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Hermann Grosser

COMPACT
Il canone letterario
La letteratura italiana nella tradizione europea

3
a cura di

Hermann Grosser

Secondo Ottocento
libro
Tra Ottocento e Novecento
Novecento LiM
misto

PRINCIPATO © Casa Editrice Principato


54_Società e cultura rid:32 Capitolo 07/03/11 11:17 Pagina 1

Il canone letterariocompact
La letteratura italiana nella tradizione europea

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Alla cara memoria di Salvatore Guglielmino

... né quantunque perdeo l’antica matre,


valse a le guance nette di rugiada
che, lagrimando, non tornasser atre.

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Hermann Grosser

compact
Il canone letterario
la letteratura italiana nella tradizione europea

3
Il secondo Ottocento
Tra Ottocento e Novecento

a cura di
Hermann Grosser

Principato

© Casa Editrice Principato


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Direzione editoriale: Franco Menin


Redazione e ricerca iconografica: Silvana Mambretti
Progetto grafico: Ufficio Grafico Principato
Copertina: Giuseppina Vailati Canta

Il progetto e la direzione dell’opera sono di Hermann Grosser.

Questo volume è stato interamente curato da Hermann Grosser, ad eccezione dei seguenti contri-
buti:
N. Cicognini, autrice del paragrafo 60.1 (Uno sguardo retrospettivo sulla letteratura russa, riduzio-
ne redazionale di una scheda de Il sistema letterario)
M. Gorla, autore del paragrafo 66.5 (Teatro e spettacolo fra Otto e Novecento) e dei capitoli 76 (Il
teatro del primo Novecento) e 85 (Il teatro del secondo Novecento).
S. Guglielmino, autore del paragrafo 60.2 (Tolstòj)
C. Sini, autore del paragrafo 61.5 (La reazione al positivismo, riduzione redazionale di un testo de Il
sistema letterario)
L. Sozzi, autore del capitolo 55 (rielaborazione redazionale di un contributo per Il sistema letterario)
Jacopo Grosser ha curato la revisione e la riduzione dei capitoli dal 68 al 76 (Tra le due guerre) e
del capitolo 82 (Pasolini)

ISBN 978-88-416-1672-7
Prima edizione: febbraio 2011

Ristampe
2016 2015 2014 2013 2012 2011
VI V IV III II I *

Printed in Italy

© 2011 - Proprietà letteraria riservata. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettua-
ta, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.
Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume die-
tro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633.
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Il canone letterario Il secondo Ottocento


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54. Società e cultura nell’Italia unita


55. Due grandi innovatori: Flaubert e Baudelaire
56. Tardo-romanticismo e scapigliatura
57. Giosue Carducci
58. Il naturalismo e il verismo
59. Giovanni Verga
60. Sviluppi e crisi del realismo in Russia: Tolstoj e Dostoevskij

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Il secondo Ottocento

Società e cultura nell’Italia unita


54
n P.T. van Elven, Apertura del
primo parlamento.
n Roma in festa dopo l’ap-
provazione del plebiscito (2 ot-
tobre 1870) per l’annessione
al Regno d’Italia.

Il quarantennio di storia letteraria che esaminiamo a garante dell’indipendenza dello Stato della Chiesa)
in questa sezione (1861-1900 circa) va all’incirca dal- nella guerra franco-prussiana del 1870 consentì poi
l’unità d’Italia alla crisi di fine secolo (l’assassinio del l’annessione di Roma, evento questo di enorme por-
re Umberto I, l’ascesa di Giolitti). La letteratura in tata politica e simbolica. La Chiesa, retta dal reazio-
questo periodo non si presenta omogenea: sullo sfon- nario papa Pio IX (ostile alle ideologie della modernità
do di un tardo romanticismo piuttosto languido, si in genere), nonostante le concessioni e le garanzie
manifestano con diverso peso e rilievo i movimenti del governo italiano, ispirate al principio cavourriano
della scapigliatura (che esprime in forme anche pro- della «libera Chiesa in libero Stato», reagì con il non
vocatorie il disagio di molti giovani intellettuali delusi expedit, il divieto cioè per i cattolici di partecipare alla
dalla realtà post-unitaria) e più tardi del verismo (che vita politica italiana: questo determinò per molto tem-
vuole invece indagare con obiettività la realtà sociale po l’assenza di un movimento politico cattolico.
italiana); ma verso la fine degli anni Ottanta si hanno Rimanevano anche altri e più gravi problemi: so-
anche le prime manifestazioni del decadentismo. prattutto l’arretratezza di gran parte dell’economia
Sul piano storico, fatta l’Italia il compito del nuovo italiana e la sperequazione tra un nord più progredito
Stato era quello, immane, di fare gli italiani, di trasfor- e un sud ancora caratterizzato da rapporti economi-
mare cioè genti diverse in una sola nazione, rendendo co-sociali di natura feudale. Alcuni problemi specifici
omogenee le diversissime realtà amministrative, eco- vennero affrontati e risolti (si giunse ad esempio al
nomiche, sociali e culturali. Rimaneva però anche da pareggio del bilancio statale), ma di fatto le strategie
completare l’unificazione territoriale (Veneto, Trentino, complessive dei governi post-unitari e la sciagurata
Istria e Roma). La partecipazione alla guerra austro- alleanza fra gli industriali del nord e gli agrari del sud
prussiana del 1866, a fianco della Prussia, nonostante ne lasciarono intatti altri e anzi finirono con l’acuire
le due sconfitte di Lissa e Custoza, consentì all’Italia invece che diminuire le disparità tra nord e sud. Fe-
di annettere il Veneto; la disfatta della Francia (ertasi nomeni estesi e dolorosi come il brigantaggio (stron-

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n Carlo Ademollo, La breccia


di Porta Pia.

cato dall’esercito), la precoce disaffezione al nuovo fondo era quello ottimistico di studiare le patologie
Stato da parte delle plebi meridionali, che si erano il- individuali e sociali, nella prospettiva di poterle col
luse di veder migliorate le proprie condizioni di vita, tempo risanare, di fatto questa letteratura portò alla
le cospicue ondate di emigrazione ne sono solo alcuni luce realtà sociali dolorose e sgradevoli, talora con
degli effetti. Sulla «questione meridionale» si aprì un intenti di denuncia, talora con impersonale distacco,
ampio dibattito, ma anche fra gli intellettuali si diffuse talora con accorato pessimismo.
un forte scontento nei confronti della nuova Italia. Gli scrittori, poi, sempre più decisamente di estra-
A complicare le cose ci furono anche, nel venten- zione laica e borghese, si trovano ad affrontare le
nio dell’Italia umbertina, la svolta autoritaria imposta molte contraddizioni di una situazione che da un lato
da Crispi e una velleitaria politica coloniale, che – na- vede imporsi l’economia di mercato e l’industria edi-
ta per emulare le grandi potenze europee – portò a toriale, che garantisce finalmente a livello nazionale e
pesanti sconfitte e mise ancora una volta in luce l’im- internazionale il diritto d’autore, ma deve fare anche i
preparazione militare italiana. Verso fine secolo, nel conti con gli alti tassi di analfabetismo e la ristrettez-
n A. Guardassoni, Autoritratto contesto della seconda rivoluzione industriale (side- za del pubblico. Anche in Italia il pubblico è in cresci-
con macchina fotografica
(1860). rurgica e meccanica), anche l’Italia, almeno al nord, ta, ma il processo è lento. Solo pochi scrittori riesco-
imboccò con vigore e successo la strada dell’indu- no a vivere dei proventi delle loro opere. Una delle
strializzazione, con indubbi benefici economici sul forme più interessanti e clamorose di mercificazione
medio periodo, ma intanto anche con effetti sociali di- e diffusione massificata dell’opera letteraria (o para-
rompenti, per la natura ‘selvaggia’ di tale sviluppo, letteraria) è il cosiddetto feuilleton o romanzo d’ap-
l’intenso sfruttamento della manodopera operaia e pendice, che viene pubblicato a puntate su quotidiani
l’assenza di una legislazione a tutela dei lavoratori. In e periodici.
questo difficile contesto si svilupparono i primi movi- Infine per «fare gli italiani» assai grave e delicato
menti organizzati dei lavoratori e si aprirono vivaci di- era il problema dell’unificazione linguistica, in uno
battiti sui modi e sulle forme dello sviluppo economi- Stato caratterizzato da altissimi tassi di analfabeti-
co. A questi anni risalgono – in Italia – la nascita del smo e dal predominio di una miriade di dialetti locali,
sindacalismo, le prime affermazioni del socialismo e rispetto alla lingua nazionale (privilegio di una ristret-
la dottrina sociale della Chiesa. tissima élite). Se la questione della lingua trova final-
Se la complessa realtà italiana fornì soggetti agli mente una soluzione sul piano teorico con le tesi del
scrittori, la filosofia positivistica, celebrando la scien- glottologo Isaia Ascoli, sul piano pratico l’unificazione
za e applicandone il metodo anche alla realtà psicolo- politica crea le necessarie premesse perché si avvii
gica e sociale (nascita delle scienze umane: sociolo- un processo di omogeneizzazione linguistica, ma ci
gia e psicologia) offrì loro un’ideologia del progresso, vorrà ancora molto tempo perché questo si realizzi in
un metodo di indagine e alcuni concetti forti (ambien- modo soddisfacente.
te sociale, evoluzione, lotta per la sopravvivenza, ere-
ditarietà, ecc.) che vennero accolti dai naturalisti in
Francia e dai veristi in Italia. Ma se il presupposto di

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Il secondo Ottocento

54.1 La periodizzazione
Il secondo Ottocento In questa sezione ci occuperemo degli eventi e degli autori letterari che si col-
locano all’incirca nel periodo che va dall’Unità d’Italia (1861) alla fine del secolo. Sul
piano storico e culturale la data d’inizio segna uno spartiacque profondo: mai infatti
nella storia moderna l’Italia era stata unita politicamente. La secolare divisione in stati
regionali e le dominazioni straniere avevano reso più difficile che altrove diffondere e
rendere omogenee la lingua e la cultura di quanti abitavano la penisola. Sul piano let-
terario, invece, il 1861 non porta rivoluzioni: domina un tardo romanticismo languido
e intimistico, privo dell’energia e degli ideali che avevano animato gli scrittori risorgi-
mentali. La delusione diffusa che seguì l’unificazione viene però registrata per tempo
dagli scrittori scapigliati, con temi e atteggiamenti anticonformistici, in forme di viva-
ce e talora rabbiosa protesta. Anche la letteratura, comunque, dopo l’Unità non è più
esattamente la stessa: si propone nuovi compiti, si apre a un più largo pubblico e a un
nuovo mercato, deve fare i conti anch’essa con la nuova dimensione statale.
Più difficile è invece individuare una data precisa di fine periodo. Sul piano storico
i ministeri di Crispi (1887-1891 e 1893-1896) segnano una svolta imperialistica e au-
toritaria nella politica italiana che culmina con i tragici fatti di Milano (1898); nel
1900 viene assassinato Umberto I; nel 1903 inizia l’era Giolitti, che guiderà l’Italia fi-
no alla vigilia della prima guerra mondiale (R61.1). Sono anni di grandi cambiamen-
ti (negli ultimi due decenni del secolo la «seconda rivoluzione industriale» coinvolge
anche l’Italia), di fermenti e tensioni sociali, di impegnative e discutibili scelte politi-
che, di eventi traumatici che mettono alla prova lo stesso regime parlamentare libera-
le. Sul piano culturale e letterario, quest’epoca è caratterizzata da una complessa con-
comitanza di fenomeni contrastanti: negli anni Ottanta e Novanta si afferma il verismo,
il più caratteristico movimento culturale e letterario italiano del periodo (R58. e 59.),
che però si estende con qualche significativa propaggine anche nel nuovo secolo. Ma
più o meno nello stesso tempo si diffondono fenomeni culturali e letterari nuovi, ispi-
rati dalle esperienze del romanticismo europeo più radicale, finora poco influente in
Italia. Sono le prime cospicue avvisaglie del decadentismo (l’ascesa di D’Annunzio, la
nuova poesia di Pascoli) che poi dominerà gran parte dell’età giolittiana.
In questa sezione pertanto esamineremo essenzialmente la letteratura del tardo ro-
manticismo, della scapigliatura e del verismo, sino a tutti gli anni Novanta. Nella pros-

n Milano, maggio 1898. Le


truppe schierate in piazza del
Duomo.

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54. Società e cultura nell’Italia unita STORIA

sima sezione riprenderemo il discorso dai medesimi anni Novanta, soffermandoci


però sui fenomeni letterari nuovi e in particolare sul decadentismo.

54.2 Il difficile esordio dell’Italia unita


Il completamento del processo risorgimentale: la questione veneta Fatta l’Italia, rimanevano da
fare gli italiani, aveva affermato Massimo d’Azeglio (R51.3 [R T 51.5 ]). Ma nel 1861
l’Italia era stata fatta solo in parte: rimanevano almeno due questioni territoriali aper-
te: il Veneto e Roma. La questione del Veneto venne risolta rapidamente anche se non
molto gloriosamente con la guerra austro-prussiana del 1866 a cui l’Italia partecipò a
fianco della Prussia. Nonostante le due sconfitte, in terra a Custoza e in mare a Lissa,
grazie alla potenza dell’esercito prussiano ottenne dall’Austria il Veneto (ma non il
Trentino, la Venezia Giulia e l’Istria). Per il complessivo quadro geo-politico europeo
la guerra del 1866 ha importanza soprattutto in quanto segna il prepotente ingresso
sulla scena europea di una nuova potenza, la Prussia, guidata con vigore autoritario dal
cancelliere Bismarck e al contempo perché avvia la fase risolutiva di un altro processo
di unificazione nazionale, quello della Germania, che si compirà di lì a poco (nel
1871) in seguito alla guerra franco-prussiana del 1870. La guerra del 1866 consentì
l’annessione del Veneto, ma mise anche in luce il profondo divario fra le ambizioni del
nuovo stato unitario italiano, che aspirava ad assolvere un ruolo di primo piano nel
quadro europeo, e la realtà della sua forza militare, delle sue risorse organizzative, eco-
nomiche e politiche ancora assai lontane dalle ambizioni. Il confronto con la Prussia, a
questa data, risulta per l’Italia quasi umiliante.
La questione romana L’altra questione, quella romana, era ancora più delicata. Il governo e i ceti diri-
genti italiani sentivano la necessità di fare di Roma la capitale del nuovo stato, in
quanto Roma era per storia, tradizioni culturali, collocazione geografica, ma anche sul
piano simbolico, la capitale naturale di uno stato italiano. Tuttavia l’annessione di Ro-
ma era problematica perché Roma era la sede della Chiesa, che era assai influente nel-
l’opinione pubblica di tutta Europa e godeva della protezione della Francia di Napo-
leone III. Per conquistare Roma erano dunque necessari il consenso francese e una
soluzione che non facesse sentire ai cattolici la Chiesa come prigioniera dello stato
italiano. La strategia elaborata da Cavour nel 1861, compendiata nella formula «Libera
Chiesa in libero Stato», che coniugava l’affermazione dell’autonomia e della laicità
dello stato con la libertà di azione spirituale della Chiesa, fu quella che poi venne se-
guita anche dai suoi successori. Il processo si realizzò non senza difficoltà: con la Con-
venzione di settembre (1864) la Francia ritirò le sue truppe da Roma, ma indusse l’I-
talia a promettere formalmente di non invadere lo Stato della Chiesa e a spostare la
capitale da Torino a Firenze, in segno di definitiva rinuncia a Roma (1865). L’Italia
tuttavia, dopo vani tentativi diplomatici e insurrezionali, approfittò della sconfitta del-
la Francia nella guerra contro la Prussia del 1870, per entrare in Roma e legittimare
con un plebiscito popolare l’annessione di fatto.
I rapporti con la Santa Sede e il non expedit Ma, a parte l’irritazione francese, l’annessione lasciò
aperto il problema dei rapporti con la Santa Sede, un grande vulnus politico-culturale
che inciderà a lungo nella vita del nuovo stato fino ai patti Lateranensi del 1929. L’ot-
tima legge delle guarentigie (1871) – ispirata al principio cavouriano della «libera
Chiesa in libero Stato», che garantiva al papa l’extraterritorialità del Vaticano, del Late-
rano e di Castelgandolfo, un appannaggio consistente, l’indipendenza del clero dallo
stato italiano, una piena libertà di movimento e d’azione pastorale e altri privilegi –
non accontentò però Pio IX (già autore nel 1864 del Sillabo, in cui fra l’altro condan-
nava le ideologie della modernità, democrazia, socialismo e comunismo, e riaffermava
la legittimità del potere temporale della Chiesa). Pio IX si ritirò in Vaticano, si dichiarò
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Il secondo Ottocento

prigioniero dell’Italia ed emanò nel 1874 il non expedit (in lat. “non conviene”) con
cui esortava i cattolici a non partecipare alla vita politica italiana. Questa presa di po-
sizione determinò a lungo il separatismo dei movimenti cattolici, che si astennero dal
prendere parte alle elezioni e alla gestione del governo dell’Italia.
I problemi dell’Italia unita: arretratezza ed eterogeneità Dopo la presa di Roma e del Veneto, ri-
maneva il problema di «fare gli italiani». Gli unici reali fattori di identificazione na-
zionale erano la lingua letteraria (toscana) e la tradizione culturale, che però riguar-
davano solo una ristretta élite. Al neonato governo italiano spettò dunque il compi-
to immane di unificare realmente popolazioni diversissime per storia, istituzioni,
leggi, apparati burocratici e militari, condizioni economico-sociali, lingua e cultura.
Sul piano legislativo e amministrativo, ad esempio, si scelse di estendere a tutta Italia
il modello piemontese: ciò ebbe indubbi vantaggi, ma in regioni come la Lombardia
e il Veneto comportò l’abbandono delle leggi e delle strutture austriache che erano
senza dubbio più avanzate ed efficienti di quelle piemontesi. Inoltre, la difficoltà di
creare rapidamente un esercito forte e ben coordinato si mostrò in tutta evidenza
proprio nella guerra del 1866, con le sconfitte di Custoza e Lissa.
L’arretratezza economica e sociale Il problema in assoluto più grave e più difficile da risolvere era
certamente l’arretratezza socio-economica complessiva dell’Italia, per quanto riguar-
dava sia l’industrializzazione sia la modernizzazione dell’agricoltura. Sotto questo pro-
filo, lo squilibrio economico dell’Italia rispetto ai principali paesi europei era palese. Il
bilancio dello stato inoltre era in gravi condizioni, per le immense spese che aveva
comportato l’unificazione: lo sforzo cospicuo per risanare le finanze pubbliche com-
portò un aumento della pressione fiscale che colpì ancora una volta soprattutto le
classi più povere e, invece che lenirli, acuì gli squilibri sociali. Solo marginalmente fu-
rono toccate, ad esempio, le grandi rendite degli agrari meridionali, che godevano di
grandi protezioni, e si agì soprattutto mediante imposte indirette che colpivano indi-
scriminatamente tutta la popolazione, come la tassa sul macinato del 1868. Il pareggio
del bilancio fu ottenuto dai governi della Destra storica nel 1876, ma la strada percor-
sa per raggiungere questo obiettivo rinfocolò il malcontento e le rivolte sociali (ope-
raie e contadine), che vennero stroncate con durissimi interventi repressivi (i moti del
1869, successivi all’imposizione della tassa sul macinato, costarono oltre 250 morti).
La disparità fra Nord e Sud Strettamente collegato a questo c’era il problema della disparità fra un
Settentrione in cui l’industrializzazione era già stata avviata e l’agricoltura in molte
aree era organizzata secondo moderni modelli capitalistici di sfruttamento intensivo
della terra, e un Meridione in cui viceversa dominava il latifondo e l’industria mani-
fatturiera era scarsa. Si confrontavano insomma due realtà molto diverse: una proietta-
ta verso la modernizzazione e l’Europa e una ancora legata a modelli arretrati e a una
realtà sociale di stampo addirittura feudale (i contadini meridionali vivevano in so-
stanza in forme di semi-schiavitù). L’alleanza tra i capitalisti (manifatturieri e agrari)
del Settentrione e latifondisti meridionali influì pesantemente sulle scelte di governo
e nei fatti determinò un mantenimento dello status quo, lasciando intatti i privilegi de-
gli uni e degli altri col risultato però di lasciare anche inalterate, se non addirittura di
aggravare, le differenze socio-economiche tra le due grandi aree della penisola.
Il brigantaggio Il più clamoroso fenomeno di protesta nei primi decenni dopo l’unificazione fu
senza dubbio quello del brigantaggio meridionale. Esso fu determinato dallo sconten-
to delle plebi agrarie meridionali, che si erano illuse che l’unificazione potesse con-
durre quanto meno a una più equa redistribuzione della proprietà terriera e a un tan-
gibile miglioramento delle proprie condizioni di vita (la novella La libertà di Verga in-
segna). Questo, come detto, non avvenne. La delusione si tramutò presto in diffidenza
verso il nuovo Stato, percepito come l’effetto di un semplice mutamento di forma di
governo incapace di intaccare le tradizionali forme di sfruttamento economico. Su
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54. Società e cultura nell’Italia unita STORIA

questo malcontento si innestò per qualche tempo anche l’azione di emissari legittimi-
sti borbonici e clericali volta a fomentare proteste, disordini e rivolte nella speranza
che una sollevazione generale creasse le condizioni per una restaurazione del governo
borbonico (appoggiato dal clero locale). Talora i contadini in rivolta inneggiarono ai
governanti borbonici, rimpianti se non altro come il male minore.
Il fenomeno del brigantaggio assunse proporzioni vastissime e il governo dopo
qualche tentennamento decise di intervenire con forme di repressione violenta, chia-
mando in causa l’esercito: intere province vennero sottoposte per periodi più o meno
lunghi a un regime militare di stato d’assedio: in alcuni momenti vennero impiegati
oltre 100.000 soldati; migliaia di briganti vennero catturati o uccisi. Nel 1865 tuttavia
poteva considerarsi esaurita la fase acuta del fenomeno del brigantaggio, ma la soluzio-
ne era stata essenzialmente delegata a misure repressive, mentre le cause profonde del
generale malcontento sociale rimanevano in gran parte intatte.
Di quanto tale fenomeno di insurrezione violenta fosse radicato nelle coscienze dei
contadini meridionali, può essere testimonianza una pagina di Cristo si è fermato a
Eboli (1945) di Carlo Levi, che ci dà modo di constatare come ancora nella prima
metà del Novecento la guerra dei briganti fosse presente e cara nell’immaginario po-
polare delle classi subalterne del Meridione.

Doc 54.1 La nera epopea dei briganti


C. Levi, Cristo si è ferma-
to a Eboli, Einaudi, I contadini di Gagliano non si appassionavano alla conquista dell’Abissinia, non si ricor-
Torino 1976 davano piú della guerra mondiale e non parlavano dei suoi morti: ma una guerra era in
cima ai cuori di tutti, e su tutte le bocche, trasformata già in leggenda, in fiaba, in rac-
conto epico, in mito: il brigantaggio. La guerra dei briganti è praticamente finita nel
1865; erano dunque passati settant’anni, e soltanto pochi vecchissimi potevano esserci sta-
ti, partecipi o testimoni, e in grado di ricordare personalmente quelle imprese. Ma tutti,
vecchi e giovani, uomini e donne, ne parlavano come di una cosa di ieri, con una passio-
ne presente e viva. Quando conversavo con i contadini, potevo esser certo che, qualun-
que fosse l’argomento del discorso, saremmo presto scivolati, in qualche modo, a parlare
dei briganti. Tutto li ricorda: non c’è monte, burrone, bosco, pietra, fontana o grotta, che
non sia legata a qualche loro impresa memorabile, o che non abbia servito di rifugio o di
nascondiglio; non c’è luogo nascosto che non gli servisse di ritrovo; non c’è cappelletta in
campagna dove non lasciassero le loro lettere minatorie e non aspettassero i riscatti. I luo-
ghi, come la Fossa del Bersagliere, hanno preso nome da loro o dai loro fatti. Non c’è fa-
miglia che non abbia parteggiato, allora, per i briganti o contro i briganti; che non abbia
avuto qualcuno, con loro, alla macchia, che non ne abbia ospitato o nascosto, o che non
abbia avuto qualche parente massacrato o qualche raccolto incendiato da loro. A quel
tempo risalgono gli odî che dividono il paese, tramandati per le generazioni, e sempre at-
tuali. Ma, salvo poche eccezioni, i contadini erano tutti dalla parte dei briganti, e, col pas-
sare del tempo, quelle gesta che avevano così vivamente colpito le loro fantasie, si sono
indissolubilmente legate agli aspetti familiari del paese, sono entrate nel discorso quoti-
diano, con la stessa naturalezza degli animali e degli spiriti, sono cresciute nella leggenda e
hanno assunto la verità certa del mito. Non intendo, qui, fare un elogio del brigantaggio.
[...] Del resto, neanche i contadini lo giudicano e lo difendono, e quando ne parlano con
tanta passione, non se ne gloriano. I suoi motivi storici, e gli interessi dei Borboni e del
Papa o dei feudatari, essi non li conoscono. Anche per loro, quella è una storia triste, de-
solata e raccapricciante. Soltanto, sta ad essi nel cuore; fa parte della loro vita, è il fondo
poetico della loro fantasia, è la loro cupa, disperata, nera epopea.

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Il secondo Ottocento

La «questione meridionale» La grave situazione del Meridione d’Italia divenne però presto una «que-
stione meridionale», in quanto numerosi intellettuali e politici si occuparono del pro-
blema, mediante inchieste, riflessioni e proposte. Se questa attenzione non determinò
una politica conseguente, suscitò però un vivace dibattito, fornendo, sul piano dell’in-
dagine teorica, soluzioni che, se adottate per tempo, avrebbero potuto portare a risul-
tati più significativi, che invece non furono raggiunti: a tutt’oggi, a distanza di oltre un
secolo, in Italia esiste un problema non risolto di disparità di condizioni economiche e
sociali tra Nord e Sud del paese. Le inchieste, talora nate in seno allo stesso parlamen-
to, come quella di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino (La Sicilia nel 1876), e gli
scritti di illustri meridionalisti come Pasquale Villari sono tuttora documenti impres-
sionanti della realtà storica italiana nei primi decenni dopo l’Unità.

Doc 54.2 La questione meridionale nelle parole di uno storico e politico del tempo

P.Villari, Lettere meridio-


nali e altri scritti sulla Ed ora mi resta solo di rispondere ad una obbiezione, che alcuni, per patriottismo, non
questione sociale in Italia, fanno, ma che pure tengono celata nel loro cuore. – Fortunatamente, essi dicono fra sé,
a c. di L. Chiti, Loe-
scher, Torino 1971 non tutta l’Italia è nelle condizioni in cui sono le Province Meridionali. Se laggiù il conta-
dino ed il povero sono in così pessimo stato, se la gente colta manca al suo dovere, non
reagendo e non migliorando questo stato di cose, peggio per loro; resteranno ancora un
1 lascio: tralascio di di- pezzo nello stato di semi-barbari. Nell’Italia centrale e superiore saremo, come siamo, ci-
re. vili. – Io lascio1 che molte piaghe, come ho già accennato, sono anche nell’Italia centrale e
2 il muro... Borboni:
superiore.Voglio ammettere, per ipotesi, quel che non potrei discutere né combattere ora,
quella specie di muraglia
cinese costruita dal gover- che l’Italia cioè sia divisa nel modo che i poco benevoli oppositori pretendono. Ma, per
no borbonico, che separa- poter tirare da un tale stato di cose la conseguenza a cui essi vorrebbero giungere, biso-
va l’Italia. Per poter gode- gnavano averci pensato prima, lasciando intatto il muro della China, che avevano costrui-
re del relativo benessere di
cui godeva l’Italia centro- to i Borboni.2 Dopo l’unità d’Italia, tutto si è mescolato nell’esercito, nella marineria, nel-
settentrionale, insomma, la magistratura, nell’amministrazione, ecc. La colpa delle province più civili che, a tutta
non bisognava riunificare possa, non aiutano le meno civili, è uguale a quella delle classi più colte ed agiate che, in
la penisola.
una medesima società, abbandonano a se stesse le più ignoranti e derelitte. E le conse-
guenze sono le stesse. Oggi il contadino che va a morire nell’Agro Romano, o che soffre
la fame nel suo paese, e il povero che vegeta nei tugurii di Napoli, possono dire a noi ed a
voi: Dopo l’unità e la libertà d’Italia non avete più scampo; o voi riuscite a render noi ci-
vili, o noi riusciremo a render barbari voi. E noi uomini del Mezzogiorno abbiamo il di-
ritto di dire a quelli dell’Italia superiore e centrale: la vostra e la nostra indifferenza sareb-
bero dal pari immorali e colpevoli.

L’emigrazione Arretratezza e disparità economico-sociale determinarono un altro fenomeno di


grandissimo rilievo per la nazione: l’emigrazione verso paesi europei ed extraeuropei,
le cui condizioni economiche aprivano prospettive di benessere o comunque la spe-
ranza di sfuggire alla fame. Il fenomeno si fece particolarmente consistente a partire
dal 1880: mentre nei sessant’anni precedenti gli emigrati italiani non avevano supera-
to il mezzo milione, ora si contano circa 2 milioni di emigranti tra il 1880 e il 1900 e
altri 4 milioni fino al 1915 (nel complesso circa un quinto di tutta l’emigrazione eu-
ropea), a fronte di una popolazione che nel 1901 ammonta a poco più di 32 milioni.
È bene insomma ricordare che l’Italia, prima di essere, come è oggi, un paese ricco ed
evoluto, meta di consistenti flussi di immigrazione, fu a lungo nei due secoli prece-
denti in molte sue aree un paese povero e arretrato, che costrinse milioni di suoi citta-
dini a emigrare per cercare condizioni di vita più degna di questo nome. Ma questo
fenomeno ci aiuta anche a comprendere meglio il contesto economico-sociale e cul-
turale in cui si svilupparono forme d’arte che si volsero finalmente a descrivere queste
realtà e a rappresentare i drammi esistenziali di strati della popolazione per secoli pri-
vati di una voce pubblica.
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54. Società e cultura nell’Italia unita STORIA

n Angiolo Tommasi, Gli emi-


granti.

La politica della Sinistra storica La Destra storica governò l’Italia dall’Unità sino al 1876, l’anno in
cui venne raggiunto il pareggio del bilancio. L’indiscutibile successo sul piano del ri-
sanamento finanziario, come detto, aveva però comportato gravissime tensioni sul pia-
no sociale e un generale ristagno dell’economia. In considerazione di questa situazio-
ne si formò una coalizione di forze eterogenee, mosse da esigenze di riforme econo-
miche e sociali (maggiore equità sociale, minore fiscalismo, interventi a sostegno del
Meridione...), che promosse un cambio nell’indirizzo politico: nel 1876 Agostino De-
pretis venne nominato a capo del governo. Depretis, che governò, salvo un breve in-
termezzo, dal 1876 al 1887, da principio elaborò un piano di riforme abbastanza si-
gnificativo, ma di fatto – emarginando la sinistra repubblicana e i socialisti e attuando
la pratica del «trasformismo» – riuscì solo in parte a realizzare queste riforme. Vanno
menzionate la legge Coppino del 1877 che introduceva l’obbligo dell’istruzione ele-
mentare (però in gran parte evaso, specialmente nel Meridione), l’abolizione della tas-
sa sul macinato del 1879 (incapace però di produrre significativi effetti sui consumi e
sulle condizioni di vita delle classi subalterne) e soprattutto la riforma elettorale del
1882 che dava diritto di voto agli alfabeti che avessero compiuto 21 anni o avessero
un determinato censo: visti i tassi di analfabetismo, il numero degli elettori salì solo al
6,9% della popolazione, ma comunque esso risultò triplicato rispetto al passato e con-
sentì un significativo allargamento della base sociale degli aventi diritto (grazie a que-
sta riforma, ad esempio, venne eletto il primo deputato socialista, Andrea Costa).
Crispi, la svolta autoritaria della Sinistra: «l’Italia umbertina» Nel 1878 moriva Vittorio Ema-
nuele II e gli succedeva Umberto I, che avrebbe regnato fino al 1900. Sono questi gli
anni della cosiddetta «Italia umbertina», caratterizzata da un incerto e anche contrad-
dittorio sviluppo economico, da irrisolti conflitti sociali, da un filantropismo paterna-
listico, che non riesce a sopperire alla mancanza di più consistenti riforme economi-
che e sociali, e al contempo dall’insorgere di nuove organizzazioni e rivendicazioni
dei lavoratori; e, sul piano politico, da un misto di nazionalismo, anticlericalismo, libe-
ralismo, conservatorismo antisocialista, autoritarismo, militarismo e imperialismo vel-
leitario. Dopo Depretis, a governare l’Italia fu Francesco Crispi: «ex cospiratore, rivo-
luzionario, mazziniano, democratico sostenitore del suffragio universale, si era conver-
tito alla monarchia divenendo uno degli esponenti principali della Sinistra moderata:
un acceso ammiratore della politica di forza, che trovava genialmente incarnata in Bi-
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Il secondo Ottocento

smarck, un nazionalista ardente desideroso di affermare il volto militare della nazione,


un colonialista convinto che l’Italia dovesse imporsi in Africa, un conservatore che
considerava i socialisti quali nemici interni e arrivava a considerare le lotte operaie e
contadine come un attentato all’unità e alla saldezza del paese, un liberale laico anti-
clericale» (Salvadori). Crispi, che governò fra il 1887 e il 1896, incarnò la svolta auto-
ritaria della Sinistra storica, tanto in politica interna (abolì la pena di morte e rese le-
gittimo lo sciopero, ma rafforzò il potere esecutivo e attuò una politica repressiva nei
confronti di dissidenti politici, organizzazioni sindacali operaie e movimenti di prote-
sta contadina) quanto in politica estera (ad esempio nella politica coloniale).
La tentazione imperialistica: l’avvio di una politica coloniale In verità già Depretis aveva avvia-
to una politica coloniale, occupando alcuni territori sul Mar Rosso: l’espansionismo
nei confronti dell’impero etiopico aveva però portato alla cocente sconfitta di Dogali
(1887). Crispi, a sua volta, stipulato un trattato con il negus Menelik che portò alla
formazione della colonia Eritrea (1889), tentò nuovamente di espandersi verso l’Etio-
pia, ma subì due rovinose sconfitte ad Amba Alagi (1895) e ad Adua (1896) che, fra
moti di piazza, sancirono la fine della sua esperienza di governo. Queste incerte e fal-
limentari imprese in sostanza non furono l’espressione di un capitalismo dinamico
bensì un velleitario tentativo di emulare le grandi potenze europee e di dare un diver-
so sbocco all’emigrazione dei tanti contadini meridionali che non trovavano lavoro in
patria. Anche dietro alla politica coloniale si potevano intravedere interessi concreti e
ancora una volta un’alleanza fra gli industriali del Nord, fornitori dell’esercito, che ve-
devano di buon occhio l’aumento delle commesse militari, e gli agrari del Sud che
pensavano di attenuare il malcontento sociale eludendo le richieste di una politica di
riforma agraria. I risultati denunciarono ancora una volta l’arretratezza e l’imprepara-
zione dell’Italia, suscitando al tempo stesso reazioni delle forze che chiedevano mag-
giore attenzione ai problemi sociali interni del paese e delusione, frustrazioni e spirito
di rivincita nei gruppi nazionalisti e militaristi, nonché di un diffuso spirito antiparla-
mentare destinato a crescere fino a confluire nell’esperienza fascista.
Industrializzazione e «questione sociale» L’ultimo ventennio del secolo imprime una notevole ac-
celerazione dello sviluppo industriale anche in Italia. La cosiddetta «seconda rivolu-
zione industriale» si caratterizza per lo sviluppo dell’industria siderurgica e meccanica,
per l’utilizzazione di nuove fonti di energia, di nuovi materiali, di macchinari sempre
più sofisticati, per la concentrazione dei capitali e l’ingrandimento delle imprese. L’I-
n Ufficiali italiani a Massaua talia che fino ad allora aveva avuto soprattutto un’industria tessile, concentrata in po-
nel 1885. che aree del Settentrione, dovette affrontare le difficoltà inerenti allo sviluppo indu-
n Trasporto di truppe italiane
in Eritrea in una foto del 1887. striale ritardato, alla carenza di materie prime e di capitali privati e all’insufficienza di
infrastrutture. Nonostante le difficoltà, l’industria italiana cominciò a decollare, dimi-

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54. Società e cultura nell’Italia unita STORIA

nuendo un poco il divario rispetto agli altri grandi paesi europei. Collegati a questo
processo ci furono l’incremento percentuale dei lavoratori dell’industria, la crescita del
movimento sindacale, il rafforzarsi di una coscienza di classe e nel 1892 la fondazione
del Partito socialista italiano ad opera di Filippo Turati. Anche in Italia l’industrializza-
zione determina novità nelle forme di rivendicazione e di protesta: in grado di orga-
nizzarsi più facilmente rispetto ai contadini e ai braccianti, data la concentrazione
nelle fabbriche, gli operai pongono le premesse per la formazione di un movimento
più strutturato, più consapevole e più incline a incidere nella vita politica del paese.
In questo contesto si inseriscono anche la Chiesa e il mondo cattolico: Leone XIII
emana l’enciclica Rerum Novarum, che elabora una prima dottrina sociale della Chiesa;
È un passo decisivo in direzione di un ritorno dei cattolici nella vita politica italiana.
Si avvia così la costituzione di un movimento politico cattolico: mediante l’azione
n Sciopero di minatori e ope-
rai metallurgici in Francia a fi- pratica e la riflessione teorica, i cattolici vanno costituendo l’embrione di quello che
ne secolo. diventerà più tardi la «democrazia cristiana» (don Luigi Sturzo, già attivo nella Sicilia
n Leone XIII benedice il fono-
grafo (disegno di Beltrame del
di fine secolo, ne sarà l’ispiratore fondando nel 1919 il Partito popolare italiano, grazie
1903). al quale i cattolici fecero il loro reingresso nella vita politica italiana R61.2).

54.3 Il positivismo, una filosofia del progresso


Il positivismo e l’ideologia del progresso Nonostante le gravi contraddizioni con cui si attuavano i
rapidi processi di modernizzazione e i profondi squilibri sociali che i governi non riu-
scivano a sanare, il secondo Ottocento fu l’età in cui forse più sistematicamente si dif-
fuse un’ideologia del progresso, le cui origini remote risalivano all’illuminismo: essa, da
un lato, celebrava i fasti presenti e futuri di una civiltà capitalistica, industriale, moder-
na, capace di migliorare il tenore di vita, sconfiggendo atavici problemi come quello
della carestia e della fame e fornendo grazie al progresso tecnologico un nuovo be-
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Il secondo Ottocento

nessere; e, dall’altro, si proponeva di fornire nuovi strumenti conoscitivi di tipo scien-


tifico per analizzare i problemi economici, psicologici, sociali, le «patologie» della vita
sociale che, nonostante l’ottimismo, rimanevano sotto gli occhi di tutti.
Alla base di questa ideologia fu la filosofia positivistica che si proponeva di limitare
il proprio campo di ricerca solo a ciò che è conoscibile per mezzo delle scienze: la
matematica e le scienze della natura (fisica, chimica, biologia) e ora anche la sociologia
(e poi la psicologia) che il filosofo francese Auguste Comte si proponeva di fondare su
basi anch’esse scientifiche. Si trattava di un passo fondamentale, per quanto ancora me-
todologicamente incerto, verso la costituzione delle moderne scienze umane. Per
quanto riguarda quest’ultimo aspetto, i positivisti si proponevano di applicare rigoro-
samente il metodo scientifico all’analisi sociale allo scopo di fornire strumenti per l’a-
zione concreta e di contribuire così in modo determinante a quel luminoso cammino
di progresso a cui essi (in verità un po’ fideisticamente) ritenevano che l’umanità fos-
se destinata. Applicando talora in modo un po’ spregiudicato modelli scientifici de-
sunti ora dalla fisica ora dalla biologia, si credette possibile individuare le leggi del
comportamento umano e di poter prevedere lo sviluppo della società, in base alla
considerazione che in un campo regolato da leggi, date certe premesse, sarebbero sca-
turite conseguenze certe (è il cosiddetto determinismo). Su queste basi si credette an-
che di poter individuare i più efficaci rimedi per curare e risolvere le patologie della
vita sociale. Si credette infine di poter individuare nella natura una logica di sviluppo
che dal caos portava all’ordine, dallo squilibrio all’equilibrio, dal conflitto alla pacifica-
zione e che altrettanto dovesse valere nello sviluppo sociale. Una ventata di ottimismo
per un certo tempo dagli scrittoi dei filosofi si diffuse nella società e nella cultura.
Da Comte a Darwin Il tentativo di ridurre a leggi positive la complessa realtà dei comportamenti
umani si colorava però di tinte addirittura religiose nella sociologia di Auguste Com-
te quando il filosofo francese prefigurava un’umanità futura finalmente pacificata e
riunificata che sarebbe stata essa stessa «il Dio incarnato nella storia» (Sini). Una com-
ponente utopica insomma percorreva questo pensiero che si proponeva di essere rigo-
rosamente razionale e scientifico. Ciò accadeva in diversa misura anche nell’utilitari-
smo di John Stuart Mill e nell’evoluzionismo di Herbert Spencer.
Ma chi diede un apporto più duraturo e scientificamente più solido al positivismo
fu l’inglese Charles Darwin (1809-1882) che, studiando l’evoluzione delle specie ani-
mali, formulò la sua teoria dell’evoluzionismo, secondo la quale tutti gli esseri viventi,
compreso l’uomo, derivano da un medesimo capostipite originario, e che le specie
evolvono in base a un principio di lotta per la sopravvivenza, di adattamento all’am-
biente e di selezione naturale, secondo cui sopravvivono soltanto gli individui e le
specie più adatti all’ambiente in cui si trovano, trasmettendo per via ereditaria le pro-
prie caratteristiche biologiche alle specie successive. Questa visione, con l’enfasi data
alla lotta per la sopravvivenza e alla selezione naturale, reintroduceva elementi meno
ottimistici nell’idea di progresso. Suscettibili di innumerevoli applicazioni ideologiche
ben oltre le intenzioni del loro scopritore, i principi di Darwin furono al centro di un
vivace dibattito (in primo luogo accentrato sul problema religioso della creazione che
la teoria darwiniana sembrava negare), ma rimangono comunque, nella loro originaria
formulazione, fra i più cospicui apporti del pensiero scientifico ottocentesco.
Positivismo e ideologie politiche Il positivismo in quanto movimento filosofico non ebbe in sé
particolari connotati ideologico-politici, ma nelle versioni dei singoli autori e negli
sviluppi che ne derivarono si possono annoverare sia posizioni liberali borghesi (si
celebrarono i fasti del progresso e del mondo capitalistico-borghese, e l’assoluto li-
berismo economico venne individuato come il sistema più consono alle leggi di na-
tura), sia posizioni politicamente reazionarie (quando ad esempio il cosiddetto
«darwinismo sociale» sfociò in dottrine razzistiche che legittimavano l’esistenza solo
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54. Società e cultura nell’Italia unita STORIA

dei gruppi etnici ritenuti più evoluti), sia infine posizioni democratiche e socialisti-
che (quando prevalse la volontà di denunciare le patologie della società reale e at-
tuale e di configurare modelli alternativi, come fece ad esempio lo stesso Marx, che
si era proposto di dedicare proprio a Darwin Il Capitale). In quest’ultimo senso si
collocano anche l’attività letteraria e le battaglie politiche e civili di Emile Zola, che
fu tra i più acuti indagatori e narratori dei meccanismi di potere e di sopraffazione
della società francese del suo tempo.
Positivismo, arte e letteratura Sta di fatto che la filosofia del positivismo trasmise alla cultura e al-
la letteratura un’ideologia che in estrema sintesi consisteva nella fiducia nella scienza
(scientismo), nell’esistenza di leggi che regolassero i comportamenti umani (determini-
smo), nella convinzione di dover in letteratura emulare gli scienziati proponendosi in-
dagini obiettive e spassionate (metodo scientifico, obiettività e impersonalità), e più in par-
ticolare alcuni nuovi strumenti di indagine della realtà psicologica e sociale, che nel-
la cultura letteraria si aggregarono in alcune idee cardine (milieu social, cioè ambien-
te sociale, adattamento all’ambiente, lotta per la sopravvivenza, società intesa come organi-
smo vivente, evoluzionismo sociale che premia i più forti e falcia i più deboli, ereditarietà
di tratti psicologici, attitudini e tare individuali). Attorno a queste idee cardine e a
una più generale fiducia nelle capacità conoscitive della scienza la letteratura avreb-
be costruito una nuova, storicamente determinata, idea di realismo.
Interesse per l’abnorme, il patologico, l’irregolare Ma è assai significativo anche il fatto che in
un’epoca che intendeva celebrare i fasti del progresso molto spesso l’interesse degli
scrittori si concentrasse sull’abnorme, sul patologico, sulle devianze psicologiche e
sociali. Lo scopo ultimo era certo quello di migliorare la società, curare le patologie
e reintrodurre l’ordine; ma l’accento molto spesso cadeva, talora con un sospetto di
compiacimento, su aspetti drammatici se non tragici della vita quotidiana. In un’e-
poca poi che celebrava l’esistenza di leggi certe che avrebbero portato a scandaglia-
re e a illuminare ogni aspetto della vita psichica e delle dinamiche sociali, ci fu tut-
tavia anche un interesse per i fenomeni irregolari, che sfuggivano alla scienza o che
ne configuravano i limiti problematici. In questo modo si aprirono nuovi dibattiti tra
spiritualismo e materialismo, razionalismo scientista e irrazionalismo.

54.4 I letterati di fronte al pubblico di massa


Uno scrittore laico e borghese Per quanto riguarda la condizione sociale dei letterati la tendenza
generale che caratterizza l’Ottocento europeo, come sappiamo, è il rapido avvento
del terzo stato: in tutta Europa insomma gli scrittori sono ora per la maggior par-
te laici e borghesi. Avviatosi nella prima metà del secolo anche in Italia, il proces-
so di laicizzazione e borghesizzazione continua, e anzi tende ad accentuarsi.
I letterati, il diritto d’autore e i limiti del mercato editoriale L’unità d’Italia comporta anche
l’unificazione del mercato editoriale e il definitivo superamento dei problemi relati-
vi al mancato rispetto dei diritti d’autore, che sono ormai garantiti in ambito sia na-
zionale sia internazionale. Questi eventi, insieme al progressivo aumento dell’alfabe-
tizzazione e della scolarizzazione, danno un nuovo impulso all’attività editoriale e av-
vicinano la situazione italiana a quella europea. Ciò accade però assai lentamente e i
numeri complessivi del pubblico potenziale e delle tirature sono ancora relativamen-
te modesti, se paragonati a quelli dei paesi europei culturalmente più sviluppati.
Ancora pochissimi sono i letterati che riescono a vivere del commercio delle pro-
prie opere. Non sono molti neppure quelli che riescono a vivere svolgendo un’atti-
vità legata al mondo dell’editoria. La maggior parte deve continuare a svolgere un’at-
tività collaterale a quella letteraria. Fra gli scrittori che vivono più intensamente le
contraddizioni della nuova situazione (mercificazione dell’opera letteraria, ma sostan-
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Il secondo Ottocento

ziale impossibilità di vivere esclusivamente di essa) ci sono gli scapigliati, che spesso
contestano in blocco la nuova società fondata sul denaro e sul commercio, da cui si
sentono esclusi e da cui talora tendono per protesta ad autoescludersi.
Qualità letteraria e successo di mercato Molti scrittori di qualità, poi, vivono in modo conflittuale
e talora drammatico il rapporto con il mercato: vedono premiate opere di valore let-
terario assai modesto, ma appetibili presso il grande pubblico, e faticano magari a tro-
vare un editore per le proprie. Il caso di Verga è per molti aspetti illuminante: trasfe-
ritosi dalla Sicilia a Milano, ottiene un cospicuo successo con le sue prime opere di
stampo tardo-romantico, per molti versi corrive nei confronti del gusto del grande
pubblico; ma quando, anche per ragioni d’arte, approda al verismo e scrive il suo ca-
polavoro – I Malavoglia – fa un fiasco clamoroso. A tale proposito Ugo Ojetti nel
1895 intervista i più noti scrittori del tempo: tutti gli scrittori d’area scapigliata e ve-
ristica descrivono una situazione di grave crisi e paiono pessimisti non solo sul pre-
sente ma anche sui possibili sviluppi del mercato editoriale. Solo il giovane D’An-
nunzio, agli inizi della sua folgorante carriera, mostra di comprendere le potenzialità
anche commerciali della nuova situazione (per il caso D’Annunzio R64.1).

Doc 54.3 I letterati e il mercato in un’inchiesta di fine secolo

U. Ojetti, Alla scoperta


dei letterati, a c. di P. Pan- GIOVANNI VERGA
crazi, Le Monnier, Da moltissimi anni la letteratura nostra non ha avuto una tale espansione oltre l’Alpi, non
Firenze 1946
solo in Francia ma, prima e meglio, in Germania, in Austria, in Russia. E questo è un sin-
tomo di vitalità potentissimo. E noti che ciò avviene quando nessun letterato in Italia vive col
reddito puro della letteratura, o almeno... col reddito della letteratura pura. Date queste orrende con-
dizioni economiche, quel che si fa è moltissimo; e pochi paesi, se quelle condizioni fossero
migliori, potrebbero resistere al confronto.
LUIGI CAPUANA
Quei pochi pazzi che si occupano di letteratura che guadagnano? Danari? Treves che è
tra i più ricchi editori (se pure non è il più ricco) dà al massimo duemila lire per un grosso
romanzo di un autore già noto. [...] Insomma, lavora, lavora e lavora, si finisce per fare, co-
me faccio io all’età mia, la vita da studente, in due camere al terzo piano, tra i libri.

Il pubblico di massa in Italia e in Europa L’Ottocento in Europa è anche l’età della massificazione
del pubblico. Il fenomeno presenta però forti squilibri a seconda delle diverse aree
geografiche, e l’Italia, in particolare, che ha una percentuale di analfabetismo fra le più
alte d’Europa, è in netto ritardo in questo processo. Tuttavia, specie dopo il 1861, il
pubblico dei lettori è in crescita anche da noi e si estende a strati sociali finora rag-
giunti poco o nulla dalla cultura. Una stima fatta da Giovanni Ragone indica in 600-
700.00 unità il pubblico potenziale verso il 1880, cioè solo il 2% circa della popola-
zione. Per il momento i nuovi strati di pubblico appartengono ancora in larga misura
ai ceti medi e precisamente alla piccola e media borghesia, il pubblico d’elezione dei
letterati romantici, la cui acquisizione stabile alla lettura è forse il dato sociologico più
significativo del secolo. Il proletariato urbano e rurale rimane per lo più escluso, ma
qualcosa comunque si sta muovendo. Fattore determinante in questo senso è il decre-
mento abbastanza rapido dell’analfabetismo: dal 75-80% di analfabeti nel 1860 si cala
al 40% nel 1911. Il divario col resto dell’Europa è ancora lungi dall’essere eliminato,
ma comincia a ridursi sensibilmente, e l’espressione «pubblico di massa» a poco a po-
co acquista anche in Italia una maggiore aderenza alla realtà effettiva.

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54. Società e cultura nell’Italia unita STORIA

54.5 Il caso del romanzo d’appendice


Editoria popolare e di consumo in Italia: il feuilleton Pur con tutti i limiti che abbiamo prima in-
dicato, si sviluppa anche in Italia un’editoria popolare e di consumo destinata al nuo-
vo pubblico emergente. Con il romanzo storico, con quello di costume e soprattutto
con il romanzo d’appendice essa riesce a catturare un settore relativamente vasto del
pubblico potenziale dell’epoca. Il feuilleton, ovvero il «romanzo d’appendice», pubbli-
cato cioè a puntate, in appendice a quotidiani o periodici, è uno dei fenomeni edito-
riali e di costume più clamorosi del secolo. Il suo successo dipende dal fatto che ade-
gua linguaggio, strutture, temi e ideologia alle attese del largo pubblico e utilizza canali
facilmente accessibili. I più fortunati e abili autori di feuilletons arrivano a godere di
una larghissima popolarità e sono gli scrittori che forse più di tutti traggono benefici
economici dal proprio mestiere. Ma è anche vero l’inverso: i periodici che riescono ad
assicurarsi le firme dei romanzieri più in voga aumentano le tirature.
Esordi del feuilleton in Francia e in Italia Gli esordi del feuilleton sono in Francia, attorno agli anni
Trenta; il maestro indiscusso del genere è quell’Eugène Sue, che, sull’onda dello stre-
pitoso successo ottenuto dalle sue opere (celebri I misteri di Parigi, 1842-43), nel 1850
verrà eletto deputato per la circoscrizione di Parigi. Ma con Sue rivaleggiano sia Bal-
zac sia Alexandre Dumas padre (celeberrimi i suoi I tre moschettieri). Da noi il romanzo
d’appendice compare invece solo attorno alla metà del secolo con le opere del padre
Antonio Bresciani e di altri, fra cui molti degli scapigliati: ad esempio Fosca di Tarchetti
esce a puntate sulla rivista «Il Pungolo» nel 1869. Più tardi, anche autori come Verga
non disdegneranno di pubblicare le proprie opere su riviste o quotidiani.
In definitiva il romanzo d’appendice non fa che proseguire, coniugandola con uno
strumento di grande circolazione qual è la stampa periodica, la tradizione del roman-
zo popolare, già diffuso, specie all’estero, nel Settecento. Il romanzo, poi, fra i generi
moderni, è certo quello potenzialmente più popolare, anche quando si mantiene a
notevoli livelli di qualità e non si limita a perseguire puri scopi commerciali. Si pensi
al caso di Defoe nel primo Settecento (R39.1). Ora la diffusione di massa del roman-
zo e la sua immissione in precise strutture commerciali diventa la norma. Un caso cla-
moroso è quello di Victor Hugo, che seppe rivaleggiare quanto a successo popolare
con gli autori di feuilletons; un altro caso forse ancor più clamoroso è quello di Balzac,
n La mostra dei Fratelli Tre-
ves per una Esposizione Na-
zionale (disegno di Beltrame).

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Il secondo Ottocento

che per tener dietro alle sollecitazioni degli editori appaltava la stesura o la prepara-
zione di intere parti ad altri scrittori meno noti (i «negri», in gergo). Questo fenome-
no tocca il suo culmine con Dumas, che impiega fino a 73 collaboratori, giungendo a
pubblicare a proprio nome assai più di quanto gli fosse materialmente possibile scri-
vere. «L’opera letteraria ora diventa “merce” nel vero senso della parola» (Hauser).
Un romanzo concepito per essere letto a puntate Il mezzo e i modi della diffusione condiziona-
no anche la forma narrativa. Lo scrittore di feuilletons deve fornire all’editore una suc-
cessione di segmenti narrativi di misura pressappoco prestabilita che vengono pubbli-
cati a puntate: ciò comporta una scansione della materia sensibilmente diversa da
quella del romanzo concepito per essere pubblicato direttamente in volume. Ogni
puntata deve essere sufficientemente autonoma per essere memorizzata, ma deve an-
che tener vive le attese del pubblico e invogliarlo a proseguire la lettura e quindi ad
acquistare il numero successivo del periodico (ogni segmento deve fornire un episo-
dio e creare possibilmente una certa suspense). La struttura e le misure interne del rac-
conto, i suoi ritmi, lo sviluppo degli eventi e dei colpi di scena sono in qualche modo
‘obbligati’. Non è raro poi che gli scrittori di romanzi d’appendice compongano quo-
tidianamente, o periodicamente, le parti destinate ad essere pubblicate.
Il romanzo d’appendice si rivolge ad un pubblico di massa Una seconda considerazione riguar-
da la qualità delle opere. Anche se svariate opere di elevata qualità letteraria sono og-
getto di pubblicazione ‘in appendice’ (basterebbe citare i casi di Balzac e Dickens, di
Tarchetti e Verga) e col tempo il pubblico si affinerà, resta il fatto che una gran parte
della narrativa appendicistica ottocentesca riguarda non tanto la storia letteraria tradi-
zionalmente concepita (cioè attenta di preferenza alle opere giudicate, per comune
consenso, di alto valore letterario), quanto la storia della cosiddetta paraletteratura. In
ogni caso il fenomeno dei generi a esplicita destinazione popolare è stato anche nel-
l’Italia ottocentesca di vastissime proporzioni. Per limitarci ai casi più clamorosi, ricor-
deremo Francesco Mastriani (1819-1891), autore di oltre cento romanzi, pubblicati
sui giornali napoletani, i cui “capolavori” sono La cieca di Sorrento e I misteri di Napoli; e
Carolina Invernizio (1858-1916), autrice di circa 130 romanzi, spesso fin dal titolo in-
n Copertina de I misteri di
Parigi del 1842.
n La serie di Rocambole, che
si pubblica a partire dal 1853.

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54. Società e cultura nell’Italia unita STORIA

dicativi delle propensioni ‘nere’ della scrittrice (salvo poi, in realtà, convergere, nel
gioco delle peripezie e del lieto fine, in un’esaltazione dell’ideologia della famiglia),
come nel caso di una delle sue opere più note, Il bacio di una morta.

54.6 Lingua e società nei primi decenni dopo l’unificazione


Effetti dell’unificazione politica dell’Italia Fra i problemi che si dovevano affrontare per «fare gli
italiani» non ultimo c’era quello di estendere la conoscenza della lingua italiana. La
mancanza di una profonda e consapevole partecipazione di massa al risorgimento do-
veva pesare anche sul periodo successivo all’Unità, con l’aggravante di tutte le que-
stioni che la politica post-unitaria lasciava irrisolte. Per quanto riguarda la lingua, però,
il più era fatto: l’unità politico-amministrativa che in paesi come Francia e Inghilterra
aveva già da molti secoli determinato una forte omogeneizzazione linguistica, ormai
era cosa fatta anche per l’Italia. La serie di processi innescati dall’unificazione, ma an-
che dal progresso tecnologico e dallo sviluppo industriale, col tempo avrebbero porta-
to a un lento ma effettivo riavvicinamento linguistico di tutti gli italiani.
Fattori di unificazione linguistica Fra i processi socio-economici e socio-culturali che costituirono
fattori di unificazione linguistica si possono per ora ricordare quelli che furono una di-
retta conseguenza dall’unificazione politico-amministrativa: l’incremento della scola-
rizzazione; l’unificazione amministrativa e la diffusione della burocrazia (leggi, norme,
regolamenti ecc. d’ora in avanti verranno tutti redatti in italiano); il servizio militare,
che porta al Nord i giovani meridionali e al Sud i settentrionali; la stampa a diffusione
nazionale che a sua volta diffonde l’italiano standard; gli incipienti processi di urbaniz-
zazione, industrializzazione e migrazione interna che cooperano a riunire e a far co-
municare masse di persone di ceto e provenienza geografica diversi; persino l’emigra-
zione, evento traumatico e doloroso, ma capace di rendere gli emigrati – spesso a con-
tatto con diverse e più progredite realtà sociali – consapevoli dell’importanza dell’i-
struzione.
Ostacoli socio-culturali all’unificazione linguistica Tuttavia il limitato coinvolgimento delle mas-
se nel processo risorgimentale e la conseguente diffidenza di larghi strati della popola-
zione nei confronti del nuovo stato e delle sue istituzioni (compresa la scuola), specie
nel Meridione, dove secoli di malgoverno l’avevano alimentata, e nelle campagne, do-
ve minima era l’istruzione, costituiscono un ostacolo oggettivo alla diffusione dell’ita-
n H.J. Geoffroy, In classe
(1889).

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Il secondo Ottocento

liano. Del resto, la perdurante arretratezza della popolazione rurale e delle aree del
Meridione agivano nel medesimo senso: la fame, la povertà, la necessità di lottare per
la sopravvivenza quotidiana, impiegando anche i bambini più piccoli nei campi o
nelle botteghe, induceva ad evadere l’obbligo scolastico e a ritenere secondario l’ap-
prendimento di una lingua ancora lontana ed estranea. Le difficoltà di una reale scola-
rizzazione dei ceti subalterni, specie nelle campagne, sono un dato preoccupante, che
viene più volte sollevato anche da inchieste ministeriali (ad esempio la già citata in-
chiesta Franchetti-Sonnino, La Sicilia nel 1876).
Ma l’insegnamento scolastico, anche quando viene effettivamente impartito, in que-
sti anni spesso viene impartito in dialetto (soprattutto nelle campagne): si mira ad un sa-
pere pratico più che linguistico. Non semplice poi si presenta il problema della forma-
zione di un ceto insegnante qualificato anche sul piano linguistico: spesso, anche nelle
città, vengono chiamate all’insegnamento persone che non hanno una preparazione
specifica, o che hanno competenze tecniche ma non linguistiche. Manzoni, ancora atti-
vo sul piano della polemica e della progettazione linguistica, suggerisce degli stages in
Toscana per gli insegnanti di tutta Italia, ma il progetto rimane sulla carta. La stessa len-
tezza rispetto ai principali paesi europei dello sviluppo di una moderna borghesia, capa-
ce di trainare i processi innovativi, e vari altri fattori e carenze strutturali del nuovo sta-
to renderanno l’unificazione linguistica un processo lento.
Quanti conoscono l’italiano? Non bisogna, del resto, mai dimenticare la situazione di partenza, le
reali condizioni linguistiche, cioè, attorno al 1860. Impressionante è il computo stati-
stico di quanti nei primi anni dell’Unità erano in grado di utilizzare l’italiano come
lingua della comunicazione orale e scritta. Dal censimento del 1861 risulta che oltre il
78% della popolazione totale, con punte sino al 90% nelle isole, è analfabeta, cioè non
sa leggere e scrivere, parla non italiano ma solo dialetti locali. Del restante 22% una
parte consistente deve presumersi semianalfabeta, in grado di scrivere il proprio nome
e di leggere qualcosa a stampa e poco più. Gli alfabeti per lo più appartengono ai ceti
borghesi; sanno scrivere con varia approssimazione in toscano (la lingua letteraria);
nella comunicazione quotidiana usano prevalentemente il dialetto; in situazioni for-
mali, con persone di diversa regione, usano il toscano, ma con grande incertezza e
scarsa naturalezza, trattandosi di una lingua appresa sui libri e non dall’uso vivo. Il pro-
cedimento è ancora quello che descrive Manzoni per i primi decenni del secolo scor-
so a Milano: quello che egli chiama il parlar finito «voleva dire adoprar tutti i vocaboli
italiani che si sapevano, o quelli che si credevano italiani, e del resto supplire come si
poteva, e per lo più, s’intende, con vocaboli milanesi, cercando però di schivar quelli
che anche ai milanesi sarebbero parsi troppo milanesi, e gli avrebbero fatti ridere; e da-
re al tutto insieme le desinenze della lingua italiana». Significative sono a questo ri-
guardo anche le testimonianze dell’imbarazzo con cui nelle prime sedute del parla-
mento italiano si esprimevano i deputati. In Piemonte del resto, accanto al piemonte-
se, e specie a corte, si usava di prevalenza il francese.
L’eccezione è costituita dalla Toscana e da Roma, dove la lingua che può esser de-
finita italiana comune è intesa e parlata, sia pur con varianti dialettali locali. De Mau-
ro calcola che nel 1861, fuori di Toscana e a Roma, solo lo 0,8% (160.000 persone su
20 milioni) sappia parlare e scrivere correttamente l’italiano; comprese queste due
aree, si sale al 2,5% (600.000 persone su 25 milioni). È un dato che parla da sé.
La discussione delle tesi manzoniane Intanto con l’unificazione e l’avvio dei processi cui accenna-
vamo si conclude anche la plurisecolare questione linguistica. Ancora abbastanza a
lungo, dopo il 1860, si discutono le diverse tesi formulate nel primo Ottocento, e in
particolare quella manzoniana, a cui per alcuni anni si ispirano anche i progetti e gli
interventi governativi. Ma è Graziadio Isaia Ascoli (1829-1927) che dirime la contro-
versia sul piano teorico. Glottologo e dialettologo, egli è mosso non tanto da intendi-
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54. Società e cultura nell’Italia unita STORIA

menti di politica culturale, quanto dal rigore imposto dalla ricerca scientifica: non si
può non tener conto – sostiene – del passato della lingua italiana, della tradizione che
si è costituita di fatto, per quanto limitata essa sia. Per affrontare il problema bisogna
analizzare correttamente le cause che lo hanno determinato: esse consistono nella se-
paratezza politica, nella scarsa diffusione della cultura al di là di una ristretta élite, nel
vizio del formalismo e della retorica. Per risolverlo, quindi, bisogna estirpare la retori-
ca, diffondere la cultura, favorire momenti di vita collettiva e unitaria.
A quanti si erano battuti e si battevano per moltiplicare questi momenti e per far
circolare le idee, Manzoni ha sostanzialmente proposto – gli rimprovera Ascoli – di
abbandonare i propri sforzi e le proprie ricerche e di immergersi nella popolarità fio-
rentina, non comprendendo che il fiorentino ha avuto una storia autonoma da quan-
do (con Dante, Petrarca e Boccaccio) ha fondato la lingua italiana comune, e che ora
non può che considerarsi un dialetto come tanti altri. La lingua letteraria italiana nei
secoli successivi, poi, si è evoluta con apporti decisivi da parte di scrittori di tutta Ita-
lia. Non il fiorentino vivo, dunque, ma il patrimonio di esperienze linguistiche e cul-
turali veramente comuni a tutta Italia, anche se solo ai ceti colti, deve costituire la ba-
se per lo sviluppo di una lingua comune diffusa anche socialmente, che si avrà quando
anche i ceti subalterni potranno partecipare a momenti di vita collettiva veramente
unitari e attingere in qualche misura alla fonti di cultura.
Con l’Ascoli poteva dirsi risolta sul piano teorico la plurisecolare questione della
lingua: il tempo l’avrebbe risolta anche sul piano pratico.

54.7 La Storia della letteratura italiana di De Sanctis


Una storia letteraria nazionale La Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis (1817-1883),
composta tra il 1869 e il 1871, è a suo modo anch’essa, sul piano simbolico, un segno
del compimento dell’unità nazionale (R45.3.3). Quest’opera costituisce in verità, in
prima istanza, la conclusione di un lungo processo avviato sin dalla fine del Settecen-
to di complessiva riflessione critica sullo sviluppo della letteratura italiana, con una
sensibilità storica e un metodo d’indagine (definito appunto «storicistico») che il ro-
manticismo aveva imposto alla cultura europea. Prima di allora quasi non esisteva l’i-
dea di una storia letteraria e l’insegnamento stesso della letteratura nelle scuole e nel-
le università aveva un impianto retorico prima che storico. Si trattava di corsi di «bel-
le lettere», dove si proponevano modelli di scrittura per avviare alla composizione let-
teraria, che solo occasionalmente prevedevano excursus storici. Ma per le sue caratteri-
stiche intrinseche e per i suoi presupposti ideologici la Storia desanctisiana è anche
qualcosa di più. Intrisa di spiriti risorgimentali, essa è un grande affresco della storia
della cultura linguistica e letteraria italiana che ha come principio motore l’idea di na-
zione quale si era affermata in epoca romantica e come fine necessario la recente uni-
ficazione nazionale, frutto di un risveglio etico-culturale che De Sanctis ricerca nei
suoi presupposti lontani e nei suoi sviluppi recenti. Tutto il passato insomma è letto,
interpretato, giudicato alla luce di un presente (il risorgimento dello spirito nazionale)
che dà senso a tutta la precedente storia letteraria. Fatta l’Italia, De Sanctis ha dato una
sublime ricostruzione di quanto sino ad allora aveva costituito l’unico fattore di iden-
tificazione e di aggregazione nazionale e che, nella sua visione di letterato, doveva co-
stituire la necessaria premessa dei futuri sviluppi della storia nazionale.
Questa prospettiva si evince dal disegno complessivo della Storia, ma è utile ricor-
dare che, mentre attendeva al capitolo su Machiavelli nel 1870, De Sanctis registra il
momento in cui ode il suono delle campane che annunciano l’entrata in Roma dell’e-
sercito italiano in un celeberrimo inciso: «il potere temporale crolla. E si grida il viva
all’unità d’Italia. Sia gloria al Machiavelli». La passione intellettuale, l’impegno morale e
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Il secondo Ottocento

civile, il laicismo risorgimentale dello storiografo emergono qui con tutta evidenza.
Il disegno complessivo della Storia desanctisiana Ma la Storia della letteratura italiana è anche un ca-
polavoro assoluto della storiografia letteraria europea. Per il critico René Wellek si
tratta «per più rispetti della più bella storia che sia stata scritta di una letteratura; una
storia letteraria che unisce felicemente un vasto schema storico con una critica serra-
ta, la teoria con la pratica, il principio estetico con le analisi particolari. Mentre è uno
storico, il De Sanctis è anche un critico, un giudice di poesia».
Il disegno complessivo della Storia della letteratura italiana – come detto – è un esito
originale di quella tendenza romantica per cui la storia letteraria è storia dell’intera ci-
viltà nazionale. Nella prospettiva metodologica desanctisiana, fondata sull’idea che la
forma dell’opera letteraria debba essere strettamente connessa, quasi connaturata al
contenuto che esprime, momenti negativi sono quelli in cui la forma si separa dai
contenuti, in cui il culto per la forma prevarica i contenuti morali e spirituali. Da que-
sto presupposto derivano, da un lato, la sostanziale incomprensione per l’Umanesimo e
il Rinascimento come fenomeni complessivi e, dall’altro, l’esaltazione di quegli autori
in cui l’impegno morale, civile o religioso è tutt’uno con le loro opere e le forme
espressive in cui esse si realizzano. Si delinea così lo schema essenziale della Storia: il
Medioevo, età di grandi idealità politiche, morali e religiose, di una passionalità inten-
sa e autentica, è un’età positiva che segna il risorgimento della nostra civiltà nazionale
dalla decadenza del mondo antico e che culmina con la figura e l’opera di Dante.Vi-
ceversa, l’Umanesimo e il Rinascimento, pur essendo epoche di raffinatissima cultura,
progressivamente determinano la separazione tra mondo ideale e morale e forma
espressiva, privilegiando il culto per la forma (è, in altri termini, una civiltà formal-
mente splendida ma priva di senso morale: celebre, quanto ingiusta, la stroncatura di
Guicciardini e del suo particulare, parallela all’apprezzamento per Machiavelli, per la sua
coscienza politica e morale e per il suo laicismo), e avviano un processo di decadenza
che culmina nell’età barocca prima e in quella arcadica poi. Nel Settecento, invece, si
delinea la ripresa (essa ha i suoi precursori nei rappresentanti della nuova scienza, Ga-
lilei, Bruno, Campanella,Vico) che condurrà al più recente risorgimento culturale ed
etico-politico, specie con la linea che congiunge Parini, Alfieri, Foscolo, Leopardi e
Manzoni.Volgendo poi lo sguardo al presente e al futuro, De Sanctis lamenta il rilassa-
mento del senso morale e dell’impegno civile che constata nell’«Arcadia romantica» di
un Prati e di un Aleardi, e manifesta viceversa attenzione e interesse partecipe alle
nuove realizzazioni del naturalismo (cioè Zola), che gli paiono negli ultimi suoi anni
un «eccellente antidoto» per la cultura italiana, «educata nell’arcadia e nella rettorica»,
e una via feconda per il futuro.

▍ L’autore Francesco De Sanctis

Francesco De Sanctis nacque a Morra Irpina (Avellino) nel 1817. Dopo gli studi letterari, a Na-
poli, insegnò in diversi istituti e poi aprì una scuola privata (1839). Nel 1848 partecipò con i suoi
allievi all’insurrezione napoletana, il cui fallimento lo costrinse, dopo oltre due anni di prigione,
all’esilio. Trascorse gli anni di esilio prima a Torino, dove tenne pubbliche lezioni dantesche, e poi
a Zurigo, dove dal 1856 insegnò presso il Politecnico. In questi anni maturò la sua personale re-
visione dell’estetica hegeliana e gettò i fondamenti del suo pensiero critico. Con il 1860 fece ri-
torno in Italia, dedicandosi all’insegnamento universitario (a Napoli, 1871-1876) e a un’intensa
attività pubblica (deputato e ministro della Pubblica Istruzione, 1861-1862 e 1878-1880). Co-
piosa la sua produzione critica e saggistica: la Storia della letteratura italiana (1870-1871), i Saggi criti-
ci (1866), i Nuovi saggi critici (1872), il Saggio critico sul Petrarca (1869). Le Lezioni tenute all’Università
di Napoli (dedicate al Manzoni, al Leopardi, alla scuola cattolico-liberale, alla scuola democratica)
vennero invece pubblicate postume. Oltre all’opera maggiore, De Sanctis lascia numerosi saggi e
lezioni (ad es. su Parini, Foscolo, Manzoni, Mazzini, Zola e il naturalismo) che integrano e ap-
profondiscono il disegno complessivo tracciato nella Storia. Morì a Napoli nel 1883.

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54_Società e cultura rid:32 Capitolo 07/03/11 11:18 Pagina 25

54. Società e cultura nell’Italia unita VERIFICA

VERIFICA

54.1 La periodizzazione
1 Indica i limiti cronologici del periodo in esame e definiscine le caratteristiche salienti.
2 Delinea gli eventi essenziali che caratterizzano il decennio 1861-1870.

54.2 Il difficile esordio dell’Italia unita


3 Cosa si intende con «questione veneta» e «questione romana»? Come e quando si risolsero?
4 Quali problemi causò la soluzione della questione romana nei rapporti tra Italia e Santa Sede?
5 Quali sono i principali problemi che devono affrontare i primi governi del nuovo regno?
6 Quali sono i principali fattori di arretratezza economico-sociale dell’Italia?
7 Quando e dove si sviluppò il brigantaggio? Quali ne sono le cause e le caratteristiche?
8 Che cosa si intende con «questione meridionale»? Analizza e commenta il R Doc 54.2 .
9 Quali cause determinarono il fenomeno dell’immigrazione? Di che entità fu?
10 Delinea sinteticamente la politica della Sinistra storica, definendone i limiti cronologici.
11 Quali sono le caratteristiche essenziali della politica dei governi presieduti da Crispi?
12 Con quali obiettivi e con quali esiti l’Italia avviò una politica coloniale?
13 In questi anni si pone in termini nuovi la «questione sociale». Tratteggia lo stato del problema.

54.3 Il positivismo, una filosofia del progresso


14 Che cosa si intende con «positivismo»?
15 In che senso si può affermare che il positivismo elabora un’ideologia del progresso?
16 Delinea i rapporti fra il positivismo e le ideologie politiche.
17 Delinea gli influssi che il positivismo esercitò sull’arte e sulla letteratura.

54.4 I letterati di fronte al pubblico di massa


18 Quali sono le caratteristiche sociologiche dello scrittore del secondo Ottocento?
19 Che rapporti hanno in quest’epoca gli scrittori con il mercato editoriale?
20 È legittimo affermare che in Italia in quest’epoca si forma un pubblico di massa?
21 Ci sono differenze di strategia editoriale fra il modello toscano e quello milanese?
22 In quale città si sviluppa e afferma un’editoria di massa? Cita i principali editori.

54.5 Il caso del romanzo d’appendice


23 Che cos’è il feuilleton? E che cos’è il romanzo d’appendice?
24 Quali sono le origini del romanzo d’appendice?
25 Quando e in che misura si sviluppa in Italia?

54.6 Lingua e società nei primi decenni dopo l’unificazione


26 Che effetti determinò l’unificazione politica sui fenomeni linguistici? Quali furono, nel tempo,
i principali fattori di unificazione linguistica?
27 Qual è approssimativamente la percentuale degli italiani che verso il 1861 era in grado di leg-
gere, scrivere e parlare l’italiano? E la percentuale di analfabeti nello stesso periodo?
28 Delinea sinteticamente gli sviluppi della questione linguistica in quest’epoca.

54.7 La Storia della letteratura italiana di De Sanctis


29 La Storia della letteratura italiana di De Sanctis è presentata come un compimento simbolico
dell’unità italiana: in che senso e perché?
30 Che ruolo ha l’idea di nazione nella Storia desanctisiana?
31 Delinea sinteticamente il disegno complessivo della Storia desanctisiana.
32 Che giudizio dà De Sanctis della letteratura più recente? Quali compiti le attribuisce?
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55_Flaubert e Baudelaire rid:32 Capitolo 07/03/11 11:22 Pagina 26

Il secondo Ottocento

Due grandi innovatori:


55 Flaubert e Baudelaire

n G. Courbet, Lo studio del Prima di addentrarci nella letteratura italiana del A torto si è visto in Gustave Flaubert un esponente
pittore (allegoria reale). A de- secondo Ottocento è opportuno prendere in conside- del “realismo” del secondo Ottocento. In realtà egli è
stra, intento a leggere, Baude-
laire. razione due grandi scrittori francesi, un romanziere e erede a un tempo della più esasperata sensibilità ro-
un poeta, Flaubert e Baudelaire. Essi rappresentano mantica e dell’intento sociale dei narratori del primo
un complesso crocevia letterario: ereditano e rinnova- Ottocento. Ma nel complesso liquida quelle formule e
no dall’interno i modelli romantici portandoli a esiti di propone esiti nuovi e diversi, destinati a un lungo av-
assoluta originalità, tanto da influenzare profonda- venire. Alieno da ogni subordinazione della creazione
mente il successivo cammino della letteratura euro- all’ideologia, ripropone il primato assoluto dell’Arte e
pea e non solo nel corso del XIX secolo, ma anche nel dello stile, del linguaggio letterario nella sua autono-
Novecento. Si può dire infatti che il romanzo moderno mia e autosufficienza. Flaubert affronta poi scomode
nasce all’insegna di Flaubert, così come la poesia e indiscutibili verità: l’eterna disparità tra illusione e
moderna nasce all’insegna di Baudelaire. Per singola- realtà, la vuota banalità del quotidiano, l’etica neces-
re coincidenza, Madame Bovary e I fiori del male – i saria della rinunzia. Il capolavoro di Flaubert è Mada-
due loro libri più rappresentativi – escono in Francia a me Bovary, un «libro sul nulla» che si propone di sca-
due mesi di distanza, rispettivamente nell’aprile e nel vare negli spazi interiori e porre al centro della narra-
giugno 1857. Queste e altre loro opere possono anche zione il divario tra sogni chimerici ed esiti fallimenta-
costituire un metro di paragone degli orientamenti e ri: il “bovarismo” è appunto quel tarlo, quel male, che
delle scelte compiute dagli scrittori italiani coevi, nasce dalla tragica scoperta dell’abisso, del vuoto
sempre più attenti agli sviluppi della letteratura euro- della propria esistenza. Della realtà attentamente in-
pea, ma non sempre in grado di coglierli ed emularli vestigata non scopre solo le forme apparenti, ma le
in profondità o talora anche legati a modelli di lettera- implicazioni sotterranee, i valori sottintesi: così, mae-
tura più tradizionali. stro di realismo, annunzia la letteratura simbolista e
decadente, e il romanzo novecentesco.

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55_Flaubert e Baudelaire rid:32 Capitolo 07/03/11 11:22 Pagina 27

55. Due grandi innovatori: Flaubert e Baudelaire STORIA

n Baudelaire in una celebre


foto di Nadar.
n Jeanne Duval in un ritratto
di Manet.

esaurisce nell’irrequietezza dei romantici ma coinci-


de, a livelli quasi patologici, con la nausea esistenzia-
le, la noia, il disgusto, l’incapacità di adeguarsi alle
regole di vita di un mondo volgare e banale. Analoga-
mente, l’ideale del Bello da lui proposto va al di là del
freddo estetismo di certa poesia del suo tempo, poi-
ché la Bellezza che egli canta e idoleggia associa in
sé elementi e caratteri demoniaci e divini, infernali e
celesti: dice cioè la contraddizione lacerante dell’u-
mana condizione. Il poeta, così, si fa cantore di una
complessa realtà, in cui lo spleen e l’ideale, il tedio
n Ritratto e caricatura di torbido e l’aspirazione alla purezza convivono: il suo
Flaubert. decadentismo esalta i valori raffinati, aristocratici, fa-
stosi e anche morbosi di un mondo interiore che si
oppone alla vera “decadenza”, quella di un mondo
esteriore mediocre e vile. Tale conflitto, d’altronde, ta-
le infinita pena del vivere, Baudelaire traduce in un
linguaggio poetico nuovo, in una trama di simboli che
fanno scoprire le occulte «corrispondenze», la segreta
consonanza tra le cose, tra materia e spirito, tra og-
getti e valori, e aprono spiragli insoliti ed inquietanti
sul mistero del mondo. Baudelaire, così, schiude alla
poesia dell’Ottocento gli orizzonti nuovi del simboli-
smo e del decadentismo e annunzia, anche, le speri-
mentazioni del nostro secolo. Verlaine, Rimbaud, Mal-
larmé, più tardi Apollinaire, ne erediteranno ora le tec-
Anche Charles Baudelaire sviscera e approfondi- niche ora i temi, ora la cura formale, ora la tensione
sce, sul piano dei contenuti, il male profondo che avventurosa.
mette in crisi l’uomo moderno, un male che non si

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55_Flaubert e Baudelaire rid:32 Capitolo 07/03/11 11:22 Pagina 28

Il secondo Ottocento

55.1 Gustave Flaubert


55.1.1 Gli anni di formazione
La giovinezza: la famiglia, l’ambiente e le letture Di origine normanna e figlio di un medico, Gu-
stave Flaubert, nato a Rouen il 12 dicembre 1821, trae dalla sua provenienza provin-
ciale alcuni aspetti fondamentali del suo carattere – il vigore «barbarico», ma anche la
sensibilità ai problemi e alle pene segrete del piccolo mondo della provincia – e dalla
professione del padre (che da bambino osservava sezionare i cadaveri) la propensione
ad operare in letteratura con lo stesso distacco e la stessa esattezza analitica con cui il
medico studia e cura i suoi malati. In casa, Flaubert assorbì anche quel sostanziale ma-
terialismo scientifico che gli impedirà l’approdo a una qualsiasi verità di fede, alimen-
tando la sua visione lucida, amara e atroce della vita. La sua giovinezza del resto non fu
lieta: nel 1846 perse il padre e una sorella molto amata; covò, pare, nei confronti del fra-
tello Achille, preferito dal padre, una sorta di rancore e di sorda rivalità.
A Rouen, frequentando il liceo, Gustave venne maturando il suo gusto letterario, a
contatto con autori che segnarono a fondo la sua sensibilità e il suo stile. Dal Don Chi-
sciotte di Cervantes trasse probabilmente la sua visione “duplice” della fantasia umana,
irrisa nei suoi assurdi sogni e tuttavia segretamente coltivata in quanto spia di un desi-
derio supremo di felicità e di assoluto. All’origine, infatti, è in Flaubert una sanguigna
e corposa sensibilità romantica, una passionalità intensa e accesa che in seguito la fred-
dezza dell’analista e la sapiente alchimia stilistica e verbale mireranno a dominare e a
controllare. Al giovanile romanticismo contribuirono anche le letture obbligate della
sua generazione: ad esempio Byron, Chateaubriand e Musset.
Su questo terreno, Flaubert si applica, tra 1836 e il 1838, a una prima produzione
creativa che adotta clichés romantici di dubbio gusto, e che però già traduce quella vi-
sione disperata della vita da cui in fondo lo scrittore mai si discosterà.Vi si trovano an-
che sia pur pallide anticipazioni dei personaggi delle opere della maturità: l’eroina fru-
strata nei suoi desideri o la figura dell’impiegato, che torneranno rispettivamente in
Madame Bovary e, in chiave di feroce satira, in Bouvard e Pécuchet.
Le Memorie di un pazzo e altre prove importanti Di pregio sono invece gli scritti degli anni 1839-43,
quando Flaubert, presa la maturità, si trasferisce a Parigi e intraprende gli studi di legge.
Le Memorie di un pazzo, del 1839, ad esempio sono una confessione autobiografica di
sicuro interesse, costruita sul modello delle Confessioni di Rousseau e sull’alternata pre-
senza del sogno chimerico e dell’autodemolizione più spietata. L’opera è anche impor-
tante perché racchiude il primo resoconto dell’incontro sulla spiaggia di Trouville con
Elisa Schlesinger, moglie di un volgare uomo d’affari, di cui Gustave, ancora adole-
scente, immediatamente si innamorò: fu un amore sempre sognato e mai appagato, che
più tardi lo scrittore mise al centro dell’Educazione sentimentale, e che nella sua fantasia
finì con l’assumere un valore simbolico, tradusse cioè un’idea della felicità come sogno
interiormente idoleggiato ma mai risolto in tangibile possesso.
Lasciati gli studi anche per l’apparire dei primi sintomi del male, di natura epiletti-
ca, che poi lo affliggerà per tutta la vita, Flaubert comincia a trascorre lunghi periodi a
Croisset, piccola proprietà della famiglia non lontano da Rouen: di Croisset egli farà,
in seguito, la sua residenza definitiva, lì riceverà i suoi amici scrittori, e la sua dimora
diverrà un po’ l’immagine stessa della sua arte, sdegnosa di ogni facile commistione col
mondo e chiusa nella sua strenua e solitaria volontà creativa. Tra il 1843 e il 1845 scri-
ve anche la prima versione dell’Educazione sentimentale. Degli anni successivi gli eventi
salienti, oltre all’intenso lavoro e alle amicizie, sono la lunga relazione con Louise Co-
let e il successo letterario, che gli giunse dopo la pubblicazione di Madame Bovary
(1857) e soprattutto dell’Educazione sentimentale (1869) aprendogli addirittura le porte
della corte di Napoleone III. Per il resto, a parte pochi viaggi, lo scrittore trascorrerà il
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55_Flaubert e Baudelaire rid:32 Capitolo 07/03/11 11:22 Pagina 29

55. Due grandi innovatori: Flaubert e Baudelaire STORIA

resto della vita a Croisset, conoscendo una vecchiaia precoce e triste. Morirà nel 1880
per un’improvvisa emorragia cerebrale.

55.1.2 La stagione dei capolavori


Le lettere a Louise Colet e la poetica di Flaubert Il 1846 fu l’anno della morte del padre, ma fu an-
che quello in cui Flaubert avviò la sua relazione con Louise Colet, poetessa e scrittrice
assai nota nel mondo letterario parigino; fu una relazione appassionata e tumultuosa da
cui nacque una fitta corrispondenza: quasi trecento lettere scritte tra il 1846 e il 1854,
una raccolta che ha per noi, oggi, uno straordinario interesse, non solo perché vi è la
traccia di un’esperienza passionale complessa e non priva di problemi, ma anche e so-
prattutto perché in quelle lettere, a volte di straordinaria bellezza, Flaubert elabora la
sua poetica e mette a fuoco i nuclei salienti del suo pensiero. Questi sono il rifiuto del
lirismo romantico, l’invito alla strenua cura dello stile e del linguaggio, la volontà di far
parlare le cose, di far in modo cioè che nella pagina scritta la realtà affiori da sola nella
sua più eloquente evidenza; senza che l’autore interponga il suo giudizio e la sua per-
sonale visione: è la poetica dell’impersonalità, che suggestionerà gli scritti naturalisti e
veristi (in una lettera a Louise Colet, Flaubert scrive: «Le riflessioni dell’autore le ho
sempre trovate insopportabili. [...] L’autore nella sua opera deve essere come Dio nel-
l’universo, presente dovunque, e in nessun luogo visibile. Essendo l’arte una seconda
natura, il suo creatore deve agire in base a procedure analoghe. In ogni atomo, in ogni
aspetto si deve avvertire un’impassibilità nascosta e infinita»). La poetica dell’imperso-
nalità però in Flaubert non va intesa come adesione al più piatto e banale realismo: le
persone, le cose parlano infatti nella pagina flaubertiana e catturano l’attenzione del let-
tore non solo per la loro oggettiva evidenza, ma ancor più per l’ampio ventaglio di ri-
ferimenti sottaciuti, delle connotazioni nascoste, delle cifre simboliche.
La grande stagione creativa Inizia così la più alta stagione creativa. Tra il 1846 e il 1849 Flaubert vi-
ve anni di accanito lavoro. Nel ’48 assiste perplesso e anche disgustato ad alcuni episo-
di della rivoluzione: decisamente la politica gli ripugna. Flaubert preferisce risolvere in
scrittura i problemi della sua generazione e suoi personali. In vista della prima reda-
zione de La Tentazione di Sant’Antonio studia la Bibbia, la patristica,la scolastica. Ne vie-
ne fuori una stesura sovrabbondante, fitta di riferimenti, eccessiva, che gli amici, cui
Falubert legge il testo, giudicano severamente. Bouilhet gli dice: «Dovresti scrivere la
storia di Delamare!». Era un episodio della cronaca di quegli anni: la moglie di un me-
dico di campagna, dopo aver tradito il marito ed essersi largamente indebitata, per di-
sperazione si era tolta la vita. Nacque così la prima idea di una “storia di provincia”, il
primo germe di Madame Bovary.
Madame Bovary (1856-57) Madame Bovary ebbe una lunga gestazione, durata cinque anni: il romanzo
uscì a puntate sulla «Revue de Paris» del 1856 e subito dopo in volume (1857). Ca-
polavoro di Flaubert e tappa fondamentale nella storia del romanzo ottocentesco, Ma-
dame Bovary viene a torto ricondotto alla semplice dimensione realistica, quasi che
Flaubert non fosse che un pallido discepolo e imitatore di Balzac. In realtà, il libro si
pone come deciso e consapevole superamento della tradizione romantica, sia quella
intimistica e lirica, sia quella realistica e socio-politica. Quando Flaubert dice di aver
voluto, con Madame Bovary, scrivere «un libro sul nulla», intende appunto escludere
dai suoi intenti quello meramente rappresentativo di una determinata realtà sociale, o
degli eventi che la caratterizzano. Al di là dei dati, dei fatti, egli si propone di scavare
negli spazi interiori e porre al centro della narrazione il divario tra illusione e realtà,
tra sogni chimerici ed esiti fallimentari: il “bovarismo” è appunto quel tarlo, quel ma-
le, che nasce da quella tragica scoperta: il “nulla” è appunto quello di un’esistenza che
scopre il suo abisso, il suo vuoto. Di qui la compresenza dell’adesione dell’autore alle

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