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Pierre Jarawan, una storia libanese di esilio e

fantasmi
- Guido Caldiron, 18.11.2021

L'intervista. Parla l’autore di «Là dove crescono i cedri», edito da Sem. Lo scrittore e poeta tedesco
porta a Bookcity la sua doppia identità: la famiglia mediorientale e l’adolescenza in Germania. «I
miei personaggi rappresentano gli immigrati di seconda generazione sospesi tra i Paesi dove sono
cresciuti e le proprie origini. E che si chiedono: "Dov’è davvero la mia casa?"». L'autore presenterà il
libro, insieme a Daniela Dawan, sabato 20 novembre alle 14 nello spazio delle Sale Panoramiche del
Castello Sforzesco

Samir è diventato grande con le storie della buonanotte che il padre inventa per lui. Un’intera
epopea che si arricchisce ogni sera di un nuovo capitolo e di bizzarri personaggi che ruotano intorno
ai protagonisti: Abou Youssef, il mercante, e Amir, il suo dromedario parlante. Il Libano, che la
famiglia aveva dovuto lasciare in seguito alla scoppio della guerra civile nel 1975, riviveva così nella
loro nuova casa in Germania. Immerso in questi racconti fantastici, circondato dal calore di una
comunità pronta a riunirsi il fine settimana di fronte alla tv per una partita di un campionato
mediorientale, tra cibo e musica, Samir scoprirà suo malgrado che qualcosa non torna nella
descrizione del Libano come una terra degna di una fiaba quando si recherà finalmente a Beirut
sulle tracce del padre improvvisamente scomparso senza lasciare alcuna traccia dietro di sé.

Cresciuto in una famiglia cristiano-maronita, l’uomo non aveva però preso parte in alcun modo al
conflitto, decidendo di lasciare Beirut solo quando la situazione si era fatta troppo pericolosa per lui
e la sua famiglia. Ripercorrendone i passi, lungo le pagine di Là dove crescono i cedri (Sem, pp. 442,
euro 19, traduzione di Emilia Benghi) Samir si misurerà così sia con la memoria dolente della guerra
civile, ancora viva tra la popolazione locale, che con la propria identità di giovane, ormai tedesco che
sente il proprio cuore battere al ritmo di una terra lontana e fino a quel momento per lui in realtà
sconosciuta, il Libano. Un percorso alla ricerca dei propri affetti e della consapevolezza di sé che
segue per molti aspetti le vicende dell’autore del romanzo, Pierre Jarawan, una delle figure più note
del circuito della slam poetry tedesca, la «poesia di strada» legata all’hip hop, cresciuto a Monaco
ma con delle salde radici nel Libano paterno.

Tra gli ospiti del festival Bookcity che si sta svolgendo a Milano, Pierre Jarawan presenterà il libro,
insieme a Daniela Dawan, sabato 20 novembre alle 14 nello spazio delle Sale Panoramiche del
Castello Sforzesco.
Pierre Jarawan fotografato da Marvin Ruppert

Il protagonista indaga sul destino toccato a suo padre, ma per questa via scopre
soprattutto qualcosa di sé. Cosa lo attende lungo questo percorso?
Samir capirà che l’immagine che aveva del Libano da bambino era per lo più frutto di storie, di
racconti di fantasia. È un processo doloroso quello attraverso il quale arriva a riconoscere che ciò
che ha portato lui e la sua famiglia in Germania è prima di tutto una storia di violenza. E, alla fine,
deve accettare che non c’è una sola verità per rispondere a tutte le sue domande, ma piuttosto più
versioni autentiche offerte dai suoi diversi interlocutori. Allo stesso modo, imparerà che a volte
perdonare significa comunque soffrire e che per raccontare la propria vera storia dovrà riprendere il
ruolo di narratore che svolgeva suo padre quando lui era bambino.

Recandosi in Libano sulle tracce del padre, Samir scopre un Paese che non rappresenta
solo le radici della propria famiglia, ma anche un mondo a un tempo meraviglioso e
terribile, a lungo dominato dalla violenza. Sono il Libano e Beirut, i veri protagonisti della
storia?
Mi piace l’idea che il Libano e Beirut siano i protagonisti del romanzo e penso che lei abbia ragione.
A un certo punto Samir afferma che «Beirut è come me». Il che significa che è una città che desidera
la pace, piena di energia, ma anche ammalata, sofferente, disorientata. Nella storia volevo mostrare
entrambi i volti del Paese: la bellezza e il terrore.

In parallelo con questa «scoperta» del Libano, il suo sguardo si concentra sulle vicende dei
rifugiati in Germania. Cosa è cambiato nell’accoglienza riservata via via ai libanesi
quarant’anni fa, ai bosniaci e ai kosovari negli anni ’90, ai siriani di recente? La xenofobia
sembra aver trovato uno spazio crescente nella società tedesca.
Purtroppo anche in questo caso sono d’accordo. Mettiamola così: penso che la xenofobia, il razzismo
e le spinte di destra siano sempre esistite. L’unica differenza è che oggi, a mio giudizio soprattutto a
causa dei social media, della disinformazione, della nascita dei nuovi partiti della destra radicale,
dell’ascesa del populismo, in Germania come nel resto d’Europa e del mondo, sono diventate più
visibili. Le persone non hanno più paura di esprimere pubblicamente le proprie opinioni vergognose.
Confondono il razzismo con la libertà di parola. È un peccato. Allo stesso tempo è importante
ricordare che stiamo ancora parlando di una minoranza, per quanto rumorosa e arrabbiata. E qui
vedo uno spazio d’intervento per la letteratura, i romanzi, che possono costruire dei ponti tra le
persone, renderti partecipe della vita e della sofferenza degli altri. E forse possono aiutarti a
cambiare il tuo modo di pensare.

Samir sembra voler far luce sulla propria identità, quasi sentisse che lontano dal Libano
non riesce ad essere se stesso fino in fondo. Eppure la sua vita e i suoi affetti sono quasi
tutti in Germania. Perché si sente così?
Volevo che Samir incarnasse appieno un individuo appartenente alla seconda generazione di
immigrati. Coloro che non hanno scelto di nascere o crescere in Paesi diversi: questa scelta è stata
fatta per loro. Crescono parlando tedesco, frequentando scuole tedesche, avendo amici tedeschi, ma
tornano ogni giorno in una casa dove i loro genitori a volte dopo trent’anni ancora non parlano
tedesco, guardano la tv araba, cucinano cibo arabo, si circondano di altri membri della loro comunità
e si comportano come se fossero ospiti in questo Paese, non cittadini. Penso che questo crei un
conflitto di identità. Molti membri di queste «seconde generazioni», proprio come fa Samir,
continuano a chiedersi: «Dov’è davvero la mia casa?».

Pagine molto intime e poetiche si alternano al racconto delle vicende terribili che hanno
scosso la società libanese fin dalla guerra civile degli anni ’70. Come ha costruito questo
incrocio di memorie individuali e collettive, restituendo entrambe con grande forza
emotiva?
Mi ci sono voluti tre anni di ricerche per comprendere appieno la storia del Libano e le guerre che
hanno sconvolto il Paese. Ho letto libri, parlato con le persone, frequentato gli archivi e mi sono
recato più volte a Beirut. Mentre procedeva la ricerca mi è apparso chiaro come non si possa
scrivere della realtà libanese se non attraverso un romanzo che sia in qualche modo politico. Perché
a Beirut tutto è politico, anche come ti vesti. Allo stesso tempo ho adottato un linguaggio poetico
perché credo che la poesia sia un tramite per creare sia intimità che distanza rispetto a ciò che si
descrive. L’intimità mi permette di avvicinarmi di più ai protagonisti. E la distanza serve a scrivere
di eventi orribili senza alcun voyeurismo.

Padre libanese, madre tedesca, nato ad Amman dopo che i suoi genitori avevano lasciato
Beirut per sfuggire alla guerra civile. Cosa c’è di lei come uomo, prima ancora che come
scrittore e poeta, in questo romanzo?
Il libro è pieno di odori, sapori e immagini che sono così nitide perché ne serbo il ricordo dalla mia
infanzia. Come Samir, la mia prospettiva sul Libano è cambiata quando sono diventato più grande.
Da bambino l’ho sempre considerato solo come il Paese più bello del mondo. Quando ho iniziato ad
approfondirne la storia, ho però capito che ci sono molte cose che non vanno e che l’immagine che
avevo in mente doveva cambiare. Penso che questo renda anche me un tipico esempio di immigrato
di seconda generazione.
L’eco della poesia è costante nel romanzo, dai versi di Gibran alle canzoni di Fairouz per finire con le
storie raccontate dal padre del protagonista. Lei è una figura molto nota della slam poetry: quale è il
rapporto tra questo stile e il libro, scritto comunque in prosa?
Penso che il linguaggio cui faccio ricorso sia simile in entrambi i casi. Ciò detto, la differenza più
grande risiede nel fatto che quando scrivi poesie slam ti rivolgi ad un pubblico che ascolta. Quando
scrivi un romanzo, lo fai per dei potenziali lettori. La slam poetry funziona con le battute, è meno
complessa, chi si esibisce punta a non perdere l’attenzione del pubblico. Scrivendo «Là dove
crescono i cedri», invece, ho apprezzato il fatto di potermi prendere tutto il tempo che volevo per
dare vita a personaggi complessi, inventare una storia che funzioni con suspense e svolte inattese.
Dopo aver recitato poesie sul palco per dieci anni, ho davvero amato molto il fatto di scrivere questo
romanzo.

L’epilogo della storia sembra lasciar intravedere una speranza per un futuro di pace che
parta da una nuova consapevolezza dei giovani appartenenti alle diverse comunità del
Libano. Si tratta solo di un auspicio o nelle piazze di Beirut si vede già qualcosa del genere?
Se mi avesse fatto questa domanda solo un paio di anni fa, avrei risposto che sì, è giusto coltivare la
speranza. Perché le giovani generazioni iniziano a porsi domande sul passato, rendendosi conto che
per costruire un futuro insieme bisogna perdonarsi a vicenda. Purtroppo oggi devo invece constatare
che nella terribile esplosione avvenuta il 4 agosto dello scorso anno nel porto di Beirut, è come se
fossero andate distrutte anche tutte le speranze dei libanesi. Le persone sembrano aver perso
l’energia necessaria per creare il cambiamento. Cercano solo di sopravvivere. E i giovani vogliono
lasciare il Paese. Ma come si fa a costruire un futuro, se il futuro se ne va? Quindi, oggi sono più
scettico che mai.

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