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L’inizio del Novecento alto coincide con una data specifica, ovvero il 16 giugno 1904. In questa giornata in
Italia venne pubblicato l’ultimo episodio del ‘Fu Mattia Pascal’ di Luigi Pirandello, mentre in Inghilterra si
stava svolgendo un comunissimo giorno della vita di Leopold Bloom, protagonista dell’Ulysses di James
Joyce. Grazie al racconto dell’identità mancata di Mattia/Adriano, in Italia si stava assistendo ad una vera e
propria rivoluzione del romanzo, diventato un racconto verosimile e moderno allo stesso tempo, ma
lontano dallo stile decadente. È caratterizzato da una nuova visione umoristica, in cui l’autore
contemporaneamente resta saldo alle sue origini provinciali ed esplora un nuovo mondo, lontano dal suo
paesino d’origine. Si rompono tutti gli schemi imposti dal naturalismo, a favore di un nuovo modo di
narrare in grado di far fronte alle contraddizioni insolubili di una realtà sfuggente e insondabile. Pirandello
inviò una copia del suo romanzo a Verga, che accolse il dono con entusiasmo, sottolineando il cambio
generazionale che c’era dietro un simile gesto. Il termine chiave della teoria pirandelliana è UMORISMO,
inteso come ‘osservazione acuta dello scrittore che prende corpo e vita a partire dalla situazione resa’.
Pirandello è, dunque, capace di rappresentare i drammi modesti, di tutti i giorni, in mezzo ai quali viviamo
senza nemmeno accorgercene. È possibile dividere il percorso delle avanguardie in due settori differenti. Da
un lato ci sono i futuristi, con i profondi cambi estetici e artistici; autori di manifesti, proclami e gesti
iconoclasti. Dall’altro c’è un nuovo modo di narrare ed una nuova percezione di sé e di ciò che ci circonda.
Le caratteristiche principali del modernismo sono 3:
1) Il carattere internazionale;
2) Si crea un legame con le nuove filosofie, tra cui la psicoanalisi e la teoria della relatività;
3) È un fenomeno che investe indistintamente tutte le arti, non solo quelle narrative. Il modernismo,
infatti, si sviluppa a partire dal sincretismo fra linguaggi verbali, musicali e figurativi.
Il problema più grande riguarda la periodizzazione. Se è possibile individuare la data di nascita del
Futurismo (il 5 febbraio 1909, con la pubblicazione del Manifesto sulla Gazzetta dell’Emilia) non è possibile
fare lo stesso con il Modernismo: vari critici letterari hanno fatto oscillare la data di nascita, anche se tutti
sembrano concordare che il picco di questo movimento risale negli anni tra il 1904, con la pubblicazione del
Fu Mattia Pascal e il 1929, con Gli Indifferenti di Moravia. Inoltre, negli stessi anni un ruolo importante è
giocato anche dal Decadentismo, che non può essere assimilato nel concetto generico di Modernismo, in
quanto vi è un diverso modo di rappresentare la realtà, dato che la finzione narrativa diventa spesso
metanarrativa. Le differenze riguardano l’instaurazione di un nuovo tipo di narratore, menzognero e
inattendibile e non più una figura su cui contare, la trama non è più unilineare, ma collassata in strutture a
tenuta debole. Ed infine, i personaggi inetti e scissi, inadatti a questo mondo. I Modernisti evitano di
utilizzare la forma lunga nelle loro narrazioni, al contrario i Futuristi utilizzano nuovi modi, strategie e
tecniche non diegetiche, come poemi o tavole parolibere. Il loro modo di narrare è antipodico a quello di
Pirandello, poiché basato sulla restrizione e la velocizzazione del tempo, con azioni narrative diverse che si
verificano simultaneamente. Essi vogliono rappresentare la velocità del progresso tecnologico. A partire dal
1929, gli editori italiani cominciano ad esplorare in maniera sistematica i territori del romanzo
contemporaneo, anche grazie alle sovvenzioni e agli incoraggiamenti da parte dello stato fascista. La
politica culturale mussoliniana vede nel romanzo la forma identitaria e catalizzante del proprio sistema
politico, poiché è il genere più adatto a rappresentare la modernità. Negli anni Trenta, è proprio il regime a
provocare l’espansione di questo genere, dando vita alla “Nuova Oggettività”, spesso tradotto
erroneamente come neorealismo. Il Novecento, può anche essere ricordato come il secolo delle traduzioni,
visto il forte impulso di opere provenienti dalla Germania, Francia e America. In particolar modo, gli autori
italiani in un primo momento si avvicineranno moltissimo alle opere statunitensi, per poi rigettarle
completamente. L’influenza americana si nota soprattutto nei nuovi titoli, negli spazi narrativi e nei
personaggi. Sono gli anni di nascita della short story, da cui si evince un modo di narrare episodico e franto,
che genera uno spazio di inter determinazione e indecidibilità.
Un altro snodo importante riguarda il passaggio a protocolli e dispositivi narrativi e teatrali a domini
precari, in cui l’io epico irrompe sulla scena, reclamando il proprio diritto a gestire lo spazio della
comunicazione teatrale; non si nasconde più camuffandosi dietro i dialoghi dei personaggi, ma diviene egli
stesso personaggio, come in Pirandello o in Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini, attraverso l’uso della
mimesi della parlata dialettale e l’indiretto libero. Anche il teatro influisce sul romanzo, e viceversa il
romanzo influirà sul cinema. Spesso moltissimi autori, come secondo lavoro diventano registi, rendendo la
cultura italiana sensibile alla settima arte. Il Novecento può essere definito come il secolo dei personaggi,
che assumono un ruolo centrale nella rappresentazione in quanto specchio della società moderna. Tra i
principali possiamo ricordare Filippo Rubè e Zeno Cosini, emblemi per eccellenza degli uomini finiti,
caratterizzati dalla perdita d’identità e di certezze. La narrativa si riappropria del primato conoscitivo nei
confronti dell’uomo, sembra dire ‘si tratta anche di te’. è una letteratura tesa a esaltare, sulla scorta di
traduzioni alquanto mediocri e tendenziose, il carattere morboso e sincero, con anime cupe e tormentate,
inspirate ai personaggi di D’Annunzio. L’influsso di Dostoevskij si vede soprattutto nelle tecniche e nel
modello di antieroe. Protagonista è l’uomo del sottosuolo che, dopo essersi affacciato sul nuovo secolo, si
lascia incantare dai totalitarismi. L’uomo si elegge a principale oggetto di studio, anche attraverso il
romanzo psicologico. Nella maggior parte delle opere si assiste ad una scissione della personalità, sotto
l’influenza dei nuovi studi sull’inconscio. Non solo la psicoanalisi, ma moltissime sono le nuove filosofie
basate sull’inquietudine epistemologica che attraversa il secolo. Da un lato viene esautorato ogni
scientismo antropocentrico, ma dall’altro non si impedisce alla scienza di darsi come modello di conoscenza
e di scrittura. Nella prima fase di tale processo ciò che colpisce è la polarizzazione che si produce tra
Pirandello e l’avanguardia: il primo ironico, la seconda inneggiante alla dimensione dell’effimero e ai ritmi
veloci e distruttivi del consumismo, bastato su temi come il paranormale e l’ignoto. Verso la scienza ci fu
un atteggiamento ambivalente: da un lato i futuristi la esaltano, dall’altra opere come Uno, Nessuno e
Centomila o La Coscienza di Zeno sono scettiche e abitate da un umorismo sempre pronto a vivere
l’apocalisse.
La Storia entra nel romanzo attraverso due vie: come evento in sé descritto o come effetto della guerra e
del giogo del regime totalitario, finendo per abitare i territori dell’antropologia. Il Novecento è
caratterizzato da un profondo dualismo tra la sana e positiva campagna, contrapposta alla città corrotta
dalle insidie della modernità. Chiaramente il focus centrale è legato anche agli effetti che la Grande Guerra
ha causato sui sopravvissuti, che rappresentano l’esperienza al fronte nei loro scritti e le conseguenze ad
essa legate, come in Rubè o nel Piccolo Alpino di Gotta, autentico best seller nell’Italia mussoliniana. Il
nuovo romanzo può essere letto non solo come manifesto antimilitarista, ma anche come programma di
resistenza mediante le armi. Il conflitto sembra agirvi a duplice livello temporale: rappresenta il passato, ma
al contempo un traguardo futuro. Mentre il cinema e il fotoromanzo dei telefoni bianchi offrono a buon
mercato emozioni, elisir ed emollienti per agevolare l’oblio delle infamie della vita pubblica, il romanzo non
si dispensa dall’anelare con esito più o meno volontario, a vette artistiche. È il caso del Palazzone, scritto
dall’amante del Duce o di Nozze fasciste di Calabrese, rappresentazione per eccellenza del fascismo fallico e
spensierato. Impossibile non citare la satira di Eros e Priapo, che nel 1941 fa risalire la prima intuizione di
riunire più prose autobiografiche e urgenti in un romanzo solo, con il passaggio da romanzo a diario,
conferendo una prospettiva più ampia e dialogica, in cui viene riconosciuta l’immediatezza delle domande
terribilmente serie che vi pone. Gadda, ad esempio, affronta non solo i fantasmi del privato, ma anche le
incrinature e i ricatti della Storia, a cominciare dal passato di interventista e di ufficiale.
Le punte della Neoavanguardia sono caratterizzate dal vizio del populismo, con la miniaturizzazione della
Storia in una cronaca da vicolo. I maggiori romanzieri scapperanno quasi subito da questo approccio:
fuggiranno non da una pretesa oggettività, poiché l’oggettività assoluta non esiste (Calvino) ma dalla
barriera del naturalismo. Fuggiranno verso il proprio stile, verso la propria poetica e verso il proprio
fantasma, sempre sotto l’influenza ella Storia.
CAPITOLO 3 L’UMORISMO
3.1 IL RISO DELLA LIBERTA’
Il concetto di humour lo trovaimo espresso nelle pagine di Madame de Stael in un’opera del 1800ç
lo humour è lo cherzo in tono grave e meditativo proprio del mondo inglese, una sorta di riso
filosofico di società. Nella cultura tedesca lo humour definisce la specificità del comico romantico:
è l’atteggiamento misto di dolore e grandezza di chi paragona l’universo quotidiano alle grandi
idee. Il problema dell’umorismo si lega ai grandi processi storici ottocenteschi e alle nuove
esigenze democratiche, facendo del riso e dell’umorismo lo strumento stilistico della dissoluzione
di un mondo legato al principio dell’ordine gerarchico. Tra i fenomeni editoriali che nascono
nell’Europa rivoluzionaria del 1848 c’è lo sviluppo dei giornali umoristici anche alla portata di un
pubblico semiletterato per la presenza di immagini e brevi didascalie. Nel pieno e tardo Ottocento
la scrittura umoristica e il dibattito critico che cresce intorno ad essa segnavano un punto di
frattura nell’esperienza del Romanticismo: la realtà mutevole dell’io si contrappone all’universo
dei valori. L’umorismo diviene unì’arte difficile della dissonanza del vagabondaggio alla ricerca di
piccole verità concrete, tra un amaro sorriso e una bonaria malinconia. Man mano che allo
scrittore viene a mancare il sostegno di una memoria colletiva, egli può solo contare sui propri
ricordi, sogni e umori a contatto con il quotidiano. Durante il decennio 1849-59, definito il
“decennio di preparazione”, la città di Torino divenne “La Mecca” degli esuli politici dei vari Stati
italiani. Le vie della capitale sabauda si affollarono dopo il Quarantotto; teatri e giornali divennero
gli ambiti privilegiati in cui l’emigrazione cerca fortuna. Ad un certo punto, la prosa umoristica
fioriva nelle appendici dei giornali in forma di stravaganze piccanti, di olemiche sotto pseudonimo
di pettegolezzi; il modello di questa scrittura è lo humour di Heine. A Parigi, il problema
dell’umorismo si pone in modo nuovo. Charles Baudelaire nel 1855 scriveva De l’essence du rire
prendendo spunto dalla caricatura per esplorare i rapporti tra il comico ed il fantastico, tra riso e
sogno. Nel 1851 Giuseppe Ferrari mostrava come la poesia e il riso siano esperienze insiemea
autosufficienti e complementari alla ricerca politica della libertà; fin dal 1830 Heine si proponeva
nei suoi reportage di viaggi come un Don Chisciotte moderno, all’interno di un mondo tedioso e
mediocre, mescolando nostalgia degli ideali romantici e critica corrosiva del nuovo tempo
borghese indagato nelle sue contraddizioni storiche. Il critico Carlo Tenca distingueva un riso per il
riso che prepara la servitù, da un riso serio che genera la libertà: il riso non deve essere solo
oggetto di entusiasmo, ma di giudizio; dovrà includere la riflessione. Prima del Quarantotto il
modello di comicità elevato è la satira con il suo moralismo, mentre ciò che viene respinto è il
genere non serio del burlesco; Dopo il Quarantotto invece si tentava di riscoprire gli autori
burleschi del Cinquecento, tra cui Francesco Berni. A smentire la dicotomia tra serietà satirica e
frivolezza burlesca è la nascita di una nuova nozione critica: l’idea di umorismo italiano nasce da
Carlo Tenca, direttore della “Rivista europea” e poi dal 1848 del “Crepuscolo”; tutto ciò porta poi
alla definizione di umorismo meridionale che troviamo nelle Confessioni di un italiano di Nievo; o
quello di Pirandello che nell’Umorismo fa anche il nome di Tenca e ne riporta le tesi. Pian piano
l’umorismo diventava così il segno dissociato e volubile dell’uomo moderno.
3.2 TRA PARODIA E SOGNO
Dopo il 1860 subentra il ribellismo della Milan scapigliata. Man mano che gli ideali del
Risorgimento si stemperano nel fermento utilitario dell’unificazione nazionale, il mito della libertà
si trasferisce dal piano politico e pedagogico a quello creativo dell’io, in contrato con un mondo
dominato dal denaro, dalle merci e dalle attività imprenditoriali. L’umorismo, il grottesco
divengono allora gli strumenti provocatori e antirealistici di una valorizzazione della scrittura
d’arte di fronte al cnformismo borghese. La crisi di valori e di rapporti codificati porta quello che
colpisce la sensibilità umorale dello scrittore con un ingrandimento di particolari marginali o
discordanti entro narrazioni frante adatte allo spazio dellla rivista. È il caso di Iginio Ugo Tarchetti,
autore di Racconti fantastici e di Racconti umoristici con una ricerca dell’eccentrico. Molto
indicatico è anche il diffondersi di una letteratura umoristica di viaggio che coltiva il pathos
dell’eterogeneo e del disparato, l’effetto a sorpresa, i giochi narrativi ad incastro. La scrittura, non
solo descrive il paesaggio, ma ragiona anche sui propri procedimenti, li smonta dialogando con il
lettore. Il romanzo a frammenti promuove uno sperimentalismo linguistico, con il recupero di voci
arcaiche del Tre e del Cinquecento, di dialettismi e neologismi all’interno di uno stile allusivo che
allontana gli oggetti non riconducibili ad un solo significato. L’arte umoristica preserva la pausa
attiva della contemplazione n quanto richiede un lettore che si muta in coautore del libro; si
tratterà di rifiutare i ruffianesimi del romanzesco a favore di una letteratura di idee sottintese o
mezzo accennate, di prose intarsiate e preziose da penetrare. Pur in un contesto privo di risvolti
politici, l’elemento serio del riso prospettato da Tenca rivive attutito in una sorta di educazione del
lettore alla libertà d’idee. L’umorismo gioca con la funzione pedagogica della letteratura. Ne è un
esempio l’opera di Collodi, redattore di giornali di satira politica e di libri per l’infanzia, tra cui le
Avventure di Pinocchio, in cui persegue dietro lo schema di una favola una morale stralunata e
talvolta amara, collocando un burattino ingenuo fra le grettezze di un mondo insidioso e
paradossale. Collodi delinea nel 1881 il ritratto di un paese burocratico e furbesco che assume
tratti di caricatura scherzsa e amara di un’Italia incapace di rinnovarsi. Collodi godeva sicuramente
di un buon posto per cogliere quella comicità paradossale dei moderni apparati burocratici che
esplderà poi nell’umorismo onirico del Novecento. La comicità di Collodi nelle Avventure di
Pinocchio si avvale di una tecnica dell’assurdo semplice, fondato sul capovolgimento delle attese e
degli schemi narrativi più facili e usuali. Fin dal prinicipio Pinocchio è un oggetto inerte ma vitale,
la cui interiorità è come dominata da ritmi meccanici di circostanze immediate, assorbita dalle
situazioni in cui si trova. Nel momento in cui subentra la frammentarietà illogica dell’esistenza, il
contrasto umoristico non può che crearsi alla superficie di un mondo deformato dalla malignità,
dall’impazienza e dall’insesatezza. Il percorso di Pinocchio sperimenta la possibilità di diventare
uomini in un tempo in cui le determinazioni esterne sono sempre più pervasive e la libertà
individuale non ha valore se non sa trasformarsi; è un tema che verrà ripreso nel 900 cosi che il
personaggio diventa incapace di prendere consistenza all’interno di un mondo frivolo. Durante la
crisi del Positivismo, Henri Bergson rifletteva sul valore sociale del riso come strumento di
correzione del comportamento conformista. Alla sfera pratica dell’intelligenza Bergson
contrapponeva il movimento creativo dell’intuizione che permette all’io di coincidere con la
spontaneità del tempo interiore. Nel descrivere la coscienza come flusso ininterrotto, egli rifiuta
l’automatismo del pensiero analitico che si basa su un dualismo primario che deve bilanciare gli
squilibri della modernità: spazio e tempo. Nel libro Il riso di Bergson, vige il contrasto tra il
meccanico ed il vivente: il comico nasce quando il meccanismo si sovrappone alla vita
travestendola da fantoccio e il ris non sarebbe che la rivolta corale della spontaneità contro i gesti
ripetitivi dell’abitudine. Nella distrazione dell’io che non coincide più con sé stesso si insinua
l’automastismo del comico. All’umorismo ottocentesco, subentra il riso della gag, della comica che
esplode entro i ritmi rapidi della modernità. Nel 1896 Jarry inventava il personaggio violento e
grottesco del Re Ubu che porta con sé la sua coscienza chiusa in un baule. Nasceva così il gusto di
una comicità surreale propagandata dal movimento del Futurismo. Se tale movimento prevede il
superamento dell’angoscia e l’acettazione della modernità attraverso l’identificazione con la
macchina, vi è però un aspetto parodico che prevede il rifiuto della bellezza e l’esaltazione del
brutto. Il Futurismo nasce nel 1909 come una parodia dei miti logori del progresso; entro il mito
futurista della risata sovvertitrice si potrebbe collocare anche Palazzeschi con Il codice di Perelà.
Ma la nuova comicità è legata soprattutto al manifesto cruciale del Controdolore del 1914. Man
mano che la guerra diventava il tratto predominante del movimento, perdeva rilievo la linea
dell’umorismo festoso; e di lì a poco Palazzeschi sancirà il distacco dal movimento con una
dichiarazione sulla rivista “La Voce” dell’aprile 1914, non essendo in accordo con gli entusiasmi
interventisti sulle pagine di “Lacerba”, alle soglie della Prima guerra mondiale. Nel codice di Perelà
il principe Zarlino esprime l’idea che in una società che amministra il dolore, i sentimenti ed anche
il riso, la verità profonda deve per forza di cose risiedere nella superficialità, nella leggerezza nel
libero divertimento delle cose stupide. L’inadeguatezza dei riti e degli stereotipi sociali è causa di
di sofferenza fino a che li si prende sul serio rispettandone i limiti di applicazione, ma diviene
motivo di gioia non appena li si mescola alla superficie di un mondo sgretolato dalla fantasia. Nel
Controdolore c’è l’invenzione di un grottesco di società che avrà poi fortuna nelle avanguardie del
Novecento.
3.3 LA CATASTROFE DEL REALE
Accanto ad un umorismo antirealistico e astratto, importa riconoscere anche un’altra tipologia di
esperienze umoristiche che si misura con la rappresentazione minuziosa e realistica di una vita
oppressa, in cui il contrasto comico diventa sentimento tragico della modernità borghese. In
entrambi i casi la nuova arte del racconto mette al centro le figure della dissonanza e della
contraddizione, ma le impiega secondo modalità opposte: ora moltiplicando la frattura del comico
entro scansioni rapide, ora intensificando il discordante nella trama continua di un realismo critico
che mira a scomporre le maschere psicologiche e le convenzioni sociali dell’esistenza attarverso un
montaggio di frammenti della realtà. Hegel ha parlato di un umorismo oggettivo come ultima fase
dello sviluppo artistico moderno, in cui lo scrittore giunge ad immedesimarsi con la realtà esterna
nella sua nuda accidentalità, traendo dai fatti più irrilevanti delle verità profonde. Luigi Capuana,
lettore di Hegel, recensisce nel Novelle Rusticane di Verga affermando che l’umorismo di
quest’ultimo è l’osservazione acuta dello scrittore che prende corpo e vita. Lo stesso Verga
elogiava l’umorismo obbiettivo di Zola proprio per la sua capacità di trarre da situazioni di tutti
giorni le impressioni più profonde; ed è un giudizio che può applicarsi anche alle Novelle Rusticane
in cui il dettaglio comico deve condurre il lettore a riflettere sul dramma del personaggio: si pensi
all’incosapevolezza umoristica dell’oste Ammazzamogli che si dispera per la perdita dei clienti, e
non dei 5 figli morti di malaria. Man mano che l’intento di educare il lettore alla libertà cede il
posto all’osservaizone oggettiva, viene meno il bisogno di articolare lo spazio del racconto come
percorso da un punto all’altro. Quindi l’oggetto di studio diventa l’interazione tra i fattori solo
regressivi da cui nasce una serie di mutazioni individuali che si imporranno o soccomberanno in
una lotta per la supremazia che assume le forme di progresso. Descrivere le patologie comiche del
mondo borghese significa raffigurare a contrasto ciò che appare e ciò che invece non si vede e si
nasconde nelle profondità della vita sociale, al punto che anche parole come Giustiza e Libertà
risultano travestimenti ambigui dell’ipocrisia. Per dissacrare il negativo che trionfa il narratore
verista non può che fare leva sul montaggio di scene e punti di vista discordanti con cui si
identifica, all’insegna di un umorismo amaro che dagli esperimenti verghiani di Novelle Rusticane e
Mastro-don Gesualdo, passa a Viceré di Federico De Roberto, in cui c’è uno spaccato di storia
siciliana tra il 1855 e il 1882, tra la fine della dominazione borbonica e l’affermazione del Regno
d’Italia, attraverso la storia della famiglia Uzeda di Francalanza. Nel romanzo la genealogia di una
famiglia dispotica permette di delineare una galleria di personaggi degradati da manie e
ostinazioni, ipocriti nel contendersi il patrimonio di famiglia, fino all’adattamento vincente del
giovane principe Consalvo capace di integrarsi nel sistema di governo del nuovo Stato italiano. Se
quello che interessa al Verga delle rusticane è il dramma inconsapevolmente umoristico di
mediocri personaggi di provincia travolti e sconfitti dagli inganni della modernità, occorre
riconoscere che l’oggettivismo di De Roberto tende a sviluppare solo alcuni aspetti della
sperimentazione verghiana perchè il gioco dei contrasti e i pianti narrativi non portano mai il
lettore a vedere dall’interno il personaggio, ma si limitano a raffigurarlo da fuori. Pirandello
riprenderà la lezione verghiana mettendo al centro proprio il dramma comico del personaggio.
Mentre con le ultime novelle anche Verga si allontana da un oggettivismo scoprendo come la vita
sia commedia e finzione triste e derisoria, il giovane Pirandello adottava nell’Esclusa una
rappresentazione affatto oggettiva che cela un fondo umoristico, perchè pone una protagonista
seria come Marta Ajala a contatto con un mondo ridicolo e grottesco di norme e consuetudini
sociali prive di verità e significato. Il destino di sconfitta e di esclusione è imposto da equivoci,
preconcetti, stereotipi altrui travestiti da valori ideali, tanto che l’estraneità del personaggio non
risulta determinata da fattori oggettivi, ma fonda una sofferta esperienza di liberazione da vincoli
astratti e obbliganti della società. Già nell’Esclusa Pirandello delineava quello che diventerà il suo
tipico personaggio metaletterario di ideologo umorista, impegnato ad opporsi ai discorsi altrui e a
porre in dubbio ogni regola e convenzione per aprire un varco utopico verso le profondità
dell’esistenza. Come l’autore chiarirà nel saggio del 1908, vi è in gioco una nuova ricerca narrativa
che punta a riprodurre la marterialità della vita nella sua trama fatta di vicende ordinarie e
particolari comuni per scoprire poi i punti di frattura. Allo scrittore umorista compete l’acutezza di
uno sguardo mobile e riflessivo che non si limita a percepire i contrasti comici alla superficie delle
cose, ma a partire da essi si sviluppa il sentimento del contrario, cioè il rovesciamento di ogni
immagine nel suo opposto, secondo una continua associazione per contrarii che dalla derisione
porta ad immedesimarsi con il punto di vista anomalo del deriso. Secondo Pirandello, l’arte
umoristica scompone l’ordine convenzionale e costrittivo dell’esistente per liberare la possibilità di
un altrove, di un rapporto diverso con il mondo. L’umorismo si identifica ancora una volta, pur al
di fuori della storia, con il riso serio della libertà. Cosi Marta Alaja, una volta scacciata dal marito,
prende casa a Palermo nella strada in cui aveva combattuto il padre garibaldino. Ovviamente il
nuovo paradigma umoristico di Pirandello comporta una nuova configurazione del personaggio, nn
più concepito come carattere coerente, ma diviso tra più anime diverse e anche opposte, estraneo
alla coscienza sempre prigioniera della vuota astrazione delle parole. È una condizione analoga a
quella dei personaggi di Italo Svevo, segnati da una coscienza precaria, intermittente, sempre in
bilico tra mistificazione e disinganno, in un gioco casuale di incontri, fantasie, per cui anche la
parola si sdoppia e si contraddice per svelare una trama di bugie e di autoillusioni comicamente
mescolate pure ai fatti ordinari e irrilevanti della vita. Formatosi seguendo il grande umorismo
europeo, Svevo crea un antieroe apatico e influenzabile per misurarsi con una realtà discorde,
priva di certezze, in cui ciascuno deve procurarsi da sé le ragioni sostituendo la verità assente con
idee originali sulla vita e sul mondo. Proprio l’eroe incapace alla vita permette a Svevo di
distruggere dall’interno la lotta moderna per il successo, la ricchezza e la salute. Ed è un altro
esempio di un’ottica diversa: animato da risoluzioni eroiche e idealità convenzionali per rivalsa sul
proprio essere marginale, il personaggio sveviano inciampa nelle cose, attraverso una conoscenza
per fasi riesce a smascherare il tempo della menzogna borghese con superiore realismo. In una
visuale sempre frammentata, anche la parola singola diventa un avvenimento a sé che mescola
verità e bugie, impone un solo signficato, restando comunque prigioniera di contraddizioni
comiche e rivelatrici. Basti pensare all’ultimo capitolo della Coscienza di Zeno, in cui il
protagonista, dopo aver fallito, giunge a scambiare per grande salute il trionfo economico come
accaparratore di merci che specula sulla tragedia della guerra mondiale. Se la comicità dell’assurdo
scava il tragico per ricavarne una risata liberatoria e il realismo umoristico rappresenta l’anomalia
comica per scoprirne i drammi, non c’è dubbio che Palazzeschi e Pirandello costituiscano due
modelli distinti dell’umorismo del Novecento. Ma questa permette delle linee di intersezione e
diversi percorsi di ricerca tra cui rientra anche l’umorismo nero di marca surrealista con le
invenzioni metafisiche di Alberto Savinio. Ma l’interprete più lucido dell’umorismo europeo di
pieno Novecento è sicuramente Carlo Emilio Gadda con la sua prosa scombinata. Fin dal 1924,
negli appunti per il Racconto italiano di ignoto del Novecento, distingueva tra una maniera
umoristico-seria, attinete ai fatti e non al modo di esprimerli, e una strategia umoristico-ironica,
apparentemente seria, fondata sulla finta immedesimazione col personaggio cretinoski, anche sul
rimando ad una fittizia idea riferimento, in modo da combinare realismo pluriprospettico e analisi
dell’assurdo. Alla base della comicità gaddiana c’è la riflessione filosofica secondo cui conoscere
vuol dire sempre deformare il reale, perchè ogni fatto si iscrive in un meccanismo di causa-effetto
non delimitabile e quindi si tratta di attribuirgli significati diversi. Così Gadda costruisce una trama
a mosaico di vocaboli ironici in grado di smitizzare le frasi fatte; quindi il suo l’umorismo assume
proprio la frase come unità di misura, o la parola singola, come ingranaggio storico e sociale di una
determinata visione del mondo. Nella sua istanza etica l’analisi caricaturale dell’assurdo si unisce
ad un sentimento del contrario espresso per intervalli minimi e scarti di tono, dando vita ad una
scrittura in bilico tra parodia e lirica. Attraverso le catastrofi terribili del Novecento il riso della
libertà diventava cognizione del dolore. Nonostante il successo di Gadda che lo renderà
antesignano dello sperimentalismo della Neoavanguardia, la prosa umoristica del secondo
Novecento si chiuderà sempre di più nell’inautenticità del kitch e del luogo comune tra le
frivolezze di una società alienata e priva di memoria.
CAP. 28- Il secolo dei fanciulli. Romanzi per l’infanzia tra Italia e mondo
Il 154 vede l’apparizione in scena di un nuovo personaggio per l’infanzia, Chiodino, capace di far sprigionare
una polemica assurda nei toni e nel merito. Eppure, quello scontro, che non è dolo politico, può illuminare
per un istante la cruciale funzione formativa e ideologica ricoperta dalla letteratura d’infanzia nel
dopoguerra. Le avventure di Chiodino erano state pubblicate in un primo mento in un periodico per
l’infanzia di area progressista che in quegli anni si contrapponeva al cattolicissimo “Vittorioso”. Il
protagonista, che era divenuto subito un beniamino dei ragazzi tanto da essere riprodotto in diffusissimi
giocattoli e gadget, presentava il corpo di metallo come il boscaiolo del Mago di Oz, ma diversamente da lui
aveva anche un cuore; quel cuore che lo portava a farsi animale sociale, a nutrire teneri sentimenti verso la
sua Perlina, a contrapporsi al volto demoniaco del potere, alle ingiustizie della giustizia, al dominio del
capitale, e soprattutto a promuovere un’alleanza tra gli umili, al fine di ristabilire una tavola di valori umani
e condivisa. Chiodino sferrava, è il caso di dire, un pugno di ferro contro il moralismo benpensante cui
s’ispirava la letteratura d’istruzione del tempo. Non molto differentemente dall’occhiuta fabbrica del
consenso fascista, la cultura della ricostruzione aveva provveduto a recintare la gioventù italiana con un
cordone sanitario, nella convinzione che fosse più che mai esposta alle deviazioni dell’ideologia. Venne
criticato nella rivista ‘Discussione’, secondo cui Chiodino incitasse alla rivolta contro lo stato, per accelerare
la conquista del potere.
A distanza di poco tempo venne pubblicato Le avventure di un ‘Pinocchio bolscevico’, il romanzo di Cipollino
e Le avventure di Scarabocchio, tutti scritti da Gianni Rodari, che ben presto venne squalificato dal Vaticano.
Egli stesso aveva dato il ritratto avvilente di un’Italia bacchettona e timorosa del nuovo, saldamente
ancorata a un clima di codino moralismo creato soprattutto da ambienti cattolici. La scuola italiana era
bloccata dietro al moralismo cattolico, incapace di surclassare i valori biblici e diventare laica, addirittura
Rodari venne accusato di inculcare ai giovani il sentimento che li unisce i fuorilegge. Rodari credeva
profondamente nella nuova maniera di scrivere letteratura d’infanzia e spiegava che le loro erano solo
storie che non esaltano né alla guerra né alla violenza e né tantomeno cercano di imporre la propria visione
del mondo sui bambini. Da qui nacque una protesta contro l’ideologizzazione della letteratura infantile,
l’idea molto semplice che essa serva all’evasione, non alla cooptazione, al diletto ludico, non a forme di
catechesi. Tra due strade che si erano aperte negli anni ottanta dell’Ottocento, tra retorica della patria e dei
buoni sentimenti e la sovversione dei sensi, delle istituzioni e dello stesso principio della realtà di Collodi,
Rodari non aveva dubbi e coglieva l’occasione per precisare che anche al burattino antenato, così poco
incline alla preghiera, era da principio toccato lo stigma dei cattolici. In seguito, però, egli era testo
universalmente riconosciuto il valore educativo, nonostante fosse screziato da allegoriche lepidezze e da
spunti satirici. Rodari aveva alluso a quei metodi di persuasione nemmeno troppo occulti con cui sa tempo
si pilotavano, intorbidavano e plasmavano le scoscienze dei più giovani nel nome di Pinocchio,
Il 25 dicembre 1917 Paolo Lorenzini dà alle stampe un sequel del capolavoro di Collodi, pubblicando ‘Il
cuore di Pinocchio’, un ibrido testuale in cui i due volti opposti del romanzo infantile italiano si fondono sin
dall’eclatante titolo. Ciò che udiamo in questa disturbante e quasi dickensiana strenna natalizia sono
soprattutto le voci di dentro della Grande Guerra, con protagonista un ragazzino partito per il fronte alla
ricerca della “bella morte”. Tuttavia il suo corpo non fu che l’esito più aberrante di quella retorica dell’amor
patrio e della stigmatizzazione del diverso che aveva e avrebbe dilagato nelle letterature infantili e
soprattutto nei libri scolastici: toccando punte di razzismo insostenibili. Anche lo stesso Gramsci si dedicò
alla scrittura di fiabe, dedicando Quaderni del carcere alla letteratura d’infanzia (1948). Secondo lui, la
diffusione di tali opere era legata all’intervento della Chiesa, che li donava in cerimonie numerosissime o ne
obbligava la lettura per castigo. L’Italia di quel periodo era ancora bassamente alfabetizzata e la maggior
parte dei libri infantili erano i cosiddetti libri di lettura per le classi. Esemplare è il caso di Giuseppe Nuccio
che, superata l’impostazione verista, precipita nel baratro fra i più edificanti e vieti clichés del regime, come
in Il richiamo ai fratelli, che gli valse la segnalazione come modello esemplare di educatore fascista. E nello
stesso clima fiorirono, da un capo all’altro del ventennio, cronache romanzate in salsa melò e con slanci
apologetici verso Mussolini, come Beppe racconta la guerra di Laura Orvieto, p veri e propri libri di stato
come Quartiere Cottidoni di Pina Ballatio. Impossibile non citare Il Piccolo Alpino di Gotta, capace di
cancellare ogni traccia di realismo, o Giovinezza, che raccontava le gesta di Giacomino, un ragazzino che,
dopo che i suoi genitori risultarono dispersi a causa di una valanga, divenne mascotte degli alpini e poi
tetragono modello di eroismo. Piccolo Alpino rimodulava le litanie dei racconti mensili di Cuore
enfatizzandone gli aspetti guerrieri e patriottici. Giacomino appariva mosso dall’ebbrezza della
mobilitazione, del rito di passaggio anticipato all’esperienza adulta, della conquista di un’autonomia dal
nido familiare. Il san Bernardo che lo accompagnava si chiamava Pin, come il protagonista dell’opera di
Calvino.
Le opere italiane sembrano distanti da quelle straniere coeve dall’eccezionale modernità e libertà formale e
spesso vicine alla formula del Bildungsroman: opere che nell’Italia fascista furono ignorate o censurate con
le motivazioni più assurde e che dovettero aspettare l’adattamento in cartoon per poter divenire
patrimonio, socialmente trasversale della nostra gioventù. Tra queste ricordiamo Anna dai capelli rossi,
Bambi, Pollyanna e Mary Poppins. La stragrande maggioranza degli autori italiani, al contrario resta fedele
al mondo sociale in cui vive, quello fratto dei problemi di tutti i giorni, sia il mondo di cui si deve parlare, di
cui si devono imparare dinamiche e valori, e in cui si deve in qualche modo inserire. Allo stesso tempo
veniva reso pertinente il ruolo della donna nell’ambito dell’età evolutiva, decretando una sostanziale
equivalenza tra i genitori e assegnando alla madre la funzione di assicurare l’equilibrio naturale fra la felicità
dell’individuo e quella della specie, tra l’affermazione dell’io e l’abnegazione, fra la soddisfazione dei sensi e
quella dell’anima.
Nel 1949 Fanciulli, un nazionalista, dà alle stampe un romanzo per ragazzi impavidamente intitolato Cuore
del Novecento, che altro non è che una smaccata adulazione al Duce, con in più la sconfessione del
pacifismo al quale egli si era ispirato per lunghi anni. Impossibile non citare opere come Ciuffettino balilla di
Yambo, il cui vero nome è Enrico Novelli, in cui la provincia è anche il luogo di irrequietezza,
sperimentazione, bricolage; è il luogo in cui i ruoli del gioco non sono assegnati in modo troppo rigido o
sono addirittura intercambiabili. Yambo miete pagine iperboliche e ipertestuali, ove centrifuga materiali
diversi specie di provenienza francese, dal gotico al liberty. Dopo un secolo dalla pubblicazione a Ciuffettino
sarebbe spettata l’onorificenza del tutto fuori programma e anche lo stesso Umberto Eco celebrò questo
bambino piccolino, graziosetto dal ciuffo fiabesco, molto più rassicurante del personaggio di Collodi.
Sergio Tofano decise di cimentarsi nel 1917 nella scrittura di una storia unica a più puntate che sarebbe poi
uscita in un unico volume. Apparentemente destinata all’oblio, Il romanzo delle mie delusioni, racconta la
storia di Fortunato, che dopo aver conosciuto un bravo precettore e aver ascoltato dalla sua voce mirabili
racconti, gli sottrae con una mossa picaresca un paio di magici stivali di pelle. Con questi parte alla volta di
un altro reame delle fiabe dove incontra una Bella Addormentata sofferente d’insonnia cronica, un lupo
cattivo ridotto in schiavitù da Cappuccetto, e così via. Ne consegue un impegno del tutto inedito da parte
dello studente, che tuttavia viene bocciato di nuovo. È un romanzo che appare governato da una morale
agnostica e da una logica altra, duttile e aperta: quella logica delle fiabe che invita a tenersi pronti sia per
un certo tipo di avvenimenti che per il loro contrario. Nel 1943 Tofano dirige per il cinema proprio un Gian
Burrasca, riservandosi il cameo del maestro di pianoforte. Lo scrive insieme ad altri tre sceneggiatori, tra il
quali vi è Zavattini. Negli stessi mesi, quest’ultimo pubblica in forma di romanzo Totò il buono: la storia di
Antonio De Curtis, un pover’uomo della città di Bamba, nato sotto un cavolo e capace, grazie a una
colomba bianca e a due angeli custodi, di compiere miracoli per un giorno. Una storia di meraviglioso
urbano e di onirica ecologia.
Zavattini, insieme a Sto, lavora a Il giornalino di Gian Burrasca, un resoconto quotidiano delle marachelle
architettate da un enfant du siecle per sbugiardare l’ipocrisia dei grandi: da un lato un’ironia candida e
campata in aria, dall’altro una pungente irrisione dell’oggi e dei comportamenti che avevano
contrassegnato la borghesia italiana fin dalla nascita del Regno. La strategia non era molto diversa da quella
usata per Ciondolino, con la differenza che qui stava imboccando la via di un realismo domestico e
municipale. Restava però saldo il principio, ottico e eidetico, di una miniaturizzazione, di una focalizzazione
dal basso e dal piccolo, utile a diagnosticare, con straniamento regressivo i più acuti mali del ‘ secolo
stupido’ Gian Burrasca fu soprattutto un obliquo discorso alla nazione, e ai suoi rampolli in chiave
nazionalista, interventista e irredentista. È un comico quintessenziale, una gag liberatoria e gratuita. Gian
Burrasca è dotato della stessa audacia ideale e concretissima di Totò il buono: come questi può assurgere a
emblema di un’utopia pauperista, che sogna un bonheur diffuso fra tutti gli uomini. Il genere canonico per
eccellenza è il romanzo, anche se molti dei libri citati lo sono solo in senso lato, ma usano questa
definizione per puntare al genere per eccellenza di questo periodo, come accade per il romanzo di
Cipollino, in cui tutti i personaggi sono ortaggi coinvolti in una rivoluzione, con un fondo realistico. Nel
1973, nel pieno degli anni di piombo, Rodari pubblica ‘Grammatica della fantasia: il suo trattato di
fantastica, che è anche uno straordinario manifesto civile e politico. L’immaginazione ha un posto di rilievo
nell’educazione, bisogna avere fiducia nella creatività infantile e permettere a tutti di usare liberamente la
parola.