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Il canone letterario
La letteratura italiana nella tradizione europea
3
a cura di
Hermann Grosser
Secondo Ottocento
libro
Tra Ottocento e Novecento
Novecento LiM
misto
Il canone letterariocompact
La letteratura italiana nella tradizione europea
Hermann Grosser
compact
Il canone letterario
la letteratura italiana nella tradizione europea
3
Il secondo Ottocento
Tra Ottocento e Novecento
a cura di
Hermann Grosser
Principato
Questo volume è stato interamente curato da Hermann Grosser, ad eccezione dei seguenti contri-
buti:
N. Cicognini, autrice del paragrafo 60.1 (Uno sguardo retrospettivo sulla letteratura russa, riduzio-
ne redazionale di una scheda de Il sistema letterario)
M. Gorla, autore del paragrafo 66.5 (Teatro e spettacolo fra Otto e Novecento) e dei capitoli 76 (Il
teatro del primo Novecento) e 85 (Il teatro del secondo Novecento).
S. Guglielmino, autore del paragrafo 60.2 (Tolstòj)
C. Sini, autore del paragrafo 61.5 (La reazione al positivismo, riduzione redazionale di un testo de Il
sistema letterario)
L. Sozzi, autore del capitolo 55 (rielaborazione redazionale di un contributo per Il sistema letterario)
Jacopo Grosser ha curato la revisione e la riduzione dei capitoli dal 68 al 76 (Tra le due guerre) e
del capitolo 82 (Pasolini)
ISBN 978-88-416-1672-7
Prima edizione: febbraio 2011
Ristampe
2016 2015 2014 2013 2012 2011
VI V IV III II I *
Printed in Italy
© 2011 - Proprietà letteraria riservata. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettua-
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Il secondo Ottocento
Il quarantennio di storia letteraria che esaminiamo a garante dell’indipendenza dello Stato della Chiesa)
in questa sezione (1861-1900 circa) va all’incirca dal- nella guerra franco-prussiana del 1870 consentì poi
l’unità d’Italia alla crisi di fine secolo (l’assassinio del l’annessione di Roma, evento questo di enorme por-
re Umberto I, l’ascesa di Giolitti). La letteratura in tata politica e simbolica. La Chiesa, retta dal reazio-
questo periodo non si presenta omogenea: sullo sfon- nario papa Pio IX (ostile alle ideologie della modernità
do di un tardo romanticismo piuttosto languido, si in genere), nonostante le concessioni e le garanzie
manifestano con diverso peso e rilievo i movimenti del governo italiano, ispirate al principio cavourriano
della scapigliatura (che esprime in forme anche pro- della «libera Chiesa in libero Stato», reagì con il non
vocatorie il disagio di molti giovani intellettuali delusi expedit, il divieto cioè per i cattolici di partecipare alla
dalla realtà post-unitaria) e più tardi del verismo (che vita politica italiana: questo determinò per molto tem-
vuole invece indagare con obiettività la realtà sociale po l’assenza di un movimento politico cattolico.
italiana); ma verso la fine degli anni Ottanta si hanno Rimanevano anche altri e più gravi problemi: so-
anche le prime manifestazioni del decadentismo. prattutto l’arretratezza di gran parte dell’economia
Sul piano storico, fatta l’Italia il compito del nuovo italiana e la sperequazione tra un nord più progredito
Stato era quello, immane, di fare gli italiani, di trasfor- e un sud ancora caratterizzato da rapporti economi-
mare cioè genti diverse in una sola nazione, rendendo co-sociali di natura feudale. Alcuni problemi specifici
omogenee le diversissime realtà amministrative, eco- vennero affrontati e risolti (si giunse ad esempio al
nomiche, sociali e culturali. Rimaneva però anche da pareggio del bilancio statale), ma di fatto le strategie
completare l’unificazione territoriale (Veneto, Trentino, complessive dei governi post-unitari e la sciagurata
Istria e Roma). La partecipazione alla guerra austro- alleanza fra gli industriali del nord e gli agrari del sud
prussiana del 1866, a fianco della Prussia, nonostante ne lasciarono intatti altri e anzi finirono con l’acuire
le due sconfitte di Lissa e Custoza, consentì all’Italia invece che diminuire le disparità tra nord e sud. Fe-
di annettere il Veneto; la disfatta della Francia (ertasi nomeni estesi e dolorosi come il brigantaggio (stron-
cato dall’esercito), la precoce disaffezione al nuovo fondo era quello ottimistico di studiare le patologie
Stato da parte delle plebi meridionali, che si erano il- individuali e sociali, nella prospettiva di poterle col
luse di veder migliorate le proprie condizioni di vita, tempo risanare, di fatto questa letteratura portò alla
le cospicue ondate di emigrazione ne sono solo alcuni luce realtà sociali dolorose e sgradevoli, talora con
degli effetti. Sulla «questione meridionale» si aprì un intenti di denuncia, talora con impersonale distacco,
ampio dibattito, ma anche fra gli intellettuali si diffuse talora con accorato pessimismo.
un forte scontento nei confronti della nuova Italia. Gli scrittori, poi, sempre più decisamente di estra-
A complicare le cose ci furono anche, nel venten- zione laica e borghese, si trovano ad affrontare le
nio dell’Italia umbertina, la svolta autoritaria imposta molte contraddizioni di una situazione che da un lato
da Crispi e una velleitaria politica coloniale, che – na- vede imporsi l’economia di mercato e l’industria edi-
ta per emulare le grandi potenze europee – portò a toriale, che garantisce finalmente a livello nazionale e
pesanti sconfitte e mise ancora una volta in luce l’im- internazionale il diritto d’autore, ma deve fare anche i
preparazione militare italiana. Verso fine secolo, nel conti con gli alti tassi di analfabetismo e la ristrettez-
n A. Guardassoni, Autoritratto contesto della seconda rivoluzione industriale (side- za del pubblico. Anche in Italia il pubblico è in cresci-
con macchina fotografica
(1860). rurgica e meccanica), anche l’Italia, almeno al nord, ta, ma il processo è lento. Solo pochi scrittori riesco-
imboccò con vigore e successo la strada dell’indu- no a vivere dei proventi delle loro opere. Una delle
strializzazione, con indubbi benefici economici sul forme più interessanti e clamorose di mercificazione
medio periodo, ma intanto anche con effetti sociali di- e diffusione massificata dell’opera letteraria (o para-
rompenti, per la natura ‘selvaggia’ di tale sviluppo, letteraria) è il cosiddetto feuilleton o romanzo d’ap-
l’intenso sfruttamento della manodopera operaia e pendice, che viene pubblicato a puntate su quotidiani
l’assenza di una legislazione a tutela dei lavoratori. In e periodici.
questo difficile contesto si svilupparono i primi movi- Infine per «fare gli italiani» assai grave e delicato
menti organizzati dei lavoratori e si aprirono vivaci di- era il problema dell’unificazione linguistica, in uno
battiti sui modi e sulle forme dello sviluppo economi- Stato caratterizzato da altissimi tassi di analfabeti-
co. A questi anni risalgono – in Italia – la nascita del smo e dal predominio di una miriade di dialetti locali,
sindacalismo, le prime affermazioni del socialismo e rispetto alla lingua nazionale (privilegio di una ristret-
la dottrina sociale della Chiesa. tissima élite). Se la questione della lingua trova final-
Se la complessa realtà italiana fornì soggetti agli mente una soluzione sul piano teorico con le tesi del
scrittori, la filosofia positivistica, celebrando la scien- glottologo Isaia Ascoli, sul piano pratico l’unificazione
za e applicandone il metodo anche alla realtà psicolo- politica crea le necessarie premesse perché si avvii
gica e sociale (nascita delle scienze umane: sociolo- un processo di omogeneizzazione linguistica, ma ci
gia e psicologia) offrì loro un’ideologia del progresso, vorrà ancora molto tempo perché questo si realizzi in
un metodo di indagine e alcuni concetti forti (ambien- modo soddisfacente.
te sociale, evoluzione, lotta per la sopravvivenza, ere-
ditarietà, ecc.) che vennero accolti dai naturalisti in
Francia e dai veristi in Italia. Ma se il presupposto di
Il secondo Ottocento
54.1 La periodizzazione
Il secondo Ottocento In questa sezione ci occuperemo degli eventi e degli autori letterari che si col-
locano all’incirca nel periodo che va dall’Unità d’Italia (1861) alla fine del secolo. Sul
piano storico e culturale la data d’inizio segna uno spartiacque profondo: mai infatti
nella storia moderna l’Italia era stata unita politicamente. La secolare divisione in stati
regionali e le dominazioni straniere avevano reso più difficile che altrove diffondere e
rendere omogenee la lingua e la cultura di quanti abitavano la penisola. Sul piano let-
terario, invece, il 1861 non porta rivoluzioni: domina un tardo romanticismo languido
e intimistico, privo dell’energia e degli ideali che avevano animato gli scrittori risorgi-
mentali. La delusione diffusa che seguì l’unificazione viene però registrata per tempo
dagli scrittori scapigliati, con temi e atteggiamenti anticonformistici, in forme di viva-
ce e talora rabbiosa protesta. Anche la letteratura, comunque, dopo l’Unità non è più
esattamente la stessa: si propone nuovi compiti, si apre a un più largo pubblico e a un
nuovo mercato, deve fare i conti anch’essa con la nuova dimensione statale.
Più difficile è invece individuare una data precisa di fine periodo. Sul piano storico
i ministeri di Crispi (1887-1891 e 1893-1896) segnano una svolta imperialistica e au-
toritaria nella politica italiana che culmina con i tragici fatti di Milano (1898); nel
1900 viene assassinato Umberto I; nel 1903 inizia l’era Giolitti, che guiderà l’Italia fi-
no alla vigilia della prima guerra mondiale (R61.1). Sono anni di grandi cambiamen-
ti (negli ultimi due decenni del secolo la «seconda rivoluzione industriale» coinvolge
anche l’Italia), di fermenti e tensioni sociali, di impegnative e discutibili scelte politi-
che, di eventi traumatici che mettono alla prova lo stesso regime parlamentare libera-
le. Sul piano culturale e letterario, quest’epoca è caratterizzata da una complessa con-
comitanza di fenomeni contrastanti: negli anni Ottanta e Novanta si afferma il verismo,
il più caratteristico movimento culturale e letterario italiano del periodo (R58. e 59.),
che però si estende con qualche significativa propaggine anche nel nuovo secolo. Ma
più o meno nello stesso tempo si diffondono fenomeni culturali e letterari nuovi, ispi-
rati dalle esperienze del romanticismo europeo più radicale, finora poco influente in
Italia. Sono le prime cospicue avvisaglie del decadentismo (l’ascesa di D’Annunzio, la
nuova poesia di Pascoli) che poi dominerà gran parte dell’età giolittiana.
In questa sezione pertanto esamineremo essenzialmente la letteratura del tardo ro-
manticismo, della scapigliatura e del verismo, sino a tutti gli anni Novanta. Nella pros-
Il secondo Ottocento
prigioniero dell’Italia ed emanò nel 1874 il non expedit (in lat. “non conviene”) con
cui esortava i cattolici a non partecipare alla vita politica italiana. Questa presa di po-
sizione determinò a lungo il separatismo dei movimenti cattolici, che si astennero dal
prendere parte alle elezioni e alla gestione del governo dell’Italia.
I problemi dell’Italia unita: arretratezza ed eterogeneità Dopo la presa di Roma e del Veneto, ri-
maneva il problema di «fare gli italiani». Gli unici reali fattori di identificazione na-
zionale erano la lingua letteraria (toscana) e la tradizione culturale, che però riguar-
davano solo una ristretta élite. Al neonato governo italiano spettò dunque il compi-
to immane di unificare realmente popolazioni diversissime per storia, istituzioni,
leggi, apparati burocratici e militari, condizioni economico-sociali, lingua e cultura.
Sul piano legislativo e amministrativo, ad esempio, si scelse di estendere a tutta Italia
il modello piemontese: ciò ebbe indubbi vantaggi, ma in regioni come la Lombardia
e il Veneto comportò l’abbandono delle leggi e delle strutture austriache che erano
senza dubbio più avanzate ed efficienti di quelle piemontesi. Inoltre, la difficoltà di
creare rapidamente un esercito forte e ben coordinato si mostrò in tutta evidenza
proprio nella guerra del 1866, con le sconfitte di Custoza e Lissa.
L’arretratezza economica e sociale Il problema in assoluto più grave e più difficile da risolvere era
certamente l’arretratezza socio-economica complessiva dell’Italia, per quanto riguar-
dava sia l’industrializzazione sia la modernizzazione dell’agricoltura. Sotto questo pro-
filo, lo squilibrio economico dell’Italia rispetto ai principali paesi europei era palese. Il
bilancio dello stato inoltre era in gravi condizioni, per le immense spese che aveva
comportato l’unificazione: lo sforzo cospicuo per risanare le finanze pubbliche com-
portò un aumento della pressione fiscale che colpì ancora una volta soprattutto le
classi più povere e, invece che lenirli, acuì gli squilibri sociali. Solo marginalmente fu-
rono toccate, ad esempio, le grandi rendite degli agrari meridionali, che godevano di
grandi protezioni, e si agì soprattutto mediante imposte indirette che colpivano indi-
scriminatamente tutta la popolazione, come la tassa sul macinato del 1868. Il pareggio
del bilancio fu ottenuto dai governi della Destra storica nel 1876, ma la strada percor-
sa per raggiungere questo obiettivo rinfocolò il malcontento e le rivolte sociali (ope-
raie e contadine), che vennero stroncate con durissimi interventi repressivi (i moti del
1869, successivi all’imposizione della tassa sul macinato, costarono oltre 250 morti).
La disparità fra Nord e Sud Strettamente collegato a questo c’era il problema della disparità fra un
Settentrione in cui l’industrializzazione era già stata avviata e l’agricoltura in molte
aree era organizzata secondo moderni modelli capitalistici di sfruttamento intensivo
della terra, e un Meridione in cui viceversa dominava il latifondo e l’industria mani-
fatturiera era scarsa. Si confrontavano insomma due realtà molto diverse: una proietta-
ta verso la modernizzazione e l’Europa e una ancora legata a modelli arretrati e a una
realtà sociale di stampo addirittura feudale (i contadini meridionali vivevano in so-
stanza in forme di semi-schiavitù). L’alleanza tra i capitalisti (manifatturieri e agrari)
del Settentrione e latifondisti meridionali influì pesantemente sulle scelte di governo
e nei fatti determinò un mantenimento dello status quo, lasciando intatti i privilegi de-
gli uni e degli altri col risultato però di lasciare anche inalterate, se non addirittura di
aggravare, le differenze socio-economiche tra le due grandi aree della penisola.
Il brigantaggio Il più clamoroso fenomeno di protesta nei primi decenni dopo l’unificazione fu
senza dubbio quello del brigantaggio meridionale. Esso fu determinato dallo sconten-
to delle plebi agrarie meridionali, che si erano illuse che l’unificazione potesse con-
durre quanto meno a una più equa redistribuzione della proprietà terriera e a un tan-
gibile miglioramento delle proprie condizioni di vita (la novella La libertà di Verga in-
segna). Questo, come detto, non avvenne. La delusione si tramutò presto in diffidenza
verso il nuovo Stato, percepito come l’effetto di un semplice mutamento di forma di
governo incapace di intaccare le tradizionali forme di sfruttamento economico. Su
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questo malcontento si innestò per qualche tempo anche l’azione di emissari legittimi-
sti borbonici e clericali volta a fomentare proteste, disordini e rivolte nella speranza
che una sollevazione generale creasse le condizioni per una restaurazione del governo
borbonico (appoggiato dal clero locale). Talora i contadini in rivolta inneggiarono ai
governanti borbonici, rimpianti se non altro come il male minore.
Il fenomeno del brigantaggio assunse proporzioni vastissime e il governo dopo
qualche tentennamento decise di intervenire con forme di repressione violenta, chia-
mando in causa l’esercito: intere province vennero sottoposte per periodi più o meno
lunghi a un regime militare di stato d’assedio: in alcuni momenti vennero impiegati
oltre 100.000 soldati; migliaia di briganti vennero catturati o uccisi. Nel 1865 tuttavia
poteva considerarsi esaurita la fase acuta del fenomeno del brigantaggio, ma la soluzio-
ne era stata essenzialmente delegata a misure repressive, mentre le cause profonde del
generale malcontento sociale rimanevano in gran parte intatte.
Di quanto tale fenomeno di insurrezione violenta fosse radicato nelle coscienze dei
contadini meridionali, può essere testimonianza una pagina di Cristo si è fermato a
Eboli (1945) di Carlo Levi, che ci dà modo di constatare come ancora nella prima
metà del Novecento la guerra dei briganti fosse presente e cara nell’immaginario po-
polare delle classi subalterne del Meridione.
Il secondo Ottocento
La «questione meridionale» La grave situazione del Meridione d’Italia divenne però presto una «que-
stione meridionale», in quanto numerosi intellettuali e politici si occuparono del pro-
blema, mediante inchieste, riflessioni e proposte. Se questa attenzione non determinò
una politica conseguente, suscitò però un vivace dibattito, fornendo, sul piano dell’in-
dagine teorica, soluzioni che, se adottate per tempo, avrebbero potuto portare a risul-
tati più significativi, che invece non furono raggiunti: a tutt’oggi, a distanza di oltre un
secolo, in Italia esiste un problema non risolto di disparità di condizioni economiche e
sociali tra Nord e Sud del paese. Le inchieste, talora nate in seno allo stesso parlamen-
to, come quella di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino (La Sicilia nel 1876), e gli
scritti di illustri meridionalisti come Pasquale Villari sono tuttora documenti impres-
sionanti della realtà storica italiana nei primi decenni dopo l’Unità.
Doc 54.2 La questione meridionale nelle parole di uno storico e politico del tempo
La politica della Sinistra storica La Destra storica governò l’Italia dall’Unità sino al 1876, l’anno in
cui venne raggiunto il pareggio del bilancio. L’indiscutibile successo sul piano del ri-
sanamento finanziario, come detto, aveva però comportato gravissime tensioni sul pia-
no sociale e un generale ristagno dell’economia. In considerazione di questa situazio-
ne si formò una coalizione di forze eterogenee, mosse da esigenze di riforme econo-
miche e sociali (maggiore equità sociale, minore fiscalismo, interventi a sostegno del
Meridione...), che promosse un cambio nell’indirizzo politico: nel 1876 Agostino De-
pretis venne nominato a capo del governo. Depretis, che governò, salvo un breve in-
termezzo, dal 1876 al 1887, da principio elaborò un piano di riforme abbastanza si-
gnificativo, ma di fatto – emarginando la sinistra repubblicana e i socialisti e attuando
la pratica del «trasformismo» – riuscì solo in parte a realizzare queste riforme. Vanno
menzionate la legge Coppino del 1877 che introduceva l’obbligo dell’istruzione ele-
mentare (però in gran parte evaso, specialmente nel Meridione), l’abolizione della tas-
sa sul macinato del 1879 (incapace però di produrre significativi effetti sui consumi e
sulle condizioni di vita delle classi subalterne) e soprattutto la riforma elettorale del
1882 che dava diritto di voto agli alfabeti che avessero compiuto 21 anni o avessero
un determinato censo: visti i tassi di analfabetismo, il numero degli elettori salì solo al
6,9% della popolazione, ma comunque esso risultò triplicato rispetto al passato e con-
sentì un significativo allargamento della base sociale degli aventi diritto (grazie a que-
sta riforma, ad esempio, venne eletto il primo deputato socialista, Andrea Costa).
Crispi, la svolta autoritaria della Sinistra: «l’Italia umbertina» Nel 1878 moriva Vittorio Ema-
nuele II e gli succedeva Umberto I, che avrebbe regnato fino al 1900. Sono questi gli
anni della cosiddetta «Italia umbertina», caratterizzata da un incerto e anche contrad-
dittorio sviluppo economico, da irrisolti conflitti sociali, da un filantropismo paterna-
listico, che non riesce a sopperire alla mancanza di più consistenti riforme economi-
che e sociali, e al contempo dall’insorgere di nuove organizzazioni e rivendicazioni
dei lavoratori; e, sul piano politico, da un misto di nazionalismo, anticlericalismo, libe-
ralismo, conservatorismo antisocialista, autoritarismo, militarismo e imperialismo vel-
leitario. Dopo Depretis, a governare l’Italia fu Francesco Crispi: «ex cospiratore, rivo-
luzionario, mazziniano, democratico sostenitore del suffragio universale, si era conver-
tito alla monarchia divenendo uno degli esponenti principali della Sinistra moderata:
un acceso ammiratore della politica di forza, che trovava genialmente incarnata in Bi-
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Il secondo Ottocento
nuendo un poco il divario rispetto agli altri grandi paesi europei. Collegati a questo
processo ci furono l’incremento percentuale dei lavoratori dell’industria, la crescita del
movimento sindacale, il rafforzarsi di una coscienza di classe e nel 1892 la fondazione
del Partito socialista italiano ad opera di Filippo Turati. Anche in Italia l’industrializza-
zione determina novità nelle forme di rivendicazione e di protesta: in grado di orga-
nizzarsi più facilmente rispetto ai contadini e ai braccianti, data la concentrazione
nelle fabbriche, gli operai pongono le premesse per la formazione di un movimento
più strutturato, più consapevole e più incline a incidere nella vita politica del paese.
In questo contesto si inseriscono anche la Chiesa e il mondo cattolico: Leone XIII
emana l’enciclica Rerum Novarum, che elabora una prima dottrina sociale della Chiesa;
È un passo decisivo in direzione di un ritorno dei cattolici nella vita politica italiana.
Si avvia così la costituzione di un movimento politico cattolico: mediante l’azione
n Sciopero di minatori e ope-
rai metallurgici in Francia a fi- pratica e la riflessione teorica, i cattolici vanno costituendo l’embrione di quello che
ne secolo. diventerà più tardi la «democrazia cristiana» (don Luigi Sturzo, già attivo nella Sicilia
n Leone XIII benedice il fono-
grafo (disegno di Beltrame del
di fine secolo, ne sarà l’ispiratore fondando nel 1919 il Partito popolare italiano, grazie
1903). al quale i cattolici fecero il loro reingresso nella vita politica italiana R61.2).
Il secondo Ottocento
dei gruppi etnici ritenuti più evoluti), sia infine posizioni democratiche e socialisti-
che (quando prevalse la volontà di denunciare le patologie della società reale e at-
tuale e di configurare modelli alternativi, come fece ad esempio lo stesso Marx, che
si era proposto di dedicare proprio a Darwin Il Capitale). In quest’ultimo senso si
collocano anche l’attività letteraria e le battaglie politiche e civili di Emile Zola, che
fu tra i più acuti indagatori e narratori dei meccanismi di potere e di sopraffazione
della società francese del suo tempo.
Positivismo, arte e letteratura Sta di fatto che la filosofia del positivismo trasmise alla cultura e al-
la letteratura un’ideologia che in estrema sintesi consisteva nella fiducia nella scienza
(scientismo), nell’esistenza di leggi che regolassero i comportamenti umani (determini-
smo), nella convinzione di dover in letteratura emulare gli scienziati proponendosi in-
dagini obiettive e spassionate (metodo scientifico, obiettività e impersonalità), e più in par-
ticolare alcuni nuovi strumenti di indagine della realtà psicologica e sociale, che nel-
la cultura letteraria si aggregarono in alcune idee cardine (milieu social, cioè ambien-
te sociale, adattamento all’ambiente, lotta per la sopravvivenza, società intesa come organi-
smo vivente, evoluzionismo sociale che premia i più forti e falcia i più deboli, ereditarietà
di tratti psicologici, attitudini e tare individuali). Attorno a queste idee cardine e a
una più generale fiducia nelle capacità conoscitive della scienza la letteratura avreb-
be costruito una nuova, storicamente determinata, idea di realismo.
Interesse per l’abnorme, il patologico, l’irregolare Ma è assai significativo anche il fatto che in
un’epoca che intendeva celebrare i fasti del progresso molto spesso l’interesse degli
scrittori si concentrasse sull’abnorme, sul patologico, sulle devianze psicologiche e
sociali. Lo scopo ultimo era certo quello di migliorare la società, curare le patologie
e reintrodurre l’ordine; ma l’accento molto spesso cadeva, talora con un sospetto di
compiacimento, su aspetti drammatici se non tragici della vita quotidiana. In un’e-
poca poi che celebrava l’esistenza di leggi certe che avrebbero portato a scandaglia-
re e a illuminare ogni aspetto della vita psichica e delle dinamiche sociali, ci fu tut-
tavia anche un interesse per i fenomeni irregolari, che sfuggivano alla scienza o che
ne configuravano i limiti problematici. In questo modo si aprirono nuovi dibattiti tra
spiritualismo e materialismo, razionalismo scientista e irrazionalismo.
Il secondo Ottocento
ziale impossibilità di vivere esclusivamente di essa) ci sono gli scapigliati, che spesso
contestano in blocco la nuova società fondata sul denaro e sul commercio, da cui si
sentono esclusi e da cui talora tendono per protesta ad autoescludersi.
Qualità letteraria e successo di mercato Molti scrittori di qualità, poi, vivono in modo conflittuale
e talora drammatico il rapporto con il mercato: vedono premiate opere di valore let-
terario assai modesto, ma appetibili presso il grande pubblico, e faticano magari a tro-
vare un editore per le proprie. Il caso di Verga è per molti aspetti illuminante: trasfe-
ritosi dalla Sicilia a Milano, ottiene un cospicuo successo con le sue prime opere di
stampo tardo-romantico, per molti versi corrive nei confronti del gusto del grande
pubblico; ma quando, anche per ragioni d’arte, approda al verismo e scrive il suo ca-
polavoro – I Malavoglia – fa un fiasco clamoroso. A tale proposito Ugo Ojetti nel
1895 intervista i più noti scrittori del tempo: tutti gli scrittori d’area scapigliata e ve-
ristica descrivono una situazione di grave crisi e paiono pessimisti non solo sul pre-
sente ma anche sui possibili sviluppi del mercato editoriale. Solo il giovane D’An-
nunzio, agli inizi della sua folgorante carriera, mostra di comprendere le potenzialità
anche commerciali della nuova situazione (per il caso D’Annunzio R64.1).
Il pubblico di massa in Italia e in Europa L’Ottocento in Europa è anche l’età della massificazione
del pubblico. Il fenomeno presenta però forti squilibri a seconda delle diverse aree
geografiche, e l’Italia, in particolare, che ha una percentuale di analfabetismo fra le più
alte d’Europa, è in netto ritardo in questo processo. Tuttavia, specie dopo il 1861, il
pubblico dei lettori è in crescita anche da noi e si estende a strati sociali finora rag-
giunti poco o nulla dalla cultura. Una stima fatta da Giovanni Ragone indica in 600-
700.00 unità il pubblico potenziale verso il 1880, cioè solo il 2% circa della popola-
zione. Per il momento i nuovi strati di pubblico appartengono ancora in larga misura
ai ceti medi e precisamente alla piccola e media borghesia, il pubblico d’elezione dei
letterati romantici, la cui acquisizione stabile alla lettura è forse il dato sociologico più
significativo del secolo. Il proletariato urbano e rurale rimane per lo più escluso, ma
qualcosa comunque si sta muovendo. Fattore determinante in questo senso è il decre-
mento abbastanza rapido dell’analfabetismo: dal 75-80% di analfabeti nel 1860 si cala
al 40% nel 1911. Il divario col resto dell’Europa è ancora lungi dall’essere eliminato,
ma comincia a ridursi sensibilmente, e l’espressione «pubblico di massa» a poco a po-
co acquista anche in Italia una maggiore aderenza alla realtà effettiva.
Il secondo Ottocento
che per tener dietro alle sollecitazioni degli editori appaltava la stesura o la prepara-
zione di intere parti ad altri scrittori meno noti (i «negri», in gergo). Questo fenome-
no tocca il suo culmine con Dumas, che impiega fino a 73 collaboratori, giungendo a
pubblicare a proprio nome assai più di quanto gli fosse materialmente possibile scri-
vere. «L’opera letteraria ora diventa “merce” nel vero senso della parola» (Hauser).
Un romanzo concepito per essere letto a puntate Il mezzo e i modi della diffusione condiziona-
no anche la forma narrativa. Lo scrittore di feuilletons deve fornire all’editore una suc-
cessione di segmenti narrativi di misura pressappoco prestabilita che vengono pubbli-
cati a puntate: ciò comporta una scansione della materia sensibilmente diversa da
quella del romanzo concepito per essere pubblicato direttamente in volume. Ogni
puntata deve essere sufficientemente autonoma per essere memorizzata, ma deve an-
che tener vive le attese del pubblico e invogliarlo a proseguire la lettura e quindi ad
acquistare il numero successivo del periodico (ogni segmento deve fornire un episo-
dio e creare possibilmente una certa suspense). La struttura e le misure interne del rac-
conto, i suoi ritmi, lo sviluppo degli eventi e dei colpi di scena sono in qualche modo
‘obbligati’. Non è raro poi che gli scrittori di romanzi d’appendice compongano quo-
tidianamente, o periodicamente, le parti destinate ad essere pubblicate.
Il romanzo d’appendice si rivolge ad un pubblico di massa Una seconda considerazione riguar-
da la qualità delle opere. Anche se svariate opere di elevata qualità letteraria sono og-
getto di pubblicazione ‘in appendice’ (basterebbe citare i casi di Balzac e Dickens, di
Tarchetti e Verga) e col tempo il pubblico si affinerà, resta il fatto che una gran parte
della narrativa appendicistica ottocentesca riguarda non tanto la storia letteraria tradi-
zionalmente concepita (cioè attenta di preferenza alle opere giudicate, per comune
consenso, di alto valore letterario), quanto la storia della cosiddetta paraletteratura. In
ogni caso il fenomeno dei generi a esplicita destinazione popolare è stato anche nel-
l’Italia ottocentesca di vastissime proporzioni. Per limitarci ai casi più clamorosi, ricor-
deremo Francesco Mastriani (1819-1891), autore di oltre cento romanzi, pubblicati
sui giornali napoletani, i cui “capolavori” sono La cieca di Sorrento e I misteri di Napoli; e
Carolina Invernizio (1858-1916), autrice di circa 130 romanzi, spesso fin dal titolo in-
n Copertina de I misteri di
Parigi del 1842.
n La serie di Rocambole, che
si pubblica a partire dal 1853.
dicativi delle propensioni ‘nere’ della scrittrice (salvo poi, in realtà, convergere, nel
gioco delle peripezie e del lieto fine, in un’esaltazione dell’ideologia della famiglia),
come nel caso di una delle sue opere più note, Il bacio di una morta.
Il secondo Ottocento
liano. Del resto, la perdurante arretratezza della popolazione rurale e delle aree del
Meridione agivano nel medesimo senso: la fame, la povertà, la necessità di lottare per
la sopravvivenza quotidiana, impiegando anche i bambini più piccoli nei campi o
nelle botteghe, induceva ad evadere l’obbligo scolastico e a ritenere secondario l’ap-
prendimento di una lingua ancora lontana ed estranea. Le difficoltà di una reale scola-
rizzazione dei ceti subalterni, specie nelle campagne, sono un dato preoccupante, che
viene più volte sollevato anche da inchieste ministeriali (ad esempio la già citata in-
chiesta Franchetti-Sonnino, La Sicilia nel 1876).
Ma l’insegnamento scolastico, anche quando viene effettivamente impartito, in que-
sti anni spesso viene impartito in dialetto (soprattutto nelle campagne): si mira ad un sa-
pere pratico più che linguistico. Non semplice poi si presenta il problema della forma-
zione di un ceto insegnante qualificato anche sul piano linguistico: spesso, anche nelle
città, vengono chiamate all’insegnamento persone che non hanno una preparazione
specifica, o che hanno competenze tecniche ma non linguistiche. Manzoni, ancora atti-
vo sul piano della polemica e della progettazione linguistica, suggerisce degli stages in
Toscana per gli insegnanti di tutta Italia, ma il progetto rimane sulla carta. La stessa len-
tezza rispetto ai principali paesi europei dello sviluppo di una moderna borghesia, capa-
ce di trainare i processi innovativi, e vari altri fattori e carenze strutturali del nuovo sta-
to renderanno l’unificazione linguistica un processo lento.
Quanti conoscono l’italiano? Non bisogna, del resto, mai dimenticare la situazione di partenza, le
reali condizioni linguistiche, cioè, attorno al 1860. Impressionante è il computo stati-
stico di quanti nei primi anni dell’Unità erano in grado di utilizzare l’italiano come
lingua della comunicazione orale e scritta. Dal censimento del 1861 risulta che oltre il
78% della popolazione totale, con punte sino al 90% nelle isole, è analfabeta, cioè non
sa leggere e scrivere, parla non italiano ma solo dialetti locali. Del restante 22% una
parte consistente deve presumersi semianalfabeta, in grado di scrivere il proprio nome
e di leggere qualcosa a stampa e poco più. Gli alfabeti per lo più appartengono ai ceti
borghesi; sanno scrivere con varia approssimazione in toscano (la lingua letteraria);
nella comunicazione quotidiana usano prevalentemente il dialetto; in situazioni for-
mali, con persone di diversa regione, usano il toscano, ma con grande incertezza e
scarsa naturalezza, trattandosi di una lingua appresa sui libri e non dall’uso vivo. Il pro-
cedimento è ancora quello che descrive Manzoni per i primi decenni del secolo scor-
so a Milano: quello che egli chiama il parlar finito «voleva dire adoprar tutti i vocaboli
italiani che si sapevano, o quelli che si credevano italiani, e del resto supplire come si
poteva, e per lo più, s’intende, con vocaboli milanesi, cercando però di schivar quelli
che anche ai milanesi sarebbero parsi troppo milanesi, e gli avrebbero fatti ridere; e da-
re al tutto insieme le desinenze della lingua italiana». Significative sono a questo ri-
guardo anche le testimonianze dell’imbarazzo con cui nelle prime sedute del parla-
mento italiano si esprimevano i deputati. In Piemonte del resto, accanto al piemonte-
se, e specie a corte, si usava di prevalenza il francese.
L’eccezione è costituita dalla Toscana e da Roma, dove la lingua che può esser de-
finita italiana comune è intesa e parlata, sia pur con varianti dialettali locali. De Mau-
ro calcola che nel 1861, fuori di Toscana e a Roma, solo lo 0,8% (160.000 persone su
20 milioni) sappia parlare e scrivere correttamente l’italiano; comprese queste due
aree, si sale al 2,5% (600.000 persone su 25 milioni). È un dato che parla da sé.
La discussione delle tesi manzoniane Intanto con l’unificazione e l’avvio dei processi cui accenna-
vamo si conclude anche la plurisecolare questione linguistica. Ancora abbastanza a
lungo, dopo il 1860, si discutono le diverse tesi formulate nel primo Ottocento, e in
particolare quella manzoniana, a cui per alcuni anni si ispirano anche i progetti e gli
interventi governativi. Ma è Graziadio Isaia Ascoli (1829-1927) che dirime la contro-
versia sul piano teorico. Glottologo e dialettologo, egli è mosso non tanto da intendi-
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menti di politica culturale, quanto dal rigore imposto dalla ricerca scientifica: non si
può non tener conto – sostiene – del passato della lingua italiana, della tradizione che
si è costituita di fatto, per quanto limitata essa sia. Per affrontare il problema bisogna
analizzare correttamente le cause che lo hanno determinato: esse consistono nella se-
paratezza politica, nella scarsa diffusione della cultura al di là di una ristretta élite, nel
vizio del formalismo e della retorica. Per risolverlo, quindi, bisogna estirpare la retori-
ca, diffondere la cultura, favorire momenti di vita collettiva e unitaria.
A quanti si erano battuti e si battevano per moltiplicare questi momenti e per far
circolare le idee, Manzoni ha sostanzialmente proposto – gli rimprovera Ascoli – di
abbandonare i propri sforzi e le proprie ricerche e di immergersi nella popolarità fio-
rentina, non comprendendo che il fiorentino ha avuto una storia autonoma da quan-
do (con Dante, Petrarca e Boccaccio) ha fondato la lingua italiana comune, e che ora
non può che considerarsi un dialetto come tanti altri. La lingua letteraria italiana nei
secoli successivi, poi, si è evoluta con apporti decisivi da parte di scrittori di tutta Ita-
lia. Non il fiorentino vivo, dunque, ma il patrimonio di esperienze linguistiche e cul-
turali veramente comuni a tutta Italia, anche se solo ai ceti colti, deve costituire la ba-
se per lo sviluppo di una lingua comune diffusa anche socialmente, che si avrà quando
anche i ceti subalterni potranno partecipare a momenti di vita collettiva veramente
unitari e attingere in qualche misura alla fonti di cultura.
Con l’Ascoli poteva dirsi risolta sul piano teorico la plurisecolare questione della
lingua: il tempo l’avrebbe risolta anche sul piano pratico.
Il secondo Ottocento
civile, il laicismo risorgimentale dello storiografo emergono qui con tutta evidenza.
Il disegno complessivo della Storia desanctisiana Ma la Storia della letteratura italiana è anche un ca-
polavoro assoluto della storiografia letteraria europea. Per il critico René Wellek si
tratta «per più rispetti della più bella storia che sia stata scritta di una letteratura; una
storia letteraria che unisce felicemente un vasto schema storico con una critica serra-
ta, la teoria con la pratica, il principio estetico con le analisi particolari. Mentre è uno
storico, il De Sanctis è anche un critico, un giudice di poesia».
Il disegno complessivo della Storia della letteratura italiana – come detto – è un esito
originale di quella tendenza romantica per cui la storia letteraria è storia dell’intera ci-
viltà nazionale. Nella prospettiva metodologica desanctisiana, fondata sull’idea che la
forma dell’opera letteraria debba essere strettamente connessa, quasi connaturata al
contenuto che esprime, momenti negativi sono quelli in cui la forma si separa dai
contenuti, in cui il culto per la forma prevarica i contenuti morali e spirituali. Da que-
sto presupposto derivano, da un lato, la sostanziale incomprensione per l’Umanesimo e
il Rinascimento come fenomeni complessivi e, dall’altro, l’esaltazione di quegli autori
in cui l’impegno morale, civile o religioso è tutt’uno con le loro opere e le forme
espressive in cui esse si realizzano. Si delinea così lo schema essenziale della Storia: il
Medioevo, età di grandi idealità politiche, morali e religiose, di una passionalità inten-
sa e autentica, è un’età positiva che segna il risorgimento della nostra civiltà nazionale
dalla decadenza del mondo antico e che culmina con la figura e l’opera di Dante.Vi-
ceversa, l’Umanesimo e il Rinascimento, pur essendo epoche di raffinatissima cultura,
progressivamente determinano la separazione tra mondo ideale e morale e forma
espressiva, privilegiando il culto per la forma (è, in altri termini, una civiltà formal-
mente splendida ma priva di senso morale: celebre, quanto ingiusta, la stroncatura di
Guicciardini e del suo particulare, parallela all’apprezzamento per Machiavelli, per la sua
coscienza politica e morale e per il suo laicismo), e avviano un processo di decadenza
che culmina nell’età barocca prima e in quella arcadica poi. Nel Settecento, invece, si
delinea la ripresa (essa ha i suoi precursori nei rappresentanti della nuova scienza, Ga-
lilei, Bruno, Campanella,Vico) che condurrà al più recente risorgimento culturale ed
etico-politico, specie con la linea che congiunge Parini, Alfieri, Foscolo, Leopardi e
Manzoni.Volgendo poi lo sguardo al presente e al futuro, De Sanctis lamenta il rilassa-
mento del senso morale e dell’impegno civile che constata nell’«Arcadia romantica» di
un Prati e di un Aleardi, e manifesta viceversa attenzione e interesse partecipe alle
nuove realizzazioni del naturalismo (cioè Zola), che gli paiono negli ultimi suoi anni
un «eccellente antidoto» per la cultura italiana, «educata nell’arcadia e nella rettorica»,
e una via feconda per il futuro.
Francesco De Sanctis nacque a Morra Irpina (Avellino) nel 1817. Dopo gli studi letterari, a Na-
poli, insegnò in diversi istituti e poi aprì una scuola privata (1839). Nel 1848 partecipò con i suoi
allievi all’insurrezione napoletana, il cui fallimento lo costrinse, dopo oltre due anni di prigione,
all’esilio. Trascorse gli anni di esilio prima a Torino, dove tenne pubbliche lezioni dantesche, e poi
a Zurigo, dove dal 1856 insegnò presso il Politecnico. In questi anni maturò la sua personale re-
visione dell’estetica hegeliana e gettò i fondamenti del suo pensiero critico. Con il 1860 fece ri-
torno in Italia, dedicandosi all’insegnamento universitario (a Napoli, 1871-1876) e a un’intensa
attività pubblica (deputato e ministro della Pubblica Istruzione, 1861-1862 e 1878-1880). Co-
piosa la sua produzione critica e saggistica: la Storia della letteratura italiana (1870-1871), i Saggi criti-
ci (1866), i Nuovi saggi critici (1872), il Saggio critico sul Petrarca (1869). Le Lezioni tenute all’Università
di Napoli (dedicate al Manzoni, al Leopardi, alla scuola cattolico-liberale, alla scuola democratica)
vennero invece pubblicate postume. Oltre all’opera maggiore, De Sanctis lascia numerosi saggi e
lezioni (ad es. su Parini, Foscolo, Manzoni, Mazzini, Zola e il naturalismo) che integrano e ap-
profondiscono il disegno complessivo tracciato nella Storia. Morì a Napoli nel 1883.
VERIFICA
54.1 La periodizzazione
1 Indica i limiti cronologici del periodo in esame e definiscine le caratteristiche salienti.
2 Delinea gli eventi essenziali che caratterizzano il decennio 1861-1870.
Il secondo Ottocento
n G. Courbet, Lo studio del Prima di addentrarci nella letteratura italiana del A torto si è visto in Gustave Flaubert un esponente
pittore (allegoria reale). A de- secondo Ottocento è opportuno prendere in conside- del “realismo” del secondo Ottocento. In realtà egli è
stra, intento a leggere, Baude-
laire. razione due grandi scrittori francesi, un romanziere e erede a un tempo della più esasperata sensibilità ro-
un poeta, Flaubert e Baudelaire. Essi rappresentano mantica e dell’intento sociale dei narratori del primo
un complesso crocevia letterario: ereditano e rinnova- Ottocento. Ma nel complesso liquida quelle formule e
no dall’interno i modelli romantici portandoli a esiti di propone esiti nuovi e diversi, destinati a un lungo av-
assoluta originalità, tanto da influenzare profonda- venire. Alieno da ogni subordinazione della creazione
mente il successivo cammino della letteratura euro- all’ideologia, ripropone il primato assoluto dell’Arte e
pea e non solo nel corso del XIX secolo, ma anche nel dello stile, del linguaggio letterario nella sua autono-
Novecento. Si può dire infatti che il romanzo moderno mia e autosufficienza. Flaubert affronta poi scomode
nasce all’insegna di Flaubert, così come la poesia e indiscutibili verità: l’eterna disparità tra illusione e
moderna nasce all’insegna di Baudelaire. Per singola- realtà, la vuota banalità del quotidiano, l’etica neces-
re coincidenza, Madame Bovary e I fiori del male – i saria della rinunzia. Il capolavoro di Flaubert è Mada-
due loro libri più rappresentativi – escono in Francia a me Bovary, un «libro sul nulla» che si propone di sca-
due mesi di distanza, rispettivamente nell’aprile e nel vare negli spazi interiori e porre al centro della narra-
giugno 1857. Queste e altre loro opere possono anche zione il divario tra sogni chimerici ed esiti fallimenta-
costituire un metro di paragone degli orientamenti e ri: il “bovarismo” è appunto quel tarlo, quel male, che
delle scelte compiute dagli scrittori italiani coevi, nasce dalla tragica scoperta dell’abisso, del vuoto
sempre più attenti agli sviluppi della letteratura euro- della propria esistenza. Della realtà attentamente in-
pea, ma non sempre in grado di coglierli ed emularli vestigata non scopre solo le forme apparenti, ma le
in profondità o talora anche legati a modelli di lettera- implicazioni sotterranee, i valori sottintesi: così, mae-
tura più tradizionali. stro di realismo, annunzia la letteratura simbolista e
decadente, e il romanzo novecentesco.
Il secondo Ottocento
resto della vita a Croisset, conoscendo una vecchiaia precoce e triste. Morirà nel 1880
per un’improvvisa emorragia cerebrale.