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We, like the Romans?

Per lo studio del paradigma romano nella rappresentazione


e nell’interpretazione della Pax Americana
di Virgilio Ilari
Tu regere imperio populos, Romane, memento
(Hæc tibi erunt artes), pacique imponere morem,
Parcere subjectis et debellare superbos.
Virgilio, Eneide, VI, 853-55.
Venient annis secula seris Quibus Oceanus vincu-
la rerum Laxet, et ilgens pateat tellus, Tethysque
novos detegat orbes, Nec sit terris ultima Thule.
Seneca, Medea, 375-79.

Translatio imperii o Troiana progenies.


Questo articolo non riguarda il concetto di American Empire1 e il di-
battito, riacceso nel 2001, sull’imperialismo americano2. E’ piuttosto
una prima ricognizione dei testi in cui si manifesta la graduale emer-
sione del parallelo americo-romano, distinto e diverso dal parallelo
britannico-romano e tra due esperienze imperiali radicalmente diver-
se – la χώρα oceanica e transmarina della Respublica Anglorum3 e la
Cosmopoli (urbs et orbis) romana, proseguita in forma territoriale

1
Amy S. Greenberg, Manifest Manhood and the Antebellum American Empire,
Cambridge U. P. 2005. Christopher Layne and Bradley A. Thayer, American Em-
pire: A Debate, London, Routledge, 2006. Rocky M. Mirza, The Rise and Fall of
the American Empire: A Re-Interpretation of History, Economics and Philosophy:
1492-2006, Trafford Publishing, 2007. David Reynolds, America, Empire of Liber-
ty: A New History of the United States, Basic Books, 2009.
2
Chalmers Johnson, Dismantling the Empire: America's Last Best Hope, Mac-
millan, 2010. Joshua Freeman, American Empire: The Rise of a Global Power, the
Democratic Revolution at Home, 1945-2000, Penguin, 2012. Stephen Burman, The
State of the American Empire: How the USA Shapes the World, Routledge, 2013.
3
Concetto coniato da Thomas Smith, primo regius professor di diritto romano a
Cambridge dal 1540 al 1551 (De republica Anglorum. A discourse on the Commo-
nwealth of England, 1565). Pochi anni dopo pure Bodin utilizzò il termine “repub-
blica” per indicare l’ordinamento giuridico delle monarchie nazionali.
per altri mille anni in Oriente ma perpetuata in Occidente dal primato
petrino4.
Negli ultimi due secoli la moderna talassocrazia occidentale non ha
fatto che accumulare trionfi. Il mondo antico, invece, narra un’altra
storia, perché le talassocrazie mediterranee furono sconfitte e colo-
nizzate da potenze continentali. Peraltro il parallelo delle moderne
con le antiche talassocrazie è stato fatto più in termini etici e valoriali
che in termini geopolitici. Ma il paragone moraleggiante con Carta-
gine – basato sulla perfidia mercantile, non sul naval power – pro-
viene sempre da nemici continentali. Oswald Spengler ricorda che la
Convenzione metteva in guardia i Batavi contro la «perfide amitié»
degl’inglesi, e minacciava di volerli trasformare nei «cartaginesi del-
la storia moderna»5. E prima ancora l’abate Séran de la Tour aveva
trovato una puntuale corrispondenza tra la perfidia cartaginese del
218 a. C. e quella inglese del 17566.
Tutte le potenze europee, sia marittime che continentali, si sono però
confrontate con Roma7. Il paradigma8 era l’unico modo in cui le na-

4
Franco Cardini, «L’Impero e gli imperi», Diritto e storia, N. 8 (2009), Memo-
rie presentate al XXIX Seminario Internazionale da Roma alla Terza Roma. Pie-
rangelo Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, Giappichelli, Torino,
1965. Fabrizio Fabbrini, L’impero di Augusto come ordinamento sovranazionale,
Giuffré, Milano, 1974; Id., Translatio imperii. L’impero sovranazionale da Ciro ad
Augusto, Edizioni di Storia e Letteratura, 1983.
5
Oswald Spengler, The Decline of the West, trad. C. F. Atkinson, New York,
Alfred A. Atkinson, 1927, I, p. 4. Cfr. il Proclama al Popolo Batavo del 2 marzo
1793: « [les Anglais] voulaient faire de vous les Indiens d’Europe: c’est à nous de
faire des Anglais les Carthaginois de l’histoire moderne » (Guillaume N. Lalle-
ment, Choix de rapports, opinions et discours prononcés à la tribune nationale,
XI, 1793, Paris, Alexis Emmery, 1929, p. 198).
6
Séran de la Tour (1700-1770), Parallèle de la conduite des Carthaginois, à
l’égard des Romains, Dans la seconde guerre punique, avec la conduite de
l’Angleterre, à l’égard de la France, Dans la guerre déclarée par ces deux puis-
sances en 1756, 1756. Peraltro l’introduzione restringe il paragone al puro compor-
tamento, escludendo espressamente analogie fra l’«esprit général des deux na-
tions». Entrambe mercantili, certo, ma con la differenza che l’Inghilterra aveva in
più, rispetto a Cartagine, il vantaggio di avere una classe dirigente colta e guerriera.
7
Sergio Roda, Mitologie dell'impero: memoria dell'antico e comprensione del
presente, CELID, 2013. V. i paralleli tra la competizione anglo-tedesca e quella
romano-cartaginese e le oscillanti identificazioni della Germania (punita da quella
zioni dell’Europa occidentale potevano richiamarsi alla Prima Roma:
perché questa, nonostante le ripetute renovationes proclamate dagli
imperatori germanici, s’incarnava ormai nel Papato9. In Oriente, in-
vece, l’eredità di Costantinopoli, la Néa Rome, ha potuto essere con-
cepita come translatio imperii. Nel 1453 Mehmed II si proclamò Ce-
sare di Roma (Kayser-i-Rum)10 ed effettivamente l’Impero ottomano
fu per certi versi una continuazione del bizantino. Nel 1510 si conso-
lidò l’idea di Mosca Tretij Rim, erede di Bisanzio per nozze e per fe-
de, e nel 1547 il granprincipe moscovita Ivan IV vi fece ricorso per
legittimare la rivendicazione del titolo imperiale11.
Roma è assente nella contemporanea giustificazione liberale della
supremazia anglosassone. Come sottolinea Jeanne Morefield12, la
giustificazione avviene rimuovendo l’elemento negativo (imperiali-
smo) dal concetto (positivo) di impero. Uno dei modi («strategie di

che Keynes aveva chiamato la «pace Cartaginese» di Versailles) ora con Roma ora
con Cartagine [Luigi Loreto, «L’idea di Cartagine nel pensiero storico tedesco da
Weimar allo ‘Jahre O’», in Studi storici, 41, 2000, N. 3 (luglio-settembre), pp. 828-
70]. V. Renovatio, Inventio, Absentia Imperii. From the Roman Empire to the Con-
temporary Imperialism, International conference organized by the Academia Bel-
gica of Rome, the Belgian Historical Institute in Rome and the Princess Marie-José
Foundation at the occasion of the 75th anniversary of the Academia Belgica of
Rome, 11-13 September 2014.
8
Luciano Canfora, L’uso politico dei paradigmi storici, Laterza, Roma-Bari,
2010.
9
Andrea Giardina e André Vauchez, Il mito di Roma da Carlo Magno a Musso-
lini, Roma-Bari, Laterza, 2000.
10
Giuseppe Mandalà, «L’immagine di Roma nella letteratura araba e turca d’età
ottomana», in Franziska Meier (Hrsg.), Italien und das Osmanische Reich, Herne,
Gabriele Schäfer Verlag, 2010, pp. 29-56.
11
Anna Frajlich, The Legacy of Ancient Rome in the Russian Silver Age,
Rodopi, 2007. Giovanna Minardi Zincone, «Translatio imperii a Costantinopoli e a
Mosca nella pubblicistica italiana dell’Ottocento», Diritto e Storia, N. 8 (2009).
Judith E. Kalb, Russia's Rome: Imperial Visions, Messianic Dreams, 1890–1940,
Madison, Univ of Wisconsin Press, 2010. Katerina Clark, Moscow, the Fourth
Rome 1931-1941, Harvard U. P., 2011. A. S. Usačev, «Ov istorij Bytovanija idei
Tret'jego Rima v Rossij XVI v.» (Sulla storia dell’origine dell’idea di Terza Roma
nella Russia del XVI sec.), Vestnik PSTGU, II: Istorija. Istorija Russkoj Pra-
voslavnoj Tserkvi. 2015, 3 (64), pp. 9–17.
12
Jeanne Morefield, Empires without imperialism: Anglo-American decline and
the politics of deflection, Oxford University Press, New York, 2014.
deviazione») è il riferimento all’imperialismo democratico ateniese,
usato da sir Alfred Eckhardt Zimmern (1879-1957) per l’impero bri-
tannico e da Donald Kagan per quello americano13.
Un altro sistema, in voga tra gli imperialisti di età edoardiana e ri-
spolverato da Niall Ferguson, è affondare le radici dell’impero beni-
gno in una fantasiosa eredità razziale teutonica, «the handing-off of
the baton of liberty from the ancient Germans to the Anglo-Saxons,
from the British to the Americans»14. In pratica un aggiornamento
kiplinghian-darwinista del tema luterano delle aquile di Teutoburgo
come translatio imperii per diritto di guerra, suggerito ad Ulrich von
Hutten (1488-1523) dalla riscoperta e pubblicazione nel 1515 dei
primi libri di Tacito15.
Sbarazzarsi di Roma è però meno facile che graffire sugli affreschi di
Raffaello Lutherus Papa (1527), interpretare la repubblica mazzinia-
na come il compimento di profezie bibliche (1849)16 o far eleggere al
Soglio Hadrian the Seventh (1904). Insieme al paradigma ateniese,
anche quello romano, infatti, ha profondamente influenzato la co-
struzione vittoriana e edoardiana dell’identità imperiale britannica,
come nel 2015 ha magistralmente ricostruito Eva Marlene Haustei-
ner17.
Contemporaneamente alla germanizzazione del SRI e al tema russo-
balcanico della Terza Roma, sia i Valois che i Tudor enfatizzarono in

13
John A. Bloxam, Thucydides and Us. Foreign Policy Debates After the Cold
War, Dissertation.com, Boca Raton, 2010; Universal-Publishers, 2011, pp. 36 ss.
14
Morefield, pp. 116-117.
15
Joachim Whaley, Germany and the Holy Roman Empire, Vol. I (Maximilian
to the Pace of Westphalia, 1493-1648), Oxford U. P., 2012, p. 56.
16
Robert Fleming, The Rise and Fall of Rome Papal, Houlston & Stoneman,
London, 1849. Sulla rimossa esaltazione dell’assassinio di Pellegrino Rossi fatta da
Garibaldi nelle sue Memorie v. Luciano Canfora, La democrazia. Storia di
un’ideologia, Laterza, Roma-Bari, 2010, p. 4.
17
Eva Marlene Hausteiner, Greater than Rome: Neubestimmungen britischer
Imperialität 1870-1914, Campus Verlag, Frankfurt/New York, 2015. Id., «The At-
traction for Rome in the Age of Empire: the Imperium Romanum as a Precedence
for Imperial Britain», Patterns of Imperial Interpretation, Humboldt Universität,
2010. V. pure Manu Takkur, «The Torch Bearer and the Tutor: Prevalent Attitudes
Towards the Roman Empire in Imperial Britain», SURJ (The Stanford Undergrad-
uate Research Journal), Spring 2006, pp. 67-72.
senso anti-romano e anti-germanico il mito medievale delle origini di
franchi e britanni dalla diaspora troiana18 per rivendicare il carattere
originario delle due monarchie nazionali rispetto al SRI19. Nel caso
dei Franchi, l’implicito è rafforzato dalla contaminatio tra l’origine
troiana, risalente a Gregorio di Tours20, e la discendenza dai Galli.
Nel 1532, rifiutando l’origine germanica dei Franchi, Guillaume Po-
stel sostenne infatti che erano un ramo dei Galli emigrati a Troia e di
lì poi tornati in Francia. Finalmente nel 1566 Jean Bodin eliminò la
tappa troiana, sostenendo che il ramo franco dei Galli era emigrato
oltre il Reno, facendo ritorno dopo essersi germanizzato21. Da qui de-
rivarono poi «nos ancêtres les Gaules», le Gauloises e Asterix: il che
non precluse alla Francia di ricapitolare in chiave di opéra comique
la storia costituzionale romana: prima le capigliature “alla Bruto”, le
sorellanze e i fasci repubblicani, poi le corone d’alloro, le aquile e
l’annessione di Roma (1808-1814) e ben tre imperi latini, contando il
Messico. Anzi quattro, con l’«empire latin» franco-ispano-italiano
elucubrato nel 1945 da Alexandre Kojève (1902-1968)22 – cattivo
maestro hegeliano di Fukuyama e Wolfowitz.

18
Goffredo da Viterbo, Speculum regum, ed. Waitz, 21: «Sane cum Romanorum
et Theutonicorum regum et imperatorum ingenuitas ab una Troianorum regum stir-
pe procedat eademque Troiana progenies». V. Thomas Foerster (Ed.), Godfrey of
Viterbo and his Readers: Imperial Tradition and Universal History in Late Medie-
val Europe, Ashgate Publishing, Ltd., Farnham, 2015, p. 117 nt. 64. Marilynn
Desmond, «History and fiction; the narrativity and historiography of the matter of
Troy», in William Burgwinkle et al. (Eds), The Cambridge History of French lit-
erature, Cambridge U. P., 2011, pp. 139-144.
19
Frances A. Yates, Astrea. L’idea di impero nel Cinquecento 1975), Torino,
Einaudi, 1978. Cfr. Vanna Gentile, La Roma antica degli Elisabettiani, Bologna, Il
Mulino, 1991. Elliott Visconsi, «Trojan Originalism: Dryden’s Troilus and Cres-
sida», in Maximillian E. Novak (Ed.), The Age of Projects, The University of To-
ronto Press, 2008, pp. 73-90.
20
Jonathan Barlow, «Gregory of Tours and the Myth of the Trojan Origins of
the Franks», Frühmittelalter Studien, vol. 29, pp. 86-95.
21
Laurent Avezou, Raconter la France: histoire d’une histoire, Paris, Armand
Colin, 2013.
22
Kojève, Esquisse d’une doctrine de la politique française, 27/VIII/1945.
Francescomaria Tedesco, «L’impero latino e l’idea di Europa. Riflessioni a partire
da un testo (parzialmente) inedito di Alexandre Kojève», Quaderni Fiorentini, 35
(2006), I, pp. 373-401. Id., «Una seconda Versailles, ecco l’impero latino di cui
parla davvero Kojève», Il Lavoro culturale, 11 ottobre 2013.
The Decline and Fall of the British Empire.
Analogamente, nella mitopoiesi della nazione britannica Bruto il
Troiano23 e Budicca convissero con Artù24 e con le pericolose catte-
dre oxoniense e cantabrigense di diritto romano, tanto più che la
common law rassomigliava così tanto al ius honorarium25. Anche
l’interpretazione polibiana del sistema politico romano come costitu-
zione mista [che Arnaldo Momigliano giudicava erronea] fu usata nel
dibattito politico inglese del Settecento26. L’analogia ammonitrice
con l’esempio romano era poi lo scopo politico del Decline and Fall
di Gibbon27, scritto durante la ribellione americana e l’indomita resi-
lienza inglese che fu alla base del trionfo sulla Francia e della straor-
dinaria ascesa imperiale nel secolo britannico tra Waterloo28 e
Passchendaele. Un secolo dopo, il brand gibboniano fu sfruttato pure
dai cultori della fobia asiatica per immaginare futuri professori di Pe-
chino e di Tokio che spiegavano ai loro studenti il declino e la caduta
dell’Impero Britannico, avvenuti mille o cento anni prima29. Ma né la

23
V. ancora nel 1735 il poema epico di Hildebrand Jacob (Brutus the Trojan
Founder of the British Empire).
24
Martin Aurell, La légende du roi Arthur, Paris, Perrin, 2015.
25
Sir Thomas Edward Scrutton (1856-1934), The Influence of the Roman Law
on the Law of England, Being the Yorke prize essay of the University of Cam-
bridge for the year 1884, Cambridge U. P., 1885. Charles P. Sherman, «The Ro-
manization of English Law». The Yale Law Journal, Vol. 23, No. 4 (Feb., 1914),
pp. 318-329. Ralph V. Turner, «Roman Law in England before the Time of Brac-
ton», Journal of British Studies, Vol. 15, No. 1 (Autumn, 1975), pp. 1-25.
26
Momigliano cita in particolare un opuscolo di Edward Spelman comparso
anonimo nel 1743 e ripubblicato nel 1747 [«Polibio, Posidonio e l’imperialismo
romano», Atti del IX Congresso Internazionale dell’Associazione G. Budé del 14
aprile 1973 (ora in Sesto contributo alla storia degli studi classici e del mondo an-
tico, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 1980, vol. I, pp. 89-101)].
27
Roland Quinault and Rosamond McKitterick (Eds.), Gibbon and Empire,
Cambridge U. P., 1997
28
Ma lo stesso anno del trionfo usciva la seconda edizione delle Reflections up-
on the Progressive Decline of the British Empire and the Necessity of Public Re-
form di Henry Schultes.
29
The Decline and Fall of the British Empire. Being the History of England be-
tween the years 1840-1981. Written for the use of Junior Classes in Schools. By
Lang-Tung, professor of history at the Imperial University of Pekin, and tutor to
their Imperial Highnesses the Princes Sing and Hang. Translated into the English
fittizia storia “dal futuro”, né le analoghe «lezioni» che, in modo più
convenzionale, il medievista quacchero Thomas Hodgkin (1831-
1913) traeva dalla vicenda romana30, potevano cogliere che il declino
dell’Impero era in realtà già in atto e che la causa dell’imminente ca-
duta non sarebbe stata la nemesi asiatica ma la «supremazia econo-
mica americana» e l’«americanizzazione del mondo»31, già concla-
mate all’epoca della conquista delle Filippine e del Great Rappro-
chement con l’Inghilterra.
Secondo Momigliano, una vera comparazione strutturale tra l’impero
britannico e il romano non era possibile sulla base della storiografia
antica, perché questa aveva sì narrato l’espansione romana, ma senza
avvertirla come problema storico, di cui bisognasse cercare cause e
«dinamiche» all’interno del sistema sociopolitico romano32. Brunt ha
magistralmente ricostruito le concezioni dell’impero all’epoca di Ci-
cerone33, ma anche qui è l’esperienza moderna che reinterpreta il

Language by Yea, ‘Pekin, 2881 A.D.’, London, F.V. White & Co., 1881, 32. Elliot
Evan Mill, The decline and fall of the British Empire: a brief account of those
causes which resulted in the destruction of our late ally, together with a comparison
between the British and Roman Empires; appointed for use in the national schools
of Japan, ‘Tokio 2005’, Oxford, Alden and Co., 1905.
30
T. Hodgkin, «The Fall of the Roman Empire and its lessons for us», Contem-
porary Review, 73, 1898. A. Momigliano, «After Gibbon’s Decline and Fall», An-
nali della Scuola Normale Superiore di Pisa, serie III, vol. VIII, fasc. 2, 1978, pp.
435-454 (Sesto contributo, I, pp. 265-284).
31
Brooks Adams (1848-1927), The Law of Civilization and Decay (1895),
America’s Economic Supremacy (1900), The New Empire (1903), tutti pubblicati
da The Macmillan Coy, New York-London. V. The Americanization of the World,
New York-London, Horace Markley, 1902, del giornalista inglese William Thomas
Stead (1849-1912).
32
Momigliano, «Polibio, Posidonio e l’imperialismo romano», cit.
33
P[eter] A[tbury] Brunt, «Laus imperii», in P. D. A. Garnsey and C. R. Whit-
taker (Eds.), Imperialism in the Ancient World: The Cambridge University Re-
search Seminar, Cambridge U. P., 1978, pp. 159-192. V. però il magistrate stori-
cizzamento di queste concezioni in Eric S. Gruen, The Ellenistic World and the
Coming of Rome, University of California Press, Berkeley, Los Angeles, London,
1986, pp. 273 ss. («The Roman Concept of Empire in the Age of Expansion») e
316 ss. («The Greek View of Roman Expansion»). Per una concisa rassegna dei
vari interventi sull’imperialismo in Polibio (Holleaux 1921, Walbank 1965, Veyne
1975, Musti 1978, Derow, Harris 1979) v. Gruen, p. 2, nt. 2.
passato34. La storiografia, oggi imponente, sull’imperialismo romano
si è potuta sviluppare solo applicando al mondo antico i concetti e le
interpretazioni della critica radicale dell’imperialismo britannico35.
L’idea geopolitica della pluralità di imperi come spazi vitali degli
stati-nazione più forti, nacque nel 1804 dall’incoronazione di Napo-
leone, seguita dall’estinzione del SRI e dalla creazione dell’Impero
austriaco36. La prima idea di impero britannico come sovranità terri-
toriale fu però mutuata dall’impero spagnolo: «the British empire in
America» compare almeno dal 170837, ma British empire indica pure
il complesso dei domini della Corona, incluse Scozia, Irlanda e colo-
nie, mentre «souveraineté anglaise en Inde», usata da Jean-Baptiste
Say nel suo trattato del 1825, veniva tradotta come «the British empi-
re in India». Dopo l’abolizione della schiavitù (1833), l’Impero bri-
tannico era definito come spazio geopolitico caratterizzato da «the
high degree of civil and religious liberty»38, ovviamente scotomiz-

34
P. A. Brunt, «Reflections on British and Roman Imperialism», Comparative
Studies in Society and History, 7, 1965, pp 267-288. Cfr. la puntualizzazione sulle
differenze militari del medievista Joseph R. Strayer, «Empires - Some Reflections
on Roman and Modern Imperialism», Comparative Studies in Society and History
Vol. 9, No. 1 (Oct., 1966), pp. 101-104.
35
Eric S. Gruen, The Ellenistic World and the Coming of Rome, Universiuty of
California Press, Berkeley, Los Angeles, London, 1986, p. 4. Bernard Porter, Crit-
ics of Empire. British Radicals and the Imperial Challenge, I. B. Tauris & Co.,
London-New York, 2008.
36
Cardini, cit.
37
Mr. Oldmixon (John), The British Empire in America: Containing the History
of the Discovery, Settlement, Progress and Present State of All the British Colonies
on the Continent and Islands of America, John Nicholson, London, 1708. The Brit-
ish empire in America, consider'd, in a second letter, from a Gentleman of Barba-
does, to his Friends in London, J. Wilford, London, 1732.
38
«The British Empire consists of the United Kingdom ef Great Britain and Ire-
land (including a number of minor islands around their shores), and colonies and
other dependencies in different quarters of the world. The most remarkable peculi-
arity in the political condition of the British empire, is the high degree of civil and
religious liberty which all classes of subjects practically enjoy» («Constitution and
resources of British Empire», Chambers's information for the people: a popular
encyclopaedia, Jas. B. Smith & Co., Philadelphia, 1856, II, pp. 591-606). William
and Robert Chambers, Storia e statistica dello Impero britannico dalle sue origini
al 1847, con appendice intorno i progressi economici della Gran Bretagna dal
1846 al 1852, di Giacomo Dina, Tip. Ferrero e Franco, Torino, 1853.
zando la starvation irlandese e la Mutiny indiana. Nel Don Pacifico
Speech (25 giugno 1850), in cui giustificava l’intervento militare per
imporre al governo greco un risarcimento dei danni subiti da un sud-
dito britannico nonostante il rischio di provocare un casus belli con
la Francia, Lord Palmerston evocò il privilegio della cittadinanza
romana (principio del cives Romanus sum!), appello che Lord Robert
Cecil giudicava di sicuro effetto «upon an English audience»39.
Sia la Royal Commission incaricata di riformare l’ordine degli studi
di Oxford (1851), sia il Macaulay Committee incaricato di regolare la
formazione dei funzionari dell’Indian Civil Service (1854) discussero
la funzione educativa degli studi classici. L’importanza maggiore fu
data alla filosofia e alla storia greca, ritenute più adatte per formare i
valori personali e modellare i rapporti tra la madrepatria e i Domi-
nions, mentre gli esempi romani furono giudicati più congrui per re-
golarsi con gli indigeni non civilizzati40. La svalutazione del para-
digma romano rifletteva del resto la tesi dell’identità «teutonica»41,
sostenuta da autori come J. Sheppard42 e Charles Kingsley43.

39
Joseph Hendershot Park, British Prime Ministers of the Nineteenth Century:
Policies and Speeches, New York U. P., 1916. David Brown, Palmerston and the
Politics of Foreign Policy, 1846-55, Manchester U. P., 2002, pp. 12, 94, 101ss,
113, 138.
40
Philip W. M. Freeman, «British Imperialism and the Roman Empire», in Jane
Webster and Nick Cooper, Roman Imperialism: post-colonial perspectives, The
School of Archaeological Studies University of Leicester, 1996, pp. 19 ss. Freeman
cita J. Majeed, «Comparativism and allusions to Rome in British Imperial attitudes
to India», paper, 1994; Richard Symonds, Oxford and Empire. The last lost cause?,
Macmillan, London, 1986 e Frank M. Turner, «Why the Greeks and not the Ro-
mans in Victorian Britain?», in George W. Clarke (Ed.), Rediscovering Hellenism:
The Hellenistic Inheritance and the English Imagination, Cambridge U. P., 1989,
pp. 61-82. Id., The Greek Heritage in Victorian Britain, Yale U. P., 1981. Richard
Jenkyns, The Victorians and Ancient Greece, Harvard U. P., 1980.
41
Richard Hingley, Roman Officers and English Gentlemen: The Imperial Ori-
gins of the Roman Archaeology, Routledge, New York, 2013, p. 64. Freeman,
«From Mommsen to Haverfield: the origins of studies of Romanization in late
19th-c. Britain», Journal of Roman Archaeology, Vol. 23, 1997.
42
J. G. Sheppard, The Fall of Rome and the Rise of the New Nationalities: a se-
ries of lectures on the connections between ancient and modern history, Routledge,
Warne & Routledge, London, 1861.
43
Kingsley, The Roman and the Teuton, Macmillan, Cambridge,1864.
Appiattita sulla cronaca, la prima storiografia dell’espansione ne
metteva in risalto il carattere accidentale e pacifico, sottolineando
l’intento legittimo, difensivo e anzi obbligato delle Queen Victoria’s
Wars. In un discorso del novembre 1879 alla Guildhall, Disraeli co-
niò l’ossimoro «imperium et libertas»44, che secondo Straub sarebbe
stato suggerito dall’osservazione di Tacito (hist., IV, 25) che la ribel-
lione spe libertatis dei Galli era in realtà cupidine imperitandi45. Una
carta illustrata dell’«Imperial Federation – British Empire» al 1886,
basata sulle «informazioni statistiche» di sir John Charles Ready Co-
lomb (1838-1909), mostrava in basso Britannia, armata di scudo tri-
crociato e tridente, seduta su Atlante (con cartiglio «World»), e in al-
to tre vergini in berretto frigio coi cartigli «Freedom», «Fraternity» e
«Federation». Nel 1883 sir John Robert Seeley (1832-1895) espri-
meva la communis opinio che l’impero fosse un’unica «nazione»
analoga all’americana:
«here too is a United States. Here too is a homogenous people, one
in blood language, religion, and laws, but dispersed over a boundless
space»46.
Nonostante gli elementi di barbarie, superstizione e miseria, l’impero
romano aveva rappresentato un embrione di «modern brotherhood or
loose federation of civilised nations» e poteva essere considerato
«the foundation of the present civilisation of mankind»47 La conqui-
sta inglese dell’India non assomigliava a quelle del Gran Turco o del
Gran Mogol, ma quella romana della Gallia e della Spagna, e
l’esperimento indiano di una «superior civilisation introduced by a
conquering race» equivaleva per importanza, interesse e magnitudine

44
Angus Hawkins, Victorian Political Culture, Oxford U. P., 2015, p. 292.
45
J. A. Straub, «Imperium et libertas. Eine Tacitus-Reminiszenz im politischen
Programm Disraelis», in K. Repgen u. S. Skalweit (Hrsg.), Spiegel der Geschichte.
Für Max Brauhach zum 10 April 1964, 1964, pp. 52ss (poi in Id., Regeneratio Im-
perii. Aufsätze über Roms Kaisertum und Reich im Spiegel der heidnischen und
christlichen Publizistik, 1972, pp. 19ss.
46
J. R. Seeley, The expansion of England (1883), Macmillan, London, 1911, p.
184. Duncan S. Bell, «John Robert Seeley and the Political Theology of Empire»,
in Id. (Ed.), Remarking the World: Essays on Liberalism and Empire, Princeton U.
P., 2016.
47
Seeley, p. 275-76.
alla vicenda romana48. Ma l’impero britannico si era formato in «a fit
of absence of mind»49 e praticamente a costo zero, e non consisteva
di «a congeries of nations held together by force», ma « in the main
of one nation», quasi «an ordinary state.»50. In India non c’era stata
alcuna confisca di terre assegnate a coloni britannici51. Inoltre
l’Inghilterra, geograficamente lontana dall’India, non correva il ri-
schio di finire, come Roma, schiacciata dalle sue stesse conquiste52.
Naturalmente la Sci-fi vittoriana non si fece mancare un incontro di-
retto tra moderni britanni e antichi romani. Lo immaginò nel 1899,
collocandolo in un’isola ad Est di Ceylon, il poligrafo scozzese Hen-
ry Oliphant Smeaton (1856-1914), in un libro per ragazzi di «typical
simplistic Victorian jingoism and ethnic violence» infarcito di peda-
gogiche citazioni letterarie53. I romani discendono da un gruppo fug-
gito dopo le Idi di Marzo: credono che Roma domini ancora il mon-
do e si tengono nascosti per timore di punizioni. Vivono esattamente
come nell’antica Roma e sono amichevoli, a parte, ovviamente, il
malefico pontifex maximus! Alla fine si rassegnano a riconoscere la
superiorità britannica e Clodia, come Pocahontas, s’imbarca col civi-
lizzatore.
«Imperialismo» come concetto politico si diffuse solo nel decennio
1870, inizialmente come critica alla politica di Disraeli e del segreta-
rio alle colonie Lord Carnarvon54, anche se dopo la laboriosa assun-
zione da parte della regina Vittoria, nel 1876, del titolo di Empress of
India (Kaiser-i-Hind)55, divenne la bandiera56 degli strateghi del
Great Game e dello Scramble for Africa.

48
Seeley, p. 282.
49
Seeley, p. 10. Deborah Wormell, Sir John Seeley and the Uses of History,
Cambridge U. P., 1980.
50
Seeley, p. 60.
51
Seeley, p. 210.
52
Seeley, pp. 284-87.
53
Smeaton, A Mistery of the Pacific, Blackie and Son, London, 1899. Cfr. Ever-
ett F. Bleiler, Science-Fiction: The Early Years, The Kent State U. P., Kent, Ohio,
1990, p. 689 (N. 2052).
54
Richard Koebner and Helmuth Dan Schmidt, Imperialism. The Story and Sig-
nificance of a Political Word, 1840-1960, Cambridge U. P., 1965.
55
Bernard S. Cohn, «Representing Authority in Victorian India», in Eric
Hobsbawm and Terence Ranger (Eds.), The Invention of Tradition, Cambridge U.
Lo studio della «dinamica» imperiale nacque poi dalla riflessione
economica sulla guerra anglo-boera. La prima nota sull’imperialismo
commerciale britannico è infatti del 189957, e al 1902 risale la prima
teoria economica dell’imperialismo, elaborata da John Atkinson
Hobson (1858-1940) e ripresa da Lenin nel 1917, che lo vede origi-
nato dal sottoconsumo interno e dalla conseguente spinta del capitale
a trovare impieghi esterni; e perpetuato da una coalizione sociale che
subordina gli interessi economici collettivi a quelli degli investitori
esteri e dei ceti addetti alla sovrastruttura imperiale58.
Naturalmente questa coalizione produce la sovrastruttura ideologica
funzionale ai propri interessi, in cui ha gran peso la pedagogia classi-
cista59, traboccante di icone adatte allo scopo di «escape general re-
cognition for the narrow, sordid thing [imperialism] is». Non si tratta
di ipocrisia – un concetto moralistico applicabile agli individui, non
alle nazioni. Ci sono minoranze, «ill-trained in psychology and histo-
ry», convinte appassionatamente che religione e civiltà siano «porta-
ble commodities which is our duty to conwey to the backward na-
tions»60. La funzione che la storia, accanto a biologia e sociologia,
aveva nella retorica imperialista, non era di leggere il presente come
l’incarnazione dell’umanesimo classicista, ma quella più raffinata di
enfatizzare invece le discontinuità con la brutalità antica per preveni-
re sensi di colpa nelle classi intellettuali e semi-acculturate. I cammei
eroici incisi dal classicismo liceale andavano bene per gasare i futuri

P., 1992, pp. 165-210. Max-Jean Zins, «Rites et protocole du British Raj en Inde.
La mise en scène de traditions inventées et importées», Revue française de science
politique, 45e année, n°6, 1995, pp. 1001-1022.
56
Ottavio Barié, Idee e dottrine imperialistiche nell’Inghilterra vittoriana, La-
terza, Bari, 1953; Id., Dall'Impero britannico all'impero americano, a cura di Mas-
simo de Leonardis, Le Lettere, 2013.
57
Ritortus, «The Imperialism of British Trade», Contemporary Review, LXXVI
(July-August 1899), pp. 132-52, 282-304, dove sono citati analoghi allarmi del Fi-
nancial News. Ora in P. J. Cain, Mark Harrison (Eds.), Imperialism: Critical Con-
cepts in Historical Studies, Routledge, London – New York, 2001, Vol. 1, pp. 72-
113.
58
J. A. Hobson, Imperialism, A Study, James Nisbet & Co., London,1902.
59
Christopher Hagerman, Britain's Imperial Muse: The Classics, Imperialism,
and the Indian Empire, 1784-1914, Palgrave Macmillan, 2013.
60
Hobson, pp. 207-208.
quadri imperiali, ma per stimolare gli istinti bellicosi delle masse
erano meglio le quotidiane mistificazioni giornalistiche.
«For these business politicians biology and sociology weave thin
convenient theories of a race struggle for the subjugation of the infe-
rior peoples, in order that we, the Anglo-Saxon, may take their lands
and live upon their labours; while economics buttresses the argument
by representing our work in conquering and ruling them as our share
in the division of labour among nations, and history devises reasons
why the lessons of past empire do not apply to ours, while social eth-
ics paints the motive of “Imperialism” as the desire to bear the “bur-
den” of educating and elevating races of “children.” Thus are the
“cultured” or semi-cultured classes indoctrinated with the intellectual
and moral grandeur of Imperialism. For the masses there is a cruder
appeal to hero-worship and sensational glory, adventure and the
sporting spirit: current history falsified in coarse flaring colours, for
the direct stimulation of the combative instincts»61.
C’è dunque un’analogia circolare tra i due imperialismi: le «lessons»
del romano – sembra implicare Hobson – valgono per il britannico,
le cui «dinamiche» – osserva Momigliano – suggeriscono a loro vol-
ta di indagare l’equivalente nel romano. Ma Hobson sottolinea pure
la «novelty of the recent imperialism», che consiste principalmente
«in its adoption by several nations». Invece di un mondo unito e pa-
cificato da un solo impero egemonico, sovranazionale e inclusivo, un
mondo diviso in una pluralità di imperi reciprocamente ostili, ispirati
da ideologie nazionaliste e razziste62. Certo, una federazione europea
avrebbe potuto ricreare l’equivalente moderno della Pax Romana, ma
non sarebbe comunque sfuggita alla letale contraddizione intrinseca
dell’imperialismo, che è di produrre il «parassitismo» delle razze ci-
vilizzate, liberandole dal lavoro e dalla difesa, ma trasferendo queste
funzioni essenziali ai «barbari» che non avrebbero mancato di farle
valere.
Molto marginalmente Hobson citava pure le Romanes Lectures di
Lord James Bryce (1838-1922), dedicate ai rapporti tra le razze
“avanzate” e “arretrate”63. Non però i due saggi pubblicati nel 1901

61
Hobson, p. 234.
62
Hobson, p. 6.
63
Bryce, The Relations of the Advanced and the Backward Races of Mankind,
delivered in the Sheldonian Theatre, June 7, 1902, Romanes Lectures, The Claren-
in una raccolta di scritti in cui Bryce, già regius professor di civil law
a Oxford, tracciava un confronto tra l’impero e il diritto romano e
l’impero e il diritto britannico. La lettura dello stato del mondo pro-
posta da Bryce era peraltro rassicurante:
Secondo Bryce nella seconda metà dell’Ottocento si era realizzata «a
sort of unity of mankind» mediante «conquest or absorptioon» (per
«migration, commerce and finance»), da parte dell’Europa (e da ul-
timo pure degli Stati Uniti) della maggior parte delle «less advan-
ced» o «backward races», ad eccezione della Cina. Un processo «si-
milar» era avvenuto nel mondo antico a partire dalle conquiste di
Alessandro. Escludendo Dominions e Colonie della Corona, Bryce
limitava il paragone al governo britannico dell’India, stabilito nel
1757 dalla vittoria di Robert Clive (1725-1774) a Plassey, che me-
glio si prestava ad una comparazione col governo provinciale roma-
no a partire dalla distruzione di Cartagine e di Corinto (146 a. C.).
Bryce analizzava in dettaglio analogie e differenze geopolitiche, mi-
litari, fiscali, economiche e costituzionali, tra cui molto interessante
il confronto tra la quaestio perpetua de pecuniis repetundis (149 a.
C.) e il Pitt’s Act del 1784 (sul tribunale speciale per offese commes-
se in India) e sui processi a Verre e a Warren Hastings. Diversamen-
te dal sistema romano, ugualmente autoritario sia al centro che nelle
province, quelli inglese e americano erano a doppio registro, demo-
cratico al centro e autoritario nei rispettivi domini asiatici (India e Fi-
lippine). Analoga era l’omologazione culturale e giuridica delle élite
periferiche senza riguardo al proletariato centrale: ma, diversamente
dal sistema romano, nell’India britannica i posti superiori erano ri-
servati agli europei.
Nel 1903 fu costituita la Classical Association, i cui primi presidenti
annuali furono Seeley, Bryce, l’australiano William Arnold (1852-
1904) e Lord Cromer (1841-1917), console generale in Egitto e auto-
re di una comparazione tra l’imperialismo antico e moderno in cui
leggeva il paradigma ateniese come prova dei «fatal effects produced
by democracy run mad» e dalla non interferenza della madrepatria
nel governo delle proprie colonie64. D’altra parte il centralismo adot-
tato calla Spagna per le colonie sudamericane era «both politically
and economically, thorougly unsound», mentre dal 1773 l’Inghilterra

don Press, Oxford, 1903.[Dedicate al biologo evoluzionista e psicologo George


Romanes (1848-1894)].
64
Lord Evelyn Baring, Earl of Cromer, Ancient and Modern Imperialism,
Longmans Green and Co., New York, 1910, p. 8.
aveva «regarded trade with India, and not tribute from India», come
il «financial asset» più equilibrato65. Nel 1910, presso l’Istituto di
studi classici dell’Università di Londra, fu istituita la Roman Society
(The Society for Promotion of Roman Studies, gemella della Helle-
nic, creata trent’anni prima), che dal 1911 pubblica il prestigioso
Journal of Roman Studies. Nel 1912 comparve un altro parallelo an-
glo-romano di sir Charles Prestwood Lucas (1853-1931), capo del
Dominion Department al Colonial Office66. Non mancarono però
scetticismi tra gli specialisti di storia e archeologia romana, come
l’australiano Francis J. Haverfield (1860-1919), convinto che lo sco-
po della storia non fosse di elaborare «political prophecies or draw
political analogies», ma di individuare «forces and tendencies» con
cui ci si confronta in «everyday politics» e capaci, se ignorate, «to
take very concrete vengeance»67.
Considerato un radicale per le sue critiche agli eccessi contro i civili
afrikaans durante la guerra anglo-boera, dal 1907 al 1913 Bryce fu
ambasciatore a Washington, e nel 1914 ripubblicò i due saggi citati68.
Appena due anni dopo, nell’ottobre 1916, l’Impero finì di fatto ipo-
tecato a garanzia del prestito di guerra americano69, che si può consi-
derare l’inizio della successione tra le due maggiori talassocrazie del-
la storia70.

65
Cromer, p. 45.
66
Lucas, Greater Rome and Greater Britain, Clarendon Press, Oxford, 1912.
67
Haverfield, «Ancient Imperialism: Introduction: Roman Empire», Classical
Review, 24, 1910, pp. 105-107, cit. in Freeman, op. cit., pp. 27-30.
68
Bryce, «The Ancient Roman Empire and the British Empire in India»; «The
Diffusion of Roman and English Law throughout the World», in Studies in History
and Jurisprudence, Oxford, at the Clarendon Press, 1901, vol. I, pp. 1-144 (prefa-
zione in data del 27 giugno 1901). Poi a parte come Two historical Studies, Hum-
phrey Milford, Oxford U. P., 1914 (la prefazione è in data dell’11 agosto 1913).
69
Keynes, “The Financial Dependence of the United Kingdom on the United
States of America”, 10 October 1916 (Collected Writings of JMK, vol. XVI, pp.
197-8).
70
Patrick Carl O’Brien and Armand Clesse (Eds), Two Hegemonies. Britain
1846-1914 and the United States 1941-2001, Ashgate, 2001 (recensione di Niall
Ferguson su Foreign Affairs, Sept./Oct. 2003). O’Brien, «Hegemony as an Anglo-
American Succession, 1815-2004», Sens. International Web Journal, February,
2005.
Accresciuto dalla cessione delle colonie tedesche, l’Impero raggiunse
la sua massima espansione, e l’uscita di scena della Russia e il protet-
torato su Giordania e Mesopotamia rafforzarono la sicurezza esterna
dell’India. Ma Arnold J. Toynbee, consulente storico del governo
britannico per la sistemazione dell’ex-impero d’Oriente, vedeva il fu-
turo negli stessi termini di Keynes, e fu lui a rivitalizzare l’idea di
un’alleanza anglo-americana come unico modo di mantenere
l’Impero. A questo scopo già nel maggio 1919 le delegazioni britan-
nica e americana alla conferenza di pace di Versailles idearono un
centro propulsivo congiunto, l’Institute of International Affairs, ma
già nel giugno 1920 le due componenti si separarono e solo quella
inglese continuò a sostenere l’alleanza anglo-americana71.
L’annunciata translatio iniziò nel 1942, quando l’America varcò
l’«ultima linea globale»72 sbarcando in Marocco. Nel 1947 l’India
divenne indipendente e gli ex Dominions – come aveva previsto See-
ley – si allearono direttamente con gli Stati Uniti. Nel 1956 gli Stati
Uniti (con l’Italia di Enrico Mattei) silurarono il canto del cigno an-
glo-francese a Suez e sostennero l’indipendenza algerina. Nel West
Point Speech del 5 dicembre 1962, in cui Dean Acheson teorizzava
la «special relationship» anglo-americana, l’architetto del Patto At-
lantico constatò che «Great Britain has lost an empire and not yet
found a role»73. Nel 1967 il governo laburista decise il ritiro a Ovest
di Suez. Nel 1969 (con uno zampino dell’Italia di Eugenio Cefis), se
ne andarono pure Tobruk e Malta, e in ottobre la band The Kinks in-
titolò il suo settimo albo Arthur (Or the Decline and Fall of the Bri-
tish Empire). Ma, pur facendo baronetti i Beatles e Mary Quant, non

71
Laura Di Fiore, Il “contatto di civiltà” e la “Questione d’Occidente”. A. J.
Toynbee, il mondo islamico e il rilancio del progetto imperiale britannico
all’indomani della grande guerra, tesi di dottorato, Università Federico II, Napoli,
2009.
72
Carl Schmitt "Die Letzte Globale Linien", Marine Rundschau, August 1943,
pp. 521-527. Cfr. da ultimo Reinhard C. Wilde, "Die Letzte Globale Linien": Carl
Schmitt und der Kampf um das Völkerrecht, Wilde Research, 2014.
73
Douglas Brinkley, «Dean Acheson and the ‘Special Relationship’», The His-
torical Journal, 33, 3 (1990), pp. 599-608.
vi fu alcuna resipiscenza74: proprio allora il cinema cominciò ad esal-
tare l’agente con licenza di uccidere75, Lawrence of Arabia, Gordon
Pasha, Balaclava, Isandlwana, Rorke’s Drift, The Man Who Would
Be King, perfino Breaker Morant, assassino di pastori protestanti pa-
cifisti. Un saggio allunga la durata dell’Impero di altri trent’anni (al
1997)76 e la storia arriva già al 201177, anno della chaos-war anglo-
franco-americana contro Libia e Siria su mandato delle petro-
monarchie arabe. Folle in delirio intonano Pomp and Circumstances;
e nel 2015, se Tony Blair abiura l’Iraq, Cameron riesuma la Chur-
chill’s Crusade (1918-20)78, il coccige della Royal Navy torna ca-
parbiamente a Est di Suez79 e Britannia, non potendo più dare cattivi
esempi, detta pessimi precetti80. Questo re-enactement di titoli e riti
imperiali caratterizza del resto pure le analoghe mistificazioni di
Roma post 410 e di Bisanzio post 1204.

Roman Empire, resurrected and transplanted


In un libro affascinante, per quanto contestato, Lucio Russo adombra
l’ipotesi che, dopo la distruzione di Cartagine, Polibio abbia voluta-
mente depistato Scipione Emiliano circa le rotte atlantiche puniche
per preservare il mondo oltre le Isole Fortunate dalla barbarie roma-

74
Domenico Losurdo, Il revisionismo storico. Problemi e miti, Roma-Bari, La-
terza, 1996, 2015, pp. 241 ss. (“Nostalgia dell’Impero. Il revisionismo storico in
Gran Bretagna”).
75
Jeremy Black, The Politics of James Bond: From Fleming Novels to the Big
Screen, University of Nebraska Press, Lincoln and London, 2000.
76
Piers Brendon, The Decline and Fall of the British Empire, 1781-1997, Knopf
Doubleday Publishing Group, 2008.
77
Bernard Porter, The Lion's Share: A History of British Imperialism 1850-
2011, Routledge, New York, 2014.
78
Clifford Kinvig, Churchill’s Crusade: The British Invasion of Russia,
Bloomsbury Publishing, 2007. V. Ilari, «Our Northern Neighbour», Limes, dicem-
bre 2015.
79
Tarak Barkawi and Shane Brighton, «Brown Britain: post-colonial politics
and grand strategy», International Affairs, vol. 89, No. 5 (2013), pp. 1109-1123.
80
Mike Crawshaw, «Running a country. The British colonial experience and its
relevance to present-day concerns», An Information Paper prepared for the ‘Shriv-
enham Papers’ series of monographs published by the Defence Academy of the
United Kingdom, s. d. (2014).
na81. Per alcuni ci sarebbero un’infinità di prove (oltre all’ananas raf-
figurata nel mosaico di Grotte Celoni e nella statuetta di Ginevra) che
greci e romani almeno ai Caraibi c’erano arrivati lo stesso82; ma per
lo meno un aiutino alla scoperta dell’America i romani lo dettero di
sicuro, dal momento che la “profezia di Seneca” sulla detectio di no-
vos orbes (Medea, v. 375-9) fu sfruttata da Cristoforo Colombo83.
A volte le analogie storiche suggeriscono previsioni azzeccate. Come
quella sul destino americano che nel 1750 il giovane Turgot traeva
dal paradigma romano:
«Les colonies sont comme des fruits qui ne tiennent à l’arbre que
jusqu’à leur maturité : devenues suffisantes à elles-mêmes, elles fi-
rent ce que fit depuis Carthage, ce que fera un jour l‘Amérique.»84
Il ruolo del classicismo nell’illuminismo americano e la sua influenza
sulla stessa costituzione americana sono stati di recente approfonditi
da vari studiosi85. La Roma dei Founding Fathers era ovviamente
quella di Machiavelli della Prima Deca di Tito Livio, che esaltava la

81
L’America dimenticata. I rapporto tra le civiltà e un errore di Tolomeo, Mila-
no, Mondadori, 2013, p. 106. Vladimiro Valerio, «Spunti e osservazioni dal libro
di Lucio Russo», Geostorie, 21 (2013), N. 1-2, pp. 77-97.
82
Elio Cadeto, Quando i Romani andavano in America, Roma, Palombi, 2009.
83
Brief Mention, «Columbus’ Senecan Prophecy», The American Journal of
Philology, Vol. 113, No. 4 (Winter 1992), pp. 617-20. James Romm, « New World
and ‘novos orbes’ : Seneca in the Renaissance Debate over Ancient Knowledge of
America«, in Wolfgang Haase und Meyer Reinhold (Hrsg), The Classical Tradi-
tion and the Americas: European images of the Americas and the classical tradi-
tion (2 pts.), Walter de Gruyter, 1994, pp. 77-115. Monique Mund-Dopchie, «Au-
tour de la fortune de l’Ultima Thulé dans la tradition occidentale : les messages co-
dés de certaines traductions », Jean-Claude Polet, Patrimoine littéraire européen
Actes du colloque international: Namur, 26, 27 et 28 novembre 1998, De Boeck
Supérieur, 2000, pp. 213-226.
84
Anne-Robert-Jacques Turgot (1728-1781), discorso di chiusura delle Sorbo-
niques, 11 dicembre 1750 (Oeuvres, éd. Daire-Dussard, 1844, II, p. 602). Cfr. See-
ley, op. cit., p. 17. La frase, citatissima, va però interpretata nel contesto del dibatti-
to francese sulle colonie (Bernard Gainot, L'Empire colonial français - De Riche-
lieu à Napoléon, Armand Colin, Paris, 2015).
85
Carl Richard, The Founders and the Classics: Greece, Rome, and the Ameri-
can Enlightenment (Harvard University Press, 1994), Greeks and Romans Bearing
Gifts: How the Ancients Inspired the Founding Fathers (Rowman & Littlefield,
2008), The Golden Age of the Classics in America: Greece, Rome, and the Antebel-
lum United States (Harvard University Press, 2009).
virtù repubblicana contro la Roma tirannica dei Tacitisti. Il paradig-
ma riguardava la costituzione, ma non escludeva l’espansione geopo-
litica. Nel 1803, mentre il Louisiana Purchase raddoppiava il territo-
rio dell’«American Republic», a Londra si ragionava non benevol-
mente sulla sua durata in rapporto a quella degli antichi imperi86. Nel
1819 a Philadelphia si sottolineava che la Repubblica era già grande
il doppio del «Roman Empire»87. In Tocqueville (1840) i confronti
con Roma (e la Vecchia Europa) sono soprattutto sociali88, ma si tro-
va pure un pronostico geopolitico:
«Quand je vois de quel esprit les Anglo-Américains mènent le com-
merce, les facilités qu’ils trouvent à le faire, le succès qu’ils y ob-
tiennent; je ne puis m’empêcher de croire qu’ils deviendront un jour
la première puissance maritime du globe. Ils sont poussés à
s’emparer des mers, comme les Romains à conquérir le monde (III,
p. 405)»
La reminiscenza virgiliana (En., VI, 853-55) è implicita in «manifest
destiny», slogan coniato nel 1845 dal giornalista John Louis Sullivan
(1813-1895) per promuovere l’annessione del Texas e dell’Oregon89.
Contrastata dai Whigs e dagli abolizionisti e sostenuta dai Demo-
crats, la guerra contro il Messico fu dichiarata il 13 maggio 1846, lo
stesso giorno in cui i vescovi cattolici scelsero Maria Immacolata
come patrona degli Stati Uniti, decisione approvata da Pio IX il 7
febbraio e pubblicata con decreto del 2 luglio 1847. Il paradigma ro-

86
“Q.”, «Thought on the duration of the American republic», The Monthly Mag-
azine, Or, British Register, XVI, II, October 1, 1803, pp. 228-32. Bradford Perkins,
The First Rapprochement: England and the United States, 1795–1805, 1955.
87
The Portfolio, Philadelphia, Vol. 8, No. 209, August 1819, p. 173.
88
Estrema mobilità della popolazione (immigrazione dall’Europa, corsa al
West), maggior grado di istruzione e di partecipazione politica che eleva la resi-
stenza al despotismo, diversa risposta degli antichi barbari e degli odierni indiani
alla civilizzazione, assenza della figura sociale del domestico, ammirazione del pa-
drone da parte degli schiavi neri, carattere miliziano dell’esercito. Rischio che in
una società giù democratica si inverta la direzione del mutamento storico: non
dall’aristocrazia alla democrazia, ma l’inverso (Alexis de Tocqueville, De la Dé-
mocratie en Amérique, Méline, Cans et Cie, Bruxelles,1840, III, pp. 38, 101, 123,
188, 224, 245, 258 ss., 392).
89
Edward McNail Burns, The American Idea of Mission: Concepts of National
Purpose and Destiny, Rutgers U. P., 1957. David Stephen and Jeanne T. Heidler,
Manifest Destiny, Greenwood, 2003.
mano ricorre però anche esplicitamente nella genesi della «racialist
philosophy» anglo-sassone ricostruita da Reginald Horsman90. Una
variazione americana sul tema luterano della «regeneration»
dell’Impero romano, ossia translatio della missione civilizzatrice
dalla corrotta razza latina alla superiore razza germanica originatrice
degli anglo-sassoni, razza dai caratteri assai laschi, tanto da includere
qualsiasi americano “bianco” dominatore delle razze inferiori (india-
ni, messicani e neri). Nel 1849, ad esempio, il futuro senatore James
Dixon (1814-1873) spiegava ai metodisti inglesi che l’impero roma-
no «never possessed the unity, the homogeneity, the strength of the
American Republic». L’Impero ottomano restava fragile perché non
era riuscito a eliminare del tutto i greci; l’Inghilterra aveva sottomes-
so l’India, «but the notion of deporting the inhabitants has never
formed part of her policy». Solo l’America l’aveva fatto: «Her work
is perfect… One people – one power – one system – one govern-
ment». Il più vasto territorio posseduto da un «civilized power» era
stato completamente ripulito dal nefasto «Red Man» (a parte poche
innocue tribù relegate nel Far-West, in attesa, a Dio piacendo, di
estinguersi per cause naturali o, se mai possibile, per cristianizzazio-
ne). America ed Inghilterra erano destinate ad unirsi «to form the
greatest empire of race on which the sun ever shone… the annals of
the Anglo-Saxon race must ever include the American branch»91.
Per il filosofo cattolico Orestes Augustus Brownson (1803-1876)92 la
purezza etnica era invece barbarie, e la civiltà consisteva nella fusio-
ne delle nazioni. L’Impero romano – scriveva Browson nel 1860 –
aveva fuso «a hundred more lost nationalities»; ingiustizia, forse: ma
provvidenziale. «The Graeco-Roman civilization, called not improp-
erly Christian Civilization, is the only progressive civilization». Con
la caduta di Roma e Bisanzio, si era imposto un principio costituzio-

90
Reginald Horsman, Race and Manifest Destiny: The Origins of American Ra-
cial Anglo-Saxonism, Harvard U. P., 1981 (2009), v. pp. 5, 11, 28, 34, 39, 64, 66,
76, 234.
91
James Dixon, Methodism in America, James Mason, London, 1849, pp. 390 e
iv.
92
Orestes Augustus Brownson (1803-1876), The American Republic: Its Consti-
tution, Tendencies, and Destiny, P. O’Shea, New York, 1860, p. 54, 59, 152-157,
204.
nale barbarico (germanico in Occidente, tartaro e turco in Oriente),
ma il principio civile, romano, stava di nuovo trionfando. Le rivolu-
zioni nazionaliste e perciò barbariche avvenute in Europa dal 1789 al
1849 avevano paradossalmente fatto da levatrici al cesarismo[-
bonapartismo-fascismo], restauratore dell’ordine imperiale: «All
modern European Revolutions result only in reviving the Roman
Empire» [v. Democrazia di Luciano Canfora]. Napoleone III era «for
France what Augustus was for Rome». Browson vedeva nella Fran-
cia il vero egemone in Europa: «The reason is, France is more com-
pletely and sincerely Roman than any other nation». Se lo scopo
provvidenziale e il destino della Francia era di unificare tutte le na-
zioni europee «in the progress of society», quello degli Stati Uniti era
di unificare le nazioni americane, Canada, possedimenti britannici ed
ex colonie spagnole e portoghesi93. Questa missione imperiale non
metteva in questione la tolleranza religiosa, né la democrazia, perché,
secondo Browson, l’essenza dell’impero era il «republicanism», inte-
so non come forma di governo opposta alla monarchia, ma come
«public wealth» o «commonwealth» e «polished people», o «substi-
tution of the state for the personal chief, and public authority for per-
sonal or privare right»94.
La «resurrection» di Roma «in the shape of American Empire», non
mancò di entrare nelle cabale bibliche a base religiosa o complottista.
James Brighouse – mormone scismatico e diciottesima reincarnazio-
ne di Cristo (nonché di Adamo, George Washington ecc.) – identifi-
cava questa continuità nelle ultime due teste della Bestia (Apocalissi,
13, 1-10): «The sixth head, was the Roman Empire. The seventh is
the American Republic. Hence six are fallen and the one now in
power is the Roman Empire, resurrected and transplanted to the
Western Continent»95.

93
Bronwson, p. 393.
94
Browson, p. 20.
95
James Brighouse and Henry I. Doremus, The Voice of the Seventh Angel! The
Unfolding of the Mystery of God! the End of Time! Described in a Series of Several
Hundred Questions and Answers on Those Things which No Man Hath Been Able
to Handle from the Beginning of Time, 1892, pp. 54, 59. Altri lo identificavano
nella City: L. B. Woolfolk, Great Red Dragon. London Money Power, George E.
Stevens, Cincinnati, 1890.
Nel suo studio del 1889 sulla Corsa all’Ovest, Theodore Roosevelt
sosteneva l’originalità costituzionale dell’espansionismo americano
rispetto ai due modelli del mondo antico, il romano e il greco-
cartaginese. Quest’ultimo creava colonie libere come la madrepatria,
ma indipendenti e perciò «there was no extension of empire, no
growth of a great and enduring nationality». Col sistema provinciale
romano «the empire grew, at the cost of the colonies losing their in-
dependence». La Repubblica Americana, avvantaggiata dal bilan-
ciamento tra federalismo e centralismo, seguiva un nuovo sentiero,
che assicurava ai nuovi stati federali la libertà “greca” senza mettere
in questione l’unità “romana” della Repubblica96.
Nove anni dopo la storia antica entrò pure, come monito, tra gli ar-
gomenti della Lega antimperialista che si opponeva al protettorato su
Cuba e le Filippine. Roma provava che impero e republica sono in-
compatibili («The colonial system destroyed all hope of republican-
ism in the olden time. It is an appanage of monarchy»). Perfino
Cleone, «though a demagogue and a radical», si opponeva alla spedi-
zione di Siracusa, prevedendo che avrebbe travolto la democrazia97.
Ma il 1898 fu l’anno del Great Rapprochement98 anglo-americano e
della condivisione del White Man’s Burden. Insieme a canzoni99,
manifesti100 e caricature101 tornò – in toni più ragionati di «reunion»,
«common citizenship» e «defensive alliance» – il tema della razza

96
Th. Roosevelt, The winning of the West, G. P. Putnam’s sons, 1889, III, p.
261.
97
William Jennings Bryan (1869-1925), Republic or Empire, 1899, pp. 146;
151-152, 688.
98
Bradford Perkins, The Great Rapprochement. England and the United States,
1895-1915, Atheneum, 1968. Iestyn Adams, Brothers Across The Ocean: British
Foreign Policy and the Origins of the Anglo-American 'special relationship', I. B.
Tauris, 2005.
99
«John Bull and Uncle Sam, words by Wm. Allan, Member of British Parlia-
ment, Music by J. B. Herbert».
100
Uncle Sam e Britannia a braccetto, tenendo al guinzaglio l’Aquila di mare e il
Leone, e la scritta «Side by Side. America and Britain Reconquering the World!».
101
John Bull e Uncle Sam in uniforme, impantanati rispettivamente nella Boer e
nella Philippine War, a 16 milioni di sterline e 80 milioni di dollari l’anno, si guar-
dano sogghignando («Misery loves company; but they hope soon to be out of it»,
Puck, Vol. XLIX, No. 1254, March 20, 1901).
anglosassone e della sua missione civilizzatrice102, sfruttato pure nel-
la letteratura di anticipazione103.
A partire dalla guerra di Cuba, l’interesse della saggistica americana
per Roma riguarda da un lato le singolari analogie tra i due sistemi
socio-politici e dall’altro la questione della compatibilità fra impero e
repubblica104.
Cominciamo dalle analogie. Herbert George Wells (1866-1946)
vedeva «something almost Roman» nelle «clear strong faces of many
young Americans», nel «caveat emptor», nell’«exploiting and devas-
tating plutocracy». I grattacieli di Broadway gli ricordavano la Basi-
lica di Costantino, dal «plutocratic imperialism» pronosticava una
«decadence of Roman type», passando attraverso «contending Cae-
sarisms»105. Colpiva William Stearns Davis (1877-1930)106 che la
popolazione degli Stati Uniti stesse superando quella dell’Impero
Romano e che analoghi fossero concentrazione della ricchezza («mil-
lionaries») e frodi elettorali (ambitus); ma, diversamente da Roma, in
America gli elettori non rispondevano delle malversazioni degli elet-
ti. Inoltre i professori universitari erano pagati peggio, la moda fem-
minile assai più costosa, il divorzio più frequente. Infine gli attori
non erano disprezzati, e, a confronto con Giovenale e Marziale, dalle
riviste satiriche newyorkesi (Puck e Life) emergeva una società «in-
fintely less artificial and more honest». Nelle riflessioni sulle sue vi-
siting professorships nel Nuovo Mondo107, Guglielmo Ferrero (1871-

102
Stead, The Americanization, cit., pp. 418 ss.
103
Benjamin Rush Davenport, Anglo-Saxons Onward!, Hubbell Publishing,
Cleveland, 1898, dove si immagina un intervento yankee in Palestina per fermare i
pogrom di ebrei fomentati dai russi e poi al fianco dei britannici per difendere Co-
stantinopoli dalla proditoria offensiva russa [Bleiler, cit., pp. 183-4, N. 548].
104
V. ad es. James Albert Woodburn (1856-1943), The American Republic and
Its Government: An Analysis of the Government of the United States, with a Con-
sideration of Its Fundamental Principles and of Its Relations to the States and Ter-
ritories, G. P. Putnam's sons, 1908, p. 16.
105
H. G. Wells, The Future in America. A Search After Realities, Harper and
Brothers, New York – London, 1906, pp. 14, 32, 124, 152, 206.
106
W. S. Davis, Influence of Wealth in Imperial Rome, Biblo & Tannen Publish-
ers, 1910, pp. 13-14, 46, 60, 154 nt 1, 165, 183, 184, 258, 261, 306.
107
Guglielmo Ferrero, Ancient Rome and modern America. A comparative study
of morals and manners, New York, G. P. Putnam's Sons, 1914.
1942) considerava l’America lontanissima dal modello romano, ma
con analogie: l’evergetismo (le donazioni ai concittadini come dove-
re sociale dei ricchi), lo spoil system (politicizzazione delle funzioni
giudiziarie e militari senza burocrazie professionali), la tirannia giu-
diziaria (edictum e injunctions), il cesarismo, l’urbanizzazione.
Il confronto americo-romano entrò pure nella sotto-letteratura pulp,
secondo i canoni della “colonia perduta” e della “resurrezione dai
morti”. Incontri sulle Ande, al Polo Sud e in Brasile coi discendenti
di antichi esuli romani furono immaginati nel 1877, 1899 e 1901108, e
il risveglio di un pompeiano ibernato prima dell’eruzione del Vesu-
vio, è il tema di una fiction del 1904 di Lee Meriwether (1862-1864),
un ultra-conservatore membro della Mark Twain Society che fu poi
assistente dell’ambasciatore americano a Parigi durante la grande
guerra, avversario dell’adesione americana alla Società delle Nazio-
ni, ammiratore di Mussolini e difensore dell’aggressione italiana
all’Etiopia109.

Nulli genti bello per iniuriam inlato110


Comparso nel 1914, contemporaneamente al saggio di Ferrero e alla
riedizione dei due saggi di Bryce sul confronto tra Impero romano e
British Raj, lo studio di Tenney Frank (1876-1939) sulla genesi in età
repubblicana dell’impero geopolitico romano111 è il primo contributo

108
Elton R. Smilie, The Manatitlas, Riverside Press, Cambridge, Mass., 1877;
Charles Romin Dake, A Strange Discovery, H. Ingalls Kimball, New York, 1899;
Sage B. Miles, «The Diamond Cargo», Argosy, Dec. 1901 – Aug. 1902 [Bleiler,
cit., pp. 689, 183 e 500, NN. 2053, 545 e 1490].
109
Meriwether, «A Roman Resurrection», Argosy, Dec. 1904 [Bleiler, cit., pp.
492-3, N. 1478].
110
Augustus, Res Gestae, 1, 26. Florens Deuchler, Beute und Triumph: Zum kul-
turgeschichtlichen Umfeld antiker und mittelalterlicher Kriegstrophäen, Walter de
Gruyter GmbH & Co KG, 2015. Anche se non discute specificamente questo pas-
so, v. comunque Canfora, Augusto figlio di Dio, Laterza, Roma-Bari, 2015.
111
Tenney Frank, Roman Imperialism, New York, Macmillan, 1914. E. Chris-
tian Kopff, «History and Science in Tenney Frank's Scholarship», The Occidental
Quarterly, Vol. V (2005), No. 4, pp. 69–81. W. V. Harris, War and Imperialism in
Republican Rome, 327-70 BC, Clarendon, Oxford, 1979. Jane Webster & Nick
Cooper (Eds.), Roman Imperialism: Post-colonial Perspectives, the School of Ar-
chaeological Studies, University of Leicester, 1996.
della storiografia americana alla tesi della non contraddizione tra im-
perialismo e democrazia. Come dichiara nella prefazione, lo scopo di
Frank è confutare il pregiudizio di imprecisati «continental writers
(…) that the desire to possess must somehow have been the main-
spring of action whether in the Spanish-American war or the Punic
wars of Rome». Questo – a parte un paio di accenni cursori112 – è
l’unico riferimento esplicito di Frank al caso americano, ma palesan-
do l’intento, palesa pure l’antifona della ricerca. Frank mette in risal-
to l’assenza di un disegno strategico o mercantilista nella vicenda
geopolitica ante-cesariana, effetto di contingenze e fattori molteplici
e co-determinanti, le relazioni pacifiche con «more than a hundred»
socii et amici e l’«aversion» senatoria per l’espansione territoriale, le
cui fasi emergono solo retrospettivamente.
«Confederation» (Lega Latina), «Foreign policy of Young Democra-
cy» (guerre sannitiche) e «Federation» (societas romano-italica), sfo-
ciano attraverso la Prima e Seconda Punica in una «imperial demo-
cracy». Questa inaugura una «sentimental policy» (filellenismo e li-
berazione della Grecia [Frank pensava alla guerra di Cuba?]) corretta
poi da una «practical policy» (sovranità su Grecia e Asia Minore [oc-
cupazione delle Filippine?]) che culmina in «protectorate or tyranny»
(gli eventi del 146 a. C., Corinto, Cartagine, Egitto). L’espansione
acutizza la lotta di classe: la «socialistic democracy» (colonizzazione
graccana e mariana, ager publicus, eserciti personali di sottoproleta-
ri) provoca bellum sociale e bellum civile, mentre il «laissez faire»
del senato consegna l’espansione ai «capitalists» (equites, publicani,
negotiatores). Pompeo è al loro servizio, Cesare è «the first candid
imperialist of Rome, and (…) the Gallic war is the clearest instance
of deliberate expansion in the history of the Roman republic», mentre
l’imperium proconsulare di Augusto è volto esclusivamente alla pa-
catio e alla stabilizzazione113.

112
L’analogia tra l’homestead system e la lottizzazione dell’ager Falernus nel
318 a. C. e tra Insubri e Pellerossa, considerati barbari gli uni dal «greco» Polibio
(II, 35) e gli altri dai coloni americani (Frank, pp. 37 e 118).
113
Michael Sommer, «Pax Augusta. Roms Imperialer Imperativ und das Axiom
der Weltherrschaft», in Marietta Horster u. Florian Schuller (Hg.), Augustus,
Herrscher and der Zeitenwende, Verlag Friedrich Pustet, Regensburg, 2014, pp.
144-155.
Frank cita Mommsen unicamente a proposito di Cesare, senza ricor-
dare che nella storiografia contemporanea l’interpretazione difensiva
e «accidental» dell’imperialismo romano risale alla Römische Ge-
schichte (1854). Come ben riassume Gruen114, Maurice Holleaux
(1922) «gave the thesis the most compelling formulation», seguita
poi da Paul Veyne (1975), mentre Guglielmo Ferrero (1907) e Gae-
tano De Sanctis (1923)115 sostennero la tesi opposta, del militarismo
e della sete di dominio prevalsi dopo Pidna. Gli uni e gli altri basano
l’argomentazione sulla rassegna “fattista” delle singole guerre roma-
ne, con l’effetto di replicare all’infinito le posizioni di Accusator e
Defensor nel De armis romanis (1599) di Alberico Gentili116. Più fe-
conda è invece la via, aperta nel 1905 da Gaston Colin e seguita so-

114
Gruen, op. cit., pp. 6-7.
115
V. Claudio Vacanti, «Gaetano De Sanctis e la I guerra punica: analogia e me-
todologia», in Salvatore Cerasuolo et al. (cur.), La tradizione classica e l’unità
d’Italia, Satura Ed., Napoli, 2014, I, pp. 325-341.
116
Alberico Gentili, De Armis Romanis libri duo, Hanoviae, apud Guilielmum
Antonium, 1599; Benedict Kingsbury, Benjamin Straumann e David Lupher, The
Wars of the Romans: A Critical Edition and Translation of de Armis Romanis,
New York, Oxford U. P. 2011; Diego Panizza, Alberico Gentili's de Armis Roma-
nis: the Roman Model of the Just Empire, in The Roman Foundations, cit., pp. 53-
84. David Lupher, The De Armis Romanis and the Exemplum of Roman Imperial-
ism", in The Roman Foundations, cit., pp. 85-100. Il I libro è costituito dalla disser-
tazione De iniustitia bellica Romanorum actio, già pubblicata nel 1590 (Oxonii,
Josephus Barnesius Typographus, pp. 17).Panizza nota che le tesi del de jure belli
collimano quasi perfettamente con gli argomenti di Defensor, un romano seguace
del mos gallicus che esalta Bruto e il tirannicidio. Eppure Gentili presta la propria
carta d'identità ad Accusator, un "gallo-piceno" di San Ginesio che condanna Bruto
perché solo un tiranno può tenere a freno i romani e cita a man salva le tirate degli
spagnoli Floro e Orosio, del macedone Polieno e dell'alessandrino Appiano perché
è un provinciale come loro. Il chiasma è intrigante ma è un rompicapo. In ogni ca-
so gli argomenti innovativi sono quelli di Defensor, da cui si ricava che l'impero
non è un male "a prescindere", che ci sono imperi buoni e cattivi, durevoli e preca-
ri. Roma, come oggi l'Inghilterra, era un Commonwealth inclusivo e multietnico,
nato dall'unificazione di popoli fieri e gelosi della loro libertà e regolato da virtus e
ius: Spagna e Asia sono deboli perché accentrati, troppo estesi e formati da popoli
indolenti. La qualità dell'impero si vede dal risultato: per l'Italia, la Britannia, la
Libia fu un vantaggio essere unificati e pacificati. Tutti ora rimpiangono (suspi-
rant) la pietas, liberalitas, fides, magnanimitas, pax, securitas, aequanimitas
dell'impero romano. E' l'argomento "perché non possiamo non dirci romani" (Roma
communis patria), usato pure da Niall Ferguson a proposito degli imperi britannico
e americano: comunque meglio (o meno peggio) di tutti gli altri. (v. Ilari, «Defen-
sio sociorum, arcanum imperii», Risk, 2012, N. 22 (66), pp. 68-73: poi in Debella-
re superbos. Taccuino 2003-2014, samizdat online).
prattutto in Italia (Filippo Cassola 1962, Luciano Perelli 1975, Do-
menico Musti 1978)117, di studiare le dinamiche socioeconomiche
dell’imperialismo romano, emerse dagli studi di Hobson e poi di Le-
nin e Bucharin sul contemporaneo imperialismo capitalista.
Successione imperiale anglosassone, comparazione tra sistemi so-
cio-politici e giustificazione democratica dell’imperialismo non era-
no ancora una rilettura della storia americana in parallelo con quella
romana. Ciò divenne possibile solo dopo il 1917, quando l’America
varcò l’Atlantico. Se nel 1932 Carl Schmitt giudicava gli Stati Uniti
«arbitri del mondo»118, per Leo Strauss re-incarnavano la missione
storica di Roma, parcere subiectis et debellare superbos, da lui evo-
cata come unico efficace usbergo contro la persecuzione nazista nella
famigerata lettera anti-liberale del 19 maggio 1933 a Karl Löwith119.
[Freud ebbe però un’ammirazione ginnasiale per Annibale, eroe non
solo antiromano, ma soprattutto semita, «simbolo del contrasto tra la
tenacia dell'ebraismo e la forza organizzativa della Chiesa cattoli-
ca»120].
Mentre l’impero tornava «sui colli fatali di Roma»121, c’era dunque
in Germania chi lo vedeva piuttosto riemergere dal Tiber Creek di
Washington122. E in America?
117
Gruen, op. cit., pp. 6-7.
118
Carl Schmitt, Völkerrechtliche Formen des modernen Imperialismus (1933),
trad. it. di Francesco Pierandrei, Il concetto d’Impero nel diritto internazionale,
Istituto Nazionale Fascista di Cultura, Roma 1941 (Roma, Settimo Sigillo, 1996).
119
Leo Strauss (1899-1973), Gesammelte Schriften, vol. 3, ed. Heinrich Meier,
mit Wiebke Meier (Stuttgart und Weimar, B. Metzlar, 2001), pp. 624–25. Scott
Horton, “The Letter”, Balkinization, 16 luglio 2006. Robert Miner, “Nietzsche,
Schmitt and Heidegger in the Anti-liberalism of Leo Strauss”, Telos, 2012. Robert
Howse, Leo Strauss: Man of Peace, Cambridge U. P., 2014.
120
Sebastiano Timpanaro (1923-2000), La fobia romana e altri scritti su Freud
e Meringer, ETS, Pisa, 1992, pp. 68 ss.
121
Aristotle Kallis, The Third Rome 1922-1943. The Making of the Fascist
Capital, Palgrave Macmillan, 2014.
122
Luciano Canfora e Marta Sordi, «New York, l’antica Roma e il destino degli
imperi», Vita e Pensiero, 4, 2005, 72-78. V. in parallelo l’analogia che Canfora
stabilisce tra le (auto)biografie di Polibio, Flavio Giuseppe e Appiano: «tre inter-
preti ellenofoni dell’imperialismo romano, tutti e tre convinti della necessità di
chiarire attraverso un racconto (auto)biografico il senso del confluire della propria
storia non solo personale in quella, ben più grande, di Roma. Ciascuno con una
prospettiva diversa» (Augusto figlio di Dio, Roma-Bari, Laterza, 2015, p. 62.).
Una delle avventure di Tarzan, del 1929, è ambientata in una civil-
tà romana sopravvissuta nella giungla, con due città, Castrum Mare e
Castrum Sanguinarius, dove i nostri eroi, coi negri loro amici, ap-
poggiano la rivoluzione antinobiliare dei «liberal» e degli schiavi123.
E in effetti gli americani della Grande Depressione sembravano i
plebei arringati dai Gracchi, «detti i padroni del mondo ma senza una
sola zolla di terra propria». La lex agraria fu il New Deal, ma dal
placebo hollywoodiano somministrato dal codice Hays nacque il ge-
nere Swords and Sandals (poi importato da Cinecittà col nome di
Peplum). Pure da qui stillava sovversione costituzionale: l’idea di
Roma che il cinema radicava nella cultura popolare (e nei vizi privati
dei congressisti) era quella succulenta della corte peccaminosa,
l’opposto della deprimente virtù repubblicana124.
Il 22 febbraio 1943, al termine della sua visita alle truppe america-
ne in Africa, il cardinale Spellman, arcivescovo di New York e vica-
rio apostolico delle forze armate americane, giunse a Roma su invito
del papa, nel quadro degli sforzi compiuti dalla diplomazia vaticana
per evitare il bombardamento di Roma125. Dopo 1.500 morti e 4.000
feriti nel bombardamento del 19 luglio, Roma fischiò il Re e si affidò
a Pio XII. Nel poema The Risen Soldier, del 1944, Spellman collega-
va lo sforzo di guerra alleato alla Redenzione. Entrato in jeep a Roma
il 4 giugno, assieme a Curzio Malaparte, il generale Clark puntò di-
rettamente sul Vaticano. Per l’occasione fu rispolverato The Sign of

123
Edgar Rice Burroughs (1875-1960), Tarzan and the lost empire, Metropolitan
Books, New York, 1929 [Bleiler, p. 107, N. 327].
124
Cfr. Sandra R. Joshel, Margaret Malamud, Donald T. McGuire Jr. (Eds.), Im-
perial Projections: Ancient Rome in Popular Culture, Johns Hopkins U. P., 2001.
Malamud, «The Greatest Show on Earth: Roman Entertainments in Turn-of-the-
Century New York City», Journal of Popular Culture, 2001; Ead., «Swords-and-
Scandals: Hollywood's Rome During the Great Depression”, Arethusa, vol. 41, No.
1, 2008, pp. 157-183. Ead., Ancient Rome and Modern America, John Wiley &
Sons, Chichester, 2009. Monica Sylveira Cirino, Big Screen Rome, John Wiley &
Sons, 2009. Elena Theodorakopoulos, Ancient Rome at the Cinema: Story and
Spectacle in Hollywood and Rome, Bristol Phoenix Press, 2010. Michael G. Cor-
nelius, Of Muscles and Men: Essays on the Sword and Sandal Film, 2011. Maria
Wyke, Projecting the Past. Ancient Rome, Cinema and History, Routledge, New
York, 2013.
125
Michael Snape, God and Uncle Sam: Religion and America's Armed Forces
in World War II, Boydell & Brewer Ltd, 2015, p. 440.
the Cross (un pre-code kolossal di Cecil B. De Mille), sostituendo lo
scandaloso bagno di Poppea nel latte d’asina con la scena iniziale di
due cappellani, un cattolico e un protestante, che, sorvolando Roma,
paragonano Hitler a Nerone (nel poster della Paramount una squadri-
glia di aerei americani compone in cielo il segno della croce)126. Le
metafore americo-romane erano però troppo sottili per la burocrazia:
così un libro cripto-marxista su Spartaco (ripreso nel 1958 da Ku-
brick) beffò la censura maccartista127.
Garet Garrett (1878-1954), ai suoi tempi famoso isolazionista e
strenuo oppositore del New Deal e dell’intervento contro la Germa-
nia, denunciò in uno dei suoi ultimi pamphlet128 la tragica involuzio-
ne “romana” degli Stati Uniti da Repubblica a Impero. Nel 1954 Kurt
von Fritz esaminò invece la costituzione americana come costituzio-
ne mista129.
Nell’aprile 1967, quando il generale Westmoreland tornò negli
Stati Uniti per spiegare lo sforzo di guerra, Bob Kennedy citò in se-
nato la frase del generale caledone Calgaco («Ubi solitudinem fa-
ciunt, pacem appellant») nell’Agricola di Tacito, ma in inglese e at-
tribuendola ad un generale romano («one of their generals»)130.
Nel 1973, in un libro dimenticato ma attualissimo, Raymond Aron
interpretò la guerra fredda come la “rassegnazione” della République
impériale americana di fronte alla divisione del mondo in “zone
d’influenza” imposta dall’Urss131. Fu tuttavia Edward Luttwak a usa-

126
Giardina e Vauchez, op. cit., pp. 297-300.
127
Margaret Malamud, “Cold War Romans”, in Arion: A Journal of Humanities
and the Classics, Third Series, Vol. 14, No. 3 (Winter, 2007), pp. 121-154.
128
Garet Garrett (1878-1954), The Rise of Empire, 1952 (poi in The People’s
Pottage, Caldwell, Idaho, Caxton Printers, 1953: rist. parziale in Left and Right,
vol. 2, No. 1, Winter 1966, pp. 36-53).
129
Von Fritz, Theory of the Mixed Constitution in Antiquity, Columbia U. P.,
1954,
130
Herbert W. Benario, «Tacitus’ View of Empire and the Pax Romana»,
Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, Teil II, Principat, Band 33 (5. Teil-
band), Sprache und Literatur (Allgemeines zur Literatur des 2. Jahrhunderts und
einzelne Autoren der trajanischen und frühhadrianischen Zeit [Forts.]), Volume 33,
Walter de Gruyter, 1991, pp. 3340-41.
131
Raymond Aron (1905-1983), République impériale. Les Etats-Unis dans le
monde, 1945-1972, Paris, Calmann-Lévy, 1973.
re per primo, nel 1979, il paragone con Roma come lezione strategi-
ca, nella sua famosa analogia tra la forward defense atlantica e la
grand strategy del Principato132. La lezione che ne traeva stava negli
esiti alla lunga catastrofici (per over-stretching) della strategia roma-
na di proteggere le province creando nuove province e avanzando di
alleato in alleato per giustificare l’aggressione con la defensio socio-
rum [come la Nato ha fatto dopo il crollo dell’Urss. Il paradigma ro-
mano ricorre pure nella tesi di Samuel Huntington (Who are We?,
2004) sul maggior impatto culturale dell’insediamento di colonie ri-
spetto all’immigrazione individuale, basata sugli studi di sir Ronald
Syme (Colonial Elites, Rome, Spain and the Americas, 1958)133.
Nella cultura alta l’identificazione americo-romana nasce dunque
da spiriti europei, specie se non hanno ma cercano una dimora stabile
(non habemus locum manentem, sed quaeremus, scriveva Strauss nel
1933). Sono i rifugiati, non i nativi, a considerare l’America commu-
nis patria. Alcuni danno perciò precetti d’imperio, come già Kipling
e oggi Niall Ferguson, apologeta dell’impero britannico134. Secondo
una lista da lui citata, gli Stati Uniti sarebbero il 69° impero della sto-
ria, e l’Europa il 70°135. Ferguson liquida in quindici righe «il cliché»
dell’America «Nuova Roma», e ne dedica poche di più a dimostrare
che il parallelo calzante è quello con l’Impero britannico136. Infatti,

132
The Grand Strategy of the Roman Empire: From the First Century A.D. to
the Third, Johns Hopkins U. P., 1979. “We, like the Romans, face the prospect not
of decisive conflict, but of a permanent state of war, albeit limited.” (p. xii). Pau
Valdés Matías, «El debate sobre la Grand Strategy romana», Revista de Historio-
grafía, N. 14, VIII (1/2011), pp. 182-193.
133
Luca Fezzi, «Samuel P. Huntington e la colonizzazione romana della Spa-
gna», Revista de Historia, 17, 2, 2007, pp. 11-15.
134
Niall Ferguson, Impero. Come la Gran Bretagna ha fatto il mondo moderno
(2003), Milano, Mondadori, 2007.
135
Secondo Russell Foster: “le mappe prodotte e pubblicate dall’UE sui propri
website e sulle sue monete sono testi imbevuti di potenti immaginazioni imperiali
che emanano un senso di identità collettiva e apparente superiorità” (“A Carto-
graphic Approach to the Current Debate on the European Union as Empire”, Geo-
politics, 18, 2013, pp. 371-402).
136
V. Patrick Karl O’Brien and Armand Clesse (Eds.), Two Egemonies Britain
1846-1914 and the United States 1941-2001, Ashgate, 2003. Rec. di N. Ferguson,
Foreign Affairs, Septembre/October 2003. Julian Go, Patterns of Empire: The Brit-
ish and American Empires, 1688 to the Present, Cambridge U. P., 2011. Mike
diversamente da Polibio, che si proponeva di spiegare la barbara
Roma ai colti greci, Ferguson vorrebbe spiegare la civile Inghilterra
agli zotici pronipoti dei ribelli137. All’opposto, Walter Scheidel so-
stiene che l’egemonia americana non si sarebbe mai trasformata in
impero, e che le uniche repubbliche imperiali restavano per il mo-
mento la Roma repubblicana, Venezia e l’Olanda138.
L’Impero Britannico era però parte di un sistema di imperi e di sfe-
re d’influenza, mentre la visione americana è universalista e sovrana-
zionale. Quanto a intenti e a mezzi, la Pax Americana, specie dopo il
1991, assomiglia più alla Pax Augusta (Sebasté Eiréne) che alla Pax
Britannica. Magari la proxy war ucraina fosse la guerra fredda due.
Ora ogni accordo è impossibile, perché la contesa è de majestate: la
posta in gioco non è l’Ucraina, ma il riconoscimento russo della su-
premazia americana.
Paradossalmente questa transizione dell’American Empire dal mo-
dello geopolitico a quello universalista è avvenuta con l’intervento
nella cerniera mesopotamica dell’impero britannico, un tempo ogget-
to dei conflitti di giurisdizione tra Foreign Office e Indian Office.
Nel 2003 Michael Sommer coglieva analogie tra l’attacco americano
all’Iraq e la campagna partica di Traiano del 114-117 d. C.139. Da
Carre (58 a. C.) a Ctesifonte (363 d. C.) la Mesopotamia fu infausta
per le armi romane, ma non è questa la ragione per cui al posto della
metafora americo-romana la Global War on Terror ne ha ispirata una
americo-greca che riflette gli interessi storico-militari di Victor Davis
Hanson e di Donald Kagan, ispiratore del Progetto per il Nuovo Se-
colo Americano. Estesa pure al modo di combattere, l’analogia tra le

Crawshaw, “Running a Country. British Colonial Experience and its Relevance to


Present-Day Concerns” [U.S. COIN!], The Advanced Research and Assessment
Group, The Defence Academy of the United Kingdom, s. d., online.
137
Niall Ferguson, Colossus. Ascesa e declino dell’impero americano (2004),
Milano, Mondadori, 2006. La copertina di una delle edizioni raffigura due carri
armati americani davanti al Colosseo.
138
W. Scheidel, «Republics between hegemony and empire: How ancient city-
states built empires and the USA doesn’t (anymore)», Princeton/Stanford Working
Papers in Classics, February 2006.
139
Michael Sommer, «Frühjahr 114», Frankfurter Allgemeine Zeitung, 29. März
2003.
demopluto-talassocrazie ateniese e americana sembrava consona ad
una guerra venduta come esportazione della democrazia140. Nel
2009, l’anno in cui Obama si impegnò a riportare a casa le truppe
adottando la strategia del divide et impera da cui è nata l’Isis, Lutt-
wak coniò una perspicace metafora americo-bizantina. La lezione era
stavolta di mettere in secondo piano la forza militare e sfruttare intel-
ligence, diplomazia e soft-power141.
La metafora americo-romana è stata però rilanciata nel 2007 da John
Cullen Murphy Jr.142, già direttore dell’importante rivista culturale
The Atlantic, e ha guadagnato un certo spazio nei media americani143.
Non però in riferimento alla grande strategia e al ruolo mondiale de-
gli Stati Uniti, bensì nel senso di Garrett, cioè come critica della stri-
sciante sovversione costituzionale e timore di “fare la stessa fine”. Le
preoccupanti analogie che vengono addotte riguardano i dubbi finan-
ziamenti delle campagne elettorali, specie da parte di lobby straniere;
la politica come modo per arricchirsi; il continuo stato di guerra che
distoglie l’attenzione dalle questioni sociali; il reimpiego dei profitti
di guerra per condizionare la politica interna; il crollo della classe
media; la continua modifica delle circoscrizioni elettorali per prede-
terminare l’esito del voto (gerrymandering); la perdita dello spirito di
compromesso e dell’equilibrio fra i poteri dello stato (check-and-
balance). Lo storico Vaclav Smil ha sottolineato le differenze144, ma
già il confronto si estende alle economie romana e americana145,

140
V. Luciano Canfora, La democrazia come violenza (1984); La democrazia:
storia di un’ideologia (2006); Critica della retorica democratica (2007); Esportare
la libertà: il mito che ha fallito (2007).
141
The Grand Strategy of the Byzantine Empire, Harvard U. P. 2009 (v. gli
omonimi saggi di Michael Antonucci e Charalambos Papasotiriou, entrambi del
1992).
142
Cullen Murphy, Are We Rome?: The Fall of an Empire and the Fate of
America, Boston & New York, Houghton Mifflin Company, 2007.
143
V. ad es. Steven Strauss, «8 striking parallels between the US and the Roman
Empire», Alternet, 26 Dec. 2012; «Rome v. America: when nations die», sito con-
servative news and views, 1 April 2013; Katrine Esten, «United States vs Roman
Empire- Are we the same?», The Breeze, 8 Oct. 2013. Michael R. Lewis, «Is
America the New Rome? United States vs. the Roman Empire», Money crashers,
144
Vaclav Smil, Why America Is Not a New Rome, The MIT Press, 2010.
145
Glenn Hubbard and Tim Kane, Balance: The Economics of Great Powers
from Ancient Rome to Modern America, Simon & Schuster, 2013.
mentre compaiono i primi lavori sulla storia della metafora romana
nell’accademia e nella cultura popolare americana146.
Ma naturalmente Roma continua ad essere una fonte inesauribile per
cinema, videogame e ogni genere letterario, inclusa fantasy e Sci-fi,
come dimostra ad esempio il successo dei romanzi di Harry Turtle-
dove e di Robert Silverberg147.

Socii Nominisve Romani, quibus milites in terra Europa [Ameri-


cani] inperare solent
Finora abbiamo parlato del lato americano della metafora. Adesso
saliamo sull’Ippogrifo e sorvoliamo il nostro. Se Ferguson è Polibio,
allora Brzezinski è Cato Maior e il rapporto degli Stati Uniti con
l’Europa corrisponde a quello dei Romani coi greci “liberati” e con
gli italici “alleati”. L’Europa ha infatti, un “doppio cappello”: un fel-
tro comunitario sotto il quale recalcitra, e un elmetto atlantico sotto il
quale ubbidisce. Quando indossa il feltro, ricorda la parabola dei gre-
ci nel mezzo secolo fra la liberazione dal giogo macedone proclama-
ta nel 196 a. C. a Corinto da Tito Quinzio Flaminino e la distruzione
di Corinto, lo scioglimento della Lega Achea e la riduzione
dell’Acaia a provincia romana avvenuta nel 146 a. C. E contempora-
neamente a Corinto finì Cartagine, in cui si rispecchia la tragica Rus-
sia di Putin, che disprezza la nostra viltade. Merita infatti l’Europa il
giudizio sallustiano sui greci148: «con la disciplina dei Greci si acqui-
stano queste cose (ingegno acuto, loquace, scaltrito); ma non c’è fra i
Greci virtù, vigilanza, fatica; essi nella loro patria perdettero la liber-
tà; come possono dare precetti d’imperio?».
Con l’elmetto, l’Europa ricorda piuttosto l’Italia del III-I secolo a.
C. Rifondata nel suo 50° anniversario, trasformandosi da alleanza re-
gionale e difensiva in agenzia d’intervento globale, la Nato ricorda
per certi versi la Lega Latina, che prevedeva «guerre comuni» anche
a carattere offensivo con l’elezione di un generale in capo (dictator).
146
Margaret Malamud, Ancient Rome and modern America. John Wiley & Sons,
2009; Carl Richard, Why We're All Romans: The Roman Contribution to the West-
ern World (Rowman & Littlefield, 2010)..V. supra, ntt. 18, 24 e 26,
147
Silverberg, Roma Eterna 450-1970 , Harper Collins, New York, 2010.
148
Nella seconda lettera a Cesare, del 49 a. C. (Mazzarino, PSC, II2, p. 34).
La Lega Latina appartiene però ai primi due “cicli” dell’espansione
romana secondo Floro, quelli delle guerre cum finitimis e «in Italia».
Al terzo ciclo, quello delle guerre «nel mondo», appartiene invece
l’«Alleanza» (societas) romano-italica, che Polibio interpretava nelle
categorie greche della symmachia («il combattere insieme»). Le al-
leanze paritarie e difensive erano caratterizzate dall’impegno a pre-
starsi mutuo soccorso «con tutte le forze» (apàse dynámeis); esiste-
vano però anche symmachie disuguali, offensive ed egemoniche, che
impegnavano gli alleati minori ad avere «gli stessi amici e nemici»
dell’egemone. Diversamente dalla Lega Latina, la societas romano-
italica non si fondava su un trattato, ma sull’elenco degli alleati tenu-
ti in permanenza a fornire, per deliberazione del senato e su ordine
dei magistrati romani, un contingente proporzionato al numero dei
maschi in grado di combattere (pro numero cuiusque iuniorum), ov-
vero il contingente navale stabilito per trattato speciale (socii nava-
les). Questo elenco, che indicava anche il numero dei iuniores, si
chiamava formula togatorum e fu ripetutamente oggetto di intricate
suppliche e dispute col senato circa il burden sharing.
La toga, veste degli affari civili contrapposta alla saga del legiona-
rio, era anche il “costume nazionale” dei romani, contrapposto al pal-
lium, costume nazionale greco: simboleggiavano anche due diverse
culture, due diversi generi teatrali. Togati erano però detti anche gli
alleati “italici” dei Romani, inclusi quelli che non parlavano latino e
gli stessi italiotes, cioè i greci dell’Italia meridionale, che pur vesti-
vano il pallium. Theodor Mommsen vedeva nella societas romano-
italica una «confederazione», analoga alle confederazioni tedesche
succedute al Sacro Impero romano-germanico. In realtà il rapporto
speciale con gli italici non aveva carattere confederale. Scomparsa la
Lega, dei latini restava il nomen, inclusi i veterani romani che perde-
vano la cittadinanza quando, insieme agli alleati, accettavano di fon-
dare colonie di diritto “latino” nei territori confiscati alle tribù sotto-
messe. Latini prisci e coloniarii, città stato etrusche e italiote, confe-
derazioni di tribù rappresentavano circa i due terzi del territorio e
della popolazione tra Scilla e l’Eridano: il territorio direttamente an-
nesso da Roma era solo un terzo, tra le Marche e la Campania.
L’alleanza si basava su leges coloniariae o su foedera bilaterali, i più
antichi a carattere paritario (aequa), i più recenti disuguali (iniqua):
forse alcuni contenevano le formule di soggezione testimoniate dal
trattato con la Lega Etolica, che sancivano l’impegno a «rispettare
lealmente» (comiter conservare) la «supremazia» (maiestas) del po-
polo Romano e ad avere «gli stessi amici e nemici».
La differenza dei socii italici rispetto agli alleati «d’oltremare»
(transmarini) o «di estere nazioni» (exterarum nationum) – come ad
esempio sicelioti (greci di Sicilia), iberici, numidi – era data però dal-
la loro inclusione in un’organizzazione militare permanente. Nel lin-
guaggio giuridico, come testimonia la lex agraria epigrafica del 111
a. C., gli “Italici” erano chiamati «gli alleati ossia il nome latino, ai
quali [i Romani] comandano di fornire il contingente in base allo
specchio dei togati» (socii nominisve latini, quibus milites ex formula
togatorum inperare solent). Lo «specchio dei togati» (formula toga-
torum), sembra risalente al 225 a. C. (anno della “leva in massa” con-
tro l’invasione dei Galli), dava un gettito di 193 coorti149, pari al 54-
60 per cento delle forze terrestri complessive mantenute da Roma nel
II secolo d. C. La struttura era autoritaria: i romani decidevano da so-
li guerre e leve e «ordinavano» agli alleati l’invio del contingente.
L’invio fu rifiutato nel 209 a. C., sotto vari pretesti, dalle 12 colonie
latine più lontane dal teatro della guerra annibalica. La situazione
non consentì a Roma di reagire: del resto, anche se il grosso degli ita-
lici era rimasto fedele, una parte aveva risposto all’appello liberatore
di Annibale (furono costoro a formare il centro dell’armata cartagi-
nese a Zama). Terminata la guerra, però, il senato punì le 12 colonie
ribelli, condannate a fornire il quadruplo dei soldati che non avevano
voluto mandare. La Nato è invece paritaria e volontaria e le defezioni
non comportano ritorsioni. Al massimo, un regime change.
L’esempio dei Romani è un tema originario e costante della cultura
occidentale moderna. Lo studio di questo tema può illuminare e ap-
profondire i fondamenti del nostro pensiero e delle nostre istituzioni,
non ampliare di per sé la coscienza storica del presente. Ciò che con-
149
Di cui 158 alari (46 latine, 20 sabelle, 20 etrusche, 10 umbre, 31 sannite, 9
apule, 7 lucane, 7 bruzie e 8 italiote) e 35 straordinarie, ciascuna con 600 fanti e 30
cavalieri (ridotti a 420+30 dopo il 178 a. C.). Dopo la II guerra punica, la forza
media degli italici scese a 121.000 uomini e dopo il 178 a 86.000, pari al 31 e poi
al 22 per cento dei 391.000 iuniores italici (Ilari, Gli italici nelle strutture militari
romane, Milano, Giuffré, 1974).
ta non è che gli Americani ci sembrino o si sentano i nuovi Romani,
ma che il processo storico del mondo moderno è culminato –
com’era del resto già implicito nelle sue premesse – in una pace uni-
versale garantita da un’unica potenza. E’ questo che rende paradig-
matica e illuminante l’analogia col processo storico del “mondo anti-
co” (ancorché geograficamente limitato alla regione mediterranea).
Ciò non significa che possiamo “predire” il futuro deducendolo dalla
storia romana. Sapremmo del resto trovare vere corrispondenze tra i
“cicli” della storia romana150 e quelli della storia americana151? Santo
Mazzarino ci ha insegnato che, a partire dai libri Vegoici etruschi del
II secolo a. C., il tema del Decline and Fall percorre in contrappunto
l’ascesa della potenza romana152, proprio come avviene per quella
americana153.
Una cosa però è certa. «L’ultima ora non verrà finché i Romani
non sbarcheranno ad al-A’maq o a Dābiq», come ḥadīth Abū Huray-
rah, il «Padre dei gattini» compagno del Profeta. Ora che abbiamo
conquistato Dabiq [sopra Aleppo, sapete, al confine turco], lo Stato
Islamico attende l’esercito di Roma, la cui sconfitta segnerà l’inizio
dell’Apocalisse154.

150
Nello storico Floro «l’idea della espansione di Roma si articola nel seguente
modo: primo ciclo di guerre cum finitimis, secondo ciclo di guerre in Italia, terzo
ciclo di guerre nel mondo, quarto ciclo di inerzia con risveglio traianeo (…) Floro
ha voluto adattare la sua periodizzazione al letto di Procuste di una periodizzazione
di spiriti diversi (in base alla costituzione)» (Mazzarino, Il Pensiero Storico Classi-
co, Roma-Bari, Laterza, II2, pp. 418-9).
151
Arthur J. Schlesinger Jr, I cicli della storia americana (1986), Pordenone,
Edizioni Studio Tesi, 1991.
152
Santo Mazzarino, La fine del mondo antico, 1959 (Rizzoli, 1988, p. 20).
153
Geir Lundestad, The Rise and Decline of the American "Empire": Power and
Its Limits in Comparative Perspective, Oxford University Press, 2012. David
Coates, America in the Shadow of Empires, Palgrave Macmillan, New York, 2014.
Richard Lachmann and Fiona Rose-Greenland, Why we fell: Declinist writing and
theories of imperial failure in the longue durée, Elsevier, 2015. Il 21 novembre
2014 l’agenzia Nord-coreana KCNA ha scritto che «l’America ricorda il Vecchio
Impero Romano rovinato dalle guerre d’aggressione e sepolto dalla storia».
154
Dabiq è il titolo del periodico ufficiale dell’ISIS.

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