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Jean Meckert, Justice est faite, Joëlle Losfeld, Paris 2008, pp.

234 [credo che la Joëlle Losfeld sia


una costola della Gallimard, perché compare nel sito della Gallimard e perché il colophon porta
“Gallimard 2008”].

Il romanzo esce nel 1954 da Gallimard (nel controfrontespizio: «Un film éponyme d’André Cayatte
et de Charles Spaak, de 1950, est à l’origine de ce texte»), e ammonta a circa 184 cartelle da 2000
battute.

È un’opera corale dall’impianto tradizionale, di lettura piacevole e a tratti avvincente. Per il sunto
della trama vale questa scheda: http://www.joellelosfeld.fr/ouvrage-A78767-justice_est_faite.html
La struttura è piuttosto trasparente, forse un po’ schematica (non so se questo derivi dalla
sceneggiatura del film), ma non disturba: il romanzo appassiona e non ci si fa caso (e forse una
certa rigidezza di costruzione aiuta il lettore a seguire senza problemi una trama abbastanza ricca di
personaggi e di eventi). Il racconto è grossomodo articolato in questo modo:
1) Descrizione in terza persona di ciascuno dei sette giurati di ritorno dalla prima seduta del
processo a Versailles.
I sette giurati appartengono a sette realtà diverse: un rozzo contadino che sospetta che la
moglie se la intenda con il giovane lavorante; un tipografo cattolico travolto dal dramma
familiare di un figlio minato dalla malattia mentale; un cameriere di caffè che spera di
sposare la sua amata vincendo la resistenza dei genitori di lei; un commerciante parigino che
cerca l’avventura galante con una collega giurata non più giovanissima ma ancora bella e
raffinata; un rampollo dell’alta borghesia che lascia l’ultima delle sue molte amanti per
avviarsi a un matrimonio adeguato al suo status; un militare in pensione che deve venire a
patti con la sua intransigente morale se non vuole scoraggiare tutti i corteggiatore delle due
figlie costringendole a rimanere zitelle. Ciascun personaggio è colto dunque in un passaggio
particolarmente importante della propria vita.
Meckert si dimostra narratore molto dotato, passando con economia di mezzi e grande
disinvoltura dal bozzetto realistico al tormentato scavo psicologico e, soprattutto nel caso del
rozzo contadino e del militare in pensione, a punte caricaturali francamente divertenti
(affidate forse a caratteristi nel film). Interessante mi sembra la variazione di linguaggio
adottata in rapporto ai diversi personaggi.
2) Soliloquio dell’accusata Elsa Ludenstein. Il processo e la vicenda dell’omicidio-eutanasia
vengono visti dal suo punto di vista; la narrazione è in prima persona e il lettore è portato a
condividere le ragioni dell’accusata.
3) Ritorno ai sette giurati. Mentre nel punto 1) Meckert li rappresentava isolati ciascuno nel
proprio contesto sociale o familiare, qui cominciano a delinearsi le relazioni tra i giurati e le
valutazioni reciproche. Il giudizio che ciascuno di loro può esprimere su Elsa (non solo, ma
anche sugli altri giurati) viene così parzialmente bilanciato e relativizzato da quello degli
altri, anche se è chiaro che su tutti per ora svetta la percezione o l’autorappresentazione
fornita da Elsa (l’unica che si esprima in prima persona). Meckert le singole situazioni dei
giurati abbozzate nel punto 1), e lascia scorgere come ciascuno dei giurati si trovi a dirimere
problemi complessi (quando non insolubili), irriducibili a quella scelta binaria
(colpevole/innocente) che dovranno compiere come giurati. Si trovano cioè a dover
applicare nel processo un sistema di giudizio che troverebbero ingiusto usare con stessi.
4) Ritorno a Elsa Ludenstein, che descrive le ulteriori fasi del processo e della vicenda, sempre
in prima persona. Colpo di scena dovuto all’insipienza del suo avvocato difensore: si scopre
che mentre assisteva il moribondo Elsa si incontrava il suo nuovo amante.
5) Giurati che si scontrano sul verdetto; emergono le differenze di classe e i diversi modi di
pensare che influenzano il giudizio.
6) Sentenza: Elsa è riconosciuta colpevole di omicidio a maggioranza (scarto di un solo voto),
ma l’omicidio è ritenuto però non volontario. Viene condannata a cinque anni: poco se è
colpevole di omicidio, troppo se è innocente (se cioè ha compiuto un atto di pietà).
Compromesso «umano» non riducibile a una spiegazione razionale (il che vale del resto per
gli atti della stessa Elsa), percepito dai giurati e vissuto da Elsa come ingiusto. Il gioco di
specchi tra le situazioni dei giurati e quella di Elsa, o meglio, tra il giudizio che essi portano
sulla propria situazione e quello che portano sulla situazione di Elsa, diventa sempre più
chiaro.
7) Ultimo soliloquio di Elsa. Ammanettata e avviata verso il carcere, lei stessa riconosce che i
moventi della sua azione (l’ultima puntura all’uomo un tempo amato e ora malato) non
sono del tutto limpidi. Forse hanno giocato nella sua scelta anche gli argomenti addotti
dall’accusa. Il dubbio rimane, a lei e al lettore: in quell’atto si concentrava una somma di
passioni, sentimenti (anche egoistici), desideri e pietà impossibile da dipanare o da risolvere
con un netto “colpevole/innocente”.
8) I giurati tornano alla propria vita, tranne uno. Informato del suicidio della donna che aveva
lasciato, il rampollo della famiglia borghese si interroga su se stesso e comprende per la
prima volta che quella donna era una persona, e che soffriva a causa sua, non diversamente
da Elsa, la donna che ha appena condannato e che gli appare per la prima volta come un
essere umano sofferente e non più come un semplice caso giudiziario
Se dunque i giurati portano nel processo le proprie convinzioni, queste vengono però modificate
dal processo, non in modo meccanico (non entrano cioè con una convinzione e ne escono con
un’altra) in quanto l’esperienza di giudicare una vita interagisce con i vari aspetti della vita dei
giurati stessi.

Accanto al tema principale, il problema cioè se l’atto di Elsa sia un omicidio o una forma di
eutanasia, ce n’è un altro, quello cioè del processo come messinscena: toni di voce, mimiche
facciali, atteggiamenti del giudice e degli avvocati si caratterizzano per la loro prevedibilità
(prevenzione del giudice, reazioni “teatrali” degli avvocati ecc.). La rappresentazione sarcastica,
quasi grottesca, del processo viene però mitigata dall’ultimo soliloquio di Elsa, da cui emerge
che per certi aspetti l’accusa non si era allontanata molto dalla verità, o che comunque non
aveva del tutto torto, e che del resto non esistono modi “neutri” per giudicare un essere umano.

Il racconto fluisce senza pesantezze, intreccia diversi temi senza artificiosità e non espone tesi
precostituite. Si esce della lettura non con un’affermazione, ma con un interrogativo.

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