata della città bassa, una raccolta
caotica di botteghe, mercati e locande che offrivano i propri servizi alle guardie e
al personale al lavoro presso la Corte di Ghiaccio così come alla gente di
passaggio. Per fortuna, la folla era così numerosa e variegata che l’ennesimo
gruppo di stranieri passò inosservato, e Inej si scoprì a tirare il fiato. Aveva
temuto che lei e Jesper sarebbero stati troppo appariscenti nel mare di teste
bionde della capitale di Fjerda. Forse anche l’equipaggio che arrivava da Shu
Han stava facendo affidamento sulla folla disordinata per non essere scoperto.
I segni dei festeggiamenti per Hringkälla erano dappertutto. I negozi
sfoggiavano in vetrina dei biscotti al pepe a forma di lupo, alcuni pendevano
come decorazioni dagli alberi più grossi e contorti, e il ponte che abbracciava la
gola del fiume era stato addobbato con i nastri color argento di Fjerda. Una
strada sola per entrare nella Corte di Ghiaccio e una strada sola per uscire.
L’indomani avrebbero attraversato il ponte da vincitori?
«Cosa sono?» chiese Wylan, fermandosi davanti al carretto di un venditore
ambulante carico di ghirlande realizzate con rametti contorti e nastri d’argento.
«Alberi di frassino» rispose Matthias. «Sacri a Djel.»
«Dovrebbe essercene uno nel bel mezzo dell’Isola Bianca» disse Nina,
ignorando l’occhiata preoccupata che le indirizzò il Fjerdiano. «È dove i
drüskelle si radunano per la cerimonia dell’ascolto.»
Kaz picchiettò il bastone da passeggio per terra. «Perché è la prima volta che
ne sento parlare?»
«Il frassino è alimentato dallo spirito di Djel» disse Matthias. «È il frassino il
posto migliore dove sentire la sua voce.»
Kaz sbatté velocemente le palpebre. «Non è quello che ho chiesto. Perché non
c’è nelle nostre mappe?»
«Perché è il luogo più sacro di tutta Fjerda ed è irrilevante per la nostra
missione.»
«Decido io cos’è rilevante. C’è qualcos’altro che hai deciso di escludere nella
tua enorme saggezza?»
«La Corte di Ghiaccio è enorme» disse Matthias girandosi dall’altra parte.
«Non posso etichettare ogni fessura e ogni angolo.»
«Allora speriamo che non ci sia niente appostato in quegli angoli» replicò
Kaz.
Djerholm Alta non aveva un vero e proprio centro, ma buona parte delle
taverne, delle locande e delle bancarelle era ammassata alla base della collina
che portava alla Corte di Ghiaccio. Kaz li condusse in giro per le strade come se
non avessero una meta precisa, finché trovò una taverna malmessa chiamata
Gestinge.
«Qui?» si lamentò Jesper, sbirciando nella sala principale, fredda e umida. Il
posto puzzava di pesce e aglio.
Kaz lanciò un’occhiata significativa verso l’alto e disse: «La terrazza».
«Che cos’è una gestinge?» pensò Inej a voce alta.
«Significa “paradiso”» disse Matthias. Anche lui sembrava dubbioso.
Ci pensò Nina a chiedere un tavolo per tutti sulla terrazza della taverna. Era
pressoché deserta, la stagione ancora troppo fredda per attirare fuori i clienti. O
forse erano scoraggiati dal cibo: aringhe in olio rancido, pane nero stantio, e
burro che aveva chiaramente sopra della muffa.
Jesper guardò verso il proprio piatto e gemette. «Kaz, se mi vuoi morto,
preferirei un proiettile al posto del veleno.»
Nina arricciò il naso. «Se non mi va di mangiare, poco ma sicuro c’è un
problema.»
«Siamo qui per il panorama, non per il cibo.»
Dal loro tavolo avevano una buona vista, per quanto distante, del cancello
esterno della Corte di Ghiaccio e del primo posto di guardia.
Era stato costruito dentro una volta bianca formata da due monumentali lupi
di pietra seduti sulle zampe posteriori, e sovrastava la strada che portava su per
la collina verso la Corte.
Inej e gli altri osservarono il via vai dal cancello mentre piluccavano dai
piatti, in attesa dei carri dei prigionieri.
Finalmente a Inej era tornato l’appetito, e stava mangiando il più possibile per
recuperare le forze, ma la pellicola sopra la zuppa che aveva ordinato non era di
aiuto.
Il caffè non c’era, per cui ordinarono del tè e bicchierini di brännvin: bruciava
la gola quando scendeva ma aiutava a scaldarsi contro il vento che si era alzato,
e che muoveva i nastri d’argento legati ai grossi rami di frassino ai lati della
strada sottostante.
«Presto daremo nell’occhio» disse Nina. «Questo non è il genere di posto in
cui la gente si trattiene a lungo.»
«Forse non hanno nessuno da portare in prigione» suggerì Wylan.
«C’è sempre qualcuno da portare in prigione» replicò Kaz, poi allungò il
mento verso la strada. «Guarda.»
Un carro squadrato si stava fermando al posto di guardia. Una tela nera
copriva il tetto e i lati, ed era trainato da quattro cavalli tarchiati. La porta sul
retro era di ferro pesante, chiusa a chiave e sprangata.
Kaz infilò la mano nella tasca della giacca. «Tieni» disse, e porse a Jesper un
libro sottile dalla copertina sofisticata.
«Ci leggiamo delle storie?»
«Basta che lo apri e vai in fondo.»
Jesper spalancò il volume e scrutò l’ultima pagina, perplesso. «Quindi?»
«Sollevalo, così non siamo costretti a vedere la tua brutta faccia.»
«La mia faccia ha personalità. Inoltre... oh!»
«Un’ottima lettura, vero?»
«Chi poteva immaginare che avessi una passione per la letteratura?»
Jesper passò il libro a Wylan, che lo prese esitando. «Che cosa dice?»
«Tu guarda» disse Jesper.
Wylan aggrottò la fronte e sollevò il libro, poi sorrise a trentadue denti.
«Dove l’hai preso?»
Fu il turno di Matthias, che si lasciò scappare un grugnito stupefatto.
«Lo chiamano il libro senza retro» disse Kaz mentre Inej prendeva il volume
da Nina e lo sollevava. Le pagine erano piene dei soliti sermoni, ma la raffinata
quarta di copertina nascondeva due lenti che facevano da binocolo.
Kaz le aveva detto di tenere d’occhio le donne che al Club dei Corvi
utilizzavano specchietti del genere.
Riuscivano a vedere che carte avevano i giocatori dall’altra parte della stanza,
e poi avvisavano il loro socio seduto al tavolo.
«Astuto» commentò mentre guardava dentro il binocolo. Per la barista e gli
altri clienti sulla terrazza loro si stavano passando di mano un libro per disquisire
di qualche passaggio interessante.
In realtà, Inej guardava da vicino la gabbiola del posto di guardia e il carro
posteggiato di fronte.
Il cancello tra i lupi era in ferro battuto, aveva il simbolo del frassino sacro ed
era delimitato da una recinzione alta e guarnita da spuntoni che circondava il
perimetro della Corte di Ghiaccio.
«Quattro guardie» rimarcò, proprio come aveva detto Matthias. Due erano
collocate a entrambi i lati della portineria, e una di loro stava chiacchierando con
il conducente del carro del carcere, che gli porse un pacchetto di documenti.
«Sono la prima linea di difesa» disse Matthias. «Controllano i documenti,
verificano le identità e segnalano chiunque a loro avviso richieda un’indagine
più approfondita. Domani, a quest’ora, la fila che attraversa il cancello sarà
piena di ospiti per la festa di Hringkälla e si snoderà fino al burrone.»
«A quest’ora, domani, saremo dentro» disse Kaz.
«Ogni quanto passano i carri?» domandò Jesper.
«Dipende» disse Matthias. «Di solito arrivano la mattina. A volte nel primo
pomeriggio. Ma non credo che vogliano far arrivare i prigionieri insieme agli
ospiti.»
«Allora dobbiamo essere sul primo carro» concluse Kaz.
Inej sollevò di nuovo il libro senza retro. Il conducente del carro indossava
un’uniforme grigia simile a quelle delle guardie al cancello ma senza fascia e
decorazioni.
Scese dal posto di guida e andò ad aprire la pesante porta di ferro.
«Santi numi» disse Inej appena la porta venne aperta. Dieci prigionieri erano
seduti sulle panchine disposte nel carro per il lungo, con mani e piedi
ammanettati e dei sacchi neri a coprirgli la testa.
Restituì il libro a Matthias, e mentre questo rifaceva il giro lei sentì
l’apprensione generale salire. Soltanto Kaz sembrava indifferente.
«Incappucciati e incatenati?» disse Jesper. «Sei sicuro che non possiamo
entrare spacciandoci per artisti? Pare che Wylan sia un asso con il flauto.»
«Entreremo per quello che siamo: criminali» disse Kaz.
Nina diede un’occhiata dentro le lenti del libro. «Stanno contando i
prigionieri.»
Matthias annuì. «Se le procedure non sono cambiate, faranno un conteggio
veloce al primo posto di blocco, poi un altro al prossimo, dove perlustreranno
l’interno e il telaio alla ricerca di qualunque merce di contrabbando.»
Nina passò il libro a Inej. «Quando aprirà la porta, il conducente si accorgerà
che ci sono sei prigionieri in più.»
«Se soltanto ci avessi pensato» disse Kaz seccamente. «Immagino che non
abbiate mai scippato un portafogli.»
«E io immagino che tu abbia trascurato il tuo taglio di capelli.»
Kaz si accigliò e fece scorrere una mano ai lati della testa, imbarazzato. «Non
c’è niente, nel mio taglio, che quattro milioni di kruge non possano sistemare.»
Jesper piegò la testa di lato, gli occhi grigi accesi. «Useremo un biscotto in
tasca, vero?»
«Esattamente.»
«Non conosco questa parola, biscottointasca» disse Matthias, sillabando.
Nina diede a Kaz un’occhiataccia. «Nemmeno io. Non siamo gente di strada
come te, Manisporche.»
«E non lo sarete mai» disse Kaz tranquillamente. «Ricordate il nostro pollo?»
Wylan trasalì. «Facciamo che il pollo è un turista che cammina per il Barile. Ha
sentito dire che è il posto giusto per venir derubati, così continua a dare dei
colpetti al portafogli per accertarsi che sia ancora al suo posto, congratulandosi
con se stesso per essere così cauto e attento. Non è mica uno sciocco, lui.
Naturalmente, ogni volta che si dà una pacca sulla tasca di dietro o sul davanti
della giacca, che cosa sta facendo? Sta dicendo a ogni ladro dello Stave dove
tiene esattamente la sua roba.»
«Per tutti i Santi» borbottò Nina. «Facile che l’abbia fatto anch’io.»
«Tutti lo fanno» disse Inej.
Jesper sollevò un sopracciglio. «Non tutti.»
«Solo perché tu non hai mai niente nel tuo portafogli» ribatté Nina.
«Cattiva.»
«Mi attengo ai fatti.»
«I fatti sono per chi non ha immaginazione» disse Jesper con un gesto
sprezzante.
«Ora, un pessimo ladro» continuò Kaz, «uno che non sa come muoversi,
arraffa il portafogli e cerca di svignarsela. Un ottimo sistema per farsi pizzicare
dalla stadwatch. Invece un ladro che sa il fatto proprio, come me, sottrae il
portafogli e mette qualcos’altro al suo posto.»
«Un biscotto?»
«“Biscotto in tasca” è solo un modo di dire. Può essere una pietra, una
saponetta, anche un vecchio pezzo di pane se è della dimensione giusta. Un ladro
che sa il fatto proprio può dirti quant’è pesante un portafogli già solo dal modo
in cui modifica la piega di un cappotto. Il ladro fa la sostituzione e il povero
pollo continua a darsi pacche sulla tasca, tutto contento. Solo quando proverà a
comprarsi un’omelette o a fare una puntata al tavolo si renderà conto di essere un
idiota. A quel punto il ladro sarà al sicuro da qualche parte, a contare la
refurtiva.»
Wylan si mosse a disagio sulla sedia. «Ingannare gli ingenui non è qualcosa di
cui andare fieri.»
«Lo è, se lo fai bene.» Kaz indicò con un cenno del capo il carro del carcere,
che aveva appena ripreso il cammino su per la strada verso la Corte di Ghiaccio
e il secondo posto di blocco. «Noi saremo il biscotto.»
«Aspetta» disse Nina. «La porta si chiude solo da fuori. Come facciamo a
entrare e a richiuderla?»
«Questo è un problema solo se non conosci un ladro che sa il fatto suo. Lascia
che della serratura mi occupi io.»
Jesper si stiracchiò le lunghe gambe. «Per cui dobbiamo liberare, slegare e
neutralizzare sei prigionieri, prendere il loro posto, e chissà come risigillare ben
bene il carro senza che le guardie o gli altri prigionieri se ne rendano conto?»
«Giusto.»
«C’è qualche altra impresa impossibile che gradiresti farci mettere a segno?»
Un sorriso sfacciato baluginò sul viso di Kaz. «Ti farò una lista.»

Oltre a un colpo come si deve, a Inej sarebbe piaciuta una notte di sonno come si
deve in un letto come si deve, ma non ci sarebbe stato nessun pernottamento
confortevole in nessuna locanda, non se dovevano intrufolarsi dentro il carro del
carcere e dentro la Corte di Ghiaccio prima che i festeggiamenti di Hringkälla
avessero inizio. C’erano troppe cose da fare.
Nina fu spedita a chiacchierare con la gente del posto e a scoprire il luogo
migliore per tendere un’imboscata al carro. Dopo le raccapriccianti aringhe del
Gestinge, tutta la banda pretese da Kaz che procurasse qualcosa di commestibile,
e ora stavano aspettando Nina in una pasticceria affollata, sorseggiando tazze di
caffè caldo mescolato alla cioccolata, con i resti dei biscotti e delle girelle
smozzicate sparpagliati sul tavolo in mucchietti di briciole burrose.
Inej notò che la tazza di Matthias, ancora intatta davanti a lui, si stava
lentamente raffreddando mentre lui guardava fuori dalla finestra.
«Dev’essere dura per te» disse lei a bassa voce. «Trovarti qui, ma non essere
veramente a casa.»
Lui abbassò lo sguardo sulla propria tazza. «Non puoi capire.»
«Posso, credimi. Non vedo casa mia da tanto tempo.»
Kaz si voltò e si mise a chiacchierare con Jesper. Lo faceva tutte le volte che
lei accennava al fatto di tornare a Ravka. Ovviamente, Inej non aveva alcuna
certezza di ritrovare, laggiù, i propri genitori. I Suli erano nomadi. Per loro, solo
la famiglia significava davvero “casa”.
«Sei preoccupato perché Nina è là fuori?» chiese Inej.
«No.»
«Lei è molto brava a recitare. È un’attrice nata.»
«Ne sono consapevole» disse lui tristemente. «Può diventare qualunque cosa
per chiunque.»
«È al meglio quando è Nina.»
«E chi è Nina?»
«Ho il sospetto che tu lo sappia meglio di chiunque di noi.»
Matthias incrociò le possenti braccia. «È coraggiosa» disse suo malgrado, a
denti stretti.
«E divertente.»
«Pazza. Non può essere tutto un gioco.»
«Audace» disse Inej.
«Sfacciata.»
«E allora perché i tuoi occhi continuano a cercarla tra la folla?»
«Non è vero» si accalorò Matthias. Inej scoppiò a ridere di fronte alla ferocia
del suo sguardo. Lui mise un dito su un mucchietto di briciole. «Nina è tutto
quello che dici. È troppa roba.»
«Mmh» mormorò Inej, bevendo un sorso dalla tazza. «Forse sei tu che non sei
abbastanza.»
Prima che lui potesse rispondere, il campanello sulla porta della pasticceria
suonò e Nina sfrecciò dentro, le guance rosa, i capelli castani raccolti in un
magnifico intreccio, e dichiarò: «Qualcuno mi dia subito da mangiare delle
girelle dolci».
Nonostante i borbottii di Matthias, Inej sapeva di non essersi immaginata il
sollievo che gli era apparso in faccia.

A Nina era bastata meno di un’ora per scoprire che la maggior parte dei carri
della prigione passavano accanto a una locanda nota come la Stazione di
Warden, situata sul percorso verso la Corte di Ghiaccio. Inej e gli altri dovettero
scarpinare per quasi due miglia fuori da Djerholm Alta per individuare la
locanda, che era troppo affollata di contadini e braccianti locali per rivelarsi utile
ai loro scopi, così si spinsero più lontano lungo la strada, ma ora che trovarono
un posto abbastanza nascosto e con una macchia d’alberi abbastanza grande, Inej
sentì che stava quasi per svenire. Ringraziò i propri Santi per l’energia
apparentemente senza limiti di Jesper, che si offrì allegramente di andare avanti
e fare da vedetta. Quando il carro dei prigionieri fosse transitato nei pressi,
avrebbe avvisato il resto della banda con un segnale luminoso, poi sarebbe
tornato da loro di corsa.
Nina si prese qualche minuto per modificare l’avambraccio di Jesper,
cancellando il tatuaggio degli Scarti e lasciando al suo posto un pezzo di pelle
chiazzato. Quella notte avrebbe pensato ai tatuaggi di Kaz e ai propri. Era
possibile che nessuno in prigione riconoscesse le bande di Ketterdam o i marchi
dei bordelli, ma non c’era motivo di correre il rischio.
«Nessun rimpianto» sentenziò Jesper mentre si allontanava nel crepuscolo, le
lunghe gambe che divoravano facilmente la distanza.
«Nessun funerale» risposero gli altri in coro. Inej lo benedisse anche con una
vera preghiera. Sapeva che Jesper era ben armato ed era in grado di badare a se
stesso, ma tra la figura allampanata e la carnagione Zemeni era troppo
appariscente per stare tranquilli.
Si accamparono in un canale asciutto delimitato da un groviglio di arbusti, e a
turno sonnecchiarono sul duro terreno roccioso e fecero la guardia. Nonostante
la fatica, Inej era convinta che non sarebbe riuscita a dormire, ma la prima cosa
di cui fu di nuovo consapevole era che il sole era alto sopra di loro, una sacca
luminosa in un cielo coperto di nuvole. Doveva essere mezzogiorno inoltrato.
Nina era accanto a lei con un pezzo di biscotto al pepe a forma di lupo che aveva
comprato a Djerholm Alta. Inej vide che qualcuno aveva acceso un fuocherello,
e le tracce appiccicose della paraffina fusa erano visibili tra le ceneri.
«Dove sono gli altri?» domandò, guardandosi attorno nel canale deserto.
«Per strada. Kaz ci ha detto di lasciarti dormire.»
Si sfregò gli occhi. Immaginava che fosse un trattamento di favore per via
delle sue ferite. Forse non aveva nascosto affatto la propria spossatezza. Una
raffica improvvisa di scoppiettii proveniente dalla strada la rimise in piedi, con i
pugnali in mano, in un istante.
«Calma» disse Nina. «È solo Wylan.»
Jesper doveva aver già dato il segnale. Inej prese il biscotto dalla mano di
Nina e andò di corsa da Kaz e Matthias che stavano guardando Wylan alle prese
con qualcosa alla base di un grosso abete rosso. Risuonò un’altra serie di
schiocchi, e comparvero delle nuvolette di fumo nel punto in cui il tronco
dell’albero si univa al terreno. Per un po’ sembrò che non fosse successo niente,
poi le radici si staccarono dal suolo, arricciandosi e appassendo.
«Che cos’era quella roba?» chiese Inej.
«Concentrato di sale» disse Nina.
Inej piegò la testa di lato. «Matthias sta... pregando?»
«Sta recitando una benedizione. I Fjerdiani lo fanno tutte le volte che tagliano
un albero.»
«Tutte le volte?»
«Le benedizioni dipendono da come intendi usare il legno. Ce n’è una per le
case, una per i ponti.» Si fermò. «Una per accendere il fuoco.»
Ci volle meno di un minuto per abbattere l’albero in modo che il tronco
bloccasse la strada. Con le radici intatte, sembrava che fosse stato
semplicemente colpito da una malattia.
«Quando il carro si sarà fermato, l’albero ci farà guadagnare circa quindici
minuti, non di più» disse Kaz. «Muoviamoci in fretta. I prigionieri dovrebbero
essere incappucciati, ma saranno in grado di sentire, quindi neanche una parola.
Non possiamo permetterci di destare dei sospetti. Per quello che ne sanno loro, è
una fermata di routine, e noi vogliamo che continuino a pensarlo.»
Mentre Inej aspettava nel canale insieme agli altri, passò in rassegna tutto
quello che poteva andare storto. I prigionieri potevano non essere incappucciati.
Le guardie potevano aver messo uno di loro nel retro del carro. E se invece ce
l’avessero fatta? Bene, allora avrebbero raggiunto la Corte di Ghiaccio da
detenuti. Nemmeno questo prometteva particolarmente bene.
Proprio quando stava iniziando a chiedersi se Jesper si fosse sbagliato e
avesse mandato il segnale troppo presto, il carro del carcere apparve
all’orizzonte. Li oltrepassò e si fermò davanti all’albero. Inej sentì il conducente
inveire contro il compagno di viaggio.
Scivolarono entrambi giù dai sedili e si diressero verso il tronco. Per un lungo
minuto, rimasero lì fermi a fissarlo. La guardia più grossa si tolse il cappello e si
grattò la pancia.
«Quanto sono pigri?» mormorò Kaz.
Alla fine, sembrarono accettare l’idea che l’albero non si sarebbe spostato da
solo. Tornarono al carro a recuperare un rotolone di corda e staccarono un
cavallo per trascinare l’albero oltre il ciglio della strada.
«State pronti» disse Kaz. Si portò in fretta sulla cima del canale fino a
raggiungere il retro del carro. Aveva lasciato il bastone da passeggio nel fosso e
qualunque dolore avesse lo mascherava bene. Fece scivolare fuori i grimaldelli
dalla fodera della giacca e cullò delicatamente il lucchetto, quasi con amore. In
pochi secondi scattò, e Kaz spinse il chiavistello di lato. Diede un’occhiata agli
uomini che stavano legando la corda all’albero e aprì la porta.
Inej era nervosa, in attesa del segnale. Che non arrivò. Kaz stava là in piedi, a
guardare dentro il carro.
«Cosa succede?» sussurrò Wylan.
«Forse non sono incappucciati?» rispose lei. Da dove si trovavano, non
riuscivano a vedere. «Vado io.» Non potevano radunarsi sul retro del carro tutti
in una volta.
Inej si arrampicò fuori dal canale e arrivò dietro a Kaz. Lui era ancora lì in
piedi, immobile. Lei gli sfiorò velocemente la spalla, e lui sussultò. Kaz Brekker
sussultò. Che cosa stava succedendo? Non poteva chiederglielo e rischiare che i
prigionieri lo sentissero. Così sbirciò dentro il carro.
I detenuti erano tutti ammanettati e avevano tutti un cappuccio nero sulla
testa. Ma ce n’erano molti di più che nel carro che avevano visto al posto di
blocco. Invece di essere seduti e incatenati alle panchine sui due lati, erano in
piedi, pigiati l’uno sull’altro. Piedi e mani erano legati, e portavano tutti un
collare di ferro agganciato al tetto del carro. Se uno si lasciava cadere o si
piegava troppo, il collare gli mozzava il respiro. Non era bello, ma erano così
ammassati da dare l’idea che nessuno avrebbe veramente potuto cadere e
strozzarsi.
Inej diede a Kaz un altro colpetto con il gomito. La faccia di lui era pallida,
quasi cerea, ma perlomeno questa volta non rimase fermo. Si issò all’interno,
muovendosi a scatti e in modo sgraziato, e si mise a sganciare i collari dei
prigionieri.
Inej fece un cenno a Matthias, e lui balzò fuori dal canale per raggiungerli.
«Cosa succede?» chiese uno dei prigionieri in Ravkiano, la voce terrorizzata.
«Tig!» ringhiò ferocemente Matthias in Fjerdiano. Ci fu un fremito tra gli
uomini sul carro, come se si fossero tutti messi sull’attenti. Senza farci caso,
anche Inej aveva raddrizzato la schiena. Una sola parola e tutto l’atteggiamento
di Matthias era cambiato, come se fosse bastato un solo ordine brusco a farlo
rientrare nella divisa da drüskelle. Inej lo osservò, tesa. Aveva iniziato a sentirsi
a proprio agio con lui. Un’abitudine facile in cui cadere, ma poco saggia.
Kaz aprì sei blocchi di ceppi a mani e piedi. Uno a uno, Inej e Matthias
spinsero i sei prigionieri vicinissimi alla porta. Non c’era il tempo di valutare il
peso, l’altezza e nemmeno se fossero uomini o donne.
Li guidarono sul ciglio del canale, e intanto tenevano d’occhio le guardie e i
lavori in corso sulla strada. «Cosa succede?» osò chiedere uno dei detenuti. Ma
un altro veloce «Tig!» di Matthias lo fece tacere.
Una volta nascosti alla vista, Nina abbassò le loro pulsazioni fino a farli
svenire. Solo allora Wylan rimosse i cappucci: quattro uomini, uno dei quali
piuttosto anziano, una donna di mezza età e un ragazzo Shu. Non era
esattamente l’ideale, ma c’era da sperare che le guardie non avessero fatto
un’ispezione accurata. Dopo tutto, un gruppo di detenuti con mani e piedi nei
ceppi, che tipo di problemi poteva creare?
Nina iniettò un sonnifero nei prigionieri per allungare il loro stato di
incoscienza, e Wylan diede una mano a farli rotolare nel fosso dietro gli alberi.
«Li lasciamo lì così?» sussurrò Wylan a Inej mentre tornavano di corsa al
carro con i cappucci dei prigionieri in mano.
Gli occhi di Inej erano puntati sulle guardie che stavano spostando l’albero, e
non guardarono Wylan mentre diceva: «Si sveglieranno molto presto e se la
daranno a gambe. Potrebbero anche raggiungere la costa e la libertà. Gli stiamo
facendo un favore».
«Non sembra un favore. Sembra che li stiamo lasciando in un fosso.»
«Silenzio» ordinò lei. Non era né il momento né il posto per i cavilli morali.
Se Wylan non conosceva la differenza tra essere in catene ed essere libero, era
sul punto di scoprirlo.
Inej mise una mano a coppa sulla bocca e fece un piccolo, tenero richiamo
d’uccello. Avevano ancora quattro minuti, forse cinque, prima che le guardie
ripulissero la strada. Per fortuna, stavano facendo un discreto baccano incitando
il cavallo e strillandosi addosso l’uno l’altro.
Matthias legò Wylan per primo, poi Nina. Inej lo vide irrigidirsi mentre Nina
sollevava i capelli per farsi mettere il collare, esponendo così alla vista la curva
bianca del collo. Quando lui le avvicinò il collare alla gola, Nina lo fissò negli
occhi da sopra la spalla, e lo sguardo che si scambiarono avrebbe potuto
sciogliere intere miglia di ghiaccio nordico. Matthias si allontanò di corsa. Inej
per poco non scoppiò a ridere. Così bastava questo a far scappare il drüskelle e a
riportare indietro, al suo posto, il ragazzo.
Poi fu il turno di Jesper, che aveva il fiatone per via della corsa con cui era
tornato. Mentre lei gli calava il sacco sulla testa, lui le fece l’occhiolino. Si
sentivano le guardie chiamarsi avanti e indietro.
Inej chiuse il collare di Matthias e si alzò in punta di piedi per infilargli il
cappuccio in testa. Ma quando stava per fare lo stesso con Nina, la Grisha sbatté
gli occhi rapidamente, indicando con la testa la porta del carro. Voleva sapere
come avrebbe fatto Kaz a chiuderli dentro.
«Guarda» sillabò Inej con le labbra.
Kaz fece un cenno a Inej e lei saltò giù, chiuse la porta del carro, serrò il
lucchetto e fece scivolare il chiavistello. Un attimo dopo il lato opposto della
porta si spalancò. Kaz aveva semplicemente tolto i cardini. Era un trucco che
aveva usato un sacco di volte quando una serratura era troppo complicata da
scassinare velocemente, oppure volevano che il furto sembrasse un lavoro fatto
dall’interno. “L’ideale per fingere un suicidio” le aveva detto Kaz una volta, e lei
non aveva mai capito se lui dicesse sul serio.
Inej diede un’ultima occhiata alla strada. Gli uomini avevano finito con
l’albero. Quello grosso si stava togliendo la polvere dalle mani e dava delle
manate alla schiena del cavallo. L’altro si stava già avvicinando al davanti del
carro. Inej afferrò il bordo e si sollevò, infilandosi dentro. Kaz si mise
immediatamente a riposizionare i cardini. Inej calò il cappuccio sulla faccia
stupefatta di Nina e si mise accanto a Jesper.
Ma anche se la luce era fioca, avrebbe detto che Kaz si stava muovendo
troppo lentamente, e che le sue dita erano più impacciate di come le avesse mai
viste. Cos’aveva che non andava? E perché si era immobilizzato davanti alla
porta del carro? Qualcosa lo aveva fatto tentennare, ma cosa?
Udì un ping metallico quando Kaz fece cadere una delle viti. Scrutò il
pavimento e con un calcetto fece rotolare la vite verso di lui, cercando di non
badare al cuore che le martellava nel petto.
Kaz si accucciò per rimettere al proprio posto la seconda cerniera. Stava
respirando a fatica. Lavorava senza luce, servendosi solo del tatto, con quei
maledetti guanti di pelle che insisteva per avere sempre addosso, eppure Inej non
credeva fossero quelle le ragioni per cui sembrava così agitato. Sentì dei passi
alla destra del carro, una guardia urlò qualcosa all’altra.
Avanti, Kaz.
Non si era data il tempo per spazzar via le loro impronte. E se la guardia le
avesse notate? Se avesse dato uno strattone alla porta e questa fosse venuta via
dai cardini, rivelando Kaz Brekker, senza cappuccio e senza catene?
Inej udì un altro ping. Kaz imprecò una volta sottovoce. All’improvviso, la
porta vibrò quando la guardia fece sbatacchiare il lucchetto chiuso. Kaz sorresse
la cerniera con una mano. La fessura di luce sotto la porta si allargò. Inej tornò a
respirare.
I cardini tennero.
Un altro urlo in Fjerdiano, altri passi. Poi lo schiocco delle redini e il carro
balzò in avanti, rimbombando sulla strada. Inej si permise di tirare il fiato. La
gola le era diventata completamente secca.
Kaz le si mise di fianco. Le abbassò il cappuccio sulla testa e l’odore di muffa
le riempì le narici. Lui si sarebbe incappucciato da solo e poi si sarebbe legato.
Roba piuttosto facile, un trucchetto per maghi da quattro soldi, e Kaz quei
trucchetti li conosceva tutti. Il braccio di lui premette contro quello di lei dalla
spalla al gomito, mentre si chiudeva il collare. Diversi corpi si mossero,
accalcandosi intorno a lei.
Per il momento erano salvi. Ma nonostante il cigolio delle ruote del carro,
Inej sentiva che il respiro di Kaz era peggiorato: ansimi corti e rapidi, come
quelli di un animale chiuso in trappola. Era un rumore che non avrebbe mai
immaginato di sentirgli fare.
Fu proprio perché lo stava ascoltando così attentamente che colse il momento
esatto in cui Kaz Brekker, Manisporche, il bastardo del Barile, il ragazzo più
pericoloso di Ketterdam, svenne.
22
KAZ

Il denaro che il signor Hertzoon aveva lasciato a Kaz e Jordie finì dopo una
settimana. Jordie tentò di restituire il suo cappotto nuovo, ma il negozio non se
lo riprese, e gli stivali di Kaz erano stati evidentemente usati.
Quando portarono in banca il prestito che il signor Hertzoon aveva firmato,
scoprirono che – a dispetto di tutti i timbri all’apparenza ufficiali – era un pezzo
di carta senza valore. Nessuno conosceva il signor Hertzoon o il suo socio in
affari.
Due giorni dopo furono sfrattati dalla pensione, e dovettero cercarsi un ponte
sotto cui dormire, ma ben presto la stadwatch li fece sloggiare. Dopodiché,
vagarono senza una meta fino al mattino. Jordie insistette per tornare alla
caffetteria. Sedettero a lungo nel parcheggio dall’altra parte della strada, ma
quando si fece notte la ronda ricominciò a girare, e Kaz e Jordie si diressero a
sud, nelle strade del Barile più profondo, dove le guardie non si davano la pena
di perlustrare.
Dormirono in un giroscala, in un vicoletto alle spalle di una taverna, infilati
tra una stufa abbandonata e i sacchi dei rifiuti della cucina. Nessuno diede loro
fastidio quella notte, ma quella dopo furono scoperti da una banda di ragazzi che
li avvisò di trovarsi nel territorio dei Becchi di Rasoio. Diedero una bastonata a
Jordie e buttarono Kaz nel canale, ma non prima di avergli portato via gli stivali.
Jordie ripescò Kaz dall’acqua e gli diede il suo cappotto asciutto.
“Ho fame” aveva detto Kaz.
“Io no” aveva risposto Jordie. E per qualche motivo Kaz lo aveva trovato
divertente, ed entrambi iniziarono a ridere. Jordie strinse Kaz tra le braccia
dicendo: “La città sta vincendo. Ma vediamo chi vincerà per ultimo”.
Il mattino dopo, Jordie si svegliò con la febbre.
Negli anni a venire la gente avrebbe chiamato l’esplosione di pestilenza che
colpì Ketterdam la Piaga della Favorita, per via della nave che si credeva avesse
portato il contagio in città. I bassifondi del Barile furono i più colpiti. I corpi si
accumulavano nelle strade, e i traghetti dei becchini passavano per i canali
usando badili e uncini per issare i cadaveri a bordo e portarli alla Chiatta del
Mietitore per bruciarli.
A Kaz la febbre arrivò due giorni dopo quella di Jordie. Non avevano soldi
per medici o medicine, così si misero vicini dentro un mucchio di scatole di
legno rotte che soprannominarono il Nido.
Nessuno si presentò a farli alzare. Le bande erano state messe fuori gioco dal
morbo.
Quando la febbre divenne molto alta, Kaz sognò di essere tornato alla fattoria,
e quando bussò alla porta vide che il Jordie dei sogni e il Kaz dei sogni erano già
lì, seduti al tavolo della cucina. Loro lo guardarono dalla finestra, ma non lo
fecero entrare, e allora lui vagò per il prato, timoroso di coricarsi nell’erba alta.
Quando si svegliò, non sentì odore di fieno o di trifoglio o di mele, solo fumo
di carbone e il tanfo dolciastro della verdura marcia nella spazzatura. Jordie era
coricato accanto a lui e fissava il cielo. “Non lasciarmi” voleva dirgli Kaz, ma
era troppo stanco. Così appoggiò la testa sul petto di Jordie. C’era già qualcosa
che non andava, era freddo e duro.
Credette di sognare quando i becchini lo issarono sul traghetto dei morti. Si
sentì cadere, e poi si ritrovò dentro un ammasso di corpi. Voleva urlare, ma era
troppo debole. Erano ovunque, gambe e braccia e pance rigide, arti in
decomposizione e facce dalle labbra blu piagate dalle pustole della peste.
Galleggiò dentro e fuori lo stato di coscienza, e mentre la barca usciva in mare
non sapeva più cosa fosse reale e cosa fosse un’allucinazione data dalla febbre.
Quando lo gettarono nelle acque basse della Chiatta del Mietitore, in qualche
modo trovò la forza di urlare.
“Sono vivo” aveva gridato, più forte che riusciva. Ma era così piccolo, e il
traghetto si stava già allontanando per tornare al porto.
Kaz cercò di trascinare Jordie fuori dall’acqua. Il suo corpo era ricoperto dalle
piccole piaghe suppuranti che avevano dato alla febbre bubbonica quel nome, la
pelle bianca e livida. Kaz ripensò al cagnolino meccanico, alla cioccolata calda
che avevano bevuto sul ponte. Pensò che il paradiso doveva essere come la
cucina nella casa sulla Zelverstraat e doveva profumare come l’hutspot dentro il
forno degli Hertzoon. Aveva ancora il nastro rosso di Saskia. In paradiso
avrebbe potuto ridarglielo. Avrebbero fatto dei dolcetti ricavandoli dall’impasto
di mele cotogne. Margit avrebbe suonato il piano, e lui si sarebbe addormentato
accanto al fuoco. Chiuse gli occhi e attese di morire.
Kaz si aspettava di svegliarsi nell’altro mondo, al caldo e al sicuro, con la
pancia piena e Jordie accanto. Invece, si svegliò circondato da cadaveri. Giaceva
nelle acque basse della Chiatta del Mietitore, i vestiti fradici, la pelle tutta
grinzosa per essere rimasta a mollo così a lungo. Il corpo di Jordie era vicino a
lui, a malapena riconoscibile, bianco e gonfio di gas, e galleggiava sulla
superficie dell’acqua come un raccapricciante pesce degli abissi.
Kaz vedeva più chiaramente, e le eruzioni cutanee si erano diradate. La
febbre era svanita. Non aveva più fame, ma aveva così tanta sete che pensava di
impazzire.
Per tutto il giorno e per tutta la notte aspettò in quell’ammasso di corpi,
guardando verso il porto, sperando nel ritorno del traghetto dei morti. Dovevano
venire ad appiccare il fuoco che avrebbe bruciato i cadaveri, ma quando? I
becchini passavano ogni giorno? A giorni alterni? Era debole e disidratato.
Sapeva che non avrebbe resistito a lungo. La riva sembrava così lontana, e
sapeva anche di essere troppo debole per nuotare fin là. Era sopravvissuto alla
febbre, ma avrebbe benissimo potuto morire qui fuori, sulla Chiatta del
Mietitore. Gli importava? Non c’era niente in città, per lui, se non altra fame e
altri vicoli bui e altra umidità lungo i canali. Ma anche mentre lo pensava,
sapeva che non era vero. C’era la vendetta ad aspettarlo, vendetta per Jordie e
forse anche per se stesso. Ma avrebbe dovuto andare a cercarsela.
Quando venne notte e la marea cambiò direzione, Kaz si costrinse a mettere
le mani sul corpo di Jordie. Era troppo debole per nuotare da solo, ma con l’aiuto
di Jordie avrebbe potuto galleggiare. Si tenne stretto a suo fratello e si mise a
scalciare l’acqua verso le luci di Ketterdam. Andarono insieme alla deriva, il
corpo gonfio di Jordie che faceva da zattera. Kaz continuò a scalciare, cercando
di non pensare a suo fratello, alla sensazione della carne flaccida di Jordie sotto
le mani; cercò di non pensare a nient’altro che al ritmo delle proprie gambe che
si muovevano nelle acque del mare. Aveva sentito dire che c’erano degli squali
in quelle acque, ma sapeva che non l’avrebbero toccato. Anche lui era un
mostro, adesso.
Continuò a scalciare, e quando venne l’alba sollevò lo sguardo e si ritrovò
all’estremità orientale del Coperchio. Il porto era quasi deserto; il morbo aveva
arrestato l’andirivieni delle navi a Kerch.
Le ultime cento iarde furono le più difficili. La marea era cambiata di nuovo,
e gli stava remando contro. Ma ora Kaz era pieno di speranza, speranza e furia,
due fiamme gemelle che ardevano dentro di lui e che lo portarono fino al molo e
su per la scala a pioli. Quando arrivò in cima, cadde di peso sulla schiena e finì
sulle assi di legno, al che si sforzò di girarsi. Il corpo di Jordie era prigioniero
della corrente, e continuava ad andare a sbattere contro il traliccio sotto il molo.
Gli occhi erano ancora aperti, e per un istante Kaz pensò che suo fratello lo
stesse fissando. Ma Jordie non parlò, non sbatté le palpebre e il suo sguardo non
cambiò quando la marea lo liberò dal traliccio e se lo portò via verso il mare.
“Dovrei chiudergli gli occhi” pensò Kaz. Ma sapeva che se fosse sceso per la
scala a pioli e si fosse ributtato in acqua, non sarebbe riemerso mai più. Si
sarebbe lasciato annegare, e questo non era più possibile. Lui doveva vivere.
Qualcuno doveva pagare.

Nel carro del carcere, Kaz si svegliò a causa di un colpo secco alla coscia. Era un
pezzo di ghiaccio ed era al buio. C’erano dei corpi attorno a lui, pigiati sulla
schiena e sui fianchi. Stava annegando nei cadaveri.
«Kaz.» Un sussurro.
Lui trasalì.
Un altro colpo alla coscia.
«Kaz.» La voce di Inej. Cercò di fare un respiro profondo dal naso. La sentì
allontanarsi da lui. In qualche modo, negli spazi ristretti del carro, stava
provando a fargli spazio. Il cuore gli martellava nel petto.
«Continua a parlare» gracchiò.
«Cosa?»
«Continua a parlare.»
«Stiamo varcando il cancello della prigione. Abbiamo superato i primi due
posti di blocco.»
A queste parole tornò a essere del tutto presente a se stesso. Avevano
superato due posti di blocco. Voleva dire che erano stati contati. Qualcuno aveva
aperto la porta – non una ma due volte – forse gli aveva anche messo le mani
addosso, e lui non si era svegliato. Avrebbero potuto derubarlo, ucciderlo. Aveva
immaginato di morire in migliaia di modi diversi, ma mai nel sonno.
Si sforzò di respirare profondamente, nonostante la puzza dei corpi. Aveva
tenuto addosso i guanti, e le guardie avrebbero potuto notarli facilmente: era
stata una stupida concessione alla propria debolezza, ma se non l’avesse fatto,
poco ma sicuro sarebbe impazzito del tutto.
Dietro di lui poteva sentire gli altri prigionieri bisbigliare in lingue diverse.
Malgrado le paure che l’oscurità risvegliava dentro di lui, era grato di essere al
buio. Poteva solo sperare che il resto della banda, incappucciato e confinato
dentro le proprie ansie, non avesse notato niente di strano nel suo
comportamento. Era stato fiacco, lento a reagire quando avevano teso l’agguato
al carro, ma questo era tutto, e avrebbe potuto trovare una giustificazione per
spiegare l’accaduto.
Odiava l’idea che Inej l’avesse visto conciato a quel modo, che chiunque
potesse averlo visto, ma sulla scia di quel pensiero ne arrivò un altro: “Meglio
che sia toccato a lei”. Sapeva fin dentro le ossa che Inej non ne avrebbe mai fatto
parola con nessuno, che non avrebbe mai usato quell’informazione contro di lui.
Lei faceva affidamento sulla sua reputazione. Non l’avrebbe mai fatto apparire
debole. Ma c’era qualcosa in più di quello, vero? Inej non l’avrebbe mai tradito.
Lui lo sapeva. Kaz si sentì male. Anche se le aveva affidato la propria vita
un’infinità di volte, era molto più spaventosa l’idea affidarle questa vergogna.
Il carro si fermò. Il catenaccio scivolò indietro e la porta si aprì.
Sentì parlare in Fjerdiano, poi dei rumori di sfregamento e un tunc. Il collare
era slacciato, e fu condotto giù dal carro su una specie di rampa insieme agli altri
prigionieri. Udì il suono di quello che sembrava un cancello che si apriva
cigolando, e furono radunati lì davanti, con i piedi che si trascinavano dietro le
catene.
Kaz strizzò gli occhi quando gli strapparono via di colpo il cappuccio. Erano
in piedi in un ampio cortile. L’imponente cancello fissato nelle mura ad anello si
stava già abbassando per chiudersi e andò a sbattere contro le pietre in una
raffica sinistra di cigolii e scricchiolii. Quando Kaz sollevò lo sguardo, vide che
c’erano guardie piazzate su tutto il tetto del cortile con i fucili puntati verso i
prigionieri. Le guardie di sotto, nel cortile, stavano passando in rassegna le file
di detenuti in catene, cercando di abbinarli ai nomi e alle descrizioni sui
documenti del conducente.
Matthias aveva descritto la struttura della Corte di Ghiaccio nei dettagli, ma
aveva detto ben poco a proposito del suo vero aspetto. Kaz si era aspettato
qualcosa di umido e vetusto: arcigna pietra grigia, pronta per la battaglia. Invece
era circondato da marmo così bianco che alla luce sembrava quasi blu. Era come
se stesse vagando dentro qualche versione surreale delle terre inospitali che
avevano attraversato su al Nord. Era impossibile distinguere il vetro dal ghiaccio
o dalla pietra.
«Se questa non è opera di un Fabrikator, allora io sono la regina degli spiriti
di legno» borbottò Nina in Kerch.
«Tig!» ordinò una delle guardie. Le conficcò il fucile in pancia, e lei si piegò
in due per il dolore. Matthias tenne la testa girata dall’altra parte, ma Kaz non
mancò di notare quanto era teso.
Le guardie Fjerdiane gesticolavano sopra le carte, nel tentativo di far
coincidere i numeri e le identità dei prigionieri con i detenuti riuniti davanti a
loro. Era il primo momento in cui rischiavano veramente di essere smascherati, e
Kaz non aveva il minimo controllo della situazione. Sarebbe stato troppo
dispendioso in termini di tempo, e troppo pericoloso, individuare e scegliere i
prigionieri da sostituire. Era un rischio calcolato, ma ora Kaz poteva soltanto
aspettare e sperare che la pigrizia e la burocrazia facessero il resto.
Appena le guardie passarono oltre, Inej aiutò Nina a rialzarsi.
«Stai bene?» chiese Inej, e Kaz si sentì attratto dalla voce di lei come l’acqua
che scende a valle.
Lentamente, Nina si raddrizzò e si rimise in piedi. «Tutto a posto» sussurrò.
«Ma credo che non dovremo più preoccuparci della banda di Pekka Rollins.»
Kaz seguì lo sguardo di Nina in cima alle mura ad anello, in alto sopra il
cortile, dove cinque uomini erano stati impalati, infilzati sulle picche come carne
da arrostire, le schiene piegate, gli arti penzolanti. Kaz dovette strizzare gli occhi
ma riconobbe Eroll Aerts, il miglior scassinatore di Rollins. I lividi e le ferite
delle percosse che gli erano state inflitte prima di morire erano di un viola
profondo alla luce del mattino, e Kaz riusciva giusto a distinguere una macchia
nera sul suo braccio: il tatuaggio del Centesimo di Leone.
Scrutò le altre facce: erano troppo gonfie e deformate nello spasimo della
morte per identificarle. Uno di loro poteva essere Rollins? Kaz avrebbe dovuto
felicitarsi che un’altra banda fosse fuori gioco, ma Rollins non era uno sciocco, e
il pensiero che la sua cricca non fosse riuscita a superare il cancello della Corte
di Ghiaccio era più che snervante. Inoltre, se Rollins avesse incontrato la morte
in cima a una picca Fjerdiana... No, Kaz lo escluse. Pekka Rollins era suo.
Ora le guardie stavano discutendo con il conducente, e una di loro stava
indicando Inej.
«Cosa succede?» bisbigliò a Nina.
«Sostengono che i documenti non sono corretti, che c’è una ragazza Suli al
posto di un ragazzo Suli.»
«E il conducente?» domandò Inej.
«Lui continua a dire che non è un suo problema.»
«Bravo, così che si fa» mormorò Kaz come incoraggiamento.
Li guardò andare avanti e indietro. Era quello il bello di tutte le misure
preventive e dei livelli di sicurezza. Le guardie erano sempre convinte di poter
contare su qualcun altro per correggere un errore o risolvere un problema. La
pigrizia non era affidabile tanto quanto l’avidità, ma era comunque un’ottima
leva. Le guardie stavano parlando dei prigionieri – incatenati, circondati da tutte
le parti, e in procinto di essere buttati in cella. Inoffensivi.
Alla fine, una delle guardie carcerarie fece un sospiro e un segnale ai
compari. «Diveskemen.»
«Avanti» tradusse Nina, e poi continuò a tradurre mentre la guardia parlava.
«Portateli nel blocco orientale e lasciate che se la vedano quelli del turno dopo.»
Kaz si permise di tirare un velocissimo sospiro di sollievo.
Come previsto, le guardie divisero il gruppo di detenuti in uomini e donne,
poi condussero entrambe le file, con le catene che tintinnavano, dentro un portale
quasi circolare che aveva la forma della bocca spalancata di un lupo.
Entrarono in una stanza dove una donna anziana era seduta con le mani
legate, fiancheggiata da sorveglianti. I suoi occhi erano assenti. A ogni
prigioniero che si avvicinava, la donna prendeva il polso.
Un amplificatore umano. Kaz sapeva che Nina aveva lavorato con loro
quando aveva passato al setaccio l’Isola Errante per trovare dei Grisha da
arruolare nel Secondo Esercito. Gli amplificatori potevano avvertire la presenza
del potere Grisha tramite il tatto, e un loro tipico impiego era nei tornei di carte
con puntate alte, per accertarsi che nessun giocatore al tavolo fosse un Grisha.
Chiunque sapesse alterare le pulsazioni di un altro giocatore o anche alzare la
temperatura in una stanza godeva di un vantaggio ingiusto. Ma i Fjerdiani li
usavano per un altro scopo: per essere certi che nessun Grisha penetrasse
all’interno delle loro mura senza essere identificato.
Kaz guardò Nina avvicinarsi. Tremava mentre tendeva il braccio. La donna
serrò le dita attorno al suo polso. Le ciglia fremettero appena. Poi lasciò andare
la mano di Nina e le fece un gesto di saluto.
Aveva capito e fatto finta di niente? O la paraffina che avevano usato per
ricoprire il braccio di Nina aveva funzionato?
Mentre venivano condotti all’interno di una volta sulla sinistra, Kaz intravide
Inej sparire dentro l’arco di fronte insieme alle altre prigioniere di sesso
femminile. Sentì una fitta al petto, e realizzò con inquietudine che si trattava di
un attacco di panico. Lei era stata quella che, nel carro, lo aveva fatto uscire
dallo stato confusionale. La sua voce lo aveva portato fuori dall’oscurità; era
stata il laccio che lui aveva afferrato e usato per tirarsi fuori e recuperare una
parvenza di sanità mentale.
I prigionieri di sesso maschile furono condotti, sferragliando, su per una buia
rampa di scale fino a una passerella di metallo. Alla loro sinistra c’era la mole
bianca e liscia delle mura ad anello. Alla loro destra la passerella si affacciava su
un grosso recinto di vetro, lungo quasi un quarto di miglio e abbastanza alto da
accogliere comodamente una nave mercantile. La passerella era illuminata da
una grossa lanterna di ferro che pendeva dal soffitto come un bozzolo luminoso.
Guardando in basso, Kaz vide file di carri pesantemente corazzati e sormontati
da torrette a cupola. Le ruote erano larghe e agganciate a un battistrada spesso.
Da ogni carro sporgeva un’enorme canna da fuoco – una cosa a metà strada tra
un fucile e un cannone – proprio là dove ci sarebbe dovuta essere una squadra di
cavalli da traino.
«Cosa sono quelle?» sussurrò.
«Torvegen» disse Matthias sottovoce. «Non c’è bisogno dei cavalli per tirarli.
Quando me ne andai stavano ancora perfezionando il progetto.»
«Niente cavalli?»
«Carri armati» bisbigliò Jesper. «Ho visto i prototipi quando lavoravo con un
armaiolo a Novyi Zem. Mitragliatrici nella torretta, e quel grosso cilindro che
sporge sul davanti? Una vera potenza di fuoco.»
C’erano anche pezzi di artiglieria pesante a gravità nel recinto, rastrelliere
piene di fucili, munizioni, e quelle bombette nere che i Ravkiani chiamavano
grenatye. Sulle pareti dietro il vetro erano esposte le armi più antiche, messe in
mostra in modo preciso: asce, lance, archi lunghi. Sopra tutto, pendeva uno
stendardo bianco e argento: STRYMAKT FJERDAN .
Quando Kaz posò lo sguardo su Matthias, il gigante mormorò: «Potenza
Fjerdiana».
Sbirciò attraverso il vetro spesso. Se ne intendeva di misure di protezione, e
Nina aveva ragione, questo vetro era un altro esempio di manifattura Fabrikator,
antiproiettile e antisfondamento. Entrando e uscendo dalla prigione, i detenuti
avrebbero visto armi, armamenti, macchine da guerra: tutti brutali promemoria
della forza dello stato Fjerdiano.
“Andate avanti a tirarvela” pensò. “Non importa quanto siano grandi le canne
delle vostre pistole se non sapete dove puntarle.”
Dall’altra parte del recinto, Kaz vide una seconda passerella, sulla quale
stavano sfilando le prigioniere.
Inej starà bene. Doveva restare lucido. Erano in territorio nemico adesso, un
luogo pieno di pericoli, il tipo di pericoli da cui non esci vivo se non mantieni
l’autocontrollo. La squadra di Pekka era arrivata così lontano prima di essere
scoperta? E dov’era Pekka? Se n’era rimasto al sicuro a Kerch, o anche lui era
prigioniero dei Fjerdiani?
Niente di tutto ciò era importante al momento. Doveva concentrarsi sul piano
e trovare Yul-Bayur. Lanciò un’occhiata agli altri. Wylan sembrava che fosse lì
lì per farsela addosso. Helvar era serio come al solito. Jesper sorrise e sussurrò:
«Be’, ci siamo dati da fare per rinchiuderci da soli nel carcere più sicuro del
mondo. O siamo dei geni o siamo i più stupidi figli di puttana mai visti».
«Lo sapremo presto.»
Furono condotti in un’altra stanza bianca, dotata di vasche di stagno e tubi di
gomma.
La guardia farfugliò qualcosa in Fjerdiano, e Kaz vide che Matthias e alcuni
degli altri incominciavano a spogliarsi. Deglutì la bile che gli salì in gola e si
rifiutò di vomitare.
Poteva farcela, doveva farcela. Pensò a Jordie. Cos’avrebbe detto Jordie se il
suo fratellino avesse perso l’ultima occasione di farsi giustizia solamente perché
non era in grado di tenere a bada una stupida nausea? Ma questo servì solo a
riportargli alla memoria la carne fredda di Jordie, il modo in cui si disfaceva
nell’acqua salata, e l’ammasso di cadaveri intorno a lui sul traghetto. La vista gli
si appannò.
“Torna in te, Brekker” si rimproverò duramente. Non servì a niente. Stava per
svenire di nuovo, e poi sarebbe tutto finito. Una volta Inej si era offerta di
insegnargli come cadere.
“Il trucco non sta nell’andare giù” gli aveva detto ridendo. “No, Kaz” aveva
continuato, “il trucco sta nel tornare su.” Le solite banalità Suli, però il ricordo
della voce di lei era di aiuto. Lui era meglio di così. Lui doveva essere meglio di
così. Non solo per Jordie, ma per la sua banda. Li aveva portati fin qui. Aveva
portato Inej. Era suo dovere farli uscire.
“Il trucco sta nel tornare su.” Tenne la voce di Inej in testa e ripeté quelle
parole, ancora e ancora, mentre si toglieva gli stivali, i vestiti, e alla fine i guanti.
Vide che Jesper gli stava fissando le mani. «Che cosa ti aspettavi?» gli
ringhiò.
«Degli artigli, almeno» disse Jesper, spostando lo sguardo sui propri piedi
nudi. «Oppure un pollice con le spine.»
La guardia, dopo aver gettato i loro vestiti in un bidone che senza dubbio
sarebbe stato portato all’inceneritore, fece ritorno. Inclinò la testa di Kaz
all’indietro, gli aprì a forza la bocca e si mise a tastare in giro con le sue grasse
dita. Negli occhi gli sbocciarono delle macchie nere mentre lottava per restare
cosciente. Le dita della guardia passarono nel punto tra i denti dove Kaz aveva
incastrato il dischetto di baleen, poi gli pizzicarono l’interno delle guance.
«Ondetjarn!» esclamò la guardia. «Fellenjuret!» urlò di nuovo mentre gli
estraeva due sottili pezzi di metallo dalla bocca. I grimaldelli colpirono il
pavimento di pietra con un plinc-plinc. La guardia gli gridò qualcosa in
Fjerdiano e lo schiaffeggiò forte in faccia. Kaz cadde in ginocchio, ma si
costrinse a rialzarsi. Notò l’espressione terrorizzata di Wylan, ma era tutto quello
che poteva fare per rimanere in piedi mentre l’uomo lo spingeva dentro la fila in
attesa di fare una doccia ghiacciata.
Quando emerse, fradicio e tremante, un’altra guardia gli porse i pantaloni
sbiaditi della divisa carceraria e una casacca, prelevandoli dalla pila di panni
accanto. Kaz se li infilò, poi zoppicò verso la sala d’attesa con il resto dei
prigionieri. In quel momento, avrebbe rinunciato alla metà dei suoi trenta milioni
di kruge in cambio del peso familiare del suo bastone.
Le celle di detenzione preventiva assomigliavano molto di più alla prigione
che si era immaginato: niente pietra bianca o vetrate, solo umida pietra grigia e
sbarre di ferro.
Furono radunati in una cella già affollata. Helvar si sedette con la schiena al
muro a sorvegliare gli uomini che andavano su e giù, guardandoli di traverso.
Kaz si appoggiò alle sbarre, a osservare le guardie andarsene. Sentiva i corpi
muoversi dietro di lui. C’era spazio a sufficienza, ma erano comunque troppo
vicini. “Solo un altro po’” si disse. Le mani erano insopportabilmente nude.
Kaz aspettò. Sapeva cosa stava per succedere. Aveva soppesato gli altri
detenuti non appena erano entrati nella cella, e sapeva che sarebbe stato il
Kaelish robusto e con la voglia sulla pelle ad arrivare da lui. Era agitato,
nervoso, e aveva notato chiaramente la zoppia di Kaz.
«Ehi, storpio» disse il Kaelish in Fjerdiano. Ci riprovò in Kerch, con una
cadenza forte. «Ehi, storpio.» Non c’era bisogno che si disturbasse. Kaz sapeva
come si diceva “storpio” in tantissime lingue.
L’istante successivo, Kaz sentì l’aria spostarsi mentre il Kaelish allungava un
braccio verso di lui. Fece un passo a sinistra, e l’aggressore barcollò in avanti,
trasportato dal proprio slancio. Kaz lo assecondò, gli afferrò il braccio e lo infilò
nello spazio tra le sbarre, fino alla spalla. Il Kaelish si lasciò sfuggire un sonoro
grugnito quando la faccia gli si spiaccicò contro le sbarre di ferro.
Kaz puntellò l’avambraccio dell’uomo a una sbarra. Si lasciò andare con tutto
il peso contro il corpo dell’avversario, e sentì un rumore appagante quando il
braccio del Kaelish si dislocò dalla spalla. Non appena l’uomo aprì la bocca per
urlare, Kaz gliela coprì con una mano e gli tappò il naso con l’altra. La
sensazione della carne nuda sulle dita gli fece venir voglia di vomitare.
«Sssh» disse, usando la presa sul naso dell’uomo per spingerlo indietro verso
la panca contro il muro. Gli altri prigionieri si fecero da parte per liberare il
passaggio.
L’uomo crollò a sedere, senza fiato e con gli occhi che gli lacrimavano. Kaz
continuò a tappargli naso e bocca. Il Kaelish tremava sotto la sua presa.
«Vuoi che te lo rimetta a posto?» gli chiese Kaz.
Il Kaelish uggiolò.
«Lo vuoi?»
Il Kaelish uggiolò più forte mentre i prigionieri osservavano.
«Tu urla, e io farò in modo che tu non possa usarlo mai più, ci siamo intesi?»
Lasciò andare la bocca dell’uomo e con una spinta rimise il braccio in
posizione. Il Kaelish rotolò sul fianco, si rannicchiò sulla panca e si mise a
piangere.
Kaz si pulì le mani sui pantaloni e tornò nell’angolo accanto alle sbarre.
Sentiva gli sguardi degli altri su di sé, ma ora sapeva che l’avrebbero lasciato in
pace.
Helvar gli andò accanto. «Era veramente necessario?»
«No.»
Invece sì: per essere lasciati in pace mentre facevano quello che dovevano
fare, e per ricordare a se stesso che non era un debole.
23
JESPER

Jesper voleva camminare avanti e indietro, ma si era preso un posto sulla panca e
intendeva tenerselo. Era come se avesse sottopelle delle piccole vibrazioni di
ansia e di eccitazione, e Wylan seduto accanto a lui a tamburellare
freneticamente sulle ginocchia non lo stava aiutando a calmarsi. Non pensava di
poter tollerare altra attesa. Prima la barca, poi tutto quel camminare, e ora era
bloccato in una cella fino a quando le guardie non fossero passate a contare i
detenuti per la sera.
Solamente suo padre aveva compreso la sua energia irrequieta. Aveva spinto
Jesper a impiegarla nella fattoria, ma il lavoro era troppo monotono per lui.
L’università avrebbe dovuto indicargli la direzione da prendere, ma lui aveva
imboccato un sentiero diverso. Lo imbarazzò il pensiero di cosa avrebbe detto
suo padre se avesse saputo che il figlio era morto in una prigione Fjerdiana. Ma
come avrebbe fatto a scoprirlo? Rimuginarci sopra era troppo deprimente.
Quanto tempo era passato? E se chiusi qui dentro non avessero nemmeno
sentito l’Orologio Maggiore? Le guardie avrebbero dovuto fare la conta al sesto
rintocco. A quel punto Jesper e gli altri avrebbero avuto fino a mezzanotte per
eseguire il colpo. O così speravano. Matthias aveva trascorso solo tre mesi in
prigione. Le procedure potevano essere cambiate. Poteva aver sbagliato
qualcosa. O forse il Fjerdiano ci vuole dietro le sbarre prima di spifferare tutto
su di noi.
Ma Matthias era seduto in silenzio dall’altra parte della cella, vicino a Kaz.
Jesper non si era perso la zuffa con il Kaelish. Kaz era sempre inscalfibile sul
lavoro, ma questa volta era sulle spine, e Jesper non sapeva perché. Una parte di
lui voleva chiederglielo, ma era la parte stupida, il fiducioso ragazzotto di
campagna che sceglieva di preoccuparsi della persona peggiore possibile, che
cercava significati in cose che in fondo non significavano niente: quando Kaz gli
assegnava un incarico, quando Kaz stava al gioco delle sue battute. Si sarebbe
preso a calci da solo. Aveva finalmente visto il famigerato Kaz Brekker senza
uno straccio di vestito addosso ed era stato troppo preoccupato di finire su una
picca per prestare la dovuta attenzione.
Ma se Jesper era in ansia, Wylan sembrava sul punto di vomitare.
«Cosa faremo adesso?» gli sussurrò. «A cosa serve uno scassinatore senza
attrezzi per scassinare?»
«Fai silenzio.»
«E a cosa servi tu? Un cecchino senza pistole. Sei del tutto irrilevante alla
missione.»
«Non è una missione; è un colpo.»
«Matthias la chiama missione.»
«Lui è un militare, tu no. E mi trovo già in prigione, non istigarmi a
commettere un omicidio.»
«Tu non mi ucciderai, e io non farò finta che vada tutto bene. Siamo bloccati
qui dentro.»
«Sei decisamente più adatto a una gabbia dorata che a una gabbia vera.»
«Ho lasciato la casa di mio padre.»
«Già, hai rinunciato a una vita nel lusso per finire nei bassifondi con noi figli
di puttana del Barile. Questo non ti rende interessante, Wylan, solo stupido.»
«Tu non conosci la storia che c’è dietro.»
«E allora raccontamela» disse Jesper, girandosi verso di lui. «Abbiamo tutto il
tempo. Che cosa spinge un piccolo bravo ragazzo del mondo mercantile a
lasciare casa per cercare compagnia tra i criminali?»
«Ti comporti come se fossi nato nel Barile come Kaz, ma non sei nemmeno
Kerch. Anche tu hai scelto questa vita.»
«Mi piacciono le città.»
«Non ci sono città a Novyi Zem?»
«Non come Ketterdam. Sei mai stato da qualche parte che non sia casa tua, il
Barile, e le cene eleganti alle ambasciate?»
Wylan distolse lo sguardo. «Sì.»
«Dove? Nei sobborghi durante la stagione delle pesche?»
«Alle corse di Caryeva. Nei giacimenti petroliferi degli Shu. Nelle
piantagioni di jurda vicino a Shriftport. Weddle. Elling.»
«Sul serio?»
«Mio padre mi portava ovunque con lui.»
«Finché?»
«Finché cosa?»
«Finché. Mio padre mi portava ovunque finché mi è venuto un terribile mal di
mare, finché ho vomitato a un matrimonio reale, finché ho tentato di chiavarmi la
gamba dell’ambasciatore!»
«Era stata la gamba a chiedermelo.»
Jesper scoppiò a ridere forte. «Finalmente un po’ di spina dorsale.»
«Ne ho da vendere, di spina dorsale» borbottò Wylan. «E guarda dove mi
ha...»
Fu interrotto dalla voce di una guardia che urlò in Fjerdiano proprio mentre
l’Orologio Maggiore iniziava a battere i sei rintocchi. Perlomeno in quel posto
erano puntuali.
La guardia parlò ancora in Shu e poi in Kerch. «In piedi.»
«Shimkopper» ordinò. Tutti gli rivolsero uno sguardo inespressivo. «Il
secchio del piscio» provò a dire in Kerch. «Dov’è... svuotare?» Mimò il gesto.
Ci furono scrollate di spalle e occhiate perplesse.
L’espressione imbronciata della guardia mise in chiaro che non gliene poteva
importare di meno. Spinse dentro la cella un secchio d’acqua fresca e chiuse di
colpo le sbarre.
Jesper si mise davanti a tutti e diede un lungo sorso dalla tazza legata al
manico. La maggior parte dell’acqua gli finì sulla casacca. Quando porse la tazza
a Wylan, fece in modo che inzuppasse anche lui.
«Che cosa fai?» protestò il ragazzo.
«Pazienza, Wylan. E cerca di seguire.»
Jesper si sollevò i pantaloni e si tastò la pelle sottile delle caviglie.
«Dimmi cosa sta succ...»
«Fai silenzio. Ho bisogno di concentrarmi.» Era vero. Non ci teneva proprio
che la pallina che si ritrovava conficcata sottopelle si aprisse mentre era ancora
dentro di lui.
Tastò i punti sottili che gli aveva messo lì Nina. Gli fece un male d’inferno
quando li fece saltare per estrarre la pallina. Aveva le dimensioni di un chicco
d’uvetta ed era scivolosa per via del sangue di cui era imbrattata. In quello stesso
momento, Nina stava usando il proprio potere per aprire la propria, di pelle.
Jesper si domandò se facesse meno male dei punti.
«Copriti la bocca con la casacca» disse a Wylan.
«Cosa?!
«Smettila di fare il finto tonto. Sei più carino da sveglio.»
Le guance di Wylan si fecero rosse. Guardò storto Jesper e alzò il colletto
della casacca.
Jesper si infilò sotto la panca dove aveva nascosto il secchio dei rifiuti e lo
tirò fuori.
«Tempesta in arrivo» disse Jesper a voce alta in Kerch. Vide Matthias e Kaz
sollevare i loro colletti. Girò la faccia dall’altra parte, si portò la casacca alla
bocca e lanciò la pallina nel secchio.
Ci fu un fruscio sfrigolante quando una nuvola di fumo sbocciò dall’acqua. In
pochi secondi aveva avvolto le celle in una coltre di nebbia verde lattiginosa.
Gli occhi di Wylan, che sbucavano dal colletto sollevato, erano terrorizzati.
Jesper fu tentato di far finta di svenire, ma si accontentò dell’effetto che faceva
vedere tutti quegli uomini cadere a terra attorno a lui.
Contò fino a sessanta, poi abbassò il colletto e fece un respiro di prova. L’aria
aveva ancora un odore dolciastro e li avrebbe lasciati storditi per un po’, ma il
peggio si era già disperso. Quando le guardie fossero arrivate per la conta
successiva, i prigionieri avrebbero avuto dei gran brutti mal di testa, ma poco da
dire.
E se tutto fosse andato per il verso giusto, per quell’ora sarebbero stati
lontani.
«Era cloroformio?»
«Decisamente più carino da sveglio. Sì, la pallina è un involucro a base di
enzimi riempita con polvere di cloro. È innocua fino a che non entra in contatto
anche con la minima quantità di ammoniaca. Che è esattamente quello che è
appena successo.»
«L’urina nel secchio... ma a quale scopo? Siamo ancora chiusi qua dentro.»
«Jesper» disse Kaz passando la mano sulle sbarre per attrarre la sua
attenzione. «L’orologio fa tic tac.»
Jesper sciolse le spalle mentre si avvicinava. Di solito, per questo genere di
lavoro ci voleva un sacco di tempo, soprattutto perché non aveva mai ricevuto un
vero addestramento. Posizionò le mani sui due lati di una singola sbarra e si
concentrò per individuare le particelle più pure di minerale.
«Che cosa sta facendo?» chiese Matthias.
«Sta celebrando un antico rituale Zemeni» rispose Kaz.
«Davvero?»
«No.»
Tra le mani di Jesper si stava formando una nebbiolina torbida.
Wylan disse con un rantolo: «È minerale di ferro?».
Jesper annuì mentre la fronte gli si imperlava di sudore.
«Sei capace di sciogliere le sbarre?»
«Non dire idiozie» grugnì lui. «Non vedi come sono spesse?»
In effetti, la sbarra sulla quale stava lavorando sembrava la stessa di prima,
ma aveva estratto ferro a sufficienza per far sì che la nuvola tra le mani fosse
quasi nera.
Contrasse la punta delle dita, e le particelle si misero a vorticare e a ronzare
dentro una spirale che diventava sempre più fitta e stretta.
Lasciò cadere le mani e un ago sottile cadde sul pavimento con un melodioso
ping.
Wylan lo sollevò da terra e lo tenne in modo che la luce ne facesse brillare la
superficie opaca.
«Tu sei un Fabrikator» disse Matthias senza troppa allegria.
«Più o meno.»
«O lo sei o non lo sei» disse Wylan.
«Lo sono.» Con un dito lo punzecchiò. «E tu terrai la bocca chiusa quando
saremo tornati a Ketterdam.»
«Ma perché dovresti mentire su...»
«Mi piace camminare libero per strada» disse Jesper. «Mi piace non dovermi
preoccupare di essere rapito da uno schiavista o condannato a morte da qualche
stronzo come il nostro amico, qui, Helvar. E poi, ho altri talenti che mi danno
più piacere e benefici. Un sacco di altri talenti.»
Wylan tossì imbarazzato. Flirtare con il mercantuccio poteva essere più
divertente che importunarlo, ma era una scelta difficile.
«Nina lo sa che sei un Grisha?»
«No, e non deve saperlo. Non mi servono le sue prediche sul Secondo
Esercito e sulla gloriosa causa di Ravka.»
«Rifallo» lo interruppe Kaz. «E sbrigati.»
Jesper ripartì a sudare su un’altra sbarra.
«Se era questo il piano, perché cercare di introdurre di nascosto quei
grimaldelli?» chiese Wylan.
Kaz incrociò le braccia. «Mai sentito parlare del moribondo a cui il medico
disse che era miracolosamente guarito? Danzò per le strade e venne travolto e
ucciso da un cavallo. Devi lasciar credere al pollo di aver vinto. Le guardie
stavano scrutando Matthias e si stavano chiedendo se avesse un’aria familiare?
Stavano cercando rogne mentre Jesper entrava nelle docce con la paraffina che
gli si staccava dalle braccia? No, erano troppo occupati a congratularsi fra loro
per avermi colto sul fatto. Hanno pensato che la minaccia fosse stata
neutralizzata.»
Quando Jesper finì, Kaz prese i due aghi tra le dita. Era strano vederlo al
lavoro senza i guanti, ma in pochi istanti la serratura scattò e loro furono liberi.
Una volta fuori dalla cella, Kaz utilizzò i minuscoli grimaldelli per chiudere la
porta dietro di loro.
«Sapete quali sono i vostri compiti» sussurrò. «Io e Wylan andremo a liberare
Nina e Inej. Jesper, tu e Matthias...»
«Lo so, sgraffignamo tutta la corda che riusciamo a trovare.»
«Ci ritroviamo nel seminterrato al mezzo rintocco.»
Si divisero. Gli ingranaggi erano stati messi in moto.
Secondo le mappe di Wylan, le stalle confinavano con il cortile della
portineria, pertanto dovevano fare dietro front e attraversare l’area di detenzione
preventiva. In teoria, questa sezione del carcere era operativa solo quando i
prigionieri venivano giudicati e spediti dentro o fuori, ma era meglio stare attenti
comunque. Bastava una guardia imprevedibile a rovinare i loro piani. La cosa
più spaventosa era percorrere la passerella attraverso il recinto di vetro, un lungo
tratto illuminato che li esponeva totalmente alla vista. Non c’era altro da fare che
incrociare le dita e attraversarla di corsa. Quindi scesero giù per le scale e
girarono alla sinistra della stanza in cui la povera vecchia amplificatrice Grisha li
aveva esaminati. Jesper represse un brivido. Anche se nelle bische la paraffina
sulle braccia aveva sempre funzionato, il cuore aveva comunque preso a
martellargli in petto mentre le era di fronte. Era magra come una buccia e
altrettanto vuota. Ecco quello che accadeva ai Grisha che si trovavano nel posto
sbagliato al momento sbagliato: la condanna della schiavitù a vita o peggio
ancora.
Quando aprì spingendo la porta delle stalle, sentì che qualcosina dentro di lui si
rilassava. L’odore del fieno, gli animali che si muovevano nelle cabine, i nitriti
dei cavalli gli riportarono alla memoria Novyi Zem. A Ketterdam, i canali
rendevano superflua la maggior parte delle carrozze e dei carri. I cavalli erano un
lusso, un’esibizione per dimostrare che avevi lo spazio dove tenerli e il denaro
per occupartene. Non si era reso conto che essere circondato dagli animali gli
mancasse così tanto.
Ma non c’era tempo per la nostalgia o per fermarsi ad accarezzare un naso
vellutato. Camminò a grandi passi dietro le cabine ed entrò nella selleria.
Matthias si mise un enorme rotolo di funi su ogni spalla. E fece la faccia
sorpresa quando anche Jesper se ne caricò due.
«Sono cresciuto in un fattoria» spiegò lui.
«Non sembra.»
«Vero, sono smilzo» disse mentre tornavano indietro di corsa, «ma rimango
più asciutto quando piove.»
«Come?»
«Me ne cade di meno, addosso.»
«Tutti i collaboratori di Kaz sono strambi come questa squadra?» domandò
Matthias.
«Oh, dovresti conoscere il resto degli Scarti. In confronto, noi sembriamo dei
Fjerdiani.»
Passarono per le docce e, invece di continuare verso la sala d’attesa, scesero
lungo una stretta rampa di scale e percorsero il lungo atrio scuro che portava al
seminterrato. Ora erano sotto il carcere principale, sopra di loro avevano cinque
piani di celle, con tanto di detenuti e guardie.
Jesper si era aspettato di trovare il resto della banda nella grande sala della
lavanderia, già alle prese con la raccolta di materiali con cui fabbricare esplosivi.
Ma vide soltanto vasche giganti di stagno, lunghi tavoli per ripiegare i panni, e
vestiti lasciati ad asciugare durante la notte su rastrelliere più alte di lui.
Trovarono Wylan e Inej nella stanza dei rifiuti. Era più piccola della
lavanderia e puzzava di immondizia. Due grossi bidoni a rotelle pieni di vestiti
scartati erano appoggiati contro un muro, in attesa di essere bruciati. Non appena
entrarono, Jesper sentì il calore emanato dall’inceneritore.
«Abbiamo un problema» disse Wylan.
«Grosso quanto?» chiese Jesper, scaricando i rotoli di funi sul pavimento.
Inej indicò con un gesto un paio di enormi sportelli metallici inseriti in quello
che sembrava un camino gigante che sporgeva dal muro e arrivava fino al
soffitto. «Mi sa che questo pomeriggio metteranno in moto l’inceneritore.»
«Avevi detto che lo facevano funzionare di mattina» disse Jesper a Matthias.
«Così facevano.»
Quando Jesper afferrò le maniglie ricoperte di cuoio degli sportelli e le tirò
per aprire, fu colpito da un getto d’aria bollente, che portava con sé l’odore nero
e acre del carbone – e qualcos’altro, un sentore chimico, forse un additivo che
aggiungevano per far bruciare meglio i fuochi. Non era spiacevole. Questo era il
posto in cui il carcere si sbarazzava di tutti i rifiuti – avanzi di cucina, secchi
pieni di escrementi umani, i vestiti tolti ai prigionieri, ma quale che fosse la
sostanza che i Fjerdiani avevano aggiunto al carburante, non era potente
abbastanza da bruciare via ogni schifezza. Jesper si sporse e iniziò subito a
sudare. Molto più in basso vide le braci dell’inceneritore, coperte ma ancora vive
sotto la cenere, che pulsavano di adirati bagliori rossi.
«Wylan, prendimi una casacca da uno dei bidoni» disse Jesper.
Quindi strappò una manica e la buttò nel pozzo dell’inceneritore. Cadde senza
fare alcun rumore, prese fuoco a mezz’aria e incominciò a bruciare prima ancora
di avere la possibilità di raggiungere le braci.
Jesper chiuse gli sportelli e gettò quel che rimaneva della casacca nel bidone.
«Be’, il botto è escluso» disse. «Non possiamo portare lì dentro degli esplosivi.
Tu ce la fai ad arrampicarti?» domandò a Inej.
«Forse. Non lo so.»
«Cosa dice Kaz? Dov’è Kaz? E dov’è Nina?»
«Kaz non sa ancora dell’inceneritore» disse Inej. «Lui e Nina sono andati a
perlustrare le celle dei piani superiori.»
Lo sguardo torvo di Matthias diventò nero come un cielo carico di pioggia
pronto a squarciarsi. «Dovevamo andarci noi, io e Jesper, con Nina.»
«Kaz non ha voluto aspettare.»
«Eravamo in orario» disse Matthias con rabbia. «Che starà combinando?»
Jesper si stava chiedendo la stessa cosa. «Vuole zoppicare su e giù per tutte
quelle rampe di scale e schivare le guardie di ronda?»
«Ho tentato di farglielo presente» disse Inej. «Ma lui deve stupirci sempre,
ricordate?»
«Come un nido di api. Spero proprio che non stiamo tutti per essere punti.»
«Inej» chiamò Wylan da uno dei bidoni a rotelle. «Questi sono i nostri
vestiti.»
Allungò una mano dentro il bidone e, una dopo l’altra, tirò fuori le scarpette
di pelle di Inej.
Il viso di lei si aprì in un sorriso smagliante. Finalmente un pizzico di fortuna.
Kaz non aveva il suo bastone. Jesper non aveva le sue pistole. E Inej non aveva i
suoi pugnali. Ma almeno aveva quelle magiche scarpette.
«Cosa dici, Spettro? Ce la fai ad arrampicarti?»
«Ce la faccio.»
Jesper prese le scarpe da Wylan. «Se non pensassi che potrebbero essere
brulicanti di germi, le bacerei e poi bacerei te.»
24
NINA

Nina seguì Kaz su per le scale di pietra. Rampa dopo rampa, sotto la luce a gas
che sfarfallava. Lo guardò attentamente. Teneva un buon passo, ma l’andatura
era rigida. Perché aveva insistito per farla lui, questa scalata? Non poteva essere
una questione di tempo, per cui forse faceva parte del suo piano da sempre.
Forse aveva preferito tenere Matthias all’oscuro di qualche informazione.
Oppure desiderava proprio confonderli.
Si fermavano su ogni pianerottolo, ad ascoltare le guardie di ronda. Il carcere
era rumoroso, ed era dura non trasalire ogni volta: voci che rimbombavano nella
tromba delle scale, il clangore metallico delle porte che si aprivano e
chiudevano. Nina ripensò alla violenza dell’Anticamera dell’Inferno, alle
bustarelle che passavano di mano in mano, al sangue che macchiava la sabbia,
un mondo lontano anni luce da questo luogo sterile. Per tenere le cose in ordine
potevi senza dubbio contare sui Fjerdiani.
Mentre stavano arrivando al quarto piano, le scale si riempirono
all’improvviso di voci e passi di stivali. In fretta, Nina e Kaz arretrarono sul
pianerottolo del terzo piano e scivolarono tra le porte che conducevano alle celle.
In quella più vicina un detenuto si mise a urlare. Nina alzò velocemente una
mano e chiuse le sue vie aeree. Lui la fissò, strabuzzando gli occhi e
artigliandosi il collo. Lei gli rallentò il battito cardiaco fino a farlo svenire e
intanto mollò la presa sulla laringe, lasciandolo così tornare a respirare.
Dovevano zittirlo, non ucciderlo.
I rumori aumentarono mentre le guardie scendevano le scale e il Fjerdiano
parlato ad alta voce riverberava sui muri. Nina trattenne il respiro, gli occhi
puntati sulla porta e le mani pronte. Kaz non era armato, ma aveva assunto una
posizione da combattimento, in attesa che la porta si spalancasse. Invece le
guardie oltrepassarono il pianerottolo, dirette al piano di sotto.
Quando i rumori si affievolirono, Kaz fece segno a Nina e uscirono dalla
porta, chiudendola dietro di loro il più silenziosamente possibile, e ripresero a
salire.
Mentre raggiungevano l’ultimo piano suonarono i sette rintocchi. Era passata
un’ora da quando avevano messo fuori gioco i prigionieri nell’area di detenzione
preventiva. Avevano quarantacinque minuti per ispezionare le celle di massima
sicurezza, rincontrarsi sul pianerottolo e raggiungere il seminterrato. Kaz le fece
segno di prendere il corridoio sulla sinistra mentre lui percorreva quello a destra.
La porta cigolò forte quando Nina la aprì. Qui le lanterne erano molto
distanziate fra loro, e le ombre tra l’una e l’altra sembravano così profonde da
cascarci dentro.
Meno male, si disse, che era travestita da detenuta, ma non poteva negare di
essere angosciata. Anche le celle erano differenti, con solide porte d’acciaio
pieno al posto delle sbarre di ferro.
Ogni uscio aveva una grata per guardare dentro, all’altezza degli occhi. Be’,
all’altezza degli occhi per un Fjerdiano. Nina non era bassa, ma doveva
comunque sollevarsi sulle punte dei piedi per sbirciare dentro.
Per lo più i prigionieri dormivano o riposavano, rannicchiati negli angoli o
coricati sulla schiena con un braccio ripiegato sopra gli occhi per ripararsi dalla
luce della lampada che filtrava dalla grata.
Altri sedevano con la schiena appoggiata alle pareti, a guardare fiacchi nel
nulla. Ogni tanto Nina trovava qualcuno che camminava su e giù e doveva
allontanarsi in fretta. Nessuno di loro era Shu.
«Ajor?» la chiamò uno in Fjerdiano. Lei lo ignorò e andò avanti, con il cuore
che aveva mancato un battito.
E se Bo Yul-Bayur fosse stato veramente in quelle celle? Nina sapeva che era
improbabile, tuttavia... avrebbe potuto ucciderlo dentro la sua cella, farlo
scivolare in un sonno profondo e indolore e arrestargli semplicemente il cuore.
A Kaz avrebbe detto che non l’aveva trovato. E se fosse stato Kaz a scovare
Bo Yul-Bayur? Avrebbe dovuto attendere di ritrovarsi fuori dalla Corte di
Ghiaccio per risolvere il problema, ma in quel caso avrebbe perlomeno potuto
contare sull’aiuto di Matthias.
Che strano, macabro accordo avevano stipulato.
Mentre Nina si aggirava per i corridoi, la fievole speranza che lo scienziato
fosse lì si spense del tutto. “Un’altra fila di celle” pensò, “poi giù nel
seminterrato con niente in mano.” Se non che, quando entrò nell’ultimo
corridoio, notò che era più corto degli altri. Dove avrebbero dovuto esserci altre
celle c’era una porta d’acciaio, e una luce brillante filtrava da sotto.
Fu scossa da un’ondata di malessere mentre si avvicinava, ma si costrinse a
spingere la porta che non era chiusa a chiave. Dovette socchiudere gli occhi a
causa della luce. Una luce impietosa – chiara come quella del giorno ma senza
nessun calore – e Nina non riusciva a individuarne la fonte.
Sentì il fruscio della porta che si stava serrando dietro di lei. All’ultimo
momento si girò e l’afferrò per il bordo. Qualcosa le disse che per aprire quel
battente dall’interno sarebbe servita una chiave. Si guardò attorno alla ricerca di
qualcosa da usare per bloccare la porta e tenerla aperta, e dovette accontentarsi
di strappare un lembo dei suoi pantaloni da galeotta e infilarlo nel blocco della
serratura.
Questo posto sembrava tutto sbagliato. I muri, il pavimento e il soffitto erano
di un bianco così accecante che faceva male agli occhi. Metà di una parete era
fatta di pannelli di vetro liscio, perfetto. Opera dei Fabrikator. Proprio come il
recinto di vetro che circondava quell’ignobile esposizione di armi. Nessun
artigiano Fjerdiano sarebbe riuscito a realizzare superfici così pure.
C’erano Grisha tanto disonesti da non poter lavorare in nessun paese, e che
avrebbero preso in considerazione l’idea di farsi ingaggiare dal governo di
Fjerda. Ma sarebbero sopravvissuti a un simile incarico? Era più probabile che si
trattasse di un lavoro da schiavi.
Nina fece un passo avanti, poi un altro. Si voltò. Se una guardia fosse entrata
nel corridoio dietro di lei, non avrebbe potuto nascondersi da nessuna parte.
Quindi datti una mossa, Nina.
Sbirciò dentro la prima finestrella. La cella era bianca come l’atrio e
illuminata dalla stessa luce abbagliante. La stanza era deserta e priva di qualsiasi
arredamento: niente panca, niente bacinella, niente secchio. L’unica interruzione
in tutto quel candore era uno scarico proprio al centro del pavimento, circondato
da macchie rosse.
Nina passò alla cella successiva. Era identica e vuota come l’altra, e così
quella dopo, e quella dopo ancora. Ma qui qualcosa attirò la sua attenzione, una
moneta accanto allo scarico: no, non una moneta, un bottone. Un piccolo bottone
argentato decorato da un’ala, il simbolo dei Grisha Chiamatempeste. Sentì un
brivido strisciarle su per le braccia. Queste celle erano state realizzate dai Grisha
schiavi per i Grisha prigionieri? Il vetro, le pareti e il pavimento erano stati fatti
per resistere alla manipolazione dei Fabrikator? Le stanze erano sprovviste di
metallo. Non c’era un impianto idraulico, non c’erano tubi per trasportare
l’acqua che un Chiamatempeste avrebbe potuto usare. E Nina aveva il sospetto
che il vetro dentro il quale stava guardando fosse specchiato dall’altra parte, così
uno Spaccacuore recluso non sarebbe stato in grado di localizzare il suo
bersaglio. Queste celle erano state progettate per chiuderci dentro i Grisha.
Erano state progettate per chiuderla dentro.
Nina girò sui tacchi. Bo Yul-Bayur non c’era, e lei voleva essere fuori da lì
all’istante. Tolse il pezzo di stoffa dalla serratura e infilò la porta senza
nemmeno fermarsi a vedere se si chiudeva alle sue spalle. Il corridoio delle celle
in ferro era persino più buio dopo la luminosità da cui proveniva, e inciampò
mentre faceva di corsa la strada da cui era arrivata. Nina sapeva che si stava
comportando in modo incauto, ma non riusciva a scacciare dalla testa
l’immagine di quelle stanze bianche. Lo scarico. Le macchie attorno. Laggiù
erano stati torturati dei Grisha? Costretti a confessare i loro crimini contro le
persone?
Aveva studiato i Fjerdiani: i loro capi, la loro lingua. Aveva anche sognato di
penetrare nella Corte di Ghiaccio come una spia, proprio come in questo
momento, e di colpire il cuore di questa nazione che la odiava così tanto. Ma
adesso che era qui, voleva soltanto andarsene. Ormai si era ambientata a
Ketterdam, si era abituata ai contratti che le arrivavano grazie agli Scarti, alla sua
vita semplice, alla Rosa Bianca. Ma persino là, si era mai sentita al sicuro? In
una città dove non poteva camminare per strada senza avere paura? Voglio
andare a casa. La nostalgia la colpì forte, fu come un dolore fisico. Voglio
tornare a Ravka.
L’Orologio Maggiore iniziò a battere i tre quarti d’ora. Era in ritardo.
Ciononostante, si costrinse a rallentare prima di aprire la porta che dava sulle
scale. Non c’era nessuno, nemmeno Kaz. Sbirciò nel corridoio di fronte per
vedere se stava arrivando. Niente: porte in ferro, ombre profonde, nessun segno
di Kaz.
Nina aspettò, non sapendo cosa fare. Dovevano rivedersi sul pianerottolo
quindici minuti prima dello scoccare dell’ora. E se si fosse trovato in qualche
guaio? Esitò, poi si precipitò nella zona che toccava a Kaz perlustrare. Corse
oltre le celle, gli atrii che sfilavano avanti e indietro, ma Kaz non era da nessuna
parte.
Basta, pensò Nina quando arrivò alla fine del secondo corridoio. O Kaz
l’aveva mollata lì ed era già nel seminterrato con gli altri, o era stato catturato e
portato da qualche parte. In entrambi i casi, lei doveva andare all’inceneritore.
Dopo aver raggiunto gli altri, insieme a loro avrebbero capito cosa fare.
Tornò indietro di corsa attraversando un atrio dopo l’altro e aprì la porta
affacciata sul pianerottolo. Due guardie stavano chiacchierando in cima alle
scale. Per un momento, rimasero fermi a fissarla a bocca aperta.
«Sten!» urlò uno dei due in Fjerdiano, ordinandole di fermarsi mentre
rovistavano in cerca delle armi.
Nina sollevò entrambe le mani chiuse a pugno e osservò le guardie cadere
all’indietro. Una finì distesa sul pianerottolo, l’altra rotolò giù per i gradini e il
suo fucile fece fuoco, spedendo i proiettili contro le pareti di pietra e facendoli
tuonare nella tromba delle scale.
Kaz l’avrebbe uccisa. Lei avrebbe ucciso Kaz.
Nina sfrecciò oltre i corpi delle guardie e scese un piano, due piani. Sul
pianerottolo del terzo piano una porta si aprì e una guardia si affacciò sulla
rampa.
Nina ruotò le mani in aria e il collo della guardia si spezzò con un sonoro
crac. Prima che il corpo toccasse terra, lei si era gettata a capofitto giù per le
scale.
Fu allora che l’Orologio Maggiore prese a suonare. Non i costanti rintocchi
dell’ora, ma un rumore penetrante, forte e ripetitivo: una sirena d’allarme.
25
INEJ

Inej guardò in alto, dentro l’oscurità. Sopra di lei galleggiava un pezzettino del
grigio cielo serale. Sei piani da scalare al buio con le mani rese scivolose dal
sudore e le fiamme dell’inferno che bruciavano sotto, con la corda che la
appesantiva e nessuna rete di protezione ad accoglierla. Arrampicati, Inej.
Per arrampicarsi le mani nude erano la cosa migliore, ma le pareti
dell’inceneritore erano troppo calde e non lo consentivano. E così Wylan e
Jesper l’aiutarono a ripescare i guanti di Kaz dai bidoni della lavanderia. Lei
esitò per un istante. Kaz le avrebbe detto di infilarseli punto e basta, di fare tutto
quello che era necessario per portare a termine l’impresa. E tuttavia, si sentì
stranamente in colpa mentre faceva scivolare la morbida pelle nera sulle mani,
come se si fosse insinuata nelle sue stanze senza permesso, come se avesse letto
le sue lettere e si fosse infilata nel suo letto. I guanti erano sfoderati, e avevano
delle lamette sottilissime nascoste nelle punte delle dita. “Per i suoi giochi di
prestigio” si rese conto Inej, “per mantenere il contatto con le monete o con le
carte o per maneggiare con destrezza il meccanismo di una serratura. Toccare
senza toccare.”
Non c’era tempo di abituarsi alla sensazione di impaccio che le procuravano i
guanti. E poi si era arrampicata con le mani coperte un’infinità di volte, quando
gli inverni di Ketterdam le rendevano insensibili i polpastrelli. Contrasse le dita
dei piedi dentro le scarpette di pelle, godendosi la familiare sensazione di
indossarle, saltellando sulle suole di gomma, impavida e impaziente. Il calore
non era niente, solo un disagio. Il peso della corda avvolto attorno al corpo? Lei
era lo Spettro. Aveva sopportato di peggio. Si lanciò su per la canna fumaria
armata di autentica fiducia in se stessa.
Quando le dita toccarono la pietra, il fiato le uscì fuori in un sibilo. Persino
attraverso la pelle, avvertiva il forte calore dei mattoni. Senza guanti, la pelle le
si sarebbe immediatamente riempita di vesciche. Non c’era altro da fare che
resistere. Si arrampicò: una mano e poi un piede e poi ancora una mano,
cercando una fessura dietro l’altra, il buco nascosto dentro i muri ricoperti di
fuliggine.
Il sudore le colava giù per la schiena. Avevano inzuppato d’acqua sia la corda
che i vestiti, ma non sembrava fosse servito a granché. Si sentiva arrossata in
tutto il corpo, irrorata di sangue come se stesse cuocendo lentamente dentro la
propria pelle.
I piedi le pulsavano per il calore. Li percepiva pesanti, impacciati, come se
appartenessero a qualcun altro. Cercò di concentrarsi. Si fidava del proprio
corpo. Conosceva la propria forza e fin dove poteva spingersi. Sollevò un’altra
mano, costringendo le gambe a collaborare, cercando di darsi un ritmo, ma
trovando soltanto scomodi contrattempi che le lasciavano i muscoli tremanti a
ogni affondo verso l’alto. Allungò la mano verso la presa successiva, scavando
nel muro. Arrampicati, Inej.
Le scivolò un piede. Le dita persero il contatto con il muro e lo stomaco le
sobbalzò quando sentì lo strattone dato dal peso del proprio corpo e della corda.
Si aggrappò alla pietra, scavando con le mani nelle crepe, i guanti di Kaz che si
attorcigliavano attorno ai polpastrelli umidi. Le dita del piede cercarono di
nuovo un appiglio ma scivolarono sui mattoni. Poi anche l’altro piede cominciò
a slittare. Inej aspirò un alito di aria bollente. Qualcosa non andava. Si arrischiò
a guardare in basso. Giù in fondo rosseggiava il bagliore delle braci, ma fu
quello che vide sotto le caviglie che le fece partire il cuore al galoppo in preda al
panico. I piedi erano una melma gommosa. Le suole delle scarpette – le sue
perfette, adorate scarpette – si stavano sciogliendo.
“Va tutto bene” si disse. “Basta che cambi presa. Fai forza con le spalle. La
gomma si raffredderà a mano a mano che salirai. E ti aiuterà ad aderire meglio.”
Ma i piedi le sembravano in fiamme. E scoprire quello che stava succedendo in
qualche modo aveva peggiorato la situazione, come se la gomma le si stesse
fondendo con la carne.
Inej sbatté forte le palpebre per togliersi il sudore dagli occhi e si sollevò di
qualche altro centimetro. Dall’alto sentì arrivare il rintocco dell’Orologio
Maggiore. La mezz’ora? O un quarto all’ora? Doveva fare più in fretta. Avrebbe
già dovuto essere in cima, a legare la corda.
Si spinse più su e il piede le scivolò dal mattone. Tutto il corpo fremette
contro il muro mentre lei si dimenava per tenersi aggrappata. Non c’era niente a
salvarla. Nessun Kaz pronto ad arrivare in suo soccorso, nessuna rete a
interrompere la caduta nel vuoto, c’era soltanto il fuoco a reclamarla.
Inej piegò la testa indietro e cercò quel pezzettino di cielo. Sembrava ancora
inverosimilmente distante. Quant’era lontano? Venti piedi? Trenta? Avrebbero
potuto benissimo essere miglia. Sarebbe morta qui, sui carboni ardenti, in modo
lento e orribile. Sarebbero morti tutti – Kaz, Nina, Jesper, Matthias, Wylan – e
sarebbe stata colpa sua.
No. Non sarebbe stata colpa sua.
Si sollevò di un altro piede – è stato Kaz a portarci qui – e poi un altro. Si
obbligò a trovare la presa successiva. Kaz e la sua avidità. Lei non si sentiva
colpevole. Non era dispiaciuta. Era semplicemente arrabbiata. Arrabbiata con
Kaz per aver progettato questo colpo insensato, e furiosa con se stessa per aver
accettato.
E perché lo aveva fatto? Per ripagare il proprio debito? O perché contro ogni
buon senso e malgrado le migliori intenzioni, si era permessa di provare
qualcosa per il bastardo del Barile?

Quando Inej era entrata nel salotto di Tante Heleen quella notte di tanto tempo
fa, Kaz Brekker stava aspettando, vestito di grigio scurissimo, appoggiato alla
testa di corvo del suo bastone. Il salotto era color oro e verde acqua, e una parete
era interamente decorata con piume di pavone. Inej detestava ogni angolo del
Serraglio: il salone, dove lei e le altre ragazze erano costrette a provocare e a
sbattere le ciglia davanti ai potenziali clienti, la sua camera da letto, che era stata
arredata per sembrare la parodia di un carrozzone Suli, addobbata di seta viola e
profumata di incenso, ma più di tutto odiava il salotto di Tante Heleen. Era la
stanza dei pestaggi, quando Heleen montava su tutte le furie.
Inej aveva tentato di scappare appena giunta a Ketterdam. Era arrivata a due
isolati dal Serraglio, ancora avvolta nelle vesti di seta, stordita dalle luci e dalla
confusione dello Stave dell’Ovest, correndo senza una meta, prima che Cobbet
le serrasse una manona sulla nuca e la trascinasse indietro. Heleen l’aveva
portata nel salotto e l’aveva picchiata tanto forte che Inej non aveva potuto
lavorare per una settimana. Per tutto il mese a seguire Heleen l’aveva tenuta in
catene d’oro, non permettendole nemmeno di scendere nel salone. Quando le
aveva finalmente tolto i ceppi, le aveva detto: “Mi devi un mese di mancati
introiti. Scappa di nuovo, e ti sbatto all’Anticamera dell’Inferno per violazione
del contratto”.
Quella notte era entrata nel salone in compagnia del terrore, e quando aveva
visto Kaz Brekker il terrore era raddoppiato. Manisporche doveva aver detto a
Tante Heleen che Inej aveva parlato a sproposito, che aveva intenzione di creare
problemi.
Ma Heleen si era appoggiata allo schienale della sedia di velluto e aveva
detto: “Bene, piccola lince, sembra che adesso tu sia il problema di qualcun
altro. A quanto pare Per Haskell ha una predilezione per le ragazze Suli. Ha
acquistato il tuo contratto per una bella sommetta”.
Inej aveva deglutito. “Devo andare in un’altra casa?”
Heleen aveva fatto un gesto con la mano. “Haskell possiede una casa di piacere,
ammesso che si possa chiamare così, da qualche parte nel Barile più profondo,
ma lì saresti uno spreco di denaro, per quanto di certo almeno capiresti quanto
sia stata gentile con te Tante Heleen. No, Haskell ti vuole tutta per sé.”
Chi era Per Haskell? “Ha importanza?” aveva detto una voce dentro di lei. “È
un uomo che compra le donne. È tutto quello che ti serve sapere.”
L’angoscia di Inej doveva essere evidente perché Tante Heleen si era fatta
una risatina. “Non preoccuparti. È vecchio, disgustosamente vecchio, ma sembra
abbastanza innocuo. Ovviamente, non si può mai sapere.” Aveva alzato una
spalla. “Magari ti vuole spartire con il suo galoppino, il signor Brekker.”
Kaz aveva posato gli occhi gelidi su Tante Heleen. “Abbiamo finito?” Era la
prima volta che Inej lo sentiva parlare, e il timbro ruvido della sua voce l’aveva
colta di sorpresa.
Heleen aveva tirato su con il naso, aggiustandosi la scollatura dell’abito blu
scintillante. “Assolutamente, piccolo mascalzone.”
Aveva riscaldato una candelina di cera color blu pavone e l’aveva usata per
sigillare il documento davanti a lei. Poi si era alzata e aveva studiato il proprio
riflesso nello specchio appeso sopra la mensola del camino. Inej aveva guardato
Heleen raddrizzarsi il girocollo di diamanti e i gioielli scintillare. Nel frastuono
confuso che aveva in testa, aveva pensato: “Sembrano stelle rubate al cielo”.
“Addio, piccola lince” aveva detto Tante Heleen. “Dubito che durerai più di
un mese in quella zona del Barile.” Aveva guardato verso Kaz. “Non stupirti se
taglia la corda. È più veloce di quel che sembra. Ma forse Per Haskell si vorrà
gustare anche questo. Ci vediamo in giro.”
Era uscita dalla stanza in una nuvola di seta e profumo al miele, lasciando
nella propria scia una Inej inebetita.
Lentamente, Kaz aveva attraversato la sala e chiuso la porta. Inej si era
irrigidita in attesa di quello che sarebbe accaduto, le dita che si contorcevano
nelle vesti.
“Per Haskell è il capo degli Scarti” aveva detto Kaz. “Hai sentito parlare di
noi?”
“Sono la tua banda.”
“Sì, e Per Haskell è il mio capo. Anche il tuo, se vuoi.”
Lei aveva raccolto tutto il proprio coraggio e aveva detto: “E se non voglio?”.
“Io ritiro l’offerta e torno a casa facendo la figura dello zimbello. Tu stai qui
con quel mostro di Heleen.”
Inej si era portata le mani alla bocca. “Lei ci sente” aveva sussurrato,
terrorizzata.
“Lasciala ascoltare. Nel Barile ci sono mostri di ogni genere, e alcuni sono
davvero bellissimi. Io pago Heleen per avere delle informazioni. Anzi, la pago
sin troppo per le informazioni che mi dà. Ma so esattamente, lei, che cos’è. Ho
chiesto io a Per Haskell di comprare il tuo contratto. Sai perché?”
“Ti piacciono le ragazze Suli?”
“Non conosco abbastanza ragazze Suli per poterlo dire.” Era andato alla
scrivania, aveva preso il documento e se lo era infilato nella giacca. “L’altra
notte, quando mi hai parlato...”
“Non volevo offenderti, io...”
“Volevi offrirmi delle informazioni. Magari in cambio di aiuto? Una lettera ai
tuoi genitori? Una mancia extra?”
Inej si era fatta piccola piccola. Era esattamente quello che aveva sperato.
Aveva sentito per caso delle chiacchiere a proposito del commercio della seta e
aveva pensato di scambiarle con qualcosa. Era stata sciocca e sfacciata.
“Inej Ghafa è il tuo vero nome?”
Dalla gola di Inej era sfuggito uno strano suono, metà singhiozzo e metà
risata, un verso debole e imbarazzante, ma erano passati mesi dall’ultima volta
che aveva udito il proprio nome, e quello della propria famiglia. “Sì” era riuscita
a rispondere.
“È così che preferisci essere chiamata?”
“Certamente” disse lei, poi aveva aggiunto: “Kaz Brekker è il tuo vero
nome?”.
“Vero a sufficienza. La notte scorsa, quando ti sei avvicinata, io non avevo
idea che tu fossi accanto a me finché non hai aperto bocca.”
Inej aveva aggrottato la fronte. Aveva voluto essere silenziosa, e lo era stata.
Che importanza aveva?
“Hai dei campanelli sui fianchi” aveva detto Kaz, indicando il suo costume,
“eppure non ti ho sentita. Indossi vesti di seta viola e sfoggi dei disegni sulle
spalle, eppure non ti ho vista. E io vedo tutto.” Lei si era stretta nelle spalle e
aveva piegato la testa di lato. “Sei stata addestrata per fare la ballerina?”
“L’acrobata.” Si era interrotta. “La mia famiglia... siamo tutti acrobati.”
“Corda da funambolo?”
“E trapezio. Giochi di destrezza. Acrobazie.”
“Usavi la rete?”
“Solo quand’ero molto piccola.”
“Bene. Non ci sono reti a Ketterdam. Sei mai stata coinvolta in una rissa?”
Lei aveva fatto segno di no con la testa.
“Hai mai ucciso qualcuno?”
Spalancò gli occhi. “No.”
“Ci hai mai pensato?”
Lei aveva esitato e poi incrociato le braccia. “Ogni notte.”
“È un inizio.”
“Non voglio uccidere la gente, non per davvero.”
“Questa è un’ottima regola finché la gente non vuole uccidere te. E nel nostro
mestiere capita spesso.”
“Nel nostro mestiere?”
“Voglio che ti unisci agli Scarti.”
“Per fare cosa?”
“Raccogliere informazioni. Mi serve un ragno che si arrampichi per le pareti
delle case e delle ditte di Ketterdam, che ascolti alle finestre e attraverso le
gronde. Mi serve qualcuno che sappia essere invisibile, che possa diventare un
fantasma. Pensi di poterlo fare?”
“Sono già un fantasma” aveva pensato lei. “Sono morta nella stiva di una
nave schiavista.”
“Credo di sì.”
“Questa città è piena di uomini e donne con i soldi. Tu scoprirai le loro
abitudini, dove vanno e da dove vengono, le porcherie che fanno di notte, i
misfatti che cercano di coprire di giorno, la misura delle loro scarpe, la
combinazione delle loro casseforti, qual era il giocattolo che preferivano da
bambini. E io userò queste informazioni per portargli via il denaro.”
“Che cosa succede quando gli porti via il denaro e diventi tu quello ricco?”
Kaz aveva fatto una piccola smorfia divertita. “A quel punto puoi rubare
anche i miei, di segreti.”
“È per questo che mi hai comprata?”
Dalla faccia gli era sparita ogni traccia di umorismo. “Per Haskell non ti ha
comprata. Ha comprato il tuo contratto. Questo significa che gli devi dei soldi.
Un sacco di soldi. Ma è un vero contratto. Guarda qua” aveva detto, estraendo il
documento dalla giacca. “Voglio che tu veda una cosa.”
“Io non leggo il Kerch.”
“Non importa. Li vedi questi numeri? Questo è il prezzo che Heleen sostiene
di averti prestato per farti arrivare da Ravka. Questo è il denaro che hai
guadagnato alle sue dipendenze. E questa è la cifra che ancora le devi.”
“Ma... ma non è possibile. È più alta adesso di quando sono arrivata.”
“Corretto. Heleen ti ha messo in conto il vitto, l’alloggio e le pulizie.”
“Mi ha comprata” aveva detto Inej, e la rabbia le era montata per se stessa.
“Non sapevo nemmeno cosa stavo firmando.”
“La schiavitù è illegale a Kerch. I contratti, no. Io lo so che questo documento
è una farsa e anche qualunque giudice ragionevole lo sa. Sfortunatamente,
Heleen ha molti giudici ragionevoli in tasca. Per Haskell ti sta facendo un
prestito: niente di più, niente di meno. Il documento sarà redatto in Ravkiano.
Pagherai gli interessi, ma questo non ti ucciderà. E finché gli darai una
percentuale sicura ogni mese, sarai libera di andare e venire come ti pare.”
Inej aveva scosso la testa. Niente di tutto questo le sembrava plausibile.
“Inej, sarò molto chiaro con te. Se non rispetti le condizioni, Haskell manderà
delle persone a cercarti, persone al cui confronto Tante Heleen sembrerà una
nonna eccessivamente affettuosa. E io non lo fermerò. Sto rischiando il mio
collo per questo piccolo accordo. Non è una situazione piacevole.”
“Se è tutto vero” aveva detto Inej lentamente, “allora sono libera di dire di
no.”
“Ovviamente. Ma sei chiaramente pericolosa” aveva detto lui. “E preferirei
che non diventassi pericolosa per me.”
Pericolosa.
Inej voleva abbracciarsi stretta a quella parola.
Era quasi del tutto certa che quel ragazzo fosse matto o semplicemente un
povero illuso senza speranza, ma le piaceva quella parola e, a meno che non
avesse frainteso, lui le stava offrendo la possibilità di andarsene dal Serraglio
quella notte stessa.
“Non è... non è un trucco, vero?” La voce di Inej era più flebile di quel che
volesse.
L’ombra di qualcosa di oscuro era passata sul viso di Kaz. “Se fosse un trucco
ti prometterei sicurezza. Ti offrirei felicità. Non so se queste cose esistano nel
Barile, ma con me non le avrai.”
Per qualche motivo, quella risposta l’aveva rassicurata. Meglio brutte verità
che belle bugie.
“D’accordo” aveva detto Inej. “Da dove si comincia?”
“Cominciamo con l’uscire da qui e cercarti dei vestiti adatti. Ah, Inej” aveva
detto lui mentre la guidava fuori dal salone, “non avvicinarti a me così di
soppiatto mai più.”

A dir la verità, da allora Inej aveva provato ad avvicinarsi di soppiatto a Kaz


un’infinità di volte. Non ci era mai riuscita. Era come se lui, dopo averla vista la
prima volta, avesse capito come continuare a vederla.
Quella notte si era fidata di Kaz Brekker. Ed era diventata la ragazza
pericolosa che lui aveva scovato acquattata dentro di lei. Però aveva fatto
l’errore di continuare a fidarsi di lui, di credere nella leggenda che si era
costruito attorno. Quel mito l’aveva condotta qui in questa oscurità soffocante, in
equilibrio tra la vita e la morte come l’ultima foglia attaccata a un ramo
d’autunno. Alla fine, Kaz Brekker era solamente un ragazzo, e lei gli aveva
permesso di consegnarla a questo destino.
Non poteva nemmeno biasimarlo. Era stata lei a permetterglielo dal momento
che non sapeva dove voleva andare. Il cuore è una freccia. Quattro milioni di
kruge, la libertà, la possibilità di tornare a casa. Si era detta che voleva queste
cose. Ma nel cuore non poteva sopportare il pensiero di tornare dai suoi genitori.
Sarebbe riuscita a dire la verità a sua madre e a suo padre? Avrebbero capito
tutto quello che aveva fatto per sopravvivere, non solo al Serraglio, ma ogni
singolo giorno da allora? Lei sarebbe riuscita ad appoggiare il capo nel grembo
di sua madre ed essere perdonata? Loro cosa avrebbero visto guardandola?
Arrampicati, Inej. Ma per andare dove? Quale vita l’avrebbe attesa dopo tutta
quella sofferenza? La schiena le faceva male. Le mani sanguinavano. I muscoli
delle gambe erano scossi da tremori invisibili, e la pelle sembrava fosse pronta a
staccarsi dal corpo.
Ogni respiro di quell’aria nera le bruciava i polmoni. Non riusciva a respirare
profondamente. Non riusciva nemmeno a focalizzarsi sul quel pezzettino grigio
di cielo. Il sudore continuava a gocciolarle giù dalla fronte e a pungerle gli occhi.
Se si fosse arresa, avrebbe perso per tutti loro: Jesper e Wylan, Nina e il suo
Fjerdiano, Kaz. Non poteva farlo.
“Non dipenderà da te ancora per molto, piccola lince” le canticchiò dentro la
testa la voce di Tante Heleen. “Da quanto tempo sei attaccata al nulla?”
Il calore dell’inceneritore avvolgeva Inej come una cosa viva, come una
lucertola del deserto nella propria tana, nascosta dal ghiaccio, che l’aspettava.
Conosceva i propri limiti e sapeva che non poteva chiedere di più al proprio
corpo. Aveva fatto una scommessa sbagliata. Era così, semplice. La foglia
d’autunno poteva anche stare attaccata al ramo, ma era comunque già morta.
L’unica domanda era quando sarebbe caduta.
Lasciati andare, Inej. Suo padre le aveva insegnato ad arrampicarsi, ad
affidarsi alla corda, a oscillare, e alla fine a confidare nella propria abilità, a
credere che se si fosse lanciata sarebbe arrivata dall’altra parte. Ci sarebbe stato
lui ad aspettarla? Pensò ai propri pugnali, nascosti a bordo della Ferolind: forse
sarebbero andati a qualche altra ragazza che sognava di essere pericolosa.
Bisbigliò i loro nomi: Petyr, Marya, Anastasia, Vladimir, Lizabeta, Sankta Alina,
morta martire prima di compiere diciotto anni. Lasciati andare, Inej. Doveva
saltare o semplicemente aspettare che il proprio corpo cedesse?
Si sentì le guance umide. Stava piangendo? Adesso? Dopo tutto quello che
aveva fatto e che le avevano fatto?
Poi lo udì, un leggero picchiettio, un dolce tamburellare che non aveva un
vero ritmo. Lo percepì sulle guance e su tutto il viso. Lo sentì sibilare nel
momento in cui colpì le braci ardenti sotto di lei.
Pioggia. Fresca e clemente. Inej reclinò la testa all’indietro. Da qualche parte
udì le campane battere i tre quarti d’ora, ma non le importò. Sentiva solo la
musica della pioggia che lavava via il sudore e la fuliggine, il fumo di carbone di
Ketterdam, la facciata dipinta del Serraglio, che bagnava i filamenti di juta della
corda e induriva le suole di gomma sotto i suoi piedi sofferenti. Sembrava una
benedizione, anche se Kaz l’avrebbe solo chiamata stagione.
Adesso doveva darsi una mossa, prima che le pietre diventassero scivolose e
la pioggia si trasformasse in un nemico. Costrinse i muscoli a flettersi, le dita a
cercare, e si sollevò su un piede, poi sull’altro, e poi di nuovo ancora e ancora,
sussurrando parole di gratitudine ai propri Santi. Eccolo, il ritmo che le era
venuto a mancare prima, sepolto nella litania dei loro nomi.
Ma anche mentre rendeva grazie, sapeva che la pioggia non era abbastanza.
Voleva una tempesta – tuoni, vento, un diluvio. Voleva che si schiantasse sui
bordelli di Ketterdam, sollevando tetti e sradicando porte dai cardini. Voleva che
alzasse i mari, che si impossessasse di ogni nave schiavista, che facesse a pezzi i
loro alberi e mandasse i loro scafi a schiantarsi sugli scogli più spietati.
“Voglio evocare quella tempesta” pensò. E quattro milioni di kruge potevano
essere abbastanza. Abbastanza per avere una propria nave, piccola e feroce e
pesantemente armata. Come lei. Avrebbe dato la caccia agli schiavisti e ai loro
acquirenti. Avrebbero imparato a temerla, e avrebbero conosciuto il suo nome. Il
cuore è una freccia. Richiede un obiettivo da centrare con precisione. Si
aggrappò al muro, ma alla fine, quello che Inej afferrò e che la portò in alto, fu
uno scopo.
Lei non era una lince o un ragno e nemmeno lo Spettro. Lei era Inej Ghafa, e
il futuro la stava aspettando lassù.
26
KAZ

Kaz passò di corsa davanti alle celle più in alto, dedicando giusto qualche istante
per dare un’occhiata veloce dentro ogni grata. Bo Yul-Bayur non era qui. E lui
non aveva molto tempo.
Una parte di lui si sentiva fuori asse. Non aveva il bastone. Era a piedi nudi.
Indossava vestiti strani, le sue mani erano pallide e senza guanti. Non si sentiva
del tutto se stesso. No, non era proprio vero. Si sentiva lo stesso Kaz delle
settimane successive alla morte di Jordie, un animale selvaggio che lottava per
sopravvivere. Avvistò un detenuto Shu in una cella.
«Sesh-uyeh» sussurrò. Ma se l’uomo riconobbe la parola d’ordine, non lo
diede a vedere. «Yul-Bayur?» Niente. L’uomo iniziò a urlare contro di lui in
Shu, e Kaz si affrettò a raggiungere le celle che restavano, poi uscì di soppiatto
sul pianerottolo e si fiondò al piano di sotto più veloce che riuscì. Sapeva che si
stava comportando in modo incosciente ed egoista, ma non era per quello che lo
chiamavano Manisporche? Nessun colpo era troppo rischioso. Nessuna azione
troppo spregevole. Per Manisporche l’unica cosa che contava era portare a
termine il lavoro sporco. Non sapeva bene cosa lo guidasse. Pekka Rollins
poteva non essere qui. Poteva essere morto. Ma lui non ci credeva. Lo saprei. In
qualche modo lo saprei. «La tua morte è mia» sussurrò.

Il ritorno a nuoto dalla Chiatta del Mietitore aveva coinciso con la sua rinascita.
Il bambino che era stato era morto di febbre bubbonica.
La malattia aveva bruciato via ogni gentilezza che albergava in lui.
Sopravvivere non era stato difficile come aveva pensato, una volta lasciatasi alle
spalle qualsiasi decenza. Come prima cosa, bisognava trovare qualcuno più
piccolo e più debole e portargli via quello che aveva. Tuttavia – piccolo e debole
com’era lui –non era un compito facile. Si trascinò lontano dal porto, tenendosi
nei vicoli, dirigendosi verso il quartiere dove avevano abitato gli Hertzoon.
Quando vide un negozio di dolciumi aspettò fuori, quindi abbordò uno scolaretto
paffuto lasciato indietro dagli amici. Lo buttò a terra, gli svuotò le tasche e gli
prese il sacchetto di liquirizie.
“Dammi i pantaloni” gli aveva detto.
“Sono troppo larghi per te” aveva detto tra le lacrime il ragazzino.
Kaz lo morse. Il ragazzino mollò i pantaloni. Lui li arrotolò fino a farne una
palla che gettò nel canale, poi corse via alla velocità che le stanche gambe gli
consentirono. Lui non voleva i pantaloni; voleva solo che il ragazzino aspettasse
prima di andare, piangendo, a chiedere aiuto. Sapeva che lo scolaretto si sarebbe
rannicchiato in quel vicoletto a lungo, a soppesare la vergogna di essere per
strada mezzo nudo e il bisogno di tornare a casa e raccontare cos’era successo.
Smise di correre quando arrivò nel vicolo più buio che c’era nel Barile. Si
ficcò la liquirizia in bocca tutta in una volta, la ingoiò e subito dopo la vomitò.
Prese il denaro e si comprò un filone di pane bianco. Era scalzo e sudicio. Il
fornaio gliene diede due solo per farlo stare alla larga.
Quando si sentì un po’ più in forze e un po’ meno traballante, si incamminò
verso lo Stave dell’Est. Si imbatté nella bisca più squallida, senza insegna e con
un solo scagnozzo di guardia all’entrata.
“Voglio un lavoro” aveva detto davanti alla porta.
“Non ce n’è, scemo.”
“Sono bravo con i numeri.”
L’uomo era scoppiato a ridere. “Sai svuotare un pitale?”
“Sì.”
“Be’, peccato. Abbiamo già un ragazzo che svuota i pitali.”
Kaz aspettò tutta la notte finché vide un ragazzo più o meno della sua età
lasciare l’edificio. Lo seguì per due isolati e lo colpì alla testa con una pietra. Si
sedette sulle gambe del ragazzo e gli tolse le scarpe; poi gli tagliò le piante dei
piedi con un coccio di bottiglia. Il ragazzo sarebbe guarito, ma non avrebbe
lavorato da lì a breve. Toccare la pelle nuda delle sue caviglie lo aveva riempito
di disgusto. Continuava a vedere i corpi bianchi della Chiatta del Mietitore e a
sentire la pelle gonfia e flaccida di Jordie sotto le mani.
La sera dopo tornò alla bisca.
“Voglio un lavoro” aveva detto. E ne ebbe uno.
Da lì in poi aveva lavorato e risparmiato. Aveva seguito le orme dei ladri
professionisti del Barile e imparato come svuotare le tasche degli uomini e
sfilare le borse delle donne. Finì in galera una prima volta, e poi una seconda. Si
guadagnò in fretta la reputazione di quello disposto ad accettare ogni genere di
lavoro, e il nome Manisporche arrivò in breve tempo. Era un combattente
inesperto ma tenace.
“Non hai nessuna eleganza” gli aveva detto una volta uno scommettitore alla
Giarrettiera d’Argento. “Nessuna tecnica.”
“Certo che ce l’ho” aveva risposto Kaz. “Pratico l’arte del ‘coprigli la testa
con la camicia e prendila a pugni finché non vedi il sangue’.”
Si faceva ancora chiamare Kaz, come aveva sempre fatto, ma rubò il
cognome Brekker a un macchinario che aveva visto sul molo. Rietveld, il
cognome di suo padre, fu abbandonato, amputato come un arto in cancrena. Era
un cognome di campagna, il suo ultimo legame con Jordie e con i genitori e con
il ragazzo che era stato. Ma non voleva che Jacob Hertzoon lo vedesse arrivare.
Aveva scoperto che la truffa tramite cui Hertzoon aveva raggirato lui e Jordie
era una delle più comuni. La caffetteria e la casa sulla Zelverstraat erano state
niente più che delle scenografie, utili per derubare i gonzi di campagna. Filip con
i suoi cagnolini meccanici aveva fatto da adescatore, e aveva tirato dentro Jordie,
mentre Margit, Saskia e gli addetti all’ufficio del cambio avevano tutti fatto da
esche nell’imbroglio.
Era coinvolto anche un impiegato della banca, che passava informazioni a
Hertzoon sui clienti e gli faceva avere delle soffiate sui nuovi arrivati dalla
campagna che aprivano un conto corrente. Probabilmente Hertzoon aveva
truffato più persone tutte in una volta. Il piccolo patrimonio di Jordie, da solo,
non bastava a giustificare un’organizzazione simile.
Ma la scoperta più crudele fu il talento che possedeva per le carte. Avrebbe
potuto rendere ricchi lui e Jordie. Dopo aver imparato un trucco, a Kaz
bastavano poche ore per diventarne esperto e da lì in poi era semplicemente
imbattibile. Era in grado di tenere a mente ogni mano giocata, ogni scommessa
fatta. Riusciva a seguire le mosse di cinque mazzi di carte insieme. E se c’era
qualcosa che non riusciva a ricordare, compensava con l’inganno. Non aveva
mai perso la passione per i giochi di prestigio, e dalle monete che gli sparivano
di mano passò a carte, bicchieri, portafogli e orologi. Un bravo mago non era
molto diverso da un bravo ladro. In poco tempo fu bandito dai tavoli di ogni
bisca dello Stave dell’Est.
Dovunque andasse, in ogni bar, infima locanda, bordello e casa occupata, Kaz
chiedeva di Jacob Hertzoon, ma se qualcuno riconosceva quel nome faceva finta
di niente.
Poi, un giorno, Kaz stava attraversando un ponte sopra lo Stave dell’Est
quando vide un uomo dalle guance floride e le basette folte entrare in un negozio
di liquori. Non indossava più il severo abito scuro da mercante, ma degli
sgargianti pantaloni a strisce e un panciotto rosso a ghirigori. La giacca di
velluto era verde bottiglia.
Kaz si fece largo tra la folla, la mente in subbuglio, il cuore che galoppava,
incerto su cosa intendesse fare, ma sulla porta del negozio un gigante con una
bombetta in testa lo aveva fermato con la sua manona.
“Il negozio è chiuso.”
“A me sembra aperto.” La voce di Kaz era suonata strana – stridula, insolita.
“Devi attendere.”
“Devo vedere Jacob Hertzoon.”
“Chi?”
Kaz stava uscendo di testa. Aveva indicato dentro la vetrina. “Il fottuto Jacob
Hertzoon. Voglio parlargli.”
Il gigante aveva guardato Kaz come si guarda un demente. “Schiarisciti le
idee, figliolo” gli aveva detto. “Quello non è Hertzoon. Quello è Pekka Rollins.
Se vuoi combinare qualcosa nel Barile, sarà meglio che impari il suo nome.”
Kaz conosceva il nome di Pekka Rollins. Tutti lo conoscevano. Solo, lui non
aveva mai visto che faccia avesse.
In quel momento, Rollins si voltò verso la vetrina. Kaz aspettò di veder
apparire un cenno di riconoscimento: una smorfia, un sogghigno, un lampo di
consapevolezza. Ma lo sguardo di Rollins gli passò sopra. L’ennesimo pollo da
spennare. L’ennesima spunta da mettere. Perché avrebbe dovuto ricordarsi di
lui?
Kaz era stato corteggiato da qualunque banda a cui piaceva il suo modo di
fare a pugni e di giocare con le carte. Lui aveva sempre detto di no. Era venuto
nel Barile per cercare Hertzoon e punirlo, non per unirsi a qualche famiglia di
ripiego. Ma apprendere che il suo vero bersaglio era Pekka Rollins cambiò tutto.
Quella notte, giacque sveglio sul pavimento della casa abbandonata in cui si era
rifugiato e pensò a cosa volesse fare, a cosa avrebbe reso giustizia a Jordie.
Pekka Rollins gli aveva tolto tutto. Se Kaz intendeva rendere lo stesso a Rollins,
avrebbe dovuto diventare uguale a lui e poi migliore di lui, e non avrebbe potuto
farlo da solo. Gli serviva una banda, e non una banda qualsiasi, una che aveva
bisogno di lui. Il giorno dopo era entrato alla Stecca e aveva chiesto a Per
Haskell se avesse bisogno di un altro scagnozzo. Tuttavia lo aveva saputo sin da
allora: avrebbe iniziato da soldato semplice, ma gli Scarti sarebbero diventati il
suo esercito.

Tutti quei passi l’avevano condotto qui stasera? A questi corridoi bui? Non era
esattamente la vendetta che aveva sognato.
Le file di celle andavano avanti e avanti, all’infinito. Non c’era speranza di
trovare Rollins in tempo. Ma fu impossibile soltanto finché non lo fu più, finché
Kaz non avvistò quella figura robusta, quella faccia rubiconda attraverso la grata
di una porta di ferro. Fu impossibile soltanto fino a quando si trovò di fronte alla
cella di Pekka Rollins.
Era su un fianco, e dormiva. Qualcuno lo aveva pestato ben bene. Kaz
osservò il suo petto andare su e giù.
Quante volte aveva visto Pekka da quella prima occhiata di sfuggita nel
negozio di liquori? Mai c’era stato un barlume di riconoscimento. Non era più un
ragazzo; non c’era motivo per cui Pekka individuasse nei suoi lineamenti il
bambino che aveva frodato. Ma questo lo rendeva furibondo tutte le volte che le
loro strade si erano incrociate. Non era giusto. La faccia di Pekka – la faccia di
Hertzoon – era indelebile nella mente di Kaz, come incisa da una lama
dentellata.
Esitò, il peso delicato dei piccoli grimaldelli come un insetto cullato nel
palmo della mano. Non era quello che voleva? Vedere Pekka detronizzato,
umiliato, infelice e senza speranza, mentre i migliori della sua banda erano morti
sulle picche. Forse poteva essere abbastanza. Forse tutto quello che gli serviva
ora era che Pekka sapesse esattamente chi era lui, e che cosa aveva fatto.
Avrebbe potuto inscenare da solo un piccolo processo, emettere una sentenza e
infliggere anche la punizione.
L’Orologio Maggiore cominciò a suonare i tre quarti d’ora. Doveva andare.
Non gli era rimasto molto tempo per arrivare al seminterrato. Nina lo stava
aspettando. Tutti lo stavano aspettando.
Ma lui ne aveva bisogno. Aveva combattuto per questo. Non nel modo in cui
se l’era immaginato, ma forse non faceva differenza. Se Pekka Rollins fosse
stato ucciso da qualche anonimo carnefice Fjerdiano, allora niente di tutto questo
avrebbe più avuto importanza. Kaz avrebbe avuto quattro milioni di kruge, ma
Jordie non avrebbe mai avuto la sua vendetta.
La serratura della porta cedette facilmente sotto i ferri di Kaz.
Pekka aprì gli occhi e sorrise. Non stava affatto dormendo.
«Ciao, Brekker» disse Rollins. «Sei venuto a gongolare?»
«Non esattamente» rispose Kaz.
E lasciò che la porta si chiudesse dietro di lui.
PARTE QUINTA
IL GHIACCIO NON PERDONA
27
JESPER

Otto rintocchi
Dove diavolo è Kaz? Jesper saltellò da un piede all’altro davanti all’inceneritore,
mentre l’ottuso fragore delle campane d’allarme gli riempiva le orecchie e gli
sbatacchiava i pensieri. Protocollo Giallo? Protocollo Rosso? Non riusciva a
ricordare quale fosse. Tutto il loro piano si basava sul presupposto di non sentire
mai la sirena di un allarme.
Inej aveva legato il capo di una fune al tetto e aveva lanciato giù l’altra
estremità perché loro si arrampicassero. Jesper aveva spedito su Wylan e
Matthias insieme al resto della corda, un paio di cesoie che aveva trovato in
lavanderia e un rozzo rampino che aveva fabbricato a partire dalle stecche di
metallo di un’asse da bucato. Poi aveva ripulito il pavimento della stanza dei
rifiuti dagli schizzi di pioggia e umidità, e si era accertato che non ci fossero
segni della loro presenza. Non era rimasto nient’altro da fare a parte aspettare – e
lasciarsi prendere dal panico quando l’allarme attaccò a suonare.
Sentì delle persone gridare, e ci fu una raffica di passi di stivale dall’altra
parte del soffitto. In ogni istante, qualche guardia particolarmente sagace
avrebbe potuto avventurarsi di sotto per dare un’occhiata al seminterrato. Se lo
avessero trovato accanto all’inceneritore, la via di fuga per il tetto sarebbe
risultata ovvia. Sarebbe stato incriminante non solo per se stesso ma anche per
gli altri.
Avanti, Kaz. Sto aspettando te. Tutti lo stavano aspettando. Nina era arrivata
fiondandosi dentro la stanza solo pochi minuti prima, a corto di fiato.
“Vai!” aveva strillato. “Che cosa stai aspettando?”
Ma quando lui le aveva chiesto dove fosse Kaz, il viso di Nina si era
accartocciato.
“Speravo fosse con voi.”
Si era dileguata su per la fune, grugnendo per lo sforzo, lasciandolo in piedi lì
sotto, immobilizzato dall’indecisione. Le guardie avevano catturato Kaz? Era da
qualche parte, nel carcere, a lottare per la propria vita?
Lui è Kaz Brekker. Anche se l’avessero rinchiuso, sarebbe stato in grado di
evadere da qualunque cella e liberarsi da qualunque paio di manette. Jesper
avrebbe potuto lasciargli della fune, e pregare che la pioggia e l’inceneritore che
si andava raffreddando bastassero a impedire che l’estremità prendesse fuoco.
Ma se fosse rimasto lì fermo come uno scemo, avrebbe tradito la loro via di fuga
e avrebbero fatto tutti una triste fine. Non c’era altro da fare che arrampicarsi.
Agguantò la fune proprio mentre Kaz sfrecciava attraverso la porta. La sua
casacca era coperta di sangue, i suoi capelli neri un disastro.
«Sbrigati» disse senza preamboli.
Mille domande gli si affollarono in testa, ma non si fermò a porle. Si dondolò
sopra le braci e iniziò ad arrampicarsi. Da sopra, la pioggia stava ancora
scendendo con un leggero picchiettio e sentì la fune vibrare quando Kaz
l’afferrò. Non appena guardò giù, lo vide tenersi forte per chiudere le porte
dell’inceneritore dietro di loro.
Mise una mano sopra l’altra, spingendosi nodo dopo nodo, con le braccia che
cominciavano già a fargli male, la corda che gli lacerava i palmi, appoggiando i
piedi contro il muro dell’inceneritore quando ne aveva bisogno, per poi balzare
indietro per via del calore dei mattoni. Come aveva fatto Inej ad affrontare
questa scalata senza niente a cui sostenersi?
Lassù in alto, le campane d’allarme dell’Orologio Maggiore sferragliavano
ancora come un cassetto pieno di pentole su tutte le furie. Che cos’era andato
storto? Perché Kaz e Nina si erano divisi? E come avrebbero fatto a cavarsi fuori
da questa situazione?
Jesper scosse la testa e cercò di scrollar via le gocce di pioggia dagli occhi,
con i muscoli della schiena che urlavano mentre saliva sempre più in alto.
«Siano ringraziati i Santi» rantolò quando Matthias e Wylan lo afferrarono
per le spalle e lo trascinarono su per l’ultimo breve tratto. Ruzzolò oltre il bordo
del comignolo e finì sul tetto, fradicio e tremante come un micetto mezzo
annegato. «Kaz sta salendo.»
Matthias e Wylan presero la corda per tirarlo su. Jesper non era certo che
Wylan fosse veramente d’aiuto, ma stava di sicuro dandosi un gran da fare.
Trascinarono Kaz fuori dalla tromba dell’inceneritore. Lui cadde di peso sulla
schiena, ansimando per la mancanza d’aria. «Dov’è Inej?» disse con il fiato
corto. «Dov’è Nina?»
«Sono già sul tetto dell’ambasciata» rispose Matthias.
«Lasciate questa fune e prendete le altre» disse Kaz. «Muoviamoci.»
Matthias e Wylan gettarono in un cumulo di sporcizia la corda usata per
arrampicarsi nell’inceneritore e agguantarono due rotoli di fune puliti. Jesper ne
prese un terzo e si sforzò di mettersi in piedi. Seguì Kaz sul bordo del tetto dove
Inej aveva attaccato una fune che scorreva dalla cima della prigione alla cima
dell’ambasciata più sotto. Qualcuno aveva montato un’imbracatura per quelli
che, sprovvisti del dono speciale dello Spettro, non potevano farsi beffe della
gravità.
«Siano ringraziati i Santi, Djel e tua zia Eva» disse Jesper con gratitudine, e
scivolò giù lungo la fune seguito dagli altri.
Il tetto dell’ambasciata era incurvato, probabilmente per far andare giù la
neve, ed era un po’ come camminare sulla schiena gobba di un’enorme balena.
Era anche decisamente più... permeabile del tetto della prigione. Era punteggiato
da molteplici punti d’ingresso: ventole, comignoli, lucernari di vetro a forma di
cupola. Nina e Inej si erano rannicchiate alla base della cupola più grande, un
lucernario filigranato che dava sull’ingresso rotondo dell’ambasciata. Non
offriva molto riparo dalla pioggia che andava diminuendo, ma se qualche
guardia sulle mura avesse spostato l’attenzione dalla strada d’ingresso al tetto
della Corte, loro non sarebbero state viste.
Nina aveva i piedi di Inej in grembo.
«Non riesco a toglierle tutta la gomma dai talloni» disse quando li vide
avvicinarsi.
«Aiutala» disse Kaz.
«Io?» replicò Jesper. «Non stai dicendo...»
«Fallo.»
Jesper avanzò lentamente sul lucernario per dare un’occhiata da vicino ai
piedi pieni di vesciche di Inej, ben consapevole che Kaz stava seguendo i suoi
movimenti. La reazione di lui, l’ultima volta che Inej era stata ferita, era stata
decisamente inquietante, ma queste piaghe non erano neanche vagamente
paragonabili a una pugnalata – e stavolta Kaz non aveva le Punte Nere da
incolpare. Jesper si concentrò sui frammenti di gomma per estrarli dalla pelle di
Inej nello stesso modo in cui aveva estratto il ferro dalle sbarre della prigione.
Inej conosceva il suo segreto, ma Nina lo stava guardando a bocca aperta.
«Sei un Fabrikator?»
«Mi crederesti se ti rispondessi di no?»
«Perché non me l’hai mai detto?»
«L’hai mai chiesto?» domandò lui con scarsa convinzione.
«Jesper...»
«Lascia perdere.» Nina serrò le labbra, ma lui sapeva che questa non sarebbe
stata l’ultima volta che ne avrebbero parlato. Si rifocalizzò sui piedi di Inej.
«Santi numi» disse.
Inej fece una smorfia. «Sono messi così male?»
«No, sono solo veramente brutti.»
«Però ti hanno portato su questo tetto.»
«Ma siamo bloccati qui?» chiese Nina. L’Orologio Maggiore smise di
suonare, e nel silenzio che seguì Jesper chiuse gli occhi per il sollievo. «Era
ora.»
«Cos’è successo alla prigione?» domandò Wylan, la cui voce era tornata a
scricchiolare per la paura. «Che cosa ha innescato l’allarme?»
«Mi sono imbattuta in due guardie» disse Nina.
Jesper sollevò lo sguardo da quello che stava facendo. «E non le hai stese?»
«Sì. Ma una delle due ha fatto partire qualche colpo. Un’altra è arrivata di
corsa. E in quel momento le campane hanno cominciato a suonare.»
«Dannazione. Quindi è stato quello a far partire l’allarme?»
«Forse» disse Nina. «Tu dov’eri, Kaz? Io non sarei stata ancora sulle scale se
non avessi dovuto perder tempo a cercarti. Perché non c’eri sul pianerottolo?»
Kaz stava guardando giù attraverso il vetro della cupola. «Ho deciso di
perlustrare anche le celle al quinto piano.»
Tutti lo fissarono. Jesper sentì che il proprio brutto carattere era sul punto di
esplodere.
«Che diavolo stai facendo?» disse. «Ti levi di mezzo prima che io e Matthias
torniamo, poi decidi di allargare le ricerche e lasci che Nina pensi che tu sia nei
guai?»
«C’era una cosa di cui dovevo occuparmi.»
«Non te la cavi così.»
«Ho avuto un presentimento» disse Kaz. «E l’ho seguito.»
L’espressione che fece Nina fu di autentica incredulità. «Un presentimento?»
«Mi sono sbagliato» brontolò Kaz. «Abbiamo finito?»
«No» disse Inej con calma. «Ci devi una spiegazione.»
Dopo un istante, Kaz continuò: «Sono andato a cercare Pekka Rollins».
Jesper non riuscì a decifrare l’occhiata che si scambiarono Kaz e Inej; celava un
passaggio di informazioni da cui lui era escluso.
«Per l’amore dei Santi, perché?» domandò Nina.
«Volevo sapere chi degli Scarti gli avesse fatto la soffiata.»
Jesper aspettò. «E?»
«Non l’ho scoperto.»
«E il sangue sulla tua casacca?» chiese Matthias.
«Uno scontro con una guardia.»
Jesper non ci credette.
Kaz si passò una mano sugli occhi. «Ho fatto casino. Ho preso una decisione
sbagliata e mi merito di essere biasimato per questo. Ma non cambia la nostra
situazione.»
«Qual è la nostra situazione?» chiese Nina a Matthias. «Cosa faranno i
Fjerdiani adesso?»
«L’allarme che hanno dato è il Protocollo Giallo, disordini nel settore.»
Jesper si premette le tempie. «Non mi ricordo che cosa vuol dire.»
«Immagino che stiano pensando che ci sia un tentativo di evasione in corso. Il
settore è già isolato dal resto della Corte di Ghiaccio, per cui autorizzeranno
un’ispezione, probabilmente per scoprire chi è sparito dalle celle.»
«Troveranno quelli che abbiamo messo fuori gioco nel braccio femminile e
nel braccio maschile» disse Wylan. «Dobbiamo andarcene da qui. Lasciamo
perdere Bo Yul-Bayur.»
Matthias agitò una mano nell’aria con fare sprezzante. «È troppo tardi. Se le
guardie ritengono che ci sia un’evasione in atto, i posti di blocco saranno sulla
massima allerta. Non permetteranno a nessuno di uscire.»
«Possiamo comunque provarci» disse Jesper. «Fasciamo i piedi di Inej.»
Lei li contrasse, poi si alzò e collaudò le piante nude sulla ghiaia. «Li sento
bene. I calli sono spariti, comunque.»
«Per le lamentele, ho un indirizzo da darti» disse Nina facendole l’occhiolino.
«Bene, lo Spettro è in grado di deambulare» disse Jesper, passandosi una
manica sulla faccia bagnata. La pioggia si era dissolta in nebbiolina. «Troviamo
uno spazio accogliente dove colpire i festaioli sulla testa e uscire da questo posto
tutti in ghingheri a passo di valzer.»
«Passando davanti al cancello dell’ambasciata e a due posti di blocco?» disse
Matthias, scettico.
«Nessuno, per quel che ne sanno loro, è fuggito dal settore della prigione.
Hanno visto Nina e Kaz, e quindi sanno che dei detenuti sono fuori dalle loro
celle, ma le guardie dei posti di blocco cercheranno delinquenti con la divisa
carceraria, non diplomatici profumati in abito da sera. Dobbiamo agire prima che
si accorgano che sei persone sono a piede libero nel cerchio esterno.»
«Scordatelo» disse Nina. «Sono venuta qui per trovare Bo Yul-Bayur, e non
me ne vado senza di lui.»
«A che pro?» disse Wylan. «Anche se ce la facessimo a raggiungere l’Isola
Bianca e a trovare Yul-Bayur, non avremmo modo di uscire. Jesper ha ragione:
dobbiamo andarcene adesso, mentre abbiamo ancora una possibilità.»
Nina incrociò le braccia. «Dovessi raggiungere l’Isola Bianca da sola, lo
farò.»
«Potrebbe non essere un’opzione» disse Matthias. «Guarda.»
Si raccolsero attorno alla cupola di vetro. Nella rotonda di sotto c’era un
ammasso di gente che beveva, rideva, si salutava, dando vita a una specie di
festa turbolenta prima delle celebrazioni ufficiali sull’Isola Bianca.
Mentre osservavano la scena, un gruppo di guardie si fece strada a fatica
dentro la stanza, cercando di ordinare la folla e metterla in fila.
«Stanno aggiungendo un posto di blocco» disse Matthias. «Verificheranno le
generalità di tutti un’altra volta prima di permettere alla gente di accedere al
ponte di vetro.»
«A causa del Protocollo Giallo?» chiese Jesper.
«Probabile. Una precauzione.»
Era come vedere l’ultima goccia di fortuna prosciugarsi dentro un bicchiere.
«Questo taglia la testa al toro» disse Jesper. «Salviamo il salvabile e
andiamocene adesso.»
«C’è un modo» disse Inej con calma. Tutti si girarono a guardarla. La luce
gialla della cupola aveva creato una pozza nei suoi occhi scuri. «Possiamo
superare il posto di blocco e arrivare all’Isola Bianca.» Indicò un punto, di sotto,
dove due gruppetti di persone erano entrati nella rotonda dal cortile della
portineria e stavano scrollandosi via la pioggerellina dai vestiti. Le ragazze della
Casa dell’Iris Blu erano facilmente identificabili dal colore dei loro abiti e dai
fiori che sfoggiavano al collo e tra i capelli. E nessuno poteva confondere gli
uomini dell’Incudine: enormi tatuaggi messi in mostra con orgoglio e braccia
nude nonostante il freddo. «Le delegazioni dello Stave dell’Ovest hanno iniziato
ad arrivare. Possiamo mescolarci con loro.»
«Inej» disse Kaz.
«Entreremo io e Nina» continuò lei. La schiena era diritta, la voce ferma.
Assomigliava a una condannata a morte che fronteggiava il plotone d’esecuzione
e mandava al diavolo la benda sugli occhi. «Entreremo con il Serraglio.»
28
INEJ

Otto rintocchi e mezzo


Kaz la stava guardando attentamente, gli occhi color caffè amaro che
scintillavano alla luce della cupola.
«Hai presente quei costumi» disse lei, «mantelli pesanti, cappucci. È tutto
quello che i Fjerdiani vedranno. Un cerbiatto Zemeni. Una giumenta Kaelish.»
Deglutì e costrinse le parole successive a uscirle di bocca. «Una lince Suli.» Non
persone, non ragazze, solo adorabili oggetti da collezione. “Ho sempre voluto
rotolarmi con una ragazza Zemeni” sussurravano i clienti. “Una ragazza Kaelish
con i capelli rossi. Una ragazza Suli con la pelle color caramello bruciato.”
«È un rischio» disse Kaz.
«Quale colpo non lo è?»
«Kaz, tu e Matthias come farete a passare?» domandò Nina. «Potremmo aver
bisogno di te per le serrature, e se le cose si mettono male sull’isola, non voglio
finire bloccata. Dubito che possiate farvi passare per dei membri del Serraglio.»
«Non dovrebbe essere un problema» disse Kaz. «Anche se Helvar ce l’ha
tenuto nascosto.»
«È così?» chiese Inej.
«Non è...» Matthias si passò una mano tra i capelli rasati. «Come fai a sapere
queste cose, demjin?» ringhiò verso Kaz.
«Logico. Tutta la Corte di Ghiaccio è un capolavoro di misure di sicurezza e
sistemi a doppia protezione. Quel ponte di vetro fa impressione, ma in caso
d’emergenza ci dev’essere un altro modo per mandare rinforzi all’Isola Bianca e
portare fuori la famiglia reale.»
«Sì» disse Matthias esasperato. «C’è una seconda strada per arrivare all’Isola
Bianca. Ma è un casino.» Lanciò un’occhiata a Nina. «E di certo non può essere
affrontata dentro un abito da sera.»
«Aspettate un attimo» li interruppe Jesper. «Che cosa importa se arrivate tutti
sull’Isola Bianca? Mettiamo che Nina si faccia spifferare da qualche Fjerdiano
dov’è rinchiuso Yul-Bayur, e lo portate qui. Saremo intrappolati. Per quell’ora,
le guardie carcerarie avranno finito di perlustrare in giro e avranno capito che sei
detenuti in qualche modo sono usciti dal settore. Avremo perso ogni chance di
varcare i cancelli dell’ambasciata e i posti di blocco.» Kaz sbirciò oltre la cupola,
verso il cortile aperto dell’ambasciata e, ancora più in là, verso la portineria delle
mura ad anello.
«Wylan, quanto sarebbe difficile mettere fuori uso uno di quei cancelli?»
«Per farlo aprire?»
«No, per tenerlo chiuso.»
«Intendi dire per romperlo?» Wylan alzò le spalle. «Non dovrebbe essere
troppo difficile. Non sono riuscito a vedere il congegno che lo regola quando
siamo entrati, ma dallo schema direi che è piuttosto comune.»
«Carrucole, ruote dentate, qualche vite davvero grossa?»
«Be’, sì, e un argano di notevoli dimensioni. I cavi gli si avvolgono attorno
come una grande bobina, e le guardie lo girano con una specie di maniglia o di
timone.»
«So come funziona un timone. Puoi staccarne uno?»
«Penso di sì, ma è il sistema d’allarme a cui i cavi sono attaccati che è
complicato. Dubito di riuscirci senza innescare il Protocollo Nero.»
«Bene» disse Kaz. «Allora è quello che faremo.»
Jesper alzò una mano. «Scusate, il Protocollo Nero non è quello che vogliamo
evitare a tutti i costi?»
«Mi sembra di ricordare che il Protocollo Nero equivalga morte certa» disse
Nina.
«Non se lo usiamo contro di loro. Questa notte, quasi tutta la sicurezza della
Corte è concentrata sull’Isola Bianca e, proprio qui, nell’ambasciata. Quando
suonerà il Protocollo Nero, il ponte di vetro verrà chiuso e tutte quelle guardie
saranno intrappolate sull’isola insieme agli ospiti.»
«E la strada alternativa di Matthias per uscire dall’isola?» chiese Nina.
«Non possono spostare un grosso spiegamento di forze da quella parte»
riconobbe Matthias. «Perlomeno, non in fretta.»
Kaz fissò l’Isola Bianca, la testa piegata, lo sguardo leggermente velato.
«È la faccia che fa quando trama qualcosa» mormorò Inej.
Jesper annuì. «Proprio quella.»
Le sarebbe mancato quello sguardo.
«Tre cancelli nelle mura ad anello» disse Kaz. «Il cancello della prigione è
sotto stretta sorveglianza a causa del Protocollo Giallo. Il cancello
dell’ambasciata è un collo di bottiglia stipato di ospiti: i Fjerdiani non faranno
passare le truppe da lì. Jesper, a te e a Wylan rimane solo il cancello nel settore
dei drüskelle di cui occuparvi. Fate scattare il Protocollo Nero, poi distruggetelo.
Sfasciatelo a tal punto che le guardie chiamate a raccolta non riescano a uscire
per seguirci.»
«Sono il primo a voler rinchiudere i Fjerdiani nella loro stessa fortezza» disse
Jesper. «Davvero. Ma come facciamo a uscirne noi? Una volta innescato il
Protocollo Nero, voi sarete bloccati su quell’isola e noi saremo bloccati nel
cerchio esterno. Senza armi e senza esplosivi.»
Il sorriso di Kaz era tagliente come un rasoio. «Meno male che siamo dei
ladri come si deve. Vorrà dire che faremo un po’ di shopping: e andrà tutto sul
conto di Fjerda. Inej» disse, «cominciamo con qualcosa di brillante.»

Accanto alla grande cupola di vetro, Kaz espose quello che aveva in mente nei
dettagli. Se il piano precedente era stato coraggioso, almeno faceva perno sulla
discrezione. Il piano attuale era audace, forse persino folle. Non avrebbero
semplicemente annunciato la loro presenza ai Fjerdiani, l’avrebbero
strombazzata. La banda si sarebbe separata un’altra volta, e un’altra volta
avrebbero cronometrato i movimenti basandosi sui rintocchi dell’Orologio
Maggiore, ma a questo giro ci sarebbe stato ancora meno spazio per fare errori.
Inej ispezionò il proprio cuore, aspettandosi di trovarci cautela, paura. Ma sentì
solo che era pronta. Questo non era un colpo che stava mettendo a segno per
ripagare il proprio debito a Per Haskell. Non era un incarico da portare a termine
per Kaz o per gli Scarti. Era per se stessa che lo faceva: per il denaro, e per il
sogno che il denaro avrebbe realizzato.
Mentre Kaz andava avanti a spiegare e Jesper usava le cesoie della lavanderia
per tagliare la corda in parti uguali, Wylan dava una mano a preparare lei e Nina.
Per farsi passare da ragazze del Serraglio, avrebbero dovuto avere dei tatuaggi.
Incominciarono da Nina. Utilizzando uno dei grimaldelli di Kaz e la pirite di
rame che Jesper aveva estratto dal tetto, Wylan disegnò sul braccio di Nina la
migliore imitazione che gli riuscì della piuma del Serraglio, seguendo la
descrizione di Inej e facendo delle correzioni laddove necessario. Poi Nina fece
penetrare l’inchiostro nella propria pelle. A una Corporalki non serviva un ago
da tatuaggi. Nina fece del suo meglio per spianare le cicatrici sull’avambraccio
di Inej. Il lavoro non era perfetto, ma non c’era tempo e fare la Plasmaforme non
era la vocazione di Nina. Wylan tracciò lo schizzo di una seconda piuma di
pavone sulla pelle di Inej.
Nina si fermò: «Sei sicura?».
Inej fece un respiro profondo. «Sono colori di guerra» disse, sia a Nina sia a
se stessa. «È il marchio che devo avere.»
«È solo temporaneo» le promise Nina. «Te lo toglierò non appena saremo al
porto.»
Il porto. Inej pensò alla Ferolind e alle sue bandiere spensierate, e cercò di
tenere quell’immagine in testa mentre guardava la propria pelle assorbire la
piuma di pavone.
Quei tatuaggi non avrebbero superato nessun esame scrupoloso, ma la
speranza era che non ce ne sarebbe stato bisogno.
E finalmente si alzarono. Inej aveva previsto che il Serraglio sarebbe arrivato
tardi – Tante Heleen adorava le entrate a effetto – ma dovevano comunque
essere pronti ad agire quando fosse giunto il momento.
E tuttavia esitarono. La consapevolezza che avrebbero potuto non rivedersi
più, che alcuni di loro – forse tutti – avrebbero potuto non farcela a sopravvivere
a quella notte, rendeva l’aria pesante. Un giocatore d’azzardo, un detenuto, un
figlio ribelle, una Grisha smarrita, una ragazza Suli che era diventata
un’assassina, un ragazzo del Barile che era diventato qualcosa di peggio. Inej
guardò i suoi bizzarri compagni di ventura, a piedi nudi, tremanti nelle divise
carcerarie sporche di fuliggine, i lineamenti illuminati dalla luce dorata della
cupola e ammorbiditi dalla nebbiolina sospesa nell’aria. Che cosa li teneva
insieme? L’avidità? La disperazione? O era semplicemente perché sapevano che
se uno di loro o tutti quanti fossero scomparsi quella notte, nessuno sarebbe
venuto a cercarli? La madre e il padre di Inej forse versavano ancora delle
lacrime per la figlia che avevano perso, ma se lei fosse morta tra qualche ora,
nessuno avrebbe pianto per la ragazza che era adesso. Non aveva una famiglia,
non aveva genitori e non aveva fratelli e sorelle, solo persone con cui combattere
fianco a fianco. Ma forse anche quello era qualcosa di cui essere grati.
Fu Jesper a parlare per primo. «Nessun rimpianto» disse sorridendo.
«Nessun funerale» risposero tutti gli altri in coro. Persino Matthias mormorò
le parole a bassa voce.
«Se qualcuno di voi la scampa, faccia in modo che la mia cassa da morto resti
aperta» disse Jesper mentre si caricava in spalla due rotoli di fune e faceva segno
a Wylan di seguirlo sul tetto. «Il mondo si merita questa faccia fino all’ultimo
momento.»
Inej si stupì appena nel vedere l’intensità dello sguardo che si scambiarono
Nina e Matthias. Era cambiato qualcosa tra loro dopo la battaglia con gli Shu,
ma Inej non avrebbe saputo dire cosa.
Matthias si schiarì la voce e fece a Nina un piccolo inchino imbarazzato.
«Posso scambiare due parole con lei in privato?»
Nina ricambiò l’inchino con un’aria decisamente più raffinata, e si lasciò
condurre via da lui. Inej era contenta; anche lei voleva avere un momento da sola
con Kaz.
«Ho qualcosa per te» disse, ed estrasse i guanti di pelle di Kaz dalla manica
della casacca della prigione.
Lui li fissò. «Come...»
«Li ho recuperati dalla pila dei vestiti scartati. Prima di arrampicarmi.»
«Sei piani al buio.»
Lei annuì.
Non si aspettava ringraziamenti. Non per la scalata, non per i guanti, non per
qualsiasi altra cosa.
Lui se l’infilò lentamente, e osservò le proprie mani pallide e vulnerabili
scomparirvi dentro. Erano mani da prestigiatore: lunghe dita aggraziate fatte per
aprire serrature, nascondere monete, far sparire cose.
«Quando torneremo a Ketterdam prenderò la mia parte e lascerò gli Scarti.»
Lui spostò lo sguardo altrove. «Fai bene. Sei sprecata per il Barile.»
Era tempo di muoversi. «Buona fortuna, Kaz.»
Kaz l’afferrò per un polso. «Inej.» Il pollice rivestito dal guanto l’accarezzò
dove le pulsava il sangue e seguì la punta della piuma tatuata. «Se non ne
usciamo vivi, voglio che tu sappia...»
Lei rimase in attesa. Sentì che la speranza, dentro di lei, faceva frusciare le
ali, pronta a spiccare il volo se Kaz avesse pronunciato le parole giuste. Per cui
la costrinse a stare immobile. Quelle parole non sarebbero mai arrivate. Il cuore
è una freccia.
Allungò una mano e gli toccò una guancia. Era convinta che si sarebbe tirato
indietro, che le avrebbe persino colpito la mano. In quasi due anni di battaglie
fianco a fianco, di complotti orditi fino a tarda notte, di colpi impossibili, di
commissioni clandestine e pranzi a base di patate fritte e hutspot ingollati di
corsa mentre si precipitavano da un posto all’altro, questa era la prima volta che
lei lo toccava veramente, senza la barriera dei guanti, della giacca o delle
maniche della camicia. Gli incorniciò la guancia con la mano. La pelle di lui era
fredda e umida per via della pioggia. Kaz restò fermo, ma lei vide un tremito
attraversarlo, come se stesse conducendo una guerra con se stesso.
«Se non ne usciamo vivi, io morirò senza paura, Kaz. Tu puoi dire lo stesso?»
Gli occhi di lui erano quasi neri, le pupille dilatate. Inej si rese conto che
stava impiegando fino all’ultima briciola della sua spaventosa forza di volontà
per restare fermo sotto il tocco delle dita di lei. E malgrado tutto non si tirò
indietro. Lei seppe che questo era il massimo che lui poteva offrirle. Non era
abbastanza.
Lei tirò via la mano. Lui respirò a fondo.
Kaz le aveva detto di non volere le sue preghiere e quindi lei non le avrebbe
dette, ma gli augurò comunque di salvarsi. Aveva uno scopo tutto suo ora, il
cuore aveva una direzione, e sebbene le facesse male sapere che quel cammino
l’avrebbe portata via da lui, l’avrebbe accettato.

Inej raggiunse Nina sul bordo della cupola per aspettare insieme l’arrivo del
Serraglio. La cupola era larga e poco profonda, tutta fatta di vetro e intrecci
d’argento. Inej vide che c’era un mosaico sul pavimento dell’ampia rotonda di
sotto. Appariva per brevi istanti tra un individuo e l’altro: due lupi che si
inseguivano, destinati a rincorrersi in cerchio fino a che ci fosse stata la Corte di
Ghiaccio.
Gli ospiti che entravano dal grande portale ad arco venivano condotti dentro
alcune stanze fuori dalla rotonda, divisi in gruppetti e perquisiti per verificare
che non avessero armi con sé. Inej vide delle guardie uscire con delle spille,
degli aculei di porcospino, addirittura delle fasce che lei immaginò contenessero
del metallo o dei fili.
«Non sei obbligata, lo sai» disse Nina. «Non sei obbligata a rimetterti
addosso quelle vesti di seta.»
«Ho fatto di peggio.»
«Lo so. Hai scalato sei piani di inferno per noi.»
«Non è quello che intendevo.»
Nina fece una pausa. «So anche questo.» Esitò, poi disse: «La ricompensa è
così importante per te?». Inej fu sorpresa di sentire del senso di colpa nella voce
di Nina.
L’Orologio Maggiore iniziò a suonare i nove rintocchi. Inej puntò lo sguardo
in basso sui lupi che si inseguivano sul pavimento della rotonda. «Non so bene
perché ho cominciato» ammise. «Ma so perché devo finire. So perché il destino
mi ha portata qui, perché mi ha messa sul cammino di questa ricompensa.»
Si manteneva vaga perché non si sentiva ancora pronta a parlare del sogno
che le si era acceso nel cuore: una banda tutta sua, una nave sotto il suo
comando, una crociata. Sentiva di doverlo tenere segreto, come un nuovo seme
che avrebbe potuto diventare qualcosa di straordinario se non fosse stato
costretto a sbocciare troppo presto. Non sapeva nemmeno come manovrare una
barca a vela. Eppure una parte di lei voleva raccontare tutto a Nina. Se Nina non
avesse deciso di tornare a Ravka, una Spaccacuore sarebbe stato un acquisto
eccellente per la sua banda.
«Eccole» disse Nina.
Le ragazze del Serraglio entrarono dalle porte della rotonda, gli abiti da sera
che scintillavano alla luce delle candele, i cappucci dei mantelli che
nascondevano i visi. Ogni cappuccio rappresentava un animale: un cerbiatto
Zemeni dalle orecchie morbide e le graziose macchie bianche, una giumenta
Kaelish dal codino ramato, un serpente Shu dalle squame rosse decorate di
perline, una volpe Ravkiana, un leopardo delle Colonie del Sud, un corvo
imperiale, un ermellino, e naturalmente la lince Suli. La ragazza bionda e alta
che interpretava il ruolo del lupo Fjerdiano in pelliccia d’argento era la grande
assente.
Delle soldatesse in uniforme andarono loro incontro.
«Non la vedo» disse Nina.
«Aspetta. Il Pavone entrerà per ultimo.»
E infatti eccola lì: Heleen Van Houden, luccicante nel suo abito di raso color
verde acqua e con un’elaborata gorgiera di penne di pavone a incorniciarle la
testa color oro.
«Sobria» disse Nina.
«La sobrietà non vende nel Barile.»
Inej fece un fischio acuto e cinguettante. Quello di Jesper arrivò da qualche
parte in lontananza. “Ci siamo” pensò. Aveva dato lo spintone, e ora il macigno
stava rotolando giù dalla montagna. Chi poteva sapere quali danni avrebbe fatto
e cosa sarebbe stato ricostruito sopra le macerie?
Nina guardò attraverso il vetro e strabuzzò gli occhi. «Come fa a non crollare
sotto il peso di tutti quei diamanti? Non possono essere veri.»
«Oh, sono veri eccome» disse Inej. Quei gioielli erano stati comprati con il
sudore e il sangue e il dolore di ragazze come lei.
Le guardie separarono le ragazze del Serraglio in tre gruppi, mentre Heleen
veniva scortata via da sola. Non si poteva pretendere che il Pavone si levasse i
vestiti e sollevasse le gonne di fronte a loro.
«Eccole» disse Inej, indicando il gruppo che comprendeva la lince Suli e la
giumenta Kaelish. Si stavano dirigendo verso le porte sulla sinistra della rotonda.
Mentre Nina fissava il gruppo, Inej si spostò sopra il tetto, seguendo la loro
traiettoria. «Quale porta?» chiese.
«La terza a destra» disse Nina. Inej si spostò verso il condotto d’aria più
vicino e sollevò la griglia. Sarebbe stato bello stretto per Nina, ma se la
sarebbero cavata. Scivolò dentro il condotto di ventilazione, accovacciandosi e
procedendo nel tunnel. Sentì dietro di sé un grugnito e a seguire un sonoro sbam
nel momento in cui Nina urtò il fondo del cunicolo come un sacco di biancheria.
Inej trasalì. Bisognava sperare che i rumori della folla di sotto avessero coperto i
loro. O che alla Corte di Ghiaccio ci fossero dei ratti davvero grossi.
Strisciarono avanti, sbirciando nelle ventole mentre procedevano. Alla fine si
ritrovarono a guardare dentro una specie di saletta sequestrata dai militari per
perquisire gli ospiti.
Le Creature Esotiche si erano tolte i mantelli e li avevano appoggiati su un
lungo tavolo ovale. Una soldatessa bionda le stava ispezionando: tastava le
cuciture e gli orli dei costumi e infilava persino le dita nei capelli, mentre l’altra
soldatessa stava a guardare con una mano sul fucile. Sembrava che l’arma la
mettesse a disagio. Inej sapeva che i Fjerdiani non permettevano alle donne di
prestare servizio militare nei reparti di combattimento. Forse le soldatesse erano
state precettate da qualche altro reparto.
Inej e Nina attesero che le guardie avessero finito di perquisire le ragazze, i
mantelli e le borsette con le perline.
«Ven tidder» disse una delle due mentre uscivano dalla stanza per consentire alle
ragazze di rimettersi a posto.
«Cinque minuti» tradusse Nina in un bisbiglio.
«Vai» disse Inej.
«Mi serve che ti sposti.»
«Perché?»
«Perché ho bisogno della visuale libera, e al momento tutto quello che vedo è
il tuo sedere.»
Inej lo fece, e un istante dopo udì quattro tonfi delicati mentre le ragazze del
Serraglio crollavano sul tappeto blu scuro.
Velocemente, tolse la griglia con uno strattone e cadde sulla superficie lucida
del tavolo. Nina ruzzolò giù dietro di lei, atterrando come un sacco.
«Scusa» disse con un gemito mentre si rimetteva dritta.
Inej per poco non scoppiò a ridere. «Sei così leggiadra in battaglia, tranne
quando ti cali dall’alto.»
«Quel giorno ho saltato la scuola.»
Svestirono le ragazze Suli e Kaelish lasciandole in biancheria intima, quindi
legarono i polsi e le caviglie di tutte le ragazze con i cordoni delle tende e le
imbavagliarono strappandosi via dei pezzi di divisa.
«Il tempo scorre» disse Inej.
«Scusami» sussurrò Nina alla ragazza Kaelish.
In condizioni normali avrebbe usato dei pigmenti per cambiarsi il colore dei
capelli, ma non c’era proprio tempo. Quindi strizzò il rosso acceso della ragazza
facendolo colare direttamente dalle ciocche di lei, lasciando la povera Kaelish
con dei capelli bianchi che in alcuni punti sembravano vagamente arrugginiti, e
dando ai propri un colore che non era esattamente il rosso Kaelish. Gli occhi di
Nina erano verdi e non azzurri, ma quel tipo di modifica non poteva essere fatta
di corsa, per cui avrebbero dovuto accontentarsi. Prese della cipria bianca dalla
borsetta della ragazza e fece del proprio meglio per schiarirsi la pelle.
Mentre Nina si dava da fare, Inej trascinò le altre ragazze dentro un armadio
di legno color argento addossato sulla parete più lontana, sistemando le gambe in
modo che rimanesse dello spazio per la Kaelish.
Sentì una fitta di senso di colpa quando si accertò che il bavaglio della Suli
fosse a posto.
Tante Heleen doveva averla comprata per rimpiazzarla; aveva la stessa pelle
bronzea, la stessa massa di capelli neri. Aveva però una corporatura diversa,
morbida e con le curve anziché magra e spigolosa. Forse era arrivata da Tante
Heleen di sua spontanea volontà. Forse aveva scelto lei quella vita. Inej sperava
fosse vero. «Che i Santi ti proteggano» sussurrò alla ragazza priva di sensi.
Bussarono alla porta e una voce parlò in Fjerdiano.
«Serve la stanza per le ragazze del turno dopo» bisbigliò Nina.
Inej e Nina spinsero la Kaelish nell’armadio e in qualche modo riuscirono ad
accostare i battenti e a chiuderli a chiave, poi si infilarono nei loro costumi. Inej
fu felice di non avere il tempo di soffermarsi sulla sgradita familiarità della seta
sulla pelle e sull’orribile tintinnio dei campanelli alle caviglie. Si buttarono
addosso i mantelli e si diedero una veloce occhiata allo specchio.
Nessuno dei due costumi andava bene. Le vesti di seta viola di Inej erano
troppo larghe, e per quanto riguarda Nina...
«Cosa diavolo dovrebbe essere?» disse, guardandosi in basso. L’abito attillato
le copriva a malapena la consistente scollatura e le stava appiccicato sulle
natiche. Era stato realizzato per dare l’impressione di essere fatto di squame
verdi e blu, che diventavano un ventaglio di chiffon luccicante.
«Una sirena?» suggerì Inej. «O un’onda?»
«Pensavo di essere un cavallo.»
«Be’, di certo non ti avrebbero messo addosso un vestito di zoccoli.»
Nina passò le mani sul proprio ridicolo costume. «Sto per diventare molto
popolare.»
«Mi domando cosa direbbe Matthias del tuo travestimento.»
«Non lo approverebbe.»
«Non approva niente che ti riguardi. Ma quando ridi, si solleva di scatto come
un tulipano nell’acqua fresca.»
Nina sbuffò. «Il tulipano Matthias.»
«Il grosso, minaccioso tulipano giallo.»
«Sei pronta?» chiese Nina mentre si calavano i cappucci fino a coprirsi del
tutto la faccia.
«Sì.» Inej diceva sul serio. «Bisognerà distrarle. Altrimenti si accorgeranno
che sono entrate in quattro e ne stanno uscendo solo due.»
«Lascia fare a me. E stai attenta all’orlo del tuo vestito.»
Non appena aprirono la porta per uscire in corridoio, le soldatesse fecero loro
cenno di muoversi, impazienti. Sotto il mantello, Nina fece schioccare le dita
con forza. Una delle due fece un verso simile a un belato quando il sangue
cominciò a uscirle a fiotti dal naso e le zampillò, in modo comicamente assurdo,
sul davanti dell’uniforme. L’altra indietreggiò, ma l’istante successivo si tastò lo
stomaco. Nina stava ruotando lentamente il polso, procurando alla donna delle
ondate di nausea.
«L’orlo» ripeté Nina con calma.
Inej ebbe appena il tempo di tirare su il mantello prima che la guardia si
piegasse in due e riversasse la cena sulle piastrelle del pavimento. Gli ospiti nel
corridoio strillarono e si spintonarono a vicenda per allontanarsi da lì. Nina e
Inej volteggiarono attorno, emettendo appropriati squittii di disgusto.
«Probabilmente il sangue dal naso sarebbe stato sufficiente» bisbigliò Inej.
«In certi casi meglio non risparmiarsi.»
«Se non ti conoscessi bene, penserei che ti piace far soffrire i Fjerdiani.»
Tennero la testa bassa e si intrufolarono nel mare di gente che affollava la
rotonda, ignorando il cerbiatto Zemeni che tentava di indirizzarle dall’altra parte
della stanza. Era fondamentale che non si avvicinassero troppo alle vere ragazze
del Serraglio. Inej sperava che i loro mantelli non fossero facili da rintracciare
nella folla.
«Questa qui» disse Inej, spingendo Nina dentro una fila lontana dalle ragazze
del Serraglio. Sembrava muoversi un po’ più veloce. Ma quando arrivarono ai
controlli, Inej si chiese se non avesse scelto la fila sbagliata. Questa guardia
sembrava persino più severa e con meno senso dell’umorismo delle altre. Tese la
mano per avere i documenti di Nina e li scrutò con freddi occhi azzurri.
«Qua c’è scritto che lei ha le lentiggini» disse in Kerch.
«Le ho» disse Nina affabilmente. «Solo che adesso non si vedono. Vuole
vederle?»
«No» rispose il Fjerdiano, gelido. «Lei è più alta di quel che risulta qui.»
«Gli stivali» disse Nina. «Mi piace poter guardare un uomo negli occhi. Lei
ha degli occhi bellissimi.»
Lui osservò le carte, poi la scrutò. «A un primo sguardo direi che lei pesi più
di quello che dice questa carta.»
Nina scrollò astutamente le spalle, facendo scendere le squame della
scollatura. «Quando sono in vena mi piace mangiare» disse, e protese le labbra
senza vergogna. «E io sono sempre in vena.»
Inej si sforzò di mantenere un’espressione seria in viso. Se Nina si fosse
messa anche a sbattere le ciglia, non ce l’avrebbe fatta e sarebbe scoppiata a
ridere.
Ma il Fjerdiano sembrava essersela bevuta. Forse Nina faceva quello
stupefacente effetto su tutti i bacchettoni del Nord.
«Può andare» disse la guardia in tono burbero. Poi aggiunse: «Potrei... potrei
essere alla festa più tardi».
Nina fece scorrere un dito sul braccio di lui. «Le concederò un ballo.»
L’uomo sorrise come uno sciocco, poi si schiarì la gola e tornò alla sua
espressione severa. “Santi numi” pensò Inej, “dev’essere estenuante essere
sempre così impassibili.”
Il Fjerdiano guardò i documenti di Inej in modo superficiale, ancora immerso
nel pensiero di scartare uno dopo l’altro gli strati di chiffon verde e blu di Nina.
Le fece segno di procedere, ma appena fece un passo avanti Inej inciampò.
«Aspetti» disse la guardia.
Lei si fermò. Nina si guardò alle spalle.
«Cos’hanno le sue scarpe?»
«Mi stanno un pochino grandi» rispose Inej. «Si sono allargate più di quel che
mi aspettassi.»
«Mi faccia vedere le braccia» disse la guardia.
«Perché?»
«Lo faccia e basta» replicò la guardia con durezza.
Inej liberò le braccia dal mantello e le tese verso di lui, mostrando lo sgraziato
tatuaggio a forma di piuma di pavone.
Una guardia con i gradi da capitano si sporse a vedere. «Che cosa c’è?»
«È una Suli, non c’è dubbio, e ha il tatuaggio del Serraglio, ma mi sembra un
po’ strano.»
Inej scrollò le spalle. «Mi sono procurata una brutta ustione da bambina.»
Il capitano indicò un gruppo di festanti dall’aria infastidita radunato accanto
all’entrata e circondato dalle guardie. «Tutti i sospettati vanno là. Mettila con
loro, la riportiamo al posto di blocco e riverifichiamo i documenti.»
«Mi perderò la festa» disse Inej.
La guardia la ignorò, la prese per un braccio e la spinse indietro verso
l’ingresso mentre le altre persone in coda guardavano e bisbigliavano. Il cuore
prese a martellarle in petto.
Nina era terrorizzata, pallida in viso persino sotto la cipria, ma non c’era
niente che Inej potesse dire per rassicurarla. Le fece un velocissimo cenno con il
capo. “Vai” pensò in silenzio. “Tocca a te ora.”
29
MATTHIAS

Nove rintocchi
«E se dicessi di no, Brekker?» Era solo una sterile polemica, Matthias lo sapeva
benissimo. Il tempo per protestare era finito da un pezzo. Stavano già correndo
lungo il tetto dolcemente ricurvo dell’ambasciata verso il settore dei drüskelle,
Wylan ansimando per lo sforzo, Jesper procedendo disinvolto a grandi falcate e
Brekker tenendo il passo malgrado fosse senza bastone. Ma a Matthias non
piaceva il modo in cui questo ladruncolo sapeva leggergli nel pensiero. «E se
non ti consegnassi l’ultimo pezzo che resta di me e del mio onore?»
«Lo farai, Helvar. Proprio in questo momento Nina sta arrivando all’Isola
Bianca. Hai veramente intenzione di abbandonarla là?»
«Fai troppe supposizioni.»
«A me sembra di fare quelle che servono.»
«Questi sono i tribunali, giusto?» disse Jesper mentre correvano sul tetto,
catturando con lo sguardo le immagini degli eleganti cortili di sotto, ciascuno
costruito attorno a una fontana gorgogliante e punteggiato di fruscianti alberi
ricoperti di ghiaccio. «Immagino che ci siano posti peggiori dove essere
condannati a morte.»
«C’è acqua dappertutto» disse Wylan. «Le fontane sono il simbolo di Djel?»
«La sorgente» replicò Kaz in tono ispirato, «che ripulisce tutti i peccati.»
«O dove ti affogano e ti fanno confessare» disse Wylan.
Jesper sbuffò. «Wylan, i tuoi ragionamenti hanno preso una piega molto cupa.
Temo che gli Scarti abbiano una cattiva influenza su di te.»
Usarono una corda doppia e il rampino per passare al tetto del settore dei
drüskelle. Wylan dovette essere imbracato, invece Jesper e Kaz si spostarono
agilmente, una mano dopo l’altra, con inquietante velocità. Matthias si mosse
con maggiore cautela, e anche se non lo diede a vedere non gli piacque il modo
in cui la corda scricchiolò e si piegò sotto il suo peso.
Gli altri lo tirarono sul tetto di pietra dei drüskelle, e quando Matthias si alzò
in piedi fu colpito da un’ondata di vertigini. Più di ogni altro posto alla Corte di
Ghiaccio, più di ogni altro posto al mondo, qui è dove si sentiva a casa. Ma era
una casa capovolta, e la sua vita aveva la prospettiva sbagliata. Sbirciando
nell’oscurità, vide gli imponenti lucernari a forma di piramide.
Provò la sconvolgente sensazione che se avesse guardato attraverso il vetro
avrebbe visto se stesso mentre si allenava nella sala delle esercitazioni, o seduto
al tavolone dove si pranzava.
In lontananza udì i lupi abbaiare e uggiolare nelle gabbie accanto alla portineria,
domandandosi dove fossero finiti i loro padroni quella notte. L’avrebbero
riconosciuto se si fosse avvicinato con la mano tesa? Non era certo di
riconoscersi lui stesso. Tra i ghiacci del Nord, le scelte che aveva fatto gli erano
sembrate chiare. Ma ora i suoi pensieri erano stati mandati in confusione da
questi delinquenti, dal coraggio di Inej e dall’audacia di Jesper, e da Nina,
sempre Nina. Non poteva negare il sollievo che aveva provato quand’era
spuntata dall’inceneritore, scarmigliata e ansimante, terrorizzata ma viva.
Quando lui e Wylan l’avevano tirata fuori dalla canna fumaria, si era dovuto fare
forza per lasciarla andare.
No, non avrebbe guardato attraverso quei lucernari. Non poteva più
permettersi altre debolezze, non questa notte. Era tempo di andare avanti.
Raggiunsero il bordo del tetto che si affacciava sul fossato di ghiaccio. Da qui
sembrava solido, la superficie lucida come uno specchio e illuminata dalle torri
di guardia sull’Isola Bianca. Ma le acque del fossato erano in costante
movimento, celate soltanto da un sottilissimo strato di brina.
Kaz allacciò un altro rotolo di fune al bordo del tetto e si preparò a calarsi
sulla sponda in corda doppia.
«Sapete cosa fare» disse rivolto a Jesper e a Wylan. «Undici rintocchi e non
prima.»
«Quando mai sono stato in anticipo?» domandò Jesper.
Kaz sparì oltre la fiancata. Matthias lo seguì, le mani aggrappate alla corda, i
piedi nudi contro il muro. Quando guardò in su, vide Wylan e Jesper che lo
fissavano. Ma subito dopo, non c’erano più.
Il terreno che circondava il fossato di ghiaccio era poco più di una crosta
sottile e scivolosa di pietra bianca. Kaz si accovacciò, schiacciandosi contro il
muro, a guardare torvo davanti a sé. «Come lo attraversiamo? Non vedo niente.»
«Perché non sei degno.»
«Non sono nemmeno miope. Non c’è niente laggiù.»
Matthias prese a camminare seguendo il muro, passando la mano sulla pietra
all’altezza dell’anca. «Su Hringkälla i drüskelle terminano la loro iniziazione»
disse. «Passiamo da candidati a novizi durante la cerimonia presso il sacro
albero di frassino.»
«Dove l’albero vi parla.»
Matthias resistette alla tentazione di buttarlo in acqua. «Dove speriamo di
sentire la voce di Djel. Ma quello è il momento finale. Per prima cosa, dobbiamo
attraversare il fossato di ghiaccio senza che nessuno ci veda. Se siamo giudicati
degni, Djel ci mostra il sentiero.»
In realtà, i drüskelle anziani rivelavano il segreto per attraversarlo ai candidati
che desideravano veder entrare nell’ordine; era un modo per scartare i deboli o
quelli che semplicemente non avevano ingranato con il gruppo. Se ti eri fatto
degli amici, se avevi dimostrato quanto valevi, allora uno dei fratelli ti avrebbe
preso da parte e ti avrebbe detto che la notte dell’iniziazione avresti dovuto
andare sulla riva del fossato di ghiaccio e far scorrere la mano lungo il muro del
settore dei drüskelle. Al centro della parete avresti trovato l’incisione di un lupo
che segnalava la presenza di un altro ponte di vetro: non grande e arcuato come
quello che abbracciava il fossato dall’ala dell’ambasciata, ma piatto, dritto, e
largo solo pochi piedi. Stava proprio sotto la superficie brinata, completamente
invisibile se non sapevi dove guardare. Era stato il Comandante Brum in persona
a dire a Matthias come trovarlo, e anche il trucchetto per attraversarlo senza farsi
vedere.
Matthias dovette passare le dita sul muro due volte prima di trovare il lupo
intagliato. Lasciò che la mano vi indugiasse sopra un istante, assaporando le
tradizioni che lo collegavano all’ordine dei drüskelle, antiche quanto la stessa
Corte di Ghiaccio.
«Qui» disse.
Kaz si avvicinò strisciando i piedi e strizzò gli occhi per guardare attraverso il
fossato.
Poi si sporse, e Matthias con uno strattone lo tirò indietro.
Indicò le torri di guardia in cima al muro che circondavano l’Isola Bianca.
«Così ti vedranno» disse. «Usa questo.»
Strisciò la mano lungo il muro e il palmo gli divenne bianco. La notte
dell’iniziazione, si era sfregato i vestiti e i capelli con quella stessa polvere di
gesso. Così mimetizzato, invisibile alle guardie nelle torri, aveva attraversato lo
stretto sentiero che conduceva all’isola e si era riunito ai fratelli.
Ora lui e Kaz avrebbero fatto lo stesso, però Matthias si accorse che Kaz, per
prima cosa, aveva riposto con cura i propri guanti. Inej doveva averglieli
restituiti.
Matthias fece un passo avanti sul ponte segreto, poi sentì Kaz emettere un
sibilo quando immerse i piedi nelle acque ghiacciate del fossato.
«Hai freddo, Brekker?»
«Se soltanto ci fosse tempo per una bella nuotata. Muoviamoci.»
Malgrado le prese in giro a Kaz, nel tempo che impiegarono per arrivare a
metà strada tra la sponda e l’isola, i piedi di Matthias erano diventati insensibili,
e lui era estremamente consapevole delle torri di guardia sopra il fossato.
I drüskelle dovevano essere passati di qui, qualche ora prima. Non aveva mai
sentito di aspiranti drüskelle individuati o fucilati sul ponte, ma tutto era
possibile.
«Tutta questa fatica per diventare un cacciatore di streghe?» disse Kaz dietro
di lui. «Gli Scarti hanno bisogno di un rito di iniziazione migliore.»
«Questa è solo una parte della cerimonia di Hringkälla.»
«Sì, lo so, poi un albero vi svela la stretta di mano segreta.»
«Mi dispiace per te, Brekker. Non c’è niente di sacro nella tua vita.»
Ci fu una lunga pausa, alla fine della quale Kaz disse: «Ti sbagli».
Il muro esterno dell’Isola Bianca si stagliava di fronte a loro, rivestito da un
motivo ornamentale di scaglie. Ci volle un momento per individuare la rampa di
scale che nascondeva il cancello. Solo fino a poco prima, i drüskelle erano stati
ammassati nella nicchia del muro a dare il benvenuto ai nuovi fratelli, ma ora la
nicchia era vuota, la grata di ferro chiusa con la catena. Kaz fece in fretta con la
serratura, e ben presto si ritrovarono in un passaggio angusto che li avrebbe
condotti ai giardini, in fondo ai quali c’era la caserma della guardia reale.
«Sei sempre stato bravo con le serrature?»
«No.»
«Come hai fatto a imparare?»
«Nel modo in cui si impara qualunque cosa. Smontandole.»
«E i trucchi magici?»
Kaz sbuffò. «Quindi non pensi più che io sia un demone?»
«So per certo che sei un demone, ma i tuoi trucchi sono umani.»
«Alcuni vedono una magia e dicono: “Impossibile!”. Battono le mani, pagano
e dopo dieci minuti circa se la sono già scordata. Altri chiedono come funziona.
Vanno a casa, vanno a letto, si girano e si rigirano domandandosi come si faccia
a farla. Gli ci vuole una buona notte di sonno per scordarsi tutto. E poi ci sono
quelli che restano svegli, che ripensano al trucco continuamente, alla ricerca di
quel che è sfuggito alla percezione, di quella falla nell’illusione che rivela cos’è
stato a ingannare gli occhi; sono quelli che non si danno pace finché non
diventano loro stessi i massimi esperti di quel pezzetto di mistero. Io sono uno di
questi.»
«Tu ami gli imbrogli.»
«Io amo gli enigmi. Gli imbrogli sono solo la mia lingua madre.»
«I giardini» disse Matthias, indicando le siepi. «Possiamo seguirli fino alla
sala da ballo.»
Proprio mentre stavano per sbucare dal passaggio, due guardie girarono
l’angolo: entrambe nell’uniforme da drüskelle nera e argento, entrambe armate
di fucile.
«Perjenger!» gridò sorpresa una di loro. “Prigionieri.” «Sten!»
Senza pensarci, Matthias disse: «Desjenet, Djel comenden!». “State giù, per
volere di Djel.” Erano le parole di un comandante in capo drüskelle, e lui le
pronunciò con tutta l’autorità di cui era capace.
I soldati si scambiarono un’occhiata confusa. Quell’attimo di esitazione fu
sufficiente. Matthias strappò di mano il fucile al primo dei due e assestò una
testata violentissima al drüskelle, che crollò a terra.
Kaz andò addosso all’altro soldato, facendolo cadere. Il drüskelle non mollò
la presa sul fucile, ma Kaz scivolò dietro di lui e gli schiacciò la gola con
l’avambraccio, comprimendola finché gli occhi del drüskelle si chiusero e la
testa gli cadde in avanti mentre crollava svenuto.
Kaz si scrollò di dosso il corpo della guardia e si alzò in piedi.
La realtà della situazione colpì Matthias all’improvviso. Kaz non aveva
raccolto il fucile. Matthias aveva un’arma in mano, e Kaz era disarmato. Erano
fermi, in piedi, davanti ai corpi di due drüskelle privi di sensi, uomini che
avrebbero dovuto essere i fratelli di Matthias. “Posso sparargli” pensò.
“Condannare Nina e tutti loro con un unico gesto.” Di nuovo, Matthias ebbe la
strana sensazione di guardare la propria vita dal lato sbagliato. Aveva addosso la
divisa da detenuto, un intruso nel posto che una volta chiamava casa. Chi sono io
ora?
Guardò Kaz Brekker, un ragazzo che combatteva per una sola causa: se
stesso. Eppure, era un sopravvissuto, e un soldato anche lui a suo modo. Aveva
rispettato l’accordo. In qualunque momento, avrebbe potuto stabilire che
Matthias non gli serviva più: dopo che li aveva aiutati a disegnare le mappe,
dopo che avevano superato le celle di detenzione, dopo che gli aveva rivelato il
segreto del ponte. E chiunque fosse diventato ora, Matthias non avrebbe sparato
a qualcuno disarmato. Non era ancora finito così in basso.
Matthias abbassò l’arma.
Le labbra di Kaz accennarono un vago sorriso. «Non ero sicuro di cosa
avresti fatto se fossimo arrivati a questo punto.»
«Nemmeno io» ammise Matthias. Kaz sollevò un sopracciglio, e la verità
colpì Matthias con la forza di un pugno. «Era un test. Tu l’hai fatto apposta a
non raccogliere il fucile.»
«Dovevo essere sicuro che tu fossi veramente con noi. Con tutti noi.»
«Come facevi a sapere che non avrei sparato?»
«Perché, Matthias, tu puzzi di correttezza lontano un miglio.»
«Sei pazzo.»
«Conosci il segreto del gioco d’azzardo, Helvar?» Kaz pestò con il piede
buono il calcio del fucile al suolo, che saltò su, capovolgendosi. Kaz se lo ritrovò
in mano e puntato contro Matthias nello spazio di un respiro. Non era mai stato
minimamente in pericolo. «Barare. Ora ripuliamoci e mettiamoci addosso quelle
uniformi. Dobbiamo andare a una festa.»
«Un giorno rimarrai a corto di trucchi, demjin.»
«Farai bene a sperare che non sia oggi.»
“Vedremo cosa ci porta questa notte” pensò Matthias mentre eseguiva gli
ordini. “Gli imbrogli non sono la mia lingua madre, ma sono ancora in tempo per
imparare a parlarla.”
30
JESPER

Nove rintocchi e un quarto


Jesper avrebbe dovuto avercela con Kaz: per aver inseguito Pekka Rollins e aver
mandato a rotoli il loro piano originario, e per averli esposti a pericoli ancora più
grossi con questo nuovo programma. Ma mentre lui e Wylan strisciavano verso
la portineria lungo il tetto dei drüskelle, era troppo dannatamente felice per
essere arrabbiato. Il cuore gli galoppava, e l’adrenalina gli scorreva in corpo in
deliziose ondate. Un po’ come era successo a quella festa nello Stave dell’Ovest.
Qualcuno aveva riempito di champagne una fontana cittadina, e Jesper ci aveva
messo circa due secondi per tuffarsi senza stivali e con la gola spalancata.
Adesso era il rischio a riempirgli bocca e naso, e a farlo sentire carico di energia
e invincibile. Amava quella sensazione, e si odiava per il fatto di amarla.
Avrebbe dovuto pensare al colpo, al denaro, a cavarsi fuori dai debiti, a fare in
modo che suo padre non soffrisse per le sue pagliacciate. Ma quando la mente di
Jesper sfiorava quel genere di pensieri, in lui tutto si ritraeva. Cercare di non
morire era la migliore distrazione possibile.
Comunque, Jesper era più consapevole dei rumori che producevano adesso
che erano lontani dalla folla e dalla confusione dell’ambasciata. Questa notte
apparteneva ai drüskelle. Hringkälla era la loro festa, ed erano tutti al sicuro
sull’Isola Bianca. Questo edificio, per lui e Wylan, era probabilmente il posto
più sicuro dove stare. Eppure il silenzio sembrava pesante, sinistro. Qui non
c’erano salici o fontane, a differenza che all’ambasciata. Come il carcere, questa
zona della Corte di Ghiaccio non era fatta per essere esposta allo sguardo
pubblico. Jesper si accorse che per il nervosismo stava muovendo con la lingua,
avanti e indietro, il dischetto di baleen che aveva incastrato tra i denti e si
costrinse a smettere prima di attivarlo. Era abbastanza certo che Wylan non gli
avrebbe mai perdonato un’idiozia come quella.
Un grosso lucernario a forma di piramide si affacciava su quella che
sembrava una stanza per le esercitazioni, con una testa di lupo incisa sul
pavimento e gli scaffali pieni di armi.
Attraverso il vetro del lucernario successivo, vide una grande sala da pranzo.
Una parete era del tutto occupata da un imponente camino, e sopra il camino
c’era una testa di lupo scolpita nella pietra. Il muro di fronte era decorato da un
enorme stendardo che non aveva uno schema riconoscibile, sembrava piuttosto
un patchwork di strisce sottili di stoffa: per lo più rosse e blu, ma anche viola.
Jesper impiegò un attimo a capire che cosa stava guardando.
«Per tutti i Santi» disse, con un po’ di nausea. «I colori Grisha.»
Wylan aguzzò lo sguardo. «Lo stendardo?»
«Rosso per i Corporalki. Blu per gli Etherealki. Viola per i Materialki. Quelli
sono pezzi delle kefta che i Grisha indossano in battaglia. Sono trofei.»
«Sono parecchi.»
Centinaia. Migliaia. “Io avrei indossato il viola” pensò Jesper, “se mi fossi
unito al Secondo Esercito.”
Cercò di recuperare l’entusiasmo effervescente che aveva gorgogliato dentro
di lui solo pochi istanti prima. Era stato addirittura entusiasta di rischiare la
cattura e la condanna a morte come ladro e killer professionista. Perché era
peggio pensare di essere braccato come Grisha?
«Muoviamoci.»
Proprio come per la prigione e per l’ambasciata, la portineria nel settore dei
drüskelle era stata costruita attorno a un cortile di modo che chiunque, entrando,
potesse essere tenuto d’occhio da sopra e colpito, se necessario. Ma con il
cancello chiuso, i parapetti affacciati sul cortile erano deserti come tutto il resto
dell’edificio. Qui, lastre di lucida pietra nera erano intarsiate con la testa del lupo
d’argento, e le superfici erano illuminate da un’inquietante fiamma blu. Era
l’unica zona della Corte di Ghiaccio a non essere bianca o grigia. Persino il
cancello era di un qualche metallo nero che sembrava incredibilmente pesante.
Di sotto si vedeva una guardia, appoggiata alla volta della portineria, con un
fucile a tracolla.
«Soltanto una?» domandò Wylan.
«Matthias ha detto che c’erano quattro guardie ai cancelli non in funzione.»
«Forse il Protocollo Giallo gioca a nostro favore» disse Wylan. «Potrebbero
averle mandate al settore della prigione o...»
«O forse ci sono dodici grossi Fjerdiani che se ne stanno dentro al calduccio.»
Sotto gli occhi di Jesper e Wylan, la guardia aprì un barattolo di jurda e si
mise in bocca un mucchietto di fiori d’arancio essiccati. Aveva l’aria annoiata e
infastidita, probabilmente era frustrato dal fatto di essere lontano dal
divertimento e dai festeggiamenti di Hringkälla.
“Non ti biasimo” pensò Jesper. “Ma la tua vita sta per diventare molto più
eccitante.”
Perlomeno la guardia indossava l’uniforme ordinaria invece della divisa nera
dei drüskelle, considerò Jesper, ancora incapace di scacciare via l’immagine
dello stendardo dalla testa.
Sua madre era Zemeni, ma nelle vene di suo padre scorreva il sangue Kaelish
che aveva regalato a Jesper gli occhi grigi, e l’uomo non aveva mai abbandonato
del tutto le superstizioni dell’Isola Errante. Quando Jesper aveva iniziato a
manifestare i propri poteri, a suo padre si era spezzato il cuore e lo aveva
incoraggiato a tenerli nascosti. “Ho paura per te” gli aveva detto. “Il mondo può
essere crudele con quelli come te.” Jesper si era sempre chiesto se anche suo
padre avesse avuto un po’ paura di lui.
“E se andassi a Ravka invece che a Kerch?” pensò. “E se mi aggregassi al
Secondo Esercito?” Permettevano anche ai Fabrikator di combattere, o li
tenevano rinchiusi nei laboratori? Ravka era più solida ora, ricostruita. Non c’era
un disegno prestabilito per i Grisha. Avrebbe potuto andarci, visitarla, magari
imparare a usare meglio i propri poteri, lasciarsi alle spalle le bische di
Ketterdam. Se fossero riusciti a consegnare Bo Yul-Bayur al Consiglio dei
Mercanti, tutto sarebbe stato possibile. Si riscosse. A cosa stava pensando? Gli
serviva una dose di pericolo imminente per tenere la testa a posto.
Si alzò. «Io entro.»
«Qual è il piano?»
«Vedrai.»
«Lascia che ti aiuti.»
«Puoi aiutarmi stando zitto e rimanendo fuori dai piedi. Qui» disse Jesper
mentre agganciava la fune oltre l’orlo del tetto, lasciandola cadere dietro una fila
di lastre di pietra che costeggiavano la passerella. «Aspetta fino a che ho
immobilizzato le guardie, poi stai giù.»
«Jesper...»
Jesper avanzò lungo il tetto, la testa bassa per non farsi vedere, tenendosi alla
larga dal bordo che dava sul cortile. Si piazzò sul muro dietro la guardia. Più
silenziosamente che riuscì, agganciò un pezzo di fune al tetto e lentamente si
calò giù. La sentinella era quasi sotto di lui. Jesper non era lo Spettro, ma se
fosse riuscito a saltar giù senza far rumore e avvicinarsi di soppiatto alle sue
spalle, non avrebbe agitato le acque.
Si tese, pronto a saltare. Una seconda guardia uscì a passo spedito dalla
portineria, battendo le mani per il freddo e parlando a voce alta, e poi ne apparve
una terza. Jesper si immobilizzò. Stava dondolando sopra tre guardie armate, a
penzoloni davanti a un muro, in piena vista. Ecco perché Kaz pianificava sempre
tutto. Il sudore gli imperlò la fronte. Non poteva fronteggiare tre uomini insieme.
E se ce ne fossero stati altri nella portineria, pronti a suonare l’allarme?
«Aspettate» disse uno di loro. «Non avete sentito niente?»
Non guardate in alto. Oh, Santi numi, non guardate in alto.
Le guardie si mossero lentamente in circolo, i fucili alzati. Una di loro piegò
la testa indietro per scrutare il tetto. Cominciò a voltarsi.
Un suono strano, dolce, trafisse l’aria.
«Skerden Fjerda, kende hjertzeeeeeng, lendten isen en de waaaanden.»
Delle parole in lingua Fjerdiana che Jesper non capiva raggiunsero la
portineria in un brillante, perfetto canto da tenore che sembrava librarsi sopra i
bastioni di pietra nera.
Wylan.
Le guardie si girarono di scatto, i fucili puntati sul vialetto che conduceva al
cortile, cercando di capire da dove provenisse quel suono.
«Olander?» chiamò una.
«Nilson?» chiamò un’altra.
Le armi erano spianate, ma le voci erano più disorientate e incuriosite che
aggressive.
Cosa diavolo sta facendo?
Apparve una sagoma nella volta del vialetto, che barcollava a destra e a
sinistra.
«Skerden Fjerda, kende hjertzeeeeeng» cantò Wylan, dando l’impressione
sorprendentemente convincente di essere un Fjerdiano ubriaco ma di gran
talento.
Le guardie scoppiarono a ridere, e si misero a cantare anche loro. «Lendten
isen...»
Jesper saltò giù. Agguantò il Fjerdiano a lui più vicino, gli spezzò il collo e
gli strappò via il fucile. Quando l’altro soldato si voltò, Jesper gli sbatté il calcio
del fucile in faccia, producendo un brutto scricchiolio. Il terzo soldato sollevò
l’arma, ma Wylan gli prese le braccia da dietro e gliele strinse goffamente. Il
soldato fece cadere il fucile, che produsse un rumore sferragliante sulla pietra.
Prima che potesse urlare, Jesper scattò in avanti e gli spinse con forza il calcio
del fucile in pancia, poi lo finì con due colpi alla mascella.
Si abbassò e lanciò un fucile a Wylan. Rimasero in piedi davanti ai corpi delle
guardie, ansimando, le armi alzate, aspettando di vedere altri soldati Fjerdiani
riversarsi fuori dalla portineria. Non venne nessuno. Forse il quarto era stato
allontanato a causa del Protocollo Giallo.
«È così che stai zitto e fuori dai piedi?» bisbigliò Jesper mentre trascinavano i
corpi delle guardie dietro una lastra di pietra.
«È così che dici grazie?» lo rimbeccò Wylan.
«Cosa diavolo era quella canzone?»
«L’inno nazionale» disse Wylan compiaciuto. «Scuola Fjerdiana, ricordi?»
Jesper scrollò la testa. «Sono colpito. Da te e dai tuoi precettori.»
Si misero due uniformi, nascosero le proprie divise da galeotti in un mucchio
ordinato, poi legarono mani e piedi alle guardie che erano ancora in vita e le
imbavagliarono con dei pezzi di stoffa strappati dalle divise. L’uniforme di
Wylan era troppo grande, mentre le maniche e le gambe dei pantaloni di Jesper
erano corte in modo ridicolo, ma almeno gli stivali andavano ragionevolmente
bene.
Wylan fece un gesto per indicare le guardie. «È sicuro lasciarle, sai com’è...»
«Vive? Non sono bravo a uccidere uomini in stato di incoscienza.»
«Potremmo svegliarli.»
«Piuttosto spietato, il nostro mercantuccio. Hai mai ucciso qualcuno?»
«Non avevo neanche mai visto un cadavere prima di venire nel Barile»
ammise Wylan.
«Non è qualcosa di cui vergognarsi» disse Jesper, sorprendendosi un po’. Ma
diceva sul serio. Wylan doveva imparare a badare a se stesso, ma sarebbe stato
bello se avesse potuto farlo a distanza non troppo ravvicinata con la morte.
«Assicurati che i bavagli siano belli stretti.»
Presero la precauzione in più di bloccare le guardie già legate alla base di una
lastra di pietra. Probabilmente quei poveri idioti sarebbero stati trovati prima di
riuscire a liberarsi.
«Andiamo» disse Jesper, e attraversarono il cortile diretti alla portineria.
C’erano delle porte sia a destra sia a sinistra dell’arco.
Presero il lato destro e salirono le scale con cautela. Per quanto Jesper non
credesse ci fosse qualcuno acquattato ad attenderli, delle guardie avrebbero
potuto essere state incaricate di proteggere a tutti i costi il congegno di apertura e
chiusura del cancello. Invece la stanza sopra l’arco era vuota, illuminata solo da
una lanterna situata su un tavolino dove un libro giaceva aperto accanto a un
mucchietto di noci intere e gusci rotti. Le pareti erano ricoperte da rastrelliere
zeppe di fucili – fucili molto costosi – e Jesper diede per scontato che le casse
sugli scaffali fossero piene di munizioni. Non c’era un granello di polvere da
nessuna parte. Troppo ordinati, questi Fjerdiani.
La stanza era quasi del tutto occupata da un grosso argano, con delle maniglie
a entrambi i lati, avvolto da spessi giri di catena. Vicino a ognuna delle due
maniglie, le catene diventavano raggi tesi che si infilavano dentro fessure nella
pietra.
Wylan piegò la testa di lato. «Uh.»
«Non mi piace quel verso. Cosa c’è?»
«Mi aspettavo delle corde, o dei cavi, non delle catene di ferro. Se vogliamo
che i Fjerdiani non riescano a tenere aperto il cancello, dovremo tagliare il
ferro.»
«Ma poi come inneschiamo il Protocollo Nero?»
«È questo il problema.»
L’Orologio Maggiore prese a suonare i dieci rintocchi.
«Indebolirò gli anelli» disse Jesper. «Cerca una lima o qualsiasi cosa abbia
una punta.»
Wylan sollevò le cesoie prese in lavanderia.
«Ce le faremo andar bene» disse Jesper. Avrebbero dovuto andare bene.
“Abbiamo tempo” si disse mentre si concentrava sulla catena. “Possiamo
ancora farcela.” Jesper sperò che gli altri non avessero trovato sorprese.
Forse Matthias si sbagliava sull’Isola Bianca. Forse le cesoie si sarebbero
spezzate tra le mani di Wylan. Forse Inej avrebbe fallito. Oppure Nina. Oppure
Kaz.
Oppure io. Forse fallirò io.
Sei persone, e un migliaio di modi in cui questo folle piano poteva finire
male.
31
NINA

Nove rintocchi e mezzo


Nina si arrischiò a guardarsi alle spalle un’altra volta, e osservò le guardie
trascinare via Inej. È sveglia, ed è micidiale. Inej è capace di badare a se stessa.
Il pensiero le offrì un po’ di conforto, e doveva darsi una mossa. Era arrivata
insieme a Inej, e Nina voleva sparire prima che la guardia che l’aveva fermata
iniziasse a sospettare anche di lei. E poi non c’era niente che potesse fare per
Inej ora, non senza tradirsi e rovinare tutto. Si tuffò nella folla e si slacciò il
vistoso mantello di crine di cavallo, facendolo strusciare per terra dietro di sé,
quindi lasciò che cadesse e che la folla lo calpestasse. Anche il costume che
aveva indosso faceva girare le teste, ma almeno adesso non doveva preoccuparsi
che una grossa criniera rossa rivelasse dove si trovava.
Il ponte di vetro si erse davanti a lei in un arco scintillante, con le fiamme blu
delle lanterne che brillavano sulle guglie. La gente rideva e si sorreggeva a
vicenda mentre saliva sopra il fossato di ghiaccio la cui superficie, di sotto,
splendeva come uno specchio quasi perfetto. L’effetto era sconcertante e dava le
vertigini; le sue scarpette troppo strette e ricoperte di perline sembravano
fluttuare a mezz’aria. La gente accanto a lei sembrava che stesse camminando
sul nulla assoluto.
Di nuovo, Nina ebbe la spiacevole intuizione che in un lontano passato fosse
stata l’abilità dei Fabrikator a edificare questo posto. I Fjerdiani sostenevano che
la Corte di Ghiaccio fosse opera di un dio o di Sënj Egmond, uno dei Santi che
secondo loro aveva sangue Fjerdiano nelle vene. Ma a Ravka la gente aveva
preso a riconsiderare i miracoli dei Santi. Erano stati dei veri prodigi o più
semplicemente il lavoro di Grisha dotati di talento? Quel ponte era un regalo da
parte di Djel? Un frutto antico del lavoro degli schiavi? Oppure la Corte di
Ghiaccio era stata costruita in un’epoca precedente a quella in cui i Grisha erano
diventati dei mostri agli occhi dei Fjerdiani?
Sul punto più alto del ponte, Nina vide veramente per la prima volta l’Isola
Bianca e il suo cerchio interno. Da lontano, aveva già notato che l’isola era
protetta da un altro muro. Ma da questo punto di vista privilegiato, scoprì che il
muro era stato realizzato a forma di leviatano, un enorme drago dei ghiacci che
circondava l’isola e ingoiava la propria coda. Nina rabbrividì. Lupi, draghi, qual
era il prossimo? Nelle favole Ravkiane, i mostri aspettavano di essere risvegliati
dal richiamo degli eroi. “Be’” pensò, “noi non siamo di certo degli eroi.
Speriamo che questo mostro continui a dormire.”
La discesa dal ponte era ancora più vertiginosa, e Nina fu sollevata quando
mise di nuovo piede sul solido marmo. Alberi bianchi di ciliegio e siepi di
platani argentati bordavano il vialetto, e i controlli da questo lato del ponte
sembravano decisamente meno rigidi. Le guardie sull’attenti indossavano
raffinate uniformi candide abbellite da pellicce e merletti d’argento molto poco
minacciosi. Ma Nina si ricordò di cosa aveva detto Matthias: più ci si addentra
nei cerchi interni, più la sicurezza in realtà si stringe – diventa solo meno
evidente. Guardò le persone che si spostavano con lei su per le scale scivolose e
attraverso la fessura situata tra la coda e le fauci del drago. Quanti di loro erano
davvero degli ospiti, dei nobiluomini, degli artisti? E quanti erano soldati
Fjerdiani o drüskelle travestiti?
Attraversarono un cortile di pietra all’aperto, varcarono le porte di un palazzo
ed entrarono in un ingresso a volta alto parecchi piani. L’edificio era fatto della
stessa pietra bianca, pulita e disadorna di cui erano costituite le pareti della Corte
di Ghiaccio, e sembrava che fosse stato ricavato per intero da un ghiacciaio.
Nina non sapeva se erano i nervi, l’immaginazione, o se quel posto fosse
particolarmente freddo, ma aveva la pelle d’oca, e dovette sforzarsi di non
battere i denti.
Entrò in un’ampia sala da ballo rotonda, affollata di gente che danzava e
beveva sotto un branco luccicante di lupi cesellati nel ghiaccio. Ci dovevano
essere almeno una trentina di bestie scolpite, che correvano, che saltavano, i
fianchi che brillavano alla luce argentata, le fauci spalancate, e i musi che
lentamente si scioglievano e di tanto in tanto gocciolavano sulla folla sottostante.
Sopra il brusio delle chiacchiere, la musica proveniente da un’orchestra si udiva
appena.
L’Orologio Maggiore iniziò a suonare i dieci rintocchi. Ci aveva messo
troppo ad attraversare quello stupido ponte di vetro. Le serviva una visuale
migliore della sala. Mentre si dirigeva verso una vertiginosa scalinata di pietra
bianca, con la coda dell’occhio avvistò due figure familiari nell’ombra di una
nicchia lì vicino. Kaz e Matthias. Ce l’avevano fatta. E indossavano l’uniforme
da drüskelle. Nina represse un brivido. Vedere Matthias con quella divisa le
faceva sentire un tipo diverso di freddo nelle ossa. Che cosa aveva pensato
Matthias quando se l’era messa? Lasciò che i propri occhi incontrassero per un
istante quelli di lui, ma il suo sguardo era impenetrabile. E tuttavia, vedere Kaz
le fu di conforto. Non era sola, ed erano ancora in orario.
Non rischiò nemmeno un cenno di riconoscimento, ma continuò a salire le
scale verso il balcone al secondo piano, da dove avrebbe potuto vedere meglio il
flusso della folla. Era un trucco che aveva imparato a scuola da Zoya
Nazyalensky. C’erano degli schemi nel modo in cui gli individui si muovevano,
nel modo in cui si stringevano attorno al potere. La gente pensava di vagare, di
aggirarsi qua e là senza meta, in realtà era attirata verso le persone di un certo
status. Com’era prevedibile, una grossa concentrazione vorticava attorno alla
regina dei Fjerdiani e ai suoi cortigiani. “Che strano” pensò Nina, osservando i
loro abiti da sera bianchi. A Ravka, il bianco era un colore da inservienti. In
compenso c’era poco da storcere il naso davanti a quella corona: spine
attorcigliate di diamanti che sembravano rami raggianti di nuova brina.
I reali erano troppo ben protetti per esserle utili, ma non lontano da lì Nina
vide un altro mulinello attorno a un gruppo di persone in abiti militari.
Se qualcuno sapeva dove fosse Yul-Bayur sull’isola, doveva essere un
esponente di alto livello nelle forze armate di Fjerda.
«Bella vista, vero?»
Nina per poco non sobbalzò quando un uomo le spuntò di fianco. Che gran
spia che era. Non l’aveva neanche notato avvicinarsi.
Lui le fece un gran sorriso e le mise una mano in fondo alla schiena. «Lo sa,
ci sono delle stanze, qua, riservate ai piccoli piaceri. E lei sembra molto più di un
piccolo piacere.» La mano scivolò ancora più in basso.
Nina gli rallentò il battito cardiaco, e lui cadde come un sasso, sbattendo il
capo contro la ringhiera. Si sarebbe svegliato in una decina di minuti con un
brutto mal di testa e forse una piccola commozione cerebrale.
«Tutto bene?» chiese una coppia di passaggio.
«Ha bevuto troppo» disse Nina, disinvolta.
Scivolò rapidamente giù per le scale e si immerse nella folla, procedendo
fermamente verso un gruppo di soldati in abiti militari bianchi e argento che
circondavano un uomo corpulento con un lussureggiante paio di baffi. Se la
costellazione di medaglie che aveva sul petto voleva dire qualcosa, doveva
essere il generale o giù di lì. Avrebbe dovuto puntare a lui direttamente? A lei
serviva qualcuno abbastanza in alto da avere accesso a informazioni riservate. E
anche qualcuno abbastanza sbronzo da prendere decisioni sconsiderate, ma non
così sbronzo da non riuscire a portarla dove lei doveva andare. Dall’aspetto
rubicondo delle guance e dal modo in cui barcollava, sembrava che il generale
non potesse fare alcunché a eccezione di un pisolino a faccia in giù dentro una
pianta in vaso.
Nina sentiva scorrere i minuti. Era tempo di fare la propria mossa. Sgraffignò
un bicchiere di champagne e si avvicinò cautamente al circolo di militari. Non
appena un soldato si staccò dal gruppo lei fece un passo indietro, direttamente
sulla sua traiettoria. Lui le andò addosso. Era un tipo piuttosto agile e non fu un
grosso urto, ma Nina lanciò un grido acuto e barcollò in avanti rovesciando lo
champagne. All’istante, diverse braccia forti si allungarono per sorreggerla.
«Sei uno scemo» disse il generale. «L’hai quasi buttata a terra.»
“E al primo tentativo” pensò Nina tra sé e sé. “Come non detto. Sono una spia
eccezionale.”
Le guance del povero soldato erano di un rosso acceso. «Le mie scuse,
signorina.»
«Mi spiace» disse lei in Kerch, fingendo di essere confusa e attenendosi alla
lingua del Serraglio. «Non parlo il Fjerdiano.»
«Le mie più sentite scuse» provò il soldato in Kerch. Poi fece un valoroso
tentativo in Kaelish. «Molto spiacente.»
«Oh no, è stata interamente colpa mia» disse Nina affannosamente.
«Ahlgren, smettila di massacrare la sua lingua e vai a prenderle un altro
bicchiere di champagne.» Il soldato si inchinò e si allontanò in fretta. «Va tutto
bene? Le cerco una sedia?» domandò il generale in un ottimo Kerch.
«Mi sono solo spaventata» disse Nina con un sorriso, sorreggendosi al
braccio del generale.
«La mia opinione è che farebbe meglio a coricarsi.»
Nina inarcò un sopracciglio. Non ho dubbi. Ma prima devo scoprire quello
che sai.
«E perdermi la festa?»
«Sembra pallida. Un po’ di riposo in una delle stanze al piano di sopra
l’aiuterà.»
Per tutti i Santi, non perde tempo, vero? Prima che Nina potesse insistere che
stava benissimo, ma le sarebbe piaciuto fare un giro sulla terrazza, una voce
calda disse: «Veramente, Generale Eklund, il modo migliore per conquistare i
favori di una donna non è quello di dirle che ha un aspetto malaticcio».
Il generale si accigliò, i baffi si fecero irti, ma poi sembrò scattare sull’attenti.
«Verissimo, verissimo» disse ridendo nervosamente.
Nina si voltò, e fu come se il pavimento le crollasse sotto i piedi. “No” pensò,
con il cuore stretto dal panico. “Non può essere. È annegato. Dovrebbe stare in
fondo all’oceano.”
Ma se era morto Jarl Brum, era il cadavere più in forma di tutti i tempi.
32
JESPER

Dieci rintocchi e mezzo


I vestiti di Jesper erano coperti di schegge e trucioli di ferro. L’uniforme che
aveva sottratto alla guardia era inzuppata di sudore, le braccia gli dolevano e il
mal di testa che si era insinuato nella sua tempia sinistra sembrava che avesse
deciso di prendervi fissa dimora. Per quasi mezz’ora si era concentrato su un
singolo anello della catena che scorreva dall’estremità sinistra dell’argano a una
delle fessure nel muro di pietra, usando il proprio potere per indebolire il
metallo, mentre Wylan usava le cesoie della lavanderia per segarlo. All’inizio
erano stati cauti, preoccupati di spezzare l’anello e mettere fuori uso il cancello
prima che fosse arrivato il momento di alzarlo, ma il ferro era più resistente di
quello che avevano previsto, e i loro progressi erano lenti in maniera
esasperante. Quando suonarono i rintocchi dei tre quarti, il panico prese il
sopravvento su Jesper.
«Basta, alziamo il cancello» disse con un ringhio frustrato. «Facciamo
suonare il Protocollo Nero, poi spariamo all’argano finché non cede.»
Wylan si tolse i riccioli dalla fronte e gli concesse un’occhiata fugace. Le sue
mani erano insanguinate là dove le vesciche si erano prima formate e poi, mentre
segava l’anello, erano scoppiate. «Ti piacciono davvero così tanto le armi?»
Jesper scrollò le spalle. «Non mi piace uccidere la gente.»
«Allora di che cosa si tratta?»
Jesper si rimise al lavoro sull’anello. «Non lo so. Il rumore. Il modo in cui il
mondo si restringe attorno a te e al bersaglio. Ho lavorato con un armaiolo a
Novyi Zem che sapeva che io ero un Fabrikator. Ci siamo inventati delle cose
pazzesche.»
«Per uccidere la gente.»
«Tu costruisci bombe, mercantuccio. Risparmiami i tuoi giudizi morali.»
«Mi chiamo Wylan. E hai ragione. Non sono nella posizione di poterti
criticare.»
«Non cominciare.»
«A fare cosa?»
«A darmi ragione» disse Jesper. «Ci farà fare una brutta fine.»
«Neanche a me piace l’idea di uccidere la gente. Non mi piace nemmeno la
chimica.»
«Cosa ti piace?»
«La musica. I numeri. Le equazioni. Non sono come le parole. I numeri... i
numeri non vanno in confusione.»
«Se potessimo parlare alle ragazze con le equazioni.»
Ci fu un lungo silenzio, al termine del quale, gli occhi fissi sulla tacca che
avevano formato nell’anello, Wylan disse: «Soltanto alle ragazze?».
Jesper trattenne un sorriso. «No. Non soltanto alle ragazze.» Era veramente
un peccato che sarebbero probabilmente morti tutti quella notte. In quel
momento l’Orologio Maggiore prese a suonare gli undici rintocchi. I suoi occhi
incontrarono quelli di Wylan. Non avevano più tempo.
Jesper balzò in piedi e si spazzò via dalla faccia e dalla camicia qualche
frammento di metallo. La catena avrebbe retto abbastanza a lungo? Troppo a
lungo? Adesso l’avrebbero scoperto. «Mettiti in posizione.»
Wylan prese posto alla maniglia destra dell’argano, e Jesper afferrò la
maniglia a sinistra.
«Pronto a sentire il suono della tragedia che si compie?» gli fece.
«Non hai mai visto mio padre dare di matto.»
«Il tuo senso dell’umorismo sta diventando sempre più consono al Barile. Se
sopravviviamo, ti insegnerò a imprecare. Al mio via» disse Jesper. «Facciamo
sapere alla Corte di Ghiaccio che gli Scarti sono venuti a trovarli.»
Jesper contò a rovescio dal tre e poi presero a girare l’argano, tentando di
adeguarsi al ritmo l’uno dell’altro, gli occhi sull’anello indebolito. Jesper si era
aspettato dei rumori assordanti, ma a eccezione di qualche cigolio e qualche
scricchiolio, il macchinario era silenzioso.
Lentamente, il cancello delle mura ad anello cominciò ad alzarsi. Cinque
pollici. Dieci pollici.
“Forse non succederà nulla” pensò Jesper. “Forse Matthias stava mentendo, o
forse tutta questa storia del Protocollo Nero è una balla per dissuadere la gente
anche solo dal provarci, ad aprire i cancelli.”
E poi le campane dell’Orologio Maggiore risuonarono forti, come se fossero
in preda al panico, acute ed esigenti, una marea crescente di echi che
riverberavano, che si rincorrevano, che rimbombavano per l’Isola Bianca, il
fossato di ghiaccio, il muro. Le campane del Protocollo Nero. Adesso non c’era
modo di tornare indietro. Jesper e Wylan mollarono le maniglie dell’argano in
contemporanea, lasciando che il cancello precipitasse giù, ma l’anello ancora
non cedette.
«Avanti» disse Jesper, per convincere quel metallo ostinato. Con ogni
probabilità, un Fabrikator più in gamba avrebbe fatto un lavoro veloce. E uno
sotto l’effetto della parem avrebbe trasformato la catena in un set di coltelli da
bistecca e gli sarebbe rimasto il tempo per farsi una tazza di caffè.
Ma Jesper non era nessuno dei due, e si era stancato di andare per il sottile. Si
aggrappò alla catena, vi si appese e usò tutto il proprio peso per fare pressione
sull’anello. Wylan fece lo stesso, e per un momento penzolarono dalla catena e
la strattonarono come una coppia di scoiattoli che non padroneggiavano ancora
l’arte di arrampicarsi. Ormai, in qualunque istante le guardie avrebbero potuto
precipitarsi infuriate nel cortile, e loro avrebbe dovuto piantarla con questa follia
per difendersi. Il cancello era ancora in funzione.
Avevano fallito.
«Forse dovresti cantargli qualcosa» disse Jesper senza speranza.
E in quel momento, con un tremito finale di protesta, l’anello si spezzò.
Jesper e Wylan caddero sul pavimento mentre la catena sfrecciava tra le loro
mani: un’estremità sparì nel buco del muro, l’altra fece girare velocissime, a
vuoto, le maniglie dell’argano.
«Ce l’abbiamo fatta!» urlò Jesper sopra il frastuono delle campane, tra
l’eccitazione e il terrore. «Ti copro io. Tu pensa all’argano!»
Jesper prese il fucile, si rannicchiò in una nicchia del muro affacciata sul
cortile, e si preparò a scatenare l’inferno.
33
INEJ

Dieci rintocchi e mezzo


«Per quanto dobbiamo stare ancora qui ad aspettare?» chiese un uomo in un
abito di velluto color vinaccia. Le guardie lo ignorarono, ma gli altri ospiti
radunati accanto all’entrata con Inej brontolarono. «Mi è costato un occhio della
testa venire qui» continuò l’uomo «e non l’ho fatto per passare tutto il tempo
sulla porta d’ingresso.»
La guardia a loro più vicina recitò in tono piatto: «Gli uomini al posto di
blocco stanno controllando altri ospiti. Non appena saranno disponibili, sarete
riportati indietro, oltre le mura ad anello, e trattenuti lì finché le vostre generalità
non saranno state verificate».
«Trattenuti» disse l’uomo in velluto. «Come criminali!»
Inej aveva sentito variazioni sul tema dello stesso dialogo per quasi un’ora.
Lanciò un’occhiata al cortile che portava al cancello dell’ambasciata. Se voleva
seguire il piano doveva essere furba, e restare calma. Peccato che non fosse
esattamente questo il piano, e lei non fosse assolutamente calma. La sicurezza e
l’ottimismo che aveva provato solo poco prima si erano volatilizzati. Rimase in
attesa mentre i minuti scorrevano, con gli occhi che scrutavano la folla. Ma
quando suonarono i tre quarti, si rese conto che non poteva più aspettare.
Doveva agire subito.
«Ne ho avuto abbastanza» disse a voce alta. «Portateci al posto di blocco o
lasciateci andare.»
«Le guardie di presidio al posto di blocco...»
Inej si portò in testa al gruppo e disse: «Siamo tutti stufi di sentire questo
discorso. Portateci al cancello e procediamo».
«Fate silenzio» ordinò la guardia. «Siete degli ospiti, qui.»
Inej gli affondò un dito nel petto. «Allora trattateci come tali» disse, facendo
la migliore imitazione possibile di Nina. «Esigo di essere portata al cancello
immediatamente, grosso energumeno biondo.»
La guardia l’afferrò per il braccio. «Sei così impaziente di andare al cancello?
Andiamo. Non tornerai indietro.»
«Io dico solamente...»
Un’altra voce echeggiò per la rotonda. «Fermi! Voi, laggiù, ho detto fermi!»
Inej sentì un odore denso e pastoso di gigli dorati. Il suo profumo. Voleva
morire. Heleen Van Houden, padrona e titolare del Serraglio, la Casa delle
Creature Esotiche, dove il mondo era tuo se pagavi un prezzo, si stava facendo
largo tra la folla.
Aveva già detto che Tante Heleen adorava le entrate a effetto?
La guardia si fermò di colpo, colta di sorpresa, quando Heleen gli apparve
davanti. «Signora, la sua ragazza le sarà restituita alla fine della notte. I suoi
documenti...»
«Lei non è una mia ragazza» disse Heleen, con gli occhi ridotti a due fessure
crudeli. Inej rimase perfettamente immobile, nemmeno lei poteva sparire se non
aveva un posto dove andare. «Questa è lo Spettro, il braccio destro di Kaz
Brekker e una delle più note criminali di Ketterdam.»
La gente intorno si voltò a guardare.
«Come osi venire qui sotto la protezione della mia Casa?» sibilò Heleen. «La
casa che ti ha nutrita e vestita? E dov’è Adjala?»
Inej aprì la bocca, ma il panico si levò a serrarle la gola e a soffocare le parole
prima che potessero uscire. La lingua era inutile e paralizzata. Ancora una volta,
stava guardando negli occhi della donna che l’aveva colpita, minacciata,
comprata una volta e poi venduta, e rivenduta, innumerevoli volte. Heleen
l’afferrò per le spalle e la scrollò. «Dov’è la mia ragazza?»
Inej abbassò lo sguardo a fissare le dita che le scavavano nella carne. Per un
brevissimo istante le tornò in mente ogni orrore, e diventò per davvero uno
spettro, un fantasma che si staccava da un corpo che le aveva procurato solo
sofferenza. No. Un corpo che le aveva dato la sua forza. Un corpo che l’aveva
portata sopra i tetti di Ketterdam, che l’aveva servita in battaglia, che l’aveva
condotta su per sei piani nell’oscurità di una canna fumaria sporca di fuliggine.
Inej prese il polso di Heleen e lo torse con violenza. Heleen strillò e piegò le
ginocchia mentre le guardie scattavano in avanti.
«Ho scaraventato la tua ragazza nel fossato di ghiaccio» ringhiò Inej, che a
malapena riconobbe la propria voce. Con l’altra mano abbrancò la gola di
Heleen e la strinse. «E si trova meglio laggiù che con te.»
Poi delle braccia vigorose la strattonarono via, la staccarono dall’altra donna
e la tirarono indietro.
Inej ansimò, il cuore lanciato al galoppo. “Avrei potuto ucciderla” pensò. “La
sua vita mi pulsava in mano. Avrei dovuto ucciderla.”
Heleen si rimise in piedi, piagnucolando e tossendo mentre gli ospiti si
avvicinavano per aiutarla. «Se lei è qui, vuol dire che c’è anche Brekker!» strillò.
Proprio in quel momento, manco a farlo apposta, le campane del Protocollo
Nero attaccarono a suonare, forti e insistenti. Ci fu un momento di inerme
stordimento. Poi l’intera rotonda sembrò mettersi in azione mentre le guardie
correvano ai propri posti e i comandanti iniziavano a dare ordini.
Uno dei soldati, evidentemente il capitano, disse qualcosa in Fjerdiano.
L’unica parola che Inej riconobbe fu prigione. Lui la prese per la seta del
mantello e urlò in Kerch: «Chi c’è con te? Qual è il vostro obiettivo?».
«Non dirò niente» replicò Inej.
«Canterai, se vogliamo che tu lo faccia» sputò la guardia.
La risata di Heleen era bassa e colma di piacere. «Ti vedrò appesa alla forca.
Insieme a Brekker.»
«Il ponte è chiuso» annunciò qualcuno. «Nessun altro potrà entrare o uscire
dall’isola questa notte!» Gli ospiti, arrabbiati, si girarono verso chiunque fosse
disposto ad ascoltarli, pretendendo spiegazioni.
Mentre le campane continuavano a suonare, le guardie trascinarono via Inej
attraverso il cortile, oltre gli uomini a bocca aperta, e fuori dal cancello delle
mura ad anello. Ora non si preoccupavano più di mostrare gentilezza o
diplomazia.
«Te l’avevo detto che avresti messo ancora le mie vesti, piccola lince» gridò
Heleen dall’altra parte del cortile. Il cancello si stava già abbassando, e le
guardie lo stavano sigillando come previsto dal Protocollo Nero. «E adesso ti ci
impiccheranno, con quelle vesti.»
Il cancello si chiuse con violenza, ma Inej avrebbe giurato di riuscire ancora a
sentire la risata di Heleen.
34
NINA

Dieci rintocchi e mezzo


Nina pregò perché il terrore che provava non fosse evidente. Brum l’aveva
riconosciuta? Lui era esattamente lo stesso: lunghi capelli biondi brizzolati alle
tempie, la mascella sottile coperta da una barba curata, l’uniforme dei drüskelle:
nero e argento, la manica destra che esibiva la testa del lupo argentato. Era
passato più di un anno da quando si erano incontrati, ma lei non avrebbe mai
scordato quella faccia o l’azzurro determinato di quegli occhi.
L’ultima volta che si era ritrovata in sua compagnia, Jarl Brum si stava
vantando di Matthias e dei suoi fratelli drüskelle nella stiva di una nave.
Matthias. Aveva visto che Brum, il suo mentore, era vivo e stava parlando con
lei? Li stava osservando proprio in quel momento? Nina riuscì a non cedere alla
tentazione di setacciare la folla in cerca di lui e di Kaz.
Tuttavia, la stiva della nave era buia, e lei era una dei prigionieri: sudicia e
terrorizzata. Ora era pulita e profumata. I suoi capelli di un altro colore; la sua
pelle incipriata. Si sentì all’improvviso grata per quell’assurdo costume. Brum
era un uomo, dopotutto. C’era da sperare che Inej avesse ragione, e che Brum
vedesse soltanto una Kaelish dai capelli rossi con una scollatura molto
accentuata.
Si inchinò quasi fino a terra e lo guardò tra le ciglia. «Piacere.»
Lo sguardo di lui vagò sulle forme di lei. «Potrebbe esserlo, in effetti. Viene
dalla Casa delle Creature Esotiche, vero? Kep ye nom?»
«Nomme Fianna» rispose lei in Kaelish. La stava mettendo alla prova? «Ma
può chiamarmi come vuole.»
«Credevo che le ragazze Kaelish del Serraglio indossassero il mantello rosso
da giumenta.»
Lei mise il broncio. «La nostra ragazza Zemeni l’ha calpestato e ha strappato
via l’orlo. Secondo me l’ha fatto di proposito.»
«Dannata ragazza. Andiamo a cercarla e la puniamo?»
Nina fece una risatina forzata. «In che modo vorrebbe farlo?»
«Dicono che la punizione debba essere adeguata al crimine, ma secondo me
dovrebbe adeguarsi al criminale. Se lei fosse mia prigioniera, sarebbe mia
premura capire cosa le piace e cosa le dispiace, e di cosa ha paura, ovviamente.»
«Io non ho paura di niente» disse lei facendogli l’occhiolino.
«Veramente? Molto intrigante. I Fjerdiani apprezzano moltissimo il coraggio.
Come le sembra il nostro paese?»
«È un posto incantevole» tubò Nina. Se ti piace il ghiaccio con dell’altro
ghiaccio. Si fece forza. Se lui sapeva chi era, tanto valeva scoprirlo subito. E se
non lo sapeva, bene, allora era ancora necessario che lei localizzasse Bo Yul-
Bayur – e che soddisfazione sarebbe stata, strappare l’informazione al
leggendario Jarl Brum. Gli si fece più vicina. «Lo sa cosa mi piacerebbe davvero
visitare?»
Anche lui usò un tono da cospiratore. «Vorrei tanto conoscere tutti i suoi
segreti.»
«Ravka.»
Le labbra del drüskelle si serrarono. «Ravka? Una terra di blasfemi e
barbarie.»
«Vero, ma vedere un Grisha? Riesce a immaginare l’emozione?»
«Glielo assicuro. Non è affatto un’emozione.»
«Lei dice così solo perché indossa il simbolo del lupo. Il che significa che lei
è un... drüskelle, sì?» chiese lei, facendo finta di essere in difficoltà con la
pronuncia Fjerdiana.
«Sono il loro comandante.»
Nina sgranò gli occhi. «Allora lei deve avere sconfitto molti Grisha in
battaglia.»
«Non c’è molto onore nel combattere con delle creature simili. Preferirei
trovarmi di fronte un migliaio di uomini leali armati di spada che una di quelle
streghe bugiarde dai poteri contro natura.»
E quando arrivate con i vostri fucili automatici e i vostri carri armati,
quando aggredite bambini e villaggi inermi, noi non dovremmo usare le armi in
nostro possesso? Nina si morse con forza l’interno della guancia.
«Ci sono dei Grisha a Kerch, non è vero?» domandò Brum.
«Così ho sentito dire, ma non ne ho mai visto uno al Serraglio oppure nel
Barile. Almeno, non che io sappia.» Poteva rischiare di fare cenno alla jurda
parem? La ragazza che stava fingendo di essere come poteva avere certe
informazioni? Si sporse verso di lui, piegando le labbra in un malizioso sorriso
colpevole, nella speranza di apparire più smaniosa di eccitazione che di
informazioni. «Lo so che sono spaventosi, ma... mi eccitano. Ho sentito che i
loro poteri non hanno limiti.»
«Be’...» tentennò il drüskelle.
Nina lo vide dibattuto. Meglio battere abilmente in ritirata. Scrollò le spalle.
«Ma forse non è questa l’area di sua competenza.» Lanciò un’occhiata oltre la
spalla di lui e attirò l’attenzione di un giovane nobiluomo con un abito di seta
grigio chiaro.
«Vorrebbe vedere un Grisha stanotte?»
Lo sguardo di Nina tornò alla svelta sul comandante dei drüskelle. Tutto
quello di cui ho bisogno è uno specchio. Brum aveva recluso dei prigionieri
Grisha da qualche parte? Quello che voleva lei era sentire tutto quello sapeva lui
di Bo Yul-Bayur e della jurda parem, ma questo poteva essere un inizio. E se si
fosse ritrovata da sola con Brum...
Lei gli sfiorò il petto. «Mi sta stuzzicando.»
«Se lei sgattaiola via, la sua padrona ci farà caso?»
«Non siamo qui per questo? Per sgattaiolare via?»
Lui le porse il braccio. «Allora andiamo?»
Lei sorrise e posò una mano sull’avambraccio di lui. Lui gliela carezzò
delicatamente.
«Brava ragazza.»
Voleva vomitare. “Magari ti rendo impotente” pensò Nina cupamente, mentre
lui la guidava fuori dalla sala da ballo e attraverso una foresta a terrazze di
sculture di ghiaccio: un lupo con una doppia aquila stridente tra le fauci, un
serpente avvolto attorno a un orso.
«Com’è... primitivo» mormorò lei.
Brum fece una risatina e le accarezzò di nuovo la mano. «Siamo una civiltà
guerriera.»
“Sarebbe stato così stupido ucciderlo ora?” prese in considerazione Nina
mentre passeggiavano. “Farlo sembrare un attacco di cuore? Lasciarlo lì al
freddo?” Ma poteva sopportare ancora per un po’ che Jarl Brum sbirciasse la sua
scollatura, se questo voleva dire salvare il mondo dalla jurda parem.
Inoltre, se Bo Yul-Bayur era su quest’isola abbandonata dai Santi, Brum era
uno dei pochi a poterla condurre da lui. Le guardie alle porte della sala da ballo
li avevano lasciati passare con poco più di un sopracciglio alzato e un sorrisetto.
Davanti a loro, Nina vide un enorme albero argentato al centro di un cortile
rotondo, i cui grossi rami si aprivano sopra delle pietre a formare una tettoia
scintillante. “Il frassino sacro” realizzò Nina. Quindi dovevano essere nel centro
dell’isola. Il cortile era circondato da colonnati ad arco su entrambi i lati. Se i
disegni di Matthias e Wylan erano giusti, l’edificio subito dopo era la camera del
tesoro.
Invece di condurla attraverso il cortile, Brum girò a sinistra su un sentiero che
abbracciava il colonnato. Mentre lo percorreva, Nina intravide un gruppo di
persone con giacche e cappucci neri avvicinarsi all’albero.
«Chi sono?» domandò, anche se sospettava di saperlo.
«Drüskelle.»
«Non dovrebbe essere con loro?»
«Questa cerimonia è dedicata ai giovani fratelli a cui gli anziani danno il
benvenuto, non ai capitani e agli ufficiali.»
«Lei ci è passato?»
«Ogni drüskelle della storia è stato iniziato all’ordine con la stessa identica
cerimonia da quando Djel ha consacrato il primo di noi.»
Nina si sforzò di non alzare gli occhi al cielo. Come no, una gigantesca
sorgente zampillante ha scelto dei tizi per dare la caccia a della gente innocente
e massacrarla. Sembra plausibile.
«Ecco quello che celebra Hringkälla» continuò Brum. «E ogni anno, se sono
degli iniziati di valore, i drüskelle si radunano presso il frassino sacro, dove
possono ancora una volta sentire la Voce di Dio.»
Djel dice che sei un fanatico, ubriaco del tuo stesso potere. Torna l’anno
prossimo.
«Le persone dimenticano che questa è una notte sacra» brontolò Brum.
«Vengono a palazzo per bere, danzare e fornicare.»
Nina dovette morsicarsi la lingua. Considerato l’interesse di Brum per la sua
scollatura, dubitava che i suoi pensieri fossero particolarmente puri.
«Sono cose così brutte?» chiese in tono provocatorio.
Lui sorrise e le strinse il braccio. «No, se fatte con moderazione.»
«La moderazione non è il mio forte.»
«Lo vedo» disse lui. «Ha l’aspetto di una donna che si diverte.»
“Mi divertirei a strangolarti lentamente” pensò Nina mentre con le dita gli
accarezzava il braccio. Guardandolo, si rese conto che non lo biasimava soltanto
per le cose che aveva fatto ai Grisha, ma anche per quello che aveva fatto a
Matthias. Aveva preso un ragazzo triste e coraggioso, e lo aveva nutrito di odio.
Aveva messo a tacere la coscienza di Matthias con i pregiudizi e la promessa
della voce divina, che probabilmente non era altro che un alito di vento tra i rami
di un vecchio albero.
Raggiunsero il lato più lontano del colonnato. All’improvviso, si rese conto
che Brum le aveva fatto fare tutto il giro del cortile. Forse non aveva voluto che
una prostituta attraversasse un luogo sacro. Ipocrita.
«Dove stiamo andando?» gli domandò.
«Alla camera del tesoro.»
«Ha intenzione di corteggiarmi con i gioielli?»
«Non credevo che con le ragazze come lei servisse il corteggiamento. O mi
sbaglio?»
Nina fece una risata. «Be’, a tutte le ragazze piace qualche piccola
attenzione.»
«Allora è quello che avrà. Insieme all’emozione che andava cercando.»
Possibile che Yul-Bayur fosse nella camera del tesoro? Kaz aveva detto che
sarebbe stato nel posto più sicuro della Corte di Ghiaccio. Questo poteva voler
dire il palazzo, ma poteva significare altrettanto facilmente la camera del tesoro.
Perché non qui? Era un’altra struttura circolare realizzata nella bianca pietra
lucente, ma non aveva finestre, né decorazioni bizzarre o squame di drago.
Aveva l’aspetto di una tomba. Al posto delle guardie comuni, c’erano due
drüskelle a sorvegliare la porta massiccia.
Improvvisamente, tutto il peso di quello che stava facendo le piombò
addosso. Era da sola con uno degli uomini più pericolosi di Fjerda, un uomo che
l’avrebbe torturata e uccisa con gioia se avesse saputo chi era davvero. Il piano
prevedeva che lei trovasse qualcuno che potesse darle informazioni su dov’era
recluso Bo Yul-Bayur, non che diventasse intima del drüskelle più potente
dell’Isola Bianca. Gli occhi di lei esaminarono gli alberi e i sentieri circostanti, il
labirinto di siepi fatto crescere addosso al lato est della camera del tesoro,
sperando di veder muoversi qualche ombra, sperando di scoprire che c’era
qualcuno lì con lei e che non era del tutto sola. Kaz aveva giurato che l’avrebbe
tirata fuori da quest’isola, ma il piano originario era andato a rotoli, e forse anche
questo avrebbe subìto la stessa sorte.
I soldati non batterono ciglio al passaggio di Nina e Brum, si limitarono ad
accennare il saluto militare. Brum si tolse una catenella dal collo, da cui pendeva
uno strano disco rotondo. Fece scivolare il disco dentro una rientranza quasi
invisibile nella porta e gli diede un giro. Nina guardò con attenzione la serratura.
Questa avrebbe potuto superare persino le capacità di Kaz.
L’ingresso della volta a botte era freddo e spoglio, illuminato dalla stessa luce
dura e accecante che c’era all’interno delle celle dei Grisha nell’ala della
prigione. Niente lampade a gas, niente candele. Niente che i Chiamatempeste o
gli Inferni potessero controllare.
Lei strizzò gli occhi. «Dove siamo?»
«Nella vecchia camera del tesoro. La cassaforte è stata spostata anni fa.
Questa stanza è stata trasformata in un laboratorio.»
Laboratorio. A quella parola un nodo freddo si formò sotto le costole di Nina.
«Perché?»
«Com’è curiosa la mia piccina.»
“Sono alta quasi come te” pensò lei.
«La camera del tesoro era già sicura e in una posizione strategica sull’Isola
Bianca, per cui è stata una scelta logica utilizzarla per una struttura del genere.»
Le parole erano innocue, ma quel nodo di paura si strinse, ora era un pugno
gelido che le premeva contro il petto. Avanzò fianco a fianco con Brum lungo la
sala a volta, oltre le lisce porte bianche, dotate ciascuna di una finestrella di
vetro.
«Eccoci qui» disse lui, fermandosi di fronte a una porta che sembrava identica
alle altre.
Nina sbirciò attraverso il vetro. La cella era come quelle all’ultimo piano
della prigione, ma il pannello d’osservazione era sull’altro lato: un grosso
specchio che occupava metà della parete di fronte. Dentro, vide un ragazzino con
indosso una kefta blu inzaccherata che faceva avanti e indietro senza sosta,
farfugliando tra sé e sé e grattandosi le braccia. Gli occhi erano delle cavità
vuote, i capelli sporchi. Assomigliava a Nestor prima che morisse.
“I Grisha non si ammalano” pensò Nina. Ma questa era un’altra specie di
malattia.
«Non sembra molto minaccioso.»
Brum si mosse dietro di lei. Il suo respiro le sfiorò l’orecchio quando disse:
«Oh, mi creda, lo è».
La pelle di Nina si accapponò, ma lei si costrinse ad abbandonarsi
leggermente a lui. «Come mai è qui?»
«Il futuro.»
Nina si voltò e gli appoggiò le mani sul petto.
«Ce ne sono degli altri?»
Lui sbuffò, spazientito, e la condusse alla porta successiva. Una ragazza era
coricata sul fianco, i capelli arruffati le coprivano il viso. Indossava una
sottoveste sporca e aveva le braccia ricoperte di lividi. Brum diede un colpo
secco alla finestrella, facendo trasalire Nina.
«Su, un po’ di vita» la sbeffeggiò lui, ma la ragazza non si mosse. Il dito di
Brum si portò sopra un pulsante d’ottone fissato vicino alla finestra. «Se vuoi un
vero spettacolo, potrei premere questo tasto.»
«Che cosa fa?»
«Cose bellissime. Miracolose, addirittura.»
Nina pensava di saperlo; il pulsante avrebbe in qualche modo somministrato
della jurda parem alla ragazza. Per il divertimento di Nina. Trascinò via Brum.
«Va bene così.»
«Pensavo ti interessasse vedere una Grisha usare i propri poteri.»
«Oh, mi interessa, ma lei non sembra molto divertente. Ce ne sono degli
altri?»
«Quasi trenta.»
Nina trasalì. Il Secondo Esercito era stato quasi annientato nella guerra civile
di Ravka. Non tollerava il pensiero che qui ci fossero trenta Grisha. «E sono tutti
in quello stato?»
Lui scrollò le spalle e la spinse lungo un corridoio. «Alcuni sono in
condizioni migliori. Alcuni, peggiori. Se gliene trovo uno vivace, quale sarà la
mia ricompensa?»
«Faccio prima a mostrarglielo» rispose lei facendo le fusa.
Nina ne aveva abbastanza di Grisha terrorizzati e morti di fame. A lei serviva
Yul-Bayur. Brum doveva sapere dov’era. La camera del tesoro era quasi deserta.
Dentro, non avevano incrociato una sola guardia. Se fosse riuscita a portarlo in
un corridoio vuoto, lontano a sufficienza dall’ingresso, dove le guardie non
avrebbero potuto sentirli... Sarebbe stata capace di torturare un drüskelle così
incallito? E di farlo parlare? Sì, sarebbe stata in grado di farlo. Gli avrebbe
tappato il naso e schiacciato la laringe. Qualche minuto a rantolare in cerca di
aria lo avrebbero ammorbidito.
«Cerchiamo un angolo tranquillo?» suggerì Nina.
Brum gongolò e gonfiò il petto in fuori. «Da questa parte, dirre» le disse,
usando la parola Kaelish che sta per “dolcezza”.
La condusse lungo una sala deserta, aprendo la porta con la chiave a forma di
disco.
«Questa dovrebbe andare» disse con un inchino. «Un po’ di privacy e un po’
di charme.»
Nina gli strizzò l’occhio e gli sculettò davanti. Si era aspettata una specie di
ufficio o di camera da letto per soldati fuori servizio. Ma non c’era nessun tavolo
e nessuna branda. La stanza era completamente vuota, tranne che per uno scarico
al centro del pavimento.
Girò su se stessa appena in tempo per vedere la porta chiudersi di colpo.
«No» urlò, e con le mani raspò la superficie della porta in cerca di un
appiglio. Non c’erano maniglie.
La faccia di Brum apparve alla finestra. La sua espressione era compiaciuta,
gli occhi freddi. «Potrei aver esagerato con lo charme, però di privacy ce n’è
parecchia, Nina.»
Lei si ritrasse.
«È così che ti chiami, non è vero?» disse lui. «Pensavi veramente che non ti
avrei riconosciuta? Mi ricordo la tua piccola faccia ostinata a bordo della nave, e
abbiamo un dossier per ogni Grisha attivo a Ravka. Mi faccio vanto di conoscerli
tutti, anche quelli che spero siano stati inghiottiti dal mare.»
Nina sollevò le mani.
«Forza» disse lui. «Fammi esplodere gli occhi nelle orbite. Fammi scoppiare
il cuore nel petto. Quella porta non si aprirà, e nel tempo che impiegherai per
manipolarmi il battito cardiaco io avrò premuto questo tasto.» Nina non poteva
vedere il pulsante d’ottone, ma poteva immaginare il dito di Brum che vi
gravitava sopra. «Lo sai che cosa fa? Hai visto gli effetti della jurda parem. Ti
piacerebbe provarli anche tu? In polvere è efficace, ma sotto forma di gas ancora
di più.»
Nina si bloccò.
«Ragazza sveglia.» Il suo sorriso le fece venire la pelle d’oca. “Io non
supplicherò” disse a se stessa. Ma sapeva che l’avrebbe fatto. Una volta che la
droga le fosse entrata in circolo, non sarebbe più stata capace di fermarla. Inalò
una boccata di aria pulita.
Un gesto inutile, infantile anche, ma era determinata a trattenerla il più a
lungo possibile.
Brum riprese a parlare. «No. Questa non è la mia vendetta. C’è qualcun altro
che se la merita molto di più.» Sparì dalla finestra e un istante dopo la faccia di
Matthias riempì il vetro. I suoi occhi erano spietati.
«Com’è possibile?» sussurrò Nina, nemmeno certa che potessero sentirla da
dietro la porta.
«Davvero pensavi che avrei tradito il mio paese?» disse Matthias con una
voce piena di ribrezzo. «Che avrei abbandonato la causa a cui ho consacrato la
mia vita? Sono andato ad avvertire Brum appena possibile.»
«Ma tu hai detto...»
«Il proprio paese viene prima di se stessi, Zenik. È qualcosa che tu non hai
mai compreso.»
Nina si portò una mano alla bocca.
«Non potrò mai più essere un drüskelle» disse Matthias. «Dovrò convivere
per sempre con il marchio infame dello “schiavista”, ma troverò un altro modo
per servire Fjerda. E ti vedrò drogata di jurda parem. Ti vedrò falcidiare la tua
stessa gente e supplicare per un’altra dose. Ti vedrò tradire le persone che ami
come tu mi hai chiesto di tradire le mie.»
«Matthias...»
Lui diede un pugno alla finestra. «Non pronunciare il mio nome.» Poi sorrise,
un sorriso gelido e spietato come il mare del Nord. «Benvenuta alla Corte di
Ghiaccio, Nina Zenik. Ora il nostro debito è pagato.»
Da qualche parte là fuori, le campane del Protocollo Nero si misero a suonare.
35
MATTHIAS

Undici rintocchi
«È bella» disse Brum, «in modo esagerato. Sei stato forte a non lasciarti
sedurre.»
“Sono stato sedotto” pensò Matthias. “E non solo dalla sua bellezza.”
«L’allarme...» disse Matthias.
«I suoi compatrioti, senza dubbio.»
«Ma...»
«Matthias, ci penseranno i miei uomini. La Corte di Ghiaccio è al sicuro.» Si
voltò a guardare la cella di Nina. «Potremmo premere il pulsante ora.»
«Non sarà pericolosa?»
«Abbiamo mescolato la jurda parem con un sedativo che li rende più docili.
Stiamo ancora lavorando ai dosaggi giusti, ma ci siamo. E poi, con la seconda
dose, ci pensa la dipendenza a tenerli sotto controllo.»
«La prima dose non basta?»
«Dipende dal Grisha.»
«Quante volte l’ha già fatto?»
Brum scoppiò a ridere. «Non le ho contate. Ma credimi, vorrà così
disperatamente dell’altra jurda parem che non oserà alzare un dito contro di noi.
È una trasformazione incredibile. Secondo me la apprezzerai.»
A Matthias si aggrovigliarono le budella. «Quindi lo scienziato è rimasto in
vita?»
«Ha fatto del suo meglio per replicare il processo di sintesi della droga, ma è
una cosa complicata. Alcuni lotti funzionano; altri non sono altro che polvere.
Vivrà finché ci tornerà utile.» Brum mise la mano sulla spalla di Matthias e
addolcì lo sguardo. «Faccio fatica a credere che tu sia davvero qui, vivo, in piedi
di fronte a me. Pensavo fossi morto.»
«Ho pensato lo stesso di lei.»
«Quando ti ho visto nella sala da ballo, ti ho riconosciuto a malapena,
malgrado l’uniforme. Sei così cambiato.»
«Ho dovuto permettere alla strega di modificarmi.»
Il disgusto di Brum era evidente. «Tu le hai permesso di...»
In un certo senso, vedere quel tipo di reazione in qualcun altro fece
vergognare Matthias del modo in cui aveva reagito con Nina.
«Era necessario» disse. «Dovevo farle credere che avevo sposato la sua
causa.»
«Adesso è tutto finito, Matthias. Sei finalmente al sicuro e con la tua gente.»
Brum aggrottò la fronte. «C’è qualcosa che ti preoccupa.»
Matthias guardò dentro la cella successiva a quella di Nina, e dentro quella dopo,
e poi in un’altra, procedendo lungo il corridoio con Brum che gli andava dietro.
Alcuni dei Grisha che vi erano rinchiusi erano agitati, e camminavano in tondo
ininterrottamente. Altri tenevano la faccia schiacciata contro il vetro. Altri
ancora giacevano semplicemente sul pavimento. «Non potete sapere della parem
da più di un mese. Da quanto tempo esiste questa struttura?»
«L’ho fatta costruire quasi quindici anni fa con la benedizione del re e del suo
consiglio.»
Matthias si fermò di colpo. «Quindici anni? Perché?»
«Ci serviva un posto dove mettere i Grisha dopo i processi.»
«Dopo? Quando i Grisha sono giudicati colpevoli, vengono condannati a
morte.»
Brum scrollò le spalle. «È comunque una condanna a morte, solo che
l’esecuzione è un po’ più lunga. Tanto tempo fa abbiamo scoperto che i Grisha
potevano rivelarsi una risorsa utile.»
Una risorsa. «Lei mi aveva detto che venivano cancellati dalla faccia della
terra. Che erano un flagello per il mondo naturale.»
«E lo sono, quando si mascherano da uomini. Non sono capaci di pensare
rettamente, di avere una morale umana. Sono fatti per essere controllati.»
«È per questo che ha voluto la parem?» gli chiese Matthias incredulo.
«Per anni abbiamo provato con i nostri metodi, ma con scarso successo.»
«Ma ha visto cosa può fare la jurda parem, cosa può fare un Grisha quando è
dominato...»
«Una pistola, di suo, non è malvagia. E nemmeno una spada. La jurda parem
garantisce obbedienza. Trasforma i Grisha in quello a cui sono sempre stati
destinati.»
«Un Secondo Esercito?» domandò Matthias, con la voce colma di disprezzo.
«Un esercito è fatto di soldati. Queste creature sono nate per essere armi.
Sono nate per servire i soldati di Djel.» Brum gli scrollò la spalla. «Ah, Matthias,
come mi sei mancato. La tua fede è sempre stata così pura. Sono contento che tu
sia riluttante ad accogliere questa misura, ma è la nostra possibilità di sferrare un
colpo mortale. Sai perché i Grisha sono così difficili da uccidere? Perché non
sono di questo mondo. Ma sono bravissimi a uccidersi l’un l’altro. Loro la
chiamano “dal simile al simile”. Aspetta di vedere gli straordinari risultati che
abbiamo raggiunto, gli armamenti che i loro Fabrikator ci hanno aiutato a
costruire.»
Matthias guardò indietro, nel corridoio. «Nina Zenik ha passato un anno a
Kerch a contrattare per la mia libertà. Non mi sembra il comportamento di un
mostro.»
«Una vipera rimane ferma prima di colpire? Un cane randagio ti lecca la
mano prima di azzannarti il collo? Un Grisha può anche essere capace di
gentilezza, ma questo non cambia l’essenza della sua natura.»
Matthias prese in considerazione la cosa. Pensò a Nina, in piedi, terrorizzata
in quella cella mentre la porta si chiudeva di scatto. Aveva atteso a lungo di
vederla imprigionata, punita com’era stato punito lui. E tuttavia, dopo tutto
quello che avevano passato, non era sorpreso che ora gli facesse male.
«Com’è lo scienziato Shu?» domandò a Brum.
«Ostinato. E ancora in lutto per il padre.»
Matthias non sapeva niente del padre di Yul-Bayur, ma c’era una domanda
più importante da fare. «È al sicuro?»
«La camera del tesoro è il posto più sicuro sull’isola.»
«Lo tiene qui con i Grisha?»
Brum annuì. «La volta principale è stata trasformata in un laboratorio per
lui.»
«Ed è sicuro che stia bene?»
«Ho io il passe-partout» disse Brum, dando un colpetto al disco che gli
penzolava al collo, «ed è sorvegliato giorno e notte. Soltanto pochi prescelti
sanno che si trova qui. È tardi, e devo accertarmi che il Protocollo Nero sia stato
seguito, ma se ti va, domani ti porterò a vederlo.» Brum mise un braccio sulle
spalle di Matthias. «E sistemeremo il tuo ritorno e il tuo reinserimento.»
«Su di me grava ancora l’accusa di commercio di schiavi.»
«Faremo firmare alla ragazza una dichiarazione che annullerà facilmente tutte
le incriminazioni. Credimi, dopo che avrà avuto il suo primo assaggio di jurda
parem, farà qualunque cosa le chiederai e anche di più. Ci sarà un’udienza, ma
giuro che indosserai ancora i colori dei drüskelle, Matthias.»
I colori dei drüskelle. Li aveva portati con tale orgoglio. E i sentimenti che
aveva provato per Nina gli avevano procurato così tanta vergogna. La vergogna
c’era ancora, e forse ci sarebbe stata sempre. Aveva trascorso troppi anni
imbottito di odio perché potesse sparire nell’arco di una notte. Ma ora la
vergogna era una eco, e tutto quello che Matthias sentiva era rimorso: per il
tempo che aveva sprecato, per il dolore che aveva causato, e sì, anche adesso,
per quello che stava per fare.
Si girò verso l’uomo che era diventato un padre e un mentore per lui. Quando
aveva perso la propria famiglia, era stato Brum a reclutarlo nei drüskelle.
Matthias era giovane, arrabbiato, totalmente inesperto. Ma quello che era
rimasto del suo cuore spezzato l’aveva dato alla causa. Una falsa causa. Una
menzogna. Quando se n’era accorto? Quando aveva aiutato Nina a seppellire i
suoi amici? Quando aveva combattuto fianco a fianco con lei? O era successo
molto tempo prima, quando lei aveva dormito tra le sue braccia, quella prima
notte tra i ghiacci? Quando lei lo aveva salvato, impedendo che affogasse?
Nina gli aveva fatto del male, ma lo aveva fatto per proteggere il suo popolo.
Lo aveva ferito, ma aveva fatto tutto quello che era in suo potere per aggiustare
le cose. Gli aveva dimostrato in mille modi di essere onesta e forte e generosa e
molto umana, forse più profondamente umana di chiunque altro avesse mai
conosciuto. E se lo era, allora i Grisha non rappresentavano il male assoluto.
Erano come tutti: ricchi di potenziale per compiere grandi cose, e anche grossi
danni. Fingere che non fosse così avrebbe fatto di Matthias un mostro.
«Comandante, lei mi ha insegnato così tanto» disse Matthias. «Mi ha
insegnato a dare valore all’onore e alla forza. Mi ha dato gli strumenti per
cercare la mia vendetta quando ne avevo più bisogno.»
«E con quegli strumenti costruiremo un grande futuro, Matthias. Il tempo di
Fjerda è finalmente giunto.»
Matthias ricambiò l’abbraccio del proprio mentore.
«Non so se si sbaglia sui Grisha» gli disse con dolcezza. «So solo che si
sbaglia su di lei.»
Lo strinse applicando una presa che aveva imparato nelle sale di esercitazione
piene di echi presenti nella roccaforte dei drüskelle, sale che non avrebbe mai
più rivisto. Lo strinse mentre Brum si dibatteva per liberarsi e mentre il suo
corpo si afflosciava.
Quando mollò la presa, Brum era sprofondato in uno stato di incoscienza,
eppure Matthias sapeva di non sbagliarsi: era rimasta impressa della collera sui
suoi lineamenti. Si costrinse a memorizzarla. Era giusto che lui si ricordasse
quell’espressione. Alla fine si era rivelato per davvero un traditore, e avrebbe
dovuto portarne il peso.
Quando erano entrati nell’enorme sala da ballo, Matthias e Kaz si erano
appostati in un angolino in ombra accanto alle scale. Avevano visto Nina entrare,
infilata dentro quell’abominevole abito di squame scintillanti, poi Matthias
aveva notato Brum. Allo stupore di scoprire il proprio mentore ancora vivo
aveva subito fatto seguito l’angosciante constatazione che lui stava seguendo
Nina.
“Brum sa” aveva detto a Kaz. “Dobbiamo aiutarla.”
“Sii furbo, Helvar. Puoi salvarla e allo stesso tempo farci arrivare a Yul-
Bayur.”
Matthias aveva annuito e si era tuffato nella folla. “L’onore” aveva sentito
Kaz mormorare dietro di lui “è come acqua di colonia a buon mercato.”
Aveva abbordato Brum accanto alle scale. “Signore...”
“Non adesso.”
Matthias era stato costretto a bloccargli il passaggio. “Signore.”
Brum a quel punto si era fermato. Il viso aveva mostrato prima collera, poi
confusione e alla fine stupita incredulità. “Matthias?” aveva sussurrato.
“Per favore, signore” aveva detto Matthias in fretta. “Mi dia solo un momento
per spiegare. C’è una Grisha, qui, determinata ad assassinare stanotte uno dei
suoi prigionieri. Se ha la pazienza di ascoltarmi, posso illustrarle il complotto e
come può essere fermato.”
Brum aveva fatto cenno a un drüskelle di tenere d’occhio Nina e condusse
Matthias in una nicchia sotto le scale. “Parla” aveva detto, e Matthias gli aveva
raccontato la verità, o perlomeno una parte essenziale: che aveva scampato il
naufragio, che era quasi annegato, che era stato ingiustamente accusato di
schiavismo da Nina, che era stato rinchiuso all’Anticamera dell’Inferno, e infine
che gli era stata promessa la grazia. Aveva addossato ogni responsabilità su
Nina, e non aveva detto niente di Kaz o degli altri. Quando Brum aveva chiesto
se Nina fosse in missione da sola, aveva semplicemente risposto che non lo
sapeva.
“Nina crede che io stia per accompagnarla sul ponte segreto. Mi sono
separato da lei appena ho potuto e sono venuto a cercarla.”
Una parte di lui era disgustata dalla facilità con cui le bugie gli affioravano
alle labbra, ma non avrebbe lasciato Nina alla sua mercé.
Ora lo guardò, Brum aveva la bocca leggermente aperta mentre era
incosciente. Una delle cose che aveva rispettato di più del suo mentore era
l’implacabilità, la determinazione a compiere scelte difficili per amore della
causa. Però Brum ci aveva preso gusto a fare ciò che aveva fatto a quei Grisha, a
fare ciò che avrebbe fatto a Nina e a Jesper. Forse le scelte difficili non erano
mai state così difficili per Brum, non come lo erano state per Matthias. Non si
era trattato di un sacro dovere, portato a termine malvolentieri per il bene di
Fjerda. Erano state una fonte di gioia.
Fece scivolare via il passe-partout dal collo di Brum e lo trascinò dentro una
cella vuota, mettendolo seduto contro il muro. Detestò lasciarlo lì, il mento
ciondoloni sul petto, le gambe divaricate, senza dignità. Detestò pensare alla
vergogna che il comandante dei drüskelle avrebbe provato, un guerriero tradito
da qualcuno a cui aveva offerto fiducia e affetto. Conosceva bene quel dolore.
Premette velocemente la fronte contro quella di Brum. Sapeva che il proprio
mentore non poteva sentirlo, ma parlò ugualmente. «La vita che vive, l’odio che
prova: è un veleno. E io non riesco più a berlo.»
Matthias chiuse a chiave la porta della cella e si affrettò lungo il corridoio per
correre incontro a Nina, per correre incontro a qualcosa di meglio.
36
JESPER

Undici rintocchi
Jesper attese nella nicchia del muro, in una postazione da cecchino, il luogo
perfetto per uno come lui. “Che cosa abbiamo appena fatto?” si chiese. Ma il
sangue gli scorreva nelle vene, aveva il fucile in spalla e il mondo era tornato ad
avere un senso.
Ma allora dov’erano le guardie? Si era aspettato di vederle precipitarsi in
cortile nel momento stesso in cui lui e Wylan avevano innescato il Protocollo
Nero.
«Ce l’ho!» urlò Wylan dietro di lui.
Jesper odiava l’idea di abbandonare quella postazione prima di sapere a cosa
andavano incontro, ma avevano poco tempo e dovevano raggiungere il tetto.
«Va bene, andiamo.»
Corsero giù per le scale. Mentre stavano per sbucare dal passaggio a volta
della portineria, sei guardie arrivarono di corsa nel cortile. Jesper si fermò di
colpo e imbracciò il fucile.
«Torna indietro» disse a Wylan.
Ma Wylan stava indicando qualcosa dall’altra parte del cortile. «Lo vedi?»
Le guardie non si stavano dirigendo verso la portineria; tutta la loro
attenzione era concentrata su un uomo in abiti color verde militare, in piedi
accanto a una lastra di pietra. Quell’uniforme...
Una donna passò attraverso il muro: era una figura fatta di nebbia luminosa
che quando arrivò accanto allo sconosciuto si solidificò. La donna indossava la
stessa tenuta verde militare.
«Scuotiacque» disse Wylan.
«Gli Shu.»
Le guardie aprirono il fuoco, e gli Scuotiacque svanirono, poi riapparvero
dietro i soldati e sollevarono le braccia.
Le guardie urlarono e fecero cadere a terra le armi. Attorno a loro si formò
una foschia rossa, che divenne via via più fitta mentre i soldati gridavano, con la
pelle che sembrava ritirarsi dalle ossa.
«È il loro sangue» disse Jesper, con la bile che gli risaliva in gola. «Per tutti i
Santi, gli Scuotiacque li stanno prosciugando.» Le guardie erano state spremute.
Il sangue formò delle pozze fluttuanti dalla vaga forma umana, ombre
scivolose che volteggiavano nell’aria, rosse e umide, poi si spiaccicò a terra
nello stesso momento in cui le guardie crollarono, con la pelle flaccida che
pendeva dai loro corpi essiccati e formava delle pieghe grottesche.
«Torniamo su» bisbigliò Jesper. «Dobbiamo andarcene.»
Ma era troppo tardi. La Scuotiacque donna scomparve. Nel tempo di un
respiro, era sulle scale. Con le mani si sollevò sopra la ringhiera, si diede una
spinta e piantò gli stivali contro il petto di Wylan, calciandolo indietro e
mandandolo addosso a Jesper. I due rotolarono sulla pietra nera del cortile.
Il fucile venne strappato di mano a Jesper e scaraventato via. Lui cercò di
rialzarsi e la Scuotiacque gli ammanettò le mani dietro la nuca. Era sdraiato
accanto a Wylan e gli Scuotiacque torreggiavano sopra di loro. Alzarono le
mani, e Jesper vide che la tenue foschia rossa appariva su di lui. Stava per essere
prosciugato. La forza cominciava a svanire. Guardò alla sua sinistra, ma il fucile
era troppo lontano.
«Jesper» ansimò Wylan. «Il metallo. Lavoralo.» E poi cominciò a urlare.
In un lampo, Jesper capì. Questa battaglia non l’avrebbe vinta con una pistola.
Non c’era tempo per pensare, non c’era tempo per avere dubbi.
Ignorò il dolore che gli lacerava la pelle e portò tutta l’attenzione sui
frammenti di ferro che gli erano rimasti attaccati ai vestiti, i trucioli e le
minuscole pagliuzze dell’anello spezzato della catena. Non era un granché, come
Fabrikator, però gli Scuotiacque non si aspettavano nemmeno che lo fosse.
Spinse le mani avanti, e i pezzetti di metallo si sollevarono dall’uniforme in una
nuvoletta luccicante che rimase sospesa nell’aria per un brevissimo istante, e poi
si scaraventò addosso agli Scuotiacque.
La donna strillò quando il metallo si fece largo nella sua carne, e tentò di
trasformarsi in foschia. Il suo compagno fece lo stesso, cercò di liquefare i propri
lineamenti ma quando li solidificò di nuovo, la sua faccia era grigia, punteggiata
di pezzetti di ferro. Jesper non mollò. Guidò la nuvoletta dentro i loro organi,
scavando a fondo. Sentiva che gli Scuotiacque provavano a controllare le
particelle di metallo. Se si fosse trattato di un proiettile o di una lama ce
l’avrebbero fatta, ma le pagliuzze erano troppe e troppo piccole. La donna si
abbracciò lo stomaco e cadde in ginocchio. L’uomo urlò e tossì sangue e granelli
neri di metallo.
«Aiuto» singhiozzò la donna. I bordi della sua sagoma sbiadirono e il suo
corpo vibrò mentre lottava per svanire nella foschia.
Jesper lasciò cadere le mani. Lui e Wylan filarono via di corsa dagli
Scuotiacque che si contorcevano per il dolore.
Sarebbero morti? Aveva appena ucciso due della sua gente? Jesper aveva solo
desiderato di continuare a vivere. Pensò di nuovo allo stendardo sulla parete, a
tutte quelle strisce rosse, blu e viola.
Wylan lo tirò per il braccio. Il suo viso appariva leggermente trasparente, con
le vene troppo evidenti. «Jesper, dobbiamo andare.»
Lui annuì lentamente.
«Ora.»
Jesper si costrinse a muovere i piedi, a seguire Wylan e ad arrampicarsi su per
la corda fino al tetto. Si sentiva stordito e gli girava la testa. Gli altri
dipendevano da lui, questo lo sapeva. Doveva andare avanti. Ma si sentiva come
se avesse lasciato una parte di sé nel cortile di sotto, qualcosa che non aveva
neanche mai saputo che ci fosse, intangibile come nebbia.
37
NINA

Undici rintocchi e un quarto


Quando Matthias aprì la porta della cella di Nina, per un brevissimo istante lei
esitò.
Non poté farne a meno. Non si sarebbe mai scordata, per tutta la vita, il viso
di lui affacciato alla finestra, quanto era parso crudele, e il dubbio che le era nato
nel cuore. Dubbio che aveva ancora, guardandolo in piedi sulla soglia, ma
quando Matthias le tese la mano, lei seppe che non c’era più motivo di avere
paura.
Corse da lui, che la prese tra le braccia.
Lui seppellì il viso tra i capelli di lei. Lei sentì le labbra di lui sfiorarle
l’orecchio mentre le disse: «Non voglio mai più vederti così».
«Parli del vestito o della cella?»
Matthias scoppiò a ridere. «Della cella, senza dubbio.» Poi le prese il viso tra
le mani. «Jer molle pe oonet. Enel mörd je nej afva trohem verret.»
Nina deglutì a fatica. Si ricordava quelle parole e ciò che volevano dire
veramente. Sono stato fatto per proteggerti. Solo la morte potrà sottrarmi a
questo giuramento. Era la promessa che i drüskelle facevano a Fjerda. E ora era
la promessa che Matthias faceva a lei.
Nina si rendeva conto che avrebbe dovuto dire in risposta qualcosa di
profondo, qualcosa di bello. Invece, disse la verità. «Se usciremo vivi da qui, ti
bacerò fino a farti svenire.»
Un sorriso larghissimo sciolse lo splendido viso di Matthias. Lei non vide
l’ora di rimirare l’azzurro autentico dei suoi occhi.
«Yul-Bayur è nel caveau» disse lui. «Andiamo.»
Mentre Nina correva dietro a Matthias, il frastuono delle campane del
Protocollo Nero le rimbombò nelle orecchie. Se Brum l’aveva riconosciuta, era
probabile che lo avessero fatto anche gli altri drüskelle. Non ci avrebbero messo
molto a venire a cercare il loro comandante.
«Ti prego, dimmi che Kaz non è sparito un’altra volta» disse lei mentre
sfrecciavano lungo il corridoio.
«L’ho lasciato nella sala da ballo. Abbiamo appuntamento accanto al
frassino.»
«L’ultima volta che l’ho visto, era circondato da drüskelle.»
«Forse, a questo, ci penserà il Protocollo Nero.»
«Se anche scampiamo ai drüskelle, non scamperemo a Kaz, non se uccidiamo
Yul-Bayur...»
Matthias alzò una mano per fermare Nina prima di girare l’angolo. Si
avvicinarono lentamente. Quando svoltarono, Nina fece fuori la guardia davanti
alla porta del caveau. Matthias prese il suo fucile, quindi infilò la chiave di Brum
nella serratura e la porta rotonda del caveau si sbloccò.
Nina sollevò le mani, pronta ad attaccare. Attesero, con i cuori al galoppo,
mentre l’ingresso si apriva. La stanza era bianca come tutte le altre, ma niente
affatto spoglia. C’erano dei lunghi tavoloni coperti da ampolle collocate sopra
delle fiammelle blu, apparecchi per scaldare e per raffreddare, fiale di vetro
piene di polvere dalle varie sfumature arancioni. Su una parete campeggiava
un’enorme lavagna d’ardesia ricoperta di equazioni scritte con il gesso. L’altra
era rivestita per intero da scatole di vetro provviste di porticine metalliche. Le
scatole contenevano piante di jurda in fiore, e Nina immaginò che dovessero
essere riscaldate. Addossata a un muro c’era una branda, le coperte leggere erano
sgualcite, carte e taccuini erano sparsi tutt’attorno. Un ragazzo Shu vi era seduto
sopra a gambe incrociate. Li guardò, con i capelli neri che gli cadevano sulla
fronte e un quaderno in grembo. Non poteva avere più di quindici anni.
«Non siamo qui per farti del male» disse Nina in Shu. «Dov’è Bo Yul-
Bayur?»
Il ragazzo si scostò i capelli dagli occhi dorati. «È morto.»
Nina alzò un sopracciglio. Van Eck era in possesso delle informazioni
sbagliate? «Allora cos’è tutta questa roba?»
«Siete venuti per uccidermi?»
Nina non sapeva bene come rispondere a questa domanda. «Sesh-uyeh?»
azzardò.
Il viso del ragazzo si distese, sollevato. «Siete Kerch.»
Nina annuì. «Siamo qui per liberare Bo Yul-Bayur.»
Il ragazzo si portò le ginocchia al petto e le circondò con le braccia. «Troppo
tardi. Mio padre è morto quando i Fjerdiani hanno impedito ai Kerch di portarci
fuori da Ahmrat Jen.» La voce gli vacillò. «È rimasto ucciso nello scontro a
fuoco.»
Mio padre. Nina tradusse per Matthias e intanto cercò di dare un senso a
quelle parole.
«Morto?» fece Matthias, e le spalle larghe gli si abbassarono. Nina sapeva a
cosa stava pensando – a tutto quello che avevano patito, tutto quello che avevano
fatto, e nel frattempo Yul-Bayur era già morto.
Ma i Fjerdiani avevano tenuto in vita il figlio per un motivo. «Vogliono che tu
riproduca la sua formula» disse Nina.
«Io lo aiutavo in laboratorio, ma non mi ricordo tutto.» Si morsicò il labbro.
«E mi sono bloccato.»
Quale che fosse la parem che i Fjerdiani stavano somministrando ai Grisha,
doveva provenire dalla partita originaria che Bo Yul-Bayur stava portando a
Kerch.
«Sei in grado di farlo?» domandò Nina. «Sei capace di riprodurre la
formula?»
Il ragazzo esitò. «Penso di sì.»
Nina e Matthias si scambiarono un’occhiata.
Lei deglutì. Aveva già ucciso. Aveva ucciso anche quella notte, ma adesso era
diverso. Questo ragazzo non le stava puntando contro un’arma, non stava
cercando di farle del male. Assassinarlo – e sarebbe stato un assassinio – avrebbe
anche voluto dire tradire Inej, Kaz, Jesper e Wylan. Persone che stavano
rischiando la vita, anche in quel momento, per una ricompensa che non
avrebbero mai visto. Però poi pensò a Nestor che cadeva senza vita nella neve, e
alle celle piene di Grisha condannati per sempre al tormento, e tutto per colpa di
questa droga.
Alzò le braccia. «Mi dispiace» disse. «Se tu dovessi farcela, non ci sarà fine
alle sofferenze che scatenerai.»
Lo sguardo del ragazzo era fermo, il mento sporgeva spavaldo, come se avesse
sempre saputo che questo momento prima o poi sarebbe arrivato. La cosa giusta
da fare era ovvia. Uccidere questo ragazzo in modo rapido e indolore.
Distruggere il laboratorio e tutto quello che conteneva. Eliminare dalla faccia
della terra il segreto della jurda parem. Se vuoi sopprimere una pianta infestante,
non ti limiti a potarla. Strappi via le radici dal terreno. E tuttavia le mani le
stavano tremando. Non era questo il modo in cui ragionavano i drüskelle?
Distruggere il pericolo, spazzarlo via, a prescindere dal fatto che la persona di
fronte a te sia o meno innocente.
«Nina» disse Matthias dolcemente, «è solo un ragazzo. È uno di noi.»
Uno di noi. Un ragazzo non tanto più giovane di lei, immischiato in una
guerra che non aveva scelto di combattere. Un sopravvissuto.
«Come ti chiami?» gli chiese lei.
«Kuwei.»
«Kuwei Yul-Bo» iniziò a dire prima di fermarsi. Intendeva pronunciare la
sentenza di morte? Scusarsi? Chiedere perdono? Non l’avrebbe mai saputo.
Quando ritrovò la voce, tutto quello che disse fu: «Quanto ci metti a distruggere
questo laboratorio?».
«Poco» rispose lui. Tagliò l’aria con la mano, e le fiamme sotto una delle
ampolle esplosero in un semicerchio blu.
Nina lo fissò. «Sei un Grisha. Un Inferno.»
Kuwei annuì. «La jurda parem è stato un errore. Mio padre stava cercando un
modo per dissimulare i miei poteri. Era un Fabrikator. Un Grisha, come me.»
A Nina girava la testa: Bo Yul-Bayur era un Grisha che si nascondeva in
piena vista dietro i confini dello Shu Han. Non c’era tempo per assimilare la
notizia.
«Dobbiamo distruggere quanto più possibile del tuo lavoro» disse lei.
«Ci sono dei combustibili» rispose Kuwei, che stava già raccogliendo le carte
e i campioni di jurda. «Posso far esplodere tutto.»
«Solo il caveau. Ci sono Grisha qui.» E guardie. E il mentore di Matthias.
Nina sarebbe stata felice di lasciar morire Brum, ma sebbene Matthias avesse
tradito il proprio comandante, non avrebbe voluto vedere fatto a pezzi l’uomo
che era diventato un secondo padre per lui. Il cuore le si ribellò al pensiero dei
Grisha che si stava lasciando alle spalle, ma non c’era modo di farli arrivare al
porto.
«Lasciate perdere il resto» disse. «Dobbiamo muoverci.»
Kuwei dispose una serie di fiale piene di liquido infiammabile sopra i fornelli.
«Sono pronto.»
Controllarono il corridoio e corsero verso l’ingresso della camera del tesoro. A
ogni angolo Nina si aspettava di vedere dei drüskelle o delle guardie sbarrare
loro il cammino, invece si fiondarono nelle sale senza trovarvi ostacoli. Arrivati
alla porta d’ingresso, si fermarono.
«C’è un labirinto di siepi alla nostra sinistra» disse Nina.
Matthias annuì. «Lo useremo per nasconderci e poi ce la faremo di corsa fino
al frassino.»
Non appena aprirono la porta, il frastuono delle campane diventò quasi
insopportabile. Nina poteva vedere l’Orologio Maggiore sulla guglia d’argento
più alta del palazzo, il quadrante luminoso come una luna piena. Le luci forti
proiettate dalle torri di guardia setacciavano l’Isola Bianca, e si sentivano le
grida dei soldati che si avvicinavano al palazzo.
Si mise rasente al muro dell’edificio e seguì Matthias, cercando di restare in
ombra.
«Veloci» disse Kuwei dando un’occhiata nervosa dietro di sé, verso il
laboratorio.
«Da questa parte» fece Matthias. «Il labirinto...»
«Fermi!» gridò qualcuno.
Troppo tardi. Le guardie stavano correndo verso di loro proprio dal labirinto.
Non c’era altro da fare che scappare. Si precipitarono oltre l’entrata del
colonnato e si infilarono nel cortile circolare. C’erano drüskelle ovunque, di
fronte e dietro di loro. Potevano essere abbattuti in qualunque momento.
E poi ci fu l’esplosione. Nina la percepì prima ancora di udirla: un’ondata di
calore la sollevò e la scaraventò in aria, subito seguita da un boato assordante.
Precipitò a terra e colpì duramente la pietra bianca del selciato.
C’erano fumo e confusione ovunque. Si sforzò di mettersi carponi, con le
orecchie che le fischiavano. Un lato della camera del tesoro era stato ridotto in
macerie, il fumo e la polvere si sollevavano a ondate nel cielo della notte.
Matthias stava già camminando a passi veloci verso di lei insieme a Kuwei.
Nina si rimise in piedi.
«Sten!» urlarono due guardie che si staccarono da un gruppo di soldati diretti
di corsa verso la camera del tesoro. «Che cosa ci fate qui?»
«Ci stavamo solo godendo la festa!» esclamò Nina, e mise nella voce tutta la
spossatezza e il terrore che provava davvero. «E poi... poi...» La imbarazzò la
facilità con cui riuscì a far scorrere le lacrime.
Lui sollevò il fucile. «Mi mostri i documenti.»
«Niente documenti, Lars.»
La testa del cacciatore di streghe si alzò di scatto mentre Matthias faceva un
passo avanti. «Ci conosciamo?»
«Una volta sì, anche se ero un po’ diverso. Hje marden, Lars?»
«Helvar?» fece lui. «Hanno detto... hanno detto che eri morto.»
«Lo ero.»
Lars passò lo sguardo da Matthias a Nina. «Questa è la Spaccacuore che
Brum ha portato alla camera del tesoro.» Poi prese nota della presenza di Kuwei
e capì tutto. «Traditore» apostrofò Matthias.
Mentre stava alzando la mano per rallentare il battito cardiaco di Lars, Nina
colse un movimento nel buio alla sua destra. Urlò quando qualcosa la colpì.
Abbassò lo sguardo e vide un cavo avvolgerla e immobilizzarle le braccia al
corpo. Non riusciva a sollevare le mani. Non poteva usare i suoi poteri. Matthias
emise un gemito e Kuwei strillò quando altri cavi sferzarono fuori dal buio e
andarono ad attorcigliarsi ai loro busti legando loro le braccia.
«Questo è quello che facciamo, mostri» sogghignò Lars. «Diamo la caccia
alla sporcizia come voi. Conosciamo tutti i vostri trucchi.» Diede un calcio da
dietro alle gambe di Matthias, che cadde sulle ginocchia e trattenne il respiro.
«Ci hanno detto che eri morto. Ti abbiamo pianto, abbiamo bruciato rami di
frassino per te. Ma ora capisco che ci stavano proteggendo da qualcosa di
peggio. Matthias Helvar, un traditore, che presta soccorso ai nostri nemici, che si
accompagna a esseri contro natura.» Lars sputò in faccia a Matthias. «Come hai
potuto tradire il tuo paese e il tuo dio?»
«Djel è il dio della vita, non della morte.»
«Ci sono altri qui per Yul-Bayur, a parte te e questa creatura?»
«No» mentì Nina.
«Non l’ho chiesto a te, strega» disse Lars. «Non importa. È un’informazione
che ti caveremo fuori a modo nostro.» Si voltò verso Kuwei. «E in quanto a te.
Non pensare che non ci saranno delle ripercussioni.»
Fece un segnale. Dalle ombre del colonnato emerse un drappello di uomini e
ragazzi: drüskelle, con i cappucci calati sui lunghi capelli d’oro che brillavano
sui colletti, vestiti di nero e argento, come creature nate dai bui crepacci che
spaccavano in due i ghiacci del Nord. Si aprirono a ventaglio, circondando Nina,
Matthias e Kuwei.
Nina pensò alle celle bianche della prigione, agli scarichi nei pavimenti. Tutta
la parem era andata distrutta insieme al laboratorio di Kuwei? Quanto tempo gli
sarebbe servito per fare un’altra partita, e come l’avrebbero punita nel
frattempo? Gettò un ultimo sguardo disperato nell’oscurità, pregando per vedere
una traccia di Kaz. Era stato catturato anche lui? Li aveva semplicemente
abbandonati lì? Doveva comportarsi da guerriera. Doveva prepararsi a ciò che
sarebbe accaduto.
Uno dei drüskelle si fece avanti con quella che sembrava una frusta dal lungo
manico: era agganciata ai cavi che li legavano, e il drüskelle la porse a Lars.
«La riconosci, Helvar?» domandò Lars. «Dovresti. Hai contribuito a
progettarla. Cavi retrattili per controllare più prigionieri. E gli uncini,
ovviamente.»
Lars passò un dito sopra uno dei cavi e Nina rantolò mentre piccoli uncini
pungenti le si conficcarono nelle braccia e nel busto. Il drüskelle rise.
«Lasciala stare» ringhiò Matthias in Fjerdiano, sprizzando rabbia. Per un
brevissimo istante, Nina vide un lampo di panico nei suoi ex compagni d’armi.
Era più grosso di tutti loro, ed era stato un capo, uno dei migliori di questi
giovani assassini. Poi Lars fece scattare un altro cavo. Gli uncini fuoriuscirono, e
Matthias fece un respiro sofferente, piegandosi in due, ancora una volta umano.
La risatina che seguì fu furtiva e crudele.
Lars diede un colpo secco alla frusta e i cavi si contrassero ancora,
costringendo Nina, Matthias e Kuwei a barcollare davanti a lui in una goffa
sfilata.
«Preghi ancora il nostro dio, Helvar?» domandò Lars mentre passavano
davanti al sacro albero. «Credi che Djel ascolti i piagnucolii degli uomini che
profanano se stessi concedendosi ai Grisha? Credi che...»
Poi ci fu un guaito acuto, animalesco. Nina e gli altri impiegarono un lungo
istante per rendersi conto che era stato emesso da Lars. Il drüskelle aprì la bocca
e il sangue uscì a fiotti sul mento e sui lucidi bottoni d’argento della sua divisa.
La mano lasciò andare la frusta, e il drüskelle incappucciato accanto a lui si
lanciò in avanti per prenderla.
Dalla base dell’albero sacro uscì un improvviso pop pop pop. Nina riconobbe
quel suono: l’aveva sentito sulla strada del Nord prima di tendere l’agguato al
carro della prigione.
Quando avevano abbattuto l’albero.
Il frassino scricchiolò e gemette.
Le sue radici antiche cominciarono ad arricciarsi.
«Nej!» gridò uno dei drüskelle. Rimasero a bocca aperta, guardando stupefatti
l’albero colpito a morte. «Nej!» ululò un’altra voce.
Il frassino iniziò a pendere. Era troppo grosso per essere buttato giù dal
concentrato di sale soltanto, ma mentre si inclinava un rombo sordo scaturì dalla
voragine nera che si stava aprendo sul terreno.
Era il punto dove andavano i drüskelle per sentire la voce del loro dio. E ora
stava parlando.
«Pungerà un po’» disse il drüskelle che teneva in mano la frusta. La sua voce
era rauca, familiare. Portava dei guanti sulle mani. «Ma se ne usciamo vivi, mi
ringrazierete più tardi.» Il cappuccio scivolò via e Kaz Brekker si voltò a
guardarli. I drüskelle, scioccati, alzarono i fucili.
«Non fate scoppiare il baleen prima di aver toccato il fondo» gridò Kaz.
Quindi afferrò Kuwei e si lanciò insieme a lui sotto le radici dell’albero, dentro
la cavità nera.
Nina gridò mentre veniva strattonata in avanti dai cavi. Raspò le pietre nel
tentativo di trovare un appiglio.
L’ultima cosa che intravide fu Matthias che cadeva nel buco vicino a lei.
Sentì dei colpi di arma da fuoco, e poi stava precipitando nel buio, nel freddo,
nella gola di Djel, nel nulla più completo.
38
KAZ

Undici ritocchi e tre quarti


Kaz aveva preso in considerazione l’idea di mettersi a origliare Matthias e Brum
nella sala da ballo, ma non voleva perdere di vista Nina quando c’erano così
tanti drüskelle in giro. Aveva scommesso sui sentimenti di lui per lei, ma le
probabilità stavano cinquanta a cinquanta. Il vero rischio che stava correndo era
nel fatto che qualcuno onesto come Matthias riuscisse a mentire in modo
convincente al proprio mentore. A quanto pareva, il Fjerdiano aveva delle doti
nascoste.
Kaz aveva seguito Nina e Brum fino alla camera del tesoro. Poi si era
nascosto dietro una scultura di ghiaccio e si era concentrato sull’ingrato compito
di rigurgitare le bombe-radice di Wylan che aveva inghiottito prima di tendere
l’imboscata al carro della prigione. Aveva dovuto vomitarle a più riprese per
evitare di digerirle, insieme alla bustina di pallottole di cloroformio e ad alcuni
grimaldelli che aveva buttato giù a forza nell’esofago in caso di emergenza. Non
era stato piacevole. Aveva imparato il trucco da un illusionista dello Stave
dell’Est: l’uomo possedeva un repertorio di numeri da mangiafuoco esibiti per
anni prima di avvelenarsi per errore ingerendo del kerosene.
Dopo che ebbe finito, Kaz aveva ispezionato il perimetro della camera del
tesoro, il tetto, l’ingresso, ma alla fine non gli era rimasto altro da fare che stare
nascosto, rimanere vigile, e preoccuparsi di tutte le cose che potevano andare
storte. Gli venne in mente Inej, in piedi sul tetto dell’ambasciata, raggiante di un
ardore nuovo che lui non capiva e tuttavia riconosceva: uno scopo. L’aveva
soffusa di luce. Prenderò la mia parte e lascerò gli Scarti. Prima, nelle occasioni
in cui aveva parlato di lasciare Ketterdam, non le aveva mai creduto. Questa
volta era diverso.
Era rimasto nascosto nell’ombra del colonnato occidentale quando le
campane del Protocollo Nero avevano iniziato a suonare, e i rintocchi
dell’Orologio Maggiore avevano preso a rimbombare sull’isola scuotendo l’aria.
Le luci della torre di guardia si accesero in un fascio abbagliante. I drüskelle
attorno all’albero abbandonarono i loro rituali e si misero a urlare ordini, e una
marea di guardie scese dalle torri per riversarsi sull’isola. Kaz aveva aspettato,
contando i minuti, ma ancora non c’era segno di Nina o di Matthias. “Sono nei
guai” aveva pensato. “Oppure ti sei completamente sbagliato sul conto di
Matthias, e ora stai per pagare care tutte quelle stupide battute sull’albero.”
Doveva entrare nella camera del tesoro, ma gli serviva una copertura mentre
forzava quell’impenetrabile serratura, e c’erano drüskelle dappertutto. Poi vide
Nina e Matthias e un tizio che immaginò fosse Bo Yul-Bayur scappare di corsa.
Era stato sul punto di chiamarli quando ci fu l’esplosione, e tutto andò al
diavolo.
“Hanno fatto saltare in aria il laboratorio” pensò lui mentre tutt’attorno
piovevano giù detriti. “Io di certo non gli ho detto di farlo.”
Quello che seguì dovette improvvisarlo totalmente, e non ebbe tempo per
spiegare niente. Tutto ciò che aveva detto a Matthias era di incontrarsi al frassino
quando il Protocollo Nero avesse cominciato a suonare. Aveva calcolato di
entrare nei dettagli prima che tutti precipitassero nell’oscurità. Ora poteva solo
sperare che non si facessero prendere dal panico e che la sua fortuna lo stesse
aspettando là sotto da qualche parte.
La caduta sembrava non finire più. Kaz sperò che il ragazzo Shu che stava
stringendo fosse un Bo Yul-Bayur sorprendentemente giovane e non qualche
sfortunato prigioniero che Nina e Matthias avevano deciso di liberare. Aveva
spinto il disco nella bocca del ragazzo mentre si avvicinavano all’albero, e lo
aveva rotto con le proprie dita. Diede un colpo alla frusta per ritirare tutti i cavi,
e mentre si ritraevano sentì gli altri urlare. Almeno non sarebbero finiti in acqua
legati. Kaz attese il più a lungo possibile prima di addentare il proprio baleen.
Quando finì nell’acqua gelida, temette che il suo cuore avrebbe ceduto.
Non sapeva cosa aspettarsi, ma la forza del fiume era terrificante, scorreva
potente e veloce come una valanga. Il rumore era assordante persino sott’acqua,
ma insieme alla paura arrivò anche una specie di euforica soddisfazione. Ci
aveva preso.
La Voce di Dio. Nelle leggende c’era sempre della verità. Kaz aveva passato
troppo tempo a costruire il proprio, di mito, per non saperlo. Si era chiesto da
dove arrivasse l’acqua che alimentava il fossato e le fontane della Corte di
Ghiaccio, e perché mai la gola del fiume fosse così larga e profonda. Non appena
Nina aveva descritto il rito di iniziazione dei drüskelle, aveva capito: la fortezza
Fjerdiana non era stata costruita attorno a un grande albero ma attorno a una
fonte. Djel, la sorgente, che alimentava i mari e le piogge, e le radici del frassino
sacro.
L’acqua aveva una voce. Ogni ratto dei canali lo sapeva, e lo sapeva chiunque
avesse dormito sotto un ponte o superato una tempesta invernale su una barca
capovolta: l’acqua parlava con la voce di un amante, di un fratello perduto da
tempo, persino di un dio. Era quella la chiave, e dopo che Kaz l’ebbe
riconosciuta, fu come se qualcuno avesse steso una planimetria perfetta sopra la
Corte di Ghiaccio e i suoi meccanismi. Se Kaz aveva ragione, Djel li avrebbe
sputati fuori nella gola del fiume. Sempre che non fossero affogati prima.
Ed era una possibilità concreta. Il baleen forniva aria a sufficienza per dieci
minuti, forse dodici se sapevano mantenere la calma, cosa che Kaz dubitava
stessero facendo. Il suo cuore per primo stava martellando, e sentiva già
stringersi i polmoni. Il corpo era intorpidito e dolorante per via della temperatura
dell’acqua, e l’oscurità era impenetrabile. Non c’era nient’altro che il sordo
fragore liquido e la nauseante sensazione di continuare a cadere.
Non conosceva la velocità dell’acqua, ma dai suoi calcoli sapeva
dannatamente bene che non poteva mancare molto. I numeri erano sempre stati
dalla sua parte: probabilità, margini, l’arte della scommessa. Ma ora doveva fare
affidamento su qualcosa in più. “Qual è il dio che onori?” gli aveva chiesto Inej.
“Qualunque dio mi conceda la fortuna.” Quelli fortunati non finiscono gambe
all’aria sotto un fossato di ghiaccio in territorio nemico.
Cosa ci sarebbe stato ad aspettarli quando fossero riemersi nella gola? Chi ci
sarebbe stato ad aspettarli? Jesper e Wylan avevano fatto scattare il Protocollo
Nero. Ma erano riusciti a fare il resto? Avrebbe rivisto Inej?
Sopravvivi. Sopravvivi. Sopravvivi. Era stato il modo in cui aveva vissuto la
vita, attimo per attimo, respiro dopo respiro, a partire da quella terrificante
mattina in cui si era svegliato e aveva scoperto che Jordie era ancora morto e che
lui era ancora molto vivo.
Kaz era sospinto nel buio. Non aveva mai avuto così tanto freddo. Ripensò
alla mano di Inej sulla guancia. A quella sensazione la sua mente era divenuta un
arsenale di confusione. Aveva provato terrore e disgusto e – in mezzo a tutto
quel baccano – desiderio, una voglia che non era più andata via, la speranza che
lei lo toccasse ancora.
Quando aveva quattordici anni, Kaz aveva messo insieme una squadra per
derubare la banca che aveva aiutato Hertzoon a mandare in rovina lui e Jordie.
La squadra era fuggita con cinquantamila kruge, ma lui si era spaccato la gamba
cadendo dal tetto. L’osso non si era più saldato bene, e da quel momento in poi
aveva zoppicato. Si era trovato un Fabrikator e si era fatto fare il suo bastone. Il
bastone divenne una rivendicazione. Non c’era niente in lui che non fosse stato
rotto, che non fosse stato curato nel modo sbagliato, e non c’era niente in lui che
non fosse diventato più forte, dopo essersi rotto. Il bastone si era mutato in una
parte del mito che aveva costruito. Nessuno sapeva chi fosse. Nessuno sapeva da
dove fosse arrivato. Era diventato Kaz Brekker, lo storpio e il truffatore, il
bastardo del Barile.
I guanti erano la sua unica concessione alla debolezza. Da quella notte in
mezzo ai cadaveri, in cui se l’era fatta a nuoto dalla Chiatta del Mietitore, non
era più stato in grado di tollerare la sensazione della pelle nuda a contatto con
altra pelle nuda. Per lui era straziante, rivoltante. Era l’unico pezzo del suo
passato da cui non riusciva a forgiare qualcosa di pericoloso.
Il baleen cominciò a provocargli delle bolle intorno alle labbra. L’acqua gli
stava entrando in bocca. A che distanza li aveva portati il fiume? Fino a dove
erano arrivati? Con una mano stringeva ancora il colletto di Bo Yul-Bayur. Il
ragazzo Shu era più piccolo di Kaz; c’era da sperare che avesse abbastanza aria.
Sprazzi lucidi di ricordi attraversarono la mente di Kaz. Una tazza di
cioccolata calda tra le mani chiuse nelle muffole, Jordie che lo avvertiva di
lasciarla raffreddare prima di berne un sorso. L’inchiostro che si asciugava sul
foglio mentre firmava l’atto di proprietà del Club dei Corvi. La prima volta che
aveva visto Inej al Serraglio, vestita di seta viola, gli occhi coperti di kajal. Il
pugnale con il manico d’osso che le aveva regalato. I singhiozzi che provenivano
da dietro la porta della sua stanza allo Slat, la notte in cui lei aveva ucciso per la
prima volta. E che lui aveva ignorato. Kaz la ricordò appollaiata sul davanzale
della finestra della propria mansarda, in un qualche momento di quel primo
anno, dopo che l’aveva introdotta negli Scarti. Stava dando da mangiare ai corvi
radunati sul tetto.
“Non dovresti fare amicizia con i corvi” le aveva detto lui.
“Perché no?” aveva domandato lei.
Kaz aveva sollevato lo sguardo dalla scrivania per rispondere, ma qualunque
cosa fosse stato sul punto di dire era svanita.
Una volta tanto c’era il sole, e Inej gli porgeva il viso. Teneva gli occhi
chiusi, e le lucide ciglia nere le solleticavano le guance. Il vento del porto le
aveva sollevato i capelli scuri, e per un attimo Kaz fu di nuovo un ragazzo, certo
che la magia fosse di questo mondo.
“Perché no?” aveva ripetuto lei, con gli occhi ancora chiusi.
Lui disse la prima cosa che gli venne in mente. “Non conoscono le buone
maniere.”
“Nemmeno tu, Kaz.” Inej aveva riso, e se lui avesse potuto imbottigliare
quella risata e bersela fino a ubriacarsi tutte le notti, l’avrebbe fatto. La cosa lo
terrorizzò.
Kaz respirò a lungo mentre il baleen si dissolveva e l’acqua lo inondava.
Strizzò gli occhi contro quell’aggressione liquida, sperando di vedere un
accenno di luce del giorno. Il fiume lo mandò a sbattere contro la parete del
tunnel. La pressione nel petto aumentò. “Io sono più forte” si disse. “La mia
forza di volontà è più grande.” Ma sentiva Jordie ridere. “No, fratellino. Nessuno
è più forte. Hai imbrogliato la morte troppe volte. L’avidità sarà anche ai tuoi
ordini, ma la morte non è al servizio di nessuno.”
Kaz era quasi annegato quella notte nel porto, quando scalciava forte l’acqua nel
buio, tenuto a galla dal cadavere di Jordie. Adesso non c’era niente e nessuno a
cui aggrapparsi. Provò a pensare a suo fratello, alla vendetta, a Pekka Rollins
legato a una sedia nella casa sulla Zelverstraat, i contratti infilati in gola mentre
Kaz lo costringeva a ricordarsi il nome di Jordie. Ma tutto quello a cui riusciva a
pensare era Inej. Doveva essere viva. Doveva essere uscita dalla Corte di
Ghiaccio. E se non l’aveva fatto, allora lui doveva restare in vita per andare a
salvarla.
Il dolore nei polmoni era insopportabile. Kaz doveva dirglielo... che cosa?
Che era adorabile e coraggiosa e migliore di qualunque cosa lui si meritasse. Che
lui era contorto, corrotto, sbagliato, ma non così guasto da non poter rimettersi in
sesto per lei, e tornare a essere qualcosa di simile a un uomo. Che senza volerlo,
aveva imparato ad appoggiarsi a lei, a cercarla, ad avere bisogno di averla
accanto. Doveva dirle che la ringraziava per il cappello nuovo.
L’acqua gli premeva sul petto e pretendeva che lui aprisse le labbra. “Non lo
farò” si ripromise lui. Ma alla fine Kaz aprì la bocca e l’acqua si avventò dentro
di lui.
PARTE SESTA
LADRI COME SI DEVE
39
INEJ

Il cuore di Inej pulsava tra le costole. Sui trapezi c’è un momento, quando ne
lasci andare uno e ti lanci verso l’altro, in cui realizzi che hai fatto un errore e
non ti senti più senza peso: è il momento in cui cominci a cadere.
Le guardie attraversarono il cancello della prigione per riportarla indietro.
C’erano molti più soldati e molti più fucili puntati su di lei rispetto alla prima
volta che era arrivata in questo cortile, quando era scesa dal carro della prigione
con il resto della banda. Attraversarono la bocca del lupo, andarono su per le
scale e la trascinarono lungo la passerella passando per il corridoio sul
gigantesco recinto di vetro. Nina aveva tradotto lo stendardo per lei: POTENZA
FJERDIANA . Inej aveva fatto una smorfia la prima volta che vi era passata
davanti, guardando i carri armati e le armi, un occhio su Kaz e sugli altri nella
passerella di fronte. Si era domandata che razza di uomini fossero quelli che
avevano bisogno di sfoggiare la propria forza davanti a inoffensivi prigionieri in
catene.
Le guardie andavano troppo veloci. Per la seconda volta, quella notte, Inej
inciampò.
«Muoviti» le disse in malo modo, in Kerch, un soldato, spingendola avanti.
«Camminate troppo veloci.»
Lui le diede un brutto strattone al braccio. «Smettila di rallentare.»
«Non vuoi incontrare i tuoi inquisitori?» le chiese l’altro. «Loro ti faranno
parlare.»
«Ma non sarai così carina, dopo che avranno finito.»
Scoppiarono a ridere, e a Inej si rivoltò lo stomaco. Stavano parlando in
Kerch per fare in modo che lei capisse.
Avrebbe potuto avere la meglio su quei due, malgrado loro avessero i fucili e
lei non avesse nemmeno i pugnali. Le sue mani non erano legate, e in più loro
credevano ancora che lei fosse una povera prostituta. Heleen l’aveva chiamata
criminale, ma per quei soldati era solo una ladruncola dentro stracci di seta viola.
Proprio mentre stava pensando di fare la propria mossa, udì passi avvicinarsi.
Vide le sagome di altri due uomini in uniforme procedere spediti verso di loro.
Sarebbe riuscita a tenere a bada, da sola, quattro guardie? Non ne era sicura, ma
sapeva che se si fossero lasciati alle spalle questo corridoio, sarebbe stata la fine.
Guardò di nuovo lo stendardo nel recinto di vetro. Ora o mai più.
Agganciò la gamba alla caviglia del soldato alla sua sinistra. Lui si sbilanciò
in avanti, e lei menò un fendente, con forza, spaccandogli il naso.
L’altro sollevò il fucile. «La pagherai per questo.»
«Non mi sparerai. Vi servono le mie informazioni.»
«Posso spararti a una gamba» sogghignò lui, puntando il fucile in basso.
Quindi si accasciò a terra, con un paio di cesoie malconce che gli spuntava
dalla schiena. Il soldato in piedi dietro di lui fece un allegro gesto di saluto.
«Jesper» boccheggiò lei per il sollievo. «Finalmente.»
«Ci sono anch’io, sai?» disse Wylan.
Il soldato con il naso rotto emise un lamento sul pavimento e provò ad alzare
il fucile. Inej gli diede un gran bel calcio in testa. Non si mosse più.
«Sei riuscita ad arraffare un diamante abbastanza grosso?» le chiese Jesper.
Inej fece segno di sì con la testa ed estrasse dalla manica un massiccio
girocollo di diamanti.
«Sbrighiamoci» disse. «Se Heleen non si è ancora accorta che è scomparso,
se ne accorgerà presto.»
Per quanto, con il Protocollo Nero in atto, non c’era granché che potesse fare.
Jesper strappò il girocollo di mano a Inej, la bocca spalancata. «Kaz ha detto
che ci serviva un diamante. Non ti ha detto di rubare i gioielli di Heleen Van
Houden!»
«Tu pensa solo a metterti al lavoro.»
Kaz aveva dato a Inej due obiettivi: rubare un diamante abbastanza grosso
perché Jesper potesse lavorarlo e farsi trovare dentro questo corridoio dopo gli
undici rintocchi. C’erano tantissime altre pietre preziose utili ai loro scopi che lei
avrebbe potuto rubare, così come c’erano altri guai che avrebbe potuto creare per
attirare l’attenzione delle guardie. Ma era Heleen che voleva beffare. A dispetto
di tutti i segreti raccolti, i documenti sottratti e la violenza inflitta, era Heleen
Van Houden che aveva bisogno di sconfiggere.
Ed Heleen le aveva reso il compito facile. Durante la zuffa nella rotonda, Inej
aveva fatto in modo che lei fosse troppo occupata a non farsi strozzare per
preoccuparsi di essere derubata. Dopo, tutta l’attenzione della donna era stata
dedicata a gongolare. Inej si rammaricava solamente di una cosa: non sarebbe
stata lì a godersi lo spettacolo di Tante Heleen mentre scopriva che la sua
preziosa collana era sparita.
Jesper accese una lanterna e andò a lavorare accanto a Wylan. Solo allora lei
si accorse che erano entrambi coperti di fuliggine per essere scesi dalla canna
fumaria dell’inceneritore. Avevano portato con sé anche due sudici rotoli di
corda. Mentre lavoravano, Inej sbarrò le porte collocate nelle volte su entrambi i
lati del corridoio. Avevano solo pochi minuti prima che un’altra pattuglia
arrivasse e si trovasse davanti a un ingresso che non doveva essere chiuso.
Wylan aveva realizzato una lunga vite di metallo e una cosa che sembrava la
manovella di un enorme argano, e stava tentando di incastrarli insieme per
formare quello che Inej sperava fosse uno sgorbio di trapano, però funzionante.
Da una delle porte arrivò un colpo.
«Più in fretta» affermò Inej.
«Dirlo non mi fa andare più veloce» si lamentò Jesper mentre si concentrava
sui diamanti. «Se li disintegro, perderanno la loro struttura molecolare. Devono
essere tagliati con attenzione, e i margini assemblati in un’unica punta perfetta.
Non ho ricevuto l’addestramento...»
«E di chi è la colpa?» puntualizzò Wylan, senza alzare gli occhi dal proprio
lavoro.
«Anche questo non è d’aiuto.»
Ora le guardie stavano bussando alla porta. Attraverso il recinto, Inej vide
degli uomini riversarsi sull’altra passerella, gesticolando e gridando. E tuttavia
non potevano certo sparare attraverso due pareti di vetro antiproiettile.
Quel materiale era stato fabbricato dai Grisha. Nina l’aveva riconosciuto non
appena erano passati per la vetrina – la Potenza Fjerdiana protetta dall’abilità
Grisha – e l’unica cosa più forte del vetro dei Fabrikator erano i diamanti.
Ora entrambe le porte sui due lati della passerella stavano sbatacchiando.
«Stanno arrivando!» disse Inej.
Wylan montò il pezzo di diamante sul trapano improvvisato. L’aggeggio fece
un rumore raschiante quando lo piazzarono contro il vetro, e Jesper si mise a
girare la manovella. Tutto andava spiacevolmente per le lunghe.
«Sta almeno funzionando?» urlò disperata Inej.
«Il vetro è spesso!»
Qualcosa colpì con forza la porta alla loro destra. «Hanno un ariete» gemette
Wylan.
«Andate avanti» li incoraggiò Inej. E si tolse le scarpe.
Jesper girò la manovella più in fretta mentre la punta del trapano ronzava.
Prese a farle fare una linea curva, disegnando l’inizio di un cerchio, poi una
mezzaluna. Più veloce.
La porta di legno cominciò a scheggiarsi.
«Prendi la manovella, Wylan!» gridò Jesper.
Wylan lo sostituì, girando la punta del trapano più veloce che poteva.
Jesper afferrò i fucili delle guardie cadute e li puntò sulla porta.
«Stanno arrivando!» urlò.
Sul vetro, le due linee si incontrarono. La luna era piena. Il cerchio rimbalzò
in fuori e si inclinò verso l’interno. Non aveva ancora toccato il pavimento e Inej
era già scattata.
«Togliamoci di mezzo!» ordinò.
Stava correndo, i piedi leggeri e le vesti di seta come piume. In questo
momento non le dispiacevano. Aveva raggirato Heleen Van Houden. Si era
portata via un pezzetto di lei, uno stupido simbolo, però uno che lei aveva a
cuore. Non era abbastanza – non sarebbe mai stato abbastanza – ma era un
inizio. Ci sarebbero state altre maîtresse da truffare, altri schiavisti da prendere
in giro. Le sue sete erano piume, e lei era libera.
Inej si concentrò su quel cerchio di vetro – una luna, una luna vuota, una
porta sul futuro – e vi saltò dentro. Il buco era grande appena per consentire al
suo corpo di passarci in mezzo, e Inej sentì un morbido fruscio mentre il bordo
affilato lacerava la seta che la ricopriva. Si inarcò e allungò un braccio. Avrebbe
avuto un’opportunità sola per afferrare la lanterna di ferro che pendeva dal
soffitto del recinto. Era un salto impossibile, un salto folle, ma era ancora una
volta la figlia di suo padre, e per lei le leggi di gravità non valevano. Rimase
sospesa in aria per uno spaventoso istante e poi le sue mani strinsero la base
della lanterna.
Dietro di sé, udì la porta della passerella spalancarsi e dei colpi di armi da
fuoco. Tienili lontani, Jesper. Guadagnami del tempo.
Oscillò avanti e indietro per darsi lo slancio. Un proiettile le passò accanto.
Per sbaglio? O qualcuno aveva superato Wylan e Jesper per spararle attraverso il
buco?
Quando lo slancio fu sufficiente, Inej si lasciò andare. Colpì forte la parete.
Non c’era un modo elegante per evitare l’urto, però le sue mani si aggrapparono
al ripiano in pietra sul quale erano esposte le asce antiche. Da lì fu facile: dal
ripiano alla trave al ripiano inferiore, e poi giù, facendo un rumore sordo quando
con i piedi colpì il tetto di un enorme carro armato. Scivolò dentro la torretta a
cupola e raggiunse l’abitacolo.
Girò una manopola e poi un’altra, nel tentativo di prendere il controllo.
Finalmente una delle mitragliatrici si sollevò. Inej premette il grilletto e tutto il
suo corpo tremò mentre i proiettili venivano sparati a raffica, come grandine,
contro il recinto di vetro, rimbalzando e tintinnando in tutte le direzioni. Era il
segnale migliore che potesse lanciare a Jesper e a Wylan.
Inej poteva solo sperare di riuscire a far funzionare il cannone. Ispezionò
l’abitacolo del carro armato. Ruotò l’unica maniglia visibile e il muso del
cilindro lungo si mise in posizione. La leva era lì, proprio come aveva detto
Jesper. Lei la tirò forte. Ci fu un clic sorprendentemente silenzioso. Poi, per un
lungo orribile istante, non accadde niente. “E se non è carico?” pensò. “Se Jesper
ha ragione sul cannone, allora i Fjerdiani sarebbero pazzi a lasciare in giro una
potenza del genere.”
Un rumore metallico risuonò da qualche parte nel carro armato. Inej udì
qualcosa rotolare verso di lei ed ebbe il pensiero terrificante di aver commesso
uno sbaglio. Il proiettile stava per cadere giù da quella lunga canna ed esploderle
in grembo. Invece, ci furono un sibilo e uno stridio, come di metallo sfregato
contro altro metallo. Il cannone vibrò. Un boom da far esplodere la testa lacerò
l’aria con una nuvola di fumo grigio scuro.
Il proiettile colpì il vetro, frantumandolo in migliaia di pezzi scintillanti. “Più
belli dei diamanti” si meravigliò Inej, e sperò che Wylan e Jesper avessero
trovato il tempo e lo spazio per mettersi al riparo.
Attese che la polvere si diradasse, mentre le orecchie le facevano male. La
parete di vetro non c’era più. Tutto era immobile. Poi due funi, legate alla
ringhiera della passerella, vennero giù, seguite da Jesper e Wylan: il primo agile
come un insetto, il secondo a sobbalzi, dimenandosi come un bruco che cerca di
uscire dal bozzolo.
«Ajor!» urlò Inej in Fjerdiano. Nina sarebbe stata fiera di lei.
Girò il cannone di qua e di là. Dall’altra parte della parete di vetro ancora in
piedi, sulla passerella, degli uomini gridavano. Quando la canna ruotò nella loro
direzione, si sparpagliarono in giro.
Inej udì dei passi e dei rumori metallici mentre Jesper e Wylan si
arrampicavano sul carro armato. Dal tettuccio spuntò Jesper, a testa in giù. «Me
lo fai guidare?»
«Se insisti.»
Inej si fece da parte in modo che lui potesse mettersi al posto di guida.
«Oh, ciao, caro» disse Jesper felice. Tirò un’altra leva, e il carro armato sembrò
fremere di vita propria intorno a loro mentre ruttava fumo nero. “Che razza di
mostro è questo?” si domandò Inej.
«Che fracasso!» gemette.
«Che motore!» disse Jesper ridendo di gusto.
Si stavano muovendo, e non c’era un’anima in vista.
Da sopra, arrivava un rumore di spari. Evidentemente, Wylan aveva trovato il
quadro di controllo.
«Per amore dei Santi» disse Jesper a Inej. «Aiutalo a prendere la mira!»
Inej si strinse accanto a Wylan nella torretta a cupola e puntò la seconda
mitragliatrice, aiutandolo con il fuoco di copertura mentre le guardie
irrompevano nel recinto.
Jesper stava girando il carro armato, arretrando il più possibile. Fece fuoco
una volta con il cannone. Il proiettile frantumò il recinto di vetro, sfrecciò oltre
la passerella e colpì le mura ad anello situate dietro. Polvere bianca e frammenti
di pietra andarono ovunque. Fece fuoco di nuovo. Il secondo proiettile formò
delle crepe. Jesper aveva ammaccato le mura ad anello: era un’ammaccatura
notevole, ma non era un buco.
«Pronti?» gridò.
«Pronti» risposero Inej e Wylan all’unisono. Si accucciarono sotto la torretta.
A causa del vetro, Wylan aveva dei graffi un po’ ovunque sulle guance e sul
collo. Stava sorridendo. Inej gli prese le mani e gliele strinse. Erano entrati nella
Corte di Ghiaccio zampettando come dei ratti. Vivi o morti, ne stavano uscendo
come un esercito.
Inej udì un forte tunk e poi i rumori degli ingranaggi che giravano. Il carro
armato ruggì; era il suono di un tuono intrappolato in un tamburo di metallo che
chiedeva a gran voce di uscire. Il mezzo arretrò, poi si lanciò in avanti. Sempre
più veloce. Il carro armato sobbalzò – dovevano essere fuori dal recinto.
«Tenetevi forte!» gridò Jesper, e andarono addosso alle leggendarie,
impenetrabili mura della Corte di Ghiaccio con uno schianto da frantumare le
mandibole. Inej e Wylan volarono indietro e andarono a sbattere contro la parete
della torretta.
Avevano sfondato le mura. Se ne andarono rombando per la strada, i colpi
sommessi dei fucili che scomparivano dietro di loro.
Inej sentì un rumore che aveva a che fare con la felicità. Si raddrizzò e alzò lo
sguardo. Wylan stava ridendo.
Si era sporto dalla torretta e stava guardando la Corte di Ghiaccio. Quando lei
lo raggiunse, vide il buco nelle mura ad anello: uno sgorbio nero in tutta quella
pietra bianca, e gli uomini ci correvano dentro sparando invano alla scia
polverosa del carro armato.
Wylan, ancora ansimante per le risate, alzò il dito medio e lo puntò in basso.
Dietro di loro c’era uno stendardo, finito nei battistrada del carro armato.
Nonostante le macchie di fango e le bruciature della polvere da sparo, Inej
riusciva ancora a leggere: STRYMAKT FJERDAN . Potenza Fjerdiana.
40
NINA

Emersero dall’oscurità bagnati fradici, ammaccati e rantolanti alla luce chiara


della luna. Nina si sentiva come se fosse stata presa a pugni su tutto il corpo. I
residui appiccicosi di baleen le si raggrumarono agli angoli della bocca. Il
vestito le si era sfilacciato fino a ridursi a un brandello di stoffa, e se non fosse
stata così disperatamente e vertiginosamente felice di essere viva e di respirare,
si sarebbe potuta preoccupare del fatto che era a piedi scalzi e praticamente nuda
nella gola di un fiume del Nord, ancora a un miglio e mezzo di distanza dal porto
e dalla salvezza. In lontananza, sentiva risuonare le campane della Corte di
Ghiaccio.
Kuwei stava tossendo acqua, e Matthias stava trascinando un Kaz afflosciato
e privo di sensi fuori dalla corrente bassa del fiume.
«Per tutti i Santi, respira?» domandò Nina.
Matthias lo girò sulla schiena senza troppa delicatezza e iniziò a premergli il
petto con più forza di quella strettamente necessaria.
«Dovrei... Lasciarti... Schiattare...» mormorò a ritmo con il massaggio
cardiaco.
Nina avanzò cauta sulle rocce e si inginocchiò accanto a loro. «Lascia fare a
me prima che gli rompi tutte le costole. C’è polso?» Gli premette le dita sulla
gola. «C’è, ma lo sta perdendo. Aprigli la camicia.»
Matthias la aiutò a strappare l’uniforme da drüskelle. Nina posizionò una
mano sul torace di Kaz, concentrandosi sul suo cuore per forzarlo a contrarsi.
Usò l’altra mano per chiudergli il naso e tenergli la bocca aperta mentre con la
bocca immetteva aria nei suoi polmoni. I Corporalki più esperti sapevano
estrarre l’acqua, ma non aveva tempo di arrovellarsi sulle lacune del proprio
addestramento.
«Vivrà?» chiese Kuwei.
Non lo so. Premette le labbra su quelle di Kaz un’altra volta, sincronizzando i
respiri con i battiti che pretendeva dal suo cuore. Avanti, spregevole delinquente
del Barile. Sei uscito vivo da guai peggiori.
Avvertì il cambiamento quando il cuore di Kaz prese a battere per conto
proprio.
Poi lui tossì, il petto si contrasse per gli spasmi e l’acqua gli uscì dalla bocca.
Spinse via Nina, inspirando aria.
«Stai lontana da me» disse rantolando, pulendosi la bocca con la mano
guantata. Lo sguardo era fuori fuoco. Sembrava che stesse vedendo attraverso di
lei. «Non toccarmi.»
«Sei sotto shock, demjin» replicò Matthias. «Sei quasi affogato. Avresti
dovuto affogare.»
Kaz tossì di nuovo, e tutto il suo corpo tremò. «Affogato» ripeté.
Nina annuì lentamente. «La Corte di Ghiaccio, ricordi? Il colpo impossibile?
Quasi morto? Tre milioni di kruge che ti aspettano a Ketterdam?»
Kaz sbatté le palpebre e lo sguardo gli si schiarì. «Quattro milioni.»
«Lo sapevo che questo ti avrebbe riportato fra noi.»
Kaz si strofinò le mani sul viso, mentre colpi di tosse annacquati gli
squassavano ancora il petto. «Ce l’abbiamo fatta» disse con stupore. «Djel fa
miracoli.»
«Tu non ti meriti nessun miracolo» ribatté Matthias con lo sguardo duro. «Hai
profanato il frassino sacro.»
Kaz si rimise in piedi, barcollò leggermente, fece un altro debole respiro. «È
un simbolo, Helvar. Se il tuo dio è così delicato, forse dovresti procurartene uno
nuovo. Andiamo via da qui.»
Nina alzò le mani. «Non c’è di che, ingrato mascalzone.»
«Ti dirò grazie quando saremo a bordo della Ferolind. Muoviamoci.» Si stava
già trascinando sopra le rocce che fiancheggiavano il lato opposto della gola.
«Lungo il cammino mi spiegherete perché il nostro illustre scienziato Shu
sembra uno dei compagni di scuola di Wylan.»
Nina scrollò la testa, divisa tra il fastidio e l’ammirazione. Forse era questo
ciò che ci voleva per sopravvivere nel Barile. Non fermarsi mai.
«È un amico?» chiese Kuwei, scettico, in Shu.
«A volte.»
Matthias aiutò Nina a rialzarsi e andarono tutti dietro a Kaz, procedendo
lentamente su per le pareti rocciose della gola che li avrebbe portati dall’altra
parte del ponte, e un po’ più vicini a Djerholm. Nina non era mai stata così
spossata, ma non poteva permettersi di riposare. Avevano il loro bottino. Si
erano spinti più in là di ogni altra banda. Avevano fatto saltare in aria un edificio
nel cuore della Corte di Ghiaccio. Ma non sarebbero mai arrivati al porto senza
Inej e gli altri.
Andò avanti. L’unica altra opzione era sedersi su un masso e aspettare la fine.
In lontananza ci fu un rimbombo.
«Oh, Santi numi, vi prego, fate che sia Jesper» implorò mentre uscivano dalla
gola e si giravano a guardare il ponte addobbato di nastri e rami di frassino per la
festa di Hringkälla.
«Qualunque cosa stia arrivando, è grossa» disse Matthias.
«Cosa facciamo, Kaz?»
«Aspettiamo» rispose lui mentre il rumore si faceva sempre più forte.
«Cosa ne dici di “mettiamoci al coperto”?» domandò Nina, saltellando
nervosamente da un piede all’altro. «“Non vi preoccupate”? “Ho nascosto venti
fucili in questo comodo cespuglio”? Di’ qualcosa.»
«Cosa ne dici di qualche milione di kruge?» ribatté Kaz.
Un carro armato brontolò sopra la collina, con i battistrada che sollevavano
polvere e ghiaia. Qualcuno li stava salutando dalla torretta – no, i qualcuno erano
due. Inej e Wylan stavano urlando e gesticolando come pazzi.
Nina fece un urlo di vittoria mentre Matthias li fissava incredulo. Poi non
riuscì quasi a credere ai propri occhi. «Per tutti i Santi, Kaz, sembri veramente
felice.»
«Non essere ridicola» scattò lui. Ma non c’era margine di errore. Kaz Brekker
stava sorridendo come un idiota.
«Devo supporre che li conosciamo?» chiese Kuwei.
L’euforia di Nina si dileguò quando la risposta di Fjerda all’assalto degli
Scarti apparve all’orizzonte. Una colonna di carri armati aveva raggiunto la cima
della collina e stava scendendo giù per la strada illuminata dalla luna, alzando
dai battistrada pennacchi di polvere. Forse Jesper non aveva chiuso il cancello
dei drüskelle. O forse avevano dei carri armati pronti fuori dalla cittadella.
Considerata la potenza di fuoco presente all’interno delle mura della Corte di
Ghiaccio, Nina immaginò che avrebbero dovuto ritenersi fortunati. Tuttavia, di
certo non era così che si sentivano.
Fu solo quando Inej e Wylan arrivarono rimbombando sul ponte che Nina
riuscì a capire cosa stavano urlando: «Toglietevi di mezzo!».
Balzarono giù dal sentiero mentre il carro armato gli ruggiva accanto per poi
fermarsi con un gran stridore di ingranaggi.
«Abbiamo un carro armato» disse Nina incantata. «Kaz, piccolo genio
inquietante, il piano ha funzionato. Ci hai fornito un carro armato.»
«Loro ci hanno fornito un carro armato.»
«Noi ne abbiamo uno» disse Matthias, poi indicò l’orda di metallo e fumo che
si avvicinava minacciosamente. «Loro ne hanno molti di più.»
«Già, ma vuoi sapere cosa non hanno?» chiese Kaz mentre Jesper ruotava il
cannone del carro armato. «Un ponte.»
Uno stridio metallico risalì dalle viscere corazzate del mezzo cingolato. Poi ci
fu un’esplosione violenta, da scuotere le ossa. Nina udì un fischio acuto quando
qualcosa sfrecciò nell’aria accanto a loro ed entrò in collisione con il ponte. I
primi due piloni di sostegno andarono in fiamme, e le scintille e le travi di legno
precipitarono nella gola di sotto. Il cannone fece fuoco di nuovo. I piloni emisero
un gemito e crollarono definitivamente.
Se i Fjerdiani volevano attraversare la gola, avrebbero dovuto farlo volando.
«Abbiamo un carro armato e un fossato» disse Nina.
«Tutti a bordo!» urlò tronfio Wylan.
Si arrampicarono sui fianchi del mezzo, aggrappandosi disperatamente a ogni
bordo e appiglio, e poi si ritrovarono a procedere sulla strada per il porto a tutta
velocità.
Mentre avanzavano rumorosamente davanti ai lampioni, la gente usciva di
casa per vedere cosa stesse succedendo. Nina provò a immaginare come dovesse
apparire a questi Fjerdiani una squadra di selvaggi come la loro. Cosa vedevano
quando sporgevano le teste dalle finestre e dalle soglie di casa? Un gruppo di
ragazzini urlanti, avvinghiati a un carro armato dipinto con i colori della
bandiera di Fjerda, che procedeva come un bizzarro carro da parata uscito dalla
sfilata: una ragazza avvolta in vesti di seta viola e un ragazzo con i riccioli rosso
e oro che sbucavano da dietro le mitragliatrici; quattro tizi bagnati fradici
aggrappati ai fianchi con tutte le loro forze – uno Shu con la divisa da carcerato,
due drüskelle infangati, e Nina, una ragazza mezza nuda con brandelli di chiffon
turchese che gridava: «Abbiamo un fossato!».
Quando entrarono in paese, Matthias urlò: «Wylan, di’ a Jesper di puntare a
ovest».
Wylan si accucciò, e il carro armato sterzò a ovest.
«È la zona industriale» spiegò Matthias. «Di notte è deserta.»
Il mezzo sferragliò sui ciottoli, oscillando a destra e a sinistra, su e giù dai
marciapiedi per evitare i pochi pedoni, poi accelerò nella zona del porto, oltre le
taverne e i negozi e gli uffici di spedizione.
Kuwei inclinò la testa all’indietro, il viso raggiante di gioia. «Sento l’odore
del mare» disse felice.
Anche Nina lo sentiva. Il faro lampeggiava in lontananza. Altri due isolati e
avrebbero raggiunto la baia e la libertà. Trenta milioni di kruge.
Con la loro parte, lei e Matthias sarebbero potuti andare ovunque avessero
desiderato, vivere qualunque vita avessero scelto.
«Ci siamo quasi!» urlò Wylan.
Girarono un angolo, e a Nina si chiuse lo stomaco.
«Fermi!» gridò. «Fermi!»
Inutile preoccuparsi. Il carro armato si arrestò di colpo e per poco non la
scagliò via dal trespolo su cui era seduta. Il molo era proprio davanti a loro, e
subito dopo c’erano le banchine e le bandiere di migliaia di navi sferzate dal
vento. L’ora era tarda. Il molo avrebbe dovuto essere vuoto. Invece era affollato
di soldati, una fila dietro l’altra di uniformi grigie, almeno duecento – e ogni
canna di ogni fucile era puntata dritta su di loro.
Nina riusciva ancora a sentire le campane dell’Orologio Maggiore. Si guardò
alle spalle. La Corte di Ghiaccio si stagliava minacciosa, appollaiata sulla
scogliera come un gabbiano imbronciato con le penne arruffate, i muri di pietra
bianca illuminati da sotto, brillanti nel cielo della notte.
«E questo cos’è?» chiese Wylan a Matthias. «Non hai mai detto...»
«Devono aver cambiato le procedure di dispiegamento delle forze.»
«Tutto il resto era uguale.»
«Non ho mai visto il Protocollo Nero in azione» ringhiò Matthias. «Forse ci
sono sempre state delle truppe armate nel porto. Non lo so.»
«Fate silenzio» disse Inej. «Smettetela.»
Nina sobbalzò quando una voce echeggiò sulla moltitudine di soldati. Parlò
prima in Fjerdiano, poi in Ravkiano, poi in Kerch e alla fine in Shu. «Liberate il
prigioniero Kuwei Yul-Bo. Deponete le armi e allontanatevi dal carro armato.»
«Non spareranno» disse Matthias. «Non rischieranno di colpire Kuwei.»
«Non ne hanno bisogno» replicò Nina. «Guarda.»
Un prigioniero scheletrico venne lasciato passare tra le file dei soldati. Aveva
i capelli appiccicati alla fronte. Indossava una kefta rossa ridotta a brandelli, si
aggrappava alla manica della guardia più vicina e muoveva le labbra
febbrilmente, come se stesse dispensando qualche perla di disperata saggezza.
Nina sapeva che stava implorando per avere un po’ di parem.
«Uno Spaccacuore» disse, con tristezza, Matthias.
«Ma è lontanissimo» affermò Wylan.
Nina scrollò la testa. «Non fa differenza.» Lo tenevano quaggiù con le truppe
appostate a Djerholm Bassa? Perché no? Era un’arma migliore di qualunque
fucile o carro armato.
«Vedo la Ferolind» mormorò Inej. Indicò la banchina, poco lontana. A Nina
ci volle un momento, ma poi riconobbe la bandiera di Kerch e l’allegro vessillo
della Baia Haanraadt che svolazzavano. Erano così vicini.
Jesper avrebbe potuto sparare allo Spaccacuore. Avrebbero potuto fiondarsi in
mezzo alle truppe con il carro armato, ma non ce l’avrebbero mai fatta ad
arrivare alla nave. I Fjerdiani avrebbero preferito mettere in pericolo la vita di
Kuwei piuttosto che lasciarlo finire nelle mani di qualcun altro.
«Kaz?» chiamò Jesper da dentro il carro armato. «Questo potrebbe essere
davvero un buon momento per dire che l’avevi previsto.»
Kaz volse lo sguardo sul mare di soldati. «Questo non l’avevo previsto.»
Scrollò la testa. «Helvar, un giorno mi hai detto che sarei rimasto a corto di
trucchi. Sembra che tu abbia avuto ragione.» Le parole erano rivolte a Matthias,
ma gli occhi erano puntati su Inej.
«Con la prigionia io ho già dato» disse lei. «Non mi avranno.»
«Non avranno vivo neanche me» disse Wylan.
Jesper sbuffò dall’abitacolo. «È assolutamente necessario che gli troviamo
degli amici più adatti.»
«Preferisco andarmene menando le mani che farmi mettere su una picca da
qualche Fjerdiano» disse Kaz.
Matthias annuì. «Allora siamo d’accordo. Finisce qui.»
«No» sussurrò Nina. Tutti si voltarono verso di lei.
La voce che proveniva dai ranghi Fjerdiani riecheggiò un’altra volta.
«Conterò da dieci in giù. Ripeto: liberate il prigioniero Kuwei Yul-Bo e
arrendetevi. Dieci...»
Nina parlò rapida a Kuwei in Shu.
«Non capisci» replicò lui. «Una singola dose...»
«Io capisco» disse lei. Ma gli altri no. Non capirono finché non videro Kuwei
estrarre un borsellino di pelle dalla tasca. Il bordo era macchiato di polvere color
ruggine.
«No!» gridò Matthias. Cercò di afferrare la parem, ma Nina fu più veloce.
La voce del Fjerdiano andava avanti a blaterare: «Sette...».
«Nina, non essere sciocca» disse Inej. «Hai visto...»
«Non tutti diventano assuefatti dopo la prima dose.»
«Non vale il rischio.»
«Sei...»
«Kaz non ha più assi nella manica.» Aprì il borsellino. «Ma io sì.»
«Nina, ti prego» implorò Matthias. Lei aveva notato la medesima angoscia sul
viso di lui quel giorno, a Elling, quando aveva pensato che lo avesse tradito. In
un certo senso adesso stava facendo la stessa cosa, abbandonandolo un’altra
volta.
«Cinque...»
La prima dose era la più forte, non era quello che avevano detto? L’euforia e
la potenza non sarebbero mai più state le stesse. Le avrebbe inseguite per il resto
della vita. O forse sarebbe stata più forte della droga.
«Quattro...»
Sfiorò la guancia di Matthias. «Se le cose si mettono male, trova un modo per
farla finita, Helvar. Mi fido di te, so che farai la cosa giusta.» Sorrise. «Di
nuovo.»
«Tre...»
Quindi gettò la testa all’indietro e si versò la parem in bocca, inghiottendola
tutta in una sola volta. Aveva il sapore dolce e caramellato dei fiori di jurda che
conosceva, ma c’era anche un altro gusto, uno che non sapeva individuare.
Smise di pensare.
Il sangue cominciò a scorrerle veloce, e il cuore prese a batterle con intensità.
Il mondo si sgretolò in minuscoli lampi di luce. Riusciva a vedere il colore vero
degli occhi di Matthias, l’azzurro limpido che stava sotto le macchie di grigio e
marrone dalle quali era stato ricoperto, e la luce della luna che illuminava ogni
capello sulla sua testa. Vedeva il sudore sulle sopracciglia di Kaz, le punture di
spillo quasi invisibili del tatuaggio sul suo avambraccio.
Portò lo sguardo sulle linee di soldati Fjerdiani. Era in grado di percepire il
battito dei loro cuori. Era in grado di vedere le connessioni che si accendevano
tra i loro neuroni, e sentire gli impulsi che trasmettevano. Tutto aveva un senso. I
loro corpi erano una mappa di cellule, un migliaio di equazioni risolte al
secondo, al millisecondo, e lei conosceva solo risposte.
«Nina?» sussurrò Matthias.
«Muoviamoci» disse Nina, e vide la propria voce nell’aria.
Percepì lo Spaccacuore nella folla, il movimento che fece la sua gola quando
deglutì la dose. Lui sarebbe stato il primo.
41
MATTHIAS

«Due... uno...» Matthias vide le pupille di Nina dilatarsi. Lei dischiuse le labbra,
lo spinse da parte e scese dal carro armato. L’aria che aveva attorno sembrava
scricchiolare, e la sua pelle brillava come se da dentro fosse illuminata da
qualcosa di prodigioso. Come se si fosse abbeverata direttamente da una vena di
Djel, e ora il potere del dio fluisse nel suo corpo.
Nina si scagliò immediatamente contro lo Spaccacuore. Ruotò il polso e gli
occhi del Grisha esplosero dentro le orbite. Si accasciò senza emettere un suono.
«Sii libero» disse lei.
Si avvicinò ai soldati. Matthias si mosse per proteggerla appena vide i fucili
puntati. Lei alzò le mani. «Fermi» disse. I militari si immobilizzarono.
«Deponete le armi.» Le obbedirono tutti come se fossero un uomo solo.
«Dormite» ordinò. Nina fece fare alle mani un semicerchio, e i soldati andarono
giù senza protestare, fila dopo fila, come spighe di grano falciate da una scure
invisibile. L’aria era immobile in modo inquietante. Lentamente, Wylan e Inej
scesero dal carro armato, seguiti da Jesper e dagli altri. Rimasero in piedi in
attonito silenzio, a guardare il campo di corpi a terra, le parole spazzate via da
quello a cui avevano appena assistito. Era successo tutto così velocemente.Non
c’era altro modo di raggiungere la banchina che camminare sopra i soldati.
Senza dire una parola cominciarono a farsi strada, il silenzio interrotto soltanto
dalle campane dell’Orologio Maggiore in lontananza. Matthias mise la mano sul
braccio di Nina, e a lei sfuggì un piccolo sospiro quando si lasciò guidare.
Le banchine erano deserte. Mentre gli altri puntavano alla Ferolind, Matthias
e Nina rimasero indietro. Matthias riusciva a vedere Rotty aggrappato all’albero,
la mascella rilasciata per la paura. Specht stava aspettando di togliere l’àncora
alla nave, e l’espressione sul suo viso era altrettanto terrorizzata.
«Matthias!»
Lui si voltò. Un gruppo di drüskelle era in piedi sul molo, le uniformi
fradicie, i cappucci neri sollevati. Avevano sopra il viso delle cotte di maglia di
un grigio ormai sbiadito, e i loro lineamenti erano messi in ombra dalla rete
metallica. Matthias riconobbe la voce di Jarl Brum.
«Traditore» disse Brum da dietro la maschera. «Rinnegatore del tuo paese e
del tuo dio. Non lascerai vivo questo porto. Nessuno di voi lo farà.» I suoi
uomini dovevano averlo fatto uscire dalla camera del tesoro dopo l’esplosione.
Avevano seguito Matthias e Nina fino al fiume sotto il frassino? C’erano dei
cavalli o degli altri carri armati appostati nella città alta?
Nina sollevò le mani. «Per Matthias, vi darò la possibilità di lasciarci andare.»
«Tu non puoi controllarci, strega» disse Brum. «I nostri cappucci, le nostre
maschere, ogni cucitura dei nostri abiti è rinforzata con acciaio Grisha. Tutto è
stato creato per noi dai Fabrikator sotto il nostro controllo, e progettato per i
nostri scopi. Non puoi costringerci a eseguire le tue volontà. Non puoi farci
nulla. Questo gioco è arrivato alla fine.»
Nina alzò una mano. Non accadde niente, e Matthias seppe che quello che
diceva Brum era vero.
«Vai!» Matthias si rivolse ai drüskelle. «Per favore. Voi...»
Brum sollevò il fucile e fece fuoco. Il proiettile colpì Matthias dritto nel petto.
Il dolore fu improvviso e terribile, e poi sparì. Davanti agli occhi, vide la
pallottola affiorargli dal petto. Finì a terra con un plinc. Matthias si aprì la
camicia. Non c’era nessuna ferita.
Nina gli passò accanto. «No!» gridò lui.
I drüskelle aprirono il fuoco su di lei. La vide trasalire mentre le pallottole la
colpivano, e vide delle chiazze rosse di sangue fiorirle sul petto, sul seno, sulle
cosce nude. Ma non cadde. Alla stessa velocità con cui i proiettili la
trapassavano lei si guariva, e i bossoli cadevano inoffensive sul molo.
I drüskelle guardavano Nina a bocca aperta. Lei scoppiò a ridere. «Vi siete
abituati un po’ troppo ai Grisha addomesticati. Siamo piuttosto mansueti in
gabbia.»
«Ci sono altri sistemi» disse Brum, estraendo dalla cintura una frusta lunga
come quella che aveva usato Lars. «I tuoi poteri non possono toccarci, strega, e
la nostra causa è giusta.»
«Non posso toccare voi» replicò Nina, alzando le mani. «Ma a loro posso
arrivare benissimo.»
Alle spalle dei drüskelle, i soldati Fjerdiani che Nina aveva messo a dormire
si alzarono, i volti spenti. Uno strappò di mano la frusta a Brum, gli altri tirarono
via i cappucci e le maschere dalle facce allarmate dei drüskelle, rendendoli
vulnerabili.
Nina contrasse le dita, e i drüskelle fecero cadere a terra i fucili, quindi si
portarono le mani alla testa e urlarono per il dolore.
«Per il mio paese» disse lei. «Per la mia gente. Per ogni bambino che avete
messo sulle pire. Raccogli quello che hai seminato, Jarl Brum.»
Matthias guardò i drüskelle dimenarsi e contorcersi, mentre il sangue colava
fuori dagli occhi e dalle orecchie, e i soldati Fjerdiani stavano a guardare
impassibili. Le loro urla formavano un coro. Claas, che aveva bevuto troppo con
Matthias ad Avfalle. Giart, che aveva insegnato al proprio lupo a mangiargli
dalla mano. Erano dei mostri, lui lo sapeva, ma erano anche dei ragazzi, dei
ragazzi come lui, a cui avevano insegnato a odiare, ad avere paura.
«Nina» disse Matthias, la mano ancora posata sul proprio petto, là dove ci
sarebbe dovuta essere una pallottola. «Nina, ti prego.»
«Sai che loro non avrebbero nessuna pietà di te, Matthias.»
«Lo so. Lo so. Ma tu, invece, lasciali vivere nella vergogna.»
Lei esitò.
«Nina, me l’hai insegnato tu a essere migliore. Anche loro potrebbero
imparare.»
Nina volse lo sguardo su di lui. Gli occhi le traboccavano di ferocia: erano di
un verde profondo, quello delle foreste, e le pupille erano pozzi neri. L’aria
intorno sembrava risplendere del suo potere, come se lei fosse accesa da qualche
fiamma segreta.
«Loro ti temono come una volta ti temevo io» disse lui. «E come tu una volta
temevi me. Siamo tutti il mostro di qualcun altro.»
Per un lungo istante, Nina studiò il suo viso. E alla fine, lasciò cadere le
braccia, e i drüskelle crollarono a terra, gemendo. Mollò la presa anche sugli altri
soldati, che ricaddero nel loro sonno, come marionette dai fili spezzati. Poi la sua
mano balzò fuori un’altra volta, e Brum urlò. Si portò le mani alla testa, e il
sangue gli gocciolò tra le dita.
«Vivrà?» domandò Matthias.
«Sì» disse lei mentre saliva sulla goletta. «Sarà solo molto pelato.»
Specht urlò a gran voce degli ordini, e la Ferolind lasciò il porto, prendendo
velocità grazie al vento che gonfiava le vele. Nessuno corse lungo il molo per
fermarli. Nessuna nave e nessun cannone fece fuoco. Non c’era nessuno a dare
avvertimenti, nessuno a mandare un segnale all’artiglieria della cittadella. Le
campane dell’Orologio Maggiore suonavano inascoltate mentre la goletta si
dileguava dentro l’immenso rifugio nero del mare, lasciando solo sofferenza
sulla propria scia.
42
INEJ

Erano stati benedetti da un vento forte. Inej sentiva che le arruffava i capelli e
non poteva fare a meno di pensare alla tempesta in arrivo.
Non appena furono sul ponte, Matthias si era rivolto a Kuwei. «Per quanto ne
avrà?»
Il ragazzo conosceva qualche parola di Kerch, ma Nina a tratti doveva
tradurre. Lo faceva distrattamente, mentre gli occhi scintillanti vagavano su tutti
e tutto.
«L’effetto durerà un’ora, forse due. Dipende da quanto ci mette il suo corpo a
processare una dose di quelle dimensioni.»
«Perché non puoi eliminarla dal tuo corpo come se fosse una pallottola?»
chiese disperatamente Matthias a Nina.
«Non funziona così» disse Kuwei. «Anche se riuscisse a vincere il desiderio
abbastanza a lungo da iniziare a spurgare la parem, perderebbe l’abilità di
estrarla dal suo corpo prima di aver finito. Ci servirebbe un altro Corporalki
sotto l’effetto della parem per ultimare il processo.»
«Che cosa le accadrà?» domandò Wylan.
«L’hai visto con i tuoi occhi» rispose duro Matthias. «Sappiamo tutti cosa
accadrà.»
Kaz incrociò le braccia. «Come inizierà?»
«Dolori muscolari, brividi, niente di peggio di una malattia lieve» spiegò
Kuwei. «Poi una specie di ipersensibilità, a cui faranno seguito forti tremori e un
desiderio spasmodico.»
«Hai dell’altra parem?» domandò Matthias.
«Sì.»
«Abbastanza per riportarla a Ketterdam?»
«Non ne prenderò dell’altra» protestò Nina.
«Ne ho abbastanza per farti stare tranquilla» disse Kuwei. «Ma se prendi
un’altra dose, non ci sarà più nessuna speranza.» Guardò Matthias. «Questa è la
sua unica possibilità. Il suo corpo potrebbe eliminarne naturalmente in quantità
sufficiente perché non si crei la dipendenza.»
«E se invece diventasse dipendente?»
Kuwei fece un gesto con le mani, in parte di ignoranza, in parte di scuse.
«Senza un’altra dose in tempi brevi, impazzirà. Il suo corpo semplicemente si
consumerà. Conosci la parola parem? È stato mio padre a chiamare così la
droga. Significa “senza pietà”.»
Quando Nina finì di tradurre, ci fu una lunga pausa.
«Non voglio sentire altro» disse lei. «Niente potrà cambiare quello che sta per
succedere.»
Si allontanò verso la prua. Matthias la osservò andare via.
«L’acqua sente e capisce» mormorò sottovoce.
Inej andò in cerca di Rotty e gli fece tirar fuori le giacche di lana che lei e
Nina avevano lasciato a bordo per sostituirle con l’attrezzatura invernale, quando
erano sbarcati sulla riva del Nord. Trovò Nina vicino alla prua, lo sguardo
rivolto al mare.
«Un’ora, forse due» disse Nina senza voltarsi.
Inej si fermò, scioccata. «Mi hai sentita mentre mi avvicinavo?» Nessuno
sentiva lo Spettro, specialmente con il rumore di fondo del vento e del mare.
«Non preoccuparti. Non sono stati quei piedi silenziosi a tradirti. Sono io che
posso sentire il tuo polso e il tuo respiro.»
«E hai capito che ero io?»
«Ogni cuore batte in modo diverso. Non me ne ero mai accorta prima.»
Inej la raggiunse alla balaustra e porse a Nina la sua giacca. La Grisha se la
infilò, anche se il freddo non sembrava darle fastidio. Sopra di loro, le stelle
brillavano luminose tra le nuvole argentate. Inej era pronta ad affrontare l’alba,
pronta a veder finire questa lunga notte, e pronta anche a intraprendere il
viaggio. Scoprì, con sorpresa, che era impaziente di rivedere Ketterdam.
Desiderava una frittata, e una tazza di caffè dolcissimo. Voleva sentire la pioggia
sui tetti e mettersi a sedere, comoda e al caldo, nella sua minuscola stanzetta allo
Slat. Nuove avventure erano in arrivo, ma potevano aspettare che lei si facesse
un bagno caldo, e magari più di uno.
Nina seppellì il viso nel colletto di lana della giacca e disse: «Mi piacerebbe
che tu potessi vedere quello che vedo io. Posso sentire tutti su questa barca, il
sangue che scorre nelle loro vene. Posso sentire come cambia il respiro di Kaz
quando ti guarda».
«Tu... puoi?»
«Gli si mozza il fiato ogni volta, come se non ti avesse mai visto prima.»
«E cosa mi dici di Matthias?» chiese Inej, impaziente di cambiare argomento.
Nina sollevò un sopracciglio, non ci era cascata. «Matthias ha paura per me,
ma il suo cuore batte a un ritmo costante sempre, a prescindere da quello che
prova. Così Fjerdiano, così disciplinato.»
«Non credevo che avresti lasciato vivere quegli uomini, al porto.»
«Non sono sicura che fosse la cosa giusta da fare. Diventerò l’ennesima storia
dell’orrore Grisha che racconteranno ai loro bambini.»
«Fate i bravi o verrà a prendervi Nina Zenik?»
Nina ci rifletté. «Sai che c’è? Mi piace come suona.»
Inej si appoggiò alla balaustra e la osservò. «Sembri raggiante.»
«Non durerà.»
«Non dura mai.» Poi il sorriso di Inej vacillò. «Hai paura?»
«Da morire.»
«Saremo tutti qui con te.»
Nina fece un respiro debole e annuì.
Inej si era fatta un’infinità di alleati a Ketterdam, ma pochi amici. Posò la
testa sulla spalla di Nina. «Se fossi una veggente Suli» disse «potrei prevedere il
futuro e dirti che andrà tutto bene.»
«O che morirò tra atroci tormenti.» Nina premette la guancia sulla testa di
Inej. «Dimmi qualcosa di bello comunque.»
«Andrà tutto bene. Supererai questa cosa. E poi diventerai molto, molto ricca.
Ogni notte ti esibirai in canti marinareschi e canzonacce da ubriaconi nei cabaret
dello Stave dell’Est, e darai mazzette a tutti per ricevere un’ovazione dopo ogni
brano.»
Nina rise dolcemente. «Compriamo il Serraglio.»
Inej sorrise, pensando alla propria futura barchetta. «Compriamolo e
riduciamolo in cenere.»
Guardarono le onde per un po’. «Pronta?» domandò Nina.
Inej fu felice di non averlo dovuto chiedere lei. Sollevò la manica, scoprendo
le piume di pavone e la pelle chiazzata sotto il tatuaggio.
Ci vollero solo un breve istante e il tocco morbidissimo delle dita di Nina. Il
prurito fu intenso ma passò subito. Quando il formicolio svanì, la pelle
dell’avambraccio era perfetta: fin quasi troppo liscia e senza segni, come se
avesse una zona del corpo nuova.
Inej si sfiorò la pelle delicata. Così, all’improvviso, era tutto finito. Se
soltanto si fosse potuta cancellare a quel modo ogni ferita.
Nina le diede un bacio sulla guancia. «Vado a cercare Matthias prima che le
cose si mettano male.»
Ma quando si allontanò, Inej vide l’altro motivo per cui Nina se ne era andata.
Kaz era in piedi nell’ombra accanto all’albero. Indossava una giacca pesante e si
appoggiava al bastone con la testa di corvo: sembrava quasi se stesso, di nuovo. I
pugnali di Inej erano nella stiva con le altre sue cose. Gli artigli le erano mancati.
Kaz bisbigliò qualcosa a Nina, e la Grisha inarcò la schiena per la sorpresa.
Inej non riuscì a cogliere quello che si dissero, ma capì che si trattava di uno
scambio carico di tensione, dopo il quale Nina fece un verso esasperato e sparì
sottocoperta.
«Cos’hai detto a Nina?» domandò Inej quando lui la raggiunse alla balaustra.
«Mi serve che faccia un lavoro.»
«Sta per affrontare un calvario...»
«Il lavoro va fatto comunque.»
Kaz il pragmatico. Perché permettere all’empatia di interferire? Ma forse
Nina avrebbe apprezzato il passatempo.
Rimasero in piedi, insieme, a guardare le onde, il silenzio che si allungava fra
loro.
«Siamo vivi» disse lui alla fine.
«Pare che tu abbia pregato il dio giusto.»
«O che abbia viaggiato con le persone giuste.»
Inej scrollò le spalle. «Chi sceglie i nostri sentieri?» Lui non disse niente, e a
lei toccò sorridere. «Nessuna tagliente risposta a tono? Nessuna risata di scherno
per i miei proverbi Suli?»
Lui fece scorrere il pollice guantato sulla balaustra. «No.»
«Come faremo a incontrare il Consiglio dei Mercanti?»
«Quando saremo a qualche miglio di distanza da Ketterdam, io e Rotty
prenderemo una scialuppa e remeremo verso il porto. Cercheremo un fattorino
che avvisi Van Eck di procedere con lo scambio a Vallgeluk.»
Inej rabbrividì. L’isola era famosa tra gli schiavisti e i contrabbandieri. «È
stata una scelta tua o del Consiglio?»
«È stato Van Eck a suggerire Vellgeluk.»
Inej aggrottò la fronte. «Come fa un mercante a conoscere Vellgeluk?»
«Uno scambio è uno scambio. Forse Van Eck non è esattamente l’integerrimo
mercante che vuol dar a vedere.»
Rimasero in silenzio per un po’. Alla fine, lei disse: «Imparerò a navigare a
vela».
Kaz corrugò la fronte e le rivolse un’occhiata sorpresa. «Davvero? E
perché?»
«Voglio usare i miei soldi per assoldare una banda ed equipaggiare una
nave.» Dirlo a voce alta le avvolse il respiro in un rocchetto d’ansia. Sentiva che
il suo sogno era ancora fragile. Non voleva che l’opinione di Kaz avesse
importanza per lei, ma l’aveva. «Darò la caccia agli schiavisti.»
«Uno scopo» disse lui, pensoso. «Lo sai, non puoi fermarli tutti.»
«Se non ci provo, non ne fermerò neanche uno.»
«Allora ho quasi pena per gli schiavisti» disse Kaz. «Non hanno idea di che
cosa li aspetti.»
Un rossore compiaciuto le scaldò le guance. Del resto, Kaz non aveva sempre
creduto che lei fosse pericolosa?
Inej bilanciò i gomiti sulla balaustra e adagiò il mento tra i palmi delle mani.
«Però prima andrò a casa.»
«A Ravka?»
Lei annuì.
«A cercare la tua famiglia.»
«Sì.» Soltanto due giorni prima si sarebbe fermata qui, e avrebbe rispettato il
loro reciproco accordo di andarci piano, con il passato. Ora invece disse: «Non
c’era nessun altro, Kaz, a parte tuo fratello? Dove sono tua madre e tuo padre?».
«I ragazzi del Barile non hanno genitori. Siamo nati nel porto e strisciati fuori
dai canali.»
Inej scosse la testa. Guardò il mare muoversi e sospirare, ogni onda un
respiro. Riusciva appena a distinguere la linea dell’orizzonte, la quasi
impercettibile differenza tra il cielo nero e il mare ancora più nero.
Pensò ai propri genitori. Era lontana da loro da quasi tre anni. Sarebbero stati
ancora gli stessi? Sarebbe stata ancora loro figlia? Forse non subito. Ma voleva
sedersi insieme a suo padre sugli scalini del carrozzone a mangiare la frutta degli
alberi. Voleva vedere sua madre togliersi la polvere di gesso dalle mani prima di
preparare la cena. Voleva l’erba alta del Sud e il cielo immenso che stava sopra
le Montagne Sikurzoi. Quello di cui aveva bisogno la stava aspettando là. Di che
cosa aveva bisogno Kaz?
«Stai per diventare ricco, Kaz. Cosa farai quando non ci saranno più sangue
da spargere o vendette da ottenere?»
«Non finiscono mai.»
«Più soldi, più caos, più conti in sospeso da regolare. Non hai mai avuto un
altro sogno?»
Lui non disse niente. Cos’era stato a svuotare il suo cuore di tutta la speranza?
Forse non l’avrebbe mai saputo.
Inej si voltò per andarsene. Kaz le prese la mano, bloccandola sulla balaustra.
Non la guardò. «Resta» disse, la voce rauca come pietra grezza. «Resta a
Ketterdam. Resta con me.»
Inej abbassò gli occhi a guardare la mano guantata di lui che stringeva la sua.
Tutto dentro di lei voleva dire di sì, ma non si sarebbe accontentata di così poco,
non dopo quello che aveva passato. «A cosa servirebbe?»
Lui inspirò a fondo. «Voglio che resti. Voglio che... Io voglio te.»
«Tu vuoi me.» Lei rimuginò su quelle parole. Delicatamente, gli strinse la
mano. «E come mi avrai, Kaz?»
Lui a quel punto la guardò, gli occhi rabbiosi, la bocca serrata. Era la faccia
che faceva quando combatteva.
«Come mi avrai?» ripeté lei. «Vestito da capo a piedi, con i guanti infilati, e la
testa girata dall’altra parte in modo che le nostre labbra non si tocchino mai?»
Lui le lasciò andare la mano e raddrizzò le spalle, lo sguardo furioso e
imbarazzato mentre si girava a fronteggiare il mare.
Forse fu perché le dava le spalle che lei riuscì a pronunciare quelle parole. «Io
ti avrò senza corazza, Kaz Brekker. O non ti avrò per niente.»
“Parla” lo implorò in silenzio. “Dammi un motivo per restare.” Al di là di
tutto il suo egoismo e tutta la sua crudeltà, Kaz restava il ragazzo che l’aveva
salvata. E lei voleva credere che anche lui potesse essere salvato.
Le vele scricchiolarono. Le nuvole si divisero per far spazio alla luna e le si
radunarono attorno.
Inej lasciò Kaz in compagnia del vento che ululava e dell’alba ancora lontana.
43
NINA

I dolori iniziarono all’alba. Un’ora dopo, Nina si sentiva come se le ossa stessero
cercando di scardinare le articolazioni.
Era sdraiata sopra lo stesso tavolo su cui aveva guarito Inej dalla pugnalata. I
suoi sensi erano ancora così acuti che riusciva a sentire l’odore ramato del
sangue sotto quello del disinfettante che Rotty aveva usato per pulire il legno. Il
sangue aveva l’odore di Inej.
Matthias era seduto accanto a lei. Aveva provato a prenderle la mano, ma il
dolore era troppo forte. A contatto con la pelle di lui, la sua sfrigolava come
carne viva. Vedeva tutto sbagliato. Sentiva tutto sbagliato. Riusciva soltanto a
pensare al sapore dolce e caramellato della parem. La gola le prudeva. La pelle
le era nemica.
Quando cominciarono i tremori, lei lo pregò di andare via.
«Non voglio che mi vedi in questo stato» disse, cercando di rotolare su un
fianco.
Lui cacciò via dalla fronte i capelli umidi. «Come va?»
«Male.» Ma sapeva che poi sarebbe andata peggio.
«Vuoi provare la jurda?» Secondo Kuwei piccole dosi di jurda comune
avrebbero potuto aiutare Nina ad affrontare la giornata.
Lei scosse la testa. «Voglio... voglio... per tutti i Santi, perché fa così caldo
qui?» Nonostante il dolore, provò a tirarsi su. «Non darmi un’altra dose.
Qualunque cosa io dica, Matthias, non importa quanto implorerò. Non voglio
diventare come Nestor, come quei Grisha nelle celle.»
«Nina, Kuwei ha detto che l’astinenza potrebbe ucciderti. Io non ti lascerò
morire.»
Kuwei. Nella camera del tesoro Matthias aveva detto: “È uno di noi”. Le
piaceva quella parola. Noi. Una parola senza divisioni e senza confini. Sembrava
piena di speranza.
Nina ricadde all’indietro, e tutto il suo corpo si ribellò. I vestiti erano come
vetri rotti. «Avrei dovuto uccidere quei drüskelle.»
«Siamo tutti peccatori, Nina. Io ho bisogno che tu viva per poter espiare le
mie colpe.»
«Puoi farlo senza di me, lo sai.»
Lui seppellì la testa nelle mani. «Non voglio.»
«Matthias» disse lei, passando le dita tra i suoi capelli. Faceva male. Il mondo
faceva male. Toccarlo le faceva male, ma lo sopportò. Avrebbe potuto non
averne più la possibilità. «Non mi dispiace.»
Lui le prese la mano e le baciò le nocche delicatamente. Lei trasalì, ma
quando lui provò ad allontanarsi, Nina lo strinse più forte.
«Rimani» disse ansimando. Le lacrime le sgorgarono dagli occhi. «Rimani
fino alla fine.»
«E oltre» disse lui. «Per sempre.»
«Voglio sentirmi al sicuro di nuovo. Voglio tornare a casa, a Ravka.»
«Allora ti ci porterò. Daremo fuoco all’uvetta e tutto il resto che fate voi
pagani per divertirvi.»
«Fanatico» disse lei debolmente.
«Strega.»
«Barbaro.»
«Nina» sussurrò lui, «piccolo cardellino. Non andare via.»
44
JESPER

Mentre la goletta sfrecciava verso sud, era come se l’intero equipaggio fosse
seduto di guardia. Tutti parlavano a bassa voce e camminavano silenziosamente
sul ponte. Jesper era preoccupato per Nina come chiunque altro – a parte
Matthias, immaginò – ma quel rispettoso silenzio era duro da sopportare. Aveva
bisogno di qualcosa a cui sparare.
La Ferolind sembrava una nave fantasma. Matthias era segregato con Nina, e
aveva chiesto a Wylan di aiutarlo ad assisterla perché, anche se non amava la
chimica, si intendeva di pozioni e composti più di chiunque altro
dell’equipaggio, eccetto Kuwei, ma Matthias non capiva la metà di quello che
diceva quel ragazzo. Jesper non aveva più visto Wylan da quando avevano
lasciato il porto di Djerholm, e gli toccava ammettere che gli dispiaceva di non
avere attorno il mercantuccio da stuzzicare. Kuwei era piuttosto amichevole, ma
il suo Kerch era approssimativo, e sembrava che non gli piacesse tanto parlare.
A volte, di notte, appariva sul ponte e rimaneva in piedi in silenzio accanto a
Jesper, a guardare le onde. Era un po’ inquietante. Soltanto Inej voleva
chiacchierare con tutti, e questo perché sembrava aver sviluppato un intenso
interesse per la nautica. Trascorreva la maggior parte del tempo con Specht e
Rotty, a farsi insegnare come fare i nodi e manovrare le vele.
Jesper aveva sempre saputo che c’erano buone probabilità di non fare alcun
viaggio di ritorno, di finire nelle celle della Corte di Ghiaccio o infilzati sulle
picche. Ma nella sua immaginazione, se fossero riusciti a portare a termine il
compito impossibile di liberare Yul-Bayur e tornare alla Ferolind, la traversata
verso Ketterdam sarebbe stata una festa. Si sarebbero scolati qualunque cosa
Specht avesse messo da parte sulla barca, si sarebbero sbafati fino all’ultima
caramella al latte di Nina, si sarebbero raccontati per l’ennesima volta di quando
l’avevano scampata bella e di quando l’avevano svangata alla grande. Di contro,
non avrebbe mai previsto il modo in cui erano stati tenuti sotto tiro al porto, e
mai e poi mai avrebbe immaginato quello che aveva fatto Nina per tirarli fuori.
Jesper era preoccupato per lei, ma pensarci lo faceva sentire in colpa. Quando
erano saliti a bordo della goletta e Kuwei aveva spiegato come funzionava la
parem, una vocina interiore gli aveva detto che avrebbe dovuto offrirsi anche lui
di prendere la droga. Anche se era un Fabrikator inesperto, forse avrebbe potuto
dare una mano a tirar fuori la parem dal corpo di Nina e liberarla. Ma quella era
la voce di un eroe, e Jesper aveva smesso da tempo di pensare a se stesso come a
un eroe. Diavolo, un eroe si sarebbe offerto di assumere la parem nel momento
in cui si erano trovati di fronte i Fjerdiani al porto.
Quando finalmente Kerch apparve all’orizzonte, Jesper sentì uno strano
miscuglio di sollievo e trepidazione. Le loro vite erano sul punto di cambiare in
modi che non sembravano ancora reali.
Buttarono l’àncora, e quando sopraggiunse la notte, Jesper chiese a Kaz se
poteva unirsi a lui e a Rotty nella scialuppa e remare con loro verso Quinto
Porto. Non che ce ne fosse bisogno, ma Jesper era alla disperata ricerca di
qualcosa da fare.
La confusione che regnava a Ketterdam non era cambiata: navi che
scaricavano le merci sulle banchine, turisti e soldati in licenza che si riversavano
fuori dalle barche, ridendo e gridando tra loro mentre puntavano al Barile.
«Sembra la stessa città di quando siamo partiti» disse Jesper.
Kaz alzò un sopracciglio. Era tornato a indossare il suo elegante completo
grigio e nero e la cravatta bianca. «Che cosa ti aspettavi?»
«Non lo so, esattamente» ammise Jesper.
Si sentiva diverso, anche se ai fianchi c’era il peso familiare delle rivoltelle
con il manico di perla e sulla schiena un fucile. Continuava a pensare a quella
donna Scuotiacque, che urlava nel cortile dei drüskelle con la faccia annerita. Si
guardò le mani. Voleva essere un Fabrikator? Vivere come uno di loro? Non
poteva fare a meno di essere chi era, ma voleva coltivare il proprio potere o
continuare a tenerlo nascosto?
Kaz lasciò Rotty e Jesper sul molo mentre lui andava a cercare un corriere
che portasse un messaggio a Van Eck. Jesper voleva seguirlo, ma Kaz gli disse
di restare lì. Scocciato, ne approfittò per sgranchirsi le gambe, consapevole che
Rotty lo stava osservando. Ebbe la netta sensazione che Kaz avesse detto al
capitano di tenerlo d’occhio. Pensava che sarebbe schizzato dritto nella bisca più
vicina?
Alzò lo sguardo verso il cielo nuvoloso. Perché non ammetterlo? Era tentato.
Moriva dalla voglia di una partita a carte. Forse avrebbe dovuto veramente
andarsene da Ketterdam. Una volta ottenuto il denaro e pagati i debiti, avrebbe
potuto andare ovunque. Compresa Ravka. Se tutto si fosse messo per il verso
giusto, Nina si sarebbe ripresa, e quando fosse tornata in sé, Jesper avrebbe
potuto sedersi con lei per capire come fare. Senza impegno, ma avrebbe almeno
potuto visitarla, no?
Mezz’ora dopo, Kaz fece ritorno con un messaggio che confermava che
l’incontro con i rappresentanti del Consiglio dei Mercanti si sarebbe svolto a
Vellgeluk all’alba del giorno dopo.
«Guarda qua» disse Kaz, tenendo il foglio in mano per farlo leggere a Jesper.
Sotto i dettagli dell’incontro c’era scritto: CONGRATULAZIONI. IL VOSTRO PAESE
VI RINGRAZIA.
A quelle parole Jesper provò una strana sensazione, ma scoppiò a ridere e
disse: «L’importante è che il mio paese paghi in contanti. Il Consiglio lo sa che
lo scienziato è morto?».
«C’era scritto tutto nel mio bigliettino per Van Eck» disse Kaz. «Gli ho detto
che Bo Yul-Bayur è morto, ma che il figlio è vivo e che stava lavorando alla
jurda parem per i Fjerdiani.»
«Ha tirato sul prezzo?»
«Non nel messaggio. Ha espresso la sua “profonda apprensione” ma non ha
fatto cenno ai soldi della ricompensa. Noi il nostro lavoro lo abbiamo fatto.
Vedremo se tenterà di ottenere uno sconto quando saremo a Vellgeluk.»
Mentre remavano per fare ritorno alla Ferolind, Jesper domandò: «Wylan
verrà con noi all’incontro con Van Eck?».
«No» disse Kaz, tamburellando con le dita sulla testa di corvo del bastone.
«Ci sarà Matthias con noi, e qualcuno dovrà restare con Nina. E poi, se ci servirà
usare Wylan per forzare la mano di suo padre, è meglio che non scopriamo le
nostre carte troppo presto.»
Aveva senso. E qualunque fosse il motivo della discordia tra Wylan e suo
padre, Jesper dubitava che a Wylan facesse piacere discuterne davanti agli
Scarti.
Trascorse una notte insonne a rigirarsi nell’amaca e si svegliò alle luci di
un’alba grigia e umida. Non c’era vento, e il mare sembrava piatto e vitreo come
uno stagno.
«Un cielo ostinato» mormorò Inej, puntando lo sguardo verso Vellgeluk.
Aveva ragione. Non c’erano nubi all’orizzonte, ma l’aria era densa di umidità,
come se il temporale si stesse semplicemente rifiutando di arrivare.
Jesper scrutò il ponte vuoto. Aveva dato per scontato che Wylan sarebbe
venuto a salutarli, ma Nina non poteva essere lasciata da sola.
«Come sta?» chiese a Matthias.
«È debole» disse il Fjerdiano. «Non è riuscita a dormire. Ma noi, in
compenso, siamo riusciti a farle bere un po’ di brodo, e sembra che lo stia
trattenendo in corpo.»
Jesper si rendeva conto di essere stupido ed egoista, ma una parte meschina di
lui si domandava se Wylan si fosse tenuto alla larga da lui di proposito durante il
viaggio di ritorno. Forse ora che il lavoro era finito ed era sul punto di incassare
la sua parte di ricompensa, Wylan aveva chiuso con i criminali dei bassifondi.
«Dov’è l’altra scialuppa?» domandò Jesper mentre lui, Kaz, Matthias, Inej e
Kuwei si allontanavano remando dalla Ferolind insieme a Rotty.
«A riparare» disse Kaz.
Vellgeluk era così piatta che, una volta partiti, divenne a malapena visibile.
L’isola era larga meno di un miglio, una macchia brulla di sabbia e roccia che si
era fatta un nome solo per via dei ruderi di una vecchia torre usata dal Consiglio
delle Maree. I contrabbandieri l’avevano chiamata Vellgeluk, “buona fortuna”, a
causa dei dipinti ancora visibili attorno alla base di quello che doveva essere
stata la torre dell’obelisco: cerchi dorati che rappresentavano monete, simboli
del favore di Ghezen, il dio dell’industria e del commercio. Jesper e Kaz erano
già stati in precedenza sull’isola, per incontrare dei trafficanti. Era lontana dai
porti di Ketterdam, ben oltre i giri di pattuglia della guardia portuale, e non
c’erano edifici o insenature nascoste dalle quali tendere un’imboscata. Il luogo
d’incontro ideale quando si deve essere prudenti.
C’era un brigantino ormeggiato al largo della riva opposta dell’isola, le cui
vele penzolavano flosce e inutili. Jesper l’aveva osservato muoversi lentamente
da Ketterdam all’alba, un puntino nero che si era poi trasformato in una macchia
gigante all’orizzonte. Sentì i marinai chiamarsi l’un l’altro mentre remavano.
Ora l’equipaggio calò in acqua una scialuppa con degli uomini ammassati
dentro.
Quando attraccarono, Jesper e gli altri balzarono fuori per trascinarla sulla
sabbia. Lui controllò le proprie rivoltelle, e vide che Inej passava rapida le dita
su ciascun pugnale e intanto muoveva le labbra. Matthias si sistemò il fucile che
aveva a tracolla e sciolse le enormi spalle. Kuwei osservò tutto in silenzio.
«Bene» disse Kaz. «Andiamo a diventare ricchi.»
«Nessun rimpianto» disse Rotty, mettendosi comodo nella scialuppa ad
aspettare.
«Nessun funerale» replicarono gli altri.
Camminarono spediti verso il centro dell’isola, Kuwei dietro Kaz, con
accanto Jesper e Inej. Mentre arrivavano, Jesper vide avvicinarsi qualcuno con i
vestiti neri da mercante, accompagnato da uno Shu di alta statura, i capelli scuri
legati alla nuca, e seguito da uno squadrone della stadwatch con la giacca viola,
tutti armati di manganelli e fucili a ripetizione. Due uomini trascinavano un
baule, barcollando un po’ a causa del peso.
«Ecco come sono trenta milioni di kruge» disse Kaz.
Jesper fece un fischio. «Speriamo che la scialuppa non affondi.»
«Soltanto lei, Van Eck?» domandò Kaz all’uomo in nero. «Il resto del
Consiglio non voleva essere disturbato?»
Così quello era Van Eck. Era più magro di Wylan, e l’attaccatura dei capelli
era più alta, ma Jesper riusciva a cogliere la netta somiglianza.
«Il Consiglio ha ritenuto che io fossi il più adatto per quest’incarico, dal
momento che abbiamo già avuto modo di trattare in passato.»
«Bella spilla» disse Kaz lanciando un’occhiata al rubino attaccato alla
cravatta di Van Eck. «Mai quanto quella dell’altra volta.»
Van Eck piegò leggermente le labbra. «L’altra era un cimelio di famiglia.
Ebbene?» disse rivolgendosi allo Shu accanto a lui.
Lo Shu replicò: «Quello è Kuwei Yul-Bo. È da un anno che non lo vedo. È un
po’ più alto adesso, ma è la copia sputata del padre». Disse qualcosa a Kuwei in
Shu e fece un piccolo inchino.
Kuwei guardò Kaz, poi si inchinò a propria volta. Jesper notò un velo di
sudore sulla sua fronte.
Van Eck sorrise. «Ammetterò che sono sorpreso, signor Brekker. Sorpreso
ma lieto.»
«Non pensava che ci saremmo riusciti.»
«Diciamo che vi ritenevo una scommessa azzardata.»
«È per questo che ha tenuto il piede in due scarpe?»
«Ah, ha avuto modo di parlare con Pekka Rollins.»
«È piuttosto loquace quando lo si mette nello stato d’animo giusto» disse
Kaz, e a Jesper tornò in mente il sangue sulla sua casacca in prigione. «Mi ha
raccontato che lei ha stipulato un contratto anche con lui e con i Centesimi di
Leone perché si mettessero sulle orme di Yul-Bayur per conto del Consiglio dei
Mercanti.»
Con una fitta di disagio, Jesper si domandò che cos’altro potesse aver detto
Rollins a Kaz.
Van Eck si strinse nelle spalle. «Meglio andare sul sicuro.»
«E chi se ne importa se una colonia di ratti si fa reciprocamente a pezzi per
inseguire una ricompensa, dico bene?»
«Le probabilità di successo erano poche per tutti. Da scommettitore, confido
nella sua comprensione.»
Jesper non aveva mai pensato a Kaz come a uno scommettitore. Gli
scommettitori lasciano qualcosa al caso.
«Trenta milioni di kruge leniranno i miei sentimenti feriti» disse Kaz.
Van Eck fece un cenno alle guardie dietro di lui. Loro sollevarono il baule e
lo deposero di fronte a Kaz. Lui si accovacciò e aprì il coperchio. Anche da
lontano, Jesper riuscì a vedere le mazzette di banconote Kerch color viola molto
pallido, decorate con i tre pesci volanti, file e file di mazzette, rilegate da fascette
di carta sigillate con la cera.
Inej trattenne il fiato.
«Persino le vostre banconote hanno un colore bizzarro» disse Matthias.
Jesper voleva immergere le mani in quello splendido baule. Voleva farci il
bagno dentro. «Mi sa che sto sbavando.»
Kaz estrasse una mazzetta e la sfiorò con un pollice guantato, poi scavò di
strato in strato per accertarsi che Van Eck non stesse provando a farli fessi.
«Ci sono tutti» disse.
Si guardò alle spalle e fece segno a Kuwei di farsi avanti. Il ragazzo percorse
la breve distanza e Van Eck gli indicò di mettersi di fianco a lui, dandogli una
pacca sulla schiena.
Kaz si alzò. «Bene, Van Eck. Mi piacerebbe poter dire che è stato un piacere,
ma non sono un bugiardo di quel livello. Noi togliamo il disturbo.»
Van Eck si mise davanti a Kuwei e disse: «Temo di non poterlo permettere,
signor Brekker».
Kaz si appoggiò al bastone e osservò il mercante intensamente. «C’è qualche
problema?»
«Ne conto diversi proprio di fronte a me. E non è possibile, per nessuno di
voi, andarsene da quest’isola.»
Van Eck estrasse di tasca un fischietto e soffiò una nota acuta e stridula. Nello
stesso momento, i suoi servitori sollevarono le armi e dal nulla si alzò un vento
di burrasca innaturale che ululava e turbinava sull’isoletta mentre il mare si
sollevava.
I marinai accanto alla scialuppa del brigantino sollevarono le braccia, e le
onde si radunarono dietro di loro.
«Scuotiacque» ringhiò Matthias, allungando la mano verso il fucile.
Poi due sagome si lanciarono fuori dal ponte del brigantino.
«Chiamatempeste!» urlò Jesper. «Stanno usando la parem!»
I Chiamatempeste volteggiarono in cerchio nel cielo, e il vento frustava l’aria
attorno a loro.
«Si è tenuto una parte della scorta spedita da Yul-Bayur al Consiglio» disse
Kaz, strizzando gli occhi.
I Grisha sollevarono le braccia, e il vento fece un verso forte e acuto.
Jesper mise le mani sulle rivoltelle. Non aveva voluto qualcosa a cui sparare?
“Mi sa che questo posto porta davvero fortuna” pensò con un brivido di
eccitazione. “Sembra che io stia per veder esaudito il mio desiderio.”
45
KAZ

«Un patto è un patto, Van Eck» disse Kaz sopra i rumori della tempesta che
cresceva. «Se il Consiglio dei Mercanti manca di onorare questo accordo,
nessuno nel Barile farà più affari con voi. La vostra parola non varrà più nulla.»
«Sarebbe un problema, signor Brekker, se il Consiglio sapesse qualcosa di
questo accordo.»
Comprese tutto in un lampo. «Non sono mai stati coinvolti» disse Kaz.
Perché aveva creduto che Van Eck avesse la benedizione del Consiglio dei
Mercanti? Perché era ricco e onesto? Perché aveva vestito i propri servitori e i
propri soldati con la divisa viola della stadwatch? Kaz aveva incontrato Van Eck
nella casa di un mercante in quarantena, non in un edificio governativo, eppure
era stato imbrogliato da qualche semplice attrezzo di scena. Si trattava di nuovo
di Hertzoon e della sua caffetteria, solo che ora Kaz avrebbe dovuto essere
grande abbastanza da non farsi prendere in giro.
«Era lei a volere Yul-Bayur. Era lei a volere la formula della parem.»
Van Eck ammise la verità con un semplice cenno della testa. «La neutralità è
un lusso che Kerch si è concessa troppo a lungo. I membri del Consiglio pensano
che le loro ricchezze li proteggano, che possano sedersi in un angolo e contare i
soldi mentre il mondo litiga.»
«E lei ne sa più di loro?»
«Assolutamente sì. La jurda parem non è un segreto che si può custodire o
cancellare o nascondere in una capanna alla frontiera Zemeni.»
«Quindi tutti i suoi discorsi sugli scambi commerciali e i mercati destinati a
crollare...»
«Oh, accadrà tutto come ho previsto, signor Brekker. Io ci conto. Non appena
il Consiglio ha ricevuto il messaggio di Bo Yul-Bayur, ho cominciato ad
acquistare all’ingrosso i campi di jurda a Novyi Zem. Quando la parem sarà
svelata al mondo, ogni paese, ogni governo reclamerà una pronta fornitura da
usare sui propri Grisha.»
«Sarà il caos» disse Matthias.
«Sì» concesse Van Eck. «Sarà il caos, e io sarò il signore del caos. Il suo
signore ricco sfondato.»
«La schiavitù e la morte dei Grisha, ovunque, saranno opera sua» disse Inej.
Van Eck alzò un sopracciglio. «Quanti anni ha, signorina? Sedici?
Diciassette? Le nazioni conoscono ascese e cadute. I mercati vanno su e giù.
Quando il potere cambia di mano, c’è sempre qualcuno che ne soffre.»
«Quando il profitto cambia di mano» replicò Jesper.
Van Eck fece una faccia confusa. «Non sono la stessa cosa?»
«Nel momento in cui il Consiglio lo scoprirà...» cominciò a dire Inej.
«Il Consiglio non lo saprà mai» la interruppe Van Eck. «Perché crede che
abbia scelto la feccia del Barile come miei emissari? Oh, voi siete più pieni di
risorse e di gran lunga più svegli di qualunque altro mercenario, ve lo concedo.
Ma quel che più conta è che non mancherete a nessuno.»
Van Eck alzò una mano. Gli Scuotiacque ruotarono le braccia. Kaz sentì un
urlo e si girò a guardare una tromba d’acqua che incombeva su Rotty. Il vortice
si abbatté sulla scialuppa e la fece a pezzi mentre Rotty si tuffava per mettersi al
riparo.
«Nessuno di voi lascerà quest’isola, signor Brekker. Svanirete tutti nel nulla,
e a nessuno importerà.» Sollevò di nuovo una mano, e gli Scuotiacque reagirono.
Un’onda gigantesca ruggì verso la Ferolind.
«No!» gridò Jesper.
«Van Eck!» urlò Kaz. «Suo figlio è su quella barca.»
Van Eck puntò lo sguardo su di lui. Soffiò nel fischietto. Gli Scuotiacque si
bloccarono, in attesa di istruzioni. Riluttante, Van Eck fece cadere la mano. I
Grisha lasciarono che l’onda si sgonfiasse e diventasse innocua, e che il mare
tornato tranquillo sciabordasse contro il fianco della Ferolind.
«Mio figlio?» disse il mercante.
«Wylan Van Eck.»
«Signor Brekker, di certo lei sa che ho fatto fare i bagagli a mio figlio mesi
fa.»
«So che lei ha scritto a Wylan ogni settimana da quando lui ha lasciato la sua
casa, pregandolo di tornare. Non sono le azioni di un uomo a cui non importa
dell’unico figlio ed erede.»
Van Eck si mise a ridere – una piccola risata calda, quasi gioviale, ma dai
contorni aguzzi e amari.
«Lasci che le racconti di mio figlio.» Sputò fuori quella parola come se fosse
veleno. «Era destinato a ereditare uno dei più grandi patrimoni di tutta Kerch, un
impero di compagnie marittime che raggiungono tutto il globo, fondato da mio
padre, e dal padre di mio padre. Ma mio figlio, il ragazzo destinato a guidare
questo impero, non sa fare quello che fa qualsiasi bambino di sette anni. Sa
risolvere un’equazione. Sa dipingere ed è bravissimo a suonare il flauto. Quello
che non sa fare, signor Brekker, è leggere. Non sa scrivere. Ho assunto i migliori
precettori da ogni angolo del mondo. Ho provato con gli specialisti, i tonici, le
botte e l’ipnosi. Ma lui si è rifiutato di imparare. Alla fine ho dovuto accettarlo:
Ghezen mi ha maledetto con un figlio deficiente. Wylan è un ragazzo che non
diventerà mai un uomo. È la disgrazia della mia casa.»
«Le lettere...» disse Jesper, e Kaz vide il furore stravolgergli il viso. «Non lo
stava pregando di tornare. Lo stava deridendo.»
Jesper aveva ragione. “Se stai leggendo, allora sai quanto desideri riaverti a
casa.” Ogni lettera era uno schiaffo in faccia a Wylan, una specie di scherzo
crudele.
«È suo figlio» disse Jesper.
«No, è un errore. Che presto sarà corretto. La mia giovane adorabile moglie è
in attesa di un bambino, e che sia un maschio o una femmina o una creatura con
le corna, sarà il mio erede, non un idiota smidollato che non sa leggere nemmeno
il libro degli inni, figuriamoci un libro mastro, non un cretino che ridurrebbe a
uno zimbello il nome dei Van Eck.»
«È lei il cretino» sbraitò Jesper. «Wylan è più intelligente della maggior parte
di noi messi assieme, e si merita un padre migliore.»
«Si meritava» lo corresse Van Eck. E soffiò nel fischietto due volte.
Gli Scuotiacque non esitarono. Prima che chiunque potesse prender fiato per
protestare, due enormi muri d’acqua si sollevarono e si abbatterono sulla
Ferolind.
Annientarono la nave bloccata in mezzo a loro con un sonoro boato, spedendo
rottami ovunque.
Jesper emise un urlo di rabbia e sollevò le pistole.
«Mettile giù!» ordinò Kaz.
«Li ha uccisi» disse Jesper, il viso deformato dall’angoscia. «Ha ucciso
Wylan e Nina!»
Matthias gli pose una mano sul braccio. «Stai fermo» disse con calma.
Jesper si voltò a guardare le onde, i pezzi di albero e le vele strappate là dove
solo pochi istanti prima c’era una nave. «Io non... io non capisco.»
«Confesso di essere anch’io un po’ scosso, signor Brekker» disse Van Eck.
«Nessuna lacrima? Nessuna legittima protesta per il suo equipaggio andato
perso? Vi crescono senza cuore nel Barile.»
«Senza cuore e prudenti» rispose Kaz.
«Non abbastanza prudenti, a quanto pare. Ma perlomeno non vivrà
abbastanza a lungo da rimpiangere i suoi errori.»
«Mi dica, Van Eck. Farà penitenza? Ghezen disapprova chi viola i contratti.»
Van Eck dilatò le narici. «Lei che cosa ha offerto al mondo, signor Brekker?
Ha creato benessere? Prosperità? No. Lei porta via tutto a uomini e donne di sani
principi e giova solo a se stesso. Ghezen mostra i suoi favori a coloro che se li
meritano, a coloro che costruiscono città, non ai ratti che ne divorano le
fondamenta. Ghezen ha benedetto me e le mie attività commerciali. Lei
scomparirà, e io prospererò. Questo è il volere di Ghezen.»
«C’è solo un problema, Van Eck. Le servirà Kuwei Yul-Bo per riuscirci.»
«E come me lo porterete via? Siete fuori combattimento e circondati.»
«Non ho bisogno di portarglielo via. Non l’ha mai avuto. Quello non è Kuwei
Yul-Bo.»
«Un pessimo bluff, mi creda.»
«Io non amo molto bluffare, vero, Inej?»
«Generalmente, no.»
Van Eck arricciò le labbra. «E come mai?»
«Perché preferisce barare» disse il ragazzo che non era Kuwei Yul-Bo in un
Kerch perfetto e senza accento.
Van Eck fu colto di sorpresa dal suono di quella voce, e Jesper sussultò.
Il ragazzo Shu tese una mano. «Caccia il grano, Kaz.»
Kaz sospirò. «Detesto perdere una scommessa. Vede, Van Eck, Wylan ha
puntato contro di me che lei non si sarebbe fatto problemi a porre fine alla sua
vita. Mi dia pure del sentimentale, ma non credevo possibile che un padre
riuscisse a essere così spietato.»
Van Eck fissò Kuwei Yul-Bo, o piuttosto il ragazzo che aveva creduto fosse
Kuwei Yul-Bo. Kaz lo guardò lottare contro la realtà della voce di Wylan che
usciva dalla bocca di Kuwei. Jesper appariva altrettanto incredulo. Avrebbe
ottenuto delle spiegazioni a tempo debito, dopo che Kaz avesse ricevuto il
proprio denaro.
«Non è possibile» disse Van Eck.
Non avrebbe dovuto esserlo. Nina era nel migliore dei casi una Plasmaforme
passabile – ma sotto l’effetto della jurda parem, be’, come aveva detto una volta
Van Eck: “Diventano possibili cose che semplicemente non dovrebbero esserlo”.
Una copia perfetta di Kuwei Yul-Bo era in piedi davanti a loro, ma aveva la voce
di Wylan, i suoi modi e – per quanto Kaz vedesse la paura e il dolore nei suoi
occhi dorati – anche il suo sorprendente coraggio.
Dopo la battaglia nel porto di Djerholm, il mercantuccio era andato da Kaz
per avvertirlo di non contare su di lui come leva contro il padre.
Wylan era rosso in faccia, a malapena in grado di parlare a voce alta della
propria presunta “malattia”. Kaz aveva semplicemente scrollato le spalle. Alcuni
erano poeti. Altri erano contadini. Altri ancora erano ricchi mercanti. Wylan
sapeva disegnare un rilievo perfetto. Aveva costruito un trapano in grado di
tagliare il vetro Grisha, ricavandolo dai pezzi di un cancello e da scarti di
gioielli. Non sapeva leggere, e allora?
Kaz si era aspettato che il ragazzo si rifiutasse di farsi modificare per
assomigliare a Kuwei. Una trasformazione così estrema era al di là del potere di
qualunque Grisha senza parem. «Potrebbe essere permanente» lo aveva avvisato
Kaz.
Wylan non aveva fatto una piega. «Devo sapere. Una volta per tutte, devo
sapere cosa pensa davvero mio padre di me.»
Adesso lo sapeva.
Van Eck fissava Wylan con occhi sgranati, alla ricerca di qualche traccia dei
lineamenti del figlio. «Non può essere.»
Wylan si mise al fianco di Kaz. «Forse puoi pregare perché Ghezen ti dia la
comprensione, padre.»
Wylan era un po’ più alto di Kuwei, e il suo viso un po’ più rotondo. Ma Kaz
li aveva visti fianco a fianco, e la somiglianza era straordinaria. Il lavoro di Nina,
eseguito sulla goletta prima che l’effetto della droga iniziasse a calare, era
praticamente impeccabile.
La furia stravolse i lineamenti di Van Eck. «Miserabile» sibilò al figlio. «Sapevo
che eri un cretino, ma sei anche un traditore?»
«Un cretino avrebbe aspettato di essere fatto a pezzi su quella barca. E per
quanto riguarda il “traditore”, mi hai chiamato in modo peggiore solo negli
ultimi minuti.»
«E ora rifletti su una cosa» disse Kaz a Van Eck. «Se ci fosse stato il vero
Kuwei Yul-Bo sulla nave che lei ha appena trasformato in uno stuzzicadenti?»
La voce di Van Eck era calma, ma una vampata di collera gli aveva
infiammato il collo. «Dov’è Kuwei Yul-Bo?!»
«Ci permetta di lasciare sani e salvi quest’isola con la nostra ricompensa, e
sarò lieto di dirglielo.»
«Non c’è speranza che ve ne andiate da qui, Brekker. La sua piccola banda
non può competere con i miei Grisha.»
Kaz alzò le spalle. «Ci uccida, e non troverà mai Kuwei.»
Van Eck sembrò soppesare la cosa. Poi fece un passo indietro. «Soldati, a
me!» gridò. «Uccidete tutti tranne Brekker!»
Kaz capì di aver fatto un errore nel momento stesso in cui lo fece. Sapevano
tutti che si sarebbe potuti arrivare a questo. Avrebbe dovuto fidarsi della propria
banda. I suoi occhi avrebbero dovuto rimanere fissi su Van Eck. Invece, nel
momento della minaccia, quando avrebbe dovuto pensare solo allo scontro, lui
guardò Inej.
E Van Eck se ne accorse. Soffiò nel fischietto. «Lasciate perdere gli altri!
Prendete i soldi e la ragazza.»
“Resta dove sei e basta” gli disse l’istinto. Van Eck ha il denaro. È lui la
chiave. Inej sa cavarsela da sola. Lei è una pedina, non il premio. Ma si stava già
voltando, stava già scattando per tirarla a sé quando i Grisha attaccarono.
Gli Scuotiacque la raggiunsero per primi, sparendo nella foschia per
riapparirle di fianco. Però soltanto un pazzo avrebbe tentato di affrontare Inej in
un combattimento corpo a corpo. Quei Grisha erano veloci, svanivano e
ricomparivano.
Ma lei era lo Spettro, e i suoi pugnali trapassarono cuori, gole e milze. Il
sangue si riversò sulla sabbia mentre i due Scuotiacque si accasciavano al suolo.
Kaz colse un movimento con la coda dell’occhio: un Chiamatempeste che
sfrecciava verso Inej.
«Jesper!» gridò.
Jesper sparò, e il Grisha precipitò a terra.
Il Chiamatempeste successivo fu più furbo. Arrivò basso, planando sulle
rovine. Jesper e Matthias aprirono il fuoco, ma avevano il sole contro e
nemmeno Jesper sapeva mirare alla cieca. Il Chiamatempeste si fiondò su Inej,
l’afferrò e si librò con lei a tutta velocità nel cielo.
“Stai ferma” la esortò Kaz in silenzio, la pistola puntata. Ma lei non stette
ferma. Ruotò il corpo e menò un fendente. L’urlo del Chiamatempeste risuonò
distante. Lui la lasciò andare. Inej precipitò verso la sabbia. Kaz le corse
incontro senza una logica né un piano.
Ci fu una mossa fulminea nel suo campo visivo. Un terzo Chiamatempeste
piombò giù, afferrandola al volo pochi istanti prima dell’impatto a terra e
infliggendole un colpo violento al cranio. Kaz vide il corpo di Inej afflosciarsi.
«Abbattilo!» ringhiò Matthias.
«No!» gridò Kaz. «Se gli spari cadrà anche lei.»
Il Grisha si portò in alto e fuori tiro, Inej stretta fra le braccia.
Non c’era niente che potessero fare tranne rimanere in piedi come degli
sciocchi a guardare la sagoma di lei diventare sempre più piccola in cielo: una
luna distante, una stella cadente, e poi più nulla.
Le guardie di Van Eck e i Grisha si avvicinarono e sollevarono in aria il
mercante e il baule di kruge, portandoli sul brigantino in attesa. La vendetta di
Jordie, tutto quello per cui Kaz si era dato da fare, stava scivolando via. Non gli
importava.
«Ha una settimana per portarmi il vero Kuwei» gridò Van Eck. «Oppure le
urla di quella ragazza si sentiranno fino a Fjerda. E se ancora non dovesse
bastare, farò circolare la notizia che sta ospitando l’ostaggio più prezioso del
mondo. Tutte le bande, i trafficanti e le spie saranno alle calcagna sue e degli
Scarti. Non avrete un posto in cui nascondervi.»
«Kaz, posso colpirlo» disse Jesper, estraendo le rivoltelle dalle fondine e
afferrando il fucile. «Van Eck è ancora abbastanza vicino.»
E tutto sarebbe andato perso – Inej, i soldi, tutto.
«No» disse Kaz. «Lasciali andare.»
Il mare era piatto; non spirava alcuna brezza, ma i Chiamatempeste di Van
Eck gonfiarono le vele della nave con un vento forte.
Kaz guardò il brigantino cavalcare le onde e puntare verso Ketterdam, verso
la sicurezza, verso la fortezza costruita sulla reputazione impeccabile di Van
Eck. Si sentì come se stesse sbirciando dalle finestre oscurate della casa sulla
Zelverstraat. Ancora una volta inerme. Aveva pregato il dio sbagliato.
Lentamente, Jesper abbassò il fucile.
«Van Eck manderà soldati e Grisha a cercare Kuwei» disse Matthias.
«Non lo troverà. E neanche Nina.» Non alla Stecca o in qualunque altra zona
del Barile. Non a Ketterdam. La notte precedente, Kaz aveva ordinato a Specht
di prelevare Kuwei e Nina dalla Ferolind e portarli su una seconda scialuppa –
quella che aveva detto a Jesper che doveva essere riparata. Kuwei e Nina erano
nascosti al sicuro all’Anticamera dell’Inferno, nelle gabbie abbandonate sotto la
torre della vecchia prigione. Kaz aveva fatto un po’ di indagini quando era
andato al porto per contattare Van Eck. Dopo il disastro dello Spettacolo
Infernale, le gabbie erano state allagate per ripulirle dai cadaveri di uomini e
bestie; da allora erano rimaste vuote. Matthias aveva detestato l’idea che Nina
rimanesse senza di lui, specialmente nel suo stato, ma Kaz l’aveva convinto che
tenere lei e Kuwei a bordo della Ferolind li avrebbe messi in pericolo.
Kaz si stupì dalla propria stupidità. Più stupido di un pollo appena sbarcato
che cerca di fare fortuna allo Stave dell’Est. Il suo punto debole era proprio
accanto a lui. E ora era sparito.
Jesper stava fissando Wylan, con gli occhi che vagavano sui capelli neri e
sugli occhi dorati. «Perché?» disse alla fine. «Perché fare una cosa del genere?»
Wylan alzò le spalle. «Ci serviva una leva.»
«Questo è Kaz che parla.»
«Non potevo permettere che arrivaste a uno scambio di ostaggi pensando a
me come a una specie di assicurazione.»
«È stata Nina a modificarti?»
«La notte in cui abbiamo lasciato Djerholm.»
«Ecco perché sei scomparso durante il viaggio» disse Jesper. «Non stavi
aiutando Matthias ad assistere Nina. Ti stavi nascondendo.»
«Non mi nascondevo.»
«Tu... quante volte sei stato accanto a me sul ponte, di notte, quando pensavo
che ci fosse Kuwei?»
«Ogni volta.»
«Nina potrebbe non essere capace di farti tornare come prima, lo sai? Non
senza un’altra dose di parem. Potresti rimanere così.»
«Perché è importante?»
«Non lo so!» rispose Jesper con rabbia. «Forse mi piaceva la tua stupida
faccia.» Si girò verso Matthias. «Tu lo sapevi. Wylan lo sapeva. Inej lo sapeva.
Tutti lo sapevano tranne me.»
«Chiediti come mai» disse Kaz, la pazienza esaurita.
Jesper saltellò sui piedi a disagio. «Come mai?»
«Sei stato tu a venderci a Pekka Rollins.» Kaz gli puntò contro un dito
accusatorio. «Sei tu il motivo per cui ci hanno teso un’imboscata quando
abbiamo provato a lasciare Ketterdam. Per poco non ci hai fatti ammazzare
tutti.»
«Io non ho detto niente a Pekka Rollins. Io non ho mai...»
«Tu hai raccontato a uno dei Centesimi di Leone che stavi lasciando Kerch,
ma che ci saresti tornato pieno di soldi, non è vero?»
Jesper deglutì. «Ho dovuto. Mi stavano addosso. La fattoria di mio padre...»
«Ti avevo detto di non dire a nessuno che stavi andandotene. Ti avevo
avvisato di tenere la bocca chiusa.»
«Non ho avuto scelta. Dovevi chiudermi a chiave al Club dei Corvi prima di
partire. Se mi avessi lasciato...»
Kaz si girò verso di lui. «Se ti avessi lasciato fare cosa? Giocare qualche
mano a Tre Uomo Mora? Sprofondare ancora più a fondo nei debiti con ogni
delinquente del Barile stupido a sufficienza da farti ancora credito? Tu hai detto
a uno della banda di Pekka che stavi per diventare ricco sfondato.»
«Non sapevo che sarebbe andato da lui. O che Pekka sapesse della parem.
Stavo solo cercando di guadagnare tempo.»
«Santi numi, Jesper, non hai proprio imparato niente a stare con gli Scarti,
vero? Sei ancora lo stesso sempliciotto di campagna appena sbarcato in città.»
Jesper scattò verso di lui, e Kaz fu attraversato da una scarica vertiginosa di
violenza. Finalmente uno scontro da cui poteva uscire vincitore. Ma Matthias si
mise in mezzo ai due, tenendoli lontani l’uno dall’altro con una delle sue mani
giganti. «Smettetela. Smettetela subito.»
Kaz non voleva smetterla. Voleva picchiarli tutti a sangue e poi fare a pugni
fino a quando non fosse arrivato al Barile.
«Matthias ha ragione» disse Wylan. «Dobbiamo pensare alla nostra prossima
mossa.»
«Non c’è nessuna prossima mossa» sbraitò Kaz. Van Eck se ne sarebbe
accorto. Non potevano tornare alla Stecca o chiedere aiuto a Per Haskell e agli
altri Scarti. Van Eck attendeva solo di piombargli addosso. Van Eck aveva
trasformato il Barile, la casa di Kaz, il suo piccolo regno, in un territorio ostile.
«Jesper ha commesso un errore» disse Wylan. «Uno stupido errore, ma non
ha mai voluto tradire nessuno.»
Kaz si allontanò di scatto, per cercare di schiarirsi le idee. Sapeva che Jesper
non si era reso conto di cosa aveva messo in moto, ma sapeva anche che non si
sarebbe mai più potuto fidare veramente di lui. E forse l’aveva tenuto all’oscuro
riguardo a Wylan perché un po’ desiderava punirlo.
In poche ore, se non fossero riusciti a mettersi in contatto con lui, Specht
sarebbe andato a prenderli con la scialuppa a remi. Per il momento, non c’era
altro che il grigio piatto del cielo e la nuda pietra di questa patetica sottospecie di
isola. E l’assenza di Inej. Kaz voleva colpire qualcuno. E voleva che qualcuno lo
colpisse.
Esaminò quello che restava della sua banda. Rotty stazionava ancora tra i
rottami della scialuppa. Jesper era seduto con i gomiti sulle ginocchia, la testa fra
le mani. Wylan, con quella sua faccia quasi estranea, era accanto a lui. Matthias
era in piedi a fissare l’acqua nella direzione dell’Anticamera dell’Inferno, come
una sentinella di pietra. Se Kaz era il loro capo, allora Inej era stata la loro
calamita, che li teneva insieme tutte le volte che sembravano più propensi ad
allontanarsi.
Nina aveva cancellato il tatuaggio del corvo e del calice dall’avambraccio di
Kaz prima di entrare nella Corte di Ghiaccio, ma lui non le aveva permesso di
avvicinarsi alla R sul bicipite. Ora si toccò con le dita guantate il punto in cui la
manica della giacca copriva il segno. Senza volerlo, aveva lasciato che Kaz
Rietveld tornasse. Non sapeva se era tutto iniziato con la ferita di Inej o con
quell’orrenda corsa sul carro della prigione, ma in qualche modo l’aveva lasciato
succedere e gli era costato caro.
Il che non significava che avrebbe permesso a un mercante disonesto di avere
la meglio su di lui.
Guardò a sud verso i porti di Ketterdam. Un abbozzo di idea gli spuntò nel
retrocranio, come una specie di prurito, come il più vago degli indizi. Non era un
piano, ma avrebbe potuto esserne l’inizio. Riusciva a vedere la forma che
avrebbe preso: impossibile, assurda, e richiedeva un gran bel gruzzolo di
contanti.
«È la faccia che fa quando trama qualcosa» bisbigliò Jesper.
«Proprio quella» concordò Wylan.
Matthias incrociò le braccia. «Stai rovistando nella borsa dei trucchi,
demjin?»
Kaz contrasse le dita nei guanti. Come facevi a sopravvivere nel Barile?
Quando ti toglievano tutto, trovavi un modo per cavare fuori qualcosa dal nulla.
«Mi inventerò un trucco nuovo» disse Kaz. «Uno che Van Eck non si
scorderà mai.» Si voltò verso gli altri. Se avesse potuto mettersi da solo alla
ricerca di Inej lo avrebbe fatto, ma nemmeno lui sarebbe riuscito a portare a
termine un’impresa del genere con le sue sole forze. «Mi serve la banda giusta.»
Wylan balzò in piedi. «Per lo Spettro.»
Jesper lo seguì a ruota, senza guardare Kaz negli occhi. «Per Inej» disse a
bassa voce.
Matthias fece un semplice cenno del capo.
Inej aveva desiderato che Kaz diventasse qualcun altro, una persona migliore,
un ladro più nobile. Ma non c’era posto, qui, per quel ragazzo. Quel ragazzo
aveva finito per morire di fame in un vicolo. Era morto. Quel ragazzo non era in
grado di andare a riprenderla.
“Avrò il mio denaro” si ripromise Kaz. “E avrò la mia ragazza.” Inej non
sarebbe mai stata sua, non veramente, ma lui avrebbe trovato un modo per
offrirle la libertà che le aveva promesso così tanto tempo prima.
Manisporche era arrivato a fare il lavoro sporco.
46
PEKKA

Pekka Rollins si infilò un mucchietto di jurda in bocca e si appoggiò allo


schienale della sedia a esaminare la banda malconcia che Doughty aveva
condotto nel suo ufficio. Viveva sopra il Palazzo di Smeraldo in un enorme
appartamento di molte stanze, ognuna delle quali era rivestita d’oro e velluto
verde. Amava mettersi in mostra: lo faceva con gli abiti, gli amici e le donne. I
ragazzini in piedi davanti a lui erano l’esatto opposto dell’eleganza. Indossavano
i costumi della Commedia Bruta, ma nessuno poteva entrare nel suo ufficio con
il viso coperto, per cui le maschere erano state abbassate. Pekka ne riconobbe
qualcuno. In passato aveva sperato di reclutare la Spaccacuore Nina Zenik, ma
ora aveva l’aspetto di una che non sarebbe durata un altro mese – tutta ossa
sporgenti, occhiaie scure e mani tremolanti. Forse aveva schivato un cattivo
investimento. Nina si appoggiava a un Fjerdiano gigante dalla testa rasata e i
severi occhi azzurri. Era enorme, probabilmente un ex militare. Gran bei muscoli
da avere intorno. Dove l’aveva trovata, Kaz Brekker, questa gente?
Il ragazzo accanto a loro era Shu, ma sembrava di gran lunga troppo giovane
per essere lo scienziato su cui avevano voluto così disperatamente mettere le
mani. Inoltre Brekker non avrebbe mai portato al Palazzo di Smeraldo un simile
trofeo. E poi, ovviamente, Rollins conosceva Jesper Fahey. Il tiratore scelto
aveva accumulato una quantità impressionante di debiti in praticamente tutti i
casinò sullo Stave dell’Est. Le sue ciance avevano messo Rollins a conoscenza
del fatto che Brekker stava spedendo una squadra a Fjerda. Un po’ di indagini e
un sacco di bustarelle avevano dato come frutti il dove e il quando della loro
partenza: un lavoro di spionaggio che si era rivelato incompleto. Brekker era
sempre stato un passo avanti a lui e ai Centesimi di Leone. Il piccolo ratto dei
canali, dopo tutto, era riuscito ad arrivare alla Corte di Ghiaccio.
Era stata anche una buona cosa. Se non fosse per Kaz Brekker, Rollins
sarebbe stato ancora seduto nella sua cella in quella dannata prigione Fjerdiana
ad aspettare un nuovo giro di torture, o forse in cima alle mura ad anello, a
guardar giù da una picca.
Quando Brekker aveva aperto la serratura della porta, Rollins non poteva
sapere se stesse per essere liberato o assassinato. Ne aveva sentite tante sul conto
di Kaz Brekker a partire da quando era salito alla ribalta tra gli Scarti – quella
patetica accozzaglia che Per Haskell chiamava banda –, e l’aveva visto in giro
per il Barile qualche volta. Quel ragazzo era sbucato dal nulla e da quel
momento era stato una fonte di guai. Ma era ancora un vicecomandante, non un
comandante, un terrier che gli mordicchiava le caviglie.
«Ciao, Brekker» aveva detto Rollins. «Sei venuto a gongolare?»
«Non esattamente. Mi conosce?»
Rollins aveva fatto spallucce. «Certo, sei lo stronzetto che continua a
derubare i miei clienti.»
L’espressione comparsa sul viso del ragazzo aveva preso Rollins alla
sprovvista. Era odio: puro, nero, che sobbolliva da tempo. Che cosa posso aver
mai fatto a questa caccola insignificante? Ma l’espressione era sparita in un
attimo, e Rollins si era chiesto se l’avesse del tutto immaginata.
«Che cosa vuoi, Brekker?»
Il ragazzo era rimasto lì in piedi, con qualcosa di cupo e folle nello sguardo.
«Voglio farle un favore.»
Brekker aveva i piedi nudi e la divisa carceraria, le mani prive dei leggendari
guanti neri: una ridicola ostentazione. «Non sembri nella posizione di fare favori
a nessuno, ragazzino.»
«Lascerò questa porta aperta. Lei non è così stupido da inseguire Bo Yul-
Bayur senza una banda d’appoggio. Aspetti il momento buono ed esca.»
«Perché diavolo mi aiuteresti?»
«Il suo destino non è morire qui.»
In qualche modo suonò come una maledizione.
«Ti devo un favore, Brekker» aveva detto Rollins mentre il ragazzo usciva
dalla cella, credendo a fatica alla propria fortuna.
Brekker si era girato a rivolgergli un’occhiata, gli occhi scuri come caverne.
«Non tema, Rollins. Lo ripagherà.»
E a quanto pareva il ragazzo era arrivato a riscuotere. Era in piedi nel bel
mezzo dell’opulento ufficio di Rollins con l’aspetto di una macchia nera di
inchiostro, la faccia cupa, le mani posate sul pomolo a testa di corvo di un
bastone da passeggio. Rollins non era del tutto sorpreso di vederlo. Girava voce
che lo scambio tra Brekker e Van Eck fosse andato male e che il mercante
avesse messo sotto controllo la Stecca e gli altri covi di Kaz. Ma Van Eck non
stava controllando il Palazzo di Smeraldo. Non aveva motivi per farlo. Rollins
non era neanche certo che il mercante sapesse che era tornato vivo da Fjerda.
Quando Brekker finì di spiegare la situazione a grandi linee, Rollins si strinse
nelle spalle e disse: «Hai fatto il doppio gioco. Se vuoi il mio consiglio,
consegna Kuwei a Van Eck e falla finita».
«Non sono qui per farmi dare consigli.»
«Ai mercanti piacciono le tasse che paghiamo. Lasciano correre l’occasionale
rapina in banca o il furto in casa, perché si aspettano che restiamo qui nel Barile
e che li lasciamo ai loro affari. Vai in guerra con Van Eck e tutto cambierà.»
«Van Eck è diventato un furfante. Se il Consiglio dei Mercanti sapesse...»
«E chi glielo dirà? Un ratto di fogna che proviene dai peggiori bassifondi del
Barile? Non prenderti in giro da solo, Brekker. Lascia perdere e vivi oggi per
combattere domani.»
«Io combatto tutti i giorni. Mi sta dicendo che lei andrebbe via?»
«Guarda, se vuoi spararti nel piede – il piede buono – io sono solo felice di
vedertelo fare. Ma non ci penso neanche ad allearmi con te. Non contro un
mercante. Nessuno lo farà. Non stai andando a una piccola guerra tra bande,
Brekker. Avrai la stadwatch, l’esercito di Kerch e la marina militare schierati
contro di te. Ridurranno in cenere la Stecca con il vecchio dentro, e si
riprenderanno anche Quinto Porto.»
«Non mi aspetto che lei combatta al mio fianco, Rollins.»
«Allora cosa vuoi? Ti aiuterò. Nei limiti del ragionevole.»
«Mi serve far arrivare un messaggio alla capitale di Ravka. In fretta.»
Rollins fece spallucce. «Piuttosto semplice.»
«E ho bisogno di soldi.»
«Non l’avrei mai detto. Quanti?»
«Duecentomila kruge.»
Rollins per poco non si strozzò dal ridere. «Nient’altro, Brekker? Lo smeraldo
di Lantsov? Un drago che caga arcobaleni?»
«Lei ha del denaro da parte, Rollins. E io le ho salvato la vita.»
«Allora avresti dovuto contrattare in quella cella. Non sono una banca,
Brekker. E anche se lo fossi, considerata la situazione attuale, mi verrebbe da
dire che sei un rischio d’impresa piuttosto grosso.»
«Non voglio un prestito.»
«Vuoi che ti regali duecentomila kruge? E cosa otterrei in cambio di questo
nobile gesto?»
Brekker serrò la mascella. «Le mie quote del Club dei Corvi e di Quinto
Porto.»
Rollins si raddrizzò sulla sedia. «Mi venderesti le tue azioni?»
«Sì. E per altre centomila kruge aggiungerò un DeKappel originale.»
Rollins ricadde all’indietro e unì le dita delle mani. «Non sono abbastanza, lo
sai. Non per andare in guerra con il Consiglio dei Mercanti.»
«Lo sono per questa squadra.»
«Questa squadra?» disse Rollins con una smorfia. «Non riesco a credere che
della gentaglia come voi sia riuscita ad assaltare con successo la Corte di
Ghiaccio.»
«Ci creda.»
«Van Eck vi seppellirà.»
«Altri ci hanno provato. In qualche modo continuo a tornare dall’aldilà.»
«Rispetto la tua determinazione, ragazzino. E la capisco. Vuoi il tuo denaro;
vuoi indietro lo Spettro; vuoi una fetta di culo di Van Eck...»
«No» disse Brekker, con una voce che era per metà uno sfregio e per metà un
ringhio. «Quando arriverò a Van Eck, non mi prenderò soltanto ciò che è mio.
Gli distruggerò la vita. Brucerò via il suo nome dal libro mastro. Di lui non
rimarrà più niente.»
Pekka Rollins aveva smesso di contare le minacce che aveva sentito, gli
uomini che aveva ucciso e quelli che aveva visto morire, ma la luce che vide
negli occhi di Kaz gli fece comunque venire un brivido alla schiena. C’era una
furia in questo ragazzo che implorava di venir liberata, e Rollins non voleva
essere nei paraggi quando fosse sfuggita al guinzaglio.
«Apri la cassaforte, Doughty.»
Rollins consegnò il denaro in contanti a Brekker, poi gli fece firmare un
ordine di trasferimento delle azioni del Club dei Corvi e di quella miniera d’oro
che era Quinto Porto. Quando tese la mano per siglare l’accordo, la stretta di
Brekker fu di ferro.
«Lei non si ricorda per niente di me, vero?» gli chiese il ragazzo.
«Dovrei?»
«Non ancora.» Quella cosa nera sfarfallò negli occhi di Brekker.
«Un patto è un patto» disse Rollins, impaziente di farla finita con questa
strana gente.
«Un patto è un patto.»
Dopo che se ne furono andati, Rollins sbirciò dal vetro della grande finestra
affacciata sulla sala da gioco del Palazzo di Smeraldo.
«Una fine giornata inaspettatamente proficua, Doughty.»
L’altro concordò con un grugnito, esaminando quel che si svolgeva ai tavoli
di sotto – dadi, carte, la Ruota della Fortuna di Makker, fortune vinte e perse, e
una cospicua fetta di tutto arrivava a Rollins.
«Perché indossa quei guanti?» domandò lo scimmione.
«Un tocco di teatro, immagino. Chi può saperlo? E a chi importa?»
Rollins osservò Brekker e la sua cricca attraversare la sala affollata. Aprirono
le porte che immettevano in strada e, per un breve istante, le loro sagome
nascoste da maschere e mantelli si stagliarono contro la luce dei lampioni – uno
storpio seguito da un gruppo di ragazzini in costume. Una bella banda. Brekker
era un ladro astuto e tosto a sufficienza, immaginò Pekka, e anche ingegnoso.
Ma a differenza di quei burattini da strapazzo della Corte di Ghiaccio, Van Eck
era pronto ad affrontarlo. Il ragazzo stava per ritrovarsi in una vera battaglia. E
non aveva alcuna possibilità di successo.
Rollins allungò la mano verso l’orologio. Doveva essere arrivata l’ora in cui i
mazzieri cambiavano turno, e a lui piaceva supervisionarli di persona.
«Figlio di puttana» esclamò un secondo dopo.
«Cosa succede, capo?»
Rollins sollevò la catenella dell’orologio. Dalla custodia in cui ci sarebbe
dovuto essere il segnatempo tempestato di diamanti penzolava una rapa. «Quel
piccolo bastardo...» Poi gli sopraggiunse un pensiero. Allungò una mano per
prendere il portafogli. Era sparito. E anche il fermacravatta, il ciondolo a forma
di moneta Kaelish che indossava come portafortuna, e le fibbie dorate delle
scarpe. Rollins si chiese se fosse il caso di controllarsi le otturazioni dei denti.
«Le ha svuotato le tasche?» domandò Doughty incredulo.
Nessuno la faceva a Pekka Rollins. Nessuno osava. Ma Brekker sì, e Rollins
si domandò se quello fosse solo l’inizio.
«Doughty» disse, «mi sa che faremmo meglio a dire una preghiera per Jan
Van Eck.»
«Pensa che Brekker possa batterlo?»
«È una remota possibilità, ma se non sta attento, quel mercante potrebbe
spedirsi da solo sulla forca e dare il cappio da stringere a Brekker.» Rollins
sospirò. «E noi faremo meglio a sperare che Van Eck ammazzi quel ragazzo.»
«Perché?»
«Perché altrimenti toccherà a noi farlo.»
Rollins raddrizzò il nodo della cravatta rimasta senza fermaglio e scese al
piano di sotto, quello del casinò. Il problema di Kaz Brekker poteva aspettare di
essere risolto un altro giorno. Al momento c’erano dei soldi da fare.
RINGRAZIAMENTI

Ho una malattia degenerativa chiamata osteonecrosi, che significa sostanzialmente “morte delle ossa”. È
una cosa che sembra piuttosto gotica e romantica, ma di fatto vuol dire che ogni passo per me è una pena e
che a volte devo usare un bastone per camminare.
Non è un caso che io abbia creato un protagonista con dei sintomi simili ai miei, e spesso ho avuto la
sensazione che io e Kaz stessimo zoppicando insieme lungo questa strada. Non saremmo arrivati fino
all’ultima pagina senza un sacco di persone meravigliose.
Tutto il mio amore alla mia banda di reietti e piantagrane: Michi, Rachael, Sarah, Robyn e soprattutto
Morgan, che ha dato un titolo a questo libro e mi ha aiutata a terminarlo.
Un grande ringraziamento anche a Jimmy, che mi ha trascinata a Santa Barbara e ha fatto a pezzetti il
mio blocco creativo con il suo puro e semplice splendore.
Un abbraccio immenso a Noa Wheeler per avermi aiutata a risolvere questo enigma e perché riesce a
mantenere la pazienza quando io mi impunto e tiro fuori la lavagna.
Sono profondamente grata a Jean Feiwel, Laura Godwin, Jon Yaged, Molly Brouillette, Elizabeth
Fithian, Rich Deas, April Ward, Caitlin Sweeny e a tutte le innumerevoli persone della Henry Holt e della
Macmillan Children’s che hanno contribuito a portare alla luce il mondo dei Grisha e mi hanno consentito
di continuare a esplorarlo insieme ai lettori.
Joanna Volpe della New Leaf: le parole fedeltà e sincerità dovrebbero essere incise sul tuo stemma.
Potrei affrontare qualsiasi sfida sapendo di avere te che mi copri le spalle. Grazie anche a Pouya “quello
giovane” Shahbazian, Kathleen Ortiz, Danielle Barthel, Jaida Temperly e Jess Dallow. E un grande
ringraziamento al Team Grisha in Gran Bretagna: Fiona Kennedy, Jenny Glencross e la meravigliosa
squadra della Orion – in particolare Nina Douglas, che è un’eccezionale addetta stampa, una meravigliosa
compagna di viaggio e una Corvonero purosangue.
Grazie ai lettori, ai bibliotecari, ai librai, ai BookTuber e ai blogger che celebrano le storie in tutto il
mondo.
Tutti i colpi ben eseguiti hanno bisogno di specialisti di talento, e io sono stata aiutata dai migliori:
Steven Klein ha offerto la sua inestimabile competenza su come i principianti imparano la magia e mi ha
fatto conoscere l’opera di Eric Mead e Apollo Robbins, ladro gentiluomo. Angela DePace ha fatto del
proprio meglio per aiutarmi a trovare un modo realistico per stendere una stanza piena di prigionieri, ma
alla fine le pallottole a base di cloroformio sono un puro parto della mia fantasia. (Non provateci a casa.)
Richard Wheeler mi ha edotto su come fanno gli edifici governativi e le strutture di massima sicurezza a
tenere alla larga i malintenzionati nel mondo reale. Emily Stein mi ha istruito sulle ferite da coltello e mi ha
fatto conoscere la bellissima espressione “cima del cuore”. Il re dei conlang David Peterson ha cercato di
sospingermi con delicatezza nella direzione giusta e mi ha lasciato essere estremamente cocciuta per quanto
riguardava le straat. E Hedwig Aerts, mia cara amica e Soberumi, grazie per avermi aiutata a stritolare
l’olandese con un po’ più di raziocinio.
Marie Lu, Amie Kaufman, Robin LaFevers, Jessica Brody e Gretchen McNeil hanno continuato a farmi
ridere e hanno tollerato tutte le mie lamentele. Grazie anche a Robin Wasserman, Holly Black, Sarah Rees
Brennan, Kelly Link e Cassandra Clare per i consigli sulla trama, per i margarita e per avermi imposto
“Teen Wolf”. Non sarò mai più la stessa. La colpa del sangue dal naso della guardia Fjerdiana è di Anna
Carey: lamentatevene con lei.
Christine, Sam, Emily e Ryan: la mia più grande fortuna è che voi siate la mia famiglia. E Lulu, tesoro
mio, tu hai deluso la tua città. Grazie per avere resistito ai miei malumori e per voler bene alla mia piccola
banda di malviventi.
Molti libri hanno aiutato Ketterdam, il Barile e la mia banda di corvi a prendere forma, ma i titoli
fondamentali sono The Blackest Streets: The Life and Death of a Victorian Slum di Sarah Wise, Il mercante
di caffè di David Liss, Amsterdam: A History of the World’s Most Liberal City di Russell Shorto, Criminal
Slang: The Vernacular of the Underground Lingo di Vincent J. Monteleone, The Big Con: The Story of the
Confidence Man di David Maurer e Stealing Rembrandts: The Untold Stories of Notorious Art Heists di
Anthony M. Amore e Tom Mashberg.
Ancora una cosa: questo libro voleva essere editato al suono dei Black Keys, dei Clash e dei Pixies, ma è
nato in un vecchio edificio scolastico pieno di spifferi con In a Time Lapse che suonava in loop e un
pipistrello che volteggiava fra le travi.
Un ultimo ringraziamento al compositore, Ludovico Einaudi. E al pipistrello.
Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto,
trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro
modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle
condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile.
Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle
informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e
dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge
633/1941 e successive modifiche.
Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita,
acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di
consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata
pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore
successivo.

www.librimondadori.it

Sei di corvi
di Leigh Bardugo
Mappe di Keith Thompson
Copyright © 2015 by Leigh Bardugo
GrishaVerse logo and GrishaVerse monogram used on cover and spine with permission tm and ©
2017 Leigh Bardugo. All rights reserved
© 2019 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Titolo dell’opera originale: Six of Crows
Ebook ISBN 9788852097393

COPERTINA || GRAPHIC DESIGNER: BARBARA DI LANDRO | PROGETTO GRAFICO ORIGINALE ED ILLUSTRAZIONE DI RICH
DEAS. | ILLUSTRAZIONI: KIM SAIGH
«L’AUTORE» || FOTO © TAILI SONG ROTH

Potrebbero piacerti anche