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Quadro 3

L’inizio del Novecento alto coincide con una data specifica, ovvero il 16 giugno 1904. In questa giornata in
Italia venne pubblicato l’ultimo episodio del ‘​Fu Mattia Pascal’ di Luigi Pirandello, mentre in Inghilterra si
stava svolgendo un comunissimo giorno della vita di Leopold Bloom, protagonista dell’​Ulysses di James
Joyce. Grazie al racconto dell’identità mancata di Mattia/Adriano, in Italia si stava assistendo ad una vera e
propria rivoluzione del romanzo, diventato un racconto verosimile e moderno allo stesso tempo, ma
lontano dallo stile decadente. È caratterizzato da una nuova visione umoristica, in cui l’autore
contemporaneamente resta saldo alle sue origini provinciali ed esplora un nuovo mondo, lontano dal suo
paesino d’origine. Si rompono tutti gli schemi imposti dal naturalismo, a favore di un nuovo modo di
narrare in grado di far fronte alle contraddizioni insolubili di una realtà sfuggente e insondabile. Pirandello
inviò una copia del suo romanzo a Verga, che accolse il dono con entusiasmo, sottolineando il cambio
generazionale che c’era dietro un simile gesto. Il termine chiave della teoria pirandelliana è UMORISMO,
inteso come ‘osservazione acuta dello scrittore che prende corpo e vita a partire dalla situazione resa’.
Pirandello è, dunque, capace di rappresentare i drammi modesti, di tutti i giorni, in mezzo ai quali viviamo
senza nemmeno accorgercene. È possibile dividere il percorso delle avanguardie in due settori differenti. Da
un lato ci sono i futuristi, con i profondi cambi estetici e artistici; autori di manifesti, proclami e gesti
iconoclasti. Dall’altro c’è un nuovo modo di narrare ed una nuova percezione di sé e di ciò che ci circonda.
Le caratteristiche principali del modernismo sono 3:
1) Il carattere internazionale;
2) Si crea un legame con le nuove filosofie, tra cui la psicoanalisi e la teoria della relatività;
3) È un fenomeno che investe indistintamente tutte le arti, non solo quelle narrative. Il modernismo,
infatti, si sviluppa a partire dal sincretismo fra linguaggi verbali, musicali e figurativi.

Il problema più grande riguarda la periodizzazione. Se è possibile individuare la data di nascita del
Futurismo (il 5 febbraio 1909, con la pubblicazione del Manifesto sulla Gazzetta dell’Emilia) non è possibile
fare lo stesso con il Modernismo: vari critici letterari hanno fatto oscillare la data di nascita, anche se tutti
sembrano concordare che il picco di questo movimento risale negli anni tra il 1904, con la pubblicazione del
Fu Mattia Pascal ​e il 1929, con ​Gli Indifferenti di Moravia. Inoltre, negli stessi anni un ruolo importante è
giocato anche dal Decadentismo, che non può essere assimilato nel concetto generico di Modernismo, in
quanto vi è un diverso modo di rappresentare la realtà, dato che la finzione narrativa diventa spesso
metanarrativa. Le differenze riguardano l’instaurazione di un ​nuovo tipo di narratore​, menzognero e
inattendibile e non più una figura su cui contare, la ​trama non è più unilineare, ma collassata in strutture a
tenuta debole. Ed infine, i ​personaggi inetti e scissi​, inadatti a questo mondo. I Modernisti evitano di
utilizzare la forma lunga nelle loro narrazioni, al contrario i Futuristi utilizzano nuovi modi, strategie e
tecniche non diegetiche, come poemi o tavole parolibere. Il loro modo di narrare è antipodico a quello di
Pirandello, poiché basato sulla restrizione e la velocizzazione del tempo, con azioni narrative diverse che si
verificano simultaneamente. Essi vogliono rappresentare la velocità del progresso tecnologico. A partire dal
1929, gli editori italiani cominciano ad esplorare in maniera sistematica i territori del romanzo
contemporaneo, anche grazie alle sovvenzioni e agli incoraggiamenti da parte dello stato fascista. La
politica culturale mussoliniana vede nel romanzo la forma identitaria e catalizzante del proprio sistema
politico, poiché è il genere più adatto a rappresentare la modernità. Negli anni Trenta, è proprio il regime a
provocare l’espansione di questo genere, dando vita alla “Nuova Oggettività”, spesso tradotto
erroneamente come neorealismo. Il Novecento, può anche essere ricordato come il secolo delle traduzioni,
visto il forte impulso di opere provenienti dalla Germania, Francia e America. In particolar modo, gli autori
italiani in un primo momento si avvicineranno moltissimo alle opere statunitensi, per poi rigettarle
completamente. L’influenza americana si nota soprattutto nei nuovi titoli, negli spazi narrativi e nei
personaggi. Sono gli anni di nascita della ​short story​, da cui si evince un modo di narrare episodico e franto,
che genera uno spazio di inter determinazione e indecidibilità.
Un altro snodo importante riguarda il passaggio a protocolli e dispositivi narrativi e teatrali a domini
precari, in cui l’io epico irrompe sulla scena, reclamando il proprio diritto a gestire lo spazio della
comunicazione teatrale; non si nasconde più camuffandosi dietro i dialoghi dei personaggi, ma diviene egli
stesso personaggio, come in Pirandello o in ​Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini, attraverso l’uso della
mimesi della parlata dialettale e l’indiretto libero. Anche il teatro influisce sul romanzo, e viceversa il
romanzo influirà sul cinema. Spesso moltissimi autori, come secondo lavoro diventano registi, rendendo la
cultura italiana sensibile alla settima arte. Il Novecento può essere definito come il secolo dei personaggi,
che assumono un ruolo centrale nella rappresentazione in quanto specchio della società moderna. Tra i
principali possiamo ricordare Filippo Rubè e Zeno Cosini, emblemi per eccellenza degli uomini finiti,
caratterizzati dalla perdita d’identità e di certezze. La narrativa si riappropria del primato conoscitivo nei
confronti dell’uomo, sembra dire ‘si tratta anche di te’. è una letteratura tesa a esaltare, sulla scorta di
traduzioni alquanto mediocri e tendenziose, il carattere morboso e sincero, con anime cupe e tormentate,
inspirate ai personaggi di D’Annunzio. L’influsso di Dostoevskij si vede soprattutto nelle tecniche e nel
modello di antieroe. Protagonista è l’uomo del sottosuolo che, dopo essersi affacciato sul nuovo secolo, si
lascia incantare dai totalitarismi. L’uomo si elegge a principale oggetto di studio, anche attraverso il
romanzo psicologico. Nella maggior parte delle opere si assiste ad una scissione della personalità, sotto
l’influenza dei nuovi studi sull’inconscio. Non solo la psicoanalisi, ma moltissime sono le nuove filosofie
basate sull’inquietudine epistemologica che attraversa il secolo. Da un lato viene esautorato ogni
scientismo antropocentrico, ma dall’altro non si impedisce alla scienza di darsi come modello di conoscenza
e di scrittura. Nella prima fase di tale processo ciò che colpisce è la polarizzazione che si produce tra
Pirandello e l’avanguardia: il primo ironico, la seconda inneggiante alla dimensione dell’effimero e ai ritmi
veloci e distruttivi del consumismo, bastato su temi come il paranormale e l’ignoto. Verso la scienza ci fu
un atteggiamento ambivalente: da un lato i futuristi la esaltano, dall’altra opere come ​Uno, Nessuno e
Centomila o ​La Coscienza di Zeno sono scettiche e abitate da un umorismo sempre pronto a vivere
l’apocalisse.
La Storia entra nel romanzo attraverso due vie: come evento in sé descritto o come effetto della guerra e
del giogo del regime totalitario, finendo per abitare i territori dell’antropologia. Il Novecento è
caratterizzato da un profondo dualismo tra la sana e positiva campagna, contrapposta alla città corrotta
dalle insidie della modernità. Chiaramente il focus centrale è legato anche agli effetti che la Grande Guerra
ha causato sui sopravvissuti, che rappresentano l’esperienza al fronte nei loro scritti e le conseguenze ad
essa legate, come in ​Rubè o nel ​Piccolo Alpino di Gotta, autentico ​best seller nell’Italia mussoliniana. Il
nuovo romanzo può essere letto non solo come manifesto antimilitarista, ma anche come programma di
resistenza mediante le armi. Il conflitto sembra agirvi a duplice livello temporale: rappresenta il passato, ma
al contempo un traguardo futuro. Mentre il cinema e il fotoromanzo dei telefoni bianchi offrono a buon
mercato emozioni, elisir ed emollienti per agevolare l’oblio delle infamie della vita pubblica, il romanzo non
si dispensa dall’anelare con esito più o meno volontario, a vette artistiche. È il caso del ​Palazzone​, scritto
dall’amante del Duce o di ​Nozze fasciste di Calabrese, rappresentazione per eccellenza del fascismo fallico e
spensierato. Impossibile non citare la satira di ​Eros e Priapo​, che nel 1941 fa risalire la prima intuizione di
riunire più prose autobiografiche e urgenti in un romanzo solo, con il passaggio da romanzo a diario,
conferendo una prospettiva più ampia e dialogica, in cui viene riconosciuta l’immediatezza delle domande
terribilmente serie che vi pone. Gadda, ad esempio, affronta non solo i fantasmi del privato, ma anche le
incrinature e i ricatti della Storia, a cominciare dal passato di interventista e di ufficiale.
Le punte della Neoavanguardia sono caratterizzate dal vizio del populismo, con la miniaturizzazione della
Storia in una cronaca da vicolo. I maggiori romanzieri scapperanno quasi subito da questo approccio:
fuggiranno non da una pretesa oggettività, poiché l’oggettività assoluta non esiste (Calvino) ma dalla
barriera del naturalismo. Fuggiranno verso il proprio stile, verso la propria poetica e verso il proprio
fantasma, sempre sotto l’influenza ella Storia.

CAPITOLO 1 IL MODERNISMO INTERNAZIONALE E IL RINNOVAMENTO DELLE TECNICHE IN ITALIA


1.1 I NOMI
L’applicazione di nomi è un processo che si nota anche nelle sintesi di storiografie; riassumere
epoche, periodi o movimenti comporta un repertorio di etichette comprese nella famiglia
linguistica con il suffisso in ​-ISMO​. A questa famiglia appartiene il ​MODERNSIMO, ​che è un
movimento artistico che oscilla tra due poli: da un lato è un movimento culturale, e dall’altro è
l’insieme di tratti distintivi. Non avendo dei limiti cronologici, molti critici si interrogano sul
problema della periodizzazione e dei rapporti con le fasi precedenti e successive. Nasce in
Inghilterra all’inizio del Novecento e cambia da nazione a nazione; infine ha una serie di varianti a
seconda delle tradizioni critiche, in alcune delle quali, come quella italiana, si è diffuso solo
recentemente. Il termine modernismo è apparso in modo sporadico nella prima metà del
Novecento, ma è entrato nel lessico critico inglese solo negli anni Sessanta e Settanta per
individuare alcuni scrittori del primo Novecento che hanno portato delle innovazioni nelle
strutture narrative e poetiche. Però, a partire dagli anni Novanta, questo termine comincia ad
avere una nuova fortuna: da un lato comincia ad inglobare una serie di fenomeni molto più ampia,
che prima si limitava al high modernism, e dall’altro si libera da accezioni negative, come elitismo
e conservatorimo politico. Da qualche anno questi processi interessano anche l’Italia. Infatti vari
studiosi hanno voluto eliminare il decadentismo, per inserire autori come Saba, Tozzi e Pirandello,
in insiemi più ampi. Le ipotesi di periodizzazione oscillano sia verso l’alto, quindi fine Ottocento
con D’Annunzio, che verso il basso, con Gadda nella seconda metà del Novecento; con baricentro
storico tra il 1904 del Fu Mattia Pascal e il 1929 degli Indifferenti. Però, sostituire modernismo a
decadentismo significa impostare in modo diverso la divisione tra i due secoli e soprattutto
ridefinire l’approccio di alcuni scrittori alle forme della tradizione. Molti studiosi tendono a trovare
una continuità con il romanzo ottocentesco, ma già il fatto di parlare di modernismo italiano e
quindi di fare riferimento a quel quadro europeo comporta una valorizzazione della
sperimentazione stilistica e strutturale. Il modernismo non designa un’epoca o un canone, ma
identifica una “somiglianza di famiglia”, l’esigenza di alcuni scrittori che si sono allontanati dalle
convenzioni estetiche, tecniche e talvolta anche etiche delle tradizioni di appartenenza.
Genericamente, può essere considerato un modo di affrontare i problemi che sono nati dalla
modernizzazione, sullo sfondo di trasformazioni storiche, politiche, scientifiche e tecnologiche che
hanno colpito l’Occidente. Tale movimento quindi è stato forse l’ultimo tentativo di imporre una
forma al caos della vita e alle macerie della storia.
1.2 UN RUMORE DI COSE CHE SI ROMPONO
I grandi cambiamenti sono prodotti di lunghe gestazioni, ed ogni cesura storica è accompagnata da
un sistema complesso di resistenze. Il passaggio tra Ottocento e Novecento trasmette il senso di
un terremoto epistemologico; solo ad allineare le date, la coincidenza di fenomeni in vari campi
del sapere e della vita umana in un breve arco di tempo è impressionante, dalla seconda
rivoluzione industriale, alla Grande Guerra. La cultura di fine secolo evolve in un senso di crisi che
travolge certezze e punti di riferimento, cioè saltano gli schemi che caratterizzavano la mentalità
ottocentesca, in cui l’uomo aveva un proprio posto per ogni cosa, ma si sente gettato in un mondo
complesso, in continuo cambiamento, attraversato da forze ingovernabili. Nel 1924, Virginia Woolf
afferma che intorno al dicembre 1910 la natura umana è cambiata, tanto che gli scrittori georgiani
si ritroveranno con delle convenzioni fasulle e strumenti espressivi che ormai non servono più. C’è
quindi una concordanza tra cambiamenti socioculturali, innovazioni tecnologiche e
sperimentazioni artistiche; questo concetto è alla base della ricognizione del Romanzo del
Novecento, fatta da Debenedetti, pubblicato nel 1971, dove non compare mai il termine
modernismo. La cosa principale che distingue gli autori del modernismo da quelli delle
avanguardie è che per raggiungere i loro risultati non utilizzano manifesti. Un tratto che accomuna
autori come Svevo, Pirandello e Tozzi è il fatto di aver ostacolato dall’interno codici e strumenti
ereditati dalla tradizione narrativa in cui hanno iniziato il loro percorso: i modernisti sgretolano
tutto dalle basi. Di fronte una realtà sempre più complessa, gli scrittori sanno che devono
continuare a narrare, ma che non possono più farlo con gli strumenti tradizionali, ormai non più
adatti a misurarsi con questa nuova coscienza della complessità. In un saggio dal titolo Il romanzo
moderno, Woolf nota che lo sforzo fatto dagli scrittori precedenti per conferire al romanzo
verosimiglianza, è fatica sprecata, perchè quelle trame così ben fatte, quei mondi concreti fatti di
fabbriche, officine e prigioni si fanno sfuggire la “cosa che cerchiamo”. Bisognosi di novità, i
romanzieri cominciano a distruggere tutti i presupposti del romanzo ottocentesco, soprattutto
quello del Naturalismo. Sgretolano la percezione di una realtà esterna che si dissolve in vari punti
di vista. Quindi non è più possibile legare i fatti in una gerarchia funzionale: la subordinazione dei
dettagli e piccoli oggetti ad una catena di nuclei narrativi viene meno, o si inverte del tutto, tanto
che l’attenzione tende a spostarsi proprio sugli elementi insignificanti che il romanzo classico
avrebbe trascurato. Auerbach osserva che è uno spostamento di baricentro narrativo che tradisce
uno spostamento di fiducia, cioè le grandi svolte esteriori perdono importanza. Da qui i modernisti
passano a colpire un altro fondamento del romanzo naturalista, cioè l’idea che il mondo si
esaurisca nella sfera del visibile, mentre loro spingono oltre per scoprire qualcosa al di là. Nei
Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Pirandello scrive “c’è un oltre in tutto”. I personaggi si
muovono ancora nel mondo ma non capiscono quello che fanno, perchè le ragioni del loro agire
ed essere si trovano oltre, nell’altra sfera del reale. Questo “oltre” viene identificato anche come
segreto, essenza, tempo, vita, e tutti alludono alla trascendenza del reale in cui i fatti e gli oggetti
più insignificanti generano dei miracoli quotidiani, con il presupposto che le cose dicono
qualcos’altro da ciò che è scritto nella loro immediata presenza. Quindi la sfida per i romanzieri
sarà tradurre questa nuova concezione del mondo in precise opzioni tecniche e formali.
1.3 LINEE DI FRATTURA
Se il modernismo in quanto fenomeno letterario implica una riflessione sull’avvento della
modernità e della modernizzazione, per quanto riguarda il caso italiano invece bisogna tenere
conto delle sue peculiarità e delle sue contraddizioni: la tarda unificazione politica, linguistica e
culturale; la crescita economica ed industriale molto frastagliata; le differenze tra le aree
geografiche; la polarizzazione tra città e campagna e il trauma dell’urbanizzazione; l’avvento del
fascismo come sintesi perfetta di tutto. Non stupisce quindi che lo sviluppo del romanzo
modernista in Italia sia tutt’altro che lineare. Le spinte innovatrici del periodo convivono con le
istanze antiromanzesche e opzioni narrative tradizionali. I modelli stranieri penetrano a fatica, e
attraverso le riviste che spesso non sopravvivono alla censura fascista. In una cultura letteraria
ancora ostile al romanzo, alcuni veri romanzieri cominciano le loro sperimentazioni e finiscono per
costeggiare le migliori esperienze europee. Alcuni scrittori, come Tozzi, Svevo e Pirandello restano
isolati e mal compresi. I risultati migliori maturano spesso in zone periferiche, con un passo da
letteratura minore che si pone in sincronismo con i grandi contemporanei stranieri. Conviene
allora comporre una morfologia storica delle principali innovazioni tecniche con cui i modernisti
scompongono e ricompongono il romanzo attraverso delle linee di frattura che possiamo
ricondurre a 4 punti essenziali: realtà e rappresentazione, narratore, tempo e trama, personaggio.
A) Realtà e rappresentazione
Nelle prime pagine del Fu Mattia Pascal, Pirandello si sbarazza subito, a colpi di parodia, di vari
generi romanzeschi e ridicolizza l’artificio delle convenzioni narrative. Nascono così gli inserti
riflessivi e metanarrativi che interrompono la storia del protagonista, nella logica di un romanzo da
fare che si costruisce strada facendo e che deve legittimare la sua esistenza. Per un personaggio
che in seguito al suicidio si è trasformato in finzione, il vero e il falso si confondono. È lo stesso
dubbio sulla consistenza del mondo che si ritrova in un breve romanzo di Bontempelli ispirato a
Lewis Carroll, La scacchiera davanti allo specchio, dove lo spazio al di là dello specchio è popolato
forse di figure vere e reali. Quindi Pirandello ci invita a guardare oltre, lo strappo del cielo non si
limita a denunciare l’inganno di ogni rappresentazione, sia quella allestita a teatro che quella
inscenata nella vita di ogni giorno. Anche i personaggi di Tozzi, primo fra tutti Pietro in Con gli
occhi chiusi, si muovono in una realtà apparentemente solida che all’improvviso si deforma, si
apre su squarci interori.
B) Narratore
I tratti distintivi del romanzo modernista, come osmosi tra vero e falso, autoriflessività, trovano un
punto di condensazione anche in altre costanti formali, prima fra tutte la metamorfosi del
narratore. L’ambigua ironia con cui Zeno replica alle accuse del dottor S., che fin dalla Prefazione
ha definito l’autobiografia del suo paziente un miscuglio di verità e bugie, esibisce lo statuto
paradossale di un libro al cui centro c’è un bugiardo. Ad ogni frase ci ricorda quanto sia facile
cadere in una trappola architettata con perfidia e sapienza narrativa in un mondo che non ha altra
realtà al di fuori delle parole che sentiamo. Zeno è la figura chiave del narratore inattendibile. Si
sgretola così la tradizione millenaria del narratore come figura di consiglio; quell’entità semidivina,
autorevole e spesso onnisciente, che nel romanzo classico governava tutto, ormai non esiste più,
non trova più la chiave per decifrare ciò che accade. Nel caso di Zeno la trappola è potenziata dalla
scelta della narrazione in prima persona che esclude voci o punti di vista alternativi. L’attributo di
chi parla non è onniscienza ma ignoranza, l’incomprensione di avvenimenti e personaggi. Siamo di
fronte a voci perplesse e depotenziate in cui si riverbera la tipica contraddizione dell’arte
modernista, cioè il bisogno di capire e di spiegare un mondo divenuto incomprensibile.
C) Tempo e trama
Il rifiuto della vecchia ingenuità narrativa condiziona soprattutto la costruzione della trama e la
gestione del tempo narrativo. Il filo narrativo che prima teneva insieme il romanzo ora si è
spezzato: Ulrich non trova un rapporto con gli eventi, cerca di ricomporre i frammenti di un
universo non narrativo che ha perso il senso dell’epica primitiva spazzata via da un processo di
modernizzazione. Il romanzo modernista si basa proprio sul sabotaggio di quello che Gadda
chiamerà l’intreccio dei vecchi romanzi, che i nuovi spesso disprezzano. Un disprezzo che emerge
nel caso di Tozzi: il suo romanzo sperimentale, Con gli occhi chiusi, che destruttura la trama non
tanto perchè utilizza la frammentarietà, brevi sequenze interrotte da vuoti temporali, ma perchè
inceppa il dettato narrativo con gli squarci sulla vita interiore di Pietro, dove la misura del tempo si
perde, i legami tra gli eventi si sfaldano, i dettagli irrilevanti si ingigantiscono senza apparente
motivo. Da una parte, Svevo costruisce La coscienza di Zeno scardinando la cronologia della fabula
e organizzando il libro attraverso blocchi analogico-tematici in cui vari piani temporali si
intrecciano e si confondono. Poi c’è Pirandello che continua a proporre trame piene di clichés
melodrammatici e trovate convenzionali ma in cui la trasmissione tra i giunti narrativi si è
inceppata, gli effetti non derivano dalle cause, gli avvenimenti trascinano i personaggi in una
deriva immotivata di cui nessuno possiede la chiave.
D) Personaggio
L’ultima e fondamentale linea di frattura del romanzo modernista riguarda la metamorfosi del
personaggio uomo. Spicca la figura dell’inetto che popola le pagine di Svevo, Tozzi o Borgese, un
personaggio di matrice darwinista che nello scenario del primo Novecento assume tratti specifici,
cioè quelli di una crisi di adattamento; una crisi che prosciuga l’identità personale e consegna il
soggetto a un destino di anonimato. I personaggi perdono consistenza, si annullano nella massa,
vedono cadere a pezzi i loro nomi, si sfaldano fisicamente come nel romanzo di Palazzeschi, Il
codice di Perelà, dove il protagonista è un “uomo di fumo” capitato misteriosamente in terra e
destinato a svanire attraverso la cappa di un camino. La crisi del personaggio naturalistico trova il
sintomo più evidente nell’invasione di brutti che caratterizza l’arte di Tozzi, Pirandello, Kafka:
esseri deformi, sfigurati, contratti, vittime di un cataclisma fisionomico che comporta una cesura
psichica e antropologica nell’uomo d’Occidente: emersione dell’altro, dissoluzione dell’unità del
soggetto. È un processo avvenuto nel primo Novecento e che trova nella psicoanalisi la sua
fondazione scientifica; sono personaggi scissi, divisi, interiormente lacerati, alle prese con atti
mancati e dubbi identitari di cui non conoscono e non comprendono le ragioni. L’eredità lasciata
dai modernisti ai romanzieri successivi è un panorama di sentieri interrotti e strade senza uscita.
Alcune sperimentazioni, quindi, faranno fatica a trovare uno sviluppo.

CAPITOLO 2 LUIGI PIRANDELLO


2.1 ABBATTERE BARRIERE
Luigi Pirandello romanziere è generalmente ridotto a due opere centrali, Il fu Mattia Pascal e Uno,
nessuno e centomila. La selezione mette al centro del quadro il Pirandello considerato più
moderno, relegando ai margini, come esperimenti falliti, le opere che sembrano stonare rispetto al
profilo ufficialmente accreditato. Però è più opportuno creare un percorso diverso, non
nettamente diviso tra opere maggiori ed opere minori, sulla base di un’ipotesi di fondo: ovvero la
sostanziale organicità dell’opera romanzesca pirandelliana, all’insegna di una continua
sperimentazione sulla possibilità di rifondare le strutture narrative della tradizione in un mutato
contesto storico e culturale. Una volta superata la barriera del Naturalismo, l’opera pirandelliana
può testimoniare la continuità tra poetica naturalista e modernismo; la stessa teoria
dell’umorismo è un modo di saggiare una diversa concezione del realismo, in grado di affrontare le
contraddizioni insolubili di una realtà che appare sempre più sfuggente. Non si tratta di
accomunare autori come Verga, Svevo o Gadda, ma si tratta di tracciare un percorso che
rappresenti l’evoluzione delle forme narrative nel panorama europeo tra fine Ottocento e primo
Novecento. Ciò che accomuna questi è autori è la neccesità di trovare gli strumenti rappresentativi
più adeguati per affrontare “l’effimero e il caos della vita moderna” (Pellini). Pirandello, nato nel
1867 in una campagna nei pressi di Agrigento, in un ambiente premoderno, intriso di folclore e di
cultura contadina arcaica, vissuto poi tra Roma e Milano, passando per Parigi, New York e Berlino,
ha sperimentato in prima persona una cesura tra le più repentine e radicali della storia
dell’umanità, tentando di indagarne e rappresentarne l’intensità le sfaccettature e le ricadute sul
piano individuale e collettivo. Di questa transizione Pirandello ne parla largamente nel corso della
sua opera, presentandola come un trauma; sul piano letterario, il patrimonio delle forme del
passato diventa d’un tratto anacronistico. Però invece di fare tabula rasa, Pirandello si dedica ad
un’opera di traghettamento: decostruisce, ridicolizza, ma allo stesso tempo trasforma e rielabora.
Se le forme teatrali sono già al centro della sperimentazione pirandelliana, la produzione narrativa
non risulta ancora ben definita perchè ancora schiacciata da stereotipi ottocenteschi e da una non
delineata originalità. Per questo tracciare un profilo della produzione romanzesca pirandelliana
può dare delle sorprese.
2.2 UNA SFIDA, SCRIVERE IN PROSA
Pirandello è consapevole della vocazione letteraria da molto presto, e mette da parte subito la
giovane passione teatrale e dopo un deludente esordio poetico decide di cimentarsi con l’arte
narrativa in prosa. Fondamentale è stato l’incoraggiamento di Luigi Capuana. Nascono così le
prime novelle e il primo romanzo, pubblicato in volume nel 1893 con il titolo di Marta Ajala, e poi
a puntata da giugno ad agosto 1901 con il titolo definitivo L’esclusa sul quotidiano romano “La
Tribuna”. La protagonista, Marta Ajala, viene ingiustamente accusata di adulterio dal marito,
ossessionato da una triste tradizione familiare che vuole cornuti tutti i Pentàgora. Marta subisce
l’ostracismo da parte della famiglia e della comunità: scacciata di casa perde il figlio nascituro è il
padre nella stessa notte, rimanendo con la madre e la sorella a carico. Spinta dal desiderio di
rivalsa supera il concorso magistrale e comincia ad insegnare, però l’ostilità delle colleghe e della
alunne la porta ad abbandonare il paese e chiedere il trasferimento a Palermo. Dopo un primo
periodo ritornano le preoccupazioni: alcuni pretendenti la tormentano con le loro avances, mentre
il marito si rifà vivo offrendole il perdono e il presunto amante arriva per consumare il tradimento
di cui erano stati accusati ingiustamente. Alla fine Marta decide di suicidarsi ma viene distolta dalla
notizia che la madre del marito anche lei scacciata di casa per lo stesso motivo, é in fin di vita. Al
capezzale incontra il marito che invoca il suo perdono e la supplica di tornare a casa anche se
consapevole di ciò che ha fatto la moglie. Il romanzo é basato su un racconto lungo di Capuana,
Ribrezzo, e rivela una precoce originalità. Pirandello riprende lo spunto narrativo, cioè la donna
accusata ingiustamente di tradimento ma che alla fine lo commette veramente, ma ne trasforma
la connotazione ideologica. Il fulcro del racconto di Capuana è il caso passionale, centrato sulla
ripugnanza che prova la donna nei confronti dell’amante dopo aver commesso il tradimento. Lei
era legata al marito anche se pervasa da una passione sensuale nei confronti dell’altro uomo, e per
questo si lascia morire invocando davvero il perdono. Il romanzo pirandelliano invece non ha come
centro la dinamica passionale, Marta Ajala non ama nessuno perché non è in grado di amare,
come non sono in grado di amare il marito e l’amante. L’amore passione appartiene al passato, nel
presente ci sono gli impulsi contraddittori che il soggetto non riesce a distinguere non sa più quello
che vuole, su cui la comunità esercita un controllo in quanto ossessionata dal rispetto delle
apparenze, e pronta a giudicare e a condannare in base a delle etichette. Per quanto legato a
Capuana, Pirandello si allontana subito dal suo mentore, non perché ripudia il romanzo
naturalista. Pirandello nel suo romanzo lascia un finale ambiguo, lasciando morire una figura
minore che funziona da doppio e lasciando in sospeso lo scioglimento della vicenda. Nel momento
in cui sembra dichiararsi discepolo fedele del suo conterraneo, Pirandello lo liquida sia sul piano
ideologico sia su quello narrativo perchè Capuana non è un verista, e invece di rendere conto delle
contraddizioni del reale preferisce eluderle e cadere nei clichés melodrammatici. Dal primo
ormanzo comincia un processo di demistificazione che prelude alle opere successive. Il mondo
individuale perde consistenza e determinazione, i personaggi non sono e non provano nulla;
parallelamente il codice che regola la vita sociale è come una macchina fine a se stessa che
costringe i personaggi in una forma immobile che solo momentaneamente li rappresenta
precludendo loro ogni tentativo di fuga. Da qui poi nascerà il Fu Mattia Pascal e la definizione della
poetica umoristica.
2.3 Beffe della morte e della vita
Negli stessi anni dell’Esclusa Pirandello scrive abbastanza di getto un romazno breve, concepito
come un’opera leggera: Il turno. La trama prende avvio dalla decisione di Marcantonio Ravì di dare
in sposa la giovane figlia Stellina a Don Diego Alcozèr, 72enne, con il progetto di attenderne la
morte pre riaccasare la figlia con l’uomo che lei ama, Pepé Alletto. Nonostante gli acciacchi, Don
Diego resiste ed ospita e intrattiene i pretendenti di Stellina, la quale cede alle profferte del Coppa
che la convince a fuggire con lui e a chiedere l’annullamento del matrimonio. Non molto tempo
dopo, il Coppa stremato dalla gelosia, muore di infarto mentre si celebravano le nuove nozze di
Don Diego con un’altra giovane amica di Stellina. La trama riprende molti elementi presenti nella
prima produzione novellistica, come la contrapoisizione tra ragioni sentimentali e necessità
economica, il desiderio triangolare e la rivalità amorosa; ma tutti questi elementi sono funzionali
alla costruzione di un meccanismo comico perfetto, infatti si tratta di uno dei testi più divertenti.
Tuttavia sotto la parte comica, si possono facilmente individuare dei nuclei centrali come
l’inconsistenza della realtà individuale e delle relazioni interpersonali e l’oppressione delle forme.
Marcantonio Ravì è il primo personaggio pirandelliano ad avere il coraggio di spingere alle estreme
conseguenze la logica degli schemi sociali, mostrandone la paradossalità: se la scelta matrimoniale
deve essere subordinata alla situazione economica, allora bisogna ottenere il massimo rendimento
con il minimo sforzo. Ma anche questo provoca la riprovazione della comunità legata alla moralità
e al buon senso. Anche qui il formalismo della comunità paesana maschera l’inconsistenza dei
legami e delle passioni, con un cambio repentino di amori e amanti; l’unico personaggio fedele e
costante nella sua inclnazione sentimentale è Coppa, talmente fedele da morirci, quindi
l’amore-passione non può che condurre alla follia e all’autodistruzione. A tutto questo, c’è da
aggiungere l’intervento beffardo del caso che manda all’aria le trame dell’agire umano. Per quanto
in questo romanzo prevalga il gusto per il divertissement narrativo fine a sè stesso, è evidente
l’asprezza legata alla consapevolezza di una duplice beffa esistenziale: la vita è una beffa perchè si
prende gioco dei desideri e delle decisioni degli individui e anche perchè termina con la morte.
2.4 UMORISMO E ​ROMANCE
L’Esclusa e Il turno sono un banco di prova per il romanzo successivo, il Fu Mattia Pascal. Scritto
quasi di getto su proposta del direttore della “Nuova Antologia”, il romanzo viene pubblicato a
puntate sulla rivista, dal 16 aprile al 16 giugno 1904; mentre al 1908 risale la stesura del saggio
L’umorismo, con evidenti parallelismi che hanno da sempre portato a considerare le due opere in
parallelo. La trama del romanzo si può definire come una trama tipicamente romanzesca. Rimasto
precocemente orfano assieme alla madre e al fratello maggiore a seguito della morte improvvisa
del padre, Mattia vive un’infanzia spensierata senza mai sospettare che Malagna, amministratore
dei beni di famiglia, poco a poco avrebbe depredato la famiglia, lasciandola sul lastrico. Dopo la
morte della prima moglie, Malagna, essendo ora ricco, cerca disperatamente un erede, così riesce
a sedurre e sposare Oliva, di cui è innamorato anche Mattia. Ma questo tanto desiderato figlio non
arriva, così seduce Romilda, figlia della vedova Pescatore, a sua volta amata da Gerolamo Pomino.
Mattia, con l’idea di favorire l’amico, cade nella trappola della vedova, si lascia abbindolare e
possiede Romilda, già pronta a far passare il bimbo per figlio di Malagna. Mattia, avendo capito
tutto, convince Oliva a concedersi a lui, così da punire il marito, ma il piano gli si ritorce contro:
Malagna, soddisfatto del presunto erede legittimo, abbandona Romilda e costringe Mattia a
sposarla per rimediare al danno suscitando l’ira della vedova Pescatore. Dopo la morte della
moglie e della figlia nella stessa notte, Mattia fugge senza meta e arriva a Montecarlo, dove vince
una considerevole somma al casinò. Mentre torna legge sul giornale che è stato falsamente
identificato nel cadavere di uno sconosciuto annegato poco lontano da casa sua. Ormai libero
decide di viaggiare per il mondo con un’identità fittizia, cambiando il suo nome in Adriano Meis;
stanco di viaggiare si stabilisce in una pensione romana, amministrata da Anselmo Paleari e dalla
figlia Adriana. Mattia si innamora di lei e arriva allo scontro con Terenzio Papiano; ma senza
un’identità riconosciuta, non può né sposara Adriana né difendersi da Terenzio, che cerca di
impadronirsi dei suoi soldi e della sua donna. Ormai rassegnato, inscena un suicidio finto, e torna
al paese di nuovo nei panni di Mattia Pascal. Avendo scoperto che Romilda si è sposata con
Pomino, si diverte a terrorizzare la coppia, ma poi rinuncia ai suoi diritti e si condanna a vivere in
un limbo, inesistente per le autorità sociali, dividendosi tra la compagnia della zia Scolastica e il
lavoro in biblioteca Boccamazza. Come si può notare la trama mette in campo tutti gli elementi di
un romance: una famiglia privata prima del tempo del sostegno paterno, un amministratore
malvagio che depreda la vedova ignara, una rovina economica, una sostituzione di amanti, uno
scambio di identità, un’improvvisa richezza, una morte apparente e la ricmparsa dopo anni del
presunto morto. Analizzando il romanzo, in primo piano è proprio un romance ben costruito su
un’eccellente miscela degli elementi del romanzo ottocentescho caro a Pirandello, con
un’alternanza di momenti drammatici e scenette del tempo comico perfetto. Ma le due premesse
iniziali, avvisano il lettore che questo romanzo non è solo un romance attardato. La prima mette in
evidenza il tema centrale dell’opera: lo strano caso romanzesco di Mattia Pascal veicola infatti
un’indagine sulla consistenza dell’identità sociale: Mattia Pascal non sa più dire come si chiama,
perchè non sa più dire chi è al di fuori dell’identità riconosciuta. Venuta meno l’integrità
dell’individuo premoderno, a rimanere in scena è un individuo fragile, che non può essere certo
neanche del nome se non lo vede su un documento. All’inconsistenza oggettiva dell’individuo si
contrappone il carattere oppressivo di un’identità sociale, in quanto Mattia Pascal deve essere tale
a norma di legge, perchè al di fuori di questa identità certificata non esiste, non ha diritti né tutele.
Mattia divenuto Adriano, non può vivere ma solo aggirarsi come un’ombra perchè privo di
documenti. Venuta meno l’integrità del soggetto, vacilla anche tutto ciò su cui si cardina
l’individualità, a cominciare dall’amore; infatti il sentimento amoroso si scompone in vari scambi in
cui l’oggetto del desiderio finisce con il diventare indifferente. Anche per il denaro è lo stesso: la
fortuna accumulata al gioco non dà sicurezza al protagonista, anzi lo mette di fronte
all’impossibilità oggettiva di modificare in meglio la propria condizione; quindi i soldi non gli
servono a nulla. La Premessa Seconda allarga il discorso e prosegue la riflessione spostandosi sul
piano filosofico e metanarrativo. Se nella narrazione tradizionale l’individuo era al centro del
romanzo, la scoperta del relativismo solo un’interruzione del della coscienza può spingere a
proseguire e a rinnovare ancora una volta un atto insensato come quello di raccontare. Il
riferimento principale è la tradizione umoristica del 700, ma anche la rivisitazione del saggi
dell’Umorismo, che per Pirandello significa gusto della divagazione, messa in rilievo dei dettagli,
introduzione di un narratore, mancanza di una chiusura narrativa; ma è anche sentimento del
contrario, capacità di cogliere l’intreccio di tragico e comico, tentativo di arrivare sempre
all’essenza delle cose al di là dei travestimenti imposti. Quindi Il fu Mattia Pascal è tutto questo
insieme: un romance e una narrazione umoristica, un romanzo riflessivo-filosofico e una sapente
costruzione comica. Di fondo poi c’è la voce narrante in prima persona che lega tutto e
rappresenta la ragione d’essere del romanzo. L’opera ha una grande forza narrativa grazie al
narratore sempre pronto a farsi beffe degli altri e di sé stesso, maestro del gioco linguistico.
2.5 COSA RIMANE DELLA STORIA (E DEL ROMANZO)
Dal 1908 al 1915 Pirandello si dedica alla stesura di altri tre romanzi: I vecchi e i giovani pubblcato
a puntate sulla “Rassegna contemporanea” da gennaio a novembre 1908, poi in volume nel 1913;
Suo marito, pubblicato nel 1911 e ripresi quasi dieci anni dopo con il titolo di Giustino Roncella
nato Boggiòlo; Si gira..., edito sulla “Nuova Antologia” dal giugno all’agosto del 1915, ripubblicato
poi con il titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore. Si tratta di tre opere molto diverse tra
loro, accomunate da una sorta di incompiutezza, a volte palese a volte dissimulata, quasi fossero
tutti dei lavori rimasti in preparazione. Questa sospensione è legata in primis al fatto che il teatro
stava diventando sempre più centrale nella poetica di Pirandello, e in parte alla progressiva
rarefazione delle possibilità narrative. Infatti nelle opere successive al fu Mattia Pascal, l’intreccio
si sfalda su sé stesso, non realizza la fabula e da qui nasce il carattere sospeso dei romanzi. Non è
un ritorno alle forme tradizionali, ma una prosecuzione variata della stessa indagine. La diversità di
genere e di struttura narrativa da una parte prosegue la resa dei conti con la tradizione, dall’altra
maschera la riproposizione degli stessi temi come la crisi dell’esperienza e la rottura del nesso tra
passato e presente e dei legami generazionali. Se non si parte da questa radice comune, si rischia
di non comprendere il legame sottile ma fortissimo tra opere apparentemente così diverse, che
sembrano appartenere a momenti distanti nella scrittura pirandelliana. I vecchi e i giovani è
dedicato alla storia di una famiglia siciliana negli anni a cavallo tra l’Unità d’Italia e l’ultimo
decennio dell’Ottocento. Il capostipite, Gerlando Laurentano, è morto suicida a Malta, dove era
stato esiliato dai Borboni per la sua attività sovversiva. I suoi tre figli hanno partecipato in modo
diverso alla storia italiana: don Cosimo vive recluso nella sua tenuta di Valsania; Caterina ha
seguito con devozione Stefano Auriti, ucciso durante la spedizione dei Mille; Ippolito è rimasto
fedele ai Borboni, e poi si chiude in volontario esilio. La divisione torna poi nella generazione
successiva: Lando, filgio di don Ippolito, simpatizza per i socialisti, mentre il figlio di Caterina,
Roberto, appartiene alla sinistra crispina; Antonio, nipote di Caterina, è incline al terrorismo
anarchico. Però lo svolgimento storico resta sullo sfondo, mentre le vicende principali sono riprese
in veloce analessi, perchè la narrazione è incentrata su un lasso di tempo ristretto, e su una
cospirazione privata: il progetto ordito da Flaminio Salvo pre far sposare la figlia Dianella con
Lando Laurentano. In realtà per pagine e pagine non accade nulla e l’azione si dissolve in scene
non significative, spesso dedcate a personaggi secondari. Pirandello riprende la struttura del
romanzo storico e lo svuota dall’interno, perchè è venuta meno la fiducia nella possibilità di dare
un significato all’accadere storico, così come al destino individuale. Il fu Mattia Pascal e I vecchi e i
giovani denunciano la stessa catastrofica perdita di senso; Pirandello porta alle estreme
conseguenze ciò che già aveva fatto Verga nel Mastro don Gesualdo rispetto al modello del
romanzo di formazione. Proprio come nell’opera di Verga, la storia viene spezzata con un effetto
di destrutturazione del racconto. Nel momento in cui entrano tutti i personaggi sono già dei vinti,
il loro destino si è già compiuto e la narrazione non fa altro che rimarcare quello che già è successo
in passato. I vinti per eccellenza sono i Laurentano: don Ippolito che costringe i suoi uomini a
travestirsi da soldati borbonici e a recitare una pantomima; Caterina chiusa nel culto solitario di un
mito e di un martirio contrapposti allo squallore dell’Italia postunitaria; don Cosmo isolato da tutti
e fuori dalla storia. Flaminio Salvo è il deus ex machina della vicenda, segnato dalla morte del figlio
e dalla pazzia della moglie, tenterà di rivalersi attraverso il matrimonio di Dianella con Lando.
Parallelamente viene privata di significato la sequenza generazionale: i figli e i nipoti subiscono il
fallimento dei padri e la vecchiaia dei tempi, così ogni azione è bloccata in partenza. A questo poi
si aggiungono catastrofi di ogni tipo, che rimarcano l’insesatezza dell’insieme: Lando si lascia
coinvolgere nel partito dei Fasci, Roberto Auriti viene imprigionato per corruzione, Dianella
impazzisce, Aurelio Costa viene massacrato insieme all’amante. L’unica alternativa è tirarsi
indietro: come Mattia Pascal, anche Cosmo Laurentano ha scelto di vivere in una sorta di esilio
volontario, perchè non riesce più ad illudersi. Ma mentre nel primo questo punto di vista è
centrale, nell’altro è confinato allo spazio del personaggio secondario, cosicche la destrutturazione
narrativa assume una connotazione più drammatica. Le principali modalità ottocentesche sono
rielaborate all’insegna di questa consapevolezza che è fondamentalmente tragica.
2.6 TRA MELODRAMMA E RIPRODUCIBILITA’ TECNICA
Un’altra variante narrativa viene offerta da un altro romanzo, pubblicato nel 1911 con il titolo di
Suo marito. Protagonista è una scrittrice, Silvia Roncella, accompagnata dal marito che le fa da
manager con dedizione morbosa. Ad un primo livello il romanzo offre una rappresentazione poco
lusinghiera del mondo letterario romano e soprattutto il giro femminile, ma si può vedere un
riflessione più complessa sulla posizione dell’arte nella società moderna. Pirandello da voce al suo
alter ego femminile, come rivelano le opere attrbuite alla scrittrice, ma soprattutto la diposizione
d’animo che la caratterizza, ossia la propensione ad utilizzare la macchinetta della logica.
Pirandello attraverso il suo alter ego illustra un momento cruciale della sua carriera, e cioè lo
spostamento verso l’attività teatrale, che sta diventando preminente. Al punto di vista di Silvia si
oppone quello del marito: quanto più la donna passa qualsiasi dettaglio al vaglio della macchinetta
della logica, rimanendo insoddisfatta, tanto più l’uomo si dedica anima e corpo alla promozione
dell’opera senza il minimo distacco critico. Per Giustino l’attività della moglie è un affare come un
altro che deve gestire nei migliori dei modi senza alcun pathos; tanto è vero che resta incredulo e
deluso quando la moglie non riesce a scrivere, come se non stesse rispettando il suo lavoro. Silvia,
sempre più oppressa, si allontana da lui gettandosi in rapporti che non la soddisfano e la lasciano
delusa e priva di passione. Questa contrapposizione mette in luce un dissidio interiore: anche
Pirandello oscilla tra desiderio di promozione e riconoscimento ufficiale. La conclusione del
romanzo riproduce questa scissione: ormai separato dalla moglie Giustino assiste alla messa in
scena della Ragione degli altri, attendendo la risposta del pubblico; ma mentre gli applausi
decretano il successo dell’opera e Giustino si inebria di gloria, Silvia rimane pallida davanti al
pubblico acclamante. La morte del figlio rende la rottura irreparabile e sancisce l’assurdità di
affaticarsi entrambi per raggiungere uno scopo. Solo la consegna delle carte sancisce la fine della
vicenda e consegna i due personaggi al rispettivo fallimento. Ancora più irreparabile è la
segregazione che si impone Serafino Gubbio. Se Silvia continua a scivere nonostante tutto, con
Serafino Gubbio l’arte stessa risulta ormai sorpassata dalla riproducibilità meccanica offerta dal
cinema. Serafino non opera, non scrive se non in forma privata, si limita a preparare la pellicola e
ad avviare la ripresa sulla base delle indicazioni ricevute, in attesa che un altro meccanismo renda
superfluo il suo intervento. Serafino Gubbio, ha rinunciato non solo a vivere, ma anche a narrare:
la trama è circoscritta al rapporto tra Aldo Nuti e Varia Nestoroff, attrice di orgini russe, fino alla
melodrammatica conclusione. I Quaderni sono quello che rimane del mondo narrativo di Mattia
Pascal: una narrazione frammentata che risponde ad un bisogno di sfogo. Il silenzio di Serafino
dopo aver ripreso la scena cruenta rappresenta la liquidazione definitiva del racconto. La vita
moderna non è più cmpatibile con la narrazione, ha ingoiato il cuore e la mente degli uomini;
l’unico racconto ancora possibile è quello reificato offerto da una macchina che ingoia la vita e la
cristallizza.
2.7 IL CERCHIO SI CHIUDE
I Quaderni di Serafino Gubbio operatore dovrebbero segnare un punto di non ritorno, invece negli
anni successvi Pirandello si dedica a un nuovo romanzo, a cui lavora a lungo prima di arrivare alla
pubblicazione sulla “Fiera letteraria” tra dicembre 1925 e giugno 1926. È l’opera in fieri per
eccellenza, rimane a lungo una specie di calderone in quanto accoglie sfoghi sentimentali,
meditazioni e presta situazioni e personaggi alle opere coeve, fin quando non finisce per l’essere
una summa dell’opera precedente. Con esplicito richiamo al Tristram Shandy di Sterne, il romanzo
propone le considerazioni di Vitangelo Moscarda, il quale è un uomo di poche preoccupazioni: vive
di rendita grazie alla banca ereditata dal padre e gestita dai suoi procuratori ed è sposato con una
donna a cui non fa mancare nulla. Una mattina, di improvviso, la moglie Dina lo osserva e allude
con non curanza al fatto che gli pendesse il naso verso destra. Questa scoperta getta Moscarda nel
panico, perchè capisce che gli altri lo vedono in maniera diversa da come lui si autorappresenta ed
ognuno a suo modo; quindi arriva alla conclusione che dietro i centomila volti non c’è l’uno, ma
nessuno. Durante questa ricerca si diverte a smontare le immagini riflesse di sé; agli occhi di tutti
lui è il figlio di un usuraio che gode del privilegio dell’ozio solo in virtù dell’eredità paterna,
cosicchè il suo ozio è ancora più feroce dell’attivismo del padre, mentre lui vive di rendita. Ma
quando decide di donare una sua proprietà a Marco di Dio per smentire questa immagine tutti lo
prendono per pazzo; quando ordina al suo procuratore Quantorzo di liquidare la banca, la moglie
non riconosce più in lui il tranquillo Gengé e avvia il procedimento per farlo interdire. La stessa
cosa avviene nelle situazioni sentimentali: per tutta la comunità Moscarda è l’amante di Anna
Rosa e il suo ferimento da parte della donna è un l’esito di un tentativo di molestia. A nulla
valgono gli sforzi di entrambi per negare questa immagine: al di fuori del cliché non c’è nessuna
autenticità a cui fare appello. Il ferimento e la successiva convalescenza sono per Moscarda una
sorta di rito purificatorio, poiché lui muore come Moscarda, figlio di un padre usuraio, marito di
Dida e presunto amante di Anna Rosae e rinasce senza stato sociale. Con una costruzione
circolare, Pirandello riprende e conclude un discorso iniziato con Il fu Mattia Pascal: è simile
l’ambientazione in una piccola comunità paesana legata al rispetto esteriore delle forme e di fatto
subordinata alla logica dell’utile; simile il protagonista figlio degenere di un padre combattivo,
incapace di gestire l’eredità paterna e dunque in balia di amministratori variamente corrotti, un
personaggio diverso la cui anomalia fisica è il simbolo di un’inadeguatezza sostanziale e di uno
sguardo radicalmente alternativo che mina le relazioni sociali e sentimentali. Simile anche la voce
narrante in prima persona, che ritorna dopo una lunga parentesi di narrazioni impersonali,
ferocemente ironica e autocritica erede della tradizione umoristica settecentesca. Infine, è simile
anche il percorso del protagonista su cui si basa la trama: dalla costrizione dei ruoli sociali alla
disperata ribellione fino alla reclusione volontaria in una sorta di limbo tra l’essere e il non essere.
Ma se le vicissitudini di Mattia Pascal terminano con la stesura della sua strana storia e la
rappresentazione di un gesto centrato sulla riaffermazione del proprio nome, Moscarda conclude
proprio con la dissipazione del racconto. L’epigrafe funeraria su cui si sofferma Mattia Pascal è
divenuta per Moscarda l’emblema di una costrizione: il nome non è che epigrafe su una lapide,
conviene solo ai morti, perchè la vita è un flusso continuo al di là dei nomi. Se da un lato si tratta di
un trionfo dell’irrazionale a danno della coscienza raziocinante con la prospettiva surrealista a cui
Pirandello si è avvicinato negli ultimi anni della sua vita, dall’altro lato non si può non leggere
come un riconoscimento di una sconfitta, significa spegnere la macchinetta della logica. Nel
momento in cui Moscarde disperde sé stesso nel flusso della vita rinuncia sia al racconto che alla
coscienza. La narrazione è terminata.

CAPITOLO 3 L’UMORISMO
3.1 IL RISO DELLA LIBERTA’
Il concetto di humour lo trovaimo espresso nelle pagine di Madame de Stael in un’opera del 1800ç
lo humour è lo cherzo in tono grave e meditativo proprio del mondo inglese, una sorta di riso
filosofico di società. Nella cultura tedesca lo humour definisce la specificità del comico romantico:
è l’atteggiamento misto di dolore e grandezza di chi paragona l’universo quotidiano alle grandi
idee. Il problema dell’umorismo si lega ai grandi processi storici ottocenteschi e alle nuove
esigenze democratiche, facendo del riso e dell’umorismo lo strumento stilistico della dissoluzione
di un mondo legato al principio dell’ordine gerarchico. Tra i fenomeni editoriali che nascono
nell’Europa rivoluzionaria del 1848 c’è lo sviluppo dei giornali umoristici anche alla portata di un
pubblico semiletterato per la presenza di immagini e brevi didascalie. Nel pieno e tardo Ottocento
la scrittura umoristica e il dibattito critico che cresce intorno ad essa segnavano un punto di
frattura nell’esperienza del Romanticismo: la realtà mutevole dell’io si contrappone all’universo
dei valori. L’umorismo diviene unì’arte difficile della dissonanza del vagabondaggio alla ricerca di
piccole verità concrete, tra un amaro sorriso e una bonaria malinconia. Man mano che allo
scrittore viene a mancare il sostegno di una memoria colletiva, egli può solo contare sui propri
ricordi, sogni e umori a contatto con il quotidiano. Durante il decennio 1849-59, definito il
“decennio di preparazione”, la città di Torino divenne “La Mecca” degli esuli politici dei vari Stati
italiani. Le vie della capitale sabauda si affollarono dopo il Quarantotto; teatri e giornali divennero
gli ambiti privilegiati in cui l’emigrazione cerca fortuna. Ad un certo punto, la prosa umoristica
fioriva nelle appendici dei giornali in forma di stravaganze piccanti, di olemiche sotto pseudonimo
di pettegolezzi; il modello di questa scrittura è lo humour di Heine. A Parigi, il problema
dell’umorismo si pone in modo nuovo. Charles Baudelaire nel 1855 scriveva ​De l’essence du rire
prendendo spunto dalla caricatura per esplorare i rapporti tra il comico ed il fantastico, tra riso e
sogno. Nel 1851 Giuseppe Ferrari mostrava come la poesia e il riso siano esperienze insiemea
autosufficienti e complementari alla ricerca politica della libertà; fin dal 1830 Heine si proponeva
nei suoi reportage di viaggi come un Don Chisciotte moderno, all’interno di un mondo tedioso e
mediocre, mescolando nostalgia degli ideali romantici e critica corrosiva del nuovo tempo
borghese indagato nelle sue contraddizioni storiche. Il critico Carlo Tenca distingueva un riso per il
riso che prepara la servitù, da un riso serio che genera la libertà: il riso non deve essere solo
oggetto di entusiasmo, ma di giudizio; dovrà includere la riflessione. Prima del Quarantotto il
modello di comicità elevato è la satira con il suo moralismo, mentre ciò che viene respinto è il
genere non serio del burlesco; Dopo il Quarantotto invece si tentava di riscoprire gli autori
burleschi del Cinquecento, tra cui Francesco Berni. A smentire la dicotomia tra serietà satirica e
frivolezza burlesca è la nascita di una nuova nozione critica: l’idea di umorismo italiano nasce da
Carlo Tenca, direttore della “Rivista europea” e poi dal 1848 del “Crepuscolo”; tutto ciò porta poi
alla definizione di umorismo meridionale che troviamo nelle Confessioni di un italiano di Nievo; o
quello di Pirandello che nell’Umorismo fa anche il nome di Tenca e ne riporta le tesi. Pian piano
l’umorismo diventava così il segno dissociato e volubile dell’uomo moderno.
3.2 TRA PARODIA E SOGNO
Dopo il 1860 subentra il ribellismo della Milan scapigliata. Man mano che gli ideali del
Risorgimento si stemperano nel fermento utilitario dell’unificazione nazionale, il mito della libertà
si trasferisce dal piano politico e pedagogico a quello creativo dell’io, in contrato con un mondo
dominato dal denaro, dalle merci e dalle attività imprenditoriali. L’umorismo, il grottesco
divengono allora gli strumenti provocatori e antirealistici di una valorizzazione della scrittura
d’arte di fronte al cnformismo borghese. La crisi di valori e di rapporti codificati porta quello che
colpisce la sensibilità umorale dello scrittore con un ingrandimento di particolari marginali o
discordanti entro narrazioni frante adatte allo spazio dellla rivista. È il caso di Iginio Ugo Tarchetti,
autore di Racconti fantastici e di Racconti umoristici con una ricerca dell’eccentrico. Molto
indicatico è anche il diffondersi di una letteratura umoristica di viaggio che coltiva il pathos
dell’eterogeneo e del disparato, l’effetto a sorpresa, i giochi narrativi ad incastro. La scrittura, non
solo descrive il paesaggio, ma ragiona anche sui propri procedimenti, li smonta dialogando con il
lettore. Il romanzo a frammenti promuove uno sperimentalismo linguistico, con il recupero di voci
arcaiche del Tre e del Cinquecento, di dialettismi e neologismi all’interno di uno stile allusivo che
allontana gli oggetti non riconducibili ad un solo significato. L’arte umoristica preserva la pausa
attiva della contemplazione n quanto richiede un lettore che si muta in coautore del libro; si
tratterà di rifiutare i ruffianesimi del romanzesco a favore di una letteratura di idee sottintese o
mezzo accennate, di prose intarsiate e preziose da penetrare. Pur in un contesto privo di risvolti
politici, l’elemento serio del riso prospettato da Tenca rivive attutito in una sorta di educazione del
lettore alla libertà d’idee. L’umorismo gioca con la funzione pedagogica della letteratura. Ne è un
esempio l’opera di Collodi, redattore di giornali di satira politica e di libri per l’infanzia, tra cui le
Avventure di Pinocchio, in cui persegue dietro lo schema di una favola una morale stralunata e
talvolta amara, collocando un burattino ingenuo fra le grettezze di un mondo insidioso e
paradossale. Collodi delinea nel 1881 il ritratto di un paese burocratico e furbesco che assume
tratti di caricatura scherzsa e amara di un’Italia incapace di rinnovarsi. Collodi godeva sicuramente
di un buon posto per cogliere quella comicità paradossale dei moderni apparati burocratici che
esplderà poi nell’umorismo onirico del Novecento. La comicità di Collodi nelle Avventure di
Pinocchio si avvale di una tecnica dell’assurdo semplice, fondato sul capovolgimento delle attese e
degli schemi narrativi più facili e usuali. Fin dal prinicipio Pinocchio è un oggetto inerte ma vitale,
la cui interiorità è come dominata da ritmi meccanici di circostanze immediate, assorbita dalle
situazioni in cui si trova. Nel momento in cui subentra la frammentarietà illogica dell’esistenza, il
contrasto umoristico non può che crearsi alla superficie di un mondo deformato dalla malignità,
dall’impazienza e dall’insesatezza. Il percorso di Pinocchio sperimenta la possibilità di diventare
uomini in un tempo in cui le determinazioni esterne sono sempre più pervasive e la libertà
individuale non ha valore se non sa trasformarsi; è un tema che verrà ripreso nel 900 cosi che il
personaggio diventa incapace di prendere consistenza all’interno di un mondo frivolo. Durante la
crisi del Positivismo, Henri Bergson rifletteva sul valore sociale del riso come strumento di
correzione del comportamento conformista. Alla sfera pratica dell’intelligenza Bergson
contrapponeva il movimento creativo dell’intuizione che permette all’io di coincidere con la
spontaneità del tempo interiore. Nel descrivere la coscienza come flusso ininterrotto, egli rifiuta
l’automatismo del pensiero analitico che si basa su un dualismo primario che deve bilanciare gli
squilibri della modernità: spazio e tempo. Nel libro Il riso di Bergson, vige il contrasto tra il
meccanico ed il vivente: il comico nasce quando il meccanismo si sovrappone alla vita
travestendola da fantoccio e il ris non sarebbe che la rivolta corale della spontaneità contro i gesti
ripetitivi dell’abitudine. Nella distrazione dell’io che non coincide più con sé stesso si insinua
l’automastismo del comico. All’umorismo ottocentesco, subentra il riso della gag, della comica che
esplode entro i ritmi rapidi della modernità. Nel 1896 Jarry inventava il personaggio violento e
grottesco del Re Ubu che porta con sé la sua coscienza chiusa in un baule. Nasceva così il gusto di
una comicità surreale propagandata dal movimento del Futurismo. Se tale movimento prevede il
superamento dell’angoscia e l’acettazione della modernità attraverso l’identificazione con la
macchina, vi è però un aspetto parodico che prevede il rifiuto della bellezza e l’esaltazione del
brutto. Il Futurismo nasce nel 1909 come una parodia dei miti logori del progresso; entro il mito
futurista della risata sovvertitrice si potrebbe collocare anche Palazzeschi con Il codice di Perelà.
Ma la nuova comicità è legata soprattutto al manifesto cruciale del Controdolore del 1914. Man
mano che la guerra diventava il tratto predominante del movimento, perdeva rilievo la linea
dell’umorismo festoso; e di lì a poco Palazzeschi sancirà il distacco dal movimento con una
dichiarazione sulla rivista “La Voce” dell’aprile 1914, non essendo in accordo con gli entusiasmi
interventisti sulle pagine di “Lacerba”, alle soglie della Prima guerra mondiale. Nel codice di Perelà
il principe Zarlino esprime l’idea che in una società che amministra il dolore, i sentimenti ed anche
il riso, la verità profonda deve per forza di cose risiedere nella superficialità, nella leggerezza nel
libero divertimento delle cose stupide. L’inadeguatezza dei riti e degli stereotipi sociali è causa di
di sofferenza fino a che li si prende sul serio rispettandone i limiti di applicazione, ma diviene
motivo di gioia non appena li si mescola alla superficie di un mondo sgretolato dalla fantasia. Nel
Controdolore c’è l’invenzione di un grottesco di società che avrà poi fortuna nelle avanguardie del
Novecento.
3.3 LA CATASTROFE DEL REALE
Accanto ad un umorismo antirealistico e astratto, importa riconoscere anche un’altra tipologia di
esperienze umoristiche che si misura con la rappresentazione minuziosa e realistica di una vita
oppressa, in cui il contrasto comico diventa sentimento tragico della modernità borghese. In
entrambi i casi la nuova arte del racconto mette al centro le figure della dissonanza e della
contraddizione, ma le impiega secondo modalità opposte: ora moltiplicando la frattura del comico
entro scansioni rapide, ora intensificando il discordante nella trama continua di un realismo critico
che mira a scomporre le maschere psicologiche e le convenzioni sociali dell’esistenza attarverso un
montaggio di frammenti della realtà. Hegel ha parlato di un umorismo oggettivo come ultima fase
dello sviluppo artistico moderno, in cui lo scrittore giunge ad immedesimarsi con la realtà esterna
nella sua nuda accidentalità, traendo dai fatti più irrilevanti delle verità profonde. Luigi Capuana,
lettore di Hegel, recensisce nel Novelle Rusticane di Verga affermando che l’umorismo di
quest’ultimo è l’osservazione acuta dello scrittore che prende corpo e vita. Lo stesso Verga
elogiava l’umorismo obbiettivo di Zola proprio per la sua capacità di trarre da situazioni di tutti
giorni le impressioni più profonde; ed è un giudizio che può applicarsi anche alle Novelle Rusticane
in cui il dettaglio comico deve condurre il lettore a riflettere sul dramma del personaggio: si pensi
all’incosapevolezza umoristica dell’oste Ammazzamogli che si dispera per la perdita dei clienti, e
non dei 5 figli morti di malaria. Man mano che l’intento di educare il lettore alla libertà cede il
posto all’osservaizone oggettiva, viene meno il bisogno di articolare lo spazio del racconto come
percorso da un punto all’altro. Quindi l’oggetto di studio diventa l’interazione tra i fattori solo
regressivi da cui nasce una serie di mutazioni individuali che si imporranno o soccomberanno in
una lotta per la supremazia che assume le forme di progresso. Descrivere le patologie comiche del
mondo borghese significa raffigurare a contrasto ciò che appare e ciò che invece non si vede e si
nasconde nelle profondità della vita sociale, al punto che anche parole come Giustiza e Libertà
risultano travestimenti ambigui dell’ipocrisia. Per dissacrare il negativo che trionfa il narratore
verista non può che fare leva sul montaggio di scene e punti di vista discordanti con cui si
identifica, all’insegna di un umorismo amaro che dagli esperimenti verghiani di Novelle Rusticane e
Mastro-don Gesualdo, passa a Viceré di Federico De Roberto, in cui c’è uno spaccato di storia
siciliana tra il 1855 e il 1882, tra la fine della dominazione borbonica e l’affermazione del Regno
d’Italia, attraverso la storia della famiglia Uzeda di Francalanza. Nel romanzo la genealogia di una
famiglia dispotica permette di delineare una galleria di personaggi degradati da manie e
ostinazioni, ipocriti nel contendersi il patrimonio di famiglia, fino all’adattamento vincente del
giovane principe Consalvo capace di integrarsi nel sistema di governo del nuovo Stato italiano. Se
quello che interessa al Verga delle rusticane è il dramma inconsapevolmente umoristico di
mediocri personaggi di provincia travolti e sconfitti dagli inganni della modernità, occorre
riconoscere che l’oggettivismo di De Roberto tende a sviluppare solo alcuni aspetti della
sperimentazione verghiana perchè il gioco dei contrasti e i pianti narrativi non portano mai il
lettore a vedere dall’interno il personaggio, ma si limitano a raffigurarlo da fuori. Pirandello
riprenderà la lezione verghiana mettendo al centro proprio il dramma comico del personaggio.
Mentre con le ultime novelle anche Verga si allontana da un oggettivismo scoprendo come la vita
sia commedia e finzione triste e derisoria, il giovane Pirandello adottava nell’Esclusa una
rappresentazione affatto oggettiva che cela un fondo umoristico, perchè pone una protagonista
seria come Marta Ajala a contatto con un mondo ridicolo e grottesco di norme e consuetudini
sociali prive di verità e significato. Il destino di sconfitta e di esclusione è imposto da equivoci,
preconcetti, stereotipi altrui travestiti da valori ideali, tanto che l’estraneità del personaggio non
risulta determinata da fattori oggettivi, ma fonda una sofferta esperienza di liberazione da vincoli
astratti e obbliganti della società. Già nell’Esclusa Pirandello delineava quello che diventerà il suo
tipico personaggio metaletterario di ideologo umorista, impegnato ad opporsi ai discorsi altrui e a
porre in dubbio ogni regola e convenzione per aprire un varco utopico verso le profondità
dell’esistenza. Come l’autore chiarirà nel saggio del 1908, vi è in gioco una nuova ricerca narrativa
che punta a riprodurre la marterialità della vita nella sua trama fatta di vicende ordinarie e
particolari comuni per scoprire poi i punti di frattura. Allo scrittore umorista compete l’acutezza di
uno sguardo mobile e riflessivo che non si limita a percepire i contrasti comici alla superficie delle
cose, ma a partire da essi si sviluppa il sentimento del contrario, cioè il rovesciamento di ogni
immagine nel suo opposto, secondo una continua associazione per contrarii che dalla derisione
porta ad immedesimarsi con il punto di vista anomalo del deriso. Secondo Pirandello, l’arte
umoristica scompone l’ordine convenzionale e costrittivo dell’esistente per liberare la possibilità di
un altrove, di un rapporto diverso con il mondo. L’umorismo si identifica ancora una volta, pur al
di fuori della storia, con il riso serio della libertà. Cosi Marta Alaja, una volta scacciata dal marito,
prende casa a Palermo nella strada in cui aveva combattuto il padre garibaldino. Ovviamente il
nuovo paradigma umoristico di Pirandello comporta una nuova configurazione del personaggio, nn
più concepito come carattere coerente, ma diviso tra più anime diverse e anche opposte, estraneo
alla coscienza sempre prigioniera della vuota astrazione delle parole. È una condizione analoga a
quella dei personaggi di Italo Svevo, segnati da una coscienza precaria, intermittente, sempre in
bilico tra mistificazione e disinganno, in un gioco casuale di incontri, fantasie, per cui anche la
parola si sdoppia e si contraddice per svelare una trama di bugie e di autoillusioni comicamente
mescolate pure ai fatti ordinari e irrilevanti della vita. Formatosi seguendo il grande umorismo
europeo, Svevo crea un antieroe apatico e influenzabile per misurarsi con una realtà discorde,
priva di certezze, in cui ciascuno deve procurarsi da sé le ragioni sostituendo la verità assente con
idee originali sulla vita e sul mondo. Proprio l’eroe incapace alla vita permette a Svevo di
distruggere dall’interno la lotta moderna per il successo, la ricchezza e la salute. Ed è un altro
esempio di un’ottica diversa: animato da risoluzioni eroiche e idealità convenzionali per rivalsa sul
proprio essere marginale, il personaggio sveviano inciampa nelle cose, attraverso una conoscenza
per fasi riesce a smascherare il tempo della menzogna borghese con superiore realismo. In una
visuale sempre frammentata, anche la parola singola diventa un avvenimento a sé che mescola
verità e bugie, impone un solo signficato, restando comunque prigioniera di contraddizioni
comiche e rivelatrici. Basti pensare all’ultimo capitolo della Coscienza di Zeno, in cui il
protagonista, dopo aver fallito, giunge a scambiare per grande salute il trionfo economico come
accaparratore di merci che specula sulla tragedia della guerra mondiale. Se la comicità dell’assurdo
scava il tragico per ricavarne una risata liberatoria e il realismo umoristico rappresenta l’anomalia
comica per scoprirne i drammi, non c’è dubbio che Palazzeschi e Pirandello costituiscano due
modelli distinti dell’umorismo del Novecento. Ma questa permette delle linee di intersezione e
diversi percorsi di ricerca tra cui rientra anche l’umorismo nero di marca surrealista con le
invenzioni metafisiche di Alberto Savinio. Ma l’interprete più lucido dell’umorismo europeo di
pieno Novecento è sicuramente Carlo Emilio Gadda con la sua prosa scombinata. Fin dal 1924,
negli appunti per il Racconto italiano di ignoto del Novecento, distingueva tra una maniera
umoristico-seria, attinete ai fatti e non al modo di esprimerli, e una strategia umoristico-ironica,
apparentemente seria, fondata sulla finta immedesimazione col personaggio cretinoski, anche sul
rimando ad una fittizia idea riferimento, in modo da combinare realismo pluriprospettico e analisi
dell’assurdo. Alla base della comicità gaddiana c’è la riflessione filosofica secondo cui conoscere
vuol dire sempre deformare il reale, perchè ogni fatto si iscrive in un meccanismo di causa-effetto
non delimitabile e quindi si tratta di attribuirgli significati diversi. Così Gadda costruisce una trama
a mosaico di vocaboli ironici in grado di smitizzare le frasi fatte; quindi il suo l’umorismo assume
proprio la frase come unità di misura, o la parola singola, come ingranaggio storico e sociale di una
determinata visione del mondo. Nella sua istanza etica l’analisi caricaturale dell’assurdo si unisce
ad un sentimento del contrario espresso per intervalli minimi e scarti di tono, dando vita ad una
scrittura in bilico tra parodia e lirica. Attraverso le catastrofi terribili del Novecento il riso della
libertà diventava cognizione del dolore. Nonostante il successo di Gadda che lo renderà
antesignano dello sperimentalismo della Neoavanguardia, la prosa umoristica del secondo
Novecento si chiuderà sempre di più nell’inautenticità del kitch e del luogo comune tra le
frivolezze di una società alienata e priva di memoria.

Cap 4- Il romanzo futurista


Marinetti è il più importante esponente futurista, creatore del romanzo futurista, basato su versificazione
libera, poemi e tavole parolibere. Il primo e unico manifesto su questo tipo di romanzo venne pubblicato
nel 1939, anche se moltissimi sono i testi che possono considerarsi ispirati alle tematiche trattate da questo
movimento.
FIlippo Tommaso Marinetti vanta un folto elenco di pubblicazioni, tra cui ricordiamo:
1) Mafarka il futurista,​ un vero e proprio romanzo pubblicato nel 1909 in francese e poi tradotto
l’anno seguente in italiano. Il testo utilizza gli stereotipi della narrativa popolare, con l’implicito
obiettivo di introdurre il prodotto ‘avanguardia’ nel consumo di massa. L’eroico condottiero
Mafarka genera con il solo sforzo della volontà e senza l’aiuto di una donna il figlio Gazurmah,
invincibile uccello d’acciaio, che nelle pagine conclusive vola trionfante verso l’infinito,
abbandonando la terra sconquassata da un cataclisma. Al centro dell’Oceano, però, si apre un
baratro e la descrizione dettagliata del tragico evento esprime la vocazione dell’avanguardia
futurista a catturare un pubblico ostile.
2) L’aeroplano del Papa, p ​ ubblicato in versi liberi e in francese nel 1912 e poi tradotto in italiano. Si
intreccia l’invenzione e l’incitazione da proclama, dispiegando a mani piene l’anticlericalismo,
antiparlamentarismo, il bellicismo austriaco e le spinte anarcoidi. L’autore immagina di trovarsi
condannato a una funerea inazione nel chiuso della sua domestica quotidianità e, spinto dall’ansia
di liberarsi, sogna di volare. Raggiunge così la Sicilia (emulo dell’impresa dei Mille) e ascolta le
istigazioni alle feste del fuoco. Vola su tutta la penisola, finché non rapisce il papa, visto come
carceriere della terra. I due dall’alto assistono alle lotte tra pacifisti ed interventisti e alla fine, dopo
averlo fatto dondolare sopra le teste degli artiglieri austriaci e cattolici, lo sgancerà, gettandolo in
pasto ai pescecani.
3) Battaglia Peso + Odore, è​ il primo racconto parolibero. Racconta la battaglia di Tripoli,
assecondando la percettistica dell’abolizione della sintassi, attuata abolendo gli aggettivi, avverbi,
tempi verbali, segni di interpunzione e lasciando spazio esclusivo all’infinito, ai segni matematici e
al sostantivo che rimanda immediatamente alla realtà fenomenica.
4) Zang Tumb Tuum, ​del 1914​. ​Ha per argomento la prima guerra dei Balcani, alla quale Marinetti
aveva partecipato. L’opera utilizza diversi corpi e caratteri tipografici, assieme alle più varie
modalità del discorso. Ci sono moltissime onomatopee. L’io narrante si mostra nell’atto di
orchestrare i colori, odori, suoni trasmettendo i valori della realtà bellica. Le intrusioni del soggetto
autoriale in apertura e in chiusura del romanzo- poema fanno da cornice alla narrazione simultanea
della guerra, riproducendone la sua totalità. Le parole vogliono farsi vedere più che farsi leggere,
sono organizzare in maniera particolare, unendo codice verbale e iconico. Grazie alle tavole
parolibere, il tempo viene ristretto o amplificato, effettuando la simultaneità di diverse azioni
narrative, donando al racconto un ritmo incalzante, verticale e diretto.
5) 8 anime in una bomba​, del 1919. Marinetti rievoca vicende autobiografiche sullo sfondo della
Grande Guerra, smembrando l’unità del soggetto e facendolo “esplodere” tra molteplici generi:
diario, epistolario, racconto, poemetto in prosa, poemetto parolibero…L’io narrante, messo in
scena in questa sorta di metaromanzo, individua all’interno della propria fisionomia psicologica
otto stati d’animo, ognuno dei quali trascritto mediante uno specifico carattere tipografico, in cui
non manca la reintegrazione della regolarità sintattica. In chiusura, dopo essersi ricomposte nella
simultaneità di un coro, le 8 anime esplosive chiuse nella bomba da 92 chili ditta Marinetti,
formeranno un’onomatopea di una grande esplosione.
6) L’isola dei baci, ​del 1918. La narrazione si incentra su un gruppo di raffinati ed estetizzanti
omosessuali riunitisi a convegno nell’isola di Capri. Con quest’opera Marinetti continua la sua
battaglia contro la morale perbenista, a favore di un comportamento sessuale libero dal
sentimentalismo.
7) Gli Indomabili, d ​ el 1922. Marinetti abbandona lo strumento parolibero per riattivare moduli grafici
e stilistici tradizionali.
Marinetti modella la nozione di arte e l’atto artistico sulle forme dell’azione bellica, esaltata come evento di
massima tensione agonica e di massima intensificazione della pulsione estetica. La guerra è raccontata
come grande avventura, dominata da un dinamismo di un’inesausta sensualità; non conosce soste e
continuamente protesa verso il superamento di un record. La fisionomia del testo è costituita
sull’interrelazione tra violenza bellica, ideali patriottici e impulsi sessuali. Secondo Marinetti, il nuovo
romanzo sintetico deve essere brevissimo e completo, inventato, attualistico, avveniristico, ottimista,
eroico, lirico, dinamico, aereopoetico e olfattivo.
Il caso Palazzeschi
Sotto l’egida marinettiana, Aldo Palazzeschi pubblica nel 1911 ​Il codice di Perelà, un’opera nuova e
originale, in piena coerenza con le norme del protocollo futurista che prescrivono la valorizzazione dei
prodotti patrocinati dal movimento come luoghi di esibizione e di intensificazione di un’organizzata
solidarietà di gruppo, sistematicamente conflittuale verso l’esterno. Il protagonista di questa storia è un
uomo di fumo, che dopo aver vissuto 23 anni in una cappa di un camino, giunge in un’anonima città. Qui,
per le sue insolite fattezze fisiche, viene accolto con entusiastica simpatia dal popolo e dai notabili.
Interrogato circa la sua esistenza, Perelà non fa altro che dichiarare la propria nichilistica leggerezza. Perelà
non ha identità etico-psicologica, è un’ombra che si fa avanti nel mondo come paradossale non identità,
sottraendosi ad ogni positiva realizzazione, non va alla ricerca di identificazioni. Il testo è composto da
scene, fatte da voci che si accavallano e sguardi puntati verso l’uomo di fumo. Lo scambio generalizzato di
occhi e voci non trasmette certezze comunicative, ma piuttosto induce una vorticosa successione di
paradossi ed equivoci. Il fraintendimento diventa la chiave di volta del romanzo, il suo principio costruttivo
e dinamico. La città, dopo aver osannato Perelà come essere privilegiato ed eccezionale, gli riconosce la
suprema oggettività legislatrice e riformatrice, demandandogli la funzione di compilare un nuovo codice.
L’uomo di fumo, soggetto privo di destino e forma, dovrà legiferare sul reale, dovrà ridare una forma
stabilizzatrice al sociale. Lui non ha peso sociale, eppure è ritenuto paradossalmente il più idoneo a pesare
le coscienze di tutti. Volendo imitarlo, anche il servo si dà fuoco, nella speranza di trasformarsi in fumo, ma
la responsabilità di quella morte è attribuita a Perelà. Tutti gli si rivoltano contro. Processato e condannato
alla reclusione a vita, l’uomo di fumo riesce a fuggire attraverso il caminetto della sua cella, scomparendo in
cielo. La stessa impossibilità di costituire un tessuto romanzesco tradizionale è strettamente interrelata con
l’impossibilità di trasmettere un messaggio compiuto. Perelà non può non deludere le attese di chi non ha
inteso l’enigma della sua anomalia. Fino alla fine si dimostra un uomo fatto di fumo, cioè di nulla:
figurazione di un’assenza corporea, psicologica ed etica.
Il romanzo dell’occulto
Tra gli autori che parteciparono alla svolta parolibera, è impossibile non menzionare Paolo Buzzi, autore di
L’ellisse e la spirale​, del 1915. I temi canonici del futurismo marinettiano (guerra, misoginia, superomismo,
mitologie tecnologiche) sono qui disposti nei moduli di una saga epica di fantascientifica stravaganza.
L’autore affida il suo racconto dapprima al veicolo di una gonfia e sontuosa sintassi, per poi approdare
all’asintattismo delle parole in libertà e delle tavole parolibere. Nel manifesto La Scienza Futurista, si legge
la necessità di rimettere in discussione i paradigmi di scienza ufficiale, bollata come passatista, percorrendo
i sentieri dell’inconoscibile.
Anche Conti può essere ricordato con il sui ​Imbottigliature del 1917, in cui fonde il visibile al tangibile,
tendendo all’irrealtà, al sogno e all’inconscio. Anche la moglie di Marinetti, Benedetta Cappa si dedicò alla
stesura di un romanzo sulle occulte realtà cosmiche, intitolato ​Astra e il Sottomarino​, con inserti diaristici,
lettere, fantasie oniriche e medianiche che narrano la storia d’amore tra la protagonista e un ufficiale
relegato in un sottomarino. L’occultismo futurista non mancherà di coniugarsi con il tema del sacro, come
in ​San Francesco in aeroplano​ di Spiridigliozzi.

CAPITOLO 7 FORMA BREVE E FORMA LUNGA


7.1 L’INVERSIONE DEL RAPPORTO TRA ROMANZO E RACCONTO
Verso il 1910, le vicende dell’homo fictus hanno compromesso le basi delle strutture romanzesche
tradizionali. I romanzi di fin de siecle divennero il campo di prova di una degenerazione sempre più
diffusa che si rifletteva poi sui tessuti narrativi, che come dice Nordau, sono cuciti mediante il filo
di una novella, ma sono presentati come romanzo. Si tratta, quindi, dell’inversione del rapporto
tra la forma breve del racconto e la forma lunga del romanzo. Rovesciando i romanzi
dell’Ottocento, il peso si sposta verso le narrazioni discontinue, frante; osservando la situazione da
questo punto di vista, anche la barriera del naturalismo sembra perdere di consistenza, se si
considera come la novella si evolve ed assume una sua specificità. Rispetto al romanzo, la sua
struttura si rivela corrispondente all’ideologia della modernità per la sua continua focalizzazione su
una realtà disgregata. Nella sperimentazione di nuove forme si riduce sempre di più il confine tra
romanzo breve e racconto lungo: ad esempio, due opere di Pirandello, il romanzo Il turno e la
novella Lontano; il primo pubblicato nel 1902 come romanzo, è ristampato con il sottotitolo
“Novelle di Luigi Pirandello”. Questo passaggio da un genere all’altro è possibile grazie alla sua
forma breve, un fenomeno ricorrente durante il modernismo, dove si attiva sempre di più il campo
di ibridazione tra racconto e romanzo. Lukacs definisce la novella come genere redento, quasi
accostabile alla tragedia classica; Boris Ejchenbaum contribuisce a tracciare questa particolare
evoluzione del genere breve, destinata quindi a perdere una totalità, cioè il romanzo. Se
nell’Ottocento era il racconto ad influenzare il romanzo, nel Novecento succede il contrario: ad
una narrazione lunga si sostituisce un tipo di narrazione ad episodi. La misura breve sembra essere
scelta per tutte le narrazioni del modernismo, tanto che anche dal lato del romanzo si diffondono
testi caratterizzati dalla disgregazione, quindi una struttura ad episodi, e da un ritmo irregolare.
Tale struttura da un lato si estremizza in una cura dei dettagli, e dall’altro libera i particolari da una
struttura unificante del grande stile: i frammenti disgregano la macrostruttura narrativa, mentre
sul piano dei contenuti, un fatto unico diventa un fatto casuale, quindi l’assurdo diventa una
regola abituale e coincide con una casualità priva di punte, che dentro il ritmo del giorno per
giorno rende il trauma una condizione permanente della soggettività, tanto che il fatto incredibile
si divide in episodi minimi. Un effetto di rallentamento nella trama è già percebile in Svevo,
quando rimette in moto la narrazione di Zeno, soprattutto la scrittura diaristica dell’ultimo
capitolo della Coscienza di Zeno. Si tratta di segmenti che lasciano all’evento narrato una zona di
indeterminazione, facendo riferimento alla definizione di personaggio-particella di Debenedetti,
cioè l’ultimo stadio di trasformazione novecentesca del personaggio-uomo.
7.2 QUANTI DI ROMANZO
Nel momento in cui Debenedetti accomuna le epifanie di Joyce con le intermittenze del cuore di
Proust allora si sta parlando di un comune stadio di visione, in cui le forme dell’immaginario
letterario del Novecento si uniscono alle leggi della meccanica quantistica. Paragonando il campo
narrativo con quello della fisica fatto di particelle, notiamo che il romanzo del Novecento è un
susseguirsi di esplosioni di oggetti e personaggi. Quindi l’idea di personaggi-particella può essere
allargata alla forma romanzo che ne avvolge le trame, fino ad intendere i frammenti narrativi
come quanti di romanzo. Carlo Dossi decide di scomporre il suo romanzo la Vita di Alberto Pisani
scritta da C.D nei frammenti di Gocce d’inchiostro; inoltre le sue Note azzure aprirono il varco ad
una lunga serie di scritture a piè di pagina, tali da dare forma nel Novecento ad opere procedendo
per accumulo di frammenti. Quindi a partire dall’opera di Dossi questa scrittura, che con appunti,
epigrammi, aforismi e ricordi commenta il mondo, percorre tutto il secolo. Tra queste scritture si
inseriscono anche i testi brevi di Scorciatoie e raccontini di Umberto Saba: mentre le liriche del
Canzoniere stavano prendendo la forma lunga del romanzo psicologico, dall’altro lato si
sviluppano brevi componimenti in prosa. Come i romanzi a episodi, anche queste scorciatoie della
scrittura si collocano agli opposti del frammentismo della prosa d’arte. Acquistando una loro
autonomia, questi frammenti narrativi sono delle totalità parziali, pertanto nel Novecento nascono
dei romanzi arcipelago che si espandono sempre più disarticolati. Queste scritture infine possono
essere considerate come corrispondenti letterari delle leggi della fisica. Nella meccanica
quantistica l’impossibilità di osservare il moto di un corpo senza turbarlo, la sua descrizione
avviene per salti; infatti Debenedetti afferma che le narrazioni del Novecento sono onde di
probabilità, che permettono di osservare il comportamento dei personaggi e delle trame. Quindi
contano le digressioni, le allegorie, il potere delle epifanie e delle intermittenze del cuore, e conta
anche che i frammenti narrativi tendano ad una tessitura chiusa che li contenga.
7.3 IL BISOGNO DI CONCHIGLIA
L’essere legati degli episodi in cui si sno frammentate le narrazioni, ha fatto parlare di racconti a
cornice, la cui struttura crea delle correlazioni a distanza tra le totalità dei diversi nuclei di
racconto, quindi un’architettura che possa raccogliere le forme brevi in cui confluiscono le
narrazioni moderniste. Nel corso del Novecento si apre sempre di più lo spazio di contaminazione
tra romanzo e racconto come vediamo in Calvino con le sue strutture combinatorie, o Gadda con
le sue opere nucleate in cui ogni capitolo sarà un agglomerato di realtà narrative. Intorno al 1920
riemerge il gusto per il romanzo; a partire da questo stesso anno la rilettura di Verga si affianca
alla scoperta di Svevo, e a quegli edifici romanzeschi che nascono di nuovo per un decennio, fino
alle nuove forme del realismo critico degli anni Trenta, inaugurato dagli Indifferenti di Moravia.
Borgese considera Tozzi il primo degli edificatori, con la sua costruttività opposta al
frammentismo, e lo considera tale perché lo vede capace di edificare come un narratore verista. I
romanzi dell’Ottocento continuano ad essere contaminati da nuove forme, le quali però non
aderiscono più. I destini del romanzo modernista non sanno più distinguere le forme, il bisogno
però di contaminare porta allo sviluppo di forme frammentarie all’interno di qualsiasi cornice. Se,
seguendo il concetto di Bachtin, associamo alla stanza la forma breve, e alla camera la forma
lunga, allora l’accumulo di stanze all’interno delle narrazioni sembra evocare l’immagine negativa
di un edificio in piedi nel crollo di tutte le certezze. Un esempio di questo concetto è la faccia di
Uomo senza qualità di Musil, la quale rivela la caduta delle travi di sstegno, cioè la facciata copre
un edifico vuoto. Questo è il tipo di romanzo modernista che continua a crescere: il mondo, ormai
in macerie, può solo inquadrare il nulla nascosto dalle costruzioni umane, portando allo scoperto
quella frattura di cui la Woolf parla dal 1910. La forma romanzesca del Novecento raccoglie al suo
interno frammenti narrativi.
7.4 COMUNICARE ATTRAVERSO I VUOTI: LO STILE TARDO DEL ROMANZO MODERNISTA
Il principio di indeterminazione di Heisenberg aveva reso scoperti i vuoti in cui si muovevano i
personaggi. Così anche i quanti di romanzo che, sia dentro forme brevi che forme lunghe,
percorrono delle orbite, distanziandosi tra di loro, nella perdita delle antiche strutture. Quindi non
contano solo i frammenti narrativi ma anche i vuoti che si allargano intorno ad essi; questi vuoti
consentono di associare le forme del romanzo novecentesco all’intempestività dello stile tardo che
per Edward Said caratterizza tutte le opere del modernismo europeo. Il diario che Zeno decide di
tornare a scrivere, diventa nella sua incompiutezza una delle postazioni migliori da cui osservare le
vicende di una forma romanzesca tardiva, in cui la rappresentazione della morte arriva solo per
rifrazioni ironiche. Nelle pagine del Vegliardo sveviano si accumulano vuoti su vuoti che possono
essere solo raccontati solo per frammenti, quindi contano i vuoti che si allargano tra le cose e si
accumulano dentro il campo visivo di Zeno vecchio. Said identifica la tardività con
un’inconciliabiltà irriducibile che lascia aperte tutte le contraddizioni. Inoltre, come sottofondo del
modernismo risulta risuonare la Nona di Beethoven, la cui inconciliabiltà catastrofica diventa un
prototipo della forma estetica moderna. Anche la totalità parziale dei frammenti narrativi in cui si
disperde il romanzo nel corso del Novecento comunica attraverso i vuoti dai quali prorompe.

Cap. 8- Il romanzo russo


Grazie all’intervento dello zar Pietro il Grande, la Russia a partire dall’Ottocento, cominciò ad avvicinarsi al
modello europeo. L’alfabeto e la scrittura erano arrivati da Bisanzio, insieme alla cristianizzazione e ciò
determinò il forte accento di sacralità accordato alla parola scritta. L’autore viene dunque visto come latore
di una missione di verità e di illuminazione. Nel suo sviluppo storico, la letteratura di stampo europeo in
Russia seguì 4 diverse fasi:
1) Nel 700 la Russia assimila il modello europeo, emulandolo
2) Il primo quarto del 19 secolo è caratterizzato dai primi tentativi di russificare il canone, con poca
attenzione sul romanzo.
3) Negli anni Trenta dell’Ottocento si individua la fase aurea: la letteratura è ormai indipendente dal
modello. Sono gli anni in cui si sviluppa il romanzo realista che influenzerà a sua volta la narrativa
mondiale.
4) Avanguardie russe, che sopravanzano quelle europee.
Il genio del poeta russo poteva essere individuato nella sua capacità di sintesi tra cultura di importazione
europea e russicità profonda. Il canone europeo è costante riferimento, anche se ben presto verrà
abbandonato a favore di uno stile proprio. La realtà occidentale appare insufficiente, parziale, una
riduzione di campo. Necessita di un allargamento e di un approfondimento.
La prima recezione della letteratura russa in Italia è legata alla pubblicazione a Parigi nel 1886 del volume ​Le
roman russe​, con cui venivano scoperti i 5 principali romanzieri russi: Puskin, Gogol’, Turgenev, Dostoevskij
e Tolstoj. Solo dopo questo libro, l’Europa cominciò a tradurre, leggere e commentare la letteratura russa.
Le principali critiche che vennero mosse a questi autori furono: la dismisura, l’assenza del freno nello
scandaglio delle passioni e dell’intimità dell’uomo, violenza morbosa, tendenze mistico-irrazionali e
insufficienza di gusto estetico.
Verga fu tra i primi a lasciarsi influenzare dallo stile russo, come si vede dall’incipit di Roba del 1880, con il
paesaggio siciliano che ha molti punti in comune con Anime morte di Gogol’. Anche altri autori come
Capuana o Oriani attingono alla letteratura russa, ma non possiamo mai parlare direttamente di plagio, ma
solo di curiosità e di entusiasmo verso una narrativa che immetteva nell’oceano letterario tematiche e
modalità rappresentative del reale fino a quel momento inaudite. Ad essere recepiti sono soprattutto i
tratti morbosi dei romanzi russi. Occorre precisare che queste letture, su cattive tradizioni francesi o
pessime ritraduzioni italiane, erano mutile, semplificate e ingentilite per la massa. Non consentivano di
cogliere gli aspetti originali della poetica e dello stile dei russi. I difetti delle traduzioni, però, non
impedirono l’innamoramento di alcuni autori, tra cui Gabriele D’Annunzio, che a Parigi legge le versioni
francesi dei principali autori russi. Lui tentò di innovare la narrativa nazionale attraverso un esperimento di
ibridazione, anche se non fu del tutto convincente. Riprese da Dostoevskij alcuni personaggi, adattandoli a
descrizioni europee, dando vita a opere come ​Giovanni Episcopo del 1892 che è un richiamo a ​Delitto e
Castigo.​ IL personaggio che racconta in prima persona ha la facoltà di essere soggettivo o contraddittorio, di
mostrare e nascondere alternativamente le proprie reali pulsioni, di fornire una confessione poco credibile
perché contaminata dall’incertezza della personalità stessa. A partire da D’Annunzio, questa anti
confessione dostoevskiana del sottosuolo diventerà anche nella letteratura italiana uno dei procedimenti
più fertili. A rallentare l’assimilazione artistica matura del romanzo russo in Italia contribuiva anche l’essersi
creata a cavallo tra due secoli una divaricazione tra una sua ricezione di consumo e una d’elite. La prima è
rappresentata da una solerte industria editoriale che sforna a decine libri russi, nelle traduzioni sciagurate,
lette da un pubblico ampio e poco esigente. Diventa dunque una moda, capace di ispirare torbidi
romanzetti d’appendice.
La recezione di Tolstoj tra il 1890 e il 1920, è legato al suo pensiero filosofico-religioso, mentre la parte
narrativa della sua produzione di rado veniva commentata o presa in considerazione. I suoi racconti e i suoi
romanzi vengono letti e pian piano si inseriscono nel contesto culturale italiano.
Una conoscenza più completa e scevra di pregiudizi sulla letteratura russa prende avvio con gli anni Venti
del Novecento. Tra i fattori principali per questa trasformazione: la nascita della slavistica italiana, la
comparsa di traduzioni compiute con competenza e la centralità della Russia nell’età della rivoluzione. Non
a caso gli scrittori della Prima Guerra Mondiale come Svevo o Slataper che potevano avere accesso a
traduzioni tedesche, avevano un’idea molto più dettagliata rispetto ai loro contemporanei. La presa di
consapevolezza del valore delle traduzioni avrebbe rivoluzionato il quadro solo a guerra terminata. Le
buone traduzioni funzionarono da antidoto contro il provincialismo tardo-ottocentesco di un’Italia arretrata
che si confortava di essere l’erede della tradizione classica. Tra il 1925 e il 1935 Alfredo Polledro si occuperà
di divulgare quasi tutti i capolavori letterari russi in ottime traduzioni e critiche complete. Sono gli anni in
cui la narrativa italiana coltiva nella maniera più ampia le proprie affinità con quella russa, in opere come
Rubè d ​ i Borgese, ​Perduto amore di Fracchia e ​Velia ​di Cicognani, fino alla dichiarata dipendenza di Moravia
dalla maestra dostoevskiana. Un altro grande autore che è presenta concrete affinità con Dostoevskij pur
mantenendo la distanza, è Gadda. Lui sviluppa con costanza non solo nei capolavori del dopoguerra, ma
anche nella sua fase giovanile, l’idea dello starec Zosima dei ​Fratelli Karamazov,​ ovvero il riconoscimento
del gravame comune delle colpe. Non meno profonda e pervasiva è l’influenza di Tolstoj sul romanzo
italiano di ambedue le metà del Novecento. Nella prima, la narratività tolstojana trovò un corrispettivo nel
Mulino del Po di Bacchelli, che traslò l’epica dello scrittore russo in una chiave rurale padana. Con la sua
narrazione cristiana e moralista. Tolstoj è abbastanza in linea con la tradizione manzoniana, a differenza
della spiritualità paradossale e conturbante di Dostoevskij: esse raccolgono favori contrapposti.
La letteratura russa può essere divisa in 2 correnti​: ​Rasskaz (racconto lineare, dove la narrazione si ferma a
un aneddoto, una situazione o uno schizzo) e ​Povest (romanzo ridotto per dimensioni e per la complessità
della trama, ispirato alla narrazione orale). È possibile ritrovare l’influsso dei ​Povest russi soprattutto in
alcune opere di autori come Landolfi, che l’hanno maneggiata come traduttori e successivamente si sono
avvicinati come scrittori. Una tecnica molto particolare è quella dello ​Skaz​, volto a imitare una narrazione
orale e connotata. Il Novecento italiano ha assimilato l’urgenza di fornire una narrativa del presente,
fortemente ancorata all’oggi e capace di penetrare sia nella psicologia che nella spiritualità, comunque
intesa, dei mondi letterari, dando loro voce diretta.

CAPITOLO 10 (PAOLO TRAMA)


10.1 DI QUALCHE MITO STORIOGRAFICO DA SFATARE
Il romanzo, nel corso del suo sviluppo ottocentesco, ha visto lo statuto del narratore subire una
metamorfosi strutturale ed estetica. Minata la sua onniscienza, la funzione del narratore può
compiere due funzioni opposte: o si assolutizza la sua posizione di osservatore esterno non
giudicante i cmportamenti dei personaggi, fino ad eclissarsi (verismo); oppure il suo ruolo si
restringe a quello di testimone-commentatore, come accade nel romanzo d’analisi psicologica.
L’abbandono dell’onniscienza giudicante del narratore si accompagna all’avvento e
all’affermazione di un modello di soggettività che smonta l’idea che l’io e la personalità siano
strutture permanenti, così che allo scrittore toccherà costruire delle strutture narrative a più
dimensioni per superare gli stessi pensieri del personaggio, dando rilievo a quella che potrebbe
essere definita come soggettività oggettiva. Quindi sarà necessario scrivere anche ciò che il
soggetto ignora di sapere, così il soccorso dello sguardo analitico esterno o della focalizzazione
interna non saranno più sufficienti, e sarà necessario fare ricorso a nuovi procedimenti in grado di
dare forma a una nuova soggettività strutturalmente scissa. Se si osservano questi fenomeni dal
punto di arrivo che è il romanzo modernista, è utile ricorrere alla categoria di realismo soggettivo
che viene realizzato attraverso delle nuove soluzioni tecniche, come il flusso di coscienza di Joyce,
proprio per rendere un universo in frantumi che però va reso con un approccio realistico. Il caso
Svevo è emblematico: dall’indagine rivolta ai moti interiori del personaggio dei primi due romanzi,
si giunge poi nella Coscienza di Zeno, all’assunzione da parte dell’io narrante della responsabilità
dell’autoanalisi mettendo in campo quello che può essere definito narratore autodiegetico
inattendibile. Quando si evocano capolavori della modernità come Joyce, Kafka, Woolf, Proust,
Pirandello, Svevo, si dà quasi per scontato che tali scritture contemplino l’influenza determinante
della psicoanalisi. Queste opere, per quanto diverse, sono accomunate da una critica radicale
verso il romanesque; il personaggio che agisce secondo meccanismi verisimili di causa-effetto, e
l’onniscienza giudicante del narratore, in grado di scrutare tanto dall’esterno i comportamenti dei
personaggi, quanto dall’interno i loro pensieri, sapendo tutto ciò che accade in loro. In linea con
questa revisione, la scienza freudiana avrebbe spinto a fare i conti con l’inconscio come punto
instabile di osservazione indirizzato ad una soggettività scissa. Per lungo tempo è sembrato quasi
implicito che l’ampio uso di poetiche e di soluzioni diegetiche adotatte dalla narrativa modernista
sia stato generato da un’aspra reazione al Positivismo sul piano filosofico e ai canoni del
naturalismo sul piano estetico. Da questa semplificazione storiografica derivava l’idea che per
individuare un tracciato lineare che rendesse conto delle scritture narrative del primo Novecento,
bisognasse risalire alle poetiche del decadentismo fine secolo. Come se il poeta si fosse visto
costretto a rinchiudersi nel suo ego, abbandonando la pretesa di rappresentare il realismo della
società intorno a lui. In Italia, uno strumento che consentirà a Svevo di accedere a forme della
narrazione più raffinate nella restituzione di un io esistenzialmente tormentato dalla nevrosi sarà
appunto la conoscenza diretta della psicoanalisi. Una revisione storiografica del genere non poteva
che definire il decadentismo un termine tropo generico rispetto a momenti diversi dello sviluppo
delle forme letterarei, da qui la necessità di importare dalla storiografia anglosassone il termine
modernismo, che ha il pregio di delimitare i confini cronologici della produzione letteraria italiana.
Il modernismo si caratterizza da un lato per una presa di distanza dall’esasperat soggettivismo
delle avanguardie, dall’altro non mancherà alla maggior parte degli autori in questione una
volontà di confronto critico con i presupposti etici del Realismo ottocentesco, compresi quelli del
Naturalismo e Verismo. Questa linea interpretativa ha avuto il merito di riuscire ad avere contatto
con le innovazioni delle estetiche, poetiche e pratiche artistiche sviluppate in tutta Europa. Grazie
alla diversa periodizzazione è stata possibile la creazione di un canone ancora in formazione, ma al
centro del dibattito in corso si ritroveranno i testi caratterizzati da una ricerca letteraria
sperimentale. In particolare il riferimento è alle opere di Pirandello, Tozzi e Svevo che
intrattengono rapporti più complessi con le correnti del Naturalismo, Verismo, Decadentisimo,
simbolismo ed estetismo. In questo panorama poi si giocherà la ripresa della narrativa lunga che si
può datare dagli anni Venti, infatti in questi anni vengono pubblicato Con gli occhi chiusi di Tozzi,
La coscienza di Zeno di Svevo, I quaderni di Serafino Gubbio operatore di Pirandello, cioè opere
che entreranno a far parte del canone del romanzo moderno italiano. Sono romanzi che non
rinunciano a confrontarsi con Naturalismo e Verismo, ma che prendono le distanze dal
Decadentismo.
10.2 LA LUNGA TRANSIZIONE AL MODERNISMO
Secondo Guido Mazzoni già nelle opere di Eliot, Dostoevskij, Flaubert, le impalcature del
paradigma ottocentesco convivono con strutture che anticipano il modernismo. Così la transizione
a quest’ultimo inizierebbe già nell’Ottocento, generando una fase di eclettismo. Se già nel 1890 sta
avvenendo la metamorfosi, il punto di svolta si avrebbe nel 1910 quando il modernismo entra
nella fase più matura. Dunque se il romanzo, sin dalle origini, ha privilegiato l’analisi dei caratteri e
delle passioni, a partire dall’Ottocento si può individuare una svolta nell’approccio con cui si
affronta la rappresentazione della soggettività ricorrendo a delle soluzioni tecnico-formali. Due
fattori possono rispondere alla domanda riguardo le radici del romanzo moderno, se le ha nel
naturalismo o nel decadentismo di fine secolo. 1) nell’Ottocento il romanzo subisce sempre di più
dell’influenza della psicologia e della psichiatria medica, discipline che in Francia vanno elaborando
un paradigma scientifico di descrizione, osservazione e interpretazione della psiche che anticipa
quello psicoanalitco. Quindi c’è un diverso modo di intendere il soggetto che una volta invaso lo
spazio letterario, sarà capace di influenzare tutti gli schieramenti. 2) quando si vanno a verificare i
rapporti che gli scrittori novecenteschi hanno con i loro predecessori, resta aperta la questione dei
debiti contratti dal romanzo modernista ne confronti della produzione narrativa del secondo
Ottocento che si richiama sia alle poetiche simboliste in generale sia alle poetiche del Naturalismo
e Verismo. A questo punto bisogna ridefinire le due questioni, prima di inoltrarsi nella testualità di
romanzi che sia per data di pubblicazione che per caratteristiche tecniche e formali siano
riconducibili a un’oscillazione di poetiche e di soluzioni tecniche caratteristici di una fase ritagliata
cronologicamente nell’evoluzione del genere romanzesco. L’ottica deve essere ristretta alle opere
di narrativa lunga che enfatizzano la ricerca di linguaggi e tecniche che restituiscono la sfera
psichica.
10.3 LA CRISI DEL “SOGGETTO ATOMO”: PSICOLOGIA E PSICHIATRIA NELLA FRANCIA DELL’800
Già prima dell’affermazione della psicoanalisi, psicologia e psichiatria vengono costituendosi come
discipline autonome, sulla base del diffuso paradigma delle scienze sperimentali, grazie
soprattutto alle attenzioni che ad esse vengono date in Francia. L’affermazione e la diffusione del
metodo positivo sono i fattori che determineranno l’acquisizione di uno statuto epistemologico,
sempre più distinto da quelli della filosofia morale e della fisiologia medica. Almeno a partire dagli
anni Sessanta, ma in particolare tra il 1880 e il 1900 la prima psichiatria dinamica venne accettata
dalla medicina ufficiale e conoscendo così una grande diffusione. Dunque l’evoluzione romanzesca
è in linea con la diffusione di modelli teorici di tipo scientifico; e si può osservare un forte
collegamento tra esorcisimo e magnetismo, tra ipnotismo e granndi sistemi della psichiatria
dinamica. Questo approccio mette in discussione l’unità della personalità e dell’io. Rimbot definiva
la personalità come un fenomeno variabile, un aggregato di poli di coscienza in continuo
assestamento, secondo un modello plurale dell’io. Inoltre, è significativo il contributo che la
letteratura aveva offerto alla messa in discussione dell’io come entità, senza che però i romanzieri
e i drammaturghi avessero mai raggiunto gli esiti derivati dalle loro intuizioni. Binet esprime invece
la sua idea di coordinazione di tendenze e stati psichici, affermando che la nostra intelligenza è
fatta di avvenimenti interni e che l’unità del nostro spirito deve essere cercata nella coordinazione
di tutti questi avvenimenti. Bourget, con Essais de psychologie contemporaine, fa da mediatore tra
la scienza psicologia e la critica letteraria. In Italia è D’Annunzio a recepire le recenti scoperte in
questo campo, per poi ricondurle verso le poetiche romantiche-simboliste; egli afferma che gli
psicologi servono per usare un vocabolario ricco per individuare la psiche dei suoi personaggi. Da
un lato elogia la precisione scientifica e dall’altro recupera l’analogia e il simbolismo; il lessico che
usa da un lato sono parole scientifiche e dall’altro sono classici esempi del decadentismo. Dal
punto di vista culturale la Francia è arrivata a dire che la psiche è una struttura complessa che si
sviluppa nel tempo e nello spazio, nel tempo perchè c’è l’evolzione di personalità che si possono
succedere e nello spazio perchè le istanze che si combattono dentro la psiche nono sono ordinate.
10.4 PER UNA NUOVA SOGGETTIVITA’ ROMANZESCA: REALISTI VS IDEALISTI
L’elaborazione di questo nuovo modello di soggettività sembra coincidere con quella che si può
definire come la lunga fase di transizione al nuovo romanzo modernista. C’è stato però un
momento storico preciso in cui questa fase di sperimentazione ha affrontato un acceso dibattito,
che ha visto coinvolte posizioni diverse tanto in relaizone all’approccio estetico-letterario, quanto
a quello ideologico-politico. Il momento topico è la battaglia culturale che si svolge in Francia a
partire dal 1880; è una partita che vede schierati da un lato i naturalisti e dall’altro gli idealisti, cioè
da un lato il romanzo realista ereditado da Balzac e Flaubert e dall’altro i sostenitori di un romanzo
psicologico. Anche se sotto idee diverse, la posta in gioco è in parte la stessa: la restituzione della
profondità psichica; ed entrambe le parti si rifanno alle scienze mediche, fisiologiche e
psicologiche. In Francia il naturalismo ha giocato un ruolo essenziale nell’ambito della politica e
della cultura del paese. Il conflitto ruota intorno a delle parole impiegate dai naturalisti come
“scienza”, “progresso”, “critica sociale”, che ora sono accusati di aver trasmesso una nozione di
pessimismo nichilista al paese; mentre la fazione opposta sostiene la necessità d riabilitare
concetti come “ideale” e “anima”. Quinci c’è un passaggio dalla sociologia alla psicologia, dallo
studio dei comportamenti ai sondaggi nella profondità dell’anima. Zola con il suo romanzo
naturalista, proverà a rendere la psiche, come Il sogno e La bestia umana, che sono risposte alle
critiche secondo cui il romanzo naturalista non sarebbe stato in grado di affrontare le nuove
scienze della psiche. Anche in Italia, guardando a romanzi come Giacinta di Capuana, o Senilità di
Svevo, e L’esclusa di Pirandello fino al fu Mattia Pascal, possiamo notare come anche qui le
modalità di trattamento del tema della nevrosi e della follia attraversano una fase di
sperimentazione. Rispetto alla Francia, in Italia il dibattito si complica, in quanto depotenziato nei
suoi aspetti politico-idelogici; il Positivismo in Italia non ha mai giocato il ruolo di filosofia
progressista, diventando strumento di analisi dai connotati pessimistici. La reazione allo schema
precedente rischia di portare ad una confusione tra giudizio estetico e l’intenzione dell’opera,
facendo perdere di vista i confini con la fase di transizione con la compresenza di procedimenti che
ha poi costituito un terreno fertile per le soluzioni narrative del 900. Quindi si può riprendere
Verga dal progetto dei Vinti rimasto incompiuto al momento di confrontarsi con la riproduzione
artistica delle classi alte: educazione, civiltà e linguaggio divengono delle sovrastrutture che
nascondono il fondo comune delle pulsioni umane. Da qui alcuni scrittori sarebbero ripartiti alla
ricerca di nuove soluzioni narrative; e si vede come Pirandello, Svevo, Fogazzaro hanno l’esigenza
di confrontarsi con la dimensione altra del personaggio. Il compito del romanziere, sarà quindi
quello di indagare la singolarità dei caratteri, ma soprattutto il mistero dell’anima senza indugiare
troppo sugli aspetti atipici enfatizzati dalla scuola realista. E in seguito D’Annunzio rovescerà la
gerarchia scienza/letteratura, recuperando la forma artistica essendo la sola che riesce a rendere
manifesti i rapporti nascosti tra i fenomeni interiori.
10.5 ASPETTI STRUTTURALI, TEMATICI, LINGUISTICI
Nella seconda metà dell’800 sono sorti nuovi testi narrativi che si basano sull’analisi psicologica e
su una nuova idea di soggettività. Le soluzioni tecniche e le scelte tematico-stilistiche non
necessariamente compaiono in tutti i testi scrutinati e soprattutto si traducono in effetti narrativi
difformi. Le opere selezionate oscillano tra due poli riconducibili alle poetiche dell’Ottocento:
realismo critico e analitico da una parte, e simbolismo ed estetismo dall’altra. La ricerca di questi
autori è orientata verso procedimenti in grado di dare forma alle dimensioni nascoste della psiche.
Le soluzioni tecnico-formali danno un duplice versante della soggettività incarnata dal
personaggio: una spinta centripeta alla rapresentazione dell’interiorità soggettiva che ha bisogno
di nuovi linguaggi per essere riportata nella sua complessità; e una spinta centrifuga, che prevede
un punto di vista soggettivo attraverso la propensione verso un’agolazione precisa. L’intero corpus
si caratterizza per la centralità dei temi della patologia nervosa da cui sono colpite le figure
femminili come Fosca, Ippolita; mentre i personaggi maschili sono colpiti da una debolezza della
volontà, appaiono quindi ascrivibili alla categoria dell’inettitudine. Proprio per questo, tra i
personaggi comprimari appare la figura del medico, quasi sempre in grado di far fronte alle
manifestazioni patologiche che affligono le protagonista femminili. In altri contesti narrativi questo
sapere può vacillare, soprattutto dove c’è una grande dose di mistero scaturita da fenomeni che
impediscono l’applicazione dei quadri diastognici. Molto alto è il tasso di autobiografismo, che
proietta spesso sui protagonisti l’ombra dei loro autori, e non vale solo per i protagonisti maschili,
ma anche per quelli femminili. Questa presenza è stata definita effetto stereografico, indicando il
fatto che molte opere riportano ad altri testi non narrativi dei loro autori, come diari e lettere, da
leggersi in parallelo. La crisi del naturalismo, e quindi della resa oggettiva dei pensieri del
personaggio, comporta la revisione del modello zoliano. Lo scrittore avverte una riduzione del
campo di rappresentablità sociale che si traduce in esigenza di proiezione della dimensione
personale come punto da cui partire per scrivere. Il gioco dei doppi non si ferma all’extra e
intratestuale, ma riguarda anche quel sistema in cui i personaggi si organizzano in modo logico e
che subiscono una scissione tra due classi di personaggi: ad una parte è dato ampio spazio, mentre
gli altri sono oggetto di trattamenti descrittivi assai sbrigativi. Sono prevalenti i casi in cui da un
lato si fronteggiano un protagonista inetto e un antagonista portatore di salute, e dall’altro quello
in cui la figura femminile si sdoppia, agli occhi del protagonista, tra due immagini contrapposte ma
complementari. Inoltre viene spesso enfatizzata l’eccezionalità del protagonista nel senso di un
marcato distacco dalla medietà, ora per un complesso di inferiorità o per una superiore dose di
intelligenza. Ora, per esempio, in Andrea Sperelli, il disaddatamento darwiniano non impedisce
alla maschera dell’inetto di sovrapporsi a quella dell’esteta. Le soluzioni tecniche privilegiate sono
la focalizzazione interna e il discorso libero indiretto: in molti romanzi precedenti a Il fu Mattia
Pascal e La coscienza di Zeno, in cui c’è coincidenza tra io narrante e io narrato, la voce resta
esterna, ma si assiste ad una restrizione della focalizzazione alla coscienza del protagonista, con un
commento dall’esterno sulle lacune della sua consapevolezza. Questa funzione di testimone e
commentatore, fa si che la dialettica tra narratore e personaggio oscilli tra un’adesione empatica e
un distacco marcato di stampo moralista; fino alla critica corrosiva e all’ironia e al sadismo
analitico. Da un punto di vista strutturale, si vede che la sfiducia al romanesque viene alimentata
fino all’allenamento dei nessi causa-effetto. Però la rilevanza del dettaglio spesso sconfina in
procedure di tipo simbolista che si ritrovano nella descrizione del paesaggio. Di certo non
mancano meccanismi del romanzo naturalista, che si avvertono in campo anche morfologico. Dal
punto di vista linguistico, frequente è la mescolanza nelle descrizione psicologiche di un lessico
astratto-romantico e uno di tipo concreto-fisiologico. Così il romanzo psicologico premodernista
mostra da un lato la sua instabilità e dall’altro le sue potenzialità e lo sviluppo delle sue tecniche.

CAPITOLO 11 LA COSCIENZA DI ZENO


11.1 LA MATERIA DEL NARRARE
La coscienza di Zeno è la storia di un uomo in cerca della guarigione da una malattia che non riesce
a definire e di cui non conosce le cause. A 57 anni, su consiglio di uno psicoanalista, Zeno comincia
a scrivere la storia della sua vita con l’intento di rintracciare le origini della sua sofferenza. Italo
Svevo, per mettere in scena la vita del suo personaggio si serve del topos del manoscirtto
ritrovato, rivisitandolo ironicamente: finge che le memorie siano state conservate e date alle
stampe dello psicoanalista a cui Zeno si rivolge per curare la sua malattia; il medico vuole così
vendicarsi di quel paziente che aveva interrotto la cura all’improvviso. Nella Prefazione il dottor S.,
iniziale che può alludere all’autore stesso, a Freud o a Wilhelm Stekel che aveva conosciuto di
persona, si presenta al lettore scusandosi per aver indotto il paziente a scrivere un’autobiografia
essendo un poco frequente nel processo di psicoanalisi. Segue poi il Preambl, in cui Zeno comincia
a raccontare in prima persona il suo passato, ma la narrazione autobiografica vera e propria inzia
dal terzo capitolo, Il fumo, in cui il protagonista rievoca i suoi tentativi fallimentari per liberarsi da
un vizio che non lo abbandonerà mai. Nei capitoli successivi, Zeno ripercorre le tappe
fondamentali della sua esistenza, ordinandole per nuclei tematici: segue un ordine non solo
temporale ma va per analogie. L’ultimo capitolo è scritto sotto forma di diario: Zeno ricorda alcune
sedute di psicoanalisi, racconta sogni e ricordi di infanzia che ha sottoposto all’analista, dice di
aver abbandonat la cura per via di alcuni disaccordi con il medico e che si è dimenticato di farsi
ridare il manoscritto. Le ultime pagine del romanzo registran la vittoria di Zeno sulla malattia, in
quanto ha raggiunto la consapevolezza di odiare le cure. Nella pagina di diario finale c’è una lunga
riflessione sulla natura dell’uomo contemporaneo, con una dominanza dei tempi del presente e
del futuro e la presenza di un tono profetico. L’originalità del romanzo sta nel trattamento del
tempo: alcuni avvenimento vengono rievocati minuziosamente, altri sono descritti in poche righe;
fatti di poca importanza finiscono per assumere maggiore peso rispetto ad eventi cruciali o a
informazioni importanti per il lettore che Zeno omette. Il concetto di tempo misto è riconducibile
alla sovrapposizione tra tempo della storia, successione cronologica degli eventi vissuti da Zeno, e
il tempo della narrazione, che ha il centro nel momento in cui Zeno comincia a scrivere le sue
memorie. Si può dire che La coscienza di Zeno appartiene ai capolavori del modernism europeo, in
quanto come altri autori ha contribuito a ridisegnare i confini e le forme del romanzo. Con il suo
terzo romanzo Svevo introduce una novità, cioè che non è più il narratore onnisciente a
raccontare, ma è il protagonista stesso, quindi è una narrazione in prima persona. Tutte le
caratteristiche degli inetti di Svevo devono scaturire dal discorso stesso del personaggio, quindi si
avrà un racconto pieno di contraddizioni ma che allo stesso tempo rivela e nasconde. Nella
Coscienza di Zeno, l’autore affida ai commenti dei personaggi il compito di svelare le verità e
bugie. Ci sono poi delle incongruenze nell’autobiografia di Zeno che non vengono rilevate da
nessuna delle voci presenti nel racconto, ed è per questo motivo che sta al lettore smascherare le
bugie raccontate da Zeno. Le affinità fra la biografia di Svevo e la vita dei suoi personaggi sono
state più volte individuate e analizzate, tanto che le figure di Svevo e di Zeno finiscono per
sovrapporsi almeno parzialmente. La psicoanalisi freudiana di cui si serve Svevo si rivela uno
strumento importante anche per la creazione di un personaggio tanto più credibile quanto più
soggetto a a errori di prospettiva.
11.2 STORIA DEL TESTO
Svevo inizia a scrivere il suo terzo romanzo nel marzo del 1919, e il progetto si protrae fino
all’estate del 1922. La fabbrica di vernici in cui aveva lavorato dal 1899 era stata chiusa allo
scoppio della guerra; il 4 dicembre 1917 la ditta e la villa Veneziani vengono bombardate e
distrutte. In questo periodo di forzata inattività legge alcuni testi di psicoanalisi e nel 1918
comincia a tradurre il breve testo di Freud Il sogno. Nella primavera del 1923, pubblica a sue spese
La coscienza di Zeno presso l’editore Cappelli, che impone come clausola la revisione linguistica e
stilistica del romanzo, affidata ad Attilio Frescura. Quest’ultimo alla fine del lavoro avvalorò la tesi,
condivisa da molti, che Svevo scrivesse male: il suo stile asciutto modellato sulla sintassi tedesca,
infatti, non piacque ai contemporanei. Le recensioni al romanzo furono scarse e non positive,
tranne il giudizio del suo amico Benco, il quale si sofferma a considerare l’originalità del romanzo
nel panorama italiano, avvicinandolo a modelli tedeschi ed inglesi. Nel 1926 i riconoscimenti per
Svevo si fanno più numerosi, e ciò rappresenta la realizzazione di un sogno, tutto testimoniato da
lettere di quegli anni destinate ad accompagnare e conslidare il successo, oltre a creare la
leggenda di un romanzo nato da un’idea improvvisa, scritto dopo 25 anni di completa astensione
dalla letteratura.
11.3 “UN’AUTOBIOGRAFIA E NON LA MIA”
Le radici del personaggio di Zeno sono rintracciabili già in Diario per la fidanzata, in cui Ettore
Schmitz si presentava alla futura sposa con caratteristiche simili a quelle di Zeno, cioè con il vizio
del fumo, le promesse non mantenute, il desiderio di guarire da una malattia di cui non si conosce
l’origine. Lo stesso Svevo definisce il suo personaggio come fratello di Emilio e di Alfonso, ma la
grande novità rispetto ai romanzi precedenti sta nell’utilizzo della prima persona. Inoltre l’autore
riconosce l’importanza della psicoanalisi nella genesi del romanzo. In una delle sue lettere scrive
che il suo terzo romanzo è nato da un esperimento di psicoanalisi fatto su sé stesso. Zeno racconta
la sua vita attraverso pochi episodi fondamentali che corrispondono ai 6 grandi capitoli del
romanzo: Il fumo, La morte di mio padre, La storia del mio matrimonio, La moglie e l’amante,
Storia di un’associazione commerciale, Psico-analisi. La struttura del romanzo presenta due piani
temporali: il presente della narrazione e il racconto degli avvenimenti passati. Il primo copre due
anni di vita, mentre il secondo circa sei anni; i due piani si intersecano continuamente: il racconto
ridetermina il passato alla luce del presente e ne fa un’esperienza nuova. La ricostruzione fedele
della storia è vanificata da altri due fattori, l’ironia del narratore e la sua disposizione alla bugia. A
differenza di Emilio e Alfonso, Zeno sa ridere di sé stesso e si ritrova molto spesso nella parte del
giullare; Zeno inoltre si presenta come bugiardo. Per quanto riguarda i suoi ricordi, la voce che li
racconta è quella di un narratore inattendibile, di cui il lettore non si fida. Alla fine della prima
pagina del romanzo è già possibile percepire una differenza tra i tre narratori dei romanzi di Svevo:
abbiamo un narratore distante ma onnisciente in Una Vita, uno sempre onnisciente, ma
occasionalmente ironico in Senilità; e un narratore personaggio che ci viene presentato dal dottor
S come bugiardo. Inoltre quest’ultimo si trova nella posizione di colui che deve confessare i segreti
più imbarazzanti della sua vita. La lettura di Freud permette a Svevo di avere la possibilità di
ricorrere ad un racconto che si muove nell’incertezza ed è esposto alla contraddizione.
11.4 SVEVO E LA PSICOANALISI
Svevo, come notiamo nella presentazione che fa del suo rapporto con la psicoanalisi, afferma di
avere un atteggiamento di fascinazione diffidenza, scaturita dal fallimento della cura a cui si era
sottoposto il cognato Bruno Veneziani. Nonostante questa non fiducia, lo scrittore ha sempre
affermato il valore letterario della teoria freudiana. Svevo dice di aver conosciuto la psicoanalisi
prima nel 1908, poi nel 1910 ma si può affermare quasi con certezza che si accostò a questa nuova
scienza tra il 1908 e il 1912. Un altro avvenimento importante è l’incontro avvenuto nel 1911 con
Stekel, collaboratore di Freud. Quando lo conobbe, Stekel aveva da poco pubblicato un libro sul
linguaggio dei sogni, poco apprezzato da Freud; l’incontro tra i due avviene in un momento in cui
Stekel è in polemica con il suo maestro e si è ipotizzato che è stato questo ad incrementare, forse,
la scarsa fiducia di Svevo nei confronti della psicoanalisi. Decisive furono anche le conversazioni
con Paolo Cuzzi e con il nipote Aurelio Finzi. Nel 1918, Svevo con suo nipote tradusse lo scritto di
Freud Il sogno, un compendio dell’Interpretazione dei sogni, e iniziò quegli esperimenti su se
stesso. Da questo traspare la consapevolezza dell’autore di aver messo in scena nella Coscienza
una cura poco ortodossa, tanto che Edoardo Wess gli aveva fatto sapere che la sua opera non
aveva nulla a che fare con la psicoanalisi. La morte del padre è uno degli eventi fondamentali nel
romanzo, e da cui si intravede la rilevanza che ha avuto la lettura di Freud. Zeno definisce la
perdita del padre quasi con le stesse parole usate da Freud nell’Interpretazione dei sogni.
Perdendo il adre, il protagonista perde una parte di sé, quella che lui credeva fosse la più debole. I
due personaggi sono antitetici e vivono uno accanto all’altro senza comprendersi: il figlio è
animato da una una continua ambizione nel migliorarsi, mentre il padre vive il suo ruolo di pater
familias. La narrazione di Zeno attribuisce al padre stabilità, serietà, mentre al figlio l’incostanza,
l’inquietudine e l’ironia; nonostante l’incomprensione tra i due, il padre rappresenta comunque un
punto di riferimento per il figlio, infatti dopo la morte della madre i buoni propositi sono rivolti a
lui. Tema dominante dell’episodio è il desiderio del padre di rivelare una verità al figlio, ma che è
incapace di formulare: Zeno mette in scena la lacerazione provocata dalla morte che ha interrotto
il loro dialogo. Altro tema principale è la colpa ed il rimorso del figlio per non aver saputo
riconoscere i sintomi della malattia, per non aver chiamato il medico in tempo, in breve per non
averlo saputo amare e salvare. Zeno si rimprovera più volte di aver augurato la morte a suo padre,
mascherando il suo impulso. Questo conflitto di sentimenti sta ad indicare il carattere di Zeno che
non assume mai una parte definita.
11.5 L’UNIVERSO FEMMINILE
Frequentando la Borsa, Zeno stringe un’amiciza molto forte con Giovanni Malfenti, un
commerciante. Viene a sapere che ha quattro figlie, Augusta, Ada, Alberta e Anna, delle quali ne
vorrebbe sposare una; la sua scelta ricade su Ada quella che secondo lui è più simile al padre e che
possa aiutarlo a raggiungere la salute fisica e morale. Però finirà con lo sposare Augusta, la meno
attraente delle quattro. Queste quattro donne compongono varie facce di uno stesso archetipo
femminile. Si aggiungerà poi anche Carla, amante di Zeno, la quale ha una caratteristica che manca
alle sorelle, cioè la sensualità. La scelta di Zeno tra le tre donne è influenzata dalla sua cecità. La
richiesta di matrimonio rivolta ad Augusta avviene dopo un percorso di sofferenze, che lo stesso
protagonista avrebbe potuto evitare. Lavagetto individua il mito di Paride nell’episodio che porta
al fidanzamento di Zeno, mito che contiene il motivo della scelta. Lui accomuna il testo di Svevo
con il Mercante di Venezia, affermando quanto la scelta del pretendente cade sull’oggetto
apparentemente meno desiderabile. Un’altra caratteristica che accomuna gli oggetti prescelti è il
pallore; ma nonostante questo la scelta di Zeno si rivelerà meno avventata in quanto lei sarà una
moglie premurosa, accorta, intelligente, mentre Ada sarà affetta dal morbo di Basedow, che ne
sfigurerà il volto e ne comprometterà il sistema nervoso. Ada e Augusta rimarrano sempre legate,
e per Zeno saranno sempre due facce di un’unica donna, tanto che quando Carla gli chiede di farle
conoscere sua moglie, le presenta Ada, così lei decide di interrompere la relazione e di sposare il
suo maestro di musica.
11.6 FINE DELLA CURA COME INIZIAZIONE ALLA VITA
Nell’ultimo capitolo, Zeno ricorda il periodo in cui si sottopose alla cur psicoanalitica e il successivo
abbandono, perchè la considerava inutile e dannosa. Lo stacco temporale con la fine del capitolo
precedente è notevole, in quanto sono passati vent’anni da quando Ada è partita, nella primavera
del 1895, e il diario comincia il 3 maggio del 1915. Così come la perdita del padre, anche la
partenza di Ada segna una data cruciale nella vita di Zeno, cioè si verifica un evento a cui non c’è
rimedio. Lo scoppio della guerra, inoltre, indicherà al protagonista la via della consapevolezza e
della guarigione. La prima parte del diario, dedicata alla cura psicoanalitica, contiene anche il
racconto dei sogni, interpretati dal dottor S. In questo romanzo compaiono dei veri e propri sogni
notturni, come il sogno di Carl o quello di Basedow. Nell’ultimo capitolo i sogni vengono provocati
dall’intervento del medico in uno stato di dormiveglia quasi ipnotico; l’immagine più suggestiva
che crea è quella di una donna formosa e bionda, che può essere considerata una delle tante
forme dell’eterno femminino e la sua apparizione in uno spazio bianco e profumato richiama alle
incarnazioni della Grande Madre. L’interpretazione da dottor S a questo sogno è molto più
riduttiva. Lo psicoanalista se ne serve per diagnosticare il complesso edipico di Zeno, il quale rifiuta
questa interpretazione e finisce per odiare ancora di più il dottore. Sappiamo ormai che Svevo ha
sempre avuto un rapporto ambiguo con la psicoanalisi. Nella costruzione dei sogni, come anche
nel trattamento del tempo o della rappresentazione della bugia si vede l’influenza delle letture di
Freud. Quest’ultimo, si può notare, come sia presente e non presente nell’ultimo capitolo,
Psico-analisi: le sue teorie appaiono contaminate da altre, ma sono strutturalmente determinanti.
Le ultime pagine del romanzo segnano la definitiva guarigione del protagonista, intesa come
accettazione della malattia come compagna di vita. La debolezza e l’inettitudine di Zeno lasciano il
posto ad una solida salute coadiuvata dal successo negli affari. La sua guarigion deriva dalla
consapevolezza che la vita stessa è una malattia, una conclusione che riporta a galla le teorie
darwiniane di cui Svevo aveva fatto uso nel corso del racconto: la vita è una lotta per l’esistenza in
cui i più deboli sono destinati a non farcela. La conclusione del romanzo è stata letta da alcuni
come una profezia del conflitto atomico, tanto da attribuire a Svevo una preveggenza. Lavagetto,
infine, ha dimostrato come la deflagrazione universale che chiude il romanzo sia un topos di fine
Ottocento inizio Novecento. Svevo riesce a dare una conclusione ad un romanzo aperto, con un
finale che non offre soluzioni ma invita a riflettere sul destino dell’uomo contemporaneo.

Cap. 12- Gli indifferenti


La pubblicazione di questo romanzo nel 1929 è stata uno degli eventi più decisivi ed uno dei pochi punti
fermi della cultura italiana del Novecento. Il successo fu immediato ed unanime, nonostante si trattasse di
un romanzo scomodo, che chiamava in causa la morale, la società e la politica. Moravia stesso fu sorpreso
dal successo ricevuto e da tutto ciò che a torto o a ragione si andava scoprendo del libro o delle intenzioni
che gli venivano attribuite. Gli indifferenti sono il risultato dell’incontro fra la singolarissima disposizione
interiore e creativa di un giovane d’ingegno cresciuto da autodidatta in una sorta di isolamento e alcuni
ambienti culturali di assoluta eccezione, in cui egli si trovò improvvisamente accolto e che ne alzarono
rapidamente e straordinariamente gli orizzonti. è un romanzo che non nasce da una poetica o da
un’ideologia, ma da una ricerca che si identificava con un’idea di romanzo come testimonianza. Fu scritto
tra il 1925 e il 1928, quando Moravia aveva tra i 17 e i 20 anni, in 2 o 3 stesure e pubblicato nel maggio
1929. Non era sicuramente il primo approccio del giovane autore con il mondo della letteratura, che in una
lettera dice di aver già scritto 7-8 anni prima scartafacci che trattavano di filosofia, novelle e romanzi.
Veniva da anni molto difficili, condizionati dalla malattia: una tubercolosi ossea che lo costrinse a
lunghissimi periodi a letto. Ne era guarito grazie ad una nuova terapia, che lo costrinse ad abbandonare il
percorso scolastico e lo allontanò dalla famiglia. Durante questo periodo scrive una novella in tre mesi e
subito dopo un romanzo, basato su un’idea preliminare del suo capolavoro. Fino a quel momento aveva
scritto ‘imitazioni’ dei vari autori, ma con questo romanzo avvertì di aver creato qualcosa di nuovo e di suo.
Il titolo venne deciso solo la sera prima della pubblicazione, segnandone il compimento. Non c’è nessuna
premessa dell’autore o introduzione descrittiva della scena o dei personaggi, che vengono immediatamente
mostrati in azione e che si rivelano attraverso i loro dialoghi. Già queste erano intuizioni innovative e di
notevole portata. Lo scrittore decise di affidarsi sempre di più ai personaggi, eclissandosi completamente.
Tutto avrebbe dovuto concentrarsi e passare attraverso personaggi pensati come figure di una tragedia,
che rappresenta il punto di partenza dell’opera. Durante il periodo di ricovero, Moravia scambiò un numero
cospicuo di lettere con la zia Amelia, la quale ebbe un ruolo fondamentale non solo nella guarigione, ma
anche nella sua maturazione letteraria, fornendogli libri e supporto. Anche il rapporto con i cugini Rosselli
fu molto particolare, tanto da influire sulle sue scelte politiche, essendo loro antifascisti ed essendo stati
giustiziati per questo. Moravia fu anche autore di due saggi importanti su l’​Ulysses di Joyce, nei quali si
confronta direttamente e tempestivamente con le grandi novità del romanzo novecentesco. Pur
riconoscendo il valore di capolavori come ​Ulysses e ​La Recherche​, li considera un ‘vicolo cieco’, un esempio
negativo e un punto morto per la letteratura europea. L’eccesso di analisi, di memoria, di cerebralismo
finisce per dissolvere la realtà e l’azione nel mondo arbitrario delle intenzioni, del pensiero, dei desideri
ineffettuati e della subcoscienza. Anziché dissolvere il personaggio in psicologia, occorreva rappresentarlo
in azione, stabilendo un equilibrio rigoroso del pensiero e dell’azione. Prima della pubblicazione de Gli
Indifferenti, Morra e Alberti gli criticarono l’eccesso di lirismo, scaturendo profonde riflessioni del giovane
Moravia, per il quale eliminarlo voleva dire affidare completamente ai personaggi il commento, ovvero il
giudizio sulle loro stesse azioni, sulle loro parole, sulla tragedia in corso, ed era questo un problema
narrativo di difficile soluzione. Occorreva dunque costruire diversamente i personaggi, individuando e
rappresentando in loro le motivazioni spesso oscure e inconsapevoli dell’agire, senza però dissolverli in
psicologie. Dovette aggiornare i modelli da cui era partito, inserendo autori russi, inglesi e americani.
Pubblicò su ‘900’ e su altre riviste novecentiste le prime novelle, partecipò a una riunione redazionale in cui
i presenti si impegnavano a produrre presto un romanzo, e il suo romanzo fu annunciato tra quelli di
scrittori ‘novecenteschi’ di più o meno stretta osservanza. Moravia, allora, si propone di comporre
narrativamente in un’unica vicenda dalla crescente complessità, mettendo in atto i ricorsi stilistici che noi
oggi conosciamo. A lungo privo di titolo, poi chiamato con i nomi dei personaggi (Gli Ardenfo, Lisa e
Merumeci), poi rilucidato in senso novecentista (Cinque personaggi e due giorni), alla fine nel 1928 il
romanzo è ancora esposto al giudizio morale dell’autore, incerto se colpire più l’ambientazione, intitolando
La palude, o i tipi umani, con il titolo di I malcontenti, prima di conoscere il titolo storico di Gli indifferenti
che manifesta e rilancia la ricchezza polisemica dell’opera. Moravia era riuscito nel suo intento di trovare la
chiave della tragedia moderna, attraverso i miti delle tragedie antiche, continuando cioè a interrogare in
senso sfuggente di un mito fondatore della modernità. La chiave consisteva nell’impossibilità della tragedia,
più che nella tragedia, relegata in spazi interiori o rovesciata nel suo opposto comico. Ma della tragedia è
l’ordine dei problemi narrativi affrontati: l’eroe non riesce in fatti a sparare all’usurpatore. Ha preso forma
così la struttura profonda del personaggio moraviano. Rispetto all’azione tragica, il pensiero del
personaggio è dissonante, inetto, disarmonico: non trova le ragioni per agire. Il rifiuto dell’ipertrofia
joyciana del personaggio e l’aspirazione a un intreccio drammatico si traducono in quella contrapposizione
stridente di piano reale e piano interiore, di azione e pensiero. Il personaggio moderno si scopre incapace di
rifondare il rapporto sincero con la realtà, carente nelle motivazioni interiori che permettevano invece ad
Amleto, per esempio, di superare le esitazioni e di agire. Leo, ufficialmente amante della madre e amico di
famiglia, è in realtà deciso, approfitta della loro disastrosa situazione economica per impadronirsi della villa
e a sedurre la figlia. I figli Michele e Carla vedono lucidamente la falsità opprimente della situazione in cui
vivono, con gli odiosi disegni di Leo, la stupidità cieca della madre e percepiscono la rovina che incombe su
loro: hanno molte buone ragioni per reagire e fermare Leo, ma manca la passione e la fede, la sincerità
necessaria per agire. La realtà meschina che dovrebbe salvare e riscattare, li lascia indifferenti. Basta
scorrere gli imperativi categorici che nel discorso interiore Michele rivolge a sé stesso per stimolarsi ed
intervenire. Si avrà un’idea di quante e quali gesta drammatiche, mancate sul piano dei fatti, restino sul
piano dei pensieri o si traducano al massimo in gesti tardivi, inopportuni, ridicoli e privi di convinzione. La
tragedia non è abolita, ma interiorizzata e si manifesta come indifferenza verso la maschilità e il
materialismo di un mondo che non può avere niente a che fare con lui. Tra personaggio e realtà c’è un
vuoto che rende impossibile il rapporto autentico. Michele è un uomo che per agire non ha che motivi
personali, ossia motivi che non sono ver motivi dal momento che valgono solo per lui.
Concluso il primo romanzo, nel 1928 Moravia ne aveva avviato un secondo che superasse le aporie del
primo. Il fondamentale problema della realtà comporta nella sua narrativa un realismo che non è una
categoria autoriale, estetica e letteraria, ma esprime l’intenzionalità profonda di personaggi intellettuali che
aspirano a superare la chiusura claustrofobica di un’interiorità incapace di tradursi in azioni adulte o di
accettare la realtà così com’è.

Cap. 15- Il romanzo della Grande Guerra


Insieme ai diari, alle memorie e alle corrispondenze dal fronte, le rappresentazioni narrative del primo
conflitto mondiale vanno considerate come parte di un unico racconto della Grande Guerra, che ha i suoi
autori di riferimenti, i suoi critici e alla metà degli anni Trenta anche il suo canone ufficiale. È in rapporto da
un lato alla produzione memorialistica, giornalistica e saggistica, dall’altro all’evoluzione storica del
racconto bellico che si delineano i caratteri del romanzo della Grande Guerra, a partire da una specie di
peccato originale: al suo autore, i memorialisti muovono generalmente una critica impensabile per un
romanzo storico, di narrare, cioè, eventi di cui non è stato testimone. Una prima smentita giunge nel
dopoguerra con Rubè di Borgese, il quale, pur non avendo sperimentato la vita di trincea, compone un
articolato panorama di guerra, mettendone in risalto i risvolti politici, economici e sociali. La battaglia viene
solamente intravista, ma è lo sfondo che determina il destino dei personaggi. Il protagonista, di origine
provinciale, si sposta nella capitale poiché crede di potersi formare nel fuoco della Grande Guerra. È la
tipica storia del Bildungsroman ottocentesca. La guerra è vista come ‘medicina’, secondo i motti
avanguardistici, per curare l’insoddisfazione esistenziale dei personaggi dato che permette di fare le ‘grandi
cose’ a cui questi si sentono destinati. Rubè si arruola volontario, ma fin da subito è costretto a confrontarsi
con le grandi macchine moderne che dominano il conflitto che rendono le aspettative eroiche
anacronistiche e infondate. La paura provata per una lontana incursione aerea innesca allora la crisi
interiore che lo trasformerà nella figura modernista dall’identità scissa dell’epilogo. Un ruolo chiave è
assunto dai fanti contadini, esposti ai bombardamenti senza aver mai visto prima un velivolo. Nel libro ci
sono 3 casi:
1) Il lungo attendente di Rubè, estraneo alle ragioni della guerra e che approfitta di qualsiasi
occasione per tornare dalla moglie, rovesciando l’immagine di alpino disciplinato e disponibile al
sacrificio;
2) Soldato Rametta che, traumatizzato, non riesce a rimettersi in marcia e che viene ucciso
dall’ufficiale Garlandi con un colpo di rivoltella;
3) Il soldato Anonimo, completamente alienato, sotto amnesia. Rubè si identifica in lui, affermando:
‘Io non so chi sono, né che faccio, né cosa voglio’.
Rubè assume l’indefinito ruolo di raccordo tra maestranze e i dirigenti: non sa con chi schierarsi ed è,
dunque, destinato a finire schiacciato tra i due. Finisce in una manifestazione in cui, travolto da una carica
dell’esercito, perderà la vita, ripensa un’ultima volta alla guerra e riconosce la possibilità di sopravviverci
solo come Anonimo. Borgese demistifica dunque la retorica del racconto di guerra nelle sue componenti
fondamentali, dalle aspettative degli interventisti all’appropriazione fascista dell’eredità del conflitto. Il
conflitto continua ad agire sulla psiche dei reduci, le gerarchie militari confluiscono nella società del
dopoguerra e il fascismo trasferisce la violenza dal fronte al contesto politico. Il romanzo mostra insomma
ciò che la semplice esperienza al fronte non avrebbe potuto e cioè che il meccanismo della guerra e la
supremazia della macchina al governo della massa, coincidono con quelli della modernità industriale e che
di conseguenza il conflitto prosegue sotto mentite spoglie in tempo di pace.
Allo stesso genere appartiene anche ​Piccolo Alpino di Salvator Gotta. È la vicenda di un ragazzino adottato
dal corpo degli alpini, che attraversa l’intero conflitto e prende parte a diverse azioni sino a ricevere una
medaglia al valore delle mani del re. Gotta non si preoccupa della veridicità reclamata dagli scrittori
combattenti, né di restare nei limiti della letteratura d’infanzia. Grazie alla prospettiva infantile può
estirpare dal racconto le istanze critiche che le memorie erano andate accumulando a partire
dall’armistizio, per reintrodurvi la retorica del patriottismo ottocentesco, dall’associazione tra nazione e
madre alla bella morte.
Altro libro da citare è ​Niente di Nuovo sul Fronte Occidentale di Erich Maria Remarque, che venderà milioni
di copie in pochi mesi in Germania e all’estero. Con l’idea di pubblicarne la traduzione, Giovanni Rusca
lancia la collana Mondadori ‘I romanzi della guerra’, inserendolo. Remarque rappresenta come nessun altro
i temi cruciali della Grande Guerra e cioè l’orrore e l’assurdo per servirsene a scopi antimilitaristici. È il
realismo ad essere messo in scena.
In questo contesto in cui il pregiudizio nei confronti del romanzo si carica di un elemento politico, si colloca
Meccanica d ​ i Carlo Emilio Gadda. L’intento del romanzo, stando alla dichiarazione dell’autore, è
l’‘espressione della mia amarezza di italiano, di nazionalista, di soldato per il male che precedette
l’intervento e stagnò sulla guerra’. Il romanzo deve sembrare allo scrittore più adatto del diario a trovare
un equilibrio tra le spinte contrastanti dell’interventismo e del realismo, mentre l’interesse si allarga alle
origini del conflitto. L’opera è divisa in tre racconti, di cui il più importante è ‘​Papà e Mamma’ che presenta
come protagonista un liceale milanese dotato di un particolare talento per la meccanica che viene assunto
in una fabbrica militarizzata, escludendo l’arruolamento. Viene però coinvolto in una rissa e dunque punito
con l’arruolamento. Gadda sceglie allora di premettere alla rappresentazione di prima linea la deformante
versione dei corrispondenti di guerra. Da quanto si legge sui giornali del tempo ‘tutto procedeva
regolarmente’ e gli ufficiali erano decisi e pieni di idee brillanti, ma la vittoria era quasi certa. Rappresenta
la prospettiva dei soldati semplici, con le reclute che avanzavano sperdute tra devastazioni dei
bombardamenti e le urla dei feriti, finché non raggiungono il comando: fare un passo indietro non è
possibile. IL narratore interventista che si volge al passato e alla società vede infatti il fondamento stesso
delle proprie opinioni smentito dalla realtà. Partito con l’intento di rivelare i guasti dell’antiguerra, Gadda
finisce poi per mostrare quello del conflitto in sé. Il rifiuto degli stilemi del racconto di guerra lo porta infatti
a opporre agli umili fanti soldati riottosi o antimilitaristi, costretti a misurarsi non con il conflitto edulcorato
dei giornali ma con l’orrore e l’assurdo del fronte. Ne risulta un’immagine di guerra imposta contro la
volontà collettiva, che scatena il lato apocalittico della modernità, facendovi precipitare il popolo invece di
avvicinarlo come sperato all’idea di patria.
Anche lo stesso Mussolini fu autore di un diario, ​Il mio diario di guerra,​ del 1917. Importante è anche il libro
di Emilio Lussu, ​Un Anno sull’Altopiano​, del 1938, pubblicato in Italia solo dopo la Liberazione e sotto
l’avvertenza di essere un libro di ricordi anziché della fantasia, NON è un romanzo. Il rifiuto del genere
letterario vale allora come rivendicazione dei fatti narrati, sulla cui base però Lussu compone quello che
sotto molti aspetti costituisce proprio un romanzo, come l’inizio in media res del trasferimento di una
brigata sull’altopiano di Asiago. Il romanzo può essere diviso in due parti: la prima incentrata sul viaggio
nell’orrore e nell’assurdo e la seconda basata sulla ricerca di criteri d’orientamento. Nella prima battaglia
una serie di ordini e contrordini trasformano una vittoria in una sconfitta, che a sua volta determina la
comparsa del generale Leone da cui gli ufficiali comprendono di dover difendere sé stessi e i loro uomini,
ricorrendo a strategie varie. L’orrore della guerra tocca l’apice nella battaglia di luglio, che occupa il centro
dell’opera. Il battaglione deve lanciarsi senza copertura contro il fuoco delle mitragliatrici e i sopravvissuti
finiscono addossati alle trincee nemiche da cui si tira a bruciapelo. Tra le vittime e carnefici, sottoposti alle
stesse condizioni disumane, non c’è dunque differenza; cade l’opposizione tra amico e nemico e la guerra,
di colpo, finisce. L’orlo del baratro psichico segna il punto limite del viaggio nell’orrore e dell’assurdo ma
costituisce anche un crinale oltre il quale il narratore intraprende un percorso di ricostruzione morale. La
lettura di Ariosto e di Baudelaire, consente al protagonista di resistere mantenendo i nervi ben saldi e
evitando di uccidere l’ufficiale nemico sotto tiro, non per antimilitarismo ma per preservare la propria
umanità. Dopo che la terza battaglia di risolve tragicamente con il nulla, il narratore riceve l’ordine di
condurre la brigata della Bainsizza sull’altopiano, dando vita alla seconda parte dell’opera. La stessa
capacità di perseveranza e di resistenza all’abbruttimento sarebbe servita sulla Bainsizza, in Spagna e negli
anni a venire. Non bastano evidentemente le risorse individuali e accanto all’inchiesta morale si svolge una
sorta di saggio politico-militare. L’ufficiale narratore, infatti, si confronta con diverse ipotesi dei colleghi,
valuta cioè la velleità del tirannicidio e gli effetti di una disciplina cieca, i danni dell’autoritarismo e i rischi
della risvolta, per individuare infine la soluzione in una prassi democratica propedeutica alla lotta armata.
Gli strumenti letterari servono a restituire l’insensatezza e l’atrocità della guerra, dal cadornismo
all’equivalenza tra perpetrare e subire la strage, ma a Lussu consentono anche di rintracciare
nell’annichilimento generale una via d’uscita, che consiste proprio in un cammino di guerra e in qualche
modo conduce dal primo al secondo conflitto mondiale. Lussu distilla dalla propria esperienza bellica
principi morali, militari e politici di resistenza.

CAPITOLO 16 (EMANUELE CANZANIELLO)


16.1 GENESI E GENEALOGIE
Da qualunque prospettiva si voglia guardare al fascismo, se ne deve riconoscere un’origine
esclusivamente italiana. Il fascismo in Italia fu un composto precoce che diede soluzione a
molteplici elementi sociali ed economici già a lungo in tensione nel resto d’Europa, e che in Italia
trovarono immediato sbocco nell’azione e nel suo primato ideologico dopo il primo conflitto. Il
fascismo trovò nell’esito della prima Guerra mondiale le condizioni e conseguenze necessarie al
suo sviluppo e alla sua nascita. La Grande Guerra era stata la prima esperienza di massa di una
società per molti aspetti ancora premoderna, ma il carattere di massa fa parte delle pratiche
fasciste che diventano impensabili al di fuori di quel momento storico caratterizzato da una crisi
acuta nelle classi medie. Nasce un senso nuvo della comunità assimilato a connotazioni militari e
di spirito cameratesco. Prendono forma le invenzioni, gli esperimenti rituali, prendono corpo
anche gli Arditi, reparto scelto già operativo in guerra e che sarà futura base dei primi fasci di
combattimento milanesi; a tutto questo si aggiunge la condizione essenziale per la mobilitazione
delle masse, cioè la propaganda, ovvero l’insieme degli strumenti, tecnici e di comunicazione, che
hanno ottenuto una permeabilità del corpo sociale totale. L’elemento che conserva l’energia
originaria della mobilitazione è di natura estetica, cioè una visione dello spettacolo sociale come
fenomeno d’arte. Tutti gl aspetti assunti dal fascismo sono per essere potenti stimoli alla vita.
Emerse, inoltre, una sua potenzialità mitologica, sintettizata da Ernst Cassirer, il quale affermava
che non solo noi italiani abbiamo attraversato una crisi della vita politica e sociale, ma abbiamo
anche riscontrato probelmi teoretici nuovi. Abbiamo assistito ad un cambiamento radicale delle
forme del pensiero politico. Il tratto più importante forse è l’apparizione di un nuovo potere
mitico.
16.2 IL FASCISMO E IL SUO GRADIENTE LETTERARIO
Traldi, in Fascismo e narrativa, ha adoperato un lavoro di scavo con lo scopo di raccogliere tutte le
opere che in un certo modo sono state permeate dall’ideologia fascista, sia di coloro che erano
vicini o favorevoli al fascismo, sia di coloro che erano antifascisti. Invece, Canzaniello nel suo
saggio tiene in conto solo le opere permeate dall’idelogia fascista, provando a stabilire in quali
modi e con quali ricadute strutturali su stile, trame, episodi minori, costruzione dei personaggi
possa aver influito il dato ideologico. Inoltre, qui non ci sarà un confronto in termini di superiorità
o meno tra una letteratura di consumo e i grandi nomi che qui già sono esclusi perchè il requisito
essenziale sarà l’appartenenza ideologica di un romanzo e d un autore a quella ideologia. Infatti
autori come D’Annunzio e Marinetti sono stati sicuramente fondamentali per il regime fascista, ma
si può dire che la loro opera complessiva non è accostabile ad esso.
16.3 IL ROMANZO FASCISTA
Al fascismo della prima ora può essere accostata la figura di Curzio Malaparte, la cui riflessione
critica ha avuto una indiscussa importanza nella riflessione ideologica, in modo attivo e partecipe
al movimento prima di allontanarsene e subirne l’allontanamento forzato e l’esilio. La formazione
di Malaparte è divisa tra componenti socialiste e anarchiche; nella dinamica delle sue posizioni
politiche è riconducibile al Romanticismo il suo culto del Risorgimento, dei moti del 1821 e di una
visione delle guerre d’indipendenza mazziniana e popolare, legata al recupero delle origini. Il
fascismo per Malaparte, quello autentico, deriva nella sua esperienza dalla rivolta di Caporetto,
che lui considera una rivolta abortita sul modello della rivoluzione sovietica del ’17, era per lui una
continuazione del Risorgimento che è stata stroncata dall’incapacità di trovare una guida,
strozzata dalla classe dirigente stessa italiana e ufficiali dell’esercito che erano responsabili del
disastro della Prima guerra mondiale. Quindi per Malaparte il fascismo si colloca da un lato
nell’orizzonte del Risorgimento e dall’altro un fascismo rivoluzionario, di sinistra, quindi
antiborghese, antipolitico. La gente delle trincee avrebbe dovuto riportare uomini e cose al
momento del 1870, cioè al momento del completamento dell’Unificazione. I critici hanno notato
un’ambiguità e l’hanno descritta così: l’adesione al fascismo per Malaparte è conservatrice e
antiborghese, reazionaria e rivoluzionaria; tutto fa parte di quello che è stato definito come
equivoco fascista. L’esperienza di Ardengo Soffici appartiene agli anni anteriori alla formazione del
movimento fascista, con la pubblicazione nel 1912 di Lemmonio Boreo ci offre una delle prime
forme di fascismo toscano e rurale. Il romanzo segue tre giovani amici, tra cui un macellaio in
camicia nera, che non disprezzano l’uso di mortaretti o l’incendio di una casa di un giovane
scrittore ozioso. Dalla provincia verso la città i tre continueranno in una sorte di ortopedia politica.
Di area toscana e di anni più tardi è la figura di Romano Bilenchi, nato a Colle di Val d’Elsa e vicino
al fascismo di sinistra; sarà vicino alle posizioni del “Selvaggio” con cui collaborerà dal 1930
insieme a Mino Maccari. Bilenchi pubblica nel 1935 il romanzo breve Il capofabbrica, storia di
un’amicizia tra un vecchio caporeparto comunista e il suo giovane padrone fascista. Prima che il
libro venisse pubblicato occorsero due finali a seguito di due rifiuti, e in entrambi casi la vicenda
era mossa dall’aiuto dato dal vecchio comunista al giovane, un aiuto che impedisce al giovane di
commettere un omicidio in nome di Mussolini. In area siciliana troviamo un altro modello di
narrazione ironica e parodica del fascismo con Amico del vincitore di Vitaliano Brancati, racconto
sulla forza e la bontà di un regime fantastico che va sotto il nome di bontarismo e il cui capo è
Giovanni Corda. L’amico è Pietro Dellini, protagonista del romanzo, che rappresenta la debolezza,
l’uomo di lettere raccomandato dal dittatore per entrare a far parte di un’esplorazione scientifica
e che morirà sui ghiacciai polari. Dai tratti più riconoscibili è il romanzo Comando di tappa di
Marcello Gallian, ex legionario dannunziano a Fiume, membro di un comitato di “Arte del tempo
nostro” fondato nel 1932 a dieci anni dalla marcia su Roma; il romanzo si fa proprio resoconto di
quell’impresa. La rievocazione di quell’episodio da luogo ad altri episodi come quello in cui una
donna comunista sfila al fianco del suo squadrista per il gusto di seguirlo. Un altro romanzo
interessante di Gallian è Gente di squadra, in cui i dettagli politici sono immersi in un’analogia di
sogno, un abile profilo nonsense dato alle storie di un gruppo di giovani camicie nere che
inseguono una ragazza vestita di una bandiera italiana, per poi passare ad un funerale di un loro
camerata, dove quasi in stato allucinatorio stracciano una bandiera rossa; e la cerimonia si
trasforma in un funerale, di cui si scopre solo tardi il cadavere, ed è quello della borghesia. Al finale
è affidato il suono della tromba, dove un giovane fascista dichiara che l’Impero può ancora
nascere. Tra i temi favorevoli al fascismo c’è sicuramente quello della guerra. Molti autori celebri
della letteratura italiana avevano già omaggiato la guerra del 1915-18, e il fascismo potè ancora
trarne giovamento, fatta eccezione di Malaparte e Prezzolini che scrissero saggi problematici sulle
disfatte del fronte austriaco e le conseguenze sociali. La Grande Guerra madre del Fascismo è il
titolo di un volumetto scolastico del 1935 che spiega la tesi del rapporto di filiazione che lega la
Prima guerra mondiale alla formazione dei fasci di combattimento di qualche anno successivo.
Questo nesso è ripresentato in modo chiaro nel romanzo di Francesco Formigari Quelli che hanno
fatto la guerra. Storia di una rieducazione forzata agli anni di pace, di un apprendistato difficile
delle nuove condizioni di vita da parte di Ravelli. Ora quello che fa emergere Formigari sono le
difficoltà drammatiche di ritornare alla pace, di abbandonare quell intensità psicologiche,
sensoriali e sociali che la guerra spesso ha fatto rimpiangere alla pace. È importante sottolineare
anche lo statuto temporale, e non solo, del mito della giovinezza incarnata, al quale è legata la
poesia del fascismo. Legata alla giovinezza e alla felicità dell’inconfort sarà l’inquietudine dell’eroe
afflitto e salvato dal fascismo; la rivolta dei suoi giovani eroi sarà sempre quella di abbandonare i
vincoli sociali. Il fascismo letterario dovunque in Europa scopriva l’amicizia e la sua ebbrezza, esso
era quel rifiuto alla vita ben misurata; lo sfruttamento romanzesco dell’inquietudine del primo
dopoguerra non fa parte dello scenario più ricorrente del fascismo letterario italiano, che si
mantiene estraneo agli estremi del romanzesco fascista europeo. Tra il 1937 e 1943 si contano
circa 50 opere sulla guerra di Spagna e di Abissinia. Il poema africano della divisione 28 ottobre di
Marinetti, volontario in Abissinia e autore di questa raccolta di prose futuriste, poesie e liste di
armi cartucce. Protagonista del racconto di guerra è l’aviatore, adorato da Liala e Lucio D’Ambra,
autore della Guardia del cielo. In questo caso la retorica abusata brilla di pochissima eleganza e le
esaltazioni per le bombe e le prodezze del conte Ciano nascondono poco l’inettitudine militare con
la quale si ricorse al fosforo e ai gas anche sui civili. L’opera di maggior rilievo è anche la più
precoce nel decennio degli anni Trenta, ed è L’italiano di Mussolini di Mario Carli, tra i più
importanti scrittori futuristi, fondatore di “Roma futurista”. Protagonista del romanzo è Conte
Falco, aviatore eccezionale, poi deputato fascista in parlamento e sottosegretario dell’Economia
nel primo gabinetto di governo. Il mito della terra si lega qua ai dissidi del Conte Falco con suo
padre, senatore antifascista che vorrebbe abbandonare i loro latifondi del Sud; Mussolini
interviene cedendo le terre al giovane Falco e ad alcuni reduci. Altro mito a lungo respinto dal
fascismo è quello amoroso; negli anni del furore contribuì alla causa anche Margherita Sarfatti,
amante del Duce, con il romanzo Il palazzone, rassicurandoci su quanto potesse essere appagante
amare uno sqaudrista per la vedova Fiorella. Alcuni dei problemi legati alla visione dell’amore
prescelta dal regime sono legati alla complessa ricerca di un compromesso tra la voglia di relazioni
extraconiugali e le esigenze di austerità e conformismo cattolico che dovevano rispettare. Con
nessuna dicotomia è Una vecchia perduta di Marcello Gallian, in cui un giovane della nuova Italia
concede alla sua amante il privilegio di morire mettendo alla luce un maschio per le guerre
d’oltremare. Oppure nel romanzo di Mario Massa, Un uomo solo, è Mussolini stesso il
protagonista capace di sventare un attentato nei suoi confronti solo parlando del suo cavallo
bianco. Nel racconto il Duce di Giovanni Comisso è solo l’esempio di Mussolini a dare la forza a un
govane di sttoporsi ad un intervento chirurgico. Ne Il maschio è protagonista, Fumarola ha
condensato tutto, qui una figlia diventa suora e un figlio si arruola volontario e parte per
l’Abissinia. Oppure c’è un altro romanzo Il cuore a destra, titolo che si riferisce alla venalità del
protagonista ebreo-ungherese, che avrebbe il cuore dalla parte del portafoglio, che emigra in
italia, diventa cattolico e sposa la figlia di un industriale. Il matrimonio man mano si consuma
perchè lei si accorge di quanto l’uomo sia attaccato al denaro. Si fa riferimento anche alle teorie
psicoanalitiche sui vizi presenti nel fascismo in senso lato e in alcuni romanzi. In ultimo si ricorda il
romanzo di Corrado Alvaro Tutto è accaduto in cui descrive la tensione erotica intorno alla figura
di un dittatore sexy; tutte o quasi le donne sono sue, tra cui Elena una patrizia romana, amante di
Diacono. Una sera i due amanti vanno all’opera e si ritrovano faccia a faccia con “Lui”; tornati a
casa, Elena riceve una telefonata dal “Capo” che le chiede notizie su Diacono. Infine Elena confida
al suo amante che quelle telefonate del Dominatore non sono rare la notte e gli rivela pure che un
suo vecchio amante pretese di fare l’amore mentre l’altro parlava al telefono.
CAPITOLO 18 TRADURRE GLI AMERICANI
18.1 ALLA SCOPERTA DELL’AMERICA: LA FONDAZIONE DI UN MITO
Negli anni dal 1931 al 1942 in Italia avvien l’importazione di romanzi in traduzione dagli Stati Uniti,
sostenuta da illustri rappresentanti della società letteraria. Al tempo c’era una diffusa antipatia nei
confronti di un paese pagano che premia l’individualismo, affiancata poi da un’attrazione per la
democrazia e il progresso tecnologico e le possibilità offerte dalla società americana, influenzata
dal carattere nuovo della sua produzione letteraria. Influisce anche il fatto che tra il 1914 e il 1926
la narrativa americana avesse salutato l’esordio di quegli autori che avranno un posto nella storia
del romanzo del Novecento: tra questi c’è da ricordare Gertrude Stein, Fitzgerald, Hemingway,
esponenti, nati tra il 1876 e 1909, di una stagione della narrativa americana resa memorabile da
titoli come Il grande Gatsby, Tenera è la notte, Furore; una stagione che troverà larga accoglienza
critica in Europa. Anche in Italia, dall’inizio degli anni Trenta, i romanzi appena pubblicati nel
nuovo continente suscitano molto interesse non solo in Cecchi ma anche in altre persone che
colgono l’occasione di recuperare autori e testi della stagione precedente. La crescita dei nostri
cataloghi di stampo americano, non può che essere associata dalla nascita delle editorie, come la
Bompiani, Frassinelli ed Einaudi, le quali arricchiscono la proposta libraria, ma devono fronteggiare
la censura del regime, che attacca tutto quanto. Se questa nuova scoperta della narrativa
americana evoca figure come Cesare Pavese ed Elio Vittorini, la loro associazione è giustificata dal
ruolo che ricoprono nella fondazione del mito, inteso come deformazione ideologica della realtà;
entrambi sono commentatori di fatti letterari e traduttori, ma anche consulenti editoriali, sempre
con nuove proposte.
18.2 IL PIONIERE PAVESE
Pavese si era laureato con una tesi su Walt Whitman, interviene spesso sulle pagine della
“Cultura”; comincia a tradurre moltissimo e a scrivere aritcoli su autori americani, che formano
una galassia americana attraversata da un’energia espressiva attenta a cogliere le trasformazioni
del paese, come l’urbanizzazione, lo sviluppo industriale, l’omologazione, alienazione. Una galassia
che si arricchirà di autori, tradotti successivamente per Einaudi e Mondadori, per sua iniziativa ma
grazie anche al sostegno linguistico di Tony Chiuminatto che gli segnala le novità più recenti.
Pavese ribalta l’idea di una continuità con la tradizione del romanzo europeo. Egli, animato da
un’idea di intellettuale militante, può rintracciare nei personaggi di Lewis e Dreiser di poter
deviare il corso della propria esistenza, quindi una trasformazione dell’esistente che ha connotati
politici.
18.3 VITTORINI E L’ANTOLOGIA ​AMERICANA
Anche Vittorini promuove e traduce testi dall’America, appoggiandosi a Lucia Rodocanachi, prima
per Mondadori e poi per Bompiani. I testi più noti sono Pian della Tortilla di Steinbeck, Luce
d’agosto di Faulkner, Il cielo è il mio destino di Wilder, e sono accompagnati non solo dalle
revisioni del traduttore, ma anche da quelle per la censura, e soprattutto sono accompagnati da
recensioni in forma di ritratto. La sua passione, nata dopo quella di Pavese, si fa in fretta esclusiva
contribuendo all’importazione del romanzo americano. Di questi romanzi, Vittorini ammira
l’esuberanza linguistica e sintattica, che spesso si riflette, sul piano tematico, nelle scelte di vita dei
personaggi. Vittorini comincia a lavorare ad un’antologia, che faccia non solo da guida agli italiani
nella grande produzione statunitense, ma che sia anche un modo per entrare nella storia di un
paese ormai visto come nemico di guerra e non come terra promessa. È una narrativa che
racconta la vita vagabonda, le migrazioni e altre fome di evasioni di malinconici gentiluomini,
bevitori, ragazze ingenue, sposine disperate per dispetto, assassini; tutti protagonisti di un mondo
che persegue la felicità. Gli apparati di Americana fatti da Vittorini, e poi sostituiti con quelli di
Cecchi, traducono gli astratti furori con un entusiasmo per una letteratura dalle origini colte,
segnata dalle lezioni di Whitman.
18.4 PRECARIO E’ IL CANONE: RIPENSAMENTI POSTBELLICI
Il quadro degli autori americani che è stato offerto agli italiani è molto esaustivo e almeno
temporaneamente definisce i limiti di un caone americano che non può non tenere conto delle
scelte editoriali e dei giudizi critici di altri. Vi compaiono brani di romanzi o di racconti di autori
anche da tempo defunti come Melville e Twain, o di qualche autore vittoriniano come Fitzgerald,
Saroyan, Hemingway e Faulkner; mentre mancano nomi come Dos Passos, Buck ed Henry Roth. La
composizione e l’estensione di questo canone sono detinate a subire dei cambiamenti, dovuti al
fatto che i gusti dei traduttori avevano influito parecchio sulla collettività. A prendere le distanze
da questi giudizi affrettati sono proprio Pavese e Vittorini, incoraggiando una variazione affettiva:
Pavese porta a termine un distacco che tenta di rinfacciare al tradimento postbellico degli Stati
Uniti; mentre Vittorini afferma che non ritradurrebbe Caldwell o Saroyan a meno che non
appartenessero a quella parte della storia di 25 anni prima. Così mentre il Politecnico nel 1945 dà
alle stampe il romanzo di Hemingway sulla guerra civile spagnola e nello stesso tempo appare
anche quasi tutto Faulkner, l’importanza di altri autori va scemando, travolta da un’ondata uguale
o contraria a quella di 15 anni prima, perchè se dal 1914-18 si leggevano i romanzi russi, e dal 1939
novelle e romanzi americano, nel post guerra c’è un altro scarto geografico, ideologico e stilistico.
18.5 UNA PROTRATTA LEZIONE DI STILE
Resta il fatto che alcuni degli americani in voga tra le due guerre continuavano e continueranno a
esercitare la loro influenza sui nostri scrittori: non solo nei titoli o nella location o nei personaggi,
ma anche nei temi e nelle soluzioni stilistiche adottate; cioè la cultura americana fa quasi da
sottofondo alla nostra letteratura e quindi va a strutturare il respiro della frase e il passo della
narrazione. Inoltre, la loro influenza la si nota anche nella formazione di personaggi solitari e un
po’ cinici, abituati a vivere alla giornata, anche se lo slittamento temporale e spaziale si porta
dietro implicazioni storiche e politiche. Pertanto nel richiamo ai diritti degli emarginati e alle cause
libertarie internazionali che la lezione america sui contenuti sembra alimentare il nostro
immaginario letterario. Nel giro di pochi anni però il flusso di contaminazioni traducendo o
semplicemente leggendo, comunque traduzioni, si ridimensiona.
CAPITOLO 19 CITTA’ E CAMPAGNA
19.1 CITTA’ vs CAMPGNA: L’OTTOCENTO
L’opposizione città-campagna è uno dei topos principali nella narrativa italiana moderna, a partire
dal Decameron ai Promessi sposi, in cui nell’addio ai monti di Lucia si riscontra l’inconciliabiltà dei
due mondi. Notiamo che la campagna è il luogo dei diminutivi mentre la città è caotica, violenta,
ed ovviamente è anche il luogo dell’abbondanza e della ricchezza, quindi della vita agiata. Nella
seconda parte dell’Ottocento si erge l’aspetto più attraente della città. La città nel romanzo
dell’Ottocento si presenta come più grande per accogliere le contraddizioni della modernità, anzi è
proprio espressione di essa e per questo motivo si oppone alla campagna, che trova nella sua
ruralità un aspetto umano. Questa opposizione resta in atto fino agli anni Novanta dell’Ottocento
basata su due poli inconciliabili.
Township modernism
L’opposizione città-campagna si manifesta nei momenti in cui le fasi dell’industrializzazione e del
progresso tecnologico fanno dei miglioramenti. Ed è in questi passaggio che il divario tra queste
due entità si amplia. E per quanto la città sia fatta di contraddiizioni e quindi sia anche sinonimo di
sofferenza e disagio, essa si trova sempre ad un livello avanzato rispetto alla campagna. Una
fiducia estrema nel progresso, però porta a vedere nella città la proiezione del futuro. Questo
dualismo non si adatta alla realtà sociale italiana, in quanto è articolata non solo in città, ma anche
e soprattutto in province, le quali saranno recuperate dai romanzieri modernisti. Nel romanzo
primonovecentesco non sono le grandi città a fare da sfondo alla narrazione, ma sono ad esempio
la Siena di Tozzi, o Trieste di Svevo o i borghi siciliani di Pirandello. Anche quando la storia si
rivolge a Roma, come in Tozzi o Pirandello, la città viene ridotta a piccolo quartiere. Se si guarda
alla cartografia del romanzo si nota come non si faccia riferimento alla città di Milano, anzi quando
i personaggi si trovano in questa città finiscono per provare disagio, come lo notiamo in Svevo e in
Borgese; ma colui che si lascia ad un attacco alla metropoli è Adriano Meis nel Fu Mattia Pascal. Il
bersaglio di Pirandello non è tanto la città in sé, ma si tratta della modernità, in quanto Milano
rappresenta il progresso tecnologico. Per questo motivo suscita nei modernisti delle diffedenze nei
confronti di un mondo moderno che si sta trasformando in qualcosa di diverso rispetto al posto in
cui si era nati. Questo spiega il motivo per cui Pirandello, Svevo e Tozzi ripiegano sulla provincia,
ma anche perchè la provincia non viene vissuta in modo subordinato alla città, infatti l’eroe
modernista non sogna di scappare dalla città, ma la comprime a borgo per poi tornare ai luoghi
natii. Si potrebbe parlare di township modernism, un modernismo di piccoli centri. Il problema
chiama in causa la poetica del modernismo; e all’inizio del 900 viene messa in crisi l’idea di centro
e di gerarchie rigide. Infine si può affermare che nel trentennio modernista questa disparità tra
città e campagna è messa da parte perchè subisce delle forti rivisitazioni.
19.2 CITTA’ E CAMPAGNA NEGLI ANNI DEL NUOVO REALISMO (1929-41)
Il modernismo è una corrente letteraria che oscilla fra riprese ed imitazioni, per questo motivo è
più sfuggente rispetto ad altre correnti. Tuttavia, per quanto riguarda il romanzo, esiste una fase
più strettamente modernista: quella che va dal 1904 con la pubblicazione del Fu Mattia Pascal al
1929 quando Gli Indifferenti aprono la strada al nuovo realismo. Il ritorno al realismo implica
anche un nuovo interesse per gli ambienti in senso oggetivo, quindi nei testi di questi anni le città
recuperano la loro centralità, e la combinazione città-campagna diventa il perno di un dibattito. Il
riferimento è alla polemica Strapaese e Stracittà; il primo fa capo al “Selvaggio” di Mino Maccari,
affiancato dall’ “Italiano” di Leo Longanesi, il cui intento era quello di valorizzare la vita di
campagna. In opposizione c’è “900” di Massimo Bontempelli, il quale cerca di abbracciare la
modernità e di proseguire l’esperienza del Futurismo. I due movimenti sono espressione di una
cultura nazionalista e fascista, e trovano in oggetti diversi la ciò che permette il compimento delle
origini culturali. In alcuni casi l’opposizione città e campagna recupera dei moduli che sono stati
già affrontati nell’Ottocento. Ad esempio, Romano Bilenchi fa sua l’esperienza del modernismo;
nei sui romanzi giovanili offre due mondi contrapposti: nel Capofabbrica la città è il luogo che
aveva belle donne ma era anche il luogo da cui fuggire. Anche Dino, come Alfonso Nitti in Una vita,
fantastica di ritornare al suo paese. Nel Conservatorio di Santa Teresa il mondo rurale è
accogliente e ideale per l’infanzia di Sergio, ma è la città che gli permette di fare nuove esperienze,
tanto che fin quando non riuscirà ad andarci, sogna un urbe mitica. Il repertorio di Bilenchi è
quello della tradizione: la città è il luogo delle donne, del lavoro e delle esperienze, mentre la
campagna è il luogo della tranquillità e della stasi. Questa opposizione negli anni Trenta sembra
però complicarsi, e sia i poli urbani che quelli rurali assumono forme diverse.
19.3 LA CAMPAGNA DEGLI ANNI TRENTA: TRA MITO E POLITICA (VITTORINI,ALVARO,SILONE)
Uno dei punti fermi nella rappresentazione letteraria del mondo rurale è la staticità, cioè la
campagna sembrerebbe vivere in un tempo immobile, in cui da sempre si ripetono sempre le
stesse azini, un mondo che segue un proprio ciclo naturale. Pertanto, non ci stupisce che nelle
narrazioni rurali non c’è politica e non c’è lotta sociale. Ma negli anni Trenta in cui tutto è
sottoposto alla fascistizzazione, anche le narrazioni rurali presentano argomenti politici, e
concedono ai loro personaggi un’adesione alla lotta. Esempio emblematico di questo nuovo modo
è l’opera Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini, la quale rompeva con la tradizione naturalistica
che volgeva a delle soluzioni liriche. Il viaggio che il protagonista fa verso la Sicilia, dove deve
incontrare la madre, è pieno di personaggi che si elevano a forme eterne dell’umanità; inoltre
l’arrivo in Sicilia coincide con il recupero di una civiltà contadina remota. L’immobilità della
campagna, in quest’opera, assurge a mito; ma in questo mondo quasi astratto, la storia prende
posto: il male storico esplode nel finale, quando il protagonista incontra il fratello, che era morto
durante la guerra civile spagnola; questo evento, che ha svelato ai giovani la menzogna del
fascismo e ha determinato l’allontanamento da Mussolini, si impone nel finale del romanzo,
diventando un tema centrale e soprattutto un punto di appoggio per coloro che leggono
quest’opera in chiave antifascista. Altro romanzo antifascista è Fontamara di Ignazio Silone, in cui
ritroviamo l’ìmmobilità del mondo, la stessa che ritroviamo in Gente di Aspromonte di Corrado
Alvaro. Questi testi rimettono al centro l’opposizione tra città e campagna, che qui è talmente
forte da dare vita a due razze che non possono comunicare tra di loro. Da qui nasce una vera e
propria ribellione sociale, in sintonia con quello che accade in città, o cmunque aliena dalla solita
immagine statica e bucolica da sempre attribuita alla campagna. Però c’è una differenza tra Silone
e Alvaro: Gente in Aspromonte si rifa ad un tema ribellistico già sfruttato dalla narrativa rurale di
inizio secolo, quindi ribellioni contro i potenti mosse dalla rabbia. Fontamara invece, pur
ricalcando lo stesso modello, nelle ultime pagine c’è una contrapposizione tra fascisti e cafoni con
il mito socialista, in una lotta che può essere trasposta in qualsiasi tempo e luogo: vediamo come
la storia è riuscita ad entrare in un mondo immobile. Inoltre, in questo romanzo il punto di vista e
la voce narrante sono quelli degli oppressi. Questi tre autori dimostrano che la contrapposizione
città-campagna deve essere articolta in modo diverso, anche perchè molto spesso i due mondi
sono connessi e uno dei ponti è offerto dalla storia e dalla realtà sociale.
19.4 LA CITTA’ NEGLI ANNI TRENTA: MODERNA, DIFFICILE, CORROTTA
La prima cosa che si nota nell’analizzare la rappresentazione letteraria della città nella narrativa
degli anni Trenta è l’assenza delle masse, forse perchè il modernismo aveva lasciato una tensione
riguardo il soggetto e la sua psiche, ed ha portato gli autori a concentrarsi sull’individuo, anche
quando l’idea era quella di dare un’immagine dell’ambiente cittadino. In alcuni autori resta l’idea
di una città moderna, come in America primo amore, in cui Mario Soldati esalta il progresso degli
agglomerati urbani, senza però evitare di parlare della miseria e della povertà. Le contraddizioni
messi in luce da Soldati fanno riferimento all’aspetto della città difficile, che si collega alla
rappresentazione delle classi popolari. Un esempio è l’opera Tre operai di Carlo Bernari, i cui
personaggi sono sfruttati e si scontrano con una realtà urbana che li costringe ad essere cinici. Qui
non sono solo i personaggi maschini ad uscire sconfitti dal romanzo, ma anche quelli femminili,
Anna su tutti, che mostrano capacità di reagire e di costruire la vita. Nel romanzo di Vittorini, Erica
e i suoi fratelli, invece ritroviamo l’aspetto della personaggio femminile corrotto a causa
dell’ambiente cittadino. La protagonista, Erica, viene abbandonata dalla madre che è corsa ad
accudire il marito malato, il quale è emigrato lontano a seguito del licenziamento da una fabbrica
milanese. Rimasta da sola, la ragazza si prende cura dei suoi fratelli in modo impeccabile, convinta
che la madre sarebbe ritornata presto. Le riserve cominciano a non bastare e i furti si
intensificano, così ci si pone la domanda di come farà ora ad andare avanti. L’unica soluzione che
trova è quella di prendere la strada della prostituzione. In questo modo la città mosta il suo lato
più duro che schiaccia i suoi abitanti, indipendentemente dagli sforzi che fanno. La Roma degli
Indifferenti di Moravia è una città corrotta sia dal punto di vista morale che etico. Nessuno dei
cinque personaggi riesce ad uscire dalle lusinghe rovinose del salotto di casa e degli ambienti della
capitale. Nel finale c’è l’addio di Carla al suo mondo, il quale viene prounciato poco prima
dell’amplesso con Leo e si rovescerà nella piena adesione al mondo borghese, un mondo fatto di
salotti, luoghi privati, luoghi che non prevedono la presenza delle masse, ma del solo individuo. La
rappresentazione della corruzione morale di Roma è affidata ai personaggi e alle loro vicende.
Tutto questo si riscontra anche nell’opera di Brancati, Singolare avventura di viaggio, i cui
personaggi riescono a tracciare l’anima di Roma con le loro azioni; nel finale descrive il rientro a
Roma del suo eroe, e il narratore ne mostra la sua pochezza, che è la stessa di una città priva di
morale. La città sul finire degli anni Quaranta perde il suo primato sulla campagna, infatti non è più
il luogo in cui si manifestava la modernità. Cesare Pavese, nel 1941 in Paesi tuoi, fa incontrare il
contadino Talino e il cittadino Berto, e tra i due il contadino sembrò essere il più scaltro poichè
trascina il suo compagno di galera in campagna. Questo è l’inizio di un cambiamento
antropologico, in quanto la cultura contadina è contaminata dalla furbizia cittadina, tanto che è il
meccanico Berto a dover andare nelle Langhe. Dopo la morte della sua donna, uccisa da Talino,
Berto decide di tornare in città, affermando che quello è il suo posto, ma ormai Torino come le
altre città letterarie non ha nulla da insegnare alla campagna.

CAPITOLO 20 IL ROMANZO TEDESCO IN ITALIA


20.1 DAL WERTHER A THOMAS BERNHARD: UNA RICEZIONE INTERMITTENTE
In Italia, il genere del romanzo è legato alla letteratura tedesca fino dal 1802, anno di
pubblicazione dell Ulime lettere di Jacopo Ortis, il cui modello diretto è il romanzo di Goethe I
dolori del giovane Werther, che già circolava ad inizio Ottocento in tre diverse traduzioni. Si crea
così un’interferenza tra la letteratura tedesca e quella italiana, infatti Foscolo contribuisce alla
diffusione in patria del genere letterario già affermato in Europa e cambia le sorti della letteratura
italiana, aprendo la strada al romanzo. Il romanzo tedesco influenzerà la letteratura italiana in
maniera intermittente: se per lunghi periodi resta ai margini del dibattito letterario, in altre fasi
invece è il fattore principale di cambiamento. Nel XIX secolo Il Werther è un punto di riferimento
per gli autori italiani, ma i giudizi degli italiani stessi su Goethe sono ambiavalenti per decenni. Tra
i narratori tedeschi dell’ottocento emerge Hoffman, che sarà amato da Giuseppe Gioacchino Belli,
e dagli esponenti della Scapigliatura milanese. Tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo nasce il
filone della letteratura rusticana, che porta in Italia i romanzi di Auerbach e Keller. Fino all’inizio
del Novecento, però gli scrittori italiani non hanno come modello il romanzo tedesco, ma
guardano alla tradizione ottocentesca francese. Tra gli anni Venti e Trenta avviene un momento
cruciale per quanto riguarda la commistione tra il romanzo tedesco e quello italiano: dalla
Germania arrivano libri capaci di opporsi alla diffidenza verso il genere romanzo che caratterizza la
letteratura italiana, infatti questo genere non gode di buona fama e viene spesso ignorato o
catalogato come letteratura di consumo. Negli anni Venti e Trenta, l’arrivo di scrittori
contemporanei come Doblin e Mann, ha un ruolo fonadamentale sia come oggetto di discussione
nel dibattito sul romanzo, sia come insieme di modelli che pongono le basi per la fioritura di
questo genere. Dal 1945 i letterati italiani cercano di esaltare quegli scrittori che possono essere
letti in chiave antinazista, Kafka e Mann. Negli anni Cinquanta la corrente vicina alle poetiche
neorealiste, predilige scrittori militanti come i fratelli Mann, Kuby e Brecht. Intorno agli anni
Sessanta si sviluppa un altro filone, che include la letteratura legata al Gruppo 47, riletti in chiave
politica, con maggiore attenzione alle sperimentazioni formali. Dagli anni Sessant la dimensione
politica della letteratura tedesca comincia a passare in secondo piano. Gli autori tedeschi, inoltre,
sono legati a filoni letterari di vari settori: dalla riscoperta delle culture orientali, alla discussione
sulle questioni di genere, fino all’interesse per la cultura ebraica. Comincia a svilupparsi anche un
interesse per la letteratura austriaca, grazie agli studi di Claudio Magris. La casa editrice Adelphi
era un mezzo di diffusione del romanzo, e raggruppava sotto l’etichetta di Mitteleuropa autori
anche non direttamente legati alla Germania.
20.2 IL PRIMO NOVECENTO: ROMANZO TEDESCO E MODERNITA’
In Italia l’interesse per il romanzo tedesco nasce negli anni Venti del Novecento, infatti fino a quel
momento era considerato letteratura di consumo. Gli innvatori ritengono che sia un genere antico,
e per questo preferiscono la scrittura frammentaria. Benedetto Croce non accetta la riflessione
teorica sul romanzo, ostacolando sempre di più la sua diffusione; ma proprio grazie alla sua casa
editrice e al’opera di due traduttori, Spaini e Pisaneschi, formatisi alla redazione di “Voce”, esce la
prima traduzione integrale di uno dei più importanti romanzi della modernità, Gli anni di
apprendistato di Wilhelm Meister di Goethe. Questa traduzione è una sorta di opera collettiva di
tutta la redazione di “Voce”, ai quali interessa soprattutto la vicenda dello sviluppo spirituale del
protagonista, che riesce con fatica a conquistarsi un posto nel mondo diventando il prototipo di
del giovane borghese, colto, capace di trovare la propria strada sfruttando le sue potenzialità. La
traduzione di questo romanzo di Goethe segna un punto di svolta nella percezione del traduttore
come professionista, poichè fatta direttamente dal tedesco all’italiano. Spaini e Pisaneschi, i primi
a laurearsi in letteratura tedesca, saranno i maggiori interpreti e mediatori di letteratura tedesca.
Giuseppe Antonio Borgese, insegnante di letteratura tedesca, è un difensore del romanzo come
genere letterario, e grazie al suo lavoro di germanista gli permette di far conoscere il romanzo
tedesco in Italia. Egli dirige anche dal 1912 la collana “Antichi e Moderni” di Carabba e dal 1930 la
“Biblioteca romantica” di Mondadori, dedicata al romanzo ottocentesco europeo. L’opinione di
Borgese a favore del romanzo è minoritario. Le cose cambiano dal 1929, anno in cui gli editori
italiani esplorano il romanzo contemporaneo, anche con l’aiuto da parte dello Stato fascista, che
vede nel romanzo il genere più adatto a rappresentare la modernità. Tra il 1929 e il 1933 nascono
importanti collane, come “Scrittori di tutto il mondo” di Gian Dàuli, ed è la prima ad occuparsi del
romanzo contemporaneo ed offre le opere straniere più significative, e nel giro di pochi anni Dàuli
fa arrivare in Italia i principali romanzieri internazionali, la metà tedeschi.
20.3 DALLA NEUE SACHLICHKEIT A KAFKA E THOMAS MANN
Il decennio delle traduzioni amplia il panorama letterario anche al mondo germanofono. Gran
parte delle opere tradotte dal tedesco rientrano nel filone della nuova oggettività o Neorealismo.
Tra il 1923 e il 1925 si diffonde l’idea che l’arte debba essere fedele alla realtà e rappresentare i
cambiamenti in atto nell’epoca contemporanea. È un’idea che trova spazio anche in Italia,
soprattutto negli autori che hanno avuto un contatto con la cultura tedesca. Così allo stereotipo
della Prussia efficiente e regolata, si sostituisce quello di un paese caratterizzato da una caotica
vivacità. L’interesse per i romanzi che appartengono a questo nuovo filone, nasce anche
dall’ampliamento del numero dei lettori; il nuovo pubblico cerca nella letteratura straniera un tipo
di romanzo non ancora affermato in Italia, infatti l’urlo di Gramsci riguarda la mancanza nella
cultura nazionale di una cultura nazional popolare. I romanzi tedeschi inscenano uno stile di vita
moderno, mutuato dalla cultura americana. La rappresentazione della modernità si articola in tre
sottogeneri: il romanzo della guerra, i romanzi metropolitani, e gli Zeitromane, che racontano il
modo in cui si vive l’epoca contemporanea. I romanzi di guerra hanno avuto successo anche in
Italia, esce La guerra di Renn, mentre la censura blocca Niente di nuovo sul fronte occidentale di
Remarque, per la tematica pacifista. La grande città è protagonista di romanzi come Berlin
Alexanderplatz di Doblin, la cui traduzione viene affidata a Spaini. La storia della redenzione
impossibile del protagonista si tiene in una Berlino ormai nevrotica, esacerbata, ma piena di
disturbi. Spaini per rendere comprensibile l’opera al pubblico italiano, è costretto ad adottare
alcune soluzioni di compromesso, infatti decide di non tradurre il dialetto berlinese, perchè vuole
rendere il realismo dei dialoghi. Il ritmo dei dialoghi è influenzato dal cabaret e dal teatro, mentre
il dialetto viene scelto in quanto ha a che fare con la voglia di rappresentare personaggi comuni
del proletariato o della piccola borghesia. Nei romanzi tedeschi vengono messe in evidenza le
difficoltà di lavoro nella grande città anche per i ceti più alti, come i due giovani protagonisti
laureati di Fabian di Kastner. I due, infatti non riescono ad inserirsi in una società che, anche per la
crisi economica, tende a spaccarsi: Stephan si uccide, mentre Fabian non riesce a trovare un
impiego migliore di quello di scrivere annunci pubblicitari. Nel romanzo la vita reale si frantuma
nelle impressioni dei titoli di giornale come forza che si scaglia sul protagonista, e gli slogan
servono per ironizzare le vicende tristi del protagonista, infatti ogni capitolo porta un titolo che
ricorda i cartelli di teatro o del cinema muto. La vicenda di Fabian porta alla luce un altro tema
caratteristico della Germania del tempo, cioè la condizione della donna, sempre più emancipata
ma allo stesso tempo esposta ai ricatti della cultura commerciale. In Fabian le donne sono
autonome e sessualmente libere, anche la donna da lui amata, Cornelia segue questo modello,
anche se alla fine preferisce un produttore che la renderà una star del cinema. Il romanzo del
Neorealismo lascia qualcosa nella letteratura italiana tra le due guerre. Ciò che viene imitato è
quello che gli autori apprendono attraverso le traduzioni. Ad esempio si perde lo sperimentalismo
linguistico, ma hanno un grande impatto le tecniche narrative, come il montaggio delle scene e
l’indistinzione fra discorso del narratore e quello indiretto libero, e i temi. I romanzi italiani che più
hanno subito l’influenza dei tedeschi sono Quartiere Vittoria di Dettore, Tre operai di Carlo
Bernari, considerati anticipatori del Neorealismo; questi romanzieri si interrogano su quali siano le
forme più adatte per rappresentare l’ingresso dell’Italia nella modernità. Dèttore prende da Berlin
Alexanderplatz alcune strutture narrative e sintattiche tese a mimare il parlato, ed anche molti
temi. Negli anni Trenta arrivano in Italia anche Kafka e Mann; nel 1933 in Italia esce Il processo,
nella traduzione di Spaini, e diventa uno degli autori più amati in età contemporanea. A partire
dalla metà degli anni Trenta, con l’irrigidirsi della censura diventa difficile la circolazione delle sue
opere, e diventa parte del canone italiano nel dopoguerra. La ricezione di Thomas Mann segue un
percorso più o meno analogo. Era considerato dagli italiani poco interessante, infatti viene
ignorato per circa vent’anni, fatta eccezione per due raccolte di racconti. Solo nel 1929, grazie al
Nobel, cominciano ad uscire i romanzi; nel frattempo stringe rapporti con autori italiani come
Silone e Borgese. Nel momento in cui comincia ad affermarsi anche in Italia, subisci gli attacchi
nazisti che cercano di impedire la circolazione delle sue opere sia in Germania che altrove. La
Mazzucchetti, colei che si è occupata di far conoscere Mann, viene accusata di diffondere
un’immagine falsa della Germania solo per avere delle contrattazioni con Mussolini così che la
Mondadori potesse continuare a pubblicare i romanzi. Dopo la Seconda guerra mondiale ci fu di
nuovo interesse per Mann, ormai cambiato rispetto alla produzione precedente, grazie ai suoi
saggi e alla rilettura dei suoi romanzi in chiave politica.
20.4 I ROMANZI STRANIERI E LE TRASFORMAZIONI DEL CANONE ITALIANO
Nel periodo tra le due guerre, l’influenza delle traduzioni dal tedesco ha favorito una
sperimentazione sul genere del romanzo, che fino agli Venti ha trattato i problemi della modernità
senza abbandonare il modello ottocentesco. I romanzi tedesci del nuovo filone del Neorealismo
spingono gli autori italiani a cimentarsi in questo nuovo modo di vedere questo genere.
L’interferenza tra romanzo italiano e quello tedesco non va ridotta a dinamiche imitative dei
modelli. I casi di Kafka e Mann dimostrano infatti che la diffusione di un’opera non è dovuta al suo
valore letterario né al successo che ha in patria. Possiamo notare quindi come siano gli stessi
autori italiani a decidere come e cosa si debba tradurre dalla letteratura tedesca; dal 1930 grazie ai
grandi traduttori dell’epoca nasce un canone letterario del romanzo tedesco che rimarrà costante
per tutto il secolo, dando forma alla letteratura italiana del 900.

CAPITOLO 21 ROMANZO E TEATRO NEL NOVECENTO ITALIANO


21.1 LA CRISI DELL’UOMO E LA FORMA TEATRALE
In Dall’opaco, racconto di Italo Calvino del 1971, il narratore si visualizza di fronte ad un paesaggio
memoriale. Tutto il racconto è un discorso sull’identità e la memoria, con tracce di psicoanalisi che
potrebbero identificare l’io aprico e l’io opaco con un livello cosciente e l’’altro con il preconscio.
La particolarità del racconto è il paesaggio narrativo memoriale che diventa un teatro a cielo
aperto. La domanda che si pone Calvino riguardo l’identità di un artista narratore, non riguarda
soltanto le modalità di comunicazione tra soggetto e mondo, ma coinvolge il teatro come luogo
della coscienza, in cui possono coesistere le due metà dell’io. Al 1860, il filosofo ungherese Peter
Szondi, fa risalire il principio di una crisi dell’uomo all’interno della letteratura con un collasso deo
generi letterari tradizionali. Szond si concentra sul teatro e su come nei drammi si verifichi una
rottura tra il contenuto del dramma stesso e il soggetto narrante. Nel teatro rinascimentale della
seconda metà dell’Ottocento, trova spazio un’identità inquieta. Il soggetto, tra la metà
dell’Ottocento e i primi del Novecento, mette in discussione la proprià rappresentabilità come
oggetto; l’io dell’autore, se prima si nascondeva nei dialoghi, ora irrompe sulla scena rivendicando
il diritto a gestire lo spazio della comunicazione teatrale e ad essere riconosciuto come autore. Un
esempio è l’opera di Pirandello Sei personaggi in cerca di autore, in cui c’è l’irruzione dell’io epico
sulla scena: è il soggetto scrivente, colui che ha inventato i sei personaggi e che poi ha messo da
parte; ma è anche il Capocomico, il regista del dramma che gli altri stanno mettendo in scena in
cui si calano i sei personaggi allontanandosi dal mondo virtuale del loro autore. Il dramma esce
fuori dall’interazione tra i personaggi e gli attori. Nel teatro come accadere presente e
intersoggettivo, i sei personaggi contestano proprio la possibilità di esprimere il proprio dramma
attraverso l’azione e il dialogo nel tempo del presente che è il tempo della rappresentazione. Il
vero peccato dei personaggi sembra essere il loro soggettivismo, come vediamo nel personaggio di
Figliastra il cui protagonismo è contestato dal Capocomico. Il dialogo come forma scelta per la
comunicazione teatrale viene messo in discussione da un io epico, che arriva a negare il valore
dello scambio perchè ognuno dà il proprio significato alle parole. Il nocciolo sta nella
scomposizione del personaggi in miliardi di atti, nei quali l’individuo non può metterci tutto sé
stesso. Crollata l’illusione di unità che anche l’io epico ripropone come forza individuale
autoritaria, il personaggio mette in discussione la sua posizione nel rapporto con la natura e con il
contesto sociale. È la stessa indentità franta che ritroviamo nel racconto calviniano Dall’opaco
come dualità riconciliata. La crisi del soggetto ha generato un collasso della forma drammaturgica
che corrisponde alloo sviluppo dell’umanesimo rinascimentale. Quindi c’è da chiedersi se la
narrativa è stata influenzata dalla forma drammaturgica, quindi una narrativa sottoposta alla
drammatizzazione dell’epos, e in parallelo quindi una epicizzazione del dramma.
21.2 DIALOGO, PLURILINGUISMO E “DRAMMATIZZAZIONE DELL’EPOS”
Cesare Segre ha affermato che le funzioni narrative che nel romanzo sono affidate al narratore e ai
personaggi, nel teatro invece sono affidate al dialogo. Questo concetto si lega bene con la
definizione di Szondi del dramma classico come evento interpersonale. Secondo l’idea bachtiniana
il romanzo è un insieme di linguaggi, voci e idioletti organizzati in dialogo tra di loro. Questa
plurivocalità che penetra nel romanzo italiano otto-novecentesco inizia dal 1860, anni della
Scapigliatura milanese e piemontese, anni in cui scrittori come Carlo Dossi e Lucini, contaminavano
il registro letterario dell’italiano colto con le espressioni del parlato dialettale, prendendo
ispirazione dal discorso parlato del teatro dialettale. Come nella scena teatrale l’io prevarica sulla
comunicazione dei personaggi in dialogo, nel romanzo la voce del narratore s frantuma in più voci
e linguaggi diversi. Uno dei precursori di questa pratica fu Antonio Zanolini, che nel 1847 scrisse il
primo romanzo plurilinguistico nella storia della letteratura italiana: Il Diavolo del Sant’Uffizio,
storia bolognese dal 1789 al 1800. Egli riteneva che la lingua italiana fosse due lingue distinte, una
per lo scritto e un’altra, quella regionale, solo parlata. Da qui deriva la sua decisione di usare la
lingua scritta per le parti narrative del romanzo del 1847, mentre i dialoghi erano scritti nella
lingua parlata. Dopo Zanolini, fu Faldella ad adottare il dialogo teatrale all’interno del romanzo, e
scelse di mettere insieme un purismo toscaneggiante e un dialetto piemontese. Siamo lontani
dagli anni in cui Pasolini avrebbe intrapreso lo stesso percorso del romanzo plurilingue in dialetto
romano e italiano, servendosi del suo amico Franco Citti per attingere la vera parlata gergale dei
borgatari romani. In epoca postneorealista c’era la necessità di produrre un romanzo documento
attraverso l’imitazione del linguaggio di strada e l’esigenza di ridurre le distanze tra autore
medioborghese e personaggio proletario. Pasolini ha allenato la sua capacità di scrivere in dialetto
attraverso la pratica drammaturgica; tra il 1939-49 scrisse delle opere teatrali, due in friulano, I
Turcs tal Friul e la Morteana, un’altra invece in italiano e friulano, I fanciulli e gli elfi. L’apporto
fondamentale dato da Pasolini è che la pratica teatrale dialettale diede al discorso libero indiretto
di Ragazzi di vita e Una vita violenta, uno strumento retorico del plurilinguismo narrativo
pasoliniano. In Ragazzi di vita si nota come sia scritto in un italiano standard, costellato qua e là da
parole in dialetto che il narratore utilizza per far parlare i personaggi. Le parole che Pasolini usa
indicano gesti del corpo, per questo hanno una tensione teatrale. Quindi l’io epico di Pasolini si
cala nell’anima dei parlanti nativi e mette in scena la loro cultura; ora è il narratore a prendere le
sembianze del personaggio e ne riproduce l’identità di attore.
21.3 IL DIALOGO TEATRALE E LA DISSOLUZIONE DELL’IO EPICO
L’io epico si imposessa della scena nascondendosi nel dialogo dei parlanti proletari, la
compresenza di voci diverse comporta la frantumazione del soggetto in vari atti performativi. Il
flusso della soggettività di Joyce è il consolidamento di quello che abbiamo definito come
drammatizzazione dell’epos. L’altra realizzazione avviene quando l’io epico si nasconde: si fa
riferimentio al Realismo narrativo che da Verga e Capuana arriva al Neorealismo letterario di
Vittorini, Calvino: una tradizione che tende alla riproduzione dell’oggetto narrato perseguendo
una diminuzione della soggettività. Il romanzo di Vittorini, Conversazione in Sicilia, è significativo
per la sua riflessione sulla questione del debito che il Realismo ha nei confronti della forma
teatrale. Egli era convinto che il teatro potesse avere un primato sulla prosa narrativa per quanto
riguarda la scrittura realistica, in quanto la forma teatrale sarebbe più oggettiva di quella narrativa.
Questo sarebbe dovuto al fatto che il dialogo drammatico presenta il punto di vista del narratore
che non si esprime come già dato ma si rivela atraverso lo scambio dei personaggi. Quindi un testo
teatrale realizzerebbe l’impersonalità della voce narrativa che la tradizione verista aveva iniziato e
quella neorealista aveva assimilato. L’intenzione di Vittorini era quella di accentuare l’elemento
dialogico-teatrale della sua opera, cosa che si nota già dal titolo, e non è un mistero che l’autore
aveva preso la decisione di contaminare forma teatrale e forma narrativa. Il realismo di questa
oera capostipite del neorealismo sarebbe in debito con la forma teatrale, cui si ricollega anche il
modello americano.
21.4 TRAVESTIMENTO DELL’IO E PERFORMATIVITA’ DI GENERE
Un altro aspetto che viene analizzato dagli scrittori del Novecento nelle loro sperimentazioni
narrative è quello del travestimento: il personaggio che dice io si maschera da personaggio ed
evidenzia l’aspetto performativo. Questo accade soprattutto nei romanzi che trattano la questione
dell’identità di genere. Il romanzo di Pavese, Tra donne sole, presenta un nuovo modello di donna
libera e indipendente, che vive in una civiltà urbana in cui le regole sono fatte per essere
trasgredite e in cui la femminilità emerge mascherata e come gioco di ruolo. La protagonista
viaggia da Roma, la città in cui vive, a Torino città della sua infanzia in cui si trova si ritrova a
specchiarsi con molte donne. Il dramma funziona come metafora della finzione sociale cui si
sottopongono i personaggi. Un altro racconto in cui si affronta il tema dell’indentità con mezzi che
rimandano agli atti performativi è Lo scialle andaluso di Elsa Morante. Si descrive il rapporto tra un
aspirante primadonna teatrale, Giuditta Campese, e suo figlio Andrea che ha sempre disprezzato il
mestiera della madre, ed era così grande che si chiuse in convento rifutando le visite della madre,
fino al giorno in cui decide di andare a vederla a teatro, una recita che si conclude con un fiasco
umiliante. L’enfasi sull’abito teatrale e anche sull’abito religioso e quello elegante comprato da
Giuditta per fare un patto con il figlio, è un modo per accentuare il tema della travestimento e del
gioco di ruolo nella ricerca della propria identità. E proprio il passaggio di Giuditta da ballerina a
madre è segnato dal cambio di abito. L’ammissione da parte di Andrea del proprio ruolo di figlio e
della propria identità fonda l’incapacità di immaginarsi in altre forme. Anche in Valentino di
Natalia Ginzburg il narratore fa riferimento alla dubbia identità di genere di Valentino, dato che è
omosessuale e fissato per il travestimento. Superata la tragicità del momento in cui ha scoperto la
sua duplicità, l’io epico sembra godere della sua flessibilità. Interrogandosi sulla propria identità di
genere, il narratore a cavallo tra prima e la seconda metà del Novecento prepara il terreno per la
nozione di identità come atto performativo o costrutto sociale. Se l’io adesso è una serie di atti
che assumono un significato grazie alla loro ripetizione, allora il senso del racconto calviniano
assume un valore epistemologico. Alla fine di questo excursus possiamo dire che l’identità viene
vista come entità dinamica, ovvero una sequenza di atti significativi che costruisce il soggetto
mediante la loro interazione performativa, raccolta e tenuta insieme dalla memoria individuale e
collettiva. Quindi la drammatizzazione dell’epos si rivela come un espediente per comprendere
l’evoluzione del romanzo moderno.

CAP. 22- I Romanzi della Resistenza


La liberazione del paese, raggiunta nella primavera del 1945 dopo circa tre anni di guerra combattuta e
persa al fianco la Germania nazista e al termine di 19 anni di durissima battaglia contro l’esercito tedesco e
la Repubblica Sociale Italiana con la tensione fra riscatto popolare e guerra civile, apre nell’immediato
dopoguerra a un clima di forte attesa e speranza di rinnovamento, cui però presto si accosterà un diffuso
senso di delusione e di tradimento rispetto ai grandi ideali e promesse che la resistenza aveva portato con
sé. La fase di ricostruzione si chiuse dopo la metà degli anni Cinquanta con la contemporanea invasione
dell’Ungheria nel 1956 sulla scena politica nazionale. Drammatica sarà la delusione per chi, dopo aver
confidato nella fatidica data del 1945 come anno zero di una inevitabile palingenesi civile e morale del
paese, sotto il segno di un ricominciamento totale, sarebbe poi stato costretto a fare i conti, nella sostanza,
con l’Italia di sempre, smaniosa di tornare a ogni costo dentro l’idillio artificiale di una normalità protetta
dell’oblio delle proprie responsabilità collettive durante la dittatura e gli anni dell’alleanza con Hitler.
L’unica opera italiana pienamente corale, che tiene al proprio centro il tema della Seconda Guerra
Mondiale e della Resistenza con taglio antiletterario e legata all’indagine sul campo, è ​Mondo dei vinti di
Nuto Revelli del 1977, una raccolta di racconti orali dei contadini delle valli cuneesi, fissando nello spazio
collettivo della memoria il dramma della distruzione del mondo e del popolo.
Nel 1946 Franco Fortini in un articolo, Documenti e Racconti, individua da subito uno dei nodi cruciali nei
rapporti tra letteratura e Resistenza, distinguendo una prospettiva di chi scrive mosso da passioni pratiche
per ottenere una immediata rispondenza nelle passioni sociali, politiche, morali del lettore, rispetto alle
dinamiche delle creazioni artistiche che operano con ‘un altro ritmo’. Quarant’anni dopo esortava a leggere
la memorialistica e la diaristica più che romanzi e poesie. Solo lì viene trasmessa l’immediatezza che vi pone
delle domande terribilmente serie. Soltanto l’età della Resistenza e la sua letteratura memorialistica hanno
riunito eventi umani che di solito sono vissuti in tempi lunghi. Durante gli anni della liberazione sulle pagine
della stampa clandestina la memorialistica resistenziale si presenta come il genere più diffuso e praticato,
basato sulla necessità di una scrittura con impegno pedagogico-morale immediato e collettivo, che
neutralizza lo stile personale in funzione di un messaggio, un contenuto che si intende rivolgere all’intero
popolo italiano.
Tra le opere di memorialistica partigiana ricordiamo ​Banditi di Pietro Chiodi, scritto fra il 1945 e il 46, in cui
l’autore ricostruisce e narra in forma diaristica dalla propria esperienza nelle Langhe nella 2 Guerra
Mondiale ai primi contatti con le bande della resistenza locale, riportando quindi l’angosciante resoconto
del suo arresto, della sua detenzione continuamente esposto a rischio morte e della sua deportazione in un
campo di prigionia, sino al drammatico e rocambolesco rientro in Italia per prendere parte alla fase finale
della lotta partigiana e alla liberazione di Tornino. Denuncia con grande amarezza la difficoltà che
l’esperienza partigiana incontra nella sua aspirazione a un unanime riconoscimento per il valore della sua
funzione storica e civile. L’autore prende la parola in nome di un NOI che lega l’io biografico ai suoi
compagni di lotta impiccati. Chiodi riesce a fare letteratura muovendosi dentro un’ottica antiletteraria,
abitando con passione e rigore testimoniale la dura cronica dei fatti. La lingua è asciutta e essenziale,
concisa e antiretorica mentre il pathos è alimentato da un rigoroso e laconico fermare i tratti essenziali di
momenti, gesti ed eventi drammatici o memorabili.
Come lui, in tantissime altre opere coeve ritroviamo la stessa opposizione tra verità e fatti di invenzione
romanzeschi, tra testimonianza e creazione letteraria. Le problematicità si un confine netto che distingua
cronoca e romanzo, nazione storica e letteratura di memoria viene evidenziata da alcune opere dedicate
all’esperienza resistenziale in cui si produce, o si esplicita addirittura, uno sconfinamento o una inevitabile
ibridazione dei generi. Anche se precedente alla guerra partigiana, Guerra in camicia nera di Giuseppe
Berto è l’esempio perfetto di questa ibridazione. L’autore nell’introduzione al testo ridefinisce i rapporti tra
io biografico, documento, diario e romanzo, conservando comunque il desiderio di testimonianza e
aderenza a fatti vissuti direttamente. L’io, prima persona del diario, è un personaggio così come ad essere
personaggi sono tutti gli altri intorno a lui, e tutti si muovono in un’aria di fantasia. Latro esempio è ​Tiro al
piccione di Giose Rimanelli, che dietro alla maschera di un personaggio fittizio narra in prima persona le
disavventure picaresche e di cruda violenza tra le fila della repubblica sociale di un giovane molisano, che
funge da alter ego dell’autore, travolto dagli eventi e incapace di maturare o orientarsi tra i vari eventi
storici che lo coinvolgono. Un’altra opera è ​Paura dell’alba di Arrigo Benedetti, un testo autobiografico
dedicato alla ricostruzione della lotta partigiana nell’appennino reggiano, in cui il punto di vista della
cronaca e quello della narrazione, la registrazione oggettiva e la ricostruzione/deformazione artistica del
vissuto portano ad una inevitabile tensione tra la prospettiva del giornalista di guerra, l’autobiografia e la
stilizzazione letteraria. Racconto e vissuto di fondono dentro una scrittura ironica e antiretorica, dove il
protagonista-io, dà vita a un percorso di radicale parodia delle dinamiche del Bildungsroman.
Il protagonista del romanzo della resistenza è di solito un eroe positivo, portavoce ed espressione fiduciosa
dello spirito della Resistenza e di origini prevalentemente popolari. Spesso il romanzo si fa carico
dell’esperienza partigiana, anche se finisce per cedere ad una letteratura, nel suo insieme, pericolosamente
vicina alla propaganda politica. Affronta questioni private, quali integrazioni fallite, solitudini e fughe che
implicano una messa in discussione la corrispondenza fra esperienza partigiana e bildungsroman sociale,
civile ed esistenziale. Esemplare è ​L’Agnese Va a Morire,​ in cui la protagonista contadina ingenua e ostinata,
dopo la perdita del marito, dedica tutta sé stessa al servizio di una banda partigiana, sino al sacrificio della
propria vita. Anche se non viene utilizzato un linguaggio enfatico, l’autrice non riesce a sintetizzare insieme
intenzioni ideologico-didattiche ed il testo si presenta come un susseguirsi di eventi drammatici, legati alla
vita partigiana, con un predominio del piano descrittivo su quello narrativo, con un irrigidimento del
carattere dei personaggi, che convergono tutti a sostegno del messaggio che l’autrice si prefigge di
raggiungere. Diverso discorso deve essere fatto per ​Uomini e no di Elio Vittorini, in cui si prova a convergere
sulla pagina l’impegno premeditato e sperimentazione modernista, cronaca partigiana e romanzo lirico,
lasciando in generale trasparire un eccesso di volontarismo. Da un lato c’è la descrizione di Milano nel 1944,
occupata dai nazisti, sfondo dell’impossibile storia d’amore tra un partigiano gappista e la sua amante, e
dall’altra si svolge il polo mitico-utopico dell’opera, con una serie di sequenze in corsivo sul desiderio di
regressione al paradiso dell’infanzia del partigiano e dell’io narrante. La storia d’amore dei due personaggi,
iniziata prima dello scoppio della guerra, non trova la grande occasione per una svolta, nonostante il clima
di grandi rivolgimenti. Alla fine l’uomo deciderà di perdersi nel proprio tormento interiore, di rifiutare una
salvezza che non può essere estesa alla sua relazione sentimentale, finendo per suicidarsi nell’attesa del
suo nemico, lo spietato fascista Cane Nero. Particolarmente importante è la scena in cui l’operaio destinato
a continuare la missione del protagonista, in una bettola incontra un soldato tedesco, il cui viso è segnato
dal senso di smarrimento, dalla tristezza e dalla stanchezza che lo rendono incredibilmente simile a lui.
Invece di sparargli a bruciapelo, lo lascia libero e tornando dagli altri compagni di battaglia dichiarerà:
“imparerò meglio”.
La prima opera in grado di contrastare la sclerotizzazione retorica dei rapporti tra letteratura e resistenza, è
Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, del 1947. È la storia di un’integrazione fallita fra individuo e
realtà, in cui la dimensione epica è accessibile a patto di tramutarsi in accensione fantastica. Il protagonista,
Pin, attraversa la guerra spavaldo e smarrito, sperimentando la propria estraneità verso il mondo dei grandi
che gli si conferma, in ogni frangente, incomprensibile e avverso. Pin si muove all’interno di un mondo che
ospita al proprio interno, allo stesso tempo, l’evasione e la paura; il paesaggio domestico si trasfigura, sotto
il suo sguardo straniante, in un mondo altro, in fuga dalla quotidianità, ricco di nascondigli, misteri, ostacoli
e casi eccezionali, mentre oggetti e incontri assumono un valore e potere magico. Centrale è la figura di
Cugino, partigiano eccentrico e solitario, adulto rimasto in qualche modo bambino: è lui il solo in grado di
entrare in contatto autentico con Pin. A Cugino per questo, nel disegno complessivo del romanzo, è affidato
il compito di mediare il rapporto di Pin con la storia; è lui a incontrarlo smarrito e affranto nel bosco,
condurlo con sé e a metterlo in contatto con una improbabile e sgangherata banda di partigiani in cui il
ragazzo si sente finalmente a casa. Gli adulti ben presto torneranno però a voltargli le spalle e a tradirlo nel
momento del bisogno. Solo Cugino sarà in grado di svolgere il ruolo di grande amico. La Bildung di Pin è
enigmatica, controversa, eccentrica e non risponde al modello canonico di una maturazione che conduce
fuori dalla condizione per l’infanzia, permanendo a lungo in un solco che rende contigue fantasia e realtà.
Nel 1947 Tommaso Landolfi pubblica Racconto d’autunno, in cui il protagonista narra in 1 persona la sua
avventura demoniaca, in cerca di rifugio, mentre in Italia due formidabili eserciti si scontravano. È la
cronaca di un incubo, di un amore ossessivo e delirante, che vede l’autore risucchiato dentro trame e
scenari da racconto dell’orrore, fra magia nera, case infestate, spettri, necromanzia, guidato da una fantasia
sfrenata e da un eros perverso.
Di Cesare Pavese ricordiamo ​Il carcere del 1939, dedicato all’esperienza del confino in un paese del Sud
Italia, durante il fascismo a cui viene condannato, dopo pochi mesi di carcere, Stefano, un giovane
ingegnere del Nord che nella sua complessa e contraddittoria ricerca di contatti e rapporti con gli altri
finisce per proclamare in modo sempre più perentorio la sua condanna alla solitudine. Importante è anche
‘La casa in collina,​ del 1946 che vede come protagonista Corrado, un professore di liceo che durante i
bombardamenti di Torino del 1943 e il primo organizzarsi della Resistenza piemontese contrappone alla
possibile svolta dell’impegno, la regressione verso il paradiso-rifugio dell’infanzia; l’esperienza della guerra
non rappresenta per lui l’occasione per maturare, ma la conferma di un sordo dramma esistenziale, di una
tragica e statica questione privata che non consente sviluppi, avventure, ma unicamente la monotona e
ossessiva conferma della propria inadeguatezza alla vita, la condanna definitiva del proprio destino di
solitudine e distacco, cui nessuna urgenza e svolta che proviene dal mondo esterno può apportare reali
modifiche. Corrado fuggirà dall’incubo del Bildung cercando riparo nel passato, sperando, ingenuamente, di
evitare di fare i conti con sé stesso e con la Storia, chiudendo gli occhi sul presente. IL finale duro e crudo di
corpi senza vita gli permetteranno di capire che ogni paradiso è ormai perduto. Ciò nonostante Corrado non
può uscire dalla sua prigione interiore.
In conclusione, ogni individuo è ovviamente radicato dentro un contesto storico-sociale e quando si
racconta qualcosa viene fuori una voce fuori dal tempo, che entra nel passato più prossimo, nel vissuto
resistenziale, lo rielabora, lo problematizza e lo trasforma, offrendo al lettore un’autonoma e inedita
esperienza conoscitiva.

CAPITOLO 24 IL ROMANZO NEOREALISTA


24.1 UNA CONTROVERSA DEFINIZIONE DI TERRITORI
Lo sforzo di voler definire i caratteri e i confini temporali del Neorealismo, ha dato vita ad un
dibattito che ha reso difficoltosa la composizione di un corpus unitario, tanto che autori come
Pavese, Calvino, Renata Viganò, Pratolini, Vittorini compaiono in maniera irregolare. Il neologismo
cominciò a circolare dagli Trenta, sul modello tedesco, su iniziativa di Umberto Barbaro e Arnaldo
Bocelli per indicare una natura antilirica, volta a raffigurare un disagio: una natura che fatica ad
affermarsi nel corso del decennio successivo, che attesterà poi un allontanamento dalla prosa
d’arte e un’attenzione per la letteratura straniera e nazionale, come Verga il quale funge da
modello per Calvino. Quest’ultimo impegnato a rivendicare una ricerca formale, orientata verso la
traduzione in termini grotteschi di un patrimonio esperienziale, e stimolata dall’esempio di
Conversazione in Sicilia e di Paesi tuoi, anche se poi Maria Corti escluderà il primo dal raggio
neorealista, affermando però il ruolo principale dei romanzi successivi di entrambi gli autori,
Uomini e no e Il comagno. A partire dalla metà degli anni Cinquanta alcuni detrattori metteranno
insieme degli autori che accusano di aver schematizzato troppo la questione, di aver scritti per
insegnare e commuovere, di essersi fermati all’aspetto fenomenico dei fatti, e di non aver saputo
rinnovare lessico immagini e gli aspetti narrativi, ormai senza più espressività.
24.2 L’AZIONE DELLA STORIA: PER UN RINNOVAMENTO DELLE COSCIENZE
Sicuramente una vicenda collettiva come le guerre mondiali e la guerra partigiana, ha fatto si che
dopo il 1945 si possa fissare una possibile data d’inizio della corrente neorealista. La nostra
produzione narrativa è quasi tutta incentrata sul racconto della Resistenza, sul ritrarre le città
bombardate, e sulla prigionia dei campi di concentramento e poi sul ritorno alla vita normale.
Trasponendo questa vicenda, è stato inevitabile che si avvolgesse in un aspetto antifascista e che
abbia avuto, più meno, tratti celebrativi e pedagogici, e la Corti afferma che menomale che
questo tipo di romanzo non sia mai nato. Dal 1942-43 l’etichetta neorealista viene applicata anche
a quei le film pieni di compassione per le vittime della storia, dagl accenti drammatici e di
ambientazione popolare. Quest’ultimo è un elemento che favorisce la sopravvivenza di un tono
sperimentato già dagli americani, e che in questi anni si mostra attraverso dei tentativi di ricreare
l’effetto parlato, quindi c’è un largo uso di dialoghi, preferenza di paratassi e sintassi nominale, di
tempi verbali come presente e passato prossimo. È un tono ritmico che sicuramente è influenzato
dal mezzo cinematografico che si nota soprattutto nella diminuzione della psicologia analitica, e
una conseguente diminuzione delle parti liriche che devono esaltare le emozioni. Alcuni, a partire
da questo, fissano lo spartiacque oltre il quale sarà la poesia ad essere influenzata dalla prosa.
24.3 I CASI ESEMPLARI DI PRATOLINI E PAVESE
Gli anni del dopoguerra sono segnati da tematiche, stili e spiritualità costanti, che conferiscono
tratti neorealistici alle opere prodotte in questo periodo. Da una parte c’è l’opera di Carlo Bernari,
Tre oprai, che sarà considerato cme antecedente del Neorealismo, in quanto la vicenda di
Teodoro, Anna e Marco racconta il desiderio di sfuggire alla miseria e allo stile di vita vagabondo in
un tempo prefascista. Dall’altra parte, invece, c’è l’opera di Pratolini, Cronache di poveri amanti,
che riproduce l’avvento e la consolidazione del fascismo, ma già dal titolo si capisce che vuole
ridimensionare la riflessione storiografica e la centralità di una vicenda rispetto ad un’altra. I
termini cronaca e storia saranno al centro di un dibattito che accompagnerà un’altra opera di
Pratolini riguardo la storia di Metello, un marito infedele e un socialista ma paladino di un’eroica
battaglia operaia e civile. Le Cronache di poveri amanti è ricco di elementi che ricordano ancora
quel periodo, come l’uso di proverbi e locuzioni dialettali o il rapporto di complicità con il lettore,
ancora più presente in Il compagno di Pavese, che ripercorre la scoperta dell’antifascismo da parte
di Pablo, sceso a Roma da Torino, per dimenticare un amore e abbandonare uno stato di
inconsapevolezza, e insieme a Casa in collina designano un’anticipazione della partecipazione alla
storia.
24.4 LA LIGURIA DI CALVINO
Alle due opere precedenti possiamo affiancare Sentiero, che è una delle versioni più antieroiche
della Resistenza. Il romanzo si salva, piuttosto che per aver dato la narrazione a in, per il ruolo
protagonista assunto da una banda partigiana che a malapena conosce le cause della guerra, e
non è nemmeno immune al tardimento. Il romanzo è ambientato nella Riviera di Ponente e
recupera in qualche modo il lessico locale, inoltre soddisfa altri due requisiti della narrativa del
periodo: il ricorso al linguaggio regionale e al dialetto, e anche ad una rappresentazione di realtà
circoscritte, soprattutto extracittadine. Questo è un impegno che viene associato anche al
concetto di patria a luogo imposto dal fascismo, e quindi più facilmente rispettato nei racconti di
lotta contro i nazifascisti. Sono degli aspetti linguistici e ambientali che vengono riproposti anche
da Calvino in Ultimo viene il corvo, a conferma del fatto che attraversa qualsiasi forma narrativa,
ma soprattutto una serie di romanzi, che in qualche modo si distaccano dalle forme in voga. E ci
sono anche altri aspetti che presenti nel primo romanzo di Calvino, provando a fare una
distinzione all’interno della produzione neorealista, almeno nel filone espressionista, al quale solo
in parte sembra legarsi Uomini e no di Vittorini. Quest’ultimo è cotruito su una base di dialoghi che
si attivano per campi semantici e che spesso cede degli intenti didascalici.
24.5 UN PANORAMA COMUNQUE FRASTAGLIATO: DA VIGANO’ A FENOGLIO
Il romanzo di Renata Viganò apparterrebbe ad una corrente un po’ più incline al dramma e meno
aderente a parabole individuali. Questo romanzo è stato considerato simbolo del Neorealismo più
patetico, ma invece rappresenta un appassionato compendio del racconto resistenziale, ed ha una
protagonista femminile, che uccide, si ribella, si nasconde, patisce la fame fino a quando non ci
pensa più. è un romanzo basato su una successione ininterrotta di azioni, che rafforza la comitiva
partigiana, e che crea il paradosso di una narrazione tutta fatti e guidata da un narratore
onnisciente e onnipresente; un’identità autoriale che anche se non fa vedere la sua presenza,
romanza una parte scelta di realtà. Quindi nel racconto neorealista prevale la terza persona, e le
polemiche che accompagnano, non tanto i fallimenti di chi vuole parlare al popolo senza però
avvicinarsi al linguaggio e nè ai loro reali bisogni, ma quelli che vengono accusati di posporre le
ragioni artistiche alle ragioni ideologiche. In Fenoglio l’andamento sintattico rapidissimo conforme
alla corrente neorealista, è visibile solo nel primo romanzo, Paga del sabato, nato da
un’ammirazione neoverista subito lasciata andare; romanzo che Vittorini e Calvino invitarono a
ridurre in due racconti: Ettore va a lavoro e Nove lune. Ha come tematica gli effetti posteriori della
guerra. Il resto della sua produzione è caratterizzato da uno stile diverso, orientato verso il
romanzo resistenziale, come Una questione privata, che Calvino considera come la cima di una
stagione se si sovrappone il Neorealismo alla narrativa di guerra. Alla categoria del Neorealismo si
può collegare il romanzo breve di Fenoglio, La malora che racconta qualche anno di vita di un
Agostino Braida, spinto dal padre a lasciare la casa per andare a lavorare come servitore in un altro
podere. In questo romanzo, pubblicato nel 1954, si intreccia la rappresentazione della miseria più
assoluta alla vita in un micocosmo extraurbano immune al cambiamento, con una prosa tagliente
e con prestiti linguistici. I caratteri di questo periodo resteranno attivi fino agli anni Cinquanta,
nonostante la forza del movimento fosse scemata, fino a quando non nasceranno le correnti
neoavanguardiste.

Cap. 26- Romanzo e cinema


Con la nascita del cinema, sempre più romanzi vengono trasformati in film. è la trasposizione in un nuovo
linguaggio delle vecchie estetiche, attraverso la sovversione del tempo e dello spazio. Il cinema italiano, le
cui prime case di produzione vedono la luce intorno al 1904-05 a Torino e Roma, si struttura intorno a una
netta propensione all’enfatizzazione della letterarietà come effetto della centralità della scelta del soggetto
del film. Da un lato assistiamo ad un ADATTAMENTO DEI CLASSICI LETTERARI, come le trasposizioni
cinematografiche di Otello, Romeo e Giulietta e de I Promessi sposi. Dall’altro nascono nuovi film, scritturati
da autori che sono contemporaneamente autori e registi, come D’Annunzio, Verga o Pastrone, autore di
Cabiria​.
Il processo di integrazione del cinema al campo letterario e narrativo, sollecitato con chiaro intento
economico dalla nascente industria, ‘schiaccia’ il cinema sul lato della scrittura, negando di fatto
importanza e autonomia estetica alle declinazioni del visuale, e lo espone tanto alla constatazione della sua
‘ancillarità’, quanto alla preoccupazione per la sua pericolosa concorrenza. Il rapporto tendenzialmente
sospettoso che i letterati ebbero con il cinema trovò ragioni ulteriori a quelle estetiche nel successo che
riscosse dopo la sua prima stabilizzazione, tra il primo film a soggetto, ​La presa di Roma,​ e il primo
lungometraggio, ​L’inferno,​ determinando una concorrenza spietata per il teatro e un ampio dibattito sulle
riviste: era un nuovo mezzo di comunicazione pericoloso, che sottraeva pubblico e autori dal teatro, ma al
contempo era nettamente superiore. Sin dalle origini, l’attenzione al cinema da parte degli intellettuali
italiani prese anche la forma di una sua tematizzazione nelle scritture finzionali, teatrali ma
prevalentemente nella narrazione breve. Alcuni espedienti stilistici sono molto simili alla scrittura: quando
bisogna mostrare le immagini che affollano la mente del protagonista, sono montate scene di primi e
primissimi piani, dettagli, dissolvenze sonore, panoramiche dal basso in alto, movimenti di macchina e
dissolvenze, che richiamano le tecniche stilistiche del monologo interiore o dei flashback.
Sin dalle origini la narrativa sul cinema tende a strutturarsi secondo 2 poli: una apologetica della nuova
forma di rappresentazione, o almeno pronta a coglierne gli aspetti innovativi in una modalità neutra e
descrittiva, e un’altra critica, più propensa a mettere in luce i rischi e i portati negativi sulle forme d’arte
tradizionali, la quale sembra proiettare sullo schermo il topos decadente e romantico dell’alterità e
inconciliabilità dell’artista e della sua natura poetica con il mondo.
Nell’estate 1915 Luigi Pirandello pubblica in sei puntate sulla romana ‘Nuova Antologia’ il romanzo ​Si Gira​,
successivamente intitolato ​I Quaderni di Serafino Gubbio,​ il cui tema cinematografico aveva già annunciato
due anni prima nella storia ​La Tigre,​ basato sulla passione di un giovane signore napoletano, Aldo Nuti, per
una strana piccola attrice russa tanto da morire per lei tragicamente sbranato da una tigre che la Casa ha
acquistato per il film, dopo aver sparato all’amata attrice. Entrambe queste opere vennero criticate poiché
assunsero la forma di romanzo-saggio che assume il cinema come paradigma della nuova meccanicità
dell’opera d’arte ma anche come erede dell’estetica naturalistica di matrice verista di cui il romanzo mette
in crisi la linearità. Il nucleo appartenente a Pirandello relativizza e mette tra parentesi è la storiaccia
passionale che ruota intorno alla femme fatale, slava, bellissima, tormentata e crudele, il cui fascino
funesto causa la morte di due uomini: il giovane artista ingenuo e romantico Morelli, suicidatosi per il suo
tradimento, e l’elegante Nuti che per amore perde la salute e la dignità e non troverò altra soluzione che
ucciderla ed uccidersi in maniera cruenta e spettacolare, il tutto sotto gli occhi della macchina d presa di
Serafino Gubbio, la cui doppia identità di operatore del cinema e redattore partecipe, analizza e commenta
la vasta materia della sua osservazione con una voce narrante che il mutismo determinato dallo choc finale
ci restituisce come la sua unica residua. Tuttavia egli eredita dall’estetica naturalistica l’ideale impassibilità
ancor prima di mettersi alla macchina da presa. Il cinema è dunque l’industria non solo nel suo carattere
insieme programmatico e caotico, con gli studi, le scene all’aperto, la confusione delle comparse, le bizze
della prime donne e gli assilli economici dei produttori, ma anche perché incarna e rappresenta il progresso
tecnologico e il cambiamento sociale, la rivoluzione industriale e la trasformazione in metropoli, di cui
Pirandello dà una lettura antitetica alla coeva apologetica futurista creando un fulgido esempio di romanzo
modernista europeo. La costruzione artificiosa che si produce davanti alla macchina da presa non può avere
invece lo statuto di quella narrativa o teatrale in ragione della presunta neutralità artistica del mezzo,
evidentemente frutto di un non coglimento delle potenzialità manipolatorie del linguaggio filmico, che
genera l’idea di una restituzione meccanica di una realtà due volte inautentica. La critica di Pirandello al
cinema non si traduce però nell’evocazione nostalgica del passato, che appare invece irrecuperabile e
illusorio, come dimostra il fallimentare viaggio di Serafino nei luoghi che avevano visto nascere l’amore di
Morelli, ormai sconvolti e irriconoscibili, e il romanzo si fa carico anche dell’abbattimento dell’idillio
naturale e del laboratorio naturalistico, nonché dell’anima romantica. È possibile riconoscere da un lato la
forza della scrittura cinematografica in sette parti e 35 capitoli, e dall’altro tutti i procedimenti formali, più
scabri ed essenziali, prototipi di una sceneggiatura o dotati di ritmi spezzati che quasi sembrerebbero voler
ingaggiare una competizione mimetica al negativo con i montaggi ad asindeto dell’avanguardia storica.
Su questo stile, ricordiamo ​Fantasio-film. Il romanzo del cinematografo,​ pubblicato nel 1917-18, la cui
trama è strutturata intorno alla storia d’amore tra un commediografo sceneggiatore e un’attrice, ambedue
agli esordi. È un pretesto per presentare usi, costumi e personaggi del cinema del tempo, di cui emergono
una serie di situazioni tipiche, delle rivendicazioni gerarchiche tra scrittore e direttore, le modalità del
provino e la nonchalance degli attori nel cambiare compagnie, e così via. Diversamente moralistico è ​Io ti
amo. Il romanzo dell’amore moderno ​del 1918 di Bruno Corra, in cui uno scrittore e una prima attrice
tentano di riscattare la prosaicità dell’amore borghese in una vertigine eroica che finisce per lo spingere lui
alla partenza per la guerra. Nonostante la nascita di riviste destinate ad accogliere romanzi cinematografici
intesi come novellizzazioni di film, gli anni Venti segnano una battuta d’arresto per la nascente tradizione,
in coincidenza con la crisi del cinema italiano, che subisce la concorrenza americana, specie dopo
l’invenzione del sonoro, importata nel 1930; e solo a fine decennio ritroviamo una traccia del genere,
spesso caratterizzata dalla presenza di Hollywood, ormai centro dell’industria cinematografica e di
irradiazione del suo immaginario. Il cinema è visto come qualcosa di fantastico, di meraviglioso, di
intrinsecamente romanzesco, gli studios come Babilonia fondata sul divismo e sul sensazionalismo e
l’America come paese colto e babelico, quasi selvaggio ma divertente e cinematografico. Luogo simbolo
della modernità tentatrice, gli studios californiani costituirono però anche il modello per Cinecittà, costruita
tra il 1936 e il 37 per primeggiare in Europa e far loro da contraltare, evento che si riflette sul romanzo
cinematografico, articolando almeno in parte lo schema moralistico e pedagogico, come accadde a Lucio
D’Ambra, narratore, commediografo, sceneggiatore, regista e produttore, in cui postumo ​Il carro di fuoco
(1940) mette in scena l’opposto itinerario di 2 sorelle, l’uno fallimentare a Hollywood e l’altro fortunato a
Roma grazie al matrimonio con un poeta impiegato come sceneggiatore a Cinecittà, il quale non riesce a
imporre la propria personale e artistica concezione del cinema in un ambiente arido, volgare e calcolatore.
Solo in Italia si ha qualche speranza contro il cinema commerciale, che appare verosimile, esemplare e che
assicura la libertà e il potere decisionale al regista. Hollywood è il luogo di provenienza o recente tappa
professionale di molti personaggi. Dagli anni successivi al sonoro è anche una piccola pattuglia di romanzi
cinematografici non ambientati negli studios, a cominciare dalla ​Signora di tutti di Salvator Gotta, celebre
per l’adattamento di Max Ophuls nel suo unico film italiano, che sancì la rinascita del divismo italiano, nella
combinazione tra il successo di Isa Miranda e il ruolo assegnatole dal plot, in cui la protagonista, contesa tra
padre e figlio, sposa il primo dopo la morte della moglie e provocando uno scandalo e la rottura tra famiglie
e dopo la rovina e l’arresto del figlio, fugge all’estero dove diventerà una diva del cinema. Nel 1948 Gotta
ritornerà sullo stesso tema con ​Lo specchio dei sensi,​ contrapponendo la vita di una sposa tranquilla di
provincia a quella viziosa e seducente di un’attrice francese, che scopre di essere sua sorella gemella e con
la quale vive un felice connubio prima di essere uccisa dal compagno di lei: trasparente metafora del
soccombere dei valori tradizionali alla macchina seduttrice della modernità. Lo sviluppo industriale è legato
al rapporto con il regime fascista che li spinge a rappresentazioni moralistiche e convenzionali e primitive di
vero conflitto, un equivalente letterario del cinema dei telefoni bianchi. La caduta del fascismo, la
resistenza e la successiva liberazione ebbero, logicamente, delle ricadute anche sul cinema e sul romanzo.
Il fenomeno artistico più importante sulla scena del dopoguerra è la stagione del Neorealismo, affermatasi
con ​Roma città aperta del 1945 di Roberto Rossellini, essa si sviluppò anche in letteratura, nell’arco
convenzionalmente compreso tra ​Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino e ​Una questione privata d ​ i Beppe
Fenoglio. Il punto di connessione più esplicito tra cinema e letteratura fu la discussione che si sviluppò nella
cultura marxista sui limiti del Neorealismo cinematografico, accusato di popolarismo, localismo e
ripiegamento rispetto all’ideale di Realismo che avrebbe dovuto perseguire. Se Franco Fortini, nel 1953, si
augura che il cinema abbia una funzione liberante nei confronti della letteratura, sollecitandola a rinunciare
a quei duplicati di realtà che costituiscono il dono pericoloso dell’obiettivo cinematografico, le maggiori
responsabilità di questo sembrano comunque legate alla sua capacità di penetrazione nell’immaginario
delle masse più che al riconoscimento della parità della sua dignità artistica con la letteratura. Anche
Moravia si dedicò al cinema ​con Il conformista, la ciociara e ​il disprezzo,​ collaborando con il cinema come
sceneggiatore e le sue opere sono oggetto di adattamenti per il grande schermo. Moravia ad un certo
punto sente la necessità di rinnovarsi, poiché crede che il film neorealistico sia deprimente, pessimistico,
grigio e rappresenti l’Italia come un popolo di straccioni. È un genere malsano, che ricorda alla gente le sue
difficoltà invece di aiutarla a sormontarle. Il cinema è il reagente perfetto per rappresentare una più ampia
trasformazione sociale, in questo caso il progressivo impadronirsi dell’industria culturale sulle intenzioni
artistiche del protagonista e i sentimenti che ne derivano, sicché nel romanzo Moravia racconta appunto la
storia di un uomo disprezzato e disprezzabile perché di fatto è ridotto a semplice mezzo dei rapporti
economici della società industriale. Lo stesso schema di ambizione cinematografica viene ricalcato da
Malerba e Soldati. Il primo pubblica a puntate su ‘Cinema Nuovo’, le ​Lettere di Ottavia,​ missive inviate al
fidanzato da una delle tante ragazze di provincia arrivate a Roma e decise a tutto pur di mettere piede nel
favoloso mondo della “celluloide”. Benché innovativo per la forma epistolare, il breve romanzo è piuttosto
tradizionale nel plot che se ne ricostruisce, in cui la protagonista viene anche carnalmente sedotta da un
impostore prima di annunciare al fidanzato, abbandonata e incinta, il riorno a casa. Del 1946 sono ​Le due
città di Soldati, che al cinema aveva dedicato già nel 1925 un capitolo di ​America primo amore e 24 ore in
uno studio cinematografico,​ più un manuale che un’opera di finzione; nel romanzo, invece, il protagonista
arriva a dirigere un’importante casa cinematografica, raggiungendo la ricchezza e il potere ma perdendo
anche l’onestà intellettuale, il rigore morale e la sincerità dei sentimenti. Lo stesso schema sarà ripreso poi
da Pier Paolo Pasolini, con la descrizione del cinema come caduta e perdizione morale.
Negli stessi anni in Francia si cercava di chiudere i conti con lo psicologismo del romanzo classico e di
inaugurare una scrittura fotografica che mettesse in discussione la centralità dei personaggi e l’ipoteca
narrativa sui testi di finzione. Lo scrittore italiano ad averne risentito di più è senz’altro Calvino, che ha fatto
della percezione visiva uno dei centri della sua poetica e della sua riflessione, come è evidente
specialmente in Palomar,​ ultimo suo romanzo dove tutto rimanda insistentemente alla tecnica di ripresa
cinematografica. Dantescamente costruito su un’architettura del numero 3(le parti, i capitoli e gli episodi),
a segnalare almeno l’ambizione enciclopedica e totalizzante della visione che lo guida, dalla difficoltà di
sistematizzarla o dagli equivoci che genera, ess ruota intorno al personaggio eponimo, il cui corpo sembra
finire non con la testa, ma con uno strano dispositivo ottico-meccanico o elettronico, una telecamera o un
cannocchiale quasi, il cui sguardo sembra avere movimenti di cronometrica regolarità, come le
panoramiche cinematografiche. Se nei ​quaderni di serafino la macchina da presa era protesi meccanica che
oggettivava l’innaturalità e l’alterità della tecnica rispetto all’umano, in ​Palomar​, ci restituisce
l’interiorizzazione del dispositivo, una naturalizzazione dello sguardo cinematografico che trova modelli
persino nel mondo animale. Testimonia dunque come abbiano lascito il segno i settant’anni nei quali
l’immaginario cinematografico ha svolto un ruolo determinante nella costituzione del nostro immaginario
visivo, in particolare per una generazione di scrittori nella cui formazione culturale si è tendenzialmente
rovesciato il rapporto tra tradizione letteraria e civiltà dell’immagine, non si può non notare come la sua
testualità sia costruita attraverso il montaggio di testi brevi, come accadde ad altri romanzi di Calvino,
secondo una preferenza che lo stesso autore collegherà alla vera vocazione della letteratura italiana,
povera di romanzieri ma sempre ricca di poeti, i quali anche quando scrivono in prosa danno il meglio di sé
in testi in cui il massimo di invenzione e di pensiero è contenuto in poche pagine. Al giorno d’oggi
assistiamo da un lato alla caduta del peso specifico della letteratura nella gerarchia dei saperi, sia nella
discussione pubblica main stream si nelle istituzioni formative e alla sua fluidificazione in forme ibridate,
alla tendenza cioè a riconoscere la letterarietà di scritture tradizionalmente escluse o ai margini del campo
come quelle giornalistiche o delle canzoni, allo stesso tempo anche il cinema appare sottoposto alla
pressione delle forme individuali e autoprodotte di messa in forma della visione, ma anche della rinata
tendenza alla serialità, che si afferma nelle fiction televisive ormai anche d’autore. LA modalità di scambio
tra i due codici è quella della transcodifica, articolata secondo diverse tipologie con significative presenze,
accanto ai romanzi, di testi teatrali, non-fiction, ibridi, graphic novel e novellizzazioni. Nel campo letterario
hanno sempre più spazio anche nelle nostre librerie, i generi di consumo, a partire da quello poliziesco o
giallo, certo sempre presente nella modernità ma mai con tanto peso. Ci sono nuovissimi prodotti
audiovisivi e nuove forme di consumo, capaci di mettere da parte il cinema e di surclassarlo.

CAPITOLO 27 IL ROMANZO E LA SCIENZA


27.1 LA QUAL COSA NON POTRANNO MAI FARE I FISICI NE’ I CHIMICI
È interessante vedere come il rapporto con lo sviluppo della scienza instaurato dal Futurismo si
configuri come sfida. Un secolo prima, Leopardi parlava di scientismo, da cui ai letterati deriva la
dimensione dell’effimero introdotta dalla modernità e dal prevalere del canone scientifico. Il
futurismo sembra partire dal logoramento dei valori umanistici, per attivare di nuovo un discorso
estetico sul modello inventivo trasmesso dalle teorie scientifiche. La sua attenzione agli ordigni e a
tutto ciò che è a loro connesso è di tipo artistico. Radicalizza la celebrazione dell’arte incrementata
dallo sviluppo della scienza. La conciliazione dell’arte e della scienza viene messa in atto dai
futuristi attraverso un percorso narrativo intuitivo-liricheggiante. La soluzione può essere trovata
solo dai narratori e poeti; grazie a questa consapevolezza i futuristi basano la loro creatività sulle
ricerche scientifiche, che distruggono il modello positivista. Seguendo le sperimentazione
tecnoscientifiche, Marinetti e gli altri compongono narrazioni, i cui procedimenti si accelerano e si
rallentano. L’aeroplano del Papa assicura una deposizione dell’oggettività positivistica e
l’acquisizione di un carattere relativo. I romanzi paroliberi di Marinetti mostrano come il culto
della modernità, nascendo come un nuovo modo di mostrare lo spazio e il tempo, entri nelle
narrazioni e alimenti le tematiche, i linguaggi e le forme. Nelle narrazioni futuriste gli eventi
dislocati in diversi punti dello spazio e del tempo saranno messi in scena simultaneamente e si
parlerà di simultaneità di stati d’animo e quella d’ambiente, le quali producono la mescolanza di
fantasia, desiderio e memoria. Da ciò deriva uno spaesamento del lettore che deve capovolgere le
tecniche di produzione. Per i futuristi le macchine create ad inizio 900 e gli orizzonti aperti della
scienza alla conoscenza sono fonte di attenzione per la creazione di un paradigma di bellezza. Nel
1916 il manifesto della scienza La scienza futurista si apre al paranormale e all’ignoto, in antitesi
alla scienza tradizionale. Romanzi come Sam Dunn è morto di Bruno Corra o Le locomotive con le
calze di Arnaldo Ginna si basano su queste nuove visioni della scienza, e proprio questi due autori
sono tra i firmatari del manifesto.
27.2 “MALEDETTO SIA COPERNICO!”
Pirandello occupa un ruolo opposto già a partire dal Fu Mattia Pascal, in cui nelle prime pagine si
trova un attacco a Copernico, che ha scoperto il sistema eliocentrico. Queste nuove scoperte e la
distruzione di ogni certezza fin a quel momento acquisita, hanno fatto in modo che nelle opere
letterarie non sia più credibile la trasposizione del reale. I cambiamenti che sono seguiti al
rivolgimento copernicano hanno avuto grande visibilità nel Novecento grazie allo sviluppo della
scienza e della tecnologia che hanno modificato tempo e ambiente. Consegue una visione della
modernità come eccesso di automatismi che hanno il compito di muovere gli uomini e di
intrattenerli. Così si può fare una concordanza di contrari: da una parte Pirandello con le riflessioni
di Serafino, e dall’altra Luigi Russolo, musicista futurista, il quale nel suo manifesto L’arte dei
rumori, la riafferma come rilancio della creatività e dominio dell’antico silenzio. Il protagonista di
Quaderni è ridotto a silenzio di cosa, lui è operatore cinematografico ed è il simbolo della moderna
spersonalizzazione: lui afferma di guardare la gente con “occhi intenti e silenziosi”, due aggettivi
che sottolineano la sua condizione di operatore muto; il suo sguardo è paragonato a quello della
macchina da presa, cioè la macchinetta osserva senza distogliere la sua attenzione ed è
impassibile, sottratta da ogni partecipazione emotiva o verbale. Serafino sarà condannato al
mutismo nella sequenza finale a causa di uno choc dovuto alla visione di una scena cruenta. In
opposizione a questo, c’è il Futurismo non prova lo stesso sarcasmo espresso da Pirandello: la
destrutturazione messa in atto dalla macchina cinematografica è l’allegoria di un mondo in
continuo cambiamento, di un insieme di sensazioni e di esperienze.
27.3 “E LA TERRA TORNATA ALLA FORMA DI NEBULOSA ERRERA’ NEI CIELI PRIVA DI PARASSITI E
DI MALATTIE”
Nel saggio Arte e scienza, Pirandell si confronta con problemi psicologici come aveva fatto qualche
anno prima Binet nella sua opera Le alterazioni della personalità. Riscontriamo un elogio e una
disapprovazione per la compresenza di arte e scienza, ed è comprensibile considerando che la
coesistenza di più identità all’interno di un individuo sarà un aspetto fondamentale dei personaggi
pirandelliani. Dopo il saggio di Pirandello, la scienza dell’anima diventa tema principale della
Coscienza di Zeno, di Italo Svevo. Zeno non crede che la psicoanalisi possa guarire la sua nevrosi,
nonostante lui si sia sottoposto alla terapia, ma illudersi che questa possa guarire è una pretesa
che darebbe il malato in pasto ai sani. Guarire significherebbe essere privato del desiderio, che il
protagonista salvaguarda. Da questo romanzo viene fuori un’immagine ambivalente della
psicoanalisi, come ne esce dai Quaderni di Pirandello quella del cinema. Entrambi i romanzi si
basano sulla crisi del Naturalismo, in cui il referimento alla scienza positivista funzionava come
specchio di verità. Nell’opera pirandelliana, l’ingranaggio del cinema è respinto in quanto
strumento di alienazione, ma il suo inserimento nella scrittura impone un nuovo meccanismo
espressivo, che finisce per scandire il diario di Serafino seguendo le modalità di una sceneggiatura
cinematografica. Allo stesso modo nella Coscienza di Zeno la psicoanalisi è seriamente valutata
come strumento conoscitivo, e inoltre rivela un nuovo sapere destabilizzante di ogni certezza. È
una novità in termini di linguaggio, in quanto dà alle parole nuovi significati. I lapsus, i sintomi, i
sogni a far sviluppare l’intreccio del romanzo. Quindi, sia il cinema che la psicoanalisi si impongono
all’interno della scrittura di entrambi i romanzi. La pagine finali della Coscienza di Zeno hanno in
primo piano il tema del progresso come creazione e diffusione di dispositivi che creati per dare
benessere, alla fine si rivelano distruttori. La malattia diventa universale, prodotto del disagio di
tutta l’umanità, e alla fine del romanzo si profetizza un’esplosione che restituisce al mondo la
salute disintegrandolo, però guarendolo.
27.4 “UNA MOLTECIPLITA’ DI CAUSALI CONVERGENTI”
L’opera letteraria di Gadda è accresciuta dalla sua formazione scientifica e dall’operatività tecnica.
Egli avendo come punto di riferimento la scienza, affermerà che il suo lavoro di scrittore è un
esperimento. Nel modo gaddiano di rappresentare la realtà fenomenica si nota una folta tradizone
di scienziati e filosofi come Lucrezio, Copernico, Galilei, Cartesio, Darwin, Leibniz, Freud, dai quali
riprende la coscienza della proteiforme complessità del mondo, in cui l’io umanistico si frantuma
in atomi e nuclei psichici. Nel Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, le vicende umane si
presentano come malattia; la morte su cui si trova ad indagare il commissario Ingravallo rimarrà
un mistero. Quindi non solo al centro non c’è più il soggetto, ma neanche la fabula e il discorso. La
narrazione, quindi, si frantuma in digressioni, in cui al centro della scena c’è poi il dettaglio. La
costruzione romanzesca non è lineare, e non acquista compiutezza, ne deriva una violenza per
ogni singola parola. In una delle sue Lezioni americane, Molteplicità, Italo Calvino, riflettendo
sull’antinaturalismo di Gadda, afferma che la conoscenza deforma il dato. Il riferimento di Calvino
è al principio di indeterminazione creato da Heisenberg negli anni Venti, anni in cui Gadda scrisse
Meditazione milanese. Si esaurisce il Positivismo e il poter descrivere ogni aspetto della realtà.
Considerando le modalità in cui Gadda scrive un romanzo, si possono collegare alla rivluzione
scientifica avviata dalla fisica moderna.
27.5 “MENAGE A TROIS”
A metà del secolo appaiono le Furor mathematicus di Leonardo Sinisgalli, il quale ha elaborato una
poetica della matematica, ora invece vuole realizzare un’estetica ossimorica. La sua narrazione si
basa sulla cooperazione di algebra e metafora e la sregolatezza dell’invenzione letteraria, che si
lascia ricoprire di linguaggio razionale della geometria e della fisica. Nella seconda metà del
Novecento si intensifica il dibattito riguardo la divisione tra le scienze esatte e le scienze umane.
Vittorini, parlando di due tensioni, una razionale, sprigionata dalla realtà scientifica, l’altra
aristotelico-tolemaica, emanazione della cultura umanistica, attribuisce alla tensione razionale la
funzione di rigenerazione sociale. Tra gli scrittori che dagli anni Sessanta rideclinano il confronto
tra discorso scientifico e discorso letterario, emerge Calvino. Le Cosmicomiche documentano
l’interesse che spinge l’autore a smuovere misure comunicative umanistiche. Il meccanismo
narrativa della raccolta di racconti cosmicomici è governato dalla teoria di Calvino stesso, che
prevede la compresenza di filosofia, scienza e letteratura. Il termine cosmicomico ricalca il termine
tragicomico; quelle di Calvino sono delle comiche che hanno come base il cosmo. Il protagonista
ha un nome partiolare Qfwfq, dove la “w” centrale funziona da specchio riflettente le prime due
lettere all’incontrario, emblema della specularietà tra scienza e letteratura. Calvino tiene a
precisare che la sua narrazione non si può assimilare ai modelli della fantascienza che lui
conosceva molto bene. Nell’ambito italiano, Calvino poteva seguire l’esempio di Dino Buzzati, il
quale aveva incentrato la trama di Il grande ritratto su un’enorme macchina pensante finalizzata a
riprodurre la coscienza dell’uomo. Qualche anno dopo Calvino auspicherà un computer dal volto
umano, in grado di creare versi e romanzi anche in forme non tradizionali. Calvino rifiuta di essere
catalogato come scrittore di fantascienza. I dodici racconti che formano Le cosmicomiche sono
precedute da poche righe in corsivo che espongono una teoria o un fenomeno scientifico
riguardante il campo astronomico. Tutte le storie nascono da un cambiamento cosmologico, come
la nascita della luce o il big bang. A questi pochi versi, dopo uno spazio bianco, segue il racconto,
avviato dalla voce del protagonista, che pretende di dare la sua opinione su tutto in quanto
testimone di stagioni precedenti all’inizio del mondo. Il protagonista è un essere camaleontico,
pura voce, un non protagonista, i cui discorsi raccontano ad un pubblico assente le storie della sua
vita che risultano surreali se collocati in un tempo anteriore. Dalla raccolta Ti con zero, è
importante ricordare il racconto che porta il suo titolo. La storia si svolge in un solo secondo, ma il
tempo della narrazione si sviluppa in più pagine in un vortice di ipotesi: un cacciatore, che ha
appena scagliato una freccia contro un leone, non sa ancora se farà centro o se il leone lo
attaccherà. La tensione provocata dalle ipotesi genera una narrazione con periodi lunghissimi,
diramazioni di deduzioni. In questo racconto che si svolge in un secondo tutti sono bloccati dalla
paura di non saper come sciogliere le varie possibilità narrative che una situazione può sviluppare.
Nell’ultimo romanzo di Calvino, Palomar nome della protagonista che richiama quello del monte
californiano su cui c’è un osservatorio con telescopi. La dinamica della narrazione è l’occhio di
Palomar, e la sua volontà di osservare e descrivere con precisione ciò che vede. Osservando il
mondo, vorrebbe smentire il principio di indeterminazione, secondo il quale osservazione e
osservaore modificano i fenomeni osservati. Nel tentativo di scoprire e analizzare la complessità
del mondo, Palomar deve fare i conti con la sua soggettività, così per superare questo ostacolo si
finge morto per vedere come prosegue il mondo senza di lui, ma alla fine troviamo un finale
tragico, Palomar muore davvero.
27.6 “L’ARTE DI SEPARARE, PESARE E DISTINGUERE”
Calvino pone alla base delle sue sperimentazioni narrative l’esattezza analitica, dote anche di
Primo Levi. Entrambi hanno la necessità sperimentare nuove forme di conoscenza del mondo
attraverso una letteratura che sappia rappresentare le trasformazioni scientifiche. Secondo
Calvino il successo di Se questo è un uomo è dovuto alla capacità investigativa propria del chimico.
Anche Levi è preso dalla dimensione creativa della scienza, e la scelta di scrivere riguardo le
esperienze di vita è collegata al suo operare di chimico. I suoi modelli di scrittura non sono Goethe
o Petrarca, ma i rapporti che si fanno nelle fabbriche o nei laboratori a fine settimana. Levi, dal
mestiere di chimico, per la sua scrittura ha preso la precisione, la sintesi, creando così un
interscambio tra i due mestieri; essendo lui entrambi, tiene a sottolineare che ha esplorato i
legami tra il mondo della natura e quello della cultura. L’opera di Levi in cui il linguaggio della
chimica è presente appare nel 1975 con il titolo di Il sistema periodico, i cui racconti formano un
romanzo autobiografico. Si racconta la storia di una formazione avvenuta nel periodo fascista,
delle leggi razziali, della prigionia nel lager nazista e del reinserimento nella vita normale. Così il
lessico della chimica, il suo sistema dei segni e simboli sono usati come possibiltà di chiarezza
contro il caos e il disordine del mondo.
27.7 BREVE (PROVVISORIA) CONCLUSIONE
Calvino dichiara che nella dimensione della Leggerezza non possono non essere segnate le
modalità comunicative della scienza. Negli utimi decenni del secolo scorso e nel primo tempo del
nuovo millenio gli scienziati hanno trasfigurato i loro principi scientifici in vicende romanzesche,
come La solitudine dei numeri primi, incentrato su due esistenze che sono destinate a incontrarsi
restando divise, come i numeri primi in matematica.

CAP. 28- Il secolo dei fanciulli. Romanzi per l’infanzia tra Italia e mondo
Il 154 vede l’apparizione in scena di un nuovo personaggio per l’infanzia, Chiodino, capace di far sprigionare
una polemica assurda nei toni e nel merito. Eppure, quello scontro, che non è dolo politico, può illuminare
per un istante la cruciale funzione formativa e ideologica ricoperta dalla letteratura d’infanzia nel
dopoguerra. Le avventure di Chiodino erano state pubblicate in un primo mento in un periodico per
l’infanzia di area progressista che in quegli anni si contrapponeva al cattolicissimo “Vittorioso”. Il
protagonista, che era divenuto subito un beniamino dei ragazzi tanto da essere riprodotto in diffusissimi
giocattoli e gadget, presentava il corpo di metallo come il boscaiolo del Mago di Oz, ma diversamente da lui
aveva anche un cuore; quel cuore che lo portava a farsi animale sociale, a nutrire teneri sentimenti verso la
sua Perlina, a contrapporsi al volto demoniaco del potere, alle ingiustizie della giustizia, al dominio del
capitale, e soprattutto a promuovere un’alleanza tra gli umili, al fine di ristabilire una tavola di valori umani
e condivisa. Chiodino sferrava, è il caso di dire, un pugno di ferro contro il moralismo benpensante cui
s’ispirava la letteratura d’istruzione del tempo. Non molto differentemente dall’occhiuta fabbrica del
consenso fascista, la cultura della ricostruzione aveva provveduto a recintare la gioventù italiana con un
cordone sanitario, nella convinzione che fosse più che mai esposta alle deviazioni dell’ideologia. Venne
criticato nella rivista ‘Discussione’, secondo cui Chiodino incitasse alla rivolta contro lo stato, per accelerare
la conquista del potere.
A distanza di poco tempo venne pubblicato ​Le avventure di un ‘Pinocchio bolscevico’, il romanzo di Cipollino
e Le avventure di Scarabocchio,​ tutti scritti da Gianni Rodari, che ben presto venne squalificato dal Vaticano.
Egli stesso aveva dato il ritratto avvilente di un’Italia bacchettona e timorosa del nuovo, saldamente
ancorata a un clima di codino moralismo creato soprattutto da ambienti cattolici. La scuola italiana era
bloccata dietro al moralismo cattolico, incapace di surclassare i valori biblici e diventare laica, addirittura
Rodari venne accusato di inculcare ai giovani il sentimento che li unisce i fuorilegge. Rodari credeva
profondamente nella nuova maniera di scrivere letteratura d’infanzia e spiegava che le loro erano solo
storie che non esaltano né alla guerra né alla violenza e né tantomeno cercano di imporre la propria visione
del mondo sui bambini. Da qui nacque una protesta contro l’ideologizzazione della letteratura infantile,
l’idea molto semplice che essa serva all’evasione, non alla cooptazione, al diletto ludico, non a forme di
catechesi. Tra due strade che si erano aperte negli anni ottanta dell’Ottocento, tra retorica della patria e dei
buoni sentimenti e la sovversione dei sensi, delle istituzioni e dello stesso principio della realtà di Collodi,
Rodari non aveva dubbi e coglieva l’occasione per precisare che anche al burattino antenato, così poco
incline alla preghiera, era da principio toccato lo stigma dei cattolici. In seguito, però, egli era testo
universalmente riconosciuto il valore educativo, nonostante fosse screziato da allegoriche lepidezze e da
spunti satirici. Rodari aveva alluso a quei metodi di persuasione nemmeno troppo occulti con cui sa tempo
si pilotavano, intorbidavano e plasmavano le scoscienze dei più giovani nel nome di Pinocchio,
Il 25 dicembre 1917 Paolo Lorenzini dà alle stampe un sequel del capolavoro di Collodi, pubblicando ​‘Il
cuore di Pinocchio’, un ibrido testuale in cui i due volti opposti del romanzo infantile italiano si fondono sin
dall’eclatante titolo. Ciò che udiamo in questa disturbante e quasi dickensiana strenna natalizia sono
soprattutto le voci di dentro della Grande Guerra, con protagonista un ragazzino partito per il fronte alla
ricerca della “bella morte”. Tuttavia il suo corpo non fu che l’esito più aberrante di quella retorica dell’amor
patrio e della stigmatizzazione del diverso che aveva e avrebbe dilagato nelle letterature infantili e
soprattutto nei libri scolastici: toccando punte di razzismo insostenibili. Anche lo stesso Gramsci si dedicò
alla scrittura di fiabe, dedicando ​Quaderni del carcere alla letteratura d’infanzia (1948). Secondo lui, la
diffusione di tali opere era legata all’intervento della Chiesa, che li donava in cerimonie numerosissime o ne
obbligava la lettura per castigo. L’Italia di quel periodo era ancora bassamente alfabetizzata e la maggior
parte dei libri infantili erano i cosiddetti libri di lettura per le classi. Esemplare è il caso di Giuseppe Nuccio
che, superata l’impostazione verista, precipita nel baratro fra i più edificanti e vieti clichés del regime, come
in Il richiamo ai fratelli​, che gli valse la segnalazione come modello esemplare di educatore fascista. E nello
stesso clima fiorirono, da un capo all’altro del ventennio, cronache romanzate in salsa melò e con slanci
apologetici verso Mussolini, come Beppe racconta la guerra di Laura Orvieto, p veri e propri libri di stato
come Quartiere Cottidoni di Pina Ballatio. Impossibile non citare ​Il Piccolo Alpino di Gotta, capace di
cancellare ogni traccia di realismo, o Giovinezza, che raccontava le gesta di Giacomino, un ragazzino che,
dopo che i suoi genitori risultarono dispersi a causa di una valanga, divenne mascotte degli alpini e poi
tetragono modello di eroismo. ​Piccolo Alpino rimodulava le litanie dei racconti mensili di ​Cuore
enfatizzandone gli aspetti guerrieri e patriottici. Giacomino appariva mosso dall’ebbrezza della
mobilitazione, del rito di passaggio anticipato all’esperienza adulta, della conquista di un’autonomia dal
nido familiare. Il san Bernardo che lo accompagnava si chiamava Pin, come il protagonista dell’opera di
Calvino.
Le opere italiane sembrano distanti da quelle straniere coeve dall’eccezionale modernità e libertà formale e
spesso vicine alla formula del Bildungsroman: opere che nell’Italia fascista furono ignorate o censurate con
le motivazioni più assurde e che dovettero aspettare l’adattamento in cartoon per poter divenire
patrimonio, socialmente trasversale della nostra gioventù. Tra queste ricordiamo Anna dai capelli rossi,
Bambi, Pollyanna e Mary Poppins. La stragrande maggioranza degli autori italiani, al contrario resta fedele
al mondo sociale in cui vive, quello fratto dei problemi di tutti i giorni, sia il mondo di cui si deve parlare, di
cui si devono imparare dinamiche e valori, e in cui si deve in qualche modo inserire. Allo stesso tempo
veniva reso pertinente il ruolo della donna nell’ambito dell’età evolutiva, decretando una sostanziale
equivalenza tra i genitori e assegnando alla madre la funzione di assicurare l’equilibrio naturale fra la felicità
dell’individuo e quella della specie, tra l’affermazione dell’io e l’abnegazione, fra la soddisfazione dei sensi e
quella dell’anima.
Nel 1949 Fanciulli, un nazionalista, dà alle stampe un romanzo per ragazzi impavidamente intitolato ​Cuore
del Novecento​, che altro non è che una smaccata adulazione al Duce, con in più la sconfessione del
pacifismo al quale egli si era ispirato per lunghi anni. Impossibile non citare opere come ​Ciuffettino balilla di
Yambo, il cui vero nome è Enrico Novelli, in cui la provincia è anche il luogo di irrequietezza,
sperimentazione, bricolage; è il luogo in cui i ruoli del gioco non sono assegnati in modo troppo rigido o
sono addirittura intercambiabili. Yambo miete pagine iperboliche e ipertestuali, ove centrifuga materiali
diversi specie di provenienza francese, dal gotico al liberty. Dopo un secolo dalla pubblicazione a Ciuffettino
sarebbe spettata l’onorificenza del tutto fuori programma e anche lo stesso Umberto Eco celebrò questo
bambino piccolino, graziosetto dal ciuffo fiabesco, molto più rassicurante del personaggio di Collodi.
Sergio Tofano decise di cimentarsi nel 1917 nella scrittura di una storia unica a più puntate che sarebbe poi
uscita in un unico volume. Apparentemente destinata all’oblio​, Il romanzo delle mie delusioni, racconta la
storia di Fortunato, che dopo aver conosciuto un bravo precettore e aver ascoltato dalla sua voce mirabili
racconti, gli sottrae con una mossa picaresca un paio di magici stivali di pelle. Con questi parte alla volta di
un altro reame delle fiabe dove incontra una Bella Addormentata sofferente d’insonnia cronica, un lupo
cattivo ridotto in schiavitù da Cappuccetto, e così via. Ne consegue un impegno del tutto inedito da parte
dello studente, che tuttavia viene bocciato di nuovo. È un romanzo che appare governato da una morale
agnostica e da una logica altra, duttile e aperta: quella logica delle fiabe che invita a tenersi pronti sia per
un certo tipo di avvenimenti che per il loro contrario. Nel 1943 Tofano dirige per il cinema proprio un Gian
Burrasca, riservandosi il cameo del maestro di pianoforte. Lo scrive insieme ad altri tre sceneggiatori, tra il
quali vi è Zavattini. Negli stessi mesi, quest’ultimo pubblica in forma di romanzo ​Totò il buono:​ la storia di
Antonio De Curtis, un pover’uomo della città di Bamba, nato sotto un cavolo e capace, grazie a una
colomba bianca e a due angeli custodi, di compiere miracoli per un giorno. Una storia di meraviglioso
urbano e di onirica ecologia.
Zavattini, insieme a Sto, lavora a ​Il giornalino di Gian Burrasca​, un resoconto quotidiano delle marachelle
architettate da un enfant du siecle per sbugiardare l’ipocrisia dei grandi: da un lato un’ironia candida e
campata in aria, dall’altro una pungente irrisione dell’oggi e dei comportamenti che avevano
contrassegnato la borghesia italiana fin dalla nascita del Regno. La strategia non era molto diversa da quella
usata per Ciondolino, con la differenza che qui stava imboccando la via di un realismo domestico e
municipale. Restava però saldo il principio, ottico e eidetico, di una miniaturizzazione, di una focalizzazione
dal basso e dal piccolo, utile a diagnosticare, con straniamento regressivo i più acuti mali del ‘ secolo
stupido’ Gian Burrasca fu soprattutto un obliquo discorso alla nazione, e ai suoi rampolli in chiave
nazionalista, interventista e irredentista. È un comico quintessenziale, una gag liberatoria e gratuita. Gian
Burrasca è dotato della stessa audacia ideale e concretissima di Totò il buono: come questi può assurgere a
emblema di un’utopia pauperista, che sogna un bonheur diffuso fra tutti gli uomini. Il genere canonico per
eccellenza è il romanzo, anche se molti dei libri citati lo sono solo in senso lato, ma usano questa
definizione per puntare al genere per eccellenza di questo periodo, come accade per il romanzo di
Cipollino, in cui tutti i personaggi sono ortaggi coinvolti in una rivoluzione, con un fondo realistico. Nel
1973, nel pieno degli anni di piombo, Rodari pubblica ‘Grammatica della fantasia: il suo trattato di
fantastica, che è anche uno straordinario manifesto civile e politico. L’immaginazione ha un posto di rilievo
nell’educazione, bisogna avere fiducia nella creatività infantile e permettere a tutti di usare liberamente la
parola.

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